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Economia e gestione delle imprese

Alessandro Baroncelli
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celli/
aziendali
discipline
alessandro baroncelli • luigi serio alessandro
baroncelli

economia e gestione luigi


delle imprese serio

luigi serio
alessandro baroncelli
Nel mondo contemporaneo, la percezione delle imprese
come soggetti indiscutibilmente economici, ma anche politi-
ci, istituzionali e sociali si è andata progressivamente affer-
mando, nei mercati occidentali come in quelli emergenti. Il
presupposto di base della riflessione proposta nel volume, in
questo senso, è che solo un’impresa solida, nei suoi valori e

economia e gestione delle imprese


nell’unicità dei suoi vantaggi competitivi, e un management
preparato siano i reali antidoti alle “crisi” degli ultimi due
decenni. La nuova edizione vede la luce infatti dopo il verifi-
carsi di una serie di trasformazioni che hanno fortemente
marcato i contesti economici, politici e culturali in Italia e a
livello internazionale e il manuale intende pertanto restituire II edizione
ai suoi lettori un senso “logico” e “sostenibile” delle dinami-
che delle imprese, in primo luogo tornando ai fondamenti
che ne caratterizzano le determinanti d’azione, in secondo
luogo rileggendo i più recenti fenomeni aziendali attraverso
la comprensione dei contesti settoriali, del ruolo delle risor-
se e competenze e delle relazioni interorganizzative, per poi
concludere analizzando le principali tendenze evolutive. La
economia e gestione
nuova edizione rilegge le dinamiche attraverso due chiavi di
lettura prevalenti, la digital transformation e la competizio-
ne internazionale.
Il libro si rivolge agli studenti dei corsi universitari, agli
delle imprese
studiosi della materia e ai manager e ai professionisti impe-
gnati con le imprese.
Ulteriori risorse sono disponibili per docenti e studenti sul
sito www.mheducation.it.

II
edizione

€ 43,00 (i.i.)
ISBN 978 -8 8 -38 6-9566-7

www.mheducation.it 9 788838 695667


collana di istruzione scientifica
serie di discipline aziendali

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Alessandro Baroncelli
Luigi Serio

Economia e gestione
delle imprese
Seconda edizione

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Senior Portfolio Manager B&E/HSSL: Marta Colnago
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Fotocomposizione: Eicon, Torino
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ISBN 978-88-386-9826-2

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Indice breve

Parte 1 L’impresa, la sua definizione e la sua classificazione

1 Teorie dell’impresa 3

2 Concetto di impresa 19

Parte 2 L’ambiente competitivo, l’impresa e le tecniche analitiche

3 Definizione del business 41

4 Analisi di settore 61

5 Catena del valore e vantaggio competitivo 83

6 Risorse e competenze 111

7 Evoluzione delle tecniche analitiche


e delle strategie d’impresa 127

Parte 3 Le reti, le relazioni interorganizzative e le strategie


di crescita delle imprese

8 Reti di impresa 147

9 Percorsi di crescita delle imprese 167

10 Reti di impresa e processi di internazionalizzazione


delle PMI 185

11 Processi di innovazione e reti territoriali 203

12 Reti professionali ed evoluzione delle forme organizzative


interne alle aziende 225

Parte 4 I percorsi evolutivi delle imprese

13 I Business Model e la loro trasformazione: il quadro teorico


e i fattori evolutivi 251

14 Digital transformation e nuove traiettorie di crescita


per lei mprese nei contesti internazionali 273
VI Indice

Indice

Prefazione XIII
Autori XVII
In questo volume... XIX

Parte 1 L’impresa, la sua definizione e la sua classificazione

1 Teorie dell’impresa 3
1.1 Paradossi della teoria dell’impresa neoclassica 3
1.2 Teoria dei costi di transazione 7
1.3 Teoria dell’agenzia 9
1.4 Teoria degli stakeholder 11
1.5 Teoria evoluzionista 15
Riepilogo 17
Domande di verifica 17
Bibliografia 17

2 Concetto di impresa 19
2.1 Che cos’è un’impresa? 19
2.1.1 L’impresa in ottica sistemica 20
2.1.2 Funzioni istituzionali dell’impresa e teorie sulle finalità
imprenditoriali 21
2.1.3 Forme istituzionali d’impresa e assetto proprietario 25
2.2 Profili della gestione aziendale e organizzazione delle attività 28
2.2.1 Ruoli di governo dell’impresa 30
2.3 Impresa e suoi interlocutori: la visione sociale 31
Riepilogo 36
Domande di verifica 36
Bibliografia 36

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Indice VII

Parte 2 L’ambiente competitivo, l’impresa e le tecniche analitiche

3 Definizione del business 41


3.1 Definizione del business 41
3.2 Approcci teorici alla definizione del business 45
3.3 Un modello tridimensionale per la definizione del business 47
3.4 Ampiezza dell’attività in termini di gruppi di clienti,
funzioni e modalità 48
3.4.1 Applicazione del modello di Abell alla definizione delle attività 51
3.4.2 Differenziazione del business rispetto a segmenti
e concorrenti 57
3.5 Ridefinire il business 57
Riepilogo 59
Domande di verifica 60
Bibliografia 60

4 Analisi di settore 61
4.1 Analisi dei fattori esterni all’impresa: dal macroambiente
all’ambiente settoriale 61
4.2 Analisi di settore: lo schema delle cinque forze competitive
di Porter 65
4.2.1 Concorrenza di produttori già consolidati all’interno
di un business 67
4.2.2 Minaccia competitiva di nuovi entranti 69
4.2.3 Minaccia dei prodotti sostitutivi 73
4.2.4 Potere contrattuale dei fornitori 74
4.2.5 Potere contrattuale degli acquirenti 76
4.3 Fattori critici di successo 77
4.3.1 Identificazione e valutazione dei fattori critici di successo 78
4.4 Critiche al modello di Porter 78
Riepilogo 81
Domande di verifica 81
Bibliografia 82

5 Catena del valore e vantaggio competitivo 83


5.1 Il dibattito teorico sulle determinanti dei risultati di impresa 83
5.2 Catena del valore 85
5.2.1 Identificare le attività generatrici di valore 87
5.2.2 Definire i contenuti in relazione al settore
nel quale l’impresa opera 88
5.2.3 Evidenziare i legami verticali e orizzontali tra le attività
della catena del valore 92

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VIII Indice

5.3 Sistema del valore 95


5.4 Creazione del vantaggio competitivo 98
5.4.1 Leadership di costo 100
5.4.2 Differenziazione 106
Riepilogo 109
Domande di verifica 109
Bibliografia 109

6 Risorse e competenze 111


6.1 Analisi delle risorse e competenze 111
6.2 Competenze distintive e vantaggio competitivo 116
6.3 Ruolo delle risorse e competenze nella formulazione
della strategia competitiva: la prospettiva
della Resource Based View of the firm 118
6.4 Ruolo della conoscenza nello sviluppo dell’impresa:
capitale intellettuale, capitale sociale e vantaggio
competitivo 122
Riepilogo 124
Domande di verifica 125
Bibliografia 125

7 Evoluzione delle tecniche analitiche e delle strategie d’impresa 127


7.1 Un nuovo concetto di vantaggio competitivo 127
7.2 La strategia Blue Ocean 131
7.3 Un nuovo modello di Business 139
Riepilogo 142
Domande di verifica 142
Bibliografia 143

Parte 3 Le reti, le relazioni interorganizzative e le strategie


di crescita delle imprese

8 Reti di impresa 147


8.1 Rete d’impresa: da metafora a categoria analitica 147
8.1.1 Definizioni di rete d’impresa 149
8.1.2 Origini del concetto di rete 150
8.2 Stato dell’arte delle reti d’impresa 150
8.2.1 Letteratura sulle reti d’impresa 150
8.2.2 Classificazione prevalente di rete d’impresa e sue applicazioni
nella pratica 153

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Indice IX

8.3 Rete d’impresa: una questione di competenze 159


8.4 Reti d’impresa e creazione del valore 161
Riepilogo 163
Domande di verifica 163
Bibliografia 163

9 Percorsi di crescita delle imprese 165


9.1 Approcci allo sviluppo dell’impresa minore 165
9.2 Teorie delle fasi di sviluppo 167
9.3 Limiti delle teorie delle fasi di sviluppo e linee di tendenza 172
9.3.1 Sviluppo come successione di fasi predefinite vs. sviluppo
come scelta tra un’ampia gamma di strategie alternative 172
9.3.2 Impresa individuale vs. impresa a gestione familiare 174
9.3.3 Crescita dimensionale vs. crescita qualitativa/relazionale 175
9.4 Un modello interpretativo di riferimento e la lettura
della crescita dell’azienda attraverso le discontinuità 176
9.4.1 Profilo imprenditoriale 176
9.4.2 Tipologie di organizzazione 177
9.4.3 Modalità di crescita 177
9.4.4 Profili di coerenza 181
Riepilogo 182
Domande di verifica 183
Bibliografia 183

10 Reti di impresa e processi di internazionalizzazione delle Pmi 185


10.1 Internazionalizzazione delle Pmi 185
10.2 Teorie e modelli di internazionalizzazione delle Pmi 186
10.3 Strategie e modalità di ingresso nei Paesi esteri 190
10.3.1 Internazionalizzazione e reti d’impresa 192
10.3.2 Internazionalizzazione delle Pmi italiane: esperienze nei mercati
emergenti 194
10.4 Dagli asset tangibili agli asset intangibili alla base dei processi
di internazionalizzazione 197
Riepilogo 200
Domande di verifica 200
Bibliografia 200

11 Processi di innovazione e reti territoriali 203


11.1 Processo di innovazione e principali teorie 203
11.1.1 Origine e natura dell’innovazione 203

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X Indice

11.1.2 Teorie economiche 205


11.2 Innovazione aperta 206
11.2.1 Evoluzione del concetto di innovazione 207
11.2.2 Innovazione aperta e modelli tradizionali di innovazione 207
11.2.3 Modelli di business e innovazione aperta 211
11.2.4 Introduzione di nuovi modelli di business: alcune implicazioni
per la progettazione organizzativa 213
11.3 Innovazione e capitale socialeni 218
11.3.1 Reti per l’innovazione e il tema del capitale sociale 219
Riepilogo 221
Domande di verifica 222
Bibliografia 222

12 Reti professionali ed evoluzione delle forme


organizzative interne alle aziende 225
12.1 Comunità di pratica: una rassegna della letteratura 225
12.1.1 Una definizione di “comunità di pratica” 226
12.1.2 Tratti distintivi delle comunità di pratica 227
12.1.3 Habitat delle comunità di pratica 231
12.1.4 Diverse forme di comunità di pratica 227
12.2 Sviluppo e gestione delle comunità di pratica 233
12.1.2 Ciclo di vita di una comunità di pratica 233
12.2.2 Come le comunità di pratica conferiscono valore all’organizzazione 234
12.2.3 Gestire le comunità di pratica 235
12.2.4 Fattori critici di successo per la costruzione delle comunita
di pratica 237
12.3 Evoluzione delle comunità di pratica: la gestione
della conoscenza all’interno delle organizzazioni 239
12.3.1 Valore organizzativo delle comunità di pratica 240
12.3.2 Fattori critci nell’evoluzione delle comunità di pratica 241
12.3.3 Fattori abilitanti nell’evoluzione delle comunità di pratica 243
Riepilogo 245
Domande di verifica 245
Bibliografia 245

Parte 4 I percorsi evolutivi delle imprese

13 I percorsi evolutivi delle imprese 251


13.1 Definire il concetto di Business Model 251
13.1.1 Modelli di Business e strategia: relazioni e differenze 255
13.1.2 Bussines Model Innovation 255
13.2 Il Business Model Canvas 256

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Indice XI

13.2.1 Tre esempi di BMC 262


13.3 Considerazione conclusive 269
Riepilogo 270
Domande di verifica 270
Bibliografia 270

14 Digital transformation e nuove traiettorie di crescita


per le imprese nei contesti internazionali 273
14.1 Innovazione e nuove traiettorie di crescita per le imprese
nei contesti internazionali: il quadro teorico 273
14.2 Digital transformation 276
14.3 Applicazioni della tecnologia nell’Industry 4.0 280
14.3.1 Modelli di business per la New Digital Economy 282
14.4 Un caso studio 287
14.5 Opportunità e rischi nella diffusione della digital transformation 288
14.6 Tra digitalizzazione e internazionalizzazione: 289
una riflessione conclusiva
Riepilogo 290
Domande di verifica 291
Bibliografia 292

Indice analitico 293

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Prefazione

Nel mondo contemporaneo, la percezione delle imprese come soggetti indiscutibilmen-


te economici, ma anche politici, istituzionali e sociali si è andata progressivamente affer-
mando, nei mercati occidentali come in quelli emergenti. Pur tuttavia, negli ultimi anni
l’immagine delle imprese e il loro significato sociale ed economico sono al contempo
stati messi profondamente in discussione da azioni imprenditoriali e manageriali che, in
alcune circostanze, sono apparse di natura esclusivamente utilitaristica, anteponendo
comportamenti opportunistici a una visione sociale, sostenibile e responsabile dell’im-
presa stessa.
Il presupposto di base della riflessione proposta, in questo senso, è che solo un’impre-
sa forte, nei suoi valori e nell’unicità dei suoi vantaggi competitivi, e un management
preparato siano i reali antidoti alle “crisi” degli ultimi due decenni, la prima, una pesante
crisi economica di origine prevalentemente finanziaria, ma ulteriormente agevolata da
modelli di business “stanchi” e superati nei loro presupposti e nelle logiche di creazione
di valore, la seconda, di matrice geopolitica e ambientale che, pur in un quadro econo-
mico favorevole, ha visto moltiplicarsi le tensioni politiche, talvolta i confronti militari a
livello regionale, le spinte protezionistiche e le tensioni commerciali e ambientali.
Questo manuale intende restituire ai suoi lettori prioritari, gli studenti, un senso
“logico” e “sostenibile” delle dinamiche delle imprese, in primo luogo tornando ai fonda-
menti che ne caratterizzano le determinanti d’azione, in secondo luogo rileggendo i più
recenti fenomeni aziendali attraverso la comprensione dei contesti settoriali, del ruolo
delle “risorse e competenze” e delle relazioni interorganizzative.
Questa chiave di lettura influenza tutti i capitoli partendo dal presupposto, mai mes-
so in discussione nel testo, che l’impresa sia il soggetto economico fondamentale delle
economie di mercato e l’oggetto di riferimento per gli studi di management. Il manuale
prende le mosse dalla definizione di impresa e dalle tecniche per l’analisi delle strate-
gie; successivamente esamina le organizzazioni reticolari e i percorsi di crescita delle
imprese.
La prima chiave di lettura utilizzata è quella dell’evoluzione delle imprese e del loro
contesto di riferimento, per transitare successivamente verso l’analisi di nuove forme di
relazione fra imprese e l’individuazione di meccanismi che influenzano i nuovi fattori
alla base del successo delle organizzazioni. In riferimento al contesto competitivo ita-
liano, la terza parte declina gli elementi di base delle reti di impresa sulla realtà delle
piccole e medie imprese come forma di aggregazione spesso elettiva per la loro crescita
competitiva e riconosciuta a livello internazionale come caratterizzante il modello di
sviluppo economico italiano. L’ultima parte si concentra sui percorsi evolutivi delle
imprese.

Le novità della seconda edizione


A distanza di sette anni dalla prima edizione ci è parso indispensabile introdurre alcuni
aggiornamenti e alcune significative integrazioni ai contenuti. L’impianto della prima
edizione è stato rivisto e sono stati aggiunti tre nuovi capitoli che danno conto dell’ag-
giornamento intervenuto nelle tecniche analitiche e delle spinte al cambiamento dei
modelli di business indotte per lo più dalle innovazioni organizzative e tecnologiche.
Come nell’edizione precedente, anche in questa abbiamo trasferito l’evoluzione dei
contenuti maturata attraverso la ricerca e l’esperienza didattica che si è arricchita del
confronto con gli studenti italiani e stranieri di diversi corsi di laurea, di master e di
dottorato e con i manager di imprese italiane e internazionali.

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XIV Prefazione

La nuova edizione vede la luce dopo il verificarsi di una serie di trasformazioni che
hanno fortemente marcato i contesti economici, politici e culturali in Italia e a livello
internazionale. I tumultuosi e tragici sviluppi internazionali con cui è iniziato il nuovo
millennio si sono ripetuti con accresciuta frequenza e in un contesto ormai di natura
globale. Ciò ha contributo a determinare un clima di incertezza pressoché strutturale e a
prolungare, come mai in precedenza, la lunga stagione di politica monetaria con tassi di
interesse straordinariamente bassi, dettata principalmente dalla volontà di scongiurare il
rischio di una depressione economica e contrastare le spinte deflazionistiche soprattutto
europee.
Dopo alcuni anni di crescita tumultuosa delle economie asiatiche, più recentemente
si registra un deciso rallentamento del commercio mondiale a causa delle accresciute
tensioni protezionistiche (specie tra USA e Cina) e dell’incertezza geoeconomica che
oggi ha raggiunto livelli record, con focolai in diversi Paesi (Regno Unito, Iran, Venezue-
la, Siria, Paesi del Golfo Persico, Libia, Argentina, Hong Kong).
Nel frattempo è aumentata la consapevolezza delle persone e delle organizzazioni su
tematiche come l’etica, la sostenibilità dello sviluppo in un contesto ambientale sem-
pre più fragile, la responsabilità sociale delle imprese. Infine, l’innovazione tecnologica,
soprattutto quella legata alle tecnologie digitali, ha profondamente mutato i settori eco-
nomici, determinando la crescita rapidissima di business e il forte ridimensionamento di
altri. Non potevano mancare profonde conseguenze anche sulle imprese e sulle loro stra-
tegie che, pur rimanendo orientate (nel quadro dell’economia capitalistica) alla ricerca
del profitto, richiedono un riallineamento tra obiettivi delle imprese e interessi, vincoli,
della società e dell’ambiente naturale che si manifestano sempre più chiaramente in una
prospettiva temporale via via più ravvicinata.

Il manuale si pone due obiettivi essenziali.


Il primo è quello di fornire agli studenti uno strumento didattico che consenta di:
• approfondire i temi chiave relativi alla gestione d’impresa acquisendo sia le conoscen-
ze fondamentali (da approfondire eventualmente attraverso una significativa dote
di riferimenti bibliografici) sia la lezione delle esperienze gestionali più significative
rappresentate in forma di piccoli casi tratti dal mondo dell’impresa a livello nazionale
o internazionale;
• evidenziare gli snodi critici che deve affrontare chiunque si cimenti con le proble-
matiche di gestione dell’impresa sia a livello imprenditoriale sia a livello manageriale.
• Il secondo obiettivo è quello di fornire un contributo al rinnovamento della disciplina
alla luce delle più recenti modalità di gestione delle imprese in chiave amministrati-
va, strategica e organizzativa.

La struttura del testo


La prima parte definisce l’unità d’analisi: l’impresa. Nel primo capitolo viene proposta
un’analisi dei principali quadri teorici utilizzati per studiare le imprese attraverso una
lettura evolutiva della teoria e un’interpretazione dei tratti essenziali delle prospettive
teoriche presentate, utili per capire i problemi di struttura proprietaria, di controllo
societario, di natura amministrativa e di gestione strategico-organizzativa tipici delle
imprese di oggi. Una volta fornita questa sintetica rassegna di alcune delle teorie dell’im-
presa, nel Capitolo 2 vengono analizzate le caratteristiche fondanti e discriminanti delle
imprese che ritroviamo nel mondo reale degli affari e della società. Un primo aspetto
riguarda le forme istituzionali di impresa, un altro gli assetti proprietari e di controllo,
un ultimo le forme di governance e i ruoli degli attori chiave.
Nella seconda parte, i Capitoli 3, 4 e 5 riprendono i concetti chiave per la gestione
dell’impresa. Nel Capitolo 3 si affronta il tema della definizione del business, punto di
partenza concettuale e metodologico per definire le coordinate “spaziali” all’interno del-
le quali le imprese agiscono e competono. Questo approdo consente, nel Capitolo 4, di
sviluppare l’analisi dei fattori strutturali che caratterizzano un settore e di come questi
sono in grado di influenzare la concorrenza.

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Prefazione XV

Il Capitolo 5 si concentra sul concetto di valore e sugli schemi interpretativi (la catena
del valore e il sistema del valore) utili a cogliere le complesse relazioni alla base della
creazione del vantaggio competitivo.
Il Capitolo 6 segna il passaggio al tema delle risorse e delle competenze, ponendo il
focus dell’impresa come soggetto “privilegiato” di osservazione, in grado di creare valore
sostenibile nel tempo grazie a un’efficace combinazione di risorse interne ed esterne.
Il Capitolo 7 introduce una riflessione sulle nuove dinamiche strategico-organizzative
fornendo un aggiornamento degli strumenti analitici che possono guidare l’elaborazione
delle strategie.
La terza parte, nei capitoli da 8 a 12, utilizza la chiave di lettura delle relazioni inte-
rorganizzative e degli assetti organizzativi a rete, nonché del loro impatto nei processi
di creazione di valore delle imprese, a partire dalla dimensione delle organizzazioni, dai
mercati, dalla capacità di innovazione e di sviluppo di conoscenza.
Il nesso tra vantaggio competitivo e risorse, individuali e/o collettive, deriva esplici-
tamente dall’approccio “Resource Based”, affermatosi in maniera evidente nei primi anni
Ottanta. La “Resource Based View” sposta il focus dall’ambiente esterno alle risorse interne,
più in particolare alla loro naturale propensione a combinarsi in modo tale da generare
capacità strategiche e permettere all’impresa di conseguire posizioni di vantaggio compe-
titivo, che diviene rilevante quando è sostenibile. Per la teoria della strategia, questa pro-
spettiva implica uno spostamento dal tema storicamente dominante dell’appropriazione di
valore a quello della creazione di valore e circoscrive nella sostanza il tema della creazione
di valore a un processo di interazione e di scambio continuo che si sviluppa e situa in
determinati “luoghi”, i territori, e in determinati contesti, le reti di impresa.
L’ultima parte, la quarta, è dedicata al tema dell’evoluzione delle organizzazioni e
dei modelli di business indotta e trainata, per lo più, dall’innovazione che sempre più si
intreccia con il tema dell’internazionalizzazione.
Il percorso di lettura procede gradualmente dagli aspetti più generali e teorici a quelli
più tecnici e operativi, ma la redazione dei capitoli e l’organizzazione dei contenuti si
adatta anche a una lettura monografica, facilitata da una suddivisione in paragrafi molto
articolata, intesa a facilitare al lettore la focalizzazione sugli argomenti chiave, al frequen-
te rimando alle altre parti del testo nelle quali si approfondiscono argomenti collegati,
dall’indice analitico e dalla bibliografia organizzata per capitoli.

Il libro si rivolge:
• agli studenti dei corsi universitari che affrontano i contenuti dell’insegnamento di
Economia e gestione delle imprese e degli altri insegnamenti che affrontano temati-
che affini o che sono articolati in forma modulare e che, a partire da concetti fonda-
mentali riferiti alla gestione d’impresa, approfondiscono tematiche di natura specifica.
Pertanto, per un utilizzo didattico, il contenuto è adatto a corsi universitari di primo e
secondo livello, mediante un’opportuna selezione dei capitoli. La disponibilità di ma-
teriali sul sito web dedicato al volume costituisce un ulteriore supporto per i docenti,
rendendo disponibili materiali per l’attività didattica, e per gli studenti, con risorse
integrative per lo studio, l’approfondimento e la verifica delle conoscenze acquisite;
• agli studiosi della materia;
• ai manager e ai professionisti impegnati con le imprese che possono trovare spunti,
esempi e razionalizzazioni su quanto quotidianamente fanno nella pratica professionale.

Sebbene frutto di un’idea e di un pensiero comune, e progettato intorno alla struttura


del corso condiviso di Economia e gestione delle imprese dell’Università Cattolica del
Sacro Cuore, i capitoli da 1 a 5 sono da attribuirsi ad Alessandro Baroncelli, i Capitoli 6,
7, 13 e 14 sono stati realizzati in comune fra i due Autori, i capitoli da 8 a 12 sono da
attribuirsi a Luigi Serio.

Pochi obiettivi nella vita possono essere raggiunti senza il contributo di altri e il libro
non si sottrae a questo debito. Pertanto, pur essendo gli unici responsabili del contenuto
del volume, gli Autori riconoscono il contributo fondamentale in forme diverse:

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XVI Indice

• degli studenti in termini di esperienze rese nel confronto in aula nell’arco di diversi
anni di insegnamento;
• delle donne e degli uomini d’impresa per il confronto su pratiche, comportamenti e
applicazione nella realtà;
• della comunità scientifica di appartenenza e dei colleghi in Università per le osserva-
zioni critiche, sempre costruttive, e le differenti chiavi di lettura proposte.

Gli Autori ringraziano in particolare Martina Berardi, Emma Garavaglia e Caterina Rem-
bado per il contributo dato alla redazione e alla correzione dei testi e per la riflessione
comune rispetto all’idea di impresa che influenza il manuale.
Gli Autori desiderano infine ringraziare l’Editore per il constante supporto e l’assisten-
za fornita durante la lavorazione.

Alessandro Baroncelli
Luigi Serio
Milano, febbraio 2020

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Autori

Alessandro Baroncelli è professore ordinario di Economia e gestione delle imprese e do-


cente di International Business Management presso la facoltà di Economia dell’Universi-
tà Cattolica del Sacro Cuore di Milano e dirige l’ICRIM International Center of Research
in International Management dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
I suoi principali interessi di ricerca riguardano i processi di internazionalizzazione, l’im-
prenditorialità, l’innovazione e lo sport management.
Ha fondato e dirige da oltre quindici anni il master internazionale MIB Master in Interna-
tional Business dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. È stato visiting professor pres-
so università e business school straniere (ECSP e Université Dauphine, Parigi; Helsinki
University of Technology; ICN Business School, Nancy; Monash University, Melbourne)
e presso numerosi istituti di formazione. È consulente di aziende italiane e straniere e
autore di numerose pubblicazioni in Italia e all’estero.

Luigi Serio insegna Economia e gestione delle imprese presso la facoltà di Economia
e di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. È
consulente per organizzazioni e aziende private e pubbliche sui temi di International
Management, con particolare riferimento ai mercati dell’India e degli Stati Uniti. Dirige
inoltre i master in Management della Fondazione Istud, Risorse Umane e Organizzazione
e Marketing Management. I suoi interessi di ricerca e di lavoro riguardano i processi di
creazione di valore nelle imprese collegati a: le dinamiche internazionali delle impre-
se e la loro competitività nei mercati globali; i processi di innovazione e l’impatto di
Industria 4.0 sui processi di trasformazione e di creazione di valore nelle imprese; la
governance, il processo decisionale e le forme organizzative emergenti per mantenere il
presidio dei fattori di vantaggio competitivo. Da sempre studia il ruolo della conoscenza
nei processi di creazione di valore delle imprese. Ha pubblicato numerosi saggi e articoli
in italiano e in inglese sui suoi temi di interesse.

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In questo volume…

Obiettivi di capitolo
Posti in apertura, tracciano una linea guida di lettura degli argomenti
e un testo illustrativo sintetizza i temi portanti che saranno affrontati
nel capitolo.

Glosse
A lato del testo compaiono glosse di definizione di termini o su alcu-
ni concetti fondamentali della disciplina, per meglio chiarire quanto
si sta illustrando nel capitolo.

Box Caso
Trasversali a tutto il volume, approfondiscono i temi illustrati a livello
teorico nel testo con riferimento a specifiche esperienze aziendali.
Molte aziende prese a esempio, vicine alla realtà italiana ed euro-
pea, consentono di cogliere con precisione quanto affrontato nel
capitolo.

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XX In questo volume…

Box Approfondimento
Trasversali a tutto il volume, approfondiscono e dettagliano alcuni
temi di interesse per la disciplina.

Alla fine di ciascun capitolo, oltre al riepilogo


dei contenuti, sono presenti domande di verifica
per autovalutare il proprio livello di comprensione
e di apprendimento e una bibliografia
dettagliata sugli argomenti trattati.

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Agli studenti
Qualunque cosa tu possa fare, o sognare di fare, incominciala.
L’audacia ha in sé genio, potere e magia.
Incominciala adesso
(J. W. Goethe)

A mia madre
Alessandro Baroncelli

Ai miei cari
Luigi Serio

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L’impresa, la sua definizione
e la sua classificazione Parte prima

CAPITOLO 1
Teorie dell’impresa
CAPITOLO 2
Concetto di impresa

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Capitolo

Teorie dell’impresa 1
Chi lavora all’interno delle imprese o chi è interessato a studiarne il funzionamento e a migliorar-
ne i risultati ha per lo più la tendenza a considerare l’impresa come un’entità data, un soggetto
ineludibile del panorama economico, distinguendone al massimo alcuni tratti essenziali come le
dimensioni, l’assetto proprietario e la diversità delle attività.
Non è quindi ovvio interrogarsi sui motivi per i quali le imprese esistano, quale ruolo svolgano nel
quadro micro e macroeconomico, quali siano i loro elementi costitutivi, attraverso quali logiche
si trasformano o si sviluppano; sono queste le domande che hanno accompagnato le analisi delle
diverse teorie dell’impresa.
In una fase storica in cui buona parte del mondo attraversa un momento di incertezza, di fragi-
lità economica e di fortissima turbolenza economica, l’impresa è l’istituto a cui si fa riferimento
per trovare risposte al rilancio dell’economia e alla creazione di posti di lavoro e per riattivare
un processo stabile e sostenibile di creazione di ricchezza.
Come si potrebbe pensare a un’economia forte e sana senza che lo siano anche le imprese?
Pertanto, essendo questo volume dedicato ad approfondire la natura economica delle imprese
e ad analizzarne i comportamenti e i modi attraverso i quali migliorarne (o ottimizzarne) i ri-
sultati, ci sembra non eludibile iniziare con una ricostruzione su come la teoria dell’impresa si è
sviluppata nel corso del tempo.
Si è scelto di descrivere l’evoluzione della teoria dell’impresa attraverso una duplice via:
• da un lato elaborando in una prospettiva storica le rappresentazioni dell’impresa proposte
dalla teoria contestualizzandole all’interno dei rispettivi quadri analitici;
• dall’altro ricostruendo i diversi contributi della teoria partendo dalla premessa che li accomu-
na una chiave di lettura, di cui diamo conto, che interpreta l’impresa secondo le dimensioni
organizzativa e istituzionale.

Obiettivi di apprendimento
In questo capitolo discuteremo:
X le teorie economiche e manageriali dell’impresa;
X la relazione tra le modalità di coordinamento delle risorse basate sulla gerarchia, sul
mercato, sulle relazioni;
X gli obiettivi e le logiche dei comportamenti dell’impresa.

1.1 Paradossi della teoria dell’impresa neoclassica


La teoria neoclassica dell’equilibrio economico parziale e globale fornisce la rappre-
sentazione più compiuta del funzionamento dell’economia di mercato e pertanto ci
aspetteremmo che l’analisi dell’impresa occupi un ruolo preminente.
In realtà, l’analisi dell’impresa non costituisce che una componente della teoria
dei prezzi e dell’allocazione delle risorse e di fatto non esiste nella prospettiva ne-
oclassica (e in particolare nel modello dominante, quello walrassiano) alcuna teoria
dell’impresa in senso proprio.
I principali postulati dell’economia neoclassica, nel modello di Léon Walras, sono:
• la ricerca di condizioni di equilibrio in situazioni di concorrenza e di disponibilità
di informazioni perfette e in assenza di progresso delle tecniche;

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4 Parte 1  L’impresa, la sua definizione e la sua classificazione

• l’ipotesi della razionalità perfetta degli agenti che, per l’impresa, ha come conse-
guenza l’obiettivo della massimizzazione del profitto;
• la preminenza attribuita all’analisi dello scambio rispetto a quella della produzione.

In questo quadro teorico, l’analisi dell’impresa risulta una questione secondaria in


quanto, in un contesto di concorrenza perfetta e in assenza di progresso tecnico,
l’impresa ha poca ragion d’essere. Le funzioni dell’impresa sono circoscritte alla tra-
sformazione, con modalità che si postulano perfettamente efficienti (dal momento
che si presume che si abbia conoscenza e gestione perfetta delle tecniche disponi-
bili), dei fattori della produzione in prodotti finiti (Archibald, 1971). In assenza di
ogni incertezza e complessità è facile immaginare anche che le imprese, “scatole
nere” ridotte esclusivamente a una funzione di produzione, agiscano in un quadro
di razionalità perfetta.
Nel modello introduttivo alla teoria dell’impresa neoclassica si ipotizza inoltre che:
• il proprietario e il manager dell’impresa coincidano;
• l’obiettivo dell’impresa sia la massimizzazione dei profitti (come differenza tra
ricavi e costi);
• i benefici e gli oneri (sia sociali che privati) dell’impresa siano completamente
espressi dai ricavi e dai costi.
L’impresa nella
teoria neoclassica
L’impresa neoclassica appare quindi come un agente senza spessore né dimen-
Impresa e proprietario-
sione (un’impresa “punto” nello spazio dei rapporti di mercato), come un agente
manager coincidono. passivo (un’impresa “automa”) programmato per applicare meccanicamente le regole
L’obiettivo di riferimento della convenienza economica. Non esiste alcuna analisi interna all’impresa quale
è la massimizzazione dei che sia l’attore economico (individuo o aggregazione di persone) o la reale formula
profitti in un quadro di organizzativa.
razionalità perfetta degli
agenti economici.
Alfred Marshall (1890, 1952) è il primo economista a sistematizzare il corpo te-
orico della dottrina neoclassica dell’impresa, ma è solo dall’inizio degli anni Trenta,
con i primi interrogativi sul modello concorrenziale, originati dalle critiche di Sraffa
(1926, 1973) e Young (1928, 1973) che si sviluppa un’autentica teoria dell’impresa.
Fino ad allora quindi la teoria economica neoclassica resta soprattutto una teo-
ria finalizzata essenzialmente alla spiegazione del funzionamento dei mercati come
meccanismo di fissazione dei prezzi nell’economia capitalistica. Insomma, una teoria
economica senza l’impresa.
È probabilmente a causa di questo paradosso che Coase (1937) sviluppa il suo
contributo essenzialmente rivolto ad affrontare due quesiti fondamentali:
• perché le imprese esistono?
• che cos’è un’impresa e qual è la sua natura?

Coase individua nelle imperfezioni del mercato, e più precisamente nell’esistenza


dei “costi di transazione”1, la risposta al primo quesito e così facendo rimane nel
solco della teoria neoclassica incentrata sull’economia dello scambio, nel quale l’im-
presa si caratterizza semplicemente come un modo particolare di allocazione delle
risorse. Una possibile altra risposta a questo quesito vede invece nell’impresa uno
spazio di produzione e un luogo di creazione di ricchezza e di innovazione.
La risposta al secondo quesito pone le condizioni per ragionare sulla distinzione
tra due dimensioni dell’impresa: da un lato, l’impresa intesa come luogo di coordi-
namento di agenti e, dall’altro, come luogo di gestione dei conflitti e degli interessi
degli agenti stessi.

1 La teoria dei costi di transazione, di cui daremo conto più diffusamente nel prosieguo del capitolo, prende
quindi le mosse da Coase, ma si precisa con il lavoro di Williamson. Si tratta, come vedremo, della visione
che risulterà poi dominante sia nella letteratura economica sia in quella manageriale.

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Capitolo 1  Teorie dell’impresa 5

Approfondimento 1.1 La duplice dimensione dell’impresa:


organizzazione e istituzione

La concezione dell’“impresa organizzazione” va ricercata nei lavori di Simon e di Cyert e March


(1958) e nella definizione di ciò che March e Simon (1966) chiamano “le organizzazioni formali”:
“Le organizzazioni sono dei sistemi di azioni coordinate tra individui e gruppi di cui le preferenze,
la disponibilità di informazioni, gli interessi e i saperi differiscono. Le teorie dell’organizzazione de-
scrivono la delicata conversione del conflitto in cooperazione e attribuiscono alla mobilizzazione di
risorse e al coordinamento degli sforzi la funzione di favorire la sopravvivenza simultanea dell’orga-
nizzazione e dei suoi membri”. Si tratta di una definizione utile soprattutto a considerare l’esistenza
della pluralità di agenti che compongono l’impresa e a considerare i problemi di coordinamento e
di compatibilità tra i comportamenti dell’organizzazione e quelli dei suoi membri.
La concezione dell’“impresa istituzione”, oltre a recepire le dimensioni definite a proposito
dell’impresa organizzazione, si sviluppa in due ulteriori direzioni complementari: l’accettazio-
ne delle dimensioni sociali (intese come espressione del sistema legale e giuridico nel quale
l’impresa si colloca e che impone vincoli alla sua operatività) e la ricerca di un inquadramento
storico delle forme organizzative attraverso le quali si è articolata nel tempo. Si evidenzia così
quel processo di evoluzione e di metamorfosi illustrato da Chandler (1992). Questo cambiamento
delle forme organizzative è spiegabile attraverso la considerazione dei contesti sociali, legali
e politici che caratterizzano l’impresa e i suoi modi di organizzazione, insieme alle dimensioni
chiave di “sistema di diritti di proprietà”, di “insieme di regole, convenzioni e sistemi di san-
zioni storicamente costituite su cui si fondano i sistemi di relazione tra agenti”. Questo implica
successivamente l’accettazione dei sistemi di trasformazione delle diverse forme istituzionali e
in particolare delle strutture dell’impresa in relazione all’evoluzione delle condizioni di produ-
zione, di funzionamento dei mercati, delle condizioni socio-politiche proprie dei diversi Paesi e
riconducibili ai differenti periodi storici.

Porre la questione della natura dell’impresa significa innanzitutto considerare l’impresa


come una forma particolare di organizzazione economica, un assetto istituzionale alterna-
tivo al mercato, e in secondo luogo giustificarne l’esistenza. Mentre sul mercato gli scambi
tra agenti economici si fanno attraverso il sistema dei prezzi, all’interno delle imprese il
coordinamento si realizza attraverso l’autorità dell’imprenditore. Impresa e mercato sono
quindi presentati come due forme alternative di coordinamento economico. Resta quindi
da spiegare l’esistenza di due forme di coordinamento e soprattutto l’esistenza dell’impre-
sa, quando la teoria economica si era prodigata fino ad allora a spiegare l’efficacia del mer-
cato; e come si fa la scelta tra i due meccanismi alternativi di coordinamento? A queste do-
mande Coase propone una risposta articolata, che vuole ancorata nella realtà dei fenomeni
economici, ma fondata al tempo stesso sui concetti sviluppati nell’economia neoclassica,
e in particolare sul marginalismo. Secondo Coase le imprese esistono perché le transazioni
di mercato sono costose e esistono tre tipi di costi:
• i costi di “scoperta dei prezzi adeguati”;
• i costi di “negoziazione e di conclusione di contratti separati per ogni transazione”;
• i costi legati all’incertezza.

Tali costi possono essere ridotti, ma non eliminati. Le transazioni ricondotte nell’impre-
sa sono regolate da un contratto particolare, nel quale alcuni contraenti (i dipendenti)
scambiano una remunerazione fissa contro il dovere di seguire (tendenzialmente nel
lungo periodo) gli ordini dell’imprenditore “entro alcuni limiti”. La forma di coordina-
mento impresa si afferma su quella mercato perché conviene. Così facendo vengono eli-
minati i costi di transazione di mercato soprattutto quando esiste incertezza sul futuro
e opacità nel mercato stesso. Reciprocamente, resta da spiegare perché il coordinamento
attraverso l’impresa non si impone in tutte le circostanze e la risposta che fornisce Coase
è che il ricorso all’impresa comporta a sua volta dei costi:
• i costi di organizzazione;
• lo spreco di risorse;
• l’aumento dei prezzi degli input.

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6 Parte 1  L’impresa, la sua definizione e la sua classificazione

I primi due sono anche chiamati “rendimenti decrescenti dell’attività di management”


(o della funzione imprenditoriale). All’aumentare della dimensione dell’impresa e del nu-
mero di transazioni gestite, aumentano sia i costi di coordinamento interno all’impresa,
sia gli errori dei dirigenti che creano uno spreco di risorse.
La scelta tra coordinamento attraverso il mercato e coordinamento attraverso l’impre-
sa si fa a partire dal confronto tra i costi di transazione all’interno del mercato e i costi
di organizzazione interna della stessa transazione.

Approfondimento 1.2 L’aporia delle forme organizzative

Gli studiosi che si sono occupati di comprendere o di rappresentare le forme di coordinamento


dell’allocazione delle risorse, così come gli imprenditori o i dirigenti che hanno cercato di pro-
gettare le formule organizzative più idonee per le loro attività economiche, hanno proposto la
definizione di tipologie di riferimento che si sono andate via via specificando lungo l’asse che
si muove fra gli estremi della gerarchia, cioè attraverso forme integrate di organizzazione e
divisione del lavoro e il mercato, cioè forme libere di negoziazione e di scambio con partner
appartenenti alla stessa, oppure a una affine, catena del valore.
Fin qui nulla di sorprendente, le classificazioni necessitano di forme pure di riferimento. Si
può rilevare che l’imposizione di questa dualità organizzativa ha eccessivamente semplificato
la realtà, tanto da indurre in letteratura (Grabher, 1993) a invocare il riconoscimento di un
tertium datur delle strutture di governance, riferibile allo sviluppo di relazioni di cooperazio-
ne tra imprese indipendenti o tra entità diverse di uno stesso soggetto giuridico (si veda il
Capitolo 8).
Il problema, dal nostro punto di vista, non sta tanto nella definizione di queste tipologie di
riferimento, quanto piuttosto nella tentazione di impiegarle in modo schematico; in altre pa-
role nella tendenza, da parte degli studiosi e dei professionisti del management, di spiegare
i comportamenti delle imprese riconducendoli all’uno o all’altro di questi tipi, e nell’illusione
che la ricerca di una forma pura semplificasse il processo di adattamento delle imprese e ne
rendesse più efficiente il funzionamento.
Pur nell’evidente impossibilità semiotica di ricondurre le singole realtà organizzative a un
particolare modello concettuale o semantico, si è sempre avuta, assai forte, la tentazione
di classificare le diverse imprese in base alla distanza più o meno elevata che il loro funzio-
namento suggeriva rispetto ai modelli. Ogni organizzazione, per quanto ne assuma forme e
parti di esso, si distingue dal tipo al quale si tenta di ricondurla, ma soprattutto essa presenta
al suo interno combinazioni diverse, contaminazioni tra i diversi tipi di organizzazione e di
governance. Per questo motivo ci pare opportuno uscire da quella che alcuni (Grabher, 1993)
hanno definito la “tirannia” delle dualità organizzative, sottolineando con altri (Granovetter,
1973 e 1985; Barney e Ouchi, 1986; Miles e Snow, 1986; Thorelli, 1986; Eccles e Crane, 1987;
Powell, 1990; Lorenzoni, 1997) l’importanza delle relazioni di cooperazione come “terzo” tipo
da affiancare ai due modelli classici. Inoltre, a nostro avviso, il contributo più rilevante per en-
trambe le categorie di soggetti interessati di un’organizzazione sta proprio nel segnalare loro
che in qualsiasi impresa si può ritrovare un vero e proprio intreccio delle forme di governance
(Baroncelli e Assens, 2004) con la conseguenza che, da un lato, non esistono forme pure e,
dall’altro, l’intreccio organizzativo richiede, o addirittura impone, una competenza specifica
(che talora può addirittura apparire distintiva) nella gestione dell’attività e nell’adattamento
della sua organizzazione.
Aderiremo quindi a una proposta di percezione cognitiva dell’organizzazione basata sull’idea
che le organizzazioni di cui abbiamo esperienza sono talmente variegate e articolate (per
collocazione temporale, dimensioni, settori d’attività, ambiti geografici, profilo degli attori
ecc.) che se dovessimo individuare ogni singolo aspetto e definirlo saremmo sopraffatti dalla
complessità e non potremmo in alcun modo fare leva sulle affinità per governare le orga-
nizzazioni ed elaborare le strategie. Ecco allora che l’unico modo per non “soccombere” di
fronte alle specificità è la capacità personale di “categorizzare” e cioè rendere equivalenti o
comunque assimilabili organizzazioni diverse, raggruppandole per affinità a tipi di organiz-
zazione predefiniti.

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Capitolo 1  Teorie dell’impresa 7

1.2 Teoria dei costi di transazione


L’abbandono dell’idea di impresa “punto”, propria del modello neoclassico, e l’attenzione
alla struttura interna dell’impresa (ai rapporti di lavoro, alle relazioni tra azionisti e diri-
genti, alle soluzioni organizzative) e il suo riconoscimento come istituzione del sistema
economico, comporta una profonda riformulazione della teoria dell’impresa.
Questo percorso è stato avviato da Coase e poi ripreso e definito in forma più articola-
ta da Williamson (1975) con un approccio che egli definisce New Istitutional Economics
L’impresa nella
(da non confondere con il neoistituzionalismo) e che mira a definire le dinamiche di teoria dei costi di
scambio tra le imprese. Egli propone un unico quadro all’interno del quale si collocano transazione
le diverse “istituzioni economiche del capitalismo” (Williamson, 1985) ossia i sistemi e, Il mercato non
in particolare, le strutture di governo delle transazioni. consente di regolare
In un contesto in cui si effettui una transazione che richiede investimenti specifici le transazioni in modo
(per esempio un fornitore che deve realizzare un prodotto per rispondere alle specifi- esclusivo. L’impresa è
un’alternativa tanto
che richieste di un particolare cliente), o in contesti di elevata incertezza e di elevata più efficiente quanto
frequenza delle transazioni è conveniente passare dal mercato all’organizzazione interna. più elevati sono i
L’organizzazione è la risposta al fallimento del mercato come struttura di governo costi di transazione.
delle transazioni, che si verifica a causa dell’incertezza, della razionalità limitata e dell’op- Il management deve
trovare le soluzioni
portunismo delle parti. organizzative più
adeguate.

Approfondimento 1.3 Le ipotesi sul comportamento delle organizzazioni

“Non conosco alcun’altra scienza (oltre l’economia) che si proponga di trattare fenomeni del
mondo reale e che parta da affermazioni che sono in flagrante contraddizione con la realtà”
ha affermato il premio Nobel Herbert Simon2. Sulla stessa falsariga, Williamson, nella teoria dei
costi di transazione, affronta il rapporto fra teoria economica e comportamento degli attori,
proponendo le sue chiavi di lettura. Gli elementi che caratterizzano questo rapporto sono uni-
versalmente riconosciuti come:
• il principio della razionalità limitata;
• l’opportunismo.

1. Il principio della razionalità limitata


La razionalità e la ricerca dell’efficienza rimangono, come nella teoria neoclassica, i fattori esplica-
tivi del comportamento delle organizzazioni, ma la razionalità è intesa secondo la visione di Simon.
È proprio il limite che gli individui hanno in termini di capacità e conoscenze che giustifica l’esistenza
delle organizzazioni, del mercato e in particolare dell’impresa. La conseguenza diretta della razio-
nalità limitata è il carattere incompleto dei contratti che impedisce agli agenti di prevedere tutti i
fattori che potranno influenzare le loro transazioni. Il grado di adattabilità di un’organizzazione e
il modo nel quale essa gestisce un processo di decisione e di interazione tra gli agenti diventano
essenziali (Williamson, 1991) e danno un senso economico all’organizzazione interna dell’impresa.

2. L’opportunismo
Ulteriore conseguenza dell’incompletezza dei contratti è la possibilità di veder emergere dei
comportamenti “opportunistici”. Un comportamento opportunista consiste nel ricercare il
proprio interesse personale ricorrendo a inganni e a sotterfugi e si fonda sulla conoscenza
incompleta, deformata o falsificata dell’informazione riguardante un agente, sui reali intenti
dell’agente, sulla sua capacità e sulle sue preferenze. In altre parole è la conseguenza di asim-
metrie informative tra agenti. La questione dell’opportunismo si pone anche semplicemente in
relazione al rischio che alcuni agenti adottino comportamenti opportunistici. Di conseguenza il
rischio di comportamenti opportunistici ha un impatto sui costi di transazione e all’occorrenza
sui costi di negoziazione e di controllo sui contratti, favorendo il ricorso all’internalizzazione
delle transazioni.

2 “The Failure of Armchair Economics”, intervista con H. Simon, Autore sconosciuto, Challenge 1986,
p. 23.

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8 Parte 1  L’impresa, la sua definizione e la sua classificazione

La progettazione organizzativa si concretizza nella scelta della struttura più efficiente


di governo delle transazioni (le unità di base della teoria) che si producono quando due
imprese decidono contrattualmente lo scambio di prodotti o servizi, ossia, più sempli-
cemente, decidono un acquisto, in senso lato. L’alternativa secca tra mercato e gerarchia
posta dai costi di transazione potrebbe essere vista come una prospettiva deterministica.
Ma lo studio delle configurazioni concrete dimostra che il mercato non è una struttura
abbastanza stabile per affrontare la complessità delle relazioni tra sistemi specializzati. E,
per contro, la gerarchia è una struttura non sufficientemente flessibile. Per questa ragio-
ne, il ruolo del management è quello di trovare le forme miste tra mercato e gerarchie
con cui organizzare il mercato e articolare le gerarchie.
I criteri di scelta per Williamson, rispetto all’alternativa tra integrare ed esternalizzare,
ossia nell’adottare la scelta strategica tra “fare o far fare”, sono tre: il costo, il contesto e
il tipo di transazione.

Caso 1.1 Il 787 Dreamliner di Boeing Co.

Il Boeing 787 Dreamliner è un bimotore


turboventola di linea a fusoliera larga
(wide-body), sviluppato dalla statuni-
tense Boeing con l’intento di farne l’ap-
parecchio di nuova generazione per il
trasporto aereo, in grado di operare, su
nuove rotte non-stop, dove gli aerei più
grandi non sarebbero economicamente
sostenibili.
Questo aereo, molto innovativo, ha avu- ©Phuong D. Nguyen/Shutterstock
to fin qui una vita assai travagliata. È il
primo al mondo tra gli aerei di linea a
fare un uso massiccio della fibra di carbonio (simili soluzioni sono state poi introdotte dall’Airbus
350); disponibile in varie versioni, tra cui una alimentata da biocombustibili, offre più comfort a
bordo perché è più silenzioso, ha una migliore qualità dell’aria in cabina e permette una vista
più ampia dai grandi oblò, oltre a offrire più spazio per i bagagli. Altra caratteristica importante
è la capacità dell’aeromobile di risparmiare fino al 20% di carburante rispetto ai velivoli conven-
zionali. Lo sviluppo del 787 Dreamliner inizia nel 2003, con il nome sperimentale di “7E7”. Nel
luglio 2007 la Boeing dichiara ordini per 677 unità: un primato, nessun aereo che non avesse
ancora volato aveva mai ricevuto tanti ordini. L’8 luglio 2007, ovvero il 7-8-7 (l’American English
prevede la grafia: mese-giorno-anno), il velivolo doveva essere presentato ufficialmente, ma
così non fu perché il prototipo era ancora sprovvisto di tutti gli interni, dell’avionica e di parte
della cabina. Il primo volo fu poi riprogrammato entro la fine del 2007 e la prima consegna alla
All Nippon Airways (ANA) prevista nel 2008; tuttavia, a causa dei ritardi accumulati durante il
suo sviluppo, l’aereo effettuò il suo primo volo commerciale il 26 ottobre 2011, ma in seguito
all’atterraggio d’emergenza, nel gennaio 2013, di un volo della All Nippon Airways (Ana) a Ta-
kamatsu, nel Giappone occidentale, dopo che gli strumenti di bordo avevano rilevato un errore
alla batteria e un odore insolito nella cabina passeggeri e di pilotaggio, la Ana e la connazionale
rivale Japan Airlines (Jal) hanno deciso di sospendere i collegamenti effettuati con il Boeing 787
Dreamliner a causa di problemi sulla sicurezza. Anche le autorità di Stati Uniti, Unione Europea
e India hanno deciso di lasciarli a terra.
Oltre alle innovazioni tecnologiche il 787 Dreamliner rappresenta anche una rivoluzione strate-
gico-organizzativa per la Boeing che per la prima volta affida la progettazione e la produzione
di componenti chiave del velivolo a fornitori esterni negli Stati Uniti e, per circa il 30% delle
parti, nel resto del mondo (in gran parte in Italia, circa il 27%, poi in Svezia, Cina e Corea del
Sud). L’intento di Boeing è quello di ridurre i costi e convertire la sua fabbrica storica nei pressi
di Seattle in un impianto di mero assemblaggio. Alla prova dei fatti emerge che sarebbe stato
più conveniente svolgere gran parte di questo lavoro internamente. Sin dalla prima fase della
produzione i problemi sono enormi: alcuni dei componenti realizzati dai fornitori esterni non
sono compatibili e alcuni dei fornitori non riescono ad assicurare le quantità previste, creando

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Capitolo 1  Teorie dell’impresa 9

ritardi e disfunzioni nel flusso produttivo.


Anziché adottare le modalità seguite in passato per gestire i fornitori, Boeing trasferì molto
limitatamente le procedure e le specifiche ai fornitori richiedendo che fossero essi stessi a svi-
lupparle. La conseguenza fu una ridotta capacità di Boeing nel sovraintendere alle attività di
progettazione e produzione. In una conferenza del gennaio 2011 agli studenti della Seattle Uni-
versity, Jim Albaugh, il capo dell’aviazione commerciale di Boeing, disse: “Abbiamo dato lavoro
a persone che non avevano mai gestito questo tipo di tecnologia fino ad allora e non abbiamo
assicurato la supervisione necessaria. Col senno di poi, abbiamo speso molti più soldi nel tenta-
tivo di rimediare alle disfunzioni di quanto non ne avremmo spesi se avessimo mantenuto molte
delle tecnologie chiave più vicino a Boeing. Abbiamo fatto il passo più lungo della gamba”.

Fonte: elaborazione a cura degli Autori da www.latimes.com; “787 Dreamliner teaches Boeing
costly lesson on outsourcing”, NYT, 11 febbraio 2011; “Dreamliner Is Troubled by Questions About Safety.”,
NYT, 9 gennaio 2013; www.nytimes.com; www.boeing.com

Il caso Dreamliner mostra che Boeing ha esternalizzato troppo le proprie attività, fino al
punto di scoprire che alcuni dei componenti forniti non erano all’altezza delle specifiche
richieste e che i fornitori si stavano appropriando di gran parte del valore generato da
Boeing. I costi di transazione che si sono determinati hanno compensato i vantaggi dei
minori costi attesi grazie all’esternalizzazione e creato disfunzioni e danni all’immagine
dell’impresa. La lezione appresa è che ci sono momenti in cui è meglio scegliere soluzio-
ni interne anziché contare sul mercato.
La teoria dei costi di transazione propone una variante alla visione contrattuale
dell’impresa, per la quale l’impresa si definisce come un sistema di contratti, di forma
specifica, tra agenti economici individuali. Si tratta quindi di una spiegazione dell’im-
presa (intesa come istituzione) che discende dal fallimento del mercato dovuto alle sue
imperfezioni e asimmetrie informative.
I limiti di questa teoria stanno nel fatto che essa non contempla i costi di agenzia né
l’evoluzione dell’impresa, né spiega come dovrebbe aver luogo l’integrazione verticale di
fronte a investimenti in capitale umano, non valutabili esternamente e non trasferibili.

1.3 Teoria dell’agenzia


La teoria dell’agenzia parte dai presupposti di base della teoria neoclassica espanden-
do e formalizzando il problema derivante dall’interazione tra soggetti in “relazione d’a-
genzia”: il proprietario dell’impresa (“principale”) che dà mandato al manager (“agente”)
L’impresa nella
di esercitare il potere di amministrazione aziendale, cercando di descrivere tale relazio- teoria dell’agenzia
ne attraverso la metafora del contratto (Jensen e Meckling, 1976; Fama, 1980; Fama e L’impresa non ha
Jensen, 1983). Lo schema analitico della teoria dell’agenzia è uno di quelli dominanti un’esistenza vera e
nell’ambito delle teorie sulle forme di organizzazione economica e degli sviluppi più propria (è una “finzione
recenti della teoria neoclassica. legale”, un insieme
di contratti: “nexus
Alchian e Demsetz (1972) e più in generale l’economia dei diritti di proprietà (che of contracts”). Non
può essere considerata complementare alla teoria dell’agenzia), avevano già evidenziato essendoci che dei
come l’interazione tra individui imponga necessariamente la definizione di precisi ter- rapporti contrattuali,
mini contrattuali che ne disciplinino le relazioni, e l’individuazione di sistemi di misu- non ha senso
razione e controllo delle loro attività. Nella prospettiva di Alchian e Demsetz assume contrapporre i modi di
coordinamento interni
rilievo preponderante il ruolo svolto dai diritti di proprietà nell’identificazione di sistemi delle risorse a quelli
di incentivi, elargiti sulla base di forme contrattuali appropriate e accompagnati da op- esterni all’impresa.
portune azioni di controllo, in grado di attenuare gli effetti dell’asimmetria informativa
e dei comportamenti opportunistici.
Il “principale” incentiverà l’“agente” ad agire in modo da conseguire i propri obiettivi
e soddisfare i propri interessi (massimizzare la remunerazione dei diritti di proprietà),
partendo dal presupposto che l’agente dispone di un vantaggio informativo e partecipa
alla relazione mosso anch’egli da propri interessi e obiettivi, generalmente divergenti

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10 Parte 1  L’impresa, la sua definizione e la sua classificazione

da quelli del principale. Se ciò non si determinerà, la conseguenza sarà la cessione della
società (disinvestimento) o la rimozione dell’agente dal suo incarico (risoluzione del
mandato).
I “costi di agenzia” discendono da tre elementi:
• le spese per il controllo e per lo sviluppo di incentivi sostenute dal “principale” per
orientare il comportamento dell’agente;
• i “costi di obbligazione” dell’agente, tra i quali rientrano le spese sostenute per evi-
tare che l’agente compia azioni lesive degli interessi del principale (per esempio, se
un’impresa desidera avere una rappresentanza in esclusiva dei propri prodotti, per
evitare i possibili comportamenti opportunistici di un agente pluri-mandatario dovrà
riconoscere commissioni più elevate) e quelle per coprirsi assicurativamente di fronte
ai rischi di una condotta non corretta da parte dell’agente;
• la “perdita residuale” (una sorta di costo opportunità) che corrisponde allo scarto,
inevitabile, tra il risultato dell’azione dell’agente per conto del principale e il risul-
tato che si sarebbe determinato se la gestione dell’impresa fosse stata condotta dal
principale.

Molti contributi (Alchian e Demsetz, 1972; Jensen e Meckling, 1976; Barzel 1997; Fama,
1980; Cheung, 1983) considerano sbagliato, per la teoria economica, tracciare dei confini
netti tra imprese e mercato. Se da un lato le imprese sono certamente delle entità legali
(delle istituzioni), dall’altro sono pur sempre da considerare come dei tipi particolari
di contratti di mercato. Ciò che distingue la natura delle imprese da altri contratti di
mercato riguarda essenzialmente la continuità della relazione tra i diversi detentori dei
fattori della produzione.
Se ogni organizzazione può essere definita come un insieme di contratti (nexus of
contracts) scritti o non scritti tra i detentori dei fattori della produzione e i clienti, se-
condo Jensen e Meckling (1976) le organizzazioni costituiscono “delle finzioni legali che
servono come ‘nucleo’ per un insieme di relazioni contrattuali tra individui” e l’impresa
privata costituisce un caso particolare: “una finzione legale che serve come nucleo a dei
rapporti contrattuali e che si caratterizza più per l’esistenza di crediti residuali divisibili
sulle attività e sui redditi dell’organizzazione che possono, in generale, essere venduti
senza l’autorizzazione di altri contraenti” (op. cit.).
Per riassumere, nella teoria dell’agenzia pertanto possono essere evidenziati tre fattori
caratterizzanti:
1. l’impresa non ha un’esistenza vera e propria (è “una finzione legale”), ma diversamente
dalla teoria neoclassica non è vista come un individuo orientato dai propri obiettivi
e pertanto viene meno l’interesse a definirne gli obiettivi stessi o a interrogarsi sulla
presunta capacità a massimizzarli. Né ha molto senso chiedersi chi sia il proprietario
dell’impresa (Fama, 1980). Ci sono solo individui proprietari di fattori che rientrano
nei rapporti contrattuali;
2. ha poco senso interrogarsi sulle attività da svolgere all’interno o all’esterno dell’impre-
sa e su quali siano i confini dell’impresa. L’unica certezza è costituita dall’esistenza di
relazioni contrattuali complesse;
3. non esiste una vera contrapposizione tra impresa e mercato (in contrasto con la tesi
di Coase, 1937). Non essendoci che dei rapporti contrattuali, non ha senso contrap-
porre i modi di coordinamento interni delle risorse a quelli esterni all’impresa. Barzel
(1989) vede nell’opposizione tra impresa e mercato proposta da Coase una “dicotomia
erronea”.

Pertanto è la natura stessa dell’impresa che torna a perdere rilevanza. Partendo dall’idea
che era necessario studiare ciò che si trovava all’interno della “scatola nera” per superare
l’approccio dell’impresa “punto”, si arriva alla conclusione che non esiste alcuna “scatola”.
Un risultato che può apparire paradossale, ma che costituisce la conseguenza di un in-
dividualismo metodologico spinto fino alle estreme conseguenze: la sola realtà rilevante
è quella dei rapporti interpersonali. L’oggetto della teoria dell’impresa, o più in generale
delle organizzazioni, non può dunque essere nient’altro che l’analisi dei rapporti contrat-
tuali tra individui.

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Capitolo 1  Teorie dell’impresa 11

I limiti ulteriori della teoria dell’agenzia riguardano:


• la difficoltà di definire dei meccanismi incentivanti, che dipendono da complicati
contratti incompleti, spesso al limite dell’applicabilità;
• la mancata considerazione dei costi di transazione;
• la mancata considerazione delle possibilità evolutive dell’impresa.

1.4 Teoria degli stakeholder


Una delle prospettive che caratterizza maggiormente il dibattito sulle implicazioni so-
ciali ed etiche dell’economia e dell’impresa è la teoria degli stakeholder.
Caratteristica principale della “stakeholder theory” è quella di definire innanzitutto
L’impresa nella
verso chi l’impresa è responsabile, prima di preoccuparsi di che cosa sia responsabile
teoria degli
(Caramazza et al., 2006). stakeholder
Il primo volume dedicato a questa teoria è Strategic management. A stakeholder ap- L’impresa è un’entità
proach, nel quale Freeman (1984), riprendendo la definizione dello Standford Research governata da
Institute, intende per stakeholder di un’organizzazione, un gruppo o un individuo che una razionalità
può influenzare o può essere influenzato dal raggiungimento degli obiettivi dell’impresa. intersoggettiva che
si trasforma in base
Utilizzato in contrapposizione a quello di stockholder, il termine stakeholder si riferisce alla capacità di tutti
quindi a tutti coloro che sono portatori di interessi e legittime pretese nelle attività gli attori (interni ed
aziendali che vanno oltre i diritti di proprietà o legali (Caramazza et al., 2006). Dal punto esterni), il cui ruolo è
di vista teorico, la stakeholder view of the firm rappresenta la visione diametralmente differenziato dalla loro
opposta al classico modello del capitalismo di mercato secondo il quale l’impresa è ti- capacità di determinare
o condizionare
tolare di obblighi solo nei confronti degli investitori e di “soggetti o gruppi portatori di le performance
diritti sanciti legalmente nella misura in cui questi siano violati da specifiche condotte dell’organizzazione.
aziendali” (Ibid. p. 101) e fornisce un importante contributo che arricchisce la pluralità
di razionalità in gioco (Donaldson e Preston, 1995) proponendo una razionalità intersog-
gettiva che evidenzia l’articolazione degli attori direttamente e indirettamente coinvolti
nelle scelte organizzative.
La definizione di stakeholder, a partire dalla sua originaria formulazione, può essere
ulteriormente specificata distinguendo due categorie di portatori di interessi:
• gli stakeholder primari: con essi l’impresa intrattiene una relazione continua, spesso
formalizzata contrattualmente, dalla quale dipende la sua sopravvivenza; rientrano,
dunque, in questa categoria i dipendenti, i clienti, i fornitori, ma anche lo stakeholder
pubblico, rappresentato dall’amministrazione pubblica e dalle istituzioni che operano
sul territorio di riferimento dell’azienda. È fondamentale per l’impresa agire affinché la
relazione con gli stakeholder primari sia quanto più possibile positiva: una loro man-
cata soddisfazione, che potrebbe condurre anche alla decisione di uscire dal sistema
dell’impresa, potrebbe infatti danneggiarne notevolmente l’attività fino a ostacolare la
capacità dell’impresa di raggiungere i propri obiettivi;
• gli stakeholder secondari: la relazione che intercorre tra l’impresa e questo gruppo
di stakeholder è invece di carattere indiretto. Rientrano in questa tipologia tutti
quei gruppi e individui che possono essere indirettamente influenzati dalle attività
dell’impresa, ma che non sono coinvolti in transazioni dirette con l’impresa, né hanno
il potere di metterne a repentaglio la sopravvivenza. Tra questi possiamo citare, per
esempio, i mass media, la comunità locale o ancora l’università o i centri di ricerca.

I teorici di questa prospettiva si distinguono a seconda che adottino una visione più o
meno ampia nella definizione dell’universo dei portatori di interessi dell’impresa.
Le concezioni ristrette degli stakeholder cercano di definire i gruppi rilevanti in ter-
mini di rilevanza diretta per gli interessi economici essenziali dell’azienda e sulla base di
un certo grado di formalizzazione dei rapporti che intercorrono tra le due parti. Lungo
questa linea, diversi studiosi definiscono gli stakeholder in termini di necessità per la so-
pravvivenza dell’impresa (Freeman e Reed, 1983), in termini di contraenti o partecipanti
a relazioni di scambio (Cornell e Shapiro, 1987) o ancora come coloro che nella relazione
con l’impresa hanno messo qualcosa a rischio. Ciò che accomuna le visioni ristrette,
pur nel loro differenziarsi, è la focalizzazione sul cuore normativo della legittimità delle

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12 Parte 1  L’impresa, la sua definizione e la sua classificazione

aspettative degli stakeholder: legittimità che diventa il criterio guida per i manager nella
scelta degli stakeholder sui quali concentrarsi.
La prospettiva ampia si sviluppa invece a partire dalla considerazione che le imprese
possano essere in qualche modo influenzate, e influenzare, un numero amplissimo di sog-
getti le cui aspettative siano o meno legittime. In questo caso diventa molto complicato
per il management, innanzitutto, identificare in modo esauriente tutti gli stakeholder e,
in seconda battuta, porre in essere strategie di gestione di questi ultimi in grado di creare
un equo bilanciamento tra una pluralità di interessi spesso molto distanti tra loro.
In questa prospettiva non sussiste la necessità di una formalizzazione del rapporto
tra l’impresa e chi possa essere considerato come un suo stakeholder. In questo caso, gli
obiettivi dello stakeholder management possono incentrarsi sulla sopravvivenza dell’a-
zienda o sul bilanciamento degli interessi dei diversi attori che gravitano all’interno del
suo sistema sociale.
Riportando a fattore comune queste considerazioni, possiamo identificare le due ca-
ratteristiche chiave per la definizione di uno stakeholder dell’impresa:
• la capacità di influenzarne l’attività;
• l’essere portatori di un’aspettativa nei confronti dell’impresa.

Caso 1.2 Dall’Italsider alla nascita dell’Ilva a Taranto

L’Ilva si occupa prevalentemente della produzione e trasformazione dell’acciaio. Il più impor-


tante stabilimento siderurgico italiano, uno dei maggiori impianti d’Europa, è situato a Taranto.
Fu costruito nel 1961, quando l’allora Italsider era un’azienda pubblica (nella quale quindi lo
shareholder era lo Stato), a ridosso di due popolosi quartieri di Taranto, su una superficie di oltre
15 milioni di metri quadrati.
Segnata da una grave crisi negli anni Ottanta, l’acciaieria viene acquisita nel maggio del 1995
dal gruppo Riva che la riporta in profitto. Il gruppo Riva, fondato nel 1954 da Emilio con il fratello
Adriano, assume il nome attuale di Ilva (dal nome latino dell’isola d’Elba, dove veniva estratto il
ferro che alimentava gli altiforni soprattutto a inizio Ottocento). La privatizzazione dell’Italsider
inizia con il governo Dini e viene perfezionata dal primo governo Prodi, provocando non poche
polemiche per il prezzo pagato dai Riva.

Le inchieste del 2012 e il sequestro dell’impianto


I Riva sono chiamati a rilanciare l’azienda, ma emergono i primi seri problemi di inquinamen-
to della città collegati alla sua area industriale e il numero dei decessi per tumore registrati
nella zona comincia a destare sospetti. Nel 2012 la magistratura tarantina dispone il sequestro
dell’acciaieria per gravi violazioni ambientali. Vengono disposte le misure cautelari per alcuni
indagati nell’inchiesta per disastro ambientale a carico dei vertici aziendali: tra questi anche
Emilio Riva, presidente dell’Ilva Spa fino al maggio 2010 e il figlio e suo successore Nicola Riva.
Il Gip scrive che l’impianto è stato causa – e continua a esserlo – di “malattia e morte” perché
“chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà
per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza”. Per sbloccare dai
sequestri gli impianti sottoposti a lavori di risanamento e garantire così la tutela dei posti di
lavoro degli operai, il governo Monti emana un decreto che autorizza la prosecuzione della
produzione dell’azienda.

Inquinamento e salute pubblica


Sono considerati particolarmente inquinanti i parchi minerali, le cokerie e il camino E312 dell’im-
pianto di agglomerazione. Nel 2012 sono state depositate presso la Procura della Repubblica
di Taranto due perizie (una chimica e l’altra epidemiologica). Per ciò che riguarda la perizia
epidemiologica, i periti nominati della Procura di Taranto hanno quantificato, per tutte le cause
di morte, nei sette anni considerati:
• un totale di 11550 morti (con una media di 1650 morti all’anno) soprattutto per cause cardio-

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Capitolo 1  Teorie dell’impresa 13

vascolari e respiratorie;
• un totale di 26999 ricoveri (con una media di 3857 ricoveri all’anno) soprattutto per cause
cardiache, respiratorie e cerebrovascolari.
• Di questi, considerando solo i quartieri Tamburi e Borgo, i più vicini alla zona industriale:
• un totale di 637 morti (in media 91 morti all’anno) è attribuibile ai superamenti dei limiti di
PM10 di 20 microgrammi a metro cubo (valore consigliato Oms – Organizzazione Mondiale
per la Sanità), rispetto al limite di legge italiana/europea di 40 microgrammi a metro cubo;
• un totale di 4536 ricoveri (una media di 648 ricoveri all’anno) solo per malattie cardiache e
malattie respiratorie, sempre attribuibili ai suddetti superamenti.

Il 26 luglio 2012 il Gip di Taranto (un altro stakeholder) dispone il sequestro senza facoltà d’u-
so dell’intera area a caldo dello stabilimento siderurgico Ilva. I sigilli sono previsti per i parchi
minerali, le cokerie, l’area agglomerazione, l’area altiforni, le acciaierie e la gestione materiali
ferrosi. Nell’ordinanza il Gip conclude che “chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività
inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari rego-
le di sicurezza”. Oltre il sequestro degli impianti, il Gip ha riconosciuto, a carico degli indagati,
le accuse di disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa
di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e
sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico. A tali emissioni convogliate,
vanno sommate tutte quelle non convogliate, cioè disperse in modo incontrollato.
Pertanto sono stati disposti gli arresti di Emilio Riva, presidente dell’Ilva Spa, fino al maggio
2010, del figlio Nicola Riva, succedutogli nella carica e dimessosi pochi giorni prima dell’arresto
(ossia due shareholder), dell’ex direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso, del
dirigente capo dell’area del reparto cokerie, Ivan Di Maggio e del responsabile dell’area agglo-
merato, Angelo Cavallo (altri stakeholder).
Molti si interrogano oggi sulle ragioni per le quali si è fatta un’acciaieria – fortemente voluta, a
suo tempo, dall’amministrazione locale, dalla popolazione e dal Governo (importanti stakehol-
der dell’impresa siderurgica) – nel mezzo di una città.
Per quale motivo non si sono disposti vincoli da parte delle autorità (uno stakeholder) per ridurre
le emissioni che in altre acciaierie (per esempio in Germania) generano emissioni inferiori del
70-90% rispetto all’Ilva a tutela dei lavoratori e della popolazione?
O ancora, perché, pur avendo già condannato i Riva nel 2007 per violazione delle norme anti-
inquinamento, la magistratura (uno stakeholder importante) non è intervenuta prima con mag-
giore decisione su un problema che era noto da anni?
Il Governo (come i sindacati e quasi tutti i partiti), stakeholder chiave della vicenda, vorrebbe
evitare la chiusura della fabbrica, che produce un terzo del fabbisogno di acciaio italiano e dà
lavoro a 12 mila lavoratori diretti (40 mila con l’indotto). Il tentativo è stato quello di mantenere
aperto e produttivo lo stabilimento (come chiede l’Ilva) favorendo il risanamento. Lo strumento
che è stato individuato è l’“Aia”, l’autorizzazione integrata ambientale che autorizza l’esercizio
dell’impianto imponendo all’azienda (e ai suoi shareholder) una serie di interventi nell’arco di
tre anni, partendo dalla riduzione della produzione a otto milioni di tonnellate, la copertura dei
parchi di carbone, il rifacimento degli altiforni, con una serie di monitoraggi.

Al via i commissariamenti
A maggio 2013 il Gip Patrizia Todisco dispone un maxi-sequestro da 8 miliardi di euro sui beni
e sui conti del gruppo Riva. Alla fine dello stesso anno il maxi-sequestro viene annullato dalla
Corte di Cassazione su ricorso dei Riva, ma già pochi giorni dopo il provvedimento del Gip, i Riva
lasciano il consiglio di amministrazione dell’azienda. Ai primi di giugno interviene il governo e,
con un decreto, commissaria l’Ilva: arriva Enrico Bondi, poi affiancato da Edo Ronchi. Un anno
dopo i due vengono sostituiti da Piero Gnudi e Corrado Carrubba. A gennaio 2015 l’azienda, con
un’altra legge, passa in amministrazione straordinaria.

Il bando e l’assegnazione ad ArcelorMittal


Nel gennaio 2016 viene pubblicato il bando di gara con l’invito a manifestare interesse per Ilva.
Il termine ultimo è fissato in 30 giorni a partire dal 10 gennaio. I Commissari straordinari scelgo-
no la cordata ArcelorMittal - Marcegaglia (che si sfilerà subito dopo) riunita nella joint-venture
AmInvetCo. Il 5 giugno 2017 l’allora ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda firma il
decreto di assegnazione ad ArcelorMittal (stakeholder, ma shareholder).

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14 Parte 1  L’impresa, la sua definizione e la sua classificazione

A luglio 2018 il ministro dello Sviluppo Economico del neonato governo Conte 1 Luigi Di Maio
chiede all’Autorità nazionale anticorruzione di indagare sulle regolarità della procedura di gara.
L’autorità guidata da Raffaele Cantone risponde che esistono criticità nell’iter della gara per la
cessione dell’Ilva, ma che uno stop della procedura può essere valutato solo dal Ministero dello
Sviluppo nel caso in cui, come prevede la legge, esista un interesse pubblico specifico all’annul-
lamento. Il governo richiede un parere anche all’Avvocatura dello Stato. Il 15 settembre scade il
termine del commissariamento dell’Ilva.

L’addio di ArcelorMittal
A inizio novembre 2019 ArcelorMittal, dopo lunghe trattative con il governo – nel frattempo di-
ventato Conte 2, con Di Maio passato agli Esteri e sostituito allo Sviluppo economico dal ministro
Stefano Patuanelli – annuncia in una lettera la volontà di lasciare lo stabilimento e restituirlo allo
Stato italiano: tra le ragioni della decisione pesano soprattutto il ritiro dello scudo penale e le
decisioni dei giudici di Taranto che, secondo l’azienda, “renderebbe impossibile attuare il suo
piano industriale”.

Nel maggio del 2020 si terranno le elezioni amministrative nella regione Puglia.

Fonte: Felaborazione a cura degli Autori da La Stampa, “Salva-Ilva”,


l’offensiva della Procura, 27 dicembre 2012; La Stampa, Qual è la storia dell’Ilva?, 28 novembre 2012;
https://tg24.sky.it/economia/approfondimenti/ilva-caso-tappe.html.

Le vicende estreme illustrate dal caso Ilva mostrano come i cittadini e la magistratura,
che hanno interesse a che l’impresa non inquini l’aria, diventano stakeholder in quanto
si organizzano per imporre controlli più severi o per imporre agli shareholder (il gruppo
Riva) e ad altri stakeholder (il management e i lavoratori) di quell’impresa di operare in
un quadro di sicurezza o di interrompere l’attività. Altri stakeholder, i lavoratori (che in
parte coincidono con alcuni dei gruppi di stakeholder già citati) e il sindacato premono
perché l’attività lavorativa non si interrompa e il Governo (massimo soggetto ammini-
strativo coinvolto nella vicenda) interviene come stakeholder che deve conciliare sia
i diritti dei primi stakeholder (cittadini), sia quelli dei secondi (lavoratori) nel rispetto
delle disposizioni di un potere autonomo dello Stato.
La stakeholder theory può condurre a considerazioni, strumenti, metodologie diffe-
renti a seconda della modalità nella quale viene adottata:
• in termini normativi: definisce in modo molto preciso la funzione dell’impresa a partire
dalla considerazione che gli stakeholder siano portatori di interessi legittimi nei suoi con-
fronti. Interessi che in quanto tali devono essere tenuti in considerazione: da qui deriva
una modalità gestionale che non tenga unicamente conto degli interessi della proprietà;
• in termini descrittivi: conduce alla descrizione, appunto, dell’impresa come sistema
di interessi comuni o concorrenti;
• come teoria strumentale: viene utilizzata per descrivere le implicazioni di determi-
nate modalità di gestione degli stakeholder rispetto al raggiungimento degli obiettivi
dell’impresa;
• infine, come teoria manageriale: risulta nella funzione dello stakeholder management
e si concentra su pratiche, atteggiamenti, strumenti. Non tanto sulla descrizione del
sistema impresa né sulla capacità di predire i risultati di determinati rapporti con i suoi
stakeholder, quanto piuttosto sul quotidiano processo di gestione di queste relazioni.

Ne discende, in ogni caso, una precisa visione dell’impresa come sistema aperto che
interagisce quotidianamente con un numero rilevante di attori, che siano collettivi o
individuali. Nella teoria degli stakeholder il ruolo centrale rimane sempre quello dell’im-
prenditore: è questi che deve gestire il rapporto con tutti gli interlocutori (primari e se-
condari) ed è sempre questi che deve creare e ricreare l’equilibrio generale che consente
all’impresa di continuare a produrre e distribuire ricchezza.

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Capitolo 1  Teorie dell’impresa 15

Inoltre, un nodo cruciale riporta a questioni di carattere etico-normativo, che nelle teo-
rie di questo filone rimangono sempre implicite e pur tuttavia sono centrali nel momen-
to in cui si debbano affrontare i conflitti di interesse che nel tempo sorgono tra l’impresa
e gli stakeholder o tra i diversi gruppi di portatori di interessi: questo modello tende a
presentarsi come uno strumento tecnico perché non solleva la dimensione etica che è
implicita nella gran parte delle decisioni riguardanti gli stakeholder. Nella fase cruciale
in cui il management è chiamato a decidere quali obbligazioni siano fondanti per una
condotta socialmente responsabile, questo approccio non è in grado di offrire sostegno
in questi termini (Caramazza et al., 2006).

1.5 Teoria evoluzionista


Le origini della teoria sono duplici. Da un lato Chris Freeman presso lo Spru – Science
and Technology Policy Research dell’University of Sussex – riprende i lavori di Schum-
peter cercando di aggiornare la teoria delle “onde lunghe” secondo la quale lo sviluppo
economico avviene grazie a delle “onde” di innovazioni che caratterizzano i “paradigmi
tecnologici”. Dall’altro è il lavoro di Nelson e Winter (1982) che getta le basi di ciò che
oggi costituisce la scuola evoluzionista3 che si definisce ulteriormente con il contributo
fondativo di Dosi et al. (1990).
La teoria evoluzionista, come indica il nome, richiama i modelli biologici e i pro-
cessi di selezione naturale e si concentra sulle competenze produttive e sui processi e L’impresa nella
teoria evoluzionista
prodotti innovativi. Presuppone che l’impresa possieda risorse (legate in modo pressoché
L’impresa è un
permanente all’impresa) e competenze uniche, classificate in quattro categorie: finanzia- sistema soggetto
rie, fisiche, umane e organizzative. all’adattamento:
Secondo questa teoria, l’impresa reagisce al cambiamento e crea vantaggio compe- attraverso
titivo attraverso il cambiamento. L’impresa, in quanto creatrice di cambiamento, può l’apprendimento e
la sperimentazione
determinare una distruzione creativa suscettibile di generare nuovi settori o di dar
si adatta al suo
impulso alla crescita dell’economia. Molti Paesi hanno sviluppato azioni di economia in- ambiente. L’esperienza
dustriale rivolte a sostenere le iniziative imprenditoriali, ma uno dei punti di debolezza dell’impresa si traduce in
della teoria sta proprio nella difficoltà di mostrare correlazione tra sforzi imprenditoriali un numero di procedure
e innovazione di processo o di prodotto. L’innovazione sembra molto più correlata alla operative standardizzate
che, col passare del
scoperta generata secondo modalità che a tutt’oggi non appaiono affatto programmabili tempo e col succedersi
né a livello di economia nazionale né a livello di singola impresa. delle esperienze, si
Nella teoria evoluzionista, l’impresa appare come il risultato di una doppia bocciatura possono trasformare
delle altre prospettive teoriche relative all’impresa. attraverso l’innovazione
e l’apprendimento.
La prima bocciatura riguarda la teoria neoclassica secondo la quale l’impresa è ricon-
L’impresa non è
ducibile a una combinazione di tecniche. Ancorché arricchito dai contributi più recenti un’entità immutabile, è
(Baumol et al., 1982) relativi all’impresa multi-prodotto, questo approccio appare molto un sistema di regole che
restrittivo agli “evoluzionisti” che vedono nella dimensione organizzativa, negata dai teo- si modificano in funzione
rici neoclassici, un elemento necessario e costitutivo di una teoria generale dell’impresa. di nuovi obiettivi.
La seconda bocciatura si riferisce all’approccio transazionale puro (“contrattuale”),
caratterizzato dalla visione neo-istituzionalista dell’impresa. L’insieme degli sviluppi che
vanno da Williamson a Fama (e si completano con il contributo di Aoki, 1986, 1988,
1990) vedono l’impresa essenzialmente come un “nodo di contratti” impliciti ed espliciti
e pertanto configurano per gli evoluzionisti un’idea di impresa del tutto smaterializzata
e, al limite, “un’impresa vuota”.
La domanda fondamentale da affrontare per elaborare una teoria dell’impresa è quella
della “coerenza” dell’impresa in termini di composizione e articolazione del portafoglio
di attività.
Si tratta di definire dei criteri in base ai quali:
• distinguere un’impresa dall’altra (per esempio Ilva da Luxottica o Barilla da Fiat);
• spiegare perché ogni singola impresa si compone di un portafoglio di attività la cui
composizione non è aleatoria, bensì risponde a una “coerenza” interna (continuando

3 Gli altri contributi fondamentali sono i seguenti: Teece (1982, 1987, 1988); Dosi (1982, 1988); Dosi e Ma-
renco (1993).

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16 Parte 1  L’impresa, la sua definizione e la sua classificazione

sull’esempio precedente, perché Barilla produce pasta e prodotti da forno e non au-
tomobili);
• spiegare attraverso quali logiche le imprese evolvono e si trasformano, ossia modifica-
no il portafoglio di attività o l’attività principale.

Quest’ultimo quesito è, per gli evoluzionisti, il più rilevante, nella misura in cui è pro-
prio alla prospettiva dinamica che essi attribuiscono particolare importanza nel tentativo
di spiegare i fenomeni economici. L’evoluzione dell’impresa segue un sentiero determi-
nato in particolare dalla natura delle competenze accumulate nell’impresa.
I concetti chiave su cui si sviluppa l’originalità della teoria dell’impresa evoluzionista
sono quelli di apprendimento, routine e di path dependency.
L’impresa è sia il luogo, sia il risultato dell’apprendimento. Nel corso del tempo, l’im-
presa cambia, evolve, lungo sentieri definiti. La sua evoluzione è segnata dal contesto
ambientale.
L’apprendimento è un comportamento motivato e orientato all’acquisizione di cono-
scenze in vista di uno scopo4; nella prospettiva evoluzionista, l’apprendimento presenta
tre caratteristiche:
1. è cumulativo, poiché ciò che di nuovo si apprende poggia su quanto è stato appreso
nei periodi precedenti;
2. avviene a livello organizzativo: le competenze individuali sono fondamentali, ma il
loro valore dipende dal loro utilizzo in modalità organizzative particolari. L’apprendi-
mento richiede “codici” condivisi di comunicazione e procedure coordinate;
3. è legato alle routine “statiche” (che riproducono le pratiche già in uso) e “dinami-
che” (orientate costantemente verso l’apprendimento di nuove pratiche indotte dalle
trasformazioni dell’ambiente, ossia del mercato), “modelli di interazione che costi-
tuiscono delle soluzioni efficaci a dei problemi particolari” (Dosi et al., 1990), “asset
specifici”5, nei quali si sostanzia la conoscenza generata e che differenziano le imprese
costituendo altresì la base delle diverse performance dei concorrenti (si veda Capitolo
6). Le routine non sono codificabili, sono “tacite” e come tali non possono essere tra-
sferite: ne consegue che la capacità d’apprendimento non sia trasferibile.

Il mercato è un meccanismo di selezione delle imprese migliori (innovative). L’efficienza


dinamica (ossia la capacità di innovare) è molto più importante dell’efficienza statica
(che riguarda decisioni allocative).
Nella prospettiva evoluzionista un mercato in cui tutte le imprese sono uguali è in-
concepibile dato che ogni impresa incorpora conoscenze specifiche ed è il risultato delle
propria storia passata (della path dependance). Per i neoclassici la tecnologia è esogena e
accessibile a tutte le imprese. La combinazione ottimale sarà dunque la stessa per tutti.
Per Nelson e Winter (1982), invece, l’incertezza tecnologica fa sì che non sia possibile
definire un obiettivo comune a tutte le imprese.
Il comportamento razionale non si può definire con esattezza in un mondo caratte-
rizzato da incertezza. Inoltre, la tecnologia attuale dipende in modo determinante dalle
condizioni di partenza (path dependance).
Le imprese reagiscono in risposta agli stimoli ambientali. I manager puntano a con-
seguire un livello di profitto soddisfacente (diverso quindi dalla logica neoclassica della
massimizzazione). Si tratta di un comportamento razionale, dati i limiti (interni ed ester-
ni) all’attività d’impresa e l’incertezza tecnologica. Per Nelson e Winter (Ibid.) quando il
profitto è superiore alla soglia minima soddisfacente, il comportamento si limita all’ado-
zione di routine statiche. Se il profitto scende al di sotto della soglia minima soddisfa-
cente, l’impresa inizia una fase di ricerca di nuove routine suscettibili di migliorarne i
risultati.

4 Mentre le informazioni sono un insieme neutro di dati (non dipendenti da chi le possiede) la conoscenza è
un insieme di informazioni associate a uno scopo attraverso un processo di interpretazione individuale.
5 Nel senso dato a questo termine da Williamson, al quale gli evoluzionisti si riferiscono esplicitamente.

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Capitolo 1  Teorie dell’impresa 17

Riepilogo
• L’impresa e i suoi comportamenti sono stati oggetto di studi transazionali, della teoria dell’agenzia, della teoria degli sta-
approfonditi e articolati da parte dei teorici dell’economia: keholder e della teoria evoluzionista.
questo ha dato luogo a una serie di teorie dell’impresa. • Queste prospettive, talora molto differenti per le ipotesi di ri-
• La prospettiva sul funzionamento dell’economia a lungo do- ferimento, per il periodo storico nel quale sono state elaborate
minante è stata quella della scuola neoclassica, che ha fatto e per l’enfasi attribuita a diversi aspetti dell’impresa, danno
emergere un paradosso: quello di una teoria senza l’impresa. la misura di un dibattito molto articolato che fa da premessa
• Questo stridente paradosso è stato evidenziato da altri studiosi all’approfondimento delle questioni legate alla natura, agli
e ha comportato lo sviluppo di una teoria delle forme di im- obiettivi, ai comportamenti e agli assetti organizzativi delle
presa. imprese che tratteremo ulteriormente nei capitoli successivi.
• In questo capitolo abbiamo dato conto della teoria neoclassi-
ca dell’impresa, della teoria basata sulla valutazione dei costi

Domande di verifica
1. Perché le imprese esistono? 6. Quali sono i fattori fondamentali della teoria dell’agenzia?
2. Che cos’è un’impresa e qual è la sua natura? 7. Cosa si intende per stakeholder e in cosa consistono i tratti es-
3. Quali sono i principali schemi della teoria economica che han- senziali della teoria dell’impresa basata sull’analisi e sul ruolo
no affrontato il tema della definizione dell’impresa? degli stakeholder?
4. Qual è l’essenza della teoria neoclassica? 8. Quali sono i fattori fondamentali della teoria evoluzionista
5. Quali sono gli aspetti essenziali della teoria dei costi di tran- dell’impresa?
sazione?

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18 Parte 1  L’impresa, la sua definizione e la sua classificazione

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Ulteriori risorse disponibili sul sito web dedicato al volume

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Capitolo

Concetto di impresa 2
Il presente capitolo indaga il concetto di impresa, partendo dalla sua dimensione definitoria e
dai fattori costitutivi per proseguire con le forme istituzionali e i modelli di governo. Le fattispe-
cie analizzate sono tante, prevalentemente segmentate per funzioni, così come rappresentate in
maniera ampia nella letteratura sul tema.
Il capitolo assume il concetto di impresa nella sua logica di sistema, formata da elementi inter-
dipendenti, ognuno dedicato a una funzione specifica. La funzione sistemica permette anche di
considerare l’impresa all’interno del suo ambiente di riferimento, con cui scambia opportunità
e processi di creazione di valore. Per questo, il capitolo, in qualche maniera, contiene in sé una
riflessione che funge da snodo critico nello sviluppo e nell’articolazione del presente volume;
la riflessione di impresa proposta ricostruisce gli elementi costitutivi della sua morfologia e dei
modi di gestione e organizzazione fondamentali, ma consente anche di legare, sul piano logico,
l’impresa all’analisi del suo contesto ambientale, delle sue componenti (materiali e immateriali)
interne, del suo sistema di relazioni e dei suoi articolati assetti organizzativi, che svilupperemo
nei capitoli successivi.
È solo un sistema complesso, idiosincratico e cognitivo come l’impresa che può consentire tante
chiavi di lettura distinte non solo a partire da discipline diverse (l’economia e il management, il
diritto, la sociologia, la storia, la geografia), ma anche, all’interno di queste discipline, nell’am-
bito delle innumerevoli prospettive di indagine con le quali il concetto di impresa può essere
approfondito.

Obiettivi di apprendimento
In questo capitolo discuteremo:
X la natura dell’impresa;
X le funzioni istituzionali dell’impresa e gli obiettivi dell’imprenditore;
X le forme d’impresa e l’assetto proprietario;
X la modalità di gestione e i modelli di organizzazione dell’impresa;
X gli attori e i portatori di interesse nell’impresa.

2.1 Che cos’è un’impresa?


L’impresa è un’istituzione economica, un sistema aperto e dinamico che organizza e
utilizza risorse umane (lavoro manuale e intellettuale) e capitali (fisici e/o finanziari)
collegati, sia tra loro sia con soggetti esterni, da relazioni orientate alla realizzazione di
trasformazioni di tipo economico finalizzate all’ottenimento di prodotti e servizi e alla
loro offerta sul mercato. In quanto tale, il sistema impresa opera in stretto collegamento
con altri sistemi (il mercato e l’ambiente) con i quali deve interagire e dai quali dipen-
dono in parte i suoi comportamenti.
Cercando di tracciare i confini del nostro oggetto di interesse, adottiamo innanzitut-
to la prospettiva giuridica per cercare di comprendere come la Legge italiana definisca
un’impresa. Da questo punto di vista va sottolineato che il Codice Civile non ne offre
una definizione specifica: questa deve essere desunta a partire dall’art. 2082 c.c. secondo
cui “è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al
fine della produzione e dello scambio di beni e servizi”. Imprenditore è, dunque, colui
che intraprende un’attività economica e organizza risorse al fine di produrre o scambiare

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20 Parte 1  L’impresa, la sua definizione e la sua classificazione

beni e servizi; da ciò, si può facilmente desumere che l’impresa è quell’insieme di risorse
Azienda o impresa?
che, organizzate, consentono all’imprenditore di svolgere la propria attività economica.
I termini azienda e
impresa vengono spesso Spostando il focus della definizione dall’imprenditore all’impresa definiamo quest’ulti-
utilizzati come sinonimi; ma come un’organizzazione economica che, mediante l’impiego di un complesso differenziato
in realtà, l’azienda è lo di risorse, svolge processi di acquisizione e di produzione di beni o servizi, da scambiare con en-
strumento mediante il tità esterne al fine di conseguire un reddito. Il primo e fondamentale connotato dell’impresa
quale un imprenditore
può realizzare le finalità
è il contenuto economico della sua attività e dei suoi obiettivi. Infatti parliamo infatti di
di un’attività d’impresa organizzazione economica laddove questa, per sopravvivere, ha la necessità di produrre
intese come produzione un reddito (o meglio un risultato economico) positivo. Perché questo si verifichi è ne-
o scambio di beni e cessario che quanto ricavato dallo scambio dei beni o dei servizi con entità esterne sia
servizi. Dal punto di vista superiore della quota di risorse investite per la loro produzione. Al centro dell’attività
giuridico, infatti, l’a-
zienda è definita come economica dell’impresa c’è, dunque, il processo di trasformazione delle sue risorse in
il complesso di ri­sorse prodotti e servizi atti al soddisfacimento dei bisogni umani, al fine di un conseguimento
organizzate dall’impren- di reddito. A partire da questa definizione si possono desumere le componenti distintive
ditore per l’esercizio dell’azienda, o, se così possiamo dire, i quattro angoli che, uniti, delimitano l’area della
dell’attività economica.
L’impresa invece è l’at-
sua definizione:
tività economica stessa, • presenza di un’organizzazione;
organizzata per la • svolgimento di processi di produzione;
produzione e lo scambio • relazione di scambio con entità esterne;
di beni e servizi. • finalità di produrre reddito.

2.1.1 L’impresa in ottica sistemica


I tratti distintivi che abbiamo evidenziato ci consentono di parlare dell’impresa in termi-
ni di sistema, perché formata da elementi interdipendenti, ciascuno deputato a svolgere
una precisa funzione nell’ambito di un comune obiettivo finale. Un sistema è costituito
da un insieme di parti o organi, ciascuno dei quali è deputato a svolgere una determinata
funzione per il raggiungimento di un comune risultato. Le varie parti del sistema costitui-
scono un tutto organico: nel caso del sistema-impresa a una specializzazione delle funzioni
si accompagna una stretta coordinazione dell’attività nel suo complesso, secondo un disegno
unitariamente rivolto al fine economico da conseguire.
Venendo a una maggiore specificazione della definizione di impresa come sistema,
possiamo considerarla come un sistema:
• aperto;
• socio-tecnico;
• cognitivo.

Ciascuna di queste definizioni è in grado di raccogliere le caratteristiche chiave di un’im-


presa, a partire da prospettive differenti che, integrate, ci offrono una visione completa.

L’impresa come sistema aperto


L’impresa è un sistema aperto perché, per sopravvivere, deve intrattenere continue re-
lazioni di scambio con altre entità o sistemi esterni (Sciarelli, 2008). Più precisamente,
queste relazioni possono presentarsi sotto forma di:
• input: approvvigionamento di risorse necessarie per l’alimentazione del sistema;
• output: cessione a terzi del prodotto ottenuto con il funzionamento del sistema.

Le entità con cui l’impresa intrattiene queste relazioni, siano approvvigionamenti o vendi-
te, si collocano all’interno del suo ambito settoriale di riferimento, sulla cui definizione ci
soffermeremo meglio nei capitoli successivi. In questa sede, invece, ci interessa sottoline-
are che la natura dei clienti, concorrenti e fornitori di un’impresa (vale a dire quegli attori
con i quali l’impresa si relaziona costantemente) dipende proprio dal settore in cui questa
opera. Inoltre, l’azienda in quanto sistema, oltre a relazionarsi con altre entità, si relaziona
allo stesso modo con altri sistemi quali il mercato o il suo macroambiente (economico,
culturale, demografico-sociale e politico-regolamentare). Anche in questo caso, ci sembra
importante sottolineare che questi sistemi, più ampi, con le loro dinamiche, sono in grado
di influenzare anche in maniera significativa i comportamenti e i risultati dell’impresa.

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Capitolo 2  Concetto di impresa 21

L’impresa come sistema socio-tecnico


L’impresa è un sistema sociale all’interno del quale operano risorse umane e tecniche
(mezzi di produzione) scarse (caratterizzate, cioè, da una disponibilità limitata), organiz-
zate e finalizzate al profitto. Il concetto di sistema socio-tecnico evidenzia come nell’a-
zienda siano contemporaneamente presenti:
• un’organizzazione del lavoro relativa all’impiego del fattore umano (più rilevante);
• un’organizzazione tecnica costituita da impianti, attrezzature e tecnologie produttive
(accessoria).

L’impresa come sistema cognitivo


Secondo questa prospettiva, la vera ricchezza dell’impresa non sarebbe costituita dal suo
patrimonio materiale o tangibile (impianti, macchinari, attrezzature, fabbricati ecc.) ma
dalle sue risorse immateriali o intangibili, connesse con:
• l’immagine positiva nei confronti dell’ambiente;
• l’avviamento di mercato;
• la capacità di produrre innovazioni.

Partendo dall’idea che un’impresa deve essere un centro di innovazioni e che queste
ultime sono il prodotto dell’intelligenza e non quello delle macchine, si tende a defi-
nire l’impresa quale sistema di conoscenze atto a produrre nuova conoscenza (Rullani,
2004).
In questa chiave, la conoscenza presente in azienda deriva:
• direttamente da quelle conoscenze accumulate nelle routine organizzative mediante
processi autopropulsivi di adeguamento delle procedure interne ai segnali lanciati
dall’ambiente e trasmesse a coloro che fanno parte dell’organizzazione sulla base della
logica del learning by doing (sapere incorporato);
• indirettamente dalla professionalità di coloro che operano all’interno dell’organizza-
zione (sapere degli individui che per essa lavorano).

L’impresa, definita come sistema cognitivo, ci porta a spostare l’attenzione dalle risorse
materiali a quelle immateriali, come il know-how appunto, la capacità innovativa o la
reputazione, che sono andate acquisendo sempre maggiore importanza nella lettera-
tura e nelle pratiche di impresa negli ultimi anni; esse spiegano le potenzialità delle
imprese nei processi di creazione di valore e soprattutto in determinati business.
Pensiamo, per esempio, a quella che viene definita impresa virtuale: essa dispone al
suo interno solo di risorse immateriali (capacità imprenditoriali, linguaggi, capacità
di simulazione e di comunicazione) e scambia con l’esterno soltanto oggetti virtuali.
Essa può essere anche definita impresa cava o leggera (hollow company), ma non può
essere completamente vuota. È tuttavia importante non estremizzare questa visione
ricordando che, anche laddove prevalgano gli elementi immateriali, l’impresa rimane
un sistema complesso, all’interno del quale s’intrecciano elementi tangibili e intan-
gibili, immobilizzazioni materiali e immateriali, mezzi tecnici e intelligenze, risorse
finanziarie e umane, secondo un disegno finalizzato in ogni caso alla produzione e
diffusione di valore.
Possiamo ricondurre le diverse specificazioni dell’impresa in un unico sguardo, quello
dell’ottica sistemica secondo il quale:
• sotto il profilo strutturale, l’impresa è un sistema socio-tecnico di tipo aperto;
• sotto il profilo dinamico, l’impresa è un sistema di produzione e accumulazione di
conoscenze.

2.1.2 Funzioni istituzionali dell’impresa e teorie sulle finalità


imprenditoriali
Oltre all’ottica sistemica, è possibile procedere alla definizione dell’impresa a partire da
altre due prospettive: le funzioni istituzionali e le finalità che si propone l’imprenditore
(Sciarelli, 2008).

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5. Evolutionary Processes and Evolutionistic
Fancies
In their more elementary aspects the two strands of the organic
and the social, or the hereditary and environmental, as they are
generally called with reference to individuals, run through all human
life and are distinguishable as mechanisms, as well as in their
results. Thus a comparison of the acquisition of the power of flight
respectively by birds in their organic development out of the
ancestral reptile stem some millions of years ago, and by men as a
result of cultural progress in the field of invention during the past
generation, reveals at once the profound differences of process that
inhere in the ambiguous concept of “evolution.” The bird gave up a
pair of walking limbs to acquire wings. He added a new faculty by
transforming part of an old one. The sum total of his parts or organs
was not greater than before. The change was transmitted only to the
blood descendants of the altered individuals. The reptile line went on
as it had been before, or if it altered, did so for causes unconnected
with the evolution of the birds. The aeroplane, on the contrary, gave
men a new faculty without impairing any of those they had previously
possessed. It led to no visible bodily changes, nor alterations of
mental capacity. The invention has been transmitted to individuals
and groups not derived by descent from the inventors; in fact, has
already influenced their careers. Theoretically, it is transmissible to
ancestors if they happen to be still living. In sum, it represents an
accretion to the stock of existing culture rather than a transformation.
Once the broad implications of the distinction which this example
illustrates have been grasped, many common errors are guarded
against. The program of eugenics, for instance, loses much of its
force. There is certainly much to be said in favor of intelligence and
discrimination in mating, as in everything else. There is need for the
acquisition of exacter knowledge on human heredity. But, in the
main, the claims sometimes made that eugenics is necessary to
preserve civilization from dissolution, or to maintain the flourishing of
this or that nationality, rest on the fallacy of recognizing only organic
causes as operative, when social as well as organic ones are active
—when indeed the social factors may be much the more powerful
ones. So, in what are miscalled race problems, the average thought
of the day still reasons largely from social effects to organic causes
and perhaps vice versa. Anthropology is by no means yet in a
position to state just where the boundary between the contributing
organic and social causes of such phenomena lies. But it does hold
to their fundamental distinctness and to the importance of this
distinctness, if true understanding is the aim. Without sure grasp of
this principle, many of the arguments and conclusions in the present
volume will lose their significance.
Accordingly, the designation of anthropology as “the child of
Darwin” is most misleading. Darwin’s essential achievement was that
he imagined, and substantiated by much indirect evidence, a
mechanism through which organic evolution appeared to be taking
place. The whole history of man however being much more than an
organic matter, a pure Darwinian anthropology would be largely
misapplied biology. One might almost as justly speak of a
Copernican or Newtonian anthropology.
What has greatly influenced anthropology, mainly to its damage,
has been not Darwinism, but the vague idea of evolution, to the
organic aspect of which Darwin gave such substance that the whole
group of evolutionistic ideas has luxuriated rankly ever since. It
became common practice in social anthropology to “explain” any part
of human civilization by arranging its several forms in an evolutionary
sequence from lowest to highest and allowing each successive stage
to flow spontaneously from the preceding—in other words, without
specific cause. At bottom this logical procedure was astonishingly
naïve. We of our land and day stood at the summit of the ascent, in
these schemes. Whatever seemed most different from our customs
was therefore reckoned as earliest, and other phenomena disposed
wherever they would best contribute to the straight evenness of the
climb upward. The relative occurrence of phenomena in time and
space was disregarded in favor of their logical fitting into a plan. It
was argued that since we hold to definitely monogamous marriage,
the beginnings of human sexual union probably lay in indiscriminate
promiscuity. Since we accord precedence to descent from the father,
and generally know him, early society must have reckoned descent
from the mother and no one knew his father. We abhor incest;
therefore the most primitive men normally married their sisters.
These are fair samples of the conclusions or assumptions of the
classic evolutionistic school of anthropology, whose roster was
graced by some of the most illustrious names in the science.
Needless to say, these men tempered the basic crudity of their
opinions by wide knowledge, acuity or charm of presentation, and
frequent insight and sound sense in concrete particulars. In their day,
a generation or two ago, under the spell of the concept of evolution
in its first flush, such methods of reasoning were almost inevitable.
To-day they are long threadbare, descended to material for
newspaper science or idle speculation, and evidence of a tendency
toward the easy smugness of feeling oneself superior to all the past.
These ways of thought are mentioned here only as an example of
the beclouding that results from baldly transferring biologically
legitimate concepts into the realm of history, or viewing this as
unfolding according to a simple plan of progress.

6. Age of Anthropological Science


The foregoing exposition will make clear why anthropology is
generally regarded as one of the newer sciences—why its chairs are
few, its places in curricula of education scattered. As an organized
science, with a program and a method of its own, it is necessarily
recent because it could not arise until the biological and social
sciences had both attained enough organized development to come
into serious contact.
On the other hand, as an unmethodical body of knowledge, as an
interest, anthropology is plainly one of the oldest of the sisterhood of
sciences. How could it well be otherwise than that men were at least
as much interested in each other as in the stars and mountains and
plants and animals? Every savage is a bit of an ethnologist about
neighboring tribes and knows a legend of the origin of mankind.
Herodotus, the “father of history,” devoted half of his nine books to
pure ethnology, and Lucretius, a few centuries later, tried to solve by
philosophical deduction and poetical imagination many of the same
problems that modern anthropology is more cautiously attacking with
the methods of science. In neither chemistry nor geology nor biology
was so serious an interest developed as in anthropology, until nearly
two thousand years after these ancients.
In the pages that follow, the central anthropological problems that
concern the relations of the organic and cultural factors in man will
be defined and solutions offered to the degree that they seem to
have been validly determined. On each side of this goal, however,
stretches an array of more or less authenticated formulations, of
which some of the more important will be reviewed. On the side of
the organic, consideration will tend largely to matters of fact; in the
sphere of culture, processes can here and there be illustrated; in
accord with the fact that anthropology rests upon biological and
underlies purely historical science.
CHAPTER II
FOSSIL MAN

7. The “Missing Link.”—8. Family tree of the Primates.—9. Geological and


glacial time.—10. Place of man’s origin and development.—11.
Pithecanthropus.—12. Heidelberg man.—13. The Piltdown form.—14.
Neandertal man.—15. Rhodesian man.—16. The Cro-Magnon race.—
17. The Brünn race.—18. The Grimaldi race: Neolithic races.—19. The
metric expression of human evolution.

7. The “Missing Link”


No modern zoölogist has the least doubt as to the general fact of
organic evolution. Consequently anthropologists take as their starting
point the belief in the derivation of man from some other animal form.
There is also no question as to where in a general way man’s
ancestry is to be sought. He is a mammal closely allied to the other
mammals, and therefore has sprung from some mammalian type. His
origin can be specified even more accurately. The mammals fall into a
number of fairly distinct groups, such as the Carnivores or flesh-eating
animals, the Ungulates or hoofed animals, the Rodents or gnawing
animals, the Cetaceans or whales, and several others. The highest of
these mammalian groups, as usually reckoned, is the Primate or “first”
order of the animal kingdom. This Primate group includes the various
monkeys and apes and man. The ancestors of the human race are
therefore to be sought somewhere in the order of Primates, past or
present.
The popular but inaccurate expression of this scientific conviction is
that “man is descended from the monkeys,” but that a link has been
lost in the chain of descent: the famous “missing link.” In a loose way
this statement reflects modern scientific opinion; but it certainly is
partly erroneous. Probably not a single authority maintains to-day that
man is descended from any species of monkey now living. What
students during the past sixty years have more and more come to be
convinced of, was already foreshadowed by Darwin: namely that man
and the apes are both descended from a common ancestor. This
common ancestor may be described as a primitive Primate, who
differed in a good many details both from the monkeys and from man,
and who has probably long since become extinct.

Fig. 1. Erroneous (left) and more valid (right) representation of the descent of man.

The situation may be clarified by two diagrams (Fig. 1). The first
diagram represents the inaccurate view which puts the monkey at the
bottom of the line of descent, man at the top, and the missing link in
the middle of the straight line. The illogicality of believing that our
origin occurred in this manner is apparent as soon as one reflects that
according to this scheme the monkey at the beginning and man at the
end of the line still survive, whereas the “missing link,” which is
supposed to have connected them, has become extinct.
Clearly the relation must be different. Whatever the missing link
may have been, the mere fact that he is not now alive on earth means
that we must construct our diagram so that it will indicate his past
existence as compared with the survival of man and the apes. This
means that the missing link must be put lower in the figure than man
and the apes, and our illustration therefore takes on the form shown in
the right half of figure 1, which may be described as Y-shaped. The
stem of the Y denotes the pre-ancestral forms leading back into other
mammalian groups and through them—if carried far enough down—to
the amphibians and invertebrates. The missing link comes at the fork
of the Y. He represents the last point at which man and the monkeys
were still one, and beyond which they separated and became
different. It is just because the missing link represented the last
common form that he was the link between man and the monkeys.
From him onwards, the monkeys followed their own course, as
indicated by the left-hand branch of the Y, and man went his separate
way along the right-hand branch.

8. Family Tree of the Primates


While this second diagram illustrates the most essential elements in
modern belief as to man’s origin, it does not of course pretend to give
the details. To make the diagram at all precise, the left fork of the Y,
which here stands for the monkeys as a group—in other words,
represents all the living Primates other than man—would have to be
denoted by a number of branching and subdividing lines. Each of the
main branches would represent one of the four or five subdivisions or
“families” of the Primates, such as the Anthropoid or manlike apes,
and the Cebidæ or South American monkeys. The finer branches
would stand for the several genera and species in each of these
families. For instance, the Anthropoid line would split into four,
standing respectively for the Gibbon, Orang-utan, Chimpanzee, and
Gorilla.
The fork of the Y representing man would not branch and rebranch
so intricately as the fork representing the monkeys. Many zoölogists
regard all the living varieties of man as constituting a single species,
while even those who are inclined to recognize several species limit
the number of these species to three or four. Then too the known
extinct varieties of man are comparatively few. There is some doubt
whether these human fossil types are to be reckoned as direct
ancestors of modern man, and therefore as mere points in the main
human line of our diagram; or whether they are to be considered as
having been ancient collateral relatives who split off from the main line
of human development. In the latter event, their designation in the
diagram would have to be by shorter lines branching out of the human
fork of the Y.

Fig. 2. The descent of man, elaborated over Figure 1. For further ramifications, see
Figures 3, 4, 9.

This subject quickly becomes a technical problem requiring rather


refined evidence to answer. In general, prevailing opinion looks upon
the later fossil ancestors of man as probably direct or true ancestors,
but tends to regard the earlier of these extinct forms as more likely to
have been collateral ones. This verdict applies with particular force to
the earliest of all, the very one which comes nearest to fulfilling the
popular idea of the missing link: the so-called Pithecanthropus
erectus. If the Pithecanthropus were truly the missing link, he would
have to be put at the exact crotch of the Y. Since he is recognized,
however, as a form more or less ancestral to man, and somewhat less
ancestral to the apes, he should probably be placed a short distance
up on the human stem of the Y, or close alongside it. On the other
hand, inasmuch as most palæontologists and comparative anatomists
believe that Pithecanthropus was not directly ancestral to us, in the
sense that no living men have Pithecanthropus blood flowing in their
veins, he would therefore be an ancient collateral relative of humanity
—a sort of great-great-granduncle—and would be best represented by
a short stub coming out of the human line a little above its beginning
(Fig. 2).
Even this figure is not complete, since it is possible that some of the
fossil types which succeeded Pithecanthropus in point of time, such
as the Heidelberg and Piltdown men, were also collateral rather than
direct ancestors. Some place even the later Neandertal man in the
collateral class. It is only when the last of the fossil types, the Cro-
Magnon race, is reached, that opinion becomes comparatively
unanimous that this is a form directly ancestral to us. For accuracy,
therefore, figure 2 might be revised by the addition of other short lines
to represent the several earlier fossil types: these would successively
spring from the main human line at higher and higher levels.
In order not to complicate unnecessarily the fundamental facts of
the case—especially since many data are still interpreted somewhat
variously—no attempt will be made here to construct such a complete
diagram as authoritative. Instead, there are added reproductions of
the family tree of man and the apes as the lineages have been worked
out independently by two authorities (Figs. 3, 4). It is clear that these
two family trees are in substantial accord as regards their main
conclusions, but that they show some variability in details. This
condition reflects the present state of knowledge. All experts are in
accord as to certain basic principles; but it is impossible to find two
authors who agree exactly in their understanding of the less important
data.

9. Geological and Glacial Time


A remark should be made here as to the age of these ancestral
forms. The record of life on earth, as known from the fossils in
stratified rocks, is divided into four great periods. The earliest, the
Primary or Palæozoic, comprises about two-thirds of the total lapse of
geologic time. During the Palæozoic all the principal divisions of
invertebrate animals came into existence, but of the vertebrates only
the fishes. In the Secondary or Mesozoic period, evolution progressed
to the point where reptiles were the highest and dominant type, and
the first feeble bird and mammal forms appeared. The Mesozoic
embraces most of the remaining third or so of the duration of life on
the earth, leaving only something like five million years for the last two
periods combined, as against thirty, fifty, ninety, or four hundred million
years that the Palæozoic and Mesozoic are variously estimated to
have lasted.
Fig. 3. The descent of man in detail, according to Gregory (somewhat
simplified). Extinct forms: 1, Parapithecus; 2, Propliopithecus; 3,
Palæosimia; 4, Sivapithecus; 5, Dryopithecus; 6, Palæopithecus; 7,
Pliopithecus; P, Pithecanthropus erectus; H, Homo
Heidelbergensis; N, Homo Neandertalensis.
Fig. 4. The descent of man in detail, according to Keith (somewhat
simplified). Extinct forms: 2, 5, 6, 7 as in Figure 3; Pith(ecanthropus),
Pilt(down), Neand(ertal). Living forms: Gb, Or, Ch, Go, the anthropoid
apes as in Figure 3.

These last five million years or so of the earth’s history are divided
unequally between the Tertiary or Age of Mammals, and the
Quaternary or Age of Man. About four million years are usually
assigned to the Tertiary with its subdivisions, the Eocene, Oligocene,
Miocene, and Pliocene. The Quaternary was formerly reckoned by
geologists to have lasted only about a hundred thousand years. Later
this estimate was raised to four or five hundred thousand, and at
present the prevailing opinion tends to put it at about a million years.
There are to be recognized, then, a four million year Age of Mammals
before man, or even any definitely pre-human form, had appeared;
and a final period of about a million years during which man gradually
assumed his present bodily and mental type. In this Quaternary period
fall all the forms which are treated in the following pages.
The Quaternary is usually subdivided into two periods, the
Pleistocene and the Recent. The Recent is very short, perhaps not
more than ten thousand years. It represents, geologically speaking,
the mere instant which has elapsed since the final disappearance of
the great glaciers. It is but little longer than historic time; and
throughout the Recent there are encountered only modern forms of
man. Back of it, the much longer Pleistocene is often described as the
Ice Age or Glacial Epoch; and both in Europe and North America
careful research has succeeded in demonstrating four successive
periods of increase of the ice. In Europe these are generally known as
the Günz, Mindel, Riss, and Würm glaciations. The probable
American equivalents are the Nebraskan, Kansan, Illinoian, and
Wisconsin periods of ice spread. Between each of these four came a
warmer period when the ice melted and its sheets receded. These are
the “interglacial periods” and are designated as the first, second, and
third. These glacial and interglacial periods are of importance because
they offer a natural chronology or time scale for the Pleistocene, and
usually provide the best means of dating the fossil human types that
have been or may hereafter be discovered (Fig. 5).

10. Place of Man’s Origin and Development


Before we proceed to the fossil finds themselves, we must note that
the greater part of the surface of the earth has been very imperfectly
explored. Africa, Asia, and Australia may quite conceivably contain
untold scientific treasures which have not yet been excavated. One
cannot assert that they are lying in the soil or rocks of these
continents; but one also cannot affirm that they are not there. North
and South America have been somewhat more carefully examined, at
least in certain of their areas, but with such regularly negative results
that the prevailing opinion now is that these two continents—possibly
through being shut off by oceans or ice masses from the eastern
hemisphere—were not inhabited by man during the Pleistocene. The
origin of the human species cannot then be sought in the western
hemisphere. This substantially leaves Europe as the one continent in
which excavations have been carried on with prospects of success;
and it is in the more thoroughly explored western half of Europe that
all but two of the unquestioned discoveries of ancient man have been
made. One of these exceptional finds is from Africa. The other
happens to be the one that dates earliest of all—the same
Pithecanthropus already mentioned as being the closest known
approach to the “missing link.” Pithecanthropus was found in Java.
Now it might conceivably prove true that man originated in Europe
and that this is the reason that the discoveries of his most ancient
remains have to date been so largely confined to that continent. On
the other hand, it does seem much more reasonable to believe that
this smallest of the continents, with its temperate or cold climate, and
its poverty of ancient and modern species of monkeys, is likely not to
have been the true home, or at any rate not the only home, of the
human family. The safest statement of the case would be that it is not
known in what part of the earth man originated; that next to nothing is
known of the history of his development on most of the continents;
and that that portion of his history which chiefly is known is the
fragment which happened to take place in Europe.
Fig. 5. Antiquity of man. This diagram is drawn to scale, proportionate to the
number of years estimated to have elapsed, as far down as 100,000.
Beyond, the scale is one-half, to bring the diagram within the limits of the
page.

11. Pithecanthropus
Pithecanthropus erectus, the “erect ape-man,” was determined from
the top part of a skull, a thigh bone, and two molar teeth found in 1891
under fifty feet of strata by Dubois, a Dutch surgeon, near Trinil, in the
East Indian island of Java. The skull and the thigh lay some distance
apart but at the same level and probably are from the same individual.
The period of the stratum is generally considered early Pleistocene,
possibly approximately contemporary with the first or Günz glaciation
of Europe—nearly a million years ago, by the time scale here
followed. Java was then a part of the mainland of Asia.
The skull is low, with narrow receding forehead and heavy ridges of
bone above the eye sockets—“supraorbital ridges.” The capacity is
estimated at 850 or 900 cubic centimeters—half as much again as
that of a large gorilla, but nearly one-half less than the average for
modern man. The skull is dolichocephalic—long for its breadth—like
the skulls of all early fossil men; whereas the anthropoid apes are
more broad-headed. The jaws are believed to have projected almost
like a snout; but as they remain undiscovered, this part of the
reconstruction is conjectural. The thigh bone is remarkably straight,
indicating habitual upright posture; its length suggests that the total
body stature was about 5 feet 7 inches, or as much as the height of
most Europeans.
Pithecanthropus was a terrestrial and not an arboreal form. He
seems to have been slightly more similar to modern man than to any
ape, and is the most primitive manlike type yet discovered. But he is
very different from both man and the apes, as his name indicates:
Pithecanthropus is a distinct genus, not included in Homo, or man.

12. Heidelberg Man


Knowledge of Heidelberg man rests on a single piece of bone—a
lower jaw found in 1907 by Schoetensack at a depth of nearly eighty
feet in the Mauer sands not far from Heidelberg, Germany. Like the
Pithecanthropus remains, the Heidelberg specimen lay in association
with fossils of extinct mammals, a fact which makes possible its
dating. It probably belongs to the second interglacial period, so that its
antiquity is only about half as great as that of Pithecanthropus (Fig. 5).
The jaw is larger and heavier than any modern human jaw. The
ramus, or upright part toward the socket, is enormously broad, as in
the anthropoid apes. The chin is completely lacking; but this area
does not recede so much as in the apes. Heidelberg man’s mouth
region must have projected considerably more than that of modern
man, but much less than that of a gorilla or a chimpanzee. The
contour of the jaw as seen from above is human (oval), not simian
(narrow and oblong).
The teeth, although large, are essentially human. They are set close
together, with their tops flush, as in man; the canines lack the tusk-like
character which they retain in the apes.
Since the skull and the limb bones of this form are wholly unknown,
it is somewhat difficult to picture the type as it appeared in life. But the
jaw being as manlike as it is apelike, and the teeth distinctly human,
the Heidelberg type is to be regarded as very much nearer to modern
man than to the ape, or as farther along the line of evolutionary
development than Pithecanthropus; as might be expected from its
greater recency. This relationship is expressed by the name, Homo
Heidelbergensis, which recognizes the type as belonging to the genus
man.

13. The Piltdown Form


This form is reconstructed from several fragments of a female brain
case, some small portions of the face, nearly half the lower jaw, and a
number of teeth, found in 1911-13 by Dawson and Woodward in a
gravel layer at Piltdown in Sussex, England. Great importance has
been ascribed to this skull, but too many of its features remain
uncertain to render it safe to build large conclusions upon the
discovery. The age cannot be fixed with positiveness; the deposit is
only a few feet below the surface, and in the open; the associated
fossils have been washed or rolled into the layer; some of them are
certainly much older than the skull, belonging to animals characteristic
of the Pliocene, that is, the Tertiary. If the age of the skull was the third
interglacial period, as on the whole seems most likely, its antiquity
might be less than a fourth that of Pithecanthropus and half that of
Heidelberg man.
The skull capacity has been variously estimated at 1,170, nearly
1,300, and nearly 1,500 c.c.; the pieces do not join, so that no certain
proof can be given for any figure. Except for unusual thickness of the
bone, the skull is not particularly primitive. The jaw and the teeth, on
the other hand, are scarcely distinguishable from those of a
chimpanzee. They are certainly far less human than the Heidelberg
jaw and teeth, which are presumably earlier. This human skull and
simian jaw are an almost incompatible combination. More than one
expert has got over the difficulty by assuming that the skull of a
contemporary human being and the jaw of a chimpanzee happened to
be deposited in the same gravel.
In view of these doubts and discrepancies, the claim that the
Piltdown form belongs to a genus Eoanthropus distinct from that of
man is to be viewed with reserve. This interpretation would make the
Piltdown type more primitive than the probably antecedent Heidelberg
man. Some authorities do regard it as both more primitive and earlier.

14. Neandertal Man


The preceding forms are each known only from partial fragments of
the bones of a single individual. The Neandertal race is substantiated
by some dozens of different finds, including half a dozen nearly
complete skulls, and several skeletons of which the greater portions
have been preserved. These fossils come from Spain, France,
Belgium, Germany, and what was Austro-Hungary, or, roughly, from
the whole western half of Europe. They are all of similar type and from
the Mousterian period of the Palæolithic or Old Stone Age (§ 70-72,
Fig. 17); whereas Pithecanthropus, Heidelberg, and perhaps Piltdown
are earlier than the Stone Age. The Mousterian period may be dated
as coincident with the peak of the last or Würm glaciation, that is,
about 50,000 to 25,000 years ago. Its race—the Neandertal type—
was clearly though primitively human; which fact is reflected in the
various systematic names that have been given it: Homo
Neandertalensis, Homo Mousteriensis, or Homo primigenius.
The Most Important Neandertal Discoveries

1856 Neandertal Near Skull cap and


Düsseldorf, parts of
Germany skeleton
1848 Gibraltar Spain Greater part of
skull
1887 Spy I Belgium Skull and parts
of skeleton
1887 Spy II Belgium Skull and parts
of skeleton
1889- Krapina Moravia Parts of ten or
1905 more
skulls and
skeletons
1908 La-Chapelle-aux-Saints Corrèze, Skeleton
France including
skull
1908 Le Moustier Dordogne, Skeleton,
France including
skull, of
youth
1909 La Ferrassie I Dordogne, Partial skeleton
France
1910 La Ferrassie II Dordogne, Skeleton
France
1911 La Quina Charente, Skull and parts
France of skeleton
1911 Jersey Island in Teeth
English
Channel

Neandertal man was short: around 5 feet 3 inches for men, 4 feet
10 inches for women, or about the same as the modern Japanese. A
definite curvature of his thigh bone indicates a knee habitually
somewhat bent, and probably a slightly stooping or slouching attitude.
All his bones are thickset: his musculature must have been powerful.
The chest was large, the neck bull-like, the head hung forward upon it.
This head was massive: its capacity averaged around 1,550 c.c., or
equal to that of European whites and greater than the mean of all
living races of mankind (Fig. 6). The head was rather low and the
forehead sloped back. The supraorbital ridges were heavy: the eyes
peered out from under beetling brows. The jaws were prognathous,
though not more than in many Australians and Negroes; the chin
receded but existed.
Some Neandertal Measurements

Skull
Fossil Stature
Capacity
Neandertal 1400 c.c. 5 ft. 4 (or 1)
in.
Spy I 1550 c.c. 5 ft. 4 in.
Spy II 1700 c.c.
La Chapelle-aux-Saints 1600 c.c. 5 ft. 3 (or 2)
in.
La Ferrassie I 5 ft. 5 in.
Average of male Neandertals 1550 c.c. 5 ft. 4 (or 3)
in.
Average of modern European males 1550 c.c. 5 ft. 5 to 8 in.
Average—modern mankind 1450 c.c. 5 ft. 5 in.
Gibraltar 1300 c.c.
La Quina 1350 c.c.
La Ferrassie II 4 ft. 10 in.
Average of modern European 1400 c.c. 5 ft. 1 to 3 in.
females

The artifacts found in Mousterian deposits show that Neandertal


man chipped flint tools in several ways, knew fire, and buried his
dead. It may be assumed as almost certain that he spoke some sort of
language.

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