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Gradi di esistenza
IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto
dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

5 novembre, 2018 - 09:35

di Antonello Sciacchitano

Tre è un numero intero. È anche concreto; si tocca con mano; posso


cogliere tre mele o collezionare tre matite. Poiché tre mele esistono non
solo qui e non solo ora, fanno sì che il numero tre esista là dove serve; le

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tre matite lo confermano; tecnicamente, tre mele o tre matite sono due
modelli del numero tre. Ovviamente non sono i soli; per esempio, l’Edipo
è il modello psicanalitico del numero tre. In questo post affronto il
problema di una certa rilevanza psicanalitica (di impronta deleuziana) se
l’Edipo abbia lo stesso grado di esistenza dei suoi particolari attori:
padre, madre e figlio.

Il merito di Frege e di Russell fu di aver afferrato la natura estensionale e


non empirica del numero intero – Kant l’avrebbe detta “sintetica a priori”.
[1] Per i due fondatori del logicismo matematico il numero tre è l’insieme
di tutte le triplette. Siamo a casa: i nomi dei numeri – i numerali – sono
nomi collettivi, come gregge, esercito, chiesa. Parlarne in questa rubrica
ha senso.

La definizione logicista del numero tre si fonda sulla corrispondenza


biunivoca tra due insiemi; essa stabilisce che a ogni elemento del primo
insieme corrisponda un solo elemento del secondo e ogni elemento del
secondo sia il corrispondente di un solo elemento del primo. Così ogni
tripletta è in corrispondenza biunivoca con la tripletta standard, per
esempio {0,1,2}, e quindi con tutte le triplette. La biunivocità è una
relazione tra insiemi riflessiva, simmetrica e transitiva, quindi è una
relazione di equivalenza; come tale ripartisce tutti gli insiemi finiti in classi
di equivalenza: l’uno è la classe dei singoletti, il due delle coppie, il tre
delle triplette, ecc.

Tali classi sono generiche, cioè prescindono dalla natura e


dall’ordinamento degli elementi degli insiemi; esistono forse un po’ meno
di una matita, di due matite, di tre matite, che sono oggetti individuali;
tuttavia esistono “abbastanza”. Infatti per ognuna di esse si può esibire
un esemplare che la rappresenti. Insomma, esistono perché possono
essere rappresentate da un rappresentante che rappresenta il numero
comune a tutte le n-ple. Il rappresentante esiste come chi è stato eletto
in parlamento per rappresentare un collettivo. Ricordo che per il logico-

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matematico Kurt Gödel l’esistenza della realtà esterna – il mondo delle


mele e delle matite – pone un problema filosofico equivalente a quello
dell’esistenza degli enti matematici; [2] gli insiemi di mele e matite
esistono come le mele e le matite, anche se non sono né mele né matite.
Gli insiemi esistono come astrazioni (dove?). Le astrazioni esistono in
modo diverso dalle cose concrete, che sono loro “istanziazioni” (mi si
passi il brutto termine gergale).

La concezione logicista del numero intero ha il pregio di essere astratta e


qualitativa. Prescinde dalla concreta operazione psicologica del contare o
del misurare. In base alla corrispondenza biunivoca si può sapere che tre
cavoli possono essere mangiati da tre capre, anche senza sapere contare
fino a tre. Basta assegnare a ogni capra un cavolo e a ogni cavolo una
capra e si salvano capra e cavoli. Diciamo che Frege e Russell ebbero una
concezione semantica del numero intero, indipendente dall’operazione
sintattica del contare; ignorarono l’operatore “più uno” (o “successore”)
che aggiunge un’unità al numero generato in precedenza a partire dallo
zero, che non è successore di alcun altro numero intero.[3]La semantica
prescinde dalla sintassi e ha portata più ampia.

La distinzione tra sintassi e semantica ricalca la cartesiana tra res


cogitanse res extensa e si sovrappone in parte alla freudiana tra realtà
psichica (Realität) ed effettuale (Wirklichkeit) o alla lacaniana tra
significante e significato o tra simbolico e immaginario. Il tre sintattico
esiste nella res cogitans come prodotto della singola operazione di
conteggio. Il tre semantico esiste nella res extensa, indipendentemente
dal pensiero, a prescindere da “tutti” i possibili conteggi.

Si individuano così due livelli di esistenza: sintattica e semantica,


singolare e universale, la prima più concreta, la seconda più astratta,
localizzati in due luoghi soggettivi diversi: il pensiero individuale e
l’estensione collettiva. Un’inutile e sterile polemica tra i sostenitori delle
due concezioni di numero intero divampò tra Frege e Husserl, oggi

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dimenticata. [4] La questione fu sistemata dal teorema di incompletezza


di Gödel: la sintassi, se è coerente, non ricopre tutta la semantica; la res
cogitans è meno estesa dell’extensa, che ha il nome giusto. La coperta
sintattica è corta.

L’universale non è tutto. Si può andare avanti alla Cantor. Cosa lo spinse
ad andare avanti?

Lo dico volutamente in modo approssimativo, per facilitare l’accesso a un


concetto che potrebbe non essere familiare: la scienza antica era esatta,
la moderna è approssimata (non approssimativa). Gli antichi dicevano
“razionali” (logoi) o esatti i rapporti tra due grandezze esprimibili con
coppie di numeri interi. Per loro i rapporti come tra lato e diagonale del
quadrato o tra diametro e circonferenza del cerchio non erano esatti, non
essendo razionali. Euclide sapeva bene che non tutti i rapporti tra
grandezze sono esatti. Aveva escogitato l’algoritmo delle divisioni
successive per stanare i rapporti razionali. Tutto il mastodontico libro X
dei suoi Elementi è dedicato a individuare i rapporti “irrazionali” tra
grandezze (ben tredici forme). Ma Euclide non approssimò il valore di
radice di due o di pi greco, avendo l’esattezza come ideale scientifico,
niente di meno. L’unico che provò ad approssimare pi greco, verificando
che sta tra

3 + 10/71 e 3 + 1/7,

fu Archimede, genio anomalo dell’antichità, più vicino a noi moderni che


ai contemporanei.

Perché gli antichi si fissarono all’esattezza del rapporto razionale e si


astennero dall’approssimare i rapporti irrazionali? Strano a dirsi, la
ragione c’è ed è che l’approssimazione richiede qualcosa che non si può
approssimare: l’infinito. [5] Ma l’infinito era censurato dal pensiero
classico, perché non intero e incompleto; mancando sempre di qualcosa,
per Aristotele era impensabile dal concetto; l’infinito restava potenziale,

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mai attuale; in breve, non esisteva.

Ecco il punto sfuggito agli antichi, che non sapevano pensare in termini
topologici, cioè di prossimità: aumentando a piacere il numero dei
poligoni inscritti e circoscritti al cerchio, posso avvicinarmi quanto voglio
al valore reale di pi greco, come Achille alla tartaruga nel noto pseudo-
paradosso di Zenone. Certo, con un numero finito di cifre non determino
esattamente il suo valore. Ce ne vorrebbero infinite, ma sarebbe
impossibile scriverle tutte. In topologia si dice che pi greco aderisce alla
successione infinita delle sue approssimazioni, nel senso che ogni
intorno di pi greco, per quanto piccolo, contiene un valore che
approssima il limite. Analogamente Cantor lavorava all’approssimazione
di certe funzioni in serie infinite di Fourier. Quel lavoro topologico gli aprì
la mente alla teoria degli insiemi infiniti e dei numeri transfiniti.

Per chi non sappia staccarsi dallo schematismo classico, ultimamente


idealistico anche in Aristotele, il problema è cogliere l’esistenza, che per
gli antichi dipendeva sempre dall’essenza, cioè dall’idea: niente essenza,
niente esistenza. Gli antichi erano imbarazzati dal grado di esistenza e
non avevano tutti i torti: il numero tre esiste “molto”: le tre mele o le tre
matite si possono toccare con mano; ma tutti i numeri interi esistono
“poco”: non si possono tenere in mano, essendo infiniti. Non
sono vorhanden, direbbe Heidegger; non sono “presenti” o “alla mano”.
Eppure l’infinito richiede “mano d’opera”.
Il moderno soggetto della scienza, invece, ammette che l’insieme dei
numeri interi esista “realmente”, forse con un grado di esistenza inferiore
alle tre mele. L’infinito numerabile dei numeri interi esiste perché
consente di approssimare grandezze reali come radice di due o pi greco,
che a loro volta esistono “quasi” come le mele e le matite: un quadrato o
un cerchio si possono disegnare; anche mal fatti, quei disegni sono
modelli realistici di radice di due o pi greco.

Dove stanno di casa tutti i numeri interi? Certamente non nella realtà

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oggettiva, perché in tutto l’universo non esistono infinito-ple. Secondo


Kronecker, Dio creò i numeri interi, ma dove li situò? Kronecker non se lo
chiese. Secondo me, li distribuì tra le due res: quelli in versione sintattica
nella cogitans, quelli in versione semantica nell’extensa. Da allora i numeri
costituiscono il nocciolo del pensiero dell’uomo, la fonte di tutte le
cogitazioni individuali e collettive, intellettuali o affettive, basate su
simmetrie, per esempio le biunivocità. Perciò è opportuno che lo
psicanalista si familiarizzi con la teoria dei numeri, consigliava Lacan nel
seminario …ou pire.

E l’uomo, nel caso Cantor, trovò l’algoritmo per creare innumerevoli infiniti
non numerabili ancora più grandi dell’infinito dei numeri interi. Cantor
passava da un insieme infinito all’insieme dei suoi sottoinsiemi e
dimostrava che il secondo aveva più elementi del primo, cioè, se così si
può dire, era più infinito del primo. Esistono questi infiniti non numerabili?
Sì, finché si crede che gli algoritmi non facciano errori. Ma Kronecker, suo
maestro, non ci credeva e fece impazzire il povero Cantor. E dove
abiterebbero? Pensati nella res cogitans, sono proiettati nell’extensa.
Noto en passant che il procedimento di Cantor è sintattico; va sotto il
nome di esponenziazione a base 2; si calcola una potenza di 2 con
esponente l’insieme di cui si vogliono determinare i sottoinsiemi. [6]

La difficoltà a riconoscere l’esistenza degli iperinfiniti sta nel loro grado


decrescente di esistenza; gli infiniti generati in modo esponenziale
esistono sempre meno man mano che crescono in estensione. Al di là
dell’infinito numerabile dei numeri interi (e degli infiniti equivalenti come
l’infinito dei numeri razionali), la matematica moderna si limita in pratica
all’infinito continuo della retta reale e all’infinito delle applicazioni del
continuo sul continuo. Il resto è difficilmente concettualizzabile. I gradi di
esistenza degli infiniti superiori ad aleph con due sono sfuggenti anche
per il non intuizionista. Per esempio, l’insieme continuo della retta reale è
isomorfo all’insieme delle parti di un insieme numerabile di numeri interi
(ogni numero reale può essere scritto con un numero infinito di cifre); il

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numero delle possibili topologie è ancora più grande: è isomorfo


all’insieme delle parti dell’insieme delle parti di un insieme numerabile o
continuo. Difficile spingersi oltre.

Perché ho intavolato un discorso tanto astratto e astruso per lo


psicanalista?

Arrivato a questo punto esito a dirlo, perché so di risvegliare idiosincrasie


esistenziali nell’uomo di lettere che si dedica alle scienze umane. Nel
presupposto intollerabile alla stragrande maggioranza degli psicanalisti
che la psicanalisi possa diventare una scienza “nuova” (non una
neuroscienza, non una psicosociologia, non una psicolinguistica, non una
qualunque altra scienza), ritengo che l’oggetto della psicanalisi sia
l’infinito. Sì, ho detto bene: l’oggetto della psicanalisi è l’infinito come in
matematica. A pensarci a mente fredda, la mia non è del tutto una
sciocchezza o un delirio: la psicanalisi tenta di approssimarsi
infinitamente all’oggetto del desiderio, come la matematica a pi greco,
anche se non applica un algoritmo vero e proprio. Le resistenze che
questo discorso incontra sono dovute alla classica fobia dell’infinito.

Sia chiaro, il mio intento non è matematizzare la psicanalisi ma porre le


basi per renderla rigorosa a partire dall’assioma freudiano che l’inconscio
è un sapere che non si sa di sapere (un-bewusst, “non saputo” prima che
“inconscio”, cioè assente di coscienza). È proprio questo l’assioma che
avvicina la psicanalisi alla matematica. Anche dell’infinito la matematica
ha un sapere incompleto. Si dice che l’infinito è una struttura non
categorica. Significa che dell’infinito si possono dare modelli non
isomorfi; manca infatti il modello unico e categorico che dica come
all’infinito vanno le cose. Se l’infinito è un oggetto, ha una caratteristica in
comune con l’oggetto del desiderio: non è del tutto assente ma neppure
del tutto presente; manca di un certo grado di esistenza. Brouwer diceva
che è “sfuggente”.

Il discorso dell’eterogeneità degli infiniti non dovrebbe suonare estraneo


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all’analista: l’oggetto scopico, lo sguardo, localizzato nello spazio


tridimensionale, non equivale all’oggetto fonico, appartenente allo spazio
monodimensionale delle frequenze acustiche. Più simili, anche se
topologicamente non equivalenti, sono il seno e le feci, il primo in entrata,
le seconde in uscita rispetto al corpo del soggetto. [7] In comune gli
oggetti del desiderio hanno di entrare in contatto con il corpo in
corrispondenza di frontiere dell’Io-corpo secondo Federn. Se l’oggetto è
un altro Io-corpo, dal contatto tra due frontiere scaturisce la scintilla
dell’affetto. Ma dal punto di vista concettuale l’oggetto del desiderio
sfugge alla presa: è da ritrovare per Freud; è originariamente perduto per
Lacan; è transizionale per Winnicott; tanto vale dirlo infinito, tanto o poco
esistente.

Come per l’infinito anche per gli oggetti del desiderio si danno diversi
gradi di esistenza, che nel caso non sono graduati perché stanno a livelli
qualitativamente diversi non quantitativi. L’esistenza dello sguardo nel
voyeurismo o nell’esibizionismo, dove il soggetto che vede non si vede, è
topologicamente diversa dall’esistenza della voce, che è un oggetto più
arcaico dello sguardo, essendo già sperimentata dal feto, che ascolta le
parole della madre senza poter rispondere.

Il riferimento topologico soggetto/oggetto è un tema affascinante: la


frontiera dell’Io-corpo di Federn o il fantasma dell’oggetto in esclusione
interna al soggetto, secondo Lacan, sono alcuni approcci interessanti ma
non gli unici. Oggi mi dedico alla topologia degli insiemi magri, che sono
unioni numerabili di insiemi rari, la cui chiusura è vuota dentro. Ne ho
accennato nel post “Vedere gli alberi, non vedere il bosco”
(http://www.psychiatryonline.it/node/7678).

Il punto da non lasciarsi sfuggire è la dimensione collettiva, addirittura


pubblica, dell’oggetto del desiderio, colta più facilmente dall’artista che
dallo psicanalista: dal pittore nell’affresco, dal musicista nel concerto, dal
romanziere nel romanzo. In ciò l’adozione dell’infinito, che non è uno e

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non ben individuato, è una premessa indispensabile per non ridurre la


psicologia collettiva alla psicologia di massa, dove i soggetti si riducono a
individui isolati, accomunati secondo Freud dall’identificazione allo stesso
e unico oggetto d’amore: il Führer. [8]

Siamo di fronte a una scelta morale: o optiamo per l’Uno, che esiste
molto ed esisterà sempre, o per l’infinito, che esiste poco e non è
garantito per sempre. Nel primo caso esiste solo l’Io, nel secondo esiste
la possibilità del noi, quindi della moralità. Nel primo caso la psicanalisi è
impossibile, nel secondo forse possibile.

Svelo da ultimo un piccolo trucco a metà tra il matematico e lo


psicanalitico, buono per non cadere nell’idealismo (conformismo) delle
essenze (servile al potere). Ti dico: pensa all’esistenza; vedrai che non ti
capiterà di pensare all’essenza, come verità dell’essere (Hegel)
dell’esserci (Heidegger). Il trucco funziona. In matematica non esistono
teoremi sulle essenze; esistono teoremi su esistenza e unicità di certi enti
matematici, per esempio, la soluzione di un sistema di equazioni.
Pur essendo andato a scuola dal grande matematico di Berlino,
Weierstrass, Husserl non imparò il trucco e finì per filosofare in modo
solipsistico sull’essenza dei fenomeni; infatti, nella sua fenomenologia
l’unico ente esistente è il suo Io, naturalmente trascendentale, a suo
stesso dire. Valga il trucco come escamotageper evitare argomenti onto-
teologici (vitalistici) del tipo l’essenza implica l’esistenza. [9] Sappiamo
quanto siadifficile liberarsi dalla teologia che associa in modo l’essenza
(ciò che è stato) all’esistenza (ciò che è). Neppure Sartre uscì da questo
storicismo. Nel primo capitolo di L’essere e il nulla scrive: “Così l’essere
fenomenico […] manifesta tanto la sua essenza che la sua esistenza, e
non è altro che la serie ben collegata delle sue manifestazioni”
[dell’essenza e dell’esistenza]. [10]

Supporre dei gradi esistenza è uno spunto contro-ontologico buono per


trattare l’infinito. Il punto di partenza può essere rinforzato assegnando

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più peso alla sincronia e meno alla diacronia. Bisogna, infatti, stare attenti
che le narrazioni edipiche non introducano surrettiziamente in psicanalisi
la dimensione idealistica (gradita al potere), riportando ciò che è,
l’esistenza, a ciò che è stato, l’essenza. L’analisi freudiana del transfert
rischia l’idealismo, dato l’impianto narrativo della metapsicologia
freudiana, dove ogni pulsione mira a ripristinare lo stato precedente
(presupposto medicale). Freud, più letterato e medico che uomo di
scienza, risale dal presente al passato, per spiegare l’effetto presente con
una o più cause del passato. Pigiando sull’acceleratore eziologico rischia
di incappare nell’idealismo e nell’inefficienza. Infatti il risultato del suo
cripto-idealismo fu la ben nota analisi interminabile. L’analisi non
idealistica termina invece mettendo il soggetto in grado di fare la scienza
di sé stesso da sé stesso, se lo vuole. Senza fare troppe storie.

[1] Da medico di impianto ippocratico, Freud non ebbe familiarità con


l’esistenza estensionale non empirica. Ciò va detto per correggere la
diceria su Freud positivista.

[2] “Classi e concetti possono anche essere concepiti come oggetti reali
e precisamente le classi come “pluralità di cose” […] e i concetti come le
proprietà e le relazioni fra cose esistenti indipendentemente dalle nostre
definizioni e costruzioni”. K. Gödel, “La logica matematica di Russell”
(1944), in Kurt Gödel Opere, vol. 2, trad. C. Mangione, Bollati Boringhieri,
Torino 2002, p. 133.

[3] L’operatore “più uno” genera l’infinito numerabile, non gli infiniti di
ordine superiore.

[4] Nel 1891 Edmund Husserl pubblicò la Filosofia dell’aritmetica (trad. G.


Leghissa, Bompiani, Milano 2001), che fu criticata da Frege per il suo
psicologismo. “Leggendo quest’opera ho potuto misurare quanto estesa
sia la desolazione provocata dall’intrusione della psicologia nella logica e
ho ritenuto mio compito metterne bene in luce il danno” (G. Frege,

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“Recensione alla ‘Filosofia dell’aritmetica’” (1894), in Id., Logica e


aritmetica, a c. C. Mangione, Boringhieri, Torino, 1965, p. 437).

[5] L’infinito è come lo zero. Non ha predecessore immediato.

[6] Perché a base 2? Perché si tratta di associare a ogni elemento


dell’insieme o 1 o 0. L’insieme degli elementi cui è associato l’1 è un
sottoinsieme, l’insieme degli elementi a cui è associato lo 0 è il
sottoinsieme complementare.

[7] In realtà sia il seno sia le feci rimangono all’esterno del corpo. La
differenza tra dentro e fuori non ha valore topologico.

[8] Le attuali vicende sul Web, paradigmatiche dopo l’introduzione degli


smartphone nel 2008, dimostrano che ci può essere una massificazione
strepitosa. Si parla di information society. In realtà di vera informazione
ne circola poca e non buona. “Chiacchiera”, alles Geschwätz, direbbe
Heidegger. L’estrema interconnessione si rivela una totale
disconnessione.

[9] Cfr. Spinoza, Etica, Parte Prima, Definizione di causa sui.

[10] J.-P. Sartre, L’essere e il nulla (1943), trad. G. Del Bo, Il Saggiatore,
Milano 1964, p. 10.

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