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Pubblicato in: A. Ales Bello - F. Alfieri - M. Shahid (eds.

), Edith
Stein - Hedwig Conrad-Martius - Gerda Walther. Fenomenologia
della Persona, della Vita e della Comunità, Edizioni Giuseppe
Laterza, Bari 2011 (In stampa).

ONTOLOGIA FORMALE:
TOMMASO D’AQUINO
ED EDITH STEIN
Gianfranco Basti
Pontificia Università Lateranense
________

1 Premessa

Questo lungo saggio è volto a dimostrare la fecondità dell‘approccio dell‘ontologia


formale e, soprattutto, della sua evoluzione nell‘ontologia formalizzata, per uno studio com-
parato, in ottica post-moderna, delle varie ontologie e metafisiche, antiche e moderne. La di-
mostrazione si articola in quattro sezioni fondamentali:
1. La prima sezione è quella che stiamo qui svolgendo con funzione di introduzione e
sommario ragionato al resto di questo saggio.
2. Nella seconda sezione verranno presentati, nell‘ottica di una post-modernità costrutti-
va, in quanto opposta ad una nihilista di ispirazione nietzschiana, alcuni punti fonda-
mentali dell‘ontologia formale della Stein, così come viene espressa nel suo testo Po-
tenza e Atto. Studi per una filosofia dell’essere. L‘originalità di questa presentazione è
legata al fatto che le nozioni fondamentali dell‘ontologia formale della Stein vengono
presentate come itinerario che la conduce da quello che, seguendo Cornelio Fabro, de-
finiamo come il trascendentale moderno, quello dell‘Io penso — nella sua versione
fenomenologia dell‘Io penso qualcosa —, verso quello che definiamo il trascendenta-
le classico, quello dell‘essere. In particolare come Tommaso d‘Aquino lo espresse
nella sua famosa tavola dei trascendentali, illustrata subito all‘inizio delle Quaestiones
Disputatae De Veritate. Un trattato, ricordiamolo, oggetto del lungo studio e della
traduzione della Stein medesima e che immediatamente precede il testo Potenza e At-
to oggetto delle nostre riflessioni. Siccome la Tavola dei Trascendentali dell‘essere
viene illustrata da Tommaso proprio per rispondere, negativamente, alla domanda se
il ―vero‖ e lo ―essere‖ si identifichino, allo stesso tempo evidenziando l‘equivalenza
di queste due nozioni, interpreteremo siffatta negazione di identità fra nozioni comun-
que equivalenti come una delle più lucide anticipazioni di quella che oggi definiamo
la distinzione: 1) fra logiche intensionali e logiche estensionali, da una parte, e 2) fra
logica formale e ontologia formale, dall‘altra. Infatti, le logiche estensionali — le lo-
giche delle scienze matematiche pure ed applicate — si distinguono da quelle inten-
sionali — le logiche delle discipline umanistiche — proprio perché queste ultime non
accettano la riduzione dell‘identità a equivalenza e dove dunque si distinguono diversi
sensi dell‘essere. D‘altra parte, negando l‘identificazione fra essere e verità, Tommaso
evidenzia il cuore di quella che oggi, come post-moderni, definiamo, appunto, la dif-
ferenza fra ontologia e logica formale, che nella scolastica rimanda alla distinzione
della logica, rispettivamente de re e de dicto. Tale ipotesi interpretativa sarà confer-
mata dall‘itinerario ricostruibile all‘interno della complessa produzione tommasiana,
che proprio nel De Veritate, ma in continuità col cuore del resto della sua produzione,

1
conduce Tommaso dal trascendentale classico dello essere verso quello moderno
dell‘autocoscienza, laddove Tommaso identifica nella trasparenza dell’intelletto a se
stesso il cuore della conoscibilità della verità come adeguazione dell‘intelletto
all‘entità dello ente. I due itinerari complementari della Stein e di Tommaso, dal tra-
scendentale moderno al classico e viceversa, ci faranno così vedere la possibilità di
una sorta di sintesi post-moderna della contrapposizione antitetica fra classico e mo-
derno. Una sintesi che ha proprio nella formalizzazione e nel confronto rigoroso e de-
ideologizzato fra le diverse metafisiche, antiche e moderne, il segreto per superare
scolasticismi e contrapposizioni pre-concette — i ridicoli miti moderni del progresso
o le penose nostalgie dei tradizionalismi —, senza però cadere in giustapposizioni,
confusioni e relativismi ancora più deleteri. Frutto di questa analisi incrociata fra la
Stein e Tommaso, tutta concentrata sulla capacità delle diverse teorie, antiche o mo-
derne che siano, di fornire soluzioni praticabili ai problemi ―perenni‖ della filosofia,
ontologici, logici ed epistemologici, saranno alcuni risultati, se vogliamo tipici della
riflessione tommasiana, ma che, o sono stati già fatti propri dalla rivisitazione feno-
menologica della teoria tommasiana operata dalla Stein, o potrebbero essere agevol-
mente fatti propri da altre teorie ontologiche, una volta che fossero de-ideologizzate o
de-scolasticizzate e giudicate, non per ―da chi‖ o ―come‖ certe cose sono state dette,
ma per ciò che effettivamente è stato detto. Insomma, se la post-modernità è l‘era del
―tramonto delle ideologie‖ anche le teorie ontologiche vanno giudicate per i problemi
che risolvono e non per gli interessi — nobili o abietti che siano — che mascherano.
3. Nella terza sezione spiegheremo cosa significa ―formalizzazione di una teoria‖ nei
suoi due momenti costitutivi: 1) della simbolizzazione dei linguaggi naturali in cui
sono espresse le versioni intuitive delle teorie, e 2) dell‘assiomatizzazione delle teorie
stesse. Se la formalizzazione rende così pienamente trasparente la comunicazione,
rendendo praticamente impossibile l‘equivocazione, d‘altra parte non nasconderemo i
limiti della formalizzazione stessa, espressi in incontestabili teoremi di limitazione.
Praticamente, se si privilegia la forza dimostrativa delle teorie, si perde in capacità e-
spressiva e viceversa. Il resto della sezione sarà perciò dedicata all‘esposizione forma-
le delle diverse forme di argomentazione, rispettivamente nelle logiche estensionali,
proprie delle scienze matematiche, teoriche ed applicate, e nelle logiche intensionali
in quanto altrettanti ―modelli‖ o ―interpretazioni‖ semantiche di comuni strutture sin-
tattiche di logica modale, logiche (aletiche, ontiche, epistemiche, deontiche, etc.) che
sono tipiche delle discipline umanistiche e della conoscenza intenzionale. Una distin-
zione, quella delle logiche intensionali dalle estensionali, che Husserl per primo ha e-
videnziato nel secolo scorso, ma che qui ripresenteremo nella sua versione rigorosa-
mente formalizzata, grazie agli enormi progressi in questo campo degli ultimi cin-
quant‘anni di ricerca, nel campo della logica teorica ed applicata (informatica).
4. La quarta ed ultima sessione sarà quindi dedicata all‘applicazione dei principi forma-
li del calcolo modale estensionale alla formalizzazione delle ontologie. In particolare,
forniremo un primo resoconto semi-formalizzato di due risultati fondamentali
dell‘ontologia tommasiana. Il primo riguarda la sua originale soluzione del problema
della referenza singolare, essenziale nel Medio Evo come oggi, non solo per dare con-
sistenza all‘ontologia e alla epistemologia realista — visto che ciò che attualmente e-
sistono sono gli individui —, ma, in questo quadro, per dare rigore all‘antropologia
metafisica di ispirazione cristiana. Il secondo risultato, è la teoria tommasiana della
partecipazione dello ―essere‖, che, se storicamente evidenzia l‘assoluta originalità del-
la sintesi tommasiana fra platonismo e aristotelismo, teoreticamente, fornisce un chia-
rissimo schema teoretico per rendere compatibili in metafisica e teologia ―principio di
creazione‖ e ―principio di evoluzione‖. La conclusione di questo lavoro consisterà co-

2
sì nell‘indicare, con tutta la chiarezza inequivocabile che la formalizzazione, anche i-
niziale, dell‘ontologia consente, come nella storia del pensiero occidentale si confron-
tano due tipi di strutture formali della metafisica, delle quali le singole teorie risulte-
rebbero essere semplicemente dei ―modelli‖. Modelli che, nella misura che condivi-
dono una medesima struttura formale, condividono determinati assiomi logici e si di-
stinguono, invece, per l‘inserimento di particolari assiomi non-logici che danno lo
specifico delle diverse teorie. In questo quadro, l‘ontologia formale della Stein e la
metafisica di Tommaso risultano essere due modelli estremamente significativi di una
comune struttura formale, propria di tutte le metafisiche della trascendenza.

2 Dalla Stein, a Husserl, a Tommaso: trascendentale moderno e trascendentale classico

2.1 Radici fenomenologiche dell’ontologia formale


Per venire al nostro tema: innanzitutto, cosa intendiamo qui per ―ontologia formale‖,
primo termine da spiegare, prima ancora di quello di ―scienze cognitive‖, e quale il suo colle-
gamento non solo con la scuola fenomenologica, ma anche con la filosofia scolastica?
Nella tradizione logica scolastica, di solito si distingueva fra:
1. Analisi logica che si rifaceva alla tradizione aristotelica, dove si supponeva che il ri-
ferimento degli enunciati analizzati fosse alla realtà extra-linguistica (de re) e che
dunque si interessava essenzialmente delle leggi del sillogismo apodittico; e
2. Analisi logica che si rifaceva alla tradizione stoica, dove tale riferimento non era per
sé supposto, e che quindi si concentrava sull‘analisi delle proposizioni in quanto tali
(de dicto

3
suddetta distinzione scolastica fra logica formale de dicto e de re viene oggi espressa nei ter-
mini della distinzione fra logica formale, intesa come puro calcolo simbolico, e ontologia
formale, intesa come formalizzazione dei linguaggi, usati all‘interno delle diverse comunità
linguistiche (Cocchiarella, 2001; 2009; Basti, 2007; Smith, 1982; Smith, 2004). Tali linguag-
gi sono relativi, sia a quella porzione di realtà con cui una determinata comunità interagisce
(ontologie speciali), sia a quella ―porzione comune‖ di realtà e delle sue strutture universali
con cui l‘intera comunità umana interagisce (ontologia generale, articolata in diverse ontolo-
gie specifiche per i vari generi di enti)2.
Possiamo dire, insomma, che l‘attuale distinzione fra logica formale e ontologia forma-
le ricalca essenzialmente la distinzione scolastica fra logica de dicto e de re, con tutta
l‘immensa consapevolezza di necessarie distinzioni e problematiche connesse, che quattro
secoli di sviluppo dell‘epistemologia e della logica moderne ci hanno consegnato.
In ogni caso, di per sé, l‘espressione ontologia formale in quanto distinta da logica for-
male si deve a Edmund Husserl che, nella sua ―Terza Ricerca Logica‖ (Husserl, 1913/21), di-
stingue fra:
1. Ontologia come disciplina filosofica che studia le interconnessioni fra cose (come
―oggetti e proprietà‖, ―parti e totalità‖, ―relazioni e collezioni‖, etc.); e
2. Logica come disciplina che studia le interconnessioni fra verità (come ―consistenza‖,
―validità‖, ―congiunzione‖, ―disgiunzione‖, etc.)3.
D‘altra parte, continua Husserl, ambedue le discipline sono ―formali‖ nel senso che so-
no ambedue strutture ―indipendenti dal dominio‖, ovvero realizzabili in linea di principio in
tutte le loro rispettive sfere di applicazione, ontologiche e logiche.
Così, per la struttura ontologico-formale ―parte-di‖ non esistono restrizioni al tipo di
oggetti che possono entrare nella relazione ―parte-tutto‖ in distinte ontologie materiali (―re-
gionali‖), ovvero in distinti ―domini di oggetti‖. Nel nostro caso, per esempio, seguendo la
Stein nella sua ―ontologia materiale‖ (o ―ontologia regionale‖, per usare la terminologia hus-
serliana) dell‘essere umano, il ―tutto‖ è la persona di cui ―mente‖ e ―cervello‖ sono solo ―par-

2
Parlare oggi di ―mondo‖ o di ―realtà‖ tout-court sapendo quanto è immenso l‘universo, o addirittura ―gli uni-
versi‖ (―il multiverso‖) — sia nell‘ ―infinitamente piccolo‖ (mondo microsocopico del sub-molecolare, del sub-
atomico e oltre), sia nell‘ ―infinitamente grande‖ (mondo megaloscopico dell‘interstellare e del intergalattico)
—, quasi che la nostra mente limitata fosse in grado di abbracciarlo attualmente tutto(i), più che pretenzioso mi
sembra stupido. E‘ ovvio che le diverse porzioni di realtà con cui le varie comunità linguistiche umane interagi-
scono sono in larga parte sovrapponentesi, così che si può parlare di una ―realtà‖ con cui l‘intera comunità uma-
na interagisce. Resta nondimeno vero che la ―realtà‖ attualmente accessibile all‘intera comunità umana, sebbene
sempre più estesa grazie al progresso della scienza e della conoscenza, è sempre una piccolissima porzione
dell‘intera realtà, anche se virtualmente è pur sempre vero che la mente umana ha una capacità di conoscere il-
limitata. Se le scienze naturali moderne sono un potentissimo veicolo di estensione dei limiti attuali della cono-
scenza umana nell‘ambito della realtà fisica, non sono da meno, in linea di principio, le altre scienze matemati-
che, logiche, metafisiche e teologiche in altri ambiti della realtà. E questo resta vero anche se, per la mancata
capacità di aggiornarsi ai nuovi metodi dell‘argomentazione razionale, le ultime due — le scienze metafisiche e
teologiche — hanno vissuto e stanno tuttora vivendo in questi ultimi tre secoli una penosa decadenza. Anzi,
proprio perché hanno perduto in gran parte il loro impianto argomentativo se non dimostrativo per accedere ad
altri ―generi letterari‖ (aforistico, omiletico, etc.), sarebbe improprio anche definirle ―scienze‖. Questa decaden-
za, tuttavia, non è irreversibile, se sapranno risvegliarsi dal letargo d‘impotenza in cui si sono fatte cadere.
3
Più propriamente, come nota molto bene Jean-François Courtine in un bel saggio dedicato recentemente
all‘ontologia formale in Husserl (Courtine, 2009), l‘ontologia formale di Husserl più che relazioni fra ―cose‖ ha
come dominio relazioni fra ―oggetti‖, essendo l‘identificazione fra ―cosa‖ e ―oggetto‖ e non fra ―cosa‖ e ―ente‖
il proprio dell‘ontologia moderna rispetto alla metafisica aristotelica e tomista, fin dai tempi di Wolff e della
scolastica rinascimentale. Siamo qui al cuore della distinzione fra trascendentale classico e moderno. Vi torne-
remo.

4
ti‖4. Ugualmente si dica per la struttura logico-formale della ―disgiunzione‖ che può legare
proposizioni qualsiasi indipendentemente dal loro contenuto in distinte logiche materiali (o
semantiche) (Smith, 2005).
Lo sviluppo dell’ontologia formale nell‘ambito della ricerca fenomenologica è stato co-
stante durante tutto il periodo che va dalle originarie ricerche husserliane fino a tempi più re-
centi. Tuttavia, ancor più interessante è il fatto che, grazie allo sviluppo dell‘approccio as-
siomatico alla logica formale, non solo nel campo originario delle logiche estensionali pro-
prie della logica matematica5, ma anche in quello delle logiche modali intensionali proprie
dell‘ontologia e delle altre discipline umanistiche, è possibile sviluppare un approccio assio-
matizzato all’ontologia formale. Un approccio che Roberto Poli, per distinguerlo
dall‘originario approccio husserliano dell‘ontologia formale, amo denotare come ontologia
formalizzata. Torneremo nella quarta sezione di questo saggio sulla distinzione fra questi due
approcci all‘ontologia post-moderna, facendo vedere l‘utilità anche per la fenomenologia
dell‘ontologia formalizzata. Concentriamoci per il momento, invece, sull‘ontologia formale
di tipo fenomenologico, particolarmente in Husserl e nella Stein, nel collegamento possibile,
attraverso la dottrina dei trascendentali dell‘essere, con l‘ontologia tommasiana6 e dunque
leggendo l‘intera questione in chiave post-moderna.

2.2 Ontologia formale, post-modernità e la questione dei trascendentali


2.2.1 FENOMENOLOGIA E POST-MODERNITÀ
E' chiaro che questo tipo di indagini che pongono in relazione pensiero classico e pen-
siero moderno per risolvere problemi contemporanei vuol dire essere post-moderni. Potremo
allora definire Edith Stein una delle principali pensatrici post-moderne nel suo tentativo e-
splicito e sistematico di porre in continuità Husserl e Tommaso d‘Aquino. Un tentativo che
costituisce il centro ed il motivo ideale di tutta la sua produzione matura7. Ecco come si e-
sprime la stessa Stein nella Prefazione di Potenza e Atto, datata ―settembre 1931‖:
L‘autrice, il cui pensiero filosofico è stato formato da Edmund Husserl, si è familiariz-
zata negli ultimi anni con l‘universo di pensiero dell‘Aquinate. Per lei, ora, è una neces-
sità interiore lasciare che si scontrino in se stessa i differenti modi di filosofare che sono
caratterizzati da entrambi questi nomi. Ella vede la strada per realizzare ciò in un‘analisi

4
Ecco comunque come la stessa Stein in Potenza e Atto definisce l‘ontologia formale: «L‘ontologia formale,
allora, sussiste come ciò che abbraccia tutto l‘essere: le sue forme sono forme fondamentali dell‘essere e di tutti
gli essenti, perciò essa stessa è » (Stein, 1935, p. 71). Come si vede, la Stein facendo
dell‘essere e non dell‘oggetto il dominio proprio dell‘ontologia formale, anche se, seguendo Husserl, riconosce
―l‘oggetto‖ (Gegenstand) come la prima delle forme dell‘essere di cui l‘ontologia formale deve occuparsi, non è
più moderna, ma come vedremo post-moderna. Come pure l‘Heidegger del suo famoso saggio di ontologia,
Das Ding, in cui invita a ―porsi in ascolto dell‘essere‖ al di là delle sue ―oggettificazioni‖ è post-moderno, rifiu-
ta l‘identificazione wolffiana fra ―cosa‖ e ―oggetto‖. Ambedue stanno cercando una nuova sintesi fra classicità e
modernità, sebbene in due direzioni diverse. Vi torneremo.
5
6
La differenza fra ―tommasiano‖ e ―tomista‖ è analoga a quella — di moda alcuni anni fa‘ — fra ―marxiano‖ e
―marxista‖. ―Tommasiano‖ significa ciò che si rifà alla lettera dell‘insegnamento dell‘Aquinate, mentre ―tomi-
sta‖ significa ciò che si rifà ad una determinata interpretazione ―di scuola‖ della dottrina dell‘Aquinate. Oggi è
possibile rifarsi direttamente all‘insegnamento di Tommaso grazie essenzialmente all‘Index Thomisticus del P.
Roberto Busa sj — testo pionieristico della linguistica computazionale, realizzato in oltre trent‘anni di collabo-
razione con l‘IBM negli anni ‘60 dello scorso secolo —, reso recentemente on-line dall‘Università di Navarra
7
A questo riguardo Hans Reiner Sepp, nella sua Introduzione a Potenza e Atto cita una lettera della stessa Stein
a Ingarden in cui scrisse che Potenza e Atto «sviluppa la problematica a partire da Tommaso e che quindi dà vita
ad un mio “sistema di filosofia”, e questo certamente porta ad un confronto tra Tommaso e Husserl» (Lettera
152 del 09/03/1932. Cit. in (Stein, 1935, p. 27 n. 55) Corsivo mio.

5
oggettiva dei concetti fondamentali tomisti. Sul metodo di quest‘analisi rende conto la
stessa ricerca (Stein, 1935, p. 53).
Dove con ―analisi oggettiva‖, commenta Hans Reiner Sepp nella sua Introduzione al
nostro testo, s‘intende la ―analisi fenomenologica‖, ovviamente. Con ciò, continua Sepp,
Riuscita quest‘analisi, si sono raggiunti tre tipi di obiettivi: 1. il metodo fenomenologi-
camente praticato, dimostrando un nesso oggettivo, fa sì che la sistematica oggettiva
che determina il pensiero tomista trovi conferme in un‘altra strada; 2. contemporanea-
mente, la strada fenomenologica si dimostra legittima per problematizzare in modo frut-
tuoso, nel contesto della filosofia più recente, il patrimonio ideale tramandato, fornendo
quindi 3. una giustificazione convincente per il fatto che il pensiero scolastico traman-
dato — con riferimento ad una philosophia perennis — possono comunicare l‘uno con
l‘altro al di là dei tempi (Stein, 1935, p. 27).
Sepp non nasconde certo l‘audacia, soprattutto ottant‘anni fa‘ quando l‘opera fu scritta,
di una tale impostazione, in un‘epoca di ancora perdurante e dominante storicismo. Soprattut-
to il riferimento ad una philosophia perennis avvicina la Stein all‘Heidegger posteriore di
Che cosa significa pensare (Heidegger, 1954) il quale, in maniera meno caritatevole della
Stein, bollava come ―non-pensanti‖ coloro che definiscono ―superati‖ (nel senso
dell‘Aufhebung hegeliana) i grandi pensatori del passato che hanno comunque ―pensato
l‘essenziale‖, ovvero hanno ―pensato l‘essere‖ e i suoi modi fondamentali di manifestarsi,
all‘uomo e al suo pensiero.
2.2.2 HEIDEGGER E LA POST-MODERNITÀ NIHILISTA
Così, se di nuovo citando Heidegger, stavolta quello di Sentieri interrotti (Heidegger,
1950), possiamo concordare ancora con lui a definire la modernità come l‘epoca delle ―visio-
ni del mondo‖ assolutizzanti e perciò contrapposte, o con Lucio Colletti l‘epoca delle ―ideo-
logie‖ sottolineando — nell‘accezione neo-marxista del termine usata da questo autore — gli
interessi politico-economici dei diversi gruppi sociali che le suddette ―visioni del mondo‖
dissimulano, la post-modernità diventa l‘epoca del loro inesorabile ―tramonto‖ (Colletti,
1980). A questo punto, però, due strade d‘interpretazione e sviluppo della post-modernità si
aprono:
1. La strada disperata e — mal per noi — disperante perché produttrice di tanta effettiva
(non solo emotiva) disperazione, della post-modernità nihilista, che potremmo anche
definire la post-modernità ―nostalgica‖ delle parti peggiori della ―classicità‖ e della
―modernità‖ irrimediabilmente tramontate.
2. L‘altra strada è quella del post-moderno costruttivo, la quale, poiché dotata di un me-
todo rigoroso anche per la filosofia e l‘ontologia, sta costruendo una sintesi fra classi-
cità e modernità. Essa così cerca di utilizzare senza pre-concetti quanto di utile è stato
affermato, in qualsiasi tempo e in qualsiasi cultura — in tutte le ontologie, come ve-
dremo —, per risolvere i problemi che affliggono l‘uomo post-moderno, come l‘uomo
di sempre.
Approfondiamo innanzitutto la più diffusa e conosciuta alternativa, quella della post-
modernità nichilista. Si tratta della strada percorsa da Nietzsche e dallo stesso Heidegger dei
suoi monumentali commenti all‘opera di Nietzsche (Heidegger, 1961).
Non per nulla a Gianni Vattimo, si deve, almeno nella cultura filosofica italiana, una
positiva ―demitizzazione‖ dell‘Heidegger ―ontologo‖, ovvero del ―primo‖ Heidegger di Esse-
re e Tempo, tutto centrato sul recupero dell‘essere dal suo ―oblio‖ moderno — che porrebbe
Heidegger fra i fautori del ―post-moderno costruttivo‖ (cfr. infra) —, per una corretta valo-
rizzazione dell‘Heidegger del ―dopo la svolta (Kehre)‖ di Lettera sull’Umanesimo (1947).

6
Una svolta che non per nulla consegue al decennio (1936-46) degli intensi studi e insegna-
menti heideggeriani su Nietzsche, messi insieme nell‘omonima raccolta pubblicata nel 1961
(Heidegger, 1961). Ebbene Vattimo sottolinea come ―l‘essenza del nihilismo‖ evidenziata da
Heidegger stesso nei suoi studi su Nietzsche, consista nella ―riduzione dell‘essere (=ciò che
è, N.d.R.) a valore (= ciò che si vuole che sia, N.d.R.)‖ nel senso di ―valore d’uso (=ciò che è
utile per la vita, N.d.R.)‖ e quindi nella riduzione ―della logica a retorica‖, come Nietzsche
esplicitamente afferma nella sua raccolta postuma di scritti e aforismi che va sotto il titolo di
Volontà di potenza:
Tutte le nostre facoltà e sensi conoscitivi sono sviluppati solo in vista di conservazione
e di crescita; la fiducia nella ragione e nelle sue categorie, nella dialettica, e cioè il giu-
dizio di valore su cui si fonda la logica, dimostrano solo la loro utilità provata dall'e-
sperienza, per la vita , non la loro “verità”. (…) Che dev'esserci una quantità di fede,
che è permesso esprimere giudizi, che su tutti i valori essenziali manca il dubbio: è que-
sto il presupposto di ogni essere vivente e della sua vita. Che cioè qualcosa sia ritenuto
per vero è necessario, non che qualcosa sia vero» (Nietzsche, 1906, p. 77-78. Corsivi
miei).
Come si vede, il post-moderno nihilista di tanta filosofia contemporanea, viene a coin-
cidere con il post-moderno fideista di tanta religiosità non solo ―teologale‖, ma anche cosid-
detta ―civile‖ della nostra triste contemporaneità, al di là delle buone e talvolta ottime inten-
zioni di chi si fa‘ anche generosamente paladino di questa sorta di ―linea Maginot‖ di difesa
dei valori autentici. In ogni caso, la post-modernità nihilista, confondendo sistematicamente
l‘impossibilità di un Pensiero Assoluto (metafisico/teologico, nella classicità, scientifi-
co/scientista, nella modernità) con quella, tutt‘altro che impossibile, di un pensiero non-
assoluto dell’Assoluto — e quindi un pensiero ontologico e metafisico aperto al dialogo e al
confronto, perché sempre umilmente in ricerca —, ha inteso privare noi tutti, post-moderni,
della possibilità di pensare l‘Assoluto e quindi di ―pensare-insieme l‘essere‖ nel suo ultimo
Fondamento, al di là delle differenze culturali e religiose e dei loro propri e reciproci limiti.
Per dirla con l‘evocativo linguaggio nietzschiano e heideggeriano, la post-modernità in-
tesa in questo senso è quella che ha scoperto che il Grund (fondamento) del presunto Pensie-
ro Assoluto, cercato dal ―metafisicismo/teologismo‖ di certa classicità e/o dallo ―scientismo‖
di certa modernità, è l‘Ab-Grund (abisso, l‘assenza-di-fondamento). Una strada, questa della
post-modernità nihilista o ―nostalgica‖, tanto assolutista nel suo negazionismo, quanto lo e-
rano la classicità e la modernità che essa critica nelle loro pretese di Pensiero Assoluto, ma
che, rispetto a queste, almeno, ha un pregio fondamentale. Quello di aver fatto gettar via, f

7
mancanza di un‘adeguata formalizzazione/assiomatizzazione anche delle discipline umanisti-
che, spesso per questo ancorate a metodi di spiegazione/argomentazione arcaici, largamente
dipendenti dai contesti culturali ristretti in cui si sono sviluppati nell‘età pre-moderna, le ren-
de incapaci non solo di dialogare efficacemente con altre culture e altre impostazioni, ma so-
prattutto di reggere il confronto con le argomentazioni scientifiche e soprattutto pseudo-
scientifiche del ―pensiero unico‖ nihilista.
Tutto ciò sta portando, a passi rapidissimi, ad un appiattimento e ad un‘inibizione dei
contenuti umanistici e religiosi delle diverse culture, con conseguenti rischi di opposizione
violenta al progresso scientifico e tecnologico, da parte di popolazioni in larga parte escluse
dal ―banchetto‖ di questo progresso sbilenco, non solo nei paesi in via di sviluppo, ma anche
nei paesi del cosiddetto ―primo mondo‖, dopo la recente crisi economica pensata ad arte per
eliminare da questi paesi la cosiddetta ―classe media‖.
Di questo appiattimento/vanificazione degli umanesimi tradizionali, gli integralismi e,
finalmente, il terrorismo a sfondo prima ideologico negli anni ‘70-‘90 del ‗900, e ora (anche)
religioso, nonché il moltiplicarsi di conflitti etnici e localistici un po‘ dovunque, sono un al-
larmante segnale. Un limite, ripeto, oggi ampiamente superato, in linea di principio, dalla
formalizzazione della(e) ontologia(e), e che potrebbe diventarlo, anche in linea di fatto, man
mano che cresceranno i cultori e quindi le applicazioni di disciplina questo e simili tipi di ap-
proccio, non solo fra scienziati e informatici, come già avviene, ma anche fra cultori di disci-
pline umanistiche.
2.2.4 EDITH STEIN: DAL TRASCENDENTALE MODERNO AL TRASCENDENTALE CLASSICO
Quali dunque le ―cifre teoretiche‖ per interpretare la ―post-modernità costruttiva‖ di cui
Edith Stein è stata certamente una pioniera? Se essa consiste nel grande tentativo di sintesi
del meglio della ―classicità‖ e del meglio della ―modernità‖, in un‘ottica globale, multi-
culturale ed inter-religiosa, la post-modernità costruttiva più in generale consiste proprio nel
―superamento/integrazione‖ delle presunte dicotomie irriducibili che hanno caratterizzato la
modernità:
1. Classicità/modernità, la più fondamentale
2. Soggetto/oggetto, in epistemologia
3. Dualismo/monismo in antropologia
4. Natura/storia in ontologia
5. Occidente/resto del mondo in sociologia
6. Democrazia/totalitarismo in politica
7. Sapere scientifico/sapere umanistico, con il suo sotto-insieme:
8. Scienza/fede, nell‘ambito sia dell‘accademia, sia della diffusione culturale di massa
della scienza.
Ciò che mi avvicina in particolar modo alla Stein è che ella è stata indotta a questa rivi-
sitazione neo-fenomenologica del pensiero dell‘Aquinate, proprio dal suo lungo studio, cul-
minato in una traduzione/attualizzazione in tedesco, di un fondamentale testo di Tommaso
quali le Quaestiones Disputatae De Veritate. Ovvero, di quello che potremmo ben definire,
alla luce di quanto appena detto sulla relazione fra logica e ontologia formale, del trattato
tommasiano più esplicito di ―ontologia formale‖.
In esso, infatti, fin dal primo Articolo della prima Quaestio, si indaga il problema fon-
damentale del rapporto fra ontologia e logica, ovvero, ponendosi la domanda su ―Che cos‘è
la verità‖, ci si interroga sulla questione ―se, come sembra, ente (dunque, ontologia, N.d.R.) e
vero (dunque, logica, N.d.R.) si identifichino del tutto (Videtur autem quod verum sit omnino idem
quod ens)‖ (Cfr. Tommaso Aq, Q. De Veritate, I, 1, arg. 1). Se Hegel — ed in qualche modo

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anche Heidegger — tenderebbero a dare una risposta affermativa alla questione, certamente
non ne danno una affermativa né Tommaso, né Husserl, né Stein.
Ora, come ricorda un altro grande pensatore post-moderno del nostro secolo e riscopri-
tore, come la Stein, del pensiero di Tommaso nel ‗900, anche se molto più vicino al versante
heideggeriano — di cui è stato peraltro un forte critico, oltre che attendo studioso —, il Padre
Cornelio Fabro, ciò che radicalmente oppone pensiero classico e pensiero moderno è proprio
la dottrina sui trascendentali, ovvero la dottrina sul ―fondamento extra-logico della verità lo-
gica‖. A questo proposito, Fabro, con felice sintesi, amava parlare di opposizione fra trascen-
dentale classico (essere) e trascendentale moderno (auto-coscienza), con chiaro riferimento
alla cosiddetta ―rivoluzione copernicana‖ operata da Descartes e tematizzata da Kant, che fa
sì che il moderno, a cominciare appunto da Descartes, ponga nell‘evidenza e quindi nella au-
to-coscienza dello ―Io-penso trascendentale‖ (il cogito assolutizzato o l‘Ich denke überhaupt
di Kant), e non nello ―essere-della-cosa‖, il fondamento della verità.
Quindi potremmo sintetizzare la contrapposizione fra trascendentale classico e moderno
nel seguente e molto efficace aforisma: ―un enunciato è vero perché evidente (modernità) o è
evidente perché è vero (classicità)?‖.
Il collegamento fra ―evidenza‖ e auto-coscienza‖ è evidente — mi si perdoni il voluto
gioco di parole. Infatti, l‘evidenza è uno ―stato di coscienza‖, anche se come Kant, Hegel e
tutta la fenomenologia insegnano, non necessariamente della coscienza individuale, ma —
come proprio Husserl ricorda nel definire la fenomenologia, fin dalla Prima Ricerca Logica,
un‘indagine sull‘evidenza e sulla sua fondazione — se qualcosa è davvero ―evidente‖ per la
coscienza di uno, lo deve essere per la coscienza tutti. L‘evidenza ha cioè una natura intrinse-
camente meta-individuale, o inter-soggettiva. D‘altra parte, sintetizzare il nucleo della ―rivo-
luzione copernicana moderna‖, nell‘asserto che afferma la fondazione della verità logica
sull‘evidenza, non fa altro che riprendere il cuore del metodo cartesiano che, a partire dal suo
testo giovanile Regulae ad directionem ingenii, ripreso nel suo famoso Discorso sul metodo,
pone come prima delle quattro regole del ―nuovo metodo‖ — metodo di fare metafisica , ma
anche di fare scienza in senso ―moderno‖ — il principio di ―accettare per vero solo ciò che è
evidente‖.
Ora, proprio nella risposta alla domanda appena citata sul rapporto fra essere e verità,
che apre il testo del De Veritate, Tommaso fa esplicita professione di ―classicità‖, con
un‘affermazione per molti versi sconvolgente per noi moderni, abituati a fare della ―verità‖
una sorta di proprietà della conoscenza consapevole — o almeno di certe conoscenze, quelle,
appunto ―vere‖, in contrapposizione ad altre ―false‖. Afferma infatti Tommaso:
Ogni conoscenza si completa (perficitur) per mezzo dell‘assimilazione del conoscente
alla cosa conosciuta così che tale assimilazione è il fondamento stesso della conoscenza
(causa cognitionis) (...). E‘ a questa adeguazione della cosa e dell‘intelletto che, come è
stato detto, segue la conoscenza. Così pertanto l‘entità della cosa (entitas rei) fonda il
contenuto della verità (praecedit ratio veritatis), ma la conoscenza è come un effetto
(effectus quidam) della verità (Tommaso d‘Aq., De Ver., I,1c. Corsivo mio).
Nella nostra ottica post-moderna, mi piace citare a questo riguardo, due dei principali
esponenti del nuovo approccio intenzionale alle neuroscienze cognitive, Walter Freeman
dell‘Università di California a Berkeley e Vittorio Gallese dell‘Università di Parma che, a-
vendo il primo nella filosofia di Tommaso (Freeman, 2007; 2008; 2010), il secondo, col resto
del gruppo del prof. Rizzolatti, in quella della Stein (Gallese, 2005; 2006), i loro referenti fi-
losofici principali esemplificano non solo il senso, ma anche la fecondità innanzitutto scienti-
fica di questo approccio. Esso, infatti, ricordiamolo, richiede sempre che soggetto

11
dell‘operazione cognitiva sia la persona (Cfr. (Tommaso d‘Aq., S.Th., I,75,4c)) non la ―men-
te‖ (anima) o il ―cervello‖ da soli e quindi coinvolge l‘intera corporeità individuale in rela-
zione (la persona è corpo-in-relazione, con sé, gli altri e, primariamente, con l‘Assoluto), se-
condo i principi dell‘antropologia duale (non dualista né monista), comune sia alla antropo-
logia tommasiana13 (ed in genere, cristiana) (Basti, 1995; Basti, 2006; 2009), sia alla antropo-
logia fenomenologica . Ecco come Freeman esemplifica il cuore dell‘approcio intenzionale
pre-rappresentazionale alla conoscenza, intesa come ―azione interiorizzata‖ — come già ebbe
a definirla — Jean Piaget, rifacendosi alla dottrina aristotelico-tomista dell‘atto intenzionale
come atto di auto-assimilazione formale del(le operazioni del) soggetto al(la forma
del)l‘oggetto
L‘adeguazione non è un adattamento per mezzo di un processamento passivo
dell‘informazione e non è un processo di accumulazione dell‘informazione per mezzo
di risonanze. Per esempio, quando afferriamo un bicchiere per bere, il nostro cervello
non si fa una rappresentazione. Ma riconfigura la mano perché si assimili al bicchiere. Il
cervello riconfigura il sé per l‘interazione ottimale con un aspetto desiderato del mon-
do. Il fine dell‘atto intenzionale è uno stato di competenza che Maurice Merlau-Ponty
ha definito di massima aderenza (maximum grip) (Freeman, How brains make up their
minds, 2001).

Gli fa eco, praticamente all‘unisono, ma senza dipendenza diretta da Freeman, Giacomo


Rizzolatti, lo scopritore con il suo gruppo dei ―neuroni-specchio‖, base del comportamento
imitativo a livello motorio, essenziale per lo sviluppo inter-soggettivo, dell‘intelligenza inten-
zionale:
Si consideri il caso della tazzina: sin dall'iniziale apertura della mano, il nostro cervello
ne seleziona quei tratti (forma e orientamento del manico, del bordo, etc.) che appaiono
pregnanti ai fini dell'azione e che concorrono a determinare tanto la fisionomia motoria
dell'oggetto, quanto lo spazio delle possibili prese. L'una si costituisce attraverso l'altro
e viceversa. (...) Lo spazio dell'oggetto si declina qui nella forma della sua posizione re-
lativa ai vari effettori coinvolti (braccio, bocca, mano, etc.) risultando definito nei ter-
mini dei loro possibili scopi d'azione (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006, p. 75).

Tornando al testo di Tommaso del De Veritate, va notato innanzitutto che referente del
processo di adeguazione dell‘intelletto in quanto ―parte immateriale (formale) del corpo‖ (cfr.
nota 13) è sì l‘essere, ma non ―l‘essere dell‘esistenza‖ dell‘ente degli empiristi — che così
sono costretti a fondare con Hume e con Kant nella coscienza del soggetto la ―formalità‖
dell‘esperienza che distingue i vari oggetti, visto che l‘essere dell‘esistenza, per definizione, è
lo stesso per tutti gli enti, è esse commune —, ma l‘ente stesso, in quanto entità, caratterizzato
cioè dalla sua essenza. Vedremo così fra poco, commentando brevemente la cosiddetta ―tavo-
13
Così afferma Tommaso nella risposta alla seconda obiezione dell‘articolo della Summa appena citato nel te-
sto: ―Non ogni sostanza particolare è ipostasi o persona, ma solo quella che ha la completa natura tipica della
sua specie. Per questo la mano o il piede non può essere ipostasi o persona. E similmente non lo è neanche
l’anima, poiché essa è parte (la parte formale, N.d.R.), che determina lo specifico dell’uomo (pars speciei hu-
manae)‖ [ibid., ad 2]. In altri termini, per Tommaso, differentemente da Platone ―l‘uomo non è la sua anima‖.
Invece, in accordo con M. Schlick, si può dire che l‘ ―uomo è il suo corpo‖, solo che, a differenza di Schlick,
degli altri neo-positivisti e di come generalmente si pensa, ―il corpo‖ non è solo ―materia‖, ma ―materia e for-
ma‖, ―energia e informazione‖. Infatti, anche per la Bibbia, ―non di solo pane vive l‘uomo…‖. L‘uomo, cioè,
non è solo un ―sistema energeticamente aperto‖, che scambia materia/energia con l‘ambiente (metabolismo),
come a partire dai famosi studi di Von Bertalannfy sulla ―teoria dei sistemi‖ si suole definire l‘uomo e ogni or-
ganismo vivente, ma anche, tipicamente, un ―sistema informazionalmente aperto‖, che scambia informazione
col suo ambiente, come oggi gli scienziati cognitivi sono abituati a definirlo. Per una sintesi aggiornata, cfr.
(Basti, 2009)

12
la dei trascendentali‖ tomista, esposta proprio nel corpus del I articolo del De Veritate, che
abbiamo finora citato, cosa Tommaso intenda esattamente con la nozione (trascendentale) di
―entità‖ come nozione equivalente, ma non identica, di ―ente‖ o (di nuovo, equivalentemente,
ma non identicamente) di ―cosa‖. Credo comunque che non vi possa essere affermazione più
forte di un approccio assolutamente anti-soggettivista e quindi anti-moderno alla verità, che
definire, come fa Tommaso, la conoscenza ―un effetto della verità‖, ovvero un effetto
dell‘auto-assimilazione formale, del ―conformarsi‖ dell‘intelletto alla cosa, da cui la loro a-
deguazione (verità) deriva, e da questa a sua volta deriva la conoscenza come conseguente
―presa di coscienza‖ dell‘avvenuta adeguazione medesima.
Nondimeno, vedremo nella sotto-sezione successiva di questo lavoro, come Tommaso,
sebbene sia uno dei massimi esponenti del trascendentale classico, rende esplicito, proprio
nell‘ontologia dell‘atto intellettivo sviluppata nel De Veritate14, un percorso teoretico che va
dal ―trascendentale classico‖ verso il ―trascendentale moderno‖. Infatti, Tommaso fa della
―auto-trasparenza‖ o, in termini agostiniani, della ―presenza‖, dell‘intelletto a se stesso, cen-
tro dell‘analisi fenomenologica dell‘evidenza e quindi della (inter-)soggettività dell‘atto di
coscienza, il cuore del procedimento dell‘adeguazione, del ―conformarsi‖ dell‘intelletto alla
cosa.
Un punto, questo, che non può non aver colpito la Stein nel suo ―percorso inverso‖ a
quello di Tommaso, e che va, come abbiamo detto, dal ―Trascendentale Moderno‖ dell‘auto-
coscienza, al ―Trascendentale Classico‖ dell‘essere che trascende ―l‘immanenza‖ dell‘atto di
(auto-)coscienza.
Quindi, per sintetizzare quanto finora detto e per aprirci al resto di questo saggio, po-
tremmo dire che la ―consonanza‖ fra Stein e Tommaso nasce sostanzialmente dal fatto che
mentre la Stein, in quanto pensatrice post-moderna percorre, soprattutto nelle sue due opere
filosofiche della maturità, Potenza e Atto e Essere finito, Essere Eterno, il tragitto che va dal
Trascendentale Moderno a quello Classico, Tommaso come ultimo grande ―pensatore essen-
ziale‖ della classicità, prima del declino rinascimentale della grande teoresi scolastica medie-
vale, già delinea un percorso che va dal Trascendentale Classico verso quello Moderno.
Essendo questo mio saggio inserito nel contesto di contributi di studiosi che conoscono
la Stein molto meglio di me, ed essendomi limitato all‘analisi dell‘apporto della Stein
all‘analisi ontologico formale dell‘essere umano così come emerge dall‘opera Potenza e Atto,
per illustrare il tragitto intellettuale della Stein dal Trascendentale Moderno a quello Classico,
mi limiterò a ricordare come tutta l‘analisi filosofica della Stein medesima derivi, ma non si
riduca, all‘evidenza originaria della soggettività, posta alle scaturigini del Trascendentale
Moderno. Scaturisce cioè dall‘evidenza, non dell‘essere come primum cognitum e quindi
come prima verità da cui qualsiasi conoscenza deriva, come in Aristotele e Tommaso, ma

14
Ontologia dell‘atto intellettivo che si distingue dalla psicologia del medesimo, sviluppata invece nelle due
Summae e nel Commentario al De Anima aristotelico, mediante la famosa dottrina della conversio ad phanta-
smata dell‘intelletto. Ovvero, della necessità dell‘atto intellettivo di rivolgersi comunque al dato sensibile nella
sua conoscenza dell‘universale concettuale, non solo quando conosce la cosa ―extra-mentale‖, ma anche quando
riflette e ragiona. Un atto che comunque, per Tommaso come per noi (Cfr. infra) abbisogna sempre di un riferi-
mento all‘esperienza, in questo caso memorizzato, e dunque di un riferimento corporeo, evidenziabile neurofi-
siologicamente. E‘ questo del sempre, necessario riferimento alla corporeità che non contraddice, ma anzi so-
stenta la natura spirituale dell‘atto intellettivo, l‘aspetto più esaltante per un post-moderno della teoria duale, del
―mente-corpo‖, anzi per essere più esatti, della teoria duale del ―persona-corpo” (Cfr. (Basti, 2006; 2009);
(Metzinger & Gallese, 2003)).

13
dall‘evidenza dell‘esistere di un io come prima certezza, e della certezza come risposta al
dubbio, come in Agostino, Descartes e Husserl15.
I moderni, come di nuovo molto efficacemente Heidegger ricorda, sono, infatti, prima-
riamente cercatori, non di verità, ma di certezza (cfr. nota 15). Agostino e la Stein, tuttavia,
sebbene in quanto convertiti, anche loro siano stati vittime del dubbio (esistenziale, però, non
―metodico‖ o epistemologico come in Descartes e Husserl), e quindi sono stati cercatori di
certezze, pur tuttavia si sono distaccati dal loro ―punto di partenza‖ che li avvicina ai moder-
ni, per trasformarsi in ―cercatori di verità‖. È questo cambio di obbiettivo della ricerca fon-
damentale che avvicina la Stein ai ―classici‖. Afferma, infatti, esplicitamente la Stein:
Il dato di fatto primo e più semplice di cui siamo immediatamente certi è quello del no-
stro essere. Questo è il nucleo della presa in esame del dubbio di Agostino, Cartesio,
Husserl. Cogito ergo sum non è un‘inferenza, ma una certezza semplice: cogito, sum —
pensando, sentendo volendo, o comunque io sia spiritualmente affaccendato, sono io e
sono conscio di questo essere. Questa certezza di essere precede tutte le conoscenze.
Non che tutte le altre — come da un principio fondamentale — siano da derivare da es-
sa in quanto conseguenza logica, o come se essa fosse il metro col quale tutte le altre
siano da misurare, bensì nel senso del punto d‘inizio oltre il quale non si può ulterior-
mente retrocedere. La certezza d‘essere è una certezza irriflessa oltre il quale non si può
ulteriormente retrocedere (Stein, 1935, p. 58, sottolineati miei).

15
La ricerca del fondamento della ―certezza‖ (Gewißheit) versus la ricerca del fondamento della ―verità‖ (Wa-
hrheit) sono dunque i due diversi ―interessi‖, direbbe Heidegger, e dunque le due diverse ―originarie aperture di
senso‖ che definiscono il filosofare della ―modernità‖ versus quello della ―classicità‖, determinando due diversi
―cominciamenti‖ del pensiero, come già Heidegger aveva evidenziato nella sua analisi ontologica fin da Essere
e Tempo, tutta tesa al confronto fra ―classicità‖ e ―modernità‖, ormai ―dal di fuori‖ di quest‘ultima. Un ―dal di
fuori‖, che è anche un ―dopo Husserl‖, ma soprattutto un ―dopo Nietzsche‖, perché è un ―dopo Schopenuaer‖,
perché è un ―dopo l‘ultimo Kant‖, quello della ―Prima Introduzione alla Critica del Giudizio‖, mai pubblicata,
perché Kant aveva scoperto nello ―interesse‖ della stessa Ragion Pura la radice ―volontaristica‖ di tutto
l‘impianto della ―sintesi trascendentale‖ fra fenomeni e categorie (concetti). Tutti questi ―dopo‖ consistono,
cioè, per Heidegger nell‘aver perso l‘ ―innocenza‖ husserliana che si possa dare fenomenologicamente origina-
ria ―apertura di senso‖ dell‘intelletto intuente le essenze, entro cui i diversi ―significati‖ percepiti si articolano e
si costituiscono, che non dipenda da un più originario ―interesse‖ del condizionamento storico in cui l‘uomo è
―gettato‖. Un condizionamento che pre-costituisce all‘intelletto del pensiero pensante e alla ragione del pensiero
pensato, la ―significanza‖ di ciò che ha senso, e dunque significato. Ora, secondo l‘analisi heideggeriana, nelle
diverse epoche, cambiando ciò che è davvero ―interessante‖, cambiano anche le aperture di senso e dunque la
―significanza‖ e perciò ―i significati‖ di ciò che è… E l‘uomo, sia come singolo, sia come gruppi, non ha alcun
potere su questo ―destino‖ (Geschick) di ―pensare l‘essere‖ secondo una ―significanza‖ e dunque ―un‘apertura di
senso‖ che la ―storia‖ (Geschichte) ha deciso per lui, ed in cui egli si trova ―gettato‖ (geworfen). E‘ questo il nu-
cleo (nihilista) del pensiero ontologico heideggeriano così come si sviluppa, ripetiamo, fin da Essere e Tempo e
che dunque fa sì, che a differenza dell‘analisi fenomenologica della Stein, Heidegger non sia propriamente ―di-
scepolo‖ di Husserl, ma fondamentalmente di Nietzsche, come Vattimo correttamente suggerisce. Il ―comincia-
mento‖ di Heidegger è diverso da quello husserliano che era approdato alla fenomenologia dallo studio dei fon-
damenti della logica e della matematica. Heidegger è, lo ripeto, essenzialmente un post-nietzschano, un filosofo
della storia, non della logica. Per lui la logica è ―retorica‖, come la Stein più volte lo rimproverererà: l‘ ―essere‖
è espressione di ―volontà‖ prima che di ―intellettualità‖, di una volontà che l‘intelletto non può controllare e in-
dirizzare, se non entro i limiti che la volontà stessa ha pre-costituito per lui (cfr. lo stretto legame fra le nozioni
nietzschane di ―volontà di potenza‖ e di ―eterno ritorno‖ , e quella heideggeriana di ―circolo ermeneutico‖ inte-
so comunque sempre come una Verwindung, come un ―torcersi‖ entro dei limiti comunque pre-costituiti). Per
questo una ragione siffatta non potrà mai attingere l‘Assoluto, ma al massimo provarne una disperante, frustran-
te, nihlista ―nostalgia‖. Anche per Heidegger il Grund è Ab-Grund. Per questo ho definito la post-modernità
heideggeriana una post-modernità ―nihilista‖ o ―nostalgica‖ di un pensiero non assoluto sull‘Assoluto, tragica-
mente confuso con l‘impossibilità di un Pensiero Assoluto e che perciò si identifica con l‘Assoluto stesso, come
per Hegel.

14
E‘ evidente dunque il punto di partenza del Trascendentale Moderno, mutuato nella fat-
tispecie da Husserl, da cui la Stein muove. Ma come nota Sepp, la Stein, in una straordina-
riamente lucida successione di pochissime pagine di Potenza e Atto, indice di una riflessione
molto profonda maturata per tanti anni, mediante la sua analisi fenomenologica di questo co-
minciamento, attinge ad una ―duplice sfera di trascendenza‖ che separa nettamente la Stein da
altri seguaci della fenomenologia. Ora, come la Stein stessa più volte afferma, questa sua ―di-
vergenza di percorsi‖ con Husserl a partire dalla pur comune scaturigine della certezza
dell‘auto-coscienza di esistere, dipende essenzialmente dalla sua lettura di Tommaso e, in-
nanzitutto, del De Veritate. Cerchiamo di capire dov‘è il nucleo di questa Diremtion Tomma-
so-Husserl da cui la Stein prende le mosse per il suo percorso di rilettura fenomenologica
post-moderna di Tommaso. Una lettura che la porterà, fra l‘altro, a degli esiti molto diversi da
quell‘analoga rilettura in chiave onto-teologica di Tommaso sviluppata da Heidegger nel suo
saggio sulla Essenza della Verità (Heidegger, 1943).
In estrema — e per questo molto rozza e non del tutto appropriata — sintesi: Husserl,
una volta riconosciuto il carattere ―intenzionale‖ o ―diretto a un contenuto‖
dell‘autocoscienza, sebbene sia attento a non pretendere, come Kant, di operare una formali-
stica ―deduzione trascendentale‖ delle forme logiche del pensiero dalla spontaneità ―vuota‖
dell‘autocoscienza trascendentale kantiana, tuttavia resta fedele a Kant nel fare della sogget-
tività trascendentale dell‘autocoscienza, anche se intenzionalmente intesa, il fondamento del-
la verità, facendone ―un metro col quale tutto misurare‖, finendo così nell‘immanentismo epi-
stemologico della (inter-)soggettività trascendentale. Si pensi alla metafora della relazione
intenzionale soggetto/oggetto, come i due ―fuochi‖ dell‘ellisse chiusa dell‘autocoscienza tra-
scendentale…
E, infatti, nel suo recente e notevole saggio già citato sull‘ontologia formale husserliana,
Courtine — come in genere tutti i contributori del volume in cui il saggio è raccolto
(Esposito, 2009) — fornisce, da una prospettiva molto diversa da quella neo-scolastica di Fa-
bro della distinzione fra trascendentale classico e moderno, una lettura del tutto congruente ad
essa della differenza fra ontologia classica e moderna, quella husserliana inclusa. Una lettura,
quindi, del tutto congruente a questa nostra interpretazione del differente approccio fenome-
nologico, in Husserl e nella Stein, all‘ontologia formale.
Courtine fa, infatti, risalire le origini dell‘ontologia husserliana alle scaturigini stesse
dell‘ontologia moderna, in contrapposizione a quella aristotelica, e a quella scolastica medie-
vale, che ad Aristotele si rifà. Come già accennato nella nota 3, la fondazione intenzionale
dell‘atto di coscienza, fa sì che propriamente, per Husserl, dominio dell‘ontologia formale
non sia lo ―ente‖ — e quindi le ―relazioni fra enti‖ —, ma l‘ ―oggetto‖, ossia l‘altro ―fuoco‖,
insieme al ―soggetto‖, dell‘ellisse intenzionale ―chiusa‖ dell‘atto di coscienza. In questo sen-
so Courtine si rifà all‘analisi heideggeriana della VI Ricerca Logica husserliana dove Heideg-
ger, nel porsi la questione se l‘ontologia formale husserliana abbia la capacità di attingere
all‘essere, da‘ una risposta sostanzialmente negativa a questa domanda. Infatti, il carattere
trascendentale della soggettività intenzionale in Husserl fa sì che per lui ―l‘essere‖ si riduca
essenzialmente allo ―essere-oggetto‖ per un soggetto. Cosicché l‘ontologia formale, nella
suddetta Ricerca, nell‘analizzare l‘enunciato predicativo ―questo foglio è bianco‖ nella forma
intenzionale ―io vedo che questo foglio è bianco‖, individua nell‘intuizione ―meta-regionale‖
dell‘oggettualità (Gegenständlichkeit) in generale, il sostrato di tutte le intuizioni ―regionali‖
di oggetti particolari — sostrato comune cui rimandano come tali, ―in generale‖ — senza
cioè che sia definito il termine relativo particolare di cui ciascuna di esse si predica —, tutte
le espressioni linguistiche ―indicizzanti‖ (indexical) del tipo: ―il…‖, ―un…‖, ―molto di…‖,
―poco di…‖, ma anche, appunto, ―è…‖, ―non è…‖, ―qualcosa di…‖, ―nulla di…‖. Conclude
perciò Courtine,

15
Tutti termini che corrispondono precisamente alla regione, o meglio all‘archi-regione
che l‘ontologia formale studia e al suo oggetto: l’oggetto come tale o ―l‘oggettualità‖, la
Gegenständlichkeit (Courtine, 2009, p. 354).
Molto appropriatamente ancora il Nostro (Courtine, 2009, p. 357) cita l‘altro famoso
discepolo di Brentano, precursore della cosiddetta ―scuola polacca‖ di fenomenologia, Kasi-
mir Twardowski, il quale,

16
ne mancante18. Ma siffatta soggettività costitutiva non è affatto soggettività trascendentale
come per i moderni, Descartes, Wolff, Leibniz, Kant, Hegel ed Husserl stesso, sebbene per
Husserl vada fatto un discorso a parte, molto più articolato data la complessità e la continua
evoluzione della sua produzione, per cui rimando a (Ales Bello, 2005).
Essa cioè, per la Stein, non costituisce affatto il fondamento della verità logica e quindi
il punto di partenza assoluto, trascendentale appunto, dell‘ontologia e, più in generale, del fi-
losofare. È solo che ella arriva all‘ essere — come Agostino — partendo dalla certezza del
cogito e quindi dall‘uso costitutivo della soggettività. Ecco così sintetizzato in poche battute
l‘itinerario steiniano dal Trascendentale Moderno-Rinascimentale (soggettività) al Trascen-
dentale Classico (essere). Per questo la Stein, a differenza di tanti fenomenologi e di Husserl
stesso, mai identifica ente e oggetto, essere e oggettualità, ma sebbene l’esser-oggetto, costi-
tuisca insieme all’esser-qualcosa una delle tre forme fondamentali (trascendentali) in cui
l’essere, appunto, si manifesta, la Stein, come già ho citato, può affermare in Potenza e Atto,
recisamente, che
L‘ontologia formale, allora, sussiste come ciò che abbraccia tutto l’essere: le sue forme
sono forme fondamentali dell‘essere e di tutti gli essenti, perciò essa stessa è
» (Stein, 1935, p. 71).
Siamo molto lontani qui — la distanza che separa la post-modernità dalla modernità —
dall‘affermazione di Husserl, anch‘essa appena citata, il quale, solo sei anni prima (ma la ―di-
stanza‖ di cui qui si parla è teoretica, non temporale) in Logica Formale e Trascendentale,
affermava come
il dominio dell‘ontologia formale non comprende più i giudizi o le significazioni, ma gli
oggetti e le loro relazioni formali. Le sue categorie sono categorie oggettuali (Gegen-
standskategorien) (Husserl, 1929, p. 80).
Alla luce di tutto questo e di quanto subito diremo nel prossimo paragrafo, si può dun-
que capire come il tragitto steiniano dal trascendentale moderno a quello classico, è perfetta-
mente esemplificato nella sequenza — non casualmente sempre ripetuta in questo ordine dal-
la Stein — delle forme fondamentali studiate dalla sua ontologia formale: ―oggetto‖-
―qualcosa‖-―essere‖. Un trittico di cui la prima forma, ―l‘oggetto‖ costituisce il punto di par-
tenza ―moderno‖19, la terza, ―l‘essere‖, il punto di arrivo ―classico‖, con il ―qualcosa‖ come il

18
Come ―tomista essenziale‖ mi permetterei di dissentire da questa affermazione della Stein. Il metodo ontolo-
gico di Tommaso ha bisogno di una giustificazione solo se parto come la Stein dalla modernità e dal suo ―dub-
bio metodico‖, ma è proprio questo che non ha più ragion d‘essere avendo tale ―dubbio‖ una giustificazione sto-
rica, non teoretica (cercare nell‘evidenza il fondamento della verità), ormai completamente superata… Ormai
qualsiasi analisi filosofica di tipo ontologico-scientifico è adusa a distinguere, nelle sue analisi sui diversi ap-
procci al ―reale‖, fra livello ―empirico‖ (osservazionale), livello ―semantico‖ (logico), livello ―epistemico‖ (co-
gnitivo), e nessuno più si sognerebbe, come i moderni o i rinascimentali, di far dipendere i primi due dal terzo.
Questo, soprattutto questo, significa ―post-modernità‖, ed è qui il punto di contatto maggiore con il Medio-Evo,
o in generale, con il ―pre-moderno‖ e il ―pre-rinascimentale‖.
19
Sia in quanto correlativo di ―soggetto‖, sia in quanto erroneamente identificato dai moderni con la ―cosa‖ dei
classici (cfr. sopra le citazioni tratte dal saggio di Courtine). E‘ questo comunque quanto letteralmente afferma
la Stein in Potenza e Atto. Dopo aver correttamente riconosciuto che la filosofia tomista ―separa dalle categorie i
trascendentali‖, alla luce dell‘uso costitutivo della soggettività nella riflessione fenomenologica, e del paralleli-
smo fra uso logico e ontologico delle categorie a partire da Aristotele stesso, la Stein così continua: ―Ma sussiste
ancora una necessità di vincolare il termine ―categoria‖ a questa delimitazione? Se pensiamo di nuovo al paral-
lelismo fra categorie logiche ed ontologiche, corrisponde alla categoria logica fondamentale del soggetto, la
forma ontologica più universale dell‘oggetto o Qualcosa, ed appare così sensata una formulazione del concetto
ontologico di categoria, il quale permette di abbracciare con ciò tutto l‘essente (inclusi i trascendentali, N.d.R.)‖
(Stein, 1935, p. 125.126). Ovviamente, Stein qui cita l‘Husserl delle Idee (Husserl, 1913, p. 15-67), visto che su
questa particolare interpretazione della nozione di ―categoria ontologica‖, la Stein basa subito dopo la sua di-

18
vero punto di contatto fra i due (platonico: cfr. nota 27), comune sia a Tommaso, nella sua ta-
vola dei trascendentali che esamineremo subito, sia alla Stein.
2.2.5 TOMMASO D‘AQUINO: LA TAVOLA DEI TRASCENDENTALI ED IL TRASCENDENTALE CLASSICO
Il più volte citato Sepp, molto opportunamente, osserva che il distacco della Stein dal
trascendentale moderno è legato al fatto che ella non è affatto incline ad accettare il punto di
vista rinascimentale, pienamente acquisito dalla modernità, che punta il faro dell‘attenzione
teoretica sulla soggettività. Se dunque, correttamente, retro-datiamo le scaturigini prime del
trascendentale moderno al Rinascimento, ci troviamo molto vicini a Tommaso. Invero, se do-
vessimo essere fedeli a certe etichette, c‘è solo un secolo, il XIV, temporalmente (e certo sco-
tismo, soprattutto, teoreticamente)20, che separano Tommaso — ―pensatore essenziale‖ per
ogni epoca, come lo definisce Fabro seguendo l‘Heidegger di Cosa significa pensare
(Heidegger, 1954)21, e ultimo grande pensatore della classicità —, dalle scaturigini prime, ri-
nascimentali, della modernità.
Così, nel primo paragrafo della risposta al primo articolo della prima questione del De
Veritate, Tommaso definisce in maniera, rigorosa anche per un logico contemporaneo, il cuo-
re della sua ontologia formale, ponendola al fondamento della logica della predicazione. In-
fatti, dice Tommaso:
Come in ogni disciplina dimostrativa di cui la logica (delle proposizioni) si occupa, si de-
ve risalire dalle proposizioni dimostrate (―teoremi‖, in termini moderni) alle proposizioni
indimostrabili (―assiomi‖22, in termini moderni) per non regredire all‘infinito,

stinzione fra categorie ontologiche formali, dell‘ontologia formale fenomenologica, e categorie ontologiche ma-
teriali, della ontologia materiale fenomenologica. Naturalmente, nessun tomista, neanche ―tommasiano‖, e
quindi neanch‘io, possiamo essere d‘accordo su questa riduzione di ―tutto l‘essente‖, essere incluso, al catego-
riale. La distinzione logica e ontologica fra determinazioni trascendentali e categoriali dell‘ente è tutt‘altro che
―superata‖ e senza di essa cadiamo in svariate confusioni, non solo quelle fra ―oggetto‖, ―cosa‖ ed ―ente‖, già
evidenziate, ma anche quella, molto più delicata perché legata a questioni antropologiche fondamentali, fra indi-
vidualità in senso trascendentale e categoriale, anche se questa sembra avere origini lontane, ben prima di Hus-
serl nella scolastica medievale, non tomista (Cfr. infra, nota 44). Ovviamente, un‘ontologia formalizzata può
chiarire queste confusioni distinguendo fra le diverse ontologie formali e facendo vedere con chiarezza punti di
convergenza e divergenza.
20
Giustamente C. Esposito fa notare come nel passaggio che porta dalla metafisica aristotelica a quella moderna
da Wolff in poi, abbia un ruolo fondamentale la sistematizzazione tardo-scolastica della metafisica ad opera di
Francisco Suarez che «trasforma dall‘interno la grande tradizione aristotelica, definendo in maniera nuova dal
suo interno il suo soggetto, il suo oggetto, il suo metodo, la sua interna struttura sistematica, suddivisa d’ora in
poi — secondo una precisa suggestione scotiana — in una parte generale e una speciale, la quale ultima tratta
degli enti determinati (rispettivamente, l‘ente infinito, o Dio, e gli enti finiti o creati)» (Esposito, 2009, p. XV.
Corsivo mio). Cfr. anche la bibliografia al riguardo citata da Esposito.
21
Fabro rifacendosi appunto all‘idea heideggeriana del ―pensare filosofico‖ autentico come ―pensiero essenzia-
le‖, al di là di ogni idea storicista moderna di ―superamento‖ del pensiero dei grandi pensatori antichi, parla di
―tomismo essenziale‖ e di Tommaso come ―pensatore essenziale‖. Post-modernità insomma, anche nel senso
riduttivo heideggeriano, vuol dire anche recupero della philosophia perennis, perché pensiero ontologico, pen-
siero capace di ―(ri-)porsi in ascolto dell‘essere della cosa‖, senza ridurlo, kantianamente e scientisticamente, a
mera ―rappresentazione‖.
22
Mai Tommaso avrebbe definito ―assiomi‖ (in latino dignitates) le proposizioni indimostrate di una determina-
ta teoria dimostrativa da cui derivare deduttivamente le altre. Per Tommaso infatti dignitates, assiomi, per sé e-
videnti per tutti sono solo i primi principi della logica formale e della metafisica (principio di non contraddizio-
ne, principio del terzo escluso, etc.), proposizioni da cui per sé — spiega di nuovo molto correttamente Tomma-
so dal punto di vista della scienza logica — non è possibile derivare nulla, essendo di per sé meta-regole di ogni
procedura dimostrativa, di cui ogni uomo ha una conoscenza abituale, innata, auto-evidente (per se noti apud
omnes) , non acquisita, alla base della sua capacità di ragionamento (si tratta del cosiddetto intellectus, habitus
principiorum Cfr. In III Sent., 23, 2, 2, 1 co.; Q. de Ver., 2,12 co. e //). Le proposizioni indimostrate delle altre
scienze anche matematiche, viceversa, sono per Aristotele e Tommaso legate all‘esperienza, oppure inventate
dalla fantasia creatrice del matematico, sulla base di esperienze spazio-temporali elementari. In ogni caso, sono

19
Così, nell‘analisi dei termini che costituiscono le proposizioni (definizioni) semplici, sog-
getto/predicato, di cui la logica (dei termini o dei predicati) si interessa, sempre per evita-
re il regresso all‘infinito, bisogna risalire dai termini definiti, a termini ―non definiti‖ (i
cosiddetti ―termini primitivi‖ delle teorie), che si suppongono conosciuti in maniera intui-
tiva da coloro ai quali ci si rivolge.
Ebbene, per Tommaso, la nozione di ―ente‖ costituisce la nozione ―primitiva‖ più im-
mediata e universale, al fondo di ogni altra espressione predicativa — una nozione ―trascen-
dentale‖, dunque —, nozione che, in base a diverse relazioni fondamentali che ogni ente in
quanto ente può avere — con se stesso, con i suoi costituenti ontologici (essere e essenza) e
con tutti gli altri enti in quanto tali —, si articola in differenti nozioni equivalenti a quella di
ente, ovvero in differenti modalità di dire ―ente‖: le altre nozioni ―trascendentali‖ oltre a
quella di ―ente‖, appunto. Nozioni equivalenti a quella di ente che però, proprio per la diver-
sità delle relazioni sottese, sono assolutamente non-identiche, sia fra di loro, sia con la nozio-
ne di ―ente‖. Sono cioè solo estensionalmente, ma non intensionalmente reciprocamente pre-
dicabili fra di loro e con la nozione di ente (―commutano‖ fra di loro e con la nozione di en-
te)23. Citiamo qui per esteso il passo del De Veritate dove Tommaso esplica il cuore della sua
ontologia formale che, distinguendo fra ―ente‖ e ―vero‖ come due nozioni equivalenti ma non
identiche, ne fa i primi due trascendentali della sua tavola (cfr. nota 23).
Come nelle proposizioni dimostrabili bisogna operare la riduzione a qualche principio
per sé noto all‘intelletto, così bisogna fare quando si ricerca «il che cos‘è» (quidditas: la
definizione, N.d.R.) di una certa cosa, altrimenti in entrambi i casi si andrebbe
all‘infinito, e così verrebbero meno del tutto la scienza e la conoscenza delle cose. Ora
ciò che innanzitutto l‘intelletto concepisce come la cosa più nota di tutti ed in cui risol-
ve tutti i concetti è l‘ente (la nozione più primitiva di tutte in qualsiasi linguaggio,

tutt‘altro che auto-evidenti (al massimo sono evidenti solo per i cultori di quella data disciplina: per se noti quo-
ad nos) e quindi non sono definibili come ―assiomi‖ (per se noti apud omnes) , ma come ―postulati‖ o ―princi-
pi‖. Se vogliamo, tutta la ―rivoluzione copernicana‖ moderna a partire da Descartes, consiste proprio nel suppor-
re come ―auto-evidenti‖ gli assiomi delle matematiche e, con Newton, anche le tre leggi della meccanica (prin-
cipi di inerzia, di proporzionalità fra forza e massa x accelerazione, di azione-reazione). Con ciò si pongono le
basi logiche non solo della indistinguibilità fra ―assiomi‖ e ―postulati‖ nella logica della dimostrazione moderna,
ma ultimamente fra la metafisica e le altre scienze. Ovvero, si pongono le condizioni logiche-ontologiche per
considerare le scienze fisico-matematiche, basate sul principio moderno di evidenza, come la nuova sorgente di
certezze assolute (= scientismo), invece che la metafisica e la teologia dell‘antichità.
23
Due predicati (e, epistemologicamente, le nozioni sottese) sono logicamente equivalenti se sono soddisfatti
(resi veri) dallo stesso insieme di argomenti (nomi di oggetti), se hanno cioè la medesima estensione. P.es.,
―being red‖, in inglese, e ―essere rosso‖, in italiano, sono due predicati equivalenti, così ―essere acqua‖, in ita-
liano, e ―essere H2O‖, in fisico-chimica. Ma sebbene abbiano i medesimi referenti (ovvero medesimi sono gli
oggetti che i loro argomenti denotano, ovvero medesimo è il loro ―riferimento‖, in italiano, reference in inglese,
Bedeutung in tedesco, secondo il classico linguaggio di Frege), non è affatto detto che siano ―identici‖ sotto tutti
i rispetti, e quindi reciprocamente sostituibili in qualsiasi contesto, senza che il ―senso‖ (meaning in inglese,
Sinne in tedesco, secondo il classico linguaggio di Frege) delle rispettive proposizioni — e quindi la loro verità
— ne venga profondamente alterato. I diversi ―trascendentali dell‘ente‖ della tavola tommasiana sono dunque
nozioni (predicati) equivalenti di (e quindi commutabili con) ―ente‖ (ovvero: ―entità‖, ―cosa‖, ―uno‖, ―qualco-
sa‖, ―vero‖, ―buono‖, tutti commutano con ―ente‖, p.es., ―ogni ente è un‘entità‖, ovvero ―ogni entità è un ente‖;
oppure: ―ogni cosa è un ente‖, ovvero ―ogni ente è una cosa‖, etc.), ma non identiche (non hanno il medesimo
significato) e quindi — ripetiamo, e mai come in questo delicatissimo caso ripetita iuvant! — non sempre reci-
procamente fra loro sostituibili, senza che il senso e la verità della proposizione ne sia alterata. P.es., oggetto e-
stensionale dell‘atto intellettivo come pure dell‘atto volontario è comunque l‘ente, ma dell‘uno in quanto ―vero‖
(oggetto intensionale dell‘atto intellettivo), dell‘altro in quanto ―valore‖ (il bonum di Tommaso, oggetto inten-
sionale dell‘atto volontario). Come pure ciò che costituisce il referente della ―verità‖ come procedura di adegua-
zione è comunque l‘ente, ma non in quanto ―valore‖ (Nietzsche) o in quanto ―qualcosa‖ (Platone), ma in quanto
―entità‖. La logica dell‘ontologia formale in generale, quelle tommasiana e fenomenologica, in particolare, è
dunque una logica intensionale e non estensionale (cfr. nota 5).

20
N.d.R.) (…) per cui è necessario che tutti gli altri concetti dell‘intelletto siano ottenuti
per aggiunta all‘ente. Ora all‘ente non si può aggiungere niente come estraneo, al modo
in cui la specie si aggiunge al genere o l‘accidente alla sostanza, perché ogni natura è
l‘ente predicato a modo di essenza (essentialiter:in modo cioè da rendere convertibile il
soggetto con il predicato24, N.d.R.), come anche il Filosofo prova nel III libro della Me-
tafisica. Si dice invece che alcune cose aggiungono qualcosa all‘ente in quanto espri-
mono un modo dello stesso ente che non è espresso dal nome di ente. Il che accade in
una duplice maniera. Innanzitutto quando il modo espresso è un qualche modo speciale
dell’ente. Vi sono infatti diversi gradi di entità (entitas)25 secondo i quali si prendono i
diversi modi di essere (esistere, N.d.R.), e secondo questi modi si prendono i diversi ge-
neri delle cose. Per esempio, la sostanza non aggiunge all‘ente qualche differenza che
designi qualche natura sopraggiunta all‘ente, ma col nome di sostanza si esprime sem-
plicemente un certo speciale modo di essere (esistere, N.d.R.), cioè l‘essere per sé, e co-
sì è per tutti gli altri generi. La seconda maniera si ha quando il modo espresso è un
modo generale dell’ente… (Q. de Ver., I,1co.).
Dunque il fondamento pre-categoriale di tutte le categorie e quindi di tutti i predicati
(generi concettuali) è l‘essere-dell‘essenza del singolo ente, o ―entità‖ dell‘ente, che determi-
na la modalità di esistere di un dato ente — sia esso sostanza (―prima‖, individuo, o ―secon-
da‖, genere/specie naturale) o accidente — in quanto frutto di un determinato concorso causa-
le26. Senza riportare qui tutto il seguito del corpus della risposta in cui Tommaso espone le

24
Ogni predicazione essenziale (p.es., ―l‘uomo è animale razionale‖) è analitica, tale cioè da rendere convertibi-
le il soggetto e il predicato (infatti: ―l‘animale razionale è uomo‖), senza per questo essere tautologica. E‘ questa
la differenza fondamentale fra ontologia tommasiana e leibniziana, o se vogliamo, fra ontologia classica e mo-
derna.
25
La nozione di entitas è la nozione-chiave dell‘ontologia formale tomista tanto quanto l‘oggettualità per quel-
la husserliana. Infatti, come l‘ ―oggettualità‖ è il correlativo rispetto alla ―soggettività‖ della relazione intenzio-
nale veritativa del trascendentale moderno, l‘ ―entità‖ è il correlativo dell‘ ―intelletto‖ secondo la relazione di
―adeguazione‖ come abbiamo visto nella citazione precedente. L‘entità di un ente è dunque l’essere-
dell’essenza di un ente, che è specifico per ciascun ente in quanto determina la sua specifica modalità di esisten-
za secondo diversi gradi di partecipazione all‘essere e dunque secondo diversi generi naturali gerarchicamente
ordinati cui l‘ente in oggetto appartiene. L‘essere-dell‘essenza con la sua specificità si distingue così dall‘essere-
dell’esistenza che è invece l‘esse commune a tutti gli enti, nel senso che ―tutti gli enti esistono‖, ciascuno secon-
do la sua modalità di esistenza (o essenza), e quindi secondo i suoi diversi generi di appartenenza (cfr. nota 26),
ciascuno relativo ad un determinato concorso causale, da cui l‘esistenza di quell‘ente/entità, secondo la sua pro-
pria modalità di esistenza dipende (Cfr. infra, §4.3.3). P.es., la specie del dinosauro, ovvero l‘esistenza di entità
biologiche individuali di quella specie, dipende dal concorso causale (nicchia ecologica) di cause ambientali e
genetiche che, essendo venute meno, hanno determinato l‘estinzione di quella specie, ma che nella misura in cui
fossero restaurate, renderebbe di nuovo attuale (e non solo possibile come oggi) l‘esistenza di quelle entità. U-
gualmente il genere dei viventi organici, cui noi come i dinosauri apparteniamo, dipende da un determinato con-
corso causale molto particolare che si è prodotto sulla terra già da alcuni milioni di anni (e che potrebbe darsi,
nel passato, nel presente o nel futuro anche su altri pianeti), e che potrebbe durare sulla terra ancora per svariate
migliaia e forse milioni di anni, — sempre che riusciremo a trovare una soluzione al disastro ecologico che
stiamo perpetrando, che ormai sta mettendo a rischio la sopravvivenza della nostra come di altre specie, per cui
potrebbe essere già tanto arrivare alla fine di questo millennio… (Cfr. (Basti, 2002, p. 356ss.))
26
―Ente‖, e/o ―entità‖, e/o ―cosa‖, e/o ―uno‖, e così via tutti i trascendentali sono non solo le ―sostanze prime‖
(individui) e/o ―seconde‖ (generi e specie cui un individuo appartiene), ma anche tutti gli ―eventi‖ o ―accadi-
menti‖ o ―accidenti‖ di una data sostanza (―qualità‖, ―quantità‖, ―relazioni‖, etc.). Come pure sono ―enti‖ e/o
―entità‖ non solo sostanze ed eventi naturali, ma anche gli ―enti logici‖ e addirittura gli ―enti fantastici‖, in
quanto anch‘essi a loro modo ―esistono‖, in quanto ‖causati da‖ processi mentali, come gli enti naturali sono
―causati da‖ processi naturali P.es., esemplifica Tommaso (De ente et essentia, 3), se definisco ―l‘araba fenice‖
come ―l‘uccello che risorge dalle sue ceneri‖ è chiaro che esso non esiste, perché la modalità di esistenza biolo-
gica sottesa al genere avicolo è incompatibile con la proprietà della resurrezione. Viceversa, se lo definisco co-
me ―l‘uccello mitologico che risorge dalle sue ceneri‖, la modalità di esistenza fantastica (fiction) può essere
compatibile con la proprietà della resurrezione, anzi in quel dato mito, effettivamente (storicamente) lo è. In altri

21
nozioni equivalenti di ―ente‖ che costituiscono altrettanti ―trascendentali‖ dell‘essere, pos-
siamo così sintetizzare questo testo, come ho già riportato altrove (Basti, 2002, p. 397-399):
Dunque, secondo Tommaso, ci sono dei termini equivalenti alla nozione di «ente», che
sono auto–evidenti quanto questa nozione, ma che esprimono dei «modi di dire l‘essere di un
ente» che la nozione di ente da sé sola non è in grado di esprimere. Tali modi si suddividono
in due fondamentali:
1. In un modo speciale di essere, ovvero, secondo la specifica entità o grado intensivo di
essere di ciascun ente (p.es., essere-sostanza e quindi essere–uomo, o essere–cavallo,
etc.; oppure essere-accidente e quindi essere–numero quantità o essere-relazione, etc.
Cfr. nota 25). Questa della distinzione fra le due nozioni equivalenti di ―entità‖ ed
―ente‖ è la distinzione più originale e più fondamentale della semantica ontologica
tommasiana. Infatti, ricordiamolo, Tommaso nello stesso articolo del De Veritate a-
veva detto che la verità è adeguazione dell‘intelletto all‘entità (essere dell‘essenza at-
tualmente implementata in quell‘ente) di un ente.
2. In modi generale di essere, comuni a tutti gli enti. Cioè, qualsiasi linguaggio, qualsia-
si sia la specie di enti di cui si occupa, di fatto tratterà di enti che sono tutti «cose»,
che sono tutti «in sé delle unità», che sono tutti in qualche grado, anche nullo, «veri»,
che sono tutti in qualche grado, anche nullo, «dotati di valore», etc.. Più esattamente,
rispetto a questi modi generali di essere:
a. Rispetto a se stesso (= in sé), ogni ente è:
Affermativamente una generica cosa, ovvero genericamente dotato di una qualsiasi essenza
o natura;
Negativamente un indiviso, un uno, ovvero un‘unità trascendentale o individualità (si tratta
dell‘«uno trascendentale» in quanto fondamento dell‘«unità formale» e dell‘«unità quantita-
tiva» di un ente, ma che non si confonde con esse).
b. Rispetto ad altro da sé (= ad altro), ogni ente:
Rispetto a qualsiasi altro ente, è qualcosa, ovvero una «cosa qualificata», qualitativamente
distinta27. Invece,

termini, il dictum parmenideo, ―ogni ente esiste‖ è certamente vero nell‘ontologia tommasiana, purché si distin-
guano le diverse modalità di esistenza relative al concorso causale in grado di giustificarne l‘esistenza, secondo,
appunto una determinata modalità (essenza). Di qui il principio fondamentale dell‘ontologia tomista della com-
posizione metafisica di ogni ente di ―essenza‖ e ―atto d‘essere‖, per cui ogni ente partecipa dell‘essere (dipen-
denza ― verticale‖ dall‘Essere Assoluto) secondo un determinato grado e modalità, dipendente, appunto, dalla
sua essenza (dipendenza ―orizzontale‖ dagli altri enti).
27
―In tal modo, come ogni ente è definito ‗uno‘ perché è indiviso in sé stesso, così è definito anche ‗qualcosa‘
perché è diviso rispetto ad altro da sé‖ (In De Ver. 1,1, resp.). Questa osservazione di Tommaso è essenziale.
Infatti, l'errore del razionalismo consiste essenzialmente nell'identificare platonicamente il fondamento dell'unità
o individualità dell'ente realmente esistente (questo albero, quest'uomo, etc.) nella sua unità formale. Ma questo
implica necessariamente la compresenza di tutti gli altri enti rispetto ai quali l‘ente in questione si diversifica
come unico (si pensi alla haecceitas di scuola scotista (anche se non necessariamente di Scoto) e di tanta analisi
logica contemporanea sul concetto di referenza (Salmon, 2005)). Se è così, l‘individualità dell'ente non è mai
fondata, a meno che la mente umana non abbia capacità divinatorie di conoscenza della totalità assoluta. La ge-
nialità della sintesi tomista è di aver legato l'individualità all‘in sé di un ente, e non al suo essere-rispetto-ad-
altro, ma al suo essere uno-in-sé (―indiviso in se stesso‖: unità trascendentale). Questo è essenziale in antropo-
logia: l'individualità personale non è legata alla relazionalità ad altri, altrimenti né l‘embrione, né il malato in
coma, sarebbero individui personali. L'individualità di un ente, di ogni ente, uomo compreso, è legata al suo es-
sere in sé e dunque, come vedremo, al suo atto d'essere partecipato. Sono le relazioni a fondarsi sull'individuali-
tà in sé della sostanza, non viceversa. Solo nella SS.ma Trinità è vero il contrario: le Persone divine sono rela-
zioni sussistenti, ma guai a confondere ordine soprannaturale con quello naturale, umano. Il cosiddetto dialogo è
proprietà, facoltà dell'essere personale dell'individuo umano, ma non fonda questo essere, al massimo cerca di
esprimerlo. Ciò significa che ogni persona umana si caratterizza per una radicale incomunicabilità del suo esse-

22
Rispetto ad un ente che può entrare in relazione con qualsiasi altro ente, ovvero rispetto alla
mente (di un qualche essere intelligente, umano o altro), ogni ente:
— è (più o meno) vero, in quanto oggetto di diversi gradi e modalità di conoscenza da
parte dell‘intelletto, corrispondenti ai diversi gradi di entità propri di quell‘ente
— è (più o meno) buono, è dotato cioè di un certo valore, in quanto si pone in diversi
modi in relazione con la volontà
L‘essere dell‘ente è dunque al fondamento tanto della verità logica, quanto del valore
etico, ma non si identifica né con il «vero» (= razionalismo) né col «valore» (= volontarismo,
nichilismo)28.

Ente
In specie In genere

In sé Ad altro da sé
Entità
A tutti gli enti Alla mente

Uno Cosa
Qualcosa

Vero Buono

Tavola 1 Tavola riassuntiva dei trascendentali dell’essere (De Ver. I, 1)

Rispetto all‘ontologia formale moderna e, d‘altra parte, rispetto a quella post-moderna


della Stein, credo che alcune osservazioni vadano fatte per capire la portata di differenze e
convergenze con la prospettiva tommasiana:
1. Innanzitutto, l‘attenzione di Tommaso a non confondere, come sistematicamente fan-
no i moderni, identità ed equivalenza rispetto alle forme fondamentali di predicazione
dell‘essere in ontologia formale, sebbene per ambedue le relazioni valga il principio
di simmetria S/P, ovvero della convertibilità soggetto/predicato nelle rispettive propo-
sizioni (p.es., se ogni ente è entità, ogni entità è ente; se ogni ente è cosa, ogni cosa è
ente, etc., senza che le due nozioni si identifichino). Ciò vuol dire che Tommaso è
consapevole, differentemente da molti moderni, del carattere non-estensionale della
logica che soggiace all‘ontologia formale (cfr., sopra, nota 5 e infra).
2. Rispetto all‘ ―esser-cosa‖ come nozione equivalente allo ―essere-ente‖, questo predi-
cato non coincide assolutamente con lo ―essere-oggetto‖ dei moderni, così da ricono-
scere alla soggettività un carattere costitutivo in senso trascendentale (assoluto) rispet-
to alla ―cosalità‖ (realtà) dell‘ente. Costitutivo dell‘ ―ente‖ e del suo equivalente ―co-
sa‖ (res), è, per ogni ente, la composizione trascendentale di tipo modale (poten-
za/atto) ―essenza‖ / ―atto d‘essere‖, così che, come dice Tommaso stesso, nel passo
del De Veritate che stiamo commentando, se con la nozione di ―ente‖ viene eviden-
ziata la relazione costitutiva di partecipazione all‘essere, con quella di ―cosa‖ viene
evidenziata la relazione costituiva di ciascun ente alla propria essenza, qualsiasi essa
sia29. Da questa relazione dipende la ―modalità‖ e la ―misura‖ della partecipazione
all‘essere dell‘ente stesso. La modalità della composizione essenza/atto d‘essere va
naturalmente intesa in senso ontologico, causale, e non logico. Ovvero, ogni ente è

re profondo o "essere in sé", e qui è la radice di tutto il suo mistero, di tutta la sua dignità, di tutta la sua inesau-
ribile novità e relazionalità ―ad extra‖ e ―ad intra‖, e, perché no, di tutta la sua inarrivabile bellezza!
28
Ricordiamo che, come giustamente afferma Heidegger, la riduzione dell'essere a valore, la riduzione di "ciò
che è" a "ciò che voglio che sia", e a ―ciò che mi è utile che sia‖ è la radice del nichilismo.
29
Ricordiamo che la relazione di un ente alla propria essenza in quanto tale nella sua specificità, e, nel caso, di
una sostanza prima o individuale, nella sua unicità, è ciò che fa di un ―ente‖ un‘ ―entità‖ e non una ―cosa‖.

23
metafisicamente costituito all‘incrocio di una relazione causale ―verticale‖ di parteci-
pazione all‘essere dall‘Essere Sussistente — l‘Unico in cui non si dà reale differenza
essenza/essere perché Causa cusante incausata —, e da un insieme di relazioni causali
―orizzontali‖, sebbene fra loro gerarchicamente ordinate con altri enti (cause causanti,
a loro volta causate) che determinano l’essenza (o ―natura‖ e quindi il genere naturale
di appartenenza) di quell‘ente e perciò la modalità della sua partecipazione
all’essere30 (Cfr. Tavola 2). Il fatto che l‘ ―essenza‖ sia modalmente dalla parte della
―potenza‖ e non dello ―atto‖ di essere, non dipende come per i moderni dalla funzione
costitutiva della soggettività, così da confondere fra ―potenza/necessità‖ ontologica
(causale) e ―possibilità/necessità‖ logica, riducendo la ―cosa‖ ad ―oggetto‖, ma dal
fatto che la causalità ―orizzontale‖ costitutiva dell‘essenza di ciascun ente, suppone
l‘esistenza del causante e quindi la sua dipendenza causale prima dallo Essere Sussi-
stente di ogni ente causato/causante. In tal modo, l‘Essere Sussistente è la ―Causa
Prima‖ o il ―Fondamento‖ dell‘esistenza e dell‘essenza di ogni ente, per la mediazio-
ne di altri enti “cause seconde‖. Laddove per la fede biblica, identificassimo la Causa
Prima o il Fondamento dell‘universo degli enti esistenti passati, futuri (= possibili) e
presenti (= attuali), con il Dio Unico e Personale della Bibbia e, quindi identificassi-
mo la partecipazione dell‘atto d‘essere con l‘atto creativo ―simultaneo a‖ — perché
―contiene causalmente in sé‖ — tutta l‘evoluzione dell‘universo, abbiamo lo schema
ontologico di congruenza creazione/evoluzione, contro tutti gli assurdi ―-ismi‖ ideo-
logici di contrapposizione fra ―creazionisti‖ ed ―evoluzionisti‖ (Cfr. (Basti, 2002, p.
357-369) e Tavola 2).

Tavola 2. Schema della inter-relazione fra Causa Prima Metafisica (frecce grandi, causalità “verticale”, metafisica o
“trascendentale”), “fuori” dell’universo spazio-temporale (cerchio grande chiaro), e cause seconde fisiche (frecce pic-
cole, causalità “orizzontale”, fisica o “categoriale”) dentro tale universo che concorrono a determinare − su un livello
causale diverso dalla Causa Prima, come si simbolizza nel disegno col fatto che le cause seconde sono su due dimen-
sioni, la Causa Prima su tre dimensioni – l’essere (il contenuto) e l’essenza (il contorno) dell’esistenza dei singoli enti
(cerchi piccoli più scuri). L’essere di ogni ente, essenza ed essere, entità ed esistenza consiste dunque nel risultato del
concorso causale di Causa Prima e cause seconde, dell’Essere Sussistente e degli altri enti fisici.

30
Come ho spiegato altrove (Basti, Filosofia della Natura e della Scienza. Vol. I: I Fondamenti, 2002, p. 298-
300; 357-369) il proprium della ontologia aristotelica rispetto a quella platonica è la teoria della spiegazione
causale delle essenze mediante una causalità naturale di tipo fisico gerarchizzata, dove cioè i corpi fisici più sta-
bili e fondamentali (i corpi celesti) esercitano un‘azione causale stabilizzante sull‘azione causale dei corpi fisici
più instabili (gli elementi di cui sono fatti i corpi terrestri), garantendo così la stabilità delle specie/generi (so-
stanze ―seconde‖) mediante il succedersi degli individui (sostanze ―prime‖): homo generat hominem et sol. Lo
stesso schema ontologico-formle — sebbene con una fenomenologia fisica del tutto diversa — che ritroviamo
nell‘attuale biologia e cosmologia evolutive, dove la stabilità delle specie di molecole, atomi e particelle suba-
tomiche a livello microscopico, come pure delle diverse specie di composti (―corpi‖) inorganici e organici a li-
vello macroscopico dipende dalla stabilità dei relativi concorsi causali che ne determinano l‘esistenza possibile
(cfr., p.es., la nozione di ―diagramma di Feynman‖ in fisica microscopica e di ―nicchia ecologica‖ in fisica bio-
logica).

24
3. Rispetto all‘ontologia post-moderna della Stein — una volta posta fra parentesi con
una sorta di ―riduzione ontologica‖ analoga, sebbene inversa alla ―riduzione fenome-
nologica‖ husserliana, l‘inizio dalla steiniana soggettività costitutiva, ma non trascen-
dentale31 —, le due istanze di ―trascendenza‖ orizzontale (dalla soggettività della co-
scienza alla soggettività ontologica della sostanzialità dell‘io) e verticale (dalla so-
stanzialità contingente dell‘io all‘Essere Assoluto) rispetto alla soggettività costitutiva
dell‘autocoscienza dell‘analisi ontologica steiniana, bisogna dire che vi è un‘indubbia
analogia (identità di struttura formale con diversità di contenuto) con l‘istanza della
doppia fondazione causale tommasiana, orizzontale (fondazione causale dell‘essenza)
e verticale (fondazione causale (partecipazione) di tutto l‘essere degli enti, e quindi
anche della loro esistenza), dell‘ens e del verum. Si tratta cioè di due modelli (inte-
pretazioni) ontologici distinti di un’unica struttura formale ontologica soggiacente:
quella comune a tutte le ―metafisiche della trascendenza‖. Ciò diventerà chiaro non
appena passeremo dall‘ontologia formale fenomenologica, all‘ontologia formalizzata
dove queste analisi della struttura formale unica di diverse ontologie (modelli ontolo-
gici) possono essere sviluppate adeguatamente, indipendentemente dalle scuole di
pensiero, e dunque in senso post-ideologico o post-moderno (Cfr. infra §4.4).
Alla luce di tutto questo, si può dunque capire quanto dicevamo nella conclusione del
precedente paragrafo e che possiamo qui ripetere. Come, cioè, il tragitto steiniano dal tra-
scendentale moderno a quello classico, è perfettamente esemplificato nella sequenza — sem-
pre ripetuta in questo ordine dalla Stein — delle forme fondamentali studiate dalla sua onto-
logia formale: ―oggetto‖-―qualcosa‖-―essere‖, trittico di cui la prima forma costituisce il pun-
to di partenza ―moderno‖, la terza il punto di arrivo ―classico‖, con il ―qualcosa‖ come il vero
punto di contatto (platonico: cfr. nota 27) comune a Tommaso, nella sua tavola dei trascen-
dentali, come alla Stein.
La domanda che ci poniamo è ora la seguente: esiste in Tommaso un tragitto inverso,
dallo ―essere‖ e dallo ―essere qualcosa‖ fino allo ―essere oggetto-per-un-soggetto‖? Certa-
mente in questi termini no, perché Tommaso come tutti i classici è al di qua della contrappo-
sizione rinascimentale e moderna soggetto/oggetto, almeno tanto quanto i post-moderni sono
al di là di essa (Cfr. infra § 4.3, la teoria della ―doppia significazione‖ dei predicati versus la
teoria della doppia predicazione, da Abelardo in poi). Eppure, proprio perché Tommaso come
i fenomenologi, sono interessati al fondamento ante-predicativo della verità logica, esiste un
punto di contatto comune con l‘analisi epistemica tommasiana dell‘essere, sebbene, ripeto,
mai Tommaso può riconoscere alla coscienza, e quindi a siffatta analisi, un carattere anche
solo ―costitutivo‖ nel senso della Stein32, e men che mai ―trascendentale‖, nel senso di Hus-

31
Tale ―riduzione ontologica‖ o ―messa fra parentesi della soggettività‖ moderna è giustificata dal fatto che essa
ha per la Stein valore costitutivo di fondazione della ―certezza‖, ma non della ―verità‖ della conoscenza, non ha
cioè valore trascendentale. Prescindiamo qui, però, da un‘analisi della consistenza di questo passaggio, teorizza-
to dalla Stein proprio in Potenza e Atto, dalla soggettività epistemica dell‘io del cogito agostiniano-cartesiano,
alla soggettività ontica dell‘io-sostanza che, di fatto, critica il nucleo comune dei famosi paralogismi della Ra-
gion Pura con cui Kant negava la possibilità stessa di una metafisica e/o di un‘ontologia dell‘io a partire dal co-
gito cartesiano. Ovviamente questa ―sospensione del giudizio di consistenza‖ non è perché pensiamo qui che
tale passaggio sia di per sé inconsistente nella Stein, sebbene Tommaso in riferimento ad un certo analogo tenta-
tivo da parte dell‘agostinismo medievale lo ritenesse tale (Cfr. per una ricostruzione infra e (Basti, 1991), ma
perché un‘analisi di consistenza richiederebbe ben altro spazio e profondità di analisi.
32
Ma vedremo come l‘immanenza immediata (auto-trasparenza) dell‘atto intellettivo è per Tommaso costituiva
nel senso della Stein dell‘operazione intellettiva e della stessa ―coscienza‖, sia come ―presenza a se stesso‖ sia
come ―autocoscienza‖. Tommaso cioè afferma la riflessività dell‘atto non della facoltà (potenza attiva) in quanto
attuata.

25
serl (e, mutatis mutandis, di Kant), rispetto alla verità logica (nell‘intelletto umano, ma nean-
che nell‘intelletto divino)33.
33
Con buona pace di Heidegger, che conosce Tommaso solo attraverso la mediazione di testi medievali di scuo-
la scotista e, sembra, erroneamente attributi a Scoto stesso, l‘Aquinate non è un ―ontoteologo‖: l‘idea nella men-
te di Dio non costituisce affatto la ―norma‖ cui l‘intelletto umano deve adeguarsi per conoscere la verità, come
Heidegger invece interpreta la teoria tommasiana dell‘adaequatio nel suo saggio sulla Essenza della verità, evi-
dentemente condizionato dal suo studio sulla ―dottrina delle categorie‖ attribuita a Duns Scoto, oggetto della sua
tesi di abilitazione, alla cui luce rilegge tutto il pensiero scolastico. Viceversa, per Tommaso, è l‘essere-della-
cosa o ―entità‖ la misura della verità logica conoscibile all‘intelletto umano e mai l‘idea-norma nella mente di
Dio. Se così fosse cadremmo, appunto nell‘ontoteologia di certi teologi medievali e moderni, ovvero nella sup-
posizione che è la teologia la base dell‘ontologia e quindi, appunto, l‘adeguazione non alla realtà sensibile attin-
gibile direttamente alla mente umana attraverso i sensi (e alla realtà intellegibile attingibile inferenzialmente alla
mente umana a partire da quella sensibile), ma la corrispondenza all‘idea-norma divina, la ―misura‖ tanto della
verità ontologica che logica. Ecco, per esempio cosa dice Tommaso a tal riguardo proprio nella Quaestio I del
De Veritate: «Il completamento di qualsiasi movimento o operazione si ha sempre nel loro termine. Il moto del-
la facoltà cognitiva termina sempre nell‘anima. Infatti, è necessario che il conoscente sia nel conosciuto secondo
la modalità propria del conoscente. Ma il moto della facoltà deliberativa termina alle cose. Per questo il Filosofo
pone una sorta di circolarità negli atti dell‘anima, secondo il quale la cosa che è fuori dell‘anima muove
l‘intelletto, e la cosa in quanto compresa dall‘intelletto muove il desiderio, e il desiderio tende a raggiungere la
cosa dalla quale il moto ha avuto inizio. (…) Bisogna perciò sapere che la realtà (res) si relaziona in modo di-
verso all‘intelletto pratico e a quello speculativo. L‘intelletto pratico causa la realtà (le azioni dell‘uomo, N.d.R.)
e quindi è misura delle cose che accadono per suo mezzo (cioè le azioni finalizzate al raggiungimento
dell‘obiettivo desiderato, N.d.R.); ma l‘intelletto speculativo che riceve dalle cose è in qualche modo mosso dal-
le cose stesse e quindi è la realtà (res) che lo misura. Dal che risulta evidente che le realtà naturali (res natura-
les), dalle quali il nostro intelletto apprende la scienza (non, quindi, per ―illuminazione‖ dall‘intelletto divino,
N.d.R.), misurano il nostro intelletto, come si dice nel X Libro della Metafisica, ma esse, a loro volta, sono mi-
surate dall‘intelletto divino nel quale sono tutte, come gli artefatti sono nella mente dell‘artefice. Così, pertanto,
l‘intelletto divino è misurante non misurato; la realtà naturale è misurante (l‘intelletto umano speculativo,
N.d.R.) e misurata (dall‘intelletto divino e dall‘intelletto umano pratico, N.d.R.); mentre il nostro intelletto è mi-
surato e non misurante le realtà naturali, ma è misura solo di quelle artificiali da lui prodotte» (Q. De Ver., I,
2c. Corsivi miei). Pur tuttavia, come spiega bene lo stesso Tommaso in un articolo seguente, il quarto, della me-
desima Quaestio, siffatto riferimento ―ultimo‖ metafisico alla verità che è nell‘intelletto divino, non ha nulla a
che fare con il principio dell‘idea-norma assoluta dei nostri poveri intelletti, tanto cara agli ―onteoteologi‖ (e agli
integralisti religiosi) di ogni epoca. Essendo il problema trattato nell‘articolo quarto, la classica questione onto-
teologica circa ―l‘esistenza o meno di un’unica verità a partire dalla quale derivano tutte le verità‖, la risposta
negativa di Tommaso a questo asserto ontoteologico, viene così argomentata: «Come appare evidente da quan-
to detto nell‘articolo secondo, la verità propriamente si trova nell‘intelletto umano e/o (vel) nell‘intelletto divino,
come la salute si trova propriamente nell‘animale. Nelle altre cose, dunque, la verità si trova per relazione
all‘intelletto, proprio come anche l‘ ―esser sano‖ viene predicato (analogicamente, N.d.R.), di altre cose, o in
quanto sono effetto (p.es., il sangue o l‘urina possono essere detti ―sani‖ per analogia dell‘animale in salute che
li produce, così le cose possono esser dette ―vere‖ per analogia all‘intelletto divino che le produce, N.d.R.), o in
quanto sono causa della salute dell‘animale (p.es., come il cibo può esser detto ―sano‖ per analogia con la salute
dell‘animale che ne mangia e viene dunque ―reso sano‖ da quel cibo, così le cose possono esser dette ―vere‖ per
analogia all‘intelletto umano che si adegua ad esse e quindi viene ―reso vero‖ dalle cose, N.d.R.). Pertanto, la
verità è nell‘intelletto divino propriamente e primariamente; nell‘intelletto umano propriamente e secondaria-
mente; nelle cose impropriamente (analogamente, N.d.R.) e secondariamente, visto che sono ―vere‖ solo rispetto
all‘una o all‘altra verità. La verità che è nell’intelletto divino è dunque una soltanto, dalla quale però derivano
nell’intelletto umano molteplici verità (…). Le verità che sono nelle cose sono, infatti, molteplici quanto le loro
entità (e ciascun ente è un‘entità, come sappiamo, N.d.R.) (…). Se pertanto prendiamo la verità propriamente
detta secondo la quale tutte le cose sono principalmente vere (cioè, in quanto esistenti e dunque in relazione
all‘intelletto dell‘Artefice Divino, come un artefatto in relazione all‘intelletto umano che lo produce: verità onto-
logica, N.d.R.), allora tutte sono vere di un‘unica verità, cioè della verità dell‘intelletto divino. Ma se prendiamo
la verità propriamente detta secondo la quale le cose sono dette secondariamente vere (cioè, in relazione
all‘intelletto umano: verità logica, N.d.R.), allora di molteplici cose vere avremo altrettante verità, ma anche
della medesima cosa vera avremo molteplici verità in anime diverse (ogni mente umana infatti avrà un suo pro-
prio percorso di adeguazione alla medesima realtà, proprio perché ogni mente è diversa dalle altre, N.d.R.)» (Q.
de Ver., I, 4c. Corsivi miei). In ogni caso, la verità logica, ovvero la verità che a noi qui interessa, ha la sua mi-
sura nell‘essere delle cose, non nell‘idea-norma divina naturalmente inconoscibile, anche se questo dispiace
molto agli integralisti religiosi, ovvero a coloro che, pretendendo di avere un accesso privilegiato alla mente di

26
2.2.6 TOMMASO D‘AQUINO: DAL TRASCENDENTALE CLASSICO AL TRASCENDENTALE MODERNO
Il punto di contatto epistemico fondamentale fra Tommaso e la Stein, ed oggi di ambe-
due le scuole, tomista e fenomenologica, con le scienze cognitive, dopo il loro attuale cambio
di paradigma dal rappresentazionale all‘intenzionale (cfr. (Freeman, 2001); (Rizzolatti &
Sinigaglia, 2006); (Basti, 2006))), è l‘idea che la conoscenza solo secondariamente è rappre-
sentazione cosciente. Primariamente essa è azione intenzionale, azione causale da/a la realtà
extramentale, interiorizzata nella mente mediante l‘atto cognitivo dei sensi e, nell‘uomo, (an-
che) dell‘intelletto, finalizzata ad una relazione e ad un comportamento adeguati ai fini del
soggetto conoscente (istintivi nell‘animale, (anche) razionali nell‘uomo) nei confronti della
realtà conosciuta, secondo quella ―circolarità‖ così ben sintetizzata da Aristotele, ripresa da
Tommaso nei testi del De Veritate riportati nella nota 33 e di cui qui citiamo solo il nucleo:
Per questo il Filosofo pone una sorta di circolarità negli atti dell‘anima, secondo il quale
la cosa che è fuori dell‘anima muove l‘intelletto, e la cosa in quanto compresa
dall‘intelletto muove il desiderio (volontà), e il desiderio tende a raggiungere la cosa
dalla quale il moto ha avuto inizio.
La circolarità della relazione intenzionale soggetto-oggetto è dunque per Tommaso
primariamente una relazione che inizia e finisce fuori della mente, ed è dunque in questo sen-
so che Tommaso non può riconoscere un carattere ―costitutivo‖ (e men che meno trascenden-
tale) all‘atto di coscienza. Infatti, come vedremo meglio in seguito citando Aristotele,
l‘intelletto percepisce se stesso nell‘atto di conoscere l‘oggetto fuori della mente: prima viene
la conoscenza dell‘oggetto, ma proprio perché questa conoscenza significa un atto di progres-
siva auto-assimilazione dell‘intelletto alla res, la riflessività dell‘atto intellettivo (la parte a-
gente dell‘intelletto che agisce su quella possibile) implica (non suppone!: ecco perché la co-
scienza di sé è non-costitutiva per Tommaso) la coscienza di sé dell‘intelletto. Tuttavia — e
qui è il punto di contatto col trascendentale moderno e con l‘analisi post-moderna di esso da
parte della Stein — l‘atto cognitivo dell‘intelletto, come atto di progressiva auto-
assimilazione formale all‘entità di ciascuna cosa, man mano che le evidenze sensibili forni-
scono nuovi dati, ha nella ―presenza‖ o ―immediata trasparenza‖ dell‘intelletto a se stesso in
quanto facoltà spirituale, la sua chiave di volta episte

27
tate di sensibilità (quelle dei corpi fisici non-animali, vegetali inclusi, N.d.R.) non ritornano su se stesse
in alcun modo, neanche parziale: non sanno, infatti, di agire, come il fuoco che non sa di riscaldare.

Questo testo di Tommaso, estremamente sintetico ed efficace, richiede un approfondi-


mento perché vengono introdotte due nozioni estremamente interessanti per la riflessione fe-
nomenologica in generale e quella di ispirazione steiniana in particolare, perché anticipatrici
e dunque in sostanziale continuità, proprio degli esiti teoretici dell‘ontologia «materiale» del-
lo spirito umano della Stein:

1. La distinzione fra le due operazioni dell’intelletto, ovvero ―l‘apprensione semplice


dell‘essenza‖ in quanto distinta dalla platonica ―intuizione dell‘essenza‖ e la ―formu-
lazione del giudizio‖. La novità della nostra trattazione è che, avendo messo le cose al
punto giusto grazie all‘ontologia formale, potremo dare una visione unitaria, semplifi-
cata, perché coerente e ―de-immaginificata‖, perché riportate tutte alla struttura for-
male soggiacente, delle diverse componenti dello studio tommasiano dell‘operazione
cognitiva — conversio ad phantasmata, lumen dell‘intelletto agente, formulazione del
verbum mentis come previa alla formulazione del giudizio, etc. —, riportandole tutte
al punto-chiave, strutturale, della capacità dell‘intelletto di conoscere la misura della
propria adeguazione al reale grazie alla sua natura spirituale.
2. La distinzione fra due tipi o livelli di coscienza nell‘uomo, in termini tommasiani fra
una «prima» e «seconda» riflessione dell‘intelletto su se stesso cui corrisponde una
conoscenza dell‘oggetto in «prima» (conoscenza della cosa come azione intenzionale
di adeguamento al reale) e «seconda» (conoscenza dell‘oggetto mediante una rappre-
sentazione interna del reale) intenzione.
3. La conseguente via soggettiva alla dimostrazione della spiritualità dell‘anima che,
come vedremo, ha proprio nell‘idea della presenza (o «trasparenza») a se stesso
dell‘intelletto la sua chiave di volta. Ma siccome è questa presenza la base ontologica
per la capacità dell‘uomo di conoscere la verità logica e quindi per la sua stessa capa-
cità di conoscere intenzionalmente gli universali (conoscere sub intentione universali-
tatis), è anche la base ontologica della cosiddetta via oggettiva alla dimostrazione del-
la spiritualità dell‘anima umana.
In questo senso, dunque, di una superiore sintesi fra via soggettiva dell‘interiorità (pla-
tonico-agostiniana) e via oggettiva naturalistica (aristotelica) va compreso l‘itinerario tomma-
siano dal trascendentale classico a quello moderno. L‘uomo è insomma capace di conoscere
l‘essere e la verità, proprio perché il suo intelletto, in quanto capace di pres

29
conoscere la propria adeguazione all‘oggetto così come i sensi ce lo presentano, tale capacità
si estrinseca innanzitutto in quella di astrarre, dai dati sensibili stessi, in quanto intelletto a-
gente, la specie intellegibile, così da ―de-materializzare‖ l‘atto cognitivo umano, da ―de-
contingentizzarlo‖. Stiamo qui, cioè, parlando della capacità dell‘intelletto, poiché in grado di
conoscere la misura della propria adeguazione all‘oggetto, di astrarre la differenza fra la co-
noscenza previa o a priori dell‘oggetto che esso stesso possiede in quanto memoria intelletti-
va (Cfr. la teoria aristotelica dell‘intelletto possibile come locus specierum intelligibilium e
quindi tutt‘altro che una tabula rasa in senso empirista (Cfr. Aristotele, De An., III,4,429a,27-
29; Tommaso d‘Aq., S. Th., I,79,6; S. c. Gent., II,74; In de Mem.,ii e //)) e l‘esperienza attua-
le. In tal modo l‘intelletto in quanto agente rende se stesso in quanto possibile, capace di co-
noscere l‘oggetto «come se fosse una “tabula rasa(ta)”» (Cfr. Aristotele, De An.,
III,429b,29-430a,2; Tommaso d‘Aq., S.Th., I,79,2c e //). Ovvero, l‘intelletto — attraverso
l‘alchimia aristotelica dell‘intelletto agente che, astraendo la specie, attua l‘intelletto possibile
— rende se stesso capace di conoscere l‘oggetto in forma intenzionalmente universale (inten-
tio universalitatis: cfr S. Th. I,85, 2; 3 e //), non legata cioè all‘esperienza limitata del singolo
soggetto. Rende se stesso, insomma, non schiavo delle proprie pre-comprensioni, come af-
fermato invece nell‘averroismo latino, ai tempi di Tommaso, e nell‘approccio ermeneutico di
tipo heideggeriano ai tempi nostri.
I moderni, invece, si pensi per esempio a Locke, fino a Popper, hanno completamente
frainteso il senso di questa metafora, aristotelica, prima, e quindi tomista, della tavoletta di
cera rasata dello scriba, interpretando in senso statico l‘espressione. Come cioè se l‘intelletto
fosse privo di pre-comprensioni legate all‘esperienza, sia innata che passata, contraddicendo
così non solo il buon senso (tutti, non solo nasciamo con pre-comprensioni, ma le aumentia-
mo giorno per giorno col crescere delle nostre esperienze), ma anche il senso metaforico pro-
prio del paragone aristotelico.
Infatti, se nella metafora della ―tavoletta di cera‖ degli antichi scribi, essa rappresenta
l‘intelletto in quanto ―possibile‖, in quanto capacità di comprendere per universali, è ovvio
che lo stilo dello scriba rappresenta l‘intelletto ―agente‖ in quanto ciò che rende capace
l‘intelletto stesso di comprendere in forma universale, staccando il soggetto umano dalla con-
tingenza dei propri a priori, sia individuali che culturali. Infatti, ed è questo ciò che sfugge ai
moderni, lo stilo degli scribi serviva non solo a scrivere, ma, prima di scrivere, anche a can-
cellare la tavoletta cerata con l‘altra estremità a spatola dello stilo stesso, così che la tavoletta
era non ―rasa‖, ma ―come se fosse rasa‖ (come la lettera del testo aristotelico afferma) perché
continuamente ―rasata‖ dallo stesso stilo che vi aveva già scritto in passato e di nuovo si ac-
cinge a scrivervi sopra.
Fuor di metafora, la capacità dell‘intelletto umano di farsi consapevole della propria a-
deguatezza/inadeguatezza al reale attraverso il dato empirico via via disponibile e che varia
continuamente, rende l‘uomo capace di comprendere in forma intenzionalmente (progressi-
vamente, tendenzialmente) universale, senza che rimanga schiavo delle proprie pre-
comprensioni, dei propri a-priori. Senza cioè quella limitazione tipica del modo di conoscere,
per usare la lettera dei testi di Tommaso, ―a modo dei sensi‖ che, per la loro materialità, sono
limitati nella loro capacità di riadeguamento dai limiti fisici e quindi dalla loro appartenenza
ad una data specie biologica. Con una lettura post-moderna, tutto ciò può essere posto in con-
tinuità con la produzione dell‘ultimo Husserl e la sua teoria della teleologia universale. Ma
Husserl non è la Stein, e questo richiederebbe uno studio a parte.

32
Ecco un testo fondamentale del De Unitate Intellectus (c. 4) in cui Tommaso critica la
nozione averroista41 che, similmente a quella ermeneutica contemporanea, assegna alle idee
memorizzate nell‘intelletto possibile come locus specierum intellegibilium, la funzione di
―griglia interpretativa‖ del dato sensibile attuale. Usando la nota metafora della ―luce intellet-
tuale‖ Tommaso afferma, infatti, recisamente, che ―l'illuminazione‖ (illuminatio) astrattiva
del dato da parte dell'intelletto agente non può essere ridotta, secondo il dettato averroista, ad
una ―irradiazione‖ (irradiatio) del dato sensibile attraverso ―la griglia‖ (la griglia interpretati-
va dell‘ermeneutica) delle idee già possedute nell'intelletto possibile separato e unico per tutti
degli averroisti. Dice dunque Tommaso — ma, naturalmente, neanche a dirlo, i traduttori
moderni del testo non colgono la differenza fra irradiatio e illuminatio:
Se si ritiene che le idee (species) intelligibili irradino sui dati sensibili e che in questo modo esse vengano
intese dall'intelletto, ne seguirebbe che questi dati diverrebbero idee intelligibili in atto, non per mezzo
dell'intelletto agente, ma per mezzo dell'intelletto possibile grazie alle idee che esso contiene. In secondo
luogo ne deriverebbe che questa irradiazione (irradiatio) non sarebbe in grado di rendere davvero intelli-
gibili in atto (= universali, N.d.R.) questi dati. Infatti, essi diventano intelligibili solo per astrazione. Inve-
ce, in questo caso si tratterebbe più di una recezione che di un'astrazione. D‘altra parte, poiché ogni rece-
zione è conforme alla natura del recipiente, l'irradiazione dei dati ad opera delle idee intelligibili che già
sono in noi non avverrebbe in maniera intelligibile (universale, N.d.R.

33
l‘esperienza passata è individuale ed irripetibile per ciascuno, allora ognuno dovrà percorrere
percorsi diversi per adeguarsi al medesimo dato.
E‘ ciò che Tommaso ci dice in quest‘altro testo:
Bisogna dire che l'intenzione di Aristotele non è di asserire l'identità dei concetti della mente per riferi-
mento alla loro enunciazione verbale, come se una medesima enunciazione sottintendesse una medesima
concezione della mente: poiché le enunciazioni verbali sono diverse presso diversi soggetti. Al contrario
(Aristotele) intende asserire l'identità dei concetti della mente per confronto con le cose: dice che i con-
cetti sono identici perché si riferiscono in maniera simile (non identica: le menti di chi li concepisce sono
infatti reciprocamente diverse, N.d.R.) alle medesime cose» (In Periherm, I,ii,21).
E‘ grazie alla presenza dell‘intelletto a se stesso, insomma, e alla sua capacità di ade-
guarsi indefinitamente all‘oggetto che il singolo uomo, individuale, limitato è capace di cono-
scere in forma intenzionalmente universale: hic homo intelligit (S.Th., I,54,4c; 79,2c; 3c; 4c;
etc.). L‘apprensione semplice dell‘essenza corrisponde così, introspettivamente, al primo
momento del processo della comprensione intellettiva, ovvero a quella sorta di ―illuminazio-
ne‖ quando pensiamo atematicamente di aver capito qualcosa, prima però di dire, a noi stessi
innanzitutto, che cosa abbiamo effettivamente capito, prima cioè di formulare un giudizio, di
esprimere un enunciato predicativo che esplicita l‘oggetto della nostra conoscenza intellettiva
della cosa. Per concludere, se il carattere intenzionale e progressivo della conoscenza delle
essenze delle cose spiega perché Tommaso parla di ―apprensione‖ e non di ―intuizione‖ delle
essenze, il carattere atematico e ante-predicativo di questa apprensione giustifica perché
Tommaso parla di apprensione ―semplice‖ (simplex apprehensio) e non articolata in forma di
giudizio.
2.3.2 LA FORMULAZIONE DEL GIUDIZIO COME SECONDA OPERAZIONE DELL‘INTELLETTO
In conseguenza della prima operazione dell‘intelletto, quella dell‘apprensione ―sempli-
ce‖ dell‘essenza che porta al ―concepimento‖ dell‘idea (concetto), viene dunque perfezionato
l‘atto intellettivo nella sua completezza, formulando il giudizio sotto forma di enunciato pre-
dicativo (giudizio). Tale esplicitazione si estrinseca cognitivamente in una riapplicazione
dell‘apprensione intellettiva ai dati sensibili da cui eravamo partiti, con quel surplus di infor-
mazione ottenuta mediante il processo astrattivo, così da produrre quello che gli psicologi co-
gnitivi chiamano ―il riorganizzamento gestaltico”42.
In tal modo, l‘intelletto ritorna sui dati completando il processo della conversio ad
phantasmata, dove il termine ―conversio‖, nel linguaggio tecnico tomista, consiste proprio
nel processo di comunicazione dell’informazione da una forma di livello superiore ad una di
livello inferiore. P.es., nell‘angelologia tommasiana, viene chiamata conversio da Tommaso
la comunicazione delle specie (informazione) dall‘angelo superiore a quello inferiore — visto
che l‘angelo non ha corpo da cui prendere l‘informazione, cosicché tutta l‘informazione negli
angeli deriva da Dio, attraverso una serie di passaggi (conversiones) lungo tutta la gerarchia
angelica (S.Th., I,106,3,ad 3) — e, nel caso dell‘uomo, dall‘intelletto ai sensi.
Ora, ciò che caratterizza la formulazione del giudizio sotto forma di enunciato predica-
tivo (soggetto-predicato) e rende noi post-moderni capaci di valorizzare a pieno la genialità e
l‘originalità di Tommaso è di nuovo legato al fatto, evidenziato dalla precedente citazione sul
verbum mentis, che esso è prodotto dall‘intelletto nella sua totalità , ―raschiando via‖ i pre-
giudizi. Infatti, come ben sa chiunque, epistemologicamente, logicamente e informaticamen-
te, si è interessato del ―problema dei problemi‖ in campo cognitivo, quello della conoscenza

42
Tipicamente, nel caso della percezione di figure ambigue (p.es., del ―vaso‖ o ―dei due volti che si confronta-
no‖), il vedere nei dati l‘una o l‘altra figura dipende da un surplus di informazione dato dalla decisione, dal giu-
dizio, per l‘una o l‘altra delle alternative, grazie al quale la vediamo ―disambiguata‖ nel dato empirico.

34
dei singolari43, il ruolo nefasto dell‘immodificabilità dei pre-giudizi, si estrinseca proprio
nell‘impossibilità del predicato generico di esprimere il proprium dell‘individuo in quanto ta-
le. Se la scuola di pensiero che si rifà a Duns Scoto44 — in questo vera anticipatrice della

43
E ogni ente, in quanto res, in quanto realmente esistente con una sua essenza, è un individuo qualitativamente
distinto e non un astratto membro di una classe (logica) o di un genere (ontologico), come Tommaso ci ricorda-
va nella sua ―Tavola dei Trascendentali‖.
44
Nella recente tesi di dottorato del P. Francesco Alfieri, curatore di questo volume (Cfr. (Alfieri, 2010)), oltre a
portare nuova evidenza alla tesi del Gilson che il termine dell’haecceitas non sia di origine scotiana (che lo usa
pochissime volte), quanto piuttosto ―scotista‖, si difende la posizione che il fondamento del principium indivi-
duationis, secondo il grande filosofo e teologo francescano, debba intendersi in riferimento all’ultimo fonda-
mento dell’essere di ogni ente, cioè in base alla sua relazione trascendentale con l‘Assoluto. Il che appare in
straordinaria continuità con il pensiero di Tommaso che vede nella partecipazione dell‘atto d’essere a ciascun
ente nella misura della sua essenza (cfr. la nozione di unità come trascendentale dell‘ente, distinto, ma equiva-
lente all‘altro trascendentale dello aliquid) tale fondamento. L‘atto d‘essere, dunque, è actus essentiae, se si
vuole usare la terminologia di Scoto, ma non nel senso in cui sembra usarlo Scoto, di genitivo soggettivo, ma
innanzitutto nel senso di genitivo oggettivo di ―actus-essendi-che-attualizza-l’essenza‖ partecipandogli,
dall‘Essere Sussistente o Atto Puro che è ―l‘Agente‖ dell‘actus essendi, con la sostanzialità individuale, l‘ultima
differenza che la distingue dagli altri enti della medesima specie. La ―sostanzialità‖ in quanto inseità ontica e
perseità formale, è infatti una relazione riflessiva di auto-riferimento. Solo in questo senso partecipato
dall‘Essere Sussistente l‘essenza può avere una sua ―attualità‖ come sostanza/essenza individua (p.es., rispetto
agli accidenti, ―quantità‖ inclusa) facendo sì che l‘essenza/sostanza individuale ―dia a se stessa‖, riflessivamen-
te, l’ultima differenza rispetto agli altri enti della medesima specie. In questo modo si dà anche un senso logica-
mente e ontologicamente consistente (coerente) all‘interpretazione scotiana dell‘actus essentiae come genitivo
soggettivo e, se vogliamo, alla stessa nozione (scotista?) di haecceitas. Ma tutta questa acribia nel fare simili di-
stinzioni può emergere solo da una rigorosa analisi ontologico-formale(izzata), come vedremo in seguito, di
queste ontologie. In ogni caso, sia per Tommaso, che per Scoto, l’actus essendi/essentiae è comunque distinto
dall‘actus existentiae. In questo senso né Tomaso né Scoto sono aristotelici, ma non sono neanche, rispettiva-
mente, tomisti o scotisti, visto che molti loro discepoli hanno spesso confuso questi due sensi dell‘attualità onto-
logica. Conseguentemente, l‘errore di tomisti e scotisti — nelle loro secolari dispute — è stato dunque quello di
attribuire a Tommaso come principio d‘individuazione la nozione, di derivazione democritea e aristotelica, della
materia signata a quantitate, facendo un‘esiziale confusione tra nozione categoriale e nozione trascendentale di
individualità. Ovvero, fra l‘unità quantitativa e perciò categoriale, fondamento della moltiplicazione di indivi-
dui della stessa forma (specie), che appunto fa della materia-rispetto-alla-unicità-della-forma il principio della
moltiplicazione di individui entro la stessa specie (pensiamo alla metafora dello stampo e della creta), e l‘unità
trascendentale (cfr. l’esse unum della Tavola 1 di p. 20 dei trascendentali di Tommaso, discussa in precedenza)
che è propria di ogni ente in quanto ente. E‘ perciò propria anche dell‘ente immateriale come l‘ente logico, o
dell‘ente spirituale come l‘ente angelico e, soprattutto, è propria di quell‘ente che costituisce, secondo la felice
metafora tommasiana ―la linea d‘orizzonte‖ fra mondo materiale e spirituale: la persona umana. Ora, come ci ha
spiegato Tommaso, l‘individualità trascendentale di ogni ente non ha nella materia, ma nella relazione con (o
partecipazione dell‘atto d‘essere dal) l‘Assoluto, il fondamento della singolarità di quell‘ente. Solo che Tomma-
so, per evitare confusioni terminologiche — e, come si vede, era stato molto previdente — lascia la nozione di
―individuo‖ agli enti materiali, e invece di usare, come facciamo noi moderni, la nozione di ―singolare‖ e ―sin-
golarità‖ per la designazione dell‘unicità anche di enti immateriali (p.es., un universale logico o un ente angeli-
co), preferisce parlare di specificità dell‘angelo. Ogni angelo, cioè, in quanto unico, costituisce per Tommaso
una specie a sé che non si moltiplica in molteplici individui proprio perché manca un supporto materiale. Vice-
versa, quando deve parlare dell‘unicità di un ente logico — p.es. di un universale come ―l‘umanità‖, ovvero di
un predicato nominalizzato e quindi, come fosse un individuo, denotabile con un nome —, parla di un quodam-
modo individuum. Quindi basta capirsi: stiamo parlando della nozione trascendentale, entitativa, pre-categoriale,
di individualità o del principio categoriale, quantitativo, di individualità (singolarità)? Il principium individua-
tionis di cui parlano Agostino (non sempre gli agostinisti), Tommaso (non sempre i tomisti), Scoto (non sempre
gli scotisti), la Stein… ed in genere la grande tradizione dell‘antropologia cristiana, ma anche, fuori della tradi-
zione cristiana, un Cacciari, è la nozione entitativa, quindi trascendentale, pre-categoriale, di individualità (sin-
golarità). E‘ solo il riferimento all‘ultimo fondamento dell‘essere dell‘ente, ovvero la relazione all‘Assoluto, il
fondamento non solo dell‘essere, ma anche della singolarità o unità trascendentale dell‘ente stesso. Se invece
facciamo riferimento al secondo senso, categoriale, allora non è solo Democrito, Platone, Tommaso…, o Pinco
Pallino, ma di nuovo chiunque usi la logica, ad affermare che è la materia il principio di individuazione. La
scienza è scienza anche in questioni ontologiche e metafisiche e, da questo punto di vista, non conta nulla chi o
quando abbia fatto certe affermazioni o certe scoperte: conta solo la verità e la consistenza logica (inclusa la co-

35
modernità, proprio perché Scoto era di estrazione matematica, e non solo perché insegnante
ad Oxford —, cercherà di (non) risolvere il problema con la sua teoria dell‘haecceitas, recen-
temente ribalzata agli onori della riflessione logica ed epistemologica, anche per le ovvie im-
plicazioni informatiche della questione (Cfr. (Donnellan, 1966); (Kaplan, 1978); (Salmon,
2005)), la soluzione di Tommaso è del tutto originale rispetto agli scotisti e in genere ai logi-
ci-matematici45.
L‘idea di Tommaso46 è che, quando applicata problema della referenza singolare,
l‘enunciato predicativo che denota il singolo come tale dev‘essere caratterizzato da una ―mu-
tua ridefinizione‖ fra soggetto e predicato (Cfr. (Basti & Perrone, 1999; 2001; 2002) — o,
andando oltre la teoria fregeana della ―saturazione‖ del soggetto rispetto al predicato, da una
―doppia saturazione‖ fra di essi (Cocchiarella, 2001; 2009). Si tratta di una procedura che sul
finito è sempre convergente ed è dunque effettivamente (=sempre) computabile, dal punto di
vista logico-formale e informatico.
Ecco l‘eccezionale testo di Tommaso al riguardo della predicazione singolare:
Bisogna sapere che qui ―universale‖ non viene inteso nel senso di ciò che viene predicato di più soggetti,
ma secondo un qualche adattamento o adeguazione (adaptationem vel adaequationem) del predicato al
soggetto, rispetto alla quale né il predicato viene detto senza il soggetto, né il soggetto senza il predicato
(In Post.Anal., I,xi,91).
L‘universale, dunque, contiene solo virtualmente, in senso procedurale, non attualmente
— con tutti i problemi che gli insiemi ―troppo infiniti‖ danno alla teoria dei fondamenti della
logica e della matematica — infiniti individui.
La potenza dell‘intelletto nel comprendere è in qualche modo (quodammodo) infinita. Infatti, comprende
all‘infinito le specie di numeri incrementando e similmente le specie di figure e di proporzioni. Conosce
anche l‘universale che è virtualmente infinito secondo il suo ambito (non attualmente, dunque e non in
assoluto, N.d.R.): contiene, infatti, individui che sono infiniti in potenza (S. c. Gent., II, 49, 1250 (Cfr.
anche S.Th., I, 54,2c)).

erenza!!!) di certe teorie. Viceversa, se per motivi ideologici, anche ecclesiastici, vogliamo continuare a litigare
sulle parole e le reciproche incomprensioni, allora continuiamo pure a fare confusione e a non usare la formaliz-
zazione in ontologia. Ma poi non lamentiamoci se chi ha cervello e non ha tempo da perdere, non studi filoso-
fia…
45
Essa solo oggi comincia ad essere valorizzata dando luogo, innanzitutto in informatica, alla rivoluzione della
cosiddetta dynamic logic (Per una sintesi aggiornata, cfr. (Harel, Kozen, & Tiuryn, 2000)) e più in particolare
l‘implementazione di essa in sistemi dinamici complessi, quelli caotici in particolare, in grado di risolvere es-
senziali problemi di computabilità effettiva in tempi non-esponenziali. Di essa, insieme al mio amico e collabo-
ratore Antonio Luigi Perrone (Perrone, 1995) siamo stati fra i precursori (Basti & Perrone, 1995; 1996; 1999;
2002), con l‘ovvia ostilità di matematici ed ingegneri meno informati e illuminati, soprattutto in Italia — con le
uniche eccezioni di Ennio De Giorgi, uno dei più grandi matematici del ‗900 e del suo collega e amico Giovanni
Prodi, altro grande matematico dell‘Università di Pisa ed esperto di sistemi non lineari, recentemente scomparso
—, ma con tutto l‘appoggio di chi, all‘estero e negli USA soprattutto, usa la matematica, innanzitutto per model-
lizzare la base neuro-dinamica dei sistemi cognitivi intenzionali (Cfr. (Freeman, 2001); (Kozma, 2010)) e quindi
per disegnare sistemi automatici di riconoscimento che funzionino per davvero, fino a diventare oggi un nuovo
paradigma, il paradigma intenzionale, di dinamica computazionale (Cfr. (Kozma & Freeman, 2009); (Perlovsky,
2010)).
46
Nel ‗500 quando gli scolastici, differentemente da oggi, erano molto attenti agli aspetti logici, ci fu al riguardo
una forte polemica del Card. Cajetano verso lo scotista Antonio Andrea, riguardo la questione molto vicina a
quella qui discussa, se la funzione della cogitativa di preparazione immediata all‘atto intellettivo, doveva essere
interpretata in forma complexa, come diceva, il Cajetano rifacendosi a Tommaso, o in forma incomplexa, come
affermava A. Andrea, rifacendosi a Scoto. Cioè, concependo la funzione dialettica di reciproco confronto, o
―coagitazione‖ dei termini, per la preparazione del seguente giudizio, come una sorta di semplice combinatoria
di elementi già costituiti. Se i moderni (Kant) come i matematici classici, sono con A. Andrea, chiaramente
Tommaso, alla luce del testo che qui citiamo, come Fabro che parla della disputa nel suo classico Percezione e
Pensiero (Fabro, 1941, p. 115-118), come Jean Piaget, come Freeman, come noi, come chiunque lavori su mo-
dellizzazioni effettive, funzionanti, dei processi cognitivi, siamo tutti per la lettura complexa del Card. Cajetano.

36
Naturalmente tutto questo implica che allora mai l’operazione intellettiva può avvenire
senza un riferimento al dato empirico, sia quando l‘intelletto conosce attualmente, in prima
intenzione (prima riflessione), sia quando si riferisce a conoscenze già acquisite in seconda
intenzione riflettendo razionalmente su di esse (seconda riflessione). Questo, per noi post-
moderni, significa anche che nessuna operazione intellettiva può avvenire senza una base
neurale, empiricamente evidenziabile dall‘indagine neurofisiologica: ecco il punto di contatto
con le neuroscienze. Riporto qui due testi di Tommaso al riguardo:
E‘ impossibile che il nostro intelletto, nello stato della vita presente nel quale è congiunto ad un corpo
materiale (vedremo, nella conclusione di questo lavoro, che non è così nell‘aldilà, N.d.R.) possa com-
prendere qualcosa in atto se non convertendosi alle immagini sensibili (nisi convertendo se ad phanta-
smata). E ciò è reso evidente da due fatti. 1) Primo, perché essendo l‘intelletto una facoltà che non usa un
organo corporale, non potrebbe essere in alcun modo impedito nell‘esercizio della sua operazione da una
lesione di un organo corporale, se non richiedesse per tale esercizio l‘operazione di un‘altra facoltà che
usa tale organo. Ora i sensi, l‘immaginazione e le altre facoltà sensitive usano degli organi corporali.
Quindi è evidente che l‘intelletto non solo quando acquisisce una nuova conoscenza, ma anche quando fa
uso di una conoscenza già acquisita richiede l’uso dell’immaginazione e delle altre facoltà sensitive (ciò
significa che una lesione neurale può impedire in tutto o in parte l‘atto intellettivo, senza che questo im-
plichi la ―materialità‖ dell‘intelletto, N.d.R.). (...) 2) Secondo, perché ciascuno può constatare da sé me-
desimo che quando qualcuno si sforza di capire qualcosa, forma a se stesso delle immagini sensibili
(phantasmata) a mo‘ di esempio, come se dovesse trovare in esse ciò che si sforza di capire. Ed anche
quando vogliamo far capire qualcosa a qualchedun‘altro, gli proponiamo degli esempi, dai quali egli si
possa formare delle immagini sensibili (phantasmata) per capire. (...) Quindi l‘intelletto non può cono-
scere in maniera completa e vera la natura della pietra o di un qualsiasi ente fisico, se non per il fatto che
la conosce in un qualche esistente particolare. D‘altra parte, noi apprendiamo il particolare attraverso i
sensi e l‘immaginazione. E pertanto è necessario che, affinché l‘intelletto conosca il suo oggetto proprio,
si converta alle immagini sensibili, affinché conosca la natura universale come esistente nel particolare‖
(Tommaso d‘Aq., S.Th., I,84,7c).
Il nostro intelletto non conosce direttamente altro che gli universali. Ma indirettamente, e per una sorta di
riflessione (reflexio quaedam) può conoscere il singolare. Infatti, come è stato spiegato più sopra (Cfr. ci-
tazione precedente), anche dopo che l‘intelletto ha astratto (dalle immagini sensibili) le specie intelligibi-
li, non può di fatto comprendere in atto secondo esse, se non convertendosi alle immagini sensibili nelle
quali comprende le specie intelligibili. Così pertanto l‘intelletto conosce direttamente l‘universale per
mezzo delle specie intelligibili, mentre invece conosce indirettamente le singole cose in quanto rappre-
sentate dalle immagini sensibili. Ed in tal modo l‘intelletto forma delle proposizioni del tipo: Socrate è
uomo (proposizioni che riguardano cioè enti singoli, N.d.R.) (Tommaso d‘Aq., S.Th., I,86,1c).
Ed ecco, per concludere, un altro testo di Tommaso in cui egli, sinteticamente, illustra
le due operazioni dell‘intelletto, riportandole all‘unica nozione della conversio ad phanta-
smata appena descritta.
Come, infatti, più sopra abbiamo detto che non possiamo sentire la differenza fra il bianco ed il dolce se
non vi fosse una potenza sensitiva comune che le conosce entrambe, così anche non potremmo conoscere
il confronto fra l'universale ed il singolare se non vi fosse una facoltà che li conosce entrambi. L'intelletto
pertanto li conosce entrambi, sebbene in due diverse maniere. Conosce, infatti, la natura della specie od
―il che cos'è‖ (quod quid est) estendendosi direttamente verso di essa, ma conosce il singolare per una
sorta di riflessione, in quanto ritorna sui fantasmi dai quali le specie intelligibili sono state astratte. E
questo è quanto Aristotele dice quando afferma che l'intelletto con la potenza sensitiva conosce la carne,
ma con ―altro‖, cioè con un'altra potenza, distingue l'essere della carne, cioè il ―che cos'è‖ della carne. Il
che si può interpretare in due modi: o che si usa una facoltà separata, per esempio, come se la carne si
conoscesse col senso e l'essere della carne con l'intelletto. Oppure, e questa è la seconda ipotesi, è con la
stessa e medesima facoltà (che si conoscono ambedue), ma con due diversi modi di porsi. Cioè la facoltà
intellettiva conosce la carne, quando, come la linea curva, si ripiega. Insomma, la facoltà intellettiva,
quando viene estesa in forma di linea retta (secondo la famosa metafora platonica nella Repubblica della
conoscenza dai sensi all‘intelletto come processo rettilineo, N.d.R.), discerne l'essere della carne, cioè
apprende direttamente la quiddità della carne (= apprensione dell‘essenza), ma quando si ripiega (sui
sensi) conosce la carne stessa (= formulazione del giudizio) (In de An., III,ii,175-195).

37
2.3.3 CONOSCENZA DELL‘ESSERE E DELLA VERITÀ NELLA FORMULAZIONE DEL GIUDIZIO
Lo ―è‖ che connette soggetto e predicato nella formulazione del giudizio è dunque
nell‘epistemologia tomista tutt‘altro che un‘estrinseca copula, come afferma Kant o una e-
strinseca relazione di appartenenza a una classe, come afferma Frege. Essendo espressione
della doppia congruenza del soggetto e del predicato, una congruenza che varia al variare dei
soggetti di cui si predica il medesimo predicato, lo ―è‖ del giudizio ha un contenuto. Ha come
contenuto l‘essere dell‘entità dell‘ente che, come abbiamo spiegato commentando la tavola
dei trascendentali dell‘ente, ontologicamente significa l‘essere dell‘essenza dell‘ente in quan-
to ―implementata nella‖ e perciò ―espressione della‖ unicità irripetibile dell‘ente in quanto
singolo47. Non per nulla dunque Tommaso, come abbiamo già detto, parlando nel medesimo
primo articolo del De Veritate della verità come adeguazione diceva, appunto, che
l‘intelletto, adeguandosi all‘essere dell‘ente non si adegua certo all‘essere della esistenza
dell‘ente, che in quanto tale è comune a tutti gli enti (è l‘esse commune), proprio come la co-
pula/relazione di appartenenza di Kant/Frege.
Ma appunto la verità è adeguazione all’entità dell‘ente che semanticamente si esprime
nella relazione di proprorzionalità fra la variazione del predicato rispetto P rispetto a quella
del soggetto S. Ecco perché Tommaso afferma più volte nei suoi testi che l‘intelletto conosce
la verità, non quando apprende l‘essenza, ma solo quando formula il giudizio. In sintesi, l'o-
perazione dell'intelletto possibile, in quanto attuato dall'atto astrattivo dell'intelletto agente è
duplice:
1. Apprensione dell'essenza. L'atto dell'intelletto agente, ripiegandosi sul dato sensibile
individuale, singolare, per illuminarlo in quanto tale nella sua irriducibile specificità
che non è riportabile ad alcuna conoscenza precedente, astrae una particolare diffe-
renza rispetto alla conoscenza passata del soggetto conoscente rendendola così intelli-
gibile in forma intenzionalmente universale. Come già Tommaso ci ha detto l‘unicità
dell‘enunciato predicativo ―Socrate è uomo‖ non sottende una medesima concezione
dell‘intelletto per tutti i soggetti individuali che la esprimono, ma l‘unicità di una rela-
zione referenziale di adeguazione al medesimo oggetto reale. L‘oggetto individuale
diviene così conoscibile in forma universale per qualsiasi soggetto umano, nel passa-
to, nel presente e nel futuro si dovesse applicare a conoscere quel medesimo oggetto
(= astrazione della specie intelligibile). L'intelletto possibile o capacità di compren-
dere dell'uomo viene perciò attuata, resa capace di apprendere, sempre parzialmente,
ma anche sempre più adeguatamente man mano che nuovi dati divegono disponibili,
l'essenza di ciò che ci sta di fronte48. Tale apprensione è però, in questa prima opera-
zione, pre-verbale. Introspettivamente, ripeto, si tratta di quel primo momento dell'at-
to di comprensione, universalmente espresso con la metafora della "illuminazione"
improvvisa (Cfr., p.es., l'accendersi della classica "lampadina" nei fumetti): sappiamo

47
Che, ovviamente, come ogni logico sa, non è solo l‘individuo, ma anche il genere, come quando diciamo che
non solo ―Socrate‖, ma anche ―l‘uomo‖ è animale razionale‖… Infatti, come il predicato ―animale razionale‖,
per essere veritativamente costituito ha da ridefinirsi sull‘unicità di ―Socrate‖, così ha da ridefinirsi sull‘unicità
dell‘uomo, rispetto, poniamo, al marziano. L‘ ―universale‖, insomma, sia come ―uno di uno‖ (predicazione sin-
golare), sia come ―uno di molti‖ (predicazione generica) ha sempre un fundamentum in re.
48
―Molte sono le determinazioni (quod quid est) di una medesima cosa: qualcuna di loro può essere conosciuta,
altre semplicemente supposte (...) Ed Aristotele dice che possiamo conoscere l‘essere di una qualsiasi cosa pre-
scindendo dal fatto che conosciamo perfettamente la sua essenza (...), p.es., se comprendiamo l‘essere dell‘uomo
per il fatto che è ―razionale‖, non ancora conoscendo tutte quelle altre determinazioni che completano la sua es-
senza‖ (Tommaso, In Post.An., II,vii,472.475). E questo con buona pace di Kant e la sua mitologia della cono-
scenza dell‘essenza come conoscenza della ―cosa in sé‖. Per conoscere progressivamente l‘essenza di una cosa,
basta non essere schiavi dei nostri a-priori, basta cioè non essere kantiani o heideggeriani!

38
di aver compreso qualcosa, ma non abbiamo ancora formulato, a noi stessi prima di
tutto, cosa abbiamo capito.
2. Formulazione del giudizio mediante cui esprimiamo a noi stessi cosa abbiamo capito,
riapplicando l'essenza appresa, ridefinita sui dati sensibili, che sarà espressa dal predi-
cato P del nostro enunciato predicativo sull‘oggetto, per vedere se effettivamente ciò
che ci sembra di aver compreso di quel dato oggetto che, a sua volta, sarà il soggetto
grammaticale S del nostro enunciato predicativo su di esso, davvero si adegua ai dati
da cui eravamo partiti. Se la risposta è negativa vuol dire che le due varazioni ― ‖ del
predicato sul soggetto, P, e del soggetto sul predicato così variato, S, non sono
congruenti per giustificare l‘unità dell‘enunciato predicativo ―S è P‖, per cui occorre
un nuovo atto astrattivo dai dati per astrarre nuove differenze che consentano, infine,
di giungere ad un risultato (parziale e sempre in fieri) di congruenza che garantisce
che la procedura di adeguazione al reale è (per il momento) terminata:
S
cost
P
Capiamo adesso meglio perché Tommaso nella citazione fondamentale di cui alla nota
36 alla pag. 28 che riguarda la capacità dell‘intelletto di conoscere la verità mediante la for-
mulazione del giudizio, parla di una relazione di proporzionalità49 fra giudizio e res:
L‘intelletto realizza la propria operazione nella misura in cui il giudizio dell‘intelletto è sulla realtà se-
condo ciò che essa è. Questa, infatti, viene conosciuta dall‘intelletto nella misura in cui l‘intelletto si ri-
piega sul proprio atto, non solo in quanto conosce il proprio atto (ché questo è in qualche modo proprio
anche sei sensi, N.d.R.), ma in quanto conosce la sua proporzione alla cosa.
Solo dunque al termine della seconda operazione dell'intelletto, ovvero solo dopo la
formulazione del giudizio, quando l'intelletto ha riapplicato l'idea da lui escogitata ai sensi
l'uomo può sapere se l'idea così escogitata era vera o no, se era adeguata, in base ai dati di-
sponibili, alla realtà che si voleva comprendere e definire attraverso quell'idea o meno.
La conoscenza della verità, insomma, non può avvenire al solo livello della semplice
apprensione dell'essenza. Quante volte ci era sembrato di aver capito, ed invece, dopo aver
formulato a noi stessi sotto forma di giudizio quanto credevamo di aver capito, ovvero dopo
aver applicato l'idea escogitata al dato empirico di partenza, ci siamo accorti che non era co-
sì? P.es., quando cercavamo di riconoscere chi fosse una persona che si stava avvicinando, ci
sembrava di aver capito chi fosse. Ma quando abbiamo formulato a noi stessi, sotto forma di
giudizio espresso, la nostra apprensione della quidditas, della ―checcoseità‖, di quella perso-
na: ―Ah, è Marco!‖, ci siamo immediatamente resi conto di sbagliare. La discriminazione o-
perata dal giudizio sui dati dell'esperienza, ci ha reso immediatamente evidente l'errore.
―Marco ha gli occhiali quell‘individuo no‖: la differenza specifica, che per noi lo definisce
come tale in quel limitato contesto, non appartiene alla persona in questione. Occorre, per
giudicare adeguatamente, veritativamente, ri-operare l'astrazione-apprensione-giudizio intel-
lettivo a partire da questo nuovo dato empirico che ci ha mostrato l‘incongruenza della defi-
nizione di quell‘individuo in continua modificazione, perché in continuo avvicinamento, me-
diante il predicato ―essere Marco‖. A meno che, quando quell‘individuo è diventato vicinis-
simo e avesse confermato che tutti i suoi dati collimano con quelli del predicato ―essere Mar-
co‖ così come lo conoscevamo, ci rendessimo conto che, per rendere congruente il predicato
col soggetto, bisognava connotarlo con una nuova differenza: ―ha le lenti a contatto‖ (non più

49
Spero che ai filosofi che mi leggono non sfugga che una proporzione si definisce come l‘identità di due rap-
porti fra grandezze. Nel caso che le grandezze in questione siano variabili, siano legate a un delta di variazione,
si ha comunque proporzionalità quando il valore dei due rapporti resta comunque una grandezza costante. Ciò
che appunto è scritto nella formula che stiamo illustrando.

39
―ha gli occhiali‖), e su questo modificare proporzionalmente la nostra connotazione del sog-
getto, così che:
S
cost
P

2.4 Approfondimento della teoria tommasiana: le due riflessioni dell’intelletto


2.4.1 COSCIENZA E AUTOCOSCIENZA
Non avendo alcun valore trascendentale rispetto alla conoscenza vera — è all‘essere del
referente del giudizio che spetta questo valore —, la coscienza è per Tommaso, come ci ave-
va detto nel passo del De Veritate da cui siamo partiti, solo cum-scientia, ovvero qualcosa
che accompagna, non fonda la conoscenza vera. Oltre alla conversio ad phantasmata, oltre a
quel ―ripiegarsi‖ o ―volgersi‖ dell'intelletto ai dati della sensibilità per compiere la sua doppia
operazione di apprensione-giudizio, Tommaso distingue così, come abbiamo visto, due gene-
ri di coscienza o consapevolezza di sé e quindi due tipi di riflessione dell'intelletto su se stes-
so (Cfr. [Tommaso d‘Aq., S.Th., I,87,3c]):
1. Prima riflessione: come appare chiaro anche dalla differenza dei termini, la conversio
ad phantasmata non è una vera e propria riflessione dell'intelletto su se medesimo.
Esso infatti nella conversio non si relaziona se medesimo — come si richiede ad una
relazione riflessiva —, bensì dai-ai sensi. Viceversa con "prima riflessione" Tommaso
indica quella consapevolezza a se stesso del proprio atto che accompagna l'intelletto
durante tutte le sue due operazioni tipiche, dell'apprensione e del giudizio, essendo
queste due operazioni effetto dell‘azione dell‘intelletto (agente) su se stesso (possibi-
le): azione immanente immediata. Ovvero, l'intelletto non solo comprende l‘oggetto
convertendosi da/ai sensi, ma sa di comprendere mentre opera. Anzi, questa consape-
volezza è fondamentale, perché solo mediante di essa l'intelletto al termine della sue
due operazioni, può divenire consapevole di aver giudicato il vero o il falso. E' me-
diante la prima riflessione che l'intelletto diviene (o non diviene, nel caso dell‘errore)
consapevole dell'adeguatezza/inadeguatezza delle sue due operazioni. Per questo
Tommaso diceva che il fine dell'operazione intellettiva non è semplicemente il "vero",
l'adeguazione del conoscente al conosciuto, ma il vero intelligibile. Questa consape-
volezza, o coscienza, è anche definita presenza a se stesso dell'intelletto, visto che at-
traverso di essa l'intelletto non si sta oggettivando, ma percepisce il proprio atto men-
tre opera, mentre conosce un oggetto diverso da sé. Infatti, proprio perché la prima ri-
flessione o ―coscienza‖ accompagna le due operazioni dell'intelletto che hanno per
oggetto la realtà conosciuta sensibile, l'intelletto non è oggetto a se stesso attraverso la
prima riflessione. In altri termini, nella presenza a se stessi, o prima riflessione dell'in-
telletto, è la propria soggettività che appare in tutta la sua irriducibilità ad oggetto al
medesimo soggetto conoscente. Ed in questo c‘è un indubbio punto di contatto con
tutta l‘analisi fenomenologica dello ―atto di coscienza originario‖ (l‘immanenza im-
mediata di Tommaso fondamento della presenza a se stessi) che precede la stessa
―conoscenza della coscienza‖ (la seconda riflessione di Tommaso), riflessione che
parla a questo proposito, come abbiamo citato più volte, di trasparenza dell‘intelletto
a se stesso.
Esaminiamo la configurazione di questo territorio per capire l‘utilizzazione di alcuni termini come io, co-
scienza, vissuti e trascendentale. Questo territorio può essere compreso attraverso l‘immagine di una la-
stra, sulla quale si fissa ciò che viviamo, in un continuo fluire di iscrizioni. Uso il termine lastra per indi-
care che tale sfera esiste, ma non è facilmente individuabile, anzi, proprio a causa della sua trasparenza è
sempre sfuggita alla ricerca, anche se è sempre presente. (…) Dei vissuti configurati abbiamo consapevo-
lezza e ciò giustifica il termine ―coscienza‖, che non vuol dire conoscenza di secondo grado, cioè rifles-

40
sione (la ―seconda riflessione‖ di Tommaso, N.d.R.). L‘essere-cosciente-di-se-stesso, usando la bella e
precisa espressione di Edith Stein, si presenta come una luce che accompagna il flusso dei vissuti e che lo
illumina per farlo presente. La riflessione si fonda sulla ―coscienza originaria‖ che rende possibile la co-
noscenza della coscienza che accompagna i vissuti.

41
2. Con ―ragione‖, in quanto distinta dall‘intelletto, si intende la stessa intelligenza
dell‘uomo in quanto manipolatrice di idee e di enti logici, secondo regole formali di
ragionamento logico, idee ed enti logici già costituiti (rappresentazioni). In questo
senso il ragionare può essere definito anche ―atto di pensiero pensato” (thought in in-
lese), poiché la ragione, qui, non ―inventa‖ idee, prodotte per astrazione dall‘intelletto
pensante, ma semplicemente le manipola inferenzialmente, deduttivamente, così da
―trovare‖, da rendere evidenti all‘auto-coscienza, idee (= conclusioni) già contenute
implicitamente in altre idee (= premesse).
La differenza fra la teoria tomista dell‘intelletto ed i vari razionalismi antichi e moder-
ni è che qualsiasi filosofia razionalista, identificando il pensiero con la sola ragione (―pensie-
ro pensato‖ o pensiero rappresentazionale), è costretta a considerare le idee che la ragione
dell‘uomo manipola come innate, ovvero come costituite non dall‘uomo e dalla sua intelli-
genza, ma da qualche altra entità (il ―dio‖ dei neo-platonici, l‘‖intelletto separato‖ di Avicen-
na e di Averroè, il ―dio‖ di Descartes, il ―dio-natura‖ di Spinoza (mi si consenta la minuscola
per rispetto del secondo comandamento), lo ―spirito‖ di Hegel, la ―materia‖ dei materialisti,
la ―cultura‖ degli storicisti, etc.). Viceversa per Tommaso, è la stessa intelligenza dell‘uomo,
in un‘altra sua modalità di funzionamento, in un altra sua operazione, a produrre quelle idee,
che poi la medesima intelligenza, riflettendo su di esse ed operando su di esse come ―ragio-
ne‖, manipola deduttivamente in inferenze deduttive.
Ecco perché si deve a Tommaso la più alta esaltazione della dignità e dell‘intelligenza
dell‘uomo che ha convinto il Papa Giovanni Paolo II a proclamarlo Doctor Humanitatis per
la profondità e l‘equilibrio della sua dottrina antropologica.
2.4.2 LA SPIRITUALITÀ DELL'ATTO INTELLETTIVO
Concludendo questa sotto-sezione, abbiamo visto che la spiritualità dell'atto intellettivo
si manifesta in molti modi essenziali. Generalmente, sappiamo come un'azione vitale imma-
nente si dice spirituale o immateriale se essa è capace di agire immediatamente su se stessa,
senza cioè la mediazione di organi fisici. Ora, discutendo delle due operazioni dell'intelletto e
delle due riflessioni dell'intelletto abbiamo trovato due modi diversi con cui l'intelletto agisce
immediatamente su se stesso e dunque rivela la sua natura spirituale:
1. Nelle due operazioni dell'intelletto, la distinzione intelletto agente - intelletto possibile
sta appunto a significare che, in ogni atto intellettivo, l'intelletto sta agendo su se stes-
so, distinguendosi in una parte agente ed in un altra paziente. Ed è proprio grazie al-
l'immediatezza di quest'azione che l'intelletto ha una capacità illimitata di riadeguare
se stesso rispetto alla res da conoscere. Esso dunque, a differenza dei sensi, può cono-
scere in maniera universale astraendo via via dalle condizioni particolari dell'espe-
rienza di ciascun singolo soggetto umano. Proprio perché l'atto di comprensione del-
l'intelletto avviene prescindendo dalle conoscenze passate di ciascun singolo soggetto
umano che, ovviamente, varieranno da soggetto a soggetto (Cfr. (Tommaso d‘Aq.,
S.Th., I,7,2,ad 2; S.c.Gent., II,50)).
2. Nelle due riflessioni dell'intelletto (coscienza, autocoscienza) è evidente come l'in-
telletto stia agendo su se stesso o come ―presenza a sé medesimo‖ (= prima rifles-
sione) o come auto-conoscenza (= seconda riflessione. Cfr. (Tommaso d‘Aq.,
S.c.Gent., II,49; 66)).
In ambedue questi modi appare evidente la spiritualità dell'operazione intellettiva, visto
che nessun agente fisico può operare immediatamente su se medesimo: nessun martello può
martellare se stesso, sebbene un martello diverso possa martellare il primo, proprio come o-
gni organo di senso non può sentire la propria operazione, se stesso, sebbene possa sentire
l'operazione di quello gerarchicamente inferiore. Coscienza sensibile o coscienza animale e

42
coscienza intelligibile o consapevolezza di sé non sono la medesima cosa, e la seconda svela
immediatamente la sua natura spirituale.
Vediamo allora, per concludere questa seconda sezione, come Tommaso abbia svilup-
pato nei suoi scritti questa che abbiamo definito la ―via soggettiva‖, di ispirazione agostiniana
alla dimostrazione della spiritualità dell‘anima umana che è sostanzialmente quella percorsa
anche dalla Stein. Per far questo, mi servirò ampiamente del quinto capitolo del mio primo
libro sull‘argomento, Il rapporto mente-corpo nella filosofia e nella scienza (Basti, 1991),
ormai esaurito da vari anni, dedicato proprio all‘analisi della complementarietà fra via feno-
menologica (soggettiva) e via tommasiana (oggettiva) alla spiritualità della mente e dell‘atto
intenzionale, per una loro sintesi post-moderna.

2.5 L'uso della via soggettiva della coscienza nella trattazione tommasiana del problema
dell'anima
2.5.1 ACCENNI ALLO SFONDO STORICO DELLA QUESTIONE
Noi non approfondiremo sistematicamente la questione storica. Preferiamo appro-
fondire il problema dal punto di vista teoretico, individuando i nodi essenziali da sciogliere e
i vari tipi di soluzione proposti, piuttosto che seguire pedissequamente gli Autori nel loro
sforzo di riproporre nei secoli questi stessi nodi con le relative soluzioni, ovviamente con di-
versi linguaggi e secondo diverse angolazioni e contesti.
Nondimeno, un breve accenno di inquadratura storica per comprendere il contesto in cui
si muoveva Tommaso, è essenziale51. Il succo del problema consiste nelle ripercussioni che
aveva avuto nella cultura scolastica del XIII sec. la pubblicazione del testo aristotelico del De
Anima e dei suoi commentari arabi. Il testo, letto dapprima nella cosiddetta Translatio Vetus
della metà del XII secolo a cura di Giacomo da Venezia e quindi nella Translatio Nova di
Guglielmo di Moerbeke della metà del XIII secolo52, sebbene condannato dall'Autorità Ec-
clesiastica, era molto conosciuto fin dal primo ventennio del XIII secolo, proprio per la sua
continua lettura in vista della confutazione, in particolare nella Facoltà delle Arti dell'Univer-
sità parigina.
Il problema che la dottrina aristotelica poneva alla filosofia scolastica del tempo era quanto
mai arduo: come conciliare la spiritualità e la sussistenza dell'anima umana individuale con la
dottrina aristotelica che la faceva forma del corpo. Diverse soluzioni erano disponibili:
1. Quella di Avicenna che parlava di intelletto agente separato dal corpo. Tale dottrina
però sosteneva anche l'unicità di questo intelletto per tutti gli uomini. Dottrina inac-
cettabile per la fede.
2. Quella di Averroè che parlava di spiritualità tanto dell'intelletto agente, come di quel-
lo possibile, ma, secondo S.Alberto Magno, negava la loro sussistenza post-mortem.
Dal 1250 in poi appare così un "secondo averroismo", legato ad una lettura tendenzio-
sa da parte dei teologi della dottrina averroista. E' nel 1252 che per la prima volta ad
Oxford Robert Kilwardby attribuisce ad Averroè la dottrina di un'unica anima separa-
ta, comune a tutti gli uomini. Attribuzione ripresa e condannata da S.Bonaventura a
Parigi, sempre nel 1252 e fatta propria dal giovane Tommaso nel suo Commento alle
Sentenze (In II Sent., 17,2,ad1). Viceversa, nel 1265, Sigeri di Brabante fa propria
questa dottrina, riprendendola dalle parole di Tommaso, non per condannarla, ma per
difenderla, dando origine così al cosiddetto averroismo latino, o averroismo "laico".

51
Un aggiornamento ed un approfondimento, sopratutto riguardo alla questione averroistica, può trovarsi in
(Gauthier, 1984, p. 218*-234*).
52
Si tratta dunque di una traduzione praticamente contemporanea alla composizione del Commentario di Tom-
maso, scritto a Roma, nel Convento di S.Sabina fra il dicembre 1267 e il settembre 1268.

43
Esso appare così, ironia della sorte!, più frutto di un eccesso di zelo dei teologi, che
una dottrina del filosofo arabo. A combattere questo averroismo, a partire dal secondo
soggiorno parigino dal 1268, Tommaso dedicherà l'opuscolo De Unitate Intellectus
contra Averroistas, nonché molte pagine delle sue due Summae53.
3. La dottrina dell'ilemorfismo universale, sostenuta da un altro filosofo arabo Avicebrol
nel suo De Causis, dottrina sostenuta anche da Avicenna e da S.Bonaventura. Con tale
dottrina, derivante da una lettura neoplatonica di Aristotele, si intendeva giustificare
la sussistenza dei ―puri spiriti‖, attribuendo loro una particolare ―materia‖. Con ciò,
nel contempo, si affermava anche la differenza fra Dio, Atto Puro, e i puri spiriti attri-
buendo ad essi una costituzione metafisica di atto-potenza. Una dottrina ripresa da S.
Bonaventura e che fu oggetto di un memorabile dibattito con S. Tommaso
all‘Università di Parigi. Vedremo come Tommaso, genialmente, salverà questa secon-
da esigenza, senza sposare la teoria dell'ilemorfismo universale.
4. Infine la dottrina, sostenuta dapprima da Guglielmo d'Auvegne che afferma la mol-
teplicità delle forme del corpo umano. L'anima razionale sopravverrebbe per crea-
zione divina ad un corpo già formato.
Vedremo come Tommaso propone una via totalmente nuova di approccio al problema,
garantendo una sintesi che non solo può esser posta in continuità con la fede, ma, esigenza
fondamentale per una dottrina che voglia essere autenticamente filosofica, è dotata di una sua
completa e compiuta razionalità. Da un punto di vista aristotelico, poi, questa dottrina non fa
che sviluppare dall'interno l'approccio aristotelico, in perfetta continuità con i principi della
sua Fisica, ma più in generale, con le esigenze di un autentico naturalismo, valido per qual-
siasi epoca della storia. Che poi la scienza naturale di ispirazione aristotelica cui Tommaso fa
riferimento non sia più oggi quella ―scienza morta‖ cui Gauthier, per piaggeria alla moderni-
tà, fa riferimento nella conclusione un po' omiletica della Prefazione alla sua peraltro ottima e
validissima edizione del Commentario tomista al De Anima, è una fortunata (cristianamente:
provvidenziale) contingenza storica presente, di cui dobbiamo fare adeguato conto.
2.5.2 LA VIA SOGGETTIVA, QUELLA OGGETTIVA E LE PROVE RAZIONALI DELLA SPIRITUALITÀ DELL'ANIMA U-
MANA

Nel giovanile Commento alle Sentenze (1254-56), il giovane Lettore dell'Università di


Parigi, Tommaso, con la coerenza e la fedeltà creative al proprio pensiero che contraddistin-
gue solo i grandi pensatori, delineò in un articolo dell'opera (XIX, 1,1), i tre argomenti fon-
damentali per la dimostrazione della spiritualità dell'anima che riproporrà, sviluppandoli, nel
resto della sua opera. Secondo lo schema già delineato, in base al quale è dalle operazioni ti-
piche dell'anima umana che si deve risalire alla sua essenza spirituale, Tommaso propone tre
argomenti fondamentali a sostegno della spiritualità dell'operazione intellettiva. I primi due
sono di evidenza oggettiva, riguardano cioè lo studio dell'operazione intellettiva in quanto ta-
le. L'altro è di evidenza soggettiva, in quanto è legato all'autocoscienza.
1. Il fatto che l'intelletto umano può conoscere tutti i corpi e quindi dev'essere spoglio di
ogni forma corporea;
2. Il fatto che l'intelletto umano può conoscere in modo universale, mentre un senso cor-
poreo può conoscere solo il particolare;
3. Il fatto che l'intelletto umano può conoscere se stesso mentre opera e quindi non può
avere per strumento un organo corporale.
Mentre il secondo argomento era tipicamente Averroista ed il terzo era tipicamente A-
vicenniano ed in genere di origine neo-platonica, il primo era comune tanto ad Averroè quan-

53
Per ulteriori informazioni su questa strana vicenda cfr. il testo del Gauthier, citato precedentemente.

44
to ad Avicenna. Di solito il terzo argomento viene definito, anche per quanto riguarda Tom-
maso, ―l'argomento dell'autocoscienza‖. Ben diverso però, come vedremo, è l'uso tomista di
tale argomentazione rispetto all'uso neo-platonico, quale per esempio quello fattone da Avi-
cenna, dall'Autore del De Causis (di attribuzione dubbia, composto nell'ambiente dell'aristo-
telismo arabo neo-platonico, collocabile fra il X e l'XI sec. e tradotto in latino all'inizio del
XII sec., con espliciti riferimenti alla dottrina di Proclo) e, precedentemente, da Agostino
stesso nell'età classica, e, susseguentemente, nell'età moderna da Cartesio.
Già abbiamo visto comunque, nelle quattro sotto-sezioni precedenti che i tre argomenti
hanno la loro radice comune nella capacità dell‘intelletto di ―essere trasparente‖ a se stesso e
quindi alla sua capacità di conoscere la propria adeguatezza alla res. È grazie a questa capaci-
tà di azione immanente immediata su se stesso che l‘intelletto ha una capacità ―finita, ma il-
limitata‖ di conoscenza, è capace di conoscere in modo ―universale‖, ed è anche capace di
―coscienza‖ e ―autocoscienza‖.
Tornando alla Stein, dunque, è questa capacità di azione immanente immediata legata
alla spiritualità dell‘operazione intellettiva ad avere valore costitutivo, anche se non trascen-
dentale, sul pensiero umano. In questo senso non è vero quello che lei diceva a proposito di
Tommaso carente di una sufficiente analisi fenomenologica sui fondamenti del pensiero ra-
zionale. Tommaso l‘ha approfondita eccome, anche se, ovviamente, con una terminologia di-
versa dalla nostra moderna e senza limitarsi metodologicamente ad essa.
Nondimeno, la capacità di un ente di conoscere la propria essenza (direttamente, come
nel caso di Dio e dell'angelo, o per riflessione come nel caso dell'uomo: S.c.Gent., II,49;
II,66) evidenzia la natura spirituale di quest'ente. Ed in questo Tommaso accetta pienamente
la dottrina neo-platonica sull'anima. Tommaso lega però la conoscenza di se stesso non ad un
intuizione diretta della propria essenza54, ma ad una riflessione:
1. Sul proprio atto:
a. mentre lo si compie (=coscienza: "prima riflessione"), o
b. dopo averlo compiuto (=autocoscienza: "seconda riflessione"); oppure
2. Sulla propria natura, per conoscere cioè la propria natura o "essenza" mediante una
riflessione razionale che, come vedremo, assume la forma di una subtilis e dificillima
inquisitio.
Con tutto ciò però si è operato un fondamentale spostamento teoretico: la spiritualità
dell'intelletto umano è completamente diversa da quella dell'angelo. O meglio, l'uomo non è
un angelo più un corpo, non è la somma di due sostanze separate, una spirituale e l'altra cor-
porea.
La spiritualità dell'operazione intellettiva è dunque legata per Tommaso alla capacità
dell'operazione intellettiva stessa di operare su se medesima: nessun corpo può infatti agire

54
Fra i moderni Cartesio col suo cogito ergo sum res cogitans afferma invece esattamente quanto affermavano i
neoplatonici medievali. Che l'uomo cioè è capace di conoscere per intuizione diretta la sua essenza di sostanza
pensante. Teologicamente parlando, dunque, l'errore di Cartesio è che confonde l'uomo con l'angelo. Ontologi-
camente parlando, l‘errore è quello di aver confuso un trascendentale dell‘ente (cosa) con una categoria (sostan-
za). Logicamente parlando, aver confuso una legge logica (la legge della logica dei predicati, definita come
―principio di generalizzazione esistenziale‖ (Pa  xPx, per P preso come ―pensare‖ e per a preso come ―io‖:
―se io penso, allora esiste qualcosa che pensa‖), ovvero una tautologia (certezza logica, sufficiente per risolvere
il ―dubbio scettico‖ agostiniano, ma non per risolvere il ―dubbio metodico‖ cartesiano, visto l‘errore logico sog-
giacente), con una legge metafisica (certezza ontologica), come già Gassendi — che sarà stato anche un epicu-
reo e ―bieco materialista‖, ma la logica la sapeva — gli rimproverò da subito, e come Kant esplicitò magistral-
mente nei suoi famosi paralogismi della Ragion Pura. Chissà: se Descartes si fosse limitato a essere quel gran
matematico che fu, uno dei padri della matematica e della scienza moderna, forse sarebbe stato meglio per tutti.

45
immediatamente su se stesso, nè sul proprio atto, se non parzialmente ed indirettamente. At-
traverso, cioè, il controllo esercitato da un organo del corpo su un altro (S.c.Gent., II,49,
1254s. La dimostrazione è presa da Aristotele, rispettivamente, Phys. VIII,5,257a,33-b,13; e
ivi V,2,225b13-226a,23).
Coscienza, autocoscienza, da una parte (=conoscenza soggettiva), conoscenza concet-
tuale degli oggetti naturali e capacità di conoscere concettualmente anche la propria natura
umana (=conoscenza oggettiva), dall'altra, non sono dunque altro che diverse espressioni di
questa capacità delle facoltà razionali di esercitare un'immediata "azione" sul proprio atto.
Una facoltà spirituale è insomma tale perché opera immediatamente su se stessa è capace
cioè di azione immanente immediata. In questo modo la via oggettiva e quella soggettiva per
la dimostrazione della spiritualità dell'anima manifestano la loro sostanziale unità nella sintesi
di Tommaso e con ciò emerge anche l'assoluta genialità ed originalità della medesima, rispet-
to ai suoi predecessori, ma anche rispetto a una miriade di suoi successori!
E' bene dunque, per non creare sostanziali equivoci che esporrebbero la dottrina tomista
ad una confutazione che non le spetta, non definire il terzo argomento tomista per dimostrare
la spiritualità dell'anima, ―argomento dell'autocoscienza‖, ma piuttosto ―argomento dell' im-
manenza immediata‖ o ―argomento dell'immediato dominio‖ dell'anima umana sul proprio
atto intenzionale. Un auto-controllo, dunque, che non è mediato, come nel caso di un qualsia-
si organismo vivente sub-umano, da una gerarchia di organi l'uno che controlla l'operazione
dell'altro, o, come oggigiorno in un qualsiasi sistema a controllo automatico (si pensi ad un
servo-meccanismo o ad un computer) da una gerarchia di sotto-sistemi in cui uno controlla la
funzione eseguita dall'altro. Bensì un auto-controllo immediato, che non passa cioè attraverso
alcun organo o gerarchia di essi. Questa è l'essenza per Tommaso di un'operazione spirituale.
Qualcosa insomma, e questa è l'ultima notazione da farsi al riguardo, che concerne lo specifi-
co della facoltà razionale, tanto nell'operazione cognitiva (dell'intelletto), quanto nell'opera-
zione deliberativa (della volontà).
2.5.3 UNA PRIMA DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI "ENTE SPIRITUALE" MUTUATA DAL NEO-PLATONISMO
L'affermazione della spiritualità dell'anima razionale dall'interno della psicologia aristo-
telica dipende dunque, almeno storicamente55, dall'interpretazione dei filosofi spiritualisti a-
rabi della dottrina aristotelica, sebbene al prezzo di affermare l'unicità metafisica dell'anima
razionale per tutti gli uomini. D'altra parte, quest'interpretazione dei filosofi arabi ha una sua
intrinseca coerenza. Se tipico di un'anima razionale è di conoscere per universali e la materia
è principio di individuazione, nessun individuo umano in quanto tale, proprio perché fatto di
materia, può pensare per universali. C'è un unico intelletto, immateriale è dunque meta-
individuale che pensa per tutti. Effettivamente, al di fuori della dottrina tomista, riesce molto
difficile trovare una soluzione diversa da questa, che è e resta sostanzialmente una dottrina
neo-platonica, che nega un‘individualità dell‘anima spirituale (da cui il suo essere ―separata‖
dagli individui umani), tanto per i classici come per i moderni.
Allora, per comprendere l'originalità teoretica della soluzione tomista spiritualità ed
insieme individualità dell'anima umana, ovvero, anima=forma sussistente (o id quod) ed in-
sieme anima=forma sostanziale di (ovvero, appartenente intrinsecamente a) un corpo, o id
quo , la via migliore è proprio quella di un confronto diretto fra la dottrina tomista e quella
neo-platonica.

55
Se poi possa dipendere teoreticamente anche dalla stessa dottrina aristotelica considerata in quanto tale, è una
questione che lascio agli storici ed agli interpreti di Aristotele. Non c'è dubbio infatti che l'operazione intellettiva
sia immateriale per Aristotele, ma che questo sia sufficiente a dimostrare anche, dall'interno del sistema Aristo-
telico, la capacità di sussistenza dell'anima razionale dopo la morte è un'altra questione...

46
L'occasione più adatta in questo senso ci è offerta dall'ultimo grande Commentario
scritto da Tommaso, quello al De Causis (1269-1273), un testo erroneamente attribuito ad A-
ristotele e che Tommaso supponeva fosse una sintesi araba (forse di Alfarabi) del libro di
Proclo Elementatio Theologica. In tal modo, l'esposizione tomista procede spiegando le varie
proposizioni del De Causis mediante testi paralleli dell'opera di Proclo. Il Commentario al De
Causis costituisce dunque un testo della maturità estrema del pensiero dell'Aquinate e dove la
sua opinione sul delicato argomento può emergere all'apice della sua elaborazione, anche se,
come vedremo in forma molto sintetica. D'altra parte, la precedente discussione ci ha aperto
la strada ad intendere la profondità di quanto si celerà dietro le formule sintetiche di Tomma-
so.
Nella Proposizione XV del De Causis, dedicata ad illustrare in che modo l'anima si rela-
ziona a se stessa, si afferma testualmente:
Ogni conoscente che conosce la propria essenza è un ente che ritorna sulla sua propria essenza di un ri-
torno completo (reditione completa).
Nel testo aggiunto a commento di questa proposizione si specifica meglio il concetto di
"ritorno completo" a se stessa di una sostanza:
Sono dette, infatti, convertirsi a se stesse come sostanza quelle cose che sussistono per se stesse, che
hanno cioè una stabilità tale da non necessitare di convertirsi ad altro da sé che le sostenti, come è invece
la conversione degli accidenti alle loro rispettive sostanze
In altri termini, "ritorno completo" non significa altro per una cosa che "sussistere in se
stessa", essere sostanza (S.Th., I,14,2c). Una sostanza capace di conoscere la propria essenza
è una sostanza semplice (=non composta di materia e di forma, ma solo forma), ovvero una
forma sussistente. Tommaso, molto appropriatamente, per illustrare questa definizione, cita
l'altro testo di Proclo, dove, molto evocativamente, si definisce una sostanza (hypostasis) spi-
rituale un authypostaton. Così dice Tommaso:
Per terza proposizione (di Proclo) prendiamo la quarantatreesima del suo libro che afferma: ogni cosa
che si converte a se medesima la definiamo "autoipostasi" cioè sussistente per se stessa. Il che si prova
dicendo che ogni cosa si converte a ciò che la sostantifica (per esempio, l'accidente si converte alla so-
stanza: cfr. n.311). Quindi se qualcosa si converte a se stesso secondo il proprio essere, è necessario che
sussista per se stesso (In de Causis, XV,xv,304).

Infatti, secondo Proclo alla proposizione seguente:


ogni cosa che si converte (conversivum) a se stessa secondo la propria operazione, è rivolta (conversum)
a se stessa anche secondo la propria sostanza (cit. in ivi,305),
cioè sussiste, altrimenti, dice Proclo, l'operazione sarebbe più perfetta della propria sostanza,
il che è assurdo56. Da questa teoria generale delle sostanze spirituali, la dottrina procliana sul-
l'anima può riassumersi in tre punti fondamentali (ivi, 308-311):
1. L'anima come ogni ente spirituale conosce la propria essenza;
2. Quindi la conosce non solo attraverso la propria operazione, ma per essenza;
56
La dottrina del De Causis riguardo la reditio completa viene così sintetizzata in un testo della Summa Theolo-
giae (I,14,2, ad 1), in risposta ad un'obiezione secondo la quale, partendo proprio dal De Causis, si vuole negare
a Dio la reditio completa (Dio non può mai uscire da Sé, quindi come si può affermare che ritorni alla Sua es-
senza?). ―Per quanto riguarda la prima obiezione bisogna dire che ritornare alla propria essenza non significa
nient'altro che affermare che la cosa sussiste in se stessa. La forma infatti, in quanto attualizza (perficit) la mate-
ria dando ad essa l'essere, in qualche modo si diffonde sopra di essa. In quanto invece ha l'essere in se stessa,
ritorna in se stessa. Le facoltà conoscitive che non sono sussistenti, ma atti di un qualche organo, non conoscono
se stesse, come è evidente nei singoli sensi. Ma le facoltà conoscitive che sono sussitenti per se stesse conosco-
no se stesse. E per questo si dice nel libro De Causis che ciò che conosce la propria essenza, ritorna alla sua
essenza. Il sussistere per se stesso conviene massimamente a Dio. Quindi, secondo questo modo di parlare, Egli
è Colui che massimamente ritorna alla Sua Essenza e conosce Se stesso".

47
3. Convertendosi così a se stessa, mostra di essere una sostanza semplice, che sussiste
per se stessa, "come se non avesse bisogno della materia per sostentarsi". Quindi
l'anima è separabile dal corpo.
Ora, commenta Tommaso, è proprio sulla prima affermazione che occorre soffermarsi
con attenzione. Mentre infatti la predetta concezione nei suoi tre momenti è perfettamente
applicabile al Primo Intelletto, quello Divino, che, per essenza conosce solo se stesso, e, in se
stesso, conosce anche tutte le altre cose (cfr. S.Th., I,14,2c), così da essere la perfetta Forma
Intellegibile, per le intelligenze create occorre specificare ulteriormente.
1. Per le ―sostanze separate‖, è vero che esse partecipano tanto dell'intellegibilità quanto
della capacità intellettiva divine. In questo modo, ciascuna conosce se stessa per es-
senza, sebbene non possano conoscere nella propria essenza le essenze di tutte le co-
se, ma abbiano bisogno di specie (derivate per illuminazione da Dio e dalla sostanza
superiore) per conoscere le altre cose (cfr. S.Th., I,56,1c; 87,1c;). In altri termini, la
―sostanza separata‖:
a. nell'ordine dell'ssere, si converte a se stessa (è sussistente);
b. nell'ordine dell'operazione, si converte a se stessa per essenza (=è forma pura, non
unita ad un corpo) per conoscere la propria essenza, e si converte alla forma di or-
dine inferiore per illuminarla attraverso le specie (S.Th., I,106,1c e paralleli).
2. Per l'anima umana, invece, è vero che essa partecipa per essenza soltanto della capa-
cità intellettiva divina, ma non partecipa dell'intellegibilità. Quindi non può conoscere
se stessa per essenza, ma solo attraverso i suoi atti. In altri termini, l'intelletto umano,
dice Tommaso, citando Aristotele (De An., III,4,430a1-2), essendo in potenza, realiz-
za l'identità fra intellezione ed intellegibile soltanto quando è attualizzato mediante la
specie intellegibile ricevuta dall'intelletto agente, che a sua volta l'ha astratta dai sensi,
che a loro volta la derivano dalla realtà.
Ciascuno di noi, insomma, è cosciente di se stesso solo quando conosce qualcosa di di-
verso da sé. La nostra conoscenza di noi stessi cioè non è intuitiva, ma riflessa. Mi accorgo di
esistere solo quando mi accorgo dell'esistenza di qualcosa di diverso da me: basta pensare a
come mi sveglio al mattino. Quindi l'intelletto umano conosce se stesso, primariamente
(=prima riflessione), solo conoscendo qualcos'altro da sé. Esso conosce se stesso per rifles-
sione non per essenza, ovvero conosce se stesso (=riflette su di sé) mentre sta conoscendo
qualcos'altro da sé, attraverso la propria conversione ai fantasmi della sensibilità. Solo secon-
dariamente l'intelletto può ritornare sul suo proprio atto (=seconda riflessione), per divenire
oggetto esplicito di conoscenza a se stesso. Ma tale riflessione, essendo secondaria e mediata
(suppone la prima e la conversio ad phantasmata), non porterà mai ad un'intuizione diretta e
completa, autocosciente, della propria essenza. Se vuole arrivare alla conoscenza della sua
essenza, l'intelletto umano deve percorre una strada diversa da quella dell'autocoscienza.
Ecco, comunque, un altro testo, tolto dalla Metafisica, dove Aristotele illustra il medesimo
principio:
L'intelletto conosce se stesso in quanto partecipa degli intellegibili giacche' esso stesso diventa in-
tellegibile venendo a contatto col suo oggetto e pensandolo, di modo che intelletto ed intellegibile ven-
gono ad identificarsi (Metaph., XII,7,1072b,20s).
Viene così da Tommaso genialmente trovata la chiave teoretica per comprendere il rap-
porto intelletto spirituale-corporeità, almeno dal punto di vista dell'operazione intellettiva.
Poiché l'intelletto conosce il proprio atto mentre lo compie esso è spirituale. Siccome però
questa unione intellezione-intellegibilità viene realizzata episodicamente ogni volta che l'in-
telletto possibile (=la mia capacità di capire) è attualizzato da una specie intellegibile o "ide-
a", astratta dai sensi dall'operazione dell'intelletto agente, l'intelletto in questo modo non co-

48
nosce direttamente la propria essenza. Questa consapevolezza della propria operazione può
costituire solo la base per un ulteriore riflessione su se stesso (=la seconda riflessione o "au-
tocoscienza"), la quale a sua volta, può fornire la base evidenziale per una ricerca razionale
sulla propria essenza spirituale.
Diversamente da Platone e dai neo-platonici, però, questa partecipazione degli in-
tellegibili, mediante la quale l'intelletto realizza la propria operazione intellettiva, non deriva
per partecipazione (o illuminazione) da sostanze superiori (le "idee" platoniche o le "sostanze
superiori" neo-platoniche), ma da un'altra funzione dell'intelletto stesso: quella astraente gli
intellegibili dai sensibili.
Sintetizzando:
1. Nell'ordine dell'essere: l'anima si converte a se stessa (=è forma sussistente): infatti
può conoscere la sua essenza, come le altre forme spirituali.
2. Nell'ordine dell'operazione: l'anima non conosce se stessa per essenza, ma attraverso
la riflessione (prima e seconda) dell'intelletto sul proprio atto, atto durante il quale es-
so si converte ai fantasmi della sensibilità (=l'anima non è forma pura che fa a meno
di un corpo).
Quando dunque l'intelletto, riflettendo su se stesso mediante la prima e la seconda ri-
flessione, si interrogherà sulla propria essenza, dovrà necessariamente tener conto non solo
della propria spiritualità, ma anche della sua ontologica relazione ai sensi ed al corpo. Questa
analisi metafisica sull'operazione dell'intelletto umano, apre così la strada all'analisi metafisi-
ca sulla struttura del soggetto umano conoscente (=dall'atto secondo, all'atto primo)
2.5.4 L'EVIDENZA SOGGETTIVA DELLA PROPRIA SPIRITUALITÀ COME "HABITUS" DELL'ANIMA E LA DEFINIZIONE
RAZIONALE DELL'ESSENZA DELL'ANIMA

Prima di passare ad un testo, di nuovo, del De Veritate (X,8) in cui Tommaso stesso
riassume molto chiaramente la sua posizione riguardo all'evidenza soggettiva della spirituali-
tà dell'anima umana, bisogna ricordare come la dottrina neo-platonica dell'intuizione diretta
della propria essenza spirituale sia stata fatta propria da Agostino come prova essenziale della
spiritualità dell'anima stessa. Infatti, l'articolo del De Veritate è scritto da Tommaso proprio
per integrare e correggere questa posizione estrema del grande teologo dell'antichità cristiana.
Affermava infatti Agostino in un testo riportato da Tommaso:
La mente come raccoglie notizie delle cose corporali per i sensi del corpo, così quelle delle incorporali
per se stessa. Quindi l'anima conosce se stessa per se stessa, poiché è incorporea (De Trinitate, IX,3,2).
Come si vede la dottrina neo-platonica per la dimostrazione della spiritualità dell'anima,
aveva ben altri difensori che non i filosofi arabi. Essa faceva parte della più alta tradizione
cristiana della dottrina sull'uomo. Proprio su questo punto così delicato, si potrà vedere così
la genialità del pensatore Tommaso, capace di incorporare questa dottrina agostiniana, alme-
no nel suo centro metafisico, nel nucleo vivo della dottrina aristotelica sull'anima. In questo
modo Tommaso apre un'altra via di accesso alla dottrina metafisica sull'uomo e sulla sua spi-
ritualità che, a tutt'oggi, è ben lontana dall'essere stata percorsa fino in fondo.
La soluzione tomista del dilemma consiste dunque nel proporre una duplice via di accesso al-
la spiritualità dell'anima umana (De Ver. X,8):
1. La via dell'evidenza esistenziale o fenomenologica di tipo soggettivo del fatto che c'è
(an est; dass) una vita psichica in noi. Questa via, essendo individuale non può fornire
da sé sola alcun fondamento ad una dottrina razionale, di valore scientifico (di "scien-
tificità metafisica", ovviamente) sulla spiritualità dell'anima. Essa, ben interpretata,
può costituirne però una componente essenziale.
2. La via dell'analisi razionale della natura (quid est; was) di questa vita psichica. Un'a-
nalisi di tipo oggettivo a partire dall'evidenza oggettiva della particolarità dell'attività

49
cognitiva e deliberativa dell'uomo. Solo da questa può derivare una dottrina razionale,
metafisica sulla spiritualità dell'anima.
2.5.5 L'EVIDENZA SOGGETTIVA-ESISTENZIALE DELLA VITA PSICHICA:
Tommaso sintetizza le due posizioni opposte, stavolta quella agostiniana e quella aristo-
telica, distinguendo a questo proposito fra presenza abituale e presenza attuale dell'anima a
se stessa. Come vedremo, ben lungi dall'essere un artificio dialettico, tale distinzione rilegge
la via neo-platonica dall'interno della via aristotelica, riducendo le false (e pericolose, come il
resto della storia della filosofia dimostrerà) pretese della prima e completando le affermazioni
della seconda.
1. Presenza abituale dell'anima a se stessa57, ovvero l'autopossesso (ogni "abito" in-
tellettivo è un modo di "aversi" da parte dell'intelletto: cfr. nota precedente) che per
natura ciascuno di noi, in condizioni normali, ha della propria vita psichica, cosicchè
sia in grado di esserne consapevole senza dover imparare a farlo. Non si tratta cioè di
un "abito acquisito" come quello, per esempio, che mi rende capace di eseguire e do-
minare completamente certe operazioni matematiche, ma di una disposizione innata.
La presenza abituale dell'anima a se stessa è perciò incondizionata o per se stessa, o,
appunto, per essenza. ―Da essa, conclude Tommaso, derivano quegli atti nei quali es-
sa percepisce se stessa attualmente‖. Come si vede, siamo ben lungi qui, non solo dal-
l'affermare che l'anima umana conosca se stessa attualmente per essenza, ma sopratut-
to siamo ben lungi dall'identificazione moderna dello "spirituale" o, peggio, dello
"spirito" con l'"autocoscienza".
Forse però qui siamo in presenza di qualcosa di più essenziale che tocca la de-
finizione stessa della "spiritualità" in quanto tale, come proprietà intrinseca a tutte le fa-
coltà spirituali dell'anima razionale, tanto cognitive quanto volitive. Qualcosa dunque che
ci rimanda al centro stesso della dimostrazione della spiritualità di queste operazioni, evi-
denziandone la loro radice comune. Infatti, se con "abito entitativo" o "innato" si intende
un modo di "aversi", di possedersi di un soggetto vivente rispetto a se stesso, la dipenden-
za della dimostrazione della spiritualità dell'anima dalla dimostrazione della capacità di
un dominio immediato (che non dipende dalla gerarchizzazione degli organi) delle sue fa-
coltà sul proprio atto - dipendenza che abbiamo già più volte evidenziato, e di cui la co-
scienza e l'autocoscienza non sono che espressioni particolari - potrebbe essere la chiave
di volta dell'intera questione della spiritualità dell'anima presa alla sua radice. L'abitualità
57
―Il nome abito viene da avere. Da esso però deriva una duplice nozione di abito: in un modo, secondo che un
uomo o qualsiasi altra cosa vien detta avere qualcosa. Nell'altro modo, secondo che qualcosa ―si ha‖ in se stessa
o verso qualche altra cosa‖ (S.Th., I-II,49,1c). L'abito in questo secondo senso significa dunque un aversi e si
distingue dalla categoria dello ―abito‖ di cui parla Aristotele nella sua Tavola che indica invece una relazione fra
―avente‖ ed ―avuto‖ (come quando diciamo per esempio che un animale è ―corazzato‖ o ―bipede‖, il che signifi-
ca ―ha una corazza‖, ―ha due gambe‖) e dunque una relazione fra due cose o due parti di una medesima cosa.
L'abito nel senso di ―aversi‖ non implica alcuna relazione di possesso fra due cose distinte, indica invece una
disposizione stabile, una qualità di un soggetto vivente o verso se stesso o verso altro da sé. Tutti gli abiti intel-
lettivi sono di questo secondo tipo. P.es., ―essere matematico‖ significa ―possedere la scienza matematica in abi-
to‖, cosicché io posso comprendere o eseguire operazioni matematiche ogni volta che lo voglia. L‘ ―abito ma-
tematico‖ è un nuovo modo di ―avermi‖, in relazione ai numeri. A loro volta, questi abiti si distinguono in: 1)
operativi, che riguardano cioè le operazioni di un soggetto e quindi il suo modo di aversi rispetto ad altro - e
questi sono tutti gli abiti cognitivi (di scienza) e pratici (―virtù‖ e ―vizi‖) acquisiti, che presuppongono cioè l'e-
sercizio di qualche atto per conseguirli; e 2) entitativi, che riguardano cioè un modo di aversi di un soggetto ri-
spetto a se stesso. A questo tipo di abiti appartengono dunque tutte le disposizioni o predisposizioni naturali di
un soggetto (p.es., tutti i cosiddetti ―fattori genetici‖ o la cosiddetta ―ereditarietà‖). Questi ultimi abiti sono per-
ciò ―innati‖ e solitamente non riguardano la sola anima razionale, ma tutto il composto umano, anima e corpo.
La presenza abituale dell'anima a se stessa è uno di questi abiti innati. Per l'appunto però, ha la sua sede nell'a-
nima razionale in quanto tale.

50
della presenza dell'anima a se stessa direbbe cioè qualcosa di più, di molto di più, rispetto
di una pura e semplice disposizione innata a conoscersi da parte dell'anima. Si potrebbe
parlare di una disposizione immediata ed innata della sostanza spirituale ad operare sul
proprio atto, a controllarlo immediatamente. Una disposizione di cui coscienza ed autoco-
scienza non sono che particolari attuazioni e neanche le più importanti. Ecco comunque
un testo di Tommaso, tolto sempre dal De Veritate (XXII,12), in cui Tommaso si muove
in questa direzione di ricerca:
Compete alle potenze superiori, per il fatto che sono immateriali, che riflettano sopra se stesse, e l'una
sull'altra, e sull'essenza dell'anima e su tutte le sue facoltà. Quindi tanto la volontà come l'intelletto riflet-
tono ambedue su se stesse, e l'una sull'altra e sopra l'essenza dell'anima e sopra tutte le sue facoltà. L'in-
telletto infatti conosce se stesso, e la volontà e l'essenza dell'anima e tutte le facoltà. La volontà simil-
mente vuole di volere (

51
mini la distinzione tommasiana, fra ―riflessività immediata‖ della natura spirituale
dell‘intelletto (essere) e ―coscienza/autocoscienza‖ (facoltà) evidenzia come ―la via soggetti-
va‖ agostiniana sfoci a livello di indagine (ma presupponga a livello ontologico) ―la via og-
gettiva‖ tommasiana. D‘altra parte, questa inscindibile complementarietà fra le due vie — e
dunque fra trascendentale ―classico‖ e ―moderno‖ — è preziosa anche per l‘indagine feno-
menologica, se non vuole che ―la naturalizzazione della fenomenologia‖ ad opera delle neu-
roscienze cognitive ―snaturi‖ — il gioco di parole è voluto! — il proprium dell‘indagine fe-
nomenologica stessa. Il riferimento alla semplice ―coscienza‖, originaria quanto vuole, ma
pur sempre atto cognitivo, sarebbe, in questo caso, un vicolo cieco anche per lei! Ma il con-
fronto fra il nuovo approccio intenzionale alle neuroscienze cognitive con la teoria tomma-
siana e fenomenologica dell‘intenzionalità non è oggetto di questo studio. Dedichiamoci in-
vece, nell‘ultima sezione di esso, ad approfondire l‘utilità dell‘ontologia formalizzata
all‘indagine ontologica post-moderna contemporanea.

3 Dall‘ontologia formale all‘ontologia formalizzata: rilevanza filosofica e scientifica

3.1 Formalizzazione delle teorie


Come abbiamo più volte anticipato nel corso di questo saggio, la logica simbolica non
s‘identifica con la logica matematica tout court. Semplicemente la matematica è stata la pri-
ma scienza ad essere assiomatizzata (si pensi agli Elementi di Euclide) e dopo Frege ad essere
completamente simbolizzata e formalizzata, dando alle scienze matematiche, teoriche ed ap-
plicate, quella capacità di diffusione universale, che, come già detto, è alla base della globa-
lizzazione tecnico-scientifica contemporaneo. Ora, non è che i linguaggi poetici, o quelli reli-
giosi, o quelli filosofici, o più in generale i linguaggi ordinari delle diverse culture siano illo-
gici o irrazionali, dunque insensati, come il movimento neopositivismo sulla scia del Tracta-
tus di Wittengstein affermava. Essi sono chiaramente dotati di un‘intima coerenza, tanto che
sono oggetto d‘insegnamento e di tradizione o, addirittura, come nel caso delle religioni isti-
tuzionalizzate, esistono delle autorità in grado di segnalare quando una determinata dottrina
―viola le regole‖ di quel dato linguaggio religioso, diventando così ―eretica‖. Semplicemente
linguaggi poetici, religiosi, come in genere tutti i linguaggi delle discipline umanistiche, onto-
logia(e) e metafisica incluse, seguono diverse regole logiche59 da quelle della logica matema-
tica. Delle regole che sono altrettanto simbolizzabili, assiomatizzabili e quindi formalizzabili
quanto quelle delle logiche estensionali — costituiscono cioè un ―calcolo‖, o, in termini leib-
niziani, una characteristica —, così da rendere reciprocamente confrontabili le discipline e le
dottrine che ad esse si rifanno quanto lo sono le discipline scientifiche che usano le logiche
estensionali del linguaggio matematico, superando comunque in ambedue i casi, grazie alla
formalizzazione, barriere ideologiche, culturali, linguistiche. Il passaggio dal cosiddetto
―primo‖ (quello del Tractatus) e ―secondo‖ (quello dei Quaderni) Wittengstein che distingue
fra vari ―giuochi linguistici‖ ognuno con le sue regole esemplifica questa presa di consapevo-
lezza che è alle base del fiorire delle ricerche delle logiche intensionali a partire dalla seconda
metà del ‗900, fino allo sviluppo dell‘ontologia formale.
3.1.1 DEFINIZIONE DI UNA TEORIA FORMALIZZATA
Approfondendo la costituzione di un calcolo formale, la sua struttura e la natura degli
elementi che lo compongono, possiamo dire che un calcolo formale costituisce un sistema
formale, ovvero un sistema deduttivo formalizzato.
59
Regole e non leggi: le leggi logiche sono sempre le medesime e non variano mai per i diversi linguaggi. Ciò
che cambiano sono le regole, ovvero l‘applicazione delle leggi logiche a determinati contesti e usi linguistici.

53
Con sistema formale s‘intende nella logica moderna un calcolo formale per il quale si
possono fornire diverse interpretazioni che corrisponderanno ad altrettante teorie formalizza-
te. Un sistema formale costituisce dunque una sorta di ―struttura formale‖ valida per
un‘infinità di teorie formalizzate che useranno questa struttura.
Da un altro punto di vista, si può dire che una teoria costituisce un linguaggio formaliz-
zato ovvero un particolare modello o interpretazione di un sistema formale in cui i termini e/o
le proposizioni che appartengono a tale linguaggio sono tutti rigorosamente dichiarati, o de-
finiti, o dimostrati, man mano che vengono aggiunti al linguaggio stesso.

1. Innanzitutto, in tale linguaggio formalizzato — e in un sistema formale, ovviamente


— devono essere dichiarati quelli che sono i primitivi di quel linguaggio, ovvero ter-
mini e/o le proposizioni elementari (soggetto - predicato) che non vengono rigorosa-
mente definiti all‘interno del linguaggio, ma che si suppongono conosciuti, visto che
saranno usati per costruire gli assiomi, le regole e le definizioni che costituiranno le
proposizioni-base del sistema formale. Nel caso di una qualsiasi teoria fisica, per e-
sempio, sarà un termine primitivo quello che denota la nozione di ―materia‖, mentre,
dopo la relatività speciale, non lo saranno più i termini di ―massa‖ e di ―energia‖ che
al tempo di Newton si pensavano fossero termini primitivi, irriducibili. Nel caso
dell‘ontologia, invece, per rimanere nel nostro argomento, ci ha insegnato Tommaso,
saranno termini primitivi quelli che denotano la nozione di ―ente‖ e tutti gli altri ter-
mini che denotano le nozioni cosiddette ―trascendentali‖. Infatti tutte le ontologie di
qualsiasi filosofia parlano dell‘ente, sebbene differiscano anche profondamente le une
dalle altre per le definizioni (si pensi, p.es., alle profonde differenze fra ontologie ma-
terialiste, idealiste, etc.), gli assiomi (p.es., l‘assioma platonica di ―partecipazione
formale‖, non è quello tommasiano di ―partecipazione dell‘essere‖ e ambedue non
trovano posto nell‘ontologia aristotelica) e le regole di dimostrazione (p.es., tutte le
ontologie che accettano il metodo dialettico hegeliano sono dette ―non-scotiste‖)60,
che ciascuna ontologia usa nel trattare gli ―enti‖. Viceversa ha logicamente ben poco
senso dire con la Stein e la fenomenologia che ―essere‖ e i suoi equivalenti costitui-
scano le ―categorie‖ fondamentali dell‘ontologia formale. Se non si vuole denotarli
con il termine ―trascendentali‖, benissimo, chiamiamoli pure ―primitivi di ogni onto-
logia‖, ma definirli come ―categorie‖ crea delle pericolosissime confusioni semanti-
che, perché le categorie sono ―generi supremi‖, come la Stein medesima ammette e
definire l‘essere un ―genere‖ vuol dire essere razionalisti, cosa che la Stein né alcun
fenomenologo vuole certamente essere. Come si vede, la formalizzazione può servire
a far chiarezza anche in fenomenologia.
2. Al di là dei primitivi, ciò che caratterizza un sistema formale e quindi un linguaggio
formalizzato sono poi le cosiddette proposizioni-base di esso:
a. Fra di esse, innanzitutto, vi sono gli assiomi, proposizioni non dimostrate entro
quel linguaggio da cui formare per dimostrazione successive proposizioni. Come
sappiamo, essenziale per la rigorosa costruzione di un linguaggio formale è che i
suoi assiomi siano in numero finito, che sia dimostrabile la loro reciproca
non - contraddittorietà e che siano effettivamente tali, ovvero non deducibili dagli
altri assiomi del linguaggio.
b. Altro tipo di proposizioni-base sono le definizioni dei termini e delle operazioni
usati per le deduzioni.

60
Non devono cioè ammettere la legge dello pseudo-Scoto.

54
c. Vi sono poi le regole di formazione, mediante cui le definizioni e le altre proposi-
zioni-base sono costruite a partire dai termini primitivi.
d. Vi sono infine le regole di deduzione mediante cui altre proposizioni verranno
successivamente e non ambiguamente dedotte a partire dagli assiomi e dalle defi-
nizioni.

3. Tutte le altre proposizioni costruite a partire dalle proposizioni-base costituiranno


così altrettanti teoremi di quel linguaggio formale. Fra di essi, i teoremi da cui, ap-
plicando le regole di deduzione, altri teoremi possono essere dedotti, si definiranno
lemmi.
Alla luce di questi principi fondamentali, con una teoria T s‘intende un linguaggio che
parla di un certo, limitato, universo di oggetti, ovvero un insieme di proposizioni che, data
l‘interpretazione I su quell‘universo (o interpretazione standard), risultano in esso vere:

T = {a: I(a)=1}
P.es., tutte le proposizioni vere dell’aritmetica elementare, l‘aritmetica intuitiva che tut-
ti usiamo, sono considerate l’interpretazione standard I della teoria dei numeri naturali.
Come si è appena detto, il tentativo di giungere all‘assiomatizzazione di una teoria,
muove dall‘esigenza (o almeno dalla speranza) di derivare – mediante un procedimento finito
di dimostrazione, basato quindi selle regole logiche della deduzione – tutte le proposizioni
vere esprimibili nel linguaggio formalizzato della teoria stessa, a partire da un insieme di
proposizioni-base privilegiate o assiomi. Per questo, alla definizione generale di teoria, sopra
introdotta, che si basa sulla verità delle proposizioni alla luce di un‘interpretazione della teo-
ria, occorre affiancare anche una definizione di teoria basata sulla deducibilità logica o dimo-
strabilità delle proposizioni (a partire dagli assiomi) che sono presenti nella teoria stessa.
Questo secondo modo di definire una teoria, sulla base della dimostrabilità, viene detto
―definizione modellistica di teoria‖.
In altri termini, è chiaro che l‘insieme delle formule {a} di cui T costituisce una inter-
pretazione vera può essere anche un sistema formale, in tal caso T sarebbe una T formalizza-
ta.
Nel caso delle ontologie, per esempio, potremmo definire interpretazione standard I di
tali teorie T le ontologie stesse in quanto espresse in linguaggio ordinario. Sarebbero ontolo-
gie formalizzate quelle medesime teorie in quanto riscritte come altrettanti modelli o interpre-
tazioni di particolari sistemi formali di logica modale che costituiscono la struttura formale di
dimostrazione tipica di ogni ontologia61. Come vedremo subito, nel caso di ontologie fonda-
mentali o teorie metafisiche, esse saranno particolari interpretazioni del sistema S5 di logica
modale, con tutte le sue possibili varianti. Questo ci aiuterà immediatamente a vedere al livel-
lo più profondo i rapporti di similarità fra le varie ontologie.
Diamo perciò una definizione modellistica di teoria. In base alla precedente definizione
di T, esiste il problema di trovare l‘insieme delle proposizioni vere che corrispondono a T
mediante una procedura finitistica, ovvero, con un numero comunque finito di passi, evitan-

61
Come si vede, l‘ontologia formalizzata è in grado di applicarsi tanto alla distinzione fenomenologica fra onto-
logia formale e ontologie materiali, quanto alla distinzione scolastica moderna, ma perfettamente compatibile
con la sua fonte tommasiana, fra metafisica (ontologia) generale e metafisiche (ontologie) speciali e le loro sog-
giacenti strutture logico-formali.

55
do cioè quello che classicamente veniva definito un ―regresso all‘infinito‖, nella ricerca dei
principi.
Esiste cioè la necessità di un assiomatizzazione delle teorie, di derivare cioè tutte le
proposizioni vere, , in una teoria, esclusivamente da un insieme finito di proposizioni-base
privilegiate, in particolare gli assiomi, supposti veri per quell‘universo di oggetti di cui parla
la teoria . Di qui la definizione modellistica di teoria assiomatizzata, A (T), usando la nozione
di per sé infinitaria cioè semanticamente (non sintatticamente come le tautologie) vera in tutti
gli infiniti mondi possibili, di conseguenza logica (simbolizzata in logica con ―C‖):
T = {a: A (T)Ca}
Dove con ―conseguenza logica‖ o implicazione formale s‘intende la conseguenza vera
di un‘implicazione che, a differenza della conseguenza di un‘implicazione ―materiale‖ (cfr. la
tavola di verità del connettivo ― ‖ dell‘implicazione materiale in Tavola 4), può essere im-
plicata solo da premesse a loro volta vere.
Di qui la definizione di T come chiusa rispetto al nesso di conseguenza logica, ovvero
ogni proposizione che è una conseguenza logica delle premesse della teoria appartiene alla
teoria. Se T fosse anche completa, ovvero se fosse vero anche che le sue conseguenze copro-
no la totalità delle proposizioni vere in I, allora la T assiomatizzata coinciderebbe con quella
non assiomatizzata: T I.
I teoremi di Gödel dimostrano invece che la completezza è impossibile per le teorie
formalizzate, proprio a partire dalla teoria assiomatizzata della aritmetica elementare. Essi
dimostrano infatti che non tutte le proposizioni vere dell‘aritmetica elementare sono decidibi-
li (dimostrabili) nell‘aritmetica assiomatizzata (ovvero nell‘ aritmetica secondo la formaliz-
zazione di Peano). Siccome un precedente teorema di Gödel (teorema di codifica goedeliana)
che fra l‘altro è alla base dell‘informatica, dimostra che qualsiasi linguaggio formalizzato
può essere codificato in termini aritmetici (codifica numerica), i teoremi di incompletezza di
Gödel acquistano valore di teoremi di limitazione universale per qualsiasi linguaggio forma-
lizzato o teoria assiomatizzata. Vediamo sinteticamente questo punto essenziale in relazione a
ciò che qui ci interessa, la formalizzazione delle teorie ontologiche.
3.1.2 TEORIA DEI GRADI SEMANTICI E SUA APPLICAZIONE ALL‘ONTOLOGIA
Generalmente le teorie scientifiche sia teoriche che applicate sono teorie formalizzabili
all‘interno del calcolo dei predicati del primo ordine dove, cioè, gli argomenti dei predicati
(costanti predicative) e quindi dei quantificatori che li vincolano sono sempre variabili termi-
nali, termini che denotano individui. Viceversa, tanto le teorie dei fondamenti, come in gene-
rale tutte le teorie ontologiche sono generalmente formalizzabili all‘interno del calcolo dei
predicati (almeno) del secondo ordine. Chi sa di logica capisce immediatamente il perché: in
ogni caso lo spiegheremo questo perché fra poco.
Nel calcolo dei predicati del secondo ordine, gli argomenti di predicati e quantificatori
possono invece anche essere variabili predicative, ovvero simboli che denotano classi e in-
siemi, nella teoria dei fondamenti delle scienze logiche e matematiche, che denotano proprie-
tà e generi naturali nel caso delle scienze ontologiche. In ogni caso, siffatte variabili predica-
tive devono essere argomento di predicati (costanti predicative) e quantificatori di ordine lo-
gico più alto.
P.es., tesi tipica della teoria dei fondamenti della logica dei predicati è il cosiddetto
principio degli indiscernibili formulato da Leibniz secondo il quale «due individui sono iden-

56
invece lo sono nella seguente espressione: «Io dico: ―Ho mentito‖». La distinzione dei gradi
semantici è evidenziata dalle virgolette interne.

3.2 Limiti della formalizzazione e implicazioni per l’ontologia

È chiaro ora perché la filosofia ed in particolare l‘ontologia e la metafisica, in quanto


scienze dimostrative, sono generalmente teorie almeno del secondo ordine in quanto i loro
asserti hanno per argomenti non tanto enti individuali generici, ma gli stessi generi (ontolo-
gia) e classi (logica), ovvero quei predicati che nelle corrispettive teorie del primo ordine
svolgono il ruolo di costanti predicative e non di argomenti di essi.
P.es., gli asserti delle scienze biologiche in quanto teorie del primo ordine hanno per ar-
gomenti nomi che denotano gli organismi viventi o i loro costituenti, con le loro rispettive
proprietà, le varie filosofie o ontologie della biologia (p.es., la ―teoria dell‘evoluzione‖) han-
no per argomento la vita stessa e le proprietà che la biologia predica degli organismi.
Senza poter andare qui troppo in profondità nella questione, bisogna ricordare che,
quando abbiamo a che fare con teorie formalizzate (simbolizzate e assiomatizzate in forma di
calcolo logico), per i teoremi di Gödel — ed i connessi teoremi di Skolem e di Dedekind —,
esiste una sorta di relazione d’indeterminazione, fra forza dimostrativa (completezza del cal-
colo logico soggiacente) e capacità espressive (categoricità) delle teorie al primo e al secon-
do ordine.
Per capire almeno in forma iniziale questa affermazione, bisogna ricordare che i teoremi
di Gödel di incompletezza delle teorie assiomatizzate del primo ordine del 1931, hanno come
condizione necessaria la dimostrazione da parte di Gödel stesso della completezza del calcolo
logico dei predicati C del primo ordine (e incompletezza del calcolo dei predicati del secondo
ordine e oltre) , ottenuta nel 1929.
Corollario dei teoremi di Gödel è il cosiddetto teorema di Skolem, ovvero il teorema
importantissimo che dimostra che se è una teoria è incompleta è anche non-categorica, ovve-
ro tutti i modelli costruibili della teoria non sono riportabili ad un‘unica struttura formale
(non sono cioè isomorfi fra di loro)62. Il senso di mancanza di unitarietà delle teorie scientifi-
che non è cioè casuale, ma dipende dalla potenza dimostrativa del calcolo formale (metodo
dimostrativo: calcolo dei predicati del primo ordine) che usano.
Viceversa il teorema di Dedekind aveva dimostrato, prima dei teoremi di Gödel e di
Skolem, che l‘aritmetica del secondo ordine, e quindi ogni teoria formalizzata del secondo
ordine è categorica, anche se per i susseguenti teoremi di Gödel e Skolem, ciò significa che
tale espressività dipende dal fatto che è basata su un calcolo del secondo ordine, più debole di
quello del primo ordine.
Di qui la seguente relazione d’indeterminazione logica (Ennio De Giorgi):

1. Se una teoria formalizzata è basata su un metodo dimostrativo molto potente (Calcolo


dei predicati del primo ordine), perde in unità esplicativa (è non-categorica). Ciò è ti-
pico delle teorie del primo ordine (p.es., teorie scientifiche matematico-sperimentali,
in quanto modelli empirici di sistemi formali)

62
Di per sé il teorema di Skolem riguarda solo l‘aritmetica formalizzata di Peano, ovvero la teoria simbolizzata
e assiomatizzata dell‘aritmetica, esattamente come i teoremi di incompletezza di Gödel. Ma per il teorema della
codifica aritmetica di ogni linguaggio formalizzato dimostrato da Gödel stesso, nel 1929, due anni prima dei
suoi due famosi teoremi di incompletezza, tali teoremi e quello di Skolem, possono essere estesi a qualsiasi teo-
ria formalizzata.

58
2. Se una teoria formalizzata è categorica, quindi dotata di una grande, unitaria ampiez-
za esplicativa, vuol dire che è basata su un metodo dimostrativo meno potente (calco-
lo dei predicati del secondo ordine). Ciò è tipico delle teorie del secondo ordine (e ol-
tre), p.es., teorie logiche e matematiche del secondo ordine, teorie dei fondamenti del-
le varie discipline scientifiche, teorie di discipline umanistiche, anche filosofiche, etc.
Questo limite intrinseco alla formalizzazione significa che, sebbene esso sia un metodo
da seguire per aiutare la comprensione reciproca anche a livello di teorie filosofiche, dobbia-
mo essere consapevoli del limite di tale metodo e quindi scegliere volta per volta il miglior
compromesso fra forza dimostrativa e capacità (ampiezza) esplicativa della teoria.
Schematizzando, per le teorie basate sul calcolo dei predicati del primo ordine C, in ba-
se al teorema di Skolem:

In base al teorema di Dedekind abbiamo invece una mancanza di forza dimostrativa,


imputabile al calcolo dei predicati del secondo ordine, per le teorie dotate di maggior capacità
esplicativa:

Lo stato dell‘arte della logica formale contemporanea ci assicura così che il processo di
formalizzazione o assiomatizzazione delle teorie è un processo da una parte necessario
dall‘altra inesauribile. Detto nei termini di Gödel: «ciò che possiamo conoscere è molto più di
quanto possiamo dimostare»…

3.3 Logiche estensionali


3.3.1 TEORIA ESTENSIONALE DEL SIGNIFICATO NEI LINGUAGGI SCIENTIFICI
L‘altra grande differenza fra formalizzazione di una teoria scientifica e filosofica (onto-
logica) già più volte ricordata è che mentre la prima usa una logica di tipo estensionale l‘altra
usa una logica di tipo intensionale. Cerchiamo dunque di comprendere bene alcune caratteri-
stiche delle logiche estensionali in quanto formalizzate, per comprendere meglio alcune carat-
teristiche fondamentali della formalizzabilità delle logiche intensionali e quindi
dell‘ontologia formale.
Nell‘ambito della formalizzazione delle matematiche dopo Riemann e Peano che hanno
reso la matematica da scienza delle quantità una pura scienza delle relazioni, l'hanno resa
cioè una disciplina puramente sintattica, il significato delle espressioni (termini, proposizioni,
termini primitivi inclusi) si riduce all‘uso corretto delle stesse all‘interno del sistema formale.
Il significato dei termini cioè non esprime altro che relazioni all‘interno del medesimo lin-
guaggio formale. P.es., nel modello standard dell‘aritmetica

59
dividuali, che rendono vero il predicato. Formalmente, si tratta della collezione degli argo-
menti del predicato per cui la funzione di verità, associata al predicato, acquista valore 1 e
non 0 (Cfr. infra § 3.3.4).
L‘estensione di un predicato così definita è ciò che denotiamo col nome di classe. Nel-
la teoria delle classi di Frege-Russell, ad ogni predicato ben definito corrisponde — o, se vo-
gliamo, ogni predicato determina — una classe secondo il seguente, cosiddetto, assioma di
comprensione:
A xx A Ax
Dove A (in maiuscolo, grassetto) è un segno di (termine che denota una) classe (p.es., la
classe degli oggetti ―rossi‖) e A è il segno del predicato corrispondente alla classe A (p.es.,
―essere rosso‖), mentre è un predicato terminale bi-argomentale che denota la relazione di
appartenenza di classe, nel senso estensionale di ―essere elemento di‖. È chiaro che sebbene
x e A siano due variabili terminali, esse appartengono a due gradi semantici distinti, con A
appartenente ad un grado superiore (Cfr. sopra, § 3.1.2).
Naturalmente il predicato bi-argomentale di appartenenza può connettere non solo un
nome di individuo e un nome di classe, ma anche due nomi che denotano classi, appartenenti
a due gradi semantici diversi, nel qual caso la formula significa che una classe è elemento
dell‘altra, ovvero che la prima è sottoclasse della seconda.
Il fatto che una classe possa essere membro di un‘altra, significa che essa è una molte-
plicità ridotta a unità, quindi il corrispettivo formalizzato logico de-ontologizzato di universa-
le, nelsenso etimologico già illustrato di unum-versus-alia. Quindi, la classe è un oggetto lo-
gico-astratto e non va confusa con la collezione di oggetti reali che essa eventualmente deno-
ta. P.es., la classe astratta delle lucertole, relativa al predicato ―essere lucertola‖ non va con-
fusa col genere naturale reale corrispondente, ovvero con la specie delle lucertole, che è
composta da milioni e milioni di esemplari e che come tale non può essere membro unitario
di alcunché63. Ovviamente si può predicare l‘appartenenza di un genere a un altro, p.es., della
specie delle lucertole al genere dei rettili. Ma questa appartenenza non vuol dire assolutamen-
te “essere elemento di (membership)”…
Le regole logiche mediante le quali si decide dell‘appartenenza ad una classe nel senso
―dell‘essere elemento di…‖ (p.es., del nome ―feto‖64 alla classe degli uomini), non sono le
regole ontologiche mediante le quali si decide dell‘appartenenza ad un genere di un determi-
nato ente (p.es., di un feto al genere umano).
La regola logica fondamentale per decidere dell‘appartenenza di un certo elemento ad
una data classe è che esso soddisfi i(l) predicati(o) che determina l’appartenenza a quella
classe. P.es., in biologia per appartenere alla classe degli umani occorre soddisfare un certo
numero di predicati e le relative definizioni denotate da quei predicati, come ―avere il genoma

63
Russell, molto appropriatamente distingue fra le classi ordinarie (classes as ones) e le ―classi come moltitudi-
ni‖ (classes as many) facendo vedere le enormi differenze fra queste due forme di predicazione anche dal solo
punto di vista logico. Su questo punto cfr. (Cocchiarella, 2007, p. 230s; 235-271)
64
Col suo denotato in base a determinati criteri di verità (truth conditions) definiti nella semantica di quel parti-
colare linguaggio. Così, in base a determinati criteri, p.es., può risultare che il ―feto‖ in quanto denotato con par-
ticolari criteri biologici (come cioè soddisfacente determinate definizioni che generalmente un individuo umano
soddisfa, p.es., avere un DNA umano, un proprio, individuale sistema immunitario, un proprio, individuale cer-
vello), non sono soddisfatti dal feto (che dei tre soddisfa solo il primo), il quale, da questo punto di vista perciò,
non potrebbe essere rigorosamente connotato come logicamente appartenente alla classe degli umani. Nondime-
no, il medesimo feto può essere altrettanto rigorosamente connotato come ontologicamente appartenente al ge-
nere umano. Siamo cioè di fronte ad un eclatante esempio di differenza fra predicazione logica e ontologica. Su
questo punto, cfr. (Basti, 2007).

61
tipico della specie umana‖, ―avere il sistema immunologico tipico della specie umana‖, ―ave-
re la corteccia cerebrale tipica delle specie umana‖ (Cfr. nota 64).
La regola ontologica fondamentale, invece, per decidere dell‘appartenenza di un certo
individuo ad un medesimo genere biologico è quella di condividere con gli altri appartenenti
al medesimo genere, un medesimo concorso causale che determina in maniera necessitante
l‘esistenza di ciascuno come appartenente a quel genere. Ciò significa che alcune proprietà,
connotate con le opportune definizioni, che determinano l‘appartenenza alla classe, potrebbe-
ro esistere anche solo virtualmente (in potenza attiva) nel concorso causale grazie al quale at-
tualmente quel feto esiste, anche se verranno attualizzate progressivamente solo in futuro.
Non solo un feto, perciò, ma addirittura un pre-embrione (nei primi quindici giorni di vita)
può appartenere al genere (naturale) umano anche se non si può dire che appartiene alla clas-
se (astratta) degli umani.
E‘ chiaro che dal punto di vista ontologico con , anche nelle intenzioni di Peano che
inventò il simbolo come abbreviazione del termine greco terza persona del presente del
verbo essere, si intende esprimere formalmente la copula che connette soggetto-predicato in
ogni enunciato predicativo. Così, p.es., all‘espressione di LN ―il cielo è azzurro‖, corrispon-
de simbolicamente, e biunivocamente, una formula di appartenenza come c A che fornisce
la semantica estensionale della formula del calcolo dei predicati Ac, dove invece manca que-
sta corrispondenza biunivoca con LN.
Naturalmente, nulla di male a interpretare il semantema ―essere‖ anche come relazione
formale di appartenenza nel senso di membership: questo è certamente uno dei tanti sensi che
esso ha in LN, diventato preponderante nella scienza moderna dopo la nascita del concetto
matematico di ―funzione‖. Il problema è l‘atteggiamento ideologico moderno di ridurre lo ―è‖
di LN alla sola funzione linguistico-formale di copula, magari con la scusa che solo così pos-
siamo formalizzare rigorosamente LN. Far questo significa seguire, infatti, al massimo
un‘ontologia di tipo kantiano con la quale, ovviamente, molti contenuti fondamentali del se-
mantema ―essere‖ di LN vengono eliminati.
P.es., innanzitutto, si elimina la possibilità di formalizzare una metafisica naturalista. Di
qui l‘impossibilità, fra le altre, di un‘interpretazione realista della nozione di ―causa‖ nella fi-
losofia (ontologia concettualista) kantiana, da cui l‘impossibilità di ogni prova dell‘esistenza
di un Principio Assoluto da cui l‘esistenza del mondo causalmente dipenda, etc. Ma questo
riduzionismo metafisico elimina anche tutti i contenuti di un‘ontologia naturalista da associa-
re alle scienze naturali, ovvero si forza un‘interpretazione ontologica puramente fenomenista
delle scienze, alla E. Mach, per intenderci, un‘interpretazione su cui la gran parte degli scien-
ziati stessi non sarebbe d‘accordo.
E‘ chiaro che tutte le espressioni dell‘ordinario calcolo dei predicati hanno un loro cor-
rispettivo nel calcolo delle classi, uso dei quantificatori incluso. Così le proposizioni a quan-
tificazione universale del calcolo dei predicati si possono esprimere in proposizioni del calco-
lo quantificato delle classi. P.es.: la proposizione del calcolo dei predicati C: x Ux Mx
diviene nel calcolo delle classi:
x x U x M
Il che significa che la classe degli uomini U è sottoclasse della (inclusa nella) classe dei
mortali M, ovvero: <U M>. Inoltre, basta consultare qualsiasi manuale di logica simbolica
elementare per constatare che tutti i connettivi logici del calcolo classico delle proposizioni k
(cfr. infra § 3.3.4) possono essere espresse nei termini delle appropriate operazioni fra classi.
P.es., abbiamo appena visto come il connettivo logico (predicato proposizionale)

62
dell‘implicazione materiale, ―se…allora‖, in simboli: ― ‖ ha il suo naturale corrispettivo
nell‘operazione di inclusione fra classi ― ‖.
Infine, per quei filosofi adusi ad aver studiato logica dei predicati nei termini della clas-
sica logica sillogistica, basta, di nuovo, consultare un qualsiasi buon manuale di logica sim-
bolica, per sapere che tutte le forme principali sillogistiche valide possono essere agevolmen-
te formalizzate nel moderno calcolo estensionale dei predicati. P.es., il famoso ―quadrato del-
le opposizioni logiche‖ formalizzato in C, rende molto più, anche intuitivamente, evidenti le
relazioni formali esemplificate nel quadrato, che altrimenti risultano sufficientemente ―cripti-
che‖ quando connotate in LN, innanzitutto le fondamentali relazioni di contraddittorietà..
P.es., ―tutti gli italiani corrono‖ in LN può essere simbolizzato in C con
x Ix Cx , mentre la sua contraddittoria ―qualche italiano non corre‖ può essere simbo-
lizzato sia con x Ix Cx sia con la scrittura equivalente , x Ix Cx dove la
contraddizione risulta molto più evidente. Lo stesso dicasi per le relazioni di ―contrarietà‖,
―subalternità‖ e ―subcontarietà‖, come appare dalla seguente tavola65:

(A) x Ix Cx contrarie (E) x Ix Cx

subalterne contraddittorie subalterne

(I) x Ix Cx subcontrarie (O) x Ix Cx


Tavola 3. Quadrato delle opposizioni logiche

3.3.3 TEORIA RELAZIONALE DELLA PREDICAZIONE E ATTRIBUZIONE DI CONTENUTO SEMANTICO


In sintesi, potremmo dunque dire che la teoria moderna, fregeana, della predicazione in
logica, è concepita, come il resto del pensiero scientifico moderno, per liberarlo dai legami
con l’ontologia classica. Nello specifico, per liberarlo da ogni dipendenza con la teoria me-
dievale degli universali.
Tutta la teoria moderna della predicazione prende le mosse, infatti, dalla nozione frege-
ana di saturazione (Vollständigkeit) di una proposizione, come fondamento della sua unità
logica (composizione di soggetto/predicato), mediante composizione di:
1. Parte satura: soggetto della proposizione designante un individuo (p.es.: Socrate)
2. Parte insatura: predicato (verbale e/o nominale) della proposizione designante una
proprietà e/o una relazione (p.es.: è uomo, mangia la mela).
Dal punto di vista ontologico, ciò significa l‘assoluta irrilevanza della copula “è” in
quanto esprimente la semplice relazione di appartenenza fra le due parti che costituiscono la
proposizione. Ciò fa tutt‘uno con una più generale interpretazione relazionale dei predicati:
P.es., nei predicati n-argomentali, il predicato designa infatti una relazione fra (nomi che de-
signano) individui (P.es.: ―Socrate (s) mangia (M) la mela (m)‖  <M(s,m)>). Nei predicati
mono-argomentali, il predicato designa una proprietà che può essere allora intesa come rela-
zione ad un solo termine o relazione di un individuo con se stesso (P.es.: ―Socrate è uomo
(U)‖  <U(s)>).

65
Per chi non fosse aduso al simbolismo, del calcolo proposizionale rimando all‘esplicazione dei simboli nel
paragrafo seguente, al testo di cui la nota 69.

63
La conseguenza ontologica già più volte evidenziata se — andando contro gli intenti di
chi ha sviluppato questa logica — ci volessimo ostinare a usarla per formalizzare qualsiasi
ontologia, è quella di un‘assolutizzazione di una metafisica della relazione. L‘individuo non è
altro che un nodo di relazioni con altri individui, se stesso compreso. D‘altra parte, invece, i
logici sono molto onesti a denotare i referenti delle proposizioni analizzate con un tale calco-
lo logico, non in termini intenzionali ontologici di ―enti‖, e neanche in quelli fenomenologici
di ―oggetti‖, ma molto correttamente in termini di ―stati-di-cose‖. Ovvero, come si dice ancor
più correttamente in inglese (l‘italiano in questa traduzione è ancora molto dipendente
dall‘intenzionalità implicita al senso comune), states-of-affaires, letteralmente, stati di reci-
proche relazioni.
Come Galvan fa correttamente notare, discutendo di tutto ciò nell‘introduzione del suo
manuale di logica dei predicati (Galvan, 2004, p. 11-18) nella logica estensionale dei predica-
ti c‘è un unico modo consentito per dare visibilità alla copula ―è‖: è quando essa significa i-
dentità, come appunto nelle già ricordate descrizioni definite, quando cioè abbiamo a che fare
con la quantificazione singolare. Galvan, pedagogicamente, ma abbastanza cripticamente per
quanto vedremo in §3.3.7, fa l‘esempio di queste tre proposizioni:
1. Aristotele è un filosofo (predicazione nominale)
2. Aristotele è filosofo (predicazione aggettivale)
3. Aristotele è il filosofo (predicazione singolare)
In 1. e 2. la copula ha, per il moderno — che non distingue fra predicazione nominale
(di genere o essenziale) e aggettivale (di proprietà o accidentale: Cfr. infra §3.3.7 ) —, il me-
desimo senso dell‘appartenenza (del predicato al soggetto e quindi del nome denotante
l‘individuo alla classe denotata dal predicato). In questo senso Galvan ha ben ragione ad af-
fermare che qui la copula può essere cancellata come irrilevante.
In 3., invece, poiché ―essere filosofo‖ è accompagnato dal determinativo ―il‖, il predica-
to ha la stessa funzione del soggetto grammaticale di denotare un individuo. In altri termini,
mentre 1. e 2. sono simbolizzabili in maniera classica con F(a), dove F sta per il predicato
―essere filosofo‖ e a per ―Aristotele‖, la 3. Andrebbe scritta così, a = f , nei termini cioè di
un‘identità soggetto/predicato, dove il predicato è un nome esattamente come il soggetto.
Giustamente Galvan fa notare come la differenza fra la 3. e le prime due proposizioni esem-
plifica la differenza fra la teoria moderna (fregeana) della predicazione come teoria
dell’appartenenza di classe e la teoria parmenidea e neo-platonica della predicazione come
teoria dell’identità, molto importante nel Medio Evo, dove i predicati in quanto denotanti en-
tità esistenti, quali appunto i famosi ―universali‖ a loro modo ―esistenti‖ (o nel mondo plato-
nico delle idee, o nella mente di chi li esprime, o nella stessa realtà naturale), potevano essere
denotati da nomi come gli individui. Torneremo in §3.3.7 su queste importanti annotazioni,
trattando dapprima la trattazione fregeana — coerente con la sua logica delle classi — della
predicazione singolare, per poi vedere come questa trattazione rende logicamente irrisolvibile
il problema della referenza secondo la conseguente teoria fregeana descrittiva della referenza
extra-linguistica, e giustificare Quine, come gran parte dei logici moderni nel parlare della
―opacità della referenza‖, e con essa della stessa ontologia, tutt‘altro che ―formale‖ in questa
accezione della sua (non-)formalizzazione.
In ogni caso, tornando alla classica teoria relazionale della predicazione propria della
teoria estensionale del significato, avremo attribuzione di un contenuto semantico al sistema
formale mediante la costruzione di un modello per quel sistema formale. Il che avviene me-
diante la sostituzione, per esempio, di una variabile terminale (x), argomento di un certo pre-

64
dicato da cui la funzione proposizionale66 x, con un‘appropriata costante individuale (a) da
cui la proposizione a, ovvero con un simbolo che denota un individuo (o collezione di indi-
vidui) che goda(no) delle proprietà indicate dal predicato . Nel caso della matematica appli-
cata alla fisica, per esempio, lo stesso sistema algebrico di equazioni (sistema formale) può
essere usato per costruire modelli di fluido-dinamica (moto di particelle in un fluido) o mo-
delli di elettro-dinamica (elettromagnetismo: moto di cariche in un campo elettrico), come
per primo Maxwell si accorse unificando così ―forza elettrica‖ e ―forza magnetica‖ nella
―forza elettro-magnetica‖. Sostanzialmente, ―modellizzare‖ nella logica matematica applicata
alle scienze naturali significa sostituire alle variabili (incognite) del sistema algebrico valori
numerici derivati da misurazioni di grandezze fisiche. Nella misura in cui i valori attesi in ba-
se al calcolo sono soddisfatti da quelli effettivamente misurati in base all‘esperimento, il mo-
dello (ipotetico) può dirsi positivamente controllato empiricamente, altrimenti il modello ri-
sulterà falsificato e occorrerà modificare il modello con opportune nuove ipotesi.
In ogni caso, si vede come qui il significato di un termine o di una formula si riduce alla
sua definizione estensionale, ovvero alla determinazione della collezione (dominio o esten-
sione) di individui ai quali il termine correttamente si applica (= classe) in base all‘insieme di
definizioni e quindi di ―proprietà‖ che deve caratterizzare i membri della classe stessa, conno-
tate mediante opportune definizioni. Di qui la caratteristica fondamentale di tutte le teorie e-
stensionali del significato: predicati diversi ma equivalenti (definiti, cioè sulla medesima
classe, p. es., ―essere acqua‖ e ―essere H2O‖, o secondo il famoso esempio di Frege, ―essere
stella del mattino‖ e ―essere stella della sera‖) hanno significati estensionali identici e sono
quindi reciprocamente sostituibili senza che il senso della proposizione e la sua verità/falsità
ne vengano compromesse (= assioma di estensionalità). In pratica, secondo quest‘assioma, se
due classi connotate con due diversi predicati sono equivalenti, sono identiche: A B

66
Si definisce ―funzione proposizionale‖ ogni espressione (formula) che contenga delle variabili libere, ovvero
non quantificate mediante l‘uso di opportuni quantificatori. Le funzioni matematiche sono dunque una sottoclas-
se delle funzioni proposizionali, quelle i cui argomenti che le soddisfano (le rendono vere) possono essere solo
numerali, ovvero termini che denotano numeri, qualsiasi cosa io poi ontologicamente intenda con ―numeri‖ (di-
vinità pitagoriche, enti platonici, enti concettuali, convenzioni linguistiche, o altro). Per trasformare una funzio-
ne proposizionale in ―proposizione‖, ovvero in una formula di cui si può predicare la verità o la falsità, esistono
così due strategie: o sostituire le variabili con delle costanti, come nel nostro caso, o ―quantificare‖ e dunque
―vincolare‖ le variabili con gli opportuni quantificatori, ―universale‖ (―per tutti‖, ) e ―particolare‖ o ―esisten-
ziale‖ (―per qualche‖ o ―esiste almeno uno‖, ). Infatti, se il predicato stesse per ―pensare‖, la funzione propo-
sizionale ―x pensa‖ può essere definita ―vera‖ (o ―falsa‖) o sostituendo x con una appropriata costante (p.es.,
―Gianfranco pensa‖ è vera, ―Fido pensa‖ è falsa), oppure vincolando la variabile ad un appropriato dominio (e-
stensione) di simboli che denotano oggetti. P.es., se vincoliamo x alla classe (―dominio‖ o insieme di simboli
che denotano) ―cani‖, sia la proposizione x x ―tutti i cani pensano‖, che la proposizione x x ―qualche cane
pensa‖ sono false. Se vincoliamo invece la funzione proposizionale x al dominio (classe) ―uomini‖ le due pro-
posizioni di cui sopra sarebbero ―vere‖ (anche se qualche maligno potrebbe dubitare di quella a quantificazione
universale). Ricordiamo, comunque, che è indice del modo pre-moderno e non- scientifico di intendere la logica
— un modo cioè che non distingue fra logica formale e ontologia formale — dire che argomento di un predicato
(funzione) sono gli ―oggetti‖ extra-linguistici. La logica formale come calcolo, anche in semantica, lavora solo e
soltanto su simboli. Argomento di una funzione o predicato sono dunque ―nomi che denotano oggetti‖, non gli
oggetti stessi, mentali o extra-mentali che siano (p.es., numerali, non ―numeri‖). Questo non è nominalismo,
come ancora qualche sprovveduto filosofo afferma: il nominalismo, infatti, è un delle tanti possibili ontologie.
Quella per cui non esiste alcun oggetto extra-linguistico (mentale o fisico che sia) denotato dai termini, ma tutto
si riduce a convenzione linguistica e a regole d‘uso linguistico, condizioni di verità incluse. Dire invece che la
logica ha a che fare solo con simboli è accettare che la logica è essenzialmente calcolo (in greco ―sillogismo‖,
inteso come ―arte per combinare simboli, loghia, secondo regole), sia de dicto, cioè, non de re. La disciplina
formale che s‘interessa delle strutture formali del linguaggio in quanto si riferiscono a strutture formali de re,
della realtà (p.es., le leggi della realtà fisica, mentale, spirituale, etc.) è l‘ontologia formale (formalizzata). In
questo, dunque, se ―mettiamo tra parentesi‖ il riferimento al soggetto trascendentale, esisterebbe una perfetta
sovrapposizione fra ontologia formale fenomenologica e ontologia formalizzata della filosofia analitica.

65
formalizzazione del principio di non contraddizione, la più fondamentale delle leggi
logiche.
3.3.6 METODO DI VERIFICA DELLA VALIDITÀ DI UN‘ARGOMENTAZIONE MEDIANTE NEGAZIONE DELLA SUA
FALSIFICABILITÀ

Generalmente un‘argomentazione ha la forma di una congiunzione di una serie di pro-


posizioni semplici e/o complesse (premesse) che hanno come conclusione una o più proposi-
zioni semplici o complesse (teorema/i).
La verifica della sua validità, consisterà dunque nel controllare se per qualche sostitu-
zione delle variabili si potrà ottenere globalmente una implicazione falsa <1 0>, che falsifi-
cherebbe comunque tutta l‘argomentazione rendendola invalida.
Il metodo delle tavole di verità fornisce un algoritmo molto semplice per tale verifica.
Infatti, generalmente, non ci sarà bisogno di provare tutte le combinazioni delle possibili so-
stituzioni delle variabili. Basterà controllare solo quella(e) che potrebbe(ro) portare alla im-
plicazione falsa finale.
La formula del modus ponendo ponens prima esaminata ci fornisce un classico esempio.
Data la formula <((p → q) p)→q> è chiaro che essa è un argomentazione a due premesse
che, a prima vista potrebbe essere falsificata solo per p/1 q/0. Ma con queste sostituzioni a-
vremmo : <((1 → 0) 1)→0>, quindi <(0 1)→0>, e cioè <0→0> che dà 1. Quindi la formula
è valida.
Viceversa la formula <((p → q) q)→p> è lo schema di una classica fallacia in cui spes-
so chi non sa di logica incorre, quello cioè di pensare che la verità della conclusione implica
sempre e comunque la verità della(e) premessa(e). Infatti, la sostituzione che potrebbe falsifi-
care la formula, p/0, q/1, effettivamente la falsifica: <((0 → 1) 1)→0>, quindi <(1 1)→0>, e
cioè <1→0> che dà 0. Quindi la formula è invalida.
E‘ per questo motivo, fra l‘altro, che i controlli empirici che possiamo dedurre da una
certa teoria scientifica, anche se positivi, non potranno mai verificare la teoria, ma solo falsi-
ficarla, se saranno negativi. Infatti, per quest‘ultimo caso, è una proposizione valida la legge
del cosiddetto modus tollendo tollens : <((p → q) q)→ p> (se una conclusione è falsa al-
lora certamente sarà falsa anche la premessa). Infatti, la sostituzione che potrebbe falsificarla
sarebbe : p/1, q/0, quindi : <((1 → 0) 0)→ 1>, <(0 1)→0>. Ma : <0→0> 1. Quindi la
formula è schema di una proposizione sempre valida, lo schema di una legge logica, appunto.
3.3.7 SINGOLARITÀ, IDENTITÀ E TEORIA DESCRITTIVA DELLA REFERENZA (CFR. (GALVAN, 1991, P. 59SS.))
Come già ricordato più volte, il calcolo estensionale, proposizionale e dei predicati, ha
tutta la sua potenza, per la formalizzazione della scienza moderna, e tutto il suo limite, per la
formalizzazione della filosofia, nel fatto di esser stato elaborato appositamente per escludere
dalla logica formale come calcolo ogni riferimento ontologico.
In particolare, il calcolo estensionale è stato pensato appositamente per escludere ogni
riferimento alla teoria medievale degli universali, in modo da fornire alla scienza moderna
uno strumento di analisi logica libero da tutti i condizionamenti filosofici. Se oggi, viceversa,
sentiamo il bisogno di estendere la potenza del formalismo logico alla ricchezza delle elabo-
razioni ontologiche senza preclusioni ―moderniste‖, dobbiamo renderci conto di tutta la ric-
chezza che la teoria medievale della predicazione consentiva.
Infatti, grazie alla teoria degli universali come enti di pensiero cum fundamento in re,
nella metafisica medievale, almeno quella di ispirazione aristotelica, si poteva distinguere fra:

68
1. Universale generico o «universale-uno-di-molti», grammaticalmente espresso nei lin-
guaggi naturali (LN)70 dalla copula ―è‖, con l‘aggiunta, alla destra di essa:
a. O di un nome comune (= predicazione nominale) preceduto dall‘articolo indeter-
minativo (Socrate è un uomo)71 che ha come fondamento reale (denota) un parti-
colare genere o specie di individui, ovvero, aristotelicamente parlando, una so-
stanza seconda (p.es., l‘essenza comune al genere dei ―mammiferi‖, o alla specie
dei ―gatti‖, dei ―cani‖, etc.);
b. O di un aggettivo (=predicazione attributiva) che ha come fondamento reale (de-
nota) una particolare proprietà di un individuo e/o genere di individui, che, aristo-
telicamente parlando, denota un accidente di (letteralmente: ―un evento che acca-
de a‖) una particolare sostanza, ―prima (individuo) o seconda (genere). P.es.,
―l‘essere bipede‖ comune a tutti gli uomini, ovvero al genere umano; o ―l‘essere
filosofo‖ proprio di Socrate, etc..
2. Universale individuale o «universale-uno-di-uno», grammaticalmente espresso da un
nome ―proprio‖ (p.es., ―Platone‖, o ―Aristotele‖, o ―Cristoforo Colombo‖) e/o da un
―termine descrittivo‖, ovvero un‘espressione composta da più parole, preceduta
dall‘articolo determinativo (p.es., ―il maestro di Aristotele‖ o ―lo Stagirita (il filosofo
di Stagira)‖ o ―lo scopritore dell‘America‖), che ha come fondamento reale non la
―natura‖ o genere/specie cui l‘individuo appartiene, ma l’essenza individuale di un
singolo individuo, ovvero aristotelicamente parlando, di una sostanza prima — da cui
il (falso) problema medievale dell‘haecceitas, legato all‘identificazione della ―specie
specialissima‖ in grado di identificare univocamente e assolutamente (rispetto a tutti i
possibili) un individuo.
Conseguentemente a tutto questo, nella logica formale medievale si distingueva fra
quantificazione universale e particolare per gli universali generici (uno-di-molti), e quantifi-
cazione singolare (uno-di-uno) per gli universali individuali.
È chiaro che, in ogni caso, metafisica medievale a parte, ―nomi propri‖ e ―termini de-
scrittivi‖, come pure la ―quantificazione singolare‖, hanno un ruolo fondamentale in ogni LN,
per il problema della denotazione di un termine (nome proprio) mediante la relativa connota-
zione (descrizione definita), almeno secondo il classico approccio fregeano alla questione,
ovvero secondo la cosiddetta teoria descrittiva della referenza.
Esso, però, crea un’infinità di problemi in semantica formale (=semantica dei linguaggi
formalizzati), irrisolvibili finché limitiamo l‘analisi logica delle espressioni referenziali, sia
nei linguaggi ordinari che formalizzati, alla sola indagine formale, semantica e sintattica. Tali
problemi sono, infatti, legati ultimamente ai teoremi di Tarski e Gödel e come tali irresolvibi-
li finché non li trattiamo anche in pragmatica, mediante una particolare versione della cosid-
detta teoria causale della referenza, distinta cioè dalle classiche versioni di essa (Cfr.
(Kaplan, 1978); (Kripke, 1980); (Putnam, 1988); e, per una sintesi critica (Salmon, 2005)),
che esamineremo fra poco, visto che, nell‘ambito delle logiche intensionali, essa costituisce il
cuore dell‘ontologia tommasiana formalizzata. Dedichiamoci invece qui ad una brevissima

70
Il grassetto è dovuto al fatto che ciascun linguaggio naturale può essere considerato un insieme di simboli e
regole (grammaticali) di formazione di espressioni corrette (formule ben formate, fbf) all‘interno di esso.
71
Nei libri di logica in inglese è invalso di definire questi nomi comuni usati in forma predicativa come sortal
names. In effetti, gli appartenenti a un genere, in quanto individui solo genericamente definiti, sono distinti solo
numericamente, ovvero in quanto oggetti di un conteggio (sorting). È il classico approccio della riduzione di un
individuo a ―numero‖ che è tipico di ogni predicazione scientifica, per l‘appunto generica. ―Degli individui‖
come tali (come singoli, se vogliamo addirittura come ―persone‖ che denota il massimo della singolarità indivi-
duale) ―non si fa scienza‖ (individuum non est scientia).

69
descrizione della teoria descrittiva della referenza, in quanto tipica della tradizionale tratta-
zione estensionale dei predicati.
Punto di partenza di tale teoria è innanzitutto la formalizzazione della quantificazione
singolare ( !x: ―esiste un unico x tale che…‖) secondo il calcolo classico dei predicati, senza
cioè far riferimento ai generi ontologici, ma solo all‘entità astratta delle classi, attraverso la
seguente esplicitazione di questa quantificazione.
Supponiamo (Cfr. (Galvan, 2004, p. 62ss.) di voler rendere nel linguaggio formalizzato
C del calcolo dei predicati l‘espressione di LN:
«Esiste un unico filosofo»
A tale scopo è sufficiente dichiarare: «Esiste un x tale che è filosofo e per ogni y, se y è
filosofo, allora y è uguale a x», ovvero, formalizzando:
x Fx y Fy y x
Se prendiamo il simbolo della quantificazione singolare, !x, come abbreviazione della
formula (funzione proposizionale) precedente, generalizzata a qualsiasi simbolo di predicato,
allora la precedente formula di LN può essere così formalizzata:
!x Fx
Come vedremo subito, una tale espressione può essere presa come denotante una classe
ad un solo membro e tutti i nomi propri e/o i termini descrittivi singolari possono essere presi
come denotanti classi di questo tipo.
Allora, le espressioni di LN che predicano proprietà di nomi propri, p.es.:
«Socrate è filosofo»
possono essere perciò espresse in espressioni del tipo: «Esiste un unico individuo caratte-
rizzato dalla proprietà di essere Socrate e tale individuo è filosofo», che formalizzata di-
venta:
!x Sx Fx
A questo punto, possiamo rendere formalmente anche le descrizioni definite in quanto
connotano termini singolari come nell‘espressione di LN: «Platone è il maestro di Aristo-
tele», che formalizzata diventa:
! x Px ! y Ay M x, y

Come si vede è possibile esprimere nella logica del linguaggio estensionale dei predica-
ti termini di qualsivoglia complessità di LN usando semplicemente variabili, quantificatori e
il segno d’identità, naturalmente a patto di svuotare queste espressioni del significato ontolo-
gico che esse hanno in LN — e nella metafisica medievale che usava LN — e che invece es-
se possono tornare ad avere nel linguaggio di un‘ontologia formalizzata adeguata. Per capire
la portata di quanto qui stiamo dicendo, dobbiamo capire meglio cosa si intende con identità
in senso estensionale e la connessa nozione di classe di equivalenza e come essa si relaziona
alla nozione fregeana di referenza mediante una descrizione definita.
3.3.8 TEORIA ESTENSIONALE DEL SIGNIFICATO E DELL‘IDENTITÀ E NOZIONE DI CLASSE DI EQUIVALENZA

Le strette relazioni fra logica delle classi, dei predicati e delle proposizioni consentono
di costruire una teoria estensionale dell‘identità, basata cioè su una teoria della significazione
dei predicati che riduce l‘analisi del significato dei predicati stessi alla sola analisi

70
dell‘estensione (ciò a cui i predicati si riferiscono) dei predicati stessi, senza considerare la
loro intensione (ciò che si intende con quei predicati).
Estensionalmente, due cose sono identiche, quando i loro nomi denotano (significano)
la stessa cosa. P.es.: diciamo che Marco Tullio è identico a Cicerone.
Intensionalmente, due cose sono identiche, quando tutti i predicati che convengono ad
una convengono anche all‘altra, e viceversa, ovvero:
x y : P Px Py ; x y : x y

In ogni caso, la relazione d‘identità, soddisfa alle tre relazioni, riflessiva, x x x ,


simmetrica, x, y x y y x , e transitiva x, y, z x y y z x z

È chiaro che la teoria delle classi consente una (come vedremo subito: parziale) ridu-
zione della stessa nozione intensionale dell‘identità appena vista, in termini di equivalenza di
predicati, ad una estensionale in termini di classi di equivalenza, classi cioè determinate da
predicati fra loro equivalenti e che quindi denotano un’unica classe, dato che l’uguaglianza
fra classi, p.es., P e Q, si definisce, estensionalmente, nei termini della loro equivalenza (Cfr.
l‘assioma di estensionalità, sopra illustrato) dell‘avere cioè la medesima estensione (Cfr.
slide Error! Bookmark not defined.). Ovvero:
P, Q x, y Px Qy P Q P, Q x, y P=Q x y

Il carattere parziale di questa riduzione, diviene subito evidente quando, p.es., sosti-
tuiamo ai predicati P e Q i predicati di LN ―essere animali razionali‖ ed ―essere bipedi im-
plumi‖. È chiaro che ambedue questi predicati sono equivalenti e perciò determinano
un’unica classe di equivalenza, quella appunto degli ―uomini‖. Il che soddisfa pienamente la
suddetta formula, in senso appunto estensionale.
È altrettanto chiaro, però, che il contenuto intensionale della formula in LN non è pie-
namente soddisfatto, dato che definire descrittivamente la classe degli uomini nei termini di
―animali razionali‖ o di ―bipedi implumi‖ non è affatto equivalente, né a livello di ciò che si
intende con queste due predicazioni (livello concettuale), né a livello delle rispettive proprietà
naturali cui ci riferiamo con le due distinte predicazioni (livello ontico). Lo stesso dicasi col
problema delle descrizioni definite. Immaginiamoci di definire ―Cristoforo Colombo‖ come
―lo scopritore dell‘America‖ ed immaginiamoci che invece l‘America fosse stata realmente
scoperta da un Vichingo, diciamo ―Olaf Palme‖, omonimo progenitore del famoso primo mi-
nistro svedese. Allora, ―Cristoforo Colombo è Olaf Palme‖? Oppure l‘America è stata scoper-
ta dal primo ministro svedese?
È evidente perciò che una logica di tipo intensionale rimanda necessariamente a delle
soggiacenti ontologie, concettualiste, naturaliste e/o all‘intersezione delle due, il cosiddetto
realismo concettualista…
3.3.9 DALLE DESCRIZIONI DEFINITE IN LOGICA DEI PREDICATI ALLE FUNZIONI DESCRITTIVE IN LOGICA DELLE
RELAZIONI

Infine, per capire dove si trova il cuore del problema delle insormontabili difficoltà del-
la teoria descrittiva della referenza è importante comprendere qual‘è la chiave logico-formale
dello stretto rapporto che abbiamo appena illustrato esistente fra le descrizioni definite, la
quantificazione singolare e la teoria descrittiva della referenza. Per questo ci può aiutare lo
stretto legame esistente fra descrizioni definite in logica dei predicati e le cosiddette funzioni
descrittive in logica delle relazioni, che costituiscono il corrispettivo delle descrizioni definite
nella logica delle relazioni. Abbiamo già visto come più in generale, nella teoria logica delle

71
predicazione, ogni predicato corrisponde a una particolare relazione fra termini S/P, come
questa relazione, che in LN corrisponde alla copula ―è‖72, si riduce, nella teoria estensionale
della predicazione, alla relazione di appartenenza di classe ― ‖, che nel caso della connota-
zione di termini singolari sarà una classe monadica (ad un solo elemento), così che la quanti-
ficazione singolare, !x Fx (―Aristotele è il Filosofo‖), in quanto espressione dell‘unicità di
una certa predicazione per un dato individuo sottende sempre un‘identità come abbiamo ap-
pena visto:
!xFx x Fx y Fy y x

Un‘identità che, per essere coerente con la teoria estensionale della predicazione, dovrà esse-
re sempre fra un termine quantificato individualmente, xFx, ed un tertium quid, fra
l‘individuo e la classe di appartenenza, di solito denotato simbolicamente con y e quantificato
universalmente con cui si vuole così esplicitare la totalità dell’estensione della classe con cui
l‘individuo si identifica. In questo modo, abbastanza contorto, ma univoco, si vuole garantire
la singolarità della predicazione per quell‘individuo e quindi l‘univocità della denotazione.
Nel nostro caso, cioè, quando parlo de ―il Filosofo‖ non possono non intendere Aristotele.
Passando alle descrizioni definite e quindi alla teoria fregeana descrittiva della referenza, ab-
biamo visto come si tratta di una generalizzazione della connotazione singolare prima esami-
nata da predicati mono-argomentali (come il nostro ―essere filosofo‖) a predicati n-
argomentali (come il nostro bi-argomentale ―essere maestro di‖, nell‘esempio ―Platone è il
maestro di Aristotele‖.
Ma c‘è un altro modo non solo meno contorto, ma più generale, perché non di per sé le-
gato esclusivamente ad una teoria estensionale della predicazione, ma alla molto più univer-
sale caratterizzazione logico-formale dei predicati in termini di ―relazioni a n termini‖, una
caratterizzazione che può applicarsi tanto a un‘interpretazione estensionale quanto intensio-
nale dei predicati stessi73. Proprio perché più generale e fondamentale, la trattazione del pro-
blema della referenza in termini di logica della relazione ha il pregio di evidenziare immedia-
tamente dov‘è il cuore della problematica del fallimento della teoria fregeana dell‘approccio
descrittivo alla referenza. Inoltre, la generalità della logica delle relazioni, non solo consente
di rileggere in essa tutto il resto della logica, ma anche di formalizzare in essa relazioni non-
logiche, per esempio quelle ontologiche, diventando così lo strumento fondamentale per la
formalizzazione della stessa ontologia, come esemplificheremo subito.
Non è il caso di fornire qui una trattazione esaustiva della logica delle relazioni che si
può trovare agevolmente in qualsiasi buon manuale di logica formale, è sufficiente fornire
poche nozioni fondamentali che ci aiutano a evidenziare il cuore del problema, essenziale per
poter giustificare una formalizzazione dell‘ontologia. Per esempio un predicato bi-
argomentale come ―essere maestro di‖ (Mx,y) si scrive in logica delle relazioni come la rela-
zione di ―ammaestrare‖ fra x e y, ovvero xMy, che chiaramente è una relazione asimmetrica
(differentemente, per esempio, da quella dell‘ ―essere amico‖ che è invece simmetrica), visto
che fra y ed x sussiste l‘altra relazione quella di ―essere discepolo‖, ovvero yDx. Notevole, in
questo caso, è in logica delle relazioni la resa dei predicati mono-argomentali, quelli che in
logica intensionale denotano le ―proprietà‖ che caratterizzano i rispettivi soggetti e che evi-
dentemente esprimono una relazione ―riflessiva‖, p.es., il predicato ―essere filosofo‖ (Fx) e-
splicita una relazione riflessiva xFx , una relazione che detta così può applicarsi a un‘infinità

72
Qualsiasi predicato verbale può ridursi al predicato nominale corrispondente, ovvero alla copula è ed il corri-
spondente nome/aggettivo verbale, generalmente un participio, p.es., ―Luigi corre‖ corrisponde a ―Luigi è cor-
rente‖, etc.
73

72
di altri individui, yFy, zFz,…. Se, viceversa, deve denotare un singolo cui solo può attribuirsi
il predicato ―essere il filosofo‖ la relazione sarà una funzione descrittiva xF’x o, più sinteti-
camente, F’x, il corrispettivo logico di quella relazione riflessiva che ontologicamente carat-
terizza ogni sostanza e che Tommaso definiva reditio completa ad semetipsum.
Giustamente, ricorda il grande Bochenski nel suo geniale manualetto di logica simboli-
ca scritto come raccolta di dispense per i suoi studenti della Pontificia Università di S. Tom-
maso nell‘ormai lontanissimo 192974 e ristampato nel 1995 con successive ristampe
(Bochenski, 1995, p. 128ss), delle funzioni descrittive si fa larghissimo uso in matematica
quando si vuole denotare il singolo valore di una funzione, p.es. <sin x>, ―seno di x‖, che ha
un singolo valore ben definito per ciascuna x (p.e.s, ―1‖ per il seno dell‘angolo retto, se ricor-
diamo la trigonometria del liceo).
Generalizzando, se R denota la relazione di ―maternità‖, R’y connota ―la madre di y‖,
ovvero ciò che in LN costituisce la sostanzializzazione in un individuo — e quindi la ―nomi-
nalizzazione singolare‖ mediante l‘articolo determinativo —, della relazione xRy. Connota
cioè x come un singolo irripetibile (mater semper certa est)75. P.es., se y denota
Sant‘Agostino, R’y , ovvero ―la madre di S. Agostino‖, connota in maniera definita e quindi
denota univocamente Santa Monica. Perciò, continua ancora Bochenski con la sua straordina-
ria chiarezza, siccome una funzione descrittiva connota sempre un individuo singolo esisten-
te, non ha senso scrivere ―il figlio di Noè‖, perché Noè ha avuto molti figli, né ―il padre di
Adamo‖ perché non è mai esistito.
Ovviamente si possono definire funzioni descrittive che connotano classi e non indivi-
dui. Le classi, infatti, come gli universali logici (=i generi concettuali o logici) essendo ogget-
ti astratti, logici, differentemente dai generi naturali, supportano quella reductio ad unum,
quell‘essere trattati come oggetti singoli (logicamente) esistenti, che un genere naturale, inve-
ce, in quanto entità extra-logica (collezione di individui naturali esistenti, appartenenti p.es.,
alla stessa specie biologica), in quanto ―sostanza seconda, esistente non in sé, ma nei molti‖,
per dirla con Aristotele, assolutamente non supporta. Il simbolo con cui in logica si denota
una funzione descrittiva di classi è quello che in matematica soprattutto i fisici usano per de-
finire ―un vettore di valori‖, ovvero un certo insieme di valori, in quanto questi costituiscono
il dominio o, più spesso, il codominio di una certa funzione.
Quindi in logica, data la relazione xRy, dominio di R si scrive R ' y (o anche <sgR’y>
(dove sg sta per il latino sagitta, ―freccia‖)), ovvero la classe o insieme degli {x} che hanno

74
Quelle poche pagine dal titolo Nove lezioni di logica simbolica abbraccia in meno di centocinquanta agilissi-
me pagine tutte le nozioni fondamentali della logica simbolica, dalla logica delle proposizioni, alla logica dei
predicati, alla logica delle classi, alla logica delle relazioni. Ci sono più idee ed intuizioni in quel libretto che in
molti altri manuali quattro, cinque volte più ponderosi. Non per nulla il grande Alonso Church corresse le bozze
del capolavoro di Bochenski, La Logica Formale, la più incredibile storia della logica mai scritta perché, senza
che il lettore se ne accorga, nelle sue oltre mille pagine, con quasi duecento di bibliografia, contiene esclusiva-
mente le citazioni delle opere originali dei vari autori, legate da pochi, brevi, geniali commenti del ―curatore‖ di
questa incredibile ―opera in collaborazione‖ scritta a centinaia di mani, da quelle di Parmenide a quelle di Gö-
del, in una collaborazione che abbraccia più di duemilacinquecento anni di storia. Ed infatti Church considerava
il geniale logico domenicano uno dei più grandi del ‗900, degno membro di quella Scuola Polacca di logica cui
appartenevano nomi come Tarski, Lukasiewicz, Lesniewski, nomi che hanno fatto la storia della logica, non so-
lo del ‗900…
75
O almeno lo era: oggi non è detto che la madre biologica (partoriente) coincida con quella genetica (che ha
fornito l‘ovulo), quindi la ―relazione di maternità‖ R oggi va definita meglio, per poter costruire con essa una
funzione descrittiva. La ―relazione di paternità‖, invece, ha sempre avuto di questi problemi… .

73
con {y} la relazione R. P. es., se R è la relazione di ―paternità‖, R ' y connota {x} che deno-
ta l‘insieme dei padri, mentre {y} denota l‘insieme dei figli.
Codominio di R: R ' x (o anche <gsR‘x> (dove gs è un modo per denotare l‘inverso di
sg), ovvero la classe o insieme degli {y} con cui gli {x} hanno la relazione R.
P. es., se R è la relazione di ―paternità‖, R ' x connota {y} che denota l‘insieme dei figli,
mentre {x} denota l‘insieme dei padri.
3.3.10 TEORIA ESTENSIONALE DELLA REFERENZA E LIMITI DI UN‘ONTOLOGIA SU BASE ESTENSIONALE
Come abbiamo appena visto, nella semantica dei linguaggi formalizzati (= semantica
formale), anche nel caso dell‘analisi del significato di un termine, del suo senso (connotazio-
ne, meaning) e del suo significato (denotazione, reference), esso viene analizzato in termini
proposizionali. Nei termini, cioè, della proposizione corrispondente a quel termine, più esat-
tamente:
1. Della descrizione definita (logica dei predicati) e/o della funzione descrittiva (logica
delle relazioni) che connota (descrive) quel termine e quindi determina la sua capacità
denotativa, la sua capacità di riferirsi univocamente a un determinato oggetto (P.es.,
connotare Platone identificandolo con ―il maestro di Aristotele‖).
2. Della definizione estensionale dell’identità in termini di equivalenza dei predicati e di
uguaglianza fra classi di equivalenza, che Frege pensava di poter estendere anche ai
termini singolari, così da giustificare quella che è stata definita una teoria descrittiva
della referenza.
Se però la definizione estensionale dell‘identità, applicata a termini generici, porta a
delle chiari ed inaccettabili riduzioni sul significato delle espressioni in LN e quindi delle teo-
rie che fanno uso di LN, le teorie filosofiche innanzitutto (si veda quanto detto sopra, a pro-
posito dell‘equivalenza fra la classe degli ―animali razionali‖ e la classe dei ―bipedi implu-
mi‖, riferita agli uomini), l‘ampliamento della teoria estensionale dell‘identità fino ad inclu-
dere in essa i termini singolari, e dunque la soluzione del problema della referenza, porta a
delle vere e proprie inconsistenze.
Infatti, dopo i teoremi di incompletezza di Gödel , come d‘altra parte già Tarski aveva
indipendentemente messo in evidenza nei suoi teoremi di semantica formale finalizzati ad
una formalizzazione della teoria aristotelica della verità come corrispondenza ai fatti76, pre-
tendere di estendere ai termini singolari in un linguaggio formalizzato L, l‘identità estensio-
nale fra le classi e quindi la soluzione del problema della referenza e della verità come corri-
spondenza-ad-oggetto, significa supporre che entro la classe di equivalenza stessa, sia defi-
nibile una funzione descrittiva (una funzione caratteristica nel caso di insiemi) in grado di
enumerare completamente tutti gli oggetti della classe, se stessa compresa.
Ma è precisamente questa funzione che non può esistere in L, all‘interno del medesimo
linguaggio formale, come i teoremi di Gödel (in particolare il secondo) e di Tarski dimostra-
no. Quando tale funzione esistesse in un meta-linguaggio L’ L, afferma Tarski, tale meta-
linguaggio dev‘essere di ordine logico (grado semantico) più alto del linguaggio-oggetto di
cui si vuole provare la verità, in grado cioè di esprimere in se stesso, tutti i simboli e le rela-
zioni del linguaggio-oggetto, gli oggetti che il linguaggio-oggetto ―intende‖ rappresentare

76
Questi risultati erano stati già presentati da Tarski in Polonia fin dal 1929, anche se pubblicati per la prima
volta in tedesco solo nel 1935 (Tarski, 1935). In quell‘occasione, Tarski citò esplicitamente i teoremi di Gödel a
supporto dei suoi stessi risultati.

74
mediante i suoi simboli e le relazioni di denotazione esistenti fra questi oggetti e i relativi
simboli.
Non per nulla, quando seguendo Bochenski, abbiamo denotato la funzione descrittiva,
associata alla relazione R, con R’, per esprimere la sua capacità di denotare un termine singo-
lare (p.es., se R ―essere madre‖, R’ ―la madre di…‖), si intendeva proprio questo. ―R-
primo‖ deve essere di ordine più alto di R perché deve avere per argomento non un individuo
x generico uguale a qualsiasi altro rispetto a R, ma deve avere per argomento un singolo x!,
ovvero deve avere per argomento anche la relazione R con quell‘x in quanto tale (x!), quindi
R’ non può essere R stessa.
P.es., per rimanere nell‘ambito dei nostri esempi ―ecclesiastici‖ dati per esplicitare , nel
caso dell‘ ―essere madre‖, il modo unico con cui la maternità ineriva a Monica, la madre di S.
Agostino, non è lo stesso modo con cui ineriva a Margherita, la mamma di S. Giovanni Bo-
sco, sebbene ambedue, madri di santi. Molto più semplicemente, per dirlo nei termini in cui
Tarski l‘ha detto nei suoi teoremi di semantica formale, se R è bi-argomentale, come nel no-
stro caso della maternità (Rx,y), R’ avendo per argomento anche R, dev‘essere almeno tri-
argomentale (R’x,y,R), né, per soddisfare alla regola dei gradi semantici, può appartenere allo
stesso ―grado semantico‖ (o ―tipo logico‖ per dire la stessa cosa nei termini della teoria dei
tipi di Russell, quelli in cui effettivamente il teorema di Tarski si esprime)77 del suo argomen-
to R, ma ad uno più alto.
Ecco perché per tutti coloro che riducono la logica al calcolo logico estensionale delle
proposizioni, dei predicati e delle classi, in una parola al calcolo logico delle relazioni e
quindi riducono la semantica alla teoria estensionale del significato, il problema della refe-
renza diviene un problema logicamente intrattabile (una questione di ―fede‖, ma non di ―ra-
gione‖) — e con ciò divengono fortemente problematiche le stesse nozioni di verità e neces-
sità logiche.
Questo stato dell‘arte dell’ontologia scientifica a base estensionale che è lo stato
dell‘arte di una qualsiasi interpretazione ontologica delle teorie scientifiche naturali — del
prendere cioè gli asserti empirici, e logico-matematicamente formalizzati delle scienze natu-
rali, come asserti ―ultimi‖ su ciò che il reale è veramente (scientismo) — fu denunciato da W.
V. O. Quine nel suo famoso saggio del 1953 sui Due dogmi dell’empirismo (Quine, 1980, p.
21-46), dove criticò la vecchia distinzione kantiana fra ―analitico‖ e ―sintetico‖. Negò quindi
che la scienza potesse fornire ―giudizi sintetici a priori‖ sul reale, enunciati che potessero pre-
tendere una verità/validità assoluta. Quine infatti dimostrò che, dopo i teoremi di Tarski e
Gödel, ha ben poco senso per il filosofo analitico distinguere, seguendo Russell nell‘analisi
dei linguaggi scientifici, fra verità concettuali a priori, analitiche (nel senso dei ―giudizi sin-
tetici a priori‖ di Kant) e verità sintetiche a posteriori, contingenti perché empiriche e non-
concettuali.
Secondo Quine, se eccettuiamo le tautologie delle leggi logiche delle quali, per defini-
zione, nessuna interpretazione fattuale è possibile dare, non c‘è più traccia di verità analitiche
77
Più esattamente, i fondamentali risultati ottenuti da Tarski sono due: 1) usando la teoria finita dei tipi di Whi-
tehead e Russell come meta-teoria della teoria formalizzata delle classi L, una formalizzazione meta-teorica T
dell‘enunciato predicativo ―E‘vero che x‖, Tr(x), di ―verità come corrispondenza ai fatti‖, dove x è una qualsiasi
formula del linguaggio-oggetto in LN è semplicemente impossibile (Tarski, 1935, p. 246); 2) usando come me-
ta-teoria la teoria trans-finita dei tipi — in cui cioè si suppone l‘esistenza di classi infinite di tipo via via più alto
che includono quelle di tipo inferiore —, oppure usando la teoria degli insiemi transfinitamente estesa, e usando
il metodo gödeliano per provare le formule meta-linguistiche al suo interno, la formalizzazione T di Tr diviene
possibile, ma con la condizione che ―non si può definire un predicato di verità Tr se l‘ordine del metalinguaggio
è al massimo uguale a quello del linguaggio-oggetto stesso‖ (Tarski, 1935, p. 273).

75
P.es., il fatto che ―l‘acqua sia H2O‖ è una verità necessaria, non ad opera di qualche no-
stra concettualizzazione (Russell) o convenzione linguistica (Quine), ma perché sebbene
l‘acqua esista attualmente come H2O soltanto in quelle parti e età dell‘universo in cui valgo-
no le leggi chimiche (= ―mondo attuale”, ovvero parti o età dell‘universo in cui, causa le rela-
tivamente basse temperature, è possibile la stabilità dei composti atomici e molecolari), men-
tre non era possibile che esistesse ai tempi dell‘universo primordiale, né a tutt‘oggi lo è
all‘interno delle stelle (= ―mondi fisicamente possibili”); pur tuttavia laddove l‘esistenza
dell‘acqua come H2O è solo causalmente possibile per le alte temperature, è necessario che
sia possibile sempre e ovunque nell’universo fisico solo come H2O. Infatti:
1. Che l‘acqua sia solo ―causalmente possibile‖ nelle parti/età dell‘universo ad alta tem-
peratura dipende dal fatto che l‘universo attuale e/o la composizione chimica delle
parti dell‘universo a bassa temperatura dipendono causalmente dall‘universo ad alte
temperature delle origini e/o la composizione chimica delle molecole sulla terra è ef-
fetto causale della fisica ad alte energie del sole, se non altro perché la terra è un pez-
zo di sole raffreddatosi);
2. Pur tuttavia, ripetiamo, laddove l‘acqua come H2O è solo causalmente possibile è ne-
cessario che sia possibile solo come H2O. Infatti, il fatto che l‘acqua sia H2O fa parte
dell‘essenza dell‘acqua, visto che tutte le proprietà fisico-chimiche dell‘acqua dipen-
dono da questa sua struttura atomica. E questo è vero, sia dove essa esiste in atto (co-
me effetto di uno specifico concorso causale: ―mondo fisicamente attuale‖), sia dove
essa esiste solo nella potenza attiva delle cause proprie che determinano la sua essen-
za, il suo ―esser-acqua‖ (―mondi fisicamente possibili‖).
Come si vede, questa ripresa della distinzione logica fondamentale in logica dei predi-
cati fra verità necessarie e verità contingenti , avviene in Kripke recuperando al post-
moderno alcune nozioni classiche della filosofia pre-moderna, aristotelica e scolastica, per il
fallimento sistematico della modernità di fondare la verità/necessità logica solo sulla concet-
tualizzazione (evidenza) e le relazioni logiche (leggi, tautologie) e non sull’essere delle cose
e le relazioni reali, quelle che con Kripke possiamo definire a-posteriori necessari, ovvero
―cause‖, o ―analiticità non-tautologiche‖. Sebbene la teoria di Kripke stesso non sia immune
da critiche e ingenuità come molti critici gli hanno correttamente rimproverato, sia per la pos-
sibilità di fornire una teoria causale della referenza anche delle descrizioni definite se incor-
porate in un‘interpretazione intenzionale degli atti linguistici (Searle, 1983, p. 231-261), sia
nella giustificazione data da Kripke dell‘esistenza di ―a-posteriori necessari‖ (Cfr. (Fodor,
2004; Rorty, 2005)). Per aiutare il lettore, nella breve sintesi appena data della rilevanza di
Kripke, abbiamo già offerto quella che consideriamo l‘unica possibile soluzione ad una teoria
sufficiente degli a-posteriori necessari, quella di una fondazione causale e non concettuale o
epistemica di essi, sia a livello della denotazione singoli individui, che di singoli generi (clas-
si). Resta in ogni caso fondamentale questa notazione di Soames sulla rilevanza del contribu-
to di Kripke che, non per nulla, costituisce anche la conclusione del suo ponderoso studio in
due volumi sulla storia del movimento analitico, che, dice Soames, senza Kripke probabil-
mente neanche avrebbero dovuto essere scritti.
In ogni caso, l‘idea centrale che non tutte le possibilità epistemiche sono possibilità me-
tafisiche, sembra sia essere solida, sia essere capace di fornire la chiave per rispondere
alle (…) obiezioni sugli a-posteriori necessari. (…) (Tale idea) è uno dei maggiori risul-
tati filosofici del XX secolo, ha trasformato il paesaggio filosofico, ricalibrato il nostro
sentire su ciò che è possibile, e ridefinito il nostro passato filosofico. Nessuna singola
intuizione è stata più importante di questa nel farci riguadagnare la prospettiva necessa-
ria per comprendere e valutare criticamente la tradizione filosofica (Soames, 2005, p.
255s.).

77
Come si vede, di nuovo traspare, da questa profonda notazione di Soames la centralità
dell‘idea-guida di questo nostro saggio nell‘interpretare il carattere in qualche modo ―profeti-
co‖ della ricerca della Stein, che va al di là del singolo autore/autrice perché essi sono sem-
plici portavoci di quello che hegelianamente potremmo definire ―lo spirito dei tempi‖, nel no-
stro caso ―lo spirito del nostro tempo‖. La centralità della questione fra epistemico e metafi-
sico ci riporta, da un altro punto di vista, quello logico-linguistico, alla centralità della distin-
zione fra trascendentale moderno e classico.
In altri termini, Kripke è un‘altra delle tessere fondamentali per un recupero critico,
post-moderno del meglio della tradizione (la metafisica) col meglio della modernità (il forma-
lismo). Come vedremo subito, tale recupero consiste:
1. In un inizio di ―ri-modalizzazione‖ della ontologia, nel restituire cioè l‘ontologia alla
logica modale, delle varie distinzioni fra necessità/possibilità nei termini ontologici di
attualità (―essere-attualmente‖, actu esse, nel ―mondo attuale‖)/potenzialità (―essere-
potenzialmente‖, potentia esse, in altri ―mondi possibili‖, ―tutti‖ se verità metafisica,
―alcuni‖ se verità fisica), contro l‘attualismo ontologico moderno che relega la neces-
sità/possibilità al solo ambito logico, riducendola cioè al solo esplicito/implicito, di un
qualcosa che comunque esiste solo attualmente (riduzione della verità a ―svelamento‖:
si pensi ai teoremi che logicamente ―esistono‖ già negli assiomi: devono solo essere
―scoperti‖).
2. In un inizio di rivalutazione della nozione ontologica di genere naturale (natural
kind), ―causalmente fondato‖, come fondamento ontologico-epistemologico della no-
zione logica-astratta di classe e conseguentemente del superamento della riduzione
moderna kantiano-fregeana dell‘appartenenza alla sola membership, alla sola relazio-
ne estensionale dello ―essere membro enumerabile‖ di una classe.
3. In un inizio di rivalutazione del valore logico

78
estensionale, in quanto la loro applicazione generalizzata può rendere insensati diverse forme
del linguaggio ordinario (Zalta, 1988):
1. Assioma di estensionalità: A B A = B, ―se due classi A, B sono equivalenti allora
sono identiche‖;
2. Assioma di generalizzazione esistenziale: v x x , ―se un predicato si attribui-
sce ad un singolo oggetto , allora esiste almeno un generico oggetto cui quel predica-
to si può attribuire‖, p.es. ―se io penso esiste qualcosa che pensa‖.
Infine, vi sono diversi tipi di logiche intensionali, le principali e le più studiate, perché
implicite nella stessa logica aristotelica, sono quelle relative a diverse modalità di esistenza
dei rispettivi oggetti. Esse sono quindi di solito formalizzate mediante l‘ausilio di opportuni
operatori intensionali, che sono altrettante interpretazioni, in base alle diverse condizioni di
verità (truth conditions) che per le diverse logiche intensionali possono definirsi, dei due ope-
ratori modali fondamentali, ―è necessario che‖ (in simboli: ―‖), ―è possibile che‖ (in simbo-
li: ―◊‖).
Possiamo dunque sintetizzare dicendo che l‘eccezionale sviluppo delle logiche modali
nelle loro varie interpretazioni ―intensionali‖ durante questi ultimi cinquant‘anni (Cfr.
(Galvan, 1991) (Garson, 2009)), costituiscono un approfondimento e uno sviluppo nel senso
dell‘ideale della formalizzazione come ―terapia linguistica‖ per evitare in non-sensi e favorire
una comunicazione ―trasparente‖ ed il più possibile inequivocabile fra le diverse culture e
gruppi linguistici, dell‘originaria intuizione del ―secondo Wittengstein‖, in grado di distin-
guere fra differenti ―giuochi linguistici‖, ciascuno con le sue regole, che caratterizzano i di-
versi usi del linguaggio ordinario. Allo stesso tempo la distinzione fra diverse modalità lin-
guistiche di significazione, post-modernamente, si ricollega a una tradizione che storicamente
risale almeno fino allo Pseudoscoto e a Ockham. Le principali di queste modalità, ovvero le
principali possibili interpretazioni intensionali del calcolo proposizionale modale, sono:

1. Modalità aletiche, delle logiche intensionali ―descrittive‖, che a loro volta si distin-
guono in modalità aletiche (vero/falso)78:
a. Logiche: «è necessariamente vero», «è possibilmente vero» (logiche proposiziona-
li modali);
b. Ontologiche: «è necessario», «è contingente» (ontologie formali, che a loro volta
distinguono fra necessità fisica e metafisica);
2. Modalità epistemiche: «è saputo», «è creduto» (logiche epistemiche)
3. Modalità deontiche: «è vietato», «è permesso», (logiche deontiche, che a loro volta
distinguono fra obbligo morale e legale)
4. Modalità temporali: «è sempre il caso», «è talvolta il caso» (logiche temporali)
5. Modalità assiologiche: «è buona cosa», «è cattiva cosa» (logiche assiologiche).
3.4.2 ACCENNI DI SINTASSI DI CALCOLO MODALE (CFR. (GALVAN, 1991, P. 61SS.))
Le logiche modali sono estensioni della logica classica con conseguenze sia sul piano
sintattico che semantico.
1. Sul piano semantico le logiche modali sono estensioni della semantica classica che
mantengono il principio della bivalenza (vero/falso) ma non quello della vero-

78
Ovviamente, qui, per ragioni espositive si sta sovra-semplificando. Le logiche aletiche non sono solo a due
valori, anzi proprio perché spesso si devono muovere nell‘ambito di teorie dimostrative che non suppongono la
coestensività di p.d.c. e p.t.e. (p.es., logiche di tipo intuizionistico, logiche quantistiche, logiche fuzzy etc.) hanno
una grande rilevanza sia logiche a più valori, sia logiche libere senza presupposizione esistenziale (p.es., logiche
dove una certa relazione non è fra esistenti ma solo fra possibili), etc.

81
funzionalità (la verità/falsità delle proposizioni composte non dipende da quella delle
proposizioni elementari componenti),
2. Sul piano sintattico le logiche modali sono estensioni della logica classica perché ne
inglobano i segni del linguaggio (= alfabeto) e le regole del calcolo (=regole di dedu-
zione), con l‘aggiunta di nuovi segni e nuove regole.
Conveniamo così di indicare con m79 un qualsiasi calcolo modale, allora tutti i calcoli
modali presentano lo stesso linguaggio L(m) = <A(m), F(m)>, dove L(m) è il linguaggio
formale del calcolo modale, A(m) è l‘alfabeto del calcolo modale, F(m) sono le regole di
formazione di proposizioni del calcolo modale. Più esattamente,
1. A(m) = <A(k) + > A(k) è l‘alfabeto del calcolo proposizionale, e  è il segno della ne-
cessità.
2. F(m) = <F(k) + F()> dove F(k) sono le regole di formazione di proposizioni del calco-
lo proposizionale e F() è la regola di formazione per formule necessitate:
F() := a80 è una formula a è una formula
3. Introduzione dell‘operatore di possibilità mediante la seguente definizione:
a:=  a
4. Un calcolo m si ottiene aggiungendo le regole caratteristiche di deduzione di m, D(m), a
L(m). D(m) è costituito dalle regole del calcolo proposizionale classico D(k) più le regole
tipiche del calcolo modale.
Regola fondamentale comune a tutti i calcoli m è la seguente regola di necessitazione
(N):
(X a) (X a)
dove X denota l‘insieme delle formule del linguaggio da cui derivo mentre con X si de-
nota l‘insieme di tutte le necessitazioni delle formule appartenenti al linguaggio X. In virtù di
N tutti i suddetti calcoli modali m sono detti normali.
Vi sono poi regole specifiche per ogni singolo calcolo modale. Poiché sono tutte regole
a zero premesse e zero assunzioni, saranno denominate più propriamente come assiomi. I
principali assiomi dei calcoli modali sono i seguenti:

Tavola 5. Tavola dei principali assiomi dei calcoli modali

Per aiutare il terrore ―atavico‖ che i filosofi ―continentali‖ o ―non-analitici‖ provano di


fronte ai simboli, mi permetto semplicemente di leggere questi ―geroglifici‖ commentando

79
L‘uso del grassetto è motivato dal fatto che questi simboli denotano tutti collezioni (e/o insiemi) di oggetti
(simboli e formule).
80
Ricordiamo che il meta-simbolo denota un‘infinità di possibili simboli di variabili proposizionali: p,q, r, …
del linguaggio-oggetto su cui stiamo effettuando l‘analisi.

82
brevemente la loro rilevanza filosofica. Mi limiterò ai primi quattro assiomi delle sintassi che
sono quelli che useremo di fatto:
D: < ―Se è necessario allora è possibile‖. Può essere interpretato come la
formalizzazione della regola sintattica fondamentale in ogni etica: impossibilia nemo te-
netur: ―nessuno può essere obbligato a ciò che per lui è impossibile‖. Ma, in
un‘interpretazione di ontologia fisica, può essere interpretato anche come formalizzazione
della legge fondamentale dell‘ontologia aristotelica, cioè la sua soluzione dell‘apparente
antinomicità del divenire, denunciata da Parmenide. Notazione fondamentale per filosofi
come Severino (e il suo maestro Bontadini) che interpretano il ―divenire‖ anche in Aristo-
tele come contraddittorio, come un assurdo passaggio dall‘ ―essere al non essere‖, dimen-
ticandosi che per l‘ontologia fisica di Aristotele ―l‘attuale ha come sua condizione neces-
saria il possibile‖. Il divenire, infatti, è passaggio per lo Stagirita non dal non essere
all‘essere, ma fra due forme di esistenza, dall‘esistenza ―possibile‖ a quella ―attuale‖.
Dove si parla, beninteso, di possibilità ontologica, ovvero in senso causale non logico (è
power e non possibility, in inglese), come se l‘attuale sia solo ―implicito‖ nel possibile).
E‘ potenza attiva nella causa agente, e potenza passiva nella instabilità/indeterminazione
della materia, su cui l‘agente agisce. Ugualmente, e questo vale solo per Severino, ―la
creazione‖ stessa in teologia non è passaggio da un ―non essere assoluto‖ all‘ ―essere-
dell‘ente‖, ma suppone come condizione necessaria la potenza attiva del Creatore, che,
nel caso sia un Essere Intelligente, ma non è necessario che lo sia (la religione non è me-
tafisica e l‘Essere Sussistente della metafisica non è necessariamente un Dio Personale:
per definizione la Libertà della Causa Prima non è metafisicamente dimostrabile), deve
includere anche la Sua libera scelta. Il nihil della creatio ex nihilo non insomma è un
―nulla assoluto‖, che non esiste e mai potrà esistere, ma è un nulla-relativo-all‘ente, è un
nihil sui et subiecti (di forma e materia) dell‘ente.
T: < ―Se ―Se è necessario, allora ‖ invece è la

83
Tavola 6. Alcuni dei calcoli modali ottenibili dai principali assiomi modali

Alla luce delle interpretazioni semantiche con cui abbiamo aiutato a capire il senso di
alcuni degli assiomi modali sopra ricordati, vedremo che i sistemi formali più significativi per
noi saranno il KT5 (S5) che fornisce la struttura logico-formale, sintattica, di qualsiasi teoria
metafisica; KT4 (S4) che fornisce la struttura sintattica di qualsiasi teoria di ontologia fisi-
ca81; KD45, forse il più versatile di tutti, che può fornire la struttura logico-formale, sintatti-
ca, sia di teorie di logica epistemica, che di teorie di logica deontica (KD45 come S5 deonti-
co); ma anche di tutte quelle teorie metafisiche (KD45 come S5 ontico) che suppongono un
Fondamento Trascendente, innanzitutto, come ho già anticipato altrove la teoria metafisica
tommasiana dello essere come atto, ma alla luce di quanto qui abbiamo detto anche quella
della Stein e alla luce della tesi fondamentale del P. Alfieri sul fondamento del principium in-
dividuationis in Scoto, anche quella di Duns Scoto. In tal caso, ma vi torneremo, KD45 può
essere definito anche come S5 secondario, in quanto la struttura di S5 è contenuta in essa
come struttura fondata su una particolare relazione ―causale‖, trascendente dal Principio Pri-
mo, quella di ―partecipazione dello essere‖ appunto.
3.4.3 CENNI DI SEMANTICHE MODALI: ALCUNE INTERPRETAZIONI INTENSIONALI DEGLI OPERATORI MODALI

Sempre per aiutare filosofi ―non-analitici‖, digiuni e impauriti dai simbolismi, a prende-
re confidenza con essi, per sfruttare appieno questo eccezionale strumento di chiarificazione
intellettuale e di dialogo, vediamo qualche esemplificazione di interpretazioni intensionali

81
E‘ importante notare che mentre la relazione di accessibilità in S4 è puramente transitiva (quindi appropriata
per rappresentare la causalità fisica), la relazione di accessibilità in S5 è transitiva, simmetrica e riflessiva. Essa
appare così compatibile col fatto che tutti i mondi possibili costituiscano in metafisica un‘unica classe di equiva-
lenza rispetto alle leggi che definiscono quella struttura. Questione: come è possibile combinare queste due evi-
denze in una metafisica della creazione, dove la relazione causale metafisica dal Fondamento dev‘essere ugual-
mente solo transitiva, non simmetrica (perché allora ciò significherebbe che tanto ―il mondo ha bisogno di Dio‖
quanto Dio del mondo, cadremmo cioè nell‘immanentismo teologico (contraddizione in termini) hegeliano), né
riflessiva (perché l‘essere partecipato da Dio al mondo non è l‘Essere Stesso di Dio, altrimenti non saremmo più
in grado di distinguere Natura e Soprannatura, natura e grazia…). Un‘interpretazione ontica di KD45 è appunto
la risposta…

84
natura. E‘, cioè, una legge universale della biologia (scienza), ovvero una proprietà essenziale
dei viventi (metafisica), in tutti i mondi possibili, sia in quelli(o) in cui essi esistono attual-
mente, come il mondo in cui viviamo, sia in quelli dove esistevano (o esisteranno) solo po-
tenzialmente nelle cause fisiche in grado di produrli (cioè, se vi esistessero sarebbero comun-
que mortali).
Di qui la definizione di verità dell‘operatore di necessità aletica:
p 1 se e solo se p 1 in tutti i mondi possibili.
L‘operatore semantico-aletico di possibilità in logica (contingenza82 in ontologia), è i-
deograficamente lo stesso che l‘operatore sintattico di possibilità nel calcolo m ed è ugual-
mente definibile tramite l’operatore di necessità. In simboli:
◊p: «È possibile che p»
◊p:=  p
La definizione di verità dell‘operatore di possibilità (logica) / contingenza (ontologica):
◊p 1 se e solo se p 1 in qualche mondo possibile
Da queste definizioni deriva il fondamentale assioma di tutte le logiche aletiche ch va
sotto il nome di principio di riflessività per l‘operatore di necessità aletico:
p p
Grazie alla definizione di verità per formule necessitate possiamo affermare la verità di
tale principio. Se infatti p è vera sse (= se e solo se) p è vera in tutti i mondi possibili, allora
p p è vero, in quanto all‘insieme di tutti i mondi possibili appartiene anche il mondo at-
tuale.
P.es., nell‘ontologia fisica, se la legge di gravità è vera in tutti i mondi possibili, anche
―prima del big-bang‖ come sostiene Hawking che vorrebbe farne addirittura, così, un vero e
proprio principio metafisico assoluto, se non un sostituto del ―dio creatore‖83, è evidente che
se p descrive la caduta di un grave qui sulla terra, esso segua attualmente la legge di gravità.
Si tenga presente che questo principio di riflessività, costituisce il contenuto semantico
dell‘assioma sintattico T che allora sarà l‘assioma tipico di tutte le logiche aletiche, sia in lo-
gica che in ontologia (ontologie speciali, ontologia generale, metafisica).
Infatti, come abbiamo visto finora, i contesti aletici possono essere sia logici (necessi-
tà/possibilità determinata da leggi), sia ontici, fisici e metafisici (necessità/contingenza de-
terminata da cause). Così, per distinguere i due usi degli operatori modali nei due contesti, è
invalso, soprattutto in ontologia formale, di associare agli operatori suddetti un indice C (□Cp
/ Cp ) che indichi che li si sta usando, aleticamente, in contesto causale, ontico (fisi-
co/metafisico) e non logico.

82
Di per sé in ontologia bisognerebbe distinguere fra operatore di potenzialità causale (attiva/passiva) e opera-
tore di contingenza, non lo facciamo qui per semplificare.
83
Uso la minuscola perché di fatto la teoria di Hawking, malgrado tutto il battage pubblicitario che ha accom-
pagnato l‘uscita di questo libro in qualche modo, purtroppo, voluto da Hawking stesso, di fatto non confuta
l‘idea del Dio Creatore né della Bibbia, né della Tradizione. Confuta, invece, quella caricatura di esso che è
l‘idea cartesiana del ―dio della spintarella iniziale‖ al suo universo-automa-inerziale, universo che, dopo il
―principio di equivalenza‖ fra inerzia e gravitazione della relatività einsteinia, dev‘essere considerato necessa-
riamente un universo-automa-gravitazionale, come Hawking stesso ci spiega con dovizia nell‘ultimo capitolo
del suo libro. In un siffatto universo ―a somma energetica zero‖ (sistema energeticamente chiuso) non c‘è alcun
spazio per quella caricatura di idea di ―creazione dal nulla‖ che significherebbe ―iniettare in esso dal di fuori‖
materia/energia. Detto, di nuovo nei termini usati da Hawking stesso in altri suoi testi, non ha senso considerare
―dio‖ una ―condizione al contorno‖ del big-bang.

86
Un‘importante conseguenza di tutto ciò è che l‘assioma T, interpretato ontologicamen-
te, è dunque una formalizzazione del principio di causalità efficiente proprio
dell‘ontologia/metafisica aristotelico-tomista. Ovvero, per essere più esatti, l‘assioma T ha
una delle sue principali interpretazioni ontologiche nel principio aristotelico di causalità effi-
ciente.
3.4.5 CONTESTI INTENSIONALI DEONTICI
Riguardano l‘ordine ideale del dover essere, in quanto distinto dall‘ordine logico e onti-
co (fisico e metafisico) dell‘essere. L‘interpretazione deontica dell‘operatore sintattico di ne-
cessità  in m, è l‘operatore di obbligazione deontica (morale/legale). In simboli:
Op
P.es.: «È obbligatorio che i cittadini paghino le tasse».
Definizione della condizione di verità di un‘obbligazione è la seguente:
Op 1 se e solo se p 1 in tutti i mondi possibili84 idealmente buoni
(rispetto a qualche ordinamento di valori o assiologico)
L‘interpretazione deontica dell‘operatore sintattico di possibilità ◊ in m, è l‘operatore di
permesso deontico P (morale/legale), definibile tramite l‘operatore d‘obbligo, come pure è
definibile allo stesso modo la sua condizione di verità. In simboli:
Pp
Pp:= O p
Pp 1 se e solo se p 1 in alcuni mondi possibili idealmente buoni
Per sottolineare la duttilità e l‘utilità della nozione semantico formale di ―mondo possi-
bile‖ nelle logiche modali (cfr. nota 84), si vede subito che i mondi ―idealmente buoni‖ dei
contesti deontici, sono, in contesto aletico, altrettante ―alternative possibili‖ in senso logico,
ovvero ―eventi contigenti‖ in senso ontologico. E ciò è perfettamente consistente con la no-
zione di ―scelta libera‖ che caratterizza i contesti deontici, rispetto al determinismo dei conte-
sti aletici. Ciò apparirà subito non appena esamineremo il principio di riflessività deontico in
confronto con quello aletico. Per far questo però dovremo introdurre l’operatore di ottimalità,
Ot .
Il concetto di ordinamento assiologico (alla base della costituzione dei cosiddetti ―mon-
di buoni‖) è multivoco o ―analogo‖. Perciò gli ordinamenti assiologici (sistemi di valori) si
differenziano tra loro non solo per contenuto ma anche per tipologia. Avremo infatti:
1. Ordinamenti soggettivi, ovvero ordinamenti costituiti dalle preferenze del soggetto
2. Ordinamenti oggettivi, ovvero ordinamenti dei valori a cui il soggetto è tenuto ad at-
tenersi (p.es., perché riconosce l‘autorità morale/legale di chi o cosa ha emanato
l‘ordinamento, oppure perché un dato ordinamento è in qualche modo legato alla na-
tura dell‘oggetto considerato).

84
Come si vede, il concetto di ―mondo possibile‖ introdotto da Kripke per formalizzare le diverse semantiche
formali del calcolo modale ha un carattere esclusivamente stipulatorio, come egli non si stanca di ripetere: è una
nozione di semantica formale modale. E‘ una nozione, cioè, che di per sé non ha nulla di ontologico, come inve-
ce l‘aveva nella scolastica, sia medievale, che leibniziana, sebbene sia possibile anche un‘interpretazione onto-
logica di questa nozione, come abbiamo appena visto. Possiamo dire che il carattere ―stipulatorio‖ della nozione
di ―mondo possibile‖ consiste nel fatto che essa sta per ciascuna collezione (anche unitaria: può stare cioè anche
per un singolo oggetto o stato di oggetto) di oggetti o stati di oggetti (―contenuti‖, diremmo in LN), propria di
una determinata semantica modale, coerente con le regole d‘uso di quel linguaggio o ―giuoco linguistico‖. E‘
proprio la staordinaria duttilità della nozione, anche nel livello del rigore che si può usare nel definirla nei diver-
si contesti, a renderla così preziosa per l‘analisi semantica.

87
Perciò è possibile caratterizzare anche il caso specifico dell‘ordinamento delle preferen-
ze del soggetto in situazione, ovvero quell‘ordine di preferenze del soggetto che – indipen-
dentemente dalla conformità dell‘ordinamento assiologico oggettivo o ad ordini preferenziali
del soggetto in altre situazioni – è capace di muoverlo all’azione e, se non ci sono impedi-
menti, condurlo effettivamente al compimento reale di questa azione.
In tal modo, in base a questo riferimento essenziale al soggetto intenzionale libero, pos-
siamo porre le basi per scendere ―dal mondo delle idee a quello reale‖, ovvero far sì che «È
obbligatorio» (Op) diventi «È ottimale» (Ot (x,p)), dove l‘operatore di ottimalità, Ot (x,p), ap-
pare essere a due argomenti: uno per il soggetto dell‘azione x, l‘altro per la variabile proposi-
zionale p.
Di qui la definizione della condizione di verità dell‘operatore di ottimalità, Ot (x,p):

Ot(x,p) 1 se e solo se p 1 in tutti i mondi buoni


(rispetto all‘ordinamento preferenziale in situazione del soggetto x)
Da tutto questo deriva la caratterizzazione prima e la definizione poi del principio di ri-
flessività deontica, la cui confusione con il principio di riflessività aletico (logico e ontologi-
co) è alla radice di tutte le confusioni fra ordine logico, ontologico, etico e legale.
E‘ evidente che il principio di riflessività deontica non può valere se l‘obbligazione sarà
espressa nei termini di O. Ovvero:
Op p
Infatti, per definizione, Op 1 rispetto a un sotto-insieme di mondi possibili idealmen-
te buoni in cui il mondo attuale non è incluso, altrimenti i ―i mondi buoni‖ non sarebbero ―i-
deali‖, ma ―reali‖. Questo, ovviamente, non è ―pessimismo etico‖, ma logica. In altri termini,
l‘ordine dell‘ ―essere‖, della causalità fisica/metafisica, non è quello del ―dover essere‖, al-
trimenti Cp Op, identificheremmo ordine fisico e ordine morale, cadremmo cioè nel de-
terminismo metafisico.
Se invece intendiamo l‘operatore dell‘obbligo nel senso dell’operatore dell’ottimalità
Ot, allora può valere il seguente principio di riflessività deontica:
(Ot (x,p) ca cni ) p
Dove ca = condizione di accettazione dell‘ordinamento preferenziale in questione e
cni = condizione di non impedimento. Infatti, se un‘azione appare ottimale a un certo agente,
se esso (che allora è un ―egli‖) consapevolmente l’accetta come tale e non ci sono cause im-
pedienti (si realizza cioè la condizione della cosiddetta ―libertà negativa‖, o ―assenza di co-
strizioni‖) a che egli la realizzi, allora l‘azione è prodotta.
E‘ chiaro perciò che si deve trattare di un agente consapevole libero — capace di rea-
lizzare cioè anche la seconda condizione della libertà, quella ―positiva‖ dell‘ ―autodetermina-
zione ad agire in vista di scopi‖, ovvero ad agire in vista di ―fini consapevoli‖.
In altri termini, perché il mondo dei fini abbia a che fare col mondo reale, occorre in-
corporarlo nell‘azione di qualche soggetto consapevole. Questo così ci aiuta a capire
l‘affermazione propria dell‘aristotelismo secondo la quale la causalità finale è realmente di-
stinta dalle altre cause (in particolare, non si riduce alla semplice causalità formale) solo
nell‘ordine intenzionale — ovvero quando supponiamo che la causa efficiente sia un agente
intenzionale consapevole e libero — ma mai nell‘ordine fisico. Ciò va contro la sistematica
confusione fra causalità efficiente e finale, tipica di tutte le metafisiche neoplatoniche (p.es.,
di Plotino, che supponeva che la Causa Prima (efficiente) fosse anche Ultima (finale), pur es-
sendo necessitata a creare, non essendo cioè Libera) e dei loro succedanei anche moderni.

88
Per questo possiamo dire, concludendo, che il principio di riflessività deontica per
l‘operatore Ot è una formalizzazione modale del principio di causalità finale delle ontologie
aristoteliche, ontologia tommasiana inclusa, in quanto esse suppongono tutte che la causa fi-
nale possa essere anche efficiente, se e soltanto se essa è supposta essere un soggetto inten-
zionale85
3.4.6 CONTESTI INTENSIONALI EPISTEMICI
A differenza dei precedenti contesti logici intensionali, i contesti epistemici riguardano
esplicitamente il conoscere. Seguendo la classica distinzione parmenidea, alla radice del pen-
siero logico occidentale, una logica intensionale epistemica adeguata deve essere capace di
formalizzare la distinzione fra opinione (credere) e scienza (sapere), fra ed

Definiamo, dunque, innanzitutto l’operatore di credenza, p.es., «Giovanni crede che il


libro sia suo», in simboli: C(x,p), che indica una particolare relazione intensionale bi-
argomentale tra agenti consapevoli e proposizioni. Naturalmente, dobbiamo saper distinguere
fra almeno due diverse forme di credenza (belief), in questo seguendo Platone che per primo,
rispetto a Parmenide, tematizzò tale differenza nella sua dottrina dei quattro gradi del cono-
scere. Occorre cioè distinguere fra:
1. Credenza debole, («presumere», «opinare»), opinione,
2. Credenza forte («assentire», «essere convinto»), fede,
Così per caratterizzare la definizione dell‘operatore di credenza attraverso la semantica dei
mondi possibili, bisogna interpretare questi mondi possibili in contesto cognitivo, ovvero co-
me rappresentazioni della realtà da parte di un generico soggetto consapevole x. Di qui la de-
finizione di condizione di verità per l‘operatore di credenza:
C(x,p) 1, se e solo se p 1 in tutte le rappresentazioni del mondo ammesse da x.
Naturalmente, proprio perché qui stiamo definendo la condizione di verità per
l‘operatore di credenza, non necessariamente questo insieme di rappresentazioni credute è
anche fondato, ovvero ―logicamente vero‖. Per esserlo dovrebbe necessariamente includere
anche la relazione di fondazione con il ―mondo attuale‖ (realtà), comunque poi interpretiamo
tale ―realtà‖ o come realtà naturale (naturalismo) o come realtà logica (logicismo). In ogni
caso, stiamo qui dicendo che esiste una differenza fra verità epistemica e verità logica.
Se l‘insieme di rappresentazioni ―credute‖ include anche una relazione di fondazione
(che non può essere a sua volta una ―rappresentazione‖, altrimenti sarebbe un ―credere di sa-
pere‖), epistemicamente non parlerò, più di ―credere‖, ma di ―sapere‖: Es.: «Giovanni sa che
il libro è suo». In simboli: S(x,p). Di qui la definizione di verità dell’operatore del sapere:
S(x,p) 1 se e solo se p 1
in tutte le rappresentazioni fondate del mondo ammesse da x (sotto la clausola cioè che il
mondo attuale sia in relazione di fondazione con questo insieme rappresentazioni)86. In sinte-
si, la definizione della condizione di verità dell‘operatore S(x,p) si ottiene da quella
dell‘operatore di credenza C(x,p) ponendo questa specifica clausola.
Di qui il fondamentale principio di riflessività epistemica. È evidente che il principio
non valga per l‘operatore di credenza C(x,p) dal momento che essere convinti di certe rap-

85
Su questo punto, cfr. (Basti, 2002, p. 453ss.; Galvan, 2000)
86
Vedremo come il sistema formale di logica modale KD45, nella sua interpretazione epistemica, fornisca
un‘ottima esplicitazione della struttura logica dell‘operatore S come operatore del sapere ―bene fondato‖, o vero
in senso ―forte‖ non cioè nel senso del ―pensiero debole‖ di ―credere di sapere‖.

89
presentazioni del mondo attuale, non assicura che queste rappresentazioni siano (onto-
)logicamente vere, ovvero fondate sul ―mondo attuale‖87. Quindi:
C x, p p

Viceversa, il principio vale rispetto all‘operatore di sapere S(x,p), in quanto ―sapere


qualcosa‖ rispetto al mondo, per la definizione della verità associata all‘operatore del sapere,
implica che il contenuto del sapere sia anche (onto-) logicamente vero, ovvero fondato sul
mondo attuale (cfr. la contrapposizione parmenideo-platonica fra ):
S(x,p) p
Sia sufficiente quanto detto finora come esemplificazione del fatto che le diverse logi-
che intensionali possano essere interpretate come altrettante interpretazioni della logica for-
male (sintassi) modale, ovvero di un calcolo proposizionale cui si aggiungono gli operatori
modali di necessità/possibilità e i relativi assiomi. Prima però di passare all‘ontologia forma-
lizzata come un‘ulteriore modello di tipo logico-aletico di logica modale, introduciamo un
primo abbozzo di formalizzazione della semantica formale dei mondi possibili di Kripke, del-
la cui fecondità abbiamo già potuto avere qualche esemplificazione in quanto abbiamo detto
finora.

3.5 Semantica formale modale dei mondi possibili


3.5.1 CARATTERISTICHE GENERALI
Come detto, la semantica relazionale di Kripke è un‘evoluzione della semantica formale
di Tarski, di tipo intuizionistico in qualche modo legata, da una parte, al carattere necessa-
riamente incompleto delle teorie (teoremi di Gödel), dall‘altra all‘emergere di un‘ontologia
evolutiva sia in fisica che in metafisica.
Quindi, mentre nella semantica di Tarski, in quanto formalizzazione della semantica
classica, si considera la verità delle formule come riguardante lo stato di cose di un unico
mondo attuale, nella semantica relazionale la verità dipende da stati di cose in mondi alterna-
tivi a quello attuale (= mondi possibili). P.es., non si può parlare sic et simpliciter di ―verità
delle leggi fisiche‖, rispetto a un universo dove le leggi fisiche non sono state sempre le me-
desime.
Come già abbiamo visto, a seconda delle teorie, la nozione di ―mondo possibile‖ può
essere interpretata in diversi modi, dato il carattere stipulatorio della nozione. Per esempio:

87
E‘ chiaro che ―mondo attuale‖, in quanto contrapposto a ―mondi possibili‖, non s‘identifica col ―mondo degli
enti fisici‖, che è solo un sotto-insieme di esso (esistono anche gli ―enti logici‖), né si identifica col ―mondo pre-
sente‖, nel senso che sia impossibile un ―sapere fondato‖ su ―mondi possibili‖ particolari, quali, per esempio,
quelli degli ―eventi passati‖ o ―futuri‖. E‘ chiaro però che, per esempio, per essere ―fondato‖, quest‘ultima for-
ma di sapere retro- o pre-dittivo, i ―mondi‖ di cui si parla devono essere in una particolare relazione ontica
(causale) col ―mondo attuale‖ o con parti di esso, nel senso, rispettivamente come sua (loro) causa o sua (loro)
effetto. Per esempio, possiamo parlare in maniera fondata (ovvero ―sapere‖) del ―big-bang‖ perché esso è in re-
lazione ontica, causale, col nostro mondo ―attuale‖, non solo dal punto di vista di un‘ontologia fisica o ―fisica
teorica fondamentale‖, ma anche dal punto di vista della fisica come scienza galileiana a base sperimentale (al-
meno ―osservativa‖). Questo perché abbiamo ―misurato‖ in qualche modo questa ―relazione fondativa‖, control-
lando che le disomogeneità nella radiazione cosmica di fondo dell‘universo, effettivamente soddisfacevano le
ipotesi della teoria fisica fondamentale.

90
Nella metafisica e teologia naturale — e questo è il senso più antico del termine che risa-
le alla Scolastica e a Leibniz — la nozione può essere interpretata per formalizzare uni-
versi alternativi all‘attuale, ma che Dio era libero di creare.
Nelle scienze fisiche, i mondi possibili possono, per esempio, rappresentare diversi stadi
evolutivi dell‘universo passati o futuri rispetto all‘attuale, oppure possibili evoluzioni
dell‘universo compatibili con le stesse condizioni iniziali, ma mai realizzati.
Nelle scienze biologiche, possono rappresentare diversi processi evolutivi o stadi evoluti-
vi della materia biologica distinti da quelli attualmente vigenti, ma ugualmente compatibi-
li con le leggi biochimiche e biofisiche.
In etica e morale, diverse scelte alternative aperte alla capacità decisionale dell‘uomo,
ovvero alternative alle scelte attualmente fatte dal soggetto, oppure possono rappresentare
i mondi idealmente buoni, distinti da quello attuale, con cui formalizzare l‘obbligo mora-
le.
In epistemologia, come abbiamo già detto, possono essere interpretati come distinte rap-
presentazioni del mondo attuale, etc.
Ma ciò che caratterizza, tuttavia, la semantica formale modale di Kripke e che fa sì che
essa venga definita semantica relazionale, è che i diversi modelli semantici possibili relativi
ai diversi sistemi modali dipendono dalle relazioni che i vari mondi possibili e attuali hanno
fra di loro. In altri termini, ed è qui l‘eccezionale utilità del formalismo di Kripke, come
l’unica nozione di mondo possibile è passibile delle più diverse interpretazioni, così i più di-
versi tipi di relazioni fra oggetti nelle diverse teorie (causali in fisica e metafisica, inferenzia-
li e referenziali in logica, legali in diritto, etc.) possono essere considerati come interpreta-
zioni di un‘unica relazione fra mondi possibili: la relazione di “accessibilità”.
Ciò ha reso possibile una teoria unificata delle varie semantiche modali intensionali dei
sistemi di logica aletica (inclusa l‘ontologia), deontica ed epistemica, oltre che a fornire
un‘unica e molto intuitiva rappresentazione grafica della semantica relazionale di esse.
3.5.2 DEFINIZIONI PRELIMINARI
Innazitutto, la definizione della nozione di struttura o frame. Essa è una coppia ordinata
<W, R> costituita da un dominio non vuoto W di mondi possibili {u, v, w…} e da una rela-
zione R a due posti definita su W, ovvero da un insieme di coppie ordinate di elementi appar-
tenenti a W (R W W) dove W W è il prodotto cartesiano di W per W)88.
P.es., con W = {u,v,w} e R = {<u,v>}:
v

Secondo tale modello la relazione R, detta di accessibilità, è solo nel senso che v è ac-
cessibile a partire da u, mentre w è irrelato con qualsiasi altro mondo. Nel caso invece che
tutti i mondi sono in relazione reciproca, cioè:
R= {<u,v>,<v,u>,<u,w>,<w,u>,<w,v>,<v,w>}, avremo:

88
Con ―prodotto cartesiano‖ dell‘insieme W si intende tutte le possibili combinazioni di coppie ordinate di ele-
menti di W

91
Viceversa, per avere che R non solo sia inclusa in W W ma che R=W W, dovremmo
avere che ciascun mondo sia relato anche con se stesso, avremo cioè:

Così, dal punto di vista della logica delle relazioni, interpretando cioè l‘insieme {u,v,w}
come elementi di una classe, potremmo dire che questa struttura rappresenta una classe di
equivalenza, un classe di termini equivalenti fra loro. Ma allora come definire formalmente
un interpretazione su una struttura di mondi possibili? Possiamo definire l‘interpretazione I su
un dominio W:
I: V W {0,1}
Dove V è un insieme di variabili proposizionali. Quindi I(p,u)=0 significa che p non è
vera in u; mentre I(p,v)=1 significa che p è vera in v.
Da notare che, come tutte le interpretazioni del calcolo proposizionale sono determinate
rispetto a tutte le variabili, così tutte le interpretazioni di un calcolo modale sono determinate
rispetto a tutte le coppie appartenenti a V W.
Tralasciamo qui altri aspetti semplici, ma più tecnici delle semantiche modali. Concen-
triamoci invece sui vari tipi di relazione che possiamo rappresentare con queste strutture.
R è seriale89:
(om u)(ex v)(uRv)
R è seriale se e solo se, dato un qualsiasi mondo della struttura <W,R>, ne esiste sempre
un altro accessibile dal precedente. Sono perciò esempi di relazioni seriali i due seguenti:

R è riflessiva
(om u) (uRu):

89
La serialità è una proprietà fondamentale per l‘ontologia formale. Infatti, è la caratteristica propria di tutte le
relazioni causali in natura che, come si vede anche intuitivamente dalla rappresentazione in semantica delle re-
lazioni, devono costituire una catena chiusa. La proprietà di serialità delle relazioni causali è così fondamentale
in ontologia delle scienze fisiche, perché è il corrispettivo ontologico dei

92

R è simmetrica
(om u) (om v) (uRv vRu):
u v

R è transitiva
(om u) (om v) (om w) (uRv et vRw uRw) :
u v w

R è euclidea
Veniamo alla illustrazione della relazione più interessante per noi, quella che a partire
da una relazione transitiva e seriale di un mondo con ciascuno di un numero indefinito di al-
tri, per ciascuna coppia ordinata di essi, è in grado di fondare fra gli elementi di ciascuna
coppia, dapprima una relazione transitiva, poi una riflessiva per ciascuno di loro e, simulta-
neamente, un‘altra transitiva fra di loro nella direzione opposta. In pratica, passo passo:

(om u) (om v) (om w) (uRv et uRw vRw) :


v

Conseguentemente, per Eom: (uRv et uRw vRw)  (om u)(om v) (uRv vRv):

u v

Inoltre vale anche: (om u) (om v) (om w) (uRv et uRw vRw et wRv):

Le due suddette proprietà derivate dall‘euclidicità sono dette di riflessività e simmetrici-


tà secondaria, da cui il quadro complessivo:

v

93
3.5.3 INTERPRETAZIONI DELLA SEMANTICA MODALE DI KRIPKE: POSSIBILITÀ FISICA
Senza pretesa di essere esaustivi delle interpretazioni possibili, facciamo l‘esempio di
come possiamo intendere in semantica modale il concetto di possibilità fisica. Dato un certo
sistema fisico, un evento può dirsi fisicamente possibile in base alle leggi fisiche se e solo se
nel sistema sono presenti quelle condizioni/cause che consentono l’accadere dell’evento in
conformità alle leggi fisiche vigenti nel sistema. Di qui l‘applicabilità alle situazioni fisiche
della nozione di mondo possibile e alle situazioni generabili dalla prima in conformità a leggi
la nozione di accessibilità da quel mondo.
P.es., pensiamo alla nozione di cono di luce nella relatività speciale. Con tale nozione
s‘intende il fatto che, dato il carattere-limite della velocità finita della luce un evento fisico
può essere causa di altri entro un raggio che aumenta col passare del tempo, come pure, nel
passato, l‘evento attuale può essere stato causato solo da eventi il cui numero aumenta col de-
crescere del tempo verso il passato più remoto. E‘ evidente che queste relazioni causali pos-
sono interpretarsi come altrettante reazioni di accessibilità, caratterizzate da transitività e ac-
cessibilità fra ―mondi possibili‖, o meglio, ―stati possibili‖ dell‘universo. E‘ ovvio che con gli
eventi (mondi) fuori dal ―cono causale‖ non esistono relazioni causali (di accessibilità) in
nessuno dei due sensi.

Vi sono due ulteriori considerazioni riguardo la necessità in fisica:


1. Status delle proposizioni fisicamente necessarie
2. Ammissibilità del cambiamento leggi fisiche nel passaggio da una situazione all‘altra.
Riguardo lo status delle proposizioni fisicamente necessarie. Se una legge è valida (ne-
cessaria) in u, allora sarà vera in u e in tutte le situazioni (mondi possibili) accessibili a partire
da u (p.es., tutti gli eventi futuri che rientrano nel ―cono di luce‖ che ha nel mondo attuale u
(evento presente) il suo punto di origine). Inoltre, se interpretiamo la necessità come necessità
fisica, cioè richiesta dalle leggi della fisica, allora è chiaro che una proposizione necessitata
nel mondo attuale dovrà realizzarsi in questo stesso mondo: se una pallina viene lasciata an-
dare da una certa altezza essa invariabilmente cadrà a terra, in base alla legge fisica della ca-
duta dei gravi, e ciò si realizzerà nel mondo in cui la pallina è stata lasciata libera (e in cui va-
le la legge di caduta dei gravi), cioè nel mondo attuale u.
Se dunque assegniamo all‘operatore di necessità  il significato di necessità fisica (ob-
bligato da una legge fisica) e all‘operatore di possibilità ◊ il significato di possibilità fisica
(permesso in base alle leggi fisiche) è immediato riconoscere che nel sistema così definito
dovrà valere l‘assioma T, in base al quale se α è una proposizione che descrive un certo stato
di cose e α è necessaria, allora α dovrà necessariamente verificarsi nello stesso mondo possi-
bile in cui viene asserita α. Cioè: α→α. Questo è l‘assioma T che indica appunto, come
sappiamo, la riflessività della relazione di accessibilità considerata (in questo caso della nor-

94
matività di una legge fisica), cioè detto u un qualsiasi mondo possibile, allora u è accessibile
a partire da sé stesso. Il sistema di logica modale così ottenuto è il sistema KT, dove K, ri-
cordiamolo indica l‘assioma fondamentale della logica modale, quello che aggiunge agli as-
siomi ordinari di deduzione del calcolo proposizionale, la regola N di necessitazione.
KT, allora, è il sistema tipico della normatività fisica. Complementariamente, se una
formula è possibilitata in u, allora dovrà esser vera in qualche mondo (situazione) accessibile
a partire da u (p.es., il ―cono di luce‖ che ha nel mondo attuale u il suo vertice nel senso che è
l‘effetto di eventi causali passati compatibili col volume del cono stesso).
Riguardo al secondo problema del cambiamento delle leggi naturali, esso è essenziale
per l‘attuale concezione evolutiva del mondo fisico (e biologico). Abbiamo, infatti, due pos-
sibilità: il decremento e l‘incremento delle leggi fisiche e quindi della necessità fisica stessa.
1. Decremento (p.es., ciò che avveniva in certi stadi dell‘universo iniziale, quando in
base alle teorie di stringa esisteva uno spazio a 21 dimensioni, non avviene più negli
stadi successivi e non avviene oggi)
  

u v w

a a, a a

2. Incremento: P.es., le leggi della meccanica quantistica e della termodinamica — vali-


de fin dai tempi più antichi dell‘universo e che continuano a valere ancora oggi —
non sono sufficienti a determinare le leggi della biologia anche se ne sono condizioni
necessarie, nel senso che gli organismi biologici (livello macroscopico di organizza-
zione della materia) comunque devono rispettare le leggi della termodinamica (livello
mesoscopico) e della meccanica quantistica (livello microscopico).
  

a u v w

a a

a u

Tutti e due questi casi sono formalizzabili nell‘ambito di KT. Se aggiungiamo


l‘assioma 4 (  ) che implica una R transitiva, allora è ammissibile solo la seconda
modalità, perché si andrebbe verso una teoria fisica che ammette solo un accrescersi della
normatività fisica. P.es., in una teoria fisica di grande unificazione in cui tutti i livelli di orga-
nizzazione della materia — con le leggi che le caratterizzano, che aumentano la normatività,
sempre mantenendo le leggi precedenti come condizione necessaria e che, perciò — riman-
dano ad un unico insieme di leggi originario e comune è formalizzabile in KT4 che perciò è
il sistema tipico dell‘ontologia delle scienze fisiche.
3.5.4 POSSIBILITÀ METAFISICA
Diciamo adesso qualcosa rispetto alla possibilità metafisica. Grazie alla semantic mod-
dale e a quella relazionale di Krupke diventa di elementare evidenza in che senso la possibili-
tà metafisica non va confusa con quella fisica. Se KT è sicuramente un ingrediente di una
qualsiasi teoria metafisica, pur tuttavia non basta. Infatti, riguardo la possibilità fisica
(l‘assioma T si può leggere anche in maniera contrapposta a  a) non è affatto garantito
che a sia vero in tutti i mondi possibili,come invece si richiede in metafisica che legifera
sulle essenze. P.es., rispetto alle leggi fisiche vigenti all‘inizio dell‘universo dove le energie
erano altissime o anche rispetto alle alte energie esistenti attualmente in stelle come il nostro

95
sole, l‘esistenza di molecole organiche e quindi di organismi viventi è semplicemente impos-
sibile. Nondimeno, metafisicamente, si richiede che se anche gli organismi è impossibile che
esistano, se esistessero, dovrebbero avere quelle caratteristiche che la loro natura (essenza)
richiede
Per ottenere questo (ovviamente non rispetto all‘esistenza, ma all‘essenza di un dato
corpo si deve rinforzare KT con l‘assioma 5 ( a a). Allora KT5(S5) sarà il sistema
formale, comunque requisito per qualsiasi teoria metafisica, caratterizzato da R riflessiva ed
euclidea per l‘assioma T, e quindi anche riflessiva, transitiva e simmetrica:

v

 u

Quindi, certamente anche in metafisica, se a a (infatti KT5 KT4), ma, per 5
vale anche: a a. Ovvero, se un mondo cessa fisicamente di essere attuale (o non anco-
ra è stato fisicamente attualizzato), con ciò non viene meno né la possibilità di quel mondo
né, tanto meno, vengono meno l‘insieme dei contenuti necessari e possibili caratteristici di
quel mondo (= le essenze degli enti tipici di quel mondo) .
In altre parole, la categoria metafisica di mondo possibile è caratterizzata dal fatto che
la possibilità di un mondo non viene determinata da specifiche condizioni presenti in uno (o
più) mondi possibili (come invece nel caso della categoria fisica di mondo possibile). Vice-
versa, la possibilità di uno qualsiasi di quei mondi e le possibilità di tutti i mondi, vengono
determinate da condizioni che valgono sempre e comunque per la totalità dei mondi possibili,
mondo attuale incluso. Esiste cioè un unico insieme di leggi, appunto, metafisiche rispetto al
quale tutti i mondi possibili costituiscono un‘unica classe di equivalenza (tutti gli oggetti, at-
tuali e possibili, presenti, passati e futuri, sono tutti equivalentemente enti rispetto ad un unico
insieme di leggi come lo schema grafico di S5 (KT5), con R riflessiva transitiva e simmetri-
ca, evidenzia molto bene.
Ciò è in perfetta sintonia con la distinzione moderna in LN dell‘ ontologia generale
come ―scienza dell‘ente in quanto ente‖, secondo la classica definizione aristotelica di metafi-
sica, in quanto distinta dalle ontologie speciali (p.es., l‘ontologia fisica, chimica, biologica,
umana, etc.) in cui lo schema S5 è verificato solo all’interno di ciascun insieme di mondi
specifico, sottoinsieme dell‘insieme totale, ma non fra questi diversi sottoinsiemi (fra di essi
valgono solo le leggi comuni dell‘ontologia generale), che costituiscono così altrettanti sot-
toinsiemi disgiunti dell‘insieme originario.
Tutto questo appare in perfetta coerenza anche col teorema caratteristico della teoria
degli insiemi secondo cui una relazione di equivalenza definita su un certo insieme, realizza
una partizione dell‘insieme stesso in sottoinsiemi disgiunti che costituiscono, al loro interno,
classi di equivalenza. Per fare un esempio tolto dall‘esperienza quotidiana, ―vivere nella stes-
sa città‖ è una relazione di equivalenza; infatti: u vive nella stessa città di u, se u vive nella
stessa città di v anche v vive nella stessa città di u, se u vive nella stessa città di v e v vive nel-
la stessa città di w allora u vive nella stessa città di w. Nel nostro esempio le classi di equiva-
lenza definite dalla relazione ―vivere nella stessa città (p.es., Roma)‖ sono, perciò, rappresen-
tate dalle città stesse A, B e C, dove B e C sono suburbi (città suburbane, p.es., Frascati e
Marino) di A.

96
Cfr. Figura seguente, l‘insieme (classe di equivalenza) A può essere suddiviso nei due
sottoinsiemi (sottoclassi di equivalenza) disgiunti B e C: ((B C) A).

   
v s v s

 u r   u r 

w t w t
   
A B C

Tornando alla metafisica, se KT5 è dunque la struttura semantica formale che tutte le
teorie metafisiche, se formalizzate, devono possedere, sono possibili diversi ―modelli‖ di
KT5, ovvero diverse teorie metafisiche. Essi si ottengono mediante l‘aggiunta, all‘insieme
comune di ―assiomi logici‖ quali, appunto, l‘insieme di assiomi KT5, di altri insiemi di as-
siomi ―extra-logici‖ diversi per le diverse teorie. Tutto questo significa che ciò che è valido in
un insieme di mondi possibili che costituiscono un modello o teoria metafisica come partico-
lare interpretazione di KT5, è necessariamente valido perché sempre vero in ciascuno di que-
sti mondi che costituiscono il modello. E‘ ciò che caratterizza, in altri termini, l‘universalità e
necessità del ragionamento apodittico di ciascuna teoria metafisica (vero in tutti i mondi pos-
sibili di ciascuna teoria metafisica)90. Ovvero, è necessariamente valido in ciascuno di quei
mondi resi possibili da quella metafisica, ma non è ―di per sé‖ valido per un altro insieme di
mondi possibili proprio di un‘altra teoria metafisica. P.es., non tutto ciò che è vero e dedutti-
vamente valido nella metafisica tomista, è vero e valido nella metafisica hegeliana, e vicever-
sa.
Aggiungo il ―di per sé‖, perché la storia del pensiero scientifico moderno insegna che,
una volta applicato rigorosamente un metodo assiomatico di indagine, molte teorie che sem-
bravano all‘origine indipendenti, una volta formalizzate e rese rigorose, si sono dimostrate
―sottoinsiemi‖ di una nuova teoria più potente in grado di includerle (si pensi, per esempio, a
cosa è avvenuto in fisica dall‘ottocento in poi, con l‘unificazione di teoria elettrica e magneti-
ca nella teoria elettromagnetica, quindi dell‘unificazione della teoria elettromagnetica con la
teoria della forza nucleare debole, nella teoria elettro-debole, e così via…). D‘altra parte, sa-
rebbe oggi la prima volta, che, grazie alla globalizzazione, tutte le teorie metafisiche, appar-
tenenti alle diverse culture/religioni possono affacciarsi ad una comune arena, ed è sempre
oggi che, grazie all‘estensione delle tecniche di formalizzazione, le varie metafisiche potreb-
bero confrontarsi in maniera dialogica e costruttiva, e non di lotta e di sopraffazione come è
avvenuto talvolta nel passato (ma purtroppo anche oggi) per alcune di loro.
In ogni caso, la struttura semantica di S5 esemplifica al meglio cosa intendesse Kripke
quando parlava di necessario a posteriori e come, in generale, grazie alla sua semantica dei
mondi possibili, sia possibile reintrodurre nella filosofia analitica la distinzione fra necessario
e contingente, nei termini, rispettivamente di ―vero in tutti i mondi possibili‖ e ―vero in alcu-
ni mondi possibili‖ (Cfr. sopra §3.3.11). In questo andando al di là dei vicoli ciechi della vec-
chia fondazione concettualista kantiana di analitico-sintetico, riletta con Russell in chiave
linguistica e giustamente criticata da Quine (Cfr. sopra §3.3.10).

90
Mentre il ragionamento ipotetico proprio delle teorie fisiche fa sì che, malgrado esso sia valido in tutti i mon-
di possibili (le leggi logiche che lo caratterizzano sono comunque tautologie, formalmente vere in tutti i mondi
possibili), sia semanticamente vero solo in alcuni di essi, quelli che costituiscono l‘universo attuale.

97
Resta tuttavia una critica fondamentale a Kripke che già abbiamo anticipato e qui po-
tremmo così sintetizzare, alla luce di questa esposizione della sua semantica relazionale. Nul-
la da eccepire sulla chiarezza e la pulizia formale di quest‘approccio alla semantica formale,
ma qual‘è l‘interpretazione di questo schema che possa fondare una siffatta distinzione fra
necessità e contingenza? La forma, cioè non può sostituire il contenuto: quale fondazione on-
tologica o metafisica può essere data di un simile approccio se non una di tipo concettualista?
Se questo è il succo teoretico della critica di molti filosofi analitici a Kripke (Cfr. fra quelli da
noi citati in §3.3.11, Quine stesso (Quine, 1986, p. 145), e quindi (Searle, 1983; Rorty, 2005;
Fodor, 2004)), la risposta a questa critica va data nella direzione indicataci da Soames, in quel
contesto già ricordata, della distinzione operata da Kripke fra possibilità metafisica e possibi-
lità epistemica, come uno dei maggiori contributi alla filosofia del XX secolo. Questa distin-
zione ci rimanda a quella fra trascendentale moderno e classico ed ai loro rapporti, oggetto
del presente saggio.
3.5.5 POSSIBILITÀ EPISTEMICA
Quale dunque, dal punto di vista formale, la trattazione della nozione di possibilità epi-
stemica che la semantica relazionale di Kripke consente? Particolarmente significativo per i
nostri scopi è nelle logiche epistemiche il sistema KD45 perché, in una sua specifica interpre-
tazione, costituisce il sistema-base del ―sapere fondato‖, in quanto distinto dalla ―credenza‖
(Cfr. sopra §3.4.6).

v

u z

In tale schema, infatti, il mondo di partenza u può essere interpretato come il mondo re-
ale o un oggetto di esso, a (p.es., l‘acqua) di cui gli altri, v,w,z,…, costituiscono l‘insieme
delle sue rappresentazioni possibili, a1, a2, a3, … . (p.es., i termini, nelle diverse lingue, ―ac-
qua‖, ―water‖, ―eau‖). Esse, come si vede, costituiscono una classe di equivalenza di rappre-
sentazioni di a, valendo per loro simultaneamente la relazione riflessiva, simmetrica e transi-
tiva a partire dalla relazione solo transitiva Ra che a ha con ciascuna di esse, costitutiva della
classe stessa.
Che Ra sia costitutiva della classe si evince immediatamente quando si consideri la pro-
prietà di ―euclidicità‖ (Cfr. sopra 3.5.2) di cui la relazione Ra gode nei confronti degli altri
mondi. A partire da essa, è così possibile istituire fra gli altri mondi le relazioni transitiva,
simmetrica e riflessiva, ―secondarie‖, proprio perché tutte fondate su Ra.
L‘insieme delle relazioni fra u,v,w,z costituisce un insieme ―euclideo‖ proprio perché la
relazione fondante da u verso gli altri elementi fa sì che si instauri fra gli elementi in que-
stione una triangolazione per la costituzione fra v,w,z, di un’unica misura invariante ri-
spetto ad u. Ha un senso ben preciso affermare dunque affermare che v,w,z sono ―misura-
ti‖ da u.
Nell‘interpretazione epistemica, ciò rimanda immediatamente alla fondazione di
un’epistemologia realista dove è la realtà ad essere ―misura‖ della conoscenza e non vi-
ceversa.
In tal senso si può dire che l‘insieme delle rappresentazioni si riferiscono ad a in quanto
da a costituite. Ciò fornirà a noi nella prossima sezione la possibilità di fornire una inter-

98
pretazione forte, perché ontologicamente fondata, della cosiddetta teoria causale della re-
ferenza difesa da autori come Kripke stesso (Kripke, 1980), Kaplan (Kaplan, 1978), Put-
nam (Putnam, 1975; Putnam, 1988) e, più recentemente in versione sintetica e critica in-
sieme delle precedenti da Salmon (Salmon, 2005). La relazione di referenza (dalla rappre-
sentazione al reale) appare così correttamente asimmetrica mentre la relazione opposta
(dal reale a una sua rappresentazione) appare come una relazione ―causale‖ (transitiva)
anche se di tipo particolare.
Ma su tutto questo torneremo nella prossima sezione conclusiva dove forniremo una
particolare interpretazione ontologico formale (formalizzata) delle strutture che la semantica
relazionale di Kripke ha messo a nostra disposizione, quelle metafisiche ed epistemiche in-
nanzitutto.

4 Cenni di ontologia formale

4.1 Logica formale, ontologia formale, ontologia formalizzata

Lo sviluppo della logica e dell‘epistemologia delle scienze moderne ha portato alla pro-
gressiva separazione della forma logica dal contenuto extra-linguistico delle espressioni lin-
guistiche la cui radice, come abbiamo visto, è nella sistematica impossibilità dei linguaggi
basati sulla logica estensionale di giustificare formalmente la referenza extra-linguistica. Tut-
to questo è legato allo sviluppo di una logica (quella estensionale della logica matematica) e
di una espistemologia (quella rappresentazionale) inadeguate a svariati usi del linguaggio in
forme non-scientifiche di comunicazione fra soggetti umani. Ciò, come abbiamo visto, ha
portato alla reazione della scuola fenomenologica, ma anche alla reazione della scuola se-
miotica che individua, per l‘analisi logica o metalinguistica di un linguaggio inteso come in-
sieme di segni dotati di senso, può essere effettuata considerando tre classi di relazioni che le
varie parti (parole, frasi, discorsi, etc.) possono avere:
1. Con il mittente o con il ricevente di una comunicazione linguistica;
2. Con altre parti del linguaggio
3. Con gli oggetti (

99
logia o ―categorie ontologiche‖ possono essere deduttivamente trasformate per co-
struire argomentazioni ontologiche valide.
Per ambedue queste funzioni, esiste la centralità della questione di come il nesso della
predicazione viene interpretato nel sistema metafisico che una data ontologia formale rappre-
senta e questo perché il nesso della predicazione determina come le espressioni delle catego-
rie logico- grammaticali di una teoria formalizzata possono essere validamente combinate e
trasformate deduttivamente. P.es., se ci muoviamo nell‘ambito di un‘ontologia nominalista in
cui il nesso di predicazione non rappresenta altro che convenzioni linguistiche, certe dedu-
zioni sono consentite o meno, diversamente se ci muovessimo nell‘ambito di un‘ontologia
naturalista.

4.3 Teorie della predicazione, ontologie e sensi dell’essere


4.3.1 TRE TIPI PRINCIPALI DI ONTOLOGIA
In ogni caso, è universalmente accettato che tre sono le principali teorie della predica-
zione nella storia del pensiero occidentale — nominalismo, concettualismo, realismo — che
corrispondono ad altrettante teorie degli universali, intendendo con ―universale‖ — in quanto
distinto da ―classe‖ o ―insieme‖ — ―ciò che può essere predicato di un nome‖, secondo la
classica definizione di Aristotele (De Interpretatione, 17a39). Per ciascun tipo di teoria onto-
logica indicheremo anche alcuni dei principali esponenti, antichi e moderni, delle diverse on-
tologie. Inoltre, distingueremo fra almeno tre tipi di realismo: logico, naturalista, senza o con
generi naturali. Infine, dal punto di vista delle logiche dei predicati soggiacenti, è chiaro che
tutte le ontologie nominaliste sono logiche del primo ordine, visto che è vietato in esse quan-
tificare su simboli di predicati, perché gli universali ―non esistono‖ in tali ontologie, quindi
non possono essere argomenti che soddisfano predicati di ordine superiore. Viceversa le altre
due ontologie, usano logiche (almeno) del secondo ordine, visto che ammettono, anche se in
sensi diversi, la ―realtà degli universali‖ e quindi è possibile quantificare su simboli predica-
tivi. Ammettono cioè che variabili predicative possono essere argomenti che soddisfano pre-
dicati di ordine superiore al primo.
Dunque i tre principali gruppi di ontologie, col terzo diviso in almeno quattro sotto-
gruppi sono:
1. Nominalismo: gli universali predicabili si riducono alle espressioni predicative di un
dato linguaggio che con le sue regole convenzionali determina completamente le con-
dizioni di verità dell‘uso di quelle espressioni (Sofisti, Quine).
2. Concettualismo: gli universali predicabili sono espressioni di concetti mentali che de-
terminano verità/falsità delle corrispondenti espressioni predicative (Kant e trascen-
dentalisti moderni).
3. Realismo: gli universali predicabili sono espressioni di proprietà e relazioni che esi-
stono indipendentemente dalle capacità linguistiche o mentali:
a. Nel mondo logico, avremo così le ontologie del cosiddetto realismo logicista (Pla-
tone, Frege, …)
b. Nel mondo fisico, avremo così le ontologie del cosiddetto realismo naturalista che
può essere di due tipi:
o Atomismo: senza generi naturali (Democrito, Wittengstein,…)
o Essenzialismo: con generi naturali (Aristotele, Tommaso, Scolastica,…)
Dove la principale differenza fra queste due forme di realismo naturalista è che le teorie
essenzialiste sono quelle che affermano che la distinzione fra predicazioni necessarie e con-

102
tingenti si basano sulla distinzione fra proprietà che appartengono necessariamente a certi en-
ti perché ―essenziali‖ e altre che appartengono solo in forma contingente ad essi perché ―ac-
cidentali‖
Infine, bisogna ricordare che ogni forma di naturalismo suppone una qualche forma di
concettualismo, perché proprietà e relazioni naturali non possono essere come tali ―i signifi-
cati‖ o le intensioni delle corrispondenti espressioni predicative ma lo possono essere solo
mediante i relativi concetti (Cfr. p.es., la nozione tommasiana, e più in generale scolastica,
dell‘universale come ente logico (universale concettuale) con fondamento nella realtà (cum
fondamento in re: universale naturale). Nasce di qui il problema logico-epistemologico fon-
damentale della relazione fra concetti e proprietà logiche ed enti e relazioni naturali che essi
―significano‖.
4.3.2 L‘ONTOLOGIA DEL REALISMO CONCETTUALE DI N. B. COCCHIARELLA
Ciò che rende fra tutte le ontologie formali contemporanee l‘ontologia del realismo
concettuale di Nino Barnabas Cocchiarella, ora professore emerito alla Università
dell‘Indiana a Bloominghton negli Stati Uniti, la più utile per una prima, parziale formalizza-
zione dell‘ontologia tommasiana91 è che essa, proprio come quella di Tommaso e contro
l‘impostazione medievale di Abelardo e di tutti i moderni — che per questo sono bloccati
nelle irrisolvibili dicotomie soggetto-oggetto — è che non esistono due tipi di predicati, reali
e concettuali, ma una doppia significazione dello stesso predicato (predicazione in intentio
prima et secunda: (Cocchiarella, 2001)), in base a diverse relazioni di referenza, alla realtà
esterna attraverso i dati sensoriali (species intentionalis come id quo intelligitur), alle idee
astratte dai dati comunque sempre in riferimento ai dati sensoriali (species intentionalis come
id quod intelligitur), come Tommaso ci ha ricordato. Una teoria logica e ontologica siffatta
necessariamente suppone, a livello epistemologico, una teoria intenzionale e non rappresen-
tazionale della conoscenza e la collega direttamente non solo a Tommaso, ma anche
all‘ontologia formale husserliana e in generale fenomenologica, sebbene il naturalismo di
Cocchiarella gli impone un collegamento solo con le diverse forme di ―fenomenologia natu-
ralizzata‖ contemporanee (Cocchiarella, 2007, p. 16-23), di cui in fondo il suo stesso approc-
cio può essere considerato un esempio. Viceversa, mi sembra importante qui ricordare la teo-
ria dei noemi percettivi di Husserl che, come le specie intenzionali di Tommaso, hanno la
doppia funzione di mezzo ed insieme di oggetto di percezione, che accompagnano sempre i
noemi propriamente detti (intellettivi) e quindi collegano direttamente la teoria
dell‘intenzionalità fenomenologica di Husserl, di Merlau-Ponty, in particolare — ma anche
della Stein e della Conrad-Martius, aggiungiamo noi — alle scienze cognitive (Dreyfus,
1982).

91
Di per sé possiamo usare l‘assiomatizzazione di Cocchiarella solo parzialmente, perché nella sua ontologia
manca la possibilità di formalizzare la nozione di ―partecipazione dell‘essere‖ a livello metafisico e, correlati-
vamente, a livello logico-ontologico la possibilità di interpretare la sua teoria della ―doppia saturazione‖ sogget-
to/predicato come una teoria di mutua determinazione fra di essi. Non per nulla e molto correttamente, Cocchia-
rella riconosce come nella sua formalizzazione manca la possibilità di definire l‘essenza individuale perché, ri-
conosce correttamente, nessuna forma di causalità naturale è in grado di giustificare una teoria causale dei gene-
ri che arrivi fino a giustificare l‘esistenza di un genere per ciascun individuo, in particolare l‘unicità di ciascuna
persona umana. Un limite che, ancora correttamente riconosce Cocchiarella, la sua teoria condivide con
l‘ontologia aristotelica. Infatti, egli afferma citando Plantinga (Plantinga, 1974, p. 71ss.), in tale ontologia seb-
bene esiste la possibilità del concetto predicabile di essere identico a Socrate non c‘è alcuna nozione che corri-
sponda alla proprietà/genere naturale di ―essere Socrate‖ (Cocchiarella, 2007, p. 287s.). Propriamente, quindi,
useremo solo LS del realismo concettuale di Cocchiarella e non il suo intero L per cominciare a formalizzare lo
LN della teoria tommasiana anche se, in effetti, basterebbe modificare solo pochi assiomi dello L di Cocchiarel-
la, fondamentalmente la sua definizione di identità, ma non è qui il luogo per spingere la nostra analisi così a-
vanti.

103
Tornando a Cocchiarella, possiamo, innanzitutto, distinguere almeno tre sensi del se-
mantema ―essere‖ in un ontologia come quella del realismo concettuale di Cocchiarella, che
fa vedere immediatamente la differenza fra la logica estensionale delle logiche matematiche e
le logiche intensionali delle ontologie. In una frase: ―essere >> esistere‖, ―essere‖ dice di più
che solo ―esistere‖:
1. x, F; x, F}: ciò che può essere (potentia esse, ―essere potenzialmente‖), ma
non esiste attualmente (p.es. enti x e/o proprietà F passati/futuri rispetto a un io pen-
sante (enti logici, fantastici, etc.) e/o rispetto a un concorso causale naturale (enti na-
turali, proprietà naturali, generi (essenze) naturali, per i quali indicizzeremo con n i ri-
spettivi quantificatori, cioè: nx, nF; nx, nF}).
e
2. x, ex; eF, eF}: ciò che è attualmente, esiste, come individuo generico x e/o co-
me proprietà e/o genere (una ―sostanza seconda‖, direbbe Aristotele) F in uno o più
individui.
3. E!(a):= ( ey) (y = a): ciò che è esistente come individuo concreto (―sostanza prima‖,
direbbe Aristotele), ma mai come proprietà/genere, cioè ( eF) E!(F). Dove, come si
vede, non usiamo il semplice quantificatore ma il predicato di esistenza E!(a) per in-
dicare lo ―essere esistente‖ (non il semplice ―esistere‖) dell‘individuo concreto, come
ciò che ―contrae‖ alla propria essenza individuale l‘infinita ―potenza attiva causale‖
dell‘essere come atto, dell‘essere ―partecipato‖, qualcosa che possiamo simbolizzare
ma non formalizzare nell‘ontologia di Cocchiarella (cfr. nota 91).
Con queste distinzioni in mente, possiamo vedere alcune esemplificazioni di simboliz-
zazioni di concetti filosofici che abbiamo incontrato in questo saggio. Innanzitutto, la nozione
epistemologicamente più rilevante, sia della teoria tommasiana che della teoria di Cochiarel-
la, del come simbolizzare la nozione di doppia significazione dei predicati comune a Tomma-
so e Cocchiarella. Richiamando i concetti già espressi (Cfr. § 2.2.6):
1. La significazione naturale (corrisponde alla tommasiana ―predicazione in prima in-
tenzione‖ ed è cognitivamente associata alla conversio ad phantasmata e alla ―prima
riflessione dell‘intelletto‖): coll‘enunciato predicativo si significa (ci si riferisce al)la
proprietà/relazione naturale.
2. La significazione concettuale (corrisponde alla tommasiana ―predicazione in seconda
intenzione‖ ed è cognitivamente associata alla ―seconda riflessione dell‘intelletto‖):
coll‘enunciato predicativo si significa il (ci si riferisce al) concetto (alla concettualiz-
zazione della proprietà/relazione naturale).
La formalizzazione della teoria della doppia significazione nel ―realismo concettuale‖, è
resa simbolicamente attraverso un‘opportuna indicizzazione dei quantificatori che hanno per
argomento anche variabili predicative e non solo individuali (come detto, ci muoviamo ov-
viamente in una teoria del secondo ordine):
1. Fj x1 , , x j F x1 , x j : significazione concettuale (predicato F significa
un concetto). Predicazione ―in intenzione seconda‖, anche se logicamente primaria.
Per questo, come anticipato quando abbiamo introdotto la simbolizzazione dei diversi
sensi dell‘essere, usiamo una quantificazione senza indici. Perché è la quantificazione
―normale‖ in logica, dove non ci si riferisce mai a entità reali, ma solo astratte (cfr.
logica vs.ontologia).
n
2. F j C e x1 , , e x j F x1 , x j : significazione naturale (predicato F significa
una proprietà naturale). Dove ( n) significa che la variabile predicativa argomento del
quantificatore denota una proprietà naturale (F), dove ( e) significa che la variabile
individuale argomento del quantificatore denota un ente naturale (x) attualmente esi-

104
stente e dove (C) significa che l‘operatore modale di possibilità è preso in senso ale-
tico-ontico di possibilità causale, “reale‖ e non logica o razionale.
Ovvero, dipende dall‘appropriato concorso causale se il predicato F è saturato o meno
da individui attualmente esistenti. Per esempio, se F stesse per ―essere dinosauri‖, è chiaro
che oggi non è saturato da nessun individuo esistente, come, al tempo dei dinosauri, il predi-
cato ―essere lucertole‖ non era saturato da alcun individuo attualmente esistente. Ciò non si-
gnifica che ―allora‖ le lucertole come ―ora‖ i dinosauri, non abbiano alcuna forma di realtà
biologica, visto che erano (sono) potenzialmente realizzabili nel concorso causale biologico
appropriato. Diverso invece, sarebbe il caso della F ―araba fenice‖ che mai potrà essere im-
plementata in una matrice di causalità biologica, ma solo in una di causalità mentale (è un
―ente fantastico‖, una fiction).
4.3.3 REALISMO INTENZIONALE: PROPRIETÀ NATURALI VS GENERI NATURALI
Tipico dell‘ontologia formale è il rispetto dell’intrinseco valore ontologico di LN e
quindi di tutte le lingue naturali delle diverse culture. In particolare, si valorizza la distinzione
fra predicazione essenziale (= predicazione di genere, ciò che un individuo è) e predicazione
accidentale (= predicazione di proprietà, ciò che un individuo ha), due predicazioni che nelle
lingue occidentali si riportano, rispettivamente, alla predicazione mediante nomi comuni o
―predicazione sostantivale‖ e predicazione mediante aggettivi o ―predicazione aggettivale‖:
1. Predicazione aggettivale di proprietà: p.es.: ―Alcune piante sono verdi‖ (LS: x Vx:
―per qualche x, V di x‖);
2. Predicazione sostantivale (o di essenza) di generi concettuali/naturali: p.es.: ―L‘uomo
è un animale‖ (LS: x xU: ―per tutti gli x, x di U‖), dove va notata l‘inversione di ar-
gomento e predicato (xU, per i generi, Ux, per le proprietà), per distinguere simboli-
camente i due tipi di predicazione, essenziale e accidentale.
Tipico del realismo concettuale come del naturalismo aristotelico-tomista è il dato che i
generi (specie) naturali, come le proprietà naturali, sono causalmente realizzabili in natura,
anche se in forma diversa delle proprietà, perché occorre giustificare il principio evidente di
ogni naturalismo della conservazione della specie/genere attraverso il succedersi degli indi-
vidui.
Nel realismo concettuale, i generi naturali (natural kinds) vengono denotati attraverso
una distinta indicizzazione dei quantificatori delle rispettive variabili predicative: K K. On-
tologicamente, non vanno interpretati come individui (malgrado la denotazione mediante
nomi comuni in LN: un problema questo su cui esistono intere biblioteche nel Medio Evo,
ma sul quale, nel ‗900, si è concentrata anche la ricerca dell‘ontologia formale di Leśniewski,
alla quale, fra l‘altro, Cocchiarella dedica un intero capitolo (Cocchiarella, 2007, p. 215-
233)), bensì come nodi stabili della struttura causale dell‘evoluzione fisica e/o biologica del-
la natura. P.es., nel caso delle specie biologiche, finché il concorso causale genetico (DNA) e
ambientale (nicchia ecologica) è stabile, si può garantire l’identità nel tempo del gene-
re/specie, attraverso succedersi degli individui appartenenti a quel genere/specie. In simboli:
1. Identità degli individui, appunto genericamente intesi, dove A è un simbolo per un ge-
nere: ( kA)C( ex)( yA) (x=y)
2. Fondazione causale della necessità della predicazione essenziale, la necessità della
predicazione essenziale è data dal fatto che il medesimo concorso causale da cui
l‘esistenza dell‘individuo necessariamente dipende, è la stessa che include quella che
determina il genere di appartenenza ontologica comune ad una moltitudine di indivi-
dui genere della stessa specie (= condivisione di un unico concorso causale necessi-

105
tante)

106
— ma, per ciò stesso, l‘ontologia formale della singolarità, innanzitutto della persona umana,
sia in Agostino, che in Tommaso, che nella Stein e in Scoto, per limitarci agli autori cristiani
qui esaminati, ma in ogni sistema coerente di metafisica della trascendenza, di ispirazione
cristiana o no, che allora si manifesterebbero come altrettanti modelli di un‘unica struttura
formale fondamentale comune a tutti.
Facciamo dunque l‘ultimo passo di questo saggio e illustriamo questo punto che ci aiu-
terà non poco anche a illustrare il proprium della geniale soluzione tommasiana del problema
della referenza singolare, nel campo epistemico ed insieme a illustrare il proprium della non
meno geniale fondazione tommasiana della singolarità di ciascuna sostanza prima — le per-
sone umane innanzitutto — nel loro riferimento ontologico (trascendentale) al comune Fon-
damento Trascendente.

4.4 Caso notevole: KD45 ontico e partecipazione dell’essere. Verso una formalizzazione
della metafisica tommasiana
4.4.1 LA FORMALIZZAZIONE DELLA SOLUZIONE TOMMASIANA AL PROBLEMA DELLE DESCRIZIONI DEFINITE
(REFERENZA SINGOLARE)
Non sorprenda che cominci questa illustrazione della possibile formalizzazione della
teoria ontologica (metafisica) tommasiana dal problema squisitamente epistemico ed episte-
mologico della referenza singolare. Essere post-moderni non significa, infatti, dimenticare la
lezione della modernità, ma anzi cercare di trarne il massimo frutto, senza nel contempo ri-
manere imprigionati nei ―sentieri interrotti‖ delle sue soluzioni inadeguate dei problemi pe-
renni della filosofia. Ora, il cosiddetto ―problema critico‖ riguardo le pretese metafisiche e
ontologiche del pensiero e del linguaggio umani, ovvero il problema della conoscibilità ed
esprimibilità adeguate dell‘essere e delle sue manifestazioni è in qualche modo pre-
condizione di qualsiasi ontologia post-moderna, formalizzata o meno che sia. Una soddisfa-
cente soluzione del problema logico della referenza extra-linguistica e della referenza singo-
lare in particolare è dunque pre-requisito di una qualsiasi ontologia post-moderna.
Abbiamo già più sopra notato che la genialità e l‘assoluta novità, anche per i moderni
— con immediate ripercussioni sia nel campo delle scienze e neuroscienze cognitive, sia nel
campo della implementazione artificiale di comportamenti semantici pre-simbolici in infor-
matica e robotica —, consiste nella teoria della reciproca determinazione Soggetto/Predicato
(S/P) nel caso delle descrizioni definite, che hanno come referenti enti singoli in quanto sin-
goli. Una teoria che, come già detto, ha una sua parziale formalizzazione in quella di Coc-
chiarella della ―doppia saturazione soggetto-predicato‖ — di contro alla teoria fregeana della
―saturazione semplice‖ del predicato da parte del soggetto, eccessivamente dipendente da A-
ristotele, come Frege stesso riconosceva — (Cfr. sopra §2.3.3), ma ha anche — e questo lo
aggiungiamo adesso — un suo parziale riscontro nel tentativo di John Searle di recuperare,
contro Kripke e la sua ―teoria causale‖ della referenza, il valore della fregeana ―teoria descrit-
tiva‖ della referenza, mediante l‘attribuzione di una valenza intenzionale e quindi intersog-
gettiva alle descrizioni definite stesse (Searle, 1983, p. 231-261).
Prima però di collocare ―post-modernamente‖ Tommaso, di vedere cioè similitudini e
differenze della sua soluzione al problema della referenza singolare con quelle di Cocchiarel-
la, Kripke e Searle, approfondiamo la sua soluzione del problema della referenza singolare
dei nomi propri in quanto abbreviazioni della descrizione definita soggiacente, in quanto cioè
nomi identificati con la ―singolarizzazione‖ di un determinato predicato, aggiungendo cioè al
predicato generico differenza/e specifica/he fra quelle che possono, nei diversi contesti, carat-
terizzare il referente singolare — una sorta di ―ricorsivizzazione‖ della haecceitas, rendendo-

108
la in qualche modo f(t), dipendente dal tempo, in ottemperanza al dictum aristotelico che
all‘intelletto umano non spetta ―essere‖, ma ―diventare progressivamente‖ tutte le cose.
Già esprimendomi in questi termini procedurali ho espresso il cuore della soluzione
tommasiana al problema delle descrizioni definite, che, se vogliamo, fa tutt‘uno con la sua
idea di verità come ―corrispondenza ai fatti‖ non come, platonista, astratta identità, una ae-
quatio appunto, ma come concreta, progressiva, intenzionale ad-aequatio. Per esprimere il
cuore di questa procedura di nuovo prendiamo una struttura KD45 a tre mondi, dove u rap-
presenta l‘oggetto referenziale, v il soggetto e w il predicato della relativa descrizione definita
e dove la struttura KD45 medesima appare essere il risultato della relazione euclidea che si
può instaurare fra i tre. Riportando così solo i grafici dei diversi passaggi del calcolo di se-
mantica formale già ricordato in § 3.5.2, avremo:

v v v

u u u
 

w u v u W
w w


v


Tavola 7: schema genetico di KD45 mediante sviluppo della relazione euclidea a partire da un insieme di relazioni
transitive fondative (nella struttura-base a tre mondi: uRve uRw)

Interpretando questi schemi formali alla luce della teoria tommasiana sulle descrizioni
definite, a partire dalle relazioni di fondazione (causali) transitiva e simmetriche uRv e uRw,
si possono fondare le relazioni secondarie: transitive (vRw, wRv), simmetriche (vRw = wRv),
e riflessive (vRv, wRw) che rendono possibile fondare una descrizione definita, caratterizzata
dalla identità S=P. Il carattere dinamico della procedura di doppia determinazione S/P guida-
ta, controllata dal referente si vede non appena interpretiamo le diverse relazioni transitive del
modello come altrettante relazioni causali fra implementazioni fisiche (p.es., dinamiche neu-
rali) dei vari elementi del modello. La procedura consisterà dunque in una reciproca modifi-
cazione S/P guidata dall‘input finché non si raggiunge una ―relativa stabilizzazione‖, sul fini-
to sempre possibile‖ che corrisponderà alla fondazione delle relazioni riflessive o di autorife-
rimento rispettivamente di S e di T, così da garantire una loro reciproca invarianza in funzio-
ne dell‘oggetto che controlla l‘intero processo, così da garantire una transitività-simmetricità-
riflessività secondarie, ovvero un‘equivalenza (o identità) S/P per riferimento ad oggetto. La
clausola del riferimento significa cioè che se rendiamo la procedura iterativa, ovvero indiciz-
ziamo spazio-temporalmente gli elementi della struttura con un indice spazio-temporale n
ovvero {un, vn , wn}, la procedura può essere ricorsivamente riprodotta garantendo la progres-
siva adeguazione (verificazione) della descrizione definita alle mutate condizioni dell‘oggetto
referenziale.
P.es., tornando alla nostra povera Santa Monica, che spero ci perdonerà per questa
―strumentalizzazione filosofica‖ — ma è a fin di bene —, denotarla come ―la madre di Ago-
stino‖ non era certo aver individuato la sua haecceitas, non garantisce quella ―identità inva-
riante fra mondi possibili‖ o ―fra stati di mondi possibili‖, vera croce senza alcuna delizia di
ogni ―teoria causale della referenza‖ che affidi ai semplici ―nomi‖ la funzione di ―designatore

109
rigido‖ come Kripke e i suoi seguaci, Cocchiarella incluso, pretendono. Viceversa è il nome
in quanto formula abbreviata della descrizione definita ricorsiva cui appartiene — e quindi la
descrizione definita intenzionalmente intesa alla Searle, sì, però causalmente fondata alla
Kripke — il vero designatore rigido. In altri termini, Monica è ―Monica‖ perché prima di es-
sere ―Monica, la madre di Agostino‖, era ―Monica, la moglie di x‖, e prima ancora ―Monica,
la figlia di y‖, etc. Basta per ogni diverso contesto, indicizzato in n, ripetere la procedura, ed
ecco affrontato il problema della designazione rigida, intenzionalmente intesa, come procedu-
ra di riadeguamento continuo all‘oggetto che cambia, come procedura di vero e proprio trac-
ciamento (tracking) o inseguimento (locking) dell‘oggetto referenziale. La stessa componente
di intenzionalità intersoggettiva che porta Searle a parlare di intenzionalità sociale, nella sua
ontologia dell’ente sociale può essere agevolmente così risolta. E‘ evidente infatti che un
gruppo sociale si definisce essenzialmente dal comune ambiente fisico-culturale che accomu-
na i suoi membri. Essi così potranno sviluppare un comune linguaggio ed apparato concettua-
le, non tanto perché interagiscono fra di loro, quanto perché tutti interagiscono con modalità
assolutamente individuali, ma secondo finalità comuni con un comune ambiente. In una paro-
la, in questo schema di intersoggettività intenzionale, l‘intersoggettività si realizza più ―attra-
verso il guardare tutti nella medesima direzione‖ che ―per il guardarsi tutti negli occhi‖, an-
che se quello non esclude questo, ma semmai lo fonda.
Una parola sull‘implementazione neuro-cognitiva di questa procedura. Il modello fisi-
co-matematico neurale capace di implementare una simile teoria dovrà essere certamente uno
schema dinamico di rete neurale di tipo caotico, visto che la topologia di connessione fra gli
elementi della rete deve variare continuamente in funzione del locking su un input sempre va-
riabile, ma con finalità persistenti da parte del soggetto conoscente. Senza entrare qui in ap-
profondimenti tecnici è chiaro che S e P delle nostre formule dovranno essere implementati in
due circuiti neurali di reciproca attivazione fra neuroni della corteccia senso-motoria, in gra-
do di modificarsi reciprocamente e continuamente — praticamente in tempo reale: stiamo
parlando cioè di decimi di secondo —, in funzione del best matching con un input esterno che
cambia ciontinuamente, dove il criterio di ottimalità (il best del matching) è dato dalle inter-
connessioni con le strutture sub-corticali e quindi dalla componente emotiva del comporta-
mento intenzionale — tomisticamente parlando, stiamo qui esplicitando la teoria complexa
della cogitativa, come preparazione immediata all‘atto del giudizio, di cui abbiamo accennato
alla nota 46.
Il modello neurale che meglio interpreta questi requisiti è quello intenzionale di W. Fre-
eman che non per nulla si rifà a Tommaso, ma che, attenzione!, non dipende originariamente
da Tommaso. Ovvero Freeman — al quale mi lega un‘amicizia e un dialogo scientifico ormai
da molti decenni — solo in questi ultimi quindici anni è venuto a contatto con la sintesi di
Tommaso e l‘ha eletta a controparte filosofica dei risultati di oltre quarant‘anni di ricerca e di
scoperte sul campo (Freeman, 2008). La congruenza dell‘approccio di Freeman con quanto
qui esplicitato è dato dal fatto che il suo modello neurocognitvo di comportamento intenzio-
nale si basa sul livello mesoscopico di analisi delle dinamiche cerebrali, in quanto distinto,
verso il basso, dal livello microscopico di analisi sui singoli neuroni, e verso l‘alto, dal livello
macroscopico di analisi, cioè, dallo studio delle dinamiche complessive del cervello in quanto
studiabili mediante le varie tecniche di neural imaging: elettro-encefalogramma, TAC (tomo-
grafia assiale computerizzata), PET (positron emission tomography), risonanza magnetica
funzionale, etc. (Freeman, 2001). Lo studio di Freeman si è cioè concentrato sull‘analisi
dell‘attività basale, continua delle cellule cerebrali, spesso considerata dai neurofisiologi —
generalmente e soprattutto nel passato, poco esperti di teoria e analisi fisico-statistica dei se-
gnali —, come una sorta di fastidioso rumore di fondo, che ostacolava le loro osservazioni e
misure micro- e macro-scopiche.

110
Viceversa, le raffinate analisi statistiche e computazionali di questo segnale operate da
Freeman, hanno rivelato che non si trattava di ―rumore casuale‖, bensì di ―caos stocastico‖
alto-dimensionale92, effetto di comportamenti collettivi che si propagano come onde com-
plesse di attivazione fra i neuroni, connettendo così zone anche distanti della corteccia, dove
le percezioni istantanee e complesse di cui siamo capaci consistono nell‘attivazione in tempo
reale di attrattori, ovvero di comportamenti coerenti dunque relativamente basso-
dimensionali, della dinamica caotica di fondo alto-dimensionale. Un po‘ come — l‘esempio è
di Freeman stesso — repentinamente si formano, si fondono, si separano e si distruggono ve-
locemente e altrettanto velocemente si ricostituiscono le goccioline su una superficie ricoper-
ta di condensa, e che fosse sottoposta a continue variazioni di temperatura dall‘esterno. Si
tratta del corrispettivo neurale — e cito ancora Freeman, ma anche me stesso — di quelle
strutture dissipative — o stabilità lontane dall‘equilibrio termodinamico — studiate nella
termodinamica non-lineare dei fluidi da Ilya Progogine, per la prima volta negli anni ‘60 del
secolo scorso e che gli valsero il Premio Nobel in fisico-chimica. E‘ facile perciò interpretare
i ―mondi possibili‖ delle nostre strutture di semantica formale, in relazione di continua e reci-
proca modificazione pilotate dal mondo esterno, fino al raggiungimento della stabilità inva-
riante di una struttura KD45, come implementabili negli stati metastabili (attrattori) delle di-
namiche neurali complesse (―caos stocastico‖) studiate da Freeman, come base delle opera-
zioni cognitive intenzionali nell‘uomo e negli animali.
4.4.2 ANALOGIA FRA ORDINE EPISTEMICO E METAFISICO NELL‘ONTOLOGIA TOMMASIANA DELLA PARTECIPA-
ZIONE

E‘ noto che nella metafisica tommasiana della partecipazione dell‘essere, la relazione


ontologica fra la Causa Prima e gli enti causati cui l‘essere viene partecipato viene definita,
per analogia alla relazione logica di referenza fra un enunciato S/P e il suo referente, come
una relazione di ragione (relatio rationis) e non una relazione reale (relatio realis), e questo
sebbene le relazioni causali siano generalmente ―relazioni reali‖. Il motivo di questa distin-
zione ci sarà immediatamente chiaro proprio grazie all‘aiuto della semantica relazionale. In
ogni caso, questo ci fa vedere, in teologia, come l‘attribuzione a Dio Creatore dell‘attributo di
―Causa Prima‖ è esclusivamente analogico. Esso non va quindi preso univocamente (il Crea-
tore come primo in ordine di tempo della catena causale fisica), come spesso si fa anche da
parte di illustri filosofi (p.es., Cacciari) e scienziati (p.es., Hawking) che oggi, giustamente,
ridicolizzano una tale interpretazione — scientificamente, sarebbe il ―dio delle condizioni al
contorno del big bang‖ —, spesso però erroneamente attribuendola anche a Tommaso. Allo
stesso tempo, questo ci fa comprendere come la cosiddetta analogia psicologica di derivazio-
ne agostiniana per esplicitare il senso della dottrina cristiana della creazione93 ha un fonda-
mento logico e ontologico (di logica e ontologia delle relazioni) che fa sì che essa sia appunto
un analogia (una similitudine basata su un‘identità di struttura soggiacente) e non una sem-
plice metafora. Vediamo brevemente perché.

92
La differenza fra una dinamica collettiva ―casuale‖ (stocastica) e una ―caotica‖ è data dal fatto che, mentre il
comportamento degli elementi della prima è totalmente e reciprocamente scorrelato, nel secondo caso esistono
correlazioni complesse e locali fra i comportamenti degli elementi componenti, sostanzialmente instabili, che si
ripetono, sì, ma ad intervalli di tempo del tutto impredicibili, dando così l‘impressione di essere casuali.
93
Dio dà e conserva (= partecipa) l‘essere all‘universo e a tutti gli enti che in esso vengono progressivamente
all‘esistenza, proprio come noi, con la nostra mente, ―facciamo esistere‖ in essa dei pensieri, ed essi continuano
ad ―esistere in essa‖ finché li pensiamo. Così che se, per assurdo, ―Dio si distraesse un attimo‖, il mondo ca-
drebbe nel nulla… Fra i pensieri e la mente che li produce esistono dunque solo ―relazioni di ragione‖, perché
essi sono causalmente immanenti alla mente che li produce, sebbene distinti da essa. Le ―relazioni reali‖ come le
relazioni causali, sono invece fra enti che non solo sono distinti, ma esistono come distinti, anche se, per esem-
pio, l‘esistenza dell‘uno dipende causalmente dall‘altro (p.es., nella relazione causale fra padre e figlio). Cfr.
(Tommaso d‘Aq., In I Sent., d. 27 q. 2 a. 2 qc. 1 co; S. Th., I, 28, 1co).

111
Parlando della formalizzazione della struttura logica di una qualsiasi teoria metafisica
entro la semantica modale dei mondi possibili di Kripke, abbiamo detto che le diverse teorie
metafisiche si distinguono per l’aggiunta di ulteriori assiomi a quelli ―logici‖ che determina-
no la struttura formale comune S5 del calcolo modale soggiacente (Cfr. sopra § 3.5.4).
Nel caso della teoria tommasiana, questi assiomi sono quelli relativi alla differenza rea-
le (causale) essere (atto)/essenza (potenza) e quindi alla teoria della partecipazione dell’atto
d’essere. E‘ evidente perciò che l‘avere Tommaso legato la causalità efficiente della Causa
Prima sull‘essere di tutti gli enti ad una struttura che contempla la potenzialità dell‘essenza
come costitutiva della relazione causale stessa così che la struttura S5 sia in qualche modo
una risultante di questa relazione atto/potenza costitutiva dell‘esistenza di ogni ente, implica
che la struttura relazionale debba essere quella di un S5 secondario. La teoria tommasiana
offre così la possibilità di un‘ulteriore interpretazione ontica del sistema modale KD45, oltre
quelle ben note nelle logiche epistemiche più sopra sommariamente illustrate — e delle logi-
che deontiche che qui non abbiamo avuto modo di illustrare. E‘ Tommaso stesso ad intro-
durci in questa interpretazione, ponendo un‘analogia fra asimmetricità della relazione di fon-
dazione causale della referenza ad oggetto di un enunciato dall‘oggetto stesso, nell‘ordine e-
pistemico, e asimmetricità della relazione causale di partecipazione dello essere dalla Causa
Prima nell‘ordine ontico.

v

u z

Tavola 7. Struttura modale KD45 dove, nell’interpretazione epistemica, u rappresenta l’oggetto referenziale in rela-
zione transitiva-seriale (causale) con la classe di equivalenza di sue rappresentazioni (proposizioni) {v, w, z} che perciò
sono con esso in relazione di riferimento. Come si vede la relazione di referenza è asimmetrica: le proposizioni rap-
presentate dall’insieme di mondi possibili {v, w, z} sono vere rappresentazioni del loro comune oggetto referenziale u
perché u è in relazione di fondazione e non di referenza con ciascuno degli elementi di {v, w, z}. In altri termini,
l’insieme {v, w, z} è necessitato dalla relazione che u ha con ciascuno dei suoi elementi, ma non viceversa. u resta u sia
che sia o non sia in relazione con {v, w, z}, ma non viceversa (è necessitante, ma non necessitato dalla sua relazione con
ciascuno degli elementi di {v, w, z}). Ci dice Tommaso, ciò che si può dire della relazione di fondazione logica di un
insieme di concetti/rappresentazioni rispetto al loro comune oggetto referenziale (si riferiscono ad esso perché esso
li/e fonda come tali senza dipendere da essi/e), può dirsi degli insieme degli enti che compongono l’universo nella loro
relazione di fondazione ontologica dal loro comune Fondamento. Parafrasando un famoso detto di Hegel: “il mondo
ha bisogno di Dio per essere mondo, ma Dio non ha bisogno del mondo per essere Dio”.

Ci spiega Tommaso: le relazioni con le creature possono essere attribuite a Dio, ma solo
secondo il modo con cui un conoscibile (oggetto) si relaziona al conoscente (soggetto), che è
sempre una relazione asimmetrica. Infatti, come lo scibile determina col suo essere la verità
o falsità (esistenza o inesistenza come ente logico) dell‘enunciato del conoscente su di esso,
nondimeno la relazione cognitiva qua talis conoscente-conoscibile non è nello scibile, ma
nello sciente. E‘ l‘enunciato cioè a riferirsi necessariamente allo scibile non viceversa, pro-
prio perché lo scibile (in quanto ente) determina l‘«essere» (verità o falsità) dell‘enunciato,
ma l‘enunciazione non può determinare nulla dell‘essere dello scibile cui essa si riferisce. La
relazione caratterizzata da questa asimmetricità fra l‘enunciato e il suo referente è quella che
Tommaso definisce in tutta la sua produzione, fin dal giovanile Commento al Libro delle Sen-
tenze ―relazione di ragione‖ (relatio rationis) (Cfr. l‘asimmetricità della relazione fondazio-
nale una classe di equivalenza di rappresentazioni dell‘oggetto da u verso gli altri mondi

112
(rappresentazioni di u), nel modello epistemico di KD45, che può quindi definirsi anche, nel-
la parte destra della struttura, S5 secondario.
P.es., continua Tommaso, non perché dico che «il cielo è azzurro» esso è azzurro o non
è azzurro, bensì è l‘azzurro del cielo a determinare l‘essere logico (verità) dell‘enunciato «il
cielo è azzurro» o il non-essere logico (falsità) dell‘enunciato «il cielo non è azzurro» (Cfr.
S.c.Gent., II, 12-15).
Fuori di metafora, la referenza è una relazione R asimmetrica, cioè xRy yRx, come
Russell medesimo evidenzia nei Principia. Quest‘asimmetria viene così spiegata da Tomma-
so, applicandola al nostro problema di esplicitazione della struttura relazionale ente — Essere
Sussistente. Come un ente fa essere un enunciato, che allora necessariamente a quell‘ente si
riferisce per essere «logicamente» come vero, ―essere vero‖, così l‘Essere Sussistente fa esse-
re un ente che allora a Lui necessariamente si riferisce per essere «ontologicamente» come
esistente, ―essere esistente‖: E!a. (Cfr. Tommaso d‘Aq., In Metaph., V, xvii, 1027).
Si vede così la specificità della metafisica tommasiana — ma a quanto stiamo vedendo
di qualsiasi ―metafisica della trascendenza‖ — rispetto alle metafisiche dell‘immanenza.
Mentre queste ultime hanno una struttura (S5 o KT45) senza assiomi di fondazione, la strut-
tura S5 della metafisica tommasiana è fondata: è un S5 secondario. KD45 è, infatti, la strut-
tura formale della metafisica tommasiana della partecipazione. Già infatti abbiamo notato che
formalmente un sistema KD45 nella sua parte destra, escudendo cioè u e la sua relazione di
accessibilità transitiva, asimmetrica e non-riflessiva verso tutti gli altri mondi, fa sì che esso
si possa definire qui un S5 onticamente secondario.
Le relazioni transitive, simmetriche e riflessive che gli altri mondi hanno fra di loro e
che ne fanno una classe di equivalenza (sono cioè tutti equivalentemente ―enti‖ per gli assio-
mi di quella ontologia) si fondano, attraverso una proprietà di euclideicità della relazione di
accessibilità, sulla relazione transitiva da u verso ciascuno di loro. Si tratterà allora di transi-
tività, asimmetricità, riflessività secondarie, e dunque di S5 secondario, epistemico o ontico
in base a quanto visto qui94, a seconda dell‘interpretazione del tipo di accessibilità trattato.
Nella versione ontologica, se interpretiamo, cioè, la relazione di accessibilità come cau-
sazione efficiente (nella accezione più generale di relazione transitiva e seriale) di tutto
l‘essere dell‘ente, si viene in tal modo a realizzare una formalizzazione della struttura della
dottrina tommasiana della partecipazione dell‘essere, con l‘implicita dottrina della distinzione
reale (= fondazione causale della distinzione) tra essenza e atto d’essere. Se infatti interpre-
tiamo u come Ipsum Esse Subsistens e gli altri mondi come la totalità degli enti creati pos-
siamo affermare che:
1. Le relazioni reciprocamente transitive/seriali a partire da quella Fondante95 che un en-
te ha con gli altri enti (v,w,z,…) rappresentano le cause seconde che si sviluppano sul
piano creaturale, mentre la relazione da u è creati po

113
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1 PREMESSA .......................................................................................................................................... 1
2 DALLA STEIN, A HUSSERL, A TOMMASO: TRASCENDENTALE MODERNO E TRASCENDENTALE CLASSICO 3
2.1 RADICI FENOMENOLOGICHE DELL’ONTOLOGIA FORMALE ....................................................................................... 3
2.2 ONTOLOGIA FORMALE, POST-MODERNITÀ E LA QUESTIONE DEI TRASCENDENTALI ....................................................... 5
2.2.1 Fenomenologia e post-modernità ................................................................................................... 5
2.2.2 Heidegger e la post-modernità nihilista.......................................................................................... 6
2.2.3 Stein, la post-modernità costruttiva e l’ontologia formale ............................................................. 8
2.2.4 Edith Stein: dal trascendentale moderno al trascendentale classico ............................................ 10
2.2.5 Tommaso D’Aquino: la tavola dei trascendentali ed il trascendentale classico ........................... 19
2.2.6 Tommaso d’Aquino: dal trascendentale classico al trascendentale moderno .............................. 27
2.2.7 Un testo di Tommaso anticipatore del doppio esito razionalista e/o nihilista del
rappresentazionismo in epistemologia ....................................................................................................... 30
2.3 APPROFONDIMENTO DELLA TEORIA TOMMASIANA: LE DUE OPERAZIONI DELL’INTELLETTO .......................................... 31
2.3.1 L’apprensione semplice dell’essenza come prima operazione dell’intelletto ................................ 31
2.3.2 La formulazione del giudizio come seconda operazione dell’intelletto......................................... 34

119
2.3.3 Conoscenza dell’essere e della verità nella formulazione del giudizio .......................................... 38
2.4 APPROFONDIMENTO DELLA TEORIA TOMMASIANA: LE DUE RIFLESSIONI DELL’INTELLETTO ........................................... 40
2.4.1 Coscienza e autocoscienza ............................................................................................................ 40
2.4.2 La spiritualità dell'atto intellettivo ................................................................................................ 42
2.5 L'USO DELLA VIA SOGGETTIVA DELLA COSCIENZA NELLA TRATTAZIONE TOMMASIANA DEL PROBLEMA DELL'ANIMA ........... 43
2.5.1 Accenni allo sfondo storico della questione .................................................................................. 43
2.5.2 La via soggettiva, quella oggettiva e le prove razionali della spiritualità dell'anima umana ....... 44
2.5.3 Una prima definizione del concetto di "ente spirituale" mutuata dal neo-platonismo ................ 46
2.5.4 L'evidenza soggettiva della propria spiritualità come "habitus" dell'anima e la definizione
razionale dell'essenza dell'anima ................................................................................................................ 49
2.5.5 L'evidenza soggettiva-esistenziale della vita psichica:.................................................................. 50
2.5.6 La conoscenza razionale dell'essenza dell'anima.......................................................................... 52
2.6 IN CONCLUSIONE A QUESTA SEZIONE ............................................................................................................... 52
3 >>[KEdK>K’/&KZD >>>[KEdK>K’/&KZ MALIZZATA: RILEVANZA FILOSOFICA E SCIENTIFICA
53
3.1 FORMALIZZAZIONE DELLE TEORIE .................................................................................................................... 53
3.1.1 Definizione di una teoria formalizzata .......................................................................................... 53
3.1.2 Teoria dei gradi semantici e sua applicazione all’ontologia ......................................................... 56
3.2 LIMITI DELLA FORMALIZZAZIONE E IMPLICAZIONI PER L’ONTOLOGIA........................................................................ 58
3.3 LOGICHE ESTENSIONALI ................................................................................................................................. 59
3.3.1 Teoria estensionale del significato nei linguaggi scientifici .......................................................... 59
3.3.2 Classi ed estensione dei predicati: predicazione e appartenenza di classe (Cfr. (Bochenski, 1995,
p. 117-119)) ................................................................................................................................................. 60
3.3.3 Teoria relazionale della predicazione e attribuzione di contenuto semantico .............................. 63
3.3.4 Cenni di semantica nell’analisi logica estensionale delle teorie ................................................... 66
3.3.5 Proprietà di vero-funzionalità dei sistemi di logica estensionale .................................................. 67
3.3.6 Metodo di verifica della validità di un’argomentazione mediante negazione della sua
falsificabilità ................................................................................................................................................ 68
3.3.7 Singolarità, identità e teoria descrittiva della referenza (Cfr. (Galvan, 1991, p. 59ss.)) ............... 68
3.3.8 teoria estensionale del significato e dell’identità e nozione di classe di equivalenza ................... 70
3.3.9 Dalle descrizioni definite in logica dei predicati alle funzioni descrittive in logica delle relazioni. 71
3.3.10 Teoria estensionale della referenza e limiti di un’ontologia su base estensionale .................. 74
3.3.11 Il recupero della distinzione fra verità necessarie e contingenti ad opera di S. Kripke e la
centralità dei due trascendentali ................................................................................................................ 76
3.4 LOGICHE INTENSIONALI ................................................................................................................................. 79
3.4.1 Caratteristiche comuni .................................................................................................................. 79
3.4.2 Accenni di sintassi di calcolo modale (Cfr. (Galvan, 1991, p. 61ss.)) ............................................. 81
3.4.3 Cenni di semantiche modali: alcune interpretazioni intensionali degli operatori modali ............ 84
3.4.4 Contesti intensionali aletici (logici e ontici (fisici e metafisici)) ..................................................... 85
3.4.5 Contesti intensionali deontici ........................................................................................................ 87
3.4.6 Contesti intensionali epistemici .................................................................................................... 89
3.5 SEMANTICA FORMALE MODALE DEI MONDI POSSIBILI .......................................................................................... 90
3.5.1 Caratteristiche generali ................................................................................................................ 90
3.5.2 Definizioni preliminari ................................................................................................................... 91
3.5.3 Interpretazioni della semantica modale di Kripke: possibilità fisica ............................................. 94
3.5.4 Possibilità metafisica .................................................................................................................... 95
3.5.5 Possibilità epistemica .................................................................................................................... 98
4 CENNI DI ONTOLOGIA FORMALE ....................................................................................................... 99
4.1 LOGICA FORMALE, ONTOLOGIA FORMALE, ONTOLOGIA FORMALIZZATA................................................................... 99
4.2 DEFINIZIONE DI ONTOLOGIA FORMALE ........................................................................................................... 101
4.3 TEORIE DELLA PREDICAZIONE, ONTOLOGIE E SENSI DELL’ESSERE........................................................................... 102
4.3.1 Tre tipi principali di ontologia ..................................................................................................... 102
4.3.2 L’ontologia del realismo concettuale di N. B. Cocchiarella ......................................................... 103
4.3.3 Realismo intenzionale: proprietà naturali vs generi naturali ...................................................... 105

120

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