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APOCALISSE
COLLANA
ACCÈNTI

L’accento pone in rilievo una sillaba di cui si compone la parola e ne aumenta


l’intensità di pronuncia.

La Civiltà Cattolica dà questo nome a una collana che raccoglie in modo


tematico la propria riflessione – ininterrotta sin dal 1850 – ponendo l’accento
su un tema di attualità o di particolare valore ispirativo.

L’accento cade su una parola chiave proponendo oggi riflessioni del passato,
creando connessioni e svelando motivazioni lontane. La nostra speranza:
riproporre testi da leggere col senno di poi per capire meglio il presente.

www.laciviltacattolica.it
© 2018 La Civiltà Cattolica, Roma
I edizione - novembre 2018
SOMMARIO

1 PRESENTAZIONE
Antonio Spadaro S.I.

LA BIBBIA

6 L’APOCALISSE E IL «SISTEMA TERRESTRE»


Ugo Vanni S.I.

20 IL DESTINO FINALE DELL’UNIVERSO


Jean Galot S.I.

35 APOCALISSE: UN MODO DI VIVERE


Paul Dominic S.I.

IL SENSO DELLE RISPOSTE

49 SCRITTORI A CONFRONTO CON L’APOCALISSE


Antonio Spadaro S.I.

58 RELIGIONE E MONDO POST-APOCALITTICO


Marc Rastoin S.I.

OPERE

65 I GIORNI DELL’APOCALISSE SECONDO CLAUDEL


Gottardo Blasich S.I.

71 «APOCALYPSE NOW»
Virgilio Fantuzzi S.I.

81 «WALL•E»
Antonio Spadaro S.I.

92 «MELANCHOLIA»
Virgilio Fantuzzi S.I.
95 FANTASCIENZA 2018
Giovanni Arledler S.I.

SFIDA POLITICA

103 RELIGIONE, MANICHEISMO POLITICO E CULTO


DELL’APOCALISSE
Antonio Spadaro S.I. - Marcello Figueroa
PRESENTAZIONE

Apocalisse deriva dal greco ἀποκάλυψις (apokálypsis), compo-


sto di ἀπό (apó, che signifida «da») e καλύπτω (kalýptō, che signi-
fica «nascondo»). Il termine significa togliere il velo o disvelamento.
Nella letteratura cristiana indica una rivelazione di cose nascoste da
Dio a un profeta scelto. Oggi la parola è usata comunemente per
1
descrivere predizioni della fine del mondo in forma di rivelazione.
Nel linguaggio comune ha perso il significato originario e, fuori
dell’ambiente religioso, è passato a indicare qualsiasi evento di gran-
de calamità ovvero un succedersi di eventi disastrosi.
La storia di questo termine dunque vive di questi due significati:
rivelazione e catastrofe. Grazie a questa sovrapposizione e compe-
netrazione di significati, parlare di apocalisse significa parlare del
significato della realtà, del suo stesso valore davanti a una rivelazio-
ne che ne sveli il senso o davanti alla sua fine. Ci parla dunque del
futuro in maniera radicale.
Come ci spiega p. Ugo Vanni, uno dei massimi esperti dell’ Apo-
calisse, c’è il confronto tra due «sistemi», che coesistono nello stesso
segmento di storia in stridente contrasto: il «sistema terrestre», che è
violento e tende a distruggere, e il «sistema di Cristo» che ristruttura
e ricostruisce. La coesistenza di due sistemi fa scintille e obbliga a
interrogarsi e a scegliere. Proprio il contributo del noto biblista, re-
centemente scomparso, ci fa comprendere come l’Autore dell’Apoca-
lisse si interessi dell’uomo in tutte le sue dimensioni, e in particolare
anche della paura. Essa presenta due aspetti: c’è la paura che nasce
dalla sensazione del «nulla» e c’è una paura «funzionale», cioè il senso
della trascendenza di Dio. L’ Apocalisse ci insegna che, evitata l’ap-
partenenza al «nulla» disperante del «sistema terrestre», non trovere-
mo spazi vuoti nella nostra vita di quaggiù, ma sentiremo di essere
sempre portatori di un seme di trascendenza più grande di noi.
APOCALISSE

Il secondo contributo biblico affronta, alla luce della Rivelazio-


ne, il tema della fine dell’universo materiale. Si esaminano testi che
sembrano affermarne la partecipazione alla redenzione di Cristo
(interpretazione cosmologica) e altri che sembrano riferire la re-
staurazione finale alla sola umanità (interpretazione antropologica).
Tuttavia, il destino dell’universo materiale sarà in qualche modo
implicato nel rinnovamento finale dell’umanità in Cristo Risorto.
Il terzo contributo esamina l’aspetto propositivo di quello che
per Gesù è il «modo di vivere apocalittico» come l’invito alla sua
sequela. Molte parabole illustrano i diversi aspetti del modo di vive-
re in una visione apocalittica ed escatologica: l’orientamento della
vita, l’entusiasmo, il senso di responsabilità, lo slancio, lo spirito di
penitenza, l’urgenza della decisione, il raccolto terreno come segno
2
della messe celeste, la garanzia della glorificazione. Un modo, dun-
que, dinamico di vivere il presente con lo sguardo rivolto al futuro.

***

Segue una sezione di indagine su arte e apocalisse. Il primo


contributo esamina risposte di alcuni scrittori alla Bibbia come te-
sto letterario. Infatti il credente è chiamato a leggere la Bibbia con
spirito di fede, eppure essa è a disposizione di ogni lettore, quale
che sia la sua disposizione interiore. Si riprende in mano il volume
Apocalissi. Ventidue modi di leggere i libri della Bibbia che raccoglie i
commenti ai singoli libri biblici scritti da 22 protagonisti della sce-
na culturale contemporanea. Non chiedendo ad Apocalissi precisio-
ne e competenza esegetica, ci si può avventurare in testimonianze
appassionate di una lettura «ingenua», cioè immediata e senza filtri,
del testo sacro. E le sorprese non sono poche.
La riflessione prosegue considerando lo sviluppo impressio-
nante delle opere post-apocalittiche nella cultura contemporanea.
Sia libri sia film descrivono un’umanità che cerca di sopravvivere
in un mondo distrutto da una catastrofe. Più che fantasticare sul
futuro, gli autori mettono il dito nelle piaghe del nostro presente.
Che cosa diventa la religione, in queste opere? Esiste ancora la
Chiesa? La trattazione di questo tema rivela la paura diffusa del
PRESENTAZIONE

fondamentalismo e dell’irrazionalismo e indica, per via negativa,


la nostra missione.
Il nostro volume prosegue con alcuni sondaggi. Di Paul Claudel
diamo una lettura dei Giorni dell’Apocalisse. Il volume rappresen-
ta una documentazione estremamente significativa della passione
di Claudel per la Scrittura. Il lavoro si presenta inizialmente come
un’indagine, un’esplorazione personalissima del libro giovanneo. Ci
si accorge però immediatamente di essere davanti a un commento-
poema che si accosta con impeto al testo biblico che, in generale
ispira la visione poetica e drammatica del grande scrittore francese.
Poi entriamo nel mondo narrativo del cinema. Il film Apo-
calypse now di Francis Ford Coppola, si propone di eguagliare, con
la spettacolarità delle sue ricostruzioni, gli effetti terrificanti delle
3
incursioni e delle stragi che hanno caratterizzato la guerra del Viet-
nam. L’opera sviluppa una riflessione autocritica e pone inquietanti
interrogativi sulle motivazioni di una sconfitta che ha avuto come
teatro non solo l’insidioso delta del Mekong, ma anche quei larghi
strati della opinione pubblica sui quali esercitano il loro influsso i
media. Prendendo lo spunto da un romanzo di Joseph Conrad, dal
titolo Cuore di tenebra, il film ha la struttura di un viaggio mitico
verso le radici del male, inteso come violenza distruttrice, insito nel
primordiale istinto dell’uomo.
Wall•e, film di animazione prodotto dalla Disney e dalla Pixar,
ha come protagonista un piccolo robot che, unico superstite in una
Terra abbandonata dagli uomini perché ormai del tutto ricoper-
ta di immondizia, continua a raccogliere i rifiuti con i suoi bracci
meccanici e li compatta. Le avventure di questo personaggio, che
fa della sua modesta vita nel mondo un’occasione di poesia e di vera
«umanità», si assoceranno a quelle di Eve, un robot inviato a verifi-
care se esiste ancora vita sul pianeta. A loro il compito di ridare agli
uomini la speranza di abitare la loro madre Terra. Wall•e è molto
più di un film a tema ecologico o della mera drammatizzazione di
un’idea apocalittica. In realtà il regista crea un vero e proprio mon-
do di tenuta metaforica, che sa parlare di temi che riguardano la
coscienza, la libertà, gli affetti.
Melancholia, pellicola del regista danese Lars von Trier, inizia
con un prologo nel quale, con immagini spettacolari riprese al ra-
APOCALISSE

lenti ed elaborate con tecnica digitale, viene annunciata come in


una profezia la fine catastrofica della vicenda.
Diamo conto infine – prendendo spunto dal film Blade Runner
2049 di Denis Villeneuve e dal romanzo Inverso di William Gibson
– di una tendenza della fantascienza contemporanea a parlare del
presente come di un prossimo futuro, per nulla accattivante. Nello
stesso tempo, essa auspica, come alternativa, un futuro migliore,
che paradossalmente ha molti aspetti del passato.

***

Chiude il volume una riflessione sul nostro mondo. Essa indaga


le connessioni tra religione, manicheismo politico e culto dell’apo-
4
calisse, palesando un sorprendente ecumenismo tra fondamentali-
smo evangelicale e integralismo cattolico. La compenetrazione tra
religione, politica e morale comporta sempre gravi rischi, special-
mente quando fa proprio il linguaggio manicheo che suddivide la
realtà tra il Bene assoluto e il Male assoluto. Questo rischia di ridurre
la comunità dei credenti, di fede ( faith), a una comunità dei combat-
tenti, della battaglia ( fight). Facendo riferimento alla storia del fon-
damentalismo politico-religioso evangelicale negli Usa, e ad alcune
sue figure rilevanti, se ne illustrano le derive.

***

Come si è compreso questo volume di «Accenti» vuole essere


un aiuto al lettore perché si interroghi sulla vita e sui suoi signi-
ficati, davanti al futuro, perché comprenda l’oggi e le sfide che lo
accompagnano. In questo senso abbiamo raccolto – proprio nello
spirito stesso della collana – alcuni saggi apparsi sulla rivista La Ci-
viltà Cattolica. Il volume è dunque una scelta all’interno di un’ampia
produzione del passato che resta viva nella misura in cui chi legge
si lascia interrogare e stimolare per rendere migliore la propria vita
e il nostro mondo.

Antonio Spadaro S.I.


direttore de La Civiltà Cattolica
LA BIBBIA

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LA BIBBIA

L’APOCALISSE E IL «SISTEMA TERRESTRE»*

Ugo Vanni S.I.

Introduzione

Studi recenti stanno mettendo in evidenza quella che possiamo


chiamare l’antropologia dell’Apocalisse. L’autore, lungi dall’essere
6 un teologo astratto, mostra un contatto continuo e articolato con
la realtà umana, vissuta nella quotidianità della vita. Gli interessa
l’uomo in tutte le dimensioni della sua concretezza: l’uomo che si
trova immerso nel tempo e nello spazio, a contatto continuo con le
vicende della storia1. E, in questa situazione, l’uomo è soggetto alla
paura. L’autore dell’Apocalisse sa cogliere questo fenomeno uma-
no e, senza la pretesa di una descrizione articolata, ne sottolinea
ripetutamente la presenza, con aspetti e accenti che documentano
ancora una volta quanto egli sia sensibile al vissuto dell’uomo. E il
superamento della paura è la speranza.

Una paura che schiaccia e una paura che viene superata

Per comprendere il quadro complesso che l’Apocalisse ci offre


sul tema della paura, come pure per focalizzare il superamento della
paura stessa che sbocca nella speranza, occorre dare uno sguardo
alla concezione che l’Apocalisse ha della storia. La storia che vivia-

* Titolo originale: «Paura e speranza nell’apocalisse».


1. La sensibilità acuta dell’autore dell’Apocalisse per l’uomo visto nelle sue
qualità specifiche, individuali e di relazione, nonché nella sua capacità di diventare
a tutti i livelli simbolo della trascendenza, impone, per una comprensione adeguata
del suo messaggio, un’attenzione esplicita a questa dimensione. Cfr L. Pedroli,
Dal fidanzamento alla nuzialità escatologica. La dimensione antropologica del rapporto
crescente tra Cristo e la Chiesa nell’Apocalisse, Assisi (Pg), Cittadella, 2007; U. Vanni,
L’uomo dell’Apocalisse, Roma, Adp, 2008.

© La Civiltà Cattolica 2012 IV 453-465 | 3899 (1° dicembre 2012)

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L’APOCALISSE E IL «SISTEMA TERRESTRE»

mo ogni giorno si colloca nel quadro di due gruppi opposti e in


dialettica continua tra loro. C’è il gruppo costituito da Cristo e da
coloro che, avendo accolto la sua parola, si trovano in contatto per-
manente e dinamico con lui. Sono i cristiani che formano il regno
di Dio in parte già realizzato. Ciò comporta, da parte loro, un’ap-
partenenza crescente a Cristo che tende a farsi reciprocità. Quindi
si richiede dai cristiani un ricambio in termini di amore, un’atten-
zione appassionata alla Parola, una volontà di collaborazione con
Cristo che salva nella storia. Questo è «il sistema di Cristo».
Accanto c’è un sistema opposto, attivato dalla forza intelligente
del male, denominata, nella terminologia allora in uso, «il serpente
delle origini, colui che è chiamato diavolo e il Satana» (Ap 12,9),
ma che, per l’Apocalisse, agisce di fatto come l’«Ingannatore», ho
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planon (Ap 12,9b). Potremmo chiamare questa forza misteriosa «il
Demoniaco»2. Volendo realizzare un mondo a modo suo, una spe-
cie di anti-creazione che si contrappone alla creazione di Cristo e
di Dio, il Demoniaco si serve degli uomini per realizzarla. Coloro
che si lasciano sedurre dal fascino dell’«Ingannatore» costituiscono,
assieme a lui, il «sistema terrestre». Lo chiamiamo tale perché, spin-
gendo gli uomini a tagliare i ponti con la trascendenza e ad impe-
gnare tutte le loro capacità per costruire un benessere materiale,
tutto viene collocato nel sistema chiuso del mondo presente.
I due sistemi – quello di Cristo e quello terrestre – coesisto-
no nello stesso segmento di storia in stridente contrasto: il «siste-
ma terrestre» è violento e tende a distruggere, mentre il «sistema
di Cristo» ristruttura e ricostruisce. Anche i cosiddetti lontani, i
diversi, o addirittura gli oppositori, tutti interessano a Cristo. Non
volendo compiere questa missione da solo, egli chiede con insisten-
za la collaborazione dei cristiani già appartenenti al suo regno e li
stimola a prestarla con tutte le loro forze. Essi sono tutti «sacerdoti a
Dio e Padre suo» (Ap 1,6), «sacerdoti di Dio e di Cristo» (Ap 20,6).

2. La denominazione desunta dall’Apocalisse è espressa dal documento della


Pontificia Commissione Biblica, Bibbia e Morale. Radici bibliche dell’agire cristia-
no, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2008, 100: «L’impegno attivo di media-
zione dei cristiani si attua nella concretezza della storia, dove si svolge il confronto
dialettico tra bene e male, tra il sistema di Cristo e il sistema terrestre anti-regno e
anti-speranza attivato dal Demoniaco».

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LA BIBBIA

Hanno l’incarico e la possibilità concreta di una mediazione tra la


trascendenza e l’immanenza. Il contatto che si realizzerà, tramite
loro, fra Cristo e tutti gli uomini ancora lontani passerà attraverso
la preghiera, la testimonianza, la profezia e ogni iniziativa che essi
formuleranno leggendo da vicino i segni del loro tempo.
Tutto questo comporterà una lunga battaglia. Ci saranno alti e
bassi, ma con la graduale scomparsa del male e l’attuazione ottima-
le di tutti gli ideali di bene che Dio pone nel cuore di ogni uomo
si avrà la salvezza: sarà la meraviglia della «Gerusalemme nuova»
(cfr Ap 21,1-22,5). Sullo sfondo di questo grande contesto, la paura
dell’uomo appare, nell’Apocalisse, sotto tre aspetti fondamentali.
C’è un primo tipo di paura, disperata e disperante, insita nel
«sistema terrestre», che, secondo questo libro, si esprime talvolta in
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maniera evidente e percettibile da tutti, ma per lo più si sviluppa
rimanendo latente sotto il cumulo di quelle che sono le tante ini-
ziative intraprese dal sistema terrestre per costruire il proprio re-
gno. È come una mina vagante, sotterranea e invisibile, ma pronta
a esplodere in ogni momento. La troviamo indicata anzitutto nel
lamento drammatico, ispirato dal coro delle tragedie greche, che
commenta l’incendio distruttivo di Babilonia (Ap 18,9-20). Il «si-
stema terrestre» realizzato, simboleggiato dalla città di Babilonia,
coltiva l’illusione di una sua perennità; dice Babilonia: «Siedo come
una regina […], non vedrò mai un lamento!» (Ap 18,7). Ma è una
sicurezza sbagliata. Costruita com’è al di fuori di quanto Dio, amico
dell’uomo, ha indicato, e addirittura in opposizione a lui, Babilonia
per un difetto di costruzione crolla su se stessa all’improvviso, come
incendiandosi dal di dentro. Coloro che, come i «re della terra»,
simbolo dei centri di potere, si sono prostituiti con essa e, più con-
cretamente, i «commercianti che si sono arricchiti su di essa» (Ap
18,11), vedendo il fumo del suo incendio, staranno lontani da essa
«per lo spavento» (Ap 18,10.15) ed esprimeranno drammaticamente
la loro disperazione:

«… stando da lontano per il terrore del suo tormento,


dicendo:
“Guai, guai
o città grande, Babilonia, o città forte!

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L’APOCALISSE E IL «SISTEMA TERRESTRE»

Poiché in un momento venne il tuo giudizio”.


E i mercanti della terra piangono e fanno lamenti su di lei,
perché nessuno compra più il loro carico,
un carico di oro e di argento
e di pietra preziosa e di perle
e di lino e di porpora e di seta…» (Ap 18,10-12a).
Segue un elenco impressionante di oggetti di lusso raffinato (cfr
Ap 18,12b-13) che sono travolti nell’incendio di Babilonia, simbolo
del consumismo esasperato proprio del sistema terrestre. I «re della
terra» e i commercianti non hanno paura di essere raggiunti dalle
fiamme di Babilonia, ma avvertono con terrore come la loro scelta
li abbia traditi: hanno seguito l’inganno del Demoniaco, con con-
seguenze ormai irreparabili.
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Quanto stiamo vedendo è confermato da un altro brano dram-
matico. Lo sbaglio commesso dal «sistema terrestre» tagliando il
rapporto con Dio e rifiutando le sue indicazioni a favore dell’uo-
mo comporta fatalmente la perturbazione del suo sistema e del suo
habitat di vita, che potrà raggiungere il livello pauroso di una di-
sfunzione radicale. L’Apocalisse non esita a precisare alcuni dettagli
impressionanti: mancanza di terreno coltivabile, mancanza delle ri-
sorse che vengono all’uomo dalla pesca nel mare, contaminazione
delle sorgenti di acqua potabile, addirittura fino a rapporti cambiati
con la temperatura solare e con il ritmo del tempo (cfr, per tutto
questo, Ap 8,6-12).
Questa situazione spaventosa a cui conduce il «sistema terrestre»
viene sottolineata drammaticamente dalla reazione dell’uomo (cfr
Ap 6,12-17). Davanti alla disfunzione intollerabile di tutto l’am-
biente, gli appartenenti al «sistema terrestre» di tutti i livelli sociali
diranno disperati «ai monti e ai macigni: cadete su di noi e nascon-
deteci!» (Ap 6,16). Preferiranno essere schiacciati, annientati piut-
tosto che affrontare l’«ira» dell’amore ferito di Cristo e di Dio (Ap
6,16-17). La logica del «sistema terrestre», perseguita fino in fondo,
porta al nulla, al suicidio.
Troviamo un’espressione interessante di questa paura che diven-
ta terrore nella testimonianza del noto scrittore Rino Cammilleri.
Dopo un’adesione a tutto campo al «sistema terrestre» realizzatasi
durante il periodo del cosiddetto Sessantotto nella città di Pisa, e ab-
LA BIBBIA

bracciata pienamente da lui con tutte le implicazioni fino a quella di


uno strano ma impressionante contatto con il Demoniaco, sostando
all’inizio della notte di Natale appoggiato sul parapetto dell’Arno,
egli si sentì talmente solo, talmente di fronte a un nulla di tutta la
sua vita e di tutte le sue scelte da essere attratto in maniera irresisti-
bile verso il suicidio che sembrava suggerirgli l’acqua del fiume che
scorreva. Impaurito, si fece indietro di una ventina di passi, si scosse
un poco, vagò stordito per un paio di ore nel centro della città vec-
chia, incontrò per caso una chiesa aperta, vi trovò un sacerdote al
confessionale, fece la sua confessione semplicemente singhiozzan-
do, e questo cambiò la sua vita. Come egli stesso più volte dichiara,
di fronte al «nulla» spaventoso che aveva davanti, scelse la pienezza
faticosa del sistema di Cristo3.
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L’esperienza commovente di Rino Cammilleri ci mette in con-
tatto con un secondo aspetto che la paura assume nell’Apocalisse.
L’adesione indiscriminata al «sistema terrestre» comporta, se man-
tenuta, un terrore da suicidio; ma proprio l’esperienza drammatica
del vuoto che essa produce può portare a uscirne completamente,
passando dalla disperazione all’accoglienza di Dio, e quindi alla spe-
ranza. È quanto troviamo nell’episodio dei «due testimoni» dell’A-
pocalisse.
In Ap 11,11 assistiamo alla conclusione del grande episodio dei
«due testimoni» (cfr Ap 11,1-13). Si tratta dei cristiani che, spinti
da un impulso particolare dello Spirito, denunciano arditamente il
male del «sistema terrestre», rivivendo tutta la trafila di Cristo: ven-
gono perseguitati, uccisi, esposti tre giorni alla considerazione dei
protagonisti del sistema; ma poi realizzano una partecipazione alla
risurrezione, irradiando un influsso positivo di grazia: si potreb-
be pensare a tanti nostri santi, per esempio a padre Pio. E proprio
questo fatto straordinario ha una sua presa sul «sistema terrestre».
Mentre in generale i componenti di questo sistema mantengono
ostinatamente le loro scelte negative che conducono a un crollo
pauroso – simboleggiato da un «grande terremoto» (Ap 11,13) e
dalla situazione sterminata di morte che ne segue –, alcuni di loro

3. Cfr R. Cammilleri, Come fu che divenni C.C.P. (cattolico credente e pratican-


te), Torino, Lindau, 2012, 168-170.
L’APOCALISSE E IL «SISTEMA TERRESTRE»

si distaccano. Impressionati dal fallimento drammatico del loro si-


stema, stupiti dall’esito ultimo positivo dei profeti cristiani uccisi da
loro, documentato da quanto essi realizzano dopo morte, sono presi
da «un senso di terrore dal di dentro» (emfoboi: Ap 11,13b) e «danno
gloria al Dio del cielo» (Ap 11,13c). La paura più spaventosa, una
volta accettata e interiorizzata, li libera dai tentacoli del «sistema
terrestre» e li mette in contatto con Dio.
In questa linea, nell’Apocalisse incontriamo, sottolineate con
particolare insistenza, paure con uno svolgimento che si conclude
in modo molto positivo. A Giovanni, smarrito e sconcertato fino
a perdere i sensi da un contatto con la trascendenza della risurre-
zione (cfr Ap 1,12-17a), Gesù Cristo risorto rivolge un invito inco-
raggiante: «Non temere!» (Ap 1,17). È la paura, la trepidazione che
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si avverte in ogni contatto più immediato con Dio e con Cristo,
sia quando questo avviene, come per Giovanni, a un livello che
ci appare estatico, sia, più in generale, quando accompagna la no-
stra esperienza di fede. Quest’ultima, vista come un «osare verso
Dio» – secondo la bella definizione che ne dà Romano Guardini
–, comporta il brivido dell’assoluto, e allora si ha una certa paura di
lanciarsi pienamente verso Dio, di credere fino in fondo. La paura
non verrà eliminata, ma diventerà una trepidazione gioiosa.
C’è poi un altro incoraggiamento a superare la paura rivolto
direttamente da Cristo risorto al cristiano credente che lo ascolta:
«Non temere per niente ciò che dovrai soffrire!» (Ap 2,10). Di fron-
te alle difficoltà che il cristiano incontrerà sul suo cammino e che
potranno costargli anche la vita, egli non dovrà fermarsi e tornare
indietro. Una forza misteriosa lo accompagnerà, permettendogli
di raggiungere il dono affascinante della «corona della vita» (Ap
2,10b). Qui emerge chiaramente la speranza, anche se non è chia-
mata con il suo nome.
Il terzo aspetto di paura, che riscontriamo ripetutamente nell’A-
pocalisse, è in rapporto con la trascendenza: «Temete Dio!» (Ap
11,18; 14,7; 15,4; 19,5). Si tratta, sulla linea dell’Antico Testamento,
di attivare in noi un senso acuto, insieme trepidante e gioioso, del
Dio trascendente. Infatti il timore di cui si parla qui è, propriamen-
te, uno stupore. Quando vogliamo entrare in contatto o semplice-
mente pensare il Dio trascendente, infinitamente superiore a noi,
LA BIBBIA

sentiamo un brivido di stupore. E il Dio trascendente e che stupisce


ci comanda di amarlo. Ma c’è una premessa insostituibile all’amore:
occorre un approccio previo della mente e del cuore che ci libe-
ri da quelle false immagini di Dio, costruite su parametri umani,
che circolano nell’ambiente culturale in cui viviamo e che spesso
sono caricature blasfeme. Come, ad esempio, l’immagine di un Dio
perennemente ingiusto; di un Dio che esige freddamente i propri
diritti con la minaccia di punizioni paurose; di un Dio che sembra
volere tutto solo per se stesso, quasi fosse affetto – come si esprimeva
icasticamente L. Laberthonnière – da un «egoismo trascendentale»;
di un Dio ritenuto e invocato solo come un rimedio di emergenza
ai nostri pasticci minuti ecc.
Il «timore» che l’Apocalisse richiede dall’uomo per poter amare
12
veramente Dio consiste nel prendere sul serio, al di là di ogni at-
teggiamento amatoriale, l’immagine di Dio che egli stesso ci rivela.
Dio la rivela con la Sacra Scrittura, con la sua Parola, che non si
sazia mai di parlare di lui, della sua bontà infinita, della sua potenza,
della sua saggezza, della sua bellezza ugualmente infinite, ma che
sintetizza tutto questo quando – come in 1 Gv 4,8.16 – per ben
due volte lo definisce come Amore. Soltanto se avremo accolto Dio
come Amore, potremo cominciare ad amarlo. L’Amore ce lo farà
capire, ci darà gioia, e lo stupore crescerà.

Dalla paura alla speranza

Nonostante l’assenza totale di una terminologia che la riguar-


da, la speranza è stata ritenuta costantemente come un messaggio
primario dell’Apocalisse. Sia nella prima sia nella seconda parte del
libro incontriamo costantemente una spinta verso il futuro, verso
un di più, verso un meglio non ancora realizzato; e così l’Apocalisse,
specialmente negli ultimi decenni, è stata visto proprio come un
libro di speranza4.

4. Cfr G. Ravasi, Vieni, Signore Gesù. Un invito alla speranza nel libro dell’A-
pocalisse, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 1990; C. Mesters, The Hope of the
People who Struggle. The Key to Reading the Apocalypse of St John, Athlone, Theo-
logy Exchange Programme, 1994; J. C. Carvalho, Esperança e resistência em tempo
de desencanto. Estúdio esegético-teológico da simbologia babilónica de Ap 18, Porto,
L’APOCALISSE E IL «SISTEMA TERRESTRE»

La prima speranza: una crescita interiore, futura e che comincia

La prima parte dell’Apocalisse – Ap 1,4-3,22 – si occupa di una


crescita interiore riguardante l’assemblea liturgica, che, nel giorno
di domenica, in contatto con Cristo visto come il «Crocifisso-Ri-
sorto», viene purificata e tonificata. Un decollo ardito di fede le fa
sentire presente Cristo morto e risorto, che le indirizza i suoi impe-
rativi, come: «Convertiti!» (2,5 ecc.), «Convertiti e abbi un amore da
gelosia!». Dato che la parola di Cristo è considerata onnipotente ed
efficace, capace, se accolta, di cominciare subito a realizzare quanto
esprime, l’assemblea liturgica si sentirà liberata dagli impacci del
peccato, si sentirà capace di un ascolto particolare dello Spirito e di
una collaborazione attiva alla vittoria che Cristo morto e risorto sta
riportando sul male del «sistema terrestre». Così si sentirà protago- 13
nista di speranza, lanciata come è verso un futuro migliore che, già
iniziato mentre Cristo sta parlando, si realizzerà nella vita, non ap-
pena si sarà conclusa la liturgia domenicale che ora si sta celebrando.

La speranza nel confronto con il «sistema terrestre»

Il campo della speranza si estende e si precisa man mano che si


sviluppa la seconda parte dell’Apocalisse (Ap 4,1-22,5). L’assemblea
liturgica, consapevole di appartenere al «sistema di Cristo», appli-
cando con duttilità intelligente, a seconda delle circostanze storiche
in cui vive, i parametri di interpretazione che l’Apocalisse le presen-
ta, approfondisce la sua conoscenza del «sistema terrestre» con cui
dovrà confrontarsi nell’intento di riportarlo nel campo del «sistema
di Cristo». Allora si accorgerà che, nella concretezza della storia, il
«sistema terrestre» non soltanto è eterogeneo rispetto a quello di
Cristo, ma diventa anche intollerante fino all’aggressione. Si scate-
na così fra i due sistemi un rapporto conflittuale permanente, che
nello sviluppo fattuale della storia si svolgerà con vicende alterne.
Il «sistema terrestre» farà sentire la sua pressione fino a opprimere
e conculcare il «sistema di Cristo». Gerusalemme, che simboleggia

Universitade Católica Portuguesa, 2009; U. Vanni, «La speranza nell’Apocalisse»,


in Sperare. Forza e fatica del vivere cristiano, Roma, Teresianum, 1994, 201-215; Id.,
«Hope Witnessed in the Book of Revelation», in ProcIrBibAssoc 32 (2009) 74-90.
LA BIBBIA

quest’ultimo sistema, potrà essere calpestata dai pagani, e ai cristiani


rimarrà soltanto la capacità di pregare. Essi potranno essere chia-
mati anche a donare la vita: nella prospettiva dell’Apocalisse, ogni
cristiano è un martire potenziale.
Ma non esiste un martirio senza la speranza. Accanto al quadro
del sistema terrestre che viene delineato man mano nei dettagli,
il gruppo di ascolto vede precisate anche le implicazioni della sua
partecipazione alla vitalità di Cristo risorto. Di fronte alla «gran-
de tribolazione» – quella determinata dalla pressione schiacciante
del «sistema terrestre» –, il cristiano saprà di appartenere a coloro
che «resero bianche le loro vesti nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14).
A contatto diretto con la sacramentalità di Cristo morto e risorto,
realizzata nell’assemblea liturgica, i cristiani sperimenteranno come
14
una energia di risurrezione, che permetterà loro di vincere il De-
moniaco scatenato sulla terra. È questa la loro speranza.
Per attivarla sempre di più, l’Apocalisse, spostandosi sul versante
del «sistema terrestre», sottolinea quella che è una debolezza intrin-
seca di esso. C’è come un «virus» che lo intacca: è il giudizio di
disapprovazione da parte di Dio, un giudizio che sortirà infallibil-
mente il suo effetto nella storia. Nonostante la sua violenza e traco-
tanza, il «sistema terrestre» è radicalmente debole. L’Apocalisse ce lo
fa capire parlando di un «tempo breve» (Ap 6,10; 20,3), contrapposto
ai «mille anni» del «sistema di Cristo» e dei suoi (Ap 20,2.3.4.5.6.7).
Non si tratta di una precisazione cronologica, ma qualitativa: nello
stesso segmento di tempo che scorre, sono presenti sia il «sistema
di Cristo», sia quello terrestre, radicato nel Demoniaco. Di fronte
al «sistema di Cristo», espresso mediante la completezza simbolica
dei mille anni, il sistema terrestre ha un’incompletezza radicale, una
limitatezza endogena: è un «tempo breve». Questo appare quando
avvengono, sempre nell’ambito della storia che si sviluppa, i crolli
drammatici, come abbiamo visto in Ap 18 a proposito di Babilonia.
Di conseguenza, anche quando il cristiano si sentirà schiacciato dal
«sistema terrestre», uno scatto di fede nel giudizio valutativo di Dio
lo porterà a sperare nonostante tutto.
L’APOCALISSE E IL «SISTEMA TERRESTRE»

La speranza più ardita: la Gerusalemme nuova

Un aspetto tutto particolare della speranza dell’Apocalisse è co-


stituito dalla tensione escatologica. Come abbiamo osservato, il cri-
stiano, fatto regno e sacerdote, è chiamato a un impegno a tutto
campo con Cristo, che realizza nella storia la salvezza, guidandola
alla sua conclusione. Legato a Cristo da un rapporto personale che
esige costantemente la freschezza e la totalità di un «primo amore»
(Ap 2,4), il cristiano è chiamato a seguirlo «dovunque vada» (Ap
14,4), vincendo il male con lui e impiantando il bene.
Il senso acuto e positivo che l’autore dell’Apocalisse ha della real-
tà dell’uomo lo induce a collocare questo rapporto con Cristo nello
schema antropologico di un fidanzamento che si sviluppa nell’amore
fino al livello di nuzialità. Così l’amore del cristiano verso Cristo cre- 15
sce giorno per giorno, fino a raggiungere, alla conclusione escatolo-
gica della storia e grazie anche a un tocco particolare da parte di Dio
Padre, la capacità vertiginosa di amare Cristo come Cristo ama lui. In
parallelo con la crescita dell’amore e in dipendenza da essa, si sviluppa
e si perfeziona quotidianamente la cooperazione all’azione di Cristo.
L’autore dell’Apocalisse prende particolarmente a cuore questo
stupendo rapporto crescente e, come suole fare quando si sente par-
ticolarmente preso, lo esprime con una celebrazione lirica cantata.
Abbiamo così, in Ap 19,1-8, la più bella delle sue otto celebrazioni.
In un canto a due voci, sul sottofondo di una voce che ripete «al-
leluia» con entusiasmo crescente, l’altra voce esalta il divenire della
salvezza, dalla distruzione impressionante del male con Babilonia
che brucia all’instaurazione piena del regno di Dio, vista come la
festa nuziale di Cristo Agnello e della sua sposa, con la quale si
identificano i cristiani:

«Alleluia […], rallegriamoci ed esultiamo


e diamo a Lui la gloria,
poiché giunsero le nozze dell’Agnello
e la sua sposa si preparò
e le fu dato di rivestirsi
di un lino brillante puro!
E il lino sono le impronte di giustizia dei santi» (Ap 19,6-8).
LA BIBBIA

Con tutto il bene che riesce ad attuare lasciando, in quanto sa-


cerdote di Cristo, l’impronta di Cristo nella storia, il cristiano si
confeziona l’abito nuziale, che indosserà nella gioiosa trascendenza
della Gerusalemme nuova, amando Cristo come Cristo ama lui. È
questa la prospettiva in cui egli spera e a cui tende. Possiamo dire
che la celebrazione lirica di Ap 19,1-8 è davvero un inno alla spe-
ranza.
Non ancora soddisfatto, l’autore dell’Apocalisse vuol far quasi
toccare con mano la situazione ultima, escatologica che ci aspetta,
ed è una meraviglia che ci stupisce. Riprendendo l’idea di fondo di
un fidanzamento che si conclude nella gioia piena della nuzialità,
egli presenta in Ap 21,1-22,5, una delle sue pagine più belle del
suo libro, il «paradiso di Dio» (Ap 2,7b). Lo esprime, mediante un
16
simbolismo raffinato, nella figura di Gerusalemme, che, idealizzata,
diventa per lui la «Gerusalemme nuova». Con questa denominazio-
ne l’autore si riferisce non a delle mura, ma a delle persone: la Ge-
rusalemme nuova è formata dalle persone che, pervase dalla novità
di Cristo, costituiranno il popolo di Dio escatologico. La Gerusa-
lemme nuova è la sposa, mentre Cristo Agnello è lo sposo, con tutto
l’amore che la loro nuzialità comporta.

In questa situazione da sogno, Dio

«asciugherà ogni lacrima dai loro occhi.


E la morte non sarà più,
né lamento,
né grido,
né fatica sarà più.
Le cose di prima passarono!» (Ap 21,4).

Positivamente, la città-sposa, detta esplicitamente «la fidanzata,


la sposa dell’Agnello» (Ap 21,9), viene tutta inondata dalla luce di
Cristo, sentito come il datore di luce che

«corrisponde a una pietra preziosissima,


come la pietra di diaspro che manda riflessi di cristallo» (Ap
21,11).
L’APOCALISSE E IL «SISTEMA TERRESTRE»

Così si avrà un faccia a faccia continuo con Dio, con Cristo e lo


Spirito. La Gerusalemme nuova comporterà quanto di meglio Dio
Padre, Cristo e lo Spirito potranno donare (cfr Ap 22,1-2). Questo
sarà il «paradiso di Dio» (Ap 2,7b).
«L’albero della vita», menzionato in Ap 2,7, riapparirà e si svilup-
perà in seguito all’azione dello Spirito Santo, simboleggiato da «un
fiume di acqua di vita, risplendente come cristallo, che stava uscen-
do dal trono di Dio e dell’Agnello» (Ap 22,2a). Sulle due sponde
del fiume sorgerà un «albero di vita» (Ap 22,2b), che, alimentato
dal fiume stesso – simbolo dello Spirito –, crescerà, tendendo a svi-
lupparsi all’infinito. Si avrà una foresta sconfinata di vita. E, nell’A-
pocalisse, là dove c’è la vita e in proporzione della vita, c’è sempre
l’amore. Si vive per amare.
17
Non si poteva immaginare un oggetto di speranza più alto e più
bello. La speranza del cristiano non è un sogno e si attuerà di fatto,
ma la sua realizzazione supererà davvero ogni sogno.

Alcune puntualizzazioni conclusive

A questo punto possiamo dare uno sguardo sintetico al lungo


percorso che abbiamo fatto. E la prima puntualizzazione che si im-
pone è una conferma di come l’autore dell’Apocalisse entri davvero
nel vivo della problematica umana. La paura e la speranza sono due
elementi come impiantati dentro l’uomo, dai quali l’uomo non può
prescindere; dai quali l’uomo non può, anche quando lo volesse, li-
berarsi. L’autore dell’Apocalisse sente e avverte tutto questo, ma non
si ferma a una constatazione fenomenologica del fatto: ci dice, e lo
fa con insistenza anche tagliente, che cosa dobbiamo fare, portatori
come siamo sia della paura sia di un’esigenza di speranza.
La paura che ci portiamo si può muovere in due direzioni. C’è
la direzione negativa di una paura che accompagna le nostre scelte
sbagliate. Se ci mettiamo nel quadro del «sistema terrestre», possia-
mo illuderci credendo che tutto vada bene, possiamo dimenticare,
stordirci, anche entusiasmarci. Ma sotto sotto – come abbiamo po-
tuto constatare nel caso di Rino Cammilleri – rimane una paura
che tende a crescere anche quando non le prestiamo attenzione,
fino a diventare crisi e a portare alla disperazione. L’apertura a Cri-
LA BIBBIA

sto e a Dio non è negoziabile per l’uomo. Quando vuole farne a


meno, egli si illude: va avanti su un terreno minato, e la mina della
disperazione prima o poi gli scoppia dentro.
C’è poi una paura che possiamo chiamare funzionale. È, per
l’Apocalisse, il senso della trascendenza di Dio, che dovrebbe ac-
compagnare tutto il nostro rapporto con lui. Non è un timore da
schiavi, non è il brivido davanti all’Onnipotenza, ma è il senso tre-
pido della grandezza infinita di un amore che sentiamo e in cui
crediamo, e che ci supera sempre; che ci incanta e ci trascina, ma
rimane sempre più grande, infinitamente più grande di noi e ci sti-
mola a un ricambio che non lascia tregua. Senza questa paura – ma
è più esatto chiamarla «stupore cordiale di Dio» –, la nostra recipro-
cità con Dio rischierebbe di slittare nella superficialità dilettantesca,
18
nell’approssimazione dissociata, in alti e bassi soltanto emotivi, in
una situazione di mediocrità stagnante.
Proprio questo senso trepido e cordiale di Dio apre la porta alla
nostra speranza. Se prendiamo sul serio un Dio trascendente che
ci parla e ci ama, lo ricambieremo nell’amore, e dall’amore nascerà
e si svilupperà la nostra speranza, perché, se si ama, si spera, e se
si spera, si ama. La nostra sarà una speranza che abbraccerà tutta
la vita. Impegnati con tutte le nostre energie migliori, cresciamo
nell’amore verso Cristo e nella collaborazione con lui, vivendo in
pieno il tempo del nostro «fidanzamento», ma non dimentichiamo
che tendiamo alla vetta della «nuzialità», alla Gerusalemme nuova.
La speranza ci spronerà a guardare e a camminare verso la vetta,
anche quando vorremmo sederci rinunciando al cammino, al pun-
to da avere talvolta perfino la tentazione di negarne l’esistenza, non
vedendola. Ma la montagna c’è, la Gerusalemme nuova ci compete
ed è nostra: la raggiungeremo superando tutte le asperità del cam-
mino.
Appartenendo al «sistema di Cristo», avremo inevitabilmente le
pressioni moleste e opprimenti del «sistema terrestre». Il senso trepi-
do e cordiale della trascendenza di Dio, la coscienza permanente di
essere oggetto del suo amore e di volerlo ricambiare ci aiuteranno
in maniera risolutiva a superare queste difficoltà che incontriamo.
Ci sarà lì per lì una forza che non immaginiamo e che sarà deter-
minante per farci donare anche la vita, quando ciò fosse necessario.
L’APOCALISSE E IL «SISTEMA TERRESTRE»

Così la nostra speranza, in confronto e sullo sfondo di queste dif-


ficoltà che ci appaiono insuperabili, si svilupperà, occuperà sempre
più gli spazi della nostra psicologia, e noi sapremo e sentiremo che,
con questo contatto con Dio, con Cristo e con lo Spirito, superere-
mo tutte le difficoltà. Esse non ci vinceranno, qualunque sia la loro
proporzione impressionante, ma vinceremo noi.
Un ultimo aspetto di questa nostra speranza ci porta a un nuovo
rapporto anche con il «sistema terrestre». Non ci faremo vincere dal
male che esso esprime, ma, sperando sempre arditamente, impe-
gneremo tutte le forze per vincere il male con il bene. Cercheremo
così di «amare i nostri nemici» (cfr Mt 5,44), offrendo loro, nono-
stante tutto, tutto il bene che potremo. Cristo, servendosi di noi
come di suoi sacerdoti (cfr Ap 20,6), ci farà diventare portatori di
19
lui, a contatto diretto e immediato con gli altri uomini nella con-
cretezza della nostra storia.
Concludendo, possiamo dire che i germi di paura e di speranza
che si trovano in noi potranno avere uno sviluppo positivo. L’Apo-
calisse ci insegna che, evitata l’appartenenza al «nulla» disperante
del «sistema terrestre», non troveremo spazi vuoti nella nostra vita
di quaggiù, ma sentiremo di essere sempre portatori di un seme di
trascendenza più grande di noi, quello che, sviluppato e fiorito, ci
farà abitare nella «tenda di Dio e degli uomini» (Ap 21,3), a contatto
diretto con Dio e fra di noi. È questa la meta di una speranza, la
nostra, che «non delude» mai (cfr Rm 5,5).
LA BIBBIA

IL DESTINO FINALE DELL’UNIVERSO

Jean Galot S.I.

Quale sarà il destino finale dell’universo, più precisamente,


dell’universo materiale? Il problema della sua durata si pone a un
livello empirico e scientifico: la scienza cerca di determinare le leg-
gi che reggono lo sviluppo della materia per discernere se ci sia un
20
esaurimento che conduca alla fine. Ma qui affrontiamo il problema
a un altro livello, quello della Rivelazione di Dio circa il futuro della
materia alla luce dell’opera di salvezza. Secondo la Sacra Scrittura,
l’universo riceve il frutto della liberazione operata da Cristo per l’u-
manità, e in quale misura?

L’ASPETTO «COSMOLOGICO» DELLA REDENZIONE

L’esegesi e la teologia, nei tempi recenti, hanno riconosciuto


l’importanza dell’aspetto cosmologico della Redenzione. Alcuni te-
sti del Vaticano II lo pongono in luce. Alla fine dei secoli, quando
apparirà Cristo, vita nostra, allora «la creazione stessa [...] sarà lei
pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella li-
bertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21) (Lumen gentium, n. 9,
3). Questo avverrà nel regno del Signore quando «l’intero universo
sarà perfettamente restaurato in Cristo» (ivi, n. 48, 1).
Soprattutto c’è l’annuncio della terra nuova e del cielo nuovo:
«Passa certamente la scena di questo mondo, deformato dal pec-
cato. Sappiamo, però, dalla rivelazione che Dio prepara una nuova
abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia e la cui felicità
sazierà sovrabbondantemente tutti i desideri di pace che salgono nel
cuore degli uomini. Allora, vinta la morte, i figli di Dio saranno
risuscitati in Cristo e ciò che fu seminato nella debolezza e nella

© La Civiltà Cattolica 2001 IV 312-225 | 3633 (3 novembre 2001)


IL DESTINO FINALE DELL’UNIVERSO

corruzione rivestirà l’incorruzione; e restando la carità con i suoi


frutti, sarà liberata dalla schiavitù della vanità tutta quella realtà che
Dio ha creato appunto per l’uomo» (Gaudium et spes, n. 39, 1). Ci
sarà dunque una liberazione dalla corruzione di tutta la realtà cre-
ata. Diversi testi liturgici alludono anche al rinnovamento dell’uni-
verso1, ma senza dare altri particolari sul suo significato. Per tentare
di chiarire la portata di tale rinnovamento, possiamo riferirci ai testi
della Sacra Scrittura che enunciano o lasciano intravedere la parte-
cipazione dell’universo materiale alla Redenzione.

I testi relativi alla sorte dell’universo

Per la partecipazione dell’universo materiale alla Redenzione, il


21
testo di maggiore importanza è Rm 8,19-23. Dopo avere posto in
luce la nostra filiazione divina affermata nel grido «Abbà», san Pa-
olo conclude che dobbiamo prendere parte alle sofferenze di Cri-
sto per partecipare anche alla sua gloria. Afferma che «le sofferenze
del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che
dovrà essere rivelata in noi» (Rm 8,18). Poi sviluppa il tema delle
«sofferenze» in modo più particolare: «La creazione stessa attende
con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata
sottomessa alla caducità — non per suo volere, ma per volere di colui
che l’ha sottomessa — e nutre la speranza di essere lei pure liberata
dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria
dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e
soffre fino a oggi nelle doglie del parto» (Rm 8,19-22).
In che cosa consiste questa «creazione in attesa?». Secondo l’in-
terpretazione più frequente, si tratterebbe dell’universo materiale,
cioè delle creature inferiori all’uomo. Questa creazione sarebbe de-
signata in contrasto con l’umanità che aspetta la salvezza completa:
«Essa [la creazione] non è la sola, ma anche noi, che possediamo
le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’ado-
zione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8,23). Secondo

1. Cfr Prefazio di Natale I; Prefazio della Passione I; Prefazio di Pasqua IV;


Prefazio della B. Vergine Maria V; Prefazio comune I; Preghiera Eucaristica III e IV;
Preghiera Eucaristica della Riconciliazione I.
LA BIBBIA

questa interpretazione, l’universo materiale sarebbe stato implicato


nel dramma del peccato. Sarebbe stato sottomesso alle conseguenze
del peccato, non in virtù di un proprio consenso, ma in virtù della
volontà di Dio o di quella dell’uomo peccatore. Nello stato presente
soffre e geme, ma è animato dalla speranza della liberazione: è de-
stinato a condividere la «libertà della gloria dei figli di Dio». La sua
sottomissione alla «caducità» del peccato è soltanto transitoria; non è
condannato per sempre alla schiavitù della corruzione. I suoi gemiti
sono quelli del parto; è destinato a ricevere una partecipazione allo
stato glorioso dei figli di Dio.
L’interpretazione cosmologica della «creazione» associata alla re-
denzione dell’umanità sembra trovare una conferma in altri testi di
san Paolo. Nell’inno cristologico di Col 1,15-20, Cristo viene det-
22
to «immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura;
poiché per mezzo di lui sono stati creati tutti gli esseri [lett. tutte le
cose] [...]. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di
lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui [...]. Piacque
a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui ricon-
ciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della croce,
cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli».
Anche l’inno della lettera agli Efesini espone il grande progetto del
Padre di «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come
quelle della terra» (Ef 1,10).
Abbiamo già accennato all’immagine dei cieli nuovi e della
terra nuova. Nel libro di Isaia, Dio annuncia che crea cieli nuovi
e terra nuova (Is 63,17); la Seconda Lettera di Pietro afferma che
aspettiamo cieli nuovi e terra nuova, in cui avrà stabile dimora la
giustizia (2 Pt 3,13); nell’Apocalisse, questi cieli e questa terra sono
oggetto di una visione (Ap 21,1): «Vidi poi un nuovo cielo e una
nuova terra». Alcuni testi dell’AT vengono talvolta citati per rendere
più concreta questa partecipazione dell’universo materiale alla Re-
denzione. Dio salva «uomini e bestie» (Sal 36,7). Egli farà alleanza
«con le bestie della terra» (Os 2,20). In seguito ai prodigi del nuovo
Esodo, le «bestie selvatiche lo glorificheranno» (Is 43,16-21). Le be-
stie dei campi e della foresta sono invitate a mangiare (Is 56,9). Il
regno messianico radunerà nella pace tutti gli animali (Is 11,6-8).
Le immagini usate in questi annunci sono interpretate come segni
IL DESTINO FINALE DELL’UNIVERSO

dell’intenzione divina di associare non solo il mondo animale ma


tutto il mondo materiale alla Redenzione.

Oscurità e difficoltà

L’interpretazione «cosmologica», quando intende la «creazione»


come l’universo materiale infraumano, suscita molte perplessità.
Già sant’Agostino, a proposito di Rm 8, diceva: «Questo capitolo
è oscuro perché non risulta abbastanza chiaro che cosa intende qui
l’Apostolo con il termine “creatura”». Citiamo due esempi di esegeti
moderni. Alla domanda: «Il mondo materiale è forse sottomesso a
una degradazione intrinseca che viene dal peccato?», A. M. Dubarle
risponde che il pensiero paolino non fornisce una risposta decisiva2.
23
A. Viard vorrebbe includere nella speranza della creazione la spe-
ranza umana, perché «dove san Paolo avrebbe attinto l’idea di una
speranza propria delle creature non razionali? Non appare né nella
Bibbia né nella letteratura rabbinica»3.
Non è facile spiegare come il mondo materiale abbia subìto la
degradazione del peccato né in virtù di quale osservazione o di
quale principio esso manifesti la speranza della salvezza. A quale
titolo possiamo attribuirgli ciò che è proprio del destino umano
e del comportamento dell’essere umano? A questo proposito, pos-
siamo formulare diversi interrogativi. La corruzione attribuita al
mondo materiale deriva soltanto dal peccato o anche da cause natu-
rali? Questa corruzione raggiunge forse tutto l’universo creato? In
che cosa consiste la partecipazione degli esseri inferiori alla libertà
della gloria dei figli di Dio? Il mondo vegetale e quello animale ri-
marranno per l’eternità con le loro proprietà caratteristiche? In che
modo questi mondi saranno trasformati dalla gloria divina? Come
esseri non spirituali potranno sperare in Dio o lodare Dio? In quale
misura la «creazione» trasformata potrà contribuire al destino finale
dell’umanità?

2. Cfr A. M. Dubarle, «Le gémissement des créatures dans l’ordre divin


du cosmos (Rm 8,19-22)», in Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques 38
(1954) 445.
3. A. Viard, «Exspectatio creaturae (Rm 8,19-22)», in Revue Biblique 59
(1952) 344 s.
LA BIBBIA

A questi interrogativi non troviamo risposta nella Lettera ai Ro-


mani. Il capitolo 5 di questa lettera, descrivendo la diffusione delle
conseguenze del peccato di Adamo e il dono sovrabbondante del-
la grazia di Cristo, non considera l’effetto del peccato e della grazia
sull’universo materiale. Soltanto gli uomini subiscono la morte a se-
guito del peccato e beneficiano del «dono della giustizia» ottenuto da
Cristo: «Se, per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di
quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della
grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del
solo Gesù Cristo» (Rm 5,17). Questa descrizione degli effetti del pec-
cato e della Redenzione avrebbe offerto la possibilità di sottolineare i
danni subiti dall’universo materiale e la sua elevazione al regno della
grazia; san Paolo invece concentra tutta la sua attenzione sul destino
24
dell’umanità; non parla della sorte del mondo materiale. La prospettiva
paolina è essenzialmente «antropologica». Ci si chiede allora se l’inter-
pretazione «cosmologica» della creazione sia sufficientemente fondata.

LA PORTATA DELLE AFFERMAZIONI DELLA SACRA


SCRITTURA

Tre punti essenziali della dottrina scritturistica richiedono


un’attenta considerazione: l’affermazione della «creazione in attesa»;
l’annuncio dei cieli nuovi e della terra nuova; la speranza della re-
staurazione universale.

La «creazione» nel dolore del parto

a) Significato antropologico di «creazione». Per l’interpretazione


della dottrina paolina espressa in Rm 8,9-23, il vocabolo «creazio-
ne» (in greco ktisis) dev’essere colto nel suo significato autentico.
Troppo spesso è stato capito e tradotto come se significasse il mon-
do creato. Mons. A. Giglioli ha reagito contro questa traduzione,
nella sua opera: «L’uomo o il creato? Ktisis in S. Paolo»4. Conviene

4. A. Giglioli, «L’uomo o il creato?», in Studi Biblici, Bologna, EDB, 1994.


Il titolo esprime bene il dilemma tra l’interpretazione «antropologica» e quella «co-
smologica».
IL DESTINO FINALE DELL’UNIVERSO

distinguere il significato di ktisis nella lingua greca classica, che è


quello di «creazione», e il significato assunto da questo vocabolo ne-
gli autori di mentalità semitica o nei traduttori di testi ebraici. Ktisis
traduce in questo secondo caso un vocabolo ebraico che significa
«creatura», termine che nel linguaggio rabbinico designa l’uomo.
Negli scritti non paolini del Nuovo Testamento, ktisis ha sem-
pre un significato antropologico: uomo, creatura umana, umani-
tà. Così, secondo la testimonianza di Marco, la missione affidata
agli apostoli: «Predicate il Vangelo a ogni creatura» [lett. a tutta la
creazione] (pasē tē ktisei) (Mc 16,15) significa una proclamazione
rivolta a tutta l’umanità; è infatti evidente che i beneficiari di que-
sta predicazione sono gli uomini; «creazione» non può significare
l’universo materiale. Un’altra affermazione di san Marco: «All’inizio
25
della creazione Dio li creò maschio e femmina» (Mc 10,6) significa
«all’origine dell’umanità», perché la creazione del mondo non è co-
minciata con la creazione dell’uomo e della donna.
Nelle lettere di san Paolo, mons. Giglioli ha esaminato tutti i
testi in cui è presente il vocabolo ktisis e mostra che il riferimento
all’uomo è presente dappertutto. Così l’affermazione: «Se uno è in
Cristo, è una creatura [lett. creazione] nuova» (2 Cor 5,17) significa:
«Se uno è in Cristo, è uomo nuovo» (cfr Ef 2,15; 4,24). Il Vangelo
è stato annunciato «a ogni creatura [lett. a tutta la creazione] che è
sotto il cielo» (Col 1,23), cioè a ogni uomo.
b) L’umanità che geme. Nel testo di Rm 8,19-23, non solo il vo-
cabolo ktisis, considerato in se stesso, si riferisce agli uomini, ma il
contesto della dichiarazione conferma tale riferimento. Dopo aver
ricordato che le sofferenze attuali sono poca cosa in paragone con la
gloria che deve rivelarsi in noi, san Paolo dice: «Infatti la creazione
attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8,19).
L’avverbio «infatti» mostra che si tratta della rivelazione che deve
compiersi in noi uomini.
La «creazione» designa dunque l’umanità che aspira alla gloria
futura e che desidera in particolare una manifestazione più comple-
ta della filiazione divina. Il testo non si riferisce all’universo mate-
riale né agli esseri inferiori all’uomo. I versetti seguenti lo confer-
mano, perché ciò che dicono conviene all’umanità e non al mondo
materiale. È l’umanità che è stata sottomessa alla «caducità», cioè
LA BIBBIA

al peccato, più precisamente al peccato essenziale che, secondo la


mentalità ebraica, è quello dell’idolatria; gli idoli sono infatti vuo-
to, nullità o vanità. La sottomissione non è conforme alla volontà
dell’umanità, che a dispetto del suo volere è stata condannata alla
schiavitù della corruzione. Non si tratta di una corruzione fisica,
ma di una corruzione morale, che colpisce la persona umana alie-
nandone la libertà, rendendola schiava. Così si capisce come san
Paolo, parlando della «creazione», pensi ai popoli pagani consegnati
all’idolatria, lontani dalla conoscenza del vero Dio.
Tuttavia la sottomissione alla corruzione è stata operata dal di-
segno divino in una prospettiva di speranza. Sembra che la speran-
za affermata nel testo non designi direttamente una disposizione
intima, propria dell’umanità, ma piuttosto un’intenzione divina5:
26
sottomettendo l’umanità a questa condizione penosa, Dio intende-
va procurare una liberazione che avrebbe comportato la comuni-
cazione della filiazione divina. La speranza era dunque inclusa nel
disegno divino. Con la speranza che «l’umanità stessa sarà liberata
dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria
dei figli di Dio» si illumina il gemito attuale: «Sappiamo bene in-
fatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del
parto» (Rm 8,28). San Paolo considera il destino di tutta l’umanità,
e più particolarmente dell’umanità pagana. Questa umanità soffre,
ma in vista di un parto, in vista dell’entrata nella dignità della filia-
zione divina.
Aggiunge pure che anche i cristiani partecipano a questi gemiti
e a queste doglie del parto: «Anche noi, che possediamo le primizie
dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli,
la redenzione del nostro corpo» (Rm 8,23). La redenzione del corpo,
destinata a succedere alla fine del mondo e a concretizzarsi nella
risurrezione universale, è oggetto di speranza, con una indetermi-
nata attesa, che comporta un aspetto doloroso. La distinzione non
è dunque tra destino dell’universo materiale e destino dell’umanità,
ma tra l’umanità ancora pagana e il «noi» dei cristiani.

5. Cfr Rm 1,28: «Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata»;


11,32: «Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti miseri-
cordia».
IL DESTINO FINALE DELL’UNIVERSO

Cieli nuovi e terra nuova

Se il mondo materiale non è significato dalla «creazione» che


geme, come interpretare l’annuncio di cieli nuovi e di terra nuova?
Questo annuncio può essere capito nel senso che l’universo conti-
nua a esistere, ma sotto una forma rinnovata: cielo e terra sussistono,
trasformati per una vita nuova. L’annuncio può essere inteso anche
in un senso più radicale: il cielo e la terra attuali scompaiono e sono
sostituiti da una nuova realtà. Secondo la prima interpretazione, l’u-
niverso materiale viene conservato nel suo essere fondamentale e
riceve una garanzia di prolungamento nella vita eterna. Nell’altra
prospettiva, questo universo cessa di esistere e lascia il posto a un
universo spirituale.
Dopo avere constatato che quasi tutti gli autori moderni inten- 27
dono l’annuncio di cieli nuovi e terra nuova nel senso di una conti-
nuità, cioè di un mondo che rimarrà se stesso con nuove proprietà,
mons. Giglioli esamina i tre testi biblici dell’annuncio; egli vuole
mostrare che non c’è continuità ma rottura, con la scomparsa del
mondo anteriore.
In Isaia (67,17), dopo le parole: «Ecco infatti io creo nuovi cieli
e nuova terra», viene l’affermazione della rottura: «Non si ricorderà
più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà
sempre di quello che sto per creare». La rottura è necessaria per la
pienezza della gioia ed è confermata in Is 51,6: «Alzate al cielo i
vostri occhi e guardate la terra di sotto, poiché i cieli si dissolveran-
no come fumo, la terra si logorerà come una veste e i suoi abitanti
moriranno come larve. Ma la mia salvezza durerà sempre, la mia
giustizia non sarà annientata». I cieli e la terra devono scomparire
per fare posto a un nuovo ordine divino. La loro caducità forma
un contrasto con la novità instaurata da Dio, perché dinanzi a Dio
sussisteranno i cieli nuovi e la terra nuova (cfr Is 66,22).
Non meno radicale è la rottura annunciata nella Seconda Lette-
ra di Pietro, per l’attesa di «cieli nuovi e terra nuova»: aspettiamo «la
venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveran-
no e gli elementi incendiati si fonderanno» (2 Pt 12-13). Infatti «ora,
i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima Parola [di
Dio], riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della rovina degli
LA BIBBIA

empi» (2 Pt 3,7). Essere riservati al fuoco significa una distruzione


totale del mondo materiale come è esistito finora. Nell’Apocalisse
(21,1) il cielo nuovo e la terra nuova implicano la scomparsa del cie-
lo e della terra attuali: «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra»,
perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era
più. Quando appare «un grande trono bianco e colui che sedeva su
di esso, dalla sua presenza erano scomparsi la terra e il cielo senza
lasciare traccia di sé» (Ap 20,11).
Nei tre testi che annunciano cieli nuovi e terra nuova, non si
tratta dunque di una semplice trasformazione che avrebbe conser-
vato la sostanza del cielo attuale e della terra attuale, ma di una
sostituzione. Il cielo e la terra di adesso devono scomparire o essere
distrutti, per fare pienamente posto al cielo nuovo e alla terra nuova.
28
Questi sono creazione di Dio. Cieli nuovi e terra nuova sono creati,
fatti «dal nulla»; non sono soltanto rinnovamento di una creazione
anteriore e non si servono di una materia preesistente per assicurare
o ampliare il loro essere. Non vengono in soccorso alla caducità del
mondo sensibile per rafforzarlo, ma si fondano su tale caducità per
sorgere nella novità assoluta, direttamente uscita dalla mano onni-
potente di Dio.
Non possiamo dimenticare che la caducità del cielo e della terra
è stata chiaramente formulata da Gesù: «Il cielo e la terra passe-
ranno, ma le mie parole non passeranno» (Mc 13,31). In se stessa,
questa dichiarazione ha un valore molto generale e dev’essere intesa
in tutta la sua portata. È stata inserita nel discorso escatologico, ve-
rosimilmente in connessione con l’annuncio del compimento delle
parole pronunciate: «In verità vi dico: non passerà questa genera-
zione prima che tutte queste cose siano avvenute» (Mc 13,30). Ma
l’affermazione non si limita a sottolineare la verità del discorso. Si
estende a tutte le parole di Gesù, che rimarranno vere per l’eternità,
non perdendo il loro valore con la scomparsa del cielo e della terra.
Questa eternità, Gesù non la comunica al cielo né alla terra, per-
ché egli stesso pone in luce il contrasto tra il valore transitorio del
mondo visibile e il valore permanente delle sue parole. Cielo e terra
passano e niente può impedire la loro scomparsa, conforme al di-
segno divino. Le sue parole, invece, sussistono per sempre, essendo
munite della potenza divina.
IL DESTINO FINALE DELL’UNIVERSO

La restaurazione universale

a) Creazione e riconciliazione di «tutto». La restaurazione univer-


sale è affermata nell’inno cristologico della Lettera ai Colossesi (Col
1,15-20), che abbiamo citato: in Cristo furono creati tutti gli esseri;
tutti sono stati creati per mezzo di lui e in vista di lui; tutti hanno
consistenza in lui; per mezzo di lui e in vista di lui sono stati ricon-
ciliati e pacificati con il sangue della croce, tutti gli esseri, sia quelli
sulla terra, sia quelli nei cieli. A differenza del testo della Lettera ai
Romani (Rm 8,19-23), quest’inno concentra l’attenzione sull’azione
di Cristo senza badare alle disposizioni e ai sentimenti delle crea-
ture: non si tratta di gemiti, di attesa della liberazione, di doglie del
parto. L’azione di Cristo viene posta in luce nella sua universalità e
nella sua globalità; si è dispiegata nella creazione di «tutto» e si di- 29
spiegherà nella riconciliazione di «tutto». Spesso «tutto» è tradotto
«tutte le cose»; per non dare una preferenza alle cose sulle persone,
abbiamo tradotto «tutti gli esseri»; questi «esseri» possono designare
sia le persone sia le cose.
Rimane però il problema: nell’opera di riconciliazione e di pa-
cificazione, l’inno significa forse che le «cose», gli esseri del mondo
inferiori all’uomo sono inclusi nella trasformazione? San Paolo ha
voluto affermare che la riconciliazione concerne il mondo animale,
il mondo vegetale e la materia inanimata? Ritroviamo la domanda
che si poneva a proposito del vocabolo ktisis. Questo vocabolo, che,
secondo il suo significato normale in greco, avrebbe potuto desi-
gnare l’universo creato, è adoperato in riferimento all’uomo o all’u-
manità. Il termine panta, neutro plurale per dire «tutto», deve forse
essere anch’esso interpretato in un senso antropologico? Mons. Gi-
glioli tenta di dimostrarlo fondandosi su una proprietà particolare
del greco biblico: il neutro usato per designare il maschile. Tra gli
esempi di questo uso, ricordiamo la parola di Gv 63,37: «Tutto ciò
che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respin-
gerò». Secondo il contesto, «tutto ciò che il Padre mi dà» significa
«colui che il Padre mi dà». Nella preghiera sacerdotale troviamo le
parole: «Tu hai dato al tuo Figlio potere su ogni essere umano per-
ché egli dia la vita eterna a tutti coloro [lett. a tutto ciò] che gli hai
LA BIBBIA

dato» (Gv 17,2). Tutto ciò che è dato dal Padre al Figlio si riferisce
ad «ogni essere umano», cioè a tutti gli uomini.
b) Il significato di «tutto» (panta). Nel Nuovo Testamento, il neu-
tro plurale panta (tutto) è usato abbastanza spesso, suscitando il pro-
blema del suo vero significato, poiché in alcuni casi possono nascere
dubbi sull’interpretazione corretta, perché la traduzione «tutti» non
sembra soddisfacente.
L’affermazione evangelica: «Tutto mi è stato dato dal Padre mio»
(Mt 11,27; cfr Lc 10,22) è fatta in un contesto nel quale si tratta non
di cose ma di persone chiamate a conoscere chi è il Padre e chi è il
Figlio. Secondo tale orientamento sarebbe possibile la traduzione:
«Tutti mi sono stati affidati dal Padre mio». Nondimeno possiamo
chiederci se questa traduzione non restringa troppo la portata del-
30
la dichiarazione e se non sarebbe meglio leggere: «Tutta l’opera di
salvezza mi è stata affidata dal Padre mio». Quest’ultima traduzione
suppone che il destino di tutti gli uomini sia stato affidato dal Padre
al Figlio, ma pone l’accento sull’opera.
Nell’episodio dell’arresto, riferito da san Giovanni, «Gesù, co-
noscendo tutto quello che gli doveva accadere, si fece avanti e disse
loro: “Chi cercate?”» (Gv 18,4). Possiamo forse fondarci sulla cono-
scenza che Gesù aveva delle persone per proporre l’interpretazione:
«Gesù, conoscendo tutti coloro che gli venivano incontro, si fece
avanti [...]»? Sarebbe ancora restringere il valore dell’osservazione
dell’evangelista: Gesù conosceva non soltanto coloro che sarebbero
venuti per arrestarlo, ma tutto lo sviluppo degli avvenimenti.
La triplice domanda rivolta a Pietro, dopo la risurrezione, su-
scita come risposta finale: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo»
(Gv 21,17). L’affermazione «tu sai tutto» può forse essere intesa nel
senso della conoscenza delle persone: «Tu conosci tutti gli uomini»?
Sembra piuttosto che Pietro voglia riferirsi alla scienza universale di
Gesù, che comporta la conoscenza del cuore di ognuno.
c) Interpretazione cosmologica di «tutto». In altri testi, «tutto», an-
che quando comporta un riferimento a persone umane, non ha
esclusivamente un significato antropologico. Nel testo di 1 Cor
15,27-28, che comporta cinque volte il vocabolo «tutto», mons. Gi-
IL DESTINO FINALE DELL’UNIVERSO

glioli riconosce che, la quinta volta, «tutto» non significa «tutti» ma


tutti i beni che Dio stesso costituisce per tutti i salvati6.
La professione di fede riportata da Paolo ha un significato evi-
dente: «C’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene» (1 Cor
8,6). «Tutto» non si limita agli uomini, perché tutte le creature
provengono dalla sovranità creatrice del Padre. Quando san Paolo
scrive ai Corinzi: «Tutto è vostro», tutto non comporta soltanto uo-
mini come Paolo, Apollo, Cefa, ma «il mondo, la vita, la morte, il
presente, il futuro» (1 Cor 3,21). Si tratta di tutto ciò che concerne
l’esistenza umana. Nell’Apocalisse, «tutto» designa l’universo creato:
«Tu hai creato tutte le cose» (Ap 4,11). Si tratta di «tutte le creature
del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi
contenute» (Ap 5,13). Dinanzi a questi testi, non è dunque possibile
31
discernere nel neutro plurale panta un vocabolo equivalente a «tutti
gli esseri umani». Almeno in alcuni casi, panta si estende al di là
dell’umanità e designa la totalità degli esseri creati.
L’inno cristologico della Lettera ai Colossesi è specialmente illu-
minante: «tutto» è stato creato da Cristo. Anche se alla fine dell’in-
no, la riconciliazione e la pacificazione fanno pensare agli esseri
personali, si tratta del «tutto» che designa l’universo nella sua totalità
(Col 1,15-20). È pure vero che l’inno non afferma un’opera di ricon-
ciliazione propria del mondo materiale. La riconciliazione è stata
operata per mezzo di Cristo e ha conseguenze per tutti gli esseri,
ma non viene detto che l’universo infraumano riceva un destino
particolare di salvezza che gli permetta di sopravvivere per l’eternità
o una trasformazione che lo faccia partecipare alla gloria dei figli di
Dio. L’inno pone in luce l’universalità dell’azione creatrice e reden-
trice di Cristo, sottolineando il suo primato al di sopra delle potenze
invisibili, ma si astiene da ogni precisazione sul destino specifico
dell’universo materiale.

IL DESTINO FINALE DELLA MATERIA

Speranza propria dell’umanità. Dalle osservazioni fatte sulla dot-


trina della Sacra Scrittura, possiamo meglio cogliere il destino fi-

6. A. Giglioli, «L’uomo o il creato?», cit., 83.


LA BIBBIA

nale della materia. Questo destino non consiste in un accesso alla


rivelazione della filiazione divina. Ciò che viene detto nella Lettera
ai Romani sull’attesa di tale rivelazione non si riferisce all’universo
materiale, ma all’umanità, in particolare all’umanità che non ha an-
cora avuto accesso alla fede in Cristo. Questa umanità «geme nelle
doglie del parto» (Rm 8,22), perché desidera godere la libertà dei
figli di Dio. Coloro che, come Paolo, sono stati battezzati e pos-
siedono le primizie dello Spirito, gemono anche loro, aspettando la
«redenzione», la trasformazione finale del loro corpo, cioè la risur-
rezione che deve coincidere con la fine del mondo.
La speranza della vita eterna è propria dell’umanità. Non po-
trebbe svilupparsi negli esseri puramente materiali. Soltanto gli uo-
mini, nel mondo visibile, possono essere animati da questa speranza.
32
Ma la speranza stessa è rivolta verso una trasformazione corporale,
destinata a procurare all’essere umano il compimento di un destino
che non viene raggiunto soltanto dall’elevazione dell’anima alla vita
divina. In quanto consideriamo il futuro del mondo materiale, sol-
tanto «la redenzione del corpo» è oggetto di speranza. Non si tratta
di una speranza dell’umanità che porterebbe su altre realtà dell’uni-
verso. La speranza si concentra sul destino personale dell’uomo, e in
modo più particolare sulla gloria promessa ai corpi risuscitati.
Fine dell’universo materiale. Al problema della fine del mondo è
legata la possibilità per il mondo materiale di conservare la sua realtà
essenziale, al prezzo di diverse trasformazioni? Gli annunci di cieli
nuovi e di terra nuova forniscono una risposta negativa: descrivono
la distruzione totale o la scomparsa dell’universo attuale. La novità
è quella di una rottura radicale che non lascia sussistere niente del
passato. Il mondo visibile è necessariamente destinato a scomparire.
Ciò che sussisterà è ciò che le parole di Cristo hanno proclama-
to, la Chiesa che egli ha fondato, l’umanità che egli ha salvato e
tutto ciò che appartiene allo sviluppo della nuova vita, in primo
luogo la carità e le sue opere. L’esistenza dell’universo materiale è
soltanto transitoria, mentre l’opera compiuta da Cristo Salvatore ha
valore di eternità. Non meno significativo è l’annuncio profetico:
«Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv
2,19). Il tempio, simbolo e centro dell’antico culto, è destinato a es-
sere distrutto e a fare posto a un nuovo tempio. In ciò si può vedere
IL DESTINO FINALE DELL’UNIVERSO

un segno che l’universo materiale scomparirà e che la materia avrà


un’esistenza definitiva soltanto nella risurrezione di Cristo.
Influsso universale dell’opera rinconciliatrice di Cristo. Che tutto
l’universo sia implicato nell’opera di salvezza è una verità enunciata
in parecchi testi citati: tutto è stato creato e riconciliato in Cristo
(Col 1,15-20), il disegno divino ricapitola tutto in Cristo (Ef 1,9-
10); «i tempi della restaurazione di tutte le cose» (At 3,21). Non
possiamo ridurre questo «tutto» a tutti gli uomini; si tratta di tutto
l’universo, di tutto ciò che è stato creato. Tuttavia la restaurazione,
la riconciliazione, la ricapitolazione in Cristo riguardano propria-
mente il rinnovamento introdotto da Cristo nell’umanità, e l’uni-
verso materiale viene preso in considerazione soltanto nella misura
in cui fornisce un quadro allo sviluppo della vita degli uomini o
33
nella misura in cui è presente alla restaurazione del destino umano.
La totalità dell’universo viene indicata in funzione del compimento
del disegno divino sull’umanità. Così l’universo materiale svolge la
funzione assegnatagli dall’opera creatrice: tutti gli esseri del mondo
sono stati creati per gli uomini, destinati dal Creatore al servizio
dell’umanità. Possono sussistere soltanto in quanto la loro sussisten-
za può ancora servire allo sviluppo dell’esistenza umana. Questo
sviluppo è totalmente fondato sulla risurrezione di Cristo. Il «tut-
to» è riconciliato, ricapitolato, restaurato in Cristo risorto. Questo
«tutto» sussisterà dunque soltanto in virtù della risurrezione, che
prolunga le sue conseguenze nella vita eterna dell’umanità.
Caducità dell’universo e permanenza eterna della materia nei corpi
risuscitati. La fine del mondo significa la scomparsa del mondo nel
suo stato attuale. Esso farà posto a un «tutto» totalmente nuovo:
«tutto» essenzialmente identico all’umanità definitivamente radu-
nata nella vita e nell’amore di Cristo. L’universo materiale sussisterà
negli elementi che si integrano al perfetto sviluppo dell’umanità.
Dobbiamo ricordare che la materia raggiunge il più alto livello di
realtà e di dignità nella carne di Cristo. Essa conserverà sempre il
suo essere materiale nella permanenza celeste del Cristo glorioso. Il
Figlio di Dio rimarrà nell’eternità Figlio incarnato. Questa carne
gloriosa, nella storia dello sviluppo della Chiesa, non cessa di nutri-
re i credenti per mezzo dell’Eucaristia. Il corpo nato dalla Vergine
LA BIBBIA

Maria svolge questa funzione e dà così alla materia, elevata alla con-
dizione superiore di vita divina, una meravigliosa efficacia.
Dopo la fine del mondo, la carne celeste di Cristo non eserciterà
più questa funzione, ma rimarrà senza fine come contributo del-
la materia alla formazione del mondo spirituale. Il supremo grado
di dignità della materia continuerà a verificarsi nell’incorporazione
alla persona di Cristo. Conviene anche porre in luce il valore della
risurrezione finale dei corpi, che ha come primo principio la risur-
rezione di Cristo, e per la quale Maria è un esempio unico, privi-
legiato. I corpi risuscitati assicureranno la permanenza eterna della
materia, proprietà definitiva dell’umanità.

34
APOCALISSE: UN MODO DI VIVERE*

A. Paul Dominic S.I.

Il termine «apocalittica» è forse meno familiare, in un discor-


so teologico generale, del suo affine «escatologia». Ma il sistema
di valori che essi condividono può costituire un punto di partenza
per chiarire le idee relative. Si giungerà così a una comprensione
35
originale, se non del tutto nuova, della verità1 dell’apocalittica, che
potrà avere importanti conseguenze per la vita cristiana. Del resto,
l’apocalittica fa parte del messaggio salvifico, anche se non tutti gli
studiosi2 l’apprezzano abbastanza.
È dunque prezioso il modo in cui R. E. Brown ha cercato di
illustrare questo punto, in particolare per quanto riguarda il nostro
tempo: «Per una cultura contemporanea che idolatra la scienza e la
conoscenza verificabile, l’apocalittica è una tenace testimonianza di
una realtà che sfida tutti i nostri calcoli; essa testimonia un altro mon-
do che sfugge a tutti i calcoli scientifici e trova espressione in simboli
e visioni […]. Su un piano psicologico, Jung cercò un’entrata in quel
mondo attraverso i simboli. Su un piano religioso, i mistici hanno
offerto intuizioni». E aggiunge: «La liturgia, propriamente intesa,
mette il credente comune a contatto con questa realtà celeste»3.

* Titolo originale: «Una visione apocalittica della vita».


1. Il genere apocalittico spesso ha fatto più presa su persone timorose e cre-
dulone di quanto la verità nascosta in esso ne abbia fatta sulle persone più riflessive.
Secondo Michael Stone, gli studiosi del Nuovo Testamento sperano di rovesciare
questa tendenza.
2. Ci sono alcune eccezioni: cfr, ad esempio, J. Feiner - L. Vischer (eds), The
Common Catechism: A Book of Christian Faith, New York, Seabury Press, 1975.
3. R. E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Brescia, Queriniana,
2001, 1056. Cfr anche J. Feiner - L. Vischer (eds), The Common Catechism…, cit.,
414.

© La Civiltà Cattolica 2014 IV 423-435 | 3947 (6 dicembre 2014)


LA BIBBIA

L’approccio di Brown si distacca in modo significativo sia


dall’indagine curiosa sia dall’ansia febbrile sulla cosiddetta catastrofe
apocalittica della fine dei tempi. Il suo sorprendente riferimento alla
liturgia in relazione all’apocalittica evoca gli eventi della prima ap-
parizione pubblica di Gesù durante una celebrazione liturgica ebrai-
ca a Nazaret (cfr Lc 4,16-21). Leggendo un brano di Isaia sull’anno
di grazia, Gesù proclama il suo adempiersi proprio in quel tempo
e in quel luogo. Possiamo riconoscere la verità di ciò che Brown
ha detto in un altro contesto (quello della Lettera a Filemone): «Lo
stesso Gesù aveva una forte visione apocalittica: il regno/dominio di
Dio era presente nella sua vita pubblica; di fronte a un irripetibile
invito divino bisognava decidersi»4.
Prima di assumere questa posizione pubblica apocalittica, solle-
36
citata dalla sua autoconsapevolezza, Gesù era cresciuto in tale spirito
con la sua lettura delle Scritture (cfr Gv 5,39), non diversamente
dal suo precursore Giovanni Battista (cfr Gv 1,19-27). Le Scritture
ebraiche sono impregnate dell’idea che nella vita umana ci sono
tempi e momenti, ognuno con il suo giusto modo di vivere (cfr Qo
3,1-8). Inoltre esse guardano al «Giorno del Signore», quando la
sovranità universale di Dio diventerà manifesta grazie al suo potere
di giudicare e di salvare, secondo le parole dei profeti, con accenti
diversi in relazione alle diverse epoche.
Gesù va oltre queste profezie, in linea con la predicazione del
Battista (cfr Mt 3,1-2; 4,17), conducendo l’intera tradizione profetica
a un punto culminante e presentando Dio come colui che agisce in
modo visibile in mezzo al suo popolo. Più volte egli parla dell’av-
vento del Regno e dei segni dei tempi (cfr Mt 4,17; 16,3). Non solo,
ma si aspetta che i suoi ascoltatori leggano i segni nel loro tempo,
ne riconoscano il significato e rinnovino di conseguenza la propria
vita (cfr Lc 12,54-59).
Il modo di vivere apocalittico è quello che deriva dalla consape-
volezza del regno di Dio, nuovo e infinito, inaugurato da Gesù. La
visione terrificante della fine dei tempi stabilita per volere divino,
che ha dato origine a una letteratura apocalittica ultraterrena, deve
trovare la sua sobria realizzazione in un modo di vivere apocalittico

4. R. E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, cit., 673.


APOCALISSE: UN MODO DI VIVERE

nella verità su questa terra. L’espressione «modo di vivere apocalitti-


co» non compare nei Vangeli, ma corrisponde al loro spirito: è una
risposta concreta, qui ed ora, al messaggio escatologico che Gesù ci
rivolge con insistenza, a parole e nei fatti, con le sue parabole e nella
sua persona. Significa semplicemente seguire colui che non soltanto
ha detto: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei
che fosse già acceso!» (Lc 12,49), ma che ha vissuto anche coraggio-
samente secondo le sue parole (cfr Lc 13,32-33; Gv 5,17), invitando
altri a seguirlo (cfr Mt 12,30). Coloro che hanno il coraggio di farlo
devono avere orecchi per ascoltare il detto (agraphon): «Colui che è
vicino a me è vicino al fuoco, e colui che è lontano da me è lontano
dal Regno»5.

37
Una parabola sul modo di vivere apocalittico

Nell’aprile 2002 la rivista Crónica de los Tiempos ha pubblica-


to una «Lettera scritta nel 2070», composta da un uomo di cin-
quant’anni, in cui vengono descritte le terribili conseguenze di
una futura mancanza di acqua a livello mondiale: «Tutti i fiumi,
i laghi, le dighe e le acque sotterranee sono asciutti o contaminati
[…]. Non posso evitare di sentirmi colpevole, perché appartengo
alla generazione che ha contribuito alla distruzione dell’ambiente o
semplicemente non ha tenuto conto di tutti i segnali di allarme»6.
Lo stesso accade, mutatis mutandis, con il regno di Dio come
Gesù lo ha rivelato in molte delle sue parabole. Come questa para-
bola moderna, la parabola evangelica del ricco epulone e del povero
Lazzaro (cfr Lc 16,19-31)7 chiarisce lo stesso punto a un livello esca-
tologico, in quanto descrive il drammatico ribaltamento sperimen-
tato da coloro che vivono secondo il proprio piacere, incuranti di ciò
che li attende dopo. L’uomo ricco, una volta morto, si ritrova negli

5. Cfr R. M. Grant - D. N. Freedman, The Secret Sayings of Jesus, New


York, Barnes and Noble, 1993, 180.
6. Il testo è reperibile in www.sentimientosmanuedu.com.ar/.../agua.htm
7. Cfr J. Jeremias, Le parabole di Gesù, Brescia, Paideia, 1973, 228. Qui l’au-
tore sostiene che questa parabola dovrebbe essere chiamata «la parabola dei sei fra-
telli», e ne sottolinea la particolare forza. Cfr anche D. Wentham, The Parables of
Jesus, London, Hodder and Stoughton, 1989, 145-150.
LA BIBBIA

inferi, posto di fronte alla rivelazione di essere irrimediabilmente


tagliato fuori dal Paradiso, mentre il povero mendicante Lazzaro
riposa nel seno di Abramo. Il ricco vuole salvare i suoi cinque fra-
telli dallo stesso disastro e chiede ad Abramo di mandare da loro
Lazzaro perché li ammonisca. Ma la sua richiesta viene respinta:
Dio infatti ha inviato loro i profeti come eccellenti messaggeri, ed
essi avrebbero fatto bene ad ascoltarli. Ecco l’insegnamento per gli
ascoltatori della parabola: se è troppo tardi per l’uomo ricco ram-
maricarsi per il suo passato, questo è il momento giusto per quelli
come lui, rappresentati dai suoi fratelli. L’immagine degli inferi in
questo scenario escatologico dovrebbe far cessare un modo di vive-
re sconsiderato e trasformarlo in un modo di vivere impegnato, che
è di per sé interiormente apocalittico8.
38
Questa e le altre parabole profetiche dello stesso tenore non sono
tuttavia le prime parabole di Gesù. Vengono infatti dopo il suo in-
segnamento parabolico sul vecchio ordine che cede il passo al nuo-
vo. Nelle sue prime parabole, Gesù annuncia la Buona Notizia e
richiede un agire immediato e adeguato9.
Tutte le parabole manifestano Dio, Padre di Gesù, che inizia
un’azione del tutto nuova nel mondo, paragonabile ad altri inter-
venti di Dio e tuttavia senza precedenti (cfr Eb 1,1-2), e molte di
esse mettono in evidenza l’inizio della fine del tempo e guardano
al sorgere del nuovo. Ad esempio, la parabola del fico, raccontata
dai Sinottici (cfr Mt 24,32; Mc 13,28; Lc 21,29), descrive l’avvici-
narsi dell’estate e la paragona all’inizio del nuovo tempo salvifico,
riconducendoci alla profezia di Gioele (cfr Gl 2,22), e tuttavia, in-
credibilmente, proiettandoci verso il futuro. Quando dai rami di un
albero spoglio, gelido a causa dell’inverno, spuntano le foglie, sap-
piamo che l’estate è vicina e progettiamo le attività estive. Chiunque
abbia orecchi per intendere la parabola può riconoscere negli eventi
gioiosi e sorprendenti che si verificano intorno a Gesù un segno
della benedizione che viene, e rispondere in modo adeguato.

8. Vi sono molte altre parabole e detti di ammonimento dello stesso tenore,


come quelli dei bambini nella piazza, del ricco stolto, del ladro di notte, del diluvio
e delle mine, in Lc 7,31-35; 12,16-20; 12,39-40; 17,26-27; 19,11-27.
9. Cfr A. P. Dominic, «Apocalyptic Sources of Religious Life», in Review for
Religious 43 (1984) 192 s.
APOCALISSE: UN MODO DI VIVERE

Entusiasmo apocalittico

La Buona Notizia incontra una pronta accoglienza, anche se


solo iniziale, tra le persone semplici ed emarginate (cfr Lc 4,18-
22a; 19,37-38; 21,37-38), che sentono parlare Gesù delle bene-
dizioni promesse da Dio non soltanto nell’aldilà, ma già qui e
ora (cfr Mt 5,1-8). La sua insistenza sulla attualizzazione delle
benedizioni celesti proprio in mezzo alle ansie della routine quoti-
diana sottolinea la nota dominante apocalittica nel suo messaggio
escatologico sul regno di Dio. Egli conferma la sua visione attra-
verso corrispondenti opere apocalittiche (cfr Lc 7,22), realizzando
e superando ciò che era stato profetizzato (cfr Is 35,5-6). Gesù
constata con gioia che le persone semplici non soltanto ascoltano
la sua Buona Notizia, ma ne sono anche partecipi e aprono una 39
via nuova verso i tempi finali (cfr Mt 13,10-12.16-17; Lc 5,17-
26; 21,1-4), grazie alla loro fede nella nuova opera di Dio che li
conduce a un cambiamento radicale del cuore e quindi a una vita
piena di gioia.
La visione apocalittica di solito è considerata in termini di
calamità cosmiche lontane, foriere della vittoria finale di Dio,
ma nel Vangelo è un entusiasmo interiore e immediato che tra-
bocca di ­gioia. Tale è la spinta delle parabole gemelle del tesoro
nel campo e della perla preziosa (cfr Mt 13,44-46). Chi trova il
Regno è come chi si imbatte casualmente in un bene cercato a
lungo, ed è sopraffatto dalla gioia. La gioia di coloro che sono
sorpresi dalla realtà del Regno è così inebriante che contagia an-
che i presenti e gli estranei. È ciò che accade a Matteo mentre è
intento ad accumulare denaro ed è invitato da Gesù a seguirlo
(cfr Mt 9,9-13).
Una tale gioiosa comunione nel mangiare e nel bere diventa ti-
pica dei discepoli di Gesù, che si allontanano dalle regole relative al
digiuno e al cibo in uso presso i farisei. Quando questi si scandaliz-
zano, Gesù racconta la parabola degli invitati a nozze, sottolineando
che il tempo in cui vivono i discepoli è come quello del banchetto
di nozze: chi può digiunare mentre lo sposo è presente? (cfr Mc
2,18-20). Un’altra occasione di gioia contagiosa è quando le folle
incominciano a cantare «osanna» a Cristo che entra a Gerusalem-
LA BIBBIA

me, riconoscendo che si tratta di un momento speciale per la venuta


del regno di Dio (cfr Mt 21,15-16).

Responsabilità apocalittica

Insieme alla gioia spontanea che rompe con il passato grazie alla
spinta dello Spirito (cfr Lc 10,17-22), c’è anche quella più ordina-
ria, ma ugualmente genuina, che fluisce con il ritmo regolare della
vita e del lavoro. Avendo conosciuto l’irruzione del regno di Dio, la
vita di ogni giorno dovrebbe essere vissuta al servizio di Dio, nello
spirito della parabola dei servi diligenti che compiono il loro nor-
male lavoro e obbediscono agli ordini del padrone. Questi servi non
si aspettano ringraziamenti e non pensano di ricevere particolari
40
compensi dal loro buon padrone. Eppure questo è ciò che accadrà
nel regno di Dio, come Gesù descrive nella parabola del servo fe-
dele (cfr Lc 12,42-44). Se i servi compiono fedelmente il loro lavoro
anche nel tempo in cui il padrone è assente, quando egli ritornerà
e li troverà al loro posto verranno ricompensati con l’attribuzione
di maggiori responsabilità e saranno ricolmi di gioia. La parabola
dei servi vigilanti va oltre. Verrà un giorno in cui l’attenta vigilan-
za dei servi nel servizio al loro padrone sarà più che ricompensata:
il padrone, al suo ritorno, li farà sedere a tavola e li servirà (cfr Lc
12,35-37).
Per noi che viviamo un tempo finale ma la cui fine non si intra-
vede, lo scopo di queste parabole del servizio — e anche di quella dei
talenti (cfr Mt 25,14-30) — è di inserire e proiettare nella quotidia-
nità del presente la gioiosa anticipazione del futuro. Così facendo,
porteremo nel nostro quotidiano, qui e ora, un tranquillo appaga-
mento e una fiduciosa speranza nel futuro. La gioia nel compiere il
proprio dovere deve essere riconosciuta come un tratto apocalittico
dell’esistenza quotidiana nell’orizzonte escatologico, come possia-
mo desumere dalla parabola della donna che mescola la farina con
il lievito (cfr Mt 13,33)10.

10. Cfr E. Schüssler Fiorenza, Searching the Scriptures, New York, Cross­
road, 1998, 521-525.
APOCALISSE: UN MODO DI VIVERE

Spinta apocalittica

Gesù sa che cosa c’è nei cuori umani. Quindi, se si congratula


con coloro che accolgono volentieri la sua Buona Notizia con fede
e semplicità, d’altra parte disillude coloro il cui entusiasmo per il
regno di Dio è più apparente che autentico. Una volta, durante un
pasto, sentendolo parlare di risurrezione, uno dei commensali escla-
ma: «Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!» (Lc 14,15). Gesù
risponde subito con la sua parabola del grande banchetto, in cui
dice che tutti quelli che sono stati invitati incominciano a scusar-
si, quando giunge il tempo, con il risultato che il padrone di casa
invita poveri ed emarginati, che partecipano felici alla cena (cfr Lc
14,16-24).
Il punto essenziale della parabola è che la gioia per il Regno può 41
interrompere azioni responsabili. Ma oggi è il nostro comporta-
mento attivo, sperimentato come spinta apocalittica, che dimostra
i nostri desideri per il futuro e sancisce le nostre aspettative esca-
tologiche. Gesù ha detto con chiarezza che soltanto chi compie la
volontà del Padre entra nel regno di Dio (cfr Mt 7,21-23).

L’impresa apocalittica del pentimento

Il modo in cui noi compiamo la volontà di Dio porta alla luce


il tesoro che si trova nel nostro cuore, come rivela la parabola dei
servi vigilanti. Beati sono quei servi che compiono il loro dovere
con l’unico pensiero di compiacere il padrone e non se stessi (cfr Lc
12,37), proprio come ha fatto Gesù (cfr Lc 13,32-33). Non si com-
portano così quelli che, ritenendosi saggi, apprezzano molto se stessi
mentre apparentemente apprezzano Dio: infatti, si fidano di se stessi
piuttosto che di Dio, mentre affermano di essere giusti e condan-
nano gli altri. Gesù li prende di mira nella parabola del fariseo e del
pubblicano (cfr Lc 18,9-14).
Gesù dichiara ripetutamente che la grazia del Regno è legata al
pentimento, cioè al radicale cambiamento del nostro modo di vive-
re ordinario. Il suo invito al pentimento va di pari passo con il suo
annuncio del Regno (cfr Mc 1,15).
LA BIBBIA

Egli mostra ai peccatori la fonte del pentimento nella parabola


dell’uomo forte e del più forte: «Quando un uomo forte, bene ar-
mato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. Ma
se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle
quali confidava e ne spartisce il bottino» (Lc 11,21-22).
Chiunque, per quanto sconfitto dal peccato e dalla debolezza,
può trovare in Cristo una via di liberazione e di conversione. E per
quanto il male sia forte, esso può essere vinto da uno più forte, come
Cristo dimostra in se stesso quando è tentato dal diavolo, e in altri
tormentati dal demonio o paralizzati dal peccato.
Liberati dunque dal potere del male che poteva averci dominato,
noi tuttavia non dobbiamo compiacerci della nostra conversione, ma
dobbiamo desiderare di esercitare la nostra libertà ritrovata, al tempo
42
stesso con entusiasmo e con responsabilità, come insegna la parabola
del ritorno dello spirito immondo (cfr Lc 11,24-26). Dobbiamo esse-
re certi che, con l’espulsione di Satana, che è forte, da parte di Cristo,
molto più forte di lui, è Gesù che guida la nostra vita.
Quando le sue parole penetrano in noi, ci eleviamo al di sopra
del nostro dominio insignificante per cercare e raggiungere il re-
gno di Dio con amore penitente, ricordando la parabola del padre
misericordioso, che descrive il commovente processo di conversio-
ne (cfr Lc 15,11-32).
Questa crescente sensibilità per la tenerezza e la misericordia
che caratterizzano il Regno divino culminerà in una inimmagi-
nabile intimità degli uni con gli altri e con Dio, come preannun-
cia il racconto del giudizio finale nel Vangelo di Matteo (cfr Mt
25,31-40).

La massima espressione apocalittica

Una crescita fiduciosa e infinita nell’appartenenza a Dio, che ci


riveste più volte con abiti nuovi di salvezza (cfr Mc 2,21; Mt 22,11;
Lc 15,22), crea una particolare sensibilità nei confronti del suo di-
segno universale. La volontà di Dio si è fatta conoscere per molti
secoli attraverso le Scritture, ma egli continua a rivelarla progres-
sivamente nei cuori e nelle società umane. Questa continua rivela-
zione ha raggiunto il culmine in Gesù, che con le sue parole e le
APOCALISSE: UN MODO DI VIVERE

sue azioni ha fatto rivivere le Scritture come non era mai avvenuto
prima.
Poiché Gesù ha convinto i suoi discepoli con autorevolezza, essi
vogliono sapere come comportarsi nel Regno divino che egli ha
inaugurato. Quindi Gesù dà loro nuovi precetti di vita che portano
a compimento quelli antichi, e insiste sul fatto che l’ingresso nel Re-
gno dipende da una maggiore fedeltà attiva a tali precetti, fondata
su una comprensione più profonda di quella praticata dalle autorità
religiose (cfr Mt 5,17-20). Perciò egli fa loro riconoscere la massima
espressione apocalittica in questo contesto escatologico. Quando,
ad esempio, un dottore della legge gli chiede che cosa deve fare per
ereditare la vita eterna, la sua risposta è la sorprendente parabola
del buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37). Gesù fa capire al dottore
43
della legge che la vita eterna dipende non soltanto dall’amore verso
Dio, ma anche dall’amore, dimostrato attivamente, per le persone
bisognose, chiunque esse siano, al di là della consueta divisione tra
amici e nemici.
Anche in molte altre occasioni l’insegnamento di Gesù è sor-
prendente, come nella parabola degli invitati al banchetto di noz-
ze (cfr Lc 14,7-10). Gesù propone un nuovo approccio agli eventi
sociali, che purtroppo è sperimentato soltanto da pochi, semplici
e schietti, che con la loro spontaneità sono impegnati nell’azione
apocalittica. Piuttosto che invitare sempre i parenti e gli amici
ricchi, sarebbe meglio che i padroni di casa pensassero ai poveri e
li accogliessero come ospiti (cfr Lc 14,12-14). Poiché i poveri non
possono ricambiare l’invito, Dio ricompenserà in modo molto
più generoso coloro che li hanno accolti, nell’ultimo giorno, che
tuttavia comincia oggi (cfr Mt 13,16-17; Lc 10,23-24).

Urgenza apocalittica

Gesù narra le parabole del Regno con le sue parole e le mette


in atto con le sue azioni. In particolare, le presenta attraverso la
sua stessa vita, quando, ad esempio, afferma: «Ecco, io scaccio
demoni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno
la mia opera è compiuta» (Lc 13,32). Gesù stesso è la parabola
vivente dell’urgenza del Regno, poiché attira tante persone, ed è
LA BIBBIA

contento di confermare la presenza di ognuna di loro nella grazia


del Regno.
A coloro che mostrano un maggiore interesse nell’essere coin-
volti personalmente, Gesù rivela ulteriori particolari sulla realtà del
suo Regno, e invita alcuni a seguirlo personalmente11. In queste
occasioni si rivolge sempre direttamente alle persone, e le sue parole
possono essere forti. A un possibile discepolo egli dice: «Le volpi
hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio
dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro dice che deve ele-
varsi al di sopra dei legami umani più stretti e lasciare «che i morti
seppelliscano i loro morti». A un terzo dice: «Nessuno che mette
mano all’aratro e si volge indietro è adatto per il regno di Dio» (Lc
9,57-62). Se il risultato fosse che nessuno dei tre è all’altezza della
44
prova e che essi sono come sale senza sapore12, questo non dovreb-
be apparire strano, perché anche i Dodici ammessi alla sequela del
Mae­stro sono tutt’altro che entusiasti delle immagini da lui scelte
per rappresentare il Regno in termini di povertà, castità e umiltà
(cfr Mc 10,17-27; Mt 19,12; Lc 22,24-26).

Raccolto apocalittico

I seguaci di Gesù saranno dovunque egli sia con la sua missione,


e faranno qualsiasi cosa egli faccia al servizio della vigna del Padre.
Il coronamento di questa missione è il raccolto delle anime, come
Gesù ha indicato in molte parabole della messe (cfr Mc 4,2-8; 26-
29; Mt 13,24-30)13. Chiunque si avvicina a lui diventa missionario,
o spontaneamente — come l’indemoniato geraseno (cfr Mc 5,1-20)
e la samaritana di Sicar (cfr Gv 4,5-42) —, oppure per espressa chia-
mata, come nel caso degli apostoli. Tutti noi, che in modo analogo
ci impegniamo nel campo della missione, condividiamo la sua vi-
sione della messe abbondante (cfr Mt 9,37 e 10,5), un raccolto apo-

11. Qui non è data la dovuta enfasi, come avviene invece nella splendida de-
scrizione del Regno in D. Ó Murchú, Reclaiming Spirituality, New York, Cros­s­
road, 2000, 147.
12. Cfr la breve parabola del sale (Mc 9,50; Mt 5,13; Lc 14,34-35) nell’interpre-
tazione di C. H. Dodd, Le parabole del regno, Brescia, Paideia, 1970, 132-135.
13. Cfr ivi, 132-139.
APOCALISSE: UN MODO DI VIVERE

calittico terreno che rappresenta la messe escatologica celeste (cfr


Mt 13,24-30).
Guidati da Gesù, dobbiamo imparare a vedere l’enorme lavoro
nei campi, che non può essere rimandato, perché il raccolto è pron-
to per la mietitura. Quindi, anche mentre lavoriamo, preghiamo
il Signore della messe di mandare più operai nella sua messe, im-
parando la lezione nascosta abilmente nella parabola dei lavoratori
nella vigna (cfr Mt 20,1-15). Poiché non c’è fine alle sorprese che il
Regno ci riserva, in breve tempo saremo stupiti dalla ricompensa
concessa dal Signore a colui che ha seminato, come pure a colui che
ha mietuto, cosicché tutti i lavoratori, senza distinzione, possano
essere felici insieme (cfr Gv 4,35-36).
Questo è espressione di uno spirito «rivoluzionario» al tempo
45
di Gesù come nel nostro. Vuol dire che, come lavoratori a fianco
di Gesù, non siamo meno privilegiati del gruppo dei suoi primi
discepoli, né siamo più grandi di chiunque altro. Ciò che più con-
ta è la condivisione del senso di urgenza della missione, espresso
in istruzioni insolite, tali da far trascurare le esigenze comuni e
i saluti (cfr Lc 10,4), e che impone un cambiamento nel modo di
vivere in termini apocalittici, secondo la percezione della forma
escatologica dell’azione di Dio. Se ci atteniamo alle istruzioni di
Gesù, lo seguiamo e raccogliamo la messe felice di anime gioio-
se (come testimoniato dagli Atti degli Apostoli), ci modelliamo
sempre più su di lui, che è il buon pastore (cfr Gv 10,11-17). I suoi
seguaci dovranno desiderare di sacrificare la propria vita, come ha
fatto lui, a causa del regno di Dio, così che ci sia un solo gregge e
un solo pastore.

Glorificazione apocalittica

Sacrificare la nostra vita seguendo Gesù, in un autentico spirito


apocalittico, significa avere la garanzia che essa verrà restituita an-
che a noi come a lui, secondo il comando che egli ha ricevuto dal
Padre. E Marta, ricevendo lo spirito che emana da Gesù, si apre alla
sua rivelazione di sé come risurrezione e vita, di fronte a una morte
che, per sua natura, ha un senso apocalittico (cfr Gv 11,30-45).
LA BIBBIA

Questa stessa rivelazione è contenuta nel messaggio potente,


anche se non altrettanto chiaro, del libro dell’Apocalisse. Marta
è condotta a riconoscere il glorioso momento apocalittico del-
la risurrezione proprio quando subisce la perdita personale più
dolorosa, con la sua professione di fede in Gesù come «il Messia
che deve venire nel mondo» (Gv 11,27). Avendo subìto violenza
per il Regno, il veggente dell’Apocalisse ha il privilegio di rice-
vere la rivelazione di Gesù, che lo solleva con la verità escato-
logica su di sé come uno che è morto, mentre è vivo oggi e per
sempre (cfr Ap 1,9.17-18). Attraverso Giovanni, Gesù offre un
messaggio escatologico ai cristiani di ogni tempo e li invita a
rispondere ad esso.
Le promesse al cristiano vincitore, che troviamo nelle sette let-
46
tere alle Chiese, hanno la funzione di incoraggiamento, che è una
caratteristica propria dell’apocalittica14. Le lettere ispirano anche
quella risposta apocalittica che cerchiamo di raggiungere qui. Tale
risposta è evocata man mano che cresce la comprensione della ri-
velazione fatta da Cristo, «il testimone fedele, il primogenito dei
morti e il sovrano dei re della terra» (Ap 1,5), sulla salvezza che Dio
dà al suo popolo in tempi successivi, realizzando il desiderio che
egli squarci i cieli e scenda (cfr Is 64,1): desiderio che è proprio degli
uomini di tutti i tempi fino ad oggi. Tutte queste varie risposte si
riassumono in una sola: «Amen. Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20),
una preghiera della liturgia antica che può animare ancora oggi
tutte le nostre attività.
Tutti noi ci uniamo in questa risposta, più o meno consape-
volmente, quando nell’Eucaristia proclamiamo la nostra fede nella
molteplice venuta di Gesù. La sfida è di rendere oggi tale affer-
mazione una realtà in costante crescita, che ci impegna a vivere il
presente con lo sguardo rivolto al futuro ultimo. Questo è l’invito
biblico antico: «Se ascoltaste oggi la sua voce!» (Sal 95,7); «Se avessi
compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace!»
(Lc 19,42). È lo stesso invito che Gesù rivolge alla sua gente nella sua
prima comparsa nella sinagoga di Nazaret. Se le persone presenti
nella sinagoga sono inizialmente attratte da tale invito, poi la sua

14. Cfr R. E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, cit., 1026-1031.


APOCALISSE: UN MODO DI VIVERE

sfida a una risposta presto li sconcerta e li allontana, fino a rifiutarlo


(cfr Lc 4,14-30). Non importa quale possa essere la nostra rispo-
sta spontanea: la parola finale è l’apocalisse divina con il suo invito
evangelico a venire e ad attingere l’acqua della vita (cfr Ap 22,17).

Modo di vivere apocalittico

Il modo di vivere apocalittico è un modo di vivere sveglio, che


trabocca di gioia esplosiva, consapevole dell’impegno di Dio a fare,
dentro di noi e nella nostra società, cieli nuovi e terra nuova, e quin-
di consapevole anche che è giunto il tempo di diventare parte della
rivoluzione presente ed eterna di Dio. In breve, il modo di vivere
apocalittico è dinamico, oltre il «già» per raggiungere il «non an-
47
cora». «Come dicono gli aborigeni, noi stiamo imparando come
sopravvivere nell’eternità»15.
Possiamo dirlo con le parole evocative del premio Nobel Rabin-
dranath Tagore, che hanno valore al di là del suo personale credo
religioso: «Non hai udito i suoi passi silenziosi? / Egli avanza, avan-
za, sempre avanza. / Ogni istante e ogni età, / ogni giorno e ogni
notte, / egli avanza, avanza, sempre avanza. / […] In tutti i miei
dolori e le mie pene / sono i suoi passi a premere il mio cuore, / è
la carezza dorata dei suoi piedi / che fa brillare tutte le mie gioie»16.
In queste parole possiamo ritrovare, se non l’idea, lo spirito
del modo di vivere apocalittico, che forse è vissuto da ogni essere
umano.

15. M. Talbot, The Holographic Universe, New York, Harper Perennial,


1992, 302.
16. R. Tagore, Poesie. «Gitanjali» e «Il giardiniere», Roma, Newton Compton,
1971, 84.
IL SENSO
DELLE RISPOSTE
SCRITTORI A CONFRONTO
CON L’APOCALISSE*

Antonio Spadaro S.I.

«Anche se dio non esiste la Bibbia resta comunque un bel libro».


Così recita la fascetta che riveste il libro Apocalissi. Ventidue modi di
leggere i libri della Bibbia, recentemente apparso nelle librerie italia-
ne1. Ventidue protagonisti della scena culturale contemporanea tra
49
scrittori, musicisti e critici, ma anche un etnologo e figure emble-
matiche come quella del Dalai Lama, commentano ciascuno un li-
bro della Bibbia. Sebbene possa risultare fastidiosa nella sua formu-
lazione, quella fascetta è chiara nel dichiarare l’obiettivo del libro:
affidare il commento del testo biblico a lettori che lo considerano
innanzitutto e semplicemente un «bel libro» da leggere.
In realtà l’operazione nasce non in ambito italiano, ma anglo-
sassone. L’editore scozzese Canongate a partire dal 1998 ha pubbli-
cato in libretti tascabili, abbelliti da copertine austere ma di grande
impatto, i libri della Bibbia preceduti da brevi introduzioni scritte
non da biblisti ma da personaggi della cultura e, in genere, noti al
pubblico, per offrire sul testo biblico una gamma di idee ed espe-
rienze vasta e articolata. La serie ha avuto un grande successo, valo-
rizzando la Bibbia come testo fondativo per la mentalità e la cultura
dei nostri giorni. La traduzione scelta è stata la celebre King’s James
Version, la versione anglicana del Seicento che ha forgiato la lingua
inglese. Poco tempo dopo l’editrice Einaudi ha portato nel nostro
Paese l’iniziativa traducendo nove di questi volumetti, utilizzando
la versione biblica, letterariamente splendida, di mons. Fulvio Nar-

* Titolo originale: «“Apocalissi”. Risposte alla Bibbia come testo letterario».


1. Cfr Apocalissi. Ventidue modi di leggere i libri della Bibbia, Milano, Isbn,
2007. Isbn è una casa editrice di recente fondazione, che fa parte del gruppo «Il
Saggiatore».

© La Civiltà Cattolica 2007 III 594-501 | 3774 (15 settembre 2007)


IL SENSO DELLE RISPOSTE

doni, pubblicata quasi 50 anni fa dalla Libreria Editrice Fiorentina


e attualmente introvabile. L’iniziativa, per quanto pregevole anche
nella veste grafica, non ha avuto lo stesso successo di quello avuto
nel mondo anglosassone. Adesso la giovane casa editrice Isbn pro-
pone in un unico libro di 250 pagine tutte le introduzioni pub-
blicate dalla Canongate separatamente nei singoli volumetti e poi
raccolte l’anno scorso in un volume dal titolo Revelations. Personal
Responses to the Book of the Bible, titolo certamente più adeguato di
quello scelto per la traduzione italiana2. Il libro è infatti una raccolta
non tanto di «modi di leggere» quanto di «risposte personali» alla
Bibbia3.

50
L’Antico Testamento

Non chiedendo ad Apocalissi precisione e competenza esegetica,


ci si può avventurare nella lettura del libro inteso come testimonianza
appassionata di una lettura «ingenua», cioè diretta, immediata e senza
filtri, del testo sacro. Le sorprese non sono poche, e il lettore viene
spinto a riprendere in mano la sua Bibbia. L’etnologo Thor Heyer-
dahl ci immerge in un’appassionante e sintetica lettura del libro del-
la Genesi letta in un contrappunto non forzato ma ispirativo con le
conclusioni della scienza sull’origine del mondo. Lo scrittore David
Grossman riconosce nell’Esodo un «turbinio di storie» (p. 39)4 che ri-
flettono le tensioni del suo popolo: «Errare è anche cercare, e il desi-
derio suscita nuove idee, nuovi pensieri. A poco a poco la ricerca e il
desiderio destarono la coscienza sopita di questo popolo soggiogato
da generazioni, incatenato alla sofferenza fisica e alla privazione fino

2. Cfr Revelations. Personal Responses to the Book of the Bible, Edinburgh,


Canongate, 2005. Ricordiamo inoltre che la versione americana dei volumetti in-
glesi è stata pubblicata nel 1999 dalla Grove Press di New York, ma gli autori delle
introduzioni in alcuni casi non corrispondono a quelli dell’edizione inglese.
3. Apocalisse (che in greco significa «rivelazione») in inglese ha il titolo di
Revelation. Crediamo che Rivelazioni sarebbe stata una traduzione più adeguata al
contenuto del libro e, in fondo, più fedele. L’editore italiano invece preferisce porre
nel titolo un’ambiguità tra il significato proprio ed etimologico della parola «apoca-
lisse» e le connotazioni che essa ha assunto nell’uso.
4. Per comodità da questo momento inseriamo direttamente nel testo i rife-
rimenti alle pagine del volume Apocalissi.
SCRITTORI A CONFRONTO CON L’APOCALISSE

all’immobilità. La ricerca e il desiderio lasciano un segno indelebile su


questo popolo, un segno che si riflette nelle scelte ideologiche, nella
predilezione per l’astrazione e nel talento a mantenere in vita un’intera
realtà nell’immaginazione, nelle aspirazioni e nei desideri e, soprattut-
to, nella capacità di rianimarsi con il potere di un sogno. Un sogno per
elevarsi al di sopra dell’afflizione della realtà» (p. 43).
Meir Shalev, noto scrittore israeliano, commenta i Libri di Samuele
e si sofferma in maniera decisamente interessante sulla figura di Davi-
de: «Come Ulisse, un altro astuto eroe di guerra rossiccio e affascinan-
te, anche Davide ha una profonda personalità emotiva e spirituale» (p.
51). Davide è presentato come colui che è in grado di suscitare amore
nel cuore degli altri, ancora oggi, nonostante tutti i suoi limiti messi
così bene in evidenza dal saggio di Shalev, e tutte le sue contraddizioni
51
di uomo più amato che capace di amare veramente.
Ben tre scrittori si dedicano alla figura di Giobbe: lo statuni-
tense Charles Frazier, lo spagnolo Benjamin Prado e il canadese
Mordecai Richler. Delle tre letture è la prima a convincerci mag-
giormente. L’autore di Ritorno a Cold Mountain comincia subito
col dire che lo «straordinario libro di Giobbe» gli fa «uno strano
effetto»: «Come se guardassi – scrive – i contadini trebbiare il grano
con una mandria in direzioni diverse, ma tutti allo stesso tempo» (p.
65). Il contrappunto metaforico tra la geografia del North Carolina
e il testo biblico si spinge fino ad accenti musicali: «Il lamento di
Giobbe è schietto e nudo nel suo dolore, come il blues del Delta.
E qui mi piace vedere una corrispondenza, mi piace immaginare
Charlie Patton seduto con una Bibbia enorme in grembo, aperta al
capitolo tre del libro di Giobbe. Poi prende la chitarra e compone
When Your Way Get Dark o Down the Dirty Road» (p. 71).
Echi e risonanze musicali di grande impatto e forse anche di
grande ingenuità appaiono nel contributo di Paul Davis Hewson,
in arte «Bono», leader del noto gruppo irlandese degli U2. Bono
legge i Salmi. Egli confessa: i «salmi e gli inni sono stati la mia
prima esperienza di musica ispirata. […] in qualche strano modo,
mi hanno preparato alla sincerità di John Lennon, alla lingua ba-
rocca di Bob Dylan e Leonard Cohen, alla voce piena di Al Green
e Stevie Wonder» (p. 98). Il musicista Bono risuona ai toni poetici
del «musicista» e «arpista» Davide, e «i Salmi sono proprio come il
IL SENSO DELLE RISPOSTE

blues» (ivi). E dunque sono «le parole e la musica» ad aver fatto ciò
che l’argomentazione è stata incapace di fare, scrive Bono: iniziarlo
all’esperienza di Dio (cfr ivi). Forse non ha del tutto torto quando,
ricordando il mondo cinematografico delle vetrate colorate della
chiesa in cui i suoi occhi si immergevano da bambino, afferma che
«il cinema l’hanno inventato i vetrai cristiani […] la luce proiettata
dai colori raccontava la loro storia» (p. 99).
Gli appassionati contributi della scrittrice inglese Antonia Byatt
sul Cantico dei Cantici e dello scrittore afro-americano di religione
buddista Charles Johnson sul libro dei Proverbi chiudono la sezione
dell’Antico Testamento. È Johnson a notare l’importanza di ave-
re una visione della realtà, riconoscendo nei Proverbi una «mappa
ricca di dettagli e meraviglie. Una sveglia eterna» (p. 106) che ci
52
ricorda l’importanza di questa visione e la necessità di avere uno
scopo nella vita.

Il Nuovo Testamento
Tre contributi hanno come oggetto il Vangelo di Matteo: lo
scrittore statunitense Francisco Goldman, di madre guatemalteca e
padre ebreo americano; lo scrittore inglese A. N. Wilson e Pier Pa-
olo Pasolini, del quale sono qui ristampati alcuni scritti. I tre scritto-
ri concordano sulla «potenza», sulla intensità e la passione di questo
Vangelo. Tocca a Wilson mettere sull’attenti il lettore: «Rifiutando
questo Vangelo, rifiuterete uno dei libri più straordinari e inquie-
tanti che siano mai stati scritti. E non perché non siete perspicaci,
come potreste pensare, ma perché siete troppo vincolati (come me,
purtroppo) dai limiti dell’immaginazione e non riuscite a vedere
cosa è in grado di fare questo libro» (p. 152 s). Ma è senza dubbio il
contributo di Pasolini a rimanere insuperato, lì dove descrive la sua
emozione per «quel Cristo mite nel cuore, ma “mai” nella ragione»
(p. 143), amato «visceralmente» e capace di rimettere «pericolosa-
mente in ballo – scrive – tutta la mia carriera di scrittore» (p. 148).
Il contributo alla lettura del Vangelo di Marco è affidato soltan-
to al musicista Nick Cave5. Si tratta di uno splendido intervento, nel

5. Cfr A. Spadaro, «L’ossessione religiosa di Nick Cave. Le evoluzioni del


“poeta maledetto” del “rock”», in Civ. Catt. 2003 I 480-493.
SCRITTORI A CONFRONTO CON L’APOCALISSE

quale l’autore si dice come afferrato dal testo biblico. L’Antico Te-
stamento aveva toccato quella parte di sé che «protestava, scalpitava
e sputava al mondo» (p. 161). Marco invece lo affascina perché ha
raccontato storie sulla vita di Gesù «con un’urgenza incredibile, con
una tale intensità narrativa da far pensare a un bambino che raccon-
ta una favola strabiliante, un bambino che prende un episodio dopo
l’altro, come se il mondo intero dipendesse dalla sua storia», tingen-
do «la missione di Cristo con l’abbaglio dell’impellenza. Il Vangelo
di Marco è un acciottolio di ossa, è così crudo, teso e scarno di
particolari che la narrazione si strugge per la malinconia dell’assen-
za» (p. 162 s). Il Cristo di Marco, secondo Cave, è «traboccante di
intensità», «irresistibile» (p. 164).
Il Vangelo di Luca è l’unico affidato a un ecclesiastico, il vescovo
53
anglicano Halloway, ma anche allo scrittore spagnolo Ray Loriga,
il quale definisce quello di Luca un Vangelo per cristiani risoluti:
«Non è una promessa, ma un obbligo» (p. 184). Il Vangelo di Gio-
vanni è affidato allo scrittore inglese Blake Morrison e alla scrit-
trice statunitense Darcey Steinke. A dire il vero questi ultimi due
ci sembrano i Vangeli commentati in maniera meno significativa
e, forse, meno pertinente. La stessa mancanza di ispirazione forte
e convincente sembra legare gli interventi sulle Lettere ai Corin-
zi e agli Ebrei, commentate rispettivamente dalle scrittrici inglesi
Fay Weldon e Karen Armstrong. Ci viene da considerare che per
riscoprire, come se fosse nuova, la forza letteraria di un Vangelo
e, soprattutto, per comunicarla in maniera efficace sia necessario
un genio come quello di Pasolini per non rischiare di rimanere sul
generico. L’ispirazione torna nel commento alla Lettera di Giacomo
scritta dal Dalai Lama, nel quale si legge un tentativo riuscito di
accostamento rispettoso e fruttuoso di lettura di un testo sacro da
parte di un credente di un’altra religione, che in questo caso è un
grande leader spirituale. Egli non rinuncia alla fine a offrire il suo
tributo di riconoscenza a Thomas Merton, «che – scrive – mi ha
aperto gli occhi sulla ricchezza della tradizione cristiana» (p. 227).
Chiudono il volume due interventi sull’Apocalisse a firma della
scrittrice statunitense Kathleen Norris e dello scrittore inglese Will
Self, assolutamente diseguali, e dei quali noi preferiamo decisamen-
te il primo. La Norris inizia scrivendo: «Adoro questo libro odioso»
IL SENSO DELLE RISPOSTE

e conclude quasi con un altro contrasto dal sapore dell’ossimoro:


«L’Apocalisse ci offre una speranza amara e tonificante, come la
speranza che palpita al pronto soccorso o al reparto di terapia in-
tensiva o all’ospizio. Le cose che prima ci sembravano importanti,
adeguate, prestigiose, le cose che prima avevano valore si rivelano
insignificanti davanti al battito del polso, davanti al prossimo respi-
ro» (p. 234 s).
Apocalissi non riporta il testo biblico, ma molte citazioni. La
scelta è caduta sulla letterariamente pregevole traduzione protestan-
te di Giovanni Diodati, che usa il Textus Receptus come la celebre
versione inglese King’s James. La traduttrice, Clara Nubile, però
confonde la traduzione classica del 1607 del Diodati con quella che
effettivamente utilizza, cioè la «Nuova Diodati» (1991-2003). Il ca-
54
none biblico presentato in fondo al libro è quello protestante e, al
contrario di ciò che avviene nell’edizione Einaudi, non si fa mi-
nimamente cenno al fatto che esso non è l’unico, e al fatto che la
Bibbia cattolica ha un numero maggiore di libri. La scelta ci sembra
quantomeno opinabile.

La Bibbia come libro «aperto»

Che cos’è la Bibbia? Al di là di ogni altra definizione più profon-


da e articolata, essa è in effetti certamente e semplicemente un libro.
Il credente è chiamato a leggerla con spirito di fede, eppure essa è
a disposizione di qualunque lettore con una disposizione interiore.
La Bibbia è, nel suo insieme, un’opera di enorme valore e pregio,
testo fondamentale della letteratura mondiale. Seppure la pittura, la
musica, la scultura siano arti che rivelano la grandezza dello spiri-
to umano, Dio non si è rivelato in suoni armonici o in splendide
immagini dipinte o scolpite, ma nella scrittura, in parole precise.
Il cristianesimo come religione della parola annunciata, della fede
ascoltata e di una Sacra Scrittura ha indubbiamente un’intima e
particolare relazione con la parola e la letteratura. Il libro è entrato
SCRITTORI A CONFRONTO CON L’APOCALISSE

nella sfera del Verbo di Dio fatto carne, nel ciclo della salvezza. Da
questo deriva la dignità e l’importanza del libro in quanto tale6.
Gli approcci letterari alla Bibbia, fortunatamente, sono innu-
merevoli e di vario genere. Certo, però, non è per la sua qualità
letteraria che la Bibbia è considerata fondamentale per la vita di un
cristiano. Lo è perché è Parola di Dio. Tuttavia essa lo è in parola
di uomini. Risulta dunque, ad esempio, difficile da accogliere la
distinzione netta e radicale, anzi l’«infinita distanza» che Savonarola
ha posto tra «i versi dei poeti pagani» e quelli dei «nostri Profeti».
Savonarola infatti sostiene, sì, che i profeti «descrissero le cose di-
vine con versi ma non per questo utilizzarono l’arte poetica […];
e se nella composizione di tali versi hanno adottato l’arte poetica
lo han fatto per trarre a sé gli animi deboli degli uomini». In ogni
55
caso «i Profeti non usarono affatto versi alla maniera di Virgilio o di
Ovidio»7. È veramente così?
Questa frattura non rende ragione, a nostro avviso, dell’ispi-
razione biblica, che a sua volta ha generato molta letteratura8. Isa-
ia – scriveva acutamente il grande critico Giacomo Debenedetti
– «appartiene a quella schiera di giganti per cui la poesia non è un
consapevole e volontario sforzo d’arte, ma piuttosto una necessità
del loro linguaggio, un altissimo valore interno delle parole che
vogliono essere dette»9. A volte, dunque, letture non strettamente
religiose della Bibbia aiutano a riscoprire la natura di libro letterario
proprio del testo sacro, aiutano forse anche a scoprire la potenza

6. Cfr Id., La grazia della parola. Karl Rahner e la poesia, Milano, Jaca Book,
2006.
7. G. Savonarola, Apologetico. Indole e natura dell’arte poetica [«Apologeticus
de ratione poeticae artis» (1491)], Roma, Armando, 1998, 91. Ricordiamo comun-
que che Savonarola scrisse canzoni, sonetti e laude, raccolte nell’edizione nazionale
delle sue opere: Id., Poesie, Roma, Belardetti, 1968.
8. Sarebbe bello avere per la nostra letteratura antologie come quelle che tro-
viamo in ambito anglosassone. Cfr, ad esempio, R. Atwan - L. Wieder, Chapters
into verse. A selection of Poetry in English Inspired by the Bible from Genesis through
Revelation, Oxford, University Press, 2000; D. Jasper - S. Prickett, The Bible and
Literature. A reader, Oxford, Blackwell, 1999.
9. G. Debenedetti, Profeti. Cinque conferenze del 1924, Milano, Mondadori,
1998, 109. Cfr il nostro «Giacomo Debenedetti. Novecento letterario e profetismo
biblico», in Civ. Catt. 2004 I 245-258.
IL SENSO DELLE RISPOSTE

insita nelle parole, nelle frasi, nelle immagini, nelle storie narrate. E
questo risulta vero per Apocalissi.
Diciamo però che il limite dell’operazione, specialmente nella
sua versione italiana, consiste nel puntare più a un’antitesi che a una
distinzione arricchente tra l’approccio religioso e quello «laico» e
culturale. Si tratta di un grosso limite, perché un testo letterario
è sempre tutt’uno anche con la sua tradizione e la sua ricezione.
Oscurare il fatto che il testo biblico sia un testo di significato re-
ligioso per consegnarlo a una lettura semplicemente «laica», come
se essa fosse in qualche modo «liberante», significherebbe alla fine
smarrirne il senso. Ma, se si prescinde da questa implicita antitesi fa-
stidiosa, Apocalissi può aiutare anche il lettore credente a riscoprire
in chiave nuova il testo biblico.
56
Credenti e non credenti possono incontrarsi «nel» testo bi-
blico. Al di là di ogni altra considerazione, è vero che il raccon-
to biblico può arricchire l’immaginazione e, facendo breccia nel
profondo della coscienza, condizionare profondamente le reazioni
all’esperienza: la reazione nei confronti della vita sarà ben diversa,
ad esempio, «se ci hanno inoculato soltanto una definizione della
fede o se abbiamo tremato insieme ad Abramo che levava il coltello
su Isacco»10. Questo tremore può essere generato dal racconto di
una storia e non da un’idea astratta. A sua volta, senza la potenza
dell’immaginazione la fede rischia di divenire rachitica, flebile: «Un
impoverimento dell’immaginazione significa anche un impoveri-
mento della vita religiosa»11.
Richard Halloway, che è stato vescovo anglicano di Edimburgo,
nella sua introduzione ad Apocalissi afferma che ai giorni nostri
possiamo ancora leggere i miti classici e scoprirne significati nuovi
e profondi, mentre è molto improbabile leggere i trattati delle anti-
che scienze traendone profitto, perché il loro impatto sulla realtà è
stato soppiantato dalla moderna conoscenza. La Bibbia rientra nella
prima categoria, quella del mythos con tutta la sua capacità di desta-

10. F. O’Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mestiere di scrivere, Roma -
Napoli, Theoria, 1993, 112. Cfr il nostro «La letteratura nel territorio del diavolo.
La poetica di Flannery O’Connor», in Civ. Catt. 2001 IV 36-45.
11. F. O’Connor, «Il romanziere cattolico nel Sud protestante», in Id., Nel
territorio del diavolo, cit., 103.
SCRITTORI A CONFRONTO CON L’APOCALISSE

re l’immaginazione e comunicare significati. Anche qui il discorso


è potenzialmente ambiguo. Il mistero cristiano, infatti, non è un
mito. Esso è davvero accaduto in un tempo preciso, in un luogo
preciso, accompagnato da conseguenze storiche ricostruibili. Quel
che era «mito» nel cristianesimo invece è divenuto «fatto». Tuttavia
ciò non significa che abbia perso profondità e suggestione di signi-
ficati che sono propri del mito. Non si può ridurre il cristianesimo
alla dimensione mitica, semmai si può affermare che il mistero cri-
stiano ha la forte potenza immaginativa propria del mito, ma ad
essa aggiunge la storicità. Così, dunque, la storicità non annulla la
potenza di visione propria del mito, ma al contrario le dà la forza
essenziale della verità12.
Apocalissi, se non si ha la necessità di trovare accuratezza ese-
57
getica, può aiutare a leggere la Bibbia in maniera inedita, intrisa
di domande intriganti, capace di dispiegare l’immaginazione e di
ispirare la vita; un contributo a riscoprire la potenza espressiva e
rappresentativa del testo biblico. L’unico rammarico proviene dal
constatare che, per leggere opere del genere, sarebbe necessario re-
alizzare traduzioni da un’altra lingua. Urge superare gli steccati ar-
tificiali tra la cultura «laicista» e quella «clericale», che, proprio nella
mancanza di conoscenza della Bibbia come opera fondamentale
della nostra cultura, ha il suo primo risultato negativo.

12. È questa, ad esempio, la visione di C. S. Lewis. Cfr A. Spadaro, «“Le


cronache di Narnia”. C. S. Lewis e il “battesimo dell’immaginazione”», in Civ. Catt.
2006 I 445 s.
IL SENSO DELLE RISPOSTE

RELIGIONE E MONDO POST-APOCALITTICO*

Marc Rastoin S.I.

Da qualche decennio, c’è un genere letterario che è andato svilup-


pandosi in modo esponenziale: il genere post-apocalittico. Si tratta di
opere di carattere culturale, in particolare di film e di romanzi, che de-
scrivono la situazione dell’umanità in seguito a una catastrofe di gran-
58
di dimensioni, la quale, a prescindere dai motivi che l’hanno causata
(guerre, virus letali, cambiamenti climatici, invasioni di extraterrestri, e
così via), ha distrutto la civiltà così come la conosciamo e ha lasciato uno
sparuto gruppo di sopravvissuti che va in cerca di una via di salvezza.
Sebbene alcune opere di questo tipo siano anteriori al 1945, è
opinione diffusa che la realizzazione delle bombe atomiche accu-
mulate dalle superpotenze dopo Hiroshima e Nagasaki sia stata la
causa scatenante di questo nuovo genere1. Da quando la crisi ecolo-
gica e climatica viene percepita in modo sempre più acuto, le opere
che si collocano in questo vasto genere si sono via via sviluppate in
parallelo2. Alcune di esse sono persino divenute delle opere iconiche,
vincendo premi letterari e lasciando un segno nella cultura popolare.
Basti pensare alla serie di Mad Max al cinema3, o all’influenza eser-
citata dal romanzo di Cormac McCarthy La strada – pubblicato nel
2006 e vincitore del premio Pulitzer 2007 –, che è stato portato sul
grande schermo nel 2009.

* Titolo originale: «Che ne è della religione nel mondo post-apocalittico?».


1. Cfr H.-S. Afeissa, La fin du monde et de l’humanité. Essai de généalogie du
discours écologique, Paris, Puf, 2014.
2. Cfr N. Magné, «Le catastrophisme climatique dans le cinéma grand pu-
blic», in Ethnologie française 39 (2009) 687-695: consultabile online in www.cairn.
info/revue-ethnologie-francaise-2009-4-page-687.htm
3. La dimensione implicitamente critica della religione come sostegno di una
dittatura elitaria (e del fanatismo irrazionale) è stata posta in evidenza dai critici dell’ul-
tima opera cinematografica: Mad Max: Fury Road, di George Miller, uscita nel 2015.

© La Civiltà Cattolica 2017 IV 37-42 | 4017 (4/18 novembre 2017)


RELIGIONE E MONDO POST-APOCALITTICO

Ci sono poi diversi autori – noti, in realtà, per altri generi letterari –
che si sono cimentati anch’essi in tale filone con notevole successo: è il
caso di uno dei più grandi scrittori di thriller del mondo, Stephen King,
con L’ ombra dello scorpione (1978), e della scrittrice di gialli di gusto
decisamente britannico, Phyllis D. James, con lo straordinario I figli
degli uomini (1992), trasposto in versione cinematografica da Alfon-
so Cuarón nel 2006. Queste opere esprimono con chiarezza qualcosa
della nostra cultura contemporanea e delle sue paure. Ma in che modo
percepiscono la religione? E la fede? C’è posto per Cristo nel «mondo
che verrà dopo» e, in esso, che ne sarà della «religione»?

Le opere post-apocalittiche come critica del presente

Il tratto tipico di queste spaventose situazioni future non consi- 59


ste nel compiere un esercizio fantascientifico per così dire «gratui-
to», bensì nel muovere una critica, spesso pungente, del presente in
cui viviamo. Esse si collocano dunque in una lunga storia inaugu-
rata (benché se ne possano trovare dei precedenti meno celebri) da
L’Utopia di Tommaso Moro (1516).
Con 1984, George Orwell (1948) denunciava il pericolo totalitario
in un mondo successivo alla bomba atomica; mentre Fahrenheit 451, di
Ray Bradbury (1953), s’interrogava sulla cultura e sulla libertà di leggere
e di pensare in un mondo reso uniforme e massificato. Colpisce come
sia rappresentato anche il paradigma del monastero che sopravvive in
mezzo a un mondo dominato dai barbari. In Un cantico per Leibowitz,
di Walter Miller (1959)4, il tema è al centro della trama, e un’abbazia del
XXVI secolo ha l’obiettivo di salvare i libri e di ristabilire una cultu-
ra dello studio. Non stupisce scoprire che il soldato Miller era rimasto
profondamente colpito dalla distruzione dell’abbazia di Montecassino
durante la Seconda guerra mondiale. Sempre qui, nel 3781, l’abbazia as-
sume un suo ruolo durante una catastrofe nucleare. Il Papa è all’origine
di un piano che mira a salvare l’umanità su altri pianeti.
Questo è uno dei rari romanzi in cui la Chiesa, malgrado le dif-
ficoltà di comunicazione, ha conservato una struttura centrale. In

4. Quest’opera ispirerà molti altri autori, come Carl Amery con Der Untergang
der Stadt Passau (La caduta della città di Passau) (1975). Una protagonista de L’ ombra dello
scorpione si chiama «Madre Abigail» come la bella e scaltra moglie di Davide nella Bibbia.
IL SENSO DELLE RISPOSTE

effetti, nella maggior parte dei casi l’intensità della catastrofe ha pra-
ticamente privato gli esseri umani di regole, e quasi tutte le antiche
strutture politiche o religiose sono scomparse. Talvolta un unico in-
dividuo è custode del libro con tutti i rischi che ciò comporta, come
in Codice Genesi (2010), di Albert e Allen Hughes, dove uno strano
soldato si sente chiamato a salvare la Bibbia dalla distruzione totale.
Notiamo che, quando l’umanità non è annientata al 99%, come
accade nella maggior parte della letteratura e della filmografia post-
apocalittiche, ci sono delle opere di fantascienza più «classiche», che
conservano la Chiesa così come la conosciamo, con i suoi Ordini
religiosi «storici». Viene alla mente che, in The Sparrow (1996), Mary
Doria Russell poneva al centro del suo racconto una spedizione nel-
lo Spazio organizzata dalla Compagnia di Gesù5, e il protagonista
60
era un eminente linguista gesuita cubano. Anche nel film Arrival,
di Denis Villeneuve (2016), la dimensione linguistica è primordiale:
in che modo si può entrare in contatto con un universo dove i siste-
mi di comunicazione sono radicalmente diversi dai nostri6? Eppure,
nella maggior parte di questi racconti non sono le spedizioni nello
Spazio a costituire l’orizzonte di riferimento, ma piuttosto le attivi-
tà assolutamente prosaiche ed elementari della vita umana: nutrir-
si, scaldarsi, proteggersi dai banditi, vale a dire sopravvivere in un
mondo senza legge. Assistiamo a una sorta di «ritorno alla natura»,
dove tutte le protesi del nostro mondo tecnico, alle quali siamo così
attaccati (computer, telefonini, macchine ecc.) sono inesistenti.

Si può sperare ancora?

Nel suo straordinario romanzo del 2014, Stazione undici, anche


Emily St. John Mandel descrive un mondo ridotto a un manipolo
di individui che cerca di sopravvivere. Un piccolo gruppo itineran-
te, circa vent’anni dopo la «catastrofe», cerca di permettere agli esseri

5. Dieci anni prima, nel suo romanzo Il pianeta del silenzio (1986), il grande
autore di fantascienza polacco Stanisław Lem parlava di una spedizione analoga,
dove c’era un padre domenicano.
6. Cfr Cloud Atlas (L’atlante delle nuvole), di David Mitchell (2004), portato
sullo schermo nel 2012 da L. e L. Wachowski, dove l’inglese parlato diversi secoli
dopo il nostro tempo è molto cambiato e semplificato.
RELIGIONE E MONDO POST-APOCALITTICO

umani sopravvissuti di accedere nuovamente, grazie alla cultura, alla


loro bistrattata umanità: essi hanno scelto di continuare a rappresentare
Shakespeare. A un certo punto della loro «odissea», si imbattono in un
drappello di persone guidate da un profeta che si è autoproclamato tale
e che esercita un’autorità assoluta e perversa su un gruppo ristretto. Il
fatto che, di primo acchito, il loro fanatismo non risulti evidente con-
tribuisce a rendere questi individui ancora più terrificanti.
Nel già citato I figli degli uomini, di P. D. James, è presente anche
la dimensione religiosa. Il Regno Unito è dominato da una dittatu-
ra moderata. In un mondo devastato dalle sciagure, non nascono più
bambini. La sterilità è la sorte toccata a tutta l’umanità, e gli ultimi
bambini nati sono una sorta di idoli viventi. Nello stesso tempo, agli
angoli delle strade è facile procurarsi dei kit per praticare l’eutanasia
61
(opportunamente denominati Quietus), e la popolazione, frastornata da
alcuni media sottomessi, si rivela a dir poco apatica. I cristiani sembrano
dividersi in due categorie. Alcuni di essi hanno costituito dei gruppi di
«flagellanti», analoghi ai loro popolari antenati medievali7, che fanno
appello al pentimento e si disinteressano della politica ordinaria e dei
giganteschi campi in cui gli immigrati del resto del mondo sono rin-
chiusi e vivono in condizioni tremende. Altri hanno scelto di unirsi alla
resistenza che si oppone alla dittatura, e si fanno chiamare – sarà un
caso? – «Pesci»8. Essi non rifiutano né la razionalità né la collaborazione
con altri per il bene dell’umanità. Ma non tutti hanno il cuore puro…
Al centro di questo libro, che è estremamente complesso sul
piano teologico, c’è anche la questione della speranza: è legittimo
credere ancora che esista una vera e propria speranza a livello mon-
dano, oppure vi si deve rinunciare? Ma rinunciare a una simile spe-
ranza nella storia è una cosa realmente sopportabile per la specie
umana? Colpisce il fatto che, sull’esempio di Hannah Arendt nella
Vita activa. La condizione umana (1958)9, l’autrice abbia scelto la na-

7. Si dice che siano nati in Italia, a Perugia, verso il 1260, con l’eremita Ra-
niero Frasani.
8. Nell’antichità la parola Ichthus, che in greco significa «pesce», veniva usata
come codice di riconoscimento tra cristiani. Questo perché le lettere della parola gre-
ca risultavano un acronimo dell’espressione «Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore».
9. Sembra che Hannah Arendt abbia detto di aver avuto questa illuminazione
interiore sul senso filosofico radicale della nascita ascoltando Il Messia di Händel, ed
è con una citazione di Is 9,6 («un figlio ci è nato»), da lei collocata in modo stupefa-
IL SENSO DELLE RISPOSTE

scita di un bambino come il segno di speranza più forte di tutti10.


Qui troviamo una profonda connessione con il nucleo della fede
cristiana: una natività nel bel mezzo di un mondo violento. San
Matteo avrebbe apprezzato la «parabola».

Il rischio del fondamentalismo

Le ossessioni contemporanee nei confronti della religione emer-


gono come per contrasto in queste opere: la paura dei sedicenti pro-
feti e del cieco fanatismo fornisce delle risposte semplicistiche a una
situazione in cui il timore tende a prevalere e a spegnere l’umanità
e la ragione. Così, come nei periodi di crisi monetaria la «legge di
Gresham» enuncia che «la moneta cattiva scaccia quella buona»11, si
62 constata che nella maggior parte di queste opere, in caso di crisi, la
«cattiva religione» tende a scacciare quella «buona».
Quali motivi trovano questi autori per sperare? Innanzitutto, il
ricordo dei monasteri, intesi come luoghi di rifugio, fornisce un’a-
nalogia che ritorna spesso, da Walter Miller in poi. In secondo luo-
go, esistono ancora uno o due libri. La cultura, nella quale è com-
presa la cultura religiosa, può permettere di ricollegarsi al passato
antecedente alla catastrofe. In effetti, si stenta a capire in che modo
una fede cristiana possa sopravvivere senza fare alcun riferimento al
Nuovo Testamento. Tutti questi autori sono molto attenti ai camuf-
famenti della religione, come pure al rischio di uno stretto controllo
esercitato da un manipolo di fanatici, o di potenti, su questa pro-
fonda «molla» presente nell’uomo. L’ultimo Mad Max è esemplare
in tal senso.

cente – ma non senza motivo! – nel Vangelo, che la scrittrice conclude il capitolo 5.
Cfr A. Cavarero, «“A Child Has Been Born unto Us”. Arendt on Birth», in Philo-
SOPHIA 4 (2014) 12-30.
10. Elemento che compariva anche ne L’ombra dello scorpione, con il figlio tan-
to atteso di Frances Goldsmith.
11. La «legge di Gresham», teorizzata dal mercante e banchiere inglese Tho-
mas Gresham nel XVI secolo, sottolinea la tendenza degli operatori economici a pa-
gare esclusivamente con monete danneggiate (dunque con minor valore intrinseco
del metallo impiegato) rispetto al loro valore nominale e, al contempo, ad accettare
solo monete nuove, il cui valore intrinseco rispecchia quello nominale. Di conse-
guenza, sempre più monete «buone» vengono trattenute da chi le riceve, mentre per
le transazioni si utilizzano in misura crescente le monete «cattive».
RELIGIONE E MONDO POST-APOCALITTICO

Nel suo romanzo 2084. La fine del mondo (2015), un omaggio


a George Orwell, lo scrittore algerino Boualem Sansal traspone in
forma narrativa il suo rifiuto di un totalitarismo religioso di stampo
musulmano. Ma poiché la maggior parte di queste opere è stata
scritta nell’ambito della civiltà occidentale, al centro della denun-
cia viene posto un neofondamentalismo di matrice cristiana, come
vediamo nel libro La parabola dei talenti (1998), della scrittrice ca-
liforniana Octavia Butler, o ne Il racconto dell’ancella (1985), della
canadese Margaret Atwood. Nemmeno il «profeta» di Emily St.
John Mandel è molto lontano da un orientamento di questo tipo.
In un certo senso, per percepire quali aspetti della religione sia-
no più che mai necessari, occorre leggere questi racconti che rivela-
no le paure della nostra epoca tra le righe: si tratta di una religione
63
che valorizza il rispetto della ragione e dell’altro in generale, che
promuove il dialogo e la comunione, che rifiuta la paura e la vio-
lenza, e che permette a ognuno di trovare delle risorse in più per
sacrificarsi per gli altri, e non soltanto per la propria famiglia o per il
proprio gruppo etnico. La tendenza alla frammentazione e a ridur-
re la religione alla sfera privata, a essere sempre più spesso confinata
in un sentimento intimo, poco o affatto incline a comunicarsi agli
altri, significa di fatto la trasformazione del cristianesimo in una
realtà insignificante.
Questi racconti ci invitano, dunque, a valorizzare più che mai
il lavoro con gli altri per il bene dell’umanità e a preservare una
comunione autentica, anch’essa basata su un dialogo permanente
fra credenti. L’obiettivo è quello di evitare che la fede diventi una
forma di sentimentalismo vago e arbitrario e un rifugio fantastico
davanti alla crisi che l’umanità già conosce (o che non mancherà
di conoscere). Se è chiaro che la stragrande maggioranza di queste
opere ha come sfondo un sistema di riferimento che dà ampio spa-
zio al cristianesimo, è altrettanto chiaro che esso riguarda tutte le
religioni del mondo. The writing on the wall12.

12. «La scritta sul muro» è un’espressione (ispirata da Daniele 5,24-25) ricor-
rente in queste opere, come nel film Stalker di Andrei Tarkovsky (1979), o nel ro-
manzo Labirinto di morte di Philip K. Dick (1970).
OPERE
«I GIORNI DELL’APOCALISSE»
SECONDO CLAUDEL*

Gottardo Blasich S.I.

È uscita recentemente la seconda edizione della traduzione ita-


liana dei Giorni dell’Apocalisse1. Abbiamo in mano una documen-
tazione estremamente significativa della passione di Claudel per la
Scrittura. Il lavoro si presenta inizialmente come una indagine, una
65
esplorazione personalissima del libro giovanneo. Ci si accorge però
immediatamente di trovarci dinanzi a un commento-poema, tale
è l’impeto con cui Claudel accosta il testo ispirato. Se era un dato
acquisito e scontato l’ispirazione biblica della concezione poetica e
drammatica di Claudel, Au milieu des vitraux de l’Apocalypse (questo
è il titolo originale del volume, già significativo nella sua formula-
zione) dà l’occasione per accertare la persistente tesissima attenzio-
ne con cui Claudel aveva risentito il messaggio biblico. La stesu-
ra dell’indagine sull’Apocalisse impegnò l’autore dal 1928 al 1932,
quando le sue migliori opere poetiche e drammatiche erano già
state realizzate. A contatto con i travolgenti misteri dell’Apocalisse,
il poeta si rinnova nelle sue liberissime esplicazioni.
L’opera è ordinata secondo una esteriore forma dialogica e epi-
stolare. Non possiamo tuttavia dire che Claudel si lasci frenare da
un unico modulo espressivo. Anzi, è difficile dare un ordinato dise-
gno della sua esplorazione sul terreno del testo originario. L’incon-
tro che Claudel stabilisce con il testo biblico è qualcosa che sollecita
l’intera sua sensibilità, tutta la sua intelligenza. L’irruenza degli sti-
moli che egli riceve è tale che mette in discussione e valorizza tutta
la sua cultura. Crediamo che per comprendere il metodo usato da
Claudel nella sua esplorazione dell’Apocalisse, convenga precisare il

* Titolo originale: «“I giorni dell’Apocalisse” di Paul Claudel».


1. P. Claudel, I giorni dell’Apocalisse. Milano, IPL, 1969, 16°, 420. L. 2.500.

© La Civiltà Cattolica 1970 I 367-371 | 2872 (21 febbraio 1970)


OPERE

suo criterio interpretativo, un criterio di ermeneutica esistenziale e


simbolica.
Per Claudel la Scrittura è fondamentalmente un «libro di im-
magini» (ivi, p. 39)2, un grande vocabolario, che non può essere
considerato seguendo capitolo per capitolo, o inseguendo versetto
per versetto chissà quale significato. «Le cose e gli esseri, lì dentro,
sono dei simboli, e gli avvenimenti parabole. L’uomo dopo la Ca-
duta non è uscito da un paradiso di segni e di sacramenti» (ivi, p.
40). Se è vero che la Scrittura è «come un aerolite, una cosa che cade
dal cielo», un messaggio di Dio che deve essere letto fra le righe per
cogliere le segrete riposte intenzioni, per affermare il mistero che vi
è nascosto, questo vale soprattutto per l’Apocalisse, «che è l’ultimo
libro della Bibbia e riassume tutti gli altri, che ne è in qualche sorta
66
l’Omèga in cui l’Alfa s’è incorporato; che riprende la storia della
Redenzione da prima della stessa creazione del mondo, al momento
della caduta degli angeli, per seguirla fino al giudizio finale; l’Apo-
calisse, dicevo, ci apre gli occhi quasi a viva forza e ci fa ripercorrere
il cammino all’indietro, ci mostra i simboli allo stato puro e liberati
da ogni supporto storico. Non c’è assolutamente mezzo di attaccar-
ci a un senso letterale. In questo libro siamo invitati a ripercorrere
tutta la prospettiva delle allusioni figurative che precedono la Rive-
lazione suprema» (ivi, p. 40).
Il carattere simbolico della Scrittura pare a Claudel concentrarsi
nell’Apocalisse; il panorama della storia dell’uomo presentato dalla
Bibbia si ritrova, intensificandosi, nelle sue pagine. Vi si può risco­
prire tutto il senso dell’esistenza, del mondo e della storia dell’uomo.
Non basta il buon senso critico dei filologi eruditi per afferrare o
per esaurire la ricchezza dell’espressione ispirata. Intonandosi con
il ritmo assunto da san Giovanni, seguendo il suo tormentato pae-
saggio, ogni frammento, ogni piccolo limitato movimento del suo
pensiero diventa un prisma iridescente, capace di far brillare un’eco
e un’armonia di risonanze.
Da questa premessa di stima della Scrittura, dallo stupore e
dall’ammirazione che le sue vetrate provocano, deriva l’interpreta­
zione simbolica di Claudel. Su questo precedente di adesione per­

2. Rinviamo alle pagine della predetta opera.


«I GIORNI DELL’APOCALISSE» SECONDO CLAUDEL

sonale al testo sacro si appoggia la libertà del suo divagare, del suo
ricreare e rinnovare fantasticamente il materiale che sta osservando.
Parlando di simbolo e di interpretazione simbolica dobbiamo
prendere i termini secondo l’accezione usata da Claudel che vi
si riferisce, scartando il termine in quanto direbbe un rapporto o
una rassomiglianza arbitraria e convenzionale: «v’è una profonda
parentela essenziale fra le due cose create appunto l’una in funzio-
ne dell’altra, come se dovessero la loro origine a una stessa parola
e fra l’una e l’altra ci fosse una specie di continuità» (ivi, p. 58). Il
presupposto, cioè, di Claudel è di natura ontologica, è una valu-
tazione unitaria del reale. Tutto è rapportato a tutto, in modo da
formare un vastissimo variegato disegno. L’ente (ogni cosa, ogni
frammento di essere, ogni partecipazione dell’essere) è di natura sua
67
simbolica, in quanto tale. Si dischiude infatti per il compimento del
suo essere in una pluralità, si esprime, si manifesta in una pluralità.
Il fatto vale a ogni livello della realtà. L’ente si esprime e si autopos-
siede nella pluralità, realizza se stesso nella pluralità, e senza per ciò
stesso indicare un limite o una diminuzione di essere.
Tale posizione di indole ideologica è alla base dell’interpreta-
zione claudeliana. Lo sguardo di Claudel, audacemente lanciato sul
futuro e in corrispondenza dei quadri dell’Apocalisse, corrisponde
al fatto che tra tutti gli avvenimenti della storia umana (prima e
dopo di Cristo, fino ai nostri giorni) esiste un legame, e non solo
un succedersi di fatti uniti della cronaca; esiste una parentela, un’a-
nalogia. Il passato illumina il presente e nello stesso istante rischia-
ra l’avvenire. Accenniamo soltanto che Claudel in alcuni saggi, e
soprattutto in quelli di Positions et Propositions, si era espresso in
un simile atteggiamento, usato del resto anche come canone di va-
lutazione critica ed estetica: la realtà si completa, le singole, povere
o smaglianti immagini si afferrano pienamente quando il loro si-
gnificato è completo (Introductions à un poème sur Dante) quando il
mondo (l’intera totalità dell’essere) che non è infinito, svela tuttavia
la sua inesauribile carica di significati (Lettre sur Coventry Patmore),
quando si riesce a scoprire la tensione verso l’ultimo atto, sangui-
nante e glorioso, una tendenza sempre nuova e rinnovata che può
germinare dovunque (Religion et poésie).
OPERE

Sintonizzarsi dunque con il carattere simbolico del testo biblico


significa partecipare al senso latente e più importante, inserirsi nel
movimento di un simbolismo attivo, superare l’atomismo apparente
e superficiale, per trovare linee di forza di valore non transitorio.
Schematizziamo alcune costanti del campionario simbolico, delle
cifre rappresentative che Claudel scopre nel testo di San Giovanni e
che egli vigorosamente ridescrive.
Il simbolo ha una sua molteplicità di significati, che esprime
simultaneamente. Non ci si può fermare a un solo riferimento
di significati. Voler dichiarare il rapporto fondamentale e cercare
di isolarlo, comporta di non capire la natura del simbolo che è di
stabilire la solidarietà tra diversi settori del reale. La funzione co-
noscitiva del simbolo non si limita a una sola univoca direzione.
68
Anzi la prospettiva del simbolo è di comporre assieme cose e realtà
apparentemente distanti per sostenere la loro solidarietà. Claudel,
citando un brano di Daniele, osserverà: le parole del profeta sono
importanti «in quanto indicano il carattere polivalente delle profe-
zie, i cui significati si dischiudono dinanzi a noi e si rinnovano d’era
in era, come gli archi d’una cattedrale» (ivi, p. 242).
In altre parole possiamo dire che il simbolo offre nella totalità
dei suoi significati una prospettiva dinamica, nel suo stesso pronun-
ciarsi e manifestarsi. E per questa dinamicità interna al simbolo e
alla catena di simboli proposti da san Giovanni, Claudel nell’in-
dagine sulle figure dell’Apocalisse si sofferma con predilezione sui
profeti, e insiste sui collegamenti particolareggiati con Ezechiele,
Daniele, Geremia, Isaia, ecc.
Per un medesimo motivo il simbolo appare pieno di una forza
drammatica: «nella lunga storia del mondosi ritroverebbe sempre la
strofe, l’antistrofe, e la catastrofe [...]. Così la caduta d’Adamo, il
diluvio, le cattività d’Egitto e di Babilonia, l’apostasia dei giudei,
lo scisma greco, il maomettismo, il protestantesimo, la rivoluzione
francese, la dissoluzione di tre imperi, il bolscevismo e un sacco
d’altri avvenimenti, e giù giù fino ai più segreti drammi di ciascuno
in particolare» (ivi, p. 21).
Il richiamo storico più attuale e una personale esperienza spi-
rituale convivono nella polivalenza del simbolo. La figurazione di
quanto è preparato per la fine del tempo nelle pagine dell’Apocalis-
«I GIORNI DELL’APOCALISSE» SECONDO CLAUDEL

se, giudica, interpreta, rischiara il presente e le sue contraddizioni


più acute, e ancora si accosta a una misteriosa individuale irrepeti-
bile esperienza spirituale di ciascuno.
Alla luce del simbolo biblico, molteplice, polivalente e dramma-
tico, tutto può essere rimesso in discussione e illuminato: tutto
può acquistare un nuovo volto, una inedita originale sorpren-
dente «rivelazione». La figlia che accompagna il poeta nel suo cam-
mino attraverso le vetrate dell’Apocalisse, candidamente e intelli-
gentemente rileva: «da quando ci siamo messi a lavorare assieme, mi
son venute un sacco d’idee, e vedo le cose diversamente, come se gli
animali e i fiori fossero dei principi incantati che io devo risvegliare,
e gli avvenimenti, degli avvertimenti personali di cui debbo scopri-
re il senso. Sono come Sigfrido che porta all’orecchio il sangue del
69
dragone e che s’accorge tutt’a un tratto di comprendere il linguag-
gio degli uccelli» (ivi, p. 68).
Le immagini bibliche sono dotate di una forza tale da illumi-
nare e trasfigurare l’esperienza umana, e costringono a un nuovo
spontaneo rapporto con la realtà. L’attualizzazione del dato biblico
è un autenticare la sua forza di incidenza. Non sorprende perciò che
Claudel ritorni sui motivi di condanna di alcuni aspetti del costume
contemporaneo, come degli ideali falsi della cultura fondata sulla
labile concezione del progresso, della civiltà di massa, ecc., come
aveva già polemicamente condannato nelle Grandi Odi e in altri
momenti della sua produzione poetica. Spietata e senza reticenza la
diatriba di Claudel (che non risparmia Beaudelaire, Verlaine, Rim-
baud, Mallarmé, Edgar Poe, e tanti altri nomi), e che si sofferma
anche su una dimensione negativa della sua e nostra società: «oggi
[il denaro] è diventato l’elemento universale ed esclusivo in virtù del
quale ogni altra cosa esiste o meno, vale o meno. Si valuta un uomo,
l’anima d’un uomo dicendo: quel signore vale tanto, nella misura in
cui se ne valuta l’entità finanziaria. Chi non ha danaro, chi non ha
la sua brava moneta nella mano destra, chi non ha la sua brava pun-
zonatura in fronte e che non passa tutta la vita a inseguire una cifra
che non riesce mai a arrotondare, ebbene, che costui muoia! che sia
come se non esistesse!» (ivi, p. 138 ).
Cercando di trarre il massimo profitto dalla parola dell’Apoca­
lisse, Claudel denuncia, oltre alla falsità del principio economico che
OPERE

pretende circoscrivere la libera attività dell’uomo, lo sfruttamento


dell’amore umano in termini commerciali, accusa il falso mito della
noia, le mostruosità dell’accademismo culturale, ecc. E tutto viene
fatto in base al rispetto della inventiva forza che ha ispirato il testo
sacro, nel rispetto della fantasia dello Spirito: «non si può limita-
re la Bibbia a una determinata epoca, e la prova ne è che questa
non coincide mai completamente. Tutte queste raffigurazioni sono
come un faro in movimento nel cielo che concentra la luce ora su
questo, ora su quel particolare del panorama. Non si tratta di indo-
vinelli storici [...]. E lo Spirito Santo ha avuto probabilmente altre
ragioni per esprimersi in enigmi che non quelle di sfuggire alla po-
lizia imperiale. Tutto ciò sarebbe ben terra-terra» (ivi pp. 143-144).
Concludendo la nostra rapida rilettura del poema - commento
70
di Claudel possiamo attaccarci a una sua clausola precisa: «Il punto
di vista di Dio è in qualche maniera l’inverso di quello dell’uomo.
Egli passa dalla verità permanente all’espressione figurata, mentre
noi, bene o male, passiamo dalla figura al concetto, secondo la dire-
zione indicata dal significato» (ivi, p. 218). La personale esistenziale
comprensione del linguaggio di san Giovanni costringe natural-
mente Claudel ad accostare simboli a simboli, a comprendere un
simbolo o un rigurgito di simboli con altrettanti simboli derivati
dalla sua esperienza culturale. Solo un’immagine simbolica si ade-
gua a una raffigurazione simbolica; soltanto un nuovo sistema di
simboli, poeticamente, genialmente ricreati, potrà rispecchiare l’in-
tenzionalità dei simboli del testo apocalittico.
«APOCALYPSE NOW»*

Virgilio Fantuzzi S.I.

«Non è un film sul Vietnam. È il Vietnam». Con queste parole,


pronunciate da Francis Ford Coppola in una delle conferenze stam-
pa che hanno accompagnato il lancio di Apocalypse now, il regista
americano ha inteso sbalordire i giornalisti che lo ascoltavano, non
71
meno di quanto le immagini del suo ultimo film da trenta miliar-
di facciano con gli spettatori stipati nelle sale cinematografiche di
tutto il mondo.

La posta in giuoco

I film spettacolari di guerra costano ordinariamente, in ter-


mini finanziari, non meno di una battaglia. Nessun privato può
permettersi di azzardare una simile prodezza. Nessuna società ci-
nematografica è disposta a rischiare tanto. Per questo le pellicole
più grandiose, dedicate ad eventi bellici, sono state realizzate con la
partecipazione del Ministero della Difesa del Paese che aveva inte-
resse a patrocinare l’iniziativa. Solo così è stato possibile reperire le
attrezzature tecniche e le masse addestrate, necessarie per animare
la vicenda sullo schermo. In tal modo, questi film finiscono con
l’assumere, nei confronti degli avvenimenti rappresentati, il punto
di vista, condiviso anche dai libri scolastici, secondo il quale la storia
è scritta dai vincitori a scapito dei vinti. Concepiti e realizzati con
simili criteri, i film di guerra risultano allineati, nonostante la loro
diversa provenienza, sulla base delle medesime esigenze di conte-

* Titolo originale: «Lucida follia nel Vietnam di Coppola».

© La Civiltà Cattolica 1980 III 160-166 | 3122 (19 luglio 1980)


OPERE

nuto, e si assomigliano un po’ tutti nella comune esaltazione delle


virtù militari e nella spasmodica tensione verso la vittoria finale. È
difficile dire, a questo proposito, quanto i nazisti abbiano imparato
dai sovietici, gli americani dagli europei o i cinesi dagli americani.
Esistono anche eccezioni alla regola generale. Ma, a parte la dif-
ficoltà di convincere un esercito in piena efficienza a collaborare ad
un film dichiaratamente antimilitarista o ad illustrare un episodio
inglorioso della storia patria, gli stereotipi di un genere di spettacolo
che vanta una tradizione ormai consolidata e le abitudini di frui-
zione da parte del pubblico riescono quasi sempre a prevalere sulle
intenzioni dei realizzatori. Solo raramente è accaduto che un film di
guerra perorasse, senza ombra di equivoco, la causa della pace. Per-
ché ciò si verifichi è necessario che le vicende narrate siano «vissute»
72
in prima persona non già da chi conduce il conflitto, ma da chi lo
subisce: le popolazioni inermi che, strette tra due eserciti in lotta,
sono votate alla sconfitta qualunque sia l’esito degli avvenimenti nei
quali si trovano involontariamente coinvolte.
Apocalypse now si propone di eguagliare, con la spettacolarità
delle scene di guerra, gli effetti terrificanti delle incursioni e delle
stragi che hanno caratterizzato il più dispendioso tra i conflitti de-
gli ultimi tempi. Pagando il prezzo del biglietto, lo spettatore può
assistere, da un punto di vista privilegiato e senza rischi per la sua
incolumità fisica, a una ricostruzione attendibile e minuziosa dei
disastri provocati in Vietnam con l’uso delle armi più moderne e
sofisticate. Trattandosi di un film di produzione americana, l’otti-
ca prescelta è, naturalmente, quella di un soldato statunitense che
si trovi a combattere in prima linea. Ciò non implica un senso di
fierezza per come le cose si sono svolte, per l’esercito americano, in
quel conflitto, e nemmeno il rammarico perché le sorti della guerra
non hanno avuto un esito diverso. Il film manifesta uno stato di
turbamento di fronte al raccapriccio che ogni avvenimento bellico
necessariamente comporta.
Non è difficile inserire quest’opera nel filone dei «film del ri-
morso», collocarla cioè nel contesto di quelle pellicole che pro-
vengono dagli Stati Uniti e sviluppano una riflessione autocritica
sulla guerra del Vietnam. Il cacciatore di Michael Cimino, data la
risonanza che ha avuto al momento della sua presentazione sugli
«APOCALYPSE NOW»

schermi italiani, ne costituisce un termine di paragone dal quale è


difficile prescindere. Il cacciatore non era un film di guerra in senso
stretto. Le scene dedicate alle attività militari, in esso contenute,
occupavano una parte relativamente esigua rispetto all’insieme del-
lo spettacolo. Le atrocità, per altro particolarmente insistite, in esse
descritte, non erano che la gigantografia di alcuni dettagli (sulla cui
veridicità sono stati avanzati dubbi) attraverso i quali sarebbe stato
difficile farsi un’idea delle reali dimensioni del conflitto. Benché in
ambedue i film la guerra sia dipinta coi colori dell’inferno, è stato
detto, non senza fondamento, che Il cacciatore rappresenta il Viet-
nam visto dall’America, mentre Apocalypse now rappresenta l’Ame-
rica vista dal Vietnam.
Sia nell’uno sia nell’altro dei due film può essere letta in traspa-
73
renza la radiografia di una sconfitta. I giovani americani inviati al
fronte non erano, secondo entrambi i registi, preparati né psicolo-
gicamente né moralmente ad affrontare l’urto della guerra. Nati e
cresciuti, a differenza dei loro avversari, nell’ambito di una società
opulenta, usi al consumo di beni superflui e appagati da una mito-
logia che genera un senso artificioso di sicurezza, giungevano sul
terreno dei combattimenti col carico delle loro abitudini mentali
e di comportamento. Al contatto con un mondo estraneo e ostile,
l’equilibrio sul quale si reggeva la loro precedente esperienza veniva
sconvolto. Il cinema, che ha avuto gran parte nella costruzione e
nella divulgazione dei miti americani, potrebbe avere adesso buon
giuoco nel dimostrare quanto essi fossero ingannevoli. Ma, per fare
questo, bisognerebbe inventare un cinema diverso rispetto a quello
tradizionale.
Coppola ha scelto invece la via di una prova di forza. Il Penta-
gono non gli ha prestato l’assistenza, da lui richiesta, per la ricostru-
zione delle grandiose e dispendiose scene di battaglia; ebbene, le ha
ricostruite lo stesso, al naturale, impiegando squadriglie di elicotteri
e distruggendo col napalm alcuni ettari di foresta. I produttori ame-
ricani non gli hanno fatto credito ritenendo pazzesca la sua «guerra
private»; ebbene, egli l’ha combattuta egualmente ipotecando l’im-
pero finanziario che si era costruito con lo straordinario successo
dei suoi film precedenti. Come si vede, il mito della frontiera, per
un americano vero, è sempre il più duro a morire. Il film ha avu-
OPERE

to una gestazione molto laboriosa. È stato girato nelle Filippine in


un’atmosfera da campagna napoleonica. I mezzi militari, di prove-
nienza statunitense, sono stati messi a disposizione, dietro adeguato
compenso, dall’esercito di Marcos. La fotografia è firmata da Vitto-
rio Storaro, l’operatore di fiducia di Bernardo Bertolucci. La musica
originale è di Carmine Coppola, padre del regista. Il montaggio è
stato messo a punto con l’impiego di apparecchiature elettroniche.
Le copie a 70 mm si avvalgono di una colonna sonora pentafonica,
molto elaborata, con tre sorgenti anteriori e due posteriori.

Un viaggio allucinante

Prendendo lo spunto da un romanzo, dal titolo Cuore di tenebra,


74
pubblicato da Joseph Conrad all’inizio di questo secolo, Apocalypse
now ne sposta la vicenda dal Congo di re Leopoldo al Vietnam
stretto nella morsa della più esasperata escalation militare. Dal libro
di Conrad il film mutua la struttura del grande viaggio che è in-
sieme itinerario geografico (esplorazione condotta dal noto verso
l’ignoto) e processo di conoscenza interiore (che lancia uno scan-
daglio nelle regioni torbide dell’anima). Lo schema della narrazione
vanta illustri precedenti nella storia della letteratura, che partono dai
viaggi mediterranei di Ulisse ed Enea per giungere, attraverso la
ricerca medievale del Graal, fino al girovagare irrequieto dell’uomo
della Mancha o all’accanirsi del capitano Achab sulle tracce della
balena bianca.
Il romanzo parla di un certo Marlow, che risale lungo un fiu-
me, in una regione inesplorata dell’Africa, alla ricerca di Kurtz, un
mercante d’avorio che, impazzito, si fa adorare come un dio da una
tribù di selvaggi. Nel film Marlow diventa l’americano Willard, un
capitano dei Berretti Verdi, interpretato dall’attore Martin Sheen,
mentre Kurtz, interpretato da Marlon Brando, è un colonnello che
si è ribellato alle supreme autorità dell’esercito statunitense e si è
asserragliato in un santuario cambogiano dove domina col terrore
sulle popolazioni indigene, soggiogate dal fascino malefico della
sua personalità. I capi dei Servizi Segreti affidano a Willard la dif-
ficile missione di risalire con una motovedetta, accompagnato da
altri quattro uomini, lungo un fiume che serpeggia nella foresta
«APOCALYPSE NOW»

tropicale, localizzare la base anomala di Kurtz, e porre fine, con


ogni mezzo, al suo comando. Sarebbe lungo sottolineare qui tutte
le differenze che contraddistinguqno i due racconti, oltre alle mo-
difiche di spazio e di tempo alle quali facevamo cenno. Basta dire
che Coppola ha preso da Conrad ciò che gli serviva per sviluppare
un discorso d’autore, che permane autonomo nei confronti della
fonte alla quale si ispira.
La prima parte del film assomiglia a uno strano reportage di
guerra, sul tipo della descrizione della battaglia di Waterloo, vista
con gli occhi di Fabrizio del Dongo, nella Certosa di Parma di Sten-
dhal. Willard e i suoi compagni di viaggio attraversano la «pelle di
leopardo», cioè quella zona, nel delta del Mekong, dove il fronte in-
terno del Sud Vietnam risultava praticamente incontrollabile per le
75
infiltrazioni dei vietcong che ne occupavano spazi irregolari. Qui il
film si sofferma in ampie sequenze che descrivono l’assalto ad alcuni
villaggi compiuto dalla «cavalleria del l’aria», una festa notturna du-
rante la quale i soldati americani assistono a uno spettacolo di varie-
tà, il panico che si scatena attorno all’ultimo avamposto statunitense
nei pressi della frontiera cambogiana. Queste sequenze maggiori
sono intercalate da episodi minori, dedicati ai membri dell’equi-
paggio della motovedetta e al loro progressivo coinvolgimento nel
clima allucinante della guerra.
Ciò che si vede sullo schermo dovrebbe fornire un’idea globa-
le, anche se non nitida, delle dimensioni del conflitto e dello stato
d’animo col quale gli americani lo vivevano. Per la ricostruzione,
molto accurata, dei particolari, il regista, assieme a John Milius che
lo ha aiutato a stendere la sceneggiatura, si è servito, oltre che della
abbondante documentazione disponibile, e in particolare di quella
audio-visiva, anche delle testimonianze dei reduci dalla Guerra. È
noto che, durante gli anni caldi del conflitto indocinese, erano sta-
bilmente presenti, sul terreno delle operazioni, circa cinquecento tra
giornalisti, fotografi e operatori radio-televisivi. Molte riflessioni
sono state fatte sugli effetti psicologici prodotti dalla valanga di im-
magini raccapriccianti che la televisione riversava quotidianamente
sul pubblico degli americani residenti nella madrepatria. A questa
situazione si riferisce il breve passaggio del film nel quale si vede
Coppola in persona riprendere, con una piccola troupe televisiva,
OPERE

una azione bellica impartendo ordini ai soldati: « Non guardate in


macchina! Andate avanti come se combatteste! È per la televisione!».
Sul modo nel quale il regista imposta e risolve le scene di guer-
ra aleggia lo spettro dell’eco suscitata in America dalle rivelazio-
ni sull’eccidio di My-Lay o dalle fotografie pubblicate da alcuni
rotocalchi, destinate a pesare sulla bilancia dell’opinione pubblica
più di una battaglia perduta. C’è poi una domanda sospesa, che
si ripercuote da un capo all’altro del film: come hanno potuto gli
americani, muniti di mezzi tanto potenti, soccombere di fronte a
un nemico che non ne aveva altrettanti? La risposta, implicita nello
stesso quesito di partenza, è che proprio il sovrabbondare dei mezzi,
utilizzati con grande disinvoltura, ma senza altrettanta consapevo-
lezza, era più di intralcio che di aiuto. Oltre agli elicotteri e ai bom-
76
bardieri, i soldati statunitensi avevano portato in Vietnam i loro
giocattoli: surf, sci d’acqua, golf. Da questa costatazione nasce una
delle sequenze più paradossali del f ilm.
L’imbarcazione su cui viaggia Willard viene scortata, per un
tratto, da una squadriglia di elicotteri (la nona divisione della già ri-
cordata «cavalleria dell’aria») comandata dal colonnello Kilgore, in-
terpretato da Robert Duvall, che dà vita a una truculenta caricatura
dell’eroe cinematografico del West. «La nona – ci informa la voce
fuori campo di Willard – era una vecchia divisione di cavalleria che
aveva barattato i cavalli con gli elicotteri per scorrazzare lungo tut-
to il Vietnam in cerca di guai». Kilgore, con in testa un cappellaccio
da ufficiale nordista, semina con spavalderia distruzione e morte. Fa
suonare la tromba quando gli elicotteri si levano in volo e assalta i
villaggi controllati dai Vietcong diffondendo con gli altoparlanti la
musica della cavalcata delle Walkirie. Brucia le chiese e fa celebrare
la messa al campo di fronte alla truppa. Rende omaggio a un nemi-
co che combatte con le budella penzolanti e fa trasportare, via aria,
un vitello vivo per il pasto che consumerà la sera cameratescamente
con i suoi ragazzi. Il suo parossismo giunge al colmo quando fa in-
cendiare col napalm un pezzo di foresta per potersi dedicare al surf
nello specchio di mare antistante.
«Mi piace l’odore del napalm – dice Kilgore –. Una volta bom-
bardammo una collina per dodici ore e, finita l’azione, andai lì so-
«APOCALYPSE NOW»

pra. Non ci trovammo più nessuno... Ma quell’odore... Si sentiva


quell’odore di benzina... Tutta la collina odorava di vittoria».
Un’altra tra le sequenze impressionanti del film è quella della
festa notturna con le «conigliette» di Playboy paracadutate dal cielo
su una piattaforma ancorata nel fiume, in mezzo a una profusione
di luminarie che trasformano le immediate adiacenze del fronte in
un assurdo Luna park.
«Il nemico – commenta Willard – non aveva molti trattenimen-
ti del genere. O si imbucava nella terra troppo profondamente, o si
moveva troppo in fretta. La sua idea di un meraviglioso passatempo
era riso freddo e un po’ di carne di topo. Aveva solo due strade per
tornare a casa: la morte o la vittoria».

77
Alle radici dell’orrore

Dopo questa ricognizione a volo d’uccello sulle assurdità della


guerra, esposte, non senza accentuazioni magniloquenti, nei loro
aspetti ora feroci e ora grotteschi, che si conclude quando l’equipag-
gio della motovedetta si lascia alle spalle l’ultimo avamposto ame-
ricano sul fiume, un ponte difeso da un pugno di soldati rimasti
senza comandanti e, a quanto pare, senza nemici, salvo la paura
che li spinge a far esplodere ininterrottamente le loro munizioni,
il film si incammina su un terreno più specificamente conradiano,
affronta cioè quella parte del viaggio che il romanziere indicava
come una risalita, a ritroso nel tempo, dentro una natura sempre più
selvaggia, verso i primordi dell’umanità. Il pericolo che incombe
sui viaggiatori si insinua in ogni angolo della foresta. Le sponde del
fiume sono disseminate di cadaveri e carcasse di velivoli abbattuti.
Nemici invisibili fanno piovere sulla motovedetta nugoli di frecce.
Tre uomini dell’equipaggio moriranno uccisi con metodi via via
più primitivi: colpito da un proiettile il primo, trapassato da un
giavellotto il secondo, col taglio della testa il terzo.
La personalità di Kurtz, sul cui conto Willard possiede un vo-
luminoso dossier affidatogli dai Servizi Segreti, che sfoglia durante
il viaggio, si va progressivamente precisando ancor prima che, nella
parte finale del film, la sua immagine appaia sullo schermo. Da gio-
vane era stato uno degli ufficiali più brillanti dell’esercito. Entrato
OPERE

in urto con lo Stato Maggiore per divergenze sul modo di gestire


la guerra nel Vietnam, aveva deciso di rinunciare alla carriera e
puntare tutto su se stesso. Si era impegnato nelle vicende belliche
adottando criteri personali. Piuttosto che combattere contro i ne-
mici esterni, aveva preferito dedicare la sua attenzione ad un grup-
po di sudvietnamiti che, secondo lui, facevano il doppio giuoco, e
ne aveva fatto giustiziare quattro agendo di propria iniziativa. Le
autorità, dopo averlo incriminato per omicidio, avevano tentato di
farlo rientrare nei ranghi, ma egli aveva deciso di proseguire sulla
via intra presa, fino in fondo.
«Non fu per caso – pensa Willard – che io divenni il curatore
del colonnello Kurtz». I due personaggi hanno infatti alcuni tratti
in comune: la loro capacità, ad esempio, di rimanere sostanzial-
78
mente estranei nei confronti degli avvenimenti che attraversano.
A mano a mano che Willard si avvicina all’obiettivo della sua mis-
sione, sente crescere dentro di sé una sorta di oscura ammirazione
per la belva che è stato inviato a stanare. Gli sembra che Kurtz, nel
suo esasperato oltranzismo, sia un interlocutore ancora degno di ri-
spetto se paragonato all’incoscienza di un Kilgore o a quel gruppo
di clowns con quattro stelle (così egli definisce sbrigativamente lo
Stato Maggiore) che avrebbe finito col dar via tutto il circo. Willard
e Kurtz non sono, in fondo, che i due aspetti contrapposti e com-
plementari di una medesima disastrata condizione umana. Il film,
che era iniziato col risveglio di Willard da un sonno pervaso da
incubi mostruosi, si conclude con uno scontro, emblematizzato nel
dialogo tra i due antagonisti, nel quale si fronteggiano le energie
positive e quelle negative che da sempre si contendono il predo-
minio sull’uomo, perché, come aveva detto al capitano il generale
che gli aveva affidato il difficile incarico, «c’è un conflitto in ogni
cuore umano tra il razionale e l’irrazionale, tra il bene e il male,
però il bene non sempre trionfa. A volte le cattive tentazioni han-
no la meglio su quelli che Lincoln chiamava i migliori angeli della
nostra indole: i buoni istinti morali». Merita qualche osservazione il
comportamento dei ragazzi che accompagnano Willard nel viag-
gio sulla motovedetta. Poco più che adolescenti, fanatici del rock-
and-roll, uno è un asso del surf delle spiagge di Los Angeles, un
altro, con l’orecchio incollato al transistor, proviene da una povera
«APOCALYPSE NOW»

famiglia di negri del Bronx, un terzo «troppo nervoso per il Viet-


nam» avrebbe voluto diventare un cuoco famoso. Tutti si drogano,
e l’asso del surf, il solo che, assieme a Willard, riuscirà a salvare la
pelle, si lascia irretire dall’ambiente che lo circonda fino a perdere
ogni contatto con il mondo civile. L’apice di questo approccio
immaturo alla realtà della guerra è raggiunto quando, durante il
controllo di una imbarcazione di contadini vietnamiti, incrociata
lungo il fiume, i giovani marines perdono le staffe e uccidono tutti
i passeggeri. Di fronte a fatti così atroci e avventati, descritti con
crudezza nel film, passa in second’ordine ogni rilievo sul linguag-
gio scurrile, e talvolta blasfemo, di cui la colonna sonora rigurgita.
Kurtz appare, alla fine del viaggio, circondato da un alone di
crudeltà e di mistero, tra le colonne di un antico tempio. Il regista
79
ha ricostruito questa scena tenendo d’occhio i moduli collaudati da
Hollywood, per ciò che riguarda l’esotismo orientale, e giocando
con un netto contrasto di ombre e di luci sulla faccia istrionica di
Marlon Brando che pronuncia un farneticante monologo:
«È difficile trovare le parole per descrivere ciò che è necessario
a coloro che non sanno cosa significa l’orrore. L’orrore ha un volto.
Bisogna farsi amico l’orrore...
«Ricordo, quando ero nelle Forze Speciali, andammo in un
campo per vaccinare dei bambini. Lasciammo il campo dopo aver
vaccinato i bambini contro la polio. Più tardi, venne un vecchio,
correndo, a richiamarci. Tornammo al campo. Erano venuti i
vietcong e avevano tagliato ogni braccio vaccinato. Erano là in un
mucchio. Un mucchio di piccole braccia. Mi ricordo che ho pianto
come una madre. Volevo strapparmi i denti di bocca...
«Poi mi sono reso conto, come se fossi stato colpito da una pal-
lottola di diamante in piena fronte. Ho pensato: Mio Dio, che genio
c’è in questo! Perfetto, genuino, completo, cristallino, puro...
«E così mi resi conto che loro erano più forti di noi, perché loro
sapevano questo. Non erano mostri, erano uomini, quadri adde-
strati. Uomini che combattevano col cuore, che hanno famiglia,
che hanno figli, che sono pieni di amore, ma che avevano la forza
di fare questo...
«Se io avessi dieci divisioni di questi uomini, i nostril problemi
qui si risolverebbero molto presto. Bisogna avere uomini con un
OPERE

senso morale, e che allo stesso tempo siano capaci di utilizzare il


loro primordiale istinto di uccidere, senza emozioni, senza passioni,
senza discernimento».
L’eliminazione di Kurtz avviene con una sorta di rito, quello
evocato da Frazer nel primo capitolo del Ramo d’oro, che si sovrap-
pone, nel film, al sacrificio cruento di un animale. Come accadeva
tra gli antichi re del bosco, presso Ariccia, Willard abbatte Kurtz
con una daga, e subito la popolazione primitiva, che ha assistito
esterrefatta all’uccisione del tiranno, si accinge a venerare nel giu-
stiziere il nuovo signore. Ma il capitano, condotta a termine la sua
missione, prende con sé l’unico compagno superstite e rientra alla
base.

80
***

Alcuni critici non hanno apprezzato lo sforzo «culturale» af-


frontato da Coppola nella parte finale del film, dove si intrecciano
citazioni letterarie di varia natura, mentre si avverte, nel magma
della costruzione cinematografica, la presenza di componenti te-
atrali desunte dalla tragedia classica o dal grand’opéra. Altri hanno
fatto notare che il gigantismo nelle scene di guerra, assai vicine alla
spettacolarità di alcuni clamorosi successi del recente cinema fanta-
scientifico, non è scevro da un autocompiacimento che toglie vigo-
re alla denuncia espressa nel film. A noi sembra che questo prodot-
to, nel quale si riflette la follia che domina parte della nostra società
(consumismo, competitività, violenza...), non sia da sottovalutare,
come non è inutile domandarsi, di fronte alle drammatiche notizie
che giungono ogni giorno dai focolai di guerra sparsi sulla superfi-
cie del globo, perché è possibile che ciò accada, con la speranza che
gli errori, compiuti nel passato, non si ripetano nel futuro.
«WALL•E»*

Antonio Spadaro S.I.

Sulle note di Put on your Sunday Clothes tratta dal musical Hello,
Dolly! del 1969 si dispiegano davanti a noi immagini dell’universo:
le sue galassie, le sue costellazioni, i suoi pianeti. Infine l’obiettivo si
concentra sulla Terra con una «zoomata» che consegna allo spettatore
81
l’immagine confusa di un’atmosfera opaca e polverosa. Così inizia il
film di animazione Wall•e, prodotto dalla Disney e dalla Pixar. Si di-
spiegano quindi le immagini poco nitide di quelle che appaiono colli-
ne e che presto si trasformano in ciminiere, ed ecco, alla fine, stagliarsi
uno skyline di grattacieli tra i quali l’occhio della camera si addentra
fino a guadagnare una visione dall’alto che è decisamente modellata
su quella che si gode dall’Empire State Building di New York. Tutto
avviene velocemente: abbiamo fin qui descritto il primo minuto del
film, distribuito nel giugno 2008 negli Stati Uniti, dove è stato cam-
pione di incassi, e dal successivo ottobre anche in Italia
La musica festosa presto sfuma e lascia il posto al soffio leggero
del vento. Le immagini, sfocate come acquerelli, rivelano una su-
perficie terrestre brulla, e si nota qualcosa che si muove velocemente
cigolando su una strada sterrata. Ecco che, grazie a una inquadra-
tura che improvvisamente si ribalta e osserva dal basso verso l’alto,
distinguiamo come ci siano vere e proprie strade e che esse sono
piene di immondizia. I grandi edifici si mischiano a grattacieli fatti
di rifiuti compattati e impilati: non sembra esserci differenza tra pa-
lazzi e discariche. In mezzo ai rifiuti si muove un piccolo robot che
raccoglie con i suoi bracci meccanici l’immondizia e la compatta. Il

* Titolo originale: «Wall•e. Un film di animazione alla ricerca della verità


sull’uomo».

© La Civiltà Cattolica 2008 IV 43-53 | 3802 (15 novembre 2008)


OPERE

robot si chiama Wall•e, acronimo per Waste Allocation Load Lifter


Earth-Class, che si potrebbe anche tradurre semplicemente come
«spazzino».
Presto lo spettatore comprende che Wall•e, alimentato da celle
solari, ha una sua personalità e una sua vita fatta anche di abitudini.
Questo non tanto perché il «robottino», come è stato spesso definito
dalla stampa, ha due occhi, una sorta di binocolo, e due «braccia»,
ma perché seleziona l’immondizia e resta colpito da alcuni oggetti.
La sua è davvero una raccolta «differenziata». La selezione però non
è affatto automatica: è un preciso gesto di scelta guidato dalla cu-
riosità e da una forma di simpatia per le cose che trova. Ad esempio,
il coperchio di un bidone, capace di riflettere la luce del sole. Com-
prendiamo subito, dopo neanche tre minuti dall’inizio del film, che
82
Wall•e, separando, selezionando, riconoscendo e classificando scarti,
ha maturato una libertà di scelta che lo rende «umano».
Per questo egli è subito personaggio e non oggetto, sembra sug-
gerire il regista: sceglie liberamente. Non è un caso che a questo
punto salti fuori (nel senso letterale dell’espressione) un nuovo per-
sonaggio, un piccolo e simpatico scarafaggio col quale il robottino
ha sviluppato una sorta di affezione, una amicizia1. L’«umanità» di
Wall•e appare dunque piena, grazie alla sua libertà e alla sua capacità
di relazione.

Il mondo di Wall•e e la sua vita

Il mondo di Wall•e è un luogo disabitato, pieno di palazzi di-


roccati, polvere, macchine arrugginite ed enormi cumuli di rifiuti:
è un caos dove la vita non è più possibile. Gli uomini non abitano
più la terra: si sono trasferiti nello spazio. Restano i cimeli umani
e soprattutto i grandi cartelloni pubblicitari della Buy-n-Large, la
compagnia che ha organizzato il trasferimento degli umani nello
spazio per un periodo di tempo che sarebbe dovuto essere molto

1. Lo scarafaggio non ha nome nel film, ma lo conosciamo da varie pubbli-


cazioni ad esso legate quali il sito web ufficiale e i libri per bambini. Il suo nome è
Hal, in omaggio al celebre computer Hal 9000 del film 2001: Odissea nello spazio.
Tra i film che hanno ispirato Wall•e si riconoscono, fra gli altri, anche Alien, Blade
Runner, Star Trek e Incontri ravvicinati del terzo tipo.
«WALL•E»

limitato, in attesa di una ripulitura del pianeta, ma che ormai aveva


superato i 700 anni. Wall•e è un superstite — e non si sa il perché
— di tanti altri robot suoi simili che erano stati programmati per la
pulitura del pianeta.
Quando il robot fa ritorno a «casa» nel suo grande container ve-
diamo dispiegarsi al suo interno un mondo di oggetti che egli rac-
coglie pazientemente. In particolare, lo vediamo ammirato e com-
mosso dalla visione di un film di Gene Kelly, Hello Dolly!, dove
Barbra Streisand, Walter Matthau e altri attori ballano e cantano
tenendosi per mano. Anche questo film è apprezzato grazie a una
vecchia videocassetta trovata nella spazzatura. Ma nel suo container
troviamo numerosi oggetti inutili (posate di plastica, luci colorate,
coperchi…) che sembrano però dare dignità a quel luogo, renden-
83
dolo davvero «casa». Le tante piccole cose di ogni giorno poi gettate
nell’immondizia vengono «redente» dall’uso mercificato e utilitario
della ordinarietà per diventare oggetti unici, dotati di intrinseca
bellezza o curiosità, capaci di stupire. La peculiarità della raccolta
consiste nel fatto che ogni oggetto trovato viene riusato in maniera
creativa. È come se Wall•e riuscisse a cogliere nelle cose più sem-
plici una bellezza, una poesia, che rimane viva pur nello squallore,
e apre a una dimensione poetica, ludica, immaginaria. Il gesto abi-
tudinario di valorizzare un rifiuto, uno scarto, diventa dunque un
gesto che conferisce umanità. Un esempio fra gli altri: davanti a un
prezioso anello custodito in un astuccio, Wall•e si sente affascinato
e incuriosito dall’astuccio, che si apre e si chiude, mentre butta via
l’anello, al quale non attribuisce valore.
Wall•e sembra l’ultimo Robinson Crusoe a guardia di un piane-
ta ormai abbandonato. Lo stesso Andrew Stanton, regista e sceneg-
giatore del film, in una intervista pubblicata nel pressbook2, fa rife-
rimento al celebre personaggio di Defoe come ispiratore del film.
Più precisamente, sembra incarnare il Robinson nella lettura che ne
fa il grande scrittore inglese Gilbert K. Chesterton quando afferma
che la parte più bella del libro di Defoe è la lista degli oggetti salvati
dal naufragio del protagonista. Comprende così che anche per lui
è un buon esercizio stare a guardare qualche cosa come il «secchio

2. Cfr http://www.mymovies.it/dizionario/pressbook.asp?id=46849
OPERE

del carbone o la cassetta dei libri, e pensare quanta sarebbe stata la


felicità di averlo salvato e portato fuori del vascello sommerso sull’i-
solotto solitario». Il pensiero che tutte le cose siano sfuggite per un
capello al naufragio spinge Chesterton a desiderare di «economiz-
zare le stelle come se fossero zaffiri» o a far «collezione di colline».
Chesterton comprende così, grazie a Robinson, che «l’universo è
veramente un gioiello unico»3. Ecco la lezione che Wall•e sembra
aver appreso dall’esperienza e grazie alla sua sensibilità: la poesia
non va aggiunta o giustapposta al mondo, ma va in esso trovata,
scoperta, anche in un rifiuto, in uno scarto.

L’incontro con Eve


84
Nelle sue esplorazioni di lavoro il robottino però scopre qualco-
sa di singolare, una «cosa» tenera e verde che ridesta il suo stupore,
una piantina: è una traccia di vita, un simbolo tenero e leggero in
un mondo di rifiuti solidi e compatti. Qui lo sguardo «poetico» sulle
piccole cose diventa un vero e proprio prendersi cura che contribu-
isce a svelare l’«umanità» di Wall•e. Si avverte chiaramente che la
piantina, tenero essere vivente, è altro rispetto agli oggetti. La cura
che viene messa nell’estrarla con la parte di terra che la circonda per
poi riporla in un vecchio scarpone è un gesto decisivo per la sua
«vita»4.
Ecco che all’improvviso si avverte un forte boato. Un’astronave
atterra e dal portello esce un altro «essere» a forma di uovo, tutto
bianco, che comincia a volare per il pianeta con grande eleganza.
Wall•e, terrorizzato dall’atterraggio, si scopre anche affascinato da

3. G. K. Chesterton, Ortodossia, Brescia, Morcelliana, 199510, 88 s.


4. Viene persino in mente quella bella pagina di Elsa Morante che ne La Sto-
ria racconta di un soldato tedesco delle SS condotto al luogo dell’esecuzione quando
nel tragitto nota «uno di quei fiori seminati dal vento, che nascono dove capita e si
nutrono, sembrerebbe d’aria e di calcinaccio. Era un fiorelluccio misero, composto
di quattro petali violacei e di un paio di pallide foglioline; ma, in quella prima luce
nascente, l’Esse Esse ci vide, con suo stupore, tutta la bellezza e la felicità dell’uni-
verso», anche se un istante dopo, come a far prevalere in lui l’abisso dell’orrore, lo
rinnegherà strappandolo con i denti e calpestandolo. Quell’intuizione sarebbe stata
salvifica, come la Morante chiaramente suggerisce nella sua pagina (cfr E. Moran-
te, La Storia, Torino, Einaudi, 1974, 604).
«WALL•E»

questo essere, che è a sua volta un robot. È tutto diverso rispetto a


lui, ma forse è proprio questa differenza che lo lascia ammaliato.
Il nuovo robottino è Eve. Per sé il suo nome è un acronimo di
Extra-terrestrial Vegetation Evaluator (esaminatrice di vegetazione
extraterrestre), ma certo non si fa fatica a riconoscere nel suo nome
quello di Eva, la progenitrice del racconto biblico.
Eve ha una capacità espressiva limitatissima: può usare solamen-
te il movimento di due occhi che sono solamente due luci azzurre
uniformi, e due braccia decisamente stilizzate che le servono per
tutti i suoi movimenti. Perlustra il pianeta con il suo raggio blu alla
ricerca di qualcosa. Wall•e, la cui curiosità si è trasformata in inna-
moramento, la segue ma a distanza, fino a quando non emette un
rumore che spaventa Eve, la quale mette in funzione il suo potente
85
braccio laser che distrugge tutto. Ma Wall•e è già in salvo dietro
una roccia e, tremante, continua disperatamente il suo corteggia-
mento silenzioso fino a quando lui e il suo piccolo scarafaggio non
riescono a fare accettare a Eve la loro presenza. I due robot fami-
liarizzano.
Finalmente il robottino porta a casa propria Eve, salvandola
da una tempesta di sabbia. Qui tutti gli oggetti prendono vita e il
mondo di Wall•e, un mondo di scarti e rifiuti, appare ancor più una
sorta di paese delle meraviglie. I rottami che già apparivano prende-
re vita, adesso grazie all’amore per Eve sembrano assumere una di-
mensione ancora superiore. Wall•e orgogliosamente consegna a Eve
una lampadina ed essa si illumina lasciando il robottino stupefatto;
e allo stesso modo uno dei tanti accendini in mano a Eve finalmente
sprigiona la sua fiamma calda, lasciando l’animo poetico di Wall•e
ammaliato da questa scoperta, che è come una vera e propria rive-
lazione piena di tenerezza. Eve porta luce e armonia in un mondo
già disposto ad accogliere la poesia dell’universo.
Per Wall•e viene il momento di frugare tra gli scaffali per offri-
re a Eve la piantina verde. Ed ecco che accade qualcosa di strano,
rompendo la poesia che si era creata fino a quel momento: il robot
bianco prende la piantina, la chiude nella sua corazza e sembra spe-
gnersi. Resta accesa solo una luce verde che vibra intermittente al
suo interno. Eve da questo momento non dà segni di vita. Wall•e
cerca di rianimarla, prendendosi cura di lei in tutti i modi. La ad-
OPERE

dobba di luci natalizie, tenta di ricaricarla alla luce del sole, la ripara
dalla pioggia con un ombrello. Come non ricordare lo Charlot di
Charlie Chaplin davanti a queste immagini che certamente a lui,
in un modo o nell’altro, si ispirano per la loro purezza emozionale5?

Nello spazio

Nel bel mezzo dell’idillio l’astronave che aveva portato Eve sulla
terra ritorna per riprendersela. Wall•e è sconvolto e, dopo un attimo
di esitazione, si lancia sulla navicella che vola verso il cielo. Ormai in
orbita, il robottino ammira le stelle, gli anelli di Saturno, le galassie,
la Terra. Il suo senso di meraviglia è immenso. Ma ecco apparire
una enorme astronave, la Axiom, che ospita una città: gli uomini si
86
sono trasferiti al suo interno, e lì la loro vita è ormai completamen-
te gestita automaticamente da macchine in attesa che sia possibile
tornare, prima o poi, sulla terra. Ecco apparire nel film gli esseri
umani, uomini e donne diventati obesi perché mangiano e non
si muovono mai sulle loro gambe ma solamente su comode sedie
pneumatiche. Per comunicare tra loro usano un sistema di monitor.
La loro vita è completamente gestita e facilitata dai meccanismi, e
dunque non hanno alcun bisogno di far nulla, neanche di muoversi
con le loro gambe. Così non sono più neanche in grado di stare
in posizione eretta. Da questo momento però la poesia del film si
attenua per lasciare il posto all’azione e alla sua dinamica. Il mondo
degli umani ha ormai perso ogni senso di bellezza. La comodità ha
annichilito gli spiriti e la possibilità di essere stupiti, all’interno di
una vita che ormai appare del tutto programmata.
Wall•e raggiunge la postazione del comandante della Axiom.
Ed ecco svelarsi il significato di Eve: è un robot incaricato di cer-
care segni di vita sulla terra. La piantina è uno di questi segni. Si
può quindi avviare l’operazione di ricolonizzazione del pianeta. Eve
viene risvegliata. Da questo momento è un succedersi di peripezie e
fraintendimenti avventurosi e gustosi. Ecco emergere il problema:
gli uomini sono saliti sulla Axiom in attesa di tornare sulla Terra ma

5. A. O. Scott, «In a World Left Silent, One Heart Beeps», in The New York
Times, 27 giugno 2008.
«WALL•E»

proprio adesso che la possibilità pare aprirsi realmente, il computer


centrale si rifiuta di avviare le operazioni di rientro per un ordine
contrario dato 700 anni prima. Tutti devono rimanere sull’astrona-
ve e continuare la loro vita lì. È la volontà della Buy-n-Large, pro-
prietaria dell’astronave, che vuole dunque mantenere lo status quo.
Wall•e ed Eve diventano protagonisti di una lotta avventurosa
per salvare la pianta e muovere l’umanità nel suo esodo verso la
Terra che era stato promesso loro sin dal loro ingresso nell’astro-
nave. Alla fine vinceranno e riusciranno a riportare gli uomini sul
Pianeta. Wall•e però ne esce letteralmente «a pezzi», e sarà Eve sulla
Terra a trovare i giusti pezzi di ricambio per ripararlo. Ma la ripa-
razione non è sufficiente: per un attimo Wall•e perde la consapevo-
lezza di sé: è come se la sua «anima» si fosse smarrita. Il sintomo è
87
evidente: comincia a trattare gli oggetti che aveva selezionato con
cura e poesia per quello che «oggettivamente» sono, cioè normali
rifiuti. E così comincia a schiacciarli e compattarli, perfino quelli
della sua casa-container. Ma l’amore di Eve finirà per ridestarlo alla
sua «umanità» in un mondo che comincia a diventare nuovamen-
te terra degli uomini e campo di lavoro agricolo: l’uomo rinnova
la terra da lavoratore e non da mero consumatore, quale era sulla
Axiom. E i robot lo aiutano in questo compito, come a dire che la
tecnologia è un aiuto al lavoro dell’uomo, non qualcosa che lo an-
nulla. Un ulteriore simbolo: da questo momento gli uomini, seppur
faticosamente, camminano in posizione eretta. A vincere è dunque
un modo nuovo di affrontare la vita, esemplificato nei disegni che
accompagnano i titoli di coda del film, che sono suggestivi.

Un film capace di sorprendere

A questo punto appare evidente una sorta di rivoluzione nel


modo di vedere la figura femminile rispetto a quello che la Disney
ci ha abituati a considerare nel passato con figure come Cenerento-
la, la Bella Addormentata o Biancaneve in attesa del Principe Az-
zurro6. Qui Eve ha in mano la situazione. La sua bellezza e perfe-

6. Cfr A. Piersanti, «Da Cenerentola a Eve come cambiano le donne Di-


sney», in Oss. Rom., 20-21 ottobre 2008.
OPERE

zione, probabilmente modellata sull’immagine di un iPod7 bianco


in formato tondeggiante, sa impegnarsi per salvare il mondo e si
lascia colpire dall’affetto di Wall•e, piccolo robot arrugginito e spor-
co, a cui viene lasciato il «compito» di trovare spazio per la bellezza e
la poesia, pur nella determinazione dei suoi gesti che sanno vincere
anche la naturale paura. Non si può dire che i ruoli semplicemente
si ribaltino, ma essi si integrano e si compongono in maniera nuova
e rispettosa delle differenze.
Anche il contrasto tra l’arrugginito e tecnologicamente obso-
leto Wall•e e la splendida, bianca e ipertecnologica Eve suggerisce
una reciproca accettazione delle differenze. Il nuovo umanesimo
nascerà da questi due robot che hanno imparato a vivere la loro
esistenza come missione, coinvolgendo in questo compito anche
88
altri robot che si ribellano a una vita diminuita. La loro è un’impre-
sa che non si reggerebbe senza motivare collaboratori appassionati
ed efficaci nella loro azione. Wall•e ricorda in qualche modo E.T.,
ma l’extraterrestre di Spielberg punta nostalgicamente il dito verso
la sua «casa»; Wall•e invece è già a casa sua e ha un compito preciso
ma utopico e vano, cioè ripulire da solo la Terra. E tuttavia si impe-
gna in una missione, quella di riportare gli uomini sul loro pianeta,
mossa e motivata innanzitutto dalla scoperta della compagnia di
Eve. Non è la nostalgia a muovere Wall•e, ma l’amore e la missione
per gli uomini che egli, per altro, non ha mai conosciuti. Wall•e ed
Eve sono una sorta di Adamo ed Eva che si innamorano in un Eden
ormai andato in rovina e al quale, grazie al loro amore, offrono una
seconda opportunità.
L’astronave Axiom, a sua volta, è stata una sorta di arca di Noè
che ha salvato l’umanità dal «diluvio» di immondizia. Da essa è par-
tita Eve come colomba inviata a cercare forme di vita sulla terra. Ed
Eve è tornata con la buona notizia, ma è come se alla fine l’arca fosse
diventata una prigione da cui sarebbe stato impossibile evadere se
non ci fosse stato l’intervento dei due robot. Notiamo però, e con

7. Gli omaggi alla Apple sono vari: oltre alla forma di Eve, i suoni di accen-
sione sia di Wall•e sia di Eve corrispondono ai suoni di accensione (il meno e il più
recente) dei computer Macintosh, e anche la voce del pilota automatico della Axiom
è realizzata sinteticamente con un software Mac. L’amministratore delegato della
Apple, Steve Jobs, è anche uno dei fondatori ed ex-proprietario della Pixar.
«WALL•E»

piacere, che gli uomini obesi e impacciati della ipertecnologica arca


di Noè non sembrano aver perso la scintilla della nostalgia e del de-
siderio non di sopravvivere, bensì di vivere, come afferma lo stesso
capitano della navicella che, da nuovo Noè, si ribellerà ai mecca-
nismi e si batterà con i robot per fare rotta sulla Terra. Gli umani
sono subito reattivi se qualcosa li libera dalla monotona routine in
cui tutto è assicurato, ordinato e programmato dal totalitarismo soft
che impera sulla Axiom.
Nel film non appare alcun riferimento esplicito alla fede, ma
una coscienza cristiana non farà fatica ad apprezzarlo. In una in-
tervista rilasciata al World Magazine alla domanda su come Wall•e
abbia rappresentato il suo modo di vedere le cose, il regista Andrew
Stanton ha risposto: «Ciò che realmente mi interessava era l’idea
89
che la cosa più umana dell’universo fosse una macchina perché è
interessata a scoprire che cosa significhi vivere più che le persone
vere e proprie. Il più grande comandamento che Cristo ci ha dato è
quello di amare, ma questa non è sempre la nostra priorità. Questa
premessa è per dimostrare ciò che intendo dire: l’amore irrazionale
sconfigge la meccanica programmazione del mondo. Questi due
robot stanno provando a superare le loro direttive essenziali, le fina-
lità per le quali erano stati programmati, per sperimentare l’amore»8.
Il contenuto di queste dichiarazioni non cambia in nulla la com-
prensione del film e, tuttavia, chiarifica un aspetto importante della
sua ispirazione di fondo e identifica il suo tema chiave.
Wall•e non è riducibile, come alcuni critici hanno fatto, a una
sorta di semplice atto di accusa contro l’umanità responsabile del
disastro ecologico né un mero atto di accusa nei confronti di un
mondo ormai mandato alla rovina da un consumismo accecante
e accecato dal profitto. È evidente che qui i temi dell’economia e
dell’ecologia si fondono nel desiderio di un mondo in cui le cose
non siano più semplici «merci» e in cui la Terra non sia un semplice
luogo di commercio e sfruttamento delle risorse. E tuttavia Wall•e
non è un film a tema o la mera drammatizzazione di una idea apo-
calittica. Anzi, quando rischia di esserlo la tenuta del film ne risente.
In realtà il regista crea un vero e proprio mondo di solida tenuta

8. http://www.worldmag.com/articles/14127
OPERE

metaforica, che sa parlare di temi che riguardano la coscienza, la


libertà, gli affetti, il rapporto con le cose, la poesia. Si potrebbe af-
fermare anzi che qui il tema ecologico o quello capitalistico siano
una sineddoche, cioè il parlare di un problema particolare, sebbene
notevolissimo, per affrontare un tema più ampio, ancor più radicale:
il destino stesso dell’umanità dell’essere umano9.
E non ci sono proclami in questo film, che è sostanzialmente
muto. I due robot non sono antropomorfizzati fino ad assumere il
linguaggio: sono definiti nella loro personalità e nei loro gesti da
movimenti ed effetti sonori. Parlano per beep e brevi suoni digi-
talizzati, sempre pacati, che qualche volta si condensano in poche
elementari parole. La bellezza del film, grazie alla maestria di Ben
Burtt, è anche proprio in questi effetti che sono in grado, pur nel-
90
la loro essenzialità, di avere la profondità emotiva e il calore della
comunicazione umana. In particolare, il pubblico è sollecitato a in-
terpretare ciò che accade come lo può essere una persona davanti
al balbettio di un bambino o al verso di un cane o di un gatto. Lo
spettatore cioè si trova a trasferire le sue convinzioni emotive con
frasi come «penso che sia triste» oppure «penso che lui le voglia
bene», a partire da suoni non articolati.

***

Bisogna dare atto ad Andrew Stanton di aver realizzato un bel


film, dopo essersi già segnalato nel 2003 come regista e sceneg-
giatore di Alla ricerca di Nemo per il quale aveva vinto l’Oscar per
il miglior film di animazione. A John Lasseter, dal 2005 direttore
creativo della Pixar e dei Walt Disney Studios, va il riconoscimento
di aver indovinato una linea di produzione di qualità e insieme di
grandissimo successo popolare. Lasseter è uno dei membri fondato-
ri della Pixar, della quale ha supervisionato tutti i film, oltre ad aver
personalmente diretto i fortunati e davvero belli Toy Story e il suo
seguito, A Bug’s Life e Cars. Tra i vari riconoscimenti, Lasseter ha

9. Lo stesso regista ha affermato in una intervista al World Magazine del 28


giugno 2008 che l’abbandono della terra da parte dell’umanità a causa dell’immon-
dizia è più uno stratagemma narrativo che un vero e proprio tema chiave del film
(http://www.worldmag.com/articles/14127#).
«WALL•E»

vinto due premi Oscar, per il miglior cortometraggio di animazio-


ne (Tin Toy), un Oscar speciale per Toy Story e un Golden Globe per
il miglior film di animazione con Cars. La coppia Stanton-Lasseter
stava dietro all’altro fortunato e godibile film Disney-Pixar Rata-
touille, uscito nel 2007. Il loro approccio al cinema di animazione
sembra essere stato fino ad oggi attento ai temi della famiglia, della
persona, della responsabilità, delle relazioni vere e della bellezza. In
Wall•e questi temi si ritrovano insieme grazie a una ispirazione che
unisce poesia, impegno, dramma e delicato senso dell’umorismo10.
La colonna sonora accompagna tutta la vicenda del film grazie
alle musiche originali di Thomas Newman, che è riuscito a comu-
nicare l’immagine acustica del mondo che il regista dispiega. Ma
è soprattutto da notare che la musica entra nel vivo della storia e
91
svolge funzioni narrative, e non di semplice e puro accompagna-
mento sonoro, con la gioiosa Down to Earth di Peter Gabriel, con
l’archeologia sonora di Put On Your Sunday Clothes e It only takes
a moment, e infine con la magia di La vie en rose interpretata da
Louis Armstrong. Queste «vecchie» canzoni in un film di anima-
zione tridimensionale quale è Wall•e accentuano lo straniamento e
dispiegano il fiabesco.

10. Prima del film Wall•e nelle sale viene sempre proiettato il cortometraggio
originale Presto, sempre prodotto dalla Disney e dalla Pixar: è la storia di un presti-
giatore di fin-de-siècle alle prese con un coniglio affamato che apparentemente gli
rovina lo spettacolo, ma in realtà glielo salva.
OPERE

«MELANCHOLIA»

Virgilio Fantuzzi S.I.

Allontanato dal festival di Cannes 2011 come persona non grata


a motivo di alcune frasi inopportune sul conto di Hitler pronuncia-
te nel corso della conferenza stampa per la presentazione del film
Melancholia, il regista danese Lars von Trier ha evitato con questa
92
gaffe di entrare in competizione diretta con il collega americano
Terrence Malick, autore di The Tree of Life (cfr Civ. Catt. 2011 IV
49-62), per la conquista della Palma d’oro. I due film, presenti in
concorso, hanno diversi elementi in comune, come, ad esempio, la
forza immaginativa degli autori, che li spinge entrambi a confron-
tare dettagli minimi della vita quotidiana con il roteare dei pianeti
e delle galassie negli spazi infiniti.
Assonanze e dissonanze si ripercuotono tra macrocosmo e mi-
crocosmo alla ricerca di segrete corrispondenze... Ma, mentre il
film di Malick, che evoca la Genesi, è intriso di cristianesimo e
di spiritualismo, quello di Trier, proteso verso l’Apocalisse, ostenta
un atteggiamento disincantato, venato di ateismo e di nichilismo.
Il secondo, insomma, ha in sé gli elementi che possono attirare la
simpatia di tutti coloro che non hanno visto di buon occhio l’asse-
gnazione al primo del massimo riconoscimento.
Melancholia inizia con un prologo nel quale, con immagini
spettacolari riprese al ralenti ed elaborate con tecnica digitale, viene
annunciata come in una profezia la fine catastrofica della vicenda.
La terra sta per entrare in collisione con un pianeta dieci volte più
grande di lei. Le due ore di durata del film non sono che l’attesa di
questa fine annunciata, che sarà una fine definitiva per tutti, perché
non c’è nessun’altra forma di vita fuori dalla terra. Questa attesa si
divide in due parti contrassegnate dal nome delle due protagoniste,

© La Civiltà Cattolica 2012 I 105-106 | 3877 (7 gennaio 2012)


«MELANCHOLIA»

due sorelle: Justine (Kirsten Dunst, Palma d’oro come migliore at-
trice, magra consolazione per chi si aspettava di più) e Claire (Char-
lotte Gainsbourg).
Le due parti del film si oppongono reciprocamente come il pie-
no e il vuoto. In un castello svedese di smagliante bellezza, sia come
edificio, sia per il paesaggio che lo circonda, si svolge nella prima
parte uno sfarzoso ricevimento di nozze. Justine e Michael (Ale-
xander Skarsgard), dopo il matrimonio in chiesa, raggiungono gli
invitati con due ore di ritardo. Il programma del ricevimento, che è
costato un fiume di denaro, è stato predisposto con sagacia e viene
gestito con energia dall’efficientissima Claire. Ma i contrattempi,
che si susseguono a catena, non fanno che prolungare l’attesa della
catastrofe di cui si parlava, catastrofe planetaria che va di pari passo
93
con quella personale, familiare, culturale ecc., unica realtà che si na-
sconde dietro gli orpelli di un rito sociale nel quale nessuno crede.
Il matrimonio fallisce prima che i festeggiamenti abbiano termine.
Passiamo alla seconda parte. Spariti gli invitati della festa, che
riempivano il castello in ogni anfratto, il cast si riduce a pochi per-
sonaggi: oltre alle due sorelle, è presente John (Keifer Sutherland),
marito di Claire, di professione astrofisico, e il loro figlioletto. Si
precisa meglio il rapporto tra le due donne. Justine, la sorella mino-
re, soffre per una forte depressione. Ciò spiega il suo strano com-
portamento durante il ricevimento di nozze. Claire assume nei suoi
confronti un atteggiamento materno. Cerca di sostenerla per quan-
to può.
Nella seconda parte, terminata la baldoria con tutti i suoi con-
trattempi, non resta che aspettare l’inevitabile collisione tra la terra
e il pianeta, di nome Melancholia, che sta per stringerla in un ab-
braccio mortale. Questa volta è Claire, la sorella maggiore, a entrare
in crisi. In fondo, Justine, che non è legata a nessuno, non ha nulla
da perdere. Claire invece ha un marito, un figlio... John è uno di
quegli uomini, innamorati della scienza, che pensano di poter dare
una spiegazione logica ad ogni fenomeno. Questa volta vuole spie-
gare perché il pianeta non colpirà la terra. Per tutto il film rassicura
la moglie. Ma a un certo punto smette di farlo e allora lei si sente
perduta.
OPERE

Il film nasce dall’esperienza personale del regista, che ha attra-


versato lunghi periodi di depressione. «La “melancolia” — egli dice
— è l’aspetto positivo della depressione». È il sentimento dolceamaro
che rende sopportabile la sofferenza. Tante opere d’arte sono nate
da questo stato d’animo contrassegnato da una fondamentale am-
biguità. Il romanticismo vi si è immerso a fondo, e Lars von Trier,
assecondato da Kirsten Dunst sua complice perfetta, vi attinge a
piene mani. Basta pensare all’uso che il regista fa dello struggen-
te preludio dell’opera Tristano e Isotta di Wagner, o alle incursioni
nel dominio della pittura: dal realismo de I cacciatori sulla neve
di Bruegel al simbolismo de L’isola dei morti di Böklin, fino agli
estenuanti languori del preraffaellita Millais, con la sua Ofelia che
galleggia sull’acqua stringendo al petto un mazzolino di mughetti.
94
FANTASCIENZA 2018*

Giovanni Arledler S.I.

«Distopico» è un aggettivo che deriva da distopia, «un futuro


indesiderabile, caratterizzato da una società totalitaria, scientista e
tecnocratica»1. Il presente non può essere al tempo stesso il futuro, e
quindi nel nostro sottotitolo c’è un errore, a meno che non vogliamo
95
esprimerci con una sorta di ossimoro particolarmente forzato, o che
ci giustifichiamo dicendo che stiamo parlando per l’appunto di fanta-
scienza. È comunque legittimo chiedersi se il sottotitolo sia pertinente.
L’articolo nasce dal desiderio di aggiornare le osservazioni che an-
diamo facendo sui più interessanti film di fantascienza, a partire dalla
riflessione sulla saga di Guerre Stellari2, della quale è uscito di recente
l’ottavo episodio. Ma più che parlare degli «ultimi jedi» – che sfiorere-
mo comunque per un paio di brevi considerazioni –, ci concentriamo
sul commento a Blade Runner 2049, sequel del celebre film di Ridley
Scott, che ha diviso pubblico e critica sia nel giudizio sulla qualità del
film stesso (per alcuni molto bello) sia sui suoi contenuti e significati.

Ma è proprio un futuro?

Il primo Blade Runner era ambientato in un 2019 che ormai


sappiamo non rappresenta più la realtà che stiamo vivendo3: siamo
ancora molto lontani dal colonizzare pianeti di altri sistemi solari e

* Titolo originale: «Fantascienza 2018. Fuga da un presente distopico».


1. G. Devoto - G. C. Oli, Il vocabolario dell’italiano contemporaneo, Milano,
Mondadori, 2017.
2. Cfr G. Arledler, «Gli ideali tra le stelle. Una rilettura di Star Wars», in
Civ. Catt. 2012 IV 365-576.
3. Tra le realtà che invece hanno superato la nostra immaginazione c’è la
miniaturizzazione dei droni e delle armi.

© La Civiltà Cattolica 2018 II 496-502 | 4031 (2/16 giugno 2018)


OPERE

dal creare artificialmente esseri umani superpotenziati in laborato-


rio4, ai quali affidare i mestieri che non vorremmo fare e le guerre
che non vorremmo combattere. L’immaginario sforzo scientifico e
tecnologico non migliora la vita sul pianeta.
L’inquinamento è aumentato; molte specie di animali e di piante
sono scomparse; le città tendono a ricoprire tutta la superficie del pia-
neta; i divertimenti, arricchiti dall’ipertecnologia, non offrono deci-
sive motivazioni per le quali valga la pena di vivere; gli esseri umani
parlano dialetti come linguaggi internazionali, ma non si comunica-
no esperienze sincere e profonde.
In questo scenario di un immaginario 2019, alcuni «replicanti»,
esseri umani artificiali del tipo «Nexus 6», tornano illegalmente sulla
terra, perché la durata della loro vita è di soli quattro anni e vogliono
96
essere aiutati ad allungarla dai loro creatori della Tyrrell Corporation.
Ma non si può modificare un progetto organico artificiale vivente
e, in ogni caso, i replicanti vanno eliminati da una squadra di polizia
chiamata Blade Runner; cosa che in effetti avviene con due non pic-
cole eccezioni: il poliziotto cacciatore Deckard (Harrison Ford) non
riesce a uccidere il capo dei replicanti, Roy (Rutger Hauer), anzi vie-
ne salvato da lui mentre sta per precipitare da un grattacielo; Deckard
risparmia l’ultima replicante, Rachael (Sean Young), sia perché lei lo
ha aiutato mentre stava per essere ucciso da un altro replicante, sia
perché si è innamorato di lei, che è forse un modello così speciale da
non avere data di «scadenza» e da essere capace di sentimenti ben più
sofisticati degli altri esseri umani artificiali.

«Blade Runner 2049»

Mentre nella storia e nella sceneggiatura del primo Blade Run-


ner si potevano facilmente trovare errori e incongruenze, lasciate
da Ridley Scott nell’edizione speciale del 2007, questo seguito può
godere di riflessioni elaborate non soltanto grazie ai 30 anni di di-
stanza rispetto al primo film, dichiarati anche nel titolo, ma anche
ad altri 5 anni reali in più di eventuale gestazione, essendo la prima
pellicola datata 1982.

4. Non alludiamo alla clonazione.


FANTASCIENZA 2018

Forse reagendo ai problemi che ha avuto George Lucas con


gli sceneggiatori e i registi degli ultimi episodi di Guerre Stellari,
Ridley Scott ha preferito affidare completamente ogni decisione e
responsabilità al regista canadese Denis Villeneuve5 e ai suoi colla-
boratori, che hanno offerto una loro visione del sequel, lavorando
veramente al meglio delle loro possibilità. Una prima lettura del
film può partire utilmente dal rapporto tra questa nuova storia di
Blade Runner e la precedente.
Benché siano passati 30 anni, i replicanti «difettosi» non sono stati
ancora del tutto eliminati. A dar loro la caccia c’è sempre la Blade Run-
ner, nella persona del tenente Joshi (Robin Wright), che ora però utilizza
come poliziotti alcuni replicanti perfetti, come K (Ryan Gosling), che
vediamo eliminare un Nexus 8, non prima che questi gli abbia gridato
97
che in fondo è sempre uno schiavo, incapace di emozioni e di sognare
«miracoli».
In realtà K elabora pensieri e sentimenti sempre più complessi e, seb-
bene la sua unica relazione sembra essere con una ragazza ologramma,
Joi (Ana De Arms) – e gli ologrammi, paradossalmente, a loro volta,
appaiono più umani dei replicanti –, si pone seriamente il quesito se
abbia o no un’anima.
L’eliminazione del replicante ha portato alla scoperta del cadavere di
una replicante donna, vecchio di 30 anni, che incredibilmente porta i
segni di un parto, cosa da sempre impossibile per le creature artificiali.
Non ci vuole molto alla Blade Runner per capire che potrebbe trattarsi di
Rachael (Sean Young), scomparsa con Deckard proprio 30 anni prima.
K (che crescendo di consapevolezza, grazie alle domande che si
fa sopra un suo sogno o fantasia ricorrente6, prenderà il nome di Joe)
è incaricato di scoprire se Deckard (ancora Harrison Ford) è ancora
vivo, e segue alcune piste apparentemente non collegate tra loro:
i registri di una sorta di sinistro orfanotrofio che sfrutta il lavoro
di bambini anche piccoli; le ultime notizie che si possono avere su
Deckard tramite un suo vecchio compagno alla Blade Runner di
nome Gaff (Edward James Olmos); il parere di una raffinata esperta

5. Si è già fatto apprezzare, tra l’altro, per il film di fantascienza Arrival (2016).
6. Scappa da altri bambini che lo vogliono picchiare e togliergli un giocatto-
lo, che nasconde nei macchinari di una fabbrica abbandonata.
OPERE

di ricordi artificiali da impiantare ai replicanti – Ana Stelline (Carla


Juri) –, che conferma che il suo sogno ricorrente corrisponde a qual-
cosa di reale, di effettivamente vissuto.

Ingarbugliandosi

Intanto le ricerche della Blade Runner hanno messo in allarme


la Wallace Corporation, che da anni ha sostituito la Tyrrell nella rea-
lizzazione di replicanti, in teoria sempre più perfetti e controllabili.
Constatiamo, di sequenza in sequenza, che questa fama della per-
fezione non soltanto è errata, ma che i nuovi replicanti sono capaci
di crudeltà inaudite e, agli occhi dello stesso proprietario Wallace
( Jared Leto), sembrano in parte sempre più inutili, anche perché
98
continuano a essere incapaci di riprodursi tra di loro.
Wallace scatena la replicante Luv (Sylvia Hoekes) contro K-Joe
in una caccia spietata. Joe riesce finalmente a trovare Deckard nei
resti desolati di quella che un tempo era la favolosa Las Vegas, ma
gli uomini della Wallace sono sopra di loro. Essi vengono inaspet-
tatamente salvati non dalla Blade Runner, ma da una fantomatica
resistenza formata anche da quelli che sono i nuovi replicanti che
dovevano essere obbedienti e pacifici.
Joe, che nelle sue ricerche ha trovato in sé diversi elementi che ri-
conducevano al misterioso figlio di Deckard – ormai si sa con certezza
che era una bambina, e ora è una donna di 30 anni –, apprende dalla
resistenza che lui potrebbe essere una sorta di gemello misterioso, e
questo spiegherebbe i suoi sogni e le sue inclinazioni.
K-Joe, nonostante orribili ferite, riesce a portare Deckard dalla fi-
glia (Ana Stelline), che, soffrendo di una rara malattia genetica, vive e
lavora in una sorta di casa-laboratorio tutta per sé.
Un’abbondante nevicata ravviva le ultime, grigie, immagini del
film, forse per dare un leggero segnale di speranza. Blade Runner 2019,
nell’edizione critica curata da Ridley Scott, termina con la brusca chiu-
sura della porta di un ascensore, che lascia il fondale completamente
nero, su cui pian piano scorrono i titoli di coda. I titoli di coda di Blade
Runner 2049 sono continuamente disturbati da particolari scariche di
energia, qualcosa di simile a quanto nella vita reale è dovuto a una
FANTASCIENZA 2018

cattiva ricezione: il futuro che abbiamo rivisitato, dunque, è molto di-


fettoso e per nulla desiderabile.

Un futuro, anzi un presente «inverso»

Riflettendo su cosa si può dire di più sul film, ci siamo visti offrire
un aiuto formidabile da William Gibson7, l’inventore del cyberspazio,
un riferimento obbligato per la fantascienza degli ultimi trent’anni.
Gibson, fin dalle sue prime prove di narratore8 e presentando il suo
ultimo romanzo nella traduzione italiana, osserva che il mondo che sta
descrivendo da anni prende spunto proprio dal primo Blade Runner, per
via di quei personaggi tatuati e dai capelli come creste colorate (che con-
tribuirono a suggerire il termine cyberpunk, per la nuova umanità tecno-
99
logica). Egli sottolinea anche che a creare lo straniamento, lo sfasamento
temporale, quel continuo senso di insicurezza e malessere che pervade
molta dell’attuale fantascienza, è lo sguardo che si volge all’indietro, e
non si ispira solo agli ultimi 20-30 anni, ma risale al tempo degli anni
Quaranta del secolo scorso: anni resi drammatici dalla Seconda guerra
mondiale, ma anche suggestivi a causa di vecchie foto, antiche partiture
musicali poggiate sul leggio di un pianoforte, canzoni di qualche decen-
nio prima – come l’italiana «Parlami d’amore Mariù» –, che rimangono
indelebilmente nella memoria delle generazioni non giovanissime.
William Gibson confessa ancora che nel suo ultimo romanzo,
The Peripheral, tradotto in italiano con Inverso9, si è accorto che non
stava parlando della Londra e degli Stati Uniti di un periodo più o
meno situato tra il 2025 e il 2095, ma dei giorni nostri, e la cosa
che più l’ha colpito è stata l’elezione di Donald Trump10, con tutto
quello che essa comporta.
Nella Virginia e nella Londra del 2025 ci sono soltanto, rispet-
to all’oggi, un po’ più droni, robot e avatar sperimentali, mentre

7. Omonimo dell’autore teatrale di Anna dei miracoli e di Due sull’altalena, è nato


a Conway, nella Carolina del Sud, il 17 marzo 1948 e si è fatto conoscere con una serie di
romanzi di fantascienza come Neuromante, Giù nel cyberspazio, Monna Lisa Cyberpunk,
La notte che bruciammo Chrome, e sceneggiature di film come Johnny Mnemonic.
8. Cfr G. Arledler, «Giù nel ciberspazio», in Letture 46 (1991) 515.
9. Cfr W. Gibson, Inverso, Milano, Mondadori, 2017.
10. Cfr T. Pincio, «Donald Trump l’alieno oltre ogni fantascienza», in Il ve-
nerdì di Repubblica, 15 dicembre 2017, 116 s.
OPERE

dal 2095 risalgono, grazie ai viaggi nel tempo, alcuni individui


che si mantengono in incognito e che, per lo più, hanno intenzio-
ne di compiere affari non del tutto limpidi, mentre una piccolissi-
ma minoranza ipotizza di inventare qualcosa per riparare ai guasti
causati dall’umanità nel futuro.
Sebbene non ci siano stati collegamenti tra Inverso e la sceneg-
giatura di Blade Runner 2049, si possono scoprire somiglianze e affi-
nità, alcune delle quali sono sorprendentemente anche nella favola di
Star War 8: da quelle esteriori, come il chiamare blaster gli spaventosi
pistoloni del futuro, alla già accennata ipersensibilità emotiva, insita
in ogni genere di creature artificiali (a fronte della progressiva apatia
degli umani), all’inedita persistenza del bene e del male in lotta den-
tro di noi, alla constatazione che è l’economia, e quindi il profitto,
100
non il potere, a far muovere persone e avvenimenti.
Più sottile e subdola è la distopia del futuro in Inverso, sia per-
ché chi vive nel futuro non vuole rivelare agli umani del passato i
disastri naturali e sociali che sono accaduti, sia perché vuole muo-
versi nel passato stesso senza suscitare allarmismi.
Sull’avvenimento più importan­te che caratterizza il futuro le due
storie sono molto vicine: tra il 2030 e il 2050 avverrà una crisi che
segnerà irrimediabilmente il pianeta. In Inverso la crisi è chiamata
jackpot e consiste nel progressivo inquinamento, nella tendenza alla
diminuzione delle nascite, al propagarsi di nuove malattie, alla ri-
nuncia a qualsiasi forma di amministrazione e di governo valido a
favore degli interessi economici di ristrette oligarchie, che hanno a
disposizione servizi di polizia e di sicurezza efficientissimi. In Blade
Runner 2049 il disastro è definito come un «generico blackout», che
ha quasi azzerato del tutto i cervelloni che regolano la vita comune,
peggiorando le crisi ambientali e demografiche già prevedibili.

Scivolando all’indietro

Ma in che modo viene descritta una fuga al contrario, o «inver-


sa», come la definisce Gibson? Accanto alla cronologia del mondo
reale bisogna tener presente la cronologia della letteratura e del ci-
nema fantastico, che fanno anch’essi parte della storia e dell’imma-
ginario collettivo.
FANTASCIENZA 2018

Per fare un esempio, tenendo presente una sequenza che com-


prende il romanzo 1984 di Orwell, la serie televisiva Spazio 1999, i
due romanzi di Arthur Clarke, con conseguenti film – 2001 Odissea
nello spazio e 2010 L’ anno del contatto – fino al Blade Runner 2019, ci
accorgiamo che le cose non sono esattamente come vengono rac-
contate progressivamente sia nella letteratura sia nella vita reale: di
Grande Fratello, oggi, non ce n’è solo uno, e tutti hanno la tendenza
a diventare una sorta di Grande Fratello per sé e per gli altri; non
solo non siamo andati su altri pianeti, ma non ci siamo neanche sta-
biliti con continuità sulla vicina luna ecc.
Leggendo le esigenti 520 pagine di Inverso con queste premesse,
ci rendiamo conto che il 2025 non è molto diverso dai nostri giorni,
e che il nebuloso futuro del 2095 è solo un mondo impoverito, dal
101
quale i suoi abitanti cercano con complicati stratagemmi di fuggire.
La lettura di Inverso ci offre un quotidiano descritto con minuzia
di particolari, dove sembra – a parte qualche uccisione e qualche
tentativo di rapimento – che non succeda nulla.
I protagonisti – Flynne nel 2025 e Wilf nel 2095 – si limitano
rispettivamente a testare un avatar per spostarsi nel tempo e a fare
progetti di non meglio precisate imprese nel passato, e alla lunga
anche il lettore meno attento si accorge che quel presente non è
proprio straordinario, e che quel futuro, avaro di notizie e zeppo
di contraddizioni, non è accattivante. Le scarsissime date – più o
meno precise – offerte da Gibson (2095, 2070, 2049, 2029, 2028,
2020, 2017, 2014, 1951) sembrano in effetti accompagnarci in que-
sto lento scivolare all’indietro.
Poiché il finale – relativamente aperto – del romanzo non ci dice
se la fuga dal futuro riuscirà e quali ne saranno le conseguenze, atten-
diamo il promesso sequel di Inverso. Staremo bene attenti nel verificare
se gli indirizzi e le suggestioni di cui abbiamo parlato siano facilmente
rintracciabili in altri scritti o in altri film, come La forma dell’acqua di
Guillermo Del Toro, che, per parlarci dei nostri giorni, ambienta la
storia al tempo della Guerra fredda nell’anno 196211.

11. Cfr V. Fantuzzi, «“La forma dell’acqua”, un film di Guillermo Del Toro»,
in Civ. Catt. 2018 II 190-193.
SFIDA POLITICA
RELIGIONE, MANICHEISMO POLITICO E
CULTO DELL’APOCALISSE*

Antonio Spadaro S.I. - Marcelo Figueroa

In God We Trust: questa è la frase impressa sulle banconote degli


Stati Uniti d’America, che è anche l’attuale motto nazionale. Esso
apparve per la prima volta su una moneta nel 1864, ma non divenne
ufficiale fino al passaggio di una risoluzione congiunta del Con-
103
gresso nel 1956. Significa: «In Dio noi confidiamo». Ed è un motto
importante per una nazione che alla radice della sua fondazione ha
pure motivazioni di carattere religioso. Per molti si tratta di una
semplice dichiarazione di fede, per altri è la sintesi di una proble-
matica fusione tra religione e Stato, tra fede e politica, tra valori
religiosi ed economia.
Specialmente in alcuni governi degli Stati Uniti degli ultimi
decenni, si è notato il ruolo sempre più incisivo della religione nei
processi elettorali e nelle decisioni di governo: un ruolo anche di or-
dine morale nell’individuazione di ciò che è bene e ciò che è male.
A tratti questa compenetrazione tra politica, morale e religione
ha assunto un linguaggio manicheo che suddivide la realtà tra il
Bene assoluto e il Male assoluto. Infatti, dopo che Bush a suo tempo
ha parlato di un «asse del male» da affrontare e ha fatto richiamo
alla responsabilità di «liberare il mondo dal male» in seguito agli
eventi dell’11 settembre 2001, oggi il presidente Trump indirizza la
sua lotta contro un’entità collettiva genericamente ampia, quella dei
«cattivi» (bad) o anche «molto cattivi» (very bad). A volte i toni usa-
ti in alcune campagne dai suoi sostenitori assumono connotazioni
che potremmo definire «epiche».

* Il titolo originale: «Fondamentalismo evangelicale e integralismo cattoli-


co. Un sorprendente ecumenismo».

© La Civiltà Cattolica 2017 III 105-113 | 4010 (15 lug/5-19 ago 2017)
SFIDA POLITICA

Questi atteggiamenti si basano sui princìpi fondamentalisti


cristiano-evangelici dell’inizio del secolo scorso, che si sono man
mano radicalizzati. Infatti si è passati da un rifiuto di tutto ciò che
è «mondano», com’era considerata la politica, al perseguimento di
un’influenza forte e determinata di quella morale religiosa sui pro-
cessi democratici e sui loro risultati.
Il termine «fondamentalismo evangelico», che oggi si può as-
similare a «destra evangelicale» o «teoconservatorismo», ha le sue
origini negli anni 1910-15. A quell’epoca un milionario del Sud
della California, Lyman Stewart, pubblicò 12 volumi intitolati
I fondamentali (Fundamentals). L’autore cercava di rispondere alla
«minaccia» delle idee moderniste dell’epoca, riassumendo il pensie-
ro degli autori di cui apprezzava l’appoggio dottrinale. In tal modo
104
esemplificava la fede evangelicale quanto agli aspetti morali, sociali,
collettivi e individuali. Furono suoi estimatori vari esponenti poli-
tici e anche due presidenti recenti come Ronald Reagan e George
W. Bush.
Il pensiero delle collettività sociali religiose ispirate da autori
come Stewart considera gli Stati Uniti una nazione benedetta da
Dio, e non esita a basare la crescita economica del Paese sull’ade-
sione letterale alla Bibbia. Nel corso degli anni più recenti esso si è
inoltre alimentato con la stigmatizzazione di nemici che vengono
per così dire «demonizzati».
Nell’universo che minaccia il loro modo di intendere l’ Ameri-
can way of life si sono avvicendati nel tempo gli spiriti modernisti, i
diritti degli schiavi neri, i movimenti hippy, il comunismo, i movi-
menti femministi e via dicendo, fino a giungere, oggi, ai migranti
e ai musulmani. Per sostenere il livello del conflitto, le loro esegesi
bibliche si sono sempre più spinte verso letture decontestualizzate
dei testi veterotestamentari sulla conquista e sulla difesa della «terra
promessa», piuttosto che essere guidate dallo sguardo incisivo e pie-
no di amore del Gesù dei Vangeli.
Dentro questa narrativa, ciò che spinge al conflitto non è
bandito. Non si considera il legame esistente tra capitale e profitti
e la vendita di armi. Al contrario: spesso la guerra stessa è assi-
milata alle eroiche imprese di conquista del «Dio degli eserciti» di
Gedeone e di Davide. In questa visione manichea, le armi posso-
RELIGIONE, MANICHESIMO POLITICO E CULTO DELL’APOCALISSE

no dunque assumere una giustificazione di carattere teologico, e


non mancano anche oggi pastori che cercano per questo un fon-
damento biblico, usando brani della Sacra Scrittura come pretesti
fuori contesto.
Un altro aspetto interessante è la relazione che questa collet-
tività religiosa, composta principalmente da bianchi di estrazione
popolare del profondo Sud americano, ha con il «creato». Vi è
come una sorta di «anestesia» nei confronti dei disastri ecologi-
ci e dei problemi generati dai cambiamenti climatici. Il «domi-
nionismo» che professano – che considera gli ecologisti persone
contrarie alla fede cristiana – affonda le proprie radici in una
comprensione letteralistica dei racconti della creazione del libro
della Genesi, che colloca l’uomo in una situazione di «dominio»
105
sul creato, mentre quest’ultimo resta sottoposto al suo arbitrio in
biblica «soggezione».
In questa visione teologica, i disastri naturali, i drammatici
cambiamenti climatici e la crisi ecologica globale non soltanto non
vengono percepiti come un allarme che dovrebbe indurli a rivedere
i loro dogmi ma, al contrario, sono segni che confermano la loro
concezione non allegorica delle figure finali del libro dell’Apocalis-
se e la loro speranza in «cieli nuovi e terra nuova».
Si tratta di una formula profetica: combattere le minacce ai va-
lori cristiani americani e attendere l’imminente giustizia di un Ar-
mageddon, una resa dei conti finale tra il Bene e il Male, tra Dio e
Satana. In questo senso ogni «processo» (di pace, di dialogo ecc.)
frana davanti all’impellenza della fine, della battaglia finale contro
il nemico. E la comunità dei credenti, della fede ( faith), diventa la
comunità dei combattenti, della battaglia ( fight). Una simile let-
tura unidirezionale dei testi biblici può indurre ad anestetizzare le
coscienze o a sostenere attivamente le situazioni più atroci e dram-
matiche che il mondo vive fuori dalle frontiere della propria «terra
promessa».
Il pastore Rousas John Rushdoony (1916-2001) è il padre del
cosiddetto «ricostruzionismo cristiano» (o «teologia dominionista»),
che grande impatto ha avuto nella visione teopolitica del fonda-
mentalismo cristiano. Essa è la dottrina che alimenta organizzazio-
ni e networks politici come il Council for National Policy e il pensiero
SFIDA POLITICA

dei loro esponenti quali Steve Bannon, attuale chief strategist della
Casa Bianca e sostenitore di una geopolitica apocalittica1.
«La prima cosa che dobbiamo fare è dare voce alle nostre Chie-
se», dicono alcuni. Il reale significato di questo genere di espressioni
è che ci si attende la possibilità di influire nella sfera politica, parla-
mentare, giuridica ed educativa, per sottoporre le norme pubbliche
alla morale religiosa.
La dottrina di Rushdoony, infatti, sostiene la necessità teocratica
di sottomettere lo Stato alla Bibbia, con una logica non diversa da
quella che ispira il fondamentalismo islamico. In fondo, la narrativa
del terrore che alimenta l’immaginario degli jihadisti e dei neo-
crociati si abbevera a fonti non troppo distanti tra loro. Non si deve
dimenticare che la teopolitica propagandata dall’Isis si fonda sul me-
106
desimo culto di un’apocalisse da affrettare quanto prima possibile.
E dunque non è un caso che George W. Bush sia stato riconosciuto
come un «grande crociato» proprio da Osama bin Laden.

Teologia della prosperità e retorica della libertà religiosa

Un altro fenomeno rilevante, accanto al manicheismo politi-


co, è il passaggio dall’originale pietismo puritano, basato su L’ etica
protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, alla «teologia
della prosperità», propugnata principalmente da pastori milionari
e mediatici e da organizzazioni missionarie con un forte influs-
so religioso, sociale e politico. Essi annunciano un «vangelo della
prosperità», per cui Dio desidera che i credenti siano fisicamente in
salute, materialmente ricchi e personalmente felici.
È facile notare come alcuni messaggi delle campagne elettorali
e le loro semiotiche abbondino di riferimenti al fondamentalismo
evangelicale. Accade per esempio di vedere immagini in cui leader
politici appaiono trionfanti con una Bibbia in mano.

1. Bannon crede nella visione apocalittica che William Strauss e Neil Howe
hanno teorizzato nel loro libro The Fourth Turning: What Cycles of History Tell
Us About America’s Next Rendezvous with Destiny. Cfr anche N. Howe, «Where
did Steve Bannon get his worldview? From my book», in The Washington Post,
24 febbraio 2017.
RELIGIONE, MANICHESIMO POLITICO E CULTO DELL’APOCALISSE

Una figura rilevante, che ha ispirato presidenti come Richard


Nixon, Ronald Reagan e Donald Trump, è il pastore Norman Vin-
cent Peale (1898-1993), il quale ha officiato il primo matrimonio
dell’attuale Presidente e il funerale dei suoi genitori. Egli è stato un
predicatore di successo: ha venduto milioni di copie del suo libro Il
potere del pensiero positivo (1952), pieno di frasi quali: «Se credi in
qualcosa, la otterrai», «Se ripeti “Dio è con me, chi è contro di me?”,
nulla ti fermerà», «Imprimi nella tua mente la tua immagine di suc-
cesso, e il successo arriverà», e così via. Molti telepredicatori della
prosperità mescolano marketing, direzione strategica e predicazione,
concentrandosi più sul successo personale che sulla salvezza o sulla
vita eterna.
Un terzo elemento, accanto al manicheismo e al vangelo della
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prosperità, è una particolare forma di proclamazione della difesa
della «libertà religiosa». L’erosione della libertà religiosa è chiara-
mente una grave minaccia all’interno di un dilagante secolarismo.
Occorre però evitare che la sua difesa avvenga al ritmo dei fonda-
mentalisti della «religione in libertà», percepita come una diretta
sfida virtuale alla laicità dello Stato.

L’ecumenismo fondamentalista

Facendo leva sui valori del fondamentalismo, si sta sviluppando


una strana forma di sorprendente ecumenismo tra fondamentalisti
evangelicali e cattolici integralisti, accomunati dalla medesima vo-
lontà di un’influenza religiosa diretta sulla dimensione politica.
Alcuni che si professano cattolici si esprimono talvolta in forme
fino a poco tempo fa sconosciute alla loro tradizione e molto più vi-
cine ai toni evangelicali. In termini di attrazione di massa elettorale,
questi elettori vengono definiti value voters. L’universo di conver-
genza ecumenica, tra settori che paradossalmente sono concorrenti
in termini di appartenenza confessionale, è ben definito. Quest’in-
contro per obiettivi comuni avviene sul terreno di temi come l’a-
borto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’educazione
religiosa nelle scuole e altre questioni considerate genericamente
morali o legate ai valori. Sia gli evangelicali sia i cattolici integralisti
condannano l’ecumenismo tradizionale, e tuttavia promuovono un
SFIDA POLITICA

ecumenismo del conflitto che li unisce nel sogno nostalgico di uno


Stato dai tratti teocratici.
La prospettiva più pericolosa di questo strano ecumenismo è
ascrivibile alla sua visione xenofoba e islamofoba, che invoca muri
e deportazioni purificatrici. La parola «ecumenismo» si traduce così
in un paradosso, in un «ecumenismo dell’odio». L’intolleranza è
marchio celestiale di purismo, il riduzionismo è metodologia ese-
getica, e l’ultra-letteralismo ne è la chiave ermeneutica.
È chiara l’enorme differenza che c’è tra questi concetti e l’ecume-
nismo incoraggiato da papa Francesco con diversi referenti cristiani
e di altre confessioni religiose, che si muove nella linea dell’inclusio-
ne, della pace, dell’incontro e dei ponti. Questo fenomeno di ecu-
menismi opposti, con percezioni contrapposte della fede e visioni
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del mondo in cui le religioni svolgono ruoli inconciliabili, è forse
l’aspetto più sconosciuto e al tempo stesso più drammatico della dif-
fusione del fondamentalismo integralista. È a questo livello che si
comprende il significato storico dell’impegno del Pontefice contro i
«muri» e contro ogni forma di «guerra di religione».

La tentazione della «guerra spirituale»

L’elemento religioso invece non va mai confuso con quello po-


litico. Confondere potere spirituale e potere temporale significa
asservire l’uno all’altro. Un tratto netto della geopolitica di papa
Francesco consiste nel non dare sponde teologiche al potere per
imporsi o per trovare un nemico interno o esterno da combattere.
Occorre fuggire la tentazione trasversale ed «ecumenica» di proiet­
tare la divinità sul potere politico che se ne riveste per i propri fini.
Francesco svuota dall’interno la macchina narrativa dei millenari-
smi settari e del «dominionismo», che prepara all’apocalisse e allo
«scontro finale»2. La sottolineatura della misericordia come attri-
buto fondamentale di Dio esprime questa esigenza radicalmente
cristiana.

2. Cfr A. Aresu, «Pope Francis against the Apocalypse», in Macrogeo (www.


macrogeo.global/analysis/pope-francis-against-the-apocalypse), 9 giugno 2017.
RELIGIONE, MANICHESIMO POLITICO E CULTO DELL’APOCALISSE

Francesco intende spezzare il legame organico tra cultura, po-


litica, istituzioni e Chiesa. La spiritualità non può legarsi a gover-
ni o patti militari, perché essa è a servizio di tutti gli uomini. Le
religioni non possono considerare alcuni come nemici giurati né
altri come amici eterni. La religione non deve diventare la garanzia
dei ceti dominanti. Eppure è proprio questa dinamica dallo spurio
sapore teologico che tenta di imporre la propria legge e la propria
logica in campo politico.
Colpisce una certa retorica usata per esempio dagli opinionisti
di Church Militant, una piattaforma digitale statunitense di successo,
apertamente schierata a favore di un ultraconservatorismo politico,
che usa i simboli cristiani per imporsi. Questa strumentalizzazione
è definita «autentico cristianesimo». Essa, per esprimere le proprie
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preferenze, ha creato una precisa analogia tra Donald Trump e Co-
stantino, da una parte, e tra Hillary Clinton e Diocleziano, dall’al-
tra. Le elezioni americane, in quest’ottica, sono state intese come
una «guerra spirituale»3.
Questo approccio bellico e «militante» appare decisamente affa-
scinante ed evocativo per un certo pubblico, soprattutto per il fatto
che la vittoria di Costantino – data per impossibile contro Massen-
zio, che aveva alle sue spalle tutto l’establishment romano – era da
attribuirsi a un intervento divino: in hoc signo vinces.
Church Militant si chiede dunque se la vittoria di Trump si
possa attribuire alla preghiera degli americani. La risposta sug-
gerita è positiva. La consegna indiretta per il presidente Trump,
nuovo Costantino, è chiara: deve agire di conseguenza. Un mes-
saggio molto diretto, quindi, che vuole condizionare la presiden-
za, connotandola dei tratti di una elezione «divina». In hoc signo
vinces, appunto.
Oggi più che mai è necessario spogliare il potere dei suoi panni
confessionali paludati, delle sue corazze, delle sue armature arrug-
ginite. Lo schema teopolitico fondamentalista vuole instaurare il
regno di una divinità qui e ora. E la divinità ovviamente è la proie-

3. Cfr «Donald “Constantine” Trump? Could Heaven be intervening


directly in the election?», in Church Militant (www.churchmilitant.com/video/
episode/vortex-donald-constantine-trump).
SFIDA POLITICA

zione ideale del potere costituito. Questa visione genera l’ideologia


di conquista.
Lo schema teopolitico davvero cristiano è invece escatolo-
gico, cioè guarda al futuro e intende orientare la storia presente
verso il Regno di Dio, regno di giustizia e di pace. Questa vi-
sione genera il processo di integrazione che si dispiega con una
diplomazia che non incorona nessuno come «uomo della Prov-
videnza».
Ed è anche per questo che la diplomazia della Santa Sede vuole
stabilire rapporti diretti, fluidi con le superpotenze, senza però en-
trare dentro reti di alleanze e di influenze precostituite. In questo
quadro, il Papa non vuole dare né torti né ragioni, perché sa che alla
radice dei conflitti c’è sempre una lotta di potere. Quindi non c’è
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da immaginare uno «schieramento» per ragioni morali o, peggio
ancora, spirituali.
Francesco rifiuta radicalmente l’idea dell’attuazione del Regno
di Dio sulla terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e
di tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensio-
ne del «partito». Se fosse così inteso, infatti, il «popolo eletto» entre-
rebbe in un complicato intreccio di dimensioni religiose e politiche
che gli farebbe perdere la consapevolezza del suo essere a servizio
del mondo e lo contrapporrebbe a chi è lontano, a chi non gli ap-
partiene, cioè al «nemico».
Ecco allora che le radici cristiane dei popoli non sono mai
da intendere in maniera etnicista. Le nozioni di «radici» e di
«identità» non hanno il medesimo contenuto per il cattolico e
per l’identitario neo-pagano. L’etnicismo trionfalista, arrogante
e vendicativo è, anzi, il contrario del cristianesimo. Il Papa, il 9
maggio, in un’intervista al quotidiano francese La Croix, ha det-
to: «L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere
di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda
dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio».
E ancora: «L’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di
Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della
vita. Non deve essere un apporto colonialista».
RELIGIONE, MANICHESIMO POLITICO E CULTO DELL’APOCALISSE

Contro la paura

Su quale sentimento fa leva la tentazione suadente di un’allean­


za spuria tra politica e fondamentalismo religioso? Sulla paura della
frattura dell’ordine costituito e sul timore del caos. Anzi, essa fun-
ziona proprio grazie al caos percepito. La strategia politica per il
successo diventa quella di innalzare i toni della conflittualità, esa-
gerare il disordine, agitare gli animi del popolo con la proiezione di
scenari inquietanti al di là di ogni realismo.
La religione a questo punto diventerebbe garante dell’ordine, e
una parte politica ne incarnerebbe le esigenze. L’appello all’apoca-
lisse giustifica il potere voluto da un dio o colluso con un dio. E il
fondamentalismo si rivela così non il prodotto dell’esperienza reli-
giosa, ma una concezione povera e strumentale di essa. 111
Per questo Francesco sta svolgendo una sistematica contro-
narrazione rispetto alla narrativa della paura. Occorre, dunque,
combattere contro la manipolazione di questa stagione dell’ansia e
dell’insicurezza. E pure per questo, coraggiosamente, Francesco non
dà alcuna legittimazione teologico-politica ai terroristi, evitando
ogni riduzione dell’islam al terrorismo islamista. E non la dà nean-
che a coloro che postulano e che vogliono una «guerra santa» o che
costruiscono barriere di filo spinato. L’unico filo spinato per il cri-
stiano, infatti, è quello della corona di spine che Cristo ha in capo4.

4. Per approfondire queste riflessioni, cfr D. J. Fares, «L’antropologia politica


di Papa Francesco», in Civ. Catt. 2014 I 345-360; A. Spadaro, «La diplomazia di
Francesco. La misericordia come processo politico», ivi 2016 I 209-226; D. J. Fares,
«Papa Francesco e la politica», ivi 2016 I 373-385; J. L. Narvaja, «La crisi di ogni
politica cristiana. Erich Przywara e l’“idea di Europa”», ivi 2016 I 437-448; Id., «Il
significato della politica internazionale di Francesco», ivi 2017 III 8-15.
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