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Caleidoscopio
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Italiano

Maria Gabriella Mazzarello, Rinaldo Brunetti,


Mascja Perfumo, Angelo Michele Torriglia,
Giancarlo Montresor

Principali Tecniche Analitiche in uso


nei Laboratori di Analisi Chimico
Cliniche e Microbiologiche
Direttore Responsabile
Sergio Rassu

... il futuro ha il cuore antico


209
MEDICAL SYSTEMS SpA
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Caleidoscopio Italiano

Maria Gabriella Mazzarello, Rinaldo Brunetti,


Mascja Perfumo, Angelo Michele Torriglia,
Giancarlo Montresor
Laboratorio Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche ASL 22, P.O. Ovada (AL)

Principali Tecniche Analitiche in uso


nei Laboratori di Analisi Chimico
Cliniche e Microbiologiche
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1) Björklund B., Björklund V.: Proliferation marker concept with TPS as a model. A preliminary report. J. Nucl. Med.
Allied. Sci 1990 Oct-Dec, VOL: 34 (4 Suppl), P: 203.
2 Jeffcoate S.L. e Hutchinson J.S.M. (Eds): The Endocrine Hypothalamus. London. Academic Press, 1978.
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M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo, Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

Introduzione

Il XX secolo testimonia la nascita e lo sviluppo della chimica clinica come


metodologia diagnostica e di prevenzione negli Ospedali (55). Nei secoli pre-
cedenti i Clinici erano in genere indifferenti all'idea che la chimica potesse
essere applicata allo studio funzionale in vivo, alla predizione delle malattie o
comunque al di fuori delle osservazioni post-mortem (16,17,18). Fisiologi e
Chimici come Fourcroy (1755-1809), Berzelius (1779-1848), Liebig (1803-
1873), Prout (1785-1850), Rees (1813-1889) iniziarono a considerare i processi
fisiologici dell'organismo con le leggi note della chimica e della fisica arrivan-
do a correlare gli stati patologici con anomalie nelle reazioni osservabili nei
campioni biologici (36,42). Solo successivamente Folin (1867-1934) e Van
Slyke (1883-1971) introdussero definitivamente l'analisi chimica di
Laboratorio come servizio diagnostico indispensabile per la clinica ospedalie-
ra (38). Ancora a cavallo tra il XIX e il XX secolo Robert Koch identificò il bat-
terio responsabile del carbonchio nel 1877 e stilò alcuni postulati ancora oggi
utilizzati nell'eziologia delle malattie infettive: nacque così la Microbiologia
come scienza. Con la scoperta degli anticorpi (Von Berhing-Kitasato,1890),
dei virus (Beijerinck, 1889), della penicillina (Fleming, 1929), dei primi meto-
di di coltura, delle colorazioni, anche le tecniche di diagnostica microbiologi-
ca furono introdotte come supporto alla clinica ospedaliera (31,60).
Nel 1944 O. Avery identificò il DNA la cui struttura venne descritta per la
prima volta da Watson e Crick nel 1953 (58). Con la messa a punto da parte
di Mullins nel 1983 della Polimerase Chain Reaction (PCR) (32) la diagnosti-
ca ospedaliera subì una svolta con l'introduzione delle tecniche di biologia
molecolare.
Attualmete le tecniche di Laboratorio si avvalgono delle più svariate pro-
prietà chimiche, fisiche e sono state sviluppate a scopo diagnostico presen-
tando caratteristiche di specificità e sensibilità. Esse vengono utilizzate nel-
l'ambito della fisiologia, della patologia umana, animale e vegetale, nell'ana-
lisi ambientale, delle acque e degli alimenti per citarne solo alcuni. In campo
clinico tali metodiche vengono utilizzate sia a scopo qualitativo che quanti-
tativo soprattutto per la determinazione di microrganismi patogeni o mole-
cole come ormoni, proteine, oncoproteine, anticorpi, citochine e marcatori di
danno d'organo (26).
Esistono diverse tipologie di analisi la cui scelta dipende dalle caratteri-
stiche sia dell'oggetto della procedura analitica cioè il campione che dalle
caratteristiche dell'analita, la molecola d'interesse nella determinazione
all'interno del campione che può essere naturale e presente in situazioni nor-

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mali (es. TSH), in situazioni patologiche (es. HIV Ab), o costituito da sostan-
ze artificiali quali ad esempio farmaci, droghe d'abuso ed ormoni.

Il limite di rivelabilità è la minima quantità di analita determinabile per


mezzo di una tecnica analitica.
La sensibilità è la variazione di quantità di analita apprezzabile in funzio-
ne della tecnica impiegata.

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Scelta delle tecnologie

La metodica che viene scelta in ambito ospedaliero per effettuare una


determinata analisi si basa sulle caratteristiche analitiche del sistema, sugli
aspetti organizzativi ed economici; il risultato è in genere un compromesso.
La scelta viene effettuata dopo un accurato esame dei seguenti parametri:
- Linee guida-prestazioni analitiche: CLSI (The Clinical and Laboratory
Standards Institute): documenti EP5, EP6, EP7, EP9, EP10
- Caratteristiche del sistema: es. Modello di Stockmann
- Un protocollo di sperimentazione
- La disponibilità di campioni adeguati (livelli di analita, interferenti)
- Applicazione di metodi statistici per l'elaborazione dei dati
- Capitolato adeguato.

Modello di Stockmann

Prende in considerazione tutti gli attributi funzionali ed organizzativi che


influenzano o caratterizzano l'uso di un sistema analitico. Si tratta di 200
parametri, suddivisi in 14 gruppi, ripartiti in 4 capitoli:
o INSTALLAZIONE
o ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO
o ASSICURAZIONE DI QUALITA'
o MISCELLANEA (manutenzione, troubleshooting)

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Microscopia

Storia

Il microscopio semplice più antico era costituito soltanto da un tubo con


una piastra per l'oggetto da osservare ad un'estremità e, dall'altra, da una
lente “obiettivo”. Esso veniva usato per l'osservazione di piccoli esseri viven-
ti come ad esempio le pulci.
Circa nel 1590, gli olandesi Zaccharias e Hans Janssen, sperimentarono
che più lenti montate in un singolo tubo permettevano un maggior ingran-
dimento e costruirono il precursore del microscopio composto. Nel 1609
Galileo studiò i principi del funzionamento delle lenti e costruì uno stru-
mento di maggior qualità dotato di un dispositivo di focalizzazione.
Padre vero e proprio della microscopia è considerato l'olandese Anton
Van Leeuwenhoek (1632-1723) il quale inventò nuovi metodi per la molatu-
ra e la lucidatura delle lenti che gli consentì la costruzione di microscopi con
ingrandimenti fino a 270 diametri. Fu il primo ad osservare e descrivere i bat-
teri, i lieviti, gli elementi del sangue (5,21,47).
Nel XVIII secolo innovazioni tecniche basate sullo studio delle lenti
migliorarono la visibilità e la risoluzione in microscopia. Vengono in seguito
sviluppati nuovi tipi di microscopio: l'ultramicroscopio nel 1902 (67), il
microscopio a contrasto di fase per osservare materiali biologici incolori nel
1942 (66), il microscopio elettronico nel 1931 (43) ed il microscopio a scansio-
ne nel 1981 (4).

Funzionamento e tipologie dei microscopi

Il microscopio è uno strumento capace di fornire un'immagine ingrandi-


ta di un piccolo oggetto osservato attraverso di esso. seconda della radiazio-
ne utilizzata per illuminare il campione si distinguono due tipi principali di
microscopio, quello ottico e quello elettronico: nel primo si impiega radia-
zione visibile (luce), nel secondo un fascio di elettroni accelerati.
I principali parametri che caratterizzano un microscopio sono il potere di
ingrandimento ed il potere di risoluzione. Il primo è definito come il rappor-
to tra la dimensione dell'immagine ingrandita e quella dell'oggetto osserva-
to. Il secondo è il reciproco della distanza minima tra due punti del campio-

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ne che lo strumento è in grado di far apparire come distinti. Tale distanza,


secondo la formula empirica di Ernst Abbe, è data dal prodotto di una
costante opportuna per la lunghezza d'onda della radiazione utilizzata.
Quindi, per avere una risoluzione migliore è necessario impiegare radiazio-
ne con lunghezza d'onda piccola; in realtà, esiste un limite intrinseco al pote-
re di risoluzione di un microscopio. Tale limite è posto dal fenomeno della
diffrazione che rende impossibile percepire distintamente un oggetto di
dimensioni paragonabili a quelle della lunghezza d'onda della radiazione
impiegata.
Si ricorda che anche per il microscopio elettronico si può parlare di lun-
ghezza d'onda, in quanto, in accordo con i principi della meccanica ondula-
toria, un fascio di particelle può essere visto come radiazione corpuscolare di
lunghezza d'onda pari al rapporto tra la costante di Planck h e la quantità di
moto p della particella (γ = h/p). È proprio per migliorare il potere di risolu-
zione che è stato ideato il principio della microscopia elettronica e, più tardi,
il metodo della scansione, applicato sia alla microscopia elettronica che a
quella ottica.

Microscopio ottico

Il nome completo del microscopio ottico è “microscopio ottico composto”


(MOC), denominazione che permette di distinguerlo dal cosiddetto microsco-
pio semplice, lo strumento ottico meglio noto come lente di ingrandimento.
Nella sua forma più essenziale, il microscopio composto è costituito da
una combinazione di due lenti convergenti, l'obiettivo e l'oculare, montate a
distanza fissa alle estremità di un tubo chiuso. L'obiettivo raccoglie la luce
proveniente dal campione e ne fornisce un'immagine reale, capovolta e
ingrandita; l'oculare riceve questa immagine nel proprio fuoco e la trasforma
nell'immagine finale, che è virtuale, capovolta e ingrandita rispetto all'im-
magine reale. L'attrezzatura accessoria di un microscopio comprende inoltre
il piano portacampioni e alcuni dispositivi di regolazione della distanza del-
l'obiettivo dall'oggetto, per la messa a fuoco. In genere il campione da osser-
vare viene posto fra due vetrini sottili e fissato al portacampioni. La luce che
lo illumina può provenire da una sorgente diretta o da uno specchio che la
indirizza sul campione. I modelli più sofisticati sono provvisti inoltre di un
sistema di viti micrometriche per la regolazione fine della posizione del cam-
pione e di tre o più obiettivi montati su una testa girevole, che consentono di
variare rapidamente il potere di ingrandimento dello strumento.
Esistono diversi sistemi di illuminazione del campione, a seconda delle
sue caratteristiche di trasparenza o opacità. I sistemi più utilizzati sono quel-
lo a trasmissione o a campo chiaro e a diffusione o a campo scuro. Nel primo

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caso, la luce proveniente da una lampada a incandescenza attraversa com-


pletamente il campione. Nel caso del sistema a campo scuro la luce colpisce
il campione e ne viene diffusa, più precisamente, il fascio incide sul prepara-
to lungo una direzione quasi perpendicolare all'asse dello strumento, per cui
l'obiettivo raccoglie solo la luce diffratta dal campione. Il risultato è che le
parti libere del campione appaiono come un fondo scuro su cui risaltano i
particolari in esame. La tecnica è particolarmente utile per l'osservazione di
campioni biologici limpidi e trasparenti, e per oggetti talmente piccoli da
risultare invisibili con il sistema di illuminazione normale (7).
Il potere di ingrandimento di un microscopio ottico è dato dal prodotto di
quello dell'obiettivo per quello dell'oculare. I modelli più sofisticati sono in
grado di ingrandire l'immagine del campione fino a circa 1000 volte (1000x).
Il potere di risoluzione, invece, è limitato dal fenomeno della diffrazione e
dipende dalla lunghezza d'onda della radiazione impiegata; per la luce bian-
ca, la minima distanza percettibile è di 0,2 micron (0,2 millesimi di millime-
tro), che equivale a un potere risolutivo 1000 volte migliore di quello dell'oc-
chio umano.
La più alta risoluzione per un microscopio ottico è stata raggiunta da un
gruppo di ricercatori statunitensi che hanno perfezionato una tecnica nota
come “microscopia Raman a campo vicino”. La tecnica, applicata a campio-
ni di nanotubi di carbonio, ha reso possibile l'osservazione di strutture delle
dimensioni di 30 nanometri. La tecnologia Raman consiste essenzialmente
nell'inviare sul campione luce laser e nell'osservare come questo la defletta,
misurando i modi vibrazionali delle molecole analizzate; per focalizzare il
fascio laser, in questo caso la luce è stata inviata sulla punta di un cavo d'ar-
gento di 10 nanometri, quindi utilizzata per esplorare il vetrino a 1 nanome-
tro di distanza dalla sua superficie.
Il microscopio stereoscopico è costituito da due microscopi a basso pote-
re di ingrandimento, affiancati e puntati sullo stesso campione. Con questo
impianto, sebbene l'ingrandimento non superi le 100 volte, è possibile otte-
nere immagini tridimensionali.
Il microscopio a ultravioletti utilizza radiazione con lunghezza d'onda
minore della luce visibile, cioè luce ultravioletta. L'accorgimento produce un
aumento del potere di risoluzione, ma impone alcune modifiche: poiché il
vetro non è trasparente agli ultravioletti, gli elementi ottici devono essere rea-
lizzati con altri materiali, quali quarzo, fluorite o specchi alluminizzati.
Essendo gli ultravioletti invisibili all'occhio umano, inoltre, per essere visualiz-
zata, l'immagine deve essere resa per fosforescenza o per scansione elettronica.
Il microscopio polarizzatore emette un fascio di luce che attraversa il
corpo del preparato in modo da far visualizzare l'immagine in luce polariz-
zata. La microscopia in luce polarizzata è formata da onde ciascuna delle

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quali oscilla in un piano, detto piano di vibrazione o piano di polarizzazione


che è perpendicolare alla direzione di propagazione dell'onda stessa.
Il microscopio a raggi X è basato sull'emissione di radiazioni a raggi X.
Viene utilizzato per studiare le strutture di particolari molecole o ioni pre-
senti all'interno della cellula. Quando i raggi emessi attraversano le strutture
cellulari subiscono delle diffrazioni che verranno impressionate su una lastra
fotografica, apparendo come delle sfocate bande concentriche. Dalla diffe-
rente disposizione di tali bande si potrà determinare la distribuzione atomi-
ca delle molecole all'interno dei tessuti analizzati.
Il microscopio a contrasto di fase è un tipo particolare di microscopio che
analogamente al microscopio luce emana radiazioni luminose. La maggior
parte di componenti cellulari è trasparente alla luce visibile, anche a causa
dell'elevata presenza di acqua, tuttavia vediamo che le radiazioni luminose
una volta oltrepassata una componente o un organello cellulare, subiscono
dei cambiamenti di fase che dipendono sia dallo spessore, sia dal diverso
indice di rifrazione della struttura oltrepassata. Mediante il microscopio a
contrasto di fase è possibile andare a determinare tali cambiamenti e conver-
tirli in differenze di densità così da ottenere dei dati, cioè delle informazioni
utili circa la composizione di cellule e tessuti analizzati. Questa tecnica di
microscopia è molto utilizzata per osservare le cellule mantenute in vita in
apposite colture in vitro: infatti tramite la microscopia a contrasto di fase si
evita l'utilizzo di coloranti e fissativi che spesso comportano notevoli altera-
zioni strutturali ottenendo così dei dati molto più reali di quella che è l'orga-
nizzazione cellulare (66).

Microscopio elettronico
Lo schema di un microscopio elettronico è analogo a quello di un micro-
scopio ottico: una sorgente produce la radiazione che incide sul campione e,
passando attraverso specifici sistemi che fungono da lenti, va a comporre
l'immagine ingrandita. La radiazione, tuttavia, non è di natura elettroma-
gnetica, ma corpuscolare: si tratta infatti di un fascio di elettroni accelerati nel
vuoto. Le lenti convergenti non sono di tipo ottico ma di tipo elettromagne-
tico, costituite da campi elettrici e magnetici che, come è noto, sono in grado
di modificare la traiettoria delle particelle cariche. Il tutto è protetto da un
contenitore, all'interno del quale è praticato il vuoto. L'immagine viene com-
posta su uno schermo fluorescente o, in alternativa, mediante sistemi foto-
grafici o televisivi (33).
L'uso di elettroni in luogo di luce visibile porta notevoli vantaggi ai fini
delle prestazioni dello strumento. La lunghezza d'onda minima della luce
visibile, infatti, è di circa 400 nm (400 milionesimi di millimetro), mentre la

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lunghezza d'onda associata all'elettrone in questi strumenti può essere di soli


0,05 nm. Il potere di risoluzione del microscopio elettronico è pertanto note-
volmente maggiore di quello dei microscopi ottici: si arrivano a percepire
dettagli di qualche decimo di nm.
Esistono essenzialmente due tipi di microscopio elettronico: quello a tra-
smissione (Transmission Electron Microscope, TEM) e quello a scansione
(Scanning Electron Microscope, SEM).

TEM
Nel TEM gli elettroni che costituiscono il fascio attraversano completamen-
te il campione. Questo, dunque, deve avere uno spessore estremamente ridot-
to, compreso tra 5 e 500 nm. Il potere d'ingrandimento arriva fino a un milio-
ne di volte. La migliore prestazione di un microscopio elettronico a trasmissio-
ne è stata ottenuta nel giugno 2003 con l'OAM (One Angstrom Microscope) in
uso presso il Lawrence Berkeley National Laboratory negli Stati Uniti: lo stru-
mento ha fornito un'immagine dei singoli atomi di litio di un campione di ossi-
do di litio, l'elemento più leggero dopo l'idrogeno e l'elio (1).

SEM
A differenza del TEM, che può esaminare zone estese, un SEM analizza la
superficie del campione porzione per porzione, mediante un “pennello” elet-
tronico di sezione paragonabile alla risoluzione del microscopio (dell'ordine
dei nm). Gli atomi della superficie, colpiti dagli elettroni del fascio, emettono
elettroni secondari che, insieme agli elettroni trasmessi, vengono raccolti da
un rivelatore e convertiti in segnali elettrici. Ogni punto del campione ana-
lizzato corrisponde a un pixel dello schermo televisivo, cosicché, man mano
che il fascio elettronico scorre sul campione, sullo schermo si costruisce
un'immagine completa. Un SEM ha fattore di ingrandimento pari a circa
100.000 e fornisce un'immagine tridimensionale molto dettagliata (61,20).
Con i modelli più recenti, è possibile anche seguire l'evolversi di un proces-
so dinamico, come la reazione di un campione a una variazione di tempera-
tura, a una trasformazione chimica o a una sollecitazione meccanica (12).

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Spettrofotometria

La fotometria è il processo che determina la quantità di luce assorbita da


atomi, molecole e viene usata per la stima quantitativa di composti. Le mole-
cole sono quantizzate e quindi assorbono solo la luce che ha l'esatta energia
che causa transizioni da uno stato energetico all'altro. Ciascun composto chi-
mico ha una serie propria di livelli di energia quindi assorbirà luce di lun-
ghezze d'onda specifiche producendo qualità spettrali uniche che possono
essere usate anche per una analisi qualitativa che identifica e distingue
miscele di molecole non note.

Spettrofotometro

Lo spettrofotometro è uno strumento basilare nella chimica clinica in


quanto può rilevare l'effetto dell'energia raggiante su atomi e molecole su
lunghezze d'onda diverse da quelle rilevate dall'occhio umano ( da 400 a 700
nm) (17,18).
Gli spettrofotometri sono caratterizzati da quattro complessi fondamen-
tali: sorgente, monocromatore, portacampioni e fotometro.
La sorgente consiste in una lampada a filamento di tugsteno o da una
lampada a scarica in idrogeno o deuterio.
Il monocromatore comunemente utilizzato è quello chiamato di Littrow
con prismi di quarzo alluminizzati su un lato o reticoli di diffrazione che per-
mettono un'elevata dispersione e la correlazione della maggior parte delle
aberrazioni.Nei monocromatori destinati all'impiego nel visibile e nell'ultra-
violetto vengono usati prismi di quarzo che può essere sia naturale che sin-
tetico.
Il fotometro è l'elemento più importante di uno spettrofotometro perché
ad esso è legata la precisione quantitativa, la riproducibilità di misura e la
risoluzione dell'intero apparecchio.
I sistemi fotometrici più comunemente usati sono di due tipi:
o Sistema a compensazione potenziometrica: il segnale prelevato ai capi
del rilevatore può essere messo in opposizione al segnale prelevato ai
capi di un potenziometro regolabile, alimentato da una tensione
costante; mentre un indicatore ad amplificazione indica il punto di
equilibrio tra i due segnali

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o Sistema ad amplificazione diretta: il segmento fotometrico viene


amplificato direttamente e comanda gli spostamenti dell'indice dello
strumento di misura.

Quantificazione

In chimica clinica per quantificare è necessario conoscere le lunghezze


d'onda assorbite dal composto in esame in modo massimale per generare la
migliore sensibilità d'analisi e conoscere l'entità dell'assorbimento della
molecola stessa a concentrazioni note.
La misura fotometrica viene fatta introducendo nel raggio monocromati-
co inizialmente una soluzione di riferimento ed in seguito la soluzione della
sostanza da esaminare; la differenza fra le due intensità determinate costitui-
sce una misura della trasmittanza del composto, alla lunghezza d'onda alla
quale è stata effettuata la detenzione.
Lo spettro di assorbimento è la traslazione dei valori dell'intensità dell'e-
nergia radiante in funzione della lunghezza d'onda.
Gli spettrofotometri possono essere a singolo o doppio raggio, nel primo
caso vi è un solo fotorilevatore che riceve la luca trasmessa dalla cuvetta.
Nel secondo vi è un altro fotorivelatore colpito dalla luce prima che que-
sta attraversi la soluzione come sistema di confronto al fine di eliminare le
limitazione del singolo raggio.
Per ottenere la concentrazione di una determinata sostanza in soluzione,
partendo dai valori di trasmittanza o di assorbanza si possono utilizzare tre
metodiche:
o Utilizzando la legge di Lamber-Beer I=Io 10abc I= luce che emerge dalla
soluzione; Io = luce che entra nella soluzione; a= una costante che
dipende dalla natura del campione e dalla lunghezza d'onda impiega-
ta, b=lunghezza del cammino ottico; c= concentrazione del soluto nel
solvente
o Confrontando le letture dei campioni con letture di standard a con-
centrazioni note
o Estrapolando la concentrazione da curve di taratura ottenute con solu-
zioni di riferimento.
Le applicazioni di questo strumento sono le più comuni nei Laboratori di chi-
mica clinica; ad esempio per la determinazione di substrati come glucosio, urea,
colesterolo con la metodica definita “end point” (che avvengono alla fine della
reazione) o per enzimi quali transaminasi, fosfatasi alcalina, LDH … con la meto-
dica “rate” (che valuta le variazioni di assorbimento nell'unità di tempo).

14 Caleidoscopio
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo, Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

Cromatografia

La cromatografia, nata come tecnica separativa e sviluppatasi in seguito


anche come tecnica analitica, si basa sul fatto che i vari componenti di una
miscela tendono a ripartirsi in modo diverso tra due fasi, in funzione della
loro affinità con ciascuna di esse. Mentre una fase rimane fissa (la fase stazio-
naria) ed è generalmente un solido o un gel, un'altra fase, liquida o gassosa, (la
fase mobile) fluisce su di essa trascinando con sé in quantità maggiore i com-
ponenti della miscela che più risultano affini ad essa. Quando il rivelatore
posto in fondo all'apparecchio registra il passaggio di una sostanza eluita, ela-
bora i dati su di un cromatogramma. Ogni volta che una sostanza viene rive-
lata, il cromatogramma registra un picco più o meno alto a seconda della sua
concentrazione. Perché un cromatogramma possa essere ritenuto accettabile
deve avere una buona risoluzione. Per risoluzione si intende un parametro
che mette in relazione l'efficienza, la selettività ed il fattore di ritenzione.
Selettività: per avere una buona selettività i picchi del cromatogramma
devono essere il più distanti possibili, ovvero sostanze di specie diversa
devono avere tempi di ritenzione diversi. Per tempo di ritenzione di una
sostanza si intende il tempo impiegato dall'eluente (ovvero la fase mobile)
per trascinarla via dalla fase fissa. E’ possibile migliorare la selettività dimi-
nuendo la temperatura di lavoro.
Efficienza: avere una buona selettività non basta infatti, anche se i picchi
sono ben distanziati, è possibile che siano talmente larghi che si sovrappon-
gano fra loro. Per questo è necessario che particelle di una stessa specie ven-
gano eluite con la stessa velocità in modo che la banda all'interno della colon-
na cromatografica sia il più stretta possibile. Esistono varie teorie su come sia
possibile migliorare l'efficienza; la più comune viene chiamata "Teoria dei
piatti teorici" e si rifà al metodo della distillazione frazionata, nel quale un
maggior numero di piatti permette una migliore separazione fra sostanze più
altobollenti con le sostanze più bassobollenti.
Fattore di ritenzione: è un parametro che mette in relazione il tempo di
ritenzione di un analita col "tempo morto", ovvero il tempo impiegato da una
sostanza non trattenuta dalla fase stazionaria per attraversare la colonna.
La cromatografia è una tecnica analitica piuttosto recente. Si tratta di
un'invenzione che la letteratura scientifica fa risalire ai primi anni del vente-
simo secolo, precisamente al Marzo 1903, quando il botanico russo Mikhail
Tswett presentò al convegno della Società di Scienze Naturali di Varsavia
uno studio sull'analisi dei pigmenti vegetali mediante adsorbimento su
colonna. Degno di nota fu l'ottenimento della separazione della clorofilla
nelle due diverse tipologie a e b. Uno dei principali detrattori di questa tec-

Caleidoscopio 15
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo, Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

nica, Willstätter, professore di chimica organica all'Università di Monaco di


Baviera, non riuscì ad ottenere, mediante cristallizzazione frazionata, gli stes-
si risultati di Tswett ed ipotizzò che la clorofilla subisse una decomposizione
durante il processo di adsorbimento. Il verdetto di Willstätter, convinto asser-
tore della tecnica classica di purificazione, fu uno dei motivi per cui la cro-
matografia, come tecnica d'analisi, fu lasciata nel dimenticatoio per quasi
venticinque anni. Un'altra ragione è da attribuire al fatto che Tswett pubblicò
la maggior parte dei suoi lavori in russo, rendendo così meno disponibili alla
comunità scientifica i risultati delle sue ricerche.
Nel 1922 lo scienziato statunitense Palmer impiegò la tecnica di Tswett per
l'analisi di prodotti naturali, ma fu solo dal 1931 in poi che alla cromatografia,
grazie al lavoro di Richard Kuhn, venne riconosciuta dignità scientifica.
La tecnica di Tswett, oggi conosciuta come cromatografia di adsorbi-
mento in fase normale, non poté essere impiegata con successo per la sepa-
razione di analiti solubili in acqua. Questo problema tecnico fu risolto da
Martin e Synge che, nel 1941, misero a punto la cromatografia di ripartizio-
ne (nota anche come cromatografia liquido - liquido o LLC). L'originalità del-
l'invenzione, che fruttò a Martin e Synge il premio Nobel nel 1952, riguardò
l'utilizzo di un supporto solido che rese possibile la creazione di una fase sta-
zionaria liquida.
La LLC non ebbe un'ampia diffusione, probabilmente per mancanza di
affidabilità e robustezza, a causa della rimozione fisica della fase stazionaria
da parte della fase mobile. Nel 1944 Martin e collaboratori svilupparono la
cromatografia su carta che divenne la prima tecnica cromatografica microa-
nalitica. (15)
A causa del lento processo di separazione, l'impiego della cromatografia
su carta subì una drastica riduzione con la nascita della cromatografia su
strato sottile (TLC), che ben presto divenne uno standard nei Laboratori di
chimica organica e farmaceutica per la sua semplicità, velocità e universalità
e che ancora oggi non è stata totalmente rimpiazzata da altre metodologie. La
TLC annovera, tra i vantaggi, la possibilità di svolgere analisi multiple e, tra
gli svantaggi (ora colmati dalla tecnica HPLC), la mancanza di automazione,
di riproducibilità e di accuratezza nella quantificazione. Recentemente la
TLC si è dimostrata particolarmente utile nella separazione degli enantiome-
ri, grazie all'adozione di speciali rivestimenti a base di ciclodestrine.
La cromatografia ionica fu sviluppata durante la seconda guerra mondia-
le per separare e concentrare gli elementi radioattivi necessari alla prepara-
zione della bomba atomica.
La cromatografia di affinità, messa a punto negli anni '30, fu impiegata
per lo studio di enzimi ed altre proteine.
La cromatografia HPLC ebbe origine solo negli anni '70, quando la pro-
duzione di silice silanizzata portò alla realizzazione di un materiale di impac-
camento che permise l'impiego di colonne più lunghe e di volume ridotto.

16 Caleidoscopio
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A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

La gascromatografia ha invece solo sessant'anni di storia.Il primo gascro-


matografo analitico ad adsorbimento gas - solido fu messo a punto da Fritz
Prior nel novembre 1945. Nel 1950 Martin e collaboratori svilupparono la
GLC (cromatografia di ripartizione gas - liquido).
Solo nel 1979, con l'introduzione delle colonne in silice fusa, la gascroma-
tografia ebbe una decisiva espansione. Il primo rivelatore per gascromato-
grafia, il catarometro, fu messo a punto da Ray nel 1954. (3)
Il rivelatore a ionizzazione di fiamma (FID), ancora oggi ampiamente uti-
lizzato, fu realizzato quasi simultaneamente da due gruppi di ricerca capeg-
giati rispettivamente da Harley, McWilliam e Dewar nel 1958.

Tipi di cromatografia

Cromatografia su carta

Sostanzialmente si utilizza un foglio di carta da filtro (preparata apposi-


tamente e leggermente differente dalla carta per filtrare), su un bordo della
quale si deposita la soluzione da separare. Si sospende quindi il foglio di
carta in modo tale che il bordo inferiore peschi in una bacinella con la fase
mobile lasciando che per capillarità il liquido salga lungo il foglio di carta
(cromatografia in fase ascendente). Alternativamente si ripiega il bordo adia-
cente la sostanza da separare facendolo pescare nella bacinella (contenente la
fase mobile) posta in alto e facendo in modo che il resto del foglio scenda
verso il basso. La fase mobile fluirà lungo il foglio scendendo verso il basso
(cromatografia in fasce discendente).
La cromatografia su carta venne sviluppata soprattutto per le prime sepa-
razioni di aminoacidi, usando come fase mobile una miscela di 1-butanolo,
acido acetico ed acqua. Come fase mobile è possibile usare anche alcol etilico.

Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC)

Si tratta di una tecnica cromatografica che permette di separare due o più


composti presenti in un solvente sfruttando l'equilibrio di affinità tra una
"fase stazionaria" posta all'interno della colonna cromatografica ed una "fase
mobile" che fluisce attraverso essa. Una sostanza più affine alla fase stazio-
naria rispetto alla fase mobile impiega un tempo maggiore a percorrere la
colonna cromatografica (tempo di ritenzione) rispetto ad una sostanza con
bassa affinità per la fase stazionaria ed alta per la fase mobile.

Caleidoscopio 17
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Il campione da analizzare è iniettato all'inizio della colonna cromatogra-


fica dove è "spinto" attraverso la fase stazionaria dalla fase mobile applican-
do pressioni dell'ordine delle centinaia di atmosfere. Per ottenere un'elevata
efficienza nella separazione è necessario che le dimensioni delle particelle del
riempimento siano molto ridotte (di solito hanno diametri compresi da 3 a 10
µm), per questo motivo è indispensabile applicare un'elevata pressione se si
vuole mantenere una ragionevole velocità di flusso dell'eluente e quindi un
tempo di analisi adeguato.
Alla fine della colonna è applicato un rilevatore (IR, UV-VIS, spettrome-
tro di massa) ed un calcolatore che permettono una analisi in continuo del-
l'uscita della colonna e quindi di poter quantificare e/o identificare le sostan-
ze iniettate.
I vantaggi principali di questa tecnica sono: la dimensione ridotta della
colonna che evita problemi di deviazioni longitudinali (movimenti della fase
mobile longitudinali) e di percorsi alternativi; velocità di eluizione (passag-
gio della fase mobile attraverso la colonna) costante e regolabile; velocità di
esecuzione ridotta; piccole quantità di composto necessaria all'analisi (nel-
l'ordine dei 5-10 microgrammi di campione solubilizzato in apposito solven-
te), tutto a favore di una maggiore accuratezza e precisione.
Lo svantaggio principale degli apparecchi per HPLC è il costo più eleva-
to rispetto ad una cromatografia su colonna tradizionale, anche se non è pos-
sibile paragonare le due metodiche poiché presentano campi di applicazione
diversi.

Cromatografia su strato sottile (TLC)


La TLC è una tecnica cromatografica di semplice preparazione e rapida
esecuzione; questo la rende particolarmente adatta per l'esecuzione di valu-
tazioni qualitative o semi-quantitative, nonché per seguire una reazione chi-
mica durante il suo svolgersi.
La fase stazionaria è generalmente uno strato dallo spessore uniforme di
circa 1 mm di materiale adsorbente, depositato su una lastra di vetro. Il mate-
riale adsorbente può essere gel di silice, allumina, cellulosa o polvere di dia-
tomee (kieselguhr), a seconda dell'applicazione richiesta. La fase mobile è un
solvente opportunamente scelto (o una miscela di solventi), capace di sepa-
rare i componenti della miscela da analizzare e poco affine per polarità alla
fase stazionaria scelta. Uno strato di fase mobile alto circa 1 cm viene posto
sul fondo di un contenitore nel quale si immerge l'estremità inferiore della
lastra di vetro preparata col materiale adsorbente, sulla quale è stata previa-
mente posta una goccia del campione da separare o di una sua soluzione. Il
contenitore viene poi chiuso in modo da mantenere l'ambiente saturo di

18 Caleidoscopio
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vapori di solvente. Per effetto di capillarità il solvente sale lungo la lastrina


trascinando con sé in maniera differente i componenti della miscela e sepa-
randoli. La corsa del solvente può durare da una decina di minuti ad oltre
un'ora. Se la separazione non è stata sufficiente, si può ricorrere ad una sepa-
razione bidimensionale: in questo caso la lastra è di forma quadrata ed in un
angolo di questa si deposita in un unico punto la soluzione da separare.
Dopo aver proceduto alla separazione si ruota la lastra in modo che le com-
ponenti separate siano lungo una linea orizzontale, quindi si procede ad una
nuova separazione con un differente solvente. Procedendo in questo modo si
riescono a separare sostanze molto affini fra loro e non altrimenti separabili.

Cromatografia a scambio ionico

Questo tipo di cromatografia si basa sul principio di attrazione di ioni di


carica opposta. Molti composti organici, come ad esempio gli amminoacidi,
possono avere parti della molecola polari favorendo quindi la loro separa-
zione tramite questo metodo. La carica netta che questi composti presentano
dipende dal loro pKa e dal pH della soluzione. Come nella normale croma-
tografia si ha una colonna cromatografica impaccata con uno speciale tipo di
resina in grado di scambiare ioni. Esistono due tipi di resine: scambiatrici
anioniche e scambiatrici cationiche. Queste ultime possiedono gruppi carichi
negativamente ed attraggono quindi molecole cariche positivamente. Molti
scambiatori ionici sono costituiti da polimeri di stirene e di divinilbenzene
(polistirene). Il polistirene essendo un polimero lineare è solubile in numero-
si solventi. Condensando invece stirene con divinilbenzene si ottengono poli-
meri con legami crociati e quindi insolubili; più è alto il numero di legami
crociati, maggiore sarà la capacità di trattenere composti ad alto peso mole-
colare.
E’ un metodo che permette di separare molto semplicemente ioni. E’ utile
per la purificazione di campioni analitici poiché, ad esempio, si potrebbe
avere bisogno di analizzare un anione in una matrice di cationi.

Caleidoscopio 19
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Metodiche immunologiche

Molte tecniche di Laboratorio si avvalgono del legame specifico antigene-


anticorpo. Dal momento che è possibile produrre anticorpi nei confronti di
qualunque tipo di macromolecola o sostanza chimica di piccole dimensioni,
le tecniche basate sul loro impiego sono utili per rilevare e purificare i com-
posti.

Legame antigene-anticorpo

Le Immunoglobuline o Anticorpi (Ab) sono proteine nelle quali sono indi-


viduabili due regioni diverse per struttura e funzione:
- regione Fab: regione variabile che contiene la zona specifica per l'anti-
gene
- regione Fc: regione a struttura costante presente all'interno della classe
e sottoclasse di Ab.
Gli anticorpi che vengono utilizzati nelle analisi di Laboratorio apparten-
gono alla classe delle Immunoglobuline G.
Le forze che intervengono nel legame Ab-Ag sono: forze elettrostatiche,
forze idrofobiche, legami idrogeno e forze di Van der Waals.
Nei confronti di queste forze agiscono in senso positivo o negativo altre
componenti del campione: pH, temperatura, forza ionica, detergenti, protei-
ne leganti, cross reagenti.
L'affinità è la forza di attrazione tra l'anticorpo ed un singolo sito antige-
nico (epitopo). E' misurata dalla costante di affinità o di equilibrio K= [Ab-
Ag] / [Ab] +[Ag]. Più elevata è K più forte è il legame.
L'avidità è la somma delle affinità tra un antigene (tutti i suoi epitopi) ed
un antisiero o un pool di Ab monoclonali. L'avidità è uno dei fattori princi-
pali che condizionano la sensibilità analitica cioè la capacità di discriminare
tra concentrazioni molto vicine.

Caleidoscopio 21
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Tecniche per l’identificazione e la


quantificazione di proteine

Gli anticorpi possono essere impiegati per identificare, caratterizzare e


quantificare antigeni specifici da una soluzione. Il principio fondamentale
della maggior parte di tali metodiche è la precipitazione.
La precipitazione interviene quando l'antigene in soluzione acquosa
viene posto a contatto con l'anticorpo (cioè con un siero specifico) in presen-
za di elettroliti, ad esempio in soluzione fisiologica. Affinché la reazione
avvenga devono essere opportunamente scelte sia la concentrazione di cia-
scuno dei reagenti, che le altre condizioni sperimentali, quali temperatura ed
il tempo di incubazione.
In questa reazione l'antigene e l'anticorpo sono inizialmente in uno stato
di soluzione colloidale.
Si possono ottenere reazioni anche con antigeni chimicamente purificati
come ad esempio un polisaccaride batterico.
In questo modo si riesce ad eliminare la complessità reattiva, indotta dal-
l'enorme molteplicità degli antigeni presenti sulla superficie di un batterio o
di un globulo rosso, come invece avviene nell'agglutinazione.
Il titolo precipitante di un siero può essere determinato valutando la più
piccola quantità di esso che sia in grado di precipitare una quantità standard
oppure si può, di fronte ad una quantità fissa di siero, porre quantità scalari
di antigene ed osservare fino a quale punto si ottenga ancora reazione. Il
grado di attività di un siero o di un antigene viene indicato dall'ultima dilui-
zione che consente di evidenziare la reazione.
Dean e Webb nel 1926 definirono l'optimal ratio: la proporzione ottimale
antigene-anticorpo, che dà luogo alla maggiore reattività. Essi fecero diverse
miscele di egual volume e concentrazione di anticorpo ma con quantità
decrescenti di antigene. Osservarono poi il tempo richiesto per la floccula-
zione e definirono come optimal ratio la proporzione antigene - anticorpo in
cui la flocculazione avviene nel minor tempo (6). Optimal ratio corrisponde ad
una miscela equivalente, ove si ha l'utilizzazione reciproca e completa di
tutto l'antigene e di tutto l'anticorpo. Per “equivalenza” si intende che, nel
liquido surnatante della provetta, non rimangono residui né di antigene né
di anticorpo, in quanto completamente utilizzati per formare il precipitato.

Caleidoscopio 23
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Precipitazione

La reazione di precipitazione può essere evidenziata mescolando anticor-


pi e antigeni solubili in provetta mediante il metodo delle diluizioni oppure
con la cosiddetta tecnica zonale ove il siero viene stratificato in provetta al di
sotto dell'antigene: in caso di positività si nota la comparsa, nella zona di con-
tatto dei due reagenti, di un anello opalescente dovuto al fenomeno di preci-
pitazione, assente in caso di reazione negativa.
La tecnica della precipitazione viene impiegata per diagnosticare diverse
malattie infettive o per differenziare specie microbiche appartenenti allo stes-
so genere come la reazione di Lancefield per gli Streptococchi.
La precipitazione può essere eseguita anche in substrati in gel o in agar
dove uno o entrambi i reagenti diffondono dando origine ad una reazione di
precipitazione nel punto in cui si incontrano in concentrazione ottimale.
Si formano così bande di precipitazione ben visibili e separate che permet-
tono d'identificare i singoli componenti antigenici in una soluzione che li con-
tenga contemporaneamente e nello stesso tempo stabilire le affinità esistenti.

Gel diffusione doppia bidimensionale

Questa metodica nota anche come metodo di Ouchtelony prevede la dif-


fusione dell'antigene e dell'anticorpo da due pozzetti adiacenti ricavati in
uno strato di agar. I due reagenti diffondono e formano un precipitato visibi-
le nella zona del gel ove si incontrano in proporzione ottimale permettendo
non solo di stabilire la presenza di più antigeni ma anche la loro eventuale
parziale o totale identità.

Gel diffusione radiale

Il metodo, noto anche come tecnica di Mancini, consente una valutazione


quantitativa della concentrazione dell'anticorpo o dell'antigene.
Uno dei due reagenti è incorporato nello strato di agar; dopo la solidifi-
cazione si preparano numerosi pozzetti che vengono riempiti con i diversi
campioni di antigene,di cui si vuole determinare la concentrazione.
L'antigene, diffondendo nel gel contenete l'anticorpo, dà origine ad anel-

24 Caleidoscopio
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li di precipitazione il cui diametro è direttamente proporzionale alla concen-


trazione dello stesso.

Immunoelettroforesi

Prevede due stadi successivi: 1) elettroforesi della miscela antigenica in un


adatto gel in modo da separare i singoli costituenti in base alla loro mobilità
elettroforetica 2) deposito di un antisiero, specifico per alcune o tutte le com-
ponenti proteiche, in una scanalatura laterale parallela alla direzione della
migrazione elettroforetica. Diffondendo uno verso l'altro originano linee o
archi di precipitato nei punti in cui si incontrano in proporzioni ottimali.

Agglutinazione

La reazione di agglutinazione non differisce sostanzialmente nel mecca-


nismo da quella di precipitazione.
Lo stesso anticorpo è in grado di esplicare azione precipitante o aggluti-
nante in funzione solo dello stato fisico-chimico dell'antigene.
Se questo, anziché disciolto nel mezzo, è costituito da elementi corpusco-
lari (es. globuli rossi o batteri) si avrà reazione di agglutinazione.
La reazione di agglutinazione può essere eseguita, oltre in provetta, anche
su vetrino (prova rapida) diluendo per raddoppio l'anticorpo. Una metodica di
questo genere viene impiegata spesso nella diagnosi di molte malattie soprat-
tutto nell'identificazione di varie specie batteriche e dei gruppi sanguigni.
E’ possibile fissare determinanti antigeni alla superficie di globuli rossi o
di particelle inerti (colloidi, lattice, bentonite) rendendoli così agglutinabili
da parte degli anticorpi specifici.
Se l'antigene viene legato ai globuli rossi, la sua reazione con l'anticorpo
omologo determina un'emoagglutinazione passiva. Antigeni provenienti dai
microrganismi più diversi possono venire fissati ai globuli rossi, in genere
previo trattamento di questi ultimi con acido tannico, gli eritrociti così sensi-
bilizzati possono venire poi impiegati nella prova di emoagglutinazione pas-
siva per la sierodiagnosi di malattie infettive ed infestive.
La reazione di Middlebrook-Dubos cioè l'agglutinazione da parte del
siero di soggetti con tubercolosi, di eritrociti sensibilizzati da antigeni tuber-
colari ha rappresentato il primo esempio di emoagglutinazione passiva.

Caleidoscopio 25
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Inibizione dell’emoagglutinazione da virus

Alcuni virus sono capaci di legarsi ai globuli rossi in quanto dotati di


emoagglutinine facendoli agglutinare. Visto che questa reazione viene inibi-
ta dalla presenza di anticorpi virus-specifici è possibile titolare questi ultimi
con una tecnica nota come reazione di Hirst.
Il test presenta elevate sensibilità, specificità e misura la quantità di anti-
corpi che si legano direttamente all'emoagglutinina virale che è generalmen-
te un antigene superficiale del virione.
La sua esecuzione consiste nell'aggiungere una sospensione di globuli
rossi ad una serie di miscele costituite da varie diluizioni, per raddoppio del
siero in esame e da una quantità standardizzata di virus: in genere quattro
unità emoagglutinanti (UEA). Il titolo degli anticorpi inibenti l'emoagglutina-
zione è rappresentata dalla più alta diluizione di siero capace di prevenire l'e-
moagglutinazione da virus. In presenza di agglutinazione gli eritrociti si
dispongono in un sottile strato granulare a margini irregolari che ricopre tutto
il fondo; al contrario, gli eritrociti normali si depositano sul fondo raccoglien-
dosi nel centro a formare una specie di bottone a margini ben definiti.

Fissazione del complemento

A volte non è possibile evidenziare a occhio nudo una reazione antigene-


anticorpo; essendo noto che tale complesso determina l'attrazione del com-
plemento (C'). Aggiungendo quindi una quantità nota di C' questa viene fis-
sata o consumata. Se dopo si aggiungono anche globuli rossi sensibilizzati
dal rispettivo anticorpo non si avrà emolisi perché manca il C'. In caso di
mancata reazione iniziale l'emolisi avverrà in quanto il C' è rimasto libero.
Quindi se non compare emolisi la reazione è positiva, cioè è precedente-
mente intervenuta una reazione antigene-anticorpo; quando si verifica emo-
lisi la reazione è negativa.
Questa metodica può essere utilizzata sia per la ricerca di anticorpi sia per
individuare gli antigeni, uno dei due deve quindi esser noto e servire per
identificare l'altro.
La prova di fissazione del complemento implica l'uso di quantità molto
modeste di C' (2 unità) perché una parte potrebbe non fissarsi al complesso
antigene-anticorpo e potrebbe poi determinare l'emolisi generando una rea-
zione falsamente negativa.

26 Caleidoscopio
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Indispensabile è eliminare il complemento presente naturalmente nei sieri


in esame sottoponendoli ad un trattamento termico di 56 °C per 30 minuti.
Le IgG4, le IgA, le IgD e le IgE non sono in grado di fissare il comple-
mento, quindi questa reazione diagnostica solo gli anticorpi di classe IgM e
le altre tre sottoclassi di IgG.

Sieroneutralizzazione

Con il termine prove di neutralizzazione si indicano tutte quelle proce-


dure in cui un anticorpo specifico inibisce un effetto biologico che può esse-
re provocato da un microrganismo o da una tossina.
Quando un antigene viene posto a contatto con il siero di un soggetto con-
valescente o immunizzato perde del tutto o in gran parte il suo potere infet-
tante. La spiegazione è che gli anticorpi specifici rivestono la superficie del-
l'antigene impedendo stericamente la sua adesione alla cellula ospite. Il tasso
di anticorpi neutralizzanti nel siero può essere valutato mettendo a contatto
diluizioni seriali per raddoppio del siero con quantità standard di antigene
(nel caso dei virus di solito 100 DITC50) e lasciate reagire per un tempo appro-
priato ad una temperatura ottimale.
L'attività residua delle miscele antigene-siero viene valutata tramite una
titolazione detta al “punto-finale” sul substrato biologico più idoneo (colture
cellulari, uova embrionale, animali da Laboratorio).
Titolo finale degli anticorpi neutralizzanti viene considerata la più alta
diluizione del siero ancora capace di prevenire i fenomeni legati alle pro-
prietà dell'antigene.

Immunofluorescenza

E’ possibile rendere visibile una reazione antigene -anticorpo marcando


uno dei reagenti con sostanze chiamate fluorocromi (fluoresceina, rodamina)
che hanno la capacità di emettere fluorescenza se osservate con un microsco-
pio a luce ultravioletta .
La tecnica è applicabile a sezioni di tessuto, colture cellulari o strisci di
sospensioni di cellule di animali, batteriche e protozoarie.

Caleidoscopio 27
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Immunodosaggi

Le metodiche immunologiche per la quantificazione della concentrazione


di antigene presentano un straordinaria sensibilità e specificità e sono oggi
tecniche di comune utilizzo sia in campo clinico che nella ricerca. Tutti i
moderni metodi immunochimici quantitativi presuppongono la disponibilità
di una preparazione purificata di antigene o di anticorpo la cui quantità può
essere misurata grazie ad una molecola indicatrice dell'avvenuto legame
antigene-anticorpo. Costituenti degli immunodosaggi sono: l'antigene, il
reattivo anticorpale, il tracciante e la curva standard.

L'antigene è :
o l'analita da misurare
o il calibratore
o l'analita marcato che compete con l'analita da dosare
o la molecola utilizzata per produrre gli anticorpi.
Il reattivo anticorpale può essere costituito da un antisiero policlonale o
da anticorpi monoclonali.
Il tracciante è il costituente che segnala la reazione antigene-anticorpo gra-
zie al suo legame con un marcatore (radioisotopo, enzima, fluoroforo) (23).
La curva standard è la componente necessaria per l'attribuzione di una
“quantità” al segnale emesso dal tracciante.

Immunodosaggi diretti e indiretti

Un immunodosaggio può essere impiegato per una misurazione, all'in-


terno di un campione, della quantità sia di un anticorpo che di un antigene.
Si definisce metodo diretto una tecnica che mira alla quantificazione di un
antigene che può essere ad esempio una proteina presente nel plasma oppu-
re una componente microbica. Un immunodosaggio di tipo indiretto, invece,
viene utilizzato con lo scopo di dimostrare l'avvenuto contatto di un antige-
ne con un organismo attraverso la ricerca e la quantificazione degli anticorpi
specifici. Quest'ultimo viene adoperato soprattutto in microbiologia clinica
con tecniche di immunofluorescenza o di ELISA ad esempio per valutare la
sieroconversione o un'infezione pregressa.

Caleidoscopio 29
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo, Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

Immunodosaggi competitivi e non competitivi

Nei metodi competitivi l'analita (Ag) viene dosato grazie alla sua capacità
di competere con un tracciante costituito da un antigene marcato (Ag*) per
formare un immunocomplesso con un Ab specifico presente in quantità limi-
tata. La misura del segnale (Ab-Ag*) è in genere inversamente proporziona-
le all'analita presente nel campione.
Nei metodi competitivi ad una fase l'analita (Ag) del campione e l'antige-
ne marcato (Ag*) competono simultaneamente per una quantità limitata di
anticorpi (Ab).
Nei metodi competitivi a due fasi, in una prima fase l'anticorpo (Ab) è
incubato con il campione (Ag), mentre il tracciante (Ag*) viene aggiunto in
una seconda fase. Questi metodi possono essere usati per aumentare la pen-
denza iniziale della curva (sensibilità).
Tali metodiche sono quasi limitate al dosaggio di apteni, i quali, non aven-
do un numero di epitopi sufficienti ad essere legati da due Ab, presentano
difficoltà tecniche all'applicazione di metodi non competitivi.
Nei metodi non competitivi l'analita viene dosato mediante l'utilizzo di
due diversi anticorpi, presenti in eccesso, specifici per due diversi epitopi
dello stesso antigene. Un anticorpo è marcato (Ab*) e l'altro è legato ad una
“fase solida”. La misura del segnale (Ab*-Ag-Abfase solida) è direttamente
proporzionale all'analita presente nel campione.
Tali metodi sono anche chiamati “sandwich” perché l'antigene è legato fra
due anticorpi. Anche questi, come quelli competitivi, possono essere ad una
fase o a due fasi; questi ultimi migliorano la sensibilità e specificità.
I metodi non competitivi sono più sensibili dei metodi competitivi poiché
in prossimità dello zero un piccolo incremento di segnale è più rilevabile
rispetto ad un piccolo decremento.

Gli immunodosaggi sia competitivi che non competitivi possono essere


distinti in omogenei ed eterogenei.
Sono definiti omogenei gli immunodosaggi che per la lettura del segnale
non richiedono la separazione dell'immunocomplesso dalla frazione non
legata. Sono più semplici e veloci e vengono utilizzati in genere per il dosag-
gio di piccole molecole come: farmaci e droghe d'abuso.
Sono definiti eterogenei gli immunodosaggi che prima della lettura del
segnale richiedono la separazione dell'immunocomplesso che é in genere
ottenuta con un Ab o Ag adeso ad una fase solida.
Alla separazione segue nei metodi RIA (Radio Immuno Assay) il conteg-
gio della radioattività, nei metodi alternativi, come nei metodi ELISA

30 Caleidoscopio
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo, Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

(Enzyme-Linked Immuno-Sorbent Assay), segue l'aggiunta del reagente


complementare → incubazione → blocco della reazione → lettura.
I marcatori non isotopici possono essere utilizzati nei dosaggi omogenei
(non richiedono la separazione dell'immunocomplesso dalla frazione non
legata) e nei dosaggi eterogenei (richiedono la separazione B/F).
I marcatori isotopici necessitano della separazione B/F (B= frazione; F=
frazione legata).
La separazione B/F si può ottenere mediante:
1) Cromatografia (carta, gel, resine)
2) Precipitazione di Bound (doppio Ab, salatura, PEG glicole polietileni-
co, solventi)
3) Adsorbimento di Free (carbone-destrano, resine)
4) Cattura su fase solida (attualmente più usata) (Ab o Ag legato a micro-
particelle magnetiche,a biglie, a provette, a micropiastre).
Nei metodi in fase omogenea la separazione dell'immunocomplesso non
è richiesta perché il segnale “aspecifico” viene neutralizzato,come:

EIA competitivo omogeneo: Ag*(con enzima), Ab che inibisce l'enzima,


Ag analita; il segnale sarà dato dal solo Ag* libero.

FIA competitivo a smorzamento diretto: Ag*(con fluoroforo), Ab che ini-


bisce la fluorescenza, Ag analita; il segnale sarà dato dal solo Ag* libero.

Non competitivo omogeneo: Ab* (con attivatore), Ab*(con fluoroforo), Ag


analita, la reazione avviene solo se entrambi gli Ab sono legati a Ag (Ab*-Ag-
Ab*); il segnale sarà dato dall'immunocomplesso.
In questi casi il segnale è direttamente correlato all'Ag del campione.
Nei primi due casi è l'opposto di quanto avviene nei competitivi eteroge-
nei, nei quali il segnale è inversamente proporzionale al'Ag del campione.
Altri esempi di neutralizzazione del segnale aspecifico sono:

FIA a smorzamento indiretto (competitivo): Ag*(con fluoroforo), Ag ana-


lita, Ab antifluoresceina e Ab che protegge la fluorescenza nei confronti di
quest'ultimo; il segnale sarà dato dal Ag* -Ab.

FPIA fluorescenza polarizzata (competitivo): Ag*(con fluoroforo), Ag ana-


lita, Ab solo le molecole più grandi emettono luce polarizzata; il segnale sarà
dato da Ag*-Ab.
In questi casi il segnale è inversamente proporzionale all'Ag del campio-
ne, come comunemente avviene nei metodi competitivi.

Caleidoscopio 31
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FPIA

La Fluorescence Polarization Immunoassay (FPIA) è un immunodosaggio


competitivo in fase omogenea in fluorescenza.
L'antigene del campione (Ag) e l'antigene marcato con fluoresceina (AgF)
competono per i siti leganti dell'anticorpo. Essendo un immunodosaggio in
fase omogenea non è richiesto il lavaggio per separare l'immunocomplesso
Ab-AgF dall'AgF “free”.
La FPIA è una tecnica accurata e sensibile utilizzata per il dosaggio di far-
maci, droghe d'abuso e di alcuni ormoni (estriolo, cortisolo).
I reagenti sono detti:
S: l'antisiero specifico per l'analita
T: il tracciante cioè l'analita marcato con fluoresceina
P: il pretrattante che serve per facilitare il rilascio dell'analita dalle protei-
ne del siero.
La FPIA utilizza tre concetti chiave: la fluorescenza, la rotazione delle
molecole in soluzione e la luce polarizzata.
Fluorescenza: la fluoresceina è una sostanza che assorbe energia dalla luce
a 490nm e rilascia questa energia ad una lunghezza d'onda maggiore
(520nm) come luce fluorescente.

La rotazione delle molecole in soluzione: in una soluzione le molecole


grandi ruotano più lentamente rispetto alle molecole piccole.
Questo fatto permette di distinguere nella stessa soluzione le molecole
fluorescenti piccole (AgF) che ruotano rapidamente dalle molecole fluore-
scenti grandi (Ab-AgF) che ruotano più lentamente.

La luce polarizzata: l'energia emessa a 520nm come luce fluorescente


dagli immunocomplessi Ab-AgF passa attraverso il polarizzatore, perché la
molecola non fa in tempo a ruotare ed emette luce nello stesso piano della
luce assorbita; le piccole molecole AgF assorbono la luce polarizzata ma ruo-
tano prima di emetterla come fluorescenza e quindi la stessa viene diretta in
altre direzioni e dispersa come luce non polarizzata.
La FPIA è un metodo competitivo perciò il segnale è inversamente corre-
lato con l'analita nel campione.

MEIA

Microparticle Enzyme Immunoassay (MEIA) è un metodo di immunodo-


saggio che utilizza delle microparticelle come fase solida per la separazione
dell'immunocomplesso (Ab-Ag).

32 Caleidoscopio
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Il metodo è automatizzato e viene utilizzato per il dosaggio di ormoni,


marcatori cardiaci, marcatori tumorali, test sierologici.
I reagenti sono costituiti da:
1) Fase solida anticorpo-microparticelle: microparticelle di latex coniu-
gate con l'anticorpo specifico per l'analita
2) Coniugato anticorpo-enzima: anticorpo coniugato con fosfatasi alcali-
na
3) Substrato per l'enzima: 4-Metil Umbelliferone fosfato (MUP).

CMIA

Chemiluminescent Magnetic Immunoassay (CMIA) è metodo di immu-


nodosaggo che utilizza un anticorpo clegato a microparticelle magnetiche, un
anticorpo coniugato con un composto chemiluminescente ed un reagente
attivatore (trigger).
CMIA e MEIA possono utilizzare il metodo non competitivo sandwich; la
quantità di segnale è direttamente proporzionale alla quantità di analita.
Gli immunodosaggi di routine risalgono agli anni '60 con lo sviluppo
della Radioimmunologia (RIA) la quale utilizza come traccianti degli isotopi
radioattivi legati all'Ag* (competitivi) o all'Ab* (non competitivi).
La concentrazione dell'analita è correlata direttamente o inversamente
alla radioattività misurata dal Gamma-counter (I 125,Co57) o Beta-counter
(H3) a seconda del tipo di isotopo.
La tecnologia RIA è ancora usata (aldosterone, testosterone libero, corti-
solo), ma per le normative che regolano la gestione del materiale radioattivo,
l'instabilità del marcato e le difficoltà di automazione, è sempre più sostitui-
ta dalla tecnologia che utilizza traccianti alternativi al RIA .
La tecnologia RIA è applicata a metodi competitivi (RIA), non competiti-
vi (IRMA), entrambi eterogenei.
Nei dosaggi alternativi vengono usati come marcatori degli enzimi (fosfa-
tasi alcalina, perossidasi di rafano, beta-galattosidasi), molecole fluorescenti
o luminescenti.
La concentrazione dell'analita è direttamente (metodi non competitivi) o
inversamente (metodi competitivi) correlata alla variazione di colore o emis-
sione di luce misurata dall'analizzatore.

ELISA

ELISA o Enzyme Linked Immunosorbant Assay è una tecnica alternativa


che ha avuto una maggior applicazione nella diagnostica di Laboratorio. Essa

Caleidoscopio 33
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consiste in un immunodosaggio eterogeneo, sandwich o competitivo, in cui


un anticorpo o un antigene sono immobilizzati ad una fase solida (micropia-
stra). Attualmente è utilizzato soprattutto in sierologia infettiva ed autoim-
munità (27, 28).
Presenta una sensibilità notevole per il fatto che una sola molecola di
enzima può reagire con un elevato numero di molecole di substrato, deter-
minando, anche in presenza di titoli anticorpali modesti, una reazione colo-
rimetrica amplificata.
A partire dagli anni '70 e negli anni '80 e '90 si sono ottenuti notevoli pro-
gressi nella sensibilità, specificità dei dosaggi, nella loro automazione e sono
state introdotte altre tecnologie come: FIA (Fluorescent ImmunoAssay) e
CLIA (ChemiLuminescent ImmunoAssay).

34 Caleidoscopio
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Costituenti degli immunodosaggi

Antigeni marcati

Devono avere la reattività immunologica dell'analita ed il marcatore non


deve alterare la reattività immunologica.

Reagenti anticorpali

Anticorpi policlonali: sono miscele di Immunoglobuline (classe IgG)


diverse per struttura e capacità legante. Hanno una bassa riproducibilità,
un'elevata specificità (ottenuta anche con l'eventuale aggiunta di antigeni per
i siti aspecifici, per neutralizzare gli interferenti), sono stabili e si possono
ottenere in titoli elevati. Tali Immunoglobuline vengono prodotte immuniz-
zando un animale di specie eterologa con l'analita, se immunogenico (PM
>4000), o con l'accoppiamento analita-proteina (nel caso di apteni: PM
<2000).
Si ottiene così l'antisiero e da questo gli anticorpi policlonali (cioè una
miscela di anticorpi prodotti da più cloni plasmacellulari). L'antisiero viene
valutato in base al titolo (reciproco della diluizione del reattivo anticorpale),
alla specificità cioè alle reazioni crociate (rapporto percentuale tra l'analita ed
interferenti che danno la stessa risposta), all'affinità (forza del legame Ab-Ag)
espressa dalla costante di associazione o di affinità-equilibrio.
Anticorpi monoclonali: hanno una specificità maggiore, ma non assoluta;
anche un Ab monoclonale può reagire con affinità diversa, con vari Ag (56).
Sono assolutamente riproducibili ed ottenibili in quantità illimitata.
La maggiore specificità pone problemi in caso di eterogenità o isoforme
dell'Ag (es.forme tumorali) a questo si ovvia con opportune miscele di Ab
monoclonali.
La tecnica di produzione più celebre è quella degli ibridomi, introdotta da
Kohler e Milstein nel 1975 (22). Gli ibridomi derivano dalla fusione di linfo-
citi sensibilizzati con l'antigene (capacità di produrre Ab), con cellule mielo-
matose non secernenti (capacità di vita “illimitata”).
Queste cellule vengono poi diluite fino ad ottenere delle singole plasma-
cellule che moltiplicandosi danno origine a singoli cloni che vengono poi
selezionati in base alle caratteristiche di specificità ed affinità più adatte al

Caleidoscopio 35
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sistema. Si ottiene così l'anticorpo monoclonale (Immunoglobuline prodotte


da un solo clone di plasmacellule).
Gli anticorpi monoclonali non sono necessari di solito nei dosaggi com-
petitivi o con antigeni a struttura semplice come negli apteni. Sono vantag-
giosi, per la maggiore specificità, in caso di antigeni che hanno epitopi simi-
li ad altri (HCG, LH, TSH, marcatori neoplastici mucinici). Sono utili, per la
maggiore specificità, in genere nei dosaggi non competitivi sandwich, dove
due Ab si legano allo stesso Ag su epitopi diversi (24).
Questo tipo di immunoglobuline sono quelle maggiormente utilizzate nei
Laboratori clinici perché essendo più standardizzate agevolano la riproduci-
bilità fra i lotti di reagenti.

Marcatori

Il marcatore è un rivelatore della reazione Ag-Ab, che viene legato al trac-


ciante (Ag o Ab) mediante procedimenti di tipo fisico o chimico.

Marcatori sotopici:
- I 125 (γ emittente, T 1/2 60 gg)
- H 3 (β emittente, T 1/2 12.26 anni)
- Co 57 (γ emittente, T 1/2 267 gg)

Marcatori non isotopici:


- Enzimi (fosfatasi alcalina, perossidasi di rafano, galattosidasi, G6PD,
glucosio ossidasi, lisozima).
- Fluorofori (fluoresceina, europio, isotiocianato, umbelliferoni).
- Chemiluminescenti (isoluminolo, luminolo, esteri di acridinio).
Il marcatore non deve compromettere l'immunoreattività del marcato:
l'Ag* dovrà essere “uguale” all'analita (dosaggi competitivi), l'Ab* dovrà
mantenere la maggiore reattività possibile (56).
Il marcatore deve possedere elevata attività specifica (segnale per massa
di tracciante): essa determina la sensibilità del sistema di rivelazione. Se il
marcatore è un enzima deve avere una elevata attività molare (elevato rap-
porto tra molecole di substrato attivato per molecola di enzima) e deve esse-
re diverso dagli enzimi del campione. Il sistema meno sensibile è la
Perossidasi/Fotometria, il più sensibile è la Fosfatasi alcalina/Chemilumi-
nescenza.
Il marcatore deve possedere inoltre elevata stabilità, durata del reagente e
non subire interferenze da fattori presenti nel campione o nei reagenti (44).

36 Caleidoscopio
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Calibratori

Il calibratore è un materiale con caratteristiche ben conosciute: concentra-


zione, reattività antigenica, che viene utilizzato per calibrare una procedura,
ad esempio per correlare il segnale alla dose. Il calibratore dovrebbe avere le
stesse caratteristiche dei campioni anche se in realtà l'identità antigenica non
è assoluta (vari epitopi, isoforme, materiale degradato nel calibratore) ed
anche la matrice è diversa.
Testando un numero adeguato di calibratori il software dell'analizzatore
elabora una curva di calibrazione cioè una curva di segnale-dose che costi-
tuisce il codice per il dosaggio dei campioni.
I valori dei calibratori vengono assegnati utilizzando una delle seguenti
tre metodiche:
1) Standardizzazione con metodo di riferimento (es. GC-MS per testoste-
rone, estradiolo); i calibratori master (pool di sieri, siero free addizio-
nato) vengono dosati in Laboratori di riferimento.
2) Standardizzazione verso materiale di riferimento (standard internazio-
nali): si preparano diluizioni dello standard di riferimento in siero
umano free ed i calibratori master vengono dosati contro questo stan-
dard con il “sistema” di routine.
3) Standardizzazione con metodo candidato come riferimento: quando
non è possibile si utilizzano le metodiche precedenti. Una volta asse-
gnati i valori ai calibratori master questi vengono utilizzati come rife-
rimento per il dosaggio, con i diversi lotti di reagenti, dei calibratori
che vengono distribuiti agli utilizzatori.

Caleidoscopio 37
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Curve di calibrazione negli immunodo-


saggi

Mettendo in relazione il segnale ottenuto con la dose attribuita ai calibra-


tori si ottiene un grafico che è la curva di calibrazione. Scopo della curva di
calibrazione è la stima del vero rapporto segnale-concentrazione che permet-
te il dosaggio dei campioni.
I passaggi per ottenere una corretta curva di calibrazione sono:
1) Misura dei calibratori
2) Applicazione di un modello che permette una relazione continua
segnale-concentrazione
3) Assegnazione del valore ai campioni.

La qualità della calibrazione, cioè la capacità di stimare il vero rapporto


segnale-concentrazione, dipende soprattutto da:
1. Qualità del calibratore (“identità” immunologica con il campione)
2. Concentrazione dei calibratori usati
3. Qualità del reagente anticorpale
4. Modello di curva usata (algoritmo): la curva più frequentemente
usata è la Rodbard a quattro parametri.
Le Aziende produttrici dei sistemi analitici utilizzano simulazioni per sce-
gliere l'algoritmo ed i livelli di standard adatti per ottimizzare la curva
soprattutto nella zona dove è richiesta la migliore precisione.
La curva di calibrazione deve essere ripetuta quando viene modificata la
correlazione tra segnale analitico e concentrazione dell'analita; questa corre-
lazione può essere modificata da:
1. Variabili inerenti ai reagenti (radiolisi primaria o secondaria, instabi-
lità dei reagenti, differenze tra i lotti)
2. Variabili della procedura (temperatura, incubazioni)
3. Variabili strumentali (temperatura, umidità, condizione del sistema di
rivelazione).
Se non si possono eliminare le variabili, come ad esempio nei dosaggi con
tracciante radioattivo (RIA, IRMA), o nei dosaggi manuali, i calibratori ed i
campioni devono essere processati insieme cioè eseguendo la curva ad ogni
seduta e verificandola con i controlli.
Con l'utilizzo dei traccianti non radioattivi (stabilità del tracciante) e
soprattutto con l'automazione dei dosaggi (standardizzazione delle procedu-
re e delle condizioni ambientali, memorizzazione della curva) le variabili
sono state in parte eliminate o attenuate, permettendo di utilizzare la stessa

Caleidoscopio 39
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curva per più sedute e per tempi più o meno lunghi a seconda dello stru-
mento e degli analiti.

Tipologie di curve di calibrazione

Curva classica

Esistono sul mercato analizzatori che richiedono la classica curva a più


punti (5-7); altri che richiedono l'utilizzo della Master curve .
Nel caso della curva classica si possono avere due possibilità:
Esecuzione e memorizzazione della curva → utilizzo della curva nelle
sedute successive verificandola con i controlli.
Esecuzione e memorizzazione della curva → aggiornamento della curva
nelle sedute successive mediante utilizzo di 1-2 punti di calibrazione e veri-
fica con i controlli. (41)

Master curve

La Master Curve è una curva fornita dall'Azienda produttrice del sistema


(reagente-strumento).
I più moderni strumenti richiedono da parte del produttore del sistema
una calibrazione multipoint (Master curve ) e da parte dell'utilizzatore delle
calibrazioni a due punti che servono ad allineare le variabili locali (strumen-
tali) alla Master curve.
Ovviamente la scelta del livello dei due calibratori è ottimizzata allo
scopo di garantire la precisione, l'accuratezza e la linearità dichiarate per il
test (41).

Criticità teoriche della Master curve:


- Numero di analizzatori utilizzati: può essere utilizzato uno o più ana-
lizzatori
- Numero dei calibratori: in genere da 7 a 20, compresi i due punti (adju-
stors )che saranno utilizzati in periferia per gli allineamenti
- Numero dei replicati: vengono usati numerosi replicati in più sedute
Una adeguata gestione di queste criticità da parte del produttore del siste-
ma permette ottimi livelli di precisione de accuratezza.

40 Caleidoscopio
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Linee guida per i criteri di accettabilità della calibrazione a due punti:


- Tutti i livelli dei controlli devono rientrare nel range.
- La Slope dell'aggiustamento deve rientrare nel range definito
dall'Azienda (es. 20% del valore medio di slope ottenuto da almeno 10
aggiustamenti dello strumento in Laboratorio).
- L'Intercetta dell'aggiustamento deve rientrare nel range di accettabi-
lità ( diverso per metodi competitivi e sandwich).

Caleidoscopio 41
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Interferenze nel dosaggio immunometrico

Nella maggior parte dei casi le interferenze sono dovute a sostanze che
ostacolano il legame Ab-Ag o Ab-Ag* o entrambi in modo diverso. In altri
casi l'interferente ostacola l'attivazione del segnale o altera in modo aspecifi-
co il legame con la fase solida.
Sono soprattutto gli immunodosaggi ad una fase i più sensibili agli inter-
ferenti; quelli a due fasi, grazie ai lavaggi, riescono meglio a ridurre le inter-
ferenze.
Tra gli interferenti ricordiamo: l' ”effetto matrice”, farmaci, autoanticorpi,
fattore reumatoide e gli anticorpi eterofili.

Autoanticorpi

Gli autoanticorpi legano l'antigene in maniera più o meno specifica.


Nei metodi competitivi interferiscono legandosi all' Ag competitivo (Ag*
o Ag in fase solida) ed all'Ag freddo e danno sovrastima o sottostima a secon-
da dell'affinità maggiore per l'uno o per l'altro.
Nei metodi non competitivi l'interferenza da autoanticorpi determina sot-
tostima dell'Ag poiché legandosi ad esso vengono bloccati gli epitopi per
l'Ab* o per l'Ab della fase solida.
Un tipo particolare di interferenza è quella provocata da autoanticorpi
polispecifici nei confronti dei dosaggi di Ab. In questo caso si ha sempre
sovrastima perché gli autoanticorpi simulano gli Ab da dosare (legame con
Ag*, Ag, Ab*, Ab di cattura).

Anticorpi eterofili

Gli anticorpi eterofili legano gli Ab analitici (cioè il reattivo anticorpale).


Nei metodi competitivi l'interferenza è, in genere, meno importante per-
ché viene disturbato in ugual misura sia il legame Ab-Ag* che Ab-Ag.
Nei metodi non competitivi si avrà sottostima o sovrastima a seconda del
loro meccanismo di azione, come si ha a proposito degli HAMA.

Caleidoscopio 43
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Anticorpi umani anti-topo (HAMA)

Gli anticorpi anti-topo (HAMA) sono un interferente che può essere pre-
sente nel sangue umano come risposta immune all'esposizione con antigeni
del topo.
L'esposizione a questi antigeni può essere iatrogena (scintigrafia, immu-
nochemioterapia ed immunoradioterapia), lavorativa (addetti agli stabulari)
o ambientale (agricoltori).
I campioni contenenti HAMA possono provocare falsi incrementi o falsi
decrementi in immunodosaggi che utilizzano Ab di topo.
I dosaggi sandwich sono i più suscettibili a questi interferenti.

Eccesso di antigene: Fenomeno Prozona o Effetto


Gancio

In caso di concentrazioni molto elevate di Ag può accadere che una parte


va a saturare l'Ab legato alla fase solida ed una parte satura l'Ab* impeden-
do la formazione del sandwich. Ne risulta un segnale corrispondente ad una
dose falsamente bassa, all'interno della linearità del metodo. I dosaggi
sandwich ad una fase sono potenzialmente esposti a questo fenomeno.
L'effetto Prozona può essere evitato con metodo sandwich a due fasi nel
quale l'Ag in eccesso viene eliminato mediante lavaggi.
Gli immunodosaggi sono inoltre influenzati da altri fattori quali tempe-
ratura, pH, tempo di incubazione, detergenti per i lavaggi. Tutte queste
variabili sono ottimizzate dalla strumentazione.
Gli immunodosaggi risentono dell'“effetto matrice”determinato dalla
componente proteica e lipidica.
L'“effetto matrice” può interferire col legame Ab-Ag, con l'attivazione del
segnale e con la fase di separazione della frazione libera da quella legata.
Anche l'effetto matrice contribuisce alla non identità campione-calibratore a
questo si compensa in parte aggiungendo proteine alla soluzione standard.

44 Caleidoscopio
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Aspetti che caratterizzano la qualità


degli immunodosaggi

La specificità è data dalla capacità di distinguere l'analita in esame da altri


aventi struttura simile e dipende essenzialmente dal reagente anticorpale.

La sensibilità analitica di un metodo analitico è data dalla minima quan-


tità di analita determinabile significativamente diversa da zero e discrimina-
bile tra concentrazioni contigue: si è passati dai mg/ml della spettrofotome-
tria, ai ºg/ml della fluorimetria, ai pg/ml dei metodi immunometrici.
La sensibilità dipende dalla avidità del reagente anticorpale e dal trac-
ciante. I metodi non competitivi sono più sensibili perché gli Ab, il marcato
ed il legato alla fase solida, sono in eccesso e per la legge di azione di massa
anche bassissime concentrazioni di analita vengono legate dall'Ab*.
I traccianti chemiluminescenti sono i più sensibili.

La sensibilità funzionale è la più bassa concentrazione alla quale il


dosaggio mantiene un CV < 20% tra i saggi. Ricordiamo che quando si parla
di 1° , 2° o 3° generazione a proposito di un test ci si riferisce a diversi livelli
di sensibilità funzionale.

La precisione è l'inverso della varianza della misura di replicati dello


stesso campione e dipende dalla standardizzazione del sistema analitico.

L'accuratezza è la attribuzione della corretta concentrazione dell'analita


nel campione (media di consenso per il metodo). (29,63)
Dalla sensibilità, specificità, precisione, accuratezza analitiche e dalla cor-
retta individuazione dei valori di riferimento dipendono la sensibilità e spe-
cificità cliniche.

Immunodosaggi e compatibilità tra metodi

La comparabilità tra i metodi è ancora un problema irrisolto per la mag-


gior parte dei dosaggi immunometrici.
Lo standard utilizzato è uno dei fattori più importanti che condizionano

Caleidoscopio 45
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la comparabilità tra i metodi; gli altri fattori sono gli anticorpi e la tecnologia
stessa.
Lo standard internazionale porta i vari sistemi analitici ad allinearsi tra di
loro per quanto riguarda il calibratore; rimane comunque la variabilità dovu-
ta all'Ab (affinità diversa, reattività con epitopi diversi) e la variabilità della
tecnologia del test (effetto matrice, interferenza da farmaci, HAMA, autoan-
ticorpi, marcatori).
Buoni risultati di comparabilità si sono ottenuti con vari analiti, come con
TSH, PSA , HCG, AFP.

46 Caleidoscopio
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Metodiche di biologia molecolare

Molti progressi delle tecniche analitiche nel corso degli ultimi 30 anni
sono stati ottenuti grazie alla scoperta della struttura e della funzionalità
degli acidi nucleici con la conseguente introduzione della biologia molecola-
re nei Laboratori clinici. Il DNA e l'RNA rappresentano il genoma ed il tra-
scrittoma degli organismi e la loro manipolazione permette una precisa e
rapida valutazione sia dei geni che della loro espressione.

Storia

Una delle prime scoperte che ha condotto alla realizzazione della tecno-
logia del DNA ricombinante furono, alla fine degli anni '60, le endonucleasi
di restrizione batteriche, enzimi in grado di tagliare il DNA in siti specifici
che furono il primo passo verso il clonaggio di geni all'interno di vettori (53).
Un successivo passo in avanti nello studio del trascrittoma si verificò con la
scoperta della trascrittasi inversa (54), enzima virale in grado di copiare le
molecole di RNA, che rappresentano la porzione espressa dei geni, in mole-
cole di DNA più stabili. Poi ancora nel 1972 furono prodotte le prime mole-
cole di DNA ricombinante ed i primi vettori plasmidici in grado di replicare
frammenti di menoma all'interno di cellule batteriche. Nel 1975 E.M.
Southern pubblicò la prima procedura che consentiva di riconoscere ed iso-
lare un gene da una molecola di DNA complessa tramite ibridazione con
sonda radioattiva: il “Southern blotting” (51).
Successivamente, tra il 1983 e il 1985, Mullins (32) ideò la reazione a cate-
na della polimerasi (PCR): una nuova tecnica che ha reso possibile sintetiz-
zare grandi quantità di un frammento di DNA senza clonarlo. La PCR si è
dimostrata di eccezionale utilità in molti campi della Medicina e della
Biologia e costituisce ad oggi la base per la maggior parte delle tecniche dia-
gnostiche molecolari (30). Negli ultimi anni le conoscenze in campo moleco-
lare si sono ulteriormente arricchite attraverso la conclusione nel 2000 del
sequenziamento del genoma umano e grazie alla nascita di numerose tecni-
che supportate da sofisticati softwares (40) per lo studio del trascrittoma
quali i microarrays ed i microchip (10).

Caleidoscopio 47
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PCR

La reazione a catena della polimerasi o PCR (Polymerase Chain Reaction)


è un metodo semplice e rapido per copiare ed amplificare specifiche sequen-
ze di DNA di peso molecolare variabile tra le 100 paia di basi fino a 1Kb. Per
effettuare tale reazione è necessario conoscere la sequenza di una breve regio-
ne di DNA a ciascuna delle estremità del tratto di interesse sulla base di cui
vengono sintetizzati due piccole molecole di DNA complementari dette pri-
mers. I primers ibridano le regioni adiacenti la sequenza da amplificare e fun-
zionano come innesto per l'enzima DNA polimerasi che viene introdotto
nella miscela di reazione contenente quantità appropriate dei 4 deossinu-
cleotidi trifosfati, i monomeri che costituiscono il DNA. Per effettuare la PCR
vengono utilizzate DNApolimerasi estratte da batteri termofili (45) in grado
di funzionare ad elevate temperature. La reazione di PCR avviene all'interno
di termociclatori e consiste nella successione di più cicli a 3 fasi regolate dalla
temperatura:
1. Denaturazione ad elevata temperatura
2. Appaiamento ai primers abbassando la temperatura
3. Sintesi di copie di DNA da parte della polimerasi che lega il DNA gra-
zie ai primers a partire dai deossinucleotidi liberi nella miscela di rea-
zione.
Una reazione di 30 cicli è in grado di produrre circa un miliardo di copie
del DNA oggetto di studio che può così essere identificato anche se presente
in concentrazioni minime nel campione di partenza. L'amplificato può esse-
re rilevato tramite una separazione elettroforetica su gel oppure attraverso
sonde marcate nelle più recenti applicazioni (35,57).
La PCR si è dimostrata di eccezionale utilità nella diagnostica di
Laboratorio in particolare nei campi della Genetica medica e nella
Microbiologia (19). Negli ultimi anni si sono sviluppate diverse varianti di
PCR tra cui si possono ricordare:
Nested PCR: due reazioni successive dello stesso tratto DNA per ottenere
sensibilità maggiore. Viene utilizzata ad esempio nella Microbiologia per
dimostrare la presenza del genoma di virus presenti in bassa concentrazione
in un campione biologico.
Multiplex PCR: amplificazione contemporanea di più segmenti. E' estre-
mamente utile ad esempio per lo studio delle varianti alleliche nella diagno-
si di malattie genetiche.
PCR real time: amplificazione a scopo quantitativo. La miscela di reazio-
ne comprende sonde che sono in grado di emettere segnali di fluorescenza
dopo ciascuna amplificazione. Esistono sistemi omogenei che monitorano la
PCR ad ogni ciclo per la rilevazione in tempo reale dei prodotti di reazione

48 Caleidoscopio
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pertanto non è necessaria alcuna manipolazione successiva come la separa-


zione elettroforetica. Con la tecnologia Real time è anche possibile effettuare
PCR multiplex, utilizzando fluorofori diversi.

Alternative alla PCR

Il 90% della diagnostica molecolare si basa sulla PCR in quanto sono in


commercio kit di reagenti ed apparecchiature standardizzati in base a questa
tecnologia (39). Tuttavia esistono metodiche di amplificazione alternative
ugualmente sensibili:

LCR: è una reazione a cicli di calore simile alla PCR in cui la DNA poli-
merasi è sostituita dalla DNAligasi e sono presenti 4 primers, due per ciascun
filamento di templato. Il prodotto della reazione è il dimero che la ligasi
forma su ciascun filamento. Esiste anche in versione Real time ma è poco uti-
lizzata in diagnostica a causa della difficoltà di reperire la DNA ligasi termo-
stabile (25).

NASBA: è una reazione che ha come scopo l'amplificazione dell'RNA.


Anche questa tecnica è ciclica e per questo necessita, anziché di calore, di tre
enzimi quali una trascrittasi inversa che forma un ibrido DNA/RNA a dop-
pia elica, una RnasiH che degrada in modo selettivo l'RNA che si trova in una
doppia elica ed una trascrittasi inversa che retrotrascrive il DNA a singola
elica in RNA (11). Tale tecnica è utile per l'amplificazione dei virus a RNA a
singolo filamento, è più rapida di una RT-PCR rapida e non necessita di ter-
mociclatore in quanto la reazione è isotermica (62).

BRANCH DNA: è una amplificazione del segnale anziché dell'acido


nucleico. Ciò avviene grazie a 2 sonde complementari al target delle quali
una è immobilizzata su un supporto solido e l'altra lega sonde di secondo
livello marcate con enzimi e rilevabili tramite ELISA (9).

Ibridizzazione degli acidi nucleici

Le molecole degli acidi nucleici formate da doppie eliche, se scaldate a


temperature elevate, sono in grado di dissociarsi in due filamenti separati:
tale processo è detto denaturazione. La denaturazione di un acido nucleico
non è irreversibile: infatti filamenti singoli di DNA o RNA sono in grado di

Caleidoscopio 49
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ibridizzare con molecole ad essi complementari (50). Il processo di rinatura-


zione è correlato alla temperatura ed alla concentrazione delle molecole per-
tanto è possibile trovare delle condizioni cosiddette di “stringenza” per le
quali due filamenti di acido nucleico si appaiano tra loro solo se perfettamen-
te complementari. L'estrema specificità dell'ibridizzazione degli acidi nucleici
permette che sequenze di DNA sintetico marcato possano essere usate come
sonde per l'identificazione di molecole complementari. Le sonde marcate ven-
gono utilizzate nei Laboratori clinici per individuare acidi nucleici che corri-
spondono a sequenze specifiche, soprattutto per la ricerca di mutazioni nella
diagnosi prenatale e nello studio dell'espressione dei geni (59).

Southern e Northern Blot

La tecnica di Laboratorio più antica che si basa sull'ibridizzazione degli


acidi nucleici è il Southern blot. Lo scopo di tale tecnica è l'individuazione di
sequenze specifiche note di DNA, che possono essere gli alleli di un gene o
mutazioni, all'interno di un estratto. L'estratto di DNA viene tagliato con
enzimi di restrizione ed i frammenti separati mediante elettroforesi su gel. Il
DNA viene così trasferito dal gel ad una membrana di nitrocellulosa la quale
viene fatta reagire con una soluzione contenente sonde marcate con isotopi
radioattivi complementari alla sequenza da ricercare e la rivelazione avviene
tramite autoradiografia (51).
Un metodo analogo di ibridizzazione a bande trasferite da gel, chiamato
Northern blot, analizza l'RNA anziché il DNA. Tale metodo è utilizzato per
valutare l'espressione dei geni a partire da un estratto di RNA (2).
Il Southern e il Northern blot sono metodiche che ormai vengono utiliz-
zate raramente nei Laboratori sia a causa dei rischi dal maneggiamento e
dallo smaltimento del materiale radioattivo che per merito del miglioramen-
to e dell'evoluzione di altre tecniche come la PCR.

Ibridizzazione in situ

Gli acidi nucleici si trovano in posizioni precise all'interno di cellule e tes-


suti ed una grande quantità di informazioni viene perduta quando tali mole-
cole vengono estratte. Per questa ragione sono state sviluppate tecniche in
cui sonde di acidi nucleici vengono utilizzate in modo simile agli anticorpi
marcati per la localizzazione di sequenze specifiche in situ (34).
Le sonde vengono generalmente marcate chimicamente con catene late-
rali riconoscibili a loro volta da anticorpi fluorescenti.
Nella diagnostica prenatale l'assetto cromosomico dell'embrione può

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essere determinato tramite la tecnica di ibridizzazione in situ. La


Fluorescente In-Situ (FISH) e' la tecnica più diffusa per la diagnosi di aneuo-
ploidie su nuclei interfasici da singole cellule di origine embrionale. Esse
vengono fissate su vetrini da microscopia e fatte reagire con una soluzione
contenente una serie di sonde di DNA marcate con fluorocromi diversi, con
sequenza complementare specifica alle regioni cromosomiche che interessa-
no la diagnosi. Tali sonde si legano alle regioni cromosomiche per cui pre-
sentano omologia, ed eccitate da lampade che emettono luce a diverse lun-
ghezze d'onda, emettono un segnale osservabile al microscopio a fluorescen-
za, di colore diverso per ciascun marcatore (49). Attraverso la FISH è possi-
bile ad esempio stabilire lo stato di ploidia di un blastomero utilizzando
sonde che differenziano i diversi cromosomi.

Caleidoscopio 51
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Microarrays

La tecnologia dei microarray a cDNA, nata nel 1995 (48), rappresenta un


metodo semplice ed economico per lo studio dell'espressione genica. Con
questa tecnica vengono analizzati simultaneamente migliaia di geni:
- su un supporto solido vengono immobilizzate delle sonde costituite
da EST (frammenti amplificati di cDNA che derivano da mRNA retro-
trascritti) ognuna delle quali rappresenta un determinato gene.
- Dal campione viene estratto l'RNA, che rappresenta la porzione tra-
scritta del genoma. L'RNA viene retrotrascritto in cDNA, marcato e
fatto ibridare con le sonde immobilizzate.
- Il risultato è la marcatura di una parte delle sonde che rappresentano
così i geni espressi nel campione.
- L'analisi finale dei dati consiste nel trasformare le intensità della fluo-
rescenza associata a ciascuna sonda in una misura dell'abbondanza
dei trascritti.
Tali metodi vengono generalmente utilizzati per confrontare simultanea-
mente l'espressione genica di due campioni diversi, ad esempio cellule trat-
tate con farmaci diversi (65). Una differenza fondamentale tra i microarray e
gli altri metodi di analisi tradizionali consiste infatti nella dimensione dei
dati e nella loro gestione.L'analisi simultanea si ottiene facilmente marcando
con coloranti differenti i cDNA dei diversi campioni. La differenza fonda-
mentale tra i microarray e gli altri metodi di analisi tradizionali consiste
infatti nella dimensione dei dati e nella loro gestione.

Produzione

I microarrays vengono prodotti e commercializzati attraverso differenti


metodiche che permettono di avere delle sonde immobilizzate su vetrini da
microscopio o supporti di silicio. Esistono principalmente due tecnologie per
tale produzione:
- Gli SPOTTED MICROARRAYS comprendono sonde di cDNA presin-
tetizzate che vengono immobilizzate da macchinari automatici sui
supporti.
- Nei CHIP-ARRAYS (ARRAYS PER FOTOLITOGRAFIA) le sonde ven-
gono sintetizzate in situ cioè direttamente sul supporto solido (37).

Caleidoscopio 53
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Tale metodo permette la sintesi di oligonucleotidi di una lunghezza


massima di 25 basi.

Tipologie di analisi

I MICROARRAYS A DOPPIO CANALE sono sempre spotted microarrays


in cui l'ibridazione di due campioni avviene contemporaneamente su uno
stesso vetrino pertanto la valutazione finale dell'espressione è relativa: si ana-
lizza unicamente in quale dei due campioni prevale l'espressione di ciascun
gene valutando la colorazione della sonda.
I MICROARRAYS A SINGOLO CANALE possono essere prodotti sia per
fotolitografia che essere presintetizzati.
Vi sono sonde dette “perfect match” lunghe al massimo 25 nucleotidi e
perfettamente complementari ad una porzione genica. Per ciascuna “perfect
match” esiste una “miss match”, sonda che differisce dalla precedente per un
nucleotide e non essendo perfettamente complementare serve a valutare l'a-
specificità (52). Con questo metodo è possibile ibridare un solo campione alla
volta e la valutazione finale dell'espressione è di tipo assoluto (64).

Marcatura dei campioni

I campioni da analizzare vengono marcati con coloranti fluorescenti, i più


utilizzati sono i fluorofori Cy3 e Cy5, oppure con basi biotinilate che vengo-
no poi rivelate con streptoavidina.
La marcatura, solitamente, avviene contemporaneamente alla costruzione
delle sonde: durante la retrotrascrizione dell' mRNA in cDNA vengono inse-
rite nella reazione basi azotate biotinilate o coniugate con fluorofori.

Applicazioni

La tecnologia dei microarrays viene utilizzata per studi comparativi del-


l'espressione genica in campioni come potrebbero essere cellule trattate con
farmaci o altre sostanze rispetto a materiale di controllo non trattato.

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I microarrays possono essere anche usati per lo studio di genotipi: gli SNP
microarrays vengono usati per identificare i polimorfismi di singolo nucleo-
tide, ovvero gli SNPs, tratti di DNA ipervariabili nell'ambito della stessa spe-
cie, responsabili della variazione genetica (8) e della suscettibilità individua-
le a manifestare determinate malattie (13).Gli SNP microarrays trovano
impiego in genetica forense, in farmacogenetica, per lo studio di relazione tra
particolari genotipi e diverse risposte ai farmaci e per tracciare i profili di
mutazione somatica nelle cellule tumorali.
I Protein Microarrays si ottengono utilizzando proteine come sonde. Essi
sono usati per identificare le interazioni proteina-proteina o per identificare i
substrati degli enzimi o ancora per identificare i recettori di piccole molecole
biologicamente attive. Le proteine più comunemente nei protein microarrays
sono gli anticorpi, usati come sonde per rilevare proteine da lisati cellulari (14).

Analisi dei dati

I livelli diversi di fluorescenza di un microarray indicano livelli diversi di


ibridizzazione e quindi di espressione genica. Il segnale viene rilevato da uno
scanner ed in seguito sottoposto ad algoritmi di filtrazione e di pulizia del
segnale e convertito in valori numerici. Un esperimento di analisi dei profili
di espressione fornisce come risultato una matrice di dati, in cui le righe rap-
presentano i geni monitorati e le colonne corrispondono alle diverse condi-
zioni sperimentali: punti temporali, condizioni fisiologiche, tessuti. Ogni ele-
mento della matrice rappresenta quindi il livello di espressione di un parti-
colare gene in uno specifico stato fisiologico. Ciascuna colonna è data da un
vettore che ha tante dimensioni quanti sono i geni o le sequenze immobiliz-
zate sull'array. La gestione e l'interpretazione dell'enorme quantità di dati
generata dalle matrici ad alta densità rappresentano un aspetto fondamenta-
le di questa tecnologia. Infatti, la loro applicazione nello studio dei profili
dell'espressione genica produce volumi di informazioni tali da limitare l'ap-
plicazione delle tecniche modellistiche classiche. Tali tecniche non sono gene-
ralmente applicabili in maniera soddisfacente in presenza di sistemi poco
caratterizzati e descritti da quantità grandissime di dati. E’ necessario, quin-
di, avere a disposizione i database mining: una serie di tecniche computazio-
nali capaci di gestire ed interpretare questi enormi database nonché di inter-
facciarsi con gli strumenti bioinformatici per l'analisi funzionale. Si defini-
scono tecniche di database mining gli strumenti informatici utilizzabili per
l'esplorazione e l'analisi di grandi quantità di dati al fine di estrarre motivi
caratteristici e persistenti, i patterns (46). Gli algoritmi che costituiscono il

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database mining derivano da campi quali la statistica, la pattern recognition,


l'intelligenza artificiale e l'analisi dei segnali; essi sfruttano le informazioni
ricavate direttamente dai dati per creare dei modelli empirici in grado di
descrivere il comportamento di un sistema complesso. Nel caso dei profili di
espressione genica, le tecniche di database mining rappresentano un utile
strumento per identificare ed isolare particolari pattern di espressione che di
fatto rappresentano delle vere e proprie impronte digitali genetiche di un
determinato stato fisiologico. L'analisi dei dati degli array di cDNA è nor-
malmente basata sull'uso sinergico di test di ipotesi e di sistemi per l'estra-
zione della conoscenza. I test di ipotesi sono sostanzialmente degli approcci
di tipo top-down con i quali si ricercano nei dati le conferme sperimentali ad
ipotesi precedentemente formulate. L'estrazione della conoscenza può essere
intesa invece come un approccio bottom-up nel quale sono i dati stessi che
forniscono le indicazioni necessarie alla formulazione di nuove ipotesi. Un
aspetto cruciale dell'applicazione di queste procedure è l'identificazione di
tutti quei geni che manifestano un'elevata attività in un determinato stato
fisiologico (37). Questi geni attivi e le loro relazioni possono essere identifi-
cati attraverso tecniche quali Mean Hypothesis Testing (MHT), Cluster
Analysis (CA), Principal Component Analysis (PCA) e Decision Tree (DT).

56 Caleidoscopio
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62 Caleidoscopio
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo, Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

Indice

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 3

Scelta delle tecnologie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 5

Modello di Stockmann . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 5

Microscopia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 7

Storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 7

Funzionamento e tipologie dei microscopi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 7

Microscopio ottico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 8

Microscopio elettronico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 10

TEM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 11

SEM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 11

Spettrofotometria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 13

Spettrofotometro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 13

Quantificazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 14

Cromatografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 15

Tipi di cromatografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 17

Cromatografia su carta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 17

Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 17

Cromatografia su strato sottile (TLC) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 18

Cromatografia a scambio ionico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 19

Metodiche immunologiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 21

Legame antigene-anticorpo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 21

Tecniche per l'identificazione e la quantificazione di proteine . . . . . . . .» 23

Caleidoscopio 63
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo, Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

Precipitazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 24

Gel diffusione doppia bidimensionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 24

Gel diffusione radiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 24

Immunoelettroforesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 25

Agglutinazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 25

Inibizione dell'emoagglutinazione da virus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 26

Fissazione del complemento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 26

Sieroneutralizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 27

Immunofluorescenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 27

Immunodosaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 29

Immunodosaggi diretti e indiretti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 29

Immunodosaggi competitivi o non competitivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 29

FPIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 32

MEIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 32

CMIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 33

ELISA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 33

Costituenti degli immunodosaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 35

Antigeni marcati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 35

Reagenti anticorpali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 35

Marcatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 36

Calibratori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 37

Curve di calibrazione negli immunodosaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 39

Tipologie di curve di calibrazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 40

Interferenze nel dosaggio immunometrico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 43

Autoanticorpi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 43

64 Caleidoscopio
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo, Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

Anticorpi esterofili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 43

Anticorpi umani anti-topo (HAMA) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 44

Eccesso di antigene . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 44

Aspetti che caratterizzano la qualità degli immunodosaggi . . . . . . . . . .» 45

Immunodosaggi e comparabilità tra metodi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 45

Metodiche di biologia molecolare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 47

Storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 47

PCR . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 48

Alternative alla PCR . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 49

Ibridizzazione degli acidi nucleici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 49

Southern e Northern blot . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 50

Ibridizzazione in situ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 50

Microarrays . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 53

Produzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 53

Tipologie di analisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 54

Marcatura dei campioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 54

Applicazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 54

Analisi dei dati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 55

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 57

Indice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 63

Caleidoscopio 65
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A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

Caleidoscopio Italiano

... il futuro ha il cuore antico MEDICAL SYSTEMS SpA

1. Rassu S.: Principi generali di endocrinologia. Gennaio ’83


2. Rassu S.: L’ipotalamo endocrino. Giugno ’83
3. Rassu S.: L’ipofisi. Dicembre ’83
4. Alagna., Masala A.: La prolattina. Aprile ’84
5. Rassu S.: Il pancreas endocrino. Giugno ’84
6. Fiorini I., Nardini A.: Citomegalovirus, Herpes virus, Rubella virus (in gravidanza). Luglio ’84.
7. Rassu S.: L’obesita’. Settembre ’84
8. Franceschetti F., Ferraretti A.P, Bolelli G.F., Bulletti C.:Aspetti morfofunzionali dell’ovaio.
Novembre ’84.
9. Kubasik N.P.: Il dosaggio radioimmunologico (1). Dicembre ’84.
10. Kubasik N.P.: Il dosaggio radioimmunologico (2) parte prima. Gennaio’85.
11. Kubasik N.P.: Il dosaggio radioimmunologico (2) parte seconda. Febbraio ’85.
12.Kubasik N.P.: Il dosaggio radioimmunologico (3) parte prima. Aprile ’85.
13. Nacamulli D, Girelli M.E, Zanatta G.P, Busnardo B.: Il TSH. Giugno ’85.
14. Facchinetti F. e Petraglia F.: La β-endorfina plasmatica e liquorale. Agosto ’85.
15. Baccini C.: Le droghe d’abuso (1). Ottobre ’85.
16. Kubasik N.P.: Il dosaggio radioimmunologico (3) parte seconda. Dicembre ’85.
17. Nuti R.: Fisiologia della vitamina D: Trattamento dell’osteoporosi post-menopausale.
Febbraio ’86
18. Cavallaro E.: Ipnosi: una introduzione psicofisiologica. Marzo ’86.
19. Fanetti G.: AIDS: trasfusione di sangue emoderivati ed emocomponenti. Maggio ’86.
20. Fiorini I., Nardini A.: Toxoplasmosi, immunologia e clinica. Luglio ’86.
21. Limone P.: Il feocromocitoma. Settembre ’86.
22. Bulletti C., Filicori M., Bolelli G.F., Flamigni C.: Il Testicolo. Aspetti morfo-funzionali e
clinici. Novembre ’86.
23. Bolcato A.: Allergia. Gennaio ’87.
24. Kubasik N.P.: Il dosaggio enzimoimmunologico e fluoroimmunologico. Febbraio ’87.
25. Carani C.: Patologie sessuali endocrino-metaboliche. Marzo ’87.
26. Sanna M., Carcassi R., Rassu S.: Le banche dati in medicina. Maggio ’87.
27. Bulletti C., Filicori M., Bolelli G.F., Jasonni V.M., Flamigni C.: L’amenorrea. Giugno ’87.
28. Zilli A., Pagni E., Piazza M.: Il paziente terminale. Luglio ’87.
29. Pisani E., Montanari E., Patelli E., Trinchieri A., Mandressi A.: Patologie prostatiche.
Settembre ’87.
30. Cingolani M.: Manuale di ematologia e citologia ematologica. Novembre ’87.

66 Caleidoscopio
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo, Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

31. Kubasik N.P.: Ibridomi ed anticorpi monoclonali. Gennaio ’88.


32. Andreoli C., Costa A., Di Maggio C.: Diagnostica del carcinoma mammario. Febbraio ’88.
33. Jannini E.A., Moretti C., Fabbri A., Gnessi L., Isidori A.: Neuroendocrinologia dello stress.
Marzo ’88.
34. Guastella G., Cefalù E., Carmina M.: La fecondazione in vitro. Maggio ‘88.
35. Runello F., Garofalo M.R., Sicurella C., Filetti S., Vigneri R.: Il gozzo nodulare. Giugno ’88.
36. Baccini C.: Le droghe d’abuso (2). Luglio ’88.
37. Piantino P., Pecchio F.: Markers tumorali in gastroenterologia. Novembre ’88.
38. Biddau P.F., Fiori G.M., Murgia G.: Le leucemie acute infantili. Gennaio ’89.
39. Sommariva D., Branchi A.: Le dislipidemie. Febbraio ‘89.
40. Butturini U., Butturini A.: Aspetti medici delle radiazioni. Marzo ‘89.
41. Cafiero F., Gipponi M., Paganuzzi M.: Diagnostica delle neoplasie colo-rettali. Aprile ‘89.
42. Palleschi G.: Biosensori in Medicina. Maggio ‘89.
43. Franciotta D.M., Melzi D’Eril G.V. e Martino G.V.: HTLV-I. Giugno ‘89.
44. Fanetti G.: Emostasi: fisiopatologia e diagnostica. Luglio ‘89.
45. Contu L., Arras M.: Le popolazioni e le sottopopolazioni linfocitarie. Settembre ‘89.
46. Santini G.F., De Paoli P., Basaglia G.: Immunologia dell’occhio. Ottobre ‘89.
47. Gargani G., Signorini L.F., Mandler F., Genchi C., Rigoli E., Faggi E.: Infezioni opportu-
nistiche in corso di AIDS. Gennaio ‘90.
48. Banfi G., Casari E., Murone M., Bonini P.: La coriogonadotropina umana. Febbraio ‘90.
49. Pozzilli P., Buzzetti R., Procaccini E., Signore E.: L’immunologia del diabete mellito.
Marzo ‘90.
50. Cappi F.: La trasfusione di sangue: terapia a rischio. Aprile ‘90.
51. Tortoli E., Simonetti M.T.: I micobatteri. Maggio ‘90.
52. Montecucco C.M., Caporali R., De Gennaro F.: Anticorpi antinucleo. Giugno ‘90.
53. Manni C., Magalini S.I. e Proietti R.: Le macchine in terapia intensiva. Luglio ‘90.
54. Goracci E., Goracci G.: Gli allergo-acari. Agosto ‘90.
55. Rizzetto M.: L’epatite non A non B (tipo C). Settembre ‘90.
56. Filice G., Orsolini P., Soldini L., Razzini E. e Gulminetti R.: Infezione da HIV-1: patoge-
nesi ed allestimento di modelli animali. Ottobre ‘90.
57. La Vecchia C. Epidemiologia e prevenzione del cancro (I). Gennaio ‘91.
58. La Vecchia C. Epidemiologia e prevenzione del cancro (II). Febbraio ‘91.
59. Santini G.F., De Paoli P., Mucignat G., e Basaglia G., Gennari D.: Le molecole dell’adesi-
vità nelle cellule immunocompetenti. Marzo ‘91.
60. Bedarida G., Lizioli A.: La neopterina nella pratica clinica. Aprile ‘91.
61. Romano L.: Valutazione dei kit immunochimici. Maggio ‘91.
62. Dondero F. e Lenzi A.: L’infertilità immunologica. Giugno ‘91.
63. Bologna M. Biordi L. Martinotti S.: Gli Oncogèni. Luglio ‘91.
64. Filice G., Orsolini P., Soldini L., Gulminetti R., Razzini E., Zambelli A. e Scevola D.: In-
fezione-malattia da HIV in Africa. Agosto ‘91.
65. Signore A., Chianelli M., Fiore V., Pozzilli P., Andreani D.: L’immunoscintigrafia nella dia-
gnosi delle endocrinopatie autoimmuni. Settembre ‘91.
66. Gentilomi G.A.: Sonde genetiche in microbiologia. Ottobre ‘91.
67. Santini G.F., Fornasiero S., Mucignat G., Besaglia G., Tarabini-Castellani G. L., Pascoli
L.: Le sonde di DNA e la virulenza batterica. Gennaio ‘92.
68. Zilli A., Biondi T.: Il piede diabetico. Febbraio ‘92.

Caleidoscopio 67
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo, Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

69. Rizzetto M.: L’epatite Delta. Marzo ‘92.


70. Bracco G., Dotti G., Pagliardini S., Fiorucci G.C.: Gli screening neonatali. Aprile ‘92.
71. Tavani A., La Vecchia C.: Epidemiologia delle patologie cardio e cerebrovascolari. Luglio ‘92.
72. Cordido F., Peñalva A., De la Cruz L. F., Casanueva F. F., Dieguez C.: L’ormone della cre-
scita. Agosto ‘92.
73. Contu L., Arras M.: Molecole di membrana e funzione immunologica (I). Settembre ‘92.
74. Ferrara S.:Manuale di laboratorio I. Ottobre ‘92.
75. Gori S.: Diagnosi di laboratorio dei patogeni opportunisti. Novembre ‘92.
76. Ferrara S.: Manuale di laboratorio II. Gennaio ‘93.
77. Pinna G., Veglio F., Melchio R.: Ipertensione Arteriosa. Febbraio ‘93.
78. Alberti M., Fiori G.M., Biddau P.: I linfomi non Hodgkin. Marzo ‘93.
79. Arras M., Contu L.: Molecole di membrana e funzione immunologica (II). Aprile ‘93.
80. Amin R.M., Wells K.H., Poiesz B.J.: Terapia antiretrovirale. Maggio ‘93.
81. Rizzetto M.: L’epatite C. Settembre ‘93.
82. Andreoni S.: Diagnostica di laboratorio delle infezioni da lieviti. Ottobre ‘93.
83.Tarolo G.L., Bestetti A., Maioli C., Giovanella L.C., Castellani M.: Diagnostica con radio-
nuclidi del Morbo di Graves-Basedow. Novembre ‘93.
84. Pinzani P., Messeri G., Pazzagli M.: Chemiluminescenza. Dicembre ‘93.
85. Hernandez L.R., Osorio A.V.: Applicazioni degli esami immunologici. Gennaio 94.
86. Arras M., Contu L.: Molecole di Membrana e funzione immunologica. Parte terza: I lnfo-
citi B. Febbraio ‘94.
87. Rossetti R.: Gli streptoccocchi beta emolitici di gruppo B (SGB). Marzo ‘94.
88. Rosa F., Lanfranco E., Balleari E., Massa G., Ghio R.: Marcatori biochimici del rimodel-
lamento osseo. Aprile ‘94.
89. Fanetti G.: Il sistema ABO: dalla sierologia alla genetica molecolare. Settembre ‘94.
90. Buzzetti R., Cavallo M.G., Giovannini C.: Citochine ed ormoni: Interazioni tra sistema
endocrino e sistema immunitario. Ottobre ‘94.
91. Negrini R., Ghielmi S., Savio A., Vaira D., Miglioli M.: Helicobacter pylori. Novembre ‘94.
92. Parazzini F.: L’epidemiologia della patologia ostetrica. Febbraio ‘95.
93. Proietti A., Lanzafame P.: Il virus di Epstein-Barr. Marzo ‘95.
94. Mazzarella G., Calabrese C., Mezzogiorno A., Peluso G.F., Micheli P, Romano L.: Im-
munoflogosi nell’asma bronchiale. Maggio ‘95.
95. Manduchi I.: Steroidi. Giugno ‘95.
96. Magalini S.I., Macaluso S., Sandroni C., Addario C.: Sindromi tossiche sostenute da prin-
cipi di origine vegetale. Luglio ‘95.
97. Marin M.G., Bresciani S., Mazza C., Albertini A., Cariani E.: Le biotecnologie nella dia-
gnosi delle infezioni da retrovirus umani. Ottobre ‘95.
98.La Vecchia C., D’Avanzo B., Parazzini F., Valsecchi M.G.: Metodologia epidemiologica e
sperimentazione clinica. Dicembre ‘95.
99.Zilli A., Biondi T., Conte M.: Diabete mellito e disfunzioni conoscitive. Gennaio ‘96.
100.Zazzeroni F., Muzi P., Bologna M.: Il gene oncosoppressore p53: un guardiano del genoma.
Marzo ‘96.
101.Cogato I. Montanari E.: La Sclerosi Multipla. Aprile ‘96.
102.Carosi G., Li Vigni R., Bergamasco A., Caligaris S., Casari S., Matteelli A., Tebaldi A.:
Malattie a trasmissione sessuale. Maggio ‘96.

68 Caleidoscopio
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo, Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

103.Fiori G. M., Alberti M., Murtas M. G., Casula L., Biddau P.: Il linfoma di Hodgkin. Giu-
gno ‘96.
104.Marcante R., Dalla Via L.: Il virus respiratorio sinciziale. Luglio ‘96.
105.Giovanella L., Ceriani L., Roncari G.: Immunodosaggio dell’antigene polipeptidico tis-
sutale specifico (TPS) in oncologia clinica: metodologie applicative. Ottobre ‘96.
106.Aiello V., Palazzi P., Calzolari E.: Tecniche per la visualizzazione degli scambi cromatici
(SCE): significato biologico e sperimentale. Novembre ‘96.
107.Morganti R.: Diagnostica molecolare rapida delle infezioni virali. Dicembre ‘96.
108.Andreoni S.: Patogenicità di Candida albicans e di altri lieviti. Gennaio ‘97.
109.Salemi A., Zoni R.: Il controllo di gestione nel laboratorio di analisi. Febbraio ‘97.
110.Meisner M.: Procalcitonina. Marzo ‘97.
111.Carosi A., Li Vigni R., Bergamasco A.: Malattie a trasmissione sessuale (2). Aprile ‘97.
112.Palleschi G. Moscone D., Compagnone D.: Biosensori elettrochimici in Biomedicina.
Maggio ‘97.
113.Valtriani C., Hurle C.: Citofluorimetria a flusso. Giugno ‘97.
114.Ruggenini Moiraghi A., Gerbi V., Ceccanti M., Barcucci P.: Alcol e problemi correlati.
Settembre ‘97.
115.Piccinelli M.: Depressione Maggiore Unipolare. Ottobre ‘97.
116.Pepe M., Di Gregorio A.: Le Tiroiditi. Novembre ‘97.
117.Cairo G.: La Ferritina. Dicembre ‘97.
118.Bartoli E.: Le glomerulonefriti acute. Gennaio ‘98.
119.Bufi C., Tracanna M.: Computerizzazione della gara di Laboratorio. Febbraio ‘98.
120.National Academy of Clinical Biochemistry: Il supporto del laboratorio per la diagnosi ed
il monitoraggio delle malattie della tiroide. Marzo ‘98.
121.Fava G., Rafanelli C., Savron G.: L’ansia. Aprile ‘98.
122.Cinco M.: La Borreliosi di Lyme. Maggio ‘98.
123.Giudice G.C.: Agopuntura Cinese. Giugno ‘98.
124.Baccini C.: Allucinogeni e nuove droghe (1). Luglio ‘98.
125.Rossi R.E., Monasterolo G.: Basofili. Settembre ‘98.
126. Arcari R., Grosso N., Lezo A., Boscolo D., Cavallo Perin P.: Eziopatogenesi del diabete
mellito di tipo 1. Novembre ‘98.
127.Baccini C.: Allucinogeni e nuove droghe (1I). Dicembre ‘98.
128.Muzi P., Bologna M.: Tecniche di immunoistochimica. Gennaio ‘99.
129.Morganti R., Pistello M., Vatteroni M.L.: Monitoraggio dell’efficacia dei farmaci antivi-
rali. Febbraio ‘99.
130.Castello G., Silvestri I.:Il linfocita quale dosimetro biologico. Marzo ‘99.
131.AielloV., Caselli M., Chiamenti C.M.: Tumorigenesi gastrica Helicobacter pylori - corre-
lata. Aprile ‘99.
132.Messina B., Tirri G., Fraioli A., Grassi M., De Bernardi Di Valserra M.: Medicina
Termale e Malattie Reumatiche. Maggio ‘99.
133.Rossi R.E., Monasterolo G.: Eosinofili. Giugno ‘99.
134.Fusco A., Somma M.C.: NSE (Enolasi Neurono-Specifica). Luglio ‘99.
135.Chieffi O., Bonfirraro G., Fimiani R.: La menopausa. Settembre ‘99.
136.Giglio G., Aprea E., Romano A.: Il Sistema Qualità nel Laboratorio di Analisi. Ottobre
‘99.

Caleidoscopio 69
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo, Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

137.Crotti D., Luzzi I., Piersimoni C.: Infezioni intestinali da Campylobacter e microrganismi
correlati. Novembre ‘99.
138.Giovanella L.: Tumori Neuroendocrini: Diagnosi e fisiopatologia clinica. Dicembre ‘99.
139.Paladino M., Cerizza Tosoni T.: Umanizzazione dei Servizi Sanitari: il Case Management.
Gennaio 2000.
140.La Vecchia C.: Come evitare la malattia. Febbraio 2000.
141.Rossi R.E., Monasterolo G.: Cellule dendritiche. Marzo 2000.
142.Dammacco F.: Il trattamento integrato del Diabete tipo 1 nel bambino e adolescente (I).
Aprile 2000.
143.Dammacco F.: Il trattamento integrato del Diabete tipo 1 nel bambino e adolescente (II).
Maggio 2000.
144.Croce E., Olmi S.: Videolaparoscopia. Giugno 2000.
145.Martelli M., Ferraguti M.: AllergoGest. Settembre 2000.
146.Giannini G., De Luigi M.C., Bo A., Valbonesi M.: TTP e sindromi correlate: nuovi oriz-
zonti diagnostici e terapeutici. Gennaio 2001.
147.Rassu S., Manca M.G., Pintus S., Cigni A.: L’umanizzazione dei servizi sanitari. Febbraio
2001.
148. Giovanella L.: I tumori della tiroide. Marzo 2001.
149.Dessì-Fulgheri P., Rappelli A.: L’ipertensione arteriosa. Aprile 2001.
150. The National Academy of Clinical Biochemistry: Linee guida di laboratorio per lo scree-
ning, la diagnosi e il monitoraggio del danno epatico. Settembre 2001.
151.Dominici R.: Riflessioni su Scienza ed Etica. Ottobre 2001.
152.Lenziardi M., Fiorini I.: Linee guida per le malattie della tiroide. Novembre 2001.
153.Fazii P.: Dermatofiti e dermatofitosi. Gennaio 2002.
154.Suriani R., Zanella D., Orso Giacone G., Ceretta M., Caruso M.: Le malattie infiamma-
torie intestinali (IBD) Eziopatogenesi e Diagnostica Sierologica. Febbraio 2002.
155. Trombetta C.: Il Varicocele. Marzo 2002.
156.Bologna M., Colorizio V., Meccia A., Paponetti B.: Ambiente e polmone. Aprile 2002.
157. Correale M., Paradiso A., Quaranta M.: I Markers tumorali. Maggio 2002.
158. Loviselli A., Mariotti S.: La Sindrome da bassa T3. Giugno 2002.
159. Suriani R., Mazzucco D., Venturini I., Mazzarello G., Zanella D., Orso Giacone G.:
Helicobacter Pylori: stato dell’arte. Ottobre 2002.
160. Canini S.: Gli screening prenatali: marcatori biochimici, screening nel 1° e 2° trimestre di
gravidanza e test integrato. Novembre 2002.
161. Atzeni M.M., Masala A.: La β-talassemia omozigote. Dicembre 2002.
162. Di Serio F.: Sindromi coronariche acute. Gennaio 2003.
163. Muzi P., Bologna M.: Il rischio di contaminazione biologica nel laboratorio biosanitario.
Febbraio 2003.
164. Magni P., Ruscica M., Verna R., Corsi M.M.: Obesità: fisiopatologia e nuove prospettive
diagnostiche. Marzo 2003.
165. Magrì G.: Aspetti biochimici e legali nell’abuso alcolico. Aprile 2003.
166. Rapporto dello Hastings Center: Gli scopi della medicina: nuove priorità. Maggio 2003.
167. Beelke M., Canovaro P., Ferrillo F.: Il sonno e le sue alterazioni. Giugno 2003.
168. Macchia V., Mariano A.: Marcatori tumorali nel cancro della vescica. Luglio 2003.
169. Miragliotta G., Barra Parisi G., De Sanctis A., Vinci E.: La Turbercolosi Polmonare:
Diagnostica di Laboratorio. Agosto 2003.

70 Caleidoscopio
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo, Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

170. Aebischer T.: Il Comitato Internazionale della Croce Rossa ed il Diritto Internazionale
Umanitario. Settembre 2003.
171. Martino R., Frallicciardi A., Tortoriello R.: Il manuale della sicurezza. Ottobre 2003.
172. Canigiani S. e Volpini M.: Infarto acuto del miocardio: biochimica del danno cellulare e
marcatori di lesione. Novembre 2003.
173. La Brocca A. Orso Giacone G. Zanella D. Ceretta M.: Laboratorio e clinica delle princi-
pali affezioni tiroidee. Dicembre 2003.
174. Savron G.: Le Fobie. Gennaio 2004.
175. Paganetto G.: Evoluzione storica del rischio di patologie umane per contaminazione chi-
mica ambientale. Febbraio 2004.
176. Giovanella L.: Iperparatiroidismo e tumori paratiroidei. Marzo 2004.
177. Severino G., Del Zompo M.: Farmacogenomica: realtà e prospettive per una “Medicina
Personalizzata”. Aprile 2004.
178 Arigliano P.L.: Strategie di prevenzione dell’allergia al lattice nelle strutture sanitarie.
Maggio 2004.
179. Bruni A.: Malattia di Alzheimer e Demenza Frototemporale. Giugno 2004.
180. Perdelli F., Mazzarello G., Bassi A.M., Perfumo M., Dallera M.: Eziopatogenesi e dia-
gnostica allergologica. Luglio 2004.
181. Franzoni E., Gualandi P. Pellegrini G.: I disturbi del comportamento alimentare. Agosto
2004.
182. Grandi G., Peyron F.: La toxoplasmosi congenita. Settembre 2004.
183. Rocca D.L., Repetto B., Marchese A., Debbia E.A: Patogeni emergenti e resistenze batte-
riche. Ottobre 2004.
184. Tosello F., Marsano H.: Scientific English Handout. Novembre 2004.
185. La Brocca A., Orso Giacone G., Zanella D.: Ipertensione arteriosa secondaria: clinica e
laboratorio. Dicembre 2004.
186. Paganetto G.: Malattie Neoplastiche: dalla Paleopatologia alle Fonti Storiche. Gennaio
2005.
187. Savron G.: La sindrome dai mille tic: il disturbo di Gilles de la Tourette. Febbraio 2005.
188. Magrì G., Baghino E., Floridia M., Ghiara F.: Leishmania. Marzo 2005.
189. Lucca U., Forloni G., Tiraboschi P., Quadri P., Tettamanti M., PasinaL.: Invecchiamen-
to, deterioramento cognitivo e malattia di Alzheimer. Aprile 2005.
190. Volpe G., Delibato E., Orefice L., Palleschi G.: Tossinfezioni alimentari e metodiche
recenti ed innovative per la ricerca dei batteri patogeni responsabili. Maggio 2005.
191. Mazzarello M.G., Albalustri G., Audisio M., Perfumo M., L. Cremonte G.: Aerobiologia
ed allergopatie. Giugno 2005.
192. Scalabrino G., Veber D., Mutti E.:Nuovi orizzonti biologici per la vitamina B12. Luglio
2005.
193. Zepponi E.: Guida pratica per gli utenti del laboratorio analisi. Settembre 2005.
194. Faricelli R., Esposito S., Martinotti S.: La sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi. Ottobre
2005.
195. Baccini C., Bezzi F., Conti M., Tazzari V.: Doping e antidoping nello sport. Novembre
2005.
196. Lozzi M.: La Mediazione pacifica dei conflitti. Una risorsa socio-relazionale in ambito
medico-sanitario. Dicembre 2005.

Caleidoscopio 71
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo, Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
A.M. Torriglia, G. Montresor di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche

197. Bracco G.: Progettare un Laboratorio di Analisi. Gennaio 2006.


198. Angelucci A.: Apoptosi e sistema immunitario: regolazione e patologie associate.
Febbraio 2006.
199. Commissione Tecnica sul Rischio Clinico: Risk management in Sanità. Il problema
degli errori. Marzo 2006
200. Casati G., Marchese E., Roberti V., Vichi M.C.: La gestione dei processi clinico
assistenziali per il miglioramento delle prassi. Aprile 2006.
201. Zanella D., Ceretta M., Orso Giacone G.: Peptidi natriuretici: nuove frontiere in
cardiologia? Maggio 2006.
202. Cicala M., Dal Lago U., Vinci P., Maggiorotti M.: L’accusa di malpractice in ambi-
to medico. Giugno 2006.
203. Martino R.: Manuale Qualità UNI EN ISO 9001. Luglio 2006.
204. Mazzarello M.G., Arata M., Perfumo M., Marchese A., Debbia E.A.: Tubercolosi
e micobatteri. Settembre 2006.
205. Matrullo R.: Anoressia: la negazione della sessualità come difesa narcisistica.
Ottobre 2006.
206. Crotti D.: Le parassitosi intestinali ed uro-genitali. Novembre 2006.
207. Orso Giacone G., Zanella D., Ceretta M.: Il referto interpretativo in infettivologia.
Dicembre 2006.
208. Baghino E., Magrì G., Nicoletti L., Novaro G., Vignale C., Mazzei C.: Stato del-
l’arte delle aneuploidie fetali, dall’indagine clinica prenatale alla diagnosi anatomo-
patologica. Gennaio 2007.
209. Mazzarello M.G., Brunetti R., Perfumo M., Torriglia A.M., Montresor G.:
Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori di Analisi Chimico Cliniche e
Microbiologiche. Febbraio 2007.

I volumi disponibili su Internet nel sito www.medicalsystems.it


sono riportati in nero mentre in grigio quelli non ancora dispo-
nibili su Internet.

Inoltre sono disponibili un limitato numero di copie di alcuni


numeri del Caleidoscopio che ormai sono “storiche”. Qualora
mancassero per completare la collana potete farne richiesta al
collaboratore Medical Systems della Vostra zona. I numeri
sono: Caleidoscopio 14, 18, 33, 40, 48, 49, 50, 54, 65, 68, 84, 100,
106, 118, 121, 126, 129, 130, 131, 132, 133, 134. I volumi verran-
no distribuiti sino ad esaurimento e non verranno ristampati se
non in nuove edizioni.

72 Caleidoscopio
Caleidoscopio
Rivista mensile di Medicina
anno 25, numero 209

Direttore Responsabile Progettazione e Realizzazione Consulenti di Redazione


Sergio Rassu Giancarlo Mazzocchi ed
Tel. mobile 338 2202502 Angelo Maggio
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Segretaria di Direzione
Responsabile Ufficio Acquisti Maria Speranza Giola
Giusi Cunietti Restless Architect
of Human Possibilities s.a.s.
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... il futuro ha il cuore antico MEDICAL SYSTEMS SpA


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La Medical Systems pubblica anche le seguenti riviste: Caleidoscopio Illustrato,
Caleidoscopio Letterario, Giornale della Associazione per l’Automazione del
Laboratorio, Guida Pratica Immulite®, Journal of Clinical Ligand Assay, Pandora,
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Registrazione Tribunale di Genova n. 34 del 31/7/1996


Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa no 2661 del 2 Settembre 1989
Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC) n° 1188

Finito di stampare: Febbraio 2007


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Pubblicazione protetta a norma di legge dall’Ufficio proprietà letteraria, artistica e


scientifica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dedicata all’aggiornamento
professionale continuo e riservata ai medici.

Caleidoscopio viene anche letto e rilanciato da:


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Prossimi Corsi ECM


17-12-2007 Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso dell’Immulite 2000 Genova
05-12-2007 Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 4000 Genova
05-12-2007 Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso della workcell Trinity Genova
29-11-2007 Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso della workcell Trinity Genova
28-11-2007 Miglioramento delle competenze professionali nell’uso del Konelab 30/60 Genova
27-11-2007 Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso dell’Immulite 2000 Genova
22-11-2007 Metodologie di impostazione dei lavori scientifici Genova
21-11-2007 Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 2000 (corso avanzato) Genova
21-11-2007 Miglioramento delle competenze professionali nell’uso del PathFinder (corso avanzato). Genova
07-11-2007 Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso dell’Immulite Genova
18-10-2007 Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 4000 Genova
18-10-2007 Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso della workcell Trinity Genova
17-10-2007 Metodiche di trasformazione dei dati Genova
16-10-2007 Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso dell’Immulite 2000 Genova
16-10-2007 Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso del PathFinder Genova
11-10-2007 Comunicazione efficace in sanità: dinamiche di relazione (Direzione - Staff - Paziente) Caltagirone (CT)
10-10-2007 Comunicazione efficace in sanità: dinamiche di relazione (Direzione - Staff - Paziente) Caltagirone (CT)
01-10-2007 Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 2000 (corso avanzato) Genova
20-09-2007 Miglioramento delle competenze professionali nell’uso del Konelab 30/60 Genova
20-09-2007 Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 4000 Genova
19-09-2007 Utilizzo di curve ROC nell’analisi di dati di microarrays Genova
18-09-2007 Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso dell’Immulite 2000 Genova
12-07-2007 Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 4000 Genova
10-07-2007 Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso dell’Immulite 2000 Genova
29-06-2007 La Qualità nel Laboratorio Analisi. La Gestione del rischio nel Laboratorio Analisi Lecce
28-06-2007 Comunicazione efficace in sanità: dinamiche di relazione (Direzione - Staff - Paziente) Caltagirone (CT)
27-06-2007 Miglioramento delle competenze professionali nel dosaggio dei marcatori tumorali con l’Immulite 2000 Milano
27-06-2007 Miglioramento delle competenze professionali nell’uso del Konelab 30/60 Genova
27-06-2007 Comunicazione efficace in sanità: dinamiche di relazione (Direzione - Staff - Paziente) Caltagirone (CT)
26-06-2007 Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso dell’Immulite Genova
26-06-2007 Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 2000 (corso avanzato) Genova
26-06-2007 Linee Guida sugli screening pre e post natali e valutazione diagnostica della gravidanza Tricase (LE)
25-06-2007 Tecniche di Comunicazione efficace e gestione gruppi in sanità Pizzo (Vibo Valentia)
22-06-2007 Patologia cromosomica in epoca prenatale e neonatale Lagonegro (PZ)
21-06-2007 Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 4000 Genova
21-06-2007 Miglioramento delle competenze professionali nell’uso del CQI Online Montecchio Maggiore (VI)
21-06-2007 Omocisteina, linee guida per l’utilizzo come fattore predittivo di eventi tromboembolici Nizza Monferrato (AT)
20-06-2007 Biobanche Genova

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