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La Cultura

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© il Saggiatore S.p.A., Milano 2012


Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano
Mario Maffi, Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini,
Sostene Massimo Zangari
Americana
Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z
Introduzione

Si fa presto a dire «America». Tutti sembrano conoscerla, molti l’hanno


vista dal vero, i più in immagine (e come non vederla? i film, le fotografie, le
pubblicità, la televisione), oppure l’hanno sentita in musica e canzoni (e
come non sentirla? il blues, il jazz, il rock, e l’enorme resto). Molti
l’immaginano o la ricordano, oppure ne conoscono – a tasselli – la geografia
fisica, sociale, culturale: forse sanno dirvi dov’è Los Angeles e dov’è
Mineola, dove corre la faglia di Sant’Andrea e dove nasce il Colorado River,
che cosa vollero dire la Ricostruzione e il Proibizionismo, la «guerra della
Contea di Johnson» e la carica di San Juan Hill, che cosa scrissero Henry
James e David Foster Wallace e Charlotte Perkins Gilman e Phillis Wheatley,
che cosa fu «Camelot» e chi furono i «baroni predatori», che cos’è un
saguaro e che cosa un bayou, che cosa un marshmallow e che cosa un
Kelvinator. Oppure no: l’ignorano, e non gl’importa gran che di saperlo, al
di là dell’eco che risuona quando si pronuncia questo o quel nome o fatto.
Molti l’amano di un amore infantile, senza confini, che non accetta
contestazioni o critiche (c’è pur sempre un «ma» da contrapporvi, e dopo
quello un altro, e un altro ancora); altrettanti la odiano di un odio intenso e
totalizzante, senza remissioni (e la realtà di ieri e di oggi, in parecchi suoi
aspetti, non fa che complicare le cose).
Poi, però: che cos’è l’«America»? dove sta l’«America»? è proprio questa
l’«America», quella che si crede di conoscere o che si vorrebbe, amandola e
odiandola, «coabitandola» per scelta o di necessità? sta proprio là dove si
crede e s’immagina? O forse sta altrove, un «altrove» difficile da collocare,
arduo da riconoscere? In fondo, che cosa capitò a Cristoforo Colombo, che ci
s’imbatté mentre cercava altro («È stato bellissimo scoprire l’America.
Ancor più bello sarebbe stato mancarla», Mark Twain)? E che cosa capita
all’immigrato clandestino che guada di notte il Rio Bravo rischiando la vita
in cerca di qualcosa di piccolo ed enorme («So che amore e fortuna saranno
miei / da qualche parte oltre il confine», Bruce Springsteen)? Ebbe a
scrivere Waldo Frank, scrittore e critico, in un’epoca – fra gli anni venti e
gli anni trenta del Novecento – in cui l’identità del paese era soggetta a
continue, brusche trasformazioni: «Andiamo tutti in cerca dell’America, e
nel cercarla la creiamo».
Si fa presto a dire «America». Come ogni altro paese (ma forse con una
nettezza più evidente, con contorni più taglienti, per il fatto di essere, o di
essere stata per più d’un secolo, nel bene come nel male, un punto di
riferimento obbligato), l’«America» non è quel blocco unico che vorrebbe
tanta parte di un’ostinata falsa coscienza corrente, incapace di vedere la
complessità e la fluidità, le fratture e le contraddizioni, le spaccature
profonde sotto la superficie. Che invece ci sono e sempre si fanno sentire e
vedere: affiorano di colpo, si allargano e si ricompongono, per correre di
nuovo, a lungo, là sotto, e poi riaffiorare (davvero impreviste?), facendo
saltare la crosta, la corazza. E allora per qualche tempo ci s’interroga: «Ma
come? da dove vengono queste strane tensioni? queste incomprensioni?
questi moti subitanei? questi individui e questi gruppi? queste ombre
lunghe? È davvero questa l’America?».

Per quasi quarant’anni, ho cercato di insegnare che cos’è l’«America», da


quando nacque nell’immaginario europeo per trasformarsi in territorio di
conquista, a quando divenne Stati Uniti d’America – fino a un oggi che la
vede in declino. Non so se ci sono riuscito: proprio l’invadenza della sua
cultura, riflesso della potenza d’un secolo e più, la rende a volte
inafferrabile, indicibile, ostica al contatto che afferra – una sorta di grande
Moby Dick in perpetua navigazione sulle rotte oceaniche, la cui cattura può
voler dire, al contempo, un drammatico naufragio… Eppure, la frequente,
rinnovata sorpresa, colta negli occhi degli studenti nell’arco di quei quasi
quarant’anni, mi ha detto che, forse, sì, una percezione più articolata di
questa storia, società, cultura, è passata attraverso le parole pronunciate –
come credo sia passata attraverso le parole scritte nei libri con cui ho
cercato di sentire, afferrare e trasmettere ciò che andavo scoprendo
dell’«America». E allora, a un certo punto, c’è stato il bisogno di un
contenitore in cui versare i numerosi ingredienti diversi, isolandoli prima a
uno a uno, per meglio fissarli, definirli, inquadrarli, e farli poi interagire tra
loro: non con l’impossibile e tracotante obiettivo di «dire l’“America”», di
«dir tutto sull’“America”», ma di cogliere, sulla base anche di suggestioni,
orientamenti, manie e interessi personali, almeno una parte di quella
complessità – che è in sé affascinante ed eloquente, si tratti di questo o di
qualunque altro paese (storia, società, cultura, ecc.). Un tentativo in cui ho
coinvolto (un po’ capitano Achab) tre giovani e brillanti studiosi (Cinzia
Scarpino, Cinzia Schiavini, Sostene Massimo Zangari), che nell’ultimo
decennio hanno collaborato con me, nelle aule e nei corridoi di
un’Accademia che li ha conosciuti e riconosciuti solo in maniera precaria,
troppo precaria, nonostante i vigorosi contributi che hanno offerto alla
materia. E insieme ci siamo imbarcati.
In un testo famoso quanto controverso (Classici americani, del 1924),
l’inglese D.H. Lawrence, che conosceva l’«America» da par suo e a modo
suo, con malcelata ironia individuava nel «lavoro dell’idraulico» e nella
«salvezza del mondo» le «due grandi specialità americane». Come dire: la
disposizione pragmatica, fattuale, quotidiana e comune, e l’afflato
progettuale, spesso retoricamente ambiguo o ambiguamente missionario: i
due estremi, i due ossimori, i due poli in opposizione dialettica, della società
e cultura di quel paese. Con le voci che seguono, abbiamo cercato di rilevare
e disegnare il territorio intermedio, accidentato, variegato, traboccante di
grandi slanci e fascinosi paesaggi a volte e, altre volte, di oscure tragedie e
odiosi risvolti – senza dimenticare, senza trascurare quei due estremi, ma
scavando anche in essi, a nervi scoperti. Lo abbiamo fatto, non nell’illusione
di distendere sull’intero territorio le pagine di questo dizionario un po’
così, perché sarebbe stato impossibile e anche inutile: lo abbiamo fatto
piuttosto sulla base di quanto ciascuno di noi e noi quattro insieme abbiamo
sentito come essenziale, utile, rivelatore, o anche solo urgente perché poco
noto, o sconcertante, o emozionante per noi stessi (una sfida, se volete) –
stimolati da una frase di Henry Miller («ricordati di ricordare») e da un
verso di Leslie Marmon Silko, scrittrice di origini pueblo («senza le storie
non possediamo niente»), che andrebbero sempre tenuti a mente. Lo
abbiamo fatto in base alle nostre passioni (o, viceversa, antipatie), che come
sempre risultano selettive: ci troverete molto Mark Twain, per esempio, per
quel suo sguardo rivelatore – in quanto lucido e polemico – delle
contraddizioni del paese e della sua cultura; ci troverete molta geografia
(non quanto avremmo voluto, a dir il vero!), perché, come ebbe a scrivere il
poeta Charles Olson nel 1947, «il fatto centrale per l’uomo nato in America»
è lo «SPAZIO» (scritto maiuscolo), «una terra maledettamente vasta fin dagli
inizi»; ci troverete la cultura popolare e di massa, la cultura materiale, nel
loro dinamico interagire, nel loro continuo ribollire e traboccare, nel loro
alimentare e ossigenare ciò che ancora ci si ostina a chiamare «cultura alta»
(whatever that means); parecchi episodi e movimenti collettivi, e pochi
individui (e quei pochi «sottomessi» a scenari più ampi), perché così ci è
parso necessario, anche per rovesciare il luogo comune sull’«individualismo
americano»; e gli sconosciuti e i dimenticati (fatti e persone) piuttosto che i
noti; e così via, di passione in passione (di antipatia in antipatia).
Ci siamo dati fin dagli inizi un limite temporale (grosso modo, la metà
degli anni settanta del Novecento, con inevitabili e ovvi sforamenti), per
non caricare troppo di attualità e contemporaneità un’esplorazione che
richiede sempre e comunque un certo distacco prospettico: per meglio
cogliere la topografia che ci sta davanti. Abbiamo cercato di fondere
l’«America» (tra virgolette: la dimensione mitica, retorica, con cui, volenti o
nolenti, abbiamo a che fare) e gli Stati Uniti d’America (senza virgolette:
l’oggettività, la concretezza, senza escludere la lettura e l’interpretazione
personale). Abbiamo discusso ogni singola voce fra di noi, e poi insieme le
abbiamo riviste a una a una (con il prezioso contributo di una lettrice
attenta come Laura Grandi e grazie all’entusiastica pazienza di Luca
Formenton e alla cura di Chiara Girolami), prendendoci per ciascuna d’esse
la responsabilità individuale di ciò che s’è cercato, trovato e proposto. E
abbiamo lavorato nella consapevolezza che tanto sarebbe rimasto – anche
così – fuori dei nostri percorsi e discorsi: cose piccole e cose grandi, certo.
Com’è inevitabile, come avviene in ogni viaggio alla ricerca di qualcosa. Ne
è venuto fuori non una storia degli Stati Uniti e nemmeno una storia della
cultura o della letteratura americane; non un dizionario biografico; non un
repertorio: è venuto fuori un insieme di voci che è in realtà un succedersi di
storie – di racconti lunghi e corti, ridenti e dolenti, legati gli uni agli altri
pur nella loro individualità (di soggetti, come pure di scrittura e di
approccio). È venuto fuori… quel che scoprirete nelle pagine che seguono.
È stato entusiasmante, è stato divertente, è stato difficilissimo. Com’è
giusto. E speriamo che così sia anche per chi ci leggerà: che si appassioni,
che si diverta, che si esalti e s’infuri, che si lasci afferrare dalle complessità,
dalle difficoltà, dalle contraddizioni, dalle bellezze come dalle brutture. Ora,
la caccia è aperta, alle omissioni, agli errori e alle imprecisioni: per esse, in
anticipo ci cospargiamo il capo di cenere.
P.S.: Due parole sul titolo, non semplice da trovare. Lo sappiamo: è già stato
usato (da Elio Vittorini per la sua celebre antologia del 1942); ma in altri
tempi e contesti, e con altri contenuti. Abbiamo pensato che fosse il più
adatto ad «abbracciare» questo nostro libro – e crediamo che Vittorini
sarebbe stato d’accordo.

Mario Maffi
novembre 2011 – ottobre 2012
[A]

A
Nell’alfabeto culturale statunitense, la lettera «A» contempla tanti e diversi
volti: è l’iniziale di America, di Adamo americano (→), di Arte… Eppure la
lettera A più famosa della letteratura del Nuovo mondo è probabilmente il
brandello di stoffa rossa ornato d’oro e cucito sul petto di Hester Prynne,
nel romanzo di Nathaniel Hawthorne La lettera scarlatta (1850). In una
grande stanza al secondo piano della vecchia dogana di Salem, un narratore
che somiglia molto allo stesso Hawthorne racconta di essersi imbattuto in
un’antica pergamena, fra le cui pagine trova un pezzo di tessuto rosso a
forma di A. I fogli in cui è avvolta la stoffa raccontano la storia di Hester che,
giunta dall’Europa nella Salem puritana della fine del XVII secolo
precedendo l’anziano marito (il luciferino Roger Chillingworth),
commetterà adulterio con il pastore locale Arthur Dimmesdale e avrà da
questi una figlia, Pearl. La punizione inflitta dalla comunità a Hester è
l’obbligo di indossare sempre una A scarlatta cucita sul petto, sia per il
peccato commesso, sia per non aver mai voluto rivelare l’identità del suo
amante. Dopo la morte di Dimmesdale, ucciso da un attacco di cuore subito
dopo aver chiamato a sé Hester e Pearl e aver confessato la propria colpa
dinanzi all’intera comunità, Hester lascerà Salem con la figlia. Vi farà
ritorno da sola anni dopo, e qui si dedicherà a opere di carità, divenendo un
punto di riferimento per emarginati e bisognosi. Alla sua morte, Hester
verrà seppellita accanto a Dimmesdale: la lapide comune a ricordo delle loro
vite recherà incisa a sua volta quella A che la coppia aveva reso simbolo
delle loro travagliate esistenze.
La lettera scarlatta racchiude in sé molteplici significati: nelle intenzioni
dei ministri che hanno condannato Hester indica ovviamente l’Adulterio, il
tradimento – e non solo nei confronti del marito, ma soprattutto dell’intera
comunità, delle sue ferree regole e delle sue rigide gerarchie di genere. Agli
occhi del lettore tuttavia, la A diverrà anche il simbolo della forza della
protagonista, capace (Able) e ammirevole (Admirable) nella sua ferma e
coraggiosa accettazione del ruolo di Altro. Attraverso la sua condotta
esemplare e le opere di beneficienza, l’Adultera Hester si trasfigura nel
racconto quasi in un Angelo: per questo forse è l’unica a non venir bruciata
dal fuoco che la lettera scarlatta sembra sprigionare – quel fuoco che anche
il narratore avverte al contatto con la stoffa quando, nella soffitta, accosta il
brandello di tessuto al corpo.
Il rosso, il fuoco, le colpe reali e presunte, la condanna, la punizione e
l’espiazione: come non vedere nella parabola di Hester una storia che va
ben oltre la fiction? A cominciare ovviamente dalle fiamme su cui,
nell’isteria collettiva di fine Seicento, vennero portati al rogo proprio in
quel di Salem eretici (e ancor più eretiche) accusati di stregoneria. E più in
generale, come non vedere dietro a quella lettera la violenza nei confronti
di tutti coloro che, fin dagli albori della storia americana, erano considerati
Altro (→ Alien) – Native Americans, schiavi, donne, dissidenti religiosi e
politici – e per cui le fiamme, reali e metaforiche, erano sempre in agguato?
Forse allora, a dispetto delle intenzioni della comunità, la A che
Hawthorne cuce sul petto di Hester non è lo stigma di un peccato
individuale, ma l’emblema delle colpe della società: non la A di Adulterio,
ma la A di un’America repressiva fino alla violenza, in grado di marchiare e
recidere i corpi e le vite degli Altri, dentro e fuori dalle pagine di un libro.

BIBLIOGRAFIA
Sacvan Bercovitch, The Office of the Scarlet Letter, Johns Hopkins University
Press, Baltimore 1991.
Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta (1850), Einaudi, Torino 1995.
C. SCHIA.

Acri (160)
Allo sguardo europeo, una mappa geopolitica degli Stati Uniti appare come
una sorta di piano geometrico: al di là dei monti Appalachi (→ Appalachia),
le linee di confine tra i diversi stati disegnano le forme squadrate dei
cassetti di un archivio. Per non dire delle piante delle città americane, carte
millimetrate fatte di blocchi perfettamente regolari in cui sembra
impossibile perdersi.
Tanta precisione catastale deriva dal famoso «reticolo» (grid) proposto
da Thomas Jefferson e approvato dal Congresso Continentale con il nome di
Land Ordinance (alla base del Public Land Survey System) nel 1785.
Si tratta di una razionalizzazione territoriale senza precedenti e consiste
nell’organizzazione amministrativa del paese in rettangoli di 6 miglia
quadrate, a loro volta suddivisi in unità di 160 acri, l’equivalente di 64
ettari, e in appezzamenti via via più piccoli, misurati sul quadrato (i 160 acri
sono ¼ di ¼ di una sezione). Il tutto sorvolando sulla configurazione
naturale di un paese che, scorporato in tante scatole, potrà essere più
facilmente messo in vendita e comprato.
Se l’intera espansione verso ovest sarà scandita dal «reticolo» grazie allo
Homestead Act, la legge del 1862 che garantisce 160 acri a chiunque voglia
coltivarli al prezzo di un dollaro e venticinque ad acro, ancora più popolari
nella storia del paese saranno i 40 acri dei lotti di terreno appaltati alle
ferrovie (→ Promontory Point) e dei «40 acri e un mulo» destinati, sulla
carta, agli ex schiavi neri resi liberi a Guerra civile (→) conclusa (1865) e
ricordati oggi, provocatoriamente, dalla casa di produzione cinematografica
40 Acres and a Mule Filmworks del regista afroamericano Spike Lee.
Di fronte all’enorme varietà climatica e geologica nordamericana – i 160
acri nella mediterranea California non sono certo equiparabili a quelli
dell’arido Wyoming –, le rigide partiture dello Homestead Act mostreranno
presto i loro limiti sulla pelle dei tanti contadini trasformati in coloni
indipendenti. Alle prese con siccità cicliche, terreni poco irrigui e altri
flagelli naturali, gli «homesteaders» falliranno economicamente e saranno
spesso costretti a migrare altrove, secondo un copione che si ripeterà, su
scala ancora più vasta, durante la Dust Bowl (→), negli anni trenta del
Novecento. Paradigmatica, in questo senso, è la vicenda dei fattori del
Kansas a cui, nel 1874, complice una biblica invasione di cavallette, non
resta che abbandonare le proprie terre al motto di: «Di Dio ci siam fidati, nel
Kansas siam scoppiati».

BIBLIOGRAFIA
Andro Linklater, Misurare l’America. Come gli Stati Uniti d’America sono stati
misurati, venduti e colonizzati, Garzanti, Milano 2004.
Ted Steinberg, Down to Earth. Nature’s Role in American History, Oxford
University Press, New York 2002.
C. SCAR.

Actors Studio
L’intensa fragilità di Marlon Brando in Un tram che si chiama desiderio (1951)
e Fronte del porto (1954), l’aristocratico distacco di Ann Bancroft ne Il laureato
(1967), la versatilità di Al Pacino, capace di dare corpo ai freddi gangster
calcolatori de Il padrino (1972) o Scarface (1983) ma anche allo sconfitto
protagonista di Paura d’amare (1991), il pathos tragico di Kim Stanley ne La
divina (1958): sono solo alcune delle performance che hanno reso popolari
gli attori passati attraverso il laboratorio teatrale dell’Actors Studio,
fondato nel 1947 a New York dal regista Elia Kazan (→ Caccia alle streghe),
dall’attore Robert Lewis e dalla regista e produttrice teatrale Cheryl
Crawford.
I tre avevano preso parte, negli anni trenta, al collettivo teatrale del
Group Theatre (→ Teatri viventi) e, con il nuovo laboratorio, intendevano
riproporre quanto di prezioso era nato in quell’esperimento, evitando al
contempo di ripetere gli errori che avevano portato alla sua dissoluzione.
L’Actors Studio, che, dopo alcuni trasferimenti, fissò la sede definitiva in
una ex chiesa presbiteriana nella 44ª Strada Ovest, si propose come
laboratorio dedicato al perfezionamento tecnico per attori, i quali sarebbero
stati liberi di seguire le rispettive carriere. L’obiettivo principale era poi
quello di evitare di avventurarsi in produzioni dispendiose che difficilmente
avrebbero generato un ritorno economico soddisfacente. La continuità tra
le due esperienze fu cementata quando, a causa dei numerosi impegni a
Broadway (→) e in seguito a Hollywood, Kazan si avvide di non poter
garantire continuità all’insegnamento e chiese la collaborazione di Lee
Strasberg, uno dei fondatori, insieme alla Crawford e a Harold Clurman, del
Group Theatre nel 1931. Entrambi di origine ebraica e cresciuti nel Lower
East Side (→), dove erano rimasti affascinati dal teatro yiddish (→ Kosher),
Strasberg e Clurman avevano seguito i corsi tenuti nel 1925 da Richard
Boleslavskij, un allievo di Konstantin Stanislavskij, il direttore del Teatro
d’Arte di Mosca famoso per il metodo di recitazione che aveva rivoluzionato
il palcoscenico. Ed erano convinti che il solco tracciato dalla scuola russa
fosse la direzione da seguire: nonostante i buoni riscontri commerciali,
infatti, il teatro statunitense soffriva ancora per la scarsa professionalità
degli attori, i quali spesso, a causa dei ritmi serrati del cartellone stagionale,
avevano pochissimo tempo per imparare una parte e sviluppare un’intesa
tra di loro.
Selezionato un gruppo di attori a cui prospettarono poca fama e pochi
soldi, ma in compenso un’esperienza professionale ricca e appagante, il
gruppo andò in ritiro per tutta l’estate in una fattoria del Connecticut, dove
iniziò a lavorare e a vivere come in una sorta di comune. Nella reclusione
bucolica, la compagnia si concesse il lusso di provare a lungo, esplorando
nuove strade per affrontare le parti e prescindendo dai trucchi del mestiere
a cui ricorreva la maggior parte dei professionisti. Sulla spinta di Strasberg,
agli attori venne chiesto di lavorare sulla memoria affettiva, ovvero di
rintracciare il coacervo di emozioni causate da determinate situazioni e
usarlo per creare il personaggio. Un altro punto importante era
l’improvvisazione, che aveva lo scopo di liberare l’attore dalla tirannia del
testo scritto, stimolarne la creatività e dare corpo ai sentimenti come
componente determinante dell’azione fisica sul palcoscenico.
La prima messa in scena, nell’autunno seguente, fu The House of Connelly,
dramma in stile cechoviano di Paul Green. La notorietà arrivò qualche anno
dopo, quando la stretta collaborazione con il drammaturgo Clifford Odets
partorì i successi Aspettando Lefty (1935) e Svegliati e canta! (1935), opere dal
forte contenuto sociale che sfruttavano le risorse del gruppo per dare forma
ad affreschi di vita collettiva.
Le ristrettezze finanziarie, la scarsità di buoni copioni e alcune
polemiche sul reale insegnamento del maestro Stanislavkij (l’attrice Stella
Adler aveva incontrato di persona il regista a Mosca, e questi le aveva
rivelato di ritenere la memoria affettiva ormai superata), insieme alle
offerte di Hollywood, contribuirono a dissolvere il gruppo sul finire del
decennio.
Messe da parte le vecchie ruggini, Strasberg si calò con foga nella nuova
avventura, impostando i corsi non sull’insegnamento di tecniche, ma sulla
risoluzione di problemi concreti, lavorando su parti e ruoli specifici. Oltre
alla memoria affettiva e all’improvvisazione, Strasberg puntò sul lato
sensoriale e «animale» della performance, invitando gli attori a tenere conto
delle condizioni atmosferiche e ambientali precisate nella sceneggiatura e
sui momenti privati – quegli istanti in cui il personaggio si trovava da solo
in scena.
Ai corsi di recitazione si affiancarono lezioni di scherma, dizione,
movimento e anche un laboratorio di scrittura al cui interno si sperimentò
la stesura di opere a partire dalla collaborazione tra drammaturghi e attori:
Hatful of Rain (1955) di Michael Gazzo, Zoo Story (1958) di Edward Albee e
Notte dell’Iguana (1961) di Tennessee Williams furono sviluppate durante le
sessioni del laboratorio.
Lunga è la lista degli alunni passati sotto la tutela di Strasberg, e non
sempre l’esperienza fu positiva. Basti per tutti il caso di Marylin Monroe:
l’attrice frequentò per un anno (1955) l’Actors Studio, dove si sottopose con
diligenza alle cure del maestro. Secondo il regista Billy Wilder, ciò le fu
fatale: «Prima Marylin era come un’equilibrista inconsapevole del vuoto
che le stava sotto. Dopo l’Actors Studio si è resa conto del vuoto». Così,
tutt’altro che «svampita» come invece la si volle dipingere anche fuori della
finzione, perse per sempre la spontaneità e la freschezza. E forse qualcosa di
più.

BIBLIOGRAFIA
Mel Gordon, Il sistema di Stanislavskij: dagli esperimenti del Teatro d’Arte alle
tecniche dell’Actors Studio, Marsilio, Venezia 1992.
Foster Hirsch, A Method To Their Madness: the History of the Actors Studio, W.W.
Norton, New York 1984.
S.M.Z.

Adamo americano
Se fin dagli inizi l’America si pone come terra promessa, paradiso ritrovato,
giardino dell’Eden, allora lì ci sarà anche un Adamo (quanto a Eva, le cose
sono più complesse). Escluso che possa essere un indiano (che semmai
diviene presto incarnazione del demonio), quell’Adamo – specie a partire
dagli inizi dell’Ottocento, quando ormai si può parlare di nazione americana
– si svilupperà, sul piano culturale, attraverso un processo di aggregazione
di caratteri, reali e fantastici, in cui la letteratura giocherà un ruolo
primario.
Istintivo, coraggioso, incorrotto, ingegnoso, semplice e generoso, nemico
delle false complessità del vivere civile e urbano, amico della natura di cui
conosce ogni segreto, capace di parlare la lingua di piante, animali e
indigeni, amante degli spazi aperti, in rapporto contraddittorio con i Native
Americans (e con le donne: dunque, per lo più scapolo), ribelle e insofferente
di perbenismo, autorità costituite, normative calate dall’alto, diffidente nei
confronti di costruzioni ideologiche, un po’ spaccone e un po’ burlone –
sono questi alcuni dei tratti distintivi dell’Adamo americano.
Li ritroviamo in Rip Van Winkle, il personaggio del racconto omonimo di
Washington Irving (1818), che rifugge la costrizione del lavoro domestico e
la «regola» che vorrebbe imporgli la moglie, ama la caccia e la pesca
solitarie, si addentra nei boschi – e qui vive la rara esperienza di
addormentarsi per vent’anni, risvegliandosi in un mondo affatto diverso
(dal pre-rivoluzione al post-rivoluzione) alla cui nascita traumatica non ha
contribuito (→ Rivoluzione americana). Li ritroviamo, quei tratti, nel
personaggio di Calza di Cuoio, guida e trappolatore, creato da James
Fenimore Cooper nei cinque romanzi pubblicati tra il 1823 e il 1841, che
depositano ancor più nell’immaginario americano un autentico archetipo:
solo sulla Frontiera (→), alle spalle una civiltà di cui rifiuta gli aspetti
deteriori, di fronte a sé una wilderness (→) che lo affascina e lo turba, e di cui
non potrà comunque mai essere parte, amico-nemico degli indigeni,
condannato, anche dalle convenzioni del genere romanzesco d’allora, a una
solitudine d’affetti. E li ritroviamo, anni dopo, in quell’altra e forse
definitiva (e prolifica) sistemazione dell’archetipo che è lo Huckleberry
Finn di Mark Twain (1884), significativo ritorno indietro all’adolescenza,
con un cuore solido, positivo, disinteressato e audace, capace di resistere
alle pressioni del mondo adulto e alle sue falsità e brutalità, non riconciliato
con la società e pronto a «Dire No! con voce di tuono», pronto di battuta e
d’invenzione, ma sincero fino in fondo. Da allora, da quel monello in viaggio
con uno schiavo nero fuggiasco, le reincarnazioni dell’Adamo americano
non si conteranno (lo stesso Henry James, il più europeo dei letterati
d’America, vi si dedicherà: per esempio, chiamando il protagonista del suo
terzo romanzo, L’Americano, del 1877, Christopher Newman – «uomo
nuovo»). E abiteranno sia la letteratura popolare (Horatio Alger, il
ragazzino che divora la strada che conduce «dalle stalle alle stelle» → Rags
to riches) sia il canone letterario di tanta parte del Novecento (il George
Willard dei «racconti dell’Ohio» di Sherwood Anderson, il Nick Adams dei
molti racconti hemingwayani, il Nick Carraway e in fondo anche il Jay
Gatsby del più celebre romanzo di Francis S. Fitzgerald, tanti altri «piccoli
uomini» [→] che si confrontano con le complessità del vivere moderno, fino
a quell’autentica rivisitazione che è Holden Caulfield creato da J.D. Salinger
nel romanzo che in italiano prende il nome dal protagonista – Il giovane
Holden – e che, nella lingua, nel punto di vista, nella vicenda di un’ennesima
lotta contro la falsità sembra voler rinnovare in modo consapevole la
ricerca di Huck Finn) sia la «letteratura degli immigrati» (che, nella
scoperta stupita e dolorosa del «Nuovomondo», replica modalità e stati
d’animo di primo Ottocento, a contatto con altri scenari, con un’altra
wilderness: il piccolo David Schearl di Chiamalo sonno di Henry Roth
diventerà, in maniera affranta e traumatica, un altro tipo di Adamo
americano).
Nel corso del tempo, l’archetipo assume ulteriori connotati, ancor più
significativi. Se infatti l’Adamo americano è in fuga dalla società che
incalza, da un certo momento in avanti il suo orizzonte tende a restringersi
sempre più: lo spazio libero davanti si riduce e si comprime, e alla fine
scompare. Dietro, alle spalle, non c’è nulla, se non la minaccia d’essere
riacciuffati. Già è difficile essere un Adamo americano nei tempi durissimi
della Grande depressione (→) (e così la «fuga» di Tom Joad in Furore di John
Steinbeck è insieme tensione verso un impegno sociale più ampio): figurarsi
dopo la Seconda guerra mondiale. Non a caso, il giovane Holden terminerà il
suo percorso in una clinica e da una clinica Patrick McMurphy uscirà
ridotto a uno stadio vegetativo, nel tremendo Qualcuno volò sul nido del
cuculo, romanzo di Ken Kesey e film di Milos Forman. Allora, l’Adamo
americano abiterà gli interstizi della società, eternamente «sulla strada»
come gli eroi di Jack Kerouac o in fuga senza fine come tanti personaggi
afroamericani di Richard Wright e James Baldwin. Oppure, si reincarnerà in
personaggi di altra, diversa marginalità, lontani dai solitari ardimenti
iniziali, quasi rattrappiti su se stessi, amaramente comici seppur simpatici:
sarà lo zotico Li’l Abner, il ragazzone tutto muscoli ed emotività, innocenza
e genuinità, degli omonimi cartoons disegnati da Al Capp fra il 1934 e il 1977;
sarà il buffo Toby Kwinker, nel gustoso romanzo di Richard Powell Vacanze
matte (del 1959), la cui spontanea ingenuità finisce per produrre incessanti
cortocircuiti nella società bene organizzata con cui la sua famiglia è in lotta
perenne; sarà l’altrettanto buffo Homer Simpson, nell’omonima serie di
cartoons televisivi (→ Casa Simpson), graffiante rivisitazione dei luoghi
comuni e non comuni della società e cultura americana attraverso il mondo
a testa in giù di un Adamo americano sui generis. E sarà infine il cannocchiale
rovesciato attraverso cui guarda l’universo (di affetti, di convenzioni, di
commedie e tragedie, di quotidianità ed eccezionalità) il non meno noto
Forrest Gump dell’omonimo film di Robert Zemeckis – per il quale la piccola
mela morsicata a destra non è il logo della più potente azienda informatica
del mondo, ma di «una specie di società di frutta».

BIBLIOGRAFIA
Ihab Hassan, Radical Innocence: Studies in the Contemporary American Novel,
Princeton University Press, Princeton 1961.
R.W.B. Lewis, The American Adam. Innocence, Tragedy, and Tradition in the
Nineteenth Century, University of Chicago Press, Chicago 1955.
M.M.

Alamo
Nella fantasia collettiva americana, la battaglia di Alamo (23 febbraio-6
marzo 1836) è spesso associata al berretto di pelo di un morente Davy
Crockett (→ Olimpo americano) e al cosiddetto Bowie Knife (→), il coltello
da caccia usato da James Bowie, il soldato-pioniere destinato anch’egli a
soccombere sotto i colpi dei soldati messicani guidati dal colonnello Santa
Anna. A plasmare questa mitologia di frontiera ha contribuito, nel corso
dell’Ottocento e poi del Novecento, una copiosa produzione di massa: dalle
prime cronache contemporanee degli eventi a un romanzo storico del 1888
di Amelia Barr, dal film della Disney Davy Crockett: King of the Wild Frontier
(1955) a quello di John Wayne-Davy Crockett del 1960 (La battaglia di Alamo),
fino ad arrivare al flop del suo remake del 2004, con Billy Bob Thornton e
Dennis Quaid (Alamo. Gli ultimi eroi).
Se dall’immaginario passiamo alla storia, la battaglia di Alamo si iscrive
nella «questione del Texas», la parte più settentrionale del Messico in cui, in
seguito all’indipendenza messicana contro la Spagna del 1821, si erano
insediati molti pionieri americani. L’assedio di Alamo, una missione
spagnola abbandonata, rappresentò il momento in cui i texani, attaccati
dall’esercito di Santa Anna, riuscirono a resistere per tredici giorni prima di
capitolare. In quel frangente di tempo, il Texas si staccò ufficialmente dal
Messico per diventare la «Repubblica della stella solitaria» ed essere poi
annesso all’Unione nel 1845, alla vigilia della guerra messico-americana,
che si sarebbe conclusa tre anni più tardi con il Trattato di Guadalupe
Hidalgo: il Messico, sconfitto, avrebbe rinunciato all’enorme regione del
Texas e agli attuali California, Nevada, Utah e Arizona.
Cristallizzata nel grido di battaglia «Remember the Alamo» che
accompagnò la resistenza del drappello di texani, la vicenda del 1836 si
prestò fin da subito a entrare nella retorica nazionale come scontro tra gli
americani portatori di libertà e i messicani – considerati una razza meticcia
e quindi bastarda – retrivi e oscurantisti. D’altronde, da lì a pochi anni,
proprio a giustificazione ideologica della guerra messico-americana, John O’
Sullivan avrebbe coniato l’espressione «destino manifesto» (→), misurando
il futuro degli Stati Uniti sul loro espansionismo continentale.
A questa retorica dell’«impero della libertà» di jeffersoniana memoria,
sembra non sottrarsi nemmeno la canzone popolare di Jane Bowers,
«Remember the Alamo», resa celebre, negli anni sessanta del Novecento,
dal timbro inconfondibile di Johnny Cash: «Grieve not little darlin’ my
dyin’, if Texas is sovereign and free, / We’ll never surrender and ever with
liberty be».
Non sorprende, quindi, che Alamo (da non confondere con Los Alamos
→ Progetto Manhattan) sia oggi la più grande attrazione turistica del Texas,
con tanto di Crockett Hotel e sito online interattivo completo di giochi di
parole per bambini: «esercito», «baionette», «fortino», «libertà», «milizia»,
«fucili», «assedio», «massacro», «vittoria o morte».

BIBLIOGRAFIA
Oliviero Bergamini, Storia degli Stati Uniti, Laterza, Roma-Bari 2002.
Sam W. Haynes, Cary D. Wintz (eds.), Major Problems in Texas History.
Documents and Essays, Houghton Mifflin, Boston-New York 2002.
C. SCAR.
Alien
La parola evoca, con ogni probabilità, il film di fantascienza di Ridley Scott
interpretato da un’allora poco nota Sigourney Weaver e incentrato
sull’assalto di creature extraterrestri (gli «aliens» appunto) all’astronave
Nostromo. Eppure, in inglese, lo stesso termine ha un’altra accezione,
significando anche «straniero» o, meglio, «immigrato».
Quanto all’uscita di Alien, anno di grazia 1979, tale è il suo successo di
pubblico che l’industria cinematografica americana non mancherà di
sfornare, nell’arco di poco meno di trent’anni, una lunga serie di sequel
(Aliens, 1986; Alien 3, 1992; Alien Resurrection, 1997) e prequel (Alien vs.
Predator, 2004; Aliens vs. Predator: Requiem, 2007). Di impatto emotivo
altrettanto notevole – sebbene di segno contrario – rispetto alla
rappresentazione degli alieni nell’opera di Ridley Scott è il campione di
incassi del 1982 che, diretto da Steven Spielberg, entrerà nella storia del
cinema come una delle pellicole più popolari di sempre: E.T. L’extraterrestre.
Tanto Alien quanto E.T. sono preceduti dall’uscita nelle sale americane di
Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), dello stesso Spielberg, e del primo
episodio della fortunatissima trilogia di Guerre stellari (1977, 1980, 1983),
creazione a metà tra fantasy e fantascienza di George Lucas (anch’essa
destinata, a un ventennio di distanza, agli immancabili prequel: 1999, 2002,
2005, 2008). Se è vero che sono gli anni settanta e ottanta del secolo scorso a
trasformare le raffigurazioni filmiche di extraterrestri e nuove galassie in
un fenomeno culturale di massa, va inoltre ricordata la centralità degli anni
sessanta nel lanciare la serie televisiva apripista Star Trek (→ Serie tv) – a
sua volta preceduta da Ai confini della realtà (Twilight Zone) in onda sulla Cbs
dal 1959 al 1964 –, la cui prima stagione, The Original Series, è trasmessa dalla
Nbc tra il 1966 e il 1969, per proseguire, con nomi, personaggi e
sceneggiatori diversi, fino al 2005. Sarà l’incontro – spesso costruttivo – con
gli «alieni» a costituire l’aspetto più peculiare della saga di Star Trek: la
missione dell’astronave Enterprise – microcosmo statunitense – è infatti
quella di cercare nuove «civiltà» attraverso il contatto con razze aliene (la
cui lista è infinita: dagli androidi ai benziti e betazoidi, dai borg ai
cardassiani, dagli ologrammi ai klingon, dai medusiani ai q, dai romulani ai
razionalissimi vulcaniani con le orecchie a punta, come Spock).
A voler essere più precisi, che il topos dell’invasione aliena o marziana
eserciti un’attrazione magnetica sulla fantasia collettiva americana
moderna deve intuirlo già nel 1938 il genio istrionico di Orson Welles. In
una delle burle più strepitose della storia del paese, il 30 ottobre – il giorno
di Halloween (→) – di quell’anno, sulle onde medie della Cbs, Orson Welles
trasmette il suo adattamento radiofonico (→ Radio) della Guerra dei mondi di
H.G. Wells, seminando il panico tra i newyorkesi: «Le notizie riportano che
alle 8.50 di sera un gigantesco oggetto in fiamme, che si crede essere un
meteorite, è caduto su una fattoria nei pressi di Grover’s Mills, in New
Jersey… le campane stanno suonando per avvertire la gente di evacuare la
città mentre arrivano i marziani…».
L’isteria scatenata dalle parole di Welles – file e file di auto che si
riversano sui ponti di New York per abbandonare l’isola di Manhattan –
riemerge con forza nel secondo dopoguerra, quando la fantasia collettiva
americana sembra accogliere ed esaltare la presenza di Ufo e alieni sulla
scorta dei racconti pubblicati sui cosiddetti pulp magazines, le riviste
commerciali dedicate quasi esclusivamente a sottogeneri letterari come la
fantascienza. A partire dal Ciclo di Barsoom (1912-1943) di Edgar Rice
Burroughs (il creatore di Tarzan), in cui l’ambientazione marziana pare
ritrarre un mondo selvaggio e fiero modellato sulla Frontiera (→), negli
anni della Guerra fredda si arriva alle più raffinate e complesse Cronache
marziane (1950) di Ray Bradbury (una raccolta di racconti in cui è
rappresentata la colonizzazione di Marte da parte di umani in fuga da una
terra devastata dall’atomica), e alla Foundation Trilogy (1951-53) di Isaac
Asimov (dove si narra del crollo e della rinascita di un impero interstellare).
Anche il cinema dei «Silent Fifties» riflette l’interesse crescente per il tema
dell’invasione aliena, sublimando così paure e curiosità suscitate e dalle
potenzialità distruttive dell’era nucleare e dalla minaccia del «pericolo
sovietico»: Il giorno in cui la Terra si fermò (1951), Gli invasori spaziali (1953),
Piano 9 da un altro spazio (1959) e il celebre L’invasione degli Ultracorpi (1956) in
cui, per la prima volta, il grande schermo ospita la fobia di androidi
camuffati da umani.
Sul finire del secolo scorso, arriva poi Blade Runner (1982), diretto da
Ridley Scott e ispirato al romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
(del 1968, lo stesso anno di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, pietra
miliare nel genere) dello «Shakespeare della fantascienza» Philip K. Dick,
con il monologo del replicante interpretato da Rutger Hauer a imprimersi
nella memoria di un paio di generazioni: «Io ne ho viste cose che voi umani
non potreste immaginarvi». Il resto è, per così dire, storia recente: dalle
ombre dei dischi volanti che si allungano sulla Casa Bianca in Independence
Day (1996) al colossal in 3D Avatar (2009).
Verrebbe facile, a questo punto, pensare che l’incontro con l’«alieno»
come altro da sé sia un fenomeno interamente novecentesco, portato alla
ribalta dal cinema e dalla televisione. Non è così. Prenda esso le forme dello
psicodramma puritano delle origini nei confronti degli indiani e delle
«streghe» (→ Caccia alle streghe) o dell’accanimento dei servizi segreti
(commissioni governative, Cia e Fbi) contro presunti sovversivi comunisti e
anarchici (→ Caccia alle streghe), il rapporto con ciò che è considerato
«alien» da una prospettiva normativa incarnata da un establishment
istituzionale è un motivo fondante dell’intera cultura americana. Oltre alla
breve stagione di Alien Nation (1989-1990), il telefilm di fantascienza in cui
gli extraterrestri dispersi nel deserto del Mojave (→ Deserti) e trattati dalla
polizia di Los Angeles alla stregua di immigrati messicani o di minoranze
altrimenti oppresse, due serie televisive del nuovo millennio come Alias
(stessa etimologia di «Alien») e Lost ruotano infatti intorno all’incontro con
gli altri, con la presenza di società segrete e il diffondersi di personalità
multiple a riaffermare quanto il tema dell’alterità – e il suo necessario
corollario di tensioni e psicosi culturali – continui a essere un aspetto
nevralgico della vita del paese, intrecciando e sovrapponendo figurazioni
fantastiche e realtà materiale.
D’altro canto, la prima volta che la parola «alien» compare negli annali
di storia americana con il significato di «straniero» è nel 1798, con il
Congresso di George Washington che promulga gli Alien and Sedition Acts:
quattro leggi di sicurezza interna mirate a limitare la presenza degli
stranieri e a mettere un freno agli eccessi di una stampa troppo libera, in
previsione di una guerra contro la Francia. Al di là dell’effettiva ricaduta di
questi provvedimenti legislativi – un solo straniero sarà deportato –, è
interessante notare come già agli albori della Repubblica la presenza di
stranieri e immigrati sia legata culturalmente a un pericolo sovversivo (di
sedizione, appunto). Le cose si complicano poi con l’arrivo delle ondate
migratorie di metà Ottocento – i flussi dalla Cina e dall’Europa del Nord
(irlandesi, scozzesi, tedeschi e scandinavi) – e con quelle a cavallo tra i due
secoli, provenienti dalle regioni più povere del Vecchio mondo (i paesi
dell’Europa sudorientale). L’approdo di bastimenti brulicanti di italiani,
greci, slavi e russi (spesso ebreo-russi) alla stazione d’entrata di Ellis Island
(→ Isole), al largo di New York City, ridisegna la mappatura etnica e
linguistica della città e del paese intero, suscitando le reazioni allarmate e
razziste di coloro i quali, americani da più generazioni, si ritengono
depositari dei valori nazionali. Così, nel 1892, Thomas Bailey Aldrich (il
«bramino di Boston», appartenente cioè all’aristocrazia economica e
culturale della nuova Atene americana) scrive la poesia Unguarded Gates
(Cancelli indifesi) che ben compendia i sentimenti diffusi nella roccaforte
Wasp (→) del New England: «Spalancati e indifesi sono i nostri cancelli, /
attraversati dall’accozzaglia pressante e selvaggia delle masse – / uomini
dal Volga e dalle steppe tartare, / figure anonime dell’Hoang Ho / malayani,
sciziani, teutoni, celti, e slavi/ che rifuggono la povertà e il disprezzo del
Vecchio mondo / portando con sé divinità e riti sconosciuti / […] / nelle
strade e nei vicoli risuonano le loro chiassose favelle straniere / accenti
minacciosi estranei [alien] alla nostra aria / voci conosciute un tempo nella
Torre di Babele!».
Di tutt’altra sensibilità saranno invece le riflessioni sociologiche firmate
dallo scrittore Henry James nel primo decennio del Novecento, quando,
ormai inglese di adozione, tornerà nel suo paese di origine – e nella sua New
York – per un breve periodo. Anch’egli promotore di una visione
«esclusiva», ovvero «alta» e rigorosamente (neo)inglese, della cultura, della
letteratura e della lingua americane, James non mancherà di mettere in luce
l’ambiguità irriducibile del concetto stesso di «alien» in un paese in cui la
«dividing line» tra il nativo e lo straniero è, per necessità storica, da sempre
mossa: «Chi è americano […] e chi non è straniero?… e dove si può puntare
il dito sulla linea di confine?».
Nel 1907 (l’anno in cui James pubblica le sue impressioni sui
cambiamenti conosciuti dagli Stati Uniti in La scena americana) è da tempo in
vigore il Chinese Exclusion Act – la legge del 1882 che interrompe i flussi
migratori dalla Cina (→ Chinatown) – e, con esso, i nuovi provvedimenti
restrittivi modellati sul sistema delle «quote» e giustificati dalle teorie
eugenetiche in voga a inizio Novecento sono alle porte. Sarà infatti il
Johnson-Reed Immigration Act del 1924 a sancire per la prima volta in
maniera così sistematica il tetto numerico dei flussi, secondo una
classificazione razziale che favorirà il ceppo caucasico (l’Europa
nordoccidentale) su tutti gli altri (in primo luogo l’Asia). In altre parole, pur
usando la categoria giuridica della nazionalità (la quota degli immigrati
dall’Italia, dalla Cina, dalla Grecia ecc.), il sistema avallato dalla legge del
1924 si basa su criteri etnici che stabiliscono una scala di minore o maggiore
assimilabilità degli immigrati agli americani bianchi: tanto più diversi per
colore di pelle e per appartenenza continentale, quanto più «alien».
Spartiacque della storia dell’immigrazione americana, il Johnson-Reed
Immigration Act contribuirà inoltre alla formazione della categoria degli
«illegal aliens», gli immigrati clandestini che, impossibilitati a chiedere la
cittadinanza se non al termine di percorsi lunghi e impervi e privati di ogni
diritto ma utili all’economia del paese, diventeranno una delle
contraddizioni più evidenti della democrazia americana del Novecento (→
Braceros).
Negli ultimi cinquant’anni, vale a dire grosso modo dal 1960 a oggi, la
paura del diverso, dell’alieno e dello straniero come immigrato clandestino
è spesso sfociata nella proliferazione di comunità, sette, corporazioni
militanti o milizie, variamente ispirate a teorie millenaristiche,
apocalittiche, xenofobe e del complotto (→ Teoria del complotto). Molte
dottrine paranoiche del complotto sulle quali proliferano queste
confraternite risalgono agli anni cinquanta, quando il segreto di stato
prende a coprire gran parte dell’ecatombe ambientale cui sono sottoposte
zone sacrificali (come il Nevada e il New Mexico, dove vengono condotti
test nucleari) e segmenti della popolazione ritenuti marginali (i mormoni,
per esempio). Nel corso della seconda metà del secolo, l’idea che le
istituzioni nazionali siano alla mercé di un manipolo di cospiratori sarà
riaccesa dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy (1963; → Camelot), dallo
scandalo del Watergate (1972-1974; →), e poi da quello Iran-Contra, nonché
dal ravvivarsi, sul finire degli anni settanta, del mai sopito interesse per
l’«incidente» di Roswell (→) del 1947, quando, nei pressi di questa cittadina
del New Mexico, le autorità aeronautiche rinvengono frammenti di un
oggetto volante che, pur identificato come parte di un radar militare, sarà
subito al centro di una lunga controversia circa una sua presunta
provenienza extraterrestre (ancor oggi, molti americani credono che il
governo nasconda prove dell’esistenza degli alieni nei grandi deserti [→]
del New Mexico e del Nevada).
Sarà poi a partire dagli anni settanta del secolo scorso che, alimentate da
una sfiducia crescente nei confronti dell’autorità del governo federale e
delle agenzie come Cia e Fbi, queste associazioni spontanee – i cui
orientamenti vanno dall’utopia visionaria alle teorie massoniche e
ufologiche, al fanatismo religioso e all’esercizio delle armi – cominciano a
essere protagoniste di una serie di eventi tragici che continueranno fino ai
giorni nostri: il suicidio collettivo di Jonestown (→ Castro) del 1978 e quello
di Heaven’s Gate del 1997; l’assedio di Ruby Ridge nel 1992 e quello di Waco
nel 1993; l’esplosione di Oklahoma City nel 1995; i «serial killings» di
Unabomber (→ Waco, Columbine e dintorni).
«Trust no one, the truth is out there» («Non ti fidare di nessuno, la
verità è la fuori») non è la parola d’ordine di una setta segreta, ma il motto
di una delle serie tv più cult di fine millennio, X-Files. Lo slogan degli
investigatori Mulder e Scully può riassumere per più di un verso
l’atteggiamento paranoico da cui muovono i gesti violenti e tragici di chi,
tra gli americani, si sente «accerchiato» da forze esterne o interne,
comunque «altre» rispetto a sé, ed è pronto a sostenere l’esistenza di un
«New World Order», un’élite del potere mondiale in procinto di fagocitare il
genere umano.
Venate di suggestioni massoniche e di fanatismo, e sempre
contraddistinte da una paura incontrollata per l’altro e il diverso, le teorie
del complotto si prestano spesso a essere adottate dalle cosiddette «milizie»
dei suprematisti bianchi, gruppi estremisti che fanno dell’uso delle armi
(→) in chiave xenofoba e neonazista la propria bandiera. Assai forti negli
stati del Sudovest (Arizona e Texas), le milizie convogliano gran parte della
loro propaganda – e delle loro azioni – sugli immigrati clandestini
provenienti dal Messico (→ Braceros) che attraversano il confine con gli
Stati Uniti. Affiancandosi spontaneamente alla «Migra», la polizia
americana di frontiera, i cecchini delle milizie pattugliano i «cancelli
spalancati e indifesi» di quella regione del paese contro chi, poco più di
centocinquanta anni fa, la abitava. «Which is the American? […] Which is
not the alien?»

BIBLIOGRAFIA
Jodi Dean, Aliens in America: Conspiracy Cultures from Outerspace to Cyberspace,
Cornell University Press, Ithaca 1998.
Donna R. Gabaccia, Immigration and American Diversity: a Social and Cultural
History, Blackwell Publishers, Malden 2002.
Anna Maria Martellone, La «questione» dell’immigrazione negli Stati Uniti, il
Mulino, Bologna 1980.
Mae M. Ngai, Impossible Subjects: Illegal Aliens and the Making of Modern
Americans, Princeton University Press, Princeton 2003.
C. SCAR.

Almanacchi
Genere ben radicato nella tradizione europea dei calendari religiosi e
astronomici per tutto il Medioevo fino al Cinquecento, una volta trapiantato
su suolo americano l’almanacco (parola che le etimologie più accreditate
riconducono all’arabo Al-Manākh, «calendario») assume caratteristiche
autonome in grado di accentuarne la natura utilitaristica e la verve sagace.
C’è di tutto negli almanacchi del Settecento coloniale: si spazia
dall’astrologia al calendario, dalle effemeridi ai proverbi, dall’astronomia
alla medicina tradizionale, dagli aforismi alla letteratura, dai consigli pratici
alle storie di eventi straordinari, dalle ricette di cucina ai rituali
superstiziosi. Non si conta una singola categoria sociale (contadini,
mercanti, pescatori, medici, avvocati, educatori ecc.) che non ricorra
all’almanacco per sapere che giorno e che ora è, per capire come liberarsi
dei topi o curarsi un callo. La grande popolarità degli almanacchi dipende in
parte dalla penuria di altri materiali di lettura: le biblioteche (private o
parrocchiali) non hanno presa sul nucleo domestico americano medio, più
propenso a fare tesoro di un corpus di tomi formato, il più delle volte, da un
Sillabario del New England (1687-1690), un Viaggio del pellegrino (1678) di John
Bunyan, una manciata di sermoni dei predicatori delle origini, una Bibbia –
e, appunto, un almanacco. Con le Sacre Scritture a occuparsi dell’aldilà e
queste pubblicazioni miscellanee tra il serio e il faceto a rappresentare
l’unica fonte secolare di informazioni pratiche e di momenti di svago, non
stupisce che nell’Ottocento gli almanacchi diventino il vangelo laico e
pragmatico di una nazione sempre più modellata sull’esperienza
pionieristica dell’Ovest, con il corollario di umorismo di Frontiera (→),
burle e vere e proprie truffe di faccendieri senza scrupoli e con-men (→
Trickster e con-men) che ne impregnano la cultura. Mentre il tono degli
almanacchi rimane sempre informale e amichevole, con una prefazione in
cui l’autore presunto traccia un bilancio degli eventi più importanti
dell’anno precedente (e di quello che verrà), i contenuti prendono a variare
sempre di più nel XIX secolo, includendo pubblicità per ogni genere di
conforto, in special modo per le cosiddette «patent medicines», rimedi di
assai dubbia efficacia per curare malesseri che vanno dal raffreddore al
cancro.
Assecondando in questo modo una traiettoria sempre più commerciale,
gli almanacchi preparano quindi il terreno per la nascita di un genere a essi
affiliato: il catalogo per corrispondenza (→ Cataloghi).
Il frontespizio di quello che rimane il più popolare almanacco del New
England della prima metà del XVIII secolo, l’Astronomical Diary di Nathaniel
Ames, del 1742, si compone di una parte illustrativa («An Astronomical
Diary; Or, An Almanack»: le lunazioni, le eclissi, il levarsi e il posarsi di luna
e sole, i tempi delle maree, i giudizi sul tempo ecc.), un breve paragrafo con
le coordinate geografiche («calcolato per i meridiani di Boston, New
England, Lat. 42° 25’ Nord») e un passo da Ovidio nella traduzione di John
Dryden. Gli almanacchi non esitano infatti a fungere da intrattenimento,
regalando assaggi di letteratura e di arte, per così dire, in pillole e, proprio
in virtù della congerie di notizie di cui essi si fanno veicolo e del formato
che sposano, è possibile rintracciare la loro eredità nei bollettini cittadini e
nelle riviste moderne di ogni genere, su tutte il longevo mensile Reader’s
Digest, condensato di notizie a uso familiare fondato nel 1922.
Ma la storia degli almanacchi americani non può prescindere da
Benjamin Franklin, lo statista, inventore, editore e tipografo che decide di
scrivere e di pubblicare, sotto lo pseudonimo di Richard Saunders (astrologo
e scrittore di almanacchi di fine Seicento), il fortunatissimo La maniera di
farsi ricco. Con le sue 10mila copie l’anno, il Poor Richard si trasformerà in un
grande successo commerciale che, ampliato ed emendato, sarà riedito per
venticinque anni, coprendo così un quarto di secolo (1732-1758) di storia
americana e diventando una lettura obbligata per intere generazioni di
giovani plasmati sulle massime raccolte in Way to Wealth. Una tipica perla di
saggezza del Povero Richard? «A little house well fill’d, a little field well
till’d, and a little wife well will’d, are great riches» («Una casetta ben piena,
un piccolo campo ben coltivato, e una mogliettina ben disposta sono grandi
ricchezze»).
Se il genere dell’almanacco (con il suo formato e le sue convenzioni
stilistiche) rappresenta una fonte di informazioni per molti versi insuperata
sull’America coloniale, altrettanto importante è il ruolo che esso svolge
nella formazione di un certo habitus letterario votato a rappresentare il
paese attraverso un registro fattuale e mimetico, a un tempo colloquiale e
canzonatorio. Come non citare, allora, l’incipit del «Calendario di Wilson lo
zuccone», contenuto nell’omonimo romanzo di Mark Twain, Wilson lo
zuccone (1894)? Che recita: «È stato bellissimo scoprire l’America. Ancor più
bello sarebbe stato mancarla».

BIBLIOGRAFIA
Milton Drake (ed.), Almanacs of the United States, 1639-1875: A Bibliographical
Check-list and Census, 2 voll., The Scarecrow Press, New York 1962.
Benjamin Franklin, Autobiography, Poor Richard, and Later Writings, The
Library of America, New York 1997.
Marion B. Stowell, Early American Almanacs: the Colonial Weekday Bible, Burt
Franklin & Co., New York 1977.
C. SCAR.

Amistad (e altri ammutinamenti)


Poco mancò che l’America non venisse scoperta, a causa di un
ammutinamento… O meglio, che non venisse scoperta da Cristoforo
Colombo, complice un inizio di rivolta fomentato da marinai esasperati da
troppi giorni di navigazione e nessun segno di isole o continenti
all’orizzonte. A salvarlo fu, pare, l’avvistamento di un ramoscello – segnale
che la terra non doveva essere lontana.
Ma, oltre che di ammutinamenti mancati, la storia e la letteratura
americane sono ricche di ammutinamenti fatti e finiti. A cominciare da
quello che si combatté sul filo di lana fra legalità e illegalità nel 1839, che
forse vero e proprio «ammutinamento» non fu e che ebbe come
protagonisti il governo spagnolo, gli Stati Uniti e un gruppo di africani
catturati per essere ridotti in schiavitù: il «caso Amistad».
Nonostante la Spagna avesse bandito la tratta degli schiavi fin dal 1820
su pressione (anche economica) dell’Inghilterra, i pirati iberici (visti gli
ingenti profitti garantiti) continuarono negli anni successivi a rapire gli
africani (→ Atlantico nero) per poi rivenderli nelle isole caraibiche. E fu
all’Havana che un giovane spagnolo, José Ruiz, arrivò nel marzo di
quell’anno per selezionare una cinquantina di schiavi, in larga parte
sbarcati dieci giorni prima dallo schooner Teçora, proveniente dalle rive
africane, pagandoli 450 dollari ciascuno e caricandoli a bordo dell’Amistad.
Al bottino di Ruiz, un altro spagnolo, Pedro Montes, aggiunse i suoi acquisti
– tre giovinette e un ragazzino di nome Ka-li. All’alba del 28 giugno 1839,
l’imbarcazione lasciò il porto per quello che sarebbe dovuto essere un
viaggio di due giorni. Ma, con il cambio di venti, la traversata si fece più
lunga; per la scarsità di acqua e di provviste, furono ridotte le razioni per gli
schiavi che, sorpresi a rubare, furono puniti con dure fustigazioni. Già
provati dalla traversata transatlantica, Singbe, Fawni, Gilabaru, Ko-no-ma,
Moru, Shuma e gli altri africani decisero di ribellarsi: sapevano che la nave
trasportava anche una partita di coltelli, usati per tagliare la canna da
zucchero. Quarantanove schiavi contro sette bianchi e due mulatti: bastò un
chiodo trovato per caso sul ponte della nave perché il gruppo, in una notte
di tempesta, riuscisse a liberarsi. Ucciso il cuoco mulatto (che aveva
minacciato di metterli in pentola per poi servirli al padrone) e il capitano
della nave, gli africani tennero il secondo mulatto, Antonio, come interprete
e i due spagnoli come ostaggi. Ai cadaveri dei due, gettati fuori bordo, si
aggiunsero quelli dei due africani morti nello scontro e di altri due periti
per i postumi della sbronza che a esso seguì. Il leader della rivolta, Singbe,
prese il comando della nave e ordinò agli spagnoli di fare ritorno in Africa.
Con uno stratagemma degno di Penelope, ogni mattina la nave, sotto lo
sguardo vigile di Singbe, veniva rivolta da Montes a est; e ogni sera, al calar
del sole, verso ovest. Al suo zigzagare si sommarono i venti che
scarrocciarono l’imbarcazione verso nord. Il 24 agosto, dopo quasi due mesi
di navigazione, altri sei morti e un equipaggio ridotto alla fame, la nave
arrivò nei pressi di Long Island. Il gruppo diretto a terra per fare
rifornimento (fra cui Sigbe) non si accorse che l’imbarcazione era stata nel
frattempo raggiunta dalla Guardia costiera americana; gli spagnoli
riuscirono a liberarsi, chiedere aiuto e denunciare l’ammutinamento. La
fregata Washington si incaricò di condurre la Amistad nel porto di New
London, Connecticut, per il processo.
La storia degli africani suscitò subito enorme scalpore e accesi dibattiti:
meno di tre mesi dopo la loro cattura, il 2 settembre, al Bowery Theatre di
New York andò in scena The Black Schooner; or, The Pirate Slaver Amistad, a cui
assistettero migliaia di spettatori. Nulla a confronto delle folle che
richiamava in quei giorni il carcere di New Haven, in cui gli schiavi erano
detenuti: gli abolizionisti organizzarono un comitato in difesa degli
ammutinati e trovarono un primo (anche se non particolarmente ferrato)
interprete che potesse dar loro voce al processo. Il caso uscì presto dalle
cronache locali per divenire problema diplomatico transatlantico, con la
Spagna che richiedeva ufficialmente la restituzione sia della nave col suo
equipaggio sia degli schiavi in quanto merci.
Persone o proprietà? Il verdetto alla corte federale. Alla difesa degli
africani vi erano Roger S. Baldwin, futuro governatore dello stato, e John
Quincy Adams (→ Famiglie A(d)dams) ex presidente degli Stati Uniti (con
l’appoggio, oltreoceano, della regina d’Inghilterra). Intorno, un’opinione
pubblica che considerava gli schiavi degli eroi. E quando si trovò anche un
bravo interprete (James Covey, ex schiavo poi liberato e al servizio nella
marina inglese) e le storie degli ammutinati vennero raccontate nel
dettaglio, furono gli spagnoli a essere arrestati. Da qui in avanti, però, la
sorte del gruppo non fu tutta rose e fiori. Il mulatto Antonio fuggì,
probabilmente in Canada, con l’aiuto della Underground Railroad (→);
inoltre, complice il tentativo di capitalizzare la popolarità raggiunta dal
gruppo negli Stati Uniti, il ritorno in Africa dei superstiti fu procrastinato
tanto a lungo che uno degli africani, Fawni, stanco di attendere, si uccise.
Finalmente, due anni dopo, il 25 novembre 1841, agli africani venne
concesso di imbarcarsi a New York sul Gentleman, arrivando in Sierra Leone
nel gennaio del 1842. Qui Singbe, l’eroe della rivolta, trovò il proprio
villaggio distrutto e tutti i suoi cari spariti, rapiti e ridotti in schiavitù.
Analoghe, amare scoperte attesero anche molti altri reduci, che videro ben
presto svanire il sogno di una casa felice a cui tornare.
A tutt’altri epoca e contesto appartiene invece il secondo, celebre
ammutinamento sulle navi americane: quello del Caine, narrato
nell’omonimo romanzo semiautobiografico (vincitore del premio Pulitzer)
di Herman Wouk, The Caine Mutiny (1951) – a cui seguì il famoso
adattamento cinematografico del 1954 di Edward Dmytryk, con Humphrey
Bogart nei panni del capitano Queeg. La vicenda è raccontata dalla
prospettiva di Willis Seward Keith, ricco e immaturo rampollo che si iscrive
a una accademia navale per evitare l’arruolamento nell’esercito durante la
Seconda guerra mondiale, guadagnandosi l’assegnazione alla sminatrice
Caine. Anche dopo l’inizio della missione, Willis fa di tutto per sfuggire ai
propri doveri, fino all’arrivo di un nuovo comandante, Philip Francis Queeg,
energico e determinato, in apparenza l’uomo giusto per ristabilire ordine e
disciplina sulla nave. Peccato che l’inesperienza di Queeg sulle imbarcazioni
da guerra, una serie di errori durante le missioni (di cui cerca di incolpare i
sottoposti) e l’affiorare della sua codardia lo portino a perdere il rispetto dei
marinai – i quali, istigati dalle pesanti insinuazioni dell’ambizioso tenente
Thomas Keefer, si convincono della sua instabilità mentale. La situazione
precipita nel dicembre 1944, durante un tifone: Queeg, paralizzato dalla
paura, viene esautorato dal luogotenente Maryk, sostenuto fra gli altri da
Willis, che decide di prendere il controllo e salva così barca ed equipaggio.
Maryk e Willis sono però sottoposti alla Corte marziale per
insubordinazione. Difesi durante il processo dal luogotenente Greenwald,
che pure disapprova la loro condotta, e abbandonati da Keefer, che si
dissocia vigliaccamente dalle loro azioni, i due sembrano destinati a perdere
la causa; almeno fino al controinterrogatorio, quando Greenwald farà
emergere l’incapacità di Queeg, poi trasferito in una base di rifornimento
nell’Iowa. Alla serata dei festeggiamenti, Greenwald denuncia l’ipocrisia e
la codardia di Keefer, che, divenuto primo ufficiale del Caine, finirà per
assomigliare sempre più al suo predecessore.
Se i titoli di testa della versione cinematografica ci ricordano che non vi
sono mai stati ammutinamenti nella Marina militare americana, le rivolte
sulle navi commerciali statunitensi non furono invece episodi isolati: si
pensi all’ammutinamento sulla baleniera del New England Sharon a inizi
Ottocento, che terminò con l’uccisione e lo smembramento del crudele
capitano a opera di quattro marinai polinesiani; o alla sequenza di
ammutinamenti che si succedettero sul Globe, una baleniera comandata dal
capitano Thomas Worth, ucciso il 26 gennaio 1824 al largo delle coste
hawaiane da un gruppo di marinai istigati dall’arpioniere ventiduenne
Samuel Comstock. Poco dopo il massacro, uno degli ammutinati, William
Humphries, venne processato con l’accusa di voler prendere il comando
della nave e in seguito giustiziato. Ma quando Comstock provò a condurre la
nave verso l’atollo di Mili per creare un proprio stato, gli altri marinai
decisero di eliminarlo. L’imbarcazione fu in seguito riconquistata dal
timoniere Gilbert Smith e da altri cinque marinai, che la trasportarono sulle
coste del Cile e da qui a Nantucket, mentre dei nove ammutinati solo due
sopravvissero alla popolazione autoctona dell’atollo su cui erano rimasti
imprigionati e vennero tratti in salvo l’anno successivo.
Che dire poi del (presunto) tentato ammutinamento sulla Somers, un
brigantino utilizzato durante la guerra con il Messico? Quando il
comandante Alexander Slidell Mackenzie (autore e amico di Washington
Irving) e il luogotenente Guert Gansevoort, proveniente da una ricca
famiglia olandese, furono informati di un tentativo di ammutinamento sulla
nave, che si trovava al largo del Nore, fra Mare del Nord e Manica, i sospetti
ricaddero sul diciassettenne Philip Spencer. Questi fu accusato, insieme ad
altri due marinai, di voler prendere il comando della nave per trasformarla
in imbarcazione pirata e uccidere chiunque tentasse di opporsi. Nella stanza
di Spencer fu trovato un elenco di nomi scritti in greco di marinai che
sarebbero stati risparmiati dopo l’ammutinamento, insieme a un disegno
della fregata battente «Jolly Roger», la bandiera dei pirati. Nessuno pensò a
una fantasia adolescenziale; i ribelli furono giustiziati, impiccati sull’albero
maestro e i corpi lasciati a penzolare per quasi due ore prima di essere
consegnati al mare. L’uccisione di un giovane (e probabilmente innocente)
fanciullo per mano di un crudele capitano vi dice qualcosa? Forse allora
aiuterà sapere che il luogotenente Gansevoort era cugino di primo grado di
Herman Melville, che a questo ammutinamento (oltre che alla più ampia
rivolta dei marinai della flotta militare britannica, sempre alla fonda al
Nore, nel 1797) lo scrittore potrebbe essersi ispirato per il celebre Billy Budd,
pubblicato postumo nel 1924.
Sempre navigando fra le pagine letterarie di metà Ottocento, sorte assai
infausta capitò anche al marinaio nantucketiano Arthur Gordon Pym, che
visse in prima persona l’ammutinamento del brigantino americano
Grampus, riconquistò la nave, fece naufragio, patì coi suoi compagni la fame
e la sete e, dopo essere stati soccorsi da una goletta britannica, si salvò per
miracolo da un’imboscata dei (solo apparentemente pacifici) nativi neri
delle isole del mar dell’Antartico. O almeno così racconta il protagonista-
narratore nell’omonima relazione (Le avventure di Gordon Pym, 1838), frutto
della penna di Edgar Allan Poe. E sempre neri furono gli ammutinati (o,
come nel caso dell’Amistad, solo schiavi in rivolta? → Rivolte di schiavi) al
centro di uno dei racconti più potenti e cupi di Melville, quel Benito Cereno
(1855) che, di nuovo, come per l’Amistad, vide e mise in scena i rapporti di
forza fra tre mondi: l’Europa, gli Stati Uniti e l’Africa (→ Atlantico nero).
Anche se qui, a differenza di quanto avvenuto quindici anni prima nella
realtà, il capitano americano soccorrerà il pari grado spagnolo ostaggio del
nero Babo e a cadere non sarà l’esangue nobile europeo, ma il rivoltoso
schiavo con i suoi complici.

BIBLIOGRAFIA
Leonard F. Guttridge, Mutiny: A History of Naval Insurrection, Naval Institute
Press, Annapolis 1992.
Helen Kromer, The Amistad Revolt. 1839. The Slave Uprising Aboard the Spanish
Schooner, Franklin Watts, New York 1973.
Herman Wouk, The Caine Mutiny, Doubleday, New York 1951.
C. SCHIA.

Appalachia
Nel 1528, la spedizione guidata dallo spagnolo Panfilo de Narvaez in Florida
trovò sul proprio cammino un villaggio di indiani chiamato Apalchen o
Apalachen. Gli esploratori decisero di battezzare tutto il territorio
Appalachia (attenzione alla pronuncia: la «ch» è la stessa di «cheese» e non
quella di «chiave»!) e in seguito i cartografi designarono con lo stesso
toponimo la catena montuosa che si estende dal Canada sudorientale fino
all’Alabama settentrionale, per una lunghezza di oltre 2400 chilometri. Ai
giorni nostri, con Appalachia si intende la regione che occupa la parte
centrale e meridionale della catena, grosso modo a partire dalla
Pennsylvania.
Per un certo periodo, gli Appalachi costituirono il limite geografico
dell’insediamento anglosassone nel continente nordamericano. I territori di
confine, marginali e poco conosciuti, sono da sempre oggetto delle fantasie
del centro e vengono investiti di rappresentazioni esotiche e favolistiche.
Non è un caso che uno dei primi eroi popolari americani sia legato alle
imprese di un personaggio che ebbe a che fare con l’Appalachia:
l’esploratore Daniel Boone, che partecipò alle prime esplorazioni oltre il
costone occidentale della catena montuosa e fu uno dei primi coloni a
insediarsi nelle pianure del Kentucky. Le gesta di cui Boone fu protagonista,
pubblicate nel 1784 in un volumetto che ebbe larga diffusione anche in
Europa, fornirono il materiale grezzo attorno a cui si svilupparono poi
leggende e narrazioni di imprese epiche (→ Olimpo americano; → Tall
Tale).
Una mitologia legata in maniera più specifica alla geografia
dell’Appalachia nacque però solo più tardi, quando scrittori di viaggio e
narratori della scuola del local color resero popolare l’immagine di un Eden
misterioso e inaccessibile, abitato da una popolazione a metà tra la tribù
selvatica e il clan di sopravvissuti. Di essi si favoleggiava inoltre che
parlassero l’inglese dell’epoca elisabettiana e che praticassero l’incesto, cui
sarebbe stata da ascrivere l’alta incidenza di malformazioni fisiche e di
handicap. A diffondere questi e altri stereotipi sui montanari degli
Appalachi nei salotti letterari dell’Est contribuirono i racconti di Mary
Noailles Murfree, scrittrice nativa del Tennessee, pubblicati con il nome
d’arte di Charles Egbert Craddock (In the Tennessee Mountains, 1884; The
Prophet of the Great Smoky Mountains, 1885).
Il «pregiudizio geografico» ha continuato a influenzare le
rappresentazioni letterarie, cinematografiche e televisive della regione e
dei suoi abitanti, i famigerati hillbillies (termine assai spregiativo),
sempliciotti, ignoranti e sempre vestiti di stracci. In questo modo, per
esempio, vengono raffigurati i protagonisti della serie tv (→) The Beverly
Hillbillies, andata in onda dal 1962 al 1971, che raccontava la storia di una
famiglia di montanari diventata milionaria grazie alla scoperta di un
giacimento di petrolio nel suo podere: a dirla tutta, però, con la sua logica
pratica e l’impermeabilità alle lusinghe del lusso e ai condizionamenti dello
status sociale, la famiglia Clampett riesce a muovere una critica alla
trasformazione della società americana in senso consumista. Prima di
allora, enorme popolarità ebbero, fra il 1934 e il 1977, le strisce dei cartoons
(→ Comics) di Al Capp, incentrate sulle avventure/disavventure di Lil’
Abner Yokum, della sua procace moglie Daisy Mae e dell’universo surreale
dell’immaginaria cittadina di Dogpatch, nel Kentucky – un capitolo
importante nella storia della cultura popolare degli Stati Uniti, anche
perché veicolo, da un lato, di diffusione di un particolare vernacolo e,
dall’altro, di una revisione critica della stessa storia e cultura nazionali.
Esiste però anche una versione più oscura dello hillbilly: e così lo zotico
appalachiano si trasforma in un brutale selvaggio nel romanzo di James
Dickey, Un tranquillo weekend di paura (1970), reso celebre anche dalla
trasposizione cinematografica interpretata da John Voight e Burt Reynolds
(1972). Nel libro e nel film, ritorna l’immagine del paradiso terrestre:
l’immaginario fiume Cahulawassee è l’ultimo corso d’acqua non inquinato
dell’intero Sud e, prima che venga cancellato dalla costruzione di una diga,
quattro amici decidono di percorrerlo in canoa, affrontando gli stessi
ostacoli e pericoli che si erano trovati di fronte i primi esploratori. Il viaggio
a ritroso, però, da piacevole escursione si trasforma in lotta per la
sopravvivenza, nel momento in cui i quattro si trovano ad affrontare
l’ostilità degli abitanti e i pericoli delle rapide e della foresta (→ Gotico
americano).
In una delle sequenze iniziali del film, assistiamo a un duetto tra uno dei
quattro amici, che suona la chitarra, e un ragazzino del luogo, che invece si
diletta con il banjo: i due daranno vita a un entusiasmante botta e risposta
musicale, nel quale prevale la velocità di esecuzione del montanaro. Si
tratta di un esempio della ricca tradizione musicale appalachiana, la cui
nascita è legata alla contaminazione tra l’eredità scoto-irlandese e il blues
degli afroamericani – un connubio che smentisce la rappresentazione di
una comunità isolata e chiusa su se stessa che avrebbe conservato le
autentiche tradizioni di oltreoceano. Il repertorio pesca in modo
indifferente tra ballate folk, gospel e canti di lavoro, il tutto reso attraverso
un canto dai toni alti e sofferenti e veloci sequenze di note di un
accompagnamento che ricorda l’incedere del galoppo. Le esplorazioni di
musicologi come Alan Lomax e Pete Seeger hanno consentito di preservare
brani come la ballata «Man of Constant Sorrow» e le performance di Dock
Boggs o delle celebri cantanti di lotta Florence Reece, Sarah Ogan Gunning,
Aunt Molly Jackson – un repertorio cui hanno poi attinto i cantanti folk
degli anni sessanta (→ Newport Folk Festival).
L’Appalachia non è pertanto un Eden incontaminato: ha una sua storia, e
le «peculiarità» della regione sono emerse in alcuni momenti cruciali. La
diversa conformazione del territorio e le distinte attività economiche hanno
sin dagli inizi contrapposto i montanari appalachiani agli abitanti delle
pianure: una difformità d’interessi che ha portato a scontri anche accesi tra
le due fazioni. È noto, per esempio, come nella controversia che precedette
la Guerra civile (→), una parte consistente dei montanari si sentisse molto
più vicina alle rivendicazioni abolizioniste, e a riprova di ciò sta il fatto che i
rappresentanti delle contee occidentali della Virginia reagirono alla
proclamazione della secessione dall’Unione formando un nuovo stato, il
West Virginia. Lo stesso tentativo fu abbozzato nelle contee orientali del
Tennessee, ma il tempestivo invio di truppe confederate da parte del
governatore mise fine al progetto.
Lo sviluppo economico successivo alla risoluzione del conflitto ebbe
conseguenze anche per l’Appalachia. Le fabbriche e gli altiforni avevano
bisogno di carbone e legname e la regione fu sottoposta a un sistematico
sfruttamento che devastò il paesaggio e alterò modi di vita consolidati.
Negli anni venti del Novecento, lo strapotere delle compagnie minerarie, il
loro uso di spie, infiltrati e provocatori per opporsi alla sindacalizzazione, le
tremende condizioni di vita e di lavoro, furono alla base di una serie di
conflitti che culminarono in episodi di quasi guerra civile e che non si
sopirono nemmeno nei decenni successivi (→ Sciopero!): il film di John
Sayles Matewan (1987) e il romanzo di Denise Giardina Storming Heaven
(1987) ricostruiscono con particolare efficacia il più famoso di essi (i «fatti di
Matewan e di Blair Mountain»), mentre un interessante documento che
racconta la transizione da società rurale a industriale e i conflitti sociali
dell’epoca è il reportage Harlan Miners Speak (1932), curato da un gruppo di
scrittori che include Theodore Dreiser, John Dos Passos e Sherwood
Anderson.
La protesta dei minatori di Harlan County e delle contee vicine (fra i
quali vanno ricordati contingenti non secondari d’immigrati italiani) è
tornata a farsi sentire quarant’anni dopo, con una lunga sequenza di
scioperi e di duri confronti con le forze dell’ordine e le polizie private,
com’è testimoniato dal documentario di Barbara Kopple, Harlan County, Usa
(1975, premio Oscar per il documentario). E la loro mobilitazione non s’è
attenuata nemmeno in tempi recenti (lo sciopero di Pittston, fra il 1989 e il
1990; altri conflitti negli ultimi anni), anche a fronte della diffusione di una
nuova modalità di estrazione del carbone, il mountaintop removal mining, che
consiste nell’appiattimento delle cime di montagne e colline con dinamite e
bulldozer e che, oltre a sfigurare il paesaggio, produce tonnellate di rifiuti
depositati nelle valli adiacenti o gettati nei corsi d’acqua. Non è rimasto
molto dell’Eden incontaminato descritto dalla Murfree: una condizione che
ci viene restituita con efficacia dai pochi racconti scritti da un giovanissimo
Breece D’J Pancake prima del suicidio nel 1979 (Trilobiti, 2010), o che, riferita
nello specifico alla Pennsylvania, ma alquanto diffusa in stati come il West
Virginia o il Kentucky, ci è raccontata da Philip Meyer in un romanzo
recente e suggestivo, Ruggine americana (2010).
Gli Appalachi continuano a essere una regione di grande vitalità
culturale: fra romanzi e canzoni country (→ Grand Ole Opry) e di protesta
(→ «Which Side Are You On?»), testi teatrali e quilts (→), da essi proviene
una produzione popolare abbondante e variegata. Come scrive Alessandro
Portelli, «Gli Appalachi – regione “marginale”, “arretrata” degli Stati Uniti –
forniscono un punto di vista, un filtro, una base di memoria e linguaggio per
guardare alla modernità e alla sue forme con una distanza critica, senza
dare per scontato che il mondo sia necessariamente e per sempre così, che
così sia sempre stato». Il che vale per l’intera America.

BIBLIOGRAFIA
Aa.Vv., «Un’altra America: media, stereotipi e resistenza negli Appalachi»,
Ácoma, n. 27 (estate-autunno 2003), anno XI.
Annalucia Accardo, Cristina Mattiello, Alessandro Portelli, Anna Scannavini,
Un’altra America. Letteratura e cultura degli Appalachi meridionali, Bulzoni,
Roma 1991.
Alessandro Portelli, America profonda. Due secoli raccontati da Harlan County,
Kentucky, Donzelli, Roma 2011.
Henry D. Shapiro, Appalachia on Our Mind: The Southern Mountains and
Mountaineers in American Consciousness. 1870-1920, University of North
Carolina Press, Chapel Hill 1978.
S.M.Z. – M.M.

Apple pie
Immaginate di essere in cinque o sei a cena e di voler chiudere con un dolce
«tipicamente americano». Prendete dunque 400 grammi di farina, un
pizzico di sale, 300 grammi di burro, due cucchiai di zucchero, due rossi
d’uovo, cinque o sei cucchiai di acqua fredda (per la pasta); e per il ripieno
un chilo di mele (possibilmente Granny Smith), 100 grammi di zucchero di
canna, un cucchiaio di maizena, mezzo cucchiaino di polvere di cannella, 20
grammi di burro, un cucchiaio d’acqua. Preparate la pasta mettendo in una
ciotola farina e sale, il burro a tocchetti, lo zucchero e i rossi d’uovo,
mescolate il tutto con l’acqua. Impastate e stendete su un piano infarinato,
poi fate una palla e ripetete l’operazione una seconda volta. Riponete
quindi la pasta in frigo avvolta in carta argentata, a riposare per almeno
un’ora. Nel frattempo, sbucciate le mele, tagliatele in piccole fette a
spicchio e mettetele in una ciotola, aggiungendo zucchero, maizena e
cannella in polvere: mescolate bene. A questo punto, tirate la pasta e
tagliatene due dischi, uno del diametro della tortiera e l’altro appena più
grande: con quest’ultimo, rivestite il fondo e i bordi della tortiera,
rivoltando la pasta eccedente verso l’esterno. Versate le mele a strati,
aggiungendo il burro a fiocchetti e il resto del ripieno. Stendete il disco più
piccolo sul ripieno e sigillate i due strati di pasta. Spennellate la superficie
con un po’ d’acqua, spolverizzatela con un po’ di zucchero. Quindi, mettete
in forno a 180° per circa 40 minuti.
Mangiatela tiepida: è la apple pie, il tradizionale dolce americano (non a
caso si dice «as American as the apple pie»; ma la ricetta, grazie
all’antiquario settecentesco Samuel Pegge il Vecchio, viene dall’Inghilterra,
dove era nota fin dai tempi di Chaucer). Soprattutto, è la torta di mele di
Nonna Papera, messa a raffreddare sul davanzale e oggetto delle attenzioni
di Ciccio, pigro in tutto tranne che nella golosità (quanto alla canzone di
Madonna «Miss American Pie» e alla serie dei film American Pie, be’, le
ricette sono altre).
Chissà se i wobblies (→) avevano in mente un semplice pasticcio (= pie) o
proprio la apple pie con i suoi connotati fortemente simbolici e nazionali,
quando, utilizzando ironicamente il motivo di un celebre inno religioso
(«Sweet Bye and Bye»), cantavano «You’ll get pie in the sky when you die
(That’s a lie)»?
BIBLIOGRAFIA
Ken Haedrich, Apple Pie Perfect, Harvard Common Press, 2002.
Molly O’Neill (ed.), American Food Writing: An Anthology, The Library of
America, 2007.
M.M.

Appomattox (e Ricostruzione)
L’ultima disperata resistenza di un esercito confederato ormai ridotto ai
minimi termini ebbe luogo il 9 aprile 1865 nei pressi di Appomattox, un
villaggio di venti case della Virginia, a circa 120 chilometri da Richmond,
capitale dello stato e, ancora per poco tempo, della Confederazione. Il
generale Robert E. Lee, al comando delle truppe sudiste assediate da dieci
mesi nella località di Petersburg, voleva raggiungere lo scalo ferroviario di
Appomattox per tentare di trasportare via treno i soldati in Tennessee, dove
era stanziata un’armata al comando del generale Joseph E. Johnston.
L’esercito unionista riuscì a tagliargli la strada e, fallito un primo tentativo
di rompere il fronte nemico, Lee si avvide che non era rimasto nulla da fare
se non arrendersi.
Quel pomeriggio, nella casa di tale Wilmer McLean, il generale Lee,
fattosi ripulire l’uniforme per l’occasione (come un perfetto gentiluomo del
Sud), ricevette l’omologo Ulysses S. Grant che, al contrario, era coperto di
fango e polvere. I termini della resa furono generosi: i confederati non
sarebbero stati fatti prigionieri e non sarebbero andati sotto processo per
tradimento. I soldati smobilitati avrebbero potuto tornare a casa e venne
loro consegnato il cibo necessario per il viaggio. Subito dopo la firma, Grant
ordinò ai suoi soldati di non festeggiare: «I confederati ora sono nostri
compatrioti e non è bene esultare per la loro sconfitta». Quando la notizia
della resa di Lee giunse ai comandanti delle guarnigioni e delle armate
sparse per il Sud, questi decisero di imitarlo, mettendo la parola fine alla
Guerra civile (→).
L’atteggiamento conciliatorio di Appomattox non durò a lungo. Passati
cinque giorni, il 14 aprile, l’attore John Wilkes Booth si recò al teatro Ford
di Washington, dove Lincoln stava assistendo a una rappresentazione, e,
approfittando della temporanea assenza della guardia del corpo, entrò di
soppiatto nel palco privato e lo uccise con un colpo di rivoltella alla testa.
Con il suo gesto, Booth sperava di rinfocolare la resistenza sudista (non
tutte le truppe confederate si erano ancora arrese), ma in realtà l’effetto più
immediato fu quello di portare alla Casa Bianca il vice Andrew Johnson.
Quest’ultimo aveva un passato da senatore democratico, e pur avendo
sostenuto lo sforzo bellico di Lincoln, una volta diventato capo dello Stato
volle dimostrare un atteggiamento morbido, in aperto contrasto con il
partito che aveva sostenuto il suo predecessore. I rappresentanti
repubblicani volevano invece imporre condizioni dure per la riammissione
degli stati secessionisti nell’Unione. L’impasse durò fino alle elezioni del
1866, nelle quali i repubblicani riuscirono a ottenere una maggioranza dei
due terzi dei seggi sia alla Camera che al Senato, il che consentiva loro di
aggirare eventuali veti del presidente. Forte dei numeri, la maggioranza
tentò per la prima volta nella storia del paese la procedura di impeachment
(ovvero di destituzione) del presidente, che non riuscì per un solo voto. La
dimostrazione di forza fu però sufficiente a convincere Johnson a adottare
un atteggiamento più cauto nei confronti del Congresso.
Negli stati del Sud, vennero costituite amministrazioni militari, in attesa
che i cittadini potessero eleggere governi civili. A questo proposito, furono
approvate due importanti misure: da un lato, il Congresso privò del diritto
di voto circa 15mila ex leader civili e militari della Confederazione, e
dall’altro garantì il voto agli ex schiavi (uomini) liberati. Sotto la direzione
di militari, scalawags (sudisti che sostenevano il Nord) e carpetbaggers (→), la
macchina amministrativa venne rimessa in sesto sotto la linea Mason-Dixon
(→), dove si formarono governi favorevoli al potere centrale. I neri per la
prima volta parteciparono alle consultazioni elettorali e alcuni loro
rappresentanti entrarono nei parlamenti statali e anche in quello federale.
I pilastri della cosiddetta Ricostruzione furono i tre emendamenti alla
Costituzione approvati tra il 1865 e il 1870: il Tredicesimo aboliva la
schiavitù sull’intero territorio nazionale, il Quattordicesimo estendeva la
cittadinanza ai neri e stabiliva che ogni stato dovesse fornire uguale
protezione legale a tutti i cittadini, mentre il Quindicesimo proibiva agli
stati di negare il diritto di voto in base a razza e religione.
L’élite bianca del Sud, per nulla rassegnata a giocare un ruolo marginale
nel periodo postbellico, decise di contrastare l’autorità del Nord, usando le
armi della propaganda per dimostrare l’inettitudine dei neri alla vita
politica e ricorrendo alle maniere forti con le intimidazioni del Ku Klux Klan
(→Kkk). In concomitanza con le consultazioni elettorali, i cavalieri
incappucciati minacciavano gli elettori, bianchi e neri, e riuscirono a
influenzare l’esito del voto. Le assemblee statali trovarono cavilli per
aggirare il Quattordicesimo e il Quindicesimo emendamento: il primo
infatti, se garantiva la protezione di ogni individuo dalla discriminazione,
non poteva impedire atti di violenza da parte dei privati; per quanto
riguarda il secondo, furono escogitate varie limitazioni al diritto di voto, per
esempio concedendolo solo ai cittadini i cui nonni avevano preso parte a
consultazioni elettorali (misura nota come «clausola del nonno») e di fatto
tagliando fuori gli afroamericani.
Nel 1876, le elezioni presidenziali che vedevano di fronte il repubblicano
Rutherford Hayes e il democratico Samuel Tilden furono contraddistinte da
frodi e strani maneggi, minacce e violenze. I risultati vennero contestati e
dopo vari negoziati i due partiti giunsero a un accordo: noto come
Compromesso del 1877, questo assegnò la vittoria al candidato repubblicano
e in cambio i democratici ottennero la rimozione delle truppe dell’esercito
dal Sud. L’oligarchia bianca aveva di nuovo in mano la gestione politica
locale e avrebbe provveduto a escludere i neri con la segregazione e il Jim
Crow System (→).

BIBLIOGRAFIA
Oliviero Bergamini, Storia degli Stati Uniti, Laterza, Roma-Bari 2002.
Eric Foner, Reconstruction. America’s Unfinished Revolution, HarperCollins,
New York 1989.
S.M.Z.

Aquile solitarie
«The sky is the limit» – il limite è il cielo, una delle espressioni che meglio
rende l’ottimismo e la fiducia nei propri mezzi tipica degli americani; una
frase entrata nel linguaggio comune nello stesso periodo in cui i fratelli
Orville e Wilbur Wright riuscirono a compiere il primo volo umano su un
mezzo meccanico più pesante dell’aria. L’impresa fu realizzata il 17
dicembre 1903 da una collina nei pressi di Kitty Hawk, piccola città del
North Carolina. Da allora la conquista dei cieli divenne una nuova frontiera
(→) del progresso, e agli aviatori si guardò come a nuovi pionieri, a cui
tributare tutti gli onori. Tra le «aquile solitarie» che si distinsero in imprese
ardimentose Charles Lindbergh, il trasvolatore atlantico, fu oggetto di un
vero e proprio culto.
Lindbergh era nato a Detroit il 4 febbraio 1902, figlio di un parlamentare
repubblicano di origine svedese, e dopo un percorso scolastico alquanto
travagliato aveva scoperto la passione per gli aerei, che continuò a coltivare
diventando pilota postale e partecipando a rodei dell’aria. Era comunque un
illustre sconosciuto quando annunciò di volere dare la caccia all’Orteig
Prize, il premio di 25mila dollari destinato al primo aviatore che fosse stato
in grado di volare senza sosta da New York a Parigi (o viceversa) in solitaria.
Due settimane prima del suo tentativo, i piloti francesi Charles Nungesser e
François Coli avevano fallito e perso la vita. A bordo dello Spirit of St. Louis,
Lindbergh partì il mattino del 20 maggio da Roosevelt Field, vicino New
York, e dopo trentatré ore e mezzo di volo comparve accanto alla torre
Eiffel, attorno alla quale fece un paio di giri, per dirigersi infine verso
l’aeroporto di Le Bourget, accolto da una folla di 100mila persone.
Lindbergh, il nuovo eroe dei cieli, da quel momento divenne per tutti
«l’aquila solitaria».
Il presidente Calvin Coolidge, noto per essere freddo e distaccato, si fece
trasportare dall’entusiasmo e organizzò un viaggio di ritorno trionfale,
ospitando Lindbergh a bordo di un incrociatore della marina, scortato da
uno squadrone di aerei nell’ultimo tratto prima dell’arrivo negli Stati Uniti.
Seguì il ricevimento alla Casa Bianca, salutato da manifestazioni di giubilo
per le strade. L’accoglienza si ripeté nelle principali città del paese.
Gli anni venti avevano visto nascere il culto delle celebrità, espressione
di un perdurante interesse per l’impresa individuale in una società ormai
divisa in classi, dove le possibilità di affermazione del singolo erano
limitate. La storia di Lindbergh venne allora fagocitata dai mass media,
sempre a caccia di storie di uomini e donne che avevano lottato per
ottenere un riconoscimento dal mondo. La celebrity culture pescò a piene
mani nel cinema, che negli anni venti diventò il passatempo principale della
masse durante il tempo libero, e nello sport. Mary Pickford, la prima attrice
a guadagnare il titolo di «star» del grande schermo, il battitore Babe Ruth
(→ Baseball), il pugile Jack Dempsey (→ K.O.) divennero i nuovi eroi
popolari, e le cronache delle loro imprese, professionali e non, riempivano
le pagine dei quotidiani e delle riviste.
Non sempre il pubblico riusciva a identificarsi con le molte celebrità che
conducevano una vita turbolenta tra bagordi, droghe, sesso e alcolismo – o
peggio, come era capitato all’attore comico Fatty Arbuckle, macchiata da
accuse di omicidio (→ Codice Hays). Lindbergh rappresentò una piacevole
novità – il che spiega come mai il suo mito sarebbe durato nel tempo.
Indagando sul passato del trasvolatore solitario, infatti, i giornali scoprirono
che Lindbergh non fumava, non beveva e andava a letto presto. Il suo
atteggiamento timido e impacciato di fronte ai microfoni lo faceva apparire
come un «ragazzone del popolo», un rappresentante di un’America
profonda che in quegli anni era stata marginalizzata dalla cultura urbana e
consumista. Si dice che la prima ragazza a cui abbia chiesto di uscire sia
stata la futura moglie, Ann Morrow, figlia di un importante azionista della
J.P. Morgan. Come scrisse Mary Mullet sulla rivista American, «Lindbergh ci
ha mostrato che non siamo del tutto corrotti, ma che siamo giusti, dolci e
buoni». Quale consacrazione, la rivista Time lo scelse come uomo dell’anno.
Scoppiò la Lindy-mania: il 23 maggio 1927 (solo due giorni dopo
l’impresa!) Vernon Dalhart incise la canzone «Lindbergh, the Eagle of the
Usa» («Lindbergh! His name will live in history / Over the water, he flew all
alone»), battendo sul tempo Nat Shilkret, il quale registrò la canzone
«Lucky Lindy» con la sua band, i Victorious, quattro giorni dopo («Lucky
Lindy! Flies all alone / In a little plane all his own /Lucky Lindy shows them
the way /And he’s the hero of the day»). Nelle sale da ballo iniziò a
furoreggiare il lindy-hop (di cui Malcolm X era un interprete sopraffino,
stando a quanto rivela nella sua autobiografia). Bertolt Brecht intitolò Der
Lindberghflug (= il volo di Lindbergh) un musical del 1929 (per una versione
cinematografica, bisognerà aspettare il 1957, quando Billy Wilder realizzò
L’aquila solitaria).
La storia non era finita, e Lindbergh sarebbe stato ancora al centro delle
cronache. Il primo marzo del 1932, nella tenuta di famiglia a Hopewell, nel
New Jersey, venne rapito il suo primogenito, Charles Junior, che allora
aveva circa venti mesi. Le ricerche non portarono a nessun risultato, finché,
dopo poco più di un mese, il corpo venne trovato non lontano dalla casa. Il
bambino era morto accidentalmente dopo essere stato tolto dalla culla. Nel
frattempo, era stato pagato un riscatto con dei buoni del tesoro
rintracciabili, e ciò permise due anni dopo di risalire a Bruno Hauptmann,
un carpentiere tedesco che viveva nel Bronx. Il processo si concluse nel
febbraio 1935 con la condanna a morte di Hauptmann (l’episodio ispirò
l’antefatto di uno dei più famosi romanzi di Agatha Christie, Omicidio
sull’Orient Express, del 1934).
Dopo la sentenza, i Lindbergh lasciarono gli Stati Uniti per fuggire dalla
pressione mediatica e si trasferirono in un cottage della campagna inglese,
nel Kent. A questo periodo risale l’avvicinamento dell’aviatore al regime
nazista. Su incarico del governo statunitense, Lindbergh visitò la Germania
per raccogliere informazioni sulla Luftwaffe, partecipò come ospite alle
Olimpiadi di Berlino del 1936, e nell’ottobre del 1938 ricevette da Hermann
Göring in persona la Croce di Servizio dell’Ordine dell’Aquila Tedesca. Dopo
la «notte dei cristalli» – il pogrom compiuto dalle SS tra il 9 e il 10 novembre
1938 ai danni degli ebrei residenti nel Terzo Reich –, Lindbergh rifiutò,
nonostante le pressioni, di restituire le onorificenze, giustificandosi
sostenendo che il gesto avrebbe rappresentato «un’inutile offesa» al regime
hitleriano. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, l’aviatore si
impegnò a favore della neutralità e aderì al movimento America First, nato
per contrastare la linea interventista. In occasione di una manifestazione di
questo gruppo, tenuta a Des Moines (Iowa) l’11 settembre del 1941,
Lindbergh dichiarò, tra il tripudio e gli applausi del pubblico, che alla «razza
ebraica» era da imputare la propaganda a favore della guerra. È proprio a
causa di queste prese di posizione che il narratore de Il complotto contro
l’America (2004), romanzo in cui Philip Roth forza la mano alla storia (con
l’aviatore che diventa presidente), dichiara senza mezzi termini che
«Lindbergh fu il primo celebre americano vivente che imparai a odiare».
Più tragico il destino toccato in sorte a un’altra «aquila solitaria», Amelia
Earhart. «Lady Lindy», com’era soprannominata, scomparve nelle acque del
Pacifico durante un tentativo di giro del mondo in aeroplano, nel giugno
1937, senza lasciare tracce. Anche lei originaria del Midwest (Kansas), la
Earhart divenne celebre come prima donna a compiere la trasvolata
dell’Atlantico, prima come copilota (giugno 1928) e poi in solitaria (maggio
1932). Per pagarsi le lezioni di volo, la Earhart si ingegnò con vari mestieri,
tra cui la camionista – diventando un simbolo per le donne che cercavano
una realizzazione personale al di fuori degli schemi imposti dalla società.
L’aviatrice sfruttò la celebrità diventando testimonial pubblicitaria per
abbigliamento sportivo e lavorando per varie riviste, tra cui Cosmopolitan.
Dopo la scomparsa, iniziarono a circolare le più fantasiose leggende. Nel
film Aquile sul Pacifico (1943), si avanza l’ipotesi che la Earhart fosse in
missione speciale su incarico del governo. Secondo un’altra versione,
l’aviatrice sarebbe stata catturata dai giapponesi dopo un atterraggio di
fortuna nell’isola di Saipan, per poi venire giustiziata. C’è stato persino chi
ha asserito che la Earheart fosse stata una delle «Tokio Rose», le donne che
registravano messaggi di propaganda in inglese diretti a fiaccare il morale
delle truppe americane durante la guerra nel Pacifico. Verrebbe da dire,
prendendo spunto da «Amelia» (1976), la canzone dedicatale da Joni
Mitchell, che è stato tutto un «false alarm».

BIBLIOGRAFIA
John D. Anderson, Inventing Flight. The Wright Brothers and Their Predecessors,
Johns Hopkins University Press, Baltimore 2004.
Brenda Haugen, Amelia Earhart: Legendary Aviator, Compass Point Books,
Minneapolis 2007.
A. Scott Berg, Lindbergh, l’aquila solitaria, Mondadori, Milano 1999.
S.M.Z.

Architetture
Dalla capanna di tronchi al grattacielo: lunga la strada dell’architettura
statunitense, e impossibile da contenere in una semplice voce. Ma qualche
disegno, qualche design, può essere abbozzato. Innanzitutto, come al solito,
c’è il rischio di dimenticare «ciò che stava prima» della capanna di tronchi
(e, dunque, del grattacielo).
Prima, ci stavano per esempio le longhouses, le «lunghe case» tipiche
delle tribù algonchine, e in particolare irochesi, dell’Est e Nordest – una
struttura in rami ricurvi coperta di corteccia, che ospitava le famiglie
allargate delle tribù, come ci viene descritto in un testo-chiave
dell’antropologia moderna, l’Ancient Society (1877) di Lewis H. Morgan:
«Costruivano lunghe abitazioni collegate insieme, ampie abbastanza per
ospitare cinque, dieci, venti nuclei familiari, e in ciascuna di esse si
praticava un comunismo del vivere quotidiano».
E ci stavano i teepee, parola di origine lakota sioux che significava più o
meno «loro ci abitano» e indicava la particolare tenda conica degli indiani
nomadi delle Grandi pianure (→): una dozzina di pali disposti in cerchio e
convergenti in alto, una copertura esterna di pelli o corteccia di betulla,
spesso dipinta con scene di caccia o di vita della tribù, una interna di pelli o
tessuto, una pelle mobile per l’ingresso. I pali, insieme a funi e picchetti,
fissavano il teepee al terreno e lasciavano un’apertura in alto per la
fuoriuscita del fumo proveniente dal focolare interno, facilitata anche
dall’apertura dell’ingresso, che creava una corrente d’aria regolabile. Il
teepee si montava e smontava con facilità e i pali e le coperture servivano a
creare il travois, rudimentale ma pratico mezzo di trasporto trainato da cani
o cavalli. La versione degli indiani d’America del Sudovest (ma non solo) era
nota come wigwam o wichiup (= «la loro casa») ed era costituita da una
struttura semiconica, circolare o ovale, di rami flessibili infissi nel terreno e
ricoperti da frasche e pelli per assicurarne l’impermeabilizzazione: pur
essendo facile da montare e smontare, il wigwam era caratteristico di tribù
più sedentarie di quelle delle Grandi pianure. Sempre nelle regioni del
Sudovest, lo hogan, simile al wigwam, ma ricoperto di fango e di mattoni
cotti al sole, con forme anche allungate e con l’apertura rivolta a est,
costituiva la tipica abitazione dei navajo, non senza forti implicazioni
religiose.
Gli insediamenti più grandi e stabili, vere e proprie cittadine come quella
di Cahokia (appena fuori l’odierna St. Louis che, fra il 1050 e il 1350, arrivò a
contare qualcosa come 15-20mila abitanti – più della Londra dell’epoca!) o
come il Grand Village dei natchez (vicino all’odierna Natchez), erano
circondati da palizzate esterne circolari e costituiti da un certo numero di
costruzioni in tronchi e arbusti, coperte di fango e pelli, in fogge diverse e
con diverse soluzioni architettoniche, destinate alle varie famiglie allargate
e ai personaggi più influenti (capi, sciamani) della tribù.
Infine, in questa rapida carrellata su un «prima» architettonico, ci
stavano gli adobe, termine di origine araba (= «mattone») che giunse nel
continente nordamericano all’epoca della conquista spagnola. Si trattava di
costruzioni, in origine di fango mescolato a paglia, foglie, rami, arbusti e
sterco e poi di veri e propri mattoni, a creare muri esterni e pareti di case a
un solo piano, dalle caratteristiche forme arrotondate, tipiche delle tribù
del sudovest – e in particolare dei pueblos (→), abili nello sfruttare
conformazioni geologiche come le grandi caverne nei canyon, creando
complessi villaggi a più piani, con scale di pietra e di legno e un reticolo di
comunicazioni interne (celebri sono le costruzioni che si possono visitare
nel Frijoles Canyon, nel New Mexico). La cittadina di Ácoma, nel New
Mexico, costruita in cima a una mesa, alta collina di arenaria dalla piatta
sommità, ospitava oltre duecento persone all’epoca in cui gli spagnoli
guidati da Francisco Vázquez de Coronado, alla ricerca delle mitiche Sette
Città di Cíbola, entrarono in contatto con gli indigeni, intorno alla metà del
Cinquecento – un tragico contatto: la cittadina fu distrutta a fine secolo, con
quasi mille morti fra i pueblos giunti da ogni parte per difenderla dagli
spagnoli.
Questo per ciò che riguarda il «prima». Poi…
Poi, ci furono le smalltowns (→ Piccole città) puritane del New England e
quelle della Frontiera (→) in movimento, con le loro planimetrie e
strutture, insediamenti spesso approssimativi, elementari, provvisori. Ma,
anche così, dotati di stili specifici, di un particolare design. Tralasciamo le
piccole città del West, che a volte diventavano «cittadine fantasma» (→) o
«cittadine museo» (→), e concentriamoci sugli insediamenti più stabili – e
proviamo a fare un breve elenco degli stili più diffusi e significativi,
indipendentemente dalle varianti regionali. Abbiamo dunque, grosso modo
fra il 1670 e il 1820, lo «stile coloniale»: case a un piano, alto tetto spiovente
con grigie scandole in pietra, alto camino anch’esso in pietra, pareti di assi
in legno, pianta più o meno quadrata, con enorme focolare al centro e
intorno le stanze e la cucina, una latrina all’esterno, a volte un ulteriore
edificio appoggiato al fianco che poteva fungere da dispensa o da locale per
attrezzature varie (in certi casi, due case simili erano collegate da una
struttura coperta più bassa, adatta a vari usi). Più o meno contemporaneo
(1735-1790), c’è poi lo «stile georgiano», più ricco e signorile, destinato alle
classi più abbienti delle prime vere città: bei mattoni color rosa o salmone,
finestre con riquadri bianchi, ingresso con capitello e frontone sovrastante
il primo piano, pianta rettangolare, forse con due camini ai lati e una
grande hall che occupa in profondità tutta la sezione centrale. Lo segue
(1790-1820) lo «stile federale», anch’esso cittadino e raffinato, proprio dei
mercanti, dei banchieri e degli imprenditori dell’Est e dei proprietari
terrieri del Sud e del Sudest: ingressi con colonne, verande a volte su due
piani, spesso una maggiore elevazione, spirali di scale, e la prima comparsa
della brownstone, l’arenaria rossa che diventerà segno distintivo della
«vecchia New York» – la New York di Henry James o di Edith Wharton.
Quindi (1820-1860), è la volta dello «stile Greek Revival», anch’esso segno,
un po’ arrogante e pacchiano, di potenza e ricchezza: le colonne ioniche e
corinzie (di legno, dipinte di bianco) si moltiplicano e compaiono le prime
decorazioni e strutture in cast-iron (ghisa – altra caratteristica della
«vecchia New York», soprattutto nella zona downtown →): portici solenni e
imponenti, capitelli e scanalature, alti finestroni, piante rettangolari e
complesse, con due camini alle estremità più corte, due o tre piani, di cui il
primo spesso sopraelevato da terra grazie a una serie di gradini (stoops),
tetti per lo più piatti. Fra il 1840 e il 1860, ecco poi lo «stile vittoriano»: una
sorta di romanticismo di riporto, che lascia perdere le colonne greche e
s’immerge nell’architettura del Vecchio mondo (inglese in primis), con forti
influenze goticheggianti, oltre che (sic!) veneto-toscane – non a caso, siamo
negli anni del Grand Tour europeo, celebrato da scrittori come Washington
Irving, Nathaniel Hawthorne, James Fenimore Cooper, Ralph Waldo
Emerson: castelli, torri, un proliferare di camini e abbaini (fino a sette e
anche più), molto legno ma anche molta pietra, tetti spioventi e a volte
appena concavi, con rifiniture da chalet svizzero o austriaco, portici, piante
ariose con biblioteche e saloni, bovindi…
Nei decenni post-Guerra civile, lo «stile vittoriano» si moltiplica poi in
una fungaia di sottostili, difficili da seguire e caratterizzare: Italianate,
Second Empire, Victorian Gothic, Stick Style, Queen Anne, Chateauesque,
Richardsonian Romanesque, Shingle Style, Classical and Colonial Styles, Vernacular
Victorian… un tripudio di conci, di frontoni, di cimase, di torri e torrette, di
pietre e ornamenti d’angolo, di tetti spioventi e a guglia, con piante sempre
più articolate e complesse.
E mentre nell’Ovest e Sudovest dominano stili derivanti sia dal
retroterra Native American (sì, l’adobe), sia da quello spagnolo e
spagnoleggiante, specie nelle costruzioni religiose e civili, lungo la valle del
Mississippi, d’influenza predominante francese almeno fino al 1803, quando
l’intera valle passò dalle mani francesi a quelle americane, si assiste a
interessanti ibridazioni, fra le elementari e pratiche costruzioni di stile
francese (un portico-veranda che corre tutt’intorno alla casa, il corpo
dell’edificio sollevato rispetto al terreno, l’uso alternato e armonico di
legno e pietra, la staccionata che delimita il perimetro della proprietà) e il
kitsch tronfio delle architetture dei piantatori (il bianco accecante, le
colonne sempre più alte, i portici e i frontoni imponenti – e non lontano, in
spietato contrasto, le baracche in legno e terra battuta degli slave quarters).
Fino ad arrivare agli impressionanti «templi greci», alle fantasmagorie di
stili (e colori) diversi, all’eclettismo assoluto e ridondante delle ville dei
piantatori che punteggiano solenni e sprezzanti le rive del fiume Mississippi
fra Natchez (Mississippi) e New Orleans (Louisiana).
E New Orleans (→ Congo Square) è ancora un’altra storia, spagnola e
francese prima ancora che americana: il Vieux Carré o French Quarter (il
nucleo originario della città) la riassume e sintetizza, con l’ampio uso della
ghisa e del ferro e degli ornamenti floreali, autentici pizzi, merletti e arazzi
liberty e art déco nelle balconate e nelle verande, i cortili e i patio interni, le
costruzioni basse (al massimo tre piani), le stalle e i ricoveri per le carrozze,
gli «ambienti per gli scapoli» e le «amanti creole», i lunghi e ombrosi
porticati intorno a Jackson Square, il French Market, come antiche Halles
parigine in miniatura, e le povere shotgun houses (case lunghe e strette, di un
solo piano, formate da una sequenza di stanze, tale che un colpo di fucile
poteva attraversarle dalla strada al retro). Come è un’altra storia, nelle
paludi a ovest di New Orleans, nel cuore dei bayou (→), l’architettura
«semiacquatica» dei cajun (→), fatta di capanni, moli e casette su palafitte…
Siamo ormai all’alba del Novecento, quando – fra Prairie School,
Bungalow, Period Revivals – non mancano altre evoluzioni (o involuzioni):
senza dimenticare la «scuola di Chicago» e i suoi primi affascinanti
grattacieli (→), o l’architettura organica di un Frank Lloyd Wright o di
Richard Josef Neutra. Ma qui ci si può fermare. Senza però dimenticar di
ricordare un’«architettura» molto americana: la cosiddetta roadside
architecture, trionfo del kitsch, delirio barocco-novecentesco di edifici
costruiti lungo le highways per accompagnare il viaggiatore o la viaggiatrice
ovunque vadano – non solo insegne colorate, di tutte le fogge immaginabili,
a volte arrugginite sotto il sole e la pioggia, a volte lampeggianti nella notte,
ma soprattutto motel, diners, ristoranti, distributori di benzina, negozi,
drive-in di ogni genere, stazioni di corriera, rivendite d’auto, a forma di
sandwich o di hamburger o di cono di gelato o di ciambella, di dinosauro o
di alligatore, di coniglio o di elefante, di Paul Bunyan o di Johnny Kaw o di
altri mitici personaggi della contea (o dello stato o del West in genere), di
scarpa o di stivale, di castello medievale o di igloo eschimese, di registro di
cassa o di macchina da scrivere, di teschio di bisonte o di longhorn, di
cappello o di latta di vernice – oppure, sì, di capanne di tronchi, di teepee o
di adobe…
Invece, qualcosa va detto di certi elementi architettonici urbani.
Prendiamo per esempio New York: già fin dagli anni trenta dell’Ottocento,
compaiono nelle zone intorno al porto sull’East River e nel Lower East Side
(→) grandi casamenti che verranno chiamati tenements, fianco a fianco con
l’architettura raffinata di molte precedenti case d’abitazione (il quartiere è
in una fase di transizione: già abitato da ricche famiglie, la vicinanza al
porto lo sta trasformando sempre più in quartiere d’immigrazione – e il
processo diventerà travolgente nella seconda metà del secolo). Questi
casamenti sono alti per lo più tre o quattro piani e sono composti da
appartamenti che presto vengono chiamati railroad flats: le stanze sono
disposte una in fila all’altra, dal fronte sulla strada al fronte sul cortile
interno, come in una sequenza di vagoni – e ciò vuol dire che solo quelle
che danno sulla strada o sul cortile interno ricevono luce e aria. Saranno
questi tenements e questi railroad flats ad accogliere le ondate successive di
immigranti: la prima intorno alla metà del XIX secolo, la seconda fra gli anni
ottanta dell’Ottocento e gli anni venti del Novecento. La struttura stessa
della città, il piano regolatore (grid) che nel 1811 aveva suddiviso Manhattan
in tanti lotti rettangolari eguali fra loro, la rendita fondiaria e la
speculazione edilizia fecero poi sì che ogni spazio libero (per esempio, i
cortili) venisse occupato da alti edifici. La congestione fu presto
impressionante: una ricerca del 1865 fissava in mezzo milione le persone
che a New York abitavano in tenements malsani, mentre la densità di un
quartiere come il Lower East Side ai primi del Novecento superava quella
della contemporanea Bombay! Una legge promulgata nel 1879 cercò di
mettere ordine in questa giungla abitativa, prescrivendo per esempio una
finestra per ogni stanza e dunque la creazione di pozzi d’aerazione fra un
edificio e l’altro – cosa che diede origine all’originale conformazione dei
tenements post-1879, detti per questo dumb-bell tenements, «casamenti a
manubrio» –, con facciate in arenaria decorate da bassorilievi e a volte da
statue ai due lati dell’ingresso e cornicioni con fitte volute. Una legge
successiva (1901) condusse a tipi ancora diversi di tenements: edifici
massicci, di cinque o sei piani, spesso agli angoli degli isolati e spesso
decorati in stile Beaux Arts, con facciate mosse, rientranze e aggetti, e
decorazioni in terracotta. In entrambi i casi, gli appartamenti erano
comunque piccoli e soffocanti, e in essi si pigiavano famiglie numerose o
addirittura più famiglie, per far fronte ad affitti esorbitanti – come
possiamo leggere nelle molte autobiografie di immigrati o nei racconti e
romanzi di Abraham Cahan, Anzia Yezierska, Mike Gold, Henry Roth o
Pietro Di Donato; e come possiamo vedere (e quasi percepire fisicamente)
visitando il Tenement Museum di New York, accurata ricostruzione in loco
di uno di questi casermoni.
Alcuni elementi architettonici spiccano poi, in questa sequenza
ininterrotta di edifici adattati o costruiti per ospitare le ondate successive di
immigranti – elementi architettonici che entrarono in un’interessante
dinamica socioculturale con la popolazione poverissima dei ghetti e dei
quartieri immigrati. Il modello costruttivo della Vecchia New York (ma non
solo), ereditato dall’epoca in cui la città venne edificata da architetti
olandesi abituati a dover fare i conti con terre basse e acque alte, prevedeva
per esempio una ripida gradinata d’accesso – gli stoops (dall’olandese stoep).
E chiunque conosca Downtown New York o le strade di brownstones
sopravvissute alla speculazione edilizia sa che si parla di un aspetto tipico di
una certa New York. Nei quartieri proletari e immigrati, questi stoops
svolgevano una funzione fondamentale, come si può vedere in un celebre
dipinto del 1913 di George Bellows, Cliff Dwellers (→ Bidoni della spazzatura):
erano luoghi pubblici, che in qualche modo surrogavano l’assenza della
piazza tradizionale del paese d’origine nel caos della modernità americana,
nel reticolo di una metropoli che escludeva momenti e spazi d’incontro fra
gli individui e di rallentamento dei ritmi – erano piccoli palcoscenici in cui
reinventare una vita comunitaria, su cui riversarsi fuori dalla congestione
degli appartamenti, in cui darsi appuntamento, commentare e spettegolare,
far circolare informazioni, rilassarsi dopo una giornata di lavoro, incontrare
amici (il regista afroamericano Spike Lee, in Fa’ la cosa giusta, del 1989, ci
mostra come quest’uso continui a essere centrale nella vita del ghetto). Al
di sopra di essi, quasi sempre s’arrampicava sulla facciata dell’edificio la
trama metallica delle fire escapes, le scale antincendio – altro elemento
architettonico di fondamentale importanza nei quartieri degli immigrati.
Nate dall’ossessione molto americana per l’incendio in città (ed esempi non
erano certo mancati: uno fra tutti, quello che nel 1871 semidistrusse una
giovane Chicago), esse diventarono una caratteristica di questi quartieri: ma
non tanto per la loro funzione originaria, quanto per l’uso che di esse venne
fatto via via – autentiche estensioni dell’appartamento, sue proiezioni
verso un esterno di maggiore aria e luce, altri piccoli palcoscenici fianco a
fianco dei vicini, mezzo di collegamento oltre che di fuga (quanti film gialli
ce l’hanno insegnato), balconi dove disporre un cuscino nelle torride notti
d’estate, da cui corteggiare o essere corteggiati (in quella versione
americana di Romeo e Giulietta che è l’opera e film West Side Story, di Leonard
Bernstein e di Robert Wise, è su una scala antincendio che si sviluppa la
scena d’amore fra Maria e Tony). E, poiché le scale antincendio collegavano
la strada al tetto, ecco che anche quest’ultimo assumeva una funzione
specifica: quei tetti piatti metropolitani, cui si accedeva dalle scale interne o
da quelle esterne, circondati da parapetti ma in comunicazione con gli
edifici vicini, erano altri luoghi comunitari – dove andare a dormire se l’afa
opprimeva ancor più le stanze-vagone, dove cercare un momento d’intimità
(sentimentale o erotica, o anche solo solitaria) lontano dal
sovraffollamento, dove allevare colombi (come fa Terry Malloy-Marlon
Brando nel film di Elia Kazan Fronte del porto, del 1954).
Non a caso, Robert De Niro, in veste di regista e attore, sceglierà proprio
gli stoops, le scale antincendio e il tetto per aprire in maniera significativa
quel suo piccolo gioiello cinematografico, Bronx, del 1993 – che è anche una
riflessione sul luogo in cui si vive, sulle architetture che entrano nelle
nostre vite, sul design che almeno in parte le modella.
P.S.: A proposito di architetture e quartieri degli immigrati, non si può
non accennare almeno alle casitas, quelle piccole costruzioni in legno o
compensato che sono comparse, a partire grosso modo dagli anni ottanta
del Novecento, nei lotti abbandonati fra un tenement e l’altro, specie dei
quartieri a immigrazione caraibica (→ Nuyorican): luoghi d’incontro di
anziani o disoccupati (o senza tetto), costruite con materiali di riporto o di
scarto spesso trovati per strada – altre estensioni di appartamenti spesso
invivibili, che hanno a che fare tanto con la cultura di strada delle grandi
metropoli quanto con dinamiche culturali (la campagna nella città: non è
raro trovarvi qualche gallo e qualche gallina) e generazionali (quale il posto,
anche fisico, degli anziani nella metropoli?), oltre che sociali. Né si può
dimenticare il continuo fiorire di agglomerati abitativi di senza tetto, che
costruiscono, nei parchi o nei tunnel nelle viscere della città, moderne
versioni delle hoovervilles (→ Hoover) degli anni trenta del Novecento.

BIBLIOGRAFIA
Aa.Vv., The Rise of an American Architecture, Praeger Publishers, New York
1970.
Siegfried Augustin, Storia degli Indiani d’America, Odoya, Bologna 2000.
Mario Maffi, Nel mosaico della città. Differenze etniche e nuove culture in un
quartiere di New York, il Saggiatore, Milano 2006.
Carole Rifkind, A Field Guide to American Architecture, New American Library,
New York 1980.
M.M.

Armi
«Parla piano e porta un grosso bastone, andrai lontano»: è uno degli
aforismi più celebri di Theodore Roosevelt (presidente dal 1901 al 1909),
brillante sintesi dei primi due emendamenti alla Costituzione degli Stati
Uniti: il primo protegge la libertà di parola, mentre il secondo garantisce il
diritto di ogni cittadino a portare armi per difesa personale. In pratica, se le
arti retoriche non dovessero risultare sufficienti, si garantisce la possibilità
di ricorrere ad altri «strumenti» di persuasione.
Libertà e armi erano dunque in cima alle preoccupazioni del Congresso
quando, nel 1791, fu approvato il Bill of Rights, con il quale si intendeva
salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini. Il legame stretto tra questi
due aspetti dell’esperienza americana era già emerso nell’era coloniale, e lo
studioso Richard Slotkin, nel libro Regeneration Through Violence (1973),
individua in alcune peculiarità degli insediamenti anglosassoni la radice del
feticismo nei confronti delle armi. Infatti, a differenza di altre esperienze
coloniali, le prime comunità americane non servivano solo da teste di ponte
della madrepatria per lo sfruttamento delle risorse, ma erano sostenute dal
progetto di costruire un mondo che fosse alternativo a essa. Alla base di
quest’esperienza sta dunque un primo movimento di separazione dal luogo
d’origine, fonte di civiltà, e un secondo movimento di conflitto con
l’ambiente ostile circostante (→ Wilderness), per soggiogarlo e modellarlo
secondo il proprio progetto. E, per raggiungere lo scopo e salvaguardare la
propria esistenza, i coloni dovettero difendersi da tutte quelle forze che,
specie sotto forma degli abitanti nativi, costituivano una minaccia, facendo
ricorso anche alla violenza.
L’atto cruento assumerebbe allora una valenza positiva, in quanto
strumentale a favorire l’avanzata della civiltà: già i puritani esortavano la
popolazione a liberare il territorio dagli indiani d’America, agenti del
demonio e ostacolo sulla via dell’inevitabile trionfo del regno cristiano. In
seguito, l’espansione territoriale e lo sparpagliamento degli insediamenti in
zone lontane dai centri di potere creavano le condizioni per cui semplici
cittadini prendessero l’iniziativa di ovviare alle carenze del sistema
giudiziario, attribuendosi il compito di amministrare la legge. Furti di
bestiame, rapine, omicidi, ma anche dispute su terreni o sorgenti, e così via
– tante erano le situazioni per cui era richiesto il pronto intervento di
un’autorità e, mancando questa, si preferiva andare per le spicce: un fucile
o un’arma bianca sottobraccio, ci si presentava di persona per ricomporre i
torti.
La narrativa e la cultura popolare trassero a piene mani dagli spunti
offerti dalla cronaca, a partire dai rapimenti di donne e fanciulli perpetrati
da tribù indiane fino alle contese tra gruppi di gunmen ingaggiati da
allevatori rivali. Nella trasposizione narrativa, tuttavia, i fatti venivano
accomodati per inserire l’atto violento in una cornice mitica: nelle captivity
narratives, storie di donne o religiosi rapiti dai nativi, l’azione cruenta
serviva da preludio al ritorno alla civiltà, evitando la completa assimilazione
del bianco nella tribù dei selvaggi. Il romanzo di James Fenimore Cooper,
L’ultimo dei Mohicani (1826), riprende la stessa struttura e si dipana in una
serie di rapimenti e salvataggi, nel corso dei quali il protagonista Calza di
Cuoio lascia dietro di sé indiani nemici eliminati grazie al fido fucile.
Sul modello di quest’ultimo, s’ispirarono centinaia di dime novels (→
Rags to riches) ambientati lungo la frontiera, con i vari Kit Carson e Buffalo
Bill (→ Olimpo americano) nei panni dell’eroe incaricato, con le sue azioni,
di favorire il progresso della civiltà: come si legge in uno dei programmi del
Wild West Show (→), nel quale venivano ricreate versioni drammatiche di
alcuni episodi della storia americana, «the bullet is the pioneer of
civilization».
È però il romanzo di Owen Wister Il Virginiano (1902) a sublimare lo
«scontro di civiltà» nel duello a colpi di pistola tra il protagonista e
l’avversario Trampas, esponente di una serie di cattivi che minacciano di
riportare il paese nel caos. Il racconto di Wister fissa i punti fermi del
genere western, ripresi poi dal cinema a partire dagli anni venti: l’Ovest è
investito di un’aura mitica, trasformato nel campo di battaglia in cui si
affrontano il bene e il male; e l’eroe diventa il tramite attraverso cui il bene
– la civiltà americana – trionfa sulle forze che cospirano contro di essa. La
forma ritualizzata del gunfight, il duello con la pistola, si configura dunque
come il passaggio necessario per rimuovere gli ostacoli all’avanzare del
progresso.
Da questo punto di vista, il film del 1952 Mezzogiorno di fuoco è un perfetto
«manuale». La vicenda si svolge a Hadleyville, una delle piccole città (→)
dell’Ovest, e si apre con l’addio dello sceriffo Will Kane (Gary Cooper), il
quale, dopo aver mantenuto l’ordine e aiutato il paese a prosperare, è in
procinto di partire con la giovane moglie Amy (Grace Kelly) per ritirarsi a
vita privata. L’atmosfera di festa viene turbata dalla notizia che Frank
Miller, un criminale catturato da Kane alcuni anni prima, è stato liberato
prima del previsto e sta arrivando in città per vendicarsi. In una
drammatica riunione, Kane tenta invano di coinvolgere i concittadini nella
difesa della città dal pericoloso fuorilegge. I civili tentennano e si dichiarano
ostili: vogliono evitare che Hadleyville ritorni a un passato violento che
pensavano di essersi lasciati alle spalle e che potrebbe compromettere la
futura prosperità. E, per evitare ciò, sono disposti a permettere che Miller si
impossessi della cittadina.
Kane ha dalla sua il privilegio morale dell’autentico eroe americano e,
anche se privo di autorità, si oppone alla decisione della maggioranza e si
prepara a difendere la città da solo: sa che l’autentico progresso per
Hadleyville passa attraverso la definitiva eliminazione del male. Così, nella
sequenza finale, Kane affronterà il criminale e i suoi due compari: solo la
moglie Amy interviene ad aiutarlo, eliminando uno degli scagnozzi con un
colpo di pistola alle spalle – gesto doppiamente significativo data
l’avversione della donna nei confronti della violenza, retaggio della sua fede
quacchera: il ricorso alla violenza è una scelta compiuta a malincuore, ma
che obbedisce a un imperativo morale più alto rispetto alla fede religiosa.
La violenza ritualizzata è sopravvissuta al declino del western e
s’incontra in tantissimi altri generi cinematografici, dalle commedie fino
agli horror, ma ha trovato la sua incarnazione moderna nei telefilm che
hanno banalizzato il genere hardboiled (→). Nelle serie Starsky & Hutch,
Miami Vice e Hunter, la metropoli (in questi casi Los Angeles e Miami) viene
trasformata in un villaggio di frontiera e i protagonisti ingaggiano una
battaglia personale per riportare l’ordine. Nel compiere il proprio dovere,
gli agenti hanno spesso a che fare con un superiore troppo rispettoso delle
procedure e poco tollerante nei confronti dei metodi sbrigativi a cui gli eroi
sono costretti per incastrare i colpevoli: in tanti episodi, la sequenza in cui il
poliziotto è costretto dall’autorità a consegnare pistola e distintivo
rappresenta il preludio necessario alla risoluzione del crimine – ancora una
volta, l’eroe è investito di una superiorità morale che lo guida
inevitabilmente in direzione della giustizia.
Nemmeno i cartoni animati sono immuni dalla violenza: una ricerca
condotta nel 2000 dalla Commissione per la prevenzione della violenza
giovanile ha calcolato che, nella media, i diciottenni americani avevano
assistito a 16mila omicidi e 200mila atti di violenza simulati attraverso i
prodotti della cultura di massa. Tra questi, i cartoni animati svolgono un
ruolo cruciale in quanto contengono circa 80 atti di violenza all’ora e nella
media manifestano una quantità di violenza dalle 50 alle 60 volte maggiore
rispetto ai programmi per adulti di prima serata. Vengono alla mente le
«sfide all’ultimo sangue» fra Tom e Jerry o fra Willy Coyote e Beep Beep,
oppure il cartoon Grattachecca e Fichetto, uno dei programmi tv preferiti da
Bart e Lisa, protagonisti della serie tv (→) I Simpson, che intende
estremizzare la tendenza violenta presente nei cartoni animati per farne
una critica: in ogni episodio, la cui durata non supera mai il minuto, il topo
Fichetto si ingegna a trovare sempre nuovi modi per far fuori l’ingenuo
gatto Grattachecca, dalle bombe alle scuri e ai fucili, e una volta compiuto il
massacro, una sigla allegra chiude lo show.
Tutto ciò, va ricordato, s’innesta su un contesto sociale caratterizzato
dall’ampia diffusione delle armi: secondo le statistiche, ci sono tre armi da
fuoco per ogni minorenne americano. L’estrema accessibilità di pistole e
fucili, sostenuta dalla Nra (National Rifle Association) e giustificata con il
diritto di ogni americano a sentirsi protetto e sicuro, è alla base dei
numerosi episodi di violenza che hanno avuto per protagonisti bambini e
adolescenti, autori di omicidi volontari e involontari. Difficile non pensare
che, nella famigerata strage di Columbine (→ Waco, Columbine e dintorni)
del 20 aprile 1999, i due giovani assassini non abbiano visto nell’uso della
violenza un’occasione di rivalsa e, soprattutto, un modo per imporre una
loro «visione» personale a una società percepita come ostile e poco
conforme alle aspettative. Del resto, come documenta il regista Michael
Moore in Bowling for Columbine (2002), episodi come il massacro del 1999
sono anche propiziati dalla facilità con cui il semplice cittadino può
procurarsi pistole e fucili (che in certi casi vengono addirittura dati in
omaggio aprendo un conto in banca). L’attività lobbistica della Nra va nella
direzione di un abbattimento degli ostacoli al possesso di armi e,
all’indomani dell’attacco alle Twin Towers del 2001, ha ottenuto che il
Patriot Act proibisse la registrazione di ogni nuovo acquisto, garantendo
l’anonimato dei moderni gunmen.
Il ruolo delle armi nella diffusione e nella difesa della civiltà è uno dei
pilastri su cui poggia la politica estera degli Stati Uniti fin dal secondo
dopoguerra. In contemporanea con l’elaborazione della dottrina Truman,
ovvero del contenimento dell’influenza russa nel mondo, un comitato di
saggi elaborò un documento, rimasto a lungo segreto, nel quale si
esplicitavano le linee guida della posizione estera americana, a cui si
sarebbero poi rifatte, con varie sfumature e distinguo, anche le
amministrazioni successive. Il documento, noto con la sigla NSC-68, partiva
dal presupposto che i due sistemi, americano e russo, fossero incompatibili
e presto o tardi l’Urss avrebbe cercato di annientare gli Stati Uniti. Per
questo motivo era necessario farsi trovare preparati quando il duello avesse
avuto luogo, incrementando i fondi destinati alla costruzione di armi
nucleari e convenzionali. Oltre a dissuadere il nemico, il riarmo avrebbe
proiettato all’estero un’immagine di forza, in grado di convincere gli alleati
dubbiosi a effettuare una scelta di campo definitiva e allearsi con gli Usa.
Con la presidenza di Ronald Reagan (1981-1989), il budget stanziato per
le spese militari arrivò a superare il 27% di tutte le spese federali. È
significativo che, di pari passo alla distensione internazionale iniziata con la
nomina di Michail Gorbacev a segretario generale del Partito comunista
dell’Unione Sovietica, l’attenzione si spostasse verso il fronte interno, e
verso quelle minacce rappresentate dallo spaccio di stupefacenti e dalla
delinquenza giovanile nei ghetti. Sul finire degli anni ottanta, Los Angeles
diventa il teatro dell’operazione «Hammer», promossa dal capo della
polizia della città, Daryl F. Gates. Squadre di poliziotti in assetto di battaglia
si rovesciano da camionette che circondano i ghetti, spesso sotto l’occhio
delle telecamere: bloccate intere strade con barricate invalicabili, i nuovi
«eroi» prendono parte a raid contro i presunti criminali, in maggioranza
afroamericani e latinos. Conseguenza prevedibile è allora la reazione di
questi ultimi, come dimostrano la violenza e la drammaticità della rivolta
urbana che colpì Los Angeles all’indomani del rilascio degli agenti colpevoli
di aver malmenato l’afroamericano Rodney King (29 aprile-5 maggio 1992) –
una rivolta scatenata da una volontà di rivalsa, come era successo negli
«infiammati» anni sessanta (→ Disordini), e che, a ben vedere, possiede
anche un altro sottotesto, vista la lunga storia di esclusione dal possesso di
armi a cui gli afroamericani sono stati soggetti sin dall’epoca coloniale. Al
Secondo emendamento del Bill of Rights, per esempio, rispose subito
l’Uniform Militia Act (1792), con il quale il Congresso vietava il possesso
delle armi ai neri non schiavi, una strategia portata avanti tramite
numerose misure legislative nel corso del secolo successivo. Non stupisce,
allora, che nella letteratura afroamericana le armi siano circondate da
un’aura di proibito: in due racconti di Richard Wright, contenuti ne I figli
dello zio Tom (1938), l’uso di armi compromette per sempre il destino di chi
vi ricorre, costringendolo ad abbandonare la casa e gli affetti o a compiere il
gesto estremo del suicidio. D’altra parte, all’origine del Black Panther Party
(→ Movement), l’organizzazione fondata a Oakland nel 1966, stava la
volontà di reclamare la cittadinanza anche attraverso il diritto di portare
armi per la propria difesa personale.

BIBLIOGRAFIA
Mario Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo, 1776-2006, Laterza,
Roma-Bari 2008.
Richard Slotkin, Gunfighter Nation. The Myth of the Frontier in Twentieth-century
America, Harper Perennial, New York 1993.
S.M.Z.

Atlantico nero
Si potrebbe iniziare con il ritmo incalzante e minaccioso dei tamburi degli
Ascianti che scandisce l’apparente calma, gravida di tensione, sulla nave
negriera del capitano spagnolo Amasa Delano ormeggiata vicino alle coste
cilene, mentre l’ignaro comandante americano Benito Cereno (che dà il
titolo a uno dei racconti più celebri di Herman Melville, del 1855) si avvicina
all’imbarcazione per offrire aiuto. Oppure si potrebbe partire dalla
vittoriosa rivolta dei prigionieri africani a bordo della nave spagnola
Amistad (→) nel 1839 e conclusasi vicino alle sponde di Long Island, quando
la Corte Suprema degli Stati Uniti decretò il diritto degli africani (non più
riconducibili in schiavitù per legge dal 1808) a rivendicare la libertà, fosse
anche con la forza.
Che si venga conquistati dalla cupa rappresentazione della
«negritudine» da parte di Melville o che si prediligano gli echi dell’impresa
eroica immortalata nel 1997 da Steven Spielberg nel film Amistad (basato
sulla ricostruzione dello scrittore Howard Jones di una decina d’anni
precedente), è innegabile che i mari intorno all’America si siano da sempre
tinti di nero, l’Atlantico in particolare. Per gli africani, esso rappresentò
dalla metà del Cinquecento fino agli inizi dell’Ottocento il preludio alla
schiavitù nelle Americhe. Il 1565 (con l’arrivo dei primi deportati nella
colonia spagnola di St. Augustine) e il 1619 (con l’arrivo degli africani ridotti
in schiavitù a Jamestown, Virginia, il primo insediamento inglese) sono le
date che segnarono l’inizio di un lungo periodo in cui il mare fra i due
continenti divenne lo scenario del Middle Passage, la deportazione di massa
dall’Africa al Nuovo mondo. Dalla cosiddetta Guinea, un termine che
indicava i territori compresi fra gli attuali Senegal e Angola, gli africani
erano rapiti (spesso dagli abitanti autoctoni delle coste), venduti ai
commercianti europei e americani e condotti con la forza nelle isole
caraibiche e nelle piantagioni delle colonie del Sud. La tratta degli schiavi fu
un fenomeno che aumentò progressivamente durante il Seicento, tanto che,
agli inizi del secolo successivo, la popolazione nera aveva raggiunto nelle
colonie americane un terzo del totale. Con un’intensità decrescente durante
il Settecento a causa della già massiccia presenza di schiavi di origine
africana su suolo americano, le deportazioni terminarono ufficialmente nel
1808, anno in cui fu vietata la tratta diretta fra Africa e Stati Uniti (che
proseguirà tuttavia attraverso le triangolazioni con il Sudamerica o i
Caraibi). Se il Nuovo mondo diventò per un milione di schiavi africani il
luogo imposto con la violenza, in cui il distacco dal gruppo di appartenenza
segnava anche la distruzione dei legami sociali e dell’universo familiare,
l’Atlantico costituì la barriera, la distanza invalicabile che impediva il
ritorno ai luoghi di origine, se non con l’immaginazione o, simbolicamente,
con il suicidio. Come avvenne per quello sparuto gruppo di guerrieri Ibo
che, sbarcati sulle isole St. Simon, vicino alla Georgia, volsero le spalle al
Nuovo mondo e si avviarono, con le catene ai piedi, verso dove erano
venuti, immaginando di poter camminare sull’acqua.
Molte vite sprofondarono negli abissi dell’Atlantico e, a ricordarle oggi
c’è, fra gli altri, anche un monumento calato in fondo al mare a circa
quattrocento chilometri a est del porto di New York. Tante altre invece,
sopravvivendo, trasformarono l’Atlantico in luogo d’origine di nuove
identità e culture. È sulle navi negriere, prima e forse ancor più che nelle
piantagioni, che si possono intravedere gli inizi delle contaminazioni
linguistiche, musicali e sociali che diedero origine alla cultura
afroamericana. Fu questa distesa d’acqua il luogo simbolo
dell’interscambio, di identità e culture ibride già prima di approdare sulla
terraferma. Il mare e la nave come emblemi di culture in movimento, che si
intersecano, scontrano e confrontano furono centrali nell’esperienza dei
due scrittori considerati i capostipiti della letteratura afroamericana,
Olaudah Equiano e Phillis Wheatley.
Equiano, come racconta nell’autobiografia The Interesting Life of Olaudah
Equiano; or Gustavus Vassa, the African (1789), trascorse buona parte della
propria vita sull’Atlantico, in viaggio fra Africa, Americhe e Inghilterra:
rapito da bambino in un villaggio del Benin, fu ridotto in schiavitù
inizialmente nelle piantagioni e poi come marinaio, fino a quando riuscì,
dopo inutili appelli alla carità cristiana e con pragmatismo tutto americano,
a comprarsi la libertà con i proventi del suo lavoro… sulle navi negriere.
Originaria del Gambia (o del Ghana? le origini restano incerte) e comprata
da un ricco e progressista mercante bostoniano, Phillis Wheatley non
dovette, come Equiano e molti altri schiavi, combattere per imparare a
leggere e scrivere: al contrario, ricevette fin da subito una raffinata
istruzione umanistica che la orientò verso la composizione poetica.
Nonostante l’influsso dominante della tradizione europea, l’esperienza
atlantica affiora qua e là nelle sue riflessioni. Certo, il viaggio è raccontato
(fatto inusuale) come una vera e propria benedizione: «Fu la grazia che mi
portò via dalla mia terra Pagana / insegnò alla mia anima ottenebrata a
comprendere / che esiste un Dio, e che esiste un Salvatore un tempo io non
cercavo né conoscevo la redenzione », recita per esempio «On Being
Brought from Africa to America» (1773). Ma che l’Atlantico non segni solo il
percorso verso la vera fede, ma costituisca comunque un marchio indelebile
per l’identità dell’autrice, nonostante l’inusuale fortuna (breve, in verità)
incontrata nelle Americhe, lo si comprende dal nome stesso della poetessa –
quel «Phillis» che era in origine il nome della nave che l’aveva condotta nel
Nuovo mondo.
L’Atlantico nero continuò a legare le politiche, le economie e le culture
d’Africa, Europa e Americhe anche dopo la fine della tratta degli schiavi: nei
decenni che precedettero la Guerra civile, vi furono molti viaggi
oltreoceano di leader e intellettuali neri (da Frederick Douglass a William
Wells Brown), mirati a promuovere la causa abolizionista nel Vecchio
mondo. Per quanto riguarda poi i decenni che seguirono la guerra di
Secessione, la cultura e l’esperienza nera attraversarono una fase di
internazionalizzazione senza precedenti, che ebbe nell’Atlantico il suo
centro gravitazionale. A cavallo fra Ottocento e Novecento, molti
intellettuali, scrittori e giornalisti afroamericani solcarono l’oceano diretti
verso le nazioni europee, attratti soprattutto dal fiorire delle avanguardie e
dalle speranze di uguaglianza sociale che la rivoluzione russa del 1917 aveva
contribuito ad alimentare: W.E.B. Du Bois, Ida B. Wells, James Weldon
Johnson, Claude McKay e Countee Cullen, seguiti nei decenni successivi da
Langston Hughes (la cui autobiografia avrà non a caso come titolo Nel mare
della vita, The Big Sea, 1945), James Baldwin e Richard Wright, che si stabilì in
Francia dopo aver visitato la Spagna di Franco, l’Asia, l’America Latina e il
Ghana durante il periodo della rivoluzione.
L’altra, importante meta fu proprio l’Africa, fra progetti politici e
richiami alle «origini» – queste ultime piuttosto confuse, in verità, a causa
della sistematica opera di distruzione di documenti e ricordi compiuta
secoli prima dai trafficanti di schiavi. Dal progetto della Liberia (stato voluto
nel 1822 dalla American Colonization Society per rimpatriare nel continente
tutti gli afroamericani liberi o ex schiavi di origine africana) al ritorno in
Africa come pellegrinaggio della memoria (un fenomeno che negli ultimi
decenni ha assunto risvolti economico-commerciali non trascurabili),
l’Africa esercitò e continua a esercitare un fascino enorme oltreoceano.
Sostenitore del nazionalismo nero fu il teorico di origine giamaicana
Marcus Garvey, fondatore della Universal Negro Improvement Association
and African Communities League, nonché ispiratore di movimenti
successivi quali Nation of Islam e il movimento Rastafari. Garvey rilanciò la
Liberia come patria in cui riunire i figli della diaspora africana, ma il
progetto fu come ovvio fortemente osteggiato dalle potenze europee, che
avevano in quelle zone forti interessi commerciali. Sull’onda del
panafricanismo, molti furono (e sono) coloro che visitarono e trascorsero
lunghi periodi in Africa: dai già citati Douglass, Du Bois e Wright a
Gwendolyn Brooks, Maya Angelou e Colleen McElroy. E Malcolm X, che da
un «viaggio in Africa» trarrà ispirazione per una fase importante della
propria evoluzione ideologica.
Non dobbiamo tuttavia pensare a un Atlantico nero a senso unico, in cui
l’Africa è congelata nel suo periodo precoloniale, depositaria del passato e
di una cultura pura e incontaminata, con l’Europa e gli Stati Uniti a
costituire il cancello d’ingresso verso la modernità. La storia insegna che le
culture sono ibride, fluide, in trasformazione perenne, nonostante le
barriere via via create. Dall’Africa giungono i semi di una tradizione che
germinerà oltreoceano e i cui frutti saranno parte integrante dell’identità
culturale statunitense: molte fiabe americane dell’Ottocento hanno per
esempio come protagonisti animali africani; per non parlare poi della
musica, di quel blues e jazz in cui risuonano ancora gli strumenti nascosti
sulle navi negriere. Ma questi frutti riattraverseranno a loro volta i confini
statunitensi e conquisteranno, come semplici prodotti o nuovi linguaggi,
un’industria culturale ormai globalizzata. Dalla fascinazione per l’esotico
degli anni trenta del Novecento che vedeva come emblema della blackness
Josephine Baker e il suo gonnellino di banane alle Folies Bergère parigine
(→ Banane), attraverso l’adrenalina di Jimi Hendrix e le sue spettacolari
performance, fino al ruolo del rap (→) e dell’hip-hop nell’industria
discografica odierna, la cultura afroamericana ha di certo viaggiato più
volte fra le sponde dell’Atlantico.
Così emergono contaminazioni che non ci si aspetta: quando, in un
discorso a Detroit durante la sua visita negli Stati Uniti, Nelson Mandela
raccontò di aver trovato conforto durante i suoi anni di prigionia nella
musica Motown, non solo trasformò il Detroit Sound in paradigma di libertà
nell’Africa dell’apartheid (con buona pace degli angry black men americani,
critici verso quella «musica commerciale»), ma mandò anche in frantumi
l’immagine, fin troppo abusata, di un Atlantico nero dove solo il viaggio
verso est equivale a una liberazione dalle catene della storia. In un
disequilibrio globale dove sono le onde radio e i byte, invece delle navi, a
trasportare suoni, immagini e culture, l’Atlantico nero si tinge sempre più
di nuovi e insospettabili riflessi.

BIBLIOGRAFIA
Paul Gilroy, The Black Atlantic. L’identità nera fra modernità e doppia coscienza,
Meltemi, Roma 2003.
Annalisa Oboe e Anna Scacchi (eds.), Recharting the Black Atlantic. Modern
Cultures, Local Communities, Global Connections, Routledge, New York 2008.
Alasdair Pettinger, Always Elsewhere. Travels of the Black Atlantic, Cassell,
London 1998.
C. SCHIA.
[B]

B-B-Q
Nella scena iniziale della prima puntata dei Sopranos, una delle serie tv (→)
di maggior interesse e successo degli ultimi anni, il protagonista, Tony, sta
allestendo un barbecue nel giardino di casa – di lì a poco, un attacco di
panico con successivo svenimento metterà in moto dinamiche complesse,
che qui al momento non ci riguardano (→ Ziti, zeppole e capocollo).
Non è detto che ogni barbecue (o B-B-Q, secondo la moda americana delle
iniziali, qui addirittura riferite alle sillabe) debba portare a un attacco di
panico e a uno svenimento. Anzi: quello del barbecue è uno dei rituali
fondativi e identitari dell’universo dei suburbs (→), momento di coesione
familiare e amicale e di riaffermazione del ruolo centrale del capofamiglia
(che, se non procaccia più direttamente il cibo, almeno lo cuoce sulla brace).
D’altra parte, l’etimologia del termine parla abbastanza chiaro: da barabicu
o barbacoa, che nella lingua delle popolazioni dei Caraibi sta a indicare un
«focolare sacro a fossa»; dai Caraibi, attraverso pirati e bucanieri, il termine
sarebbe poi entrato nel vocabolario inglese (cfr. il dizionario di Samuel
Johnson del 1756).
A metà del Cinquecento, gli spagnoli introdussero il maiale nel
continente americano, quando dalle isole del Golfo del Messico si
spostarono in Florida e poi seguirono la costa fino agli attuali Alabama,
Mississippi, Louisiana, penetrando all’interno, fino al South Carolina. Alla
loro testa, il famigerato Hernando De Soto con i suoi terribili (per le
popolazioni incontrate) armati a piedi e a cavallo, le vettovaglie – e un folto
branco di porci, che si riprodussero in abbondanza nelle boscaglie e nel
sottobosco di quelle regioni (non a caso, oggi, la De Soto Original Pork
Barbecue è una delle marche preferite di carne per B-B-Q nella cucina del
Sud). Insieme ai porci, giunse il metodo per affumicarne la carne, tratto con
ogni probabilità dalle abitudini culinarie delle popolazioni caraibiche con
cui gli spagnoli erano stati a lungo in (tempestoso) contatto.
Si sa: del maiale si usa tutto, tranne il grugnito, come avrebbe scritto
Upton Sinclair in un suo romanzo celebre sui macelli di Chicago (La giungla,
1906). E così, il rituale che precede quello della preparazione del barbecue
(l’uccisione del maiale, la sua dissezione, l’affumicamento delle varie parti),
ben noto a tutte le comunità contadine, sarebbe diventato occasione di festa
collettiva, specie nel Sud (e ancor più presso comunità immigrate
dall’Europa, come i cajun →): cibo povero, ma nutriente e completo,
intorno a cui creare un momento solidale di svago e celebrazione.
Va da sé che, da allora, il maiale… pardon, il barbecue, ne ha fatta, di
strada: arrivando ovunque negli Stati Uniti, e adattandosi a stili e abitudini
culinarie locali, sia quanto a modalità di affumicamento sia quanto a
metodo di preparazione della carne sulla brace – e non è rimasto confinato
al maiale, anche se il vero B-B-Q non può che grugnire. Il «Lexington Style»,
in North Carolina, per esempio, prevede carbonella di legno di hickory, una
salsa a base d’aceto con ketchup e pepe e la sola carne di spalla, con un
contorno di cavolo crudo tritato, ma senza maionese. Il «Kansas-City-Style»
(→ Union Station), nel Missouri, prevede invece carbonella di legni diversi
e una densa salsa a base di pomodoro e melassa a ricoprire la carne (che può
essere anche di manzo, pollo, tacchino, e perfino pesce!), con contorno di
fagioli al forno con salsa o patate fritte o cavolo tritato. Altri stili sono poi il
«St. Louis», il «Texas», il «Memphis», il «California», e così via – tutti con
declinazioni particolari e diverse. E tutti una festa per il palato: forse un po’
meno per le coronarie.

BIBLIOGRAFIA
Smoky Hale, The Great American Barbecue and Grilling Manual, Abacus
Publishing, New York 2000.
M.M.

Back of the bus (o dei diritti civili)


«Se non mi trovi nel retro dell’autobus» cantava Pete Seeger nel 1963 «vieni
a sederti nei posti davanti, sarò proprio lì.» Sul fronte della battaglia per i
diritti civili dei neri, quello fu certo un anno parecchio intenso, che si
concluse con l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy. Tuttavia,
il titolo dello spiritual reso noto dal cantore folk («If You Miss Me at the
Back of the Bus») richiamava l’evento che più di ogni altro sarebbe rimasto
simbolico di quella lunga stagione di protesta: il gesto del 1955 con cui Rosa
Parks, una sarta di Montgomery, Alabama, aveva deciso di non cedere il
proprio posto a un bianco su un mezzo di trasporto pubblico.
Per capire in che contesto si inserì l’azione di Rosa Parks, e coglierne
quindi il potenziale esplosivo, bisogna partire dalla storica sentenza della
Corte Suprema del 1954, Brown v. Board of Education of Topeka, Kansas, che
aveva reso incostituzionale la segregazione nelle scuole, ribaltando così la
vecchia sentenza del 1896, Plessy v. Ferguson, con la quale, attraverso la
dottrina del «separate but equal», si legittimava l’esistenza del sistema Jim
Crow (→), ovvero di strutture pubbliche per soli bianchi e per soli neri
(arrivando perfino a due Bibbie diverse su cui giurare in tribunale). Il caso
Brown v. Board of Education segnava quindi una pietra miliare da un punto di
vista giuridico, ma nella realtà di un Sud in cui a votare erano per la
maggior parte bianchi e il segregazionismo fomentato dai membri del Kkk
(→) era potente e diffuso, il verdetto della più alta corte americana rimase
lettera morta per almeno altri tre anni. L’influente organizzazione nera
Naacp (National Association for the Advancement of the Colored People),
presso la cui sede di Montgomery Rosa Parks faceva la segretaria volontaria,
era invece in attesa di una piccola scintilla in grado di innescare una
deflagrazione nazionale. L’occasione arrivò il 1º dicembre del 1955, quando,
terminata la giornata di lavoro come sarta rammendatrice presso il
Montgomery Fair Department Store, verso le 17.30 di pomeriggio, la
quarantaduenne afroamericana dall’aspetto esile e mite salì sul pullman
che la portava a casa, pagò il suo biglietto di 10 centesimi e si sedette nei
primi posti liberi, sul corridoio, subito alle spalle della sezione riservata ai
bianchi. Quando, tre fermate dopo, salirono sei bianchi e andarono a
occupare i posti davanti a eccezione di uno che restò in piedi, il conducente
James F. Black (!) – temuto da tutti i neri di Montgomery per la particolare
meschinità con cui li trattava (facendoli spesso risalire dal retro salvo
lasciarli poi a piedi) – volle intervenire. Si avvicinò ai quattro uomini neri e
intimò loro di lasciare libera la sesta fila, in modo che il bianco potesse
sedersi senza aver alcun contatto con la sezione segregata; Rosa Parks non
si mosse e alla domanda «Ha intenzione di alzarsi?», rispose con un fermo
«No». Black chiamò quindi la polizia e la signora Parks fu arrestata, per
essere poi liberata da Edgar Daniel Nixon, un ex esponente della Naacp. A
questo punto, E.D. Nixon convocò un’assemblea in cui si decise, anche con
l’appoggio di alcune chiese di Montgomery, di programmare un
boicottaggio degli autobus municipali; i più fortunati riuscirono a mettere
in comune le auto per recarsi sui posti di lavoro, ma gli altri, la
maggioranza, si sarebbero mossi a piedi. Per tutta risposta, le autorità
denunciarono i leader del boicottaggio, e alcuni tra questi furono arrestati.
La tensione era alta e ad alcune bombe nelle chiese battiste nere seguirono
gli avvertimenti con arma da fuoco alla porta di Martin Luther King, il
giovane pastore di Atlanta che, da poco a capo della Chiesa di Dexter
Avenue a Montgomery, aveva sostenuto il boicottaggio.
Che ci fossero frizioni tra il governo dei singoli stati del Sud – intenti a
perpetuare lo status quo a dispetto della sentenza della Corte Suprema – e
quello federale era risultato lampante con la crisi di Little Rock, Arkansas,
del 1957, durante la quale il presidente Eisenhower aveva dovuto mandare
l’esercito per permettere a nove studenti neri di entrare in una scuola
integrata ma pattugliata – su richiesta del governatore – dalla Guardia
nazionale. Guidate dall’oratoria di King, le modalità di protesta dei neri
erano proseguite su un modello non-violento: nel 1960, si erano tenuti i
famosi sit-in di Greensboro, North Carolina, in un centro commerciale
Woolworth’s, e quelli di Atlanta in cui il leader nero era stato arrestato. Ma
furono le formazioni del Congress for Racial Equality (Core) e della Student
Non-Violent Co-ordinating Committee (Sncc) a inventarsi e a mettere in
moto, a partire dal maggio 1961, una delle esperienze più straordinarie
dell’intero movimento: i cosiddetti «Freedom rides», i «viaggi per la
libertà». L’idea era semplice, audace, pericolosa e dirompente: sfidare
l’inveterato sistema Jim Crow viaggiando sui mezzi pubblici o sostando nei
caffè delle stazioni dei treni e dei pullman in piccoli gruppi interrazziali,
senza curarsi dei codici segregazionisti. I primi «viaggiatori della libertà»
erano solo tredici, ma già sul finire di giugno l’esperimento si era allargato,
pur dovendo affrontare l’ostilità violenta e armata dei suprematisti bianchi:
in Alabama, un autobus fu incendiato; a bordo dei Greyhound attraverso
Virginia, North e South Carolina, Georgia, Alabama e Mississippi, i
«Freedom riders» non solo non poterono mai concludere la loro rotta a New
Orleans, in Louisiana, ma furono malmenati in South Carolina, così come a
Birmingham, in Alabama, e scortati fino a Jackson, in Mississippi, dove li
attendeva la cella: e ciò, secondo un piano di Robert Kennedy, allora
Attorney General (ministro della Giustizia), che li avrebbe, nella versione
ufficiale della Casa Bianca, messi al sicuro dal linciaggio.
Qualcosa, a livello pratico e simbolico, si stava quindi muovendo: nel
1962, James H. Meredith divenne il primo studente afroamericano a essere
ammesso alla University of Mississippi (la «Ole Miss»), ma anche questa
volta il governo dovette dare prova muscolare della propria forza
mandando le truppe federali a placare i sollevamenti. Nella primavera del
1963, fu la volta della «campagna di Birmingham» con cui la Sclc (Southern
Christian Leadership Conference) cercò di desegregare il centro cittadino; ai
sit-in si aggiunsero i kneel-in («inginocchiamenti») nelle chiese: la risposta
del sindaco fu però l’arresto degli attivisti, su tutti King, che in
quell’occasione avrebbe scritto la «Lettera dalla prigione di Birmingham».
Anche il presidente Kennedy – le cui posizioni sulla questione nera erano
rimaste fino ad allora alquanto interlocutorie – non poté non pronunciare
un discorso sui diritti civili nel giugno dello stesso anno. King organizzò
quindi l’imponente marcia su Washington del 28 agosto «per il lavoro e la
libertà», cui avrebbero partecipato tra le 200mila e le 250mila persone e che
sarebbe culminata con il celebre discorso dal Lincoln Memorial, entrato
nella storia come «I have a dream». Tanto più doloroso risultava il
riconoscimento dello stato d’ineguaglianza e disparità in cui gli
afroamericani ancora si trovavano nel paese dei diritti, quanto più ferme
ma mai violente si alzarono le parole della geremiade (→) del pastore nero:
«È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno
questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue
convinzioni: “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità:
che tutti gli uomini sono creati uguali”». Si trattava di un messaggio forte
ma conciliante, eppure a soli diciotto giorni da quell’evento, il Kkk (→)
metteva una bomba in una chiesa battista di Birmingham, uccidendo
quattro bambine. Nel frattempo si faceva sentire anche il portavoce di un
altro tipo di protesta nera, Malcolm X, convinto assertore di una rivolta
afroamericana capace di ricorrere a «ogni mezzo necessario», soprattutto la
forza: proprio a commento della marcia su Washington, egli criticò la
«mansuetudine» di quella protesta controllata e contenuta dai bianchi,
esortando i fratelli neri ad abbandonare la non violenza: «Quando l’uomo
bianco ti ha mandato in Corea, hai versato il tuo sangue. Ti ha mandato nel
Pacifico meridionale per combattere contro i giapponesi, hai versato il tuo
sangue. Hai versato il tuo sangue per la gente bianca, ma quando si tratta di
vedere le tue stesse chiese bombardate e le tue piccole bambine nere
assassinate, non hai nessun sangue… Come potrai essere non-violento in
Mississippi, violento com’eri in Corea?».
La morte di John Kennedy (→ Camelot) fu pianta da molti neri,
nonostante la relativa timidezza con cui la sua amministrazione si era
schierata a favore dei diritti civili. Sarebbe stato il suo successore, Lyndon
Johnson, a adoperarsi per una legislazione che continuasse il processo di
desegregazione aperto nel 1954 dalla Corte Suprema e a dar corpo alle
dichiarazioni rilasciate da Kennedy – appoggiate dal fratello Robert –
nell’estate precedente. Nel 1964, arrivò così il Civil Rights Act, la legge che
vietava ogni discriminazione su base razziale nelle strutture pubbliche
come nelle assunzioni, permetteva alle agenzie governative di non elargire
fondi federali ai programmi discriminanti e autorizzava il ministro della
Giustizia a denunciare le scuole e le strutture ricreative non integrate. Altra
conquista del Civil Rights Act fu l’esenzione di chiunque avesse fatto le
elementari dal test di alfabetizzazione per votare. E sulla scorta
dell’allargamento del corpo votante reso possibile dalla legge del 1964
nasceva, sotto il coordinamento di Sncc e Core, la cosiddetta Mississippi
Freedom Summer, un massiccio programma di reclutamento di studenti dei
college del Nord per far registrare i neri dei piccoli centri di Georgia,
Alabama, Mississippi e Arkansas nelle liste elettorali. Sempre nel 1964,
all’assegnazione del Nobel per la pace a Martin Luther King fecero da
contrappeso l’arresto e l’uccisione di tre difensori del movimento nel
Mississippi (J. Chaney, un giovane nero, e due bianchi, A. Goodman e M.
Schwerner) a seguito di un’udienza pubblica: trattenuti dallo sceriffo e
rilasciati nella notte, furono sequestrati, picchiati e uccisi in circostanze in
apparenza poco chiare, che le indagini avrebbero ricondotto poi all’azione
dello sceriffo e del vicesceriffo (come narra il film del 1988 Mississippi
Burning, di Alan Parker, con Gene Hackman e Willem Dafoe).
L’anima non-violenta del movimento avrebbe proseguito il suo corso
realizzando le marce da Selma a Montgomery nel 1965, lo stesso anno in cui
Malcolm X veniva assassinato a New York, lasciando un’eredità
rivoluzionaria destinata a essere ripresa, in parte, dal movimento delle
Pantere nere (→ Movement), contrario a ogni forma di progresso accordato
dal paternalismo bianco. Nel 1965, venne anche approvato il Voting Rights
Act che eliminava la tassa sul voto e i test di alfabetizzazione, rendendo
finalmente possibile l’effettiva estensione della base elettorale nera: e così
fu, a giudicare dalle percentuali di votanti afroamericani nel Sud, passate
dal 40% del 1964 al 60% nel 1968. Eppure, come scrive lo storico Howard
Zinn, non era solo una questione di voto; il vangelo della non-violenza di
King poteva attagliarsi alle aree rurali del Sud, ma non faceva i conti con i
problemi «incancreniti dalla povertà nei ghetti» delle grandi città, dove nel
1965 viveva l’80% dei neri, il 50% dei quali in quelle del Nord. Come aveva
profetizzato Malcolm X, quella realtà metropolitana esplose a partire dal
1965 in una serie di disordini (→), che sarebbero continuati fino al decennio
successivo. Nel 1966, il malcontento degli afroamericani si propagò da
Chicago ad altre città settentrionali, mentre Stokely Carmichael, il nuovo
leader del Sncc («Snick»), sostenitore di posizioni separatiste vicine a quelle
delle nascenti Pantere nere, divulgava l’espressione «Black Power». Le
rivolte tornarono incendiarie nel 1967, avendo come epicentro Newark,
New Jersey, e seguendo una sorta di effetto domino in tutto il Nord, fino a
Detroit. L’escalation militare in Vietnam (→) sostenuta da Lyndon Johnson
offriva il destro alle pesanti critiche dei leader neri, che alzarono la loro
voce per denunciare quanto l’impegno di risorse umane ed economiche nel
Sudest asiatico andasse a detrimento di politiche sociali, ben altrimenti
urgenti, pur promesse dal disegno presidenziale di una «Great Society». Se
già nel 1966, il campione dei pesi massimi (→ K.O.) convertito alla Nation of
Islam, Cassius Clay/Mohammed Ali, rispondeva alla chiamata di leva
dichiarandosi contrario a combattere i Vietcong che, in fondo, non
l’avevano «mai chiamato negro», l’anno successivo Martin Luther King si
sarebbe schierato contro la guerra, esortando il governo americano a
metter fine a quel salasso di energie e di denaro a svantaggio dei poveri
americani. Recatosi a Memphis per appoggiare uno sciopero dei netturbini,
il 4 aprile 1968 King fu colpito dai proiettili di un tiratore invisibile mentre
si trovava sul balcone del suo hotel, morendo dopo un’ora. La rabbia
afroamericana fu quindi ancora protagonista di tumulti in numerose città
(da Washington D.C. a Louisville), al termine dei quali la conta dei morti fra i
neri salì a 35.
Mentre anche il grande schermo rifletteva le tensioni di un assetto
sociale in rapido mutamento grazie al successo cinematografico di Indovina
chi viene a cena? (1967, di Stanley Kramer, con Sidney Poitier, Spencer Tracy
e Katharine Hepburn), incentrato sulle difficoltà dei matrimoni interrazziali
in un paese in cui la Corte Suprema si era appena pronunciata
sull’incostituzionalità delle leggi antimiscegenation (→ Miscegenation), nel
1968 il movimento per i diritti civili dei neri guadagnava ulteriore visibilità
internazionale con la trasmissione in mondovisione delle Olimpiadi di Città
del Messico, in cui i due atleti afroamericani Tommie Smith e John Carlos,
saliti sul podio, alzarono il pugno coperto con un guanto nero,
riproducendo così il saluto delle Pantere nere in segno di protesta (oggi, la
loro Alma Mater, la San Jose University, ricorda il gesto con una scultura).
L’anno successivo, due leader delle Pantere nere – Fred Hampton e Mark
Clark – sarebbero stati freddati nel loro appartamento di Chicago da
un’irruzione a mano armata della polizia cittadina. Dietro al fatto di sangue
c’era il Cointelpro (CounterIntelligence Program) dell’Fbi di J. Edgar Hoover
(→; → Movement), un gigantesco programma di controspionaggio,
infiltrazione e provocazione, attivo tra il 1956 e il 1971. Il decennio seguente
si aprì con la vicenda di quella che sarebbe diventata una nuova icona
femminile della protesta nera: Angela Davis. Insegnante di filosofia a Ucla,
femminista radicale, iscritta al Partito comunista americano e vicina alle
Pantere nere, la Davis fu arrestata dall’Fbi nel 1970 per il suo presunto
coinvolgimento nell’uccisione di un giudice bianco. Nel 1972, sull’onda di
una potente campagna mediatica di scarcerazione, la Davis venne liberata,
ma il periodo passato in prigione fu sufficiente a improntare la sua futura
attività politica contro quello che avrebbe chiamato il «prison industrial
complex» (→ Sbarre).
Più in generale, gli anni settanta portarono sì a un miglioramento delle
condizioni dei neri (non più discriminati per il colore della pelle), ma
segnarono al contempo un periodo di grande sofferenza sociale delle
comunità afroamericane povere: disoccupazione, degrado, criminalità,
eroina, violenza.
A oggi, secondo decennio del XXI secolo, quelle piaghe non hanno cessato
di affliggere i quartieri derelitti delle città americane. A giudicare dai
protagonisti di The Wire, la straordinaria serie della Hbo scritta da David
Simon e ambientata nei ghetti neri di Baltimora, la rabbia degli
afroamericani impoveriti che vi abitano non è così diversa da quella con cui,
nel 1964, Nina Simone, cantante e musicista jazz nonché attivista,
imprecava contro «il dannato Mississippi» («Mississippi Goddam»): «Non
devi vivermi accanto, / dammi la mia uguaglianza soltanto / Tutti sanno del
Mississippi / Tutti sanno dell’Alabama / Tutti sanno dal dannato Mississippi
/ (E questo è quanto!)».

BIBLIOGRAFIA
Thomas C. Holt, Elsa Barkley Brown (eds.), Major Problems in African-American
History: Documents and Essays. Vol. 2: From Freedom to Freedom Now, 1865-
1990s, Houghton Mifflin, New York-Boston 2000.
Michael J. Klarman, Brown v. Board of Education and the Civil Rights Movement,
Oxford University Press, Oxford 2007.
Manning Marable, Leith Mullings (eds.), Let Nobody Turn Us Around: Voices of
Resistance, Reform, and Renewal: an African American Anthology, Rowman &
Littlefield, Lanham 2009.
Howard Zinn, Storia del popolo americano. Dal 1492 a oggi, il Saggiatore, Milano
2005.
C. SCAR.

Banane
A metà degli anni venti del Novecento, dopo essersi lasciata alle spalle il
razzismo della natia St. Louis (→ Gateway Arch) e il fervore creativo della
Harlem Renaissance (→ Harlem), la cantante e ballerina Josephine Baker
infiammava il ricco pubblico delle Folies Bergère di Parigi con una «danza
selvaggia» in cui si esibiva «vestita» solo di un gonnellino fatto di banane –
un’esibizione rimasta nella storia del costume, della musica e
dell’avanspettacolo, e un gonnellino che poteva significare tante cose
diverse, anche contraddittorie fra loro. Chissà se la «petite danseuse
sauvage» (come divenne nota in Francia) era al corrente di un’espressione
usata dal suo compatriota, lo scrittore O. Henry, nella sua prima raccolta di
racconti (Cabbages and Kings, 1904) e destinata a una lunga storia, tragica e
comica insieme: banana republic, «repubblica delle banane», per indicare un
piccolo stato centroamericano, ricco di materie prime ma instabile
politicamente e soggetto a continue, pesanti ingerenze straniere? (Al
riguardo, O. Henry qualcosa sapeva, essendo vissuto in Honduras fra il 1896
e il 1897.) D’altra parte, già nel 1923 non cantava Eddie Cantor «Yes! We
Have No Bananas» e nel 1945 Carmen Miranda «Chiquita Banana»? E nel
1957 Harry Belafonte non avrebbe inciso la sua versione del tradizionale
calipso «Day-O (Banana Boat Song)» («Ho la schiena spezzata per la fatica /
Giorno / È l’alba / Voglio tornare a casa»)? Con buona pace del ricco
pubblico delle Folies Bergère, facciamo allora un passo indietro, per capire
che cosa stava dietro a quel gonnellino di banane.
1871-1873. Le ferrovie (→ Promontory Point) iniziano la loro marcia
trionfale attraverso gli Stati Uniti e il Centro e Sudamerica, con profonde
conseguenze economiche, sociali e culturali. Il magnate Henry Meiggs e suo
nipote Minor C. Keith, impegnati nella costruzione di strade ferrate in Costa
Rica, hanno la brillante idea di affiancare ai cantieri file di banani, con i cui
frutti cibare a buon mercato la manodopera. Terminata la ferrovia e morto
lo zio, Keith si ritrova con molti milioni di dollari e molte migliaia di piante
di banane: da cosa nasce cosa, e l’ingegnoso imprenditore mette in piedi
una ditta di trasporti (la Tropical Trading and Transport Company),
completa di treni e flottiglia, per trasportare la frutta in patria – dal Costa
Rica a New Orleans.
1899. Dalla fusione della ditta di Keith con la Boston Fruit Company di
Andrew W. Preston, nasce la United Fruit Company (Ufc), che con il tempo
ramifica le proprie attività un po’ ovunque nel Centro e Sudamerica. Nello
stesso anno, alcuni immigrati italiani a New Orleans, Salvador D’Antoni e i
fratelli Vaccaro, cominciano a importare frutta (in particolare, cocco e
banane) dall’Honduras, in aperta competizione con la Ufc, e – nel 1924 –
creano la Standard Fruit Company (Sfc). Tra Ottocento e Novecento, negli
Stati Uniti si assiste a un vero boom della banana, dovuto in primo luogo ai
prezzi stracciati (del tutto concorrenziali rispetto alla frutta locale), a loro
volta derivanti da costi del lavoro tenuti bassissimi e dal controllo o dalla
proprietà diretta, da parte delle principali ditte esportatrici, di enormi
estensioni di terre nei paesi del Centro e del Sudamerica.
1901. Il governo del Guatemala affida il servizio postale del paese alla Ufc,
che nel 1913 fonda anche la Tropical Radio and Telegraph Company: da un
lato, le attività della ditta si diversificano, dall’altro si fa più stretto il suo
legame con i governi locali.
1928. In Honduras, la Ufc è ormai nota come «El Pulpo», «il polpo», per le
complesse e profonde ramificazioni delle sue attività – economiche,
politiche e militari (nel 1910, un’altra ditta rivale, la Cuyamel Fruit
Company guidata da Sam Zemurray, che in seguito avrebbe preso il
controllo della Ufc, aveva promosso un colpo di stato guidato da un
mercenario di New Orleans e sfociato nella costituzione di un governo a
essa favorevole). Nel dicembre di quello stesso 1928, i lavoratori della Ufc, in
sciopero ormai da un mese contro i bassi salari e le condizioni di vita e
lavoro, sono falcidiati dall’esercito colombiano intervenuto dietro richiesta
della Ufc, con il pretesto che alla guida dello sciopero ci sarebbero pericolosi
sobillatori. Un dispaccio dell’Ambasciata statunitense di Bogotà al
Segretario di Stato a Washington, datato 6 gennaio 1929, recita: «Ho l’onore
di comunicare che il rappresentante di Bogotà della United Fruit Company
mi ha informato ieri che il numero degli scioperanti uccisi dall’esercito
colombiano è di oltre un migliaio». Da quel momento, i legami della ditta
con i governi locali si fanno strettissimi: con il sostegno del governo Usa e
degli apparati statali e militari, «El Pulpo» diviene il meccanismo centrale
della vita economica e politica del Centro America, la longa manus degli
interessi statunitensi nel continente.
1930. La Ufc ha ormai assorbito tutte le ditte rivali, diventando il più
grosso monopolio Usa nel Centro e Sudamerica: non solo possiede e
controlla terre a non finire, ma gestisce l’intera rete delle comunicazioni
attraverso le sue compagnie ferroviaria e marittima, le International
Railways of Central America e la Great White Fleet; non solo può contare su
governi amici con relative ricadute fiscali favorevoli, ma organizza la
propria esistenza in loco così da creare autentiche enclave, sia dal punto di
vista di chi ci vive e lavora (→ Company town), sia dal punto di vista dei
ricavi e benefici ottenuti. E ha amici fedeli a Washington, tanto nelle alte
sfere governative quanto – nei decenni successivi – nei servizi segreti:
l’esempio più eclatante si verifica nel 1954, quando la Ufc ha un ruolo
chiave nel promuovere, con l’appoggio del presidente Eisenhower e la
logistica militare messa in campo dalla Cia, un colpo di stato in Guatemala
(nome in codice: Operation PBSuccess), che deporrà il presidente in carica
per sostituirlo con un uomo di paglia, aprendo così un lungo periodo di
instabilità nell’area.
1970. A seguito di una serie di fusioni, la Ufc diventa United Brands
Company e quindi, dopo altri scandali finanziari e politici (e il suicidio del
suo presidente nel 1975), Chiquita Brands International.
Nel primo romanzo della trilogia U.S.A., intitolato Il 42º parallelo (1930), lo
scrittore americano John Dos Passos dedicherà uno dei «ritratti» di cui si
compone l’opera proprio a Minor C. Keith, «L’imperatore dei Caraibi»: «In
Europa e negli Stati Uniti la gente aveva cominciato a mangiar banane, / e
così abbatterono la giungla del Centro America per piantar banane, / e
costruirono ferrovie per trasportar banane, / e ogni anno sempre più
piroscafi della Great White Fleet navigavano verso nord stracolmi di
banane, / e questa è la storia dell’impero americano nei Caraibi, / e del
canale di Panama e del futuro canale del Nicaragua e dei marine e delle navi
da guerra e della baionette».
Non c’è dubbio: le allusioni che si sprigionavano dal gonnellino di
banane della «petite danseuse sauvage» erano davvero molte, e complesse.

BIBLIOGRAFIA
Alison Acker, Honduras. The Making of a Banana Republic, Between the Lines,
Toronto 1988.
Peter Chapman, Bananas. How the United Fruit Company Shaped the World,
Cannongate, New York 2008.
Felix Greene, Il nemico, Einaudi, Torino 1973.
M.M.

Barataria
Barataria Bay è un golfo incantato di isole, bracci di mare e di fiume, terre
basse, paludi e marcite, vegetazione acquatica, boschetti di querce, poche
decine di chilometri a ovest della foce ramificata del fiume Mississippi, in
Louisiana (anzi, è probabile che qui, in un tempo passato, si trovasse una
delle molte foci con cui il fiume si è rovesciato nel mare nel corso dei
millenni – l’intrico di corsi d’acqua e la sequenza di laghi e laghetti a nord
lo dichiarano anche sulla mappa). Luogo di fascino e di mistero, regno di
aironi e gamberetti, di topi muschiati e ostriche, di pescatori e trappolatori,
racchiuso e protetto da una coroncina di isole grandi e piccole celebrate già
nell’Ottocento da scrittrici come Kate Chopin e Grace King, spazzato a più
riprese da uragani e oggi minacciato da disastri ambientali per la presenza
di raffinerie e impianti di estrazione di petrolio e gas naturale. In questo
labirinto si dipanò, negli anni fra Settecento e Ottocento, una storia
misteriosa e affascinante – quella dei fratelli Lafitte.
Jean Lafitte nasce intorno al 1780, forse in Francia (c’è chi dice a St. Malo
e chi a Marsiglia, chi a Bordeaux e chi a Brest) o forse a Port-au-Prince
(nell’isola di Santo Domingo, quasi dirimpetto alla Baia). È fratello di Pierre,
marinaio della flotta francese, e di Alexandre Frédéric, che altri non sarebbe
che il celebre «Dominique You», capo artigliere della flotta di Napoleone,
sepolto in uno dei cimiteri di New Orleans. Proprio a New Orleans (→ Congo
Square), in una bottega di fabbro ferraio all’angolo di rue Saint Philippe e di
rue Bourbon, insieme ai due fratelli Jean organizza un fiorente commercio
di merci trafugate, che ha come centro d’operazioni la Barataria Bay. Sono
anni particolari, quelli: la Louisiana non fa che passare di mano (dagli
spagnoli ai francesi e infine, nel 1803, agli americani), gli inglesi non
accettano di esser tagliati fuori, le Guerre indiane (→) seguono i
capovolgimenti di fronte delle guerre europee, la schiavitù s’impianta in
profondità tutt’intorno al fiume al tempo stesso in cui viene proibita
(almeno ufficialmente) la tratta degli schiavi, la società creola di New
Orleans si chiude a riccio di fronte all’avanzata dei «Kaintucks» (gli
americani rozzi e arroganti che calano dal nord e dall’est), i cajun (→) si
nascondono sempre più nel folto dei bayou (→) e delle foreste – e le acque
del Golfo divengono teatro di scorribande corsare.
Ormai celebri e ammirati, dotati di uno charme e di uno stile proverbiali,
invitati ai grandi balli in maschera della società ricca della città, i fratelli
Lafitte abitano una linea d’ombra fra legalità e illegalità: rifiutano
l’appellativo di «pirati» e rivendicano quello di privateers – corsari muniti di
lettere d’incarico di Stati diversi, che li autorizzano a sequestrare merci e
navigli della flotta spagnola nel Golfo; negano di essere coinvolti nella
tratta, ma rivendono sotto banco (sembra) gli schiavi «liberati» dalle galere
spagnole; dichiarano fedeltà al governo americano, ma gestiscono un
ricchissimo giro di contrabbando che danneggia la giovanissima economia
statunitense. Fatto sta che, sotto la guida dei Lafitte, i «Baratarians» – come
sono noti a New Orleans e dintorni – divengono una potenza economica e
militare di prim’ordine, forse un migliaio di uomini bene equipaggiati e
armati, esperti navigatori, a loro agio nel labirinto terracqueo della Baia,
comandati da luogotenenti abili e spietati come gli italiani Gambi e
Chighizola: una vera e propria «comune», multietnica e borderline, composta
di portoghesi, spagnoli, italiani, francesi, di disertori dell’esercito e della
marina americana, di donne scivolate ai margini della società e di ragazzi
sbandati, a volte figli di rispettabili famiglie della Louisiana, di neri e mulatti
fuggiti da Santo Domingo dopo la sollevazione degli schiavi. A Barataria non
ci sono distinzioni di razza e nazione, vige un’organizzazione comunitaria e
i beni «raccolti» sono distribuiti in parti eguali.
Il governo americano non vede di buon occhio tutto ciò: in un’epoca così
delicata, in cui le energie sono volte alla centralizzazione e al rafforzamento
della politica e dell’economia della giovane nazione, non può permettere
l’esistenza di un’isola «autonoma» e potente come quella dei Baratarians.
Tanto più che gli stessi inglesi si fanno avanti: prendono contatto con i
Lafitte, propongono un’alleanza antiamericana in cambio di incarichi ben
remunerati all’ombra della Corona. Ma i Lafitte non ci stanno e giocano le
loro carte con molta abilità: prendono tempo, continuano con i loro affari,
scrivono lettere che sono un capolavoro di diplomazia. A quel punto, gli
americani intervengono: nel 1814, «Barataria» viene distrutta, merci e
imbarcazioni sono confiscate, Pierre e Dominique You imprigionati. Jean
deve nascondersi e si istruisce un processo contro la «masnada di
rapinatori, pirati e banditi infernali», come li definisce il futuro presidente
Andrew Jackson, in marcia verso New Orleans per difenderla
dall’imminente attacco inglese.
Ma le sorti della guerra angloamericana sono incerte. E sarà lo stesso
Jackson a fare dietrofront: l’esercito dei Lafitte è prezioso e così i «banditi
infernali» di ieri divengono i «patrioti» di oggi, prendono posto a fianco dei
cittadini creoli e di lingua inglese di New Orleans, ai rozzi e disprezzati
«Kaintucks», agli acadiens dei bayou, ai tedeschi della Côte des Allemands, ai
choctaw, ai mulatti e ai «liberi uomini di colore» della stratificata società
della Louisiana. Saranno Lafitte & Co. a dare il contributo decisivo in
termini di uomini, armi, munizioni ed esperienza a un esercito
raccogliticcio e male in arnese: la battaglia di New Orleans, l’8 gennaio 1815
(combattuta quando in realtà la pace era già stata firmata, a favore degli
americani), vede la disfatta clamorosa e sanguinosa del sovrastante esercito
inglese, e gli eroi sono loro, i Baratarians – come risulterà anche dalla
grande festa che si terrà a New Orleans il 23 gennaio, dominata dal carisma
congiunto di Jean Lafitte e Andrew Jackson.
Le cose cambieranno ancora. Negli anni successivi, i privateers tornano
agli affari di sempre e ricostruiscono una «repubblica indipendente» un po’
più a ovest, vicino al fiume Sabine, al confine di territori che di lì a poco
diventeranno oggetto di contesa fra Stati Uniti e Messico – un’altra zona
nevralgica. Lì, all’altezza dell’odierna Galveston, nasce Campèche (o
Campeachy), la nuova «comune» dei Lafitte, intorno a una grande villa-
fortino, La Maison Rouge.
Anche Campèche seguirà la sorte di Barataria: altri problemi, altre
accuse (di spionaggio a favore della Spagna e del Messico, di rapine,
sabotaggi, omicidi), altre lettere ingegnose, altre trattative con generali e
uomini politici statunitensi, altre scaramucce e scontri a fuoco – la stessa
comunità vivrà una progressiva erosione e degenerazione interna. L’epoca
del privateering s’è ormai chiusa, la nazione americana ha ricacciato l’ultimo
assalto delle potenze europee affacciandosi ora sui territori messicani, il
Golfo diventa sempre più un «mare interno» (→ Splendide guerricciole). E
così, quando Jean Lafitte abbandona Campèche intorno al 1820-1821, dando
alle fiamme l’intero insediamento, è davvero la fine di un’epoca.
Ma l’inizio di altre leggende. Finora, il mito di Lafitte, pirata o corsaro, si
basava comunque su fatti reali. D’ora in poi, questi si sgretolano e restano
solo le voci, le ragnatele dei «si dice». Si dice che Lafitte abbia nascosto il
suo enorme tesoro lungo la costa, in riva ai bayou, nel querceto (chenière) a
nord del Little Lake Barataria (luogo sacro degli indiani chawasha); che
abbia dato una mano al tentativo – realmente effettuato, nel 1821, da
Dominque You e dal sindaco di New Orleans Nicholas Girod – di liberare
Napoleone da Sant’Elena (ma l’imperatore morì tre giorni prima della
partenza della nave Seraphine che doveva condurlo negli Stati Uniti; altra
leggenda vuole tuttavia che il tentativo sia riuscito, che sull’isola sia stato
lasciato un sosia, e che Napoleone sia in verità sepolto 25 miglia a sudovest
di New Orleans, su un promontorio fra il Bayou delle Oche e il Gran Bayou
Barataria, insieme allo stesso Lafitte e a John Paul Jones, egli pure corsaro e
poi ammiraglio della flotta rivoluzionaria americana, morto nel 1792).
Oppure ancora, si dice che nel 1826 Jean Lafitte sia fuggito a St. Louis (→
Gateway Arch), dove sarebbe vissuto sotto il nome di John Lafflin, mercante
di polvere da sparo (al 29 di North Water Street), occupandosi anche di un
«Pro-Labor Movement», possibile sezione americana della Prima
Internazionale – e che, in questa veste, viaggiando a lungo anche in Europa
negli anni quaranta, ormai più che sessantenne, sia venuto a contatto con
Marx ed Engels (di cui, tornato negli Stati Uniti, avrebbe passato all’amico
Abraham Lincoln una copia del Manifesto del Partito Comunista); o che abbia
finito i suoi giorni placidamente ad Alton (Illinois) nel 1854; o che sia in
realtà sepolto nello Yucatan. Che dire?
Certo, le leggende su Jean Lafitte sono innumerevoli. E così i racconti, i
romanzi, perfino un diario sulla cui autenticità ancor oggi si discute – e,
naturalmente, i film: da quello di Cecil B. DeMille nel 1938 (I filibustieri) al
remake di vent’anni dopo, iniziato dallo stesso DeMille e passato poi ad
Anthony Quinn (I bucanieri). La leggenda di Jean Lafitte continua: anche, se
volete, al Lafitte’s Blacksmith Shop (al 941 di Bourbon Street, a New
Orleans), la sua vecchia bottega di fabbro ferraio: dove non si smerciano più
oggetti rubati, ma si gustano un ottimo Sazerac e una rinfrescante Mint
Julep.

BIBLIOGRAFIA
William C. Davis, The Pirates Lafitte. The Treacherous World of the Corsairs of the
Gulf, Harcourt, New York 2005.
Gene Marshall (ed.), The Memoirs of Jean Lafitte, XLibris Corporatio, n. p. 1999.
Enzo Rava, Sapreste provare con Internet che il corsaro Lafitte finanziò il
Manifesto di Marx?, ManifestoLibri, Roma 2004.
Lyle Saxon, Lafitte the Pirate (1930), Pelican Publishing Company, Gretna
1989.
M.M.

Barbie
«Gli Stati Uniti hanno vinto la Guerra fredda e Barbie è stata uno dei suoi
generali – o una delle armi più efficaci» sentenzia la giornalista e studiosa
Wendy Varney, riferendosi a come gli oggetti più iconici della cultura
popolare statunitense siano stati in grado di creare consenso internazionale
nei confronti del paese – un’intuizione che, fosse venuta ai vertici di
Washington, avrebbe (forse) risparmiato guerre sanguinose (→ Vietnam) e
le enormi spese militari (→ Armi) per rifornire gli arsenali.
Barbie discende in linea diretta da Lilli, una bambola in plastica rigida
prodotta in Germania dopo la Seconda guerra mondiale, che nell’aspetto
ricordava Brigitte Bardot e riprendeva il personaggio Lilli, creato dal
disegnatore Reinhard Beuthin e conosciuto grazie alle strisce pubblicate sul
quotidiano Bild Zeitung. Nel 1956, i coniugi Eliot e Ruth Handler, in vacanza
in Europa, videro una Lilli che faceva bella mostra di sé in una vetrina di
Lucerna e se la portarono negli Stati Uniti. Insieme a Harold Matson, Eliot
Handler aveva fondato nel 1945 la Mattel, una piccola fabbrica di giochi per
bambini. E in più occasioni, dopo aver osservato la figlia giocare con
figurine di carta ricavate dalle fotografie ritagliate dalle riviste, Ruth aveva
suggerito al marito l’idea per un nuovo prodotto: una bambola dall’aspetto
adulto. Ma Eliot aveva sempre respinto la proposta. Quando però vide Lilli,
Ruth capì che da quel momento il marito non avrebbe più potuto obiettare.
Alla fiera del giocattolo del 1959, la bambola Barbie venne presentata al
pubblico. Per il nome, gli Handler non avevano dovuto spremersi troppo le
meningi: si trattava di un omaggio alla primogenita, Barbara Joyce. Alta 29,5
centimetri, con gambe lunghe e affusolate, vita sottile, busto florido, tratti
del volto dettagliati e unghie dipinte, Barbie rappresentò una novità nel
mondo dei giocattoli: era infatti la prima bambola a riprodurre con fedeltà i
tratti di un corpo adulto. Il nuovo prodotto poggiava anche su un altro
pilastro: la Barbie era una teen age fashion model, e parte importante del
gioco sarebbe stata quella di poterla vestire con abiti creati per tutte le
occasioni e ispirati alla moda corrente.
La prima Barbie, in versione bionda e bruna, portava un costume
zebrato, occhialoni bianchi a lenti blu, sandali neri e orecchini dorati.
All’interno della confezione, era presente un catalogo con alcuni modelli di
abiti che sarebbero stati messi sul mercato poco alla volta: il gioco allora si
configurava come una continua riproposizione del desiderio, che l’acquisto
non placava ma anzi metteva in moto, generando la necessità di procurarsi
gli altri elementi del guardaroba per non interrompere l’attività ludica.
Così, nel primo anno, furono venduti 350mila esemplari, al prezzo di 3
dollari l’uno.
Diversi critici attaccarono la Mattel accusandola di trasformare il gioco
in una sorta di apprendistato al consumo. Inoltre, la bambola proponeva
un’immagine di femminilità basata sull’aspetto esteriore e lanciava il
messaggio (subliminale?) che essere belle implicava una cura del vestiario e
del corpo per la quale occorreva investire molto denaro – visione sfidata dal
movimento di liberazione femminista degli anni sessanta (→ Seneca Falls).
L’introduzione nel 1968 della Barbie parlante non smentì le preoccupazioni
dei detrattori; il repertorio dei possibili discorsi della bambola era infatti
piuttosto eloquente: «Che cosa indosso per la festa?», «Stasera ho un
appuntamento!», «Vuoi andare a far compere?», «Stacey e io stiamo
prendendo un tè», «Facciamo una festa in costume!», «Mi piace fare la
modella».
La caratteristica trasformativa di Barbie ha anche altre radici, per cui
bisogna fare un salto indietro nel tempo (a metà anni venti) e risalire a
Cissy, una bambolotta dalle fattezze infantili abbigliata negli stili più
ricercati o di personaggi famosi. Creatrice di Cissy fu Bertha Alexander,
figlia di immigrati ebrei giunti in America dall’Europa orientale (→ Kosher)
sul finire dell’Ottocento. Come molte altre giovani russe e polacche (di cui
rimangono memorabili ritratti nei racconti della scrittrice Anzia Yezierska),
Bertha aveva sviluppato una passione per il vestiario sfoggiato dalle signore
della borghesia e considerava l’abito uno strumento per acquisire una
nuova identità e «trasformarsi» da immigrata in donna americana (→
Etnicità). La bambola Cissy rappresentava allora la realizzazione di questo
desiderio e, a un livello più ampio, metteva l’accento sulla possibilità di
reinventarsi che costituisce un tratto tipico della cultura americana. Barbie
ha raccolto questa eredità, aprendo alle bambine miriadi di prospettive di
identificazione. Gioverà allora ricordare che il cognome da nubile di Ruth
Handler era Moscowicz e i genitori erano ebrei polacchi.
Se la Mattel contava sul successo di Barbie, inaspettata fu la valanga di
lettere in cui le giovani clienti chiedevano ai creatori chi fosse Barbie, da
dove venisse e come fosse diventata modella. I coniugi Handler, coadiuvati
da un team di marketing, lavorarono alla biografia, da cui esce un profilo
Wasp (→) e middle class: il nome completo è Barbara Millicent Roberts, vive
in una piccola città (→) chiamata Willow, il padre, George, è un ingegnere
mentre la madre, Margaret, è una casalinga. La casa editrice Random House
iniziò la pubblicazione di libri di avventure (con titoli quali Barbie’s New York
Success, Barbie’s Hawaiian Holiday, Barbie Solves a Mystery), mentre la Mattel
decise di mettere sul mercato altri personaggi, tra cui, nel 1961, il fidanzato,
Ken (il nome è ispirato al secondo figlio degli Handler), presentato al
pubblico in un filmato pubblicitario nel quale si racconta il primo incontro
tra i due, in occasione di un ballo studentesco. A quel punto, la strada era
aperta alle imitazioni e variazioni successive, da Skipper Roberts e Midge
Hadley (nate fra il 1963 e il 1964, complete di articolate storie familiari) fino
alle versioni «globalizzate» (la giapponese Hello Kitty, per esempio).
Nel 1977, la Mattel decise di modificare alcuni tratti somatici della
bambola per avvicinarla all’immagine di alcune star del momento, in
particolare all’attrice Farah Fawcett: gli occhi diventarono più grandi,
mentre le labbra, che fino a quel momento erano state serrate, vennero
allargate a un ampio sorriso, un intervento estetico che anticipa le tante
vittime della «sindrome di Barbie», ragazze e signore mature che vogliono
emulare il presunto stile di vita e l’apparenza esteriore della bambola: a
Cindy Jackson, per esempio, sono serviti quattordici anni, trentuno
operazioni chirurgiche e oltre 100mila dollari per realizzare l’ossessione
di… diventare Barbie.
Di tipo diverso, e di certo meno dispendioso, l’interesse per la bambola
della poetessa Denise Duhamel, che le ha dedicato una serie di poesie nella
raccolta Kinky (1997). La scrittrice propone un catalogo di Barbie «possibili»
che mettono in luce aspetti controversi della società dei consumi di cui è un
simbolo: «Barbie in Theraphy», «Holocaust Barbie», «Hippie Barbie» o
«Barbie as Mafiosa». In «Buddhist Barbie», la bambola confronta profondi
dilemmi filosofici: «Il filosofo indiano Gautama / insegna che “tutto è
vuoto” / “non esiste l’io” / […] Barbie è d’accordo, ma si chiede come
faccia un uomo / dalla pancia tanto gonfia a posare / sorridendo, e senza la
camicia».

BIBLIOGRAFIA
Tanya Lee Stone, The Good, The Bad, and The Barbie: a Doll’s History and Her
Impact on Us, Viking Press, New York 2010.
Marco Tosa, Barbie: i mille volti di un mito, Mondadori, Milano 1997.
S.M.Z.

Baseball
«Se costruisci un campo da baseball, loro torneranno», dice una misteriosa
voce al protagonista del romanzo di W.P. Kinsella Shoeless Joe (1982), celebre
anche grazie alla versione cinematografica del 1989 di Phil A. Robinson e
alle fattezze di Kevin Costner (il film uscì in Italia con il titolo L’uomo dei
sogni). Il campo da baseball che l’uomo costruisce dietro casa diverrà
un’autentica finestra temporale, dove a tornare (in vita) saranno i
componenti della stagione 1918-1919 della squadra dei White Sox di
Chicago, accusati (in un caso rimasto celebre nella storia dello sport e della
cultura americana) di aver venduto l’ultima partita del campionato,
regalando così la World Series ai Cincinnati Reds. Come i White Sox avranno
la possibilità di riscattarsi dalle accuse disputando ancora quell’incontro e
riscrivendo la storia, così il protagonista Ray riuscirà attraverso di loro a
ristabilire un legame con il padre scomparso, grande tifoso della squadra.
Il baseball, la memoria e i sogni: questo sport è da sempre un potente
catalizzatore di passioni e speranze nell’immaginario statunitense – tanto
che elencarne i significati e le valenze è difficile quanto riassumerne le
regole.
Sebbene le sue origini risalgano all’Inghilterra di metà Settecento (dove
era chiamato anche rounders), il baseball oltreoceano è stato uno degli sport
nazionali più rappresentativi fin dalla Guerra d’indipendenza. Si può dire
che furono proprio le guerre a diffonderne la conoscenza e accrescerne
l’importanza, prima dentro e poi fuori dai confini nazionali. Se il primo
codice che regolamenta il nuovo gioco risale al 1845, e la prima partita con
le nuove regole del New York base ball, come era all’epoca chiamato, venne
disputata in New Jersey nel 1846 fra i Knickerbockers e i New York Nine, fu
durante la guerra di Secessione che il baseball si diffuse fra le truppe
dell’Unione e di conseguenza in tutti gli Stati del Nord. La «febbre del
baseball» esplose subito dopo, fra il 1865 e il 1869: in questi anni nacquero i
grandi e i piccoli club (poi riuniti in major e minor leagues), i giocatori
dilettanti lasciarono il posto, non senza polemiche, ai professionisti e,
grazie alle baseball columns (rubriche di commento sportivo), il baseball
conquistò un posto di primo piano anche sulle pagine dei principali
quotidiani, divenendo uno dei simboli e degli svaghi nazionali. Tanto che,
agli occhi dei molti immigrati provenienti in quegli anni dall’Europa,
giocare a baseball costituiva un importante passo verso
l’americanizzazione. Per questo, nel 1903, lo scrittore e giornalista ebraico-
americano Abraham Cahan esortava così i genitori dalle pagine del Jewish
Daily Forward: «Lasciate giocare i vostri figli a baseball, così che si
distinguano in quello sport. Soprattutto, non crescete i figli in modo tale da
farli sentire stranieri là dove sono nati». Con l’avvento di radio e
televisione, il baseball divenne un fenomeno mediatico senza precedenti.
Come non ricordare la finale del 1951, trasmessa alla radio, fra i Brooklyn
Dodgers e i New York Giants, e vinta da questi ultimi con il fuoricampo di
Bobby Thomson? Chi l’avesse persa, può sempre riviverla grazie a Don
DeLillo e al prologo del suo Underworld (1997).
Essendo uno sport di squadra che, per le particolari dinamiche di gioco,
permette tuttavia una forte componente di individualità, il baseball costituì
uno degli scenari ideali per il fiorire dello star system in ambito sportivo: da
Tyrus Raymond Cobb («the Georgia Peach» dei Detroit Tigers, leggendario
battitore la cui carriera durò dal 1905 al 1928) a Babe Ruth («The Sultan of
Swat» dei New York Yankees, noto non solo per aver messo a segno 714
home runs nelle sue ventidue stagioni da professionista, ma anche per le sue
intemperanze dentro e fuori dai campi da gioco), l’elenco delle star è
decisamente lungo e improponibile. Aggiungiamo almeno il più celebre di
tutti, Joe Di Maggio, che passò alla storia per le vittorie con gli Yankees e
allietò le cronache rosa con il matrimonio di breve durata con Marilyn
Monroe; ma anche il più drammatico: il «caso» di «Lou» Gehrig, dei New
York Yankees, ricordato anche per la malattia che da lui prese il nome, il
«morbo di Gehrig» o sclerosi laterale amiotrofica (vicenda portata sullo
schermo nel 1942, con il pluripremiato L’idolo delle folle).
Grazie all’importanza rivestita dal singolo giocatore, che lo rende
perfetta incarnazione della retorica dell’E pluribus unum sempre più virata
in chiave individualista, il baseball divenne anche la metafora scelta da
diversi scrittori per rappresentarne il contraltare distopico e raccontare lo
spaesamento e il senso di sconfitta collettiva che segnò in profondità gli
anni del secondo dopoguerra. Basti qui ricordare la figura tragicomica di
Roy Hobbs, giocatore di baseball protagonista del romanzo di Bernard
Malamud The Natural (1952) che, nonostante l’innato talento, viene travolto
dal fato e dagli eventi, tanto da mancare persino l’opportunità di un riscatto
finale in grado di trasformarlo ne «Il Migliore» (come recita il titolo nella
traduzione italiana); o come il baseball venga trasformato in un mondo
virtuale e immaginario in cui rifugiarsi nel romanzo di Robert Coover Il
gioco di Henry (The Universal Baseball Association, Inc., J. Henry Waugh, Prop,
1968).
Accanto ai drammi (reali o metaforici) individuali, la storia del baseball
racconta infatti anche le ombre di un universo sportivo che inevitabilmente
condensa e riflette le aporie della società statunitense: a cominciare
dall’onnipresente «linea del colore» (→), che nel baseball portò alla
creazione negli anni venti del Novecento di black leagues in cui erano
costretti a militare i giocatori neri (la segregazione sportiva durò fino al
1952, cinque anni dopo che l’afroamericano Jackie Robinson divenne la
stella dei Brooklyn Dodgers).
Come in tutti gli sport di massa e, per questo, fenomeni economici in
grado di arricchire velocemente tanto i giocatori quanto le società o i
privati che in esso investivano, non mancarono gli scandali legati alla
corruzione, primo fra tutti il già citato episodio dei White Sox: macchiati
com’erano del sospetto di essersi venduti al rivale, gli otto giocatori
accusati di corruzione furono ribattezzati dalla stampa «Black Sox»
(«calzini neri») già prima delle udienze e del verdetto. A quel processo risale
un’espressione colloquiale molto usata negli anni venti: quel «dimmi che
non è vero, Joe» che un giovanissimo fan del campione Shoeless Joe Jackson
gridò al suo idolo, mentre sogni e mito andavano in frantumi in un’aula di
tribunale.
Perché il baseball è, per fortuna, anche una cosa da bambini: come non
pensare, quando si parla di mazze, guantoni e diamanti, a Charlie Brown e
gli altri piccoli peanuts (→) che contemplano sconsolati il campo da baseball
dopo l’ennesima sconfitta della propria scalcinata squadra? o al giovane
Holden, intramontabile creatura letteraria di J.D. Salinger e protagonista del
Giovane Holden, il cui ricordo più caro è il guantone su cui il fratellino
scomparso Allie scriveva poesie di Emily Dickinson? Del resto, Holden sente
il baseball come un rifugio sicuro dalle brutture della vita: è una «casa»
(come del resto suggerisce lo stesso lessico sportivo, fatto di homebase e
homerun) che ha perso e a cui non riesce a tornare. Per questo, nell’assurda
fantasia che descrive alla sorellina Phoebe, la cosa che più gli piacerebbe
fare da grande è il catcher in un campo di segale, dove giocano tanti bambini
(da qui il titolo originale del romanzo, The Catcher in the Rye,
«l’acchiappatore nella segale»). Il suo unico compito sarebbe quello di
afferrare tutti i ragazzini che per sbaglio si dovessero avvicinare troppo al
dirupo al limitare del campo, che simboleggia, in maniera nemmeno troppo
velata, il passaggio all’età adulta.
Non è allora un caso che, nel libro di Kinsella citato all’inizio, il
protagonista si metta a un certo punto alla ricerca di Salinger. Più che agli
adulti, forse per parlare di baseball e di sogni vale la pena chiedere ai
bambini, o a coloro che l’infanzia e la sua perdita le hanno capite e
raccontate tanto bene.

BIBLIOGRAFIA
Warren Goldstein, Playing For Keeps: A History of Early Baseball, Cornell
University Press, Ithaca 2009.
Donald Gropman, «Say it ain’t so, Joe!». The story of Shoeless Joe Jackson, Little
Brown, Boston 1979.
Mark Stewart, Baseball. A History of the National Pastime, F. Watts, New York
1998.
C. SCHIA.

Basketball
Dalle mirabolanti acrobazie di Michael «Air» Jordan che combatte a suon di
canestri accanto ai Looney Tunes per salvare la terra da un’invasione aliena
(Space Jam, 1996) fino al sogno di riscatto e rivincita in uno dei film più
popolari di Spike Lee (He Got Game, 1998), il basketball è a oggi considerato
uno degli sport americani per eccellenza, anche perché fu l’unico ad avere i
propri natali sul suolo statunitense. A inventarlo fu però un canadese – per
la precisione James Naismith, uno dei primi istruttori di educazione fisica
dell’International Ymca Training School di Springfield, Massachusetts, nel
dicembre del 1891, mentre era alle prese con un gruppo di studenti
piuttosto ribelli (ribattezzati dai professori gli «Incorreggibili») e un
preside, il dottor Luther Gulick, molto esigente.
Gli «Incorreggibili» mal sopportavano il passaggio invernale dallo sport
all’aria aperta agli esercizi ginnici ripetitivi e monotoni al chiuso della
palestra (in gran parte mutuati dall’allenamento militare, e già in auge in
Germania, Francia e Svezia). Per evitare ulteriori ribellioni, che avevano
portato due precedenti istruttori a rassegnare le dimissioni, il preside della
scuola chiese a Naismith di inventare un nuovo gioco che potesse svolgersi
al chiuso, divertente, in grado di coinvolgere l’intera classe. Dopo due
settimane di esperimenti, fra nasi fratturati e vetri rotti, Naismith elaborò
le linee guida del gioco ideale: impegnativo, ma con il minor contatto fisico
possibile (per non urtare la sensibilità dell’ala conservatrice dell’Ymca), con
una palla grande (ed evitare così di usare mazze, bastoni, racchette e altri
oggetti contundenti), da passare ai compagni per poter avanzare (in modo
tale da evitare placcaggi, che già tanti problemi suscitavano in quegli anni
nel football →). Per segnare un punto, la palla doveva essere messa a segno
in due scatole di legno poste agli estremi del campo, non troppo grandi e
sufficientemente in alto da scoraggiare spinte e trattenute, e soprattutto
con l’apertura parallela al suolo, per costringere i giocatori a lanciare la
palla ad arco, invece che in linea retta, privilegiando la precisione invece
che la forza. Peccato che nella scuola non ci fu verso di trovare due scatole
di legno: si scovarono però alcuni cesti di vimini (= basket) usati per le
pesche, e Naismith adattò quelli, agganciandoli alle balconate della palestra,
a un’altezza di tre metri dal suolo (misura ancora valida per il canestro).
Iniziando con tredici regole base affisse in bacheca e una classe di diciotto
elementi divisa in due, Naismith diede avvio a un gioco che divenne subito
popolarissimo fra gli studenti della scuola e di quelle circostanti, compreso
un collegio femminile che, visto lo scarso contatto fisico durante il gioco, lo
adottò a sua volta in scala ridotta. Alle ragazze sono infatti da riconoscere
almeno un paio di contributi significativi allo sport: il numero di cinque
giocatrici per squadra e l’epiteto più usato contro gli arbitri (tra cui lo
stesso Naismith, il quale, piuttosto contrariato, notò come una delle
signorine avesse «messo in dubbio la reputazione di mia madre»). La
diffusione delle regole alle altre duecento Ymca statunitensi fece il resto:
nel giro di un anno, il basketball era giocato da New York a San Francisco,
dal Maine al Texas; i missionari e gli educatori dell’associazione iniziarono a
insegnarlo in tutto il mondo; e in pochi anni il basketball raggiunse
l’Europa, l’India e la Cina.
Con la sua diffusione, molti elementi del basketball dovettero essere
ridefiniti – primo fra tutti il numero dei giocatori, ridotto definitivamente
nel 1896 a cinque (sebbene non mancassero esperimenti con cinquanta
giocatori per squadra, in un groviglio di mani e piedi che rendeva la palla
invisibile). Anche la rimessa in gioco presentava qualche problema: dal
momento che la palla spettava, secondo Naismith, al primo giocatore che
riusciva a recuperarla, i giocatori finivano per tuffarsi sugli spettatori o
salire l’uno sulle spalle dell’altro quando veniva spedita sulle balconate,
dove in genere erano fissati i canestri. Anche questi ultimi necessitavano di
una serie di messe a punto: il gran numero di cesti di pesche sfondati e
l’utilizzo di una scala da parte dell’arbitro per recuperare la palla dopo ogni
punto indussero le palestre a dotarsi di un anello di metallo a cui era fissata
una rete, chiusa sul fondo, che impazienti giocatori pensarono bene di
tagliare. Anche gli aiuti del pubblico, assiepato sulle balconate ogni
qualvolta la palla arrivava a lambire il canestro, richiedevano ulteriori
modifiche: venne aggiunto un pannello dietro al canestro, fissato non più a
muri e balconate, ma a un palo, per evitare che i giocatori si aiutassero nel
salto (o fossero aiutati dal pubblico).
Nato per formare, nelle parole di Gulick, «buoni corpi e una solida
morale», è quantomeno ironico che il basketball debba la sua
trasformazione da gioco collegiale a sport nazionale alla guerra e
soprattutto alla pessima condotta delle truppe statunitensi. Durante la
«spedizione punitiva» in Messico del generale John J. Pershing nel 1916 nel
tentativo di catturare Pancho Villa, i soldati americani si erano distinti
soprattutto per gli svaghi durante il tempo libero: alcol e prostitute, come
riportato da alcuni giornali. Così, per evitare un’analoga pubblicità
negativa, all’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917, le truppe sbarcate
in Europa furono accompagnate da un altro imponente esercito: le migliaia
di preparatori atletici dell’Ymca, ingaggiati per allenare e seguire le attività
sportive concesse durante le pause. Decine di migliaia di soldati impararono
il basket oltreoceano, e con il loro ritorno in patria alla fine del conflitto lo
resero parte integrante dell’American way of life.
Dalle glorie degli Original Celtics di New York (che dal 1915 al 1928
divennero così forti da vincere il 90% delle partite ed essere per questo
esonerati dal campionato) agli Harlem Globetrotters (i primi dei quali
reclutati da Abe Saperstein nel 1927 a Chicago e così chiamati perché erano
giocatori di colore, disposti a esibirsi ovunque), fino alle trovate tecniche
della star di Stanford Angelo Luisetti (inventore del one handed jump shot, il
tiro in sospensione con una mano sola), il basketball entrò nella sua fase
professionista durante gli anni venti e trenta; anche se fu di nuovo la guerra
(e il benessere economico che a essa seguì) a dare ulteriore slancio alla
promozione di questo sport: è del 1949 la creazione dell’Nba, la National
Basketball Association, che riunì le diciassette squadre di due associazioni
precedenti, e degli anni cinquanta la sua grande fortuna come spettacolo di
massa, grazie anche alla televisione.
Il resto è storia – per molti versi epica, con un gioco sempre più veloce,
atleti più alti e passaggi via via più spettacolari. È la sempre attesissima
sfida degli All-Stars con i suoi campioni (i migliori giocatori Nba della zona
Est contro quelli della zona Ovest) a catalizzare l’attenzione e i telecomandi
di milioni di americani, e ad aver dato fama imperitura a protagonisti come
Kareem Abdul-Jabbar, che fu selezionato e giocò quasi tutte le partite dal
1970 al 1989; o Julius Erving, pluripremiato campione degli anni settanta
famoso per le giocate spettacolari fatte di schiacciate e di passaggi senza
guardare; o Larry Bird, premiato sia come miglior giocatore sia come
miglior allenatore e incluso per ben dodici anni negli All-Stars. Come non
ricordare poi il già citato Michael «Air» Jordan (il soprannome deriva dalla
sua abilità nel salto), che si ritirò nel 1994 per darsi al baseball, salvo riunirsi
ai Chicago Bulls per tre stagioni, abbandonare di nuovo e tornare per altri
due anni dal 2001 al 2003? O l’altro pluriritirato e pluripentito, Earvin
«Magic» Johnson, playmaker dei Los Angeles Lakers e dell’Nba fino al suo
ritiro nel 1991, dopo l’annuncio shock della sua sieropositività. Johnson
tornò in campo nel 1992 con gli All-Star, lasciò per altri quattro anni per
tornare nel 1996 e disputare trentadue partite con i Lakers, ritirandosi
infine per la quarta (e definitiva) volta.
Altrettanto interessanti, almeno dal punto di vista etimologico, sono
molte delle squadre dell’Nba: gli Atlanta Hawks (= Falchi), il cui nome è
legato al capo sauk Falco Nero che combatté i coloni della zona, nelle Guerre
indiane (→) del 1831; i Los Angeles Clippers, dal nome dei velieri (= clippers)
che attraccavano a San Diego, città di origine della squadra; i New York
Knicks (abbreviazione di Knickerbocker, i pantaloni che i coloni olandesi
indossavano nel Seicento); i Philadelphia 76ers, in onore della Dichiarazione
d’indipendenza ivi redatta nel 1776; gli Orlando Magic (la cui magia allude
all’impero di Disneyland →); i Seattle Supersonic (in onore di un Boeing
progettato negli anni sessanta e con base a Seattle, mai peraltro costruito); i
Detroit Pistons (dalla fabbrica di pistoni del proprietario in Indiana); infine,
gli Houston Rockets (con riferimento all’industria aerospaziale) e i Los
Angeles Lakers, in origine Minneapolis Lakers (la cui regione, a differenza
della California, vanta migliaia di laghi). E proprio i Razzi e i Laghi furono al
centro di uno degli episodi più violenti che il basketball ricordi. Durante
l’incontro fra le due squadre al Los Angeles Forum il 9 dicembre 1977, sul
punteggio di 55 a 55, una rissa scoppiò fra due giocatori – Kevin Kunnert dei
Rockets e Kermit Washington dei Lakers – che i compagni tentarono invano
di dividere. Vedendo con la coda dell’occhio una figura avvicinarsi,
Washington si girò e istintivamente scagliò un pugno violentissimo, che
colpì il capitano della squadra avversaria, Rudy Tomjanovich, sotto il naso,
stendendolo al suolo in una pozza di sangue. Commozione cerebrale, ossa
facciali in frantumi, fuoriuscita del midollo spinale: Tomjanovich dovette
sottoporsi a cinque operazioni nel giro di un anno e fu costretto al ritiro,
nonostante i successi, dopo sole tre stagioni, all’età di trentatré anni.
Per Washington, espulso per un anno e con una multa di 10mila dollari,
fu l’inizio di un diverso, ma non meno difficile calvario: perseguitato dai fan
dei Lakers con lettere minatorie, fu subito venduto dopo la squalifica. A
nulla valsero i gloriosi trascorsi – l’ascesa ai massimi livelli dello sport dopo
un’infanzia nei ghetti di Washington, il ruolo di protettore della stella della
squadra, Kareem Abdul-Jabbar, durante le fasi più concitate del gioco. Non
da ultimo, a complicare le cose, Washington era un afroamericano: e la
sequenza dell’episodio, mandata in onda a ripetizione dalla televisione, non
fece che alimentare il fuoco del sempre latente razzismo. Passarono anni
prima che Washington riuscisse a ripulire la propria immagine e a essere
riammesso negli All-Stars. Nonostante le scuse ufficiali a Tomjanovich nel
1987, fra i due non fu pace fatta fino al 2000, quando Washington, dopo gli
insuccessi che seguirono al suo ritiro nel ruolo di ospite e commentatore
sportivo, e Tomjanovich (allenatore vittorioso dei Rockets e dopo aver
sconfitto l’alcolismo) si ritrovarono insieme alla presentazione del libro
sulle loro vite: The Punch: One Night, Two Lives, and the Fight that Changed
Basketball Forever. Dove non poté il gioco, poté la parola. Si dice che i due da
allora siano grandi amici… nel vero spirito di Naismith e Gulick.

BIBLIOGRAFIA
Stuart Berg Flexner, Listening to America. An Illustrated History of Words and
Phrases from Our Lively and Splendid Past, Touchstone Book, New York 1982.
Elliot J. Gorn, Warren Goldstein, A Brief History of American Sports, Hill and
Wang, New York 1993.
C. SCHIA.

Battelli a vapore
Il 20 ottobre 1811, un’imbarcazione di tipo insolito, il battello a vapore New
Orleans, lasciava il porto di Pittsburgh (Pennsylvania), dove i fiumi
Allegheny e Monongahela s’incontrano a formare il fiume Ohio: circa
trecentocinquanta tonnellate di stazza, due grandi pale tonde laterali, la
prua riservata alle merci, motore e fumaiolo collocati bene in vista nel
mezzo, una cabina a poppa suddivisa in due parti (una per le donne con solo
quattro cuccette ma arredata in maniera confortevole, una più ampia per gli
uomini), e anche due alberi completi di vele. Da Pittsburgh giù per l’Ohio
fino a Cairo (Illinois), e di lì giù per il Mississippi fino a New Orleans, dove
giunse il 10 gennaio 1812: il viaggio di questo battello a vapore inaugurò una
fase nuova nella navigazione sui fiumi (nel bel mezzo, ci fu perfino un
«battesimo del fuoco» – o, meglio, «di acqua e terra», con il devastante
terremoto che colpì la regione intorno alla cittadina rivierasca di New
Madrid → Big One e altre catastrofi).
Fino a quel momento, infatti, lungo l’Ohio, il Missouri e il Mississippi (le
grandi vie di comunicazione interne), a dominare erano state le zattere
(rafts), i barconi (keelboats) e le chiatte (flatboats). Le prime erano rozzi
manufatti che si lasciavano trasportare dalla corrente; le seconde
imbarcazioni a chiglia arrotondata, lunghe fino a venti metri, con travi
spesse e robuste tutt’intorno per assorbire urti di ogni genere, una tenda o
una vera e propria casupola nel mezzo a riparare uomini e merci da vento e
pioggia, un timoniere a poppa che manovrava con un lungo palo e alcuni
barcaioli che, quando si trattava di risalire la corrente, usavano remi o
spingevano su pali dalla punta rinforzata in ferro oppure ancora, da riva,
usavano robuste funi per trascinare il barcone; le chiatte, infine, erano
simili alle keelboats, ma con fondo piatto, solo un remo posteriore e due
laterali (per questo, erano anche dette broadhorns, «larghe corna»), e non
erano abilitate alla risalita: una volta giunte a destinazione, venivano
vendute come legname, e l’equipaggio e i passeggeri (contadini, mercanti,
coloni) tornavano indietro a piedi. In tutti i casi, si trattava di un procedere
lento e faticoso, adatto a uno stadio ancora embrionale di scambi lungo i
fiumi; e spesso avventuroso, se non pericoloso, per gli incontri-scontri con i
Native Americans non pacificati e con i molti pirati di fiume. Anche così,
tuttavia, il traffico era intenso. Un elenco delle merci trasportate lungo il
Mississippi tra la fine del 1810 e gli inizi del 1811 è indicativo: farina, bacon,
carne di maiale, lardo, mais, avena, burro, mercanzie varie per un valore
complessivo di più di 350mila dollari; e qualcosa come novemila barili di
whiskey, quattromila di sidro, e legname, canapa, filo di cotone, cordami,
legacci da scarpe, tessuti e biancheria di lino, mele e frutta secca, fagioli,
cipolle, tabacco, cavalli, maiali. Era chiaro però che era necessario qualcosa
di più rapido e affidabile di zattere, barconi e chiatte. Fu così che si arrivò al
New Orleans.
Quella steamboat era il frutto degli sforzi congiunti di Robert Fulton (il
costruttore), Chancellor Robert Livingston (il finanziatore) e Nicholas
Roosevelt (un pilota esperto). I tre non si limitarono a costruire il New
Orleans e a dimostrare la navigabilità del prezioso sistema fluviale Ohio-
Mississippi: abili uomini d’affari, riuscirono presto a farsi concedere il
monopolio del traffico sui due fiumi. Così, seguirono il Comet e il Vesuvius,
entrambi appartenenti al cartello Fulton-Livingston-Roosevelt, e in viaggio
downriver. Quindi, l’Enterprise nel 1815 e il Washington nel 1817, guidati da
Henry Miller Shreve, risalirono da New Orleans a Louisville, in venticinque
giorni. Oltre a inaugurare la navigazione upriver, «forzarono» il monopolio
dei tre: dopo una lunga battaglia legale, Shreve l’ebbe vinta, il monopolio fu
dichiarato illegale e s’aprì l’epoca della «libera navigazione». Shreve ideò
inoltre nuove imbarcazioni dallo scafo piatto e rettangolare, di scarso
pescaggio, munite di tre ponti (uno destinato ai macchinari, al carico,
all’equipaggio e ai passeggeri di terza classe; un boiler deck che costituiva
una sorta di piano nobile, con cabine, bar e sala da pranzo di gran lusso, e lo
hurricane deck che ospitava la cabina di pilotaggio e le cabine degli ufficiali).
Fece uso di motori ad alta pressione, di cilindri orizzontali e di valvole a
otturatore, per migliorare la funzionalità del battello e aumentarne la
velocità.
Così, le steamboats presero a navigare i principali fiumi d’America, in
un’epoca in cui le loro rive erano ancora pressoché deserte, a eccezione di
qualche tribù di Native Americans, di qualche forte e avamposto, di alcuni
minuscoli insediamenti di coloni. D’altra parte, keelboats e flatboats non
scomparvero subito, e dunque i grandi fiumi si fecero presto assai trafficati:
la navigazione fluviale divenne un grosso affare, ma anche un’impresa
ardua, sia per gli ostacoli naturali sia per il traffico intenso. La vita media
dei battelli – sottoposti agli imprevisti delle secche e dei tronchi nascosti e
alla pressione di velocità sempre più azzardate – era davvero breve, e il
business relativo alla loro costruzione, manutenzione e riparazione fu una
miniera d’oro per le cittadine rivierasche. Il capitano e il pilota diventarono
personaggi mitici, amati, riveriti, celebrati – e ricchi, come mostrano ancor
oggi le ville sontuose che ornano le colline intorno alle river towns. Il
folklore delle steamboats crebbe per tutto l’Ottocento, man mano che le
imbarcazioni si facevano più imponenti, ricercate, diversificate (ci saranno
anche circus steamboats e showboats, battelli-teatro che portavano di
cittadina in cittadina un loro repertorio: lo racconterà Edna Ferber nel
romanzo Showboat, del 1927, che trasformato in musical renderà celebre la
canzone «Ol’ Man River»).
Ma i battelli a vapore vollero dire soprattutto Samuel L. Clemens, che dal
pilotaggio sul fiume trasse il nom de plume, Mark Twain, e al mondo delle
steamboats – popolato dalla variegata umanità della Frontiera (→) –
dedicherà molte pagine: in particolare, i bellissimi capitoli iniziali, scritti
negli anni settanta e ambientati anni prima, di Vita sul Mississippi (1883), in
cui l’arte del pilotare e l’arte della scrittura realista che sta nascendo negli
Stati Uniti s’intrecciano e alimentano a vicenda. Come diceva il maestro-
pilota Horace Bixby all’apprendista Sam Clemens, «Vedi, c’è un solo modo
d’essere pilota, ed è quello d’imparare a memoria questo fiume intero. Devi
conoscerlo come l’abc» – anche a costo di perderne tutto il romance, il
fascino romantico.

BIBLIOGRAFIA
Louis C. Hunter, Steamboats on the Western Rivers. An Economic and
Technological History, Harvard University Press, Cambridge 1949.
Mario Maffi, Mississippi. Il Grande Fiume: un viaggio alle radici dell’America, il
Saggiatore, Milano 2009.
M.M.
Bayou
La parola è d’origine choctaw (bayuk) e significa «rivolo», «corso d’acqua più
o meno stagnante», che esce da un fiume o da un lago. Negli stati del Sud, e
in particolare Florida, Alabama, Mississippi, Louisiana, Texas, i bayou sono
una componente suggestiva delle geografie rivierasche – fitti meandri
ricoperti di vegetazione acquatica, le barbe di Spanish moss (Tillandsia
usneoides) a creare intricati festoni su alligatori, pellicani e fenicotteri,
procioni e pesci-gatto… Nella Bassa Louisiana, in particolare, i bayou che si
dipartono dal Mississippi e dall’Atchafalaya fanno parte dell’habitat dei
cajun (→): traversano boscaglie intricate e svirgolano verso coste sempre
più tempestate da marosi e uragani, vittime sacrificali del «re petrolio» e
dei molti agenti chimici rovesciati nei fiumi e nel Golfo del Messico. Un
mondo magico e misterioso, ma anche inquietante; un universo quasi
tropicale (non a caso, nei bayou della Bassa Louisiana venne girato il primo
Tarzan della storia del cinema, nel 1916), in cui si mescolano ancor oggi, in
maniera molto contraddittoria, una natura quasi primigenia e le
spasmodiche tensioni dello sfruttamento industriale – come ha narrato, in
maniera mirabile, il grande documentarista Robert Flaherty nel film a
soggetto Louisiana Story (1948), e come, più di recente, l’uragano Katrina
prima e il disastro della piattaforma petrolifera Deep Horizon poi hanno
portato drammaticamente alla ribalta. Il bayou è al centro di opere
letterarie (Kate Chopin, Bayou Folk, 1894) e di innumerevoli canzoni cajun,
tradizionali o recenti («Bayou Pon Pon», «Valse de Bayou Tèche», «Bayou
Lafourche», «Alligator Bayou», tanto per citarne alcune). Era lungo Bayou
St. John, allora molto più ampio e articolato, ai margini settentrionali di
New Orleans e oggi parte della città, che si tenevano, nei decenni subito
dopo la Guerra civile, i grossi raduni voodoo organizzati da Marie Laveau e
dalla sua omonima figlia. È lungo i bayou intorno al fiume Sabine, al confine
fra Texas e Louisiana, in piena Grande depressione (→), che Joe R. Lansdale
ha ambientato uno dei suoi noir più affascinanti e inquietanti, In fondo alla
palude (2000). Ed è su uno dei bayou della Bassa Louisiana che vive il
protagonista della serie di romanzi noir di James Lee Burke, dedicati alla
figura del detective Dave Robicheaux – abile trasposizione in un contesto
«altro» d’un genere nato urbano.
BIBLIOGRAFIA
Edwin Adams Davis (ed.), The Rivers and Bayous of Louisiana, Pelican
Publishing Company, Gretna 1998.
Christopher Hallowell, People of the Bayou. Cajun Life in Lost America, E.P.
Dutton, New York 1979.
Mike Tidwell, Bayou Farewell. The Rich Life and Tragic Death of Louisiana Cajun
Coast, Pantheon Books, New York 2003.
M.M.

Bebop
La Grande depressione (→) aveva spazzato via la gaudente età del jazz (→
Jazz Age), ma i complessi musicali, seppure tra gli stenti, erano
sopravvissuti e, dopo un decennio di alti e bassi, ritornarono in auge
intorno al 1940. A New York le band swing di Benny Goodman, Count Basie,
Duke Ellington, Cab Calloway e Fletcher Henderson dominavano la scena
musicale e i loro spettacoli facevano sempre il tutto esaurito. I musicisti
guadagnavano bene, ma la loro creatività rimaneva intrappolata nello
spazio delle poche battute in cui gli era concesso di alzarsi in piedi e andare
in assolo. Molti, allora, presero l’abitudine, terminato lo spettacolo al Savoy
o al Roseland – due delle sale da ballo più frequentate della città – di
dirigersi verso la Minton’s Playhouse, un piccolo locale sulla 118a Strada.
Qui i musicisti si abbandonavano a lunghe jam session nelle quali davano
sfogo al loro estro. Sul palco andavano in scena autentiche battaglie: solo
chi riusciva a seguire e rispondere ai cambi di tonalità e alla velocità dei
musicisti più esperti si guadagnava il diritto di continuare a suonare. E, per
tenere alla larga i novellini e i meno bravi, i veterani del Minton’s
inventavano sempre nuove trovate.
In quelle interminabili serate prese forma il bebop (inizialmente noto
anche come rebop), il nuovo stile che avrebbe cambiato le sorti del jazz,
trasformandolo da mero genere di consumo a musica colta. Variazioni
nell’accompagnamento, azzardi armonici, esperimenti sui timbri
cominciarono a circolare e amalgamarsi in un linguaggio autonomo, fatto di
ritmi veloci e melodie costruite su sequenze di note brevi. Ogni pezzo
cominciava e finiva con tromba e sassofono che esponevano il tema
all’unisono – in mezzo, le variazioni dei solisti, che esploravano le
potenzialità armoniche dei brani, utilizzando gli accordi tradizionali in
configurazioni insolite e facendo ricorso a sequenze di note inconsuete.
L’intervallo di quinta diminuita discendente diventa una sorta di marchio di
fabbrica – secondo alcuni il termine bebop deriverebbe appunto dalla sua
riproduzione onomatopeica.
Ma ci sono anche altre versioni sull’origine del nome. Il sassofonista
Budd Johnson ricorda che Dizzy Gillespie, il trombettista che fu tra i
principali animatori delle jam session, era solito canticchiare i motivi agli
altri musicisti, producendosi in melodie che suonavano come dei «doop bop
doo ba» – il pubblico allora cominciò a chiedergli di suonare qualcuno dei
suoi «bebop».
Altri ricordano che Teddy Hill, il gestore del Minton’s, ascoltando le
figurazioni sincopate del batterista Kenny Clarke, ebbe a dire «che diavolo è
quel kloop-mop?». Un’altra ipotesi fa risalire il termine agli «Arriba arriba»
urlati da avventori ispanici in segno di apprezzamento per momenti
esecutivi di particolare energia e intensità. «Arriba» si sarebbe trasformato
in «rebop» e infine «bebop».
Anche il poeta afroamericano Langston Hughes propose una personale
etimologia. Un suo personaggio sostiene che i suoni BOP BOP BE-BOP sono quelli
prodotti dai manganelli con i quali i poliziotti colpiscono i neri: questi
ultimi, non potendo reagire, sfogavano la rabbia accumulata sugli strumenti
musicali – «è da lì che viene il bebop, dai colpi che i neri picchiano nelle
trombe e nei sassofoni, sulle corde delle chitarre e sui tasti dei pianoforti» –
l’unico modo in cui potevano rispondere alla violenza subita e alla
discriminazione. Hughes ci ricorda di non trascurare l’importanza del
contesto nel quale il bebop prese forma. Nel 1935 e nel 1943, a Harlem (→)
erano scoppiati gravi disordini – la Grande depressione aveva acuito il
disagio della popolazione afroamericana, piagata da una disoccupazione che
aveva duramente colpito la comunità. Era dunque inevitabile che il bebop si
caricasse di significati che andavano oltre il fatto musicale e la ribellione dei
jazzisti neri si prestò a essere letta come tentativo di emancipazione dalla
schiavitù delle orchestre, la riappropriazione di una tradizione musicale e la
sua trasformazione in armonia con i mutamenti del contesto urbano.
Il lavoro di elaborazione del bebop fu un processo collettivo, ma furono
due le figure dominanti: Dizzy Gillespie (1917-1993) e il sassofonista Charlie
«Bird» Parker (1920-1955). Fra i due nacque un rapporto simbiotico e
complementare, riassunto dal cantante Billy Eckstine: «Si deve a Bird più
che a chiunque altro il modo in cui fu suonata quella musica, ma è merito di
Dizzy se fu messa per iscritto».
Gillespie, originario del South Carolina, aveva studiato musica sin da
piccolo ed entrò presto nel giro delle orchestre swing (con Teddy Hill prima
e Cab Calloway poi). Era molto richiesto come arrangiatore – suoi i due
brani con i quali si fa tradizionalmente iniziare il bebop, «Night in Tunisia»
e «Salt Peanuts». Parker, nativo di Kansas City, fu autodidatta: la sua scuola
furono i blues della tradizione, ripetuti infinite volte nelle pause del lavoro
da lavapiatti. Anche lui ebbe un’esperienza nei complessi swing (con Jay
McShann), ma il suo temperamento gli rendeva difficile sottostare alla loro
severa disciplina.
I due s’incontrarono al Minton’s intorno al 1943 e per un certo periodo
divennero inseparabili, dando vita a un quintetto che fece furore nei locali
della 152a Strada. Attorno a loro ruotò un piccolo esercito – di cui val la
pena ricordare il geniale e scomposto pianista Thelonious Monk (autore di
alcuni dei classici del repertorio jazzistico di sempre, da «Round Midnight»
a «Ruby My Dear» a «Misterioso»), il batterista Max Roach, e un timido
ragazzino di St. Louis, esecutore compassato ma fine conoscitore della
teoria musicale: Miles Davis. Sostituto di Gillespie nel quintetto di Parker,
Miles sarà in seguito uno dei protagonisti della definitiva affermazione del
jazz come musica colta della tradizione occidentale.
La stagione del bebop fu molto breve e intensa – così come furono, del
resto, tutti i brani del suo repertorio, costretti nei tre minuti di
registrazione consentiti dai dischi di allora, i 78 giri. Al principio, quando
era ancora la novità del momento, il bebop ottenne un notevole riscontro
commerciale. L’elemento colto però, e il fatto che non fosse una musica da
ballare ma da ascoltare, allontanarono il pubblico meno raffinato, che era in
cerca di qualcosa di più semplice, orecchiabile e canticchiabile. La diffusa
dipendenza dalla droga, poi, compromise la maturazione artistica di tanti
giovani che cominciarono a consumare eroina nell’illusoria convinzione
che ciò li avrebbe aiutati a suonare come Bird.
Quest’ultimo, minato nel fisico da ulcera e cirrosi epatica, morì per un
attacco cardiaco il 12 marzo del 1955 – involontario precursore di una serie
di decessi prematuri di celebri musicisti, da Jimi Hendrix a Janis Joplin. La
sua tormentata esistenza è stata portata sul grande schermo da Clint
Eastwood (Bird, 1988), con l’attore Forest Whitaker nei panni di Parker:
molto efficace la scena in cui il musicista, sofferente e malandato, durante la
registrazione di «Lover man» non riesce a far esplodere il tema in un assolo
dei suoi, metafora di uno stile di vita sregolato che non permetteva più a
Bird di distendere le ali. Tocca a noi farlo librare in volo, riascoltando «Ko-
ko», «Ornithology», «Yardbird Suite», «Oh Lady Be Good» e soprattutto
quel capolavoro di leggerezza che sono le sue performance con
accompagnamento dell’orchestra d’archi, Charlie Parker with Strings (1951).

BIBLIOGRAFIA
Luca Cerchiari, Il jazz. Una civiltà musicale afroamericana ed europea, Bompiani,
Milano 1997.
S.M.Z.

Bidoni della spazzatura


Fra le molte ricadute del complesso e travagliato processo di formazione
nazionale, oltre alla nascita di una letteratura con caratteristiche autoctone,
si ebbero anche il delinearsi progressivo di una rottura con i canoni
imitativi in campo pittorico e l’affermazione di stili e soggetti americani.
Per prima, la Hudson River School of Painting, animata da pittori come
Thomas Cole, Frederick Edwin Church, Albert Bierstadt, Asher B. Durand,
Thomas Moran, di pari passo con le prime prove letterarie di un
Washington Irving, di un Ralph Waldo Emerson, di un Henry David Thoreau,
colse la specificità del paesaggio naturale lungo quell’altro fiume
primigenio che, insieme al Mississippi River, fu l’Hudson River (e dintorni
→ Vie d’acqua). In seguito, man mano che la frontiera si spostava a ovest, la
pittura degli spazi aperti (con Albert Pinkham Ryder e Ralph Blakelock, o gli
stessi Church e Bierstadt, o – con uno stile più popolare – George Caleb
Bingham) cercò di restituire lo stupore silenzioso, panico e romantico, o
gioioso, davanti alle Grandi pianure e alle Montagne Rocciose, mentre i
«panoramisti» (John Banvard, Henry Lewis), autori di tele lunghe decine e
decine di metri da srotolare davanti a una fonte di luce (quasi
un’anticipazione del cinema), tentavano di restituire gli affascinanti scenari
che si mostravano lungo le rive dei fiumi. Poi, con George Catlin, Frederic
Remington e Charles M. Russell (il primo, con un approccio «simpatetico» e
antropologico, il secondo e il terzo con una vena molto più agiografica o
nazionalista), furono l’incontro/scontro con l’indiano e la vita sulla
Frontiera (→) a occupare il proscenio di questa pittura nazionale. Quindi,
sarebbero venuti la flora e la fauna indigene catturate dalla penna e dal
pennello di John James Audubon e, verso la fine dell’Ottocento, in una sorta
di ritorno all’Est, le spiagge spazzate dai venti e i marosi che tormentano le
barche di pescatori immersi in una luce cristallina delle tele di Winslow
Homer.
In particolare, a Philadelphia, verso la fine dell’Ottocento, alcuni giovani
pittori cresciuti alla scuola vigorosa di Thomas Eakins (e non di rado passati
attraverso un Grand Tour europeo in anni significativi e innamoratisi di
Rembrandt, Hals, dei fiamminghi) cominciarono a elaborare uno stile e una
tecnica distintivi, di stampo ancor più fortemente realista, in stretto
collegamento con la stagione del realismo e naturalismo letterari e con
l’evolvere di un giornalismo di denuncia (→ Muckrakers), urbano e
militante, che presupponeva, accanto a testi polemici o critici, immagini
crude e dirette, non retoriche, tratte dall’esperienza immediata della
sfaccettata e cangiante realtà metropolitana e frutto di una sorta di
«stenografia attraverso il disegno» (molti di questi artisti avrebbero svolto
il proprio apprendistato come illustratori di giornali «inviati sul posto», a
schizzare con rapidità scene metropolitane, da sviluppare in seguito, una
volta tornati in redazione).
Gli Otto, come amavano chiamarsi questi giovani (Robert Henri, John
Sloan, George Luks, Everett Shinn, William Glackens, Ernest Lawson,
Maurice Prendergast, Arthur Davies, cui si sarebbe aggiunto George
Bellows), trasferitisi in seguito o già attivi a New York, e spinti da un
polemico e sincero interesse per gli aspetti meno noti della metropoli (o
meno esplorati da una pittura accademica d’imitazione), si diedero a
dipingere, con pennellate sporche, dense e intense, a metà fra il realismo e
l’espressionismo, tele e bozzetti di «vita negli slums» e, più in genere, «nella
città che sale», con un’insistenza e omogeneità di soggetti (pur
nell’originalità degli stili personali) che guadagnò loro il soprannome –
affibbiato dalla spocchiosa e sprezzante critica ufficiale – di Ash-Can School,
la Scuola dei Bidoni di Spazzatura (più precisamente, l’ash-can è il bidone in
cui per strada venivano raccolti ceneri, stracci e rifiuti – un elemento
centrale nei panorami dei bassifondi cittadini). Ritratti di gente comune,
scene di incontri di boxe, vignette comiche o satiriche (Luks sarà tra gli
illustratori di uno dei primi fumetti, quello di «Yellow Kid» → Comics),
strade urbane immerse nella neve, interni di caffè e trattorie, saloon e altri
ritrovi, scorci di metropolitane e sopraelevate, i cortiletti sul retro o i tetti
piatti delle case, gli spettacoli dei teatrini popolari, cantieri e scavi nella
metropoli in sviluppo, argini di fiume e terrapieni di ferrovie, la folla nelle
vie di giorno e di sera, i bambini nei parchi e gli accattoni, la realtà
formicolante dei casermoni popolari – l’ampia produzione degli Otto creò
un multiforme, appassionato e umano ritratto di New York all’alba del
Novecento (né va dimenticato che il filone realista in quegli anni andava al
di là degli Otto: lo testimoniano i disegni di «gente del Ghetto» fatti da Jacob
Epstein, prima del suo decisivo viaggio inglese, per il volume di Hutchins
Hapgood The Spirit of the Ghetto, del 1902, o i quadri di un più appartato ma
non meno efficace Jerome Myers).
Il 1913 segnò in certo qual modo la svolta. In quell’anno, gli Otto si
fecero promotori di una grande mostra che si tenne a New York, nei locali
dell’arsenale del 69º reggimento, sulla Lexington Avenue, fra la 25ª e la 26ª
Strada (non era insolito, in quel periodo, utilizzare i vasti spazi degli
arsenali per mostre di pittura). L’Armory Show, come passò alla storia,
doveva celebrare l’incontro dell’arte americana (rappresentata per
l’appunto dal realismo degli Otto) e di quella europea, praticamente
sconosciuta al pubblico statunitense. Ma l’impatto con le avanguardie
europee, con i Braque, i Picabia, i Picasso, i Rouault, con i «nudi che
scendono le scale», fu tale, fra scandalo ed entusiasmo, da ricacciare in
secondo piano i «bidoni della spazzatura». Eppure, se l’esperienza degli
Otto ebbe vita breve, e se il modernismo pittorico occupò presto la scena,
dirigendosi via via verso il cubismo e l’astrattismo, il filone realista non
scomparve: lo ritroveremo sulle pagine di riviste politiche significative
anche se di breve durata come The Masses, dove il segno degli Otto si
alternerà a una grafica aggressiva e a vignette satiriche di notevole livello, e
nel primo Joseph Stella, e poi, negli anni trenta dominati da miseria e
disperazione, ma anche da lotte e proteste, in William Gropper, in Philip
Evergood, nei fratelli Raphael, Moses e Isaac Soyers (i ritratti della gente
comune del Lower East Side, le scene di picchetti e manifestazioni, il lavoro
quotidiano, i disordini urbani), o ancora nei pittori afroamericani Horace
Pippin, Jacob Lawrence, Archibald Motley (una Harlem [→] che conosceva o
aveva conosciuto il proprio «Rinascimento», ma che era pur sempre un
ghetto) e nelle tele di un Ben Shahn (la serie dedicata a Sacco e Vanzetti, le
immagini della Grande depressione), di un Reginald Marsh (affascinato dallo
spettacolo popolare e dall’intreccio dei corpi sulla Bowery [→] o a Coney
Island →), di un Ralph Fasanella (con le sue scene di massa, di un naïf
colorato e appassionato), di un Thomas Hart Benton (con i suoi ampi
murales che ricordano quelli di Diego Rivera) – e in fondo anche nelle scene
urbane di un Edward Hopper, sia pure congelate in una luce quasi astratta.
Nel secondo dopoguerra, l’allontanamento dal filone realista si fece
ancor più marcato, in favore dell’action painting di Jackson Pollock o
dell’espressionismo astratto di Willem De Kooning o Mark Rothko, e più
tardi della pop art (che comunque mantiene alcuni elementi di realismo,
pur in un’impostazione lontana da ogni intento polemico), mentre realisti
critici come Jack Levine o Leon Golub operavano quasi dimenticati. Fuga
dalla realtà? Espressione della Guerra fredda (non senza lo zampino del
Dipartimento di Stato)? Strategia consapevole del grande mercato dell’arte?
Un libro come quello di Frances Stonor Saunders (La guerra fredda culturale,
2004) pone molte domande e offre molte (inquietanti) risposte.
Fatto sta che gli Otto con i loro «bidoni della spazzatura» furono per
lungo tempo rimossi. Ma non dimenticati: nei ghetti d’America, giovani
muralisti (per esempio, organizzati nel City Arts Workshop di New York o in
altri gruppi o coalizioni locali di Chicago o San Francisco) oppure
disegnatori come Eric Drooker e Seth Tobocman (che tornano alla
tradizione dei «romanzi senza parole» di Giacomo Patri e altri, negli anni
trenta e quaranta), in maniera consapevole o meno, voluta o meno, a quel
filone si sono riallacciati, e il fiume carsico è tornato a scorrere con vigore
in superficie.

BIBLIOGRAFIA
Bruno Cartosio, New York e il moderno. Società, arte e architettura nella metropoli
americana (1876-1917), Feltrinelli, Milano 2007.
Philip S. Foner, Reinhard Schultz, The Other America. Art and the Labour
Movement in the United States, Journeyman Press, London 1985.
Bennard B. Perlman, The Immortal Eight. American Painting from Eakins to the
Armory Show, 1870-1913, North Light Publishers, Cincinnati 1979.
Paul Von Blum, The Critical Vision. A History of Social & Political Art in the U.S.,
South End Press, Boston 1982.
Rebecca Zurier, Art for The Masses. A Radical Magazine and Its Graphics, 1911-
1917, Temple University Press, Philadelphia 1988.
—, Picturing the City: Urban Vision and the Ashcan School, University of
California Press, Berkeley 2006.
M.M.

Big Apple
«Scrapple from the apple», cantavano negli anni trenta e quaranta del
Novecento i boppers – i musicisti jazz (→ Bebop), per i quali New York era
davvero una bella mela da addentare, l’occasione della vita, dove, secondo
una opinione diffusa all’epoca, si suonava il jazz migliore di sempre (con
buona pace della sua culla, Storyville →). Difficile tracciare le origini del
termine, che si perde in mille rivoli, immagini e lingue. Di sicuro, di New
York come una mela già si parlava a inizi Novecento, quando Edward S.
Martin, il curatore di un’antologia di storie della città intitolata The
Wayfarer in New York (1909), sosteneva che «New York non è che uno dei
frutti di quel grande albero le cui radici affondano nella valle del Mississippi
e le cui fronde si estendono da un oceano all’altro: ma l’albero non ama
molto il suo frutto. È incline a pensare che la grande mela riceva una
quantità sproporzionata della sua linfa».
«Big Apple» era al contempo un’espressione usata in ambito sportivo
per indicare le corse dei cavalli in Idaho, North Dakota e altri stati limitrofi,
e in seguito legata a New York per questioni, potremmo dire, di «portate
culinarie»: se infatti il duro lavoro coi cavalli sulle piste del Midwest era
considerato il «pasto», la possibilità di debuttare sui turf di New York
diventava il dessert, la ciliegina sulla torta: la Grande Mela, dicevano fantini
(ed equini, notoriamente golosi di quel frutto). A renderla popolare in
quest’accezione fu un giornalista della pagina sportiva del Morning
Telegraph, John J. Fitzgerald, che la usò con regolarità nei sette anni di
servizio, dal 1921 al 1927, consolidandone così l’uso fra gli appassionati.
Agli inizi degli anni venti, l’espressione servì per traslato a indicare gli
eventi importanti, i pezzi grossi del mondo finanziario e artistico, i successi
strabilianti: così «grandi mele» potevano diventare di volta in volta
Broadway (→), i concerti jazz, persino i balli (era stato così ribattezzato uno
di questi, di moda al Savoy di Harlem: passi fra swing e charleston eseguiti da
quattro o più ballerini in cerchio). Insomma, tutto ciò che stava a indicare
l’apice del successo, il frutto (talvolta proibito) che s’intravedeva fra le luci
della metropoli e pendeva dai rami di una città che, come un albero,
cresceva sempre più verso l’alto (→ Grattacieli), nelle cui strade simili a
radici scorrevano la linfa della vita, la frenesia e i sogni di successo. Quale
posto migliore per coronarli dunque se non New York? Be’, almeno fino agli
anni della Grande depressione (→), quando si scoprì che la lucentezza della
buccia nascondeva il marcio della polpa e quella Big Apple si trasformò in
una «città perduta». Così intitolava Francis Scott Fitzgerald uno dei suoi
racconti più suggestivi, in cui l’autore, guardando dall’alto di un edificio la
città-mondo che pensava infinita e ora senza il bagliore dorato degli «anni
ruggenti», si rendeva conto che in realtà aveva dei confini. Più che una mela
invitante, la città pareva «una signora della notte, che alla luce del sole
sembra più una ragazzina appena sveglia, che la sera prima è andata a
dormire senza togliersi il trucco», come dirà un anonimo visitatore. E la
decadenza, l’altra faccia del suo fulgore, si irradierà ancora una volta dal
suo centro: da Broadway e in particolare da Times Square che, da luogo di
promessa e divertimento sfrenato, si era trasformata sempre più in sordido
epicentro del vizio e del crimine.
Per circa tre decenni nessuno parlò più di mele e altri frutti proibiti: fino
a quando, nel 1971, Charles Gillett, all’epoca presidente del New York
Convention and Visitors Bureau, resuscitò l’espressione per rinverdire i
fasti della città – e soprattutto per seppellire nel dimenticatoio il
precedente e piuttosto patetico soprannome di «Fun City» in voga dagli
anni sessanta. Accanto alla mela, apparve anche il cuore – quello che il
grafico Milton Glazer inserì nella frase «I Love New York»; e pace sembrò
fatta fra la città e il successo. Eppure, la Big Apple qualche baco lo rivela
sempre: come all’inizio degli anni novanta, quando l’incremento di
criminalità, vizio e corruzione spinse Time a proclamare ancora una volta
«marcia» la Grande Mela.
Chiarita l’origine e la genesi dell’espressione? No di certo. Molte teorie
ancora fioriscono, compresa quella di una «città-mondo» – sferica come la
terra, e come una mela. Anche se l’ipotesi più affascinante è forse quella per
cui «Big Apple» nascerebbe addirittura nei bordelli di New Orleans (→
Congo Square) e nei quartieri dei latinos (→ Chicanos; → Nuyorican), come
traduzione di «manzana [= mela] principal», che indicava di traslato la
strada o la zona centrale di una città, il luogo di svago e di divertimento;
un’espressione portata al nord dai boppers di cui si diceva, arrivati dopo
lunghi e tortuosi viaggi dal Sud o da St. Louis (→ Gateway Arch) a tentar la
sorte e sbocconcellare il frutto del successo. Mescolanza di lingue e di slang,
di genti e migrazioni, di divertimenti e malaffare, di musica e strada: al di là
di fantini, cavalli e invenzioni pubblicitarie, forse è questa la mela di cui, più
di ogni altra, parliamo quando parliamo di New York.

BIBLIOGRAFIA
Irving L. Allen, The City In Slang. New York Life and Popular Speech, Oxford
University Press, New York 1995.
Gerald L. Cohen, Origin of the City’s Nickname, «The Big Apple», Peter Lang,
Frankfurt 1991.
C. SCHIA.

Big One e altre catastrofi


Quando si dice «Big One» – «quello grosso» – si pensa subito alla California
e al terremoto che la dovrebbe mettere in ginocchio da un momento
all’altro. Come conseguenza di ciò che uno storico ha definito la
«californizzazione» del rischio sismico (ovvero il bombardamento
mediatico circa la situazione geologica assai reattiva dello stato più
scenografico del continente nordamericano), la faglia di San Andreas (San
Andreas Fault) è assurta a fama mondiale, insieme ai micidiali movimenti
tellurici che starebbe covando da almeno cinquant’anni. Nel Novecento, la
California è stata colpita più volte da terremoti mortali, tra cui ricordiamo,
dal più recente al più lontano: Northridge-Reseda (1994), Loma Prieta
(1989), Santa Barbara (1925) e San Francisco (1906, matrice immaginifica,
quest’ultimo, per i «Big One» a venire). A rendere la San Andreas Fault così
unica e spettacolare è il fatto di essere la faglia trasformativo-trascorrente
(una spaccatura tra due placche continentali, nordamericana e pacifica, in
costante attrito) più visibile sulla terra: lunga più di 1200 chilometri, corre
sotto l’intero territorio della California. A oggi, l’episodio più importante
dell’attività sismica della San Andreas Fault rimane il terremoto che fece
tremare San Francisco l’8 aprile 1906. La scossa, di 7.7-7.8 magnitudo,
provocò smottamenti che andarono a recidere i cavi elettrici e le
condutture del gas, portando a una serie di deflagrazioni a catena nei tre
giorni successivi. Le case di due terzi dei cittadini cedettero, i quartieri più
danneggiati risultarono il Business District, Chinatown, Mission e Market
Street. Le stime ufficiali di quei tre giorni, mai suffragate da dati certi,
furono di «soli» cinquecento morti, una cifra che accurate ricerche svolte
nei decenni successivi avrebbero alzato a tremila-cinquemila. Preoccupati
del contraccolpo finanziario che una cattiva pubblicità di zona a rischio
sismico poteva comportare, tanto le compagnie ferroviarie quanto gli
agenti immobiliari che guidavano l’economia di San Francisco preferirono
divulgare l’ipotesi dell’incendio – a scapito di quella del terremoto – e
scaricarono le responsabilità delle rovine sul cattivo approvvigionamento
idrico urbano. Nacque così il progetto di un acquedotto che collegasse la
Hetch Hetchy Valley (all’interno del parco nazionale di Yosemite; → Yoghi)
alla Baia di San Francisco, contro cui si sarebbe opposto, strenuamente ma
senza successo, l’ambientalista ante litteram John Muir. Per la devastazione
fisica e psicologica che caratterizzò i tre mesi successivi al terremoto-
incendio, il crollo di San Francisco dovette imprimersi con straordinario
vigore nell’immaginario nazionale, anche grazie ai puntuali resoconti dei
giornali e dei primi documentari cinematografici. Fu Jack London, che allora
viveva nel suo ranch di Glen Ellen, vicino a San Francisco, a scrivere – su
commissione ben remunerata del Collier’s Magazine di New York – uno dei
primissimi racconti di quei giorni di fuoco della città: «Mai, nella storia, una
città imperiale moderna è stata così completamente distrutta. San
Francisco, oggi, è come il cratere di un vulcano, attorno al quale
campeggiano le tende di migliaia di sfollati». Da lì a un trentennio, sulla scia
del terremoto di Santa Barbara del 1925, Hollywood decise di tornare sulla
débâcle del 1906 con San Francisco (1936), film dai toni melodrammatici che
si chiudeva con la scena della scossa, lunga venti minuti.
In anni più recenti, la Baia di San Francisco ha tremato ancora nel 1989,
con il terremoto di Loma Prieta che si è abbattuto sulla zona «yuppie» di
Marina (vicina al Golden Gate Bridge [→] e ricostruita in pochissimo tempo)
e, ancora una volta, sul quartiere malfamato di South Market, ulteriormente
impoverito dalla distruzione delle case popolari. Quando, cinque anni dopo,
un’altra città californiana si ritrova al centro di un terremoto non è per via
della San Andreas Fault, bensì di una faglia cieca (che rompe cioè in
profondità), e l’epicentro si sposta verso sud, tra Northridge e Reseda, due
quartieri di Los Angeles: la magnitudo è di 6.7, ma l’accelerazione della
rotazione della terra è una delle più forti mai registrate in un’area urbana
statunitense e la lista di serie televisive e film le cui riprese devono essere
interrotte per le scosse sismiche è lunghissima, da General Hospital a Star Trek
(→ Serie tv).
Se, anche sulla scorta di una nutrita batteria di studi critici
sull’argomento, è giusto associare il termine «Big One» al terremoto che da
qui a vent’anni dovrebbe sprigionarsi dalla parte più meridionale della
faglia di San Andreas, c’è però chi sostiene un’ipotesi leggermente diversa,
individuando la madre dei «Big One» futuri in tutt’altra area geografica:
lungo la New Madrid Fault Line, coincidente con il corso più basso del
Mississippi. Fu infatti una città di pionieri posizionata 140 miglia sotto la
foce del fiume Missouri, New Madrid, a essere colpita implacabilmente da
un terremoto di 8.2 magnitudo il 16 dicembre 1811 e nei primi mesi
dell’anno successivo, con danni diretti a un’area grande quanto il Texas. Le
scosse furono sentite ben oltre i confini dello stato del Missouri e l’artista e
naturalista John James Audubon avrebbe poi raccontato di aver visto il cielo
farsi scuro verso ovest, mentre cavalcava nel vicino Kansas. Con la scossa di
dicembre, che ebbe come epicentro l’Arkansas nordorientale, una seiche
sismica (l’onda d’acqua che si forma solitamente nei bacini chiusi come i
laghi quando c’è un terremoto) si propagò controcorrente lungo il
Mississippi e la città di Little Prairie ne fu distrutta. A parte l’illusione –
destinata a ripetersi in altri momenti della storia del fiume, come
nell’alluvione del 1927 – che le acque si muovessero al contrario, per lo
meno nel tratto del Kentucky Bend (il grande meandro che separa
Kentucky, Missouri e Tennessee), la potenza delle ondate sradicò gli alberi e
fece crollare gli argini. Ma le scosse tornarono, causate dalla Reelfoot Fault,
ancora più forti, il 23 gennaio e il 7 febbraio 1812 (rispettivamente di 8.1 e
8.3 magnitudo), lambirono molte abitazioni di St. Louis e furono avvertite a
Washington D.C., in Virginia, South Carolina, Indiana, Idaho, oltre che a
New York e Boston. Lo sciame sismico sarebbe durato fino al 1817.
L’impatto sul Mississippi fu portentoso: l’azione di stravolgimento del suo
corso prodotta dalla seiche formò infatti una serie di cascate e un lago, il
Reelfoot Lake. La portata catastrofica del terremoto di New Madrid
suggellava un anno per molti versi «orribile» che, già ribattezzato «anno
delle acque» per aver portato in dote le inondazioni primaverili dei fiumi
Ohio e Mississippi, era nato sotto il segno infausto della Grande Cometa del
1811, araldo di cattive novelle e di fatti soprannaturali.
A proposito di catastrofi, alle prese con la prima trattazione sistematica
della morfologia delle Montagne Rocciose nella seconda metà
dell’Ottocento, con le opere Systemic Geology (1878) e Catastrophism and
Evolution (1877) il geologo americano Clarence King avrebbe confutato la
validità universale dei principi «uniformitarianisti» – incentrati su una
sostanziale gradualità dei cambiamenti geomorfologici – dell’inglese
Charles Lyell (Principi di geologia, 1830-1833) a vantaggio di una teoria
improntata al «catastrofismo»: all’alternanza, cioè, di cambiamenti continui
e impercettibili e di violenti sollevamenti.
Con il vantaggio prospettico di un paio di secoli, il paradigma
cataclismatico abbracciato da Clarence King aiuta a spiegare la geografia di
alcune regioni degli Stati Uniti – su tutte, la California, la Florida, il bacino
del Mississippi – in cui i fenomeni che modellano l’ambiente tendono a
darsi in catene causali sempre più violente, concorrendo ad alimentare
quella vena americana di letteralismo biblico e apocalittico che impregna di
sé, in misura uguale, la fantasia popolare e la cultura «alta». Certo, i
terremoti non rappresentano le uniche preoccupazioni di un paese che, per
posizione geografica, con i flagelli naturali convive da sempre: uragani,
tifoni, alluvioni, tempeste di sabbia e tormente di neve non cessano di
giocare un ruolo di primo piano nella storia dei «disastri» statunitensi. Il più
rovinoso uragano di quella storia risale, tanto per non sfatare suggestioni
millenariste ed escatologiche, all’anno 1900. Su un’isoletta nella costa
texana del Golfo del Messico, Galveston (già approdo poco propizio per
l’esploratore spagnolo Cabeza de Vaca, in seguito al suo naufragio nel 1528),
l’8 settembre 1900 si abbatté un uragano che, nel giro di poche ore, la
sommerse per intero, provocando la morte di seimila persone e
conquistandosi il triste primato di maggiore disastro naturale nella storia
del paese di sempre: per avere un’idea arbitraria dell’intensità della
devastazione, si può ricordare che le vittime accertate dell’uragano Katrina,
del 2005, sono state meno di duemila (ai due «disastri», di Galveston 1900 e
di New Orleans 2005, gli scrittori Joe R. Lansdale e James Lee Burke hanno
dedicato due romanzi: rispettivamente L’anno dell’uragano, del 2000, e L’urlo
del vento, del 2007).
Ma tra gli annali dei disastri americani rientrano anche l’alluvione del
Mississippi del 1927, che inondò una superficie di circa 70mila chilometri
quadrati, interessando parti di Arkansas, Kansas, Kentucky, Louisiana,
Mississippi, Missouri, Tennessee, Texas, Oklahoma, e le tempeste di sabbia
(→ Dust Bowl) che flagellarono Oklahoma, Missouri, Kansas e Texas nel bel
mezzo della Grande depressione (→).
A voler continuare, l’elenco di uragani, alluvioni e incendi che hanno
afflitto gli Stati Uniti nel Novecento e in questo inizio Duemila sarebbe assai
lungo, ma vale forse la pena di fermarsi qui con il resoconto fattuale, per
lasciare spazio a qualche ultima considerazione sul significato della
«catastrofe» nell’esperienza americana. Le dinamiche sociali e culturali del
«catastrofismo» attraversano infatti la storia del paese fin dalle origini,
facendo da contraltare al conclamato ottimismo del mito della «self
reliance» (la fiducia in se stessi): già negli anni quaranta dell’Ottocento,
quando, a giustificazione dell’ideologia dominante, prende vita la teoria del
«destino manifesto» (→), autori come James Fenimore Cooper, Edgar Allan
Poe, Nathaniel Hawthorne, Herman Melville restituiscono uno spaccato di
vita nazionale pieno di ombre: i territori da conquistare suscitano
inquietudini, nelle proiezioni letterarie della «frontiera» (→) reale e
metaforica si addensano crateri in eruzione, maelstrom marini e crolli di
case, sabba infernali e io divisi, naufragi di baleniere. Soprattutto a partire
dalla seconda metà del XIX secolo, poi, all’ossessione americana per gli
scenari apocalittici contribuiscono la straordinaria rapidità dei processi di
industrializzazione e urbanizzazione del paese e il corollario di fenomeni
sociali e culturali altamente traumatizzanti che tali processi hanno
implicato. La modernità tecnologica americana è, insomma, a un tempo
stupefacente e annichilente e non a caso, sul finire dell’Ottocento, nasce il
genere letterario del romanzo utopico-distopico, che si fa scandaglio delle
ansie mai sopite di una caduta imminente della città-civiltà e che grande
parte avrà nel modellare l’immaginario letterario e cinematografico del
Novecento, nei filoni fantascientifici (Blade Runner, 1982) o catastrofisti
(L’inferno di cristallo, 1974).
L’ambiguità che sottende i processi aperti e virtualmente infiniti di
modernizzazione da parte dell’uomo gode da sempre di uno statuto
privilegiato negli Stati Uniti, dove, per fare solo un esempio, negli anni
cinquanta del Novecento un’agenzia del governo pensò di poter regolare il
corso degli eventi meteorologici (uragani in primis) con un programma
federale di «Controllo completo del tempo». Con i 145 milioni di galloni di
greggio sgorgati nel Golfo del Messico dal pozzo a 1500 metri di profondità
della British Petroleum a ribadire, nell’estate del 2010, che il prezzo di
quell’ambiguità continua a pagarlo l’ambiente (americano e non), è
necessario ricordare quanto siano spesso le attività umane a incidere
indelebilmente sull’impatto ecologico di fenomeni naturali violenti e
quanto l’uso generalizzato di espressioni quali «catastrofe» e «disastro»
finisca con l’ammantare responsabilità storicamente date ricorrendo alla
sorte e alla provvidenza. D’altronde, come sembrano suggerire i versi di una
delle poesie più celebri dell’americana Elizabeth Bishop (1911-1979), «One
Art», per imparare qualcosa dalle perdite bisogna dimenticarsi di una
parola, «dis-astro», la cui etimologia rimanda ai numi avversi: «Ho perso
due città, belle. E più vasti, / altri regni, due fiumi, un continente. / Mi
mancano, ma non è poi un disastro. / […] È evidente: / l’arte di perdere fin
troppo presto / s’impara, e sembra (SCRIVILO!) un disastro».

BIBLIOGRAFIA
Mike Davis, Geografie della paura. L’immaginario collettivo del disastro,
Feltrinelli, Milano 1999.
Jake Page, Charles B. Officer, The Big One: The Earthquake that Rocked Early
America and Helped Create a Science, Houghton Mifflin, New York 2004.
Ted Steinberg, Acts of God: The Unnatural History of Natural Disaster in America,
Oxford University Press, New York 2000.
Simon Winchester, A Crack in the Edge of the World: America and the Great
California Earthquake of 1906, HarperCollins, New York 2005.
C. SCAR.

Bisbee e Butte
Bisbee è una cittadina dell’Arizona, di poco più di 6000 abitanti, fondata nel
1880 come centro minerario (rame, oro, argento): quando, nei primi anni
cinquanta del Novecento, e poi ancora nel 1975, le industrie estrattive si
spostarono altrove, Bisbee rischiò di trasformarsi in un’ennesima ghost town
(→ Cittadine fantasma). Butte si trova invece nel Montana e conta oggi
qualcosa come 33mila abitanti: anch’essa nacque a fine Ottocento come
centro minerario (in prevalenza per il rame), sede della famigerata
Anaconda Copper Mining Company: dopo la chiusura di alcune miniere
negli anni ottanta del Novecento, gravi problemi di inquinamento da
arsenico delle falde acquifere (ancor oggi irrisolti) rischiarono di
condannare anche Butte al destino di ghost town.
A parte ciò, perché parlarne? In verità, molte cose accomunano Bisbee e
Butte: una data, una sigla, una catena di avvenimenti.
Estate 1917. Una lunga serie di agitazioni nelle regioni minerarie
dell’Arizona, spesso guidate dagli Industrial Workers of the World (Iww o
wobblies →), culmina in un grande sciopero a Bisbee e dintorni, che
coinvolge qualcosa come 13mila minatori, per lo più immigrati da ogni
parte del mondo. Il padronato risponde dichiarando antipatriottico lo
sciopero, organizzando leghe civiche e mobilitando polizie private. A metà
giugno, lo sceriffo di Bisbee raduna un migliaio di cittadini, li nomina
vicesceriffi, li arma e riunisce in una posse (→ Posse e vigilantes), che subito
prende controllo dell’ufficio telegrafico e blocca ogni comunicazione con
l’esterno; poi circonda 1200 fra scioperanti, wobblies, comuni cittadini
sostenitori dello sciopero e li conduce fuori città, dove si tiene un processo
farsa: i sequestrati devono scegliere fra il ritorno al lavoro, l’arresto o la
deportazione. Quindi, a gruppi di 50, i 1200 vengono fatti salire su ventisette
vagoni-bestiame sorvegliati da 200 guardie armate: il lungo convoglio si
spinge fino a Hermanas, nel New Mexico, e di lì, dopo una sosta di trentasei
ore senza cibo e acqua, fino a Columbus, sempre nel New Mexico, quasi al
confine con il Messico – un viaggio di circa trecento chilometri. Rinchiusi in
un recinto per bestiame e sorvegliati da guardie armate, vi rimangono fino a
metà settembre: liberati, vengono diffidati dal tornare a Bisbee.
Estate 1917. Da quarant’anni, Butte è una delle cittadine minerarie più
sindacalizzate, soprattutto in reazione alle strategie repressive, di vero
controllo poliziesco, messe in atto dal padronato e in particolare
dall’Anaconda Copper Mining Company: alla politica compromissoria
dell’American Federation of Labor (Afl), rispondono prima la più radicale
Western Federation of Miners (Wfm) e poi gli Iww, che contano numerosi
agitatori di prim’ordine. Le condizioni di lavoro sono tremende, le misure di
sicurezza regolarmente trascurate: nel giugno 1917, un violento incendio si
sviluppa in una delle miniere uccidendo 164 minatori, essi pure immigrati
da ogni parte del mondo. Lo sciopero è immediato, viene dichiarata la legge
marziale, i minatori sono accusati di essere «filotedeschi», i wobblies di
essere agitatori stranieri. Dopo che una prima offerta da parte
dell’Anaconda viene respinta dagli scioperanti, all’alba del 1º agosto, un
gruppo di uomini mascherati e armati, appartenenti con ogni probabilità
alla Pinkerton Detective Agency (→), fa irruzione nella stanza in cui dorme
Frank Little, uno dei più vecchi, esperti e conosciuti organizzatori wobbly,
più volte vittima di attentati e pestaggi per la sua attività. Lo trascinano in
un’auto, lo conducono fuori città, lo impiccano a un ponte ferroviario e gli
legano sul petto un cartello con la scritta «3-7-77» (3 x 7 piedi x 77 pollici, le
dimensioni di una bara), seguita dai nomi dei principali organizzatori dello
sciopero. Il funerale di Frank Little, accompagnato dalla Marcia Funebre
dell’Eroica di Beethoven, è uno dei più grandi e partecipati a memoria
d’uomo nello stato. Lo sciopero si protrae fino al dicembre con qualche
minima conquista da parte dei minatori, ma le truppe federali chiamate nel
1916 restano a Butte fino al 1921. In memoria di Frank Little, il poeta-
operaio di origini italiane Arturo Giovannitti scrisse il lungo poema When
the Cock Crows; agli avvenimenti di Butte, il regista Travis Wilkerson ha
dedicato nel 2002 un interessante documentario, intitolato An Injury to One
(su Butte, esiste anche un altro documentario, del 2009, di Pamela Roberts:
Butte, America).
Bisbee e Butte, dunque. Che vanno ad aggiungersi a una lunga lista di
episodi simili, a partire dai quattro decenni a cavallo fra Ottocento e
Novecento – dallo sciopero di Homestead (Pennsylvania) del 1892, a quelli
di Coeur d’Alene, Telluride, Cripple Creek, negli stati occidentali, negli anni
novanta; dallo sciopero di Ludlow, nel Colorado, del 1914 (quando la polizia
privata ingaggiata dalla compagnia mineraria di proprietà del magnate John
D. Rockefeller mitragliò un accampamento di minatori e loro famiglie,
uccidendo 19 persone di età compresa fra i tre mesi e i cinquantasei anni e
innescando una lunga guerra che fece qualcosa come duecento morti) a
quelli dei taglialegna di Centralia, nello stato di Washington, nel 1919 (dove
l’agitatore wobbly Wesley Everest venne prelevato dalla prigione in cui era
rinchiuso da un gruppo di uomini mascherati, picchiato, castrato e linciato,
e lasciato a pendere da un ponte ferroviario, e infine sepolto anonimamente
in una fossa comune); dagli scioperi di Matewan, in West Virginia, nel 1920
(cui John Sayles ha dedicato, nel 1987, lo splendido film Matewan) a quelli di
Harlan County, nel Kentucky, nel 1973 (cui sono dedicati sia l’ottimo
documentario di Barbara Kopple Harlan County, Usa, del 1976, sia il raro film
di Tony Bill Harlan County War, del 2000).
Sono solo alcuni degli innumerevoli episodi in cui vaste agitazioni
operaie si trasformarono in quasi-guerra civile (→ Sciopero!).

BIBLIOGRAFIA
Louis Adamic, Dynamite. Storia della violenza di classe in America, Bepress,
Lecce 2010.
Jeremy Brecher, Sciopero! Storia delle rivolte di massa nell’America dell’ultimo
secolo, DeriveApprodi, Roma 2002.
M.M.

Boardwalk (Atlantic City)


Un paio di scarpe a due colori, nero e marrone, bagnate dalle onde
dell’Atlantico: i piedi sono quelli del personaggio di Enoch «Nucky»
Thompson interpretato da Steve Buscemi e ispirato a Enoch L. Johnson, il
potente politico repubblicano a cui, negli anni venti del Novecento, fanno
capo vizi e corruzione di Atlantic City. Gessato, portasigarette d’oro, fedora
nero in testa. Alla deriva della costa del New Jersey, una schiera di bottiglie
galleggianti di Grand Canadian Old Rye Whiskey. Nucky si allontana, spalle
al mare, camminando verso la passeggiata – «boardwalk» – della rinomata
città nordatlantica o, meglio, della sua ricostruzione cinematografica.
Si tratta della sigla di Boardwalk Empire (2010), la costosissima serie
televisiva (→ Serie tv) della Hbo scritta e diretta da due esperti di
ambientazioni gangster: Terence Winter (sceneggiatore de I Soprano → Ziti,
zeppole e capocollo) e Martin Scorsese. Ambientata ad Atlantic City negli
anni del Proibizionismo (→), quando la città di villeggiatura del New Jersey
conosce la sua età dell’oro, la creazione di Winter e Scorsese rievoca il
trionfo del gioco d’azzardo e dell’alcol – il cui traffico illecito è gestito da
criminali della taglia di Lucky Luciano e politici conniventi – sulla retorica
della «temperanza».
Atlantic City si trova nel New Jersey, sull’Absecon Island, a circa 190
chilometri da New York. Il primo boardwalk in riva all’oceano è costruito nel
1870, così come la prima strada che collega l’isola alla terraferma. Nel corso
dello stesso decennio, arrivano anche la linea ferroviaria che la collega a
Philadelphia e i primi hotel. Nel 1880, Atlantic City apre i battenti come un
luogo di vacanza dal tocco esotico, capace, grazie al fascino commerciale del
boardwalk, di attrarre i turisti middle class in fuga dal caldo e dai fumi delle
fabbriche delle grandi città. Analogamente a quanto accade a Coney Island
(→), il boardwalk prende a essere una vetrina per prodotti di lusso, souvenir
turistici e attrazioni di massa: sulla passeggiata e sull’imbarcadero, è infatti
possibile trovare negozi di «Saltwater Taffy» (le tipiche caramelle colorate
dal contenuto zuccherino micidiale), ambulanti che confezionano hot dogs
(→ Sandwich e hot dog) lunghi trenta centimetri, montagne russe, funhouse
e ruota panoramica, la ricostruzione di un’avveniristica «Casa del futuro»,
tuffi dei cavalli, canguri pugile, la più grande macchina da scrivere del
mondo, la messa in scena dell’inondazione di Johnstown del 1889…
Nel primo trentennio del secolo scorso, di pari passo alla popolarità
crescente del suo boardwalk, la città sull’Atlantico vedrà la costruzione di
hotel sfarzosi destinati a farne sempre di più una meta di turismo di classe
medio-alta: dal Brighton Chelsea al Ritz Carlton fino al Claridge. Con gli anni
venti, in piena età del jazz (→ Jazz Age), Atlantic City diventa una passerella
alla moda per boss impellicciati a bordo di auto lussuose e «belle» che
sfilano per la prima volta nel concorso di Miss America. E proprio nel 1929,
all’indomani del crollo di Wall Street, nasce (questo almeno vuole la
leggenda) la versione americana del Monopoli giunta fino a noi («Atlantic
City»). Disegnata, così si narra, da Charles Darrow dopo un viaggio con la
famiglia nella località turistica del New Jersey, la tavola del Monopoli
«Atlantic City» non può che avere la proprietà più lussuosa nel blu intenso
di Boardwalk ($ 400).
A partire dalla Seconda guerra mondiale, tuttavia, la città entra in una
fase di declino, da cui riemergerà in parte solo nella seconda metà degli anni
settanta. Con l’avvento dell’automobile (che accorcia le distanze, ma riduce
la lunghezza dei soggiorni), dei suburbs (→ che, offrendo tutti i comfort del
vivere, diminuiscono il desiderio di evasione degli americani) e degli aerei
(capaci di rendere accessibili destinazioni come Miami e le Bahamas),
Atlantic City perde il primato turistico, trascinandosi lungo tre decenni
segnati da miseria, criminalità e corruzione. Negli anni sessanta,
l’immagine della città tocca per molti versi il suo punto più basso, con gli
alberghi sul boardwalk, un tempo maestosi e oramai abbandonati, convertiti
in appartamenti per i poveri. È questa la Atlantic City che fa il giro del paese
grazie alle riprese televisive e alle foto della convention democratica del
candidato Lyndon Johnson alle presidenziali del 1964. Lo stesso boardwalk
diventerà poi teatro della protesta femminista (Seneca Falls) contro il
concorso Miss America del 1968: una contro-parata in cui le colorate
manifestanti marciano sotto cartelli che recitano WOMEN’S LIBERATION e ALL
WOMEN ARE BEAUTIFUL.
Solo nel 1974, con un referendum dello stato del New Jersey che approva
il gioco d’azzardo legalizzato, Atlantic City torna alla ribalta nazionale e i
suoi casinò approfittano del breve periodo di flessione del «gigante» Las
Vegas (→ Flamingo Hotel).
Nonostante la città abbia quindi risalito la china in cui sembrava per
sempre sprofondata – una decadenza ben ritratta da Louis Malle in Atlantic
City, il film del 1980 che ebbe il merito di farla conoscere agli europei –, il
fascino della Atlantic City del passato sembra oggi lontano. Eppure, quella
passeggiata spazzata dal vento pungente che soffia dall’Atlantico continua a
serbare una sua magia. Ovvero, nelle parole di un altro «Boss» del New
Jersey, Bruce Springsteen: «Well now, everything dies, baby, that’s a fact /
But maybe everything that dies someday comes back / Put your makeup on,
fix your hair up pretty /And meet me tonight in Atlantic City».

BIBLIOGRAFIA
Simon Bryant, Atlantic City and the Fate of Urban America, Oxford University
Press, New York 2004.
C. SCAR.

Bordertowns
Nella straordinaria scena iniziale del film di Orson Welles L’infernale Quinlan
(1958) – un unico piano-sequenza di tre minuti e mezzo –, vediamo tutti i
personaggi della vicenda muoversi lungo una main street (→) che attraversa,
da un lato, una cittadina messicana e, dall’altro, una cittadina statunitense:
da qualche parte, dunque, sulla frontiera (border) fra Messico e Stati Uniti –
una frontiera problematica, nel passato (→ Chicanos, → Alamo) come nel
presente. Non sono poche, le bordertowns su questa frontiera che coincide
per più della metà con il corso del fiume Rio Grande (→ Vie d’acqua). Un
elenco incompleto delle principali basta a dare un’idea: Douglas (Arizona) e
Agua Prieta; Nogales (Arizona) e Nogales; San Luis (Arizona) e San Luis Río
Colorado; Calexico (California) e Mexicali; San Diego (California) e Tijuana;
Columbus (New Mexico) e Puerto Palomas; Brownsville (Texas) e
Matamoros; Del Rio (Texas) e Ciudad Acuña; Eagle Pass (Texas) e Piedras
Negras; Laredo (Texas) e Nuevo Laredo; McAllen (Texas) e Reynosa… Zone
di frontiera, luoghi di scissioni e di tensioni sociali e culturali – come si può
vedere per l’appunto nel film di Welles o in un altro film celebre, Getaway
(di Sam Peckinpah, del 1972), oppure leggere nei romanzi di Cormac
McCarthy.
Scissioni e tensioni, rese ancora più acute dall’introduzione, nel 1994, del
North American Free Trade Agreement (Nafta), il trattato di libero scambio
commerciale fra Canada, Stati Uniti e Messico. Fra le sue molte
conseguenze, la più drammatica è stata la proliferazione (specie sul
versante messicano) delle famigerate maquiladoras, le fabbriche e
fabbrichette, per lo più di assemblaggio, in cui un altissimo grado di
sfruttamento (orari prolungati, salari infimi) si accompagna a condizioni di
lavoro pessime e prive di alcun controllo e a una particolare oppressione
nei confronti della manodopera femminile, ricattata e sottoposta a
umilianti vessazioni (che vanno dal controllo delle mestruazioni fino alla
sterilizzazione forzata) pur di aumentare la produttività. Lungo le 2000
miglia di confine fra Stati Uniti e Messico, le maquiladoras sono più di 3000 e
vi lavora circa un milione di persone: ma entrambe le cifre potrebbero
essere anche più elevate, vista la difficoltà di censire questo genere di
imprese, del tutto volatili e spesso clandestine.
Dall’elenco riportato sopra, manca una «coppia» di città che merita un
discorso a sé: quella formata da El Paso (Texas) e Ciudad Juárez. In questo
punto del Rio Grande (o, per i messicani, Río Bravo del Norte), gli spagnoli
giunsero verso la fine del XVI secolo, incontrandovi (e presto sottomettendo)
le popolazioni locali che abitavano l’area da secoli. Nacque allora, sulla riva
destra del fiume, il villaggio di El Paso del Norte, che presto si sviluppò
anche sull’altra riva – terre sempre contese, prima dalle tribù locali (manso,
suma, jumano) e poi dai pueblos e dagli apache mescaleros, e infine, nelle
intricate vicende del rapporto fra Spagna, Messico, Stati Uniti, dagli
americani. Finché, con il Compromesso del 1850, la riva sinistra del Rio
Grande non passò in maniera definitiva agli Stati Uniti, e con essa la
cittadina di El Paso: l’altra metà rimase al Messico, e fu ribattezzata Ciudad
Juárez. El Paso conobbe le vicende travagliate dell’epoca della
colonizzazione e dell’espansione: dopo la Guerra civile (→), ebbe la nomea
di una delle più violente cittadine del paese, nota come «La capitale della
sei-colpi». Poi, intorno alla Prima guerra mondiale, come avvenne con
Storyville (→) a New Orleans, le autorità adottarono il pugno di ferro e
ripulirono la città dalla prostituzione, dal gioco d’azzardo, dalla malavita –
ributtandoli sull’altra riva, per l’appunto a Ciudad Juárez. Ma, prima che ciò
succedesse, le due città videro altri giorni caldi: fra l’aprile e il maggio 1911,
le truppe dei ribelli messicani comandate da Pancho Villa e Pascual Orozco
assediarono Ciudad Juárez, punto e momento nevralgico negli sviluppi della
rivoluzione messicana. La collocazione della città, alla frontiera con gli Stati
Uniti, la rendeva di grande importanza strategica per le forze ribelli (che
contarono su molti volontari e sostenitori americani, fra cui il celebre
giornalista di sinistra John Reed e il futuro attore di film western Tom Mix),
e dunque l’assedio, che si concluse con la caduta della città, fu condotto con
grande abilità tattica.
Oggi, le due città insieme, legate come sono in un rapporto osmotico,
formano la più grossa concentrazione bi-nazionale del mondo, con una
popolazione complessiva di due milioni e mezzo di abitanti (di cui 650mila a
El Paso).
La storia non si ferma però qui, ed è molto più tragica. Il fatto è che, per
esempio, dall’alto della O.T. Bassett Tower, bel grattacielo in stile art déco
completato nel 1930, si può – guardando verso sudest – vedere davvero «la
faccia triste dell’America»: e, per il rapporto osmotico di cui sopra, non si
può dire che El Paso ne esca incontaminata. La «città del futuro» (come fu
nominata nel 2008 Ciudad Juárez) è infatti oggi famosa sia per le più di
trecento maquiladoras che ospita (con ricadute economiche immaginabili)
sia per l’altissimo tasso di criminalità, dovuto in particolare al traffico di
droga gestito da alcuni potenti cartelli – che hanno da tempo individuato
questo corridoio, attraverso il fiume e dall’una all’altra città, come il più
adatto per i loro affari (il film di Steven Soderbergh Traffic, del 2000, è
ambientato proprio sulla frontiera Messico-Stati Uniti, fra San Diego-
Tijuana ed El Paso-Ciudad Juárez). Così, le 1600 uccisioni del 2008
diventarono 2600 nel 2009 e 3075 nel 2010.
Nemmeno questo basta, tuttavia. Le maquiladoras di quest’area bi-
nazionale sono infatti al centro di un caso clamoroso e agghiacciante,
lontano dall’essere risolto: negli ultimi dieci anni, si sono registrate più di
quattrocento uccisioni di donne, per lo più operaie, mentre almeno altre
quattrocento risultano scomparse (ma non manca chi parla addirittura,
basandosi su fonti affidabili, di qualcosa come cinquemila omicidi, o
feminicidios) – un’ondata di violenza che pare inarrestabile e che ha
prodotto fra l’altro un autentico esodo dalla città: circa 700mila persone
negli ultimi anni, di cui almeno 100mila verso El Paso. Contro di essa, si sono
mobilitate varie organizzazioni di base, oltre ad attivisti sindacali, studiosi
come Rosalinda Fregoso, Alicia Gaspar de Alba e Teresa Rodriguez (autrice
di un importante studio sull’argomento, The Daughters of Juárez, del 2007),
giornalisti come Diana Washington Valdez (The Killing Fields. The Harvest of
Women, 2006), mentre lo scrittore Roberto Bolaño ha rielaborato la vicenda
nel romanzo 2666 (uscito postumo nel 2004), il regista Gregory Nava vi si è
ispirato per un coraggioso film di denuncia (Bordertown, 2007) e vari artisti
ne hanno fatto oggetto delle loro creazioni. Ma fra Nafta, cartelli della droga
e maquiladoras, sulle due rive del Rio Grande, dalla parte di Ciudad Juárez e
non lontano da El Paso, le giovani donne continuano a morire. In un
«silenzio che ancora cammina per le strade» – come canta, in «Invalid Litter
Dept.», il gruppo post-hardcore di El Paso, At the Drive-In. Storie tragiche di
bordertowns.

BIBLIOGRAFIA
Charles Bowden, Murder City: Ciudad Juárez and the Global Economy’s New
Killing Fields, Nation Books, New York 2010.
Leon C. Metz, El Paso Chronicles: A Record of Historical Events in El Paso, Texas,
Mangan Press, El Paso 1993.
Teresa Rodriguez (con Diana Montané e Lisa Pulitzer), The Daughters of
Juárez. A True Story of Serial Murder South of the Border, Atria Books, New
York 2007.
Diana Washington Valdez, The Killing Fields. Harvest of Women, Peace at the
Border, Burbank 2006.
M.M.

Bowery (New York)


Difficile immaginare che questa lunga strada di Manhattan, 6 miglia circa da
Chatham Square a sud fino a Cooper Square, dove si divide in 3ª Avenue e 4ª
Avenue, fosse, quando New York era l’olandese Nieuw-Amsterdam, un
sentiero (e fors’anche, prima, una pista indiana) che traversava un paradiso
agreste di floride fattorie. Eppure, «fattoria» in olandese si dice bouwerij: da
cui il nome. Oggi, la Bowery è una strana via, lungo la quale si alternano
degrado e gentrification (→), dormitori a poco prezzo e scintillanti boutique.
Ma la sua storia è complessa e suggestiva.
Man mano che, passata dagli olandesi agli inglesi, quindi diventata
americana, la città saliva verso nord dal piccolo nucleo iniziale, l’area
intorno a quest’arteria (importante perché, insieme a Broadway, era una
delle direttrici principali dell’espansione della metropoli) diventava zona
residenziale. Per qualche tempo, agli inizi dell’Ottocento, la Bowery fu
dunque sede di teatri e raffinati luoghi di ritrovo, destinati alla New York
ricca e potente. Poi, profonde trasformazioni intervennero: il porto
sull’East River si ampliò, fabbriche e laboratori cominciarono ad apparire, il
vicino ridente laghetto noto come Collect Pond si riempì dei miasmi di
concerie, un canale fu scavato per drenarne le acque (l’attuale Canal Street
lo ricorda), e così confusione e densità abitativa convinsero i residenti
dell’area a muovere altrove, verso nord (dove sarebbe nato il Central Park
→) e verso ovest (il Greenwich Village →). La Bowery mutò in qualcosa
d’altro: il fatto stesso di portare fuori città (o, viceversa, in città) fu
determinante nel farla divenire a poco a poco il regno di uno spettacolo
popolare articolato e variegato. Altri teatri furono costruiti, sovente
dall’architettura ricercata, e in particolare aprirono saloon, birrerie, locali
di ogni tipo, in cui non si limitava a scorrer l’alcol o a pulsare il sottomondo
irregolare e stravagante della città in espansione, ma avevano luogo forme
diverse di entertainment.
La sequenza di locali era davvero incredibile, e una vecchia mappa
pubblicata dal New York Times il 3 aprile 1910 restituisce questa
caratteristica di singolare contiguità fra luoghi austeri, di culto o di riforma
sociale, e sottobosco alternativo. Alcuni esempi, da sud a nord: il Paddy
Martin’s Saloon vantava una fumeria d’oppio nel seminterrato; il locale di
Polly Hopkins era stato il ritrovo preferito dei Bowery Boys (→ Gang); il
World Poolroom era un locale di biliardo in cui agiva di preferenza la
Pretzel Gang; il Louie Aressler’s Music Hall era celebrato per i suoi
spettacoli; il Windsor Theatre, nato come teatro tedesco, era diventato
americano e aveva ospitato Buffalo Bill in The Scouts of the Plains e altri
border melodramas, prima di diventare, sotto la gestione di Jacob Adler
(celebre attore e imprenditore), teatro yiddish; il Thalia Theatre era forse il
palcoscenico più celebre di Downtown Manhattan, con la sua facciata
raffinata e le sue messe in scena di Shakespeare e Ibsen; il Worth’s era un
tipico dime museum, un piccolo «museo delle stranezze» a prezzi popolari; la
locanda di Peg-Leg Flynn era famigerata; il Windsor Palace era un locale
malfamato; il National Theatre (già birreria tedesca con il nome di Bowery
Garden) era diventato Oriental Theatre (nel 1882 vi si tennero le prime
rappresentazioni yiddish negli Stati Uniti), quindi Adler’s Theatre (ancora
teatro yiddish), Teatro Italiano e infine Roumania Theatre, gestito da Adler
e in seguito da Jacob Gordin, altro nome celebre del teatro newyorkese
immigrato. C’erano anche la bettola di Owney Geoghegan; il locale di Steve
Brodie, figura centrale della Bowery, locandiere e attore, monologhista e
personaggio popolare per un tuffo spericolato dal Brooklyn Bridge; il bar
Little Jumbo, creatura di Harry Johnson, autore di un «manuale per baristi»;
il Dime, uno dei più sgangherati ed equivoci dime museums; lo Hauser Beer
Garden di Pat Farley; il Gaiety Musee che proponeva freaks e animali esotici;
il People’s Theatre di Harry Miner, dove nel 1891 recitò (pare male) il pugile
Jim Corbett in «After Dark» e che nel nuovo secolo divenne teatro yiddish;
la Opera House di Tony Pastor, un altro nome importante per lo spettacolo
musicale fra i due secoli; il New York Museum (dime museum e teatrino sulle
cui scene comparvero addirittura i fratelli Ford dopo aver assassinato Jesse
James → Wanted!-I); l’Arnold’s Cider Mill; il Sailor’s Snug Harbor di John
McGurk; il Palace of Illusions di Mike Lyons, centro della Bohemia del Lower
East Side negli ultimi due decenni dell’Ottocento; il Mug di John McGurk,
dove s’aggiravano camerieri con pillole di sonnifero da lasciar cadere nei
calici e nei boccali dei clienti danarosi; la wine room dei fratelli Feser, dove a
10 centesimi al bicchiere si poteva gustare vino del Reno mescolato a
champagne e succhi di frutta di stagione; il rinomato ristorante tedesco di
Franz Winkelmeier; le Germania Assembly Rooms, uno dei ritrovi preferiti
per feste e manifestazioni politiche; il Crystal Palace; il Suicide Hall, altro
locale di John McGurk; il Globe Museum, un ennesimo dime museum;
l’Alexander Museum, ancora di Steve Brodie… E, fra Buffalo Bill e
Shakespeare, donne barbute e bettole malfamate, intrattenitori e
imbroglioni, locali di vaudeville e di nickelodeon, spregiudicati
imprenditori teatrali e grandi nomi di uno spettacolo americano ancora in
fasce, fra tutto ciò, le sedi dell’Esercito della Salvezza, i dormitori e le mense
delle associazioni caritatevoli (charities), piccole trattorie etniche e locande
a poco prezzo, chiese cattoliche e sinagoghe ebraiche, importanti istituti
tecnici come il Cooper Institute (dove fra l’altro parlarono Abraham Lincoln
e Mark Twain) e sedi di gruppi politici e sindacali – un universo caotico,
liminale, di straordinaria vitalità, oltre che di grandi sofferenze (intorno al
1907, la popolazione di senzatetto e vagabondi che usufruiva dei dormitori e
delle locande della Bowery s’aggirava intorno alle 25mila persone), ma
anche di profonda solidarietà reciproca – quasi a smentire la canzonetta in
voga a fine Ottocento, che proclamava: «La Bowery, la Bowery! / Dicono
certe cose e fanno certe cose / Sulla Bowery, sulla Bowery / Che non ci
tornerò mai più!».
Con l’avvento del cinema, e in modo particolare del cinema sonoro, la
Bowery come centro dello spettacolo popolare iniziò un lento declino: il
libro di Alvin F. Harlow, Old Bowery Days (1931), è una vivace testimonianza
resa al limitare fra due epoche. I teatri più importanti chiusero non potendo
resistere alla concorrenza di Broadway (→), mentre buona parte delle sue
attrazioni più equivoche o trasgressive finì per spostarsi a Coney Island
(→). La Grande depressione (→) diede infine il colpo di grazia alla strada,
che si trasformò in una sorta di no man’s land fra il Lower East Side (→)
immigrato e la zona ricca di Wall Street (→) e dintorni – una vera e propria
Skid Row (→), popolata di reietti, di senza fissa dimora, di alcolizzati, di
disoccupati permanenti, con lunghe file per il pane davanti alla sede
dell’Esercito della Salvezza e gruppi di vagabondi speranzosi di trovare una
«cuccia» (flop) in uno dei dormitori o alberghetti a buon mercato, sotto le
alte incastellature della Sopraelevata (la 3ª Avenue El, che venne
smantellata solo negli anni cinquanta, dopo aver contribuito per tanto
tempo, con le sue ombre, il suo frastuono, la sua polvere e le sue scintille, le
sue scalinate e i suoi scorci, alla strana atmosfera del luogo, celebrata in
moltissimi film: da Giorni perduti, del 1945, a Città nuda, del 1948) – un
universo che il documentarista Lionel Rogosin seppe catturare con rabbiosa
umanità nel suo On the Bowery (1956).
Fu un declino lungo, che si protrasse fino al secondo dopoguerra: e che
comunque s’accompagnò sempre a nicchie di sorprendente creatività. È il
caso del Five Spot Café, che da piccola caffetteria operaia negli anni trenta e
quaranta (il Bowery Caf di Salvatore Termini), diventò a metà anni
cinquanta il punto d’incontro di pittori d’avanguardia come Franz Kline e
Willem De Kooning, scrittori come Allen Ginsberg e Gregory Corso e jazzisti
come Ornette Coleman e Thelonius Monk; dell’Amato Opera House, uno dei
più singolari esempi di intraprendenza culturale della città (un minuscolo
teatro d’opera, ricavato da Anthony e Sally Amato nei locali d’una vecchia
fabbrica d’abiti); o, più tardi, a partire dagli anni settanta, del Cbgb&Omfug,
ovvero «Country Blue Grass Blues and Other Music For Uplifting
Gourmandizers», tempio della musica rock e punk negli anni settanta, da
Patti Smith ai Television, dai Blondie ai Ramones, fino alle ultimissime
declinazioni degli anni ottanta e novanta (entrambi i locali, che si
trovavano a pochi metri l’uno dall’altro sullo stesso marciapiedi, sono oggi
scomparsi, vittime della speculazione edilizia: l’Amato Opera nel 2009, il
Cbgb nel 2006; mentre il Five Spot Café aveva chiuso decenni prima). E, se la
Sopraelevata non esiste più, nuovi scenari si sono andati affermando, specie
nella parte meridionale della strada, con il progressivo ampliamento, nel
corso degli anni novanta, di Chinatown (→), che dalla piccola enclave
racchiusa da Mott Street e Baxter Street a ovest della Bowery s’è via via
allargata, fino a scavalcare l’arteria, dirigendosi verso est.
E così, nonostante la galoppante gentrification, la Bowery conserva ancor
oggi quest’aspetto di luogo di confine, che dice molto della storia di una
metropoli come New York.

BIBLIOGRAFIA
Benedict Giamo, On the Bowery: Confronting Homelessness in American Society,
University of Iowa Press, Iowa City 1989.
Mario Maffi, Nel mosaico della città. Differenze etniche e nuove culture in un
quartiere di New York, il Saggiatore, Milano 2006.
Luc Sante, C’era una volta New York. Storia e leggenda dei bassifondi, Alet,
Padova 2010.
M.M.

Bowie Knife
Dicono che, quando Geronimo si arrese nello Skeleton Canyon (→) nel 1886,
fosse armato di un fucile Winchester, di una rivoltella Colt e di un «Bowie
Knife» – tre indubbi simboli del West. Di Colt e Winchester (→) diciamo
altrove: qui limitiamoci al «coltello di Bowie». Bowie era il colonnello James
«Jim» Bowie (ma secondo altri suo fratello Rezin), che l’avrebbe disegnato
appositamente per la Frontiera (→) – robusto, multiuso (il manico pesante
poteva servire da martello, la lama, oltre che usata per tagliare, poteva
essere arroventata per cicatrizzare le ferite), micidiale sia nei corpo a corpo
sia nel lancio con precisione –, consegnandolo a un fabbro famoso, Jesse
Cleft (o era James Black?), che ne fece un esemplare apposta per lui. Tutto
ciò nel 1827.
James Bowie era un tipico uomo di frontiera, intorno al quale nacquero
numerose leggende: di certo, per qualche tempo dopo il 1814 fu in combutta
con i fratelli Lafitte (→ Barataria) come mercante di schiavi; poi, fu
cercatore d’argento e speculatore immobiliare, coinvolto in numerose
vicende legate al territorio del Texas e alla sua ricerca di indipendenza dal
Messico.
Il primo «uso» ufficiale del «Bowie Knife» si ebbe nello stesso anno della
sua fabbricazione. Fu in occasione di un duello alla pistola che si tenne su
un banco di sabbia in riva al fiume Mississippi, nei pressi della cittadina
rivierasca di Natchez (Mississippi), nota per le numerose intemperanze che
si verificavano spesso nei saloon e bordelli della sua parte bassa, lungo il
fiume, nota come «under the hill». Nella rissa che seguì il duello, Bowie, pur
ferito in maniera grave, si difese (e offese) con quel coltello – che subito,
grazie ai resoconti di una stampa assetata di colore locale della Frontiera,
diventò famoso a livello nazionale e internazionale: furono addirittura
aperte «scuole Bowie» per insegnare a usarlo, mentre l’Inghilterra diventò
una delle principali produttrici di «coltelli Bowie». La sua lama era lunga
circa venticinque centimetri e larga circa tre e mezzo, incurvata verso la
punta (a sua volta più bassa della linea superiore della lama) e tagliente in
questa parte da entrambi i lati, e l’impugnatura era separata da una
protezione per la mano; la custodia era in cuoio, con ornamenti in rame o
argento.
Dopo i fatti di Natchez, Jim Bowie utilizzò spesso il coltello: gli anni della
Frontiera erano rudi e spietati. Ma il 6 marzo 1836, non fece a tempo a
servirsene: a soli trentanove anni, malato di tubercolosi, si trovava a letto
con la febbre alta in una stanzetta della vecchia missione di Alamo (→),
vicino a San Antonio (Texas), quando i soldati del generale messicano Santa
Anna vi fecero irruzione, dopo un lungo assedio. Bowie fu una delle vittime.
L’anno seguente, in Alabama, una legge definiva omicidio di primo grado
qualunque uccisione effettuata, non importa in che circostanza, con il
«coltello di Bowie»; e oggi, in Texas, il possesso del coltello è vietato: a
meno di tenerlo bene in vista, per esempio dentro all’automobile… (→
Armi)

BIBLIOGRAFIA
Ray Allen Billington, Storia della conquista del West, Odoya, Bologna 2009.
Alberto Paleari, Cowboy, Edizioni dell’Ambrosino, Milano 1997.
M.M.

Braceros
Il termine spagnolo indica i «braccianti» di origine messicana che lavorano
negli Stati Uniti del Sudovest o che dal Messico vi entrano, più o meno
illegalmente, varcando la frontera fra i due paesi, segnata per un lungo tratto
dal corso del Rio Grande (→ Vie d’acqua; → Bordertowns). Storia lunga e
drammatica, quella dei braceros – che risale in verità agli inizi della
dominazione spagnola di queste terre e in gran parte coincide con quella
dei chicanos (→). Un flusso migratorio dal Messico agli Stati Uniti è stato
costante attraverso l’Ottocento, ma s’è intensificato con gli inizi del
Novecento e il definitivo e travolgente decollo economico Usa dopo la
Prima guerra mondiale; al tempo stesso, questo flusso è stato di volta in
volta regolato o ampliato a seconda delle necessità dell’economia
statunitense e delle richieste del suo mercato del lavoro, creando situazioni
di profonda sofferenza, marginalizzazione e oppressione nelle comunità
coinvolte, già costrette in condizioni di acuto sfruttamento e di precaria
esistenza, di qua e di là del confine.
Per esempio, fra il 1929 e il 1939 (il lungo decennio della Grande
depressione), circa un milione di persone di origine messicana fu ricondotto
in Messico a forza (spesso con veri e propri atti di violenza): l’operazione –
nota come «Mexican Repatriation» – non teneva conto del fatto che molti di
questi «rimpatriati» erano in verità cittadini americani a tutti gli effetti, o
in procinto di diventarlo, discendenti di famiglie travagliate dal continuo
passaggio di mano (dagli spagnoli ai messicani agli statunitensi) delle terre
su cui da tempo immemorabile vivevano e lavoravano (nel 2005, la
California votò la «Legge di scuse per il Programma di rimpatrio in Messico
degli anni trenta», ma a tutt’oggi il governo federale non s’è ancora
pronunciato al riguardo).
Nel 1942, invece, spinto dalla scarsità di manodopera in tempo di guerra
e dal bisogno di coprire i posti resi vacanti dall’arruolamento, il governo
elaborò il «Bracero Program», che prevedeva una serie di accordi con il
governo messicano per l’importazione di manodopera temporanea su tutto
il territorio degli Stati Uniti: dai 4200 lavoratori messicani del 1942 si giunse
così a un picco di 444mila nel 1959, dopo di che le cifre continuarono a
scendere fino ai 179mila del 1964, anno in cui il «programma» venne
interrotto. Va comunque ricordato che, anche durante il periodo in cui il
«programma» restò in vigore, il rimpatrio forzato continuò a verificarsi,
come dimostra la tragedia del 28 gennaio 1948, quando un aereo che
riportava in Messico 28 braceros cadde nei pressi di Los Gatos Canyon
(California): la morte di tutto l’equipaggio e di tutti i lavoratori e la maniera
in cui i media statunitensi trattarono l’incidente (citando i nomi dei quattro
membri dell’equipaggio e definendo con un semplice «deportati» i 28
lavoratori) spinsero Woody Guthrie (→ «Which Side Are You On?») a
scrivere la famosa poesia «Deportee (Plane Wreck at Los Gatos)», poi messa
in musica da Martin Hoffman: «Goodbye to my Juan, goodbye, Rosalita, /
Adios mis amigos, Jesus y Maria; / You won’t have your names when you
ride the big airplane, / All they will call you will be “deportees”».
Nel 1954 (mentre il «Bracero Program» era ancora in vigore), il
rimpatrio forzato degli immigrati (più o meno) illegali venne in qualche
modo rinnovato attraverso l’«Operation Wetback» (wetback, «schiena
bagnata», è termine spregiativo per chi guada da clandestino il Rio Grande).
Agli inizi, il rimpatrio veniva effettuato tramite due navi, dal Texas al
Messico: anche a mille chilometri di distanza, per impedire il rientro; ma,
dopo la morte di sette lavoratori in un tentativo di fuga e un’autentica
rivolta scoppiata in seguito, l’uso delle navi fu abbandonato, e si ricorse a
camion e treni.
Questa «doppia direzione» non ha mai cessato d’essere attiva nei
decenni seguenti: la necessità irrinunciabile di manodopera a buon
mercato, legale e illegale, con la creazione di un abbondante «esercito
industriale di riserva» e relativo abbassamento dei salari, s’accompagna
infatti a continue operazioni di polizia di frontiera, volte a terrorizzare e
ricattare gli immigranti e ad «aprire e chiudere», di volta in volta, i
rubinetti. Ne è un esempio famigerato la cosiddetta «Operation
Gatekeeper», ideata e resa operativa nel 1994 durante la presidenza Clinton
per sottoporre a controllo la frontiera Messico-Stati Uniti intorno a San
Diego (California) – un’autentica militarizzazione dell’area, che prevede
speciali pattuglie di frontiera (circa 9000 uomini), checkpoints con torri di
osservazione, telecamere a raggi infrarossi, sismografi e sensori sotterranei,
riflettori e filo spinato, sistemi computerizzati e altri strumenti atti a
impedire (o scoraggiare o reprimere) l’immigrazione clandestina – e che ha
avuto come ricaduta anche la formazione di squadracce di vigilantes in
appoggio all’operato delle pattuglie regolari. Inoltre, lungo il tratto della
frontiera compreso fra Tijuana (Messico) e San Ysidro (California), di circa
22 chilometri, è stata costruita una barriera d’acciaio alta tre metri – un
obbrobrioso serpentone nel panorama desertico della zona, che costituisce
un ulteriore elemento di repressione e militarizzazione: secondo i dati
ufficiali, fra il 1998 e il 2004, lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, sono
morte in totale 1954 persone. Di qua e di là dal muro, miseria, sfruttamento,
repressione: come cantava Phil Ochs, «Ah, but if you feel you’re fallin’ / if
you find the pace is killing / there are others who are willing, bracero»
(«Bracero», 1965).
C’è ormai un’ampia letteratura sui braceros – che comprende capolavori
dimenticati come i romanzi The Plum Plum Pickers di Raymond Barrio (del
1969) e …y no se lo tragó la tierra di Tomás Rivera (1971), o le poesie di Gary
Soto e Gloria Anzaldúa. E, sempre a proposito di capolavori dimenticati, due
film sull’argomento: Salt of the Earth (1954, di Herbert J. Biberman, uno dei
«dieci di Hollywood» messi sulla lista nera durante il Maccartismo →) e
Alambrista! (1977, di Robert M. Young).

BIBLIOGRAFIA
Nicholas J. Cull, David Carrasco (eds.), Alambrista and the US-Mexico Border:
Film, Music, and Stories of Undocumented Immigrants, University of New
Mexico Press, Albuquerque 2004.
Carey McWilliams, Factories in the Field: The Story of Migratory Farm Labor in
California, Little, Brown and Company, Boston 1939.
—, Ill Fares the Land: Migrants and Migratory Labor in the United States, Little,
Brown and Company, Boston 1942.
—, North from Mexico (1949), Praeger, New York 1990.
M.M.

Broadway-I (o del teatro)


Quando, nella pièce teatrale di Sam Shepard The Unseen Hand (1970), il
protagonista definiva la cittadina di Azusa (a 40 miglia da Los Angeles,
vicino a dove l’autore era cresciuto) «gli Usa dalla A alla Zeta», non parlava
probabilmente solo del luogo ricreato sul palcoscenico, ma in generale del
teatro stesso, dove a convergere e rubarsi la scena sono le mille e più facce
delle commedie e delle tragedie umane.
Guardando oggi gli scintillanti cartelloni che a New York illuminano
Broadway e Times Square pubblicizzando spettacoli tanto di successo da
restare in cartellone anche per anni, non si direbbe che con il teatro gli Stati
Uniti abbiano inizialmente avuto un rapporto più di odio che di amore.
Eppure così fu, per circa due secoli. In The Contrast (1787) di Royall Tyler, la
prima commedia professionista che vide la luce oltreoceano, incentrata
appunto su un «contrasto internazionale» fra vizi britannici e virtù
americane, il teatro è definito «il salotto del diavolo». Un’affermazione
scherzosa, fatta com’era su un palcoscenico; ma nemmeno l’enfasi sugli
ideali patriottici e l’apparizione sulla scena del primo yankee (→) come
incarnazione del buon senso e delle virtù nazionali parvero sufficienti a
dissipare le perplessità, eredità della cultura puritana, circa questa forma
d’arte.
Dovremo aspettare la metà dell’Ottocento perché al teatro, ancora
costretto a indossare la maschera della «lezione morale», sia tributato il
giusto riconoscimento di svago rispettabile: ecco così il dramma
dell’alcolismo in The Drunkard; or the Fallen Saved (1844) di William H. Smith
conquistare le scene e le platee, con un successo che tornerà ciclicamente
anche nel secolo successivo. Di certo, le passioni che questa forma d’arte e
le sue prime stelle scatenavano erano così violente da sfociare in un
autentico delirio, con il pubblico infervorato a tal punto da picchiare e
uccidere per sostenere, seppur involontariamente, i propri attori preferiti:
come avvenne nel 1849 coi «tumulti di Astor Place», a New York: gli scontri
fra i sostenitori dell’attore britannico George Macready e quelli
dell’americano Edwin Foster (→ Disordini).
Non c’è dubbio: quello della prima metà dell’Ottocento è un teatro assai
condizionato dagli influssi europei, dalla tradizione inglese e italiana in
particolare, ma al tempo stesso disegna anche i primi personaggi e le prime
atmosfere davvero americani: ecco così The Foster Rose; or, The American
Farmer (1825) di Samuel Woodworth, un Oklahoma! ante litteram (→
Broadway-II); o Metamora; or the Last of the Wampanoags (1829) di John
Augustus Stone, sui nativi (→ Ombre rosse) e il mondo della Frontiera (→).
Senza con ciò smarrire il gusto per il tema internazionale: come dimostra
tra gli altri Fashion (1845) di Anna Cora Mowatt, ironico ritratto
dell’esterofilia della società newyorkese contemporanea. Con la svolta di
metà secolo, sulla scena faranno irruzione anche altre Americhe, che al
teatro avevano guardato, fino a quel momento, da lontano: il Mississippi
(→), con The Octoroon (1859), di Dion Boucicault; la ferrovia (→ Promontory
Point), con l’opera di James Closkey Across the Continent; or, Scenes from New
York Life and the Pacific Railroad (1870); e poi la città, dagli slums di The Poor of
New York (1857), ancora di Dion Boucicault, all’apologia antiurbana di Clyde
Fitch The City (1909).
A divenire celebre negli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento fu in
particolare il melodramma di David Belasco, i cui Madama Butterfly (1900) e
La ragazza del West (1906) acquisiranno fama imperitura grazie anche alle
riduzioni operistiche. Fu in quest’epoca che il teatro divenne presenza ben
radicata nella città, con capienti sale che lo toglievano alla precarietà dei
tendoni da circo, delle imbarcazioni (showboat), delle piazze all’aperto o
delle sale del minstrel show (→); e fu questo il teatro che seppe per molti
versi unire la nazione, catalizzando al contempo l’eredità del New England
e l’anima del West in produzioni sempre più grandiose e spettacolari per
scenografie e costumi, con vicende epiche e melodrammatiche articolate in
sottogeneri quanto mai diversi (non ultimo, per importanza culturale, il
brothel play, sul mondo della prostituzione, che svelava in modo significativo
la sessuofobia della cultura statunitense).
A inizio Novecento, Broadway divenne sinonimo di teatro, strappando il
primato alla Bowery (→): con l’invenzione dell’elettricità innanzitutto, cui
seguì l’apertura nel 1904 della prima linea metropolitana, la grande arteria
urbana e la sua piazza più celebre, Times Square, diventarono il centro
nevralgico dell’industria dell’intrattenimento e della vita notturna, con
un’illuminazione così intensa da far guadagnare alla via principale il
soprannome di «White Street», poiché non vi calava mai la notte.
Davanti all’imporsi di un teatro sempre più orientato verso le grandi
produzioni e con spettacoli in grado di rimanere in cartellone per mesi, già
nei primi due decenni del Novecento non furono pochi gli autori e i gruppi
(fra cui il Workshop 47, i Washington Square Players e i Provincetown
Players) che sentirono l’esigenza di riaffermare la drammaturgia come
forma d’arte e proiettarla in una dimensione pienamente moderna. Il
movimento più incisivo ebbe origine fra le dune affacciate sull’Atlantico di
Cape Cod, nel Massachusetts, dove un gruppo di artisti in vacanza, che
ruotava intorno a George Cram Cook e alla moglie Susan Glaspell,
sperimentò nell’estate del 1915 teatro e vita comunitaria, scrittura e
rappresentazioni amatoriali in un rapporto di continua condivisione e
collaborazione. Una volta tornati a New York, attori e autori diedero corpo
al loro lavoro con la messa in scena di opere che rivoluzionarono il teatro
americano dell’epoca, portando sul palcoscenico spazi e narrazioni della
quotidianità. A cominciare da Susan Glaspell, che con le sue «inezie» (Inezie,
appunto, del 1916) mette in scena, nella cucina di una casa del Midwest
dove si è compiuto un omicidio, un dramma dell’incomunicabilità in cui di
salvifico c’è solo la complicità femminile. E poi ancora il figlio d’arte Eugene
O’Neill (il padre era un famoso attore), che dai Provincetown Players
muoverà i primi passi per poi conquistare i palcoscenici di tutto il mondo
con opere intessute di linguaggio quotidiano e dal marcato fatalismo: come
In viaggio per Cardiff (1916), che descrive l’agonia di un marinaio ferito su
una nave mercantile; L’imperatore Jones (1920), in cui Brutus Jones, ex
detenuto afroamericano proclamatosi imperatore delle Indie Occidentali e
in fuga dopo la rivolta del suo popolo, ricorda i «cuori di tenebra» che da
Conrad arrivano fino ad Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Sempre di
divisioni razziali O’Neill parla ancora in Tutti i figli di Dio hanno le ali (1924),
tragico amore fra un nero e una bianca, in cui l’interiorizzazione del rifiuto
del diverso porta la protagonista alla follia. Tensioni e conflitti sociali
divengono con lui parte della vita familiare: in Desiderio sotto gli olmi (1924),
la rovina dell’American Dream è raccontata attraverso la storia di una
famiglia assetata di possesso – sia esso sessuale o della terra; Il lutto si addice
ad Elettra (1931) rivisita la tragedia greca di Eschilo, fra incesti, omicidi e
lutti, come parte della storia nazionale, ambientandola durante la Guerra
civile (→); da ultimo, il capolavoro autobiografico Lungo viaggio verso la notte
(1940) mette in scena la stasi e l’implosione di una famiglia modellata su
quella dell’autore.
Chi invece guarda fuori, alla strada e alle tensioni sociali, è in questi
stessi anni Clifford Odets, che con Aspettando Lefty (1935) porta in scena, in
una fusione tra attori e pubblico secondo l’uso dell’agit prop, il dramma
delle lotte operaie, attraverso l’inutile attesa del protagonista, Lefty,
rappresentante sindacale dei tassisti, che si scoprirà essere stato ucciso
dalla polizia. E se di metropoli parla anche Elmer Rice, interessato alle molte
vite e storie della strada nei quartieri popolari (Street Scene, 1929 – King
Vidor ne trasse un film nel 1931 e Kurt Weill e Langston Hughes un’opera
nel 1946) e al rapporto fra uomo e macchina in opere costruite su un
crescendo di straniamento e alienazione (La macchina calcolatrice, 1923, in
cui il protagonista, Mr Zero, uccide il proprio capo dopo essere stato
licenziato; o La metropolitana, 1929, che la protagonista Sophie, seppur
terrorizzata, deve prendere tutti i giorni), a guardare con incisività al
mondo dimenticato della piccola città (→) penserà Thornton Wilder,
romanziere prestato al teatro, che con Our Town (1938), in un misto di
innovazione e nostalgia, rappresenta un dramma esistenziale tutto
racchiuso nell’apparente normalità della vita quotidiana, nel nascere,
innamorarsi, sposarsi e morire, con il funerale della protagonista Emily a
segnare l’unico momento di incontro fra passato e presente, fra vivi e
morti.
E di vite e di morti, o di morti in vita, parleranno anche i due maggiori
drammaturghi che domineranno le scene durante e dopo il secondo
conflitto mondiale, Arthur Miller e Tennessee Williams: i quali, seppur in
modi diversi, immortaleranno un’America che si propone come vittoriosa e
prospera, ed è tuttavia pervasa da profonde inquietudini e disillusioni,
sociali ed esistenziali. Il «dramma della memoria» è cifra caratteristica di
molte opere di Tennessee Williams: a cominciare dai ricordi di Tom in Lo zoo
di vetro (1944), che in un lungo flashback rievoca la vita domestica del
protagonista con una madre soffocante e una sorella, Laura, inchiodata da
un piccolo difetto fisico e dalla timidezza a vivere in un mondo irreale,
dentro al suo zoo di vetro fatto di fragili figure trasparenti, nella
cristallizzata attesa di qualcuno che la strappi alla solitudine. Ma è dramma
della memoria anche il passato e la tradizione che Blanche DuBois, in Un
tram che si chiama desiderio (1947 – poi portato sullo schermo da Elia Kazan)
non si rassegna ad aver perduto; è la memoria della ormai svanita bellezza e
fama a portare Alexandra a rifugiarsi in giovani gigolò in La dolce ala della
giovinezza (1959 – film di Richard Brooks nel 1962); e sono i ricordi della
tragica fine di un amore omosessuale a svuotare di ogni volontà Brick,
alcolizzato protagonista maschile di La gatta sul tetto che scotta (1955 – altro
film di Richard Brooks, del 1958); e sempre i ricordi condurranno, in
Improvvisamente l’estate scorsa (1957 – film di Joseph Mankiewicz del 1959),
alla lobotomizzazione di Catherine, rea soltanto di aver scoperto la natura
perversa del cugino Sebastian e di aver assistito al suo bestiale linciaggio.
Se con Williams è soprattutto l’ambigua nostalgia di una cultura
regionale, il Sud, a fare da sfondo al dramma individuale, nel teatro di
Arthur Miller ad andare in scena è il fallimento dell’intera nazione e del suo
sogno: la storia di Willy Loman, protagonista di Morte di un commesso
viaggiatore (1949), è la drammatica parabola di un declino morale,
psicologico ed economico (per mano proprio delle leggi di mercato) di un
americano di quella middle class che sembrava destinata a divenire
l’incarnazione del Sogno Americano: un tempo commesso viaggiatore di
successo, è ora scomodo fardello ai margini del lavoro e della famiglia,
avendo sempre sacrificato gli affetti e i principi etici all’imperativo del
successo materiale. Forze sociali e destini individuali si intrecciano di
continuo nei testi di quest’autore: in Erano tutti miei figli (1947), il dramma
familiare corre di pari passo con la frode che Joe Keller attua nei confronti
dell’aereonautica militare, vendendo a quest’ultima pezzi fallati (e
causando così numerose morti in incidenti aerei) – a denunciarlo sarà infine
il suo stesso figlio; e, del resto, persino il dramma privato di John Proctor de
Il crogiuolo (1953) e la scelta pagata con la vita di non essere complice
nell’isteria collettiva che dominò i processi alle streghe di Salem (→ Caccia
alle streghe), sono solo in apparenza lontani dal mondo dell’autore e dagli
anni delle non meno feroci cacce alle streghe del maccartismo (→).
Dagli anni sessanta in poi, la produzione teatrale statunitense
s’incanalerà in tanti rivoli diversi, attraverso sperimentazioni e voci portate
alla ribalta prima dall’off-Broadway (a cominciare dagli anni cinquanta, con
rappresentazioni in piccoli teatri da meno di trecento posti) e, dal decennio
successivo, dall’off-off Broadway (→ Teatri viventi). Fatta eccezione per un
autore come Edward Albee, il cui Chi ha paura di Virginia Woolf? (1962 – film
di Mike Nichols del 1966), potente affresco di una guerra fra marito e moglie
in un mondo accademico non poi così algido come si presenta, è ora un
classico del teatro statunitense, i drammaturghi di questi decenni
faticheranno a raggiungere la consacrazione del canone e i grandi
palcoscenici di Broadway, dominati sempre più dai musical e dallo star-
system. Le leggi di mercato sembrano insomma aver fatto dimenticare a
Broadway che, per citare ancora Shepard (insieme a David Mamet, una delle
grandi voci del teatro americano off), «il dramma raccatta i suoi personaggi
come la città di Azusa raccatta i suoi cittadini. Ci cascano dentro dal di fuori.
Si ritrovano nel bel mezzo del nulla». Un nulla difficile da accettare sulla
Grande Strada Bianca.
BIBLIOGRAFIA
Ruggero Bianchi, «Il teatro negli Stati Uniti: alla ricerca dell’innovazione
permanente», in Roberto Alonge, Guido Davico Bonino (a c. di), Storia del
teatro moderno e contemporaneo, vol. III, Einaudi, Torino 2003.
Alessandro Clericuzio, Il teatro americano del Novecento, Carocci, Roma 2008.
Guido Fink, Mario Maffi, Franco Minganti, Bianca Tarozzi, Storia della
letteratura americana, Sansoni, Firenze 1991.
C. SCHIA.

Broadway-II (o del musical)


Oltre che di teatro colto, la strada newyorkese più famosa è anche sinonimo
di musical: le grandi produzioni sia nazionali sia straniere, le luci scintillanti
che ne pubblicizzano i maggiori successi, le centinaia e talvolta migliaia di
repliche – e, negli ultimi decenni, un momento imprescindibile (e alquanto
salato) nel frenetico mordi-e-fuggi turistico attraverso la Grande Mela (→
Big Apple).
Come sempre, sono miste le origini del musical. Esso attinge oltreoceano
al balletto, all’extravaganza, all’operetta, alla pantomima, all’opera buffa,
ma anche agli autoctoni minstrel shows (→), al vaudeville (→), al burlesque
(inteso come spettacolo di parodia e di travestimento) e, non ultimi, agli
spettacoli del circo (→ Tendoni da circo). I primi musical debuttarono a
Broadway già negli anni sessanta e settanta dell’Ottocento: quello che viene
oggi considerato il primo esempio del genere, The Black Crook di Charles M.
Burras, vide la luce il 12 settembre 1866 e, nonostante le oltre 5 ore e mezzo
di spettacolo, ebbe tanto successo da raggiungere le 474 repliche. Il nuovo
genere riscosse presto un buon successo anche fra le classi più popolari,
specie grazie ad artisti come Edward Harrigan e Tony Hart, che con la serie
di opere The Mulligan Guards (dal 1878) misero in scena la classe operaia
newyorkese composta da irlandesi, tedeschi e afroamericani e,
conferendogli una migliore strutturazione teatrale, allontanarono il musical
dal minstrel show e dall’operetta.
Fu tuttavia negli anni venti che il musical raggiunse l’apice della
popolarità lungo Broadway. Quello della Jazz Age (→) torna a essere un
musical leggero, dove la trama passa in secondo piano rispetto alla musica,
alle coreografie e alla popolarità di attori e cantanti. Grazie a esso, iniziano a
muovere i primi passi (e non solo in senso metaforico) compositori del
calibro di Richard Rodgers, Jerome Kern, Vincent Youmans, Cole Porter,
Leonard Bernstein e attori-ballerini come Marilyn Miller e Fred Astaire.
A distaccarsi da questo panorama piuttosto uniforme fu in quegli anni
un musical che parlava, fra le molte altre cose, proprio di musical: Show Boat
(che debuttò allo Ziegfeld Theatre di New York il 27 dicembre 1927),
adattato da Jerome Kern e Oscar Hammerstein dal romanzo omonimo di
Edna Ferber, che ricreava nel chiuso dei palcoscenici di Broadway il mondo
dei «teatri galleggianti», quando gli spettacoli si tenevano a bordo dei
battelli o nelle città dove questi attraccavano. Prodotto da Florenz Ziegfeld
(→ Ziegfeld Follies), impresario con un passato nel Wild West Show di Buffalo
Bill, Show Boat è il primo musical a compiere una svolta drammatica,
affiancando alla storia d’amore anche temi scottanti come la miscegenation
(→). Perché, strano a dirsi, il musical fu anche uno degli strumenti culturali
per parlare di razza (→ Linea del colore): mentre le produzioni degli albori
erano ancora vicine ai modelli del minstrel show, a prevalere in seguito
furono le tipicità della nascente cultura afroamericana, grazie anche ai
contributi di Bob Cole e Billy Johnson, cui si deve, agli inizi del Novecento, il
musical afroamericano virato in chiave ragtime (→).
Con la Grande depressione (→), il pubblico di Broadway tornò a
prediligere l’intrattenimento leggero, l’unico in grado di aggiudicarsi una
fetta di quel più folto pubblico che in quegli anni cercava svago nei cinema:
la concorrenza dei film e dei primi musical cinematografici, oltre a dare il
colpo di grazia al vaudeville, iniziava infatti a risultare minacciosa anche per
il teatro. La risposta fu di orientare in parte la produzione verso opere che
includessero sì canzoni orecchiabili e fantasiose coreografie, ma al
contempo fossero sorrette da una sceneggiatura forte, in grado di
allontanarsi dagli intrecci sentimentali classici e di volgere lo sguardo
anche alla società e alla politica. Esempio perfetto di questa svolta fu l’opera
di George Gershwin (per la musica), Ira Gershwin e Morrie Ryskind (per i
testi) Of Thee I Sing (1931), che andò a rimpolpare la schiera di musical
politici con la sua satira su elezioni e presidenza e, conquistandosi il premio
Pulitzer, consacrò il genere come rispettabilissima forma d’arte.
A finire sotto la lente del musical furono in questi anni soprattutto gli
scenari urbani: la Chicago dei nightclub (Pal Joey, 1940, di Rodgers e Hart,
basato su un romanzo di John O’Hara) e la New York delle origini
(Knickerbocker Holiday 1938, di Kurt Weill, ispirato agli scritti di Washington
Irving).
Nei decenni successivi, non mancarono le incursioni nel Midwest e
all’Ovest: si pensi a Oklahoma! (1943), di Rodgers e Hammerstein, che
integrava, come non aveva fatto nessun altro musical prima, ballo e
coreografia allo sviluppo della trama e alla definizione dell’interiorità dei
personaggi, raggiungendo le 2212 repliche e passando poi al grande
schermo; o a The Cradle Will Rock (1937, di Mark Blitzstein, diretto da Orson
Welles), che metteva in scena lo scontro di classe fra padroni e operai nella
cittadina industriale di Steeltown. Simile successo ebbero altri musical
dell’epoca, tutti accomunati dalla volontà di raccontare, oltre alle vicende
individuali dei protagonisti, anche la complessità della società statunitense
contemporanea: On The Town (1944) di Leonard Bernstein, Betty Comden e
Adolph Green, ambientato in una piccola città (→) durante la Seconda
guerra mondiale, in cui i tre marinai protagonisti rappresentano anche
l’incertezza nel futuro che caratterizza quegli anni; o ancora West Side Story
(1957, con musiche di Leonard Bernstein e testo di Stephen Sondheim), che
narra di due novelli Romeo e Giulietta nel West Side di New York, con le
gang etniche che rimpiazzano i Montecchi e i Capuleti.
Con la controcultura degli anni sessanta, fu il musical rock a imporsi:
Hair (1967), sul mondo giovanile dell’East Village newyorkese, minacciato
dalla leva obbligatoria per la guerra in Vietnam; Jesus Christ Superstar (1971),
ispirato ai racconti del Vangelo (integrati con una buona dose di fantasia)
sull’ultima settimana di vita di Cristo; A Chorus Line (1975), sull’universo di
speranze e disperazioni di aspiranti attori e ballerini (un successo
strepitoso: 6137 repliche; molte delle vicende erano vere e interpretate,
almeno agli inizi, dai loro protagonisti). E anche se in questi decenni non
sono mancati sguardi indietro nel tempo – alla Germania nazista con
Cabaret (1966), al Proibizionismo (→) con Chicago (1975) –, a prevalere sono
stati via via i musical che si sono rifatti ai mondi dell’infanzia, specie se a
sostenere finanziariamente i costi dell’impresa erano corporation come la
Disney (→ Disneyland): ecco allora i colossal ispirati a cartoons come La bella
e la bestia (1994) e Il re leone (1997), cui solo un altro musical destinato ai
giovani, Rent (1996), ha saputo negli ultimi anni tenere testa.
Al contempo, il musical ha trovato una seconda vita sul grande schermo,
grazie a successi come Grease (1978, da un musical di sei anni prima), Evita
(1996), Moulin Rouge (2001, l’ultimo di una serie di sette film), Chicago (2002,
dal musical di cui s’è detto), Mamma mia (2008). O sul piccolo schermo, con
adattamenti di opere precedenti come South Pacific (2001) o The Music Man
(2003), o lavori scritti apposta per la tv, come Legally Blonde (2007) e High
School Musical (2006).

BIBLIOGRAFIA
Gerald Bordman, American Musical Theatre: A Chronicle, Oxford University
Press, Oxford 1978.
Raymond Knapp, The American Musical and the Performance of Personal Identity,
Princeton University Press, Princeton 2009.
Julian Mates, American’s Musical Stage. Two Hundred Years of Musical Theatre,
Greenwood Publishing Group, Westport 1985.
C. SCHIA.

Bronx (New York)


Situato a nord di Manhattan, da cui è separato dall’Harlem River, il Bronx è
uno dei cinque boroughs (quartieri, circoscrizioni) in cui è divisa la città di
New York, e probabilmente anche quello che gode della fama peggiore. Per
lo studioso Marshall Berman, non ci sono dubbi: l’orco cattivo è stato
Robert Moses, il plenipotenziario per la pianificazione urbana; è stato lui ad
avere la folle idea di costruire un’autostrada nel cuore del Bronx e a
trasformare il nome del quartiere in un sostantivo diventato in tutto il
mondo sinonimo di degrado urbano, alta concentrazione criminale,
violenza, edifici diroccati, finestre murate.
L’anno era il 1953, e il piccolo Marshall guardava con le lacrime agli
occhi le ruspe e le escavatrici fare a pezzi interi condomini, spianando il
terreno sul quale sarebbe sorta la Cross Bronx Expressway. Agli abitanti di
East Tremont, in prevalenza famiglie ebree a reddito medio, furono dati
novanta giorni per evacuare le loro case prima che iniziassero i lavori per
radere al suolo il quartiere e, dopo dieci anni di strenua resistenza, l’ordine
fu fatto eseguire.
Sfogliando le pagine dedicate al Bronx nella Guida di New York della
Wpa, l’agenzia federale che finanziò molti progetti culturali durante la
Grande depressione (→), ci si stupisce un po’ nello scorrere la serie di
immagini che il nome del quartiere evocava nella mente del newyorkese
medio di quegli anni: si passa dal Bronx cocktail (quattro parti di gin, una di
vermouth italiano e una di succo d’arancia) al Bronx cheer (una linguaccia
con accompagnamento sonoro), fino allo zoo, aperto nel 1899 su un’area di
107 ettari. D’altro canto, ancora più meraviglia suscita scoprire che i locali
si facevano vanto dei numerosi istituti d’istruzione superiore presenti sul
territorio, tra i quali la Fordham University, il Lehman College, il Mount
Saint Vincent College e la Webb Naval Academy, e per questo motivo
amavano definire il Bronx «il borough delle università». Potevano anche
vantare gloria letteraria: Edgar Allan Poe visse i suoi ultimi anni, dal 1846 al
1849, in un piccolo cottage all’intersezione tra Kingsbridge Road e Grand
Concourse (l’edificio è ora un museo dedicato allo scrittore).
Fino agli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra, il
Bronx, insieme a Coney Island (→), rappresentava una delle mete per le gite
domenicali, specie per chi poteva permettersi di fuggire solo per un giorno
dalla calura e dall’aria pesante che opprimevano i vicoli e i casermoni dei
ghetti immigrati. Lo scrittore Michael Gold rievoca nel romanzo
autobiografico Ebrei senza denaro (1930) una gita al Bronx Park e si sofferma
sulla stupita reazione della madre alla vista di alberi e prati: «Qui è come
l’Ungheria, c’è tanto spazio, e il cielo è così grande e azzurro. Si può
respirare, qui». Un’altra rievocazione idilliaca la troviamo nel film Bronx
(1993), scritto da Calogero «Chazz» Palminteri e diretto e interpretato da
Robert De Niro. La vicenda, un classico rito di passaggio dall’adolescenza
all’età adulta, nel quale il giovane protagonista è combattuto tra l’esempio
del padre (De Niro), onesto conducente di autobus, e il fascino del boss
locale Sonny (Palminteri), offre una ricostruzione di Belmont Avenue che,
all’inizio degli anni sessanta, con i crocchi di anziani agli angoli delle strade,
vecchie comari vestite a lutto e persino il carretto del fruttivendolo trainato
da un asino, ha più l’aspetto di un villaggio del Meridione italiano che non
di un ghetto piagato dal crimine.
Jonas Bronk, un immigrato scandinavo (forse svedese, forse addirittura
delle Far Øer), acquistò nel 1639 un appezzamento di terreno nella penisola
situata a nord di Manhattan e ne diventò il primo abitante bianco. Da lui, o
meglio, dal fatto che il terreno appartenesse a lui (Bronk’s land) derivò il
nome Bronx. Fino a metà Ottocento, rimase un territorio prevalentemente
agreste, con insediamenti sparsi e larghi tratti di terreno non edificato né
coltivato.
La svolta avvenne dopo il 1905, anno in cui fu ultimato il primo
collegamento metropolitano con Manhattan. L’aumento del valore dei
terreni diede il via a un boom immobiliare che, pur gonfiando la
popolazione da circa 200mila abitanti nel 1900 a un milione e 300mila
trent’anni dopo, non pregiudicò la spiccata vocazione verde dell’area. La
peculiare configurazione suburbana che si era venuta a creare nel Bronx,
con il suo intreccio di aree verdi, accessibilità economica e vicinanza alla
città, trasformò l’area in una delle destinazioni più ambite da quegli
immigrati che avevano i mezzi per abbandonare gli insalubri ghetti di
Manhattan. Grand Concourse, una strada alberata lunga 4 miglia e mezzo
che percorre il quartiere da sud a nord, era considerata alla stregua di un
boulevard parigino, e nei giorni festivi frotte di persone vestite a festa
passeggiavano lungo i marciapiedi o socializzavano nei pressi delle
panchine. E, mentre i ragazzini affollavano il cinema Loew’s Paradise, i più
adulti e intellettuali potevano dare un’occhiata alle programmazioni
dell’Astor (qui vennero proiettati per la prima volta negli Stati Uniti Roma
città aperta e Ladri di biciclette).
Nel 1923 poi, con la costruzione di uno stadio che poteva ospitare più di
60mila spettatori tra la 157a Strada e la 161a (struttura che è stata demolita
nel 2010), la squadra di baseball dei New York Yankees – ai quali venne poi
affibbiato il nomignolo di Bronx Bombers – si trasferì nel quartiere e stabilì
con esso un legame simbiotico: seguendo un’accorta strategia di marketing,
la dirigenza cercò di assicurarsi giocatori che rappresentassero la
composizione etnica della città (neri esclusi). L’irlandese Joe McCarthy
(giocatore e poi allenatore), i tedeschi Tommy Henrich, Hank Bauer e Lou
Gehring, l’ebreo Eddie Lopat (nato Lopatovsky) e soprattutto il nutrito
contingente italiano (Joe Di Maggio, Phil Rizzuto, Tony Lazzeri, Frank
Crosetti, Lawrence «Yogi» Berra, Vic Raschi), con il loro background operaio
e i successi ottenuti sul campo da gioco, erano una rappresentazione
vivente di come le possibilità di affermazione negli Stati Uniti fossero una
realtà tangibile e aperta a tutti (→ Baseball).
La Cross Bronx Expressway, terminata nel 1972, ha ridisegnato la
geografia del grande borough, cancellando molte comunità fiorenti e
prospere e incentivando la fuga verso altre destinazioni. Ciò avveniva in un
momento in cui una Harlem sovrappopolata cominciava a stendersi al di là
del fiume, riversando la povertà e il disagio delle popolazioni afroamericana
e portoricana nei quartieri meridionali del Bronx. Mancando qualsiasi
tessuto comunitario che potesse assorbire la marginalità sociale dei nuovi
venuti, il South Bronx andò così incontro a quel periodo di decadenza che
culminò nella notorietà internazionale e nella trasformazione del suo nome
in un termine che evoca i peggiori incubi urbani della nostra epoca. Di
certo, parte del merito va attribuito a un film del 1981 che, a partire dal
titolo, Fort Apache: The Bronx (in Italia Bronx, 41esimo distretto), rimanda a un
tema caro alla cultura americana, quello della comunità di «giusti»
impegnata strenuamente a imporre la legge e l’ordine in un territorio
circostante ostile.
Una valutazione più equilibrata deve tenere conto che, con la sua
enorme estensione, nel Bronx convivono realtà completamente diverse e
non riducibili alle immagini stereotipate predominanti: così, camminando
lungo Fordham Avenue in un sabato pomeriggio, ci si può far travolgere dai
ritmi caraibici che fuoriescono dalle radio e poi, percorso qualche isolato,
ritrovarsi all’improvviso nella tranquillità di Arthur Avenue, dove non è
raro incrociare mamme con passeggini che nella conversazione passano con
disinvoltura dall’American English all’espressività enfatica del dialetto
napoletano. Come Manhattan più a sud, anche il Bronx è composto da una
serie di villaggi che propongono una pluralità di esperienze, vissuti e
linguaggi; e, come non è possibile ridurre Manhattan alle vetrine della 5ª
Avenue e al glamour di serie tv (→) come Friends e Sex and the City, anche il
Bronx non è solo… un bronx!

BIBLIOGRAFIA
Robert Caro, The Power Broker: Robert Moses and the fall of New York. Vintage
Books, New York 1975.
Loretta D’Orsogna, Il Bronx. Storia di un quartiere «malfamato», Bruno
Mondadori, Milano 2002.
Evelyin Gonzales, The Bronx, Columbia University Press, New York 2004.
S.M.Z.
[C]

Caccia alle streghe


Nel 1947, due secoli e mezzo dopo i processi di Salem, le streghe tornano
alla ribalta: quale segno dei tempi, snobbano il freddo e cupo New England e
scelgono di apparire nella soleggiata California. Hollywood sembra
piuttosto accogliente: nel 1939, la Strega dell’Occidente, con tanto di volto
verde e naso adunco, trova spazio nel film tratto dal romanzo di L. Frank
Baum, Il mago di Oz, mentre, due anni più tardi, un’esemplare decisamente
più avvenente (interpretata dalla bionda Veronica Lake) sarà protagonista
di Ho sposato una strega. Il clima però non rimase favorevole a lungo, e dopo
la conclusione della Seconda guerra mondiale, con il manifestarsi delle
divergenze tra Stati Uniti e Russia riguardo alla determinazione delle
rispettive sfere d’influenza, la «caccia alle streghe» riprese con altro vigore,
riproponendo il clima di sospetto, l’incentivo alla delazione, la
fabbricazione di prove inconsistenti, la negazione dei diritti fondamentali
che avevano accompagnato i procedimenti di Salem. In quest’occasione,
però, l’accusa dalla quale le nuove «streghe» avrebbero dovuto difendersi
non riguardò malefici o rapporti con Satana in persona, ma l’affiliazione al
Partito comunista o altre associazioni a esso vicine.
La formula witch hunt, «caccia alle streghe», era stata usata dallo
scrittore britannico George Orwell in Omaggio alla Catalogna (1938), con
riferimento all’accanita campagna di persecuzione contro la frangia
trotzkista da parte dei partiti di osservanza moscovita durante la Guerra
civile spagnola; e comparve negli Stati Uniti in un editoriale pubblicato da
Film Daily nel settembre 1947, all’indomani dell’annuncio che la Huac
(House Committee for Un-American Activities, Commissione della Camera
per le attività antiamericane) avrebbe svolto un’inchiesta sulla presenza dei
«rossi» a Hollywood.
L’iniziativa non colse di sorpresa chi aveva osservato con attenzione
l’evoluzione delle questioni del lavoro a Hollywood nei quindici anni
precedenti. Durante la Grande depressione (→), i sindacati avevano
ottenuto alcune importanti vittorie, come la creazione del National Labor
Relations Bureau, un organismo federale che aveva imposto una serie di
linee guida nella conduzione dei negoziati tra imprese e lavoratori. Gli
effetti del nuovo clima si erano sentiti anche a Hollywood: nel 1938, allo
Screenwriters’ Guild (Swg), la sigla sindacale che raggruppava la maggior
parte degli sceneggiatori, molti dei quali vicini al Partito comunista, era
stato riconosciuto il diritto di negoziare il contratto collettivo di categoria.
La decisione rappresentò una sconfitta per le case di produzione, che
avevano finanziato la creazione di una sigla alternativa dal profilo
conservatore, la Screen Playwrights, con un numero notevolmente inferiore
di iscritti.
Il 1941 era stato un anno importante: prima, il vittorioso sciopero dei
disegnatori della Disney (agitazione promossa per il mancato pagamento
degli straordinari), che per cinque settimane bloccò la realizzazione di
Dumbo; in seguito, la resa dei produttori alle richieste della Swg, la quale
aveva votato all’unanimità per uno sciopero nel caso fossero state rifiutate.
I produttori rinunciarono a adottare un atteggiamento intransigente
perché, con l’approssimarsi della guerra, il governo avrebbe destinato molti
fondi alla propaganda audiovisiva: non era il momento opportuno per
bloccare l’attività. Ma la vendetta era solo rimandata.
E, finito lo sforzo bellico, non tardò ad arrivare, sotto forma delle
indagini avviate dallo Huac, un comitato costituito nel 1938, ma che fino a
quel momento era rimasto piuttosto nell’ombra. Dopo alcune sessioni a
porte chiuse, furono diramati 43 mandati di comparizione a personaggi del
cinema, divisi più o meno equamente fra testimoni «favorevoli» (di cui era
noto l’anticomunismo) e «ostili» (di cui invece era nota l’affiliazione al
Partito comunista). Molti di questi ultimi erano sceneggiatori iscritti alla
Swg, tra cui Lester Cole e Ring Lardner, Jr., membri del consiglio direttivo.
Jack Warner, capo della Warner Bros, fu il primo a testimoniare e sfruttò
l’occasione per denunciare la forte penetrazione dei comunisti a
Hollywood. Gli attori Ronald Reagan e Gary Cooper, pur senza lanciare
accuse altrettanto pesanti, espressero viva preoccupazione per l’atmosfera
che si era creata nella città del cinema. Furono poi interrogati, uno dopo
l’altro, dieci «ostili» – oltre a Cole e Lardner, anche gli sceneggiatori Dalton
Trumbo, Albert Maltz, Alvah Bessie, Herbert Biberman, i drammaturghi
Samuel Ornitz, John Howard Lawson, il produttore Adrian Scott e il regista
Edward Dmytrick, i quali divennero noti come gli «Hollywood Ten», i «dieci
di Hollywood». Costoro si rifiutarono di fare i nomi di altri membri del
Partito comunista e furono denunciati per oltraggio alla corte. Anche
Bertolt Brecht fu inquisito, ma se la cavò: in quanto cittadino tedesco, venne
fatto rimpatriare. Per gli altri, iniziò invece un periodo turbolento.
L’atmosfera di ostilità portò all’allontanamento degli sceneggiatori dalla
Swg; poco dopo, in una riunione informale tra i produttori tenuta presso
l’Hotel Waldorf Astoria di New York, si decise di inserire i «dieci» in una
lista nera e di rifiutare loro qualsiasi tipo di incarico (l’unico a muovere una
debole protesta fu Samuel Goldwyn; → Hollywood/land): oltre a perdere il
lavoro, furono messi sotto processo e condannati a un anno di reclusione. Il
solo Dmytrick, piegato dalle dure condizioni del carcere, ritrattò la
testimonianza pur di riottenere la libertà, sottoponendosi poi a un nuovo
interrogatorio davanti allo Huac nell’aprile 1951: e questa volta fece i nomi
di una ventina di compagni. Dopo la deposizione, Dmytrick riprese a
lavorare, possibilità che invece venne negata agli altri anche dopo aver
scontato la pena; per poter guadagnare qualcosa si accontentarono di
incarichi marginali e mal pagati, oppure ricorsero all’aiuto di amici che
accettarono di fare da prestanome per vendere sceneggiature originali ai
grandi studi di produzione: Dalton Trumbo scrisse le sceneggiature di
Vacanze romane (1953) e La più grande corrida (1956), entrambe premiate con
l’Oscar – che naturalmente non venne ritirato da lui, ma da chi lo aveva
coperto.
La testimonianza di Dmytrick si svolse nel corso di una seconda tornata
di udienze dello Huac. Dopo la conclusione della prima, il clima a Hollywood
era peggiorato: se, prima delle sessioni del 1947, molte voci si erano levate
per difendere la libertà di pensiero garantita dal Primo emendamento, dopo
la creazione delle liste nere ogni pubblica espressione di opinione
indipendente era guardata con sospetto. Humphrey Bogart, uno dei più
attivi nel difendere i «dieci» prima delle udienze, firmò un articolo su
Photoplay dal titolo eloquente: «I’m no Communist».
L’atmosfera era resa più pesante dal contemporaneo cambiamento della
situazione internazionale, che aveva visto la nascita della Repubblica
popolare cinese, lo scoppio della prima bomba atomica russa,
l’incriminazione per spionaggio dell’avvocato e funzionario delle Nazioni
Unite Alger Hiss e il processo contro i coniugi Rosenberg (→ Maccartismo).
A complemento della lista nera, andò compilandosi, in maniera non
ufficiale, una «lista grigia», nella quale finivano coloro che, pur non essendo
mai stati iscritti al Partito comunista, avevano comunque mostrato simpatie
per la sinistra. Costoro incontrarono serie difficoltà nell’ottenere lavoro.
L’attore Edward G. Robinson, popolare interprete di gangster e cattivi in
genere, si era speso a favore della guerra contro la Germania nazista,
partecipando anche al film «interventista» Confessioni di una spia nazista
(1939) di Anatoli Litvak. Nella sua autobiografia, però, egli ricorda come di
colpo le offerte di lavoro, che non erano mai mancate, fossero cominciate a
diminuire, la negoziazione dei contratti si fosse fatta più tortuosa e
complessa e accordi ritenuti quasi definitivi sfumassero per un niente
subito prima della firma: fu così che decise di offrirsi come testimone
volontario e dimostrare davanti alla nazione la propria innocenza, dando in
pasto alla pubblica opinione nomi di altri comunisti o presunti tali. Nella
primavera del 1951, cominciò una nuova sfilata di professionisti, fra cui lo
scrittore Budd Schulberg (autore del romanzo Perché corre Sammy? e della
sceneggiatura di Fronte del porto), il drammaturgo Clifford Odets, il regista
Elia Kazan, gli attori Josè Ferrer (Oscar per Cyrano de Bergerac) e Sterling
Hayden; quest’ultimo descrisse con efficacia lo spirito con il quale lui e i
suoi colleghi si prestarono docilmente al gioco: se c’era da fare il verme per
poter lavorare, ebbene lui avrebbe strisciato. Dashiell Hammett, invece, si
rifiutò di dire chi fossero stati i contribuenti al Civic Rights Congress,
un’associazione progressista, di cui aveva ricoperto la carica di presidente,
e per questo dovette scontare una pena in prigione (→ Hardboiled).
Viceversa, le sceneggiatrici Lilian Hellman e Bess Taffel, appellandosi al
Quinto emendamento (che tutela il diritto di una persona di non rispondere
a domande che potrebbero incriminarla), evitarono l’accusa di oltraggio
alla corte, ma non furono più in grado di trovare lavoro.

BIBLIOGRAFIA
Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywood. Storia politica del
cinema americano, 1930-1960, Editori Riuniti, Roma 1981.
Giuliana Muscio, Lista nera a Hollywood. La caccia alle streghe negli anni
cinquanta, Feltrinelli, Milano 1979.
S.M.Z.
Cajun
Storia di fughe ed esodi, quella dei cajun, che oggi abitano le regioni a ovest
e nordovest di New Orleans, sospese tra fiumi e mare, marcite e boscaglie:
«terra di caffè nero e di bayou, di fumanti gamberi di fiume e di paludi»,
come scrivono Macon Fry e Julie Posner, nella loro Cajun Country Guide. Nei
primi decenni del Seicento, dalle province della Francia centroccidentale
(Poitou, Aunis, Angoumois, Saintonage, Anjou), a migliaia giunsero alla Baia
di Fundy, in Nova Scotia (Canada), di proprietà della Compagnia della Nuova
Francia – in fuga da miseria, disordini, guerre di religione, peste (del 1631) e
caccia alle streghe (Loudun, 1634). Con l’aiuto fondamentale degli indiani
micmac si reinventarono trappolatori e cacciatori, artigiani e costruttori di
dighe e, poiché la regione era chiamata dai micmac con un termine che
suonava più o meno come «La Cadie» e aveva una vaga ma speranzosa
assonanza con Arcadie, cominciarono a chiamare se stessi acadiens,
«abitanti dell’Acadie». Popolazioni compatte per origini geografiche e
sociali, per tradizioni e dialetti usati, per il sistema di famiglia estesa, per
l’abitudine al lavoro collettivo e per l’ostilità nei confronti del governo
centrale, gli acadiens vissero così per un secolo in Nova Scotia.
Poi, dopo un braccio di ferro di alcuni decenni, quel territorio passò in
mano agli inglesi, i quali, nel 1755, posero agli acadiens un aut aut: o
anglicizzarsi (nella lingua, nella religione, nelle usanze) o partire. Ebbe
allora inizio una sorta di «pulizia etnica»: il Grand Dérangement, come venne
chiamato, «il grande scompiglio» – che volle dire deportazioni di massa,
resistenza armata, rappresaglie, dispersione di nuclei familiari, confisca di
beni, rimpatrio forzato, malattie ed epidemie, morti a centinaia. Pochi
fecero ritorno, molti si diressero verso gli altri possedimenti francesi: in
particolare, intorno al 1764, verso Nouvelle Orléans e di lì – mal visti dalla
ricca aristocrazia francese della città – verso le paludi dell’interno.
S’insediarono così in quel mondo strano e misterioso di bayou (→) e di
vegetazione tropicale, a nordovest e ovest della città (che in quei decenni
passava continuamente di mano tra Francia e Spagna, per diventare infine,
nel 1803, americana): tra il Bayou Lafourche e il Bayou Tèche, fra il
Mississippi e l’Atchafalaya, gomito a gomito con tribù locali di Native
Americans e comunità di schiavi neri fuggiaschi. E diedero origine a cittadine
chiamate Chacahoula, Jeanerette, Abbeville, Lafayette, Morgan City, Breaux
Bridge…
Gli acadiens (detti acadians dagli americani – da cui, per progressive
deformazioni, cajuns) delimitarono le terre secondo l’usanza francese (i
longs champs rettangolari, con il lato più corto a contatto con il fiume),
costruirono strip villages (villaggi a striscia) snocciolati lungo le rive,
bonificarono paludi e aprirono sentieri nella boscaglia, crearono una fitta
rete di comunicazione con piroghe, canoe e battelli, continuarono la
tradizione dei lavori collettivi (il coup de main: la costruzione di case, stalle,
granai; il trainage: il trasloco; la boucherie: l’uccisione di animali con
distribuzione delle carni) e dei passatempi comunitari (i bals de maison, le
veillées: feste e balli nelle radure; fino al Mardi Gras, ribaltamento
dell’ordine quotidiano del mondo).
Il loro francese parlato (di origine seicentesca) s’andava sempre più
trasformando per la distanza dalla Francia e per i contatti con altre
popolazioni e con altre lingue – dallo spagnolo all’inglese, dai dialetti
caraibici a quelli africani, dal choctaw e dal chitimacha alla parlata ibrida
degli schiavi neri. Da secoli, ormai, avevano affidato all’oralità tradizioni e
costumi, esprimendoli soprattutto nelle narrazioni, nelle canzoni, nelle
figure dei balli con accompagnamento di violino, cui sempre più si univano
l’asse per lavare suonata con due cucchiai del nascente jazz di New Orleans
o la fisarmonica dei recenti immigrati tedeschi (altro fenomeno di
ibridazione: le gighe, i valzer, i reels, le quadriglie, le polke e le mazurke
s’alternavano a passi e tonalità Native Americans, nerafricane, caraibiche).
Per quanto isolata fra bayou e paludi della Bassa Louisiana, gelosa delle
tradizioni e sulla difensiva per molte, comprensibili ragioni storiche, la
comunità cajun fu infatti poi sempre aperta alle ibridazioni e
contaminazioni. Le sue leggende tramandate oralmente comprendevano
elementi africani (le «storie di Bouki la jena»), caraibici e locali intrecciati
ad antichi retaggi francesi (il Loup Garou, il lupo mannaro); la sua musica si
fuse con il country (il filone più direttamente cajun) e con il blues (la
variante zydeco →); e il suo cibo divenne metafora di quest’incessante
processo di assimilazione, con il gumbo e la jambalaya (→).
Non mancherà il poeta ufficiale, sebbene tutt’altro che cajun: Henry
Wadsworth Longfellow, che scrisse il lungo poema Evangeline (1847), tragica
storia d’amore che inizia nella «foresta primordiale» del Nord canadese e si
conclude, dopo una lunga e disperata ricerca, sulle rive del Bayou Tèche,
«ombreggiate da querce / con rami inghirlandati di muschio spagnolo e di
mistico vischio». Mescolava fatti e fantasia, Longfellow, storia e
romanticismo, rese normanni i cajun, inventò un inesistente abito
tradizionale – e così l’«Evangeline» che da allora s’impose (e che s’incontra
oggi a ogni piè sospinto, viaggiando attraverso la Bassa Louisiana – statue e
ritratti, nomi di ristoranti e di motel, luoghi e contee, marche di prodotti fra
i più disparati) si fonda su una… «falsa idea». Problema aperto, quello della
realtà e della finzione: come si può vedere nel film di Walter Hill I guerrieri
della palude silenziosa (1981) e nel film-documentario di Robert Flaherty
Louisiana Story (1948), che strappava al mito e al colore locale la vicenda
storica e umana dei cajun, in un momento in cui l’intera regione subiva
profonde trasformazioni sotto l’impatto della scoperta e dello sfruttamento
del petrolio.
La cultura cajun è fatta di questi contrasti, che forse spiegano anche quel
fondo di dolce, ostinata malinconia che si coglie nelle canzoni di artisti
classici come Amédé Ardouin e contemporanei come Beausoleil e Zachary
Richard, quel che di triste e al contempo di scanzonato risuona in «Jolie
Blonde» (l’inno nazionale cajun), in «Ma Louisianne», in «Les Maringoins
Ont Tout Mangé Ma Belle», in «La valse de chère bebé»; o nelle pagine dei
romanzi noir di James Lee Burke con la figura del detective cajun Dave
Robicheaux.
Nei colori e negli odori, nei suoni delle foreste e dei bayou, nei contrasti
fra acque di mare e di terra, la natura della Bassa Louisiana ha un che di
selvaggio e di primordiale; ma è anche segnata dalla modernità dei tralicci
per l’estrazione del petrolio, dalla ruggine di una tecnologia ormai di
seconda mano, dall’avvelenamento dei corsi d’acqua e dell’erosione della
costa del Golfo, da una povertà endemica e dalla crescente proletarizzazione
– specie dopo i disastri dell’uragano Katrina nel 2005 e della piattaforma
petrolifera Deepwater Horizon del 2010.
«Acadie tropicale, / Acadie troppo piccante, / Acadie amica mia», scrive
il poeta Jean Arceneaux; e come contrappasso gli fa eco la poetessa Isabelle
Tèche: «Ventre bucato del Mississippi [e] scarico nazionale».

BIBLIOGRAFIA
Barry Jean Ancelet, Jay Edwards, Glen Pitre, Cajun Country, University Press
of Mississippi, Jackson 1991.
Shane K. Bernard, The Cajuns. Americanization of a People, University Press of
Mississippi, Jackson 2003.
Christopher Hallowell, People of the Bayou. Cajun Life in Lost America, E.P.
Dutton, New York 1979.
M.M.

Camelot
A una settimana dall’assassinio del marito, Jacqueline «Jackie» Bouvier
Kennedy – la first lady più elegante della storia americana – rilascia
un’intervista a Life in cui parla della presidenza Kennedy come di una
«moderna Camelot», una fiabesca tavola rotonda che «non tornerà mai
più». Lo spunto per il fantasioso accostamento viene da un musical in voga
in quegli stessi anni a Broadway (→) di cui Jackie ricorderebbe i versi, molto
cari a John: «Non dimenticate che, per un breve momento radiante, ci fu un
luogo chiamato Camelot». Sebbene lo storico Arthur Schlesinger Jr., al
servizio di John Fitzgerald Kennedy durante il suo mandato, screditerà la
sortita di Jacqueline riconducendola soltanto alla sua immaginazione (mai il
trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti avrebbe pensato a se stesso
come a un novello re Artù), quella frase assumerà una forte pregnanza
mitica nell’agiografia kennedyana, tragicamente corroborata dalla morte,
nel 1968, del secondo cavaliere di Camelot, il fratello – nonché fidato
consigliere e uomo di spicco alla Casa Bianca – Robert «Bob» F. Kennedy.
Pur privi dell’araldica del Vecchio mondo, gli Stati Uniti vantano da sempre
alcuni grandi alberi dinastici (gli Adams → Famiglie A(d)dams, i Lee, i
Roosevelt, i Taft, solo per fare alcuni esempi), ma è solo con i Kennedy che
una stirpe americana assurge al rango di una casa reale, riuscendo
addirittura a stringere rapporti coniugali con l’aristocrazia britannica
(tramite Kathleen Agnes Kennedy, sposata al marchese di Hartington,
William Cavendish).
I tratti salienti della favola quasi regale dei Kennedy vedono, alle origini,
John Fitzgerald Kennedy (nato nel 1917), secondo di nove fratelli, figlio di
Rose E. Fitzgerald e Joseph «Joe» Kennedy che, esponenti di due ricche
famiglie irlandesi cattoliche imparentate a filo doppio con il Partito
democratico del Massachusetts, si creano una fortuna con il cinema, la
borsa, i liquori e il mercato immobiliare. Dopo una felice infanzia
newyorkese tra Brooklyn, Bronx (→) e Bronxville, con estati nella residenza
di famiglia di Hyannisport, Massachusetts, e vacanze invernali a Palm
Beach, in Florida, per John arrivano un’educazione da Ivy League (→), una
laurea a Harvard che gli varrà anche la pubblicazione di un bestseller, Why
England Slept, e un Grand Tour al seguito del padre, ambasciatore in
Inghilterra, tra Londra e la Francia. Con la partecipazione al secondo
conflitto mondiale come sottotenente della marina nel Pacifico, piovono
anche le medaglie al valore per aver tratto in salvo – trainandolo a nuoto
dalla torpediniera affondata dai giapponesi all’isola più vicina – uno dei suoi
uomini.
A questi anni di apprendistato, segue quindi una brillante carriera
politica che lo vede diventare, nel 1952, abile senatore e sposare, l’anno
successivo, Jacqueline Lee Bouvier, gemma di grazia ed eleganza cresciuta
in seno a una famiglia franco-irlandese benestante, sebbene un po’
decaduta, e sbocciata tra circoli di equitazione, il Vassar College, la Sorbona
e la George Washington University. Gli anni cinquanta sono poi scanditi dal
premio Pulitzer del 1957 per Ritratti del coraggio, libro scritto –
probabilmente a quattro mani con Ted Sorensen, suo futuro «speech
writer» – sui senatori americani che rischiano la carriera per le loro
convinzioni. Il resto è, per così dire, noto: la nomina alle primarie
democratiche del 1960 e il discorso della «Nuova Frontiera» (→ Frontiera);
la vittoria, a soli 43 anni, contro il candidato repubblicano Richard Nixon;
l’insediamento alla Casa Bianca come presidente più giovane della storia
americana; l’idealismo e il vigore retorico del discorso inaugurale («Non
chiedetevi quello che il vostro paese può fare per voi, chiedetevi quello che
voi potete fare per il vostro paese») e di quello, pronunciato nel 1963 a
Berlino ovest, capace di elettrizzare la folla alle parole «Ich bin ein
Berliner»; fino al tragico epilogo, l’assassinio del 22 novembre dello stesso
anno a Dallas.
Questa favola non è priva però di ombre riguardanti la personalità di
John F. Kennedy: tanto alcune voci dell’epoca messe forse in sordina da un
fitto lavoro di intelligence quanto i molti scoop scandalistici post mortem ne
rivelano infatti la patologica e insaziabile vita sessuale, responsabile, a darvi
credito, di incontri fedifraghi quotidiani, nonché di orge negli hotel di
Washington D.C., feste di nudismo nella piscina della Casa Bianca,
assunzione di droghe (facilitata, quest’ultima, da un’assuefazione
farmacologica dovuta al dolore cronico alla spina dorsale), adescamenti di
cameriere e starlette del cinema e della tv. E sarà proprio la sua presunta
relazione extraconiugale con la più grande icona sexy di Hollywood,
Marilyn Monroe, ad alimentare il sensazionalismo dei rotocalchi quando,
nel maggio del 1962, la stessa attrice intonerà un provocatorio e malizioso
«Happy Birthday, Mr President», in occasione della festa al Madison Square
Garden per il suo quarantacinquesimo compleanno. La stessa morte della
Monroe nell’agosto di quell’anno, in circostanze mai del tutto chiarite ma
ufficialmente ricondotte a un’overdose di barbiturici, addensa non pochi
sospetti circa i suoi rapporti con i fratelli Kennedy (anche Robert sarà
vittima del fascino di Marylin) anticipando, con una miscela di autopsie
manipolate, coinvolgimento mafioso, oscure implicazioni dell’Fbi di Hoover
(→) e teorie della cospirazione (→ Teoria del complotto), l’omicidio del
presidente.
Al di là dei meriti (almeno potenziali) delle politiche di Kennedy – sul
versante interno, il concepimento del programma «Nuova Frontiera»
mirato sia a finanziare l’istruzione e l’assistenza sanitaria per gli anziani,
sia a porre fine alla discriminazione razziale (→ Back of the bus) – e degli
altrimenti reali demeriti – il tonfo della Baia dei Porci (ovvero il fallito
tentativo di appoggiare un’invasione di Cuba nel 1961), l’escalation militare
in Vietnam, il presunto sostegno della Cia al colpo di stato in Iraq nel 1963 –,
la sua pur breve presidenza rimarrà per sempre associata a un
rinnovamento culturale e simbolico profondo. Sono molti i primati per certi
versi epocali di cui Kennedy sarà, talvolta suo malgrado talaltra
studiatamente, testimone: primo cattolico alla Casa Bianca, primo politico a
usare la televisione con abilità persuasiva (il dibattito Kennedy v. Nixon del
1960 costituisce una pietra miliare della storia dei media), primo presidente
spigliato e fotogenico a comparire sui rotocalchi rosa come celebrità e
primo a svecchiare le stanze paludate di Washington e i loro protocolli (con
le foto del figlio John John che gioca sotto la scrivania dello Studio Ovale).
La permanenza del mito di Kennedy si può d’altronde misurare sull’entrata
in uso di un aggettivo, «kennedyesque», applicato dalla stampa, dal 1963 in
poi, agli altri politici di bella presenza, buone speranze e discreto fascino
affabulatorio.
Persino l’assassinio di Kennedy marca diversi primati, tra cui la
trasmissione televisiva di quei 26 drammatici secondi ripresi dagli 8 mm di
un amatore (Abraham Zapruder) e lo sviluppo abnorme ed esponenziale
delle commissioni federali e delle teorie del complotto (→). Alle 12.30 di
venerdì 22 novembre 1963, a Dallas, mentre sfila a bordo dell’auto scoperta
con Jackie, il governatore del Texas John Connally e sua moglie, il
presidente viene raggiunto da quattro colpi di arma da fuoco, e dichiarato
morto mezz’ora dopo. Le indagini dell’Fbi convergono su Lee Harvey
Oswald, ex marine, definito simpatizzante comunista, che viene quindi
arrestato e dato in pasto alla stampa. A due giorni dalla cattura, durante il
trasferimento dal quartier generale della polizia di Dallas al carcere, Oswald
viene ucciso con un colpo di pistola all’addome da un gestore di nightclub,
Jack Ruby. Dopo dieci mesi di investigazioni, la Commissione Warren –
incaricata dall’ex vicepresidente, e quindi successore di Kennedy, Lyndon
Johnson – individuerà in Lee Harvey Oswald l’unico colpevole dell’omicidio,
secondo la cosiddetta «lone gunman theory», e in Jack Ruby l’unico
colpevole di quello di Oswald stesso. Soltanto nel 1979, con la U.S. House
Select Committee on Assassinations, che ritorna sui fatti di Dallas alla luce
di nuove registrazioni acustiche degli spari, la vulgata del Warren Report è
parzialmente inficiata: dei quattro colpi, soltanto tre sarebbero partiti dal
fucile di Oswald. Offrendosi al proliferare di teorie della cospirazione,
l’assassinio Kennedy si imprimerà nell’immaginario collettivo americano
con forza, come dimostrano la tensione narrativa di romanzi
contemporanei quali Libra, di Don DeLillo (1988) e American Tabloid, di James
Ellroy (1995), e del film JFK di Oliver Stone (1991).
Per quanto tragica, la morte di John F. Kennedy, come si sa, non è
l’ultima a essere compianta in famiglia: da lì a cinque anni, sarà infatti
assassinato anche Robert, in lizza per le primarie del Partito democratico,
durante un comizio a Los Angeles. L’aura mitica che circonfonde la casata
kennedyana si nutre, in fondo, anche di una «maledizione», quella che vede
nelle uccisioni di John e Robert solo le sue vicende più note. Le altre
sciagure dinastiche includono infatti la lobotomizzazione, nel 1941, della
sorella più grande, allora ventenne, Rosemary, che sarà quindi
successivamente domiciliata in un ospedale psichiatrico; la scomparsa, nel
1944, del fratello maggiore Joseph Patrick Kennedy durante una missione
aerea in Inghilterra nella Seconda guerra mondiale; quella, in un incidente
aereo, di un’altra sorella, Kathleen Kennedy Cavendish, a soli 28 anni, nel
1948; la morte, a soli due giorni dalla nascita, di Patrick Bouvier Kennedy, il
terzo figlio di John e Jacqueline; l’incidente automobilistico di
Chappaquiddick, del 1969, che ha come protagonista e colpevole di
omissione di soccorso il fratello minore Edward M. «Ted» Kennedy, la cui
auto viene trovata, insieme al cadavere della segretaria Mary Jo Kopechne,
poco al largo dell’isoletta omonima del Massachusetts (l’episodio, secondo
il parere di molti storici, sbarrerà all’ultimo rampollo Kennedy la strada alle
presidenziali future); fino alla morte del 1999 di John John, primogenito di
John e Jacqueline, schiantatosi insieme alla moglie in un altro incidente
aereo.
Nell’infinita saga della più famosa stirpe americana non manca poi lo
scandalo che vede Jackie sposare, a cinque anni dalla morte del marito,
l’armatore greco Aristotele Onassis (alimentando il tormento di un’altra
leggenda: quella di Maria Callas appena abbandonata dal magnate per
convolare a nozze con la ex first lady). A chi, tra parenti e consiglieri, le
chiede i motivi di un tale «tradimento» americano, «Jackie O» risponderà:
«Se uccidono i Kennedy, allora i miei figli sono un target… voglio lasciare
questo paese». Mescolando, ancora una volta, finzione, mito, realtà e un
fiuto impeccabile per gli affari (di finanza e di famiglia), «Jackie O» Kennedy
si tuffa, a cavallo della teoria del complotto, nell’isola di Skorpios,
lasciandosi alle spalle i cavalieri feriti di Camelot. Che saranno soppiantati,
in tempi più recenti, dai cowboy di tutt’altra dinastia, quella dei texani
d’adozione Bush.

BIBLIOGRAFIA
Sara Antonelli, Dai Sixties a Bush jr. La cultura Usa contemporanea, Carocci,
Roma 2001.
Jon Goodman, Hugh Sidey, Letitia Baldridge, The Kennedy Mystique: Creating
Camelot: Essays, National Geographic Society, Washington 2006.
C. SCAR.
Campbell
Icona pop, o ultima speranza quando il frigorifero è vuoto? È indubbio che
le zuppe Campbell debbano gran parte della loro popolarità oltreoceano
non a ragioni culinarie, ma ad Andy Warhol, che dal debutto alla Ferus
Gallery di Los Angeles nel 1962 in poi, con una serie di opere e varianti sul
tema, trasformò l’etichetta della popolarissima tomato soup e delle altre
trentadue «specialità» Campbell in manifesto della pop art e simbolo di una
cultura fagocitante, che si nutre anche di uno dei prodotti di certo non fra i
più salutari dell’industria alimentare nordamericana.
Con Warhol, la Campbell divenne sinonimo di cibo in scatola: equazione
non da poco, visto che quest’ultimo vanta su suolo nordamericano una
tradizione più lunga di quanto si immagini. Si può dire che gli Stati Uniti
siano addirittura nati con la tin can in mano: fin dagli anni settanta del
Settecento, infatti, i coloni usavano fusti di metallo apribili e richiudibili per
conservare il cibo e già agli inizi dell’Ottocento venne brevettato un sistema
per trasformare queste lattine (all’epoca decisamente capienti) in
contenitori ermetici. La grande diffusione del cibo in scatola si ebbe qualche
decennio dopo, intorno a metà Ottocento, quando fu collaudato un sistema
sicuro ed economico di inscatolamento, e soprattutto quando la Guerra
civile (→) rese necessaria la disponibilità di grandi quantità di derrate
alimentari non deperibili come principale fonte di sostentamento per le
truppe impegnate a combattere nelle torride estati del Sud. La nazione
scoprì che si poteva inscatolare di tutto: pomodori, ostriche, latte, maiale e
fagioli (spesso insieme), granturco, pesche, ciliegie, ananas, fragole e, com’è
ovvio, zuppe.
Fu negli anni successivi alla Guerra civile che la Campbell Soup Company
iniziò le attività: fondata nel 1869 da Joseph A. Campbell, commerciante di
frutta, e da Abraham Anderson, produttore di ghiaccio (che lasciò l’impresa
quattro anni dopo, spaventato dai progetti grandiosi del socio in affari), la
Campbell partì alla conquista del mercato nazionale da una piccola fabbrica
nel New Jersey, proponendo verdura, marmellate, carne e zuppe in scatola.
Leggenda vuole che l’etichetta bianca e rossa sia stata scelta da un
dipendente della ditta, ispiratosi alle maglie della squadra di football della
Cornell University, di cui era acceso sostenitore.
Quando, nel 1897, le innovazioni di John T. Dorrance, il chimico neo-
assunto che inventò il sistema per condensare i prodotti liquidi, permisero
all’azienda di ridurre i costi di trasporto, spedizione e stoccaggio e di
conseguenza anche il costo finale del prodotto, le zuppe Campbell
diventarono cibo alla portata di tutti. Per aumentare gli introiti, la Campbell
decise così di concentrare la produzione su brodi e affini, che già a inizio
secolo raggiunsero le ventuno varietà diverse: zuppa di asparagi, di sedano,
di fagioli, di brodo di carne, di manzo, di pollo (in due varianti), di tartaruga,
di montone, di coda di bue, di piselli, di peperoncino, di pomodoro, di
verdure, di brodo vegetale; e poi ancora il clam chowder (→), il consommé, la
zuppa julienne, la zuppa mulligatawny (di origine indiana, a base di verdure,
carne e spezie), la zuppa printanier (brodo di carne e verdure), e per finire la
zuppa di vermicelli e pomodoro.
Certo, in occasione delle «splendide guerricciole» (→) di fine Ottocento
qualcuno affermò che di soldati americani ne avevano uccisi più le
scatolette di carne che i proiettili spagnoli: ma il mito era diventato
inossidabile. Apri la confezione, mescoli il contenuto con una quantità
uguale di acqua, e il gioco è fatto. A soli «dieci centesimi a tazza» (negli anni
trenta), e per la felicità di adulti e piccini: almeno così prometteva la
réclame, in cui due bambini mangiano di gusto una sospetta brodaglia
rossastra. «M’m! M’m! Good!», recitava lo slogan, uno dei più longevi
dell’industria pubblicitaria americana. Davvero buona questa zuppa non fu
solo per chi la reclamizzava o per chi la trasformò in arte, ma anche per il
signor Campbell e i suoi eredi, ora alle prese con un colosso alimentare che
ha diversificato notevolmente la produzione nel tentativo di svecchiare
un’immagine ora in crisi: dai succhi di frutta e verdura vitaminizzati, ai
biscotti e crostini «tradizionali, come fatti in casa» (!), fino alle salse e i
sughi pronti delle linee «Pace» e «Prego» (che sembrano presupporre
almeno un «grazie» del consumatore).
Come ogni multinazionale, anche la Campbell negli ultimi anni ha
investito molto per affermarsi sui mercati esteri – Francia, Belgio,
Germania, Inghilterra e Australia in particolare. Non sono fino a ora
pervenute notizie dal mercato nostrano; si teme forse che gli italiani
possano non apprezzare? Qualche ragione in effetti ci sarebbe, se si pensa ai
nostri artisti e al loro rapporto con le tin can – Piero Manzoni in primis, che,
giusto un anno prima del debutto Campbell di Warhol, in lattina aveva
messo qualcos’altro.

BIBLIOGRAFIA
Douglas Collins, America’s Favorite Food: The Story of Campbell Soup Company,
H.N. Abrams, New York 1994.
Martha Esposito Shea, Mike Mathis, Images of America: Campbell Soup
Company, Arcadia Publishing, Charleston 2002.
C. SCHIA.

Campi di detenzione
La «caccia allo straniero» non cominciò subito dopo il bombardamento
giapponese a Pearl Harbour, la base della marina statunitense nelle Hawaii
(→) attaccata dagli aerei e dalle navi giapponesi il 7 dicembre 1941. Fu solo
un mese e mezzo dopo, con la pubblicazione del rapporto curato dalla
Commissione Roberts – la quale attribuì il successo dell’incursione
all’operato di una fantomatica «quinta colonna giapponese» – che i
comandi militari spinsero l’amministrazione ad approvare misure più
stringenti nei confronti delle comunità in qualche modo legate alle potenze
dell’Asse.
Il 19 febbraio 1942, il presidente Franklin Delano Roosevelt firmò
l’Ordine Esecutivo 9066, con il quale autorizzava la creazione di zone di
guerra all’interno del territorio degli Stati Uniti: all’amministrazione
presidenziale e alle forze armate fu concesso il diritto di intervenire in
queste aree a propria discrezione, aggirando le garanzie costituzionali
riconosciute ai cittadini. A subirne le conseguenze furono centinaia di
migliaia di persone la cui «fedeltà» al paese era messa in questione sulla
base dell’origine etnica. Immigrati giapponesi, italiani e tedeschi, e i loro
figli, tutti senza distinzione ritenuti potenziali agenti al soldo dell’Asse,
vennero arrestati e trasferiti in campi di detenzione costruiti in aree remote
dell’interno. Il trasferimento coatto trovava fondamento legale negli Alien
Enemy Acts, una serie di leggi emanate nel 1798 dal presidente John Adams
(→ Famiglie A(d)dams), le quali autorizzavano, in tempo di guerra, la
sospensione dei diritti fondamentali.
Le ordinanze di evacuazione colpirono senza distinguere tra chi era
semplice residente e chi invece era cittadino americano, tra chi aveva svolto
in effetti attività di propaganda in favore del Partito nazista o fascista e chi
invece non si era mai interessato di politica. Così, ai pescatori italiani di
Monterey, piccola città portuale a sud di San Francisco, fu vietato di
utilizzare le proprie barche, con il risultato che presto si ritrovarono sul
lastrico; circa mille, invece, furono tenuti a distanza di sicurezza e internati
nel campo di Missoula, nel Montana.
A subire le maggiori conseguenze fu però la comunità giapponese, con
circa 120mila deportati, in una decina di campi in California, Idaho,
Wyoming, Utah, Arizona, Colorado e Arkansas. Una menzione dei traumi
legati a questa esperienza si trova, un po’ a sorpresa, in un film
disimpegnato quale Karate Kid (1984): l’imperscrutabile maestro giapponese
Miyagi, interpretato da Pat Morita, rivela all’allievo Ralph Macchio la
tragica sorte toccata alla moglie, morta di parto in un campo di detenzione
in California (quello di Manzanar). Ricostruzioni più ampie di
quell’esperienza si possono trovare nel racconto in prima persona dell’ex
prigioniera Jeanne Wakatsuki (Farewell to Manzanar, 1973), nell’interessante
romanzo autobiografico in parole e immagini di Miné Okubo Citizen 13660
(1946, 1983) e nello struggente film diretto da Alan Parker Come See the
Paradise (1990, Benvenuti in paradiso). Prezioso documento sono poi gli scatti
raccolti in Born Free and Equal, volume curato dal fotografo Ansel Adams,
ospite della struttura per un breve periodo durante l’estate del 1943.
Manzanar dista circa 370 chilometri da Los Angeles, quasi al confine con
il Nevada. Il campo fu aperto nel marzo del 1942 e nel luglio successivo il
totale degli internati arrivò a toccare le 10mila unità. Le famiglie erano
sistemate in grandi baracche, all’interno delle quali erano ricavati spazi
domestici divisi da semplici tendaggi. I servizi, invece, si trovavano
all’esterno. Nonostante la maggioranza dei prigionieri si fosse rassegnata a
vivere rinchiusa, una fazione piuttosto combattiva cercò di reagire contro i
soprusi: durante una protesta, svoltasi nel dicembre del 1942, le guardie
spararono sui manifestanti, uccidendone due e ferendone nove. Il campo
venne chiuso nel novembre 1945, e tutti gli edifici furono smontati,
lasciando intatto solo il cimitero dove erano stati seppelliti i 146 prigionieri
morti nei due anni e mezzo di funzionamento, il posto di guardia all’entrata
e l’auditorium. A partire dal 1985, con l’inclusione di Manzanar nel registro
degli Historic Landmarks, si è deciso di ricostruire parte delle strutture
rimosse e trasformare il luogo in parco nazionale aperto ai visitatori.
All’interno, è possibile visitare i vari ambienti (dalla mensa comune ai
piccoli spazi domestici ricavati nei capannoni), ma anche seguire un
percorso che, attraverso fotografie e reperti di varia natura, documenta
l’internamento e la campagna xenofoba che lo precedette.
L’esperienza dei campi di detenzione fu tutt’altro che un’aberrazione
legata al secondo conflitto mondiale. Sin dalle origini, infatti, la cultura
americana ha manifestato una sensibilità particolare per la costruzione di
confini, che di volta in volta hanno protetto da un ambiente ostile, esaltato
l’eroismo di una comunità accerchiata da forze nemiche oppure controllato
la diversità di componenti sociali o etniche. Il campo di detenzione, allora,
va visto come la risposta a un’ossessione connaturata all’esperienza
nazionale, le cui prime vittime furono gli indiani d’America. Durante le
presidenze di Andrew Jackson (1829-1837) e Martin Van Buren (1837-1841),
le tribù stanziate nel Sud, e in particolare i cherokee, subirono l’umiliazione
dell’internamento coatto. Privati del diritto di risiedere nei territori
originari attraverso campagne militari e imbrogli legali, i nativi furono
indotti a trasferirsi oltre il Mississippi (→ Piste e sentieri). Prima di
affrontare la marcia verso le nuove destinazioni, i malcapitati vennero
ammucchiati in baracche di legno e lasciati senza cibo. I principali punti di
raccolta furono Fort Cass, vicino a Charleston (Tennessee), e Fort Payne
(Alabama), e anche in questo caso non è restata nessuna traccia delle
costruzioni. L’unica vestigia sopravvissuta è una baracca in legno a Fort
Marr, nei pressi di Benton, Tennessee.
Guardando a tempi più vicini, appare chiara la linea di continuità con
quell’anomalia geopolitica che risponde al nome di Guantanamo. Dopo la
guerra combattuta contro la Spagna nel 1898 (→ Splendide guerricciole), gli
Stati Uniti si fecero ricompensare dal neonato governo cubano con la
cessione di un’area di circa 120 chilometri quadrati con affaccio sulla baia di
Guantanamo, nella parte sudorientale dell’isola caraibica, per l’affitto della
quale venne stabilita la somma irrisoria di 4000 dollari l’anno. La
disposizione è rimasta in vigore anche dopo la rivoluzione castrista del 1959
(pare che Fidel Castro abbia riscosso solo il primo degli assegni inviati dal
governo statunitense e conservi tutti gli altri in un cassetto nel suo ufficio).
L’anonimato di Guantanamo è stato spezzato nel momento in cui, nel
2002, l’amministrazione del presidente George W. Bush rese noto che i
«nemici combattenti» (così sono stati qualificati i sospettati di appartenere
al gruppo terroristico Al Qaeda o di avere partecipato ad atti di terrorismo
rivolti contro cittadini americani o gli interessi politici ed economici del
paese) sarebbero stati incarcerati nella base navale, e soggetti a regole di
detenzione predisposte dalla stessa amministrazione, ancora una volta
aggirando le garanzie previste dalla Costituzione. Situata al di fuori dei
confini nazionali, la base di Guantanamo aveva il vantaggio di essere
immune alle possibili pronunce di illegittimità delle varie corti federali e
della Corte Suprema. Dal ministero della Difesa sono così giunte a
Guantanamo dettagliate disposizioni su come trattare i prigionieri e
allestire le celle: gabbie aperte da tutti i lati, un metro e ottanta per due
metri e mezzo, una rete in ferro coperta da un materassino che occupa uno
dei lati e funge da letto, una latrina e un lavabo, trenta minuti di «aria» ogni
due giorni, cui si accede solo dopo avere indossato catene che legano
caviglie e polsi e impediscono una normale deambulazione.
Contrariamente agli auspici di Bush e del suo team, però, il potere
giudiziario ha esaminato le sottigliezze legali delle disposizioni emanate, e
in una serie di sentenze alcune corti federali e la Corte Suprema hanno
decretato che lo status di «nemico combattente» sarebbe dovuto essere
sottoposto a una commissione competente, la quale ne avrebbe dovuto
verificare la legittimità; inoltre, anche ai detenuti di Guantanamo andavano
estesi i diritti previsti dalla Costituzione, in particolare il diritto a conoscere
le motivazioni della detenzione e il diritto a un giusto processo.
Il presidente Obama, nei giorni successivi all’insediamento (gennaio
2009), si impegnò a chiudere la prigione durante il suo mandato,
proponendo di utilizzare in alternativa il carcere di Thompson, nell’Illinois.
Il Congresso ha però fatto arenare il progetto, decretando che il capo dello
stato non aveva il diritto di spendere soldi dei contribuenti per trasferire i
detenuti in un’altra sede. Se la storia è buona maestra, però, basterà avere
un po’ di pazienza: si può scommettere che anche di Guantanamo, come
accaduto a Fort Cass e (almeno all’inizio) a Manzanar, non rimarrà alcuna
vestigia a futura memoria.

BIBLIOGRAFIA
Michael Rogin, Fathers and Children. Andrew Jackson and the Subjugation of the
American Indian, Alfred A. Knopf, New York 1975.
Michi Weglyn, Years of Infamy. The Untold Story of America’s Concentration
Camps, William Morrow, New York 1976.
Carlo Bonini, Guantanamo: Usa, viaggio nella prigione del terrore, Einaudi,
Torino 2004.
S.M.Z.

Cappucci bianchi
Può essere una sorpresa, ma il cappuccio bianco non fu marchio esclusivo
dei razzisti del Ku Klux Klan (→ Kkk): esso anzi riaffiorò di frequente
nell’epoca successiva alla Guerra civile, con implicazioni e significati, però,
anche molto lontani e tutt’altro che reazionari. Per esempio, tra la fine
degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta dell’Ottocento, negli stati
del Sudovest e in particolare nella regione intorno a Las Vegas, fu attivo un
folto gruppo di messico-americani, organizzato (a quanto pare, ma la cosa è
incerta) dai fratelli Juan José, Pablo e Nicanor Herrera: le gorras blancas
(spagnolo per «cappucci bianchi») – due, trecento persone, e forse molte di
più, armate, mascherate e a cavallo, che ricorrevano all’azione diretta
contro i simboli più evidenti della penetrazione del big business in
quell’area. La vicenda del Sudovest è tortuosa e sovente trascurata, con il
risultato di operare un’autentica rimozione di un capitolo alquanto
problematico della storia nazionale americana. Come ha mostrato Bruno
Cartosio, l’annessione forzata di quei territori (la guerra con il Messico,
culminante nel 1848 nel Trattato di Guadalupe Hidalgo → Alamo; → Destino
manifesto) fu preceduta infatti dalla penetrazione del capitale commerciale,
specie attraverso le due direttrici del Santa Fe Trail e del Camino Real (→
Piste e sentieri), che creò – come già era avvenuto nella Valle del Mississippi
– i presupposti (e gli avamposti) per gli sviluppi successivi. Negli anni post
Guerra civile, le ferrovie (e nello specifico la Atchinson, Topeka and Santa
Fe Railroad) furono le protagoniste della seconda fase di penetrazione,
quella che intrecciava insieme capitale commerciale, capitale industriale e
capitale finanziario (→ Promontory Point). Gli effetti di questa successione
di fasi furono molteplici, ma due vanno ricordati, perché aiutano a
comprendere il «fenomeno» delle gorras blancas: la dissoluzione di
organizzazioni comunitarie e del possesso e godimento collettivo della
terra, riconosciuti in origine da trattati e concessioni (land grants, fra cui il
più importante era il cosiddetto Las Vegas Grant); la creazione di un
mercato del lavoro stratificato, in cui i messico-americani (o mexicanos), al
pari degli ex schiavi neri negli stati del Sudest, rappresentavano il gradino
più basso, con forti discriminazioni sia nei salari sia nelle condizioni di vita
e lavoro. A tutto ciò intesero rispondere le gorras blancas, ispirate anche
dall’attività dei Knights of Labor (la più importante ed estesa
organizzazione sindacale della seconda metà dell’Ottocento → Sciopero!)
che – si può dire – giunsero nel Sudovest sui binari del treno e a cui i
«cappucci bianchi» messico-americani furono con ogni probabilità anche
collegati sul piano organizzativo.
Nel marzo 1890, il gruppo fece pubblicare su un giornale locale una
«Dichiarazione», in cui erano riassunti i principi che lo guidavano: la difesa
delle classi più deboli dalla penetrazione del grande capitale, degli
speculatori e proprietari terrieri che stavano appropriandosi di vaste
estensioni di territorio; il rifiuto di accettare in maniera supina
sfruttamento e discriminazioni sul posto di lavoro; la lotta a quel grosso
monopolista che aveva nome Atchinson, Topeka and Santa Fe Railroad e che
dominava buona parte della vita nella regione. I braccianti, i piccoli
contadini e gli operai, messico-americani e non, erano dunque i destinatari
del loro progetto di mobilitazione. Muovendosi con notevole rapidità e per
lo più di notte, guadagnando seguito a ogni nuova azione, le gorras blancas
abbattevano gli steccati e tagliavano le recinzioni di filo spinato, davano
fuoco a fattorie e fienili, liberavano il bestiame, incendiavano le traversine
delle linee ferroviarie, galoppavano attraverso paesi e villaggi fermandosi in
maniera intimidatoria davanti alle ville dei grandi proprietari, tenevano
dimostrazioni davanti ai tribunali locali. Nell’agosto 1890, alcuni si
presentarono anche alle elezioni locali per l’Assemblea legislativa: furono
eletti in tre, nelle file di un partito populista; ma presto si dimisero,
disgustati dagli intrighi e dalla prassi dominante. Uno di essi, Pablo Herrera,
nel febbraio 1891, dichiarò: «Signori, ho trascorso alcuni anni in un
penitenziario e soltanto 60 giorni nella Camera dei rappresentanti
dell’attuale Assemblea legislativa. Ho osservato attentamente il modo in cui
essa funziona. Mi sento di affermare che il tempo da me trascorso nel
penitenziario è stato più piacevole di quello passato qui. Circola più onestà
nelle stanze della prigione territoriale che in quelle dell’Assemblea
legislativa. Preferirei un altro soggiorno in prigione, piuttosto che una
rielezione alla Camera».
Dopo l’uccisione di uno dei fratelli Herrera da parte di uno sceriffo (e il
tentativo non riuscito di infiltrazione e provocazione da parte di Charles
Siringo, l’attivissimo agente della Pinkerton Detective Agency → ), il
gruppo finì per sciogliersi. Ma, in quei pochi anni che separavano i fatti di
Haymarket Square (→) dai conflitti operai di Homestead e Pullman (→
Sciopero!), le gorras blancas dimostrarono che il «lontano Sudovest» non
cadeva fuori della mappa sociale statunitense, non era un territorio
separato da costruire magari ideologicamente (come avrebbe fatto di lì a
poco il cinema western: il cow-boy solitario, gli scenari della Valle della
Morte, la guerriglia degli apache) o da trasformare in un ennesimo luogo in
cui «fuggire dalla civiltà» (come l’avrebbero inteso tanti artisti nei primi
decenni del Novecento → Pueblos). E furono un salutare antidoto alle croci
in fiamme dei più noti e famigerati «cappucci bianchi» del Kkk.

BIBLIOGRAFIA
Bruno Cartosio, Contadini e operai in rivolta. Le Gorras blancas in New Mexico,
Shake, Milano 2003.
Robert J. Rosenbaum, Mexicano Resistance in the Southwest: «The Sacred Rights
of Self-Preservation», University of Texas Press, Austin 1981.
M.M.

Carpetbaggers
Gli abitanti del Sud affibbiarono il nomignolo di carpetbaggers ai tanti
«nordisti» che, ancor prima della fine delle ostilità tra gli eserciti
dell’Unione e della Confederazione (→ Guerra civile), cominciarono a farsi
vedere sempre più numerosi nelle città al di sotto della Mason-Dixon Line
(→). Si immaginava che costoro non possedessero nulla al di fuori delle
poche cose infilate nella carpet bag, una borsa da viaggio ottenuta riciclando
il tessuto di qualche vecchio tappeto, da cui pareva non si separassero mai.
Non erano certo benvoluti. Nella seconda parte del film Via col vento
(1939), la sequenza sul ritorno dei sopravvissuti dal fronte è introdotta da
una didascalia che proclama: «E insieme ai soldati venne un altro invasore,
più crudele e brutale di quanti ne avessero combattuti finora, il
carpetbagger». E poco oltre viene presentato un esemplare «tipico» di questa
schiatta, Jonas Wilkerson, l’ex sovrintendente di Tara (la tenuta della
famiglia O’Hara), che vuole approfittare delle difficoltà finanziarie in cui
versa la protagonista Rossella per impossessarsi dei suoi terreni.
I carpetbaggers non furono tutti affaristi senza scrupoli. Parecchi erano
idealisti che volevano collaborare alla rinascita del Sud, altri insegnanti che
avrebbero provveduto a mettere in piedi le prime scuole per neri, altri
ancora giovani chiamati a occupare le più diverse mansioni nell’apparato
statale. Altri, infine, vedevano nel Sud enormi potenzialità di profitto. Del
resto, c’erano città da ricostruire, la rete ferroviaria danneggiata, la flotta
dei battelli a vapore pressoché inservibile. Si potevano acquistare fattorie e
piantagioni a prezzi stracciati e, con l’arroganza tipica dei vincitori, i nuovi
arrivati ritenevano di poterle rendere più produttive grazie
all’introduzione di nuovi e più efficienti metodi di organizzazione del
lavoro.
Alla conclusione del conflitto, i notabili compromessi con la
Confederazione furono interdetti dall’assumere incarichi pubblici e il
Partito repubblicano, che aveva il controllo del governo federale, reclutò tra
gli ex militari governatori e senatori con l’obiettivo di attuare la politica di
Ricostruzione decisa a Washington. Questi carpetbaggers si allearono con
una classe emergente di uomini politici afroamericani e con gli scalawags (i
sudisti che appoggiavano l’integrazione degli ex schiavi) e rimisero in piedi
l’apparato governativo: una volta approvati gli emendamenti costituzionali
che abolivano la discriminazione razziale in materia di voto, gli stati
secessionisti poterono essere reintegrati nell’Unione.
La popolazione, e soprattutto la vecchia classe dirigente, mal digerì la
presenza di questi personaggi, nei quali vedeva veri e propri emissari del
potere centrale, e nelle loro imprese una sorta di cospirazione contro il Sud.
Louis Post, futuro membro dell’amministrazione del presidente Wilson
(1913-1921), ricorda l’ostracismo sociale di cui fu vittima insieme alla
moglie quando si trasferì nel South Carolina per ricoprire un incarico da
stenografo del Senato statale: «i proprietari delle piantagioni ci fecero
capire che eravamo degli indesiderabili», scrive nella memoria A
Carpetbagger in South Carolina. Peggior sorte toccò ai neri, sui quali si riversò
il violento fanatismo del neonato Ku Klux Klan (→).
Una volta conquistate le leve della politica, molti ne approfittarono per
ottenere facili guadagni. Particolarmente nota è la cricca che girava intorno
a Milton J. Littlefield, ex generale dell’esercito unionista che, per i suoi
maneggi, si conquistò il titolo di «principe dei carpetbaggers». Sborsando più
di 200mila dollari in tangenti, prestiti, intrattenimenti vari a favore di
deputati e senatori del North Carolina, Littlefield ottenne milioni di dollari
per finanziare la costruzione di una ferrovia, soldi che in realtà vennero
utilizzati per comprare quote azionarie di altri consorzi ferroviari e per
speculazioni finanziarie. Erano lontani i tempi della carpet bag!

BIBLIOGRAFIA
Eric Foner, Reconstruction: America’s Unfinished Revolution, New York, Harper
& Row 1984.
Raimondo Luraghi, La spada e le magnolie, Roma, Donzelli 2007.
S.M.Z.

Casa Simpson
«Se nella cultura [di fine millennio] ci fosse una moneta di scambio», scrive
Chris Turner nel 2004, «questa porterebbe l’effigie di Homer Simpson».
Un’affermazione senza dubbio iperbolica. Eppure i record della serie tv (→)
creata da Matt Groening nel 1989 sono molti. Ancora in onda sugli schermi
della Fox, la sitcom animata (questa la definizione più in voga) che ha
cambiato la storia della televisione – esiste infatti un pre- e un post-Simpson
– ha fatto scuola, aprendo la strada a prodotti affini per irriverenza
corrosiva ma mai altrettanto complessi e compiuti: Beavis & Butt-head, Daria,
South Park, Futurama, I Griffin (Family Guy), King of the Hill e Boondocks. I
Simpson annoverano diversi primati e non solo d’ascolto (nel 2001 venivano
guardati da 60 milioni di persone alla settimana, in 70 paesi, mentre nei soli
Stati Uniti il 91% dei ragazzi tra 10 e 17 anni riesce a riconoscere i membri
della famiglia): Time li ha definiti il miglior programma del XX secolo;
Berkeley è stata la prima università prestigiosa a metterli al centro di un
corso; esperti di Media Studies ne hanno indagato ogni aspetto (dalla filosofia
al postmoderno, dalla scuola alla religione), alimentando una proliferazione
di saggi e monografie; l’autorevole Oxford English Dictionary ha accolto
«D’oh», l’intercalare di Homer, tra i suoi lemmi.
La famiglia più famosa d’America (e forse del mondo) nasce quando Matt
Groening, classe 1954, da Portland (Oregon), figlio di un cartoonist (→
Comics) e autore della striscia Life in Hell, si presenta agli studi della Fox e
schizza i tratti essenziali di quei personaggi di base. La prima stagione va in
onda all’interno del Tracy Ullman Show, consta di 13 episodi ed è un
successo. Per tutte quelle future, Matt Groening rimarrà ideatore e autore,
anche se ben poche saranno le sceneggiature da lui firmate, lavoro assolto
da 16 scrittori. Alla produzione della gallina dalle uova d’oro della Fox – che
sugli ascolti e il merchandising di Homer & Co. ha costruito una fortuna,
diventando uno dei quattro grandi network del paese – lavorano 250
persone, ogni stagione è composta di circa 25 episodi che durano una
ventina di minuti, i costi sono altissimi, la qualità è impareggiabile.
Oltre a una matrice fumettistica evidente, I Simpson hanno sia le
caratteristiche del cartone animato sia quelle della sitcom (→ Serie tv), con
cui condividono tanto la centralità di una famiglia formata da una madre
garrula, apprensiva e nevrotica e un padre maldestro e infantile (una
carrellata sui telefilm americani offre precedenti illustri che vanno dagli
Addams ai Cunningham e ai Bunker), quanto la presenza di pochi spazi –
per lo più interni – deputati all’azione (il bar, il soggiorno e la cucina della
casa, il luogo di lavoro). Da notare, rispetto al panorama televisivo coevo
dominato da single e adolescenti putrefatti in fuga da ogni legame familiare,
la scelta di Groening di rappresentare un nucleo domestico che, a dispetto
della sua natura problematica, anomala, in una parola «dysfunctional»,
campeggia indiscusso come unico rifugio alle storture morali dell’esterno.
Ma chi sono i Simpson, dove abitano, che cosa fanno? Partiamo dalla sigla:
ripresa lunga di una cittadina, zoom sulla finestra di una scuola elementare
e sull’interno della classe in cui Bart scrive alla lavagna una frase di
punizione che cambia a ogni puntata («Non mi nasconderò dietro al Quinto
emendamento», «Gli sputi non sono libertà di parola», «Un rutto non è una
risposta», «L’insegnante non è un lebbroso», «Non griderò “è morta”
durante l’appello», e via di seguito), suono della campanella, fuga su skate
dello stesso Bart; Homer al lavoro nella centrale nucleare mentre maneggia
incauto una barra di uranio radioattivo, suono della sirena di fine giornata,
corsa all’auto; Marge al supermercato con Maggie che passa al nastro delle
casse insieme agli altri acquisti; Lisa nell’aula di musica, alle prese con un
assolo di sax non contemplato dal maestro; Homer al volante che si libera
della barra di uranio finita suoi vestiti buttandola fuori dal finestrino e
colpendo lo skate di Bart nel momento in cui sfreccia su un marciapiede
gremito di alcuni personaggi della serie (la moglie del Reverendo Lovejoy,
Boe, Apu, Barney, Krusty, Winchester…) e attraversa lo stesso incrocio
imboccato da Marge; carrellata velocissima sulla città e, infine, zoom sui
cinque membri della famiglia tornati a casa (Bart in skate, Lisa in bicicletta,
Homer e Marge in auto), radunati sul divano del soggiorno davanti alla
televisione e protagonisti della couch gag («gag da divano») che varia,
anch’essa, di puntata in puntata.
Nella serie, ci sarà quindi una piccola città (→), Springfield, non meglio
localizzata e sulle cui dimensioni è arduo pronunciarsi (pare che nel crearla
Groening si sia ispirato all’omonima cittadina inventata dell’Oregon dove è
ambientata la serie tv [→] degli anni cinquanta Father Knows Best): è infatti
abbastanza piccola da permettere che tutti i cittadini si incontrino alle
riunioni tra genitori e insegnanti (Parents Teachers Association Meetings)
ma abbastanza grande da ospitare uno stadio da football (→) e avere, come
New York, il suo Lower East Side (→), il suo quartiere d’immigrazione. I
centri di aggregazione all’interno di Springfield sono la taverna di Boe,
frequentata da Homer e da avventori frustrati e abbrutiti dal consumo di
Duff Beer, la torreggiante centrale nucleare di Mr Burns, il supermercato
dell’indiano Apu (il Jet Market), la scuola elementare di Bart e Lisa diretta
dal preside Skinner e, su tutti, casa Simpson, villetta unifamiliare, operaia
ma non troppo, con vialetto per l’auto nel garage, praticello davanti alla
porta e giardino sul retro con barbecue (→ BBQ) e casetta sull’albero (per
Bart).
I membri sono il padre, il 35enne Homer Simpson (che richiama, per
ammissione dello stesso Groening, l’omonimo personaggio del romanzo di
Nathanael West Il giorno della locusta, del 1939), la madre 33enne Marge, il
figlio Bart, di 9 anni, la figlia Lisa, di 8 e, ultima arrivata, Maggie, di 3 (nomi
mutuati da quelli dei familiari di Groening). Homer, testa a lampadina, calvo
e pingue, è un lavoratore incompetente che schiaccia pisolini e ingolla
donuts al quadro dei comandi di una centrale nucleare; Marge, sormontata
da un’inquietante pettinatura a parallelepipedo di colore blu cobalto, è una
madre su cui grava tutto il peso della gestione familiare; Maggie, capelli a
stella con fiocchetto da bebè, è una poppante di cui spesso gli altri membri
si dimenticano e che si esprime a colpi di ciuccio; Lisa, pettinatura a stella e
vestitino rosso, è acuta, studiosa, geniale e ambientalista, per quanto un po’
petulante e depressa dalla mediocrità circostante; Bart, zig zag sulla testa a
mimare una crestina di tipici capelli a spazzola, ennesimo esempio di good
bad boy (→ Piccoli uomini) della cultura americana, è pestifero e svelto, ma
con una sua onestà di fondo. Quanto agli altri personaggi, il loro tratto
comune è, al meglio, la mediocrità e, al peggio, l’insipienza lavorativa: il
commissario Winchester (Chief Wiggam), dall’accento napoletano, che di
legge non sa niente; il kennedyano (→ Camelot) sindaco Quimby, corrotto,
reazionario e circondato da donnette in abiti succinti; il preside Skinner,
mai affrancatosi dal giogo materno e ossessionato dall’esperienza in
Vietnam (→); il conducente dello scuolabus senza patente e con le cuffie
Otto Disc; lo spregiudicato dottor Julius Hibbert…
Simboleggiata da una centrale inquinante e una scuola opprimente, la
società civile di Springfield, America, è dissezionata con lucidità tagliente e
sguardo disincantato dagli autori che ne restituiscono un’immagine
sconfortante: non a caso, la critica più ostinata mossa alla serie è stata
quella di apatia morale. L’unico luogo in cui le tensioni, pur non
dissolvendosi, riescono a trovare un confronto emotivo appagante sono le
mura domestiche. Sebbene Marge e Homer siano due genitori tutt’altro che
perfetti, la loro capacità di instaurare un dialogo con Bart e Lisa è, per molti
versi, sorprendente, persino quando è veicolata da messaggi in apparenza
fuorvianti (Homer a Bart: «Figliolo, ci hai provato con tutte le tue forze e hai
fallito miseramente. La lezione è non provare mai»). Niente affatto scontata
è inoltre la presenza della religione e di Dio, con cui gli autori non temono
di ingaggiare disfide che vanno dal pulp al sublime. Homer, a un tempo
blasfemo e filisteo, si permette di non andare alla messa domenicale
ammannita dal tedioso reverendo Lovejoy – e frequentata del bigotto vicino
Ned Flanders – per restarsene al tepore di casa, ma non lesina conversazioni
a tu per tu con un Dio che gli appare a chiome sciolte, vestito di bianco –
«Dentatura perfetta, buon profumo. Di gran classe, insomma un vero
Signore». A quello stesso Dio, «che ha una barba bianca e ha inventato il
Codice Da Vinci», Homer ricorre dopo aver causato un incidente («Atti di
Dio, non colpa mia!»), Bart rivolge un ringraziamento per una delle
pochissime sufficienze strappate all’arcigna Edna Caprapall, Lisa riserva
una definizione intramontabile: «Non so che cosa sia Dio di preciso. So
soltanto che è una forza più potente di papà e mamma messi insieme».
Anche senza considerare l’apertura all’induismo di Apu, è possibile
accorgersi dello scarto che separa la religione rappresentata nei Simpson
(una denominazione protestante inventata → Quakers, Shakers, Mormons)
dall’anima calvinista incentrata su un’etica della laboriosità e del
moralismo dei cartoni della Disney (→ Disneyland).
Ma è nella ricchezza metatestuale che I Simpson si dimostrano un
capolavoro tardo-moderno, nel loro gusto del pastiche e della citazione da
linguaggi diversi eppure complementari quali i fumetti, la televisione, il
cinema e la letteratura. L’accuratezza e la copiosità di rimandi culturali
«alti» e «bassi» si ritrova, rovesciata in chiave satirica, tanto nelle
sceneggiature quanto nelle scelte registiche: difficile che anche lo
spettatore meno accorto non riesca a coglierne almeno uno a puntata e a
godere del capovolgimento ironico e citazionista. Se un serbatoio è quello
delle strisce a fumetti, come ricordano il colore giallo dei personaggi che
richiama Yellow Kid (→ Comics), il tratto estetico, l’età fissa dei personaggi
e, infine, il piacere della gag verbale tipica dei Peanuts (→), l’altro referente
necessario è il piccolo schermo, di cui si citano, tanto per fare due esempi,
Dallas (→) e I Flintstones, mentre si abbandona sia la visione buonista di
Disney sia quella manichea dei cartoni nipponici: la filosofia abbracciata dal
mondo di Homer è decisamente «politically incorrect». Se le citazioni
letterarie non mancano – una delle migliori rimane l’«Urlo» di Lisa che, il
giorno del Ringraziamento (→), angariata dall’ennesimo guaio di Bart,
riscrive il celebre incipit di Allen Ginsberg così: «Ho visto i migliori pranzi
della mia generazione distrutti dalla pazzia di mio fratello» –, la parte del
leone spetta però al cinema, e che cinema! da Psycho ad Apocalypse Now, dal
Padrino (Springfield vanta un suo mafioso, Tony Ciccione) a 2001: Odissea nello
spazio (Homer volteggia senza gravità inseguendo patatine galleggianti nella
cabina del satellite), ma anche Mr Smith va a Washington, La donna che visse
due volte, L’esorcista, Alien, Batman, Fuga di mezzanotte, Il fuggitivo, Love Story, Il
mago di Oz, Il mondo dei robot, Un tranquillo weekend di paura, Il laureato,
Shining… E come dimenticare la rivisitazione di Ufficiale e gentiluomo, con
Homer-Richard Gere che, sul posto di lavoro, prende in braccio Marge-
Debra Winger e risponde alla domanda del collega Lenny «Che cosa devo
dire al capo?» con un «Digli che sto andando sul sedile posteriore della mia
auto con la donna che amo, e che non sarò di ritorno prima di dieci
minuti»?
Homer Simpson non avrà l’avvenenza di Marlon Brando o di Humphrey
Bogart, la bellezza di Paul Newman o di Richard Gere, la simpatia di Robert
Redford, il fascino ostile di Clint Eastwood, l’intelligenza di Dustin Hoffman
e lo sguardo magnetico di Al Pacino, eppure poche stelle sulla «Walk of
Fame» di Hollywood (→) sembrano più meritate della sua.
D’oh!

BIBLIOGRAFIA
Jonathan Gray, Watching the Simpsons: Television, Parody, and Intertextuality,
Routledge, New York 2006.
Pierluca Marchisio, Guido Michelone, I Simpson. L’allucinazione di una sit-com,
Castelvecchi, Roma 1999.
Chris Turner, Planet Simpson: How a Cartoon Masterpiece Documented an Era and
Defined a Generation, Ebury Press, London 2004.
C. SCAR.

Case stregate
Casa, dolce casa… Quante immagini vengono in mente, comprese fra le
linde casette dei suburbs (→) e la casupola di assi di Charlie Chaplin e
Paulette Goddard in Tempi moderni! Non c’è dubbio che la casa sia un
elemento centrale dell’immaginario americano, luogo di conforto e
rassicurazione, celebrazione della famiglia mononucleare e status symbol. E
non si parla qui di «appartamento», per il quale il discorso potrebbe essere
in parte diverso: nella metropoli (ma anche nella piccola città),
l’appartamento possiede valenze tutte particolari, e il discorso si farebbe
troppo lungo. Parliamo di «casa», di home, sweet home, punto d’arrivo di un
percorso socioculturale, anelito individuale e familiare. Viene giusto in
mente la «casa» di Revolutionary Road, romanzo di Richard Yates del 1961 e
film di Sam Mendes del 2008 – la sua ricerca e la sua «conquista», il senso di
soddisfatta appartenenza che essa veicola. Ma poi… Poi, com’è noto a chi
abbia letto il libro o visto il film, le cose non vanno tanto bene per Frank e
April: quella casa diviene soffocante, diviene una prigione, e infine luogo di
nevrosi, di sofferenza, di morte. Dev’esserci qualcosa che non va, nella casa
americana.
E in effetti, fin dagli inizi, le cose non sono così semplici.
Certo, costruirsi una casa nella wilderness (→) delle origini voleva dire
crearsi un rifugio, chiudere le minacce fuori della porta. Ma la casa era
comunque vulnerabile. E viene violata. In uno dei testi fondativi della
letteratura e cultura americana, A Narrative of the Captivity, Sufferings, and
Removes of Mrs Mary Rowlandson, pubblicato in origine nel 1682 a Boston con
il titolo The Soveraignty & Goodness of God, l’autrice, una colona inglese
abitante a Lancaster, nel Massachusetts, narra le proprie peregrinazioni di
undici settimane dopo essere stata catturata e rapita dai narragansett, una
tribù Native American, durante la cosiddetta «Guerra di re Filippo» (→
Guerre indiane). E come avvenne l’incursione: la casa penetrata e messa a
soqquadro, gli spazi interni sovvertiti, gli abitanti uccisi in maniera crudele,
il sancta sanctorum violato in modo irrimediabile.
Da allora, la casa – quella sorta di fortino domestico – è come assediata,
la sua separatezza di nicchia è di continuo minacciata: perché la freccia può
infrangere il cerchio, come ci ha spiegato Francesco Dragosei. Ma non è
detto che la minaccia venga sempre dall’esterno, come vorrebbe la vulgata
americana più corriva. Può venire anche dall’interno, per implosione
(come, per l’appunto, nel romanzo di Yates). Oppure, ancor più disturbante,
da un «sotto» che mescola e contiene elementi psicologici e culturali: da un
subconscio che ha a che fare con molte pulsioni inconfessabili e
inconfessate, con un senso di colpa irrisolto. Può essere la casa di Edgar
Allan Poe (La caduta della casa Usher, 1845) o quella di H.P. Lovecraft (I topi nel
muro, 1924), può essere il Bramford Building di Ira Levin (Rosemary’s Baby,
del 1967, reso celebre dal film di Roman Polanski dell’anno successivo,
ambientato nel Dakota Building di New York), la Belasco House di Richard
Matheson (La casa d’inferno, del 1971) o l’Overlook Hotel di Stephen King
(Shining, del 1977, con il celebre film di Stanley Kubrick del 1980). E può
essere «la casa» di innumerevoli film horror: dalla serie inaugurata da
Amityville Horror di Stuart Rosenberg (1979) a quella inaugurata nel 1981 da
La casa di Sam Raimi, da Non aprite quella porta di Tobe Hooper (1974) a Le
colline hanno gli occhi di Wes Craven (1977)… L’elenco è davvero lungo.
Come lungo è l’elenco «ufficiale» delle «case stregate» sparse in giro
negli Stati Uniti: visitate regolarmente da giovanette suicide per amore, da
soldati (confederati e unionisti) morti durante la Guerra civile (→), da
operai uccisi dall’esplosione di fornaci nell’Ottocento, da evasi e morti in
mare che tornano a riva (compresi alcuni marinai del Titanic), da vittime di
serial killer ante litteram, da malati di mente «ospitati» in passato, da suicidi
per l’umiliazione di delitti non commessi, da giovani spose abbandonate
sull’altare. Per non dire dei fantasmi di Dylan Thomas, Eugene O’Neill,
Thomas Wolfe, Sid Vicious, che si ostinerebbero a frequentare le stanze, gli
ascensori e i corridoi del celebre Chelsea Hotel di New York. Una delle più
famose fra queste «case stregate» resta ancora la LaLaurie Mansion, di New
Orleans, al 1140 di Royal Street, nel cuore del French Quarter (→ Congo
Square): come racconta anche lo scrittore George Washington Cable nel
delizioso Strange True Stories of Louisiana (1888), in questa villa ricca ed
elegante, abitata nei primi anni trenta dell’Ottocento dai raffinati coniugi
LaLaurie, intorno a cui ruotava la vita mondana del quartiere, gli schiavi e
in particolare le schiave erano vittime dei sadici (e nascosti, ma non del
tutto ignoti) abusi della bellissima e sofisticata madame LaLaurie.
Nell’aprile del 1834, un furioso incendio semidistrusse la magione e dalle
rovine fumanti emerse quella che si potrebbe chiamare una «camera delle
torture»: corpi martoriati in tutti i modi perversi immaginabili. Una folla
indignata circondò la casa minacciando il linciaggio della coppia – e
d’improvviso, dalle stalle sul retro, una carrozza si lanciò in strada a folle
velocità, portando in salvo i LaLaurie (di loro non si seppe mai più nulla). Da
quel momento, la leggenda vuole che i fantasmi degli schiavi massacrati dai
due cittadini altolocati di New Orleans vaghino nelle sale e nei sotterranei
della magione e s’intreccia ad altri rumors (è proprio il caso di dirlo) legati a
vicende successive – perché, una volta «stregata», è ben difficile che una
casa torni normale.
A esaminare quel lungo elenco, ci si accorge come in esso ritorni di
frequente un elemento particolare: la «casa» è stregata o infestata
(haunted), perché sorge là dove qualcosa successe in passato, le cui tracce
sono celate nel profondo, ma attendono solo di tornare in superficie, di
impadronirsi dell’oggi dopo essere state ricacciate ieri nel «sotto». Può
essere il luogo dove furono bruciate le «streghe» dopo i processi di Salem e
dintorni, può essere il sito (non riconosciuto, non rispettato) di un antico
cimitero indiano, può essere la magione di crudeli proprietari di schiavi.
Insomma, i sensi di colpa dell’immaginario americano continuano a
generare mostri.
Tenetelo presente, quando state per premere il campanello sotto la targa
che dice «Casa, dolce casa».

BIBLIOGRAFIA
George Washington Cable, Strange True Stories of Louisiana (1888), Pelican,
Gretna, 1999.
Francesco Dragosei, Lo squalo e il grattacielo. Miti e fantasmi dell’immaginario
americano, il Mulino, Bologna 2002.
M.M.

Casi celebri
Se consideriamo narrativa, cinema e televisione statunitensi degli ultimi
ottant’anni (o giù di lì), ci accorgiamo che uno dei generi più visitati, in cui
maggiormente si può cogliere l’impronta specifica di quella cultura, è
(insieme al western, cui comunque s’intreccia per tanti versi) il «poliziesco»
– termine improprio come sa chiunque sia appassionato di romanzi
hardboiled (→), perché non di rado in essi la polizia occupa una posizione
marginale (e spesso non ne esce nemmeno bene). Ma questo è un altro
discorso. Fatto sta che, almeno da metà Ottocento, il territorio americano
(specie nelle sue concrezioni urbane) si pone come «territorio dei misteri».
Lo dimostrano i titoli dei tanti feuilletons modellati sull’esempio europeo
(francese e inglese in primis): The Mysteries of New Orleans, The Mysteries of
Philadelphia, The Mysteries of Cincinnati, The Mysteries of St. Louis (senza
dimenticare gli italoamericani I misteri di Mulberry Street, I misteri di Bleecker
Street, I sotterranei di New York)… Le metropoli in formazione, le tensioni di
una società che cambia con grande velocità, le contraddizioni
dell’incipiente modernità novecentesca – tutto contribuisce alla nascita e
allo sviluppo di questo «filone». E alcuni «casi celebri» che, se anche non
ispirano la cultura contemporanea in maniera diretta (ma alcuni lo fanno),
costituiscono il fondale, o meglio l’humus, per certe creazioni, per certe
tendenze. Quelli che seguono sono solo alcuni esempi.
La bella sigaraia di Manhattan. Nell’anno 1841, Mary Cecilia Rogers abitava
al 114 di Liberty Street di Manhattan. Nota come «la bella sigaraia»,
lavorava nel negozio di tabacchi al 319 di Broadway, punto d’incontro della
New York mondana e frequentato da molti giovanotti rampanti. Il 25 luglio
1841, Mary Cecilia uscì di casa e non vi fece più ritorno. Pochi giorni dopo, il
suo cadavere venne ritrovato in riva al fiume Hudson, vicino alla spiaggia di
Hoboken e non lontano dai «Campi Elisi», luogo di svaghi e picnic per molti
newyorkesi, gente comune e personaggi famosi della politica, della finanza,
della cultura. Il mistero rimase irrisolto: ma in molti collegarono il nome di
Mary Cecilia a quello di un altro personaggio chiave della «piccola grande
città» che era allora New York: madame Restell, la «scandalosa abortista»
che stava già attirandosi i fulmini dei benpensanti per l’insieme delle sue
attività (e forse anche la loro invidia per la ricca magione che s’era
costruita). Il sospetto che la ragazza fosse rimasta vittima di un intervento
di madame Restell non fu mai provato e numerose ipotesi successive non
trovarono conferma. Il caso restò aperto: un cold case, si direbbe oggi, con
linguaggio televisivo. Ma passarono alcuni mesi, ed ecco che un racconto
apparve sulla rivista Snowden’s Ladies’ Companion: s’intitolava Il mistero di
Marie Rôget e ne era autore Edgar Allan Poe, che aveva deciso di trasferire la
vicenda da New York a Parigi, mantenendo tuttavia, nelle note a piè di
pagina, un esplicito sottotesto che rimandava al caso della «bella sigaraia»,
completo di citazioni dagli articoli dei giornali newyorkesi che s’erano
occupati del caso [cfr. Eric Homberger, Scenes from the Life of a City. Corruption
and Conscience in Old New York, Yale University Press, New Haven 1994;
Daniel Stashower, The Beautiful Cigar Girl, Penguin Books, New York 2006].
Il dottore di Chicago. Facciamo un salto di mezzo secolo e passiamo da New
York a Chicago. Qui, il 1º maggio 1893, s’era aperta la World’s Columbian
Exposition, la Fiera mondiale (→ Esposizioni universali) ospitata nella
White City (→), città nella città costruita apposta dai più famosi architetti
dell’epoca: grande appuntamento, tecnologico ed economico, sociale e
culturale. Ma il candore della fiera, reale e simbolico, fu presto sporcato da
alcuni eventi contemporanei. Qualche mese prima, uno strano personaggio
di nome Herman Webster Mudgett, ma più noto come Henry Howard
Holmes – medico, intrallazzatore, speculatore immobiliare con alle spalle
numerose vicende equivoche, più volte sposato oltre che bigamo, un
moderno con-man (→ Tricksters e con-men) – aveva costruito, in prossimità
dell’ingresso alla White City, un grande albergo di due piani, cui aveva dato
il nome di «Castello». L’albergo doveva servire a ospitare la folla di
visitatori che arrivava a Chicago da ogni parte degli Stati Uniti (e non solo)
per visitare l’esposizione: una probabile fonte di lauti guadagni per «H.H.
Holmes». Il quale però aveva disegnato il «Castello» in maniera alquanto
singolare: più di un centinaio di stanzette-cubicolo senza finestre, porticine
cieche o apribili solo dall’esterno, cunicoli sotterranei, scale che
s’interrompevano, passaggi segreti, una fantasmagoria degna del miglior
romanzo gotico o di un Luna Park alla Coney Island (→). E inoltre: stanze a
tenuta stagna complete di un sistema di tubi del gas, una vasta cripta
insonorizzata, scivoli che portavano in cantina, due enormi fornaci, una
ricca attrezzatura medica, tavoli da dissezione, vasche di acido, un’ampia
collezione di veleni. Insomma, più che un albergatore, «H.H. Holmes» era un
serial killer tardo-vittoriano, un contemporaneo più metodico e
tecnologizzato (siamo pur sempre negli Stati Uniti!) di Jack lo Squartatore, e
forse s’era ispirato alla razionalità efficiente dei macelli di Chicago per il
suo «Castello». Il risultato di tutto ciò fu agghiacciante: 27 omicidi
confessati (di preferenza donne bionde, ma anche uomini e bambini), con
un totale probabile di 250 – perché il nostro «Hannibal Lecter» ante litteram,
dopo la World’s Columbian Exposition, operò indisturbato anche altrove, e
venne arrestato per caso nel 1894, a Boston, quindi, processato, condannato
a morte e impiccato nel 1896 [cfr. Eric Larson, The Devil in the White City.
Murder, Magic, and Madness at the Fair That Changed America, Crown
Publishers, New York 2003].
Due ragazzi molto perbene. Sempre Chicago, ma una trentina di anni dopo.
Nel 1924, frequentavano la University of Chicago due giovani di famiglie
ricche e autorevoli: il diciannovenne Nathan Leopold e il diciottenne
Richard Loeb, studente di legge il primo, di storia il secondo. Intelligenti,
assidui alle lezioni, colti (Leopold, bambino prodigio e ornitologo a tempo
perso, parlava quattro lingue; Loeb aveva un brillante curriculum di studi in
campo storico-giuridico), i due ragazzi condividevano una passione:
Nietzsche e la sua idea del «superuomo». Fin dalla fine dell’Ottocento,
Nietzsche era stato quasi una moda nella cultura americana, in cui si
mescolavano – specie attraverso l’opera di volgarizzatori come Benjamin
De Casseres – un «darwinismo sociale» mal digerito e ansie e aneliti legati
all’evoluzione della società statunitense, fra chiusura della Frontiera (→) e
sviluppo in senso monopolistico e imperialista; gli anni venti, poi, con gli
Stati Uniti che emergevano dalla Prima guerra mondiale in posizione di
assoluto predominio e un’atmosfera trionfalistica di facili successi
individuali, alimentavano ancor più questa moda superficiale. Leopold e
Loeb pensarono dunque di mettere in pratica la loro passione nietzschiana
pianificando il «delitto perfetto» (confessarono in seguito di averci lavorato
per sette mesi). A farne le spese fu un loro amico, il quattordicenne Robert
Franks – che venne prelevato in automobile il 21 maggio 1924, portato in
periferia e ucciso; dopo di che i due compari spedirono una «lettera di
riscatto» e fecero scomparire le tracce del delitto. Tutte, tranne una: un
paio di occhiali dalla montatura particolare, dimenticati accanto al
cadavere. A quel punto, il «delitto perfetto» si sgretolò, lo stesso fecero gli
alibi di Leopold e Loeb e, presi dal panico, i due aspiranti superuomini
s’accusarono a vicenda. Il processo che seguì fu chiamato «il processo del
secolo» ed ebbe una straordinaria risonanza mediatica (ancor oggi, si parla
di «Leopold and Loeb» per indicare un «caso celebre»), simile – e non fu un
caso – al contemporaneo «processo delle scimmie» (→ Scimmie alla sbarra)
cui si collegava anche per un altro aspetto: a difendere Leopold e Loeb
venne chiamato infatti il grande avvocato Clarence Darrow, autentica
coscienza civile dell’epoca, difensore di molti militanti operai e socialisti, e
– per l’appunto – del professor Scopes, incriminato per aver insegnato la
«teoria darwiniana». Darrow, nemico giurato della pena di morte, non
impostò la propria difesa pretendendo che i due fossero innocenti, ma li
presentò come prodotti del loro ambiente e della loro cultura, come
«meccanismi spezzati». Leopold e Loeb furono condannati all’ergastolo:
Loeb rimase ucciso in carcere nel 1936 in circostanze non chiare, Leopold fu
rilasciato sulla parola nel 1958 e si rifece una vita a Portorico, dove morì nel
1971. L’impatto del «caso Leopold-Loeb» fu tale che, nel 1929, lo scrittore
inglese Patrick Hamilton vi si ispirò per un dramma di grande successo,
Rope. Che venne ripreso nel 1948 da Aldred Hitchcock per un film celebre
anche per le soluzioni tecniche adottate: Nodo alla gola [cfr. Hal Higdon,
Leopold and Loeb. The Crime of the Century, University of Illinois Press,
Champaign 1999].
L’omicidio di Sleepy Lagoon. Sleepy Lagoon (un nome che ricorda uno dei
racconti fondanti della letteratura americana, La leggenda di Sleepy Hollow di
Washington Irving) era il nome, ispirato al titolo di una pop song di successo
nei primi anni quaranta del Novecento, dato a un bacino idrico naturale nei
pressi di Los Angeles, in California. La mattina del 2 agosto 1942, fu ritrovato
in fin di vita, sul bordo di una strada non lontana da Sleepy Lagoon, il
bracciante messico-americano José Diaz, di 22 anni, che sarebbe morto dopo
poche ore: la sera prima, il giovane era stato a una festa in un ranch vicino,
che aveva lasciato intorno a mezzanotte insieme a due amici, poco prima
che scoppiasse una scazzottata fra due gruppi di ragazzi. Erano anni di
grandi tensioni sociali. Dopo il bombardamento di Pearl Harbour nel 1941 e
l’entrata in guerra degli Stati Uniti, un’ondata di sciovinismo aveva
spazzato il paese: a farne le spese erano stati i nippo-americani (rinchiusi a
decine di migliaia nei campi di detenzione →), seguiti dagli italo-americani.
E dai messico-americani o chicanos (→), che con la Seconda guerra mondiale
non c’entravano, se non per il fatto che quell’anno era stato inaugurato il
«Bracero Program», l’introduzione a forza di migliaia di braccianti
messicani per far fronte alle necessità del mercato interno del lavoro,
assottigliato dall’invio sui fronti bellici di decine di migliaia di giovani (→
Braceros). Soprattutto in California, la tensione sociale era altissima e gli
episodi di aperto razzismo, individuale e istituzionale, nei confronti dei
chicanos si ripetevano di continuo. La città di Los Angeles aveva approntato
una commissione destinata a investigare su quella che fu presentata ai
media come «un’ondata di crimini di matrice messicana». Nel mirino di
polizia e tribunali erano i pachucos, gruppi di giovani (→ Gang) che
parlavano un gergo particolare (il caló) e vestivano abiti dalla foggia
particolare (gli zoot suits): una decina di giorni dopo la morte di Diaz, mentre
le indagini erano ancora in corso, un’operazione di polizia portò al fermo di
circa 600 giovani messico-americani e all’arresto di 175 di essi per reati vari.
Infine, 21 ragazzi, che la polizia riteneva componenti la «banda della 38a
Strada», furono arrestati come autori dell’omicidio di Sleepy Lagoon: il
processo che seguì, con una giuria tutta bianca, fu una farsa con esplicite
implicazioni razziste (un «esperto» chiamato a deporre dall’accusa arrivò a
dichiarare che la comunità messicana aveva «una predisposizione
biologica» al crimine e all’assassinio, com’era testimoniato dai sacrifici
umani degli Aztechi!) e si concluse con la condanna all’ergastolo di tre
giovani, con pene minori per altri nove e con l’invio al riformatorio delle
ragazze della pretesa banda. Il caso suscitò grande scandalo e produsse
un’ampia mobilitazione in difesa degli accusati, con la creazione dello
Sleepy Lagoon Defense Committee (i cui membri, negli anni successivi, in
un’anticipazione della «caccia alle streghe» maccartista [→ Maccartismo],
vennero inquisiti come «comunisti»); e fu una delle cause all’origine
dell’esplosione dei disordini del 1943 noti come Zoot Suits Riots (→
Disordini). Nell’ottobre 1944, la Corte d’Appello dello stato della California
annullò la sentenza, ma l’omicidio di José Diaz non fu mai chiarito [cfr.
Mark A. Weitz, The Sleepy Lagoon Murder Case: Race Discrimination and Mexican-
American Rights, University Press of Kansas, Lawrence 2010].
La vera Dalia Nera. Siamo sempre nei pressi di Los Angeles, pochi anni
dopo il «caso Sleepy Lagoon»: il 15 gennaio 1947, in un lotto abbandonato
vicino a un parco, viene ritrovato il corpo straziato di una giovane donna,
che sarà identificata come Elizabeth Short, nata nel 1924, una vita
travagliata alle spalle. Nel giro di qualche giorno, le viene attribuito il
soprannome di «Dalia Nera», forse con riferimento a un celebre film noir
contemporaneo (La dalia azzurra, di George Marshall su sceneggiatura di
Raymond Chandler, con Alan Ladd e Veronica Lake, del 1946). Una
settimana più tardi, il direttore del giornale Los Angeles Examiner riceve la
telefonata di una persona che si presenta come l’assassino, lamenta che il
delitto non stia ricevendo la dovuta attenzione da parte dei media e
promette d’inviare effetti personali della vittima – e, nei giorni successivi,
mantiene la promessa. A questo punto, il caso esplode sulla scena
californiana e nazionale, soprattutto per il disgustoso sensazionalismo della
stampa, in cui si distinguono i giornali della catena di William Randolph
Hearst (il magnate della carta stampata, il «Citizen Kane» del celebre film di
Orson Welles Quarto potere, del 1941): giornalisti scatenati, ridda
incontrollabile di ipotesi e implicazioni, sottrazione di prove, fughe di
notizie, fotografie e servizi morbosi… E poi qualcosa come cinquanta
diverse confessioni (o denunce), duecento sospetti, migliaia di interrogatori
– la povera Elizabeth Short viene di nuovo fatta a pezzi, s’inventano di sana
pianta episodi della sua breve vita, la si fa passare per prostituta e
avventuriera, si scava nel suo passato nella maniera più vergognosa.
Dapprima, l’omicidio viene collegato ad altri simili verificatisi pochi anni
prima, ma non emerge nessuna prova convincente: il caso rimane irrisolto.
E ispira prima il noir di Fritz Lang (→ Espatriati ed esuli), La gardenia
azzurra, del 1953), riflessione al vetriolo sul mondo del giornalismo
americano; poi, nel 1987, il romanzo di James Ellroy La dalia nera (parte della
cosiddetta «tetralogia di Los Angeles» insieme a Il grande nulla, L.A.
Confidential e White Jazz), che riprende la vicenda di Elizabeth Short,
dipingendo una Los Angeles corrotta e decadente; e infine la trasposizione
cinematografica di questo stesso romanzo da parte di Brian De Palma (La
dalia nera, 2006). Va anche ricordato che la madre di Ellroy, Geneva, fu
trovata morta, nel 1958, nel sobborgo di Los Angeles dove viveva con il figlio
dopo il divorzio dal marito: anche questo omicidio rimase irrisolto, e spesso
si sovrappose, nell’immaginario di Ellroy, al «caso della Dalia Nera», come
egli stesso racconterà nell’autobiografico I miei luoghi oscuri, del 1996 [cfr.
John Gilmore, Severed. The True Story of the Black Dahlia Murder, Amok Books,
Los Angeles 2006].
Il bandito dalla luce rossa. Dobbiamo restare ancora a Los Angeles e più o
meno negli stessi anni: il che la dice lunga sulla situazione degli Stati Uniti
usciti trionfatori dalla Seconda guerra mondiale e sul punto di precipitare
nell’isteria maccartista e nella guerra di Corea (1950-53). In quegli anni,
dunque, una serie di rapine con aggressione si verificò nella zona intorno a
Los Angeles, tutte accomunate da una tecnica simile: un’auto con una luce
rossa sul tetto (simile dunque a una vettura della polizia) ne costringeva
un’altra a parcheggiare, o s’avvicinava a una vettura in sosta; gli occupanti
venivano fatti scendere e derubati; se c’era una donna, veniva spesso
molestata, costretta a un rapporto orale, o stuprata. La stampa indicò subito
l’autore di questi reati come il «Bandito della Luce Rossa» e un’autentica
psicosi colpì Los Angeles e dintorni. Il 23 gennaio 1948, la polizia fermò il
ventisettenne Caryl Chessman e, dopo alcuni dubbi riconoscimenti da parte
delle vittime, lo incriminò per diciassette diversi capi d’accusa, fra cui
rapina e rapimento con stupro; quest’ultima accusa, formulata sulla base di
un’interpretazione particolare della cosiddetta «Little Lindbergh Law»
(promulgata dopo il rapimento del figlio di Charles Lindbergh → Aquile
solitarie), gli valse, oltre che l’ergastolo, ben due condanne a morte: in
almeno un’occasione, infatti, il «Bandito della Luce Rossa» aveva
«sequestrato» la vittima trascinandola per un centinaio di metri, prima di
obbligarla a un rapporto orale. Chessman non era uno stinco di santo: dietro
di sé, aveva lunghi periodi trascorsi al riformatorio e in prigione per furti,
rapine e altri reati, ed era appena stato rilasciato sulla parola dal famigerato
carcere di Folsom (→ Sbarre). Apparteneva a una generazione disadattata,
che aveva vissuto la Grande depressione (→) e la Seconda guerra mondiale
ed era immersa in un dopoguerra difficile, denso d’inquietudini e segnato
da un crescente conflitto con il mondo degli adulti (→ Gang). Chessman era
piuttosto un loner, un solitario, ma esprimeva appieno questa diffusa
condizione giovanile. E forse fu anche una vittima sacrificale delle psicosi
del dopoguerra (oltre che del persistente e ambiguo puritanesimo della
società americana). Fatto sta che, una volta in carcere, la rabbia e il rancore,
l’alienazione e il disadattamento s’indirizzarono verso la sopravvivenza:
Chessman divenne scrittore, e non di second’ordine, e si occupò in prima
persona della propria difesa. Proclamandosi sempre innocente, ottenne una
serie impressionante di rinvii dell’esecuzione: ma la Corte Suprema si
rifiutò ogni volta di riaprire il caso e il governatore della California di
riconoscere la possibilità di un errore giudiziario, nonostante molte prove
raccolte sia da Chessman che da alcuni giornalisti investigativi nel 1959
orientassero in quel senso. Il «caso Chessman», la sua lunga permanenza nel
braccio della morte del carcere di San Quentin (→ Isole), i numerosi libri
scritti durante i dodici anni di detenzione (Cella 2455. Braccio della morte; La
legge mi vuole morto) colpirono l’opinione pubblica internazionale che si
mobilitò a lungo in suo favore e, negli Stati Uniti, crearono i presupposti per
lo sviluppo di un vasto movimento contro la pena di morte. Il 2 maggio
1960, Chessman entrò nella camera a gas. La telefonata del giudice
Goodman, che – sulla scorta di nuove prove a favore del condannato
scoperte dalla rivista Argosy – richiedeva un breve rinvio dell’esecuzione,
giunse troppo tardi (anche per un errore della segretaria): il direttore della
prigione spiegò che sarebbe stato impossibile aprire la camera a gas, senza
mettere a repentaglio la vita dei presenti. Qualche minuto prima, per
l’ultima volta, Chessman aveva ripetuto ai secondini che l’accompagnavano
lungo il corridoio: «Non sono il Bandito della Luce Rossa» [cfr. Alan Bisbort,
When You Read This They Will Have Killed Me, Carrol & Graf, New York 2006].
E tanto può bastare.
M.M.
Castro (San Francisco)
Castro: anzi, meglio, «The Castro». Così si chiama il quartiere a maggioranza
gay di San Francisco interno a quello di Eureka Valley che confina con Noe
Valley a sud e Mission District a sudest. In tempi recenti, a rendere Castro
ancora più popolare è stato Milk, film del 2008 diretto da Gus Van Sant e
interpretato da Sean Penn, dedicato alla vita di Harvey Milk (1930-1978):
primo attivista dichiaratamente gay a essere eletto, nel 1977, a una carica
pubblica come membro del San Francisco Board of Supervisors, Milk
sarebbe morto, accanto all’allora sindaco George Moscone, solo un anno più
tardi, il 27 novembre 1978, vittima della furia omicida di un suo ex collega, il
consigliere comunale Dan White, che li freddò entrambi a colpi di fucile
all’interno del municipio. Negli anni settanta, grazie all’impegno in difesa
dei diritti degli omosessuali e alla visibilità raggiunta nel quartiere in cui
viveva e lavorava – al 575 di Castro Street, sede del suo negozio-studio
«Castro Camera» – Milk si era guadagnato il soprannome di «sindaco di
Castro Street», diventando un punto di riferimento per il movimento gay
cittadino e nazionale. Non sorprende dunque che l’efferato omicidio
commesso da White – e la sentenza «leggera» cui quest’ultimo fu
condannato nel 1979 – abbia fatto di Milk un martire, contribuendo alla
fama della città, già mecca del turismo gay.
Volendo invece dar ragione del nome di quello che è oggi il quartiere più
famoso di San Francisco, occorre risalire a José Castro, governatore
messicano dell’Alta California tra il 1835 e il 1836, nonché futuro
comandante della guerra messico-americana tra il 1846 e il 1848 (→ Alamo).
In seguito all’indipendenza messicana dagli spagnoli – ai quali si devono,
già nel 1776, i primissimi insediamenti di Mission e di Presidio – comincia la
fioritura del nucleo commerciale di Yerba Buena (oggi Financial District),
ribattezzato San Francisco con il Trattato di Guadalupe Hidalgo del 1848. È
quindi solo da lì a una quarantina d’anni, nel 1887, che Castro nasce come
quartiere, grazie alla costruzione di una linea tramviaria in grado di
collegare Eureka Valley al centro. Detto anche «Little Scandinavia» per la
presenza, nei primi due decenni del Novecento, di immigrati di origini
norvegesi, svedesi, danesi e finlandesi, Castro rimarrà un quartiere operaio
a forte connotazione etnica dagli anni trenta agli anni sessanta, quando la
sua popolazione sarà a maggioranza irlandese. Ma già negli anni quaranta e
cinquanta, a seguito dello sbarco, nel porto di San Francisco, di un drappello
di militari dimessi dall’esercito americano con l’accusa di essere
omosessuali, la storia della città comincia a legarsi a doppio filo a quella
della comunità gay. Nel corso dei «silenziosi anni cinquanta», con il
perbenismo piccolo borghese a soffocare ogni dissenso politico, sociale e
culturale, prende infatti vita quel «movimento omofilo», antesignano delle
future lotte civili per i diritti dei gay, da cui scaturisce, a San Francisco, la
prima associazione lesbica, «The Daughters of Bilitis» (1955). Se, nel 1964, la
rivista Life dedica un articolo fotografico a San Francisco, «Capitale gay
degli Stati Uniti», sul finire di quel decennio così segnato dalla
controcultura giovanile e in concomitanza di eventi quali la Summer of
Love del 1967 nel vicino quartiere di Haight-Ashbury (un raduno di circa
100mila hippie provenienti da tutto il paese), Woodstock e i disordini di
Stonewall (→) del 1969, Castro è consacrato a meta di elezione di una
comunità gay sempre più numerosa e middle class. Pronti ad affittare o
acquistare le molte case vittoriane svendute per poco nelle aree nere e
ispaniche o dai restanti bianchi desiderosi di muoversi verso i suburbs (→), i
protagonisti di questa migrazione «di genere» cambiano il volto del
mercato immobiliare urbano: alla fine di un decennio (1968-1978) in cui le
transazioni di case aumentano del 700%, i quartieri a predominanza gay
rappresentano circa il 20% dell’espansione residenziale della città,
suscitando il malcontento e le proteste degli abitanti neri.
Da un punto di vista culturale, gli anni settanta vedono così Castro
diventare il baricentro indiscusso della vita gay di San Francisco (in
precedenza collocato nel Polk Gulch, dal Civic Center a Polk Street, verso
Broadway): un solo stile di vita si impone sugli altri, ridisegnando, non
senza strappi e lacerazioni, ciò che resta del vecchio tessuto sociale del
quartiere. Il reticolo di vie delimitato da Market Street e Castro Street si fa
quindi scenario privilegiato del cosiddetto «Castro Clone», il modello del
gay supermascolino che mima un abbigliamento working-class a base di jeans
stretti o pantaloni di pelle, stivali neri, t-shirt attillate, camicie a scacchi,
ray-ban da aviatore e, su tutto, baffi o barba. E il prototipo del «Castro
Clone» non tarda a trovare una sua rappresentazione iconica nel
personaggio di David Hodo, il lavoratore edile dei Village People, nati nel
1977 come gruppo di musica da discoteca con un target studiatamente gay
(quelli, per intenderci, di «Ymca»). A dispetto di tanta vitalità – il
movimento gay di San Francisco conosce infatti in questo frangente la sua
stagione d’oro – nelle cronache cittadine del decennio che si chiuderà per
molti versi con l’assassinio di Harvey Milk si iscrivono almeno due vicende
drammatiche. Il 1970 è infatti l’anno del processo a Charles Manson, il guru
alla guida di una comune/setta, di base a Haight-Ashbury durante la
Summer of Love del 1969, che commissiona i tre celebri omicidi losangelini
dell’attrice Sharon Tate (moglie del regista Roman Polanski) e della coppia
Leno e Rosemary LaBianca. Ma la città è poi coinvolta nel più tragico
suicidio di massa della storia americana, quando, nel novembre 1978, i
proseliti della confraternita semireligiosa People’s Temple, di stanza a San
Francisco dal 1972 al 1977 e trasferitisi in Guyana per vivere in una sorta di
utopia agricola secondo i precetti del predicatore Jim Jones, muoiono in 918,
con un avvelenamento collettivo. A soli nove giorni dalla tragedia di
Jonestown, Dan White uccide George Moscone e Harvey Milk – che hanno,
in più di un’occasione, sostenuto e difeso l’operato di Jim Jones e del
People’s Temple.
Ex paracadutista, ex pompiere, ex poliziotto, Dan White ha dedicato
parte della sua carriera politica alla lotta contro coloro che etichetta alla
stregua di «frange radicali, deviati sociali e incorreggibili».
L’indignazione della comunità gay di San Francisco di fronte al verdetto
che condannerà White al solo omicidio colposo sfocerà nella sommossa
della cosiddetta «White Night», la notte del 21 maggio 1979, quando il
municipio subirà danni per oltre un milione di dollari.
All’intersezione tra Castro Street e Market Street c’è oggi una piazza in
memoria di Harvey Milk, sormontata da una grande bandiera arcobaleno.
Eppure, più che di visite guidate nei luoghi che furono di Milk (facili da
praticare, queste ultime, previa consultazione dei tanti Baedecker sulla città
del Golden Gate →), per ricordare i colorati benché turbolenti anni settanta
vale forse la pena di tornare sulle note di «San Francisco» dei Village
People: «Folsom Street, on the way to Polk and Castro / You don’t find
them finer / Freedom, freedom is in the air, yeah / Searching for what we
all treasure: pleasure / Cycles, cycles in the night shining bright / Brightly
on nights tell a glory story / Leather, leather, leather, leather baby / Levi’s
and T’s are the best now all right…»
BIBLIOGRAFIA
Strange De Jim, San Francisco’s Castro, Arcadia Publishing, San Francisco
2003.
Tom Downs, San Francisco, Lonely Planet Publications, Oakland 1999.
Randy Shilts, The Mayor of Castro Street. The Life and Times of Harvey Milk, St.
Martin’s Press, New York 1982.
C. SCAR.

Cataloghi
Nelle loro varie declinazioni (repertori geografici, tabelle commerciali,
fascicoli di vendita per corrispondenza, archivi medici e giuridici, elenchi
romanzeschi e poetici), i cataloghi sono una presenza costante nella cultura
statunitense, costituendone una delle più fortunate e peculiari strategie
rappresentative. La loro lunga durata sembra legata alla necessità culturale
di mappare e rimappare un territorio – fisico e simbolico – che, in virtù
della propria estensione e varietà, non è mai dato una volta per tutte, ma si
presta a rituali operazioni di inventario. L’abbondanza di numeri e segni di
un paese grande quasi come un continente rivendica una traduzione
estetica in forme sciolte e virtualmente infinite: a questo rispondono gli
elenchi di parole che restituiscono un’immagine di spazio come «Frontiera»
(→), una «lastra vergine» conquistata per espansione progressiva e
orizzontale, attraverso aggiunte continue.
Al cospetto dello spazio americano – o, meglio, SPAZIO, come scriverà il
poeta e critico Charles Olson – che si presenta non solo tanto ricco da
sembrare governato da una divinità provvidenziale ma anche «vuoto»,
ovvero «sprecato», perché non ancora messo a profitto dal calcolo
mercantilistico, gli esploratori europei tentano di raffigurarne vastità e
potenzialità attraverso elenchi, mappe e tabelle. Il primo a farne uso è il
capitano John Smith (1580-1631), nella sua opera più ambiziosa, The Generall
History of Virginia, New England and the Summer Isles (1624): un libro di 241
pagine con cartine, ritratti, versi di commento e una serie di elenchi
descrittivi in cui irrompe l’unicità americana, insofferente delle tradizionali
formule europee. Compaiono così le prime infinite liste di erbe, frutti, alberi
e animali che generano, per gemmazione, insiemi e sottoinsiemi. A questa
sintassi fondata sull’incremento perpetuo dovrà molto Thomas Jefferson
nella stesura del suo Note sulla Virginia (1784), opera in cui il futuro
presidente divide la «creazione» americana in mappe, cataloghi e tabelle,
queste ultime a dimostrare la superiorità schiacciante dell’America
sull’Europa in materia di specie animali e vegetali. Da qui in poi, soprattutto
con i Journals di Meriwether Lewis e William Clark in ricognizione nei
territori dell’Ovest (→ Piste e sentieri), i resoconti degli esploratori e dei
pionieri saranno tutti finalizzati al calcolo delle risorse del territorio che
sempre più è evocato come unplowed (non arato), unsettled (non abitato in
modo stabile), unsung (non cantato). Solo la forma del catalogo è in grado di
mostrare quanto, per misura e diversità, il patrimonio botanico e zoologico
del continente nordamericano sopravanzi le proporzioni europee e quanto
alle liste dell’araldica del Vecchio mondo il Nuovo mondo prediliga una
«democrazia delle cose» a disposizione di tutti.
Di quelle «cose» a disposizione di tutti faranno parte, sul finire
dell’Ottocento, una gran copia di prodotti e di manufatti collocati sul
mercato nazionale grazie alla ferrovia (→ Promontory Point), che, con la
sua rete continentale, renderà possibile la distribuzione dei primi cataloghi
di vendita per corrispondenza nelle zone più interne e remote del paese.
Discendente diretto degli almanacchi (→), il catalogo commerciale si
sviluppa negli ultimi decenni del XIX secolo, aprendo la strada alla
proliferazione di catene di rivendita come Bloomingdale’s e Walmart. Già
nel 1874, Montgomery Ward and Co. vanta un catalogo di 72 pagine,
ampliate a 1200 nel 1900; ma sarà Sears, Roebuck & Co., il marchio fondato
nel 1896 da un ex ferroviere di Minneapolis (Richard Sears) che si mette in
affari con un orologiaio (Alvah Roebuck), a creare un impero con base a
Chicago, promettendo prezzi convenienti e spedizioni gratis nelle aree
rurali. Chiamato anche «amico del contadino» e «libro dei desideri», nel
1902, il catalogo-listino di Sears, Roebuck & Co. consta di 1172 pagine e il
solo indice delle categorie comprende 65 sezioni. Sotto la lettera «A», per
fare un esempio, compaiono: «Abdominal Bands»; «Abdominal Belts»;
«Academy Boards»; «Acetylene Gas Apparatus»; «Accordions»; «Account
Books»; «Acme Furnaces»; «Acme Gall Cure»; «Acme Harness Soap»;
«Adjustable Combs»; ecc. Nei decenni a venire, Sears, Roebuck & Co. diventa
il più grande rivenditore del paese, aggredendo i mercati urbani e quelli dei
nascenti suburbs (→). Del 1974 è poi la realizzazione del simbolo della casa:
l’imponente Sears Towers, che svetta altissima nei cieli di Chicago (→
White City).
Se è il critico tedesco Leo Spitzer a soffermarsi per primo sulla singolare
analogia esistente tra i versi di Foglie d’erba (1855) di Walt Whitman e i
grandi almanacchi commerciali, il ricorso alla forma dell’elenco da parte di
romanzieri e poeti americani di Ottocento e Novecento va ricondotto in
fondo allo stesso principio che presiede alla creazione di un catalogo per
corrispondenza: il resoconto di una ricchezza che non smette un solo
attimo di rinnovarsi e non può essere quindi fissata una volta per tutte.
Già nel saggio Il poeta (1844), il «pontefice laico» del New England, Ralph
Waldo Emerson, profetizza che la letteratura americana si servirà di
«suggestive liste di parole» e in una famosa pagina del suo diario del 1863
ringrazierà il poeta Walt Whitman per aver servito il paese con
l’«allargamento appalachiano» dei versi di Foglie d’erba: la poesia di
Whitman si espande infatti, nel suono e nel senso, al di là della prima
frontiera dei monti Appalachi (→ Appalachia), ad abbracciare l’Ohio, il
Mississippi e New Orleans. Gli elenchi del «poeta-catalogatore» creano una
grammatica e un metro in grado di imitare la conquista e il «riempimento»
di sempre nuovi territori. Ecco allora comparire liste di varietà regionali-
continentali – per non dire dei tipi urbani e industriali – atte a rendere la
straordinaria molteplicità dell’esperienza americana. E al gesto di
annessione di nuove mappe fisiche e metaforiche pare rispondere anche la
continua revisione di Foglie d’erba, alle cui nove edizioni ampliate Whitman
lavorerà fino alla morte.
Del resto, sempre a metà Ottocento, i cataloghi/elenchi si sono fatti epici
anche con Moby Dick (1851) di Herman Melville: il romanzo si apre infatti su
una nota etimologica sulla parola whale (balena), cui seguono tredici pagine
di «Estratti» che cercano di definire la rilevanza della balena nella storia del
mondo. Come se non bastasse, un capitolo del libro intitolato «Cetologia»
contiene quattordici pagine fitte di riferimenti alle varie specie di balene e
si conclude con l’ammissione del narratore di essere di fronte a una
tassonomia impossibile: il suo sistema di catalogazione dovrà restare non-
finito, «proprio come fu lasciata la gran Cattedrale di Colonia, con la gru
ancora piantata in cima alla mezza torre». Sempre durante quello che il
critico F.O. Matthiessen ha definito il quinquennio mirabile della letteratura
americana – 1850-1855 –, un’altra opera fondante come Walden, ovvero Vita
nei boschi (1854), di Henry David Thoreau, racconto dei due anni vissuti
dall’autore a contatto con la natura del New England, riflette per certi versi
la precisione dei libri contabili fioriti sul reticolo catastale di Thomas
Jefferson. Alle prese con la costruzione di un capanno e la coltivazione di un
piccolo fazzoletto di terra, Thoreau non teme così di inserire, accanto a
speculazioni politico-filosofiche, una mappa dello stagno di Walden e brevi
partite doppie di costi e ricavi, come si confà a un vero fattore.
Certo, a dare uno sguardo panoramico alla storia degli Stati Uniti di fine
Ottocento e di tutto il Novecento, la lezione di meticolosa parsimonia di
Thoreau non sembra aver incontrato un grosso seguito. Il graduale e
inarrestabile incremento di consumi – e di sprechi – di cui la società
americana sarà protagonista nella prima metà del Novecento non cesserà di
alimentarsi dei cataloghi di vendita per corrispondenza neanche nel
periodo economicamente più critico del paese, la Grande depressione (→).
Sarà infatti negli anni trenta, con il crollo del mercato interno, che le
multinazionali e i grandi rivenditori andranno a raffinare strategie di
marketing e pubblicità per rilanciare i consumi in picchiata. In tempi di
magra, i cataloghi di Sears, Roebuck & Co. inseriscono così una serie di
articoli mirati all’organizzazione del tempo libero all’insegna della
morigeratezza e dell’operosità di chi acquista: un esempio su tutti sono i
materiali per la confezione casalinga di quilts (→), le coperte «rattoppate»
che, nate come frutto dell’arte del rammendo e del riciclo dei poveri,
diventano così un hobby delle classi medie.
L’altra faccia dell’America della Grande depressione, quella dei poveri
che ai quilts ricorrono per necessità, è descritta dagli intellettuali di ogni
genere (letterati, fotografi, antropologi, sociologi, etnografi, geografi ecc.)
impiegati dalle agenzie federali del New Deal di Franklin Delano Roosevelt
per documentare i danni ambientali – naturali e umani – apportati da
decenni di sfruttamento sistematico delle risorse del paese, in primo luogo
nella sua regione più povera (il Sud).
Tra le opere degli anni trenta finanziate con fondi governativi, compare
anche un film documentario di Pare Lorentz, The River (1938),
sull’inondazione del Mississippi del 1927 che, non a caso, prende avvio da
un lunghissimo elenco di tutti gli immissari del grande fiume e dal
riempimento visuale di una mappa del suo enorme bacino. La discesa in
campo degli intellettuali arruolati dalle agenzie del New Deal per
«riscoprire l’America» crea poi il genere ibrido del documentario a metà tra
fotografia, storia, letteratura, di cui Sia lode ora agli uomini di fama (1941), di
Walker Evans (fotografo) e James Agee (scrittore), rappresenta l’espressione
più tardiva e complessa. Ed è alla forma del catalogo che ricorre il testo di
Agee per farsi inventario delle povere cose delle tre famiglie di fittavoli
dell’Alabama rappresentate nell’opera. Gli inventari, lunghi e scrupolosi,
sono ovunque. La logica di Agee è che se un esempio concreto può restituire
verosimiglianza, molti esempi, insieme, finiranno con l’accrescerla
ulteriormente. Ogni oggetto è nominato perché ogni oggetto che appartiene
ai fittavoli, per quanto logoro e sdrucito, è degno di attenzione umana,
letteraria ed estetica.
Molto ancora si potrebbe scrivere dei cataloghi americani di oggetti, di
cifre e di parole: dei cataloghi di sofferenze di tutte le geremiadi (→)
americane di ieri e di oggi (da Jonathan Edwards e il Great Awakening, ad
Allen Ginsberg e Bob Dylan → Generazioni); dei cataloghi-archivio delle
leggi sull’immigrazione (→ Alien); dei cataloghi-archivio secretati degli
esperimenti nucleari (→ Progetto Manhattan); dei cataloghi-tabelle di dati
ambientali della Environmental Protection Agency e di quelli sociali e
demografici dell’Ufficio del censimento; dei cataloghi di eBay ecc.
Ma fermiamoci pure sugli eccetera. Per quanto lunga, la lista, si sa,
rimarrebbe comunque incompleta.

BIBLIOGRAFIA
Stephen Fender e Arnold Goldman, American Literature in Context, Vol. 1, 1620-
1830, Methuen, London-New York 1983.
Wayne Franklin, Discoverers, Explorers, Settlers: The Diligent Writers of Early
America, University of Chicago Press, Chicago 1979.
Leo Spitzer, «La Enumeraciòn Caotica en la poesia moderna», in Linguistica y
Historia Literaria, Greidos, Madrid 1961.
C. SCAR.

Central Park (New York)


Come altri luoghi topici dell’esperienza statunitense, e non solo per quel
che concerne i territori di frontiera (→), anche l’origine dei parchi cittadini
deve qualcosa alle impronte, più che umane, bovine. Così, se a New York
Broadway (→) fu all’inizio tracciata su quanto restava di un sentiero
indiano dalle mandrie che si spostavano da un pascolo all’altro, anche il
parco cittadino nacque nelle colonie (a differenza dell’Europa, in cui era per
lo più riserva privata di caccia o grande giardino delle magioni nobiliari)
come terreno comune dove allevare il bestiame, trasformandosi solo in un
secondo momento in luogo di svago e di ricreazione. Per tutto il Settecento
e fino a metà Ottocento, poco era però lo spazio, fisico e culturale, dedicato
a queste due attività: dal Boston Common (uno dei primi parchi al mondo,
creato nel 1634 e poi sviluppato, con l’aggiunta di una promenade, il
Tremont Mall, nel 1728) al New York Park (poi City Hall Park, al centro della
downtown [→] originaria e di fronte al municipio della città), o ai meno
celebri di Philadelphia e Savannah, i parchi cittadini erano sino agli inizi del
XIX secolo poco più che piazze, talvolta private e recintate – come per
esempio il Gramercy Park newyorkese, progettato dall’affarista Samuel
Ruggles per aumentare il valore degli edifici circostanti di sua proprietà. Per
i grandi parchi si dovrà aspettare la metà del secolo, quando l’espansione e
il crescente sovraffollamento delle metropoli (a New York, la popolazione
quadruplicò fra il 1821 e il 1855), insieme a un rinnovato interesse per
l’ambiente naturale visto come fonte di rigenerazione (→ Wilderness)
portarono, fra gli altri, il poeta e direttore dell’Evening Post William Cullen
Bryant e l’architetto Frederick Jackson Downing a invocare un parco di
almeno cinquecento acri al centro di Manhattan, che trasmettesse «una
sensazione vera del respiro e della bellezza dei campi verdi e della
freschezza della natura» – sensazioni che evidentemente i piccoli riquadri
di verde già presenti in città non erano in grado di infondere.
Il 1853 fu l’anno chiave per il riconoscimento del movimento a sostegno
dei parchi cittadini, con l’approvazione, da parte dello stato di New York,
della creazione di Central Park, entrato nella storia come primo grande
parco metropolitano statunitense – sebbene la città avesse già assistito, sei
anni prima, alla creazione di Fort Green Park a Brooklyn. A vincere la gara
bandita per il progetto fu il «Greensward Park», firmato dal poliedrico
intellettuale Frederick Law Olmsted e dall’architetto Calvert Vaux, la cui
collaborazione proseguì anche negli anni successivi. Anzi, possiamo dire
che si deve all’insistenza di Vaux (che richiamò il socio a New York dopo un
breve interludio di quest’ultimo come supervisore di una miniera in
California) l’incredibile carriera di Olmsted, il più prolifico landscape designer
che la storia ricordi: progettò infatti, oltre a Prospect Park (nel distretto di
Brooklyn, insieme a Vaux) anche altri venti parchi cittadini (fra cui Boston),
decine di zone residenziali, college e campus (come quello della Stanford
University) e spazi istituzionali (il Campidoglio a Washington), oltre a
centinaia di progetti privati (fra cui la World Columbian Exhibition del 1893
→ Esposizioni universali).
Olmsted e Vaux non ebbero certo vita facile, nei circa vent’anni che
intercorsero fra la progettazione e la realizzazione dell’opera, complice la
commissione nominata dalla macchina del Partito democratico (→ Sachem
e sagamore), che arrivò più volte a destituire Olmsted dall’incarico di
sovraintendente. Dopo numerose battaglie, avvicendamenti al vertice, il
trasporto di quattordicimila metri cubi di terreno fertile dal New Jersey e
l’impiego, oltre che di 3800 lavoratori, anche di più esplosivo di quanto se
ne fosse usato durante la battaglia di Gettysburg (→), il progetto fu
completato nel 1876: il risultato furono 843 acri (corrispondenti a circa 153
isolati cittadini) di fitti boschi, ampi prati e dolci colline, specchi d’acqua e
rocce di scisto; il tutto compreso fra la 59ª e 110ª Strada, la 5ª Avenue e
Central Park West – ottocento metri di larghezza e quattro chilometri di
lunghezza.
Come tutti i grandi parchi usciti dalle menti e dalle penne dei landscape
designer – termine che entrò nell’uso comune proprio a metà Ottocento –
anche Central Park era una wilderness solo in apparenza naturale e
primigenia, frutto di un sapiente e radicale intervento umano, e di una
cultura che stava trasformando il paesaggio in prodotto artistico e
strumento sociale. Fonti di ispirazione per Olmsted furono i grandi spazi
verdi europei, inglesi in particolare (che aveva avuto modo di osservare in
un viaggio nel 1850), ma anche gli scenari pastorali creati in patria per le
nuove aree cimiteriali, come Mount Auburn (→ Spoon River, o dei cimiteri)
– tutti elementi che Olmsted e Vaux rielaborarono, con particolare
attenzione al movimento di pedoni e mezzi, attraverso percorsi che
tenessero separati la circolazione a piedi da quella delle carrozze,
potenziale disturbo per una completa immersione nell’ambiente naturale.
Da anni impegnato come scrittore e editore nella riflessione sui danni
economici della società schiavista, Olmsted era molto sensibile al versante
sociale dell’architettura del paesaggio e concepiva il parco come antidoto
alla frenesia del vivere urbano, in cui fossero dunque bandite attività come
gli sport, a cui avrebbero dovuto essere adibiti altri spazi. Al contempo, gli
attribuiva una precisa funzione sociale: colmare le distanze fra le classi che
la vita metropolitana stava in quegli anni esasperando sempre più. Tuttavia,
se Central Park era per Olmsted una piccola compensazione alle distruzioni
che l’economia capitalista aveva arrecato al paesaggio, la sua costruzione
implicò a sua volta altre distruzioni: il Seneca Village in primis, un
insediamento afroamericano che sorgeva sul lato ovest del parco, e altri
nuclei di baracche e capanne costruite dai senzatetto in quella zona, come il
Piggery District, con il conseguente sfratto delle 1600 persone (in larga
parte afroamericani, immigrati irlandesi e di origine inglese) che vivevano
nell’area.
Oltre al paradosso di un luogo di integrazione costruito sopra le macerie
dei meno abbienti, i sogni di Olmsted di trasformare il parco in veicolo di
interscambio sociale non divennero realtà anche per la composizione etnica
di una uptown all’epoca quasi totalmente bianca e middle class, che nei primi
anni rese Central Park il parco giochi della ricca borghesia che abitava nei
paraggi. Fu solo con le trasformazioni urbanistiche di fine Ottocento (la
crescita verso nord della città, la creazione di enclave d’immigrazione
uptown, la trasformazione di Harlem in ghetto nero) che Central Park
divenne punto di incontro e di fusione delle diverse componenti sociali
urbane, non senza frizioni e contraddizioni. Prima fra tutte,
un’amministrazione cittadina che si disinteressò al parco a pochi anni dal
suo completamento, disinvestendo nella sua manutenzione e lasciando la
zona alla mercé di vandali e delinquenti. Questo fino al 1934, quando il
sindaco Fiorello La Guardia incaricò l’urbanista Robert Moses di riportare
Central Park agli originari splendori: Moses, che riuscì ad assicurarsi ingenti
fondi dal New Deal (→ Grande depressione), aggiunse dodici campi da gioco
e diciannove aree per i bambini. Il successivo aumento dell’estensione dei
prati aprì la strada ai numerosi eventi pubblici, dalle performance teatrali
(dal 1962 vi si tiene la celebre rassegna «Shakespeare in the Park», ideata da
Joseph Papp e dal suo Public Theatre → Teatri viventi) ai concerti di musica
classica (Philarmonic Orchestra, Metropolitan Opera) e al rock: come non
ricordare il celeberrimo concerto tenuto qui da Bob Marley nel 1975? o
quello di Paul Simon e Art Gartfunkel nel 1981? o il concerto gratuito di
Bruce Springsteen nel 1985, annullato perché si temeva potesse richiamare
troppi spettatori?
Nei decenni successivi, i grandi eventi furono usati per attirare sempre
più persone all’interno del parco, rendendolo così più frequentato e meno
pericoloso. Central Park ha infatti un suo innegabile e potente lato oscuro. E
se Sara Teasdale in «Central Park all’imbrunire» (1911), racconta questo
micro-mondo al centro di New York («Edifici sopra gli alberi senza foglie /
incombono dall’alto come castelli in un sogno / uno a uno i lampioni si
accendono / a minacciare il crepuscolo con un bagliore»), ben altre sono le
minacce che Central Park ha rappresentato negli ultimi tempi: oltre alle
numerose attività illecite, la minaccia di aggressioni, molte delle quali a
sfondo sessuale, che si sono susseguite negli anni (non solo di notte e non
solo nelle zone a nord, confinanti con i quartieri più poveri), gli scontri fra
gangs (ricordate I guerrieri della notte, diretto da Walter Hill nel 1979?), gli
omicidi che dentro e intorno a esso si sono consumati (fra cui l’assassinio di
John Lennon davanti ai Dakota Apartments, su Central Park, che portò nel
1985 alla creazione degli «Strawberry Fields» a lui dedicati nei due acri e
mezzo prospicienti).
Causa e al contempo prodotto della polarizzazione sempre più marcata
della popolazione urbana lungo linee di classe e di razza e del conseguente
ritiro della classe media dalla fruizione dei luoghi pubblici, l’impennata del
crimine nell’area portò alla creazione di un distretto di polizia specifico per
Central Park (il Central Park Precinct), composto di poliziotti e ausiliari, con
il risultato di una diminuzione dei reati dal migliaio degli anni ottanta al
centinaio di venti anni dopo.
Nonostante tutto, Central Park resta nell’immaginario popolare il cuore
avvolgente e romantico di una città angolare e spigolosa. Con le sue piste di
pattinaggio, le sue anatre e il suo celebre carousel, la grande giostra, ricorda
allo Holden Caulfield salingeriano di essere per sempre uscito dal mondo
dell’infanzia. È anche il mondo declinato nei colori del foliage in cui si
cercano Richard Gere e Winona Ryder in Autunno a New York (2000); resta
uno degli scorci più amati nei film di Woody Allen; è il paesaggio che si
srotola davanti agli occhi de Il maratoneta (1976); poi, in ordine sparso, fa
capolino tra gli altri in Ghostbusters (1983), Godzilla (1998), L’incredibile Hulk
(2008), Spider Man (2002), Io sono leggenda (2007), e una serie infinita di film
di fantascienza, e di commedie-simbolo della metropoli, da Colazione da
Tiffany (1961) a Come eravamo (1973), da Tootsie (1982) a Harry, ti presento Sally
(1989) e a I Tenenbaums (2001), o di drammi come La 25a ora (2002)… Ne ha
fatta di strada, il parco: dalle stalle alle stelle (di Hollywood), si potrebbe
dire.

BIBLIOGRAFIA
Eric Homberger, Scenes from the Life of a City: Corruption and Conscience in Old
New York, Yale University Press, New Haven 1996.
Galen Kranz, The Politics of Park Design: A History of Urban Parks in America, Mit
Press, Boston 1982.
Roy Rosenzweig, Elisabeth Blackmar, The Park and the People: A History of
Central Park, Cornell University Press, Ithaca 1992.
C. SCHIA.

Chewing-gum
«La gomma del Ponte», come recitava la réclame di uno dei suoi marchi più
celebri (riferendosi al ponte di Brooklyn, che faceva bella mostra di sé sulle
confezioni), è parente, nemmeno troppo lontana, della caramella (candy, da
quandī, in arabo «fatto di zucchero») e delle sue infinite varianti. A
differenza di quest’ultima, però, il chewing-gum non solo prospera, ma
nasce, o meglio, rinasce, proprio sul continente nordamericano. Se infatti
l’abitudine di ruminare radici e cortecce degli alberi si perde nella notte dei
tempi, fu nel Nuovo mondo che i primi coloni videro gli indiani masticare la
resina dell’albero della gomma e ben presto finirono con l’imitarli. La
gomma ricavata dall’abete veniva venduta già nel 1805; dobbiamo tuttavia
aspettare gli anni settanta dell’Ottocento perché le gomme da masticare
diventino ciò che conosciamo oggi: ovvero un impasto di chicle, gomma
ricavata da una pianta sempreverde originaria del Centroamerica (e oggi
utilizzata da un ristretto numero di produttori, visti i costi più contenuti
delle gomme sintetiche), lavorata con acqua calda e aromi vari. I padri del
moderno chewing-gum sono due: John B. Curtis, che fin dagli anni sessanta
dell’Ottocento mise in commercio le prime gomme americane; e il fotografo
Thomas Adams, inventore a tempo perso, che vi aggiunse gli aromi e ne
diffuse l’uso, persuadendo un droghiere di Hoboken (New Jersey) a vendere
le sfere gommose a un centesimo l’una e il figlio più grande, commesso
viaggiatore, a pubblicizzarle nei suoi itinerari che giungevano fino al
Mississippi. Con la Adams’ New York Gum – Snapping and Stretching,
Adams, che inventò anche i primi distributori di gomme da masticare
(installati inizialmente solo alla fermata delle stazioni della sopraelevata di
New York), non dominò a lungo incontrastato il mercato: il decennio
successivo, William White, venditore di popcorn, sfidò con la sua Yucatan
(al gusto di menta) il monopolio di Adams, perfezionando anche la ricetta
con l’aggiunta di sciroppo d’acero.
A cavallo del secolo, i nuovi sistemi di confezionamento e distribuzione
resero il chewing-gum molto diffuso: uno dei principali produttori divenne
un venditore di sapone, William Wringley, che nel 1898 fondò la Wringley
Jr. Company e inventò i gusti più popolari fino a oggi: spearmint, juicy fruit e
doublemint. Le trasformazioni del chewing- gum però non erano ancora
finite; del resto, una gomma non è una gomma se non puoi farci almeno un
pallone. E così, nel 1929, Frank Fleer introdusse sul mercato il bubble gum,
preparato della giusta vischiosità per contenere bolle d’aria, che diventò un
successo immediato.
Da prodotto commerciale a metafora ed etichetta culturale: il bubble gum
non è infatti solo un tipo di gomma; nei tardi anni sessanta e i primi anni
settanta del Novecento, il termine indicò anche un tipo di cultura giovanile,
che aveva come colonna sonora gruppi dai numi evocativi come i Lemon
Pipers, gli Sweet, i 1910 Fruitgum Company, gli Archies («Sugar Sugar»,
1969) e i Banana Splits – queste due ultime band virtuali rese celebri grazie
a cartoons televisivi. Bubble gum music vennero definite anche alcune delle
canzoni dei Jackson 5 («ABC», 1970), di Sammy Davis Jr («The Candy Man»,
1972), di Tommy James and the Shondells («I Think We’re Alone Now»,
1967): canzoni che generalmente parlavano di amore, orecchiabili, non
esenti da maliziosi giochi di parole e pensate soprattutto per i giovanissimi.
Come la gomma, anche la bubble-gum music fu essenzialmente un fenomeno
commerciale, un prodotto di veloce e facile consumo studiato a tavolino dai
discografici per conquistare la fetta di mercato con il maggior potere di
acquisto. I giovani continuarono anche nei decenni successivi a costituire i
maggiori estimatori del chewing-gum, ormai non più rilassante diversivo,
ma spesso vero e proprio richiamo alla trasgressione, alla fisicità e
all’amore, anche come piacere orale: «Ooh I love to kiss her / Love to hold
her / Love to miss her / Oh little Chewy / Don’t know what you’re doing to
me / But you’re doing to me what I want you to. / Chewy, Chewy, Chewy /
Do it to me chewy chew me out of my mind», cantavano gli Ohio Express,
suscitando non poche preoccupazioni nei genitori benpensanti. Che forse
avrebbero fatto meglio a preoccuparsi non tanto dei riferimenti sessuali,
quanto di ciò di cui la bubble gum culture era il simbolo: di un sistema
economico e culturale che sforna prodotti senza contenuti, il cui sapore e
ricordo svanisce in fretta e non soddisfa mai appieno e che genera un
continuo bisogno di qualcos’altro, diverso ma simile, di cui alimentarsi: la
cultura del consumo – o fast food culture (→ Hamburger & fast food), come
verrà più tardi chiamata.
Il chewing-gum non rimane in questi anni solo appannaggio dei
ragazzini, ma esce dal mondo giovanile e «diventa grande»: viaggia nello
spazio, con gli astronauti della missione spaziale Gemini V del 1965 (che
recavano a bordo pacchetti di Trident senza zucchero) e va in guerra. Se fin
dalla Prima guerra mondiale la gomma da masticare era stata infatti
utilizzata dall’esercito americano come metodo per aumentare la
concentrazione e allentare la tensione, in seguito fu anche potenziata con
altissime dosi di caffeina per tenere i militari vigili e attenti. A ben vedere,
forse gli Ohio Express erano il male minore: «make love, not war» verrebbe
da dire al chewing-gum.

BIBLIOGRAFIA
David Mansour, From Abba to Zoom: A Pop Culture Encyclopedia of the Late 20th
Century, Andrews McMeel, Kansas City 2005.
Michael Redclift, Chewing Gum: The Fortune of Taste, Routledge, London 2004.
C. SCHIA.

Chicanos
«Non è che siamo andati noi negli Stati Uniti. Sono gli Stati Uniti che sono
venuti da noi»: così si esprimeva a metà anni sessanta Luís Valdéz,
commediografo, attore, regista, fondatore della compagnia El Teatro
Campesino, nato a Delano (California). Quel «noi» sta per i chicanos, termine
derivato con ogni probabilità da Mexicanos (o forse da una parola nahuatl,
azteca) per indicare le popolazioni abitanti le regioni del Sudovest, di qua e
di là dal confine fra Messico e Stati Uniti (→ Bordertowns). Storia complessa
e drammatica, la loro: popolazioni azteche e maya, sottomesse con la
violenza dai conquistadores, manodopera semischiava e a buon mercato
durante la dominazione spagnola, la loro condizione economica, sociale e
culturale non cambiò molto con l’indipendenza del Messico nel 1821. Poi,
nel 1836, i coloni texani dichiararono a loro volta l’indipendenza dal
Messico (→ Alamo), proclamando la Repubblica del Texas, che sarà presto
incorporata negli Stati Uniti. A quel punto, lo scoppio della guerra fra Stati
Uniti e Messico era inevitabile, e si verificò nel 1846: due anni dopo, venne
firmato il Trattato di Guadalupe Hidalgo, che consegnava ampie regioni del
Sudovest agli Stati Uniti. In mezzo a tutto questo continuo mutar di domini,
frontiere, occupazioni, lingue e culture, loro, i chicanos.
Da quel lontano 1848, la sorte dei chicanos conoscerà fasi alterne di
passività e ribellione: i cinquant’anni successivi al trattato saranno segnati,
per esempio, dall’attività di bandidos come il celebre Joaquín Murieta (→
Wanted!-I), protagonista di innumerevoli ballate (corridos) e racconti
(cuentos); dopo il 1910, sarà la revolución di Pancho Villa ed Emiliano Zapata
a infiammare l’immaginario collettivo; i riots del 1943 (→ Disordini)
creeranno il mito a forti tinte romantiche del ribelle urbano con il suo
colorito gergo di strada (il caló); e, negli anni sessanta, la United Farm
Workers Union, il sindacato dei lavoratori agricoli fondato da César Chávez,
e i Brown Berets, il gruppo radicale nato a imitazione delle Pantere nere (→
Movement), si batteranno per restituire unità e orgoglio al gruppo, in una
lotta comune alle altre minoranze degli Stati Uniti.
Ma le esigenze dell’economia e del mercato del lavoro statunitense, con
le loro crisi, i loro alti e bassi, le loro contraddizioni, non hanno mai cessato
di gravare sui chicanos come entità estranee e minacciose, traducendosi in
uno sfruttamento senza tregua e senza eguali, in una distruzione quotidiana
di energie psico-fisiche, in una sequenza di «operazioni» atte a creare un
esercito industriale di riserva mobile, elastico, sottoposto a un ricatto
continuo (→ Braceros).
Attraverso questo secolo e mezzo, l’identità culturale dei chicanos non ha
potuto dunque far altro che procedere lungo la via dell’incessante
mescolarsi con altre identità e culture. Il passato remoto azteco e maya,
quello più recente pueblo e navajo, il dominio spagnolo, la breve parentesi
nazionale messicana, il passaggio agli Stati Uniti entrano in una dialettica
reciproca che sprigiona aneliti e sofferenze, nostalgie e rabbia,
sovrapponendo credenze e tradizioni, lingue e dialetti. Il nahuatl degli
aztechi s’intreccia allo spagnolo imposto dai conquistadores e insieme fanno i
conti con l’altrettanto inevitabile anglo; e la mitica terra di Aztlán, cuore
originario del popolo chicano, diviene oggetto di mistica ricerca fuori del
tempo, mentale e spirituale: un trascorso che non potrà più tornare, ma che
alimenta nuove leggende e nuove illusioni.
Così, intorno alla metà degli anni sessanta del Novecento, in coincidenza
con le lotte dei braccianti condotte da Chávez, con la nascita del Teatro
Campesino e l’attività militante dei Brown Berets e dell’Alianza Federal di
Reies López Tijerina, e anche con una violenta repressione nei confronti di
militanti e più in genere di giovani dei ghetti (il caso dei Los Siete de la Raza
a fine anni sessanta), si sviluppa quello che verrà chiamato «rinascimento
chicano» (e che non dimenticherà comunque l’apporto delle generazioni
precedenti, dai cuentos e corridos alle prove più complesse e mature degli
inizi del Novecento). I temi centrali di questa letteratura (narrativa, poesia,
teatro, ma anche musica, cinema e pittura) diventeranno allora il rapporto
con la terra, con la lingua, con il passato, con l’altro sesso, e poi – com’è
ovvio – con gli Stati Uniti. L’intreccio di lingue e dialetti diversi renderà
inevitabile il ricorso all’interlanguage, un incessante varcar di frontiere
linguistico (culturale, psicologico) che è il riflesso di un’esperienza fisica,
materiale; mentre l’anelito per una terra ormai sepolta sotto stratificazioni
coloniali successive farà scattare quel che di mistico e magico affiora di
continuo. Infine, la nostalgia stessa per un passato preurbano e precoloniale
racchiuderà in sé anche la contraddizione rappresentata dagli aspetti più
patriarcali e intrisi di machismo, con la necessità – percepita soprattutto, ma
non solo, dalle autrici – di una revisione e reinterpretazione di figure
storico-mitologiche di mediazione (e a volte sottomissione) come la
Malinche, la Llorona, la Chingada, la Curandera: donne che fungono da
interpreti fra conquistatori e sottomessi, che sopportano e piangono perdite
e violenze, che agiscono ai margini – e che ora affermano una propria
autonomia e identità.
Ci saranno così le poesie di «Corky» Gonzales e Gary Soto, i romanzi di
Tomás Rivera e Raymond Barrio, di Lucha Corpi e Sandra Cisneros, i saggi di
Gloria Anzaldúa sul concetto culturale e psicologico, oltre che sociale e di
genere, di «frontera», la nascita di case editrici specializzate, il delinearsi di
una cinematografia di notevole impegno (Zoot Suit e La Bamba di Luís Valdéz,
del 1981 e del 1987), l’affermarsi di interpreti e conjuntos musicali di rock,
jazz e rap, il diffondersi dei murales come forma artistica privilegiata nel
narrare una storia collettiva (il Chicano Park di San Diego, The Great Wall of
Los Angeles).
Intanto, mentre i media danno grande risalto ai proclami di orgoglio
nazionale (statunitense) dei latinos in occasione delle più recenti
manifestazioni del Primo maggio, le «schiene bagnate» (i clandestini)
continuano a rischiare la vita in cerca di lavoro, di qua e di là, lungo la
frontiera messico-americana – «il campo di battaglia / dove i nemici sono
tutti congiunti» (Gloria Anzaldúa).

BIBLIOGRAFIA
Mike Davis, I latinos alla conquista degli Usa, Feltrinelli, Milano 2000.
Alessandro Gebbia, Chicanos! Cultura e politica dei messico-americani, Marsilio,
Venezia 1976.
Denis Lynch, Daly Heyck (ed.), Barrios and Borderlands. Cultures of Latinos and
Latinas in the United States, Routledge, New York-London 1994.
Mario Maffi (a c. di), Voci di frontiera. Scritture dei latinos negli Stati Uniti,
Feltrinelli, Milano 1997.
M.M.

Chinatown
Ben prima che Deng Xiaoping, leader della Repubblica popolare cinese,
affermasse, nel 1992, che «arricchirsi è degno di gloria», i suoi compatrioti
emigrati, sparsi nelle principali metropoli degli Stati Uniti, si erano già dati
da fare. A partire dagli anni sessanta del Novecento, infatti, le Chinatown
americane, e quella di New York in particolare, furono al centro di un
«miracolo economico»: la diversificazione delle attività commerciali, un
tasso di disoccupazione dimezzato rispetto alla media nazionale e l’arrivo di
investimenti dall’estero avevano creato un autentico boom. Il processo fu
innescato, nel 1965, da una nuova legge sull’immigrazione, che metteva fine
al sistema delle quote per gruppi nazionali (→ Alien): ciò aprì le porte a un
massiccio afflusso da Taiwan, Hong Kong e alcune regioni della Repubblica
popolare. Si trattò in maggioranza di donne, le quali andarono a
riequilibrare il cospicuo disavanzo numerico tra i sessi che aveva
contraddistinto le comunità cinesi d’America. Per apprezzare le dimensioni
del fenomeno basti pensare che, se nel 1960 i cinesi di Manhattan erano
circa ventimila, nel 1980 risultavano dieci volte tanto.
Le immigrate trovarono spazio nell’industria dell’abbigliamento, allora
in grande espansione in seguito alla «delocalizzazione» della produzione dal
Garment District di New York, dove avevano sede le principali aziende del
settore, alle varie Chinatown del paese, quella di Manhattan compresa.
Anche se la distanza fisica era limitata – addirittura poche fermate di
metropolitana nel caso della «Big Apple» (→) – il trasferimento verso
l’enclave cinese assicurava condizioni lavorative (dai costi più bassi per la
manodopera alla totale assenza di protezioni sindacali) non molto diverse
da quanto potevano offrire i paesi più arretrati dell’America Latina o
dell’Asia o le maquiladoras lungo il confine Messico-Stati Uniti (→
Bordertowns).
Un mondo a parte, separato dal resto del paese, dunque: il risultato di un
lungo processo di isolamento con il quale gli immigrati cinesi avevano
tentato di difendersi dalle discriminazioni e dalle violenze subite sin dal
secolo precedente. Il flusso migratorio, in particolare dal Guandong –
regione povera e dal carattere in prevalenza contadino – era iniziato
intorno alla metà del XIX secolo, con meta le Hawaii (→) e la California, dove
imperversava la «corsa all’oro» (→ Oro!). I cinesi furono dapprima
impiegati nelle attività estrattive e, una volta esauritosi il boom, assunti
dalle compagnie ferroviarie per costruire le linee transcontinentali.
La situazione peggiorò a partire dagli anni settanta, quando la
manodopera cinese divenne una pedina nella dura contesa tra industriali e
operai scoppiata in seguito alla crisi economica (→ Sciopero!): ai picchetti e
ai blocchi della produzione, i padroni rispondevano ricorrendo ai cinesi,
meno qualificati, più docili e sovente all’oscuro dello stato di agitazione,
ignoranza a cui non era estranea la limitata padronanza dell’inglese. Il
risentimento della classe lavoratrice «bianca», che in alcuni casi sfociò in
drammatici episodi di violenza (nel 1871, nel «massacro di Nigger Alley» a
Los Angeles, rimasero uccisi in cinquecento) si trasformò in una campagna
xenofoba, sostenuta con particolare veemenza dal leader sindacale Denis
Kearney e dal governatore della California John Bigler. Il movimento
culminò nell’approvazione del Chinese Exclusion Act (1882), legge che
metteva fine all’immigrazione dalla Cina e negava ai cinesi già presenti sul
territorio americano la possibilità di ottenere la cittadinanza. La comunità,
composta in prevalenza da uomini (con una proporzione di 27 a 1), si trovò
così di fronte a un dilemma: rimanere significava accettare la separazione
definitiva dalla famiglia e dagli affetti, mentre il ritorno a casa non
presentava prospettive di lavoro sicure.
Molti di quelli che restarono abbandonarono la California e si
trasferirono nelle più «tranquille» città dell’Est, fondando piccoli
insediamenti nelle zone meno desiderabili e dando vita a quella che sarebbe
diventata nota come bachelor society, la «società degli scapoli» – una
comunità composta in prevalenza da uomini, che reagì al razzismo
chiudendosi in se stessa, un ripiegamento figlio della consapevolezza che la
piena cittadinanza negli Stati Uniti sarebbe stato un traguardo difficile da
raggiungere. Evitare, per quanto possibile, di avere a che fare con l’America
e gli americani divenne una legge di sopravvivenza; gli «scapoli» di
Chinatown misero in piedi lavanderie, ristoranti, case da gioco e saloni da
barba, e lasciarono nelle mani dei tong, confraternite basate su legami di
sangue e provenienza regionale, il compito di regolare la vita sociale ed
economica della comunità. Riuniti sotto l’ombrello della Chinese
Consolidated Benevolent Association (Ccba), i tong eleggevano tra i loro
leader un presidente che svolgeva la funzione di «sindaco» di Chinatown,
mediava le dispute e manteneva la pace sociale. La Ccba, inoltre, assegnava
territori di competenza a ogni attività commerciale, controllando la
concorrenza: in cambio, riscuoteva una «quota d’iscrizione» obbligatoria e
pagamenti mensili.
La risposta americana alla scarsità di contatto si tinse di mistero: sulle
Chinatown cominciarono a circolare miti che trovarono una sponda nella
stampa scandalistica e nella letteratura popolare, creando l’immagine di
nuclei del vizio e di illegalità diffusa – una costruzione che è rimasta fino a
oggi e viene ripresentata periodicamente al cinema e alla tv (si veda il film
di John Carpenter Grosso guaio a Chinatown, del 1986). Al tempo stesso, però,
iniziò l’interesse per il cibo etnico: gli americani in cerca di esperienze
«esotiche» presero a frequentare i ristoranti cinesi, dove gustavano il chop
suey (assortimento di carni di pollo e manzo, pesce e gamberi), il chow mein
(tagliatelle fritte condite di carne, cipolle e sedano) e l’egg foo young (frittata
ripiena di carne, pesce e verdure), piatti che, paradossalmente, non
appartenevano alla tradizione, ma erano nati negli Stati Uniti. Il cibo cinese
trovò entusiastici sostenitori nella comunità ebraica perché combinava la
varietà con il rispetto delle regole kosher: per una famiglia ebraica,
consumare cibo cinese era sintomo di «americanizzazione».
La situazione cambiò radicalmente dopo l’attacco di Pearl Harbour:
l’entrata in guerra degli Stati Uniti contro il Giappone, se da un lato segnò
l’inizio di un lungo travaglio per la comunità di origine nipponica,
culminato nell’internamento coatto (→ Campi di detenzione), dall’altro
migliorò le sorti per i cinesi: all’alleanza con il movimento di liberazione di
ispirazione nazionalista guidato da Chiang Kai-shek, seguì infatti
l’abolizione, nel 1943, del Chinese Exclusion Act. L’immigrazione riprese a
pieno ritmo, specie con il profilarsi del trionfo di Mao Tse Tung e la
fondazione della Repubblica popolare (1949).
Iniziò allora per le Chinatown un periodo di espansione, demografica e
geografica: a New York, per esempio, i piccoli nuclei intorno a Mott Street
nel Lower East Side (→), cominciarono a ingrandirsi erodendo spazi ai
vicini italiani ed ebrei. I settori della ristorazione e dell’abbigliamento,
insieme alle occupazioni richieste dalle rispettive filiere, offrivano ampia
possibilità di inserimento anche per chi non aveva titolo di studio e nessuna
conoscenza dell’inglese. Seppure mal pagati e soggetti a ogni tipo di abuso,
questi posti di lavoro rappresentavano comunque un approdo sicuro
rispetto a un mondo americano che si conosceva poco e a cui si continuava
a guardare con sospetto. D’altra parte, un simile contesto poneva le
premesse per lo sfruttamento indiscriminato dei nuovi arrivati.
La drammaticità della situazione esplose a partire dal decennio
successivo, quando giunsero nelle Chinatown statunitensi capitali
provenienti da Taiwan e da Hong Kong, una fuga scatenata dalle incertezze
che cominciarono a serpeggiare nei due paesi all’indomani della
distensione tra gli Stati Uniti e la Repubblica popolare (1972) e dalle
indiscrezioni sulla volontà britannica di restituire Hong Kong alla
madrepatria. Diretti in primo luogo principalmente verso la proprietà
immobiliare, i flussi monetari crearono una bolla speculativa che spinse i
prezzi a livelli vertiginosi e si tradusse in aumenti altrettanto spettacolari
negli affitti di negozi e appartamenti. L’imperativo di contenere i costi
depresse i salari ed esasperò la rigidità delle condizioni lavorative: ma,
grazie al potere di dissuasione e all’appello alla solidarietà etnica, la Ccba
seppe tenere a freno lo scontento operaio. Così, toccò al poliziotto polacco
Stanley White, protagonista del controverso L’anno del dragone (diretto nel
1985 da Michael Cimino, interpretato da Mickey Rourke), strappare il velo
esotico e denunciare la situazione drammatica in cui versava il quartiere:
«Chinatown», dice White, «puzza. I grandi capi tengono questo posto
sottochiave, come una prigione. Un intero popolo di donne lavora nei
laboratori di abbigliamento per 12 centesimi al pezzo. I negozianti pagano
tangenti a qualsiasi sbandato che gliele chiede. In una stanza dormono
trenta persone. C’è il più alto tasso di tubercolosi e di malattie mentali
rispetto a tutti gli altri quartieri della città». E che non si trattava di frasi a
effetto lo dimostravano le cifre, che confermavano come più del 40% della
popolazione vivesse sotto la soglia di povertà, mentre la densità abitativa
era di 189 persone per acro, più del doppio rispetto alla congestionata
Manhattan.
Il flusso dei disperati non ha accennato a esaurirsi, neanche in
concomitanza con il miracolo economico della Repubblica popolare
successivo al 2000, interessando altre regioni, in particolare il Fujian. Parte
del «merito» va attribuito alle ripetute dichiarazioni di George H.W. Bush,
presidente dal 1989 al 1993, contro le violazioni dei diritti umani perpetrate
da Pechino a partire dalla strage di Piazza Tienanmen, che hanno
incoraggiato molti a tentare la fortuna in America nella veste di rifugiati
politici.
Le potenti gang delle Chinatown, grazie a reti personali sparse per il
mondo, hanno approfittato della situazione per mettere in piedi e gestire
una massiccia attività di immigrazione clandestina, affittando navi pronte
alla pensione e riempiendole di disperati che, arrivati negli Stati Uniti,
dovranno lavorare per alcuni anni come schiavi per ripagare il debito – cosa
che garantisce il permanere delle condizioni per cui le Chinatown
continuano a essere un universo di sfruttamento, popolate da figure che
all’occhio occidentale sembrano evanescenti, ma che nel labirinto delle
strade rivivono l’enigma raccontato da Fay Chiang nel poema Chinatown:
«Bayard, Mott, Pell / Doyer, Bowery, Mulberry / Canal, Division / East
Broadway, Henry / Catharine / A ogni ora del giorno e della notte / io
percorro queste strade / come i ricordi / che mi scorrono nelle vene /
aggrappandomi a essi / come a incantesimi / un desiderio infantile / che
forse un giorno / avranno senso».

BIBLIOGRAFIA
Peter Kwong, The New Chinatown, Hill & Wang, New York 1987.
Mario Maffi, Nel mosaico della città. Differenze etniche e nuove culture in un
quartiere di New York, Feltrinelli, Milano 1992.
Mario Maffi (a c. di), Voci dal silenzio. Scrittori ai margini d’America, Feltrinelli,
Milano 1996.
S.M.Z.

Cinture
Nel luglio del 1925, il giornalista e polemista Henry Louis Mencken arrivò a
Dayton, una piccola città (→) del Tennessee, per assistere al celebre
«Monkey Trial» (→ Scimmie alla sbarra). Nelle sue corrispondenze,
Mencken lanciò strali contro la giuria, unanime nella convinzione che la
Bibbia rappresentasse la fonte suprema della conoscenza umana, e si fece
beffe della bigotta e conservatrice società del Sud, per indicare la quale
s’inventò l’espressione «Bible Belt» (la «cintura della Bibbia»), termine
ancora oggi diffuso per indicare grosso modo il territorio compreso tra il
Texas e la Virginia.
Il termine «belt» (cintura), usato per raggruppare sotto una singola
designazione aree geografiche accomunate da determinate caratteristiche,
risale al secolo precedente. Lo sviluppo delle ferrovie (→ Promontory Point)
impose una razionalizzazione della produzione agricola, causando la
scomparsa di fattorie a conduzione familiare e l’avvento di grosse aziende
dedite alla monocoltura. A cavallo tra gli anni sessanta e settanta
dell’Ottocento compaiono le designazioni «Wheat Belt» (Cintura del
frumento), e «Corn Belt» (Cintura del granturco), presto adottate per
differenziare zone a diversa vocazione produttiva.
A conferma della marginalità sociale della minoranza di origine africana,
anche ai neri d’America viene riconosciuto il dubbio onore di essere
considerati un «elemento caratteristico» della geografia di un territorio.
L’espressione «Black Belt», come spiega l’attivista e educatore Booker T.
Washington nell’autobiografia Up From Slavery (1901), in origine venne
usata (con «black» minuscolo) per designare quelle regioni che si
distinguevano per il colore del terreno, particolarmente ricco e produttivo:
fu solo dopo la Guerra civile che «Black Belt» passò a indicare le zone dove
era alta la concentrazione di ex schiavi. Durante i primi decenni del
Novecento poi, con la massiccia migrazione dai territori del Sud verso le
grandi metropoli del Nord, «Black Belt» cominciò a essere utilizzato per
designare i ghetti delle metropoli dove si insediavano i migranti
afroamericani.
Con il tempo, i termini più fantasiosi vennero accoppiati alla parola
«belt» per segnalare le nuove vocazioni di aree geografiche specifiche: un
esempio è la «Borscht Belt» (Cintura del borscht), corrispondente alla zona
dei Monti Catskill, nello stato di New York, dove numerosi hotel crearono
un servizio kosher su misura per quegli immigrati ebrei (in maggioranza
originari dei territori dell’impero russo, dove era diffuso il consumo di
questa zuppa di barbabietole, uova e panna acida) i quali, diventati membri
a tutti gli effetti della middle class, consideravano le due settimane di
vacanze in estate come uno status symbol, alla stregua del pianoforte in
salotto e dei gioielli vistosi.
Infine, vale la pena ricordare due denominazioni legate a fenomeni più
recenti. La prima è «Sun Belt» (Cintura del sole), corrispondente all’insieme
degli stati situati a sud del 37º parallelo, dalla Florida alla California
meridionale, i quali, in seguito allo sviluppo dell’industria petrolifera,
aerospaziale e militare, nonché alla migrazione di pensionati benestanti in
fuga dai rigidi climi delle metropoli settentrionali, hanno conosciuto una
notevole espansione demografica ed economica a partire dal secondo
dopoguerra. Di segno opposto, invece, le motivazioni per cui gli stati del
Nord, la cui economia era basata sull’industria pesante (Pennsylvania, Ohio,
Indiana, Michigan), si sono visti assegnare il nome di «Rust Belt» (Cintura
della ruggine): in seguito alla crisi degli anni settanta, resa più dura
dall’agguerrita concorrenza giapponese nel settore automobilistico e dal
contemporaneo trasferimento delle grandi produzioni verso regioni dove il
costo del lavoro era più basso, moltissimi impianti di queste zone furono
chiusi. «Ora i cantieri sono solo rovine e macerie», canta Bruce Springsteen
in «Youngstown» (The Ghost of Tom Joad, 1995): le officine e le ciminiere,
ormai inutilizzate, sono rimaste preda della ruggine, mute testimonianze
archeologiche di un passato che pare remoto.

BIBLIOGRAFIA
James R. Adams, «The Sunbelt», in John B. Boles, Dixie Dateline: A Journalistic
Portrait of The Contemporary South, Rice University Studies, Houston 1983,
pp. 141-158.
Jon C. Teaford, Cities of The Heartland: The Rise and Fall of The Industrial
Midwest, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1993.
S.M.Z.
Città nude
Il rapporto della cultura statunitense con la città è, fin dagli inizi, complesso
e – al contrario di quel che parrebbe – non sempre solare e positivo.
Sviluppatisi sull’ipotesi di una società di liberi e indipendenti coltivatori
(yeomen), al riparo – grazie all’enorme abbondanza di terre (di qui, la
necessità di sloggiarne i Native Americans) – dai traumi europei
dell’industrializzazione e urbanizzazione, gli Stati Uniti hanno visto
crescere, di necessità, i primi agglomerati urbani. E, per lungo tempo, hanno
continuato a considerarli per l’appunto «mali necessari»: ma «mali»
comunque. Già a metà Ottocento, Hawthorne arrivò a scrivere che tutte le
città dovrebbero essere in grado di «purificarsi, con il fuoco o con la
progressiva rovina, almeno una volta ogni mezzo secolo», e Poe scrisse
racconti disturbanti sul vivere urbano, ambientandoli sì a Londra e a Parigi,
ma con l’esplicita volontà di mettere in guardia i lettori di casa (se non
addirittura con sottotesti che rimandavano all’incipiente realtà
metropolitana statunitense). Quando, dopo la Guerra civile (→), lo sviluppo
capitalistico si affermò in maniera piena sul suolo americano e
industrializzazione e urbanizzazione fecero balzi giganteschi raggiungendo
e sopravanzando il Vecchio mondo, lo stupore e l’ammirazione per
Macchina e Città e ciò che esse comportavano non andarono mai disgiunte
da disagi profondi, paure, animosità – e ciò in modo particolare tra fine
Ottocento e inizi Novecento, quando enormi masse d’immigranti, preziose
per il rapido decollo economico del paese, giunsero dal Vecchio mondo e
dall’Oriente, affollandosi nei quartieri degradati delle metropoli; e quando
uno scontro di classe fino a quel momento serpeggiante si delineò come una
costante dell’American way of life, smentendo tutte le rosee costruzioni
ideologiche sugli Stati Uniti come nazione senza classi (→ Sciopero!).
In quegli anni, dunque, fra realismo/naturalismo letterario e
giornalismo di denuncia (→ Muckrakers), la tendenza – che sempre
comunque s’intrecciò (perfino nelle medesime opere) a un malcelato
fascino per i ritmi e i disegni urbani – fu quella di «mettere a nudo» la città,
svelandone i meccanismi nascosti e oscuri, i nuclei profondi e rimossi: un
po’ con gli strumenti dell’orologiaio e un po’ con quelli dell’analista – fra
tecnologia e inconscio.
Romanzieri, giornalisti, fotografi, pittori, investigatori e investigatrici
del vivere cittadino, testimoni e storytellers dei nuovi scenari, dei loro vortici
e delle loro contraddizioni, composero così un’epica drammatica della
metropoli americana. E gli anni successivi – quegli anni venti e trenta
dominati da esperienze e istanze contrastanti, fra scatenata joie de vivre e
sconcertata nozione del fallimento – accrebbero questa dimensione di forte
ambiguità, di rapporto equivoco: l’ostinato desiderio di scoprire una realtà
ormai non più solo prossima o incipiente. A quest’universo esistenziale,
concettuale, politico, artistico diedero un contributo fondamentale (quella
visione «dal di dentro» possibile quasi solo a chi guarda «dal di fuori») le
comunità d’immigrazione e afroamericana, le cui arti fermentavano e
fiorivano allora in quartieri come il Lower East Side (→) o Harlem (→) a
New York.
Così, fra la Seconda guerra mondiale e gli anni cinquanta, la scena era
pronta per il decantarsi di una visione notturna della città, che doveva
molto a tutte queste precedenti influenze, fuse insieme al calor bianco delle
disillusioni, amarezze e angosce di quel conflitto e delle sue conseguenze.
Nella fotografia come nella pittura, ma poi in particolare nella letteratura e
nel cinema (specie nei rispettivi generi noir: appellativo che veniva dalla
Francia, ma che rimase il più efficace per descrivere atmosfere, stati
d’animo, contesti), ecco dunque emergere con ancor più forza le «città
nude», non più da svelare ma già svelate, eppure ancora sempre da
conoscere – notturne, misteriose, bagnate dalla pioggia, popolate di ombre,
inquiete e inquietanti. Da allora, la forza visiva costituita dal cinema,
l’intensità emotiva e onirica di certe narrazioni, hanno depositato
nell’immaginario collettivo scene, volti, situazioni, luoghi, contesti,
momenti, contorni, emozioni, che si rinnovano di continuo, con fortissime
suggestioni, con un senso di déjà vu morboso e fascinoso al tempo stesso.
Per questo, la letteratura e il cinema americani non fanno che tornare a
queste «città nude»: perché «mettere a nudo» la città significa anche farne
affiorare i mille labirinti e di conseguenza le mille storie, e dunque poterle
raccontare. Come dice la voce fuori campo, alla fine dello straordinario film
di Jules Dassin, Città nuda, del 1948: «Vi sono otto milioni di vicende nella
città nuda. Questa era una delle tante.…».
BIBLIOGRAFIA
Mike Davis, Città morte. Storie di inferno metropolitano, Feltrinelli, Milano 2004.
Renato Venturelli, L’età del noir. Ombre, incubi e delitti nel cinema americano,
1940-60, Einaudi, Torino 2007.
Ralph Willett, The Naked City. Urban Crime Fiction in the Usa, Manchester
University Press, Manchester 1996.
M.M.

Città sulla collina


«Vedo studenti arrivati fin qui da più di cento paesi diversi che credono,
come quei primi coloni, che anche per loro sarà possibile trovare una casa
in questa città sulla collina – che anche loro potranno trovare il successo in
questo luogo così difficile». Il ricorso di un Barack Obama non ancora
presidente – e già abile oratore – alla metafora della «city upon a hill» nel
2006 è l’ennesima riprova di quanto l’immagine biblica evocata dal
predicatore puritano John Winthrop (1588-1649) nel suo celebre sermone a
bordo della nave Arbella sia un riferimento culturale imprescindibile per la
storia americana, costituendone, ancor più che una pietra miliare, un vero e
proprio fondamento ideologico.
Nella primavera del 1630, lasciandosi alle spalle l’Inghilterra
«tiepidamente» anglicana (e sospetta di simpatie cattoliche) di Carlo I, il
puritano John Winthrop parte, a capo di undici vascelli, alla volta del New
England, dove sarà guida spirituale e governatore della nascente
Massachusetts Bay Colony. Durante la traversata oceanica, Winthrop scrive
il sermone «A Model of Christian Charity» in cui sancisce i capisaldi che
andranno a improntare l’operato della futura comunità di «eletti» sulla
costa atlantica del continente nordamericano, delineando i precetti
teocratici sui quali si baserà, con grande rigore, la vita del New England
coloniale. Le sue parole annunciano la consapevole entrata di quel gruppo
di puritani in un covenant (→), un patto con Dio: novello popolo di Israele in
fuga verso una nuova «terra promessa», essi perseguiranno la loro missione
sapendo di essere un modello per il mondo. Riecheggiando il «Discorso della
montagna» di Gesù (Matteo 5, 1-7, 28), Winthrop conclude il sermone tanto
sull’esemplarità dell’esperimento cristiano cui quel carico di puritani si
accinge («Perché dobbiamo sapere che saremo come una città sulla
collina») quanto sulla eccezionalità (→ Eccezionalismo) del destino
americano («Gli occhi di tutti sono su di noi»).
Delusi dal fallimento del protettorato di Oliver Cromwell e dalla
conseguente restaurazione della dinastia Stuart (1660) nella madrepatria, i
predicatori del Massachusetts che seguono nel solco di Winthrop – tra cui
ricordiamo Increase Mather (1639-1723) e il figlio Cotton Mather (1663-
1728) – danno impulso ai toni cupi e introspettivi di un genere letterario di
matrice biblica, la geremiade (→), in cui essi denunciano, attraverso elenchi
di lamentazioni, la deriva spirituale delle nuove generazioni e il
conseguente tradimento del covenant stretto sulla Arbella da parte della
comunità religiosa.
Nelle varianti in cui sarà declinato nel tempo ad assecondare i
mutamenti sociali che porteranno dal New England puritano alla
Repubblica dei padri fondatori, giù fino alla dottrina imperialista del
«destino manifesto» (→), l’ideale della «città sulla collina» perderà la spinta
teocratica delle origini per rinascere come simbolo di una nuova religione
democratica dedicata all’infinito progresso della civiltà statunitense.
Abbandonato lo zelo degli standard morali puritani – anche grazie al
potente rinnovamento evangelico del «Great Awakening» (→ Covenant)
cominciato negli anni trenta del Settecento –, la giovane nazione cercherà
di primeggiare nell’ambito del benessere e dell’avanzamento tecnologico,
come attesteranno le numerose esposizioni universali (→) ospitate sul
suolo americano a partire dal 1853.
Che si tratti degli assunti visionari della Dichiarazione d’indipendenza,
della retorica patriottica ottocentesca, del consenso istituzionale della
Guerra fredda o dei tentativi più o meno falliti di costruire cittadine
modello (→) o comunità utopiche, la fede di un’intera nazione nella propria
funzione di «faro» per l’umanità non verrà mai meno, andandosi anzi a
rinnovare nei passaggi più delicati del secondo Novecento, quando la fiducia
degli americani nella loro missione prenderà a vacillare.
Sarà infatti in una di quelle cesure della storia contemporanea, a cavallo
cioè tra due decenni di fortissime tensioni sociali, che, nel 1961, il
democratico John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) ritornerà alla «città sulla
collina» di Winthrop per innervare il sogno di una «Nuova Frontiera» (→
Frontiera): «Sono stato guidato dall’esempio che John Winthrop fissò
davanti ai suoi compagni di viaggio sulla nave ammiraglia Arbella 331 anni
fa, quando anch’essi affrontarono il compito di costruire un governo su una
frontiera pericolosa… anche noi, nel 1961, stiamo per compiere un viaggio
non meno insidioso di quello intrapreso dall’Arbella nel 1630».
Ma l’uso della metafora coniata da Winthrop è una consuetudine per
così dire bipartisan: ecco allora che, tre presidenti più in là, debellati i
nemici esterni (il blocco sovietico) a forza di guerre stellari e riassestata
l’inflazione smantellando il sistema assistenziale nazionale, la «città sulla
collina» tornerà protagonista dei discorsi di Ronald Reagan (1911-2004), alla
Casa Bianca dal 1981 al 1989. Fatta di «rocce più forti degli oceani, spazzata
dal vento, benedetta da Dio, e brulicante di persone di tutti i tipi che vivono
in pace e in armonia», l’immagine della «city upon a hill», a un tempo
biblica e imperiale, si arricchisce con Reagan dell’aggettivo «splendente».
Tuttavia, basta guardare un po’ oltre al luccichio di quel decennio per
scorgere un quadro ben diverso; una realtà in cui i quartieri più popolari
delle metropoli – per esempio il Bronx (→) – vengono abbandonati alla
droga, all’Aids e alla criminalità, mentre le piccole città (→), vedendo
chiudere le proprie fabbriche una dopo l’altra, si trasformano in città
fantasma (→).
«Now main streets whitewashed and vacant stores / Seems like there
ain’t nobody wants to come down here no more / They’re closing down the
textile mill across the railroad tracks / Foreman says these jobs are going
boys and they ain’t coming back to / Your hometown, your hometown»,
canta Bruce Springsteen, in «My Hometown» (1985): nato per l’appunto
nella città sulla collina, ovvero Born in the U.S.A.

BIBLIOGRAFIA
Sacvan Bercovitch, America puritana, a cura di Giuseppe Nori, Editori Riuniti,
Roma 1992.
Tiziano Bonazzi, Il sacro esperimento: teologia e politica nell’America puritana, il
Mulino, Bologna 1970.
Perry Miller, Errand Into the Wilderness, Harvard University Press, Cambridge
1956.
C. SCAR.

Cittadine fantasma
In un paese in cui, a eccezione di Indian Mounds e di pueblos (→), non
esistono praticamente «rovine» nel senso europeo del termine, le «cittadine
fantasma» (ghost towns) si caricano di valenze particolari. Sono parte
integrante della lunga storia delle «piccole città» (→) e dell’avanzata della
frontiera (→): non a caso, si incontrano soprattutto nelle Grandi pianure
(→) o negli aridi territori dell’ovest. «Go West, young man!», recitava lo
slogan, e a decine di migliaia, giovani e non giovani andarono a ovest. La
colonizzazione fu un movimento poderoso e drammatico e non cessò per
tutto l’Ottocento, riempiendo il continente, ricacciando e massacrando i
nativi, seguendo vecchi sentieri e aprendo nuove strade, disegnando o
ridisegnando la mappa del paese. Piccoli insediamenti comparvero ovunque
man mano che avanzava l’ondata, altri nacquero vicino a giacimenti reali o
presunti di oro e argento, o di metalli meno nobili ma altrettanto preziosi.
Poi, con il passare del tempo, altri fenomeni si manifestarono: giunsero
le linee ferroviarie (→ Promontory Point) e si spostarono le vie di
comunicazione, spuntarono le banche e debiti e ipoteche fecero sentire il
proprio peso, i grandi latifondisti schiacciarono i piccoli contadini, i filoni di
oro e di argento si esaurirono, le disperate scorribande degli ultimi nativi
sopravvissuti resero insicure alcune zone… Fra Ottocento e Novecento, a
volte anche prima (e spesso anche dopo, ben dentro il Novecento), gli
insediamenti si svuotarono, morirono: piccole cattedrali nel deserto, le
cittadine, i villaggi, gli aggregati umani di un tempo si trasformarono in
ghost towns, mute testimoni di un passato recentissimo, scenari del futuro
cinema western o di un turismo alla ricerca di radici. In Arizona, New
Mexico, California, Colorado, Kansas, Dakota, il vento prese a soffiare senza
incontrare anima viva lungo le main streets (→) di cittadine come Smartville
e Timbuctoo, Tombstone e Deadwood, Gold Run e Dutch Flat, New Idria e
Ingot, Bonito City e Mineral City, Pinos Altos e Trementina, Cabezon e
Geronimo, Golden e Coyote, Santa Cruz e Fort Yuma… le casupole con la
veranda davanti, il saloon con gli sportelli girevoli, l’ufficio del sindaco e
dello sceriffo, il negozio di dry goods and groceries, la chiesa e il cimitero,
forse il bordello, forse una stazioncina, forse una fabbrica, il complesso
minerario con le sue spettrali strutture immobili.
Tante storie diverse, ciascuna emblematica. Bodie, in California, nacque
al tempo della prima corsa all’oro, negli anni quaranta-cinquanta
dell’Ottocento (→ Oro!), e all’apice del suo sviluppo, verso la fine del secolo,
contava circa settemila abitanti, duemila edifici, una sessantina di saloon
snocciolati su una main street lunga quasi un miglio, banche e giornali, un
quartiere cinese e uno a luci rosse, una sede sindacale. Poi, il declino e
l’abbandono (e, nel 1932, un disastroso incendio): oggi, con trecento edifici
un po’ traballanti (case private, la segheria, la scuola, la selleria, il cimitero,
l’obitorio, la lavanderia cinese), Bodie è un National Historic Landmark, un
luogo d’interesse nazionale, alquanto affascinante da visitare
(www.bodie.com). Graysonia, in Arkansas, è invece più recente: fondata nel
1907 come centro di trasformazione del legname, la sua vita fu breve – negli
anni trenta, cominciò a declinare e morì nel 1950, quando venne
abbandonata. Sparsi nella boscaglia, rimangono alcuni impianti e segherie,
il serbatoio d’acqua, la caserma dei pompieri, le fondamenta di alcune
abitazioni.
Molto spesso le vicende di queste «cittadine fantasma» s’intrecciano poi
con quelle del movimento operaio statunitense (→ Sciopero!). Per esempio,
Ilasco, nel Missouri, a poche miglia di distanza da Hannibal, la cittadina di
Mark Twain, si visita in nemmeno mezz’oretta: tre cippi commemorativi
(uno con un lungo elenco di nomi: italiani, ungheresi, rumeni, slavi, ucraini,
polacchi), l’edificio semidiroccato della Al’s Tavern, il minuscolo carcere,
una piccola chiesa metodista, le tracce di abitazioni fra i cespugli.
Nient’altro. Nel 1901, la Atlas Portland Cement Company costruì uno
stabilimento, e intorno a esso si formò presto un villaggio operaio che nel
1903 ricevette il nome di Ilasco – un acronimo: I per iron, L per lime, A per
aluminum, S per silica, C per calcium, O per oxygen, vale a dire gli elementi
usati per fabbricare il cemento. Una company town (→), voluta, costruita,
popolata, amministrata dalla Atlas, che riceveva indietro, accresciuto, tutto
quel che dava – di qui, acute tensioni sociali, che culminarono in un grande
sciopero nel 1910, tanto deciso che il governatore del Missouri, inviando la
Guardia nazionale per stroncarlo, diede ordine di «occupare quella colonia
straniera». Poi, negli anni sessanta, tutta l’area mutò, all’insegna del
turismo di massa: si decise che la scenic road Highway 79 passasse sopra la
riottosa Ilasco e allora Ilasco venne smantellata (dissolved è il termine
tecnico), i suoi abitanti dalle molte lingue dispersi al vento, solo i tre cippi a
ricordarne la storia.
Un caso particolare è quello di Eckley, in Pennsylvania, che «cittadina
fantasma» non è, ma rischiò di diventarlo. Fondata a metà Ottocento, in una
zona ricca di miniere di antracite, fin dagli inizi fu anch’essa una company
town, di proprietà della compagnia mineraria Shape, Weiss and Co. Ad
abitarla furono in origine minatori di origine tedesca, scozzese, gallese,
soppiantati poi da irlandesi e immigrati dall’Europa orientale e meridionale.
Negli anni settanta dell’Ottocento, l’intera regione carbonifera (Eckley
compresa) fu investita dall’agitazione dei minatori irlandesi (→ Molly
Maguires). Nei decenni successivi, il lavoro a cielo aperto (strip mining)
soppiantò via via quello in profondità, e altre modifiche strutturali fecero sì
che la popolazione di Eckley, dal migliaio di abitanti degli anni settanta
dell’Ottocento, calasse fino a raggiungere le poche decine, in un paesaggio
di tetro abbandono, fra scheletri di macchinari, una stazioncina
semidiroccata, grandi mucchi di materiale di scarto: la memoria collettiva
però rimaneva viva, e un piccolo cippo nel cimitero manteneva vivo il
ricordo di «Molly Maguire». Nel 1969, il villaggio fu venduto dalla nuova
compagnia Huss Coal Company all’Anthracite Historical Site Museum,
gestita dalla Pennsylvania Historical and Museum Commission: da possibile
«cittadina fantasma», Eckley si trasformò in una strana «cittadina museo»
(→). La vera salvezza venne però nel 1970, quando il regista Martin Ritt
decise di utilizzare quanto restava del villaggio (immutato da un secolo,
tranne qualche antenna televisiva e qualche palo della luce), per girarvi un
film sui Molly Maguires (I cospiratori).
Ci sono casi anche più complessi. Butte, nel Montana, per esempio, è
famosa non solo per i tragici fatti del 1917 (→ Bisbee e Butte), o per il
bordello rimasto in operazione per più tempo negli Stati Uniti (dal 1890 al
1982): grossa e prosperosa cittadina di miniere di rame, gestite dalla
famigerata Anaconda Copper Mining Company, con gli anni cinquanta del
Novecento conobbe un progressivo e rapidissimo declino, accompagnato
dai disastrosi effetti collaterali dell’industria mineraria del rame, sia nella
fase di scavo in profondità sia in quella a cielo aperto – una storia, ancora
non risolta (come testimonia il documentario di Travis Wilkerson, An Injury
to One, del 2002), di inquinamento da arsenico e altre sostanze altamente
nocive, che ha determinato il degrado di interi quartieri. Da parte sua,
Centralia, in Pennsylvania, ha ormai solo dieci abitanti, dei mille di
trent’anni fa: nata negli anni sessanta dell’Ottocento, intorno a una taverna
aperta nel 1841, cittadina mineraria (antracite) e centro anch’essa
dell’attività dei Molly Maguires, a partire dagli anni sessanta del Novecento
dovette essere via via abbandonata a causa di un incendio scoppiato non si
sa bene quando e come, che continua a bruciare nelle viscere della terra
sottostante e ha reso inabitabile (per calore ed esalazioni) l’intera area. Una
situazione simile si è verificata a Moab, nello Utah, a Grants, nel New
Mexico, a Uravan, nel Colorado, e a Jeffrey City, nel Wyoming, le cosiddette
yellowcake towns, dal soprannome popolare del residuo giallastro del
processo di arricchimento dell’ossido di uranio 238: cittadine minerarie
nate negli anni cinquanta e, a partire dagli anni novanta, via via
abbandonate, lasciando dietro di sé tracce inquietanti di malattie da
radiazioni. O potrebbe verificarsi nelle zone costiere della Louisiana e del
Mississippi, dopo il disastro della piattaforma petrolifera della British
Petroleum Deepwater Horizon nei primi mesi del 2010: le conseguenze
economiche, ecologiche e sanitarie dell’incidente e delle misure intraprese
per (non?) farvi fronte sono incalcolabili e potrebbero allungare di molto
l’elenco delle «cittadine fantasma».
Al termine di questo breve viaggio attraverso le rovine statunitensi,
difficile non pensare ai versi conclusivi della poesia di Edwin Arlington
Robinson, The House Upon the Hill (1896): «C’è rovina e abbandono / nella
casa sulla collina: / se ne sono andati tutti, / non c’è null’altro da dire».

BIBLIOGRAFIA
Richard Lingeman, Smalltown America. A Narrative History. 1620-The Present,
G.P. Putnam’s Sons, New York 1980.
Joan Quigley, The Day the Earth Caved In: An American Mining Tragedy, Random
House, New York 2007.
Philip Varney, New Mexico’s Best Ghost Towns, University of New Mexico
Press, Albuquerque 1981.
—, Arizona Ghost Towns and Mining Camps, Arizona Highways Books, Phoenix
1994.
—, Ghost Towns of Northern California, Voyageur Press, Stillwater 2001.
M.M.

Cittadine modello
Chi non ha mai desiderato il luogo perfetto dove vivere? Non era forse il
sogno dei Padri Pellegrini (→ Covenant) quando, ancora a bordo della nave
che li portava nel Nuovo mondo, già immaginavano la loro «città sulla
collina» (→) come nuovo faro per la civiltà ed esempio di virtù civiche e
religiose? Se le tante comunità utopiche e religiose che fiorirono durante
tutto l’Ottocento e i primi del Novecento testimoniarono con la loro
presenza la ricerca di stili di vita alternativi, fondati su principi e ideali
diversi rispetto a quelli della cultura dominante, il desiderio di trovare
soluzioni urbanistiche e sociali in grado di garantire ai propri abitanti
standard di vita migliori di quelli offerti dalle sempre più affollate metropoli
e dai sempre più deserti centri rurali proseguì anche nella seconda metà del
Novecento. È dagli anni sessanta in poi che, grazie a una nuova coscienza
ecologista, architetti e scienziati iniziarono infatti a studiare soluzioni
abitative sempre più integrate con l’ambiente circostante, lontane
dall’incubo dell’anonimato suburbano che aveva inghiottito tante famiglie
durante gli anni del dopoguerra, in grado di restituire una forte identità
collettiva.
Uno dei primi tentativi fu Arcosanti, unità a forte densità abitativa e a
minimo impatto ambientale, nata nel 1965 vicino a Phoenix (Arizona) dalla
mente di Paolo Soleri. Il principio della «arcologia» (architettura + ecologia)
di Soleri è semplice: nel piccolo può essere contenuto tutto ciò che serve –
senza sprechi, in un sistema che sfrutta al massimo il riciclo e le energie
pulite. Il villaggio-laboratorio urbano, composto da case (nei progetti
originari figuravano due macro-nuclei in grado di contenere circa
cinquemila persone, mentre al momento gli abitanti sono circa trecento),
tanti spazi comuni, serre, piscine, mense, giardini e strutture per i numerosi
visitatori, è un continuo work in progress che si propone di dimostrare come
sia possibile invertire la distruzione delle risorse naturali verso cui i modelli
abitativi moderni stanno inevitabilmente conducendo.
Se Arcosanti guarda, per così dire, alla Terra, l’esperimento scientifico
condotto da un gruppo di scienziati capitanati da John Allen a partire dagli
anni ottanta volgeva lo sguardo allo spazio. Il nome, Biosphere 2, lascia
intuire lo scopo dell’iniziativa: costituire una nuova biosfera, isolata
rispetto all’ambiente circostante da un’enorme struttura di vetro, in cui
ricreare un microclima e un ciclo biologico capace di sostenere la presenza
umana. La struttura di circa 13mila metri quadri nel deserto dell’Arizona
sarebbe dovuta essere, nelle intenzioni degli autori, uno studio per colonie
su altri pianeti – dove a venir presi in esame erano non solo i fenomeni
chimico-biologici, ma anche le interrelazioni umane in un contesto tanto
ristretto. Gli esperimenti incontrarono non poche difficoltà: i primi
«biosferiani» che entrarono nella serra fra il 1991 e il 1993 rischiarono di
morire di fame durante il primo anno e alcuni furono sottoposti a
trattamenti medici; ancor più grave per gli scienziati fu però il fatto che
l’isolamento della biosfera fu spesso violato. La seconda missione andò
ancor peggio: a causa di un forzato cambio ai vertici del progetto e di atti
vandalici di due «biosferiani», l’esperimento venne interrotto e la gestione
di Biosphere passò di mano in mano fra diverse università.
Se la «cittadina modello» ha, per scienziati e architetti, sfaccettature
complesse, per molti americani comuni essa equivale semplicemente al
luogo dove ci si sente a casa e che non si vorrebbe mai lasciare – una
passione quasi inconfessabile per una nazione che ha fatto del movimento
uno dei propri punti di forza. Essendo anche qui una questione di sogni da
trasformare in realtà (quasi mai a buon mercato), non è un caso che fra i
maggiori promotori di modelli urbani alternativi figuri colui che
maggiormente ha plasmato l’immaginario infantile (ma non solo),
convertendolo nella più redditizia industria culturale esistente. È a Walt
Disney infatti che si deve una delle visioni (incompiute) più singolari in
materia di comunità del futuro: Epcot (Experimental Prototype Community
of Tomorrow), l’ultima di una serie di «cittadine modello» che aveva fra i
suoi motivi ispiratori la «Progress City» della General Electric esposta alla
Fiera mondiale del 1964, la «City of Tomorrow» della Fiera mondiale di New
York del 1939 e la «White City» (→) della Columbian Exposition di Chicago
del 1893, dove il padre di Walt, Elias, aveva lavorato come operaio.
Epcot era stata concepita da Disney negli anni sessanta come un
insediamento in grado di ospitare ventimila abitanti, di forma circolare,
protetta da una grande bolla di vetro, con una zona commerciale al centro,
aree ricreative, scuole e servizi nella fascia media e settori residenziali nelle
zone più esterne. Con una mobilità garantita da un sistema elettrico di
monorotaie in superficie e il traffico automobilistico relegato sottoterra,
non vi sarebbero dovute essere case di proprietà né ghetti («non lasceremo
che si formino», era l’imperativo di Disney, forse preoccupato dai disordini
(→) di quegli anni a Watts e Newark), né tanto meno anziani, ma solo
cittadini produttivi, uniformati per abbigliamento e comportamenti. Anche
qui, fu una questione burocratico-economica a fermare il progetto: Epcot
avrebbe ottenuto il permesso e i finanziamenti necessari solo in seguito alla
realizzazione del parco divertimenti – inaugurato dopo la morte del
fondatore. Consapevoli delle difficoltà che la gestione di una cittadina vera
avrebbe comportato, i successori di Walt misero da parte l’idea per circa
trent’anni, e l’ambizioso progetto trovò posto solo come attrazione
turistica dentro al parco dei divertimenti di Disneyland.
Negli anni novanta, però, nel tentativo di sfruttare i terreni di proprietà
Disney nelle aree circostanti (nonché di assicurare, per un complesso
sistema di norme, un maggiore controllo della compagnia sul parco
divertimenti), l’idea venne ripescata. E così l’insediamento urbano di
Celebration, creato dal nulla fra le paludi della Florida accanto al quartier
generale del parco divertimenti di Orlando, vide la luce nel 1996. Basato sui
modelli del New Urbanism che si rifacevano alle architetture del passato più
che sull’impianto futuristico di Epcot, Celebration esercitò fin da subito un
enorme fascino su molti americani insoddisfatti della vita in anonimi
sobborghi metropolitani. La promessa era semplice: una nuova vita in un
contesto esclusivo, perfetta come i sogni che la Disney continuava a
produrre e a vendere al pubblico, all’avanguardia per tecnologie e per
servizi (scuole e assistenza sanitaria in primis) e con una forte identità
comunitaria. Ma non è semplice, e nemmeno economico, trasformare i
sogni in realtà: e così i costi elevati delle unità abitative (il doppio rispetto a
quelli di aree limitrofe) e il regolamento che ogni occupante doveva
sottoscrivere all’atto di acquisto delle proprietà (che includeva anche
norme estetiche riguardo alla scelta dell’automobile, nonché un manuale di
settanta pagine sulle modifiche apportabili alla propria abitazione)
portarono a un’inevitabile selezione degli abitanti, in prevalenza bianchi,
giovani e con un reddito medio familiare che nel censimento del 2000
sfiorava i 100mila dollari annui. Eppure, dietro le linde facciate
neoclassiche, le colonne doriche e i posticci frontoni, qualcosa iniziò fin da
subito a scricchiolare: fin dai muri e dai porticati, costruiti in tutta fretta da
operai non specializzati – in larga parte, immigrati illegali che il complesso
sistema di subappalti aveva reclutato. Ma a vacillare, insieme alle case, fu
quel «In Disney We Trust» di chi sperava che la bacchetta magica
funzionasse anche nel quotidiano. E così Celebration si è rivelata non molto
diversa dalle altre cittadine di provincia: anche qui i teen-ager non più in età
da Topolino sognano di fuggire altrove, mentre chi aveva sottostimato i
costi del sogno pensa ora a un nuovo trasloco. Se vi sono tante incrinature
che si irradiano dall’interno della comunità, a minacciare Celebration è
anche, come per la Città sulla collina dei Padri Pellegrini, ciò che la
circonda: non più il pericolo dei Native Americans, ma le zanzare portatrici
dell’encefalite, le visite ricorrenti di alligatori e la minaccia degli uragani
che colpiscono ciclicamente la regione. Certo, sempre di wilderness (→) si
tratta. E la storia e i disastri ambientali insegnano che la natura, anche negli
Stati Uniti, si prende sempre la rivincita.

BIBLIOGRAFIA
John Allen, Biosphere 2: The Human Experiment, Viking, New York 1991.
Andrew Ross, The Celebration Chronicles: Life, Liberty, and the Pursuit of Property
Value in Disney’s New Town, Ballantine Books, New York 1999.
Paolo Soleri, Arcosanti: An Urban Laboratory?, VTI Press, Santa Monica 1987.
C. SCHIA.

Cittadine museo
Non si può negare che un certo problema con il tempo, la storia e il passato
la cultura americana ce l’abbia. Lo si può cogliere nell’ammirazione a volte
estatica e ingenua per le «rovine» del Vecchio mondo, per quei percorsi
turistici europei che sembrano rinnovare certe ritualità da «Grand Tour»
ottocentesco – ritualità che già Mark Twain aveva messo alla berlina nel suo
Gli innocenti all’estero (1869), godibilissimo diario di viaggio in cui gli
«innocenti» (per l’appunto, gli americani) si affannano ad assorbire il
passato di cui è pregno il Vecchio mondo a differenza del Nuovo. Lo si può
cogliere, questo problema, anche nella frequenza con cui la cinematografia
hollywoodiana esplora il tema, fra Ritorno al futuro e Lo strano caso di Benjamin
Button (adattamento di un racconto di Francis Scott Fitzgerald), con
pellicole a volte surreali e a volte comiche, ma sempre percorse da un che di
inquietante (senza dimenticare le trattazioni che, fra anni cinquanta e anni
sessanta, ne diede la celebre serie tv [→] The Twilight Zone – Ai confini della
realtà).
Le manifestazioni di questa ossessione sono molte, ma particolarmente
significativa è quella delle «cittadine museo», anche perché in essa
convergono sia l’ossessione per la «piccola città» (→) sia i complessi
significati impliciti nelle «cittadine fantasma» (→) sia infine la pratica
culturale dei «parchi a tema» (→ Disneyland). La «cittadina museo» è un
museo a cielo aperto, un’esposizione tridimensionale, un territorio non solo
da vedere ma da penetrare, calpestare, esplorare, toccare – una sorta di
macchina del tempo fatta di planimetrie, spazi ricostruiti (o conservati),
oggetti di uso comune, prospettive e vedute, che parlano di come si viveva
(lavorava, creava, amava, moriva) in quel luogo specifico, fra circoscritta
quotidianità e contesto socioculturale più ampio.
Un buon esempio (fra i tantissimi sparsi nel vasto territorio americano,
senza dimenticare quei «musei nelle città», come il Tenement Museum di
New York, che compiono la medesima operazione su una specifica tranche
de vie cittadina) può essere quello di Stonefield, vicino a Cassville, nel
Wisconsin, a due passi dal fiume Mississippi (→ Vie d’acqua). In origine,
l’area su cui sorge oggi questo villaggio totalmente ricostruito apparteneva
alla proprietà (duemila acri) di Nelson Dewey, primo governatore del
Wisconsin (una storia, la sua, che sembra l’esatto opposto del «mito di
Horatio Alger» (→ Rags to riches): dalla grande fama e ricchezza al tracollo
completo, personale, politico, finanziario, fino alla morte, nel 1889, in
assoluta povertà e solitudine, in una stanza del Denniston Hotel a Cassville,
un tempo di sua proprietà). Dopo un lungo periodo d’abbandono quasi
completo, quella che era stata la tenuta di Dewey divenne dapprima un
parco statale (negli anni trenta del Novecento) e poi (nel 1953) il sito del
costruendo State Farm and Craft Museum, da cui – per ampliamenti
successivi – emerse l’attuale Stonefield Village. Così, oggi, nell’ampia
spianata stretta fra le rocciose falesie e il grande fiume, traversato il ponte
coperto di legno, si entra in un altro tempo, in un villaggio agricolo tipico
del Wisconsin intorno al 1890: come recita la guida, «una piccola, tranquilla
piazza quadrata di villaggio, circondata da bianche facciate di negozio,
congelate nel tempo, sulle piatte rive del fiume senza tempo». Ma anche un
luogo che stava vivendo grandi cambiamenti, come aggiunge sempre la
guida (e come si può leggere in tutta la storia delle «piccole città» →): così,
la moderna ricostruzione di un villaggio-tipo si propone di mostrare quella
piega temporale, sia attraverso mostre ad hoc, sia attraverso un continuo
cambiamento del «museo» stesso. Che non manca di fascino, per il
visitatore: la fattoria completa di arnie, il ponte coperto, la piazza quadrata
con intorno il laboratorio farmaceutico e la farmacia, la scuola, il barbiere, il
negozio di modista e quello di finimenti e attrezzi, il macellaio, il grande
magazzino, l’ufficio postale, la falegnameria, il fabbro, la stalla, la caserma
dei pompieri, la prigione, il saloon, il negozio del fotografo, la sede del
giornale locale, la banca, il negozio di mobili e l’agenzia di pompe funebri,
l’ufficio dell’avvocato, la libreria e il gioielliere, il negozio di dolciumi e
l’ufficio del telegrafo, l’ambulatorio medico, la fabbrica di sigari e la
latteria, la chiesa e la stazioncina. Più di trenta edifici ricostruiti con cura,
quasi si trattasse del set di un film in costume; una straordinaria raccolta di
mobili, vestiti, ambienti, oggetti e attrezzature agricole – il tipico villaggio
di fine Ottocento, immerso in una campagna fertile, ma già minacciato dalla
corsa inarrestabile dell’industrializzazione.
E se è l’agricoltura a dominare lo Stonefield Village del Wisconsin, un
salto indietro nel tempo d’altro tipo si può invece compiere a Hopewell, in
Pennsylvania. Qui, il tema dominante è quello che dà anche il nome alla
«cittadina museo»: lo Hopewell Furnace National Historic Site. Non lontano
da Philadelphia (e da Valley Forge → Rivoluzione americana), il sito
testimonia di un passato industriale in un’epoca in cui il paese era ancora,
in grande maggioranza, agricolo: fra il 1771 (dunque, prima della
Rivoluzione americana) e il 1883, questi 848 acri erano un’unica miniera e
fornace (fra le tante) che a pieno ritmo, con il lavoro di manodopera molto
diversa (compresa una larga componente di ex schiavi neri e di donne
addette alle numerose mansioni collaterali), sfornava oggetti d’uso comune
(stufe, attrezzi agricoli), rotaie per una rete ferroviaria in espansione,
cannoni (115, per il Continental Army durante la rivoluzione), e parecchio
altro, per un mercato sia interno che internazionale (appena prima della
Rivoluzione, le colonie americane detenevano il 15% della produzione
mondiale di ferro). Case in pietra di minatori e operai, pozzi, fornaci,
laboratori e altre strutture e infrastrutture, luoghi di ritrovo e di culto,
negozi, strade, e la grande varietà di strumenti di lavoro (senza contare un
meleto che risale al 1788), formano un altro museo a cielo aperto – non
costruito ex novo come Stonefield, ma preservato nel tempo, un pezzo
straordinario di archeologia industriale immerso nella verde e fertile natura
della Pennsylvania.
Sempre in Pennsylvania, un altro esempio di «cittadina museo» può
essere quello di Eckley (→ Cittadine fantasma). Oppure, nello stato di New
York, 25 miglia a nord di New York e sulle rive di un altro fiume
significativo per la cultura americana (l’Hudson → Vie d’acqua), la
cittadina di Sleepy Hollow, con i resti di una storia secolare, iniziata (come
ci ha raccontato Washington Irving in La leggenda di Sleepy Hollow, del 1820)
con gli olandesi. O ancora, di nuovo in riva al fiume Mississippi, la cittadina
di Hannibal (Missouri), che conobbe un giovane Samuel Clemens non
ancora divenuto Mark Twain e ne reca ancora le tracce ben visibili (dalla
casa all’ufficio del padre ad altri luoghi legati al suo retaggio storico-
culturale). Ma qui si tratta pur sempre di luoghi abitati, con una loro
identità presente oltre che passata, anche se sempre in pericolo di diventare
«cittadine museo».
Le vere «cittadine museo» non sono vissute, o vivono solo nella misura
in cui vengono visitate. Per questo sono simili a «parchi a tema»: così,
mentre ci si aggira fra gli edifici di Stonefield o di Hopewell, vien da pensare
a un celebre film di Michael Crichton, Il mondo dei robot (1973), nel quale il
robot (→) pistolero di uno di questi «parchi a tema», impersonato da Yul
Brinner, d’improvviso prende vita e semina panico e morte nel «Villaggio
del West» (oltre che nell’«Antica Roma» e nella «Cittadina medievale»). Ma
l’inquietudine viene anche dal fatto che, nell’esplorare questi luoghi,
sentiamo subito che, visitatori a parte, non c’è nessuno: come se una
misteriosa epidemia o un’arma letale avessero eliminato gli esseri viventi,
conservando solo edifici e oggetti. E, in fondo, anche quest’inquietudine che
si sprigiona da Stonefield o Hopewell ci dice molto della cultura americana.

BIBLIOGRAFIA
David Paul Nord, A Guide to Stonefield, The State Historical Society of
Wisconsin, Madison 1977.
http://www.nps.gov/hofu/index.htm (Hopewell Furnace National Historic
Site).
M.M.

Clam chowder (e altre zuppe)


Dimmi che zuppa mangi e ti dirò chi sei: più di altri piatti, spesso le zuppe
sono in grado di raccontare il carattere e la storia di una nazione e della sua
cultura. E gli Stati Uniti, già di per sé un gran miscuglio di tradizioni ed
etnie, sono un crogiolo anche in fatto di brodaglie, intingoli e affini. Basti
pensare alle tante specialità delle cucine regionali (le zuppe del Sud, le cui
spezie raccontano di passati francesi e africani, o quelle dell’Ovest, fatte con
le frattaglie del bestiame e un po’ di verdura), oppure a quando, ben
lontano dall’essere di moda, le pietanze etniche diffondevano i loro aromi
per le strade dei quartieri di immigrati delle grandi città dell’Est, e
pentoloni ribollenti di cavoli e carne di manzo, di barbabietole e pomodori
facevano rivivere, attraverso il gusto e l’olfatto, tradizioni e quotidianità del
passato oltreoceano.
Alcune zuppe poi sono persino in grado di rivelare l’atteggiamento di
una cultura nazionale verso il resto del mondo. Se pensiamo che, nel tardo
Ottocento, la cucina statunitense inserì nei propri menù e sugli scaffali un
piatto angloindiano come la Mulligatawny soup (una zuppa a base di carne,
verdure e spezie, inventata in India per soddisfare i gusti dei colonizzatori
inglesi, che senza un brodino non sapevano stare), la domanda che sorge
spontanea è: fascinazione per l’esotico o desiderio di emulazione del potere
coloniale dell’ex madrepatria? Essendo quelli gli anni delle «splendide
guerricciole» (→), non sembrano esservi molti dubbi riguardo alle ragioni
dell’apertura delle tavole americane alle contaminazioni degli stranieri.
Invitali a cena, saranno ospiti squisiti, con la giusta dose di sale e pepe.
Se invece di cannibalizzare potenziali colonie si attinge alla tavola di
temuti nemici o ex nemici, meglio allora farlo di soppiatto. È questo il caso
del clam chowder, longeva specialità della tradizione nordamericana. Il
termine chowder, in uso già nel Settecento, deriva dal francese chaudron, il
pentolone in cui veniva messa a cuocere la zuppa – chiamata poi così per
traslato dai coloni della Nuova Scozia. Ebbene sì: il clam chowder arrivò negli
Stati Uniti grazie ad avventurieri e mercanti stranieri provenienti dalla
remota colonia francese ai lembi del continente, se non addirittura dalla
Francia stessa.
Come ogni prelibatezza che si rispetti, anche il clam chowder è un piatto
composto soprattutto da scarti; e visto che nacque sulle coste dell’Atlantico,
gli scarti erano i pesci poco gustosi e una gran varietà di molluschi,
tradizionale cibo dei poveri, a cui venivano aggiunti brodo, patate e altre
verdure. Di clam chowder si iniziò a parlare negli Stati Uniti intorno al 1822,
intendendo con questo termine il New England clam chowder (detto anche
Cape Cod chowder), a base di latte, vongole, patate e verdure, da non
confondere con altre due varianti simili: il Rhode Island chowder, con il brodo;
e il New York chowder, a base di pomodoro (verdura che acquisì una
crescente popolarità negli Stati Uniti durante l’Ottocento). Non cercate
però quest’ultimo sui menù di oggi: dagli anni trenta del Novecento in poi la
«variante rossa» venne indicata con il nome di Manhattan clam chowder –
meno celebre, certo, ma anche decisamente più digeribile rispetto al cugino
a base di latte.
Dopo questa descrizione vi è venuta l’acquolina in bocca? Bene: se vi
trovate a New York, la cosa migliore è di sicuro fare un salto all’Oyster Bar,
storico bar-ristorante dalle splendide volte a botte che (r)accoglie i
viaggiatori-buongustai nei sotterranei del Grand Central Terminal di New
York. Provate sia il chowder bianco sia il rosso, e scegliete quale preferite.
In alternativa, non resta che mettervi ai fornelli. Ecco cosa vi serve per la
variante New England (sei porzioni circa): due chilogrammi di vongole,
cento grammi di pancetta tagliata a cubetti (equivalenti a due fette
piuttosto spesse), una cipolla tritata, due patate medie tagliate a tocchetti,
quattro tazze di latte intero caldo e un po’ di burro. Disponete le vongole in
una casseruola con un fondo di acqua, portate a bollore e lasciate cuocere
finché i molluschi non si apriranno. Mettete da parte due tazze del brodo di
cottura, dopo averlo filtrato al colino con della garza ripiegata (se utilizzate
molluschi originali americani, tipo Quahog, più grandi rispetto ai nostri,
tagliateli a pezzi). Fate abbrustolire la pancetta in padella fino a renderla
croccante e mettetela da parte. Versate la cipolla tritata nel grasso rimasto
e fatela dorare, aggiungete le patate, il brodo filtrato e fate cuocere fino a
che le patate saranno morbide. Aggiungete poi le vongole, la pancetta e il
latte caldo e fate cuocere a fuoco molto basso senza far bollire il latte.
Aggiustate di sale e pepe e aggiungete un po’ di burro fuso prima di servire.
È meno semplice di quanto sembri.
Volete invece cimentarvi con il Manhattan clam chowder? Le ricette in
circolazione oggi sono alquanto discordanti. Di sicuro, lasciate perdere latte
e burro e procuratevi, oltre a cipolla, vongole e pancetta, anche una decina
di pomodori piccoli fatti a pezzetti (o l’equivalente in salsa), tre carote
tagliate a cubetti, quattro gambi di sedano, quattro patate medie (ma
sappiate che le numerose varianti includono anche uno spicchio d’aglio, tre
cucchiai di prezzemolo, una foglia di alloro e del timo). Friggete la pancetta
fino a quando non diventa croccante, asciugatela e mettetela in una pentola
abbastanza capiente da contenere tutti gli altri ingredienti. Versate i
pomodori mondati e cuocete per cinque minuti, quindi aggiungete acqua (o
brodo), carote, sedano ed erbe aromatiche, ricoprite e lasciate cuocere a
fuoco basso per mezz’ora, fino a quando il sedano non risulterà tenero.
Aggiungete quindi le vongole già bollite, la loro acqua di cottura filtrata e le
patate e cuocete fino a quando queste ultime non saranno a loro volta
tenere. Portate a ebollizione e infine aggiustate di sale e pepe. Il clam
chowder è servito.
P.S.: Attenzione però! Se venite apostrofati con l’appellativo di
chowderhead, sappiate che la persona in questione non sta facendo
riferimento ai vostri gusti culinari: vi sta dicendo che siete un rimbambito,
il cui cervello è un gran miscuglio – proprio come le zuppe che vi abbiamo
fin qui decantato.

BIBLIOGRAFIA
Richard J. Hooker, The Book of Chowder, The Harvard Common Press, Boston
1978.
Jasper White, Fifty Chowders: One Pot Meals – Clam, Corn, & Beyond, Scribner,
New York 2000.
C. SCHIA.
Coca-Cola
Nel luglio 1998, logorato dalle pressioni congiunte delle lobbies (→ Lobby &
caucus) e del deputato Robert Menendez, il presidente Bill Clinton dovette
fare marcia indietro su un progetto di embargo totale ai danni del Sudan, in
risposta alle violazioni dei diritti umani nella regione del Darfur, allora nella
morsa di una sanguinosa guerra civile. Menendez aveva fatto notare che, tra
le merci poste sotto embargo, c’era anche la gomma arabica, un elemento
essenziale per la Coca-Cola. Dalla gomma, di cui il Sudan è il maggiore
produttore al mondo, si estrae un emulsionante senza il quale il colorante
scuro della bibita risalirebbe in superficie. Menendez profilò uno
sconfortante scenario, con la perdita di molti posti di lavoro da un giorno
all’altro (uno dei più grossi impianti dell’azienda si trovava nel suo collegio
del New Jersey), aggiungendo che la Coca-Cola è un prodotto indispensabile
per il consumatore americano e non si poteva consentire di produrlo in
altra forma che non fosse quella nota.
Non stupisce che l’amministrazione cedette subordinando l’idealismo al
pragmatismo: insieme a «O.K.» (→), «Coca-Cola» è una di quelle parole dal
significato universale, compreso nel mondo intero; soprattutto, è uno dei
simboli della potenza economica statunitense.
Il cammino verso questo successo, tuttavia, non è stato affatto lineare e
inevitabilmente ha conosciuto parecchi incidenti di percorso. Che cosa
sarebbe accaduto se, nel 1885, la città di Atlanta (Georgia) non avesse
bandito il consumo di alcolici? Tra i molti preoccupati dalle ripercussioni
che la nuova legge avrebbe avuto sugli affari, vi era il farmacista John
Pemberton il quale, come molti colleghi, vendeva una vasta gamma di
intrugli curativi realizzati di persona. Dopo profumi, purificanti per il
sangue, tinture per capelli, rimedi contro i reumatismi, aveva ideato la Coca
al Vino Francese, una bevanda a base di foglie di coca e noci di cola (frutto
con alta concentrazione di caffeina) che, secondo le inserzioni pubblicitarie,
serviva a curare disordini nervosi, disturbi dell’equilibrio interno e persino
l’impotenza. Il farmacista si era ispirato al Vin Mariani, un miscuglio di
bordeaux e foglie di coca, che era stato introdotto con successo negli Stati
Uniti dal suo inventore, il corso Angelo Mariani (la notorietà arrivò quando
i giornali diffusero la notizia che il Vin Mariani aveva alleviato le sofferenze
degli ultimi mesi di vita dell’ex presidente Ulysses S. Grant, consentendogli
di portare a termine le sue memorie → Guerra civile).
L’inverno del 1885 passò tra esperimenti e test, e nel maggio 1886, in
corrispondenza con l’entrata in vigore del bando sugli alcolici – e
curiosamente anche dei fatti di Haymarket Square (→) –, Pemberton mise
in commercio la Coca-Cola. Il nome, basato sui due ingredienti principali, si
deve a Frank Robinson, uno stampatore del Nord con cui Pemberton si era
messo in affari (fu anche lui, in una pubblicità del giugno 1887, a creare il
logo, usando il «corsivo spenseriano»). Per cinque centesimi, un bicchiere
della bibita prometteva di soddisfare le esigenze del palato e di curare
piccoli disturbi.
Poco dopo il lancio, Pemberton, da anni afflitto da problemi di ulcera e
dipendente dalla morfina, cominciò a perdere lucidità: seguì
un’ingarbugliata vicenda legata ai diritti, con passaggi di mano e
compravendite al limite della legalità, che si risolse nel marzo 1888, quando
l’imprenditore Asa Candler, pare grazie ad alcune firme false, divenne
proprietario unico della formula e fondò la Coca-Cola Company.
Sotto la direzione di Candler, la bevanda iniziò la sua spettacolare
espansione: grazie a una rete capillare di agenti, aggressive campagne
pubblicitarie (alle quali veniva destinato circa un terzo dell’intero budget
dell’azienda), la distribuzione di campioni gratuiti e gadget (calendari,
vassoi), le vendite passarono dai quasi 20mila galloni nel 1891 agli oltre
76mila del 1895. Nel 1899, Candler, sebbene nutrisse parecchie riserve,
accettò di cedere i diritti di imbottigliamento della bibita a due avvocati,
Benjamin Franklin Thomas e Joseph Brown Whitehead. Altri rivenditori
locali, come Joseph Biedenharn (→ Vicksburg), avevano già percorso con
successo la stessa strada, rifornendo di bottiglie le aree limitrofe, ma
Candler riteneva che i consumatori avrebbero continuato a preferire bere la
Coca-Cola al bicchiere nei chioschi, nei candy stores, nei saloon e nelle
pasticcerie. Il contratto con Thomas e Whitehead era molto vantaggioso,
non comportava spese e gli dava diritto a una percentuale sulle vendite, e
così si fece convincere a dare l’assenso all’impresa.
I due avvocati non avevano alcuna esperienza nel settore e dopo alcuni
tentativi falliti di gestire di persona l’imbottigliamento, decisero di
appaltare l’operazione a piccoli imprenditori locali. Fu grazie a questi ultimi
che la Coca-Cola divenne una bevanda nazionale: furono loro a creare nuovi
mercati in territori dove ancora non era arrivata. A New York, per esempio,
i primi clienti furono gli emigrati italiani, che mescolavano la Coca-Cola al
vino per dissetarsi durante lunghe partite a carte notturne: in questo modo,
impiegavano più tempo a ubriacarsi e la caffeina li teneva svegli. Nel 1902,
esistevano 120 imbottigliatori negli Stati Uniti e le vendite di bottiglie
pareggiavano quelle dei bicchieri alla spina.
Rimanevano però alcuni inconvenienti: non sempre i macchinari a
disposizione riuscivano a ripulire le bottiglie dai residui, e dopo che queste
venivano riempite e rimesse sul mercato, non era raro trovare insetti e
lumache all’interno. Inoltre, nessun rappresentante dell’azienda
controllava l’attività degli imbottigliatori, che spesso allungavano la
bevanda con acqua o altri ingredienti per guadagnare di più, alterando il
gusto originale della bibita.
La notorietà portò anche nuovi grattacapi. La reputazione della coca era
cambiata, e non la si considerava più alla stregua di un medicinale.
Circolavano notizie su strani casi di persone ormai assuefatte alla Coca-Cola,
che diventavano violente se non avevano soldi per un bicchiere; si
favoleggiava persino che la bevanda avesse un effetto nocivo sui neri, i quali
dopo averne bevuto una bottiglia mostravano segni di insofferenza nei
confronti dei datori di lavoro e tendevano a ribellarsi; e il regista David W.
Griffith (→ Kkk) realizzò nel 1912 un cortometraggio, Per suo figlio, che
racconta di un ragazzino vittima della dipendenza da una bevanda gassata.
Furono intentati diversi processi contro l’azienda, conclusi con un nulla di
fatto. Candler, per cautelarsi, incaricò alcuni specialisti di modificare la
formula allo scopo di ridurre il quantitativo di coca. Studi di qualche
decennio più tardi, basati su un’approssimazione della formula originale,
sono arrivati a stabilire che questa aveva una concentrazione di cocaina
superiore alle dosi che vengono spacciate nel mercato della droga. In ogni
caso, il successo commerciale non subì contraccolpi, a giudicare dalle
numerosissime imitazioni: dalla Carbo-Cola alla Coke-Ola, dalla Koka-Nola
alla Toka-Tona. La bottiglia rigonfia nel mezzo, disegnata dall’ingegnere
Earl Dean e ispirata ai semi di cacao, venne realizzata apposta per
distinguere la Coca-Cola originale.
Candler vendette l’azienda nel 1919 a un consorzio di imprenditori, che
elesse a nuovo capo Ernest Woodroof. Sotto la direzione di quest’ultimo, fu
una delle poche ad attraversare indenne la Grande depressione (→): il costo
limitato, una campagna pubblicitaria che invitava il consumatore a
concedersi una pausa di evasione in tempi duri, le onnipresenti
sponsorizzazioni di eventi e le «apparizioni» nei film di Hollywood (i
principali attori venivano omaggiati di due casse al mese, mentre cinque
casse al giorno venivano date alle produzioni) contribuirono a mantenere
stabile il livello delle vendite. Curioso il fatto che Woodroof per primo non
avesse creduto alla tenuta della compagnia: presagendo il crollo imminente,
alcuni mesi prima del fatidico ottobre 1929 (→ Wall Street) aveva venduto il
suo pacchetto azionario, salvo poi ricredersi quando, alcuni mesi dopo la
caduta della borsa, il titolo della Coca-Cola era tornato ai livelli precedenti
la crisi.
A questo periodo risale l’episodio che ha mostrato come il business abbia
plasmato l’immaginario culturale occidentale: nel tentativo di raggiungere
un segmento di mercato fino a quel momento trascurato (i bambini), la
direzione affidò a un disegnatore di origine svedese, Haddon Sundblom, la
realizzazione di alcuni manifesti pubblicitari a essi indirizzati. Sundblom si
ispirò a Santa Claus, ma per disegnarlo non seguì l’iconografia tradizionale,
che lo voleva simile a un elfo: usò invece, come modello, un vicino di casa,
un uomo di mezza età piuttosto sovrappeso e dall’aria rassicurante. Da
allora, per circa trent’anni, i disegni di Sundblom hanno imposto al mondo
una nuova immagine di Santa Claus, il cui abbigliamento riproduce i colori
aziendali, bianco e rosso.
La Grande depressione riservò tuttavia anche brutte sorprese: la
peggiore fu senza dubbio l’inaspettata risurrezione di un piccolo
concorrente che avrebbe poi causato molti grattacapi, la Pepsi Cola. La
bibita era stata inventata nel 1894 da Caleb Bradham, un farmacista del
North Carolina, che aveva utilizzato una formula basata sulla pepsina. Dopo
un modesto successo, alcuni rovesci finanziari spinsero i proprietari che si
erano succeduti a offrire alla Coca-Cola l’acquisto della Pepsi in ben due
occasioni (1922 e 1931). Woodroof non era interessato, e avrebbe avuto
modo di pentirsene. Charles Guth, un commerciante di dolciumi, comprò la
Pepsi e cercò di studiare una strategia per intaccare la supremazia della
rivale. Dopo vari tentativi, trovò la strada giusta: vendere una bottiglia più
grande della Coca-Cola (dodici once contro sei) allo stesso prezzo (un
nichelino). In un momento di crisi economica, operai, afroamericani e chi
aveva meno da spendere abbandonarono la Coca per bere Pepsi. Così,
mentre nei decenni successivi, grazie anche alla Seconda guerra mondiale,
l’azienda di Atlanta si espandeva nei mercati internazionali, l’agguerrita
concorrente erodeva progressivamente quote di mercato interno, arrivando
a una prevalenza che dura ancora oggi. Il video pubblicitario del 1971, nel
quale un gruppo eterogeneo di giovani dall’aspetto vagamente hippie
intona un coro che invita il mondo a cercare armonia e concordia bevendo
una Coca-Cola, non faceva che segnalare la proiezione dell’azienda oltre i
confini nazionali.
Ciò non significò una rinuncia a combattere anche negli Stati Uniti. Dopo
il lancio fortunato nel 1982 della Diet Coke, la bevanda dolcificata alla
saccarina che veniva incontro alle esigenze dei consumatori attenti alla
linea, l’azienda di Atlanta investì ingenti risorse per trovare un gusto
migliore rispetto alla rivale: da ripetuti test risultava che il sapore dolce
della Pepsi piaceva di più rispetto a quello leggermente aspro della Coca-
Cola. In occasione del centenario, la Coca-Cola annunciò il lancio di una
nuova versione della bevanda, che sarebbe poi diventata nota come «New
Coke». La Pepsi interpretò il cambio di rotta come un’ammissione di
sconfitta e concesse un giorno di vacanza ai dipendenti.
Nei mesi successivi, i dirigenti della Pepsi avranno ulteriori motivi di
soddisfazione. I fedeli consumatori di Coca-Cola protestarono, alcuni
svuotarono il contenuto di lattine e bottiglie nella fogna, la trasmissione
dello spot pubblicitario negli stadi fu accolta dai fischi. Il quartier generale
fu inondato dalle lettere, e il centralino ricevette quasi ottomila telefonate
al giorno – il tenore variava dallo stupito all’irato: un consumatore arrivò a
dire che cambiare il gusto della Coca-Cola era come bruciare la bandiera a
stelle e strisce (→). Nel giro di due mesi, le vendite colarono a picco e la
dirigenza dovette arrendersi e ritornare al vecchio prodotto: per evitare
ulteriori disguidi, inserì per un certo periodo la dicitura «Classic» sui
contenitori. In seguito, gli analisti di marketing avrebbero sottolineato
come la Coca-Cola, per il consumatore americano, sia legata alla nostalgia
del passato, individuale e nazionale, e il cambio del gusto a cui erano
abituati fosse stato vissuto come un attentato all’identità personale.
Non si può allora dare torto a Menendez: se questa era stata la reazione
per un cambio di gusto, cosa sarebbe successo per un cambio di aspetto?
BIBLIOGRAFIA
Nicola Lagioia, Babbo Natale. Dove si racconta come la Coca-Cola ha plasmato il
nostro immaginario, Fazi, Roma 2005.
Mark Pendergrast, Per Dio, la patria e la Coca-Cola: la vera storia (non
autorizzata) della bibita più famosa del mondo, Piemme, Casale Monferrato
1993.
S.M.Z.

Codice Hays
Il nome di William Harrison Hays Sr. sarebbe caduto senza dubbio nell’oblio
se il modesto e probo avvocato dell’Indiana, dopo una carriera nel Partito
repubblicano culminata nella nomina a ministro delle Poste (in carica dal
1921 al 1922), non fosse stato cooptato per presiedere l’associazione dei
produttori e distributori di Hollywood (Motion Picture Producers and
Distributors of America, Mppda). In quegli anni, l’industria del cinema era
stata scossa da alcuni scandali che avevano riempito le pagine di cronaca
nera e, nel clima di rinato fermento puritano che porterà anche all’avvio
delle politiche proibizioniste (→ Proibizionismo), si tentò di porre un
argine alla reputazione di promiscuità che si stava diffondendo tra
l’opinione pubblica.
Il fatto più grave era stato la morte della giovane attrice Virginia Rappe,
avvenuta in circostanze poco chiare durante un party organizzato dal
collega Roscoe «Fatty» Arbuckle in una suite del St. Francis Hotel di San
Francisco il 5 settembre 1921. Arbuckle era stato accusato, senza prove, di
avere violentato e accidentalmente ucciso la donna. Dopo essere stato
processato e prosciolto, «Fatty» venne inserito in una lista nera di 117
artisti esclusi dal lavoro perché le loro vite private li rendevano scomodi.
La stesura della lista fu il primo provvedimento importante preso da
Hays. Ma questo non pareva sufficiente per evitare futuri boicottaggi e
attacchi pubblici. Per questo motivo egli spinse per la formulazione di un
«codice deontologico» che avrebbe dovuto mettere Hollywood ai ripari. Il
«Motion Picture Production Code», che divenne noto per l’appunto come
«Codice Hays», prevedeva una serie di norme da rispettare in merito ai tipi
di situazioni, temi e parole da evitare nelle sceneggiature. Il codice elencava
tre principi generali: 1) non sarà prodotto nessun film che abbassi i
parametri morali degli spettatori, e dunque la simpatia del pubblico non
dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il
male o il peccato; 2) saranno presentati soltanto esempi di vita virtuosa, con
le uniche limitazioni necessarie al dramma e all’intrattenimento; 3) la
Legge, naturale, divina o umana, non sarà mai messa in ridicolo, né sarà mai
sollecitata la simpatia dello spettatore per la sua violazione. Tra le
disposizioni particolari, vi era poi il divieto di mostrare le nudità del corpo
maschile e femminile, di parlare di droga o di prendere in giro membri del
clero.
Pur non essendo vincolante, l’adesione al codice metteva al riparo i
produttori da eventuali boicottaggi che avrebbero a loro volta provocato
minori incassi al botteghino. Una delle prime vittime della censura fu il film
Tarzan e la compagna, al quale furono tagliate alcune scene in cui Jane
(interpretata dall’attrice Maureen O’Sullivan) nuotava nuda in un fiume.
Tra i casi più celebri, va incluso anche Casablanca, del quale non si gradiva
l’implicazione che Rick (Humphrey Bogart) e Ilsa (Ingrid Bergman) avessero
avuto rapporti carnali senza essere sposati, né il fatto che il capitano
francese Renault (Claude Rains) pretendesse favori sessuali dalle donne in
cambio dei visti di passaggio – sfumature che rimangono comunque
comprensibili durante la visione del film.
Un altro caso interessante riguarda il regista William Wyler, il quale
diresse a distanza di parecchi anni due versioni di una stessa sceneggiatura.
Il produttore Samuel Goldwyn aveva acquisito i diritti di un dramma di
Lilian Hellman, The Children’s Hour, che aveva avuto un certo successo a
Broadway nel 1934. L’opera era ispirata alla vicenda reale di due donne che
insegnavano in una scuola in Scozia e che furono accusate di intrattenere
una relazione. Poiché il Codice Hays non ammetteva né menzione né
allusione all’omosessualità, Hellman modificò la trama e fece figurare che
una delle due donne venisse a torto accusata di avere avuto un rapporto
sessuale con il fidanzato della collega. Il film uscì nel 1936 con il titolo These
Three («Quei tre», La calunnia nella versione italiana). Nel 1961, quando
ormai la forza vincolante del Codice, pur ancora in vigore, era stata
attenuata dalla comparsa di produttori indipendenti da Hollywood, Wyler
volle ritornare sul soggetto e dirigere una versione fedele del dramma,
riproponendo anche il titolo originale The Children’s Hour (Quelle due, nella
versione italiana), con Audrey Hepburn e Shirley McLaine nel ruolo delle
protagoniste.

BIBLIOGRAFIA
Kenneth Anger, Hollywood Babilonia, Adelphi, Milano 1986.
Larry Ceplair, Inquisizione a Hollywood. Storia politica del cinema americano,
1930-1960, Editori Riuniti, Roma 1981.
S.M.Z.

Colt & Winchester


Non fosse stato per una malattia reumatica che ne causò la precoce
scomparsa, Samuel Colt (1814-1862), l’inventore del revolver, avrebbe
incrociato la strada di Mark Twain: lo scrittore si stabilì a Hartford, la città
del Connecticut dove aveva sede la manifattura di Colt, nel 1869, sette anni
dopo la morte del proprietario. Chissà se il fascino dell’imprenditore, le cui
abilità di intrattenitore avevano sedotto capi di stato e teste coronate in
giro per il mondo, avrebbe finito per conquistare anche Twain, noto per le
posizioni antimilitariste e antimperialiste? E chissà cosa avrebbe pensato
Colt di Hank, il protagonista di Uno yankee alla corte di re Artù – romanzo di
Twain del 1889 – catapultato da Hartford, dove lavorava come caporeparto
in una fabbrica di armi, a una fantasiosa Inghilterra medievale?
Samuel Colt è uno di quei personaggi la cui biografia, dove caparbietà e
intraprendenza riuscirono ad avere la meglio sulle avversità e i rovesci della
fortuna, è indicativa della fluidità sociale che caratterizzava l’America
prima della Guerra civile (→). La sua esistenza avventurosa, l’inventiva e la
capacità di cogliere i mutamenti in atto nella società ne fanno un
personaggio simbolo, modello ideale per gli eroi di Horatio Alger (→ Rags to
riches), anche se la sua familiarità con fucine e laboratori, nonché la breve
vita – durante la quale gli toccò assistere alla morte di tre figli – potrebbero
suggerire un accostamento a Faust. Del resto nel West circolava un detto
che suonava più o meno così: «Dio ha creato gli uomini, ma è stato Colt a
renderli uguali».
Nato nel 1814, già in tenera età Samuel dovette fare i conti con un
destino avverso: la madre morì nel 1821 e la ricca famiglia di lei si rifiutò di
contribuire al mantenimento dei sei nipoti. Il padre fu dunque costretto a
«cedere» il figlio come lavorante a un agricoltore. Il ragazzo si provò in vari
mestieri, abbandonò la scuola e si imbarcò infine come mozzo su un
brigantino mercantile diretto a Calcutta. Vuole la leggenda che, osservando
il modo in cui i marinai assicuravano gli argani di bordo – inserendo dei
bastoni nelle apposite tacche –, Colt abbia avuto l’ispirazione per inventare
il tamburo scorrevole della pistola, in grado di roteare meccanicamente
alzando il cane e di alloggiare cinque colpi, una vera rivoluzione rispetto
alle armi da fuoco allora in commercio.
Una buona idea non è tutto – bisogna avere il capitale per realizzarla. E
in questo campo Colt dimostrò di saperci fare. Per raccogliere i fondi
necessari, Samuel si inventò performer, e prese a girare per le piccole città
degli Stati Uniti dando dimostrazioni degli effetti dell’ossido di azoto,
ovvero il gas esilarante. E siccome aveva già compreso l’importanza della
pubblicità, una volta perfezionata la rivoltella, Colt si spinse fino a
Washington, dove riuscì a ottenere un incontro con il presidente Andrew
Jackson che, entusiasta dell’arma, scrisse di suo pugno una lettera di elogio
– l’imprenditore l’avrebbe poi utilizzata per convincere potenziali clienti.
La predisposizione per la promozione dei prodotti fu una costante della
carriera di Colt, il quale ebbe la trovata di commissionare al pittore George
Catlin, una celebrità dell’epoca, alcuni dipinti raffiguranti scene di caccia,
con i personaggi ritratti nell’atto di impugnare armi Colt.
Il successo fu possibile anche grazie al momento particolare della storia
statunitense – quando cioè l’espansione auspicata dai promotori del
«destino manifesto» (→) richiese quantità crescenti di armi da fuoco. E,
molto più che i privati, furono le commesse militari a decretarne la fortuna.
A dir la verità, nel 1837, i mancati pagamenti della prima fornitura per
l’esercito, impegnato in Florida contro i seminole (→ Guerre indiane),
ridussero Colt sul lastrico. Dieci anni dopo, però, alcune di quelle armi
finirono nelle mani di Samuel Walker, capitano dei Rangers del Texas:
all’ufficiale piacquero molto, e ne ordinò mille per il suo corpo, che
partecipava alla guerra contro il Messico (1846-1848). Un altro fattore
importante, oltre alla qualità dei prodotti, fu la capacità di realizzarne in
quantità elevate – per questo motivo, insieme al perfezionamento tecnico
delle armi, Colt ricercò l’innovazione nel processo produttivo. Non è
dunque un caso se la fabbrica di Hartford fu una delle prime a usare una
linea di montaggio in cui ogni operaio svolgeva un numero limitato di
operazioni.
Di pasta assai diversa fu invece Oliver Fisher Winchester (1810-1880),
altro imprenditore il cui nome è passato alla storia grazie al successo delle
sue armi nell’epopea del West. A sua volta di umili origini, Winchester
arrivò nel campo delle armi quasi per caso. Pare che in vita non abbia mai
sparato un colpo di fucile – era molto più a suo agio con investitori, uomini
politici e bilanci d’azienda. Aveva cominciato come apprendista carpentiere
per poi aprire una manifattura di abbigliamento maschile. Nel 1855, colse
l’opportunità di entrare in una cordata per l’acquisto della Smith & Wesson,
azienda in difficoltà che produceva le omonime pistole. Il consorzio non
andò bene, ma Winchester si assicurò l’esclusiva di alcuni brevetti e
soprattutto i servizi dell’ingegner Tyler Henry, la mente creativa. Fu costui
infatti a ideare il fucile Henry, un’arma rivoluzionaria perché consentiva di
caricare il colpo attraverso un meccanismo a leva immediatamente dopo lo
sparo. I soldati confederati, che ne provarono l’efficienza sulla propria pelle
durante la Guerra civile (→), erano soliti inveire contro quel fucile che,
«caricato la domenica, continuava a sparare per tutta la settimana». Lo
stesso meccanismo sarebbe stato usato come base per i successivi modelli,
battezzati con il nome Winchester, tra cui lo «Yellow Boy» (1866), così
chiamato per la vistosa placca in bronzo nella parte mediana della carabina,
e l’iconico modello 1873 (immortalato dal film di Anthony Mann, con James
Stewart, Winchester ’73, del 1950), la cui popolarità e diffusione imposero i
proiettili calibro 44 come standard ai concorrenti.
Dopo la morte, la compagnia passò al figlio William, che mancò di lì a
breve a causa della tubercolosi. La moglie di quest’ultimo, Sarah, si convinse
che i due decessi ravvicinati erano frutto di una maledizione lanciata dagli
spiriti delle persone uccise con i fucili dell’azienda di famiglia. Consigliata
da una medium, la donna decise di ritirarsi a San Jose, in California, dove
diede ordine di costruire una casa con scale che non portano da nessuna
parte, finte finestre, passaggi segreti – al fine di confondere gli spiriti che la
perseguitavano. Alla morte della donna, la dimora è diventata un’attrazione
turistica.
La moglie di Colt, Elizabeth, non ebbe invece rimorsi legati all’attività
del marito: anzi, cercò di perpetuarne la memoria con attività filantropiche.
Il suo lascito più curioso alla comunità di Hartford è senza dubbio la Chiesa
del Buon Pastore, la cui consacrazione avvenne nel 1868. Di particolare
interesse l’entrata sudovest dell’edificio, nota come «portico degli
armaioli» – il portale è adorno di immagini di impugnature di pistole,
tamburi e pallottole intrecciate a croci e foglie di edera. Eloquenti le parole
sopra incise: «Whatsoever Thou Doest, Do All to the Glory of God»,
«qualunque cosa tu faccia, falla per la gloria di Dio».

BIBLIOGRAFIA
Alarico Gattia, Aldo Cimarelli, Così sparavano i nostri: uomini e armi del vecchio
West, Stringa, Genova 1966.
James Wycoff, Famous Guns That Won the West, Arco, New York 1968.
S.M.Z.

Comics (Yellow Kid, Krazy Kat e gli altri)


La traduzione italiana, «fumetto» (con riferimento alla rappresentazione
grafica del parlato come piccole nuvole, i baloons) è di sicuro un po’
fuorviante. Il termine inglese, comics (dal greco κωμικός e dal latino
cōmicus), è più rivelatore dell’origine del genere, che si ricollega
direttamente a tutto ciò che è commedia, e dunque azione, vita, nei suoi
aspetti contraddittori e perciò spesso divertenti.
Difficile dire chi ne fu l’inventore, dal momento che la pratica di
mescolare parole e immagini in una o più tavole in sequenza era già ben
diffusa nell’Europa di metà Ottocento, quando il disegnatore svizzero
Rodolphe Töpfer diede vita alle avventure di Mr Vieuxois, Mr
Cryptogramme e Mr Jabot, seguito negli anni ottanta da Wilheim Busch e
dai suoi monelli tedeschi, Max e Moritz. Per quanto riguarda gli Stati Uniti,
l’origine delle strips (le «strisce») si fa risalire a un bambino dalla tunica
gialla, un monello delle strade del ghetto, popolate da umanità variegata,
animali, carretti di venditori ambulanti, bambini vestiti di stracci e altre
miserie – un mondo che in quegli stessi anni di fine Ottocento il giornalista-
fotografo Jacob Riis stava raccontando con ben altri toni nelle sue indagini
sociali sul «come vive l’altra metà» (→ Occhi indiscreti). Il monello in
questione sorrideva, impertinente e sdentato, in grandi tavole a colori
corredate da didascalie sottostanti (a inserire per primo i balloon per dar
voce ai personaggi fu Frederick Burr Opper, col suo fumetto «Happy
Hooligan» nel 1900), apparse per la prima volta nel 1896 sull’edizione
domenicale del New York World di proprietà di Joseph Pulitzer. Va detto che
Yellow Kid (questo il suo nome) era quasi identico ai cartoons sui bambini di
strada firmati da Michael Angelo Woolf e apparsi vent’anni prima su una
delle prime riviste umoristiche illustrate, Wild Oats, ma in pochi vi fecero
caso. E nemmeno si sottilizza sul fatto che nel caso del bambino con la
tunica gialla non si trattasse di una vera striscia, ma di una tavola unica, e
spesso caotica, zeppa di azione, gag, dialoghi, didascalie e giochi verbali. Ma
poco importa. Con Yellow Kid era nato il mondo di Hogan’s Alley e, insieme
a esso, un universo culturale che rispondeva ai bisogni nuovi di una società,
come quella fra Ottocento e Novecento, che voleva vedere il proprio mondo,
per lo più urbano, confrontarsi con le forze della modernità senza venire
schiacciato da essa. I fumetti ritrasponevano in chiave comica la lotta per
l’affermazione e la sopravvivenza all’interno della giungla urbana: un
mondo in cui erano i ragazzini a farla da padroni, come negli altri due
fumetti che riscossero uno straordinario successo all’epoca – i
«Katzenjammer Kids» di Rudolph Dick, le cui avventure iniziarono nel 1897
e durarono più di settant’anni, e lo «Happy Hooligan» di Frederick Burr
Opper, uscito nel 1899. I primi davano corpo alla sovversione nei confronti
dell’autorità e dell’ordine sociale, mentre il secondo era il bersaglio
paziente degli scherzi di crudeli monelli.
Fu l’incontro fra metropoli e moderno a fare la fortuna dei comics,
prodotto del processo di trasformazione demografica e al contempo
risposta «sperimentale» di una società in transizione a un mondo sempre
più meccanicizzato, scandito nei tempi come lo sono le singole immagini
delle strips. Una modernità in cui tutto è transitorio, senza inizio né fine –
come, per l’appunto, i personaggi dei comics, che esistono solo in una pagina
di quotidiano (o, quando raggiungeranno la fama, nel meno perituro
formato di libro), le loro vite sempre in sospeso, che tuttavia colgono il
momento senza temere il futuro, arginando lo straniamento generato dalla
dimensione urbana.
Ad aiutare l’affermarsi del fumetto, saranno non solo la crescita delle
metropoli, ma anche elementi interni all’industria culturale: la progressiva
erosione del mercato dei pulp e dime novels (soppiantati dalla radio [→] e dal
cinema come forma di intrattenimento popolare); il boom dei giornali con
illustrazioni (e lo scontro fra titani che vide il New York World di Pulitzer,
nella cui versione domenicale un’intera pagina a colori era dedicata a
Yellow Kid, contrapposto al New York Journal di William Randolph Hearst,
che soffiò, anche se per poco, il disegnatore al rivale); la nascita dei grandi
monopoli della carta stampata (syndicated press) che permise la vendita e la
pubblicazione dei fumetti su più testate; e, non da ultimo, il ruolo centrale
della pubblicità, con cui il fumetto intratterrà un rapporto saldo e al
contempo ambiguo. Basti pensare al «Buster Brown» di Outcault, ragazzino
del mondo suburbano di Long Island (ora meno famoso di altri suoi simili,
ma all’epoca una vera e propria star), che venne usato in così tante réclames
al punto da far quasi dimenticare la sua autonoma esistenza nelle strips; o al
longevo universo di «Gasoline Alley» (uscito per più di cinquant’anni a
partire dal 1919), che rappresenta uno stile di vita della classe media sempre
più orientato al possesso di beni, primo dei quali l’automobile (→ Model T),
un mondo in cui il consumo arriva a costituire l’essenza di una persona e la
base delle relazioni sociali. È questo un elemento che accomuna modelli
maschili e femminili, persino le figure più emancipate: come accade in
«Winnie Winkle», in cui l’omonima segretaria, grintosa e indipendente,
aiuta sì col suo lavoro la famiglia e rifiuta l’eterno spasimante goffo, ma al
contempo sogna di sposare un buon partito – buono a sufficienza da
soddisfare i suoi non modesti bisogni di shopping.
Accanto al conformismo e alla classe media, fin dagli esordi trovarono
spazio nel fumetto anche le identità «altre», pur ricalcando, soprattutto agli
inizi, i tratti dello stereotipo. Il modello di Sambo (il nero buono e infantile
di tanta letteratura) si può ritrovare in «Pore Li’l Mose», in cui gli
afroamericani sono eterni bambinoni che vivono in un paradiso rurale dove
ignoti sono il razzismo, i linciaggi e la segregazione. Qualcosa cambia però
già in «Sambo and His Funny Noises», di William Mariner, fumetto del 1905
che racconta l’impari lotta del protagonista contro due sadici ragazzini
bianchi a cui fa da bersaglio. Nonostante quest’ultima striscia non abbia
avuto vita lunga, è comunque importante perché anticipa uno dei più
famosi e longevi (trentacinque anni) fumetti americani – il geniale e
surreale «Krazy Kat», uscito dalla penna di George Harriman e apparso per
la prima volta nel 1910. In un mondo capovolto, in cui le vittime divengono
carnefici e non vi è ordine che tenga, quel gatto che scambia i mattoni
lanciatigli in testa dal topo Ignatz come segno d’amore ricorda le violenze a
cui i due ragazzini bianchi sottoponevano Sambo. Sostituiti l’afroamericano
e i Wasp (→) con due animali eterni nemici e con una buona aggiunta di
humor, questo fumetto era di certo meno esplicito nel denunciare il
razzismo di quanto non fosse il suo predecessore, nonostante, per chi
volesse andare oltre la patina dell’assurdo, gli indizi non mancassero: in più
di una striscia, il nero (o la nera: il genere non è ben chiaro) Krazy tenta di
«passare» per bianco/a… o meglio, trattandosi di felino, per biondo/a (→
Passing).
Parlando di bionde, non si può non ricordare qui la più famosa di tutte,
«Blondie», esplosiva femminilità degli anni trenta, che, dopo il matrimonio
con il goffo Dagwood Bumstead, rientra nei ranghi e nel ruolo della donna
di casa (→ Economia domestica), andando ad arricchire il già affollato
universo dei fumetti sulla Great American Family, popolato di donne decise
e spesso sexy, di mariti pigri e impacciati, di figli monelli, di capi
insopportabili – un universo che troverà presto seguito in serie
radiofoniche (→ Radio) e televisive (→ Serie tv). Di certo, anche di questo
sottogenere non mancarono le parodie, in cui, invece della domesticità
talvolta rissosa ma guardata con occhio benevolo, ad andare in scena era la
fuga dalle relazioni, dal matrimonio e dalle spasimanti (per quanto belle,
dolci e sexy queste ultime fossero). L’esempio perfetto fu il celebre
kentuckiano «Li’l Abner» (pubblicato fra il 1934 e il 1977) di Al Capp, la cui
popolarità superò di gran lunga ogni altra strip sull’universo domestico (→
Appalachia).
Oltre che di rispecchiamento, il pubblico, dagli anni trenta, decennio
della Grande depressione (→), in avanti sentiva anche forte il bisogno di
evasione. Il filone del fumetto d’avventura riscosse fin da subito grande
successo – sia che si trattasse di fughe in luoghi esotici (come nel caso del
«Tarzan» di Harold Foster, passato a fumetto nel 1929) o di inseguimenti
urbani (il «Dick Tracy» di Chester Gould, che aprì al fumetto i volti, le trame
e le ambientazioni urbane della gangster era e dei detective privati →
Hardboiled). Felice sorte analoga ebbero anche i Supereroi (→), soprattutto
negli anni precedenti e in quelli del secondo conflitto mondiale. Dopo Pearl
Harbour, molti furono i fumetti che, accanto ai Supereroi, entrarono
metaforicamente in guerra, con protagonisti, anche ragazzini, che
organizzavano forze di resistenza paramilitari, o che si arruolavano nell’Air
Force – la carica sovversiva di buona parte del genere temporaneamente
messa da parte a servizio dell’ardore patriottico.
Il fumetto di guerra ebbe però vita (relativamente) breve: con il secondo
dopoguerra, a tornare in primo piano furono soprattutto le strisce di
ambientazione domestica – anche se le famiglie in questione divennero
sempre più popolate solo da bambini (come nei Peanuts →) oppure
ritrasposte all’interno del mondo animale – dall’ormai celebre Mickey
Mouse a quell’opossum della Georgia uscito dalla penna di un altro Walt,
non Disney (→ Disneyland), ma Kelly, che insieme al suo centinaio di
coprotagonisti costituì una potente e caustica satira dell’America
contemporanea. Ottimista, liberale, dedito al motto del «vivi e lascia
vivere», Pogo (questo il nome del protagonista e della striscia, apparsa per
la prima volta nel 1948 sul New York Star) è diretto parente del più romantico
Krazy Kat, caratterizzato dalla complessità psicologica e dalla
consapevolezza, come nota il critico Russell Nye, che l’umorismo non vada
ricercato nelle situazioni più improbabili, ma sia parte intrinseca della
commedia umana.
Con i suoi dieci e più milioni di strisce dalle origini agli anni settanta, il
fumetto è stato ed è sicuramente uno dei prodotti culturali più pervasivi
nella società americana. Il suo sviluppo negli ultimi quarant’anni, poi, è
stato ancor più tentacolare e trasversale: i comics hanno influenzato e
interagito con forme artistiche élitarie quali la pittura (si pensi al suo
utilizzo nella pop-art, da Andy Warhol a Roy Lichtenstein); si sono ibridati
con altri generi (il romanzo, dando origine al graphic novel); hanno
consolidato la propria vena sovversiva attraverso, fra gli altri, il cartoon
politico (che affonda le proprie radici nella fine dell’Ottocento con le opere
di Joseph Keppler e giunge fino alla fortunata striscia Doonesbury o alle
strisce di Jules Feiffer), ponendosi di fatto come terreno di mediazione per
istanze sociali quali la lotta di classe o la discriminazione razziale.

BIBLIOGRAFIA
Mike Benton, The Comic Book in America: an Illustrated History, Taylor, Dallas
1989.
Jared Gardner, Projections. Comics and the History of Twenty-First Century
Storytelling, Stanford University Press, Stanford 2012.
Scott McCloud, Understanding Comics, Kitchen Sink Press, Northampton 1993.
Russell Nye, The Unembarassed Muse. The Popular Arts in America, The Dial
Press, New York 1970.
C. SCHIA.

Company town
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: in questo caso, Put Yourself in His Place
(1870), romanzo dai toni moraleggianti di un autore minore inglese, Charles
Reade. Leggendolo, l’industriale George Pullman, a capo della manifattura
di vagoni ferroviari che da lui prese il nome, si convinse che le tensioni tra
capitale e lavoro (→ Sciopero!) che accompagnavano la Gilded Age (→)
discendevano dalla reciproca incomprensione tra padroni e operai:
l’incapacità di mettersi nei panni della controparte (put yourself in one’s
place, appunto) era la causa principale dei conflitti e degli scioperi. Pullman,
in particolare, era persuaso che la crescita disordinata delle città, con
quartieri operai sovrappopolati e edifici che non rispettavano le più
elementari norme igieniche e di sicurezza, stava alla base del proliferare del
vizio e del radicalismo politico.
Alcuni movimenti di riforma premevano per un miglioramento nelle
condizioni abitative, ma Pullman riteneva che si dovesse andare oltre.
Quello che aveva in mente divenne chiaro quando la crescita dell’attività
della sua azienda rese necessario costruire stabilimenti più grandi. Insieme
all’ampliamento del sito produttivo, l’imprenditore espose anche il nuovo
ambizioso progetto: costruire una città-modello accanto alle officine dove
alloggiare tutti i dipendenti, operai e impiegati – una company town,
sull’esempio di quanto s’era già andato facendo in Europa, agli albori della
rivoluzione industriale.
La zona ideale per la costruzione della città venne trovata sulle rive del
Calumet River, a circa un’ora di treno da Chicago. Acquistati quattromila
acri di terreno al prezzo di 800mila dollari, Pullman ingaggiò l’architetto
Solon Spenser Beman e il landscape designer Nathan F. Barrett per stendere il
progetto. La costruzione di Pullman – così fu battezzato il nuovo centro
abitato – iniziò nell’aprile del 1880 e già dal 1º gennaio dell’anno seguente
cominciarono a trasferirsi le prime famiglie. A novembre, i residenti
ammontavano a 1725, mentre un anno dopo erano già raddoppiati.
Due erano le idee alla base della costruzione della città: un ambiente
urbano gradevole, composto da abitazioni dignitose, ampi viali e giardini, e
l’assenza di elementi corruttori, dai bordelli ai saloon (→), fino ai sindacati.
La piacevolezza del contesto avrebbe avuto riflessi positivi sul benessere
dell’individuo, eliminando le cause principali del malcontento e
assicurando quindi una manodopera che, lontana da alcol, teatri promiscui
e politicanti radicali, sarebbe stata sempre efficiente nel fisico e non
avrebbe interrotto la produzione con scioperi e picchetti.
La topografia della città era plasmata sulla pianta rettangolare del grid
(→ Acri). La parte industriale e quella residenziale erano separate dalla
main street (→), chiamata Florence Boulevard in omaggio alla figlia del
padrone. Oltre alle abitazioni fu costruito un Florence Hotel (il cui bar era
l’unico luogo in città dove fossero consentiti la vendita e il consumo di
alcolici), una scuola, il mercato coperto, l’Arcade (antesignano del mall →)
dove si trovavano anche la biblioteca e il teatro (le opere in cartellone
dovevano essere approvate dalla direzione), una chiesa e una banca. Ben
presto la città ebbe anche un suo settimanale, il Pullman Journal.
In linea con la logica imprenditoriale, Pullman stabilì dapprima che i
servizi non sarebbero stati gratuiti: pagare l’affitto avrebbe reso
consapevoli i dipendenti del valore delle abitazioni in cui alloggiavano e ciò
li avrebbe stimolati a mantenerne il decoro. Ci furono tuttavia alcuni
sviluppi non previsti: molti operai, infatti, preferirono abbandonare la città
e stabilirsi in villaggi vicini, dove gli affitti erano meno cari. Alla medesima
logica del profitto sarebbero dovute sottostare pure le varie istituzioni
municipali. La biblioteca faceva pagare un’iscrizione annuale di 3 dollari, e
ciò tenne lontano molti potenziali utilizzatori: anche quando la città arrivò
a superare i diecimila abitanti, il numero di iscritti non fu mai superiore a
duecento. La chiesa, infine, era troppo grande e nessuna delle congregazioni
presenti poteva permettersi di affittarne i locali per tenervi regolari
funzioni – con il risultato che per la maggior parte del tempo i battenti
rimasero chiusi.
Anche il forte controllo che Pullman esercitava sugli alcolici e sulle varie
forme di intrattenimento moderno (sale da ballo, teatro di rivista ecc.) fu
aggirato con facilità: si consolidò infatti l’abitudine al pendolarismo del fine
settimana verso la vicina Kensington (sulla cui strada principale erano
comparsi oltre quaranta tra bar e taverne) oppure verso Chicago, facilmente
raggiungibile grazie a un servizio ferroviario regolare. Il momento decisivo
giunse con la crisi del 1893-1894, quando il giro d’affari della Pullman si
contrasse in maniera significativa e l’azienda fu costretta a tagliare gli
stipendi e ridurre il numero degli addetti.
Le condizioni lavorative, che nel giro di pochi mesi erano peggiorate
(passando da un conteggio orario del compenso a uno a cottimo),
facilitarono anche l’arrivo dei sindacati – la cosa che più di ogni altra
Pullman aveva voluto evitare con la costruzione della città. Rimaste
inascoltate le lamentele degli operai, fu indetto uno sciopero che durò da
maggio a luglio 1894 e poté contare sul sostegno dei lavoratori delle
ferrovie, i quali boicottarono la Pullman (→ Sciopero!). Il sindaco di
Chicago, di concerto con gli imprenditori, fece pressioni sul presidente
Grover Cleveland per l’invio di truppe federali che, nell’arco di alcuni
giorni, ristabilirono l’ordine.
Pullman non riuscì a godersi la vittoria a lungo. Precocemente
invecchiato a seguito della difficile situazione che si era trovato a gestire,
passò a miglior vita nell’ottobre 1896. Dopo la sua morte, la Corte Suprema
dell’Illinois dichiarò incostituzionale il possesso di una città intera da parte
di un’azienda e stabilì che le proprietà che non avevano alcuna attinenza
con i processi produttivi avrebbero dovuto essere vendute.
Con il tempo, l’espansione di Chicago verso sud ha trasformato la
comunità in un sobborgo della metropoli – un fatto positivo perché le ha
consentito di emancipare la sua sorte da quella dell’azienda fondatrice, un
legame che spesso si è dimostrato fatale per la sopravvivenza di altre
company towns. Per esempio, l’epilogo per tanti centri abitati costruiti
attorno a siti minerari, come Ludlow, Colorado (nel 1914, scenario di un
celebre «massacro», nel quale diciannove minatori in sciopero furono uccisi
dalla Guardia nazionale) e Blue Heron, Kentucky, è stato quello di diventare
una città fantasma (→), una volta chiusa l’azienda principale.
In altri casi, il processo di decadenza ha avuto una parabola più lenta e
drammatica: è il caso di Gary (Indiana), città fondata nel 1906 dalle
acciaierie US Steel Corporation, il cui nome deriva dal presidente della
società, Elbert H. Gary. Famosa per aver dato i natali alla stella del pop
Michael Jackson (il padre Joe si era trasferito nel 1949 dal Tennessee per
lavorare nelle acciaierie), la città è entrata in una fase di declino a partire
dagli anni sessanta, in concomitanza con la crisi dell’industria principale. I
licenziamenti, l’assenza di investimenti, incremento della violenza e la fuga
dei bianchi verso i paradisi suburbani (→ Suburbs) hanno trasformato
quella che era una città modello in un enorme ghetto.
Un’altra company town, Flint (Michigan), ha conosciuto la celebrità a
dispetto della decadenza grazie al suo figlio più noto, il regista Michael
Moore. Al contrario di Pullman e Gary, Flint non nacque per disegno
aziendale, ma all’inizio del XX secolo diventò uno dei più importanti siti
produttivi dell’industria automobilistica. La Buick Motor Company arrivò
da Detroit e quasi simultaneamente vennero fondate in loco la Chevrolet e
la General Motors, insieme ad altre aziende minori come Dort, Little, Flint e
Mason. Da allora, la vita della città è ruotata attorno alle vicende di queste
compagnie. Lo sciopero di quarantaquattro giorni del 1936-1937, con cui il
nascente sindacato United Auto Workers (Uaw) riuscì a far accettare le
proprie condizioni alla General Motors, è diventato parte del folklore locale
e dell’orgoglio cittadino, preludio a un’«età dell’oro» in cui l’espansione
economica postbellica si tradusse in un diffuso benessere per la
popolazione. Il momento della crisi arrivò quando il presidente della Gm,
Roger B. Smith, annunciò un piano industriale che prevedeva la chiusura di
undici impianti e il licenziamento di 30mila operai solo a Flint – una
decisione che innescò un processo di degrado che l’amministrazione
cittadina non fu in grado di contrastare. In Roger & Me (docu-film del 1989),
Moore narra i vari tentativi frustrati di ottenere un colloquio con Smith e
convincerlo a visitare la città, per mostrargli la rovina che si è abbattuta
sulla comunità in seguito alla scelta aziendale. E racconta i piani falliti di
trasformare Flint in una meta turistica e l’aumento della criminalità,
testimoniata dalla costruzione di una nuova prigione dove si ritrovano
alcuni ex colleghi di fabbrica – alcuni come secondini, altri, meno fortunati,
come detenuti.
Per finire, un salto a Hershey (Pennsylvania), comunità che prende il
nome da una delle maggiori industrie dolciarie del paese. Chiamata anche
«Chocolatetown» o «The Sweetest Place on Earth» («il luogo più dolce della
terra»), Hershey gode del sostegno finanziario assicurato da alcuni fondi
fiduciari aperti dal fondatore Milton Hershey, il quale stabilì che i proventi
fossero utilizzati per sovvenzionare il sistema scolastico e l’ospedale
cittadino. Inoltre, grazie al parco di divertimenti Hersheypark, che dà
lavoro a più di 8500 abitanti, a cui si aggiungono gli oltre 2500 impiegati
nell’azienda, la comunità ha risentito solo marginalmente del declino che
ha interessato l’industria pesante della Pennsylvania. La popolazione può
quindi continuare a passeggiare lungo Chocolate Avenue, anche se recenti
annunci di vendita dell’azienda alla concorrenza hanno causato non pochi
turbamenti.

BIBLIOGRAFIA
Stanley Buder, Pullman: An Experiment in Industrial Order and Community
Planning, 1880-1930, Oxford University Press, New York 1967.
S.M.Z.

Conestoga e prairie schooner


Nel 1872, John Gast dipinse un quadro destinato a divenire famoso:
l’ingenuo e allegorico American Progress («L’avanzata dell’America»). Nel
mezzo, si libra una diafana figura femminile avvolta in bianchi veli che
lasciano scoperte le spalle, parte del petto, una gamba: sulla fronte reca la
stella dell’impero, nella mano destra stringe un libro di scuola, con la
sinistra srotola un lungo cavo del telegrafo che, di palo in palo, si perde
nella distanza. Sullo sfondo, a destra, in una vaga nebbiolina, il profilo di
New York (s’intravede il Brooklyn Bridge), a sinistra picchi nevosi. In primo
piano, gruppi di coloni e pionieri avanzano a piedi e a cavallo, spingendo
animali e aratri, e davanti a loro fuggono radi gruppi di Native Americans,
mandrie di bisonti e altri animali. A mezza distanza, rimpiccioliti e dominati
dalla figura femminile, attraversano vaste praterie solitari cavalieri, tre
treni, una diligenza. E, trainato da quattro buoi, un carro coperto da un telo
bianco, curvo a disegnare una sorta di ferro di cavallo, e più oltre, appena
tratteggiata, un’intera fila di altri carri coperti – un’immagine, questa, che
poi caratterizzerà (passeranno solo pochi decenni) tutto il cinema western e
attraverso di esso l’immaginario del West.
Quel carro era detto conestoga, nome derivante dalla Conestoga Valley,
nella contea di Lancaster (Pennsylvania), da cui provenivano i gruppi di
coloni di origine tedesca e religione mennonita che presero a usarli intorno
alla metà del Settecento. Trainato da buoi, muli o cavalli (venne anche
selezionata una razza speciale: il «Conestoga horse»), fu protagonista
dell’avanzata verso ovest, oltre la catena dei monti Appalachi (→
Appalachia), verso le Grandi pianure, lungo le varie piste di esploratori,
coloni e migranti (e, nella prima metà dell’Ottocento, nella prima «corsa
all’oro» → Piste e sentieri; → Oro!). Simile, ma più piccolo per risultare più
maneggevole, era il prairie schooner, la «goletta delle praterie»: visto da
lontano, il telo bianco che ricopriva il carro faceva pensare a una vela in
quel grande mare delle Grandi pianure (→), le alte erbe mosse dal vento a
rammentare le onde dell’oceano e viceversa (ne scrissero in maniera
significativa sia Francis Parkman in La pista dell’Oregon sia Herman Melville
in Moby Dick). I carri disposti in cerchio la sera per difendersi da un attacco
di Native Americans costituiscono una delle immagini iconiche della
conquista del West.
Un carro particolare – e di particolare importanza –, che per lo più si
trovava in coda alla fila, trainato da una o due coppie di muli, era poi il
chuckwagon, il vagone-cucina (chuck = taglio di carne di poco prezzo). La sua
sponda posteriore si trasformava in ribaltina, sulla quale il cuoco (non di
rado un cinese, che fungeva anche da barbiere e da dottore) allestiva le
prelibatezze della dieta dei coloni: bistecche o carne secca, fagioli, focacce,
pancetta, caffè, melassa. A «inventarlo», negli anni sessanta dell’Ottocento,
fu Charles Goodnight, mentre procedeva lungo la pista che avrebbe poi
portato il suo nome.

BIBLIOGRAFIA
Ray Allen Billington, Storia della conquista del West (1956), Odoya, Bologna
2009.
M.M.

Coney Island (New York)


Coney Island, l’«Isola dei Conigli» dell’epoca della dominazione olandese
nel Seicento, la lunga striscia di terra (in realtà, non più un’isola) con cui
Long Island s’affaccia sul mare, fra Jamaica Bay e Staten Island, all’imbocco
della Baia di New York… Qui, a dominare oggi sono ruggine e vernici
scrostate, una cert’aria d’abbandono; ma un tempo era un tripudio di luci,
una fantasmagoria di attrazioni disparate, ruote, giostre, tunnel, musica e
folla – un paradiso in riva all’Oceano Atlantico a pochi minuti da
Manhattan: questo era Coney Island agli inizi del Novecento, dopo essere
stata «buen retiro» di nababbi e robber barons, oltre che «zona franca» di
prostituzione, gioco d’azzardo, piccola delinquenza. La sua stessa
conformazione sembrava riflettere e riassumere la gerarchia sociale ormai
vincente: a est, i grandi alberghi sfarzosi: l’Oriental e il Manhattan Beach; al
centro, Brighton Beach, regno della piccola e media borghesia in ascesa (o
in attesa); e a ovest, ritrovi e intrattenimenti sempre più popolari e a buon
mercato, fino alla zona poco raccomandabile intorno a Norton’s Point.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, il suo tessuto sociale e culturale era
sembrato sul punto di sfaldarsi, con scandalo e preoccupazione di
riformatori e benpensanti; poi, grazie all’intervento di alcuni abili
personaggi (George Tilyou in testa), era nata la «moderna» Coney Island che
per una quarantina d’anni avrebbe dominato il panorama
dell’intrattenimento di massa urbano. Con l’apertura del Sea Lion Park del
capitano Paul Boyton nel 1896, ma in particolare con quella dello
Steeplechase di Tilyou l’anno successivo, s’era infatti inaugurata l’era dei
«parchi di divertimento» (→ Disneyland).
L’abilità di Tilyou & Co. era consistita nel percepire una serie di
profonde trasformazioni nella cultura popolare di fine Ottocento. Essi
avevano compreso che, sotto la spinta di poderose tensioni economiche e
sociali, tempo libero e intrattenimento stavano mutando in maniera
radicale. Avevano così adattato lo «stile» dei vecchi spettacoli popolari
(della Bowery [→] newyorkese, per esempio) a realtà e bisogni nuovi.
C’erano sempre le luci, il chiasso, il trambusto, una gustosa volgarità, il freak
e l’esotico, l’universo un po’ ciarlatanesco del dime museum (il «museo delle
attrazioni da dieci cent»), le sollecitazioni e gli ammiccamenti erotici, il
senso generale di potersi muovere al di fuori del controllo e del
condizionamento della cultura tardo-vittoriana. Ma tutto ciò era racchiuso
entro limiti (anche fisici) sicuri, accettabili, conosciuti; e in ultima analisi
faceva anch’esso parte di quel più ampio movimento di riforme che
annoverava i parchi di Frederick L. Olmstead (→ Central Park), le inchieste
e le fotografie di Jacob Riis (→ Occhi indiscreti), il giornalismo muckraking
(→ Muckrakers), il lavoro di assistenti sociali come Jane Addams e Lillian
Wald. Le cose, tuttavia, erano più complesse. Fin dalla nascita, i «parchi»
come Coney Island divennero terreno d’incontro/scontro di tensioni
diverse, crocicchio verso cui convergevano al tempo stesso le necessità
dell’americanizzazione e del controllo sociale, la nascente cultura urbana, il
modus vivendi della classe media e delle classi lavoratrici, il ruolo nuovo della
tecnologia nella realtà quotidiana della metropoli.
Alla base dell’invenzione architettonica di Sea Lion Park e Steeplechase,
ma soprattutto dei posteriori Luna Park (del 1903) e Dreamland (del 1904),
stava l’esempio della World’s Columbian Exposition di Chicago nel 1893 (→
White City). Da quando, l’anno dopo, la Ferris Wheel (la grande ruota
panoramica) era stata ricostruita a Coney Island, un susseguirsi continuo di
imitazioni e variazioni aveva finito per creare una scenografia da sogno, con
le 205mila lampadine di Luna Park, il milione di Dreamland, i viali, le guglie,
le quinte, i fondali, le colonne, i minareti, i laghetti artificiali.
Matrici diverse stavano poi alla base di Coney Island. C’erano le classiche
istanze didattiche di stampo tardo-vittoriano: le «scene» di «Streets of
Cairo», «Eskimo Village», «German Village», «Canal of Venice», «Trip to the
Moon», «Trip to the North Pole». C’erano le tipiche attrazioni dello
spettacolo popolare ottocentesco: le bande, le orchestrine, gli spettacoli con
gemelli siamesi e donne barbute. C’erano le mirabolanti messinscene, gli
allestimenti mozzafiato con centinaia (a volte migliaia) di comparse: «Fire
and Flames» e «Fighting the Flames», in cui le fiamme avvolgevano un
intero edificio prima dell’arrivo degli eroici pompieri. C’erano la farsa, il
circo (→ Tendoni da circo), il vaudeville, il pageant (→), fusi insieme in una
sorta di «fantasmagoria d’ambiente».
E c’era qualcosa di ancor più significativo. A rendere davvero famosi
questi «parchi» furono in modo particolare i mechanical rides, quella serie
incredibile di variazioni sul tema della tecnologia applicata al divertimento
elettrizzante, che andavano sotto il nome di «Roller Coaster», «Loop-the-
Loop», «Shoot-the-Chutes», «Leap Frog Railway». A Coney Island,
s’assisteva cioè a un uso sui generis della tecnologia, che veniva come
staccata dal suo contesto (la realtà urbana, i nuovi mezzi di trasporto, i
nuovi procedimenti lavorativi) e inserita in una dimensione di puro svago:
così, «Loop-the-Loop» richiamava la Sopraelevata, «Shoot-the-Chutes» gli
ascensori, «Leap Frog Railway» i treni ultimo modello. Da nemica potenziale
nell’esperienza quotidiana (il frastuono e gli incidenti, i tempi di lavoro, la
velocità e i ritardi), la tecnologia diventava sorridente alleata di un
pomeriggio o di una sera di abbandono: il tempo di Coney Island era il
tempo della metropoli reso per una volta amico.
In questo universo rovesciato, masse di visitatori di estrazione per lo più
proletaria familiarizzavano con una tecnologia nuova, con la precisione
cronometrica di certi meccanismi, con la necessità di una tempestività e
puntualità di soluzioni che possedevano indubbie valenze sociali. Immigrati
recenti da villaggi sperduti e comunità contadine rivivevano la complessità
della nuova vita metropolitana sotto una luce differente, e il loro
inserimento nel solco dell’American way of life risultava in parte
semplificato. Coney Island diventava allora una sorta di «universo
parallelo».
Le implicazioni erano anche altre. È vero che questi «parchi del
divertimento» nascevano da un progetto di riforma di un’intera area
degradata e rappresentavano una soluzione rispettabile al bisogno di svago
di grandi masse urbane. Ma la trasgressione era pur sempre in agguato.
Specie in un parco come Steeplechase, il preferito dalle classi lavoratrici, le
tensioni erotiche si esprimevano in modo inequivocabile: la vicinanza dei
corpi, il loro essere scagliati qua e là l’uno contro l’altro, il gonfiarsi e
sollevarsi delle gonne, il movimento ritmico costante, le penombre e le
emozioni improvvise, i padiglioni da ballo e i «tunnel dell’amore», erano
occasioni di avvicinamento fra i sessi che altrimenti la vita regolata (e
sorvegliata) della città impediva. A differenza di tanto «spettacolo
popolare» ottocentesco, a Coney Island lo «spettatore» era anche attore,
parte dello spettacolo, dentro l’arena, comparsa e protagonista oltre che
pubblico.
Lo splendore di Coney Island si mantenne intatto fin verso gli anni
trenta, quando – complice la Grande depressione (→) – cominciò ad
appannarsi. Come per il Wild West Show (→) di Buffalo Bill, anche per Coney
Island la concorrenza di nuove componenti della cultura di massa si rivelò
troppo forte. Il definitivo trionfo del cinema e il ruolo sempre più centrale
dell’automobile segnarono il suo declino. Ma se oggi Coney Island ha
cessato di essere il luogo fisico per eccellenza del divertimento (qualche
tentativo di rivitalizzarlo in verità è stato compiuto, ma con scarsi risultati)
e della cauta trasgressione, immortalato all’apice della sua fama dai dipinti
di Reginald Marsh e Joseph Stella, da decine di fotografie che ne ritraggono
la varia e congestionata umanità, esso rimane però un luogo metaforico che
riassume un secolo di tensioni e aneliti. Come tale lo ritroviamo in quel
piccolo gioiello che è il breve film di Morris Engel Il piccolo fuggitivo, del
1953, dove un ennesimo «rito di passaggio» si compie fra le giostre e le
attrazioni; o nel titolo scelto dal poeta Lawrence Ferlinghetti per una sua
raccolta (Coney Island della mente, 1958); o nelle parole con cui l’attore
comico Zero Mostel perseguitato dal maccartismo (→; → Caccia alle
streghe) rievocava la caotica atmosfera della cucina in cui s’era svolta tanta
parte della sua infanzia: «la mia privata Coney Island»; o ancora nel finale
del film di Walter Hill I guerrieri della notte, del 1979, dove la singolare
anabasi della banda in fuga attraverso la città di notte si conclude proprio
sulla spiaggia antistante Coney Island, le rugginose strutture che si
profilano all’orizzonte nell’alba incipiente.
Eppure, eppure… Qualcos’altro rimane, a Coney Island. Nathan’s, lo
spaccio aperto nel 1916 dall’immigrato polacco Nathan Handwerker,
continua a vendere, per la gioia di grandi e piccini, di personalità famose e
di gente comune, i suoi celebri e gustosi Hot Dogs e Frankfurter – tanto
celebri e gustosi che, a quanto si dice, l’attore Walter Matthau avrebbe
lasciato scritto nel testamento di servirli al suo funerale.

BIBLIOGRAFIA
John F. Kasson, Amusing the Million. Coney Island at the Turn of the Century, Hill
& Wang, New York 1978.
Mario Maffi, New York. Ritratto di una città, Odoya, Bologna 2010.
M.M.

Congo Square (New Orleans)


Non trovate Congo Square sulla mappa di New Orleans. Ma trovate Louis
Armstrong Park, che sta là dove si apriva, due secoli fa, questa piazza: al
limitare di una città che in pratica coincideva con quello che è oggi il French
Quarter. Perché parlare allora di Congo Square? E che cos’era questa
piazza? In realtà, meglio sarebbe parlare di «spiazzo», un ampio terrain
vague appena «fuori mura», dove gli schiavi neri delle piantagioni
tutt’intorno avevano il permesso di riunirsi la domenica mattina – unico
luogo e unico momento in cui potessero sentirsi ancora «a casa» cantando e
ballando le musiche originarie d’Africa (la bamboula, il congo, la calinda),
suonate con tamburi e strumenti tradizionali altrimenti proibiti (il
progenitore del banjo). Nei primi decenni dell’Ottocento, alcuni visitatori
riportarono di aver udito queste musiche mescolarsi ad accenti che
ricordavano motivi spagnoli e francesi, o risuonare non lontano dagli isolati
in cui immigrati recenti (per esempio, tedeschi o italiani) suonavano le loro
canzoni: un processo di singolare, sotterranea ibridazione era in corso, e
Congo Square ne costituiva il cuore. A questo punto, bisogna andare
indietro nel tempo, perché la storia di Congo Square è la storia di New
Orleans, o meglio: della città che nacque come La Nouvelle Orléans nel 1718.
A quell’epoca, l’intera valle del fiume Mississippi (→ Vie d’acqua) era
possedimento francese, e fu così che in quel 1718 Jean Baptiste Sieur de
Bienville disegnò e costruì un primo insediamento, battezzandolo in onore
di Luigi Filippo duca di Orléans e principe reggente di Francia (varie dicerie
accompagnano da allora il fatto che il nome fosse al femminile: ma lasciamo
stare). Il piccolo reticolo di strade e isolati sorse su terre abitate da tribù
native della Famiglia Muskhogean: su un’ansa del Mississippi a forma di
mezzaluna (= crescent, da cui uno dei soprannomi della città: «The Crescent
City»), a una novantina di miglia dalla foce, in una sorta di basso catino
paludoso, fra zanzare, cipressi e alligatori.
Difficile trovare un luogo meno adatto per la fondazione di una città.
Eppure così avvenne: forse perché in quell’ultima grande ansa la corrente
del fiume rallentava dando l’impressione che tutto potesse risultare «più
facile» («The Big Easy» diventerà l’altro celebre soprannome). Di lì, erano
passati gli spagnoli di Hernando De Soto, al termine della loro drammatica
discesa del Mississippi nel 1542; e poi Robert Cavelier Sieur de La Salle nel
1682, sul punto di dichiarare l’intera vallata «dominio del re di Francia»; e,
nel 1699 e questa volta dal mare, i due fratelli Le Moyne nati in Québec –
Pierre Sieur d’Iberville e, per l’appunto, Jean Baptiste Sieur de Bienville. Nel
1716, ci aveva poi messo lo zampino il finanziere scozzese John Law al
servizio della Corona francese, con il grande schema di speculazione
terriera che prevedeva un solido insediamento non lontano dalle foci: il
luogo migliore era indicato in un’area compresa tra il fiume e il Lake
Pontchartrain, che assicurava più di un collegamento acquatico con
l’interno e un facile sbocco al mare. Se non era ideale dal punto di vista
climatico e sanitario, il sito lo era da quello logistico-strategico: nacque così
La Nouvelle Orléans – sotto il livello del fiume e del mare, esposta alle furie
dell’uno e dell’altro.
Che non tardarono a farsi sentire: mentre la città era ancora in
costruzione, il Mississippi esondò con tale violenza che, per qualche tempo,
si pensò di spostarla altrove; ma non se ne fece nulla, e l’architetto in capo
(Pierre Blond de la Tour) ripiegò sulla costruzione di argini, di quei levees
(→) che sarebbero rimasti centrali nella storia e nell’iconografia dell’intera
regione: nel giro di una quindicina d’anni, ne furono innalzati lungo 30
miglia di fiume a monte e 12 a valle. Ma le cose non si risolsero facilmente:
un’altra piena nel 1721, accompagnata da un furibondo uragano,
semidistrusse la città; altri disastri seguirono, specie nei primi anni
dell’Ottocento: inondazioni, una sequenza di epidemie di colera e febbre
gialla, un fiume che mutava di corso e direzione, argini sempre più solidi e
alti che risolvevano i problemi al momento, riproponendoli però ingigantiti.
A fine Settecento, comunque, La Nouvelle Orléans era ormai costituita da
un reticolo di sessantasei isolati rettangolari (undici in larghezza e sei in
profondità, 1,2 chilometri per 500 metri), corrispondente all’odierno French
Quarter o Vieux Carré: case a uno-due piani, architettura francese (o
spagnoleggiante: sono anni in cui il dominio della regione passa di continuo
dalla Francia alla Spagna e di nuovo alla Francia), colori pastello, artistiche
balconate in ferro battuto o in ghisa, una piazza a metà del fronte che dà sul
fiume (la Place des Armes: ribattezzata, dopo il 1803, Jackson Square), una
bianca cattedrale con un campanile per lato – un disegno equilibrato,
pulito, razionalmente settecentesco. In quei sessantasei isolati (ciascuno
suddiviso in maniera altrettanto regolare in stretti edifici disposti intorno a
un cortile, con stalle e dépendances), abitavano i francesi e gli spagnoli che
per decenni si alternarono alla guida della città: prima un’accozzaglia di
soldati ed emigranti in cerca di fortuna, ladri e prostitute scaraventati sul
suolo americano per ovviare al sovraffollamento delle galere europee; poi le
filles à la cassette invogliate a emigrare grazie a una dote per ovviare a una
preoccupante carenza di donne; infine, quella che diventerà un’orgogliosa
aristocrazia di ricchi proprietari terrieri, piantatori di cotone e tabacco,
padroni di schiavi – che a New Orleans saranno noti come «creoli», i ricchi
discendenti degli originali coloni europei.
Uragani, inondazioni, epidemie, incendi, rivolte di schiavi, guerre: la vita
della città nel Settecento fu difficile e turbolenta. Ma l’aggressione più
disturbante si ebbe a partire dal 1803, quando la «Louisiana» (allora, l’intera
Valle del Mississippi) fu venduta per pochi soldi da Napoleone agli
americani: e avvenne sotto forma di una sorta di «calata di barbari», come
vennero visti gli yankees (→) dagli altezzosi creoli – battellieri e uomini
della frontiera, rozzi, violenti, vocianti. E quando, dall’interno della recente
comunità americana, si enucleò un’«aristocrazia del censo», la separazione
nella città restò netta, tanto da venir sanzionata con la creazione, lungo il
lato sudovest del French Quarter, di Canal Street, la «strada più larga
d’America», a fungere da «territorio neutrale» fra le due comunità. Intanto,
fra il 1811 e il 1815, si apre e si chiude il secondo capitolo della Rivoluzione
americana (→) (il terzo e conclusivo sarà, sotto molti aspetti, la Guerra
civile [→] – e anche in essa la città e i suoi dintorni ebbero un ruolo
importante, proprio per la collocazione geostrategica), culminante – a pace
già firmata! – nella battaglia di New Orleans: un’Armata Brancaleone di
yankees deve chiedere aiuto alle tribù choctaw e al vasto e bene organizzato
esercito dei pirati guidati dai fratelli Lafitte (→ Barataria), per sbaragliare
gli inglesi appena fuori città.
Ottomila abitanti nel 1790, 10mila nel 1803, 41mila nel 1820, 175mila nel
1860 (di cui un buon 40% nato all’estero), 250mila nel 1880: New Orleans fu
sempre città-crocevia, d’incontri e intersezioni, come leggiamo nelle opere
di Kate Chopin o di George Washington Cable, raffinate voci del tardo
Ottocento. Vi arrivarono gli aristocratici in fuga dall’Europa rivoluzionaria
o da Haiti-Santo Domingo incendiata dalla rivolta degli schiavi guidata da
Toussaint L’Ouverture; i neri in ceppi dall’Africa occidentale e dai Caraibi;
le «Free Persons of Color» liberate dai loro padroni e spesso proprietarie di
schiavi del medesimo colore; i creoli bianchi e quelli mulatti; i cajun (→) dal
Canada; quel che rimaneva delle tribù locali di Native Americans (choctaw,
chickasaw, chitimacha); gli yankees o «Kaintucks», come venivano anche
chiamati in tono spregiativo, in cerca di rapide ricchezze simboleggiate dai
biglietti da 10 dollari stampati dalla Citizens’ Bank of Louisiana-Banque des
Citoyens de la Louisiane (→ Dixie); gli ex schiavi relegati nelle catapecchie
dei quartieri poveri (back-a-town: di lì sarebbero venuti personaggi famosi
come Louis Armstrong e Mahalia Jackson). E poi gli immigrati: tedeschi
«importati» da John Law e, allo scoppio della «bolla immobiliare»,
abbandonati lungo quella che divenne nota come la Côte des Allemands,
qualche miglio a nord, in riva al Mississippi; irlandesi che, in una regione
dominata dalla schiavitù, dovevano ripiegare sui lavori più massacranti e
malsani lungo canali e argini; e, dopo la Guerra civile, italiani impiegati nel
piccolo commercio della frutta e della verdura (e non sempre bene accetti:
nel 1891, incarcerati con l’accusa di essere membri della Mano Nera e
responsabili dell’omicidio del capo della polizia Hennessy, undici italiani
furono prelevati a forza dalla prigione da una folla di «cittadini
benpensanti» – nove uccisi a fucilate nel cortile, due impiccati a un albero e
a un lampione nelle strade cittadine).
La pressione esercitata da questa composita popolazione sull’esclusivo
French Quarter a un certo punto si fece troppo forte. I creoli dunque
l’abbandonarono e si rifugiarono nell’area oltre Canal Street e
l’insediamento yankee: a sudovest, in un quartiere che prese il nome di
Garden District, ancor oggi luogo di grandi magioni, di fitti giardini, di
sospensione del tempo, di potere e ricchezza molto reali. Così, fra Ottocento
e Novecento, mentre gli isolati fra Basin Street e Storyville (→, il «quartiere
a luci rosse» appena ai margini del French Quarter) si gonfiavano
inghiottendo Congo Square, fra bordelli e saloon in cui cominciava a
fremere una nuova musica detta jass, il cuore originario di New Orleans
divenne cadente luogo d’immigrazione e poi piccola colonia d’artisti, da
Sherwood Anderson a William Faulkner e a Tennessee Williams. E tale
rimase fino a dopo la Seconda guerra mondiale, quando il boom economico
se ne impadronì, facendone un quartiere in prevalenza turistico e d’élite,
ma conservando molte delle contraddizioni originarie: una Bourbon Street
all’insegna del richiamo più volgare per la massa incessante di visitatori, le
viuzze laterali in cui si respira ancora un’atmosfera ottocentesca, i grandi e
ricchi alberghi e quelli più piccoli dal passato a volte equivoco (quale di essi
era stata la «House of the Rising Sun», la «casa del sole nascente» di cui si
parla nell’omonima, celebre canzone?), le attrazioni del Mardi Gras con il
suo complesso groviglio di rituali, i pochi templi ancora incorrotti del jazz
più o meno tradizionale (la Preservation Hall su St. Peter Street), i locali
densi di storia popolare (il Lafitte’s Blacksmith Shop su Bourbon Street, la
Napoleon House su Chartres Street), le librerie in cui risuonano ancora i
passi di scrittori e scrittrici (il Faulkner House Bookshop di Pirate’s Alley), i
richiami a culture popolari di continuo ibridate nel tempo (la tomba della
regina del voodoo Marie Laveau, i negozietti di oggetti «mistici», il ricordo
dei racconti tardo-ottocenteschi sulle «strane storie» cittadine), il maestoso
lungofiume come luogo incessante di negoziazioni sociali fra le classi, di
peregrinazioni artistiche e di creazioni musicali, il French Market con le sue
esotiche bancarelle e il Café du Monde con il suo nerissimo caffè e i beignets
cosparsi di candido zucchero a velo, le permanenze seminascoste ma
suggestive delle continue sovrapposizioni di ondate d’immigrati (come si
può leggere, per esempio, nel romanzo di William Faulkner Zanzare, del
1927), le tracce – non sempre facili da dipanare al di sotto del color locale e
del facile turismo – di un passato di guerre (contro i Native Americans a fine
Settecento, contro gli inglesi nel 1811-1813), di strane alleanze e lealtà (la
vasta comunità di pirati dei fratelli Lafitte, il mito di Napoleone), di
leggende sospese tra realtà e fantasia, di racconti soprannaturali (i vampiri,
i lupi mannari), il fascino gotico dei suoi cimiteri.
Oltre i confini del French Quarter, New Orleans è anche la «città altra»
dei sobborghi di Algiers, Gretna, Arabi, Metairie, Michoud, Harahan,
Marrero – nomi evocativi di viluppi etnici, di altre storie e altri sentieri – o
del Lower 9th Ward, la circoscrizione a maggioranza afroamericana
semidistrutta dall’uragano Katrina del 2005. Al tempo stesso, è la città della
ricchezza e della potenza politico-finanziaria che spesso viene da lontano
(dal tempo della schiavitù e del post-schiavitù, dall’epoca del
Proibizionismo [→], dal boom economico del secondo dopoguerra) e da
molto vicino (dalle geografie equivoche di una città che è grande porto
mercantile e grande attrazione turistica), la città del fitto e inquietante
intreccio di affari legali e illegali che ne fa una delle metropoli più violente e
corrotte degli Stati Uniti (non era proprio questo uno dei capolinea
dell’inchiesta condotta dal procuratore distrettuale Jim Garrison
sull’uccisione di J.F. Kennedy, in alternativa a quella ufficiale?). Non a caso,
è qui o negli immediati dintorni che sono ambientati alcuni dei noir
contemporanei di maggior interesse anche letterario, come i romanzi di
James Sallis, di James Lee Burke, di Chris Wiltz. Forse aveva ragione Blanche
DuBois, in Un tram che si chiama desiderio (1947) di Tennessee Williams: «Le
campane della cattedrale – l’unica cosa pulita del Quarter». Un universo
intricato e fascinoso, dunque, di facile esotismo ma anche di disturbanti
realtà, che mescola suggestioni diverse e ha il sapore inebriante e dolciastro
delle magnolie e della frutta che matura, fermenta e deperisce: un universo
narrato da tantissimi autori (oltre a Faulkner e Williams, Zora Neale
Hurston, Lillian Hellman, Nelson Algren, Anne Rice, Ellen Gilchrist) e in due
romanzi-chiave come L’uomo che andava al cinema di Walker Percy (del 1961)
e Una banda di idioti di John Kennedy Toole (del 1980, postumo).
Ma soprattutto New Orleans è la città affacciata sul grande Lake
Pontchartrain e attraversata dal sinuoso e maestoso Mississippi: una città-
isola racchiusa da acque incombenti da ogni dove, da nord e da sud,
dall’alto e dal basso, una città in costante attesa della catastrofe. E, in effetti,
per tutta la sua storia, New Orleans è rimasta impigliata nei due estremi,
spesso convergenti, di una solare gioia di vivere e di un’angosciosa
contiguità con la distruzione: forse, uno dei simboli di questa duplice
condizione sta nel modo in cui vi si svolge il tradizionale funerale
afroamericano, con un’andata all’insegna della tristezza sconsolata per la
perdita e un ritorno che vede l’esplosione dell’allegria per ciò che i defunti
hanno lasciato a chi sopravvive. Non è un caso che uno dei suoi soprannomi
sia per l’appunto «The Big Easy» (e così è intitolato anche un film poliziesco
di Jim McBride, del 1987) e uno dei pezzi più celebri del repertorio dei
musicisti indigeni s’intitoli «Let the Good Times Roll»; e che, al contempo,
uno dei «luoghi» più significativi della città sia costituito dai numerosi – e
pericolosi per chi vi si avventuri in solitudine – cimiteri: su cui molto ebbe a
dire, nella sua maniera iconoclasta, Mark Twain in Vita sul Mississippi (1883).
Il rapporto complesso con il fiume segna dunque la realtà di New
Orleans: le inondazioni si succedettero spaventose per tutto l’Ottocento e
nel secolo successivo culminarono in quelle del 1927 e del 1937, che
minacciarono da vicino la città, devastando ampie zone circostanti e
rendendo necessaria la rottura artificiale degli argini in più punti per lasciar
sfogare la furia delle acque. Le vicende legate prima all’uragano Katrina,
con i disastri prodotti e le aspre polemiche che l’accompagnarono (i ritardi
negli interventi d’autorità, la militarizzazione del territorio,
l’ammassamento di migliaia di persone nello stadio cittadino in condizioni
proibitive, la distruzione dei quartieri più poveri), e poi all’incidente della
piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum al largo della costa
della Louisiana nel 2010 sono solo i capitoli più recenti di questa storia
complessa, drammatica e contraddittoria.
Sempre Blanche DuBois, persa nel suo mondo irreale di sogni, aneliti,
speranze, dava tuttavia della città una definizione calzante: «Non li ami,
quei lunghi pomeriggi di pioggia a New Orleans, quando un’ora non è
soltanto un’ora, ma un pezzetto di Eternità che ti cade in mano – e non sai
poi che cosa fartene?».

BIBLIOGRAFIA
Ari Kelman, A River and Its City. The Nature of Landscape in New Orleans,
University of California Press, Los Angeles 2003.
Mario Maffi, Mississippi. Il Grande Fiume. Un viaggio alle radici dell’America, il
Saggiatore, Milano 2009.
Ned Sublette, The World That Made New Orleans. From Spanish Silver to Congo
Square, Lawrence Hill Books, Chicago 2008.
M.M.

Covenant
Accordo, patto: questo significa la parola inglese covenant (dal participio
presente del francese convenir, dal latino convenire), e per cogliere la sua
importanza all’interno della cultura americana occorre risalire ai Padri
Pellegrini o, ancora più indietro, alla Bibbia. È infatti nelle Scritture, più
precisamente nella Genesi, che i calvinisti e i presbiteriani della Chiesa
riformata protestante trovano il primo esempio di un «patto» tra Dio e
l’uomo. Com’è stato in principio tra Dio e Abramo («Eccomi: la mia alleanza
è con te e sarai padre di una moltitudine di popoli», Genesi 17,1-8) così sarà
per le congregazioni puritane in rotta verso il Nuovo mondo: la loro
missione rigeneratrice (che si propone di ricreare un modello cristiano
migliore di quello europeo) nascerà sotto gli auspici non già di un biblico
fiat, ma di un covenant: un patto stipulato, per così dire di comune accordo,
con Dio.
Si diceva dunque dei Padri Pellegrini, quel gruppo di «dissenzienti»
inglesi che, già precedentemente fuggiti in Olanda, partirono per l’America
nel settembre 1620, salpando dalla città inglese di Plymouth, nel Devon, a
bordo della nave Mayflower. Approdati, nel novembre dello stesso anno, a
Cape Cod, sulle coste del New England, in più di cento tra quei «pellegrini»
firmarono il Mayflower Compact, una sorta di contratto sociale con cui si
impegnavano a costituirsi come corpo politico in grado di governare e
amministrare quell’insediamento coloniale delle origini, Plymouth Colony,
secondo i principi del bene comune. Se il Mayflower Compact fu dunque un
patto volontario, santificato da Dio, di responsabilità collettiva, e un rituale
destinato a perpetuarsi nella storia del paese ben al di là del periodo
coloniale, la seconda rielaborazione americana del covenant biblico sarebbe
giunta un decennio più tardi, con la cosiddetta «Great Migration» puritana
(da non confondere con la Great Migration dei primi decenni del
Novecento, che interessò l’esodo interno degli afroamericani dal Sud al Nord
e al Midwest degli Stati Uniti). I più celebri protagonisti di questa seconda
ondata di puritani provenienti dalla madrepatria furono i passeggeri della
Arbella, capitanati da John Winthrop che, ancora sulla nave, scrisse «A
Model of Christian Charity», anche noto come il sermone della «Città sulla
Collina» (→) per la pregnanza dell’immagine sulla quale si conclude.
Esemplare, secondo il disegno di John Winthrop, sarebbe dovuta essere la
gestione teocratica della Nuova terra promessa, il New England, per mano
di una comunità di «santi visibili», ovvero di persone dalla moralità
irreprensibile. Dovendosi misurare con le mutate condizioni sociali sulle
orme dell’esempio inflessibile dei coloni puritani di prima generazione, la
seconda e la terza generazione cominciarono a nutrire quel senso di
inadeguatezza e di decadenza che, informando la geremiade (→), sarebbe
poi sfociato nel cosiddetto Half-Way Covenant, il tentativo di riformare la
chiesa puritana spingendola a una maggiore apertura verso i fedeli.
Promosso dal reverendo Solomon Stoddard ed entrato in vigore nel 1662, lo
Half-Way Covenant poneva l’enfasi sull’esperienza (e non
sull’insegnamento teologico) di conversione e di rinascita («born-again»)
spirituale, introducendo un elemento destinato a restare centrale nelle due
ondate del movimento revivalista chiamato «Great Awakening»: la prima,
attorno agli anni trenta del Settecento, riconducibile alla figura di Jonathan
Edwards (1703-1758, nipote di Stoddard) e comunque interna alla comunità
del New England; la seconda, all’inizio dell’Ottocento, allargata alle regioni
del paese fino a quel momento escluse dalla teologia puritana, vale a dire
dalla Virginia alla costa atlantica meridionale (dove coincise con la
conversione di molti schiavi neri) e i nuovi territori della Frontiera (→).
Posta la natura a un tempo teologica e pratica dei vari covenant sui quali
si scandì la vita delle colonie nordatlantiche, se dai «santi visibili» del
Massachusetts – gli stessi che diedero vita alla «caccia alle streghe» di
Salem (→) – passiamo ai padri fondatori della Repubblica (Benjamin
Franklin, George Washington, Thomas Jefferson, John Adams ecc.), il lascito
maggiore del Mayflower Compact e del Covenant di John Winthrop va
cercato nel pensiero politico: per fare solo due esempi novecenteschi,
ricordiamo qui il Covenant of the League of Nations voluto da Woodrow
Wilson dopo la Prima guerra mondiale e il New Covenant with America di
Bill Clinton. L’idea di un’alleanza collettiva che leghi il governo ai propri
cittadini – e viceversa – è infatti ben dentro le formule scelte dalla
generazione «rivoluzionaria» nella stesura della Dichiarazione
d’indipendenza del 1776 e della Costituzione del 1787. Si tratta, in ambo i
casi, di un accordo volontario e condizionato: valido, cioè, soltanto nella
misura in cui il governo rispetti i diritti inalienabili del popolo – il quale, nel
caso si sentisse tradito, avrebbe il diritto di ribellarsi. Rientra dunque in una
consuetudine storica e in un rituale sacro (il covenant, per l’appunto) il
cardine attorno al quale ruotano i documenti fondanti della democrazia
statunitense. Ed è forse il carattere per sua natura incompleto e
costantemente perfettibile del covenant americano (modalità biblica aperta
alla contingenza storica) a spiegare l’infinita mutabilità di quella
democrazia fondata su una Costituzione passibile di continui emendamenti.

BIBLIOGRAFIA
Sacvan Bercovitch, America puritana, a cura di Giuseppe Nori, Editori Riuniti,
Roma 1992
Donald Pease, The New American Exceptionalism, University of Minnesota
Press, Minneapolis 2009.
Kenneth D. Wald, Allison Calhoun-Brown, Religion and Politics in the United
States, Rowman and Littlefield, Oxford 2007.
C. SCAR.
Cowboy
Al di là dell’aura romantica che gli fu conferita prima dalla letteratura e poi
dal cinema, il cowboy (o cowpuncher, cowpoke, buckaroo, wrangler) era in
realtà un salariato a cavallo che svolgeva un lavoro duro, in territori solitari
e lontani, con scarse sicurezze per l’avvenire. Inoltre, mentre letteratura e
cinema c’inducono a credere che la sua figura sia stata una costante nel
panorama socioculturale statunitense, egli visse in realtà il periodo d’oro
solo per una generazione o poco più, nel quarto di secolo successivo alla
Guerra civile (→). Ma procediamo con ordine.
Quando penetrarono nel continente nordamericano, gli spagnoli vi
introdussero tre animali: il maiale (che sarebbe diventato ingrediente
principe della cucina del Sud, specie di quella afroamericana), il cavallo (che
si diffuse con rapidità anche fra le tribù delle Grandi pianure) e la vacca (le
prime sei mucche più un toro sarebbero arrivate a Vera Cruz nel 1521,
antenate di quella razza che tre secoli abbondanti più tardi avrebbe fatto la
fortuna del Texas – le longhorns, le «corna lunghe»). Lasciati al pascolo
brado nelle praterie del Sud e del Sudovest, i bovini si diffusero presto; e,
quando quelle regioni passarono agli Stati Uniti dopo decenni di turbolenze
(→ Alamo), se ne iniziò l’allevamento.
Lo scoppio della Guerra civile ebbe conseguenze importanti anche in
questo campo: da un lato, per la necessità stessa di nutrire le truppe
l’allevamento fu ancor più incoraggiato; dall’altro, la penuria di uomini da
dedicarvi in tempi di guerra fece sì che le mandrie venissero sovente
abbandonate a loro stesse e dunque si moltiplicassero con rapidità anche
maggiore. Alla fine della guerra, il numero dei capi nei pascoli del Sud
raggiungeva cifre impressionanti: una riserva quasi illimitata per l’industria
conserviera del Nord con centro Chicago (→ Porkopolis) e di conseguenza
un gigantesco business potenziale.
C’erano però due problemi da risolvere: le mandrie lasciate allo stato
brado andavano di volta in volta riunite (ciò che, con termine spagnolo, era
detto reata: il raduno), marchiate per rilevarne la proprietà e avviate verso il
nord lungo alcuni tratturi (→ Piste e sentieri), di cui i più celebri erano la
Pista Chisholm che conduceva ad Abilene (→ Tombstone, Abilene, Dodge
City), la Pista Bozeman che arrivava fin nel Wyoming e la Pista di Santa Fe
che collegava il New Mexico a Kansas City e Independence, nel Missouri. Al
termine dei tratturi, le mandrie erano vendute, caricate su carri o vagoni
merci e trasportate ai macelli.
Per risolvere questi due problemi era nato (evolvendosi dal vaquero
spagnolo e messicano) il cowboy, il «ragazzo delle vacche» – per l’appunto,
un salariato a cavallo. A lui spettava il compito del raduno, della
marchiatura, dell’accompagnamento verso nord nei mesi primaverili ed
estivi, su e giù da altopiani, attraverso pianori e praterie, attento a
difendere le mandrie dall’assalto di animali, di predoni e di indiani. Giunto a
destinazione, dopo aver ricevuto una paga tutt’altro che entusiasmante (tra
i 20 e i 40 dollari al mese: ma i cowboys di origine messicana prendevano di
meno, intorno ai 15 dollari), per qualche giorno dimenticava le asprezze
della transumanza nei saloon e nei bordelli delle cittadine di frontiera; poi,
faceva ritorno alla base, negli estesi allevamenti del Sud (Texas in primis),
per i lavori necessari ai prossimi raduni e in attesa dei lunghi mesi
invernali, quando era letteralmente a spasso, senza paga e per lo più senza
un luogo dove risiedere. Lavoro duro, solitario, incerto, pericoloso, esposto
ai mille imprevisti della pista e fondato su un patto di fedeltà al padrone (il
grande allevatore o chi, in sua assenza, ne gestiva la proprietà) che si
configurava come un autentico ricatto. La romanticizzazione del cowboy
venne poi, grazie ai romanzetti popolari (→ Dime novels) e infine al
cinema, quando il cowboy come figura sociale era quasi scomparso o s’era
di molto trasformato.
In quanto salariato a cavallo, il cowboy aveva i suoi attrezzi, i suoi
strumenti di lavoro. Il cavallo rappresentava naturalmente lo strumento
principale (e ciò spiega anche la normativa, non sempre scritta ma severa,
che regolava la proprietà dei cavalli nel vecchio West): gli animali dovevano
essere agili e al tempo stesso robusti, ma, avendo come unica dieta l’erba
delle praterie e dovendo sottostare a prove pesantissime, si stremavano
presto e andavano cambiati di frequente (la doma dei cavalli bradi – il
bronco busting – rientrava nel «mansionario» del cowboy). E così, se le
mandrie di bovini rappresentavano il business centrale, seconde per
importanza erano senza dubbio – per tutte le esigenze della Frontiera (→) –
quelle dei cavalli, e anche questo lasciò tracce profonde nella cultura
statunitense: si pensi alla mitologia in negativo legata in quei decenni al
«furto di cavalli» o, in tempi recenti, alle atmosfere aspre e crudeli della
«Trilogia della frontiera» di Cormac McCarthy, che ambienta i tre romanzi
Cavalli selvaggi (1992), Oltre il confine (1994), Città della pianura (1998), fra
Messico e Texas, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale.
L’altro strumento di lavoro fondamentale era, com’è ovvio, la sella, che
il cowboy si procurava a sue spese: doveva essere comoda (date le lunghe
ore di lavoro), pratica e resistente (al pomo si usava fissare il lazo durante la
cattura dei capi) e fornita di due staffe chiuse sul davanti per impedire allo
stivale di scivolare, di ampie bisacce laterali per gli attrezzi minuti e
l’occorrente per il viaggio e della fodera per il fucile (→ Colt & Winchester).
I larghi cosciali in pelle di capra scamosciata che coprivano i pantaloni, i
guanti, la spessa camicia di flanella, il cappello a larghe tese per ripararsi da
sole e pioggia, un fazzolettone per asciugare il sudore e proteggere la bocca
dalla polvere, gli stivali e gli speroni (insieme alla sella, due elementi
distintivi, per i quali il cowboy era pronto a spendere buona parte del magro
salario), completavano l’abbigliamento. C’erano quindi, di grande
importanza, un robusto coltello – in genere un Bowie knife (→), per la sua
polifunzionalità – e la rivoltella: per lo più una six-shooter, una sei-colpi (→
Colt & Winchester), detta anche «Black-Eyed Susan» («Susanna dall’occhio
nero»), che serviva sia in caso di spiacevoli incontri lungo la strada sia per
accompagnare le urla al momento della reata (o per cercare di impedire o
sviare una stampede →).
Esisteva anche un altro strumento di lavoro, molto particolare e per lo
più dimenticato o trascurato, o preso in considerazione per tutt’altri motivi.
Un’ampia sezione della canzone popolare americana (→ Newport Folk
Festival) è costituita da cowboy songs: titoli celebri come «Poor Lonesome
Cowboy», «Git Along, Little Dogies», «As I Walked Out in the Streets of
Laredo», «The Trail to Mexico», «When the Work’s All Done This Fall»,
«The Lone Star Trail», «The Trail to Mexico» – spesso malinconiche
riflessioni su una vita solitaria, lontana dagli affetti, monotona e faticosa.
Ma, al di là della vena malinconica, anche questi erano, a ben vedere, work
songs, canti di lavoro: la sera, quando ci si accampava vicino al fuoco, la voce
umana serviva a rassicurare e calmare la mandria, a fornirle un punto di
riferimento e, al mattino, quando si trattava di radunarla e riprendere il
viaggio, a risvegliarla e spronarla. Di qui, anche certe caratteristiche
musicali di queste cowboy songs, fra il melodioso e lo stridente, un po’
crooner e un po’ yodel.
Sebbene i casi non fossero frequenti, il cowboy poteva anche essere una
cowgirl. Le esigenze della vita sulla frontiera finivano per erodere, in questo
come in altri campi, le tradizionali convenzioni di genere: segno di questa
presenza forte della donna sulla frontiera è il fatto che il Wyoming, stato di
grandi allevamenti di bovini, concedesse il voto alle donne fin dal 1869 (uno
dei personaggi più famosi del Wild West Show [→] fu Annie Oakley, abilissima
nella monta e nell’uso del fucile). E, come s’è detto, specie nelle regioni di
confine del sudovest, il cowboy poteva essere di origine messicana, assunto
a condizioni peggiori rispetto ai suoi omologhi yankee; oppure (cosa meno
nota) afroamericano: in seguito alla Guerra civile, molti ex schiavi in cerca
di lavoro lo trovarono nelle schiere di cowboys, fra i quali vigeva un senso di
cameratismo che (entro certi limiti) arginava eventuali tentazioni razziste;
così, nel quarto di secolo d’oro della storia di questa figura, dei 30mila
cowboys attivi nel Texas un buon 20% era afroamericano, specializzato nel
bronco busting o nell’ancor più pericoloso bull dogging, consistente nel
balzare da cavallo su un bovino, circondargli il collo con un braccio,
afferrargli il corno dalla parte opposta e piegargli la testa in quella
direzione, costringendolo così a fermarsi.
Ora, se c’è il salariato (sia pure a cavallo), vuol dire che c’è il capitale. E il
capitale c’era, eccome: ed era la grande azienda d’allevamento, il grosso
proprietario terriero, che – specie nei decenni post-Guerra civile – sarà
imprenditore capitalista, non importa se, in molti casi, assenteista (lo erano
sovente anche i robber barons →), con potentissime organizzazioni come la
Panhandle Stock Association in Texas o la Wyoming Stock Growers
Association. Tanto per fare un esempio cinematografico (basato su un
romanzo di Edna Ferber del 1952), Rock Hudson in Il gigante (regia di George
Stevens, del 1956) impersona proprio uno di questi grandi capitalisti texani
delle vacche, contrapposto a quello che diventerà presto il parvenu del
petrolio, James Dean. La potenza di queste organizzazioni padronali era
enorme, anche per i legami economici e politici intrattenuti con i gruppi di
potere dell’Est, e si faceva sentire di continuo: per esempio, contro i piccoli
contadini e allevatori con le loro fattorie a conduzione familiare sparse
nelle Grandi pianure (→) e nel Sudovest. In un caso celebre, la «Johnson
County War» del 1895, si giunse nel Wyoming sull’orlo di un’autentica
guerra civile – vicenda narrata nello sfortunato film di Michael Cimino I
cancelli del cielo, del 1980, mentre un altro famoso film che riprende il tema
dello scontro fra proprietari terrieri e piccoli contadini, e del ruolo
complesso giocato al suo interno dai cowboys, è Shane di George Stevens, del
1953 (Il cavaliere della valle solitaria, dal romanzo omonimo di A.B. Guthrie Jr.,
ambientato anch’esso nel Wyoming a fine Ottocento).
D’altra parte, il conflitto si manifestò pure fra allevatori e cowboys, per
quanto nuova possa apparire la cosa, anche se, per tante cause, esso fu
secondario rispetto ai conflitti di lavoro di quegli stessi decenni post-Guerra
civile (→ Sciopero!). Alcuni fattori tendevano a moderarlo: da un lato, la
dispersione e mobilità di questa manodopera sui generis, che impediva forme
stabili di organizzazione alimentando al contempo un modo di vivere
all’insegna di un esasperato individualismo; dall’altro, quel patto di fedeltà
con il padrone da cui si dipendeva in maniera totale, un autentico ricatto
che a volte spingeva i cowboys ad agire come squadracce punitive nei
confronti di allevatori rivali o di piccoli contadini che resistevano
all’avanzata della grande proprietà o di intere cittadine ostili (il cinema
western ci mostra di frequente questa situazione, ammantandola dell’aura
mitica dello scontro fra «buoni» e «cattivi»); infine, la precarietà del lavoro,
il suo carattere stagionale, che facevano sì che un ampio numero di cowboys
fosse licenziato nei mesi autunnali e invernali (per essere riassunto, se
andava bene, all’inizio della primavera), andando a volte a ingrossare la
schiera disperata dei ladri di mucche e cavalli o dei pistoleros (negli anni
ottanta, a Tombstone e dintorni, il termine «cowboy» stava a indicare un
fuorilegge; e «The Cowboys» era il nome di una banda di contrabbandieri di
bestiame e di alcol sulla frontiera messico-americana). Con tutto ciò, le
condizioni di vita e di lavoro erano tali da spingere il «ragazzo delle
mucche» a scendere in sciopero in almeno tre occasioni (è possibile che i
casi siano stati anche più numerosi, ma la difficoltà della ricostruzione
storica è evidente; fra l’altro, molti probabilmente si intrecciarono a
conflitti di lavoro più ampi, coinvolgenti altre figure, come la manodopera
stagionale dei raccolti ecc.). Dopo un primo sciopero nel 1882 nel Comanche
Pool Ranch del Kansas, nel 1883 lo sciopero nel Panhandle (la regione a
forma di «manico di padella» che corrisponde alla parte settentrionale del
Texas) mobilitò all’incirca 200 cowboys impiegati dai maggiori ranch
dell’area: le rivendicazioni riguardavano un aumento di salari, ma anche un
rancio migliore del solito piatto di fagioli e la possibilità di marchiare
qualche animale non di proprietà (= maverick) di cui disporre
individualmente e da far pascolare sulle terre pubbliche occupate dagli
allevatori. La risposta di questi ultimi, organizzati nella Panhandle Stock
Association, fu immediata e durissima: i salariati in sciopero furono
costretti ad abbandonare i ranch e ad accamparsi sulla prateria, da cui
furono poi sloggiati da reparti dei Texas Rangers. Tre anni dopo, uno
sciopero analogo si verificò nel Wyoming: una fase di crisi nel settore
convinse gli allevatori a rifarsi sulla manodopera, riducendo di molto i posti
di lavoro e i salari. A Cheyenne, fu dunque fondato un sindacato dei cowboys
e fu proclamato lo sciopero, con la richiesta di un aumento di 5 dollari (in
realtà, si trattava di ripristinare il livello salariale antecedente).
L’agitazione, fatta coincidere con gli inizi della primavera e sostenuta da
tutti i cowboys dei tre distretti coinvolti grazie anche a una diffusa
mobilitazione, ebbe subito successo; ma di nuovo gli allevatori risposero
annunciando che nessuno dei cowboys scesi in sciopero sarebbe stato
riassunto nel Wyoming. Altri scioperi seguirono, in ranch isolati, fra il 1886
e il 1887, nel Wyoming e nel Colorado: ma la difficoltà di formare
organizzazioni stabili e di collegarsi con altri settori di lavoratori in lotta li
rese episodi effimeri. La crisi economica degli anni 1886-1887 fece sì che, dal
disastro di molti allevatori piccoli e medi, emergessero autentiche
concentrazioni, contro le quali risultava molto difficile battersi. Inoltre, la
fine di un’epoca era vicina, e fu segnata dall’avvento delle ferrovie e
dall’introduzione del filo spinato: le prime si diffusero rapidamente, a fine
anni ottanta dell’Ottocento, anche nelle regioni lontane del Texas e del
Wyoming, rendendo superflue le lunghe transumanze dei due decenni
precedenti (→ Promontory Point); il secondo, delimitando in maniera
drastica le proprietà, riduceva gli spazi liberi e aperti della Grandi pianure
(una drammatica riflessione novecentesca su quest’evento si ha nel film del
1962 Solo sotto le stelle, di David Miller).
A quel punto, si chiudevano le piste per il cowboy, ma si apriva la strada
per la sua romanticizzazione letteraria e cinematografica: prima con i dime
novels e poi con i romanzi e i racconti di Owen Wister, Zane Grey, A.B.
Guthrie, Louis L’Amour, Elmore Leonard; e con la vastissima produzione
hollywoodiana, che – attraverso continue revisioni del canone (si pensi a
L’ultimo buscadero, di Sam Peckinpah, del 1972) – giunge fino ai nostri giorni:
fino a quel I segreti di Brokeback Mountain, di Ang Lee (2005), tratto da un
racconto di Annie Proulx, che in una storia di moderni cowboys del
Wyoming che scoprono l’omosessualità ribalta un altro dei luoghi comuni
del genere – quello del maschilismo e della virilità del vecchio West.

BIBLIOGRAFIA
Ramon F. Adams (a c. di), Cowboy. Antologia di scritti e documenti dell’epoca dei
grandi tratturi del West, Feltrinelli, Milano 1958.
Tullio Kezich, Il mito del Far West, Il Formichiere, Milano 1980.
Alberto Paleari, Cowboy, Edizioni dell’Ambrosino, Milano 1997.
Stefano Rosso (a c. di), Le frontiere del Far West. Forme di rappresentazione del
grande mito americano, Shake, Milano 2008.
M.M.

Crocevia
In un celebre pezzo registrato nel 1936 e intitolato «Cross Roads Blues»,
Robert Johnson, il mitico bluesman del Mississippi Delta (→), cantava:
«Yeeo, standin’ at the crossroads tried to flag a ride / yeoo, standin’ at the
crossroads tried to flag a ride / didn’t nobody seem to know me, baby,
everybody pass me by».
In questa regione di campi e viottoli, i crocevia non si contano, e sono
molte le cittadine, i paesi, le frazioni che rivendicano a sé la leggenda
dell’incontro di Johnson con il diavolo, durante la sua breve vita di
ventisette anni, turbolenti e misteriosi: a Clarksdale, nel Mississippi, per
esempio, l’incrocio fra la Highway 61 e la Highway 49 – due strade centrali
per la nascita del blues – è chiamato «The Crossroads»; ma, intorno, di
crossroads non ufficiali ce ne sono tanti, ed è difficile resistere alla
tentazione di immaginarvi «proprio su quello», quando vi trovate
all’incrocio di due strade in terra battuta, in mezzo ai campi di cotone.
La leggenda di Robert Johnson parla infatti di un mediocre giovane
musicista nero che scompare dopo la morte della moglie, per ricomparire
un anno più tardi, dotato di una strabiliante tecnica chitarristica (il
fingerpicking), di un orecchio finissimo in grado di riprodurre qualunque
nota udita di sfuggita, di una voce che sembra strappata dal profondo del
cuore e delle viscere e di un repertorio straziante, spesso fosco, notturno,
popolato di demoni e angosce. Sempre secondo questa leggenda, Johnson si
sarebbe incontrato, a mezzanotte, a un crocevia dalle parti di Helena (o era
Greenwood? e perché non Tunica?), con una figura misteriosa di uomo in
nero: cui avrebbe venduto l’anima in cambio dell’abilità nel suonare e
cantare il blues – il diavolo, per l’appunto (fuor di leggenda, pare che
Johnson sia sì scomparso per un anno, ma che in questo periodo abbia avuto
come maestro uno strano bluesman di nome Ike Zinneman: il quale in effetti
aveva l’abitudine di suonare di notte nei cimiteri). Un bel film di Walter Hill
del 1986, Mississippi Adventure, rielabora in maniera affascinante tutta la
vicenda, ambientandola in tempi molto più recenti e attribuendola a un
altro celebre bluesman, Willie Brown, e a un giovane aspirante musicista.
Sta di fatto che nel blues ricorre spesso quest’immagine del crocevia, del
diavolo, della mezzanotte. E la cosa, al di là degli aspetti mitico-leggendari
legati a Johnson e alla nascita di questo genere musicale, non stupisce.
Perché quell’immagine viene da lontano: dall’Africa. Dove, negli antichi
imperi di Mali, Ghana, Songhay, negli antichi regni di Benin, Asante, Oyo,
Congo, Angola, le popolazioni yoruba, ibo, ashantee, mandingo, ewe,
biafada, bakongo, wolof, bambara, fulani, kom, attribuivano speciale
importanza a due personaggi: il griot (cantore depositario della memoria
collettiva, che narrava alla tribù di cui faceva parte, spesso aiutandosi con
una tavoletta di legno detta lukasa, incisa, disegnata, decorata con segni
particolari atti a ricostruire le genealogie regali e non) e quello che, sul
continente americano, sarebbe stato chiamato conjurer, ovvero il sacerdote-
stregone, dottore delle erbe e delle radici, in contatto personale con le
potenze dell’aldilà, con la complessa cosmogonia di divinità d’Africa, i
quattrocento orisha: tra cui, per esempio, per gli yoruba, Ogun, che presiede
ai lavori in ferro e alla creatività; Shango, dio del tuono, del lampo e degli
elementi scatenati; Ifa, che sta agli inizi della saggezza e della conoscenza;
Obatala, che veglia sulla fertilità femminile e sulla riproduzione; Oshun, che
è il fiume in forma di donna… Ed Ellegua (o Legba, nella versione sincretica
del voodoo haitiano), che è un orisha particolare, molto complesso e
sfaccettato: guardiano del cancello che separa mondo dei vivi e mondo dei
morti, è sia anziano e dimesso sia giovane e sessualmente aggressivo, sta
all’inizio e alla fine di ogni cerimonia, è severo e burlone (sul suolo
americano, si sarebbe presto travasato nella figura familiare del trickster →),
è spesso imprevedibile e irritabile, e presiede alle grandi decisioni della vita.
E, proprio in questa veste, è il dio dei… crocevia, per l’appunto: il dio delle
direzioni da prendere.
Giungendo in America attraverso il Middle Passage (→ Atlantico nero),
caricandosi di altre valenze caraibiche, Ellegua-Legba diventerà
personaggio fondamentale nella mitologia degli schiavi neri e poi degli ex
schiavi: da un lato, perché quell’immagine del crocevia notturno
s’intreccerà con l’esperienza drammatica di tanti schiavi in fuga attraverso
territori sconosciuti come quelli che si stendevano oltre i confini noti
(sebbene oppressivi) della piantagione, dove la decisione su quale direzione
prendere significava spesso vita o morte; dall’altro, perché negli anni
successivi alla Guerra civile (→), l’esodo dal Sud razzista al Nord visto come
terra di libertà sarà di nuovo questione di strade e crocevia, di decisioni
finali, per decine di migliaia di giovani e anziani – tra cui per l’appunto il
bluesman, che riprendeva la figura del griot e la rafforzava nell’incontro
leggendario con Legba. A mezzanotte, a un crocevia.

BIBLIOGRAFIA
Mario Maffi, Mississippi. Il Grande Fiume, il Saggiatore, Milano 2009.
Elijah Wald, Escaping the Delta. Robert Johnson and the Invention of the Blues,
HarperCollins, New York 2004.
M.M.
[D]

Dallas
«Chi ha sparato a J.R.?», ecco lo slogan mediatico dell’estate americana del
1980, quando alla Casa Bianca siede il democratico Jimmy Carter, in
procinto di essere scalzato, l’anno successivo, dal repubblicano Ronald
Reagan, telegenico ex attore di B-movies hollywoodiani (→
Hollywood/land).
«J.R.» non è un agente segreto della Cia finito in un complotto del Kgb e
neppure un novello John Fitzgerald Kennedy (→ Camelot), caduto sotto i
colpi di un seguace di Lee Harvey Oswald in una strada di Dallas, nel Texas.
Si tratta invece del protagonista di un serial (→ Serie tv) chiamato, tanto
per restare in tema, Dallas (1978-1991), una produzione del piccolo schermo
che rivoluziona gli schemi narrativi di serie e serial. Da un punto di vista
tecnico, un serial – ma i più usano il termine «serie» – è una narrazione
televisiva suddivisa in puntate che sviluppano una trama lineare nel tempo
e che può, in teoria, andare avanti all’infinito. All’esordio del programma
sul network della Cbs, 2 aprile 1978, i critici televisivi americani lo
definiscono un «serial melodrama» o una «soap opera in prima serata» a
sottolinearne due caratteristiche portanti: il soggetto da soap (le intricate
relazioni di amore, affetti, sesso e denaro interne a una famiglia di petrolieri
texani) e la novità di spostare quel genere che, eccezion fatta per il solo
Peyton Place (Abc, 1964-1969), occupa di solito le fasce pomeridiane dei
palinsesti (come nel caso dei popolarissimi e longevi Sentieri, Cbs 1952-2009,
e Febbre d’amore, Cbs, dal 1973), alle nove di sera.
Quella che diventerà la prima (1978-1979) delle ben quattordici – o, per
chi la consideri solo come un campione pilota, delle tredici – stagioni di
Dallas è in realtà una miniserie creata da David Jacobs per testare la
ricezione del pubblico: solo cinque episodi (contro i 23/25 delle successive),
girati tra un ranch nella contea di Dallas (nel Texas, lo stato più grande
dell’Unione dopo l’Alaska) e la metropoli stessa (dove ha sede il quartier
generale della Ewing Oil, la compagnia petrolifera della famiglia
protagonista); il tutto veicolato da uno stile visivo abbastanza semplice e
prevedibile. Nelle sue linee principali, la trama ruota intorno alle vicende
degli Ewing che vivono, circondati da ogni agio materiale e soffocati in
un’atmosfera familiare asfittica e potenzialmente incestuosa, al Southfork
Ranch. Nella tenuta (una versione moderna di Tara, la magione di Rossella
O’Hara in Via col vento) dimorano, in origine, sette persone: i capostipiti
«Jock» Ewing ed Ellie Ewing, i figli John Ross «J.R.» e Bobby, con le rispettive
mogli Sue Ellen e Pamela, e infine Lucy, figlia di Gary, fratello irrequieto di
«J.R.» e Bobby.
Considerata la non eccezionalità di regia e sceneggiatura, a fare la
fortuna di Dallas devono essere stati tre fattori di carattere «strutturale»: un
budget in grado di trasformare la soap in una vetrina di lusso (gli arredi
degli interni di case e uffici, le auto fiammanti, gli abiti alla moda, i
guardaroba principeschi delle protagoniste, le riprese esterne di grattacieli
imponenti); una distribuzione globale (il serial viene tradotto in 67 lingue e
trasmesso in 90 paesi); e il ricorso massiccio alla strategia degli episodi
cliffhanger (alla lettera, «colui che rimane appeso a una roccia») – quelle
puntate-climax, in cui (riprendendo il modello letterario ottocentesco dei
feuilletons) viene introdotto un elemento di suspense capace di incatenare
gli spettatori agli sviluppi futuri del serial. È infatti sul tormentato
personaggio di Sue Ellen (Linda Gray), futura icona del pubblico al pari di
«J.R.» (Larry Hagman), che il produttore Leonard Katzman gioca la carta del
colpo di scena: incinta e vittima di un incidente automobilistico, è infatti lei
a chiudere la prima stagione. Ma il più famoso cliffhanger della storia della
televisione arriva alla fine della terza stagione, quando la telecamera si posa
sul corpo di «J.R.» ripreso inerte sul pavimento del suo ufficio: «Who shot
J.R.?» («Chi ha sparato a J.R.?») diventa il leitmotiv di quell’estate, e la
prima puntata della quarta stagione registra un record d’ascolti senza
precedenti, con il 76% di tutti i televisori americani sintonizzati su Dallas.
Assurti a irrinunciabili espedienti di promozione del serial, i cliffhangers si
fanno però sempre più improbabili col passare del tempo, soprattutto
quando devono assecondare le scelte lavorative degli attori del cast: è il caso
del personaggio di Bobby, che nell’ottava stagione (1984-1985) viene «fatto
morire», a causa dell’abbandono del serial da parte di Patrick Duffy, salvo
poi essere resuscitato con un escamotage quasi imbarazzante dopo appena
un anno.
Facile, a questo punto, individuare un lunghissimo stuolo di epigoni, più
o meno dichiarati, di Dallas: dalle soap in «prime time» Dynasty (Abc, 1981-
1989) e Falcon Crest (Cbs, 1981-1990), a quelle in «daytime», trasmesse
durante il giorno, Capitol (Cbs, 1982-1987), Quando si ama (Abc, 1983-1995),
giù giù fino a Beautiful (Cbs, dal 1987).
Oltre agli importanti contributi critici provenienti dai dipartimenti
inglesi e statunitensi di Media Studies (la disciplina votata allo studio dei
mass media), il commento a Dallas più lungimirante lo ha scritto
un’antichista francese, Florence Dupont, nel 1991, accostando la saga
texana ai poemi omerici. I punti di contatto tra due mondi tanto lontani
sarebbero la qualità leggendaria di eroi ed eroine, l’intrattenimento
conviviale legato ai procedimenti dell’oralità («teletrasportato», è proprio il
caso di dire, dagli uditori dell’antica Grecia agli spettatori di fine
Novecento), la natura formulaica (ripetitiva e circolare) di gesta e gesti dei
protagonisti e, infine, il loro operare come fucine per la creazione di miti
necessari a un’identità collettiva. Agli epiteti omerici («Achille piè veloce»,
«Teti lungo peplo») subentrano così una serie di «immagini-epiteto» che
cristallizzano i personaggi texani e un modello sociale mitico: la vestaglia e
la decappottabile di Sue Ellen e il sorriso e il cappello a larghe tese di «J.R.»,
le prime colazioni al ranch e i drink serali, solo per citare alcuni esempi.
A guardarsi indietro con un vantaggio cronologico oramai trentennale,
che Dallas avesse la stoffa per scrivere una parte fondamentale di storia
della televisione si capiva già, come sempre succede per le serie tv di oggi e
di ieri, oltre che dal richiamo inevitabile al luogo dell’uccisione di J.F.
Kennedy (→ Camelot), nei pochi minuti della sigla: panoramica dall’alto sui
grattacieli e poi una serie di immagini su uno schermo tripartito con campi
da football, pozzi di petrolio, cavalli, cappelli a larghe falde, il tutto
suggellato dalla ripresa frontale della facciata palladiana di Southfork. Il
tema musicale era epico, così come il caleidoscopio restituito dalle
immagini. Nella traduzione italiana, tuttavia, l’allure «imperiale» della sigla
della Cbs dovette sembrare poco esplicito, da qui la decisione di adoperarsi
per un insieme di note finto-country-folk sulle quali una melodiosa voce
femminile intonava parole destinate a riecheggiare nella memoria di tutta
una generazione: «Ehi, ehi, vieni vieni a Dallas, la fortuna tu ce l’hai… vieni
vieni a Dallas… com’è grande ma com’è grande l’America!».
P.S.: Dicesi soap opera perché i primi produttori di questi serial erano
magnati dell’industria del sapone: tutto si tiene.
BIBLIOGRAFIA
Ien Ang, Watching Dallas: Soap Opera and the melodramatic imagination,
Methuen and Co., New York 1985.
Florence Dupont, Omero e Dallas. Narrazione e convivialità dal canto epico alla
soap-opera, Donzelli, Roma 2001.
Horace Newcomb, Cary O’ Dell (eds.), Encyclopedia of Television, Museum of
Broadcast Communication, Chicago-Londra 1997.
C. SCAR.

Ddt (e primavere silenziose)


Il Ddt (Dicloro-Difenil-Tricloroetano) è un pesticida sintetico creato dallo
svizzero Hermann Müller durante la Seconda guerra mondiale in ambiti
militari e civili contro le zanzare e i pidocchi portatori di tifo e malaria. Nel
dopoguerra, l’impiego del Ddt è esteso all’agricoltura e al giardinaggio,
aumentando tra il 1949 e il 1968 del 168%. Nel 1959, l’uso domestico di
pesticidi raggiunge un picco di circa 80 milioni di libbre.
È grazie a un libro di Rachel Carson, biologa marina laureata alla Johns
Hopkins University e prestata al giornalismo, che gli effetti nocivi del Ddt
sull’ambiente e sull’uomo diventano noti agli americani. Siamo nel 1962, il
libro si chiama Primavera silenziosa e denuncia gli effetti di un uso
indiscriminato del Ddt: «Su zone sempre più vaste del suolo statunitense, la
primavera non è ormai più preannunziata dagli uccelli e le ore del primo
mattino, risonanti una volta del loro bellissimo canto, appaiono
stranamente silenziose». Il Ddt è un inquinante organico permanente che
s’infiltra nel terreno e può diventare molto tossico per gli uccelli –
soprattutto l’aquila reale e il pellicano – e la flora e la fauna acquatiche. «I
pettirossi», scrive la Carson, «non rappresentano che un anello della catena
di devastazioni prodotte dall’irrorazione degli olmi, e dire che questa non è
che una delle tante misure di controllo con insetticidi che ricoprono la
nostra terra di veleno!». Le grandi multinazionali farmaceutiche dichiarano
subito guerra alla Carson, screditando l’autorevolezza scientifica delle sue
argomentazioni e liquidandola alla stregua di «un’altra donna isterica con
un attaccamento mistico all’equilibrio della natura»; se Time Magazine
etichetta Primavera silenziosa come un’opera «enfatica in maniera isterica»,
il mormone Ezra Taft Benson, ex membro del governo Eisenhower, si chiede
perché mai «una zitella senza figli» si preoccupi di genetica. Non
contemplando la possibile omosessualità della Carson, Benson, in perfetta
sintonia con lo Zeitgeist di quegli anni (→ Maccartismo), la taccia di
«comunismo».
Nonostante gli attacchi misogini all’autrice, Primavera silenziosa è un
bestseller e per trentuno settimane resta nelle classifiche del New York Times
dei libri più venduti. Successive ricerche mediche accerteranno la tossicità
del Ddt in relazione a diabete, capacità riproduttive e allattamento e i suoi
effetti cancerogeni su fegato, pancreas, seno, sangue, testicoli e sistema
linfatico. Così, nel 1972, il Ddt – il più popolare tra i pesticidi – viene bandito
dall’uso agricolo grazie all’ampliamento del Clear Air Act (→ Disastri) del
1970, anno in cui l’amministrazione Nixon (→ Watergate) istituisce l’Epa
(→ Three Mile Island), l’agenzia federale che andrà a regolamentare e
rafforzare la protezione dell’ambiente.
La mancanza di trasparenza circa i risultati degli studi sugli effetti tossici
dei pesticidi continua tuttavia a costituire un problema anche a
cinquant’anni dal libro della Carson. Sebbene l’Epa affermi, già nel 1990,
che l’incidenza di leucemia, cancro allo stomaco, alla cervice e all’utero tra
i lavoratori agricoli sia sproporzionata rispetto alla norma, la tutela del
lavoro nei campi della California è ancora lontana.

BIBLIOGRAFIA
Rachel Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano 1963.
Lisa H. Sideris, Kathleen D. Moore (eds.), Rachel Carson: Legacy and Challenge,
State University of New York Press, Albany 2008.
Ted Steinberg, Down to Earth. Nature’s Role in American History, Oxford
University Press, New York 2002.
C. SCAR.

Department stores
Se pensate che la bulimia da shopping metropolitano sia un fenomeno
recente e che la Carrie Bradshaw di Sex and the City ne sia l’inventrice, be’, vi
sbagliate. La calca (sempre più turistica e sempre meno autoctona) che
affolla le sale di quelli che sono i luoghi iconici dello shopping americano –
e newyorkese in particolare, dai classici Macy’s a Saks, fino al più recente
Century Twenty-One – è iniziata un bel po’ di tempo fa. Per la precisione,
risale alla svolta del XIX secolo, quando fare spese negli Stati Uniti e in
particolare nella Grande Mela (→ Big Apple) si trasformò da semplice
bisogno a esperienza memorabile, anche grazie ai department stores, i grandi
magazzini che, con la loro vasta scelta di mercanzie, contribuirono a fissare
i parametri costitutivi materiali dell’American way of life dell’ultimo secolo e
mezzo.
In principio, sull’esempio anche dei grands magasins parigini (in seguito
immortalati da émile Zola nel romanzo Au bonheur des femmes, del 1883), fu il
Marble Palace di Alexander Turney Stewart, inaugurato nel 1846 a New
York, sulla Broadway fra Chambers e Reade Street: marmi bianchi ed
enormi vetrate che ricordavano i palazzi del Rinascimento e, all’interno,
una sorprendente varietà di prodotti importati dall’Europa, abilmente
disposti in reparti: departments, per l’appunto. Ingresso aperto a tutti senza
obbligo di acquisto, poiché, come Stewart intuì, chiunque è un potenziale
cliente – basta solo che lo voglia.
Dalla downtown (→) di Chambers Street, i grandi magazzini iniziarono la
loro lenta migrazione verso nord, parallela allo spostamento delle attività
commerciali e di intrattenimento: nel 1862, Stewart costruì un ancor più
grande department store che occupava un intero isolato, fra Broadway e la 9ª
Strada, di fronte a Grace Church: otto piani e diciannove reparti, fra cui
abbigliamento, arredamento, tappeti, stoviglie, giocattoli, attrezzature per
lo sport – il tutto allestito intorno a un suggestivo giardino d’inverno. Nel
giro di un paio di decenni, il centro nevralgico del commercio si spostò
ancora più a nord, e iniziò a prender forma l’area dello shopping per
eccellenza, il «Ladies’ Mile»: il miglio quadrato compreso fra Union Square
e Madison Square, fra Broadway e la 6ª Avenue, sede delle maggiori
compagnie commerciali dell’epoca e ben presto capitale della moda
statunitense.
Il Ladies’ Mile era composto da una serie di department stores (come B.
Altman e Best & Co., ormai chiusi; o Macy’s e Bonwit Teller, che
sopravvivono fino ai nostri giorni), il più vasto dei quali, il Siegel-Cooper
(detto anche «The Big Store»), aveva uno spazio espositivo di oltre 70mila
metri quadri. Come gli altri stores, anche il Siegel Cooper attirava i clienti sia
grazie alla varietà di merce in vendita (da pellicce a piume di struzzo, fino a
spartiti musicali e biciclette), sia alle sue peculiarità architettoniche (→
Architetture), mutuate dallo stile Beaux-Arts dell’esposizione universale
(→) del 1893 di Chicago: basti dire che, dietro alle casse principali,
troneggiava una statua raffigurante la Giustizia, con le sembianze della dea
Atena. L’imponenza architettonica non era infatti secondaria alla varietà di
merci in vendita, quanto a metodo per attirare i clienti: lo sapeva bene
Hugh O’Neill, il cui omonimo store, fra la 6ª Avenue e la 21ª Strada,
presentava una facciata neoclassica che prometteva al contempo
rispettabilità e ricchezza. Insieme all’architettura, acquisirono sempre più
rilevanza fattori quali la suddivisione dei reparti, la disposizione degli
oggetti e degli scaffali, l’illuminazione, la presenza di ascensori e i diversi
sistemi di pagamento e l’affabilità e cortesia dei commessi. Fu infatti nei
department stores che si affinarono le tecniche di vendita moderne – e si
delineò il nuovo ruolo del commesso, che più che aiutare la cliente
nell’acquisto, ne soddisfaceva il desiderio di essere servita e riverita, con il
risultato di aumentarne gli acquisti e creare un rapporto diretto mirato alla
fidelizzazione.
Come indica il nome stesso, il Ladies’ Mile era un’area frequentata per lo
più da donne (da sempre delegate alla gestione della casa e di conseguenza
alle spese), che durante la pausa pranzo o nel tardo pomeriggio si
riversavano nelle strade della già congestionata area a nord della 14ª Strada.
A uniformare i compratori del Ladies’ Mile non era però solo il genere, ma
anche la classe delle sue frequentatrici: ad avventurarsi fra gli stores erano
soprattutto signore della classe media e alta; le altre donne (immigrate,
nere, donne della classe lavoratrice) continuarono a servirsi nelle botteghe
di quartiere, nei negozi di abbigliamento su Grand Street o dai carretti che
popolavano le strade del Lower East Side (→), accedendo ai grandi
magazzini solo in qualità di commesse o di donne delle pulizie (o, come in
alcune scene del celebre Tempi moderni di Charlie Chaplin, del 1936, di
notturni clandestini senzatetto). Un’attività, quella dello shopping, che
ebbe a lungo la funzione di formare spazi e modi di aggregazione femminile
borghese in un’epoca in cui la presenza di queste donne, in larghissima
parte escluse dal mondo del lavoro, era preferibile fra le mura domestiche; e
che diede il via in parallelo a forme di socializzazione basate sul consumo e
su una rivendicazione dello status sociale fondata sul possesso di un numero
sempre maggiore di beni, e sempre più all’ultima moda.
Oggi, il Ladies’ Mile non è più la sede dei department stores, che sono di
nuovo migrati uptown; molti degli edifici originari sono stati demoliti, altri
(come il Siegel-Cooper) sono stati riadattati per usi commerciali o abitativi.
Il Ladies’ Mile è però come un’araba fenice: se il suo «corpo» architettonico
rimane nella topografia urbana grazie alla costituzione del «Ladies’ Mile
Historic District» del 1989, lo spirito consumistico e fagocitante di quel
miglio quadrato continua a risorgere a nuova vita, sia dentro sia fuori i
perimetri urbani, con sempre nuovi grandi magazzini e sempre più malls
(→).

BIBLIOGRAFIA
Mark P. Leone, Neil Asher Silberman, Invisible America. Unearthing Our Hidden
History, Henry Holt, New York 1995.
Susan Porter Benson, Counter Cultures: Saleswomen, Managers, and Customers in
American Department Store, 1890-1940, University of Illinois Press,
Champaign 1986.
C. SCHIA.

Deserti
Si potrebbe iniziare dal Nord, dalle distese di ghiaccio dello Yukon in cui gli
eroi tragici di Jack London cercavano fortuna e trovavano talvolta la morte
(→ Oro!); oppure dal biancore solcato da rivoli di sangue che tingono i
lunghi inverni di Fargo e i suoi delitti efferati (almeno così racconta
l’omonimo film dei fratelli Coen, del 1996). Spostandosi verso sud, non si
può non pensare alle pianure colpite dalla siccità (→ Dust Bowl) che
mandarono in rovina centinaia di migliaia di famiglie all’epoca della Grande
depressione (→), fino ad arrivare all’area centroccidentale del paese,
distese desolate e poco popolate fino a quando i robber barons (→) e le
compagnie ferroviarie (→ Promontory Point) vi posarono sopra gli occhi e
le trasformarono in un miraggio collettivo di sogni di ricchezza (→ Guide
per emigranti).
Tanti sono negli Stati Uniti i volti e le forme del deserto. Secondo il
Webster Dictionary, si definisce tale un territorio caratterizzato dalle
«assenze»: «assenza di acqua, di vegetazione, di vita animale. Una regione
così arida da sostenere solo rara vegetazione oppure senza vegetazione». Se
richiami culturali ai deserti erano presenti alle menti dei coloni fin
dall’approdo sulle coste del Nuovo mondo (si pensi ai deserti biblici, su cui
era modellata la visione della wilderness →), fu solo dopo che esploratori e
coloni ebbero oltrepassato le rive del Mississippi che le suggestioni
divennero realtà: deserto furono considerate tutte le zone fra il fiume e le
Montagne Rocciose ritenute inadatte a essere abitate. Fu così che il
maggiore Stephen Long, a capo di una spedizione governativa di inizio
Ottocento, produsse una mappa delle regioni da lui esplorate pochi anni
dopo il loro acquisto dalla Francia (→ Louisiana Purchase) indicandole
come «Grande deserto americano». La definizione venne adottata dal
cartografo Thomas G. Bradford nel suo Atlante del 1838 e utilizzata per
indicare l’area lungo il 102º meridiano, composta dalla parte più occidentale
delle regioni dove le precipitazioni non raggiungevano i venti pollici
annuali, fra l’Ovest delle Grandi pianure e le Montagne Rocciose: un luogo
in realtà assai eterogeneo data la sua vastità, che abbracciava l’Arizona e il
New Mexico, la California del Sud, il Nevada meridionale, il Sud dello Utah,
del Colorado, una bella fetta del Texas, e che andava dal limite
settentrionale del Missouri fino al Sud delle regioni di Chihuahua e di
Sonora. Nelle mappe odierne, invece, i deserti constano di sole quattro aree
(una porzione molto più piccola di quanto le definizioni del secolo scorso
indicassero), localizzate ancora più a ovest e a sud, a cavallo dei confini
nazionali: il Great Basin Desert (in Nevada), il Mojave Desert (il più caldo,
nella California sudorientale), il Sonoran Desert (Sudovest degli Stati Uniti e
Nordovest messicano) e il Chihuahuan Desert (il più grande, che comprende
una porzione dell’Ovest statunitense e il Nord del Messico) – a
testimonianza di come sia la percezione culturale, più che la natura, a
stabilire i confini dell’inabitato e dell’inabitabile, e quanto essi possano
cambiare nel tempo.
Di certo, a mutare nei secoli fu anche il rapporto della nazione con le sue
distese aride: se per molti artisti e intellettuali europei il deserto è il
paesaggio statunitense per eccellenza (dall’America tratteggiata da Jean
Baudrillard nell’omonimo saggio del 1986, al film di Wim Wenders Paris,
Texas, del 1984), gli statunitensi fecero di certo più fatica a incorporare
quest’ultimo come un paesaggio domestico, autenticamente nazionale: esso
al contrario era visto alla stregua di un tradimento delle promesse di
prosperità che il continente americano simboleggiava. Se si pensa
all’elaborazione tardo-ottocentesca dei territori di frontiera (→) a opera del
suo principale teorico, Frederick Jackson Turner, si nota come l’acqua sia
anche da quest’ultimo considerata una presenza naturale e scontata
nell’ambiente selvaggio, nonostante esploratori e coloni avessero ormai
constatato con disappunto come la wilderness dell’Ovest fosse una sequenza
di paesaggi inospitali proprio perché aridi. A che cosa si devono dunque gli
sforzi (fino al dispiegamento bellico) di conquista e controllo di tali
territori, che richiedevano viaggi sfiancanti, sofferenze e privazioni, e in cui
a emergere era non tanto l’eroicità dell’uomo, ma la sua vulnerabilità?
All’inizio, a interessare il governo statunitense fu in particolare la loro
funzione di collegamento fra regioni ricche (come le zone desertiche fra il
Texas orientale e la California, per il controllo delle quali si combatté una
sanguinosa guerra con il Messico a metà Ottocento → Confini). Poi, con la
scoperta di minerali a metà secolo, il deserto divenne nell’immaginario
collettivo il set di una grande caccia al tesoro, i premi più preziosi l’oro e
l’argento; un luogo da sfruttare e poi abbandonare, non certo adatto
all’insediamento umano permanente, né, come nel caso delle cascate del
Niagara (→), una bellezza naturale tale da giustificare la creazione di
infrastrutture turistiche.
Con il crescente popolarsi del continente, tuttavia, l’equazione fra
l’avanzata della civiltà e l’arretramento del deserto divenne inevitabile.
Così, se per John Wesley Powell, ex combattente nella Guerra civile (→) e
poi dal 1869 uno dei più indefessi esploratori delle regioni dell’Ovest (che
esaminerà in Report on the Lands of the Arid Regions of the United States, 1878 →
Grand Canyon), il deserto era soprattutto un problema di non facile
risoluzione, ricco di risorse minerarie ma di scarso impiego per l’agricoltura
(anche con un uso oculato dell’acqua, Powell stimava che non più del 20%
potesse essere coltivato), i suoi successori non furono dello stesso parere.
L’idea che le terre aride dovessero essere trasformate attraverso un
sapiente uso dell’irrigazione diventò un’autentica ossessione: fu William
Ellsworth Smythe, in The Conquest of Arid America (1899), a sintetizzare le
aspirazioni della nazione intera a trionfare anche sul deserto e renderlo
coltivabile attraverso l’impiego di riserve idriche e laghi artificiali (la cui
costruzione iniziò a partire dal 1900). L’acqua diveniva per Smythe la
metafora del potere nazionale e della sua forza civilizzatrice, che avrebbe
dovuto avanzare portando vita nel suo naturale (poiché prossimo dal punto
di vista geografico) territorio di conquista. Certo, una conquista pagata
spesso a caro prezzo, come racconta la scrittrice Mary Austin in The Land of
Little Rain (1903), dove il deserto è uno spazio darwiniano a cui la vita si deve
adattare a poco a poco, e in cui la colpa delle morti è da attribuire non alla
natura, ma all’imprudenza umana (→ Grand Canyon; → Pueblos).
In contemporanea, vi fu anche chi cercò di far sembrare quel grande
spazio vuoto un fascinoso pezzo d’Oriente: come Charles F. Lummis, con
Some Strange Corners of Our Country (1892) o John Van Dyke con The Desert
(1901), in cui a essere esaltate sono le attrattive estetiche, le bizzarrie della
natura e gli scorci orrorifici. Dal momento però che la contemplazione di
ambienti naturali così inospitali emerge quando essi hanno perduto la loro
valenza minacciosa, la fortuna del deserto in quanto esperienza estetica
raggiunse il suo apice dalla metà degli anni cinquanta del Novecento in
avanti, come testimonia la popolarità di scrittori che al deserto hanno
dedicato buona parte della loro vita e produzione letteraria, da Wallace
Stegner a Edward Abbey. Di quest’ultimo, Deserto solitario (1968), incentrato
sul lavoro dell’autore come ranger nella zona dei Colorado Plateau, può
essere considerato un’autentica biografia del deserto, che assurge a simbolo
di forza e bellezza, ma anche di crudeltà e indifferenza, e tuttavia (con
grande dispiacere di Abbey) meta di svago per troppi (e imprudenti)
nostalgici dell’avventura.
Dagli anni cinquanta in poi, vi è stato però qualcosa di peggio delle orde
di turisti che affollano mesas e canyon del Sudovest: da un lato, con la
legalizzazione delle scommesse in alcuni stati (come il Nevada, → Flamingo
Hotel), il deserto è divenuto meta e oggetto del desiderio degli amanti del
gioco d’azzardo e dell’umanità spesso sbandata che intorno a esso gravita;
dall’altro, con un’economia occidentale (e statunitense in primis) sempre
più orientata, dalla fine degli anni trenta in avanti, verso la difesa e lo
sviluppo militare, i deserti hanno trovato un altro, più tragico impiego –
quello di no man’s land deputata a bombardamenti e a test nucleari (→
Progetto Manhattan; → Roswell e Area 51).
BIBLIOGRAFIA
Catrin Gersdorf, The Poetics and Politics of the Desert. Landscape and the
Construction of America, Rodopi, New York 2009.
Patricia Nelson Limerick, Desert Passages. Encounters with the American Deserts,
University of New Mexico, Albuquerque 1985.
Alexander Shoumatoff, Leggende del deserto americano (1997), Einaudi, Torino
2000.
David W. Teague, The Southwest in American Literature and Art: The Rise of a
Desert Aesthetic, University of Arizona Press, Tucson 1997.
C. SCHIA.

Destino manifesto
L’espressione «destino manifesto» ha un padre certo e una data di nascita
precisa. Fu il giornalista John L. Sullivan a coniarla, in un articolo intitolato
«Annexation» e apparso sulla Democratic Review del luglio 1845. La rivista
era, come suggerisce il nome, vicina al Partito democratico, la cui agenda
politica privilegiava allora una linea che, ispirata dal presidente ed ex
generale Andrew Jackson (in carica dal 1829 al 1837), è definita
«jacksoniana»: una visione che affermava il primato del diritto individuale
alla libertà e dunque prefigurava un incessante incremento spaziale e
territoriale dell’area in cui questa libertà si sarebbe potuta esercitare.
Traducendo dal linguaggio politico, gli Stati Uniti avrebbero dovuto porre
sotto il proprio controllo tutti i territori del continente di cui avessero
avuto bisogno.
L’annessione a cui fa riferimento il titolo dell’articolo di O’Sullivan si
riferisce al Texas: lo stato si era reso indipendente dal Messico nel 1836 (→
Alamo), ma diversi tentativi di negoziarne l’ingresso negli Stati Uniti erano
falliti, finché il presidente James Polk ne fece una delle priorità del suo
programma, e il 29 dicembre 1845 il Texas divenne membro dell’Unione.
O’Sullivan scrisse del «nostro destino manifesto di espanderci nel
continente che la Provvidenza ci ha dato», e utilizzò successivamente la
formula in altri articoli; ma fu solo quando se ne servì in chiave denigratoria
un membro dell’opposizione Whig (partito contrario all’espansione) che
essa divenne patrimonio del gergo politico.
In quel periodo, del resto, il tema dell’espansione era costantemente
all’ordine del giorno. Subito dopo l’annessione del Texas, Polk intavolò
negoziati con la Gran Bretagna per risolvere la questione del territorio
dell’Oregon (comprendente non solo l’attuale stato dallo stesso nome, ma
anche quello di Washington e una fetta della British Columbia), sul quale
entrambi i paesi rivendicavano diritti. L’accordo fu trovato stabilendo il
confine delle rispettive aree di influenza lungo il 49º parallelo. Ma non era
ancora finita: a questo punto, era il porto di San Francisco (allora parte del
Messico) a fare gola, perché apriva le rotte del Pacifico verso l’Oriente. Il
conflitto con i vicini meridionali fu inevitabile e comportò, con il Trattato di
Guadalupe Hidalgo (2 febbraio 1848), l’acquisizione della California e dei
territori a nord del Rio Grande.
Non era quanto O’Sullivan aveva sperato. Contrario alla guerra, il
giornalista era convinto che una pacifica penetrazione commerciale
avrebbe con il tempo avvicinato gli interessi di Stati Uniti e Messico,
portando quest’ultimo a una spontanea adesione ai principi della
Costituzione americana. Lo storico Anders Stephenson sottolinea infatti
come l’idea di un «destino manifesto» non sia stata la causa della decisione
di scendere in guerra contro il Messico: si tratta invece di un concetto
fondamentale per comprendere il «modo in cui gli Stati Uniti finirono per
interpretare il proprio ruolo nel mondo», unendo alla tensione messianica e
spirituale una dimensione estremamente concreta e temporale. La retorica
del «destino manifesto» giunse dunque a racchiudere l’aggressiva politica
di espansione in un quadro discorsivo, quello della «missione», che
rappresenta il collante fondativo dell’esperienza americana (→ Città sulla
collina; → Covenant).
Gli sviluppi storici porteranno con sé la ridefinizione degli obiettivi
«concreti» da perseguire, ma non cambierà il riferimento a un qualche
«disegno» superiore da mettere in atto. Il presidente Wilson, per esempio,
giustificò l’intervento nella Prima guerra mondiale sostenendo che
«l’isolamento è terminato per effetto della storia, non per effetto di una
nostra scelta autonoma»: pertanto, gli Stati Uniti erano predestinati «a
rappresentare per tutto il mondo un esempio» e a svolgere un ruolo di
«mediatori di pace» nell’ambito della Società delle Nazioni – ancora una
volta, «faro» che avrebbe guidato l’umanità intera sulla strada della pace e
della prosperità. Peccato che in questa circostanza fossero gli stessi
connazionali di Wilson i primi a crederci poco: nel novembre del 1919, il
Senato respinse infatti l’adesione all’organizzazione.
Nel secondo dopoguerra, gli scrupoli sul ruolo internazionale degli Stati
Uniti vennero meno, e il «destino manifesto» assunse nuove forme, dalla
dottrina del «contenimento» – che teorizzava la necessità di contrastare
l’avanzata dell’influenza sovietica in alcuni punti del globo e porterà alle
azioni militari in Corea (1950-1953) e Vietnam (→) – fino a quella più
recente, «esportazione della democrazia», elaborata durante la presidenza
di George W. Bush (2001-2009) per giustificare l’intervento volto a
destituire regimi dittatoriali in Iraq e Afghanistan. Insomma, cambiano le
formule, ma il «destino manifesto» di impegnarsi in sempre nuove
«splendide guerricciole» (→) rimane.

BIBLIOGRAFIA
David B. Davis, David H. Donald, Espansione e conflitto: gli Stati Uniti dal 1820 al
1877, il Mulino, Bologna 1987.
Anders Stephenson, Destino manifesto, Feltrinelli, Milano 2004.
S.M.Z.

Dime novels
Come dire «romanzetti da quattro soldi» (il dime è la monetina da dieci cent,
il «decino» di zio Paperone). Nei primi decenni dell’Ottocento, gli Stati
Uniti cominciano a uscire dal tunnel della guerra contro la Gran Bretagna
(che a ben vedere si concluderà davvero solo con la Guerra civile →),
risolvono questioni di proprietà territoriale con la Francia (→ Louisiana
Purchase) e con il Messico (→ Alamo; → Destino manifesto), entrano nella
fase critica delle Guerre indiane (→), procedono con la colonizzazione delle
terre all’Ovest – e si pongono il problema non da poco di una «letteratura
nazionale», il più possibile svincolata da modelli europei. A ciò si
dedicheranno, con materiali, tagli prospettici e gradi di autonomia diversi,
autori come James Fenimore Cooper, Nathaniel Hawthorne, Edgar Allan
Poe, Henry David Thoreau, Ralph Waldo Emerson, Herman Melville, Harriet
Beecher Stowe – la «grande letteratura» degli anni di metà secolo.
Insieme a essi, ma forse più nell’ombra (almeno della critica),
opereranno però anche altri autori e autrici, con caratteristiche specifiche
legate a certe trasformazioni profonde nel tessuto socioculturale
statunitense. Non va dimenticato infatti che, fra il 1790 e il 1830, la
popolazione americana era raddoppiata e di nuovo sarebbe raddoppiata
entro il 1860: e che in gran parte si trattava di una popolazione in grado di
leggere e scrivere. Altri fattori vanno presi in considerazione: la progressiva
divisione del lavoro fra editore e libraio, la nascita delle prime grandi case
editrici sulla costa est, l’introduzione di nuove lampade a petrolio e poi a
gas, lo sviluppo della rete ferroviaria e stradale, il crescente peso economico
e sociale delle donne della piccola e media borghesia urbana, sia in quanto
lettrici sia in quanto autrici. E alcune innovazioni tecnologiche: nella
fabbricazione della carta (150 cartiere nel 1830, 550 nel 1860) e nei
procedimenti di stampa. Infine, la depressione economica del 1837, che
spinge alcuni editori a ricorrere alle macchine di norma usate per i giornali:
un foglio piegato in due formava una sorta di fascicolo, che poteva usufruire
delle medesime facilitazioni fiscali e postali dei giornali. Nascono così i
primi settimanali, come Brother Jonathan, The New Yorker, The New World, The
Corsair, vere e proprie valvole di sfogo per l’editoria in crisi e spesso
autentiche imprese piratesche.
La reazione delle vecchie case editrici è immediata, e la gara a chi riesce
a stampar più romanzi e a venderli a minor prezzo si fa subito frenetica. Si
sviluppa allora un’editoria di massa, che utilizza tutti i canali possibili per
raggiungere un pubblico sempre più vasto: i libri cominciano a essere
venduti tramite abbonamenti postali, agenti e librerie, o con l’ausilio di
cataloghi (→), oppure nei grandi magazzini (→ Department stores), in
offerte speciali del tipo «Con l’acquisto di 6 paia di calzini di filo di Scozia,
avete diritto, al semplice sovrapprezzo di 10 cent, di scegliere nel nostro
stock di romanzi; oppure, con un sovrapprezzo di 25 cent, potete scegliere
nel nostro stock di opere poetiche». La stessa mancanza di norme regolanti
il copyright (la legge sul copyright internazionale verrà introdotta solo nel
1891) facilita una massiccia distribuzione di libri prodotti sia all’estero che
in patria.
In quella prima metà dell’Ottocento, emerge dunque un gruppo di
scrittrici che approfitta di queste importanti trasformazioni: Catherine
Maria Sedgwick (autrice di Redwood, 1824), Susan Warner (Wide, Wide World,
1850), Maria Susan Cummins (The Lamplighter, 1854), e numerose altre –
quelle che Nathaniel Hawthorne, in un momento di ira e invidia, avrebbe
definito «maledetta banda di scribacchine [scribbling women]». Sono le
protagoniste della grande stagione del domestic novel, «romanzo domestico»
o «sentimentale», fatto di lacrime, buoni propositi, disgrazie e onestà,
fedeltà e buon senso, insegnamenti morali, amori contrastati ma
invariabilmente a lieto fine, con un’abile ripetizione di formule e
riproposizione di mode a volte importate dall’estero.
Accanto a esse, si fa strada un altro filone, in certo modo alternativo: il
«romanzo d’avventura» o «di frontiera», che riprende e ricicla (a volte
banalizzandoli, a volte traducendoli in stereotipo) personaggi, situazioni,
luoghi geografici e letterari, resi famosi negli stessi anni da James Fenimore
Cooper e dalla sua serie di romanzi incentrati sulla figura di Natty Bumppo,
o Calza di Cuoio. A partire da Nick of the Woods (1837) di Robert Montgomery
Bird, il romanzo western assume a poco a poco quelli che saranno i suoi
connotati classici, strutturandosi sulla base di formule e tipi fissi: la lotta fra
il Bene e il Male (i «buoni» e i «cattivi»), il viaggio con relativo climax
costituito dall’assalto alla diligenza (e, in seguito, al treno) da parte di
indiani o fuorilegge, l’iniziazione e il travestimento, altri amori contrastati,
il giustiziere che viene da lontano, l’improvviso rivelarsi della vera
identità… La frontiera (reale o mitica) diviene il luogo per eccellenza di
questa nuova letteratura di massa, e il romanzo western supera indenne la
Guerra civile (→) giungendo a piena fioritura negli ultimi due decenni
dell’Ottocento (Deadwood Dick on Deck; or Calamity Jane, the Heroine of Whoop-
up, di Edward L. Wheeler, del 1878, ne è un buon esempio).
Ma le piste e i sentieri (→) dell’Ovest presuppongono anche i
marciapiedi delle metropoli dell’Est: non ancora le Grandi Metropoli degli
anni a cavallo fra Ottocento e Novecento, ma comunque un ambiente
urbano, sia pure legato in maniera elastica alla natura circostante, luogo di
passaggio e avamposto di civiltà nella wilderness (→). Nasce a questo punto,
intorno al 1840-1850, un altro genere ancora, il «romanzo sensazional-
didattico», incentrato su tematiche come l’alcolismo, la prostituzione, la
miseria. Mentre dunque il «romanzo sentimentale» provvede a rassicurare
la donna della piccola e media borghesia fornendole una sorta di decalogo di
comportamenti virtuosi entro le mura domestiche, «romanzo western» e
«romanzo sensazionale» si contendono un altro pubblico, socialmente più
basso, in prevalenza giovane e maschile, offrendogli miti ed evasioni, e al
contempo una serie di «codici» per la sopravvivenza sulla frontiera o nella
città, sotto forma, a volte, di sermoni o insegnamenti moraleggianti.
George Lippard dà inizio al filone nel 1844 con The Monks of Monk Hill (o
The Quaker City), seguito da New York. Its Upper Ten and Lower Million, nel 1854
– anno in cui esce anche il celebre Ten Nights in a Bar-Room and What I Saw
There, di Timothy Shay Arthur (secondo per vendite alla Capanna dello zio
Tom di Harriet Beecher Stowe, pubblicato due anni prima). Quindi, è la volta
di E.Z.C. Judson, con The Mysteries and Miseries of New York (1848) e The Death
Mystery. A Crimson Tale of Life in New York (1861): figura singolare, questa di
Judson, che poco dopo, verso fine secolo, si tramuterà in «Ned Buntline»,
«scopritore» e «biografo» di Buffalo Bill (→ Olimpo americano). Quando le
città divengono metropoli esplosive e si riempiono d’immigrati e di tensioni
sociali, ecco che si torna a cercare la Frontiera (→), travestendola dei panni
del mito. In queste opere, l’influenza dei contemporanei feuilletons europei,
alla Sue, alla Reynolds, alla Jerrold, è più che evidente; ma ci sarà anche un
influsso in senso opposto: non per caso, a Parigi, verso fine Ottocento, si
comincia a indicare i «malandrini urbani» con l’appellativo di apaches.
Poi, nel 1860, la traballante casa editrice Beadle & Adams pubblica il
romanzo di Ann Sophia Stephens Malaeska, the Indian Wife of the White Hunter,
e lo mette in vendita a un dime, per l’appunto. Il successo è clamoroso:
65mila copie in pochi mesi. L’anno dopo, il bis con Seth Jones; or, the Captives
of the Frontier, di E.S. Ellis: mezzo milione di copie! Il dime novel era nato, e le
storie di frontiera e di città avevano trovato il loro veicolo ideale. Il filone
scandalistico-moralistico continua con romanzi e saggi (The Secret Sins of
Society, di C.E. Rogers, del 1882; The Evils of San Francisco, di J.G. Grant, del
1884), quello sentimental-domestico con i lavori di E.D.E.N. Southworth
(Ishmael; or, In the Depths, 1876; The Hidden Hand, 1888) e di Laura J. Libby
(Daisy Brooks; or, A Perilous Love, 1883; Pretty Madcap Dorothy; or, How She Won a
Lover, 1891). Seguono i romanzi edificanti di Horatio Alger Jr. (→ Rags to
riches); o di «Burt Standish» (pseudonimo di G.M. Patten), ambientati nel
mondo dei college e dello sport americano di fine secolo, con il loro eroe-
protagonista Frank Merriwell; o di Edward Stratemeyer, con i loro «Rover
Boys» (una sorta di boyscoutismo ante litteram); e infine i romanzi del già
citato «Ned Buntline» e del suo concorrente (per ciò che riguarda le
avventure di Buffalo Bill) Colonel Prentiss Ingraham.
A quel punto, il dime novel diventa strumentale nell’introdurre una
variazione o contaminazione importante. Essa si verifica quando il regulator
tipico della tradizione western (il giustiziere, il raddrizzatore di torti:
insomma, il «cavaliere della valle solitaria») veste panni cittadini,
sovrapponendo un codice e un ordine morali (tipici della Frontiera, secondo
la lettura corrente negli anni di fine secolo) all’ambiente urbano, corrotto e
decadente: il romanzo d’avventura, quello sensazional-scandalistico e
quello domestico-sentimentale convergono allora in un nuovo genere. E
così, nel 1885, dalla penna di Harlan Hasley, nasce il personaggio di «Old
Sleuth», il Vecchio Segugio, seguito da «Old Cap Collier» di Norman Munro
e infine dal ben più famoso Nick Carter, creato da John R. Coryell – tutti
debitori, almeno in parte, al contemporaneo Sherlock Holmes di Arthur
Conan Doyle, ma con un’ambientazione e tratti caratteristici squisitamente
americani. La strada verso il genere hardboiled (→) era aperta. E così pure
quella verso i paperbacks e i tascabili di molti decenni dopo.

BIBLIOGRAFIA
Mario Maffi, La giungla e il grattacielo. Gli scrittori e il sogno americano, 1865-1920,
Odoya, Bologna, in corso di pubblicazione.
Russel Nye, The Unembarrassed Muse. The Popular Arts in America, The Dial
Press, New York 1970.
M.M.

Diner
Un po’ ristorante, un po’ fastfood, un po’ bar, un po’ autogrill, ma, su tutto,
concrezione materiale di un intero stile di vita che non trova alcun
corrispettivo in Europa, il diner è uno di quei luoghi-simbolo del Novecento
americano entrati nel nostro immaginario grazie a un folto gruppo di film e
telefilm sfornati e distribuiti dagli Stati Uniti tra gli anni sessanta e novanta
del secolo scorso (ma non vanno dimenticati certi film noir degli anni
novanta, come il folgorante inizio di I gangster – The Killers, di Robert
Siodmak, del 1946, tratto dall’omonimo racconto di Ernest Hemingway). A
dispetto di alcune piccole varianti geografiche e temporali, l’arredo, la
disposizione e il personale dei diners prevedono un locale allungato con
grandi finestre che danno sulla strada, la presenza di un bancone sul quale
affacciano tanti sgabelli, una serie di tavoli in formica con sedili comodi, un
paio di cameriere dalle cotonature improbabili, nel classico grembiule rosa
abbinato a una crestina bianca, e un cuoco, pingue e un po’ burbero (a volte
nero), a friggere omelette e patatine indossando una t-shirt. Sono
innumerevoli le cartoline in technicolor impresse nella nostra memoria
visiva: dai popolari Arnold’s, il diner/drive-in (→) di Happy Days (1974-1984),
e Mel’s di Alice (1976-1985), agli onirici punti di ristoro del Pacific
Northwest di Twin Peaks (1990-1991), fino alla rivisitazione posticcia del
Peach Pit di Beverly Hills, 90210 (1990-2000), il diner delle serie tv (→) è un
punto di incontro irrinunciabile per adolescenti e adulti, uomini e donne,
nelle piccole città (→) così come nei suburbs (→) e nelle metropoli (specie
se divenute «città nude» →). Se è poi vero che il piccolo e il grande schermo
intrattengono da sempre una relazione assai feconda, l’elenco di scene
cinematografiche ambientate nei diners si fa ancora più fitto: da Alice non
abita più qui (1974) e Quei bravi ragazzi (1990) di Martin Scorsese, a A cena con
gli amici (Diner, 1982) e Tin Men. Due imbroglioni con signora (1987) di Barry
Levinson e, ancora, Velluto blu (1986) e Mulholland Drive (2001) di David
Lynch, dalle indimenticabili interpretazioni di Lily Tomlin e Tom Waits in
America oggi (1993) di Robert Altman al prologo più esilarante e pulp degli
anni novanta: la scena della rapina in Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994)
in cui Pumpkin (Tim Roth) e Honey Bunny (Amanda Plummer) atterriscono
i presenti con l’ormai celebre: «Nessuno si muova! Questa è una rapina!».
Storicamente, la paternità del diner – nella forma in cui lo conosciamo
oggi – spetta a Walter Scott, un signore di Providence, Rhode Island, che nel
1872 decide di aprire una beanery (una specie di bettola) su ruote. A parte
l’omonimia con lo scrittore scozzese, l’invenzione di Scott ha ben poco di
epico e molto di (gustoso) pragmatismo yankee: dal suo vagone trainato dai
cavalli, variante urbana di un chuck wagon (→ Conestoga e prairie
schooner), Scott comincia a vendere uova, panini, torte e caffè ai lavoratori
impegnati nei turni serali e ai nottambuli di Providence: un’alternativa
pratica ed economica ai ristoranti cittadini che chiudono alle otto di sera. A
parte il pollo – un po’ più caro –, tutto il resto costa un nickel: pane
imburrato, uova bollite, una fetta di apple pie (→) o di qualsiasi altra torta
dolce o salata, sandwich (→ Sandwich e hotdog) e «chewed sandwich»
farciti con gli avanzi degli altri panini trinciati e rosolati nel burro. Di fronte
a qualche avventore dall’aspetto poco raccomandabile, Scott si allunga dal
bancone e gli prende il cappello come cauzione sul pagamento del conto. Il
suo ingegno non può però tutelarlo dal nemico peggiore, la concorrenza. Da
Providence i cosiddetti night lunch wagons si diffonderanno in tutto l’Est,
diventando da semipermanenti a stanziali: tanti piccoli vagoni rettangolari
su quattro ruote, pieni di finestre e con una porta centrale. A fine secolo, i
diners non sono più ricavati da vecchi carri o da vagoni di tram in disuso ma,
disegnati e costruiti come tali, assumono una loro identità ben precisa. Le
varie main streets (→) si arricchiscono così di un nuovo elemento estetico –
sul principio un po’ incongruo – che conosce un boom negli anni venti del
Novecento e resiste alla crisi della Grande depressione (→) grazie alla
propria natura democratica e popolare. Offrendo una via di mezzo tra uno
hot dog (→ Sandwich e hot Dog) consumato in piedi e il menu di un
ristorante, il diner continua la sua fortuna negli anni quaranta, quando
subisce una serie di ritocchi cosmetici: in linea con la moda delle superfici
arrotondate e aerodinamiche («Streamline»), gli esterni si fanno vistosi e
luccicanti e gli arredi interni sempre più luminosi. Il secondo dopoguerra
coincide con il loro periodo di massimo splendore, preludendo tuttavia al
declino: con gli anni cinquanta e la moda dei fast food, degli automats e dei
drive-in (→), essi cominciano a subire una battuta d’arresto – che si farà
irreversibile nel decennio successivo – e sopravvivono solo cambiando
pelle, perdendo cioè il loro stile unico e il caratteristico aspetto di «vagone».
Non è un caso quindi che una serie televisiva come Happy Days (1974-
1984) ricrei l’atmosfera nostalgica e patinata degli anni cinquanta anche
attorno ad Arnold’s, emblema di un’epoca rievocata come priva di
complicazioni e tutta compresa nei problemi sentimentali di adolescenti
pronti a risolverli sulle note rassicuranti di un juke-box, davanti a milk-
shake, hamburger e patatine. Di ben altro tenore rispetto a «Happy Days
Are Here Again» di Fonzie & Co. sono invece le canzoni che compongono, in
quegli stessi anni, il terzo album di Tom Waits, Nighthawks at the diner (1975),
chiaro omaggio al celebre dipinto di Edward Hopper, Nighthawks (1942),
summa della notturna solitudine urbana: in «Eggs and Sausage», una voce
ghiaiosa e notturna quant’altre mai canta «You know there were
nighthawks at the diner / A little joint called Emma’s 49er / With a
rendezvous of strangers around the coffee urn tonight / And all the gypsy
hacks and now the insomniacs / And the paper’s been read / As the
waitress said / Eggs and sausage and a side of toast / Coffee and a roll and a
hash browns over easy / And some chile in a bowl with burgers and fries /
Now what kind of pie?». Tra nottambuli e insonni, caffè e giornali, il
dilemma dei frequentatori di diners resta sempre uguale: quale torta
scegliere?

BIBLIOGRAFIA
Richard Gutman, American Diner Then and Now, Johns Hopkins University
Press, Baltimore 2000.
Chester H. Liebs, Main Street to Miracle Mile: American Roadside Architecture,
Little, Brown and Company, Boston 1985.
C. SCAR.

Disastri
Che siano naturali (terremoti, uragani, inondazioni, siccità; → Big One),
terroristiche (→ World Trade Center; → Waco, Columbine), nucleari (→
Progetto Manhattan; → Three Mile Island), tecnologico-ingegneristiche
(cedimenti di dighe, incendi di miniere, collassi strutturali di ponti,
riversamenti di petrolio, coltri di smog), le catastrofi sono una componente
fondamentale della storia e della fantasia collettiva americane. Tra gli
eventi epocali di questo inizio millennio, l’uragano Katrina, l’attacco alle
Twin Towers e la marea nera del Golfo del Messico si sono impressi nella
memoria occidentale come scenari di un’apocalisse moderna propiziata da
una natura matrigna e da una sorte avversa. Vale la pena di ricordare che
non solo la libertà di cui gode la stampa negli Stati Uniti ha reso possibile la
divulgazione di immagini e informazioni altrove non di rado censurate, ma
che il susseguirsi di queste catastrofi ha sollecitato lo sviluppo di politiche
riformiste in grado, almeno nelle intenzioni, di raddrizzare le storture
responsabili di quegli accadimenti infausti: gli incidenti nelle miniere di
carbone di fine Ottocento e inizi Novecento sono alla base di leggi più
attente alla tutela della sicurezza dei minatori; i cedimenti di dighe
costruite secondo criteri edilizi non adeguati convincono il Congresso della
necessità di regolamentare con maggior rigore i permessi di costruzione; le
nubi di smog che si addensano sulla città di Los Angeles (California) e
Donora (Pennsylvania) portano alla prima legge sull’inquinamento
dell’aria; gli effetti mortali di alcuni composti chimici usati a fini medicinali
spingono la Fda (Food and Drug Administration) ad aumentare i controlli
sui farmaci; ecc. Che il reiterarsi di riversamenti di petrolio, incidenti nelle
miniere, effetti dello smog e del fallout nucleare e incendi devastanti
continui ancora oggi, a distanza di un secolo o di qualche decennio, a
mietere vittime e a colpire l’ambiente americano fa forse riflettere sulla
reale praticabilità di misure legislative che, aumentando
«democraticamente» il costo del lavoro e della produzione a tutela
dell’ambiente e della vita umana, fanno a pugni con le esigenze economiche
del profitto.
Parleremo dunque qui di disastri ambientali e ingegneristici, alcuni
recenti altri dimenticati o quasi sconosciuti: da quelli minerari di Avondale
e Hawk’s Nest a quelli petroliferi di Exxon e Bp, dal cedimento della St.
Francis Dam allo smog killer di Donora. Vale la pena di ricordare come
questi disastri siano spesso l’altra faccia di progetti all’avanguardia (si pensi
alla costruzione di dighe o all’estrazione di petrolio a grandi profondità),
scaturiti da una vocazione nazionale al controllo e allo sfruttamento della
natura attraverso sperimentazioni tecnologiche dai rischi ambientali molto
alti.
Incidenti minerari. Tra i peggiori incidenti minerari della storia
americana va annoverato quello della Avondale Mine, Pennsylvania (→
Appalachia), del 1869, nel corso del quale cento minatori che stanno
lavorando a 90 metri sottoterra muoiono asfissiati perché mancano le uscite
di sicurezza. Dopo quarant’anni, un altro incendio provoca la morte di
almeno altrettanti lavoratori che rimangono intrappolati nella Cherry Mine,
Illinois: è il peggior disastro nella storia dell’industria carbonifera del paese.
Altrimenti legata all’industria mineraria è poi la tragedia dello Hawk’s Nest
Tunnel, presso la cittadina di Gauley Bridge, West Virginia, nel 1931, le cui
prime notizie ufficiali arrivano alla stampa, facendone un caso nazionale,
solo nel 1938. Ricostruiamo la vicenda. Nel 1929, la Union Carbide
(multinazionale estrattiva e metallurgica e colosso petrolchimico fondato
nel 1917) è responsabile, attraverso una sua sottocompagnia (la Konawha
Power Company), delle attività di deviazione delle acque del New River
mediante la costruzione di un tunnel e di una diga nei pressi di Hawk’s
Nest. Lo scopo del progetto è la produzione di energia da inviare a un’altra
affiliata della Union Carbide, la Electro Metallurgical Company. Mentre
stanno scavando il tunnel, gli ingegneri della Konawha rinvengono un
grande filone di silicio di cui la Carbide si affretta ad avviare l’estrazione,
convogliando il minerale alla Electro Metallurgical Company, dove servirà
per la lavorazione dell’acciaio. Anziché seguire un protocollo estrattivo che
vorrebbe – per ridurre i rischi dell’esposizione cancerogena alla polvere di
silicio – l’uso di un’attrezzatura protettiva, l’avvicendarsi frequente di
squadre di supporto e il ricorso alle perforazioni idriche, la Carbide impone
l’estrazione della silice a secco e senza alcuna misura preventiva: il rilascio
di tonnellate di pulviscolo tossico porterà così alla morte, per silicosi, di un
numero di minatori che oscilla dai 475 ai 2000. Il conseguente
insabbiamento delle prove incriminanti da parte della Carbide si avvarrà
della corruzione dei medici (prezzolati per diagnosticare ai pazienti
polmoniti, pleuriti e tubercolosi in luogo della silicosi) e della sepoltura dei
morti nei campi di grano circostanti per 55 dollari a salma. Al disastro di
Hawk’s Nest è ispirato e dedicato il poema The Book of the Dead di Muriel
Rukeyser (1938).
Cedimenti di dighe. Già nel 1874, nel Massachusetts, un’inondazione di
circa 600 milioni di galloni di acqua causata dal cedimento della Mill River
Dam si porta via fabbriche, fattorie, case, alberi della valle sottostante. Tra
le cause del collasso, una progettazione inadeguata e una grave falla nel
bacino artificiale. Nel disastro muoiono 139 persone, e 740 sono sfollate; in
seguito, il Massachusetts e altri stati voteranno misure di sicurezza nella
costruzione delle dighe future. Nel 1928 qualcosa di simile avviene nella
Santa Clara Valley che, all’interno del sistema idrico di Los Angeles, ospita
la St. Francis Dam. Costruita sul San Francisquito Canyon due anni prima da
William Mulholland – allora ingegnere e amministratore del Los Angeles
Department of Water and Power – per creare un’enorme riserva di acqua in
caso di terremoti o di sabotaggi dell’acquedotto, la diga sorge non solo sulla
faglia di San Andreas ma anche su un suolo che si rivelerà poi essere a
rischio di frane. Nonostante le perdite e i cedimenti vistosi che
caratterizzano fin da subito quel colosso di ingegneria, Mulholland ne
aumenta la capienza. Quando, il 12 marzo, la St. Francis Dam crolla, la
distruzione, su scala californiana, è seconda soltanto a quella del
terremoto/incendio di San Francisco (→ Big One): 420 morti, 79 milioni di
acri di terra sommersi, danni per 15 milioni di dollari. Di quel disastro – che
spazza via anche la carriera di Mulholland – esistono pochissime immagini,
rilasciate soltanto un anno dopo dal L.A. Department of Water and Power.
La costruzione di dighe nell’Ovest continuerà comunque a pieno ritmo,
come attesta l’esempio mastodontico e prodigioso della diga Hoover (→
Hoover).
Smog tossico. Sebbene già tra il 1905 e il 1912 la città di Los Angeles abbia
adottato alcune misure per combattere le emissioni di gas e di fumo, negli
anni quaranta l’accresciuta industrializzazione dell’intera regione
metropolitana porta l’inquinamento dell’aria a livelli allarmanti. Così, nel
bel mezzo della Seconda guerra mondiale, Los Angeles si risveglia avvolta in
una nube di nebbia: la visibilità è di meno di tre isolati. I più credono che si
tratti di un attacco chimico dal Giappone; poi, sul principio la colpa viene
addossata alla Southern California Gas Company’s Aliso Street Plant (una
centrale che produce butadiene, composto chimico a uso industriale
necessario alla sintesi della gomma: l’esposizione al butadiene può generare
diversi disturbi alla vista, all’equilibrio e alla circolazione e, se cronica, il
cancro). La Aliso Street Plant viene chiusa in via temporanea, ma la nebbia
non si disperde: anzi, è tanto densa da costituire una minaccia per
l’aviazione. Ci vorrà almeno un decennio perché si scopra che la foschia
opprimente del 1943 è causata dalle automobili, dal trasporto su ruote e, in
misura minore, dai fumi degli inceneritori domestici, dalla combustione di
gomma e plastica nelle discariche e di trucioli nelle segherie.
Cinque anni più tardi, nella piccola città di Donora, in Pennsylvania, lo
smog arriva a uccidere almeno 20 persone, causando diverse patologie ad
altre 6000. Oltre a essere un centro metallurgico e siderurgico in cui si
lavorano zinco e acciaio, Donora, situata nella valle del fiume Monongahela,
è anche uno snodo importante per le rotte di navi, treni e camion, e le
nebbie cariche di agenti inquinanti sono piuttosto comuni. Durante l’ultima
settimana di ottobre del 1948, una nuvola di smog più plumbea del solito si
ammassa sopra la cittadina. Il traffico fluviale è paralizzato; negli ospedali
locali si riversano molti cittadini che lamentano mal di testa fortissimi e
problemi respiratori; dopo quattro giorni si contano più di una dozzina di
morti per patologie riconducibili alla concentrazione di inquinanti nell’aria.
Los Angeles e Donora diventano i simboli più urgenti di una crisi nazionale.
Fino a quel momento, l’inquinamento dell’aria è stato trattato come un
disturbo e non come un rischio per la salute, ma in seguito ai fatti di
Donora, lo U.S. Public Health Service dedica al problema un pionieristico
studio scientifico: seguiranno la prima conferenza sullo stesso tema
organizzata dal presidente Harry Truman nel maggio 1950 e la legge per il
controllo dell’inquinamento dell’aria – Federal Air Pollution Control Act –
votata dal Congresso nel 1955.
Maree nere. Il 28 gennaio 1969, un pozzo della piattaforma della Union
(→ Oil!) esplode al largo di Santa Barbara, riversando petrolio e gas naturale
nelle acque della bassa California. Pochi mesi prima, il governo americano
ha concesso il permesso per le trivellazioni offshore nello scenografico
canale della città costiera a un consorzio di compagnie petrolifere (Union,
Mobil, Texaco, Gulf), ignorando le proteste degli ambientalisti locali. Per
mesi il greggio continuerà a fuoriuscire da un fondale oceanico già segnato
dalle spaccature del terremoto del 1925 (→ Big One) e il manto oleoso così
formato si estenderà per più di 600 miglia quadrate, trasportato dall’azione
delle onde e delle maree verso i litorali e le isole vicine. La conseguente
moria della fauna costiera finirà immortalata in immagini che ispireranno
l’organizzazione del primo Earth Day, nell’aprile 1970, espressione di una
delle stagioni più vive del movimento ambientalista americano (→ Three
Mile Island).
Passano vent’anni e una petroliera della Exxon, appena uscita dal porto
di Valdez, nel Golfo dell’Alaska, s’incaglia nello stretto di Prince Williams in
seguito a una manovra forse poco esperta, che porta allo speronamento del
fondale roccioso del Bligh Reef. La Exxon-Valdez trasporta circa 53 milioni
di galloni di greggio – estratto dalla Proudhoe Bay e convogliato dalla
Trans-Alaskan Pipeline – verso la California. Le stime ufficiali parleranno di
una fuoriuscita di 11 milioni di galloni nelle acque dell’Alaska. Il Prince
William Sound è uno stretto assai chiuso, quasi un fiordo, caratteristica che
renderà le operazioni di ripulitura ancora più complesse e difficili: prima
saranno usati detergenti dispersivi come il Corexit 9580 (tossico, come si
verrà a scoprire in seguito, non solo per l’ambiente ma anche, sebbene con
effetti ancora non del tutto accertati, per l’uomo); poi sarà la volta di
piccole esplosioni in superficie, nel tentativo di bruciare parte del petrolio;
infine il drenaggio a mezzo di pompe delle cisterne ancora piene. Al
termine di questi interventi, solo il 10% di ciò che è stato versato in mare
sarà recuperato. A vent’anni dal 1989, il petrolio non è scomparso dalle
spiagge dell’Alaska: trasformato in palle di catrame e asfalto che resistono
all’erosione vi resterà, a detta di molti esperti, per secoli. Quanto alle
responsabilità della Exxon, le facoltà finanziarie della multinazionale di
sostenere processi lunghi e onerosi (→ Oil!) hanno contribuito alla
sottostima delle perdite della Exxon-Valdez, riducendo così i danni da
corrispondere al governo.
La storia della marea del Golfo del Messico (aprile 2010), preceduta da
disastri analoghi nel 2005 e nel 2006, è invece troppo recente per essere
raccontata nei dettagli: basti dire che gli effetti sulla flora e sulla fauna del
delicatissimo ecosistema del golfo e del delta del Mississippi (→ Bayou)
sono già visibili, ma è difficile calcolare oggi la loro portata complessiva. Le
scene di gabbiani e pellicani imbrattati di catrame che annaspano su
spiagge ricoperte di petrolio richiamano alla memoria quelle del 1989 così
come il processo alla Bp, che pur dovendo pagare risarcimenti altissimi alle
popolazioni della Louisiana e al governo degli Stati Uniti, non diversamente
dalla Exxon in Alaska, ha messo in campo il meglio delle proprie risorse
legali per allungare i tempi dei processi e sottodimensionare le perdite.

BIBLIOGRAFIA
Ballard C. Campbell, Disasters, Accidents, and Crises in American History. A
Reference Guide to the Nation’s Most Catastrophic Events, Facts on File, New
York 2008.
Marc Reisner, Cadillac Desert. The American West and Its Disappearing Water,
Penguin, New York 1993.
C. SCAR.

Disneyland
Quando decise di dar vita alla sua nuova creatura, Walt Disney fece una
scommessa di certo ambiziosa: rapire grandi e bambini dalla realtà e
renderli protagonisti di avventure in scenari fino ad allora relegati alla
bidimensionalità degli schermi di cinema e tv e della carta stampata. Il tutto
attraverso il gioco e il viaggio, in uno spazio fisico che prendeva le mosse
dagli ormai affermati amusement parks (→ Coney Island). In verità, negli
anni quaranta e cinquanta del Novecento questi ultimi non godevano di
buona fama, essendo sinonimi di montagne russe, donne scimmia, gemelli
siamesi e altri freaks, cibo spazzatura, tatuaggi a poco prezzo e adolescenti
in cerca di trasgressione. Almeno fino a quando, complici i grandi successi
dei Disney Studios, il padre di Topolino e Paperino decise di creare ad
Anaheim, in California, il «Luogo Più Felice della Terra». Che non nacque
però sotto i migliori auspici, visto che, il giorno della sua apertura, nel luglio
1955 (con tanto di cerimonia di gala e una diretta televisiva lunga
ventiquattro ore), fu ribattezzato «Black Monday», perché l’inaspettata
folla di visitatori riempì il parco ben oltre la sua capienza massima, mentre
uno sciopero degli idraulici costrinse la direzione a scegliere fra il
funzionamento delle fontanelle d’acqua e quello dei servizi igienici (a
vincere furono i secondi).
A dispetto delle previsioni negative degli addetti ai lavori, il successo di
Disneyland fu immediato e duraturo, aumentando nel successivo mezzo
secolo grazie a un’abile miscela di innovazione e tradizione, realismo e
spinta utopica, desiderio di fuga e senso patrio, che Walt Disney seppe
ricreare nei suoi ora numerosi regni. L’idea, in fondo, non era nuova: oltre
agli amusement parks (come il Griffith Park di Los Angeles), a ispirare il
creatore furono i «villaggi storici», che Disney aveva visitato negli anni
trenta e quaranta insieme alle figlie: il Greenfield Village, creato da Henry
Ford negli anni venti, vicino a Detroit (e visitato da Disney nell’agosto del
1940), dove il magnate dell’automobile aveva ricostruito il proprio villaggio
natale accanto a una copia dell’Independence Hall e al laboratorio di Edison
(→ Menlo Park) con l’intento di infondere nei visitatori sentimenti quali il
nazionalismo e la self-reliance. A esso si aggiunga l’altro punto di riferimento
in materia di historic parks, la Williamsburg coloniale ideata da Rockefeller
negli anni trenta – lezioni moraleggianti sull’America preindustriale da
parte di una famiglia che sull’industria aveva costruito le proprie fortune.
A discapito del suo porsi a chiare lettere come un «altrove», il regno di
Disney dice molto non solo sulle fantasie del suo creatore, ma su un
rapporto molto particolare della cultura popolare con i suoi miti e il suo
spazio. Se, in giardini e cittadine modello (→), Ford e Rockefeller avevano
celebrato l’epica del singolo o della casata familiare, Disney guardava invece
più all’esperienza comunitaria, sulla scia di quelle esposizioni universali
(→) di cui tanto doveva aver sentito parlare dal padre, che aveva lavorato
alla celebre edizione di Chicago del 1893. Disneyland è un autentico inno
alla collettività, alla condivisione di un’esperienza comunitaria che la vita
nelle grandi città e l’isolamento dei sobborghi (→ Suburbs) avevano via via
cancellato. Per questo, varcata la soglia del regno magico, ai visitatori non è
data altra scelta se non quella di muoversi sempre insieme: a bordo dei
trenini che uniscono le singole attrazioni del parco (e che Disney era andato
a studiare di persona nel 1948, alla Chicago Railroad Fair) e soprattutto nel
camminare insieme, prima sotto una grande porta d’accesso, poi lungo la
Main Street (→). Passaggio obbligato, la Main Street (che pare Walt abbia
immaginato come copia edulcorata della strada principale di Marceline,
Missouri, sua cittadina di origine) sarebbe dovuta essere, nelle intenzioni
del creatore, il condensato e il centro della vita comunitaria. Ma come tutte
le strade nelle cittadine modello, anche questa presenta a ben guardare
caratteristiche piuttosto sospette. Nel caso di Disneyland, la causa di tale
irrealtà è innanzitutto da ricercare nella «prospettiva distorta», un
espediente architettonico che fa sembrare gli edifici più piccoli di quanto
siano, con l’effetto di ricreare intorno al visitatore una rassicurante casa di
bambole, ponte diretto con il mondo dell’infanzia. Un’infanzia di certo
molto consumistica: per cogliere il filo diretto tra fantasia e business, basta
guardare dietro alle false fronts (→ Cittadine fantasma) degli edifici che
costeggiano la strada principale – false davvero, visto che nascondono
shopping mall (→ Mall) zeppi di mercanzie, a cui è davvero difficile resistere.
Intorno alla main street, si articola un mondo geometrico, diviso in
quattro aree precise, corrispondenti ai quattro mondi fantastici del passato,
del presente, della natura e dell’altrove, che rivelano l’ambiguo rapporto
fra evasione e ordine, fra spinte centrifughe e ritorni a casa su cui questo
universo addomesticato dell’immaginazione si mantiene in equilibrio:
«Adventureland», che trasporta il visitatore in giungle e altri mondi
naturali; «Tomorrowland», con il suo immaginario futuribile, che tanto
peso avrà sui parchi a tema successivi; «Frontierland», rivisitazione
dell’epica della Frontiera (→) sulla scia dei miti alla Davy Crockett (→
Olimpo americano), verso cui Disney aveva orientato i suoi prodotti
televisivi. Su tutti, svetta (e non solo metaforicamente) «Fantasyland», il
Regno della Fantasia: qui a prendere vita sono le creature dei
lungometraggi, pezzo forte, dalla fine degli anni trenta in avanti, del
successo anche economico della compagnia. Il celebre castello della Bella
Addormentata, divenuto negli anni il simbolo stesso dell’impero Disney, è
forse il segno più evidente di un bisogno di ordine che, per essere tale, deve
affiancare alla democraticità orizzontale della Main Street e ai volti noti dei
personaggi amati incontrati per strada anche punti di riferimento visibili da
qualsiasi luogo – i wienie (würstel), come li chiamava Disney – essenziali per
orientarsi e, con ciò, sentirsi a casa nel parco.
Spinta utopica e sano pragmatismo si ritrovano anche nelle attrazioni
vere e proprie e nella loro evoluzione: da un lato, la fuga negli scenari delle
più famose pellicole animate – specie attraverso i trenini, dentro grotte o
passaggi poco illuminati, intervallati da tableaux vivants, dove a rischiare per
gioco la vita, fra streghe cattive e Capitan Uncini, sono gli spettatori
medesimi, trasformati in protagonisti di una sempre nuova avventura;
dall’altro, la costante attenzione e l’influsso che sulle trasformazioni del
regno della fantasia ebbero le evoluzioni della scienza, dell’architettura e
della meccanica, nonché le tendenze di mercato. Fu così che, quando Robert
Moses, organizzatore della New York World Fair del 1964, persuase Disney a
dare il proprio contributo con quattro nuove attrazioni, questi creò i primi
robot giocattolo, in grado di unire movimento e suoni sincronizzati; mentre
a Disneyland, nel decennio successivo, per attrarre un pubblico di
adolescenti in cerca di emozioni forti, furono riprese le tradizionali ruote
panoramiche e le montagne russe, trasformate in esperienze alquanto
adrenaliniche.
Il successo della fantasia portò presto l’impero commerciale Disney ad
allungare i suoi tentacoli anche verso est: declinata l’offerta di Moses per
una versione newyorkese del parco, gli agenti della società misero gli occhi
sui terreni (paludosi e poco fertili) della Florida, vicino a Orlando, per
erigere il nuovo Magic Kingdom, dalla cui costola scaturirono poi Epcot
(1982) e Celebration (→ Cittadine modello) mentre oltreoceano l’impero si
spinse fino al Giappone e alla Francia.
Anche senza attendere l’apertura di queste due propaggini, Disneyland
si conquistò fin dagli albori una statura internazionale – passerella ambita
da attori (che si precipitarono in massa nel giorno di apertura), teste
coronate e politici. Fra questi il premier sovietico Nikita Chruščëv, le cui
richieste durante la sua visita negli Stati Uniti del 1959, in piena Guerra
fredda, contemplavano anche un’escursione a Disneyland. Richiesta cui
però il governo statunitense oppose un fermo rifiuto: questioni di sicurezza,
si disse. Ma chissà che, dietro il diniego, non vi fosse il timore che il
rappresentante del Pericolo Rosso (→ Red Scare), abbracciato a Topolino,
potesse apparire troppo innocuo.

BIBLIOGRAFIA
John M. Findlay, Magic Lands, Stanford University Press, Stanford 1992.
Karal Ann Marling, Designing Disney’s Theme Parks: The Architecture of
Reassurance, Flammarion, New York 1997.
Michael Sorkin (ed.), Variations on a Theme Park, Random House, New York
1992.
C. SCHIA.

Disordini
Una delle immagini attraverso le quali l’America ama rappresentarsi è
quella della «città sulla collina» (→), ma tra i padri fondatori qualcuno
dubitava che lo sviluppo urbano fosse un’evoluzione del tutto auspicabile.
Thomas Jefferson, tra coloro che con più tenacia difese l’ideale di una
nazione agraria (→ Acri), aveva una profonda avversione per le città, luoghi
pestilenziali dove l’individuo perdeva i suoi connotati più nobili e si
degradava a essere bestiale: le masse urbane erano un bubbone malefico che
ostacolava il buon governo. Già a metà Ottocento però, come si evince da
L’uomo della folla (1840) di Edgar Allan Poe – racconto ambientato a Londra,
ma nel quale si intuisce la New York dell’epoca –, la popolazione delle città
era ormai un campionario eterogeneo di tipi umani e sociali, diversi per
maniere, vestiario e persino tratti somatici. Le cronache si riempirono di
furti, omicidi, imbrogli, mentre nelle strade correvano tensioni e
frustrazioni legate a condizioni di vita precarie, che trovavano sfogo in
episodi di violenza collettiva.
La miccia poteva essere innescata da un pretesto in apparenza banale:
nel caso degli Astor Place Riots del maggio 1849, per esempio, l’origine degli
scontri risale alla rivalità tra l’attore inglese William McCready e l’omologo
americano Edwin Forrest, entrambi sostenuti da combattive schiere di
ammiratori, diversi per estrazione sociale. All’epoca, il teatro americano era
ancora monopolio britannico, e sugli attori sovente si scaricava il
risentimento e l’ostilità che il pubblico nutriva per la ex madrepatria. Non
sorprende dunque che, quando Forrest emerse dai palcoscenici della
Bowery (→) e si affermò come interprete di spessore, il pubblico di casa,
specie quello operaio che lo aveva visto muovere i primi passi, ne facesse il
proprio beniamino. E allo stesso modo non sorprende che, quando giunse
negli Stati Uniti la notizia che McCready lo aveva fischiato durante una
performance in terra inglese, i fan di Forrest non l’avessero presa bene,
vedendo nel gesto un insulto dei vecchi padroni. Quando dunque McCready
attraversò l’Atlantico per una tournée, trovò un comitato di accoglienza
pronto a interrompere le sue recite e restituire lo sgarbo. La sera del 10
maggio 1849, davanti alla Astor Opera House, un teatro frequentato da
pubblico raffinato e aristocratico nei pressi del Lower East Side (→), una
folla si radunò per disturbare il regolare svolgimento del Macbeth, lanciando
pietre e ortaggi assortiti contro gli spettatori all’entrata e all’uscita. La
polizia, accorsa per consentire a McCready di lasciare il teatro incolume,
affrontò i sostenitori di Forrest, uccidendo 25 persone e ferendone circa
120.
Trascorsi quindici anni, le strade di New York furono teatro di disordini
ancora più violenti. L’occasione scatenante fu l’approvazione nel luglio
1863 di una legge per la leva obbligatoria, misura resa necessaria dalle alte
perdite subite dal governo unionista nei primi due anni della Guerra civile
(→) – da qui il nome di Draft Riots (= «i disordini della leva»). A livello più
profondo, tuttavia, la rivolta scaturì dalle fratture createsi nel tessuto
urbano, in particolare con il consolidarsi di una classe operaia di
provenienza immigrata (in larga parte di origine irlandese) che
sopravviveva con le occupazioni più umili e non vedeva di buon occhio la
liberazione degli schiavi neri, che avrebbe immesso pericolosi concorrenti
nel mercato del lavoro. Inoltre, l’aumento dei prezzi provocato dalla guerra
aveva reso ancora più precaria la sopravvivenza dei meno abbienti. Le
autorità di New York ebbero la malaugurata idea di iniziare le operazioni di
scelta delle nuove reclute pochi giorni dopo la battaglia di Gettysburg (→),
quando si venne a conoscenza dell’alto numero di vittime, acutizzando la
già aperta ostilità verso il conflitto. Inoltre, i poveri mal digerirono il fatto
che i benestanti, pagando l’allora cospicua somma di 300 dollari, avrebbero
potuto farsi esentare. Molti immigrati si sentirono beffati perché alcuni
mesi prima il Partito democratico aveva condotto una campagna di
naturalizzazione attraverso corsie preferenziali poco lecite – con lo scopo di
comprare il voto dei quartieri popolari e d’immigrazione, in cambio di una
bevuta in un saloon (→). I «nuovi americani» non immaginavano certo che,
così facendo, si erano resi idonei alla leva. Per quattro giorni, dal 13 al 16
luglio, gruppi spontanei cercarono di impedire lo svolgimento delle
operazioni entrando in conflitto con le forze dell’ordine. Nelle strade
furono erette barricate, mentre la folla si adoperò per impedire i servizi di
trasporto pubblico e bloccare le attività di fabbriche e laboratori. Il
sovrintendente della polizia fu malmenato, mentre i rivoltosi assaltavano le
case dei ricchi (tra cui quella del sindaco Opdyke) derubandole e mettendole
a ferro a fuoco, così come le sedi di alcuni quotidiani e persino due chiese. I
rivoltosi si accanirono con particolare crudeltà contro inermi
afroamericani: undici di loro furono selvaggiamente linciati (→ Strani
frutti), mentre l’incursione in un orfanotrofio dove erano ospitati bambini
neri venne respinta a fatica. Per riportare l’ordine furono richiamati alcuni
reggimenti dell’esercito, che ingaggiarono una guerriglia strada per strada,
sostenuti dal contemporaneo cannoneggiamento di alcune fregate militari
ancorate nel porto. Il bilancio complessivo fu di 120 morti e oltre 2000 feriti
(i Draft Riots sono al centro del film di Martin Scorsese, Gangs of New York,
del 2002, epico affresco sulle rivalità tra le bande del sottobosco criminale
della città → Gang).
Spostandosi di qualche isolato e di un altro decennio si arriva ai «fatti di
Tompkins Square», del gennaio 1874. Questa volta, il malcontento era legato
al grande panico del 1873, periodo in cui la grande macchina economica
messa in moto dopo Appomattox (→) cominciò a incepparsi, lasciando
migliaia di operai senza lavoro e provocando moti di protesta e agitazione
in tutto il paese (→ Sciopero!). A New York, un comitato in cui operavano
anche membri della Prima Internazionale indisse una manifestazione a
Tompkins Square, cuore del Lower East Side, per il 13 gennaio del 1874. Il
progetto era di marciare in corteo verso il municipio e presentare al sindaco
la proposta di finanziare un programma di opere pubbliche nel quale
coinvolgere tutti coloro che avevano perso il posto di lavoro. Quella
mattina, oltre settemila persone si riunirono nella piazza, ignare del fatto
che la sera precedente era stato revocato il permesso di tenere la
manifestazione. Il sindaco Havemayer, del resto, non aveva alcuna
intenzione di mettersi a discutere con «quel gruppo di pazzi» e riteneva che
le proposte dei manifestanti fossero antiamericane e antipatriottiche. Alla
polizia fu lasciata mano libera per intervenire e mettere fine
all’occupazione della piazza: la folla venne caricata dagli agenti a cavallo e
lasciò sul campo molti feriti e contusi.
Se l’Ottocento fu un periodo turbolento, il secolo successivo non lo fu di
meno. Il disagio, però, assunse spesso connotati etnici, a significare un
processo di marginalizzazione delle minoranze. La distribuzione spaziale
della popolazione delle città secondo classe e gruppo di origine era un fatto
già acquisito, ma nel corso del Novecento interventi urbanistici
(costruzione di autostrade e ferrovie) e pratiche discriminatorie nel
mercato degli alloggi contribuirono a separare i ghetti dal resto della città
grazie a «cordoni sanitari» fatti di barriere non ufficiali. Il sovraffollamento,
le abitazioni in rovina, la bassa qualità delle scuole e le scarse opportunità di
impiego avevano trasformato queste aree in sacche di emarginazione e
miseria. Le croniche mancanze del trasporto pubblico, poi, rendevano
oltremodo difficoltoso frequentare scuole migliori o trovare impieghi al di
fuori del ghetto. Al contrario, i proprietari di case potevano imporre affitti
più alti rispetto alla media, ben sapendo che i neri non avevano alcuna
speranza di trovare alloggio in quartieri bianchi, mentre i negozianti
applicavano prezzi maggiorati per i generi alimentari e di consumo – una
situazione che suggerì allo storico Robert L. Allen, nel libro Black Awakening
(1969), il paragone tra la situazione degli afroamericani e quella di una
«colonia interna».
Preceduti dalla rivolta di Harlem (→) del 1935 e dagli Zoot Suit Riots (→
Zoot Suit) del 1943, i ghetti scoppiarono più volte durante i turbolenti anni
sessanta, dando vita alla serie di rivolte che alcuni storici hanno equiparato
a una «seconda guerra civile». Il movimento per i diritti civili (→ Back of
the bus) era riuscito a imporre al governo federale l’approvazione di misure
antidiscriminatorie grazie a una politica della non-violenza, ma leggi quali il
Civil Rights Act (1964) e il Voting Right Act (1965) non affrontavano i
problemi di una popolazione afroamericana toccata da una disoccupazione
tripla rispetto ai bianchi, redditi inferiori e bassa scolarità.
Nel luglio 1964, un adolescente nero fu ucciso a New York con un colpo
di pistola sparato da un agente fuori servizio, scatenando la rabbia dei
residenti di Harlem. Organizzata una marcia verso il commissariato del
quartiere, i manifestanti chiesero a gran voce l’arresto del colpevole. La
polizia li caricò e ne provocò la dura reazione, che proseguì per cinque
giorni (18-23 luglio), durante i quali vennero devastati negozi e edifici. Fu in
quei giorni che fece la sua comparsa lo slogan «Burn, Baby, Burn!», grido di
battaglia che sarebbe stato usato nei tumulti successivi, a partire da quelli
scoppiati durante la stessa estate a Rochester, nello stato di New York (24-
27 luglio) e a Philadelphia (28-30 agosto).
Nel 1965, il disagio si manifestò a Watts, quartiere di Los Angeles (11-15
agosto → Watts Towers), dove la comunità nera reagì all’arresto di un
giovane per ubriachezza e di una donna accusata di avere sputato sugli
agenti che eseguivano il fermo. Questa volta il bilancio fu di trentaquattro
morti, e il governatore Brown ricorse alla Guardia nazionale per porre fine
alla rivolta (recatosi sul posto per sedare gli animi, Martin Luther King fu
sommerso dai fischi). Nel 1966, fu la volta di Hough, a Cleveland (18-23
luglio, quattro morti), ma l’apice di questa stagione fu l’estate del 1967,
ancora oggi ricordata come la «Summer of Love» degli hippie e del
pacifismo, ma in realtà contrassegnata da altri sentimenti: una commissione
governativa elencò in quell’anno 8 sommosse di grande portata, 33 tumulti
gravi e 120 disordini minori, con un bilancio totale di 83 morti. Gli eventi
più gravi ebbero luogo nei ghetti neri di Newark (uno dei principali centri
del New Jersey, dal 12 al 17 luglio) e Detroit (dal 23 al 27 luglio). A Newark, la
rivolta iniziò in reazione alla notizia, rivelatasi poi infondata, che un
tassista nero posto in stato di arresto era stato ucciso da alcuni poliziotti: il
bilancio dei cinque giorni di scontri fu di 26 vittime. A Detroit, invece, la
popolazione afroamericana si sollevò per protestare contro un’operazione
di perlustrazione a tappeto nel quartiere intorno a Claremont Street, come
è raccontato nel brano «Motor City is Burning» (nelle due interpretazioni di
John Lee Hooker e degli MC5): questa volta, sul terreno rimasero 43 morti.
Dopo la coda di riots seguiti alla notizia dell’assassinio di Martin Luther
King (4 aprile 1968), la situazione dei ghetti, almeno a livello superficiale, si
tranquillizzò. La calma apparente, però, era ben lungi dal significare che la
ferita lungo la «linea del colore» (→) si era rimarginata. Tutt’altro:
l’esempio più eclatante si avrà infatti a Los Angeles, il luogo dove con
maggiore intensità sono aumentate le diseguaglianze economiche, senza
che l’élite politica abbia saputo o voluto dare un seguito alle buone
intenzioni di attuare politiche che ricucissero i gap esistenti in seno alla
cittadinanza. Subito dopo i disordini di Watts, le autorità avevano istituito
commissioni d’inchiesta e promesso stanziamenti per migliorare la
condizione della minoranza nera, finanziando programmi di inserimento
professionale e la costruzione di nuove scuole. L’elezione a sindaco
dell’afroamericano Tom Bradley nel 1973, tuttavia, era rimasta una mossa
di facciata: durante il ventennio in cui rimase in carica, come racconta Mike
Davis in Città di quarzo, si era andata accentuando la divisione dello spazio
urbano secondo linee etniche e di classe, in conseguenza della fuga dei
bianchi verso i suburbs (→) e le nuove edge cities (→), mentre nel centro
nuove barriere fisiche e il pattugliamento del Los Angeles Police
Department tenevano separati l’avveniristico quartiere finanziario e la
misera favela dove confluivano i migranti dal Centroamerica. Il 29 aprile
1992, una giuria decise di assolvere quattro poliziotti che avevano usato
violenza nei confronti di Rodney King, un afroamericano reo di non avere
obbedito a un segnale di stop. Il verdetto della giuria innescò la protesta
della comunità nera, stanca dei continui soprusi. Assembramenti spontanei
di dimostranti si formarono nella zona di South Central: la polizia,
vedendosi soverchiata nei numeri, decise di abbandonare l’area, lasciando
la folla libera di darsi al saccheggio. I commercianti asiatici di Koreatown,
vista l’assenza delle forze dell’ordine, cercarono di difendere i loro negozi
affrontando gli assalitori con armi da fuoco – quasi un ritorno all’epoca
senza legge della frontiera (→). La Guardia nazionale, richiamata in
servizio, tardò a mettersi in azione per la mancanza di equipaggiamento
adeguato. Durati sei giorni, i disordini provocarono 53 morti e circa mille
feriti. Molti furono anche gli arresti e, se la maggioranza, com’era facile
prevedere, erano latinos (50%) e neri (36), fu sorprendente riscontrare il
fermo di parecchi bianchi colti mentre assaltavano negozi di computer e
apparecchi elettronici – a testimonianza che il disagio nella metropoli
californiana travalicava le linee di gruppo etnico e classe e aspettava solo il
momento giusto per poter scoppiare. Come riassume il titolo di un brano
dei Rage Against The Machine, la città era «calma come una bomba» («Calm
Like a Bomb», 1996). C’è da chiedersi quando scoppierà di nuovo.
BIBLIOGRAFIA
Iver Bernstein, The New York City Draft Riots, Oxford University Press, New
York 1990.
Paul A. Gilje, Rioting in America, University of Indiana Press, Bloomington
1996.
Walter C. Rucker, James N. Upton, Encyclopedia of American Race Riots,
Greenwood Press, Westport 2007.
S.M.Z.

Dixie
La banconota da 10 dollari emessa a New Orleans prima della Guerra civile
(→) dalla Banque des citoyens de la Louisiane recava sul retro, nel mezzo, la
dicitura «DIX», che – com’è noto – in francese significa dieci; gli americani
avrebbero presto chiamato quelle banconote «Dixies» e, da allora, «Dixie»
passò a simboleggiare gli Stati del Sud e in pratica tutto ciò che li riguardava
(esistono altre possibili etimologie, ma nel complesso questa rimane la più
convincente). In quegli stessi anni d’anteguerra, il termine fu ufficializzato
da una canzone, «I Wish I Was in Dixie», o più semplicemente «Dixie»,
tratta dal repertorio dei minstrel shows (→) ma composta a New York e
diventata presto famosa – quasi un inno popolare del Sud, con forti
implicazioni razziali e razziste: «Vorrei essere nella terra del cotone, / I
vecchi tempi non si possono dimenticare». La nostalgia per una terra e per
un tempo segnati dalla schiavitù sono più che eloquenti: è interessante però
notare che la canzone era tra le preferite del presidente Lincoln e che,
d’altra parte, entrambi gli schieramenti in guerra se ne appropriarono
creando versioni specifiche (per l’esercito confederato fu una sorta di inno
non ufficiale).
Forse, l’uso più noto (e meno problematico, dal punto di vista delle
implicazioni razziali) del termine si ha nell’accezione «Dixieland», che sta a
indicare lo stile originario del jazz di New Orleans, all’alba del Novecento e
prima della chiusura del quartiere a luci rosse di Storyville (→) e dunque
della diaspora di jazz band e musicisti verso le città del Nord e Nordest:
pezzi celebri come «Basin Street Blues», «When the Saints Go Marchin’ In»,
«Tiger Rag», con la loro forte base ritmica (banjo, contrabbasso, batteria,
pianoforte) e la tromba e il clarinetto a ricamare i temi principali, e
musicisti come Louis Armstrong o Eddie Condon o la Original Dixieland Jass
Band di «Nick» La Rocca, rientrano in questa tradizione. La Preservation
Hall di New Orleans, un piccolo locale senza pretese nel cuore del French
Quarter e a poca distanza da quella che fu Congo Square (→), resta ancora
oggi il tempio di questo modo di suonare. Con tutte le contraddizioni di
Dixie.

BIBLIOGRAFIA
Ned Sublette, The World That Made New Orleans. From Spanish Silver to Congo
Square, Lawrence Hill Books, Chicago 2008.
Charles Reagan Wilson, William Ferris, Encyclopedia of Southern Culture,
University of North Carolina Press, Chapel Hill 1989.
M.M.

Dollaro
Come per molte altre icone culturali statunitensi, anche dietro la nascita
della moneta nazionale si cela un conflitto tra vecchio e nuovo, tra l’eredità
del passato europeo e la costruzione di un futuro americano. Il termine
«dollaro» era diffuso nel Vecchio continente già nel Seicento: proviene
infatti da «Joachimsthaler», moneta coniata a partire dal 1520 dal conte
boemo Hieronymus Schlick (Joachimthal, la «valle di Joachim», era il sito
dove veniva estratto l’argento per le monete). L’appellativo «thaler» si fece
strada attraverso territori e lingue, approdando infine in Inghilterra nella
forma «dollar».
D’altro canto, quando il Congresso decise di stampare moneta, Thomas
Jefferson e Gouverneur Morris, incaricato alle finanze del nascente stato,
insistettero per non utilizzare le denominazioni monetarie britanniche
pound, shilling e pence (sterlina, scellino, penny), nonostante il parere
avverso dei banchieri. Poiché nelle colonie erano in uso diverse valute
chiamate «dollaro» (in particolare, quello olandese e quello spagnolo),
Jefferson propose di designare allo stesso modo la nuova valuta americana;
per le suddivisioni decimali e centesimali si sarebbero utilizzati i vocaboli di
origine latina dime e cent.
Nel 1792, il Congresso approvò il Coinage Act, con il quale fu specificato
che il nascituro dollaro americano sarebbe corrisposto a un peso messicano
e che la sua composizione doveva comprendere tra i 371 e i 416 grani di
argento (circa 27 grammi), valore cui si arrivò dopo una misurazione dei
dollari spagnoli presenti sul territorio nazionale, promossa dal ministro del
Tesoro Alexander Hamilton. Per le banconote, invece, bisognerà aspettare
ancora più di mezzo secolo. Il primo biglietto da un dollaro venne messo in
circolazione nel 1862: sul fronte, capeggiava il ritratto di Salmon P. Chase,
allora ministro del Tesoro, mentre George Washington sarebbe comparso
solo sette anni dopo.
Nel 1929, le banconote vennero ridotte alle dimensioni attuali (156
millimetri di lunghezza e 66,3 in altezza) e si fissò definitivamente
l’abbinamento tra taglio e decorazioni: la banconota da un dollaro propone
il ritratto del primo presidente, George Washington, dipinto da Gilbert
Stuart; per le altre, si scelsero Thomas Jefferson (due dollari), Abraham
Lincoln (cinque), Alexander Hamilton (dieci), Andrew Jackson (venti),
Ulysses S. Grant (cinquanta), Benjamin Franklin (cento). All’epoca, la
Federal Reserve mise in circolazione anche banconote di taglio maggiore, da
500 fino a 100mila dollari (su queste ultime campeggiava Woodrow Wilson),
ma a partire dal 1969 vennero ritirate e sono ora diventate pezzi da
collezione. Del tutto fantasiosa, invece, la banconota da un trilione di dollari
che, secondo i creatori della serie tv I Simpson, il presidente Harry Truman
avrebbe affidato al futuro magnate Montgomery Burns per finanziare la
ricostruzione postbellica in Europa (→ Casa Simpson). La banconota non
arrivò mai a destinazione: che ci sia un legame tra questa misteriosa
sparizione e la nascita dell’impero economico di Mr Burns? Come si suol
dire, «you can bet your bottom dollar»: «ci puoi scommettere il tuo ultimo
dollaro!»
Il dorso della banconota da un dollaro è un concentrato di simboli. La
parola «one», in evidenza al centro, è affiancata dal recto e dal verso del
sigillo ufficiale, opera dell’altrimenti oscuro William Barton. A destra, il
recto, nel quale figura l’aquila calva (→ Pesci gatto e altri animali mitici); a
sinistra, invece, una piramide incompleta composta da tredici scalini,
sormontata dall’occhio della Provvidenza, anch’esso racchiuso in un
triangolo. Completano la raffigurazione due motti in latino: nella parte
superiore, «ANNUIT COEPTIS» («Egli [Dio, e chi altrimenti!] guarda con favore
alla nostra impresa»); nella parte inferiore, «NOVUS ORDO SECLORUM» («il nuovo
ordine dei tempi»). Infine, alla base della piramide, è presente il numero
1776 (anno dell’indipendenza) in cifre romane.
Quest’ultima immagine dovrebbe alludere al fatto che, con la nascita
degli Stati Uniti, l’operazione di rinnovamento dell’umanità è iniziata ma
lungi dall’essere conclusa. Secondo alcuni, invece, l’immagine cela un
messaggio occulto. Come ricorda Dan Brown ne Il simbolo perduto (2009), un
giallo ambientato a Washington, la piramide e l’occhio appartengono alla
simbologia massonica. Inoltre, tracciando su di essa i due triangoli di una
stella di David, in modo che uno dei vertici corrisponda all’occhio, si vedrà
che gli altri cinque toccano alcune lettere dei due motti. E quali sono queste
lettere? Formano una parola? Le lettere sono M-A-S-O-N: «massone». Mah.
Il dollaro è stato identificato come la vera divinità della nuova società
laica: Washington Irving scrisse che l’almighty dollar (l’onnipotente dollaro)
è oggetto di universale devozione in tutto il paese. Sarà anche per questo
sottotesto religioso – i nomi delle divinità non vanno pronunciati invano –
che la parola «dollaro» spicca per la sua assenza dalla conversazione
quotidiana. Gli americani preferiscono usare il termine buck, che di norma si
riferisce a un cervo maschio o un ariete. Il commercio di buckskins, le pelli di
questi due animali, era così diffuso intorno al 1750 che cacciatori e
commercianti le adottarono come unità di misura per definire i prezzi: e
presto entrarono nel linguaggio corrente anche per le monete e le
banconote. Per i pezzi da mille si è diffuso invece il termine grand (dal
francese medievale grandis, grande) spesso abbreviato alla sola G («Fifty Gs»
= 50mila dollari).
Nel 1944, durante la conferenza tenuta a Bretton Woods, un piccolo
villaggio del New Hampshire, i leader politici dei paesi occidentali posero le
basi per il sistema monetario internazionale che sarebbe entrato in vigore
una volta finita la guerra contro l’Asse, adottando il dollaro come valuta di
riferimento. La contiguità tra moneta e politica estera americana era
comunque già stata avviata qualche decennio prima con la cosiddetta Dollar
Diplomacy, la diplomazia del dollaro. Dopo la chiusura della frontiera (→), gli
Stati Uniti avevano cominciato a guardare al di fuori dei propri confini per
accaparrarsi nuove risorse e individuare nuovi mercati. Dopo gli interventi
militari a Cuba e a Panama (→ Splendide guerricciole), il gabinetto guidato
dal presidente William Taft (1909-1913) promosse gli investimenti di privati
in aree poco sviluppate in Centro e Sudamerica, assicurandone la redditività
e la sicurezza. Ciò si tradusse anche nella pressione sui governi per
l’approvazione di normative che favorissero gli interessi commerciali, fino
ad arrivare all’interferenza diretta nelle vicende politiche. Nel 1912, gli
Stati Uniti appoggiarono la rivolta in Nicaragua contro il presidente Diaz,
intervenendo con una forza d’occupazione che rimase nel paese fino al
1933. Da allora, gli Stati Uniti hanno considerato tutto il continente
americano come il «cortile di casa» (backyard), non disdegnando di
intervenire quando gli scenari politici che si profilavano in alcuni paesi non
erano graditi: è il caso del Guatemala, dove nel 1954 la Cia appoggiò un
golpe contro il presidente democraticamente eletto Jacobo Arbenz, o ancora
più tardi in Cile, con il sostegno al colpo di stato dell’11 settembre 1973
guidato dal generale Pinochet, che portò all’uccisione del presidente
socialista Salvador Allende. Anche a queste imprese l’occhio del dollaro
guardava con favore.

BIBLIOGRAFIA
Andro Linklater, Misurare l’America. Come gli Stati Uniti d’America sono stati
misurati, venduti e colonizzati, Garzanti, Milano 2004.
Walter Russell Mead, Dio & dollaro: la Gran Bretagna, l’America e le origini del
mondo moderno, Garzanti, Milano 2009.
S.M.Z.

Downtown
Ricordate che cosa cantava la cantante pop britannica Petula Clark (ma la
canzone era nata negli Stati Uniti)? «Là le luci sono più brillanti / E puoi
dimenticare tutti i tuoi guai». Là dove? Ma downtown, è ovvio! E che cos’è
downtown? Che cosa vuol dire? Come si traduce?
Quando vi capita di leggere, in un romanzo americano in versione
italiana, che un personaggio «se ne va in centro», be’, sappiate che in quel
punto la traduzione zoppica, c’è una bella sfasatura linguistico-culturale. E,
se vi trovate in una città o cittadina americana (→ Piccole città), non
chiedete come si fa per «andare in centro»: il «centro» (almeno come lo
conosciamo noi, nella «vecchia cara Europa») là non esiste, o è tanto raro da
essere pressoché inesistente.
La città (o cittadina) americana non si sviluppa per cerchi concentrici,
riproponendo il modello medievale (l’abbraccio delle mura, le strade che
convergono verso la piazza centrale, l’eventuale ragnatela di canali).
Assomiglia piuttosto all’antica città romana, con il suo cardo e il suo
decumano – l’intreccio regolare di vie perpendicolari, tipico
dell’accampamento. Che qui però cresce come un rettangolo in perenne
allungarsi. O meglio…
Nelle città più vecchie (New York, per esempio, con il suo passato
olandese e britannico; o Boston), il nucleo originario conserva tracce della
città europea: alcune strade curve, un paio d’incroci che s’allargano (forse)
in qualcosa di simile a una piazza, un che di vagamente labirintico. Così, nel
Greenwich Village (→), la 4ª Strada Ovest incrocia addirittura la 10ª, la 11ª e
la 12ª Strada Ovest – cosa impensabile pochi isolati più su. Qui, downtown, si
respira un’altra aria, ci si muove in una dimensione temporale più spessa:
qui ebbe luogo la fondazione, qui continuarono ad arrivare gli immigrati
con i loro usi e costumi, la loro Storia e le loro storie, qui il villaggio
originario divenne cittadina e poi città, qui si svilupparono gli affari e la
borsa e con essi le contraddizioni sociali, qui avevano sede (e spesso l’hanno
ancora) la dogana e il tribunale, qui nacquero loft, atelier, sweatshops,
laboratori d’industria, spuntarono i primi fioriti edifici in ghisa (cast-iron) e i
primi minigrattacieli art déco, si aprirono mercati e mercatini all’aperto e
al chiuso, ribollì a poco a poco il mondo variegato dell’intrattenimento
popolare e poi di massa – e qui si conserva ancora una cert’aria diversa,
spregiudicata, irregolare… Downtown, per l’appunto. Come nella canzone di
Tom Waits, «Downtown Train»: «Will I see you tonight / on a downtown
train?».
Poi, la città cresce, la città sale. Di nuovo l’esempio di New York: con il
piano regolatore del 1811, s’introduce il grid, il reticolo – le strade sopra alla
14ª vengono disegnate con il righello, il territorio a nord di downtown viene
suddiviso in lotti regolari (rettangoli) per facilitarne vendita e acquisto (ah,
la rendita fondiaria!). Così come si stava facendo per il resto del paese (→
Acri). E con il crescere e il salire della città nascono midtown e uptown: la
prima diviene presto il luogo in cui si spostano – fuori dalla congestione
fisica e sociale di Downtown – le attività commerciali e manifatturiere, il
mondo dello spettacolo diventato rispettabile showbusiness, i grandi negozi
e magazzini sempre più sofisticati, le sedi imponenti di giornali e agenzie
pubblicitarie, le biblioteche e i musei, le stazioni d’autobus e di treni; la
seconda, ancor più lontana da Downtown e in parte da Midtown (ma non
troppo: uffici e boutique devono restare a portata di mano, di piede, di taxi),
è luogo residenziale, di architetture imponenti e ricchi appartamenti, di
parchi e giardini, di prestigiose istituzioni politico-culturali, di gallerie e
altri musei, là dove si conclude e si celebra la scalata al successo (oltre, si
esce di città, ci sono solo i suburbs →). Con tutte le eccezioni del caso,
naturalmente: si sa che Harlem (→), a New York, è uptown, e che al di fuori
di Manhattan le geografie mutano e si aggrovigliano, e che il discorso
potrebbe risultare almeno in parte diverso per Los Angeles (la più allungata
delle città) o per New Orleans (con il fiume e il French Quarter che
scompigliano la topografia). Ma questo, grosso modo, è lo schema.
Dunque, downtown, midtown, uptown: così si stende sulla mappa la città
americana. Resta il problema: come tradurre downtown? Forse con «città
bassa» contrapposta a «città alta», forse con «quartieri bassi» contrapposti
a «quartieri alti». Gli immigrati italiani se la cavarono in maniera sbrigativa
e pragmatica: «abbasso città».

BIBLIOGRAFIA
Giorgio Ciucci, Francesco Dal Co, Marie Manieri-Elia, Manfredo Tafuri, La
città americana dalla Guerra civile al New Deal, Laterza, Bari 1973.
Andro Linklater, Misurare l’America. Come gli Stati Uniti sono stati misurati,
venduti e colonizzati, Garzanti, Milano 2004.
M.M.

Drive-in
Una delle prime immagini che vengono alla mente parlando di drive-in è
quel locale (Arnold’s) attorno a cui gravitano le avventure di Richard,
Potsie, Fonzie e degli altri protagonisti di Happy Days, serie tv (→) di culto
sugli anni cinquanta (in onda negli Stati Uniti per un decennio, a partire dal
1974): un mondo in cui l’automobile era il luogo deputato per qualsiasi
attività giovanile – dal cibo al cinema, fino ai primi approcci sessuali.
Nonostante il discreto successo in nazioni come il Canada e l’Australia,
l’idea di mangiare o guardare un film restando nel chiuso della propria
macchina è un’istituzione tipicamente statunitense. Non è tuttavia solo
l’amore viscerale che lega la maggior parte degli americani alle loro
automobili a spiegare il successo e la diffusione dei drive-in fra gli anni
trenta e gli anni sessanta. Alla liaison (non solo maschile) con le quattro
ruote vanno aggiunti fattori sociali quali il benessere economico del
dopoguerra, un costo contenuto dei terreni nelle aree rurali e una geografia
sociale che, allontanando fra loro la vita domestica (nei suburbs →), i negozi
(nei malls →) e il lavoro (in città), rese l’uso dell’automobile una pratica
indispensabile per milioni di americani.
A conquistare un posto accanto (o in grembo) all’automobilista fu in
primo luogo il cibo. Risale al 1921 l’apertura del primo drive-restaurant: il
Kirby’s Pig Stand di Dallas, un baracchino che riforniva gli automobilisti di
bevande analcoliche e della specialità locale, il barbecue pork sandwich. La
rivendita del signor Kirby (presto passato a miglior vita e sostituito dal
figlio) ebbe un successo immediato: nel giro di quattro anni, a Dallas vi
erano già 6 drive-in, e fra il 1921 e il 1934 la nazione contava centoventi Pig
Restaurant (distinguibili a centinaia di metri di distanza grazie alla
silhouette al neon di un maiale), che a poco a poco sostituirono al servizio al
ciglio della strada (curb service) il più agevole sistema di parcheggi intorno al
ristorante.
Ben presto i drive-in trovarono in California il loro contesto ideale. La
mitezza del clima, le distanze fra le città, la mancanza di tradizioni storiche
forti costituivano un terreno fertile per la sperimentazione di nuove forme
architettoniche legate al mondo della strada. Nel 1935, l’architetto Wayne
McAllister disegnò l’Herbert’s, un drive-in all’incrocio fra Beverly
Boulevard e Fairfax Avenue a Los Angeles, che divenne un punto di
riferimento stilistico per gli edifici successivi: una torre al neon in grado di
attrarre l’attenzione degli affamati automobilisti e, intorno a essa, un
edificio circolare, in modo tale che gli hamburger (→ Hamburger e fast
food) potessero essere consegnati con rapidità dai camerieri dalla cucina
alla vettura.
I primi «archi» McDonald’s apparvero invece nel 1952: Richard e
Maurice «Mac» McDonald decisero di ammodernare il loro baracchino per
hamburger al 1398 di North E Street, a San Bernardino. Per la progettazione,
ingaggiarono l’architetto Stanley Clark Menston, che aveva lavorato con
McAllister all’Herbert’s. Il progetto di Menston era di sicuro effetto: due
archi gialli al neon alti 25 piedi che sovrastavano un piccolo edificio; al lato
della strada, un terzo arco con un’enorme insegna su cui svettava la
mascotte originaria – Speede, un cuoco con il cappello da chef, un papillon e
la faccia a forma di hamburger. L’edificio che risultò era una versione
semplificata del drive-in di Los Angeles: arretrato rispetto alla strada per
lasciare spazio ai veicoli in sosta, aveva anche una tettoia che riparava i
clienti in fila alla finestra delle ordinazioni. Già, perché, per abbattere i
costi, i due fratelli pensarono bene di licenziare i camerieri e introdurre il
self-service: i clienti dovevano scendere dalla macchina, ordinare e ritirare
il cibo. Il sistema funzionò, e nel 1952, i McDonald erano pronti per un
franchising su scala regionale. Nonostante il successo commerciale, il
declino degli stand con i due grandi archi iniziò a partire dal 1968, quando si
decise di puntare su architetture più moderne e abbandonare l’immagine
domestica e familiare dei primi edifici, pochi dei quali ancora resistono (il
secondo e più vecchio McDonald’s, a Downey, California, venne chiuso dalla
compagnia nel 1994, a dispetto delle proteste di architetti e di storici).
Altrettanto importante per il drive-in fu l’affermarsi dell’automobile
come luogo dello svago – e in più sensi, potremmo dire. Inventati dal
magnate delle industrie chimiche Richard Milton Hollingshead, i drive-in
theatres dovevano essere luoghi che, nelle parole del creatore, «attraverso
l’ausilio di rampe permettessero allo spettatore di assistere alla proiezione
del film dall’interno dell’automobile». Il brevetto, depositato nel 1933,
assegnò a Hollingshead i diritti sull’invenzione per diciassette anni e lo
spinse a intraprendere non poche cause legali per impedire che altri
mettessero a frutto la sua idea. Dopo un inizio stentato, la nuova formula si
rivelò vincente, perché in grado di soddisfare i bisogni di un numero
sempre crescente di famiglie trasferitesi negli anni quaranta e cinquanta
nei sobborghi, che per la serata non avevano alcuna intenzione di fare
ritorno in città (considerata scomoda, oltre che pericolosa) né tantomeno di
mettersi in ghingheri e di avventurarsi in locali pubblici trascinando con sé
riottosi pargoli. Il drive-in costituiva in questo senso una soluzione ideale:
«l’intera famiglia è benvenuta, non importa quanto rumorosi siano i figli»,
recitava lo slogan di Hollingshead. I genitori potevano mangiare insieme ai
piccoli nello spazio raccolto della propria automobile e, dopo averli messi a
dormire sul sedile posteriore, concedersi un film e un po’ di tranquillità,
mentre qualche macchina più in là le giovani coppiette si concedevano
altro. Particolarmente apprezzati nelle zone rurali, i drive-in raggiunsero il
numero considerevole di quattromila sul territorio nazionale e l’apice della
loro popolarità fra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta.
Il loro successo, in quanto formula di svago comoda e poco costosa, portò
i gestori a lasciare in secondo piano la qualità delle pellicole proiettate,
dell’audio e del video: e quando questi elementi divennero importanti, era
troppo tardi per correre ai ripari. La concorrenza della televisione e dei
videoregistratori, l’incremento del valore dei terreni, la stagionalità delle
proiezioni, l’adozione dell’ora legale e la loro crescente reputazione di
luoghi immorali (vista la privacy che le automobili consentivano) portarono
a un rapido declino dei drive-in tradizionali negli anni settanta, nonostante
i tentativi di rianimarli: a nulla valsero i film in prima visione, le proiezioni
di messe alla domenica e, la notte, di pellicole pornografiche. Quasi tutti
chiusero i battenti fra gli anni settanta e gli anni ottanta, riconvertendosi in
centri commerciali, mercati o sale cinematografiche. Anche se la fine più
spettacolare fu probabilmente quella del drive-in di North Sewickley,
Pennsylvania, che cessò le attività nel 1985, quando un tornado lo rase al
suolo: dopo il disastro, il proprietario, che non difettava certo di ironia,
espose come insegna del film in programmazione Via col vento…
All’apparenza defunti, i drive-in sembrano essere risorti a nuova vita
nell’ultimo decennio grazie al fai da te di guerriglieri cinefili sempre più
numerosi, impegnati a realizzare, pubblicizzandole tramite la rete,
proiezioni di film (di culto, sperimentali o alternativi) sulle pareti di edifici
abbandonati o sotto i raccordi stradali. Al contempo, lontani dalle rosee
immagini di felice quotidianità domestica, i drive-in si sono illuminati di
una sinistra luce horror nell’immaginario contemporaneo. Così, il
romanziere Joe R. Lansdale dedica al drive-in non solo la suggestiva
rievocazione della sua epoca d’oro in La sottile linea scura (2003), ma una
trilogia inquietante: in La notte del drive-in (1988), per esempio, si narra la
terribile odissea degli spettatori motorizzati dell’Orbit, in Texas, costretti
all’interno del perimetro del cinema trasformato in lager (pena morti
atroci) a guardare senza interruzioni La notte dei morti viventi, film culto di
George Romero, nutrendosi di popcorn e di altro cibo-spazzatura – distopia
perfetta del mondo fast food (→ Hamburger e fast food) che si vorrebbe
racchiudere nell’abitacolo a quattro ruote.

BIBLIOGRAFIA
Mark P. Leone, Neil Asher Silberman, Invisible America. Unearthing Our Hidden
History, Henry Holt, New York 1995.
Don Sanders, Susan Sanders, The American Drive-in Movie Theatre,
Motorbooks International, Osceola 1997.
Kerry Segrave, Drive-in Theaters: a History from Their Inception in 1933,
McFarland, Jefferson 1992.
C. SCHIA.

Dust Bowl
La paternità del termine «Dust Bowl» («catino di polvere») spetta a Robert
Geiger, un reporter della Associated Press intento a descrivere l’infausto
evento naturale che colpisce Oklahoma, Kansas, Texas e parte del Colorado
nella giornata del 14 aprile 1935: la famosa «domenica nera» in cui,
alimentata da un vento che supera i 90 chilometri all’ora, si consuma la più
violenta tempesta di sabbia del decennio. Da quel momento in poi, la
fortunata espressione «Dust Bowl» si riferirà ai 97 milioni di acri delle
Grandi pianure meridionali colpiti dalla siccità e dall’erosione. La regione
del «Catino di polvere» si estenderà approssimativamente per 400 miglia da
nord a sud e 300 miglia da est a ovest, coprendo il Colorado sudorientale, il
Kansas orientale, il Texas e l’Oklahoma Panhandle. Milioni saranno le
tonnellate di terra e polvere trasportate tra il 1934 e il 1938 e molteplici le
cause dell’azione dirompente dei cosiddetti black blizzards («tempeste
nere») su quella grande regione: oltre alle siccità cicliche e al vento, la
presenza di terreni di formazione argillosa e, in misura preponderante, la
progressiva scomparsa dei pascoli e delle aree prative a favore delle
monocolture, con il conseguente diradarsi della vegetazione nativa (alberi e
arbusti), unico elemento capace di limitare l’erosione e quindi la
polverizzazione del suolo.
La siccità si abbatte sulle Grandi pianure già nel 1931 e si unisce alle
rovinose tempeste di sabbia che cominciano a soffiare sul Texas Panhandle
nel gennaio 1932: sollevata come neve, la polvere andrà a impedire la
visibilità su strade e ferrovie, rendendo i trasporti difficilissimi. Alle prese
con la sabbia che s’infiltra e si posa ovunque, gli abitanti delle zone colpite
dalle tempeste tentano di sigillare le finestre con scotch e stucco,
appendendovi lenzuola bagnate per filtrare l’aria. Anche mangiare diventa
un inferno: tazze, piatti e bicchieri sono ricoperti di polvere che finisce sul
cibo e sotto i denti, conferendo a qualsiasi alimento un sapore terroso. Con
le tempeste arrivano inoltre forti scosse elettromagnetiche che si avvertono
ovunque – dalle strette di mano ai manici delle padelle – e si liberano sulle
auto, provocandone lo spegnimento o ingolfandole (e questo spiega
l’abitudine diffusa di attaccare cavi e catene a strascico al retro dei veicoli
per attrarre a terra le cariche elettrostatiche). Chi è costretto a uscire nel
bel mezzo di una tempesta cerca, nei casi più fortunati, di indossare
maschere per riparare l’apparato respiratorio dalla polvere e scongiurare
così la dust pneumonia, una forma di polmonite di cui moriranno in molti.
Le tempeste di sabbia cominciano quindi nel 1932 e culminano nei «mesi
ventosi» del 1935 (febbraio, marzo, aprile), risentendo anche degli effetti
dirompenti delle ghiacciate invernali: nella primavera del 1936, la struttura
grezza e granulare delle particelle di terra si è oramai polverizzata e lo
strato più superficiale dei suoli colpiti si è sgretolato. Le tempeste
resteranno acute fino al 1937.
Di fronte a una tale piaga naturale ed economica, gli agricoltori devono
ricorrere all’aiuto del governo. Franklin Delano Roosevelt non tarda a
mobilitare il Forest Service (il Corpo forestale nazionale) per avviare un
programma di piantonamento di alberi – Shelterbelt Project – che possa
ridurre l’azione erosiva del vento sul corridoio delle Grandi pianure: esso
prevede infatti la creazione di un’area di centinaia di miglia dal Canada al
Texas settentrionale, con il bordo occidentale che va da Bismarck (nel North
Dakota) ad Amarillo (in Texas). Nel 1935, dopo circa due anni di attività – e
di studio del clima, dei terreni e della vegetazione nativa –, il Forest Service
sposta il suo bacino di azione verso est, da Devil’s Lake (in North Dakota) a
Mangum (in Oklahoma), avviando, nel 1937, il cosiddetto Prairie States
Forestry Project. Nel 1942, quando lo Shelterbelt Project giunge a termine,
sono circa 18600 le miglia di alberi e arbusti piantati e destinati a
sopravvivere al 60% fino a noi.
Lo Shelterbelt Project non è che uno dei tanti progetti promossi dal New
Deal (→ Grande depressione) a miglioramento delle condizioni delle aree
rurali colpite dalla Dust Bowl, tra cui occorre ricordare l’importante Soil
Conservation Service (Scs) che, in parallelo all’agenzia Ra/Fsa (→ Fsa),
avvia una serie di progetti dimostrativi mirati a persuadere i coltivatori
all’utilizzo di tecniche di conservazione dei terreni quali il terrazzamento,
la semina di raccolti resistenti alla siccità come il sorgo, la rotazione dei
raccolti, la riconversione dei terreni coltivati in pascoli, la tracciatura di
solchi curvi e l’uso di metodi irrigui come la porca in grado di ottimizzare le
precipitazioni ed evitarne la dispersione. Il più grande incentivo alla
riduzione della coltura di grano e cotone arriverà poi dalla Agricultural
Adjustement Administration (Aaa). Nonostante l’azione congiunta di Scs,
Aaa e Ra/Fsa – e di altre agenzie federali – i fittavoli della Dust Bowl
riescono solo raramente a rispettare le scadenze finanziarie, non avendo
spesso di che vivere. Di fronte all’impossibilità di superare la bancarotta
agricola ed economica o sfrattati dai proprietari terrieri interessati a
ottenere le sovvenzioni della Aaa (vincolate al ridimensionamento della
coltivazione di grano e cotone), molti fittavoli dell’Oklahoma, del Kansas e
del Texas (→ Okies) si trovano costretti a raccogliere le loro masserizie per
migrare verso le città più vicine, oppure verso ovest (California, Arizona,
Washington, Oregon), magari affluendo in aree ricche di gas naturale e
petrolio: così, tra il 1930 e il 1940 le contee dell’Oklahoma Panhandle
perdono quasi 9000 abitanti. Anche nel Kansas, tra il 1935 e il 1940, la
popolazione rurale precipita, lasciando abbandonate le unità agricole più
piccole, mentre gli appezzamenti dei proprietari terrieri si ingrandiscono
del 24%.
Soltanto nella primavera del 1938 i black blizzards finiranno, le tempeste
diminuiranno in numero e intensità e le precipitazioni aumenteranno,
portando alla crescita di frumento, erba e cotone. Nella primavera del 1939,
con 9,5 milioni di acri ancora soggetti a erosione (pochi paragonati ai 50
milioni del 1935), l’area della Dust Bowl interesserà il solo Kansas
sudoccidentale.
Da un punto di vista simbolico e iconografico, è grazie alle
rappresentazioni romanzesche, fotografiche e cinematografiche degli anni
trenta che la memoria della catena di eventi naturali che colpirono come un
flagello gli Stati Uniti della Grande depressione è rimasta così viva ancora
oggi. Da Furore (→ Furori) di John Steinbeck agli scatti commissionati dalla
Fsa (→ Fsa) ai fotografi Arthur Rothstein, Ben Shahn, Dorothea Lange,
Margareth Bourke-White, Russell Lee, Walker Evans ecc., dai film-
documentario di Pare Lorentz (The Plow That Broke the Plains, The River) ai
libri-documentario You Have Seen Their Faces, An American Exodus, Land of the
Free, Sia lode ora a uomini di fama, e ai reportage delle riviste Life, Look e
Fortune, l’archivio delle ferite prodotte dall’azione congiunta di siccità
cicliche, tempeste di polvere, alluvioni e sovrasfruttamento agricolo sulle
Grandi pianure meridionali e i suoi abitanti non solo costituisce un enorme
serbatoio di informazioni, ma testimonia anche l’incredibile vitalità di
un’intera stagione culturale.
Le narrazioni di John Steinbeck, le fotografie della Fsa, i film di Pare
Lorentz, i servizi giornalistici volti a restituire il dramma della Dust Bowl e
l’epopea degli Okies in modo «documentaristico» si offrirono
all’immaginario collettivo americano quale potente metafora della crisi
economica e sociale del paese, contribuendo alla formazione di una
memoria di quel decennio destinata a grande longevità.
Al filone della tradizione orale e del «fronte culturale popolare»
appartiene invece la straordinaria voce di Woody Guthrie, musicista, poeta
e scrittore (→ Newport Folk Festival; → «Which Side Are You On?»), che
alla Dust Bowl dedicò molta parte della propria produzione, incluso un
intero album, intitolato Dust Bowl Ballads (1940). Difficile scegliere tra le
quattordici tracce di Guthrie; meglio ricordare «The Great Dust Storm»: «On
the 14th day of April of 1935, there struck the worst of dust storm that ever
filled the sky. / You could see the dust storm comin’, the cloud looked
deathlike black, / And through our mighty nation, it left a dreadful
track…»

BIBLIOGRAFIA
R. Douglas Hurt, The Dust Bowl: An Agricultural and Social History, Nelson-Hall,
Chicago 1981.
Robert S. McElvaine (ed.), Encyclopedia of the Great Depression, Macmillan,
New York 2004.
Donald Worster, The Dust Bowl: The Southern Plains in the 1930s, Oxford
University Press, Oxford-London 2004.
C. SCAR.
[E]

E.R. (o della sanità)


Difficile scegliere tra le tante serie tv (→) che raffigurano, a spicchi,
l’universo della sanità americana. Ma, sempre ricordando che di finzione si
tratta, campioni di ascolti del piccolo schermo come E.R. Medici in prima linea
(1994-2009) e Dr. House (2004-2012) qualcosa ci dicono di quel sistema
complesso. Chi non ricorda le scene del concitato Pronto Soccorso del
County General Hospital di Chicago, il dottor Greene e la dottoressa Weaver,
le barelle che sfrecciano lungo corsie affollate e un triage-microcosmo
americano in cui sembra non mancare proprio nessuno: dagli homeless agli
illegal aliens (→ Alien), dagli immigrati ispanici (→ Chicanos) a quelli asiatici
(→ Ombre gialle), dai fondamentalisti religiosi alle drag queen. Si tratta di
una E.R., una «Emergency Room» dove – per legge, dal 1986 – deve essere
accettato chiunque si presenti, solvente o meno: e l’équipe di Greene, Carter
& Co. ce la mette tutta a salvare vite umane, a volte ci riesce e altre no, di
tanto in tanto deve fare i conti con i tagli al budget imposti dalla direzione
dell’ospedale, ma nel complesso emerge l’idea di una struttura in cui la
salute dei pazienti viene prima di tutto, o quasi. Altro spaccato della sanità
americana – indicativo però delle sue punte di eccellenza – è quello offerto
dal più recente Dr. House, demiurgo con stampella che risolve casi clinici
complicatissimi, senza badare ai costi, nell’esclusivo ospedale universitario
di Princeton. Questi esempi – quanto di meglio i medical drama siano riusciti
a produrre nell’ultimo quarto di secolo – ritraggono due realtà parallele: i
grandi numeri che si accalcano in un Pronto Soccorso metropolitano e una
cerchia ristretta che ottiene le cure migliori. Siamo sempre negli Stati
Uniti? Sì. Com’è possibile un tale divario tra chi può permettersi le terapie
più all’avanguardia e chi non può debellare una polmonite?
Bisogna anzitutto sfatare un luogo comune: quello che vorrebbe gli Stati
Uniti un paese privo di strutture assistenziali. Gran parte della spesa
sanitaria (circa il 60-65%) nel settore pubblico ricade su programmi
finanziati, a diversi livelli (federale, statale e locale), dal governo. Eppure,
quasi a parità di spesa pubblica con Francia, Germania e Italia, nel 2000
l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) classificava gli Stati Uniti al
37º posto (su 191 paesi) per la qualità generale del servizio e solo al 72º per il
livello di salute degli americani. Un’altra voce di quella statistica riguardava
il costo della sanità, con il dubbio primato mondiale colorato a stelle e
strisce. In sintesi, sebbene gli statunitensi dedichino una fetta consistente
del loro Pil (nel 2006, circa il 16%) alla spesa sanitaria, quel sistema risulta
iniquo e dispersivo delle risorse. I motivi di una simile incongruenza
riguardano in prima analisi la sua natura molto frammentata: i servizi e i
programmi sono forniti da enti privati, pubblici o compartecipati, senza una
direzione centrale forte che detti legge in materia organizzativa e
finanziaria. Pur esistendo un Department of Health and Human Services e
un ente federale che controlla la produzione di farmaci (la Food and Drug
Administration, Fda), manca, nell’insieme, una figura unica di riferimento
che prenda decisioni a livello nazionale. L’attuale sovrapposizione di
programmi cogestiti dai diversi enti (governativi, non-profit e for-profit) è
il frutto di sviluppi storici, con il risultato di creare una burocrazia
ipertrofica che fagocita circa il 25% della spesa sanitaria totale. Inoltre, il
sistema delle assicurazioni private su cui si regge l’intera struttura è
guidato da principi economici mirati alla salvaguardia degli utili e non della
salute pubblica. Da ultimo, il meccanismo dei benefits (la copertura sanitaria
come parte del contratto di lavoro), diffuso in tutto il paese a partire dal
secondo dopoguerra, ha contribuito a rinforzare l’idea che la salute non sia
un diritto dei cittadini, ma un premio ai lavoratori: una dinamica di cui è
facile intuire le controindicazioni nei momenti di crisi economica.
Diamo uno sguardo alla storia. Negli Stati Uniti, la graduale
formalizzazione di una pratica medica e di un sistema ospedaliero moderni
avviene tra il 1880 e il 1930, con un crescendo di progressi nei protocolli
professionali e di espansione dei servizi che conoscerà un forte
rallentamento negli anni della Grande depressione (→). È negli anni trenta
che il sistema delle assicurazioni mediche – già avviato a inizio secolo –
prende piede negli ospedali americani, a tamponare la scarsità di fondi e
ridurre, o quantomeno distribuire, il rischio di bancarotta. Tra i piani
assicurativi multipli offerti dagli ospedali, nasce nel 1932 Blue Cross, che
ottiene a breve una sorta di istituzionalizzazione quale maggiore fornitore
di assicurazioni sanitarie a livello nazionale grazie all’appoggio della
American Medical Association (Ama) e della American Hospital Association
(Aha). Al Congresso, le potenti lobby (→ Lobby & caucus) di Ama e Aha
riusciranno infatti a far passare una legislazione che esenterà i programmi
di Blue Cross dai normali regolamenti assicurativi, garantendole inoltre
esenzioni fiscali in quanto associazione non-profit. Del 1935 è poi il Social
Security Act varato da Franklin D. Roosevelt (→ Grande depressione), un
provvedimento diretto alla creazione di un sistema assistenziale e
previdenziale che contempla, per la prima volta nella storia del paese, aiuti
federali agli anziani, ai poveri, ai disoccupati e alle vedove con figli (sebbene
le minoranze e i neri ne siano, all’inizio, esclusi).
Il dopoguerra, con la presidenza del democratico Harry Truman (1945-
1953), vedrà invece l’introduzione e la graduale diffusione della cosiddetta
«employer-provided care»: la copertura sanitaria concessa come clausola
contrattuale dal datore di lavoro al lavoratore. Non è una novità: già nel
corso dell’Ottocento, le compagnie ferroviarie e minerarie offrivano servizi
medici ai loro operai, defalcando le parcelle dalle buste paga; e, nel 1913,
l’International Ladies’ Garment Workers Union (→ Sciopero!) aveva lottato
per ottenere un’assicurazione medica di base. Negli anni quaranta, tuttavia,
il sistema degli health benefits diventa la regola di ogni pacchetto
contrattuale: una modalità resa sempre più appetibile – e per le aziende e
per i lavoratori – da una serie di misure fiscali volte a rendere quelle spese
detraibili dalle tasse. Così, nel 1946, la Afl-Cio (il principale sindacato
americano) dichiara i benefits una priorità delle negoziazioni contrattuali e,
nel 1959, la United Steelworkers (il sindacato dei metalmeccanici) conclude
uno storico sciopero di 116 giorni strappando alle multinazionali
dell’acciaio il pagamento delle assicurazioni mediche dei lavoratori nella
loro interezza (un traguardo che aprirà la strada, negli anni successivi, ad
analoghe concessioni da parte delle Big Three dell’industria
automobilistica, Gm, Ford, Chrysler → Model T).
Gli anni sessanta, quelli di J.F. Kennedy (→ Camelot) e della Great Society
di Lyndon Johnson – altri due democratici – vedono l’ampliamento del
Social Security Act a includere, nel 1965, i programmi federali e statali di
assistenza sanitaria Medicare e Medicaid. Il primo è mirato agli anziani (dai
65 anni in su); il secondo ai poveri e, in seguito, ai disabili. Nel decennio
successivo, arrivano però recessione e stagflazione e i tagli al sistema
assistenziale avviato da Johnson preparano il terreno al regno del liberismo
con la presidenza di Ronald Reagan.
Nel 1982, la Blue Cross si fonde con la Blue Shield, diventano la Bcbsa:
oggi, la federazione, composta da 39 agenzie assicurative, è una potenza
che, a ulteriore riprova delle sovrapposizioni organizzative di cui sopra,
gestisce Medicare in molti stati del paese. L’influenza di Blue Cross/Blue
Shield sul sistema sanitario americano si misura poi soprattutto nelle
procedure di pagamento, il cosiddetto cost plus, adottato anche nei
programmi federali. Fin dagli anni trenta, il cost plus ha permesso ai medici
di essere rimborsati dalle assicurazioni secondo parcelle «reasonable and
customary» – «ragionevoli e consuetudinarie» – senza controllo alcuno,
una sorta di assegno in bianco in cui i pazienti non hanno, in teoria e in
pratica, nessun interesse a essere parsimoniosi, perché i soldi non
appartengono a loro ma a terzi (le assicurazioni, appunto). Così, nel 1986, a
fronte di una situazione sempre più ingestibile per coloro – molti – che non
possono ricevere alcun tipo di assistenza medica perché esclusi sia dai
benefits lavorativi sia dai programmi di aiuti governativi, il Congresso
approva l’Emergency Medical Treatment and Active Labor Act, stabilendo
che tutti gli ospedali devono prestare cure di emergenza a chiunque le
chieda, a prescindere dallo stato civile, legale e finanziario. Le origini del
sovraffollamento cronico in cui versa la stragrande maggioranza delle E.R.
nazionali vanno cercate proprio qui. D’altronde, il Pronto Soccorso rimane
spesso l’unica possibilità di ricevere cure mediche da parte di un numero
crescente di americani: nel 2004, il 15,6% della popolazione complessiva
viveva senza alcuna forma di assicurazione medica – tra questi, in larga
misura ispanici e neri, ma anche una fetta crescente di bianchi poveri. Non
sorprende neppure scoprire che è spesso la middle class a pagare il prezzo
più alto di un sistema che pur trovando un modo di occuparsi, sebbene in
maniera parziale, della salute di poveri e anziani, non si prende in carico
quella fascia medio-bassa altrimenti esclusa dall’accesso ai benefits delle
classi alte. Così, muniti di un’assicurazione-capestro con massimali bassi
che non consentono una copertura completa in caso di necessità e che sono
decurtati al primo ricovero, molti americani preferiscono procrastinare le
cure al momento in cui le malattie diventano patologiche e richiedono, a
quel punto, costi esorbitanti. Oltre ai già citati Medicare e Medicaid,
esistono poi altri programmi governativi: il Children’s Health Insurance
Program (Chip) per i bambini che non rientrano in Medicaid; il Tricare dei
militari; e il Veterans Health Administration (Vha) per i veterani di guerra e
le assicurazioni dei dipendenti statali.
Nel 2011, in attesa che la Corte Suprema si pronunci sulla
costituzionalità di uno dei punti nevralgici del disegno di riforma sanitaria
dell’amministrazione Obama, non è chiaro che piega prenderanno le cose
per la salute degli americani. Ma se doveste recarvi da quelle parti,
accertatevi di avere una buona assicurazione sanitaria: in caso contrario, un
braccio rotto e un mal di denti potrebbero costarvi molto cari, e non solo
per il dolore.

BIBLIOGRAFIA
Oliviero Bergamini, Democrazia in America? Il sistema politico e sociale degli Stati
Uniti, Ombre Corte, Verona 2004.
Leiyu Shi, Douglas A. Singh, Essentials of the United States Health Care System,
Jones & Bartlett Learning, Mississauga 2010.
Harry A. Sultz, Kristina M. Young, Health Care Usa: Understanding Its
Organization and Delivery, Jones & Bartlett Learning, Mississauga 2010.
C. SCAR.

Eccezionalismo
L’autorappresentazione retorica e politica dell’unicità dell’America ha a
che fare, in primo luogo, con la metafora cinquecentesca – rielaborata in
seguito dai critici letterari della cosiddetta «Myth and Symbol School» negli
anni della Guerra fredda – di una «terra vergine» in cui gli esuli puritani
provenienti dall’Europa possano ricominciare una vita ex novo. Il Nuovo
mondo è assimilato così a una lastra vuota che il disegno puritano dei Padri
Pellegrini del Mayflower e di John Winthrop (→ Città sulla collina) prima e la
teorizzazione ottocentesca del «destino manifesto» (→) poi vogliono
«disabitata» e pronta a offrirsi a un esperimento religioso e politico
esemplare, attraverso la cancellazione metaforica e materiale delle
popolazioni precolombiane.
Sono d’altronde i puritani stessi a raffigurarsi come «eccezionali»,
estranei cioè alla corruzione del Vecchio mondo da cui rifuggono; la loro
missione sarà dunque quella di fondare – e quindi nominare – una civiltà
«nuova». Traendo ispirazione dalla parola dell’Antico Testamento (nuova
terra promessa, nuova Gerusalemme, nuovo popolo eletto, nuovo Eden
ecc.), l’esperimento americano si profilerà fin da subito quale doppio
positivo dell’Europa (basti pensare a tanta parte della toponomastica: New
York, New Hampshire, New Madrid ecc.).
Nel corso della storia americana, il meccanismo classificatorio della
retorica dell’«eccezionalismo» è così giocato sulla volontà di sostituire tutto
ciò che di sconveniente il retaggio europeo conterrebbe – le gerarchie
feudali, i conflitti di classe, il socialismo e il sindacalismo, per esempio – con
una serie di valori quali la società senza classi, la tolleranza per la diversità,
l’ospitalità verso gli immigrati, la mobilità sociale e l’individualismo
liberale.
L’eccezionalismo americano è infine di natura geopolitica: gli Stati Uniti
potranno contare su un territorio «continentale» isolato dagli oceani
Atlantico e Pacifico – e quindi al riparo dai flagelli ambientali e sociali del
resto del mondo – che andrà messo a profitto (ovvero trasformato da
wilderness [→] in «giardino») secondo i principi di un’etica del lavoro di
matrice protestante rinvigorita da una straordinaria ricchezza di risorse
naturali.
Il richiamo che sempre ricorre nella retorica dell’«eccezionalismo»
americano – dal XVII secolo a oggi – è quello a un’azione civilizzatrice capace
di portare ordine e progresso, giustizia e libertà ai popoli cui, per
arretratezza storica, politica o culturale, questi valori facessero difetto. Si
tratti della «Errand Into the Wilderness» della geremiade (→) seicentesca
(dove la parola inglese errand, «missione» ma anche «commissione», ha
un’accezione spirituale e pratica al tempo stesso), della conquista del West,
delle «splendide guerricciole» (→) di fine Ottocento o delle più recenti
operazioni militari – «Operation Iraqi Freedom» e «Operation Enduring
Freedom» – in Iraq e Afghanistan, è nelle vesti di «nazione redentrice» che
l’America giustifica la propria discesa in campo. Il corollario di un tale
disegno «eccezionale» prevede inoltre la rimozione fisica e simbolica degli
ostacoli al suo compimento (gli indiani d’America, i popoli di stati annessi
sotto forma di «protettorati» come Guam, Filippine e Portorico) e la
proiezione di una tabula rasa sulla quale iscrivere un cammino di salvezza
(la «barbarie antidemocratica» di Iraq e Afghanistan, per esempio).
Le rielaborazioni del mito dell’«eccezio-nalismo» americano sono
continue: molti dei discorsi presidenziali del Novecento vertono
sull’urgenza di tornare al «patto» originario (→ Covenant) e di rinverdire
quel sogno di libertà tradito o ancora incompleto: dal «New Deal» di
Franklin D. Roosevelt alla «Nuova Frontiera» di J.F. Kennedy e alla «Grande
Società» di Lyndon Johnson, dal «New World Order» di George H.W. Bush al
«New Covenant with America» di Bill Clinton, fino alla «Audacia della
speranza» di Barack Obama.
E, se fino agli attacchi dell’11 settembre 2001 al World Trade Center (→)
anche l’inviolabilità del suolo patrio ha costituito un elemento centrale
nella retorica dell’«eccezionalismo», il nome scelto dalle stesse autorità
statunitensi per designare quel luogo-evento («Ground Zero») sembra
attestare quanto il crollo delle Twin Towers abbia rievocato negli americani
l’orrore seguito allo sgancio delle due bombe atomiche, segnando un vero e
proprio spartiacque nella storia di un paese risvegliatosi all’indomani
dell’11 settembre inaspettatamente vulnerabile.

BIBLIOGRAFIA
Perry Miller, Errand Into the Wilderness, Harvard University Press, Cambridge
1956.
Donald Pease, The New American Exceptionalism, University of Minnesota
Press, Minneapolis 2009.
C. SCAR.

Echo Park (Los Angeles)


Il detective Harry Bosch, personaggio nato dalla penna del giallista Michael
Connelly, è cresciuto a Echo Park, quartiere di Los Angeles incuneato tra
Downtown e Hollywood (→ Hollywood/land). Nel romanzo Il cerchio del lupo
(2006), l’inchiesta riporta il poliziotto nei luoghi della sua infanzia. «Nel
corso dei decenni», racconta Bosch, «era stato meta degli immigrati prima
italiani, poi messicani, cinesi, cubani, ucraini e di tutte le altre nazionalità»
e, per leggere le insegne dei negozi lungo la via principale (Sunset
Boulevard), occorreva conoscere almeno cinque lingue. Poi, nel 1962, venne
costruito lo stadio dei Dodgers: il proprietario Walter O’Malley trasferì la
squadra di baseball (→) da Brooklyn, lasciando l’intero borough newyorkese
nello sconforto, e approdò a Los Angeles, dove la municipalità gli diede in
concessione i terreni di Chavez Ravine. L’area, dove era da tempo insediata
una comunità di latinos (→ Chicanos), fu acquistata dalla città, ricorrendo
perfino a raggiri e maniere forti per convincere i residenti a vendere le case
e andarsene altrove. La triste storia è raccontata in Chavez Ravine, concept-
album del chitarrista e cantante Ry Cooder: nella struggente «3rd Base,
Dodgers Stadium», Cooder dà voce a un parcheggiatore che ricorda la casa
dove era nato e cresciuto – nello stesso luogo dove oggi si trova la terza base
del diamante di gioco.
A fine Ottocento, Echo Park, come molti altri quartieri di Los Angeles,
era un’area campestre e collinosa punteggiata di vegetazione e aperta al
pascolo di animali. Volendo approfittare del boom edilizio che stava
interessando la città, Thomas Kelley, un costruttore di carri, si lanciò in un
ambizioso progetto immobiliare, acquistando i terreni lungo la strada
principale, ancora in terra battuta. Los Angeles, al tempo poco più di un
grande villaggio, aveva vinto la concorrenza di San Diego ed era stata scelta
come terminale occidentale della ferrovia Southern Pacific (→ Promontory
Point): la speranza dell’élite locale era di intercettare i flussi commerciali e
migratori e favorire la crescita della città. Fin dall’inizio, però,
l’immigrazione ebbe un carattere peculiare: sulla costa del Pacifico non
arrivavano i diseredati europei in cerca di fortuna, mentre, è opportuno
ricordarlo, il Chinese Exclusion Act (→ Chinatown) aveva chiuso le porte
agli ingressi dalla Cina. Nella «Città degli Angeli» giungevano invece ricchi
imprenditori del Midwest che, ritiratisi dagli affari, decidevano di
trascorrere gli anni del riposo al sole della California – o, come scrisse
Nathanael West ne Il giorno della locusta (1929), venivano sulla costa del
Pacifico in attesa di morire. Resta il fatto che se nel 1890 la popolazione
ammontava a circa 50mila persone, nel 1930 avrebbe raggiunto il milione e
200mila abitanti. Il carattere particolare dell’immigrazione condizionò
l’assetto urbanistico di Los Angeles: i ricchi pensionati del Midwest avevano
importato nella California meridionale una propria idea di comunità, basata
sul suburb (→) residenziale, con case unifamiliari circondate da un ampio
giardino, dal carattere etnico omogeneo e lontano da attività commerciali –
il tutto studiato per ridurre al minimo l’intrusione di estranei. Questa
visione, grazie allo sviluppo di reti tranviarie e in seguito di autostrade, e
all’introduzione di norme restrittive in materia di zoning (disposizioni
ferree sulla destinazione e sulla fabbricazione di edifici in particolari aree),
aveva dato inizio allo sviluppo orizzontale della città.
Se Echo Park non divenne un’area alto-borghese lo deve alla sua
prossimità a Downtown (→) e al precoce interessamento dei produttori
cinematografici: la località, dal carattere ancora agreste, offriva la
possibilità di sfruttare le macchie di vegetazione e i laghetti (in primis,
quello al centro del parco che dà nome al quartiere) per filmare sequenze
ambientate nelle foreste o in spiaggia. Uno dei primi a installarvisi fu Mack
Sennett, cineasta di origine canadese, specialista in pellicole comiche (pare
che la «torta in faccia» abbia avuto origine proprio negli studi di Echo Park).
E qui lavorarono alcune delle prime star del cinema, da Charlie Chaplin a
Rodolfo Valentino (→ Hollywood/land).
Accanto a comparse, attrezzisti di scena e carpentieri che orbitavano
attorno alle produzioni cinematografiche, Echo Park attirò una folla
eterogenea di immigranti, artisti e attivisti politici, tra cui una forte
presenza di membri e simpatizzanti del Partito comunista, tanto che negli
anni trenta il quartiere si guadagnò il nomignolo di «Red Hill». Ma non è
tutto, perché, accanto alla comunità bohémienne che si riuniva nella libreria
di Jack Zeitlin, trovò spazio anche la radio-predicatrice Aimée Semple
McPherson, che in un terreno prospiciente il parco fece costruire l’Angelus
Temple, luogo di preghiera della chiesa da lei fondata, la International
Church of the Foursquare Gospel (→ Quakers, Shakers, Mormons). Fra gli
altri residenti spiccavano poi il giornalista e saggista Carey McWilliams, il
pittore Leo Politi e lo scrittore John Fante.
Dopo la costruzione dello stadio dei Dodgers, Echo Park ha mantenuto la
sua identità immigrata, alimentata dal flusso di lavoratori dal Messico che
continuò anche dopo la chiusura del Bracero Program (→ Braceros) e andò
a inserirsi negli interstizi dell’economia informale. La marginalità sociale,
sentita con maggiore intensità dalla seconda generazione – i figli di
immigrati nati e cresciuti in America, ma comunque oggetto di
discriminazione – ha prodotto il fenomeno delle gangs (→) di strada,
durante gli anni settanta e ottanta bersaglio preferito di stampa e politici in
cerca di facili consensi in una città che manteneva ancora un forte profilo
Wasp (→) – nel 1970, i bianchi erano ancora l’80% dell’intera popolazione.
Uno sguardo meno scandalistico sull’universo delle bande di strada di Echo
Park (ormai diventata Echo Parque) si può trovare nel film Mi vida loca
(1993), di Allison Anders, racconto di giovani donne costrette a confrontarsi
con una realtà violenta che, decimando la popolazione maschile (una
consistente parte della quale non sopravvive fino ai ventuno anni), le
costringe a sostenere da sole il peso della famiglia. In anni recenti, questo
fenomeno sembra in diminuzione, sia per il miglioramento delle condizioni
economiche sia per l’arrivo di nuovi residenti attratti dai bassi costi delle
abitazioni.
Ancora Bosch scrive che «accanto alle bodegas e ai chioschi di mariscos
venivano aperti caffè e negozi di abiti vintage» e che l’aumento dei prezzi
allontanava la classe operaia e le bande criminali, mentre le nuove padrone
dei marciapiedi erano diventate le mamme «alternative», con passeggino e
vistosi tatuaggi. Un passaggio di consegne catturato da un altro film,
Quinceañera (2006), di Richard Glatzer e Wash Westmoreland, in cui una
quattordicenne rimasta incinta e un ragazzo omosessuale cercano di
districarsi tra le aspirazioni possibili e il rapporto a volte conflittuale con le
tradizioni e la censura della comunità: sullo sfondo, la parabola del vecchio
Tiò Tomas, storico venditore ambulante conosciuto da tutto il quartiere,
che muore prima che diventi esecutiva la notifica di sfratto
dall’appartamento dove aveva vissuto per decenni.

BIBLIOGRAFIA
Mike Davis, I latinos alla conquista degli Usa, Feltrinelli, Milano 2001.
David Rieff, Los Angeles: Capital of the Third World, Simon & Schuster, New
York 1991.
S.M.Z.

Economia domestica
Per «economia domestica» s’intende l’insieme di quelle nozioni – teoriche
e pratiche – che interessano il buon funzionamento della casa: non solo le
mansioni che la tradizione vuole ancillari (cucire, ricamare, rammendare,
stirare, lavare, pulire, occuparsi della conservazione dei cibi), ma anche le
cognizioni psicologiche e pedagogiche necessarie per accudire la prole.
Negli Stati Uniti, l’economia domestica – chiamata «domestic economy»,
«household economy», «housekeeping», «home economics», «home
science», fino a «household engineering» – è stata, nella prima metà del
Novecento, una disciplina riservata alle donne, capace di farsi largo nella
scuola elementare e media, fino ai prestigiosi college femminili. Come
materia di studio, includeva informazioni su cucina, igiene, agraria,
anatomia, chimica, architettura, design, psicologia, pedagogia e sociologia. I
trattati di economia domestica conobbero la loro età dell’oro tra gli anni
dieci e venti del Novecento e crearono un habitus divulgativo promosso, con
intenti sempre più commerciali, da periodici «rosa» quali Ladies’ Home
Journal, McCall’s, House Beautiful, Better Homes and Gardens, Red Book Magazine,
Vogue.
Il modello originale per questo genere di letteratura si colloca tuttavia a
metà Ottocento ed è opera di Catherine Beecher, sorella di Harriet Beecher
Stowe (l’autrice di La capanna dello Zio Tom, 1852) e figlia di un eminente
ministro presbiteriano del Connecticut. Diventata insegnante, decide di
recarsi nel Midwest, sulla Frontiera (→), per una campagna a favore della
costruzione di più scuole. Tornata in New England, si occupa di un
seminario di economia domestica e scrive A Treatise on Domestic Economy for
the Use of Young Ladies at Home and at School, la cui dedica va «alle madri
americane». È un libro molto articolato che, per la prima volta, pone
l’accento sull’unicità delle donne del Nuovo mondo rispetto a quelle inglesi
(trattati di economia domestica britannici preesistono infatti a quello di
Catherine Beecher): nel capitolo «Difficoltà peculiari alle donne americane»,
si mette così a fuoco il problema della scarsa salute delle prime in relazione
al poco esercizio fisico. Nel trattato di Beecher convivono anatomia,
psicologia, galateo, indicazioni su come lavare, stirare, e persino tagliare il
tacchino – con una tendenza generale alla parsimonia e al buon senso. Nella
descrizione della modalità più conveniente per lavare i piatti, si legge per
esempio: «Grattare i piatti, conservando qualsiasi cibo possa esservi ancora
attaccato e che potrebbe essere riutilizzato in futuro. Mettere il grasso nella
pentola del grasso, e qualsiasi cosa rimanga sui piatti in un secchio…». Qua
e là, Beecher, zitella che pure non prenderà mai le parti delle suffragette (→
Seneca Falls) e si terrà ben lontana da qualsivoglia rivendicazione politica di
emancipazione femminile (se non pensandola all’interno dei ruoli
istituzionali di donna, moglie e madre), lascia intravedere, dietro ai
suggerimenti pratici, qualche stoccata antipatriarcale di una certa
modernità: «Nessuna donna» scrive «è obbligata a prendere marito se
preferisce restare single».
Sulla scia aperta da Beecher, arrivano Complete Home (1870) di Julia
McNair Wright; The Complete Housekeeper (1903) di Emily Holt; Household
Hygiene (1907) di S. Maria Elliott; e lo Harper’s Household Handbook (1913);
mentre l’insegnamento dell’economia domestica nelle scuole è facilitato dal
Merrill’s Act del 1862, che permette di stanziare alcune terre federali allo
sviluppo dei college di arti meccaniche e agronomia in cui sono ammesse
anche le donne e nel cui curriculum compare appunto la disciplina «Home
Economics». La prima istituzione a offrire tale insegnamento è, nel 1871, lo
Iowa State College, al quale seguono il Kansas Agricultural College e la
Illinois Industrial University. La consacrazione dell’economia domestica
come disciplina scientifica giunge nel 1902, con la Lake Placid Conference,
durante la quale si promuove il passaggio dello Smith-Lever Act (1914) e
dello Smith-Hughes Act (1917) che stabiliranno – tra le altre cose –
l’insegnamento della home economics nei pre-college e college.
La fortuna crescente dell’economia domestica nell’era progressista (gli
anni a cavallo tra Ottocento e il primo ventennio del Novecento) trova poi
la sua espressione più compiuta nei trattati di Christine Frederick e Lillian
Gilbreth, specchio di un’ossessione per una certa funzionalità
ingegneristica nelle mansioni casalinghe, in grado di riprodurre, tra le
pareti domestiche, l’ottimizzazioni dei tempi – ma non delle risorse
naturali – imperante nel modello fordistico-tayloristico. Così, le parole
chiave di Household Engineering (1923) di Christine Frederick sono
«standard» e «labor-saving»: i consigli dati alle donne – borghesi – per
adempiere a doveri vecchi e nuovi sono tutti all’insegna del risparmio di
tempo e di spazio, contemplando intere tabelle dedicate a quanti minuti
impiegare a stirare, lavare, spazzare; a come sistemare le scatolette
alimentari; a quale budget predisporre per l’acquisto di vestiti sull’arco di
tre anni ecc. Per non dire di un intero capitolo, forse il più significativo,
intitolato «Apparecchi elettrici di grande utilità nella case senza servitù»: è
certo anche a fronte delle dimensioni delle dimore borghesi via via più
ridotte e del sacrificio di spazi prima dedicati alla servitù che Frederick
prende il la per la sua visione efficientistica della cucina. Tuttavia, il suo
vero bestseller arriva nel 1929, al culmine dell’era progressista (il libro è
appunto dedicato a Herbert Hoover →): Selling Mrs Consumer aggiunge ai
tradizionali consigli di economia domestica uno sprone decisamente
commerciale ai consumi ripetuti, nonché un’adesione completa e quasi
religiosa ai principi della disposability (il disfarsi di una merce una volta
usata) e dell’obsolescenza strutturale (→ Model T). Il libro di Frederick
dichiara, fin dal titolo, una vocazione al marketing e un ammiccare scoperto
alla retorica del mondo «felice di spendere», esaltato negli anni venti come
il migliore possibile.
Pur conoscendo una battuta d’arresto nei due decenni successivi, quella
mentalità modellata su consumi facili e sfavillanti ritornerà, più forte che
mai, negli anni cinquanta, quando i magazine al femminile – e i loro inserti
pubblicitari – andranno a soppiantare i trattati di economia domestica e a
sancire ciò che è «in» o «out» nelle case degli americani. Con la televisione
ancora agli albori del suo regno, il potere persuasivo di periodici come
Ladies’ Home Journal e McCall’s sulle donne di classe media per lo più
residenti nei suburbs (→) sarà incontrastato: dall’arredamento agli
elettrodomestici, dalle ricette per le gelatine alle marche di detersivi, le
preoccupazioni riguardo il risparmio e alla conservazione così care a
Catherine Beecher e Julia McNair Wright vengono accantonate a favore del
consumo estemporaneo e della produzione di rifiuti, a questo punto rimossi
da cucine sempre più asettiche. L’abbondanza di frigoriferi (→ Kelvinator)
traboccanti di ogni bene lascia poco spazio alla fantasia di ricette fatte di
odds and ends (scarti): dai consigli pratici sul riuso degli avanzi si è passati
insomma a quelli per gli acquisti.
A unire gli universi domestici delle «Young Ladies at Home and at
School» di metà Ottocento e delle «Mrs Consumer» del secolo dopo è
l’importanza cruciale che questi rivestono all’interno della società
americana. La stessa espressione «economia domestica» si riferisce, in
fondo, tanto a quella familiare quanto a quella nazionale. Ovvero, come
ricordava poco meno di due secoli fa Catherine Beecher: «Colei che è madre
e governante di una grande famiglia è sovrana di un impero che richiede
infinite e svariate cure e che implica doveri ben più difficili di quelli
richiesti a chi porta una corona e governa dichiaratamente la più grande
nazione della terra».

BIBLIOGRAFIA
Susan Strasser, Waste and Want: A Social History of Trash, Henry Holt and
Company, New York 1999.
Janice Williams Rutherford, Selling Mrs Consumer. Christine Frederick and the
rise of household efficiency, University of Georgia Press, Athens 2003.
C. SCAR.

Edge cities
Una edge city (città sull’orlo/bordo) è un agglomerato urbano sviluppatosi
intorno all’intersezione di due autostrade. Il termine si deve a Joel Garreau,
reporter del quotidiano Washington Post, il quale indagò il fenomeno nel
libro Edge Cities: Life on the New Frontier (1992). Le edge cities rappresentano lo
stadio di evoluzione urbana successivo al suburb (→), messo in moto nel
momento in cui queste aree prettamente residenziali vengono scelte da
multinazionali e altre aziende per stabilirvi gli uffici. Una scelta che ha due
motivazioni principali: il basso costo dei terreni e il fatto che buona parte
dei «colletti bianchi» vive lontano dalle grandi città.
Garreau propone alcuni criteri quantitativi per riconoscere una edge city:
1) almeno 5 milioni di metri quadrati di spazio uso ufficio; 2) 600mila metri
quadrati di spazio commerciale; 3) più posti di lavoro che stanze da letto.
Questi numeri si traducono in agglomerati che «non hanno per niente
l’aspetto dei vecchi centri urbani e non rispondono a nessuno dei criteri
attraverso cui noi riconosciamo una città. Le edge cities non sono collegate
da treni o da metropolitane, ma da autostrade, corridoi aerei e sentieri per il
jogging. Il loro monumento caratteristico non è la statua di un eroe a
cavallo nella piazza, ma l’atrio di un edificio, decorato con piante
sempreverdi, che ospita la sede di un’azienda, una palestra o un centro
commerciale».
A volte, le edge cities non hanno neanche bisogno di un nome: è il caso di
«287 & 78», un tessuto urbano nel mezzo del New Jersey, sviluppatosi
all’intersezione delle autostrade indicate dai due numeri, dove per lungo
tempo la compagnia telefonica AT&T ebbe il quartier generale. Il ruolo
cruciale svolto dalle multinazionali nel processo di sviluppo delle edge cities
è testimoniato dalla crescita dei centri abitati che si susseguono lungo la
Silicon Valley (→), il corridoio naturale che si estende a sud di San
Francisco. È grazie allo sviluppo del settore tecnologico che il pubblico
internazionale è diventato consapevole dell’esistenza di luoghi anonimi
quali Mountain View (sede di Google), Cupertino (Apple), Sunnyvale
(Yahoo), Palo Alto (Università di Stanford e Hewlett Packard) e San Jose
(Cisco).
Garreau considerava le edge cities come una sorta di utopia Wasp (→) e
middle class, dove l’omogeneità etnica e sociale sarebbe stata assicurata dalla
mancanza di trasporto pubblico e di impieghi non specializzati. Gli homeless
e le minoranze sarebbero stati confinati ai vecchi centri urbani, dove non
avrebbero dato fastidio. Poco importa se l’unico spazio pubblico era il
parcheggio di un supermercato o se per assistere a concerti o
rappresentazioni teatrali ci si doveva accontentare di una diretta trasmessa
in una sala cinematografica (situata, naturalmente, in un mall →).
La maggioranza della popolazione statunitense vive ormai in queste edge
cities. Non è un caso che Barack Obama abbia deciso di tenere il discorso
conclusivo della campagna presidenziale del 2008 in una edge city della
Virginia, Manassas. Nei dintorni, lungo le sponde del torrente Bull Run, si
tennero due importanti battaglie della Guerra civile (→); come nel caso di
Gettysburg (→), l’area fu in seguito dichiarata parco nazionale e
monumento storico. Nel 1988, però, scoppiò un terzo confronto, che
contrappose un comitato di cittadini a uno speculatore che spingeva per la
costruzione di un centro commerciale a ridosso del campo di battaglia. I
cittadini ebbero la meglio, una vittoria che tutto sommato il settore
immobiliare poteva anche concedere, considerando lo sviluppo sfrenato che
aveva interessato il resto della contea. La contrada di Tyson Corner, a
questo proposito, se nel 1939 ospitava solo un diner (→) e una pompa di
benzina, nel 2000 figurava al dodicesimo posto di una speciale classifica dei
centri con il più alto numero di posti di lavoro in tutti gli Stati Uniti. Mike
Davis, un intellettuale piuttosto attento ai fenomeni urbani, ha scritto un
lungo articolo ispirato alla scelta di Obama e lo ha arricchito con una
descrizione del desolante panorama intorno a Manassas, «un insieme
disorganizzato di vecchie case unifamiliari a due piani, nuove McMansion
dagli stili architettonici assurdi e sgraziati, ricostruzioni fasulle di strade
commerciali, zone industriali piene di capannoni, megachiese evangeliche,
isole di palazzoni per i paria e le ultime vestigia della campagna della
Virginia».
Non certo l’utopia immaginata da Garreau: anche perché sembra che,
pian piano, siano pure venuti ad abitarvi molti immigrati del
Centroamerica.

BIBLIOGRAFIA
Joel Garreau, Edge City. Life on the New Frontier, Doubleday, New York 1992.
Marco Sioli, Metropoli e natura sulle frontiere americane. Dalle non-città indiane
alla città di Thoreau, dalle metropoli industriali alla città ecologica, Franco
Angeli, Milano 2003.
S.M.Z.

Enola Gay
Inquieta pensare che il più famoso e letale aereo bombardiere della storia
porti il nome di una madre: quella del pilota, il Paul Tibbets che, alla guida
del B-29 Enola Gay, la mattina del 6 agosto 1945 partì dalla base di Tinian
(Isole Marianne, Oceano Pacifico) per sganciare su Hiroshima, settima città
giapponese per grandezza, la prima bomba atomica della storia. «Little Boy»
(leggermente diverso rispetto al «Fat Man» che distrusse Nagasaki tre
giorni dopo) provocò quasi 80mila morti e centinaia di migliaia di feriti, per
un totale di vittime, a cinquant’anni dalla tragedia, stimato intorno alle
350mila persone.
Madri e bambini: è curioso come la guerra venga associata, attraverso i
nomi, con il mondo inerme e pacifico degli affetti familiari. I nomi
mascherano, esorcizzano l’orrore. Non a caso, nel lessico militare degli
scienziati che lavoravano al Progetto Manhattan (→), le bombe atomiche
erano chiamate gadgets. Con un soprannome così, come non deciderne
l’impiego immediato, a poche settimane dalla loro messa a punto in
laboratorio, senza che se ne fossero compresi gli effetti letali sulla lunga
distanza?
Bisogna guardare al nome di uno degli altri due B-29 di
accompagnamento durante la missione su Hiroshima, Necessary Evil («Male
necessario»), con a bordo osservatori scientifici e apparecchiature per la
registrazione dello scoppio dell’atomica, per avere una corrispondenza
significativa fra il nome, l’evento e l’ideologia che lo sostenne. Nell’estate
del 1945, l’uso della bomba all’uranio era considerato dal presidente
Truman e dall’85% degli americani un «male necessario», l’unica via per
porre fine alla guerra a quattro anni da Pearl Harbour e dal conseguente
intervento degli Stati Uniti. E, sebbene alcune voci dissonanti si fossero
levate contro l’uso dell’atomica negli anni seguenti al suo utilizzo, si
dovette aspettare la fine degli anni settanta, quando il conflitto in Vietnam
(→) era ormai entrato nel vivo, perché l’opposizione all’uso di armi
nucleari uscisse dai circoli ristretti dell’accademia e si trasformasse in un
movimento in grado di scuotere l’opinione pubblica.
Anche la letteratura faticò a esprimere l’orrore della distruzione
atomica: dopo Hiroshima (1946) di John Hersey, breve e asciutto reportage
che racconta la tragedia di quel giorno e di quelli che seguirono attraverso
le storie di sei sopravvissuti, solo nel 1958, quando il poeta della beat
generation Gregory Corso diede alle stampe Bomb (i cui versi assumono la
forma di un fungo atomico), l’orrore nucleare riecheggerà con voce forte
dentro alle lettere americane. Anche il cinema ha cercato, pur con molte
reticenze, di raccontare la distruzione atomica: per vedere e ascoltare ciò
che la bomba ha rappresentato nella cultura statunitense da Hiroshima in
poi, si veda il bellissimo documentario del 1982, The Atomic Cafè, che
ricostruisce attraverso testimonianze dell’epoca, e con inevitabili risvolti
grotteschi, l’incubo nucleare dalla Seconda guerra mondiale alla Guerra
fredda. Senza dimenticare, è ovvio, Il Dottor Stranamore (1964) di Stanley
Kubrick che, con tragica ironia, sull’immagine sempre agghiacciante del
fungo atomico si congeda con le parole di una canzone inglese del 1939:
«We’ll meet again, don’t know where, don’t know when / But I know we’ll
meet again / some sunny day».
Ma torniamo alla madre di tutti i B-29. La fine della missione fu per Enola
Gay l’inizio di una nuova e controversa vita. Rientrato in patria, il
bombardiere fu trasferito l’anno successivo alla Smithsonian Institution e,
dopo aver soggiornato per quasi quarant’anni in sei depositi diversi, venne
restaurato per diventare il pezzo forte della mostra del National Air and
Space Museum di Washington nel 1995. Il progetto, che aveva l’obiettivo di
commemorare i cinquant’anni dalla fine del conflitto, suscitò accese
polemiche: da un lato, le associazioni di veterani contestavano il ruolo di
vittima che la mostra sembrava tributare al Giappone, a discapito
dell’importanza strategica dell’atomica per porre fine alla guerra;
dall’altro, i pacifisti vedevano nell’evento della Smithsonian un tentativo di
legittimazione delle armi nucleari. La mostra fu infine annullata, ma i
curatori decisero di accogliere la fusoliera anteriore del bombardiere nello
spazio espositivo. Nonostante le contestazioni (con tanto di lancio di
vernice rossa prima e di sangue poi), Enola Gay attirò in tre anni quasi
quattro milioni di spettatori: a seguito dell’inaspettato successo, nel
dicembre del 2003 l’intero velivolo diventò parte della collezione
permanente del National Air and Space Museum.

BIBLIOGRAFIA
Michael Kort, The Columbia Guide to Hiroshima and the Bomb, Columbia
University Press, New York 2007.
Robert P. Newman, Enola Gay and the Court of History, Peter Lang, New York
2004.
C. SCHIA.

Espatriati ed esuli
La Guerra d’indipendenza (→ Rivoluzione americana), in seguito alla quale
le colonie americane si separarono dal Regno Unito, non rappresentò un
taglio definitivo del cordone ombelicale che legava gli insediamenti oltre
Atlantico all’Europa. Nel tentativo di dare forma a una cultura «autonoma»,
intellettuali e artisti volsero sempre lo sguardo su quanto d’interessante
accadeva in Inghilterra, Francia, Germania e Italia.
Sin dai tempi di James Fenimore Cooper, Parigi – molto più di Londra –
era stata la calamita per gli americani che desideravano confrontarsi con
l’atmosfera satura della cultura europea. Durante gli anni ottanta
dell’Ottocento, per esempio, la colonia americana nella Ville lumière
comprendeva circa mille pittori alle prime armi, venuti in Francia a
perfezionarsi e studiare le nuove tendenze. Nella capitale francese, Henry
James frequentò i «maestri» della scrittura Flaubert, de Gouncourt,
Turgenev e Zola, imitato alcuni anni più tardi dalle «allieve» Edith Wharton
e Gertrude Stein. T.S. Eliot, per il quale l’attraversamento dell’Atlantico
significò anche intraprendere un percorso di riappropriazione della propria
storia familiare (come egli ricorda in East Coker, poesia del 1940 dedicata al
luogo da dove era partito l’antenato Andrew Eliott per andare in America)
preferì invece stabilirsi a Londra.
L’esodo più significativo si verificò comunque dopo la conclusione della
Prima guerra mondiale. Tanti giovani, che avevano partecipato come
volontari al conflitto, una volta tornati a casa sentirono il bisogno di
ripartire. Malcolm Cowley, ne Il ritorno degli esuli (1935), racconta il disagio e
lo sconforto che molti intellettuali in erba provarono nel trovare il paese in
preda a un clima reazionario e in piena involuzione culturale: esaurita
l’esperienza libertaria del Greenwich Village (→), l’ondata conservatrice
avrebbe presto prodotto la Red Scare (→), la legge del 1924 sulle quote di
immigrazione (→ Alien) e il Proibizionismo (→). Non migliorava le cose
l’elevato costo della vita: l’unico modo per continuare a coltivare la
vocazione artistica era sfruttare la forza del dollaro e trasferirsi in Europa,
dove tutto era molto più a buon mercato.
A Parigi, l’appartamento al numero 27 di Rue de Fleurus si trasformò nel
cuore pulsante della colonia americana. Lì risiedeva l’esule veterana
Gertrude Stein, in Francia sin dal 1903. Giovani e meno giovani, affermati
scrittori e aspiranti tali, visitavano regolarmente l’appartamento per
cercare di carpire all’enigmatica signora i segreti del mestiere e ammirare
l’invidiabile collezione di Picasso, Cézanne e Monet che adornavano le
pareti. Spesso si trattava anche di rimediare un boccone (la compagna Alice
B. Toklas avrebbe poi pubblicato alcune delle ricette che proponeva agli
ospiti) e trovare temporaneo sollievo al freddo del rigido inverno parigino.
A Stein si deve tra l’altro l’appellativo «Generazione perduta» in cui questi
giovani si sarebbero poi riconosciuti (→ Generazioni).
Stein aveva coltivato uno stile che cercava di dissolvere gli ancoraggi
tradizionali della narrazione: i personaggi, con la loro individualità e
interiorità, e la trama sono sommersi da una prosa sperimentale fatta di
ripetizioni, rimandi e collage di parole che producono significati e
associazioni al di fuori dei percorsi consueti. Sherwood Anderson seguì
questa lezione in Winesburg, Ohio (1919), nel quale si rinuncia al plot e alla
descrizione dei personaggi a tutto tondo, preferendo un andamento
narrativo fatto di momenti e personaggi definiti dai loro tic nervosi o
linguistici. Seguì la lezione anche Ernest Hemingway, il quale nei romanzi e
racconti si produce in una prosa scarna, rude, ironica, che segue il principio
dell’iceberg – la parte che rimane in superficie (ovvero la pagina scritta) è
solo una frazione della massa di storie, emozioni e pensieri che resta
sommersa. E lo fece anche Francis Scott Fitzgerald, il quale ne Il grande
Gatsby (1925) scompone personaggi e narrazione rendendo problematica la
ricostruzione dei caratteri e delle vicende e lasciando molti punti oscuri che
tocca al lettore riempire. Anderson, Hemingway, Fitzgerald furono i
rappresentanti più emblematici di una colonia che, secondo la ricerca svolta
da Karen Lena Rood nel libro del 1980 American Writers in Paris, 1920-1939,
contava 98 scrittori, tra cui val la pena ricordare Djuna Barnes, E.E.
Cummings, Archibald McLeish ed Ezra Pound.
Parigi negli anni venti era, riprendendo il titolo del libro postumo di
Hemingway, una «festa mobile»: tra salotti, caffè, librerie (la Shakespeare
and Co. di Sylvia Beach), rappresentazioni teatrali, balletti (la compagnia
del Ballet Russe diretta da Djagilev), la colonia era in continuo movimento,
oppure puntava verso destinazioni esotiche e dai prezzi abbordabili, quali le
Alpi, la Riviera del Mediterraneo (Tenera è la notte, di Fitzgerald, del 1936) o
ancora la Spagna delle corride (Fiesta, di Hemingway, del 1926). La frenesia
si giustificava con la ferma volontà di immergersi in esperienze «nuove»,
ma a qualche osservatore rimasto a casa dava l’idea di una massa di
avvinazzati e logorroici in stato di decomposizione – giudizio firmato dalla
penna sempre affilata del critico e futuro scrittore Michael Gold. Questi,
tuttavia, coglieva nel segno: lo stesso Fitzgerald avrebbe confessato tempo
dopo che, intorno al 1927, «cominciò a manifestarsi una nevrosi diffusa», la
sensazione che l’esperienza fosse al capolinea. E, a tragica conferma, ecco i
suicidi di due poeti, Harry Crosby e Hart Crane, mesto epilogo di una ricca
stagione artistica.
Parigi continuerà ad avere la sua funzione di magnete culturale: non si
verificheranno più esodi di massa, solo qualche fuga individuale. Henry
Miller, autore di Tropico del cancro (1935), arrivò quando la «generazione
perduta» era tornata a casa; lo scrittore afroamericano Richard Wright,
invece, si trasferì dopo il secondo conflitto mondiale perché, nonostante la
notorietà, non riusciva a scrollarsi di dosso il disagio della marginalità
etnica (e nel breve articolo del 1953 «There’s Always Another Café», Wright
offre una simpatica e allo stesso tempo illuminante descrizione della
variegata colonia del dopoguerra, che avrebbe ospitato altri scrittori e
jazzisti afroamericani, come il romanziere Chester Himes); alcuni cineasti
statunitensi in fuga dalla «Caccia alle streghe» maccartista (→ Caccia alle
streghe; → Maccartismo), come Jules Dassin, ripararono a Parigi (mentre
Joseph Losey preferì la Gran Bretagna). Infine, l’icona pop Jim Morrison: il
cantante dei Doors, in rotta con gli altri membri del gruppo, trascorse in
riva alla Senna i suoi ultimi sei mesi di vita, morendo in circostanze tuttora
poco chiare nel luglio 1971.
Se il ruolo della capitale francese come «rifugio» per artisti è noto – si
pensi alla composizione di George Gershwin Un americano a Parigi del 1928 o
all’omonimo musical di Vincente Minnelli del 1951 –, meno riconosciuto è il
contributo in senso inverso, che portò tantissimi europei nel Nuovo mondo,
attratti chi dalla curiosità, chi da possibili lauti guadagni, e chi infine
costretto da persecuzioni o censure nella madrepatria. Un folto e variegato
elenco che comprende i britannici Alfred Hitchcock, Aldous Huxley,
Christopher Isherwood, W.H. Auden, il russo Vladimir Nabokov, la filosofa
Hannah Arendt, Albert Einstein e i vari fisici che collaborarono alla
creazione della bomba atomica (→ Progetto Manhattan), da Enrico Fermi a
Emilio Segrè, dallo svizzero Felix Bloch all’ungherese Leó Szilárd… Una
selva in cui è difficile districarsi: e allora, fra i tanti sentieri, val la pena
d’imboccare quello che porta alla nutrita colonia tedesca di Los Angeles, la
cui importanza cruciale per lo sviluppo del cinema americano passa sovente
in secondo piano.
La colonia prese a formarsi quando i produttori degli studios di
Hollywood si accorsero della corposa e pregevole produzione filmica
proveniente dalla Germania e decisero di «importare» a suon di dollari i
migliori talenti artefici di questa fioritura. Il pioniere della diaspora fu Ernst
Lubitsch, negli Stati Uniti già dal 1923: regista di commedie dallo stile
inconfondibile, egli mescolava eleganza e umorismo sottile, tanto da far
parlare gli esperti di un «tocco alla Lubitsch». In Ninotchka (1939),
divertente pellicola dagli accesi toni antistaliniani, riuscì a trasformare
l’algida e distante Greta Garbo in un’eroina comica (il film venne lanciato
con lo slogan «Garbo laughs!»: Greta Garbo che ride – inaudito!).
A Hollywood arrivò anche il duo formato da Josef von Sternberg e
Marlene Dietrich. Fresca del successo ottenuto con L’angelo azzurro (1929),
storia di perdizione tratta dal romanzo di Heinrich Mann che aveva turbato
le sobrie platee teutoniche, l’accoppiata composta dal regista viennese e
dall’attrice berlinese continuò a collaborare negli Stati Uniti con produzioni
costruite sulle doti seduttive della Dietrich, tra cui Marocco (1930), Shanghai
Express (1932), Venere bionda (1932) e L’imperatrice Caterina (1934). A
Friederich Wilhelm Murnau, regista del celebre Nosferatu (1922), andò
invece peggio: ebbe appena il tempo di familiarizzare con il nuovo ambiente
prima di cadere vittima di un tragico incidente automobilistico a Santa
Barbara, nel 1931.
Il flusso di cineasti s’intensificò dopo la presa del potere da parte del
Partito nazista, coinvolgendo anche attori, sceneggiatori e tecnici. Fritz
Lang fu convocato da Joseph Goebbels, ministro del Reich per la
Propaganda, e durante l’incontro si vide offrire la direzione dell’industria
cinematografica del regime. Lang accettò, ma abbandonò la Germania la
sera stessa. Dopo un passaggio a Parigi, approdò in California, dove esordì
con Furia! (1937), film che affrontava il delicato tema del linciaggio
all’indomani della vicenda degli Scottsboro Boys, i nove giovani neri
accusati, processati e condannati in un processo-farsa, per uno stupro in
Alabama, nel 1931. Lang venne seguito da altri colleghi di origine ebraica,
come Robert Siodmak, Billy Wilder, William Dieterle, Max Reinhardt e Otto
Preminger, i quali contribuirono a rinnovare i linguaggi della
cinematografia hollywoodiana, partecipando a quello che diventerà uno dei
suoi periodi più fecondi.
Gli emigrati tedeschi furono anche tra gli iniziatori del genere che poi
sarebbe stato definito noir, nel quale trasferirono i cupi stati d’animo e gli
effetti visivi giocati sul contrasto tra chiaro e scuro caratteristici del cinema
espressionista di Weimar. Importarono anche un atteggiamento pessimista
nei confronti del reale che faceva a pugni con la forma dello happy ending
predominante a Hollywood. I personaggi ritratti in questi film sono
individui intrappolati in circostanze da cui non riescono a districarsi,
vittime delle loro stesse ossessioni: l’antitesi del self-made man di una certa
tradizione americana. La fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder (con
sceneggiatura di Raymond Chandler), Vertigine (1944) di Otto Preminger, La
scala a chiocciola (1945) e I gangsters (1946, ispirato a un racconto di
Hemingway) di Robert Siodmak, La donna del ritratto (1944) e Il grande caldo
(1953) di Fritz Lang sono alcuni dei titoli noir in cui i transfughi di Weimar
cercarono di conciliare le esigenze del mercato con l’ambizione di ricavare
un ruolo autoriale per il regista.
Non tutti gli emigrati in fuga dal nazismo erano affascinati dall’industria
cinematografica. Al contrario, alcuni la consideravano un prodotto
degenerato di un’arte occidentale ormai fagocitata dal capitale. Il filosofo
Theodor W. Adorno, lasciata l’Europa insieme ad altri esponenti della
Scuola di Francoforte, dedicò Minima Moralia (1951) e Dialettica
dell’illuminismo (1947), scritto in collaborazione con Max Horkheimer, alla
demolizione della cultura popolare americana, senza risparmiare niente e
nessuno: dal cinema ai fumetti, dagli scrittori fino al jazz, secondo Adorno
in tutto ciò si possono rintracciare i sintomi di una produzione culturale che
rilassa il consumatore perché non richiede eccessivo sforzo per essere
compresa e allo stesso tempo lo compiace, dandogli l’illusione di
partecipare di una sfera di vita «elevata» – una produzione che ha
comunque un lato oscuro, perché impedisce all’individuo di sviluppare un
atteggiamento critico verso il reale, non permettendogli di riconoscere la
condizione di oppressione in cui si trova.
Il «König» degli esuli era lo scrittore Thomas Mann, noto anche al di
fuori dei circoli intellettuali per il premio Nobel ricevuto nel 1929. Dopo un
primo periodo passato a Princeton, dove gli era stata offerta una cattedra
universitaria, Mann preferì trasferirsi in California. La sua casa a Pacific
Palisades divenne il fulcro della socialità degli esuli: tra gli ospiti regolari, il
fratello Heinrich e gli scrittori Bruno Frank e Franz Werfel; meno regolare,
invece, la presenza di Bertolt Brecht e del compositore Arnold Schoenberg
(quest’ultimo abitava di fronte a una vera star, Shirley Temple, e si irritava
tutte le volte che le comitive di turisti si fermavano davanti a casa per
rendere omaggio a «Riccioli d’oro», mentre a lui non si interessava
nessuno). Negli anni californiani, Mann scrisse il Doctor Faustus (1947),
l’ultimo dei suoi romanzi maggiori. E ogni giorno, finita la dose quotidiana
di pagine, passeggiava per il quartiere suscitando lo sconcerto degli
automobilisti: non riuscivano a credere che quell’individuo dallo strano
accento camminasse per scelta e non perché fosse rimasto in panne. Anche
lo scrittore Erich Maria Remarque cercò di mantenere la buona abitudine
della passeggiata: ma i marciapiedi sempre vuoti del suburb (→) gli
risultarono troppo deprimenti, e così fuggì a New York.
I lussureggianti panorami della California meridionale, le spiagge e il
sole non riuscivano tuttavia a contrastare la nostalgia di casa. In una famosa
poesia, Bertolt Brecht paragonò Los Angeles all’inferno: «Anche all’inferno,
senza dubbio, ci sono giardini opulenti / e fiori grandi come alberi, che si
seccano / velocemente, se non vengono innaffiati con acqua costosa e
bancarelle / con grandi mucchi di frutta, che però / non hanno né profumo
né sapore / […] e case, progettate per la felicità, rimangono vuote / anche
se sono abitate».

BIBLIOGRAFIA
Malcolm Cowley, Il ritorno degli esuli, Rizzoli, Milano 1963.
Mike Davis, Città di quarzo: indagando sul futuro a Los Angeles, Manifestolibri,
Roma 1999.
Fernanda Pivano, Mostri degli anni venti, La tartaruga, Milano 1994.
S.M.Z.

Esplorazioni
Desiderio di scoperta di territori inesplorati; ricerca di vie commerciali che
rendessero più semplici gli scambi con l’Oriente e il Sudamerica; brama di
conquista politica di una terra vista come «nostra prima che noi fossimo
suoi» (per parafrasare il poeta Robert Frost), con relativa estromissione
delle potenze europee che da ormai due secoli vi esercitavano il controllo;
ricerca di terre da coltivare e risorse naturali da sfruttare. Tante sono le
ragioni delle imprese che, subito dopo la Guerra d’indipendenza (→
Rivoluzione americana), spinsero il neonato governo statunitense a volgere
il proprio sguardo verso sud e verso ovest, finanziando campagne di
esplorazione che, in meno di quarant’anni, fecero riempire (quasi) tutti gli
spazi ancora vuoti della geografia nordamericana. Senza la pretesa di
disegnare mappe complete, vediamo le principali.
Lewis e Clark. Nella storia delle esplorazioni, il Corps of Discovery, la
spedizione capitanata nel 1804-1806 da Meriwether Lewis, segretario di
Thomas Jefferson, e William Clark, esperto apripista e cartografo, fu
sicuramente lo snodo attorno a cui ruotò, dal punto di vista geografico e
ideologico, il processo di costruzione degli Stati Uniti come potenza
egemone sul continente nordamericano. Raggiungendo le coste del Pacifico
via terra, il gruppo compì infatti l’ultimo, lungo passo dell’avanzata bianca
verso ovest e chiuse anche, metaforicamente, la parabola iniziata con la
scoperta di Colombo e la colonizzazione dei Padri Pellegrini (→ Plymouth
Rock).
Partito il 14 maggio 1804 da Camp Dubois, nelle vicinanze di St. Louis
(all’epoca, avamposto nell’Ovest), il gruppo composto da una quarantina di
uomini risalì prima il Missouri e poi il fiume Columbia, avventurandosi nei
territori fino ad allora poco conosciuti della Louisiana (regione che
all’epoca si estendeva dal Mississippi alle Montagne Rocciose, acquistata
l’anno precedente dalla Francia), per raggiungere il Pacifico negli attuali
territori dell’Oregon e fare infine ritorno il 23 settembre 1806. La
spedizione, sostenuta con forza dal presidente Jefferson, era il segno di una
nuova coscienza politica nazionale, che così indicava a chiare lettere la
volontà di espansione sul continente, escludendo in maniera definitiva la
presenza e le interferenze delle grandi potenze europee.
Una delle caratteristiche che rese celebre il gruppo fu la sua eterogeneità
razziale: fra i suoi ventinove membri, figuravano l’esploratore francese
Touissaint Charbonneau e la moglie Native American Sacajawea (→ Nuovo
mondo), il loro figlio neonato, e infine York, uno schiavo afroamericano,
liberato quando il gruppo fece ritorno a St. Louis. Furono proprio questi
membri della spedizione, oltre ai due capitani, a trasformarsi in icone
dell’immaginario popolare, simboli ante litteram di un multiculturalismo che
gli Stati Uniti assunsero a loro bandiera nei decenni successivi.
Di certo, il viaggio fu un’autentica avventura: Lewis e Clark erano stati
incaricati di cartografare uno spazio ancora in precario equilibrio politico,
conteso da Stati Uniti, Francia e Spagna, in cui pochi contatti erano stati
stabiliti con le popolazioni native. Per i due esploratori non si trattò
soltanto di attraversare e misurare il continente, a piedi e in canoa, ma
anche e soprattutto di «ingabbiare» con la scrittura un territorio
sconfinato, anticipando e preparando così il terreno per le rivendicazioni
politiche della madrepatria. Va detto che il Corps of Discovery non fu la
prima spedizione a tentare la traversata: già nel 1786, John Ledyard aveva
provato (in maniera alquanto ingenua) a raggiungere quelle regioni
attraversando a piedi la Russia e poi superando in nave il Pacifico, ma fu
arrestato dall’imperatrice Caterina. E nel 1793 lo scozzese Alexander
McKenzie aveva attraversato le Montagne Rocciose nei territori ora del
Canada, con grande preoccupazione di Thomas Jefferson che vedeva l’Ovest
sempre più sotto il controllo dell’Inghilterra. Così, anche se il compito di
Lewis e Clark fu a prima vista quello di mappare territori inesplorati, in
realtà il gruppo dovette soprattutto farsi largo in una geografia già marcata
da altri – francesi e spagnoli nei territori dell’Ovest, inglesi nei territori del
Nord. Doppia fu dunque la missione: registrare ciò che ancora non era noto
e scoprire varchi e nuove vie per inserirsi in geografie commerciali fino ad
allora controllate dalle potenze estere (nelle sue Instructions, Jefferson
ordinava al capitano di prestare attenzione a tutte quelle vie che potevano
risultare strategiche per il commercio). Del resto, anche dal punto di vista
cartografico, la spedizione di Lewis e Clark non si svolse in uno spazio
bianco e inviolato: si trattò al contrario di combinare, come in un puzzle i
cui pezzi erano in scala diversa, le mappe di esploratori e navigatori nei
decenni precedenti, frutto sia di viaggi dentro al territorio sia delle
circumnavigazioni del continente (basti qui ricordare i contributi di John
Mitchell e Le Page du Pratz; le mappe di Jonathan Carver, James Cook,
George Vancouver, Alexander MacKenzie, Antoine Soulard e, infine, di
James MacKay, Hugh Heney e Aaron Arrowsmith, queste ultime citate nei
Diari di Lewis e Clark).
Proprio perché influenzati dalla cartografia esistente, anche i due
capitani di Jefferson non solo sottovalutarono le effettive dimensioni del
continente, ma profusero notevoli sforzi nella ricerca di conferme a
leggende diffuse all’epoca: per esempio, l’esistenza dei welsh indians, una
tribù di origine gallese che si credeva abitasse nelle zone più interne del
continente americano; e soprattutto il passaggio a Nordovest, una via
d’acqua sopra il 49º parallelo che avrebbe collegato Atlantico e Pacifico.
L’Ovest delineato da Lewis e Clark non fu dunque il vuoto che
caratterizzava, fra le altre, la rappresentazione che ne diede in seguito
Frederick Jackson Turner (→ Frontiera); al contrario, emerge dai Diari uno
spazio insolitamente saturo di persone e incontri, innanzitutto con i Native
Americans (ben cinquanta le tribù incontrate), di cui Lewis e Clark tentarono
una sorta di censimento, anche grazie alla presenza nella spedizione di
Sacajawea. Ciò che appariva come un viaggio nell’ignoto si rivelò, agli occhi
degli stessi esploratori, un percorso la cui fine era, in certo modo, già
racchiusa nell’inizio. Ad attenderli sulle coste del Pacifico vi era un Nuovo
mondo ormai corrotto dai contatti con gli europei giunti su quelle coste via
mare: i chinooks, unici fra i Native Americans a lasciare un cattivo ricordo
negli esploratori, diedero prova della loro familiarità con la civiltà bianca
attraverso i corpi segnati dalle malattie portate dagli occidentali e il
linguaggio delle armi e dell’ingiuria.
Zebulon Pike. Dopo aver misurato l’estensione del continente, l’urgenza
della nuova nazione fu di stabilirne i confini. Secondo gli accordi politici, il
limite fra la Louisiana e i territori a sud controllati dagli spagnoli era
localizzato sulle sponde del Red River: ma nessuno all’epoca ne conosceva
con precisione il corso. Così, negli stessi anni della spedizione di Lewis e
Clark, un altro esploratore, Zebulon Pike, capitano dell’esercito, fu
incaricato di esplorare le regioni che corrispondono all’attuale Colorado, di
prendere contatti con le popolazioni locali e di trovare le fonti del «Fiume
Rosso», dando così un contributo decisivo alla definizione dello spazio
nazionale. Pike partì nel luglio del 1806 da Fort Bellefontaine, vicino a St.
Louis, con venti soldati e cinquanta ostaggi della tribù degli osage da
liberare nei loro territori, fra Kansas e Missouri. Dopo aver attraversato la
zona a sud dell’attuale Nebraska, la spedizione raggiunse l’Arkansas River e
si divise in due: il primo gruppo ridiscese il fiume fino al Missouri, facendo
ritorno a St. Louis prima dell’inverno; mentre il secondo, condotto da Pike,
fece rotta a ovest, attraversando le Grandi pianure, paragonate per bellezza
ai deserti di sabbia africani, e ribattezzando la regione «Grande deserto
americano» (→ Deserti), per poi muovere verso le Montagne Rocciose. Non
equipaggiato per i climi rigidi dell’inverno sulle montagne e dopo aver
girato in tondo alla ricerca delle foci dell’Arkansas River, il gruppo, ormai
ridotto a una decina di uomini, si diresse a sud raggiungendo il Rio Grande
(che Pike scambiò per il Red River) e sconfinando così nel territorio
controllato dagli spagnoli. Da questi catturato nel febbraio del 1807,
arrestato come spia e condotto prima a Santa Fe, poi ad Albuquerque, a El
Paso e infine in Messico, Pike raccolse informazioni preziose
sull’organizzazione militare spagnola, sulla geografia del Sudovest, sulla
popolazione civile che abitava le regioni e sul loro profondo scontento per
gli occupanti spagnoli. Rilasciato insieme a una parte dei suoi uomini, Pike
fu scortato al confine con la Louisiana nel luglio del 1807. Mentre i diari veri
e propri furono confiscati dagli spagnoli, tre anni dopo, i ricordi della
spedizione (The Expeditions of Zebulon Montgomery Pike to Headwaters of the
Mississippi River, through Louisiana Territory, and in New Spain, during the Years
1805-6-7) ebbero tanto successo da essere tradotti per il pubblico europeo
anche in francese, tedesco e olandese. Non simile fortuna ebbe il loro autore
che, proseguendo la carriera militare prima a New Orleans durante la
guerra del 1812 e poi a York (ora Toronto), in Canada, dove condusse
l’attacco alla città nel 1813, qui rimase ucciso durante le trattative per la
resa.
John Charles Frémont. Ufficiale dell’esercito e poi membro del Partito
repubblicano, John Charles Frémont è associato in modo indelebile alla
California, alla sua scoperta ma soprattutto al suo passaggio agli Stati Uniti
con la guerra contro il Messico, che l’esploratore cercò in tutti i modi di
anticipare. La sua carriera, prima come luogotenente del Corpo dei
Topografi e poi come esploratore vero e proprio, iniziò con le esplorazioni
delle regioni fra il Mississippi e il Missouri, e lungo il Des Moines River. Fu
sulle rive del Missouri che Frémont conobbe un’altra figura leggendaria
nella storia del West (→ Olimpo americano) – quel Kit Carson che non solo
lo guidò, con una ventina di uomini, in un viaggio di cinque mesi verso il
South Pass, ma che con lui tracciò poi i sentieri dell’Oregon Trail e della
Sierra Nevada (vedendo per primo il Lake Tahoe e descrivendo la regione in
termini così positivi da convincere i mormoni a trasferire lì il loro
insediamento → Quakers, Shakers e Mormons). La pubblicazione dei diari di
questi viaggi, compiuti fra il 1842 e il 1846, fu un autentico successo, tanto
che le mappe tracciate vennero utilizzate anche da Joseph Ware nel suo
Emigrants’ Guide to California (→ Guide per emigranti), bibbia per i cercatori
d’oro di metà secolo (→ Oro!).
Fu però il temperamento impulsivo e imprevedibile di Frémont, il suo
fervido patriottismo privo di lungimiranza per le conseguenze politiche dei
suoi gesti, a comprometterne la carriera come ufficiale e poi come
candidato alla presidenza. Durante la terza spedizione, mirata a localizzare
le fonti dell’Arkansas River nelle Montagne Rocciose, l’esploratore decise di
dirigersi verso la California e incitare alla rivolta gli abitanti della regione,
invitandoli a issare le bandiere statunitensi e promettendo protezione in
caso di guerra con il Messico – guerra che in effetti fu sul punto di
scoppiare, quando gli spagnoli vennero a conoscenza dell’incursione, e che
solo la fuga repentina di Frémont e del suo gruppo verso l’Oregon sventò
temporaneamente. A Klamath, lo sterminio di un intero villaggio di nativi,
insieme all’assassinio a sangue freddo di tre spagnoli appena sbarcati da
una nave attraccata a Punta San Pedro, fecero il resto: alla notizia venne
dato ampio spazio sul numero del 27 settembre 1956 del Los Angeles Star,
dieci anni dopo i fatti e nel pieno della campagna elettorale per la
presidenza, a cui Frémont ambiva; e a vincere fu il candidato repubblicano
James Buchanan.
Sempre nel 1846, a capo di trecento uomini, Frémont diede un
contributo decisivo alla guerra messico-americana conquistando senza
spargimenti di sangue la città di Santa Barbara, per poi marciare su Los
Angeles, la cui resa, nel gennaio del 1847, pose fine alla guerra della
California del Nord. Nominato governatore, Frémont rifiutò però di lasciare
la carica quando il generale Stephen Watts Keany fu nominato al suo posto:
condotto dinanzi alla corte marziale, Frémont scampò all’esecuzione solo
grazie alle sue imprese passate e venne congedato dall’esercito con
disonore. Alla ricerca di un riscatto sociale pubblico, si ritirò in California,
dove acquistò un ranch vicino a Yosemite (→ Yoghi), per poi lanciarsi,
insieme al genero, il senatore Benton, nell’impresa di una linea ferroviaria
(→ Promontory Point) che collegasse St. Louis a San Francisco lungo il 38º
parallelo. Proprio per assicurare il successo dell’impresa, nel 1848 Frémont
partì a capo di una spedizione di trentacinque uomini per risalire i fiumi
Missouri, Kansas e Arkansas e dimostrare che una simile rotta sarebbe stata
praticabile per tutto l’anno. Sorpreso dalla neve nei pressi del forte di Bent
e con alcune defezioni già in atto, decise di procedere, ma, dopo oltre due
mesi di difficoltà e stenti, fu costretto a ripiegare verso Taos (New Mexico),
in cerca di aiuti, con un bilancio di dieci morti. Alle sfortunate imprese da
esploratore fecero seguito le rovine commerciali: incapace di far fronte ai
pagamenti per l’acquisto della ferrovia, Frémont si vide espropriato della
Pacific Railroad nel 1967. Da qui in poi, un lento declino: governatore
dell’Arizona per due anni, fu destituito e si ridusse a vivere in povertà a
Staten Island (New York), dove morì dimenticato da tutti nel 1890.
Nonostante la preminenza dei nomi di Lewis e Clark, di Pike e di
Frémont, altri e importanti esploratori furono determinanti nella della
definizione della geografia nazionale e dei suoi confini e nel successivo
ruolo degli Stati Uniti come potenza mondiale: si pensi all’esplorazione di
Charles Wilkes dei territori dell’Oregon nel 1841 (ora, stato di Washington),
regione che il presidente Polk stava negoziando in quegli anni con la Gran
Bretagna; o al ruolo giocato a partire dagli anni sessanta dell’Ottocento
dallo U.S. Geological Survey, che sotto la guida di John Wesley Powell (→
Deserti) esplorò due volte il Colorado e scoprì il Grand Canyon (→). Anche
nel Novecento il desiderio di scoperta e conquista non si placò: la National
Geographic Society, fondata nel 1888, finanziò le spedizioni dell’Artico e
dell’Antartico, con la conquista del Polo Nord da parte di Edwin Peary,
mentre quella del Polo Sud venne strappata agli statunitensi dal norvegese
Roald Amudsen, che aveva già localizzato, qualche anno prima, un
passaggio via mare nelle acque ghiacciate del Canada del Nord. Era stato
infine trovato il «passaggio a Nordovest», il Santo Graal alla cui ricerca si
erano lanciati Lewis e Clark: peccato che, con i tre anni che la traversata
richiedeva, si rivelasse alla fine del tutto inutile.

BIBLIOGRAFIA
Tom Chaffin, Pathfinder: John Charles Frémont and the Course of American
Empire, Hill and Wang, New York 2002.
Bernard Devoto, La corsa all’impero, il Mulino, Bologna 1963.
William Goezmann, New Lands, New Men: America and the Second Great Age of
Discovery, Viking, New York 1986.
Patricia Limerick, The Legacy of Conquest: The Unbroken Past of the American
West, Norton, New York 1987.
C. SCHIA.

Esposizioni universali
Devono passare solo due anni perché, dopo l’epocale Grande Esposizione di
Londra al Crystal Palace, gli Stati Uniti decidano di avere una loro prima
fiera internazionale: nel 1853, a New York, la Exhibition of the Industry of
All Nations, anche nota come New York Fair o New York Crystal Palace. Il
fatto poi che gli organizzatori mettano una parte dell’esposizione nelle
mani di P.T. Barnum, grande impresario dell’intrattenimento e fondatore
del circo omonimo (→ Tendoni da circo), introduce quella vena popolare di
svago e divertimento con la quale le successive fiere universali americane
faranno i conti. Altro denominatore comune delle esposizioni mondiali
future sarà il loro nascere come risposta del capitale ai periodi di recessione
economica del paese. Dopo il Crystal Palace newyorkese, cui si riferiscono i
versi di Song of Exposition (1871) del poeta-bardo Walt Whitman, arriva così
l’importantissima Esposizione Centenaria di Philadelphia del 1876 che,
pensata per celebrare l’anniversario dalla Dichiarazione d’indipendenza,
nasce sulle ceneri della depressione del 1873 e vuole mostrare al mondo
come il paese sia riemerso dalla crisi della Ricostruzione seguita alla Guerra
civile (→) quale potenza industriale. Nei sei mesi in cui la fiera rimarrà
aperta, saranno circa 10mila i visitatori dei 450 acri di Fairmount Park,
attratti principalmente dal «Padiglione dei macchinari», con il suo motore a
vapore Corliss e una serie di prototipi di locomotive, presse tipografiche,
macchine da scrivere, il telefono di Bell e il telegrafo di Edison. Tra le
innovazioni maggiori della fiera di Philadelphia va segnalato il metodo
classificatorio che, adottato da tutte quelle a venire, confluirà nel sistema
metrico decimale Dewey. Nonostante il grande successo di Philadelphia
1876, l’esposizione internazionale che più di ogni altra si iscriverà
nell’immaginario americano ottocentesco si dà in occasione dei
cinquecento anni dalla conquista (1893) e si tiene a Chicago, cerniera tra Est
e Midwest, centro dell’industria della carne e metropoli in ascesa capace di
insidiare il primato di New York (→ Porkopolis; → White City). Anche la
Chicago World’s Columbian Exposition (questo il nome ufficiale) nasce a
ridosso del Grande Panico del 1893, una recessione che comincia con una
bolla speculativa alimentata dalle compagnie ferroviarie. Affidato a Daniel
Burnham, urbanista di fama e fondatore del movimento «City Beautiful», il
progetto dell’esposizione colombiana ruota intorno alla costruzione di una
«White City» in stile neoclassico con impalcature di legno rivestite di gesso.
Edificata, come sarà per le esposizioni di San Francisco (1915, 1939) e New
York (1939), su terreni municipali non ancora utilizzati perché acquitrinosi
(quelli di Jackson Park), la fiera di Chicago è un trionfo di magniloquenza
architettonica, con laghi, laghetti, colonne e colonnati, templi e fontane. Se
la finzione imbiancata di Burnham cancella il rosso dei macelli, la povertà e
la promiscuità cittadine, ai gusti popolari è comunque concessa una specie
di area dei divertimenti chiamata Midway Plaisance: un lembo di terra
lungo un chilometro e mezzo in cui non mancano negozi e ristoranti etnici
deputati, secondo un disegno per niente latente, a raffigurare uno stadio di
sviluppo culturale «arretrato» rispetto a quello anglosassone. Il tratto
distintivo dell’esposizione del 1893 è l’abbondanza: l’America deve apparire
agli occhi del mondo come paese forte e vigoroso; ed ecco spiegate le 65mila
mostre in cui si perdono, è proprio il caso di dire, i visitatori. Chiusi i
battenti, i padiglioni e l’intero complesso di Jackson Park diventano,
secondo un copione anch’esso destinato a ripetersi, un luogo abbandonato,
rifugio dei barboni della città, distrutto dalle fiamme di un incendio nel
1894. L’esposizione successiva, quella panamericana di Buffalo (1901),
rimarrà invece nella storia per aver dischiuso al mondo la bellezza delle
cascate del Niagara (→) e per essere stata scenario dell’assassinio del
presidente repubblicano William McKinley, caduto sotto i due colpi di
pistola sparati da un anarchico durante un ricevimento ufficiale. Altrimenti
importante è la Louisiana Purchase Exposition di St. Louis del 1904, che va a
commemorare il centenario dell’acquisto del territorio della Louisiana da
parte di Thomas Jefferson (1803): la fiera comprende più di duecento edifici
e annovera il primo telegrafo senza fili. In continuità con le esposizioni che
la precedono – e con quelle che la seguiranno –, la Louisiana Purchase
Exposition è pregna di quel darwinismo sociale di inizio secolo votato a
divulgare le teorie della presunta superiorità razziale del ceppo caucasico
(quindi bianco) sugli altri. Ecco, allora, che gli organizzatori non esitano a
mettere in vetrina un gruppo di autoctoni igorot delle Filippine (entrate
sotto il controllo coloniale statunitense nel 1898, grazie a una delle
«splendide guerricciole» →) nei panni di selvaggi fermi a uno sviluppo
civile primitivo.
Nei primi anni del Novecento, le fiere mondiali si moltiplicano,
abbracciando città fino a quel momento poco conosciute nel panorama
internazionale come Omaha (1899), Buffalo (1901) e Seattle (1909); mentre
San Francisco ospita la fondamentale Panama-Pacific International
Exposition (1915) – allestita in occasione dell’apertura del canale di Panama
– e Philadelphia torna alla ribalta per i 150 anni dall’Indipendenza con la
Sesqui-Centennial Exposition nel 1926, di cui si ricorda una memorabile
replica di 80 piedi della Liberty Bell (→ Liberty Bells) a fare da porta
d’ingresso, ricoperta di quasi 26mila lampadine da 15 watt l’una. Ma è al
culmine del decennio della Grande depressione (→) che, passando per la
fiera di Chicago del 1933-1934 (Century of Progress), ispirata, pare, alla
«Città di Smeraldo» del Mago di Oz (1900) dello scrittore americano L. Frank
Baum, si arriva alle epocali esposizioni «gemelle» di New York e San
Francisco del 1939-1940.
Sul versante californiano, la Golden Gate International Exposition
prevede la costruzione di un’isola in omaggio a Robert Louis Stevenson
(approdato a San Francisco nel 1879): Treasure Island. L’isola stevensoniana
sorge dal nulla, ovvero da terra di riporto sotto il Bay Bridge che collega San
Francisco a Oakland, ed è oggi al centro di un esperimento residenziale
ecosostenibile. A New York City, invece, la fiera che si proporrà di
rappresentare «Il mondo di domani» è opera del sovrintendente Robert
Moses, che riesce a piazzarla su un terreno di circa 800-1200 ettari a Corona-
Flushing Meadows (Queens), precedentemente impiegato come discarica
per i rifiuti, già evocata dal romanzo Il grande Gatsby (1925) di Francis Scott
Fitzgerald come «Valle delle Ceneri». In ogni suo aspetto, la New York Fair
enfatizza la retorica del progresso tecnologico e dell’agio consumistico: i
grandi nomi dell’industria campeggiano ovunque (dal formaggio
Philadelphia alla Kodak [→], dalla General Motors al pane in cassetta
Wonder Bread ecc.) e, per la prima volta, vengono prodotti e distribuiti
migliaia di gadget usa e getta in tipico stile «Streamline Moderne». Tra i
simboli della fiera, oltre al Trylon (una torre affusolata di più di 200 metri) e
alla Perisfera (una sfera colossale), l’avveniristico «futurama» della General
Motors: un diorama che regala ai visitatori l’illusione di trasvolare su una
proiezione del paese nel 1960. La zona divertimenti è invece giocata,
secondo consuetudine, sui grotteschi, l’esotico e il corpo femminile.
Sebbene la Corona-Flushing Meadows Exposition del 1939-1940 si chiuda in
deficit, tanto le multinazionali lì rappresentate quanto il nome del
potentissimo Robert Moses ne escono oltremodo rafforzati. Quando la
struttura viene smantellata, le macerie sono trasportate a formare le grandi
spiagge newyorkesi di Jones Beach e Orchard Beach volute dallo stesso
Moses che, grazie a una longevità politica senza precedenti, farà in tempo
ad allestire una nuova fiera internazionale, sempre a Flushing Meadows, da
lì a un quarto di secolo (1964-1965). Su quel sito di 1255 acri si trova oggi un
enorme parco cittadino – terzo per grandezza a New York – punteggiato di
campi d’atletica e di tennis (qui si giocano gli U.S. Open), prati ben curati,
laghi, fontane, stadi (tra cui lo Shea Stadium della squadra di baseball → dei
New York Mets), musei e zoo. Se la fiera del 1964-1965 – conclusasi, in
maniera non diversa da quella del 1939, con un bilancio in perdita – prelude
alla fine di una parabola (dopo di essa ci saranno solo quelle di San Antonio,
1968; Knoxville, 1982; e New Orleans, 1984), è legittimo affermare che molti
tratti distintivi delle esposizioni americane del Novecento fossero già
presenti nella Chicago Columbian Exposition del 1893, spartiacque a cavallo
di due secoli e vetrina della potenza più moderna del mondo: «L’esposizione
colombiana di Chicago del 1893, come ogni altra esposizione, è un esempio
lampante di imprudenza e di ipocrisia; tutto è fatto per ottenere profitto e
divertimento dalla noia, ma tutto è poi ricondotto ai nobili propositi della
gente. Le orge sono meglio». Parola di Lev Tolstoj.

BIBLIOGRAFIA
R. Reid Badger, The Great American Fair. The World’s Columbian Exposition and
American Culture, Nelson Hall, Chicago 1979.
Robert W. Rydell, World of Fairs: The Century-of-Progress Expositions, University
of Chicago Press, Chicago 1993.
C. SCAR.

Etnicità
Girando tra i negozi di souvenir e paccottiglia assortita di Mulberry Street
(→ Lower East Side), l’antica enclave italiana di New York, capiterà di
posare lo sguardo, tra le miriadi di t-shirt in vendita, su una che proclama al
mondo la riuscita di una difficile impresa: «I survived an Italian mom» –
«Sono sopravvissuto/a a una madre italiana». Anche la comunità ebraica
può vantare un onore simile: in circolazione si trovano infatti magliette con
la scritta «I survived a Jewish mother». Non si pensi che il difficile rapporto
con la madre sia un tratto distintivo esclusivo di questi due gruppi:
dopotutto, sono gli Stati Uniti ad avere sviluppato un rapporto complesso
con la figura materna – fonte di autorità, cui però, a un certo punto, occorre
ribellarsi. Ed è ciò che fecero le colonie nei confronti dell’Inghilterra (→
Rivoluzione americana) – la madrepatria, appunto.
Sin dai tempi dei Padri Pellegrini, gli emigrati nel nuovo continente
hanno dovuto recidere i legami ancestrali con il luogo natio e formarne di
nuovi in America. Come ha riassunto Werner Sollors, hanno dovuto lasciare
da parte legami basati sulla discendenza e formare una comunità basata sul
consenso rispetto a un progetto, che poteva andare dal semplice tentativo di
sopravvivere in un ambiente ostile aiutandosi l’un l’altro fino alla ricerca di
significati più ambiziosi, come la costruzione di un regno divino in terra.
La creazione di un’appartenenza attraverso il consenso è ciò che ha
contraddistinto non solo le successive ondate di immigrati, ma anche coloro
che in America sono nati e cresciuti. Il bisogno di riconoscersi in uno scopo,
in una «missione», è alla base di un’altra tipicità della cultura americana, la
formazione dell’identità individuale nei termini di appartenenza a una
generazione. E, se le più famose costruzioni culturali in questo ambito sono
abbastanza recenti – si pensi alla lost generation e alla beat generation (→
Generazioni) –, il riconoscersi di un gruppo più o meno vasto in una
generazione è invece già rintracciabile negli aderenti puritani al «Grande
Risveglio» degli anni trenta del Settecento, i quali si ribellavano a padri e
madri accusandoli di avere annacquato il progetto di costruzione di un
nuovo Eden (→ Geremiade; → Covenant): i figli avrebbero portato avanti
una nuova impresa, riprendendo la spinta idealista dei primi coloni che con
il tempo era andata esaurendosi.
La lunga ma necessaria premessa è importante per chiarire che l’etnicità
va concepita negli stessi termini: ovvero, una generazione che si riconosce
in un progetto – basato sì sulla discendenza comune ma soprattutto
accomunato dalla volontà di realizzare e manifestare l’identità attraverso il
ricorso a simboli e l’utilizzo di pratiche distintive. Certo, il consolidamento
nelle città di quartieri tedeschi, irlandesi, italiani, cinesi, ebrei russi durante
l’era delle grandi migrazioni (1840-1914) fu dettato da molteplici ragioni
pratiche – i nuovi arrivati raggiungevano parenti e conoscenti, che
avrebbero potuto aiutarli nella ricerca di lavoro e alloggio e di conseguenza
non era raro che gli abitanti di un villaggio o di una regione si
trapiantassero in una medesima strada, a volte perfino in un medesimo
isolato, il che promuoveva la solidarietà di gruppo attraverso la creazione di
una comunità «espatriata». Anche nipoti e pronipoti, tuttavia, pur lontani
dalle varie «Little Italy» o Kleindeutschland originarie, affermano
l’appartenenza in una grande varietà di forme: si passa dalla preferenza per
i cibi all’uso di parole o espressioni prese dalla lingua madre degli antenati
immigrati, all’appartenenza religiosa e al rispetto di alcune festività del
calendario, fino alle decorazioni alla porta o nel giardino e le magliette a
tema.
Va tuttavia sottolineato che la scelta etnica non è inevitabile né
prioritaria, perché non è scontato che essa diventi l’elemento prevalente
nella costruzione dell’identità: sempre facendo riferimento alla beat
generation, si pensi agli italo-americani Diane DiPrima, Gregory Corso e
Lawrence Ferlinghetti, per i quali prevale l’associazione a un gruppo
intellettuale rispetto a quello etnico. Lo stesso vale per il romanziere Don
DeLillo: se da un lato il suo Underworld (1998) contiene numerose
rievocazioni della comunità italiana di Arthur Avenue, nel Bronx (→),
dall’altro buona parte della sua produzione, da Libra (1988) fino ai più
recenti Cosmopolis (2003) e Punto Omega (2010), non ne reca traccia.
Il termine ethnic (etnico), che deriva dal greco ethnos (nazione), nell’uso
anglosassone aveva preso a indicare le popolazioni pagane e in seguito
coloro che non appartengono o non vengono riconosciuti come membri da
parte di una comunità. La voce ethnicity, attestata per la prima volta nel
1941, conosce una larga diffusione tra gli anni cinquanta e sessanta. A
scoperchiare il vaso di Pandora dell’etnicità fu un libro del 1963, scritto a
quattro mani da Nathan Glazer e Daniel Mohiynian, Beyond the Melting Pot
(→ Melting pot), nel quale i due autori sostennero che la riscontrabilità di
identificazioni basate sulla discendenza, ovvero di gruppi etnici, stava a
testimoniare quanto la teoria del Melting pot, della graduale assimilazione
degli immigrati in una sola identità nazionale, fosse contraddetta dai fatti.
Ai dibattiti accademici sulla «sostanza» dell’appartenenza etnica, se cioè sia
possibile enumerarne gli elementi costitutivi (e quindi segnalare i tratti
distintivi di ciascun gruppo), si è affiancato un periodo di riscoperta delle
radici da parte di vari settori della popolazione: l’Ethnic Revival. In un
momento storico in cui vari fattori giocavano contro un’identificazione con
l’America – si pensi alle contestazioni legate alla guerra in Vietnam (→), ai
diritti civili e a quelli delle varie minoranze –, per gli americani fu più facile
riconoscersi in un gruppo etnico, segnalando una presa di distanza nei
confronti di un paese visto come una superpotenza aggressiva e
distruttrice. A segnalare il cambio di tendenza, il successo mediatico di
alcuni prodotti culturali dal sapore etnico, come per esempio il musical
(adattato poi per il grande schermo) di argomento ebraico Il violinista sul
tetto (→ Kosher), o la sempre maggiore presenza di detective etnici nelle
serie tv (→) quali gli italiani Il tenente Colombo, Petrocelli e Baretta, e il greco
Kojak, o in quelle saghe familiari come Il padrino e Radici.
Questi prodotti culturali hanno presentato l’esperienza delle comunità
in maniera edulcorata, privilegiando un «racconto» che illustra alcuni
aspetti dell’esperienza storica dei gruppi marginali, in genere quelli più
pittoreschi, eliminandone altri problematici e contribuendo a cristallizzare
la percezione della dimensione etnica come essenza connaturata, che si
trasmette di padre in figlio. In realtà, come fa notare il sociologo Herbert
Gans, il comportamento etnico viene «riesumato» in momenti di particolare
pregnanza simbolica (ricorrenze, matrimoni) che però non intaccano e non
hanno conseguenze sullo status dell’individuo nella società. Se da un lato
l’istituzione di cattedre e dipartimenti universitari dedicati agli studi etnici
è stata fondamentale per raffinare il dibattito ed elaborare un concetto
dell’etnicità come processo di negoziazione di un’identità che adatta
rapporti comunitari ed eredità storiche – risultando in configurazioni
transitorie e mutevoli –, dall’altro l’organizzazione accademica privilegia
insegnamenti dedicati alla storia, la letteratura o la cultura di una certa
comunità: il che ha l’effetto di trasmettere l’idea opposta, ovvero che le
linee di divisione tra un gruppo e l’altro siano solide e definite, a volte
perfino insormontabili.
Resta la questione degli afroamericani, e non tanto per il tratto biologico
legato al colore della pelle, quanto per il fatto che, a partire dalla schiavitù, i
neri, insieme a Native Americans e chicanos, erano una popolazione già
insediata sul territorio statunitense – una marginalità, la loro, quindi non
legata a un consapevole progetto di emigrazione. In realtà, si tratta di una
falsa questione. Come dice il personaggio interpretato da Wesley Snipes nel
film di Spike Lee Jungle Fever (1991), non solo si deve «essere neri», ma
anche «comportarsi da neri», per appartenere al gruppo. Ma che cosa vuol
dire «comportarsi da neri»? Per il teen ager Barack Obama, cresciuto senza
padre e per lungo tempo separato dalla madre, voleva dire giocare a basket,
ascoltare il rhythm’n’blues di Aretha Franklin e Otis Redding, leggere
l’autobiografia di Malcolm X e i saggi di Du Bois (→ Linea del colore),
riferirsi ai bianchi come «white folks». Per generazioni successive, invece, il
rhythm’n’blues è stato sostituito dal rap (→) e segno distintivo sono
diventate le canotte di una squadra di basket e gli hoodies, le felpe con
cappuccio. Ciò che differenzia i neri dagli altri gruppi è il fatto che la scelta
di identificazione etnica rimane una delle poche possibili in un contesto
dove la marginalità sociale è certificata dai bassi livelli di reddito e di
istruzione e dagli alti tassi di disoccupazione e criminalità (→ Sbarre).
Viceversa, la ricerca di identità alternative risulta spesso problematica,
provocando accuse di essere «venduti», «zii Tom» (→ Zii d’America) o
«Oreo», i biscotti al cioccolato che nascondono una crema bianca
all’interno – metafora per quei neri che si comportano da «bianchi». Una
simile accusa, per esempio, è stata rivolta all’attore Bill Cosby e alla sua
creatura più celebre, la serie tv I Robinson (1984-1992), ritratto di una
famiglia afroamericana altoborghese: uno show che propone un’immagine
al di là del consueto stereotipo del ghetto o un prodotto che scimmiotta la
vita dei Wasp (→) senza legame alcuno con la condizione dei neri? Di fronte
a dilemmi di questo genere, diventano chiari i vantaggi della scelta radicale
compiuta dal narratore del romanzo di Ralph Ellison Uomo invisibile (1952):
esiliarsi in uno scantinato e diventare «invisibile» per non farsi
intrappolare in categorie precostituite, premessa per intavolare un discorso
etnico di tipo nuovo. Che non abbia bisogno di magliette offensive nei
confronti delle povere mamme.

BIBLIOGRAFIA
Roger Daniels, A History of Immigration and Ethnicity in American Life, Prentice
Hall, New York 1988.
Werner Sollors, Alchimie d’America. Identità americana e cultura nazionale,
Editori Riuniti, Roma 1990.
Rudolph J. Vecoli (ed.), Gale Encyclopedia of Multicultural America, Gale Group,
Detroit 2000.
S.M.Z.
[F]

Famiglie Ad(d)ams
Strane, le famiglie. A cominciare da una delle più strane di tutte, gli
Addams. Creata nel 1938 dalla penna di Charles Addams, all’epoca
collaboratore del New Yorker, la famiglia dall’aspetto e dalle abitudini
bizzarre, che vive felice in un’isolata casa fra le paludi (in bilico fra il motel
[→] hitchcockiano di Psycho e il quadro di Edward Hopper House by the
Railroad, del 1925) divenne nota al grande pubblico grazie all’omonima serie
televisiva in bianco e nero trasmessa dalla Abc fra il 1964 e il 1966. Fu solo
con il passaggio dalla carta stampata al piccolo schermo che Morticia,
Gomez, Fester, Itt, Lurch e Thing assunsero una personalità e soprattutto
dei nomi propri: era stato infatti il loro anonimato nei disegni apparsi fino a
quel momento su rivista a far sì che venissero identificati dal pubblico con il
cognome del loro creatore. Ed è quel cognome a funzionare come una sorta
di cerniera che unisce la gotica famiglia sempre vestita a lutto ad altre, e
forse più ingombranti, famiglie americane – e alle loro case. Charles Addams
risulterebbe infatti cugino di secondo grado di Jane Addams, la celebre
riformista sociale (Nobel per la pace nel 1931) e cofondatrice, nel 1889 a
Chicago, della prima settlement house americana – una sorta di casa collettiva
dove esponenti della middle class e immigrati condividevano spazi comuni, e
insieme a essi conoscenze e culture.
Nonostante una «d» di troppo, il creatore degli Addams sarebbe al
contempo anche lontano discendente di una delle principali stirpi familiari
statunitensi, protagonista della storia e della politica americana dalla metà
del Settecento in avanti: capostipite ne fu Samuel Adams, uno dei padri
fondatori della patria, filosofo e governatore del Massachusetts fra il 1793 e
il 1797. Fra i suoi eredi figurano John Adams e il figlio di quest’ultimo John
Quincy Adams, rispettivamente secondo e sesto presidente degli Stati Uniti,
e della moglie e madre di questi, Abigail Adams, protofemminista e
consigliera politica del marito John negli anni della sua presidenza. Anche
questa famiglia Adams è legata a case molto particolari: oltre alla dimora di
famiglia a Quincy, Massachusetts, gli Adams furono tra i primi occupanti
della Casa Bianca, all’epoca ancora in costruzione (ma che Abigail trovava
comunque «habitable»). La famiglia è legata in modo indiretto anche alla
vittoriana Adams House, una delle più ambite student houses dell’università
di Harvard, così chiamata per ricordare la massiccia presenza di esponenti
degli Adams nell’ateneo Ivy League (→). Costruita intorno agli anni trenta
del Novecento per ospitare i rampolli delle famiglie più facoltose (fra gli
inquilini vi furono William Randolph Hearst, Franklin Delano Roosevelt e
Henry Kissinger), ben presto la Adams House divenne la residenza
prediletta da studenti di letteratura e di arte (vi soggiornarono intellettuali
e scrittori come John Reed e William Burroughs e il regista Terrence
Malick). L’anticonformismo di numerosi residenti della Adams House ha
dato origine a eventi molto popolari fra gli studenti, il più celebre dei quali è
la Halloween’s Drag Night and Masquerade, festa per la commemorazione
dei defunti che fonde ballo in maschera e travestitismo (→ Halloween).
Messi alla porta alla Casa Bianca, di sicuro Morticia e Gomez sarebbero qui i
benvenuti.

BIBLIOGRAFIA
Stephen Cox, The Addams Chronicles. An Altogether Ooky Look at the Addams
Family, Cumberland House, Nashville 1991.
Kevin Miserocchi, The Addams Family: An Evilution, Pomegranate
Communications, San Francisco 2010.
Paul C. Nagel, Descent From Glory: Four Generations of the John Adams Family,
Oxford University Press, New York 1983.
C. SCHIA.

Flamingo Hotel (Las Vegas)


«Fenicottero»: questo significa flamingo. Ecco spiegata la presenza della sua
sagoma elegante negli arredi del Flamingo Hotel, nonché nei molti neon
pubblicitari disseminati lungo la strip (→) più famosa del mondo: il Las
Vegas Boulevard. La leggenda vuole che Benjamin «Bugsy» Siegel – il
mafioso ebreo-americano al quale si deve l’intuizione di riciclare i proventi
criminali con il gioco d’azzardo – abbia chiamato così l’hotel-casinò aperto
a Las Vegas nel 1946, in omaggio alle gambe lunghe e affusolate della
fidanzata, Virginia «Flamingo» Hill.
Se da un punto di vista cinematografico non è difficile associare il
Flamingo Hotel a Las Vegas e al gioco – la versione originale di Ocean’s 11
(1960) è girata qui, così come il musical romantico interpretato da Elvis
Presley, Viva Las Vegas (1964), fino ad arrivare a Bugsy (1991) di Barry
Levinson con Warren Beatty, mentre per Casinò (1995) Martin Scorsese
sceglie il Riviera Hotel –, è poi la stessa città-simbolo del Nevada ad aver
colonizzato l’immaginario nazionale e internazionale del secondo
Novecento come culla dei casinò e del divertimento. Chiassosi hotel a tema
misurati in acri; decorazioni urbane kitsch (alle quali un importante studio
«riabilitativo» di tre influenti architetti di Yale, tra cui Robert Venturi,
conferiva nel 1972 l’allure postmoderno di cui ancora godono); roulette che
girano (al cui suono, «Hernia, Hernia, Hernia…», lo scrittore Tom Wolfe
dedicava l’incipit del libro d’esordio, La baby aerodinamica kolor karamella,
1965); dadi che rotolano; carte di blackjack spiegate su tavoli verdi; slot
machines che inghiottono monete e inchiodano per ipnosi orde di turisti;
croupier che pronunciano «Place your bets. No more bets» (variante yankee
delle magiche «Faites vos jeux. Rien ne va plus»), showroom di lusso,
monorotaie, enormi marquees (i padiglioni aggettanti sulla strada che fanno
da ingresso agli alberghi), centri commerciali, ristoranti di ogni tipo: tutto
questo è la strip di Las Vegas.
Sebbene la fantasmagoria di colori e di luci e l’iperrealismo di un arredo
urbano che è una via di mezzo tra quello di un’esposizione universale (→) e
di Disneyland (→) abbiano contribuito a fare di Las Vegas una mecca del
turismo globale, la nomea di «Sin City», «Città del vizio» (ovvero del gioco,
dell’alcol e del sesso), continua a godere di una certa popolarità, alimentata
anche da un altro primato, quello di capitale di matrimoni e divorzi facili
(che condivide con Reno, sempre nello stato del Nevada).
Difficile immaginare che la fama internazionale di Las Vegas – così
nominata dai primi esploratori spagnoli per i suoi prati (vegas) irrigati dai
pozzi artesiani (una vera e propria oasi nel deserto del Mojave → Deserti) –
sia una questione piuttosto recente; eppure, per gran parte dell’Ottocento e
fino ai primi decenni del Novecento, la città è poco più che un avamposto di
frontiera creato dai mormoni (→ Quakers, Shakers, Mormons) come
stazione di passaggio tra Los Angeles e Salt Lake City, nello Utah.
Tra le caratteristiche socioeconomiche che Las Vegas eredita dal suo
passato ottocentesco vanno ricordati i bordelli – attivi come non mai
proprio durante il Proibizionismo (→ Hoover), tra il 1919 e il 1933 – e le
licenze matrimoniali «facili», ovvero non vincolate alla pratica, in voga
altrove, di sottoporre le coppie a esami del sangue per ridurre la diffusione
delle malattie veneree. Anche la fioritura del gioco d’azzardo risale al XIX
secolo e a dispetto della messa al bando dei casinò da parte delle politiche
progressiste di inizio Novecento, a Las Vegas, così come ad Atlantic City (→
Boardwalk), le attività illegali vengono soltanto spostate nel retro dei locali.
Ma il «salto» da polverosa e sperduta frontier town del Great Basin a
sfavillante capitale mondiale dell’intrattenimento avviene nei primi anni
trenta del secolo scorso, grazie alla costruzione, a una cinquantina di
chilometri dalla città, della Hoover Dam, la diga Hoover (→). Iniziata nel
1931 – lo stesso anno in cui lo stato del Nevada approva la legge che rende il
gioco d’azzardo legale, autorizzando municipalità e contee a imporre tasse
e vendere licenze – e terminata nel 1936, la diga Hoover doterà Las Vegas, il
Nevada e gli altri stati limitrofi di acqua ed energia elettrica a basso costo,
innescando lo sviluppo stupefacente – nonché, nel tempo, ecologicamente
insostenibile – di una città e di un’intera regione altrimenti aride. Che Las
Vegas possa diventare un luogo «sicuro» in cui accumulare e riciclare
ingenti capitali con traffici poco leciti non tarda a capirlo il mondo mafioso:
nel 1945, si è detto, Bugsy Siegel (il gangster ebreo-newyorkese già
supervisore degli interessi di Lucky Luciano a Los Angeles) raccoglie così un
milione di dollari e riceve il benestare di Meyer Lansky (il consigliere
finanziario dello stesso Luciano) per costruirvi un albergo-casinò di lusso.
Vista anche l’inesperienza di Siegel in campo edilizio, non si tratterà di
un’impresa agevole: sempre la leggenda narra infatti che la costruzione del
Flamingo costi una fortuna per via dei materiali rubati nottetempo. La
cerimonia di inaugurazione del 1946, con Clark Gable, Lana Turner e Joan
Crawford, sarà un flop, ma nell’arco di un anno il Flamingo comincerà a
produrre utili ragguardevoli che non basteranno tuttavia a sottrarre Siegel
alla morte: divenuto un personaggio scomodo all’interno del giro di Lansky,
sarà freddato in un bungalow di Hollywood il 20 giugno 1947. Il connubio
tra Las Vegas e gangster – immortalato, tra l’altro, nel Padrino Parte II (1974)
di Francis Ford Coppola – rimarrà in forza fino agli anni settanta, quando
una legge del Nevada renderà possibile la partecipazione di grandi
multinazionali nella gestione dei casinò, togliendo così terreno, nel
decennio successivo, alle cosche più conosciute di New York e Chicago. Ma
oltre ad aprire la città ai traffici mafiosi, la costruzione del Flamingo Hotel
introduce un elemento di novità nell’architettura urbana. Fino a quel
momento, infatti, lo stile degli hotel tra Fremont Street e la strip (→) è
legato al tema del vecchio West, con la classica pepita del Golden Nugget (e
il suo richiamo implicito alla «Gold Rush» → Oro!) e le effigi luminose di Vic
e Vickie (cowboy → e cowgirl), oppure alla variante messico-californiana di
El Rancho. Con il Flamingo si cambia musica: Bugsy Siegel si inventa il
motivo del paradiso tropicale, con tanto di palme che ricordano Miami, e
così facendo dischiude la fantasia locale a suggestioni scenografiche prima
continentali e poi mondiali. Certo, nel passaggio dall’eleganza del Flamingo
al gusto sgargiante dei magniloquenti alberghi a tema eretti negli anni
novanta del Novecento (Excalibur, Luxor, New York-New York, Treasure
Island, Bellagio, The Venetian, solo per citarne alcuni), Las Vegas si farà via
via più simile a Disneyland. Ma sarà anche grazie alla sua nuova facciata
architettonica che, in seguito alla flessione dei due decenni precedenti, la
città tornerà a essere la capitale del gioco d’azzardo, riprendendosi il
primato finito nel frattempo ad Atlantic City: ne sanno qualcosa i due
disperati protagonisti di Via da Las Vegas, romanzo (postumo, 1990) di John
O’Brien e film omonimo (1995) di Mike Figgis.
Tornando invece agli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, non
vanno dimenticate la creazione della Nellis Air Force Base (una base
aeronautica a pochi chilometri a nord di Las Vegas) e del Nevada Test Site,
un’area federale di massima sicurezza (più grande dello stato del Rhode
Island) in cui avranno luogo, a mo’ di «sperimentazione», esplosioni
nucleari fino al 1992, con effetti a lungo taciuti sulla salute degli abitanti
delle aree vicine.
Anche questo aspetto, il fallout radioattivo dei «test» atomici, si aggiunge
al collasso ecologico di una città che al dispendio energetico della sua strip
luccicante unisce i costi di uno sprawl – l’espansione a macchia d’olio dei
suburbs (→) – in continua crescita. Il «miracolo» di una vegetazione
lussureggiante nel bel mezzo del deserto (→ Deserti), con tanto di piscine,
campi da golf e praticelli all’inglese si regge ancora sulla capacità
idroelettrica – enorme ma non illimitata – della diga Hoover e sul miraggio,
tutto americano, di una tecnologia prodigiosa che può piegare la natura ai
bisogni dell’uomo.
Quanto alla florida industria del gioco d’azzardo negli Stati Uniti, vale la
pena di ricordare che sempre di più le realtà economicamente depresse
ricorrono alla sua legalizzazione come espediente per sanare deficit e
problemi di budget. Contribuendo a far quadrare i bilanci municipali (e
statali) attraverso l’esercizio di una leva sicura sui giocatori, i casinò hanno,
oggi come ieri, percentuali di guadagno sulle scommesse che al caso
lasciano ben poco. Né va dimenticato che, come dice Sam «Ace» Rothstein,
il personaggio interpretato da Robert De Niro in Casinò, lavorare a Las Vegas
è «come vendere alla gente sogni in cambio di contanti». «Siamo noi gli
unici vincitori», dice l’«Asso» del Tangiers, «i giocatori non hanno nessuna
possibilità».

BIBLIOGRAFIA
Andrea Carosso, Carmen Concilio (a c. di), Real Cities. Rappresentazioni della
città negli Stati Uniti e in Canada, Otto, Torino 2006.
Mark Gottdiener, Claudia Collins, David R. Dickens, Las Vegas: The Social
Production of an All-American City, Blackwell, Malden 1999.
C. SCAR.

Flappers
Quando cominciò a diffondersi, il termine «flappers» venne tradotto in
italiano con «maschiette». In effetti, questo vocabolo cattura in maniera
efficace la volontà di emancipazione di molte giovani americane degli anni
venti del Novecento, espressa attraverso uno stile e un atteggiamento che,
persino nell’aspetto fisico, imitavano quelli degli uomini.
Le flappers prediligevano i capelli corti (andavano per la maggiore il Bob
cut, o caschetto, e l’Eton crop, un’acconciatura che prevedeva capelli lisciati
sulla cute e due grossi riccioli in corrispondenza delle orecchie), abiti dalle
linee dritte, gonne corte fino al ginocchio e un trucco molto vistoso. Per
accentuare l’aspetto mascolino, si abbandonò l’uso del busto e si fece
ricorso allo Symington Side Lacer, un reggiseno ideato allo scopo di
appiattire il seno.
Il desiderio di parità si manifestava anche attraverso una condotta che
trasgrediva le convenzioni sociali: le giovani amavano infatti farsi vedere in
pubblico mentre fumavano, oppure in sella a una bicicletta o alla guida di
un’automobile. E si vantavano di accumulare flirt e trattare i maschi come
semplici oggetti di piacere.
L’espressione flapper, usata per indicare una ragazza o una giovane
donna, viene dall’Inghilterra e sono due le etimologie più accreditate:
quella più «poetica» si riferisce agli uccellini che sbattono («to flap») le ali
per imparare a volare, quella invece più prosaica fa risalire il termine a una
voce del dialetto dell’Inghilterra settentrionale che indica una giovane
donna o una prostituta.
Negli Stati Uniti, la popolarità giunse nel 1920 con il film The Flapper, con
Olive Thomas nei panni di una ragazza di provincia che si mette nei guai
nella ricerca di amori fugaci, balli e trasgressioni. Fu però un’altra star del
cinema muto, la «mitica» Louise Brooks, a diventare il prototipo di bellezza
flapper, grazie al suo caschetto nero, all’espressione neutra del viso (si era
imposta di non sorridere mai in pubblico) e alla condotta dissoluta.
Nel 1922, Francis Scott Fitzgerald diede dignità letteraria a questa figura,
intitolando la sua prima raccolta di racconti Maschiette e filosofi. Ma il
ritratto più convincente lo scrittore ce l’ha dato ne Il grande Gatsby con il
personaggio di Jordan Baker, la ricca e annoiata giocatrice di golf con la
quale il narratore Nick Carraway ha una storia breve e, almeno
all’apparenza, priva di passione – in puro stile flapper! Quando la
incontriamo la prima volta, la donna viene descritta come «una ragazza
slanciata e coi seni piccoli, col portamento eretto buttando indietro il corpo
all’altezza delle spalle, come un giovane cadetto»– una figura affascinante e
misteriosa, ma tanto algida da sembrare irreale: «Aveva l’aspetto di
un’illustrazione ben fatta».
Le flappers proclamavano la loro diversità anche attraverso il ricorso a
uno slang caratteristico, composto da termini che riflettevano il loro gusto
per la provocazione, quali «snugglepup» («cucciolo da coccole», per
indicare un uomo che frequenta i party), «barney-mugging» («zuffa», per il
rapporto sessuale), «handcuff» («manette», per indicare l’anello di
fidanzamento o di matrimonio), mentre «That’s so Jake» e «That’s the bee’s
knees» erano espressioni di approvazione.
Le giovani flappers suscitavano la costernazione e riprovazione dei padri
e delle madri, ma le avversarie più agguerrite furono le femministe. Nei
decenni precedenti, queste ultime avevano lottato per ottenere uguaglianza
di diritti e in quegli anni stavano cominciando a coglierne alcuni frutti – nel
1920 era stato approvato il Diciannovesimo emendamento, che estendeva il
diritto di voto a tutte le donne (→ Seneca Falls). Lo scarso attivismo della
nuova generazione non faceva presagire la conquista di nuovi traguardi. La
scrittrice Charlotte Perkins Gilman, per esempio, in un saggio dal titolo The
New Generation of Women, condannò l’edonismo e l’anticonformismo di
facciata delle flappers, sostenendo che il loro comportamento era simile a
quello di «una classe schiava che è stata liberata e che vuole approfittare di
tutti quei piaceri prima goduti dai padroni e a essa negati. Ma» aggiungeva
«una generazione di donne dal naso incipriato che portano pellicce d’estate
non può pretendere di aver compiuto alcun reale progresso».

BIBLIOGRAFIA
Frederick Lewis Allen, Only Yesterday: An Informal History of the 1920s, Harper
& Row, New York 1931.
Malcolm Cowley, Il ritorno degli esuli, Rizzoli, Milano 1963.
Fernanda Pivano, Mostri degli anni Venti, La Tartaruga, Milano 2001.
S.M.Z.

Football americano
La conquista del territorio palmo a palmo, fino alla meta; l’intraprendenza
individuale unita alla collaborazione nel gruppo; il successo come prodotto
di un conflitto, anche fisico, con l’altro; i segni tangibili del potere, siano
essi dentro al campo, con la vittoria, oppure fuori, come fama e
riconoscimento economico; i nomi delle squadre che, più che in ogni altro
sport, sottolineano il profondo legame con il luogo, le città, i loro simboli e
le loro economie: gli Orsi di Chicago e i Delfini di Miami, le Aquile di
Philadelphia, i Cowboys di Dallas, i petrolieri (Oilers) di Houston, i 49ers di
San Francisco (dalla prima ondata di cercatori d’oro che si riversò su San
Francisco nel 1849) e via dicendo.
Il football americano costituisce davvero un condensato delle tante
spinte propulsive che hanno animato e tuttora animano la nazione, e non a
caso divenne una delle rappresentazioni più usate nella letteratura e nella
cinematografia americana per rinverdire o criticare – e a ogni modo
ragionare – sul Mito Americano. All’inizio, ci furono i racconti e i romanzi:
dal primo in cui appare il football, Hammersmith: His Harvard Days, 1878, di
Mark Severance, passando attraverso racconti e figure epiche come l’atleta-
eroe «Travis Hallett’s Half Back» di Frank Norris (1894) e il frustrato
commesso viaggiatore ed ex campione di football Willy Loman (nella pièce
di Arthur Miller, Morte di un commesso viaggiatore, del 1949), fino a scendere
negli incubi di Appunti di un tifoso (1968) di Frederick Exley, in cui il football,
emblema del sogno americano, si trasforma per il protagonista in autentica
ossessione; o nell’ironia caustica di End Zone, secondo romanzo di Don
DeLillo (1972), su football, solitudini da Texas e distopie nucleari (→
Progetto Manhattan).
Ben presto del football si impadronì anche il cinema: da film come Viva lo
sport (1925, di Sam Taylor) a I fratelli Marx al college (1932) in cui Groucho
interpreta il preside di una sfortunata università che non ha mai vinto un
campionato di football; da Quel fenomeno di mio figlio (1951), con Dean Martin
e Jerry Lewis, in cui il gioco dovrebbe trasformare un irrecuperabile nerd
(→) in un vero uomo, a Quella sporca ultima meta (1974), che mette detenuti
contro guardie carcerarie (e a vincere saranno i primi, grazie allo scatto
d’orgoglio finale del loro leader); da Il paradiso può attendere (1978 – remake
di L’inafferrabile signor Jordan di Alexander Hall, 1941, ambientato nel mondo
del pugilato) con un campione costretto per un errore dell’angelo custode a
prendere a prestito corpi di altri per condurre la squadra alla vittoria, a Ogni
maledetta domenica (1999), di Oliver Stone, riflessione a tutto campo, è il caso
di dirlo, su sport, politica, affari, media e corruzione a partire dalle fortune
(poche) e sfortune (molte) degli Sharks di Miami.
Endzone, downs e touchdown, iarde, calci piazzati, timeouts… questo gioco
complicatissimo fra due squadre con undici elementi in campo e due
panchine oggigiorno sterminate fa risalire le proprie origini nelle pianure
inglesi di quasi duemila anni fa, se non forse ancora più indietro nel tempo
– fino all’avo di tutti gli sport con la palla, l’harpaston giocato dagli spartani.
Come i suoi cugini più prossimi, il calcio e il rugby, da cui solo in tempi
recenti si è distinto, il football era un gioco praticato dai romani, che lo
esportarono nelle isole britanniche durante il periodo della conquista,
intorno al 43 a.C. Gli incontri all’inizio si svolgevano in un grande campo
non delimitato, dove le centinaia di persone che qui si riversavano per
l’occasione erano divise in due squadre e si affrontavano con ogni mezzo
possibile (e anche con ogni arma a disposizione, incluse mazze e bastoni)
per mantenere il controllo della palla. Il nome fut baller iniziò a connotare il
gioco attorno al XII secolo, quando si cominciò a praticarlo in un’area vasta
ma delimitata, con cinquanta giocatori per ogni squadra, vietando l’uso
delle armi (ma non calci, gomitate e qualsiasi colpo basso). Giudicato
comunque troppo violento, il football venne bandito per ordine reale dal
1314 al 1603, anno in cui Giacomo I lo autorizzò, a condizione che fosse
regolamentato da norme precise e che il contatto fisico venisse ridotto.
A imporsi furono le versioni del football giocate con i piedi, almeno fino
a quando, nel 1823, William Webb Ellis, studente di un college inglese
chiamato Rugby, in barba a tutte le regole, afferrò la palla con le mani e
iniziò a correre lungo il campo di gioco. A separare la nascita del rugby dal
football americano intercorsero solo cinquant’anni, anche se la data di
nascita del secondo è piuttosto incerta: alcuni dicono il 6 novembre 1869,
quando due squadre da venticinque giocatori l’una, in rappresentanza delle
università di Rutgers e Princeton, si sfidarono per un incontro di calcio
giocato con nuove regole (affinate poi il 20 ottobre 1873, in una riunione
all’Hotel 5ª Avenue di New York fra le rappresentative di Yale, Columbia,
Princeton e Rutgers); altri dicono il 14 maggio 1874, quando una squadra
canadese (la McGills, di Montreal) giunse a Harvard e diede dimostrazione
di un «nuovo gioco» – provato prima con una palla tonda e il giorno
seguente con una palla ovale – che si diffuse rapidamente alle altre
università americane e le cui regole (basate in gran parte su quelle del
rugby) furono a loro volta formalizzate nel 1876.
Certo, queste versioni erano assai diverse dall’attuale football: valevano
solo i punti segnati con calci piazzati e la corsa con la palla fra le mani
serviva per lo più a trovare una migliore posizione per il lancio. Data la
scarsità delle regole e l’importanza rivestita dalla forza fisica, i giocatori si
allenavano attraverso la pratica del wrestling e della boxe (→ K.O.), e
sovente primeggiavano in tutte e tre le discipline. Almeno fino alla fine
degli anni settanta dell’Ottocento, quando Walter Chauncey Camp,
giocatore degli Yale Blue e in seguito allenatore, apportò al gioco numerose
modifiche, conquistandosi in seguito l’appellativo di «padre del football
americano»: ridusse il numero di giocatori da quindici a undici (i rimanenti
quattro ebbero il ruolo di riserve), enfatizzando la velocità a discapito della
forza fisica; dimezzò le dimensioni del campo (da 120 a 53,3 iarde); inventò
il punteggio differenziato a seconda della modalità di esecuzione (cinque
punti per un tiro calciato, 4 per un goal dopo un touchdown e due per un
touchdown); introdusse un arbitro, munito di fischietto e cronometro;
consentì il placcaggio anche sotto la cintura e divise il campo da gioco in
aree da cinque iarde, con un complesso sistema di downs tale per cui diventò
possibile effettuare solo un numero limitato di passaggi e di tentativi di
andare a segno, prima di dover restituire la palla all’avversario. Fu
un’autentica rivoluzione per il gioco che, divenendo più tecnico, rese
necessario uno studio in anticipo delle strategie: gli allenatori si dilettarono
sempre più con le chalk talks, le lezioni teoriche pre-partita (illustrate con
complicati disegni con il gesso su una lavagna), mentre i giocatori
iniziarono a usare un elaborato sistema di segnali per comunicare.
Nonostante le buone intenzioni di Camp, che vedeva nel gioco un modo
per formare il carattere e promuovere i valori sani dello sport (uno dei tanti
giardini-oasi, in una nazione sempre più fagocitata dalle grandi città),
l’enfasi sulla vittoria e la fisicità connaturata continuarono a rendere il
football uno sport molto brutale – violenza che suscitò lo sdegno generale
quando la faccia del giovane giocatore Bob Maxwell, insanguinata e gonfia
di lividi, fu immortalata al termine di una partita particolarmente accesa
nell’ottobre del 1905, lo stesso anno in cui diciannove incidenti mortali
funestarono i campi da football. Alcuni college eliminarono questo sport dai
loro programmi; quelli che invece rifiutarono vennero convocati dal
presidente Theodore Roosevelt in persona, che minacciò di proibire il gioco
per legge se non fossero state introdotte sostanziali modifiche. I tempi di
gioco scesero così da novanta a sessanta minuti; si diffuse l’uso dei caschi
(che diventarono però obbligatori solo negli anni quaranta); furono
consentiti i passaggi aerei in avanti per limitare in contatto fisico, e
allenatori come Glenn «Pop» Warner e Knute Rockne perfezionarono la
tecnica del passaggio in avanti.
Negli anni venti e trenta, la diffusione del football continuò
inarrestabile, anche in quelle regioni come il Sud, fino ad allora tiepide nei
confronti della nuova disciplina: si moltiplicò in breve tempo il numero dei
campionati su scala nazionale, che attrassero l’attenzione di un pubblico
sempre più numeroso anche grazie all’interesse della stampa sportiva a
partire dal 1936.
Come il basketball (→), il football americano rimase a lungo uno sport
universitario. La versione «professionista» del gioco, nato nelle cittadine
minerarie come svago per i lavoratori e poi diffusosi fino alle grandi città, è
un fenomeno molto più recente. Sebbene l’ingaggio retribuito di giocatori
faccia la propria comparsa già a fine Ottocento, e agli inizi del Novecento si
possa far risalire il primo club (i futuri Chicago Cardinals, poi Arizona
Cardinals) tuttora in attività, il football non uscì dalla dimensione locale,
fatta di tornei regionali, scommesse (e scandali) fino agli anni venti, quando
venne creata la American Professional Football Association (fondata, pare,
in una concessionaria d’auto di Canton, in Ohio) dai rappresentanti di
quattordici squadre, salite a venticinque nel giro di un decennio.
Il football continuò a rimanere sospeso fra il mondo dei college e le
sponsorizzazioni private: le università presero a non selezionare più i
giocatori migliori fra i propri iscritti, ma a mettersi in caccia delle promesse
più talentuose nelle high schools, offrendo vitto, alloggio, automobili, uno
stipendio e un contratto di lavoro post-laurea. Al contempo, anche squadre
non universitarie, sovvenzionate da club o da aziende locali, aumentarono
per numero e livello di gioco – approfittando di tanto in tanto anche del
travaso (lautamente pagato) nelle loro fila di giocatori universitari (a
rievocare quel periodo ha di recente pensato George Clooney, regista e
interprete nel 2008 di In amore niente regole).
Nel 1958, l’enorme successo televisivo del campionato della National
Football League (e in particolare la finale fra i Baltimore Colts e i New York
Giants, «la miglior partita mai giocata» secondo la stampa sportiva)
trasmesso in diretta dall’Nbc sancì il sorpasso (almeno mediatico) del
professionismo sul football universitario, che pure continuò ad avere
un’ampia copertura da parte della stampa e delle televisioni, ma si ancorò
sempre più alla dimensione regionale. La nascita, insieme ad altre leagues
minori, dell’American Football League nel 1959 e l’accordo fra la Afl e la Nfl
(poi fuse in un campionato unico di ventisei squadre) nel 1966 per disputare
una finale fra le due vincitrici (il futuro Super Bowl) creò l’evento sportivo
più seguito e lucrativo di sempre.
Milioni di appassionati, business miliardari, una spettacolarizzazione che
trasforma ogni partita da gioco a evento. E lo sport con i suoi valori? «Si
vince o si perde, resta da vedere se si vince o si perde da uomini», diceva
Toni d’Amato-Al Pacino di Ogni maledetta domenica. Ci piacerebbe pensare
che sia ancora così.

BIBLIOGRAFIA
Gerhard Falk, Football and American Identity, Haworth Press, Binghamton
2005.
Michael V. Oriard, Dreaming of Heroes. American Sports Fiction, 1868-1980,
Nelson-Hall, Chicago 1982.
C. SCHIA.

Forte gelato (e altri -glish)


È così che gli immigrati italiani fra Ottocento e Novecento chiamavano il
«Fourth of July», il 4 di luglio, festa nazionale statunitense: «Forte gelato».
L’immigrazione volle sempre dire un processo difficile e doloroso; ma anche
fantasioso, di adattamento e di ibridazione, a tanti livelli diversi: fra cui
quello linguistico (grammaticale, sintattico, fonetico) era certo uno dei più
importanti e vitali. Così, a fianco del «Forte gelato», ci saranno – oltre il ben
noto «Broccolino» (= Brooklyn) – la «Festa delle alline» (= Thanksgiving Day
→ Ringraziamento), il «Re Erode» (= railroad, ferrovia), l’«abbasso città» (=
downtown →), il «briccoliere» (= bricklayer, muratore), l’«uliveto» (= Elevated,
la linea sopraelevata della metropolitana), il «mistecca» (= mistake, errore),
l’«òngala» (= uncle, zio), la «sciabola» (= shovel, badile), la «rendita» (= rent,
affitto), il «morgico» (= mortgage, ipoteca), la «toidàvenne» (= Third
Avenue), la «dora» (= daughter, figlia), il «ruffo» (= roof, tetto), il
«basamento» (= basement, seminterrato), ed espressioni come «arrioppa!» (=
hurry up!), «aigacciu» (= I got you, ho capito), «ammoccia cheste?» (= how
much is this?, quanto costa?), «sannemagogna!» (= son of a gun! figlio d’un
cane!), «sciadappa!» (= shut up!), «flabusce!» (= Flatbush, principale cimitero
italiano a Brooklyn, per dire «ahimé»). E anche un tuttora misterioso
«temeniollo» a indicare il boccale di birra: forse da Tammany Hall, la
corrotta sezione newyorkese del Partito democratico, solita comprare voti
alle elezioni elargendo birra nei locali pubblici di Little Italy… Era (è
ancora) l’Italglish, la lingua franca che non ha fatto che viaggiare parallela
all’inglese americano – come si può leggere nei romanzi di Pietro Di Donato
o John Fante e sentire bene nei film di Scorsese e di Coppola e nei telefilm
della serie tv I Soprano (con una significativa inversione, lo yacht di Tony
Soprano si chiama «Stugots» = ’stu cazz’; → Ziti, zeppole e capocollo).
Ma a fianco dell’Italglish fiorivano e fioriscono altri -glish. Meno
pirotecnico, fors’anche per una (relativa) maggiore affinità d’origine, lo
Yinglish (yiddish + english): più che deformazione e ibridazione di parole ed
espressioni, si hanno qui suffissi applicati a termini angloamericani, come il
diminutivo femminile -ké (dresské, hatké, watchké) o -nick a indicare
un’azione (allrightnick = un immigrato recente che vuol mostrarsi già del
tutto americanizzato), oppure ancora i diminutivi -chick (boychick) e -ge
(next-doorige = la vicina, la donna che abita nell’appartamento a fianco, una
presenza importante – nota Henry Louis Mencken – nella vita del ghetto).
Ma poi abbiamo anche show per chance (= occasione), lunch per lounge (=
soggiorno), tenner per tenant (= inquilino), feller per fellow (= tipo, ma anche
fidanzato), e più spesso una mescolanza di termini ed espressioni delle due
lingue (a volte con notevoli implicazioni socioculturali, di classe e di
genere): per cui, commenta Mencken, «‘Die boys mit die meidlach [= ragazze]
haben a good time’ is excellent American Yiddish». Al riguardo, i romanzi, i
racconti e gli articoli di Abraham Cahan, scritti e pubblicati fra Ottocento e
Novecento, sono un’affascinante fonte di sorprese.
La pirotecnia verbale torna invece nello Spanglish, oggi il gergo più
parlato negli Stati Uniti, specie nelle regioni del Sudovest abitate da chicanos
(→) e nelle metropoli del Nordest, meta quasi obbligata di portoricani,
cubani, dominicani ecc. Nuyorican (= portoricano vivente a New York) e
Loisaida (= Lower East Side) sono ormai entrati nella lingua ufficiale. Ma
abbiamo anche «grimbaque» (= greenback, il dollaro), «quiande» (= candy,
dolcetto), «esteque» (= steak, bistecca), «lonchi» (= lunch), «espechi» (=
speech), «sarape» (= shut up), «commutador» (= commuter, pendolare). E,
presenza inquietante e nemica negli stati del Sudovest, abbiamo «la migra»,
la polizia di frontiera addetta alla sorveglianza degli immigranti
clandestini…
Esiste poi a New Orleans una parlata tipica delle classi lavoratrici, detta
yat-speak (dall’espressione «Where y’at?», che significa «Ciao», «Come va?»;
cui è rituale rispondere: «Awrite»). In essa, si mescolano termini e frasi di
origine diversa (francese, spagnola, italiana, caraibica, africana ecc.), legata
alla particolare storia sociale e culturale della città: oltre a «lagniappe»
(franco-spagnolo-indoamericano: quel «qualcosina in più» che il bottegaio
regala al cliente al momento di un acquisto), abbiamo così «banquette»
(pronuncia: bank-it = marciapiedi), «couche-couche» (piatto franco-cajun a
base di farina di mais, latte e zucchero), «charmer» (franco-americano per
«ragazza»), «dodo» (franco-cajun per «dormire»; il «fais do do» è il ballo
che si fa dopo che i bambini sono stati messi a letto), «esplanade» (vicolo),
«faubourg» (un quartiere di periferia), «gout» (un sorso di qualcosa), «to
make groceries» (= andare a fare la spesa, dal francese «faire le marché»),
«marraine» (madrina), «muffuletta» (dal siciliano: panino con tutto quello
che ci si può metter dentro). Ma lo yat-speak va molto al di là dei semplici
prestiti interlinguistici: è un autentico carnevale di sonorità, pronuncia e
significati nascosti. La mescolanza di francese e angloamericano tipica della
Louisiana è evidente in autori della seconda metà dell’Ottocento come Kate
Chopin, George Washington Cable e Lafcadio Hearn.
Non mancano naturalmente altri -glish (il Chinglish, per esempio) e sono
molti i prestiti da ciascuna lingua all’angloamericano. Ma forse, a
riassumere questa complessa esperienza, bastano le parole della poetessa
nuyorican Sandra María Esteves: «Being Puertorriqueña Dominicana, / Born
in the Bronx, not really jíbara / Not really hablando bien / But yet, not
Gringa either / Pero ni portorra, pero si portorra too / Pero ni que what am
I? / Y que soy, pero con what voice do my lips move?». Intraducibile.

BIBLIOGRAFIA
Michael La Sorte, La Merica. Images of Italian Greenhorn Experience, Temple
University Press, Philadelphia 1985.
Henry Louis Mencken, The American Language, Alfred A. Knopf, New York
1923. http://www.gumbopages.com/yatspeak.html
M.M.

Frontiera
Le cose che di solito si sanno della Frontiera: che si trovava dalle parti del
West, quando il West era il «vero West», ovvero nell’Ottocento o giù di lì;
che la Frontiera è una linea invisibile: da una parte, ci sono gli indiani e,
dall’altra, i cowboys; che la Frontiera non è un luogo definito: si muove di
continuo con il progressivo popolarsi delle regioni; che la vita sulla
Frontiera era dura; che le cittadine di Frontiera erano pericolose, piene di
malviventi e di polvere, con il saloon e le prostitute; che i duelli erano
frequenti e l’unica legge rispettata era «Non sparate sul pianista».
Le cose che di solito non si sanno della Frontiera: innanzitutto, che venne
chiamata così e divenne un’icona culturale proprio nel momento della sua
scomparsa. Per essere più precisi, il mito nacque in occasione della World
Columbian Exposition di Chicago del 1893, quando, a un congresso di storici,
un ancora sconosciuto studioso del Wisconsin, Frederick Jackson Turner,
illustrò ai (pochi e annoiati) presenti in sala come l’«eccezionalismo» (→)
degli Stati Uniti fosse legato in gran parte alla sua principale caratteristica
geografica: l’assenza di un confine a Ovest che consentiva il progressivo
espandersi della nazione sul continente, grazie ai coloni che andavano a
occupare le terre cosiddette disabitate (i Native Americans non facevano
testo). Ciò che forse ancor meno si sa è che Turner plasmò il suo concetto di
«Frontiera» sull’elaborazione precedente di un geografo dell’Ufficio del
censimento, Henry Gannett, che nel 1882, nel tentativo di definire «la linea
arbitraria che deve essere tracciata per poter considerare disabitata una
regione, anche se non priva di abitanti», decise che tale limite fossero «due
individui per miglio quadrato», dal momento che spesso questi ultimi erano
«cacciatori, cercatori (prospectors) o mandriani». A Turner va senza dubbio il
merito di aver trasformato un dato geodemografico in una potente icona
culturale: secondo lo storico, infatti, la vita nei territori di Frontiera
rappresentava la quintessenza dello spirito americano; la sua realtà sociale
fluida insieme ai valori legati a quel mondo, come l’individualismo, lo
spirito di adattamento, l’intraprendenza e la capacità di rinnovamento,
rappresentavano gli elementi principali del carattere nazionale, al punto
che l’Ovest avrebbe potuto e dovuto costituire una fucina nel percorso di
americanizzazione dei nuovi immigrati. Insomma, si diventa più facilmente
dei veri cittadini del Nuovo mondo nel Nebraska, nel Montana o nei Dakota
piuttosto che a New York – un’idea che, seppure con qualche
aggiustamento, non faceva che riprendere la retorica ufficiale che riempiva
le «guide per emigranti» (→) spedite durante la metà dell’Ottocento in ogni
angolo d’Europa per convincere i contadini sul lastrico o i nullatenenti delle
città a trasferirsi oltreoceano, in una terra dove avrebbero di certo fatto
fortuna.
Se l’essenza della Frontiera è riconducibile a un dato demografico, così
lo è anche la sua fine: quel 1890 indicato come anno della «chiusura»
sanciva il momento in cui gli insediamenti stanziali con più di due persone
per miglio quadrato avevano ormai raggiunto le coste del Pacifico e dunque,
come Turner sostenne con larga approssimazione, non vi erano più spazi
disabitati da occupare.
Visto il portato ideologico e le sue implicazioni economiche e politiche
(l’intraprendenza, la mobilità e la capacità di adattamento dell’individuo,
ma anche il desiderio di conquista, di consolidamento economico della
nazione e di sfruttamento delle risorse agricole e minerarie in primis), la
forza propulsiva che aveva animato l’avanzare della Frontiera non poteva
certo esaurirsi una volta raggiunte le sponde del Pacifico. Anche la
celebrazione «retroattiva» di Turner sul significato di quell’esperienza è
preludio indiretto al mutamento di forma (ma non di sostanza) che
l’espansionismo statunitense attuò nei decenni di fine Ottocento. Era infatti
«destino manifesto» (→) che la Frontiera continuasse il suo percorso
scavalcando gli ormai angusti limiti imposti dalla geografia, e per molti
versi anche dalla democrazia. Da espansione territoriale della nazione sul
continente, il concetto di Frontiera passò a indicare la spinta verso il
controllo politico, diretto o indiretto, di aree sempre più estese nello
scenario internazionale, a tutela degli interessi economici statunitensi.
Da distese sconfinate di prateria, pascoli e foresta, l’«altrove» assunse
così sempre più l’aspetto di oceani e isole (dalle Hawaii ai Caraibi e alle
Filippine → Splendide guerricciole), scenari ben diversi da quelli popolati
da indiani e cowboys, ma accomunati dallo sfruttamento commerciale e dalle
mire speculative che, se erano state il motore primario della trasformazione
dell’Ovest, furono poi alla base degli interventi americani in ogni angolo del
pianeta.
Mentre l’idea di una Frontiera americana in grado di muovere a livello
globale senza incontrare ostacoli e senza provocare attriti e violenze svanì
con l’avvento della Prima guerra mondiale, essa rimase comunque centrale
nel disegno politico e nella retorica ufficiale che lo sosteneva. Fu attraverso
il richiamo ai valori del vecchio West che i tentativi statunitensi di
rafforzare il proprio controllo militare e commerciale vennero dipinti come
importanti tappe per l’avanzamento delle «frontiere della democrazia». Per
immaginare una conquista di nuovi spazi fisici, gli Stati Uniti iniziarono
invece a rivolgere le proprie mire oltre la terra, verso la «nuova Frontiera
dello spazio», a cui le due superpotenze guardavano con interesse negli
anni della Guerra fredda.
Se già la storiografia e la retorica politica hanno fatto della Frontiera uno
dei loro capisaldi strutturali, che dire della letteratura e più in generale
dell’immaginario popolare, in cui la Frontiera non ebbe una, ma tante (e
lunghe) vite? A cominciare da quei primi autori che, a solo poche miglia
dalle coste dell’Atlantico, già vedevano nelle distese di terra inesplorata
davanti a loro un dono «nostro ancor prima che noi fossimo suo» (come
scriveva il poeta Robert Frost in Il dono totale (1942), di cui appropriarsi
anche attraverso le narrazioni. In letteratura, la Frontiera ha dunque
assunto il volto dei boschi del New England in cui James Fenimore Cooper
ambientò le avventure di Calza di Cuoio e dell’ultimo dei Mohicani (The Last
of the Mohicans, 1826); e al contempo è la natura iperbolica fatta di animali
parlanti, di uomini in grado di cavalcare fulmini e di uccidere alligatori e
orsi a mani nude narrati a metà Ottocento da Augustus Baldwin Longstreet,
Thomas Bangs Thorpe e dagli altri «Umoristi della Frontiera» raccontatori
di tall tales (→) – eredità poi raccolta e rielaborata con originalità da Mark
Twain.
Non è però necessario avventurarsi lontano da casa per cogliere
l’essenza della Frontiera: se essa è, come scrisse Charles Brockden Brown in
Ormond (1799), tutto ciò che esiste «al di fuori dei confini dell’esistenza
civilizzata», si può ricreare ogni qualvolta in cui l’uomo vive da solo a
stretto contatto con la natura, come ben racconta Henry David Thoreau nel
suo Walden, ovvero la vita nei boschi (1854). E se i decenni successivi videro la
Frontiera via via spogliata della sua aura eroica per farsi muta testimone
delle difficoltà della colonizzazione (si pensi alle distese aride del Midwest
dipinte da Willa Cather o alla desolante solitudine esistenziale descritta da
Sherwood Anderson), essa tornò a risplendere di un fascino selvaggio e
talvolta crudele nei racconti dell’estremo Ovest di fine secolo, dallo Yukon
di Jack London alla California di Bret Harte. Certo, la chiusura della
Frontiera segnò un duro colpo anche per le lettere americane; ma come
un’araba fenice, il suo spirito tornò ad abitare altri luoghi che continuavano
a non avere confini – dal mondo dell’on the road raccontato da John
Steinbeck fino all’epica dell’esplorazione dello spazio del genere
fantascientifico. «Spazio, ultima frontiera. Eccovi i viaggi dell’astronave
Enterprise durante la sua missione quinquennale, diretta all’esplorazione di
strani, nuovi mondi, alla ricerca di altre forme di vita e di civiltà, fino ad
arrivare laddove nessun uomo è mai giunto prima», recita la voce narrante
a introdurre ogni episodio della serie tv (→) Star Trek. Il capitano Kirk e
compagni come discendenti del western dunque? Certo, come lo sono tutti
quegli scenari tratteggiati dal filone utopico e distopico che non a caso fiorì
proprio a fine Ottocento, quando nuovi mondi da esplorare, fossero anche
solo di fantasia, andavano a rimpiazzare l’immaginario legato all’«altrove»
che era stato fino a quel momento prerogativa dell’Ovest. Fu sempre in
questi anni che, con la nascita del cinema, le terre selvagge e inesplorate
acquisirono una fisionomia tangibile: e se già alcuni scorci di quel mondo si
potevano cogliere nei pochi fotogrammi di Assalto al treno (1903) di Edwin S.
Porter, primo cortometraggio statunitense che immortala il selvaggio West,
la Frontiera divenne un universo a tutto tondo, racchiuso in una diligenza
da John Ford nell’omonimo lungometraggio del 1939 (Stagecoach, noto in
Italia come Ombre rosse), e poi via via in tutto il genere western, che
occuperà un posto di primo piano nella produzione cinematografica
statunitense fino ai giorni nostri.
Raccontare la frontiera dell’Ovest significa dunque tornare indietro nel
tempo? Non è necessario, dal momento che essa, demograficamente
parlando, esiste ancora oggi. Nell’espansione verso il Pacifico, infatti, i
coloni avevano evitato di insediarsi nelle zone più impervie e inospitali; con
il risultato che, contrariamente alla rappresentazione di Turner, la
Frontiera non è mai stata una linea continua, ma più una geografia a
macchia di leopardo dove le zone liminali fra spazi abitati e luoghi selvaggi
erano numerose e spesso mai davvero chiuse.
Per questo la Frontiera non è per niente morta e sepolta: al contrario,
secondo il censo del 1990, i territori disabitati di Turner sono più o meno gli
stessi di fine millennio: per la precisione, 132 contee al di sotto del 48º
parallelo (il 13% circa della superficie nazionale), Alaska escluso,
corrispondono ancora ai criteri di Gannett: zone dove a fare paura sono
sempre meno banditi e fuorilegge e sempre più l’isolamento, le condizioni
climatiche estreme e le forze distruttive della natura. Lo sa bene Jon
Krakauer, che partendo da un fatto vero è stato capace di raccontare in Into
the Wild – Nelle terre selvagge (1996) la sfida del singolo alla natura del
selvaggio Alaska – sfida che avrà, come spesso accade, un finale tragico. Lo
sa bene uno dei romanzieri contemporanei statunitensi più celebri, Cormac
McCarthy, le cui opere tratteggiano una Frontiera che attraversa il passato
fatto di cowboys e nativi (Meridiano di sangue, 1985), la violenza del presente
(Figlio di Dio, 1973; Non è un paese per vecchi, 2005), per arrivare alla
devastazione apocalittica del futuro (La strada, 2006), in cui la Frontiera non
è simbolo del compimento della storia, ma della sua distruzione.

BIBLIOGRAFIA
Edwin Fussell, Frontier: American literature and the American West, Princeton
University Press, Princeton 1965.
Frederick Jackson Turner, La frontiera nella storia americana, il Mulino,
Bologna 1959.
Henry Nash Smith, Virgin Land. The American West as Symbol and Myth,
Vintage, New York 1959.
Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’impero del
bene, Feltrinelli, Milano 1995.
C. SCHIA.

Fsa (o Fotografie della Grande depressione)


Istituita nel 1937 all’interno del dipartimento per l’Agricoltura come
continuazione della Resettlement Administration (Ra) diretta dalla figura
controversa di Rexford Tugwell, la Farm Security Administration sarà una
delle agenzie più importanti del New Deal, tanto nel suo impatto materiale
sulle regioni colpite dalle tempeste di polvere (→ Dust Bowl), quanto nel
suo complesso contributo a una stagione culturale improntata alla
restituzione documentaria della geografia fisica e «umana» del paese.
La Fsa rientra nel novero di una serie di politiche agricole federali nate
con l’intento di far fronte a una popolazione rurale indigente e a una terra
cronicamente impoverita. Rispetto alla più importante Aaa (Agricultural
Adjustement Administration), la sua priorità andrà tuttavia all’assistenza
dei piccoli farmers, spendendosi nell’elargizione di prestiti e di fondi per la
riabilitazione delle campagne prostrate dalla crisi. Oltre alla distribuzione di
mutui e sovvenzioni necessari al sostentamento di circa 700mila famiglie –
un nono di tutti i nuclei familiari agricoli del paese –, la Fsa si occuperà di
altri aspetti fondamentali, quali coordinare la pianificazione dell’uso delle
terre per rallentarne l’erosione e l’aridità, fornire un aiuto tecnico ad
agricoltori e allevatori, costruire e gestire i campi governativi per i
lavoratori migranti (→ Okies). Suddivisa in dodici regioni amministrative
che coprono l’intero paese, altrettante sottobranche di un’organizzazione
capillare, l’agenzia concentrerà i suoi sforzi soprattutto negli stati del Sud,
che saranno i maggiori beneficiari dei progetti e dei finanziamenti (di circa
il 60% del totale dei mutui per la riabilitazione rurale).
L’area amministrativa che assorbirà il maggior numero di impiegati
della Fsa sarà la regione 4, composta dagli stati di Arkansas, Louisiana e
Mississippi. Per quanto i dirigenti si impegnino sulla carta a che i progetti
raggiungano la popolazione nera (che conta circa il 22-25% dei beneficiari),
la presenza degli afroamericani all’interno della Fsa nel 1941 è assai
indicativa della loro sottorappresentazione persistente: nella regione 4, solo
18 impiegati su 1500 sono infatti di colore.
Per ragioni diverse, la Fsa incontrerà fin da subito l’ostilità di non poche
compagini sociali del Sud: da un lato, i proprietari terrieri che non vogliono
vedere scalfiti i loro privilegi; dall’altro, il sindacato dei Southern Tentant
Farmers, che prenderà le distanze da politiche agricole assistenzialiste
mirate a creare una «classe contadina sovvenzionata».
Al bisogno politico di difendersi dalle critiche che piovono un po’
ovunque nel paese e al malcontento degli esercenti cittadini di fronte
all’assistenza economica alle campagne del Sud si deve il potenziamento
della Information Division’s Historical Section che, già attiva sotto la Ra,
viene affidata a un uomo di Tugwell, Roy Stryker. Merito della Historical
Section sarà la messa a punto di un enorme archivio visivo della Grande
depressione: nell’arco di otto anni, sotto l’egida della Fsa saranno scattati
più di 145mila negativi, di cui 77mila sviluppati. Spesso a insaputa degli
autori stessi (che non hanno alcun controllo sulla loro produzione
governativa), quelle foto finiranno col comparire in mostre, cinegiornali,
giornali, riviste di ogni tipo. È grazie a questo sodalizio politico che
fotografi come Dorothea Lange, Walker Evans, Arthur Rothstein, Ben Shahn,
Jack Delano, Russell Lee, Edwin Rosskam ecc. entreranno nel libro paga della
Fsa, artefici di immagini destinate a diventare icone di un’intera epoca. Le
foto, i documentari, le raccolte d’archivio, i reportage, i case-studies
finanziati tanto dalla Wpa (→ Grande depressione) quanto dalla Fsa
contribuiscono quindi a fare degli anni trenta un unicum nella storia
nazionale: in nessun altro periodo del XX secolo, la letteratura e le arti
figurative saranno così tese a uno sforzo collettivo di riscatto e
rappresentazione dei margini e dei marginali americani. Sebbene i fotografi
assunti dalla Fsa non siano sempre allineati con gli intenti politici del
progetto di Roy Stryker – e sappiamo con certezza quanto Dorothea Lange e
Walker Evans paghino il prezzo della loro autonomia con un impiego solo
saltuario nell’agenzia rooseveltiana – esso avrà il merito di creare una
grammatica fotografica e sociologica capace di ricadute importanti su tutti
gli intellettuali di quel decennio.
Un genere che deve molto alla Fsa, tanto nella sostanza quanto nelle
scelte formali, è il photo-essay book, ovvero il «libro documentario». Se You
Have Seen Their Faces (1937) di Erskine Caldwell e Margaret Bourke-White, An
American Exodus: A Record in Human Erosion (1939) di Paul Taylor e Dorothea
Lange e Sia lode ora a uomini di fama (1941) di James Agee e Walker Evans
fanno tutti i conti con la politica e con l’estetica documentaristica di Roy
Stryker pur nascendo come progetti esterni o paralleli alla Fsa, Land of the
Free (1938) di Archibald MacLeish, Home Town (1940) di Sherwood Anderson
e 12 Million Black Voices (1941) di Richard Wright attingono agli archivi
fotografici della Historical Section. Nella definizione del critico William
Stott, una delle caratteristiche portanti del «libro documentario» è la sua
«natura democratica», il suo operare nella direzione di una resa autentica di
ciò che, ordinario e usuale, è degno di attenzione artistica: Roy Stryker
ammonisce infatti i «suoi» fotografi a mostrare «come si estrae un pezzo di
carbone, come si coltiva un campo di frumento, come si fa una torta di
mele». I titoli stessi di molti libri di questi anni – romanzi o memorie a metà
tra narrativa e trattato sociologico – alludono alla riscoperta di un’America
scossa e unheroic, fino a quel momento dimenticata o ignorata. Lo rivelano i
titoli: My America; Puzzled America; Tragic America; Some American People; An
American Exodus; The American Earthquake; The Road: In Search of America;
Where Life is Better: An Unsentimental American Journey; Land of the Free…
Per Roy Stryker, conoscere – e far conoscere – l’America agli americani
(o meglio, alla middle class dei grandi centri urbani dell’Est) significherà in
prima istanza «coprirla» miglio per miglio: questo faranno i fotografi, gli
scrittori, gli etnografi, gli antropologi e i giornalisti impiegati nella Wpa e
nella Fsa. Mettendosi per strada e andando a parlare con fittavoli,
commercianti e benzinai, questa vasta schiera di «emissari» di Washington
attraverserà stati come Alabama, Tennessee, Mississippi, Kansas, Oklahoma
e California, alla ricerca di storie e di immagini della Grande depressione.
Chi ha la fortuna di lavorare come fotografo per la Fsa riceve una paga di
5 dollari al giorno e di 3 centesimi a miglio per la benzina e ha a
disposizione un’auto con tre macchine fotografiche, i materiali chimici per
lo sviluppo dei negativi, pezzi di ricambio, lenti, flash, tripodi.
Costantemente alle prese con un budget capestro, Roy Stryker spedisce ai
suoi uomini lettere informali inclusive di liste di libri e articoli da leggere e
di indicazioni precise su quali soggetti e quali paesaggi ritrarre. In teoria, i
fotografi devono mandare i negativi a Washington e scrivere una
«legenda»; in pratica, molti (Evans in primis) lo fanno solo di rado. Lavorare
per un ente federale implica però, almeno a livello ufficiale, l’adesione
culturale a un disegno politico preciso che, pur prendendo le distanze dalla
propaganda fascista e nazista di quegli anni, e distinguendosene per i fini,
ne condivide spesso i mezzi. In questa luce, non deve sorprendere che i
fotografi più indipendenti non riescano a mantenere una collaborazione
duratura con Stryker e che investano le proprie energie in percorsi
autonomi quasi sempre autofinanziati.
È opinione comune e condivisa che la fotografia della Fsa assurta a
simbolo della Grande depressione sia «Migrant Mother» di Dorothea Lange:
depositandosi nella fantasia collettiva nazionale contemporanea e a venire,
l’immagine della madre trentaduenne con il bambino in braccio e gli altri
due ai lati è stata paragonata, per pregnanza iconografica, a una «Natività»
moderna o a una versione americana della Gioconda. La storia di questo
scatto risale a un giorno piovoso del febbraio-marzo 1936, quando la
fotografa è una dipendente al servizio della Historical Section che, di
ritorno a casa dopo una giornata trascorsa a riprendere le campagne
californiane, si imbatte nel segnale stradale «Pea-Pickers Camp» vicino a
Nipomo, a 70 miglia da Santa Barbara, e decide di fermarsi. Così, Lange,
originaria di New York, incontra Florence Thompson e i suoi figli, accampati
in una tenda con i loro pochi averi, e li ritrae in una serie di sei fotografie
che, pubblicate sul San Francisco News, guadagneranno 200mila dollari in
donazioni. Dei sei scatti dedicati alla madre e alla sua prole, l’ultimo sarà
scelto dalla rivista Survey Graphic del 1936 e selezionato dalla popolare U.S.
Camera come «Migliore foto dell’anno»: da lì alla canonizzazione di
«Migrant Mother» come capolavoro al Museum of Modern Art passeranno
solo cinque anni (1941).
Uno studio delle sei fotografie rivela come l’intento di Lange sia di
rendere quanto più universale, finanche astratta, l’immagine di questa
donna poco più che trentenne. Sebbene la fronte solcata da rughe profonde
sembri richiamare l’azione degli aratri che (per citare il titolo di un celebre
film-documentario di Pare Lorentz di quello stesso anno) «spezzarono le
pianure» e le vite di molti americani, la figura di questa madre con bambino
conserva una bellezza capace di trascendere la sua pena: il naso patrizio, le
labbra piene, le dita affusolate, lo sguardo pensoso…
Certo, sono molte le possibili letture di questa come di altre fotografie-
simbolo degli anni trenta – dai ritratti di Walker Evans a quelli di Russell
Lee, Ben Shahn, Arthur Rothstein ecc. Ma è forse meglio fermarsi qui e
lasciare che siano le immagini stesse a parlare.

BIBLIOGRAFIA
Olivier Lugon, Lo stile documentario in fotografia: da August Sander a Walker
Evans, 1920-1945, Electa, Milano 2008.
Robert S. McElvaine (ed.), Encyclopedia of the Great Depression, Macmillan,
New York 2004.
William Stott, Documentary Expression and Thirties America, Oxford University
Press, New York 1973.
C. SCAR.

Furori (o Scritture della Grande depressione)


Nell’introdurre un’antologia ragionata di alcune opere narrative americane
nate nel periodo della Grande depressione (→), lo scrittore Harvey Swados
ricorre all’immagine di un’eruzione vulcanica che ha come epicentro il
Kansas e il Nebraska e la cui colata lavica investe il paese da costa e costa e
da confine a confine. La similitudine geologica scelta da Swados – con la
centralità attribuita agli «anonimi» Kansas e Nebraska e il riversarsi di un
rosso magmatico sul terreno letterario nazionale – ha il merito di restituire
l’idea di una scrittura rinnovata nell’apertura spaziale (tesa all’inclusione
di regioni «periferiche») e nella spinta etica, improntata a un forte
coinvolgimento sociale e politico. Con la crisi economica che travolge gli
Stati Uniti alla stregua di «un’inondazione o un terremoto», le cronache
contemporanee prendono a documentare la storia del paese a partire dalle
sue geografie marginali (il Sud e le Grandi pianure meridionali). Dal
fotogiornalismo ai reportage sociologici, dalla raccolta e trascrizione di
repertori folklorici (leggende indiane, canti dei marinai del Maine,
patrimonio orale dei neri e delle minoranze, canzoni operaie) agli scripts dei
documentari cinematografici, dalle ballate degli hoboes (→ Vagabondi) alla
stesura di guide degli stati (→ Guide per emigranti) ecc., le narrazioni
culturali della Grande depressione costituiscono un enorme serbatoio di
materiali con il quale la letteratura di quel decennio – soprattutto il
romanzo – va a negoziare forme e linguaggi.
La volontà di raccogliere e raccontare le cronache dei poveri, dei traditi,
dei perdenti e degli esclusi, già fondante per un importante filone della
tradizione letteraria americana precedente – dalla «motley crew» dei
balenieri di Herman Melville all’emarginato fuggiasco Huckleberry Finn e
allo schiavo Jim, dai proletari immigrati di Upton Sinclair ai vagabondi di
Jack London – assume un’urgenza, per così, dire «istituzionale», alimentata
com’è dai sussidi federali del Federal Writers’ Project istituito dal New Deal.
Un gruppo eterogeneo di intellettuali – romanzieri, certo, ma anche
giornalisti, fotografi, sociologi, antropologi, storici e scienziati – viene
ingaggiato dalle agenzie governative per documentare le condizioni di vita
dei fittavoli (bianchi e neri) degli stati del Sud, trasformati in braccianti
stagionali nei campi della California, dei proletari in coda davanti alle
mense per i poveri allestite nelle metropoli, dei migranti accampati nelle
baracche che spuntano ovunque dentro e fuori le città…
Lo scopo dichiarato, propagandistico e divulgativo, di romanzi, trattati
sociologici, raccolte di folklore, guide agli stati e resoconti fotografici (→
Fsa), finanziati a livello federale dal 1935 al 1939, presuppone una discesa
sul campo da parte degli scrittori, degli intellettuali e degli artisti americani
che si misurano materialmente con la geografia del paese, alla ricerca di
storie e di immagini che arrivino con efficacia e immediatezza ai ceti medi e
urbani delle città dell’Est (New York, Boston, Washington, Philadelphia,
Chicago). Da questo bisogno, deriva la straordinaria sinergia di mezzi
conoscitivi diversi eppure complementari dispiegati dagli intellettuali del
periodo: la fotografia e la letteratura, l’antropologia, l’etnografia e la
sociologia. Se l’inclusione delle voci subalterne rispetto a quella ufficiale ed
egemonica ha già dato prova di dimorare in modo stabile, ancorché
problematico, nella narrativa americana dell’Ottocento e del primo
decennio del Novecento, è giusto con gli anni trenta che il sistema letterario
del paese sembra muovere verso una plurivocità più scoperta e diretta,
quand’anche non meno contraddittoria. Le varie scritture di questo
decennio condividono in massima parte un registro fortemente mimetico,
declinato, a seconda dei generi, nei toni del documentario fotogiornalistico,
della testimonianza antropologica ed etnografica e di un realismo
romanzesco sempre più capace, anche grazie alla mediazione di queste
forme narrative, di assimilare il vernacolo americano e i linguaggi della
modernità (radio, cinema, pubblicità, giornalismo).
È poi nella centralità dello spazio che queste diverse scritture trovano
un denominatore comune: nella rappresentazione cioè di luoghi molto
connotati da un punto di vista regionale o etnico. Protagonista dinamico è
infatti lo spazio – urbano e rurale – o meglio, il suo attraversamento, che
non si dà più, come avveniva nella narrativa degli anni venti, per scelta,
bensì per necessità materiale. Poco sorprende dunque che la strada – di
città, di campagna, o grande arteria continentale (come la Route 66 →) –
costituisca non solo lo scenario deputato a ospitare le storie di costante
migrazione del decennio (→ Dust Bowl) ma un autentico tempo-spazio, vale
a dire un luogo letterario in cui quella stessa epoca sembra prendere forma
concreta e simbolica.
Basta dare un rapido sguardo ai titoli di alcuni dei libri della Grande
depressione – opere note alla critica e bestseller meno conosciuti – per
cogliere quale ruolo giochi lo spazio: Young Woman of Manhattan; Il 42º
parallelo; La buona terra; Ombre sulla rocca; La via del tabacco; As the Earth Turns;
Il piccolo campo; Puzzled America; Land of Plenty; Summer in Williamsburg;
Northwest Passage; Where Life Is Better: An Unsentimental American Journey; Land
of the Free; The Road: In Search of America; My America; Factories in the Field; An
American Exodus…
Ma è l’intera produzione letteraria di quegli anni – dai libri più venduti a
quelli più apprezzati dalla critica, dalle sperimentazioni più audaci ai
romanzi più tradizionali – a trasformare alcune regioni geografiche e alcuni
quartieri metropolitani del paese (il Sud della Guerra civile, il Sud della Dust
Bowl, il Mississippi, la Florida, la Georgia, il Maine, la California, i territori
dell’America coloniale e quelli della «Frontiera», il Lower East Side di New
York e il South Side di Chicago) in altrettante lenti narrative attraverso cui
raccontarne la storia presente e passata. Non stupisce, allora, che tra i
bestseller americani del 1934 ci siano due libri ambientati nella Georgia
della Guerra civile (Lamb in His Bosom di Caroline Miller e So Red the Rose di
Stark Young), quasi a preludio del trionfo di vendite di Via col vento, di
Margaret Mitchell, l’anno successivo; che il fortunatissimo libro-
documentario di Erskine Caldwell e Margaret-Bourke White, You Have Seen
Their Faces, 1937, sia incentrato sui campi e i fittavoli del Sud (→ Fsa); che il
bestseller del 1939, Furore di John Steinbeck, rievochi la migrazione di una
famiglia di Okies (→) verso la California; che i romanzi di William Faulkner
(Mentre morivo, 1930; Luce d’agosto, 1932; Assalonne! Assalonne!, 1936 e, in
parte, Le palme selvagge, 1939) nascano tutti nella contea immaginaria di
Yoknapathawpha, modellata sulla reale Lafayette County, in Mississippi;
che I loro occhi guardavano Dio, 1937, della scrittrice e antropologa
afroamericana Zora Neale Hurston, si dipani dai racconti sulle verande della
comunità nera di Eatonville, in Florida; che le cosiddette «pastorali del
ghetto» – variazione statunitense del Bildungsroman trasferita nei quartieri
etnici o afroamericani delle grandi città come New York e Chicago – si
rivolgano tutte in un fazzoletto urbano ben delimitato (Ebrei senza denaro di
Mike Gold, 1930; la trilogia di Studs Lonigan di James T. Farrell, 1932-1935;
Chiamalo sonno di Henry Roth, 1934; il già citato Summer in Williamsburg di
Daniel Fuchs, 1934; Cristo tra i muratori di Pietro Di Donato, 1939; Paura, 1940,
e Ghetto negro, scritto tra il 1936 e il 1937 ma pubblicato nel 1963, di Richard
Wright); che l’incompiuto Yonnondio di Tillie Olsen – anch’esso scritto tra il
1932 e il 1936, ma pubblicato nel 1974 – e The Disinherited, 1933, di Jack
Conroy (due dei migliori romanzi «proletari» di quegli anni) siano costruiti
sul nomadismo forzato dei protagonisti – che si muovono, in cerca di
lavoro, dalla miniera alla campagna o alla ferrovia e, da queste, alla città;
che la trilogia U.S.A. di John Dos Passos (Il 42º parallelo; 1919; Un mucchio di
quattrini) restituisca la cartina di un paese attraversato senza posa dai suoi
protagonisti anonimi e che, infine, nel prologo al suo magnum opus, l’autore
ci ricordi come gli Usa siano «la fetta di un continente».
Un pezzo importante di letteratura degli anni trenta va poi ricondotto ai
romanzi proletari che nascono sotto gli auspici della rivista New Masses
(1926-1948), legata alla figura di Mike Gold e al suo magistero radical. Gli
autori che aderiranno al credo di Gold – ben compendiato dal motto «A
sinistra, giovani scrittori!», propugnato sulle orme del leggendario «A
Ovest, giovane uomo» di Horace Greeley – condividono l’urgenza comune
di documentare nel modo più diretto possibile il cataclisma sociale della
Grande depressione, abbracciando una letteratura impegnata a ritrarre la
condizione proletaria. Fucina politica di un’intera generazione di
intellettuali americani, New Masses (come già, negli anni dieci, l’apripista
The Masses, chiusa d’autorità nel 1917 per le sue posizioni antimilitariste e
anticapitaliste → Red Scare) vedrà ruotare intorno alla propria orbita
alcune tra le voci letterarie più importanti dell’epoca – John Dos Passos,
Richard Wright, Upton Sinclair, Nelson Algren, Jack Conroy, Edward
Dahlberg, Tom Kromer, Grace Lumpkin, Meridel Le Sueur, Josephine Herbst,
Tillie Olsen, Tess Slesinger – accogliendo con favore opere quali La battaglia
e Furore di John Steinbeck e riservando stroncature sonore agli autori non
allineati ai dettami del romanzo rivoluzionario (celebre rimarrà quella di
Chiamalo sonno, di Henry Roth). Proprio in seno a New Masses si andrà
consolidando un fronte di scrittrici – le già citate Lumpkin, Le Sueur,
Herbst, Olsen e Slesinger – che prenderà via via consapevolezza dei
pregiudizi di genere che animano persino i vertici – tutti maschili – della
rivista. Se sarà quindi dalla ricerca di una cifra estetica impegnata e
femminile che matureranno le scelte narrative più interessanti delle autrici
di quegli anni, giova forse ricordare, a conclusione di questa panoramica,
come alcuni dei maggiori bestseller del decennio – La buona terra di Pearl
Buck e Via col vento di Margaret Mitchell – così come alcuni dei romanzi più
sperimentali del periodo – L’Autobiografia di Alice B. Toklas di Gertrude Stein,
I loro occhi guardavano Dio di Zora Neale Hurston e La foresta della notte di
Djuna Barnes – siano tutti scritti da donne.

BIBLIOGRAFIA
Michael Denning, The Cultural Front. The Laboring of American Culture in the
Twentieth Century, Verso, London 1997.
Paula Rabinowitz, Labor & Desire. Women’s Revolutionary Fiction in Depression
America, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1991.
C. SCAR.
[G]

Gang
All’udire questa parola, da quell’immenso serbatoio dell’immaginario
collettivo che è il cinema statunitense affiorano subito alcuni titoli celebri: Il
selvaggio di László Benedek (1954) e Gioventù bruciata di Nicholas Ray (1955),
fino a rivisitazioni contemporanee come Rusty il selvaggio di Francis Ford
Coppola (1983) e I ragazzi della 56a Strada (1983). E tanti altri, sia di allora che
di tempi più recenti. Ad accomunarli è la tematica del disagio giovanile, che
specie nel corso degli anni cinquanta (un decennio ampio, che comprende
gli anni del secondo dopoguerra fino grosso modo ai primissimi anni
sessanta) si fa sentire con forza e drammaticità. Sono – come hanno
dimostrato studiosi diversi (I.F. Stone, Stanley Aronowitz, Bruno Cartosio,
fra gli altri) – «anni ossessionati», «anni non silenziosi», «anni inquieti»:
tutto l’opposto di quegli «happy days» resi celebri dall’omonima serie tv
(→) di metà anni settanta che annegava in una piacevole e divertente
melassa la drammaticità di anni densi di tensioni sotterranee (e nemmeno
poi tanto sotterranee, specie negli stati del Sud, dove maturavano eventi di
grande portata storica per ciò che riguardava la condizione degli
afroamericani), di scollamento profondo fra settori diversi della società
statunitense (per esempio, i reduci dalla Seconda guerra mondiale o dalla
guerra di Corea; la piccola e media borghesia in ascesa tanto rapida da
alimentare traumi, nevrosi, sradicamento) e, per l’appunto, di
insoddisfazione profonda nel mondo adolescenziale e giovanile di
estrazione sia proletaria sia middle class, che non riuscivano a riconoscersi
nei miti creati da un dopoguerra all’insegna di un trionfalismo e di una
soddisfazione di facciata.
Le gangs furono spesso la risposta a tutto ciò: bande giovanili, entro cui
tentare di riscoprire un’identità separata e antagonista a un mondo adulto
vissuto come arido e ipocrita, nella difesa di territori reali o immaginari, nel
nomadismo motociclistico, in una ritualità e normativa «altre» rispetto a
quelle ossificate dall’ideologia dominante, nell’anelito a rapporti con l’altro
sesso meno problematici rispetto alle convenzioni diffuse. Risposte
immediate, istintive, individualistiche pur nella ricerca del gruppo: ma
molto diffuse. È la «sottocultura delinquente» analizzata per esempio da
Albert K. Cohen in Ragazzi delinquenti, del 1955 (e da Paul Goodman in
Gioventù assurda, del 1960) e presto diffusasi oltreoceano, in Gran Bretagna,
dove (sull’onda di un film statunitense, Il seme della violenza, di Richard
Brooks, del 1955), darà origine al fenomeno parallelo dei «teddy boys» e in
seguito dei «Mods» e dei «Rockers». Giubbotti di pelle nera, motociclette,
birra e tanta musica, quella musica nuova che stava diffondendosi ormai da
alcuni anni e che fece da catalizzatore di aneliti, rabbie e frustrazioni
giovanili – il rock’n’roll di Bill Haley, di Chuck Berry, di Bo Didley, di Jerry
Lee Lewis, di Little Richard, di tanti altri, fino ad arrivare al «re», Elvis
Presley: quel miscuglio di ingenuità e trasgressione, romanticismo e
cinismo, erotismo esplicito e buoni sentimenti, banale quotidianità e
desiderio di fuga, insofferenza per le regole e desiderio di modelli forti, una
cronaca in musica della condizione giovanile di quegli anni, come già lo
erano state, per tutt’altre generazioni e sezioni della società statunitense, le
pop songs dei fratelli Gershwin e di Cole Porter negli anni venti.
Poi, altri titoli affiorano: per esempio, West Side Story di Robert Wise (del
1961) e, in tempi più vicini, I guerrieri della notte di Walter Hill (1979) o Colors
– Colori di guerra di Dennis Hopper (del 1988) o ancora Strade violente di John
Singleton (del 1991). E qui il discorso si fa più complesso: West Side Story
narrava una storia alla Giulietta e Romeo ambientandola fra le bande giovanili
dell’Upper West Side newyorkese, con forti connotazioni etniche (gli
Sharks sono portoricani immigrati di recente, i Jets un miscuglio di
immigrati più «vecchi»). Le gangs, cioè, da un lato sono espressione e
simbolo dei grandi ghetti sorti nel corso del Novecento, della loro storia
complessa e stratificata, dall’altro divengono sintomatiche di una
situazione di forte degrado e frantumazione, in cui a poco a poco il ruolo
devastante della droga (sia per chi la assuma sia per chi la spacci) trasforma
dinamiche e rituali nella difesa di un territorio che non è più solo proiezione
di un bisogno di identità, ma ormai regno esclusivo di affari illegali.
C’è però un salto temporale, fra il 1961 di West Side Story e il 1979 de I
guerrieri della notte (e, a maggior ragione, il 1988 e il 1991 degli altri due
film). E questo salto temporale è occupato da un altro capitolo (molto meno
visitato dal cinema) nella storia delle gangs: la loro diffusa politicizzazione
nel corso degli anni sessanta. Attratte dagli slogan del «Black Power» e
dall’esempio eclatante delle Pantere nere (→ Movement) (le quali peraltro
avevano nel proprio Dna anche l’«esperienza di strada» di ghetto cats,
«monelli del ghetto», come Huey P. Newton, Bobby Seale, Bobby Hutton e
tanti altri giovani neri), numerose gangs compirono un percorso di rapida
radicalizzazione, in un miscuglio di posizioni e riferimenti che andava da
Malcolm X a Mao, dal marxismo al terzomondismo. È il caso degli Young
Lords, una delle più temute bande giovanili del ghetto portoricano di
Chicago, e dei Brown Berets, giovani chicanos (→) californiani – due esempi
fra i più celebri di politicizzazione delle gangs nel corso degli anni sessanta
del Novecento.
Ora, però, altri titoli di film ci costringono a compiere ulteriori viaggi nel
tempo e nella società statunitense: per esempio, Gangs of New York di Martin
Scorsese (2002) o C’era una volta in America di Sergio Leone (1984) oppure
ancora, andando davvero indietro nel tempo, The Musketeers of Pig Alley di
David W. Griffith (1912). Quel che ci raccontano questi tre diversi capolavori
è la nascita a New York delle bande di strada immigrate – un fenomeno di
notevole rilievo, ricostruito con minuzia da saggi come quello di Herbert
Asbury (Le gang di New York, 1928) e di Luc Sante (C’era una volta New York,
1991), ma anche narrato in romanzi importanti come quello di Michael
Gold, Ebrei senza denaro (1930; → Lower East Side). Fin da metà Ottocento, le
comunità immigrate – irlandese, prima, e italiana, ebraica, cinese, poi –
videro emergere dal proprio seno gruppi di giovani che si contendevano i
territori metropolitani, scontrandosi sia con bande «omologhe» ma radicate
in altre strade e rioni sia con bande di altre comunità vicine: i Plug Uglies, i
Dead Rabbits, i B’howery B’hoys, gli Henry Streeters, i Five Pointers. Con il
tempo, queste bande giovanili sarebbero cresciute e, prese nel meccanismo
del business «fai da te», si sarebbero trasformate in piccoli o grandi
potentati dell’illegalità organizzata: la «Mano Nera» italiana, la «Mano
Nera» ebraica, i «Tongs» cinesi. Con l’evolversi della società americana ai
primi del Novecento, e soprattutto negli anni intorno alla Prima guerra
mondiale e negli anni venti dominati dal Proibizionismo (→), in un paese
lanciato a folle corsa verso il predominio economico mondiale, il confine tra
affari legali e affari illegali si sarebbe fatto sempre più labile e le street gangs
giovanili si sarebbero trasformate in bacino di manovalanza per i grossi
nomi di Murder Inc., come Lucky Luciano, Arnold Rothstein, Al Capone.
BIBLIOGRAFIA
Hal Asbury, Le gang di New York, Garzanti, Milano 2006.
Bruno Cartosio, Anni inquieti. Società, media, ideologie negli Stati Uniti da
Truman a Kennedy, Editori Riuniti, Roma 1992.
Lewis Jacobs, L’avventurosa storia del cinema americano, Einaudi, Torino 1952.
Mario Maffi, La cultura underground (1972), Odoya, Bologna 2009.
M.M.

Gated communities
I cartelli recanti la minaccia «ARMED RESPONSE» (risposta armata) hanno
cominciato a proliferare intorno agli anni ottanta – del Novecento. E non in
un avamposto di frontiera qualunque, ma a Los Angeles. Il tuffo nel passato
è stato incoraggiato dalla comparsa delle gated communities (comunità
recintate), aree urbane separate dall’ambiente circostante da mura e
recinti. L’accesso è riservato e può avvenire solo dopo aver dato alle guardie
private, che stazionano all’ingresso 24 ore su 24, prova della propria
identità. Gli estranei possono accedere solo dietro invito di un residente,
oppure in quanto giardinieri o domestici.
Il sociologo Robert Reich ha spiegato il fenomeno come una «secessione
di quelli che hanno avuto successo», la cui motivazione risiede nella volontà
di conservare uno stile di vita privilegiato, facendo in modo che indesiderati
di vario genere (minoranze etniche, senzatetto, mendicanti, venditori porta
a porta ecc.) stiano lontani dall’uscio di casa, e di assicurarsi di essere i soli
beneficiari dei servizi per i quali si paga. Le gated communities si sottraggono
alla giurisdizione municipale, appaltando la raccolta della spazzatura e la
cura degli spazi comuni a imprese private, con pesanti conseguenze per le
comunità urbane in cui sono localizzate: il bilancio delle amministrazioni
non può contare sulle tasse pagate dai cittadini più ricchi e si ritrova
nell’impossibilità di finanziare tanti servizi (miglioramento e ampliamento
della rete dei trasporti, assistenza ai poveri e agli anziani, finanziamento
delle scuole) che interessano il (relativo) benessere dei non privilegiati.
All’abbattimento delle barriere commerciali e delle telecomunicazioni
seguito alla caduta del muro di Berlino, è corrisposto un movimento uguale
e contrario di costruzione di nuovi confini: il fenomeno è partito dalla
California meridionale e si è poi diffuso nell’intero paese, ma in particolare
nella Sunbelt (→ Cinture), dove la crescita economica degli ultimi
trent’anni ha rappresentato una calamita per le migliaia di migranti che
lasciano il Centro America, molti dei quali piccoli contadini costretti ad
abbandonare la terra natale perché, dopo l’invasione dei prodotti agricoli a
basso costo targati Usa – una delle clausole previste dal trattato di libero
scambio Nafta (North American Free Trade Agreement) – non riuscivano
più a competere e a sopravvivere.
Secondo le cifre, nel 2002 le gated communities in tutto il paese erano
circa 231mila, con un numero di unità abitative che, dal 1970, è aumentato
di circa il 2000%, e si calcola che al loro interno vivano ormai 47 milioni di
persone.
Come detto, la svolta verso la recinzione «selvaggia» è iniziata nella
California meridionale, una realtà regionale dove la dimensione urbana ha
avuto vita difficile fin dagli inizi, perché è stata favorita una crescita basata
sulla dispersione geografica e sulla bassa densità, rispetto alla
concentrazione che invece si riscontra nei centri dell’Est. La svolta fu
rappresentata dai tumulti che sconvolsero il quartiere-ghetto di Watts, a
Los Angeles, nell’estate del 1965 (→ Watts Towers; → Disordini) e dalla
successiva politica che ha estremizzato la questione della sicurezza. Si è
andato delineando quel processo che il sociologo Mike Davis ha battezzato
«Fortress L.A.» e che si è manifestato nella progressiva erosione dello spazio
pubblico, tramite l’erezione di barriere e la predisposizione di un capillare
sistema di controlli: separazione fisica di quartieri ricchi e quartieri poveri
grazie alla costruzione di autostrade, innalzamento di cancelli e grate
intorno a edifici pubblici, dispiegamento di sistemi di videosorveglianza a
circuito chiuso.
A ben vedere, però, lo sviluppo delle gated communities rappresenta un
sogno realizzato: quello di poter riprodurre nella realtà gli ambienti
suburbani, rarefatti e tranquilli fino al limite della stucchevolezza, proposti
in innumerevoli serie tv (→), da Happy Days fino a Desperate Housewives –
mondi che idealmente non sono recintati, ma che di fatto non concedono
spazio a elementi esterni che ne mettano in pericolo la sicurezza (questo
succede solo nei film horror!) o le basi su cui poggia la loro prosperità. Lo
stile di vita in apparenza perfetto costruito in Truman Show (1998), il film
diretto dal regista Peter Weir, in cui si viene a scoprire che il quartiere dove
il protagonista Truman Burbank ha sempre vissuto è in realtà artificiale –
un set costruito a beneficio degli spettatori televisivi –, rappresenta una
metafora non tanto velata di come il benessere di una comunità bianca e
middle class sia possibile solo attraverso la marginalizzazione e la rimozione
di tutto quanto sta intorno.

BIBLIOGRAFIA
Mike Davis, Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles, Manifestolibri,
Roma 1999.
Setha M. Low, Behind the Gates: Life, Security and the Pursuit of Happiness in
Fortress America, Routledge, New York-London 2003.
S.M.Z.

Gateway Arch (St. Louis)


Progettato da Eero Saarinen e Hannskarl Bandel nel 1947 e presto diventato
simbolo della città di St. Louis (Missouri), quest’arco, costruito fra 1963 e il
1965, è anche noto come «Gateway to the West» – il «Portale all’Ovest». Si
leva ardito per 192 metri (altrettanti ne misura la base) a poca distanza
dall’Old Courthouse e dalle rive del fiume Mississippi, grosso modo nel
punto da cui partì, nel 1804, la spedizione di Lewis e Clark (→ Esplorazioni);
sotto, si apre l’interessante Museum of Westward Expansion, inaugurato nel
1968 e ampliato nel 1998: il tutto compone il Jefferson National Expansion
Memorial – un sito che è anche un vero crocevia storico-culturale. E, in
effetti, St. Louis è città di grandi e piccoli crocevia, dove ogni cosa rimanda
ad altro e altro ancora – centrifuga che attrae e irradia intorno, mozzo di
ruota, città di luci (Judy Garland: «Meet me in St. Louis, Louis, / Meet me at
the fair, / Don’t tell me the lights are shining / Anyplace but there») e di
ombre (John Knoepfle, poeta contemporaneo: «Sotto l’arco di Saarinen /
osserviamo una città che muore / […] Sotto il grande arco / hanno raso al
suolo le celle di schiavi, / con i bulldozer hanno schiacciato nella terra / le
mandibole dei costruttori di tumuli»).
Nel 1764, giunto da poco da Nouvelle Orléans (all’epoca, l’intera valle del
Mississippi era dominio francese), Pierre Laclède apre una stazione
commerciale (Laclède’s Landing, l’«imbarcadero di Laclède») sulla riva
destra del fiume, qualche chilometro a valle della confluenza con il fiume
Missouri, in un luogo segnato dai resti di antiche civiltà indigene (i mound
builders, «costruttori di tumuli» – ancor oggi St. Louis è detta anche «Mound
City»). Il Grande Fiume comincia a diventare arteria centrale di un
Nordamerica in parte inesplorato e destinato, ancora per qualche decennio,
a passare di continuo di mano (Francia, Spagna, Inghilterra, Stati Uniti). A
occuparsi in prima persona della costruzione del primo nucleo di edifici e
strade è un ragazzo di quattordici anni, Auguste Chouteau, figlio della
compagna di Laclède. Quando poi, nel giro di pochi mesi, le terre sulla riva
sinistra del Mississippi passano all’Inghilterra in base alla Pace di Parigi
stipulata l’anno prima, si assiste a un esodo di francesi, che guadano il
fiume e si stabiliscono in quel minuscolo avamposto – Laclède’s Landing
diventa quindi un vero e proprio villaggio, e poi, dal 1780, la città di St.
Louis, in onore di Luigi IX di Francia.
Nel costruirla, Laclède e Chouteau (due nomi che da allora restano incisi
nella mappa topografico-culturale della città) seguono il «modello Nouvelle
Orléans» – un reticolo regolare che si stende sulla sommità dei costoni
rocciosi digradanti, una piazza pubblica in riva al fiume, tre lunghi viali
paralleli a esso e tre viuzze perpendicolari, e dietro, verso ovest, i common
fields di Prairie St. Louis e di Grand Prairie, a nord la Grange de Terre (la
grande collina costruita dai Native Americans) e a sud la Petite Rivière e un
laghetto che è poco più di uno stagno. Qualche chilometro a monte, per
l’appunto, la confluenza del Missouri, che apre possibilità al momento
ancora misteriose.
Poi venne il resto. Statunitense dal 1803 (grazie alla Louisiana Purchase
→), la città divenne un porto fondamentale – l’altro polo, insieme a New
Orleans, dello sviluppo mercantile del fiume Mississippi durante la prima
metà dell’Ottocento. Battelli a vapore alla fonda, ciminiere, un attivissimo
fronte del porto con le attività annesse e connesse (legali e illegali, morali e
immorali), un incessante via vai di mercanti, viaggiatori, esploratori,
avventurieri. Nel 1804, i due esploratori Meriwether Lewis e William Clark
partono di qui per la loro grande avventura; e di qui parte, nel 1846,
un’altra singolare figura di esploratore, il giovane storico Francis Parkman,
Jr., per un’altra celebre spedizione, quella lungo la «pista dell’Oregon» (→
Piste e sentieri). Intanto, la città si espandeva (del 1834 è la Old Cathedral,
primo esempio di un’architettura locale di pregio), ed essendo portale tra
Ovest ed Est e capolinea sulla direttrice nord-sud di un fiume in quegli anni
dominato soprattutto dalla tragica esperienza della schiavitù non tardò a
essere protagonista di un episodio importante, che ruota intorno a un altro
luogo-chiave di St. Louis, l’Old Courthouse (costruita a fasi alterne fra il
1839 e il 1862): il Vecchio Tribunale.
Qui, infatti, si dibatté, nel 1846, un caso celebre. In quell’anno, Dred Scott
(nato schiavo in Virginia intorno al 1799) intentò un’azione legale per
ottenere la libertà propria, della moglie e delle due figlie, appoggiandosi a
una decisione della Corte Suprema del Missouri che, sulla base della
dottrina «Once Free, Always Free» («Una volta libero, libero per sempre»),
già nel 1827 aveva dichiarato libero uno schiavo vissuto per qualche tempo
in Illinois, stato non schiavista. Fra il 1833 e il 1840, Scott era per l’appunto
vissuto con il padrone, chirurgo militare, in varie parti dell’Illinois e del
Wisconsin (altro stato non schiavista), facendo poi ritorno a St. Louis nel
1840. La causa si protrasse per undici anni, finché nel marzo 1857 la Corte
Suprema degli Stati Uniti deliberò a maggioranza contro Dred Scott: i neri
non avevano diritti che un bianco dovesse rispettare e tanto meno quello di
ricorrere in giudizio, non essendo cittadini degli Stati Uniti e non venendo
menzionati né nella Costituzione né nella Dichiarazione d’indipendenza.
Scott morirà di tubercolosi nel 1858, dopo essere stato liberato da un figlio
del suo primo padrone; quattro anni dopo, a Guerra civile (→) in corso, la
schiavitù veniva dichiarata illegale nei territori dell’Ovest.
Negli anni successivi, St. Louis conobbe un enorme sviluppo: il
commercio sul fiume, le prime linee ferroviarie, il ponte costruito da James
B. Eads e inaugurato nel 1874 (una delle meraviglie della città, di nove anni
precedente il simile Brooklyn Bridge di New York), la Union Station, Forest
Park disegnato da Frederick Law Olmstead e inaugurato in quello stesso
1876 che vide l’inaugurazione del più celebre (ma di nuovo simile) Central
Park di New York, pure disegnato da Olmstead; e via via i palazzi di
un’architettura raffinata e imponente, in pietra e ghisa, terracotta e acciaio,
per lo più opere del grande architetto Louis Sullivan o della sua scuola – fino
alla Union Station, costruita fra il 1891 e il 1894 e all’epoca la più grande
stazione ferroviaria del mondo. E le grandi ondate di migranti e immigrati –
italiani, tedeschi, e neri dagli stati del Sud –, con la creazione di quartieri-
ghetto come The Ville, Loop, Soulard, The Hill, che conservano ancor oggi
l’impronta del passato, di quel passato.
A questa St. Louis immigrata e multietnica sarebbe giunto nel 1890,
scendendo il Missouri, il musicista di colore Scott Joplin, che già aveva
sperimentato uno stile pianistico particolare destinato ad affermarsi con il
nome di ragtime (→) – perché St. Louis è città di musica: Bix Beiderbecke
insegna, come insegna il celebre motivo «St. Louis Blues» di W.C. Handy. E a
questa St. Louis immigrata e proletaria era giunto da New York, poco prima
della Guerra civile, Joseph Weydemeyer, intimo amico e fidato collaboratore
di Karl Marx e Friedrich Engels, organizzatore dell’American Workers’
League e propagandista della Prima Internazionale su suolo statunitense,
curatore della prima edizione inglese del Capitale e abile ufficiale
dell’esercito nordista a St. Louis e dintorni – che, morendo di colera nel
1866, non potrà essere partecipe degli «eventi del 1877».
Non c’è dubbio che, nel 1877, St. Louis fosse ancora, in larga misura, città
di frontiera. Ma l’impetuoso sviluppo capitalistico, non più intralciato dallo
schiavismo meridionale, s’era fatto subito sentire, a Guerra civile conclusa:
strade, ponti, ferrovie, industrie, commercio, e anche le tipiche crisi
cicliche, fra cui una delle più acute colpì il paese giusto agli inizi degli anni
settanta: scioperi, manifestazioni, scontri si verificarono in molte parti del
paese, finché, nel giugno del 1877, dopo anni di licenziamenti, tagli salariali,
ritmi infernali di lavoro e aperta repressione padronale e statale, i ferrovieri
scesero in lotta, in quello che divenne presto un movimento nazionale, «La
Grande Sollevazione», culminante a luglio nei giorni della «Comune di St.
Louis» (→ Sciopero!).
All’alba del nuovo secolo, con la chiusura della Frontiera (→) e la
completa industrializzazione del paese, mutavano anche il ruolo e il
carattere della città – che però, proprio per questa storia complessa e
contraddittoria, rimase uno dei siti nevralgici del Midwest. La grande
Esposizione Internazionale del 1904 (→ Esposizioni universali), durante la
quale si tennero anche i terzi Giochi Olimpici dopo quelli di Atene e Parigi,
e, dieci anni dopo, il «St. Louis Pageant & Masque» (→ Pageants), che mise
in scena la storia della città mobilitando migliaia di attori e comparse,
confermarono il nuovo ruolo, internazionale e al tempo stesso
orgogliosamente nazionale, di St. Louis. Una dialettica sottile che si
travaserà anche nei futuri versi del giovane che, nel 1905, lasciò la città per
trasferirsi in Europa, a Londra, dove avrebbe scritto alcune delle opere più
significative del modernismo letterario: T.S. Eliot, mai dimentico di St. Louis
e del Mississippi («È chiaro che St. Louis mi ha influenzato più in profondità
di qualunque altro ambiente […] certo, ho trascorso ormai molti anni
lontano dall’America, ma il Missouri e il Mississippi hanno esercitato su di
me un’impressione più profonda di qualunque altra parte del mondo»).
L’anno dopo la partenza di Eliot da St. Louis, nasceva un’altra artista,
destinata a espatriare in Europa e a trovarvi fama e ricchezza – la
«scandalosa» Josephine Baker (→ Banane). Famiglia povera, madre
lavandaia, patrigno semidisoccupato, infanzia difficile nelle strade della
città a rubacchiar carbone lungo la ferrovia e a frugar nei bidoni della
spazzatura in cerca di avanzi, Josephine assimila e metabolizza i suoni, i
ritmi, le musiche del ghetto cittadino e di East St. Louis (la cittadina più
povera e problematica, sull’altra riva del Mississippi, ma in Illinois, che di
St. Louis è un po’ l’altra faccia), dove andrà ad abitare da ragazza. E proprio
a East St. Louis, assisterà ai gravissimi disordini razziali del 1917, quando
una folla inferocita di bianchi assalirà i quartieri neri delle due città,
facendo 200 morti e cacciando 6000 famiglie di colore – accelerando
quell’esodo che, dal Sud, stava portando decine di migliaia di neri verso le
grandi metropoli del Nord e del Nordest, Chicago e New York in particolare.
Scriverà nella sua autobiografia Josephine Baker: «D’improvviso, Mama mi
scosse dal sonno. Gettando indietro la lisa sovracoperta a quilt che dividevo
con mio fratello e con le mie sorelle, ci fece alzare. Una specie di brontolio
minaccioso riempiva l’aria, sembrava avvicinarsi.“Cos’è, Mama, una
tempesta che arriva?’”, chiese mio fratello Richard. “No, non è una
tempesta, bambino. Sono i bianchi. Sbrigatevi!”».
P.S.: Con East St. Louis, si esce di città, forse attraverso il suggestivo Eads
Bridge, e a questo punto vale la pena di spingersi un po’ oltre, di pochi
chilometri, compiendo così un viaggio nel tempo e nello spazio (ancora
Eliot: «Non cesseremo dall’esplorare/ E l’esito di tutte le nostre
esplorazioni/ Sarà di arrivare dove eravamo partiti/ E di conoscere il luogo
per la prima volta», Four Quartets). La meta potrebbe essere Alton,
nell’Illinois, per conoscere di più la storia della Ferrovia sotterranea (→
Underground Railroad) o per seguire le tracce di una delle leggende sulla
morte del più famoso dei fratelli Lafitte (→ Barataria); oppure, Cahokia,
l’imponente e affascinante sito archeologico che ci narra la vicenda ancora
in parte oscura dei Mound Builders, i «costruttori di tumuli»…

BIBLIOGRAFIA
Gerald Early (ed.), «Ain’t But a Place». An Anthology of African American
Writings about St. Louis, Missouri Historical Society Press, St. Louis 1998.
George Lipsitz, The Sidewalks of St. Louis. Places, People, and Politics in an
American City, University of Missouri Press, Columbia and London 1991.
Mario Maffi, Mississippi. Il Grande Fiume. Un viaggio alle radici dell’America, il
Saggiatore, Milano 2009.
Lee Ann Sandweiss (ed.), Seeking St. Louis. Voices from a River City. 1670-2000,
Missouri Historical Society Press, St. Louis 2000.
M.M.

Generazioni
«Siete tutti una generazione perduta», sentenziò con un misto di
riprovazione e condiscendenza Gertrude Stein, rivolgendosi a quegli
scrittori, Francis Scott Fitzgerald ed Ernest Hemingway in primis, che
stavano riscrivendo le sorti della narrativa statunitense vivendo da
bohémiens fra Europa e Stati Uniti fra la fine della Prima guerra mondiale e
l’inizio della Grande depressione (→). La frase, per ammissione della stessa
Stein, non era farina del suo sacco, ma del proprietario di un’officina
francese dove la scrittrice aveva portato a riparare l’auto, che apostrofò
come génération perdue i suoi giovani dipendenti, dediti più ai divertimenti e
alle sbronze che al duro lavoro. Originale o meno che fosse, la «Generazione
perduta» tenuta a battesimo e cresciuta intorno alla Stein negli anni in cui i
suoi principali esponenti fecero base a Parigi (→ Espatriati ed esuli) diede
corpo e visse fino all’estremo tale definizione: Fitzgerald in una vita breve e
sregolata, fatta di momenti di gloria, autodistruzione e oblio; Hemingway
(che aveva consegnato la definizione della Stein alla storia, utilizzandola
come epigrafe del romanzo del 1926 Il sole sorge ancora), sopravvivendogli di
qualche decennio e mettendo fine ai suoi giorni con il suicidio – così come,
anni prima, aveva fatto il giovane poeta Hart Crane.
«Perduta» in quale senso? Per capirlo si deve fare un passo indietro,
chiedendoci che cosa sia, al di là del mero dato anagrafico, una
«generazione». Senza scomodare teorici quali Auguste Comte, John Stuart
Mill, Wilhelm Dilthey e Margaret Mead, si può definire «generazione» un
gruppo di individui omogeneo per fasce di età e per simili vissuti, con un
rapporto articolato (e spesso conflittuale) con i suoi predecessori. Di
«generazioni» si iniziò a parlare a partire dal XIX secolo, quando le
esperienze della modernizzazione e dell’industrializzazione e la fiducia nel
progresso contribuirono a creare la speranza di un miglioramento costante
dell’umanità attraverso i suoi giovani; e quando i rapidi cambiamenti
economici e sociali portarono questi ultimi a una maggiore indipendenza
dall’universo familiare e a un senso condiviso di identità collettiva, che
travalicasse l’appartenenza ad ambiti locali o regionali. A dividere una
generazione da un’altra stanno dunque da sempre le differenze di valori, di
gusti, di stili di vita, di comportamenti, e un diverso rapporto con il passato.
Non a caso, il concetto giunse alla ribalta nel discorso pubblico prima negli
anni venti e poi intorno agli anni sessanta del Novecento, due momenti in
cui i credo del gruppo più giovane entrarono in netto contrasto con quelli
dei loro padri, sfociando nella ribellione nei confronti di ciò che veniva in
quei momenti percepito come l’autorità precostituita.
Se torniamo a guardare agli anni venti, viene il dubbio che a perdersi
non fosse tanto la generazione in sé. Semmai fu quest’ultima che smarrì
qualcosa: cresciuta all’ombra della Prima guerra mondiale, a cui molti dei
suoi membri avevano preso parte, essa divenne adulta, per usare le parole
di Fitzgerald, «per trovare defunti tutti gli dei, combattute tutte le guerre,
tutta la fede nell’uomo minata». Nati alla fine del XIX secolo e cresciuti nello
spirito progressista e idealistico degli anni «della fiducia» (the confident
years, come vennero ribattezzati), questi giovani vissero sulla loro pelle la
cieca e bruta violenza della guerra e la falsità della retorica ufficiale che la
propagandava come «la guerra per por fine a tutte le guerre». Il senso di
perdita e di alienazione e la consapevolezza che, come scrisse Thomas
Wolfe, «non è più possibile tornare a casa», all’America che fu, portarono
artisti e scrittori a unire nelle loro opere una malinconica nostalgia per un
passato idilliaco (e spesso mitizzato) e un profondo scetticismo nei
confronti della sfera politica e di qualsiasi linguaggio fasullo o artefatto che
celasse la realtà. È la «terribile onestà» a unire le tante forme della prosa e
della poesia di quegli anni, fra sperimentazioni e realismo, da e.e. cummings
(le minuscole erano volute dal poeta stesso) a Sherwood Anderson, da John
Dos Passos, a Malcolm Cowley, Thomas Wolfe, Hart Crane, William Faulkner
(che pure non avrebbe gradito l’inclusione in tal gruppo), in patria come
all’estero. A Parigi, nel salotto della Stein o alla libreria Shakespeare and
Company di Sylvia Beach, nei locali della riva sinistra della Senna (la
Brasserie Lipp, i caffè Aux Deux Magots o La Rotonde), molti di questi artisti
e scrittori trovarono terreno fertile per una vita che pareva leggera e
spensierata, intellettualmente stimolante, fatta di sperimentazione e
trasgressione, in cui la nuova femminilità assumeva la forma della flapper
(→) o il fascino esotico e provocante della Revue Nègre portato in scena dalla
ballerina afroamericana Josephine Baker (→ Banane); un mondo dove le
feste duravano tutta la notte e le corse ciclistiche fino a sei giorni, dove la
vita mondana, sponsorizzata da abbienti americani (come Gerald e Sara
Murphy), assumeva la forma di corse di cavalli e d’auto e di cocktail party in
cui si potevano trovare, fianco a fianco, Pablo Picasso e Rodolfo Valentino.
Poi, con la Grande depressione (→) e il secondo conflitto mondiale,
anche i giovani sembrarono tornare nei ranghi, in un conformismo che li
voleva già piccoli adulti, complici gli anni difficili in cui trascorsero
l’infanzia. Alla G.I. Generation (la «generazione dei soldati», «la migliore
generazione che l’America abbia avuto») che uscì presto di casa, in larga
parte per arruolarsi e combattere e onorare la patria (non priva peraltro di
«voci contro»), fece seguito la «generazione silenziosa» dei nati fra il 1925 e
il 1945: figli piccoli degli anni trenta, catapultati all’improvviso nel
benessere e nel conformismo degli anni cinquanta – culla, è il caso di dirlo,
di uno dei fenomeni demografici più significativi del XX secolo. A segnare il
decennio fu infatti il cosiddetto «baby boom», un incremento delle nascite,
che passarono negli Stati Uniti dai 2 milioni e 400mila durante gli anni bui
della Grande depressione ai 4 milioni e 300mila del 1957 (per un totale di 76
milioni di bambini nati fra il 1945 e il 1974). Fra i tanti fattori che
contribuirono all’impennata della natalità (il miglioramento delle
condizioni di vita, l’incremento del reddito della middle class, la diminuzione
dell’età media del matrimonio), un posto di primo piano spetta senza
dubbio alla politica culturale e sociale dell’epoca, che identificava il giusto
modello di vita con la famiglia e i figli, meglio se numerosi, e ruoli di genere
ben definiti: il capofamiglia lavoratore e la madre casalinga (come insegna
La famiglia Bradford, una delle più celebri serie tv →). L’estremo opposto, i
single o le coppie senza figli, erano all’epoca gli emblemi per eccellenza
della devianza. Questi baby boomers divennero, almeno tecnicamente, la
generazione più fortunata che la storia ricordi: circondati dalla prosperità
del secondo dopoguerra, furono non solo i pargoli più sani, ma anche i più
accuditi e assecondati dai genitori, che vedevano come vangelo il
permissivismo e l’indulgenza teorizzata dal dottor Benjamin Spock nel suo
Il bambino. Come si cura e come si alleva (1946). Cresciuta in larga parte nei
suburbs (→), fu anche la generazione più istruita, che entrò in massa nei
college e nelle università (il cui numero crebbe in questi anni a dismisura →
Ivy League); e, non da ultimo, la prima generazione la cui identità collettiva
fosse plasmata attraverso la televisione, unita e resa coesa dagli stessi
spettacoli, dalle stesse serie tv.
A che cosa potevano ribellarsi questi giovani, che avevano in apparenza
e fino a quel momento avuto tutto (o quasi) dalla vita? Alla superficialità e
transitorietà di quelle conquiste, all’ipocrisia di un decennio che, nella sua
narcosi, nascondeva numerosi conflitti del tessuto sociale nazionale e
internazionale. La discriminazione razziale (→ Back of the bus), la guerra in
Vietnam (→) e più in generale la politica imperialista americana furono gli
obiettivi principali di una generazione che, al grido di «non fidarti di
nessuno sopra i trent’anni», diede origine a forme di protesta e dissenso
quanto mai diversificate (→ Movement). Alla disillusione per le promesse
non mantenute (in un decennio in cui le risorse economiche e gli stili di vita
stavano subendo drastiche contrazioni) e alla frustrazione narcisistica per
l’impossibilità di avere tutto, subito e a buon mercato (che pure
caratterizzò l’epoca dei baby boomers), si affiancò infatti un più profondo e
duraturo disagio, a cui poeti, romanzieri e pittori iniziarono a dar voce già
agli inizi degli anni cinquanta.
In quegli anni, a dominare la scena artistica fu la beat generation, un
gruppo di letterati noti ai più per lo stretto connubio fra vita e opera –
entrambe ribelli e anticonformiste, in cui la musica (jazz), le droghe e il
sesso promiscuo sposavano le filosofie e religioni orientali e l’eterno
vagabondare. Anche se raggiunse la notorietà attraverso un fecondo
gemellaggio con le avanguardie artistiche di San Francisco e Berkeley (note
come San Francisco Renaissance), il movimento vide la luce a New York,
grazie all’amicizia fra tre artisti: il poeta Allen Ginsberg, il romanziere Jack
Kerouac e lo scrittore William S. Burroughs (ai quali si unirono poi i poeti
Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti, quest’ultimo proprietario della
celebre libreria City Lights Books di San Francisco, e i meno noti Michael
McLure, Peter Orlovsky e Gary Snyder). I tre amici newyorkesi furono gli
autori dei principali manifesti letterari beat: Ginsberg con Urlo (1956),
poema disperato e disperante sulle «migliori menti della mia generazione»
e contro il materialismo e l’emarginazione dei più deboli; Kerouac con Sulla
strada (1957), autobiografico romanzo di viaggio e d’amicizia fra Sal
Paradise e Dean Moriarty sulle strade verso l’Ovest, al termine delle quali,
come già preannunciava Fitzgerald con il suo Gatsby, «non vi è più luogo
dove andare se non indietro»; e Burroughs, con Il pasto nudo (1959), e le
potenti immagini surrealiste di degrado e violenza, che ritardarono di tre
anni l’uscita del volume presso un editore americano; a questi va aggiunto
Gregory Corso, la cui «Bomba» (1959), accesa denuncia in versi dei test
nucleari, assume la forma grafica di un fungo atomico.
Ai primi tre si deve anche il nome del movimento: «beat» appunto, che
aveva fino a quel momento avuto il significato di «esausto», «prosciugato
emotivamente e fisicamente» – termine usato in prevalenza dai musicisti
jazz per indicare i momenti sfortunati della vita. E in questo senso lo
intendeva Herbert Huncke, un piccolo ladro, trafficante e tossicodipendente
di Times Square, che fu sentito per caso da Burroughs, il quale lo riferì a
Ginsberg e a Kerouac, suoi compagni di corso alla Columbia University.
Mentre Ginsberg interpretò beat come «stremato, emarginato dalla società,
solitario, insonne e ricettivo», Kerouac lo legò al concetto di «beatitudine»,
suggerendo che essere beat significava anche avere una forma più elevata di
consapevolezza interiore: lo utilizzò per la prima volta durante
un’intervista con l’amico John Clellon Holmes, che lo incluse nel suo
romanzo Go (1952). Fu così che catturò l’attenzione del critico letterario del
New York Times Gilbert Millstein, che intitolò la recensione del 16 novembre
1952 al romanzo «Questa è la Beat Generation», anni prima della
pubblicazione delle opere maggiori del movimento beat… o beatniks, nella
(ri)definizione di un giornalista del San Francisco Chronicle del 1958 (dove -nik
riecheggiava Sputnik, il satellite russo lanciato in orbita l’anno prima).
I viaggi nello spazio e nelle coscienze caratterizzarono anche i fratelli
minori dei beat, gli hippie – giovani spesso benestanti, che rifiutavano i
modelli imposti dalla società degli anni sessanta. Colorati, dai lunghi capelli,
con pantaloni a zampa d’elefante e sandalo d’ordinanza, gli hippie
proponevano modelli sociali di rottura: vita comunitaria all’insegna del
«fate l’amore e non la guerra», l’uso di droghe come mezzo per giungere
all’illuminazione e ampliare la propria capacità di percezione, il pacifismo.
Le mecche del movimento furono i quartieri di Haight-Ashbury a San
Francisco (→ Castro) e l’East Village newyorkese – almeno fino alla fine del
decennio, quando molti di coloro che non erano confluiti nelle comuni o
scomparsi nei meandri della droga, rientrarono nei ranghi e nei ruoli di una
società che li riaccolse come figlioli prodighi.
Per sentire parlare di «generazioni» si dovranno aspettare i nati fra i
primi anni sessanta e i primi anni ottanta – la cosiddetta Generazione X,
figlia dei baby boomers portata agli onori della cronaca e a un
riconoscimento non solo nominale dal romanzo di Douglas Coupland
Generation X. Storie per una cultura accelerata (1991). I tipici esponenti della
Generazione X sono i giovani della borghesia, con un’istruzione
universitaria e poche motivazioni, che non guardano di buon occhio a un
lavoro sicuro e probabilmente noioso in una società sempre più corporativa.
Apatica e senza obiettivi (ma quale nuova generazione non è stata
etichettata così?), è un gruppo che ha trovato, oltre ad alcune forme
espressive letterarie, le note e la tecnologia come veicoli identitari: la
musica arrabbiata, dal rock all’heavy metal, dal punk al grunge (→), con
una netta presa di distanza dal glam e dalla disco music che avevano
caratterizzato la scena artistica precedente. Una generazione di spettatori,
passivi e disillusi («eccoci qui, intratteneteci», cantava uno dei suoi
carismatici antileader, Kurt Cobain, in «Smell Like Teen Spirit»), che ritrova
se stessa davanti al computer. Furono questi i pionieri del pc e di internet,
grazie al quale alcuni di costoro si interesseranno ai grandi temi sociali e
della politica internazionale (interesse che rese gli X alquanto corteggiati da
Bill Clinton nella campagna presidenziale del 1992).
Da qui in poi le categorie si fanno indistinte: c’è chi parla di una nuova
generazione, la Generazione Y, nata fra gli anni ottanta e il 1994 (detta
anche Millennium Generation, New Silent Generation, Net Generation,
iGeneration), cresciuta con il cellulare in mano e la paura degli attacchi
terroristici, ragazzi consumisti e al contempo scettici nei confronti dei
linguaggi pubblicitari e dello star system, abituati all’informazione veloce,
ai social network e a tutto ciò che li circonda (compresi i nuovi Horatio
Alger alla Mark Zuckerberg, passati dai rags to riches [→] nel tempo di una
notte e di un «libro di facce» messo on line). Altri sociologi iniziano invece a
osservare e raccontare i fratelli minori, la cosiddetta Generazione Z, i nati
sul finire degli anni novanta, anch’essi ipertecnologici, diffidenti nei
confronti del linguaggio pubblicitario e al contempo consumisti. In questo
alfabeto infinito, a spiccare sono però le somiglianze più che le differenze –
come se, a cercare sempre più freneticamente il «nuovo» e il cambiamento,
del concetto di «generazione» si sia in realtà smarrita ogni traccia.

BIBLIOGRAFIA
Malcolm Cowley, Exile’s Return: A Literary Odyssey of the 1920s (1934), Penguin,
New York 1994.
Geoffrey T. Holtz, Welcome to The Jungle: The Why Behind «Generation X», St.
Martin’s, New York 1995.
Neil Howe, William Strauss, Millennial Rising: The Next Great Generation,
Random House, New York 2000.
Landon Y. Jones, Great Expectations: America and the Baby Boom Generation,
Ballantine, New York 1986.
C. SCHIA.

Gentrification
Un’area urbana all’improvviso è scoperta dai mass media: dopo un passato
neanche tanto lontano di squallore e decadimento, il quartiere si è popolato
di artisti e designer e sono spuntati locali notturni e gallerie d’arte. Un
sociologo da qualche tempo stava registrando un cambiamento della
composizione sociale dei residenti. Un ex abitante si è visto costretto ad
abbandonare l’appartamento dove ha vissuto da sempre per un aumento
considerevole dell’affitto… Si tratta di alcuni degli aspetti più visibili della
gentrification, un fenomeno complesso che ha cominciato a interessare le
aree urbane a cavallo tra gli anni sessanta e settanta del Novecento.
Il termine venne coniato nel 1964 dalla sociologa inglese Ruth Glass per
descrivere il processo di cambiamento allora in atto nel quartiere londinese
di Islington. Volendo dare un nome alla progressiva scomparsa del carattere
operaio dell’area a seguito di un massiccio afflusso di nuovi residenti
appartenenti alla borghesia, Glass ricorse al sostantivo gentry, parola che
indica l’aristocrazia terriera inglese. Negli Stati Uniti, una grossa mano alle
forze storiche è stata data dal governo, con l’approvazione del Federal
Housing Act (1949), una misura legislativa che da un lato dava impulso alla
suburbanizzazione (→ Suburbs) attraverso la costruzione di autostrade, e
dall’altro contemplava piani di urban renewal, ovvero di abbattimento di
slums e quartieri fatiscenti nei centri cittadini per far posto, almeno in
teoria, a unità abitative più dignitose – in pratica, comunità abitate da un
ceto operario non abbiente, ma che conduceva un’esistenza decorosa sono
state spazzate via per far posto a nuove arterie di traffico (→ Bronx) o a
stadi più capienti (→ Echo Park). La distruzione del tessuto comunitario è
stata poi accelerata dalle trasformazioni provocate dalla ristrutturazione
economica, con la crescita del settore terziario e finanziario e il
contemporaneo ridimensionamento di quello manifatturiero, sotto la
pressione da un lato della meccanizzazione dei processi e dall’altro dello
spostamento della produzione in aree dove la manodopera aveva costi
inferiori. I quartieri cresciuti intorno alle officine si trovano all’improvviso
senza quelle fabbriche che avevano assicurato redditi sicuri e vita dignitosa:
la diminuzione degli addetti si riflette in un impoverimento generalizzato
della popolazione e di riflesso in degrado – chi ha i mezzi per farlo, se ne va;
gli altri rimangono e assistono con malinconia alla graduale comparsa di
emarginati, drogati, criminali che, insieme agli edifici abbandonati,
testimoniano l’arrivo di una fase di decadenza.
Eppure, nascosto nella comitiva, arriva qualche personaggio che si ferma
sulla soglia della marginalità: aspiranti artisti, scrittori, modelle, musicisti,
studenti… una variegata carovana per la quale i prezzi bassi degli affitti e la
vicinanza al centro hanno molta più importanza del decoro degli edifici.
Alcuni consolidano la carriera, altri riescono a trovare impiego nei settori
economici che tirano; e, quasi con un tocco di bacchetta magica,
l’«avanguardia» di esploratori rimette il territorio degradato nel circolo
delle aree desiderabili: arrivano gallerie d’arte, piccole boutique, caffè. Un
momento di vero e proprio «rinascimento» frutto di una situazione fragile e
di passaggio – che porta con sé i germi di un cambiamento imminente.
Gli agenti immobiliari sono lesti nell’individuare il potenziale di questi
territori, che offrono un’alternativa più eccitante rispetto alla monotonia
dei suburbs. Un’architettura diversificata in cui non di rado sono presenti
edifici storici, l’animazione delle strade e la possibilità di accorciare il
tragitto che conduce al lavoro sono tutti fattori che possono interessare i
bobos (termine derivato dall’unione di bourgeois e bohemian), la nuova élite
urbana che ostenta apertura mentale, interesse per qualsiasi ultima
tendenza culturale e capi firmati. Le vittime designate sono gli inquilini di
lunga data, i quali vengono priced out: una cruda ma efficace espressione che
restituisce l’impossibilità di far fronte all’incremento del canone e la
conseguente necessità dolorosa di andarsene dal quartiere per far posto a
nuovi più facoltosi sostituti.
Innescato dal mercato immobiliare, dalla rendita fondiaria, il processo di
gentrification è poi spesso accelerato da fenomeni almeno in apparenza
estranei al mercato. Nel Lower East Side (→) di New York, per esempio, tra
gli anni settanta e ottanta, parecchi proprietari abbandonarono di proposito
gli edifici all’incuria e li privarono della manutenzione minima per indurre
gli affittuari di lungo corso, spesso operai e pensionati, ad andarsene
altrove. In alcuni casi, incendi sospetti hanno accelerato il naturale
processo di svuotamento: Alphabet City, film del 1985 di Amos Poe, prende
spunto da questa situazione. Più spesso, invece, è stata una convergenza con
gli interessi ambientalisti a favorire il consolidamento di processi di
gentrification. La nascita di associazioni per ottenere la designazione di un
quartiere come «Historic District» – la quale comporta il divieto di
effettuare interventi che alterino il profilo urbanistico e architettonico – e
l’affermazione di politiche note come slow growth (crescita lenta) o smart
growth (crescita intelligente) hanno finito per fare gli interessi degli
immobiliaristi, provocando aumenti sensibili nei valori dei terreni e dello
stock abitativo.
La gentrification ha toccato i principali centri urbani degli Stati Uniti:
South End a Boston, Fillmore a San Francisco, Capitol Hill a Washington e il
già citato Lower East Side di New York, dove, tra l’altro, il processo è stato
contrastato da una mobilitazione della popolazione residente, organizzata
in gruppi come il Cooper Square Committee, cui va riconosciuto il merito di
avere costretto il governo cittadino a fare marcia indietro in numerose
occasioni, o grazie alla pratica dello homesteading, con cui gruppi di base,
dopo aver occupato e ristrutturato un edificio abbandonato, rivendicano dal
comune (o dalla proprietà) il diritto di gestirlo in cooperativa.
Numerosi osservatori rimangono scettici sul futuro dei centri urbani,
che riescono a intravedere solo in termini apocalittici. È il caso di un
articolo pubblicato dal Bay Guardian nel 1998: «Nel giro di pochi anni San
Francisco sarà la prima città interamente “gentrificata” della storia
americana. Sarà un posto orribile, pieno di ricchi frustrati venuti in città
nella convinzione che fosse trendy. Ma essa non ha saputo mantenere la
vitalità e l’effervescenza culturale che la caratterizzavano. Sarà una parodia
di se stessa, un museo delle cere».

BIBLIOGRAFIA
Janet L. Abu-Lughod (ed.), From Urban Village to East Village. The Battle for New
York’s Lower East Side, Blackwell, Oxford & Cambridge 1994.
Rowland Atkinson, Gary Bridge, Gentrification in a Global Context: The New
Urban Colonialism, Routledge, London 2005.
Rosalyn Deutsche, Cara Gendel Ryan, «The Fine Art of Gentrification»,
October, Vol. 31 (Winter, 1984), 91-111.
S.M.Z.

Geremiade
Che cosa hanno in comune i sermoni puritani di Increase Mather (1639-
1723) e Jonathan Edwards (1703-1758) e i discorsi di Abraham Lincoln e
Martin Luther King, di John F. Kennedy e Jimmy Carter, di Ronald Reagan e
Barack Obama? Che cosa accomuna opere letterarie quali Walden, ovvero Vita
nei boschi (1854) di Henry David Thoreau e Il grande Gatsby (1925) di Francis
Scott Fitzgerald a testi di denuncia sociale del secondo Novecento quali
Primavera silenziosa di Rachel Carson, La folla solitaria di David Riesman, La
società opulenta di Kenneth Galbraith, La mistica della femminilità di Betty
Friedan, Vita e morte delle grandi città di Jane Jacobs ecc.? E perché mai alcune
ballate del primo Bob Dylan risuonano di una tradizione letteraria fatta di
sermoni, discorsi, romanzi e trattati sociali?
Sembrerà una risposta un po’ stramba, ma tutte le opere appena
elencate sono geremiadi: condividono, cioè, la modalità espressiva e
l’intento culturale di quello che il critico Perry Miller non ha esitato a
definire il «primo genere letterario americano».
Com’è facile intuire, le origini della geremiade d’oltreoceano sono
bibliche. Risalgono infatti all’Antico Testamento, nello specifico al Libro
delle Lamentazioni attribuito al profeta Geremia, dove si narra della
desolazione in cui versa Gerusalemme (o Sion) dopo essere stata distrutta
dal babilonese Nabucodonosor nel 587 a.C.: la sua rovina è letta dai profeti
come segno di un castigo divino scagliato contro gli ebrei per i loro peccati.
Quando i teologi puritani di seconda e terza generazione (vale a dire i figli o
i nipoti dei Padri Pellegrini e gli esponenti della prima «Great Migration»)
cominciano a scrivere i loro sermoni, s’ispirano ai profeti Geremia, Isaia ed
Ezechiele, con Gerusalemme-Sion come modello per le sciagure a venire e la
geremiade come forma espressiva d’elezione che prevede il succedersi di un
lamento, una condanna e un’esortazione a tornare alla vera fede. Nella loro
struttura canonica, le geremiadi delle origini – tra la seconda metà del
Seicento e la prima del Settecento – ruotano tutte intorno al tradimento del
sacro covenant (→), l’accordo stretto dal nuovo popolo eletto con Dio: la
seconda generazione deve infatti sferzare una comunità religiosa che ha
perso il vigore iniziale e ha smesso di perseguire la propria missione,
allontanandosi così da quel «patto benedetto». Sulla falsariga delle
lamentazioni bibliche, le geremiadi puritane sono dominate dai cataloghi
delle sciagure giunte come conseguenza dei peccati della comunità: tanto la
devastazione portata dalla «Guerra di re Filippo» (un conflitto armato fra
alcune tribù native e i coloni del New England, combattuto tra il 1639-1723;
→ Guerre indiane), quanto una serie di disastri naturali (tra cui spiccano i
cattivi raccolti e le inondazioni → Disastri) vengono infatti interpretati
quali prova schiacciante che l’ira di Dio si è abbattuta su una Nuova
Inghilterra rea di non aver onorato il sacro covenant. In costante
giustapposizione sono quindi la virtù dei padri e la viltà dei figli, il passato
glorioso, il presente cupo e il futuro incerto e minaccioso; e l’esempio dei
fondatori e la fiducia nella possibilità di rinascita morale alimentano la
vocazione al pentimento delle nuove generazioni, ancora capaci di
riformare i propri comportamenti. Una lunga litania di peccati e una
rievocazione feticista della prima generazione costituiscono dunque i due
snodi centrali della geremiade, la condizione indispensabile per invocare un
ritorno al covenant. Quanto alla forma, poi, la geremiade si compone di un
lungo pianto punteggiato di versi intercalari – «How long, oh Lord, how
long?» – che ribadiscono, a un tempo, la sofferenza e la tenacia delle quali è
intriso il cammino di salvezza della comunità. Secondo lo studioso Sacvan
Bercovitch, la struttura retorica della lamentazione – di per sé luttuosa –
non va infatti confusa con una crisi di fiducia: al contrario, essa ripropone la
speranza incrollabile nel compimento della missione, rinverdendone
l’aspettativa attraverso un rituale di rigenerazione religiosa e politica. È in
questo alveo che vanno letti anche i sermoni più drammatici, tra i quali
spicca il celebre «Peccatori nelle mani di un Dio adirato», del 1741, di
Jonathan Edwards, in cui l’evocazione dell’inferno come un incubo
tangibile è appunto strumento dell’urgenza di rinnovamento morale al
centro del messaggio del predicatore.
Nel corso del Settecento, tuttavia, la geremiade puritana deve scendere a
patti con il formarsi di un’unità nazionale che si sviluppa all’insegna
dell’infinita varietà delle esperienze culturali e materiali: un terreno al
quale poco s’attagliano le costrizioni teologiche del New England. Nasce
così la «geremiade yankee» (→ Yankee), che sostituisce il progresso e il
miglioramento materiale all’avanzamento tutto spirituale del primo
covenant. Le metafore bibliche si fanno più lasche – poiché devono
abbracciare le moltitudini di una compagine diventata continentale – ma la
fiducia nella missione civilizzatrice del popolo americano (a quel punto
diventata «evidente» → Destino manifesto) non cessa di plasmare i valori
commerciali della middle class.
Nel corso dell’Ottocento, la geremiade si colora di nero. È Frederick
Douglass (1818-1895), nato schiavo e diventato un leader abolizionista
durante la Guerra civile (→), a dare vita alla fertilissima variante della
«geremiade nera» (tra le sue orazioni più note ricordiamo «What to the
Slave Is the 4th of July?», del 1852); genere a cui aderiscono altri due pilastri
del pensiero afroamericano: Booker T. Washington (1856-1915) e W.E.B. Du
Bois (1868-1963). Se con il «Secondo discorso inaugurale» del 4 marzo 1865
di Abraham Lincoln, la geremiade continua a essere «bianca», il suo tema
centrale rimane però la «peculiare istituzione» del Sud del paese. A circa un
mese dalla fine della guerra, il sedicesimo presidente americano parla
infatti della schiavitù come della colpa di cui il popolo degli Stati Uniti si è
macchiato, «offesa» che ha scatenato l’indignazione di Dio. Assassinato il 15
aprile 1965, e poco compianto da Frederick Douglass – che lo definirà
soltanto un «presidente dei bianchi» –, Lincoln non dovrà assistere allo
spettacolo desolante della Ricostruzione (→ Carpetbaggers), come farà
invece Walt Whitman, al quale si deve un altro esempio di geremiade,
Visioni democratiche, disincantato saggio del 1870 sui cortocircuiti della
Repubblica: «Io dico che la nostra democrazia del Nuovo mondo per quanti
successi abbia avuto nel sollevare le masse dalla loro degradazione, nello
sviluppo materialistico, nella produzione e in certa (molto ingannevole e
superficiale) intellettualità popolare, è oggi come oggi un fallimento quasi
completo nei suoi aspetti sociali e in tutti i risultati più grandi, quelli
religiosi, morali, letterari ed estetici».
Se la geremiade di Whitman contiene un ritratto del paese ancora oggi
attuale, è impossibile non citare, in questo pur breve excursus, uno degli
esempi più alti – per forza simbolica e seguito politico – di «geremiade
nera» americana. Quando, il 28 agosto 1963, dalla gradinata del Lincoln
Memorial, il predicatore battista dell’Alabama Martin Luther King (1929-
1968) dà voce alla sofferenza dei neri davanti alla folla della marcia di
Washington, il suo discorso è tutto costruito sull’attesa di un sogno non
ancora realizzato, quello della desegregazione e dell’uguaglianza razziale.
Non è un caso che il tono a un tempo colloquiale e liturgico del sermone sia
rafforzato dal ripetersi dell’espressione «I have a dream» e che a questa
ripetizione esso sia associato fin da allora.
Si potrebbe a questo punto ragionare di esempi di geremiadi più recenti
– il famoso discorso della «crisi della fiducia», 1979, di Jimmy Carter, tanto
per cominciare – oppure fermarsi, idealmente, al 1963, e concludere sulla
voce nasale di un predicatore americano sui generis: «How many roads must
a man walk down before you call him a man / Yes and how many seas must
a white dove sail before she can sleep in the sand / Yes and how many times
must the cannon balls fly before they’re forever banned / The answer my
friend is blowin’ in the wind / The answer is blowin’ in the wind». Il disco
in cui si può ascoltare quest’altra geremiade ha un titolo che è già un
manifesto, Freewheelin’, «a ruota libera», e colpisce per la modalità
colloquiale con la quale Bob Dylan, chitarra e armonica, inanella i suoi
lunghi cataloghi di lamentazioni rinnovando il sogno americano (e il suo
rovescio).

BIBLIOGRAFIA
Sacvan Bercovitch, The American Jeremiad, University of Wisconsin Press,
Madison 1978.
Tiziano Bonazzi, Il sacro esperimento. Teologia e politica nell’America puritana, il
Mulino, Bologna 1970.
David Howard-Pitney, The African American Jeremiad. Appeals for Justice in
America, Temple University Press, Philadelphia 2005.
C. SCAR.

Gettysburg
Una piccola città (→) della Pennsylvania, situata strategicamente
all’incrocio di due importanti arterie di comunicazione (le direttrici
Washington-Harrisburg e Pittsburgh-Philadelphia), Gettysburg è diventata
uno dei «santuari laici» degli Stati Uniti. Dal 1º al 3 luglio del 1863, le verdi
colline intorno alla cittadina furono teatro di una delle più sanguinose
battaglie della Guerra civile (→), che lasciò sul campo circa 50mila vittime,
il numero più alto nell’arco di tutto il conflitto. Il generale confederato
Robert E. Lee aveva scelto di portare un attacco in profondità nel territorio
nemico, pensando di potere alleggerire la pressione che i nordisti stavano
esercitando più a ovest, lungo il Mississippi. Il risultato non fu però quello
sperato, l’esercito sudista non riuscì a sfondare le linee nemiche e dovette
ripiegare.
Qualche tempo dopo, per iniziativa di due avvocati del posto, David Wills
e David McConaughy, una parte del campo di battaglia venne acquistata allo
scopo di seppellire i morti e costruire un cimitero (→ Spoon River) che
sarebbe servito da sacrario per onorare i caduti senza distinzione, unionisti
e confederati. Il Soldier’s National Cemetery venne inaugurato con una
cerimonia ufficiale il 19 novembre del 1863, durante la quale il presidente
Abraham Lincoln si produsse in un breve ma significativo intervento
passato alla storia come «Discorso di Gettysburg». Riprendendo un tema già
utilizzato da Pericle nell’orazione funebre tramandata da Tucidide nella
Guerra del Peloponneso, il discorso invita a trarre esempio dal sacrificio dei
soldati morti nella battaglia per esortare i vivi a portare avanti, e realizzare,
la causa suprema, la missione per la quale avevano dato la vita: «Sta
piuttosto a noi il votarci qui al gran compito che ci è di fronte: che da questi
morti onorati ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale
essi diedero, della devozione, l’ultima piena misura; che noi qui
solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano; che
questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di
un governo di popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla
terra». Trasformando la sconfortante realtà di una nazione divisa dalla
guerra e piagata dalla distruzione in un richiamo a rinnovare, con ancora
più forza e determinazione, gli sforzi per portare a compimento la missione
sottoscritta dai padri fondatori, Lincoln intendeva vincere la guerra anche
sul terreno ideologico, e affermare la continuità della sua azione con i
principi fondanti della nazione.
Il pellegrinaggio iniziò nei mesi successivi. Dapprima parenti e amici che
volevano rendere omaggio ai propri cari sepolti, poi sopravvissuti all’epica
battaglia che si davano convegno per rievocarne gli episodi, e infine
semplici curiosi desiderosi di vedere di persona luoghi che stavano
diventando parte della mitologia del paese. In breve, Gettysburg si
trasformò in attrazione turistica e i terreni tutto attorno alla città, dove si
erano svolte le varie fasi del combattimento, passarono nel 1896 sotto il
controllo di una Commissione del parco nazionale militare di Gettysburg,
creata per la sua gestione e valorizzazione. Esteso su una superficie di circa
seimila acri, il parco è visitato ogni anno da circa un milione e mezzo di
persone. Un apposito percorso automobilistico lungo 18 miglia è stato
approntato per ripercorrere i successivi momenti dei tre giorni del
confronto. Ogni anno poi, nell’anniversario dello scontro, vi si svolge una
rievocazione in costume (qualcosa di simile avviene a Vicksburg [→], nel
Mississippi, sede di un’altra famosa battaglia e di un analogo memorial park).
Gli oltre 1300 tra monumenti, memoriali e semplici indicazioni fanno del
parco uno dei cardini della topografia rituale degli Stati Uniti – prova se ne
è avuta qualche anno fa, quando la popolazione locale protestò con
veemenza contro un piano per la costruzione di una casa da gioco in un
punto marginale del parco. I cittadini avevano obiettato che la prospettiva
di installare delle slot machines era un puro e semplice insulto alla memoria
dei caduti. Nel 2006, la richiesta è stata rifiutata, e l’onore è rimasto salvo:
forse anche per il fatto che, a poca distanza, passato il confine con il
Maryland, di slot machines e case da gioco ce n’erano già troppe. Pare invece
che non si riuscirà a evitare la costruzione di un Wal Mart a Fredricksburg,
in Virginia, nei pressi di un altro celebre campo di battaglia della Guerra
civile.

BIBLIOGRAFIA
Reid Mitchell, La guerra civile americana, il Mulino, Bologna 2003.
Garry Wills, Lincoln a Gettysburg. Le parole che hanno unito l’America, il
Saggiatore, Milano 2005.
S.M.Z.

Gibson Girls
Fra i tanti modelli di femminilità che la cultura tardo-ottocentesca propose
alle donne, un posto di primo piano occupano le longilinee ed eleganti
figure dell’illustratore Charles Dana Gibson, ispirate, oltre che alle molte
giovani benestanti incontrate dall’autore per le strade di New York, alla
moglie Irene Langhorne e all’attrice belga-americana Camille Clifford.
Quella di Gibson, in bella mostra nei suoi libri e nelle illustrazioni per
decine di romanzi e sulle pagine dello Scribner’s Magazine, dello Harper’s
Bazaar, di Life e del Collier’s (riprodotte poi anche su piatti, cuscini, vestiario
e carte da parati) fra gli anni novanta dell’ Ottocento e il primo dopoguerra,
è una gioventù femminile aristocratica, o che tale aspira a essere, sempre
alla moda, impegnata in eventi sociali, alle prese con la difficile arte del
corteggiamento, a proprio agio nei salotti, così come con la vita domestica.
Donne alte, dai nasi dritti, ampio il petto, e larghi i fianchi e un vitino da
vespa (di certo, frutto di robusti corsetti), le folte chiome raccolte a chignon
seguendo la moda dell’epoca (e addirittura dettando la moda): le Gibson Girl
rappresentavano la fiera stirpe anglosassone, un mondo Wasp (→)
altoborghese lontano anni luce dai sordidi bassifondi che i giovani e
promettenti pittori della Ash Can School (→ Bidoni della spazzatura) e gli
scrittori-fotografi documentaristi alla Jacob Riis (→ Occhi indiscreti)
stavano in quegli anni portando all’attenzione dell’opinione pubblica. Lo
stesso Gibson, parlando delle sue creature, le definì come l’antitesi di quel
melting pot (→) che il drammaturgo Israel Zangwill aveva reso popolare.
«Ora vi spiego come ho creato ciò che voi chiamate la Gibson Girl. La vedo
nelle strade, nei teatri, nelle chiese. La vedo ovunque fare un po’ di tutto. La
vedo oziare sulla 5ª Strada e lavorare dietro al bancone dei negozi. È la
nazione ad averla creata. Non vi è nessuna Gibson Girl, ma migliaia di
ragazze americane, e ringraziamo Dio per questo.»
Sebbene dimentiche di qualsiasi cosa stesse al di fuori del loro mondo
middle class, le Gibson Girl incorporavano anche alcuni tratti della «donna
nuova» che la generazione precedente (e in particolare il movimento
suffragista → Seneca Falls) aveva concorso a creare: aggraziate e al
contempo forti, queste fanciulle entravano in ambiti e sfere fino ad allora
esclusiva prerogativa maschile, frequentavano il college, facevano sport ed
esercizi fisici all’aria aperta, si recavano da sole in spiaggia, si dilettavano
con la letteratura e l’arte, e prendevano l’iniziativa anche in fatto di
pretendenti. Donne nuove, dunque? Forse sì, a patto però che questa
indipendenza rimanesse fra le mura domestiche e nella sfera privata.
Perché di politica e diritti, be’, per la sofisticata Gibson Girl sarebbe stato
disdicevole occuparsi.

BIBLIOGRAFIA
Martha H. Patterson, Beyond the Gibson Girl: Reimagining the American New
Woman, 1895-1915, University of Illinois Press, Champaign 2005.
C. SCHIA.

Gilded Age
Non è oro tutto quel che luccica, e la Gilded Age (l’età dorata) – il periodo
compreso tra il 1865 e il 1900 – ne è una conferma: lo straordinario
progresso tecnologico ed economico che trasformò gli Stati Uniti nella
prima potenza mondiale non fu infatti una pacifica e trionfale cavalcata
verso un «radioso» avvenire, ma un cammino contrassegnato da violenze,
scioperi, crisi economiche, tensioni sociali diffuse e dal quasi totale
sterminio dei Native Americans. Non per caso fu gilded anziché golden – non
d’oro, ma dorata. La brillante (è il caso di dirlo!) definizione la dobbiamo a
Mark Twain, il quale intitolò The Gilded Age il romanzo scritto in
collaborazione con il giornalista Charles Dudley Warner nel 1873. Negli anni
venti del Novecento, gli storici Charles e Mary Beard prima e Vernon Louis
Parrington poi usarono la formula per indicare i decenni successivi alla
Guerra civile (→), e da allora questa entrò nel lessico culturale americano.
Il titolo di un altro libro, invece, fornisce una chiave di lettura per meglio
orientarsi tra le trasformazioni e i rivolgimenti che interessarono il paese
durante questo periodo: si tratta di un volume (del 1982) di Alan
Trachtenberg, The Incorporation of America – un’espressione difficile da
tradurre, che allude da un lato all’assorbimento delle varie realtà locali in
un unico spazio nazionale geografico ed economico e dall’altro al ruolo
fondamentale svolto dalle corporation (il cui consolidamento delle attività
le portò a creare filiere articolate lungo l’intero territorio) e dal business
nell’attuazione di questo processo: come ebbe a dire lo scrittore William
Dean Howells nel saggio The Man of Letters as Man of Business (1893), «Oggi il
business è l’unico sodalizio umano; siamo tutti legati insieme da questa
catena, qualunque siano gli interessi, le inclinazioni e i principi che ci
separano». I movimenti centripeti di concentrazione e assorbimento in un
sistema unico furono alla base dei cambiamenti che interessarono la società
della Gilded Age, ai quali però si opposero i tanti movimenti centrifughi di
resistenza alla trasformazione animati da quelle componenti sociali che non
avrebbero goduto dei benefici portati dal nuovo ordine.
Ferrovie e telegrafo furono i principali agenti del processo di
incorporation; le innovazioni tecnologiche e nelle comunicazioni, in
particolare, consentirono il collegamento effettivo tra le diverse aree
geografiche e agevolarono il flusso delle persone e delle materie prime, dei
prodotti finiti e delle informazioni, premessa necessaria per
l’organizzazione efficiente di molti processi industriali. Le ferrovie (→
Promontory Point) passarono dalle 35mila miglia di binari del 1865 alle
193mila del 1900: oltre a diminuire i tempi di percorrenza tra i centri
abitati, la strada ferrata rese letteralmente possibile la colonizzazione di
nuove terre. Fattore non secondario per la proliferazione di linee
ferroviarie furono le generose condizioni concesse dal governo centrale. I
costruttori ricevettero a titolo gratuito i terreni adiacenti al percorso dei
binari: ciò, oltre a spiegare il motivo per cui spesso si preferirono tragitti
alquanto tortuosi a scapito di traiettorie dirette, consentì ad alcuni affaristi
di accumulare delle vere e proprie fortune (→ Robber barons). Le
compagnie ferroviarie furono anche responsabili dell’adozione di quattro
zone orarie standard a partire dal 18 novembre 1883: fino a quel momento,
ogni comunità aveva misurato l’avanzare della giornata basandosi
sull’inclinazione del sole, ma le incongruenze tra l’ora locale delle diverse
città risultava in disguidi e ritardi che danneggiavano le transazioni
commerciali. Le ferrovie avevano ovviato all’inconveniente suddividendo il
territorio nazionale in quattro fusi orari per determinare i tempi di
percorrenza e specificare partenze e arrivi e le autorità, osservandone la
praticità e i benefici, si convinsero a adottare lo stesso sistema.
La macchina, del resto, rivoluzionò gli equilibri consolidati anche negli
altri settori produttivi. Simbolo del progresso, essa era considerata come la
grande «emancipatrice» dell’umanità, la forza che avrebbe liberato l’uomo
dalla schiavitù del lavoro manuale. L’introduzione di macchinari sempre
più potenti e in grado di svolgere operazioni sempre più complesse mutò il
volto del settore manifatturiero, portando a un aumento straordinario della
produttività. Non mancò lo scetticismo: orecchiando Marx, l’intellettuale e
politico Henry George osservò perplesso come le macchine avessero reso
obsoleti mestieri e competenze, mentre d’altro canto creavano posti di
lavoro per una manodopera non specializzata che si sarebbe limitata solo ad
azionarle. L’individuo veniva privato dunque del suo ruolo centrale nella
produzione, diventando anch’egli meccanismo in un ingranaggio di cui
aveva poca percezione – svolgeva alcune operazioni ma allo stesso tempo
perdeva il controllo sull’intero processo produttivo, sia che fosse un
operaio non specializzato sia che si trattasse di un impiegato o un
amministratore.
A questo proposito, un primo moto di resistenza si sarebbe riscontrato
nella comparsa di tanti costrutti culturali che invece continuavano a
puntare l’accento sul singolo in grado di plasmare il proprio destino a
piacimento: dall’eroe delle storie rags to riches (→) alla retorica
sull’integrazione nella middle class degli immigrati, all’inventore diventato
ricco imprenditore grazie al suo genio (→ Menlo Park); finanche all’«aura
mitologica» che circondava i robber barons. L’amara verità era opposta: la
possibilità individuale di reinventarsi era compromessa in un sistema
sociale ormai rigidamente diviso in classi.
Svanì allo stesso modo l’ideale jeffersoniano dell’America come nazione
di yeomen, piccoli contadini autosufficienti. La rivoluzione produttiva infatti
investì e trasformò il settore agricolo: nel ventennio tra il 1870 e il 1890, la
produzione triplicò e anche in questo caso in conseguenza
dell’introduzione della meccanizzazione. Nel 1896, un unico addetto, con
l’ausilio di un apposito mezzo meccanico, era in grado di raccogliere in una
sola giornata più grano di quanto riuscissero a fare diciotto uomini
sessant’anni prima. Tuttavia, l’incremento di produttività si rivelò un’arma
a doppio taglio per molti, i quali sperimentarono sulla propria pelle gli
effetti collaterali dell’innovazione. Per poter vendere le quantità crescenti
di derrate, gli agricoltori dovettero raggiungere mercati sempre più
distanti, e ciò li portò a fare i conti con le nuove figure di intermediari, le
tariffe per il trasporto e quelle di magazzino, costi aggiuntivi che erodevano
gran parte del profitto ricavato dai raccolti. Molti furono così costretti ad
accendere ipoteche nella speranza di invertire la tendenza, ma specie per i
più piccoli, l’effetto fu quello di accumulare debiti e uscire dal mercato,
premessa alla concentrazione dei terreni in grandi appezzamenti.
L’ampliamento delle superfici coltivate e la specializzazione nei cash crop, le
colture che garantivano un guadagno immediato, furono i soli modi in cui
l’agricoltura poté sopravvivere, anche se in questo modo la sorte
dell’attività veniva legata alle fluttuazioni del mercato. Verso la fine
dell’Ottocento, la rabbia nelle campagne giunse ad assumere dimensioni di
massa, convergendo in movimenti come quello dei Grangers e poi del
People’s Party.
Molti contadini falliti migrarono verso le città, sempre più centro
dell’attività economica, sociale e culturale della nazione – se ancora nel
1870 nelle aree urbane viveva il 25% degli abitanti degli Stati Uniti,
trent’anni dopo la proporzione crebbe fino al 40%. Situate agli snodi
principali delle linee di comunicazione, le città diventarono polo di
attrazione per le attività produttive di trasformazione e, di conseguenza,
per le masse di immigrati provenienti sia dalle zone rurali interne sia
dall’Europa e dall’Asia. Il cambiamento interessò anche il tessuto
urbanistico: dietro la spinta della concentrazione, le diverse attività
economiche si consolidarono in parti specifiche della città, portando alla
sua frammentazione in realtà distinte e paradossalmente «lontane». Grazie
alla rivoluzione dei trasporti, con l’introduzione dello streetcar (il tram), la
elevated o El (sopraelevata) e la subway (metropolitana), le città si
diversificarono in Business Districts, zone industriali, zone commerciali e di
intrattenimento, quartieri residenziali per i colletti bianchi e ghetti per gli
immigrati. Questi ultimi, sovrappopolati per effetto dei continui arrivi e
dell’assenza di alloggi a buon mercato in altre parti della città, a cui si
aggiungevano sistemi fognari inadeguati e strade sporche e sterrate, erano
il luogo dove si concentrava il disagio della metropoli, un universo
capovolto rispetto alle magioni, ai palazzi marmorei, ai parchi e agli ampi
viali alberati delle aree più rispettabili. Nel 1890 Jacob Riis pubblicò un
reportage fotografico (→ Occhi indiscreti) sulle condizioni di vita nel Lower
East Side (→), principale quartiere d’immigrazione di New York, e lo
intitolò How the Other Half Lives (Come vive l’altra metà) – un testo reso
necessario dalla distanza esistente tra la middle class, che costituiva il
pubblico di lettori, e le classi subalterne: le due popolazioni, confinate in
settori distinti della metropoli, non entravano mai in contatto, e l’élite
cittadina non aveva alcuna percezione di quali fossero i reali problemi del
luogo in cui viveva. Lo scopo di Riis, in anticipo di qualche anno rispetto ai
muckrackers (→), era documentare il disagio e porre il problema
all’attenzione delle autorità: il libro inaugurò un dibattito pubblico che
porterà lo stato di New York, nel 1901, all’approvazione del Tenement House
Act, che introdusse il rispetto di standard qualitativi più elevati nella
costruzione di nuovi edifici.
Il processo di concentrazione non risparmiò neanche la letteratura, che
vide affermarsi forme di diffusione alternative rispetto al tradizionale
volume. Il già citato The Man of Letters as Man of Business propone alcune
riflessioni sul mondo editoriale dell’epoca, raccontando come l’ascesa delle
riviste (Collier’s, Ladies’ Home Journal, Harper’s Weekly, Century, Atlantic
Monthly, per citare solo alcuni titoli) fosse stata determinata da una
necessità pratica: per gli scrittori, ricevere un compenso immediato e
definitivo in cambio dei loro scritti rappresentava un vantaggio rispetto alle
incertezze di un libro la cui sorte nel mercato editoriale era difficile da
prevedere. Il magazine, invece, raccogliendo vari tipi di prodotti testuali
(poesie, saggi, attualità, gossip ecc.) in un solo volume, attirava l’interesse
di un pubblico di lettori più vasto e poteva di conseguenza contare su una
tiratura ampia e costante nel tempo.
Come detto, ci furono resistenze al movimento di concentrazione. La
crisi economica del 1873 segnò la conclusione di un lungo ciclo di
espansione e aprì una fase di tensione in cui vennero a galla le
contraddizioni accumulate negli anni dello sviluppo non regolato. Queste
interessavano tre assi correlati: la lotta urbana condotta dagli operai
attraverso l’attività sindacale e le agitazioni per ottenere condizioni
lavorative più umane (→ Sciopero!), la fine della Ricostruzione (→
Carpetbaggers) che aprì la strada alla guerra «etnica» nel Sud e i conflitti
nell’Ovest per «risolvere» la questione indiana (→ Guerre indiane) e in
seguito la contesa tra i piccoli agricoltori e allevatori contro i grandi
proprietari terrieri (→ Cowboy). Queste crisi rappresentano tentativi da
parte di coloro che stavano ai margini di rivendicare il diritto di
determinare le personali condizioni di esistenza e sfidare l’ordine imposto
dalle classi dirigenti. Il biennio 1876-1877, a questo proposito, fu un
momento particolarmente delicato, con la guerra contro i sioux (durante la
quale si ebbe la battaglia del Little Bighorn →), il compromesso che pose
termine alla Ricostruzione e il grande sciopero delle ferrovie. Le classi
dirigenti reagirono arroccandosi ancora di più su posizioni antagoniste
rispetto alle rivendicazioni: cominciò a diffondersi il «nativismo», corrente
di pensiero che considerava i gruppi etnici marginali (colored e non: basti
pensare alla pessima reputazione di cui godevano gli immigrati tedeschi,
«smodati bevitori di birra», e per giunta socialisti) come portatori di idee,
visioni del mondo e modi di vita in contrasto con i principi democratici del
paese, pertanto da contrastare con ogni mezzo possibile. Di fatto si rafforzò
una «linea del colore» (→) che, nella differenza tra gli americani
purosangue e gli altri gruppi etnici, nascondeva una precisa divisione tra
classi dirigenti e subalterne. Significativi i titoli di alcuni studi recenti
sull’assimilazione sociale di irlandesi, ebrei e italiani: How the Irish Became
White (1995) di Noel Ignatiev, How the Jews Became White Folks (1998) di Karen
Brodkin, From Paesani to White Ethnics (2001) di Stefano Luconi – al loro
arrivo negli Stati Uniti, questi gruppi non erano percepiti come «bianchi» e
lo sarebbero «diventati» di pari passo con la loro integrazione.
La letteratura fu uno degli ambiti in cui trovarono spazio le opposte
tensioni verso la concentrazione e la resistenza al cambiamento. Il critico
Jules Chametzky parla a questo proposito di una «decentralized literature»,
una «letteratura senza un centro», perché molte realtà regionali, con le
rispettive specifiche culture, diventarono soggetto di romanzi e, più di
frequente, racconti – la narrativa local color (colore locale) conobbe un
periodo di fioritura nel momento in cui il relativo isolamento di queste
stesse realtà era ormai compromesso. La decentralizzazione delle geografie
letterarie fece emergere il New England di Sarah Orne Jewett (Il paese degli
abeti aguzzi, 1896) e Mary Wilkins Freeman (A New England Nun, 1891), il
Tennessee di Mary Murfree (In the Tennessee Mountains, 1884), l’Indiana di
Edward Eggleston (The Hoosier Schoolmaster, 1871), il Midwest di Hamlin
Garland (Strade maestre, 1891), il West di Bret Harte (The Luck of Roaring Camp
and Other Stories, 1870), il Sud di George Washington Cable (Vecchio mondo,
1879) e Joel Chandler Harris (con le Uncle Remus Stories). E narrativa
regionale, per certi versi, possono essere considerati anche i primi tentativi
dei gruppi etnici marginali di creare letteratura: si pensi alle ricostruzioni
del Sud rurale nelle opere degli afroamericani Paul Laurence Dunbar (Folks
from Dixie, 1898) e Charles W. Chesnutt (The Conjure Woman, 1899), nonché al
Lower East Side da parte dell’immigrato ebreo-russo Abraham Cahan (Yekl,
1899). Un autentico quilt letterario, insomma, che mette in discussione
l’esistenza di un’identità americana «unica», bianca e anglosassone, con
buona pace dei nativisti.
Ci sono anche tentativi di ricomporre questo quadro fratturato. E
probabilmente nessuno sente tale bisogno – anche come esigenza morale –
quanto Howells, il cui romanzo Hazard of New Fortunes (1890) cerca di
mettere insieme i mondi differenti in cui è suddivisa la città di New York,
vero polo di attrazione per i più disparati tipi sociali: il borghese bostoniano
Basil March, gli arricchiti Dryfoos provenienti dal Midwest, l’ex confederato
della Virginia colonnello Woodburn, l’artista cosmopolita Angus Beaton, la
vecchia aristocrazia cittadina dei Vance, l’immigrato tedesco Lindau. Che il
romanzo finisca poi con un’esplosione (nella quale si sentono gli echi dei
fatti di Haymarket Square →) indica come il tentativo di ricomporre i
diversi mondi non sia per nulla semplice, persino sulla carta.
Mark Twain, invece, in Le avventure di Huckleberry Finn (1884, ma
ambientato prima della Guerra civile), sceglie come filo conduttore il
Mississippi e la discesa del monello Huck e dello schiavo fuggiasco Jim lungo
il corso del fiume è occasione per raccontare diverse realtà del paese e i
nodi non risolti che ancora resistono, come il rapporto con la schiavitù, gli
eccessi della religione e la trasformazione sotto la spinta della modernità. La
zattera su cui navigano Huck e Jim si costituisce come società ideale, dove
bianco e nero convivono su uno stesso piano; all’opposto, nel mondo che si
incontra sulle rive, tale rapporto non sarebbe possibile – uno stato di cose
che il progresso, secondo Twain, non migliorerà: sarà forse un caso che una
macchina, nella fattispecie un battello a vapore, distrugga la zattera e metta
fine all’idillio?
Alcuni ancora cercano l’età dell’oro in territori lontani o fittizi: Howells,
in A Traveler from Altruria (1894), e Edward Bellamy, in Guardando indietro
(1888), descrivono società utopiche per mettere in luce, per contrasto, i
diversi aspetti dell’America contemporanea che non rispettavano il
«sogno» originario di una società egualitaria. A guardar bene, anche il
candore immacolato della «White City» (→), la città modello costruita in
occasione della World’s Fair di Chicago del 1893, non era altro che
un’utopia – la realizzazione di un tessuto urbano razionale, modellato
sull’architettura della Roma imperiale, dove dominava il colore bianco, era
un modo per esorcizzare l’eterogeneità etnica di Chicago e delle grandi
metropoli. Più azzeccata, allora, pare la scelta cromatica di Lewis Mumford,
il quale intitolò The Brown Decades (1935, «i decenni marroni»), un saggio
sulla cultura e l’architettura della Gilded Age. Il marrone era il colore
dell’autunno, dei campi spogli, dei cieli offuscati dal fumo delle ciminiere,
delle brownstones (→ Architetture), ma forse – anche se Mumford non ne fa
menzione – anche il colore che sarebbe risultato dalla mescolanza dei
gruppi etnici americani.

BIBLIOGRAFIA
Mario Maffi, La giungla e il grattacielo: gli scrittori e il sogno americano 1865/1920
(1981), Odoya, Bologna 2012.
Alan Trachtenberg, The Incorporation of America. Culture and Society in the
Gilded Age, Hill & Wang, New York 1982.
S.M.Z.

Golden Gate Bridge (San Francisco)


Come altre meraviglie ingegneristiche americane di erculea prestanza, il
Golden Gate Bridge di San Francisco è figlio degli anni della Grande
depressione (→) e può essere quindi, per molti versi, associato
all’imponente Hoover Dam (Hoover →), ma anche al Bay Bridge, costruito
soltanto un anno prima (1936) nella stessa città e al George Washington
Bridge di New York, del 1931. Monumento iconico al pari della Statua della
Libertà, dalla sua apertura a oggi il Golden Gate Bridge è rimasto il luogo
preferito di amanti, fotografi e suicidi. Il simbolo di San Francisco conserva
il nome che John C. Frémont, futuro governatore della California, diede allo
stretto che separava la baia dall’oceano Pacifico nel 1846: la porta naturale
della novella Bisanzio veniva ribattezzata «Golden Gate» – ovvero «Cancello
d’oro», con riferimento alla bellezza del paesaggio e alla ricchezza di risorse
della città che, da lì a pochissimi anni, avrebbe fatto la propria fortuna con
la corsa all’oro (→ Oro!).
Il progetto di costruzione del Golden Gate Bridge nasce invece più tardi,
nel 1921, e si propone di collegare la punta più settentrionale di San
Francisco a Marin County: l’intento, lo stesso che sottende la realizzazione
del Bay Bridge, è quello di trasformare la città in una metropoli
rompendone l’isolamento attraverso il pendolarismo dalle aree al di là della
baia. La sfida abbracciata dall’imprenditore Joseph Strauss – che ha già
messo la sua firma su più di quattrocento ponti in giro per il mondo – è
epica: non solo si tratterà di erigere un ponte sospeso lunghissimo, ma
occorrerà farlo in condizioni geologiche e meteorologiche ostili (l’azione
delle maree dello stretto, i venti forti, i possibili terremoti). Ancor prima di
confrontarsi con le difficoltà ingegneristiche, il progetto deve però
conquistarsi un’opinione pubblica avversa su più fronti: le compagnie di
battelli che temono di vedere i loro guadagni diminuiti; i gruppi
ambientalisti come il Sierra Club che allertano contro il deturpamento
naturale; le proteste dei contribuenti per il costo troppo elevato; il timore
diffuso che le fondamenta geologiche del molo meridionale (ovvero di San
Francisco) siano poco sicure. Gli interessi economici hanno comunque la
meglio sulle proteste e la costruzione del ponte è avviata nel gennaio 1933,
soprattutto grazie alle straordinarie capacità matematiche dell’ingegnere e
designer Charles Alton Ellis, coadiuvato da Othmar Hermann Ammann (che
ha già disegnato il George Washington Bridge di New York), di John
Eberson, l’architetto a cui va ricondotto lo stile art déco delle torri, di Irving
Marron, architetto e illustratore locale che andrà ad accentuare la tensione
«verticale» delle torri medesime. Ci vorranno quattro anni per portare a
compimento l’impresa e lo sforzo sarà titanico: solo per la costruzione degli
ancoraggi saranno rimossi 3,25 milioni di piedi cubici di terra e sarà versata
una quantità di cemento sufficiente a costruire due grattacieli. Le
condizioni di lavoro per i manovali saranno oltremodo pericolose: sospesi a
150-180 metri dall’acqua, sferzati dai venti freddi dell’oceano, ne
moriranno undici. D’altronde, proprio le stagioni estive si riveleranno le più
ostiche, con lo stretto che condensa il freddo in fitti banchi di nebbia – gli
stessi che avvolgono ancora oggi il Golden Gate Bridge in misteriose nuvole
bianche anche ad agosto –, limitando la visibilità e aumentando il numero di
strumenti e di materiali per la costruzione caduti in mare. Precarietà e
pericolo sono d’altro canto la chiave dell’intera operazione ingegneristica:
così, le forge che servono a riscaldare i rivetti sono appoggiate su
piattaforme a mezz’aria e i rivettatori sono costretti a lavorare nella
semioscurità, calati all’interno delle gabbie d’acciaio che fanno da scheletro
ai piloni.
Quanto all’aspetto forse più caratteristico del Golden Gate Bridge, il
colore arancione, la storia è piuttosto curiosa. L’«arancione internazionale»
che lo contraddistingue è infatti frutto di una scelta casuale: mentre
Ammann lo vorrebbe grigio come il George Washington Bridge e altri nero,
la marina a righe gialle e nere per facilitarne l’avvistamento, l’aeronautica
rosso e bianco perché più visibile dall’alto, il Golden Gate Bridge rimarrà del
colore della vernice di fondo data come prima mano per proteggerlo dagli
agenti atmosferici. La manutenzione di quell’arancione internazionale che
tanto piace ai turisti è infinita e assai onerosa, necessitando dell’aggiunta
periodica di milioni di galloni di colore. Rispetto alle cifre, poi, con i suoi
1280 metri di lunghezza tra le due campate, il Golden Gate Bridge supera
tanto il Brooklyn Bridge del 1883, con i suoi 486 metri, quanto il George
Washington Bridge, 1066 metri, e rimane il ponte più lungo del paese fino
alla costruzione del Verrazzano-Narrows Bridge di New York nel 1964 (1298
metri).
Al di là della portata per molti versi colossale della sua realizzazione,
l’apertura del Golden Gate Bridge – così come quella del coevo Bay Bridge
che collega San Francisco a Oakland – coincide con due importanti
fenomeni urbanistici e sociologici: la costruzione facile di terrapieni su aree
strappate al mare (con il corollario di speculazione edilizia e di pericoli
geologici delle aree residenziali così creati) e la fuga nei suburbs (→) delle
classi medie (resa possibile dal pendolarismo). Quanto alla prima tendenza,
sia la Golden Gate International Exposition del 1939 (→ Esposizioni
universali) sia il terremoto di Loma Prieta del 1989 (→ Big One e altre
catastrofi) sono paradigmatici: la Fiera mondiale sarà infatti allestita su
un’isola (Treasure Island) costruita con terra di riporto; mentre le scosse di
Loma Prieta metteranno in ginocchio la zona ricca di Marina, nata e
sviluppatasi, all’ombra del Golden Gate Bridge, su fondamenta geologiche
incerte.
L’esplosione dei suburbs, invece, cambierà nel profondo il tessuto sociale
della città: quartieri fino a quel momento residenziali come North Beach e
The Haight diventeranno abbordabili per una vasta schiera di artisti e
bohémiens che decidono di trasferirvisi a partire dagli anni cinquanta del
Novecento, trasformando San Francisco in una sorta di Rive Gauche
americana. Vi approderanno infatti Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Lawrence
Ferlinghetti e i beatniks, le frange più pittoresche di quella cultura
alternativa che, negli anni sessanta e settanta, avrà proprio qui, a San
Francisco, il suo centro nevralgico (→ Generazioni). Il Golden Gate Bridge e
il Bay Bridge si fanno così veicolo dell’afflusso costante di giovani attratti
dalle manifestazioni degli hippie (su tutte, la Summer of Love del 1967 →
Castro), dalla stagione protestataria degli universitari di Berkeley e del
movimento delle Pantere nere (→ Movement).
Proprio a questa temperie controculturale così composita da tenere
insieme impulsi di liberazione sessuale, spericolate sperimentazioni
lisergiche (sono questi gli anni dell’Lsd), movimenti di protesta
studenteschi, lotte per i diritti civili, delle donne e dei gay, appartiene una
figura centrale alla storia e all’immaginario collettivo della città: il
reverendo Jim Jones (→ Castro), capo spirituale di una confraternita
religiosa con tendenze utopistiche e millenaristiche di stanza a San
Francisco dal 1972 al 1977. Nello stesso 1977, di fronte a quella che sembra
una moda in pericolosa espansione – ovvero suicidarsi buttandosi dal
Golden Gate Bridge, con un salto di quasi settanta metri –, Jim Jones si
pronuncia a favore della costruzione di una serie di barriere antisuicidio sul
ponte e, alla guida di un gruppo di circa quattrocento attivisti, pronuncia un
discorso memorabile a scopo di dissuadere le potenziali vittime di quella
pratica. Nonostante le parole del reverendo-guru, i suicidi continueranno: a
oggi, una triste contabilità parla di circa 1200 casi; ma si tratterebbe
comunque di una stima per difetto, che non tiene in considerazione le morti
non ufficiali. E molti potrebbero essere i cadaveri mai ritrovati dalle
autorità perché portati via dalle correnti del Pacifico (quanto al reverendo
Jim Jones, vale la pena di ricordare che, nell’anno stesso del suo appello ai
potenziali tuffatori suicidi del Golden Gate Bridge, egli ordinerà alla
confraternita di cui è il capo spirituale una drammatica morte collettiva per
avvelenamento: morirono in novecento, nel People’s Temple di Jonestown,
in Guyana).
Una serie di grandi cartelli blu con funzione deterrente al suicidio
campeggiano oggi sui pilastri arancioni del Golden Gate Bridge, indicando la
presenza di telefoni che mettono in contatto con una «linea di crisi». La
scritta recita: «There is Hope, Make the Call». La speranza in una chiamata.
O in una vocazione. Siamo a San Francisco, no?

BIBLIOGRAFIA
Allen Brown, Golden Gate: Biography of a Bridge, Doubleday, Garden City 1965.
Kevin Starr, Golden Gate. The Life and Times of America’s Greatest Bridge,
Bloomsbury Press, New York 2010.
John Van der Zee, The Gate: The True History of the Design and Construction of
the Golden Gate Bridge, Simon & Schuster, New York 1986.
C. SCAR.

Gotico americano
È difficile immaginare che il romanzo statunitense abbia trovato la sua
prima forma nel genere gotico. Sull’onda dell’ottimismo jeffersoniano e del
sogno del Nuovo inizio, la neonata Repubblica potrebbe infatti a prima vista
sembrare lo scenario meno indicato ad assecondare la fascinazione per il
«buio e tempestoso», come direbbe il bracchetto Snoopy dei Peanuts (→).
Eppure, la letteratura nazionale muove i primi passi seguendo le orme e le
inquietudini delle (all’epoca nuove) correnti europee. L’autore che più
contribuì a traghettare il gotico verso le sponde atlantiche fu Charles
Brockden Brown, considerato dai più il primo romanziere americano: con
Wieland; o La Trasformazione (1798, in cui l’orrore di strane voci frutto di un
abile e malvagio ventriloquo porteranno il labile Wieland al massacro della
propria famiglia) e con i successivi Arthur Mervin (1799) e Edgar Huntly.
Memorie di un sonnambulo (1799), Brown inaugurò la forma-romanzo negli
Stati Uniti, con opere sì imperfette, ma capaci di ricordare che anche nel
Nuovo mondo il mistero e il terrore sono sempre dietro l’angolo.
Una lezione che molti artisti e scrittori degli anni successivi fecero
propria e rielaborarono in tante forme diverse nella loro produzione
letteraria: a cominciare dal primo scrittore a cui si pensa quando si parla di
gotico, Edgar Allan Poe, poliedrico intellettuale che, dopo aver ancorato
(con l’invenzione del genere poliziesco) le certezze del lettore sulla
possibilità di decifrare il reale attraverso la logica e l’osservazione, fa
saltare il banco in racconti «del grottesco e dell’arabesco», come titolava la
sua raccolta più famosa, del 1840, in cui sinistre presenze femminili
(Morella, Berenice, Ligeia, Madeline, Annabel Lee) tornano a ossessionare i
sonni e le vite degli sfortunati protagonisti. Oltre alle donne, anche il
mondo animale si fa in Poe emissario del soprannaturale (l’incessante
ripetersi di quel «Mai più» del corvo nell’omonimo poema del 1845) o
dell’orrore che scaturisce dalle azioni umane: il Gatto nero (1843) testimone
dell’uxoricidio o il cavallo luciferino che vendica la morte del padrone
gettandosi nelle fiamme insieme all’assassino (Metzengerstein, 1832).
Anche scrittori meno crepuscolari di Poe utilizzarono gli stilemi del
gotico per rappresentare le paure e le inquietudini della cultura
statunitense, molte delle quali radicate nel cupo retroterra puritano
intessuto di colpa e di visioni infernali (mirabilmente condensate nelle
geremiadi [→] di Jonathan Edwards) che trovò forma tanto nell’isteria
collettiva quanto nel dramma individuale della coscienza. Dentro a una
cosmologia manichea dove «bianco» e «nero» non erano solo la metafora
del Bene e del Male, ma assumevano sempre più, da metà Settecento in
avanti, anche una precisa connotazione razziale (e a essere «nero», e
dunque malvagio, era l’«altro», dal Native American allo schiavo
afroamericano), a farne le spese fu anche la wilderness (→), sempre più
rappresentata come regno del maligno, con il risultato che elementi del
gotico si insinuarono persino nei primi romanzi della Frontiera (→) a
caratterizzare la natura o le popolazioni che la abitavano.
Non è però solo l’ignoto a incutere terrore: spesso fa paura anche tutto
ciò che si è rimosso e che si vorrebbe sepolto nel passato (→ Case stregate).
Per questo, il gotico americano ha rappresentato sovente una sorta di
esorcismo (o memento?) verso i trascorsi violenti della nazione. Come
leggere la favola nera del (quasi sempre) solare Washington Irving La
leggenda di Sleepy Hollow (1820) e il suo fantasma senza testa che terrorizza la
piccola comunità del New England, se non come la minaccia di un passato
che ritorna? Talvolta, invece, il passato non se ne è mai andato e tormenta
la vita familiare sotto forma di maledizione, come accade alla sinistra
magione del New England al centro de La casa dei sette abbaini (1851) di
Nathaniel Hawthorne.
Piccoli villaggi, case, praterie… Non sono insomma necessari scenari alla
Piranesi o antiche casate nobiliari a far da sfondo al gotico: bastano e
avanzano la potenza sinistra della natura, le efferatezze della società e
alcune labili menti predisposte a coglierne l’orrore. Perché va detto che, a
differenza dell’Europa, nel gotico americano il soprannaturale e l’orrorifico
sono spesso prodotti della coscienza, eventi che sfuggono alla certezza del
reale e rimangono sospesi nel limbo della visione. Certo, le torture a cui
l’Inquisizione spagnola sottopone il protagonista di Il pozzo e il pendolo (1842)
di Poe sono reali; siamo però sicuri che, quando il giovane «Young»
Goodman Brown (protagonista dell’omonimo racconto del 1835 di
Nathaniel Hawthorne) si avventura da solo nel bosco dopo aver salutato con
affetto la moglie Fede, scorga davvero nella foresta quest’ultima e tutti gli
abitanti nel villaggio impegnati in un sabba infernale? E, sempre per restare
in compagnia di Hawthorne, non è forse la sola coscienza del Reverendo
Hooper a dare forma a un orrore mai esplicitato, ma simboleggiato dal velo
nero che gli copre il volto e lo dichiara peccatore al pari di ogni altro
membro della comunità (in Il velo nero del pastore, 1837)? Del resto, era stato
Poe a mostrare come i peggiori incubi provenissero in realtà dall’inconscio,
dalle nostre proiezioni e dai nostri oscuri «doppi». È una lezione che
Herman Melville diede prova di conoscere fin troppo bene, quando firmò la
propria condanna letteraria con il suo romanzo più «gotico», tutto centrato
sul doppio, sul bianco e sul nero, su presenze del passato che ritornano e sul
dramma della coscienza (Pierre, o le ambiguità, 1852): una lezione grazie a cui
invece Henry James consolidò la propria fama (e l’ammirazione della
critica), quando permise agli occhi della governante al centro di Giro di vite
(1898) di vedere i fantasmi della precedente istitutrice e del suo amante
aggirarsi nel giardino della tenuta di campagna dove aveva da poco preso
servizio, pericolosamente vicini ai due (altrettanto inquietanti) bambini a
lei affidati.
Se l’orrore è soprattutto nella mente, non si può allora definire gotico
anche l’angoscioso scivolare nella follia della «pazza rinchiusa in soffitta»,
ovvero la narratrice di La carta gialla (1892) di Charlotte Perkins Gilman? E,
se certo rivolto al gotico è lo sguardo di Edith Wharton quando compone
Dopo (1910), in cui la casa infestata di fantasmi è «muta complice» della
sparizione del marito della protagonista Mary, altrettanto claustrofobico e
agghiacciante è il destino che la Wharton riserva ai due amanti di Ethan
Frome (1911), con la giovane Mattie che muore nel tentativo del duplice
suicidio, mentre il protagonista-amante è ridotto a «rovina di un uomo»,
paralizzato e accudito dalla moglie Zeena. Certo, questi gotici domestici al
femminile sembrano condurci un po’ lontano rispetto a quanto ci si
aspetterebbe dal genere; ma, come si diceva, le strade seguite dal gotico
negli Stati Uniti sono davvero tante. Così, mentre autori come H.P.
Lovecraft (1890-1937) partiranno da esso per approdare a scenari da science
fiction, altri lo ancoreranno maggiormente alla società e alle sue forme di
devianza violenta. Ciò avviene in particolar modo nella letteratura del Sud,
in cui il gotico diviene registro espressivo privilegiato per raccontare una
regione in cui passato e presente sono intrisi di sangue: autori come William
Faulkner, Flannery O’Connor, Tennessee Williams, Truman Capote, James
Dickey (il cui Deliverance, del 1970, è diventato due anni dopo un film di
grande successo: Un tranquillo weekend di paura) e altri nostri contemporanei
come Cormac McCarthy o Joe R. Lansdale. Insieme a questi autori che
riconfigurano radicalmente il genere, altri costruiscono un «nuovo gotico»
che fonde presenze soprannaturali e quotidianità, come accade per esempio
ai vampiri di Anne Rice e al vasto assortimento di incubi di Stephen King.
Manca qualcosa? Certo, tantissimo: film e serie televisive che riprendono
il gotico per legarlo al genere horror (vastissima la produzione), per
parodiarlo (gli Addams → Famiglia A[d]dams) o infine per rigenerarlo
fondendolo con altri stilemi narrativi: si pensi alle favole nere di Tim
Burton, alle inquietanti storie al chiaroscuro di Jim Jarmusch, alla lunga e
variegata carriera di John Carpenter o ai tanti violenti scenari di Terrence
Malick, per citare solo alcune fra le più innovative tendenze
contemporanee.
Eppure, quando si parla di Gotico americano, è inevitabile che la mente
corra prima di tutto all’«American Gothic» dipinto da Grant Woods nel 1930
(e riprodotto anche in alcune edizioni dell’omonimo romanzo di William
Gaddis, Gotico americano, del 1985): un uomo smunto e calvo con occhiali e
forcone che fissa un po’ inebetito chi guarda; in piedi di fianco a lui, una
donna dall’aria cupa; entrambi vestiti di nero; sullo sfondo, una casa-
fattoria di legno, bianca. Non è necessario il soprannaturale o il tenebroso:
l’orrore vero, ci dice Woods, sta tutto qui, nella rigida e spoglia quotidianità.

BIBLIOGRAFIA
Leslie Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, Longanesi, Milano 1963.
Allan Lloyd-Smith, American Gothic Fiction: an Introduction, Continuum, New
York 2004.
Robert K. Martin, Eric Savoy (eds.), American Gothic: New Interventions in a
National Narrative, University of Iowa Press, Iowa City 1998.
C. SCHIA.

Graceland & Neverland


L’indirizzo non è difficile da ricordare: 3764 Elvis Presley Boulevard,
Memphis, Tennessee. In cima alla collina, a due miglia a nord del fiume
Mississippi (→ Vie d’acqua). Intorno, il sonnolento vecchio Sud (→ Dixie),
con le distese di campi coltivati e le casupole in legno. A nord, il nuovo Sud,
con la comunità di Whitehaven, le stazioni di servizio, gli aeroplani in
arrivo e partenza dall’aeroporto locale, a sorvolare un paesaggio suburbano
fatto di supermarket (→) e motel (→).
Quando la star del rock’n’roll comprò Graceland per 100mila dollari nel
1957, a ventidue anni, per lasciare la più modesta dimora (soli 40mila
dollari, sempre a Memphis, assediata di continuo dai fan e ormai odiata dai
vicini), quella casa sulla collina era molto più di un capriccio da star:
segnava l’affermazione, l’acquisizione di uno status e di un riconoscimento
sociale, la fama e il successo. Tutto quanto simboleggiava quella magione si
sarebbe però rivelato assai più precario delle quattro colonne bianche che
ne adornavano la facciata.
Graceland aveva già una ventina d’anni di vita quando il Re la acquistò.
Fu costruita negli anni trenta (la committente, Ruth Moore, era la nipote di
quella «Grace» che al luogo diede il nome), in tempi in cui la contea era un
vero e proprio paradiso rurale di soli 15mila abitanti. Per questo, nel 1938, i
due architetti Furbringer e Ehrman la scelsero per l’edificio georgiano su
due piani e ventitré stanze, otto camere da letto e altrettanti bagni, ispirato
con ogni probabilità a Via col vento (→ Southern belle), raffinata copia di
come si immaginava dovessero essere le grandi tenute di qualche decennio
addietro.
Dopo l’acquisto, la rockstar la trasformò a poco a poco in una fantasia
privata di barocca e sempre più pacchiana opulenza: un robusto muro di
cinta con cancello di ferro battuto adorno di motivi musicali, una piscina,
un campo da tennis. All’interno, nuvole dipinte sul soffitto; il soggiorno
dominato da un grande divano bianco di quasi cinque metri; una sala da
biliardo, la cucina (con lista di ciò che Elvis voleva fosse sempre a
disposizione nel frigorifero), la sala dei trofei con i suoi memorabilia; e la
famosa Jungle Room, provvista di finta cascata interna e di quanto non
poteva mancare nelle case hollywoodiane di grido (elefanti di ceramica!) e
trasformata nel 1976 in studio di registrazione: qui vennero incisi gli ultimi
due album dell’artista: Elvis Presley Boulevard, Memphis, Tennessee e Moody
Blue. A completare la galleria degli eccessi, stoffe e tessuti rosso porpora,
autentica ossessione del re; e, sparsi per la casa quattordici televisori
(accuratamente finito nel dimenticatoio quello a cui Elvis sparò quando il
crooner Robert Goulet apparve sullo schermo una sera del 1974). Al piano di
sopra, la camera da letto blu scuro, con mobili neri, specchi ovunque e in
alto le stelle, quasi che Graceland fosse un modello del firmamento. Di
fianco alla camera, il bagno dove Elvis morì il 16 agosto 1977 su un trono
assai poco regale.
«I’ve got a mansion, just over the hilltop», cantava in un gospel il Re nel
1961, felice di aver iniziato a costruire intorno a sé una domesticità di cui
sempre aveva sentito il bisogno e talvolta la mancanza – al punto di
richiedere, quando pernottava in alberghi durante i tour, che le camere
fossero riarredate per assomigliare il più possibile alla sua casa. Per Elvis
«going to Graceland» significava alla lettera e per metafora «risalire la
collina», dalle stalle alle stelle (→ Rags to riches). Graceland era il regalo
condiviso con l’amata madre Gladys, che volle accanto a sé fino alla morte
di quest’ultima, e che pare fosse solita portarsi una sedia a dondolo giù al
cancello, starsene seduta a chiacchierare con i fan e talvolta condurli in giro
per la proprietà e cucinare per loro quando il Re, che non voleva essere
disturbato, non era a casa.
Nella condivisione di un privato che, pur facendosi pubblico, mantiene la
distanza fra gli ammiratori e il loro idolo, Graceland era una casa di tutti e al
contempo di uno solo: oltre alla madre, anche le guardie (in buona parte
parenti di Elvis) fungevano più da guide turistiche che da sorveglianti. Del
resto, era stato lo stesso Elvis a dire: «Siate buoni con i miei fan. Sono loro
che mi hanno messo sulla collina». In sua assenza, le porte restavano quindi
aperte dall’alba al tramonto e i fan erano liberi di girare per la tenuta a loro
piacimento; cancelli chiusi, invece, quand’era in casa, tranne che per
l’appuntamento giornaliero a firmare autografi e a salutare i presenti, e per
le corse spericolate sulla Highway 51 (→ On the road). Un colpo di clacson a
salutare i fan e via, a bordo di uno dei suoi gingilli a quattro ruote – grande
passione, ma che Elvis usava al massimo per fare andata e ritorno da
Memphis.
Nella cultura americana, Graceland è divenuta il simbolo di epifanie e
riconciliazioni – o almeno, così pare dall’atmosfera agiografica e le richieste
di grazia che accompagnano le visite dei fedeli durante il tour. E così la
cantano anche Mark Cohn («Walking in Memphis», 1991) e Paul Simon,
nell’omonimo album, Graceland, del 1987, per cui la dimora di Presley
diviene simbolo di redenzione per i pellegrini: tutti sono i benvenuti qui,
credenti, straccioni, Simon stesso, divorziato, col figlio di nove anni del suo
primo matrimonio. Le ferite nazionali si rimarginano, i conflitti si placano,
in quella che fu la culla della Guerra civile (→), a sancire un’unità nazionale
fondata ancora una volta più sul mito che non sulla storia. Ma, nella realtà,
Graceland è più legata ai momenti luttuosi che non ai lieti eventi, a
cominciare dalla veglia funebre per la madre Gladys nel 1958, aperta ai
curiosi e alla stampa – che si accanì sull’arredamento pacchiano e il cattivo
gusto del padrone di casa («un bordello, trasferito qui, dritto dritto, dal
French Quarter di New Orleans», scrisse un giornalista, anche se, a discolpa
del proprietario, va detto che una buona dose di rossi e tessuti leopardati
pare l’abbia aggiunta Linda Thompson, ultima fidanzata del Re). E poi, la
morte di Elvis stesso, il corpo ormai sfatto fasciato nel completo bianco e le
montagne di fiori inviati da ogni parte d’America. Da quel momento,
Graceland svestì i panni di dimora per indossare quelli di mausoleo, con il
suo Meditation Garden (dove sono sepolti, insieme a Elvis, i genitori e la
nonna, e una lapide commemora il fratello gemello di Elvis, morto alla
nascita), i souvenir (con miniature della casa) e i biglietti di ingresso
(almeno da quando, nel 1982, la moglie Priscilla decise di farli pagare: una
media di visitatori, si stima, di 600mila all’anno).
Mentre la morte di Elvis, come quella di grandi rockstar, continua a
essere oggetto di dispute infinite (l’immagine di un suo replicante che
cammina sulla spiaggia di Las Vegas finì in prima pagina sul National
Examiner nel 1988) e la sua persistenza nell’immaginario popolare un fatto
indiscutibile, è anche vero che, morto il regno di un re, se ne fa un altro. E
con una discendenza, per così dire, in linea (quasi diretta) di sangue.
Il 26 maggio 1994, due mesi prima dell’annuale Tribute Week a Elvis, Lisa
Marie Priesley, unica figlia del Re, che ereditò Graceland all’età di
venticinque anni, celebrò il matrimonio con Michael Jackson, re a sua volta,
ma del pop, e già sotto l’occhio dei riflettori per presunte molestie e
pedofilia: in molti pensarono a uno scherzo, o a un’abile mossa
pubblicitaria. Il matrimonio, durato due anni, aiutò Jackson a dissipare,
almeno per il momento, i sospetti, ma di contro portò a un sensibile calo di
afflusso alle celebrazioni per Elvis a Graceland, giustificato dai timori che la
residenza del Re si potesse trasformare in un raduno dei «Wacko Jacko»
(come venivano ribattezzati i fan di Michael), con l’effetto di trasformare
Graceland in una Neverland Due.
Già, Neverland… «L’isola che non c’è» ha anch’essa un indirizzo: 5225
Figueroa Mountain Road, Los Olivos, California. Duemilasettecento acri
nella contea di Santa Barbara, a due ore da Los Angeles. Qui il tempo sembra
essersi fermato: impossibile dire in che epoca (e, visto il clima californiano,
in quale stagione) ci si trovi. A nord, solo montagne e parco naturale;
intorno, poche lussuose abitazioni e ranch; dentro, il parco giochi privato di
Jackson con ruota panoramica, un grande orologio decorativo floreale, uno
zoo che somiglia all’Arca di Noè, statue di bambini, due trenini (uno dei
quali con una vera locomotiva), giostre, nave dei pirati, scivoli, autoscontri
e quanto si può trovare nei parchi dei divertimenti (→ Disneyland), più una
lussuosa dimora dalle fattezze di castello medievale francese (copia di
quello di Falkenstein), o, come ebbe a dire il progettista Kyle Forsyth, project
manager della compagnia che la rilevò, «l’incontro fra un maniero inglese e
il Kenya» – con una biblioteca di diecimila volumi specializzata in arte,
psicologia e poesia. Il tutto pagato fra i sedici e i 30 milioni di dollari (un
affare molto più dispendioso della «mansion on a hill» di Presley!) e di
proprietà di Michael Jackson dal 1988 al 2005. Quale nome migliore per il
regno di un re che due desideri aveva nella vita: non crescere mai, come
appunto Peter Pan, e di quest’ultimo raggiungere anche l’eburnea
bianchezza (→ Linea del colore)? Creare una barriera fra sé e il mondo, in
una fantasia privata che ai fan si concede sempre più di rado (e quasi
sempre come sguardo da lontano, dall’altra parte dei cancelli) e che cela, al
pari della Xanadu nel capolavoro di Orson Welles Quarto potere (1941), il
riscatto per un’infanzia per nulla felice.
Se Graceland è stata, almeno fino alla morte di Presley, una casa per
tutti, «il regno che non c’è» di Neverland è il parco per un solo bambino,
che le occasionali aperture a selezionati (e giovanissimi) visitatori non
hanno fatto che colorare di fosche tinte: i sospetti di abusi sessuali sui
piccoli ospiti, con cause milionarie e processi mediatici, e le perquisizioni
della polizia hanno irrimediabilmente contaminato quel mondo, agli occhi
dell’opinione pubblica e dello stesso Jackson – che, dopo i ripetuti
interventi delle forze dell’ordine nel suo regno (una settantina di agenti in
tutto), dichiarerà di non sentire più Neverland come casa propria, e non vi
metterà più piede dal 2005 in avanti. Parco e castello furono ceduti alla
Sycamore Valley Ranch Company (di cui Jackson era azionista), le attrazioni
smantellate, alcune vendute e usate a partire dal 2009 alla California State
Fair.
Dopo la morte di Jackson, il destino di Neverland è a dir poco incerto: si è
mormorato di un suo possibile acquisto da parte dei figli, e anche
dell’intenzione della California di rilevarla per farne un parco statale (→
Parchi). Quest’ultima voce è stata però subito smentita dal governatore
dello stato Arnold Schwarzenegger, che avendo già dovuto tagliare le
risorse per altri beni pubblici, non ha visto di buon occhio un acquisto che
appare solo come una voce in più nel capitolo di spesa. Quanto agli abitanti
della zona, una Neverland trasformata in luogo di pellegrinaggio per fan dal
mondo intero è parsa più una minaccia che una risorsa. Sembra però certo
che il Re del Pop non potrà qui riposare in eterno: l’ipotesi di una sepoltura
fu scartata dal padre e dai funzionari locali (che addussero motivi legali),
nonostante le speranze dei fan. Che in tal modo avrebbero preso due
piccioni con una fava: il loro beniamino (o quel che ne rimane) e il suo
regno, tutti per loro. Anche pagando, s’intende. Finché non arriverà il
prossimo sovrano.
BIBLIOGRAFIA
Yves Gautier, Michael Jackson, Backdoor to Neverland, CreateSpace 2010.
Greil Marcus, Dead Elvis. A Chronicle of a Cultural Obsession, Doubleday, New
York 1991.
Karal Ann Marling, Graceland. Going Home with Elvis, Harvard University
Press, Cambridge 1996.
C. SCHIA.
Grand Canyon
Il Grand Canyon, che nello stato dell’Arizona s’attorciglia per quasi 450
chilometri, largo fino a 30 chilometri e profondo fino a 1800 metri, scavato
dal Colorado River con l’aiuto dell’affluente Little Colorado River qualcosa
come 17 milioni di anni fa, è un buon esempio di come un luogo fisico venga
creato e trasformato in icona. Nulla di mistico, per carità! Anzi…
Una spaccatura nella terra tanto netta, tanto improvvisa e profonda da
risultare quasi invisibile a chi non si spinga fin sull’orlo – e invisibile infatti
il Grand Canyon rimase per lungo tempo: se non alle popolazioni
preeuropee che abitavano nella regione (i Pueblo lo consideravano un luogo
sacro), certo agli esploratori, viaggiatori, missionari spagnoli che intorno
alla metà del Cinquecento presero a frequentare la regione, interessati
all’oro e all’argento (le mitiche «città d’oro») e non alla geografia e alla
geologia (allora peraltro in fasce). Ci vorranno secoli di esplorazioni, di
dibattiti, di ricerche, di riflessioni sulla terra, le sue origini, la sua
conformazione e composizione, per mutare quest’approccio indifferente; e,
in quell’America che da spagnola diventava yankee (→), ci vorrà una serie
di fenomeni e trasformazioni via via radicali, sociali ed economiche, per
fare di quell’impressionante e fascinosa spaccatura verticale il «Grand
Canyon» – dove grand non vuol dire «grande», ma «imponente»,
«maestoso», «grandioso» (come, e il parallelismo non è casuale, il «Grand
Central Terminal», la gigantesca stazione ferroviaria di New York
inaugurata nel 1871, proprio mentre si procedeva all’esplorazione
sistematica del canyon).
Non c’erano né oro né argento, in quegli strapiombi e altopiani rossastri,
né altri minerali più volgari ma non meno preziosi. Non si poteva coltivare
nulla su quei plateaux aridi e assolati. Non si potevano costruire città o
villaggi in prossimità di quei fiumi incassati (e difficili da navigare). Che fare
di quella spaccatura della terra?
Ma, nei primi decenni dell’Ottocento, vennero dapprima alcuni
trappolatori guidati da James Ohio Pattie e i mormoni, dopo la fuga da
Nauvoo, in Illinois, e l’insediamento in Utah (→ Quakers, Shakers,
Mormons), e conobbero meglio il luogo; e poi gli «esploratori»: nel 1857,
Edward F. Beale, incaricato di aprire una pista nei dintorni, e Joseph C. Ives
che, dovendo verificare la navigabilità del fiume Colorado, condusse con sé
due artisti tedeschi (H.B. Möllhausen e F.W. von Egloffstein, i quali
restituirono di quegli scenari immagini molto romantiche); nel 1858, il
geologo John Strong Newberry, che cominciò a porsi domande sulla storia
del luogo, a interrogare le pareti e le acque (in quello stesso anno, altra
coincidenza non casuale, comparve L’origine delle specie di Darwin); quindi,
dopo quell’altra spaccatura, nel tempo e nella storia, che fu la Guerra civile
(→), nel 1869, il maggiore John Wesley Powell, che, con una spedizione di
nove uomini e quattro battelli, discese il fiume Colorado, dando del canyon
la prima vera e affidabile descrizione, con grafici, rapporti di geologi (G.K.
Gilbert), fotografie (di Timothy O’Sullivan, uno dei padri – insieme al
maestro Matthew Brady – della fotografia americana) e, in seguito,
illustrazioni (di Thomas Moran, uno degli artefici della «scuola americana di
pittura» → Bidoni della spazzatura). Verranno poi altre esplorazioni e studi,
come, negli anni settanta-ottanta, quelli importanti di Clarence E. Dutton
sulla conformazione del suolo. Ma soprattutto venne la ferrovia.
La domanda in quei decenni, inespressa ma fondamentale, era ancora la
medesima: al di là dell’esplorazione e degli studi di geologia e idrologia, che
fare del canyon? La risposta la diede per l’appunto la ferrovia. Man mano
che la rete (→ Promontory Point) si sviluppava in senso trasversale e, dalla
direttrice est-ovest, si diramava verso nord e verso sud, anche queste
regioni lontane (avvolte fino a quel momento da un’aura ambigua – l’ultima
spiaggia della wilderness →) furono attratte verso il centro della vita civile e
sociale. I primi piccoli insediamenti (di minatori e di mormoni; di artisti
come Mary Colter, in cerca di scenari nuovi e di un diverso contatto con la
terra; di imprenditori nel campo della ricerca e dello sfruttamento
minerari) costituivano altrettanti avamposti preziosi, e la Atchison, Topeka
and Santa Fe Railroad (→ Cappucci bianchi) fece il resto: portando «coloni»,
visitatori, turisti. Gli stati del Sudovest stavano diventando il luogo
prediletto di uno sviluppo particolare, di cui l’imprenditore di origini
inglesi Fred H. Harvey fu un tipico rappresentante: impiegato da numerose
linee ferroviarie, creò la prima catena di ristoranti negli Stati Uniti e in
particolare, per la Atchison, Topeka and Santa Fe, una serie di caffè, hotel,
trattorie intorno alle principali stazioni, specializzandosi nel settore
alberghiero.
Lì stava la risposta a quella domanda inespressa: che arrivassero artisti
in cerca di luci e forme nuove, malati di tubercolosi in cerca di sole e aria
secca, visitatori e turisti in cerca di relax e stupore romantico in un’epoca di
metropoli, macchine e confusione, il canyon e i suoi dintorni ora potevano
entrare in una logica di uso proficuo, avere un proprio ruolo «nazionale».
L’«America agli Americani» voleva dire anche questo. Fu così che il luogo fu
creato come simbolo e icona, in quegli stessi anni in cui simboli e icone (la
Statua della Libertà, il Brooklyn Bridge, la White City, e così via)
proliferavano da una spiaggia all’altra del continente: nel 1908, la sua
trasformazione (a opera di Theodore Roosevelt) in «monumento nazionale»
e nel 1919 in parco nazionale coronò questo processo. E così il Canyon
divenne davvero Grand.

BIBLIOGRAFIA
François Leydet, Time and the River Flowing: Grand Canyon, Sierra Club, San
Francisco 1964.
Stephen J. Pyne, How the Canyon Became Grand, Penguin Books, New York
1998.
M.M.

Grand Hotels
Terra di motel (→), l’America: i grandi spazi, i lunghi viaggi. Ma anche terra
di alberghi: gli arrivi, le partenze, le stanzialità. E ciò fin dall’epoca della
Frontiera (→): chi non ricorda le attese del treno negli alberghi vicino alla
stazione, in Mezzogiorno di fuoco o in Quel treno per Yuma? Tanto che, nelle
piccole città (→) in giro per l’America, si cerca e si trova, accanto alla
stazioncina ormai in disuso, l’albergo e ci si sente proiettati in una di quelle
pellicole – ad aspettare qualcosa o qualcuno, o fors’anche solo a leggere il
giornale e lasciar ticchettare l’orologio, in accoglienti, magari anonime
lobbies (→ Lobby & caucus); per non dire dei transient hotels, le pensioncine
per gente di passaggio, nel luogo e nel tempo, che lungo le skid rows (→)
metropolitane contribuiscono a disegnare le angoscianti geografie della
marginalità.
Ma anche terra di grandi alberghi – di Grand Hotel. Vengono subito alla
mente: a New York, il Waldorf Astoria, il Pierre, il Plaza – luoghi di ricca
mondanità e oscuri intrighi finanziari – o l’Algonquin, con la sua Round
Table di autori, attori, giornalisti dalla lingua lunga e tagliente; a
Washington, il Watergate (→), con tutto quel che vi successe e diede nome a
un momento-chiave della storia americana; a New Orleans, l’Hotel
Monteleone, altro luogo di convergenze politico-letterarie; a Dubuque,
l’Hotel Julien, misterioso rifugio di Al Capone quando la temperatura
s’alzava a Chicago; a Kansas City, l’Hotel Savoy, dall’esistenza alterna e
avventurosa, con i grandi murales sulle pareti della sala da pranzo a narrare
la conquista del West; a Los Angeles, il Flamingo Hotel (→), con le sue
numerose vicende di spettacolo e di mafia. L’elenco potrebbe continuare
per pagine e pagine: crocevia di «leggende metropolitane», bolle di mondi
dorati e non; ma anche luoghi d’incontro, di scambio (in molti sensi
diversi), mozzi di ruota di una città o di un territorio fisico o culturale.
Ci sono poi le icone. E ne prenderemo due, agli estremi longitudinali del
paese: il Chelsea a New York, lo Chateau Marmont a West Hollywood.
È ancora una città che sale, New York, all’epoca in cui (1883-1885) viene
costruito il Chelsea Hotel in stile Queen Ann Revival e Victorian Gothic (→
Architetture), dodici piani (l’edificio allora più alto della città), la facciata in
mattoni rossi con balconate in ferro battuto a motivi floreali e una grande
scalinata interna che si arrotola e srotola per tutta l’altezza. Si chiama così,
perché così si chiama il quartiere in cui sorge, sulla 23ª Ovest fra la 7ª e l’8ª
Avenue, e agli inizi è un complesso di appartamenti privati in cooperativa –
un po’ come il contemporaneo Dakota (celeberrimo o famigerato:
l’uccisione di John Lennon, l’ambientazione del film di Roman Polansky
Rosemary’s Baby), su Central Park. A fine Ottocento, l’area in cui sorge è il
cuore teatrale della città, via via che lo spettacolo dalla Bowery (→) si
sposta su Broadway (→), da popolare diventa mainstream; e, con il nuovo
secolo, si trasforma in albergo, con la caratteristica di ospitare anche long-
term residents (il pittore Alphaeus Philemon Cole ci visse per trentacinque
anni: quando vi morì, nel 1988, aveva 112 anni e mezzo – un bel fiore
all’occhiello, per l’albergo!). Celebrità del mondo delle arti, della politica,
della finanza cominciano a sceglierlo nelle loro permanenze newyorkesi.
Seguono periodi di alterna fortuna: quindi, con gli anni cinquanta del
Novecento, il Chelsea Hotel si caratterizza sempre più come hotel delle
stelle della penna, della cinepresa, della chitarra elettrica, segnato da trionfi
e da tragedie: il poeta gallese Dylan Thomas vi morirà di polmonite nel 1953,
dopo lunghe serate alcoliche alla White Horse Tavern del Greenwich Village
(→); Arthur C. Clarke e Jack Kerouac vi scriveranno i loro capolavori (2001:
Odissea nello spazio, il primo; Sulla strada, il secondo); Andy Warhol vi
ambienterà il film Chelsea Girls (con il celebre manifesto in cui il corpo nudo
di una ragazza diviene la facciata dell’albergo, con tante finestre a
mostrarne gli abitanti e un inequivocabile ingresso); il romanziere Charles
R. Jackson (autore nel 1944 di The Lost Weekend, portato sullo schermo
l’anno successivo da Billy Wilder, con Ray Milland nella parte di uno
scrittore alcolizzato, e uscito in Italia con il titolo Giovani perduti) si ucciderà
in una delle sue stanze nel 1968; Nancy Spungen, compagna di Sid Vicious
del gruppo punk dei Sex Pistols, vi incontrerà una morte misteriosa nel
1978; Madonna vi girerà il servizio fotografico Sex… E poi, un lunghissimo
elenco di attori e attrici, scrittori e scrittrici, musicisti, cineasti, artisti,
eccentrici e marginali – ma anche gente comune come i sopravvissuti della
tragedia del Titanic nel 1912 o i primi reduci dalla guerra nel 1918. E molti
film, canzoni, (di Leonard Cohen, per esempio), pagine di romanzi o
memoriali. Appunto, un’icona (oggi, va detto, dal futuro alquanto incerto).
Storia simile, anche se più recente, è quella dello Chateau Marmont
Hotel, sul Sunset Boulevard a West Hollywood, cuore di Hollywoodland (→;
→ Strip). Viene costruito nel 1927, in pieno decennio ruggente (→ Jazz Age;
→ Generazioni), fra cinema, musica, speculazioni immobiliari e finanziarie,
big business legale e illegale: il suo stile kitsch, che cerca di riecheggiare
quello dei castelli della Loira (il corpo massiccio, la bianca torre poligonale,
gli archi acuti e gli aggetti, le balconate e gli abbaini, gli interni sontuosi, i
soffitti a cassettone, il folto giardino che lo avvolge), ne è simbolo
eloquente. Anche lo Chateau Marmont (dal nome della via che vi corre
accanto) nasce come complesso di appartamenti e si trasforma in albergo
nel 1931, in piena Grande depressione (→): è costruito con tecniche
antisismiche, che gli permettono di superare indenne i principali sussulti
verificatisi in quell’area critica (→ Big One), e comprende, intorno al corpo
centrale, una serie di villette e bungalow, adatti a ospitare feste private o
celebrità in cerca di isolamento. Meta in particolare di star hollywoodiane,
anche qui gli eventi (più o meno tragici, più o meno misteriosi) non si
contano: le permanenze sovente tormentate del regista Nicholas Ray, di
Greta Garbo, di Vivien Leigh, di Jean Harlow, di Montgomery Clift, di un
Rock Hudson non ancora celebre e di un Leonard Cohen o di un Jim
Morrison sull’onda del successo, dell’eccentrico produttore Howard Hughes
e del non meno eccentrico scrittore californiano Hunter S. Thompson
(autore di Hell’s Angels e di Paura e disgusto a Las Vegas), l’attacco di cuore
(non quello fatale, però) di Francis Scott Fitzgerald e la morte per overdose
di John Belushi nel 1982 – e parecchio altro ancora, nel mondo dorato e
decadente della Hollywood ritratta e rievocata, con un sensazionalismo
forse non troppo lontano dalla realtà, dal cineasta sperimentale Kenneth
Anger nei suoi due libri, Hollywood Babylon (1959, 1965) e Hollywood Babylon II
(1984).
Due icone, quindi. Ma forse è meno impegnativa la piccola lobby di un
alberghetto di provincia.

BIBLIOGRAFIA
Ed Hamilton, Legends of the Chelsea Hotel. Living with the Artists and Outlaws at
New York’s Rebel Mecca, Da Capo Press, Cambridge 2007.
Raymond R. Sarlot, Life at the Marmont, Rountable Pub, Malibu 1987.
M.M.

Grande depressione
«A chicken in every pot», «un pollo in ogni pentola»: così recitava uno dei
tanti slogan della campagna presidenziale repubblicana del 1928 a sostegno
di Herbert Hoover (→). Più di ogni altro motto propagandistico di quegli
anni, il proverbiale pennuto in ogni pentola – coniugato all’altrettanto
notoria «auto in ogni garage» – conoscerà un suo impietoso contrappasso
nel decennio successivo, con il paese nella morsa di una crisi economica
tanto estesa da permeare tutti gli aspetti della vita nazionale di un’intera
epoca. Non a caso, dunque, il periodo che va dal crollo della borsa di Wall
Street (1929) all’entrata degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale
(1941) prende il nome di «Grande depressione», riferendosi al collasso
economico e finanziario seguito a quella che, pur cominciando come una
recessione ciclica del sistema capitalistico, andrà ad assumere presto
l’entità di una bancarotta collettiva capace di incrinare nel profondo la
fiducia degli americani.
Sebbene l’inizio della Grande depressione sia di norma ricondotto al
«martedì nero» del 29 ottobre 1929, in cui il valore dei titoli azionari di Wall
Street crolla, il «panico bancario» – preparato dalle politiche finanziarie del
decennio precedente – non è che una delle molteplici concause del tracollo
economico degli anni trenta.
È impossibile capire la portata dei malanni del capitale americano nella
Grande depressione se non si considerano le mutate condizioni dei mercati
internazionali nel primo dopoguerra. Mentre durante il primo conflitto
mondiale, e per diversi mesi dopo l’armistizio del 1918, la richiesta europea
di derrate alimentari americane – di grano, in primis – si espande in modo
incredibile, promuovendo il conseguente aumento dei prezzi, negli anni
successivi l’agricoltura europea riprenderà a essere produttiva, andando ad
abbattere le importazioni dagli Stati Uniti. La recessione che colpisce il
paese nel 1920 e nel 1921 va infatti ascritta al crollo della domanda
internazionale, a sua volta dettata non solo dalla ripresa agricola del
vecchio continente ma anche al nuovo statuto mondiale degli Stati Uniti
come potenza «creditrice»: per ripagare i debiti di guerra contratti, i paesi
europei dovranno esportare più che importare. L’agricoltura americana si
ritrova così in un’impasse: da un lato, gli ingenti investimenti di inizio
secolo nella meccanizzazione delle colture hanno come conseguenza una
straordinaria produttività del settore che sfocia nella sovrapproduzione di
alcuni raccolti (grano e cotone su tutti), dall’altro, proprio la mancanza di
domanda di quei beni a fronte di un’offerta così grande porta al crollo dei
prezzi che si inabissano in una spirale a lungo irreversibile: nel 1924, il
cotone costa 28,7 centesimi a libbra; nel 1931, scende a 5,9 per non risalire
mai oltre i 12,4 fino al 1939. Uno dei primi interventi del New Deal di
Franklin D. Roosevelt consiste nel creare un’agenzia interna al
dipartimento dell’Agricoltura, la Aaa (la Agricultural Adjustement
Administration, attiva dal 1933 al 1935), che prevede un programma di
tutela e di guida per i fittavoli, incentivati a produrre meno grano e cotone
e a uccidere i maiali, nel tentativo di far risalire i prezzi. È in questa enorme
crisi di sovrapproduzione agricola che va rintracciata l’origine di alcune
delle scene più forti e disperate documentate da fotografi, intellettuali e
romanzieri della Grande depressione: mentre molti contadini e molti operai
delle grandi città muoiono letteralmente di fame, i frutti degli alberi sono
lasciati marcire e cadere a terra – come nel caso delle arance californiane
ritratte da John Steinbeck in Furore, 1939 (→ Furori) – e il grano è impilato
nei granai ma non utilizzabile.
Le crepe che attraversano il sistema economico americano già negli anni
venti non riguardano tuttavia la sola agricoltura: il primo segno di
«malattia» di quel sistema arriva dalla Florida sotto forma di speculazione
immobiliare. «Venduta» sul mercato del turismo middle class come meta
vacanziera ideale per i suoi inverni miti, la Florida sarà l’epicentro di una
vertiginosa bolla speculativa con i prezzi delle case saliti molto al di sopra
del valore reale. La «bolla» della Florida scoppia così nel 1926, poco prima
dell’uragano che metterà in ginocchio Miami. D’altronde il mercato
immobiliare sembra assecondare l’andamento più generale di quello
azionario che, negli anni venti, anche grazie al credito facile dei cosiddetti
«acquisti marginali» dei titoli (la pratica cioè di acquistarli depositando solo
una piccola parte del loro costo reale in contanti), si espande a dismisura,
alimentando speculazioni finanziarie che non tarderanno a mettere in crisi
l’intero paese. Al crollo di Wall Street segue un panico bancario che vedrà la
chiusura per fallimento di più di 800 banche tra il novembre 1930 e il
gennaio 1931 e di ben 9000 tra il 1930 e il 1933: un numero, quest’ultimo,
equivalente al 30% di tutte le banche esistenti alla fine del 1929. Il primo
intervento dell’amministrazione Roosevelt sarà l’Emergency Banking Act,
una manovra economica che permetterà agli istituti di credito di restare a
galla grazie a imponenti iniezioni di dollari federali. Mai nella futura storia
del paese il ricorso alla «Bank Holiday» – una strategia legale che permette
alle banche di chiudere i battenti per un breve periodo di tempo – sarà così
frequente come in questo inizio decennio, e mai come in questo inizio
decennio le stesse banche saranno tanto invise al popolo, sempre più
portato a trasfigurare in banditi romantici le figure di criminali e rapinatori
come «Pretty Boy» Floyd, John Dillinger e Bonnie e Clyde (→ Wanted!-II).
I dati snocciolati fin qui non restituiscono però la disperazione e il
panico diffusi tra la gente a partire dal crollo della borsa del 1929, anno in
cui, a dispetto di un relativo miglioramento del tenore di vita generale, la
distanza tra il vertice e la base della piramide sociale resta incolmabile. A
smentire l’ottimismo di Herbert Hoover, che nel 1928 dichiara a portata di
mano il giorno in cui gli Stati Uniti riusciranno a bandire definitivamente la
povertà, sono le condizioni di vita non solo della underclass – indigenti
cronici e senzatetto – ma anche di proletari, braccianti e fittavoli. Di fronte
allo sgretolamento degli istituti di credito e alla stagnazione della
produttività industriale nel 1929, l’amministrazione di Hoover, fedele a
un’idea progressista di stato come arbitro «passivo» dell’economia del
paese, non mette in atto alcun provvedimento centralizzato a sostegno
diretto della popolazione. Come prevedibile, lo stallo delle vendite porta
all’inasprimento delle condizioni lavorative e a licenziamenti di massa – è il
Ford che, sul finire del 1931, lascia a casa 75mila operai. Nel 1932, i tassi di
disoccupazione arrivano così a toccare anche il 40% in alcune città,
attestandosi in media su un quarto della popolazione totale nell’anno
successivo. La mancanza di salario e liquidità di una fetta crescente dei ceti
bassi e medio-bassi si traduce in un’impossibilità sempre più diffusa di far
fronte ad affitti e ipoteche immobiliari, allungando così le fila dei
senzatetto. Se nel febbraio 1931 Hoover dichiara che «nessuno sta davvero
morendo di fame, i vagabondi (→), per esempio, sono nutriti meglio che
mai prima» (parole rivoltate come un guanto dal celebre articolo «No One
Has Starved», pubblicato nel settembre 1932 dalla rivista Fortune), un po’
ovunque nel paese, soprattutto nelle grandi città come New York (dove nel
1931 si contano 15mila homeless), Chicago e St. Louis, baraccopoli fatte di
materiali di raccatto (lamiere, cartoni, cassette della frutta) spuntano sotto i
ponti o su discariche a cielo aperto, prendendo, provocatoriamente, il nome
di hoovervilles (→ Hoover). Tra i più colpiti dalla crisi sono i bambini: oltre a
soffrire di malnutrizione, in molti dovranno abbandonare la scuola per
mettersi a lavorare (tra il 1932 e il 1933, la città di New York licenzia 11mila
insegnanti). Altra categoria oltremodo esposta alla povertà è quella
costituita dagli afroamericani che vivono nei ghetti metropolitani di
Chicago, Detroit, Cleveland, New York e Philadelphia, «first fired and last
hired» («i primi licenziati e gli ultimi assunti»), secondo un celebre adagio
popolare.
Sebbene, in un primo momento, siano le città – con le mense per i poveri
e i mendicanti (soup kitchens) nate dal volontariato di matrice religiosa e
riformista – a occupare l’immaginario nazionale della crisi, né le regioni
minerarie né le campagne se la passano meglio. Così, nel 1931, la contea di
Harlan, Kentucky, è al centro di una protesta dei minatori repressa con la
forza (→ Appalachia; → Sciopero!) e una grave siccità colpisce le Grandi
pianure (→) meridionali, compromettendo ancor più i già magri ricavi
agricoli. Alla mancanza di piogge si aggiungeranno le cosiddette «tempeste
di polvere» che cominciano a soffiare sul Texas Panhandle a partire dal
gennaio 1932, toccano il loro picco nel 1935 (quando il giornalista Robert
Geiger conia il termine «Dust Bowl» →) e continuano almeno fino al 1937.
L’inaridimento dei terreni oramai sovrasfruttati da decenni di monocolture
si aggrava con le siccità ricorrenti che accelerano la spaccatura delle zolle
più superficiali, a quel punto erose, polverizzate e spazzate via dai venti
fortissimi. L’abbandono delle campagne colpite dalla Dust Bowl (il Colorado
sudorientale, il New Mexico nordorientale, il Kansas occidentale, i
Panhandles del Texas e dell’Oklahoma) da parte dei fittavoli che le
coltivano dà vita a una delle più grandi migrazioni interne al paese, mentre
i flussi migratori esterni sono soffocati dal sistema delle quote. Ritratto
nelle pagine di John Steinbeck (→ Furori) e nelle fotografie commissionate
dalla Fsa (→), l’esodo della popolazione del Sudovest verso la costa pacifica
si concentrerà tra il 1935 e il 1940 e avrà un impatto poderoso tanto sulla
California quanto sulle pianure meridionali. A mettersi in cammino sulla
Route 66 (→) a bordo di furgoncini impolverati saranno intere famiglie
provenienti soprattutto dall’Oklahoma, da cui il termine dispregiativo di
«Okies» (→) con il quale saranno designati anche i migranti di altri stati
(Texas, Arkansas, Missouri ecc.).
Con questo quadro generale e la popolarità di Hoover ai minimi (anche
in seguito alla repressione militare della protesta del Bonus Army, dei
veterani di guerra che nel 1932 marciano su Washington chiedendo la
liquidazione anticipata dei crediti maturati nel loro servizio), le
presidenziali del 1932 vengano vinte dal candidato democratico Franklin
Delano Roosevelt, che si porta a casa quasi il 90% dei voti elettorali e una
maggioranza solida in entrambi i rami del Congresso. Nel suo primo
mandato – in tutto saranno tre, 1933-1937, 1937-1941, 1941-1945 –,
Roosevelt avvia le riforme economiche del New Deal, quel «nuovo corso» o
«nuovo patto sociale» invocato durante la campagna elettorale come
necessario alla ripartenza del paese. Il discorso inaugurale del presidente –
4 marzo 1933 – è all’insegna della migliore retorica americana e sprona il
paese a non aver paura perché «l’unica cosa di cui aver paura è la paura
stessa»; parole che trovano un’eco popolare nel ritornello più canticchiato
di quell’estate, «Who’s afraid of the big bad wolf?» («Chi ha paura del lupo
cattivo?»), leitmotiv del fortunatissimo cartone animato di Walt Disney I tre
porcellini (1933).
Delle politiche del New Deal inaugurate nei primi cento giorni di
Roosevelt fanno parte, oltre ai già citati Emergency Banking Relief Act e
Agricultural Adjustement Act, il Farm Credit Act (che garantisce crediti
agevolati ad agricoltori e allevatori) e lo Home Owners’ Loan Act (un aiuto
al pagamento delle ipoteche sulle case). Uno dei provvedimenti più
imponenti sarà poi il Federal Emergency Relief Act (Fera), mirato a
stanziare fondi per i programmi assistenziali a livello locale e statale.
Insieme al Fera, nasceranno le agenzie Public Works Administration (Pwa) e
i Civilian Conservation Corps (Ccc), entrambe volte a impiegare
manodopera altrimenti disoccupata in un amplissimo ventaglio di lavori
pubblici (strade e autostrade, ponti, dighe, argini di fiumi). L’altra misura
federale di questo primo periodo del New Deal è il National Industrial
Recovery Act (Nira), che istituisce la National Recovery Administration
impegnata a regolare i codici di giusta competizione, la legislazione del
lavoro, i limiti di orario e di salario e il rapporto con i sindacati. Tra i
progetti più colossali e multiformi varati in questi anni, occorre ricordare la
Tennessee Valley Authority (Tva), che si propone di bonificare il grande
bacino del fiume Tennessee, sviluppandone così l’economia depressa
attraverso la costruzione di argini, dighe, centrali elettriche.
Nel cosiddetto «secondo New Deal» (dal 1935 al 1940) – che può giovarsi
di alcuni indicatori positivi come un relativo calo della disoccupazione – si
collocano invece una serie di riforme ancora più «stataliste»: su tutte, la
fondazione della Works Progress Administration (Wpa) – ribattezzata
Works Projects Administration nel 1939 – che cambia il volto del paese
dando lavoro a 8 milioni e 500mila persone messe a costruire 651087 miglia
di strade e 125110 edifici pubblici (tra cui aeroporti, dighe, fogne, parchi,
ospedali, biblioteche, scuole con parchi giochi). Benché solo il 7% del budget
complessivo della Wpa sia destinato a progetti culturali e artistici (tra cui il
Federal Arts Projects, il Federal Theatre Project, il Federal Writers’ Project),
essi saranno fondamentali nell’operare un’autentica mappatura per la
riscoperta geografica e culturale di un’America mai così inclusiva.
Muovendosi tra discipline diverse ma complementari quali l’etnografia,
l’antropologia, la fotografia e la sociologia, la Wpa finanzierà progetti che
vanno dalla raccolta e trascrizione dei canti popolari dei pionieri, degli
spiritual neri, delle leggende indiane e dei racconti cajun (→) alla
ricostruzione delle tradizioni degli immigrati newyorkesi e alla stesura di
una serie di guide (→ Guide per emigranti) agli stati.
Gli altri due ambiti in cui opera il secondo New Deal sono il sistema
assistenziale e previdenziale – sotto forma del Social Security Act (1935) che
prevede sussidi di disoccupazione, pensioni e assegni alle famiglie povere,
salvo escludere però gli agricoltori e le domestiche – e l’agricoltura, con la
Resettlement Administration (Ra) diretta da Rexford Tugwell e ribattezzata
Farm Security Administration (Fsa →) nel 1937. Lo scopo della Ra/Fsa sarà
quello di coordinare la pianificazione dell’uso delle terre per rallentarne
l’erosione e l’aridità, la gestione di campi per i migranti, fornire un aiuto
tecnico ad agricoltori e allevatori, ma soprattutto elargire crediti alle
famiglie rurali ridotte sul lastrico. A difesa di una tale mobilitazione
finanziaria agli occhi dell’elettorato delle grandi città dell’Est, nel 1937
Tugwell sentirà l’urgenza di affidare a Roy Stryker la documentazione
fotografica delle condizioni in cui versano le campagne più colpite dalla
crisi: è grazie a questo sodalizio politico che fotografi quali Dorothea Lange,
Walker Evans, Arthur Rothstein, Ben Shahn, Jack Delano ecc., entreranno
nel libro paga della Fsa, artefici di scatti destinati a diventare icone della
Grande depressione. Le foto, i documentari, le raccolte d’archivio, i
reportage, i case-studies finanziati tanto dalla Wpa quanto dalla Fsa
contribuiscono quindi a fare degli anni trenta un periodo unico nella storia
del paese, con la letteratura e le arti figurative aperte a uno sforzo collettivo
di riscatto e rappresentazione geografica e letteraria del popolo americano.
Nel 1937, alle soglie del suo secondo mandato, Roosevelt dirà che vede
davanti a sé un terzo della nazione «ill-housed, ill-clad, ill-nourished». E
«male alloggiati, malvestiti, malnutriti» sono di certo i neri che vivono nei
ghetti come Harlem (→) in cui, nel 1935, esplode un’insurrezione popolare
(→ Disordini). Ai tempi dei «disordini» – eufemismo usato dalle autorità
newyorkesi al posto del più pericoloso «sommosse» –, Harlem conta circa
350mila abitanti, con 10mila famiglie stipate in cantine o seminterrati e una
densità di 580 persone per ettaro, contro le 330 del resto di Manhattan.
Discriminati a tutti i livelli sociali, i neri sono anche esclusi da qualsivoglia
rappresentanza sindacale, almeno fino alla nascita, nel 1935, di una nuova
organizzazione fondata dai fuoriusciti dell’Afl (American Federation of
Labor): il Cio (Committee, poi Congress, of Industrial Organization). Il Cio
accoglierà anche i lavoratori afroamericani e conoscerà un’impennata di
popolarità due anni più tardi, durante i quarantaquattro giorni di sit-down
alla General Motors.
Per molti versi strumentali alla messa in sordina del risentimento
popolare che si agita nel paese attraverso scioperi generali e ribellioni
spontanee, i provvedimenti del secondo New Deal devono comunque
affrontare una nuova, grave recessione tra l’autunno del 1937 e l’anno
successivo.
In realtà, per quanto in lieve decrescita rispetto all’inizio del decennio,
la depressione economica non verrà mai superata fino al 1941, anno in cui
gli Stati Uniti dichiarano guerra al Giappone entrando così di fatto nel
secondo conflitto mondiale. Lo sforzo bellico andrà non soltanto a creare
posti di lavoro quasi per tutti, ma anche a porre fine alle rivendicazioni
sindacali in nome di un impegno interclassista e patriottico.

BIBLIOGRAFIA
Oliviero Bergamini, Storia degli Stati Uniti, Laterza, Roma-Bari 2002.
Robert S. McElvaine (ed.), Encyclopedia of the Great Depression, Macmillan,
New York 2004.
Donald Worster, Dust Bowl: The Southern Plains in the 1930s, Oxford University
Press, Oxford-London 2004.
Howard Zinn, Storia del popolo americano. Dal 1942 a oggi, il Saggiatore, Milano
2005.
C. SCAR.

Grandi pianure
Le abbiamo dentro agli occhi, per averle viste in decine e decine di film
western (da Fiume rosso di Howard Hawks, del 1948, a Balla coi lupi di Kevin
Costner, del 1990 – per fare due esempi): orizzonti a perdita d’occhio, alta
erba ondulata al vento, mandrie di bisonti al pascolo o di bestiame in
transito, la lunga teoria di carri di coloni, la fila di Native Americans in lento
spostamento.
La centralità attribuita alle Grandi pianure (Great Plains) non è mai stata
solo geografica: nelle meditazioni lasciateci dai numerosi viaggiatori che
l’hanno attraversata, la regione compresa tra il Mississippi e le Montagne
Rocciose sembra celare una particolare qualità, difficile da afferrare e ancor
più da definire, ma allo stesso tempo essenziale per penetrare la peculiarità
dell’America. Valgano per tutte le mirabili descrizioni delle praterie
lasciateci dallo storico-esploratore Francis Parkman in La pista dell’Oregon
(1849), che sembrano anticipare tanti scenari di film western, e
un’osservazione del poeta-bardo Walt Whitman tratta da Giorni
rappresentativi (1879): «Mi sono reso conto che nessuno potrà cominciare a
conoscere l’autentica, geografica, democratica, indissolubile Unione degli
Stati Americani di oggi, né a prevedere quella del futuro, finché non avrà
esplorato questi Stati del centro e non si sarà fermato un po’ di tempo nella
prateria e nelle sue animate città».
Durante il Periodo Cretaceo (da 145 a 65 milioni di anni fa), la zona delle
Grandi pianure era coperta da un’enorme distesa d’acqua, la quale andò
ritirandosi durante l’era geologica successiva, il Paleocene (da 65 a 55
milioni di anni fa), lasciando dietro di sé un vasto spazio piatto e fertile. La
vita umana e animale arrivò dall’Asia attraverso lo stretto di Bering che, al
tempo delle glaciazioni, era un vero e proprio ponte naturale verso
l’America. La totale assenza di fossili di scimmie o animali antropomorfi
suffraga l’ipotesi che i primi abitanti del continente fossero immigrati – un
curioso dato storico che anticipa l’autorappresentazione degli Stati Uniti
come «nation of immigrants».
Con il trascorrere dei secoli, i diversi gruppi giunti in America andarono
a popolare i vari angoli del continente, dando vita a civiltà distinte. L’area
delle pianure si dimostrò adatta allo sviluppo di un’esistenza nomade. Le
popolazioni traevano sostentamento dai prodotti naturali offerti dalla terra
e seguivano gli spostamenti di quello strano quadrupede che impararono a
identificare come risorsa essenziale, il bisonte (→ Pesci gatto e altri
animali): non solo le sue carni fornivano cibo nutriente, ma anche le pelli
erano materie prime essenziali per il vestiario e la copertura delle capanne,
i tendini per la costruzione di archi e altri oggetti, lo scheletro per ricavare
utensili.
L’equilibrio instaurato nel corso dei millenni tra le popolazioni e il
territorio circostante venne eroso dall’arrivo dei coloni europei. In
particolare, le Grandi pianure furono il palcoscenico di uno dei più terribili
e cruenti capitoli della storia umana – le campagne militari che, specie dopo
la conclusione della Guerra civile (→), portarono allo sterminio dei Native
Americans. L’esercito delle giacche blu si fece strumento di «pacificazione»
dei territori di cui si era impossessato il governo e che, una volta liberati
dalla fastidiosa presenza delle tribù nomadi, sarebbe stato possibile aprire
alla colonizzazione e allo sfruttamento.
Passa spesso in secondo piano il fatto che gran parte di questi coloni
erano immigrati recenti, giunti dall’Europa intorno alla metà del XIX secolo.
Approdati in qualche porto dell’Est, tedeschi, irlandesi e scandinavi
avevano investito gli ultimi averi per compiere il viaggio, prima in treno e
in seguito nell’ormai iconico carro detto conestoga (→), verso le terre oltre il
grande fiume Mississippi (→ Vie d’acqua).
Un’interessante ricostruzione di questa vicenda costituisce il fulcro di
Verdens Grøde (1927), romanzo scritto nella propria lingua madre
dall’immigrato norvegese Ole Rølvaag (1876-1931), tradotto in inglese con il
titolo Giants in the Earth. Nel romanzo spicca il contrasto tra l’ottimismo
fattivo del capofamiglia Per, il quale riesce a intravvedere le fattorie e i
raccolti che con il tempo e il lavoro quella terra avrebbe prodotto, e i timori
della moglie Beret, sopraffatta dalla solitudine e dal silenzio e convinta che
l’ostinato cammino verso l’Ovest stesse violando l’equilibrio naturale,
mandando sulle furie le creature malefiche del pantheon nordico: i trolls,
nascosti nelle viscere della prateria, la tormenteranno e finiranno per farla
impazzire (una variazione sul tema della solitudine dei coloni, in particolare
di sesso femminile, ambientato però nelle aride lande texane, è il film di
Victor Sjöström Il vento, del 1928, con Lillian Gish).
I cattivi presagi trovarono conferma nei tanti eventi sanguinari che
hanno contrassegnato la seconda metà del XIX secolo, da Sand Creek (→)
fino a Little Bighorn (→).
La «rimozione» delle tribù indiane, una volta portata a termine, non aprì
le porte a una colonizzazione e uno sfruttamento senza intoppi.
L’Homestead Act (→ Acri), approvato dal Congresso nel 1862, prevedeva di
assegnare a titolo quasi gratuito un appezzamento di terreno nei nuovi
territori a chiunque si impegnasse a risiedervi e coltivarlo per almeno
cinque anni: la proposta era tanto allettante da attirare le più diverse specie
di coloni, la maggior parte dei quali era digiuna di esperienza nel settore
agricolo. I treni scaricarono lungo le tratte transcontinentali frotte di
famiglie speranzose. Moltissimi però fallirono nell’impresa e si arresero al
clima particolarmente sfavorevole, con inverni rigidi ed estati secche, a cui
si aggiungeva la costante minaccia di venti che si trasformano in violenti
tornado. E così, tanti si rassegnarono a un malinconico ritorno all’Est – sui
loro carri si potevano distinguere i cartelli che recitavano tutta la loro
frustrazione: «In God we trusted / In Kansas we busted» («Di Dio ci siam
fidati / Nel Kansas siam scoppiati»), quasi un monito rivolto ad altri
avventurosi.
Così, la contronarrazione delle Great Plains successiva alla Guerra civile
racconta di tentativi andati in fumo, di piccoli proprietari che hanno
impegnato risparmi e lavoro ma che sono finiti sul lastrico. Già a fine
Ottocento, la drammatica condizione economica degli agricoltori fu alla
base della nascita del movimento populista (People’s Party), il cui manifesto
politico mirava a rompere il monopolio esercitato dal grande business
industriale dell’Est sulla politica nazionale. Fu una battaglia che all’inizio,
specie a livello locale, portò risultati sorprendenti, ma in breve tempo la
maggiore organizzazione dei due principali partiti (democratico e
repubblicano) ebbe la meglio.
Il conflitto tra piccoli proprietari e grandi capitali è al centro di un
episodio a torto marginalizzato nell’epopea della colonizzazione delle
Grandi pianure: la guerra di Johnson County, nel Wyoming. Nella primavera
del 1892, i grandi allevatori riuniti nella Wsga (Wyoming Stock Growers
Association) decisero di passare all’azione e punire i piccoli concorrenti
accusati di trafugare illegalmente capi di bestiame che appartenevano a
loro. Quest’ultima pratica cela una contesa più profonda per l’occupazione
dei territori – i grandi allevatori puntavano a destinare sempre più ampi
terreni al pascolo, togliendoli ai coloni. La Wsga assoldò un gruppo di
mercenari, pagandoli 5 dollari al giorno e promettendone 50 per ogni ladro
sospetto eliminato. I coloni organizzarono una resistenza armata e
assediarono i mercenari presso il Crazy Woman Creek. L’esercito
intervenne, ruppe l’assedio e assicurò i mercenari alla giustizia. La Wsga,
però, aveva l’appoggio di alcuni politici influenti e riuscì a far cadere tutte
le accuse. La vicenda è stata portata sul grande schermo da Michael Cimino
nel film I cancelli del cielo, una pellicola che si rivelò un grande fiasco
commerciale, ma che offre interessanti ricostruzioni della quotidianità nelle
Grandi pianure. Di grande effetto, in particolare, le riunioni dei piccoli
coloni, dove le lingue dei diversi gruppi immigrati – scandinavi, tedeschi e
russi – si mescolano all’inglese, riuscendo a comunicare allo spettatore il
senso di una società multietnica.
Il boom economico degli anni venti del Novecento non ebbe riflessi
significativi sull’agricoltura – che al contrario venne messa in ginocchio
prima dalla concorrenza della produzione europea, poi dalle tempeste di
sabbia (→ Dust Bowl) e infine dalla crisi economica generalizzata del
decennio successivo (→ Grande Depressione). In un reportage del 2004,
What’s the Matter With Kansas?, il giornalista e storico Thomas Frank
documenta la povertà diffusa nei centri delle Grandi pianure, dove
agricoltori e allevatori abbandonano campi e pascoli (e a volte arrivano al
suicidio) e le città si svuotano (nel solo Kansas, per esempio, si contano oltre
seimila ghost towns, «città fantasma» è): uno stato di cose tragico,
soprattutto in epoca reaganiana, come ci viene mostrato nel film Country,
diretto da Richard Pearce nel 1984.
È forte la tentazione di attribuire la drammatica conclusione di questa
esperienza all’aver trascurato la raccomandazione di tanti osservatori, tra
cui il già citato Whitman: stare in silenzio in mezzo alla prateria e ascoltarla,
conoscerla con pazienza, passando dal considerarla solo come un’astratta
unità geografica al vederla invece quale luogo vivo e peculiare.
L’esperimento, qualche anno fa, l’ha tentato lo scrittore William Least Heat-
Moon, andato a esplorare palmo a palmo la contea di Chase, nel Kansas –
area dove è localizzato il centro geografico degli Stati Uniti continentali. Il
libro tratto da quell’esperienza, Prateria (1991), si conclude con una pagina
completamente nera – per leggere che cosa ci sia scritto, e comprendere il
sublime segreto nascosto in questi territori, l’autore e il lettore non
dovranno fare altro che rimuovere l’inchiostro superfluo. E c’è da
scommettere che esiste un solo luogo dove sarà possibile farlo: le Grandi
pianure.

BIBLIOGRAFIA
Dee Brown, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, Mondadori, Milano 1972.
Ian Frazier, I grandi piani, Feltrinelli, Milano 1990.
William Least Heat-Moon, Prateria, Einaudi, Torino 1994.
S.M.Z.

Grandi tele
Dire che tutto ruotasse intorno alla Cedar Tavern nel Greenwich Village (→)
di New York è certo esagerato. C’erano anche, a qualche isolato di distanza,
la White Horse Tavern, il Five Spot sulla Bowery (→), la St. Mark’s Church e,
da quest’ultima, la 10ª Strada Est che conduceva nel cuore di un Lower East
Side (→) in degrado ma ancora molto vitale – i suoi store fronts con affitti
bassi e veduta sulla scena sempre cangiante della strada costituivano studi
ideali per gli artisti. Siamo nei primissimi anni cinquanta del Novecento e
parliamo di un mondo variegato, in cui convergevano pittura, musica,
poesia, cinema e teatro – il mondo dell’action painting, o espressionismo
astratto.
Lo spartiacque era costituito dalla fine della Seconda guerra mondiale e
dall’immediato dopoguerra. Prima, la scena artistica americana era in
pratica dominata da un caldo realismo attento agli scenari urbani e popolari
(→ Bidoni della spazzatura), stimolato dalle denunce dei muckrakers (→) e
in seguito dalle condizioni oggettive della Grande depressione (→). Non che
fossero mancate le voci discordanti: specie dopo l’Armory Show del 1913,
con l’arrivo delle avanguardie artistiche europee a New York, molti artisti
s’erano orientati verso l’astrattismo (Abraham Walkowitz, Charles Sheeler,
John Marin, numerosi altri) o il surrealismo. Ma la scena sociale dei primi
tre decenni del XX secolo era attraversata da tensioni così esplosive da
indirizzare verso forme (certo eterogenee) di realismo.
Con la fine della Seconda guerra mondiale, le cose cominciarono a
cambiare e le ragioni furono molteplici: in parte, erano riconducibili al
Maccartismo (→), con la sua ottusa persecuzione di tutto ciò che poteva
essere «antiamericano»; in parte, erano il risultato di un senso profondo di
sconfitta o disillusione in molti artisti schierati a sinistra, che non
riuscivano più a collocarsi in modo convinto negli scenari della Guerra
fredda; e in parte erano debitrici ad altri influssi europei, come
l’esistenzialismo, Sartre e Camus. Più in generale, l’uscita dalla guerra degli
Stati Uniti in veste di trionfatori induceva a una sorta di ripiegamento su se
stessi, a un disinteresse per i temi sociali, a un intenso ritorno di fiamma
dell’individualismo dopo tanti movimenti di massa dei decenni precedenti.
Forse, ci fu anche lo zampino sia del grande mercato dell’arte (che faceva
derivare, dalla posizione prioritaria del paese sul piano economico-militare,
la necessità di uno sviluppo di nuove tendenze indigene in grado di
primeggiare anche in campo artistico) sia, come argomenta la storica della
cultura Frances Stonor Saunders nel controverso e polemico La guerra fredda
culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti (1999, 2004), un autentico
progetto di egemonia culturale elaborato dal governo e dalle sue agenzie.
Complotto, dunque (→ Teoria del complotto)? È probabile che le ragioni
fossero tutte queste. Certo è che dalla Guerra fredda emerse una nuova e
diversa stagione artistica, che spinse in secondo piano (senza cancellarle,
ma sovente implicando tempi molto duri per i loro esponenti) le tendenze
realiste.
Dunque, action painting. Il significato è nell’espressione stessa: «pittura
d’azione». Il rapporto fra il pittore e la tela diventava un rapporto fisico:
una specie di lotta, di danza, di atto sessuale. La tela (che si apriva a
dimensioni nuove, a volte insolite) era il campo, lo spazio di questa fisicità,
di questo vitalismo individuale che si riallacciava pure a tradizioni mai
sopite, come la corporeità della poesia di Walt Whitman. L’esponente più
famoso dell’action painting, Jackson Pollock (figura d’artista tormentato, con
gravi problemi di alcolismo, morto quarantaquattrenne nel 1956 in un
incidente d’auto), usava stendere a terra le sue grandi tele, muovendosi
intorno e dentro e versando (pouring) e sgocciolando (dripping) il colore da
strumenti diversi (pennelli, spatole, siringhe, coltelli, barattoli, ma anche la
mano, il corpo stesso) e aggiungendovi altri materiali (sabbia, frammenti di
vetro, carta), in un «evento» che rimandava sia alle tecniche dei «dipinti
con la sabbia» dei navajo sia alla «scrittura automatica» di stampo
surrealista. E che, anche nei titoli (che con il tempo diventarono semplici
numeri), rifiutava il «significato» celebrando il puro «significante».
L’opera di Pollock, come quella degli altri action painters (la moglie Lee
Krasner, Willem De Kooning, Mark Rothko, Franz Kline, Arshile Gorky –
accomunati da quel nome, ma diversissimi per stili, approcci, personalità e
sensibilità artistica), fu centrale a tutto un universo, in cui convergevano
varie forme espressive: gli happening teatrali creati in quegli anni da Allan
Kaprow erano molto vicini agli «eventi» di Pollock, combinando musica,
danza, mimo, letture di poesie. Il jazz di quegli anni, il bebop (→) di Charlie
«Bird» Parker e Ornette Coleman, con la forte insistenza
sull’improvvisazione e su performance sempre differenti a seconda dello
stato d’animo del musicista, contribuiva a espandere i limiti di quelle
«grandi tele», e così facevano la poesia di Allen Ginsberg e Gregory Corso
con il suo ripetuto accento sulla fisicità e oralità o la scrittura di Jack
Kerouac (il suo «venire» dall’interno verso l’esterno), i versi di Frank
O’Hara (protagonista della New York School of Poetry), le rappresentazioni
di compagnie teatrali come il Living Theatre (→ Teatri viventi) tese a
scardinare l’immobilità del teatro tradizionale e di Broadway, l’occhio
fotografico e cinematografico di artisti come Fred McDarrah e Robert Frank,
le composizioni musicali di John Cage e Morton Feldman…
Fra gli artisti attivi in quegli anni, va ricordato Robert Rauschenberg, che
costituì il trait d’union fra action painting e pop art: i suoi quadri astratti, i suoi
Combines che mescolavano forme alla Pollock e fotografie o ritagli di
giornale, si avviavano in maniera esplicita verso un’altra stagione di
«grandi tele» (e grandi oggetti). Ormai, il mercato internazionale dell’arte
guardava agli Stati Uniti e New York aveva preso il posto di Parigi come
fulcro delle nuove tendenze artistiche. Andy Warhol, Jasper Johns, Claes
Oldenburg, George Segal, Tom Wesselman, Jim Dine, riprendevano certe
tecniche e prospettive esplorate dalle avanguardie storiche (Kurt
Schwitters, Georges Braque) e con esse ragionavano su una
contemporaneità in cui oggetti d’uso comune diventavano autentiche
icone: scatole, scatolette, marche, tubetti, spazzolini, ma anche immagini,
volti e corpi, venivano strappati al contesto e isolati, trasformati in objets
d’art in sé e per sé – una sorta di ultima, estrema contemplazione congelata
del mondo. Ciò fece la gioia (e al contempo fu la creatura) del grande
mercato dell’arte e, in tutte le sue successive declinazioni e trasformazioni,
ha riempito di sé il mondo artistico della seconda metà del Novecento.
Quindi, a partire grosso modo dalla fine degli anni sessanta e dalla metà
degli anni settanta, in coincidenza con la «crisi delle metropoli» (si veda al
riguardo il libro preveggente di Jane Jacobs, Death and Life of Great American
Cities, del 1961), anche i muri scrostati degli edifici in abbandono di certi
quartieri urbani (o le stazioni della metropolitana o i vagoni dei treni)
divennero «grandi tele», su cui esercitarsi e riversare rabbie, passioni,
riflessioni su quanto succedeva nella società americana (riesplodono in
quegli anni i movimenti di massa degli studenti e delle minoranze etniche).
I «graffitisti» uscirono dagli studi e dalle gallerie d’arte, per farvi ritorno
con opere che, nelle accezioni e reinterpretazioni di un Keith Haring o di un
Jean-Michel Basquiat (altri artisti tormentati, attivi tra fine anni settanta e
fine anni ottanta), riprendevano e fondevano action painting e pop art in una
nuova e diversa temperie culturale, in cui la strada tornava a essere
protagonista, intersecandosi con forme artistiche come i fumetti o l’art brut,
con i manifesti, i volantini e le scritte di protesta, con lo stratificarsi nelle
grandi città di oggetti (e percorsi esistenziali) abbandonati e scartati dalla
dominante mercificazione.
Intanto, però, altre «grandi tele» comparivano sui muri delle metropoli.
Riallacciandosi a una tradizione solida e significativa (il muralismo
messicano di Diego Rivera e José Clemente Orozco, quello statunitense di
Thomas Hart Benton, l’arte naïf, l’arte popolare di afroamericani, messico-
americani, indiani d’America), artisti singoli e collettivi d’artisti presero a
dipingere le pareti di edifici abbandonati o semiabbandonati, con narrazioni
di vicende collettive, per lo più riferite o alla storia del quartiere o alle
vicende di comunità immigrate. Da New York a Los Angeles, i nuovi
muralisti (Judy Baca con The Great Wall of Los Angeles lungo le pareti di una
condotta d’acqua nella californiana San Fernando Valley, Maria Dominguez
con La Lucha Continua a New York, Victor Orozco Ochoa con Geronimo a San
Diego, senza dimenticare i memorials di Chico, in ricordo dei giovani del
ghetto scomparsi in maniera tragica) hanno narrato altre storie, strappando
(a fatica: molti murales sono scomparsi davanti all’avanzata della
gentrification →) spazi di colore, vita e memoria all’anonimo vetro-cemento
di metropoli sempre meno umane. Chiamatela, se volete, rivincita del
realismo.

BIBLIOGRAFIA
Alberto Boatto, Pop Art, Laterza, Roma-Bari 2008.
Maurizio Calvesi, Le due avanguardie, Laterza, Roma-Bari 1971.
Gillo Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi, Feltrinelli, Milano 1961.
Lucy R. Lippard, Mixed Blessings. New Art in a Multicultural America, Pantheon
Books, New York 1990.
M.M.
Grand Ole Opry (o della country music)
Nel 1927, un presentatore radiofonico del programma di musica country
«Barn Dance» (come dire, «danza nel fienile», danza campestre) annuncia
agli ascoltatori, intrattenuti fin lì sulle note dei classici europei, il passaggio
dalla «grande opera lirica» – in cui «non c’è posto per il realismo» – al
«Grand Ole Opry». Da quel momento in avanti, il sempre più popolare
programma di musica avviato nel novembre 1925 sulle frequenze della
Wsm-Am, di stanza a Nashville, Tennessee, prenderà il nome di «Grand Ole
Opry» e indicherà la trasmissione live di concerti settimanali che negli anni
trenta arriveranno a durare quattro ore e il cui successo sarà sancito, nel
1939, dal debutto nazionale sulla Nbc Radio. Programma radiofonico più
longevo della storia e icona dell’immaginario collettivo americano, il Grand
Ole Opry farà di Nashville quella «città della musica» a cui Robert Altman,
regista attento a ciò che si agita nelle vene del paese, dedicherà l’omonimo
film nel 1975.
Sono molte le leggende intrecciate al Grand Ole Opry e alla musica
country; tra queste, quella che vuole un’appena tredicenne Dolly Parton –
già reclutata da una piccola etichetta della Louisiana – incontrarvi Johnny
Cash, stella in ascesa grazie all’enorme successo di «I Walk the Line» (1959).
Con una voce inconfondibile «al cui taglio ti fai di burro», «l’uomo in nero»
dell’Arkansas (dal titolo di uno dei suoi hit, «Man in Black», del 1971)
incoraggia Dolly a proseguire su quella strada, e così sarà.
Quella strada si chiama country music e, a detta di alcuni critici, può
essere considerata l’unica vera forma d’arte nativa americana, un serbatoio
culturale in cui convergono tante tradizioni diverse. Le origini vanno infatti
cercate nella musica che i primi coloni scoto-irlandesi si portano dietro,
avanzando lungo la Frontiera (→), dagli Appalachi all’Ovest: un repertorio
suonato con strumenti vecchi come il violino e altri che si aggiungono via
via, spesso assemblati artigianalmente, come la cetra, il mandolino, la
chitarra e il banjo. È da questo incontro di sonorità e di strumenti che nasce
il genere bluegrass – dal tipo di erba, «bluegrass», caratteristica delle
regioni in cui sarà più popolare, nello specifico il Kentucky, soprannominato
anche «The Bluegrass State». Al formarsi di quel serbatoio contribuiscono i
protagonisti delle migrazioni interne al paese: dagli schiavi neri in fuga
durante la Guerra civile (→) ai pionieri che si muovono verso la Louisiana, il
Texas e la California («I’m goin’ to California» sarà uno dei successi di
Jimmie Rodgers), dai neri liberati che si riversano nelle città del Nord
durante la Great Migration portando con sé blues, spiritual e jazz agli Okies
(→) cantati da Woody Guthrie nella Grande depressione. Ed è grazie ai volti
incontrati sulla strada – i cajun (→), i cowboys (→), i messicani, gli hawaiiani
con l’ukulele – e all’innesto di nuovi repertori che prende forma la country
music celebrata, a partire dal 1925, sul palco del Grand Ole Opry. Le stelle
della musica country sono molte, così come le enciclopedie a esse dedicate:
la Carter Family, Jimmie Rodgers, Gene Autry, Roy Acuff, Bill Monroe,
George Jones, Hank Williams (Jr. e Sr.), Bob Luman e giù giù fino a Johnny
Cash, Dolly Parton, Emmylou Harris.
Da sempre, il Grand Ole Opry ospita dunque uno straordinario spaccato
di musica americana: dal bluegrass della Appalachia alla musica cajun della
Louisiana, dall’honky-tonk del Texas alle canzoni dei cowboys, dalle
gunfighter ballads (le ballate dei pistoleri) al confine con il Messico al
rock’n’roll nero, dagli spiritual alla musica pop.
Quanto ai contenuti, la musica country si fa espressione dei sentimenti
di chi non ha voce, ovvero, almeno nelle origini, dei poveri del Sud del
paese: i testi, assai più importanti della musica, raccontano infatti storie
semplici, incentrate sulle vicende ordinarie di chi, tra mille difficoltà, va
avanti come meglio può. È una musica che viene dal basso, una musica, ha
scritto Christopher Wren, «conservatrice in politica, proletaria in economia,
spudoratamente patriottica, fondamentalista su Dio, nostalgica con Gesù».
Ecco allora che le vicende di Johnny Cash e Dolly Parton sono per molti
versi emblematiche dell’intero genere e di come, nel corso degli ultimi
decenni del Novecento, esso si sia aperto al mercato pop e rock senza
rinunciare a un’identità culturale ben definita.
Naturalmente partecipi del carattere popolare e povero del country,
questi due giganti della musica americana condividono natali umili nel Sud
rurale. Nei primi quindici anni di una vita assai movimentata, J.R. Cash (poi
Johnny, 1932-2003) deve fare i conti con le ristrettezze economiche della
Grande depressione (→) in una delle regioni più colpite del Sud. Con i suoi
cinque fratelli (due moriranno ancora bambini), Johnny aiuta fin da piccolo
il padre Ray e la madre Carrie nella raccolta del cotone nei campi di Dyess
(Arkansas), vivendo in una baracca non diversa da quelle descritte da James
Agee e Walker Evans in Sia lode ora a uomini di fama (1941, → Furori). Sono i
gospels delle chiese pentecostali, oltre ai pezzi ascoltati alla radio (→), a
costituire le prime influenze musicali di Johhny Cash che, ancora bambino,
inizia a comporre canzoni alla chitarra. La sua carriera comincerà nel
secondo dopoguerra, quando sfornerà una lunga serie di hit con i Tennessee
Two. Firmato un contratto con la Columbia nel 1959, Cash venderà 400mila
copie e la sua notorietà diventerà nazionale: con le sue canzoni trasmesse
sulle frequenze delle radio country, il quasi trentenne dall’aspetto
allampanato comparirà in molti show televisivi, registrando il sold-out nei
concerti tenuti in ogni angolo del paese ed entusiasmando le folle dei
festival di musica folk. All’apice della fama ma intimamente divorato
dall’inquietudine, Johnny Cash si abbandonerà a una dipendenza da
anfetamine e barbiturici che continuerà fino al 1967. Separatosi dalla prima
moglie e perso in una spirale di sbornie, Cash non cesserà comunque di
firmare successi di pubblico, su tutti «Jackson» e «Guitar Pickin’ Man»,
cantati insieme a June Carter, figlia di Mother Maybelle Carter, membro
della Original Carter Family, una storica formazione di musica country. Sarà
l’incontro con June Carter a redimerlo: dal loro matrimonio, celebrato nel
1967 dopo la disintossicazione di Johnny, alle rispettive morti, i due
resteranno inseparabili. La rinascita dell’«uomo in nero» – salutata da
prestigiosi premi musicali (tra cui il disco d’oro del 1969) – lo riporta anche
alla ribalta del piccolo schermo grazie al Johnny Cash Show (trasmesso dalla
Abc tra il 1969 e il 1971), sul cui palcoscenico si avvicendano i migliori
talenti musicali di quegli anni. Grazie alle molte autobiografie e al
pluripremiato film su di lui Quando l’amore brucia l’anima (2005),
l’importanza della figura di Johnny Cash, l’artista e l’uomo, appare oggi
tutt’altro che negletta. Unanimemente riconosciuta è la straordinaria
ricchezza di un repertorio che spazia da ballate originali a rivisitazioni di
pezzi tradizionali e, negli ultimi anni, cover di autori di ogni genere (da
Simon & Garfunkel ai Depeche Mode).
Musicista altrettanto esperta e consumata è Dolly Parton (1946-), autrice,
cantante, chitarrista, suonatrice di banjo, ma anche attrice e filantropa,
dall’aspetto inconfondibile: seno prosperoso, forme alla Mae West,
scenografiche parrucche bionde scolpite nella lacca (che, per sua stessa
ammissione, indossa da quando ha diciotto anni). Sicura di sé ma dotata di
una buona dose di autoironia («Sareste sbalorditi nel sapere quanto mi
costa far sembrare questa parrucca così dozzinale»), Dolly manterrà sempre
un rapporto apparentemente positivo, sebbene non privo di complessità,
con le sue origini umili: quarta di dodici figli, nata in una baracca di due
stanze ai piedi delle Smoky Mountains, nella regione degli Appalachi (→
Appalachia), racconterà di essere venuta al mondo con l’aiuto di un medico
ripagato con «un sacco di farina di mais». Esemplare, in questo senso, uno
dei suoi più grandi successi, «Coat of Many Colors» (1969), in cui racconta:
«Ricordo una scatola di stracci che qualcuno ci aveva dato / e l’uso che di
quegli stracci fece mia madre / C’erano stracci di molti colori / Ogni pezzo
era piccolo / E io non avevo un cappotto / ed era già autunno inoltrato /
Mamma cucì gli stracci insieme / Cucendo ogni pezzo con amore / Mi fece
un cappotto dai molti colori / di cui io fui così orgogliosa…». I vestiti cuciti
con i ritagli di stoffa di seconda mano rientrano, come scrive lo storico della
cultura americana Alessandro Portelli, nella metafora radicata nella cultura
povera e femminile del quilt (→), la coperta composta da scampoli diversi
così centrale nella folk art americana.
D’altronde, il mestiere di arrangiarsi Dolly Parton deve impararlo molto
presto: già a sette anni – come nella migliore tradizione bluegrass – ricava,
infatti, una chitarra da un vecchio mandolino e due corde di un basso.
Analogamente a Johnny Cash, i gospels ascoltati – e cantati – in chiesa
esercitano un’influenza profonda e duratura sulla futura star. Appena
diplomata, e già con qualche pezzo all’attivo per una piccola casa
discografica, Dolly non esita a trasferirsi a Nashville, capitale della musica
country. Dal suo debutto nel 1967, Hello I’m Dolly (che fa il verso al titolo del
celebre musical Hello, Dolly, del 1964), la sua carriera sarà un crescendo di
successi: oltre ai dischi (mirati anche al pubblico di musica pop), agli show
televisivi (il «Porter Wagoner Show», 1967-1974, e «Dolly», 1976-1977) e ai
film di Hollywood (Dalle 9 alle 5… orario continuato; Il miglior piccolo bordello del
Texas; Fiori d’acciaio), Dolly Parton si darà alla filantropia, con la Dollywood
Foundation, la cui attività principale è la distribuzione gratuita di libri ai
bambini poveri.
C’è una corrispondenza tra l’aspetto chiassoso della regina del country e
la sobrietà nera di Johnny Cash, tra i libri donati in beneficenza da Dolly e i
concerti tenuti nelle carceri americane dall’ombroso «man in black». Il
tenace attaccamento a origini povere ma piene di dignità umana, la
religiosità profonda e mai bigotta e, sopra ogni cosa, la ricerca di un riscatto
culturale per chi, come loro, viene dal basso: «Vesto nero per i poveri e gli
sconfitti, / che vivono nella parte affamata e disperata della città / Vesto
nero per il prigioniero che ha pagato da tempo per il suo crimine, / ma è lì
perché è una vittima dei tempi. / Vesto nero per quelli che non hanno mai
letto, / o ascoltato le parole di Gesù… / Be’, stiamo andando benissimo,
credo, / nelle nostre macchine lampeggianti e nei nostri vestiti alla moda /,
ma almeno così qualcuno ci ricorda di quelli che rimangono indietro…».

BIBLIOGRAFIA
Bill C. Malone, Judith McCulloh (eds.), Stars of Country Music. Uncle David
Macon to Johnny Rodriguez, University of Illinois Press, Urbana 1975.
Alessandro Portelli, Il testo e la voce. Oralità, letteratura e democrazia in America,
Manifestolibri, Roma 1992.
C. SCAR.

Grattacieli
Quando, sul finire del XIX secolo, i primi palazzi adibiti a uffici superarono in
altezza la guglia centrale della Trinity Church di New York, il giornalista
Lincoln Steffens scrisse che «la cura degli affari ha sorpassato quella della
religione». Secondo alcuni la maggiore importanza del dollaro (→) rispetto
alla divinità tradizionale era già patrimonio del paese – conseguenza di una
società dove, mancando un’aristocrazia radicata, l’unico segno distintivo
era la ricchezza materiale. È indubbio comunque che il fervore edilizio di
fine Ottocento e inizio Novecento, che ha modificato in profondità il profilo
architettonico delle grandi metropoli sviluppandolo in altezza, era una
diretta conseguenza della strabiliante crescita economica della Gilded Age
(→), e in particolare delle necessità assolute della rendita fondiaria, della
speculazione edilizia.
Il movimento verso l’alto, se si prestò a essere letto come dimostrazione
visibile della potenza del business americano, fu tuttavia il risultato della
convergenza di trasformazioni sociali e innovazioni tecnologiche – vera e
propria creazione collettiva, il grattacielo ha radici sparse in direzioni
diverse.
Una di queste porta al Crystal Palace di New York, lo spazio espositivo
dove nel 1853 fu ospitata la prima Fiera mondiale americana (→ Esposizioni
universali). Tra le tante meraviglie in mostra, ci fu anche l’ascensore a
vapore di Elisha Graves Otis, il primo dotato di un efficace sistema frenante.
Esistevano da tempo in circolazione montacarichi per il sollevamento di
grano e altre derrate alimentari (i grain elevators), ma si trattava di
marchingegni insicuri soggetti a frequenti rotture e malfunzionamenti.
Riducendo il rischio d’incidenti, l’invenzione di Otis rese possibile il
trasporto di persone in verticale. In un primo momento, nessuno parve
intravedere nell’ascensore la premessa per progettare edifici più alti.
Viceversa, i più interessati erano i proprietari di case e i gestori di alberghi:
venuto meno l’incomodo di raggiungere le stanze salendo più rampe di
scale, questi avrebbero potuto adeguare i prezzi di appartamenti e camere
situati ai piani superiori a quelle dei locali sottostanti. Nel 1878, Cyrus W.
Baldwin brevettò l’ascensore a spinta idraulica, che consentiva di
raggiungere altezze più elevate rispetto al modello a vapore; ma ancora non
esistevano le soluzioni architettoniche e ingegneristiche per poter sfruttare
appieno questo potenziale.
Un altro fattore determinante per la nascita del grattacielo fu
l’evoluzione della corporation, a sua volta messa in moto dall’invenzione
del telefono. L’apparecchio, brevettato da Alexander Graham Bell nel 1876,
consentiva di comunicare a distanza, il che permise alle aziende di separare
fisicamente la parte produttiva da quella amministrativa. L’aumento del
giro di affari e della documentazione relativa a transazioni, forniture e
stipendi imponeva l’ampliamento degli spazi dove alloggiare le carte e il
personale – ma anziché allargare gli uffici annessi alle fabbriche, i dirigenti
trovarono più conveniente (e prestigioso) installare i quartieri generali nei
Financial Districts della città, in modo da stare più vicini agli esperti legali e ai
notai di cui avevano continuo bisogno, ma anche ai dirigenti di altre
aziende per coordinare le azioni in momenti di crisi o rispondere compatti
alle mobilitazioni operaie (→ Sciopero!). L’immobiliarista Owen Aldis riuscì
a convincere capitani d’industria ad affittare interi piani negli edifici in
costruzione nel quartiere degli affari di Chicago sostenendo che spostare
l’amministrazione in palazzi di dieci o più piani, a loro volta concentrati in
una medesima zona della città, avrebbe reso più efficiente, veloce e meno
faticoso (e più redditizio) gestire un’attività a Chicago rispetto a Londra,
dove era norma «sprecare» parecchio tempo nel dirigersi da un quartiere
all’altro per concludere le transazioni.
A personaggi come Aldis va attribuito il merito di avere intuito come
edifici più alti avrebbero assicurato maggiori guadagni, e furono loro a
lanciare ai progettisti la sfida di trovare soluzioni innovative per costruirli.
Va anche aggiunto che i centri finanziari di New York e Chicago erano
localizzati in aree urbane dove lo spazio per l’espansione era molto limitato
(e dunque molto caro) – l’unico modo per aumentare la superficie
disponibile era costruire verso l’alto. Le tecniche edilizie tradizionali, nelle
quali il peso dell’edificio era sopportato dalle mura portanti, ponevano
grossi limiti alle altezze che era possibile raggiungere. A Chicago, poi, il
terreno debole non permetteva di scavare in profondità per creare le
fondamenta necessarie a sostenere palazzi superiori agli otto-dieci piani. Le
difficoltà di realizzazione acuirono la fantasia degli architetti, e in poco
meno di un decennio, dal 1880 al 1890, la città dell’Illinois divenne il centro
dell’innovazione in questo campo. La ditta di Daniel Hudson Burnham e
John Wellborn Root, cui era stata affidata la commissione per la costruzione
del Montauk Block, ricorse all’acciaio come sostegno per le fondamenta
della struttura, alta quaranta metri (e dieci piani). Ma la vera rivoluzione fu
introdotta da William Le Baron Jenney, il quale, per costruire la sede di
Chicago della Home Insurance Company nel 1884, ebbe l’idea di realizzare
una gabbia di acciaio la quale avrebbe sostenuto il peso dell’edificio –
funzione che non avrebbero più svolto i muri; quelli esterni sarebbero stati
una semplice copertura, molto più sottili e leggeri rispetto alle pareti
portanti.
Pochi dei grattacieli realizzati in questo periodo si sono conservati. Aldis,
così come i colleghi immobiliaristi, insisteva perché i progettisti
risparmiassero sugli orpelli esterni e concentrassero le risorse sugli interni,
per renderli il più confortevoli e adatti allo svolgimento dell’attività
lavorativa. Come ebbe a sintetizzare l’architetto Louis Sullivan, «la forma
procede dalla funzione» – e, dato che la funzione era quella di generare
profitto attraverso gli affitti, era naturale che l’attenzione maggiore fosse
dedicata al comfort degli interni rispetto all’aspetto esteriore. Così, non ci
furono esitazioni a demolire via via i primi esemplari quando fu possibile
sostituirli con edifici più alti, fonte possibile di altri guadagni.
Un caso emblematico è quello relativo all’Empire State Building,
grattacielo che, inaugurato nel 1931, rimase l’edificio più alto del mondo
fino alla costruzione delle Twin Towers (→ World Trade Center),
diventando un punto di riferimento dello skyline di New York. La cordata di
imprenditori (Louis Kaufman, Pierre S. du Pont e John Jakob Raskob) che
rilevò l’Hotel Waldorf Astoria, fra la 34ª Strada e la 5ª Avenue, ancor prima
di individuare gli architetti cui affidare la progettazione dell’edificio (la
scelta poi ricadde su Shreve, Lamb & Harmon), aveva concordato il margine
di profitto da ricavare sull’investimento iniziale. Con un prezzo del terreno
di oltre 200 dollari per piede quadrato e costi operativi giornalieri stimati
intorno ai 10mila dollari, il consorzio calcolò che il piano iniziale di
costruire un palazzo di 55 piani (ereditato dal gruppo che aveva acquistato
l’albergo in precedenza, ma poi aveva dovuto rivendere per mancanza dei
fondi necessari a proseguire il progetto) avrebbe generato un ritorno
dell’11,4%. Dato che il nuovo consorzio poteva contare su ampie risorse, si
decise di aggiungere altri 25 piani, il che avrebbe portato il ricavo al 12,6% –
prospettive ottimiste non estranee al clima di prosperità e fervore
economico degli anni venti (→ Jazz Age). Quando affidarono il progetto agli
architetti, nel settembre 1929, i committenti imposero anche altre
condizioni, tra cui una distanza massima tra finestra e corridoio di 28 piedi
e la consegna entro il primo maggio 1931, data con la quale era prassi far
iniziare i contratti di locazione annuali (un solo mese di ritardo avrebbe
significato rinunciare a un anno intero di introiti). Gli architetti dovevano
fare i conti anche con una legge sulle volumetrie del 1916, introdotta dal
governo cittadino per evitare che le strade del quartiere finanziario,
fiancheggiate da edifici sempre più alti, si trasformassero in canyon oscuri
durante tutto l’arco della giornata. Secondo queste norme, la costruzione
sul bordo del marciapiede poteva salire a un massimo di 150 piedi, e la parte
eccedente avrebbe dovuto rientrare secondo un certo angolo. Le condizioni,
dunque, non davano ai progettisti ampi margini per l’inventiva.
La demolizione del Waldorf Astoria fu eseguita nell’ottobre del 1929
(difficile non fare collegamenti tra il crollo, nello stesso mese, di uno dei
centri della vita mondana del decennio e quello della borsa di Wall Street
→), e subito dopo gli operai si misero al lavoro, completando l’opera prima
dei tempi previsti. La crisi economica degli anni trenta (→ Grande
depressione) rovinò i piani degli investitori: solo un quarto degli uffici
disponibili venne affittato, tanto che i maligni ribattezzarono il grattacielo
«Empty State Building», mentre il consorzio rischiava la bancarotta. A
parziale compensazione, arrivarono le entrate generate dall’osservatorio
per turisti in cima all’edificio, dal quale si gode di una vista mozzafiato sulla
città.
L’Empire State Building, dunque, rappresentò nei primi anni trenta un
monumento a illusioni di prosperità perdute, associazione colta da Francis
Scott Fitzgerald nella Mia città perduta (1932), una riflessione amara sulla
fine della propria gioventù e degli effimeri «anni ruggenti» (→ Jazz Age).
Salito in cima all’osservatorio, lo scrittore scopre per la prima volta una
realtà ovvia che per tutto il decennio precedente aveva ignorato: New York
non era un universo senza fine ma aveva dei limiti, e lo splendente edificio
che i newyorkesi avevano costruito nella propria immaginazione, la
possibilità di esplorare sempre nuove vite, piaceri e sensazioni, era crollato.
Dilemmi e pensieri che furono di certo estranei al gigantesco scimpanzé del
film King Kong (1933), il quale, in una delle sequenze finali, si arrampica in
cima all’Empire tenendo in mano la bionda Ann Darrow (l’attrice Fay Wray)
– una scena che contribuì ad affermare lo status iconico dell’edificio. Il
grattacielo sarà così al centro di una pellicola romantica, Un grande amore
(1939), poi riproposta nel 1957 con il titolo Un amore splendido, con Cary
Grant e Deborah Kerr nel ruolo dei due protagonisti che, dopo vicende
personali burrascose, si danno appuntamento all’osservatorio per dare
inizio alla loro storia d’amore.
Alla reputazione dell’edificio hanno contribuito anche le fotografie di
Lewis Hine, il cui obiettivo ha catturato le fasi della costruzione mettendo in
rilievo il ruolo eroico degli operai, sospesi nel vuoto mentre sistemano cavi
o a proprio agio nel concedersi una pausa pranzo a cavalcioni su una trave –
immagini che evocano la forza e lo spirito del comune lavoratore
americano.
Immagini che hanno bisogno di un’integrazione. Per la maggior parte
immigrati, quegli eroici personaggi avevano un rapporto conflittuale con
l’America, di cui, a dispetto della retorica del melting pot (→), erano ancora
una componente sociale marginale e sfruttata. La quotidianità dei lavoratori
edili la troviamo raccontata in Cristo tra i muratori (1939), romanzo dell’italo-
americano Pietro Di Donato. Il protagonista Paul, dopo la morte del padre in
un cantiere, lascia la scuola per prenderne il posto. In equilibrio sulle
impalcature che ogni giorno salgono sempre più in alto, Paul avverte la
costante presenza del pericolo, con la caduta di assi, cavi e bulloni che
ricordano quanto potrebbe accadere a lui. Ma come gli uomini fotografati
da Hine, anche Paul tace: per evitare preoccupazioni alla famiglia e portare
a casa i soldi necessari a sopravvivere.

BIBLIOGRAFIA
John S. Berman, The Empire State Building, Barnes & Noble, New York 2003.
Donald L. Miller, City of the Century. The Epic of Chicago and the Making of
America, Simon & Schuster, New York 1996.
S.M.Z.

Greenwich Village
Alan Lomax, musicologo e studioso di folklore, era solito dire che per uscire
dall’America bastava andare al Greenwich Village. In effetti, il quartiere di
New York racchiuso nello spicchio delimitato da Houston Street (a sud), la
14ª Strada (a nord), Broadway (a est) e il fiume Hudson (a ovest), sotto molti
aspetti costituisce un mondo a sé. La topografia, innanzitutto: Greenwich
Village è uno dei pochi territori risparmiati dal grid (→ Acri). Quando nel
1811 lo stato di New York decise di suddividere l’intera isola di Manhtattan
in rettangoli regolari in vista della futura espansione, la zona Greenwich
(dove wich è medio-alto tedesco per «villaggio») presentava già il carattere
di abitato rurale, attraversato da stradine tortuose e irregolari che
correvano tra i campi destinati all’agricoltura e al pascolo – e di cui rimane
una traccia nel percorso serpeggiante di alcune strade, come la 4ª Strada
Ovest.
Il popolamento del villaggio venne favorito da una serie di epidemie di
febbre gialla e colera (ben quattro tra il 1799 e il 1821), le quali diedero
impulso a una migrazione dal nucleo originario di New York, racchiuso tra
la punta meridionale di Manhattan e l’odierna Wall Street (→), verso
quest’area verde e ventilata.
Se si spulcia negli archivi, si scopre che un tentativo di «far uscire» il
Village dall’America era stato in effetti compiuto: la notte del 23 gennaio
1917, un’allegra brigata capitanata dai pittori John Sloan e Marcel Duchamp
salì in cima all’arco di trionfo di Washington Square e dichiarò la secessione
del Village dagli Stati Untiti, proclamandolo «Repubblica indipendente» con
la liberazione dell’arte e dei costumi da tutte le costrizioni imposte della
società come programma. Il gesto simbolico giunse a conclusione di un
decennio abbondante di fermento intellettuale e politico che rinnovò i
linguaggi delle arti e ne allargò i confini. Un’alta concentrazione di pittori,
illustratori, giornalisti e musicisti – accorsi nel Village per gli affitti bassi – e
il mecenatismo illuminato di alcuni facoltosi abitanti favorirono la nascita
di un’esperienza culturale unica nell’unire arte e rinnovamento sociale.
Furono numerosi i luoghi dove esperienze lontane entravano in contatto
e le idee circolavano. La rivista The Masses, diretta dal filosofo Max Eastman
e da Floyd Dell, pubblicava poesie, vignette satiriche, reportage di scioperi e
pezzi di costume: ricchissimo il gruppo dei collaboratori, da John Reed,
autore de I dieci giorni che sconvolsero il mondo (1919, cronaca della
Rivoluzione d’ottobre a Pietrogrado) fino a Sherwood Anderson, i cui
racconti sarebbero confluiti in Winesburg, Ohio (1919). Il salotto della ricca
ereditiera Mabel Dodge (al 23 della 5ª Avenue) riuniva al mercoledì sera
scrittori e pittori, attivisti politici e sindacali: si discuteva di arte, ma anche
delle battaglie per il miglioramento delle condizioni degli operai e delle
donne. Un altro luogo d’incontro era il Liberal Club, animato da Ida Rauh,
studentessa di legge diventata paladina dei diritti delle donne lavoratrici.
Del resto, sarebbe stato difficile ignorare quest’ultimo aspetto, visto che la
Triangle Shirtwaist Company (→), nel cui incendio del marzo 1911 perirono
146 operaie, si trovava a pochi isolati di distanza, a Washington Place.
Lo stretto legame con la componente operaia è testimoniato dal sostegno
agli scioperi di Lawrence e di Paterson (di quest’ultimo poi, sotto la
direzione di Reed, sarebbe stata organizzata una rappresentazione teatrale
al Madison Square Garden, → Pageants), nonché dalla scelta di «usare» i
lavoratori come soggetto artistico – le loro «facce» e le loro storie
entrarono di prepotenza nelle opere dei pittori secessionisti noti come
gruppo degli Otto, i quali avrebbero poi dato vita alla Ashcan School (→
Bidoni della spazzatura).
La vicenda artistica del Village, però, risale a parecchio tempo prima:
molta letteratura americana ha le sue origini proprio in queste strade.
L’elenco può iniziare con Washington Irving, il quale scrisse La leggenda di
Sleepy Hollow (1819) mentre era ospite della sorella al 15 di Commerce Street.
Edgar Allan Poe compose La caduta della casa Usher (1839) in un piccolo
appartamento tra Waverly Place e l’attuale 6ª Avenue. Herman Melville
ingannò i tempi morti dell’impiego presso l’ufficio della dogana sul molo St.
Christopher pianificando e abbozzando qualche paragrafo di Billy Budd
(uscito postumo nel 1924). Edith Wharton scrisse La casa della gioia (1905)
nell’elegante magione di famiglia a Washington Square (la piazza cui Henry
James dedicò l’omonimo romanzo del 1880). Trascurando parecchi altri,
vale la pena ricordare da ultimo Henry Roth, il quale lavorò a Chiamalo sonno
(1934), uno dei romanzi più complessi e affascinanti del XX secolo, dopo
essersi trasferito in Morton Street, a casa dell’amante Eda Lou Walton,
poetessa e insegnante della New York University.
La stagione straordinaria si concluse bruscamente con l’armistizio del
1918. Malcolm Cowley, ne Il ritorno degli esuli (1935), ricorda che il quartiere
pullulava di «poliziotti in borghese della buoncostume e della squadra di
prevenzione attentati. Molte donne furono arrestate e accusate di
prostituzione perché erano state viste fumare per strada, e mi ricordo di
sale da tè assaltate perché sospettate di essere luoghi di ritrovo di pericolosi
rossi» (→ Red Scare). Le energie intellettuali si dispersero – in parecchi
decisero di migrare in Europa (→ Espatriati ed esuli), mentre coloro che
rimasero dovettero fare i conti con la trasformazione della bohème del
Village in attrazione turistica. Frotte di visitatori facoltosi andavano in
pellegrinaggio nei caffè degli artisti, dove per loro si inscenavano gli accesi
dibattiti e i comportamenti anticonformisti di cui parlava la stampa. Lo stile
di vita ribelle era ormai una moda.
Il fervore degli anni dieci ebbe nel secondo dopoguerra una piccola
appendice. Resisteva una forte componente operaia, parte della quale di
origine italiana, che aveva mantenuto intatta l’atmosfera da piccolo
villaggio. La quotidianità di quegli anni si trova descritta in The Death and
Life of the Great American Cities (1961), studio di Jane Jacobs che affrontava la
città come essere in mutazione e capovolse le idee allora prevalenti negli
studi urbanistici. Nel libro, la sociologa descrive il «balletto» giornaliero che
andava in scena ogni giorno sotto la finestra di casa sua, in Hudson Street,
con i negozianti, i bambini, i lavoratori, gli avventori del pub, i passanti che
si alternavano contribuendo all’incessante varietà della vita della strada.
Era ancora un quartiere a buon mercato, dunque, e come racconta Bob
Dylan nel suo Chronicles (2004), se non si avevano i soldi per l’affitto si
poteva contare su qualcuno che avrebbe offerto il divano di casa propria.
Prima di emigrare in massa verso San Francisco, gli scrittori beat Allen
Ginsberg, Jack Kerouac e William Burroughs animarono la rinascita artistica
del quartiere: nei locali, si potevano ascoltare cantanti folk, monologhi di
attori comici in erba (Lenny Bruce e Richard Pryor) e readings di poesia.
Il centro di gravità del Village rimase senza dubbio Washington Square.
In origine luogo utilizzato per le esecuzioni capitali e fossa comune, e in
seguito per esercitazioni militari, la piazza venne scelta per ospitare un
parco pubblico che non tardò a diventare il centro della vita sociale del
quartiere, con un’ulteriore peculiarità che fa del Village una sorta di mondo
a parte: la curiosa diversità sociale che col tempo si venne a creare attorno
al perimetro della piazza. Seduto su una panchina del parco, Basil March,
protagonista del romanzo A Hazard of New Fortunes (1890) di William Dean
Howells, riflette sulla frammentazione del luogo, dove è possibile percepire
invisibili linee di demarcazione tra il «vecchio decoro» delle ampie
residenze patrizie affacciate sul lato settentrionale e «l’indigenza
internazionale» che affollava «locande, botteghe, birrerie e ateliers» nella
parte opposta.
La costruzione dell’arco di trionfo (progettato dall’architetto Stanford
White) si inserisce proprio in questo contesto di diversità sociale: alla
cerimonia di posa della prima pietra, nel 1892, il notabile Henry Marquand
interpretò il sentimento del comitato promotore, formato dall’alta
borghesia del Village, nel sostenere che la semplicità classica del
monumento avrebbe dovuto armonizzare i ricchi e i poveri che
frequentavano il parco.
Ma Washington Square può anche fregiarsi di un altro primato: si tratta
di uno dei rari spazi che ha resistito alle visioni di modernizzazione del
plenipotenziario-urbanista Robert Moses e al suo progetto di costruzione di
un tunnel sotto il parco per prolungare la 5ª Avenue: un gruppo agguerrito
di attivisti guidati da Jane Jacobs riuscì a convincere le autorità cittadine ad
abbandonare il progetto. E di questo risultato sono grati coloro che, turisti e
residenti, studenti e performers, popolano l’area a tutte le ore del giorno,
rendendola uno degli spazi più affascinanti e piacevoli di New York.
L’assedio, però, rimane costante. La popolazione operaia è stata via via
cancellata in seguito alla chiusura degli stabilimenti e sostituita da yuppies e
dai benestanti professionisti di una ricca e variegata industria culturale. Gli
isolati che affacciano sull’Hudson hanno visto la costruzione di freddi e
anonimi grattacieli, condomini di lusso che erodono spazi di sviluppo alla
vita comunitaria. La New York University, per ospitare la crescente (e
costosa) offerta didattica e una sempre numerosa popolazione studentesca,
ha acquistato a caro prezzo gli edifici adiacenti, e sono scomparse le
botteghe a conduzione familiare (i mum and pop stores) a vantaggio di
boutique e catene di marche alla moda. Al Village di Jane Jacobs si è
sostituito, insomma, quello dello stilista Marc Jacobs.

BIBLIOGRAFIA
Eric Homberger, New York City, Bruno Mondadori, Milano 2003.
Caroline Ware, Greenwich Village, 1920-1930, Harper & Row, New York 1965.
S.M.Z.

Grunge (Seattle)
Storico centro portuale e manifatturiero del Pacifico settentrionale, nonché
scenario di uno sciopero generale che nel 1919 bloccò tutte le attività
produttive per cinque giorni mobilitando quasi 100mila lavoratori (→ Red
Scare), Seattle (stato di Washington) conobbe un periodo di declino a
partire dal secondo dopoguerra, sia per la fuga delle classi più abbienti
verso i suburbs (→) sia per i tentativi maldestri di rivitalizzare Downtown
(→) con piani urbanistici che la rendessero più accessibile agli
automobilisti. La costruzione di due strade perpendicolari a scorrimento
veloce ebbe inoltre l’effetto di sradicare interi quartieri del centro e
accelerarne il degrado.
A poco era servito il fervore edilizio legato alla Fiera mondiale (→
Esposizioni universali) del 1962, il cui lascito più visibile è lo Space Needle (=
ago spaziale), torre di 184 metri sormontata da una piattaforma
panoramica, che diventò uno dei simboli della città. Qualche anno dopo, nel
1969, la compagnia aerospaziale Boeing annunciò un drastico piano di tagli,
che portarono la forza lavoro da 105mila a 38mila unità, con ripercussioni
drammatiche sull’occupazione. Pur non facendo parte, da un punto di vista
geografico, della Rust Belt (→ Cinture), Seattle subiva un destino simile: il
quartiere di Belltown, situato tra il centro storico e il porto, diventava una
sorta di città fantasma (→), dove piccole officine, caffè, circoli sindacali
sopravvivevano accanto a capannoni abbandonati e siti produttivi dismessi.
La città, già lontana dai principali circuiti culturali, rimase ancora più
isolata: tanto che solo in rare occasioni le band più popolari la includevano
nelle tournée – uno smacco non indifferente per il luogo che poteva vantare
di avere dato i natali a Jimi Hendrix. Tanto più che la musica era una delle
rare distrazioni: il clima inclemente, umido e piovoso, non incoraggiava i
giovani a bighellonare all’aperto – uno dei passatempi era chiudersi nel
garage con gli amici e sfogare la frustrazione adolescenziale suonando punk
o hard rock. Si sviluppò col tempo un surrogato locale delle «scene»
musicali di Los Angeles e New York; ma, a differenza di queste ultime, i
protagonisti si sentivano più liberi di sperimentare perché non esistevano
discografici da compiacere e da convincere del proprio potenziale
commerciale.
A seguire gli sviluppi della «scena» amatoriale comparve nel 1980 una
fanzine altrettanto improvvisata, Subterranean Pop, creatura dei due
appassionati Bruce Pavitt e Jonathan Poneman. Alla pubblicazione erano
allegate registrazioni artigianali dei concerti, primo passo verso la
creazione dell’etichetta discografica Sub Pop. I due fondatori, dopo una
prima raccolta (Sub Pop 100), si resero conto che le band di Seattle non erano
affatto male e che, nella diversità di stili, esistevano alcune continuità
estetiche, come l’uso di ritmi veloci e i suoni grezzi e distorti. Trovata
l’espressione grunge (= ripugnante, spiacevole, sporco) per etichettare il
movimento, la Sub Pop confezionò la scena musicale per venderla al di là
della base di sostenitori locali, associandola a una visione del mondo che
proclamava l’orgoglio di appartenere alla categoria degli «sconfitti», di
quelli che non hanno successo né soldi e si sentono dei perdenti (come negli
scritti del «poeta grunge» Steven «Jesse» Bernstein, suicida nel 1991): le
energie scatenate sul palco rappresentano allora una sorta di rivalsa nei
confronti di una società che ha ben altri modelli. A completare il prodotto,
c’era la tenuta di questo perdente, il camicione di flanella (eredità della
tenuta indossata dai taglialegna, adatta a proteggere dal clima inclemente)
abbinato a pantaloni corti e anfibi.
Il momento di non ritorno fu l’autunno del 1991: i Nirvana pubblicano
Nevermind, un disco che, fin dalla copertina dal forte impatto iconico – un
neonato in acqua pronto ad abboccare a un amo camuffato con una
banconota da un dollaro –, ha tutti gli ingredienti per fare sensazione.
Canzoni brevi e dalla struttura semplice che alternano momenti di calma a
scariche di accordi distorti, testi in cui si può leggere un atteggiamento di
inadeguatezza e il carisma di un leader riluttante, Kurt Cobain, sono una
perfetta declinazione della nuova estetica grunge.
Il disco vendette 30 milioni di copie, occupò a lungo le prime posizioni
nelle classifiche americane ed europee e da allora il grunge fu una moda. Di
essa beneficiarono sia gruppi di valore cresciuti con i Nirvana
(Soundgarden, Mudhoney, Pearl Jam e Alice in Chains) sia nuovi
«fenomeni» passati direttamente dal garage alla sala d’incisione, il cui
unico merito era di essere originari di Seattle e di copiare la musica delle
band che si stavano affermando. Nelle sale apparve poi un film, Singles
(1992), di Cameron Crowe, una commedia sui tormenti amorosi di alcuni
giovani, il cui unico senso sembrava essere quello di fungere da pretesto per
la pubblicazione di una colonna sonora per la Sub Pop, zeppa di brani delle
star del momento. Il peggio si raggiunse quando i camicioni e le creazioni
ispirate al look grunge comparvero nelle collezioni di stilisti di alta moda.
Un fenomeno che ricorda parecchio i contorni di una bolla speculativa in
economia. E anche la sua esplosione fece molto rumore: Kurt Cobain, senza
dubbio la figura più rappresentativa di tutto il movimento, fu trovato morto
l’8 aprile 1994 nella casa di Lake Washington, vicino a Seattle – suicida con
un colpo di fucile. In una lettera che cercava di motivare il gesto, Cobain
lasciò alcuni commenti che suonano come una condanna per il grunge,
trasformatosi in macchina per far soldi: «Non riesco più a ingannare il
pubblico. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di
ingannare la gente e far credere che io mi stia divertendo al cento per
cento. A volte, quando salgo sul palco, ho la sensazione di timbrare il
cartellino».
Da allora, Seattle è cambiata, diventando meno isolata – forse anche
grazie al Piccolo Buddha, di Bernardo Bertolucci, del 1993, che dalla città
prende le mosse? Il nativo Bill Gates, con il successo di Microsoft (→ Xerox
& Apple), ha contribuito a trasformarla in un importante polo di servizi
tecnologici, mentre la piccola catena di caffetterie Starbucks, fondata nel
1971 da due insegnanti di storia, è cresciuta a partire dagli anni novanta
fino a diventare una potenza economica, con filiali in oltre cinquanta paesi.
E la serie tv (→) Grey’s Anatomy, ambientata in un fittizio ospedale della
città, ha incontrato un clamoroso riscontro di pubblico: segno che la culla
del grunge non è più né ripugnante né spiacevole, e forse anche meno
sporca.

BIBLIOGRAFIA
Eddy Cilia, Grunge, Giunti, Firenze 1999.
Matthew Kingle, Emerald City. An Environmental History of Seattle, Yale
University Press, New Haven 2007.
S.M.Z.

Guerra civile
«Se potessi salvare l’Unione senza liberare alcuno schiavo, lo farei; e se
potessi salvarla liberando tutti gli schiavi, lo farei»: la lettera firmata dal
presidente Abraham Lincoln e pubblicata dal quotidiano New York Tribune
nel luglio 1862 non potrebbe essere più esplicita – una dichiarazione che
smentisce l’ancora troppo radicata convinzione secondo cui alla base della
Guerra civile ci sia stata la volontà di porre fine alla schiavitù sul territorio
nazionale.
Per che cosa morirono, allora, 620mila uomini, a cui vanno aggiunti i
275mila che subirono gravi mutilazioni? Riassume lo storico Howard Zinn:
«L’élite settentrionale voleva l’espansione economica: nessun vincolo su
terra e lavoro, mercato libero, dazi elevati a protezione dell’industria». Il
Sud schiavista, la cui economia era basata sulla piantagione, aveva necessità
opposte: mantenere il serbatoio di manodopera gratuita assicurata dagli
schiavi e abolire i dazi doganali, in modo da poter esportare liberamente i
propri prodotti e importare i manufatti europei – superiori per qualità e
inferiori nei costi rispetto alla concorrenza americana.
Era inevitabile che si costituissero due fronti contrapposti in merito agli
indirizzi economici da seguire. A partire dal 1812, con l’ammissione
nell’Unione della Louisiana, si era creata una situazione di equivalenza
numerica tra gli stati schiavisti e quelli «liberi» – e ciò ebbe ripercussioni al
Senato federale, dove ciascuno stato aveva due rappresentanti: ogni qual
volta si affrontavano questioni che avrebbero avuto conseguenze diverse
per i due blocchi, la parità numerica si traduceva in una situazione di stallo.
Ripercorriamo in maniera sintetica le vicende.
Compromessi temporanei. Il compromesso del 1820 (noto come
«Compromesso del Missouri») e quello del 1850 vennero stipulati in
occasione dell’ammissione di nuovi stati. Il primo, per preservare
l’equilibrio numerico tra i blocchi, portò al contemporaneo ingresso di
Missouri (schiavista) e Maine (libero) – una modalità che venne applicata
nel 1836-1837 con l’ingresso di Arkansas e Michigan, e nel 1845-1846, con
Florida e Iowa.
Nel 1850, si dovette ricorrere a un nuovo compromesso: il blocco sudista
accettò di ratificare l’annessione della California come stato libero in
cambio dell’approvazione di una legge molto severa sugli schiavi
fuggiaschi, che prevedeva l’obbligo di restituire i fuggitivi ai proprietari,
anche nel caso in cui fossero stati fermati in uno stato libero.
Preludio in Kansas. Nel 1854, il Congresso stabilì di affidare a referendum
popolari la scelta di introdurre o meno la schiavitù nei nuovi stati. Per
influenzare l’esito del voto nel Kansas, una massa di militanti favorevoli alla
schiavitù migrò dal confinante Missouri nelle settimane precedenti. In un
clima arroventato di proteste e scontri, lo stratagemma ebbe successo e
trionfarono i «sì» alla schiavitù. L’esito della consultazione finale non fu
però ratificato.
Le elezioni del 1860. Le presidenziali del 1860 furono vinte a sorpresa da
Abraham Lincoln, rappresentante del neonato Partito repubblicano. Il
nuovo capo dello stato non era per niente amato dagli schiavisti – nel
celebre discorso della «casa divisa», Lincoln aveva infatti affermato che
l’Unione non poteva prosperare reggendosi su due sistemi economici
diversi e contrapposti. La piattaforma programmatica del partito
abbracciava le istanze del movimento Free Soil (Terre libere), contrario alla
schiavitù e alla sua estensione, che alla concentrazione dei terreni in grandi
piantagioni preferiva i piccoli agricoltori autonomi con appezzamenti di
dimensioni più contenute.
Secessione. Allarmati dalla posizione ferma del nuovo presidente, che si
sarebbe insediato nel marzo 1861, alcuni stati schiavisti decisero di
anticiparne le mosse e metterlo di fronte al fatto compiuto. A gennaio, i
primi sette stati (South Carolina, Georgia, Florida, Alabama, Mississippi,
Louisiana e Texas) dichiararono la secessione, seguiti da Virginia, North
Carolina, Tennessee e Arkansas. Gli stati del Sud diedero vita agli Stati
Confederati d’America ed elessero alla presidenza il piantatore Jefferson
Davis. La capitale fu stabilita a Richmond (Virginia), mentre la «Croce del
Sud», la bandiera a sfondo rosso con una croce di S. Andrea blu in primo
piano e le stelle corrispondenti agli stati membri lungo i bracci, venne
adottata solo dopo le prime battaglie. Lincoln, nel discorso di insediamento,
sentenziò che la secessione non aveva alcun fondamento legale.
Fort Sumter. L’episodio che diede il via alle ostilità fu la presa di Fort
Sumter, una base militare situata sulla costa del South Carolina. La
guarnigione era fedele al governo di Washington e si rifiutò di abbandonare
la postazione. L’esercito confederato passò all’azione e nell’aprile 1861
occupò il forte. Il presidente Lincoln decise di rispondere autorizzando la
creazione di un esercito di volontari.
Prima fase: 1861-1862. Le operazioni si stabilizzarono presto su due fronti.
Il primo era quello orientale, lungo il confine settentrionale della Virginia. I
confederati, comandati dal generale Robert E. Lee, erano consapevoli di
essere inferiori agli unionisti per numero di uomini e per armamenti: per
questo motivo, miravano a disturbare le azioni dell’esercito avversario,
cercando al contempo di seminare il panico tra la popolazione locale con
incursioni rapide e distruttive – l’obiettivo era creare opposizione alla
guerra. Nel primo scontro armato, avvenuto il 21 luglio 1861 presso il
torrente Bull Run, vicino a Manassas (Virginia), l’esercito nordista, ancora
impreparato, fuggì davanti all’intraprendenza del nemico.
Il secondo fronte, invece, si trovava a occidente, lungo la linea del fiume
Mississippi. Qui l’esercito unionista, comandato dal futuro presidente
Ulysses S. Grant, contava di avanzare nel cuore del territorio secessionista,
occupandolo pezzo per pezzo – obiettivo che riuscì a ottenere pur in
assenza di chiare vittorie sul campo. Dopo New Orleans, infatti, l’esercito
portò sotto il proprio controllo anche Louisiana e Tennessee.
Il 17 settembre 1862, con la battaglia di Antietam (Maryland), le forze
dell’Unione, comandate dal generale George McClellan, riuscirono a
bloccare un’incursione da parte di Lee. L’episodio per convenzione sancisce
la fine della prima fase del conflitto. Dopo questa battaglia, Lincoln decise di
emanare il Proclama di emancipazione, che sarebbe entrato in vigore il 1º
gennaio seguente, in cui si dichiarava che tutti gli schiavi presenti negli
stati secessionisti sarebbero stati liberi. Il fatto che il provvedimento non
facesse cenno alla sorte degli afroamericani presenti nei due stati schiavisti
che non avevano aderito alla Confederazione, Kentucky e Missouri, è un
chiaro segno di come la mossa di Lincoln non fosse stata dettata da
idealismo, ma da un preciso calcolo politico.
Seconda fase: 1863-1864. La campagna del 1863 iniziò con un
avvicendamento: il generale Grant passò al fronte orientale, mentre sul
Mississippi venne promosso William Tecumseh Sherman. Questi continuò la
lenta penetrazione nel territorio secessionista e a maggio cinse d’assedio
Vicksburg (→), città che affaccia sul Mississippi. Per alleggerire la tensione
su quel fronte, Lee tentò alcune azioni in Pennsylvania, contando di attirare
l’esercito nemico nel suo settore. Tra il 3 e il 5 luglio 1863, a Gettysburg (→),
si verificò un altro scontro cruento che, pur concludendosi con esito
incerto, segnò in ogni caso la fine del tentativo d’invasione confederata.
Negli stessi giorni, cadde definitivamente anche Vicksburg e Sherman
puntò con le truppe su Chattanooga (Tennessee), conquistata a fine
novembre.
L’anno successivo, nonostante i tentativi di fermare l’avanzata,
l’esercito unionista procedette verso Atlanta, il principale nodo ferroviario
della Confederazione e punto chiave per la distribuzione dei rifornimenti e
la movimentazione delle truppe. Dopo due mesi di assedio, la città, giunta
allo stremo, fu evacuata – episodio che impresse una svolta definitiva alla
guerra.
Resa. Dopo le ultime disperate incursioni, il generale Lee accettò di
arrendersi ad Appomattox (Virginia), il 9 aprile 1865. Il presidente Lincoln
non ebbe il tempo di godere a lungo del trionfo: il 14 dello stesso mese,
venne assassinato con un colpo di pistola sparato da John Wilkes Booth, un
attore che contava di rinfocolare con il suo gesto la ribellione del Sud.
Epilogo. Alla morte di Lincoln, il potere passò al vicepresidente Andrew
Johnson, il quale dimostrò un atteggiamento meno ostile nei confronti dei
Confederati rispetto al predecessore. Johnson tentò di ostacolare la
«Ricostruzione» (→ Carpetbaggers), ovvero il reintegro degli stati
secessionisti nel sistema economico e politico nazionale, avviato già
durante la guerra. La sua posizione conciliatoria nei confronti degli ex
nemici fu alla base del primo tentativo di impeachment (sospensione dalla
carica) di un presidente da parte del Congresso – tentativo che non riuscì
per un pugno di voti.
Ricostruzioni/manipolazioni. Era inevitabile che la Guerra civile ispirasse
numerose riflessioni anche in campo culturale. Se il fotografo Matthew
Brady ne documentò il dramma in presa diretta, sul campo di battaglia, il
cantore più famoso della guerra fu il poeta Walt Whitman, con i poemi di
Rulli di tamburo, poi inseriti nella raccolta Foglie d’erba (1881), mentre il
romanziere Stephen Crane restituirà il senso di confusione e angoscia della
battaglia nel breve romanzo intitolato Il segno rosso del coraggio (1895). In
tempi più recenti, l’argomento è stato ripreso da numerosi autori: da E.L.
Doctorow, per esempio, in La marcia del 2005, in cui si rievoca l’avanzata
delle truppe del generale nordista Sherman attraverso il Sud negli ultimi
due anni del conflitto, o da James Lee Burke, nel romanzo L’occhio del ciclone
del 1993, in cui il passato remoto della Guerra civile s’intreccia e
sovrappone al passato recente della guerra del Vietnam. Anche il cinema
trovò in quelle vicende complesse, individuali e collettive, materiale di
prim’ordine: da Via col vento di Victor Fleming del 1939 a La legge del Signore
di William Wyler del 1956, fino a Glory di Edward Zwick (1989) che segue le
vicende di un battaglione di fanteria dell’esercito nordista composto di
afroamericani, e alle scene iniziali di Balla coi lupi di Kevin Costner del 1990.
Ma forse la dimostrazione più sconvolgente di quanto la Guerra civile sia
restata dentro alla cultura degli Stati Uniti in maniera equivoca e
contraddittoria si ha nel film di D.W. Griffith, The Birth of a Nation (La nascita
di una nazione), del 1915, considerato uno dei primi capolavori della
cinematografia mondiale, ma animato da uno scoperto senso di rivalsa
sudista, che sfocia nell’agghiacciante visione di un Sud post-guerra
«rimesso in ordine» dai cavalieri incappucciati del Ku Klux Klan (→). Del
resto, anche Via col vento adottò in maniera acritica le costruzioni
ideologiche note collettivamente come «Lost Cause», il «mito della causa
persa», secondo cui la ribellione confederata aveva rappresentato il
tentativo disperato e romantico da parte della società rurale del Sud – con i
suoi gentiluomini senza macchia e senza paura – di resistere all’inevitabile
avanzata del progresso industriale, mentre la schiavitù era considerata
un’istituzione benevola nella quale non esisteva conflittualità tra
afroamericani e padroni.
BIBLIOGRAFIA
Raimondo Luraghi, Storia della guerra civile americana, Rizzoli, Milano 1985.
Reid Mitchell, La guerra civile americana, il Mulino, Bologna 2003.
S.M.Z.

Guerre indiane
Non è semplice disegnare un quadro delle cosiddette «Guerre indiane», che
si svilupparono fra il 1634-1638 (la «guerra dei pequot», nell’attuale New
England meridionale, fra i coloni inglesi e la tribù omonima) e il 1918 (la
«battaglia di Bear Valley», non lontano da Nogales, in Arizona, fra l’esercito
statunitense e una banda di Yaqui, considerato l’ultimo vero scontro
militare con i Native Americans). Non è semplice, perché, specie a partire dai
primi anni dell’Ottocento e al di là di quelli che furono i grandi confronti, le
campagne militari e la continua guerriglia di resistenza, esse si sfrangiarono
in una miriade di scontri minori e di scaramucce collaterali. Ma le
implicazioni stesse di quei due estremi spazio-temporali (il New England dei
primi del Seicento, l’Arizona dei primi del Novecento) risultano eloquenti e
ci aiutano a delineare il quadro. Possiamo dunque dire che, in un certo
senso, furono tre le fasi geostoriche delle Guerre indiane, da non
considerarsi però come separate o in semplice sequenza.
Una prima fase giunge almeno fino alla Rivoluzione americana (1776) e
al Trattato di Parigi (1783), che riconosceva l’indipendenza dalla
madrepatria delle ex colonie inglesi su suolo americano. In questo periodo,
quelle che vennero chiamate le «Guerre franco-indiane» furono per lo più,
ma non solo, il riflesso dei contrasti tra Francia, Inghilterra e Olanda (e, in
subordine, Spagna), sia su suolo europeo sia per quanto riguarda la natura e
il futuro degli insediamenti sul territorio nordamericano. Mentre l’Olanda
scivolò presto via da questi scenari e la Spagna occupava territori al
momento lontani (il Sud e Sudovest del continente), il conflitto tra Francia e
Inghilterra rimase per lunghi decenni quello centrale, ripercuotendosi in
maniera drammatica sulle tribù e nazioni Native American del Nord e
dell’Est. Non c’è dubbio infatti che fra queste tribù e nazioni già esistessero
tensioni: per esempio, tra la potentissima confederazione degli irochesi
(composta da cinque e in seguito sei tribù e molto avanzata anche sul piano
sociale e istituzionale) e le tribù di uroni e algonchini, nelle regioni intorno
ai Grandi laghi; ma erano in verità tensioni circoscritte, spesso il prodotto di
sconfinamenti nei territori di caccia o di vendette per torti subiti in
precedenza. Inoltre, la «distruttività» degli urti intertribali era limitata, sia
dal punto di vista delle armi utilizzate (archi e frecce, coltelli e tomahawk)
sia perché l’abbondanza di territorio e di cibo ne mitigava l’asprezza.
La vera radicalizzazione si ebbe con il primo apparire degli europei: il
loro retroterra economico, sociale e politico, il loro modo d’intendere il
rapporto con la terra e dunque con chi l’abitava, e quel che introdussero a
livello di tecnica, costumi, concezioni, ideologia – tutto ciò condusse a uno
scontro inevitabile. Se i francesi (interessati in particolare al commercio
delle pelli, di cui v’era grande richiesta in Europa) instaurarono rapporti
abbastanza amichevoli con i nativi, mescolandosi con loro anche attraverso
matrimoni, lo stesso non avvenne con gli olandesi, e soprattutto con gli
inglesi: i puritani giunsero nel continente nordamericano per restarvi come
coloni, per instaurare il «regno di Dio in terra», la «città sulla collina» (→),
portatori com’erano di uno sviluppo ormai ampiamente protocapitalistico.
Lo scontro con i francesi fu quindi immediato sia come prolungamento di
situazioni europee sia come effetto della necessità di controllare e gestire
risorse e materie prime. Le tribù e nazioni Native American si trovarono così,
loro malgrado, risucchiate in queste dinamiche e schierate su fronti opposti
– i quali, con abile cinismo, seppero sfruttare anche le precedenti animosità:
così, gli irochesi si allearono con gli inglesi, le altre tribù con i francesi, e via
di seguito. Sotto la pressione di guerre condotte con ritrovati tecnologici
sempre più distruttivi e mortali e di alleanze strumentali decise altrove e
spesso incomprensibili, quelle animosità si trasformarono in odi difficili da
acquietare. Una drammatica reazione a catena si mise in moto: ricacciate
verso ovest, terrorizzate da armi nuove e divenute a loro volta esperte
nell’usarle, le tribù dell’Est invasero territori che sino ad allora non
avevano conosciuto la sovrappopolazione e le sue conseguenze materiali.
A questa prima fase, appartengono dunque la già ricordata «guerra dei
pequot», i molti conflitti e le molte battaglie verificatisi nel corso
dell’ultima delle «Guerre franco-indiane» (fra il 1754 e il 1763: il celebre
romanzo di James Fenimore Cooper, L’ultimo dei Mohicani, del 1826, è
ambientato in questo contesto e ci mostra con chiarezza gli effetti sulle
tribù delle guerre europee condotte su suolo americano), fra cui, nel 1760-
1761, la «guerra fra inglesi e cherokee», agli inizi alleati contro i francesi, e
la «ribellione di Pontiac» (dal nome del capo degli ottawa, che nel 1763, in
risposta alle politiche adottate nei loro confronti dagli inglesi dopo la
vittoria sui francesi, raccolse intorno a sé elementi di altre tribù abitanti le
regioni dei Grandi laghi e degli attuali stati dell’Illinois e dell’Ohio).
Quest’ultima sollevazione si concluse nel 1766 con una sorta di armistizio
fra i contendenti: ma intanto i germi delle successive Guerre indiane erano
stati diffusi – e non solo metaforicamente. Risale infatti a questo episodio il
primo ricorso alla guerra batteriologica: durante l’assedio di Fort Pitt a
opera degli ottawa, nell’estate del 1763, il generale inglese Jeffery Amherst
darà ordine di distribuire coperte infette di vaiolo fra i Native Americans.
Come successe pure in seguito, il vaiolo fece strage di popolazioni che, non
avendolo mai conosciuto, erano del tutto vulnerabili dal punto di vista
immunitario.
E sarà l’esito della «guerra fra inglesi e cherokee», con il Proclama Reale
del 1763 che vietava gli insediamenti a ovest dei Monti Appalachi (→
Appalachia), uno dei motivi che spingerà i coloni a ribellarsi all’autorità
della madrepatria nel 1776 e a dare avvio alla Rivoluzione americana.
Con l’indipendenza dall’Inghilterra, ha quindi inizio la seconda fase
delle Guerre indiane. Che occupa più di mezzo secolo e si sviluppa
attraverso i territori compresi fra gli Appalachi (→) e il fiume Mississippi:
seguendo cioè l’iniziale colonizzazione (privatizzazione) del continente; e
che, come vedremo, s’intreccia pure a eventi che ebbero luogo, con un salto
di migliaia di chilometri, nel lontano Sudovest.
Fra il 1812 e il 1814, la guerra d’indipendenza dall’Inghilterra entrava
nell’ultima sua fase, culminante, a pace già firmata in Europa, nella
«battaglia di New Orleans», in cui un raccogliticcio esercito americano,
aiutato in maniera decisiva da contingenti di choctaw e chickasaw e dalle
truppe irregolari ma esperte dei pirati fratelli Lafitte (→ Barataria),
sbaragliò il ben più forte esercito inglese. Intanto, scoppiava la «rivolta di
Tecumseh», abilissimo capo degli shawnee e stratega di valore. Dopo aver
fatto parte, a fine Settecento, di una precedente «confederazione» di molte
tribù nel corso della cosiddetta «Guerra indiana del Nordovest» (o «Guerra
di Piccola Tartaruga»), insieme al fratello Tenskwatawa detto «Il profeta»,
Tecumseh si mette in viaggio nel tentativo di creare una nuova
«confederazione», prendendo contatto in primo luogo con le «cinque tribù
civilizzate» (cherokee, choctaw, creek, chickasaw, seminole): ma con scarsi
risultati. La sconfitta del «Profeta» nella battaglia di Tippecanoe
(nell’attuale stato dell’Indiana) nel 1811 non scoraggia Tecumseh, che –
sulla base anche di alcuni eventi naturali letti come segni propizi
(l’apparizione della Grande Cometa, il terremoto di New Madrid → Big One
e altre catastrofi) – decide di proseguire nell’azione, riuscendo a mobilitare
gli osage, i creek, i sauk. Attaccando da Nord, dalla regione dei Grandi laghi,
e alleandosi agli inglesi, Tecumseh assedia e costringe alla resa Fort Detroit:
ma viene sconfitto e muore nella battaglia del Thames, in Canada, il 5
ottobre 1813.
Nel frattempo, s’erano verificati alcuni eventi determinanti: nel 1803,
l’acquisto della «Louisiana» (nome che a quell’epoca indicava l’intera valle
del Mississippi e le terre oltre la sua riva destra); l’anno seguente, l’inizio
della spedizione di Lewis e Clark, che avrebbe aperto alla colonizzazione le
terre dell’Ovest e del Nordovest; e via via, nel corso di quegli stessi anni,
l’applicazione sempre più metodica della Land Ordinance stesa da Thomas
Jefferson nel 1785, che suddivideva il territorio americano in lotti regolari
ed eguali (→ Acri), destinati alla vendita. Era chiaro ormai che a scontrarsi
erano due modi di produzione: uno, quello Native American, che non
concepiva la proprietà privata della terra, ma il suo possesso in usufrutto
per le generazioni future, e uno, quello inglese prima e statunitense poi, che
nella terra vedeva una fonte di profitto e speculazione. Un contrasto ben
riassunto nelle parole di Tecumseh: «Nessuna tribù ha il diritto di vendere
la terra, nemmeno fra loro, meno che mai a estranei… Vendere un paese?
Perché non vendere l’aria, allora, o il grande mare, oltre alla terra? Non l’ha
fatta il Grande Spirito per l’uso di tutti i suoi figli?».
La logica e drammatica conseguenza sarebbe stata, nel 1830, la legge
promulgata sotto la presidenza di Andrew Jackson: l’Indian Removal Act,
che prevedeva la forzata «rimozione» delle tribù in territori situati oltre il
fiume Mississippi (→ Piste e sentieri), che non solo colpì direttamente
migliaia di Native Americans dell’Est costretti ad abbandonare le terre in cui
vivevano da generazioni, ma aggravò ancor più la situazione delle tribù
dell’Ovest. E quando, nel 1862, lo Homestead Act promise 160 acri di terra a
chi s’impegnasse a coltivarli (→ Acri), quel processo di annullamento del
modus vivendi dei Native Americans conobbe un’ulteriore accelerazione. A
esso contribuì il massacro dei bisonti per rifornire di carne le squadre di
operai che lavoravano all’apertura delle grandi linee ferroviarie est-ovest
(→ Promontory Point) – un massacro che presto, complice il mitico William
«Buffalo Bill» Cody (→ Olimpo americano), divenne una sorta di sport
nazionale, destinato ad attrarre anche facoltosi turisti europei.
Non basta. Nelle terre del Sudovest, già interessate da questi spostamenti
forzati di tribù, altri eventi si erano prodotti: l’indipendenza del Texas e la
guerra contro il Messico culminante nel Trattato di Guadalupe Hidalgo
(1848) (→ Alamo), che consegnava agli Stati Uniti i territori oggi
corrispondenti a Colorado, Arizona, Nuovo Messico, Wyoming, e alla parte
meridionale di California, Nevada e Utah – tutti da aprire alla
colonizzazione. A ciò si aggiungano, fra il 1848 e il 1855, la prima «corsa
all’oro» in California, lo scoppio e le conseguenze della Guerra civile (→) e,
nel 1874-1878, la «seconda corsa all’oro», nelle Black Hills del Territorio del
Dakota – e il quadro risulta completo. La terza fase dello scontro era ormai
in corso. Per i Native Americans non c’era più posto, se non nelle riserve (→
Ombre rosse): e ciò si ottenne attraverso un sistematico genocidio.
Tralasciando di necessità altri esempi, ecco dunque che ci saranno la
Prima guerra dei seminole (1817-1818) e la Seconda (1835-1842), che un
capo abile e carismatico come Osceola (chiamato anche la «Volpe delle
Paludi») seppe condurre nel labirinto di acque delle Everglades in Florida,
spesso attraendo a sé contingenti di schiavi neri fuggiaschi, in quella che fu
una sollevazione «afro-indiana», una lunga ed epica guerra di guerriglia. In
mezzo, ci sarà poi il drammatico esodo dei sauk e dei fox guidati, altro
esempio di notevole capacità strategica, dal capo Falco Nero, già sostenitore
di Tecumseh nel suo tentativo di formare una confederazione di tribù da
opporre all’invasore: dopo aver dato scacco agli eserciti americani per molti
mesi, la tribù dei sauk cercherà di varcare il Mississippi a Bad Axe, poco
lontano dall’attuale cittadina di La Crosse (Wisconsin), e qui verrà
massacrata dalle forze congiunte di esercito e milizia americani (con
addirittura un battello armato di cannoncino) – almeno centocinquanta
uccisi, fra uomini, donne, bambini, anziani. Non va infatti dimenticato
questo risvolto delle Guerre indiane: la presenza, dietro le schiere dei
guerrieri, di interi villaggi in fuga o in spostamento. L’Autobiografia dettata
anni dopo da un anziano Falco Nero è uno dei documenti più significativi
che ci rimangano di quell’epoca e di quelle vicende.
A questo punto, il confine naturale del Mississippi è varcato e l’avanzata
della colonizzazione e degli eserciti assume la forma di una tenaglia. A
sudovest, ci saranno le incessanti operazioni militari che passeranno alla
storia con il nome di «Guerre indiane del Texas» (e che, nella loro fase
iniziale, seguirono le vicissitudini legate alla storia particolare di quel
territorio e, dal 1836 al 1875, videro coinvolte in prevalenza le tribù dei
comanche, dei cheyenne e dei cherokee), di «Guerre degli apache» (che si
protrassero a fasi alterne dal 1851 al 1900), di «Guerre dei navajo» (dal 1858
al 1864, in cui si distinsero da una parte Manuelito e dall’altra Kit Carson, e
spesso s’intrecciarono a quelle degli apache) – guerre lunghe, fatte di
continui agguati e scaramucce più che di battaglie campali, approfittando
anche della morfologia di regioni desertiche e semidesertiche (canyon,
altopiani, forre, passi, rocce → Deserti). Non stupisce che la più lunga di
queste guerre (mezzo secolo abbondante) fosse quella condotta dagli
apache, una nazione di molte tribù, che – in specie sotto l’abile comando di
Cochise (il famoso Geronimo fu piuttosto un capobanda che un capotribù) –
resistette fino all’ultimo alla penetrazione yankee in quel territorio di
confine, schiacciata fra l’esercito messicano e quello statunitense: se infatti
Geronimo si arrese nel 1886 nello Skeleton Canyon (→), altre bande
continuarono a battersi fin ben dentro il nuovo secolo.
Intanto, nei territori più a nord, fra le Grandi pianure e i territori del
Montana e del Wyoming, fra la Pista dell’Oregon e la Pista di Bozeman (→
Piste e sentieri), intorno ad avamposti diventati celebri nella cultura
popolare (Fort Laramie, Bighorn River), dopo il tremendo massacro di un
intero villaggio di cheyenne e arapaho presso il Sand Creek (→ Sand Creek e
Wounded Knee) nell’attuale Colorado, nel novembre 1864, gli oglala lakota
(più noti come sioux), sotto l’abilissima guida di Nuvola Rossa, fra il 1866 e il
1868 resistettero disperatamente all’avanzata delle schiere di coloni e
cercatori d’oro, ingaggiando furiose battaglie con l’esercito: nel dicembre
1866, a opera dei valenti guerrieri a cavallo guidati da Cavallo Pazzo, si ebbe
così la più disastrosa sconfitta dell’esercito Usa (prima di quella del Little
Bighorn →), nota come la «battaglia dei Cento uccisi». Non a caso,
quest’anno di guerra passerà alla storia con il nome di Nuvola Rossa:
insieme a Toro Seduto e a Cavallo Pazzo, egli resterà il maggiore fra gli
strateghi delle Guerre indiane di quest’ultima fase. E lo stato d’animo delle
tribù, in un periodo di trattati eternamente sottoscritti ed eternamente non
rispettati dagli americani, sarà bene riassunto nelle sue laconiche parole:
«Ho ascoltato con pazienza le promesse del Grande Padre, ma la sua
memoria è corta. Ora ne ho abbastanza. Non ho più nulla da dire».
Si giungerà così alla «Grande guerra dei sioux», fra il 1876 e il 1877,
mentre la nazione americana uscita dalla Guerra civile conosceva altre
tensioni, sociali ed economiche, fra accelerato sviluppo industriale, estese
lotte operaie (→ Sciopero!), malcontento contadino, nascita di grandi
metropoli, riorganizzazione degli stati del Sud, colonizzazione dell’Ovest.
Furono due anni cruciali: come scenario, i territori del Montana e del
Dakota, intorno alle Black Hills; come protagonisti, di nuovo i lakota,
abilissimi guerrieri a cavallo, insieme ad altre tribù alleate (i cheyenne, gli
arapaho); e come carismatici capi militari, Cavallo Pazzo, Toro Seduto, Gall,
da una parte, e Nelson Miles, George Crook e George Armstrong Custer,
dall’altra. Impossibile seguire qui le complesse vicende (militari e
diplomatiche) di quel biennio, che sarebbero culminate nella sconfitta del
Little Bighorn (→), nell’uccisione a tradimento di Cavallo Pazzo, nella fuga
in Canada di Toro Seduto, nella quasi completa estinzione del bisonte
(anch’essa un’azione di guerra, vista la centralità dell’animale
nell’economia delle tribù) e infine nella triste resa di una delle nazioni più
orgogliose ed esperte nel condurre la guerra nei grandi spazi aperti.
Ma in quello stesso anno 1877 (l’anno – non va dimenticato – del grande
sciopero generale nelle ferrovie e della Comune di St. Louis → Sciopero!),
un’altra tribù diede del filo da torcere all’esercito statunitense, con
strategie militari che rivaleggiavano con le sue: quella dei nez percez
guidati da Capo Giuseppe, ancora in territori come il Montana e il Wyoming,
l’Idaho e l’Oregon – 200 guerrieri che tennero testa ai militari (per esempio,
nei due giorni della «battaglia del Grande buco»), spostandosi di continuo
con l’intera tribù e dirigendosi infine verso il Canada, dove si sarebbero
arresi.
Dopo la resa di Capo Giuseppe (e i molti altri episodi, nelle terre del
Nordovest e del Sudovest), ci sarebbe stato ancora un altro drammatico
capitolo, prima di arrivare alla «battaglia di Bear Valley» del 1918 destinata
a chiudere una storia che in realtà s’era già chiusa. Si verificò nel 1890, altro
anno simbolico: l’Ufficio del censimento infatti dichiarava allora che non
esistevano più terre libere all’Ovest – la Frontiera (→) era ormai scomparsa.
Il 16 dicembre, l’uccisione (anch’essa a tradimento) di Toro Seduto da parte
della polizia indiana guidata da James McLaughlin, suscita rabbia e rancore
nella riserva di Pine Ridge (South Dakota). L’intervento dell’esercito, di una
violenza impressionante, culmina nel «massacro di Wounded Knee» (→
Sand Creek e Wounded Knee). Così moriva il secolo del genocidio dei Native
Americans.
In attesa che il cinema, nato non a caso a New York intorno agli anni
novanta dell’Ottocento e trasferitosi a ovest ai primi del Novecento (con un
movimento simile a quello della colonizzazione attraverso tutto
l’Ottocento), sviluppasse tecniche e strutture necessarie per narrare,
riplasmandola all’uopo, quella tragica epopea, fu il Wild West Show (→) di
Buffalo Bill con le sue varie imitazioni minori a preparargli il terreno, in
patria come all’estero, fissando sulla retina dell’immaginario collettivo
alcune immagini incancellabili (una fra le tante: l’assalto alla stagecoach [→]
che sarebbe diventato celebre grazie al regista John Ford). Non è un caso
che, negli anni della loro scomparsa come «nemici pubblici», in quel grande
show facessero da comparse spesso patetiche Nuvola Rossa, Toro Seduto,
Capo Giuseppe, Geronimo…
P.S.: Come tutte le grandi storie, anche questa ha un seguito. Nel 1968, il
critico letterario statunitense Leslie A. Fiedler scrisse un libro intitolato The
Return of the Vanishing American, in cui mostrava come la figura del Native
American non avesse mai cessato di essere presente dentro la cultura del
paese, anche dopo la sua «scomparsa». Fiedler utilizzava di proposito
l’aggettivo vanishing («evanescente», «che sta svanendo»), avvicinandolo al
sostantivo return («ritorno», «riapparire») e sottolineando così la
permanenza. In quegli stessi anni, aveva inizio a Hollywood una revisione
dei propri canoni interpretativi per ciò che riguardava il West e i Native
Americans, che avrebbe condotto a film importanti come Soldato blu di Ralph
Nelson (1970), Piccolo grande uomo di Arthur Penn (1970), Un uomo chiamato
cavallo di Elliott Silverstein (1970), Buffalo Bill e gli indiani di Robert Altman
(1976) e molti altri. Questa «revisione» è continuata nel tempo e, in anni più
recenti, ha dato origine ad altre pellicole significative come Balla coi lupi di
Kevin Costner (1990), L’ultimo dei Mohicani di Michael Mann (1992), Geronimo
di Walter Hill (1994). Il «vanishing American» continua dunque a tornare,
come un senso di colpa mai sopito.
BIBLIOGRAFIA
Dee Brown, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, Mondadori, Milano 1994.
Raimondo Luraghi, Sul sentiero della guerra. Storia delle guerre indiane del
Nordamerica, Rizzoli, Milano 2000.
Giorgio Mariani, La penna e il tamburo. Gli Indiani d’America e la letteratura degli
Stati Uniti, Ombre Corte, Verona 2003.
Jean Pictet, La grande storia degli Indiani d’America, Mondadori, Milano 2000.
Richard Slotkin, Regeneration Through Violence. The Mythology of the American
Frontier, University of Oklahoma Press, Norman 2000.
M.M.

Guide per emigranti


Le Terre Promesse si materializzano prima nell’immaginazione e poi, ogni
tanto, anche nella realtà: hanno bisogno del racconto affabulatorio, delle
suggestioni e talvolta anche di qualche dettaglio allettante (vero o falso che
sia, non importa) per spingere i potenziali pellegrini a raggiungerle e
abitarle. Fu così per gli Stati Uniti, che avvertirono fin dall’inizio l’urgenza
di attirare coloni che disboscassero e coltivassero le sterminate distese di
tutto ciò che si trovava al di là dei monti Allegheni (o Appalachia →). Il
battage pubblicitario iniziò pochi anni dopo l’indipendenza – giusto il
tempo di sistemare sommariamente i confini degli stati esistenti e le
cartografie della nuova nazione. Fra gli anni trenta e quaranta
dell’Ottocento, la stampa americana produsse decine di opuscoli e guide
mirate a invogliare cittadini europei e abitanti della costa atlantica
statunitense a migrare verso le feconde distese dell’Ovest: dall’ambiziosa
The Emigrant’s Guide to the United States of America; Containing All Things
Necessary to Be Known by Every Class of Persons Emigrating to That Continent di
S.H. Collins del 1830, alla ben più mirata (almeno per quanto riguardava i
destinatari) The Emigrant’s Guide: In Ten Letters Addressed to the Taxpayers of
England; Containing Information of Every Kind, Necessary to Persons Who Are
About to Emigrate di William Cobbett (1829), che cercava di convincere i
contribuenti insoddisfatti della monarchia circa la convenienza economica
di una nuova vita in America, portando a testimonianza le lettere di coloni
inglesi alle famiglie rimaste in patria. Gli irlandesi non vollero essere da
meno, e circa vent’anni dopo, in piena crisi agricola, vide la luce The Irish
Emigrant’s Guide for the United States (1851) di John O’Hanlon, il cui intento
era di aiutare con «fatti certi e consigli derivati dall’esperienza vissuta» i
compatrioti a trovare felicità e fortuna nel Nuovo mondo. Agli italiani era
invece rivolta la Guida degli Stati Uniti per l’immigrante italiano (1910), che la
Società delle figlie della rivoluzione americana aveva provveduto a dare alle
stampe, per attirare nel Nuovo mondo una immigrazione dal Sud Europa in
quegli anni peraltro già massiccia.
Ma, si sa, le geografie del desiderio sono instabili, mutevoli; e così le
suggestioni di una nuova vita oltreoceano vennero presto sostituite da
promesse più circoscritte – di successo economico, innanzitutto, oltre che
di un sostanziale allentamento delle maglie del controllo politico in una
società aperta e mobile. Ad attirare maggiormente l’interesse e le brame dei
migranti in pectore fu l’Ovest. La pubblicistica ne assecondò prontamente la
curiosità (quando non fu essa stessa ad alimentarla) attraverso
pubblicazioni specifiche su quelle regioni, come A New Guide for Emigrants to
the West di John Mason Peck del 1836 o la ben più famosa Emigrants’ Guide to
Oregon and California di Lansford W. Hastings del 1845, l’ampia Western
Portraiture, and Emigrants’ Guide: a Description of Wisconsin, Illinois, and Iowa;
With Remarks on Minnesota, and Other Territories di Daniel S. Curtiss e Joseph
Parrish Thompson del 1852 o la Minnesota Guide della Applewood Books del
1869, che informava, tra l’altro, di come la mortalità nello stato fosse
bassissima e lo sarebbe stata ancora di più se molti malati avessero perso la
spiacevole abitudine di arrivare fin qui, attratti dal clima temperato, e…
esalarvi l’ultimo respiro.
Le guide erano strumenti preziosi per i viaggiatori: fornivano indicazioni
sulle cittadine e sugli avamposti, sui sentieri, sui collegamenti fluviali o
ferroviari (se ve ne erano), ma anche sui grizzly e gli indiani, su come
costruire un accampamento o più semplicemente orientarsi in un luogo
desertico. Le ragioni che spingevano i coloni nelle distese disabitate
dell’Ovest erano le più disparate: accanto ad aspiranti contadini, allevatori
di bestiame e turisti ante litteram (si veda la suggestiva rievocazione del
viaggio all’Ovest di Washington Irving in Viaggio per le praterie occidentali
degli Stati Uniti, 1835), ci si imbatteva non di rado in dissidenti religiosi alla
ricerca di un angolo di tranquillità per professare il proprio culto. È questa
una delle ragioni del grande successo di The Latter-Day Saints’ Emigrant Guide
from Council Bluffs to the Valley of the Great Salt Lake di William Clayton (1848),
nata come diario di viaggio dell’autore (impegnato a raggiungere la
spedizione pionieristica diretta a Salt Lake City) e trasformatasi via via in
una dettagliatissima guida, dal momento che il povero Clayton fu costretto
da Brigham Young in persona, alla guida dei mormoni (→ Quakers, Shakers,
Mormons) ad annotare con precisione latitudini, longitudini e distanze:
prima, contando i giri di ruota del carro su cui viaggiava e, poi, effettuando
il percorso a ritroso per controllare i dati raccolti con l’ausilio di un
contachilometri messo a punto per l’occasione. L’altra ragione (ben più
profana) del successo della guida è legata proprio alla sua estrema
precisione, che spinse i cercatori d’oro (→ Oro!) a ritenerla strumento
indispensabile (spendendo fino a 5 dollari la copia, come annotava un
giornalista del Missouri Republican) prima di mettersi alla ricerca di pepite e
filoni (piuttosto scarsi furono i tentativi di plagio di Henry I. Simpson,
Joseph E. Ware e Philip L. Platt e Nelson Slater: fu Clayton a conquistarsi la
fiducia dei pellegrini, qualunque dio, spirituale o materiale, stessero
inseguendo).
Se queste guide, pur soggettive e imperfette, fornivano informazioni
sulla realtà dei territori, altrettanto non si può dire per quelle pubblicazioni
che entrarono nelle case degli abitanti dell’Est e dell’Europa fra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, non per informarli dei chilometri
quadrati e delle caratteristiche geofisiche del paesaggio, ma per convincerli
che in quelle terre, qualunque aspetto avessero, si nascondessero fortune
insperate che chiunque, con alcune nozioni elementari di agricoltura, era in
grado di cogliere. Nelle città sovraffollate e insalubri dell’Est o del Vecchio
mondo, in molti furono coloro che credettero di riuscire a trasformarsi in
provetti contadini in grado di contrastare le asperità naturali con la
semplice lettura di un libro. Il manuale più famoso (e scientificamente
infondato) fu il Campbell Soil Colture Manual (1902), autentico bestseller che
spiegava come persino una zona arida e inospitale come il Grande deserto
americano (→ Deserti) potesse trasformarsi in una miniera d’oro, grazie a
compattatori del terreno, erpici speciali e altri ritrovati della tecnica e della
scienza, portando a testimonianza un bel po’ di dati fasulli su millimetri di
precipitazioni e quantità dei raccolti, nonché teorie pseudoscientifiche
alquanto strampalate – fra cui il celebre principio per cui «the rain follows
the plow», la pioggia segue l’aratro: cioè, aumenta dove la terra viene
coltivata.
Ma c’è un limite anche alla buona fede: e dalla fine degli anni venti in
avanti, con le speranze dei coloni ridotte letteralmente in polvere dalle Dust
Bowl (→ Dust Bowl) e dalla Grande depressione (→), nessuno fu più
disposto a credere all’allettante promozione dei decenni precedenti.
Divenne infine palese come, al di là di sparute eccezioni pubblicizzate con
maestria, la propaganda per attirare i coloni all’Ovest avesse fatto sempre
più gli interessi dei grandi gruppi economici (latifondisti e ferrovie [→
Promontory Point] in testa) a discapito delle famiglie migranti. Né più né
meno di quanto accadeva all’Est o oltreoceano, insomma; ma almeno chi
era rimasto laggiù non avrebbe dovuto percorrere centinaia o migliaia di
miglia per ricominciare, un’altra volta, daccapo.

BIBLIOGRAFIA
Aa.Vv., The Minnesota Guide, Applewood Books, Bedford 1869.
Lansford W. Hastings, Emigrants’ Guide to Oregon and California, Applewood
Books, Bedford 1845.
Jonathan Raban, Bad Land. Una favola americana, Einaudi, Torino 1998.
C. SCHIA.

Gumbo e jambalaya
Si dice che li abbiano portati in America, nascosti nei capelli, gli schiavi
africani, attraverso gli orrori del Middle Passage (→ Atlantico nero): i semi
dell’okra (Abelmoschus esculentus; in lingua bantu, «kingombo» – da cui
«gumbo»), pianta delle malvacee, i cui baccelli, lunghi, verdi, appiccicosi,
dalla forma simile ai nostri peperoncini, sono l’ingrediente principe del
piatto omonimo, il gumbo. Insieme alla jambalaya, il gumbo è una delle
celebrità del French Quarter (→ Congo Square) di New Orleans e
soprattutto della Cajun County (→ Cajun) della Bassa Louisiana: dentro,
infatti, a simboleggiare il sincretismo culturale di queste regioni, ci
troviamo l’Africa, l’Europa, i Caraibi, l’America.
Ma veniamo alla ricetta del gumbo (per 6-8 persone). Gli ingredienti
sono: una scatola di okra da 300 g, 400 g di pomodori, 1 cipolla, 1 peperone
verde, 2 gambi di sedano, 2 spicchi d’aglio sminuzzati, 2 cucchiaini di
concentrato di pomodoro, 2 cucchiaini di spezie cajun (1 cucchiaio di aglio
in polvere, 1 cucchiaio di cipolla in polvere, 2 cucchiaini di pepe bianco e 2
di pepe nero schiacciato, 1 cucchiaino di pepe di Caienna, 2 cucchiaini di
timo essiccato, ½ cucchiaino di origano essiccato), 60 g di burro, 2
cucchiaini di peperoncino essiccato, 2 tazze di brodo di pesce, ¼ di tazza di
roux rosso scuro, 600 g di code di gamberi medi sgusciati e puliti, 1
cucchiaino di polvere di filé (polvere di foglie di sassofrasso), 2 foglie di
alloro, 1 cucchiaio di coriandolo fresco tritato, 1 lime a fettine, 1 scodella di
riso pilaf. Mettere pomodori e okra a cuocere insieme, fino all’ebollizione,
coprendo poi e lasciando sobbollire per 15 minuti; a parte, rosolare cipolla,
peperone, sedano (tutto a dadini) per 2-3 minuti, poi aggiungere l’aglio e
proseguire 20 minuti la cottura; aggiungere alle verdure i pomodori e
l’okra, il concentrato di pomodoro, le spezie cajun, l’alloro, il peperoncino,
il pepe, mescolando per due minuti, quindi aggiungere brodo e roux, lasciar
cuocere per altri 15 minuti; aggiungere i gamberi e lasciarli sobbollire fino a
cottura, quindi il filé; versare su una ciotola di riso pilaf preparato a parte.
Gustare, consapevoli del fatto che l’okra viene dall’Africa, le spezie e i
gamberi dai Caraibi, il roux, il fumetto, alcuni condimenti dall’Europa, il filé
dagli indiani choctaw ecc., e che esiste anche una versione vegetariana (o
quaresimale) nota come gumbo z’herbes (dal francese gumbo au herbes), a
base di verdure (una singolare figura di scrittore e antropologo dilettante
della New Orleans di fine Ottocento, Lafcadio Hearn, prima di partire per il
Giappone, dove sarebbe diventato uno dei massimi esperti di cultura
giapponese, scrisse nel 1885 – fra le altre cose, tutte di grande fascino –
anche un gustoso libretto di «proverbi creoli», riprodotti fedelmente nella
lingua franca del luogo, intitolato per l’appunto Gombo Zhebes: per esempio,
«Jadin loin, gombo gaté», «Se l’orto è lontano, il gumbo non viene bene» –
se vuoi che le cose vadano bene, devi starci dietro).
Altri fornelli, ora. La jambalaya (il nome parrebbe venire dal provenzale
jambalaia, «mescolanza»: ma vi sono infinite altre etimologie, ipotetiche e
più o meno fantastiche, a base di jambon, di jamon e paella, e perfino di
un’esclamazione, rivolta a un cuoco preso alla sprovvista dall’arrivo
inaspettato di un viaggiatore: «Jean, balayez!» – come dire, «Jean, butta
tutto quel che hai e mescola insieme!») in effetti assomiglia a una paella. I
suoi ingredienti sono (per 6 persone): 450 g di petto di pollo a pezzetti, 450 g
di salsiccia piccante, 1 cipolla tritata, 2 spicchi di aglio, 4 gambi di sedano
tritati, 1 peperone pezzetti, ½ kg di pomodori a cubetti, 1 tubetto di
concentrato di pomodoro, 8 tazze di brodo di manzo, 2 cucchiaini di pepe
nero, 1 cucchiaino di pepe bianco, 2 cucchiaini di pepe di Cayenna, 2 foglie
di alloro, sale, 4 tazze di riso parboiled. Ci vuole una padella ampia, in cui far
dorare il pollo con sale e pepe, e un’altra in cui cuocere la salsiccia a
pezzetti, versandola poi, senza il grasso, nella padella del pollo. In una
casseruola, far appassire cipolla, sedano e aglio tritato, e aggiungere il
peperone e il concentrato di pomodoro, mescolando bene. Versare le 2
tazze di brodo e mescolare di nuovo. Aggiungere pepe, sale e i pomodori a
cubetti e cuocere per circa 10 minuti. Quindi, il pollo e la salsiccia e
mescolare. Versare il brodo restante, e aggiungere il riso, facendo cuocere
fino a che tutto il brodo è assorbito, e la jambalaya assume una bella
consistenza. Un’altra versione è con i gamberoni.
Il modo migliore per mangiare tutto ciò sarebbe in un ristorante non
turistico di New Orleans. O, meglio ancora, in un piccolo locale lungo la
strada per New Iberia o Lafayette o Jeannerette, nella Cajun County – se
possibile durante una delle numerose feste popolari, mentre si canta: «’Tais
au bal hier au soir; j’ai r’venu encore ce soir; / si l’occasion se r’présente,
j’va’ r’tourner demain au soir».

BIBLIOGRAFIA
John Egerton, Southern Food, Alfred A. Knopf, New York 1987.
Anne Wilson, Cucina cajun, Könemann, Köln 1999.
M.M.
[H]

Halloween
La sera del 31 ottobre, la vigilia di Ognissanti (All Hallows Eve, poi evolutosi in
Halloween), grandi e piccini scorrazzano per le strade mascherati da spettri o
streghe munite di scopa; zucche intagliate (jack-o-lanterns), all’interno delle
quali s’intravedono candele accese, sono bella mostra su balaustre e
davanzali; e a ogni uscio si ripete il ritornello «Trick or treat?» («Dolcetto o
scherzetto?»). Il rituale è ormai noto, grazie alla propaganda di tanti film e
delle più popolari serie televisive, i cui protagonisti, nel corso delle puntate
trasmesse a Halloween, non mancano di mascherarsi e finire coinvolti in
avventure in cui prevale un’atmosfera gotica. Gli sceneggiatori de I Simpson
(→ Casa Simpson), in una delle puntate speciali realizzate per l’occasione,
hanno addirittura proposto una divertente riscrittura del Corvo di Edgar
Allan Poe, nel quale il nero pennuto ripete l’ossessivo «Nevermore!» («Mai
più!») al protagonista Homer.
Le origini di Halloween sono piuttosto oscure: risalgono forse alla festa
di Samhain (termine antico irlandese, traducibile come «fine estate»),
durante la quale le popolazioni celtiche celebravano i riti per la fertilità e di
ringraziamento agli dei per il buon raccolto. Con l’arrivo della cristianità
nel Nord Europa e nelle isole britanniche, questi riti si contaminarono con
la celebrazione di Ognissanti e la commemorazione dei defunti. La
componente pagana sopravvisse nella credenza che, durante la notte della
vigilia, gli spiriti dei defunti vagassero per la terra e importunassero gli
umani sorpresi da soli, che dovevano acconsentire alle loro richieste e
compiacerli se non ne volevano pagare le conseguenze. Gli spiriti, però, non
tormentavano i poveri che si dedicavano al souling: riuniti in piccoli gruppi,
andavano tra le case muniti di rape intagliate illuminate da una candela (le
zucche verranno adottate in America) e, in cambio di elemosina e di un soul
cake («dolce dell’anima», contenente noce moscata, cannella, zenzero, uva
passa), cantavano inni e preghiere per i defunti, che avrebbero accorciato la
permanenza delle anime in Purgatorio. Il souling è all’origine di un’usanza
più goliardica, il guising (mascherarsi): bambini e ragazzi impersonavano gli
spiriti dispettosi, si camuffavano con abiti smessi e improvvisati, giravano
per il villaggio sempre muniti di rapa, e si esibivano davanti alle case
cantando filastrocche e raccontando storie buffe o terrificanti. I
componenti della brigata ricevevano un dolce come compenso, ma erano
pronti a combinare qualche brutto scherzo nel caso in cui fossero stati
ignorati.
Souling e guising sono emigrati oltre Atlantico, e con il tempo il
camuffamento improvvisato è stato sostituito da costumi veri e propri, il
soul cake dai dolciumi comprati nei supermercati, il racconto di storie
terrificanti dalla visione di un thriller o, meglio, un film horror (spesso se ne
fa coincidere la prima con la sera del 31 ottobre per sfruttare la voglia di
macabro). Uno dei maggiori successi di sempre si intitola appunto Halloween
(1978): costato circa 320mila dollari, il film di John Carpenter incontrò un
successo clamoroso, incassando 47 milioni al botteghino. Il regista, autore
anche della sceneggiatura, fu molto abile nell’incorporare alcune ossessioni
sotterranee della cultura americana nel tessuto narrativo. L’atmosfera
tranquilla e rarefatta di un suburb (→) dell’Illinois, dove domina un silenzio
a tratti inquietante, viene turbata da un «cattivo» mosso da nessun motivo
apparente se non l’intrinseca malvagità – un altro caso in cui si può leggere
il ritorno del vanishing American, il fantasma represso dell’indiano
sterminato dai coloni europei in nome del progresso (→ Guerre indiane).
Nel film, il cattivo ha le fattezze di Michael Myers, fuggito da un manicomio
dove è stato rinchiuso dall’età di sei anni per avere ucciso la sorella la sera
di Halloween. Obiettivo designato è un gruppo di ragazze, nel quale Laurie
(interpretata da Jamie Lee Curtis), imbranata con i maschi e dedita allo
studio, si distingue dalle più «esperte» Annie e Lynda le quali, almeno a
parole, hanno già avuto alcuni flirt. Queste ultime sono destinate a
soccombere alla furia di Michael, mentre la sola Laurie si salva – un epilogo
che discende in linea diretta da L’ultimo dei Mohicani, il romanzo di James
Fenimore Cooper che contrappone la bionda e casta Alice alla bruna e
passionale Cora, destinando quest’ultima a vittima della furia degli indiani.
Il successo del film e la semplicità degli ingredienti hanno dato vita a un
sottogenere autonomo, i cosiddetti slasher movies, i «film degli squartatori».
Spesso però gli imitatori di Carpenter hanno puntato esclusivamente sulla
quantità di sangue versato anziché riproporre l’abile manipolazione dei
tempi e dei piani sequenza per mantenere intatto il livello di tensione. La
casa (1981), Nightmare: dal profondo della notte (1984), Venerdì 13 (1980) e
Scream (1996: quest’ultimo presenta anche un’interessante riflessione sulla
formula narrativa del sottogenere), con gli innumerevoli seguiti che
ripropongono il tema della colpa passata che all’improvviso, in un ambiente
naturale o nella tranquillità del suburb, ricompare sotto forma di un
misterioso vendicatore tornato per mettere in atto la punizione.
Tra squartamenti e mascherate, sono rimasti in pochi a rispettare
l’antica usanza di commemorare i defunti. Lo fa Lou Reed in «Halloween
Parade», un brano tratto dal disco New York (1989): spunto per la canzone è
la parata annuale che, organizzata la prima volta nel 1973 dal marionettista
Ralph Lee per rivitalizzare il Greenwich Village (→), è cresciuta fino a
diventare uno degli appuntamenti più importanti del calendario
newyorkese. Tra le cinque Cenerentole, le drag queen, le Greta Garbo e i
Cary Grant che animano la parata, si nota anche l’assenza di tanti amici che
non ci sono più, portati via dalla droga e dall’Aids: «This celebration
somehow gets me down / especially when I see you’re not around». Tutto
sommato, Lou si meriterebbe un soul cake.

BIBLIOGRAFIA
Eraldo Baldini, Giuseppe Bellosi, Halloween: nei giorni che i morti ritornano,
Einaudi, Torino 2006.
S.M.Z.

Hamburger & fast food


Certo, il nome è quello di una città tedesca; e a quanto pare già i cavalieri
mongoli, durante il XIII secolo, cavalcavano con carne trita nella bisaccia,
diretti verso accampamenti dove allestire un fuoco e mangiare in
compagnia. Eppure, nessuno si sognerebbe mai di considerare l’hamburger
altro che americano. Che sia nella forma casalinga (con il pezzo di carne
tritato a mano) o in quella dell’industriale Big Mac o nelle versioni
dell’Oklahoma (carne mista a cipolle) o del Mississippi (lo slugburger, carne a
buon mercato mischiata a farina; da «slug» = slang per nichelino), la forma
tonda di carne macinata rimane ancor oggi «la catena di montaggio del cibo
più a buon mercato» (come titolava Time nel novembre 1961), una sorta di
Model T (→) della gastronomia: basica, prodotta in enormi quantità e con
materiali non proprio di prima scelta, come ci racconta, fra gli altri, Upton
Sinclair nel romanzo La giungla, 1906.
I primi riferimenti all’hamburger risalgono al 1763, a quell’Art of Cookery,
Made Plain and Easy dell’inglese Hannah Glasse che fu prototipo dei ricettari
di tutte le casalinghe più o meno infelici (→ Economia domestica) e con
tutta probabilità attraversò l’oceano nel giro di pochi anni. Quello della
Glasse era certo un hamburger diverso rispetto alla variante odierna
(affumicato, con l’aggiunta di nocciole, aglio, vino e rum), ma il principio
era il medesimo: carne trita di parti poco nobili mischiate con spezie per
garantirne la conservazione.
Nonostante la storia ufficiale dell’hamburger (o «hamburg steak») su
suolo americano inizi con l’immigrazione di tardo Ottocento, le sue origini
risalgono più indietro nel tempo; con ogni probabilità, infatti, quando la
grande ondata di immigrati tedeschi arrivò nel Nuovo mondo con
l’apertura della linea navale diretta fra Amburgo e New York, trovò già il
familiare hamburger ad attenderli sulle banchine e nei dintorni del porto
oltreoceano.
Certo, la relazione culinaria fra le due città è innegabile – ma le sorti
dell’hamburger furono da principio un po’ diverse: se nella prima, trafficata
città portuale europea la carne era da tempo servita soprattutto tritata o
tagliata a pezzettini (come la cugina russa tartare), adatta a un pasto veloce
ed economico prima di imbarcarsi, a New York l’hamburger si era già fatto
largo nei ristoranti: come lo storico Delmonico’s, il cui primo menù, del
1837, riportava l’hamburger come piatto più costoso – ben 10 centesimi, il
doppio dell’arrosto. Perché, va detto, l’hamburger non era il piatto che si
pensava potesse invadere il mercato statunitense: richiedeva carne (un
lusso, fino a un secolo fa), e in particolare carne di bovino – non di maiale,
più diffusa fino alla Guerra civile (→) e anche più facile da conservare, in
forma di prosciutti e altri insaccati.
Tutto cambiò con la colonizzazione delle Grandi pianure, l’allevamento
su vasta scala di mucche e affini (→ Cowboy) e i nuovi sistemi di
lavorazione degli alimenti (→ Porkopolis). Cresciute e pasciute con l’erba
del Midwest e grazie alla velocità di spostamenti garantita dalla ferrovia (→
Promontory Point), le mandrie di bovini andavano a rifornire i macelli di
Chicago e da qui, sotto forma di carne fresca, si avviavano verso le case e le
strade delle grandi città. Bistecche e hamburger divennero così cibo alla
portata di ognuno, e un’alimentazione a base di carne assurse quasi a diritto
per i cittadini statunitensi – «un lusso che le nazioni europee ci possono
solo invidiare», come sosteneva, ancor prima dell’invasione di hamburger
sulle tavole, Richard Henry Dana nel suo libro Due anni a prora (1840).
E fin qui parliamo di carne macinata dalla forma più o meno sferica. Ma
chi ideò il primo hamburger vero e proprio (con due fette di pane intorno)
rimane incerto. A rivendicarne la paternità fu dapprincipio un sedicenne
del Wisconsin, Charlie Nagrees, che sostenne di aver messo una polpetta fra
due fette di pane e averla venduta alla Outgamie Country Fair nel 1885.
L’«Hamburger Charlie» divenne una presenza fissa alla fiera, tanto che nel
1990 il paese di origine del ragazzo, Seymour, costruì una Hamburger Hall
of Fame e diede avvio a una festa annuale a base di… be’, inutile dirlo.
Gli altri contendenti al titolo di inventori dell’hamburger sono invece
due fratelli originari dell’Ohio e trasferitisi nella cittadina di Hamburg, stato
di New York. I quali sostennero di aver venduto la prima «Hamburg steak»
alla fiera di Erie County nel medesimo anno di Nagrees: ma il fatto che nella
preparazione comparissero anche zucchero, caffè e spezie (insieme
all’improbabile rivendicazione di essere anche gli inventori del cono gelato)
getta più di un’ombra sulla loro presunta paternità. A questi va infine
aggiunto Fletcher Davis, venditore texano che spopolò con la sua carne alla
Fiera mondiale di St. Louis del 1904 (→ Esposizioni universali) e si guadagnò
a tal punto la fiducia degli studiosi di storia del cibo che il 2004 fu
festeggiato come il «centenario dell’hamburger».
A lanciare il prodotto sul mercato per il consumo di massa fu però Edgar
Waldo Ingram, l’Henry Ford degli hamburger, con la sua catena White
Castle, nata a Wichita nel 1916 e presto diffusasi negli stati centrali del
paese. Fu la pubblicità, più che la sostanza, a portare i suoi ristoranti al
successo – almeno se guardiamo all’hamburger sottile che era la specialità
della casa. Grazie a un marketing mirato a rassicurare le scettiche madri di
famiglia sulla salubrità di una dieta a base di hamburger (ritenuti fino a quel
momento, e non a torto, prodotto della carne di scarto) e della pulizia dei
suoi ristoranti e cucine (il «bianco castello», appunto, «per evocare pulizia e
forza»), Ingram arrivò nel 1930 alla bellezza di 116 ristoranti, costruiti in
serie, in cui l’arredamento, così come le procedure per cuocere il cibo,
l’abbigliamento degli inservienti e le materie prime, subirono negli anni un
esponenziale processo di uniformazione – grazie anche al maniacale
Ingram, che utilizzava il suo piccolo aereo privato per ispezioni a sorpresa.
Dopo il forzato cambio di nome durante gli anni della Prima guerra
mondiale (il troppo tedesco «hamburger» divenne per qualche tempo il
«panino della libertà»), l’hamburger iniziò nel dopoguerra la sua ascesa a
icona culturale. Gli anni venti e trenta lo videro protagonista di corti e
lungometraggi animati: a cominciare da Popeye (Braccio di Ferro) e dal
compagno di avventure Wimpy (Poldo, nella traduzione italiana), che
avrebbe fatto qualsiasi cosa per un hamburger (finendo per dare il nome a
una catena di fast food inglese) e proseguendo con il disneyano Re Mida
(1935), in cui Re Mida, dopo essere quasi morto di fame, decide di scambiare
il suo tocco magico con un hamburger («con cipolle!»).
Dobbiamo aspettare i fratelli McDonald perché l’hamburger diventi
l’emblema del cibo veloce e a buon mercato che lega e sfama l’intera
nazione. I due, gestori prima di un baracchino di hot dog a Pasadena e poi di
un drive-in (→) a San Bernardino fra la fine degli anni trenta e gli inizi dei
quaranta, vedendo un terzo dei propri guadagni evaporare in stipendi a
lavapiatti, camerieri e cuochi, e con una clientela ancora abituata a piatti e
forchette, decisero nel 1948 di rivoluzionare tutto: menù ridotto (a
hamburger e soft drink), stoviglie e piatti di carta e plastica e un sistema di
cottura degno della più efficiente catena di montaggio (battuto, qualche
decennio dopo, solo dal rivale Burger King). A nulla sarebbero però valsi gli
sforzi dei due fratelli, se un ambizioso affarista, Ray Kroc, non avesse preso
il comando dell’impresa trasformandola in un franchising rigidamente
controllato attraverso la standardizzazione delle procedure, con impiegati
da cui non ci si doveva attendere alcuna abilità in cucina (e dunque sempre
meno pagati), se non quella di eseguire alla lettera le istruzioni assegnate –
girare hamburger a un certo ritmo e velocità, usare frasi identiche per
rivolgersi alla clientela e nessuna deviazione dal protocollo. E così, i giovani
membri della generazione (→ Generazione) dei baby boomers in cerca di
qualche soldo per divertirsi divennero i lavoratori ideali della catena.
Lo sviluppo dei suburbs (→), l’aumento delle famiglie mononucleari e le
automobili fecero il resto. L’hamburger, dalle dimensioni ingigantite in
anni in cui ogni cosa doveva essere grande, è facile da consumare per chi
non ha tempo di fermarsi: si mangia mentre si guida, al drive-in o, nei
momenti di relax, nel giardino delle case suburbane, con l’uomo di famiglia
saldamente al comando del barbecue, autentico feticcio dagli anni cinquanta
in poi, che combinava interazione sociale e al contempo esibizione del
raggiunto benessere economico.
Come per la società intera, gli anni sessanta e settanta furono anni di
profondi cambiamenti anche per l’hamburger che, divenuto simbolo della
monotona quotidianità (e immortalato come uno spossato animale flaccido
dall’artista pop Claes Oldemburg nell’omonima scultura), perse terreno sul
mercato, trasformandosi in uno dei tanti cibi proposti dalle numerose
catene di fast food, sempre meno conveniente visto il rapido incremento dei
prezzi della carne. Anche la sua immagine si offuscò: la produzione in serie,
il senso di conformismo e l’assenza di un gusto forte e distintivo lo resero
poco appetibile (in senso anche letterale) in un mercato in cerca di nuove
esperienze e piaceri.
A salvare hamburger e fast food pensò la globalizzazione, che rese il
McDonald’s e i suoi hamburger una presenza forte sui mercati mondiali e il
segno distintivo dell’imperialismo cultural-gastronomico statunitense nella
sua forma più commerciale. Ronald McDonald, il clown effige della marca, e
i due archi gialli, che continuano a rappresentare nell’immaginario
collettivo il fast food per eccellenza, sono ancor oggi un simbolo più
riconosciuto a livello mondiale di quanto non sia la croce cristiana. Certo,
hamburger e fast food significano non solamente omologazione culturale,
ma anche spesso la violazione dei diritti dei lavoratori, una filiera
alimentare sempre meno regolamentata con cibi decisamente insalubri e
gravi conseguenze per la salute (come ha ben mostrato Morgan Spurlok nel
docufilm Super Size Me, del 2004). Non sorprende dunque che negli ultimi
anni i movimenti antagonisti, dall’Ecuador alla Francia, dalla Corea del Sud
all’Argentina, lo abbiano scelto a bersaglio prediletto delle loro proteste.
Al risveglio delle coscienze dei grandi, i fast food rispondono con il
corteggiamento dei piccoli: gadget, feste a tema e una dislocazione
geografica mirata a procacciare sempre più giovani clienti (serviti da poco
meno giovani addetti). Non a caso la più alta concentrazione di fast food su
suolo americano è nei pressi di Disneyland (→), in Florida: Orlando (in cui il
22% della popolazione è sotto i 18 anni) ne conta 463, vale a dire 196,3 ogni
100mila persone, con un tasso di obesità infantile in crescita costante.
Dentro e fuori dal regno di Disney, il «tocco d’oro» rimane prerogativa delle
grandi catene di fast food, che non barattano la ricchezza con un
hamburger, come fece Re Mida: ma su di esso continuano a costruire,
spregiudicati e quasi indisturbati, la loro fortuna.

BIBLIOGRAFIA
John A. Jackle, Keith A. Sculle, Fast-Food: Roadside Restaurants and the
Automobile Age, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1999.
Josh Ozersky, The Hamburger. A History, Yale University Press, New Haven
2008.
Eric Schlosser, Fast Food Nation: The Dark Side of the All-American Meal,
Houghton Mifflin, New York 2001.
C. SCHIA.

Hardboiled
Compiere un delitto è semplice – Raymond Chandler ne è convinto. Nella
maggior parte dei casi, chi uccide lo fa in un momento di particolare
tensione, senza averci pensato troppo, e con il primo oggetto a portata di
mano. Gli omicidi troppo elaborati di cui si occupano i mostri sacri
dell’investigazione – i vari Sherlock Holmes, Hercule Poirot, Philo Vance –
dimostrerebbero secondo Chandler che i loro creatori (sir Arthur Conan
Doyle, Agatha Christie, S.S. Van Dine) non sapevano di cosa stavano
parlando. Quest’argomentazione, che introduce La semplice arte del delitto
(un saggio del 1944), serve a Chandler per difendere la dignità letteraria
della scuola hardboiled, categoria alla quale lo scrittore era associato, pur
non essendone entusiasta, perché – come ogni narrativa di genere – godeva
di scarsa considerazione da parte dell’establishment letterario.
La denominazione hard boiled era in origine riferita a un uovo diventato
solido, quindi «duro», in seguito a bollitura e cominciò a diffondersi negli
anni venti del Novecento per indicare un atteggiamento «cinico» verso il
mondo – la si trova per esempio in Fiesta (1926) di Ernest Hemingway,
riferita al protagonista Jake Barnes. Era stata affibbiata ai narratori che
pubblicavano storie poliziesche sulla rivista Black Mask, fondata nel 1920 da
Henry Louis Mencken e a lungo diretta da George T. Shaw – storie che
avevano in comune la scelta di abbandonare gli ambienti chiusi delle
dimore aristocratiche tipici del giallo classico e prediligere come cornice
dell’azione le strade e i bassifondi delle città.
Chandler attribuisce a Dashiell Hammett la palma di caposcuola e
principale artefice del rinnovamento narrativo: perché ha restituito
l’assassinio «alle persone che lo commettono per delle ragioni, non per
fornire un cadavere», e con i mezzi a portata di mano, «non con pistole
intarsiate, curaro e veleni tropicali». Del resto, Hammett sapeva il fatto suo
riguardo al delitto, avendo lavorato per alcuni anni per l’agenzia
investigativa privata Pinkerton (→). E i suoi detective, il Continental Op di
Raccolto rosso (1929) e La maledizione dei Dain (1930) o il Sam Spade de Il falco
maltese (1930), ereditano dal loro «padre» una visione del ruolo come
professione, un impiego che si fa per soldi, senza slanci emotivi e anche con
un po’ di fastidio per gli inevitabili incontri/scontri con le figure del
sottobosco criminale della città o con poliziotti più abili nelle spacconate
che nella ricerca di fuorilegge.
Non che gli investigatori siano stinchi di santo – tutt’altro. Sono
personaggi a cavallo tra la legalità e il mondo criminale, parlano e agiscono
come i gangster a cui danno la caccia e, se necessario, non esitano a venire a
patti con loro. D’altro canto, sono pagati per risolvere i crimini e, nel
piccolo ambito di un «caso», riportare l’ordine. Da questo punto di vista,
sono la reincarnazione di una figura archetipa della letteratura americana:
il Calza di Cuoio di James Fenimore Cooper, personaggio in bilico tra due
mondi, quello dei coloni e quello degli indiani, ma che non appartiene a
nessuno dei due.
Così come Calza di Cuoio è abile a leggere i segni della natura e a trovare
il sentiero giusto in mezzo alla foresta, l’investigatore hardboiled è in grado
di districarsi nei tentacoli della «giungla d’asfalto» e utilizza quest’abilità
per risolvere i casi che gli sono affidati. Di rado viene chiamato in causa in
seguito a un omicidio – di solito si tratta di furti, infedeltà coniugali o
persone che scompaiono senza lasciare traccia. Poi, però, si trova coinvolto
in qualcosa di più grande, e ci scappa il morto. L’azione criminosa, dunque,
al contrario delle storie di Conan Doyle o Agatha Christie, non precede
l’inizio della narrazione, ma si sviluppa con essa. E il detective non
s’impegna in uno sforzo intellettuale per ricostruire il percorso del crimine,
ma è costretto ad agire, lottare, sparare – e spesso s’invaghisce di una
donna che farà di tutto per spezzargli il cuore.
La «rivoluzione» inaugurata da Hammett e dalla scuola hardboiled mette
la narrativa poliziesca al passo con i tempi. Le cronache, prendendo ancora
a prestito le parole di Chandler, raccontano di un mondo «in cui i gangster
possono governare le nazioni e per poco non governano le città» – un
fenomeno, quello della crescita della criminalità organizzata, che si
manifesterà proprio negli anni venti, effetto collaterale non previsto della
legislazione proibizionista (→ Proibizionismo).
Anche il cinema non aveva tardato a intuire che il pubblico potesse
subire il fascino di racconti ispirati alle imprese delle bande criminali: in
Piccolo Cesare (1931) di Mervin Le Roy e Scarface (1932) di Howard Hawks, gli
attori Edward G. Robinson e Paul Muni interpretano ruoli ispirati alla figura
di Al Capone. E, con il cinema, la letteratura hardboiled intrecciò un rapporto
complesso, fatto di concorrenza ma anche di scambi reciproci. Se da un lato
Hollywood saccheggiò la produzione narrativa, appropriandosi di soggetti e
lessico, e soprattutto pagando profumatamente gli autori per lavorare come
sceneggiatori, dall’altro è indubbia l’influenza che il linguaggio del film
ebbe sulla pagina scritta, con l’introduzione di tecniche narrative più agili,
come la presentazione della trama mediante sequenze e la costruzione di
alcune scene su veloci scambi di battute.
Chandler costituisce a questo proposito un caso curioso. I suoi romanzi
d’esordio, Il grande sonno (1939) e Addio, mia amata (1940), furono trasposti
per il grande schermo: il primo nel 1946 con regia di Howard Hawks e la
coppia Humphrey Bogart-Lauren Bacall nel cast; il secondo, con il titolo
L’ombra del passato (1944), con regia di Edward Dmytryk (→ Caccia alle
streghe) e la coppia Dick Powell-Claire Trevor. In seguito al successo dei
film, Chandler fu ingaggiato come sceneggiatore, con il compito di adattare
i lavori di altri colleghi – ne La fiamma del peccato (1944) riscrisse insieme al
regista Billy Wilder il libro di James M. Cain, mentre per L’altro uomo (1951)
di Alfred Hitchcock adattò il romanzo Sconosciuti in treno di Patricia
Highsmith. Quando lavorò su una sceneggiatura originale, però, Chandler
non ebbe grandi risultati: per completare La dalia azzurra (1946), lo scrittore,
in piena crisi di idee, si chiuse nella propria abitazione con una cassa di
scotch; riuscì a rispettare i tempi di consegna, ma ne venne fuori un film
dall’andamento sconnesso e poco convincente, specie nella relazione
sentimentale che nasce tra le star Veronica Lake e Alan Ladd.
Il meglio di sé Chandler lo diede con la creazione di Philip Marlowe,
l’investigatore che, oltre a riproporre i caratteri tipici di Sam Spade, a
differenza di questi è mosso anche da una forte spinta etica. Nei romanzi di
cui è protagonista, dal già citato Il grande sonno fino al superbo e nostalgico Il
lungo addio (1953), Marlowe impersona una versione aggiornata del
cavaliere errante, che tenta di riportare ordine in un mondo confuso, dove
niente è come sembra e dietro le grandi ricchezze – come quella degli
Sternwood ne Il grande sonno – si nascondono spesso operazioni illecite.
Seguire tutte le ramificazioni del genere, contemporanee o successive al
suo periodo d’oro (anni trenta-cinquanta), è qui impossibile: basti ricordare
i romanzi attenti alla «psicologia criminale» della già citata Highsmith, gli
universi metropolitani e notturni di Cornell Woolrich, le storie crude e
spietate di Jim Thompson; e, fra le rivisitazioni cinematografiche,
L’investigatore Marlowe (1969, tratto dal romanzo di Chandler La sorellina, con
James Garner), Il lungo addio di Robert Altman (1973, seconda trasposizione
dell’omonimo romanzo di Chandler, con Elliott Gould), Chinatown di Roman
Polanski (1974, con Jack Nicholson), Marlowe, l’investigatore privato, di Dick
Richards (1975, da Addio, mia amata, con Robert Mitchum, uno dei grandi
volti dell’hardboiled classico). E, perché no? Blade Runner (1982, di Ridley
Scott), che mescola due generi popolari come l’hardboiled e la fantascienza.
Ma l’elenco, di opere sia letterarie sia cinematografiche, sarebbe davvero
lungo. Diventato fenomeno di massa, l’hardboiled perse col tempo la
componente di critica sociale e declinò, nelle parole di Alberto Del Monte,
in «un angusto repertorio di personaggi stereotipati che si ripete con
squallida monotonia» – un detective grezzo, alcolizzato ed erotomane,
protagonista di storie dove la violenza è sempre più gratuita e fine a se
stessa.
Nel formulare questi giudizi impietosi, Del Monte aveva in mente Mike
Hammer, la creatura di Mickey Spillane, protagonista (nel secondo
dopoguerra) di una decina di romanzi che vendettero milioni di copie e,
com’è ovvio, ebbero numerose imitazioni, fino ai giorni nostri. Ai margini,
però, è sopravvissuto un filone che, negli stretti confini imposti dal genere
letterario, associa all’intrattenimento la voglia di raccontare alcune realtà
geografiche e sociali al di là dei luoghi comuni. È questo il caso di Chester
Himes, narratore afroamericano che raccontò una Harlem (→) dove
accanto alla criminalità e alla povertà sopravvive una forte cultura del
ghetto (Rabbia ad Harlem, 1957, e Soldi neri & ladri bianchi, 1965). Più vicino a
noi, spicca James Ellroy, autore della «tetralogia di Los Angeles» (Dalia nera,
Il grande nulla, L.A. Confidential e White Jazz, 1987-1992), nella quale presenta
una ricostruzione storica «alternativa» della metropoli californiana durante
gli anni cinquanta, dove prevalgono degrado, corruzione e strani intrecci
tra politica e malavita. L’esplorazione di territori «altri» è una costante
anche nei romanzi di alcuni scrittori «sudisti», come James Lee Burke,
James Sallis e Joe R. Lansdale. Il primo, attraverso gli occhi del detective
cajun (→) David Robicheaux, porta alla luce le ferite, rimaste aperte sin
dalla Guerra civile (→), che continuano a tormentare le comunità della
Louisiana e avvelenare i rapporti tra le persone (L’occhio del ciclone, 1993);
Sallis ricostruisce le trasformazioni che hanno interessato New Orleans
nelle avventure dell’investigatore nero Lew Griffin (La mosca dalle gambe
lunghe, 1992, e Il calabrone nero, 1994); Lansdale, infine, nel ciclo di romanzi
che ha per protagonista la «strana coppia» Hap & Leonard – un bianco della
working class e un omosessuale nero – riscopre un Texas rurale piagato da
razzismo, ignoranza e povertà (Il mambo degli orsi, 1995).
Sono tutti personaggi ai margini della società, questi detective moderni
– uno status che ripropone il destino toccato in sorte al loro «padre»
Dashiell Hammett. Durante la «Caccia alle streghe» (→), implicato in un
procedimento giudiziario, si rifiutò di fare i nomi degli appartenenti a
un’organizzazione di sinistra e venne condannato al carcere per oltraggio
alla corte. Scontata la condanna, fu inserito nella «lista nera» di Hollywood
e non fu più in grado di trovare lavoro come sceneggiatore e dialoghista.
Morì nel 1961, in estrema povertà.

BIBLIOGRAFIA
Alessandro Agostinelli, Una filosofia del cinema americano. Individualismo e noir,
Edizioni ETS, Pisa 2004.
Alberto Del Monte, Breve storia del romanzo poliziesco, Laterza, Bari 1962.
Carlo Oliva, Storia sociale del giallo, Todaro, Lugano 2003.
Renato Venturelli, L’età del noir. Ombre, incubi e delitti nel cinema americano,
1940-60, Einaudi, Torino 2007.
S.M.Z.
Harlem (New York)
Il brano del cantante soul Bobby Womack «Across 110th Street» (1972) non
usava mezzi termini per segnalare che, anche se parte di Manhattan da un
punto di vista geografico, Harlem costituiva un universo a parte: passato il
confine della 110ª Strada si incontra una popolazione di magnaccia,
prostitute, spacciatori e drogati – i fantasmi visibili della «capital of every
ghetto town», dove la popolazione afroamericana viveva in condizioni di
indigenza, piagata da bassa alfabetizzazione e scolarità, dipendenza da alcol
e stupefacenti, gravidanze precoci, ricorso abnorme all’assistenza sociale.
La distanza economica e culturale veniva evocata nella serie televisiva Il mio
amico Arnold (1978-1986 → Serie tv), costruita intorno all’adozione di due
ragazzini afroamericani da parte di un facoltoso borghese bianco, e sul
conseguente trasferimento dei due da Harlem a Park Avenue. Il giovane
protagonista, interpretato dall’attore Gary Coleman (affetto da una
patologia che gli bloccò per sempre la crescita), non risparmiava battute sul
quartiere nero: anche a Harlem c’erano case grandi come quelle di Park
Avenue, ma cadevano a pezzi. Famiglie di otto persone vivevano in una
stanza. E l’acqua corrente non mancava mai – se per caso finiva quella del
serbatoio si poteva comunque fare la doccia in strada, bastava aprire gli
idranti. Un luogo che Arnold è ben felice di essersi lasciato alle spalle.
Eppure, c’era stato un tempo in cui Harlem poteva vantare una
reputazione paragonabile a quella dei migliori quartieri di New York. Per
tutto il XIX secolo e l’inizio del XX, infatti, Harlem aveva uno spiccato profilo
residenziale, e andare ad abitarvi era sinonimo di promozione sociale.
Alcuni romanzi di inizio Novecento, come The Rise of David Levinsky (1917) di
Abraham Cahan e Lo zio Mosè (1918) di Scholem Asch, raccontano di
immigrati ebrei che, accumulata una piccola fortuna, non esitano ad
abbandonare i tenements del Lower East Side (→) per trasferirsi negli
spaziosi appartamenti di Harlem. Non va inoltre dimenticato che la parte
orientale del quartiere, nota come «East Harlem», ha avuto una storia
diversa. Per lungo tempo enclave italiana – qui Garibaldi Lapolla ambientò il
romanzo The Grand Gennaro (1935), dedicato alle vicende di un emigrato
calabrese, e qui nacque l’attore Al Pacino – a partire dagli anni quaranta,
con l’arrivo dei portoricani, questa sezione diventò una delle principali
comunità latinas di New York, prendendo il nome di «Spanish Harlem» o «El
Barrio».
Furono i coloni olandesi a battezzare Nieuw Haarlem questo tratto
dell’isola di Manhattan, allora abitato dalle tribù native dei lenape. Fino al
1870, l’area rimase poco abitata per via della distanza dal cuore di New
York, e ciò consentì di mantenerne intatto il carattere rurale. Dimore
aristocratiche erano sparse in mezzo alle colline: visitabile ancor oggi è la
Morris-Jumel Mansion, l’abitazione più antica di Manhattan, datata 1765 –
una villa a due piani di impeccabile colore bianco, con tanto di portico
d’entrata sorretto da colonne, che servì da quartiere generale di George
Washington nella battaglia di Harlem Heights, durante la Guerra
d’indipendenza (1776 → Rivoluzione americana).
Nel 1881, l’isolamento fu rotto dall’inaugurazione di tre linee della
sopraelevata: il collegamento veloce tra la 125ª Strada e il quartiere degli
affari (→ Wall Street) aprì i terreni liberi alla speculazione edilizia e alla
costruzione di abitazioni di pregio per il ceto imprenditoriale e
impiegatizio. A Stanford White, vera e propria archistar dell’epoca, venne
commissionata la costruzione di 116 alloggi monofamiliari, ognuno con un
numero di stanze che variava da 10 a 16: con il nomignolo «Strivers’ Row»,
queste abitazioni trasformarono la 139ª Ovest nella strada più aristocratica
di Harlem. Non stupisce, pertanto, che nel 1889 sulla 125ª venisse costruita
anche una Harlem Opera House.
Il boom finì per implodere. Gli speculatori si accorsero troppo tardi che
le abitazioni sul mercato eccedevano l’effettiva domanda e che in pochi
potevano permettersi i costi e gli affitti alti. Come recuperare gli
investimenti sostenuti? Alcuni affaristi pensarono di attirare a Harlem gli
afroamericani sfrattati da San Juan Hill, una zona di Midtown (tra la 59ª e la
65ª Ovest) in cui interi isolati erano stati abbattuti per far spazio alla Penn
Station. William Payton, proprietario dell’agenzia immobiliare African
American Realty Company, accumulò una grossa fortuna grazie a un
semplice stratagemma: prendeva in affitto interi condomini rimasti vuoti e,
dopo averne suddiviso gli appartamenti in unità abitative più piccole, li
riempì di afroamericani, facendo pagare un canone maggiorato rispetto al
prezzo corrente – un abuso che si diffuse quando divenne chiaro che per i
neri di New York sarebbe stato difficile scegliere di vivere altrove a causa
della tacita, ma non per questo meno efficace, discriminazione residenziale.
Nei primi tempi, la concentrazione etnica non fu vissuta come un limite:
al contrario, rappresentò l’opportunità di avere a disposizione uno spazio,
fisico ma anche metaforico, dove poter elaborare e sviluppare forme
culturali autonome – dando vita a quello che sarebbe diventato noto come
«Rinascimento di Harlem» (Harlem Renaissance). Il quartiere attrasse le
migliori energie creative e intellettuali della comunità afroamericana.
Riviste come The Crisis (fondata da W.E.B. Du Bois) e Opportunity
cominciarono a pubblicare i versi e i racconti di una nuova generazione di
autori neri che non si limitavano a riproporre forme copiate dalla
letteratura ufficiale, ma cercavano di recuperare la cultura tradizionale e
l’uso del vernacolo. Il Lafayette Theatre, sulla 132ª, fu il primo teatro in
assoluto a dare spazio a cast di attori misti, bianchi e neri. Fu in campo
musicale, però, che Harlem partorì i contributi più significativi, con la
riscoperta delle forme nate nelle piantagioni del Sud quali blues, gospels e
spirituals, ma anche con l’affermazione del jazz, un genere che diventò
popolarissimo, tanto che una delle denominazioni con cui vengono
ricordati gli anni venti è appunto «Jazz Age» (→). Nelle sale da ballo
impazzava lo swing delle orchestre di Duke Ellington, Cab Calloway e Count
Basie, mentre dietro i microfoni si esibivano le cantanti Ella Fitzgerald,
Bessie Smith e «l’angelo di Harlem», Billie Holiday.
Documento chiave di questo periodo è l’antologia The New Negro (1925),
curata da Alan Locke e contenente una serie di interventi firmati dalla
crema dell’intellighenzia afroamericana: i poeti Jean Toomer, Langston
Hughes e Claude McKay, la scrittrice-antropologa Zora Neale Hurston, il
romanziere James Weldon Johnson. I saggi testimoniavano la raggiunta
maturità della comunità e, attraverso la rivendicazione della dignità del
proprio retaggio culturale, prefiguravano un ruolo più attivo dei neri in
seno alla società. Un anno dopo, nel 1926, la collezione di documenti
dell’appassionato di cultura nera Arturo Alfonso Schomburg fu trasferita
nella biblioteca pubblica sulla 135ª Strada, dando vita allo Schomburg
Center for Research in Black Culture, da allora uno dei principali centri per
lo studio della cultura afroamericana.
Il progresso culturale di Harlem, però, nasceva zoppo, dipendente
com’era da una fascinazione «esotica» da parte della cultura «ufficiale» per
il nero, visto come creatura sensuale e primitiva. Durante il Proibizionismo
(→), Harlem divenne un’oasi di permissività, meta dei pellegrinaggi
notturni di borghesi e intellettuali bianchi in cerca di sensazioni forti –
alcol, droga, prostitute, gioco d’azzardo. Questo «grande bazar in
technicolor» è descritto da Malcolm X nella prima parte della sua
Autobiografia (1965): giunto a Harlem ancora adolescente, il futuro leader
politico entrò a far parte della vasta schiera di piccoli trafficanti che
alimentava l’economia informale del quartiere, imparando a districarsi tra
le insidie della vita di strada. Solo durante la successiva permanenza in
carcere, Malcolm si rese conto dell’imbarazzante incapacità di articolare il
pensiero in forma scritta e di capire il significato della maggior parte delle
parole che trovava nei libri – una «patologia» tutt’oggi diffusa nei ghetti
afroamericani e indicativa dei persistenti problemi sociali che affliggono
queste realtà.
Il precario equilibrio su cui si reggeva Harlem durante l’epoca d’oro
degli anni venti era destinato a rompersi in fretta: un flusso continuo di
migranti dal Sud (spesso sotto la pressione del razzismo istituzionale o delle
persecuzioni del Kkk →) accentuò il già grave problema di
sovraffollamento, mentre una percentuale eccessiva della forza lavoro era
impiegata in occupazioni a basso reddito e scarsa qualifica – un esercito di
domestici, sguatteri, guardiani, camerieri che, con l’arrivo della Grande
depressione (→) e il peggioramento delle condizioni economiche, si ritrovò
disoccupato. La situazione di disagio sfociò in aperta rivolta il 19 marzo 1935
con l’assalto ai negozi lungo la 125ª: in larga parte di proprietà di bianchi, le
attività commerciali erano considerate l’elemento più visibile
dell’oppressione razziale. Altri disordini scoppiarono nel 1943 (rievocati nel
romanzo di Ralph Ellison Uomo invisibile, del 1952) e di nuovo nel 1964:
questi ultimi, durati sei giorni, funsero da prologo alla serie di disordini che
avrebbero toccato vari punti degli Stati Uniti nella seconda metà degli anni
sessanta (→ Disordini).
Il disagio fornì spunti per una serie di film polizieschi del genere
blaxploitation – pellicole interpretate da attori neri per un pubblico nero.
Titoli quali Cotton Comes to Harlem (1970, da un romanzo di Chester Himes) e
Black Caesar (1973) esibivano un quartiere pattugliato da spacciatori,
prostitute e piccoli tirapiedi dei boss, mentre fanciulli e adolescenti erano
iniziati alla dura vita di strada tra cortili pieni di immondizia e tenements
dagli interni malridotti. Per una rappresentazione al di là degli stereotipi
bisognerà aspettare la fine degli anni ottanta: in Jungle Fever (1991), il regista
Spike Lee affronta i dubbi e i complessi nei confronti dei «bianchi» che,
nonostante l’istruzione e il relativo benessere, la borghesia afroamericana
non riesce a scrollarsi di dosso.
A lungo andare, la gentrification (→) si è fatta strada anche a Harlem:
ripresi i pellegrinaggi di turisti, indirizzati dalle guide a provare la cucina
tradizionale da Sylvia’s su Lenox Avenue, oppure ad assistere a una fluviale
messa gospel in una delle chiese del quartiere, il confine della 110ª Strada è
tornato poroso, facendo filtrare un contingente di professionisti e studenti
della vicina Columbia University alla ricerca di affitti alla portata delle loro
tasche. E, a sancire la definitiva «abitabilità» per i bianchi, la decisione da
parte dell’ormai ex presidente Clinton, nel 2001, di insediare gli uffici delle
proprie iniziative sulla 125ª Strada. Attenzione, però: il recente film
indipendente Precious (2009), che racconta la problematica esistenza di una
ragazza-madre afroamericana, ricorda il permanere di sacche di povertà e
disagio – e tutto sommato trascorrere l’infanzia e l’adolescenza a Park
Avenue anziché a Harlem sembra ancora poter garantire maggiori
possibilità di costruirsi un avvenire.

BIBLIOGRAFIA
Eric Homberger, New York City, Bruno Mondadori, Milano 2003.
Gilbert Osofsky, Harlem: The Making of a Ghetto, Ivan R. Dee Publisher,
Chicago 1963.
S.M.Z.

Harley Davidson
«Libero di limiti e linee immaginarie / vado dove voglio, totale e assoluto
signore di me»: sono versi di Canto della strada, poesia di Walt Whitman che
esprime l’affinità tra l’americano e il viaggio – quest’ultimo inteso come
esperienza totalizzante di comunione tra sé e il mondo. Non è escluso che,
se fosse vissuto un secolo più tardi, Whitman si sarebbe aggregato ai due
motociclisti protagonisti del film Easy Rider (1970): in sella a un chopper
Harley Davidson, avrebbe solcato le strade del paese passando attraverso
piccole città (→), pianure desertiche (→ Deserti) e boschi secolari.
La motocicletta ha fatto breccia nel cuore degli americani perché
consente di vivere in maniera nuova e indipendente l’esperienza del
rapporto con la natura (→ Wilderness) e, rispetto alle automobili (→ Model
T), offre un grande vantaggio: come sintetizza Robert M. Pirsig, autore del
classico Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta (1974, un testo a
metà tra il racconto di viaggio e la meditazione filosofica), quando ci si
trova all’interno di un abitacolo «tutto quello che vedi da quel finestrino
non è che una dose supplementare di tv», mentre andando in moto «la
cornice non c’è più» e il guidatore non è più spettatore, ma parte della
scena.
La Harley Davidson, grazie alla linea estetica facile da riconoscere –
manubrio alto e incurvato, due mezzi serbatoi sui quali è posizionato il
tachimetro, sella doppia e borse laterali –, più di altre case costruttrici ha
saputo mettere sul mercato modelli adatti alla simbiosi con l’ambiente. Le
origini risalgono agli inizi del Novecento e all’incontro tra William S. Harley
e Arthur Davidson, due amici di Milwaukee con la passione per i motori e le
biciclette, che vollero sperimentare la possibilità combinare le due cose,
come peraltro altri stavano facendo in Europa da qualche anno. Nel 1903, i
due realizzarono un prototipo (leggenda vuole che il carburatore fosse stato
ricavato da una latta per la conserva di pomodoro): il motore, con una
capacità di 400 centimetri cubici e una potenza di tre cavalli, raggiungeva i
40 chilometri orari, ma non era abbastanza potente da affrontare tratti di
strada ripidi.
Decisi a trasformare l’hobby in attività redditizia, i due amici, insieme ai
fratelli di Arthur, William e Walter, fondarono nel 1907 la Harley Davidson e
acquistarono un capannone nella zona industriale di Milwaukee. Qui, nel
1909, realizzarono il motore bicilindrico a V, che con il tempo diventerà una
delle componenti distintive dei loro modelli: sistemato sotto la canna
orizzontale del telaio, con una capacità di 850 centimetri cubici e una
potenza di 6 cavalli, il nuovo motore toccava i 100 chilometri orari.
La notorietà nazionale arrivò grazie all’impiego in guerra: nel 1916, le
Harley accompagnarono la spedizione del generale Pershing contro i ribelli
messicani di Pancho Villa, mentre nel 1918 l’esercito americano le utilizzò
in Europa durante il primo conflitto mondiale. Lo scatto che ritraeva il
soldato Roy Holtz, a bordo di una Harley, che entrava per primo nella
Germania ormai sconfitta fece il giro del mondo e regalò alla casa di
Milwaukee enorme popolarità: e dire che lo stesso Holtz ammise di avere
varcato il confine per caso, poiché stava vagando da alcuni giorni dopo aver
perso contatto con la sua unità…
Con gli anni venti (→ Jazz Age), il relativo benessere e una rinnovata
propensione al consumo, incentivata dalla pubblicità («la natura e la Harley
Davidson ti chiamano», diceva uno dei tanti annunci) e dal pagamento a
rate, garantirono una vasta espansione della produzione. Ma, nel decennio
successivo (→ Grande depressione), l’attività crollò e l’azienda rischiò di
chiudere. Si tentò di rimediare riducendo di due giorni la settimana
lavorativa e rinnovando l’estetica dei modelli: tenuta a galla dagli ordinativi
di polizia, poste e società dei telefoni, la Harley fu una delle due case di
motociclette che riuscirono a sopravvivere agli anni trenta. La salvezza
arrivò grazie alle commesse militari durante la Seconda guerra mondiale: la
Harley Davidson produsse 90mila esemplari in quattro anni e i progettisti
lavorarono anche a un prototipo di carro armato, che però non entrò mai in
produzione.
A guerra finita, la reputazione della motocicletta e dei motociclisti subì
un radicale cambiamento. Nel 1947, per celebrare la festa del 4 luglio, la
cittadina californiana di Hollister organizzò una corsa motociclistica
amatoriale. All’evento si presentarono molti più concorrenti del previsto e,
in attesa della gara, si sistemarono ai lati delle strade, dandosi all’alcol e a
gare di accelerazione che sfociarono in incidenti e risse. I giornali
amplificarono la portata degli eventi, parlando di un’invasione di
motociclisti che avevano messo a ferro e fuoco la pacifica cittadina. Ai fatti
di Hollister si è poi ispirato il film Il selvaggio (1953), interpretato da Marlon
Brando, duro dal cuore tenero, da cui discende in linea diretta un altro
motociclista dello spettacolo, l’Arthur Fonzarelli («Fonzie») di Happy Days
(→ Serie tv).
Nel 1948, a Fontana, vicino a Los Angeles, un gruppo di motociclisti
fondò gli Hell’s Angels, la gang (→) le cui imprese, riportate da quotidiani e
settimanali, scandalizzarono il paese durante gli anni sessanta. Lo scrittore
Hunter Thompson visse per un anno a contatto con il gruppo e nel
reportage «The Motorcycle Gangs: Losers and Outsiders», pubblicato da The
Nation nel 1965, e nel successivo libro Hell’s Angels (1967), tratteggiò uno
scenario che andava oltre il facile sensazionalismo giornalistico,
sottolineando come la carta stampata avesse invece contribuito ad
aumentare le affiliazioni e a creare un clima di tensione con le forze di
polizia.
Sebbene la moto più diffusa tra gli Angels fosse la Harley 74, i membri
della gang non ne erano entusiasti e, data la mole imponente, le avevano
affibbiato due soprannomi non proprio lusinghieri: «camion della
spazzatura» e hog (maiale). Per essere funzionale, il maiale andava tagliato
(= chopped, da cui l’espressione chopped hog o chopper a indicare le moto
personalizzate): così alleggerita, la moto batteva in velocità i modelli
britannici, come la Triumph usata da Brando nel Selvaggio.
Nel secondo dopoguerra, le migliori prestazioni delle moto britanniche e
i prezzi concorrenziali di quelle giapponesi intaccarono la supremazia della
Harley sul mercato statunitense. La casa di Milwaukee investì ingenti
risorse in una battaglia per difendere le posizioni, cercando di rinnovarsi e
producendo nuovi modelli più al passo con i tempi. La boccata d’ossigeno
arrivò tuttavia solo a partire dagli anni ottanta, quando, grazie a una
pressante e dispendiosa campagna di lobbying (→ Lobby & caucus),
l’amministrazione Reagan acconsentì a imporre forti dazi sulle motociclette
importate. In seguito, la via d’uscita arrivò da una fonte inaspettata: i nuovi
acquirenti erano facoltosi professionisti di mezza età ai quali la moto, anche
solo per il breve spazio di una scampagnata, riusciva a restituire un po’ di
gioventù, liberi da limiti e linee immaginarie.

BIBLIOGRAFIA
Albert Saladini, Pascal Szymezak, Harley Davidson, uno stile di vita. Cento anni
di un mito, White Star, Vercelli 2002.
Herbert Wagner, At the Creation: Myth, Reality, and the Origin of the Harley-
Davidson Motorcycle, 1901-1909, Wisconsin Historical Society Press, Madison
2003.
S.M.Z.

Harpers Ferry
Il 16 ottobre 1859, un gruppo di abolizionisti guidato dal cinquantanovenne
John Brown e composto di sedici bianchi (fra cui due figli di Brown, Watson
e Oliver), tre neri liberi, uno schiavo liberato e uno fuggiasco, assaltò
l’arsenale militare della cittadina di Harpers Ferry, in Virginia (oggi, West
Virginia). L’obiettivo degli abolizionisti, punto culminante di una serie di
azioni precedenti, era quello di impadronirsi delle armi e di fomentare una
sollevazione degli schiavi nella regione, spingendosi poi a sud attraverso i
monti e le gole degli Appalachi (→ Appalachia), verso il cuore degli stati
schiavisti. Il piano (che Brown aveva discusso anche con due figure centrali
del movimento abolizionista, gli ex schiavi Harriet Tubman e Frederick
Douglass, ricevendo da quest’ultimo una valutazione negativa →
Underground Railroad) non ebbe fortuna: asserragliati nell’arsenale,
circondati dalle milizie della Virginia e del Maryland e poi dai marine
comandati dal colonnello Robert E. Lee (→ Guerra civile), nel giro di due
giorni gli abolizionisti furono sconfitti – otto caddero uccisi (fra cui i due
figli di Brown), sette vennero catturati, solo quattro riuscirono a fuggire.
John Brown, ferito, fu rinchiuso nella prigione della vicina Charlestown,
processato e, il 2 novembre, dichiarato colpevole di omicidio, cospirazione e
tradimento nei confronti dello stato della Virginia. Nonostante la
mobilitazione di numerosi abolizionisti e scrittori (fra cui Henry David
Thoreau, che il 30 ottobre 1859 tenne un appassionato discorso a Concord,
nel Massachusetts: «A Plea for Captain John Brown»), fu impiccato il 2
dicembre. In un ultimo messaggio, scarabocchiato poco prima
dell’esecuzione e consegnato a una guardia, scrisse: «Io, John Brown, sono
ora certissimo che i delitti di questo colpevole paese non saranno mai lavati che
dal sangue. Invano, ora capisco, mi illudevo che ciò si potesse ottenere senza
spargere molto, molto sangue».
Poco più di un anno dopo, il South Carolina si staccò dall’Unione, presto
imitato, nei sei mesi successivi, da altri dieci stati; e il 12 aprile 1861, le forze
confederate attaccarono una postazione dell’esercito degli Stati Uniti a Fort
Sumter (South Carolina): aveva inizio la sanguinosissima Guerra civile e
l’inno di marcia delle armate del Nord diventò presto un canto intitolato
prima «John Brown’s Song» e poi «John Brown’s Body» («John Brown’s
body lies a-moulderin’ in the grave, / His soul is marchin’ on»). Sulle note
di quel canto, l’attivista e scrittrice Julia Ward Howe compose nel 1861 «The
Battle Hymn of the Republic», in cui però non si faceva più riferimento a
John Brown (dalla prima quartina John Steinbeck trasse nel 1939 il titolo per
il suo romanzo più famoso: The Grapes of Wrath, «i grappoli dell’ira» – in
italiano, Furore).
Rivolte di schiavi (→) a parte, il tentativo di John Brown non era stato il
primo. Già nel 1815, l’abolizionista bianco George Boxley aveva radunato un
certo numero di schiavi in alcune contee della Virginia e messo insieme
armi e cavalli, con l’idea di attaccare Richmond. Il piano era andato in fumo
per una delazione: gli schiavi furono incarcerati o impiccati, ma Boxley
riuscì a fuggire, continuando la propria attività abolizionista in Ohio e
Indiana. John Brown, tuttavia, operò in un contesto e in un momento più
critici, e la sua azione fu più ampia.
Era nato a Torrington, nel Connecticut, all’alba del secolo; aveva fatto
l’allevatore e il conciapelli in Pennsylvania e Ohio, e poi l’allevatore di
pecore e il mercante di lane; s’era sposato due volte e aveva avuto un totale
di diciassette figli (molti dei quali l’avrebbero seguito nella disperata
avventura); era un abolizionista più «etico» e religioso che altro, con il
progetto – mai concretizzatosi – di aprire una scuola per l’educazione dei
neri. Poi, nel 1846, con la ditta di lane che apre un deposito ed emporio a
Springfield (Massachusetts), la svolta: vicino di casa è Frederick Douglass, il
campione militante della causa abolizionista, lo schiavo che ha imparato a
leggere e scrivere ed è riuscito a fuggire al Nord, e l’intero stato
(fortemente abolizionista e uno dei punti d’approdo di tante fughe dal Sud)
è in fermento. Pur conservando un forte afflato religioso, Brown va oltre le
originarie posizioni, si convince che quello della schiavitù è un problema di
forza, perché – come scriverà – «la schiavitù è uno stato di guerra». Nel
1849, chiude l’emporio e si stabilisce a North Elba, nello stato di New York,
dove inaugura una colonia di schiavi liberi e fuggiaschi. Ma dell’anno
seguente è una legge che commina pene severe a chi aiuta o nasconde
schiavi in fuga (basta la denuncia di chi si dichiari – a torto o ragione –
proprietario): di nuovo, si tratta di una questione di forza. Così, Brown
forma nel 1851 la «Lega dei Gileaditi», che presto annovera una trentina di
membri, una vera organizzazione armata di battaglia che ha nei neri non
solo il nucleo, ma soprattutto il nerbo.
Sono anni turbolenti – di colonizzazione dell’Ovest, con tutte le
contraddizioni che quell’esperienza reca con sé. Tre figli partono per il
Territorio del Kansas, con l’aspirazione di unirsi a coloro che intendono
farne uno «stato libero», ed esortano il padre a raggiungerli. A seguito del
Kansas-Nebraska Act (che lasciava liberi i coloni decisi a stanziarsi in quelle
regioni di decidere se accettare o meno la schiavitù), il Territorio riceve il
soprannome di «Bleeding» (= sanguinante, insanguinato), per lo scontro
aperto fra schiavisti (i cosiddetti «Border Ruffians») e abolizionisti militanti
(o «Jayhawkers»): e fra questi ultimi compare presto John Brown, a fianco
dei suoi figli. La storia – complessa – si può riassumere così: nella primavera
del 1855, i fautori della schiavitù hanno la meglio e impongono leggi che
colpiscono gli abolizionisti; i Free-State Men riescono però a far passare una
costituzione antischiavista; il Territorio si divide in due aree in violento
contrasto, sotto due governi distinti: a Lawrence quello antischiavista, a
Leavenworth quello filoschiavista. Nel dicembre, scoppia una guerra locale,
conclusa da un compromesso, ma nel maggio 1856 la cittadina di Lawrence è
messa a ferro e fuoco dai «Border Ruffians». A questo punto, John Brown
raduna una pattuglia formata da sei dei suoi figli e dal genero e, a fine
maggio, presso il Pottawatomie Creek, si scontra con i «Ruffians»,
uccidendone cinque; a fine agosto, il gruppo, forte ormai di una quarantina
di uomini, attacca i 250 uomini comandati da John W. Reid, veterano della
recente guerra contro il Messico: presso Osawatomie, Brown ha la peggio (e
perde uno dei figli in un’imboscata), ma la resistenza è tanto eroica e le
perdite inflitte agli uomini di Reid così significative da fargli guadagnare il
soprannome di «Osawatomie Brown» e da indurre gli avversari dello stato
libero a rivedere i propri piani. Fra l’agosto e il dicembre 1856, il gruppo
ripiega infine nel vicino Ohio.
Ma «Il Vecchio», com’era chiamato, non cessa le sue azioni: raccoglie
fondi, scrive lettere vibranti agli abolizionisti cercando di convincerli ad
andare oltre le parole, compone documenti in cui ripercorre la tradizione
rivoluzionaria americana e, dopo un ennesimo massacro di Free-State Men
nel maggio 1958, scende di nuovo in campo, con lo pseudonimo di Shubel
Morgan, attaccando un forte per far fuggire un prigioniero, liberando a
forza undici schiavi nel Missouri e conducendoli in salvo nel Canada,
inseguito per 82 giorni e lungo 1100 miglia di strade e sentieri gelati da
volontari allettati dalle taglie messe sul suo capo dal presidente Buchanan
(250 dollari) e dal governatore del Missouri (3000 dollari).
In quello stesso maggio 1858, John Brown, noto ormai come «Il
Capitano», stila la «Provisional Constitution and Ordinances for the People
of the United States», che viene approvata e adottata dai suoi quarantasei
partigiani, in gran parte neri, riunitisi a Chatham, nel Canada occidentale:
45 articoli, con minute disposizioni sui poteri legislativo, esecutivo,
giudiziario e sulle forze militari della futura Unione rinnovata e liberata
dalla schiavitù – un’autentica Costituzione, scritta in casa di Frederick
Douglass e con la sua collaborazione. Da quel momento, fra pause di
riflessione e discussioni accese con altri abolizionisti, è guerra: Harpers
Ferry è all’orizzonte.
Visionario, fanatico religioso, abolizionista intransigente, estremista:
molti furono nel tempo i ritratti proposti di quest’uomo sicuramente
incorruttibile, sinceramente preso dalla volontà di por fine all’obbrobrio
della schiavitù, a costo del martirio. Come ebbe a dire Frederick Douglass, in
un discorso tenuto il 30 agosto 1881: «Il suo zelo per la causa della mia razza
fu di gran lunga maggiore del mio – fu come il sole che brucia, in confronto
con la fiammella del mio stoppino: la mia luce era confinata nel tempo, la
sua si stendeva ovunque, fino alle rive senza fine dell’eternità. Io seppi
vivere per lo schiavo, lui per lo schiavo seppe morire».

BIBLIOGRAFIA
John Brown, La schiavitù è uno stato di guerra, a cura di Bruno Maffi, il
Saggiatore, Milano 1962.
Frederick Douglass, Memorie di uno schiavo fuggiasco, Manifestolibri, Roma
2011.
Giulio Schenone, John Brown. L’apostolo degli schiavi, Mursia, Milano 1984.
M.M.

Hawaii
Qual è l’unico stato degli Usa i cui confini non contengono neanche una
linea retta? Dopo aver guardato con cura la mappa ed essere risaliti fino
all’Alaska senza trovare la risposta, l’occhio si accorge alla fine di
quell’arcipelago un po’ discosto, giusto in mezzo all’Oceano Pacifico, e
trova la soluzione – che, a ben pensarci, pare ovvia. Si tratta delle Hawaii, e
la curiosità topografica permette di apprezzare l’anomalia rappresentata da
questo gruppo di isole nell’ambito statunitense. Distanti circa 3200
chilometri dalla costa californiana, le Hawaii furono ammesse a far parte
dell’Unione solo nel 1959, ultimo passaggio di un processo di
appropriazione che durava da circa un secolo.
L’arcipelago, di origine vulcanica, risulta abitato sin dal 300 a.C. da
popolazioni di origine polinesiana e aveva visto il fiorire di una civiltà
autoctona. Come per tutti quei territori «esotici» scoperti da intraprendenti
esploratori occidentali, lo spartiacque nella storia delle Hawaii fu l’arrivo
nel 1778 del navigatore inglese James Cook, e da allora le isole vennero di
forza assorbite nella sfera dell’Occidente. A coronamento di questa
appropriazione, Cook battezzò l’arcipelago «isole Sandwich», in onore di
uno dei suoi principali finanziatori, John Montagu, signore di Sandwich.
Strategicamente situate a metà strada tra l’Asia e l’America, le Hawaii
diventarono un passaggio obbligato per navi mercantili e baleniere in cerca
di rifornimenti e nativi da arruolare, con o senza il loro consenso.
Avventurieri, missionari e uomini d’affari vi si stabilirono e ne assunsero a
poco a poco il controllo politico ed economico, riuscendo a unificare nel
1810 l’intero arcipelago sotto un solo re, Kamehameha.
Herman Melville, prima di iniziare la carriera di scrittore, soggiornò per
un breve periodo nell’arcipelago lasciandone un significativo reportage
nell’Appendice al suo primo libro (Typee, 1846). Melville scrive di un
sovrano che è tale solo nella forma ed è preso tra i fuochi dei contrastanti
interessi americani e britannici e si sofferma sul giro di prostituzione messo
in piedi dai bianchi, che sfruttavano l’esotica bellezza e l’ingenuità delle
donne hawaiane.
La parabola che seguì ha molti punti in comune con quanto accaduto ad
altre popolazioni autoctone del Centro e Sudamerica, decimate da malattie
importate dall’uomo bianco e dal duro lavoro nelle piantagioni di zucchero.
Per provvedere alla mancanza di manodopera s’incoraggiò l’immigrazione
da vari paesi asiatici: Cina, Giappone, Filippine e Corea. Gli angloamericani
decisero di salvare le apparenze e spinsero per la stesura e l’approvazione
di una costituzione (1887), la quale però subordinava il diritto di voto a un
determinato livello di reddito, escludendo così nativi e immigrati e dando
alla minoranza bianca un potere sproporzionato rispetto all’effettivo peso
demografico. Quando, sei anni più tardi, la regina Lili’uokani tentò di
introdurre nell’ordinamento modifiche che andassero a vantaggio dei
nativi, gli affaristi europei e americani si riunirono in un comitato di
pubblica sicurezza che depose la sovrana e istituì un governo provvisorio.
La Repubblica delle Hawaii fece immediata richiesta di annessione agli Stati
Uniti: una vicenda che suscitò l’aperto malumore di numerosi intellettuali
dell’epoca, fra cui Mark Twain, il quale – in coincidenza con alcuni ripetuti
viaggi alle Hawaii a partire dalla metà degli anni sessanta dell’Ottocento –
cominciò a elaborare con sempre maggiore chiarezza una vigorosa
posizione antimperialista, via via espressa in numerosi scritti e discorsi
(qualche anno più tardi, nel 1907 e poi – a più riprese – fra il 1915 e il 1916,
sarà un altro scrittore a volgersi alle Hawaii in cerca di ispirazione, in
momenti cruciali della carriera e della propria vita: Jack London, che nelle
isole colse nuove dimensioni da esplorare con la scrittura, in particolare con
i racconti di On the Makaloa Mat, pubblicati postumi in volume, nel 1919).
Fatto sta che nel 1898 (→ Splendide guerricciole), l’arcipelago entrò a far
parte degli Usa con lo statuto di «Territorio» e solo sessant’anni più tardi
come stato a tutti gli effetti.
Una storia travagliata, dunque, le cui dolorose vicissitudini trovano
espressione nell’attuale composizione demografica, con la popolazione
aborigena che costituisce ormai solo il 5,5% del totale. Viceversa, i bianchi
raggiungono circa il 27%, mentre i vari gruppi di origine asiatica il 38%.
Si tratta di cifre impietose, che gettano un’ombra fosca sulle immagini di
tema hawaiano che ricorrono nei mass media: l’arrivo di turisti
all’aeroporto, l’accoglienza da parte di gruppi festanti di donne indigene in
costume tradizionale… Il dono di una corona di fiori ai visitatori sottolinea
metaforicamente la subordinazione della popolazione locale all’industria
del turismo (nel 2009, sono stati circa 6 milioni e mezzo coloro che hanno
trascorso una vacanza alle Hawaii), ma anche la disponibilità a realizzare le
fantasie «coloniali» degli ospiti. La bellezza del paesaggio naturale e delle
spiagge e la lontananza dalla terraferma diventano i punti di forza di un
luogo che si configura come un paradiso terrestre pronto a essere
«consumato» dal cliente: non è un caso che il personaggio di Mark Greene,
uno dei dottori più amati della serie tv (→) E.R., deciderà di andarvi a
trascorrere i suoi ultimi giorni di vita.
Lo sfruttamento dello scenario hawaiano da parte della cultura popolare
ha una lunga tradizione, e risale alla comparsa del personaggio di Charlie
Chan, il detective di origine cinese della polizia di Honolulu ideato dallo
scrittore Earl Derr Biggers e protagonista di una fortunata serie di film
interpretati dall’attore svedese Warner Oland. Chan, pur nei limiti di una
rappresentazione che ne accentuava la diversità (un inglese astrusamente
complesso e accentato, il carattere sibillino), era tuttavia ispirato a un
personaggio reale, il poliziotto Chang Apana, i cui nonni erano immigrati
nelle Hawaii per lavorare nelle piantagioni di zucchero (→ Ombre gialle).
Un legame con la storia dell’arcipelago che invece è assente dalla serie tv
Magnum P.I., nella quale le Hawaii prestano lo scenario naturale per le
avventure, gli intrighi, gli amori di individui che vengono da fuori: attorno
all’aitante investigatore Thomas Magnum (interpretato da Tom Selleck)
orbita una serie di personaggi stabilitisi nelle isole per mettere da parte un
passato burrascoso oppure solo di passaggio, mentre ai nativi è riservata
giusto qualche fugace apparizione nei panni di un barista, di un
energumeno picchiatore o di una bella accompagnatrice.
Un aspetto che il telefilm ci ricorda in continuazione (del resto, Magnum
è un ex marine) è la massiccia presenza delle forze armate, le cui basi
occupano quasi un terzo dell’isola di Oahu (dove si trova la capitale
Honolulu) e circa un quinto di tutto il territorio. A Oahu, ha anche sede la
base navale di Pearl Harbour, quartier generale della flotta del Pacifico e
teatro dell’attacco giapponese del 7 dicembre 1941, in conseguenza del
quale il presidente Roosevelt decise l’entrata in guerra contro le potenze
dell’Asse.
Sarebbe però un errore pensare che l’assenza degli hawaiani dai prodotti
culturali di massa sia indice di un loro silenzio: tutt’altro. La letteratura
degli ultimi decenni ha prodotto alcune opere che presentano punti di vista
alternativi sulla storia e sulle condizioni di vita dell’arcipelago, come All I
Asking for Is My Body (1975) di Milton Murayama, che descrive le condizioni
di vita di una famiglia di immigrati giapponesi impiegati nelle piantagioni.
Un altro spaccato di vita hawaiana al di là delle immagini consuete lo
fornisce colui che può essere considerato il «figlio» più celebre
dell’arcipelago, il presidente Barack Obama. Nel libro di memorie I sogni di
mio padre, pubblicato circa un decennio prima di candidarsi alla presidenza,
Obama pone l’accento sulla modesta esistenza familiare e trascura le
bellezze naturali. Nativi del Kansas e giunti a Honolulu dopo un tortuoso
percorso attraverso Texas, Chicago, Seattle e California, i nonni materni del
futuro presidente dovettero ben presto mettere da parte le velleità di
benessere che li avevano spinti ad abbandonare il continente e adattarsi a
un piccolo appartamento all’interno di un grattacielo. Le cene in salotto
davanti alla tv, gli occasionali litigi e le ricorrenti difficoltà economiche
costituiscono il centro di una quotidianità che, paradossalmente, sembra
avere poco di «hawaiano». Ritornando nei luoghi della sua infanzia e
giovinezza, l’ancora aspirante uomo politico osserva con amarezza la
trasformazione di Waikiki, quartiere della capitale, «riempito di fast food e
negozi di video pornografici», mentre «lotti edificabili s’insinuano
inesorabili nelle sinuosità delle verdi colline».
Lo scempio paesaggistico è d’altra parte uno dei bersagli del movimento
Ka Lahui Hawaii, animato dalle sorelle Trask, Miliani e Haunani-Kay. Attivo
da circa un ventennio, esso contesta l’annessione agli Usa e rivendica il
diritto all’autodeterminazione, criticando inoltre l’eccessiva dipendenza
dall’industria del turismo. Haunani-Kay Trask, a riguardo, manda un chiaro
messaggio a conclusione di un saggio sul punto di vista hawaiano: «Se
pensate di visitare la mia terra, lasciate perdere. Non vogliamo altri turisti,
non ci servono, e di certo non ci piacciono. Se volete aiutare la nostra causa,
passate questo messaggio ai vostri amici».

BIBLIOGRAFIA
Aa.Vv., «Hawai’i al di là del mito», Ácoma. Rivista Internazionale di Studi
Americani, IX, numero doppio 29-30 (primavera-autunno 2004).
Haunani-Kay Trask, From a Native Daughter: Colonialism and Sovereignty in
Hawaii, University of Hawaii Press, Honolulu 1999.
S.M.Z.

Haymarket Square (Chicago)


Il 3 maggio 1886, mentre da tempo era in atto, a livello internazionale, una
mobilitazione per la giornata di lavoro di otto ore a partire dal 1º di maggio
(«Otto ore per lavorare, otto ore per riposare, / Otto ore per fare quel che
vogliamo!», recita un canto di lotta dell’epoca), un duro scontro si verificò
davanti ai cancelli della fabbrica di macchine agricole McCormick
Harverster, alla periferia di Chicago, dove uno sciopero contro la politica
antisindacale del padronato durava da alcune settimane: dopo un comizio
dell’anarchico August Spies, la polizia sparò sui lavoratori che protestavano
contro l’uso di crumiri, uccidendone uno sul colpo e ferendone a morte altri
tre. In città, la tensione era molto alta (pochi giorni prima, un corteo di
80mila lavoratori aveva sfilato lungo Michigan Avenue): ma ovunque nel
paese, immerso da alcuni anni in una grave depressione, si tenevano
scioperi e cortei, di cui l’agitazione per le otto ore fu comunque il
catalizzatore.
In seguito agli avvenimenti alla McCormick Harvester, varie
organizzazioni sindacali e politiche (socialiste e anarchiche) indissero una
manifestazione per le 19.30 del 4 maggio, in un’ampia piazza di Chicago:
Haymarket Square. In una serata temporalesca, si raccolsero 3000 persone
per ascoltare i discorsi di Spies, Albert Parsons e Samuel Fielden. I primi due
se n’erano appena andati, quando un violento acquazzone interruppe il
discorso di Fielden e la folla, compreso il sindaco di Chicago, cominciò a
defluire. A quel punto, la polizia ricevette l’ordine di disperdere
l’assembramento, che non contava ormai più di duecento persone: mentre
avanzava, una bomba esplose fra le sue file, uccidendo un agente e
ferendone molti altri. Subito venne aperto il fuoco sulla folla: nel parapiglia
che seguì, restarono uccisi altri sei agenti, colpiti – risulterà in seguito – da
quello che oggi si chiamerebbe «fuoco amico». La sparatoria nella piazza
durò pochi minuti, ma furono uccisi almeno quattro lavoratori e fu ferito un
numero imprecisato di persone.
Nei giorni successivi, alimentata anche da una stampa ferocemente
ostile ai lavoratori, si scatenò un’autentica isteria. Fu dichiarata la legge
marziale, si procedette ad arresti indiscriminati, in 37 furono accusati di
omicidio. Alla fine, otto dirigenti sindacali e politici vennero incriminati:
Albert Parsons, attivo abolizionista e leader sindacale, sposato a una ex
schiava di origini afroamericane e messico-indiane; August Spies, giunto
dalla Germania quindici anni prima; Samuel Fielden, nato in Inghilterra e
negli Stati Uniti dal 1868, lavoratore migrante, sindacalista dei carrettieri;
Michael Schwab, tedesco, emigrato nel 1879 negli Stati Uniti; Adolph Fisher,
tedesco, compositore tipografico; George Engel, tedesco, emigrato nel 1873,
tipografo; Louis Lingg, nato in Germania e qui attivo come falegname e
organizzatore sindacale, prima di emigrare nel 1885; Oscar W. Neebe,
newyorkese, attivo come sindacalista a Chicago, lattoniere. Tutti avevano
un passato, anche di primo piano, tra le file del socialismo americano,
abbandonato più o meno di recente per abbracciare l’anarchismo. E
nessuno di essi era presente a Haymarket Square al momento
dell’esplosione.
Mentre dure proteste si svolgevano in altre città (a Milwaukee, il 5
maggio, la milizia e le truppe spararono su una manifestazione di operai
polacchi scesi in sciopero, facendo nove morti), a fine giugno ebbe inizio il
processo: Parsons, che fino ad allora era riuscito a rimanere nascosto, si
presentò la mattina stessa per essere giudicato insieme ai compagni. E fu
subito chiaro che si sarebbe trattato di un processo-farsa: il giudice operò in
maniera scoperta per avere una giuria ostile agli imputati (uno dei giurati
era parente di uno dei poliziotti morti, gli altri erano imprenditori, uomini
d’affari, bottegai, appaltatori) e gli imputati furono accusati d’omicidio e di
cospirazione, ma non di avere lanciato materialmente la bomba. Era
evidente la volontà di arrivare comunque a un verdetto di colpevolezza, per
colpire il movimento operaio, la mobilitazione per le otto ore, gli anarchici.
L’intero processo si sviluppò dunque lungo questi binari e terminò il 20
agosto: dopo un brevissimo consulto, la giuria si pronunciò per la
colpevolezza degli imputati, che furono condannati all’impiccagione (a
eccezione di Neebe, condannato a quindici anni di lavori forzati). I discorsi
degli imputati durarono tre giorni e anticiparono, per umanità e nobiltà,
quelli che altri due anarchici condannati a morte, Sacco e Vanzetti,
avrebbero tenuto una quarantina d’anni dopo. La mobilitazione in loro
favore fu ampia – scesero in campo sindacati, partiti e organizzazioni di
sinistra, giornalisti, scrittori (fra cui il decano dei realisti americani, William
Dean Howells, che in seguito – ispirandosi ai fatti di Haymarket – scrisse
l’importante romanzo A Hazard of New Fortunes, del 1890), e manifestazioni si
tennero in Francia, Olanda, Russia, Italia, Spagna (in Germania, Bismarck
vietò ogni riunione pubblica, nel timore di sollevazioni operaie). Ma a ben
poco valse tutto ciò: solo Fielden e Schwab ebbero la pena commutata
nell’ergastolo. L’11 novembre 1887, Parsons, Spies, Engel e Fisher salirono
sul patibolo, mentre Lingg venne trovato morto in cella. Le ultime parole di
Spies («Verrà il giorno in cui il nostro silenzio diventerà più potente delle
voci che oggi strangolate») saranno incise sulla base del monumento eretto
nel cimitero di Forest Park, in ricordo di quelli che passarono alla storia del
movimento operaio americano e internazionale come «i martiri di
Chicago».
Il 26 giugno 1893, il governatore dell’Illinois, John Peter Altgeld, dopo
un’accurata inchiesta sui fatti di Haymarket e sul processo che li seguì,
perdonò ufficialmente Fielden, Schwab e Neebe, dichiarando che, insieme ai
loro compagni Parsons, Spies, Engel, Fisher e Lingg, erano del tutto
innocenti, condannati da una giuria irregolare e da un giudice parziale, su
prove prefabbricate e inventate, con testimonianze estorte dalla polizia con
il terrore e sotto la minaccia di tortura. La decisione di Altgeld segnò la fine
della sua carriera politica.
Intanto, il congresso di fondazione della Seconda Internazionale,
tenutosi a Parigi fra il 14 e il 20 luglio 1889, aveva deciso che il 1º maggio
sarebbe diventato la «giornata di lotta del movimento operaio e socialista».
P.S.: Una notazione interessante. Nel 1889, fu eretto, proprio a
Haymarket Square, un monumento in memoria del poliziotto ucciso dalla
bomba – cosa che suscitò non pochi malumori in città. Il 4 maggio 1927,
anniversario dei «fatti di Haymarket», un tram uscì dai binari e lo
danneggiò gravemente: il conducente dichiarò che era «stufo di vedersi
davanti quel poliziotto con il braccio alzato». Quindi, dopo essere stato
spostato in un altro luogo, tra il 1969 e il 1970 il monumento fu distrutto
due volte da attentati rivendicati dal gruppo radicale dei Weathermen (→
Movement). A quel punto, si decise di rimuoverlo e di collocarlo all’interno
del comando di polizia.

BIBLIOGRAFIA
Claudia Baldoli, Il nostro maggio. All’origine della festa dei lavoratori:
autobiografie e testimonianze da Chicago, Edizioni Spartaco, Santa Maria
Capua Vetere 2005.
R.O. Boyer, H.M. Morais, Storia del movimento operaio negli Stati Uniti, 1861-1955,
De Donato, Bari 1974.
Philip S. Foner, May Day. A Short History of the International Workers’ Holiday.
1886-1986, International Publishers, New York 1986.
M.M.

High School
Ronald Reagan ebbe a dire che essere il presidente degli Stati Uniti aveva i
suoi vantaggi: «Il giorno dopo l’elezione, i miei voti alla high school sono
diventati top secret». Al di là della battuta di spirito, l’affermazione di
Reagan allude alla tolleranza con cui, nella cultura americana, si giudica
l’allergia adolescenziale nei confronti dell’istituzione scolastica, almeno per
i maschi. Sulle orme di un good bad boy (→ Piccoli uomini) come Tom
Sawyer, la scarsa attrazione verso i libri di testo è più che compensata dalla
scoperta della vita in tutte le sue sfaccettature «empiriche», le avventure
nei boschi (→ Wilderness) e nelle strade, i primi amori, l’apprendimento
dell’importanza di essere leali, coraggiosi e onesti: una «scuola di vita» ben
più importante delle aride nozioni di grammatica o matematica che si
assimilano in aula. Beninteso, dopo questo periodo di ribellione, il ragazzo
tornerà nei ranghi, imparerà una professione e sarà un elemento utile della
comunità, fino magari a diventare presidente. Sarà forse anche per questo
motivo che tanti giovani, specie se appartenenti a minoranze etniche, la
high school non la finiscono nemmeno?
Provocazioni a parte, i dati del ministero dell’Istruzione sullo stato della
scuola secondaria suscitano più di una perplessità. Meno del 70% degli
studenti consegue il diploma finale, il che significa che uno su tre è un
dropout, ovvero si ritira prima della conclusione degli studi. Questa cifra
pone gli Stati Uniti al 18º posto nel mondo per percentuale di diplomati, un
dato non molto confortante per la prima potenza economica mondiale. Ma
il problema della high school non è solo questo: un altro fronte riguarda la
qualità dell’insegnamento, che in parecchi istituti non è di livello adeguato
e non fornisce allo studente la preparazione per affrontare il college: si
privilegia l’applicazione pratica e la realizzazione di progetti collettivi
rispetto alla teoria, il che si traduce in gravi difficoltà, quando non
incapacità, di comprendere e formulare ragionamenti astratti. Più del 30%
degli studenti che si iscrive a un corso di studi universitari ha infatti
bisogno di frequentare remedial courses, corsi di recupero, per mettersi in
pari.
La prima istituzione scolastica a utilizzare il nome «high school» fu
inaugurata a Boston nel 1821 e si trattava di una scuola pensata per offrire
agli studenti un’alternativa rispetto alla prestigiosa Latin School della città,
in attività sin dal 1653. In quest’ultima, si studiavano le materie classiche,
tra cui il greco antico e il latino, e la maggior parte degli allievi, una volta
diplomati, s’iscriveva all’università di Harvard (→ Ivy League), dove
sarebbe stata preparata alla carriera religiosa. La English High School,
invece, approfondiva il cosiddetto «curriculum inglese», che si concentrava
su lettura, spelling, matematica, scienze, storia e geografia.
Non si trattava però della prima scuola di questo tipo. Da più parti si
erano già levate voci a sostegno della necessità di organizzare un corso di
studi che preparasse la gioventù alle professioni e non solo alla vita da
chierico: a questo scopo, lo stesso Benjamin Franklin avanzò alcune
proposte in uno dei suoi numerosi scritti, Proposals Relating to the Education of
Youth in Pensilvania del 1749, nel quale proponeva la creazione di
un’accademia che accantonasse le materie classiche a favore di quelle
pratiche, tra le quali includeva la contabilità, la meccanica e il giardinaggio.
Poiché l’istruzione era allora (ed è tuttora) competenza dei governi
locali, nel corso dell’Ottocento si svilupparono numerose varietà di scuole e,
per dare una minima uniformità a quest’universo eterogeneo, la National
Education Association nominò nel 1892 un «comitato dei dieci», il quale
formulò alcune raccomandazioni non vincolanti – compresa la proposta di
estendere l’istruzione obbligatoria per un totale di dodici anni, otto di
scuola elementare e quattro di high school. Inoltre, le tre materie principali
(inglese, matematica e storia) sarebbero state insegnate per tutta la durata
del percorso scolastico. Nel 1918, una nuova commissione per la
riorganizzazione della scuola secondaria enucleò i sette obiettivi della high
school, che avrebbe dovuto promuovere la salute, il senso di cittadinanza e il
carattere degli alunni, fornire la capacità di comprendere i processi
fondamentali, renderli abili al lavoro, offrire gli strumenti per mantenere
una famiglia e per usare in modo proficuo il tempo libero.
Lo schema che prevale oggi è un po’ diverso. L’istruzione primaria è
limitata a sei anni (dal first al sixth grade), a cui ne seguono altri sei di high
school, suddivisa in due tronconi. I primi tre anni (dal seventh al ninth grade)
costituiscono la Junior High School, gli ultimi tre (dal tenth al twelfth grade)
la High School vera e propria.
La maggior parte degli istituti sono comprehensive schools, offrono cioè la
possibilità, a partire da un curriculum standard, di scegliere un indirizzo di
studi diversificato secondo gli orientamenti personali: generale,
commerciale o professionale (vocational). Un discorso a parte sono le college
preparatory schools, o prep schools, istituzioni private, molto costose (anche
30mila dollari all’anno) e prestigiose, che hanno lo scopo di preparare al
college. Rispetto alle scuole pubbliche, il livello d’insegnamento è di
maggiore qualità, grazie alla presenza di insegnanti migliori (e ai lauti
stipendi loro versati) e un rapporto tra numero di studenti e docenti molto
inferiore.
Il curriculum di studio è diviso in insegnamenti core (inglese, scienze,
studi sociali/storia e matematica) e materie elective (a scelta), la cui offerta
dipende dalle risorse a disposizione della singola scuola: arte, musica, lingua
straniera, materie relative alla preparazione a una professione o business,
informatica ecc. Alcune high schools offrono anche le cosiddette Advanced
Placement classes (Ap), corsi che trattano una materia in maniera più
approfondita, dove convergono gli studenti migliori.
Le aule dell’edificio scolastico sono dedicate alla singola materia e
durante la giornata gli studenti si spostano dall’una all’altra e così, poiché si
seguono curricula diversi, i compagni non sono sempre gli stessi. Un’altra
caratteristica peculiare delle high schools è la presenza di attività
extracurricolari gestite da club e gruppi di interesse, quali il coro, il gruppo
teatrale, le diverse squadre sportive, le cheerleaders, il giornale della scuola –
anche in questo caso, l’offerta di attività dipende da scuola a scuola.
L’universo della high school si è rivelato un serbatoio inesauribile di
storie, in particolare per cinema e tv. Va tuttavia rilevata una differenza di
fondo fra le trame predilette dal piccolo e dal grande schermo. Il cinema
privilegia storie di «redenzione», versione aggiornata di una delle trame
americane per eccellenza, al cui centro si trova un protagonista outsider che,
messo a confronto con un ambiente circostante ostile, tenta di redimerlo e
plasmarlo secondo un proprio disegno. Poca, per certi versi, la differenza
tra il cowboy (→) protagonista di Shane (Il cavaliere della valle solitaria, 1953)
– il difensore dei piccoli contadini contro il prepotente locale che li
tiranneggia – e John Keating, l’insegnante idealista e anticonvenzionale de
L’attimo fuggente (1986), il quale combatte l’eccessiva aridità delle lezioni e il
severo regime di disciplina che vige in una prep school, cercando di far
apprezzare agli allievi i punti di contatto tra quanto apprendono sui banchi
e la vita al di fuori della scuola, stimolandoli a pensare in maniera
indipendente e inseguire i propri sogni.
In alcuni casi, i ruoli di cowboy e insegnante hanno molto più in comune,
come nel caso in cui al docente idealista tocca in sorte di andare in «prima
linea», nelle scuole di quartieri malfamati (Il seme della violenza, del 1955, e
Pensieri pericolosi, del 1995), con il duplice compito di non farsi intimidire
dalla violenza dei ragazzi e di comunicare loro l’idea che, attraverso lo
studio e l’impegno, è possibile entrare a far parte di una società che, invece,
sembra rifiutarli: operare all’interno del sistema e non contro di esso, in
definitiva incoraggiandoli a seguire l’esempio dei personaggi di successo
raccontati da Horatio Alger (→ Rags to riches). Anche nei film dove l’azione
si svolge in una prestigiosa prep school sopravvivono elementi western, e
nello specifico il duello in cui si scontrano l’eroe positivo, spesso un ragazzo
povero ma meritevole che frequenta l’istituto grazie a una borsa di studio, e
l’istituzione, vista come un bastione del privilegio e della conservazione: sia
Profumo di donna (1992) che Scoprendo Forrester (2000) culminano in scene
madri ambientate in un tribunale scolastico, dove il protagonista è sotto
processo per un’infrazione veniale. A salvare la situazione, provvede il
mentore dell’accusato, non a caso personaggio anch’esso marginale (un
militare cieco e uno scrittore recluso), che userà le arti della retorica per
capovolgere una sentenza già scritta.
La «redenzione» può assumere altre forme. In pellicole comiche quali
Porky’s (1982) o Rock’n’Roll High School (1979), gli studenti si ribellano contro
le prepotenze e le ipocrisie degli insegnanti e trasformano la scuola nel
palcoscenico dove dare sfogo alla loro esuberanza e furbizia. Nel secondo
film, le autorità scolastiche cercano invano di arginare la passione collettiva
degli studenti per il gruppo punk dei Ramones, i quali, alla fine del film, si
esibiscono mentre l’edificio scolastico è in fiamme.
Esiste però anche un lato oscuro nel microcosmo della high school, quello
abitato da tutti coloro che, per la loro diversità, sono stati emarginati o si
sono sentiti tali: la scuola diventa allora lo sfondo per una fantasia di
vendetta, come nel libro (e film) di Stephen King Carrie (1974) ed Elephant
(2003), pellicola ispirata alla sparatoria della Columbine High School (→
Waco, Columbine).
Anche le serie tv (→) ripropongono, con toni meno apocalittici, il
racconto di redenzione. Nell’arco delle puntate, infatti, gli sceneggiatori
hanno la possibilità di trasformare un insieme di macchiette – il nerd (→) e
il jock tutto muscoli che gioca nella squadra di football, la reginetta di
bellezza svampita, la ragazza studiosa e impegnata – in un gruppo coeso
che, al di là delle differenze fisiche e di personalità (nelle serie più
«impegnate» anche di gruppo sociale ed etnico), si riconosce nell’altro e
impara ad accettare la diversità: una sorta di melting pot (→) che trasforma
i ragazzi in individui adulti. Dagli artisti in erba di Saranno famosi (1982-
1987) ai privilegiati di Beverly Hills 90210 (1990-2000), fino a Bayside School
(1989-1993, una delle poche serie a utilizzare attori in età quasi scolare),
queste serie propongono un medesimo filo conduttore: non importa
l’origine, è attraverso il merito che si arriva al successo.
Le avventure nella high school si svolgono per lo più tra una lezione e
l’altra, negli intervalli, e di rado la materia scolastica di turno conquista il
centro della scena e fornisce spunti per la trama (eccezioni sono le sedute
teatrali o di danza di Saranno famosi). Uno degli espedienti più sfruttati è il
ricorso alla campanella, il cui suono, nell’indicare la fine o l’inizio di una
lezione, introduce o conclude una sequenza narrativa. L’unico esperimento
in controtendenza è una serie realizzata sul finire degli anni sessanta, Room
222 (1969-1974), nella quale già il titolo punta l’attenzione sull’aula dove un
insegnante afroamericano ingaggia con gli studenti veri e propri dibattiti su
momenti chiave della storia e sulle questioni più attuali, dal massacro dei
Native Americans all’intervento militare in Vietnam (→). Il prodotto è figlio
dei tempi e intercetta il bisogno del pubblico giovane di allora di
comprendere i meccanismi di un decennio turbolento (→ Disordini; → Back
of the bus; → Seneca Falls) in cui alcuni dei nodi più spinosi della società
americana erano venuti al pettine. La sigla iniziale, che mostra ragazzi di
diverse componenti etniche dirigersi verso l’edificio scolastico, e i dibattiti
in aula, ai quali gli alunni partecipano dando prova di una solida
preparazione, promuovono un’utopia multiculturale fondata su rispetto e
tolleranza, in cui tutti sono consapevoli di essere giudicati per i loro meriti e
dove sarà possibile affermarsi.
Nella vita reale, è invece il senso dell’inutilità della high school a
convincere parecchi studenti ad abbandonarla. L’arretratezza dei
programmi professionali e una percezione diffusa che l’unico scopo del
diploma sia l’ingresso al college inducono molti studenti, specie quelli che
non si potranno permettere le rette delle università, a rinunciare.

BIBLIOGRAFIA
Jo Keroes, Tales Out of School. Gender, Longing, and the Teacher in Film and
Fiction, Southern Illinois University Press, Carbondale 1999.
Hans V. Knudsen, Secondary Education Issues and Challenges, Nova Science
Publishers, New York 2008.
S.M.Z.

Hollywood/land (Los Angeles)


«Ti faccio vedere io dove si trova Hollywoodland» dice lo sconosciuto al
sempre più confuso agente Fbi in incognito Oscar Fuss, protagonista del
romanzo di Thomas Sanchez intitolato appunto Hollywoodland (pubblicato
nel 1978, ma ambientato durante la Seconda guerra mondiale). «È proprio
laggiù, quasi sulla cima del monte Lee» aggiunge l’uomo, indicando le nove
lettere in legno, adagiate lungo il crinale di una collina, ognuna alta quindici
metri e larga poco meno di dieci, che compongono la scritta HOLLYWOOD.
Si tratta, con tutta probabilità, dell’immagine più conosciuta dell’intera
Los Angeles, una megalopoli straordinariamente priva di edifici e
costruzioni «iconiche» (con la sola recente eccezione dell’auditorium
progettato da Frank Gehry). «La scritta originaria era HOLLYWOODLAND, ma poi
ha cominciato a decomporsi e a perdere i pezzi. È tutto ciò che rimane di un
sogno molto costoso», conclude lo sconosciuto nel romanzo di Sanchez.
Di che sogno si trattava? Nel 1923, alcuni speculatori immobiliari
acquistarono lotti di terreno sulle colline a ovest di Hollywood, ma al di
fuori dei suoi confini. Il piano prevedeva la costruzione di un complesso di
abitazioni e si pensava che il nome allusivo «Hollyoodland» avrebbe
attratto frotte di compratori. Già dal 1918, infatti, il nome Hollywood era
sinonimo dell’industria del cinema, e gli attori si erano imposti come
«ambasciatori» di uno stile di vita contraddistinto da consumo e edonismo.
La scritta pubblicitaria fu costruita nel 1924 al costo di 21mila dollari e
sarebbe dovuta rimanere in piedi per diciotto mesi.
Il complesso non decollò: i notabili di Hollywood, contrari al progetto,
negarono il permesso di allacciare le future abitazioni al loro acquedotto. E
chi ha visto il film Chinatown di Roman Polanski (1974) sa bene che il
controllo delle risorse idriche consente di fare il bello e il cattivo tempo a
Los Angeles. I proprietari, perse le residue speranze di trarne un qualsiasi
profitto, nel 1944 donarono il terreno alla città; cedendo alle pressioni della
popolazione, le autorità municipali accettarono di non demolire la scritta e
di assumersi l’onere di salvaguardarla.
Intitolando il romanzo Hollywoodland, Sanchez invita il lettore a
compiere un’operazione di scavo nelle viscere delle immagini comuni
attraverso cui è rappresentata Los Angeles: gli anni quaranta del Novecento
sono visti come un periodo d’oro per l’industria di Hollywood, ma la
rappresentazione opulenta prodotta dalla «macchina dei sogni» cozza con
una realtà urbana che, durante la guerra, manifestava segni di disagio: una
città dove il carburante e il cibo erano razionati, i marine in licenza si
aggiravano ubriachi nella zona a luci rosse e venivano sovente alle mani con
la popolazione messicana esasperata dai soprusi e dalla mancanza di lavoro,
predicatori annunciavano l’apocalisse e agenti governativi investigavano su
possibili infiltrazioni comuniste.
Il destino era già scritto nel nome: quando nel 1886 Hobart J. Whitley
decise di chiamare Hollywood il sito dove avrebbe dovuto sorgere la città,
non c’era traccia né di boschi (wood) né di agrifoglio (holly) – un toponimo,
dunque, che proiettava un’immagine senza alcun legame con il territorio.
Katherin Fullerton Gerould sostiene che Hollywood esista più come «idea»
che come entità geografica. È una delle località più famose al mondo, ma la
notorietà deriva da una comunità legata all’industria cinematografica con
ben pochi rapporti con l’ambiente circostante. Le star hanno sempre
preferito alloggiare altrove – nell’esclusiva enclave di Beverly Hills, mentre
a Hollywood stazionava l’esercito di comparse, falegnami, costumisti,
operatori e manovali alla ricerca di impiego. Così, almeno, finché gli studios
non sono stati trasferiti altrove.
Hollywood non ha mai avuto un rapporto idilliaco con l’industria che
l’ha resa famosa. Nel 1911, due anni prima dell’arrivo del cinema dalla costa
orientale (era nato a New York, imponendosi come intrattenimento
popolare), la comunità contava circa 4000 abitanti, che avevano fama di
essere molto religiosi e rispettabili. Poi, nel 1913, l’evento che ne avrebbe
cambiato la storia – e le abitudini. Una troupe guidata dai produttori Cecil B.
DeMille e Samuel Goldfish (il quale più tardi cambierà il cognome in
Goldwyn e, insieme a Louis Mayer, darà vita allo studio Metro Goldwyn
Mayer, Mgm), aveva deciso di spostare la realizzazione di un film western,
The Squaw Man, a Flagstaff, in Arizona. Più che di scenari autentici, i cineasti
erano alla ricerca di un luogo vicino al confine con il Messico, con
l’intenzione di disattendere le rigide indicazioni della Motion Picture Trust
Company, la quale regolamentava tutta l’industria fino a stabilire quale tipo
di pellicola dovesse essere utilizzato nonché quale apparecchiatura: se
qualche ispettore del Trust si fosse fatto vedere da quelle parti, la troupe
era pronta a continuare le riprese al di là del confine. Inoltre, l’industria
nell’Est era ormai fortemente sindacalizzata e i moguls del cinema avevano
bisogno di avere mano libera per ciò che riguardava l’uso della manodopera
(tecnici, comparse, tuttofare ecc.). Flagstaff non entusiasmò i produttori,
che decisero di spostare tutta la compagnia in California. DeMille, mandato
in avanscoperta, trovò una stalla in affitto «in un posto chiamato
Hollywood» per 75 dollari al mese. Da quelle parti si erano già trasferiti D.W.
Griffith, che di lì a poco avrebbe realizzato Nascita di una nazione (→ Kkk) e
l’ex artista circense di origine canadese Mack Sennet, il quale aveva aperto
nel 1912 un piccolo studio dove produsse la prima di una serie di
fortunatissime pellicole comiche del genere slapstick (→ Echo Park).
L’arrivo di Goldfish e DeMille fu decisivo perché diede inizio alla
trasformazione di Hollywood nel polo principale della produzione
cinematografica statunitense. Nel giro di un decennio, nacquero i grandi
studios che avrebbero dominato l’industria (Columbia Pictures, Mgm,
Paramount, Rko, Universal, Warner Bros., 20th Century Fox) e prodotto più
di 700 film all’anno, con 55 milioni di spettatori ogni settimana nelle sale.
Il glamour delle pellicole non ha lasciato traccia nella città. Chi visita oggi
Hollywood non troverà molti incentivi a prolungare la visita: Hollywood
Boulevard è una lama d’asfalto fiancheggiata da edifici anonimi, negozi che
espongono gadget per turisti e poco altro. Levatevi dalla testa di incontrare
qualche celebrità – al massimo ne calpesterete i nomi incisi sulle stelle che
ricoprono la Hollywood Walk of Fame oppure osservare le impronte di mani
e piedi all’uscita del Grauman’s Chinese Theatre. Così come la scritta del
Monte Lee, Hollywood mantiene il suo fascino solo se vista da lontano.

BIBLIOGRAFIA
Carey McWilliams, Island in the Land, Gibbs-Smith, Salt Lake City 1973.
Gregory Paul Williams, The Story of Hollywood. An Illustrated History, BL Press,
Los Angeles 2011.
S.M.Z.
Hoover (aspirapolveri, ma non solo)
Tra i mille cognomi più comuni negli Stati Uniti (per la precisione, secondo i
dati dell’Ufficio del censimento, il 571º), «Hoover» è l’evoluzione fonetica
del tedesco Huber, nome di famiglia diffuso tra i fittavoli che avevano
disposizione una «Hufe» («Hube», nella Germania meridionale), ovvero tra i
sei e i diciotto ettari di terra. Se si apre l’autorevole dizionario americano
Merriam-Webster Unabridged alla lettera «H», scorrendo fino a «Hoover-»,
ci si imbatte nelle seguenti entrate: «Hooverapron» (un grembiule-vestaglia
molto usato negli anni della Prima guerra mondiale, quando il futuro
presidente repubblicano Herbert Hoover è «Food administrator» degli Stati
Uniti); «Hoovercraft» (i democratici del Sud che votano Hoover nelle
presidenziali del 1928); «Hooverism» (un sistema di idee formulate o
attribuite a Hoover); «Hooverize» (dalla politica tesa al risparmio di cibo
abbracciata dal suddetto durante il suo incarico di «Food administrator» tra
il 1917 e il 1919); infine, hoovervilles, su cui invece avremo modo di tornare.
La versione online dello stesso dizionario presenta poi l’aggiunta di
«Hoover Dam», l’enorme diga sul Colorado River, tra Nevada e Arizona,
avviata negli anni dell’amministrazione Hoover. Non compare invece, né
sulla versione cartacea né su quella elettronica, «to hoover» (unica voce a
non aver direttamente a che fare con Herbert Clark Hoover): il verbo usato
nell’inglese britannico, alternativo a «to vacuum», per «passare
l’aspirapolvere»; e anche su questo torneremo.
Com’è facile intuire da questi brevi cenni introduttivi, nella storia e
nell’immaginario degli Stati Uniti la parola «Hoover» è legata a filo doppio
alla figura del presidente Herbert Clark Hoover (1874-1964), a sua volta
emblematica di un periodo, il primo trentennio del Novecento americano,
in cui l’ottimismo progressista che ha caratterizzato le politiche
economiche degli anni dieci e venti si sgretola di fronte al crollo del ’29 e
alla crisi profonda che ne seguirà (→ Grande depressione). Interprete
magistrale dello spirito liberale e del vangelo efficientista del progressismo
americano, Hoover si rivelerà invece inadeguato ad affrontare con energia e
tempismo il dissesto economico che travolgerà il paese negli anni trenta.
Herbert Hoover nasce in Iowa, secondo di tre figli di Jesse Clark Hoover,
maniscalco e venditore di strumenti agricoli. Studia, ancora diciassettenne,
geologia a Stanford; poi diventa ingegnere di ispezione nelle miniere di
tutto il mondo, guadagnandosi sul campo una reputazione scientifica
autorevole. La sua lunga carriera politica inizia al servizio del gabinetto di
Woodrow Wilson in qualità di «Food administrator» proseguendo negli anni
venti come Segretario al Commercio sotto l’amministrazione repubblicana
di Warren G. Harding (1921-1923); posto che manterrà anche in quella di
Calvin Coolidge (1923-1929), imprimendo una forte modernizzazione al
dipartimento. Spinto da una preoccupazione tutta ingegneristica per
l’efficienza, Hoover vede negli sprechi e nell’egoismo le cause di
improduttività e disoccupazione e promuove un’idea di governo al servizio
di un’economia autogovernantesi. Durante la grande inondazione del
Mississippi del 1927, quando un’area di 20mila miglia quadrate finisce
sott’acqua lasciando 600mila persone senza tetto, Hoover interviene con
straordinaria solerzia, mobilitando le autorità locali e quelle statali, la Croce
Rossa, il corpo dei genieri dell’Esercito, la Guardia costiera e moltissimi
volontari, per evacuare, mettere al riparo e sfamare le vittime. La sua
efficienza amministrativa si unisce anche a indubbie capacità di
negoziazione nell’avviare un mastodontico progetto idraulico e
ingegneristico che prevede la costruzione di una diga nei pressi del Boulder
Canyon, in Nevada: la futura Hoover Dam.
Quando Calvin Coolidge, presidente repubblicano in carica, decide di non
ripresentarsi alle elezioni del 1928, la candidatura di Herbert Hoover –
preparata da una campagna elettorale dai toni trionfali, in cui si
magnificano le virtù della «prosperità repubblicana» – sbaraglia quella del
democratico Alfred E. Smith. Un volantino propagandistico dell’ottobre
1928, intitolato «A Chicken for Every Pot» («Un pollo per ogni pentola»), si
chiude sulla seguente esortazione: «Salari, dividendi, progresso e prosperità
dicono “VOTA PER HOOVER”».
Da lì al 1932, a crollo del mercato azionario avvenuto, di fronte a «salari,
dividendi, progresso e prosperità» in caduta libera e alla siccità che si
abbatte rovinosa sulle Grandi pianure meridionali, Hoover sceglierà di non
intervenire, rifiutandosi di mettere mano a un sistema strutturato di aiuti
federali alla popolazione e reprimendo con l’esercito la protesta dei
veterani di guerra del Bonus Army (→ Grande depressione).
Con la disoccupazione oramai ben sopra il livello di guardia in tutte le
città del paese, un numero sempre maggiore di americani impossibilitati a
pagare affitti e ipoteche si vede espropriare le proprie case ed è costretto a
cercare alloggi di fortuna nelle fabbriche chiuse oppure nei vagoni dei treni
merci; o, ancora, in accampamenti improvvisati che sorgono, con il nome di
hoovervilles, alle congiunzioni di snodi ferroviari e nei lotti abbandonati ai
bordi delle città industriali. Queste baraccopoli messe insieme con pezzi di
scarto raccattati tra i rifiuti (latta, legno, cartone ecc.) sono abitate per lo
più da uomini, sia perché per le donne è meno difficile accedere alle
strutture di ricovero governative e caritatevoli sia perché, tradizionalmente
deputati al sostentamento della famiglia, gli uomini senza lavoro né
prospettive non sanno reagire al contraccolpo, scegliendo spesso la via della
fuga domestica e andando così ad allargare le fila dei senzatetto, dei
lavoratori stagionali e dei vagabondi (→). Nell’arco del decennio, a New
York spunteranno circa una ventina di hoovervilles e celebre rimarrà
l’occupazione da parte di alcuni squatters del letto prosciugato di un
laghetto di Central Park (il Lower Reservoir, oggi, il Great Lawn del parco),
ribattezzato Hoover Valley; dall’Arkansas, arriverà invece notizia di gente
disperata che ha trovato dimora nelle caverne; a Youngstown, in Ohio, una
hooverville di 200 persone nascerà, tendenza molto diffusa ovunque nel
paese, sull’area di un inceneritore e di una discarica pubblica; con i suoi
1200 «residenti», la hooverville di St. Louis deterrà invece il primato
nazionale; mentre quella di Seattle conterà 479 capanne e 632 uomini. Le
hoovervilles non tarderanno poi a entrare nella filmografia del periodo, come
attestano le due commedie di successo L’impareggiabile Godfrey, del 1936, e
Dimenticati, del 1941.
Che le hoovervilles siano destinate a imprimersi nella memoria nazionale
è provato, in tempi assai più recenti, dal moltiplicarsi di Bushvilles, le
tendopoli di sfollati e senzatetto fiorite all’epoca dell’amministrazione di
George W. Bush (2001-2009): con l’economia americana di inizio millennio
investita dal ricorrere ciclico delle crisi economiche e il numero degli
homeless di New York, Sacramento, San Francisco, Los Angeles, Atlanta e St.
Louis – solo per citare alcune metropoli – in aumento esponenziale, più che
un fantasma del passato, i ricordi della Grande depressione rivivono,
altrettanto spettrali, nel presente del paese.
A dispetto dell’impopolarità in apparenza irreversibile raggiunta con le
hoovervilles, la fama di Herbert Hoover, complice anche l’impegno
umanitario dimostrato dall’ex statista americano durante la Seconda guerra
mondiale, sarà tuttavia in parte riabilitata negli anni cinquanta, come
dimostra la decisione del Congresso del 1947 di associare a un nome così
problematico uno dei più grandi prodigi ingegneristici del mondo: la diga
Hoover. Avviata nel 1931 – solo due anni prima della bruciante sconfitta
elettorale di Hoover – e terminata in sei anni di lavoro durissimo (costato la
vita a molti membri di una manodopera stagionale accorsa da tutto il paese)
sotto Franklin Delano Roosevelt, l’impresa colossale di erigere una diga di
220 metri di altezza, con un bacino artificiale (il Lake Mead) capace di 37
milioni di metri cubici di acqua, rappresenta in fondo tanto il piglio
ingegneristico del progressismo di Hoover quanto lo sforzo epico e
muscolare del New Deal di Roosevelt.
Altrimenti centrale alla storia del primo Novecento americano e
altrimenti emblematico di un altro tipo di forza del paese – quella
imprenditoriale – è poi un secondo Hoover, non imparentato con il primo:
William Henry Hoover, fondatore del marchio che metterà sul mercato il
primo aspirapolvere elettrico, contribuendo alla rivoluzione dei consumi
degli anni venti. La leggenda vuole che William Henry Hoover, già a capo di
una conceria nell’Ohio, acquisti il brevetto nel 1908 da James Murray
Spangler e che, insieme al figlio, crei un impero commerciale grazie a
un’organizzazione delle vendite minuziosa affidata ai commessi viaggiatori.
Se il logo degli elettrodomestici Hoover – rosso con i caratteri stilizzati in
bianco – può essere considerato uno dei simboli di quella ricchezza middle
class sbandierata come vessillo durante la campagna elettorale
dell’omonimo Herbert C. Hoover, anche gli slogan pubblicitari del 1912 e del
1918 sembrano riecheggiare l’ossessione per l’efficienza e la pulizia dell’era
progressista («However clean, Hoover cleaner», «Per quanto pulito, con
Hoover più pulito»), e il roboante ottimismo dei «Ruggenti anni venti» (con
l’allitterativo «Just run the Hoover over», «Non devi far altro che passarci
sopra lo Hoover»). Rivelatore della mutata temperie sociale ed economica è
invece lo slogan del 1935 che, di concerto con la riduzione dei consumi, si è
fatto più incalzante e aggressivo: «It lights as it beats as it sweeps as it
cleans» («Fa brillare mentre batte mentre spazza mentre pulisce»).
Per più di un verso, quest’ultimo slogan dell’aspirapolvere Hoover
compendia la carriera di un terzo Hoover, quel J. Edgar Hoover (1895-1972)
che sarà a capo dell’Fbi americano dal 1935 fino alla morte. La controversa –
nonché longeva – stella di J. Edgar Hoover nasce sul finire degli anni dieci
con i Palmer Raids, quando, braccio destro del Procuratore generale A.
Mitchell Palmer in piena Red Scare (→), si spenderà per la deportazione dei
leader radicali Emma Goldman e Alexander Berkman e di decine di altri
«indesiderabili». L’ascesa politica di J. Edgar Hoover continuerà quindi negli
anni venti sotto l’amministrazione Coolidge che, nel 1924, lo nomina
direttore di quel Bureau of Investigation destinato, un decennio più tardi, a
diventare Federal Bureau of Investigation (Fbi), sulla scia di una serie di
arresti sensazionali di gangster del calibro di John Dillinger e Machine Gun
Kelly (→ Wanted!-II). Protagonista anche della «Caccia alle streghe» (→)
durante la Guerra fredda, J. Edgar Hoover sarà uno degli uomini più potenti
del paese per mezzo secolo, usando l’Fbi come uno strumento che,
svincolato dalla normale giurisdizione, egli piegherà alla repressione del
dissenso politico e culturale ricorrendo a metodi di raccolta delle prove
illegali e accumulando dossier segreti sulla vita dei leader politici. Non è un
caso, dunque, se J. Edgar Hoover – protagonista del film biografico di Clint
Eastwood J. Edgar (2011) – compare come personaggio nelle opere di due
romanzieri tardo-moderni da sempre attenti al lato oscuro e sotterraneo
della storia americana come James Ellroy, nella sua «Underworld Usa
Trilogy» (1995-2009), e Don DeLillo in Underworld (1997), in cui il direttore
del Bureau è raffigurato – inseparabile da Clyde Tolson, suo compagno di
lavoro e, secondo la storiografia più popolare, di vita – come tormentato da
manie igieniste: spinto dall’ossessione per «germi […], agenti patogeni […],
microbi, colonie galleggianti di spirochete che si fondono e si separano, si
allungano in spirali e si inabissano, intere vagonate di materia che la gente
butta fuori tossendo, primitive e letali», «Jedgar», il federale «con la faccia
da bulldog», vorrebbe assimilarsi a un aspirapolvere e rimuovere tutti gli
elementi sospetti; per l’appunto, battendo, spazzando e pulendo ogni
angolo del paese.

BIBLIOGRAFIA
Oliviero Bergamini, Storia degli Stati Uniti, Laterza, Roma-Bari 2006.
Robert S. McElvaine (ed.), Encyclopedia of the Great Depression, Macmillan,
New York 2004.
Cinzia Scarpino, US Waste. Rifiuti e sprechi d’America. Una storia dal basso, il
Saggiatore, Milano 2011.
C. SCAR.
[I]

Indian Mounds
S’incontrano mentre si viaggia nel Midwest, attraverso le Grandi pianure o
lungo il Mississippi o il Missouri (→ Vie d’acqua), ma non solo: alcune non
sono più di un’increspatura quasi indistinguibile dalle irregolarità del
terreno circostante, altre appaiono quali piccole mammelle in una radura,
pregne d’un significato misterioso, altre ancora hanno il contorno di uno o
più animali in fila (un orso, un’aquila, un castoro) sulla riva del fiume, nella
stessa direzione della corrente. Ma alcune sono imponenti ammassi di terra
compatta, in forma di piramide mozza al vertice, alte forse più delle parenti
azteche e maya, ricoperte d’un manto verde, a dominare un’ampia distesa
pianeggiante – come Cahokia, appena fuori St. Louis (→ Gateway Arch), il
fascinoso sito d’una città popolosa scomparsa nel nulla intorno al 1400,
dove la più imponente (Monks Mound) s’innalza per più di 30 metri su una
superficie di 56mila metri quadri, guardando a sud; come le Effigy Mounds,
vicino a Marquette e Dubuque in Iowa (il Grande Orso misura 40 metri dalla
testa alla coda); come l’Emerald Mound, 20 metri d’altezza, accanto al
Natchez Trace (→ Piste e sentieri), ciò che rimane di antiche genti, vissute
prima degli stessi natchez sterminati dai francesi tra il 1729 e il 1731; come
le Monticello Mounds, sparse sulla proprietà di Thomas Jefferson, fuori
Charlottesville, in Virginia, e da lui studiate per coglierne il segreto… Sono
le Indian Mounds, le «colline indiane»: ancora ignote quanto al significato
profondo, forse luoghi di sepoltura, forse strumentali alla conservazione del
cibo al di sopra delle esondazioni periodiche dei fiumi, o sedi di rituali e
cerimonie o basi di costruzioni sacre o di edifici di sachem o sagamore (→)
o parti di singolari osservatori celesti. Tutte silenti testimoni di una tragedia
e di un passato che non ritorna.

BIBLIOGRAFIA
E. Barrie Kavasch, The Mound Builders of Ancient North America, iUniverse,
Lincoln 2004.
Sally A. Kitt Chappell, Cahokia. Mirror of the Cosmos, University of Chicago
Press, Chicago 2002.
M.M.

Isole
Non mancano certo le isole, nel continente nordamericano – siano esse al
largo delle coste o dentro le acque di fiumi: Manhattan e le altre isole che
compongono New York; o le isole che rallentano la corrente del Mississippi
e del Missouri; o quelle isole vicine e lontane che si caricano di implicazioni
storiche e culturali diverse: come Typee e Omoo, che diedero il proprio
nome a due libri (del 1846 e del 1847) di Herman Melville, o come Cuba,
Portorico, Guam, Filippine, Hawaii, che a fine Ottocento diventano scenari
di altre avventure imperialiste americane (→ Splendide guerricciole). O
ancora: la Jackson Island di Huckleberry Finn e la Long Island del grande
Gatsby, le isole dei Mari del Sud di Jack London e le Isole nella corrente,
romanzo postumo di Ernest Hemingway, o gli «arcipelaghi di mondi» delle
saghe fantascientifiche, fino al serial televisivo Lost.
Ci sono poi alcune isole che – come dire? – sono più isole delle altre,
perché hanno connotati molto particolari che le rendono significative in
maniera drammatica. Vediamone alcune.
Roosevelt Island si trova a metà dell’East River, il breve fiume che separa
Manhattan dal Bronx, da Queens e da Brooklyn, prima di gettarsi nella Baia
di New York. È un’isola lunga e stretta, nota nel tempo con nomi diversi:
Minnahononck per gli indiani d’America, Eynsel Varckens (l’«Isola del
cinghiale») per gli olandesi, e, fino al 1921, Blackwell’s Island dal nome del
colono che la comprò; quindi, tra il 1921 e il 1973, Welfare Island, e infine,
dal 1973, Roosevelt Island, in ricordo di Franklin D. Roosevelt. Come
Blackwell’s Island (nome già di per sé evocativo: «l’isola del pozzo nero»),
essa ospitò una prigione, un manicomio e un ospedale per malati di vaiolo.
Luogo separato ma vicino, di profonde sofferenze (ne fu testimone, fra gli
altri, Charles Dickens durante il suo primo viaggio negli Stati Uniti, poi
narrato in America, del 1842), l’isola riapparirà di continuo nella cultura
americana, quasi un fantasma che s’aggiri tra gli scenari metropolitani: dal
romanzo breve di Stephen Crane Maggie (1893) al film di Martin Scorsese
Gangs of New York (2002).
A poche miglia di distanza in linea d’aria, ma alla foce del fiume Hudson,
in piena Baia di New York, c’è invece Ellis Island, nota in origine come la
«Piccola isola delle ostriche» e così rinominata da Samuel Ellis, colono
newyorkese di origine gallese che la mise in vendita nel 1778. Fra il 1892 e il
1954, Ellis Island funzionò da «cancello d’ingresso all’America» per decine
di migliaia di immigrati al posto del «vecchio» Castle Garden Depot, che era
stato attivo fra il 1855 e il 1890, ma aveva l’inconveniente di essere a
Manhattan. Ellis Island era invece un altro luogo separato, in cui più di 12
milioni di immigrati vennero ispezionati, trattenuti, ammessi o respinti, nei
sessantadue anni in cui rimase in funzione. Oggi sede dell’Ellis Island
Immigration Museum, aperto nel 1990 (dopo decenni di totale abbandono)
nei locali ristrutturati, Ellis Island compare a sua volta in numerosi film (per
esempio, Il padrino – Parte seconda [1974], di Francis Ford Coppola, e
Nuovomondo [2006], di Emanuele Crialese) ed è stata oggetto di numerose
riflessioni letterarie, analisi sociologiche e studi fotografici (celebri le
immagini scattate da Lewis Hine ai primi del Novecento).
Dalla costa est a quella ovest, ecco un’altra coppia di isole. La prima è
Alcatraz Island, nella Baia di San Francisco: detta anche «The Rock», la
spagnola «Isola dei pellicani» fu postazione militare nella prima metà
dell’Ottocento, prigione militare nella seconda metà e fino al 1933; quindi,
per trent’anni, famigerata prigione federale – fortezza dichiarata
inespugnabile dall’interno, ma poi segnata da almeno quattordici tentativi
di fuga, di cui uno terminato nella cosiddetta «battaglia di Alcatraz» (1946),
ispirazione per almeno due film celebri (Forza bruta, del 1947, di Jules Dassin;
e L’uomo di Alcatraz, del 1962, di John Frankenheimer), e un altro, riuscito e
clamoroso, del 1962, a sua volta immortalato dal film di Don Siegel, Fuga da
Alcatraz (1979). Chiusa la prigione federale nel 1963, l’isola restò deserta, per
tornare alla ribalta delle cronache nel novembre 1969, quando un gruppo di
militanti del New American Movement appartenenti a diverse tribù
dell’area, la occupò rivendicandone il possesso e l’uso in base a un trattato
del 1868: l’occupazione terminò dopo circa un anno e mezzo.
Di nuovo a poche miglia in linea d’aria e sempre nella Baia di San
Francisco, ecco Angel Island: la storia si ripete, e qui conviene soffermarsi
un po’ più a lungo. Territorio di caccia e pesca dei miwok, deve il suo nome
originario agli spagnoli, che la occuparono nel 1775, per poi divenire, nel
corso dell’Ottocento, un avamposto dell’esercito americano nelle guerre
contro i Native Americans. Rimase un forte militare (Fort McDowell) e, dal
1910 al 1940, funzionò come «centro di accoglienza e di rimpatrio» per gli
immigranti provenienti dall’Asia – soprattutto cinesi soggetti al Chinese
Exclusion Act (→ Chinatown), oltre a filippini e giapponesi (circa 175mila in
trent’anni). Chiuse nel 1940, le baracche del «centro» rimasero
abbandonate fino alla fine degli anni sessanta, quando – l’isola ormai
trasformata in parco – se ne decise l’abbattimento. Ma nel 1970 un custode
vide ciò era stato sotto gli occhi di tutti, ma fino allora era sfuggito: le pareti
dei dormitori e delle celle erano coperte di scritte e incisioni, di ideogrammi
cinesi. Dopo sei anni di discussioni e pressioni, si decise di salvare il
«centro»: le iscrizioni furono fotografate e trascritte, i reduci di
quell’esperienza rintracciati e intervistati, e fu anche localizzata una prima
raccolta effettuata da due ospiti dell’isola nel 1932. Nel complesso, 135
poesie furono riportate alla luce. I fantasmi di Angel Island ricominciarono
a parlare: delle fatiche della traversata, dei manuali con le istruzioni su
come comportarsi al momento dell’indagine (imparati a memoria e distrutti
prima dell’entrata nella Baia di San Francisco), dei ricordi e delle
aspettative, delle delusioni violente e del trattamento disumano, delle
forme di autorganizzazione più o meno clandestina e delle lunghe
settimane trascorse nel nulla e nella paura del poi. Nel 1980, lo History of
Chinese Detained on Island Project raccolse le poesie, che undici anni dopo
vennero pubblicate, a cura di Him Mark Lai, Genny Lim e Judy Yung, in un
libro intitolato Island. Poetry and History of Chinese Immigrants on Angel Island,
1910-1940.
Parafrasando l’ultima battuta di Leonardo di Caprio nel film di Martin
Scorsese Shutter Island (2010), vien da dire: queste isole fanno pensare.

BIBLIOGRAFIA
Kenneth T. Jackson (ed.), The Encyclopedia of New York City, Yale University
Press, New Haven 1995.
Him Mark Lai, Genny Lim, Judy Yung (eds.), Island. Poetry and History of
Chinese Immigrants on Angel Island, 1910-1940, University of Washington
Press, Seattle-London 1980.
Barry Moreno, The Illustrated Encyclopedia of Ellis Island, Greenwood Press,
Santa Barbara 2004.
Gregory Wellman, History of Alcatraz Island, 1853-2008, Arcadia Publishing,
Chicago 2008.
M.M.

Ivy League
L’edera («ivy») in questione ricopre, in via metaforica e non, le facciate
delle sette università private più prestigiose e antiche della costa est:
Harvard (Cambridge, Massachusetts), Yale (New Haven, Connecticut),
Princeton (Princeton, New Jersey), Dartmouth (Hanover, New Hampshire),
Brown (Providence, Rhode Island), Cornell (Ithaca, New York), Columbia
(New York) e la University of Pennsylvania (Philadelphia) – a cui si sono
aggiunti in tempi più recenti anche prestigiosi college della costa ovest
come Stanford e Berkeley. Parlare di Ivy League significa oggi evocare un
mondo fatto di antichi edifici, di studenti ultraselezionati (spesso Wasp →),
di sororities e fraternities esclusive (→ Phi Beta Kappa), di professori famosi,
biblioteche vastissime e promesse di brillanti carriere; non da ultimo,
significa anche parlare di sport, e di football (→) in primis, che radunò le
sette università dell’Est nel loro primo campionato intercollegiale nel 1898.
Lo stesso termine «ivy league» riferito alle università fu usato per la prima
volta da un commentatore sportivo, Stanley Woodward, nel 1933, nel
descrivere un incontro di football fra gli studenti di questi college.
La storia delle sette istituzioni, e più in generale dell’università, parte
come ovvio da più lontano: inizia nel 1636, anno di fondazione di Harvard,
cui seguirono a ruota gli altri sei college, antecedenti alla Guerra
d’indipendenza (→ Rivoluzione americana), fondati grazie a ordini religiosi
(fra cui calvinisti, metodisti, battisti) e, nel caso della University of
Pennsylvania, anche grazie allo zampino del poliedrico intellettuale,
scienziato e scrittore Benjamin Franklin.
Sorte come luoghi per la produzione, la conservazione e la diffusione di
cultura e aperte a un numero ristretto di studenti, le università restarono
legate indissolubilmente alla religione per tutto il XVII e XVIII secolo,
seguendo il diktat puritano di «far progredire nell’apprendimento e
perpetuare quest’ultimo ai posteri» – meglio se con solide basi teologiche.
Come i suoi modelli inglesi di Oxford e Cambridge, anche la prima
università americana, Harvard, che pur si proponeva di essere la culla del
pensiero liberale, vantava una maggioranza di studenti che aspiravano a
diventare ministri del culto – e di conseguenza creò una biblioteca con
migliaia di libri sull’argomento. A differenza del New England, che contava
su una buona percentuale di insegnanti autoctoni, i college che sorsero
fuori dalle roccaforti puritane reclutavano come docenti professori cresciuti
e formatisi in Inghilterra o Scozia: fu l’università del New Jersey a
richiamare come rettore il ministro presbiteriano scozzese John
Witherspoon che, oltre a cercare un punto di incontro fra razionalismo
illuminista e religiosità evangelica, fu il principale promotore
dell’insegnamento delle scienze nel Nuovo mondo e sostenne i valori alla
base dell’indipendenza americana (non a caso, fu l’unico chierico firmatario
della Dichiarazione).
Dopo la Guerra d’indipendenza, le università vennero sempre più
investite di una funzione civica, viste come strumento per la formazione di
bravi cittadini e governanti responsabili: accanto alla solida base
umanistica, crebbe in questi anni l’importanza delle scienze, delle lingue
straniere moderne e dell’educazione civica; e vi furono alcuni tentativi di
introdurre insegnamenti pratici e professionalizzanti.
Nei decenni successivi alla Rivoluzione, la maggior parte degli stati
incorporò molte università come propri organismi, creando di fatto un
doppio binario (scuole fondate da gruppi religiosi da un lato e scuole
pubbliche dall’altro). Tuttavia, la precarietà finanziaria che caratterizzò i
primi anni della repubblica ebbe conseguenze infauste anche su università e
studenti: molti di costoro non potevano permettersi studi che duravano
anni, mentre gli scarsi investimenti da parte dello stato avevano l’effetto di
diminuire in maniera drastica il numero di professori e di insegnamenti, e
di conseguenza il livello delle lezioni. In tale quadro desolante, solo Harvard
sembrò prosperare, complici le donazioni di privati che portarono a dieci
(cifra fino ad allora inimmaginabile) il numero di professori nel
dipartimento di Letteratura. A ogni modo, qualche problema nel dialogo fra
istituzioni accademiche e società civile permaneva e, nonostante
l’importanza data all’istruzione umanistica, i letterati autoctoni non
sempre vedevano di buon occhio l’accademia: basti pensare al giudizio
sferzante di Ralph Waldo Emerson, che considerava i college e le scuole di
teologia come nemici dell’«American scholar», dello «studioso americano».
Viste l’enfasi posta sugli studi classici e sulla religione e la relativa
marginalità delle scienze, non sorprende che la rivoluzione darwiniana
abbia scosso in profondità non solo le basi della conoscenza, ma le
fondamenta stesse dell’università americana, mettendo ancor più in crisi
chi cercava una visione unitaria che raccogliesse sotto lo stesso paradigma
interpretativo studi classici e studi scientifici – questi ultimi ridotti a lungo
all’accezione di meccanica e agricoltura, e il cui valore era rappresentato
esclusivamente dalla loro spendibilità sul mercato.
Insieme al ruolo giocato dalla scienza, anche la struttura delle università
subì grandi cambiamenti fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del
Novecento, attraverso un’articolazione sempre più complessa in college
(con programmi di due o quattro anni complessivi, divisi fra liberal arts e i
più vari comprehensive, che conducono al raggiungimento della laurea, il
bachelor degree) e research universities, più improntate sulla ricerca (a
discapito talvolta dell’insegnamento under graduate dei primi tre anni) e con
corsi avanzati che portano lo studente al conseguimento del master e del
dottorato. Accanto a essi, continuavano a prosperare istituti privati, college
legati a culture specifiche come quella afroamericana (→ Tuskegee, la
prima a emergere fra le culture etniche con istituti di formazione specifici),
o religiosi.
In tale labirinto di strutture, peraltro non regolamentate dal governo
federale (che ha sempre lasciato ampia autonomia ai singoli stati in materia
di istruzione, non da ultimo perché la laurea negli Stati Uniti non ha valore
legale), quale doveva essere il rapporto fra le realtà universitarie e la vita
intellettuale della nazione? A inizio Novecento, si pensava che il compito
delle università fosse in primo luogo di dare un’infarinatura di base a tutti
gli studenti sulla civiltà contemporanea (insegnamento reso obbligatorio
dalla Columbia University, subito dopo la Prima guerra mondiale). Per circa
cinquant’anni, numerosi istituti cercarono di insegnare ai propri studenti,
prima di indirizzarli verso percorsi specifici, le basi della storia occidentale
attraverso una selezione di letture – un approccio che naufragò negli anni
sessanta e settanta, complici l’enfasi, fuori e dentro le università, sul
crescente multiculturalismo e il rifiuto di una visione univoca su storia e
società.
A irrompere nell’ambito universitario fu in quegli anni anche il «sesso
debole», fino agli anni sessanta escluso dalle Ivy League e costretto ad
accontentarsi (si fa per dire) di una delle «sette sorelle», i più prestigiosi
college, anch’essi nel Nordest, dedicati alle fanciulle: Radcliffe, Wellesley,
Smith e Mt. Holyoke (in Massachusetts), Vassar (a Poughkeepsie, New
York), Barnard (New York), Bryn Mawr (Philadelphia) – college che, alla
desegregazione di genere degli anni sessanta, finirono con il gemellarsi o il
fondersi con una delle sette «edere», in genere la più vicina.
Oltre alle idee e alle spinte verso l’uguaglianza dei sessi, a riplasmare le
università americane durante tutto il Novecento fu il loro rapporto con il
mondo del lavoro e con il governo. Risale alla Prima guerra mondiale l’idea
che le università e le imprese dovessero lavorare insieme, le une
producendo «cultura» che aiutasse a migliorare o a capire l’evolversi della
società, le altre finanziando, in maniera diretta o attraverso fondazioni, le
prime (si pensi ai miliardi di dollari investiti da Rockefeller negli studi
sociali). Fu però durante la Seconda guerra mondiale che tale connubio si
rinsaldò, soprattutto nell’ambito scientifico, con gli studiosi che videro
impiegate le loro conoscenze e scoperte per usi essenzialmente bellici (→
Progetto Manhattan) – sinergia che proseguì anche per i primi due decenni
della Guerra fredda. Il tutto fino agli anni sessanta, quando i Movimenti per
i diritti civili (→ Back of the bus) e le proteste per l’intervento bellico
americano in Vietnam (→) portarono la maggior parte degli studenti (il cui
numero era aumentato a livello esponenziale negli anni cinquanta →
Generazioni) a protestare contro qualsiasi collegamento fra le istituzioni
universitarie, il governo, l’esercito e le grandi società. Grazie alle
mobilitazioni studentesche di questi anni, le università divennero (pur con
alcune degenerazioni) strumenti per la partecipazione democratica,
guardiane di valori quali l’egalitarismo e la giustizia sociale e al contempo si
impegnarono a ricercare forme aperte, sperimentali di didattica che
abbattessero le rigide gerarchie accademiche. Molti di coloro che furono
componenti attivi dei movimenti studenteschi entrarono in seguito
nell’accademia come membri delle facoltà, portando avanti le
rivendicazioni collettive dall’interno del sistema. Studiosi della «Nuova
Sinistra» stabilirono la propria presenza in quasi ogni disciplina, così come
il movimento femminista monopolizzò gli studi di genere.
Seppure in maniera meno manifesta di quanto non fosse avvenuto in
precedenza, le università mantennero e consolidarono al contempo i
rapporti con il mondo del mercato – complice anche lo sviluppo delle
biotecnologie in ambito scientifico, che rafforzò il legame fra conoscenza
accademica e applicazioni commerciali. Più in generale si può dire che tutto
il sistema università divenne sempre più ancorato al mercato e alle sue
leggi: l’enfasi, a partire dagli anni novanta (e anche a livello giuridico), sulle
idee come «proprietà intellettuali»; il proliferare di corsi legati alla sfera
finanziaria; e la perdita di terreno dell’ambito umanistico, via via più
caratterizzato da un’ipertrofia della conoscenza specialistica, con professori
autori di testi spesso autoreferenziali e poco leggibili (e di fatto poco letti),
che allontanarono la riflessione accademica sulla società, spesso critica nei
confronti delle istituzioni, dal grande pubblico.
È con un pesante fardello di contraddizioni interne e di congiunture
infauste che le università americane tentano di proseguire il loro cammino
in questi ultimi anni: con una crisi economica che erode i miliardi di dollari
di finanziamenti privati e donazioni di ex alunni (facoltosi – e incentivati
dagli sgravi fiscali concessi), rette che arrivano ai 40mila dollari l’anno (e
che spesso non includono i costi di vitto e alloggio), una percentuale
sospetta di figli di ex studenti ammessi ai corsi più prestigiosi, meno borse
di studio e una richiesta formativa sempre più differenziata (dai classici
master e dottorati fino ai corsi di aggiornamento e professionalizzanti),
rettori a cui è richiesto di svolgere il ruolo di manager, sempre meno in
grado di occuparsi degli aspetti didattici, le università statunitensi si
trovano a dover fronteggiare la recessione con personale ora in larga parte
precario (spesso proveniente dalle file degli studenti del dottorato), lanciate
al contempo in battaglie a suon di centinaia di migliaia di dollari per
accaparrarsi i (pochi) docenti prestigiosi – in grado, questa è la speranza, di
attirare finanziamenti.
E nonostante l’opera di democratizzazione e di apertura delle università
agli studenti meno abbienti e generalmente discriminati, come
afroamericani, ispanici e asiatici, dettata dall’affirmative action (che impone
per legge, a parità di risultati, l’ammissione di uno studente della
minoranza etnica), la tradizione è comunque la tradizione, e le roccaforti
del pensiero, sì liberale, ma comunque aristocratico, restano le stesse. Non
stupisce così constatare che gli ultimi quattro presidenti degli Stati Uniti
abbiano frequentato una o più delle sette Ivy League nel loro periodo di
formazione universitaria: George H.W. Bush (undergraduate a Yale), Bill
Clinton (Yale Law School), George W. Bush (undergraduate a Yale, poi iscritto
alla Harvard Business School), Barack Obama (undergraduate alla Columbia, e
poi perfezionatosi alla Harvard Law School). Se pensiamo ai loro
(disomogenei) risultati, e al fatto che nelle Ivy League siano invece solo
transitati, senza portare a termine gli studi, rivoluzionari dei linguaggi
informatici come Bill Gates e Mark Zuckerberg (entrambi a Harvard), viene
il dubbio che una laurea Ivy League non sia di per sé, una garanzia di qualità,
né una condizione sine qua non per il successo. Che avesse ragione Emerson?

BIBLIOGRAFIA
Thomas Bender, Intellect and Public Life: Essays on the Social History of Academic
Intellectuals in the United States, The Johns Hopkins University Press,
Baltimore 1993.
Sonia Di Loreto, Anna Scannavini (a c. di), Ácoma, n. 34: Il sistema universitario
negli Stati Uniti, Shake, Milano 2007.
Christopher Jencks, David Riesman, The Academic Revolution, Doubleday, New
York 1968.
C. SCHIA.
[J]

Jazz Age
Poco soddisfatto dei titoli proposti dall’editore per la sua seconda raccolta
di racconti, Francis Scott Fitzgerald ebbe l’idea di chiamarla Tales of the Jazz
Age (1922). Lo scrittore non poteva ancora saperlo, ma l’espressione Jazz
Age, insieme a The Roaring Twenties, sarebbe rimasta appiccicata agli anni
venti del Novecento come una seconda pelle. Ed è forse destino che a
coniarla sia stato il personaggio che fu più in sintonia con il decennio e nelle
sue opere seppe raccontarlo al di là delle immagini più appariscenti delle
flappers (→), della trasgressione e della prosperità.
Il jazz, partito dalle bettole di New Orleans (→ Storyville) e giunto nelle
grandi metropoli in seguito alla diaspora di musicisti afroamericani, si era
imposto a cavallo della Prima guerra mondiale come elemento
indispensabile dell’intrattenimento per giovani, diventando la colonna
sonora delle serate danzanti, nelle quali, con disappunto dei custodi del
decoro, i rampolli della borghesia si lasciavano trascinare dai ritmi sfrenati
delle orchestre. La popolarità del ragtime (→), del foxtrot, del charleston e di
un’infinità di nuovi balli che consentivano ai giovani di flirtare e ai loro
corpi di sfiorarsi suggerendo ben più compromettenti epiloghi, esprimeva
una serie di valori, dalla ricerca dell’edonismo all’atteggiamento ironico e
diffidente verso le convenzioni sociali, in cui si riconosceva la generazione
uscita dal conflitto mondiale.
La fine della Red Scare (→) diede il via, nelle parole di Fitzgerald alla «più
grande baldoria di tutti i tempi», un intermezzo in cui «la decima parte, la
più elevata, di una nazione […] viveva con la noncuranza di granduchi e
l’improvvidenza di ballerine» (Echi dell’età del Jazz, 1931): le feste
culminavano in sbronze e sesso occasionale, scazzottate e propositi di
coltivare un qualche nascosto talento artistico, magari a Parigi (→
Espatriati ed esuli). In un decennio che, sotto molti aspetti, segnò il trionfo
della conservazione e del conformismo – basti ricordare la legge sul
Proibizionismo (→), l’approvazione del codice di autoregolamentazione per
il cinema (→ Codice Hays), il revival religioso (→ Scimmie alla sbarra), la
condanna a morte di Sacco e Vanzetti e la resurrezione del Kkk (→) – la
ribellione giovanile s’incanalò nella sovversione dei rigidi costumi
vittoriani senza mai assumere connotati politici.
Si trattava, però, solo della decima parte della popolazione: il resto della
società era attraversato da tensioni che, pur mandando segnali allarmanti
nel corso del decennio, sarebbero state identificate troppo tardi, quando
ormai la crisi economica era irreversibile (→ Grande depressione). La
prosperità decantata da politici e giornali – famosa la profezia del
presidente Hoover (→), secondo cui in breve tempo ogni americano
avrebbe posseduto un’automobile – era propaganda buona per una classe
media che, grazie alla diffusione del pagamento a rate, aveva visto il suo
potere d’acquisto espandersi e dirigersi verso l’acquisto di elettrodomestici,
mobilio e, per alcuni, anche una fiammante autovettura (→ Model T).
Lontano dai riflettori e dalle luci della città, invece, i settori tradizionali
dell’economia stavano mostrando segni di declino.
Nel 1920, l’ufficio del censimento rivelò che, per la prima volta, la
popolazione urbana superava quella rurale. Per una società che esaltava la
propria diversità dall’Europa fondandola sulla sopravvivenza del mito
agreste e sul rapporto intimo con la natura (→ Wilderness), «cuore
pulsante» della nazione, il dato statistico rappresentò un trauma, pari a
quello verificatosi tre decenni prima con la chiusura della Frontiera (→).
Elemento culturale a parte, le cifre evidenziavano un trend di svuotamento
delle aree rurali le cui cause andavano ricercate nelle trasformazioni del
settore agricolo, con la concentrazione delle terre in grandi latifondi e la
progressiva scomparsa dei piccoli proprietari. Il breve interludio di
prosperità procurato dal blocco dell’attività in Europa durante la guerra si
era esaurito subito dopo l’armistizio. Gli agricoltori americani si
ritrovarono con un eccesso di produzione che si tradusse in un calo
generalizzato dei prezzi – lavorare la terra non garantiva più i mezzi per
sopravvivere. Anche le attività minerarie erano entrate in profonda crisi: il
carbone subiva la concorrenza di combustibili più efficienti, come gas
naturale e petrolio (→ Oil!); inoltre, in maniera analoga a quanto avvenuto
nel settore agricolo, le imprese statunitensi avevano risposto al fermo della
produzione europea con l’apertura di nuovi scavi – una decisione che si era
poi rivelata un boomerang con la fine delle ostilità. Molti giacimenti furono
chiusi, lasciando i lavoratori a competere per un numero inferiore di posti,
il che a sua volta si tradusse in una contrazione dei salari.
Era inevitabile che l’eclissi dell’America avesse riflessi nella letteratura.
Il 1920 vide la pubblicazione di Main Street, il romanzo di Sinclair Lewis che
suscitò scandalo e dibattiti nell’opinione pubblica: attraverso gli occhi della
protagonista Carol Kennicott, Lewis criticava infatti il conformismo della
popolazione delle piccole città (→), l’ostracismo nei confronti del pensiero
indipendente, il desiderio di apparire rispettabili di fronte ai concittadini e
l’esclusivo interesse per le attività che danno un immediato ritorno
economico.
La città, al contrario, si presentava come il regno della possibilità, il
luogo dove ognuno aveva modo di plasmare il futuro in conformità con le
inclinazioni personali. E nessuno impersonò la possibilità di reinventare se
stessi meglio di James Gatz, il ragazzo del Midwest che si trasforma nel
miliardario Jay Gatsby (protagonista de Il grande Gatsby, romanzo del 1925 di
Fitzgerald) per amore di Daisy, la fiamma di gioventù. L’epilogo del
racconto, con la morte accidentale dell’eroe, suona come un presagio del
crollo economico che chiuderà il decennio.
Nell’ottobre 1929, dopo una prolungata crescita del listino, la borsa di
New York (→ Wall Street) crollò a picco. L’incremento dei valori era stato
alimentato dalla speculazione, cui contribuirono normali cittadini convinti
a comprare azioni dalle promesse di facili guadagni e dalla disponibilità
delle banche a concedere prestiti per l’acquisto di titoli.
Nel frattempo, anche il jazz cambiava pelle, perdendo via via la
connotazione di «musica ribelle»: alla Aeolian Hall di New York, nel
novembre 1923, la cantante lirica Eva Gauthier presentò un recital
alternando il repertorio di grandi maestri dell’epoca, quali Schoenberg e
Hindemith, con brani scritti da George Gershwin (→ Tin Pan Alley). Sei mesi
dopo, sullo stesso palco, l’orchestra del maestro Paul Whiteman eseguì
Rapsodia in Blu, la prima composizione con la quale Gershwin cercò di
emanciparsi dalla forma canzone e di dare spazio a visioni musicali più
ampie. Iniziava il processo di elevazione del jazz a musica colta, da ascoltare
stando seduti – da esperienza principalmente corporea a godimento
intellettuale, da veicolo di ribellione per i giovani a momento di riflessione
per gli adulti.

BIBLIOGRAFIA
Roderick Nash, The Nervous Generation. American Thought, 1917-1930, Ivan R.
Dee Publishers, Chicago 1990.
Michael E. Parrish, L’età dell’ansia. Gli Stati Uniti dal 1920 al 1941, il Mulino,
Bologna 1995.
Fernanda Pivano, Mostri degli anni Venti, La Tartaruga, Milano 1994.
S.M.Z.

Jeans
C’è molto di francese e ancor più di italiano nella nascita dei blue jeans, i
pantaloni che sono ormai diventati un imprescindibile simbolo, quasi un
feticcio, per adolescenti e per chi giovane non ha mai smesso di esserlo: il
termine deriva infatti dall’espressione bleu de Gênes, «il blu di Genova», a
indicare un misto di cotone e lino il cui smercio passava per lo più dal porto
della città ligure. La paternità del tessuto non è molto chiara e, anche se
pare sia stato creato contemporaneamente in due luoghi diversi durante il
Cinquecento (a Nîmes, in Francia, da cui il nome denim; e in India), i primi
pantaloni di questo tessuto furono confezionati nella cittadina piemontese
di Chieri, e presero piede durante l’Ottocento. Il legame con l’Italia è
addirittura triplice: non solo i jeans continuarono a transitare attraverso il
porto di Genova, ma questo tipo di pantalone molto robusto era anche assai
richiesto dai marinai liguri, che erano soliti lavarli con l’acqua di mare –
schiarendoli così fino a farli diventare bianchi.
Il successo dei blue jeans si deve però all’intuito commerciale di Levi
Strauss, immigrato di origine bavarese che arrivò negli Stati Uniti nel 1847
e, dopo aver lavorato per qualche anno insieme ai fratelli in un negozio
tessile di New York, decise di unirsi ai tanti cercatori d’oro diretti all’Ovest
(→ Oro!). La fortuna non gli arrivò sotto forma di pepite, ma di tessuto: si
stabilì in California e divenne presto il più importante rifornitore di denim
dello stato, vendendo i suoi pantaloni («Levi’s» appunto) ai minatori
californiani. Quando un sarto di Reno (Nevada), tale Jacob Davis, a sua volta
immigrato dall’Europa dell’Est, avuta l’idea di rinforzare le cuciture dei
jeans con rivetti di rame e non avendo soldi sufficienti per acquistare la
licenza e tutelare la propria ingegnosa trovata, scrisse a Strauss
proponendogli di diventare suo socio in affari, Levi non si fece pregare. Il
brevetto 139.121 rilasciato ai due il 20 maggio 1873 fu uno dei più redditizi
della storia americana. Distinti per genere in base al taglio, con la zip
davanti per gli uomini e più pudicamente di lato per le donne, i jeans
continuarono per alcuni decenni a essere acquistati in prevalenza da
lavoratori (in particolare dagli operai delle fabbriche) e dai detenuti, i cui
impieghi manuali pesanti richiedevano tessuti resistenti e di facile
manutenzione.
Grazie alla loro origine proletaria e al legame col West, i jeans conobbero
una nuova e inaspettata popolarità a partire dagli anni trenta per merito del
cinema, quando il genere western li rese emblema della libertà e
dell’individualismo associandoli a pistoleri e rednecks (→) dell’Ovest
(nonostante non manchino, negli archivi della Levi’s, testimonianze
fotografiche di jeans indossati anche dai nativi). Ancor più grande fu il
successo e l’impatto commerciale del jeans durante gli anni cinquanta,
grazie ai giovani e in particolare a James Dean, che li trasformò in simbolo
di ribellione, oltre che accessorio di un sex appeal irresistibile, in Gioventù
bruciata (1955). In quegli anni, la Levi’s & Co. ampliò il proprio mercato
all’intera nazione – subito imitata dalle altre neonate case produttrici, Lee
Coopers e Wranglers in testa. Se ancora negli anni sessanta il jeans,
all’epoca molto amato dagli hippies, continuava a mantenere una forte
carica sovversiva ed era dunque mal visto in ambienti formali come scuole,
teatri e persino ristoranti, fu a partire dagli anni ottanta che esso venne
sdoganato dal mondo della moda, prima come tessuto dell’abbigliamento
casual per eccellenza e poi addirittura come capo dell’haute couture,
impreziosito da tagli sartoriali e decorazioni sempre più raffinate.
Perché il jeans è davvero camaleontico, per forme, contesti e significati:
aderenti, a zampa d’elefante, boot cut («alla caviglia», per favorire la
ventilazione e molto apprezzato dai marinai), con la martingala (usata per
stringere il tessuto sui fianchi prima dell’avvento della cintura) e di colori
diversi (sebbene l’indaco resti sempre il più amato). È sfoggiato da
presidenti così come da rockstar, modelle, intellettuali e rappers (extralarge,
in questo caso). Soprattutto, figlio com’è di una commistione continua che
va dagli apporti del Vecchio mondo alla reinvenzione da parte delle culture
immigrate, ha una storia che assomiglia al suo tessuto: duraturo, che riflette
le sfumature del tempo, alla portata di tutti e dunque egalitario, fiero dei
segni della vita e nonostante ciò sempre «giovane». Forse per questo è al
contempo così tanto americano a parole e così poco nei fatti.

BIBLIOGRAFIA
Remo Guerrini, Bleu de gênes. Piccola storia universale dei jeans, Mursia, Milano
2009.
James Sullivan, Jeans: A Cultural History of an American Icon, Gotham Books,
London 2007.
C. SCHIA.

Jim Crow (o della segregazione)


Il 7 giugno 1892, un uomo di nome Homer Plessy acquistò un biglietto per il
treno che da New Orleans portava a Covington, sedendosi nella sezione «per
soli bianchi». Quando giunse il controllore, l’uomo non solo gli mostrò il
biglietto, ma gli spiegò anche di essere bianco per sette ottavi; alla richiesta
del controllore, si rifiutò di sedersi nella sezione «per soli neri» e fu
arrestato per aver violato la legge della Louisiana relativa alle «carrozze
separate». Il processo che seguì (Plessy v. Ferguson) e che si concluse quattro
anni dopo con la sconfitta di Plessy (difeso da Albion Tourgée, singolare
figura di avvocato, letterato e deciso sostenitore dei diritti civili) diede
origine alla «dottrina» detta «Separate But Equal» (= Separati ma eguali),
che in sostanza ufficializzava la segregazione razziale. L’atto di Homer
Plessy (ideato in origine da un Comité des Citoyens di New Orleans,
composto di bianchi, neri e mulatti) non fece che portare alla ribalta una
situazione esistente già da decenni, negli stati del Sud usciti dalla Guerra
civile (→).
Dopo la parentesi della Ricostruzione (1865-1877), infatti, la vecchia
classe dirigente del Sud, rappresentata per lo più da democratici
conservatori, aveva a poco a poco riconquistato posizioni di potere in vari
gangli dell’amministrazione statale, con strettissimi legami con
Washington. Se il 1877 segnò una prima svolta, con il ritiro delle truppe
federali dal Sud, fu nel corso del decennio successivo e in modo particolare
degli anni novanta che, prima nel Mississippi e poi negli altri stati
meridionali, venne presa una serie di misure legislative che, annullando
nella sostanza gli emendamenti nn. 13, 14 e 15 alla Costituzione, avevano
come effetto l’esclusione degli ex schiavi afroamericani e dei loro
discendenti (oltre a migliaia di bianchi poveri) dalla vita politica e sociale:
per l’appunto, le Jim Crow Laws, «Leggi di Jim Crow», così chiamate con
riferimento a un personaggio del minstrel show (→) degli anni trenta
dell’Ottocento.
L’effetto di queste leggi (che, riecheggiando i «Black Codes» in vigore
all’epoca della schiavitù, limitavano o cancellavano tanto il diritto di voto
quanto la libera frequentazione di scuole, uffici, locali, treni, barche, parchi,
biblioteche, ospedali, prigioni, cimiteri, ristoranti, caffè, negozi) fu
profondo e, al di là dell’aspetto puramente giuridico, finì per modellare in
maniera decisiva la mentalità dominante del Sud, creando robuste barriere
razziste – visibili e invisibili – e isolando anche, in maniera quasi
preventiva, gli afroamericani dai numerosi bianchi poveri, nel timore di una
possibile alleanza di questi due settori della classe più svantaggiata, in
decenni segnati da gravi criticità (→ Sciopero!).
La dottrina del «Separati ma eguali» (con il suo ipocrita riconoscimento
d’eguaglianza a parole, nullificato in pratica dalla separazione fisica) si
traduceva anche in una serie di comportamenti, via via considerati
«normali», in una sorta di «etichetta» non scritta che regolava i rapporti fra
bianchi e neri: così, nessun nero poteva stringere la mano a un bianco,
bianchi e neri non dovevano mangiare insieme (e, se succedeva, i bianchi
dovevano essere serviti per primi), nessun nero poteva offrirsi di accendere
una sigaretta a un bianco, le effusioni in pubblico erano vietate ai neri per
non turbare i bianchi, le presentazioni andavano fatte dai neri (chiamati per
nome) ai bianchi (chiamati per cognome e sempre indicati con «mr»,
«mrs», «miss»), i guidatori bianchi d’automobile avevano il diritto di
precedenza, in un’auto o camion guidato da un bianco un nero doveva
sempre sedersi sul sedile posteriore o nel cassone, e così via. Inoltre, «ci si
aspettava» che nessun nero insinuasse che un bianco mentisse o alludesse a
intenzioni disonorevoli da parte di un bianco, che nessun nero manifestasse
atteggiamenti di superiorità nei confronti di un bianco, che nessun nero si
abbandonasse a espressioni di ammirazione al comparire di una donna
bianca, che nessun nero alludesse alla bassa estrazione di un bianco, o che
ridesse di un bianco ecc. Un buon esempio delle ricadute comportamentali
di questa «etichetta» si ha nel romanzo Il buio oltre la siepe, di Harper Lee, del
1960 (e nel film omonimo che ne trasse Robert Mulligan due anni più tardi)
– ma la letteratura al riguardo è sterminata.
Al di là di questi comportamenti, che si diffusero in lungo e in largo,
radicandosi e irrigidendosi con il tempo non soltanto nella società del Sud,
ma più in generale nella società americana (il morbo di un razzismo diffuso,
che – come sottile ma potente elemento di divisione – colpiva e colpisce
anche gli strati poveri bianchi), le Jim Crow Laws – confermate via via nei
primi decenni del Novecento (va ricordato in particolare il ruolo nefasto
svolto dal presidente Woodrow Wilson, il convinto «pacifista» e primo
presidente venuto dal Sud dopo la Guerra civile, nel legittimare queste leggi
e abitudini) – furono anche strumentali nel «giustificare» la pratica diffusa
del linciaggio (→ Kkk). Questa colpiva sia individui sia intere comunità,
sotto forma di autentici pogrom (per esempio, i disordini razziali del 1917 a
East St. Louis e del 1919 a Chicago, che fecero 38 vittime, e in altre città e
cittadine, o del 1943 a Detroit). La risposta alle leggi segregazioniste e alle
loro ricadute sociali non si fece attendere, da parte della comunità
afroamericana, negli stati del Sud come nelle metropoli del Nord: specie a
partire dal secondo dopoguerra, essa cercò di rispondere in vario modo alla
repressione legale e illegale (→ Back of the bus; → Movement). E la
pressione così esercitata portò al Civil Rights Act del 1964 e al Voting Rights
Act del 1965, che formalmente eliminava le Jim Crow Laws. Ma l’impronta
da esse lasciata nella società americana sull’arco di quasi un secolo è ancor
oggi molto profonda e disturbante.

BIBLIOGRAFIA
Ellen Ginzburg Migliorino, La marcia immobile. Storia dei neri americani dal 1770
al 1970, Selene Edizioni, Milano 1994.
C. Vann Woodward, The Strange Career of Jim Crow (1955), Oxford University
Press, New York 2001.
M.M.
[K]

Kelvinator (frigoriferi e altro ancora)


La storia del frigorifero, e con esso delle nuove apparecchiature elettriche
per la casa, inizia a Detroit, nel 1914, quando Nathaniel B. Wales, giovane e
sconosciuto inventore, si mise a lavorare a sistemi di raffreddamento
meccanici adatti all’uso casalingo, in cui i motori elettrici fossero integrati
all’oggetto vero e proprio mediante l’impiego di una scocca. Sebbene un
prototipo di refrigeratore avesse già fatto la sua comparsa all’esposizione
universale (→) di St. Louis del 1904, fu solo grazie all’aiuto di altre e ben più
voluminose macchine (in particolare della Buick Automobile Company,
primo sponsor di Wales) che il prodotto arrivò sul mercato: con il
finanziamento della Buick, infatti, il giovane fondò la Electro-Automatic
Refrigerating Company, che, alla messa in commercio delle prime «scatole
del ghiaccio» nel 1916, mutò il proprio nome in Kelvinator Company in
onore di William Thomson, primo barone di Kelvin, ideatore del concetto di
zero assoluto usato per le temperature (da qui anche l’omonima scala).
Battendo la concorrenza di due dozzine di frigoriferi in produzione nello
stesso anno, la Kelvinator Company conquistò nel giro di pochi anni l’80%
circa del mercato, dando inizio a una serie di fusioni e acquisizioni che la
portarono a espandere il mercato molto oltre le (fredde) pareti di un
congelatore. Mentre l’ambizione della donna americana media fin dagli
anni venti era di riempire la propria abitazione con ogni elettrodomestico
immesso sul mercato grazie anche ai sempre più allettanti pagamenti
rateizzati (desideri alimentati anche dall’abile persuasione di giornali e
radio), il sogno di Wales, e con lui di George W. Mason, presidenti della
Nash-Kelvinator Corporation dal 1928 in avanti, era di rendere la casa intera
un prodotto della tecnologia. Tentativo di domotica ante litteram furono in
questo senso le due «Kelvin Homes», progettate dall’architetto J. Ivan Dise e
presentate a Cleveland nel 1937 – dotate di aria condizionata centralizzata,
lavabiancheria, stiratrice, pianola elettrica e, come è ovvio, l’immancabile
frigorifero. All’affollata inaugurazione, cui presero parte tutte le autorità
cittadine, agenti immobiliari, banchieri (che offrivano mutui a tassi
agevolati con lo slogan «Comfort in your financing, too»), il presidente
dell’Oil Heating Service W.R. Kromer, distributore locale della Kelvinator,
predisse nel futuro immediato l’avvento dell’aria condizionata, fino a quel
momento destinata solo ai luoghi pubblici (il primo impianto fu installato
nel 1902 alla borsa di Wall Street), anche in ogni abitazione. E mai
pronostico fu più azzeccato: anche se, con la Grande depressione (→) a
turbare i sonni e le finanze di tanti americani, le Kelvin Homes non
riscossero il successo sperato e vennero affittate come qualsiasi altra casa,
meno tecnologica ma anche meno costosa.
Dopo la battuta d’arresto degli anni trenta e quaranta, l’ascesa degli
elettrodomestici continuò, e dagli anni cinquanta in poi, insieme alle
automobili, essi ridiventarono uno dei principali volani dell’economia.
Dopo i freezer, gli scaldabagni, i condizionatori, vennero anche i mobili per
la cucina Kelvinator, i lavandini e infine, nel 1952, oggetto del desiderio di
ogni casalinga, un’intera serie di lavabiancheria e asciugatrici (prodotti
dell’acquisizione della Altofer Bros. Company, che già fabbricava lavatrici
con il nome di Abc).
Frullatori, forni autopulenti, aspirapolvere (celebri quelli della Hoover
→, che fin dagli anni cinquanta aveva lanciato sul mercato, senza grande
successo, il modello rotante circolare)… una storia a lieto fine, fra
elettrodomestici e famiglia? Non si direbbe, a giudicare dal numero di
incidenti fatali a casalinghe che, avendo ancora poco chiaro il concetto di
elettricità, sono morte fulminate nel tentativo di rimuovere con coltelli e
forchette le fette incastrate nel tostapane (225 per la precisione, solo fra il
1985 e il 2004); e nemmeno a giudicare dall’immaginario distopico di tanto
cinema splatter e gore che vuole gli oggetti domestici ribellarsi contro i loro
utilizzatori in un tripudio di sangue, dita e braccia mozzate, o li vede
strumenti di sadismi e torture volontari di cannibali e affini. Non aprite
quella porta… E neppure quel congelatore, verrebbe da dire.

BIBLIOGRAFIA
Carolyn Marvin, Quando le vecchie tecnologie erano nuove, Utet, Torino1994.
Harvey Molotoch, Fenomenologia del tostapane, Raffaello Cortina, Milano
2005.
C. SCHIA.
Kfc (Kentucky Fried Chicken)
L’immagine è rassicurante, l’abbiamo vista in innumerevoli film e telefilm
dagli anni sessanta a oggi: la faccia sorridente di un simpatico vecchietto (il
colonnello Sanders) che spunta da un rosso secchiello di cartone
traboccante di pezzi di pollo fritto, così dorati da leccarsi le dita – «finger
lickin’ good», il logo del Kfc.
Insieme a McDonald’s, Taco Bell, Pizza Hut, Burger King, T.G.I. Friday’s,
il marchio Kfc – con quartier generale a Louisville, nel Kentucky –
costituisce infatti uno dei fast food più diffusi sia negli Stati Uniti sia
all’estero. Eppure, se pensate che quella del pollo fritto sia una ricetta
semplice (o veloce), ricredetevi e munitevi di zenzero e peperoncino secchi
in polvere, foglie tritate di salvia, rosmarino, origano messicano e timo
selvatico, maggiorana dolce, pepe, prezzemolo, farina, passata di pomodoro,
sale all’aglio e alla cipolla, cubetti di brodo di pollo concentrato, uova, latte,
zucchero di canna – e pollo tagliato a pezzi. A questo punto, mettete tutti gli
ingredienti – tranne pollo, uova, farina e latte – in un frullatore e
mescolateli per 3-4 minuti. Poi, sbattete le uova e aggiungete il latte. Quindi,
aggiungete il composto di erbe frullate e spargete la farina su un foglio di
carta da forno. Immergete i pezzi di pollo nella mescola, impanateli nella
farina e friggeteli in una pentola a pressione per 20-30 minuti. Scolate i
pezzi di pollo sulla carta da forno e serviteli caldi.
A dire il vero, però, così come per la Coca-Cola (→), quale sia la ricetta
«segreta» del fortunato «pollo fritto del Kentucky» (Kfc) con cui il suddetto
Harland Sanders – insignito del titolo onorario di «colonnello» dal
governatore del Kentucky – si costruì un impero commerciale a partire
dagli anni cinquanta del Novecento è rimasto, per volere dello stesso
Sanders, un mistero. Nato e cresciuto in Indiana, Sanders si trasferì a
Corbin, in Kentucky, durante la Grande depressione (→) per gestire una
stazione di servizio, presso la quale aprì un piccolo punto di ristoro, il
Sanders Court Café, che aveva come pezzo forte il pollo fritto. Nel 1939, con
il Colonel Sanders’ Fried Chicken (diventato una specialità conosciuta in
tutto lo stato e con una clientela sempre più numerosa), Sanders trovò il
modo di accorciare i tempi di preparazione usando una pentola a pressione
per la frittura: una vera svolta. Negli anni cinquanta, tuttavia, il colonnello
dovette chiudere il suo ristorante in seguito alla costruzione dell’Interstate
75, una grande arteria stradale che, non passando per Corbin, avrebbe
ridotto il traffico di auto e quindi la mole degli affari. Superati i
sessant’anni, Sanders diventò così un pioniere del franchising mettendosi a
viaggiare per il paese alla ricerca di ristoranti interessati all’acquisto della
sua ricetta. Fu a South Salt Lake, nello Utah, che, nel 1952, aprì il primo
negozio del marchio registrato Kfc: entro la fine del decennio, ne sarebbero
spuntati duecento su tutto il territorio nazionale. Con le loro insegne
luminose, i Kfc sparsi per il paese contribuirono a quell’architettura
«effimera» – legata a luoghi di servizio come fast food, motel (→), benzinai,
minigolf, drive-in (→) – che tra gli anni cinquanta e sessanta stava
prendendo le forme giganti del cosiddetto «moderno esagerato». Così, nel
1963, la sagoma di un pollo alto diciassette metri sarebbe comparsa sul tetto
di un Kfc di Marietta, in Georgia, superando per imponenza e altezza i dieci
metri di archi gialli al neon dei McDonald’s (→ Hamburger) che avevano
fatto il loro debutto in California una decina di anni prima.
La catena in franchising fu però venduta da Sanders nel 1964 e, da quel
momento in poi, secondo le dichiarazioni rancorose del vecchio colonnello,
niente sarebbe rimasto del sapore della ricetta originale, con una salsa
paragonata a «una fanghiglia dal gusto di tappezzeria».
In tempi più recenti, il marchio Kfc è stato al centro dell’attenzione
pubblica per una lunga serie di proteste e di rivendicazioni: Greenpeace
denuncia i danni all’ambiente e alle popolazioni amazzoniche (Kfc compra
da Cargill, uno dei colossi dell’industria americana della carne, il quale
impoverisce il suolo dell’Amazzonia con la coltura della soia impiegata nei
mangimi); gli animalisti si battono contro la macellazione industriale dei
pennuti; i sindacati lottano per la tutela delle condizioni di lavoro degli
inservienti della catena di fast food; gli uffici di igiene sono allarmati dalla
sporcizia che alberga nelle cucine dei ristoranti.
Ma si sa: quando si parla di carne (→ Porkopolis), negli Stati Uniti come
altrove, non c’è mai da stare tranquilli. Con buona pace del colonnello
Sanders e della sua faccia rassicurante.

BIBLIOGRAFIA
Eric Schlosser, Fast Food Nation. Il lato oscuro del cheeseburger globale, il
Saggiatore, Milano 2008.
C. SCAR.

Kkk (Ku Klux Klan)


«Nell’ora più nera del Sud, quando il popolo ferito giaceva impotente nella
cenere e nella desolazione, sotto il rostro e gli artigli dell’avvoltoio,
d’improvviso apparve il Klan, anima reincarnata dei clan della vecchia
Scozia»: iniziava così L’uomo del Ku Klux Klan (1905), romanzo del reverendo
Thomas Dixon, un melodramma a tinte forti che raccontava di come, dopo
la resa di Appomattox (→ Guerra civile) alcuni ex soldati confederati,
inorriditi delle trame congiunte di carpetbaggers (→), politicanti del Nord ed
ex schiavi, avessero deciso di costituire il Ku Klux Klan per difendere
l’onore e la libertà dei poveri bianchi del Sud. Dieci anni dopo, il regista
David Griffith realizzò una trasposizione cinematografica del libro: con il
titolo Nascita di una nazione (1915) fu uno dei primi grandi successi
commerciali della storia del cinema. Il film, tra l’altro, fu responsabile della
prima resurrezione del Kkk, la cui attività si era interrotta da circa
quarant’anni. I nuovi adepti copiarono dalla pellicola il rituale della croce
bruciata: The Clansman, senza che ciò avesse fondamento nella realtà storica,
conteneva descrizioni di croci di Sant’Andrea date alle fiamme dopo ogni
impresa dei cavalieri incappucciati; Griffith le trasformò in croci latine (non
si sa se per errore o per scelta) e in seguito diventarono una presenza fissa
nei rituali del gruppo.
Libro e film distorcevano in maniera palese la verità storica, ma è
indubbio che le radici del Klan e l’appoggio di cui godette sin dal principio
traggano origine dal sentimento di frustrazione avvertito dai bianchi del
Sud nei confronti di un’élite nordista che, attraverso le leggi e la politica
della Ricostruzione, aveva monopolizzato la gestione amministrativa locale,
tentando di sovvertire rapporti sociali e modi di vita consolidati. A tutto ciò
si deve aggiungere la disastrosa situazione economica di una terra devastata
da cinque anni di conflitto. Quando poi, nel febbraio 1867, una legge
speciale del Tennessee privò i collusi con la confederazione del diritto di
voto, garantendolo invece agli ex schiavi, il risentimento raggiunse il
culmine e gli episodi di violenza diretta contro i neri, in atto da parecchi
mesi, conobbero una nuova impennata.
Il Kkk aveva già quasi un anno e mezzo di vita a quel tempo, ma non
aveva ancora chiarito le finalità politiche che lo avrebbero caratterizzato di
lì a poco. John C. Lester, uno dei fondatori, dirà nelle sue memorie che il
gruppo di sei ufficiali dell’esercito confederato, riunitisi a Pulaski
(Tennessee) la vigilia di Natale del 1865, aveva voluto fondare la società
segreta allo scopo di «vincere la noia e l’amarezza» per la sconfitta. Il nome
originario doveva essere Kukloi (dal greco kyklos, «gruppo»), ma uno dei
presenti suggerì la variante Ku Klux e un secondo, ammiratore dello
scrittore Walter Scott (una lettura assai diffusa negli stati del Sud), propose
di completare il nome con l’aggiunta di Klan – con un richiamo alle
strutture tribali delle Highlands scozzesi. La prima azione della brigata risale
all’estate 1866 quando, al calar della sera, sei cavalieri incappucciati e
avvolti in mantelli bianchi andarono a far visita a un bottegaio nero che
aveva avuto l’ardire di appendere la scritta «Equal Rights» davanti al suo
negozio. Con semplici trucchi, uno dei cavalieri terrorizzò l’uomo e la
moglie facendo comparire un braccio scheletrico da sotto il mantello,
mentre un altro si toglieva una finta testa incappucciata. Le due vittime
svennero e il gruppo infierì su di loro a colpi di frusta.
Anche grazie all’appoggio della stampa (uno dei sei fondatori, Frank
McCord, era il direttore del giornale Pulaski Courier), le misteriose gesta del
gruppo varcarono i confini della piccola città e arrivarono in altre aree del
Sud, dove ben presto nacquero cellule locali che adottarono l’uniforme
bianca con cappuccio a forma conica: fu una di queste, nata ad Athens
(Alabama), la prima ad agire per punire i neri «colpevoli» di comportamenti
ritenuti irrispettosi delle norme che regolavano i rapporti con i bianchi.
I vari gruppi locali si diedero convegno al Maxwell Hotel di Nashville,
capitale del Tennessee, il 10 aprile 1867, in concomitanza con una riunione
della fazione più conservatrice del Partito democratico, del quale molti
aderenti al Klan erano membri. Qui, il gruppo si diede una struttura
centralizzata, nominando Grande Stregone (o capo supremo) l’ex generale
confederato Nathan Bedford Forrest e stendendo uno statuto nel quale si
affermava: «Il Ku Klux Klan è stato creato per rigenerare il nostro
sventurato paese e per riscattare la razza bianca dall’umiliante condizione
in cui è stata precipitata dalla nuova repubblica». Le varie fazioni
cominciarono una lotta coordinata non solo contro i neri, ma anche contro
esponenti repubblicani e il culmine della mobilitazione si verificò nelle
settimane precedenti le elezioni del 3 novembre 1868. In alcuni stati del
Sud, gruppi di incappucciati intrapresero azioni volte a intimidire la
popolazione e indirizzare l’esito del voto. Il governatore dell’Arkansas,
Powell Clayton, decise di contrastare il Klan e dichiarò la legge marziale,
evitando così che tribunali e polizia locali – sospetti di essere
fiancheggiatori degli incappucciati – potessero ostacolare la sua azione.
Grazie all’intervento delle truppe federali, il nucleo locale del Klan fu
ridimensionato e l’esempio venne seguito in altri stati, con il decisivo
appoggio del presidente Ulysses S. Grant: gli Enforcement Acts (1870-1871)
diedero al governo centrale la facoltà di approvare misure speciali per
combattere l’organizzazione, quali la sospensione delle garanzie previste
dall’habeas corpus e l’impiego dell’esercito.
Di fronte all’eccezionale spiegamento di mezzi, le cellule del Klan
dovettero soccombere, ma la sconfitta fu solo apparente. Negli anni
successivi, altri gruppi, quali la White League in Louisiana e i Red Shirts nel
Mississippi, continuarono le azioni intimidatorie in occasione delle elezioni
del 1874 e del 1876, contribuendo al progressivo rafforzamento del Partito
democratico negli stati del Sud. Le elezioni presidenziali del 1876
rappresentarono un momento chiave: l’esito rimase a lungo incerto per il
difficile conteggio dei voti per i due candidati, complicato anche dalla
certezza di brogli. I repubblicani proposero allora uno scambio: i
democratici avrebbero accettato la proclamazione del loro rappresentante
Rutherford Hayes e in cambio avrebbero ottenuto il ritiro delle truppe
federali dal Sud e la fine della politica di Ricostruzione. Noto come
«Compromesso del 1877», l’accordo sancì l’inizio del monopolio politico dei
democratici nel Sud e l’attuazione della politica segregazionista nota come
Jim Crow System (→ Jim Crow). Gli obiettivi per il quale il Klan aveva
lottato erano dunque raggiunti.
Gli incappucciati risorsero la notte del Ringraziamento del 1915.
Entusiasmato dalla proiezione di Nascita di una nazione di David W. Griffith, il
predicatore metodista William Joseph Simmons ricostituì la confraternita e
per l’occasione diede alle fiamme una croce su una collina dei sobborghi di
Atlanta – nello stesso luogo in cui, qualche mese prima, una folla di
facinorosi aveva linciato l’ebreo Leo Frank e dato alle fiamme una croce.
Simmons ebbe scarso successo, finché non incontrò due scaltri affaristi,
Edward Young Clark e la facoltosa vedova Elizabeth Tyler, i cui consigli si
rivelarono fondamentali per trasformare il Klan in una macchina da
profitto. I due suggerirono infatti a Simmons di cambiare le priorità del
gruppo e mettere al centro la difesa delle «virtù americane» contro varie
forze corruttrici, dal comunismo al cattolicesimo, di lottare per
l’approvazione di leggi proibizioniste e di ripulire l’immagine degli
incappucciati promuovendo raccolte di fondi per la beneficenza. Il successo
fu enorme: il Klan raggiunse i 2 milioni e mezzo di iscritti (ognuno pagava
una quota di 10 dollari e doveva acquistare il «corredo» di mantello e
cappuccio bianco per 6 dollari e mezzo) e un giro d’affari di 40 milioni di
dollari – spesso frutto di manovre finanziarie al limite della legalità. In
maniera significativa, cambiò la distribuzione geografica degli aderenti: la
politica nativista ebbe molto successo nei grandi centri, come Memphis,
Detroit e Dallas, e nelle regioni del Nord industriale (Indiana e Michigan), il
cui profilo etnico aveva subito notevoli cambiamenti in conseguenza delle
grandi migrazioni dall’Europa e dall’Asia. Il Klan divenne una vera forza
politica, il cui supporto poteva risultare decisivo: nel 1925, in Colorado,
venne eletto governatore Clarence Morley, membro dichiarato del Kkk,
mentre altri adepti conquistarono seggi nelle assemblee locali e statali. Alla
convention nazionale organizzata dal Partito democratico per scegliere il
candidato alle presidenziali del 1924, i delegati sostenuti dal Klan riuscirono
a bloccare la nomina del cattolico Al Smith. Si trattò del momento di
massimo fulgore del Klan, ma di lì a poco sarebbero iniziati i guai: uno
scandalo legato al capo dell’organizzazione nell’Indiana, David Curtiss
Stephenson, segnò l’inizio della parabola discendente. Stephenson aveva
violentato la sua segretaria, Madge Oberholtzer, la quale, sconvolta, si
suicidò qualche giorno dopo. L’inchiesta che ne seguì (nel 1925) cominciò a
erodere il consenso popolare nei confronti del gruppo, mettendo in luce i
«vizi privati» dei dirigenti di un’organizzazione che predicava continenza e
moralità nei costumi. Nel 1944, lo stato chiese oltre 600mila dollari di
arretrati per tasse non pagate durante gli anni venti e l’organizzazione
scomparve per la seconda volta: non senza aver prima figliato, all’epoca
delle lotte operaie della Grande depressione (→), fra il 1934 e il 1936, la
«Legione Nera», attiva nelle zone industriali di Detroit e Flint per «dar la
caccia ai rossi» e finanziata – così si espresse il governatore della
Pennsylvania, George H. Earle – da alcuni magnati e corporation (al
riguardo, il romanziere e sceneggiatore Albert Maltz, finito nella «lista nera
di Hollywood» all’epoca del Maccartismo →, scrisse nel 1950 un
interessante romanzo-reportage, La Legione Nera).
Ma non finì qui. La terza ondata del Klan corrispose alla nascita del
movimento per i diritti civili degli afroamericani (→ Back of the bus).
Episodio scatenante fu la sentenza della Corte suprema (nota come Brown v.
Board of Education) che dichiarò incostituzionale il mantenimento di scuole
separate per bianchi e neri nel territorio federale. Le violenze del Klan
allora accompagnarono le iniziative pacifiste degli afroamericani: pestaggi
punitivi, incendi e omicidi portarono il terrore in tutto il Sud. Birmingham,
città dell’Alabama, si conquistò il nomignolo «Bombingham» per la
frequenza di attacchi con esplosivi: in uno di questi, diretto contro una
chiesa battista, persero la vita quattro bambine afroamericane. Il Klan fu
anche responsabile dell’omicidio di Medgar Evers, direttore della Naacp
(National Association for the Advancement of Colored People), freddato con
un colpo di fucile davanti alla sua abitazione a Jackson (Mississippi), mentre
un altro episodio raccapricciante fu l’omicidio con due colpi di pistola alla
testa di Viola Gregg Liuzzo, un’insegnante che aveva partecipato alla marcia
di Selma (Alabama), aggredita da quattro uomini del Klan mentre
trasportava in auto alcuni ragazzi neri. Uno spaccato del clima teso di
quegli anni è presente nel film Mississippi Burning (1988, diretto da Alan
Parker e interpretato da Gene Hackman e Willem Dafoe), ispirato alle
indagini sulla scomparsa di tre attivisti avvenuta nel 1964 a Philadelphia
(Mississippi). Lo storico Howard Zinn ha però contestato il modo in cui la
pellicola dipinge lo sforzo investigativo dell’Fbi, che nel film non lesina
risorse umane e finanziarie per venire a capo della vicenda – nella realtà
storica, invece, ci furono molte resistenze e, quando infine il capo della
polizia federale J. Edgar Hoover (→ Hoover) acconsentì a intervenire, lo
fece con riluttanza. Il New York Times commentò che il film rappresentava
un «linciaggio cinematografico» della storia.
Negli anni ottanta, un altro film ritornò sul Klan degli anni cinquanta. Si
tratta di Porky’s 2 – Il giorno dopo (1984), commedia dedicata alle avventure di
un gruppo di studenti scalmanati in un college della Florida. Il Klan entra in
azione per impedire che uno studente di origini seminole reciti la parte di
Romeo in una rappresentazione scolastica: ma gli studenti attireranno il
gruppo di incappucciati in una palestra dove, circondati da centinaia di
seminole, sono invitati a sottoporsi alla rasatura dello scalpo, fatta con la
forbice usata dai rabbini per la circoncisione dei neonati ebrei.
La messa in ridicolo dell’organizzazione (e forse la più graffiante ed
efficace si ha nel film dei fratelli Joel e Ethan Coen Fratello, dove sei?, del
2000) potrebbe far pensare che il clima di tensione sia ormai superato e la
forza del Klan molto ridimensionata. Le cose purtroppo non stanno così:
oltre alle formazioni che si rifanno al Kkk (quali i Bayou Knights of the Ku
Klux Klan o gli Imperial Klans of America), sono attivi altri gruppi che
sostengono la white supremacy, l’ideologia che promuove il dominio politico
e sociale dei bianchi sugli altri gruppi etnici – Aryan Nation, White Aryan
Resistance, The Order, American Nazi Party. Il fenomeno ha conosciuto una
sorprendente diffusione a partire dagli anni ottanta, trovando sostegno tra i
poor whites, bianchi delle classi meno agiate che hanno visto erodere la loro
posizione sociale in conseguenza della ristrutturazione economica avviata
negli anni settanta, con lo spostamento di gran parte della produzione
manifatturiera al di fuori dei confini nazionali. Il fenomeno è diffuso (oltre
che nelle carceri, dove contribuisce a rendere esplosive condizioni già
drammatiche) in particolare nei centri metropolitani, dove la presenza di
forti comunità di immigrati acuisce la competizione per i posti di lavoro – il
film American History X (1998, diretto da Tony Kaye e interpretato da Edward
Norton), racconto di una «redenzione» che coinvolge una coppia di fratelli
attivi in un gruppo neonazista, è ambientato per l’appunto a Los Angeles.
Ma c’è di più: le cifre indicano che solo poco più del 5% dei cosiddetti «hate
crimes» – atti criminosi motivati dall’avversione per gruppi etnici,
religioni, orientamenti sessuali – sono commessi da membri di questi
gruppi, il che sta a dimostrare una prevalente diffidenza nei confronti della
diversità, un sentimento che ha trovato un’espressione cruda ma rivelatrice
nel brano dei Guns n’ Roses «One in a Million» (1988): al centro di parecchie
polemiche al momento dell’uscita, il testo propone le impressioni del
cantante Axl Rose, uno «small town white boy» dell’Indiana, al suo arrivo
nella «confusione» etnica di Los Angeles – la prima reazione è il disgusto
per «immigrati e finocchi» che «vengono nel nostro paese / e fanno quello
che vogliono / come creare un nuovo Iran / o diffondere qualche fottuta
malattia».
BIBLIOGRAFIA
David M. Chalmers, Hooded Americanism. The History of the Ku Klux Klan, Duke
University Press, Durham 1987.
Franco Nencini, Storia del Ku Klux Klan, Odoya, Bologna 2010.
C. Vann Woodward, The Strange Career of Jim Crow (1955), Oxford University
Press, New York 2001.
S.M.Z.

Kleenex e Tampax
L’usa e getta, si sa, è una delle cifre tipiche del moderno: è igienico, non c’è
bisogno di lavare, risciacquare, asciugare. Certo, a discapito dell’ecologia…
e, in parte, anche dell’economia. Prendiamo per esempio fazzoletti e affini. I
Kleenex, la marca talmente famosa da essere divenuta sinonimo di usa e
getta (persino su dizionari come il Merriam-Webster e l’Oxford) vende i
suoi prodotti, dai pannolini alle salviettine per il corpo e per il viso, in oltre
170 nazioni. La storia ha inizio negli anni venti del Novecento quando il
marchio Kimberly-Clark, produttore di carta, mise a punto un nuovo tipo di
cellulosa morbida, partendo dalla formula del «Cheesecloth Ugg» utilizzato
durante la Prima guerra mondiale come filtro per le maschere antigas (in
sostituzione del cotone, molto richiesto per la chirurgia). Kimberly-Clark
pensò bene di utilizzarlo per gli assorbenti igienici. Non essendo tuttavia un
articolo facilmente pubblicizzabile sul mercato, la compagnia cercò un
utilizzo alternativo e dopo vari esperimenti si giunse a un tessuto ancor più
morbido, da usare come salviettine detergenti. Non era tuttavia chiaro quale
parte del corpo queste salviettine avrebbero dovuto detergere: l’unica
possibilità era puntare sull’incremento nell’uso dei cosmetici, e di
conseguenza di struccanti.
Le speranze non andarono deluse e nel 1924, anno in cui il marchio fu
depositato, le prime Kleenex (combinazione di «cleanse», pulire, e «K» e
«ex» di Kotex, il nome del tessuto originario) iniziarono a essere
pubblicizzate sulle riviste femminili, da Good Housekeeping a Harper’s Bazaar,
da Vogue a Cosmopolitan, come «il nuovo segreto per mantenere una pelle
bella come quella delle star» – star che, a partire dal 1927, iniziarono a
metterci direttamente la faccia (nella pubblicità, non nelle salviettine),
spacciandole come il loro segreto di bellezza. I fazzoletti veri e propri
arrivarono dopo, negli anni trenta – quando si notò che il materiale era
adatto e resistente anche ai bisogni e alle incontinenze del naso non solo di
donne, ma anche di uomini e bambini. «Non portarti il raffreddore in
tasca», era lo slogan escogitato per convincere gli influenzati a liberarsi dei
fazzoletti di tela e passare all’usa e getta.
Genealogia analoga per il Tampax, ora assorbente della Procter &
Gamble, ma in origine nome di una ditta indipendente che durante la
Seconda guerra mondiale produceva fasce e bendaggi per l’esercito, famosa
anche per l’impiego quasi esclusivo di manodopera femminile. Il Tampax fu
inventato nel 1931 da un medico del Colorado, tale Earle Haas, che
sperimentò un nuovo tipo di assorbente interno, inseribile per mezzo di un
tubo applicatore. Il nome derivava dall’incontro fra «tampoon» (tampone) e
«vaginal packs» (il significato è chiaro). Dopo aver tentato invano di
sfruttare economicamente la scoperta, Haas vendette il brevetto nel 1936 a
un’impresa commerciale.
Come far conoscere un prodotto legato a qualcosa di cui nessuno vuole
parlare? Collegandolo ai presidi medico-chirurgici e pubblicizzandolo
inizialmente sulla rivista dell’American Medical Association. Funzionò, a
giudicare dalla quota di mercato che i Tampax si ritagliarono rapidamente
(circa il 55%). Così, biodegradabile e smaltibile con un colpo di sciacquone, il
Tampax divenne presto uno dei simboli dell’emancipazione femminile:
sentirsi bene, «anche in quei giorni lì» (come reclamizzava una delle prime
pubblicità su rivista degli anni cinquanta, con una baldanzosa e radiante
signora dalla gonna lunga seduta sul bordo di una scrivania), senza dover
rinunciare e inventare scuse poco plausibili per attività acquatiche e all’aria
aperta. E poco importa se uno di questi, il «Rely» che la Procter & Gamble
lanciò sul mercato nel 1978, venne associato all’insorgenza della sindrome
da shock tossico e fu di conseguenza ritirato dal mercato due anni dopo.

BIBLIOGRAFIA
Janice Delaney, Mary Jane Lupton, Emily Toth, The Curse: a Cultural History of
Menstruation, University of Illinois Press, Champaign 1988.
Thomas Heinrich, Bob Batchelor, Kotex, Kleenex, Huggies: Kimberly-Clark and
the Consumer Revolution, Ohio State University Press, Columbus 2004.
C. SCHIA.

K.O.
Dall’«Adriana!» urlato dal ring del malconcio ma vittorioso Rocky Balboa
fino ai più recenti e drammatici incontri di Million Dollar Baby (2004) e
Cinderella Man (2005), o ai trionfi e fallimenti dei fratelli Ward in The Fighter
(2010; cui si potrebbe aggiungere, anche se pugile in senso stretto non è, il
wrestler dell’omonimo film di Darren Aronofsky, del 2008), è indubbio che la
sfida sul ring abbia incarnato più di ogni altro sport la voglia di agonismo, di
successo e di riscatto sociale dell’individuo e al contempo dei gruppi (se non
talvolta dell’intera nazione) che con questi si identificavano – capace come
è stato di incanalare il desiderio di emergere attraverso il coraggio e la forza
individuale, la capacità di soffrire e resistere, di andare «oltre», oltre la
propria vita e la sempre più opprimente quotidianità.
Sport inglese per eccellenza, gli inizi della boxe statunitense possono
essere situati a cavallo dell’Atlantico, quando già nel XVIII secolo qualche
americano si avventurò oltreoceano per tentar fortuna. Fra questi, vi furono
due ex schiavi: Bill Richmond, «scoperto» da un generale britannico che lo
portò con sé in patria al ritorno dalla Guerra d’indipendenza, combatté per
il titolo di campione e divenne così il primo pugile professionista
americano; Tom Molineaux, ribattezzato «The Yankee Nigger», dopo esser
stato liberato dal suo padrone e aver tentato l’ascesa al titolo in terra
d’Albione, fu sconfitto nel 1810 dal britannico Tom Cribb, il campione
dell’epoca, davanti a circa 20mila spettatori.
In quegli stessi anni, intanto, al di là dell’oceano, i combattimenti erano
di certo meno professionali e regolamentati, traducendosi per lo più in
scazzottate a mani nude in strada, su chiatte in mezzo ai fiumi o nei saloon
(→), con un folkloristico contorno di lotte fra galli e fra cani, di scommesse
clandestine e incontri truccati. All’epoca, la boxe era intrattenimento
popolare per minatori, taglialegna e operai, in cui a sfidarsi erano spesso
ragazzotti di campagna in cerca di rapide fortune. Fra i tanti autoproclamati
«campioni d’America» del periodo, a ottenere una certa credibilità fu Tom
Hyer, che nel 1849 si impose all’attenzione degli appassionati battendo il
pugile inglese James Ambrose, in tour nel Nuovo mondo.
A portare le regole della boxe sulle rive americane e a rendere gli
incontri clandestini una vera disciplina sportiva furono, ancora una volta,
gli immigrati (per lo più inglesi e irlandesi) che dagli anni trenta
dell’Ottocento iniziarono a diffondere la boxe English Style in America, in
incontri che duravano anche sessanta o settanta round (finire a terra e
restarci per qualche secondo era l’unico modo per riprendere fiato).
Almeno fino a quando, nel 1867, venne vietato qualsiasi tipo di wrestling,
furono fissate le misure del ring, i pugili furono obbligati a indossare
guantoni e i round furono calcolati non come l’intervallo fra un K.O. e
l’altro, ma come un periodo fisso di tre minuti (con un minuto di break fra
l’uno e l’altro). Fu il giovane John Sholto Douglas, ottavo marchese di
Queensberry, a dare un tocco aristocratico al tutto, prestando il proprio
nome alle nuove regole introdotte dall’Amateur Athletic Club di Londra e
usate per la prima volta in un incontro del 1872. Chi poi mise in discussione
il primato inglese nella disciplina fu l’irlandese-americano Paddy Ryan, che
nel 1880, con alle spalle solo quattro incontri da professionista, sconfisse il
campione inglese in visita Joe Gross, divenendo il campione del mondo, per
poi essere battuto due anni dopo e in nove round dal bostoniano John L.
Sullivan, ancor meno modestamente autoproclamatosi «il campione
dell’universo», in grado di riempire i 10mila posti del Madison Square
Garden, in quegli anni all’angolo fra Madison Avenue e la 20ª Strada di New
York.
Oltre alla professione di pugile, Sullivan intraprese anche quella di attore
di vaudeville (→): trasformò la boxe in esibizione teatrale, girando per il
paese con le sue lezioni di pugilato, o «arte della boxe», esibendosi in
cittadine di provincia, teatri di Boston e incoraggiando gli spettatori a
sfidarlo sul ring: chi resisteva almeno quattro round riceveva in premio dai
100 ai 500 dollari. L’ingentilimento della disciplina promosso da Sullivan
rese lo sport appetibile anche a un pubblico middle class, ma non impedì che
la boxe continuasse al contempo a rimanere una pratica legata al mondo
della strada e delle scommesse: lo stesso Sullivan, al termine delle esibizioni
teatrali, dava sovente sfogo alla passione per la clandestinità con gli
incontri a mani nude in tornei illegali, rischiando ogni volta l’arresto.
Se gli irlandesi-americani dominarono la disciplina fino a inizi
Novecento e a prendere il loro posto negli anni precedenti al primo
conflitto mondiale furono in buona parte i tedeschi, dal 1915 fino agli anni
trenta a essere ricordati furono soprattutto i pugili ebraico-americani –
come Ruby Goldstein, «il gioiello del Ghetto» (con riferimento al suo nome e
alle origini nel Lower East Side [→] di New York) e Max Baer, famoso per
aver ucciso due avversari sul ring e poi sconfitto nella finale dei pesi
massimi del 1934 dall’«Alpe italiana», Primo Carnera (i due erano stati
insieme protagonisti del film del 1933 L’idolo delle donne, nonché ispiratori,
nemmeno troppo velatamente, del romanzo di denuncia di Budd Schulberg
Il colosso d’argilla, del 1947). A partire dagli anni venti, anche gli italo-
americani si conquistarono un ruolo di primo piano sul ring: il peso leggero
Willy Petrolle, «The Fargo Express»; il peso piuma e peso leggero Tony
Canzoneri; il peso medio Rocky Graziano (a cui Paul Newman prestò il volto
per la versione cinematografica dell’autobiografia, Lassù qualcuno mi ama,
1956); la «bomba» (blockbuster) Rocky Marciano, campione dei pesi massimi
nel 1952; e Jake LaMotta, il «toro scatenato» dei pesi medi che, ispirando
l’omonimo film di Martin Scorsese del 1980, portò a Robert De Niro (insieme
a ventisette chili in più) anche un Oscar e fama imperitura.
Quanto agli afroamericani, le linee del colore (→) che da sempre ne
limitavano la partecipazione sportiva attraversarono come inevitabile
anche il ring, con una sorta di apartheid che aveva a lungo costretto i pugili
neri a combattere soltanto fra loro. Così, nonostante le origini nere della
boxe statunitense (praticata però dai due ex schiavi al di là dell’oceano), si
dovettero attendere gli inizi del Novecento per vedere un pugile
afroamericano sfidare un campione bianco per il titolo più prestigioso, i pesi
massimi… e quel che si vide non piacque a molti. Quando nel 1908
l’afroamericano texano Jack «Li’l Arthur» Johnson sconfisse a Sydney, in
Australia, il campione Tommy Burns (incontro sospeso al 14º round per
salvaguardare l’incolumità di Burns e descritto come «lo scontro fra un
colosso e un pigmeo»), il titolo venne congelato, per dar modo all’ex
campione imbattuto dell’epoca, James «Jim» Jeffries, di indossare di nuovo i
guantoni e tentare la «riscossa bianca». «Torna dai tuoi campi di alfa-alfa e
togli il sorriso d’oro dalla faccia di Johnson. Jeff, sta a te. L’uomo bianco
deve essere riscattato», lo incitò dalle colonne del New York Herald (non
senza chiare venature razziste) lo scrittore Jack London. A Reno, Nevada,
davanti a un pubblico di 40mila spettatori e in una data simbolica come il 4
luglio (del 1910), Johnson sancì l’indipendenza (per non dire la superiorità)
della boxe nera e si attirò le ire di manager, giornalisti, politici, celebrità e
di buona parte del pubblico bianco, che vedeva nella sua vittoria un affronto
razziale (dopo la sua vittoria, 14 afroamericani furono linciati negli stati del
Sud).
L’atteggiamento provocatorio di Johnson, che amava le donne bianche e
le auto veloci, portò al suo arresto nel 1912 con l’accusa di aver violato il
Mann Act, che proibiva di varcare il confine fra due stati insieme a una
donna «per scopi immorali» (la donna in questione era la fidanzata, bianca
e consenziente, di Johnson). Il pugile fuggì in Europa e accettò di tornare
negli Stati Uniti per disputare un incontro contro un atleta bianco, solo con
la promessa del perdono da parte delle autorità giudiziarie. La great white
hope (poi titolo di un romanzo di Howard Sackler del 1968) che sconfisse
Johnson a Cuba nel 1915, al 26º round, si chiamava Jess Willard, «il gigante
di Potawatomie» (Kansas) – anche se sulla regolarità dell’incontro in molti
ebbero non pochi sospetti.
Fu solo un quarto di secolo dopo che gli americani accettarono appieno
un pugile nero come proprio rappresentante – e, verrebbe da pensare, solo
perché una minaccia più grande della miscegenation (→) apparve
all’orizzonte. Il ventitreenne afroamericano Joe Louis, il più giovane
campione dei pesi massimi, acquisì la stima e il rispetto dei connazionali
quando, dopo aver conquistato il titolo (1937), si prese la rivincita per lo
sfortunato incontro dell’anno precedente e stese al primo round il
campione tedesco Max Schmeling – in anni in cui lo spettro nazista
cominciava a turbare i sonni anche oltreoceano. La lunga carriera di Louis,
che mantenne il titolo dal 1937 al 1949, si intrecciò con quella di tanti altri
pugili afroamericani, a cominciare dallo stesso Johnson, che si schiantò con
una delle sue auto veloci nel 1946 proprio per andare a vedere la giovane
stella nera difendere il titolo contro l’ennesima great white hope, Billy Conn.
Fra questi il campione dei pesi medi e pesi welter Sugar Ray Robinson: pare
che i due vivessero nello stesso isolato a Detroit e che, quando Louis, idolo
di Robinson, perse il primo incontro con Schmeling, Robinson abbia
meditato di lasciare la boxe. Stile fluido, grande versatilità, jab veloce unito
a un’impressionante potenza, Robinson è ancor oggi considerato uno dei
più grandi pugili di sempre: perse solo 19 dei 200 incontri disputati e
mantenne il titolo dal 1946 al 1951; poi si ritirò, divenne ballerino e tornò
sul ring tre anni dopo, riconfermandosi un vero campione (in barba alle
penalizzazioni arbitrali). «Il re, il maestro, il mio idolo», disse di lui un altro
re, quel Cassius Clay che, tre volte campione dei pesi massimi (56 vittorie e 5
sconfitte, di cui solo una per K.O.), cambiò il proprio nome in Muhammad
Alì dopo aver aderito alla Nazione dell’Islam nel 1965 e rifiutò di prestare
servizio militare in segno di protesta contro la guerra in Vietnam («Non ho
motivi di conflitto coi Vietcong. Nessun Vietcong mi ha mai chiamato
negro»). Arrestato e privato del titolo, Alì dovette aspettare quattro anni
per tornare di nuovo sul ring – subendo la prima sconfitta contro il
detentore del titolo Joe Frazier nel 1971 e prendendosi la rivincita due anni
dopo, nell’ascesa verso un nuovo titolo mondiale che culminò con la
vittoria sull’imbattuto giovane George Foreman. A Kinshasa, Zaire, in un
evento passato alla storia come «The rumble in the jungle» (per rivivere
quelle emozioni, si veda il documentario di Leon Gast, Quando eravamo re, del
1996), nessuno, nemmeno il suo manager, avrebbe scommesso un soldo
sulla vittoria di Alì. Foreman, il cui carattere scontroso ne faceva il «nemico
perfetto» con il quale era difficile simpatizzare, dopo la sconfitta con Alì
proseguì a fasi alterne la carriera di pugile, fino a diventare protagonista a
sua volta di una clamorosa riscossa: nel 1987, a 38 anni (gli ultimi dieci dei
quali lontano dal ring), Foreman indossò nuovamente i guantoni e
riconquistò il titolo mondiale a distanza di otto anni, divenendo il più
vecchio campione di boxe (record infranto solo di recente da Bernard
Hopkins, nel maggio 2011) e ritirandosi tre anni dopo. Poi, vennero i
capricci e gli eccessi di Mike Tyson, e la storia è nota.
Del resto, il divismo dei grandi campioni e gli ingaggi milionari sono
strettamente legati al ruolo sempre più importante della tv, capace di
trasformare i pugili, soprattutto se potenti, agili nei movimenti e di
bell’aspetto, in autentiche star, lautamente pagate (già nel 1955 la maggior
parte dei 2 milioni e mezzo di dollari che Rocky Marciano guadagnò
proveniva dai diritti televisivi). A restare sempre in ombra sono le centinaia
e le migliaia di sconfitti, sul ring e nella vita, che i vincitori lasciano dietro
di sé nella strada verso il successo. Come il «vero» Rocky, Chuck Wepner,
famoso per la resistenza ai colpi dell’avversario (ben 15 round contro Alì),
che non ricevette un dollaro dal «fan» Sylverster Stallone, nonostante gli
incassi milionari del film a lui ispirato. O come i disperati perdenti di Città
amara (Fat City, 1972) di John Huston, alla ricerca dell’ultimo incontro che li
rimetta nel giro; o la «million dollar baby» che ruba gli avanzi di carne dai
piatti dei clienti per aiutarsi con qualche proteina in più nell’omonimo film
di Clint Eastwood; o ancora come chi, un secolo prima, un pezzo di carne
l’aveva sognato per un’intera giornata e forse, con quello in corpo, avrebbe
anche vinto (Jack London, Una bistecca, 1909). Perché, prima di glorie e
onori, la boxe è fame – fame individuale e fame sociale, in cui a erompere
senza mediazioni è la ribellione degli oppressi: una forza bruta che, London
lo sapeva bene, un ring non sempre basta a contenere.

BIBLIOGRAFIA
Stuart Berg Flexner, Listening to America, Simon & Schuster, New York 1982.
Jack London, La classica faccia da pugile, a cura di Mario Maffi, Mattioli 1885,
Fidenza 2010.
C. SCHIA.

Kodak
Un rotolo di pellicola flessibile su cui imprimere immagini in sequenza e
una piccola scatola fotografica in grado di contenerlo: nel 1888, dopo un
decennio di studi ed esperimenti, George Eastman e la sua Eastman Dry
Plate and Film Company brevettarono un nuovo tipo di macchina
fotografica, leggera, maneggevole, con il nome di «Kodak». Era un termine
che, non avendo alcun significato, evitava problemi di trademark e al
contempo aveva un suono «breve e vigoroso», facile da ricordare, che
rimandava per onomatopea all’idea di scatto e di velocità. Lo slogan «You
press the button, we do the rest» («Tu premi il bottone, noi facciamo il
resto»), altrettanto semplice e incisivo, sottolineava come la fotografia fosse
ormai alla portata di (quasi) tutti. Le prime macchine Kodak apparvero sul
mercato qualche anno dopo al prezzo di 25 dollari, complete di tracolla e di
una pellicola da cento esposizioni – circa dieci volte di più delle fotografie
che una famiglia media possedeva all’epoca. Una volta scattate tutte, la
macchina doveva essere consegnata alla Eastman Factory, che dopo aver
sviluppato le immagini la restituiva al proprietario con una nuova pellicola
– al prezzo di 10 dollari. Con Eastman, la fotografia divenne sia un bene di
consumo sia una pratica sociale di massa che non necessitava di
competenze particolari, poiché fondata sull’immediatezza dell’esecuzione e
sulla rimozione della componente tecnica, affidata all’inizio alla ditta
produttrice e in seguito ai laboratori fotografici.
Il boom della Kodak si ebbe a partire dagli anni del primo dopoguerra,
grazie anche al benessere economico e alle rapide trasformazioni della
società statunitense. Con il nuovo mezzo, cambiarono ben presto anche i
soggetti ritratti: se la produzione fotografica della famiglia media americana
era stata riservata fino alla fine dell’Ottocento alle grandi occasioni e ai visi
dei propri cari (inclusi i defunti, immortalati poco dopo la loro dipartita),
dai primi decenni del Novecento in poi essa passò a documentare i momenti
felici, sempre più legati al tempo libero e ai viaggi. Le pose seriose dei
ritrattisti e fotografi del secolo precedente furono così sostituite dalla
leggerezza del sorriso, mentre le lunghe sedute di posa si trasformarono
nella magia di un istante catturato con un semplice click – magia che
raggiunse l’apice con le fotografie istantanee della Polaroid, ditta che negli
anni trenta brevettò un foglio di plastica in grado di polarizzare la luce e lo
utilizzò per le macchine fotografiche istantanee con pellicole
autosviluppanti. Il fotografo dilettante divenne così unico artefice e
invisibile protagonista, in grado di plasmare il passato sempre più come una
sfavillante fiction, epurata dei momenti più tristi. «Kodachrome / They give
us those nice bright colors / They give us the greens of summers / Makes
you think all the world’s a sunny day», cantava nel 1973 Paul Simon (ma il
cantante pare un po’ confuso sul come la fotografia alteri la realtà: nel testo
dell’album There Goes Rhymin’ Simon, scrisse che «everything looks worse in
black and white», mentre nei concerti di Central Park, avendo forse
cambiato idea, sostituì a quel «worse» un più rassicurante «better»).
Edulcorare la realtà, ricreando negli spot contesti idilliaci, era ed è
l’imperativo dell’industria dei consumi subito fatto proprio dall’azienda. Il
successo della Kodak fu senza dubbio dovuto in gran parte alla strategia
pubblicitaria scelta: in anni in cui le trasformazioni sociali rendevano
necessarie non poche rassicurazioni sul ruolo dei legami familiari, la Kodak
puntò sulla centralità della famiglia – o meglio, della «nuova» famiglia:
senza ingombranti parenti, ovviamente bianca, in cui i bambini sono
sorridenti, le madri premurose e i padri atletici e sportivi. Soprattutto,
puntò sul fatto che «ciò che può essere fatto», cioè ricordare e documentare
fotograficamente ogni istante della vita, «deve essere fatto». Con un’abile
mossa, la Kodak instillò nei fotografi dilettanti non solo la consapevolezza
della transitorietà del presente, ma il dovere morale di preservarlo
attraverso l’immagine: e così le dieci fotografie patrimonio della famiglia
media di fine Ottocento divennero sì e no sufficienti a documentare una
breve escursione pomeridiana.
Dunque, se tornate da una settimana di vacanze con seicento fotografie
che non avrete mai il tempo di guardarvi, ora sapete con chi prendervela.

BIBLIOGRAFIA
Oliver Jensen, Joan Paterson Kerr, Murray Belsky, American Album,
Ballantine Books, New York 1971.
Nancy Martha West, Kodak and the Lens of Nostalgia, University Press of
Virginia, Charlottesville 2000.
c. sCHIA.

Kosher
Nelle sue memorie, l’intellettuale ebreo-americano Joseph Freeman (nato
Joseph Lvovovitch in un villaggio ucraino nel 1897) ricorda la fatica che gli
costò, da bambino, convincere la madre che la banana (incontrata per la
prima volta dopo l’emigrazione in America) era un frutto kosher, ovvero che
non violava le rigide disposizioni religiose in materia di alimentazione.
L’aneddoto inquadra i dilemmi e le paure che accompagnarono
l’adattamento degli ebrei dell’Europa orientale negli Stati Uniti: ogni
piccolo gesto poteva nascondere un potenziale atto impuro. Il fatto che, già
agli inizi del Novecento, la parola kosher sia poi entrata nello slang
americano («it doesn’t sound kosher to me» = «non mi sembra corretto»)
sta a indicare che gli scambi furono mutui e che le due entità di partenza,
americano ed ebreo-orientale, risultarono modificate dal loro reciproco
intrecciarsi e influenzarsi.
Tra il 1880 e il 1914, 2 milioni e mezzo di ebrei lasciarono l’impero russo
e la Romania per trasferirsi in America. La vulgata (resa popolare anche dal
musical Il violinista sul tetto, 1964) fa risalire le cause dell’esodo al crescente
clima di ostilità nei loro confronti che trovava sfogo in violenti pogrom, la
cui intensità era aumentata in seguito all’attentato del 1881 in cui perse la
vita lo zar Alessandro II. Ma, come fa notare la storica Hasia Diner, fattori
cruciali sono da rintracciare nelle limitate prospettive di sopravvivenza, da
un lato frutto di misure legislative discriminatorie (divieto di possedere
proprietà, di commerciare la domenica, di svolgere alcune professioni, di
frequentare gli istituti d’istruzione superiori), dall’altro dovute a forze
economiche che andarono a incidere sui mestieri che, per tradizione, erano
aperti agli ebrei – la nascente industria manifatturiera assorbiva gli ex servi
della gleba (liberati nel 1861), mentre il settore del commercio veniva
rivoluzionato dai miglioramenti tecnologici nei trasporti, che rendevano
disponibili merci a buon mercato. In queste condizioni, si era diffusa la
convinzione che le possibilità d’integrazione sociale fossero molto esigue,
stimolando i più intraprendenti a cercare rifugio altrove, verso la «Goldene
Medina», la terra promessa: gli Stati Uniti.
Dopo una lunga, faticosa e dispendiosa traversata, gli immigrati si
stabilirono nelle principali metropoli statunitensi, Boston, Philadelphia,
Chicago e in particolare New York. Quest’ultima divenne il centro della
comunità ebraico-americana: nel 1910, un quarto dei newyorkesi, circa un
milione e 200mila abitanti, era di origine ebraica, una cifra pari a oltre il
40% della popolazione ebraica complessiva negli Stati Uniti. L’ambiente
urbano offriva più ampie prospettive di sostentamento e occupazione: molti
emigrati, che avevano acquisito familiarità con ago e filo in Russia, furono
assorbiti nell’industria dell’abbigliamento di New York, da cui proveniva il
70% della produzione nazionale di capi femminili e il 40% di quelli maschili.
Nel Lower East Side (→), quartiere con una consolidata presenza immigrata,
gli ebrei dell’Europa orientale ricavarono con il tempo un piccolo shtetl (=
villaggio) in cui riprodussero una vita comunitaria con l’apertura di
sinagoghe, scuole religiose, panetterie, librerie specializzate, caffè, teatri – e
circoli sindacali e socialisti, vista la radicale politicizzazione di una buona
fetta di quell’immigrazione.
L’America, però, non si rivelò per quella che si auspicava: l’adattamento
avrebbe assunto i contorni della lotta per mantenere una misura di identità
ebraica, minacciata da tutte quelle diverse forze «americane» sotto forma di
valori e abitudini (dal mondo del lavoro a quello della nutrizione) con cui
era necessario fare i conti (→ Melting pot). In realtà, già in Europa la
battaglia tra kosher e treife (= impuro), tra yid (= ebreo) e goy (= gentile, non
ebreo), era in corso da tempo. Nella dimensione chiusa dello shtetl, la cui
esistenza era strettamente regolata dal Talmud e dalle altre scritture, erano
filtrati echi di idee e modi di vita non convenzionali, diffusi da giovani che
tornavano dal servizio militare o da mercanti che avevano soggiornato nelle
grandi città. La migrazione, da questo punto di vista, non fece altro che
accelerare il processo di dissoluzione, trasportando i figli della cultura
tradizionale nella culla della modernità più avanzata. Va comunque
sottolineato come molti giovani, influenzati e affascinati dalle idee radicali,
migrarono spinti dal desiderio di trovare nella grande metropoli un
ambiente che avrebbe potuto soddisfare la loro sete di liberazione.
L’esperienza di adattamento, allora, fu contrassegnata dalla
trasgressione e dalla ribellione, a volte consapevole, a volte riluttante,
contro l’autorità e le rigide forme di vita comunitaria. Così, se da un lato
abbiamo l’esempio del protagonista del romanzo di Abraham Cahan The Rise
of David Levinsky (1917), il quale si sottopone al taglio dei ricciuti cernecchi
in modo da togliersi di dosso l’aspetto di greenhorn (= immigrato appena
arrivato) e avere maggiori speranze di ottenere un impiego, per Mary Antin,
come ci narra nell’autobiografia The Promised Land (1912, un vero
bestseller), fu immensa la gioia di essere obbligata a frequentare la scuola –
cosa che le era proibita nella natia Plotzk.
I libri di Cahan e di Antin, insieme a quelli di altri romanzieri e
memorialisti, sono cadenzati dalla descrizione di resistenze e aggiustamenti
all’America. L’ingresso nel mondo del lavoro, con il riposo previsto alla
domenica, comportava trasgredire alla prescrizione di astenersi da attività
non legate alla devozione religiosa durante lo shabbath, il sabato. Alcuni
imprenditori senza scrupoli trassero vantaggio da questa situazione e
offrirono agli operai la domenica lavorativa in cambio di paghe più basse.
Per una popolazione che aveva vissuto nella frugalità delle campagne,
trasgressione fu anche abbracciare con più o meno entusiasmo la cultura
dei consumi, che prometteva il piacere di una gratificazione immediata
grazie a una spesa di pochi spiccioli per un hot dog (→ Hamburger e hot
dog), una bevanda gassata, oppure una di quelle bombette o cappellini da
signora che in Russia erano alla portata solo dei più ricchi. Per gli
intellettuali, specie quelli educati alla scuola radicale del socialismo,
trasgredire significò gettare alle ortiche le superstizioni religiose e dedicarsi
alla politica con l’obiettivo di trasformare l’America in una terra promessa
per le masse: comizi, dibattiti, conferenze e soprattutto scioperi per
rivendicare un miglioramento nelle condizioni di vita e di lavoro (→
Sciopero!) furono una delle componenti basilari della vita sociale della
comunità.
In mezzo a queste forze ostili, specie nell’allargarsi del solco tra gli
adulti emigrati e i loro figli nati in America, la famiglia era in costante
pericolo di scoppiare e per adattarsi dovette rivedere i propri confini. Gli
spazi limitati di un appartamento nel tenement (→ Architetture) dovevano
essere rinegoziati per creare una domesticità che andasse incontro alle
nuove esigenze: così, i locali vennero aperti durante la sera e la notte ai
boarders, pensionanti che pagavano per il vitto e una branda (una misura
necessaria per avere reddito aggiuntivo), mentre di giorno i medesimi spazi
potevano diventare un laboratorio dove la famiglia svolgeva lavoro
domestico, attaccando bottoni a cappotti, cucendo orli su capi di vestiario,
assemblando fiori artificiali o arrotolando sigari – un sistema di lavoro a
cottimo (piecework) che non prevedeva alcun tipo di garanzia sulla
continuità dell’occupazione né protezioni contro gli infortuni, e che spesso
costringeva gli operai a lavorare fino a sedici ore al giorno.
Ma a sopperire all’angustia degli spazi, la dimensione domestica
travalicò a sua volta le mura dell’appartamento per riversarsi nella strada,
dove pervase i gradoni d’ingresso (stoops), gli angoli delle strade, lo spazio
davanti alla vetrina di un negozio o i tetti dei casermoni, riproducendo
l’atmosfera di una piazza o di un mercato di paese.
La confusione tra interno ed esterno, l’erosione dei confini tra
dimensione pubblica e privata, segnò in profondità la cultura che nacque
nel Lower East Side, il cui sviluppo in una certa misura fu reso possibile
anche grazie a una lingua, lo yiddish (il dialetto germanico parlato nello
shtetl e senza una forma scritta) che si rivelò strumento malleabile e
versatile, adatto in egual misura a pubblicistica, letteratura, trattati
scientifici, sermoni e canzoni (→ Forte gelato). L’industria culturale
yiddish, con quotidiani (il Jewish Daily Forward diretto da Abrahm Cahan e
Der Tog), riviste, poesie (Morris Rosenfeld), romanzi (di Sholem Asch e
Sholem Aleichem, oltre a una fiorente industria di traduzioni di classici),
trovò il suo apice nel teatro. Definito da Paul Buhle un terreno di mezzo tra
«la sinagoga e il bordello», il teatro yiddish divenne la passione della
comunità, con rappresentazioni che accontentavano tutti i gusti, sale
gremite e attori venerati come autentiche star. L’offerta andava dalla
riproposizione di storie tratte dalla Bibbia a farse e melodrammi che
proponevano le conflittualità legate all’emigrazione, da versioni di autori
classici e contemporanei (da Shakespeare a Tolstoj) ai tentativi di creare un
teatro serio (le opere del drammaturgo Jacob Gordin). E se a molti
osservatori le produzioni yiddish facevano storcere il naso (tanto da
meritarsi la definizione shund, spazzatura), è in quelle sale che mosse i primi
passi l’industria dell’intrattenimento americana (→ Vaudeville).
I protagonisti del teatro yiddish, infatti, riproposero la trasgressione e la
ribellione contro l’autorità, che era stata parte della loro esperienza
quotidiana, per rinnovare il linguaggio del palcoscenico mescolando i
generi, usando le armi della parodia e dell’ironia, giocando sul
multilinguismo e sui doppi sensi.
L’intrattenimento faceva parte della vita della comunità, a partire dalla
strada, dove strilloni, venditori ambulanti e imbonitori erano in
competizione per attirare l’attenzione dei passanti, attraversava i salotti dei
nuovi ricchi, per i quali i ricevimenti erano l’occasione per ostentare il
costoso pianoforte e le abilità esecutive dei figli, frutto di altrettanto salate
lezioni private, e arrivava fino agli spettacoli amatoriali organizzati negli
hotel della Borscht Belt (→ Cinture), la zona dei monti Catskill dove le
famiglie facoltose trascorrevano la villeggiatura in strutture separate.
Impresari, autori e attori impararono a intercettare i bisogni di classi
urbane immigrate, che necessitavano di momenti di sollievo dalla dura vita
lavorativa e che i rigidi canoni della cultura Wasp (→) erano lontani dal
poter soddisfare. E quando, all’inizio del Novecento, cominciarono a
comparire i primi film, alcuni imprenditori intuirono le potenzialità di
guadagno offerte dalla nuova forma di intrattenimento visivo. L’ebreo
tedesco Carl Laemmle, l’ucraino Louis Mayer (Lazar Meir), il polacco Samuel
Goldfish (più tardi diventato Goldwyn) e il conducente di tram Harry Cohn
furono tra i primi a investire nella realizzazione di filmati originali, attività
che crebbero fino a dar vita ad alcuni grossi studi cinematografici di
Hollywood (→ Hollywood/land).
A dispetto di ciò, a parte rari casi (come il celebre Il cantante di jazz, del
1927, il primo film sonoro della storia del cinema), la cultura ebraico-
americana trovò poco spazio nelle pellicole – i grandi produttori ritenevano
che il nuovo mezzo dovesse rivolgersi a un pubblico più vasto possibile.
Viceversa, nei circuiti alternativi della radio (→), dove iniziò la
programmazione la serie de I Goldberg, e della stand-up comedy, con
interpreti quali Eddie Cantor e in seguito Lenny Bruce, il tema etnico
continuò a prosperare. A questa tradizione appartiene Allen Stewart
Konigsberg, noto al pubblico come Woody Allen, a cui si deve il ritorno della
comicità di matrice ebraica sullo schermo attraverso la personificazione
dello schlemiel, l’inetto goffo e logorroico, inserito in situazioni assurde e
paradossali. Una vena che continua a essere vitale e di successo, com’è
dimostrato dalla serie tv (→) Seinfeld (1989-1998) e da A Serious Man (2009),
divertente pellicola dei fratelli Coen sulle disavventure di una famiglia che,
ancora una volta, riesce a mantenersi in piedi anche se in un precario e
fragile equilibrio, minacciata dalla facilità con cui i componenti si aprono
alla trasgressione. Che ormai, non tocca quasi più il cibo: la produzione di
massa assicura la presenza di gefilte fish, matzoh e altri cibi tradizionali in
tutti i supermercati, mentre le innovazioni tecnologiche hanno consentito
di realizzare varianti kosher di prodotti «impuri», come il pane bianco e il
bacon. Persino la Pepsi Cola, negli anni cinquanta, ottenne il sigillo di
approvazione dell’Unione dei Rabbini Americani. L’unica cosa da temere,
oggi, ma solo per la linea, sono le proverbiali proporzioni titaniche del
pastrami sandwich.

BIBLIOGRAFIA
Paul Buhle, From the Lower East Side to Hollywood. Jews in American Popular
Culture, Verso, London-New York 2004.
Hasia R. Diner, The Jews of the United States, California University Press,
Berkeley 2004.
Irving Howe, World of Our Fathers, Phoenix Press, London 2000.
S.M.Z.

Kwanza
«Ora che questa scusa capitalista delle vacanze natalizie è finita, è ora di
celebrare kwanzaa» dichiara con il solito piglio battagliero Huey Freman,
protagonista delle fortunate strisce dei Boondocks (→ Casa Simpson), rivolto
al nonno che preoccupato sospira: «Ecco, lo sapevo che era solo questione di
tempo. Oh Gesù, il ragazzo si è convertito all’Islam!», «Ok, credo che qui ci
sia un po’ di confusione…».
Ha ragione Huey, di confusione di solito ce n’è, quando si parla di
Kwanza (o Kwanzaa), celebrazione afroamericana che prende le mosse dalla
tradizionale festa delle regioni orientali dell’Africa per celebrare il raccolto
(in Swahili, «kwanzaa» significa «primi frutti»). «Primi frutti» che, tuttavia,
germogliarono, se così si può dire, un po’ in ritardo dall’altra parte
dell’Atlantico: solo nel 1966, infatti, Maulana Karenga, professore
afroamericano e fervente nazionalista, propose di adottare la festività
anche negli Stati Uniti, per rinsaldare il legame con l’originario continente
di provenienza degli schiavi e dunque, indirettamente, dei loro discendenti.
Con un giorno consacrato a ognuno dei sette principi Kwanza (unità,
autodeterminazione, lavoro e responsabilità collettive, costanza, economia
cooperativa, creatività e fede), il Kwanza si incunea (senza però sovrapporsi
a esse, per non creare conflitto nella componente nera cattolica) fra le due
ricorrenze più sentite e commercializzate del calendario Wasp (→), Natale e
Capodanno. Di contro, per le celebrazioni del Kwanza, sono sufficienti sette
candele, ognuna accesa a turno in onore della corrispondente virtù. Intorno
a esse, si ritrovano la sera i membri della famiglia e i loro amici, a
condividere cibo e bevande e riflettere sul significato della celebrazione:
come soli ornamenti, un tappeto cerimoniale (il mkeka) a simboleggiare il
sostrato africano della tradizione e una coppa posta sopra di esso a indicare
l’unità delle genti africane sparse in tutto il mondo; unica concessione
all’esotico: frutta tropicale e noci, il prodotto del primo raccolto.
Un po’ scarno, come rito, se pensiamo al tripudio di dolci e balocchi delle
feste contigue. Forse anche per questo Huey trova come compagno di
Kwanza solo uno scettico, riluttante (e non abbastanza nero) vicino di casa,
che di Black Power, nazionalismo e orgoglio nero mai aveva sentito parlare.
Con buona pace di Karenga.

BIBLIOGRAFIA
Maulana Karenga, Kawaida Theory: An Introductory Outline, Kawaida
Publishing, Los Angeles 1980.
Nancy Yousef, Spencer Robyn, «Kwanza», in Jack Salzman, David L. Smith,
Cornel West (eds.), Encyclopedia of African-American Culture and History,
Macmillan, New York 1996.
C. SCHIA.
[L]

Levees
Sono tanto importanti da comparire nel titolo di una celebre «memoria» del
Sud, l’autobiografico Lanterns on the Levees, pubblicato nel 1941 da William
Alexander Percy, zio e padre adottivo di Walker Percy, uno degli scrittori
culto di New Orleans (The Moviegoer, 1962). Il termine (francese, a ricordo
del lungo dominio esercitato dalla Francia nella Valle del Mississippi) indica
gli «argini» costruiti per contenere l’incontenibile – cioè per limitare i
danni delle furie del fiume (→ Vie d’acqua). Fin da quando venne fondata
nel 1718, New Orleans (→ Congo Square) dovette essere difesa da un
sistema di argini, a monte e a valle, là dove le rive erano più soggette, per la
loro conformazione geologica, alle stagionali (o eccezionali) esondazioni.
Da subito si aprì il dibattito: servono davvero, questi argini, o non sono
essi stessi un fattore di ulteriore instabilità e distruttività? Infatti, più
venivano costruiti alti e robusti dopo ogni nuova piena, più la massa
d’acqua, non potendosi «sfogare», diventava una minaccia per ciò che si
trovava a valle tra meandri che venivano tagliati o saltati condannando al
declino e alla morte piccole città (→), argini meridionali che, investiti da
una corrente irruenta, cedevano d’improvviso con la conseguente
devastazione di campi, piantagioni, case, insediamenti, e una corrente che si
dirigeva alle foci nel Golfo del Messico con sempre maggiore forza e
velocità, cessando di depositare ai due lati limo fertile e sedimenti.
Lasciando da parte questo dibattito (che non portò a nulla, se non ad
argini sempre più alti), è un fatto che i levees sono parte integrante della
cultura del Sud: luogo d’incontro e di cerimonie stagionali (i falò
primaverili, gli spettacoli pirotecnici), palcoscenico collettivo di feste e
manifestazioni, punto di estatica ammirazione del paesaggio o di
preoccupata veglia sulle acque che si gonfiano, territorio separato e
nascosto di aggregazione politico-sociale, romantico scenario e serbatoio
d’immagini per letteratura e musica (quanti levees nei testi dei blues!). Come
ci dice per l’appunto il titolo di quel romanzo, e come ci dice il drammatico
documentario di Spike Lee sugli effetti dell’uragano Katrina sulla città di
New Orleans, When the Levees Broke (2006).
BIBLIOGRAFIA
William A. Percy, Lanterns on the Levees (1941), Louisiana State University
Press, Baton Rouge 2006.
Lyle Saxon, Father Mississippi (1927), Pelican Publishing Company, Gretna
2000.
M.M.

Liberty Bells
«Per chi suona la campana?». Fin da quando il poeta inglese del Seicento
John Donne pose la questione (ed Ernest Hemingway la riprese nel romanzo
omonimo del 1940), la risposta è sempre stata quella: «essa suona per te». Di
certo, la campana che nel 1752 venne fusa alla Whitechapel Bell Foundry di
Londra e di lì portata a Philadelphia suonò per gli americani, quel giorno del
luglio 1776 in cui fu letta la Dichiarazione d’indipendenza. Niente male
come paradosso: una campana fabbricata in Inghilterra che diviene simbolo
della rivoluzione antinglese (→ Rivoluzione americana). Sappiano poi
anche gli amanti delle coincidenze e delle superstizioni che, non appena fu
suonata in quel lontano 1752, la campana s’incrinò e dovette essere fusa e
colata più e più volte (segno premonitore? o più semplicemente errore di
fabbricazione? o, per gli eterni maligni, bidone tirato dalla madrepatria ai
coloni?). Con la scritta «Sia proclamata la LIBERTÀ ovunque nel paese per
tutti i suoi abitanti» (c’è però da chiedersi se suonasse anche per gli indiani
d’America), dopo alcuni decenni di oblio, la campana divenne un simbolo
abolizionista già negli anni trenta dell’Ottocento, quando ricevette per
l’appunto il nome di Liberty Bell – e di nuovo s’incrinò, forse nel 1835 (o,
secondo altre versioni, fra il 1841 e il 1845: in occasione o di un 4 luglio o del
compleanno di Washington – ah, le coincidenze!) e da allora così rimase,
con la sua larga, irregolare fessura verticale, assorbendo e restituendo miti
e leggende, ispirando racconti come quello, famoso, del popolare scrittore
George Lippard (Fourth of July, 1776, del 1847) e composizioni musicali («The
Liberty Bell March», di John Phillip Sousa, del 1893), patriottico simbolo
collettivo in più di un’occasione: per esempio, durante i funerali di
Abraham Lincoln. Con i suoi 940 chili di rame, stagno, piombo, zinco,
arsenico, oro e argento, essa pende oggi, fessura compresa, da quella che –
così si dice – è ancora la sua originaria asse orizzontale fatta di olmo
americano, nell’Independence National Historical Park di Philadelphia.
Ma, alla stregua di laiche reliquie, altre «campane della libertà» si
trovano in giro per gli Stati Uniti. Per esempio, a Kaskaskia (Illinois),
microscopico insediamento in una delle zone più affascinanti in riva al
Mississippi (→ Vie d’acqua), diciotto abitanti nel 1998 scesi a nove nel 2000,
ma una storia complessa e significativa (anche dal punto di vista
idrogeologico: nel 1880, il villaggio si trovava infatti sulla riva sinistra del
fiume, mentre oggi – dopo una serie di modificazioni nel corso del fiume e
del suo affluente Kaskaskia, che hanno trasformato l’area in un’isola – è
sulla riva destra). Qui, nella chiesa dell’Immacolata Concezione, si può
osservare la cosiddetta «Liberty Bell of the West», regalata nel 1741 dal re
Luigi XV (all’epoca, come sappiamo, la valle era possedimento francese) e
recante l’iscrizione «Per la chiesa dell’Illinois – Regalo del Re»: più antica,
dunque, della «Liberty Bell» di Philadelphia, la campana fu suonata a
stormo il 4 luglio 1778, per celebrare la cattura di Kaskaskia (in certa misura
decisiva per le sorti della guerra rivoluzionaria) da parte delle forze
americane comandate dal colonnello George Rogers Clark (→ Rivoluzione
americana).
Dal sacro al profano: lasciando da parte repliche di ogni tipo e funzione,
c’è un’altra «Liberty Bell» da menzionare a questo punto. Venne fabbricata
a San Francisco nel 1899, da un immigrato bavarese di nome Charles Fey,
socio di una compagnia elettrica, la «Holtz and Fey Electrical Works». Che
cosa fece dunque Fey, nel suo tempo libero? Abile meccanico, costruì una
macchina particolare, la cosiddetta «4-11-44» che poi fu ribattezzata
«Liberty Bell»: un aggeggio in metallo, sostenuto da due piedi (con tanto di
dita!), con tre rulli numerati, messi in moto ogni qualvolta s’inseriva una
monetina in una fessura e si operava un manico disposto sul lato. Era nata la
prima slot machine! Sistemata in origine in un bar, ebbe tanto successo che
Fey si dedicò soltanto alla costruzione di modelli sempre più perfezionati.
Ma la «Liberty Bell» in versione slot machine non gli portò molta fortuna:
Fey, infatti, non fece a tempo a brevettare l’invenzione, perché la mattina
del 18 aprile 1906 un terremoto devastante seguito da un gigantesco
incendio semidistrusse la città di San Francisco, e con essa la fabbrica di Fey,
gli uffici, gli archivi, e via di seguito (→ Disastri). La campana suonò a
morto: e così l’invenzione di Fey fu ripresa nel 1909 da Herbert Mills, di
Chicago, che, con il nome di «Liberty Bell of Mills», la lanciò su un mercato
che sarebbe presto impazzito – complice Benjamin «Bugsy» Siegel, nome
centrale nella storia della malavita organizzata, «creatore» nel 1946 di Las
Vegas come «città del gioco d’azzardo», con il suo primo hotel-casinò (il
Flamingo →): completo, per l’appunto, di slot machines.
La domanda resta quindi sempre la stessa: «Per chi suona la campana?».

BIBLIOGRAFIA
Mario Maffi, Mississippi. Il Grande Fiume. Un viaggio alle radici dell’America, il
Saggiatore, Milano 2009.
Gary B. Nash, The Liberty Bell, Yale University Press, New Haven 2010.
M.M.

Linea del colore


Fra i tanti confini che delimitano gli Stati Uniti e i loro spazi sociali, la
«linea del colore» è di certo uno dei più sottili, controversi e, potremmo
aggiungere, sfocati. L’oggetto del contendere è, ancora una volta, il crinale
che separa l’identità bianca dalle identità etniche e, prima di ogni altra, da
quella nera, ritenuta a lungo un pericoloso agente sovversivo nell’ordine
sociale, oltre che portatrice di violenza.
Ma come si determina il colore di una persona? Quali sono i limiti delle
classificazioni razziali? Ricacciato indietro il dubbio che la retorica del
sangue e della razza fosse solo un mezzo utilizzato dalla storia occidentale
per rimettere ordine fra stirpi e discendenze, la cultura egemone
statunitense ha per molto tempo fornito una semplice, pragmatica risposta:
chiunque abbia anche una sola goccia di sangue nero è da considerarsi tale.
La «One Drop Rule» (che porta ad assegnare alle persone di origine mista lo
status del gruppo subordinato) spiega perché, a tutt’oggi, vengano
considerati «neri» personaggi come Frederick Douglass e Booker T.
Washington (mulatti tutt’e due) o W.E.B. Du Bois (che aveva avi francesi,
olandesi e africani). In realtà, circa i tre quarti dei cosiddetti «neri
americani» sono di origine mista: mulatti, appunto – espressione che, oltre
al significato originario (cioè il prodotto di un’unione fra puro bianco e
puro nero), assunse presto anche quello di sanguemisto in generale, per
quanto piccola fosse la percentuale di discendenza nera nelle loro vene. Del
resto, anche l’origine del termine è rivelatrice delle credenze e dei
pregiudizi che hanno circondato la questione etnica: «mulatto» infatti, in
uso fin dal XVII secolo, deriva da «mulo», l’ibrido fra un cavallo e un’asina, e
incapace di procreare – come si credevano sterili i mulatti dalla terza
generazione in avanti.
Dai mezzosangue veri e propri ai quadroons (un quarto di sangue nero),
agli octoroons (un ottavo di sangue nero) alle percentuali sempre più
infinitesimali, la società Wasp (→) fu a lungo impegnata a costruire una
minuziosa casistica delle declinazioni della mescolanza, basata sul principio
che, oltre a distinguersi in superiori e inferiori, le razze fossero responsabili
non solo del colore della pelle, ma anche dell’attitudine e del carattere del
singolo e delle culture stesse, trasmesse (si pensava) per via genetica
insieme ai tratti somatici. E dal momento che il peccato più nefando non è
appartenere alla razza inferiore, bensì cercare di sovvertire, attraverso il
matrimonio o il contatto sessuale (→ Miscegenation) quella gerarchia, non
sorprende che la posizione più bassa in tale casistica fosse occupata dai
sanguemisti, ritratti sovente come malevoli e traditori, per natura
caratterialmente più difficili rispetto ai neri, il cui ruolo nella società era
definito in maniera più agevole.
Mettendo a repentaglio la credibilità degli stereotipi e di conseguenza
l’idea stessa di razza, i mulatti svelavano quest’ultima per ciò che era: un
prodotto culturale con precise finalità sociali e politiche. A esplorare e
sovvertire quella divisione fu, tra gli altri, W.E.B. Du Bois, che in Le anime del
popolo nero (1903) cerca di individuare «in una linea vagamente incerta il
mondo spirituale in cui diecimila americani vivono e si battono». La stessa
vita dell’autore fu un continuo attraversare e sovvertire credenze e
stereotipi: allievo dei filosofi William James e George Santayana, formatosi
in due università americane e una tedesca, portato per le scienze, le lingue,
la storia, Du Bois sfidava le ire e le teorie di chi voleva i neri come incolti e
ottusi, inadatti per natura alle arti e alle lettere. E alle sfide intellettuali
fecero seguito le rivendicazioni politiche.
La questione di chi sia da considerarsi nero e chi bianco è tutt’oggi assai
incerta e, per assurdo, declinata a seconda delle regioni. Se in molti stati del
Sud vige il criterio per cui un ottavo è sufficiente per essere considerati
neri, in Virginia chi ha più di un quarto di sangue nativo e meno di un
sedicesimo africano è identificato come nativo se risiede in una riserva, ma
nero quando esce da essa. La Louisiana, dopo aver accettato nel 1970 il
ricorso di un bambino definito «afroamericano» che era solo per 1/256
nero, ha deciso di dichiarare tale chiunque avesse almeno 1/32 di sangue
afroamericano.
Se dalla realtà passiamo alla letteratura, vediamo che pure qui gli
interrogativi sulla «linea del colore» rimangono in gran parte irrisolti – a
cominciare da chi abbia, nei secoli, attraversato quella soglia. Si pensi a Cora
de L’ultimo dei Mohicani (1826) di James Fenimore Cooper, «scura» di
carnagione – o anche di sangue? E non è che lo stesso Huck Finn inventato
da Mark Twain fosse, come ipotizza la studiosa Shelley Fisher Fishkin, in
realtà afroamericano?
Se poi pensiamo a chi ha davvero oltrepassato quella linea, le cose si
complicano ancora di più. Nella narrativa fra Ottocento e Novecento, il
mulatto è figura tragica, punita spesso per la sua insubordinazione,
volontaria o involontaria, alle gerarchie razziali: come in The Hindered Hand
(1905) di Sutton E. Grigg, dove un tentativo di passing (→) di tutta la
famiglia voluto dall’ambiziosa protagonista, Arabelle Seabright, porta a una
drammatica sequenza di abbandoni, omicidi e suicidi. E tragica è Iola Leroy
(1892) della scrittrice Frances Helen Watkins Harper, con la protagonista
ridotta in schiavitù dopo la morte del padre bianco.
Vi sono poi i mulatti eroici, come l’«Adamo» nato dalla penna di Charles
W. Chestnutt in The Marrow of Tradition (1901), Adam Miller, un medico di
colore amato e rispettato nella comunità locale, che si deve tuttavia
scontrare con il razzismo e l’ostilità dell’oligarchia bianca. Passando agli
autori bianchi, persino uno fra gli scrittori più razzisti quale Thomas Dixon
in The Leopard’s Spots (1902) non poté esimersi dal riconoscere una statura
tragica al mulatto George Harris – salvo poi additare in una mulatta, la
Lydia Brown di L’uomo del Ku Klux Klan (1905, su cui si basò il regista D.W.
Griffith per il celebre film Nascita di una nazione, del 1915) «una strana donna
dalla sinistra bellezza animale e con gli occhi inquieti di un leopardo», la
causa della degenerazione morale dell’uomo bianco e, con lui, della
nazione. Sorte analoga, di virtuosi ed emarginati, toccherà ai mulatti di
George Washington Cable nella New Orleans di The Grandissimes (1880):
Palmyre Philosophe, quasi perseguitata dalla sua straordinaria bellezza, e
Honoré Grandissime, altrettanto bello e generoso, per un quarto nero, che
tenterà invano di salvare il nero Bras Coupé, reo di aver aggredito il
sorvegliante bianco e per questo linciato dagli aristocratici… creoli. Quando
si dice l’indeterminatezza della «linea del colore».

BIBLIOGRAFIA
F. James Davis, Who is Black? One Nation’s Definition, Pennsylvania State
University Press, University Park 1991.
John J. Mencke, Mulattoes and Race Mixture. American Attitudes and Images,
1865-1918, Umi Research Press, Ann Arbor 1976.
C. SCHIA.

Little Bighorn (1876)


Tra il 25 e il 26 giugno 1876, nel corso della «Grande guerra dei sioux» (→
Guerre indiane), il tenente colonnello George Armstrong Custer, che si
faceva chiamare «generale» ed era noto ai Native Americans come «Lunga
capigliatura», andò incontro alla sconfitta e alla morte, per arroganza,
precipitazione e incompetenza. Personaggio controverso, non molto
apprezzato dalle gerarchie militari con le quali era spesso in lite, spinto da
un’inesauribile fame di notorietà, Custer si trovava provvisoriamente a
capo del 7º Reggimento di Cavalleria, con l’incarico di sorvegliare un vasto
territorio intorno alle Black Hills (dove era stato trovato l’oro → Oro!),
impedire gli sconfinamenti dei lakota (sioux) e regolare la travolgente
ondata di coloni, cercatori, minatori, avventurieri, gente d’ogni tipo e
intenzioni che stava riversandosi nell’area. Gli effetti di quest’ondata si
erano fatti presto sentire sulle tribù più o meno pacificate di recente: i
bisonti scarseggiavano e l’irrequietudine s’era diffusa fra i guerrieri. Lo
stesso Nuvola Rossa, anziano e restio a riprendere in mano le armi, aveva
deciso di trattare con il governo per arrivare a un accordo sulla cessione
delle Black Hills. Ma a tale accordo non si giunse mai, e i lakota, guidati da
Cavallo Pazzo, Toro Seduto e Gall (tre capi di straordinaria sagacia militare),
e appoggiati da guerrieri cheyenne e arapaho, non rientrarono nei loro
territori e furono dunque dichiarati «ostili». La guerra era di nuovo
scoppiata.
In quello che oggi è lo stato del Montana, il Little Bighorn (o «Piccolo
Fiume delle Capre Selvatiche») è un affluente del Bighorn, che a sua volta si
getta nel grande Yellowstone: in riva a quel fiumiciattolo, si trovava un
accampamento di lakota e su di esso si diresse il 7º Cavalleria con l’intento
di attaccarlo. Dopo una lunga marcia di avvicinamento e varie improvvide
manovre da parte di Custer e degli altri ufficiali, il maggiore Reno e il
capitano Benteen, il 25 giugno «Lunga capigliatura» si trovò alla testa di 200
uomini a fronteggiare circa 1800 guerrieri abilissimi a cavallo e nella guerra
di guerriglia, tagliato fuori – grazie alle astute manovre dei tre capi –
dall’aiuto degli altri due ufficiali. Al grido di «Solo il cielo e la terra sono
immortali, noi no! Questo è un buon giorno per combattere! Questo è un
buon giorno per morire!», Cavallo Pazzo aveva infatti lanciato i propri
uomini sul gruppo di Reno, che aveva dovuto subito ripiegare. Custer si rese
conto allora di essere caduto in un tranello e inviò il trombettiere John
Martin (in realtà, Giovanni Martini, ex garibaldino ligure) a chiedere aiuto
urgente al capitano Benteen. Troppo tardi. I 200 uomini di Custer si
posizionarono in cerchio e cercarono di resistere al vortice impressionante
creato intorno a loro dai cavalieri lakota. Furono uccisi tutti, Custer
compreso. La battaglia, contro Reno e Benteen, continuò anche il giorno
successivo: ma nella notte fra il 26 e il 27, i lakota, dopo aver avvistato gli
uomini del generale Terry che si avvicinavano armati di mitragliatrici,
tolsero l’assedio. Il loro era stato un trionfo militare senza pari: per
l’esercito statunitense, una sconfitta cocente, nonostante tutta la retorica
che subito si creò intorno all’episodio. L’«ultima battaglia di Custer»
(«Custer’s Last Stand») fu infatti immortalata da decine di dipinti e
illustrazioni, raffiguranti «Il generale», la giacca di pelle di daino con le
frange, i capelli e i baffi al vento, una mano stretta intorno alla bandiera,
nell’altra il revolver spianato, intorno a lui i suoi uomini stesi a terra a
sparare da dietro i cavalli abbattuti, e in cerchio gli assalitori indiani (così la
scena fu replicata decine e centinaia di volte dal Wild West Show [→] di
Buffalo Bill e da altre compagnie simili, nei decenni a cavallo fra Ottocento e
Novecento).
Poco meno di un anno dopo, incalzati e stremati, Cavallo Pazzo e i suoi
guerrieri accettarono la resa e si ritirarono nei territori assegnati. E, quando
il capo lakota ne uscì per portare la giovane moglie malata da un medico, fu
aggredito e ucciso: aveva trentadue anni e fu sepolto in riva a un
fiumiciattolo dal nome di Wounded Knee (→ Sand Creek e Wounded Knee).
Il cinema non tardò ovviamente ad appropriarsi della vicenda: ci fu un
famoso Custer interpretato da Errol Flynn e diretto da Raoul Walsh nel 1941
(La storia del generale Custer); ci fu una reinterpretazione fantastica nel film
di John Ford Il massacro di Fort Apache (1948), con gli apache al posto dei
lakota-sioux; e, più di recente, c’è stata una rivisitazione antieroica con il
film di Arthur Penn Piccolo grande uomo (1970), in cui Custer è un individuo
frustrato, nevrotico e pieno di tic.

BIBLIOGRAFIA
Siegfried Augustin, Storia degli Indiani d’America, Odoya, Bologna 2009.
Raimondo Luraghi, Sul sentiero della guerra. Storia delle guerre indiane del
Nordamerica, Rizzoli, Milano 2000.
Mari Sandoz, The Battle of the Little Bighorn, Lippincott, Philadelphia 1966.
M.M.

Lobby & caucus


Guai a chi è ancora tanto ingenuo da credere che gli Stati Uniti siano un
sistema parlamentare bicamerale. Certo, sui libri si legge che il potere
legislativo viene esercitato dal Congresso, composto da una Camera dei
rappresentanti (435 membri eletti) e da un Senato (100 membri), ma nella
realtà la macchina politica americana non funzionerebbe senza quella che è
chiamata la «terza camera», ovvero il sistema delle lobbies, o «gruppi di
pressione». Le lobbies, infatti, occupano un ruolo centrale nel
funzionamento dell’apparato politico americano, rimediando alle sue
inefficienze: con i loro agenti, contribuiscono a indirizzare (se non
addirittura a influenzare) gli orientamenti del Congresso, ponendo
all’attenzione dei legislatori questioni che interessano i settori
dell’economia e della società che rappresentano; raccolgono e forniscono
quei capitali di cui deputati e senatori hanno bisogno per affrontare
campagne elettorali sempre più costose, e informano i legislatori su quanto
avviene nel collegio elettorale di loro competenza, procurando dati su
situazioni particolari che riguardano la popolazione o le imprese.
Quest’ultima necessità è molto sentita al Senato dove, a causa dell’esiguo
numero di membri, ognuno degli eletti è chiamato a gestire una mole di
lavoro che non riesce a seguire con la dovuta attenzione, neanche con
l’aiuto dello staff di assistenti. Mentre alla Camera ogni rappresentante
partecipa al massimo a una sottocommissione, ogni senatore è chiamato a
sedere in almeno cinque di esse: e non è raro che il legislatore abbia un’idea
molto vaga delle questioni su cui deve esprimere il voto. Il senatore e il suo
staff sono dunque ben lieti di accettare le relazioni, le cifre e le statistiche
che le lobbies hanno commissionato a esperti del settore.
Il legame a filo doppio con i politici inserisce le lobbies in una zona grigia
del sistema, dove il confine tra il lecito e l’illecito è spesso molto labile. Del
resto, dare un contributo finanziario alla campagna elettorale di un uomo
politico non è un reato, né lo è invitare un deputato o un senatore a
pronunciare un discorso (e il disturbo è pagato con un congruo onorario),
né tantomeno dare fondi per la costruzione o l’ammodernamento di una
scuola o di un ospedale in un collegio elettorale. Lo stesso Primo
emendamento del Bill of Rights specifica che il Congresso «non farà nessuna
legge che limiti […] il diritto […] a rivolgere suppliche al governo per
riparare le ingiustizie». E le suppliche possono essere rivolte durante cene
in ristoranti di lusso, viaggi in una qualche località esotica, partite di caccia
o pesca – il lobbista di turno si occuperà sempre di pagare il conto.
Durante la prima metà dell’Ottocento, con l’espansione territoriale e la
localizzazione della capitale a Washington, lontana dai principali centri
economici e commerciali della nazione, cittadini e imprenditori si
trovarono costretti a inviare nella capitale degli incaricati in loro vece per
esporre lagnanze, ottenere concessioni o modificare leggi. Vuole la
tradizione che questi intermediari si riunissero nella lobby (atrio, vestibolo)
dell’Hotel Willard, un albergo dove alloggiavano deputati e senatori –
appena questi facevano la loro comparsa nella sala, gli agenti erano pronti
ad assalirli e assillarli con le loro richieste. Ai mediatori fu così appiccicato il
nomignolo di lobby agent (attestato già dal 1829), e in breve tempo si
diffonderà il verbo to lobby per indicare l’esercizio di pressione su un corpo
legislativo.
Dopo la Guerra civile (→) e lo sviluppo economico che ne seguì (Gilded
Age →), la professione del lobbista si raffinò ulteriormente. Nacquero le
prime associazioni di categoria, che impiegavano agenti a tempo pieno per
promuovere e difendere i propri interessi a Washington: una delle prime
lobbies fu la National Rifle Association (Nra), che difende il diritto di ogni
cittadino a portare armi da fuoco (→ Armi) e, nonostante le critiche che con
regolarità le vengono mosse, come in seguito al massacro di Columbine (→
Waco, Columbine e dintorni), è sempre riuscita a evitare che il Congresso
approvasse leggi troppo restrittive in materia. A questo periodo, risale
anche l’affermarsi della regola delle «Tre B» (Broads, booze and bribes =
«Bambole, bottiglie e bustarelle») come strumenti più efficaci a disposizione
dei lobbisti per persuadere l’uomo politico di turno. Di certo ne fecero
molto uso gli intermediari pagati dai magnati che ottennero concessioni
ferroviarie (→ Promontory Point) durante la Gilded Age a condizioni molto
vantaggiose. In altre occasioni, la spinta giunse da movimenti sostenuti da
un ampio appoggio popolare, come durante la lunga battaglia condotta
dalla Temperance Society e dalla Anti-Saloon League e culminante
nell’approvazione della legge che diede il via al Proibizionismo (→). Una
misura del potere conquistato dalla figura del lobbista la dà Artie Samish,
agente che curava gli interessi di vari produttori e distributori di birra e
alcolici della California: tra il 1935 e il 1938, arrivò a percepire commissioni
di oltre 60mila dollari all’anno. In apparenza era solo uno dei cento
«consulenti di pubbliche relazioni» registrati presso il parlamento di
Sacramento, capitale dello stato, ma la sua autorità lo rendeva di fatto più
potente del governatore.
Il Congresso, allarmato per l’enorme influenza che simili individui
riuscivano a esercitare sulle decisioni politiche, cercò di correre ai ripari
creando regole precise per lo svolgimento della professione: l’iter di
approvazione del Lobbying Act del 1946 fu tuttavia condizionato dalle
trame di agenti e associazioni (c’era forse da dubitarne?) e ne uscì una
misura annacquata che lasciava ai lobbisti ampi margini di manovra. Il testo
definitivo, se da un lato obbligava i lobbisti a registrarsi presso Camera e
Senato, dichiarando per chi lavoravano, quanto percepivano e a quanto
ammontavano le spese sostenute, dall’altro limitava la propria validità a
individui e organizzazioni il cui «fine principale» era l’esercizio di influenza
sul Congresso (dettaglio facile da aggirare: bastava dire che il fine principale
della propria attività era la promozione di una determinata causa), e inoltre
non si prevedeva l’istituzione di un organismo indipendente che
controllasse la veridicità delle dichiarazioni né i flussi di denaro. A partire
dal secondo dopoguerra, a complicare un panorama già di per sé alquanto
articolato, comparvero lobbies che curavano gli interessi di clienti al di fuori
degli Stati Uniti: a questo strumento hanno spesso fatto ricorso capi di stato
asiatici e africani noti per i metodi dittatoriali e repressivi in politica
interna, come il filippino Marcos e lo zairese Mobutu, i quali hanno sborsato
milioni di dollari per ammorbidire l’atteggiamento del Congresso nei loro
confronti (persino il cartello dei narcotrafficanti colombiani per un certo
periodo ebbe un lobbista di Washington a libro paga).
L’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca segnò l’epoca d’oro per la
professione del lobbista: l’amministrazione dimostrò da subito un
atteggiamento favorevole al big business, a vantaggio del quale approvò
diverse misure legislative. Le occasioni di contatto tra lobbies e uomini
politici si moltiplicarono, il numero degli agenti crebbe e aumentarono allo
stesso modo stipendi e commissioni – e di riflesso anche le bustarelle. I
lobbisti di Washington raggiunsero un tenore di vita paragonabile ai brokers
di Wall Street (→), segnalato dall’ostentazione di automobili di lusso e capi
di alta moda: l’appellativo «Gucci Gulch» (la «gola di Gucci»), espressione
che indica il muro umano di lobbysti che presidiavano il corridoio
antistante la sala dove si riuniva la commissione per le tasse, allude al fatto
che gli abiti di sartoria italiana erano diventati una sorta di uniforme non
ufficiale degli intermediari.
Durante la presidenza Reagan si affermò anche un altro fenomeno, la
revolving door (= porta girevole): una volta finito il loro mandato, ex deputati
e senatori vengono assunti da studi specializzati in lobbying, interessati alla
loro rete di conoscenze e alle entrature nel palazzo del potere, ovviamente
dietro profumati compensi. Dal 1998 al 2005, per esempio, dei 198 membri
del Congresso che si sono ritirati dalla politica, oltre il 43% si è poi
registrato come lobbista – gli stipendi per queste «ricercatissime» figure
professionali si aggirano intorno ai 300mila dollari l’anno. Certo, bisogna
mettere da parte la volontà del popolo e gli alti ideali e non farsi troppi
scrupoli per adattarsi alle esigenze di chi paga: come succede a Nick Naylor,
protagonista del film di Jason Reitman Thank You for Smoking (2005), lobbista
che difende gli interessi dei produttori di tabacco e sigarette.
Come spesso succede, però, a volte la realtà supera di gran lunga la
fantasia. Sempre negli anni ottanta del Novecento, l’uomo d’affari Charles
Keating, per bloccare l’inchiesta federale sulla banca Lincoln Savings, arrivò
a convincere cinque senatori a intervenire in suo favore. Quando, nel 1989,
la Lincoln Savings fallì, l’intricata rete di corruzione venne a galla, Keating
venne condannato a dieci anni di carcere (nonostante Madre Teresa di
Calcutta, a cui l’uomo d’affari aveva donato somme consistenti, si fosse
spesa per la clemenza), mentre i senatori (bollati dalla stampa come i
«Keating Five») se la cavarono con un rimprovero della Commissione etica.
Venti anni più tardi, fu il turno del lobbista Jack Abramoff, che aveva
frodato alcune tribù di Native Americans rivoltesi a lui con l’incarico di
ottenere nuove licenze per i casinò che gestivano nelle riserve (→ Ombre
rosse).
Come il lobbying, anche la pratica del caucus vanta origini antiche, che
affondano le radici anche più lontano nel tempo: fonti scritte attestano che
già intorno al 1760 il padre di Samuel Adams (→ Tea Party) e altri notabili di
Boston avevano l’abitudine di «riunirsi in caucus, e accordarsi su chi
piazzare in posizioni di potere». L’etimologia appare incerta: secondo
alcuni, caucus deriva dai caulkers, artigiani che costruivano navi; altri
propendono per il latino caucus, un tipo di calice; altri ancora (e forse questa
è l’origine più probabile) la fanno discendere dalla parola algonkina
caucausu, che indica gli anziani di una comunità. Le riunioni avvenivano in
una sala privata di un locale pubblico (una coffee house o un pub); nominato
un moderatore, i partecipanti, tra pinte di birra e sigari, discutevano per
trovare un accordo sulle questioni all’ordine del giorno.
Per circa un ventennio, all’inizio dell’Ottocento, gli esponenti dei due
partiti principali (federalista e democratico-repubblicano), ricorsero al
caucus per scegliere i candidati alla presidenza. All’epoca, ogni partito
presentava due pretendenti: i democratici-repubblicani, tutti d’accordo sul
nome del leader Thomas Jefferson come prima opzione, avevano idee
diverse sul secondo candidato. Il partito organizzò un caucus per trovare
un’intesa, e la preferenza andò ad Aaron Burr.
Il «King caucus», come era stato soprannominato perché di fatto
decideva chi avrebbe occupato la presidenza, durò fino alle elezioni del
1824. Il Partito federalista si era dissolto, e il caucus dei democratici-
repubblicani scelse come candidato William H. Crawford. A sorpresa, questi
non riuscì, nonostante le condizioni favorevoli, a ottenere la maggioranza
dei voti: fazioni interne al partito avevano espresso altri tre contendenti, e
per nominare il vincitore si dovette ricorrere a un voto del Congresso. Alla
fine, la spuntò John Quincy Adams, figlio del presidente John (→ Famiglie
A[d]dams). Il fallimento del caucus convinse i leader delle varie fazioni a
cambiare sistema, e soprattutto a trovare un meccanismo più trasparente.
Nacquero le conventions di partito (le prime si svolsero in occasione delle
elezioni del 1832), ma anche questo metodo non si dimostrò immune da
manipolazioni.
Il caucus è sopravvissuto in varie forme, la più nota delle quali è quella
che si tiene nello stato dello Iowa in occasione delle elezioni primarie per la
scelta dei delegati che, alle conventions dei partiti, scelgono il candidato
unico alla presidenza. Per l’occasione, lo stato è diviso in 1784 distretti. Gli
elettori registrati in ognuno di questi si riuniscono in un luogo prefissato
(una palestra, una scuola, una biblioteca, a volte persino un’abitazione
privata), e danno il via alla votazione. I due partiti seguono procedure
diverse. Nel caucus repubblicano, in una prima fase i rappresentanti di ogni
candidato presentano le diverse piattaforme politiche, e poi gli elettori
esprimono la propria preferenza su una scheda prestampata. I risultati
vengono inviati al comitato centrale, il quale poi provvede a fare i conteggi.
Molto più pittoresco è il caucus democratico. Dopo la presentazione dei
pretendenti, gli elettori si raggruppano in diverse aree del locale in «gruppi
di preferenza» che sostengono uno dei candidati. Fatti i conti, sono
considerati «eleggibili» solo quei candidati che hanno ottenuto più del 15%
delle preferenze, gli altri sono eliminati. Gli elettori di questi ultimi possono
andare via oppure unirsi a uno dei gruppi rimasti: a questo scopo, vengono
dati trenta minuti di tempo prima di ripetere la votazione, durante i quali i
rappresentanti dei gruppi più votati cercano di ottenere l’appoggio degli
elettori rimasti senza candidato. Finita la votazione, a ogni candidato
rimasto in gioco viene attribuito un numero di delegati alla convention della
contea in proporzione alle preferenze ottenute. I delegati scelti si
riuniscono a loro volta in caucus, seguendo la medesima procedura, ripetuta
poi a livello del distretto e, infine, dello stato.
Anche nel caucus, dunque, si fa molto lobbying – e non è dato sapere se,
anche in questo caso, i lobbisti improvvisati facciano ricorso alle «Tre B».
BIBLIOGRAFIA
Massimo Franco, Lobby. Il parlamento invisibile, Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano
1988.
Hans Sperber, Travis Trittschuh (eds.), Dictionary of American Political Terms,
McGraw-Hill, New York 1964.
S.M.Z.

Louisiana Purchase (Acquisto della Louisiana)


Che fossero «altri tempi» sta a dimostrarlo la condotta, piuttosto
inconcepibile oggi, tenuta da James Monroe, emissario del presidente
Thomas Jefferson ai negoziati con Napoleone dell’aprile 1803: per pagarsi il
viaggio e il soggiorno a Parigi, Monroe (che sarà capo dello stato dal 1817 al
1825) vendette l’argenteria personale a James Madison (altro presidente,
dal 1809 al 1817). Il sacrificio almeno non fu invano: l’emissario non tornò a
mani vuote, e i risultati degli incontri furono anche migliori del previsto.
Monroe si accordò con Napoleone per il passaggio della «Louisiana» dalla
Francia agli Stati Uniti, il tutto alla modica cifra di 11,25 milioni di dollari, a
cui si aggiunse la cancellazione del debito di 3,75 milioni che l’impero
francese aveva accumulato nei confronti della repubblica federale. In totale,
15 milioni di dollari.
Fu un vero affare? Prima di cominciare a fare i calcoli, bisogna tenere
presente che la «Louisiana» di allora (così battezzata dall’esploratore
Robert de La Salle nel 1682, in onore di Luigi XIV) era un territorio molto più
vasto rispetto allo stato che porta oggi questo nome. L’area si estendeva a
ovest del Mississippi fino ai territori che appartenevano alla colonia
spagnola del Messico, lungo un confine dai contorni indefiniti che infatti,
una volta completato l’acquisto, dovettero essere negoziati e
definitivamente fissati nel trattato Adams-Onis del 1819; a posteriori, una
fatica inutile, visto che neanche trent’anni dopo gli eserciti a stelle e strisce
avrebbero comunque portato sotto il dominio di Washington anche il resto
del continente (→ Destino manifesto).
Il territorio ceduto dalla Francia ammontava a circa 512 milioni di acri,
da cui consegue un prezzo di tre centesimi di dollaro per ogni acro – il che,
anche per un’area poco popolata, priva di vie di comunicazione e dal clima
sfavorevole, era senza dubbio un buon affare. Ipotizzando un prezzo, non
troppo elevato, di 500 dollari per acro, l’intera Louisiana avrebbe un valore
di 256 miliardi di dollari. A conti fatti, dunque, si trattò quasi di un regalo.
La svendita era figlia di un periodo assai difficile per la Francia, che vedeva
in quell’enorme territorio, così lontano e difficile da controllare, un peso
ormai inutile. Con la plateale disfatta subita dall’esercito del generale
Leclerc a Haiti (diventata repubblica autonoma dopo la vittoriosa
rivoluzione capeggiata da Toussaint L’Ouverture), era fallito il piano
napoleonico di ristabilire la presenza francese in America e con esso l’idea
di servirsi della Louisiana come testa di ponte. A ciò va poi aggiunta la fine
della tregua con l’Inghilterra, che avrebbe portato a una ripresa delle
ostilità tra le due potenze europee.
Per gli Stati Uniti, invece, il fiume Mississippi (→ Vie d’acqua) aveva
assunto un’importanza vitale: lungo il suo corso transitava gran parte delle
importazioni e delle esportazioni, e il recente ritorno della Louisiana in
mano francese (dopo trentasette anni di amministrazione spagnola) aveva
causato qualche preoccupazione: a Washington non si dava affatto per
scontato che Napoleone avrebbe confermato l’assenso alla libera
circolazione sul fiume, garantita dai proprietari precedenti. A questo
proposito, le istruzioni date da Jefferson a Monroe si limitavano al tentativo
di ottenere un porto sul Golfo del Messico, da dove poter smistare i carichi
da e verso il Mississippi. L’imperatore francese invece, con una mossa a
sorpresa, propose a Monroe l’acquisto dell’intero territorio.
L’offerta venne subito accettata: oltre a raddoppiare in un sol colpo
l’estensione territoriale degli Stati Uniti, l’acquisto avrebbe consentito di
liberare definitivamente il continente dalla pericolosa presenza francese.
L’unico ostacolo, non certo marginale, era di natura legale. Jefferson si rese
conto che, per portare a termine l’acquisto nel più breve tempo possibile,
avrebbe dovuto scavalcare il dettato della Costituzione, che non attribuiva
in maniera esplicita la competenza decisionale per situazioni simili. A
complicare la scelta stava il fatto che Jefferson era a capo del Partito
democratico, fazione contraria alle interpretazioni troppo libere dei poteri
previsti dalla Costituzione stessa. Roso dal dubbio, pare che Jefferson abbia
dato l’assenso al perfezionamento della transazione, commentando:
«Suppongo che meno parliamo di principi costituzionali, meglio è» – una
massima che molti suoi successori avranno avuto modo di utilizzare. In
privato, naturalmente.

BIBLIOGRAFIA
Bernard Bailyn, Gordon S. Wood, Le origini degli Stati Uniti, il Mulino, Bologna
1987.
Mario Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo, 1776-2006, Laterza,
Roma-Bari 2008.
S.M.Z.

Lower East Side (New York)


La storia di questo quartiere di Manhattan, compreso fra l’East River, le
rampe d’accesso del Brooklyn Bridge, la Bowery (→) e gli isolati appena a
ovest della stessa e la 14ª Strada Est, è la storia paradigmatica di un ghetto
d’immigrazione che diviene al contempo un quartiere-laboratorio. Nella
prima metà dell’Ottocento, l’area – già sede, in epoca olandese, di campi,
frutteti e fattorie (molti nomi di vie rimandano a quel passato: Orchard
Street, Cherry Street, Bowery) – è residenziale. Ma presto, con lo sviluppo
delle contigue attività portuali e quindi il diffondersi di fabbriche e officine
e l’aumento di una popolazione povera e operaia, le classi abbienti
cominciano ad abbandonarla, iniziando quell’esodo verso nord che sarà
tipico della città (e in parte strumentale alla sua crescita): restano numerose
tracce negli edifici, spesso raffinati e decorati con statue e capitelli, ma per
il resto il Lower East Side si configura sempre più come quartiere
d’immigrazione.
Verranno prima, negli anni quaranta e cinquanta, gli irlandesi (per lo più
contadini impoveriti e affamati, in fuga da carestie, malattie e repressioni) e
i tedeschi (molti dei quali artigiani e socialisti o anarchici, esuli dopo i moti
rivoluzionari), con un primo contingente di origine ebraica. Ma la grossa
ondata immigratoria sarà successiva alla Guerra civile (→), quando le
esigenze dello sviluppo capitalistico accelerato, da un lato, e fasi successive
di depressioni economiche e di sommovimenti sociali in Europa (e in Cina),
dall’altro, spingeranno masse enormi sulle sponde d’America: quasi 3
milioni di persone nel decennio 1871-1880, più di cinque nel decennio
successivo, una lieve flessione (3 milioni e mezzo) fra il 1891 e il 1900, poi
l’impennata nei primi dieci anni del Novecento (quasi 9 milioni). I due
«cancelli d’ingresso» – Ellis Island a est, proprio davanti a New York, e
Angel Island a ovest, proprio davanti a San Francisco (→ Isole) –
diventeranno i simboli di questa drammatica vicenda.
La vicinanza del Lower East Side al porto fa sì che il quartiere diventi il
primo luogo d’accoglienza e che una buona parte degli immigranti finisca
per insediarvisi, alcuni in attesa di procedere per l’interno o verso altre
città, ma in grande maggioranza destinati a rimanervi, grazie a quegli
«avamposti» che si vengono a creare nelle comunità immigrate – parenti e
amici giunti in precedenza, istituzioni create dal basso o dall’alto in grado
di aiutare l’inserimento nel nuovo paese, opportunità del momento,
esigenze particolari del mercato del lavoro. Questa «nuova immigrazione» è
costituita in maniera preponderante, ma non esclusiva, da italiani (delle
regioni meridionali, oltre che da Veneto e Liguria) e da popolazioni
provenienti da aree diverse dell’Impero zarista (fra cui un’altra grossa
componente ebraica): in entrambi i casi, non secondario è il carattere
politicizzato (anarchico o socialista).
Il quartiere muta: viene riplasmato da queste ondate successive
d’immigrati (cui s’aggiunge la comunità cinese, in fuga dai pogrom nei
territori occidentali → Chinatown), che reinventano usi e costumi, spazi e
tradizioni, nel reticolo delle vie, contorto nella zona meridionale del
quartiere (la più vecchia) e regolare procedendo verso nord. Gli edifici delle
classi abbienti subiscono trasformazioni radicali per ospitare questa massa
di popolazione (agli inizi del nuovo secolo, il Lower East Side aveva una
densità pari a quella delle zone più congestionate di Bombay), nuovi
casermoni popolari (tenements) vengono costruiti approfittando dei lotti
posteriori in origine adibiti a giardini e in spregio alle minime regole di
sicurezza e igiene (→ Architetture). Oltre alle attività legate al porto, data la
particolare conformazione di Manhattan non saranno le fabbriche a
caratterizzare l’area, bensì le migliaia di laboratori piccoli e grandi, ricavati
in tutti gli spazi possibili (appartamenti compresi) e destinati alla
fabbricazione delle merci più disparate, ma utilizzati in special modo
dall’industria dell’abbigliamento, cuore pulsante dell’economia cittadina.
Buona parte di questa «nuova immigrazione» troverà dunque lavoro,
direttamente o indirettamente, in questi soffocanti «laboratori del sudore»
(sweatshops), dove si moltiplicheranno malattie professionali (Tbc in primis)
e tragici incidenti (→ Triangle Shirtwaist Company), oltre che nelle mille
occupazioni di strada (venditori ambulanti, strilloni, carrettieri, facchini
ecc.).
Le fotografie dell’epoca (→ Occhi indiscreti) ci rimandano le atmosfere
di vie pullulanti di persone, di interni miseri e sovraffollati, di stanzoni
traboccanti di tessuti, panni e macchine da cucire, di bambini intenti a
giocare in cortiletti soffocati dai casermoni o a lavorare intorno al tavolo di
casa alla composizione di fiori di carta – il Lower East Side è ormai il ghetto
d’immigrazione per eccellenza. Le varie comunità, che per lo più
s’intrecciano le une alle altre (forse con l’unica eccezione di Chinatown, più
isolata e chiusa su se stessa, quasi a volersi difendere dal resto della
metropoli), si radicano nel territorio, lo rinominano spesso in maniera
suggestiva (→ Forte gelato), creano strutture e organizzazioni di autotutela
(sia legali che illegali → Gang), danno vita a forti movimenti di resistenza
allo sfruttamento (sindacati come l’Ilgwu e gli Iww, l’attività di socialisti,
anarchici e in seguito comunisti → Sciopero!), ricostruiscono una propria
identità pur nella tensione costante tra due forze contrastanti (l’origine, la
discendenza, la tradizione; l’adesione al nuovo modo di vita,
l’americanizzazione). Ed è su questo terreno che si sviluppa una quotidiana
creatività, che si afferma il «quartiere-laboratorio», dove si sprigionano ed
esplodono, in una dialettica aperta e mai conclusa, le dinamiche
dell’americanizzazione.
A fronte del dramma quotidiano della miseria, dello sfruttamento, della
lotta per la sopravvivenza, dai materiali stessi di quelle realtà, nei decenni
fra Ottocento e Novecento nascono infatti le prime manifestazioni
artistiche: il romanzo ebraico-americano (Abraham Cahan, Anzia Yezierska,
Michael Gold, Henry Roth) e quello italo-americano (Luigi Donato Ventura,
Bernardino Ciambelli, Pietro Di Donato), il teatro irlandese (Harrigan e
Hart), quello ebraico (Jacob Gordin, Abraham Goldfaden) e quello italiano (le
«macchiette coloniali» di Farfariello), il cinema (i primi «rulli» di David W.
Griffith, fino al classico The Musketeers of Pig Alley, del 1912), la pittura
realista (→ Bidoni della spazzatura), la musica (i fratelli Gershwin); mentre
l’esigenza di catturare la vita del quartiere a fini di denuncia giornalistica e
sociologica (→ Muckraking) stimola l’emergere di una «fotografia sociale»
(→ Occhi indiscreti) con Jacob Riis, Lewis Hine, Arnold Rothstein. La stessa
intensa vita che si svolge nelle strade è un pageant (→) che mette in scena
tragedie e aneliti, passato e presente, in una sorta di multiforme e
incessante fuoco d’artificio (così la descriverà Michael Gold in Ebrei senza
denaro, del 1930), in cui sempre più la cultura popolare diventa cultura di
massa (→ Bowery), e il continuo fermento politico e sindacale avvicina e
fonde insieme contingenti di un proletariato dalle più diverse origini e
tradizioni, superando gerarchie, steccati culturali, inerzie legate al genere,
alla lingua, alla religione, alla nazionalità. Tanta parte della cultura
americana del Novecento affonda dunque le radici in quel terreno,
germoglia da quelle ampie e turbolente mescolanze, da quelle
contraddizioni acute, aperte e profonde, e sempre molto dolorose.
La Grande depressione (→) colpirà con violenza il Lower East Side,
aggravandone le già precarie condizioni di vita e di lavoro: i due romanzi di
Henry Roth (Chiamalo sonno, 1934) e di Pietro Di Donato (Cristo fra i muratori,
1939) costituiscono in un certo senso l’epitome e il climax di questa prima
fase del quartiere, che nei decenni successivi decade in maniera
impressionante. Ma non muore: nuova linfa gli giunge da giovani
generazioni cinesi-americane interessate a riscoprire il proprio passato nel
quartiere e in particolare la storia e la realtà della «società degli scapoli» (→
Chinatown), come mostra il romanzo di Louis Chu Eat a Bowl of Tea (1961), e
dalle nuove ondate d’immigrazione dai Caraibi, e da Portorico in primis, che
scriveranno altri capitoli della storia sociale e culturale del Lower East Side
– o, nella pronuncia portoricana, di «Loisaida» (→ Nuyorican). La stessa
beat generation troverà un humus ideale nelle strade e nei caseggiati del
quartiere (→ Generazioni), così come faranno le sperimentazioni musicali
(il jazz e la poesia al Five Spot → Bowery; il gruppo rock dei Fugs),
pittoriche (l’action painting, la New York School), teatrali (gli happening,
l’attività di gruppi off-off-Broadway come il La Mama Theatre → Teatri
viventi), cinematografiche (Rudy Burkhardt). A ciò si aggiungeranno le
tensioni degli anni sessanta, l’estesa radicalizzazione, la presenza di gruppi
politici legati alle minoranze etniche (le Pantere nere, gli Young Lords →
Movement), l’attività di organismi impegnati nell’occupazione e recupero
delle case fatiscenti (homesteading).
Da allora fino a oggi, la storia del Lower East Side, fra cultura e società,
creazione artistica e mobilitazione politica, non ha cessato di svilupparsi,
nonostante gli alti e bassi, i decenni bui, l’invasione devastante della droga,
la galoppante speculazione edilizia. Sempre più gentrified, forse; ma ancora
dotato di un’indomita carica antagonista e di una suggestiva memoria
storica, di sé, della propria identità, del proprio passato (cui torna spesso,
per esempio, in opere e in testimonianze dirette, un regista come Martin
Scorsese, che in queste strade è nato e vissuto; ma che ha affascinato anche
un regista che veniva da fuori come Sergio Leone, con C’era una volta in
America, 1984): quel quartiere-laboratorio che non ha mai cessato d’essere.

BIBLIOGRAFIA
Janet L. Abu-Lughod (ed.), From Urban Village to East Village. The Battle for New
York’s Lower East Side, Wiley-Blackwell, Oxford (UK) & Cambridge (Usa)
1994.
Irving Howe, World of Our Fathers, Harcourt Brace Jovanovich, New York
1976.
Mario Maffi, Nel mosaico della città. Differenze etniche e nuove culture in un
quartiere di New York, il Saggiatore, Milano 2006.
Clayton Patterson (ed.), Resistance. A Radical Social and Political History of the
Lower East Side, Seven Stories Press, New York 2007.
Werner Sollors, Alchimie d’America. Identità etnica e cultura nazionale, Editori
Riuniti, Roma 1990.
M.M.
[M]

Maccartismo
Potrebbe sembrare un paradosso, ma a conti fatti il Maccartismo avrebbe
potuto fare a meno del senatore Joseph McCarthy. L’uomo politico, infatti,
non ebbe alcun ruolo nella nascita della campagna demagogica contro
presunti comunisti all’indomani del secondo dopoguerra che da lui prende
il nome. La crociata contro i «rossi» era già in pieno svolgimento quando, il
9 febbraio 1950, il senatore del Wisconsin conquistò i titoli dei giornali per
un discorso tenuto a Wheeling, nel West Virginia, durante il quale sventolò
un foglio che, a suo dire, conteneva i nominativi di oltre duecento
dipendenti del Dipartimento di Stato sospettati di nascondere simpatie
comuniste. Due anni e mezzo prima, la Commissione della Camera per le
attività antiamericane (Huac) aveva svolto indagini sulle «infiltrazioni
comuniste» a Hollywood (→ Caccia alle streghe) e nello stesso periodo il
presidente Truman, per compiacere un Congresso tornato a maggioranza
repubblicana dopo le elezioni di medio termine del 1946, aveva firmato
l’Ordine Esecutivo 9835, con il quale dava l’autorizzazione alla creazione di
comitati permanenti per l’accertamento delle idee politiche dei dipendenti
statali. Il delicato compito venne affidato all’Fbi, e l’organizzazione
capeggiata da J. Edgar Hoover (→) raddoppiò il numero degli effettivi per
far fronte all’incarico. Grazie a informatori cui si garantiva l’anonimato,
l’Fbi compilò schede su migliaia di dipendenti pubblici: che, non potendo
conoscere l’identità di chi li accusava, non avevano alcun modo di
difendersi. Come conseguenza, furono in molti a perdere il lavoro.
Due, in particolare, i casi che allarmarono l’opinione pubblica: il primo
riguardò Alger Hiss, importante dirigente del Dipartimento di Stato, il quale
fu dapprima incarcerato per spergiuro (nel gennaio 1950, un mese prima del
discorso di McCarthy) e in seguito accusato di spionaggio, e condannato a
scontare tre anni e mezzo di carcere. Preoccupazione molto maggiore
suscitò il caso che ebbe come protagonisti i coniugi Julius ed Ethel
Rosemberg, venuto a galla qualche mese dopo l’uscita di Wheeling, nel
maggio 1950. La coppia fu accusata di avere passato informazioni segrete
sulla bomba atomica (→ Progetto Manhattan) all’Unione Sovietica:
l’imputazione si basava sulle testimonianze del fratello di Ethel, David
Greenglass, il quale aveva lavorato come meccanico presso il laboratorio di
Los Alamos, dove erano in corso i preparativi per la realizzazione della
bomba, e del chimico Harry Gold, il quale non aveva mai incontrato i due
coniugi di persona. Entrambi gli informatori stavano scontando pene in
carcere e, dopo la fine del processo, beneficiarono di forti sconti di pena,
lasciando aperto il dubbio riguardo alla spontaneità e al fondamento delle
loro deposizioni. Nonostante le proteste dell’opinione pubblica
internazionale (lo stesso Albert Einstein si spese a favore dei Rosemberg), i
coniugi furono condannati alla sedia elettrica: la sentenza fu eseguita il 19
giugno del 1953.
A quel tempo, la stella di McCarthy era ormai prossima a eclissarsi.
Subito dopo il discorso di Wheeling, Herbert Block, vignettista del
Washington Post, realizzò una striscia nella quale compariva il termine
«McCarthysm»: il neologismo era dipinto sulla superficie di un secchio
traballante, sul quale un elefante (simbolo del Partito repubblicano) cercava
di mantenersi in equilibrio. Il significato era chiaro: per tornare al potere, i
repubblicani avrebbero dovuto far ricorso a McCarthy, anche se con
riluttanza, e cavalcare l’ondata di demagogia che il senatore aveva
scatenato e che incontrava il favore dell’opinione pubblica (uno dei
principali sponsor del senatore era Joseph Kennedy, padre del futuro
presidente John → Camelot). McCarthy fu dunque messo a capo di alcune
commissioni che svolgevano le indagini. Uno dei bersagli del senatore
furono le biblioteche all’estero finanziate dal governo: egli pretese che
fossero registrati i nominativi di chi prendeva in prestito i libri e ottenne
inoltre che venissero eliminate dai cataloghi le opere di autori considerati
simpatizzanti del Partito comunista. Quando però le attenzioni di McCarthy
si rivolsero agli alti quadri dell’esercito, con accuse mosse contro ufficiali
dei quali erano note le imprese eroiche compiute durante la guerra,
l’establishment del Partito repubblicano cominciò a reagire e a cercare di
contenere le iniziative del senatore – e a ciò giovò l’arrivo alla Casa Bianca
di Eisenhower, che aveva interrotto un dominio democratico iniziato con
Roosevelt vent’anni prima.
Un ruolo fondamentale nel rovescio di fortuna fu rivestito poi dal
giornalista Edward Morrow, il quale, in una serie di trasmissioni televisive,
mise in risalto le contraddizioni e la mancanza di fondamento delle accuse
mosse dal senatore (una vicenda ricostruita dal film del 2003 Good Night, and
Good Luck, diretto e interpretato da George Clooney). Nel dicembre 1954, il
Senato votò quindi una mozione di censura nei confronti di McCarthy (alla
votazione, John Fitzgerald Kennedy ritenne opportuno non partecipare),
premessa alla sua progressiva emarginazione: il senatore morì pochi anni
dopo (1957), distrutto dall’alcol.
La tempesta maccartista fu breve, ma gli effetti sulla società risultarono
profondi. Alcuni episodi possono far sorridere, come il temporaneo cambio
di nome cui fu costretta la squadra di baseball dei Cincinnati Reds («i
rossi»), che per alcuni anni parteciparono al campionato come «Redlegs».
Altri aneddoti, invece, danno l’idea di come la paura di esprimere un
pensiero indipendente condizionasse l’esistenza quotidiana dei cittadini.
Emblematico fu il caso di una raccolta di firme per l’installazione di un
distributore di bibite in un dipartimento dell’università di Chicago: nessuno
firmò la petizione per paura di essere considerato un elemento sovversivo.
Conseguenze più serie subirono le oltre 100mila persone che, secondo le
accurate ricerche svolte da Ralph Brown, professore della Yale School of
Law, persero il lavoro a causa delle loro idee politiche: i soggetti più colpiti
furono i professori universitari, gli assistenti sociali e, specie dopo l’inizio
della guerra di Corea, i lavoratori portuali, vittime di una legislazione che
autorizzava la rimozione di individui di dubbia lealtà dai luoghi in cui
potevano venire a contatto con carichi destinati al fronte asiatico.
Nel mondo dei lavoratori portuali è per l’appunto ambientato uno dei
film più celebri e controversi dell’epoca maccartista, Fronte del porto (1954):
non da ultimo per la testimonianza che il regista Elia Kazan rese davanti allo
Huac, facendo i nomi di numerosi colleghi simpatizzanti del Partito
comunista. Firmata originariamente da Arthur Miller, la sceneggiatura fu
rimaneggiata dall’Fbi, che impose di identificare i sindacalisti corrotti come
simpatizzanti comunisti e di trasformare la delazione di Terry Malloy
(interpretato da Marlon Brando) in un gesto eroico.
La forte influenza e il controllo sulle espressioni di libero pensiero
politico furono una delle conseguenze più pesanti del Maccartismo:
all’improvviso, quel filone di critica sociale che aveva animato la letteratura
degli anni trenta s’era esaurito, o era stato costretto ai margini di una scena
letteraria dove, non a caso, dominava il disimpegno: a ben vedere, anche
un’opera all’apparenza ribelle come Sulla strada (1957), di Jack Kerouac, con
il perenne movimento dei suoi personaggi da un capo all’altro degli Stati
Uniti, finisce per rimanere avulsa dalle realtà sociali che essi attraversano.
L’unico veicolo di dissenso politico divenne allora la fantascienza, un
genere sempre considerato con sufficienza dall’establishment letterario, ma
che grazie a un linguaggio esopico e alla maturazione di una generazione di
autori di livello, seppe convogliare una forte critica al sistema. Fahrenheit 451
(1953), romanzo distopico scritto da Ray Bradbury, per esempio, dipinge un
mondo dominato dalla ricerca frenetica di piaceri effimeri e illusori, mentre
il pensiero critico, così come la lettura di libri, viene messo al bando. Allo
stesso modo, altri autori, quali Alfred Bester e Thomas Sturgeon,
inseriscono in scenari futuribili riflessioni sulle conseguenze ultime (e
negative) di una società basata su competizione, arrivismo e consumo. Sul
versante cinematografico, il classico L’invasione degli ultracorpi (1956) (→
Alien) propone l’ossessione per l’intrusione silenziosa e occulta di esseri
dalle sembianze umane i quali vogliono costituire una società in cui gli
individui sono tutti uguali, e dove amore, desiderio, ambizione e fede non
troveranno più posto – una chiara allusione all’immagine distorta che la
gente comune aveva della vita quotidiana in un regime comunista, ma
anche un’implicita (anche se forse involontaria) riflessione
sull’omologazione conformista regnante in quegli anni nell’America
profonda.
Earl Warren, futuro giudice della Corte Suprema, per dare un’idea di
quanto fosse stata pesante l’atmosfera durante il Maccartismo, ebbe a dire
che in quegli anni persino il Bill of Rights, uno dei documenti fondativi della
nazione, avrebbe avuto parecchie difficoltà a venire approvato, e i padri
della patria sarebbero stati considerati dei sovversivi. Per loro fortuna, i
vari Jefferson, Washington e Adams erano ormai fuori dalla portata dello
Huac e di Joseph McCarthy.
P.S.: Va detto che certe psicosi tardano a scomparire. Ancora nel 1984,
usciva uno spassoso libretto, a firma Robert Conquest e Jon Manchip White,
dal titolo eloquente: What To Do When the Russians Come («Che cosa fare
quando arrivano i russi»). Come recita il sottotitolo, si tratta di una «guida
per i sopravvissuti» che, dopo aver «spiegato» come avverrà l’invasione,
delinea il destino futuro di ogni singola professione, categoria sociale,
gruppo etnico o altro: dal dentista («Il livello delle cure dentarie per la
popolazione crollerà») all’agente di pompe funebri («Diventerete impiegati
di Stato»), dal dottore («Molti medici saranno considerati, per ragioni
politiche e di classe, nemici del popolo») al ristoratore («Alla fine, tutta la
rete dei ristoranti verrà gestita dal dipartimento del Commercio Interno e la
qualità ne soffrirà di conseguenza: ma i ristoratori che riusciranno a
continuare a lavorare se non altro mangeranno»), senza dimenticare il
sadico, lo psicopatico, l’autore di lettere anonime, o il portoricano, il
rabbino, l’artista, il cinese americano, la femminista…

BIBLIOGRAFIA
Bruno Cartosio, Gli Stati Uniti contemporanei. Le strade verso la superpotenza,
1865-1990, Giunti, Firenze 1992.
—, Anni inquieti. Società, media, ideologie negli Stati Uniti, da Truman a Kennedy,
Editori Riuniti, Roma 1992.
Richard M. Fried, Nightmare in Red. The McCarthy Era in Perspective, Oxford
University Press, New York 1990.
David M. Oshinsky, A Conspiracy So Immens. The World of Joe McCarthy, The
Free Press, New York 1983.
S.M.Z.

Main Street
Arteria centrale di una cittadina (→ Piccole città), suo cuore commerciale e
civico, una comune Main Street può ospitare, oltre a negozi ed esercizi
pubblici, biblioteche, banche, chiese, teatri, cinema, hotel, musei, parate e
celebrazioni. Già a metà del Settecento, la maggior parte delle città coloniali
a vocazione portuale presentavano forme embrionali di Main Street, così
come le città di fiume (Cincinnati e Louisville) e quelle nate su canali
navigabili (Utica e Syracuse). Fu però l’avvento della strada ferrata (→
Promontory Point) a farne fiorire il traffico di merci e di persone,
garantendo un flusso costante di beni di consumo e arricchendone
l’architettura di un elemento fondamentale: la classica stazione ferroviaria.
Gotico vittoriano, Rinascimento vittoriano, Regina Anna, Chicago
Commercial, Neogreco, Secondo impero, Federale, Neoclassico: offrire una
rassegna completa dei diversi stili abbracciati nel tempo dagli edifici sulle
tante Main Street americane è impresa ardua, anche a causa della
straordinaria ibridazione delle varie componenti di derivazione europea e
delle loro trasformazioni a contatto con il Nuovo mondo. Tra le matrici
architettoniche più produttive e diffuse va però ricordato il Greek Revival
Style (o Neogreco) che, inquadrato nella forma di tempio con timpani,
cornici, metope, colonne doriche e capitelli, era considerato
particolarmente adatto a ostentare ricchezza e solidità commerciale: oltre a
costituire il tratto distintivo delle grandi tenute del Sud, facciate palladiane
di minore o maggiore sontuosità si stagliavano così sulle main streets di New
England e Middle Atlantic, ospitando banche e uffici pubblici. Il Greek Revival
rimase popolare dagli anni quaranta dell’Ottocento alla Guerra civile (→),
migrando a ovest di pari passo all’avanzare della frontiera (→): nel mezzo
del nulla, ovvero in sperduti avamposti ribattezzati Corinto o Cartagine, si
moltiplicarono così singolari edifici classicheggianti. Sempre nel West – a
partire dalla Gold Rush californiana e dal boom minerario di Oregon,
Nevada, Colorado e Idaho (→ Oro!) – prese forma una variante
architettonica locale assai curiosa: i cosiddetti false fronts. Si trattava di
facciate di legno posticce, a un piano, applicate sulle quattro assi
impolverate di baracche (o addirittura appoggiate a grandi tendoni)
costruite in tutta fretta nelle cittadine sorte attorno alle miniere e al
passaggio della ferrovia. Lungo la Main Street, la sequenza di false fronts
dipinti a colori vivaci, con insegne, balconate, finestre, doveva rendere lo
scenario meno desolato agli occhi dei passeggeri e dei visitatori che vi
transitavano, invitandoli a fermarsi. Com’è ovvio, il clima e i materiali di
costruzione erano determinanti nella scelta delle forme architettoniche
delle Main Street: nel Sudovest, per esempio, le influenze spagnole si
mescolavano a quelle dei pueblos (→ ) nell’uso dell’adobe, i mattoni creati da
un impasto di paglia, argilla e sabbia essiccata (→ Architetture) su cui si
reggevano, per la loro scarsa capacità di sostenere grossi pesi, edifici di un
solo piano.
Ma fu negli ultimi tre decenni dell’Ottocento (→ Gilded Age) che una
serie di innovazioni nelle tecniche edilizie nate in seno alla Scuola di
Chicago (→ White City) cambiarono il volto della Main Street. Nel
ricostruire la città in seguito all’incendio del 1871, si fece uso di strutture in
acciaio e di piani di vetro laminato che resero possibile un alleggerimento
degli edifici sviluppandoli in altezza e ampliandone la superficie di finestre
e vetrine: nasceva così il Chicago Commercial Style, cifra di una modernità
essenziale e funzionale che si sarebbe presto diffusa in molte città e
cittadine americane. La coda del XIX secolo segnò anche la fine dei vecchi
lampioni a gas o a petrolio, rimpiazzati dai nuovi tralicci elettrici a cui si
aggiunsero presto quelli del telefono, formando una groviglio di fili e di pali
che facevano della Main Street una specie di giungla urbana. Per far fronte
agli incendi frequenti, molte smalltowns si dotarono inoltre di grandi
cisterne di acqua – le classiche water towers – collegate con una rete
sotterranea agli idranti lungo la strada principale. Tra gli anni ottanta e
novanta dell’Ottocento, l’impatto urbanistico maggiore giunse tuttavia dai
trasporti, con l’introduzione del tram elettrico e la pavimentazione
pionieristica in calcestruzzo (poi sostituito dall’asfalto), che preparò il
terreno all’avvento dell’auto nel ventennio successivo. I primi ingombranti
e rumorosi veicoli a motore (→ Model T) andarono a rimpiazzare in modo
rapido – ma tutt’altro che indolore – cavalli e carri, portando al
restringimento graduale dei marciapiedi a vantaggio della strada e creando
nuovi spazi laterali per i parcheggi (non più trasversali ma paralleli).
Attraversare la Main Street a bordo di una vettura garantiva inoltre una
prospettiva orizzontale prima sconosciuta, alimentata da impressioni visive
veloci, quasi fotogrammi di un film: negozianti e urbanisti si dovettero
convincere così della convenienza di privilegiare non solo grandi insegne,
ma anche architetture dai caratteri morbidi, che non creassero attrito nello
sguardo dei passanti motorizzati. Insieme alle auto, spuntarono pompe di
benzina e rimesse, ma fu sempre più chiaro che, appartenendo a un’altra
epoca, l’angusta e congestionata Main Street non era tagliata per la
rivoluzione automobilistica: l’arteria commerciale delle piccole città si
sarebbe così decentrata verso le aree più periferiche, dando vita alle prime
forme di strip (→). Se lo stile architettonico più in voga negli anni venti e
trenta fu quello Art déco – disegni stilizzati, curvilinei e smussati –, la
fascinazione per lo stile streamline trovò una sua continuazione nel secondo
dopoguerra con l’Art Moderne: la Main Street si riempì così di diners (→),
motel (→), stazioni di servizio dai contorni arrotondati. Gli anni sessanta e
settanta furono invece segnati tanto dai primi tentativi di conservazione dei
centri storici delle piccole città quanto dalla presenza endemica delle grandi
catene di franchising e dei loro marchi di fabbrica: ai loghi ingombranti
delle compagnie petrolifere (→ Oil!) seguirono quelli dei fast food, tra cui
l’arco torreggiante di McDonald’s (→ Hamburger). Sul finire del Novecento,
queste tendenze sono continuate, le insegne si sono fatte meno invadenti e
il movimento di recupero dei piccoli centri ne ha restaurato i nuclei più
antichi pur con risultati urbanistici alterni.
Simbolo dell’America profonda, del cosiddetto «heartland», la Main
Street è un luogo carico di significati e di contraddizioni: amato per le sue
qualità oleografiche e il senso di comunità altrove perduto; odiato per la
chiusura asfittica e la resistenza ai cambiamenti. Ed è a questa doppia veste
che guardano le opere letterarie (e non solo: basti pensare alle molte
illustrazioni che ne diede Norman Rockwell) più rappresentative di quella
realtà culturale e geografica al suo apice: Winesburg, Ohio (1919) di Sherwood
Anderson e Main Street (1920) di Sinclair Lewis (→ Jazz Age). I racconti di
Anderson sono tutti imbastiti attorno alla piccola città di Winesburg e alla
sua Main Street dove affacciano l’ufficio del giornale del paese in cui lavora
il protagonista George Willard (→ Adamo americano), la drogheria di Hern,
il negozio di ferramenta di Sinning, fino ad arrivare alla stazione che la
divide in due parti. Lungo questo asse si consumano le esistenze grigie dei
cittadini di Winesburg, «grotteschi» sospesi anch’essi, come la loro
smalltown, tra paralisi storica ed emotiva e dimensione bucolica. Con il
romanzo di Sinclair Lewis, la Main Street è oggetto invece di una critica
accanita: gretta e soffocante, Gopher Prairie è una cittadina di tremila
anime in cui regna il conformismo dei negozi di mattoni a due piani
fiancheggiati da Ford e circondati dal vuoto deprimente della prateria
tutt’intorno.
Negli anni cinquanta, la Main Street si impone di nuovo alla fantasia di
scrittori, registi e artisti, ancora una volta nel segno del doppio: da un lato,
vi si proiettano presenze minacciose, oscure, persino aliene, come nella
serie tv (→) Twilight Zone/Ai confini della realtà e nel film L’invasione degli
ultracorpi, che sublimano ansie e paure da Guerra fredda (→ Alien; →
Maccartismo); dall’altro, essa diventa un concentrato nostalgico di
«americanità» nella fantasmagoria di Disneyland (→), dove «Main Street
Usa» funge da entrata principale al parco a tema. La rappresentazione
filmica e letteraria delle due anime della Main Street continua d’altro canto
a essere riproposta in svariate cartoline dall’inferno reale (nel caso delle
città fantasma →) e simbolico (nelle molteplici rivisitazioni
fantascientifiche o in chiave horror) e in altrettanto numerose cartoline
patinate (→ Città museo).
È un film del 1971, L’ultimo spettacolo, diretto da Peter Bogdanovich e
tratto dall’omonimo romanzo di Larry McMurtry, a evocare in modo
magistrale il nodo di tensioni implose di una piccola città del Texas, Archer
City, negli anni cinquanta. La vita sociale dei giovani personaggi si dipana
attorno a un caffè con biliardo e a un piccolo cinema destinato a chiudere
perché ormai poco competitivo. Il destino della cittadina texana sarà forse
quello delle molte altre Main Street: le vetrine sbarrate, i rari negozi
sopravvissuti sempre più spogli, il senso di desolazione e di abbandono.
Come dice Duane congedandosi dall’ultimo spettacolo di quel movie theater,
«Non ci sarà molto da fare in città con il cinema chiuso».

BIBLIOGRAFIA
Richard O. Davies, Main Street Blues: The Decline of Small-Town America, Ohio
State University Press, Columbus 1998.
Richard V. Francaviglia, Main Street Revisited: Time, Space, and Image Building
in Small-Town America, University of Iowa Press, Iowa City 1996.
C. SCAR.

Mall
«Non-luoghi», «controluoghi», «eterotopie della compensazione»: a partire
dagli anni ottanta del Novecento, antropologi, filosofi e sociologi hanno
scritto di centri commerciali, o malls, con un piglio retorico di intensità
quasi religiosa. Per tutta risposta, da sessant’anni a questa parte, i malls non
hanno smesso di costituire un tratto architettonico e sociale tipicamente
americano, prima ancora che mondiale.
C’è chi sostiene che i primi esempi di empori «al chiuso» – o department
stores (→), come Macy’s e Bloomingdale’s, per intenderci – siano da cercare
nei passages parigini di inizio Ottocento; chi nella Burlington Arcade di
Londra o nelle invenzioni architettoniche del Crystal Palace durante
l’Esposizione Universale del 1851; chi, ancora, nella Galleria Vittorio
Emanuele II di Milano, finita nel 1877. A dispetto di una storia radicata nei
prestigiosi bazar commerciali europei dell’Ottocento, i malls – quegli
enormi contenitori di negozi, department stores e una serie di altri servizi
offerti ai consumatori per svago o comodità – sono una creazione
americana da ricondurre al Midwest e agli anni venti del Novecento. Il
primo mall nasce infatti nel 1922 a Kansas City (Missouri) con il nome di
Country Club Plaza e comprende un ampio ventaglio di attività commerciali
che vanno dai distributori di benzina, ai piccoli negozi, al vero e proprio
department store: il terreno è di poco valore, il suo prezzo accessibile e il
complesso è disegnato per attrarre clienti automuniti. Già, perché sarà in
virtù dell’ubicazione lungo le grandi arterie stradali – o agli incroci di esse –
che i malls costruiranno la loro fortuna, spuntando sulle nuove strips (→)
come luoghi-simbolo dell’accresciuta prosperità americana.
Dalla metà degli anni trenta alla fine della Seconda guerra mondiale, lo
shopping mall è una soluzione commerciale ancora poco praticata; la crisi
economica della Grande depressione (→) prima e lo scenario bellico poi ne
inibiscono infatti lo sviluppo: negli Stati Uniti del 1946 se ne contano solo
otto. Il boom arriverà invece negli anni cinquanta, con l’apertura di
Southdale a Edina, un suburb (→) di Minneapolis (Minnesota): un grande
centro commerciale disegnato dall’architetto Victor Gruen. Il caratteristico
corridoio centrale «comune» (il mall in senso stretto: la parola inglese
designa infatti «un’area pubblica adibita a passeggiata e costeggiata di
alberi») è pensato da Gruen per ricreare l’illusione di stare all’aperto,
magari lungo la Main Street (→), in un ambiente che, controllato da un
punto di vista termico e pedonale, risulti protetto da intemperie climatiche
e intemperanze automobilistiche. La fioritura dello shopping mall nel
secondo dopoguerra va letta in relazione all’imporsi di una società
«motorizzata» (→ Model T) e alla diffusione del modello abitativo dei
suburbs (→). Sono infatti gli incentivi, pubblici e privati, all’industria
dell’auto (e i disinvestimenti statali nei mezzi di trasporto alternativi come
autobus e tram), nonché la perfetta sovrapposizione di un ceto borghese
«felice di spendere» alla realtà dei sobborghi residenziali, a promuovere la
proliferazione degli shopping malls: da quello di Paramus, in New Jersey, al
Woodfield Mall di Schaumburg, poco fuori Chicago; dal King’s Plaza, a
qualche chilometro da Manhattan, al Tyson’s Corner (→ Edge cities), non
distante da Washington, e al Raleigh Mall di Memphis. Pur rappresentando
solo il 19% della popolazione complessiva del paese, i circa 30 milioni di
americani che, nel 1953, vivono nei suburbs detengono il 29% del reddito
nazionale: non stupisce quindi che le strategie di marketing dei malls siano
calibrate intorno all’universo suburbano delle famiglie bianche di ceto
medio-alto, di cui le donne rappresentano il target privilegiato. Divenute
consumatrici ideali – già nel 1929, Christine Frederick scriveva Selling Mrs
Consumer, un trattato a cavallo tra sociologia ed economia domestica
dedicato alle donne come nuove protagoniste del mercato –, le regine dei
suburbs degli anni cinquanta sono quasi sempre casalinghe votate al ruolo di
mogli e madri che, proprio grazie all’uso degli elettrodomestici (lavatrice,
aspirapolvere ecc. → Hoover; → Kelvinator), si ritrovano ad avere più
tempo libero a disposizione. La facilità dell’acquisto a credito e la nuova
mobilità conquistata grazie all’automobile fanno il resto. Ogni aspetto degli
shopping malls è infatti studiato per soddisfare i bisogni di queste donne e
per spronarle al consumo: i parcheggi ampi (in cui le manovre sono agevoli
anche per chi… non è un asso delle quattro ruote), i servizi di baby-sitting,
l’organizzazione di eventi (tra cui le sfilate di moda).
Nascendo come «proiezione» sociale e commerciale dei suburbs, i malls
offriranno, in un solo luogo, tutto ciò che si può trovare nei centri urbani:
negozi di libri, mobili, giochi, elettrodomestici, dischi, pane, gioielli;
ristoranti, lavanderie a gettoni, uffici postali, barbieri; strutture per
l’intrattenimento come cinema, bowling e parchi giochi per i bambini.
D’altronde, sulle prime, gli architetti che li progettano pensano ai centri
commerciali come surrogati degli spazi collettivi assenti nei suburbs e così
saranno percepiti dalla società civile che interpreterà i grandi corridoi degli
shopping malls in chiave pubblica, trasformandoli in «piazze» capaci di
ospitare manifestazioni diverse come le dimostrazioni della Croce Rossa, i
picchettaggi sindacali, i comizi dei candidati politici, le proteste
antibelliciste. Tuttavia, che i malls possano essere un’arena pubblica – e,
quindi, libera – è in palese contraddizione con la loro stessa natura privata e
commerciale e i proprietari prendono ben presto a vietare l’uso politico
degli spazi interni. La questione è tanto controversa da finire nei tribunali
locali con sentenze che – tranne che per alcune eccezioni – andranno a
tutelare i diritti della proprietà privata. Fuori della porta, oltre alle
manifestazioni pubbliche, ai cittadini dei ceti meno abbienti e ai neri,
restano anche homeless e mendicanti, considerati elementi di disturbo per la
serenità dei clienti (e quindi per gli affari).
Nel loro mezzo secolo di vita, fatta salva una composizione sociale più
inclusiva della loro clientela, i malls non sono cambiati granché. Secondo
studi recenti, il tempo che gli americani passano nei centri commerciali è
inferiore soltanto a quello trascorso a casa e al lavoro o a scuola.
Collocandosi a metà strada tra Disneyland (→) e i casinò, con parchi a tema,
passeggiate, cascate, piscine e cinema multisala, i malls (primo su tutti il
Mall of America, aperto nel 1992 a Bloomington, nel Minnesota) conservano
intatta la loro funzione economica. Neppure lo sdegno intellettuale di un
certo pensiero progressista (o liberal) – a sua volta modellato su alcune
celebri tesi della Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse) –
che vede nell’acquisto di beni di consumo di massa una manifestazione
della pochezza culturale dell’americano medio, è riuscito a scalfirne la
popolarità. Forse perché lì, in quelle immense scatole di cemento sempre
illuminate, chiunque – in special modo i giovani – può provare un senso di
appartenenza che supplisca alla disintegrazione del tessuto urbano
tradizionale e al suo corollario di alienazione sociale, con benessere e
felicità a portata di mano (o di carta di credito) per tutti o quasi:
«Comperavo con abbandono incurante. Comperavo per bisogni immediati
ed eventualità remote. Comperavo per il piacere di farlo, guardando e
toccando, esaminando merce che non avevo intenzione di acquistare ma
che finivo per comperare. Cominciai a crescere in valore e
autoconsiderazione. Mi espansi, scoprii aspetti nuovi di me stesso,
individuai una persona della cui esistenza mi ero dimenticato. Mi trovai
circondato dalla luce»: parola di Don DeLillo, nel romanzo Rumore bianco
(1985).

BIBLIOGRAFIA
Lizabeth Cohen, A Consumers’ Republic. The Politics of Mass Consumption in
Postwar America, Vintage Books, New York 2004.
Stefano Pistolini, Gli sprecati. I turbamenti della nuova gioventù, Feltrinelli,
Milano 1995.
C. SCAR.

Marshmallows
Che si tratti delle Giovani Marmotte, di Snoopy e Woodstock (→ Peanuts),
di Lisa e Bart Simpson (→ Casa Simpson), degli adolescenti fotogenici di
innumerevoli serie tv (→) e persino dell’equipaggio di Star Trek (→ Robot),
la scena tutta americana del campeggio al lago o del falò sulla spiaggia o nei
boschi non può prescindere dal consumo rituale di marshmallows: infilzati su
un ramoscello e fatti arrostire o dorare al fuoco di un campo, i cilindretti di
zucchero dalla consistenza spugnosa sono un elemento immancabile
nell’incontro, più o meno organizzato, con la natura (→ Wilderness; →
Yoghi; → Trout fishing). Bianchi o colorati, lasciati sfrigolare quanto basta
per creare una crosta caramellata che contenga un cuore di puro zucchero
fuso, oppure sciolti e poi adagiati su un pezzo di cioccolata tra due biscotti
(nella versione S’Mores), i marshmallows accompagnano i racconti
intrecciati attorno al tepore di un focherello mentre cala la sera, prima che
gli happy campers si ritirino nei loro sacchi a pelo e nelle loro tende (o, nel
caso dello stralunato Snoopy, nella sua cuccia).
Se dalle tinte oleografiche della fantasia passiamo invece alla realtà,
scopriremo che le tanto amate «toffolette» sono un concentrato di
ingredienti non proprio salutari: zucchero, sciroppo di mais, gelatina,
destrosio, aromi e coloranti. Un sondaggio della marca Peeps (la più
popolare) rivela che gli americani sono stati capaci di consumare, nel tempo
di una sola Pasqua, circa 600 milioni di marshmallows in forma di coniglietti:
32 calorie ognuno, per un totale di 160 nel classico pacchetto da cinque. E sì
che a risalire alle origini di queste piccole bombe di zucchero e affini si
scopre che il nome deriva dalla pianta Althaea Officinalis, nota come
«mallow», dal cui estratto gli egiziani ricavavano un rimedio contro il mal
di gola. Se la loro metamorfosi da medicine in caramelle avvenne nella
Francia di inizio Ottocento, solo l’ingegno di un americano, Alex Doumak, le
avrebbe rese ciò che sono oggi, con l’invenzione, nel 1948, di un
procedimento industriale che ne meccanizzasse la produzione.
A ogni buon conto, per chi, al mare, al lago o in montagna, alle
«toffolette» non vuol rinunciare, resta solo una strada: portarsi sempre
dietro uno spazzolino da denti.

BIBLIOGRAFIA
Beth Kimmerle, Candy: The Sweet History, Collectors Press, Portland, Oregon
2003.
Shauna Sever, Marshmallow Madness! Dozens of Puffalicious Recipes, Quirk
Books, Philadelphia 2012.
C. SCAR.

Mason-Dixon Line
Non per caso lo scrittore Thomas Pynchon ha dedicato alla Mason-Dixon
Line un intero, fluviale romanzo, intitolato Mason & Dixon (1997):
l’individuazione della linea di confine tra le colonie del Maryland e della
Pennsylvania, portata a compimento tra il 1763 e il 1767 da un’équipe
capeggiata dagli astronomi-cartografi inglesi Charles Mason e Jeremiah
Dixon, rappresentò un passaggio importante nella nascita della nazione,
non tanto per avere fissato in modo definitivo una frontiera che era stata a
lungo dibattuta, quanto per le valenze simboliche che con il tempo quella
linea artificiale finirà per assumere.
Ma andiamo con ordine. La contesa confinaria tra Maryland e
Pennsylvania risale al momento in cui, dalla lontana Londra, il re Carlo II
concesse a William Penn i diritti per la colonizzazione di un tratto del
continente americano a nord del Maryland, al di sopra del 40º parallelo,
come pagamento di un debito di sedicimila sterline contratto dal re con il
padre di Penn. Le conoscenze geografiche dell’epoca non erano però
accurate e da misurazioni eseguite in seguito per delimitare le due colonie,
si scoprì che il 40º parallelo era molto più a nord di quanto presunto. Penn
non nascose il disappunto, acuito dal fatto che la città di Philadelphia, un
insediamento adagiato sul fiume Delaware da lui scelto come futura capitale
della colonia, si trovava a sud del confine indicato dalla concessione reale, e
dunque in territorio di competenza del Maryland.
I vari tentativi di trovare un compromesso tra Penn e il proprietario
della colonia del Maryland Charles Calvert (barone di Baltimora) furono
inutili e la situazione d’incertezza si protrasse nel tempo, provocando
dapprima dispute tra singoli proprietari, i cui diritti sui terreni erano
regolarmente contestati; in seguito, le tensioni sfociarono in un conflitto tra
gli eserciti delle due colonie. Durata ben tre anni, dal 1736 al 1738, la
«guerra di Cresap» (dal nome di un agente del governo del Maryland
utilizzato per forzare la mano ai confinanti) venne fermata grazie
all’intervento di re Giorgio II, il quale pose fine alle ostilità e obbligò le parti
a trovare un accordo.
Dopo ulteriori tentennamenti, i discendenti di Penn e Calvert
accettarono come confine tra i due territori la latitudine che passava 15
miglia a sud dell’abitazione più a sud di Philadelphia. La tracciatura della
nuova demarcazione, che sarebbe stata segnata sul territorio con
l’apposizione di pietre miliari, fu affidata a Mason e Dixon. I due si erano
conosciuti qualche anno prima, quando erano stati incaricati dalla Royal
Society britannica di osservare il transito di Venere dall’isola di Sumatra. Il
lavoro in America durò quattro anni e si concluse con l’individuazione non
solo della linea «orizzontale» che divideva la Pennsylvania dal Maryland e
dalla Virginia, ma anche del confine «verticale» tra il Maryland e il
Delaware.
È probabile che la storia si sarebbe dimenticata di questa impresa, e
Pynchon non avrebbe mai pensato di dedicarvi un romanzo, se, nei decenni
successivi, alla divisione geografica non fosse iniziata a corrispondere una
divisione ideologica. Tutto cominciò quando, nel 1780, il governo della
Pennsylvania decise di abolire la schiavitù sul territorio dello stato, un
provvedimento che le colonie a sud non erano per nulla intenzionate a
imitare: la loro economia, basata sulla piantagione, funzionava grazie al
lavoro degli schiavi e rinunciarvi avrebbe messo in difficoltà i proprietari
fondiari dell’intera regione.
Con l’indipendenza, la presenza di un confine interno e la coesistenza di
due sistemi diversi fu accettata e inclusa nella legislazione, con la
conseguenza di rafforzare le differenze tra le due aree del paese: mentre al
Nord, che cominciava ad aprirsi alla modernizzazione industriale,
l’iniziativa individuale e il commercio furono determinanti per dare vita a
una società mobile e stratificata, al Sud la permanenza di un’economia
basata sul latifondo agiva da freno al cambiamento e allo sviluppo. Il
Compromesso del Missouri del 1820 (→ Guerra civile) tracciò una linea
virtuale sul continente, a partire dal fiume Ohio fino al Pacifico, che, pur a
una latitudine più meridionale rispetto alla Mason-Dixon, ne riprendeva lo
spirito. I legislatori si erano accordati per dividere i territori dell’Ovest, non
ancora organizzati in entità politiche, in due zone: gli stati che si sarebbero
formati a nord di essa sarebbero entrati nell’Unione come liberi, mentre
quelli che si sarebbero formati a Sud sarebbero diventati schiavisti.
Prendendo a prestito una celebre espressione usata dal presidente Abraham
Lincoln, gli Stati Uniti avrebbero continuato a essere una «casa divisa». La
linea virtuale divenne per gli schiavi il confine tra la cattività e la terra
promessa della libertà e, per i fuggiaschi che si servivano della Ferrovia
sotterranea (→ Underground Railroad), l’attraversamento della Mason-
Dixon rappresentava l’inizio della nuova esistenza. La linea si caricava così
di significati simbolici analoghi a quelli che gli immigrati europei avrebbero
attributo alla vista della Statua della Libertà al termine della traversata
atlantica, premessa alla «seconda nascita» nel paese dove era possibile
realizzare le proprie aspirazioni (→ Etnicità).
Con la pace di Appomattox (→ Guerra civile) e la Ricostruzione (→ Jim
Crow), la schiavitù venne abolita nell’intero territorio nazionale, ma la
Mason-Dixon continuò a indicare un confine culturale, e le espressioni
«sopra» e «sotto Mason-Dixon» entrarono nel linguaggio corrente per
indicare i modi di vita che, consolidatisi nel Sud, apparivano eccentrici e
bizzarri al resto del paese, compresi stereotipi culturali quali la Southern
belle (→) e il redneck (→).
A questo punto, sarà più facile capire l’intento di Pynchon. Lo scrittore
individua nella tracciatura di quella linea artificiale il primo e grande
peccato originale dell’uomo americano: avere annacquato l’ideale di libertà
che era stato a fondamento della colonizzazione e, in seguito, della Guerra
d’indipendenza, accettando l’esistenza della schiavitù sul territorio. Quale
intrigante coincidenza, va ricordato che durante il soggiorno americano di
Mason e Dixon, alcuni pamphlet insistevano sul fatto che le libertà per cui i
coloni si battevano dovevano essere estese a tutte le popolazioni presenti
nelle colonie, bianche e nere che fossero (era questa la posizione, tra gli
altri, di James Otis → Tea Party). Ecco allora spiegato come mai, nel
raccontare l’impresa, l’autore si diverta a mettere in risalto i numerosi
aspetti della vita coloniale in palese contraddizione con la retorica idealista
cui anche oggi fanno riferimento presidenti e uomini politici nel ricordare
l’importanza dell’esperienza storica americana. Così, molto toccante risulta
l’episodio in cui Mason si reca in pellegrinaggio sul sito dove, alcuni anni
prima, una squadriglia di uomini bianchi aveva massacrato una ventina di
donne e bambini appartenenti alla tribù dei conestoga. Riflettendo su
questo episodio e confrontandosi con la realtà quotidiana delle colonie, con
i sotterfugi perpetrati ai danni delle tribù indiane e con gli imbrogli
organizzati per il miraggio di ottenere facili guadagni, il Mason di Pynchon
arriva a intuizioni che hanno un sapore postmoderno: «Non esiste alcun
“Maryland” di là dall’Astrazione, da una figura di linee rette tracciate per
racchiudere e incorniciare la gran Baia nella sua immaginata fecondità, il
suo litorale tendente a “lunghezza infinita”, e in definitiva non
cartografabile […] non più, a esser franchi, di quanto esista alcuna
“Pennsylvania” salvo una cronaca di Raggiri perpetrati a raffica contro gli
indiani che vi abitavano, arginati solo dalle Ambizioni d’altre Colonie a nord
e a est». Il buongiorno si vedeva già dal mattino.

BIBLIOGRAFIA
Edwin Danson, Drawing the Line: How Mason and Dixon Surveyed the Most
Famous Border in America, Wiley, Hoboken 2000.
John C. Davenport, The Mason-Dixon Line, Chelsea House Publishers,
Philadelphia 2004.
Andro Linklater, Misurare l’America. Come gli Stati Uniti sono stati misurati,
venduti e colonizzati, Garzanti, Milano 2002.
S.M.Z.

Melting pot
Accade a volte che un’opera letteraria acquisti fama, e venga tramandata ai
posteri, ben al di là dei suoi meriti artistici. È il caso di The Melting Pot (Il
crogiuolo), dramma in due atti dello scrittore ebraico-britannico Israel
Zangwill, presentato per la prima volta a Washington nel 1908. La trama è
una sorta di Romeo e Giulietta a lieto fine: l’ebreo David Quixano e la cristiana
Vera Revendal, entrambi originari di Odessa, si incontrano a New York e si
innamorano. Le due famiglie sono contrarie al rapporto e cercano di
ostacolarlo. A complicare la situazione, c’è poi la scoperta che il padre di
Vera, ex colonnello dell’esercito zarista, è uno dei responsabili del pogrom in
cui hanno perso la vita i genitori di David. Il finale è però all’insegna del
perdono e del superamento delle controversie passate. Con la Statua della
Libertà sul fondale del palcoscenico, David pronuncia il discorso-chiave, in
cui profetizza la dissoluzione dei vari gruppi di immigrati in un unico nuovo
soggetto: «L’America è il crogiuolo di Dio, il grande melting pot dove tutte le
popolazioni europee si sciolgono e si riformano […]. Quando vado a Ellis
Island, vedo immigrati di cinquanta gruppi nazionali distinti, con le loro
cinquanta lingue e le loro cinquanta storie, i cinquanta conflitti di sangue e
le cinquanta rivalità. Ma non resterà così a lungo […]. Tedeschi e francesi,
irlandesi e inglesi, ebrei e russi, tutti dentro il crogiuolo! Dio sta creando
l’America!».
Quando il dramma andò in scena si era ancora nel pieno della grande
migrazione transatlantica (→ Etnicità). L’anno precedente, il 1907, aveva
registrato l’arrivo di oltre un milione e 200mila persone – cifra record mai
più toccata. La fazione politica dei «nativisti» premeva per l’introduzione di
misure che limitassero gli ingressi e stava trovando sempre più seguito
nell’opinione pubblica. I suoi esponenti sfruttavano l’evidenza che, sin
dagli scioperi del 1877, passando per i fatti di Haymarket Square (→) e le
mobilitazioni operaie degli inizi del Novecento (→ Sciopero!), gli immigrati
avevano svolto un ruolo cruciale nell’organizzazione sindacale e politica: in
poche parole, venivano negli Stati Uniti a far danni e bisognava impedirlo.
L’ottimismo di The Melting Pot, al contrario, diede nuovo vigore ai
sostenitori della politica delle «porte aperte»: secondo questi ultimi, gli
immigrati non avrebbero costituito un pericolo per la sopravvivenza
dell’identità americana, perché l’identità americana stessa era il prodotto di
continue trasformazioni – il sistema avrebbe assorbito le differenze e creato
le condizioni per la concordia tra le componenti sociali.
La formula «melting pot» si diffuse subito e comparve in titoli di
romanzi, articoli di giornale, saggi di sociologia. Presto, tuttavia, emersero
interpretazioni contrastanti del progetto delineato nel dramma. Come
sarebbe stato l’«uomo nuovo» invocato da David Quixano? Sarebbe stata
tutta l’America a cambiare in conseguenza dell’immigrazione, oppure
sarebbe toccato ai nuovi venuti rinunciare alla lingua madre e alle
tradizioni culturali per imparare l’inglese e assimilare usi e costumi
americani?
Quest’ultima interpretazione prevalse, non solo tra i Wasp (→), come il
romanziere Henry Blake Fuller, il quale pensava che «tutti i diversi colori
confluiti nel crogiuolo, per un qualche miracolo, avrebbero finito per
assumere una tonalità bianca», ma anche tra gli immigrati stessi, come
dimostra l’ebrea russa Mary Antin, la quale, nell’autobiografia intitolata The
Promised Land (1912), dà spazio all’entusiasmo per l’acquisita capacità di
esprimersi in inglese e a tutto l’orgoglio di essere connazionale di George
Washington.
A questo proposito, vanno ricordate le cerimonie conclusive dei corsi di
lingua serali organizzati dall’azienda automobilistica Ford per i neoassunti
stranieri. L’orchestra iniziava a intonare una melodia europea e sul palco si
susseguivano gli operai-studenti, vestiti nei costumi tradizionali del paese
d’origine. Essi scomparivano poi all’interno di un enorme recipiente
allestito al centro della scena, sul quale campeggiava la scritta MELTING POT. Il
recipiente s’illuminava di un vivo colore rosso, che suggeriva l’azione delle
fiamme, e, finita la combustione, sulle note di «Yankee Doodle», uscivano
gli operai, vestiti in completi blu e grigi, in mano una bandiera a stelle e
strisce (una ricostruzione divertente di queste cerimonie compare nel
romanzo Middlesex di Jeffrey Eugenides, uscito nel 1996).
La formula «melting pot» incontrò vasto successo perché faceva
riferimento a un mito fondativo del nazionalismo statunitense. Già nelle
Lettere da un coltivatore americano, scritte originariamente in francese da J.
Hector St. John de Crèvecœur nel 1782, si trovava una definizione dell’uomo
americano come «colui che lascia dietro di sé i vecchi pregiudizi e le
abitudini e ne acquisisce di nuovi»: nel Nuovo mondo, individui di ogni
nazione vengono «fusi» (melted, nella versione inglese delle Lettere) in una
nuova «razza». Nel corso dell’Ottocento, il filosofo Ralph Waldo Emerson e
lo storico Frederick Jackson Turner useranno immagini simili per
descrivere il graduale emergere, dai diversi gruppi di emigrati, di una
popolazione dai tratti non più europei, ma distintamente «americani».
Si trattava, appunto, di un mito. Nel 1961, i sociologi Nathan Glazer e
Daniel Moynihan (quest’ultimo diventerà senatore e membro influente del
Partito democratico) scrissero un saggio dal titolo programmatico, Beyond
the Melting Pot («Oltre il Melting pot»). Dopo uno studio sul campo svolto a
New York, i due autori dimostrarono la sopravvivenza di gruppi «nazionali»
(afroamericani, irlandesi, ebrei, italiani, portoricani), i cui membri si
percepivano come entità separate e, soprattutto, erano riconosciuti come
entità omogenee da chi non ne faceva parte. Le seconde e le terze
generazioni di immigrati non usavano più l’idioma nativo dei genitori – al
più qualche parola per colorire il discorso – e avevano abbandonato alcune
abitudini e costumi. Ciononostante, continuava a persistere un senso di
appartenenza basato su interessi politici condivisi, concentrazione
residenziale in determinati quartieri e una medesima condizione sociale. Il
libro, in seguito duramente contestato da sociologi di orientamenti diversi,
diede inizio a una riflessione che abbandonerà la visione dell’integrazione
come processo unidirezionale (da immigrato ad americano), per privilegiare
descrizioni in cui i nuovi gruppi si adattano al nuovo territorio attraverso
un complesso processo di negoziazione di un’identità, che non è né quella
americana né quella originaria (→ Etnicità).
Il dramma The Melting Pot piacque molto al presidente Theodore
Roosevelt, ma non altrettanto ai critici. Il New York Times fu particolarmente
duro, affermando che era «goffo nella struttura, grossolano nella
realizzazione e insufficiente a livello letterario», mentre The Nation scrisse
che si trattava di «una miscela instabile di melodramma, farsa, parodia e
magniloquenza». In poche parole, Zangwill non era riuscito a mescolare a
dovere gli ingredienti teatrali – una premessa poco confortante a paragone
dell’auspicata mescolanza delle popolazioni immigrate!

BIBLIOGRAFIA
Anna Maria Martellone, La «questione» dell’immigrazione negli Stati Uniti, il
Mulino, Bologna 1980.
Werner Sollors, Alchimie d’America. Identità etnica e cultura nazionale, Editori
Riuniti, Roma 1990.
S.M.Z.

Menlo Park
Frutto di un progetto immobiliare che non aveva avuto successo, Menlo
Park nel 1876 era un piccolo borgo con poche case e parecchi terreni liberi.
L’atmosfera tranquilla di questa località anonima, persa nella campagna del
New Jersey, cominciò a mutare quando si diffuse la notizia che lì operava un
mago moderno, il «Wizard [= mago] of Menlo Park» – al secolo, Thomas
Alva Edison.
Dopo che la giovane moglie Mary Stilwell ebbe dato alla luce la loro
prima figlia, l’ancora sconosciuto Edison decise di cercare un’alternativa
all’appartamento di Newark dove viveva e conduceva i suoi esperimenti.
Seguendo il suggerimento di un amico, l’inventore acquistò 34 acri di
terreno a Menlo Park, a circa un’ora di treno da New York, sui quali fece
costruire un laboratorio principale e altre officine più piccole, nonché le
abitazioni per la famiglia e i collaboratori. Nel decennio che seguì, l’équipe
di scienziati sotto la sua direzione avrebbe messo a punto oltre 400cento
brevetti.
Quello di Edison fu il primo vero laboratorio di «ricerca e sviluppo»
moderno, nel quale un gruppo di professionisti metteva a punto invenzioni
su commissione o lavorava a progetti che potevano avere un mercato. Il
laboratorio fu una «creatura» dei tempi – la sua nascita è legata ed è
insieme complementare allo sviluppo industriale che interessò gli Stati
Uniti nei decenni successivi alla Guerra civile (→): uno dei tratti distintivi
della sensazionale crescita fu l’aumento di capacità produttiva dato dalle
nuove tecnologie. La formazione di un’équipe di esperti rispondeva alla
necessità di concentrare le competenze scientifiche e di subordinarne
l’operato alle esigenze dell’industria. Da quel momento, la ricerca
scientifica negli Stati Uniti diverrà patrimonio del settore privato e da esso
sarà indirizzata non già verso lo studio fine a se stesso, ma al rendere le
macchine in grado di compiere operazioni sempre più complesse: come
riassume lo storico Alan Trachtenberg, «il numero crescente di ingegneri da
un lato, e di manodopera non specializzata dall’altro, sono le due facce di
uno stesso processo».
La prima invenzione di rilievo a uscire da Menlo Park fu il fonografo:
Edison riuscì a realizzare un congegno che consentiva di registrare i suoni
sotto forma di una serie di buchi su un foglio in movimento. La notizia del
sensazionale marchingegno si sparse per tutto il paese e oltre i confini,
Edison fu ribattezzato il «mago di Menlo Park» e all’improvviso la piccola
città divenne meta delle visite di curiosi e investitori.
La stampa sottolineò l’aura mitica del personaggio, a metà tra Prometeo
e Faust. Una descrizione tipica della sua routine ne metteva in luce le
abitudini irregolari e la mancanza di sistematicità organizzativa, difetti più
che compensati dalla totale dedizione e dal genio innato: «Il metodo di
lavoro di Edison avrebbe messo in subbuglio un normale ufficio. Lo si
poteva trovare al lavoro nel laboratorio a mezzanotte come a mezzogiorno.
Non badava alle ore del giorno né ai giorni della settimana. Capitava che,
esausto, si addormentasse nel bel mezzo della giornata – cosa che non
capitava mai durante la notte, perché era durante la notte che svolgeva la
maggior parte del lavoro. Per interi giorni non controllava neanche la
posta», così lo ricordava il collaboratore Samuel Insull.
Un ritratto che aveva molto fascino «mediatico» poiché poneva
l’accento sull’individuo e sul suo genio, sulle doti naturali, sull’intuito, il
tutto finalizzato a invenzioni che avrebbero migliorato le condizioni di vita
della popolazione – un profilo che ricordava da vicino gli eroi dei dime novels
di Horatio Alger (→ Rags to riches). Gli aneddoti sui primitivi esperimenti
condotti durante l’infanzia, nonché l’insistenza sul fatto che non avesse
frequentato la scuola con regolarità, ne facevano un perfetto esempio del
self-made man e il pubblico era rassicurato che le vie al successo e
all’affermazione personale (il «sogno americano») erano ancora aperte.
Ma ogni mito occulta la realtà dei fatti. In maniera non dissimile dai
robber barons (→), infatti, Edison basò la propria attività sullo sfruttamento
del lavoro degli specialisti a cui pagava uno stipendio e sull’acquisizione di
brevetti messi a punto da altri inventori che non avevano i capitali per
trasformarli in prodotti finiti e redditizi. Valga l’esempio della lampadina:
non fu Edison a inventarla – altri avevano già realizzato dei prototipi, che
però producevano illuminazione solo per pochi minuti. Edison si limitò a
migliorare modelli esistenti, mettendo infine a punto esemplari in grado di
illuminarsi per quaranta ore. L’inventore ricorse anche a mezzi meno
ortodossi per aumentare il giro d’affari: nel 1902, alcuni suoi emissari
ottennero dal proprietario di un teatro londinese una copia del Viaggio nella
Luna, il primo cortometraggio realizzato da Georges Méliès. La copia pirata
fu fatta circolare negli Stati Uniti, procurando a Edison immensi guadagni. E
quando il francese approdò a New York, scoprì che nessuno era più
interessato alla visione e dovette pertanto tornare a casa senza i quattrini
che aveva sperato di racimolare.
Nel 1886, Edison – che ormai non aveva più preoccupazioni di
disponibilità economiche – decise che era necessario avvicinarsi a New
York, dove si trovava la maggior parte dei suoi affari, e scelse come sede del
nuovo laboratorio West Orange, sempre nel New Jersey. Gli edifici di Menlo
Park furono abbandonati, alcuni vagabondi di passaggio li usarono come
ricoveri, finché una serie di incendi non ne distrusse gran parte. E la magia
di Menlo Park svanì così come era apparsa.

BIBLIOGRAFIA
Randal E. Stros, The Wizard of Menlo Park. How Thomas Alva Edison Invented the
Modern World, Broadway, New York 2008.
Alan Trachtenberg, The Incorporation of America. Culture and Society in the
Gilded Age, Hill and Wang, New York 1982.
S.M.Z.

Minstrel show
Miscuglio dai tratti grotteschi di canto, ballo e commedia teatrale, che ruota
intorno alla figura di un clown nero (non solo uno e solo in apparenza
nero), dalle labbra enormi e con in mano un banjo da strimpellare: il
minstrel show è essenzialmente questo, lo sguardo dell’America bianca che
declina in chiave comico-razzista (sull’onda delle ataviche inquietudini e
paure) lo stereotipo del nero stupido e goliardico, felice di vivere come
schiavo nelle piantagioni del Sud, dove suona e fa baldoria tutto il giorno. A
interpretarlo, un attore bianco truccato da nero, un passing (→) al rovescio
che dura solo il tempo fra due sipari.
La prima versione del minstrel sembra sia nata per caso, con Lewis
Hallam, un attore bianco che, ingaggiato nel 1769 a New York per
interpretare un nero nella produzione di Issac Bickerstaff The Padlock, si
presentò in scena ubriaco fradicio: la sua comicità, non certo volontaria, finì
per conquistare il pubblico intero. Fu così che, nel giro di pochi anni, «le
facce da lucido di scarpe» si ritagliarono un posto, prima a margine dello
spettacolo vero e proprio (fra due atti o alla fine), poi come attrazione
principale, in qualsiasi genere di intrattenimento popolare: teatri cittadini,
medicine shows da strada e circhi che raggiungevano gli avamposti dell’Ovest
(→ Tendoni da circo). Anche se, a ben guardare, il minstrel vanta origini più
lontane, affondando le radici nelle culture europee e africana: strumenti
musicali (come il tamburello e il banjo) provenienti dall’Africa, le melodie
in parte africane, in parte scozzesi, irlandesi e inglesi; i dialoghi comici
attinti dagli autoctoni tall tales (→), ma anche dai circhi europei e dal teatro
di strada, e ancora più indietro alla commedia dell’arte, all’opera italiana,
alle farse dei cicli dei «Misteri» medievali. Del resto, i titoli dei più famosi
minstrels dell’epoca rivelano tutta la loro ibrida natura culturale: The
Challenge Dance, Scampini, Desdemonum, Othello, Old Zip Coon, Hamlet the Dainty,
The Black Crook Burlesque, Africanus Blue Beard, De Maid ob de Hunkpuncas,
Jiulius the Snoozer, The Black Chap from Whitechapel. A questo l’America
aggiunse il volto del nero, una sorta di fool shakesperiano che incarnava
l’antitesi dei principi che animavano la società dell’epoca: pigro, ignorante,
analfabeta, immorale, fatalista e goffo. Un buono a nulla che rivela la
propria inadeguatezza ogni qual volta si trovi alle prese con qualcosa più
grande di lui: una commedia di Shakespeare, le mode dell’epoca, le
aspirazioni sociali. Egli è vittima degli imbrogli dei con-men (→ Tricksters e
con-men), della burocrazia e della legge, e persino della modernità,
investito come è dai tram e fulminato da batterie elettriche. Eppure, è al
contempo anche una figura sovversiva, che scatena la simpatia e
l’identificazione del pubblico affamato di eroi popolari (→ Olimpo
americano), magari sempliciotti, ma in grado di prevalere sul forte e
intelligente e costituire per gli spettatori, spesso lavoratori immigrati, una
sorta di rivalsa e di finta rassicurazione su una «linea del colore» (→) che si
cercherà fino all’ultimo di non vedere o di mettere in burla.
Le prime star dal volto imbrattato di nero erano uomini dotati di bella
voce e senso del ritmo: padre del minstrel show è considerato Thomas
Darthmouth «Daddy» Rice (1808-1860), specializzato in one-man shows
imbastiti su canzoni folk nere imparate a suo dire durante le tournée come
attore nella Ohio River Valley (o forse apprese al meno esotico Catherine
Market di New York, vicino a Five Points, negli anni venti dell’Ottocento,
dove si esibivano i neri) e interprete di scatenati reels e hoedowns. Se già
negli anni trenta, Rice iniziò a mettere in scena a New York le cosiddette
«Ethiopian Operas» (basate su una trama molto semplice e su un finale che
rappresentava una sorta di rivelazione, peraltro scontata), egli è passato alla
storia soprattutto per aver creato il minstrel man per eccellenza: Jim Crow, lo
stereotipo del nero buffone e un po’ pazzo, ispirato a un afroamericano
zoppo che l’attore aveva sentito cantare (e visto arrancare in un goffo
tentativo di danza) a Cincinnati, sulle note di una canzone il cui
protagonista era un certo Jim Crow. A lui si affiancarono presto altri, e per
molti versi opposti, personaggi: come Zip Coon, il nero dandy del Nord,
protagonista di una canzone del 1833 (e che tornerà come stereotipo
durante gli anni della Guerra civile [→], nelle vesti di soldato vanitoso e
inetto) e interpretato dall’attore George Washington Dixon. A portare a
compimento il minstrel show provvide, un decennio dopo, nel 1843, un
gruppo di quattro artisti bianchi, i Virginia Minstrels, che organizzarono
uno spettacolo di un’intera serata con una sequenza di numeri (canzoni con
l’armonica, pezzi strumentali, dialoghi comici) spacciati per autentici
passatempi e canzoni dei neri del Sud. Difficile crederlo, visto che all’inizio
tutti gli interpreti provenivano dal Nordest ed erano in larga parte
immigrati di origine europea (con il paradosso che, come afferma lo
studioso Michael Rogin, «il blackface fu lo strumento che trasformò le
identità ebree in americane»). Certo è che, fra il 1840 e il 1870, anni del suo
massimo fulgore, il minstrel show rappresentò una sorta di collante
identitario per la nazione. Pervasivo fu l’apprezzamento di tali performance
tanto nello spazio quanto nei diversi strati sociali: se Mark Twain annovera
fra i suoi ricordi di bambino i tour delle piccole compagnie che facevano
tappa nelle cittadine sul Mississippi, già nel 1844 un gruppo, gli Ethiopian
Serenaders, suonarono alla Casa Bianca, inaugurando così una lunga liaison
fra i presidenti americani e il minstrel. Il genere ebbe tanto successo da
divenire addirittura un prodotto da esportazione e raggiunse l’Australia e la
Nuova Zelanda. Almeno fino agli anni settanta, quando le energie creative
attoriali e i gusti popolari si riversarono sul più articolato e vario vaudeville
(→), con il minstrel avviato sul viale del tramonto: destinato a divenire
passatempo amatoriale (in particolare nelle high schools durante la prima
metà del Novecento) oppure forma di intrattenimento più complessa e
meno popolare, messa in scena da neri che sostituirono allo stereotipo una
ricostruzione un po’ più veritiera delle loro tradizioni culturali – con
l’aggiunta di spirituals, vicende di riunificazione familiare e di critica alla
corruzione morale delle grandi città. Nonostante la sua lontananza di
decenni dalle scene, il minstrel non scomparve mai del tutto: la sua storia è
raccontata dagli omonimi quattro remake e dal musical basati sulla pièce
teatrale del 1925 The Jazz Singer, che narra la storia vera di Al Jolson, ebreo
russo attore di blackface. E, per ritrovarne le tracce anche nella musica
popolare, andatevi a rivedere quel video di «Say, Say, Say» (1983), cantata
da Paul McCartney e Michael Jackson nei panni di due truffatori-artisti che
campano con medicine show (→ Tricksters e con-men) ed esibendosi nel
vaudeville (con la tragica ironia di sostituire un bianco dipinto di nero con
un nero che avrebbe dato la vita per diventare bianco). O riascoltate l’hip-
hop di M.C. Hammer e guardate la serie di video tratti da Hammertime
(1990), e in particolare il suo successo più famoso, «U can’t touch this». Il
roteare degli occhi, la corsa da fermo, il «passo ruotato», la gestualità
eccessiva di mani e braccia sembrano uscire direttamente dal Catherine
Market della New York del 1820. Qualche luce e molto glamour in più ed
ecco, signori, il minstrel è (di nuovo) servito.

BIBLIOGRAFIA
Gary D. Eagle, This Grotesque Essence. Plays from the Minstrel Stage, Louisiana
State University Press, Baton Rouge 1978.
W.T. Lhamon Jr., Raising Cain. Blackface Performance from Jim Crow to Hip Hop,
Harvard University Press, Cambridge, 1998.
Michael Rogin, Black Face, White Noise. Jewish Immigrants in the Hollywood
Melting Pot, University of California Press, Berkeley 1998.
Robert C. Toll, Blacking Up. The Minstrel Show in Nineteenth-Century America,
Oxford University Press, New York 1974.
C. SCHIA.

Miscegenation
Dal latino miscere (mescolare) e genus (razza), il termine fu coniato nel 1864
da un anonimo saggista (che si rivelerà in seguito David Goodman Croly,
direttore del World, aiutato dal reporter George Wakeman), nel volumetto
Miscegenation: the Theory of the Blending of the Races Applied to the American
White Man and Negro. Il termine, che sostituì il precedente «amalgamation»,
avrebbe dovuto indicare la semplice mescolanza biologica di due o più razze
alla base di un terzo tipo razziale misto: avrebbe dovuto, visto che, come tutte
le definizioni, anche quella della razza è non solo piuttosto sfocata, ma
anche carica di pregiudizi, custode di paure e conflitti – in particolare
quando, come nel caso degli Stati Uniti, la mescolanza razziale a cui si pensa
parlando di miscegenation riguarda l’attraversamento di quella «linea del
colore» (→) che separa i bianchi dai neri.
Perché la miscegenation suscitasse tanta inquietudine nella società
statunitense, e in particolare in quella del Sud, è presto detto. Innanzitutto,
per la visione – invalsa nelle élite bianche fin dagli inizi della repubblica –
che vedeva nel nero l’anello di congiunzione fra l’uomo e il regno animale:
un’evoluzione dei primati, insomma, un’idea che nasce e prospera fin dagli
inizi della repubblica. Nelle Note sulla Virginia (1781), Thomas Jefferson,
rifacendosi alla letteratura scientifica dell’epoca in materia di evoluzione e
teorizzando che le razze inferiori preferirebbero unirsi e accoppiarsi a
quelle superiori, scrive che «i neri desiderano i bianchi, così come i maschi
di gorilla preferiscono le donne nere» [sic!]. Chi di razza ferisce, di razza
perisce: fu proprio su queste affermazioni che la rivista The Federalist
muoverà i suoi più violenti attacchi contro Jefferson, reo non tanto della
liaison di lungo corso con una schiava nera (pratica assai diffusa all’epoca
fra proprietari e schiave), ma di aver con essa sovvertito quella gerarchia
estetica delle razze da lui in precedenza affermata.
Anche nei decenni successivi, in pieno dibattito sulla schiavitù, gli
oppositori della mescolanza razziale invocarono a gran voce e con ogni
mezzo la necessità di «evitare la contaminazione»: dalle litografie di E.W.
Clay degli anni trenta dell’Ottocento (in cui i raduni abolizionisti sono
raffigurati come incontri sensuali fra bianche e neri, fra canti, valzer e
desideri fisici più o meno repressi) all’incendiario A Sojourn in the City of
Amalgamation in the Year of Our Lord 19. By Oliver Bolokitten (1835), di Jerome B.
Holgate (fantaromanzo, in cui il futuro vede l’integrazione coatta,
attraverso matrimoni obbligatori, fra bianchi e neri, con disgusto e orrore
dei primi; e tuttavia, eroicamente, questi ultimi si sottopongono a contatti
intimi con afroamericani dai tratti scimmieschi, per portare a termine una
missione, più che affettiva, politica).
Accanto all’avversione generata dall’empatia per la mescolanza forzata,
in romanzi, racconti e illustrazioni, al fine di scoraggiare l’integrazione, i
democratici fecero ricorso anche a vecchie teorie scientifiche ed estetiche,
arricchite di particolari quali l’odore selvatico degli afroamericani, le
disposizioni tipiche del loro carattere (prime fra tutte, l’irrefrenabile
gelosia e la lussuria) e via discorrendo, mai passati di moda.
Persino l’inventore del termine, il già citato Croly, nonostante quella che
sembrava essere una difesa della miscegenation (con tanto di elenco delle
ragioni per cui la mescolanza di razze è positiva, con disquisizioni
sull’origine mista delle razze ecc.) aveva in realtà scopi diversi: democratico
convinto, Croly aveva cercato con il suo pamphlet e la sua eccessiva (per
l’epoca) visione progressista di boicottare la rielezione di Abraham Lincoln,
dipingendolo come acceso abolizionista (il suo discorso sulla «House
Divided» a Springfield nel giungo del 1858 lasciava pochi margini di dubbio)
e insinuando che, con la sua rielezione, l’integrazione sarebbe avvenuta per
legge. A dargli man forte arrivò, quello stesso anno, anche un certo «L.
Seaman», che in What Miscegenation Is! And What We Are to Expect Now That Mr
Lincoln Is Re-elected (1864) finge a sua volta di sostenere la causa per
screditare Lincoln e, ad aggiungere orrore all’orrore, raffigura in copertina
un uomo nero che bacia una donna bianca.
Perché, nonostante la miscegenation fosse in realtà possibile in due
modalità (ovvero una donna nera che si congiunge a un uomo bianco e una
donna bianca a un uomo nero), culturalmente il termine entrò nell’uso
comune solo nella seconda accezione. Se i rapporti (quasi sempre violenti)
fra uomini bianchi e donne di colore (e schiave) erano da sempre
tacitamente accettati al Sud, non così lo potevano essere le mescolanze fra
donne bianche e uomini neri. Anche se i casi di unioni volontarie di questo
tipo non mancarono, fin dai tempi delle prime colonie al Sud essi erano
puniti con fustigazioni pubbliche ed esilio della donna dalla comunità.
Motivi di tipo legale ed economico si affiancavano al terrore atavico per
l’insidia alla purezza femminile: mentre i figli di madri nere (e dunque
schiave) erano a loro volta schiavi, i mulatti dalla madre bianca erano
invece uomini e donne liberi. A questo si cercò di ovviare con una legge del
1681, che stabiliva che la madre bianca dovesse pagare l’ammontare di
cinque anni di servitù e che il bambino potesse comunque essere venduto
come servitore fino all’età di trent’anni. Caso diverso costituì fin da subito
la Louisiana, dove il crogiolo di razze complicava non poco le questioni
legali: qui, si decise che i mulatti erano considerati a tutti gli effetti una
terza classe, a cui era impedito per legge di unirsi (in matrimonio e
carnalmente) sia con i bianchi sia con i neri. Tuttavia, visto che di società
patriarcale e maschilista sempre si trattava, in città del Sud come
Charleston e New Orleans avere concubine mulatte era un lusso che i
bianchi più abbienti si concedevano, neanche troppo in segreto, tanto prima
quanto dopo la Guerra civile (→).
Abolita a parole ma non di fatto la schiavitù, il sistema delle «leggi Jim
Crow» (→) al Sud e la presenza sempre più massiccia di afroamericani al
Nord non risolse per nulla la questione della miscegenation e delle sue
ripercussioni legali. Alcuni stati legarono la questione razziale allo status
sociale, arrivando a sospendere la «one drop rule» (la norma relativa a una
sola goccia di sangue) in alcuni casi particolari: fra quei gruppi di bianchi
poveri, irlandesi in primis, con cui i neri condividevano le zone fatiscenti
delle grandi città, o fra quei gruppi di immigrati che proprio bianchi non
erano. Lo afferma un processo del 1922 (Rollins v. Alabama), in cui Jim
Rollins, un afroamericano dell’Alabama condannato in primo grado per
miscegenation per aver avuto rapporti sessuali con una donna bianca, aveva
fatto ricorso dichiarando: «Ma non era bianca, era italiana!». Tesi accolta
dal giudice, il quale sancì che il procuratore «non aveva potuto fornire la
prova che la femmina in questione, Edith Labue, fosse bianca». Accomunare
i neri e gli italiani poverissimi dalla pelle scurita dal sole era, per gli
americani razzisti, una conseguenza naturale.
Non era però sufficiente la presenza di gruppi immigrati poveri a
prevenire o attutire il contatto fra razze e corpi bianchi e neri: basti pensare
che, ancora negli anni cinquanta e sessanta del Novecento, c’era chi
sosteneva che anche la sola integrazione avrebbe costituito una minaccia
per la purezza delle razze. In un libro dal titolo evocativo di Black Monday
(1955, con riferimento al «lunedì nero» del verdetto del Brown v. Board of
Education of Topeka, Kansas, del 1954, che sanciva l’incostituzionalità delle
scuole pubbliche segregate al Sud → Back of the bus), il giudice Thomas
Brady, studi a Yale (→ Ivy League) alle spalle (e dunque non proprio un
bifolco ignorante), scrisse che era disposto a morire per impedire la
«tragedia della mescolanza fra razze» e difendere la purezza della stirpe e
della donna bianca.
Le vere tragedie erano altre, all’epoca: i tanti linciaggi di neri al Sud
(circa 3500 registrati dal Naacp, la National Association for the
Advancement of Colored People, fra il 1882 e il 1968) a opera di folle
inferocite o eseguiti da membri del Kkk (→) che avevano spesso come
motivo scatenante la sospetta violenza sessuale nei confronti di donne
bianche (sovente consenzienti). Talvolta, bastava anche solo un accenno
velato al desiderio: come nel caso del quattordicenne Emmett Till,
originario di Chicago e in vacanza dai parenti nel Mississippi, massacrato di
botte, gli occhi cavati dalle orbite, e finito con un colpo di pistola prima di
essere gettato nel Tallahatchie River: il tutto per aver rivolto la parola e dei
segni di apprezzamento («aver flirtato» sarebbe eccessivo) alla moglie
ventiduenne bianca del proprietario di un negozio d’alimentari locale. La
decisione della madre di tenere la bara aperta durante il funerale, per
mostrare fino a che punto potesse giungere la violenza dei linciaggi, ebbe
profonde ripercussioni sull’opinione pubblica e fu uno degli eventi alla base
della nascita del Movimento per i diritti civili.
Dalle miscegenation immaginate o immaginarie a quelle reali, magari
ignorate: come nel caso del 1948, che vide protagonista Davis Knight,
condannato in Mississippi a cinque anni di prigione per aver violato il
codice antimiscegenation. Peccato che il poveretto non sapesse di essere per
un sedicesimo nero (a causa della bisnonna, come scoprì in seguito). Salito
agli onori della cronaca, il caso di Knight scatenò una vera ondata di panico
al Sud negli anni successivi – non tanto per la possibilità di future
miscegenation, ma di quelle passate (e ignorate). Del resto, se basta una sola
goccia di sangue nero a contaminare la razza, quante famiglie possono esser
sicure di aver mantenuto l’originaria purezza? Visto che molti
afroamericani possono vantare una lontana parentela con Thomas
Jefferson, vi saranno altrettanti bianchi che potrebbero vantarla con Booker
T. Washington. Mano agli alberi genealogici, dunque.

BIBLIOGRAFIA
David Goodman Croly, Miscegenation, Dexter and Hamilton, New York 1864.
F. James Davis, Who is Black? One Nation’s Definition, Pennsylvania State
University Press, University Park 1991.
Elise Lemire, «Miscegenation». Making Race in America, University of
Pennsylvania Press, Philadelphia 2002.
C. SCHIA.

Mississippi Delta
Può sembrare un paradosso, ma il Mississippi Delta non è il delta del
Mississippi – non è quel tratto terminale del fiume, «a zampa d’uccello», un
centinaio di chilometri a sudest di New Orleans, dove si mescolano acque
dolci e acque salate in un piatto paesaggio di marcite alternate a raffinerie.
No, il Mississippi Delta si trova qualcosa come cinquecento chilometri più a
nord, e ha l’aspetto di una foglia allungata che giaccia sulla riva sinistra del
fiume: il picciolo sfiora Memphis (Tennessee), la punta tocca Vicksburg (→),
nel Mississippi, il bordo destro è molto più irregolare per i capricci del
fiume, quello sinistro s’allarga fino a comprendere Greenwood e lo Yazoo
River (che si getta nel Mississippi giusto a Vicksburg). In tutto, 7000 miglia
quadrate di terra grassa e rossa, campi di cotone a non finire, strade e
viottoli in terra battuta, città e cittadine dall’aria sonnolenta, empori e
stazioni di rifornimento che paiono abbandonati. La fertilità di questa terra,
le frequenti esondazioni del fiume, il sole implacabile, hanno evocato quel
nome, idrograficamente improprio: Mississippi Delta come il «delta del
Nilo», un paragone rafforzato dalla presenza di città di nome Memphis o,
poco più a nord, Cairo, o dal soprannome dato ad alcune contee: «Little
Egypt».
Ma, paradossi idrografici a parte, il Mississippi Delta ha un suo posto ben
preciso nella cultura statunitense («The Mississippi Delta was shining / Like
a National guitar», canta Paul Simon in «Graceland»). Memphis, Clarksdale,
Greenwood, Tunica, Tutwiler, Bentonia, Rosedale, Yazoo City, Itta Bena e,
diciamo così, «oltre confine» (oltre i bordi della foglia), Helena, Port Gibson,
Natchez… sono tutti nomi che compongono una geografia particolare, una
geografia culturale e musicale. Questa è «the land where the blues began»,
per usare il titolo d’un libro fondamentale di Alan Lomax, grande
ricercatore e studioso di musica popolare: la terra dove ebbe inizio il blues.
Andiamo indietro nel tempo. Proprio le condizioni climatiche e
geologiche favorevoli avevano reso qui possibile, fin dal Settecento e nel
corso di tutto l’Ottocento, un’economia (prima schiavista, poi capitalista)
caratterizzata agli inizi dallo sfruttamento del legname e in seguito dalle
piantagioni di cotone, che avrebbero via via occupato tutte le regioni sulla
riva sinistra e destra del Mississippi, fino a New Orleans. Nei campi e alla
costruzione dei necessari argini (→ Levees), lavorava una manodopera
afroamericana, agli inizi schiava e in seguito «libera» (affittuari, mezzadri,
braccianti, in condizioni di sfruttamento e di miseria non molto diverse da
quelle pre-Guerra civile), oppure squadre di detenuti dei penitenziari
tutt’intorno (per lo più neri, ma non solo: ricordate il film dei fratelli Joel e
Ethan Coen, Fratello, dove sei?, del 2000?). Negli anni successivi alla Guerra
civile, gli anni della Ricostruzione (→) e del Ku Klux Klan (→ Kkk), il Delta
fu anche regione di passaggio: di quegli ex schiavi in fuga dal caos e dalle
violenze negli stati del Sud, diretti a nord (il South Side di Chicago) o a
nordest (Harlem a New York) – un flusso che si sarebbe ingrossato sempre
più all’alba del Novecento e in particolare intorno alla Prima guerra
mondiale.
Il Delta funzionò così da cassa di risonanza di quelle musiche e di quei
canti che erano maturati nei decenni intorno alle piantagioni di cotone –
hollers (le grida che accompagnavano ritmicamente il lavoro o modulavano
messaggi in una lingua franca incomprensibile ai sorveglianti), worksongs
(canti di lavoro), gospels (inni religiosi), folk songs (canti che fondevano
tradizioni africane e caraibiche all’esperienza contemporanea della
schiavitù). La continua mescolanza e rielaborazione in condizioni in
perenne mutamento, la relativa diversità d’accenti e dialetti (oltre che stati
d’animo), la specificità di situazioni individuali e collettive, le atmosfere e
suggestioni locali: tutto ciò entrò in una dinamica grandiosa, più o meno
sotterranea, ma destinata ad affiorare e diffondersi con vigore.
Per esempio: nel 1901-1902, un importante archeologo dell’università di
Harvard, impegnato nello scavo di un mound (→) nei pressi di Clarksdale,
prese nota dei canti dei lavoratori neri del posto: cantavano (scrisse in
seguito) in ogni momento della giornata, sia che lavorassero sia che
riposassero – inni, pezzi ragtime (→) e in particolare «improvvisazioni
ritmiche più o meno composte di frasi e cantate in intonazioni che più o
meno s’avvicinavano alla melodia», con parole che raccontavano «storie
(molto spesso) di mala sorte, vicende d’amore, stati d’animo che
anticipavano o ricordavano occupazioni e svaghi» e con un
accompagnamento di chitarra che era «per lo più ragtime, con lo strumento
che di rado s’avventurava oltre le inversioni dei tre accordi di alcune chiavi
in maggiore e in minore». Riportò anche qualche verso: «Mi hanno
arrestato per omicidio / Non ho mai fatto male a nessuno», «La ragione per
cui amo tanto la mia piccola / è che quando rimedia cinque dollari me ne da
quattro», «Oh, vivremo di maiale e baci / se vorrai essere la mia donna».
E ancora: nel 1903, in attesa d’un treno alla piccola stazione di Tutwiler,
il musicista W.C. Handy (nome destinato alla celebrità nel campo del jazz)
udì un nero suonare una chitarra facendo scivolare la lama d’un coltello
sulla tastiera: «La musica più strana che abbia mai udito». Non meno strane
erano le parole: «Me ne vado là dove la Southern incrocia la Dog». Il
cantante gli spiegò che si trattava di due linee ferroviarie e, qualche tempo
dopo, Handy scrisse alcune composizioni che nel titolo recavano la parola
«blues», fra cui per l’appunto «Yellow Dog Blues».
Il blues e il treno, il blues e i crocevia (→), il blues e la donna (o l’uomo),
il blues e le vite ai margini: c’era (già) dentro tutto, il blues s’era (già) messo
in cammino, e il Mississippi Delta ne sarebbe stato culla e serbatoio.
Dodici battute (ogni strofa di tre versi, ogni verso di quattro battute), un
call and response (che diviene dialogo tra la voce e lo strumento), le mitiche
blue notes (l’alterazione del terzo e settimo grado della scala maggiore, nel
tentativo di adattare la scala pentatonica africana a quella diatonica
europea)… Da quel momento, da Memphis a Vicksburg, intrecciato ai
drammi del post-Guerra civile e dei primi del Novecento (esodi, fughe,
linciaggi, miseria, malattia – quanti bluesmen ciechi, quanti bluesmen
galeotti, quanti bluesmen che recavano nel corpo i segni del razzismo e del
classismo), si ebbe un fenomeno di incessante proliferazione: di musiche e
canzoni, di piccoli bar e club dove si suonava la «musica del diavolo»,
bordelli, stazioni radio locali, sale d’incisione.
Da queste parti nascerà, nel 1911, e morirà in circostanze oscure nel
1938, il mitico Robert Johnson, dopo aver registrato quei ventinove pezzi
(«Kindhearted Woman», «Sweet Home Chicago», «Cross Roads Blues», «Me
and the Devil Blues»…) che saranno altrettante pietre miliari del genere.
Qui, nei pressi di Clarksdale, morirà, in una notte del 1937, a quarantatré
anni, Bessie Smith, l’«Imperatrice del Blues», vittima di un incidente
stradale lungo la Highway 61 (detta anche, non a caso, «Blues Highway» →
Route 66 e Highway 61) e del razzismo che impedì di portarle soccorso in
tempo. Di qui vennero o qui operarono tutti i grandi nomi del blues, da
Charlie Patton a Bukka White, da Muddy Waters a B.B. King, da Howlin’
Wolf a Sonny Boy Nelson, da Willie Brown a Blind Lemon Jefferson… Un
elenco che diventerebbe lunghissimo, una storia enorme che va per
l’appunto da Memphis (la grande Beale Street, il locale-punto d’incontro
Pee Wee’s, il Monarch Club, le registrazioni al Peabody Hotel e al Sun
Studio, le bettole di Gayoso Street, la stazione radio Wdia, la casa
discografica Stax) a Vicksburg (Catfish Row e il Biscuit Company Cafè),
attraverso Clarksdale (la stazione ferroviaria, il Riverside Hotel, la radio
Wrox) e Greenwood (i sobborghi di Baptist Town, il Delta Gallery Blues
Museum), e decine e decine di villaggi e piccole città… Un reticolo fitto,
pulsante, di crocevia reali e immaginari, geografici e musicali – da cui il
blues si sarebbe irradiato ovunque, giungendo per l’appunto a Chicago e
New York, trasformandosi da country blues in urban blues, ibridandosi con
altre musiche (la country music), diventando race music o sepia blues e infine
rhythm’n’blues e poi rock’n’roll. Altre strade, altre storie. Che sempre
tornano lì, per ritrovare ispirazione, per recuperare le radici: nella terra
grassa del Mississippi Delta.

BIBLIOGRAFIA
Amiri Baraka (LeRoi Jones), Il popolo del blues, Shake, Milano 1994.
Steve Cheseborough, Blues Traveling. The Holy Sites of Delta Blues, University
Press of Mississippi, Jackson 2001.
Alan Lomax, La terra del blues, il Saggiatore, Milano 2003.
M.M.

Model T
«Costruirò un’auto per la grande moltitudine», con queste parole Henry
Ford annunciava il suo progetto di lanciare sul mercato un’automobile dai
costi accessibili. La produzione di quel fortunatissimo modello – la Ford
Model T, detta anche Tin Lizzie e Flivver – dal 1908 al 1927 avrebbe segnato
l’inizio dell’«età dell’auto», contribuendo, in maniera ancora piuttosto
embrionale, ad avviare una serie di trasformazioni epocali: l’organizzazione
del lavoro lungo la catena di montaggio, la formazione delle prime reti
stradali e interstatali, uno sviluppo urbanistico decentrato (→ Suburbs).
Se già nel 1885 il tedesco Karl Benz aveva dato alla luce il primo motore a
benzina, fu solo agli inizi del secolo successivo che si prese a guardare ai
prototipi brevettati con interesse commerciale anche oltreoceano. Quando
Ford cominciò a sfornare le sue Ford Model T – trasferendo la produzione
nello stabilimento di Highland Park, Michigan, nel 1910 –, la viabilità delle
città americane era ancora dominata da carri e cavalli che ostruivano le
strade con uno strato di letame. L’avvento dell’auto fu quindi salutato come
un’innovazione che avrebbe migliorato le condizioni igieniche urbane,
andando a rimuovere una delle maggiori cause di insalubrità pubblica. Oltre
a un livello di comodità del tutto nuovo, le quattro ruote promettevano una
totale libertà di movimento, conquistando la fantasia pastorale di un paese
che, da sempre avvinto all’idea di frontiera (→), nel primo decennio del
Novecento assisteva al fiorire di movimenti volti a conservare la wilderness
(→) all’interno di parchi nazionali aperti al nascente turismo di massa.
L’intuizione di Ford fu, anche in questo caso, assai felice: la sua Ford Model
T sarebbe stata «così conveniente» che ogni lavoratore con un buon salario
avrebbe potuto acquistarla «godendosi, insieme alla famiglia, la benedizione
di ore di piacere negli spazi aperti del Signore». I futuri operai della Ford (e
delle altre multinazionali dell’auto, General Motors e Chrysler) a quelle
«ore di piacere» lontano dal trambusto e dai ritmi della fabbrica avrebbero
senza dubbio agognato, viste le novità introdotte a Highland Park per
aumentare la produzione industriale e abbattere ogni forma di dispersione
in termini di tempo. Con un debito, mai ammesso in via ufficiale, alle teorie
della parcellizzazione del lavoro di Frederick Winslow Taylor – Principi di
organizzazione scientifica del lavoro (1911) – e forse alla «disassembly line» dei
macelli di Chicago (→ Porkopolis), la catena di montaggio messa a punto da
Ford si basava su mansioni semplificate, meccaniche e intercambiabili,
capaci di accelerare l’assemblaggio dei vari pezzi ai ritmi alienanti e
disumanizzanti che sarebbero poi stati rappresentati da Charlie Chaplin in
Tempi moderni (1936).
Ai tagli dei costi di produzione e al conseguente ribasso dei prezzi del
prodotto sul mercato (nel 1909, una Model T costava 950 dollari mentre nel
1924 solo 290) dovette poi concorrere la scelta di Ford di imporre, a partire
dal 1914, un solo colore: «Ogni cliente può avere un’auto del colore che
vuole, a patto che sia nera». Nel 1920, il 55% delle famiglie americane ne
possedeva una e nel 1927, di tutte le auto in circolazione nel paese, una su
due era l’indistruttibile Tin Lizzie.
Né va dimenticato, del primo Ford, il forte impulso riformista che
improntò le politiche aziendali rivolte alla manodopera immigrata
impiegata nelle sue fabbriche. In perfetta sintonia con le pratiche di
«americanizzazione» del periodo progressista (→ Melting pot), Ford non
lesinò alloggi modello, scuole di inglese e «feste del melting pot» che
mettevano in scena l’arrivo di immigrati sporchi e malvestiti e la loro
trasformazione in americani lindi e sorridenti. Per assicurarsi un
ampliamento della domanda di auto mettendo al contempo in sordina le
rivendicazioni sindacali, Ford istituì la settimana lavorativa di cinque giorni
e un salario di 5 dollari al giorno. Al cuore dell’impresa di Ford c’era quindi
l’idea – difesa con tenacia finché il mercato lo permise – che un’auto
durasse nel tempo e rispondesse ai bisogni di tutti (o quasi). Quando, nel
1923, la General Motors (Gm) affondò il suo attacco alla robusta Model T, lo
fece ribaltandone la filosofia: anziché essere progettate per durare il più a
lungo possibile, le auto sarebbero state pensate e create per essere sostituite
con un nuovo modello ogni anno, diventando così status symbol e
spingendo i consumatori al loro acquisto ripetuto.
La strategia spregiudicata e lungimirante del nuovo presidente della Gm,
Alfred Sloan, trovò un ottimo alleato in Pierre DuPont, il maggiore
azionista. Con loro, l’azienda investì non solo in ricerca tecnologica,
potenziando le mansioni di Charles F. Kettering (già famoso per aver
brevettato l’accensione elettronica), ma anche nel design di esterni e
interni. DuPont cominciò così a sperimentare nuove vernici per rendere gli
stessi modelli disponibili in più colori e incontrare in modo particolare il
gusto delle donne. Grazie infatti all’invenzione dell’accensione automatica
e a una serie di migliorie alla carrozzeria, anche il gentil sesso poteva
mettersi al volante e diventare target privilegiato di pubblicità tutte giocate
su una libertà femminile tanto moderna quanto ambigua (a conti fatti, la
condizione motorizzata si sarebbe presto tradotta in ulteriori mansioni
«domestiche» cui adempiere). Nel 1924, con una campagna pubblicitaria
capillare e battente, Sloan lanciò un nuovo prototipo della Chevrolet che,
pur presentando solo alcuni ritocchi alla carrozzeria, colpiva per la sua
freschezza. I giorni della vecchia Tin Lizzie erano finiti.
Che la Gm puntasse sulle componenti estetiche dei suoi veicoli fu ancora
più chiaro con l’assunzione, nel 1927, di Harley Earl, celebre disegnatore di
auto hollywodiane e convinto assertore dei principi dell’obsolescenza
pianificata. Earl avrebbe firmato, nel 1927, la LaSalle, mettendo Ford alle
strette. Chiusa la produzione della gloriosa Model T, Ford lanciò allora il
secondo successo della casa – questa volta in quattro colori (escluso il nero):
la Model A.
Il cosiddetto «cambio del modello annuale» introdotto da Sloan segnò
così uno spartiacque della storia dei consumi: una volta convinti della
convenienza di acquistare – spesso a rate – un macigno per il budget
familiare come l’automobile, gli americani avrebbero fatto lo stesso per
beni assai meno costosi (soprattutto gli elettrodomestici). Oltre a coincidere
con il declino della popolarità di Henry Ford (che rispose con la forza agli
scioperi operai → Sciopero!) gli anni della Grande depressione (→)
rallentarono l’espansione del mercato dell’auto a causa del crollo del potere
d’acquisto dovuto agli alti tassi di disoccupazione.
L’industria automobilistica americana sarebbe comunque rientrata a
regime con la Seconda guerra mondiale, crescendo in parallelo al boom
economico negli anni cinquanta: in quel decennio si sarebbero imposti
modelli sempre più ingombranti e dispendiosi (per lo spreco di materiali
utilizzati e per le quantità di benzina che trangugiavano), tenuti a battesimo
dalla Cadillac del 1948, disegnata da Frank Hershey con «pinne» posteriori
sensazionali. E nel 1952 la Gm avrebbe lanciato il suo nuovo «dinosauro», la
Cadillac Eldorado: alettoni ingranditi, parabrezza panoramico, paraurti
«Dagmar» (dal nome della statuaria soubrette televisiva dalle forme procaci
di quegli stessi anni) con due elementi sporgenti a mimare i seni di una pin-
up e cromature abbondanti e riflettenti, in cui le donne potevano
specchiarsi e, all’occorrenza, rifarsi il trucco. Sul finire del decennio, però,
Chrysler e Amc cominciarono a presentare modelli più snelli e sobri e nel
1959 i consumatori americani iniziarono a importare i «maggiolini» della
tedesca Volkswagen, più economici e concorrenziali non solo nell’acquisto
ma anche nel consumo di carburante.
Che l’auto avesse plasmato nel profondo la cultura e l’architettura
nazionale era ormai un dato incontrovertibile: il fiorire dei suburbs (→)
sarebbe stato impensabile senza la mobilità garantita dalle quattro ruote.
Queste, a loro volta, sarebbero andate ben poco lontano senza
l’approvazione dello Interstate Highway Act del 1956, la legge con cui
l’amministrazione Eisenhower inaugurava la costruzione di una rete di
autostrade su scala nazionale. In nessun altro periodo come negli anni
cinquanta la cultura motoristica riconfigurò il territorio e lo stile di vita
statunitensi, creando un’architettura stradale di luoghi di passaggio come
motel (→), drive-in (→), fast food (→ Hamburger) e malls (→), creati giusto
per soddisfare i bisogni degli automobilisti.
Al formarsi di un autentico regno dell’auto contribuirono quindi fattori
diversi: in primis, lo strapotere delle «Big Three» (Ford, Gm e Chrysler),
spesso consorziate con le multinazionali della chimica (DuPont) e del
petrolio (→ Oil!). Un caso emblematico fu quello del piombo tetraetile,
aggiunto da DuPont, Gm e Standard Oil alla benzina per migliorare le
prestazioni del motore a dispetto dei conclamati effetti deleteri sulla salute.
Il prezzo da pagare fu anche sociale: i trasporti a motore sbaragliarono tutti
gli altri (treni e tram), portando a un indebolimento delle reti pubbliche e
finendo col colpire chi un’auto non se la poteva permettere. Con la
recessione degli anni settanta, l’industria automobilistica americana
precipitò, portando alla progressiva chiusura degli storici stabilimenti del
Michigan e all’inesorabile degrado di città come Detroit: nasceva così la
«Rust Belt» (→ Cinture).
Quanto agli ultimi decenni, l’era dei Suv (nati come Sport Utility Vehicles
per le zone montagnose e trasformati in ennesimi dinosauri trangugia-
benzina) sembra continuare nel solco della tradizione, con le pubblicità
delle «Big Three» che non cessano di ricorrere al motivo della fuga
pastorale nella natura, raffigurando veicoli che scivolano su scenari idilliaci
in cui non v’è traccia umana. D’altronde, il modo migliore per sopravvivere
agli imbottigliamenti quotidiani sulle freeway delle grosse aree
metropolitane (Atlanta, Chicago, Washington, Houston, Phoenix,
Philadelphia, St. Louis, Los Angeles) sembra essere ancora, per molti (ma
non per tutti), l’automobile superaccessoriata in cui sorseggiare una tazza
di caffè bollente su comodi sedili ammortizzati.

BIBLIOGRAFIA
Reyner Banham, Los Angeles. L’architettura di quattro ecologie, Einaudi, Torino
2009.
James Flink, The Automobile Age, Mit Press, Boston 1988.
Jane Holtz Kay, Asphalt Nation: How the Automobile Took Over America and How
We Can Take it Back, University of California Press, Berkeley-Los Angeles
1997.
C. SCAR.

Molly Maguires
Il 21 giugno 1877, diciassette minatori d’antracite furono impiccati a
Pottsville e a Mauch Chunk, nella contea di Schuylkill, Pennsylvania
sudorientale; altri due minatori furono impiccati il 14 gennaio 1879, a
Mauch Chunk, pochi minuti prima che arrivasse la grazia del governatore
dello stato. Il tutto avveniva dopo una serie di processi sensazionali che, tra
il 1876 e il 1877, avevano visto come imputati – per omicidio, complotto,
cospirazione – decine e decine di minatori e come accusatori il presidente
della Philadelphia & Reading Railroad (che controllava anche la
Philadelphia Coal & Iron Company – il primo grande trust della storia
americana) e alcuni infiltrati e provocatori appartenenti alla Pinkerton
Detective Agency (→).
Facciamo ora un passo indietro di quasi dieci anni. Sei settembre 1869:
un incidente nella Avondale Mine, nella contea di Luzerne, Pennsylvania
sudorientale, fa 179 morti. È l’ultimo d’una tragica lista. Le condizioni nei
campi minerari d’antracite della Pennsylvania – scenari foschi, tenebrosi,
dominati dalla fuliggine – sono spaventose: la giornata lavorativa va
dall’alba al tramonto, i salari sono bassissimi (e spesso agganciati
all’aleatorietà del prezzo ufficiale del carbone), bambini fra i sette e i tredici
anni lavorano nei tunnel e agli scivoli per la cernita, i corpi dei minatori
sono martoriati dagli incidenti, deformati dalla fatica, indeboliti dalle
malattie. Il padronato si rifiuta di applicare le minime misure di sicurezza,
le miniere non hanno uscite d’emergenza, né sistemi di ventilazione e di
pompaggio, né solide armature: sono trappole mortali.
Passano cinque anni e, il 1º gennaio 1874, di fronte a un taglio di salari
del 20%, i minatori – circa 35mila, quasi tutti di origine irlandese, giunti
negli Stati Uniti fra gli anni quaranta e cinquanta incalzati dalla carestia,
dalla malattia della patata e dall’esercito britannico – entrano in sciopero:
sono membri della Workingmen’s Benevolent Association (Wba), primo
serio tentativo di organizzare i lavoratori a livello d’industria e non di
mestiere, e molti di loro appartengono anche all’Ancient Order of
Hibernians, una società semisegreta, simile alle logge massoniche, nata in
Irlanda e là protagonista della lotta contro gli inglesi. Lo sciopero paralizza
le miniere, dura sei mesi, ma infine, nel giugno 1874, è sconfitto dal
padronato, che fa uso di infiltrati, provocatori, killer prezzolati, stampa,
tribunali, corpi speciali di vigilantes (detti «Modocs» → Posse e vigilantes),
milizia statale; alcuni minatori vengono uccisi, parecchi sono incarcerati. La
Wba si mostra troppo conciliante, e gli Hibernians più giovani e decisi
optano per la continuazione della lotta: come afferma un canto nato in quei
mesi, «When the men go back to work, they must all be determined / To
prepare for a struggle in some future day».
A questo punto, il presidente della Philadelphia & Reading Railroad,
Franklin B. Gowen, contatta Allan Pinkerton e si accorda per un’azione più
decisa, volta a stroncare qualunque tentativo di organizzazione dei minatori
nella regione. Pinkerton invia l’agente James McParlan, che s’infiltra fra i
minatori. Da quel momento, in quei pochi anni prima dei processi e delle
impiccagioni, nasce la leggenda dei «Molly Maguires» – una leggenda che
pare costruita da Gowen, Pinkerton e McParlan, con il sostegno decisivo
della stampa. I «Mollies» in effetti altro non erano che i minatori combattivi
delle contee di Luzerne e Schuylkill: ma da quel momento qualunque
episodio di violenza nelle miniere (più spesso – come risulterà in seguito –
perpetrato dai Pinks stessi o dalle polizie private), verificatosi anche in altri
stati lontani, sarà attribuito a questa misteriosa organizzazione, il cui nome
sembra venire da quello di una vedova irlandese, protagonista della
resistenza antibritannica.
Le comunità delle contee minerarie della Pennsylvania sono compatte a
fianco dei militanti operai, ma la stampa locale e nazionale non perde
occasione per rovesciare calunnie e insinuazioni sui minatori: decine e
decine di articoli e opuscoli sono dati alle stampe per «documentare» i
crimini dei «Mollies», per accusarli di ogni possibile misfatto, per dipingerli
come feroci assassini, come «cospiratori stranieri» (ci si metterà anche
Arthur Conan Doyle, con il romanzo della serie di Sherlock Holmes La valle
della paura, del 1915). Gli Hibernians vengono arrestati e incriminati e,
quando avranno inizio i processi, sarà evidente ai più la falsità delle accuse,
delle prove, delle deposizioni; ma la Philadelphia & Reading Railroad, la
Philadelphia Coal & Iron Company e la Pinkerton Detective Agency sono
troppo forti: i 19 minatori vengono condannati a morte e impiccati, primi
martiri operai negli Stati Uniti usciti da poco dalla Guerra civile (→).
Il ricordo degli Hibernians (o dei «Mollies») resta vivo ancor oggi, in
quelle regioni (oltre che in romanzi e canzoni). A Eckley, per esempio,
piccolo villaggio minerario non lontano da Weatherly, in Pennsylvania (→
Cittadine fantasma), immersa nella grigia atmosfera di cumuli di materiale
di scarto, incastellature, scivoli e trenini, una piccola lapide ricorda «Molly
Maguire»: non a caso, proprio qui vennero girate numerose scene di un film
diretto da Martin Ritt (I cospiratori, 1970), che – pur con inevitabili
concessioni ai buoni sentimenti hollywoodiani – ricostruiva con aperta
simpatia la storia di quei minatori.
Le vicende di quegli anni fra il 1869 e il 1879 ebbero poi altri strascichi,
da tenere presenti. Il padre-padrone del trust ferroviario-minerario, Gowen,
si ucciderà in una stanza d’albergo a Washington nel 1889 – i motivi non
furono mai chiariti. Quanto al provocatore McParlan, continuerà nella sua
opera antioperaia: lo vedremo ricomparire, sempre agente, nel 1908,
quando funse da «consigliere» per Harry Orchard, altro infiltrato che cercò
(senza successo) di «incastrare» i leader della Western Federation of Miners
(William «Big Bill» Haywood, Charles Moyer e George Pettibone), con
l’accusa di omicidio dell’ex governatore del Colorado. Il lupo perde il pelo
ma non il vizio – specie se profumatamente pagato.

BIBLIOGRAFIA
Anthony Bimba, The Molly Maguires (1932), International Publishers, New
York 1970.
R.O. Boyer, H.M. Morais, Storia del movimento operaio negli Stati Unity, 1861-
1955, Odoya, Bologna 2012.
Kevin Kenny, Making Sense of the Molly Maguires, Oxford University Press,
New York 1998.
M.M.

Motel
Humbert Humbert, nel vagabondaggio lungo le strade d’America che
occupa la seconda parte di Lolita (1955), romanzo dell’esule Vladimir
Nabokov, impara a conoscere i motel, «cantucci puliti, lindi e sicuri, posti
ideali per il sonno, i litigi, le riconciliazioni, gli insaziabili illeciti amori». Il
direttore dell’Fbi, J. Edgar Hoover (→), invece, aveva altro in mente quando
criticò il comportamento fin troppo permissivo dei gestori di motel
nell’articolo «Camps of Crime»: gli scarsi controlli sui clienti e la
registrazione lacunosa di arrivi e partenze di fatto ne facevano luoghi ideali
per «malaffare, corruzione, consegna di tangenti, violenza carnale, furti,
tratta delle bianche, omicidi». Hoover era noto per il fervore con il quale si
dedicava alle indagini – ne sanno qualcosa le vittime del Maccartismo (→) –
e per dimostrare la pericolosità di alcune situazioni andava spesso oltre il
lecito. È d’altra parte indubbio che il motel, luogo che occupa lo spazio
intermedio tra il flusso delle autostrade e la staticità di una comunità o di
un villaggio, si presta a dare rifugio a coloro che avevano qualcosa da
nascondere. Non è un caso che innumerevoli film e serie tv (→) di genere
poliziesco (ma non solo), abbiano ambientato intere sequenze in una di
queste anonime strutture – valga per tutti la pellicola Non è un paese per
vecchi (2007) dei fratelli Coen, tratta da un romanzo di Cormac McCarthy: in
un motel di El Paso, città sulla frontiera con il Messico, il protagonista
Llewelyn Moss viene braccato dallo spietato e psicopatico cacciatore di
taglie Anton Chigurh. Ma come dimenticare il motel (anche qui, di una
cittadina di frontiera) in cui Janet Leigh, moglie dell’ufficiale di polizia
messicano Charlton Heston, viene drogata, nell’Infernale Quinlan di Orson
Welles (1958)?
L’affermazione dell’automobile come principale mezzo di locomozione
(→ Model T) rendeva il motel un «male» necessario. Nel corso degli anni
venti (→ Jazz Age), il numero degli autoveicoli in circolazione passò da
poche decine di migliaia a 23 milioni: commessi viaggiatori e gitanti del fine
settimana (quelli che se lo potevano permettere) adottarono con
entusiasmo quel nuovo mezzo che consentiva una maggiore libertà negli
spostamenti e di poter predisporre l’itinerario senza costrizioni di luoghi e
orari. Per le soste notturne si parcheggiava al lato della strada, mentre i più
organizzati montavano una tenda. I gestori delle prime stazioni di servizio
pensarono di allestire rudimentali cabine in legno dove gli automobilisti
avrebbero potuto riposare per la notte. Nei primi tempi, per un dollaro si
dormiva in una stanza all’addiaccio: venticinque centesimi extra per il
materasso e altri cinquanta per lenzuola e cuscino.
Il primo motel comparve nel 1925 a San Luis Obispo, in California. I
proprietari scelsero come nome «Motel Inn», abbreviando la locuzione
«Motorist Hotel», «hotel per automobilisti». Il vero boom iniziò solo dopo la
Seconda guerra mondiale, quando il ritrovato benessere e la fine del
razionamento dei combustibili incentivarono i viaggi in automobile per
affari e per diletto. Si andò standardizzando la struttura, che aveva sempre
al centro il parcheggio, dal quale era poi possibile accedere direttamente
alle stanze o ai bungalow, in pietra, mattoni, cotto, stucco o legno. La
competizione per attrarre i viaggiatori stimolò la creatività dei proprietari,
che non lesinarono risorse nell’installazione di cubitali scritte al neon o in
curiose trovate architettoniche, come nel caso del Wigwam Motel, le cui
cabine riproducevano la forma conica di tepee indiani (→ Architetture). Due
strutture di questa catena sono sopravvissute a San Bernardino, in
California, e a Holbrook, in Arizona.
Il motel più famoso, però, paradossalmente, non esiste. O meglio, la
costruzione è reale, ma non è mai stata un’attività commerciale. Si tratta
del Bates Motel, la struttura al centro di uno dei capolavori di Alfred
Hitchcock, il thriller Psycho (1960): una bionda segretaria in fuga (ancora
Janet Leigh!), dopo aver rubato una grossa somma di denaro a un cliente, ha
la malaugurata idea di pernottare nel motel gestito da Norman Bates e dalla
madre, e finirà la sua «corsa» nella doccia della stanza numero 1.
A quei tempi, i motel erano ancora per lo più strutture a gestione
familiare: il viaggiatore non era sicuro di quel che avrebbe trovato quanto a
pulizia, privacy e gentilezza del gestore, e ogni sosta poteva riservare
un’avventura. Forse, per evitare uno spiacevole incontro sulla falsariga di
Psycho nei decenni successivi i viaggiatori hanno preferito alloggiare nelle
strutture gestite dalle grandi catene: meno pittoresche e più costose,
davano la certezza di incorrere in minori rischi. E di essere
ragionevolmente sicuri di poter proseguire il viaggio, la mattina dopo.

BIBLIOGRAFIA
John A. Jakle, Keith A. Sculle, Jefferson S. Rogers, The Motel in America, Johns
Hopkins University Press, Baltimore 1996.
Chester H. Liebs, Main Street to Miracle Mile. American Roadside Architecture,
Little Brown, Boston 1985.
S.M.Z.

Movement
Intorno alla metà degli anni sessanta del Novecento, sotto la pressione di
tutta una serie di fattori, si sviluppò un composito e magmatico movimento
di protesta che, per un decennio almeno, occupò la scena statunitense. Il
lontano retroterra di quello che fu detto per l’appunto «Movement» andava
ricercato, nell’immediato secondo dopoguerra, nella profonda disaffezione
vissuta da una generazione in aperto conflitto (esistenziale e culturale) con
il «mondo degli adulti» e i suoi simboli più vistosi (→ Generazioni; → Gang),
oltre che nel generale inaridimento di un paese che appariva votato al puro
successo materiale e nelle pressioni non solo psicologiche della Guerra
fredda e della minaccia nucleare (→ Maccartismo, → Progetto Manhattan)
– un insieme di pulsioni e lacerazioni che aveva dato origine a reazioni e
risposte diverse, come dimostrano gli aneliti più o meno inespressi della
«gioventù bruciata» e la sperimentazione letteraria e culturale della beat
generation.
A ciò s’aggiunsero in seguito, come autentici detonatori, la risposta
sempre più di massa al razzismo diffuso negli stati del Sud (con la
mobilitazione non solo della popolazione nera, ma anche di ampi strati di
giovani bianchi del Nord → Back of the bus), le tensioni crescenti che si
andavano gonfiando nei ghetti delle principali metropoli e l’inconsistenza
politica di molte delle organizzazioni della cosiddetta «Vecchia Sinistra».
Infine, la guerra nel Vietnam (→), iniziata – a pochi anni dalla conclusione
della guerra di Corea – dall’amministrazione Kennedy (→ Camelot) e
proseguita dall’amministrazione Johnson (e poi Nixon), con la leva
obbligatoria che colpiva in modo particolare le minoranze etniche e i primi
resoconti su quanto stava avvenendo sul fronte di guerra, aggiunse altri
motivi di aspro dissenso.
Nel frattempo, il movimento nero evolveva dalla prospettiva dei «diritti
civili», tipica della middle class rappresentata da Martin Luther King Jr., alla
visione più militante e rivolta al ghetto di Malcolm X, sia nella sua fase
«musulmana» sia nella radicalizzazione in senso internazionalista degli
ultimissimi mesi di vita. L’uccisione del secondo nel 1965 e del primo nel
1968 (dunque, negli anni dei clamorosi, e mai spiegati in maniera
convincente, assassinii di personalità pubbliche → Teoria del complotto)
rappresentò un’autentica svolta simbolica – il senso vivo e drammatico di
una profonda degenerazione della vita americana. Così, da una costola dello
Students’ Non-Violent Coordinating Committee (Sncc), la principale fra le
organizzazioni che costituivano il «movimento per i diritti civili», nacque
intorno al 1966 il «Black Power» di Stokely Carmichael e H. Rap Brown, con
un’impostazione più antagonista e un legame maggiore con il
sottoproletariato urbano nero che, in quegli anni, era protagonista di
continue rivolte (nel 1965, a Watts, sobborgo di Los Angeles; nel 1966, 38
sommosse in città diverse, fra cui la più grossa a Chicago; nel 1967, 164, fra
cui le più estese a Newark e Detroit → Disordini).
La via era dunque aperta per un’ulteriore evoluzione, e questa si ebbe
nell’ottobre 1966. A Oakland, California, tre giovani del ghetto, Huey P.
Newton, Bobby Seale e Bobby Hutton, fondarono il Black Panther Party, il
«Partito della Pantera nera», sulla base di un programma in dieci punti che
riassumeva le rivendicazioni basilari per organizzare la comunità e opporsi
alla brutalità poliziesca: fra queste, una «piena occupazione per la nostra
gente», «un’istruzione che smascheri la vera natura di questa società
americana decadente», «abitazioni decenti, adatte a esseri umani»,
esenzione dal servizio militare degli uomini afroamericani, «fine immediata
della BRUTALITÀ DELLA POLIZIA e dell’ASSASSINIO della gente nera», «libertà per
tutti gli uomini neri detenuti nelle prigioni e nelle carceri federali, statali, di
contea e municipali». Forti del diritto riconosciuto dalla Costituzione di
recare armi purché non celate (→ Armi), Newton, Seale, Hutton e i primi
militanti presero a pattugliare le strade di Oakland, sorvegliando l’attività
degli agenti (pigs, nel gergo del ghetto). Gli scontri (verbali e fisici) che
seguirono, fra il piccolo ma deciso manipolo di Pantere nere e le forze
dell’ordine, colpirono nel profondo la gioventù proletaria e sottoproletaria
nera e segnarono un momento di crescita politica sia dell’organizzazione
sia delle masse dei ghetti, e il partito si diffuse nelle principali città. A quel
punto, la polizia reagì con attacchi alle sue sedi e con un’opera di
sistematica provocazione, infiltrazione ed eliminazione fisica dei militanti,
in accordo con la strategia del COINTELPRO (il programma disegnato da tempo
dall’Fbi per contrastare le organizzazioni di sinistra → Maccartismo). Il
diciassettenne Hutton fu la prima vittima, ucciso mentre usciva da una casa,
disarmato e con le mani alzate; seguirono decine di altri casi, fra cui il più
brutale fu l’uccisione nel sonno di Fred Hampton e Mark Clark, membri di
spicco del partito a Chicago. Il peso dell’organizzazione crebbe comunque,
grazie anche a un’attività diversificata mirante da un lato a rispondere alle
necessità immediate delle masse nere e dall’altro a una progressiva
radicalizzazione dei giovani.
Con una base teorica eclettica e a volte contraddittoria, oscillante fra
riformismo e radicalismo, le Pantere nere agirono su alcuni livelli specifici:
la mobilitazione del sottoproletariato del ghetto e l’appoggio alla
popolazione nera incarcerata; e il loro giornale, The Black Panther, con la
grafica graffiante e aggressiva curata da Emory Douglas, continuò per molti
anni a essere lo strumento efficace della loro politica. Che fu presto assunta
a punto di riferimento obbligato sia di altri gruppi etnici e bande giovanili
del ghetto sia, più in generale, di quello che cominciava a essere chiamato
«Movement». La prima gang a seguire l’esempio delle Pantere nere fu
quella degli Young Lords, espressione della minoranza portoricana di
Chicago, guidata da José (Cha-Cha) Jimenez, che si trasformò presto in
gruppo militante, incanalando la carica rabbiosa di malcontento che
caratterizzava le bande minorili verso obiettivi politici più radicali e
intrecciandoli a rivendicazioni di tipo nazionale come l’indipendenza di
Portorico. Mutuando dalle Pantere nere alcuni metodi di lotta oltre che lo
«stile» (divise, slogan,ecc.), gli Young Lords si consideravano tanto
un’organizzazione educativa quanto un gruppo di autodifesa armata, in
alleanza, ma non sempre con identità di vedute strategiche, con le Pantere.
In parallelo con la maturazione politica degli Young Lords, si verificò anche
quella della banda rivale dei Latin Kings, che presto confluì nella più ampia
Young Lords Organization, attiva a Chicago e New York, con il giornale
Palante.
Intanto, dall’altra parte del paese, si assisteva alla nascita, anticipata
dalla ormai lunga presenza del movimento chicano (→) nelle regioni del
Sudovest, dei Brown Berets, frutto della confluenza di varie bande giovanili
(come i Los Lobos) sotto il forte impatto delle Pantere nere nell’area
californiana. Insieme a loro (e al loro giornale La Causa), erano attivi la
Alianza Federal, la Mexican American Youth Federation, i Mission Rebels,
oltre alle organizzazioni sindacali create da Cesar Chavez, alla compagnia di
guerrilla theatre El Teatro Campesino (→ Teatri viventi) e ai vari gruppi
coagulatisi intorno al caso dei «Siete de la Raza», i giovani chicanos
incarcerati dopo uno scontro a fuoco nel Mission District di San Francisco,
nel 1969. Nello stesso tempo, i discendenti delle tribù Native American
presero a coagularsi intorno allo slogan «Red Power», formando organismi
diversi, impegnati nell’agitazione nelle riserve, nell’occupazione di territori
considerati parte della tradizione (come l’isola di Alcatraz → Isole), nella
risposta alla brutalità poliziesca, e dando infine origine a un variegato
American Indian Movement, con giornali come il Cherokee Examiner, l’Apache
Scout, il Navajo Times. Infine, anche la gioventù asiatico-americana, che nei
primi anni sessanta andava a poco a poco scoprendo il passato nascosto
della «bachelor society» (→ Chinatown) e le profonde sofferenze patite
dalle precedenti generazioni immigrate negli Stati Uniti, conobbe una
rapida radicalizzazione, con la nascita del gruppo I Wor Kuen, che formulò
un programma in dodici punti modellato sull’esempio di quello delle
Pantere nere.
In quest’universo caratterizzato dal risveglio militante delle minoranze
etniche, significativo fu poi il crearsi di gruppi giovanili bianchi, derivanti
da bande o da settori marginali e ultrasfruttati della popolazione non nera
(come i «bianchi poveri» degli Appalachi emigrati in grandi città come
Chicago), che proiettandosi oltre l’originaria dimensione puramente locale
(la «difesa del territorio») cominciavano a reagire al razzismo diffuso in
ampi strati sottoproletari bianchi. È il caso del Patriot Party, nato nel 1968
come gang di Chicago, e dello Stone Revolutionary Grease (con il giornale
Rising Up Angry), che riuniva una serie di gangs (i P-Stones, i Rangers, i
Disciples, le Latin Eagles), vicine alle bande di teppisti in motocicletta
tipiche degli anni quaranta e cinquanta (e immortalate dal Marlon Brando
de Il selvaggio, 1953). Di altre origini (più legate a un’impostazione
surrealista e situazionista), furono lo Youth International Party, o Yippie,
che, animato da personalità come Abbie Hoffman e Jerry Rubin o da gruppi
musicali come i Fugs di Ed Sanders e Tuli Kupferberg, intendeva proporsi
come radicalizzazione del movimento hippie anarchico, nonviolento e
controculturale, o il White Panther Party, guidato da John Sinclair e dal
gruppo rock degli MC5.
Un segmento più politicizzato e radicale era poi costituito dal gruppo di
militanti del Revolutionary Youth Movement, usciti a fine anni sessanta
dagli Students for a Democratic Society (Sda, organizzazione della Nuova
Sinistra statunitense attiva nel corso del decennio e alla testa di proteste,
mobilitazioni e occupazioni di università). Ispirandosi a un verso di Bob
Dylan («You don’t need a weatherman to know which way the wind
blows») e con una visione antimperialista e guerrigliera, il gruppo prese
nome di «Weathermen» (o «Weather Underground», quando scelse la
clandestinità) e fu protagonista di alcune azioni spettacolari (l’esplosione
che nel 1969 distrusse a Chicago il monumento alla polizia in ricordo dei
fatti di Haymarket Square →; i «giorni della rabbia», sempre nel 1969, per
protesta contro la guerra in Vietnam; attentati dimostrativi a stazioni di
polizia nel 1970 in risposta all’uccisione di George Jackson [→ Sbarre], e al
Pentagono nel 1972).
Le manifestazioni che, nell’agosto 1968, a Chicago, accompagnarono la
convention nazionale del Partito democratico, in vista delle elezioni
presidenziali del novembre, e sfociarono in parecchi giorni di violenti
disordini e di dura repressione (documentata in tempo reale dalle reti
televisive), costituirono in un certo senso l’apice e il punto di svolta di
questa prima fase. I fatti di Chicago culminarono nel «processo agli otto»,
tenutosi fra settembre e ottobre 1969, in cui alcuni leader dei principali
gruppi convenuti nella città per manifestare contro la guerra in Vietnam
furono giudicati con l’accusa di cospirazione: il processo, durante il quale la
Pantera nera Bobby Seale fu ammanettato e imbavagliato perché non
protestasse contro il giudice Hoffman e il suo modo di condurre gli
interrogatori, divenne una sorta di pageant (→), in cui si confrontavano e
scontravano la Vecchia America conservatrice e la Nuova America radicale
(un ruolo importante in quel frangente e più in generale in quegli anni fu
svolto dai vari collettivi di cinema militante, come Newsreel, o da cineasti
come Robert Kramer, che – nella tradizione del cinema documentarista
impegnato degli anni trenta – ripresero cortei, manifestazioni, processi,
ricostruirono episodi di brutalità poliziesca, narrarono il Movement,
contribuendo alla nascita del successivo «cinema indipendente»).
In tutti i casi, l’esempio delle Pantere nere fu decisivo e trascinante. Ma,
in un certo qual modo, proprio questa funzione di avanguardia finì per
indebolire il partito, già sottoposto al violento attacco statale, minato dalla
contraddittorietà della base teorica e presto segnato da gravi contrasti
interpersonali, che emersero soprattutto agli inizi degli anni settanta. Di
qui, la nascita di più fazioni in aspra lotta reciproca e infine, con la
scomparsa di alcuni dei leader più in vista, all’estinzione sostanziale, anche
se non formale, dell’organizzazione. Newton morirà nel 1989, vittima di
un’aggressione di strada mai del tutto chiarita, dopo aver da tempo
abbandonato il Bpp; Eldridge Cleaver, autore di saggi importanti come
Anima in ghiaccio (1968), morirà nel 1998, dopo aver egli pure abbandonato il
Bpp, ed essere stato protagonista della più famosa e traumatica scissione;
Bobby Seale e Elaine Brown, dopo aver diretto in periodi diversi il partito, lo
lasceranno nei tardi anni settanta. E in quel periodo scomparvero anche (o
si trasformarono) molte delle altre organizzazioni, nate sull’esempio delle
Pantere nere e riunitesi, agli inizi di quel decennio, nell’effimera Rainbow
Coalition.
Così, nella seconda metà degli anni settanta, vuoi come conseguenza
della persecuzione giudiziaria e poliziesca e della fragilità politico-
organizzativa dei vari gruppi e organizzazioni, vuoi per l’esaurirsi della
spinta anche emotiva legata alla guerra nel Vietnam (che si concluse nel
1975, con la caduta di Saigon → Vietnam) e per la fine del ciclo delle
rivoluzioni nazionali anticoloniali, vuoi infine per l’aprirsi di una nuova e
diversa fase economica caratterizzata da un ciclo sempre più ravvicinato di
recessioni, il Movement declinò, e le sue variegate componenti o
scomparvero del tutto o confluirono nel Partito democratico e in altre
organizzazioni come quelle ecologiste o infine ripiegarono su attività locali,
circoscritte, di quartiere e di area.

BIBLIOGRAFIA
Paolo Bertella Farnetti, Pantere nere. Storia e mito del Black Panther Party,
Shake, Milano 1995.
Bruno Cartosio, I lunghi anni sessanta. Movimenti sociali e cultura politica negli
Stati Uniti, Feltrinelli, Milano 2012.
Mitchell Goodman (ed.), The Movement toward a New America, Pilgrim Press,
Alfred A. Knopf, New York-Philadelphia 1970.
Mario Maffi, La cultura underground, Odoya, Bologna 2010.
M.M.

Muckrakers
Nel corso del primo decennio del Novecento, sulle pagine di riviste
prestigiose come McClure’s, Collier’s, Everybody’s, American Magazine, New
York Sun, Arena, Outlook, Cosmopolitan, Hampton’s, Pearson’s, comparvero circa
duemila articoli (senza contare vignette, disegni, inchieste di ampio respiro,
racconti e romanzi a puntate) di giornalisti e scrittori, che l’allora
presidente Theodore Roosevelt definì con sarcasmo muckrakers. Il termine
era preso a prestito dall’opera del puritano inglese John Bunyan Pilgrim’s
Progress (1678) e indicava l’«Uomo con il Rastrello del Letame» che, invece
di guardare in alto e di considerare la corona celestiale che gli veniva
offerta, teneva gli occhi fissi in basso e frugava nella sporcizia sparsa a
terra.
I muckrakers erano dunque giornalisti legati ad alcune importanti riviste,
oppure giornalisti indipendenti, oppure ancora uomini d’affari che avevano
abbandonato il gioco conservando un’approfondita conoscenza dei vecchi
ambienti e dei loro meccanismi di funzionamento, o infine strani miscugli
di cacciatori di scandali, sociologi dilettanti, giornalisti di costume; ma
anche romanzieri che tentavano una sintesi fra narrativa e giornalismo di
denuncia, basato su inchieste e documentazioni accurate, sull’onda della
stessa evoluzione che andava subendo il realismo letterario – come Frank
Norris, autore di una «Trilogia del grano» rimasta incompiuta, o Upton
Sinclair, autore de La giungla, sui macelli di Chicago (→ Porkopolis). Con il
tempo, alcuni nomi rimasero famosi come iniziatori di un «genere»
destinato ad avere vita lunga – e a diventare in un certo modo
«classicamente americano» (tanto per fare due esempi, il Truman Capote di
A sangue freddo del 1966 – ricostruzione dell’assassinio di un’intera famiglia
nel Kansas – o i due giornalisti del Washington Post, Bob Woodward e Carl
Bernstein, che nel 1972 portarono alla luce l’«Affare Watergate» →,
s’inseriscono a pieno titolo in questo filone): oltre a quelli dei due
romanzieri citati sopra (ma anche di Jack London con La strada e Il popolo
dell’abisso, di John Reed con i suoi reportage dal fronte della guerra di classe
negli Stati Uniti o di Theodore Dreiser con i suoi «romanzi-affresco» sulla
società del tempo), spiccano i nomi di Lincoln Steffens, Ray Stannard Baker,
Charles Edward Russell, Ida Tarbell, Mary Van Vorst, Josiah Flynt, David
Graham Russell e molti altri.
Quali i loro temi? L’elenco è lungo: il mondo degli affari e ciò che avviene
dietro le quinte all’insaputa del cittadino medio (The History of the Standard
Oil Company, di Ida Tarbell), il sistema giudiziario e i suoi legami con l’alta
finanza (Big Business and the Bench, di Christopher Powell Connolly), lo
strapotere delle ferrovie con relativi intrallazzi economico-politici (Stories of
the Great Railroads, di Charles Edward Russell), le origini delle grandi
ricchezze e dei grandi potentati (The History of the Great American Fortunes, di
Gustavus Myers), il trust dell’industria alimentare (Upton Sinclair, Charles
Edward Russell, Louise Eberle), le condizioni di vita negli slums (How the
Other Half Lives di Jacob Riis), il lavoro femminile e minorile (The Woman Who
Toils, di Marie Van Vorst; The Bitter Cry of Children di John Spargo), gli stretti
legami fra polizia e sottobosco criminale (The Powers That Prey di Josiah
Flynt), le rendite e speculazioni delle varie chiese e sette religiose (The
Tenements of Trinity Church, di Charles Edward Russell), la corruzione
politico-amministrativa delle grandi città (in pratica, tutta l’opera di
Lincoln Steffens); e ancora: la proliferazione di dubbie «specialità
farmaceutiche», l’operato delle compagnie di assicurazione, i disordini
razziali nel profondo Sud e nel democratico Nord, la situazione della classe
operaia e i conflitti sociali nelle campagne, la prostituzione e la «tratta delle
bianche», i «bianchi poveri» del Sudest – in buona sostanza, ogni piega (e
piaga) della vita americana cadeva sotto la lente d’ingrandimento di questi
investigatori del sociale. Stili diversi, i loro: quello che si sviluppava a
partire da un’«indagine scrupolosa, svolta in grande stile e con grosse
disponibilità di mezzi» (Frank Luther Mott), caratteristico di periodici come
McClure’s, e quello più impressionistico, risonante d’indignazione, a un
passo dal sensazionalismo – e spesso un’abile fusione dei due, a dar più
forza alla denuncia.
Vari i fattori alla base di quest’esplosione giornalistico-letteraria: le
profonde trasformazioni economico-sociali dei decenni successivi alla
Guerra civile (→), l’esperienza ormai pluridecennale del realismo letterario,
l’emergere di correnti politiche come l’utopismo di Edward Bellamy, il
populismo di Henry George, il socialismo di Debs e DeLeon, l’esistenza di
«riviste popolari» che avevano ricevuto l’impulso da nuove tecniche di
stampa e di quotidiani metropolitani densi di notizie e rivelazioni; e poi
l’uso sempre più frequente di illustrazioni (→ Bidoni della spazzatura) e di
fotografie (→ Occhi indiscreti), che permettevano di accompagnare i testi
con immagini di forte impatto emotivo, e l’affermarsi di un filone di studi
sui malanni delle metropoli, di autobiografie e memoirs di ex ladri ed ex
prostitute, di ex carcerati ed ex vagabondi.
Fenomeno complesso, quello del muckraking, e dalle tante anime
contraddittorie. Dentro di esso, si agitavano infatti il desiderio di un
impossibile ritorno indietro alla fase liberista e jeffersoniana (o jacksoniana)
della Frontiera (→), l’aspra critica populista o anche socialisteggiante, il
tentativo di operare un ringiovanimento della vita politica ed economica
attraverso una mobilitazione dal basso (lo stupore e l’indignazione) del
common man, l’idea della «perfettibilità del sistema», un forte bisogno di
rassicurazione nell’epoca delle grandi crisi e di scenari mondiali nuovi per
un paese rimasto per più di un secolo chiuso entro i propri confini, uno
slancio razionalizzatore ed efficientista per far fronte alle sfide di quella che
era già «globalizzazione».
Intorno al 1913, il movimento rifluisce e si spegne (o meglio, affonda
come un fiume carsico, pronto a tornare in superficie): da un lato, una certa
assuefazione del pubblico a questo genere di denuncia svuota il muckraking
di vigore e incisività; dall’altro, il processo di ristrutturazione generale della
società Usa messo in atto dal Progressismo (con T. Roosevelt in prima fila)
conclude la sua prima fase e rende in qualche modo superfluo un simile
apporto «ideologico». La data del 1913 è sintomatica: così vicina allo
scoppio della Prima guerra mondiale, in una fase di alta conflittualità
operaia (→ Sciopero!), al termine di un’ennesima grave crisi economica,
sotto lo shock del primo grande trionfo elettorale socialista (sia pure di
contenuto politico alquanto ambiguo). Le varie correnti si trovarono così di
fronte a un inevitabile spartiacque: quella efficientista filocapitalista
avrebbe ben presto avuto logico sbocco nella capillare mobilitazione
ideologica a favore dell’intervento in guerra; quella anticapitalista di
stampo «populista» o «reazionario» conosceva una sconfitta decisiva e
poteva sopravvivere solo confluendo nella destra del Socialist Party (che,
fin dagli inizi, abbracciava pure posizioni simili); infine, quella
anticapitalista di stampo più radicale avrebbe trovato il terreno ideale
nell’aperta lotta di classe, in riviste come The Comrade, The Masses, Mother
Earth, The International Socialist Review.
Di lì a pochi anni, con la crisi del 1929 e l’aprirsi della Grande
depressione, in forme diverse ma non poi così lontane, i «rastrellatori di
letame» avrebbero di nuovo avuto di che scrivere e di che denunciare, e la
loro scrittura sarebbe confluita nella grande stagione letteraria di quel
decennio.

BIBLIOGRAFIA
Mario Maffi, La giungla e il grattacielo. Gli scrittori, la lotta di classe e il «sogno
americano». 1865-1920, Odoya, Bologna 2012.
Frank Luther Mott, A History of American Magazine. 1885-1905, Harvard
University Press, Cambridge 1957.
Harvey Swados (ed.), Years of Conscience. The Muckrakers, World Publishing
Co., Cleveland-New York 1962.
M.M.
[N]

Nerds
È negli anni ottanta del Novecento che, anche grazie a una pellicola di
successo di Jeff Kanew (La rivincita dei nerds), questo fenomeno sociale
conosce un vero e proprio boom di visibilità: contrapposta ai jocks,
ragazzotti americani dall’aspetto atletico, poco studiosi e molto muscolosi,
membri di confraternite goliardiche e bramati dalle coetanee, c’è appunto
la categoria degli adolescenti flagellati dall’acne, coperti da occhiali dalle
montature squadrate e devastati da infelici apparecchi per i denti.
Nell’immaginario collettivo, i nerds si aggirano per i corridoi delle high
schools del paese con lo sguardo perso, gli occhi bassi o intenti alla lettura di
un qualche esotico romanzo di fantascienza, oppure, in alternativa, di un
fumetto. Sebbene siano da sempre bersaglio dello scherno dei loro coetanei
più fortunati, il vento sembra cambiare negli ultimi due decenni del
Novecento: una decisa inversione di rotta accompagnata dall’uscita nel
1984 – lo stesso anno del film di Kanew – di Neuromante di William Gibson,
un libro tutto giocato sulla tecnologia cyborg (delizia di ogni nerd), e dal
«nerd rock» di Elvis Costello, il cui look (pantaloni troppo corti, giacche
troppo strette, occhialoni di tartaruga) è un omaggio studiato all’intero
genere.
Tuttavia, le prime tracce di «nerditudine» risalgono agli inizi del
Novecento, con l’istituzione dell’educazione fisica (→ Baseball) e con
Theodore Roosevelt che non lesina peana alla «Strenuous Life» all’aria
aperta contro l’eccessivo addomesticamento dell’uomo americano. Lo sport
offre appunto un’opportunità di rinvigorire la virilità maschile, e vale forse
la pena di ricordare che, nel 1914, Yale inaugura il più grande stadio di
football del tempo (→ Football). I ragazzi che si rifiutano di partecipare a
queste attività studentesche – perché maldestri, svogliati o semplicemente
poco interessati – vengono etichettati come «greasy grids» o «greasers», e
possono essere considerati antesignani dei nerds. È poi durante la Grande
depressione (→) che il tipico look da nerd (parola però non ancora diffusa)
prende vita, quasi di pari passo alla prima conferenza di fantascienza (a
Philadelphia, nel 1936) e alla divulgazione dei primi fumetti (l’attuale
Comic-Con International, il convegno mondiale del fumetto, resta un
appuntamento nerd per eccellenza → Comics). D’altronde, non è un caso
che, nel 1936, il disegnatore Sheldon Mayer pubblichi una striscia che ritrae
un aspirante fumettista, Scribbly, con occhialoni e denti sporgenti.
Quale sia l’etimo della parola «nerd» è difficile dire con certezza: la
versione più accreditata vuole che tutto nasca intorno al 1950, con un
personaggio di nome Nerd del libro per bambini del Dr. Seuss, If I Ran the
Zoo; mentre assai meno verosimile sarebbe la paternità del pupazzo
Mortimer Snerd del ventriloquo Edgar Bergen. Ma il vero battesimo
linguistico arriva grazie a un articolo comparso sulla rivista Newsweek nel
1951, che riporta come la parola «nerd» sia usata a Detroit quale sinonimo
di «drip» o «square» (ovvero «squadrato»), con riferimento a tipi noiosi e
dal look sorpassato.
È quindi solo tra gli anni cinquanta e sessanta che lo stereotipo nerd
prende corpo definitivamente, con la pubblicazione della rivista umoristica
del Rensselaer Polytechnic Institute Bachelor (1952-1971) e l’uscita nelle sale
cinematografiche di Le folli notti del Dottor Jerryll (The Nutty Professor, 1963),
interpretato da Jerry Lewis nelle vesti di Julius Kelp, scienziato con camice
bianco e dentoni pateticamente maldestro che si trasforma, novello Jekyll,
in un hipster-Hyde.
Più di recente, i nerds sono in gran rispolvero, con la Silicon Valley (→)
(incubatrice di giovani virgulti supertecnologici) e Bill Gates (capo
dell’impero Microsoft) ad aiutare non poco la loro definitiva riabilitazione
sociale ed economica. Tra le caratteristiche più comuni – oltre a quelle
fisiche già elencate – si possono ricordare una genialità monotematica e
spesso esclusiva, una difficoltà emotiva e comunicativa al di fuori di un
ristrettissimo ambito relazionale e una scarsa propensione alla vita pratica,
alla sensualità, alla fisicità (Brian Eno, offrendo un compendio suggestivo,
sebbene terribile, dell’intera genia ha affermato che «un nerd è un essere
umano che ha poca Africa dentro»).
Intanto, la rivincita dei nerds continua. Lo dimostra il successo di The Big
Bang Theory (2007-), una sitcom (→ Serie tv) della Cbs in cui due geni della
fisica che studiano al California Institute of Technology di Pasadena e
condividono l’appartamento, passano il loro tempo con un’altra coppia di
nerds, rispettivamente un ingegnere aerospaziale e un astrofisico, e si
affannano appresso alla biondina della porta accanto che fa la cameriera ma
sogna di diventare un’attrice. Andatura maldestra, approccio all’altro sesso
disastroso, alimentazione tendente al junk food, feticismo verso ciò che
riguarda robot (→), calcolatori e computer, poster dei personaggi di Star
Wars in dimensioni reali e una serie di accessori freak che, pur mutando coi
tempi, restano, nella sostanza, sempre uguali a se stessi. È il mondo dei
nerds; chiunque, nella quotidianità, ne può avvistare uno. Le più fortunate,
poi, come la biondina di Big Bang Theory, potranno avere la ventura di essere
goffamente corteggiate da un nerd almeno una volta nella vita e di lasciarsi
conquistare dall’irriducibile coefficiente di nerditudine che alberga dietro a
due lenti troppo spesse e un sorriso foggiato sulle antenne dello Sputnik.

BIBLIOGRAFIA
David Anderegg, Nerds: Who They Are and Why We Need More of Them, Tarcher-
Penguin, New York 2007.
Benjamin Nugent, Storia naturale dei nerd, Isbn Edizioni, Milano 2011.
C. SCAR.

Newport Folk Festival (o della musica folk)


Newport è una cittadina dello stato del Rhode Island, sita sull’isola
Aquidnek, dalla storia lunga, densa e interessante, piena delle specificità e
delle contraddizioni della storia americana. Qui, nel 1959… Ma facciamo
prima un passo indietro.
Nel 1927, il poeta Carl Sandburg, erede e continuatore di una tradizione
in cui la voce e il respiro e il verso recitato e cantato con tutto il corpo sono
la caratteristica distintiva (una tradizione che da Walt Whitman giunge fino
ad Allen Ginsberg), raccolse e pubblicò, dopo molti anni di studio sul campo,
quasi trecento canzoni (testo e musica): The American Songbag. I titoli delle
sezioni in cui è suddiviso quel grosso libro sono eloquenti: «Drammi e
ritratti», «Il vecchio Sud», «Canzoni Minstrel», «Storie d’amor perduto o
del tempo coloniale e rivoluzionario», «Frankie e il suo uomo», «Ricordi dei
pionieri», «La stella splendente del Kentucky», «I Lincoln e gli Hanks», «I
Grandi Laghi e il Canale Erie», «Canti degli Hoboes», «La grande città
brutale», «Canti di prigione», «Blues, canti per stare insieme, canti da
ballo», «I grandi spazi aperti», «Canti della frontiera messicana»,
«Montagne del Sud», «Motivi folli per picnic e fienagione e altre frivolezze
in musica», «Canti di lavoro sulle ferrovie e altro», «Boscaioli, taglialegna e
apprendisti», «Marinai», «Biografie di banditi», «Cinque guerre», «Gente
meravigliosa», «La strada per il Paradiso». Ogni sezione (tranne quelle più
specifiche) è diacronica, copre un ampio arco di tempo e contiene pezzi
diventati ormai classici e melodie rimaste per lo più sconosciute, ballate
modellate su temi inglesi, scozzesi, irlandesi e motivi nati dall’esperienza
americana: abbiamo così «Boll Weevil Song» e «Foggy, Foggy Dew», «Barbra
Allen» e «Frankie and Johnny», «Sweet Betsy From Pike» e «Red River
Valley», «Lincoln and Liberty» e «The Erie Canal», «Halleluja, I’m a Bum!» e
«The Poor Working Girl», «Midnight Special» e «C.C. Rider», «Poor
Lonesome Cowboy» e «La Cucaracha», «Lonesome Road» e «Mary Had a
William Goat», «Poor Paddy Works on the Railway» e «Mule Skinner’s Boy»,
«Across the Western Ocean» e «Jesse James», «Hinky-Dinky, Parlee-Voo» e
«The Weaver», «Ain’ Go’n’ To Study War No Mo’» e «Bury Me Not on the
Lone Prairie», e via di seguito – un «sacco pieno di canzoni», che coprono in
pratica la storia e la geografia d’America. Scrive Sandburg
nell’«Introduzione»: «Onesti lavoratori e criminali incalliti cantano la loro
vita; ci trovate amati vagabondi e miserabili miscredenti; bei bambini e
madri stanche, ragazzacci e padri ansiosi, gente grassa, uomini e donne
spensierati e allegri, e inquieti e disperati: tutti vengono qui alla ribalta e in
ballate vivaci o malinconiche melodie narrano che cosa ha fatto loro la vita.
The American Songbag viene dai cuori e dalle voci di migliaia di uomini e
donne. Hanno composto nuove canzoni, hanno cambiato le vecchie, hanno
portato le canzoni da un posto all’altro, hanno resuscitato e tenuto in vita
canzoni morenti o dimenticate». E sembra un’anticipazione di ciò che
avrebbe scritto, di lì a pochi anni, dal tremendo osservatorio della Grande
depressione (→), John Dos Passos, nella breve prefazione alla trilogia U.S.A.,
uno di quei testi onnicomprensivi che narrano la storia di un paese:
«Soprattutto, U.S.A. è la voce della gente comune (people)».
Questo enorme repertorio (cui bisognerebbe però aggiungere una
sezione dedicata alle canzoni legate alla condizione carceraria e che non s’è
certo esaurito nel 1927 e con The American Songbag: la Grande depressione lo
avrebbe ampliato ancor più e il secondo dopoguerra avrebbe trovato altre
strade e altri strumenti per continuare la narrazione), comune ai paesi che
si formano in maniera travagliata in nazione, rimanda a una caratteristica
particolare dell’esperienza americana: l’oralità. Nascendo quell’esperienza
dalla convergenza di immigrazioni diverse, spesso molto lontane per lingua
e tradizioni, e sviluppandosi con rapidità attraverso spazi enormi,
dall’Atlantico al Pacifico, dai Grandi laghi al Golfo del Messico, superando
ostacoli naturali e umani, «contenendo le moltitudini» (come avrebbe
scritto Whitman) e il singolo, l’epica e la tragedia, la promessa e la ferocia,
la costruzione e la distruzione, quell’esperienza aveva bisogno di un
collante, di un filo conduttore, di un leitmotiv, e lo trovò nella voce – nella
voce che narra, che trasmette, che accomuna e coinvolge.
Attraverso l’Ottocento, questa canzone popolare, questo repertorio folk,
avrebbe costituito una forma di autentica «storia dal basso» (di cui la
«canzone di lotta», non a caso, rappresentava uno dei capitoli più
significativi → «Which Side Are You On?»). E nel nuovo secolo che, con
radio, incisioni, dischi e man mano altri media, avrebbe reso più facile la
diffusione di questo repertorio, al tempo stesso «personalizzandolo» più di
quanto non succedesse in origine, quella «voce» si sarebbe andata
caratterizzando, sotto la guida di ricercatori come John e Alan Lomax, di
discografici come Moses Asch e in un rapporto dialettico fra «autore» e
creazione collettiva: da Joe Hill e dai canti dei wobblies (→) a Woody Guthrie
e alla Grande depressione (con Aunt Molly Jackson, Florence Reece), da Pete
Seeger e dai molti altri nomi e gruppi della riscoperta folk, impegnata e
politica, negli anni quaranta e cinquanta (e dopo) alla tradizione country di
Willie Nelson, Johnny Cash, Dolly Parton, Kris Kristofferson(→ Grand Ole
Opry), da Phil Ochs e dalle canzoni di protesta degli anni cinquanta e
sessanta, fino a esempi più recenti, diversi per origini e contaminazioni, ma
vicini a quel genere variegato e magmatico (Bruce Springsteen, Utah
Philips, Ani DiFranco).
Proprio per conservare, riproporre e rendere viva e vitale questa
tradizione, nacque dunque, nel 1959, l’annuale Newport Folk Festival, a
Newport, cittadina del Rhode Island. A fondarlo fu George Wein (che cinque
anni prima aveva inaugurato l’analogo Newport Jazz Festival), con l’aiuto
decisivo di tre grandi nomi della musica folk – Theodore Bikel, Oscar Brand
e Pete Seeger – e dell’imprenditore musicale Albert Grossman. Da allora
(con qualche momento di crisi e qualche intervallo) è rimasto il più famoso
e accreditato fra i molti festival folk che si tengono in giro per gli Stati Uniti.
Nella sua prima edizione, il pubblico sentì cantare una diciottenne ancora
poco nota di nome Joan Baez – e, quattro anni dopo, Baez presentò al
Festival il coetaneo Bob Dylan: per due anni, Baez e Dylan furono un
appuntamento fisso, l’attrazione del festival. Poi, nel 1965, Dylan si
presentò in scena con un gruppo rock dotato di strumenti elettrici: lo
scandalo che seguì segnò il distacco di Dylan dalle originarie radici folk e
l’inizio di un’altra strada e avventura.
In questi decenni, sul palco del Fort Adams State Park, si sono alternati
old timers come i tre fondatori, i Weavers, il trio Peter, Paul and Mary, Burl
Ives, Peggy Seeger, Leadbelly, Bob Gibson, il Kingston Trio, Odetta, Josh
White, Phil Ochs, Richard Fariña, Johnny Cash, Malvina Reynolds, Dave Van
Ronk, Judy Collins, e molti altri (anche da altre parti del mondo, come lo
scozzese Ewan MacColl), e nuovi talenti come Arlo Guthrie (figlio di
Woody), Buffy Sainte-Marie, John Denver, Linda Ronstadt – un mondo di
voci diverse, che nel 2009 si sarebbe riunito per celebrare il mezzo secolo di
un’espressione che non è solo musicale, ma che abbraccia – per l’appunto –
un’intera esperienza. La voce della gente comune.

BIBLIOGRAFIA
Robert Cantwell, When We Were Good. The Folk Revival, Harvard University
Press, Cambridge 1996.
David A. DeTurk, A. Poulin Jr. (eds.), The American Folk Scene: Dimensions of the
Folk Revival, Dell Publishing Co., New York 1967.
Alessandro Portelli, Canzone politica e cultura popolare in America. Il mito di
Woody Guthrie, DeriveApprodi, Roma 2004.
Pete Seeger, Where Have All the Flowers Gone: A Singer’s Stories, Sing Out
Publications, Bethlehem 1993.
M.M.

Niagara
Un piccolo fiume, il Niagara River, scorre impetuoso tra il lago Ontario e il
lago Erie, in direzione nord, segnando il confine tra Canada e Stati Uniti. A
metà circa del percorso, le acque precipitano per un dislivello di 58 metri. Il
fronte è diviso in due parti, sull’orlo del precipizio, da un lembo di terra
chiamato Goat’s Island. La porzione orientale è in territorio americano (da
qui la denominazione American Falls), con un fronte lungo 323 metri. La
porzione occidentale, molto più spettacolare per la forma a ferro di cavallo
(le Horseshoe Falls), è interamente in territorio canadese, ed è lunga 800
metri. Dopo il salto, le acque scorrono lungo un canyon scavato nel corso di
diecimila anni.
Le cascate del Niagara (in lingua irochese, «Terra tagliata in due») non
sono le più alte al mondo (il primato spetta al Salto Angel, in Venezuela: 973
metri) né quelle più spettacolari (Foz de Iguazù, tra Argentina e Brasile), e lo
scenario naturale circostante è tutt’altro che incontaminato. Si tratta, però,
di un luogo in cui si possono vedere gli effetti di quella particolare
propensione americana a modellare il paesaggio naturale secondo la logica
del profitto, sfruttandone sia l’appeal naturalistico per trasformare le
cascate in una delle prime destinazioni del turismo di massa, sia l’energia
prodotta dalle acque per azionare i macchinari delle fabbriche e portare la
luce elettrica nei principali centri del Nordest.
Sin dall’apertura dell’Erie Canal (1825 → Vie d’acqua), che collegava
Buffalo al fiume Hudson (e quindi a New York), le cascate erano diventate
una delle destinazioni preferite per soggiorni turistici, in particolare per le
coppie di sposi in luna di miele – ma non solo. Sin dall’inizio, gli operatori
turistici si convinsero che lo spettacolo naturale non era sufficiente e
pertanto occorresse trovare qualche stratagemma per indurre i visitatori a
prolungare la loro permanenza. E così il paesaggio fu trasformato in
palcoscenico.
La prima, crudele rappresentazione si svolse nel pomeriggio dell’8
settembre 1827. Su un vecchio battello ormai pronto alla pensione furono
caricati due orsi, un bisonte, due volpi, un’aquila e quindici oche.
L’imbarcazione venne abbandonata alla corrente e andò in pezzi prima di
raggiungere il ciglio della cascata. Sopravvisse solo una delle oche – ma
poco importava: tutta la provvista di alcol e birra era andata esaurita dai
tantissimi curiosi che erano accorsi per l’occasione.
Due anni dopo fu la volta di Sam Patch, un giovane la cui specialità erano
i tuffi nel vuoto da altezze considerevoli. Si gettò da Goat’s Island e ne uscì
indenne per due volte – la seconda, diecimila persone assistettero
all’impresa (qualche tempo dopo, Patch affrontò le cascate del fiume
Genesee, nei pressi di Rochester, nello stato di New York, ma ci lasciò la
vita).
Il momento decisivo che sancì il trionfo dell’intrattenimento sulle
bellezze paesaggistiche fu l’estate del 1858, quando un minuto equilibrista
francese, noto come Monsieur Blondin (vero nome: Jean François Gravelet)
annunciò di volersi cimentare nell’attraversamento del canyon su un cavo
sospeso tra le due sponde. Durante la stagione, Blondin portò a termine
l’impresa per otto volte, e in ogni occasione si ingegnò per stupire il
pubblico con qualche nuova trovata: calò un bicchiere nel fiume con un filo
per berne l’acqua, portò il suo agente in spalla, cucinò un’omelette con un
fornelletto portatile… Dopo Blondin, la schiera degli intrepidi sfidanti della
sorte aumentò – ognuno proponendo nuovi e diversi cimenti. Alcuni
perirono nell’impresa, andando ad aggiungersi a una lunga teoria di
individui che sceglievano la maestosità delle cascate come sfondo per il loro
addio alla vita. Vale però la pena di ricordare Annie Taylor, una vedova di
63 anni, la quale, in cerca di qualche soldo per la pensione, nell’ottobre del
1901 fu la prima ad affrontare le rapide del fiume e le cascate a «bordo» di
una botte di legno. La donna sopravvisse alla caduta con qualche
ammaccatura, ma peccò di ingenuità nella gestione dell’impresa (per
esempio, non ebbe l’accortezza di recuperare la botte dentro la quale aveva
effettuato il salto) e non riuscì a trarne gli sperati profitti.
Attorno a questi cimenti si era consolidata una macchina mangiasoldi
che spremeva i turisti fino all’ultimo centesimo. Un agricoltore in vacanza
con la famiglia nel 1877 ha lasciato una lista dettagliata delle spese per
accedere ai percorsi e panorami che erano stati ricavati attorno alle cascate:
un dollaro per passeggiare sul ponte sospeso tra Canada e Usa, 2 dollari e 25
centesimi per accedere a Goat’s Island, 4 dollari per percorrere il cunicolo
sotto le Horseshoe Falls, 6 dollari per la Cava dei Venti. Gli albergatori
riuscivano a mungere anche il più parsimonioso dei visitatori – il Table
Rock Hotel, per esempio, si conquistò il titolo di «Caverna dei quaranta
ladroni»: gli ospiti (condotti da vetturini in combutta con gli albergatori)
erano costretti a pagare cifre enormi per le consumazioni e le escursioni
alle cascate, e persino malmenati se si rifiutavano.
Così, era del tutto naturale che prima o poi le cascate sarebbero state
trasformate in set cinematografico: e ciò avvenne nel 1953, con il film
Niagara. Come ebbe a scrivere il New York Times, il regista Henry Hathaway
fu in grado di sfruttare al meglio e armonizzare l’ottava e la nona
meraviglia del mondo: le cascate e la bellezza esplosiva di Marylin Monroe.
La storia di infedeltà coniugale al centro del film si consuma tra i bungalow
di un motel e i percorsi turistici, con la cinepresa che indugia sulle acque
scroscianti ma anche sulle curve della protagonista (nel 1979, il regista
Jonathan Demme avrebbe concluso sotto le medesime acque scroscianti il
drammatico Il segno degli Hannan, rivisitazione fuori dagli schemi e in chiave
thriller del tema dell’identità ebraico-americana → Etnicità; → Kosher).
Lo sfruttamento industriale iniziò più tardi rispetto a quello turistico:
l’energia liberata dalla forza del Niagara River faceva gola, e il fatto che non
venisse utilizzata era considerato un inutile spreco. Risale al 1882 lo scavo di
un primo canale che raccoglieva una parte delle acque del fiume per
azionare i macchinari di alcune fabbriche. Nei dieci anni che seguirono,
alcune grandi aziende (come il gigante dell’alluminio Alcoa e la
petrolchimica DuPont) trasferirono i propri stabilimenti a Niagara Falls. Nel
1896, poi, l’ingegnere serbo Nikolaj Tesla riuscì a trovare il modo di
trasportare la corrente elettrica da una centrale (progettata dall’archistar
Stanford White) fino a Buffalo. Da quel momento, l’energia prodotta a
Niagara Falls sarebbe servita per illuminare abitazioni di tutto il Nordest
degli Stati Uniti.
Lo sfruttamento delle risorse non procedette senza inconvenienti: due
episodi in particolare hanno generato aspre controversie. Il primo ebbe
come avversari Robert Moses, plenipotenziario dello stato di New York, e gli
indiani tuscarora, i quali vivevano in una piccola riserva situata vicino a
Lewiston, la città a valle delle cascate dove era in progetto la costruzione di
una nuova centrale elettrica. Nel piano, figurava un bacino d’acqua di
scorta e Moses individuò come unico luogo possibile per realizzarlo la
riserva tuscarora: sarebbe stato molto più problematico espropriare i
cittadini di Lewiston, da cui si temeva un’opposizione agguerrita, senza
contare che lo stato avrebbe dovuto rinunciare alla imposte sulle loro
proprietà. I tuscarora «delusero» le aspettative, si dimostrarono tutt’altro
che docili e si servirono di tutti gli strumenti legali per bloccare il progetto,
potendo contare anche sull’appoggio della stampa e dell’opinione pubblica.
La battaglia fu aspra e durò tre anni: Moses foraggiò politici e comitati locali
e alla fine ebbe la meglio. Nel marzo 1960, la Corte Suprema stabilì che gli
indiani non potevano vantare alcun diritto sulla terra perché era stata loro
donata dal governo e non acquistata. A parziale accoglimento delle istanze
dei tuscarora, la Corte decise che al posto degli oltre 1300 acri richiesti, il
consorzio della centrale avrebbe dovuto limitarsi a requisirne poco più di
400.
Il secondo episodio, invece, non può tuttora ritenersi concluso. Si tratta
delle scorie tossiche depositate dalla Hooker Chemicals nel Love Canal (→
Three Mile Island) a partire dal secondo dopoguerra. Il canale (che deve il
nome a William T. Love, che lo progettò nel 1890) non era mai stato
completato ed era stato acquistato dall’azienda nel 1942. Sistemati i rifiuti,
la Hooker si limitò a ricoprire la discarica alla bell’e meglio con semplice
terriccio. Nel 1953, l’area venne ceduta al Board of Education di Niagara
Falls, che aveva bisogno di terreni per costruire una scuola per servire la
crescente popolazione di un sobborgo vicino. Per anni, le famiglie
guardarono con sconcerto le macchie scure e le sostanze oleose che
apparivano qua e là in superficie nei pressi della scuola e delle loro case e
cercarono di non fare caso ai cattivi odori. Le lamentele rimasero
inascoltate, finché Michael Brown, reporter di un giornale locale, cominciò
a investigare e pubblicare gli articoli che gli sarebbero in seguito valsi il
premio Pulitzer, nei quali rivelò episodi e dati inquietanti: per esempio,
l’alta incidenza di aborti spontanei (il 35% delle gravidanze totali). Seguì
l’attivismo della popolazione locale, comandata da un’energica casalinga
trentenne, Lois Gibbs, che premeva perché si facesse luce sulla situazione.
Nell’agosto 1978, il presidente Jimmy Carter dichiarò lo stato di emergenza
e, dopo un rapporto shock della Epa (l’agenzia per la protezione
ambientale) che rivelò l’alta incidenza di danni ai cromosomi su alcuni
residenti a seguito della prolungata esposizione alle sostanze tossiche, si
decise di evacuare tutta la zona. Love Canal è allora diventata una cittadina
fantasma (→): le case sono rimaste vuote, ma nessuna azione è stata
intrapresa per purificare l’area.

BIBLIOGRAFIA
Pierre Berton, Niagara. A History of the Falls, Penguin, New York 1992.
Daniel M. Dumych, Niagara Falls, Arcadia Publishing, Charleston 1996.
S.M.Z.
Nuovo mondo
In un celebre saggio del 1997, lo storico e antropologo James Clifford
ridisegna la mappa della cultura come un fenomeno fluido, mobile,
risultante da incessanti contatti «transculturali». Il suo discorso parte da
quello che egli chiama «l’effetto Squanto», dal nome del nativo americano,
(Ti)squantum, a cui William Bradford, allora governatore della Plymouth
Colony (→ Plymouth Rock) nonché autore di un diario che diventerà una
fondamentale fonte storiografica circa le origini del New England,
riconduce la sopravvivenza dei Padri Pellegrini (→ Città sulla collina; →
Covenant) durante il loro primo inverno nel Massachusetts. Caratteristica
unica di Squanto è la conoscenza della lingua inglese e, di conseguenza, la
capacità di fare da interprete e mediatore tra il drappello di puritani
approdato sulla Mayflower e le popolazioni autoctone. È un nativo sui generis
o, meglio, un «nativo ibrido» che, agli occhi dei pellegrini appena arrivati
nella wilderness (→) del Nuovo mondo, presenta una familiarità strana e
inaspettata, frutto di un precedente viaggio di prigionia in Europa (dove si è
convertito alla fede cristiana e ha imparato a parlare inglese) e, dunque, di
un dinamismo cosmopolita ben diverso dall’immobilità inscritta nell’idea di
«nativo», con la quale i colonizzatori europei hanno «incatenato» gli
indiani d’America al loro territorio di appartenenza (salvo poi limitarne
l’accesso con la creazione delle riserve → Ombre rosse). Alla luce di questi
studi antropologici, i primissimi incontri tra il Vecchio e il Nuovo mondo
andrebbero quindi riletti come un confronto, più che un semplice scontro,
tra culture che sono, a livello materiale e metaforico, in viaggio costante, in
un rapporto di mutua negoziazione.
Le vicende di Squanto e Pocahontas, Equiano e Sacajawea (vale a dire, il
nativo che permette, con i suoi consigli, la celebrazione del primo
Ringraziamento [→]; la principessa indiana che salva, questo narra la
leggenda, il Capitano John Smith; l’ex schiavo afroamericano che si compra
la propria libertà e combatte sul fronte abolizionista; l’indiana shoshone
che contribuisce alla riuscita della missione di Lewis e Clark →
Esplorazioni) attestano l’importanza fondante dei go-between, dei
«mediatori», nella storia e nella cultura americana di ieri e di oggi.
Nato intorno al 1580, Squanto, indiano patuxet, viene catturato
dall’inglese Thomas Hunt, uno degli uomini di John Smith, e trasportato,
insieme ad altri nativi e a un carico di merci, alla volta della Spagna, per
essere rivenduto come schiavo. Salvato da alcuni frati, si converte al
cristianesimo e convince i suoi benefattori a lasciarlo partire per Londra,
con l’idea di salpare da lì per il Nordamerica e tornare così alla sua terra.
Giunto a Londra, vive e lavora per alcuni anni con un costruttore di navi,
John Slany, che gli insegna a parlare inglese e lo porta con sé a
Newfoundland; da qui, Squanto tenterà di aggregarsi a una spedizione alla
volta del New England, ma l’esito sarà fallimentare. Di ritorno in Inghilterra
nel 1618, riattraverserà l’Atlantico l’anno successivo, riuscendo ad
approdare sulla costa orientale americana e scoprendo che i patuxet, così
come i wampanoag e i massachusetts, sono stati sterminati da un’epidemia
(di vaiolo o di leptospirosi). È a questo punto che accoglie i pellegrini nel
suo vecchio villaggio (poi ribattezzato Plymouth), insegna loro a pescare e a
cacciare e, soprattutto, a coltivare il mais usando fertilizzanti naturali. Nel
1621, fa da guida e traduttore tra i colonizzatori Stephen Hopkins, Edward
Winslow e Massasoit, sachem (→ Sachem e sagamore) dei wampanoag; in
una nuova missione a fianco di William Bradford, sarà catturato dalla stessa
tribù ma poi liberato. L’anno successivo, una febbre gli sarà fatale; la sua
morte sarà ricordata come «una grande perdita» nelle parole solenni dello
stesso Bradford.
Qualcosa di simile succede a Pocahontas (1595-1617), la figlia prediletta
di Powhatan, capo di una confederazione di tribù della Virginia che, grazie
al ruolo di mediatrice, contribuirà alla nascita della colonia di Jamestown.
Una leggenda sulla cui storicità si sta ancora dibattendo – a dispetto delle
versioni dell’omonimo film della Disney (1995) e di Il nuovo mondo (2005) di
Terrence Malick – vuole che, nel 1608, la principessa indiana salvi la vita
dell’avventuriero e colonizzatore John Smith quando Powhatan sta per
ucciderlo. Nel 1613, durante la prima guerra (→ Guerre indiane) tra inglesi
e Powhatan, Pocahontas viene rapita dal capitano Samuel Argall e trasferita
nella colonia di Jamestown, dove vivrà con il reverendo Alexander Whitaker
e imparerà a parlare inglese, seguire le funzioni religiose cristiane e
memorizzarne i precetti. Nel 1614, la sua conversione è ufficiale:
Pocahontas entra nella Chiesa d’Inghilterra con il nome di Rebecca e sposa
John Rolfe, da cui avrà un figlio. Partirà alla volta di Londra con la famiglia,
in un viaggio organizzato dalla Virginia Company per promuovere l’operato
della piantagione agli occhi della Corona. Nel suo breve soggiorno nella
capitale prima della morte prematura, incanterà la società londinese con la
sua grazia e la sua bellezza. La figura di Pocahontas, avvolta nell’oblio per
due secoli, sarà recuperata in chiave patriottica ed espansionistica a partire
dagli anni quaranta dell’Ottocento, quando pittori e scrittori, in piena
temperie da «destino manifesto» (→), rivisiteranno le origini del paese
magnificando il ruolo «civilizzatore» dei padri fondatori nei confronti di
personaggi assimilabili alla figura del «buon selvaggio». Del 1840 è, per
esempio, il celebre quadro The Baptism of Pocahontas, di John Gadsby
Chapman, commissionato per la Rotonda del Campidoglio a Washington e
quindi rappresentativo di una visione istituzionale: una Pocahontas
biancovestita è inginocchiata davanti a una figura ecclesiastica (il
reverendo Whitaker) e al fonte battesimale; sullo sfondo, seduti sugli
scranni, i coloni immobili; in primo piano, sulla destra, un gruppo di cinque
indiani avulsi dall’insieme, a suggerire la difficoltà – e la necessità – della
loro conversione alla «civiltà» anglocristiana.
Va detto che non sempre le conversioni, reali o immaginarie, basteranno
perché i mediatori di culture altre siano davvero accettati in un ruolo
diverso dalla posizione subordinata in cui razza e genere li hanno
ingabbiati, prima e dopo la Guerra d’indipendenza (→ Rivoluzione
americana), specie quando in gioco vi è l’«altro» per eccellenza,
l’afroamericano (→ Linea del colore). A testimoniare le profonde
contraddizioni degli anni fra periodo coloniale e Prima Repubblica di una
nazione intenta ad affermare, attraverso la Guerra d’indipendenza, i
principi democratici, ma al contempo parte attiva nella rete economica
transnazionale che includeva, fra l’altro, la tratta di schiavi (→ Atlantico
nero), vi è la prima autobiografia scritta da un africano, sospeso fra terra di
origine, Americhe ed Europa: L’incredibile storia di Olaudah Equiano, o Gustavus
Vassa, detto l’Africano (1789). Membro della tribù degli ibo nato intorno al
1745 nel villaggio di Benin, Equiano viene rapito a undici anni e ridotto
prima in schiavitù in Africa, poi condotto sulla costa e qui venduto ai
mercanti inglesi che lo portano nelle Barbados. Agli occhi del ragazzino, i
bianchi sono creature extraterrene, demoni malvagi che tormentano i vivi
con armi e catene. Il viaggio verso il Nuovo mondo diviene così una discesa
agli inferi, con il Middle Passage (→ Atlantico nero) a segnare
indelebilmente i corpi e le menti dei deportati. Comprato in Virginia per
assistere un proprietario terriero convalescente, viene poi rivenduto a un
ufficiale di marina, Michael Pascal, che lo ribattezza «Gustavus Vassa»,
nome di un re svedese del XVI secolo. Come sarà poi per gli immigrati di fine
Ottocento (→ Melting pot), il cambio del nome segna per Equiano un
ulteriore «passaggio» (→ Passing) e sradicamento anche nominale
dall’identità, a cui il giovane invano tenterà di opporsi. Il viaggio alla
riconquista della libertà sarà al contempo un percorso politico, spirituale e
filosofico. Mandato in Inghilterra presso la cognata di Pascal, Equiano
impara l’inglese e l’arte della scrittura: i libri appaiono ai suoi occhi entità
soprannaturali, dotati, per quanto inanimati, di una voce – e soprattutto
fonti di quell’auctoritas della cultura egemone che, se acquisita, potrebbe
costituire uno strumento di emancipazione. Come l’inglese e la conoscenza
della parola scritta dovrebbero essere l’arma di rivendicazione dei propri
diritti (con l’accortezza di non abusarne), così la fede è per Equiano il segno
di una pari dignità morale, la conversione al cristianesimo e il battesimo
due atti di libertà. Non è così, tuttavia, per il suo proprietario. Confondendo
legge morale e legge sociale, Equiano non comprende che per i mercanti
americani egli rimarrà, a dispetto della sua fede e della sua cultura, una
merce di scambio. Venduto da Pascal e portato di nuovo nelle Indie
Occidentali, viene comprato da un quacchero (→ Quakers, Shakers,
Mormons), Robert King, che lo impiega prima nella riscossione del denaro
dai debitori, poi come aiutante nella tratta degli schiavi. Ed è proprio come
mercante di schiavi (paradosso della storia) che Equiano riesce nel 1769 a
comprarsi la libertà. In un mondo protocapitalista, quest’ultima non può
che derivare dall’affermazione economica: in questo caso, l’essere
proprietario (materiale) di se stesso. L’ulteriore, evidente paradosso è il
dover accettare, per affrancarsi, di essere solo un «bene». Manca però a
Equiano la garanzia che la sua conquista valga per sempre: proprio in
quanto libero, egli è corpo spurio nella società schiavista e mercantilista
dell’epoca. Con il rischio di venir rapito ancora e ridotto in schiavitù, egli
decide allora di far ritorno in Inghilterra, dove opera nel movimento
abolizionista, pubblica l’autobiografia (un autentico successo, che lo
scrittore promuoverà con tour in Inghilterra, Scozia e Irlanda), non prima di
aver viaggiato nel Mediterraneo e aver preso parte ad almeno due
spedizioni (di cui una nell’Artico, alla ricerca del «passaggio di Nordovest»
→ Esplorazioni). Il matrimonio nel 1783 con una ragazza inglese e la
permanenza in Inghilterra fino alla morte, nel 1797, sanciranno il diritto di
scegliere l’appartenenza politica a una nazione, l’Inghilterra, da sempre
dipinta dalla cultura statunitense nel ruolo di oppressore; e tuttavia più
ricettiva, agli occhi di un ex schiavo africano, rispetto al tema dei diritti
civili e ai principi di uguaglianza e libertà. Per Equiano, la difficile conquista
di questi benefici avverrà tuttavia facendo propri i valori e gli strumenti
della classe media mercantile. Individualismo, fortuna materiale e
intraprendenza ne faranno così – nonostante il breve periodo trascorso su
suolo americano – un autentico self-made man (→ Rags to riches) ante
litteram.
Può dunque un mediatore culturale rappresentare un simbolo di
resistenza invece che di accettazione della cultura egemone? Forse sì, ma
solo nell’interpretazione postuma e spesso ideologica: come nel caso di
Sacajawea, la giovane shoshone che accompagnerà Lewis e Clark (→
Esplorazioni) nel loro viaggio verso ovest. Poco si sa della sua vita: nata
intorno al 1788 nella valle del fiume Lehmi, nell’attuale Idaho, Sacajawea (o
Sakakawea, Tsakakawea, Sacajowa, Saykijawee, la grafia del nome è incerta
quanto le sue origini) viene rapita nel 1800 da un gruppo di hidatsa vicino
alle Three Forks, sul fiume Missouri, e condotta nel loro villaggio in North
Dakota. Acquistata (o forse vinta al gioco) dal commerciante e trappolatore
franco-canadese Toussaint Charbonneau, già unito in matrimonio a un’altra
nativa americana, diventa la sua sposa. Quando Lewis e Clark, in viaggio con
i Corps of Discovery, decidono di reclutare Charbonneau a Fort Mandan lo
fanno proprio pensando al contributo fondamentale che la sua moglie
indiana potrà avere nelle vesti di interprete e mediatrice con le tribù native
dell’Ovest. Così, sebbene incinta, Sacajawea si mette in marcia con il resto
della spedizione e dà alla luce il piccolo Jean Baptiste Charbonneau nel 1805
(un parto, pare, accelerato dall’assunzione della coda macinata di un
serpente a sonagli) che diventerà il beniamino del gruppo, in particolare di
Clark. Al di là delle esagerazioni celebrative di un certo folklore popolare
(basti pensare che le statue a lei dedicate superano per numero quelle di
qualsiasi altro membro della spedizione), il ruolo di Sacajawea è comunque
di notevole rilevanza. Se non è certo la guida sempre pronta a indicare il
cammino dipinta dall’iconografia occidentale, va tuttavia ricordato che nel
viaggio di ritorno è lei a identificare il punto in cui guadare lo Yellowstone
River (→ Yoghi), passaggio scelto in seguito anche dalla Northern Pacific
Railway per attraversare la catena montuosa con la linea ferroviaria (→
Promontory Point). Indubbio resta inoltre il contributo linguistico di
Sacajawea non solo nei contatti con gli shoshone (la prima tribù incontrata
dal gruppo è guidata proprio dal fratello della donna, Cameahwait), ma
anche con le tribù più a ovest. A facilitare le relazioni con i nativi non
saranno solo le sue parole, ma la sua stessa presenza, una prova concreta
delle intenzioni non belligeranti dell’intera spedizione. Al ritorno verso est,
Charbonneau e la moglie trascorrono tre anni fra gli hidatsa prima di
trasferirsi, su invito di Clark, a St. Louis, dove l’ex capitano si occuperà
dell’educazione del piccolo Jean Baptiste. Da qui in poi le notizie sulla
donna si fanno incerte: data alla luce una figlia (anch’essa adottata da
Clark), pare che Sacajawea muoia di febbre nel 1812, a venticinque anni di
età (il figlio avrà una vita ancor più avventurosa di quella della madre:
divenuto amico di un principe tedesco, trascorrerà sei anni presso le corti
europee, imparando quattro lingue straniere e, tornato in patria, vivrà sulla
frontiera, prima come cercatore d’oro, poi come guida e infine come
magistrato della missione di San Louis Rey in California). Ma i miti sono duri
a morire. Mentre i documenti scritti ne attestano la fine precoce, leggenda
(o meglio, i nativi intervistati nel 1925 da Charles Eastman, un medico sioux;
e i biografi che a costui si rifaranno) vuole che Sacajawea seppellisca
addirittura l’ottuagenario marito, fuggendo da St. Louis e sposandosi con un
comanche per far quindi ritorno alla sua tribù shoshone, dove morirebbe il
9 aprile del 1884. Scomparsa dal mondo reale, Sacajawea diventerà un
secolo dopo un punto di riferimento per il nascente movimento suffragista
(→ Seneca Falls) che in lei vedrà un’eroina, simbolo di coraggio e
indipendenza, tanto che una delle esponenti del movimento, Eva Emery
Dye, le dedicherà ampio spazio nel romanzo The Conquest. The True Story of
Lewis and Clark, 1902 – un successo ripetuto nel 1933 con Sacajawea di Grace
Hebard e Sacajawea di Anna Lee Waldo nel 1984. Ultime ad accorgersi di lei
saranno le gerarchie militari, che, nel 2001, le tributeranno il titolo postumo
di Sergente (onorario). Confondendo, secondo un copione comune alle
figure di Squanto e Pocahontas, mediazione e conquista.

BIBLIOGRAFIA
William L. Andrews, To Tell a Free Story: the First Century of Afroamerican
Autobiography, 1760- 1865, University of Illinois, Champaign 1986.
Vincent Carretta, Equiano, the African: Biography of a Self-Made Man,
University of Georgia Press, Athens 2005.
James Clifford, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati
Boringhieri, Torino 1997.
Grace Raymond Hebard, Sacajawea: Guide and Interpreter of Lewis and Clark,
Dover Publications, Mineola 2002.
Robert S. Tilton, Pocahontas: The Evolution of An American Narrative,
Cambridge University Press, Cambridge-New York 1994.
C. SCAR. – C. SCHIA.

Nuyorican
A ben vedere, la frase di Luis Valdez citata a proposito dei chicanos (→) può
servire da introduzione anche ai Nuyoricans: «Non è che siamo andati noi
negli Stati Uniti. Sono gli Stati Uniti che sono venuti da noi». Nel luglio
1898, Theodore Roosevelt, comandante di un corpo di spedizione di
volontari (i «Rough Riders») e futuro presidente degli Stati Uniti, occupava
militarmente Cuba e Portorico, nell’ambito di quelle che il segretario di
stato John Hay definì le «splendide guerricciole» (→): Portorico diventava
«territorio non incorporato» degli Stati Uniti, dotato di autogoverno. Si
apriva così un nuovo capitolo d’una lunga storia di sofferenze e
sfruttamento dell’isola caraibica. Chiamata Borinquen dai suoi abitanti
originari (gli igneri, i ciboney, gli arawak, i caribe, i taíno), il «porto ricco»
visitato da Cristoforo Colombo nel 1492-1493 era stata una delle colonie più
pregiate della corona spagnola: e ciò aveva significato, oltre al massacro
delle popolazioni locali, anche l’arrivo di altre componenti etniche, come
gli schiavi africani importati per lavorare nelle piantagioni di tabacco, caffè
e canna da zucchero. Quella mescolanza che era già esperienza drammatica
ma vitale del crocevia caraibico risulterà esasperata dalla proiezione di
Borinquen-Portorico prima nella condizione di colonia spagnola, poi in
quella di appendice statunitense: i capitribù locali diventeranno pallidi
ectoplasmi del passato, le divinità caraibiche si sposeranno a quelle africane
per rinascere, opportunamente ripulite, in veste cristiana, le lingue locali si
intrecceranno a quelle degli schiavi e infine cederanno il terreno davanti
allo spagnolo e all’inglese yankee, il contadino (jíbaro) si trasformerà a poco
a poco in disperato senza terra, quindi in proletario senza vie di scampo
nelle cittadine sulla costa e nelle metropoli statunitensi.
Tra fine Ottocento e inizi Novecento, l’esodo da Portorico coinciderà con
quello dei militanti indipendentisti (fra cui Luis Muñoz Marín, Lola
Rodríguez de Tío e l’importante divulgatore della cultura nera Arturo
Schomburg → Harlem), un rivolo carsico che affiora nelle strade dei ghetti
di New York seguendo le tracce dell’eroe nazionale cubano José Martí. Dal
1917, quando il Jones Act (miracoli della Prima guerra mondiale!) concede ai
portoricani la cittadinanza statunitense, il rivolo comincerà a ingrossarsi e a
scorrere in superficie, diventando flusso permanente nelle due direzioni.
Una prima ondata si avrà a partire dal 1932, in concomitanza con il crollo
del prezzo della canna da zucchero e di un’autentica esplosione
demografica: sono gli anni più acuti delle lotte indipendentiste, culminanti
nei «fatti del 1937», quando una grande manifestazione nella cittadina di
Ponce viene repressa nel sangue, aprendo un’altra fase tormentata di viaggi
fra isola e terraferma, con arresti e dure condanne di militanti (fra cui la
celebre e amatissima Lolíta Lebron, scomparsa nel 2010, che nel 1954 guidò
un attacco armato alla Camera dei rappresentanti a Washington). La
seconda e più massiccia ondata seguirà intorno agli anni della Seconda
guerra mondiale, quando a decine di migliaia i portoricani abbandoneranno
«Borinquen» per cercar fortuna a New York o per essere spediti sui campi
di battaglia europei o nel Pacifico. Infine, negli anni cinquanta, i gravissimi
scompensi prodotti nel tessuto economico e sociale di Portorico dal
programma d’industrializzazione forzata (la «Operation Bootstrap»)
provocheranno un’ulteriore ondata migratoria, seguita da un nuovo esodo
negli anni settanta, in coincidenza con l’aprirsi della fase di crisi economica
che dura a tutt’oggi. In mezzo, un altro altissimo tributo di sangue: in
Vietnam, dove gli spics (come venivano chiamati, con termine spregiativo, i
portoricani trasferitisi sul continente) fungeranno, insieme agli
afroamericani, da vera e propria carne da cannone.
Negli ultimi cinquant’anni, il pendolarismo – agevolato dalla riduzione
delle tariffe aeree fra New York e San Juan – non farà che intensificarsi,
seguendo le alterne vicende dell’economia portoricana e di quella
statunitense, disgregando nuclei familiari, prosciugando energie,
macinando identità. Come scriverà il maggiore dei poeti nuyorican, Pedro
Pietri, «siamo venuti negli Stati Uniti / per imparare a storpiare il nostro
nome / per smarrire la definizione di orgoglio / per avere la sfortuna dalla
nostra / per vivere dove s’aggirano topi e scarafaggi / in una casa che non è
per niente casa nostra…».
Ha inizio allora un fenomeno particolare: mentre la isla rinasce a fatica
nei ghetti di Manhattan e dintorni, a Portorico dilaga irresistibile l’America.
Nelle strade del Lower East Side, di Spanish Harlem, del South Bronx, si
moltiplicano i luoghi d’incontro, i centri sociali, le bodegas e le marquetas
che vendono frutta tropicale, le botánicas specializzate in erbe medicinali e
articoli religiosi, le trattorie che offrono piatti tradizionali, i gruppi musicali
che suonano merengue, le grida di strada del venditore di granite
(piraguero), i traffici del raccoglitore di puntate del lotto clandestino
(bolitero). Di contro, a San Juan e a Ponce, a Santurce e a Mayaguez, si
diffondono le immagini yanqui dei tabelloni pubblicitari, i grattacieli con
piscina, i locali notturni, le luci al neon, le banche e i McDonald’s,
sovvertendo scenari e orizzonti in maniera così drastica e brutale da far
scrivere all’altro grande poeta nuyorican, Miguel Piñero, «questo non è il
posto dove sono nato».
Da questo contrasto e pendolarismo, da questo ribaltamento di
prospettive e identità, nasce la nuyorican experience, efficace neologismo che
riassume la condizione ad alto voltaggio emotivo e psicologico dell’essere
«portoricani a New York» (dove New York diviene, con il progressivo
irradiarsi della comunità, parte per il tutto: l’America portoricana), segnata
dalla durezza dello sradicamento e dell’oppressione, dalla disgregazione
familiare e dall’alienazione giovanile, dalla quotidiana ricerca di una
ragione e di un mezzo per sopravvivere, schiacciati fra il disastro
dell’economia isolana e la spietatezza della metropoli statunitense. Sarà
proprio quest’esperienza a stimolare infatti, negli anni cinquanta e
sessanta, la nascita di una rete fitta sebbene quasi sotterranea di luoghi
d’incontro e istituzioni politico-culturali e il lavoro di attivisti e scrittori
come Bernardo Vega e Jesús Colón, di poeti di strada come Jorge Brandon,
spingendo anche verso una progressiva radicalizzazione e politicizzazione
(dietro l’esempio delle Pantere nere → Movement) bande giovanili di
strada come gli Assassins, i Dragons, gli Young Lords – una storia narrata
anche nei vasti murales che ricoprono i muri dei ghetti: Chi Lai/Arriba/Rise
Up (eseguito sotto la direzione di Alan Okada) o La Lucha Continua (di Maria
Dominguez, oggi purtroppo cancellato).
Per tanti aspetti, lo sviluppo della letteratura portoricana a New York è
stato simile a quello della letteratura chicana. Dopo precursori come Julia de
Burgos e Pedro Juan Soto, la svolta sarà costituita, nel 1967, dal drammatico
racconto autobiografico di Piri Thomas Down These Mean Streets, che –
cancellando miti e stereotipi – darà voce per la prima volta alla nuyorican
experience. Di lì a poco, le nuove generazioni si riconosceranno nel lungo,
amaro poema di Pedro Pietri Puerto Rican Obituary (1973), nei drammi
disperati di Miguel Piñero (Short Eyes, 1975), nell’antologia Nuyorican Poetry
(1975), nell’opera di Miguel Algarín (Mongo Affair, 1978), mentre il
Nuyorican Poets’ Café, aperto a metà anni settanta da Algarín e Piñero nel
cuore devastato di un Lower East Side newyorkese sempre più conosciuto
come «Loisaida», funzionerà da luogo di aggregazione e decantazione di
vivacissime energie culturali.
In questa prima fase, ed eccezion fatta per i drammi di Piñero, è
soprattutto la poesia al centro del laboratorio artistico dei nuyoricans – una
poesia con forte accentuazione orale e plurilinguistica e dai marcati ritmi
musicali, che rinnova la tradizione del canto e della cerimonia collettivi,
prende ispirazione dalla poesia afroamericana del ghetto (Langston Hughes,
Claude McKay) e s’intreccia con le sperimentazioni beat, fondandosi su un
rapporto diretto con il pubblico e facendosi veicolo di una riflessione spesso
torturata e rabbiosa sul passato indio e coloniale e sul presente dominato
dal conflitto irrisolto con l’«America» («No hay nada nuevo in Nueva York»
scriverà Piñero). Con i romanzi di Nicholasa Mohr (Nilda, 1973) e di Ed Vega
(The Comeback, 1985), si affermerà anche un robusto filone narrativo,
incentrato in primo luogo sulla vita quotidiana nel barrio, sullo scontro
generazionale e sulla condizione della donna, in grado ormai di dialogare in
modo autorevole con le migliori prove del «rinascimento chicano».
Così, da questa ulteriore condizione di sradicamento e intreccio di
culture, emerge con forza dalle opere nuyorican la percezione viva di un
sincretismo culturale che abbraccia punti di vista e prospettive differenti,
accomunati dalla volontà di resistere all’annientamento: come scrive
Aurora Levins Morales, «sono nata ai crocevia / e sono un tutto».
BIBLIOGRAFIA
Mario Maffi (a c. di), Voci di frontiera. Scritture dei latinos negli Stati Uniti,
Feltrinelli, Milano 1997.
Eugene V. Mohr, The Nuyorican Experience. Literature of the Puerto Rican
Minority, Greenwood Press, Westport 1982.
Virginia E. Sánchez Korrol, From Colonia to Community. The History of Puerto
Ricans in New York City, 1917-1948, Greenwood Press, Westport 1983.
Roberto Santiago (ed.), Boricuas. Influential Puerto Rican Writings. An Anthology,
Ballantine Books, New York 1995.
M.M.

Nylon
Collant di nylon. Poche sono le donne che non li hanno mai indossati e
pochi gli uomini che non hanno guardato, e magari concupito,
quell’indumento più o meno popolare e ormai démodé quale simbolo di
femminilità. Non molti sanno, però, che il nylon – una fibra sintetica creata
nei laboratori della DuPont nel 1935 e perfezionata nel corso della Seconda
guerra mondiale – rappresentò uno dei ritrovati industriali più fortunati e
redditizi del secolo, che fu impiegato in chiave antigiapponese nella retorica
patriottica dei primi anni quaranta, che traghettò l’immagine del marchio
DuPont dall’ambito bellico a quello civile e familiare, e che, nel 1945, a
causa di una penuria dell’offerta del prodotto a fronte di una domanda
esplosiva, fu al centro dei cosiddetti «nylon riots», come li chiamò tra il
divertito e l’ironico (e con evidenti sottotoni misogini), la pubblicistica
dell’epoca: orde di consumatrici infuriate che, in fila davanti a negozi e
centri commerciali, reclamavano un paio di ambitissime «nylons».
È il 1935 quando Wallace Carthers, un chimico impiegato nei laboratori
del Delaware della DuPont, sperimenta il processo di polimerizzazione che
porta alla sintesi del nylon (sul perché sia stato scelto questo nome
torneremo a breve). Sono gli anni in cui il colosso chimico – diventato
azionista della Gm nel 1914 (→ Model T) – avvia una campagna
pubblicitaria tra le più longeve della storia, entrando nella vita degli
americani grazie allo slogan «Cose migliori per una vita migliore con la
chimica», firmato dalla penna di Bruce Barton. Già nella New York World’s
Fair del 1939 (→ Esposizioni universali), la DuPont presenta le calze di
nylon come un prodotto fatto di «carbone, aria e acqua» e annuncia che
saranno presto sul mercato al prezzo di 1,10-1,50 dollari al paio. Ma è solo
con lo scoppio della guerra che la messa e punto di quel materiale sintetico
adatto per uso tessile diventerà cruciale alla ricerca di un surrogato della
seta asiatica, la cui importazione si è fatta, per motivi geopolitici, precaria e
costosa. Durante il conflitto, la produzione di nylon è destinata alla
manifattura di paracadute e solo a guerra conclusa l’azienda chimica
DuPont si dedicherà al mercato interno, rivoluzionando l’industria tessile e
quella culturale, trasformando la moda (nel 1959, nasceranno i primi collant
di nylon) e aprendo la strada al debutto, negli anni sessanta, della
minigonna. Il precedente più vicino al nylon è il rayon (in italiano, raion
viscosa), una fibra in parte artificiale in parte naturale ricavata dalla
cellulosa e la cui trama, più grossolana di quella del nylon, si presta a fare da
succedaneo al cotone e al lino, ma non alla seta. Il nylon presenta invece le
caratteristiche che rendono la seta un tessuto ricercato (luccicante, liscio e
leggero), aggiungendovi resistenza e versatilità del tutto nuove. Se, nel
1943, un hit intitolato «When the Nylon Bloom Again» esprime il desiderio
di disporre, in abbondanza, di un bene di consumo fino a quel momento
soltanto sognato, due anni dopo, con le prime partite di calze di nylon
esposte nelle vetrine dei negozi americani, il sogno sembra farsi realtà.
Esasperate dall’attesa e dalla persistente scarsità del prodotto, folle di
donne cingono gli esercizi commerciali in una morsa. I «nylon riots»
strappano titoli giornalistici giocati spesso su metafore belliche: tra i
migliori si ricordano «Nylon Sale and No Casualties» («Si vendono calze di
nylon senza feriti» e «Women Win Battle for Nylons Here» («Donna, vinci
qui la tua battaglia per le calze di nylon»).
Sulle origini del nome, le ipotesi sono diverse, alcune ufficiali, altre
apocrife. Nel 1940, la DuPont afferma che mentre le prime tre lettere –
«nyl» – sono state scelte in modo casuale, «on» segue l’esempio di altri
suffissi (ray-on). In seguito, la DuPont corregge il tiro: in un primo tempo, il
nuovo prodotto si sarebbe chiamato «no-run» (in americano, l’uso
intransitivo del verbo «to run» indica il formarsi di smagliature nelle calze),
salvo poi essere cambiato con una parola dal suono più orecchiabile. Una
versione ufficiosa vuole che Nylon derivi dalla fusione di New York e
LONdon, un’altra ancora da quella di ViNYL e RayON e un’ultima, forse la più
spuria, riecheggia l’aura patriottica e xenofoba che accompagna l’acquisto
di calze orgogliosamente americane durante il secondo conflitto mondiale:
«Now You’ve Lost Old Nippon» («Ora hai perso, vecchio muso giallo»).

BIBLIOGRAFIA
Jeffrey L. Meikle, American Plastic: A Cultural History, Rutgers University
Press, New Brunswick 1995.
Pap Ndiaye, Nylon and Bombs: DuPont and the March of Modern America, Johns
Hopkins University Press, Baltimore 2007.
C. SCAR.
[O]

Occhi indiscreti (o della fotografia sociale)


Se si pensa che la prima fotografia pubblicata su un quotidiano fu
«Shantytown», l’immagine di una baraccopoli scattata da Stephen Henry
Hogan e apparsa sulle pagine del New York Daily Telegraph il 4 marzo 1880, si
comprende lo stretto connubio che la fotografia ha da sempre mantenuto
con l’indagine sociale. E sebbene parlare di fotografia statunitense oggi
porti alla mente le forme plastiche di un Robert Mapplethorpe o le sensuali
star di Hemut Newton, un ruolo centrale nel panorama moderno e
contemporaneo spetta anche a quel filone di scavo e di denuncia che, con
valenze e impostazioni diverse, ha messo a nudo la società e la cultura
statunitensi dell’ultimo secolo.
La storia ufficiale della fotografia sociale inizia con Jacob Riis, un
immigrato (al pari di tanti fotografi dopo di lui) di origine danese giunto
negli Stati Uniti nel 1870, che conobbe per esperienza diretta l’universo dei
poveri e dei diseredati: Riis sperimentò infatti la realtà dei ricoveri notturni
e delle prigioni (→ Sbarre). Tornato a New York (→ Big Apple), nelle vesti
di giornalista per il New York Herald Tribune e in seguito per il New York
Evening Sun comincerà a documentare la vita nel Lower East Side (→). Il suo
reportage su «come vive l’altra metà» (How the Other Half Lives. Studies among
the Tenements of New York, 1890), che colpì con forza l’allora capo della
polizia newyorkese Theodore Roosevelt (definì Riis «il cittadino più utile di
New York»), documentava miserie e privazioni del proletariato urbano
immigrato e contribuì in modo decisivo agli interventi di riforma sociale
messi in atto negli anni successivi.
Le sue orme furono seguite qualche anno dopo da Lewis Hine, che
divenne celebre per gli scatti sugli immigrati a Ellis Island (→ Isole).
Studente di sociologia e in seguito professore, Hine sostenne in diversi saggi
il valore educativo della fotografia, il suo impatto sulle coscienze e la sua
profonda valenza etica. Reclutato nel 1907 dal National Child Labor
Committee, Hine trascorse dieci anni a documentare i bambini sfruttati
nelle fabbriche, negli sweatshops (→ Sciopero!), nell’agricoltura – una
partecipazione attiva nei progetti sociali attraverso la fotografia che
proseguì anche oltreAtlantico, in collaborazione con la Croce Rossa di
stanza in Europa. Tornato in patria, Hine concentrò lo sguardo sulla classe
operaia sia attraverso numerosi scritti per la stampa sindacale, sia con la
sua opera documentaria sui lavoratori. Ironia della sorte volle che a passare
alla storia fossero le immagini più spettacolari scattate da Hine di quel
mondo: le vite sospese a centinaia di metri d’altezza degli operai che
impegnati nella costruzione dell’Empire State Building (→ Grattacieli),
raccolte in Men at Work, del 1932.
E nel solco della fotografia fatta di strade, volti e drammi umani si inserì
anche Paul Strand, che con Riis aveva studiato. Interessato a coniugare
ricerca formale e istanze sociali e al contempo a integrare il mezzo
cinematico e la fotografia (per esempio, con il docu-film Native Land, 1942,
sulle violenze contro neri e operai → Kkk; → Posse e vigilantes), Strand
introdusse gli spettatori negli abissi degli accattoni e degli emarginati con
vari lavori, fra cui spicca la serie di diciassette ritratti del 1916 scattati a
Five Points, all’epoca uno dei luoghi più malfamati di New York.
Se con la Grande depressione (→) la fotografia divenne strumento
privilegiato di indagine con la sponsorizzazione della Farm Security
Administration (→ Fsa), i cui progetti rappresentano per dimensioni e
durata il miglior esperimento collettivo di investigazione sociale per
immagini, anche dopo il secondo conflitto mondiale i fotografi
continuarono a guardare alla società statunitense e immortalarne i mille
volti – solo in apparenza meno disperati e disperanti dei decenni
precedenti. Quando, a metà degli anni cinquanta, Edward Steichen,
all’epoca direttore del MoMa di New York, aiutato da un altro fotografo,
Wayne Miller, allestì «The Family of Man», una colossale mostra che si
proponeva di illustrare l’universalità delle esperienze del genere umano
(utilizzando peraltro molti scatti dei fotografi dell’Fsa), dimostrò che il
campo di indagine della fotografia sociale poteva essere dilatato nello
spazio e nel tempo, facendo rientrare nel proprio raggio d’azione anche
esperienze in apparenza quotidiane e lontane dai drammi a tinte cupe di
guerre e povertà – ben sintetizzate dall’immagine che chiudeva la mostra,
«The Walk to Paradise of Garden» di W. Eugene Smith: due bambini, figli
dell’autore, che si incamminano mano nella mano nella foresta.
Non mancarono però anche in questi anni i fotografi che mettevano a
nudo la città e i suoi volti più sordidi, abietti e violenti, con scatti in bilico
fra denuncia sociale e voyeurismo. Un nome per tutti, il più famoso,
dell’epoca: Usher Felling, alias (Arthur) Weegee, immigrato austriaco
sbarcato a New York nel 1910, che conobbe bene la miseria dei bambini-
strilloni e venditori di strada: «Spesso mi addormentavo piangendo per la
fame», ricorda della sua infanzia. Fuggito di casa ancora adolescente,
oppresso dalla rigida educazione religiosa, Weegee trascorse diverse notti
nei rifugi per barboni, nelle mense, nei dormitori pubblici. Fino a quando,
grazie anche all’esperienza di fotografo di strada dilettante iniziata da
bambino con una macchina fotografica regalatagli dallo zio, riuscì a
trasformare la passione in lavoro, nelle vesti di fotografo free lance per
diversi giornali newyorkesi. Complice una radio a onde corte installata
sull’automobile e collegata al quartier generale della polizia, Weegee era in
grado di arrivare con tempestività sui luoghi del delitto, dipingendo una
New York satura di crimini e violenze, di corpi crivellati di pallottole, con
attorno la curiosità morbosa dei passanti: paesaggi notturni di luci taglienti
e pioggia, bambini che dormono su scale anti-incendio – fotografie poi
riunite nella collezione più famosa, Naked City (1945 → Città nude).
Alla violenza di strada, del crimine e dell’omicidio, la fotografia sociale
del secondo dopoguerra affiancò anche la violenza più sottile e privata della
diversità – per scelta o per condizione fisica. L’investigazione degli aspetti
più grotteschi dell’alterità fu iniziata da una fotografa che fino a quel
momento si era occupata di moda, Diane Arbus (al secolo Diane Nemerov).
Abbandonato il filone commerciale cui si era dedicata col marito Allan
Arbus, Diane proseguì lo studio e la pratica dell’indagine sociale iniziati con
la grande fotografa Berenice Abbott, passando sotto la supervisione di
Lisette Model, membro della Photo League fondata da Abbot e Strand e
autrice di indagini sui quartieri poveri di New York e sulle discriminazioni
di genere (oltre alla Arbus, fra i suoi allievi figurarono, tra gli altri, Larry
Fink e Bruce Weber). Agli inizi con reportage commissionati da riviste
importanti (Esquire), quindi da artista indipendente, Arbus fissa in bianco e
nero i simboli della devianza. Dallo scatto del bambino con lo sguardo
spiritato e in mano una granata-giocattolo a Central Park agli adolescenti
invecchiati anzi tempo di Teenage Couple on Hudson Street, NY, 1963 e alle
gemelline inquietanti di Identical Twins (riprese da Stanley Kubrick in
Shining, 1980); dall’uomo in posa da madonna che nasconde i propri
attributi fra le gambe al «gigante ebreo» Eddie Carmel in visita ai genitori,
quasi lillipuziani vicino a lui, nella loro casa del Bronx, le fotografie della
Arbus esplorano lo straniamento del travestitismo, il surreale degli artisti
del circo, il grottesco dei corpi deformi – freaks che, nelle parole della Arbus,
«sono aristocratici», perché, «a differenza delle persone normali che per
tutta la vita temono un’esperienza drammatica, hanno affrontato quel
trauma già dalla loro nascita».
Accanto ad Arbus, e con lei parte del trittico della corrente ribattezzata
«New York School» (Saul Leiter il terzo), a dare nuova spinta alla fotografia
sociale dagli anni cinquanta in avanti fu Robert Frank. Svizzero immigrato
negli Stati Uniti nel 1947, Frank è famoso soprattutto per la raccolta Gli
Americani, del 1958, opera ispirata al maestro e nume tutelare Walker Evans
(→ Fsa). Composto di 83 immagini, Gli Americani è il risultato di due anni e
28mila scatti in ogni angolo d’America, da Detroit a Savannah, da New
Orleans a Reno, da Los Angeles a Salt Lake City e Chicago. La prefazione
all’edizione americana porta la firma di Jack Kerouac, grande conoscitore
delle strade americane (→ Route 66 e Highway 61), che introdusse Frank
agli ambienti della beat generation (→ Generazioni) e in particolare ad Allen
Ginsberg, egli pure interessato alle sperimentazioni fotografiche e
consapevole dello scarto fra la patina dorata che rivestiva il periodo e le
tensioni profonde che s’agitavano al di sotto (da queste frequentazioni
nacque nel 1959 il film sui beats, con la regia di Frank, Pull My Daisy). Mentre
Ginsberg denunciava l’aporia e l’angoscia di un’intera generazione (Urlo,
del 1955), Frank raggiungeva il medesimo effetto attraverso l’obiettivo
fotografico: le sue immagini degli e per gli americani sono urla silenziose di
una società in cui a unire le classi alte e la povera gente è l’onnipresente,
profonda solitudine – una visione cupa che tenderà ad acuirsi nelle ultime
opere.
Cupe sono anche le atmosfere di Mary Ellen Mark, convinta al pari dei
suoi predecessori che la macchina fotografica costituisca uno strumento di
denuncia contro le ingiustizie sociali: ecco allora i documentari per
immagini su anziani, prostitute, transgender, bambini di strada, carcerati,
senzatetto (la coppia fotografata a otto anni di distanza: prima mentre vive
coi figli in auto, quindi in una baracca fatiscente in mezzo al deserto, fra
degrado materiale e morale). E urla, ma di lotta, sono tante immagini di
Bruce Davidson, che documentano le bande giovanili (→ Gangs) di
Brooklyn, le marce del Civil Rights Movement (→ Back of the bus), la vita a
Harlem (→). Difficile ricordare tutti i contributi alla fotografia sociale degli
ultimi decenni: i lavori di Jane Eveline Atwood, sulle donne carcerate (Too
Much Time, 2000), di Alon Reininger sui malati di Aids e di Eugene Richards
sul mondo dei tossicodipendenti; di Marlis Momber, testimone con le sue
«foto di strada» della realtà immigrata del Lower East Side (→), o di
Margaret Morton, che nel testo di parole e immagini Mole People (1995)
racconta il popolo dell’abisso che vive nei cunicoli e nelle aree dismesse
della metropolitana newyorkese.
Se quasi sempre è il fotografo a lanciare attraverso la sua opera il j’accuse
nei confronti della società a lui contemporanea, in altri seppur rari casi
finiscono per divenire «fotografia sociale» opere nate in origine con
tutt’altro intento e messaggio. Come definire altrimenti i ritratti scattati da
Ernest Joseph Belloq alle prostitute di Storyville (→) o le circa
centocinquanta immagini (riunite in un volume del 2000: Without Sanctuary.
Lynching Photography in America) raccolte in dieci anni dall’antiquario James
Allen, che, dopo aver trovato per caso la cartolina di un nero impiccato
attorniato da un pubblico sorridente e vestito a festa, ha ricostruito l’orrore
delle «cartoline souvenir» dei linciaggi nel Sud (→ Strani frutti), dagli inizi
del Novecento in avanti?

BIBLIOGRAFIA
Peter Bacon Hales, Silver Cities. The Photography of American Urbanization, 1839-
1915, Temple University Press, Philadelphia 1984.
Michel Christolhomme (a c. di), La fotografia sociale, Contrasto, Parigi 2010.
Peter Galassi, American Photography, 1890-1965, Harry N. Abrams, New York
1995.
James Guimond, American Photography and the American Dream, University of
North Carolina Press, Chapel Hill-London 1991.
Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino 2004.
C. SCHIA.

Oil!
L’amore degli americani per il petrolio è attestato dal proliferare di musei
che ne raccolgono cimeli e vestigia: le trivelle di Kern County (California);
una stazione di servizio della Shell degli anni venti, a forma di conchiglia;
vecchie pompe di benzina con tanto di prezzi e oggetti preservati come
reperti; titoli ingialliti di giornali che annunciano l’apertura di una nuova
autostrada. La metà di queste strutture (circa una ventina, per non dire di
quelle meno note) si trova in Texas (la più famosa è il Texas’s Spindletop-
Glady’s City Boomtown Museum), Oklahoma, California, Pennsylvania,
Louisiana e Kansas. Le ragioni di una simile passione non sono soltanto
storiche ma anche culturali. A dispetto del suo aspetto oleoso, sporco e
maleodorante, nell’immaginario collettivo il petrolio – «oro nero» o
«escremento del diavolo» – è infatti associato a qualcosa di magico, un elisir
di lunga vita capace di arricchire chiunque abbia la fortuna di estrarlo dalle
vene della terra. Non sorprende dunque che, specie a partire dalla scoperta,
nel 1901, dell’enorme giacimento texano (lo Spindletop Gusher), il petrolio
sia diventato il volano dell’economia americana e il simbolo di una cultura
proverbialmente attratta dal sogno del successo repentino e inaspettato –
un successo che, nella classica parabola delle «storie alla Horatio Alger» (→
Rags to riches), arriva nottetempo (d’altronde, una delle pellicole più
fortunate della storia di Hollywood, Il gigante di George Stevens, del 1956,
ruota intorno alla figura di un bracciante che s’arricchisce di colpo con un
pozzo di petrolio). Per un popolo di pionieri, avventurieri e cercatori d’oro
(→ Oro!), la formula idiomatica «strike it rich» (che diventa anche il nome
di un quiz e di una serie tv [→] degli anni cinquanta) richiama, in fondo, il
verbo che indica sia la scoperta di un filone aurifero sia quella di un
deposito di petrolio.
Che nelle nuove colonie d’oltreoceano ci fossero giacimenti lo avevano
rivelato, già nel 1755, le mappe del gallese Lewis Evans (e, due secoli prima,
le pozze in cui si erano imbattuti gli spagnoli nel futuro «territorio della
Louisiana»). Nel corso del Settecento, di quel liquido scuro si privilegiavano
le misteriose proprietà medicinali: se, durante la Rivoluzione americana
(→), i nativi lo consigliavano ai soldati come rimedio contro il
congelamento, i ciarlatani ambulanti ne avrebbero fatto l’ingrediente
miracoloso di intrugli curativi di dubbia efficacia (leggenda vuole che anche
il padre di Rockefeller fosse un venditore di patent medicines → Tricksters e
con-men).
Quando, nel 1859, il petrolio fu estratto in Pennsylvania, non andò a
sostituire il carbone – su cui dovremo tornare a breve –, ma il grasso di
balena, usato fino a quel momento per l’illuminazione. Il «whale oil» può
essere infatti considerato il primo vero «petrolio» americano e l’industria
baleniera del Massachusetts una delle più floride di metà Ottocento: non è
un caso che in Moby Dick Herman Melville narri le vicende del Pequod, nave-
raffineria in cui, dopo aver cacciato i capodogli, se ne lavora il grasso. Dal
1840, il primato della città di Nantucket, fulcro di quell’industria, fu
insidiato da New Bedford che, nel 1857, controllava da sola metà della
lavorazione del grasso di balena dell’intero paese.
Il petrolio della Pennsylvania – calamita per circa 30mila cercatori di
fortuna – era quindi destinato allo stesso mercato del grasso di balena:
illuminazione, lubrificazione, produzione di sapone e di medicinali. Fu
Edwin Drake, un ex macchinista al servizio della Seneca Oil, a sondare il
primo pozzo nella Pennsylvania nordoccidentale, nei pressi di Titusville, al
confine di Venango County; e, a riprova del passaggio di consegne tra
arpioni e trivelle, i primi fiotti di petrolio furono salutati al grido di «There
she blows!» («Laggiù soffia»), l’espressione marinaresca che segnalava
l’avvistamento di una balena. Oltre alle zone vicine all’Oil River di Venango
County, il petrolio comparve in altre parti dello stato, spesso come by-
product nella ricerca di miniere di sale, attraendo giocatori d’azzardo e
speculatori pronti, nelle parole della giornalista muckraker (→) Ida Tarbell, a
ballare al ritmo della nuova «American Petroleum Polka» (e nel Novecento
non mancò un grosso scandalo politico legato al petrolio e ai suoi
faccendieri: quel Teapot Dome Scandal scoppiato durante
l’amministrazione Harding, negli stessi anni in cui Upton Sinclair scriveva
Oil!, romanzo del 1927, ambientato nella California meridionale).
Nel 1861, Demetrius Scofield, un avventuriero con ottimo fiuto
affaristico, lasciò la Pennsylvania per migrare verso ovest e, compratosi nel
1876 la California Star Oil Works poco a nord di Los Angeles, avviò uno dei
bracci più importanti della futura Standard Oil Company (oggi Chevron).
Solo nel 1901, tuttavia, con il ritrovamento di petrolio nel Texas, a due passi
dalla cittadina di Beaumont, su una collina chiamata Spindletop, il corso
della storia energetica americana cambiò in modo radicale, segnando
l’inizio del declino del carbone e il consolidamento dello statuto di potenza
industriale del paese nel mondo. La mattina del 10 gennaio di quell’anno,
mentre un rassegnato Al Hammil stava per dire al fratello Curt che di
petrolio, sotto Spindletop, sembrava non esservi traccia, un’esplosione lo
travolse: dopo la fuoriuscita di una fitta nuvola di gas metano, il tanto
agognato spruzzo nero arrivò a irrorare le trivelle, gli Hammil e l’intera
collina. Il greggio di Spindletop era il prodotto di un processo geologico
cominciato 50 milioni di anni prima, quando l’attuale territorio del Texas
giaceva sommerso in un grande Golfo del Messico sul cui fondale fangoso si
andava formando un tappeto organico che si sarebbe indurito in una roccia
lavica molto ricca. In un processo lentissimo, quello strato roccioso sarebbe
stato poi sepolto sotto i depositi riversati dalle foci dei fiumi continentali,
compattandosi in arenaria. A quel punto, la pressione di questi strati
avrebbe «cotto» i fossili animali lì sedimentati, dando vita a un idrocarburo
complesso: il petrolio.
L’era avviata dallo Spindletop Gusher – da cui sarebbero stati estratti
100mila barili al giorno, annichilendo la capacità produttiva dei «vecchi»
pozzi – coincise, come s’è detto, con la consacrazione di una politica
energetica all’insegna del petrolio, che avrebbe presto sbaragliato il
carbone. Tra i vantaggi del nuovo carburante non c’erano soltanto la facilità
estrattiva, l’apparente riserva illimitata e la maggiore potenza di resa, ma
anche una popolarità culturale di cui il carbone – pur copioso nelle regioni
degli Appalachi (→ Appalachia) – non aveva mai goduto, complice anche
l’abbondanza di legname come principale fonte di combustibile per i coloni.
La fortuna commerciale di «King Coal», del «Re carbone», toccò quindi il
suo punto più alto nel 1910, quando forniva tre quarti dell’energia
americana: ma da lì in poi, la straordinaria produttività dei giacimenti
texani e californiani e la fortuna del motore a combustione interna a
benzina (→ Model T) avrebbero convinto le multinazionali dei trasporti
(unite a quelle petrolifere in potenti cartelli commerciali) a orientarsi in
maniera definitiva verso il petrolio. Tra il 1920 e il 1930, enormi campi
petroliferi furono scoperti nel Texas – tra cui il Daisy Bradford n. 3 (1930) e
il Lathrop n. 1 (1931): nel 1936, la produzione annuale di questi pozzi
raggiungeva i 160 milioni di barili (nel 2004, quella cifra si sarebbe ridotta a
soli 10 milioni). Insieme alla bonanza, arrivò anche il monopolio del magnate
John D. Rockefeller (→ Robber barons), fondatore e amministratore della
Standard Oil Company (o Esso, dalle iniziali S.O.), che nel 1890 controllava
l’88% di tutto il petrolio raffinato americano e, nel 1904, il 91% della
produzione e l’85% del prodotto finito. L’impero di Rockefeller, che si
reggeva su un consorzio dedito a pratiche quanto meno sospette in grado di
sbaragliare la concorrenza imponendo il controllo dei prezzi e degli
oleodotti e già al centro delle rivelazioni del libro-inchiesta di Ida Tarbell
The History of the Standard Oil (1904), fu accusato nel 1906 di aver violato lo
Sherman Anti-Trust Act (la legge anticartelli del 1890). In seguito alla
sentenza della Corte Suprema del 1911, che giudicava la Standard Oil
colpevole di «ribassi, preferenze, e altre pratiche discriminatorie a favore
degli accordi tra compagnie ferroviarie, limitazioni e monopolio del
controllo dei gasdotti ecc.», il grande trust di Rockefeller venne sciolto e
«spacchettato» in 34 diverse compagnie, tra cui la Jersey Standard (poi
Exxon) e la Standard Oil Company of New York (Socony, oggi Mobil), due
delle «sette sorelle» del petrolio insieme a Standard Oil of California, Gulf
Oil, Texaco (poi Chevron), Royal Dutch Shell, AngloPersian Oil Company
(poi Bp). Nel 1999, con buona pace dello Sherman Anti-Trust Act, Exxon e
Mobil si sarebbero fuse nella ExxonMobil, la più grande multinazionale
petrolifera del mondo.
Se negli anni dieci, venti e trenta il petrolio americano sostenne la spinta
industriale del paese, soprattutto in ambito automobilistico – il celebre
pubblicitario Bruce Barton affermò che la benzina era «il succo della fonte
di gioventù» –, con la Seconda guerra mondiale esso diventò, a un tempo, lo
strumento con il quale combattere (e vincere) il conflitto e l’obiettivo
dell’allargamento del controllo geopolitico di alcune aree della terra: oltre a
rifornire gli alleati Francia e Inghilterra di combustibile (molte furono le
petroliere americane affondate dai sommergibili tedeschi nell’Atlantico) e
alimentare l’industria bellica, gli Stati Uniti gettavano così le basi per una
diplomazia di petrodollari con altrettanti «petrostates»: appena conclusa la
conferenza di Yalta, Franklin Delano Roosevelt incontrò il re saudita Ibn
Saud palesando così l’importanza strategica dei paesi arabi nelle politiche
della Casa Bianca e inaugurando una consuetudine che avrebbe visto
impegnati tutti i presidenti futuri (da Dwight D. Eisenhower a John F.
Kennedy, da Reagan ai Bush: si pensi al colpo di stato che, nel 1953, in Iran,
rovesciò il governo Mossadeq, reo di aver nazionalizzato la Anglo-Iranian
Oil Company, e restituì il potere allo scià Mohammad Reza Pahlavi).
Nel dopoguerra, gli importanti cambiamenti demografici e residenziali
di uno stile di vita sempre più urbano e suburbano (→ Suburbs)
aumentarono in misura stupefacente la dipendenza degli americani dal
petrolio: negli anni cinquanta, gli Stati Uniti consumavano un terzo della
produzione mondiale e metà di quella nazionale. Nel 1956, mentre il
presidente Dwight D. Eisenhower avviava la costruzione dell’Interstate
Highway System, una rete autostradale che avrebbe coperto l’intero paese
stimolando a livello ulteriore la crescita dell’industria dell’auto (→ Model
T), Marion King Hubbert, geologo che lavorava per la Shell, studiò i pozzi di
petrolio americani e calcolò che il picco (ovvero il punto in cui l’estrazione
si sarebbe fatta più difficile e costosa) della loro produttività sarebbe giunto
tra il 1965 e il 1970. Le previsioni di Hubbert erano corrette e, nonostante il
fascino mediatico di J.R. (→ Dallas), negli ultimi quarant’anni il numero dei
barili strappati ai pozzi texani e californiani è declinato in modo rovinoso.
Oltre a fare i conti con la ridotta produzione di greggio nazionale, negli
anni settanta gli Stati Uniti (e tutto il mondo occidentale) dovettero
affrontare l’embargo che i paesi arabi membri dell’Opec organizzarono
come ritorsione contro l’appoggio americano a Israele durante la guerra del
Kippur del 1973. In dieci mesi, nel 1974, il prezzo al barile salì del 228%.
Il resto è storia recente. Secondo lo studio di Paul Roberts, End of Oil
(2004), la quantità di energia necessaria allo stile di vita americano è doppia
rispetto a quelle di Europa e Giappone e circa dieci volte rispetto alla media
del resto del mondo. Se gli Stati Uniti consumano oggi il 25% dell’energia
mondiale pur disponendo di non più del 5% delle sue riserve, il loro
coinvolgimento in guerre combattute in zone ricche di petrolio o
attraversate da oleodotti e gasdotti non è sfuggito a una parte di opinione
pubblica radical che esprime il proprio dissenso politico al grido di protesta
«No blood for oil». Ed è storia recente anche l’estrazione di petrolio
americano attraverso tecniche nuove, costose e a forte impatto ambientale
come le sabbie bituminose canadesi e le perforazioni a grandi profondità nel
Golfo del Messico, con la marea nera della Bp (→ Disastri) ancora fresca sui
litorali della Louisiana. Anche in Alaska – già scenario della catastrofe
ecologica della Exxon Valdez (→ Disastri) – si gioca oggi una partita
fondamentale: l’idea, più o meno bipartisan, di trivellare la Natural Reserve
(→ Wilderness), corrompendo così anche l’ultima frontiera (→) americana.

BIBLIOGRAFIA
Midnight Notes Collective, Midnight Oil: Work, Energy, War, 1973-1992,
Autonomedia, New York 1992.
Kevin Phillips, American Theocracy: The Peril and Politics of Radical Religion, Oil,
and Borrowed Money in the 21st Century, Viking, New York 2006.
Retort, Afflicted Powers: Capital and Spectacle in a New Age of War, Verso,
London 2005.
Paul Roberts, The End of Oil: On the Edge of a Perilous New World, Houghton
Mifflin, New York 2004.
Matthew Yeomans, Oil: Anatomy of an Industry, New Press, New York 2004.
C. SCAR.

O.K.
Lo sentiamo usare (lo usiamo) di continuo, a volte in maniera quasi
ossessiva. Ma che cosa significa? Quali sono le sue origini?
Secondo la leggenda, nei primi anni quaranta dell’Ottocento, un giovane
tedesco, immigrato di recente negli Stati Uniti, incaricato di portare il
messaggio «Tutto bene» («All correct»), per ricordarselo meglio ne
trascrisse foneticamente (ma alla tedesca) le iniziali: «O.K.».
Secondo il Webster New World Dictionary, invece, il primo uso di «O.K.»
risalirebbe a un articolo comparso sul Morning Post di Boston il 23 marzo
1839, in cui il direttore C.G. Greene usava scherzosamente la formula «oll
korrect» per «all correct». Sempre il Webster aggiunge che l’uso del termine
divenne corrente nel 1840, con riferimento al Democratic O.K. Club, che
sosteneva Martin Van Buren come candidato alla presidenza per un
secondo term – dove O.K. stava per Old Kinderhook, nello stato di New York,
la cittadina natia di Van Buren.
Da parte sua, Henry Louis Mencken, singolare figura d’intellettuale
controcorrente negli anni venti e trenta del Novecento, nel suo The
American Language (1919, 1923), fa risalire l’espressione O.K. molto più
indietro, a fine Settecento, quando il rhum e il tabacco migliori in assoluto
venivano dalla cittadina di Aux Cayes, a Santo Domingo – da cui il
significato di O.K. come «il meglio di tutto». Sempre Mencken ricorda che
l’umorista della frontiera (→ Tall tales) Seba Smith, noto con il nom de
plume di «Major Jack Downing», si faceva beffe della scarsa conoscenza
grammaticale del presidente Andrew Jackson, affermando che «vistava» i
documenti con la sigla «O.K.», appunto per «All correct».
Ma le possibili etimologie, non tutte accettate dagli studiosi, sono
numerose. Per esempio, nella lingua della tribù Native American dei choctaw,
cui si deve fra l’altro uno dei due possibili significati del nome «Mississippi»
(→ Vie d’acqua), esiste il termine «okeh» con il significato di «così è»; allo
stesso modo, nella lingua africana dei mandingo esiste l’espressione «o ke»
e in quella Wolof l’espressione «waw-kay», per dire «d’accordo».
Qualunque sia l’origine, canta bene Pete Seeger (→ Newport Folk
Festival) nella sua canzone «All Mixed Up»: «You know this language that
we speak, / is part German, Latin and part Greek / Celtic and Arabic all in a
heap, / well amended by the people in the street. / Choctaw gave us the
word “okay”…».
Immigrati, giornalisti, presidenti, umoristi della frontiera, Native
Americans, schiavi africani, folk singers… Non c’è che dire: un bel po’
d’America sta dentro a quelle due lettere.

BIBLIOGRAFIA
Monica Harvey, Anna Ravano, Wow. The Word on Words. Grande Dizionario
Inglese-Italiano di parole e di frasi idiomatiche colloquiali e gergali, Zanichelli,
Bologna 2004.
Henry Louis Mencken, The American Language, Alfred A. Knopf, New York
1923.
Webster’s New World Dictionary of the American Language, Simon & Schuster,
New York 1980.
M.M.

Okies
La parola «Okies» si riferisce ai protagonisti di un’importante migrazione
interna agli Stati Uniti della Grande depressione (→). Tra il 1935 e il 1940, i
segmenti più poveri della popolazione rurale delle regioni sudoccidentali
colpite dalla Dust Bowl (→) – ovvero Oklahoma (da cui il termine «Okies»),
Texas, Arkansas (da cui la variante «Arkies»), Missouri, Kansas, Nebraska,
Colorado e i due Dakota – prenderanno infatti a riversarsi negli stati della
costa pacifica (California, Arizona, Washington, Idaho) in cerca di lavoro.
Nella maggior parte dei casi, raggiunta la California dopo veri e propri
viaggi della speranza, gli Okies sono impiegati come braccianti agricoli nelle
valli centrali – su tutte, la San Joaquin Valley, dove sostituiscono la
manodopera messicana e filippina nei frutteti e nei campi di cotone. Accolti
come forza lavoro a buon mercato ma trattati con ostilità e disprezzo come
potenziali residenti, ben pochi Okies riusciranno a sistemarsi nei 12 campi
permanenti e nei 9 campi mobili allestiti dalla Fsa (→), dovendo provvedere
da sé alla costruzione di alloggi assemblati con mezzi di fortuna nelle
okievilles, versioni californiane delle già note hoovervilles (→ Hoover).
Nessuno più di John Steinbeck nel suo bestseller del 1939 Furore (→
Furori), a cui si ispirerà l’omonimo film di John Ford del 1940, ha
contribuito a fare dell’epopea degli Okies una narrazione epica della Grande
depressione ritraendo l’esodo della famiglia Joad dall’Oklahoma verso la
California lungo la Route 66 (→ Route 66 e Highway 61), il «sentiero di un
popolo in fuga». A bordo di un furgoncino Hudson che perde i pezzi strada
facendo – così come sarà per il nucleo familiare stesso –, i Joad attraversano
l’Ovest sospinti dalla volontà di trovare lavoro nei campi della California,
dove però li attendono una realtà segnata dalla concorrenza di migranti
altrettanto disperati, l’astio della popolazione locale e la dura repressione
dei tentativi di organizzazione sindacale da parte del padronato e delle
autorità governative.
Sarebbe un errore, tuttavia, considerare la rappresentazione degli Okies
nel libro di Steinbeck come unica nel panorama culturale di quegli anni: a
riprova della costante negoziazione di forme espressive diverse come
letteratura, cinema e fotografia, è lecito, nonché utile, ricondurre la genesi
del fortunato Furore all’influenza dei film di Pare Lorentz e dell’opera
fotografica di Dorothea Lange (→ Fsa). Per popolarità, contiguità temporale
e intensità espressiva, un analogo visivo delle pagine di Steinbeck va infatti
cercato negli scatti firmati dalla Lange, fotografa impiegata dall’agenzia Ra-
Fsa dal 1935 al 1939 e autrice, insieme all’economista agrario Paul Taylor,
del «photo-essay book» del 1939 An American Exodus: A Record of Human
Erosion.
Parallelo e complementare a Furore per prospettiva sociale è poi Questa
terra è la mia terra (Bound for Glory, 1943), autobiografia di Woody Guthrie.
Guadagnandosi sulla strada il soprannome di «trovatore della Dust Bowl»
(→ «Which Side Are You On?»), nella sua produzione artistica fatta di
ballate, poesie, e memorie, Guthrie racconterà, anche nell’autobiografia
postuma Pastures of Plenty, non solo del suo viaggio tra gli Okies verso la
California, ma di tutti i migranti della Grande depressione: «Ho guardato le
facce perse e affamate di centinaia e centinaia di migliaia di Oakies, Arkies,
Texies, Mexies, Chinees, Japees, Dixies, e anche New Yorkies… e mi hanno
così intrigato l’arte e la scienza del Migrare che mi ci sono anche diplomato
– in una scuola così grande, non puoi nemmeno uscirne».

BIBLIOGRAFIA
James N. Gregory, American Exodus: The Dust Bowl Migration and Okie Culture in
California, Oxford University Press, New York 1989.
Robert S. McElvaine (ed.), Encyclopedia of the Great Depression, Macmillan,
New York 2004.
Alessandro Portelli, «Prefazione», in Woody Guthrie, Questa terra è la mia
terra, Marcos y Marcos, Milano 1997.
C. SCAR.

Olimpo americano
Nello sforzo di delineare una propria identità, gli Stati Uniti usciti dalla
rivoluzione del 1776 (→ Rivoluzione americana) sentirono presto il bisogno
di caratterizzarsi anche nel campo della cultura: di darsi cioè, non solo una
letteratura nazionale, ma anche una sorta di cosmogonia autoctona
popolare, un insieme di miti e leggende locali in cui riconoscersi a livello
collettivo e su cui, con il tempo, sviluppare una risposta al Vecchio mondo.
Non potendo ricorrere ai miti e alle leggende già esistenti su suolo
nordamericano (fin dall’epoca puritana, il Native American era infatti
ritenuto incarnazione del demonio e adesso, per la neonata nazione, era
soprattutto un nemico da combattere), si trattava di crearne di nuovi,
attingendo in primo luogo (ma non solo) all’esperienza contemporanea
sulla Frontiera (→), grande serbatoio di tipi, episodi, situazioni, contesti, da
cui distillare quei miti e quelle leggende.
L’Adamo americano (→) fu una delle prime e più importanti creazioni.
Ma, accanto a esso e partecipi di molte sue caratteristiche, si affermarono
via via altri personaggi, alcuni del tutto inventati (pur avendo radici nella
realtà dell’epoca); altri reali e contemporanei, ma investiti mentre erano
ancora in vita di un’aura mitica e a volte sovrumana; altri infine creati in
tempi più tardi (addirittura ai primi del Novecento), ma proiettati indietro,
quasi a voler rassicurare e confortare l’immaginario collettivo circa
l’esistenza di un passato leggendario in grado di rappresentare
un’esperienza storica e di aiutare così ad affrontare le sfide del presente.
È il caso di Paul Bunyan: gigantesco taglialegna delle contrade boscose
del Nord, fra Stati Uniti e Canada (il nome verrebbe da una formula
colloquiale franco-canadese per esprimere sorpresa: forse per le dimensioni
del personaggio), portato in volo da ben cinque cicogne, autore di decine di
straordinarie imprese da bambino, creatore del Grand Canyon (per essersi
trascinato dietro la pesante ascia), sempre accompagnato dal fedele (e lui
pure gigantesco) bue azzurro Babe, le cui orme – riempiendosi d’acqua
piovana – sarebbero all’origine dei mille laghi del Minnesota, probabile
creazione degli anni dieci del Novecento che rielaborava però tall tales (→)
di un secolo prima, narrate, circolate, sviluppate per aggregazioni
successive nei campi dei taglialegna, e celebrato oggi da decine e decine di
mostruose statue kitsch nelle numerose cittadine del Nord che vantano di
avergli dato i natali (tralasciamo qui il fratello minore Pete Catasta-di-Legno
e Tony il Castoro, suo cugino…).
Ed è il caso di Pecos Bill: altra creazione dei primi del Novecento, ma
basata anch’essa su tall tales di varia origine, caduto in fasce da un carro
coperto (→ Conestoga e prairie schooner) e allevato da un branco di coyote,
ritrovato dal fratello in riva al fiume Pecos (da cui il nome), cowboy
scatenato e abilissimo (l’unico in grado di montare lo stallone Fulmine,
detto anche «Fabbrica-vedove»), capace di cavalcare un tornado e di usare
un serpente a sonagli come lazo, dinamite il suo cibo preferito, Sue-Piedi-di-
Papera il suo grande amore (che, per non essergli da meno, discende il Rio
Grande in groppa a un gigantesco pesce gatto →), per la quale spegne a
rivoltellate tutte le stelle del cielo eccetto una (la Stella Solitaria, Lone Star).
O ancora, a dimostrazione che non era solo la Frontiera del West a
produrre miti e leggende, ma anche quell’altra frontiera particolare,
sempre più giungla d’asfalto con il trascorrere dei decenni, che fu la
metropoli, è il caso di Mose il Pompiere: forse modellato sulla figura di Mose
Humphrey, pompiere newyorkese degli anni quaranta dell’Ottocento, che
fu a capo di una delle bande di strada più famose (e famigerate) dell’epoca, i
B’howery B’hoys, eternamente in lotta con i Dead Rabbits e i Five Pointers:
un folklore urbano coloritissimo, come mostrerà il giornalista e storico
Herbert Asbury nel suo studio Gangs of New York (1928), utilizzato da Martin
Scorsese per la sceneggiatura del film omonimo del 2002 (→ Gang; → Lower
East Side). Mose era forte come dieci uomini, in prima fila in ogni rissa, con
una lastra di pietra per pavimentazione in una mano e un lampione
sradicato (o una quercia, a seconda dei casi) nell’altra, una mannaia infilata
nella cintola, capace di sollevare un tram a cavalli pieno di passeggeri e di
trasportarlo per parecchi isolati, di salvare una nave dal naufragio tra gli
scogli al largo di New York soffiando nelle vele il fumo di un enorme sigaro,
o di nuotare il periplo di Manhattan con sei bracciate, ossessione dei birrai,
dei macellai e dei panettieri per la sua voracità, colpevole dell’assenza di
ciliegi e di gelsi da Cherry (= ciliegio) Street e da Mulberry (= gelso) Street,
reso infine ancor più celebre da una serie di rappresentazioni teatrali, di cui
la più acclamata fu, nel 1849, «Mose, the B’howery B’hoy», di Benjamin
Baker, nell’interpretazione di Frank Chanfrau, rimasta negli annali del
teatro popolare newyorkese (→ Bowery).
C’è poi John Henry, e il caso è interessante: forse, come per Mose, il
modello fu reale (uno dei tanti schiavi neri utilizzati nella costruzione di
argini, tunnel, strade ferrate nella prima metà dell’Ottocento), ma le ipotesi
al riguardo sono molte; sta di fatto che la leggenda, ripresa in decine di
prodotti culturali diversi (specialmente canzoni e ballate, di cui una in
particolare è rimasta famosa nelle più disparate versioni: «John Henry»),
parla di un uomo possente, quasi due metri d’altezza per 100 chili di peso,
che al Big Bend Tunnel aziona un pesante martello per spaccare le rocce; e
che – venuto a sapere della decisione padronale di introdurre una novità
tecnologica (un martello azionato a vapore) – decide di sfidarlo e, in
un’epica battaglia, lo sconfigge, ma a prezzo della vita; un eroe e una
leggenda in cui si mescolano dunque riflessioni sulla tecnologia, sulla
schiavitù e sul conflitto capitale-lavoro.
A questo punto, l’elemento fantastico (pur restando ingrediente
centrale) passa in secondo piano rispetto alla realtà: l’Olimpo americano si
riempie di personaggi in carne e ossa, noti e riconoscibili, con date precise
di nascita e di morte, le cui gesta però diventano leggendarie.
Abbiamo così Johnny Appleseed, Giovannino Seme-di-Mela, nato John
Chapman nel 1774 e morto nel 1845: naturalista ante litteram, in viaggio dal
Massachusetts all’Ohio ai primi dell’Ottocento e poi un po’ ovunque nei
giovani Stati Uniti, con una preziosa scorta di semi di melo che – secondo la
leggenda – avrebbe sparso in giro, in realtà creatore di autentici vivai nel
processo di colonizzazione del territorio, predicatore itinerante di un
rapporto diretto con la natura, vegetariano e convinto seguace delle teorie
del mistico settecentesco Emanuel Swedenborg, teorizzatore di un vivere
semplice ed essenziale.
Abbiamo Daniel Boone (1734-1820), pioniere delle origini, che apre
nuove piste verso l’Ovest (la Wilderness Road → Piste e sentieri), fonda
insediamenti sulla linea mobile della Frontiera (Boonesborough), vive per
un lungo periodo con una tribù shawnee, partecipa alla guerra
rivoluzionaria contro gli inglesi e si sposta sempre più verso ovest, in cerca
di quell’«elbow room» (spazio vitale) che il continente offriva, nonostante
le minacce di una progressiva colonizzazione (cui peraltro Boone fu
strumentale); trappolatore, apripista, cacciatore d’animali e di indiani (di
cui però conosceva e rispettava usi e costumi), divenne una leggenda ancora
in vita, con biografie e pseudoautobiografie, e finì per ispirare il
personaggio di Calza di cuoio nella serie di cinque romanzi di James
Fenimore Cooper dedicati alla Frontiera (di cui L’ultimo dei Mohicani, del
1826, è il più noto).
Simile a Boone sarà Davy Crockett (1786-1836), altro apripista e
trappolatore, cacciatore e avventuriero sulla Frontiera con la fida Betsy (la
carabina a canna lunga), uomo dei boschi fitti del Tennessee, protagonista
di decine di «almanacchi» (→) tanto fantasiosi quanto divertenti e di
numerose autobiografie, «mezzo cavallo e mezzo alligatore», capace di
scortecciare un tronco a forza di ghigni e di catturare un lupo annodandogli
la coda dal di dentro di un albero cavo; ma anche uomo politico, eletto alla
Camera dei Rappresentanti, dove difese i diritti degli occupanti abusivi di
terre e si oppose all’Indian Removal Act (→ Guerre indiane) deciso del
presidente Jackson nel 1830; e infine «martire del Texas», dove era accorso
nel 1836 per sostenerne l’indipendenza contro il Messico, cadendo nella
celeberrima battaglia di Alamo (→).
Suo compagno d’avventure per qualche tempo fu un altro eroe popolare,
larger than life, più grande della vita reale: Mike Fink (1770?-1823), re dei
battellieri sui fiumi Ohio e Mississippi, modello insuperato di spaccone e
ubriacone, anch’egli «mezzo cavallo e mezzo alligatore» ed eroe di ballate,
racconti, almanacchi, oltre che sintesi (anche linguistica) di tall tales (→)
d’origine diversa, animatore di notti alcoliche nei paesini rivieraschi,
«divinità del fiume», morto forse in una rissa scoppiata per motivi di cuore.
Già, perché è noto che le donne (caste o perdute) non mancavano, sulla
Frontiera: e allora è il caso di ricordare, in quest’universo in prevalenza
maschile, almeno un’eroina popolare – Martha Jane Cannary Burke (1852-
1903), più nota come Calamity Jane, bellissima esploratrice e cacciatrice
d’indiani secondo alcuni, personaggio equivoco, crudele e dissoluto secondo
altri, che avrebbe ricevuto quel nomignolo per numerosi atti d’eroismo (o
come aperta minaccia a chi cercava di fare il cascamorto con lei?) e che
nella cittadina mineraria di Deadwood, nelle Colline nere, dove lavorava
come cuoca in un bordello, divenne amica intima (e forse qualcosa di più) di
Wild Bill Hickock (di cui tentò di uccidere l’assassino a colpi di mannaia), e
in seguito protagonista di assalti sventati alle diligenze e poi del Wild West
Show (→) di Buffalo Bill, alcolizzata negli ultimi anni di vita trascorsi
malinconicamente in un West che non esisteva più.
Più anziano di Boone e Crockett, Kit Carson (1809-1868) ne completa in
un certo qual modo le figure, non senza quel poco o molto di ambiguità che
esse già possedevano: fu trappolatore, cacciatore, apripista nelle regioni
estreme del Sudovest come del Nordovest e guida per esploratori come John
C. Frémont lungo la pista dell’Oregon (→ Piste e sentieri), al servizio
dell’esercito nella guerra contro il Messico nel 1846 e a fianco delle truppe
unioniste all’epoca della Guerra civile (→), e infine (e qui la leggenda tutta
positiva diviene molto contraddittoria) protagonista delle spedizioni contro
gli apache e contro i navajo (ma anche aspramente critico del massacro di
Sand Creek → Sand Creek e wounded). Nel frattempo, erano usciti i primi
romanzi su di lui, che l’avrebbero accompagnato fino alla morte – e ben
oltre –, intrecciandosi a canzoni, racconti, fumetti, film e serie tv (→) sul
Vecchio West. E a un’autobiografia: Kit Carson’s Own History of His Life
(dettata a più riprese all’amico colonnello Dewitt Peters e a sua moglie fra il
1856 e il 1857).
Ora, è giunto il momento di parlare di due «vite parallele», per alcuni
versi: di Buffalo Bill e di Wild Bill Hickock, altre divinità di quest’Olimpo.
William «Buffalo Bill» Cody (1846-1917) fu tante cose diverse, molto
all’americana: trappolatore, soldato nella Guerra civile (→), scout poco più
che dodicenne nelle molte scaramucce della Frontiera (→) e in seguito nelle
Guerre indiane (→), cercatore d’oro (→ Oro!), cavaliere del Pony Express
(→), cacciatore di bisonti (4300 fra il 1867 e il 1868), guidatore di diligenze
(→ Stagecoach), direttore d’albergo, imprenditore interessato a moderni
metodi d’irrigazione nell’Ovest, fondatore della piccola città (→) di Cody
(Wyoming), attore di «melodrammi della frontiera» nei teatrini della
Bowery (→) newyorkese, protagonista di decine di romanzetti avventurosi
(→ Dime novels), autore di un’autobiografia (The Life and Adventures of
Buffalo Bill, 1879), inventore del «Grande Spettacolo Americano» (→ Wild
West Show) – che dire di più? In tutto questo, incarnò molte delle
contraddizioni della cultura americana: nemico/amico dei Native Americans,
simbolo del maschio per eccellenza e sostenitore dei «diritti alle donne»,
massacratore di bisonti ed entusiasta conservazionista, creatore del «mito
del West» e corresponsabile della visione manichea della sua conquista. I
suoi sentieri s’intrecciarono più d’una volta (la prima fu quand’era
dodicenne e faceva da scout all’epoca di una ribellione di mormoni nello
Utah, fra il 1857 e il 1858) con quelli di James Butler «Wild Bill» Hickock
(1837-1876), destinato però a una vita molto più breve, interrotta in
maniera drammatica: anch’egli guidatore di diligenze, anch’egli scout e
soldato durante la Guerra civile, dai molti nomi diversi (fino a darsi quello
di «Wild Bill», per le numerose intemperanze e situazioni equivoche in cui
venne a trovarsi); quindi uomo di legge e sceriffo, celebre tiratore e
protagonista di scontri a fuoco; acceso nemico degli indiani e scout per il
«generale» Custer (→ Little Bighorn)… Calcò le scene di alcuni
«melodrammi della frontiera», con e senza Buffalo Bill (rivelandosi tuttavia
un pessimo attore) e diventò sceriffo della turbolenta Abilene (→
Tombstone, Abilene, Dodge City), diventando amico del fuorilegge John
Wesley Hardin (che lo venerava → Wanted!-I) e, si dice, amante di Calamity
Jane. Hickock maneggiava con grande maestria le due Colt (→ Colt &
Winchester) con l’impugnatura in avorio da cui non si separò mai ed era un
esperto e accanito giocatore di poker. E fu questa passione a segnare il suo
destino: durante una partita in un saloon di Deadwood, per motivi
sconosciuti un certo John McCall gli sparò alla nuca – l’unica volta in cui
Wild Bill non si sedette con le spalle contro un muro.
E, se con Calamity Jane eravamo giunti ormai all’alba del Novecento e
con Buffalo Bill allo spartiacque della Prima guerra mondiale, è giusto
chiudere questa carrellata di folk heroes con un nome a lei praticamente
contemporaneo: quello di Casey Jones (1863-1900), che in fondo più che a lei
è vicino a John Henry. John Luther Jones, detto Cayce (e poi Casey) dal
paesino del Kentucky nei pressi del quale visse da ragazzo, era un
macchinista per la Illinois Central Railroad, abilissimo nell’uso del
particolare fischio del treno, esperto delle nuove locomotive che l’industria
statunitense in pieno sviluppo produceva in quegli anni di fine Ottocento.
Nel 1900, Jones lavorava su una linea passeggeri (la Chicago-New Orleans),
detta «Cannonball», Palla di cannone, per la grande velocità raggiunta: e
durante uno di questi viaggi, nella notte del 29 aprile 1900, la Palla di
cannone trovò sulla sua strada un treno merci che non sarebbe dovuto
esserci. Casey Jones fece miracoli per ridurre la velocità e attenuare
l’impatto, salvando tutti i passeggeri: ma morì sul colpo, nella cabina del
treno. Un suo amico e collega, l’afroamericano Wallace Saunders, scrisse
subito una ballata destinata alla celebrità nell’interpretazione di numerosi
folk singers – primo fra tutti, Pete Seeger. Di nuovo, il lavoro e la tecnologia
s’incontravano e scontravano nel personaggio di Casey Jones, come già in
quello di John Henry.
Altro che supereroi!

BIBLIOGRAFIA
B.A. Botkin, A Treasury of American Folklore, Random House, New York 1993.
Linda S. Watts, Encyclopedia of American Folklore, Checkmark Books, New York
2007.
M.M.

Ombre gialle
Traversato l’oceano d’erba delle Grandi pianure e superata l’ultima
muraglia delle Montagne Rocciose, giunto a San Francisco e dintorni,
l’esploratore o il colono aveva di fronte un altro oceano: e laggiù, in
lontananza, le Isole Hawaii (→) e le Filippine, il Giappone e la Cina – una
lontananza oscura, quasi inaccessibile. Ci vorrà tempo perché gli Stati Uniti
elaborassero la loro «politica della porta aperta» (nel 1898, con il Segretario
di Stato John Hay – quello stesso delle «splendide guerricciole» →), una
sorta di trattato di libero commercio con la Cina, che – d’accordo con le
potenze europee – l’apriva alla penetrazione americana, dopo il lungo
periodo di quasi assoluto monopolio inglese.
Intanto, però, nel corso di tutto l’Ottocento, prima che l’America
andasse verso la Cina, o più in generale verso l’Oriente, furono la Cina e
l’Oriente a venire verso l’America. L’immigrazione dai paesi al di là del
Pacifico cominciò a farsi consistente negli anni quaranta, quando fattori
interni (la prima guerra dell’oppio) ed esterni (la scoperta dell’oro in
California → Oro!; lo sviluppo di San Francisco; l’inizio della costruzione di
strade e ferrovie nelle regioni occidentali del continente nordamericano →
Promontory Point) produssero un moto migratorio destinato a ingrossarsi
con il tempo (→ Chinatown). Impiegati nelle miniere d’oro e argento, nella
costruzione di terrapieni e massicciate, nella posa di binari e traversine, o
come cuochi e lavandai in una società fluida e rozza, composta in
prevalenza di maschi con scarse presenze femminili che non fossero
prostitute, ballerine o cantanti di saloon, gli «orientali» occuparono da
subito gli interstizi delle comunità che s’andavano formando o sviluppando
sulla costa ovest – San Francisco in primis. Poi, dopo la Guerra civile (→), le
tensioni economiche e sociali originarono i primi moti anticinesi e
antiorientali, dando luogo a episodi ripetuti di autentici pogrom: di qui, la
dispersione sul territorio, la fuga dall’Ovest, la creazione delle Chinatown
(→) come enclave separate nelle principali metropoli. Una vicenda che si
può rileggere nel romanzo di Maxine Hong Kingston, China Men (1980).
In quei decenni, lo spettro del «pericolo giallo» cominciò a farsi
consistente nella psicologia di massa, abilmente manipolata dall’ideologia
dominante, da gruppi nativisti, da politici interessati al «divide et impera»
(sono gli stessi anni in cui, mentre si trattava manu militari il «pericolo
rosso», si alimentava la paranoia di un «pericolo nero» non più confinato
nella schiavitù e nelle piantagioni – gli stessi anni, insomma, del Kkk → e di
Jim Crow →). Il cinese (chink era il termine spregiativo), l’orientale, l’uomo
che veniva da oltre il Pacifico diventarono dunque sinonimo di «equivoco»,
«infiltrato», «subdolo», «ipocrita»; le Chinatwon si trasformarono in
regioni misteriose, in cui regnavano le fumerie d’oppio e la sotterranea
«tratta delle bianche»; a New York, il «turismo sensazionalista» (slumming)
offriva emozionanti tour guidati a Mott Street, cuore della comunità cinese,
completi di rapide visite a finte fumerie. Forme più o meno esplicite o sottili
di stereotipo dominarono dunque la società statunitense per lunghi
decenni, mentre il dramma dalla «società degli scapoli» (→ Chinatown)
contribuiva a rinchiudere in se stesse intere comunità, almeno fino alla fine
della Seconda guerra mondiale. Intanto, l’obbrobrio dei «campi di
detenzione» (→) avrebbe colpito i nippo-americani e un virulento razzismo
avrebbe isolato i «piccoli uomini», come erano chiamati gli immigrati dalle
Filippine, completo di legislazione contro i matrimoni misti negli stati
dell’Ovest.
Se le «ombre rosse» avevano ormai smesso di travagliare i sonni degli
americani, non così si poteva dire delle «ombre gialle» (il film di Steven
Spielberg 1941: Allarme a Hollywood, del 1979, ironizza proprio sulla continua
paura del «pericolo giallo») – discorso lungo e complesso, che solo negli
ultimi decenni è stato affrontato con coraggio dagli studiosi della cultura e
società americane. Aperta discriminazione e subdola rimozione confinarono
infatti gli «orientali» in posizioni del tutto marginali per molti decenni,
agendo in maniera negativa sulle stesse comunità coinvolte, fino alla presa
di coscienza degli anni sessanta e all’affiorare della comunità asiatico-
americana come potenza economica e intellettuale.
Prima di allora, è interessante ragionare sul modo in cui Hollywood (quel
grande contenitore d’immaginario collettivo, al contempo recepito e
alimentato) trattò queste «ombre cinesi». Gli esempi, che vanno dallo
stereotipo completo alla rimozione totale (e quindi eloquente), sarebbero
molti. Ma può bastare concentrarsi su tre figure, create dal cinema
americano nel corso degli anni trenta (non a caso: sono anni di altre ansie,
di altre fratture) con intenti almeno in parte «riparatori», per cogliere le
ambiguità e contraddizioni nel modo di atteggiarsi nei confronti di quelle
«ombre». Le tre figure si chiamano James Lee Wong» (meglio noto come
«Mr Wong»), Charlie Chan e Mr Moto.
«James Lee Wong» nasce in origine dalla penna di Hugh Wiley, autore di
storie d’avventura di scarso rilievo, pubblicate a puntate su giornali e
riviste negli anni venti: poi, nel 1934, il primo romanzo della serie, Medium
Well Done, che ha un notevole successo e verrà seguito da altri episodi,
riuniti nella raccolta Murder by the Dozen. Mr Wong è un detective cinese-
americano dai modi gentili e raffinati, di poche parole e di sottile umorismo,
tenace e paziente, collegato (ma in maniera alquanto anomala) con il
dipartimento del Tesoro americano, che agisce in una San Francisco oscura,
notturna, corrotta, e in una Chinatown debitamente misteriosa, risolvendo
casi di furti, scomparse e omicidi, con metodi alla Sherlock Holmes più che
alla Sam Spade (→ Hardboiled), mettendo non di rado in imbarazzo se non
in ridicolo la polizia. Charlie Chan fu invece creato dal prolifico Earl Derr
Biggers nel 1925 (La casa senza chiavi, cui seguirono altri cinque romanzi
della serie, l’ultimo dei quali pubblicato nel 1932): anch’egli detective
cinese-americano, impiegato però dalla polizia di Honolulu, capitale delle
Hawaii, Chan nell’intenzione dell’autore doveva rovesciare lo stereotipo
dell’orientale subdolo e ipocrita, incarnato in quei decenni dal personaggio
di Fu Manchu (creato dall’inglese Sax Rohmer). Sorridente, pacioso nella
sua mole extralarge, con movenze morbide e un tranquillo stoicismo di
fondo, Chan si aggira nel mondo del crimine, mantenendo una sorta di
equidistanza sia dalle proprie origini sia dalla società americana di cui fa
parte (e non è certo casuale la sua collocazione «marginale» alle Hawaii).
Infine, Mr Moto, protagonista di sei romanzi dello scrittore americano John
P. Marquand, altro autore prolifico e premio Pulitzer nel 1938: il primo della
serie, Your Turn, Mr Moto, apparve nel 1935; l’ultimo, Right You Are, Mr Moto,
nel 1959. I.A. Moto è un agente giapponese, gentile e pacato, ma abile nelle
arti marziali, dotato di humor e di savoir faire, ma non per questo incapace
di durezze e spregiudicatezze: opera in un contesto internazionale, fra
intrighi e misteri che spesso coinvolgono soldati americani all’estero, e
manifesta – almeno agli inizi – chiare simpatie per il mondo occidentale
(nei romanzi successivi a Pearl Harbor, queste caratteristiche tenderanno a
smorzarsi).
Hollywood s’impadronì presto delle tre figure, rielaborandole a modo
suo e facendone per molto tempo oggetti di vero culto: fra il 1938 e il 1940,
sei film con Mr Wong; fra il 1931 e il 1937, quindici film con Charlie Chan
(ma il personaggio riapparve poi in moltissime altre pellicole, con interpreti
diversi, fra cui il più recente è stato Peter Ustinov, nel 1981); fra il 1937 e il
1939, otto film con Mr Moto (oltre a una lunga serie di drammi radiofonici).
Le ambiguità e contraddizioni non mancavano, in questi tentativi di dar
corpo alle «ombre gialle» al di là degli stereotipi: ma un aspetto particolare
ci aiuta a comprendere quanto profondi fossero quegli stereotipi – la scelta
degli interpreti. Il personaggio di Mr Wong fu affidato a Boris Karloff, attore
celebre negli anni immediatamente precedenti per le sue interpretazioni di
Frankenstein (con lontane parentele asiatiche); quello di Charlie Chan a
Warner Oland, attore di origine svedese (ma con qualche ascendenza e
tratto somatico mongoli); e quello di Mr Moto niente meno che a Peter
Lorre, interprete prediletto del cinema espressionista tedesco e di Fritz
Lang in particolare e, dopo l’avvento del nazismo, attivo negli Stati Uniti in
ruoli sempre alquanto equivoci. Insomma, in un’epoca in cui era raro l’uso
di attori asiatici (le uniche eccezioni furono la sensuale Anna May Wong e il
celebre Sessue Hayakawa: ma nessuno dei due riuscì davvero a sfondare),
Hollywood non riusciva del tutto a staccarsi da una certa visione
dell’«orientale» e la manifestava così, in maniera surrettizia, quasi
subliminale – utilizzando attori «esotici», inquietanti, fors’anche
«mostruosi», che nel pubblico suscitavano un insieme di reazioni diverse e
complesse. Ambigua magia del cinema anche questa.

BIBLIOGRAFIA
Sucheng Chan, Asian Americans. An Interpretive History, Twayne Publishers,
Boston 1991.
Roger Daniels, Not Like Us. Immigrants and Minorities in America, 1890-1924, Ivan
R. Dee, Chicago 1997.
Lewis Jacobs, L’avventurosa storia del cinema americano, Einaudi, Torino 1952.
M.M.

Ombre rosse
Celebre esempio di come (almeno) i titoli dei film americani non si
dovrebbero tradurre, Stagecoach (→) di John Ford – western del 1939
ambientato ai tempi dell’ultima battaglia di Geronimo (→ Guerre indiane;
→ Sachem e sagamore) – si è impresso nel nostro immaginario con il nome
Ombre rosse. A ben guardare, il titolo italiano tocca, forse in maniera
inconsapevole, un nervo scoperto della cultura americana: l’«ombra», reale
e metaforica, dell’indiano che si allunga sull’identità nazionale come suo
rimosso, suo demone, sua radicale alterità. Fu Leslie Fiedler (→ Guerre
indiane; → Potlatch e Pow Wow) a studiare la presenza del nativo nella
società americana, ribadendo quanto, a dispetto di una vicenda storica che
lo aveva portato sull’orlo dell’estinzione, l’indiano della seconda metà del
XX secolo fosse tutt’altro che «disparente». La vitalità della cultura Native
American è oggi attestata dal fiorire dell’arte e della letteratura (Leslie
Marmon Silko, N. Scott Momaday, Simon J. Ortiz) e dipende in gran parte
dalla capacità testimoniale di una civiltà sopravvissuta a un lungo e tragico
percorso. Nel 1992, in occasione del cinquecentenario della «scoperta»
colombiana, mentre la retorica ufficiale imperversava in festeggiamenti
nazionalistici, alcuni gruppi di nativi fecero risuonare il loro controcanto di
protesta, ricordando quanto quella data avesse segnato l’inizio del
genocidio delle popolazioni indigene. Se altrove si è parlato della falcidia
demografica che con l’arrivo degli europei si abbatté sulle tribù
nordamericane sotto forma di epidemie infettive (vaiolo, morbillo, peste
bubbonica) e massacri (→ Guerre indiane; → Piste e sentieri), ricordiamo
ora come la politica di «rimozione» di quelle stesse tribù (ovvero di
espropriazione della terra e di allontanamento verso le regioni inospitali
dell’Ovest) inaugurata da Andrew Jackson con l’Indian Removal Act (1830),
abbia dato il via a un ulteriore capitolo della storia indiana: la creazione
delle riserve.
Nei primi trattati di «pace» tra governo federale e tribù (firmati spesso
da queste ultime sotto costrizione), la cessione di amplissimi territori agli
Stati Uniti prevedeva infatti anche la designazione di alcune «riserve» per i
nativi. Sancita dall’approvazione dell’Indian Appropriation Act nel 1851, la
creazione di riserve nell’attuale Oklahoma aprì la strada a quattro decenni
di dislocazione dei nativi nel West. Nonostante la strenua resistenza di
alcune tribù (leggendaria quella dei sioux, conclusasi con la battaglia del
Little Bighorn →), la loro sopravvivenza, legata a un uso non sedentario e
non intensivo della terra, fu minata dal disegno imperiale della giovane
nazione e dall’espandersi della ferrovia transcontinentale (→ Promontory
Point), responsabile del graduale sterminio del bisonte, cruciale al
sostentamento dei nativi. Fu proprio il nomadismo l’aspetto più attaccato
dalla precettistica riformista (e cristiana) di fine Ottocento che avrebbe
puntato alla sedentarietà come obiettivo della «civilizzazione» dei
«pellerossa» attraverso il Vangelo. In piena era progressista, il riformismo
dispiegato nei confronti dei nativi condivideva la stessa matrice ideale delle
politiche di americanizzazione degli immigrati (→ Melting pot): solo sotto
la guida «sicura» e «superiore» dei bianchi, i primi, ancora più che i secondi,
avrebbero potuto integrarsi nella società Wasp (→). Con l’uccisione di
Cavallo Pazzo, l’esilio di Toro Seduto (→ Sachem e sagamore) e la resa di
Geronimo a Skeleton Canyon (→), tra il 1876 e il decennio successivo gli
indiani ripiegarono sempre più nelle riserve e il credo riformista trovò
espressione giuridica attraverso la promulgazione, nel 1887, del General
Allotment Act – meglio noto come Dawes Act – che sarebbe rimasto in
vigore fino al New Deal (→ Grande depressione). Seguendo il modello dello
Homestead Act (→ Acri), il Dawes Act si proponeva di frammentare le terre
delle riserve trasformando gli indiani in bravi agricoltori e quindi in
cittadini americani: i lotti che fino a quel momento erano gestiti a livello
collettivo tribale sarebbero stati riallocati in singole unità familiari,
l’istruzione dei giovani indiani sarebbe stata affidata a scuole situate fuori
dalle riserve, la loro salute a medici bianchi, la salubrità delle loro
condizioni di vita alla divulgazione di principi di igiene domestica e
personale occidentali. In realtà, gli effetti sulle comunità tribali avrebbero
aperto ferite profonde e, per certi versi, insanabili: la rinuncia a tradizioni e
riti ancestrali a beneficio di una cultura sentita come estranea e usurpatrice
e comunque dominante si sarebbe accompagnata, specie nei maschi, a un
senso di frustrazione e di impotenza affogato spesso nella bottiglia.
Etnocentrico e razzista in una prospettiva storiografica tardo-
novecentesca, il Dawes Act era tuttavia al passo con le teorie
evoluzionistiche in voga a cavallo dei due secoli: negli anni dieci del
Novecento, la diffusione di dottrine pseudoscientifiche sull’inferiorità
razziale dei nativi avrebbe raggiunto il culmine grazie alla pubblicazione di
testi come The Passing of the Great Race di Madison Grant, delle foto di
Edward Curtis, The Vanishing Race, e della scultura di James Fraser The End of
the Trail; opere tese a preconizzare la fine della «razza indiana» che,
appartenente a uno stadio evolutivo arretrato, era destinata e soccombere.
L’intento ultimo del Dawes Act era di ridurre le proprietà Native American e
così fu: rispetto al 1887, le tribù avrebbero perso due terzi delle loro terre.
Sostenuto dai futuri presidenti Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson, il
Dawes Act andò incontro a una serie di contraddizioni e di limiti materiali
che sul finire degli anni venti ne avrebbero decretato il fallimento. Luther
Standing Bear (lakota-sioux) avrebbe, per esempio, raccontato della sua
esperienza di scolarizzazione in un istituto tecnico fuori dalla riserva come
di un concentrato di sradicamento e di alienazione: privato dei vestiti
tradizionali (la coperta e i mocassini) in favore di camicie dai colletti alti e
dai bottoni stretti, bretelle, biancheria di flanella e stivali di cuoio, rasate le
chiome fluenti, venne ribattezzato con un nome inglese scelto alla lavagna
tra i tanti (Luther). James R. Walker, un medico attivo nella riserva indiana
di Pine Ridge (South Dakota) dal 1893, nonché uno dei principali studiosi
della cultura lakota, avrebbe invano protestato circa il divario incolmabile
tra l’estensione delle riserve e le forze messe in campo dal governo
federale: nel 1914, quando si dimise dall’incarico, il 60% dei bambini di Pine
Ridge era affetto da tracoma e l’insalubrità delle piccole casette di legno –
che soffrivano, in particolare d’inverno, di cattiva aerazione – rendeva
difficile qualsiasi profilassi. I tempi erano maturi per un cambiamento,
l’ingegneria sociale progressista andava archiviata. E con gli anni trenta (→
Grande depressione), il «nuovo corso» rooseveltiano investì anche la
questione indiana all’insegna di un riconoscimento culturale più autentico.
Già nel 1928, una commissione governativa di studiosi e funzionari
organizzava un’investigazione dettagliata – il cosiddetto Meriam Report –
sulla condizione nelle riserve, dovendone attestare la profonda indigenza.
Con l’avvento di Franklin Delano Roosevelt, la nuova politica federale fu
affidata a John Collier, Commissario per gli Affari indiani dal 1933 al 1945,
fautore infaticabile di quello che sarebbe stato definito l’Indian New Deal
avviato grazie all’Indian Reorganization Act del 1934. La nuova legge
incoraggiava la sovranità tribale sulla gestione delle terre e un loro uso più
attento, sosteneva – anche da un punto di vista finanziario – una maggiore
tutela per il patrimonio folklorico, riconosceva il diritto a rituali religiosi e
propugnava un’istruzione bilingue e biculturale. A parte la restituzione di 2
milioni di acri di terra alle tribù, l’investimento del governo federale nella
creazione di infrastrutture e di un sistema sanitario e scolastico all’interno
delle riserve fu senza precedenti. Con il secondo dopoguerra, si fece invece
largo l’idea di un progressivo ritiro della presenza federale dalle riserve: la
politica della cosiddetta Indian Termination avrebbe così portato, nel corso
di un ventennio, alla dismissione di quel sistema di strutture e
infrastrutture interne alle riserve gestite e sostenute dal governo.
Sebbene le reazioni all’Indian Termination da parte delle tribù fossero
assai complesse e diversificate, non v’è dubbio che la condizione di inusitata
emancipazione rispetto a Washington e la maggiore visibilità delle nuove
generazioni cresciute nelle riserve e integrate nelle università del paese
contribuirono al formarsi di una rinnovata consapevolezza politica, dando
vita al «Rinascimento indiano». L’occupazione dell’isola di Alcatraz (→
Isole) del 1969 e quella del villaggio di Wounded Knee (→ Guerre indiane)
del 1973 furono concepite appunto in questo frangente storico.
La sovranità delle tribù nelle riserve spiega perché, a partire dagli anni
ottanta, le «nazioni indiane» abbiano cominciato a dotarsi di casinò. Nel
1979, i seminole aprivano Bingo nella propria riserva in Florida e nel 1980 la
sentenza California v. Cabazon Band of Mission Indians stabiliva il diritto delle
riserve di esercitare altre forme di gioco d’azzardo, esito confermato
dall’Indian Gaming Regulatory Act del 1988. Ancor più che le risorse
minerarie e acquifere di cui molte riserve sono ricche, il gioco d’azzardo ha
creato nuove opportunità economiche, senza risolvere problemi vecchi
come alcolismo e l’uso di droghe e accentuando al contempo fratture
generazionali.
Oggi lo statuto delle riserve è quello di un’area gestita da tribù di indiani
sotto l’Agenzia per gli Affari indiani, che risponde a sua volta Dipartimento
degli Interni degli Stati Uniti ce ne sono circa 310 sul territorio nazionale, di
cui coprono una superficie pari al 2,3% – il solo territorio della nazione
navajo è grande quanto tutto il West Virginia. Ma il senso di una sconfitta,
di un passato orgoglioso e tragico e di un presente precario e deludente,
non cessa di gravare su questi «luoghi separati»: e l’illusione
dell’autonomia impallidisce di fronte al loro stesso nome – «riserve».

BIBLIOGRAFIA
Daniele Fiorentino, Le tribù devono sparire. La politica di assimilazione degli
indiani negli Stati Uniti d’America, Carocci, Roma 2001.
Albert L. Hurtado, Peter Iverson, Major Problems in American Indian History,
Heath & Company, Lexington 1994.
Giorgio Mariani, La penna e il tamburo. Gli Indiani d’America nella letteratura
degli Stati Uniti, Ombre Corte, Verona 2003.
C. SCAR.
Oro!
Nella sgangherata capanna, persa nell’immensità dei ghiacci del Grande
Nord, l’affamato Big Jim vede l’Omino, con cui condivide a pranzo una
scarpa bollita (stringhe e chiodi compresi), trasformarsi in un grossa,
succulenta gallina… È una delle immagini più comiche e famose della
Febbre dell’oro (1925), il film di Charlie Chaplin che è un’autentica summa dei
suoi motivi – e di correnti culturali tutt’altro che sotterranee negli Stati
Uniti di quei decenni (e non solo).
La Gold Rush (= Corsa all’oro) cui fa riferimento Chaplin ebbe luogo nel
Klondike fra il 1896 e il 1899, e fu solo una delle molte che si susseguirono
nell’arco di circa mezzo secolo: le altre due più importanti – anche per le
loro ricadute socioculturali – furono quella della California, fra il 1848 e il
1855, e quella delle Black Hills, fra il 1874 e il 1877.
Il 24 gennaio 1848, il falegname James W. Marshall, assunto da John
Sutter per costruire una segheria sul fiume American, in California, trovò
nel canale di scolo della ruota idraulica alcuni frammenti minerali, che
riconobbe come oro. La notizia si sparse subito e giunse alla vicina San
Francisco, paesotto di duecento anime nel 1846, destinato nel giro di pochi
mesi a diventare il porto più trafficato della costa pacifica, con circa 36mila
abitanti nel 1852. All’epoca in cui Marshall aveva scoperto l’oro, la
California era in una situazione particolare: la guerra contro il Messico s’era
conclusa da poco tempo e la regione era passata agli Stati Uniti, ma non era
ancora uno stato, non aveva ancora una costituzione, una giurisdizione
chiara, un insieme di norme e leggi – era sotto occupazione militare. John
Sutter e molti altri come lui stavano progettando la trasformazione di
quelle terre lontane in autentici paradisi agricoli, ma la scoperta dell’oro
modificò i loro piani. Nel giro di poche settimane, la febbre era scoppiata, e
a San Francisco presero a giungere aspiranti cercatori d’oro da ogni parte
degli Stati Uniti (o per via di terra o per via di mare – in entrambi i casi,
viaggi lunghi e difficoltosi) e del mondo: dal Messico, dal Cile, dal Perù, dalla
Francia, dall’Italia, dai Paesi Baschi, dalla Turchia, dalle Filippine, dalla Cina.
L’intera California mutò d’aspetto: vennero aperte strade, si costruirono
ferrovie locali (e in seguito, fra il 1863 e il 1869, la Prima Ferrovia
Transcontinentale → Promontory Point), furono inaugurati servizi di
traghetti e compagnie di navigazione, paesi e villaggi mutarono di volto,
mentre decine di migliaia di «Forty-Niners» (come diventarono noti i
cercatori giunti nel 1849, quando la febbre toccò l’apice) si riversavano in
California. Con grande rapidità, si passò dal semplice setaccio a sistemi più
complessi di prospezione e di scavo, dalla prassi volatile e arbitraria di
delimitare un terreno con paletti (con il «lavoro» che produceva diritto di
proprietà) alla fissazione di una serie complessa di norme e codicilli che
tendevano a escludere i piccoli cercatori e a favorire i grossi prospectors
forniti di capitali, macchinari, manodopera.
Gli effetti, sociali e culturali, furono parecchi e non sempre gradevoli. I
Native Americans furono le prime vittime: flora e fauna, loro fonti di
sostentamento, vennero intaccate (anche per l’uso di arsenico e mercurio
per separare l’oro dagli altri minerali), interi villaggi distrutti, malattie
diffuse con effetti devastanti, in molti casi uomini e donne presi prigionieri
e indotti a lavorare nelle miniere in forme di autentica schiavitù; almeno
5000 Native Americans furono uccisi in California fra il 1849 e il 1870 e la
popolazione complessiva calò dalle 150mila unità del 1845 alle 30mila scarse
del 1870. Una sorte simile attese gli immigrati da paesi stranieri, e in
particolare i messicani e i latinoamericani, e gli asiatici: leggi
antimmigrazione, normative con caratteri discriminatori, squadre di
vigilantes (→ Posse e vigilantes), autentici pogrom, specie nei confronti dei
latinos (→ Chicanos) e dei cinesi (→ Chinatown). La «prima corsa all’oro»
inaugurò, in effetti, la drammatica storia dei cinesi d’America: a migliaia
giunsero in California (detta «Gum San», Montagna d’Oro) e a San Francisco
nacque la prima Chinatown, mentre donne sole o rimaste presto vedove
finirono nei «quartieri a luci rosse» dove occupavano i gradini più bassi
della prostituzione insieme alle donne latinoamericane, alimentando anche
le voci (più o meno reali) di una «tratta delle schiave». Il dilagare della
prostituzione fu l’altro grande effetto della «corsa all’oro»: bordelli, saloon
e case da gioco rappresentavano l’unico svago di settimane e mesi di lavoro
durissimo, sporco e pericoloso, e al tempo stesso funzionavano da
importante volano per l’accumulazione e valorizzazione di capitali. Le
prostitute più ricercate erano le francesi, seguite dalle americane e via via
dalle ragazze delle varie componenti etniche, in una scala discendente. Ma
il resto della vita economica e sociale della regione conobbe un impulso
straordinario e furono in tanti quelli che, pur non essendo cercatori d’oro,
si ritrovarono ricchi da un giorno all’altro (è quanto successe a Levi Strauss,
immigrato tedesco, che nel 1853 a San Francisco aprì un negozio
all’ingrosso di mercerie e telerie → Jeans). Numerose furono anche le
ricadute culturali della «corsa all’oro della California». Non si possono
dimenticare le due canzoni «Oh, Susanna!» e «Oh, My Darling Clementine»:
la prima è del 1848 e pur non parlando di oro e California diventò
popolarissima in quel contesto; la seconda è del 1884, ma riprende un
motivo celebre quarant’anni prima e cita espressamente, nella storia
dolceamara della ragazza morta affogata nel ruscello (e della sorellina con
cui presto si consola l’io cantante), quei tempi e luoghi: «In a cavern, in a
canyon, / excavating for a mine / dwelt a miner forty-niner / and his
daughter Clementine». Né si possono dimenticare i racconti di Mark Twain,
Bret Harte e Joaquin Miller, che – in epoche e con valenze diverse –
rappresentarono (si può dire!) uno dei filoni preziosi per lo sviluppo della
letteratura americana.
Forse meno nota, ma dagli effetti non meno significativi, fu la «corsa
all’oro» delle Black Hills (le Colline Nere considerate sacre dalle tribù dei
lakota, o sioux), sviluppatasi fra il 1874 e il 1877, nell’attuale South Dakota.
All’origine, vi fu la spedizione militare guidata dal tenente colonnello
George Armstrong Custer e incaricata di trovare il luogo adatto per la
costruzione di un forte. Custer e i suoi mille uomini giunsero nelle Colline
Nere nel luglio 1874 e, indifferenti al fatto che il luogo si trovasse su
territorio riconosciuto ufficialmente come «indiano» (Trattato di Fort
Laramie, 1868 → Guerre indiane), si diedero a verificare le voci secondo cui
vi si trovava molto oro. Dopo una prima scoperta di scarsa rilevanza, nel
novembre 1875 un grosso filone fu trovato nella forra nota come Deadwood
Gulch, e in seguito un secondo non lontano. Nel giro di pochi mesi, era nata
la cittadina mineraria di Deadwood, destinata a diventare una delle tante
mitiche città del Vecchio West (→ Tombstone, Abilene, Dodge City), fonte
inesauribile di storie, leggende e dime novels (→): i due bordelli aperti dalle
giovanissime e già celebri Madame Dora Du Fran (dove lavorò per qualche
tempo anche Calamity Jane → Olimpo americano) e Madam Mollie Johnson
furono presto le principali attrattive, insieme ai saloon The Gem Variety
Theater e Nuttal & Mann’s (dove nell’agosto 1876 fu ucciso Wild Bill
Hickock, altra celebrità del Vecchio West → Olimpo americano). Non
lontano da Deadwood, ma più «calma», crebbe la cittadina di Lead: fra i suoi
ricchi maggiorenti, c’era il signor George Hearst, che in quegli anni, oltre a
metter mano alle principali concessioni minerarie del Nord e Nordovest,
stava facendosi un nome come proprietario di giornali (il San Francisco
Examiner, per esempio) – una strada che il figlio William Randolph avrebbe
seguito fino a vette eccelse (o abissali! è noto che il giovane Hearst avrebbe
ispirato il personaggio di Kane nel celebre film di Orson Welles Quarto potere,
del 1941). Mentre ulteriori filoni venivano scoperti in località circostanti
(tali da poter fruttare fino a 150 dollari al giorno), a migliaia giunsero da
ogni parte: immigrati recenti dalle città dell’Est, soldati smobilitati della
Guerra civile, disoccupati colpiti dalla recessione degli anni settanta,
giovani in cerca di rischio e ricchezze, avventurieri, fuorilegge attratti dai
carichi d’oro in viaggio lungo le piste, e ancora cinesi in fuga dai pogrom
californiani o a spasso dopo la fine della costruzione della Ferrovia
Transcontinentale e chicanos cacciati dalle terre del Sudovest – una
migrazione massiccia. E – agli occhi dei lakota sioux – un’invasione di
cavallette umane. Non a caso, la «Grande guerra dei sioux» infuriò fra il
1876 e il 1877 in queste regioni ed ebbe nella battaglia del Little Bighorn (→)
un momento decisivo e simbolico: Custer pagò con la vita la scoperta
dell’oro nelle Black Hills e il drammatico processo che aveva messo in moto.
Arriviamo così (di «corsa» in «corsa», di «febbre» in «febbre») all’agosto
1896, quando un gruppo di nativi canadesi pescatori di salmoni,
appartenenti alla famiglia atabaska dei tagish, guidati da Keish (noto anche
come Shookum Jim Mason) e composto da sua sorella Shaaw Tláa (Kate
Carmack) e da altri parenti e amici, scoprì per caso, nel torrente Rabbit (poi
ribattezzato Bonanza), non lontano dal fiume Yukon che dà nome a questa
regione canadese, un ricchissimo filone d’oro. Nel giro di pochi giorni, altri
filoni furono trovati nel letto di fiumi e fiumiciattoli vicini, e presto i
villaggi e avamposti minerari di tutta l’area entrarono in fibrillazione. Gli
Stati Uniti, dove la notizia giunse presto, attraversavano una fase molto
particolare: nel 1890, s’era chiusa la lunga avventura della Frontiera (→) e
tre anni dopo era scoppiata l’ennesima crisi economica, seguita da un
secondo «panico finanziario» nel 1896; ondate d’immigrati stavano
arrivando dal mondo intero, fornendo una preziosa manodopera a buon
mercato, ma suscitando anche reazioni contrastanti in un’opinione
pubblica scossa da queste improvvise e rapide trasformazioni. L’oro del
Klondike giunse quasi al momento giusto per offrire una valvola di sfogo a
queste tensioni e frustrazioni: con esso, si apriva una specie di «frontiera
estrema» che, nella speranza di molti (osservatori, commentatori e common
men and women), poteva funzionare come per un secolo aveva funzionato la
Frontiera. La cittadina di Dawson City, in origine un gruppo di catapecchie
che servivano di base per la caccia all’alce, spuntò quasi dal nulla e divenne
presto un grosso borgo (5000 abitanti nel 1897, 30mila nel 1899), gonfio
delle contraddizioni già viste a proposito di San Francisco nel 1848 e di
Deadwood nel 1875. Presto, le fecero compagnia Skagway e Dyea, e altre
piste furono aperte. Aspiranti cercatori (e, se possibile, scopritori) d’oro
giunsero da ogni dove, fin dal Sud Africa e dall’Australia: e l’immagine
impressionante della lunga fila di puntini neri che s’arrampica su per la
ripida pista innevata, verso l’alto Passo Chilkoot, rimase simbolo di quegli
avvenimenti, tanto da essere ripresa da Charlie Chaplin in apertura del suo
film. Ancora una volta, le vere fortune attendevano chi aveva capitali per
finanziare le spedizioni e impiantare costosi macchinari, e per molti la
frenesia si concluse solo nel fallimento, nella pazzia e nella morte, in lande
ghiacciate ed estreme – un novello «sogno americano» trasformatosi presto
in incubo. Oltre alle durezze degli inverni e della pista, si aggiunsero infatti
la violenza delle cittadine minerarie, la spietatezza di una vita al limite della
civiltà, la presenza di organizzazioni criminali (come quella di Jeff «Soapy»
Smith, che spadroneggiava a Skagway, dominando la vita cittadina dal suo
saloon, Smith’s Parlor). La «febbre» durò poco: il grosso degli speranzosi
non poteva gran che di fronte alla potenza finanziaria dei pochi, e fra il 1898
e il 1899 tutto finì. Nel frattempo, però, il Klondike aveva fatto la fortuna
dell’impresario teatrale Alexander Pantages e della sua amante, la
provocante e spregiudicata ballerina Kathleen Rockwell, detta «Klondike
Kate»: per entrambi, le piste del Klondike avrebbero condotto a Hollywood.
E di un giovane ventenne, già pirata d’ostriche, operaio e vagabondo sulle
strade d’America, che – su quelle piste, fra Dawson City e Skagway, negli
accampamenti di minatori e fra le tribù di nativi canadesi – scoprì altri
filoni d’oro: Jack London. I suoi romanzi e racconti del Grande Nord
aggiornano i temi della Frontiera e del Sogno Americano, in un contesto in
cui le leggi della natura hanno il sopravvento sul novellino (il chechaquo)
sbruffone e presuntuoso e il candore abbacinante delle nevi eterne richiama
il bianco minaccioso dell’ampia fronte rugosa della balena bianca di
Herman Melville: una sfida cui pochi riescono a sopravvivere.
Nel concepire e nel girare la sua Febbre dell’oro, Chaplin avrebbe tenuto a
mente le parole con cui si apre uno dei primi racconti pubblicati da London,
In un paese lontano (1899): «Quando un uomo si avventura in un paese
lontano, deve essere preparato a dimenticare molte delle cose che ha
appreso, e a far proprie quelle abitudini e quelle regole su cui si fonda la vita
nella nuova terra…».

BIBLIOGRAFIA
Pierre Berton, The Klondike Fever. The Life and Death of the Last Great Gold Rush,
Basic Books, New York 2003.
H.W. Brands, The Age of Gold. The California Gold Rush and the New American
Dream, Doubleday, New York 2002.
John D. McDermott, Gold Rush. The Black Hills Story, South Dakota State
Historical Society, Pierre 2001.
M.M.

Oz
I viaggi in regni fantastici, popolati da animali parlanti e da strane creature,
non sono poi così numerosi nella narrativa per l’infanzia americana; ma
quando si materializzano, sono davvero memorabili – anche quelli che
prendono vita grazie a… uno schedario. Chi non ricorda le scarpette rosse
fatate con cui Dorothy (con il volto di Judy Garland nella versione
cinematografica del 1939), cresciuta dagli zii nella grigia fattoria del Kansas
e trasportata da un tornado nel magico mondo di Oz, riesce qui a
sconfiggere le streghe malvagie e a fare ritorno a casa? Sappiate dunque che
l’autore del romanzo Il mago di Oz (1900), Lyman Frank Baum, figlio di un
proprietario di piccoli teatri e scrittore per passione, battezzò il suo
universo fantastico con le lettere O-Z prendendo spunto dall’etichetta
dell’ultimo cassetto dello schedario dell’ufficio. È da un grigio cassetto (e da
una vita di insuccessi economici) che uscirono la campagnola protagonista e
i suoi compagni di viaggio: lo Spaventapasseri che vorrebbe tanto un
cervello, l’Uomo di Latta che desidera un cuore, il Leone codardo che aspira
al coraggio e il fido cane Toto, involontario responsabile delle avventure e
disavventure di Dorothy.
Diciamo subito che nel romanzo di Baum le scarpette non erano rosse,
bensì argentate (divennero poi rosse in un film che aveva, letteralmente e
metaforicamente, sete di vita e di colori). Ma forse poco importa. Certo è
che la storia della piccola Dorothy è una sintesi mirabile di tanti elementi
centrali dell’immaginario statunitense, trasportando in uno scenario
fantastico aneliti ed esperienze ben vive nella società americana della prima
metà del Novecento.
Innanzitutto, ci dice il film, sono i sogni a spingere all’azione, anche se
ciò che si sogna già ci appartiene (sia esso l’intelligenza, o il cuore, o il
coraggio), e mettersi in cammino è il solo modo per scoprirlo. Come in tanta
altra narrativa statunitense, è il viaggio il fulcro dell’esperienza. Certo, un
viaggio involontario, quello di Dorothy, la cui casa volante imprigionata nel
tornado è sintesi perfetta di un universo domestico mai del tutto
abbandonato dalla protagonista e a cui si desidera solo tornare; al
contempo, il viaggio è l’unico mezzo per raggiungere un mondo lontano
(ma non troppo), pieno di colore e di ricchezze, affettive e materiali, che
solo i piccoli uomini (→) e le piccole donne (→), con il loro coraggio e la
loro vitalità, possono trovare.
Dorothy si mette in cammino, guidata dalle scarpette rosse, su «una
strada lastricata d’oro», simile a quella che gli emigranti di inizio secolo
speravano di trovare una volta giunti nel Nuovo mondo; e nel farlo si lascia
alle spalle, anche se per poco, quella pianura arida e grigia spazzata dai
tornado e dalle Dust Bowls (→) che al pubblico cinematografico degli anni
trenta non poteva non ricordare le asperità della vita che in quegli anni i
tanti migranti (→ Okies) diretti verso ovest stavano fuggendo. Non a caso, il
brano musicale più celebre del film, «Over the Rainbow», fu scritto da E.Y.
Harburg, l’autore di «Brother, Can You Spare a Dime?», canzone-simbolo
della Grande depressione (→). Alla fine della strada, smascherati i con-men
(→ Tricksters e con-men) ciarlatani e illusionisti come il Mago, vi sarà per
ognuno addirittura un regno in cui divenire sovrani per acclamazione
popolare – per lo Spaventapasseri, per il Leone, per l’Uomo di Latta… per
tutti tranne che per Dorothy, per la quale il regno da riconquistare è la casa.
Ci riuscirà non con uno stratagemma del Mago, ma grazie a quelle scarpette
rosse che si è conquistata per uno scherzo del destino.
La realtà nel mondo oltre lo schermo era un po’ diversa – a cominciare
dal dietro le quinte del set, dove a passare alla storia furono le
intemperanze dei 350 nani ingaggiati nel ruolo dei Mastichini, che pare
abbiano movimentato le nottate hollywoodiane con sbronze, risse e
oscenità di vario tipo. Altrettanto trasgressivi furono i «figli» artistici di Oz,
che all’opera di Baum si rifecero, specialmente oltreoceano: a cominciare
dal leader del gruppo inglese heavy metal dei Black Sabbath Ozzy Osbourne,
che nel 1980 intitolerà il primo album da solista The Blizzard of Ozz in un
aperto omaggio a Baum; o la fantadistopia diretta da John Boorman Zardoz
(del 1973: da Wi-Zard of Oz), che rappresenta uno scenario postapocalittico in
cui l’umanità è divisa fra gli Immortali e i Bruti, i primi quasi-dei che vivono
in stato contemplativo (o atarassico) dentro al Vortice, schiavizzando e
reprimendo, grazie alla casta degli Sterminatori, gli istinti riproduttivi dei
mortali Bruti. «The gun is good. The Penis is evil. The penis shoots seeds
and makes new life to poison the Earth with a plague of men, as once it was,
but the gun shoots death, and purifies the Earth of the filth of brutals. Go
forth… and kill!» è l’incitamento per gli Sterminatori. Toccherà a uno di
questi ultimi, l’intelligente e coraggioso Zed, riuscire a penetrare nel
Vortice e restituire agli Immortali mortalità e passioni – grazie anche al sex
appeal di Sean Connery, che vestiva (e svestiva) i panni del protagonista. Se
la vitalità sovversiva di Dorothy stava tutta nelle scarpette, la vitalità di Zed
sta in luoghi meno esposti alla vista. Forse quindi non è un caso che il
pannolone con bretelle sfoggiato da Connery in diverse sequenze del film
sia anch’esso rosso: non possiamo sapere cosa ne avrebbe pensato Baum,
ma di sicuro i nani-Mastichini ne sarebbero stati deliziati.

BIBLIOGRAFIA
Craig W. Anderson, Science Fiction Films of the Seventies, McFarland, Jefferson
1985.
Salman Rushdie, Il Mago di Oz. Un saggio di Salman Rushdie, Linea d’Ombra,
Milano 1993.
C. SCHIA.
[P]

Pageants
Sebbene abbia trovato negli Stati Uniti fra la seconda metà dell’Ottocento e
la prima del Novecento uno dei terreni più fertili, la tradizione del pageant
viene da ben più lontano. Per la precisione, affonda le radici nel Medioevo
europeo: erano infatti originariamente così definite le rappresentazioni
teatrali di miracle plays o di mystery plays messe in scena su carri trainati da
buoi a uno o due piani (il piano sottostante era lo spogliatoio per gli attori,
quello sovrastante il palco vero e proprio), che sfilavano lungo le vie
cittadine, ognuno a rappresentare un frammento del racconto – che spesso
andava dalla Genesi all’Apocalisse.
In una nazione piuttosto giovane come gli Stati Uniti, può apparire forse
strano il culto per il passato e per le sue rappresentazioni; tuttavia,
l’accento sui comuni trascorsi e sulle tradizioni condivise divenne presto un
elemento necessario per affermare la legittimità politica e rinforzare la
coesione interna della nuova repubblica. E quale forma di rappresentazione
migliore del pageant per rendere la storia nazionale parte integrante del
presente e del vivere quotidiano?
Le celebrazioni per il centenario dell’Indipendenza del 1876 furono in
questo senso un momento chiave nella riappropriazione del passato come
strumento di coesione sociale: migliaia di persone, nelle città come nei
piccoli villaggi, si radunarono per ascoltare oratori che esaltavano le glorie
della madrepatria; per assistere a parate commemorative (come quella dei
Knights of Labour, una delle più importanti organizzazioni sindacali
dell’epoca, che sfilò in un’imponente marcia a Philadelphia per celebrare il
centenario della Costituzione) o al passaggio di carri su cui uomini e (fatto
nuovo nella vita pubblica) donne, in abbigliamenti e pose neoclassiche,
incarnavano, nel senso letterale del termine, i valori di cui la nazione
intendeva farsi portatrice.
Tableaux vivants, processioni, orazioni, spettacoli teatrali concorsero a
plasmare i pageants statunitensi, che strappavano il racconto del passato al
chiuso dei teatri per restituirlo alla strada o ai luoghi della storia.
Intrecciando momenti di vita domestica ed episodi chiave della parabola
nazionale, i pageants americani avevano, oltre a scopi di intrattenimento
popolare, anche finalità morali e didattiche: trasformare la storia in eredità
collettiva, rafforzare il senso di appartenenza comune e, al contempo,
veicolare quegli ideali di riforma sociale che caratterizzarono i decenni a
cavallo fra Ottocento e Novecento.
Se già negli anni settanta dell’Ottocento, accanto a forme artistiche
dilettantesche, le cittadine e gli stati dell’Unione iniziarono a ingaggiare
attori professionisti che rappresentassero, su carri o su palchi, episodi della
storia, fu solo con la svolta del secolo che i pageants diventarono un
fenomeno di massa. Uno dei più famosi, l’Historical Pageant of Illinois (scritto
da Thomas Wood Stevens, insegnante all’Art Institute di Chicago), ebbe
tanto successo che, alla prima rappresentazione a Evanston nel 1909, ne
seguirono altre due – a Milwakee nel 1911 e a Madison nel 1912. Il pageant
raccontava la creazione degli insediamenti originari dei coloni nei territori
del Nordovest e la migrazione forzata dei Native Americans come
conseguenza dell’«avanzata del progresso». Sono qui già presenti in nuce i
tratti caratteristici di tutti i pageants: l’attenzione alla dimensione
comunitaria locale (una regione, uno stato, una città), la legittimazione dei
coloni di origine europea in nome di un «destino» che «manifesto» (→
Destino manifesto) non doveva a quell’epoca sembrare, nonché l’equazione
fra gli Stati Uniti e una non ben precisata modernità in grado di integrarsi,
invece che scontrarsi, con il passato e le sue tradizioni.
Non mancarono certo i pageants radicali, di denuncia e di critica alla
società statunitense: l’esempio migliore fu il Paterson Pageant, evento
teatrale organizzato da numerosi artisti del Greenwich Village che, nel
giugno del 1913, misero in scena al Madison Square Garden di New York lo
sciopero in atto a Paterson, New Jersey, con cui i lavoratori chiedevano la
riduzione dell’orario a otto ore e il miglioramento delle condizioni di
lavoro. Lo scrittore John Reed, megafono in mano, dirigeva i lavoratori-
attori (con alle spalle una quinta teatrale dipinta dal pittore John Sloan →
Bidoni della spazzatura), mentre rievocavano gli scontri con la polizia e i
funerali del compagno caduto, mostrando il conflitto violento fra capitale e
lavoro attraverso l’unione fra pageantry e forme di comunicazione della
protesta di massa.
Nonostante il successo di pubblico del Paterson Pageant, questi spettacoli
continuarono soprattutto a tentare di rinverdire, se non addirittura
resuscitare, un’immagine energica e positiva dei governi locali,
rappresentati come forza congiunta (e non opposta) al lavoro della classe
operaia: in un periodo in cui la società statunitense era sempre più soffocata
dagli interessi dei robber barons (→) e del grande capitale, con una
conseguente crescita esponenziale delle equivoche collusioni fra potere
economico e potere politico, i pageants tentarono di riabilitare le autorità
municipali come le uniche in grado di superare le difficoltà e le iniquità del
mondo moderno. È questa a grandi linee la genesi del Pageant and Masque of
St. Louis, scritto in risposta agli attacchi del giornalista Lincoln Steffens, che
nei suoi articoli aveva accusato le cariche cittadine di corruzione e di
incapacità nella gestione della sfera commerciale (→ Muckrakers). Thomas
Wood Stevens creò per l’occasione un racconto epico in bilico fra realismo e
allegoria, che narrava la storia della città dal tempo remoto dei Native
Americans fino al presente, in cui il cavaliere «Saint Louis», emblema delle
virtù della città, cacciava l’«Oro» dal tempio civico, sconfiggendo una volta
per tutte la corruzione imperante.
Il successo dell’iniziativa dell’Illinois spinse anche lo stato dell’Indiana a
commissionare a sua volta un pageant che, in occasione del centenario dello
stato (1916), celebrasse la storia di Indianapolis, partendo dall’arrivo
dell’esploratore francese La Salle nel 1669 e giungendo fino all’avvento
dell’automobile, simbolo dello sviluppo commerciale della città. A capo del
progetto fu posto William Chancy Langdon, che ebbe tanto successo da
vedersi riconfermato, due anni dopo, per una serie di pageant sullo stato
dell’Illinois: peccato che, con l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917, la
storia locale passasse in secondo piano rispetto ai drammatici eventi
internazionali.
I pageants cercarono quindi di adattarsi al mutamento dello scenario
politico: fu così che Langdon creò The Sword of America, in cui venivano
spiegate le ragioni dell’entrata in guerra, con il chiaro obiettivo di generare
un forte sostegno agli sforzi bellici. La guerra e le conseguenze che essa
ebbe in patria, oltre ai mutamenti della società statunitense e del suo
rapporto con il passato, portarono al progressivo declino dei pageants.
Troppo costosi in rapporto al numero di spettatori in grado di attrarre,
spesso troppo concentrati sulla dimensione locale (in particolare al Sud,
dove ancora bruciavano le ferite della Guerra civile →), i pageants e il loro
tentativo di creare un ponte fra un passato glorioso e un presente
altrettanto roseo mal si conciliavano con un decennio, quello della Grande
depressione (→), che faticava a condividerne l’ottimistica visione.
Soprattutto, i pageants finirono per soccombere di fronte ai nuovi mezzi
di massa, come il cinema e la radio (→), che contraevano radicalmente i
tempi della comunicazione e relegavano il passato a elemento statico, da
rinchiudere nei musei o nella cornice di uno schermo. Non sparirono però
del tutto: nascondendo l’origine di forma di intrattenimento commerciale e
popolare, continuarono a far capolino qua e là, sotto mentite spoglie – negli
anni quaranta, per esempio, adottando i nomi più altisonanti di
«Symphonic dramas» o «Historical spectacles».
E, in effetti, il pageant sembra avere mille vite: così, in decenni più
recenti, il termine è stato usato per indicare i concorsi di bellezza (beauty
pageants)che vantano a loro volta una discreta tradizione: il primo
esperimento (fallito) risale al 1854, quando, dopo aver messo in mostra cani,
uccelli e bambini, P.T. Barnum (→ Tendoni da circo) decise di provare con
le fanciulle; il concorso venne però annullato a causa delle proteste
dell’opinione pubblica. Il senso della morale cambiò tuttavia rapidamente,
visto che nel 1880 in Delaware si tenne, senza incidenti di rilievo, il primo
concorso di bellezza in costume da bagno. Da quel momento in poi, le miss
statunitensi si sprecarono: dalla tradizionale Miss America alle miss etniche
(Miss Chinese America, Miss Black America ecc.) fino alle adolescenti (Miss
Teenage American Pageant, Miss National Teen-ager, Miss Teen All America
Pageant, Miss Teenage California Scholarship Pageant, il cui premio
consiste in borse di studio), le sfilate di bellezze locali o nazionali hanno
preso il sopravvento su qualsiasi altra forma di pageantry. Dal sacro al
profano, è proprio il caso di dire.

BIBLIOGRAFIA
David Glassberg, American Historical Pageantry: The Uses of Tradition in the Early
Twentieth Century, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1990.
Naima Prevots, American Pageantry: A Movement for Art and Democracy, Umi
Research Press, Ann Arbor 1990.
C. SCHIA.
Passing
«Questo distacco da tutto ciò che è familiare e amico per cogliere la propria
occasione in un altro ambiente, non completamente estraneo forse, ma di
certo non del tutto amichevole»: così descrive il passing la voce narrante
dell’omonimo romanzo breve di Nella Larsen (1929). Il termine deriva dal
«pass», il foglio dato dai proprietari agli schiavi autorizzati a viaggiare,
perché non fossero scambiati per fuggitivi. E sebbene il passare, come
traslato, sia stato in seguito usato per indicare un ampio spettro di
«cambiamenti di identità» (passaggio di genere, di cultura, di nazionalità),
nella storia statunitense è sempre stato legato in maniera indissolubile alla
questione del colore: quando cioè, grazie alla carnagione chiara, un nero
riesce a spacciarsi per bianco – come avviene appunto nel romanzo della
Larsen, con la protagonista, Irene Redfield, dibattuta fra l’amore per il
marito e l’orgoglio razziale da un lato; e dall’altro fra l’amicizia e il
desiderio di emulare Clare, un’afroamericana dalla pelle chiara che nega la
sua appartenenza etnica come principio fondante dell’identità e passa per
bianca, sacrificando relazioni e affetti.
Sebbene nel romanzo della Larsen il passing non sia tanto vissuto come
conflittualità fra l’universo bianco e quello nero, ma fra opposte tensioni
dentro alla stessa comunità di colore (fedeltà alle origini o aspirazioni di
ascesa sociale a ogni costo? discendenza o consenso? → Generazioni; →
Etnicità), esso aiuta a comprendere le mille sfaccettature che l’identità,
specie se etnica, assume nella società statunitense in quanto costruzione
sociale.
Più che a sfumature cromatiche e desideri individuali, per capire il
passing dobbiamo pensare ai rapporti fra l’identità etnica afroamericana e lo
status sociale negli Stati Uniti. «Passare» è molto più di una questione di
scelta: in una nazione in cui le barriere razziali, specie fra bianco e nero,
hanno a lungo rappresentato spartiacque quasi insormontabili in materia di
diritti politici, sociali, di condizione economica e culturale, fingersi bianco
significa rifiutare gerarchie e limitazioni stabilite dal gruppo dominante e
infiltrarsi fra le maglie del sistema. Una sfida ardita, che in pochi all’inizio
affrontarono, come testimoniano i rari casi di passing al Sud nel periodo
precedente alla Guerra civile (→): furono pochi gli schiavi con tratti
somatici caucasici che trovarono il coraggio di infrangere le barriere
razziali, per paura della solitudine lontano dalla loro comunità, di una vita
basata sulle menzogne e soprattutto delle ritorsioni e punizioni a cui erano
sottoposti coloro che venivano scoperti (le medesime crudeltà adottate nei
casi di miscegenation →). Eppure, a testimonianza di come fosse sentita
anche all’epoca l’urgenza di mostrare l’arbitrarietà e permeabilità delle
divisioni lungo la «linea del colore» (→), la riflessione sul passing e
sull’identità razziale fu tra i primissimi temi affrontati dalla fiction scritta da
afroamericani. A cominciare da Clotel; or the President Daughter (1853) di
William Wells Brown, in cui la protagonista sfrutta la pelle chiara e si finge
un uomo bianco che, accompagnato/a da uno schiavo nero (il marito), fugge
verso Nord: scoperti e ricondotti in schiavitù, la donna metterà termine alla
propria vita gettandosi nel Potomac River.
Dalla fiction alla realtà: se Brown vedeva come ineludibile la linea del
colore, non così fu per due schiavi, William ed Ellen Craft, che riuscirono a
scappare al Nord (→ Underground Railroad), utilizzando lo stesso
stratagemma narrato in Clotel: Ellen passa per uomo bianco, William per il
suo schiavo, come i due racconteranno nel loro Running a Thousand Miles For
Freedom (1860, ma la storia era già nota e pare avesse ispirato anche il
personaggio di Eliza in La capanna dello Zio Tom, di Harriet Beecher Stowe,
del 1852).
Sì, perché il passing attraversa non solo il confine fra le due razze, ma
anche la linea che separa finzione e realtà, con la storia e la letteratura che
s’intrecciano di continuo l’una all’altra. E così l’apice del passing fra il 1880
e il 1925 (quando il «sistema» Jim Crow [→] divenne più opprimente e in
decine di migliaia fuggirono verso nord) coincise anche con il momento in
cui la letteratura, sia bianca che nera, raccontò il passing in tutte le sue
molteplici varianti. Per esempio, quella, «involontaria», di una bellissima
donna allevata e istruita come una bianca e che tale si crede fino a scoprire,
con la morte del padre, che la madre è per un quarto nera. Accade alla
(omonima) eroina di Iola Leroy; or Shadows Uplifted (1892) della scrittrice
afroamericana Frances Harper: rapita e venduta come schiava al Sud, Iola
verrà infine liberata e si rifiuterà di passare di nuovo (e volontariamente)
per bianca, decidendo di abbracciare il lignaggio misto, di riunire la famiglia
e di dedicare la vita al miglioramento delle condizioni degli afroamericani.
Non sempre però la letteratura vorrà trovare finali positivi, e a prevalere è
stata per molto tempo la figura del «tragico mulatto»: basti pensare al
passing raccontato da Charles Chestnutt in The House Behind the Cedars (1900),
in cui John Walden fugge al Nord, «passa» e sposa una ricca donna bianca,
alla cui morte torna al Sud per convincere la sorella Rena a seguirlo;
purtroppo, Rena compirà il fatale errore di confessare le proprie origini allo
spasimante bianco: ripudiata, finirà molestata da uno dei pochi mulatti
malvagi descritti da Chestnutt e si ucciderà.
Nascondere l’identità razziale è sbagliato, ma non vi è altra possibilità,
sembra dirci Chestnutt. Una visione condivisa, almeno in parte, da James
Weldon Johnson, che al passing dedicò una delle opere più affascinanti e
complesse sul tema razziale: quell’Autobiografia di un ex-uomo di colore (1912)
il cui titolo già evoca il labirinto che si dipana nelle linee d’ombra fra bianco
e nero, fra il nascondere e lo svelare, fra il mondo reale e il mondo
finzionale – autobiografia (falsa, a cui Johnson dovette far seguire
un’autobiografia vera, per dissipare i tanti dubbi) di un mulatto che,
cresciuto in Connecticut con la madre, ex schiava della Georgia mandata al
Nord dal facoltoso amante bianco, scopre la propria identità mista e inizia
un complesso percorso di scoperta di sé, fra ritorni al Sud e vita nelle
metropoli del Nord, fra Americhe ed Europa, e che oltreoceano sentirà di
volersi unire alla lotta della razza oppressa. A fargli cambiare idea sarà la
cruda realtà: giunto al Sud per ricostruire le tracce delle culture musicali
nere, il linciaggio di un afroamericano lo convincerà che non bastano le
buone intenzioni, in una società che non solo tollera, ma soprattutto genera
simili soprusi. Perché, come osserva Mark Twain in Wilson lo zuccone (1894:
storia della mulatta Roxana che, con uno scambio di bimbi in culla, fa
crescere come bianco il figlio Tom, creando un mostro di arroganza e
crudeltà), il problema non è la miscegenation in sé, ma la riluttanza del Sud
bianco ad ammettere che i mulatti non sono altro che il prodotto dei loro
stessi desideri e voglie.
E anche per il persistere di queste riluttanze e desideri, barriere ed
esclusioni, la letteratura, il cinema e la realtà del Novecento continueranno
a essere solcate dal passing: come nel caso di George Harriman, il creatore di
Krazy Kat (→ Comics), che per tutta la vita negò le origini creole,
spacciandosi per greco. In letteratura, si pensi a Joe Christmas in Luce
d’agosto (1932) di William Faulkner, reo di un omicidio motivato anche dal
tentativo di nascondere la discendenza mista; o a La macchia umana (2000) di
Philip Roth, col protagonista Coleman Silk che «passa» per intellettuale
ebreo (figura difficilmente credibile nella versione cinematografica, in cui
Coleman è interpretato dall’improbabile, almeno in questo ruolo, Anthony
Hopkins). Accanto al dramma, il cinema ha declinato sovente il passing in
chiave comica: in L’uomo caffelatte (Watermelon Man, 1970) di Melvin Van
Peebles, kafkiana vicenda di un razzista bianco che si sveglia una mattina
trasformato in nero; o nel «passing al contrario» di Soul Man (1986), di Steve
Miner, con il ricco e viziato protagonista Mark che, per ottenere una borsa
di studio alla facoltà di legge di Harvard, si scurisce artificialmente la pelle e
«passa» per nero.
Di nuovo, dalla finzione alla realtà: nel 1961 un giornalista bianco, John
Howard Griffin, dopo una serie di trattamenti farmacologici e con lampade
abbronzanti che gli permise di «passare», partì per un lungo viaggio negli
stati del Sud con l’intenzione di testimoniare le condizioni di vita degli
afroamericani e sperimentare sulla propria pelle che cosa significasse essere
nero. Accanto alle lettere di sostegno che seguirono la pubblicazione del
drammatico libro (Black Like Me, 1961), ne arrivarono anche molte
minatorie, che costrinsero Griffin e la famiglia ad abbandonare la cittadina
del Texas dove avevano vissuto fino ad allora e trasferirsi in Messico per
alcuni anni. Quando si dice la permeabilità (e impermeabilità) dei confini.

BIBLIOGRAFIA
Maria Giulia Fabi, Passing and the Rise of the African American Novel, University
of Illinois Press, Urbana 2004.
Elaine K. Ginsberg, Passing and the Fictions of Identity, Duke University Press,
Durham 1996.
John J. Mencke, Mulattoes and Race Mixture. American Attitudes and Images,
1865-1918, Umi Research Press, Ann Arbor 1976.
C. SCHIA.

Peanuts
Charles Monroe Schulz, il padre di Charlie Brown, Snoopy, Linus, Lucy e
Sally, non amava il nome Peanuts («noccioline» o «personcine») voluto, nel
1950, dalla United Feature Syndicate per la sua striscia originale Li’l Folks,
trovandolo alquanto ridicolo. Eppure, quel titolo dal suono facile e ordinario
avrebbe goduto di una fortuna strepitosa, evocando un universo di bambini-
adulti le cui gesta – i giochi, la scuola, lo sport – ripetute nella loro
semplicità, sempre uguali e sempre diverse, sarebbero state paragonate a
un’epica antica, formulaica e poetica. Al riconoscimento della statura
artistica dei Peanuts avrebbe infatti contribuito Umberto Eco nella
pionieristica, e ormai leggendaria, nota introduttiva alla prima
pubblicazione italiana dell’opera di Schulz, Arriva Charlie Brown, del 1963:
«Se poesia vuol dire capacità di portare tenerezza, pietà, cattiveria a
momenti di estrema trasparenza, come se vi passasse attraverso una luce e
non si sapesse più di che pasta siano fatte le cose», scriveva Eco, «allora
Schulz è un poeta». Il semiologo italiano continuava schizzando il profilo
biografico dell’autore e sottolineandone la «sciagurata» normalità: «Non
beve, non fuma, non bestemmia… È nato nel 1922 nel Minnesota. Vive
modestamente ed è “lay preacher” in una setta detta la Chiesa di Dio; è
sposato e ha, credo, quattro bambini. Gioca a golf e a bridge e ascolta musica
classica. Lavora da solo. Non ha nevrosi di alcun genere».
Se volessimo aggiungere qualche elemento al ritratto di Charles Schulz
potremmo cominciare col dire che nasce nel 1922 a Minneapolis e cresce a
St. Paul («città gemelle» del Minnesota), dove vive con la famiglia sopra al
negozio di barbiere del padre. Come Charlie Brown – simpatico perdente
dalla testa tonda e la maglietta a disegni a zig-zag – Schulz è un bambino
timido e maldestro, poco accettato dai suoi pari. Più una «femminuccia» che
un nerd (→), Schulz finisce la scuola senza brillare e s’iscrive a un corso di
disegno di fumetti per corrispondenza con la Art Instruction di
Minneapolis. Di leva durante la Seconda guerra mondiale – sarà sul fronte
europeo nel 1943 –, una volta tornato a St. Paul comincia a lavorare come
fumettista per un editore locale, insegnando alla Art Instruction. Qui
incontrerà Donna Johnston, prototipo della «ragazzina dai capelli rossi», di
cui si innamorerà, non corrisposto. La genesi dei Peanuts risale, si è detto, al
1950, quando Schulz manda alla United Feature Syndicate la striscia Li’l
Folks a cui sta lavorando da qualche anno per la St. Paul Pioneer Press. Nel
mezzo secolo seguente, Schulz continuerà a disegnare le sue tavole senza
avvalersi di alcuna assistenza, e i Peanuts concorreranno più di ogni altra
striscia a trasformare il fumetto in una forma artistica rispettata tanto dai
lettori comuni quanto dall’accademia. Può essere inoltre utile ricordare che
Schulz fu un lettore regolare e onnivoro di narrativa straniera e americana:
Conan Doyle, Tolstoj, K.A. Porter, Flannery O’ Connor, Cormac McCarthy,
Joan Didion, Anne Tyler, fino a Don DeLillo.
Tra le molte ragioni del successo senza precedenti dei Peanuts, bisogna
considerare la centralità del personaggio di Charlie Brown, il suo
appartenere alla tradizione dei «piccoli uomini» (→), alla figura dell’anima
persa e perdente, frustrata e insicura. Si tratta di un eroe «unheroic», frutto
delle ansie generate dalla società industriale e tecnologica che, come scrive
M. Thomas Inge, gode di ottima compagnia all’interno della cultura
americana: dal vagabondo (→) di Charlie Chaplin al Paperino di Disney (→
Disneyland), dai personaggi di Buster Keaton a Woody Allen. D’altro canto,
lo stesso Schulz dirà in un’intervista che Charlie Brown rappresenta
«everyman», l’uomo comune e universale e, in quanto tale, «deve essere
uno che soffre, perché è la caricatura dell’uomo medio. Siamo, nella
maggior parte, più abituati a perdere che a vincere. Vincere è meraviglioso,
ma non è divertente». Sebbene la sorte sia crudele con lui – sulla pedana di
lanciatore di baseball (→) non vince mai una partita; a San Valentino non
riceve bigliettini; a Halloween (→), anziché dolcetti, colleziona sassi –,
Charlie Brown non demorde e continua nella speranza tenace di migliorarsi,
grazie forse alla condizione sospesa di preadolescenza che, alimentata da
una sorta di innocenza fiduciosa, rende tutto possibile (e allora forse un
giorno riuscirà a far volare l’aquilone oltre i rami degli alberi, a calciare il
pallone di football puntualmente sottrattogli da Lucy, ad avvicinare la
ragazzina dai capelli rossi…). A dispetto del cinismo e della corruzione del
mondo esterno, per Charlie Brown il sogno non viene mai meno e non è
forse casuale che il romanzo più citato nei Peanuts sia Il grande Gatsby di F.S.
Fitzgerald (→ Generazioni; → Adamo americano).
Ma non c’è solo Charlie Brown. Nell’universo senza adulti ritratto dal
disegno minimalista di Schulz si muovono, su sfondi essenziali di praticelli,
soggiorni con tv e telefoni ridotti a stilizzazioni appena tratteggiate, banchi
in fila, esterni di scuola e poco altro, una serie di personaggi altrettanto
unici. A partire da Snoopy, cucciolo di Beagle antropomorfo che vive come
un bambino e si rifugia nella fantasia, trasformandosi, all’occorrenza, in
asso dell’aviazione, scrittore alle prese con un grande romanzo (di cui però
riesce a partorire soltanto il proverbiale incipit «Era una notte buia e
tempestosa…») e lettore di Guerra e pace (al ritmo di una pagina al giorno).
C’è poi Linus Van Pelt, filosofo dotto con la maglia a strisce che cita la
Bibbia mentre brandisce la sua «security blanket», amico e consigliere di
Charlie, fedele al mito del Grande Cocomero (→ Zucche e cocomeri), fratello
minore di Lucy e succube delle sue angherie. C’è quindi Lucy,
protofemminista acida, psicanalista a 5 centesimi a consultazione (come
recita il cartello sul suo banchetto «Psychiatric Help: The Doctor is IN») che,
a differenza dei suoi colleghi adulti, è piena di certezze: anche quella,
palesemente infondata, di essere la fidanzata perfetta dell’algido Schroeder
(genio musicale, convinto che Beethoven sia stato il primo presidente degli
Stati Uniti). C’è Sally Brown, «pragmatista completa», concentrato
insuperabile di saggezza infantile, innamorata di Linus, il suo «scimmiottino
d’oro». C’è Piperita Patty, maschiaccio che gira in sandali anche nella neve,
eccelle in tutti gli sport ma si addormenta in classe, colleziona D
(insufficienze) nonostante l’aiuto indefettibile dell’amica Marcie (che la
chiama «sir» e la segue come un’ombra), ed è innamorata dell’ignaro
Charlie. E ci sono Marcie, l’opposto inseparabile di Patty, intelligente ma
impacciata nelle attività sportive, che sopravanza i compagni nell’amore
per l’arte e per i libri; Franklin, bambino nero che cita il Vecchio
Testamento ed è un amico leale e sereno di Charlie; Pig Pen, sempre
circonfuso da una nuvola di polvere (forse la sabbia di civiltà antiche…); e
infine Woodstock, uccellino giallo che comunica solo con Snoopy, l’unico in
grado di decrittarne il linguaggio a lineette verticali.
In ultimo, un cenno merita la scuola, con i pensierini di Sally (che in
occasione del Columbus Day si produce in una formidabile simulazione della
lettera vergata dalla regina Isabella di Castiglia all’eroe eponimo: «Caro
Signor Day, le darò tre caravelle…»), le domande a risposta multipla
(«multiple choice») la cui risoluzione è talmente misteriosa che Piperita
Patty le ribattezza «mystical choice», gli immancabili «show and tell» in cui
Sally lascia tutti sbigottiti, i momenti del pranzo e della ricreazione, con
Charlie Brown, il suo sacchetto di carta, Franklin e Linus a snocciolare
pensieri deprimenti mentre Sally e le altre bambine saltano alla corda…
Ma è forse la lingua dei Peanuts, un inglese pulito e cristallino, a farne dei
classici: a detta di Eco, proprio quest’aspetto renderebbe ancora attuale il
cosmo di Charlie Brown & Co., capace di resistere al tempo meglio del
Giovane Holden (1951) di J.D. Salinger (→ Piccoli uomini; → Adamo
americano).
Così, quando, il 3 gennaio 2000, Charles Schulz pubblicherà la sua ultima
striscia accompagnata da un breve messaggio di addio, la reazione
malinconica di chi con il vecchio Charlie Brown è cresciuto (e invecchiato)
non potrà che essere «Good grief».

BIBLIOGRAFIA
Umberto Eco, «Prefazione», in Charles M. Schulz, Arriva Charlie Brown,
Milano Libri, Milano 1963.
Jeet Heer, Kent Worcester (eds.), A Comics Studies Reader, University Press of
Mississippi, Jackson 2009.
M. Thomas Inge, Comics As Culture, University Press of Mississippi, Jackson
1990.
C. SCAR.

Pesci gatto (e altri animali mitici)


Non esistono, nella cultura degli Stati Uniti, animali mitologici come
l’unicorno o l’araba fenice (anche se, a ben vedere, il «sogno americano» è
un’araba fenice): ma animali mitici sì, ci sono, e intorno a essi, con il passar
del tempo, si sono aggregati elementi importanti di quella cultura.
Per esempio, c’è il catfish, il pesce gatto che del Mississippi River (→ Vie
d’acqua) è l’animale-simbolo, fin da quando, all’alba delle esplorazioni
europee del continente nordamericano, comparve per la prima volta in un
documento ufficiale. Nel resoconto della spedizione lungo il fiume del
gesuita Jacques Marquette e del mercante Louis Joliet (1673), si legge infatti:
«Di tanto in tanto incontriamo un pesce mostruoso, e uno in particolare
colpì con tale violenza la nostra canoa, che mi parve un grosso albero sul
punto di farla a pezzi». Il catfish che urta la canoa degli esploratori
s’ingrandirà poi (non è questo il destino dei pesci, nei racconti dei
pescatori?) fino ad assumere le sembianze mostruose del Moby Dick di
Herman Melville, che «di colpo partì contro quella prua che avanzava,
sbattendo le mascelle tra irruenti rovesci di schiuma»; oppure, con
un’interessante trasformazione, del battello a vapore (→), che «ci arrivò
addosso e schiantò la zattera», nel romanzo di Mark Twain Le avventure di
Huckleberry Finn. Animale totemico, anche: in uno dei primi documenti
ufficiali della colonizzazione ed espropriazione, il trattato del 1817 che
segnò il passaggio di ampie terre fertili dagli ojibway-chippewa del Canada
meridionale al Duca di Selkirk, la mappa che delimita le terre in questione è
firmata dai rappresentanti delle tribù con il disegno dei totem dei rispettivi
clan – e due su quattro sono per l’appunto catfish.
Le varietà sono molte (Ictalurus furcatus, Pylodictis olivaris…) e culminano
nel King of Catfish, il maestoso channel catfish che abita la parte centrale del
fiume, dove la corrente è più forte e veloce: il più ambìto, grosso e
battagliero, la cui carne passa per la più prelibata fra quelle dei pesci
d’acqua dolce. Come si può leggere nella Encyclopedia of Southern Culture: «I
tre tipi principali […] sono il blue, il channel, il flathead. I nomi cambiano a
seconda del luogo, ma nessuno d’essi è attraente. Il flathead, in particolare,
sembra che abbia avuto la testa schiacciata nella portiera di un’auto.
Inoltre, per molto tempo, tutti e tre hanno sofferto dell’immagine diffusa
del catfish come pesce-spazzatura, che mangia di tutto. Era considerato il
pesce del pigro, il pesce del povero, il pesce del nero. Ma le dimensioni e le
imprese del catfish – e del suo pescatore – sono diventate leggenda a sud
della linea Mason-Dixon».
Sempre nel resoconto dei due esploratori francesi Marquette e Joliet,
compare la descrizione di un altro strano animale, che i nativi chiamavano
pisikiou: «La testa è molto grossa, la fronte piatta e larga un piede e mezzo
fra le corna, che sono esattamente come quelle dei nostri buoi, solo nere e
più spesse. Dal collo gli pende una specie di fitto vello, e sul dorso hanno
una gobba piuttosto pronunciata. Tutta la testa e il collo e parte delle spalle
sono coperti da una grande criniera, come quella d’un cavallo, che è lunga
un piede e li rende orribili…». Marquette lo chiama «bue», boeuf – da cui
verrà poi buffalo. Che non è però un «bufalo» (come ancora, troppo spesso,
si legge in qualche traduzione), ma un «bisonte» (Bison bison). E il bisonte
evoca subito immagini diverse, leggendarie e non: dalla «Danza del Bisonte»
dei lakota ai dipinti di caccia di George Catlin, per arrivare, ahimè, a Buffalo
Bill (→ Olimpo americano), loro grande sterminatore. Forse 70 milioni di
esemplari abitavano le Grandi pianure prima dell’arrivo degli europei:
erano cacciati dai nativi, che ne traevano tutto ciò di cui avevano bisogno
per la sopravvivenza, regolandone in questo modo il numero, nell’equilibrio
dell’ecosistema. Per cacciarlo, prima dell’introduzione del cavallo, si
servivano spesso dello stampede (→): urlando, correndo, circondavano e
inseguivano per miglia una mandria, spingendola verso un dirupo a
strapiombo; a cavallo, con arco e frecce e, in seguito, fucile, la caccia
divenne più semplice. L’animale era presente in numerose leggende native
(per esempio, «Come i bisonti furono liberati sulla terra», dei comanche), e
alcune parlavano anche del Bisonte Invisibile, che guida le mandrie
attraverso le praterie e veglia sui nativi al momento della loro morte.
La nascita della nuova nazione americana (e la costruzione delle prime
linee ferroviarie → Promonotry Point) siglò il destino del bisonte: per il
commercio delle pelli, per l’alimentazione delle squadre di operai, per
distruggere l’economia e la principale fonte di sussistenza dei nativi, per
rendere sicuro il passaggio dei treni, e poi per sport. Negli ultimi due
decenni dell’Ottocento, quando la media giornaliera degli esemplari uccisi
arrivò a toccare un numero variabile fra i 2000 e i 100mila, la caccia al
bisonte divenne un autentico massacro, parallelo al genocidio dei nativi: a
fine secolo, i bisonti superstiti erano appena 5-600 (oggi, se ne contano circa
50mila). Solo ai primi del Novecento si cominciò a correre ai ripari,
tutelando l’animale. Che rimase, come l’«indiano», muto esemplare di un
tragico passato: immortalato, in certi periodi, sui biglietti da 10 dollari o
sulle monetine da un nickel (proprio intorno a una di queste monetine
ruota uno dei drammi più intensi di David Mamet: American Buffalo, del
1976). O nel nome della città di Buffalo, a due passi dalle cascate del Niagara
(→), e in quelle «Buffalo Gals», quelle «ragazze di Buffalo» che,
nell’omonima canzone popolare (→ Newport Folk Festival), vengono
invitate a «danzare alla luce della luna».
Altra vittima illustre e animale simbolo è il castoro (genus Castor): l’amik
degli ojibway, il beaver degli americani, protagonista di tante leggende
attorno al fuoco e poi, più mestamente, mascotte di innumerevoli
istituzioni. Animaletto industrioso (to beaver out at something vuol dire
«lavorare sodo a qualcosa»), il castoro ha le sue idiosincrasie: non sopporta
il suono e la vista dell’acqua che scorre e così gran parte della sua attività è
volta alla creazione di un microambiente di acque tranquille, in cui
rifugiarsi dai predatori di terra (abile nuotatore, è goffo e lento sulla
terraferma). Costruisce dighe, ancorate con pietre al letto del fiume, con al
centro un capanno tondo dotato di apertura centrale per l’aria e due
ingressi sott’acqua, e quando le dighe risultano insufficienti, il «piccolo
uomo» dei nativi (il vapore proveniente dall’apertura centrale del capanno
fa pensare a un focolare acceso) le abbandona e si sposta altrove. Nei primi
decenni dell’Ottocento, il castoro non riuscì però a spostarsi abbastanza. La
pelliccia, e in particolare la lanugine sottile usata in Europa per i cappelli,
divenne un autentico miraggio per le compagnie (un po’ imprese
commerciali, un po’ avamposti militari, un po’ lobbies politiche) che in quel
periodo si contendevano le regioni del Nord: l’inglese Hudson’s Bay
Company e la francese Compagnie du Nord-Ouest, e poi la potentissima
American Fur Company, fondata nel 1808 da John Jacob Astor, magnate
delle pellicce (a New York, la stazione della metropolitana di Astor Place è
decorata di piastrelle raffiguranti per l’appunto un castoro). E fu un altro
massacro: dei 90 milioni di esemplari (cifra presunta) rimasero poche
migliaia, sufficienti però perché, nel 1868, il grande antropologo Lewis
Henry Morgan (quello stesso che, dieci anni dopo, in Ancient Society avrebbe
analizzato la struttura sociale degli irochesi, ispirando Marx ed Engels nei
loro studi sulle società antiche) dedicasse al «piccolo uomo» un’opera
accurata, The American Beaver and His Works. Ma ora il castoro è tornato: e
sono circa 15 milioni i costruttori di dighe nel Nordamerica.
Dall’estremo Nord al profondo Sud: che cosa può legare il castoro
all’alligatore (Alligator mississipiensis), acque a parte? Molte cose, in verità,
anche se non sembra. Per esempio, il fatto che anch’esso sia stato oggetto di
una caccia feroce – per la pelle soprattutto, ma anche per la carne. O che
anche nella vita dell’alligatore (dallo spagnolo el lagarto = lucertola), il
monticello di fango e vegetazione, con in cima un avvallamento in cui la
femmina depone le uova, svolga un ruolo centrale, simile al capanno tondo
del castoro (il monticello mette le uova al riparo dalle inondazioni e al
tempo stesso funziona da incubatrice: il fango e la vegetazione
s’induriscono e creano un ambiente caldo e umido all’interno, in cui le uova
«maturano» per circa due mesi). L’alligatore è animale di fiume e di palude,
diffuso negli stati meridionali dalla Florida al Texas. Ed è anch’esso animale
mitico, forse non così emblematico come il pesce gatto, il bisonte o il
castoro, ma carico di complesse simbologie. È il cattivo di tanti film e di
tante leggende metropolitane (i coccodrilli albini nelle fogne di New York e
Chicago). Ma è anche il «See you later, alligator, / After awhile, crocodile»
della canzoncina resa celebre da Bill Haley; è Ol’ Al, il mitico alligatore che
regna sul Basso Mississippi, nei bayou (→) dei cajun (→) e i cui denti, oltre a
curare dolori di ogni genere, sono antidoti ai veleni e talismani contro il
malocchio; è divinità del fiume, vittima sacrificale e fonte di sopravvivenza,
nel singolare romanzo di William Faulkner Palme selvagge (1939); ed è parte
di quell’altro simbolo e mito del Mississippi e della sua storia e cultura: il
«mezzo cavallo e mezzo alligatore» Mike Fink (→ Olimpo americano), il
battelliere per eccellenza, uno dei primi autentici eroi del fiume. Leggiamo
ancora nella Encyclopedia of Southern Culture: «I racconti popolari
afroamericani dipingono l’alligatore come la vittima di un animale trickster
(→) come il coniglio, con cui s’identificavano gli afroamericani. Da parte
loro, i seminole della Florida hanno sempre avuto con l’alligatore un
rapporto simile a quello degli indiani delle Pianure con il bisonte. La “lotta
con l’alligatore” che fin dagli anni venti del Novecento attrae tanti turisti
[…] era un’abitudine nativa seminole […]. La gente del Sud attribuisce
grande potere all’alligatore». Che continua a comparire qua e là, anche
oggi, nelle pagine di molti romanzi: per esempio, in quelli di Joe R. Lansdale,
ambientati lungo il fiume Sabine, fra Louisiana e Texas.
Se poi dal fiume Sabine ci spingiamo ancora più a ovest e nordovest,
nelle terre aride del Texas, del New Mexico, dell’Arizona, ecco che
incontriamo un altro animale mitico: il coyote (Canis latrans), che nel nome
(dal nahuatl cóyotl) ci rimanda a un antico e tragico passato mesoamericano
(→ Chicanos). Animale vagabondo: in branchi di cinque-sei, può farsi
parecchi chilometri in una notte, coprendo aree di caccia del diametro di
19-20 chilometri, seguendo piste già note e tornando sempre alla propria
tana. Ma capace anche di spingersi ben lontano da queste terre aride del
Sudovest: fino a Chicago, fino a Washington, fino al Central Park (→) di New
York. È animale mitico presso tutte le comunità native: tanto nelle «storie
delle origini» quanto in leggende come «Il Coyote e la Roccia-Rotolante» dei
piedi neri o «Perché Coyote smise di imitare i suoi amici» dei caddo – di
volta in volta, abile trickster, eroe o ridicolo giuggiolone, è una presenza
costante, che riveste a volte panni ambigui. Non per nulla, il coyote più
famoso è Willy Coyote (o Vil Coyote), creato nel 1948 per la Warner Bros. da
Chuck Jones, insieme al suo nemico di sempre Road Runner (o Bip Bip),
destinati a farsi guerra incessante nelle gole del Grand Canyon (→). E non
per nulla, nelle aride terre al confine con il Messico, è detto «coyote»
l’individuo che, dietro pagamento, conduce gli immigrati clandestini, i
wetbacks (→ Braceros), negli Stati Uniti…
Ci sono poi altri animali, in questo strano Olimpo di miti e leggende di
ieri e di oggi. C’è l’opossum, presenza ricorrente nei racconti nativi; ci sono
i temibili serpenti a sonagli o cottonwood; c’è il tacchino, che, addomesticato
dagli aztechi, ritornò selvatico nelle praterie e boscaglie del Nordamerica,
per poi finire, il quarto giovedì di novembre, debitamente ripieno e
circondato da altre prelibatezze, sulle tavole del Thanksgiving Day (→
Ringraziamento), detto anche «Turkey Day»; c’è lo scoiattolo, che darà
origine ad altri personaggi famosi della cultura popolare, i simpatici Chip
‘n’ Dale (o Cip e Ciop); c’è l’orso, che Teddy Roosevelt non volle (?) uccidere
durante una battuta di caccia nel Mississippi nel 1902, dando così vita alla
magia dell’orsacchiotto di pezza, il «Teddy bear» (→) (e che i cacciatori di
Thomas P. Thorpe in Big Bear of Arkansas, del 1854, e di William Faulkner in
L’orso, del 1942, inseguono come il Capitano Achab inseguiva Moby Dick); e
c’è anche Babe (la vacca azzurra del mitico taglialegna Paul Bunyan →
Olimpo americano). L’elenco sarebbe lungo.
Ma torniamo al Mississippi River. Alle sorgenti, su nel Lago Itasca (ma
anche altrove, città comprese), non è raro scorgere, appollaiata su una delle
alte conifere che lo inghirlandano, una bald eagle – che non vuol dire «aquila
calva», ma «aquila dalla testa bianca». E l’aquila dalla testa bianca
(Haliaeetus leucocephalus) è un altro animale mitico, simbolico. Per alcuni
nativi, si trattava di un animale sacro, simbolo di fertilità e di pace, di cui si
usano le piume in occasione di rituali e danze come la «Danza del Sole», o
per onorare ospiti importanti o individui che avevano portato a termine
compiti particolari. Il pittore-naturalista John James Audubon ce ne ha dato
alcuni ritratti straordinari. Soprattutto, l’aquila dalla testa bianca divenne
simbolo della nazione. Nel giugno 1782, infatti, il Congresso vi s’ispirò per il
disegno del sigillo dello stato: un’aquila che stringe fra gli artigli tredici
frecce e un rametto d’ulivo con tredici foglie (con riferimento alle tredici
colonie originarie). Da allora, è diventato anche sigillo del presidente – con
una storia divertente (e fors’anche simbolica, a voler proprio essere
maligni): fin dalle origini, infatti, nel disegno, l’aquila ha il capo rivolto
verso il rametto d’ulivo; ma fra il 1916 e il 1945, sulla bandiera
presidenziale, l’aquila compariva con il capo rivolto verso le frecce: il che,
insieme al fatto che l’aquila dalla testa bianca è animale da preda e spesso
non disdegna di sottrarre il cibo a predatori più piccoli (mentre nessuno osa
reciprocare), si presta, diciamo così, a numerose interpretazioni…

BIBLIOGRAFIA
Dee Brown, Attorno al fuoco. Racconti degli Indiani d’America, Mondadori,
Milano 1981.
Tom Jackson, Animals, Birds & Fish of North America, Lorenz Books, Leicester
2010.
Roger Tory Peterson, Audubon’s Birds of America, Abbeville Press, New York
2005.
M.M.

Phi Beta Kappa


Nelle Lettere di un coltivatore americano (1782), Hector St. John de Crèvecœur,
parlando delle principali differenze tra la società che si andava creando
negli Stati Uniti e l’Europa, fa cenno all’assenza di famiglie aristocratiche,
re, corti e potere ecclesiastico. L’autore non poteva saperlo, ma l’uomo
americano avrebbe presto trovato un modo di colmare il divario. Come
altrimenti interpretare la fondazione, nel 1883, dei Sons of the American
Revolution, associazione che ammette tra i suoi ranghi solo discendenti in
linea diretta di soldati, uomini politici e civili che hanno svolto un ruolo,
anche se marginale, nella lotta contro la Gran Bretagna? La lista dei membri
più noti comprende ben diciassette presidenti degli Stati Uniti e persino una
testa coronata, re Juan Carlos di Borbone. Nel rimescolamento demografico
generato dalle ondate migratorie di fine Ottocento, la costituzione di
quest’associazione assomiglia da vicino alla creazione di una casta nobiliare
che mira a prendere le distanze dai nuovi connazionali.
I circoli elitari non erano però una cosa nuova negli Stati Uniti, e già
prima che le lettere di Crèvecœur fossero pubblicate erano in attività le
confraternite universitarie (fraternities, o anche frat nella forma colloquiale).
La più famosa, la Phi Beta Kappa, venne fondata da John Heath il 5 dicembre
1776 nel College of William and Mary a Williamsburg, in Virginia. Per
distinguersi dalle associazioni allora esistenti, Heath scelse un nome – Phi
Beta Kappa – ricavato dalle iniziali delle parole che compongono il motto
greco antico philosophia biou kybernētēs (= il sapere/la filosofia è la guida
della vita). La confraternita nacque come gruppo di discussione politica: del
resto, gli sconvolgimenti provocati dalla Rivoluzione americana (→) si
rivelarono un terreno fertile per il dibattito e il confronto di idee. Oltre al
nome, Phi Beta Kappa si differenziò dalle associazioni esistenti
nell’estendere agli studenti di altri college l’invito a costituire succursali
(chapters).
Le confraternite che nacquero in seguito adottarono l’uso di ricavare il
nome da un motto greco che, come negli antichi misteri, era rivelato solo
agli iniziati. A questi ultimi, era richiesto di conoscere a memoria le regole
di comportamento elencate nel manuale dell’associazione, dove erano
specificate anche le procedure per l’ingresso di nuovi membri. Queste
società, almeno in apparenza, si proclamavano «aristocrazie basate sul
merito», la misura del quale era l’appartenenza alla squadra di football (→),
alla redazione del giornale del campus, o del glee club, il coro della scuola.
Nella pratica, tuttavia, le confraternite cercavano di mantenere un
carattere esclusivo e discriminavano, spesso in modo non aperto,
sull’accesso di nuovi aderenti.
Le donne, per esempio, non potevano chiedere l’affiliazione, e nel 1851
alcune studentesse del Wesleyan College (Georgia) fondarono la prima
confraternita femminile, o sorority, la Alpha Delta Pi. Allo stesso modo, le
varie minoranze etniche crearono le proprie associazioni: Zeta Beta Tau
(1898, ebrei), Alpha Phi Alpha (1906, afroamericani), Rho Psi (1916, asiatico-
americani), Phi Iota Alpha (1931, latinos). Una menzione a parte meritano gli
Skull & Bones, gruppo nato nel 1832 a Yale (→ Ivy League) che, a differenza
delle associazioni dal nome greco, non ha promosso la costituzione di
succursali presso altri atenei, custodendo con gelosia la propria esclusività
(e segretezza). Leggenda vuole che all’interno di «The Tomb», l’edificio di
New Haven dove si tengono le cerimonie, siano nascosti i teschi di
Geronimo e Pancho Villa. Agli Skull & Bones, e ai maneggi politici di suoi
membri senza scrupoli, è ispirato il thriller I teschi (2000); inoltre, il fatto che
– a quanto pare – a essi siano appartenuti molti uomini politici del passato e
del presente ha dato origine a numerose dicerie e fantasie (→ Teoria del
complotto).
Momento chiave nella storia delle confraternite è l’inizio del XX secolo,
quando la loro immagine subisce un cambiamento radicale: non più visti
come gruppi di noiosi e scialbi giovani che avevano adottato i modi del capo
d’azienda – sul modello di un Rockefeller (→ Robber barons) o di un George
Pullman (→ Company Town) –, gli studenti portarono nel campus
l’edonismo che imperversava nelle grandi metropoli e sempre più
caratterizzava il tempo libero delle classi medie: alcol, balli, musica jazz (→
Ragtime), gioco d’azzardo e sesso. Nel microcosmo del campus – dove
spesso erano in vigore regole ferree che vietavano e punivano con severità
tali trasgressioni –, le case delle confraternite funzionavano da soggetti al di
fuori della legge ufficiale. Ma il carattere di distinzione non venne meno – la
vita «spericolata» dei confratelli rimaneva accettabile in quanto
dimensione per certi versi analoga a quella della Frontiera (→), uno spazio
liminale senza regole, dove il giovane avrebbe sviluppato carattere e
personalità e si sarebbe fatto trovare pronto, tornato nella «civiltà» dopo il
diploma, a dare il suo contributo alla società.
Tanto maggiore il prestigio di una frat, tanto più i membri anziani si
sentivano autorizzati a «testare» la tempra degli aspiranti (chiamati in
gergo pledge) e verificare fino a che punto questi ultimi fossero disposti ad
arrivare pur di essere accettati. Così, se in molti casi le prove sono semplici
goliardate, spesso invece queste sconfinano in una sorta di hazing
(nonnismo). Durante il periodo di «tirocinio», che in genere dura per un
intero semestre, il candidato è incaricato di rassettare la sede
dell’associazione (sovente messa a soqquadro di proposito per rendere il
compito più difficoltoso) o di fare commissioni per i membri anziani. Ma c’è
di peggio: mangiare solo burro di arachidi per una settimana; essere
svegliati nel cuore della notte e fare flessioni; venire trasportati, con una
benda sugli occhi, in un luogo remoto o in mezzo a un bosco con il compito
di tornare indietro; subire un interrogatorio sulla biografia degli altri
membri ed essere cosparsi di ketchup a ogni risposta errata; venire spogliati
in una notte gelida e inondati da getti di acqua fredda – un catalogo di
vessazioni che umilia il giovane pledge e a volte ne mette a repentaglio la
vita (sono circa centocinquanta gli studenti morti durante il periodo di
prova). Il moltiplicarsi di episodi ha indotto i governi statali e gli organi
accademici ad approvare leggi contro lo hazing, ma è molto difficile
controllare l’attività di ogni singola confraternita e le vittime hanno troppo
interesse a entrare nella frat per ribellarsi e denunciare.
Un altro aspetto poco noto è il rapporto tra appartenenza a una
confraternita e risultati accademici: alcuni studi hanno evidenziato che gli
affiliati a un’associazione hanno in media voti peggiori rispetto a chi non ne
fa parte, un gap marcato specie durante il primo anno, quando il pledge
mette il suo tempo e le sue energie a totale disposizione degli anziani. Negli
anni successivi, il senso di appartenenza incoraggia a partecipare a feste
dove si abusa di droghe e alcol, e non stupisce che questo stile di vita si
rifletta in maniera negativa sul rendimento scolastico.
Due pellicole comiche che hanno preso di mira il mondo esclusivista
delle confraternite sono poi diventate autentici cult (Animal House del 1979 e
La rivincita dei nerds del 1984; → Nerd), sfruttando la medesima formula e
mettendo in contrapposizione due confraternite in un campus
universitario: della prima, fanno parte i «vincenti», gli studenti più atletici,
eleganti e benestanti, e circondati dalle ragazze più desiderate e
appariscenti; nella seconda, che accetta membri senza distinzione,
confluiscono i «perdenti», coloro che per vari motivi (omosessualità, fisico
corpulento, bassa statura, scarsa intelligenza, guardaroba sciatto) sono
esclusi da tutte le altre associazioni. La frat degli studenti «sfigati» non
adotta rituali complessi, non umilia i pledge e organizza le feste più
divertenti. Nel confronto finale, grazie a sagacia, intraprendenza e un
pizzico di eroismo e pazzia, saranno questi ultimi a umiliare i «vincenti»,
vittime della loro supponenza e della convinzione che lo status, da solo, sia
garanzia di successo. Pare quasi di assistere a una rievocazione simbolica
della Guerra d’indipendenza, nella quale le due confraternite di «perdenti»
si impongono come incarnazione degli Stati Uniti: e c’è un’affinità neanche
tanto scoperta tra i nerds e i diseredati della terra, i «rifiuti miserabili» che
desiderano «respirare liberi», di cui canta Emma Lazarus nei versi di «The
Colossus» incisi ai piedi della Statua della Libertà. E non è un caso che siano
questi ultimi a uscire vincitori.

BIBLIOGRAFIA
Allan D. DeSantis, Inside Greek U.: Fraternities, Sororities, and the Pursuit of
Pleasure, Power, and Prestige, University Press of Kentucky, Lexington 2007.
John R. Thelin, A History of American Higher Education, Johns Hopkins
University Press, Baltimore 2004.
S.M.Z.
Piccole città
Il dramma di Thornton Wilder Piccola città (del 1938) si apre, su un
palcoscenico vuoto, con il Regista che – dopo aver disposto due tavoli e
alcune sedie a destra e a sinistra – si rivolge al pubblico e inizia una lunga
descrizione (due pagine di stampa) della cittadina di Grover’s Corner,
Massachusetts. Qui c’è la strada principale, qui la stazione, poi le case dei
polacchi e quelle di alcune famiglie di origine indiana. Là ci sono la chiesa
presbiteriana, quella metodista, quella cattolica. Quindi il municipio, una
fila di negozi, le tettoie per riparare i cavalli nei giorni di mercato, la
macelleria, la drogheria, la farmacia, le scuole elementari e più lontano
quelle superiori. Laggiù la casa del medico e quella del direttore del giornale
locale e via via le case degli altri abitanti di Grover’s Corner. Sulla collina, la
villa del banchiere e, più discosto, il cimitero. Intorno, la campagna. È qui
che vivono i Cartwright, i Gibbs, i Crowell, gli Hawkins…
Naturalmente, Grover’s Corner non esiste. Mi correggo: Grover’s Corner
esiste, eccome. Anzi, ne esistono tante – decine di migliaia, innumerevoli, le
smalltowns della storia e della cultura americana. Agli albori, c’erano le
piccole città fondate dai coloni, da quelle in Virginia a quelle dei puritani
nel New England: le prime, destinate a svilupparsi fra grandi distese di
piantagioni, le ville sparse in giro, il nucleo cittadino raccolto intorno alla
chiesa (che s’occupava delle anime) e al tribunale (che s’occupava di
proprietà ed eredità); le seconde, più compatte, sempre con la chiesa al
centro e in posizione leggermente sopraelevata, le case intorno quasi a
creare un fortilizio, le terre originariamente comuni (i commons della
tradizione inglese) e in seguito frazionate sotto la pressione di dinamiche
economiche e sociali. Poi, verranno le smalltowns dell’interno, seguendo
l’avanzata della colonizzazione: cittadine spesso precarie, di passaggio (qui
l’ingresso dal nulla, là l’uscita nel nulla), tirate su in fretta e furia,
elementari nella loro topografia (una strada principale e alcuni vicoli
laterali), con un che di provvisorio (se non di posticcio: spesso le facciate, in
legno e a un piano, di negozi o saloon nascondevano solo un tendone →
Main Street), alcune destinate a rimanere e fors’anche ingrandirsi, altre a
trasformarsi in misteriose ed emblematiche cittadine fantasma (→).
Tutte in qualche modo soggette agli alti e bassi, alle vicissitudini e alle
traversie, della formazione nazionale e degli sviluppi economici: tra fine
Ottocento e inizi Novecento, l’agonia della «piccola città» era evidente –
«C’è rovina e abbandono / nella Casa sulla Collina: / se ne sono andati tutti,
/ non c’è più nulla da dire», scriverà il poeta Edwin Arlington Robinson nel
1896. Eppure, la «piccola città» resisteva, almeno nell’immaginario
collettivo.
Era il luogo d’origine, il serbatoio delle virtù semplici, la culla del
common man. E, di fronte alle sfide del nuovo secolo (l’automobile,
l’immigrazione, il sesso, la metropoli, la guerra), sembrava rappresentare
un nido ovattato e protettivo, un utero materno da cui non ci si voleva
staccare. Oppure (queste icone americane contengono anche un rovescio),
da cui ci si doveva staccare: per crescere, per esplorare il mondo, per avere
fortuna – o anche solo per affrancarsi dal controllo sociale e morale, da
quell’occhio di tutti su tutti ben simboleggiato dalla main street con le sue
finestre e le sue vetrine che osservano chi vi cammina su e giù, da solo o in
compagnia, vivendo, aspettando, anelando, ridendo e piangendo…
La «piccola città» resta dunque nel profondo della cultura americana, e
con questo doppio volto: luogo familiare di crescita e affetti e luogo di
conformismo e oppressione, da cui fuggire e a cui tornare. Così, Mark Twain
metterà a nudo in tanti scritti le «piccole città» rivierasche come sentina
dei vizi e delle ipocrisie ottocentesche; Edgar Watson Howe (The Story of a
Country Town, 1882), Hamlin Garland (Strade maestre, 1891), Sarah Orne
Jewett (Il paese degli abeti aguzzi, 1896) ne mostreranno il doppio volto,
amato/odiato. Poi, si arriverà soprattutto al trio modernista: Edgar Lee
Masters (L’antologia di Spoon River, 1915), Sherwood Anderson (I racconti
dell’Ohio, 1919), Sinclair Lewis (La via principale, 1920) – struggenti ritratti di
un luogo centrale, nel bene come nel male, nella cultura di quegli anni, fra
guerre mondiali, disordini, lacerazioni del tessuto sociale,
industrializzazione rapidissima e altrettanto rapida globalizzazione, e in
mezzo, come un turacciolo nei marosi, la «piccola città» con ciò che
significava per l’americano medio. Non a caso, Francis Scott Fitzgerald in Il
grande Gatsby (1925) narra una storia che nasce nel Midwest e al Midwest fa
ritorno, con le sue cittadine «sull’orlo sfilacciato dell’universo». Ma
altrettanto faranno Ernest Hemingway nei Racconti di Nick Adams e William
Faulkner con il ciclo della «contea di Yoknapatawpha» (contea
immaginaria, ma collocabile intorno alla cittadina reale di Oxford,
Mississippi), Willa Cather, Eudora Welty, Flannery O’Connor, con le loro
«piccole città» del Sud e dell’Ovest – e via via tanti altri autori, fino ai tempi
più recenti, fino a quel Raymond Carver, a quel Richard Ford, a quel Larry
McMurtry che tornano, con modalità e concezioni diverse, a fare delle
smalltowns il loro universo narrativo privilegiato: uno dei più bei film sulla
«piccola città» (L’ultimo spettacolo, di Peter Bogdanovich, del 1971) è tratto
dall’omonimo romanzo di McMurtry, del 1966 (→ Main Street).
«A quest’ora, tutti dormono a Grover’s Corner […] Le undici a Grover’s
Corner», recita sempre il Regista in Piccola città di Wilder, e pare un
epitaffio. Non è dunque casuale che uno degli omaggi più struggenti a
questa componente essenziale dell’immaginario americano, sempre più
isolata dal vortice della vita contemporanea, malata di solitudine e
abbandono, disoccupazione e frustrazioni, le vetrine della main street
sbarrate da assi di compensato (segno che quel negozio a conduzione
familiare e quell’altro e quell’altro ancora, punti cardinali e di ritrovo, sono
stati soppiantati dal mall [→] in periferia), ma pur sempre «luogo
d’origine», venga da uno dei cantori più sensibili e attenti alle realtà più
sconcertanti degli odierni Stati Uniti: Bruce Sprinsgsteen, con «My
Hometown» (1984).

BIBLIOGRAFIA
Park Dixon Goist, From Main Street to State Street. Town, City, and Community in
America, Kennikat Press, Port Washington 1977.
Richard V. Francaviglia, Main Street Revisited. Time, Space, and Image Building
in Small-Town America, University of Iowa Press, Iowa City 1996.
Richard Lingerman, Smalltown America. A Narrative History, 1620-The Present,
G.P. Putnam’s Sons, New York 1980.
M.M.

Piccole donne
Come tante altre categorie oppresse e bistrattate nei quattrocento anni di
storia, dagli schiavi agli immigrati, anche le donne sono state presenze poco
rappresentate nella vita pubblica statunitense, relegate al silenzio o al
chiuso delle case, costrette in ruoli subordinati creati e inculcati nelle menti
delle giovani attraverso precisi modelli comportamentali, fin dalla più
tenera infanzia (→ Economia domestica). Per rendersi conto di come la
womanhood sia tanto una realtà biologica quanto una costruzione culturale,
fondata anche negli Stati Uniti su valori antitetici rispetto a quelli
propugnati per la controparte maschile, basta soffermarsi su quello che è
stato per molti secoli lo strumento di formazione identitaria giovanile per
eccellenza: la letteratura per l’infanzia.
Gli inizi di questo genere negli Stati Uniti si possono far risalire agli anni
venti dell’Ottocento e a due fattori in particolare: il progressivo interesse
della società per il ruolo formativo svolto dalla famiglia, nella
consapevolezza che le virtù pubbliche dipendano da quelle private (e che
dunque crescere un bravo figlio oggi significhi avere un bravo cittadino
domani); e il risorto spirito nazionalistico che caratterizzò gli anni della
presidenza Jackson (dal 1829 al 1837), in cui più urgente divenne l’esigenza
di non nutrire le giovani menti americane con letterature importate
dall’estero, ma di plasmarle su modelli autoctoni. Se a formare gli eredi
della repubblica con una letteratura propria furono chiamati autori
statunitensi, va però detto che delle centinaia di storie pubblicate fra il 1820
e il 1860 di memorabile vi è davvero poco. Si tratta spesso di trame statiche
e ripetitive, in cui, visto che l’importante è la morale, personaggi e scenari
si riducono a sommari bozzetti. Il lettore di oggi faticherà non poco a
credere che anche solo uno di quei piccoli lettori/lettrici potesse davvero
appassionarsi alle vicende di personaggi come la Ellen Montgomery di Wide
Wide World di Susan Warner (1850), in cui la lacrimevole protagonista, in
un’escalation di lutti e convivenze con crudeli parenti, resiste ai soprusi
grazie all’amore per Gesù e alla sua incrollabile fede (per più di cinquecento
pagine), fino a quando un amico d’infanzia la chiederà in moglie e la
riporterà negli Stati Uniti. Forse non aveva tutti i torti Nathaniel
Hawthorne, uno dei protagonisti, con la sua Lettera scarlatta (→ A), della
letteratura di metà Ottocento, quando bollava come una «dannata orda di
scribacchine» le tante scrittrici impegnate in quegli anni a comporre
narrativa per l’infanzia, nonostante ciò significasse per queste ultime anche
acquisire un’autonomia economica e sociale (fino ad allora negata al mondo
femminile) attraverso una delle rare professioni ritenute all’epoca
rispettabili per una donna della middle class.
Anche se i protagonisti di questi edificanti racconti sono soprattutto
bambine, sarà solo negli anni settanta dell’Ottocento che la narrativa per
l’infanzia si separerà lungo il crinale del gender: e, mentre ad attendere i
giovanetti saranno avventure in terre lontane, fughe lungo il Mississippi e
mirabolanti ascese «dalle stalle alle stelle» (→ Rags to riches), per le
giovinette la società terrà in serbo una casa e un destino, se non già segnato,
certo con ben poche possibilità di evasione. Sebbene le autobiografie
dell’epoca mostrino come in realtà questa distinzione di modi di vita non
fosse poi tanto evidente (sia i maschi che le femmine aiutavano nei lavori
domestici, frequentavano la scuola e giocavano all’aperto, sporcandosi in
egual misura), il «mondo della donna» viene codificato fin dall’inizio della
children’s literature come antitetico rispetto a quello della controparte
maschile. Invece che eventi concreti, a segnare il passaggio della fanciulla
dall’infanzia alla maturità è un percorso interiore, un’acquisizione di
consapevolezza che quasi sempre avviene fra le mura domestiche. Il ruolo
«morale» della donna, centro della famiglia e degli affetti, si traduce in una
sua inazione sul piano intellettuale e sociale: nemmeno le brave a scuola
faranno carriera e lasceranno la casa, se non (talvolta) grazie alla benevola
intercessione di qualche protettore. Come se non bastasse, la presa di
coscienza del sé al femminile avviene sovente grazie (si fa per dire) a un
percorso di sofferenza o menomazione fisica: a trasformare Katy,
protagonista di Ciò che Katy fece (1872) di Susan Coolidge, bambina vivace e
piena di energia, in una donna di casa sarà un incidente che la costringerà
dodicenne a letto. La precedente vita spensierata di Katy nel mondo si
trasforma così in vita «dentro»: dentro la casa, ma anche dentro gli affetti,
attraverso la «School of Pain»; i quattro anni di seminfermità la
trasformano nella madre ideale per i fratelli più piccoli, educandola alla vita
da donna. Le limitazioni o menomazioni fisiche come strumento per
l’acquisizione della womanhood ricorrono anche in altri romanzi successivi,
a cominciare dalla celebre Pollyanna (1913) di Eleanor H. Porter, in cui la
protagonista, nonostante l’esasperante bontà e l’irritante ottimismo che
trasformano ogni evento nefasto della sua vita in occasione di gioia, avrà
bisogno di essere travolta da un’automobile e trascorrere un po’ di tempo
in carrozzina per comprendere quale sia il suo posto nel mondo.
L’infanzia è insomma il periodo di preparazione all’età adulta. Lo sa
bene l’autrice di narrativa per l’infanzia al femminile per eccellenza, Louisa
May Alcott, che con Piccole donne (1868-1869) e i relativi sequel propone, per
la prima volta con una rappresentazione realistica e non moraleggiante,
tanti modelli diversi di femminilità quante sono le sorelle March (quattro,
per chi non lo sapesse: Meg, Jo, Amy e Beth), ma lascia anche trasparire la
consapevolezza che l’infanzia e l’adolescenza sono la parte migliore della
vita di una donna, costretta dall’età adulta a rinunciare agli aneliti più
radicali e a trasformarsi, se non nel modello di abnegazione assoluta (Meg,
la maggiore, che si annulla per marito e figli senza mai rimpiangere le
possibilità inespresse della vita), almeno in una «devianza controllata»: sarà
questo il caso del tomboy («maschiaccio») Jo, che rinuncerà al desiderio di
diventare una scrittrice e sposerà un professore, per poi aprire con lui una
scuola e educare i figli, propri e altrui. Persino in un testo atipico come
l’unico vero fantasy statunitense per l’infanzia, Il mago di Oz (1900) di L.
Frank Baum, si ribadisce come il ruolo della donna sia pur sempre fra le
mura domestiche: le involontarie (è il caso di sottolinearlo) avventure di
Dorothy, rapita da un ciclone e depositata nel regno di Oz, hanno come fine
ultimo il ritorno a casa, nel grigio Kansas e dai grigi zii che le vogliono tanto
bene e che di sicuro la aspettano con ansia, perché alla fine «nessun luogo è
bello come casa mia» (→ Oz).
Nemmeno due guerre mondiali e le trasformazioni della società
americana nei successivi cinquant’anni cambieranno di molto l’immagine
della ragazzina veicolata attraverso la narrativa per l’infanzia: le
protagoniste dei non memorabili girls’ books degli anni cinquanta e sessanta
sono di solito adolescenti carine, intelligenti ma non appariscenti, con una
vita normale, che devono capire che cosa fare del loro futuro. Non è certo
semplice raccontare la formazione dell’identità (il cui divenire dipende
anche da decisioni autonome) di coloro che, come le ragazzine, continuano
ad avere poche possibilità di scelta. Così, dato il maggior peso assunto dalla
scuola nella vita di bambini e adolescenti, i racconti di maturazione delle
giovinette prendono la forma delle school stories – fuori sì dalle mura
domestiche, ma in un universo altrettanto chiuso e vincolante, con rigide
divisioni di genere e di ruoli. Sebbene costituisca un revival delle school
stories che avevano caratterizzato la narrativa al maschile inglese fin da
metà Settecento, nella variante femminile americana il collante del mondo
adolescenziale non sono le ambizioni intellettuali, ma le relazioni sociali. In
fondo, il college è per le giovinette il luogo giusto dove trovar marito, non
un lavoro; e i pochi e marginali personaggi femminili che hanno
un’occupazione (zie hostess, conoscenti impiegate in case editrici)
rappresentano per le protagoniste non un modello, ma una remota,
remotissima possibilità. L’obiettivo di questi testi è portare le ragazzine
«normali» (mai sono protagoniste le più belle, le più popolari o le più
brillanti) all’accettazione di sé e del proprio ruolo marginale nella società,
in anni in cui prima la letteratura e il cinema e poi la tv proponevano
modelli di femminilità sempre più esasperata e trasgressiva, rendendo il
sesso e la sessualità il fulcro inconfessabile delle pulsioni dell’epoca (basti
qui citare le immagini conturbanti che della prima adolescenza ci
restituisce in questi anni la narrativa per adulti, Lolita di Nabokov in primis).
Nonostante la crescita esponenziale del numero di divorzi e
l’incremento della violenza di strada (gang [→], tensioni razziali e altra
delinquenza varia), in questi racconti l’ambiente domestico è sempre
raffigurato come solare, i genitori comprensivi e pazienti, il mondo esterno
privo di pericoli. Dev’essere stata quindi davvero una piccola grande
rivoluzione la comparsa sulle scene letterarie di un testo come Harriet the
Spy di Louise Fizhugh (1964), che sostenendo per bocca della protagonista
(aspirante spia) la necessità della menzogna, incrina definitivamente il
patto fra genitori e figli. Da qui in avanti, la narrativa per l’infanzia inizia a
raccontare, con un po’ meno ritrosia, ciò che attende le giovinette al di
fuori delle rassicuranti pagine di un testo: genitori che trascurano i figli,
anche se malati (come avviene alla schizofrenica protagonista di Lisa, Bright
and Dark, di John Neufeld, 1969), oppure una società i cui modelli di successo
sono causa e motore primario della prostituzione minorile (Steffie Can’t
Come Out to Play, di Frank Arrick, 1978). In un universo nichilista, che non
invita alla fiducia nel prossimo, ma alla diffidenza verso ogni forma di
contatto umano, a farne le spese sono in particolare le giovani donne. Se la
sicurezza e la stabilità familiare costituivano il fulcro della letteratura
precedente, ora sono la precarietà e l’isolamento a farla da padroni. E visto
che gli adulti sono divenuti vittime di quei medesimi impulsi ed egoismi che
nei decenni precedenti i bambini erano invitati a trascendere attraverso
l’educazione offerta dai libri, ai ragazzini, ormai privi di fiducia negli altri,
non resta che rispolverare gli antichi istinti per sopravvivere. Senza guide
morali, le giovinette possono solo essere la brutta copia delle loro madri,
invidiose, spendaccione e prive di scrupoli, come le protagoniste di Gossip
Girl, di Cecily Von Ziegesar (2002, ora una fortunata serie tv →) o le
consumistiche fruitrici passive del pacchiano merchandising che prolifera
intorno a ogni nuovo lancio editoriale.
A diventare ancora donne, sotto la guida delle famiglie o per resistere
alle forze spesso violente della società, sono invece le ragazzine figlie di
diaspore culturali, per cui solo di recente la narrativa per l’infanzia ha
elaborato modelli letterari ad hoc, scevri di stereotipi e tratti caricaturali
che hanno a lungo caratterizzato la rappresentazione dell’«altro», fosse
esso adulto o bambino (o che anzi hanno trasformato spesso l’adulto
«altro» in bambino; → Alien). E se in The Bakery Hill/La señora de la panadería
(2001) della chicana Pat Mora, la protagonista Monica, sperando di diventare
una brava fornaia sulle orme dei nonni, riprende quel ruolo subordinato e
domestico tipico della narrativa mainstream dei decenni precedenti, Amada,
centro del semiautobiografico My Diary From Here to There (2002) di Amada
Irma Pérez, diventa più grande quando, con il drammatico attraversamento
del confine (→ Bordertowns) fra Messico e Stati Uniti con la famiglia,
capisce come la terra che ha lasciato e per cui prova già nostalgia sia
destinata a restare per sempre dentro di lei e fra le pagine del suo diario. La
protagonista asiatico-americana di Chinese Cinderella (1999) di Deline Yen
Mah, bambina non voluta che, come una Cenerentola d’Oriente, deve
resistere a una matrigna cattiva per trovare la propria strada, è un potente
messaggio di speranza per tutte le bambine asiatiche immigrate e un invito
a riscoprire le proprie tradizioni culturali. Yoko, la protagonista di So Far
from the Bamboo Grove di Yoko Kawashima Watkins (1986), che la guerra di
Corea e le disgrazie familiari trasformeranno da bambina viziata a ragazza
matura e tenace, racconta ai bambini americani (non solo asiatici) la guerra
dal punto di vista delle popolazioni sconfitte. Anche la vita negli Stati Uniti
è per la letteratura per l’infanzia asiatico-americana occasione di
maturazione, come testimoniano Miné Okubo nel romanzo per immagini e
parole Citizen 13660 (1946) e Jeanne Wakatsuki Houston in Farewell to
Manzanar (1973), entrambe rievocazioni dell’esperienza nei campi di
detenzione (→) dei cittadini americani di origine giapponese durante la
Seconda guerra mondiale, in un percorso di crescita del sé che deve
confrontarsi con la difficile vicinanza (somatica e storica) con il nemico
della propria (ingrata) nuova madrepatria. Più indietro nel tempo, inizia
invece la costruzione di modelli letterari dell’infanzia afroamericana, per
strappare i bambini e le bambine nere all’orrido stereotipo del Little Black
Sambo (in italiano Il gran coraggio del piccolo Babaji) dell’inglese Helen
Bannerman (1899), che aveva monopolizzato la rappresentazione
dell’infanzia afroamericana. Risale addirittura agli anni venti (grazie a
intellettuali afroamericani del calibro di W.E.B. Du Bois e Jessie Fauset) The
Brownies Book, mensile dedicato alla letteratura per l’infanzia afroamericana
che mirava, attraverso fiabe, poesie, miti africani e biografie di personaggi
storici, a rappresentare l’appartenenza etnica come motivo di orgoglio.
Sulla copertina del primo numero, del gennaio 1920, una bambina nera con
una corona dorata in testa e un vestito bianco con maniche come ali si
protende sorridente verso l’alto in punta di piedi, rivendicando il suo posto
al centro della scena. La letteratura afroamericana continuò nei decenni
successivi a raccontare storie di piccole donne alle prese con gli spettri
razziali, a cui spesso si aggiungeva il trauma della migrazione: come in
Brown Girl, Brownstones di Paule Marshall (1959), che racconta la difficile vita
di due sorelle delle Barbados che si trasferiscono a vivere coi genitori a
Brooklyn negli anni della Grande depressione (→). Anche se forse, come ha
scritto Alessandro Portelli, la favola più bella dell’infanzia multiculturale
non viene dalla storia recente: è l’immagine di Malia e Sasha, «first kids»
della presidenza Obama, che giocano spensierate in una Casa Bianca dove,
fino a pochi anni prima, i neri sarebbero stati ammessi solo come
inservienti. Una storia che la letteratura per l’infanzia al femminile di
qualche tempo fa non avrebbe nemmeno osato immaginare.

BIBLIOGRAFIA
Beverly L. Clark, Kiddie Lit. The Cultural Construction of Children’s Literature in
America, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2003.
Anna Scacchi, Cinzia Schiavini (a c. di), «La letteratura per l’infanzia negli
Stati Uniti», Ácoma, n. 39, 2010.
Anne Scott MacLeod, American Childhood. Essays on Children’s Literature of the
Nineteenth and Twentieth Centuries, University of Georgia Press, Athens
1994.
C. SCHIA.
Piccole donne crescono
Che le piccole donne dovessero poi crescere era inevitabile. E così fu, sotto
la pressione di eventi e trasformazioni decisivi. Proviamo a vederli in
maniera sintetica. Gli anni intorno alla Prima guerra mondiale conobbero
l’inserimento massiccio della donna nel mondo del lavoro e acute tensioni
sociali, protagoniste ragazze spesso giovanissime: ce lo raccontano, per
esempio, Emma Goldman nella sua autobiografia, e Theresa Malkiel e più
tardi Anzia Yezierska nelle loro narrazioni semiautobiografiche. Negli stessi
anni e nel dopoguerra, la figura della «new woman» del Geenwich Village
(→) fu simbolo di una ricerca impegnata di emancipazione femminile, bene
testimoniata da scrittrici diverse come Susan Glaspell, Mary Heaton Vorse,
Mabel Dodge Luhan, Evelyn Scott, Djuna Barnes. Negli anni venti, la flapper
(→) rappresentò la versione più edulcorata e «spensierata» di questa
ricerca, di cui Zelda Fitzgerald, con il suo modo di vivere e le sue opere
troppo spesso relegate in secondo piano dalla celebrità del marito Francis
Scott, fu al contempo modello e incarnazione. Sempre negli anni venti, il
«Rinascimento di Harlem» (→ Harlem) divenne fucina di talenti femminili
in campi diversi come la musica, la scrittura, l’antropologia (alcuni nomi,
uno per campo: Bessie Smith, Nella Larsen, Zora Neale Hurston), mentre gli
anni della Grande depressione (→) videro di nuovo il ruolo centrale delle
donne proletarie nelle lotte e manifestazioni: nascono di qui certi
personaggi indimenticabili, come Mazie nel romanzo Yonnondio di Tillie
Olsen, iniziato nel 1934 e completato solo nel 1974, o come Julia in Whose
Names Are Unknown di Sanora Babb, scritto nel 1939 ma pubblicato soltanto
nel 2004 (né si possono dimenticare i personaggi di Ma e Rose of Sharon in
Furore di John Steinbeck: ma l’elenco sarebbe davvero lungo). Infine, gli
anni della Seconda guerra mondiale e del dopoguerra, con un nuovo
massiccio afflusso di donne nel mondo del lavoro, ma anche con le
lacerazioni sociali e psicologiche prodotte dal conflitto e dalle sue
conseguenze, ripropongono una «questione femminile» sempre irrisolta,
come ci viene narrato in certe opere di Mary McCarthy o di Carson
McCullers.
Senza arrivare fino alle nuove prospettive offerte dal femminismo più o
meno militante dei tardi anni sessanta, può essere interessante soffermarsi,
a questo punto, su un nucleo di testi, scritti grosso modo fra gli inizi degli
anni cinquanta e la metà degli anni sessanta e, grazie a essi, assistere alla
crescita (tortuosa, complicata, sovente drammatica) di quelle piccole donne
– testi particolari, destinati spesso alla trasposizione cinematografica, per
un pubblico desideroso di rassicurazione, ma anche di vaghe titillazioni e di
un proibito appena sfiorato; o testi che manifestano, nemmeno troppo sotto
pelle, un disagio profondo, un nodo aggrovigliato di contraddizioni relative
alla condizione femminile, alla vita nei suburbs (→), alle frustrazioni della
borghesia medio-alta, alla persistente (e soffocante) eredità puritana, al
difficile rapporto fra le generazioni, al ruolo normalizzatore della famiglia –
in una parola, relative all’American Way of Life.
In Cioccolata a colazione (1956), Pamela Moore ci narra per esempio, con
un’insolita (per quegli anni) franchezza nelle descrizioni delle prime
esperienze erotiche etero- e omosessuali, le giornate della diciottenne
Courtney, fra East Coast e West Coast, travagliata dal divorzio dei genitori,
incalzata da psicosi e suicidi e immersa in un universo adulto falso e
illusorio, manipolatore e superficiale. Il libro ebbe grande successo negli
Stati Uniti e in Europa e fece naturalmente scalpore, ma l’autrice non ebbe
altrettanta fortuna con le opere che seguirono; e nel 1964, dopo anni di
depressione, si uccise con un colpo di fucile. Sempre nel 1956, Grace
Metalious, con I peccati di Peyton Place, offrirà un altro quadro della
condizione femminile, destinato alla fama anche per la riduzione
cinematografica dell’anno successivo, diretta da Mark Robson e
interpretata da Lana Turner, e per il serial televisivo dell’Abc ispirato al
romanzo: nella cittadina fittizia di Peyton, sintesi di tutte le piccole città
(→) e di tutti i suburbs (→) statunitensi, intorno alle vite delle due giovani
Allison e Selena, si dipana il groviglio di passioni, tradimenti,
insoddisfazioni, nevrosi, violenze, fra padri padroni, famiglie castranti,
scoperte del sesso, impossibilità di essere normali e dolorose ricerche di
identità. Anche Scandalo al sole di Sloan Wilson, del 1958 (film omonimo
diretto da Delmer Daves nel 1959, con Sandra Dee, Troy Donahue e Dorothy
McGuire), nel narrare in parallelo le storie d’amore di due generazioni
(padri e figli), rivela l’opprimente cappa di pregiudizi che gravano sui due
giovani Molly e Johnny, in un’altra piccola città della provincia americana,
e la loro difficile ricerca di un’identità anche attraverso la scoperta dei loro
corpi. Con la sceneggiatura, premiata con un Oscar, del film Splendore
nell’erba, del 1961 (diretto da Elia Kazan, con Warren Beatty e Nathalie
Wood), il drammaturgo William Inge tornerà sul tema della repressione
sessuale, della cupa normativa puritana, del perbenismo piccoloborghese,
che rischia di distruggere la giovane Deannie, negandole la libera
espressione del desiderio e della passione e finendo per consegnarla a un
ospedale psichiatrico, da cui emergerà solo per prendere atto del proprio
fallimento esistenziale. Con Il gruppo, del 1963 (il film, del 1966, è diretto da
Sidney Lumet e interpretato fra le altre da Candice Bergen), Mary McCarthy
proporrà invece il quadro di otto vite parallele di giovani studentesse
americane dell’esclusivo Vassar College, ambientandole negli anni di
Roosevelt, ma con un occhio alle problematiche dei primi anni sessanta: il
sesso scoperto e il sessismo diffuso, i contrasti familiari, la lotta per
l’identità e l’autonomia, la ricerca della rottura con i luoghi comuni e il
conformismo sociale, le nevrosi ricorrenti, i ricoveri in ospedale
psichiatrico, l’insofferenza per i ruoli. La campana di vetro, unico romanzo
della poetessa Sylvia Plath che si uccise nell’anno della pubblicazione
(1963), ripercorre in un certo modo la vicenda esistenziale dell’autrice nel
ritratto di Esther, insofferente della vita sociale newyorkese, vittima di una
progressiva, devastante depressione che la spinge a vari tentativi di suicidio
e poi al ricovero in ospedale psichiatrico e a ripetuti elettroshock, e
dell’amica Doreen, amato-odiato modello di riferimento, tra figure materne
e paterne, maschili e femminili, che incombono in maniera pesante sulle
vite delle due giovani. Infine, in questa rapida carrellata sul difficile
processo di crescita al femminile nell’America del secondo dopoguerra, si
arriva al romanzo di Jacqueline Susann, La valle delle bambole, del 1966 (film
omonimo del 1967, diretto da Mark Robson e interpretato, fra le altre, da
Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, che due anni dopo sarà uccisa in
una villa di Beverly Hills dal «santone» Charles Manson e dai suoi seguaci):
altre storie parallele di tre ragazze giunte a New York dalla provincia, che
nella metropoli cercano successo e felicità, trovando altre nevrosi, altra
insoddisfazione, l’autodistruzione con la droga (le «bambole» del titolo
rimandano al termine gergale dolls che sta per «barbiturici e anfetamine») o
il suicidio finale.
A questo punto, possiamo concludere il ritratto impietoso di un
travagliato crescere al femminile negli «anni inquieti» degli Stati Uniti del
secondo dopoguerra: un ritratto che contrasta in maniera netta con i
quadretti edulcorati di tanta pubblicità contemporanea e in particolare con
certe rassicuranti raffigurazioni al lattemiele della famiglia americana
veicolate da serie tv (→) come I Love Lucy o Leave It to Beaver; e che, non a
caso, ci propone essenzialmente giovani donne bianche della piccola e
medio-alta borghesia. Le donne della classe operaia, o delle comunità
asiatico-americane, messico-americane, portoricane, afroamericane,
vivevano problematiche in parte simili e in buona parte diverse, ma non
avevano ancora chi le narrasse: le loro voci si sarebbero cominciate però a
udire di lì a qualche anno, con riflessioni più dure e disincantate
sull’American Way of Life.

BIBLIOGRAFIA
Bruno Cartosio, Anni inquieti. Società, media, ideologie negli Stati Uniti da
Truman a Kennedy, Editori Riuniti, Roma 1992.
Jane Davison, The Fall of a Doll’s House, Avon Books, New York 1980.
Benita Eisler, Private Lives: Men and Women of the Fifties, F. Watts, New York
1986.
M.M.

Piccoli uomini
A differenza delle piccole donne (→), il cui processo di maturazione avviene
quasi del tutto fra le mura domestiche, i ragazzini della narrativa
americana, da metà Ottocento in poi, sembrano decisamente inclini ad
assecondare la passione per gli spazi aperti, la strada, l’universo urbano e le
avventure in giro per il mondo. Senza una famiglia vera e propria che si
prenda cura di loro (la maggior parte dei giovani protagonisti è orfana,
oppure circondata da contesti familiari atipici come zie e nonni nelle vesti
di genitori putativi) e banditi giochi e perdite di tempo (inclusa la scuola,
che di fatto non ha mai goduto negli Stati Uniti di grande popolarità come
esperienza formativa), i primi piccoli uomini apparsi sulla scena letteraria
americana sono adulti in miniatura che coniugano carità cristiana, spirito
democratico e, non meno importante, i valori della middle class.
Del Dick «Vestito di Stracci» di Horatio Alger si dice altrove (→ Rags to
riches): ma si può qui anticipare il fatto che nelle biblioteche e nelle librerie
egli era il compagno di scaffale di un più posato ragazzino – il Piccolo Lord
uscito dalla penna dell’inglese naturalizzata americana Frances Hogdson
Burnett (Il piccolo lord, 1886). Cedric, orfano di padre (diseredato per aver
sposato un’americana), viene richiamato oltreoceano dal facoltoso nonno
inglese che lo vuole erede dei suoi possedimenti. Come coniugare
sentimento democratico americano e aristocrazia europea? Mantenendo
inalterato lo spirito egalitario e con una naturale innocenza, Cedric riesce a
riportare armonia fra il nonno aristocratico, gli (sfruttati) contadini di
quest’ultimo e la madre, richiamata a sua volta al di qua dell’oceano per
gioire della bontà del figlio. Le virtù di Cedric, frutto di un’educazione
americana e al contempo intrinseche, quasi ereditarie, coniugano il sogno
del «self-made man» con la ricerca di origini nel Vecchio mondo.
L’aristocrazia per nascita insomma non basta, è il messaggio rassicurante
del Piccolo Lord ai suoi coetanei lettori: anzi, l’Inghilterra continuerebbe a
essere un luogo di oppressione e sfruttamento se non arrivasse un giovane
americano a esportarvi (ante litteram) una buona dose di democrazia.
Il Piccolo Lord non ebbe lunga vita come modello per i ragazzini
americani, che iniziarono presto a sentirsi stretti nei panni degli adulti in
miniatura che gli scrittori alla Burnett, e in parte alla Alger cercavano di
cucire loro addosso; inclusa la stessa Alcott, che nei suoi Piccoli uomini, 1871,
riaddomestica l’infanzia al maschile attraverso una scuola dipinta come una
grande casa e una casa dipinta come scuola di vita. Lasciati da parte Cedric e
compari, insopportabili per i loro modi affettati e melensi, i giovani
americani (e con loro i non poco preoccupati genitori) cominciarono a
guardare altrove – verso un orizzonte in cui, dagli anni settanta e ottanta
dell’Ottocento, iniziarono a fare la loro comparsa i memorabili «good bad
boys» (come la critica li ha definiti) delle lettere americane. Il nome
potrebbe trarre in inganno: non si tratta in realtà di ragazzi malvagi, ma
solo in apparenza trasgressivi – e sempre per una giusta causa. Se il primo a
definirsi «cattivo» fu il (buonissimo) protagonista dell’autobiografico Story
of A Bad Boy (1870) di Thomas Bailey Aldrich, per il lettore odierno è davvero
difficile capire il perché: studente modello, amato e rispettato dai compagni,
dal preside e dal nonno da cui si era trasferito a vivere, Tom di «malvagio»
ha solo tanta voglia di evasione, di divertimento e di un po’ di trasgressione,
senza mai esagerare.
Viene più facile credere che siano tali i «good bad boys» di Mark Twain
(Le avventure di Tom Sawyer, 1876): a scuola, Tom va solo per combinare
scherzi, odia i sermoni e i doveri domestici, ma tutto sommato dà solo voce
all’insofferenza dei ragazzini per le costrizioni e convenzioni di una piccola
comunità come quella di St. Petersburg (→ Cittadine museo), che frenano il
naturale istinto al movimento e il desiderio di avventure tipico dell’infanzia
e dell’adolescenza. In fondo, le trasgressioni di Tom sono limitate a piccole
marachelle, o al regno della fantasia; il rientro nelle maglie della società
avviene in maniera quasi indolore, talvolta persino con sollievo – come se in
realtà queste fughe costituissero più un pericolo scampato che una vera
rottura.
Diverso invece il caso di Huck Finn (Le avventure di Huckleberry Finn, 1884,
sempre di Mark Twain), amico/compagno di Tom Sawyer, che è invece un
outcast a tutti i livelli: figlio di un padre ubriacone, semianalfabeta, vestito di
stracci e abituato a cibarsi di avanzi o di ciò che la natura offre, Huck
bestemmia, beve, fuma, fa impazzire la zitella che cerca di «civilizzarlo» e
aiuta nella fuga lo schiavo Jim, che teme di essere venduto a Sud –
contravvenendo così alle regole della società statunitense pre-Guerra civile
(→). A ben vedere, però, nella sua ribellione (imperdonabile per l’epoca),
Huck infrange la legge per affermare ciò che è «giusto». Come la maggior
parte di questi bad boys, Huck è cattivo solo perché si oppone, a parole e nei
fatti, alle ingiustizie della società, perché svela le ipocrisie di un mondo che
nasconde, sotto la patina dorata (→ Gilded Age) del tardo Ottocento,
violenze e crudeltà nei confronti dell’«altro», del diverso – sia esso il
povero, l’afroamericano o lo straniero.
A rivelare la grottesca e asfittica realtà delle cittadine di provincia e a
fuggire, anche se in maniera meno rocambolesca rispetto a Huck, è anche
un altro celebre (piccolo) uomo delle lettere americane: quel George Willard
che è voce e collante dell’opera più famosa (e in parte autobiografica) di
Sherwood Anderson, Winesburg, Ohio (1919), brevi racconti cuciti insieme
dalla memoria del narratore sulle vite del paesino del Midwest dove era
nato e vissuto. Almeno fino a quando, una mattina di aprile, prende
commiato dai luoghi a lui cari e dalle persone accorse alla stazione a
salutarlo, osserva per l’ultima volta le distese sterminate di campi così
simili a oceani e sale sul treno diretto verso la grande città, per incontrare
l’avventura della vita. E nel farlo, porta Winesburg con sé: prima nella
propria mente, in cui affiorano di continuo i frammenti della quotidianità
perduta; e poi con la scrittura, rielaborando i ricordi e trasformandoli in
patrimonio collettivo per la vasta comunità di lettori.
E sempre lungo un viaggio, anche se più complesso e frammentato, si
snoda la formazione dell’adolescente uscito dalla penna di Ernest
Hemingway, quel Nick Adams al centro di sedici racconti scritti e pubblicati
dall’autore fra il 1925 e il 1933 (e raccolti postumi nel 1972 con il titolo I
racconti di Nick Adams). Qui Hemingway descrive l’infanzia del protagonista
e alter ego nel Nord del Michigan, la successiva fuga sui treni merci,
l’esperienza come volontario in Italia durante la Prima guerra mondiale,
fino al ritorno al Grande fiume dei due cuori (il racconto più famoso), dove
Nick, provato dagli orrori delle battaglie, dalle morti, dalle violenze e dal
senso di futilità dell’esistenza umana, cerca una rigenerazione spirituale
attraverso la pesca e il campeggio (→ Trout fishing) nell’ambiente naturale
incontaminato della sua infanzia.
Se diventare adulti significa affrontare l’orrore, la solitudine e la
sconfitta, allora non sorprende che tanti giovani protagonisti letterari del
secondo dopoguerra non vogliano crescere. Il più celebre fra questi è
Holden Caulfield, creato da Jerome David Salinger (che non a caso aveva
preso parte allo sbarco in Normandia ed era un grande ammiratore di
Ernest Hemingway). Ne Il giovane Holden (1951) il protagonista, espulso da
scuola e vagabondo per tre giorni dentro alla «sua» New York, rimane in
bilico fra il mondo degli adulti e quello dell’infanzia. Da una parte, i genitori
tanto impegnati da diventare quasi invisibili, il fratello maggiore che è stato
in guerra (ma non vuole parlarne) e ora si «prostituisce» a Hollywood come
sceneggiatore, nonché la schiera di figure squallide, buffe o tristi che
incontra nei bar, negli alberghi, per le strade di una New York che è per lui
casa e insieme altrove – dai luoghi della quotidianità familiare dell’Upper
West Side ai piaceri leciti e illeciti di Midtown e Downtown (→). Dall’altro,
il mondo dell’infanzia, della sorellina Phoebe e del fratellino morto Allie, un
universo minacciato di continuo dalla corruzione del vivere, che Holden
cerca, invano, di proteggere. Quasi eroici nella loro crisi d’identità e nel
desiderio di resistere, nonostante la perdita di fiducia verso qualsivoglia
istituzione, Holden e i suoi coetanei letterari (come il Rusty di Rusty il
selvaggio, 1975, di S.E. Hinton, e il Jerry di La guerra dei cioccolatini, 1974, di
Robert Cormier) mettono in discussione ancora una volta la scuola, la
famiglia e soprattutto la società tout court, fasulla («phony», direbbe
Holden), tesa a reprimere i solitari ragazzini «contro». Sì, perché questa
cultura giovanile è quasi pronta a trasformarsi in contro-cultura, in critica
radicale alle richieste di un’America sempre più consumistica, corporativa e
settaria – un establishment che starà alle nuove generazioni (→), più che ai
singoli, contrastare e sovvertire.

BIBLIOGRAFIA
Monika Elwert, Enterprising Youth: Social Values and Acculturation in
Nineteenth-Century American Children’s Literature, Routledge, London 2009.
Anne Scott MacLeod, American Childhood. Essays on Children’s Literature of the
Nineteenth and Twentieth Centuries, University of Georgia Press, Athens
1994.
C. SCHIA.

Pinkerton Detective Agency


Nella seconda metà dell’Ottocento, la Pinkerton Detective Agency ispirò
non pochi racconti ambientati nel West. Fondata nel 1850 da Allan
Pinkerton, nato in Scozia, da giovane attivo nel movimento cartista,
trasferitosi negli Stati Uniti nel 1842 e nominato primo detective di Chicago
nel 1849, l’agenzia condusse una serie di operazioni contro i banditi sulla
Frontiera (→), di cui forse le più clamorose furono quella contro i fratelli
Reno durante e subito dopo la Guerra civile (→), quella (infruttuosa) contro
la banda di Jesse James e quella contro il Mucchio Selvaggio (→ Wanted!-I).
Durante la Guerra civile, la Pinkerton approntò poi un gruppo di spie da
infiltrare nelle file dell’esercito confederato (il suo fondatore proclamò di
aver sventato un primo tentativo di assassinare il presidente Lincoln) e nel
1872 pare abbia collaborato con il governo spagnolo per reprimere un
tentativo insurrezionale a Cuba, mirante alla liberazione degli schiavi
africani sull’isola. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, uno degli agenti più
famosi e spietati fu Charles Siringo, di origini italo-irlandesi, nemico giurato
di Tom Horn, Butch Cassidy e Sundance Kid, e autore di alcune
autobiografie (fra cui, interessante, A Cowboy Detective, del 1912). Con il
motto «We Never Sleep», i Pinks, come venivano chiamati, costituirono
dunque uno degli ingredienti, e non dei più digeribili, dell’epopea del West.
Ma furono anche altro. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento,
insieme ad altre «agenzie» (come la famigerata Baldwin-Felts), i Pinks
funzionarono piuttosto come poliziotti privati, killer prezzolati e
provocatori professionisti per il padronato in occasione dei principali
conflitti di lavoro (→ Sciopero!): collaborarono per esempio alla cattura dei
«Molly Maguires» (→) e furono alquanto solerti in occasione dello sciopero
generale del 1877. L’esempio più celebre della loro attività antioperaia si
ebbe durante lo sciopero di Homestead (Pennsylvania) nel 1892, quando
trecento Pinks furono inviati ad accompagnare un gruppo di crumiri nella
«cittadina dell’acciaio», monopolio di Andrew Carnegie, gestita con pugno
di ferro da Henry Clay Frick: lo scontro a fuoco che seguì fece sette morti fra
i Pinks e nove fra gli operai. Fra i molti canti di lotta nati da quella
durissima esperienza, «Father Was Killed by the Pinkerton Men» restituisce
in pieno la rabbia, la fermezza e il dolore dei lavoratori protagonisti dello
sciopero. L’agenzia fu protagonista di altre violente operazioni, fra cui il
martirio e l’uccisione a sangue freddo del militante degli Iww (→ Wobblies)
Frank Little, a Butte (Montana) nell’estate del 1917 (→ Bisbee e Butte). Da
parte sua, la Baldwin-Felts fu coinvolta nel lungo braccio di ferro fra
minatori e padronato nella Contea di Harlan e dintorni, nel corso degli anni
venti del Novecento, che assunse a un certo punto i connotati di una vera e
propria guerra civile (→ Appalachia; → Sciopero!).
Dell’Agenzia Pinkerton fece parte, per qualche tempo, un giovane
Dashiell Hammett, futuro padre dell’hardboiled (→): fu proprio il disgusto
per le pratiche di corruzione, provocazione e violenza dei Pinks a spingere
Hammett a lasciarli, a intraprendere la carriera di romanziere (il romanzo
Raccolto rosso, del 1929, rielabora molte di quelle sue esperienze giovanili) e
a schierarsi su posizioni di sinistra, fino a scontrarsi con il Comitato per le
attività antiamericane del famigerato senatore McCarthy (→ Maccartismo;
→ Caccia alle streghe).

BIBLIOGRAFIA
Louis Adamic, Dynamite. Storia della violenza di classe in America, Bepress
Edizioni, Lecce 2010.
Frank Morn, The Eye That Never Sleeps. A History of the Pinkerton National
Detective Agency, Indiana University Press, Bloomington 1982.
M.M.

Piste e sentieri
Come una tela di Jackson Pollock (→ Bidoni della spazzatura), il territorio
nordamericano che con il tempo sarebbe diventato Stati Uniti d’America si
coprì via via di un sempre più fitto intreccio di percorsi diversi, che
andarono a sovrapporsi a quelli, già esistenti, degli animali e dei nativi –
piste e sentieri di origine, direzione, consistenza diverse, alcuni destinati
alla celebrità o all’oblio, altri all’affioramento successivo in veste nuova (→
Route 66 e Highway 61), alcuni legati a esperienze specifiche (→
Underground Railroad), altri carichi di implicazioni presenti e future (→
Promontory Point). Non possiamo seguirli tutti: ne ripercorriamo solo
alcuni, fra i più significativi.
Il «Sentiero delle lacrime». Il 23 maggio 1838, 7000 soldati americani, agli
ordini del generale Winfield Scott, fresco delle operazioni contro Falco Nero
(→ Guerre indiane), procedettero a radunare i circa 17mila cherokee
rimasti sulle terre che da sempre li avevano visti vivere e diventare una
delle nazioni più potenti e avanzate fra quelle Native American – un’ampia
regione, 70mila miglia quadrate, fra Georgia, North e South Carolina e i
futuri stati del Tennessee, dell’Alabama e del Kentucky. Le solide case, i
frutteti ben curati, le botteghe e i negozi dovettero essere abbandonati su
due piedi, le persone furono strappate alle loro occupazioni, anziani, malati,
bambini – e rinchiuse in veri e propri campi di concentramento al confine
con il Tennessee. Di lì, scortati dai soldati, qualche mese dopo si misero in
cammino, dopo aver salutato in maniera commovente i luoghi noti e vissuti
da generazioni su generazioni. Lo sradicamento dei cherokee fu la
conseguenza di una legge, approvata nel 1830, l’Indian Removal Act, che
prevedeva la rimozione forzata delle tribù verso ovest, oltre il fiume
Mississippi (le Guerre indiane e l’istituzione di riserve avrebbero
completato l’opera nei decenni successivi → Guerre indiane; → Ombre
rosse) – legge che aveva prodotto gravi contrasti e spaccature entro la
nazione stessa.
Fu un viaggio tremendo, attraverso il Tennessee, e poi il Kentucky,
l’Illinois, il Missouri, fino all’Arkansas e all’Oklahoma (un secondo gruppo
procedette un po’ più a sud, evitando parte del Kentucky e l’Illinois). Ebbe
inizio in ottobre e durò tutto l’inverno – per lo più a piedi, tra piogge e
bufere di neve, fiumi ghiacciati e venti gelidi, coperte e calzature
insufficienti, cibo e fuoco scarsi, in compagnia di malaria, polmonite, vaiolo,
dissenteria. Il fiume Mississippi era ghiacciato, e trascorsero alcuni giorni
prima che si potessero usare i traghetti – poi, fra il dicembre e il gennaio, un
gruppo passò il fiume vicino a Cape Girardeau, altri poco più a nord o a sud,
nei pressi di Memphis. Morirono in quattromila lungo il cammino, quasi un
terzo: e giunsero in terre inospitali, o troppo tardi (o troppo deboli) per
procedere alla semina, o privi di sostentamento di qualunque genere. Altri
morirono nelle settimane successive. Oggi, nei pressi di Cape Girardeau, un
Visitors’ Center posto all’ingresso del Trail of Tears Park, sulle colline che
danno sul Mississippi, grosso modo nel punto in cui il fiume fu attraversato,
ricorda quello che fra i cherokee rimase «Il sentiero lungo il quale
piangemmo», «Il Sentiero delle Lacrime» [cfr. Gloria Jahoda, The Trail of
Tears. The Story of the American Indian Removals, 1813-1855, Wings Books, New
York 1975].
Il Natchez Trace. Dalla cittadina di Natchez, sul fiume Mississippi (nello
stato omonimo), si snodava un sentiero che dopo più di 700 chilometri
giungeva a Nashville (Tennessee) – o, meglio, che dal fiume Mississippi
giungeva al fiume Cumberland, attraversando il Bayou Pierre e i fiumi
Tombigbee e Tennessee. In origine, con ogni probabilità, la pista era stata
tracciata dagli animali che si spostavano da un corso d’acqua all’altro, o da
un deposito di sale all’altro. Dopo di loro, erano venute le bande di
cacciatori nomadi, i primi gruppi sedentari appartenenti alle epoche
Woodland e Mississippian; quindi, i natchez, choctawi, chickasaw, cherokee,
shawnee – e tutti avevano fuso le rispettive piste in un unico sentiero, di
caccia e di collegamento. Per molti versi, dunque, il Natchez Trace era al
centro del grande sistema di vita delle tribù del Midwest. Quindi era stata la
volta degli europei e degli americani: il Trace era diventato un’importante
via di comunicazione interna che collegava l’est agli avamposti sul
Mississippi e, nei tre decenni a cavallo fra Settecento e Ottocento, conobbe
la sua età dell’oro. Prima dell’introduzione dei battelli a vapore (→),
contadini, trappolatori e cacciatori delle regioni interne caricavano le loro
merci sui tanti fiumi che, gettandosi nel Mississippi, arrivavano al porto di
New Orleans. Di lì, si poteva risalire (a fatica) la corrente fino a Natchez e, a
piedi o a cavallo, prendere il Trace: un mese abbondante di viaggio, non
privo di difficoltà e pericoli, non tanto per la presenza dei Native Americans
(che o erano stati cancellati dalla scena o avevano rinunciato via via ai
propri territori) quanto per le minacce derivanti dalla wilderness stessa e in
particolare dalla presenza di bande di fuorilegge intorno a cui nacque un
autentico folklore: i banditi di Cave-In-Rock, i fratelli Harpe, la banda di
John A. Murrell – un universo variopinto e drammatico che guadagnò al
Trace il soprannome di «Spina dorsale del diavolo». Le vittime furono
molte, e una fu illustre: l’esploratore Meriwether Lewis (→ Esplorazioni),
che nell’ottobre 1809 morì per una misteriosa ferita alla testa, mentre
trascorreva la notte in una locanda – suicidio? omicidio? Fra banditi
sanguinari, predicatori itineranti, eroici corrieri postali, indiani sempre più
evanescenti, personaggi storici o sul punto di diventarlo, il Trace fu
testimone di decenni di giovane storia americana. Poi, con l’avvento dei
battelli a vapore, tutto cambiò: risalire i fiumi non era più un problema, e il
sentiero decadde, la natura se lo riprese. Fino agli anni trenta del
Novecento, quando, all’interno del programma di lavori pubblici del New
Deal, si decise di riportarlo alla luce (oggi lunghi tratti si possono percorrere
a piedi), riparando le vecchie locande (stands), riorganizzando i resti degli
antichi insediamenti, aprendo piccoli musei – e costruendovi accanto il
Natchez Trace Parkway, una scenic road, grazie alla quale si può compiere un
autentico viaggio attraverso il tempo [cfr. James A. Crutchfield, The Natchez
Trace. A Pictorial History, Rutledge Hill Press, Nashville 1985].
El Camino Real. I primi europei a inoltrarsi nelle aride regioni del
Sudovest furono gli esploratori spagnoli. Occupati gli attuali territori del
Messico, nel 1598 – dunque prima dell’arrivo dei Padri Pellegrini sulle rive
del Nuovo mondo (→ Plymouth Rock) –, un gruppo di 130 migranti, fra cui
missionari, soldati e famiglie, con 83 vagoni e carri e circa 7000 capi di
bestiame, lasciò le pianure della Nuova Spagna (l’attuale Messico) capitanati
da Juan de Onate, per spingersi verso nord, alla ricerca di terreni fertili e
con la recondita speranza di trovare le leggendarie «sette città d’oro».
Superato il Rio Grande vicino all’attuale El Paso e dopo una massacrante
traversata di una porzione di deserto ribattezzata non a caso «La Jornada
del Muerto» (→ Progetto Manhattan), la comitiva raggiunse un piccolo
villaggio pueblo destinato a divenire qualche decennio dopo Santa Fe (→
Pueblos). La pista fra quest’ultima e Città del Messico, chiamata «El Camino
Real», era all’epoca la più lunga del Nordamerica e, nei tre secoli successivi,
venne percorsa da migliaia di frati francescani, soldati e mercanti che
vendevano ai coloni e missionari stoffe, tessuti, bestiame, utensili, statue e
immagini votive, campane, incenso e polvere da sparo (→ Colt e
Winchester). Le mercanzie partivano da Città del Messico, in media una
volta ogni tre anni, in grandi carovane composte da una trentina di carri e
impiegavano circa un anno e mezzo ad andare e tornare, riportando
indietro grano, lana, sale e schiavi catturati fra gli indiani pueblo. Neppure
la rivolta di questi ultimi nel 1680 (→ Pueblos) interruppe tale florido
commercio, che continuò quasi indisturbato (fatta eccezione per sporadici
attacchi di apache) sul Camino Real per i successivi due secoli, fra
dominazione spagnola (con l’acquisto dalla Francia di 800mila miglia
quadrate del New Mexico nel 1762) e americana (a partire dal 1846-1848,
con la vittoria statunitense contro il Messico) [cfr. Hal Jackson, Following the
Royal Road. A Guide to the Historic Camino Real de Tierra Adentro, University of
New Mexico Press, Albuquerque 2006].
Il Santa Fe Trail. Oltre che per i viaggiatori provenienti da sud, Santa Fe
divenne punto di approdo di un secondo cammino che si snodava per
novecento miglia da nord – per la precisione da Franklin (Missouri), una
cittadina che, sorta nel 1808 come accampamento di una cinquantina di
famiglie del Kentucky al seguito del colonnello Benjamin Cooper sulla riva a
nord del fiume Missouri, ebbe un rapido sviluppo nel 1817, quando il primo
battello a vapore (→), il General Pike (in onore dell’esploratore Zebulon
Pike), giunse fino a quelle regioni. Anche se la storia indica come ufficiale
apripista del Santa Fe Trail William Becknell, cacciatore di indiani e
veterano della guerra del 1812, che su questo tracciato s’inoltrò nel 1822,
già da secoli i nativi comanche percorrevano quelle terre lungo un sentiero
(conosciuto come Osage Trace, o Medicine Trail), il quale, come per la
Broadway (→) di New York, era stato con tutta probabilità aperto da bovini
(bisonti) e altri animali. L’obiettivo di Becknell e della trentina di
avventurieri che lo seguivano era semplice e più modesto di quanto si
potrebbe pensare: catturare qualche cavallo brado da rivendere nell’Est e
piazzare le mercanzie (asce, coltelli e cinture) ai comanche delle Grandi
pianure. Quando, seguendo l’Arkansas River, dopo dieci settimane di
viaggio il gruppo raggiunse i territori del Sudovest, fu subito intercettato da
una pattuglia di soldati spagnoli, che con singolare cortesia lo scortò fino a
Santa Fe. Qui, Becknell scoprì che nel frattempo la Spagna aveva concesso
l’indipendenza al Messico: s’era chiusa l’era del monopolio spagnolo lungo
il Camino Real. La notizia non tardò a diffondersi, e già due anni dopo
ottanta mercanti del Missouri organizzarono una spedizione che, a fronte di
35mila dollari di merce, fruttò quasi 200mila dollari in oro, argento e pelli.
Quando l’offerta superò la domanda dei circa quarantamila abitanti
insediati all’epoca nel New Mexico, Santa Fe divenne snodo nevralgico di
altri sentieri commerciali – specie verso Los Angeles, lungo l’Old Spanish
Trail; e verso sud, grazie al Camino Real. Né la ribellione del Texas nel 1836
né gli attacchi degli apache fermarono mercanti e merci, sempre più
consistenti e preziose: basti pensare che, nel 1846, raggiunse i territori
dell’Ovest il primo carico del valore di un milione di dollari. Santa Fe
divenne di conseguenza il cuore pulsante della vita e dei divertimenti della
regione: il gioco d’azzardo, la prostituzione e i fandangos, le danze spagnole
che attiravano un folto pubblico e si prolungavano per tutta la notte.
A quel punto, il Santa Fe Trail e il Camino Real legarono il proprio nome
alle mire espansionistiche nazionali di un destino più cercato che manifesto
(→ Destino manifesto), trasformandosi in strade maestre, metaforiche e
letterali, della guerra contro il Messico. Dopo aver tentato invano di
acquistare il New Mexico e la California, il presidente James K. Polk ordinò
la spedizione dei 27mila uomini dell’Armata dell’Ovest, capitanata dal
generale Stephen W. Kearny, che conquistò Santa Fe senza sparare un sol
colpo. Con la vittoria statunitense e lo spostamento del confine statunitense
verso sud fino al Rio Grande, sancito dal Trattato di Guadalupe Hidalgo, il
Santa Fe Trail diede un contributo decisivo alla colonizzazione e allo
sviluppo di quelle zone – passando il testimone solo negli anni ottanta
dell’Ottocento alla ferrovia (→ Promontory Point), che, collegando Chicago
a El Paso, mise fine alle epiche traversate in carovana [cfr. David Dary, The
Santa Fe Trail. Its History, Legends and Lore, Alfred A. Knopf, New York 2000].
La Pista dei mormoni. È difficile localizzare l’inizio della Pista dei
mormoni. Un buon punto di partenza potrebbe essere Palmyra (New York),
dove nel 1819 il quattordicenne Joseph Smith ebbe la sua visione iniziale (→
Quakers, Shakers e Mormons). La pubblicazione del Book of Mormon nel 1830,
insieme alle abilità oratorie di Smith, all’accento sulla seconda venuta di
Cristo e alle sue performance da pieno revivalismo, attirò nel giro di un
anno sia centinaia di fedeli sia le ire delle gerarchie ecclesiastiche, che
bollarono come blasfemo il presunto profeta. Smith decise allora di
allontanarsi da New York e condusse i suoi adepti a Kirkland, in Ohio, dove
fu eretto il loro primo tempio. Di qui, il gruppo venne però cacciato sette
anni dopo, per motivi religiosi (l’autoproclamarsi «unico popolo eletto»
non aiutava certo a riscuotere simpatie), ma anche economici (una
bancarotta dovuta all’inettitudine di Smith nel campo degli affari). Alla
ricerca di una Nuova Gerusalemme in cui fondare il proprio regno, il gruppo
si diresse così verso l’Illinois, attraversando il Mississippi (→ Vie d’acqua) e
fermandosi nella cittadina semiabbandonata di Commerce, che subito Smith
ribattezzò Nauvoo (che, secondo il profeta, in ebraico significherebbe
«bellissimo luogo»). Nel giro di qualche anno, con i suoi ventimila abitanti e
uno splendido tempio in cima alla collina, Nauvoo divenne la seconda città
per grandezza dello stato dopo Chicago. Ma altri dissidi scoppiarono e a essi
si aggiunse l’astio dei «gentili»: il governatore dell’Illinois ordinò l’arresto
di Smith, che fu rinchiuso nel carcere di Cartagine il 24 giugno 1844. Tre
giorni dopo, una folla inferocita lo prelevò dal carcere e lo linciò. A
prenderne il posto fu Brigham Young, quarantatreenne ex contadino del
Vermont, che da subito si diede da fare per condurre il suo popolo ancora
più a ovest: indeciso fra Texas, California, Oregon e British Columbia, a far
propendere Young per lo Utah furono i resoconti di viaggio dell’esploratore
John Charles Frémont, che indicava la valle del Gran Lago Salato come luogo
ideale per un insediamento. I circa cinquecento carri, organizzati in
scaglioni e sotto la supervisione di capitani e luogotenenti, erano preceduti
da piccoli gruppi incaricati di facilitare la traversata e preparare
accampamenti lungo un percorso che si snodava seguendo sentieri animali,
piste native e corsi di fiumi. Nonostante polmoniti, temperature glaciali,
incendi della prateria, serpenti e ragni velenosi, e il fatto che il gruppo era
composto in buona parte da donne, bambini, anziani e invalidi, la
spedizione raggiunse Salt Lake City il 24 luglio del 1847, con perdite
contenute. Per nulla impressionati dalla bellezza del luogo («Abbiamo
viaggiato 1500 miglia per arrivare qui, ma sono disposta a farne altre mille
per arrivare in un posto che abbia un aspetto più abitabile», fu il commento
di un’adepta), non furono pochi i migranti che proposero di arrivare fino
alla California. Ma nulla poté contro la volontà divina (nell’interpretazione
di Young), e il regno di Zion vide la luce nel punto in cui Frémont aveva
immaginato un insediamento. Senza volerlo, i mormoni aprirono una pista
che, correndo per lunghi tratti parallela all’Oregon Trail (→ Esplorazioni),
fu poi seguita da un terzo dei migranti diretti a ovest dopo la metà
dell’Ottocento: oltre ai circa 70mila seguaci di Young, essa fu utilizzata dai
cercatori d’oro, dai Pony Express (→), dall’Overland Stage (→ Stagecoach),
per venire infine dimenticata nel 1869, quando a Promontory Point (→), a
sole settanta miglia a nord da Salt Lake City, fu completata la linea
transcontinentale [cfr. Wallace Stagner, The Gathering of Zion: The Story of the
Mormon Trail, McGraw-Hill, New York 1964].
The California Trail. «Corri il più possibile e non prendere scorciatoie», è il
consiglio che Virginia Reed dava per il viaggio verso la California, ultima
tappa di un esodo che a metà Ottocento vide avventurarsi, su piste e sentieri
fino allora battuti solo da esploratori e cacciatori di pelli, migliaia di
migranti attratti dalla promessa di fertili terreni e dal sogno dell’oro (→
Oro!). Il gruppo iniziale, composto da trentacinque abitanti del Missouri,
lasciò il Midwest nel 1841 con nozioni geografiche a dir poco scarse: come
ammise il maestro elementare John Bidwell, «la nostra ignoranza era
completa: sapevamo che la California stava a ovest, ma a questo si
limitavano le nostre conoscenze». Per loro fortuna, i migranti incontrarono
il cacciatore di origini irlandesi Thomas Fitzpatrick che, incaricato di
scortare un drappello di Gesuiti fino all’Oregon, fece loro da guida per le
1200 miglia lungo le quali il California Trail e l’Oregon Trail correvano
paralleli, fino alla biforcazione del South Pass, sulle Montagne Rocciose. Da
qui in avanti, il percorso dei migranti si fece parecchio accidentato:
costretti ad abbandonare i carri e a macellare via via buoi e asini per
sopravvivere, raggiunsero a piedi la San Joaquin Valley, l’avamposto
californiano, dopo sette mesi e duemila miglia di viaggio.
Sebbene, negli anni quaranta, ad attrarre i migranti fosse più l’Oregon
che la California (anche per il fatto che, mentre la contesa con l’Inghilterra
per il possesso del primo stato sembrava volgere in favore degli Stati Uniti,
sulla sorte della California, all’epoca controllata dal Messico, vi erano meno
certezze), già nel 1844 una seconda spedizione, conosciuta come lo Steven’s
Party, riuscì a compiere la traversata fino in California con carri e bestiame,
senza perdite di vite umane. La notizia dell’impresa spinse in molti a
tentare la sorte: organizzati in gruppi di almeno dieci o dodici carovane (→
Conestoga e prairie schooner), partivano dalle cittadine di Independence o
St. Joseph, in Missouri, generalmente muniti del bestseller di Lansford W.
Hastings The Emigrants Guide to Oregon and California (→ Guide per
emigranti), che presentava la traversata come una sorta di Grand Tour
domestico, minimizzando i frequenti attacchi di indiani, le asperità del
percorso, il clima rigido dell’inverno sulle montagne e quello torrido dei
deserti. A farne le spese furono, tra gli altri, i membri del Donner Party, che
comprendeva anche la succitata Virginia Reed: novantuno fra uomini e
donne, con venti carri, che decisero di avventurarsi lungo una scorciatoia
suggerita nel manuale di Hastings. Per risparmiare 200 miglia, cercarono di
attraversare le fitte foreste della Wasach Range (Utah) e poi il deserto di
Salt Lake. Il gruppo perse carri e buoi e rimase bloccato dalla neve sulla
Sierra Nevada; ci furono episodi di violenza e allontanamenti di membri
indisciplinati; e, dopo settimane di stenti, alcuni si ridussero a mangiare i
cadaveri di chi era perito per il freddo e la fame. Quando, nel febbraio 1847,
furono soccorsi da una pattuglia (guidata da uno dei membri allontanati in
precedenza), solo quarantanove erano sopravvissuti (a ricordare la tragedia,
vi sono ora il Donner State Memorial Park e l’Emigrant Trail Museum,
aperti nella zona della Sierra Nevada dove il gruppo trascorse l’inverno).
La cupa fama del California Trail dopo la vicenda del Donner Party svanì
presto quando, l’anno successivo, fu trovato l’oro nel letto dell’American
River (→ Oro!). Nonostante le cautele del primo scopritore, la notizia si
diffuse con tale rapidità che nel 1849 ben ottocento navi lasciarono il porto
di New York dirette a San Francisco: nel giro di un paio d’anni, più di
100mila cercatori d’oro si misero in marcia lungo il California Trail con il
sogno del metallo prezioso, in carovane che si stendevano per miglia e
miglia. Leggenda vuole che, per ogni persona che aveva imboccato il
California Trail nel 1848, cinquanta si mettessero in viaggio nel 1849. Per
avere una vaga idea di che cosa fu quell’esperienza, bisogna fermarsi al
Marshall Gold Discovery State Historical Park di Coloma, che ricorda la
scoperta dell’oro, e al Sutter’s Fort State Historic Park di Sacramento, al
termine del California Trail, che offre interssanti diorami sulla vita della
città a metà Ottocento [cfr. George Rippey Stewart, The California Trail. An
Epic with Many Heroes, McGraw-Hill, New York 1962].
M.M. – C. SCHIA.
Plymouth Rock
La storia di Plymouth Rock comincia nel novembre 1620, quando una nave
con un centinaio di uomini (tra cui 65 puritani inglesi) vaga alla deriva
nell’attuale Baia del Massachusetts, nei pressi di Cape Cod. I «pellegrini»
inglesi partiti da Southampton (ma già autoesiliatisi in Olanda → Covenant)
hanno ottenuto una «patente» dalla Virginia Company per fondare una
colonia sulle sponde dell’Hudson River: in balia delle tempeste atlantiche, la
Mayflower approda invece in questa rada ribattezzata Plymouth, un sito
isolato dove i «First Comers» si devono presto convincere che, nonostante
la rigidità dell’inverno (durante il quale ne moriranno più della metà),
nessuno interferirà nel loro disegno religioso (→ Città sulla collina).
Nelle pagine del diario di William Bradford, Of Plymouth Plantation (1620-
1647), l’arrivo dei dissenzienti che fonderanno la Plymouth Colony è così
descritto: «Lunedì sondarono il porto, giudicandolo adatto per ormeggiarvi,
e marciarono all’interno, trovando diversi campi di granturco e piccoli
torrenti. Un luogo (così dovettero presumere) adatto alla situazione». Quel
granturco è stato coltivato dai wampanoag, una tribù di indiani d’America
guidata dal sachem (→) Massasoit, che, sebbene i pellegrini gli abbiano
rubato le reti da pesca e razziato le riserve di mais, li accoglierà mettendo a
disposizione il proprio cibo (→ Ringraziamento). Nel 1970, in occasione del
trecentocinquantesimo anniversario, quegli stessi nativi organizzeranno il
«National Day of Mourning», una giornata di protesta e di ricordo del
genocidio indiano (→ Guerre indiane; → Ombre rosse) che, a dispetto della
retorica di Thanksgiving, affonda le sue radici in quell’inverno lontano.
Quanto alla roccia («rock») su cui sarebbero sbarcati i pellegrini – e che è
oggi custodita in una sorta di santuario locale per turisti –, l’assenza di
riferimenti nelle testimonianze seicentesche (lo stesso Bradford non la
menziona) ne ha messo in dubbio l’autenticità storica. Il primo riferimento
a «Plymouth Rock» arriva soltanto nel 1775, nel diario del Capitano William
Coit, e sarà durante la Rivoluzione americana (→) che quel monumento
entrerà per la prima volta nella letteratura, citata nei sermoni di politici
vestiti da predicatori (→ Geremiade), intenti a promuovere la causa
patriottica associandola alla missione dei Padri Pellegrini. La roccia
diventerà poi il simbolo a cui si rifarà il Partito federalista, espressione
dell’intransigente New England, per arginare, senza successo, l’ascesa dei
repubblicani di Thomas Jefferson. Nel 1820, con il bicentenario, sarà una
celebre orazione di Daniel Webster a riportare, per poco, Plymouth Rock e il
New England al centro dell’attenzione nazionale. Ma sempre più, nei
decenni a venire, Plymouth Rock sarà associata all’isolamento culturale e
conservatore di quella regione antica dal resto di un paese proiettato verso
la modernità della Frontiera (→): così, il discorso del tricentenario toccherà
a Henry Cabot Lodge, allievo di Henry Adams e ultimo «bramino»
neoinglese. Superata dalla Statua della Libertà (→ Liberty Bells) quale
simbolo di democrazia e uguaglianza – a differenza dei piroscafi di Ellis
Island (→ Isole) è difficile pensare alla Mayflower come a un emblema di
inclusività – Plymouth Rock è un monumento nazionale ormai morto (come
scrive John Seelye, l’ultimo politico con ambizioni presidenziali che si è
rifatto alla sua simbologia è stato Calvin Coolidge, negli anni venti del
Novecento).
A parte dunque il disappunto dei turisti al cospetto di un oggetto di
venerazione dalle dimensioni alquanto modeste, della roccia vale forse la
pena di ricordare l’uso che il solito Mark Twain propone di fare in un
discorso del 22 dicembre 1881, tenuto di fronte ai membri della New
England Society di Philadelphia: «Ascoltatemi, vi supplico: organizzate
un’asta e vendete Plymouth Rock!».

BIBLIOGRAFIA
Mario Corona, Davide Del Bello, I puritani d’America, Aracne, Roma 2009.
John D. Seelye, Memory’s Nation. The Place of Plymouth Rock, University of
North Carolina Press, Chapel Hill 1998.
C. SCAR.

Pony Express
Al galoppo attraverso solitarie praterie e fra ripidi canyon, lungo piste
pericolose da una «stazione» all’altra, in dieci giorni da St. Joseph
(Missouri) a Sacramento (California) e viceversa, lungo l’Oregon Trail, il
California Trail e il Mormon Trail (→ Piste e sentieri), per consegnare la
posta – un’altra delle icone del West. Fondato da William Russell, Alexander
Majors e William Waddell (che invano sperarono in un incarico
governativo), il Pony Express in realtà durò poco: soltanto dall’aprile 1860
all’ottobre 1861; poi, l’inaugurazione della linea telegrafica
intercontinentale e lo scoppio della Guerra civile (→), oltre a tariffe non
indifferenti, s’incaricarono di chiuderne l’esperienza. Nel frattempo, però, i
piccoli e resistenti cavalli (non ponies nel vero senso della parola, ma pinto e
mustang), i giovanissimi e magrissimi cavalieri (un’ottantina, tenuti a un
giuramento severissimo quanto a stile di vita e dotati, almeno agli inizi, di
una pistola e di una Bibbia: con il tempo rimase solo la prima; d’altronde, gli
avvisi pubblicitari per l’ingaggio specificavano in maniera eloquente: «sono
preferiti gli orfani»), la sella leggera e pratica, la mochila in cui tenere la
posta (una specie di soprasella con due grosse tasche per lato), le
centottanta stazioni di cambio e rifornimento con i loro 400 impiegati, la
media di 15 miglia all’ora per cavallo fino a un massimo di 25, le 75 miglia al
giorno per cavaliere, il mitico rider di origine inglese Robert «Pony Bob»
Haslam, gli attacchi da parte di bande di indiani paiute in Nevada nel
maggio 1860, diventarono (è proprio il caso di dirlo) «armi e bagagli» del
mito della «rude vita» sulla frontiera, ispirando anche autori western del
Novecento (come Elmore Leonard).
Due «incroci» interessanti: la sede della compagnia a St. Joseph si
trovava nella Patee House, un albergo sito a un solo isolato dalla casa di
Jesse James, in cui il famoso fuorilegge (→ Wanted!-I) verrà ucciso nel 1882;
e uno dei cavalieri fu, per qualche tempo (ma non tutti concordano),
William Cody detto Buffalo Bill (→ Olimpo americano), che poi inserì una
«scena di Pony Express» nel suo spettacolo Wild West Show (→). Ma si sa:
Buffalo Bill è per gli Stati Uniti un po’ come Garibaldi per l’Italia – difficile
trovare un angolo della geografia e storia nazionali che non l’abbiano visto
presente, se non protagonista.

BIBLIOGRAFIA
Raymond e Mary Settle, Story of the Pony Express, W. Foulsham & Co. Ltd,
Harrow 1976.
Louis S. Warren, Buffalo Bill’s America. William Cody and the Wild West Show,
Alfred A. Knopf, New York 2005.
M.M.

Popcorn
Se diamo credito alla storia ufficiale, gli indiani introdussero i puritani ai
piaceri del popcorn già nel primo Thanksgiving (→ Ringraziamento)
festeggiato nel Nuovo mondo, a Plymouth, nel 1621 – anche se lo snack
doveva essere piuttosto sciapo, privo com’era di burro e di sale. Il granturco
costituiva in origine circa l’80% della dieta dei nativi, che lo sapevano
preparare, dicono gli esploratori dell’epoca, in quattordici modi diversi:
uno dei quali era cuocerlo su una superficie rovente e aspettare che
esplodesse. I coloni parvero apprezzare molto la novità e introdussero
presto il popcorn nelle loro abitudini alimentari: già Benjamin Franklin e
Henry David Thoreau lo citano nei loro scritti e Susan Fenimore Cooper
(figlia di James) riporta che interi acri di «popping corn» erano coltivati
negli anni cinquanta dell’Ottocento intorno ai grandi centri abitati del
Nord. Ricette su come cucinare i popcorn iniziarono a essere incluse nei
manuali di cucina fin dal 1853, specialmente nella sezione dedicata ai dolci
(caramellati o dentro alle torte), ma anche nel pudding, come cereali per la
prima colazione, in zuppe, insalate o antipasti.
Fu dopo la Guerra civile (→) che lo snack uscì dai confini del New
England e conquistò una dimensione nazionale. Alla fiera di Philadelphia
del 1876 per il centenario dell’indipendenza (→ Esposizioni universali), il
popcorn fu uno dei protagonisti indiscussi: l’unico venditore, I.L. Baker, che
aveva pagato la bellezza di 8000 dollari per avere l’esclusiva, dava
dimostrazione pratica della lavorazione dei chicchi in una Machinery Hall
sempre traboccante di visitatori.
Nonostante il grande interesse manifestato dagli adulti, furono
soprattutto i bambini i consumatori principali di un cibo che le prime ditte
produttrici (tra cui la Chester F. Wickwire di Cortland, New York, che aprì i
battenti negli anni settanta dell’Ottocento) pubblicizzavano come sano e
nutriente. Per i più piccoli, il popcorn divenne l’attrattiva principale dei
momenti di svago, al circo, alle fiere e al campeggio (→ Marshmallows).
Economico e popolare, il popcorn si legò sempre più a ricorrenze come
Halloween, il Ringraziamento, la Pasqua e il Natale, durante il quale, dalla
metà del XIX secolo in poi, ebbe un ruolo di primo piano sulla tavola – e,
come notava il serioso intelletuale ottocentesco Ralph Waldo Emerson,
costituiva anche un ottimo espediente per tener buoni i fanciulli troppo
esuberanti durante le stressanti vacanze invernali. Ad altre longitudini e in
regioni meno popolate, cuocere popcorn era un rituale vero e proprio,
occasione d’incontro e di socializzazione – come racconta Willa Cather in La
mia Antonia (1918) parlando della dura vita nelle pianure del Nebraska.
Snack da mangiare, certo: ma anche ornamento usato per gustosi festoni
da appendere agli alberi; e addirittura per sculture, molto popolari all’inizio
del XX secolo. Tanto che, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra nel 1917,
Alice Bradley, cuoca e editor del Woman’s Home Companion, esortò le sue
lettrici a creare sculture di popcorn a forma di cannoni e soldati. In tempi di
pace, gli sforzi creativi s’indirizzavano invece verso la rappresentazione di
bambini, cesti, animali e alberi – con un revival che, negli anni settanta del
Novecento, contemplò anche la creazione di cuori di San Valentino e
pupazzi di neve. Indubbiamente croccanti, ma anche molto kitsch. E che
dire dei popcorn parties, in auge per tutto il XX secolo, in cui i bambini, oltre a
cuocere i popcorn, erano anche spronati a giochi come «colpisci la faccia»
(lanciare popcorn nella bocca di una maschera), o alla (assai pericolosa)
gara di corsa senza far cadere i popcorn appoggiati sulla lama di un coltello?
La svolta arrivò soprattutto con la nascita del cinema, che stanò il
popcorn dalla sfera domestica e lo riportò alla dimensione pubblica
dell’intrattenimento popolare. Persino negli anni della Grande depressione
(→) un sacchetto di popcorn da 5 o 10 centesimi era un lusso abbordabile in
aggiunta al biglietto del cinema e, per i venditori di popcorn, un profitto
sicuro: si narra di un banchiere dell’Oklahoma che, finito in bancarotta
durante gli anni trenta, fu in grado di ricomprarsi le proprietà perse grazie
a un piccolo negozio di popcorn aperto nei pressi di un teatro.
Con l’incremento del giro d’affari, scegliere quale popcorn vendere
diventò sempre meno una questione di gusto personale e sempre più una
conseguenza di logiche economiche: a lungo ai margini del grande
consumo, il popcorn giallo, più caro rispetto a quello bianco, si impose
prepotentemente sul mercato negli anni trenta grazie al caratteristico
colore di burro (che lo faceva apparire più fresco e condito rispetto alla
varietà bianca) e alla maggiore espansione dei chicchi, in grado di far
lievitare notevolmente anche il profitto. Anche la radio (→) aiutò la scalata
al successo del popcorn, con programmi di cucina che ne esaltavano la
facilità di preparazione (grazie alle nuove apposite pentole), case
produttrici che sponsorizzavano i programmi (come la American Pop Corn
Company, che negli anni trenta finanziava il Jolly Time Pop Corn Revue, con la
Pop Corn Colonel’s Orchestra diretta dal generale Jolly Time), oppure
ancora attraverso la pubblicità (quelle dei popcorn furono fra le prime ad
avere un jingle).
A differenza della radio, l’avvento della tv fu all’inizio un duro colpo
anche per i venditori di popcorn, che, agli inizi degli anni cinquanta, videro
le vendite calare in modo drammatico, in conseguenza del minor afflusso
degli spettatori nelle sale di proiezione. Riunitisi nel 1952, i produttori
decisero di muovere al contrattacco: lanciarono una campagna da 4 milioni
di dollari proponendo il popcorn, condito con un po’ di sale, come elemento
indispensabile del rituale serale davanti alla televisione insieme alla Coca-
Cola (→) – in accordo, ideologico e finanziario, con la Coca-Cola e la Morton
Salt, che contribuirono a finanziare il battage pubblicitario. Il risultato fu
sbalorditivo: in poco tempo, il 4% dei proprietari di un televisore dichiarava
un consumo quotidiano di popcorn; il 10% di questi dalle cinque alle sei
volte a settimana, e il 63% per tre o quattro volte a settimana. La produzione
quadruplicò dal 1947 al 1965. Ad aiutare tale crescita contribuirono senza
dubbio la diffusione del prodotto già confezionato, la sua facile
preparazione con il microonde e, dagli anni ottanta in poi, una nuova
immagine glamour, che rendeva il popcorn (e le ricette a base di popcorn)
un autentico must per chi voleva essere alla moda. L’avete mai provato con
il gelato, come consigliava The Good Housekeeping già nel lontano 1905? o
nell’omelette? o nello spezzatino? oppure come condimento delle tartine?
E pensare che c’era chi, negli anni cinquanta, l’aveva usato come
materiale di imballaggio per le proprie lampade! Ma la Food and Drug
Administration bloccò la trovata della ditta sul nascere: i bambini erano
sempre molto ansiosi di tenersi la scatola e ancor più l’imballaggio.

BIBLIOGRAFIA
Andrew F. Smith, Popped Culture. A Social History of Popcorn in America,
Smithsonian Institution, Washington 2001.
C. SCHIA.

Porch
Difficile, pensando a cinema, televisione, pittura e letteratura, non
conservare almeno un fotogramma, un quadro, una pagina che ritragga il
porch – meglio ancora il front porch: la loggia coperta ma non murata che dà
sulla facciata anteriore della casa americana. Scena 1: dalla zanzariera
aperta esce una donna che porta una caraffa di tè ghiacciato al suo ospite,
tavolino di vimini, altalena, sedia a dondolo, il sole ancora alto, alcuni
convenevoli, molti non-detti; scena 2: appoggiati a una balaustra, due
giovani innamorati si corteggiano, è una sera d’estate, «Summer Evening»,
come nel quadro del 1947 di Edward Hopper; scena 3: due anziani signori,
uno in panciotto bianco, l’altro in camicia e bretelle, scambiano battute
smozzicate, con un sigaro in bocca, tra ghigni sarcastici e colpi di tosse;
scena 4: due neri, chitarra e armonica a portata di mano, intessono
conversazioni e musica sulla gente che passa per strada; scena 5: intenta a
leggere un libro o a ricamare o a prendere un po’ di fresco, una donna sola,
zitella o vedova, si concede due chiacchiere con un passante; scena 6: un
vecchietto su una sedia a dondolo intaglia un pezzo di legno con un
temperino in un classico mezzogiorno di fuoco da western: scena 7…
Quello del porch è un luogo di passaggio, una soglia tra ciò che sta dentro
e ciò che sta fuori dall’abitazione, la famiglia e la comunità locale.
Considerata uno dei tratti architettonici più distintivi del paesaggio
statunitense, la veranda asseconda una vicenda che, pur dovendo fare i
conti con fenomeni sociologici ed economici quali l’avvento dell’auto e la
nascita dei suburbs (→), rimane una costante strutturale e antropologica del
Sud.
Il porch – dal latino «porticus» – è un elemento non autoctono, arriva
dall’Europa (dall’Italia, per essere precisi, ennesima diramazione di matrice
palladiana), tant’è che sulle prime, vale a dire fino a metà Ottocento, la
parola è intercambiabile con «veranda», «piazza», «loggia» e designa,
appunto, diverse tipologie di porticati adiacenti o attaccati alle case. È solo
a partire dagli anni quaranta e cinquanta del XIX secolo che il porch, subìto
un processo di ibridazione tra le due sponde atlantiche (non solo del
Vecchio e del Nuovo mondo, ma anche delle regioni occidentali dell’Africa),
assume caratteristiche «moderne», diventando un’istituzione americana,
come attestano le descrizioni dell’influente architetto paesaggista Andrew
Jackson Downing che, nel 1857, ne sottolinea la funzione di vestibolo,
definendolo «preparazione e riparo effettivo all’entrata della casa».
Almeno fino agli anni trenta del Novecento, il front porch delle abitazioni
di campagna – perché di rado gli edifici cittadini possono permetterselo,
deputando a quella finalità urbanistica e sociale gli stoops (→ Architetture) –
rappresenta una proiezione ideale del nucleo domestico, essendo, in
sostanza, un soggiorno all’aperto, dove, verso sera, la famiglia si può
riposare alla fine di una lunga giornata. Ma oltre a costituire uno spazio
casalingo in cui si raccontano storie, si danno consigli, si cantano canzoni, il
porch si profila anche come una zona liminare tra il pubblico e il privato
che, facendo da cerniera tra quelle due sfere, alimenta un senso di
contiguità e di appartenenza a un vicinato. Per ragioni anche
meteorologiche – arduo utilizzare il porch per più di un paio di mesi all’anno
nei freddi Montana e Minnesota – è nel Sud del paese, dove la presenza
degli afroamericani è da sempre preponderante, che la veranda si
caratterizza quale teatro di storia orale e di memoria. Nella comunità nera
ritratta dalla scrittrice e antropologa Zora Neale Hurston nel romanzo I loro
occhi guardavano Dio (1937), la veranda diventa lo spazio in cui gli abitanti di
Eatonville raccontano quello che vedono succedere per strada e chi ascolta
partecipa alla storia tanto quanto chi la racconta. Per gli afroamericani del
Sud, almeno fino agli anni sessanta del secolo scorso, il porch ha anche un
significato politico: i discorsi che vi si intrattengono sono un modo per
mostrare non solo le parole ma anche i corpi, altrove invisibili e segregati.
Dai dialoghi della veranda della Hurston si sprigiona il cosiddetto mule talk,
lo storytelling maschile e misogino in cui i «muli» di cui spesso si discorre
rimandano alla condizione sottomessa delle donne afroamericane. La
veranda ricopre poi un ruolo di spazio-tempo attorno al quale si dipanano –
e più spesso scaturiscono – le narrazioni di altri scrittori del Sud,
soprattutto opere firmate da penne femminili quali Eudora Welty, Carson
McCullers e Flannery O’Connor.
È proprio lì, negli stati del Sud, che il porch rimane una presenza longeva
e sopravvive al declino cui è destinato nel resto del paese. La graduale
scomparsa della veranda dalle abitazioni americane comincia infatti già
negli anni trenta e paga tanto le ristrettezze economiche della Grande
depressione (→) e il conseguente risparmio sui costi di costruzione, quanto
la moda per le forme curvilinee tipiche del funzionalismo streamline che
domina il design. Il front porch si ritira così al lato della casa e, in seguito,
dietro, diventando back porch. Con l’accresciuta diffusione del telefono e
delle automobili anche tra le classi meno abbienti, il front porch perde il
ruolo di connettore sociale. L’invasione delle auto lungo le strade
americane spoglia inoltre la veranda della mansione di intermediario con la
natura: i gas di scarico sputati dalle macchine e dai camion e il rumore dei
loro motori la rendono inospitale e insalubre. Per questi e altri motivi, tra
cui le preoccupazioni minimaliste di costruttori come i Levitt (→ Suburbs),
nel secondo dopoguerra le abitazioni dei suburbs eliminano la veranda tout
court. Negli stessi anni, la nuova popolarità della televisione (con il
corollario della tv room all’interno delle dimore middle class) assumerà poi la
veste socializzatrice del porch: intrattenimento e comunicazione si danno al
di qua delle mura domestiche, senza il bisogno di negoziarli con vicini mal
sopportati. Il boom dell’aria condizionata – sul finire degli anni cinquanta –
farà il resto, andando a ovviare, nelle regioni più calde del paese, alla
necessità di refrigerio dalla canicola dei mesi estivi.
Solo a partire dagli anni ottanta del Novecento si registra un ritorno alla
veranda nell’architettura americana, forse alla riconquista di una socialità
meno vicaria e solipsistica, o alla riscoperta di un’identità nazionale
plasmata dall’incontro di performance a più voci, o, ancora, alla magia mai
sopita di un luogo in cui gli occhi e la bocca si uniscono in un gesto che è
tutto immanente eppure guarda altrove – ovvero, come nel romanzo della
Hurston, «the porch couldn’t talk for looking», «la veranda non apriva
bocca e spalancava gli occhi».

BIBLIOGRAFIA
Bath L. Bailey, From Front Porch to Back Seat: Courtship in Twentieth-Century
America, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1988.
Alessandro Portelli, Il testo e la voce. Oralità, letteratura e democrazia in America,
Manifestolibri, Roma 1992.
C. SCAR.
Porkopolis
Ne uccide più la gola che la spada. In un articolo del 2010, Eric Schlosser
ricorda che, negli Stati Uniti, il numero dei morti ogni anno per infezioni
scatenate da patogeni alimentari si avvicina a quello dei soldati americani
uccisi in Iraq e Afghanistan tra il 2003 e lo stesso anno. Con dati di questa
portata, non sorprende il numero di opere di storici, giornalisti e registi
che, all’inizio di questo nuovo millennio, denunciano le storture ambientali,
igieniche e sanitarie dell’industria della carne americana: Fast Food Nation
(2001) di Eric Schlosser; What’s the Matter with Kansas? (2004) di Robert
Frank; Il dilemma dell’onnivoro (2006) e In Defense of Food (2008) di Michael
Pollan; una schiera di film documentario tra cui Supersize Me (2004, Morgan
Spurlock), King Corn (2007, Ian Cheney, Curtis Ellis) e Food Inc. (2009, Robert
Kenner). Pressante è anche l’attenzione mediatica di quotidiani, riviste e
network televisivi volti a raccontare gli episodi d’intossicazione alimentare
da Escherichia Coli e salmonella che colpiscono ogni giorno circa 200mila
americani. Se questi problemi sono il portato di pratiche di allevamento e
macellazione dettate da un gruppo di giganti alimentari e avallate da
politiche governative messe sotto scacco dal potere delle lobbies (→ Lobby e
caucus), per cogliere meglio le radici storiche di quei cortocircuiti bisogna
risalire all’Ottocento.
Prima della Guerra civile (→), l’industria della carne – nello specifico,
della lavorazione del maiale – è concentrata a Cincinnati, città bagnata
dall’Ohio River che, sul finire del 1840, conta più di quaranta macelli. Già nel
1835, il centro dell’Ohio si guadagna così l’appellativo di Porkopolis – che
sarà poi anche di Chicago (→ White City) –, mettendo a punto nei decenni
successivi la tecnica della disassembly line (la «catena di smontaggio»), in cui
gli operai eseguono le medesime operazioni di taglio e scuoiatura
all’infinito (Henry Ford si ispirerà verosimilmente a questa organizzazione
del lavoro per la sua assembly line, la «catena di montaggio» → Model T).
Negli ultimi decenni del secolo, il primato di Cincinnati passa a Chicago che,
situata alla confluenza di un lago (il Michigan) e di un fiume (il Chicago
River), diventa snodo, dal 1848, delle reti di canali navigabili e strade ferrate
indispensabili per alimentarne l’espansione commerciale. Centro del
Midwest, Chicago farà così da punto di raccordo tra la produzione delle
praterie (Ovest e Midwest) e i mercati delle grandi città orientali. In virtù
del successo di questa metropoli sorta su una palude, l’industria della carne
cambierà pelle: da business locale e stagionale si trasformerà in gigante
integrato a livello nazionale e attivo sul mercato tutto l’anno – un gigante
dominato da cinque multinazionali, con a capo Swift & Co. e Armour & Co.
Nell’ascesa di Chicago, un ruolo fondamentale è giocato dall’invenzione
dei treni refrigerati che offrono una soluzione al rapido disfacimento della
carne e permettono l’ulteriore compressione dei tempi dell’industria: li
mette a punto a partire dal 1877, Gustavus Swift, padre del futuro impero,
posizionando carichi di ghiaccio sul tetto dei vagoni. Oltre che sul
perfezionamento della disassembly line, la vera partita commerciale i macelli
di Chicago la giocano – e la vincono – trasformando tagli e pezzi di scarto in
prodotti di mercato quali colla, spazzole, lardo, candele e saponi. A ovest
della Stock Yard and Transit Company (dette anche le «yards», mattatoio
industriale aperto nel 1865 a sud di Chicago, sorgono le fabbriche di Philip
Armour, in cui la carne, oltre a essere macellata nei tagli consueti, è
convertita in usi commerciali ancora più redditizi: da un lato,
l’inscatolamento, dall’altro la produzione di derivati quali l’oleomargarina,
succedaneo del burro, e i già menzionati colla, fertilizzanti, glicerina,
ammoniaca e gelatina. Al motto «We Feed the World», Armour costruisce
dunque, come Swift, un regno su quanto viene buttato via dai macellai al
dettaglio. Altra caratteristica essenziale degli enormi impianti di Chicago è
il reclutamento di manodopera non specializzata e sottopagata: l’azione dei
grandi cartelli manterrà basso il costo del lavoro fino agli anni quaranta del
Novecento (e, nella sostanza, fino a noi). Oltre a dettare i costi del prodotto
grezzo e di quello finito, le cosiddette «big four» (Armour & Co., Swift & Co.,
Nelson Morris, National Packing) impongono infatti condizioni lavorative
capestro che saranno al centro, nel 1886, dello sciopero (→) organizzato dai
Knights of Labor per la giornata di otto ore (e subito disperso in reazione ai
disordini di Haymarket Square [→], e di quello, del 1904, degli Amalgamated
Meat Cutters and Butcher Workmen of North America (affiliati alla
American Federation of Labor) per l’aumento dei salari.
Del degrado delle condizioni lavorative e abitative della cosiddetta
Packingtown (lo slum popolato dalla manodopera immigrata, proveniente
per lo più da Polonia, Slovacchia e Lituania, che trova lavoro nelle Stock
Yards), tratta La giungla (1906) di Upton Sinclair, romanzo di denuncia
scaturito dall’osservazione diretta della vita nel Packinghouse District
(«meat-packing» indica la macellazione e la «confezione» industriale della
carne). La trama di quella che rimane forse l’opera più emblematica della
stagione politica e culturale dei muckrackers (→) si svolge attorno allo
stabilimento della Durham – dissimulazione narrativa della Armour & Co. –
dove lavora Jurgis, immigrato da poco dalla Lituania insieme alla famiglia.
Sinclair dedica la parte iniziale al resoconto minuzioso del processo di
trasformazione della carne: le operazioni di macellazione di capi di
bestiame di seconda e terza scelta sfuggiti non di rado all’abbattimento,
l’adulterazione con agenti chimici dei tagli così ricavati, la triturazione
degli scarti (inclusi topi e insetti) e la loro preparazione in salsicce e in
scatolette («carne imbalsamata» che, scrive l’autore, dev’essere la stessa
rifilata ai soldati americani sul fronte della guerra del 1898, rivelandosi un
flagello più mortale dei proiettili spagnoli → Splendide guerricciole). La
forza sconcertante delle immagini evocate da La giungla circa gli standard
igienico-sanitari dell’industria della carne e le ricadute sulla qualità dei
prodotti alimentari sarà tale da scuotere gli animi della middle class e dello
stesso presidente Theodore Roosevelt, spingendo il Congresso ad approvare
nello stesso 1906 una legge a tutela dei consumatori, il Pure Food and Drug
Act e Meat Inspection Act, e più tardi, negli anni venti, il «Beef Grading
System». Quanto alle condizioni di lavoro – l’altro aspetto su cui si sofferma
lo sguardo di Sinclair riguarda infatti le mutilazioni fisiche e gli incidenti
mortali che hanno luogo nei macelli –, l’opera dei muckrackers sarà invece
meno efficace, o forse meno ascoltata, e la legislazione rimarrà ferma per
decenni, fino alla Grande depressione (→).
Nonostante l’incendio che lo colpisce nel 1910, durante la Prima guerra
mondiale le Union Stock Yards non cessano di essere il centro della
lavorazione della carne nazionale e internazionale, come ricordano i versi
di una poesia di Carl Sandburgh su Chicago «Hog Butcher for the world»
(«macellaio di maiali per il mondo»). Un secondo incendio si abbatterà nelle
Stock Yards nel 1934, ma a quel punto l’industria della carne americana si
sta avviando a una serie di cambiamenti profondi che ne riconfigureranno
gli assetti produttivi e geografici. Dagli anni quaranta, infatti, anche in
seguito al drastico accorciamento dei tempi di pascolo e foraggio del
bestiame a vantaggio dei feedlots (gli stabilimenti in cui i capi vengono messi
all’ingrasso prima di arrivare ai macelli), i grandi complessi di macellazione
si spostano verso ovest, in Kansas, Iowa, Nebraska, Texas e Colorado, dove
sono più vicini alla materia prima e la manodopera è assai meno
sindacalizzata che in metropoli come Chicago, Kansas City e St. Louis. È in
questa fase che subentrano le corporation destinate a dominare il mercato
fino a oggi: ConAgra, Iowa Beef Processors (Ibp), Excel e National Beef. Negli
anni sessanta, Ibp comincia a produrre pacchetti di carne già confezionati
che finiranno nei supermercati, eliminando di fatto i costi dell’addetto alla
macelleria e mettendo in crisi l’intero settore dei commercianti al dettaglio.
Le politiche salariali e i protocolli di sicurezza lavorativa abbracciati da
questi colossi sono tutti all’insegna del risparmio e dell’accelerazione
produttiva e l’ingaggio di manodopera non qualificata avviene nelle aree
rurali del paese, dell’America Latina e dell’Asia. Altra caratteristica
dell’industria della carne americana della seconda metà del Novecento è la
somministrazione al bestiame (tramite mangime) di estrogeni della crescita
(introdotti per la verità già negli anni trenta) e quella, sempre più massiccia,
di antibiotici, con ricadute non trascurabili sulla salute dei consumatori.
Proprio il consumo di carne – soprattutto macinata, ovvero di hamburger
(→) – è esposto in misura crescente al flagello di contaminazioni alimentari,
in gran parte riconducibili agli scarsi livelli di igiene in cui suini, bovini e
ovini vengono allevati nei feedlots. Altrimenti legati a questi ultimi sono poi
i problemi ambientali delle città che li ospitano, funestate dal fetore
miasmatico delle vasche di letame (lagoons) in cui finiscono gli escrementi e
le carcasse morte del bestiame.
Quanto alle storiche Union Stock Yards di Chicago, dopo il declino degli
anni sessanta, sono state chiuse nel decennio successivo, destino comune ad
altri macelli e recinti «storici» come quelli di Kansas City (→ Union
Station). Nel primo scorcio del 2000, scrive Eric Schlosser, di quel luogo
rimane ben poco: una testa di manzo scolpita su un arco e una serie di
rovine. Quasi un sito archeologico. Difficile immaginare che all’amore degli
americani per hamburger, costolette e bistecche abbiano contribuito i
milioni di mucche e di maiali passati sotto quell’arco.

BIBLIOGRAFIA
Marco D’Eramo, Il maiale e il grattacielo. Chicago: una storia del nostro futuro,
Feltrinelli, Milano 1995.
Cinzia Scarpino, US Waste. Rifiuti e sprechi d’America. Una storia dal basso, il
Saggiatore, Milano 2011.
Eric Schlosser, Fast Food Nation. Il lato oscuro del cheeseburger globale, il
Saggiatore, Milano 2008.
C. SCAR.

Posse e vigilantes
Anche questa è un’immagine resa familiare da decine di film western: una
banda di fuorilegge terrorizza la città, lo sceriffo raccoglie un gruppo di
cittadini e distribuisce loro la stella, li arma se già non sono armati – forma
una posse (è quello che cerca invano di fare Gary Cooper nel film del 1952
Mezzogiorno di fuoco, tanto per intenderci). Il termine viene da
un’espressione del diritto consuetudinario britannico o common law,
derivata a sua volta dal latino (posse comitatus), e significa «avere l’autorità
per costituire una scorta armata». La posse è parte integrante della storia
della colonizzazione, una fase in cui molto era fluido e cangiante, compresa
la legge, e in cui le strutture statali centrali o locali erano ancora in
embrione, i confini (geografici e sociali) approssimativi, e gli stessi «uomini
di legge» più volte li varcavano, trovandosene al di qua o al di là.
Un’ambiguità che apriva le porte a numerosi arbitrii, resa in maniera
efficace almeno da due film, in cui non solo compare una posse (poiché
sarebbero tanti), ma è autentica protagonista, al punto di dare il titolo a
entrambi: a quello del 1975, di e con Kirk Douglas (in italiano: I giustizieri del
West), e a quello del 1993, di e con Mario Van Peebles. Nel primo, lo sceriffo
Nightingale (= usignolo, nomen omen!), in corsa per un posto di senatore,
raccoglie un gruppo scelto di cittadini per dare la caccia al rapinatore di
treni Strawhorn e crearsi così una solida base d’appoggio popolare: ma il
suo piano finisce per prendere direzioni inaspettate; nel secondo, ciò che
rimane di un battaglione di soldati afroamericani impegnato nella guerra
contro la Spagna di fine Ottocento (→ Splendide guerricciole), guidato da
Jesse Lee e inseguito da un colonnello fanatico, si dirige verso ovest per
compiere una vendetta – un viaggio all’inferno in un West corrotto e
razzista. Due film che restituiscono la drammatica contraddittorietà di
questo surrogato delle forze dell’ordine (il Posse Comitatus Act del 1878 si
proponeva di regolamentarlo, suscitando polemiche e fraintendimenti che
si trascinano fino a oggi) – un surrogato che, in quella turbolenta seconda
seconda metà dell’Ottocento (ma anche dopo), assume forme diverse e a
volte disturbanti.
Una di queste è appunto il vigilante committee, un gruppo di cittadini
senza alcuna investitura ufficiale che si organizzano per «prendere la legge
nelle proprie mani» (altri nomi, più «istituzionali» saranno Citizens’
Alliances o Civic Alliances). Per esempio, nel maggio 1886, all’indomani dei
«fatti di Haymarket Square» (→), mentre si gonfiava l’isterismo
antioperaio, un giornale di Chicago scrisse: «Un comitato di vigilanza
[vigilante committee] prenderà nelle sue mani l’applicazione della legge e
ristabilirà l’ordine sociale, sospendendo le leggi del mondo civile per tre
giorni». Promossi da stampa o politicanti locali o nati in maniera spontanea
sull’onda del fanatismo, i vigilantes agirono spesso, non solo contro
fuorilegge di ogni origine, ma – con il passare del tempo – in modo
particolare contro gli operai in lotta (→ Bisbee e Butte; → Sciopero!) o in
situazioni che sfociarono in barbari linciaggi (→ Strani frutti) o in autentici
pogrom antimmigrati (cinesi in primis → Chinatown), prima e dopo la Guerra
civile (→). Uno degli episodi più impressionanti si ebbe vicino a Luzerne, in
Pennsylvania, nel settembre 1898, quando i minatori d’antracite della
Lattimer Mine, per lo più polacchi, slovacchi, tedeschi e lituani, scesero in
sciopero: mentre si dirigevano verso le miniere vicine per coinvolgere altri
compagni di lavoro, furono intercettati dallo sceriffo e da più di un
centinaio di uomini (alcuni reclutati come posse, altri accorsi in veste di
vigilantes) che nel giro di pochi minuti aprirono il fuoco, uccidendo
diciannove minatori e ferendone una cinquantina – tutti colpiti alla
schiena.
Nei decenni successivi, posse e vigilantes furono di nuovo protagonisti di
casi analoghi, spesso intrecciando le proprie azioni a quelle del Kkk (→):
l’apice fu raggiunto subito dopo la Prima guerra mondiale (→ Red Scare) e
nel decennio del Proibizionismo (→). Ma non sono scomparsi: le ronde di
cittadini benpensanti (e nerboruti) alla caccia di «criminali» o
autonominatisi «tutori dell’ordine e della moralità pubblica» si sono
moltiplicate (di là e di qua dell’Oceano, va detto), con i nomi più diversi e
ingannevoli e con gli effetti che purtroppo si conoscono; in anni recenti,
poi, le bande del Minuteman Project (volontari armati e inquadrati in
formazioni paramilitari, organizzati nel 2005 da un certo Jim Gilchrist) che
pattugliano le regioni intorno alla frontiera messico-americana, affiancando
la Border Patrol (la migra → Braceros; → Bordertowns), sono stati
protagonisti di soprusi e violenze che, in più d’un caso, hanno suscitato
aspre reazioni da parte della stampa più sensibile e di organismi umanitari.
La storia del Vecchio West sembra continuare. E ancora una volta salgono
alla mente i versi di Woody Guthrie: «Oh, why does a vigilante man, / Why
does a vigilante man / Carry that sawed-off shot-gun in his hand? / Would
he shoot his brother and sister down?»
P.S.: È bene precisare che i 99 Posse non c’entrano: la loro è tutt’altra
storia…

BIBLIOGRAFIA
Nicholas J. Cull, David Carrasco (eds.), Alambrista and the US-Mexico Border:
Film, Music, and Stories of Undocumented Immigrants, University of New
Mexico Press, Albuquerque 2004.
Roger D. McGrath, Gunfighters, Highwaymen & Vigilantes. Violence on the
Frontier, University of California Press, Berkeley 1987.
Norton H. Moses, Lynching and Vigilantism in the United States. An Annotated
Bibliography, Greenwood Press, Westport 1997.
M.M.

Potlatch e Pow Wow


In un libro immeritatamente dimenticato, almeno in Italia (The Return of the
Vanishing American, del 1968), il grande critico letterario e studioso della
cultura statunitense Leslie Fiedler si interrogava sulla persistenza di motivi,
aspetti, episodi, figure, della storia e civiltà Native American, nonostante il
genocidio perpetrato ai danni delle tribù – una sorta di «cattiva coscienza»
(dal lato statunitense) e di ostinata sopravvivenza (da quello nativo). Se
Hollywood, nelle sue varie fasi di interpretazione/rivisitazione del passato
nazionale, è forse l’esempio più evidente e clamoroso, non mancano altri
campi in cui quel «ritorno» continua a manifestarsi – dalla pubblicità alla
moda, dalla narrativa alla canzone ecc. Ma non solo.
Potlatch e Pow Wow sono un esempio della persistenza (o del ritorno) di
alcuni termini linguistico-antropologici, con forti valenze socioculturali. Di
che si tratta? Di due cerimonie centrali all’organizzazione tribale.
Il Potlatch («offrire in dono») era caratteristico delle tribù della costa
pacifica settentrionale e consisteva in una festa, durante la quale un capo
clan o un capo famiglia offrivano doni agli invitati appartenenti ad altri clan
e famiglie. Si trattava dunque di una cerimonia di ridistribuzione di ciò che
si aveva, fondata sulla reciprocità e tipica di una fase della storia umana che
per lo più non conosceva la proprietà privata. I legami interni alla tribù, il
carisma personale e familiare, i rapporti reciproci trovavano un
rafforzamento proprio durante questa cerimonia, che conosceva forme e
rituali diversi, alcuni anche molto complessi (con danze e rappresentazioni
«teatrali»): al centro, non stava la «ricchezza», ma la propensione a
distribuire ciò che si aveva. Non sorprende dunque il fatto che, nel furore
distruttivo nei riguardi di un altro modo di concepire i rapporti umani,
governo e missionari americani operassero, verso la fine dell’Ottocento, per
mettere al bando la cerimonia (al pari di altre, in cui si manifestava la
volontà di sopravvivenza della popolazione nativa, come la «Danza degli
Spettri»): il comma 3 dell’Indian Removal Act rivisto nel 1884 la dichiarava
fuori legge, comminando pene fra i due e i sei mesi per chi venisse colto a
praticarla o ad assistervi – divieto che restò in vigore fino al 1951, quando
ormai aveva perso ogni ragion d’essere, visti i mutamenti sostanziali nel
modo di vivere dei discendenti delle tribù.
Ma, per l’appunto, qualche cosa sopravvisse: oggi, infatti, è ancora
diffusa negli Stati Uniti una modalità di riunirsi laica e informale, detta
«Potluck», alla quale tutti gli invitati contribuiscono portando cibo o altro.
Sebbene l’etimologia del termine risalga a ben vedere all’Inghilterra del
Seicento (da «luck of the pot», «quel che capita in pentola»), sono in molti a
cogliervi una sopravvivenza dell’antico Potlatch, anche perché rituali simili
sono stati riscontrati presso altre popolazioni, soprattutto oceaniche. Con
buona pace di missionari e agenti del governo…
Quanto al Pow Wow («leader spirituale»), si tratta di un termine e di una
cerimonia senza dubbio più conosciuti: il raduno di più tribù (che può
durare fino a due-tre giorni, e in certi casi anche una settimana), strutturato
intorno a diversi momenti rituali, di danza, canti, suono di tamburi, e più in
generale socializzazione, cui partecipano, sulla base di una precisa
organizzazione e di ruoli ben definiti, tutti i membri di una tribù o di più
tribù – uomini e donne, adulti, vecchi e bambini – e che possono anche
implicare la discussione su particolari questioni relative alla vita collettiva.
È quest’ultimo aspetto che più si è depositato nell’immaginario collettivo
moderno, in maniera riduttiva (e fors’anche irritante) rispetto al significato
d’origine: il Pow Wow come riunione decisionale, come brain storming
strategico. E, se il Pow Wow è ormai divenuto (amaro) ingrediente turistico
delle visite alle «riserve indiane», va ricordato che, ancora negli anni
cinquanta del Novecento, autentici pow wows si tenevano in varie parti di
New York, nel Lower East Side (→) e nell’Inwood Hill Park a Manhattan o a
Brooklyn – luoghi d’immigrazione dalle varie parti del mondo, ma anche di
antichi insediamenti Native American: prima che giungessero gli europei.

BIBLIOGRAFIA
Leslie A. Fiedler, The Return of the Vanishing American (1968), Paladin, London
1972.
Daniele Fiorentino, Le tribù devono sparire. La politica di assimilazione degli
indiani negli Stati Uniti d’America, Carocci, Roma 2001.
Jean Pictet, La grande storia degli indiani d’America, Mondadori, Milano 2000.
M.M.

Progetto Manhattan
Avviato nel 1942 dal governo americano, il «Progetto Manhattan» è un
programma di ricerca e sviluppo del nucleare. Già nell’agosto 1939, una
lettera firmata «Albert Einstein» (e scritta per volontà del suo collega Leo
Szilard, fisico di origini ungheresi che ha lavorato con Enrico Fermi),
comunica al presidente Franklin Delano Roosevelt lo stato dell’arte degli
esperimenti nucleari e, nello specifico, della fissione dell’uranio cui si
stavano dedicando Enrico Fermi (1934) e i due chimici tedeschi Hahn e
Strassman (1939). La lettera anticipa inoltre la possibilità che la messa a
punto di una reazione a catena possa portare alla creazione di una bomba
atomica e che la Germania nazista si stia muovendo in questa direzione. Con
l’attacco di Pearl Harbour del dicembre 1941 (→ Hawaii), la necessità di
abbracciare un progetto nucleare si fa urgente e improcrastinabile: nasce
così il «Manhattan Engineer District» (Med), piano militare segreto voluto
da Vannevar Bush, a capo dell’Office of Scientific Research and
Development, e diretto operativamente dal generale Leslie Groves. Mentre
Fermi dimostra la prima reazione nucleare autocontrollata nei laboratori
dell’Università di Chicago, il Med prende forma: come unità speciale
dell’esercito degli Stati Uniti, impiegherà, al suo apice, 150mila persone. Ne
fanno parte il laboratorio di Chicago, quello di Berkeley e, in particolare,
Oak Ridge (Tennessee), Hanford (Washington) e Los Alamos (New Mexico) –
scenario, quest’ultima, della prima esplosione atomica della storia.
La detonazione è eseguita dal team di scienziati e di tecnici del «Progetto
Trinità» alle 5.29 (e 45 secondi) del 16 luglio 1945, un lunedì, ad
Alamogordo, vicino a Jornada del Muerto, nel New Mexico meridionale (→
Pueblos). Si tratta di un sito scelto per il suo isolamento, poco sotto Los
Alamos, la mesa individuata da Robert Oppenheimer, direttore scientifico
dell’intero progetto, per l’assemblaggio dell’atomica. Da quella data in poi,
la crescita del nucleare avverrà sotto l’ombrello militare e la protezione del
segreto di stato.
Lo sviluppo del Progetto Manhattan avviene soprattutto in tre località,
indicate in codice con alcune lettere dell’alfabeto. Il primo sito è, si è detto,
Hanford, in cui viene prodotto plutonio; il secondo Oak Ridge, in cui
vengono separati gli isotopi dell’uranio; il terzo, Los Alamos. Gli impianti
atomici lì ospitati non suscitano alcun tipo di protesta ambientalista; una
coscienza ecologica antinucleare si formerà solo verso la fine degli anni
sessanta (→ Three Mile Island; → Wilderness). Sulla mancanza di dissenso
pubblico giocano un ruolo fondamentale la grande segretezza delle
operazioni nonché l’isolamento geografico di cui godono i tre luoghi: Oak
Ridge, Hanford e Los Alamos sono città fantasma (→), ubicate,
rispettivamente, sulle colline boschive del Clinch River nel Tennessee
orientale, sugli altopiani desertici vicino al Columbia River nello stato di
Washington, e su una mesa desertica del New Mexico (→ Deserti). La
presenza di fango, polvere, dormitori, caserme e alloggi costruiti
nottetempo lungo strade sterrate è un tratto comune. Per un errore di
valutazione che sottostima il numero di persone necessarie alla costruzione
e al funzionamento degli impianti nucleari, queste città-accampamento
saranno colpite da una penuria di case, scuole e strutture sanitarie.
A Oak Ridge, tra il 1941 e il 1945, l’uranio 235 viene separato dal ben più
abbondante uranio 238 creando così uranio arricchito: in codice, «oralloy»
(Oak Ridge Alloy). A Hanford, i reattori nucleari trasformano l’uranio 238 in
plutonio 239, l’isotopo che, rimescolato all’uranio 238, sarà usato nelle
bombe. Dopo aver attraversato l’Atlantico (negli anni quaranta, l’uranio
grezzo viene importato soprattutto dal Congo belga) e il paese intero,
l’uranio e il plutonio così lavorati arrivano alla Los Alamos Ranch School,
una struttura occupata dal progetto, insieme all’ampio territorio che la
circonda. Lì si trovano network telefonici, stazioni radio Fm e un’enorme
torre per «contenere» la bomba.
All’assemblaggio dell’ordigno lavorano, in contemporanea, sia Los
Alamos (sede del «Progetto Y») sia Alamogordo (a sud di Los Alamos e sede
del «Progetto Trinità»), un luogo vicino ai monti della Sierra Oscura, che i
calcoli dei fisici del Med prevedono capaci di attutire l’onda d’urto
dell’esplosione, nonostante la presenza degli abitanti di Carrizozo e dei
duecento apache (→ Ombre rosse) che vivono al di là delle montagne.
Le preoccupazioni circa il fallout radioattivo che seguirà l’esplosione
passano in secondo piano rispetto allo sgancio dell’atomica prima della fine
del conflitto sul fronte del Pacifico. Sabato 14 luglio, con il deserto
puntellato di sensori e di strumenti designati a valutare l’onda d’urto, il
calore e le scorie dell’esplosione, la bomba viene trasportata nella torre.
«Gadget» (→ Enola Gay), il dispositivo nucleare, rilascia una polvere nera
che distrugge tutto ciò su cui si posa. La deflagrazione scioglie la sabbia che
poi ricade sulla superficie desertica sotto forma di lapilli di vetro
soprannominati le «perle di Trinity» o anche «Trinitite». Largo 365 metri e
profondo quasi otto, il cratere sembra quindi rivestito di ceramica verde.
L’urto viene avvertito a 160 chilometri di distanza e il fungo atomico
raggiunge i 12 chilometri di altezza. La nuvola radioattiva si sposta subito
verso nordest, facendo cadere residui della fissione a 160 chilometri di
distanza, depositandosi sui pascoli e nelle comunità circostanti.
Los Alamos è stato aperto ai fotografi e ai giornalisti solo a guerra
conclusa per essere poi trasformato in un museo ai giorni nostri. Il sito della
Hanford Nuclear Reservation, nella parte sudorientale dello stato di
Washington, ha continuato a produrre plutonio per l’arsenale nucleare
statunitense dal 1943 al 1989 (le sperimentazioni sono continuate nel
Nevada Test Site → Flamingo Hotel). Scaricate, già dagli anni cinquanta,
direttamente nel Columbia River, le scorie radioattive hanno trovato
invece, in epoche più recenti, un’altra destinazione, finendo sotterrate in
fusti di materiale tossico che hanno oggi numerose perdite. Anche
l’estrazione dell’uranio, attività scaturita dal Progetto Manhattan e mirata
a garantire l’autosufficienza nucleare in caso di conflitti futuri, avrà
ricadute importanti sull’ambiente americano. Le miniere, che si trovano per
lo più nelle regioni sudoccidentali del paese, genereranno grandi quantità di
scorie radioattive. Le città proliferate intorno all’uranio negli
annicinquanta – le yellowcake towns, dal soprannome popolare dell’ossido
d’uranio 238 (il residuo, di colore giallo, del processo di arricchimento) –
hanno subito una lenta decadenza all’inizio degli anni novanta, diventando
altrettante «città fantasma» (→).
Il capitolo di storia americana che va sotto il nome di «Progetto
Manhattan» rientra nella cosiddetta «era Vannevar Bush», un periodo in
cui si consoliderà quel «complesso militare-industriale» preconizzato dallo
stesso presidente Dwight D. Eisenhower nel suo discorso di addio del 1961
come influenza minacciosa nella vita del paese: «Nei consigli di governo,
dobbiamo vigilare contro l’acquisizione di un’autorità ingiustificata,
cercata o non cercata, da parte del complesso militare-industriale. Il
potenziale per la crescita disastrosa di un potere mal riposto esiste e
continuerà a esistere».

BIBLIOGRAFIA
Lee Davis, Environmental Disasters: A Chronicle of Individual, Industrial, and
Governmental Carelessness, Facts on File, New York 1998.
Cynthia C. Kelly, The Manhattan Project: the Birth of the Atomic Bomb in the
Words of Its Creators, Eyewitnesses, and Historians, Black Dog and Leventhal
Publishers, New York 2007.
Roberto Maiocchi, L’era atomica, Giunti, Firenze 1993.
Stefania Maurizi, Una bomba, dieci storie. Gli scienziati e l’atomica, Bruno
Mondadori, Milano 2004.
C. SCAR.
Proibizionismo
Herbert Hoover (→) non aveva il dono della profezia: durante la campagna
presidenziale del 1928 aveva affermato che l’obiettivo della sua
amministrazione sarebbe stato quello di diffondere la prosperità, con «un
pollo in ogni pentola, due automobili in ogni garage», salvo poi venire
smentito dall’arrivo della Grande depressione (→). Le capacità divinatorie
erano già state messe a dura prova qualche anno prima: alla ratifica del
Volstead Act, la misura che inaugurò ufficialmente il Proibizionismo
(divieto di produzione, vendita e trasporto di alcolici), Hoover, allora
segretario del commercio, commentò che stava iniziando «un grande
esperimento economico e sociale». Come andò a finire è noto: la criminalità
organizzata mise le mani sul redditizio mercato degli alcolici e si trasformò
così in un’istituzione tanto potente da influenzare la politica di grandi città
e dello stesso governo federale.
Il Proibizionismo ha radici molto profonde, che si manifestano già da
prima della Guerra d’indipendenza (→): il governo del Massachusets,
dominato dagli integerrimi puritani, aveva vietato il consumo di liquori nel
1657. Agli alcolici, inoltre, spetta l’onore di essere stato il primo prodotto
americano oggetto di tassazione da parte del governo: l’approvazione del
Whiskey Act nel marzo del 1791, con il quale fu introdotta un’imposta di sei
centesimi per ogni gallone di distillato prodotto, era stata resa necessaria
dall’esigenza di ripianare un debito nazionale che ammontava a circa 80
milioni di dollari, costosa eredità della guerra contro l’Inghilterra. La
misura incontrò una resistenza veemente specie nelle zone occidentali della
Pennsylvania: gli indifesi emissari del fisco, incaricati di riscuotere le
somme dovute, venivano regolarmente malmenati, bagnati nella pece e
infine ricoperti di piume. Ebbe così inizio la «Ribellione del Whiskey»: i suoi
capi giunsero a minacciare la secessione e il ritorno nell’impero britannico
se il governo avesse proseguito nel suo intento. Il presidente George
Washington decise allora di ricorrere alle maniere forti, e nel settembre
1794 radunò un esercito di 12mila uomini per sedare la ribellione,
costringere la popolazione a pagare la tassa e assicurare alla giustizia tutti i
produttori che si rifiutavano di farlo.
La fazione contraria al consumo di alcolici aveva svolto un ruolo
marginale in questo episodio, ma ben presto il movimento per la
temperanza acquistò vigore con la nascita di numerosi gruppi e
associazioni, come l’American Temperance Society, che, fondata nel 1826,
nel giro di un decennio arrivò a contare oltre un milione e mezzo di
membri, molti dei quali donne. Dopo la Guerra civile (→), a consolidare la
causa dei «dry» (gli «asciutti», così venivano definiti coloro che si battevano
per la messa al bando dell’alcol, in contrapposizione ai «wet», i «bagnati»),
intervenne la trasformazione dei saloon (→) in terreno di caccia preferito
dal Partito democratico, i cui esponenti approfittavano della nota
propensione dei recenti immigrati dalla Germania e dall’Irlanda per la
birra. Generose offerte di pinte servivano a comprare il voto di questi
gruppi, e spesso accadeva che, in occasione di consultazioni elettorali, a
bevute di massa facesse seguito un boom di richieste di cittadinanza da
parte di immigrati recenti, i quali avrebbero poi provveduto a votare
secondo le indicazioni ricevute. Non stupisce, dunque, che nel variegato
novero delle rivendicazioni nativiste (→ Melting pot) ci fosse anche la
limitazione del consumo di alcolici e che nel 1893 nascesse una Anti-Saloon
League (famosa in quegli anni fu Carrie A. Nation, accanita nemica dei
saloon, che visitava sfasciandone le bottiglie a colpi d’ascia!).
Sulla questione, i politici si divisero in schieramenti trasversali rispetto
all’appartenenza politica. In linea generale, i rappresentanti delle zone
rurali, del Midwest e del Sud si dichiaravano «dry», mentre quelli delle zone
urbane sostenevano i «wet». Il tema veniva di solito ignorato nelle
campagne elettorali nazionali, diventando ordine del giorno al Congresso
solo in coincidenza, nell’aprile 1917, dell’entrata in guerra contro la
Germania e al fianco di Francia e Inghilterra. Due erano i fattori che
favorivano una messa al bando: da un lato, la necessità di utilizzare i cereali
di norma destinati alla distillazione per l’approvvigionamento dei paesi
europei, dove la produzione agricola era quasi azzerata; dall’altro, il fatto
che i grandi industriali della birra (Ruppert, Pabst, Lieber, Schmitt) erano di
origine tedesca e si nutrivano dubbi sulla loro fedeltà al governo americano.
Come sovente accade, i tempi della politica si rivelarono più lunghi rispetto
a quelli della storia, e la Prima guerra mondiale era ormai finita quando, nel
gennaio 1920, giunse infine a conclusione il complesso iter parlamentare:
approvazione del Diciottesimo emendamento, che proibiva la produzione, il
trasporto e il commercio (ma non il consumo) di bevande «intossicanti»,
sua ratifica da parte della maggioranza degli stati, e approvazione del
Volstead Act, il quale specificava che «intossicanti» erano da considerarsi le
bevande con un contenuto alcolico superiore allo 0,5%.
Con il nuovo decennio, ebbe dunque inizio il «grande esperimento
sociale» – una vittoria politica dell’America profonda, bianca e protestante,
contro l’egemonia ormai lampante delle città, luogo della diversità etnica e
religiosa. In questo senso, il Proibizionismo va visto insieme ad altre
manifestazioni, come il revival del Ku Klux Klan (→ Kkk), il
fondamentalismo religioso (→ Scimmie alla sbarra) e l’approvazione del
Codice Hays (→), come tentativo di una parte del paese di arginare e
contenere le tensioni e trasformazioni della modernità. Una vittoria quanto
mai simbolica, e che fu tale solo sulla carta.
Il Proibizionismo infatti incontrò parecchie resistenze. Le scorte di alcol
destinate alla produzione industriale venivano trafugate per essere
utilizzate nei laboratori artigianali approntati nelle abitazioni private (il
cosiddetto moonshining, diffuso in particolare nelle campagne o in comunità
montane isolate): in una distilleria domestica, si potevano produrre fino a
200 galloni (circa 750 litri) di alcol al giorno. Un altro punto debole era
l’estensione dei confini, sia terrestri che marittimi. Carovane notturne di
camion trasportavano whisky dal Canada e tequila dal Messico, mentre
battelli di varia stazza colmi di rum facevano la spola con le isole dei
Caraibi: nella sola Long Island potevano arrivare anche duemila casse di
liquori al giorno.
Il Volstead Act contemplava lo stanziamento di fondi per combattere il
contrabbando, ma le previsioni si rivelarono inadeguate a contrastare la
capillarità del fenomeno. Nei rari casi in cui si riusciva a celebrare un
processo contro un contrabbandiere colto sul fatto, poche giurie ebbero il
coraggio di emettere verdetti di condanna, sia per un’avversione
«ideologica» alla legge sia per il fatto che sovente i «malfattori» godevano
di influenza e appoggi all’interno della comunità.
L’approvvigionamento di alcol divenne così terreno di conquista per i
piccoli boss locali, i quali fino a quel momento si erano limitati alla gestione
della prostituzione e del gioco d’azzardo, ma i 2 miliardi di dollari l’anno
(tanto valeva il mercato degli alcolici negli Usa di allora) facevano gola, e in
molti si gettarono a capofitto nell’impresa. Non molto diversamente da
quanto aveva fatto un Rockefeller qualche decennio prima (→ Robber
barons), il segreto del successo consistette nell’assicurare un collegamento
sicuro e costante tra le fonti di approvvigionamento e i punti di
distribuzione (gli speakeasies che vendevano alcol clandestinamente: locali,
come, a New York, Chumley’s e il 21 Club, dove si doveva «parlare a bassa
voce» per non attirare l’attenzione).
Come in tutte le attività economiche, si scatenò una concorrenza
spietata tra i vari boss, che assunse le forme violente dell’intimidazione,
dell’incendio di locali, di pestaggi e omicidi. Il confronto fu molto feroce a
Chicago, dove, com’è riassunto dalla didascalia che apre il film Gli intoccabili
(1987, diretto da Brian De Palma), «gang rivali competono per il controllo
del mercato illegale degli alcolici della città, e impongono la loro volontà
con bombe a mano e fucili mitragliatori». La banda comandata da Joe Torrio
e dal suo vice Al Capone da principio aveva concordato una spartizione
della città, accaparrandosi il South Side e lasciando a Dion O’Banion il North
Side. L’accordo durò finché O’Banion decise di invadere il territorio dei
rivali e l’affronto fu pagato col sangue: il capo irlandese venne freddato nel
novembre 1924 all’interno del suo negozio di fiori da due killer al soldo di
Torrio.
L’omicidio segnò l’inizio di una lotta senza quartiere tra le due gang
rivali. Torrio, ferito in un attentato, lasciò la gestione delle operazioni a
Capone. Il nuovo boss, sopravvissuto a sua volta a vari tentativi di farlo
fuori, orchestrò il «massacro di San Valentino», nel quale un gruppo di suoi
scagnozzi travestiti da poliziotti sorprese in un garage e uccise sette corrieri
irlandesi. Ad alcuni di questi eventi si fa riferimento in Scarface (1933), film
diretto da Howard Hawks, interpretato da Paul Muni, George Raft e Boris
Karloff e considerato, insieme a Piccolo Cesare e Nemico pubblico (entrambi del
1931), uno dei capostipiti di un genere che ebbe molto successo nel corso
degli anni trenta, i gangster movies.
Dopo il crollo economico del 1929 e la fine del dominio del Partito
repubblicano, una fazione favorevole all’abrogazione del Volstead Act
cominciò a guadagnare consensi. Oltre all’inefficacia delle contromisure,
che comunque incidevano non poco sul bilancio federale, non si poteva
ignorare che, in un periodo di profonda crisi (→ Grande depressione), il
ripristino della produzione di alcolici avrebbe potuto garantire alcuni posti
di lavoro. Una delle prime mosse di Franklin Delano Roosevelt, diventato
presidente, fu quella di firmare un emendamento al Volstead Act che faceva
salire dallo 0,5 al 3,2 la gradazione di alcol consentita nelle bevande – e ciò
rese possibile la produzione e la vendita di birra. Dopo la firma, avvenuta il
23 marzo 1933, Roosevelt sentenziò: «Questo sarebbe un buon momento per
farsi una birra». Il presidente dovette sottostare ai tempi della politica:
l’emendamento diventò legge solo il 7 aprile, ma il giorno successivo la
Anheuser-Busch consegnò due casse di birra Budweiser direttamente alla
Casa Bianca. I privilegi del potere…

BIBLIOGRAFIA
Frederick Lewis Allen, Only Yesterday. An Informal History of the 1920s (1931),
Harper, New York 2000.
Michael A. Lerner, Dry Manhattan. Prohibition in New York City, Harvard
University Press, Cambridge 2007.
Daniel Okrent, Last Call. The Rise and Fall of Prohibition, Scribner, New York
2010.
Michael E. Parrish, L’età dell’ansia. Gli Stati Uniti dal 1920 al 1941, il Mulino,
Bologna 1995.
S.M.Z.

Promontory Point (o delle ferrovie)


Uno sperduto punto nel nulla che, all’improvviso, guadagna gli onori della
cronaca come prova del progresso tecnologico statunitense e della volontà
di racchiudere l’esteso corpo nazionale fra le maglie, sempre più ramificate,
delle vie di comunicazione: questo fu Promontory Point, località dello Utah
in cui, il 10 maggio 1869, le squadre di lavoratori di due compagnie
ferroviarie, la Union Pacific e la Central Pacific, congiunsero a colpi di
rivetti e traversine i tratti di strada ferrata iniziati sei anni prima,
rispettivamente a Council Bluffs (scelta dal futuro presidente Abraham
Lincoln) e a Sacramento, completando così la prima linea transcontinentale
della ferrovia. La fotografia che immortala l’evento dice molto della storia
(e delle sue omissioni) della strada ferrata negli Stati Uniti: in un paesaggio
arido e roccioso, due locomotive si fronteggiano (la N.119 della Union Pacific
e la Jupiter della Central Pacific) a segnare la fine della «Grande Corsa» che
impegnò le due compagnie; sopra e intorno alle macchine, decine di operai
guardano con orgoglio verso l’obiettivo; dalla cima di una locomotiva, uno
di essi protende il braccio verso l’altro treno, bottiglia alla mano, quasi
sfiorando i bicchieri che un collega, sul mezzo di fronte, gli porge; al centro,
in mezzo ad ali di uomini (si stima che tra le cinquecento e le tremila
persone fossero presenti all’evento), due figure distinte in giacca si
stringono la mano con aria seriosa.
La foto ci dice anzitutto che la costruzione della strada ferrata fu
percepita e rappresentata come un’esperienza epica; e forse anche che,
come sembra indicare quella stretta di mano fra le figure centrali in abiti
certo più eleganti degli operai che li circondano, essa fu per alcuni un
grande affare. Non dice invece della distruzione ambientale in senso lato –
incluse le risorse alimentari delle tribù native, bisonte in primis – arrecata al
territorio americano; o dell’apporto, fondamentale per il completamento
dell’opera, di migliaia di lavoratori cinesi assunti dalla Central Pacific,
nonché di irlandesi, mormoni e reduci di guerra fra le file della Union
Pacific; e da ultimo, del malaffare che prosperò tutt’intorno alla sua
costruzione – dallo «Hell on Wheels», un commercio itinerante fatto di
prostituzione, alcol e gioco d’azzardo che si spostava seguendo l’avanzare
della ferrovia, fino alle grandi truffe milionarie che coinvolsero politici,
affaristi senza scrupoli e istituti di credito.
Facciamo un passo indietro, all’approdo alquanto rapido della ferrovia
sul continente. Il nuovo mezzo sbarcò presto sulle rive americane: trascorse
solo una manciata di anni fra la costruzione sul progetto dell’inglese John
Blenkisop della prima locomotiva a vapore (1812) e l’inaugurazione nel 1828
a Baltimora del primo tratto ferroviario (con trasporto di merci e
passeggeri) che potesse vantare un orario regolare, costruito per strappare
il traffico commerciale all’industria fluviale che stava arricchendo gli stati
di New York e della Pennsylvania (→ Battelli a vapore). L’esempio di
Baltimora fu seguito a ruota dalla linea Charleston & Hamburg che, nel
1830, mise su rotaie la sua Best Friend of Charleston. Se all’inizio la ferrovia
era vista, in particolare al Nord, come la parte complementare di un sistema
integrato di trasporto terreno e fluviale che collegasse i diversi corsi
d’acqua navigabili (→ Vie d’acqua), non ci volle molto per capire che la
strada ferrata avrebbe presto soppiantato la sua rivale acquatica. Complici i
numerosi eventi (fra cui la Railway Exhibition di Boston nel 1827) promossi
per generare interesse nell’opinione pubblica e nei potenziali investitori,
già nel 1840 i chilometri di strada ferrata eguagliavano quelli dei canali,
mentre dieci anni dopo la ferrovia tagliava un altro importante traguardo
raggiungendo le rive del Mississippi, all’epoca avamposto dell’avanzata dei
coloni sul continente (→ Frontiera). Nonostante all’inizio fossero gli stati
del Sud i più sensibili al fascino del nuovo mezzo, era verso il Pacifico che la
strada ferrata volse naturalmente il suo sguardo.
L’epica della ferrovia non può infatti prescindere da quella dell’Ovest, di
cui fu per molti versi continuazione e strumento: la strada ferrata divenne
nell’immaginario incarnazione di quel «destino manifesto» (→) che
sospingeva coloni (e vagoni) verso una frontiera serbatoio di imprese
leggendarie e di conquiste (→ Grand Canyon; → Pueblos). Per coglierne la
portata culturale, si pensi al dipinto di John Gast, The Promised Land (1872),
dove la donna al centro della scena, simbolo della civilizzazione, è
circondata da strumenti del progresso, fra cui fanno bella mostra ben due
treni. Un mondo che si arricchiva via via di personaggi quasi epici e delle
loro avventure, (→ Tall tales), come il Generale Dodge, Jack Casement,
Charles Crocker. Ai racconti della letteratura si aggiunsero poi le grandi
fiere (→ Esposizioni universali), come quelle del 1876 e del 1893, occasioni
per celebrare il progresso, tecnologico e geografico, della strada ferrata. La
fascinazione per quest’ultima non fece breccia solo nella cultura popolare: e
se scrittori come Nathaniel Hawthorne e Henry David Thoreau avevano
percepito la strada ferrata e il suo irrompere nel paesaggio naturale come
una potenziale minaccia per la serenità della vita agreste, un intellettuale
del calibro di Ralph Waldo Emerson aveva visto nella ferrovia una
«bacchetta magica, con il suo potere di evocare le energie assopite della
terra e dell’acqua».
Di certo, i «maghi» dell’epoca furono quegli investitori che
trasformarono traversine e ferro in una sorgente di ricchezza, accumulando
in breve tempo enormi fortune. Non fu facile all’inizio per i sostenitori della
ferrovia convincere gli uomini d’affari a investire ingenti capitali in
infrastrutture che si estendevano ben oltre i confini del trasporto locale o
regionale, spingendosi fino al Pacifico. Un aiuto indispensabile venne in
questo senso dallo sviluppo del telegrafo, che insieme alla ferrovia costituì il
principale strumento di sincronizzazione e di contrazione delle distanze.
Quando a metà Ottocento, Hiram Sibley decise di sfruttare
commercialmente l’invenzione di F.B. Morse del 1844, i fili e i pali della sua
Western Union riuscirono ad attraversare tutto il Grande deserto
americano (→ Deserti) giungendo fino a San Francisco. La strada tracciata
dai pali del telegrafo (la meno impervia, come ovvio) indicò la pista che la
stessa ferrovia avrebbe dovuto seguire; in cambio, quest’ultima avrebbe
fornito al telegrafo spazi e manodopera. Fu così che le due reti si
sovrapposero in quasi tutto l’Ovest, con la costruzione di una nuova linea
per il telegrafo a costeggiare i binari della ferrovia, le stazioni usate come
uffici del telegrafo e macchinisti e lavoratori ferroviari incaricati di
segnalare guasti alla linea (se non, quando possibile, di ripararli).
Nonostante l’espansione di ferrovia e telegrafo fosse iniziata già durante gli
anni cinquanta e sessanta, fu dopo la Guerra civile (→) che esse ebbero il
loro massimo sviluppo: dai 56mila chilometri del 1865 si raggiunsero i
320mila nel 1897, la maggior parte dei quali coperti dalle linee che
correvano da est verso ovest. E dal momento che controllare la ferrovia
significava di fatto controllare lo sviluppo dei territori, tanto in termini di
commercio (le quantità e di conseguenza il valore dei prodotti trasportati)
quanto di popolamento (era lungo la ferrovia che sorgevano in prevalenza
gli insediamenti dei coloni), i robber barons (→) dell’epoca fiutarono ben
presto l’affare, e molti di loro costruirono sulla strada ferrata la propria
fortuna (si pensi a James J. Hill, artefice di un impero che prese le mosse da
una piccola linea ferroviaria del Minnesota, per poi acquisire la Great
Northern Line e, nel 1901, la Northern Pacific), non senza numerosi episodi
di corruzione e conseguenti scandali (il più celebre dei quali coinvolse
Thomas Clark Durant, il suo Crédit Mobilier e la Union Pacific). Politica,
finanza e speculazione selvaggia costituirono l’amalgama che di fatto
plasmò le aree lungo la strada ferrata: il tentativo attraverso la pubblicistica
(→ Guide per emigranti) era di rendere tali spazi appetibili ai potenziali
coloni dell’Est e d’oltreoceano (con tanto di pittori ingaggiati per addolcire
i paesaggi desertici ed esaltare le meraviglie naturali delle zone di frontiera)
e lucrare sulla vendita di appezzamenti grazie all’incremento del valore
della terra nei pressi delle rotaie.
Le speculazioni dei robber barons suscitarono le ire di tanti coloni spintisi
verso l’Ovest con la promessa di ingenti guadagni in terre rivelatesi difficili
da coltivare: contadini e piccoli allevatori andarono con la loro rabbia ad
alimentare i movimenti populisti degli anni novanta dell’Ottocento (il più
popolare fu il Grange Movement) che cercavano di resistere e contenere lo
strapotere delle compagnie, viste dall’opinione pubblica come forze
tentacolari, in grado di manipolare i destini umani e lo stesso volto
dell’Ovest. La ferrovia come una piovra: così la dipinge Frank Norris
nell’omonimo romanzo del 1901 (non a caso, il primo sciopero generale
nazionale, nel 1877, si sviluppò a partire proprio dall’agitazione dei
ferrovieri, che di nuovo, nel 1894, diedero vita al celebre «sciopero
Pullman» → Sciopero!; → Cappucci bianchi). Anche per questo, da fine
Ottocento in avanti, gli assalti al treno e i loro protagonisti furono sempre
più rappresentati, nei dime novels (→), nella stampa periodica e dal cinema,
come azioni di novelli Robin Hood (uno dei primi film della cinematografia
americana, Assalto al treno di Edwin S. Porter, del 1902, s’ispirava a un fatto
vero ed era peraltro sponsorizzato dalla Lackawanna Railroad).
Più che gli assalti armati e le proteste, sarà però di nuovo lo sviluppo
tecnologico a metter fine all’epoca d’oro del trasporto su rotaia: complici,
dagli anni venti del Novecento in poi, la diffusione dell’automobile (→
Model T) e l’affacciarsi sul mercato del trasporto aereo, la ferrovia rimarrà
veicolo prediletto delle sole merci. Soppiantata sulle lunghe distanze, essa
continuò a essere centrale nelle percorrenze a breve e medio raggio,
soprattutto nell’Est urbano, per i viaggi d’affari (che fecero la fortuna di
Cornelius «Commodore» Vanderbilt, con i suoi rapidi sulla New York-
Harlem Line fino alla monumentale Grand Central Terminal di New York),
grazie anche alle vetture espresse e alle comode carrozze-letto Pullman che
facevano risparmiare preziose giornate di lavoro. Infine, la ferrovia rese
possibile le prime forme di pendolarismo dai sobborghi (→ Suburbs). Nelle
piccole città (→), la stazione divenne così il simbolo dell’incontro tra una
dimensione comunitaria e una dimensione nazionale, con l’orologio a
scandire l’ora standard, entrata in vigore nel 1883 e aggiornata ogni
settimana grazie al telegrafo. Se negli anni della Grande depressione (→) il
treno, con il suo carico di hoboes e di tramps (→ Vagabondi) fu uno dei più
potenti emblemi del disagio sociale e del desiderio di riscatto, durante il
secondo conflitto mondiale e poi ancora negli anni settanta esso visse una
seconda giovinezza, complice una crisi petrolifera che fece riscoprire agli
americani il fascino (e la convenienza) dei binari.
La diminuita popolarità della locomotiva nella vita quotidiana
nell’ultimo secolo non ne ha intaccato tuttavia il fascino: già nel 1900 la
Lionel Company iniziò a fabbricare locomotive e vagoni giocattolo e negli
anni trenta il trenino elettrico divenne oggetto del desiderio tanto di
bambini quanto di collezionisti, che si misero a raccogliere di tutto: orari
ferroviari, cappelli dei capotreni, biglietti, targhe, calendari, stoviglie e
porcellane delle carrozze ristorante, lanterne, lampade, poster: emblemi di
una nostalgia per i good old days (che, come s’è visto, così buoni non sempre
furono) in cui la macchina della tecnologia non aveva ancora fagocitato il
giardino della natura (→ Wilderness), in cui il fumo sprigionato dalle
caldaie era segno di potenza e non di inquinamento e il mezzo meccanico
faceva pensare a una rivoluzione invece che al duro lavoro.

BIBLIOGRAFIA
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Transcontinental Railroad, 1863-1869, Simon & Schuster, New York 2000.
Albro Martin, Railroads Triumphant: The Growth, Rejection, and Rebirth of a Vital
American Force, Oxford University Press, Oxford 1992.
Leo Marx, La macchina nel giardino. Tecnologia e ideale pastorale in America,
Edizioni Lavoro, Roma 1986.
C. SCHIA.

Pueblos (Santa Fe e Taos)


Fra Alamogordo/Los Alamos (→ Progetto Manhattan) e Roswell (→), fra il
deserto Jornada del Muerto e la Sierra Oscura (ci sarà pure stato un motivo
per chiamarli così), fra test nucleari e misteri spaziali e riserve indiane
schiacciate addosso a località rese radioattive, non si può dire che il New
Mexico abbia una felice nomea. Ma se ci si sposta a Santa Fe e di lì a Taos e
dintorni, se si viaggia attraverso il Bandelier National Monument, se ci si
arrampica fino alla sommità del monte su cui sorge il primo luogo abitato
d’America (Ácoma, la «città nel cielo»), gli scenari cambiano, fanno
dimenticare (per un po’) quella nomea.
La Villa Real de la Santa Fe de San Francisco de Asís viene fondata nel
1608 e due anni dopo diventa capitale della provincia della Nuova Spagna
creata nel 1598 e chiamata Santa Fe de Nuevo Mexico. Prima degli spagnoli,
ad abitare l’area erano gli indiani pueblo, in una serie di villaggi e
insediamenti sparsi (Ogapoge, Nambé, Galisteo, Cochiti, Teotho, Tehsugeh,
Kewa, Walatowa, molti altri), che vengono inseriti con violenza nel sistema
economico e sociale dei conquistadores. Le conversioni forzate, il divieto di
conservare riti e danze tradizionali, lo sfruttamento quasi-schiavistico della
manodopera locale, sommandosi a lunghi periodi di siccità e carestia,
spingono i pueblo alla rivolta: questa giunge nell’agosto 1680, sotto la guida
di Popé, sciamano del pueblo Tewa, e ha successo. Dopo un lungo assedio al
Palazzo del Governatore a Santa Fe, gli spagnoli riescono a fuggire verso
sud, verso El Paso (Texas). L’anno dopo, cercano di riprendere il controllo
dell’area, ma vengono respinti; e invano ci riprovano nel 1687. Sotto Popé, i
pueblo ripristinano riti e credenze, usi e costumi tradizionali ma, dopo la
sua morte intorno al 1688, dissensi interni, altri periodi di siccità e carestie,
incursioni di apache e navajo, indeboliscono la tribù, e nel 1692, quasi senza
colpo ferire, gli spagnoli tornano a Santa Fe e nel New Mexico. La resistenza,
però, continua: nel 1693, i pueblo rientrano a Santa Fe; gli spagnoli la
riconquistano poco dopo, mandando a morte più di settanta uomini e
riducendone in schiavitù parecchie centinaia; nel 1696, un nuovo tentativo
di rivolta viene soffocato con brutalità.
A quel punto, la conquista spagnola è definitiva, ma l’orgoglio della
rivolta si sedimenta tra i pueblo e i conquistadores ne debbono prendere atto,
allentando la pressione sui villaggi. Poi, nella prima metà dell’Ottocento,
verranno la Guerra d’indipendenza messicana e la Guerra messico-
americana (→ Alamo), e il territorio passerà infine agli Stati Uniti. Per
qualche tempo, con l’avanzare dei lavori della Atchison, Topeka and Santa
Fe Railway (→ Promontory Point; → Cappucci bianchi), Santa Fe diventa
uno snodo ferroviario importante: ma l’apertura di un’altra linea, la Denver
and Rio Grande Western Railway, minaccia di far piombare la cittadina
nell’anonimato.
La ricerca di un’identità forte s’indirizza allora verso l’archeologia e
l’etnografia da un lato e verso l’architettura e l’urbanistica dall’altro. Fra
Ottocento e Novecento, mentre si diradano fino a scomparire i segnali di
fumo delle Guerre indiane (→), tutta l’area è investita da un nuovo fervore
culturale, che intreccia la vibrante retorica della conquista di terre lontane
a un autentico e profondo interesse antropologico. Sono gli anni in cui il
fotografo Edward S. Curtis riprende un settantaseienne Geronimo, le
maschere e i dipinti di sabbie colorate dei navajo, i volti di ragazze zuni, la
vecchia pista e la vita quotidiana del pueblo Ácoma, gli apache al guado,
immortalando così una «razza che svanisce». E sono gli anni in cui, dagli
sforzi congiunti di antropologi come Alice Cunningham Fletcher e Edgar Lee
Hewitt, nasce a Santa Fe la School of American Archaeology (poi School of
American Research), e l’antropologo svizzero Adolph Bandelier esplora El
Rio de Los Frijoles, aprendo al mondo lo studio dei mirabili cliff dwellings (le
abitazioni scavate nei dirupi), delle pitture rupestri, dei petroglifi, delle
costruzioni circolari del pueblo Tyuonyi, che oggi si possono ammirare nel
Bandelier National Monument.
Intanto, la città – come altre nel resto del paese – viene investita dal City
Beautiful Movement (→ Union Station), che, partendo da Chicago (ma
incorporando molti elementi del britannico «Garden City Movement»), si
propone di organizzare o riorganizzare le metropoli statunitensi sulla base
di criteri di bellezza e monumentalità, il più possibile collegati a scenari,
materiali, luci e colori locali. La specificità di Santa Fe e dintorni, l’eredità
dei pueblo, la vicinanza delle zone desertiche, le sabbie colorate, le tecniche
di fabbricazione dei materiali, le luci e le sfumature, lo stile degli adobe (→
Architetture), faranno a poco a poco di Santa Fe «The City Different»: e il
piano regolatore del 1912 accoglierà e valorizzerà il seicentesco Palace of
the Governors, l’ottocentesca cattedrale, le costruzioni in quello che sarà
definito «Spanish Pueblo Revival Style». Nel frattempo, il processo che era
stato incessante – e che si poteva riassumere nello slogan coniato da Horace
Greeley nel 1865, «Go West, Young Man!» – aveva aperto a generazioni
successive un Ovest fino a quel momento luogo desertico, lontano, avvolto
nelle nebbie del mito o delle cronache sensazionalistiche. Nel 1893, Charles
F. Lummis (giornalista, storico e antropologo), nel suo La terra incantata dei
Pueblos, aveva scritto che «il New Mexico è l’anomalia della Repubblica»: e,
si sa, i cercatori e adoratori di anomalie non mancano, specie in decenni di
radicali trasformazioni. Dunque, il New Mexico, e Santa Fe e Taos in
particolare, diventarono meta di coloro che (artisti, attivisti, esploratori
d’una frontiera che non c’era più, etnologi più o meno sinceri e dilettanti)
lasciavano le metropoli dell’Est, in cerca di spazi diversi, tonalità nuove,
ritmi più lenti, e una storia forse incisa sulle pareti dei canyon dalla mano
del tempo come da quella dell’uomo.
La cittadina di Taos (fondata intorno al 1615 come Fernandez de Taos) in
prossimità dell’omonimo pueblo, divenne sede, a fine Ottocento, di una
piccola comunità di artisti, che presto si allargò fino a diventare, nel 1915, la
Taos Society of Artists, fondata dal pittore Ernest L. Blumenschein (il quale,
più tardi, formerà un altro gruppo, i New Mexico Painters). In quegli stessi
anni, giunsero a Taos l’eccentrica intellettuale Mabel Dodge Luhan e altri
componenti della bohème artistica e radicale del Greenwich Village (→)
newyorkese, fra cui il pittore John Sloan, uno dei protagonisti della stagione
artistica detta dei «bidoni della spazzatura» (→), ora impressionato dalle
luci e dai colori del deserto, dai colori pastello delle basse abitazioni, dalle
forme morbide degli edifici. Dopo di loro, verranno in gran numero, a
ondate successive, in gruppi più o meno ristretti ed esclusivi: la pittrice
inglese Dorothy Brett, gli scrittori inglesi D.H. Lawrence e Aldous Huxley, la
pittrice Georgia O’Keefe, i fotografi Alfred Stieglitz, Ansel Adams e Todd
Webb, il pittore russo Nicolai Fechin e quello navajo R.C. Gorman, la
scrittrice e naturalista Mary Austin – molti di loro impegnati anche nel
recupero e nella valorizzazione dell’arte Native American, del passato come
del presente, attraverso il Museo delle Belle Arti e la New Mexico
Association on Indian Affairs.
La poetessa di St. Louis Alice Corbin Henderson, innamoratasi di questi
scenari, riassunse così il senso dell’esodo di tanti artisti verso Santa Fe e
Taos, all’indomani dell’ubriacatura modernista di New York e Chicago:
«Dopo il rumore, dopo la furiosa musica moderna / Di rivetti e martelli e
tram, / Dopo l’urlo del gigante, / Giovane e rissoso e forte / Che innalza le
città dell’uomo / Qui è il deserto di silenzio, / Stringe gli occhi, cieco nel
sole» (Red Earth, 1920). Venticinque anni più tardi, il 16 luglio 1945, quasi
all’estremità opposta rispetto a Taos e Santa Fe, nel mezzo del deserto
Jornada del Muerto, quel silenzio veniva squarciato dallo schianto del primo
test atomico.

BIBLIOGRAFIA
Bruno Cartosio, Da New York a Santa Fe. Terra, culture native, artisti e scrittori
nel Sud-ovest (1846-1930), Giunti, Firenze 1999.
Thomas E. Chavez, An Illustrated History of New Mexico, University of New
Mexico Press, Albuquerque 2002.
M.M.
[Q]

Quakers, Shakers, Mormons (e altre denominations)


Il reverendo Timothy Lovejoy, ministro di culto indolente, scettico e
mondano quant’altri mai, è a capo del «Western Branch of American
Reform Presbylutheranism» la chiesa protestante di Springfield,
immaginaria piccola città (→) in cui vivono Homer Simpson e famiglia (→
Casa Simpson). Nel corrosivo cartoon di Matt Groening & Co. non poteva
mancare la parodia della proliferazione delle denominations (confessioni o
sette religiose) nate su suolo americano dalle chiese protestanti riformate. Il
nome scelto per la «Prima chiesa di Springfield» non è neanche tra i più
fantasiosi. Se si sfoglia una qualsiasi enciclopedia delle American
Denominations o si leggono cartelli stradali e placche su edifici adibiti a
funzioni religiose, ci si imbatte infatti in vari concentrati di creatività
«divina»: Christadelphians; Church of Illumination; Church of Our Lord
Jesus Christ of the Apostolic Faith, Inc.; Pillar of Fire; United Holy Church of
America, Inc.; The House of God, which is the Church of the Living God, the
Pillar and the Ground of Truth, Without Controversy, Inc.; Holy Ghost
Power-Packed Gospel Arena, and Baptist Church Without Spot or Wrinkle
(qualsiasi traduzione suonerebbe misera rispetto a originali così sublimi). La
realtà supera, almeno nominalmente, la finzione.
Fin dal suo periodo coloniale, l’America è stata, come scrive un critico
statunitense alle prese con una difficile definizione di «identità nazionale»,
una specie di «mall [→] dello spirito», con fedi e sette tagliate su misura (e
poi ritagliate e rattoppate in fogge un po’ diverse dall’originale) per
incontrare le esigenze di una popolazione eterogenea dedita alla pratica
della «rigenerazione», della tensione, spirituale e pratica – allo «starting
anew» (o, per usare espressione cara a tutti gli evangelici, tra cui il 43º
presidente George W. Bush, al «being born again»). Così, a una mente
razionale, i molteplici scismi in gruppi e sottogruppi confessionali di un
ceppo come quello degli avventisti non può che apparire paradossale: i
moderni 7th Day Adventists discendono infatti dal movimento millenarista
che aveva profetizzato il ritorno di Cristo nel 1844; ma poi Cristo non si
palesò, e la comunità credente visse il suo «Great Disappointment». Passato
circa un secolo, negli anni trenta del Novecento, un gruppo chiamato
Davidian 7th Day Adventists si separò da quello originale e indicò nel 1959
la nuova data del secondo avvento del Signore, il quale tuttavia seguitò a
non palesarsi, creando altro disappunto e portando alla formazione dei
Branch Davidians. Scomunicati fin dal 1955 dalla Chiesa degli avventisti del
Settimo giorno, nel 1984 i Branch Davidians riconobbero come capo
spirituale Vernon Howell Koresh (che cambierà il proprio nome in David),
investito del titolo di profeta da Lois Roden, moglie dell’ex leader Benjamin
Roden succeduto al primo fondatore, Victor Houteff. Nel 1989, Koresh girò
un video in cui sosteneva di essere il profeta di Dio e, ai fini di stabilire la
«Casa di David», di dover procreare con tutte le donne della congregazione.
Gli insegnamenti di Koresh spaziavano dalla seconda venuta di Gesù Cristo
alle geremiadi (→) contro una dieta alimentare sbagliata («Non ve la
caverete con niente, gente. Tutte le vostre Pizza Hut e Soda Pop, e il resto…
E anche, di tanto in tanto, carne. Dio vi fustigherà per bene») – e finiranno
in un bagno di sangue, nella strage di Waco del 1993 (→ Waco, Columbine).
Paradossi a parte, sarebbe impossibile dar qui conto delle centinaia e
centinaia di denominations di matrice (per lo più, ma non solo) protestante
che puntellano la geografia spirituale e sociale del paese. Più utile, forse,
offrire una panoramica generale del 2010 che vede i protestanti al 49,5%, i
cattolici al 25,1%, i mormoni all’1,4%, gli ebrei all’1,2% e gli islamici allo
0,6%. Altra fonte utile da consultare, sebbene faccia riferimento anche al
Canada, in cui i Roman Catholics sono maggioranza, è il 2011 Yearbook of
American and Canadian Churches, secondo cui i Mainline Protestants
(American Baptist Church, Presbyterian Church, United Methodist Church,
The Evangelical Lutheran Church, Disciples of Christ), pure prominenti,
sarebbero in calo rispetto alle confessioni cosiddette «evangeliche
pentecostali» (The Church of God in Christ; Assemblies of God). In ordine di
grandezza: Southern Baptist Convention (16,1 milioni); United Methodist
Church (7,8 milioni); Latter-Day Saints (o mormoni, 6 milioni); Church of
God in Christ (5,5 milioni); National Baptist Convention (5 milioni);
Evangelical Lutheran Church in America (4,5 milioni); National Baptist
Convention of America (3,5 milioni); Assemblies of God (2,9 milioni);
Presbyterian Church (2,7 milioni). Statistiche alla mano, all’interno
dell’ambito protestante, i gruppi più presenti sul territorio (benché
suddivisi in numerose sottodenominazioni, specie nelle loro componenti
afroamericane) sono quelli battisti e metodisti. Difficile entrare nel merito
terminologico delle differenze tra Mainline Protestants ed Evangelical
Protestants: di solito, i primi sono considerati più liberali e meno ortodossi
nell’interpretazione delle Scritture rispetto ai secondi, che, a loro volta,
rappresentano un punto mediano tra i primi e i fondamentalisti. Altre
confessioni diffuse nel paese – a parte i cattolici (68,5 milioni, concentrati
oggi in gran numero tra le fila degli immigrati ispanici, in Florida e nel
Sudovest) – sono poi costituite dai già citati avventisti e dai testimoni di
Geova (entrambe spesso designate come «chiese apocalittiche»), dagli
amish, dai brethren, dai mennoniti, dai quaccheri, dai mormoni, dagli
anglicani, dagli ortodossi orientali, dagli ebrei, dagli islamici, dagli induisti,
dai buddhisti, e ancora, dai «metafisici» di Christian Science, Theosophy,
Scientology e New Thought.
Il passaggio da una confessione all’altra – quanto meno su un comune
terreno cristiano – è spesso meno una questione di fede che una necessità
logistica: nella scelta di una Chiesa, più dei precetti teologici, valgono le
comunità locali e il loro grado di accoglienza verso i nuovi arrivati. Un
esempio di «mobilità spirituale» che segue quella «orizzontale» è dato dal
già citato George W. Bush, convertito dalla religione del padre
(episcopaliano del Connecticut) a quella della madre (presbiteriana
newyorkese) e infine a quella della moglie (metodista texana). La mobilità
non è tuttavia prerogativa dei soli credenti: lo spostarsi sul territorio è una
caratteristica delle confessioni stesse poiché, a ben guardare, l’America
post-colombiana nasceva da una grande dislocazione di partenza, con le
prime colonie inglesi protagoniste di una migrazione dal Vecchio mondo
per fondare una Nuova Gerusalemme (→ Città sulla collina; → Covenant).
Altrove si è scritto della teocrazia del New England, dei sermoni infuocati
dei puritani (→ Geremiade) – origini che spiegano la vitalità del richiamo
religioso di ogni riformismo politico a venire. Fin dal Seicento, però, proprio
in seno a quel sistema teocratico, si alzarono alcune voci dissenzienti che
incontrarono la dura repressione della comunità dei «santi visibili». I
quaccheri inglesi, conosciuti anche come Religious Society of Friends (o
Children of Light, o Friends of the Truth), furono, per esempio,
regolarmente banditi dalla Massachusetts Bay Colony perché continuarono
a praticare il loro credo. Il nome, «Quakers» («coloro che tremano», dal
verbo «to quake»), pare derivi da un appellativo dato dal giudice inglese
Bennet a George Fox, illustre membro della summenzionata Society of
Friends, accusato nel 1659 di blasfemia. Sotto processo, Fox avrebbe infatti
invitato il magistrato a seguire i versi biblici e «tremare al cospetto della
parola di Dio». Non pochi quaccheri furono quindi processati ed esiliati
dalla Massachusetts Bay Colony – o, nei casi peggiori, messi alla gogna.
Ricordiamo Anne Hutchinson che, guidata dalla teoria della «luce
interiore», aveva creato, tra Massachusetts e Rhode Island, un gruppo
autonomo di dissidenti religiosi che leggevano e discutevano la Bibbia. Per
lei, l’accusa di antinomianesimo (teoria secondo la quale i precetti del
Vecchio Testamento non sono vincolanti per i credenti) da parte delle
autorità teologiche del Massachusetts arrivò puntuale, così come il processo
e l’esilio dalla colonia. Per porre fine alle persecuzioni subite dai quaccheri
si dovette aspettare che il «Friend» William Penn fondasse la Pennsylvania
nel 1682. Il leader avrebbe quindi firmato un trattato di pace con il capo
degli indiani delaware, Tammany, avviando così un lungo periodo di
relazioni amichevoli tra quaccheri e nativi (non a caso le chiese quacchere,
«Brethren», mennonite e Amish sono definite «di pace»).
Altro nome quanto meno fantasioso è quello degli «Shakers» – o, meglio
«Shaking Quakers» (The United Society of Believers in Christ’s Second
Appearing): gruppo fondato da una donna, Ann Lee, e noto, fin dalle origini
settecentesche, per la vita comunitaria all’insegna dell’ascetismo e
dell’enfasi data al ballo, al canto, alla parola gridata e, appunto, allo
«shaking» (ai movimenti convulsi e vibranti delle loro funzioni) –
caratteristiche, queste ultime, per altro molto vive nel secondo Great
Awakening (→ Covenant) tra i metodisti, dediti all’organizzazione di ritrovi
all’aperto (camp meetings) in cui fare proseliti sulla Frontiera (→).
Interessante che gli Shakers arrivassero, con straordinaria modernità, a
inserire nel proprio statuto l’uguaglianza tra i sessi già nel 1780.
Ma per la loro concentrazione quasi esclusiva in un solo stato e la
creazione di una sorta di teocrazia negli Stati Uniti contemporanei, sono i
mormoni – o meglio la Church of Jesus Christ of Latter-Day Saints – a
meritare qui un piccolo excursus. La loro vicenda è tutta all’insegna della
resistenza a diversi tipi di ostilità (culturale, religiosa, istituzionale)
incontrata nei secoli in varie parti del territorio americano (di recente,
particolare visibilità mediatica è arrivata loro grazie a Big Love, la serie tv →
incentrata su una famiglia di mormoni fondamentalisti e mandata in onda
dalla Hbo dal 2006 al 2011). Il loro credo è radicato negli insegnamenti di
Joseph Smith che nel 1830, durante il Secondo Great Awakening, diede vita
al movimento nello stato di New York: secondo Smith, in un momento di
folgorazione divina, aiutato dall’angelo Moroni, egli avrebbe trovato in una
caverna, scritto su tavole d’oro, un libro del profeta Mormon, i cui
geroglifici avrebbe poi trascritto e pubblicato nel Libro di Mormon, futuro
testo di riferimento insieme alla Bibbia. I mormoni lasciarono quindi lo
stato di New York nel 1831 e si trasferirono prima in Ohio, poi in Missouri,
dove però vennero espulsi, stabilendosi quindi a Nauvoo, in Illinois. Ma
l’ostilità dei coloni locali portò a una serie di violenze e all’uccisione di
Joseph e del fratello Hirum Smith, linciati dalla folla. A quel punto, nel 1860,
Brigham Young (Joseph Smith III), riorganizzò la Chiesa, mettendosi alla
guida dei seguaci cacciati da Nauvoo, nel febbraio 1846: insieme
cominciarono una marcia epica attraverso quello che oggi è lo Utah,
arrivando nella Salt Lake Valley nel luglio del 1847 ed ergendovi un
tabernacolo e un tempio (→ Piste e sentieri). Nel mezzo di un deserto ostile,
i mormoni-pionieri crearono una comunità autosufficiente, seguitarono a
osservare costumi molto morigerati (niente alcol, tè, tabacco) e
dichiararono ufficiale la poligamia all’interno della chiesa. Tra il 1857 e il
1858, l’esercito americano invase il loro territorio quasi pacificamente – fu
la Utah Mormon War, che si concluse con l’accettazione, da parte della
comunità, di un governatore nominato da Washington. Con la Guerra civile
(→), la poligamia dei mormoni diventò un bersaglio privilegiato del
governo. Solo con il 1890, e con lo Utah diventato stato dell’Unione, le
tensioni si placarono: anche se, nel 1904, in risposta alle pressioni
istituzionali, la Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni dichiarò la poligamia un
peccato per il quale i fedeli avrebbero pagato con la scomunica (a oggi,
infatti, a dispetto del credere comune, la pratica è sospesa dalla
maggioranza dei mormoni e conservata solo dai fondamentalisti, lo 0,4% del
totale).
Anche da un punto di vista geografico – e non ultimo architettonico –, la
varietà religiosa americana invita a qualche considerazione. Per tutto
l’Ottocento e parte del Novecento, fu la religione cristiana dell’Est (sebbene
già ramificata nelle varie denominations) a dettare la retorica politica del
paese. Nel 1813, l’ex presidente John Adams (→ Famiglie A[d]dams)
scriveva al suo successore, ateo e illuminista, Thomas Jefferson (1801-1809)
che «i principi generali sui quali i Padri avevano raggiunto l’Indipendenza
[erano] i principi generali della cristianità». Fino a metà del XX secolo, i non-
protestanti rimasero di fatto esclusi dall’establishment; ci volle appunto
l’era Kennedy (→ Camelot) per portare un cattolico alla Casa Bianca, e far
raggiungere il punto più alto di separazione di Chiesa e Stato nella società
americana (emblematica in quegli anni la decisione della Corte Suprema di
bandire la lettura della Bibbia nelle scuole pubbliche).
Oggi, a distanza di due secoli dall’assunto di Adams, il pluralismo e, nei
casi migliori, il sincretismo religioso è ancora forte in alcune regioni
americane, come la costa ovest. In California e Nevada, per esempio, il
fenomeno New Age – nato nell’epicentro della cultura hippie a Haight
Ashbury, San Francisco (→ Castro) negli anni sessanta – circonfonde tutte
le altre confessioni tradizionali e le chiese cristiane ospitano corsi di yoga. A
dispetto della rinascita nazionale di una destra religiosa oltranzista a
partire dagli anni ottanta, questi stati sono inoltre campioni di una
religione progressista e di matrice civile: l’ambientalismo e il rispetto della
biodiversità. Per dare un’idea di quanto il Pacific Northwest sia lontano dal
fondamentalismo delle confessioni più conservatrici della Bible Belt (→
Cinture), graniticamente schierate contro femminismo, aborto, eutanasia e
omosessualità, basterà qui ricordare che, nel 1997, l’Oregon è stato il primo
stato dell’Unione ad avere una legge per il suicidio assistito dei malati
terminali (Death with Dignity Act).
Tutt’altre atmosfere si respirano nella Bible Belt, che comprende
Missouri, Arkansas, Louisiana, Texas, Oklahoma, regione dominata dai
battisti e dalla tradizione evangelico-pentecostale che ha dato i natali al
ministro della Giustizia di George W. Bush John Ashcroft, adepto dell’élite
pentecostale del Missouri. A partire dagli anni ottanta del Novecento –
ovvero già sotto Ronald Reagan – il connubio tra la Bible Belt e l’elettorato
repubblicano è stato assai stretto: al motto di «Get ’em saved, get ’em
baptized, get ’em registered» («Salvateli, battezzateli e fateli registrare per
il voto»), gli evangelici politicamente passivi del Sud si sono infatti
trasformati in una delle roccaforti del Grand Old Party (→ Lobby & caucus).
Il Mountain West (da Arizona a New Mexico a sud, da Idaho e Montana a
nord) è una specie di arcipelago di diversità religiosa: ci sono il «corridoio
mormone» nello Utah e nel Sud Idaho, il cattolicissimo New Mexico,
un’eterogenea Arizona e territori storicamente poco penetrati dalla Chiesa
come Montana e Wyoming. Il Midwest resta invece d’impronta largamente
metodista, un credo legato al riformismo sociale (anche se, nelle grandi città
– Detroit, Cincinnati, St. Louis, Chicago – non mancano consolidati gruppi
cattolici). Quanto alla regione atlantica, l’impronta del protestantesimo
mainline è robusta, pur vigendo, soprattutto nelle aree metropolitane della
Tri-State Area (New York, New Jersey, Connecticut), un formidabile
sincretismo religioso. Tanta diversità si rispecchia in un’architettura
parimenti multiforme. Per quanti siano gli edifici adibiti a chiese, la penuria
di spazi di culto nel paese è sempre più drammatica, a giudicare dalla
turnazione a cui sono sottoposte le stesse strutture, che ospitano più
congregazioni. Nell’ambito dell’architettura religiosa, i tratti più peculiari
dell’esperienza statunitense emersi nel corso dell’ultimo Novecento sono
due: le megachurches e le storefront churches. Le prime, di dimensioni
imponenti, sono un’invenzione autoctona degli anni quaranta del
Novecento, appannaggio dei gruppi protestanti di matrice evangelica
pentecostale, vantano una frequentazione di duemila persone alla
settimana e, in virtù dei grandi parcheggi di cui dispongono e della loro
ubicazione (per lo più, ma non solo, in aree suburbane), assumono le
fattezze di grandi centri commerciali (→ Mall). Se nella loro mancanza di
simbolismo religioso queste strutture possono anche ricordare altrettanti
centri-congressi, i pastori che vi militano sono spesso radio- e tele-
evangelisti (→). Le storefront churches nascono al contrario da premesse
finanziarie opposte: non già grandi investimenti, ma scarsità di fondi. Si
tratta infatti di un fenomeno assai più diffuso delle «megachiese»,
concentrato nei quartieri popolari a maggioranza afroamericana e latina
delle grandi città. I luoghi di culto sono qui ricavati dal recupero di vecchi
servizi ormai dismessi (storefront: «facciata di negozio»), convertiti, con ben
pochi ritocchi cosmetici, a case del Signore dai nomi improbabili. E sempre
sulla scia del riuso si collocano le deliziose baracche fatte di lamiere e altri
materiali di raccatto di alcuni quartieri metropolitani – come Bedford-
Stuyvesant, a Brooklyn – in cui il Signore è bilingue e si sporca le mani con
il grasso di pneumatici e carrozzerie carbonizzate: «Cristo viene pronto /
Fix Used Tires/ Made Keys / Jesus Remember me…».
BIBLIOGRAFIA
R. Marie Griffith, American Religions: a Documentary History, Oxford University
Press, New York 2008.
Keith Harper (ed.), American Denominational History: Perspectives on the Past,
Prospects for the Future, University of Alabama Press, Tuscaloosa 2008.
Charles H. Lippy, Peter W. Williams (eds.), Encyclopedia of Religion in America,
CQ Press, Washington 2010.
Kevin Phillips, American Theocracy: The Peril and Politcs of Radical Religion, Oil,
and Borrowed Money in the 21st Century, Viking, New York 2006.
c. sCAR.

Quilt
Oggetto di infinite pubblicazioni (manuali fai da te, campionari fotografici
ecc.) diffuse ormai in tutto il mondo, il quilt è un copriletto composto di
strati imbottiti nel mezzo e cuciti insieme. La variante più originale è quella
del patchwork quilt, fatto di pezzi di stoffa di colore e foggia diversi. I libri –
innumerevoli – dedicati all’arte povera del quilt riportano alcune varianti
circa la sua fabbricazione. Secondo la vulgata più comune, sarebbe formato
di tre strati: il primo, superiore, a fantasia; il terzo, inferiore, un telo
semplice; il secondo, intermedio, riempito di cotone, lana grezza, poliestere
morbido, o una vecchia coperta; le tre falde sarebbero unite da punti
ricamati.
La storia del quilt si intreccia a quella della Frontiera (→),
sovrapponendosi alla migrazione di massa verso ovest. Il patchwork quilt,
con l’uso di tessuto riciclato da vecchi indumenti, si presta fin da subito a
diventare una magnifica metafora per la vita nel Nuovo mondo,
suggerendone l’eterogeneità composita. Nella quotidianità frusta e difficile
dei coloni e delle loro donne, l’istituzione dei quilting bees, gli incontri
comunitari deputati alla sua creazione costituiscono una delle poche
occasioni di socializzazione della seconda metà dell’Ottocento. Isolate in
fattorie sperdute nel Midwest rurale, alle prese con un universo dominato
dalla fatica fisica, da animali, insetti, terra e fango, le donne della frontiera
convertono le attività collettive di quilting in altrettanti momenti di
convivialità e di armonia, in cui creare ordine e bellezza a partire dal
rammendo, dal ricamo e dalla cucitura degli scampoli di un’esistenza per lo
più tetra e stentata.
Oltre a essere simbolico dell’inesauribile creatività femminile, il quilt
richiama anche i valori fondanti di frugalità, autosufficienza e austerità
economica propri della religione protestante a cui aderisce gran parte dei
pionieri. E sono sempre le donne le protagoniste di un’altra storia legata a
essi, portata alla luce da un recente studio di J.L. Tobin e R.G. Dobard che
racconta come, nel ventennio precedente la Guerra civile, essi diventino
strumento di liberazione per gli schiavi fuggiaschi in rotta verso gli stati
liberi lungo la cosiddetta Underground Railroad (→). Esposti a prender aria
sul davanzale o sulle staccionate delle ville padronali, i quilts porterebbero
infatti iscritte nei motivi geometrici dei loro disegni indicazioni segrete che
segnalavano agli schiavi le direzioni da seguire o un posto sicuro in cui
trovare riparo nella notte.
Se, nella prima metà del Novecento, con l’allargamento continentale del
mercato dei consumi, il quilt assume valore commerciale, entrando, già a
partire dagli anni trenta, nei cataloghi di vendita per corrispondenza (→
Cataloghi) come passatempo casalingo borghese assai raccomandabile
perché laborioso e all’insegna della parsimonia, il ricorso al mestiere di
arrangiarsi con gli scarti rimane, almeno fino agli anni cinquanta, una
strategia di sopravvivenza fondamentale nella vita e nell’immaginario degli
americani poveri, soprattutto nelle comunità rurali o minerarie (→
Appalachia).
In origine, manufatto di folk art prodotto, così come la country music (→
Grand Ole Opry), in reti comunitarie, il quilt è espressione della vitalità
regionale del paese. Tuttavia, come accade spesso nella formazione delle
culture nazionali, in cui il locale contiene in sé l’universale influenzandone
gli sviluppi identitari, sul finire del XX secolo il quilt è ormai simbolo di un
carattere geografico e antropologico americano che da decentrato e
marginale diviene centrale e nazionale. Grazie al suo assemblaggio
molteplice, esso si trasforma quindi in icona del multiculturalismo a stelle e
strisce, un insieme disuguale eppure affascinante. Qualche critico arriva
persino a proporlo come metafora sostitutiva del logoro melting pot (→).
Una delle prove più tangibili della sua potenza evocativa nella cultura
statunitense di fine secolo scorso è l’Aids Memorial Quilt, avviato nel 1987
dall’attivista gay di San Francisco Cleve Jones e, a oggi, il più grande
progetto di arte collettiva del mondo. L’idea di mettere insieme, uno
accanto all’altro, una serie di quilt in memoria dei caduti dell’epidemia di
Aids nella città del Golden Gate (→) viene a Jones mentre organizza una
marcia per i diritti dei gay in occasione dell’anniversario degli assassinii di
Harvey Milk e George Moscone (→ Castro). Nel 1996, l’enorme Memorial
Quilt – teso, nel frattempo, a includere contributi su scala nazionale –
ricopre, nella sua interezza, il National Mall di Washington per una mostra
di grande impatto. Le ultime stime del Names Project – la cui fondazione ha
ora sede ad Atlanta, Georgia – parlano di circa 46mila quilts individuali.
Il film documentario del 1989 ispirato all’opera concepita da Jones e
narrato da Dustin Hoffman non può che chiamarsi Common Threads: Stories
from the Quilt – fili di vita comune che, orditi dal basso, si fanno storia e
memoria condivisa.

BIBLIOGRAFIA
Alessandro Portelli, Il testo e la voce. Oralità, letteratura e democrazia in America,
Manifestolibri, Roma 1992.
Jacqueline L. Tobin, Raymond G. Dobard, Hidden in Plain View: a Secret History
of Quilts and the Underground Railroad, Anchor Book, New York 2000.
Cheril B. Torsney, Judy Elsley, Quilt Culture: Tracing the Pattern, University of
Missouri Press, Columbia 1994.
C. SCAR.
[R]

Radio
Quando, il 2 novembre del 1920, la Kdka Radio di Pittsburgh irruppe
nell’etere con la prima trasmissione radiofonica, nessuno avrebbe potuto
immaginare la rapidissima diffusione al quale il nuovo mezzo di
comunicazione di massa era destinato nei decenni successivi. Basti solo
pensare che, nel giro di un decennio, negli Stati Uniti nacquero più di
seicento stazioni radio (fra cui le prestigiose Nbc, nel 1926, e Cbs, nel 1928)
capaci di raggiungere il 40% della popolazione nazionale.
Con la rapida costituzione di network in grado di amplificare la portata
del messaggio, la radio dispiegò fin da subito il suo potenziale commerciale,
attirando l’interesse di pubblicitari e sponsor, che seppero abilmente
interpretare le aspettative del pubblico. Dal momento che quest’ultimo,
anche durante i primi anni della Grande depressione (→), ricercava in
prevalenza un intrattenimento in grado di allontanare per qualche ora le
preoccupazioni e le angosce per il futuro, gli speeches che avevano
caratterizzato gli anni venti vennero presto sostituiti da formati meno
seriosi e più redditizi, decisi a tavolino dalle grandi agenzie di pubblicità che
curavano la realizzazione dei programmi, la scelta dei conduttori, attori,
musicisti e autori, e infine offrivano il prodotto a uno sponsor in grado di
finanziarlo, per poi venderlo o affittarlo all’emittente radiofonica. Gli
intenti didattici della radio passarono così rapidamente in secondo piano, la
musica classica finì in soffitta e dal 1929 in avanti nacquero e fiorirono il
varietà (The Fleishman Hour), la commedia seriale (Amos ’n’ Andy e The
Goldbergs), serial d’avventura e thriller (The Lone Ranger, The Shadow, Ellery
Queen), oltre alle popolari sketch comedies, in cui un singolo attore, che si
esibiva in studio davanti a un ristretto pubblico, impersonava macchiette e
stereotipi. Attingendo alla cultura popolare, alla tradizione umoristica e al
tall tale (→), le sketch comedies contribuirono a fissare nell’immaginario
comune le figure rese celebri dalla letteratura: il vagabondo (Will Rogers), il
povero immigrato (Eddie Cantor), il cowboy filosofo e umorista (di nuovo
Will Rogers) sublimavano attraverso una sagace ironia la sfiducia che era
cifra tipica di quegli anni. Certo, non era semplice creare un personaggio
definito e riconoscibile potendosi avvalere solo della voce: e così
l’interpretazione di questi caratteri era quasi sempre affidata ai tanti
comedians rimasti senza lavoro dopo la chiusura di molti teatri di vaudeville
(→), riconvertiti a partire dagli anni venti in sale cinematografiche.
E va detto che, disoccupazione degli attori a parte, cinema e radio ebbero
per lungo tempo un rapporto difficile: se la radio si orientò su programmi di
genere per tenere testa alle grandi produzioni hollywoodiane, il cinema finì
per copiare molte serie radiofoniche, dando corpo e volto ai personaggi
evocati dalla radio. Fu una guerra senza esclusione di colpi (bassi), con
produttori cinematografici che cercavano di piegare la radio a cassa di
risonanza per i loro prodotti (anche mediante l’acquisto di emittenti
radiofoniche), radio che aumentavano la programmazione seriale per legare
a sé il pubblico; cinema che organizzavano lotterie a fine proiezione per
ingolosire il pubblico con il richiamo del denaro sonante e strapparlo al
focolare domestico (e alla radio) – fino al divieto, imposto dalle case
cinematografiche agli attori, di prender parte ai programmi radiofonici.
Questa tormentata relazione di amore-odio fra radio e grande schermo
migliorò tuttavia verso la fine degli anni quaranta, quando i palinsesti
radiofonici si arricchirono di programmi dedicati allo star system
hollywoodiano, con interviste, promozioni e, ovviamente, tanto gossip.
Molto prima della tv, fu infatti la radio a trasportare spettatori e spettatrici
in mondi lontani e patinati, facendoli sognare a occhi aperti grazie alle
improbabili trame delle soap opera (chiamate così perché gli sponsor delle
prime serie erano ditte di saponi: negli anni quaranta, toccavano il 60%
della programmazione diurna), catapultandoli nelle vite di star del cinema,
oppure tentandoli in modo assai più prosaico con i premi dei tanti quiz
shows.
Prima e ancor più di altri media, la radio contribuì a rafforzare il senso di
unità nazionale (pur mantenendo e incoraggiando, con le piccole stazioni
radio, dimensioni locali): offrì agli americani la percezione di essere
davvero un «noi», coeso anche grazie alla condivisione simultanea
dell’ascolto. Si può dire che la radio fece quanto le infrastrutture avevano
fatto fino ad allora per lo spazio: non portò solo al rafforzamento di un
immaginario culturale comune, ma anche a una crescente sincronizzazione
dei ritmi di vita quotidiani e alla codificazione di comportamenti sociali su
scala nazionale. A prendere il sopravvento fu, come era prevedibile, il ritmo
della città. La serializzazione degli spettacoli (divisi in time blocks da 15 o 30
minuti, eccezion fatta per riduzioni di film o spettacoli teatrali, che
raggiungevano l’ora e mezzo) rifletteva la precisa routine calibrata sui ritmi
del lavoro della vita metropolitana e dei suburbs, dove il pubblico femminile
ascoltava per lo più la radio al mattino o nel primo pomeriggio, mentre
svolgeva le faccende domestiche; la sera il palinsesto era pensato invece per
il marito di ritorno dal lavoro oppure per l’intera famiglia, raccolta intorno
all’apparecchio così come un tempo ci si riuniva intorno al focolare.
Non che la radio avesse rinunciato del tutto ai suoi propositi sociali, anzi:
i notiziari riuscirono sempre a mantenere un ruolo di primo piano. Tale
ruolo si rafforzò intorno alla metà degli anni trenta, quando svago e
distrazione non bastavano più a placare le ansie e le paure dell’americano
medio, con la crisi che bussava alla porta minacciando di privare le famiglie
dei propri averi – radio inclusa. Furono il rapporto immediato e privato
(ancorché monodirezionale) di quest’ultima con l’ascoltatore, la presenza
di voci familiari e la capillarità di diffusione a riscuotere non solo il
gradimento del pubblico, ma a conquistarne anche la fiducia – tanto che,
con l’acuirsi della crisi economica, la radio era considerata più attendibile
rispetto ai giornali. Questo non sfuggì a un abile comunicatore come
Franklin Delano Roosevelt che, su suggerimento dello scrittore Sherwood
Anderson, una volta alla settimana istituì con gli americani un filo diretto
via etere: spogliate le vesti ufficiali di presidente e indossate quelle del buon
padre di famiglia, Roosevelt raccolse gli americani intorno alle radio con i
suoi Fireside Chats, «le chiacchierate al caminetto», che mostravano un
leader capace di abbattere le distanze fra istituzioni e cittadini.
Una fiducia che, proprio per la dimensione quasi intima che lega la radio
al suo pubblico, poteva facilmente essere tradita, fosse anche solo per
scherzo. E così, quando la sera di Halloween del 1938 la potente voce di
Orson Welles irruppe nelle case degli americani per informarli che nel New
Jersey era in atto un’invasione di alieni, i quaranta minuti di finto bollettino
di guerra (senza interruzioni pubblicitarie, e per questo ancor più credibili)
furono interpretati da molti ascoltatori come la cronaca in diretta di un
evento reale, e non come un radio drama orchestrato con sapienza, basato
sulla lettura del romanzo distopico La guerra dei mondi (1898) di H.G. Wells. Il
panico che seguì rimase negli annali della storia americana.
Chiacchierate, quiz, adattamenti teatrali, notizie: ma la radio fu anche il
primo canale di diffusione della musica. Dopo l’esordio negli anni venti
affidato alla musica classica, il proliferare di radio locali fece sì che la
programmazione musicale attingesse anche al patrimonio folklorico locale
(è il caso di Woody Guthrie, che proprio nelle piccole stazioni radio locali
iniziò la carriera di «cantore popolare» → Newport Folk Festival; → «Which
Side Are You On?»). Country e folk arrivarono dunque ad avere una rapida
diffusione nei decenni successivi, mentre a rimanere esclusa dai circuiti
principali (a causa della discriminazione razziale) fu la musica
afroamericana – una rimozione che riuscì persino a far passare in sordina i
trionfali tour di Duke Ellington e Louis Armstrong del 1935. Jazz, ragtime e
consimili faranno il loro ingresso in radio solo dopo la Seconda guerra
mondiale, quando sempre più emittenti si riveleranno anticipatrici e
scopritrici di nuove tendenze e talenti (→ Ragtime & Honky Tonk; →
Bebop).
Negli anni cinquanta e poi sessanta, la radio si trovò infatti a mutare
(talvolta in modo radicale) il proprio ruolo sociale. Via via soppiantata dalla
televisione, che divenne il principale veicolo di intrattenimento popolare, e
al contempo indebolita dalla crescita dell’industria discografica (con il
boom delle vendite di vinili dal 1948 in poi), cambiò sia forma che sostanza:
conquistò il pubblico adolescenziale e postadolescenziale e invase le strade,
trasformandosi da rassicurante parte del mobilio domestico in onnipresente
compagna di viaggio – il tutto grazie al boom delle autoradio e, un paio di
decenni più tardi, del Walkman. Nei suoi nuovi volti controculturali, la radio
fu l’artefice del successo di personaggi trasgressivi come il bianco che
cantava e si muoveva da nero (Elvis Presley → Graceland); oppure di disk-
jockey che divennero autentiche star, come Wolfman Jack, il pirata che, con
le sue trasmissioni prima dal Messico e poi da Los Angeles, conquistò cuori e
orecchie di tanti giovani americani fra gli anni sessanta e settanta.
In opposizione ai grandi network molte furono le piccole emittenti radio
che diffusero via etere il dissenso verso l’establishment culturale e politico,
e non da ultimo verso le guerre in cui gli Stati Uniti erano coinvolti –
Vietnam in primis. Non può non venire qui alla mente il film che di quella
guerra ha saputo raccontare le contraddizioni partendo dalla storia di un
programma radiofonico: quel Good Morning Vietnam (1987) di Barry
Levinson, in cui il disk-jockey ribelle Adrian Cronauer (Robin Williams)
conquista le truppe al fronte e l’amicizia dei civili grazie al suo
anticonformismo e alla sua vitalità – caratteristiche che lo renderanno
inviso alle gerarchie militari.
Ebbene sì: dopo tanti anni di amore-odio, la radio divenne anche
protagonista al cinema (e poi nelle serie televisive) – e non solo nelle strette
vesti di colonna sonora. Se in The Next Voice You Hear (1950) di William
Wellman essa rappresenta addirittura la voce di Dio, che per giorni
comunicherà con gli esseri umani attraverso l’etere, una trentina di anni
dopo sarà la radio a diventare un onnisciente e invisibile deus ex machina,
che accompagna la corsa verso il nulla del protagonista di Punto zero di
Richard Sarafian (1971), o che incombe sul viaggio di ritorno della banda dei
Warriors («guerrieri») dal Bronx a Coney Island nell’omonimo film di Walter
Hill (1979; in italiano I guerrieri della notte). Nel frattempo, essa verrà anche
rappresentata come strumento capace di intrecciare i fili della narrazione e
delle vite in anonimi sobborghi, cadenti smalltowns (→ Piccole città) e
persino in lande desolate: unisce con la sua presenza le vicende dei giovani
protagonisti di American Graffiti (1973) di George Lucas; l’ormai anziana
comunità di un paesino del Minnesota in Radio America (2006) di Robert
Altman; i pochi abitanti dei boschi dell’Alaska della serie tv (→) Northern
Exposure (1990-1995; in italiano Un medico tra gli orsi); fino a scandire il tempo
della giungla urbana di Spike Lee in Fa’ la cosa giusta (1989). Né mancano le
pellicole in cui la radio (specie di stazioni locali) diventa ingrediente
principale di thriller ad alta tensione (Brivido nella notte, primo film diretto
da Clint Eastwood, nel 1971) o di horror agghiaccianti (Fog, di John
Carpenter, del 1980).
E se il cinema non mancherà di rievocare con nostalgia i bei tempi andati
della radio (spesso velandoli di una leggera ironia, come in Radio Days, di
Woody Allen, del 1987), essa arriverà nella fiction a trasformarsi in una sorta
di lettino virtuale dello psicanalista ed esplorare le paure e i tabù della
società, come avviene in Frazier (1993-1997), serie tv il cui omonimo
protagonista è uno psichiatra-conduttore di una celebre trasmissione
radiofonica.
Il ruolo (pseudo)terapeutico della radio e più in generale gli ambigui
rapporti di intimità/anonimato che corrono nell’etere mostreranno, nella
fiction come nella realtà, anche i loro lati più oscuri; a emergere saranno così
le nevrosi e le frustrazioni degli ascoltatori, le crudeltà del mondo dello star
system radiofonico, le meschinità e megalomanie dei suoi protagonisti.
Esemplare in tal senso è Voci nella notte (1988) di Oliver Stone –
trasposizione cinematografica dell’assassinio del conduttore radiofonico
Alan Berg nel 1984 a Denver per mano di un fondamentalista religioso che
mal tollerava la sua spregiudicatezza e la sua feroce gestione del mezzo
radiofonico. Barry Champlain, il cinico e spietato disk-jockey del film, e il
suo rapporto sadico con il pubblico sono prodotto e riflesso della società
contemporanea: come in un’eco distorta, Barry accumula e restituisce la
crudeltà, la rabbia e il masochismo di chi, nonostante tutto, continua ad
ascoltarlo, fino a divenire la vittima sacrificale dell’odio che lo circonda. E
dopo che la mano animata da quell’odio lo colpirà, a restare sarà solo la
voce (la sua e gli echi di coloro che ne commenteranno la morte),
sublimazione estrema dell’individuo nel medium radiofonico.

BIBLIOGRAFIA
J.F. McDonald, Don’t Touch That Dial! Radio Programming in American Life from
1920 to 1960, Nelson Hall, Chicago 1979.
Franco Minganti, Modulazioni di frequenza. L’immaginario radiofonico tra
letteratura e cinema, Campanotto, Prato 1997.
C. SCHIA.

Rags to riches
Con i suoi romanzi costruiti intorno alla formula rags to riches («dagli stracci
alla ricchezza», «dalle stalle alle stelle»), nessuno scrittore più di Horatio
Alger ha incarnato – e incarna tuttora – il mito americano del successo, nel
senso di prosperità materiale conquistata attraverso duro lavoro, abilità,
spirito intraprendente e, soprattutto, onestà. Il mito ha prevalso sulla realtà
storica di un individuo che continuò a scrivere a ritmo forsennato per oltre
trent’anni, incalzato dalle necessità finanziarie, e per questo non si fece
scrupolo di riciclare intrecci e personaggi: con una punta di sarcasmo, il
critico Quentin Reynolds affermò che Alger in realtà scrisse un solo libro e
in seguito lo riscrisse per altre 118 volte.
Nato nel 1832 a New Chelsea, Massachusetts, il giovane Horatio Jr.
sembrava destinato a ripercorrere le orme del padre, rispettato ministro
unitariano. Ottenuto un incarico a Brewster dopo gli studi di teologia a
Harvard, Horatio Jr. fu però costretto a dimettersi perché accusato da alcuni
parrocchiani di essere «colpevole del più abominevole dei crimini, avendo
intrattenuto un’innaturale familiarità con alcuni ragazzi». Dovendosi
inventare una nuova fonte di sostentamento, Alger si dedicò alla scrittura di
romanzi per ragazzi. Il momento era propizio, visto il successo commerciale
che la casa editrice Beadle & Adams aveva riscosso sin dal 1860 con i dime
novels (→). Le trame inverosimili e complesse, le ambientazioni esotiche,
l’universo morale dove «buoni» e «cattivi» erano facilmente riconoscibili,
andavano a soddisfare il bisogno di svago di un pubblico crescente di lettori
poco alfabetizzati. Le case editrici erano a caccia di nuovi e improvvisati
hack writers, scrittori da quattro soldi, disposti a produrre parole, frasi,
personaggi e situazioni un tanto al chilo.
Nel 1867, con Ragged Dick; or Street Life in New York with the Boot-Blacks
(Dick lo straccione, o vita di strada tra i lustrascarpe di New York), pubblicato a
puntate sulla rivista Student and Schoolmate, Alger ottenne un enorme
successo e il suo primo bestseller. La trama è molto semplice: l’orfano Dick
vive alla giornata guadagnando qualche soldo come lustrascarpe, ma, spinto
dal desiderio di diventare una persona rispettabile, abbandona la strada,
impara a leggere e scrivere, compra un vestito che lo rende presentabile e
apre un conto in banca. Prima della conclusione, il figlio di un ricco
industriale cade nell’East River e Dick ha modo di mostrare il suo
temperamento eroico nel difficile salvataggio, ottenendo come ricompensa
una posizione da impiegato – il primo passo della scalata sociale che si
articolerà nei sei successivi romanzi della serie.
Un fattore non secondario del successo di Alger fu la capacità di sfruttare
la curiosità del pubblico per i misteri della città: Dick, a suo agio per le
strade di New York come un’esperta guida indiana nei sentieri della
prateria, conduce il gentiluomo forestiero Frank Nolan (e, tramite lui, anche
il lettore) alla scoperta della metropoli. Il protagonista aiuta Frank a
interpretare correttamente i personaggi e le situazioni che compongono il
paesaggio urbano, proteggendolo dalle trappole tese da truffatori e
commercianti disonesti: «Bisogna essere scaltri in questa città», dice Dick al
sempre più interdetto Frank, «altrimenti riescono a rubarti anche i denti
senza che te ne accorga».
Negli anni successivi, Alger propose innumerevoli variazioni sul tema,
dando vita a un prototipo di personaggio che s’è radicato in profondità
nell’immaginario culturale degli Stati Uniti. La riprova au contraire di questo
radicamento si ha nell’insistenza con cui generazioni successive di scrittori
fecero i conti con il «mito di Horatio Alger», rivoltandolo o decostruendolo.
È il caso, per esempio, di Abraham Cahan con il romanzo The Rise of David
Levinsky (1917), il cui protagonista, un immigrato arrivato negli Stati Uniti
senza soldi né mestiere, intraprende un percorso di integrazione nella
società statunitense e, grazie al successo nel settore dell’abbigliamento, si
trasforma in un perfetto borghese americano, ma non riesce a venire a patti
con l’identità acquisita, e né il successo né l’agiatezza allontanano il senso
di vuoto e solitudine che accompagnano la sua scalata sociale. L’eroe di
Alger verrà poi rivisitato da Francis Scott Fitzgerald ne Il grande Gatsby
(1925), in cui il giovane squattrinato James Gatz non esita a entrare in affari
con loschi individui per reinventare se stesso nel facoltoso Jay Gatsby e
poter così riconquistare Daisy, la fiamma di gioventù a cui aveva dovuto
rinunciare per la marcata disparità sociale. La sua tragica fine, per mano del
meccanico Wilson, è l’amaro epilogo del sogno che aveva animato il
protagonista, un sogno omologo a quello dei primi coloni olandesi, i quali,
scorgendo dalle loro navi la lussureggiante vegetazione di Long Island, «si
erano trovati faccia a faccia per l’ultima volta nella storia con qualcosa di
commisurato alla loro capacità di provare meraviglia». Anche Nathanael
West rivisiterà, in negativo, il «mito di Alger» in A Cool Million (1935) – come,
d’altra parte, non poté non fare, per motivi molto evidenti, l’ampia
produzione letteraria degli anni della Grande depressione (→).
Nonostante queste e numerose altre decostruzioni, il mito ha resistito e,
come scrive il corpulento regista Michael Moore nel libro Ma come hai ridotto
questo paese? (2003), Horatio Alger è una medicina che «ci viene prescritta
fin da piccoli sotto forma di una favola, ma una favola che può diventare
realtà! […] Il messaggio era che in America tutti possono farcela, e alla
grande. Questo mito “dalle stalle alle stelle” è diventato una specie di droga
per noi americani».
Nel 1899, sentendo la fine vicina, Alger chiamò a sé il giovane scrittore
Edward Stratemayer e gli propose di completare l’ultimo libro al quale
stava lavorando, intitolato – quasi fosse una profezia – Out of Business.
Stratemayer, anticipando una pratica che, alcuni decenni più tardi, si
sarebbe riproposta nella periodica scoperta di nastri inediti registrati da
rockstar morte prematuramente, non solo completò Out of Business, ma
(oltre a inaugurare una serie analoga di romanzi per ragazzi, quella dei
«Rover Boys») pubblicò negli anni successivi altri dieci libri a nome di Alger,
utilizzando appunti e manoscritti incompleti. E, non essendoci eredi cui
rendere conto – Alger non si sposò né ebbe figli –, tenne i proventi tutti per
sé: dalle stalle alle stelle.

BIBLIOGRAFIA
Michael Denning, Mechanic Accents. Dime Novels and Working Class Culture in
America, Verso, London-New York 1998.
Marylin H. Karrenbrock, «Horatio Alger, Jr.», in Glenn E. Estes (eds.),
Dictionary of Literary Biography. Vol. 42: American Writers for Children before
1900, Thompson Gale, Detroit 1985.
John W. Tebbel, From Rags to Riches. Horatio Alger and the American Dream,
Macmillan, London 1963.
S.M.Z.

Ragtime & Honky Tonk


«Penso che la gente di colore di questo paese abbia fatto quattro cose che
confutano la teoria secondo la quale sono una razza assolutamente
inferiore, perché dimostrano di avere originalità e creatività artistica, e,
inoltre, di poter creare qualcosa che ha influenza e richiamo universale», e
una di queste è il ragtime, almeno secondo l’anonimo narratore di
Autobiografia di un ex uomo di colore (1912), romanzo dell’afroamericano
James Weldon Johnson (→ Passing). «Nessuno di coloro che ha viaggiato»,
continua il testo, «può mettere in dubbio l’influenza che ha acquisito nel
mondo il ragtime, e non penso che sarebbe esagerato dire che in Europa gli
Stati Uniti sono noti più per il ragtime che per qualsiasi altra cosa abbiano
prodotto in una generazione». L’establishment Wasp (→) era invece di
tutt’altro avviso, almeno agli inizi della parabola di questo genere musicale:
autoproclamati custodi dell’eccellenza musicale sostenevano che il ragtime
fosse nato da errori di esecuzione dei pianisti neri. Per di più, l’eccessivo
uso di ritmi sincopati attentava alle virtù morali e intellettuali: eminenti
psichiatri arruolati alla causa del perbenismo vittoriano testimoniarono che
gli unici bianchi che apprezzavano il ragtime erano i pazzi schizofrenici.
Il motivo di tanta diffidenza stava nell’esasperato ritmo sincopato da cui
il ragtime prende il nome: l’espressione ragged time («tempo a brandelli» o
«tempo stracciato») indica per l’appunto questo tratto distintivo della
melodia suonata dalla mano destra, mentre la sinistra cadenzava in maniera
pronunciata una battuta di due quarti, come nelle marce. In realtà, la
campagna diffamatoria nascondeva tutto il disappunto di un’élite sociale
rimasta spiazzata e sorpresa dalla strabiliante popolarità, anche tra la buona
società, di una musica «inventata» dai neri. Non migliorava le cose il fatto
che il ragtime diventasse sottofondo per nuovi balli scatenati che, secondo i
benpensanti, facevano emergere il lato animalesco delle persone.
Nato nelle bettole di St. Louis (uno dei centri fu il Rosebud di Tom
Turpin) dai tentativi di imitare con il piano il modo particolare con cui
veniva suonato il banjo nei minstrel shows (→), il ragtime cominciò a
diffondersi dopo la World Columbian Exposition di Chicago, del 1893 (→
Esposizioni universali; → White City). Tanti pianisti afroamericani erano
accorsi nella città dell’Illinois per trovare un ingaggio nei saloon (→) che
spuntarono da un giorno all’altro per intercettare i turisti accorsi alla fiera:
qui, i musicisti, che spesso davano vita a duelli di virtuosismo, si
scambiarono esperienze e si influenzarono a vicenda, perfezionando il
nuovo genere musicale e facendolo conoscere a un vasto pubblico. Negli
anni successivi, il ragtime cominciò la sua ascesa. Nel 1897, fu pubblicato lo
spartito di «Harlem Rag», composizione scritta da Turpin cinque anni prima
e da molti ritenuta il primo brano ragtime, mentre del 1899 è «Maple Leaf
Rag» di Scott Joplin, il pianista che ne divenne il più famoso interprete e
compositore. Anche Joplin aveva trascorso qualche mese a Chicago nel 1893:
sempre elegante in un impeccabile completo scuro, meno forsennato
nell’esecuzione ma più attento alla struttura melodica rispetto ai colleghi,
Joplin conquistò il pubblico borghese e fu uno dei principali artefici del
successo del ragtime – suo è anche «The Entertainer», motivo del 1902, che
viene più volte ripetuto nel film La stangata (1973) e sue sono anche le prime
opere musicali afroamericane, «A Guest of Honor» (1903) e la celebre
«Treemonisha» (1910-1911, ma riscoperta solo nel 1970: cosa che valse a
Joplin il premio Pulitzer postumo).
Il ragtime accompagnò l’ascesa internazionale degli Stati Uniti in campo
politico e culturale e ben rappresentò quel misto di moderna freschezza e
selvaggia ingenuità che gli attribuivano gli osservatori europei. Non
stupisce allora che E.L. Doctorow abbia scelto di intitolare Ragtime (1973) il
romanzo in cui ricostruisce la New York dei primi del Novecento, periodo
che segnò il picco di popolarità di questo genere musicale. Attraverso le
vicende di due famiglie, una Wasp e una di immigrati ebrei, e di un
afroamericano deciso a non accettare un torto, Ragtime esplora alcune delle
più importanti questioni dell’epoca (il razzismo, il radicalismo operaio, la
nascita di una nuova cultura popolare di massa), facendo ricorso a un’ampia
galleria di personaggi storici «cooptati» dall’autore, da Henry Ford (→
Model T) a J.P. Morgan (→ Robber barons), dall’attivista Emma Goldman
all’architetto Stanford White, da Booker T. Washington (→ Tuskegee) a
Sigmund Freud – e propone un messaggio non tanto nascosto: i grandi
personaggi non sono altro che figure di comprimari nella narrazione della
storia e per comprenderla davvero occorre guardare alle oscure vite
quotidiane dei protagonisti ignorati dai libri di testo.
Lo stesso ragtime, a pensarci bene, sta a dimostrarlo. Questa musica
«rivoluzionaria» e «americana» è nata attraverso scambi, travasi, incontri,
che hanno prodotto un cortocircuito culturale che ha interessato centri
tanto lontani, come St. Louis e Chicago. Il punto di origine, però, sono gli
honky tonks, gli scalcinati bar del Sud dove si servivano bevande alcoliche e
si offriva intrattenimento musicale. Il termine honky tonk ha origini difficili
da tracciare: ma honk potrebbe derivare da hunky, con cui si designavano gli
immigrati ungheresi, mentre tonk potrebbe fare riferimento al piano.
Tra le varie forme del ragtime, esiste anche una honky tonk music che,
rispetto al genere di partenza, enfatizzava la parte ritmica e pare sia nata da
un’esigenza pratica: i pianoforti erano spesso scordati e di conseguenza
l’esecutore era quasi costretto a mettere in risalto l’accompagnamento a
scapito della melodia. Ma, inebriati dalla birra o impegnati nel ballo, erano
in pochi ad accorgersene.

BIBLIOGRAFIA
Edward A. Berlin, Ragtime: A Musical and Cultural History, iUniverse, Lincoln
2002.
Gildo De Stefano, Storia del ragtime. Origini, evoluzione, tecnica. 1880-1980,
Marsilio, Venezia 1984.
Katherine Preston, Scott Joplin, Composer, Melrose Square Publishing
Company, Los Angeles 1988.
S.M.Z.

Rap
La pubblicazione, nel novembre 2010, della Anthology of Rap da parte della
Yale University Press, una delle più prestigiose case editrici accademiche,
ha sancito la consacrazione del rap (da to rap, «parlare velocemente»), il
movimento musicale nato nelle strade del South Bronx (→ Bronx) negli
anni settanta del Novecento, a fenomeno culturale autentico: in un sol
colpo, sono state cancellate tutte le critiche che gli erano state mosse fino
dalla sua comparsa – che non si trattasse né di musica né di poesia, che i
testi fossero «vuoti» e privi di significato o peggio incitassero alla violenza
contro le forze dell’ordine o alla misoginia – e che avevano portato nel
corso degli anni novanta perfino a convocare udienze speciali al Congresso.
L’uscita dei primi due 45 giri rap, nel 1979, colse di sorpresa gli addetti ai
lavori: in «Rapper’s Delight» della Sugarhill Gang e «King Tim III
(Personality Jock)» della Fatback Band, il testo non veniva cantato ma
recitato e la base musicale non era suonata da un gruppo ma ricavata dalle
incisioni di altri artisti, assemblate per l’occasione da un dj. Di cosa si
trattava? Un ascolto ravvicinato di «Rapper’s Delight» può dare qualche
risposta. La canzone utilizzava la base musicale di «Good Times», un brano
degli Chic uscito solo qualche mese prima. Il gruppo, composto da musicisti
afroamericani, era uno dei più popolari interpreti della disco music e si
presentava alle esibizioni sfoggiando, in conformità con il nome, abiti
eleganti e costosi. La discoteca e gli abiti erano al di fuori della portata dei
neri che vivevano nel South Bronx e negli altri ghetti: i giovani potevano
ballare solo nelle feste in casa o nei raduni organizzati nei parchi e nelle
palestre, vestiti con jeans, t-shirt, tute e scarpe da ginnastica. In questi
party, nacque la cultura hip hop, i cui quattro pilastri – secondo la
definizione di un testimone dell’epoca, Afrika Bambaataa – erano i graffiti e
la breakdance, e la combinazione di dj e Master of Ceremonies, o Mc: il
primo selezionava brani musicali e creava un tappeto ritmico e sonoro sul
quale il secondo recitava versi in un microfono, cercando di coinvolgere i
partecipanti e farli ballare. Appropriandosi di «Good Times» e sostituendo il
testo originale con le parole del Mc, la Sugarhill Gang rivendicava uno
spazio per sé e per il suo pubblico – quei giovani che, per le loro condizioni
economiche, erano esclusi dal circuito ufficiale delle discoteche.
Del resto, il rapporto di contiguità tra i «musicisti» e il pubblico è
essenziale nel rap: lo scopo del recitativo improvvisato dal Mc è anzitutto
quello di dare forma a un’idea ritmica, e poi invitare i ragazzi e le ragazze a
scatenarsi in pista, rivolgendosi direttamente a essi, anche per nome, come
in un brano di Kurtis Blow, «Rappin’ Blow»( 1980): «Now if your name is
Annie / get up off your fannie / If your name is Clyde / get off your backside
/ if your name is Pete / you don’t need a seat / ’Cause I’m Kurtis Blow and
I’m on the go / Rocking to the rhythms in stereo («Se ti chiami Annie muovi
le chiappette / E si ti chiami Clyde alza il didietro / e se ti chiami Pete non
hai bisogno della sedia /perché io sono Kurtis Blow e sto partendo / sto
scatenandomi con i ritmi in stereo»).
Blow, Afrika Bambaataa e Grandmaster Flash sono riconosciuti come i
primi a «inventarsi» il ruolo di Mc nel corso dei raduni organizzati nei
ghetti neri di New York. Sarebbe però riduttivo identificare il processo di
elaborazione con un luogo specifico e attribuirne la responsabilità a una
ristretta cerchia di personaggi; il rap è in prima istanza un prodotto della
tradizione orale afroamericana e in esso confluiscono diversi fenomeni ed
esperienze: i Last Poets e Gil Scott-Heron (i quali declamavano poesie
accompagnati da una sezione ritmica), il toasting (recitazione monocorde sul
sottofondo di dischi reggae) proveniente dalla Giamaica, il jivescat
(improvvisazione vocale che segue il ritmo di una melodia nel jazz), il talkin’
blues, le voci dei predicatori e dei fannulloni agli angoli delle strade e altro
ancora.
Il senso del rap è dunque tutto nella sua dimensione orale, e all’oralità si
rifanno le tematiche principali trattate nei testi. Oltre alle istruzioni per
ballare, si ritrovano anche brani che tentano di ricostruire, quasi come nella
poesia omerica, la genealogia del movimento a beneficio dei giovani e di
coloro che non c’erano («Magic Wand», 1983, di Whodini), oppure racconti
della realtà quotidiana del ghetto («The Message», 1982, Grandmaster Flash)
o epiche narrazioni della lotta tra gang rivali («Rhyme Syndicate Coming
Through»), o ancora autocelebrazioni del Mc che si proclama «il più fico di
tutti gli altri colleghi» perché riesce a far ballare la folla e, sempre in quanto
«fico», è oggetto del desiderio di ogni donna.
Un’altra eredità del rap è l’avere assorbito e sublimato il bisogno
d’identità e di autoaffermazione che in precedenza era stato esclusivo
monopolio delle bande di strada (→ Gang). La difesa del territorio e la
volontà di dimostrare la propria forza hanno assunto le forme della sfida tra
gruppi di ballerini alle prese con la breakdance o di una tenzone tra Mc
rivali a colpi di rime, un botta e riposta che riprende l’antica tradizione dei
dirty dozens, un gioco di strada in cui i due contendenti danno fondo al loro
repertorio immaginativo e comico per insultarsi a vicenda. Nel rap, i dozens
sopravvivono nell’abitudine di usare i testi dei brani per rivolgere accuse di
vario tipo ad altri Mc e proclamarsi «il migliore sulla piazza»: confronti che
possono occupare l’arco di vari singoli, degenerando talvolta in scontri
violenti – come nel caso della cosiddetta «Bridge War», nella quale si sono
sfidati Mc Shan, con base nel Queens, e la casa discografica Krs-One,
originaria del South Bronx. Nel brano «The Bridge» (1985), Mc Shan
dichiarò che Queens era il luogo di origine dello hip hop, cui seguì la
risposta l’anno seguente nel brano «South Bronx»: «So you think that hip-
hop had its start out in Queensbridge / If you popped that junk up in the
Bronx you might not live» (Così sei convinto che l’hip hop sia nato a
Queensbridge / ma se tiri fuori queste scemenze nel Bronx potresti finire
morto). Il primo replicò con «Kill That Noise» (1987) e i secondi risposero
ancora con «The Bridge Is Over» (1987) – e lo scontro culminò
nell’uccisione nel 1987 di Scott la Rock, dj affiliato alla Krs-One. Un altro
episodio controverso fu il duello verbale tra i rappers Christopher Wallace
(alias Notorious B.I.G.) e Tupac Shakur, nel corso del quale il secondo incise
un brano in cui si vantava di aver avuto rapporti intimi con la moglie del
primo. Anche questo scontro ebbe un tragico epilogo: la morte violenta di
entrambi nel giro di pochi mesi tra il 1996 e il 1997, due omicidi ancora
insoluti.
È in questo periodo che il rap subì gli attacchi da parte dell’autorità
politica, allarmata per la diffusione del sottogenere noto come Gangsta rap,
nel quale prevale una autorappresentazione del Mc come uomo forte,
violento e amante della bella vita e del lusso. Alle origini di questa
immagine sta senza dubbio il vissuto personale di alcuni Mc passati dalla
strada alla sala d’incisione, com’è il caso di Shawn Corey Carter, alias Jay-Z,
ex spacciatore di Brooklyn e ora uno dei più acclamati e ricchi rapper in
circolazione. A ciò s’aggiunge però anche un sentimento di esclusione dalla
società, al quale il rapper reagisce cercando di costruire un’identità forte in
due modi: da un lato, con un atteggiamento aggressivo, per imporre la
propria presenza alla società bianca; dall’altro, con l’adesione all’etica del
consumo e del lusso, una via di partecipazione alla società stessa più veloce
e semplice rispetto alla rivendicazione politica di tale diritto. I Run Dmc
avevano dedicato un brano alle scarpe Adidas («My Adidas») già nel 1986,
ma gli appetiti dei nuovi rapper sono molto più costosi: un esempio è il testo
di «Money to Blow» («Soldi da buttare», 2009) del rapper Birdman,
orgoglioso di poter dire «sono ciò che non volevano io fossi», di permettersi
di bere champagne ventiquattro ore al giorno, di essere servito e riverito
nei negozi Gucci e guidare, alternandole, una Lamborghini, una Bentley o
una Ferrari.
Viceversa, l’impegno politico è sempre stato marginale nelle liriche rap.
Non sono mai mancate dichiarazioni che esplicitano il sentimento di
esclusione e alienazione dei neri rispetto alla società: in «Dead Presidents»
(1996), per esempio, Jay-Z dichiara di non sentirsi rappresentato da nessun
presidente, vivo o morto (con riferimento al grande emancipatore dalla
schiavitù, Abraham Lincoln), mentre nel controverso «Cop Killer» (1992),
Ice-T inveisce contro le forze di polizia di Los Angeles per la brutalità nei
confronti degli afroamericani ed esprime il desiderio di «get even», andare
a pari. Progetti animati da un più ampio respiro e un maggiore grado di
consapevolezza sono stati invece piuttosto rari. Le cose più riuscite portano
la firma dei Public Enemy, il cui Mc, Chuck D (alias Carlton Douglas
Ridenhour), ha sempre puntato su liriche che non fossero solo il pretesto
per accompagnare un ritmo, ma potessero rappresentare uno strumento
per veicolare messaggi, diretti non solo ai fan afroamericani. Tanti gli
esempi: in «Fight the Power», colonna sonora del film Fa’ la cosa giusta
(1989) di Spike Lee, il Mc dichiara di voler usare le rime «per riempire le
menti»; «Don’t Believe the Hype» punta il dito contro la rappresentazione
sensazionalistica dei neri che prevale nei media; al centro di «Fear of a
Black Planet»(1991) sta l’annosa questione della miscegenation (→), mentre
le parole e il videoclip di «Can’t Truss It» segnalano la continuità tra la
schiavitù dei campi di cotone e quella contemporanea delle fabbriche.
I Public Enemy furono protagonisti anche di una rara collaborazione con
il gruppo heavy metal newyorkese Anthrax, nelle cui fila militavano allora
tre italo-americani e un ebreo-americano. Nel 1991, i due gruppi
registrarono insieme una nuova versione di «Bring the Noise», un brano
scritto da Chuck D due anni prima, e in seguito andarono insieme in tour.
Simili attraversamenti della linea del colore (→) sono sempre stati piuttosto
rari nell’ambito della musica pop americana: val la pena a questo proposito
ricordare il passing (→) musicale di Marshall Bruce Mathers III, in arte
Eminem, il quale ha adottato il linguaggio del rap in quanto più adatto a
esprimere la marginalità sociale e raccontare l’esistenza disagiata dei
sobborghi di Detroit.

BIBLIOGRAFIA
Francesco Adinolfi, Suoni dal ghetto. La musica rap dalla strada alle hit-parade,
Costa & Nolan, Genova 1989.
Sara Antonelli, Anna Scacchi, Anna Scannavini, La babele americana: lingue e
identità negli Stati Uniti d’oggi, Donzelli, Roma 2005.
Jeffrey A. Ogbar, Hip Hop Revolution. The Culture and Politics of Rap, University
Press of Kansas, Lawrence 2007.
S.M.Z.

Red Scare
Il racconto di Francis Scott Fitzgerald May Day (Primo Maggio), pubblicato nel
1920 dalla rivista Smart Set, offre uno spaccato delle incertezze sociali
all’indomani del primo conflitto mondiale e presenta un’interessante
prospettiva attraverso cui avvicinare il biennio 1919-1920, diventato noto
per la cosiddetta «Red Scare» (Paura rossa). Seguendo le vicende di due
giovani reduci verso la loro tragica fine, Fitzgerald espone le difficoltà di
reinserimento nel tessuto sociale che impediva ai soldati tornati
dall’Europa di lasciarsi alle spalle la guerra e cominciare a costruirsi una
vita «normale». Il primo, Gordon Sterrett, perso il lavoro e compromessosi
con una donna, troverà l’unica via d’uscita in un colpo di pistola alla
tempia, mentre il secondo, Carrol Key, aggregatosi a un gruppo di ex
militari che mette a soqquadro la sede di una pubblicazione socialista, il New
York Trumpet, precipiterà da una finestra durante il saccheggio. L’epilogo è
ispirato a un episodio accaduto davvero il 1º maggio 1919, quando un
gruppo di soldati e marinai fece irruzione nella sede del New York Call e
malmenò alcuni membri dello staff.
Pochi giorni prima di quell’episodio, il sindaco di Seattle, Ole Hanson, e
un senatore dell’Indiana, Thomas R. Hardwick, avevano trovato nella
casella delle lettere due pacchi bomba, entrambi transitati da un ufficio
postale di New York, dove una trentina di altre missive esplosive erano in
procinto di essere spedite. I destinatari degli ordigni erano alcune famose
personalità, tra cui il banchiere J.P. Morgan, il magnate John D. Rockefeller
(→ Robber barons), il ministro della Giustizia Alexander Mitchell Palmer e il
ministro del Lavoro William Bauchop Wilson. Non si riuscì mai a scoprire il
mittente, ma i sospetti si rivolsero genericamente ai gruppi radicali e ai
militanti della sinistra. Ancora fresco era il ricordo dello sciopero generale
di Seattle, durante il quale i lavoratori portuali avevano bloccato la città per
cinque giorni, tra il 6 e l’11 febbraio, e solo l’intervento dei militari,
sollecitato da Hanson, aveva posto fine all’agitazione. E, più in generale, la
tensione sociale era stata altissima in tutto il decennio. Gli Iww (→
Wobblies) e altre organizzazioni sindacali avevano ripreso il filo delle
proteste del periodo pre-bellico (→ Sciopero!). L’apice fu raggiunto qualche
mese dopo, a settembre, quando a scioperare fu addirittura l’intero corpo di
polizia della città di Boston. Astenendosi dal lavoro, i poliziotti invitarono a
nozze malintenzionati di ogni tipo e la forza volontaria reclutata in fretta e
furia dal capo Edwin Upton Curtis riuscì solo in parte ad assicurare l’ordine.
Il governatore del Massachusetts (e futuro presidente) Calvin Coolidge
accusò gli scioperanti di essere «disertori» e «traditori», trascinando dietro
di sé la maggior parte dell’opinione pubblica. Il profondo astio manifestato
dalla gente comune intimidì i sindacati, che rinunciarono a proclamare lo
sciopero generale, dando tempo a Curtis di licenziare gli oltre mille membri
del corpo di polizia e assumerne 1500, pescando con facilità nel vasto
contingente di disoccupati e soldati smobilitati: tra l’altro, il contratto che
venne offerto, con un gesto di pura e semplice ripicca, accoglieva tutte le
richieste presentate dagli scioperanti.
Palmer, che si guadagnò il nomignolo di «quacchero combattente» («The
Fighting Quaker») per il suo atteggiamento battagliero, approfittò del clima
favorevole per lanciare la controffensiva contro i «rossi». In due riprese, a
novembre 1919 e gennaio 1920, ordinò numerose retate nelle redazioni di
giornali e riviste, sedi di partito e organizzazioni sindacali, uffici di club
privati sospettati di essere rifugio di «rossi». Noti come «Palmer raids», i
rastrellamenti portarono all’arresto di 6000 persone, il cui solo reato era
stato farsi sorprendere dalla polizia in quelli che erano ritenuti «rifugi di
sovversivi». Gli anarchici Emma Goldman e Alexander Berkman, catturati a
novembre, furono ammassati insieme ad altri 247 «indesiderati» sul cargo
«US Buford» e deportati in Finlandia (e di lì in Russia) il mese successivo.
Palmer giustificò le proprie iniziative agitando lo spettro della
rivoluzione comunista, che arrivò a preannunciare per il Primo maggio del
1920. La conseguenza fu quella di creare un clima di sospetto nei confronti
non solo di attivisti di sinistra e sindacalisti, ma anche di tutta quella parte
della società civile che aveva un atteggiamento progressista rispetto ai
diritti civili: riviste liberaleggianti quali The Nation e The New Republic non
erano viste di buon occhio, così come le associazioni per il voto femminile o
quelle religiose (la rivista radicale The Masses, importante punto d’incontro
fra militanti della sinistra e artisti impegnati, era già stata chiusa nel 1917
per il suo atteggiamento di aperto antimilitarismo e antinterventismo;
Eugene V. Debs, l’amato leader socialista, era stato imprigionato per
tradimento nel 1918 dopo un vigoroso comizio antimilitarista tenuto a
Canton, nell’Ohio; altre riviste militanti furono soppresse o censurate; sedi
di organizzazioni e sindacati perquisite e devastate). Nel 1922, Harper’s
Magazine ebbe il coraggio di pubblicare una veemente accusa a firma della
giornalista Katharine Fullerton Gerould: «Gli Stati Uniti non sono più un
paese libero… la libertà è diventata solo una figura retorica. Nessun
cittadino ha la possibilità di esprimere liberamente le sue reali
convinzioni». S’instaurò così quel clima conservatore che favorì la rinascita
e la popolarità del Ku Klux Klan (→ Kkk), il corteggiamento politico del
fondamentalismo cristiano (→ Scimmie alla sbarra) e l’esodo di massa di
tanti giovani intellettuali verso l’Europa e Parigi (→ Espatriati ed esuli).
Durante la Red Scare, i due partiti comunisti nati nel 1919 (il Communist
Party e il Communist Labor Party) furono costretti alla clandestinità; ma il
«caso» più clamoroso fu l’arresto nel 1920 degli anarchici Nicola Sacco e
Bartolomeo Vanzetti, accusati di essere gli esecutori di un duplice omicidio
avvenuto nel corso di una rapina a una fabbrica di scarpe a Braintree, un
quartiere di Boston. I due furono condannati nonostante parecchi testimoni
avessero fornito alibi a entrambi, e nonostante Celestino Madeiros, un ex
detenuto sotto processo per omicidio, confessasse di essere stato
l’esecutore dell’omicidio di Braintree. Il giudice Thayer costruì l’impianto
accusatorio mettendo in risalto lo scarso attaccamento all’America dei due
imputati che, oltre a essere anarchici, nel 1917 erano sconfinati in Messico
per sfuggire alla leva militare. A loro difesa, si spese il leader anarchico
italo-americano Carlo Tresca, mentre Felix Frankfurter, professore di legge
a Harvard e in seguito giudice della Corte Suprema, scrisse un articolo,
pubblicato dall’Atlantic Monthly, nel quale smontava punto per punto
l’impianto dell’accusa. Fu tutto inutile: dopo anni di ricorsi e mobilitazioni
intellettuali, il 23 agosto 1927, Sacco e Vanzetti furono uccisi sulla sedia
elettrica. «Here’s to you Nicola and Bart / Rest forever here in our hearts /
The last and final moment is yours / That agony is your triumph!» avrebbe
cantato qualche decennio più tardi Joan Baez.

BIBLIOGRAFIA
Jeremy Brecher, Sciopero!, La Salamandra, Milano 1976.
Robert K. Murray, Red Scare. A Study in National Histeria. 1919-1920, McGraw-
Hill, New York 1964.
Nick Shepley, The Red Scare and the American Left, 1918-1920, GA&P
ePublishing, Shefford 2011 (ebook).
S.M.Z.

Redneck
L’episodio inizia con un inseguimento: un’auto della polizia cerca di
seminare una Dodge arancione, sul cui tettuccio è dipinta una bandiera
della Confederazione (→ Guerra civile); una voce fuori campo avverte che ci
troviamo in una contea del Sud, dove «tutto è diverso, tutto si fa in modo
diverso». È la prima puntata di Hazzard, serie tv (→) di fine anni settanta,
che presenta una versione caricaturale e stereotipata dell’America rurale al
di sotto della Linea Mason-Dixon (→). Nella sua drammatizzazione
semplicistica, la serie offre un ampio catalogo di quelle che sono state, a
partire dagli anni trenta del Novecento, le immagini distorte che l’élite del
Nord ha associato al redneck, il bianco del Sud: ignorante, zotico e irascibile.
L’espressione ha un’origine piuttosto evidente: il redneck aveva il «collo
rosso» per la prolungata esposizione al sole durante il lavoro nei campi;
l’uso del termine è stato poi esteso a chi non si dedicava all’agricoltura, ma
condivideva con i contadini i modi spicci, l’uso di parolacce e di un lessico
bizzarro, la prontezza a infilarsi in una rissa e la tendenza a grattarsi con
veemenza quando sente prurito. Ma non è finita qui: il redneck mangia solo
cibo unto (pollo fritto, maiale), beve whiskey, passa la maggior parte del
tempo nei saloon dove suonano musica country. Poco prima
dell’insediamento del presidente Jimmy Carter (originario della Georgia), il
vignettista Oliphant disegnò una Casa Bianca nel cui cortile erano in bella
mostra una vecchia auto scassata, copertoni sparsi sul prato e un bassotto
pieno di pulci.
Secondo Jim Goad, autore del provocatorio The Redneck Manifesto (1998),
la nascita dello stereotipo è legata all’occultamento di un’oppressione
sociale: attraverso la creazione di una figura sgradevole, le élite del Sud
hanno voluto distinguersi dai bianchi poveri, sottolineandone il lato
barbaro e rozzo. L’oppressione è proseguita dopo la Guerra civile (→), con
la colonizzazione economica da parte del Nord vincitore, che appaltò la
riconversione del Sud a una compagine di affaristi con agganci politici (→
Carpetbaggers). La natura classista dello stereotipo risulta evidente se si
prendono in considerazione i poor whites raccontati nei romanzi di Erskine
Caldwell (La via del tabacco, 1932), braccianti e mezzadri la cui dura lotta per
la sopravvivenza lascia poco spazio ad altro. Durante la Grande depressione
(→), un rapporto commissionato dal governo individuò nel Sud il
«problema economico numero uno del paese». Il reddito medio era la metà
rispetto al resto degli Stati Uniti – una situazione di crisi che si rifletteva in
alti indici di natalità, bassa istruzione e condizioni sanitarie precarie.
Il cantante Randy Newman, sentitosi umiliato dal trattamento riservato
a Lester Maddox, governatore della Georgia, durante una trasmissione
televisiva a New York, scrisse una canzone in difesa dei bifolchi del Sud. Nel
brano «Rednecks» (1974), il cantante ammette che «parliamo strano
quaggiù / beviamo troppo e ridiamo in maniera sguaiata / siamo troppo
stupidi per fare fortuna al Nord», prosegue dicendo che i rednecks sono
troppo stupidi anche per capire che al Nord «i neri sono liberi / di andare in
cella» e conclude con un riferimento ai ghetti delle grandi metropoli del
Nord, dove esiste una segregazione di fatto.
Gli stereotipi, con buona pace di Newman, sono tuttavia duri a morire.
Nonostante i cambiamenti demografici avvenuti al Sud, con il massiccio
aumento dei latinos e la comparsa di una popolazione urbana più istruita e
cosmopolita, proliferano programmi televisivi – come la serie My Name Is
Earl e il pacchiano reality show My Big Redneck Wedding – che ripropongono
un’immagine cristallizzata di regione rurale avulsa dalla modernità, dove
gli unici segni di presenza umana sono le pompe di benzina
semiabbandonate.

BIBLIOGRAFIA
Jim Goad, The Redneck Manifesto. How Hillibillies, Hicks and White Trash Became
America’s Scapegoat, Simon & Schuster, New York 1997.
Charles Reagan Wilson, William Ferris (eds.), Encyclopedia of Southern Culture,
University of North Carolina Press, Chapel Hill 1989.
S.M.Z.

Ringraziamento
Le cerimonie di ringraziamento al Signore (Thanksgiving) per le presunte
grazie ricevute, come l’incolumità dopo una battuta di caccia, la guarigione
di un malato, l’arrivo di una nave dal Vecchio mondo, erano abbastanza
diffuse, sia fra i primi esploratori del continente sia nelle colonie americane
di inizi Seicento. Nei documenti dell’epoca figura, per esempio, un
«Ringraziamento» festeggiato nel 1578 nei territori controllati dalla Francia
dall’esploratore Martin Frobisher, tornato indenne dalla spedizione alla
ricerca del passaggio a Nordovest. Non è dunque senza una buona dose
d’incertezza che si fa risalire la prima «vera» festa del Ringraziamento in
quello che diverrà il territorio statunitense intorno alla metà di ottobre del
1621: pare che i coloni di Plymouth volessero festeggiare con un pranzo
luculliano il loro primo raccolto di granturco, cereale autoctono
sconosciuto fino ad allora dagli europei, che alcuni nativi, fra cui l’indiano
Squanto, avevano aiutato a coltivare. Da festeggiare, in realtà, non vi era poi
molto, dal momento che solo la metà dei 102 pellegrini originari erano
sopravvissuti all’inverno nel Nuovo mondo. Tuttavia, sospinta da un
ottimismo e da una fede in Dio e nelle nuove terre che diverranno cifre
essenziali della storia americana (→ Plymouth Rock), la cinquantina di
abitanti di Plymouth capitanati dal governatore William Bradford si
concesse l’abbondante festa di tre giorni che diede inizio alla tradizione.
Sebbene nel menù figurassero tutte le leccornie offerte dalla natura locale
(ostriche e aragoste, carne di cervo, granturco, verdure, ciliegie e fragole) in
quantità sufficiente da bastare per una settimana, è assai probabile che il
piatto forte della giornata fosse costituito dai tacchini selvatici (→
Tacchino), all’epoca molto numerosi e facili da cacciare. A rendere
completo l’Abc culinario statunitense vale la pena di ricordare che, in
occasione di questa cena originaria del Ringraziamento, fece la sua
comparsa sulle tavole dei Padri Pellegrini anche uno fra gli snack più
rappresentativi del continente: il popcorn (→), o popped-corn, com’era
chiamato all’epoca.
Mentre le donne della colonia trascorsero la maggior parte dei tre giorni
a cucinare, gli uomini diedero prova del loro valore gareggiando con gli
ospiti, la novantina di indiani wampanoag che i coloni invitarono al proprio
desco (o che, come altri scritti sostengono, si autoinvitarono), a
testimonianza di quanto fra gli inesperti agricoltori bianchi e i ben più
provetti nativi i rapporti fossero all’inizio buoni – e tali rimasero per circa
mezzo secolo, fino alla guerra di re Filippo del 1675. Vero è che i padroni di
casa non furono certo in grado di offrire molti comfort: visto l’esiguo
numero di edifici costruiti all’epoca nella colonia, è assai probabile che le
libagioni siano state consumate all’aperto, con i commensali seduti per
terra, su barili o altre sistemazioni di fortuna.
Non si sa bene come andarono i festeggiamenti l’anno successivo, ma se
guardiamo il menù del 1623 ci accorgiamo che gli ingredienti per la perfetta
cena del Ringraziamento ci sono già tutti: tacchino arrosto, salsa di
cranberry e torta di zucca. Per circa centoquarant’anni, la ricorrenza
s’impose nel New England e poi si affermò anche nei territori dell’Ovest e a
Nord, anche se con calendarizzazioni diverse (in Canada viene ancora
festeggiato il secondo lunedì di ottobre). Non prese invece piede nel Sud,
dove l’iniziativa era rifiutata con sdegno dall’aristocrazia locale in quanto
celebrazione religiosa di matrice puritana. Dobbiamo aspettare quasi la fine
della Guerra civile, ovvero quando Sarah Joseph Hall, direttrice del Ladies’
Magazine di Boston, riuscì a convincere il presidente Lincoln che il
Ringraziamento potesse contribuire al senso di coesione nazionale, perché
quest’ultimo figurasse tra le feste celebrate in ogni stato dell’Unione. Il
giorno prescelto fu il quarto giovedì di novembre – almeno fino al 1939,
quando il presidente Franklin Delano Roosevelt provò ad anticiparlo di una
settimana per dar modo ai negozianti di sfruttare un lasso di tempo
maggiore per le vendite di Natale. La decisione suscitò parecchio
malcontento, sebbene nei secoli precedenti la festività avesse oscillato sul
calendario fra luglio, agosto, ottobre e novembre; e così nel 1941 Roosevelt
fu costretto dal Congresso a fare marcia indietro, o meglio avanti, di una
settimana.
Con la rapida urbanizzazione e la crescente mobilità sociale e geografica
che segnarono il secondo dopoguerra, la festa del Ringraziamento divenne
sinonimo, al pari del Natale, di riunione di famiglia, immortalata con velata
ironia da Norman Rockwell in tante celebri illustrazioni. Già, le famiglie: è
indubbio che, nella letteratura come nel cinema, i festeggiamenti per il
Ringraziamento si svolgano quasi sempre intorno a una tavola imbandita
con genitori, prole e talvolta altri parenti riuniti. E se nella fiction il
Ringraziamento è sovente il momento in cui si ritrovano figli perduti,
insperati benefattori o anche solo la pace domestica, come accade nel
racconto per l’infanzia An Old-Fashioned Thanksgiving di Louisa May Alcott
(1881), altre volte esso è occasione per il ritorno di familiari che si
preferirebbe lontani per sempre, ricordandoci, come Nathaniel Hawthorne
in John Inglefield’s Thanksgiving (1840), quanto la serenità familiare sia solo
un momentaneo e illusorio interludio.
A differenza del Natale, il Ringraziamento si è sempre più allontanato
dalla sua origine religiosa e, grazie a eventi sportivi e parate (famosa quella
dei grandi magazzini Macy’s di New York), è presto diventato una festa
associata a valori universali: val la pena di ricordare che, a differenza di
molte altre festività, essa celebra insieme a un dio anche un incontro – fra i
coloni, il Nuovo mondo, i nativi… e il povero tacchino.

BIBLIOGRAFIA
James W. Baker, Thanksgiving. The Biography of an American Holiday,
University of New Hampshire Press, Lebanon, 2009.
C. SCHIA.

Rivolte di schiavi
Per lungo tempo, nella cultura degli Stati Uniti la figura dello schiavo
afroamericano è stata racchiusa entro due estremi speculari e convergenti:
da una parte, una sorta di eterno bambino, ingenuo e ignorante, bisognoso
di guida, fedele come un cane e riconoscente nei confronti del padrone;
dall’altra, un essere della giungla, brutale e aggressivo, incapace di
contenere gli istinti bestiali e pronto a sgozzare il padrone e stuprarne
moglie e figlie (va da sé che i due estremi servivano a confermare e
rafforzare la necessità di un rapporto paternalistico da un lato e di un
controllo militare dall’altro). A questi due stereotipi, s’aggiungeva una
distinzione riconosciuta entro la stessa comunità afroamericana e radicata
in condizioni oggettive: quella fra house negro (chi lavorava nella casa del
padrone e godeva di un trattamento migliore: la cuoca, la domestica, la tata,
il maggiordomo) e field negro (chi sgobbava nei campi, viveva nelle baracche
e più spesso assaggiava lo staffile del sorvegliante o subiva le violenze –
anche sessuali – sue e del padrone).
Quest’universo di stereotipi e di tipi oscurava il fatto che le comunità
degli schiavi avevano tutt’altra consapevolezza di sé, nonostante le
tremende esperienze del Middle Passage (→ Atlantico nero), della vendita
all’asta e della dura sopravvivenza nelle piantagioni [cfr. George P. Rawick,
Lo schiavo americano dal tramonto all’alba, del 1973]. Strappati da località,
tribù e nazioni (e dunque da lingue e culture) spesso diverse, sul suolo
americano avevano dovuto reinventarsi un’identità con i materiali della
vita quotidiana. Se il canto (dai field hollers ai work songs, dagli spirituals ai
blues) poteva essere un’espressione di quest’identità ridisegnata a fatica e in
maniera drammatica, a negare gli stereotipi del nero-bambino e/o del nero-
animale fu soprattutto – ce lo ricorda nella sua Autobiografia Frederick
Douglass, ex schiavo e celebre abolizionista – la lunga sequenza di rivolte
che accompagnò l’obbrobrio della schiavitù, prima della Guerra civile (→).
Lavorando su lettere, documenti, articoli di giornali dell’epoca, lo storico
Herbert Aptheker ha dimostrato in un libro famoso (American Negro Slave
Revolts, 1943) che, sin dalla fine del Seicento, la società americana visse nel
terrore della rivolta degli schiavi, reso ancor più concreto dalle stesse
vicissitudini di una nazione via via in guerra con i Native Americans, con gli
inglesi, con gli spagnoli, con i francesi, con i messicani: tutti potenziali (e a
volte reali) alleati dei rivoltosi – come lo furono in certe occasioni, almeno
fino alla Guerra civile, gli stessi «bianchi poveri», specie nelle regioni (poi
stati) del Sud. Un terrore che crebbe d’intensità in seguito alla vittoriosa
sollevazione guidata da Toussaint L’Ouverture a Haiti-Santo Domingo nel
1803 e alla fuga in Louisiana di molti piantatori con la loro manodopera.
Di fatto, le rivolte ci furono, e molte. Aptheker ne individua almeno 250
sull’arco di due secoli, ma (vista la difficoltà di reperire materiali al
riguardo, specie in epoche più lontane) è del tutto plausibile che ce ne siano
state parecchie di più: alcune, atti più o meno individuali o sommosse
circoscritte a questa o quella situazione, ma altre, tentativi ampi e
pianificati di sollevare la popolazione schiava, appoggiandosi su settori
sfruttati della popolazione nordamericana.
Per esempio, nell’aprile 1712, scoppia una rivolta a New York: prima di
essere circondata e fatta prigioniera, una settantina di schiavi dà alle
fiamme un edificio su Broadway; in venti sono condannati al rogo, uno
muore sotto tortura, altri si suicidano in carcere; le leggi che regolano la
vita degli schiavi nella città vengono inasprite. Nel settembre 1739, si ha
invece la cosiddetta «ribellione di Stono (o Cato)»: Jemmy, appartenente
alla famiglia Cato, guida lungo il fiume Stono, non lontano dalla città di
Charleston (attuale South Carolina), una ventina di compagni, cui se ne
aggiunge presto un’altra sessantina; nel corso della loro marcia, uccidono
20 bianchi, prima di essere sconfitti, fatti prigioneri e messi a morte; anche
in questo caso, la paura del propagarsi di episodi insurrezionali induce a un
inasprimento delle leggi regolanti la vita e il lavoro degli afroamericani. Di
nuovo a New York, nel marzo-aprile 1741: una serie d’incendi (evento
comune nelle città di allora) alimenta il timore che si stia preparando una
sollevazione, con un’alleanza fra neri e bianchi poveri; la città è in preda al
panico: vengono catturati alcuni schiavi che, sul rogo, confessano di aver
appiccato degli incendi; comincia a circolare la parola «cospirazione»; nel
corso dell’estate si procede a una serie di arresti indiscriminati: in tutto, 150
neri e 20 bianchi (fra cui un prete, accusato d’essere l’istigatore della
cospirazione), la grande maggioranza dei quali è mandata al rogo o
impiccata, i cadaveri esposti come monito; decine d’altri sono deportati in
paesi lontani. Ma le rivolte più significative si concentrarono nella prima
metà dell’Ottocento: ne vedremo solo le più grandi e famose.
La rivolta di Gabriel (1800). Nato in schiavitù nel 1776 (l’anno della
Rivoluzione americana →), Gabriel viveva e lavorava come fabbro
specializzato nella piantagione di tabacco di Thomas Prosser, nei pressi di
Richmond (Virginia). Il mercato del tabacco languiva in quel periodo e così
il padrone lo affittava spesso alle fonderie in città, dove Gabriel ebbe modo
di entrare in contatto con altri lavoratori, liberi e di origine europea, forse
portatori degli ideali della recente Rivoluzione francese. Nel corso della
primavera del 1800, insieme a due fratelli, maturò l’idea di una sollevazione:
è probabile che i piani fossero stati elaborati, i contatti presi, i preparativi
discussi e fissati, e che il numero dei partecipanti si aggirasse intorno a
qualche centinaio. Caso volle che il giorno stabilito una violenta tempesta
colpisse i dintorni di Richmond: gli appuntamenti saltarono, qualcuno –
spaventato – parlò, e Gabriel, i fratelli e venticinque altri schiavi furono
arrestati, processati e impiccati, senza aver avuto il tempo di compiere
alcun atto di ribellione. La «rivolta di Gabriel» cadeva in un momento
cruciale: in Virginia, quasi il 40% della popolazione era composto di schiavi;
la presenza di radicals insoddisfatti del corso degli avvenimenti successivi
alla Dichiarazione d’indipendenza e il fatto che buona parte degli uomini
politici (Thomas Jefferson in primis, che in quell’anno si presentava come
candidato alla presidenza, venendo poi eletto nel 1801) fosse padrona di
schiavi rendevano alquanto complessa la situazione; e le notizie provenienti
da Haiti-Santo Domingo riempivano di terrore la popolazione bianca [cfr.
Douglas R. Egerton, Gabriel’s Rebellion. The Virginia Slave Conspiracies of 1800
and 1802, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1993].
La rivolta della Riva dei Tedeschi (1811). La più vasta sollevazione nella
storia degli Stati Uniti, ma anche una delle più dimenticate, ebbe luogo in
una delle aree-chiave del sistema schiavista, in cui gli schiavi
rappresentavano il 75% della popolazione (già a fine Settecento, sotto
dominio spagnolo, una sollevazione era stata sventata nella zona di Pointe
Coupée, appena a nord di New Orleans). Ai primi di gennaio 1811, all’aprirsi
della stagione del tradizionale Carnevale di New Orleans, un centinaio di
schiavi delle piantagioni di zucchero e di cotone sulla riva sinistra del
Mississippi – la cosiddetta Riva dei Tedeschi per i molti insediamenti
d’immigrati dalla Germania risalenti al secolo precedente – si mise in
cammino, armato di fucili, asce, coltelli e vari arnesi da lavoro, sotto la
guida di Charles Deslondes, un mulatto nato nella piantagione Deslondes
(come d’uso, i nati in schiavitù ricevevano il cognome del padrone, che
spesso era anche loro padre) e all’epoca impiegato come sorvegliante nella
piantagione di Manuel Andry (noto per la sua crudeltà), e di altri tre
compagni di nome Kook, Quanama e Harry Kenner. Lungo la strada, il
drappello arrivò a toccare la cifra di cinquecento uomini (fra cui parecchi
maroons, com’erano chiamati i fuggiaschi nascosti in paludi e boscaglie,
dove con il tempo avevano formato vere e proprie comunità, sovente aiutati
dalle tribù locali di Native Americans) e, in ordine militare, si diresse verso la
città di New Orleans. Uccisero due bianchi, diedero alle fiamme tre
piantagioni e, di meandro in meandro, su e giù per i levees (→), giunsero a
una quindicina di chilometri dalla città, nei pressi della piantagione
Destrehan, la più antica e imponente dell’intera valle del Mississippi. Qui,
furono intercettati dalla milizia raccolta in fretta e furia e da reparti
dell’esercito, che in una battaglia campale e varie scaramucce isolate
uccisero una cinquantina di rivoltosi, catturandone un centinaio; questi
furono processati nei giorni seguenti a Destrehan e New Orleans e messi a
morte, le teste tagliate e poi issate su pali lungo le rive del fiume. Barbaro il
trattamento riservato a Deslondes, cui furono mozzate le mani e spezzate le
gambe a colpi di fucile, per poi bruciarlo vivo. Per ogni schiavo ucciso, i
piantatori ricevettero un indennizzo di 300 dollari; l’esercito rimase per
parecchio tempo nella regione e le leggi riguardanti il trattamento e la
mobilità degli schiavi furono inasprite [cfr. Daniel Rasmussen, American
Uprising. The Untold Story of America’s Largest Slave Revolt, HarperCollins
Publishers, New York 2011].
La rivolta di Denmark Vesey (1822). Nato con probabilità in Africa intorno al
1767, dopo aver lavorato qualche tempo a Haiti-Santo Domingo ed essere
poi giunto a Charleston (South Carolina), Vesey riuscì a comprarsi la libertà
grazie alla vincita a una lotteria, diventando una free person of color e
lavorando come falegname. Tra la fine degli anni dieci e l’inizio degli anni
venti, una grave crisi economica si era abbattuta sul paese e l’emigrazione
di bianchi in cerca di lavoro aveva prodotto, negli stati del Sud, una
situazione in cui la popolazione schiava raggiungeva proporzioni altissime
rispetto a quella bianca. A ciò si aggiungeva il fatto che in quegli anni i
fermenti rivoluzionari erano diffusi in tutto il mondo e il movimento
antischiavista s’era sviluppato in Gran Bretagna, mettendo radici negli Stati
Uniti. Interagendo fra loro, questi elementi divennero esplosivi: vari episodi
di disobbedienza e di rivolta si erano verificati nelle due Caroline e in
territori vicini, coinvolgendo comunità di maroons e schiavi delle
piantagioni di tabacco e cotone, e la condizione più critica era forse proprio
quella di Charleston. In questo contesto, cominciò ad agire Denmark Vesey,
insieme a Peter Poyas e Mingo Hart che lavoravano nella città come fabbri,
meccanici, carpentieri e godevano di un certo seguito fra gli afroamericani
della regione. Vesey (che conosceva parecchie lingue) e i suoi compagni
condussero un’intensa agitazione, utilizzando sia riferimenti biblici (la
Bibbia era l’unico libro concesso in lettura agli schiavi) sia brani di discorsi
e proclami antischiavisti o di dibattiti congressuali. La data per la rivolta
non fu scelta a caso: il 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia a Parigi nel
1789. L’organizzazione della rivolta procedette per alcuni mesi, con molta
cautela (a essere tenuti all’oscuro dei progetti furono gli house negroes,
considerati poco affidabili) e con molta sagacia. Ma ciò non impedì il
tradimento: Vesey fu costretto ad anticipare di un mese l’inizio della
rivolta, e questo sconvolse i piani. Peter e Mingo furono arrestati, ma
tennero un comportamento di rigoroso silenzio. Altri tradirono. Seguirono i
primi arresti, poi un’autentica caccia allo schiavo: vennero arrestati in 131 e
in 49 condannati a morte – di questi, 37 furono impiccati fra giugno e
agosto, e tra essi Vesey. Il piano della rivolta era accurato: prevedeva
l’attacco simultaneo alla città da cinque punti diversi, con un drappello a
cavallo a controllare le strade cittadine; fabbri e carpentieri avevano
preparato armi di vario genere; i negozi che vendevano armi e munizioni
erano stati accuratamente segnati; un barbiere aveva approntato parrucche
e baffi finti; due lettere erano partite per Santo Domingo con richieste
d’aiuto. Difficile dire quanti fossero i cospiratori, anche perché la ferrea
disciplina che li guidava li trattenne, una volta catturati, dal far parola
(«Morite in silenzio, come mi vedrete fare», disse ai suoi compagni Peter
Poyas). Il giorno dell’esecuzione di Vesey, ci fu un altro tentativo
insurrezionale, e numerose scaramucce continuarono per settimane e mesi.
Le autorità inasprirono la legislazione, limitando ancor più i movimenti
degli schiavi (che da quel momento dovevano essere sempre accompagnati
da un sorvegliante), diminuendo il numero delle free persons of color per
evitare che la loro presenza alimentasse desideri di libertà, vietando
l’insegnamento del leggere e dello scrivere agli afroamericani, proibendo
loro di radunarsi la domenica a Charleston, creando un arsenale cittadino e
istituendo milizie armate volontarie – primo nucleo di quelli che sarebbero
stati i famigerati vigilante committees e, dopo la Guerra civile, il Kkk (→) [cfr.
Herbert Aptheker, American Negro Slave Revolts (1943), International
Publishers, New York 1993; Douglas R. Egerton, He Shall Go Out Free. The Lives
of Denmark Vesey, Rowman and Littlefield, Lanham 2004].
La rivolta di Nat Turner (1831). Il decennio successivo alla rivolta di Vesey,
di pari passo con l’aggravarsi della situazione economica generale, vide
un’autentica diffusione delle turbolenze: in Virginia, nelle due Caroline, nel
Kentucky, in Louisiana, in Alabama, in Georgia, nel Maryland…
Contemporaneamente, le misure coercitive furono rese ancor più severe:
divieto di assembramento, di imparare a leggere e scrivere, di diffondere
materiale antischiavista, quarantena di un mese per le navi che
trasportavano neri liberi, divieto di matrimonio fra schiavi ed ex schiavi,
lotta alle comunità maroons, pene per chiunque aiutasse i fuggiaschi. Altro
materiale esplosivo che si accumulava: fino alla conflagrazione dell’estate
del 1831, nella contea di Southampton, in Virginia. Qui, Nat Turner, uno
schiavo nato nel 1800, in grado di leggere e scrivere, profondo conoscitore
della Bibbia, da tempo dichiarava di aver avuto visioni in cui Dio lo esortava
a prendersi carico della condizione dei suoi fratelli. Il carisma di Turner
influenzò non solo i neri, ma anche molti bianchi, e presto il giovane
appena trentenne fu conosciuto come «Il Profeta». Altri «segni» seguirono,
finché un’eclisse di sole nel febbraio del 1831 fu letta da Nat come il segnale
per l’azione: raccolti attorno a sé quattro schiavi fedeli, fissò al 4 luglio
(giorno dell’indipendenza americana) l’inizio della rivolta. Poiché però quel
giorno Turner era malato, si dovette spostare la data e il 13 agosto un altro
«segno» (una coloritura verde-bluastra del sole) li convinse ad agire la
settimana successiva: il piccolo manipolo si era ingrossato ad almeno una
settantina di persone e si mise in moto armato di moschetti e altre armi
improvvisate, muovendo di casa in casa nella contea di Southampton,
uccidendo una sessantina di bianchi e risparmiando solo alcuni bianchi
poveri. Fu allora radunata una milizia appoggiata da tre compagnie di
artiglieria, da distaccamenti della marina militare e da volontari accorsi da
altre contee della Virginia e del North Carolina. Nel giro di due giorni, gli
insorti furono intercettati e sconfitti: un centinaio cadde sul campo di
battaglia, una cinquantina venne fucilata, ma le violenze indiscriminate
contro i neri proseguirono, raggiungendo livelli di barbarie deplorati dalla
stessa stampa locale. Turner riuscì a sfuggire al massacro, ma fu catturato il
30 ottobre: processato, si dichiarò «non colpevole» in quanto non si sentiva
«colpevole» e fu condannato all’impiccagione, eseguita l’11 novembre.
Come negli altri casi, la legislazione fu inasprita, e un po’ ovunque nel Sud
comparvero squadracce di vigilantes con l’obiettivo di terrorizzare la
popolazione afroamericana. Anche grazie alle sue Confessioni, pubblicate
dopo il processo e l’esecuzione, Nat Turner rimase il simbolo della volontà
di lotta e ribellione del popolo nero – una figura incisa in profondità nella
cultura statunitense, come dimostra il romanzo di William Styron, Le
confessioni di Nat Turner, del 1966 [cfr. Herbert Aptheker, American Negro Slave
Revolts (1943), International Publishers, New York 1993; Herbert Aptheker,
Nat Turner’s Slave Rebellion, Humanities Press, New York 1966].
Siamo giunti così al 1831. Negli anni successivi, il movimento
abolizionista (sulle due sponde dell’Atlantico) aveva raggiunto ormai una
notevole consistenza teorica e numerica, offrendo ulteriori prospettive alla
popolazione schiava negli Stati Uniti. Qualcosa di nuovo e di diverso
maturava, e le sue anticipazioni si sarebbero avute nel 1859, con l’assalto
condotto da John Brown e dal suo piccolo esercito di guerriglieri
abolizionisti all’arsenale di Harpers Ferry (→), in West Virginia.
M.M.

Rivoluzione americana
Rip Van Winkle, eroe dell’omonimo racconto di Washington Irving (del
1819), dopo un lungo e provvidenziale sonno durato vent’anni (durante il
quale si perde la Guerra d’indipendenza), ritorna al villaggio natio e si
accorge che l’insegna della locanda è diversa: il ritratto di re Giorgio III è
stato adattato per far posto a un altro Giorgio, il generale Washington, e la
giubba rossa è diventata blu, lo scettro sostituito da una spada. Con la
Rivoluzione, insomma, sono cambiati i detentori del potere politico, ma non
le basi: a un re si è sostituito un presidente. E a conferma di ciò lo storico
Carl Degler ricorda come, a differenza delle rivoluzioni europee, «nessun
ceto sociale nuovo entrò nelle stanze del potere» in America: dei 55
firmatari della Costituzione del 1787, evento che conclude il processo
rivoluzionario, la maggioranza era composta da uomini facoltosi, che
possedevano terre, fabbriche, schiavi o navi. Il famoso preambolo della
Dichiarazione d’indipendenza, dove si afferma che tutti gli uomini sono
«creati uguali», valeva solo per un soggetto ben definito: maschio, bianco,
protestante e con un po’ di proprietà. Donne, neri, indiani d’America,
semplici lavoratori erano dunque esclusi. Nonostante ciò, la Rivoluzione
americana entrò subito nel patrimonio mitico degli Stati Uniti, i padri
fondatori considerati alla stregua di divinità di un pantheon, gli episodi più
significativi avvolti da un alone leggendario che li astrae dalle forze sociali
ed economiche che li hanno provocati. La Rivoluzione, quindi, è percepita
come un corpus di momenti iconici, dal Tea Party (→) di Boston alla
cavalcata notturna di Paul Revere (che avvertì i ribelli di un’imminente
sortita degli inglesi), dalle note della marcia «Yankee Doodle» al dipinto di
Emanuel Gottlieb Leutze Washington attraversa il fiume Delaware (1851).
Quello che la successione di eventi eroici nasconde è invece quanto sia stato
complicato il processo di unificazione degli stati in un soggetto politico
unitario e di armonizzazione di interessi spesso divergenti. Inoltre, passa
spesso sotto silenzio il modo in cui la classe dirigente americana,
percependo la minaccia posta dal popolo minuto alla sua leadership, abbia
fatto in modo di contenere la spinta democratica della Rivoluzione
attraverso l’ideazione di un sistema politico che escludeva quest’ultimo dai
processi decisionali.
Unione contro le tasse. Le radici della Rivoluzione risalgono alla Guerra dei
sette anni (1755-1763), il conflitto anglofrancese che si svolse in parte sul
continente nordamericano. Il debito accumulato dal Tesoro britannico
ammontava a 137 milioni di sterline e le entrate annuali dell’erario
riuscivano a malapena a coprire gli interessi. Complicavano la situazione i
nuovi territori ceduti dalla Francia, in particolare le pianure comprese tra
gli Appalachi (→ Appalachia) e il Mississippi (→ Vie d’acqua), che facevano
gola a speculatori e coloni: ma Londra, non volendo fomentare nuovi e
dispendiosi conflitti con gli indiani, aveva proibito qualsiasi tipo di nuovo
insediamento, suscitando uno scontento diffuso. Il Parlamento inglese, che
prima di allora non si era occupato dei possedimenti oltre l’Atlantico,
individuò nelle colonie una possibile fonte di reddito per ripianare il
bilancio. Il compito, tuttavia, si annunciava arduo: un secolo di
disattenzione aveva fatto sì che le strutture coloniali crescessero senza
alcun controllo, con il potere frammentato in una pluralità di cariche e
un’organizzazione diversa da stato a stato e nel complesso molto debole.
Nel 1765, il Parlamento approvò lo Stamp Act, la tassa sul bollo, con la
quale si rendeva obbligatoria un’imposta su documenti, atti di natura
legale, almanacchi e giornali. Fino a quel momento, ogni colonia aveva
badato ai propri affari, ma questa legge ebbe l’effetto di unirle nella
protesta contro una norma considerata ingiusta, stimolando la
partecipazione politica e la presa di coscienza di ogni colonia e ogni
cittadino di far parte di un destino comune. I delegati di nove colonie non
tardarono a riunirsi a New York nello Stamp Act Congress e redassero una
petizione indirizzata al re nella quale manifestarono l’opposizione a una
tassa decisa da un organo legislativo nel quale esse non erano
rappresentate.
Il massacro di Boston. La resistenza alle tasse assunse forme violente, con
molteplici incidenti e incendi. Londra reagì in maniera confusa, abrogando
alcune leggi, approvandone altre e autorizzando il mantenimento di un
esercito permanente sul suolo americano. La decisione intensificò lo
scontento e alienò le simpatie di chi era ancora fedele alla corona. Il 5
marzo 1770, a Boston, la città che più aveva sfidato la madrepatria, cinque
persone perirono sotto i colpi di fucile sparati dai soldati durante una
scaramuccia – evento che passò alla storia come il «massacro di Boston» (→
Tea Party).
Primi scontri. La Corona reagì chiudendo il porto di Boston e ordinando
una serie di misure restrittive. Nei villaggi e nelle piccole città, nel
frattempo, la diffidenza verso i funzionari regi indusse i coloni a
organizzarsi spontaneamente in comitati per la gestione della cosa
pubblica, realizzando un effettivo (anche se non ufficiale) passaggio di
poteri dall’amministrazione inglese. Come logica conseguenza, nel
settembre 1774, i delegati di dodici colonie (assente la sola Georgia), in
sostanza rappresentanti delle élite economiche, si riunirono a Philadelphia
per concordare una linea d’azione. Re Giorgio e il Parlamento ignorarono le
petizioni inviate dai congressisti e affidarono all’esercito il compito di
arrestare i capi ribelli e distruggere le munizioni che stavano accumulando.
Nell’aprile 1775, ci furono i primi scontri a Lexington e Concord – e fu
grazie alla cavalcata notturna di Paul Revere, avvertito dai lumi predisposti
dal sagrestano della Old North Church di Boston, che i ribelli riuscirono a
evitare di venire colti di sorpresa. Nel giugno 1775, le Giacche rosse
britanniche attaccarono una postazione fortificata a Bunker Hill, nei pressi
di Charlestown, sobborgo di Boston, riuscendo a conquistarla a caro prezzo:
ma gli americani furono rinfrancati dal fatto di aver saputo tener testa,
seppure inesperti e male armati, agli avversari. Il Congresso continentale
decise quindi la creazione di un esercito (al cui comando fu nominato
George Washington), autorizzò la stampa di carta moneta e nominò
emissari per prendere contatto con alcune potenze straniere e chiederne
l’appoggio militare contro i britannici.
La Dichiarazione d’indipendenza. Nel gennaio 1776, Thomas Paine, un
fabbricante inglese di corsetti arrivato in America da due anni, diede alle
stampe Common Sense, un pamphlet che sosteneva l’indipendenza come
epilogo inevitabile per mettere fine alle vessazioni di cui le colonie erano
state vittima nell’ultimo decennio. Lo scritto ebbe un enorme successo e
contribuì a indirizzare l’opinione del cittadino comune verso la separazione
dalla madrepatria. Il Congresso riunito a Philadelphia sottoscrisse il 4 luglio
dello stesso anno la Dichiarazione d’Indipendenza, parto quasi esclusivo del
leader virginiano Thomas Jefferson.
La guerra nel Nord. Data la veemente resistenza incontrata a Boston, gli
inglesi tentarono di isolare il Massachusetts dalle altre colonie. Facendo
base a New York, le truppe comandate dal generale William Howe
sbaragliarono la resistenza americana e conquistarono pezzo per pezzo il
New Jersey, costringendo Washington a riparare oltre il fiume Delaware.
Nel frattempo, una colonna al comando del generale John Burgoyne scese
dal Canada, lungo il corso dell’Hudson, incontrando parecchi ostacoli e
subendo ingenti perdite a causa dei continui attacchi da parte della
guerriglia ribelle. Dopo un sanguinoso scontro a Saratoga (settembre 1777)
che decimò le sue truppe, Burgoyne si arrese.
La guerra nel Sud. Le difficoltà inglesi indussero Francia e poi Spagna ad
accettare le offerte di alleanza proposte dagli emissari americani. L’esercito
di Londra ritentò la conquista delle colonie partendo dal Sud, territorio
meno ostile ai britannici: ma, sebbene avesse la meglio (a caro prezzo) negli
scontri aperti, non riusciva poi a pacificare i territori. La presa di Savannah,
Charleston e Philadelphia non cambiò il corso del conflitto. D’altro canto,
l’intervento della marina francese risultò molto efficace: grazie al blocco
navale della baia di Chesapeake, l’esercito britannico in ritirata si trovò
senza possibilità di fuga e dovette riparare a Yorktown. La battaglia in
campo aperto presso la città (ottobre 1781) si concluse con la vittoria
dell’esercito americano, guidato da Washington e dal generale francese
Lafayette, e la resa dei britannici. Due anni dopo, a Versailles, venne firmato
il trattato di pace con il quale la Gran Bretagna riconosceva l’indipendenza
degli Stati Uniti.
Articoli di Confederazione e Costituzione. Alla firma dell’armistizio, i tredici
stati, però, non risultavano molto uniti. Subito dopo la Dichiarazione
d’indipendenza, ogni assemblea statale discusse e approvò nuove
costituzioni. Nella stesura degli statuti, prevalse la volontà di evitare la
concentrazione dei poteri nel ramo esecutivo: l’attività del governatore, in
carica per un solo anno, sarebbe stata sottoposta a numerosi controlli,
mentre i deputati erano vincolati nella votazioni da precisi mandati da
parte degli elettori. A livello sovrastatale, fu redatta una serie di norme, gli
Articoli di Confederazione, che regolavano la natura dell’Unione, intesa
come «lega di amicizia» e non come soggetto politico compatto. Gli articoli
assegnavano al Congresso continentale pochi poteri (regolazione delle
controversie tra gli stati, rapporti diplomatici e affari indiani), mentre
prerogative più importanti (legislazione commerciale, approvazione di
tasse) vennero lasciate agli stati.
Nel tentativo di guadagnare la massa del popolo alla causa della lotta per
l’indipendenza, le élite locali avevano incoraggiato la partecipazione
politica di tanti soggetti che ne erano prima esclusi, attraverso il suffragio
universale maschile e la possibilità di essere eletti nelle assemblee statali. La
democratizzazione della gestione politica si espresse in una prevalenza
delle istanze locali rispetto a quelle sovrastatali. Le assemblee legiferavano
su questioni d’immediato interesse per la gente comune, spesso suscitando
la frustrazione dei leader storici. Thomas Jefferson, per esempio, nelle Notes
on the State of Virginia (1781), scrisse che «un dispotismo elettivo non era il
governo per il quale abbiamo combattuto»: come gli altri firmatari della
Dichiarazione d’indipendenza, egli era preoccupato dalla profonda crisi
economica che si era abbattuta sul paese e lo aveva portato sull’orlo della
bancarotta e sapeva che l’assetto politico, così com’era, non consentiva di
intraprendere azioni decisive per superare il momento difficile.
Nel 1786, in Massachusetts, l’ex soldato Daniel Shays riunì una milizia di
veterani e contadini che rischiavano la confisca dei beni per debiti. I ribelli
assaltarono i tribunali per impedire la messa in esecuzione della
requisizione. La mancata reazione da parte del governo statale indusse un
gruppo di mercanti di Boston a pagare di tasca loro un esercito di
mercenari, grazie al quale la rivolta fu domata. L’episodio convinse la
leadership del Congresso che era necessario un governo centrale più forte
per affrontare simili emergenze in futuro. L’anno successivo, si riunì a
Philadelphia una Convenzione, con la partecipazione di 55 delegati, dalla
quale scaturì la Costituzione federale. Il nuovo assetto privava i singoli stati
di molti dei diritti riconosciuti dagli Articoli di Confederazione. Inoltre, fu
istituita la carica di presidente, da eleggere ogni quattro anni attraverso un
sistema a doppio livello, con gli aventi diritto che sceglievano un numero
ristretto di grandi elettori, ai quali era poi demandata la scelta finale tra i
candidati. Il potere legislativo era affidato a una camera bassa (dove ogni
stato mandava un numero di rappresentanti in proporzione alla
popolazione) e una alta (due senatori per ogni stato). Le prime presidenziali,
svoltesi tra gennaio e marzo 1789, videro il trionfo di George Washington,
che ottenne tutti i sessantanove voti dei grandi elettori: in alcuni stati,
questi furono designati dalle assemblee legislative, in altri si era ricorso al
voto popolare, con varie modalità restrittive. A conti fatti, per Washington
votò solo l’1,3% della popolazione statunitense del tempo: un inizio
alquanto singolare, per la prima grande democrazia moderna.

BIBLIOGRAFIA
Bernard Bailyn, Gordon S. Wood, Le origini degli Stati Uniti, il Mulino, Bologna
1987.
Elisha P. Douglass, Ribelli democratici nella Rivoluzione Americana, il Saggiatore,
Milano 1963.
Gore Vidal, L’invenzione degli Stati Uniti. I padri: Washington, Adams, Jefferson,
Fazi, Roma 2005.
S.M.Z.
Robber barons
Girando per gli Stati Uniti, capiterà di imbattersi nel Rockefeller Center di
New York, nella Stanford University di Palo Alto (California → Silicon
Valley), nella Morgan Library ancora a New York, nella Carnegie-Mellon
University di Pittsburgh (Pennsylvania) e in molte altre istituzioni che
portano i nomi di celebri uomini d’affari. Si tratta dei lasciti visibili con i
quali una generazione di imprenditori dell’Ottocento ha cercato di
restituire alla collettività, sotto forma di istituzioni culturali, parte delle
fortune accumulate. Letta in un altro modo, un tentativo di cancellare la
reputazione non certo invidiabile che già a metà anni settanta
dell’Ottocento aveva assegnato a questi businessmen il termine di robber
barons («baroni ladri» o «baroni predatori» – in analogia con i riottosi
aristocratici inglesi dell’Alto Medioevo). A dispetto delle osservazioni di
tanti intellettuali che, a partire da Alexis De Tocqueville, avevano indicato
nell’assenza di un’aristocrazia una delle peculiarità che differenziavano gli
Stati Uniti dall’Europa, infine il paese se n’era, suo malgrado, procurata
una.
A leggere però le biografie di alcuni di questi presunti «ladroni» è
difficile evitare qualche sbadiglio. Sono personaggi morigerati, si sposano
presto, sono freddi e calcolatori, e anche devoti – frequentano la chiesa con
regolarità e destinano una parte dei loro guadagni alla beneficenza. Anziché
un diario, tengono un quadernetto dove annotano con scrupolo maniacale
entrate e uscite: alla maniera di Robinson Crusoe. E quando entrano in
guerra con qualche pericoloso concorrente, si fanno largo verso la vittoria
utilizzando le armi incruente della competizione sleale.
Del resto, come ebbe a ricordare John D. Rockefeller, forse il più
famigerato robber baron, «l’individualismo se n’è andato e non tornerà mai
più», quello che conta è la combinazione degli interessi economici e fare in
modo che possano meglio prosperare. Ed è su questo punto che si
inseriscono i robber barons: i quali, grazie all’accesso ai grandi capitali,
mirarono a rendere più efficiente il sistema, riducendo gli effetti negativi di
una competizione troppo agguerrita, con buona pace della retorica sulla
libera iniziativa e sul libero mercato.
La fortuna dei grandi imprenditori è legata al consolidamento
economico susseguente la conclusione della Guerra civile (→). Dopo il
conflitto, il paese venne infine unificato attraverso il progressivo
completamento di linee ferroviarie (→ Promontory Point), passo
determinante per la realizzazione di un mercato unico a livello nazionale. E
non è un caso che i grandi magnati abbiano avuto a che fare, prima o poi,
con binari e traversine.
Si prenda, per esempio, John D. Rockefeller. Nato nel 1837 da una
famiglia di condizioni modeste che dallo stato di New York si era trasferita a
Cleveland (Ohio), a 16 anni John D. trovò lavoro come impiegato in una ditta
di spedizioni a 4 dollari la settimana. Messosi in proprio dopo qualche anno,
intravide le potenzialità di profitto del commercio petrolifero (del 1859 la
scoperta dei giacimenti nella Pennsylvania occidentale → Oil!). Ed è in
questo ambito che si può apprezzare il genio calcolatore di Rockefeller. Il
flusso dei barili dalle raffinerie verso i terminali ferroviari era piuttosto
irregolare: il futuro magnate capì che il segreto per battere la concorrenza
stava appunto nel riuscire a fornire un approvvigionamento costante di
barili al giorno, in cambio dei quali le compagnie ferroviarie avrebbero
concesso forti sconti sui costi di trasporto. Per controllare l’afflusso,
tuttavia, Rockefeller dovette mettere le mani su un consistente numero di
raffinerie, manovra che gli riuscì con la fondazione della Standard Oil.
Quindi, convinse alcuni grossi proprietari ad associarsi alla compagnia,
mettendo gli altri di fronte al fatto che la neoformata Standard Oil era in
grado di applicare prezzi più bassi e presto o tardi avrebbe costretto al
fallimento la concorrenza. Alle minacce si aggiunsero gli effetti della crisi
economica del 1870, e la Standard Oil assorbì in poco tempo 22 dei 25
operatori di Cleveland. Una volta completato il piano, la strada fu tutta in
discesa: già nel 1880, la compagnia di Rockefeller raffinava il 95% del
petrolio statunitense.
Il coetaneo John Pierpont Morgan, invece, aveva alle spalle una famiglia
benestante che possedeva una florida attività commerciale, e ciò gli
consentì di frequentare le migliori scuole in America e in Europa. Grazie ai
contatti con la finanza londinese, Morgan cominciò a operare come
rappresentante statunitense di alcune banche britanniche: l’accesso ai
grandi capitali della City di Londra lo introdusse nei consigli di
amministrazione di diverse società cui era andato in soccorso. Famose
rimangono le sue speculazioni: in particolare quella del 1861 ai danni di un
reggimento di cavalleria dell’esercito, al quale piazzò un carico di carabine
difettose (comprate a 3 dollari e mezzo l’una, ma rivendute a 22). Alcuni
anni dopo, manipolò il prezzo dell’oro, rastrellando le riserve per toglierlo
dalla circolazione, salvo poi rivenderlo dopo un breve intervallo, ricavando
un profitto enorme.
In due occasioni Morgan fu indispensabile per salvare il governo dalla
bancarotta. Nel 1895, il presidente Grover Cleveland chiese il suo aiuto per
rifornire di oro le casse dello stato, che si trovavano a secco per gli effetti
della crisi di due anni prima. Nel 1907, toccò invece a Theodore Roosevelt
ricorrere a Morgan per fermare il panico finanziario che in pochi mesi
aveva fatto perdere alla borsa più del 50% della capitalizzazione dell’anno
precedente. Forte del suo prestigio, il banchiere riunì i maggiori colleghi del
paese e li esortò ad accordarsi su un piano di salvataggio del sistema. Dopo
nottate insonni, l’«unità di crisi» mise a punto una serie di misure che
evitarono il tracollo economico del paese: mai come in quel momento si
ebbe la conferma che il numero 23 di Wall Street (→), dove aveva sede la
banca di Morgan, era il vero centro decisionale dell’intero paese.
Di robber barons ce n’erano anche a Ovest. Leland Stanford, avvocato
male in arnese, fece fortuna trasferendosi dall’Est a San Francisco. Qui aprì
un emporio di attrezzi e provviste per gli avventurieri che si erano
precipitati in massa in California dopo la scoperta dell’oro nel 1849 (→
Oro!). Accumulata una piccola fortuna, insieme a Charles Crocker, Mark
Hopkins e Collis P. Huntigton (noti come «The Big Four»), formò il
consorzio per la costruzione della ferrovia Central Pacific (e non guastò il
fatto che, nello stesso periodo, Stanford venisse eletto governatore della
California; → Promontory Point). Colpito dalla morte dell’unico figlio,
Stanford decise di finanziare la costruzione di un’università a Palo Alto:
inaugurata nel 1891, la Stanford University, pur non facendo parte della Ivy
League (→), è diventata uno degli istituti più prestigiosi e costosi del paese.
Non manca, in questa galleria di personaggi, anche la storia americana
per eccellenza dell’immigrante che fa fortuna. Andrew Carnegie, partito da
Dunfermline, in Scozia, e arrivato con la famiglia a Pittsburgh, iniziò a
guadagnarsi da vivere come telegrafista: dimostrando subito abilità nel
mestiere, si conquistò un posto presso la ferrovia della Pennsylvania,
guidata dal magnate Thomas Scott, scalando via via tutte le posizioni nella
gerarchia aziendale. Consigliato da Scott, Carnegie fece piccoli investimenti
che gli procurarono profitti enormi, e in seguito, quando il suo mentore
venne nominato assistente personale del ministro della Guerra durante il
conflitto secessionista (→ Guerra civile), Carnegie ottenne appalti per il
trasporto di uomini, munizioni e provviste, nonché per il ripristino delle
linee del telegrafo. Alla conclusione delle ostilità, Carnegie abbandonò le
ferrovie e s’interessò all’acciaio, settore in cui procedette all’integrazione
verticale, assicurandosi il controllo del processo produttivo dalle materie
prime fino all’esemplare finito. Grazie a provvidenziali dazi protettivi
introdotti dal governo, il consorzio poté prosperare al riparo della
concorrenza straniera. Nel 1900, Carnegie vendette la sua partecipazione a
Morgan per una somma di oltre 229 milioni di dollari. Il banchiere poté così
procedere alla creazione del più grande conglomerato del settore
dell’acciaio, la U.S. Steel, che da sola valeva i tre quinti dell’intero mercato
statunitense. Alla notizia, un giornalista inglese commentò che da quel
momento «il mondo ha cessato di essere governato dai cosiddetti uomini di
stato».
La storia di Carnegie – l’emigrante che arriva povero in America e
attraverso la sua intraprendenza, il merito, la praticità e l’intuito scala la
strada verso il successo – rappresentò una matrice per le storie di Horatio
Alger (→ Rags to riches) e dei suoi piccoli protagonisti che dagli stracci
(rags) arrivano al successo (riches), un mito che si scontrava con una realtà
in cui la mobilità sociale, per i milioni di immigrati che lavoravano nelle
fabbriche e negli sweatshops, era di fatto molto limitata.
Carnegie è anche colui a cui si deve l’idea di dedicare tempo e risorse a
beneficenza e filantropia. In un saggio pubblicato dalla North American
Review, a cui più tardi venne dato il titolo Il vangelo della ricchezza, Carnegie
espose l’idea che l’uomo d’affari, una volta raggiunti alti livelli di guadagno,
aveva l’obbligo morale di fare qualcosa per il beneficio della società,
finanziando per esempio istituzioni culturali, quali università e biblioteche.
Significativo il fatto che la generosità non riguardasse le condizioni di vita e
lavoro dei dipendenti, nei confronti dei quali usò spesso il pugno di ferro
(→ Sciopero!). Del resto lui era un robber baron, non un Robin Hood.

BIBLIOGRAFIA
Peter Collier, David Horowitz, Rockefeller, una dinastia americana, Rusconi,
Milano 1983.
Matthew Josephson, The Robber Barons: The Great American Capitalists, 1861-
1901 (1934), Mariner Books, Boston 1962.
Alan Trachtenberg, The Incorporation of America. Culture and Society in the
Gilded Age, Hill & Wang, New York 1982.
Howard Zinn, Storia del popolo americano dal 1492 a oggi, il Saggiatore, Milano
2005.
S.M.Z.

Robot (e SF)
Il sogno americano che la tecnologia salvi il paese, e magari il pianeta, da
una catastrofe imminente o che, in termini meno apocalittici e più
positivistici, lo aiuti a vivere meglio, non è, come potrebbe sembrare, una
fantasia contemporanea. Si tratta invece di una tensione antica, che risale
alla storia coloniale, alla volontà e alla missione dei puritani (→ Città sulla
collina) insediatisi sulle coste del New England di superare gli ostacoli
naturali del Nuovo mondo e imbrigliare la wilderness (→) per ottimizzarne
le risorse, e che continua nel Settecento, con l’illuminismo pragmatico di
Benjamin Franklin (inventore indefesso a cui si devono il parafulmini, le
lenti bifocali, il contachilometri ecc.), Eli Whitney (il padre della sgranatrice
di cotone) e Thomas Jefferson (cui spetta, oltre ai numerosi atti politici,
anche la paternità del montacarichi). Questa spinta propulsiva culmina per
molti versi nella teoria del «destino manifesto» (→) e nella tesi della
Frontiera (→) di Frederick J. Turner che, proiettate su un’espansione
continua e foriera di civiltà e progresso, saranno impensabili senza
l’avanzare continuo della ferrovia (→ Promontory Point). Date
l’abbondanza di risorse da un lato e la scarsità di manodopera iniziale
dall’altro, a partire da fine Settecento, i coloni si devono convincere non
solo dell’utilità ma del bisogno di ricorrere alle macchine, auspicando, al
tempo stesso, che i grandi spazi di cui gode l’America la sottraggano
all’abbrutimento dell’industrializzazione europea. Non deve quindi stupire
che la ferrovia – così come succederà con l’auto, l’aereo e i satelliti spaziali
– faccia breccia nell’immaginario del paese quale veicolo di allargamento di
democrazia sulla Frontiera senza incontrare grosse resistenze culturali. Lo
stesso Henry David Thoreau, intellettuale attento alle dinamiche ambientali
già a metà Ottocento (→ Wilderness), pur cogliendo la lacerazione del
fischio della locomotiva che penetra i boschi del New England, non può non
guardare al «destriero di ferro» che «s’invola per la campagna» con lo
stesso sentimento con cui osserva il sorgere del sole: ovvero accettando
quel «focoso drago» quale parte del paesaggio americano.
Eppure, sui toni positivistici e trionfali dell’applicazione tecnica, e
altrettanto radicato nelle origini della storia coloniale, si allunga il sospetto
puritano nei confronti di qualsiasi impiego della scienza a fini secolari: in
modo non diverso dalle ombre gettate sulle teorie evoluzioniste (→
Scimmie alla sbarra), le denominazioni (→ Quakers, Shakers, Mormons) più
conservatrici condanneranno, in maniera più o meno tacita, i prodotti
dell’innovazione tecnologica quali creazioni antagoniste a quella biblica. Il
rovescio del guanto non sarà tuttavia di impronta solo religiosa: nella
«Gilded Age» (→), quando un decollo industriale straordinario
s’accompagnerà a dislocazioni ambientali e traumi sociopsicologici legati ai
nuovi ritmi metropolitani, si faranno strada una serie di proiezioni utopiche
e distopiche (Edward Bellamy, Uno sguardo dal 2000, 1888), che ripongono in
un futuro di regime tecnologico le speranze di raddrizzare le storture sociali
del paese. I romance utopici di fine Ottocento – il periodo in cui compaiono
anche le prime riviste dedicate al fantasy e a racconti di «futuri perfetti» –
non sono, secondo Bruce Franklin, che la prova di una presenza costante,
nella letteratura americana, di una sensibilità «fantascientifica»: oltre
all’opera di Bellamy e di Mark Twain (Uno Yankee alla corte di Re Artù, 1889),
elementi gotici riconducibili a questo stesso filone si possono infatti trovare
non solo in molti racconti di Nathaniel Hawthorne e di Edgar Allan Poe ma
anche in opere quali Il cratere di James F. Cooper e Mardi di Herman Melville.
Se al volgere del secolo e nel primo decennio del Novecento il fiorire di una
produzione letteraria votata alla rappresentazione di immaginari scientifici
e fantascientifici continua ad abitare soprattutto riviste e dime novels (→), il
fascino per gli scenari tecnologici e futuribili sarà al centro della fantasia
collettiva dei decenni a venire a partire dalla nascita di nuove forme
narrative: la radio, il cinema, i fumetti.
Con i primi tre decenni del Novecento, l’investimento pubblico in
progetti ingegneristici che pieghino la natura americana all’insegna
dell’efficientismo diventa massiccio: è il periodo in cui vengono realizzate
imprese epiche come la costruzione di ponti e dighe (→ Hoover). Ma
saranno il secondo conflitto mondiale prima e la Guerra fredda poi, e la
conseguente messa a punto di ordigni atomici, a spalancare in modo
definitivo l’immaginario collettivo alla passione per le macchine veloci e
spettacolari, nonché ai gadget e ai robot.
La parola «robot» è un’invenzione linguistica di inizio Novecento e non
viene dall’americano e nemmeno dall’inglese, ma dal ceco. Deriva da
«robotà» che significa «lavoro servile» e appare per la prima volta nel 1920,
nel dramma fantascientifico di Karel Capek, Rossum’s Universal Robots
(R.U.R.). L’utopia di Domin, il demiurgo della multinazionale Rossum, è di
affrancare l’umanità dalla schiavitù della fatica fisica, ma gli effetti sono
rovinosi perché i robot ormai diffusi in tutto il mondo cominciano a
ribellarsi ai loro creatori e a sterminarli. I robot di Capek – umani nella
forma, quindi androidi – sono più intelligenti dell’uomo, ma sono
senz’anima: e, in effetti, le creature robotiche a venire, pur nelle loro
svariate declinazioni, funzioneranno da monito contro gli eccessi della
tecnologia e del macchinismo, contro la minaccia che il computer prenda il
sopravvento sull’uomo. Saranno i pulp magazines – le riviste spuntate negli
Stati Uniti tra le due guerre, in cui trovano spazio racconti di generi diversi
come western, poliziesco, fantasy, erotico, fantascienza e noir – a divulgare
la parola «robot» nell’ambito delle narrazioni fantascientifiche. Quanto al
fortunatissimo termine «science fiction» (SF), bisogna invece risalire a Hugo
Gernsback (da cui i famosi Hugo Awards) che, nel 1926, in occasione del
primo numero della rivista Amazing Stories conia l’espressione
«scientification», poi rimpiazzata dal cambio del nome di una rivista pulp
rivale, Astounding Stories, trasformata da John W. Campbell nel 1938 in
Astounding Science Fiction.
I primi robot compaiono così sulle copertine dei pulp magazines tra gli
anni venti e il secondo dopoguerra, prendendo la forma, scrive Bruce
Sterling, di una specie di scatola di acciaio dotata di tenaglie (con cui di
solito cingono una ragazza). Sono soprattutto i fumetti a diffondere vari tipi
di robot negli anni trenta, innestandosi via via sull’universo dei supereroi:
nel Flash Gordon di Alex Raymond, ne ricorrono di tipo metallico a forma
umana e animale; nei fumetti della DC Comics, compaiono quali antagonisti
di Superman e Batman; in quelli della Marvel, nascono i personaggi di Iron
Man e Colossus. Sulle prime, la SF è quindi considerata un sottogenere, più
«basso» della letteratura e del cinema. Certo la tradizione a cui si può far
risalire è senza dubbio autorevole e «seria» (da Jules Verne a H.G. Wells e a
Edgar Allan Poe, e forse allo stesso Frankenstein di Mary Shelley), ma il
dibattito sui natali più o meno nobili della SF e sulla sua affiliazione al
genere dell’utopia sociale resta ancora aperto.
Sarà negli anni cinquanta e sessanta, in piena temperie da Guerra fredda,
che la fantascienza americana conoscerà un’età dell’oro forgiata sui talenti
di Isaac Asimov e Robert A. Heinlein e su una accresciuta attendibilità
scientifica. Ebreo russo trapiantato negli Stati Uniti a soli tre anni, Asimov,
professore di biochimica, sarà l’autore di SF più prolifico e tradotto: oltre a
scrivere l’influente e seminale Trilogia della fondazione (1951, ’52, ’53) e a
introdurre l’idea del cervello positronico (una coscienza centrale dei robot),
Asimov concepisce le «tre leggi della robotica» (parola, quest’ultima, che
entra nel dizionario Merriam Webster) secondo le quali un robot non può
recar danno a un essere umano, deve obbedire agli ordini impartiti dagli
esseri umani e proteggere la propria esistenza purché questo non
contravvenga alle prime due leggi. Con Asimov il robot diventa dunque
razionale, abbandonando la tradizione precedente in cui è poco più che una
figura negativa assimilabile al villain. Da un punto di vista narrativo, poi, la
combinazione delle tre leggi della robotica (la presenza o l’assenza di una o
dell’altra) permettono ad Asimov di introdurre infinite variazioni,
ampliando così il repertorio tematico del genere. Non tutte le entità
robotiche che rimbalzano, a partire da quegli stessi anni, dalla narrativa al
cinema e al fumetto generando una schiatta inquietante di mutanti e
replicanti, seguono però le leggi di Asimov, dai cui racconti Io, Robot (1950)
sarebbero nati degli adattamenti televisivi negli anni sessanta. Il 1951, per
esempio, è l’anno de Il pianeta proibito, diretto da Fred McLeod Wilcox (lo
stesso regista di Lassie!) che, virando in salsa pulp la storia della Tempesta
shakespeariana, mette in scena un viaggio nello spazio, un pianeta alieno,
uno scienziato pazzo, molti apparecchi high-tech – tra cui un robot, Robby
– e una razza aliena avanzata ma estinta. Mentre del 1956 è L’invasone degli
ultracorpi di Don Siegel, tratto dal romanzo di Jack Finney Gli invasati, in cui
una proliferazione di replicanti colonizza la piccola città (→) californiana di
Santa Mira. Se nel 1948, l’inglese Arthur C. Clarke pubblica il racconto La
sentinella, da cui trarrà poi il romanzo 2001: Odissea nello spazio e la
sceneggiatura per l’omonimo film di Stanley Kubrick nel 1968,
all’esplorazione e alla colonizzazione del pianeta Marte sono dedicati i
ventotto racconti che compongono le Cronache marziane (1950) di Ray
Bradbury, una splendida dislocazione nello spazio del mito della Frontiera
(→) e della wilderness (→), con toni poco avveniristici.
Nella «società opulenta» degli anni cinquanta, con il massiccio
investimento economico e pubblicitario in prodotti per bambini e
adolescenti, il robot entra poi nelle case americane come giocattolo: Robert
the Robot, della Ideal, che parla e si muove controllato con un telecomando
a forma di pistola, costituirà un oggetto immancabile di molte abitazioni nei
suburbs (→).
Ma sarà nel decennio successivo che robot, alieni e saghe interstellari
toccheranno l’apice della popolarità: da Iron Man, supereroe dei fumetti
creato dalla Marvel nel 1963 all’inizio, nel 1966, della lunga epica televisiva
di Star Trek (→ Serie tv) creata da Gene Roddenberry e trasmessa per le
prime quattro stagioni dalla Nbc. Dapprima liquidate come
«scientificamente poco accurate» da Asimov (che però poi ritratterà),
pubblicizzate come un western nello spazio, le avventure del Capitano Kirk
e dell’astronave Enterprise restituiscono un grande microcosmo americano
in cui vengono affrontati temi centrali e controversi di quel decennio (quali
femminismo e razzismo). Gli anni settanta vedono, oltre al proseguimento
di Star Trek, la nascita di Battlestar Galactica e l’uscita cinematografica di Il
mondo dei robot (Westword) di Michael Crichton, in cui Yul Brinner interpreta
un (poco affidabile) robot pistolero in un parco a tema. E compaiono, tra lo
scandalo del Watergate e l’amministrazione Carter, anche i cyborg, a
partire da Cyborg (1972), un romanzo di Martin Caidin che ha come
protagonista un uomo dotato di parti meccaniche («bionics») e quindi
«bionico», reso famoso dalla serie tv L’uomo da sei milioni di dollari (1973), il
cui spin-off genererà La donna bionica. Nel 1975, nasce anche il già citato
Colossus, supereroe della Marvel che è un mutante umano capace di
trasformarsi in un fascio di metallo.
Gli anni ottanta si aprono invece con Blade Runner, il film di Ridley Scott
tratto dal romanzo di P.K. Dick Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (1968)
che lo stesso Dick non vedrà mai finito, morendo pochi mesi prima
dell’uscita nelle sale. Prodotta dalla Warner Brothers nel 1982, l’opera di
Scott – regista inglese che ha già diretto Alien (→) – costa 27 milioni di
dollari e, sulle prime, stenta a decollare al box office. Il protagonista è Rick
Deckard (Harrison Ford), un cacciatore di taglie costretto a cercare sei
androidi (o replicanti) fuggiti da una colonia marziana, tra cui Roy Batty
(Rutger Hauer) e Pris (Daryl Hannah). Lo sfondo è la Los Angeles del 2019,
una metropoli post-catastrofica pregna di pioggia acida e aria tossica, in cui
la vita animale è virtualmente estinta e lo scenario urbano è dominato dalla
Tyrell Corporation e dal suo edificio, una piramide di vetro. Mentre nel
romanzo di Dick l’androide è una figura fredda e priva di alcuna
intenzionalità simpatetica, nella distopia postapocalittica di Scott i
replicanti non sono solo superumani ma dimostrano di avere un cuore, ed è
forse questa caratteristica che ha trasformato Blade Runner – in cui il regista
si rifà palesemente a Frankenstein – in un film culto. L’altro lascito
dell’opera di Scott è la rappresentazione di una Los Angeles cyberpunk che
non è difficile riconoscere nello «sprawl» (→ Edge cities) di William Gibson
e del suo Neuromante (1984), romanzo da molti considerato manifesto del
cyberpunk – il più significativo sviluppo della SF negli anni ottanta –,
Neuromante è ambientato in un futuro imbevuto di tecnologia e vicino
(quindi riconoscibile), in cui il protagonista – un «cowboy dell’interfaccia»,
tanto per ribadire la versatilità del mito della Frontiera (→) – si muove in
un paesaggio frantumato e congelato in una paralisi emotiva (emblematico
l’incipit: «Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata
su un canale morto»). Nelle pagine tecno-surrealiste della narrativa
cyberpunk, compare quindi il motivo, antico come la letteratura, del
superamento dei limiti dell’uomo tramite la scienza: i corpi manipolati dei
cyborg si avvarranno dell’impianto di nuove membra artificiali, sfiorando
così tutte le possibilità e le potenzialità di un’esistenza postumana. Il
passaggio narrativo da androide a cyborg – che segue la precedente
evoluzione da robot ad androide – si è così compiuto.
Non stupisce quindi che l’opera di Gibson e la SF in generale diventino,
con un critico come Frederic Jameson, il sito culturale privilegiato per
studiare la condizione postmoderna, né che l’influente pensatrice
femminista Donna Haraway usi la metafora del cyborg come modello
indefinito e quindi liberatorio per sfidare il pensiero femminista (europeo e
americano), nel celebre Cyborg Manifesto (1985).
Dagli anni ottanta agli inizi dei duemila, cinema e televisione non hanno
cessato di ricorrere a cyborg (si pensi a Terminator, del 1984, e a Matrix, del
1999, per fare soltanto due esempi), offrendo nel robot-riciclatore del
cartone animato Wall-E (2008) una riflessione ecologista in cui le rarefatte
atmosfere di certa SF degli anni settanta, influenzata dai movimenti
ambientalisti (dalla raccolta di racconti The Wounded Planet, 1974, all’utopia
ecologista di Ernest Callenbach Ecotopia, 1975), hanno lasciato il posto a un
pianeta disabitato, su cui si alzano soltanto cumuli di rifiuti compattati. Più
simile a Pinocchio che a un cyborg, assemblato con pezzi di scarto, Wall-E
tenta di salvare l’umanità riciclando, come un bravo rigattiere, i rottami
tecnologici di una civiltà collassata sui rifiuti. Chissà che i robot non ci
salvino anche dalla spazzatura.

BIBLIOGRAFIA
Bruce Franklin, Future Perfect: American Science Fiction of the Nineteenth
Century, Oxford University Press, New York 1966.
Katie Hafner, Cyberpunk: Outlaws and Hackers on the computer Frontier, Simon
& Schuster, New York 1992.
Carlo Pagetti, I sogni della scienza: storia della science fiction, Editori Riuniti,
Roma 1993.
Raf «Valvola» Scelsi, Cyberpunk: Antologia di scritti politici, Shake, Milano
2007.
Bruce Sterling, La forma del futuro, Apogeo, Milano 2006.
C. SCAR.

Rodeo
Nel processo di spettacolarizzazione del West, fin dal Wild West Show (→) un
posto speciale è occupato dal rodeo, che giunge ai nostri giorni con
numerose rivisitazioni cinematografiche (un titolo: il crepuscolare L’ultimo
buscadero, del 1972, diretto da Sam Peckinpah), ma anche con regolari
appuntamenti pubblici e una fitta rete di organizzazioni: per esempio, la
Professional Rodeo Cowboys Association, i Professional Bull Riders, la
National High School Rodeo Association, la National Intercollegiate Rodeo
Association, la Women’s Professional Rodeo Association, l’International Gay
Rodeo Association. La parola è di origine spagnola e significa «radunare le
bestie in un recinto» (il termine equivalente inglese, meno noto e meno
usato, è round-up): un momento di fondamentale importanza nel ciclo di
allevamento, vendita e trasporto degli animali – cavalli, mucche, vitelli, tori.
Il rodeo era dunque mostra e prova di abilità, fiera paesana e appuntamento
centrale nella vita di comunità spesso lontane le une dalle altre nel vasto
territorio dell’Ovest – il tutto incentrato sul duro lavoro quotidiano dei
cowboys (→). Tracce di questo passato si ritrovano oggi nelle varie sezioni in
cui è scandito il rodeo in quanto sport competitivo (e sport ufficiale di stati
come il Wyoming, il South Dakota, il Texas) – sezioni dai nomi evocativi:
Tie-Down Roping (la legatura del vitello preso al lazo e fatto cadere a terra),
Steer Wrestling (la cattura a mani nude del manzo), Saddle Bronco Riding (la
monta con sella di un cavallo non ancora domato), Bareback Bronco Riding (la
monta senza sella di un cavallo non ancora domato), Bull Riding (la monta di
un toro)… qualcosa di più simile ai circenses degli antichi Romani e come
tale spesso attaccato dalle associazioni animaliste.
Il primo rodeo competitivo si tenne nel 1872, a Cheyenne, nel Wyoming
(secondo altri nel 1883, a Pecos, nel Texas); ma fu nell’ultimo decennio
dell’Ottocento che l’appuntamento si trasformò in uno dei tanti sport-
spettacolo all’aria aperta, con forti componenti di retorica nazionalista e
maschilista, ingredienti centrali alla costruzione dell’immaginario del
«rude West». Non mancarono tuttavia celebri rodeo girls, come Bonnie
McCarrol e Marie Gibson, entrambe morte tragicamente sul campo nel 1929
e nel 1933; o campioni di rodeo di origine afroamericana, come Nat Love o
Bill Pickett; o, come s’è visto, organizzazioni di rodeo gay. Celebre poi la
sfida lanciata da Buffalo Bill ai butteri maremmani durante la sua tournée
italiana del 1890: a Cisterna di Latina, i butteri guidati da Augusto Imperiali
diedero una lezione ai cowboys, con grande irritazione del «mito nazionale
americano»!

BIBLIOGRAFIA
Melody Groves, Ropes, Reins, and Rawhide. All About Rodeo, University of New
Mexico Press, Albuquerque 2006.
Alberto Paleari, Cowboy, Edizioni dell’Ambrosino, Milano 1997.
Stefano Rosso (a c. di), Le frontiere del Far West. Forme di rappresentazione del
grande mito americano, Shake, Milano 2008.
M.M.

Roswell (e Area 51)


La risonanza di quanto accaduto a Roswell, piccola città del New Mexico
sudorientale, nel luglio 1947 – questione ancora dibattuta, su cui si sono
rincorse teorie e pubblicazioni di ogni risma –, non si può comprendere se
non si torna con la mente agli anni quaranta, quando la stampa locale
ricorreva spesso a storie di miracoli e burle (hoax) per rimpolpare le proprie
pagine: un tempo pre-televisivo, con la radio (→) come unico canale
domestico di informazioni e intrattenimento. Così, nelle due settimane tra
fine giugno e inizio luglio del 1947, i giornali e le emittenti radiofoniche
diffusero notizie circa la comparsa – o, meglio, il passaggio e la caduta – di
misteriosi dischi volanti nell’area attorno a Roswell. Benché la cittadina
fosse descritta come sonnacchiosa, la regione non si poteva dire tranquilla,
almeno da un punto di vista strategico-militare: le ricerche atomiche del
Progetto Manhattan (→) proseguivano infatti, a guerra conclusa, a Los
Alamos (a Nordest); e nella vicina Alamogordo (a Sud) si testavano i missili
tedeschi U-2 abbattuti dall’aviazione americana durante il conflitto
mondiale; la stessa Roswell era, poi, il quartier generale del 509º Bomb
Group, l’unità operativa che solo due anni prima aveva sganciato gli ordigni
atomici sul Giappone. Infine, quanto a suspense, l’intera vicenda presentava
ingredienti che garantivano il moltiplicarsi di congetture paranoiche
presenti e future: la segretezza governativa, le insabbiature istituzionali, la
curiosità popolare e una serie di oggetti non identificati (Ufo, Unidentified
Flying Object) trovati nei campi attorno a Roswell (→ Teoria del complotto).
Per molti punti della storia, il condizionale è ancora d’obbligo. All’inizio
di luglio, anno di grazia 1947, nel corso di un violento temporale stagionale,
qualcosa si sarebbe schiantato, provocando un boato simile a quello di un
tuono, sull’altopiano desertico del New Mexico orientale; il 2 luglio, Mr e
Mrs Dan Wilmut avrebbero quindi avvistato un Ufo a forma ovale che
volava sulle loro teste nei cieli di Roswell; più tardi, William Woody e padre,
avrebbero visto un oggetto luminoso seguito da una scia rossa. Anche un
allevatore, Mac Brazil, avrebbe sentito, dal suo ranch poco fuori la cittadina,
una violenta esplosione e avrebbe poi provveduto a raccogliere i resti dello
schianto per portarli allo sceriffo della contea, George Wilcox: a quel punto,
lo sceriffo avrebbe contattato l’ufficio di intelligence militare di stanza a
Roswell, nella persona del maggiore Jesse Marcel che avrebbe trasportato i
resti presso la base.
Quindi – e da qui in poi le fonti si fanno ufficiali – la Air Force diede, urbi
et orbi, notizia che a sud di Roswell, la Roswell Army Airfield aveva
«catturato» un disco volante caduto nei dintorni. Il tempo di elettrizzare
l’intero paese e, a distanza di ore, a Fort Worth, in Texas (dove era affiliato
il comando del 509º Bomb Group), fu convocata una conferenza in cui le
autorità militari fecero marcia indietro. Nessun disco volante: si sarebbe
trattato semplicemente di un weather balloon, un pallone meteorologico. La
stampa perse così interesse per la storia, che rimase sopita per i successivi
trent’anni.
Soltanto nel 1978, Jesse Marcel rompeva il silenzio con un’intervista,
affermando pubblicamente che gli oggetti intercettati a Roswell nell’estate
del 1947 non erano «di questa terra». La rivelazione di Marcel offrì il destro
a una lunga serie di «testimonianze oculari», quasi tutte incentrate sul
rinvenimento, insieme a rottami vari (pagliuzze e pellicole di alluminio e
tavolette di balsa con strane iscrizioni), di piccoli corpi grigi, un dettaglio
che la versione ufficiale fornita a Fort Worth aveva rimosso. Una delle
rivelazioni più eclatanti fu quella del becchino di Roswell, Glenn Dennis, che
parlò di una strana ordinazione di bare per bambini effettuata dall’esercito
e di una serie di altrettanto sinistre autopsie. Solo decenni più tardi si
sarebbe inoltre appurato che «l’incidente di Roswell» era stato classificato
dall’esercito come «top secret».
Da lì alla fine del secolo – e del millennio – l’ipotesi di un’invasione
aliena prese sempre più forma, alimentata dal proliferare incontrollato di
teorie ufologiche che assunsero talvolta i contorni apocalittici del fanatismo
religioso. Le singolari esternazioni delle autorità americane negli anni
novanta contribuirono a trasformare i fatti di Roswell in una narrazione
tragicomica a sfondo fantascientifico. Nel 1994, l’aviazione americana
ammetteva infatti di aver mentito con la spiegazione dei weather balloons,
ma con la sua attuale, nonché terza, versione avrebbe rivelato la verità circa
gli strani ritrovamenti del 1947: a cadere a Roswell sarebbero stati pezzi di
contraffazioni volanti composte di palloni e radar multipli del progetto
segreto «Mogul». La «spiegazione Mogul» ebbe tuttavia vita breve poiché,
nel 1997, la stessa Air Force se ne uscì con una quarta vulgata che dava
ragione della presenza dei «piccoli corpi alieni»: si sarebbe trattato di
manichini usati in esercitazioni paracadutistiche negli anni cinquanta. La
misura per la stampa era ormai colma: le parole del portavoce furono
accolte con grosse risate di scherno e la teoria del ’97 venne etichettata in
modo canzonatorio come la «dummy explanation» («dummy» significa
infatti sia «manichino» sia «idiota»).
Ancora più avvolta nel mistero e in parte legata alle leggende ufologiche
di Roswell è poi l’Area 51, nota anche come Dreamland o Groomlake.
Costruita negli anni cinquanta come base militare nel Sud del Nevada,
l’Area 51 fa parte dello US Air Force’s Nevada and Training Range, un
perimetro federale conosciuto precedentemente come Nellis Airforce Range
(Nafr) e collocato a 83 miglia di Las Vegas (→ Flamingo Hotel), che rimane a
sudovest. Sempre interno all’ex Nellis Airforce Range, a ovest, si trova poi il
Nevada Test Site, altro luogo carico di segreti (e di radioattività). Alcune
zone della ex Nafr – che copre 24mila chilometri quadrati, metà della
Lombardia – sono permanentemente interdette al traffico civile e militare e
la base non compare sulle mappe governative. Con coordinate strategiche di
tale segretezza, non stupisce che l’Area 51 sia diventata un luogo deputato
alla proiezione di teorie ufologiche di ogni tipo: chi imbocca la Statale 375
potrà infatti incontrare cartelli che indicano l’inizio della «Extraterrestrial
Highway». Così, dalla compenetrazione di fantascienza, ufologia e
cospirazione sono nate, negli anni, congetture circa le attività ospitate da
Dreamland che contemplano la raccolta e lo studio di astronavi aliene (a
partire dai materiali ritrovati a Roswell), incontri con gli extraterrestri, lo
sviluppo di strumenti del controllo meteorologico e, infine, forse in
omaggio a Star Trek, la messa a punto di tecnologie di teletrasporto nel
tempo.
Facendo leva sulla fantasia collettiva di un’intera nazione stregata dal
binomio Roswell-Area 51 e sulla fortuna di una serie di successi editoriali
quali UFO Crash at Roswell di Kevin D. Randle e Donald R. Schmitt (1991), il
successo di botteghino del 1996, Independence Day, ha avuto buon gioco a
confezionare una trama in cui l’esercito americano ricorre alla tecnologia
rubata agli extraterrestri catturati nel 1947 per attaccare gli invasori alieni,
proprio dall’Area 51. E in tempi più recenti, la serie tv (→) Roswell (mandata
in onda fra il 1999 e il 2002) è tornata sull’argomento creandosi un seguito
di fedelissimi adepti. Ma il fenomeno Ufo ha attratto anche una serie di
analisi antropologiche che lo hanno ricondotto sostanzialmente all’ostilità
degli americani nei confronti del governo federale. Una lettura secondo cui
il potere di Washington sarebbe visto, all’interno di questo tipo di folklore,
come «mostro malvagio» che si appropria di una conoscenza essenziale
all’umanità (la prova che non siamo soli nell’universo). Contro questa
prevaricazione combatterebbero gli ufologi, eroi culturali capaci di
reimpossessarsi di quella conoscenza per il bene del pianeta.
Se, infine, l’ufologia non è una scienza, il suo culto rasenta, si è detto,
quello di una religione. Si può sorridere davanti alla scelta di Dave Grohl, ex
batterista dei Nirvana (→ Grunge), di fondare un gruppo chiamato Foo
Fighters in omaggio a una vecchia espressione per designare gli Ufo. Più
arduo risulta farlo a proposito della vicenda della setta Heaven’s Gate (=
Cancello del Cielo), in cui le suggestioni ufologiche incontrano il suicidio di
massa (→ Waco, Columbine e altre stragi): il 26 marzo 1997, nel Rancho
Santa Fe di una gated community (→ Suburb) di San Diego, la polizia trova i
cadaveri in stato di decomposizione di 39 membri della confraternita di
ufologia religiosa Heaven’s Gate. Web designers anche molto ricercati nella
vita di tutti i giorni, i seguaci del gruppo guidato da Marshall Applewhite
credono, sulle basi di una miscela New Age di suggestioni cristiane
apocalittiche e di culti fantascientifici (→ Quakers, Shakers, Mormons), che
il pianeta Terra, giunto ormai alla fine della sua esistenza, stia per essere
«purificato» e che l’unico modo per sopravvivere sia la sua evacuazione
istantanea. Così, il 19-20 marzo, Applewhite parla, in un messaggio
autoregistrato, di suicidio di massa come di via d’uscita per l’umanità e
qualche giorno dopo, in coincidenza con il passaggio più luminoso della
cometa Hale-Bopp, spinge i propri accoliti (uomini e donne) a un
avvelenamento collettivo che permetterà alle loro anime di raggiungere
un’astronave aliena accodatasi alla cometa. In uniformi composte di
pantaloni di tuta neri, magliette nere e Nike Windrunner bianche e nere,
questi fan di Star Trek e X-Files votati a una vita ascetica (sette di loro, tra cui
Applewhite, si sono fatti castrare), lasciano la California per essere
teletrasportati nel «Regno dei Cieli». Nel portale del loro sito web, si legge:
«L’arrivo di Hale-Bopp è il segno che stavamo aspettando – il tempo
dell’arrivo dell’astronave dal Livello Sovrumano che ci porti a casa, nel
“loro mondo”, nei cieli letterali».

BIBLIOGRAFIA
Charles Berlitz, William L. Moore, Accadde a Roswell, Euroclub, Bergamo
1982.
Phil Patton, Dreamland: un reportage dell’Area 51, Fanucci, Roma 2001.
C. SCAR.

Route 66 e Highway 61
Il viaggio, l’essere on the road, costituisce da sempre un segno distintivo
dell’esperienza e dell’identità americana: una nazione in movimento,
caratterizzata nell’immaginario collettivo da un popolo pronto a lasciarsi
alle spalle il passato e a partire verso l’«altrove», spesso senza nemmeno
oltrepassare i confini nazionali. Se i viaggi hanno caratterizzato tutta la
colonizzazione del continente, l’avvento dell’automobile in particolare ha
ridisegnato in maniera radicale le dinamiche di fruizione e percezione del
luogo, permettendo di tornare a un rapporto più stretto e privato con la
geografia, slegato dalle rotte prestabilite dal sistema ferroviario o dalle reti
del trasporto fluviale. Se pensiamo al primo racconto del coast to coast
automobilistico di Horatio Nelson Jackson (From Ocean to Ocean in a Winton,
1903) o di Beatrice Larned Massey (It Might Have Been Worse: A Motor Trip from
Coast to Coast, 1920) e di Vernon McGills (Diary of a Motor Journey from Chicago
to Los Angeles, 1922), le strade americane di inizi Novecento potrebbero
sembrare il regno dell’avventura solitaria, dell’epica della velocità e della
sfida meccanica alle grandi distanze geografiche.
Non è però stato solo questo il volto dell’on the road. Che si proceda da
sud a nord o da est a ovest, le strade statunitensi raccontano, prima ancora
che imprese solitarie, storie di migrazioni collettive, travagli e rinascite – o
almeno la speranza in esse. Partiamo dall’asse orizzontale, dai contadini e
braccianti (in larga parte immigrati recenti) che, a cavallo fra Ottocento e
Novecento, si trovarono costretti a addentrarsi sempre più nelle Grandi
pianure alla ricerca di terreni fertili da coltivare; e in seguito, negli anni
trenta, dall’esodo verso il Pacifico delle famiglie di Okies (→) dirette verso
ovest per sfuggire alla miseria durante la Grande depressione (→). La rotta
principale su cui cercare le orme di questi ultimi è senza dubbio l’Interstate
più famosa d’America, la Route 66, «The Mother Road», che in origine
attraversava otto stati, correndo per 3940 chilometri da Chicago a Los
Angeles. Sebbene i primi tratti risalgano addirittura al 1857, la Route 66
venne battezzata così nel 1926 (e asfaltata completamente solo nel 1938),
dieci anni dopo le prime leggi in materia di sistema autostradale pubblico.
Nelle intenzioni dei progettisti, la strada doveva collegare fra loro le
cittadine rurali, a lungo isolate dalle principali arterie di scorrimento, e fu
fortemente voluta da Cyrus Avery, uomo d’affari di Tulsa, Oklahoma, che
scelse il «66» (invece dei «60» e «62» proposti) perché più facile da tenere a
mente e con un suono più piacevole. Grazie a un’associazione apposita,
Avery ne sostenne in modo indefesso lo sviluppo, organizzando iniziative
varie, fra cui si ricorda la corsa podistica da Los Angeles al Madison Square
Garden di New York (che nel tratto fino a Chicago si svolse – va da sé – sulla
Route 66), vinta da un corridore cherokee dell’Oklahoma e tenuta a
battesimo da personaggi dello spettacolo come Will Rogers (→ Vaudeville),
che diede così nome a un tratto della strada.
In pochi anni, però, la Mother Road si trasformò da simbolo di progresso
e speranza nel futuro a percorso di fuga e disperazione: con le Dust Bowls
(→) degli anni trenta, migliaia di famiglie di Okies (→) e Arkies caricarono i
loro averi su furgoni e malconce Model T (→) e si diressero verso la
California. Le loro storie e quelle di loro compagni su simili strade furono
raccontate da giornalisti-scrittori e fotografi come Erskine Caldwell e
Margaret Bourke-White (You Have Seen Their Faces, 1937), Dorothea Lange e
Paul Taylor, (An American Exodus, 1939), Roland Wild (Double-Crossing
America, 1938) – e da John Steinbeck con il libro forse più famoso sulla Route
66, il romanzo Furore, del 1939.
La Route 66 ha cambiato volto di continuo nel corso dei decenni. Se,
durante il secondo conflitto mondiale, lo sviluppo dell’industria bellica (→
Progetto Manhattan) nell’Ovest rese la Mother Road arteria privilegiata per
lo spostamento di mezzi militari e di truppe, i profondi cambiamenti dovuti
al boom economico che caratterizzarono il secondo dopoguerra (i cospicui
investimenti nelle infrastrutture, con il potenziamento della rete
autostradale) e i riflessi che questi ebbero tanto nella cultura quanto nei
movimenti controculturali dell’epoca furono centrali per la consacrazione
della car culture.
Con il consolidarsi del turismo domestico come pratica sociale diffusa in
un consistente segmento della middle class, la geografia dell’on the road si
legò sempre più al sistema dei beni di consumo e la Route 66 divenne il
percorso preferito dai turisti diretti verso le spiagge della California, o da
quelli interessati alle meraviglie naturalistiche che si trovavano nelle sue
vicinanze (dal Painted Desert al Grand Canyon [→], fino al Meteor Crater). È
in questi anni che si assiste alla creazione di un vero universo della e per la
strada, che si sviluppa lungo le highways: motel (→) dalle forme più
disparate, negozi di souvenir, catene di fast food (→), i primi drive-through
(il Red’s Giant Hamburg, a Springfield, Missouri) – un mondo che entrerà a
tal punto nell’immaginario culturale statunitense da divenire sinonimo del
viaggio stesso.
Al contempo, nei due decenni successivi alla fine del conflitto, il viaggio
si salda sempre più anche alla controcultura e ai tanti movimenti giovanili,
dando forma alla ribellione nei confronti dell’establishment e dei valori da
esso propugnati. L’automobile, e ancor più la motocicletta (→ Harley
Davidson), diventarono così lo strumento per reiterare la fuga verso
quell’altrove già tante volte evocato e invocato dalla letteratura americana
dei secoli precedenti. Sono questi gli anni del viaggio beat, sospeso fra
autobiografia e fiction: di Jack Kerouac (Sulla strada, 1957) e, più tardi, di
Robert M. Pirsig (Lo Zen e l’arte della manutenzione della bicicletta, 1974), due
autori che tornano a raffigurare la strada come dimensione alternativa
rispetto alle costrizioni della vita quotidiana, come nuovo strumento di
ricerca e scoperta, degli altri e di se stessi. «Get Your Kicks on Route 66»
cantava già nel 1946 sulle note rhythm and blues Nat King Cole (parole di
Bobby Troup): un’esortazione poi ripresa da Chuck Berry, Jerry Lee Lewis,
Tom Petty – e dagli inglesi Rolling Stones, a testimoniare la longevità e
internazionalità del mito.
Parlare di «pietre rotolanti» ci porta però su un’altra strada, che va da
sud a nord: quella Highway 61 divenuta emblema della migrazione
afroamericana e delle fertili contaminazioni culturali generatesi soprattutto
in campo musicale. Nei suoi circa 2300 chilometri da New Orleans,
Louisiana, a Wyoming, Minnesota, la Highway 61 è parte della «The Great
River Road» che costeggia per lunghi tratti il fiume Mississippi. Questa
arteria, via di collegamento principale fra St. Louis e St. Paul prima
dell’avvento del sistema delle interstates, è importante in modo particolare
per la storia afroamericana: fra gli anni venti e gli anni cinquanta, migliaia
di neri viaggiarono lungo di essa da sud a nord in cerca di migliori
condizioni economiche, portando con sé la loro cultura e le loro tradizioni
musicali. A rendere leggendaria questa strada fu in particolare il suo
strettissimo legame con il blues e i suoi luoghi topici (→ Mississippi Delta),
che le fece conquistare il nome di «The Blues Highway»: come scrisse il
critico musicale Robert Shelton, «il jazz risalì il fiume. Il blues risalì il fiume.
Tantissima della migliore cultura americana risalì attraverso quella
highway e quel fiume». Tanti sono gli eventi, reali e presunti, che lungo la
Highway 61 ebbero luogo: per esempio, la nascita di famosi cantanti e
musicisti che al blues devono molto, come Muddy Waters, Son House, Elvis
Presley, Charlie Patton; o le molte leggende legate ai «crocevia» (→).
Su questa strada mosse i primi passi verso la fama anche un artista che la
Highway 61 e il blues li conosceva bene, avendo vissuto, nel Minnesota, fra
Duluth (dove era nato), Minneapolis (dove aveva tentato il college) e i
dintorni di St. Paul, facendo l’autostop alla ricerca di esibizioni dal vivo dei
musicisti dell’epoca. Con l’album Highway 61 Revisited (1965), Bob Dylan non
solo conquistò fama imperitura, ma consegnò alla storia un album che
miscela tradizioni folk e blues, rabbia e desiderio di riscatto, perdita
dell’innocenza e nostalgia.
«Come ci si sente / come ci si sente / a essere senza una casa / come un
completo sconosciuto / come una pietra che rotola?»: una domanda che si
potrebbero fare tutti gli aspiranti musicisti che hanno calcato quei
chilometri. Ma se lo potrebbero chiedere le strade stesse. Già, che fine
hanno fatto, oggi, queste strade? Nella realtà, ebbero vita breve. Per quanto
riguarda la Route 66, già nel 1956 il presidente Eisenhower, sostenitore del
trasporto veloce, autorizzò modifiche al suo percorso, volte ad aggirare
paesini e cittadine, con grande disappunto e proteste delle popolazioni
locali. Dopo quasi trent’anni di battaglie legali e di modifiche strutturali, la
strada cessò ufficialmente di esistere nel 1984, rimpiazzata come arteria di
trasporto da segmenti con nomi diversi (l’Interstate 55, la 44, la 40, la 15), le
parti rimanenti trasformate in strade statali, locali, talvolta addirittura
private, poche delle quali in grado di mantenere il nome originario.
Ma i miti sono duri a morire. Svanita dagli atlanti stradali, la Route 66 è
entrata nella storia grazie alla costituzione di associazioni per la sua tutela,
ottenendo il riconoscimento di «Historic Route» prima in Missouri e poi in
altri stati, che ne hanno (ri)scoperto il grande potenziale turistico. Tante
sono state dalla fine degli anni ottanta e fino a oggi le iniziative (e gli
investimenti) per riportarla agli antichi splendori, cercando di preservare
anche le meraviglie architettoniche (stazioni di rifornimento, alberghi,
caffè, drive-in) che la circondavano. E se non è stato solo il successo del
cartoon della Disney, Cars (2006, intorno al declino della cittadina di Radiator
Springs dopo che una nuova Interstate ha soppiantato la vecchia Mother
Road) ad aver riportato la Route 66 sugli atlanti stradali, il rinnovato
interesse per questo pezzo di storia americana da parte della cultura
popolare ha di certo contribuito a portarla all’attenzione anche della
cultura alta, che ne consacrò la rilevanza con l’inclusione in una sezione al
Museo nazionale di storia americana di Washington.
Per quanto riguarda la Highway 61, essa è oggi più breve di quanto non
fosse in origine (giungendo fino a Wyoming, Minnesota, invece che al
confine canadese). I lavori di manutenzione hanno riguardato soprattutto il
tratto settentrionale nello stato del Mississippi, con la costruzione negli
anni novanta di casinò e il relativo incremento della popolazione nell’area:
molti tratti sono passati da due a quattro corsie, con ammodernamenti che,
al pari della Route 66, hanno escluso numerose cittadine. Sono davvero
lontani i tempi in cui, come cantava Dylan nel singolo che diede il titolo
all’album, per risolvere qualsiasi problema c’era una sola soluzione: «Dal
sacrificio di Isacco a un naso sanguinante, quaranta stringhe bianche, rosse
e gialle, e migliaia di telefoni che non funzionano… porta tutto sulla
Highway 61».

BIBLIOGRAFIA
Kris Lackey, Roadframes. The American Highway Narrative, University of
Nebraska Press, Lincoln 1997.
Gene Santoro, Highway 61 Revisited: The Tangled Roots of American Jazz, Blues,
Rock & Country Music, Oxford University Press, Oxford 2004.
Michael Wallis, Route 66: The Mother Road, St. Martin Press, New York 1990.
C. SCHIA.
Rushmore
Al cinema lo si ricorda soprattutto per aver dato appiglio (nel senso
letterale del termine) all’ignaro pubblicitario Roger Thornhill e all’agente
del controspionaggio Eva Kendall in Intrigo internazionale (1959) di Alfred
Hitchcock: fuori dagli schermi, il monte Rushmore è senza dubbio la
scultura statunitense più famosa, in grado di attrarre ancora fra i due e i due
milioni e mezzo di turisti l’anno grazie a un intenso battage pubblicitario.
Con slogan quali «i giganti di granito», «il santuario della democrazia» e «i
patriarchi fissati nella roccia», il monte Rushmore si autoproclama
depositario dei valori nazionali attraverso la rappresentazione scolpita nella
montagna dei volti dei quattro più famosi presidenti americani.
Le effigi di George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e
Abraham Lincoln (alte ben 18 metri), svettanti sul ciclopico monte
Rushmore (metri 1745) nelle Black Hills del South Dakota, dicono molto sul
rapporto fra il potere politico e la geografia statunitense, che si fondono
(qui più che altrove) in una natura antropomorfa dal potente significato
simbolico. Iniziate nel 1927 e completate nel 1941, le effigi del monte
Rushmore celebrano i 150 anni dell’indipendenza americana dando un
volto a quattro valori di cui gli Stati Uniti si sono fatti, a torto o ragione,
paladini: l’indipendenza, il processo democratico, la leadership sullo
scenario internazionale e l’uguaglianza. Il tutto ottenuto nello stesso modo
in cui sono state incise le facce dei quattro presidenti: con centinaia di
braccia operaie, lavori di cesello e di trivella, martello pneumatico e,
all’occorrenza, con una buona dose di dinamite – per la modica cifra di un
milione di dollari, 5000 dei quali donati dal signor Rushmore in persona: per
la precisione, Charles E. Rushmore, avvocato e uomo d’affari di New York
che, recatosi in South Dakota nel 1885 per seguire gli affari del proprietario
di una miniera poco distante, chiese per sbaglio alla guida come si
chiamasse il (fino ad allora anonimo) monte. E ciò bastò perché egli
assurgesse a fama imperitura.
Non si esagera nel dire che Rushmore è un centro nevralgico
dell’immaginario nazionale: il monumento dove la wilderness (→) fino ad
allora incontaminata si fonde con il corpo, anch’esso grande protagonista
(con la sua presenza o con la sua assenza) dei desideri e delle fobie
americane. Di certo, è un corpo nuovo quello che il monte Rushmore
celebra: un potere fatto non più di muscoli e forza bruta, ma di cervello –
solo di teste, appunto – in un periodo in cui le forze che muovono la storia
sono racchiuse nei corpi (non proprio aitanti) di Andrew Carnegie, John D.
Rockefeller, J.P. Morgan e Franklin Delano Roosevelt. Il resto è lasciato alle
macchine – o alle membra dei meno fortunati ridotti a macchine.
Troppo intenti a guardare i volti alteri, ci si dimentica sovente di
osservare le macerie, reali (che ancora giacciono alla base dell’opera) e
metaforiche, della scultura e della sua storia. E non c’è poi molto da scavare:
le rovine sono in primis ciò che resta delle culture native su cui quell’ideale
di indipendenza e prosperità si è affermato (tradendo, per costruire i
quattro volti giganti, i trattati del 1868-1869 con gli oglala sioux, per i quali
le Black Hills sono terre sacre → Guerre indiane), per volontà di un potere
bianco e maschile, plasmato sulla roccia da una mano peraltro poco
raccomandabile: quella dello scultore danese-americano Gutzon Borglum,
antisemita, anticattolico, sostenitore della razza nordica e membro negli
anni venti del Ku Klux Klan (→ Kkk). Il quale iniziò la sua opera in un’epoca
in cui il governo statunitense approvava, per la gioia dell’ala nazionalista,
leggi come il Johnson-Reed Act (1924), teso a proibire l’immigrazione
giapponese e a limitare fortemente quella europea (→ Alien).
A guardar bene, oltre a rappresentare i padri fondatori degli Stati Uniti,
il monte Rushmore sembra ricordarci che in molti, nella stessa nazione,
avevano al tempo della sua creazione ottime ragioni per… chiederne le
teste.

BIBLIOGRAFIA
Francesco Dragosei, Lo squalo e il grattacielo. Miti e fantasmi dell’immaginario
americano, il Mulino, Bologna 2002.
Cecelia Tichi, Embodiment of a Nation. Human Form in American Places, Harvard
University Press, Cambridge 2001.
C. SCHIA.
[S]

Sachem e sagamore
Quando i primi coloni europei entrarono in contatto con i Native Americans
sulla costa nordorientale del paese, familiarizzarono presto con alcuni
termini della predominante lingua algonchina. Com’è noto, gli equivoci
linguistici e socioculturali non mancarono, allora come in seguito, sia con
quelle tribù e nazioni, sia con quelle (di altre origini e ceppi linguistici) via
via incontrate nel corso della penetrazione verso ovest, e a volte diedero
origine a incomprensioni profonde destinate a incidere anche con violenza
nei reciproci rapporti futuri. Su un piano puramente linguistico-culturale, si
può fare l’esempio di come l’espressione «uomo-medicina» (medicine man)
applicata allo «stregone» o allo «sciamano» (definizioni anch’esse
improprie e limitative) non avesse nulla a che vedere con la «medicina»
come volle l’accezione banale, ma fosse in realtà una traduzione
approssimativa di «Midewiwin», termine ojibway che stava a indicare il
gruppo di anziani incaricati di conservare la memoria, la storia, i rituali, i
costumi e la concezione del mondo della tribù.
In ogni caso, numerosi vocaboli tratti dalle lingue indigene entrarono a
far parte del lessico dei coloni prima, degli americani poi: per esempio,
molti toponimi (→ U.S.A.), oppure nomi che – con storpiature o forzature di
significato a volte singolari – entrarono nell’universo linguistico-culturale
americano. È il caso di «Tammany Hall», sede newyorkese (sulla 14ª Strada
Est) della potentissima macchina politica del Partito democratico che,
specie nella seconda metà dell’Ottocento, avrebbe controllato, con mezzi
tutt’altro che limpidi e pacifici, la vita politica cittadina e nazionale, fino a
diventare simbolo esplicito di corruzione, manipolazione e violenza: il
nome deriva da Tamanend o Tammamend («il socievole»), capo dei lenni-
lenape della valle del Delaware, famoso per aver condotto le trattative con
gli inglesi guidati da William Penn intorno al 1680, nella promessa di un
incontro di culture, prima che si tramutasse in scontro (sua la frase secondo
cui i due popoli sarebbero vissuti in pace «fin tanto che le acque scorrono
nei fiumi e le stelle e la luna esistono in cielo»: povero Tamanend, vien da
dire).
Non è dunque un caso che i principali esponenti di Tammany Hall
fossero chiamati sachem, o che il presidente (repubblicano) Theodore
Roosevelt battezzasse la propria magione sulla Oyster Bay, a Long Island,
«Sagamore Hill»: entrambi i termini, sachem e sagamore, indicano un capo
indiano (secondo alcuni, il secondo sarebbe di un livello leggermente
inferiore del primo; ma anche qui le diverse concezioni sociolinguistiche
possono confondere le acque).
«Capo», dunque. A questo significato, s’è poi sovrapposto, oscurandolo e
sovente trasformandolo, il complesso processo di mitizzazione e
retoricizzazione del West, operato dalla cultura statunitense sia in campo
storico-politico, sia in campo culturale. In particolare, il cinema western ci
ha offerto per lo più immagini stereotipate e manichee di sachem, al punto
che – al di là del facile folklore dei copricapi, delle pitture sul viso, della
gestualità solenne e di una fraseologia sovente inventata di sana pianta, o di
certi episodi entrati a far parte dell’iconografia del West – risulta difficile
comprendere chi stesse davvero dietro a nomi evocativi come «Toro
Seduto» o «Falco Nero» (non di rado traduzioni infelici di termini nativi).
Abbiamo già incontrato alcuni di questi sachem (→ Guerre indiane), capi
carismatici e/o strateghi di prim’ordine: Pontiac (1720-1769), capo degli
ottawa («coloro che scambiano le cose», regione dei Grandi laghi);
Tecumseh (1768-1813), capo degli shawnee («coloro che stanno a sud», fra
Kentucky e Pennsylvania); Osceola (1800?-1838), capo dei seminole («coloro
che si sono allontanati», Florida); Falco Nero (1767-1838), capo dei sauk
(«coloro che abitano le terre gialle» fra Wisconsin e Illinois); Manuelito
(1820?-1893), capo dei navajo («il popolo», nelle terre del Sudovest); Cochise
(1815?-1874) e Geronimo (1829-1909), capi degli apache (forse da un termine
Zuñi che significava «i nemici», essi pure nelle terre del Sudovest); Cavallo
Pazzo (1844?-1877), Nuvola Rossa (1822-1909), Gall (1840-1893), Toro Seduto
(1837?-1890), capi dei lakota («alleati», noti anche come sioux, nelle Grandi
praterie settentrionali); Giuseppe (1834?-1904), capo dei nimíipuu («il
popolo», o tsutpeli, più noti come nez percé, nelle terre del Nordovest).
Ma proviamo a chiederci anche chi fosse Metacom (1635?-1676), per
esempio, detto «Re Filippo»: capo dei wampanoag («Popolo dell’Est», Rhode
Island e dintorni), che, nella seconda metà del Seicento, dopo lunghe
trattative con gli inglesi, condotte con straordinaria abilità e con un
atteggiamento da pari a pari, fu protagonista di quella che passò alla storia
come «guerra di re Filippo». O chi fosse Sequoya (1765?-1843), che, figlio di
un’indiana e di un bianco, prima ancora che un vero capo dei cherokee
(«coloro che parlano un’altra lingua», fra Tennessee e North Carolina), fu
l’inventore dell’alfabeto cherokee, reso pubblico nel 1821: le originarie
ottantacinque sillabe diverse tradotte in simboli, un autentico sillabario che
presto permise alla tribù di avere anche un giornale bilingue, il Cherokee
Phoenix (il primo numero uscì il 21 febbraio 1828). O chi fosse Caldaia Nera
(1803-1868), che, già avanti negli anni, divenne capo dei cheyenne del Sud
(dal termine lakota per «coloro che parlano un’altra lingua», nelle Grandi
pianure [→] settentrionali) e cercò sempre di arrivare a patti onorevoli con
gli americani: però dovette sempre ricredersi e prendere le armi,
sopravvisse al «massacro di Sand Creek» (→ Sand Creek e Wounded Knee) e
infine fu inseguito e sconfitto dal generale Sheridan («Gli unici indiani
buoni che io abbia mai visto erano indiani morti») e ucciso e scalpato dal
luogotenente George A. Custer (→ Little Bighorn). O chi fossero Uccello
Scalciante (1820?-1875) e Lupo Solitario (1830?-1879), capi di due fazioni dei
kiowa («primo popolo», nelle Grandi pianure → meridionali), una incline ad
accordi con gli americani, l’altra decisa a resistere loro, entrambi testimoni
dello sterminio di un popolo ottenuto anche attraverso quello dei bisonti. O
ancora, chi fosse Mangas Coloradas (1793-1863), altro capo degli apache,
forse – nelle parole di chi l’aveva a lungo combattuto, il capitano John C.
Cremony – «l’apache più importante e dotato del XIX secolo».
Solo pochi esempi di quello che potrebbe essere un lunghissimo elenco.
Ad accomunarli non sono solo le gesta, le «virtù civili e guerriere»,
l’eroismo e l’ostinazione con cui si opposero all’avanzata degli europei e
degli americani, l’abilità politica e quella strategica. Sono anche le loro
grandi qualità oratorie: «Fratelli, questi uomini che vengono da un mondo
straniero abbatteranno i nostri alberi, distruggeranno i nostri terreni di
caccia e i nostri campi e cacceranno via noi e i nostri figli dalle tombe dei
nostri padri e dai nostri fuochi del consiglio» (Metacom o «Re Filippo»);
«Ascoltatemi! Un ramo da solo si rompe, ma un fascio di rami è forte. Un
giorno, io vedrò uniti tutti i nostri fratelli, raccolti in un’unica lega. Con le
nostre forze unificate, noi ci riprenderemo la nostra terra…» (Tecumseh);
«Tu hai preso prigionieri me e i miei guerrieri. Opaco il sole si era alzato
sopra di noi al mattino e, in una nuvola scura, era scomparso alla sera,
simile a una palla di fuoco. Ed è stato l’ultimo sole apparso sopra Falco
Nero» (Falco Nero); «Voi avete fucili, noi anche. Voi avete polvere e piombo,
noi anche. La vostra gente vuole combattere e così farà anche la nostra,
finché l’ultima goccia di sangue seminole non avrà bagnato il nostro
terreno di caccia» (Osceola); «Quando ero giovane e attraversavo questa
terra, vedevo solo apache e nessun altro uomo. Molti anni dopo attraversai
di nuovo questa terra e vidi che altri uomini erano venuti per prenderne
possesso. Perché?» (Cochise); «Da quando siamo stati condotti in questa
riserva, il mio popolo ha dovuto morire di fame. Tu non mi puoi più
minacciare solo con la paura della fame. Ieri ho visto bambini disperati che
mangiavano erba. Vuoi portare via anche l’erba da mangiare a questi
bambini? […] Abbandoneremo la riserva e torneremo verso nord alla
nostra patria. Non voglio che in questo luogo scorra il sangue. Perseguitaci,
se te ne offriamo motivo. Se volete il combattimento, lo avrete» (Piccolo
Lupo, capo dei cheyenne); «Sono stanco di combattere. I nostri capi sono
stati uccisi. Specchio Riflettente è morto, Too-hul-hul-sote è morto. I vecchi
sono tutti morti. […] Fa freddo e non abbiamo coperte, i bambini stanno
morendo di freddo. Alcuni dei miei sono fuggiti nelle colline, non hanno
coperte, non hanno cibo. Nessuno sa dove sono – forse stanno morendo dal
gelo. Voglio avere il tempo di cercare i miei bambini, vedere quanti riesco a
trovarne. Forse li troverò fra i morti. Ascoltatemi, miei capi! Sono stanco: il
mio cuore è triste e malato. Da dove ora sta il sole, io non combatterò mai
più» (Capo Giuseppe); «L’uomo bianco, che ha preso possesso di questa
terra che si estende smisuratamente da un mare fino a un altro mare, vaga
per questi territori a suo piacimento. Si stabilisce dove più gli piace e non è
capace di misurare quale sia il nostro dolore in questo, il dolore per il fatto
che noi siamo stati costretti a vivere in un lembo di terra tanto piccolo. Egli
non è capace di misurare quale sofferenza ci sia nel ricordo incancellabile
del fatto che, cosa ben nota a voi quanto a noi, ogni piede di quella che voi
chiamate fieramente America un tempo non molto lontano apparteneva
all’uomo dalla pelle rossa» (Washakie, capo degli shoshoni, tribù del
Nordovest).
Quasi un epitaffio.

BIBLIOGRAFIA
Siegfried Augustin, Storia degli Indiani d’America, Odoya, Bologna 2009.
Angie Debo, A History of the Indians of the United States, University of
Oklahoma Press, Norman 1970.
M.M.

Salem
Il nome di Salem, nel Massachusetts, uno dei primi insediamenti puritani
nel New England, è una corruzione dell’ebraico shalom, pace. Il destino ha
però giocato alla cittadina un brutto scherzo, e le ha regalato notorietà per
un episodio nel quale non ci fu granché spazio per armonia e concordia. Al
contrario, i processi per stregoneria del biennio 1692-1693 resero manifeste
divisioni e invidie che serpeggiavano all’interno della comunità. Il clima di
sospetto sfociò nell’isteria collettiva: onesti cittadini vennero implicati sulla
base di dicerie e prove inconsistenti, e per salvare la pelle molti accettarono
di firmare false confessioni nelle quali raccontavano con dovizia di
particolari le circostanze in cui, circuiti da qualche altro insospettabile
abitante della città, se non dal demonio in persona, erano stati iniziati ai
rituali stregoneschi.
Si tratta di uno degli episodi più controversi della storia culturale
americana, e allo stesso tempo uno dei nodi cruciali per comprendere le
ossessioni e le paure che la contraddistinguono. Lo schema persecutorio si
sarebbe riproposto in epoche successive, solo all’apparenza più moderne e
«illuminate», individuando nuove categorie di indesiderabili. Non a caso,
nel secondo dopoguerra, la campagna contro le infiltrazioni comuniste
nell’industria cinematografica e nell’apparato statale si svolse con modalità
affini ai procedimenti di Salem, meritandosi il titolo di nuova «caccia alle
streghe» (→).
I processi di fine Seicento non furono i primi casi di stregoneria nel
continente. I coloni puritani perseguirono con zelo individui, quasi sempre
donne, sospettati di essere in rapporto con il demonio e di utilizzarne i
poteri. La prima condanna a morte per questo capo d’imputazione risale al
1647, mentre alcuni anni più tardi, tra il 1662 e il 1663, a Hartford, capitale
del Connecticut, si scatenò una «caccia alle streghe» che coinvolse parecchi
elementi della comunità.
I documenti a disposizione degli storici non riportano altri episodi
significativi nei venticinque anni successivi; poi, del tutto all’improvviso, il
vuoto di potere provocato in Inghilterra dalla Rivoluzione Gloriosa del 1688
creò le condizioni perché riprendesse l’attività del demonio e dei suoi
adepti. La dinastia degli Stuart era stata privata del trono inglese da
Guglielmo d’Orange, e non si sapeva quali potessero essere le conseguenze
per le colonie di oltre Atlantico, la cui esistenza e diritti erano assicurati dai
documenti di concessione emanati dalla monarchia. Nel New England, il
senso di incertezza e precarietà venne esacerbato dalle incursioni contro gli
insediamenti a opera di tribù native sostenute dai francesi.
Testimonianze oculari affermano che, nel gennaio del 1692, le due
cugine Betty Parris e Abigail Williams cominciarono ad avvertire fitte in
varie parti del corpo, persero il controllo dei movimenti e iniziarono a
contorcersi, strisciare sotto i mobili, lanciare oggetti. Responsabili del
maleficio vennero ritenute tre donne, tutte membri marginali della
comunità: Sarah Good era senza fissa dimora, Sarah Osborne una vedova
considerata libertina e Tituba una schiava originaria delle Indie Orientali. I
processi iniziarono e a giugno arrivò la prima condanna: il dubbio onore
toccò a Bridget Bishop, che finì impiccata subito dopo. Alla conclusione, nel
maggio del 1693, vennero impiccate altre 19 persone (di cui solo cinque
uomini), mentre altre cinque morirono in prigione e 150 furono arrestate.
Per molti, l’unico modo per evitare la condanna a morte fu confessare di
essere agenti del demonio e fare nomi di altri presunti complici. Poche le
voci di dissenso: anche in questo caso, si preferì rimanere in silenzio per
evitare guai peggiori. Così Thomas Maule, per aver mosso alcune critiche
nei confronti dei procedimenti nel pamphlet Truth Held Forth, venne
arrestato e tenuto in carcere per un anno.
Con il tempo, la frenesia si quietò, le persone rimaste in carcere vennero
liberate, e Betty Parris trovò persino il coraggio di ammettere di avere
accusato persone innocenti: d’altra parte, Satana in persona le aveva
ordinato di agire in quel modo!
Una circostanza curiosa è legata alla geografia di Salem. Il nucleo
principale della cittadina era situato sulla costa, dove si trovavano il porto,
all’epoca molto trafficato, e le principali attività commerciali. Intorno a
questo nucleo, vi erano altre zone interne dall’aspetto ancora rurale.
Ebbene, molti degli accusati risiedevano alla periferia dell’abitato, mentre il
grosso degli accusatori stava nel centro – una polarità che suggerisce come i
livelli di lettura di questo episodio vadano estesi anche alle rivalità e agli
scontri di potere all’interno della comunità.
Che quanto accaduto a Salem abbia costituito una ferita difficile da
rimarginare è testimoniato da un curioso aneddoto legato a uno dei
principali esponenti della letteratura americana, Nathaniel Hawthorne.
Quando ancora frequentava il college, il futuro scrittore decise di
aggiungere una «w» al proprio cognome, che in origine ne era privo. Così
facendo, intendeva liberarsi dal fardello di una scomoda eredità: quella del
trisavolo, il magistrato John Hathorne, uno dei protagonisti principali (e di
conseguenza anche uno degli eroi negativi) dei processi di Salem. Forse, allo
stesso modo di Esther Prynne, protagonista del suo romanzo più famoso, La
lettera scarlatta (1850), condannata a indossare a vita sul petto la A (→) di
«adultera», anche Hawthorne decise di «indossare» la W di witch, «strega»,
per espiare i peccati dell’avo. Nella parte introduttiva del romanzo, quel
gustoso sketch dedicato agli sfaccendati impiegati di un ufficio doganale e
intitolato «The Custom House», l’anonimo narratore accenna a un antenato
«talmente rinomato nel martirizzare le streghe che non è assurdo pensare
che il loro sangue abbia lasciato una macchia su di lui. Una macchia così
indelebile, in effetti, che le sue vecchie ossa essiccate, nel cimitero di
Charter Street, devono ancora recarla, se pure non si sono già ridotte in
polvere!»
A William Wooley, tutto sommato, andò meglio: per liberarsi da una
maledizione lanciata contro la sua famiglia, dovette prendere in moglie
Jennifer, una strega mandata al rogo dal suo avo Jonathan e tornata sulla
terra per compiere la propria vendetta. La vicenda è raccontata in una
divertente commedia diretta da Renè Clair, Ho sposato una strega (1942): e il
fatto che la strega Jennifer avesse scelto di presentarsi sotto le spoglie della
bionda fatale Veronica Lake rese meno gravoso il sacrificio. La scelta si
rivela anche azzeccata, perché Jennifer diventa una madre premurosa e una
perfetta padrona di casa, anticipando la Samantha della serie tv (→) Vita da
strega (Bewitched, 1964-1972). All’attrice protagonista del telefilm, Elizabeth
Montgomery, Salem ha persino dedicato una statua – uno smacco
imprevisto per gli antichi abitanti che si erano tanto dati da fare per
contrastare l’azione del demonio!
BIBLIOGRAFIA
Paul Boyer, Stephen Nissenbaum, La città indemoniata: Salem e le origini sociali
di una caccia alle streghe, Einaudi, Torino 1986.
David Hall (ed.), Witch-hunting in Seventeenth Century New England. A
Documentary History, 1638-1693, Northeastern University Press, Boston
1991.
Itala Vivan, Caccia alle streghe nell’America puritana, Rizzoli, Milano 1972.
S.M.Z.

Saloon
Che cosa sarebbero il West e il suo immaginario senza il saloon? Luogo
d’incontro e di scontro, di dinamiche interattive e di caratterizzazioni
sociali e culturali, spesso aperto ventiquattro ore su ventiquattro, insieme
albergo, teatro e bordello, di sicuro più centrale della chiesa, della stazione,
dell’ufficio dello sceriffo: le doppie porte basculanti, l’ampia sala con i
tavoli tondi per bere o giocare a carte (a faro o a poker) o per osservare la
scena da sotto la tesa del cappello abbassato, il lungo bancone dal ripiano
tanto lucido e levigato da farvi scivolare bicchieri colmi di whiskey
(variamente detto «Succo di tarantola» o «Vernice di bara»), la parete di
fondo scintillante di specchi e bottiglie e dominata da un quadro (per lo più,
di una bellezza discinta e adagiata su un sofà; ma anche di scenari naturali o
di caccia al bisonte), forse un pianoforte verticale nell’angolo, una scala che
conduce al piano di sopra, le stanze disposte intorno a una balconata. E, ad
animare questo scenario, il barista che conosce tutto e tutti, i mandriani, i
trappolatori e gli avventurieri, i giocatori di professione e gli uomini di
passaggio, senza passato e a volte senza futuro, le «signorine» dagli (scarsi)
abiti sgargianti.
Questa l’iconografia. Ma questo anche il luogo reale, in meglio come in
peggio – a volte ritrovo lussuoso, a volte bettola sgangherata: alle origini,
almeno nel West, niente di più che un tendone con una facciata di assi tirate
su alla bell’e meglio (se non addirittura un locale scavato nel fianco di una
collina); poi, via via che gli insediamenti si facevano più stabili e duraturi,
qualcosa di più solido, seppure non sempre raccomandabile.
Si dice che uno dei primissimi saloon del West sia stato aperto nel 1822 a
Brown’s Hole (un nome che è un programma) nel Wyoming. Famosi
diventarono poi saloon sparsi in giro per il paese, con nomi come First
Chance, First and Last Chance, Bucket of Blood, Arcade, Alamo, Long
Branch… Al numero di Tombstone, in Arizona (→ Tombstone, Abilene,
Dodge City), fu ucciso durante una partita di poker Wild Bill Hickock,
celebre pistolero, giocatore e sceriffo (→ Olimpo americano); al Bull’s Head
di Abilene, nel Kansas, il dipinto di un toro con il pene eretto fu all’origine
di una sorta di faida fra lo stesso Hickock e il padrone del saloon, conclusasi
solo con l’uccisione di quest’ultimo; il saloon di Langtry, nel Texas,
chiamato «The Law West of the Pecos» (il Pecos è un importante fiume del
Texas occidentale → Vie d’acqua) era di proprietà di un’altra figura mitica
del West, il Judge Roy Bean, giudice di pace molto sui generis, immortalato
da numerosi film (il più famoso, diretto da John Huston e interpretato da
Paul Newman, è del 1972: L’uomo dai sette capestri).
Ma il saloon non era un’esclusiva del West. Nelle grandi città dell’Est,
era spesso un locale di origine irlandese o tedesca nei quartieri
d’immigrazione, dove l’alcol s’alternava a volte con spettacoli teatrali e
altre attrazioni (oltre che alla compra-vendita dei voti in periodo
elettorale), per un pubblico etnicamente e culturalmente misto: come
avveniva lungo la Bowery (→) di New York, la lunga strada punteggiata da
decine di saloon, teatri, dormitori, alberghetti, che delimita un lungo tratto
del Lower East Side (→). E qui, sulla 7ª Strada Est quasi all’angolo con la 3ª
Avenue, esiste ancor oggi un saloon storico che restituisce molto
dell’atmosfera del passato, la McSorley’s Old Ale House: aperta nel 1854 e da
allora rimasta identica nella sua struttura e atmosfera, con le pareti
completamente tappezzate di fotografie, pagine di giornale, dipinti, disegni,
documenti di un secolo e mezzo, proibita alle donne fino all’agosto 1970 e
da sempre luogo prediletto di artisti, militanti sindacali, gente comune del
quartiere, è ancor oggi una straordinaria «macchina del tempo», nel cuore
vorticoso di New York.
P.S.: Fino a pochi anni fa, sulla 73ª Strada Ovest di New York, esisteva un
locale molto frequentato dalla gente di teatro per la vicinanza del Lincoln
Center, cuore musicale della città. Si chiamava O’Neal’s Baloon, con una «l»
sola, mentre la grafia corretta sarebbe balloon. Non si trattava però di un
errore: quando il proprietario, l’attore Patrick O’Neal, l’inaugurò, seppe
all’ultimo momento che, per una legge dell’epoca del Proibizionismo (→), o
forse addirittura precedente, era vietato a New York chiamare un locale
saloon. Così, O’Neal si limitò a cambiare una sola lettera all’insegna, e saloon
diventò baloon.

BIBLIOGRAFIA
Richard Erdoes, Saloon of the Old West, Gramercy Books, New York 1997.
Joseph Mitchell, McSorley’s Wonderful Saloon (1943), Pantheon Books, New
York 2001.
Kathy Weiser, The Great American Bars and Saloons, Chartwell Books, Secaucus
2006.
M.M.

Sand Creek (1864) e Wounded Knee (1890)


Mentre la frontiera avanzava senza posa da est a ovest, incalzando le tribù e
cacciandole sempre più in penosi culs de sac, a partire dalla Guerra civile e
dallo Homestead Act (→ Acri) una sorta di «seconda frontiera» si
sviluppava in senso inverso, creando così una sorta di spietata tenaglia. In
più, in quegli stessi anni, l’oro (→ Oro!) venne trovato fra le Montagne
Rocciose e le Colline Nere, suscitando altri inevitabili sommovimenti. A
farne le spese furono in primo luogo le tribù dei lakota (sioux), i quali non
tardarono però a reagire (→ Guerre indiane), con l’insurrezione guidata da
Piccolo Corvo, che fu crudelmente repressa nel 1862-1863. Poi, fu la volta
dei cheyenne di Caldaia Nera e degli arapaho di Mano Sinistra, da tempo
proclamatisi amici e pacifici, eppure inseguiti dalla milizia del Colorado al
comando del fanatico John M. Chivington, quarantenne pastore metodista,
acerrimo nemico dei sudisti e dichiarato «odiatore d’indiani». All’alba del
29 novembre 1864, Chivington giunse in vista di un villaggio congiunto delle
due tribù, nei pressi di Sand Creek, un fiume a 200 chilometri dall’attuale
Denver (Colorado): al centro, sventolava la bandiera statunitense, i guerrieri
scelti erano lontani a caccia di bisonti, fra i teepee si muovevano circa 600 fra
uomini e donne, bambini e anziani. Dopo aver esortato i miliziani a
«scotennare tutti», neonati compresi («le uova di pidocchio fanno
pidocchi», aveva dichiarato qualche giorno prima), Chivington diede
l’ordine dell’attacco. Fu una strage di una brutalità indescrivibile: ubriachi
ed esaltati, i miliziani massacrarono, sventrarono, decapitarono, mutilarono
in maniera orrenda donne e bambini, indifferenti alle bandiere bianche
sventolate e alle braccia alzate in segno di amicizia (le testimonianze
rilasciate in seguito da due ufficiali sono ancor oggi difficili da leggere senza
provare rabbia e ribrezzo). I morti fra i Native Americans furono circa 150 (di
cui 30 uomini), tra i miliziani 9. I superstiti fuggirono e, in una drammatica
marcia forzata di ottanta chilometri, si rifugiarono presso l’accampamento
di caccia di Smoky Hill. In seguito, l’azione di Chivington fu condannata
dagli alti comandi militari, ma nessuna misura venne presa contro di lui o
contro gli altri responsabili. Nel 2000, il Congresso porse le proprie scuse
ufficiali. Il «massacro di Sand Creek» è rievocato in una scena molto cruda
di Soldato blu di Ralph Nelson, del 1970; e, com’è noto, dalla canzone di
Fabrizio De André, «Fiume Sand Creek» (1981).
Ventisei anni più tardi, l’orrore si ripeté a Wounded Knee, un torrente
del South Dakota in riva al quale era accampata una tribù lakota (sioux).
Siamo alla fine delle Guerre indiane (→): non esiste più una frontiera
mobile, le tribù sono state sconfitte e soggiogate, decimate e chiuse in
riserve (→ Ombre rosse), di lì a tre anni lo storico Frederick Jackson Turner
elaborerà la sua «tesi della frontiera» descrivendola come una grande
esperimento di democrazia. Tutto ha inizio a metà dicembre 1890, quando
nella riserva di Standing Rock viene ucciso Toro Seduto (→ Sachem e
sagamore), mitico capo dei lakota: vi aveva fatto ritorno da alcuni anni,
dopo le tristi tournée con il Wild West Show, e il suo ritorno era coinciso con
la predicazione dello sciamano paiute Wovoka, che mescolava elementi
religiosi diversi, sia tradizionali Native American, sia cristiani, in rituali
collettivi culminanti nella «Danza degli spettri». Agli occhi delle autorità
statunitensi, il movimento di Wovoka rappresentava un pericoloso
tentativo di risollevare la volontà guerriera dei lakota: di qui, l’arresto di
Toro Seduto, il parapiglia che ne seguì e l’uccisione sua e del figlio Piede di
Corvo, il 15 dicembre. I fatti suscitarono grande emozione fra i lakota: una
loro tribù, guidata da Piede Grosso, decise allora di recarsi nella riserva di
Pine Ridge, nel South Dakota, per chiedere protezione a Nuvola Rossa,
l’altro grande capo lakota. Il 28 dicembre, nel pieno di un inverno gelido,
l’esercito statunitense, al comando del colonnello James Forsyth (due
squadroni di cavalleria, 500 uomini armati di mitragliatrici), costrinse il
gruppo di circa 350 persone (fra cui un centinaio di uomini) a fermarsi in
riva al Wounded Knee, lo circondò e procedette a disarmarlo. Quando partì
un colpo di fucile, i soldati aprirono il fuoco con le mitragliatrici, sparando
nel mucchio, senza quasi mirare, colpendo tutto ciò che si muoveva: i lakota
furono falcidiati, uomini, donne, bambini abbattuti senza pietà, inseguiti a
cavallo mentre fuggivano sulle lande coperte di neve – una carneficina che
si protrasse per un’ora. Morirono almeno in 200, mentre il «fuoco amico»
fece 28 vittime tra i soldati. I testimoni oculari narrarono cose terribili del
«massacro di Wounded Knee» e le parole di Alce Nero («Il cerchio della
nazione è infranto e disperso. Non esiste più un centro, il sacro albero è
morto») suonarono come epitaffio per i lakota e per i Native Americans in
genere. Una tremenda tempesta di neve si scatenò subito dopo, congelando
i corpi dei caduti e finendo i superstiti e i feriti. Ci fu qualche protesta; poi,
più nulla: il colonnello Forsyth fu dapprima sospeso, quindi reintegrato e
qualche tempo dopo promosso generale, e 20 tra soldati e ufficiali furono
insigniti di Medals of Honor, il riconoscimento più alto dell’esercito, per
l’«azione militare condotta».
Il 27 febbraio 1973, un gruppo di militanti dell’American Indian
Movement – fra cui Dennis Banks e Russell Means (celebri in seguito anche
come attori) – occuparono la cittadina di Wounded Knee per due mesi e
mezzo, in ricordo dei caduti del 1890 e per protesta per le condizioni dei
Native Americans poco meno di un secolo più tardi, scontrandosi a più
riprese con le forze dell’ordine e con l’esercito inviato sul posto. Due anni
dopo, sempre nella riserva di Pine Ridge, una sparatoria portò all’arresto e
alla condanna a due ergastoli di Leonard Peltier, oggi, insieme all’ex
Pantera nera Mumia Abu Jamal, uno dei più noti prigionieri politici nelle
carceri degli Stati Uniti (→ Sbarre). Buffy Sainte-Marie, Johnny Cash,
Robbie Robertson e molti altri artisti hanno ricordato nelle loro canzoni il
«massacro di Wounded Knee».
P.S.: Quando, il 16 marzo 1968, una brigata di fanteria dell’esercito
statunitense al comando del tenente William Calley, rase al suolo la frazione
di My Lai del villaggio vietnamita di Song My, a nord di Saigon,
massacrando (dopo aver torturato e stuprato) 347 civili, uomini, donne,
bambini, anziani, il ricordo latente di Sand Creek e Wounded Knee riaffiorò
con drammatica immediatezza e contribuì a coagulare il vasto movimento
di opposizione alla guerra attivo negli Stati Uniti (→ Movement). Passato e
presente: tutto si tiene, anche negli orrori.

BIBLIOGRAFIA
Dee Brown, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, Mondadori, Milano 1970.
Raimondo Luraghi, Sul sentiero di guerra. Storia delle guerre indiane del
Nordamerica, Rizzoli, Milano 2000.
John G. Neihardt, Alce Nero parla, Adelphi, Milano 1968.
Jean Pictet, La grande storia degli Indiani d’America, Mondadori, Milano 2000.
M.M.

Sandwich e hot dog


Questa è una storia di panini pre-fast food (→), ma anche – come si sa –
post. Ed è una lunga storia: dello sfilatino di pane tagliato per il lungo e delle
due fette che si ricongiungono e, con l’aiuto di carni varie, verdure, insalate
o che altro, costituiscono una nuova unità (vogliamo addirittura scomodare
Platone, che nel Simposio ipotizza che maschio e femmina fossero in origine
un tutt’uno, poi separato con violenza da Zeus in due metà, che da allora
cercano di ritrovarsi?).
Il sandwich viene da lontano, dall’Olanda del XVII secolo e
dall’Inghilterra del secolo successivo, dove ricevette il suo nome da John
Montagu, conte di Sandwich, appassionato di questa portata che gli
permetteva (così vuole la tradizione) di continuare a giocare a carte. Ma gli
Stati Uniti – è noto – nascono come nazione democratica, e dunque
l’aristocraticità del sandwich (già parecchio scossa dalla rivoluzione
industriale: quanto di più pratico per l’operaio di Manchester del panino
con qualcosa dentro?) qui si perde, diventando – specie agli inizi del XX
secolo – simbolo d’un mangiare veloce, concreto e poco costoso. Da quel
momento, la creatività si scatena e avremo ogni sorta di variazione: il Blt
(bacon, lettuce, tomatoes: bacon, insalata, pomodoro), il California Club
(tacchino, avocado, insalata, pomodoro), il Montecristo (tacchino o
prosciutto fritto), lo Sloppy Joe (carne trita e salse varie), l’Elvis (bacon,
banana, burro di arachidi), il Reuben (corned beef, crauti, formaggio svizzero,
maionese), il Denver (frittata), il Beef on Weck (roast-beef, cren), e via
mangiando e ingrassando. Due storie divertenti, a questo punto: quella del
Submarine, detto anche Po’ Boy in Louisiana (con variante Poor Boy a St.
Louis), Hero a New York (secondo la leggenda, dall’esperta gastronoma del
New York Herald), Hoagie in Pennsylvania (sembra dalla pronuncia italiana di
hokie, a indicare i rimasugli messi da parte dai macellai per i poveri e
senzatetto: coloro che erano «on the hoke»); e quella della Muffoletta (a New
Orleans).
A parte le varianti regionali, di norma il Submarine contiene mortadella o
prosciutto o capocollo (Tony Soprano ne è ghiotto, come sanno coloro che
amano il serial televisivo I Soprano → Ziti, zeppole e capocollo) o salame
piccante (quel pepperone che troppe volte, nell’accezione pizza pepperone,
sentiamo tradotto al cinema con «pizza ai peperoni»: mentre si tratta di
«pizza con salame piccante»!), e poi provolone, insalata, pomodoro, sale,
pepe, origano e olio d’oliva. Il nome sembra derivare da un sottomarino
esposto nel museo di Paterson, New Jersey (luogo di forte immigrazione
italiana): che, nel 1918, con la sua forma allungata, avrebbe ispirato il
droghiere Domenico Conti, giunto una ventina d’anni prima dalla provincia
di Avellino.
La Muffoletta (che – come potete immaginare – si scrive in molte maniere
diverse) è, come si diceva, un classico di New Orleans: uno sfilatino
extralarge ed extralong che contiene, a seconda delle interpretazioni, tutto
il possibile – carne, salumi, uova sode, acciughe, ostriche fritte, gamberi,
olive, insalata, pomodoro, sale, pepe, olio, una sorta di profumato
coccodrillo che fa a gara con voi nello spalancar la bocca e, se non state più
che attenti, vi sparge addosso parte del contenuto. Il nome viene dalla
Sicilia, dove forme diverse e antichissime di «muffuletta» (pane morbido e
per lo più tondo e caldo, con ricotta, caciocavallo, sarde o acciughe) si
gustano nei mesi invernali e in particolare il 2 di novembre, la «festa dei
morti»: a introdurla a New Orleans sarebbe stato, nel 1906, Salvatore Lupo,
nella sua drogheria di Decatur Street, nel cuore del French Quarter (→
Congo Square), e da allora il nome, la forma e il contenuto hanno preso
tante strade diverse.
E passiamo al celebre hot dog, che non ha bisogno di descrizioni (ma
anche qui si può notare come la traduzione, troppo spesso letta o sentita, di
«mustard» con «mostarda» sia impropria: la salsa gialla che deborda dal
panino è, lo sappiamo bene, la senape). Fu l’immigrato tedesco Karl
«Charles» Feltman a diffonderlo nel grande parco di divertimento
newyorkese di Coney Island (→) intorno al 1870? O fu Anton Feuchtwanger
che, a St. Louis, nel decennio successivo, ebbe l’idea del panino per evitare
che i suoi clienti si scottassero le dita con le salsicce bollenti, divorate in
piedi? O, ancora, fu Chris von der Ahe, sempre a St. Louis, ma a fine
Ottocento? O non fu piuttosto un ex lavorante del suddetto Feltman, Nathan
Handwerker, ai primi del Novecento – che, di nuovo a Coney Island, aprì un
chiosco e prese a vendere a 5 centesimi i wiener e i frankurter infilati tra due
fette di pane morbido con un filo di senape, e da allora viene considerato
dagli esperti in gastronomia «the real thing» (il Nathan’s esiste ancora a
Coney Island, e non c’è sindaco o aspirante tale che non vi si sia fatto
fotografare di fronte – come a dire che quegli hot dog sono quanto di più
newyorkese si possa immaginare; pare anche che, nel suo testamento,
l’attore Walter Matthau abbia disposto che al suo funerale venissero serviti
gli hot dogs di Nathan’s).
Già, ma perché «hot dog», cane caldo? Anche qui le versioni non si
contano: chi dice che quei panini allungati, quelle salsicce marroncine,
somigliassero a hündchen (= cagnolini, forse addirittura bassotti); e chi dice
che in origine la carne insaccata fosse carne di cane tritata (gli anni fra
Ottocento e Novecento sono pieni di descrizioni orripilanti di ciò che usciva
dai macelli di Chicago e forse le cose non sono poi molto cambiate →
Porkopolis). Fatto sta che, a Coney Island come per le strade di New York e
di altre metropoli, il carretto che vende hot dog e pretzel è una veduta
familiare. E – con buona pace del vostro colesterolo (oltre che di Platone) –
un’indubbia attrazione.

BIBLIOGRAFIA
Solomon H. Katz (ed.), Encyclopedia of Food and Culture, Charles Scribner’s
Sons, New York 2003.
Irving Lewis Allen, The City in Slang. New York Life and Popular Speech, Oxford
University Press, New York 1993.
The American Heritage Dictionary of the English Language, Houghton Mifflin Co.,
New York 2000.
M.M.
Sbarre
Alcatraz e Attica: ovvero, altre due «A» (→) d’America. Ma mentre molti
sanno che cos’è Alcatraz (la famigerata isola-penitenziario, immortalata
anche da romanzi e pellicole → Isole), in pochi conoscono Attica. Eppure,
quelle due «A» racchiudono e simboleggiano il discorso sul sistema
carcerario americano – discorso complesso e delicato, che non può
prescindere da alcuni dati iniziali.
A fine 2009, la popolazione carceraria negli Stati Uniti ammontava a
circa 2,3 milioni di persone, per due terzi in prigioni federali e per un terzo
in prigioni locali (una cifra, sia detto fra parentesi, che andrebbe in qualche
modo tenuta presente quando si ragiona sulla disoccupazione, visto che in
grande maggioranza si riferisce a maschi adulti); se poi si aggiungono le
persone sottoposte ad altre restrizioni (libertà vigilata, arresti domiciliari
ecc.), si arriva alla cifra astronomica di più di 7 milioni di persone: il 3,1%
della popolazione adulta (cui andrebbero aggiunti circa 90mila detenuti nei
penitenziari minorili), con un tasso d’incarcerazione di 743 su 100mila, il
più alto del mondo. Altro dato: il 46% di questa popolazione è composto da
neri e appartenenti ad altre minoranze etniche, che discriminazione,
miseria e condizioni di vita condannano spesso a un’illegalità diffusa e a
un’acuta vulnerabilità (assistenza legale costosa, abusi giudiziari,
pregiudizio e razzismo, facili ricadute nell’universo del crimine,
legislazione ultrapunitiva nei confronti di certe categorie sociali e di certi
reati ecc.). Inoltre, il tasso di sfruttamento del lavoro carcerario è altissimo:
tanto per fare un esempio, secondo il rapporto del Department of
Corrections della Florida per l’anno fiscale 2003-2004, le Community Work
Squads hanno prodotto qualcosa come 6,5 milioni di ore lavorative, per un
valore totale di 68 milioni di dollari, che a loro volta si trasformano, al netto
delle spese, in 38,5 milioni di dollari di «valore aggiunto». I beneficiari di
questo lavoro carcerario, che sfugge a controlli e statistiche (non parliamo
poi di tutele o sindacalizzazione)? Ibm, Boeing, Motorola, Microsoft, AT&T,
Dell, Compaq, Honeywell, Hp, Twa, Revlon, Macy’s, Pierre Cardin… Nomi
noti, insomma, che in certi casi, dopo aver delocalizzato la produzione nelle
tremende maquiladoras al confine con il Messico (→ Bordertowns), hanno
finito per riappaltarla ad alcune carceri, come la San Quentin Prison in
California.
D’altra parte, quella del lavoro carcerario (che, in un certo qual modo, si
ricollega al passato schiavista) è stata ed è una realtà diffusa: familiare è
diventata (e non solo nel periodo della Grande depressione →) l’immagine
della chain gang, la fila di carcerati incatenati l’uno all’altro, al lavoro lungo
argini, strade e dighe, o in estese piantagioni (un universo semisconosciuto
– cui però il regista Frederick Wiseman dedicò l’agghiacciante
documentario Titicut Follies, del 1967, girato nel Bridgewater State Hospital,
Massachusetts – è anche quello dei manicomi criminali: ma il discorso ci
porterebbe parecchio lontano). Negli ultimi anni, infine, si è assistito alla
diffusione del business delle carceri private, che, attraverso alcune
corporazioni (il Geo Group, Inc, le Cornell Companies, la Corrections
Corporation of America), ricevono un sussidio per ogni singolo carcerato e
per il resto si debbono comportare come qualunque azienda: tenere i conti
in ordine e ricavare profitti. Recenti indagini, condotte per esempio
dall’American Sociological Association, hanno rivelato le pessime
condizioni in cui è tenuta tutta questa popolazione carceraria, con la
diffusione – fra gli altri effetti – di malattie contagiose come tubercolosi e
Aids. Un altro «popolo dell’abisso», sconosciuto perché tenuto separato dal
resto di un mondo che, in una maniera o nell’altra, lo ha prodotto.
A questo quadro va aggiunta un’ulteriore angosciante realtà: quella della
pena di morte, che, a periodi alterni o in occasione di certe esecuzioni,
suscita dibattiti, polemiche e indignazione. Dal 1976, quando fu reintrodotta
dopo una sospensione di quattro anni, al settembre 2011, nei trentotto stati
che la contemplano le esecuzioni capitali sono arrivate a 1270 (il triste
primato spetta al Texas, con 475), mentre le persone «in attesa» nel braccio
della morte sono, al 1º gennaio dello stesso anno, 3251. A questo proposito,
altre considerazioni vanno fatte: non solo la pena capitale è prevista anche
per i minorenni, ma in alcuni casi, almeno fino a una sentenza della Corte
Suprema del 2002, essa era «applicabile» a persone con gravi turbe
psichiche; il 34% dei condannati a morte sono neri (che costituiscono il 12%
della popolazione totale); la pena è inflitta soprattutto quando le vittime
sono bianche; fra il 1973 e il 2004, si sono verificati 69 casi di persone nel
braccio della morte che, all’ultimo momento, per supplementi d’indagini,
confessioni e testimonianze, nuove tecniche scientifiche ecc., sono state
scagionate. Rivelatore anche il quadro delle ultime esecuzioni per reati
diversi dall’omicidio: 1779, stregoneria (Illinois County); 1785, per aver
nascosto la morte di un neonato (Massachusetts); 1822, contraffazione di
monete (Alabama); 1852, furto di cavalli (California); 1855, furto da parte di
uno schiavo (Alabama); 1859, per aver aiutato uno schiavo a fuggire (South
Carolina); 1860, rivolta di schiavi (Alabama); 1862, tratta di schiavi (New
York); 1862, tradimento (Texas); 1863, cospirazione con finalità d’omicidio
(California); 1884, incendio doloso (Alabama); 1901, rapina a un treno
(Territorio del New Mexico); 1941, furto con scasso (Alabama); 1945,
diserzione (in Francia, durante la Seconda guerra mondiale); 1953,
spionaggio (New York: si tratta del famoso caso dei coniugi Rosenberg →
Maccartismo; → Caccia alle streghe); 1960, rapimento di minore
(California); 1962, aggressione (California); 1964, violenza carnale
(Missouri); 1964, rapina (Alabama). Si può anche ricordare uno dei molti
«casi celebri» (→): quello di Caryl Chessman, condannato a morte per
aggressione e stupro, sempre dichiaratosi innocente e infine «giustiziato»
dopo aver trascorso dodici anni nel braccio della morte.
Era inevitabile che questa realtà separata stimolasse reazioni e riflessioni
anche di tipo culturale: proprio per la sua criticità, per le sue implicazioni di
classe, per il suo legame diretto con temi quali la disuguaglianza sociale e la
discriminazione razziale, la violenza dentro e fuori le mura delle prigioni, i
riflessi delle politiche securitarie. Lo dimostra l’ampia gamma di canzoni
legate a ogni forma e aspetto dell’esperienza carceraria, da «Take This
Hammer» a «Chain Gang Blues», da «’Lectric Chair Blues» a «Jailhouse
Blues», da «Back in Jail Again» a «Mississippi Jail House Groan», da «Pick a
Bale of Cotton» a «Midnight Special»; o il numero impressionante di
cantanti blues che hanno alle spalle quell’esperienza, da Bukka White a Son
House, da Charlie Patton a Lightnin’ Hopkins, da Billie Holiday al più
celebre fra tutti, quel Leadbelly scoperto dal ricercatore Alan Lomax,
mentre scontava una condanna all’Angola Prison Farm, detta anche
«Alcatraz del Sud», in Louisiana. Lo dimostrano pure almeno un dramma
pluripremiato come Short Eyes (1974), scritto dal poeta nuyorican (→)
Miguel Piñero, mentre scontava una condanna per rapina a mano armata
nel carcere di Sing Sing (stato di New York); e una lunghissima sequenza di
film, come (ma l’elenco è del tutto incompleto) The Big House (1930), Io sono
un evaso (1932), Morire all’alba (1939), Forza bruta (1947), Condannato!(1950), I
due banditi (1951), Rivolta al blocco 11 (1954), Le otto celle della morte (1959),
L’uomo di Alcatraz (1962), Nick mano fredda (1967), Fuga da Alcatraz (1979),
Brubaker (1980), Le ali della libertà (1994), Dead Man Walking (1995), Il miglio
verde (1999), Stranger Inside (2001). Lo dimostrano molti romanzi (Richard
Wright, Native Son, 1940; Edward Bunker, Little Boy Blue, 1981) e, in
particolare, opere autobiografiche come quelle di Caryl Chessman (→ Casi
celebri), L’autobiografia di Malcolm X (1964) o Down These Mean Streets (1967)
di Piri Thomas, e I fratelli di Soledad (1970) e Col sangue agli occhi (1971) di
George Jackson e In diretta dal braccio della morte (1996) di Mumia Abu-Jamal.
E questi ultimi rimandano a un’altra questione centrale: quella dei
prigionieri politici nelle carceri Usa.
Che la prigione sia il luogo della politicizzazione o ne sia uno degli
«effetti collaterali», è certo che quella dell’oppositore incarcerato è una
figura molto diffusa nella storia americana. Ci sono casi celebri come quelli
di Henry David Thoreau (incarcerato per una notte, nel 1846, per essersi
rifiutato di pagare le tasse per sei anni, in segno di protesta contro la
schiavitù e la guerra contro il Messico) e di John Brown (→ Harpers Ferry);
ci sono i casi anonimi delle migliaia di lavoratori arrestati in seguito a
scioperi, picchetti, dimostrazioni e gli altri casi celebri di militanti operai
processati e impiccati nella seconda metà dell’Ottocento (→ Molly
Maguires; → Haymarket Square); ci sono gli arresti in massa di agitatori e
organizzatori, capi operai, socialisti e anarchici dei primi decenni del
Novecento (William D. Haywood, Eugene V. Debs, Arturo Giovannitti, Emma
Goldman, Elizabeth Gurley Flynn, Joseph Ettor, John Reed, Sacco e Vanzetti
– tanto per citare alcuni nomi famosi; → Red Scare); ci sono le vittime della
repressione antioperaia negli anni trenta (→ Sciopero!), quelle della
persecuzione antigiapponese negli anni della Seconda guerra mondiale (→
Campi di detenzione), quelle del Maccartismo (→). Ci sono le incarcerazioni
dei militanti indipendentisti portoricani (di cui la più nota, Lolita Lebron,
scomparsa nel 2010, rimase in carcere dal 1954 al 1979), e ci sono, ancor
prima di arrivare al «caso Guantanamo» con tutte le aspre polemiche che
accompagnano la cosiddetta «guerra al terrore» successiva agli attentati
dell’11 settembre 2001 (→ World Trade Center), quelle di decine e decine di
militanti del Movement (→), per lo più vittime del COINTELPRO (→ Hoover; →
Teoria del complotto), il programma di infiltrazione e provocazione (e
spesso, va sottolineato, di eliminazione fisica di militanti), elaborato e
messo in pratica dall’Fbi: i casi più clamorosi di montature poliziesche e
giudiziarie sono forse quelli che riguardano le Pantere nere Geronimo Pratt
(scomparso nel 2011, in carcere dal 1972 al 1997, prima di essere
riconosciuto innocente) e Mumia Abu-Jamal (condannato a morte nel 1982 e
fino al gennaio 2012 nel «braccio della morte»), del militante dell’American
Indian Movement Leonard Peltier (in carcere dal 1977) e di George Jackson
(incarcerato diciottenne nel 1961 e ucciso il 21 agosto 1971, nella prigione di
San Quentin, in California, durante un dubbio tentativo di fuga).
E questo ci riporta ad Attica – o, per essere più precisi, alla Correctional
Facility di Attica, nello stato di New York, e alla rivolta che vi scoppiò nel
settembre 1971. Le rivolte nelle prigioni statunitensi (come testimoniano
anche alcuni dei film citati sopra) non sono mai mancate: un rapporto citato
da Time Magazine dell’11 agosto 2009 le calcola in circa 1300 nel XX secolo –
fra cui si possono ricordare quelle di Trenton (New Jersey) nel 1952, di
Stillwater (Minnesota) e di Jackson (Michigan) nel 1953, della Montana State
Prison nel 1959, dell’Oklahoma State Prison nel 1973, del New Mexico
Penitentiary a Santa Fe nel 1980, di Lucasville (Ohio) nel 1993, di nuovo di
Stillwater nel 1999 e nel 2010… Ma quella di Attica (dove almeno il 60% dei
2200 carcerati era composto da neri e portoricani) fu una delle più
significative. Le rivendicazioni di un migliore trattamento e la rabbia per il
diffuso razzismo dei secondini si andarono infatti a sommare alla notizia
dell’uccisione di George Jackson, ormai divenuto popolare per i suoi scritti
dal carcere, e il 9 settembre una buona metà dei detenuti si ribellò, prese in
ostaggio 33 fra guardie e impiegati e assunse il controllo della prigione,
avanzando una serie di richieste – che furono accolte, a eccezione di quelle
relative a un’amnistia per i rivoltosi e alla rimozione del direttore del
carcere. Dopo quattro giorni di trattative, il governatore dello stato di New
York, Nelson Rockefeller, diede ordine alla polizia di stato d’intervenire. Ci
fu un copioso lancio di gas lacrimogeni, quindi gli agenti aprirono il fuoco
con fucili a pallettoni e continuarono a sparare per due minuti abbondanti:
il risultato fu l’uccisione di 10 ostaggi e 29 carcerati; la repressione
successiva entro le mura della prigione fu selvaggia. Ricordata da poesie,
canzoni, scritti di varia natura, brani musicali (Charlie Mingus, Archie
Shepp), film e documentari, la rivolta di Attica è rimasta dentro la storia di
quegli anni come un drammatico punto di svolta.
In una delle sue più belle poesie (The Walker, 1914, composta in carcere
durante lo sciopero di Lawrence → Sciopero!), scriveva Arturo Giovannitti,
poeta e militante wobbly (→): «Sento passi sopra la mia testa per tutta la
notte. / Vanno e vengono. Di nuovo, vanno e vengono, tutta la notte. […] /
Infiniti sono i nove piedi d’una cella di prigione, incessante è l’andirivieni
di chi cammina fra il giallo muro di mattoni e le rosse sbarre della cella…».
Mezzo secolo più tardi, gli faceva eco Piri Thomas, dalle pagine del suo
autobiografico Down These Mean Streets (1967): «Odiavo le sere, perché
davanti a me stava un’intera notte di prigione, e odiavo le mattine, perché
mi sentivo come Dracula che tornava alla sua bara».

BIBLIOGRAFIA
Sasha Abramsky, Hard Times Blues. How Politics Built a Prison Nation, Thomas
Dunne Books, New York 2002.
—, American Furies. Crime, Punishment, and Vengeance in the Age of Mass
Imprisonment, Beacon Books, Boston 2008.
Oliviero Bergamini, Democrazia in America? Il sistema politico e sociale degli Stati
Uniti, OmbreCorte, Verona 2004.
H. Bruce Franklin (ed.), Prison Writing in 20th-Century America, Penguin, New
York 1998.
Etheridge Knight, Roberto Giammanco (a c. di), Voci negre dal carcere,
Laterza, Bari 1968.
M.M.

Scimmie alla sbarra


Che ci facevano quegli scimpanzé ammaestrati davanti al tribunale di
Dayton, nella calda estate del 1925? Si stava celebrando il «Monkey Trial», il
«Processo delle scimmie» (definizione partorita dallo scrittore Henry Louis
Mencken), e l’intera nazione aveva gli occhi puntati sulla piccola città del
Tennessee. Le pacifiche creature, però, non erano tra gli imputati: a essere
sotto processo era quella teoria, elaborata da un miscredente inglese, un
certo Charles Darwin, secondo cui i primati erano a tutti gli effetti antenati
dell’uomo.
Pochi mesi prima, lo stato aveva approvato una legge, il Butler Act, che
dichiarava illegale l’insegnamento nelle scuole di qualsiasi teoria scientifica
che negasse la realtà storica della creazione così come era descritta nella
Bibbia. La norma era espressione del clima conservatore che aveva investito
gli Stati Uniti sin dalla conclusione della Prima guerra mondiale e che aveva
partorito fra l’altro i «Palmer Raids» diretti contro anarchici e militanti di
sinistra (→ Red Scare), l’approvazione della legge sugli alcolici (→
Proibizionismo) e la rinascita del Ku Klux Klan (→ Kkk). L’organizzazione
degli incappucciati, in particolare, era riuscita a darsi un’immagine più
«accettabile» ergendosi a custode delle virtù americane e battendosi contro
ogni forma di corruzione morale che imperava al tempo, dall’alcol al
radicalismo politico. Tale piattaforma politica consentì al Kkk di
conquistare posizioni di potere nei consigli comunali e nelle assemblee di
vari stati, e nel Tennessee il suo sostegno fu decisivo per l’approvazione del
Butler Act.
Secondo l’American Civil Liberties Union (organizzazione laica a difesa
delle libertà civili), la legge era un’esplicita violazione del Primo
emendamento (che protegge la libertà di parola e di opinione). L’Aclu
decise quindi di sfidarla cercando un insegnante disposto ad andare a
processo: l’obiettivo era sfruttare l’occasione come «palcoscenico» per
mettere in ridicolo il fondamentalismo cristiano e l’oscurantismo nei
confronti della scienza. A complicare la situazione stava poi una normativa
che imponeva alle scuole l’uso di un libro di testo che non solo descriveva,
ma persino appoggiava la teoria darwiniana. Il «fuorilegge» volontario fu
trovato subito: si trattava di John Scopes, insegnante di scuola superiore.
Questi si limitò a leggere alcuni passi dal manuale e invitò gli studenti stessi
a denunciarlo.
Nel tribunale di Dayton si svolse una battaglia tra due opposte visioni del
mondo, indicativa di più ampie lacerazioni che opponevano la parte rurale
del paese, ancora sensibilmente arretrata e per di più impoverita da una
profonda crisi del settore agricolo, e le metropoli, dove imperavano
diversità culturale e consumismo. A rappresentare la pubblica accusa venne
chiamato William Jennings Bryan, personaggio politico di lungo corso,
difensore degli interessi dei piccoli agricoltori, il quale per ben tre volte
aveva tentato di ottenere, senza successo, la nomination del Partito
democratico alle elezioni presidenziali. A difendere Scopes, sarebbe stato
invece l’avvocato Clarence Darrow, già noto alle cronache per avere difeso
molti militanti di sinistra e avere anche assistito Nathan Leopold e Richard
Loeb, i due ragazzi di buona famiglia che qualche anno prima avevano
tentato di mettere in atto un «delitto perfetto» al solo scopo di dimostrare
la superiorità della loro intelligenza (→ Casi celebri).
A Dayton arrivarono oltre duecento giornalisti, compresi un inviato da
Parigi e uno da Londra. La stazione radio di Chicago Wgn trasmise per la
prima volta corrispondenze in diretta, mentre gli operatori filmarono le
udienze per la realizzazione di cinegiornali.
L’orientamento della corte fu chiaro fin dall’inizio, quando il giudice
Raulston invitò i presenti a raccogliersi in preghiera prima di cominciare il
dibattimento. La difesa di Darrow, dando per scontata l’impossibilità di
ottenere un verdetto favorevole, si concentrò sul tentativo di screditare la
posizione creazionista agli occhi dell’opinione pubblica e, con una mossa a
sorpresa, chiese di poter interrogare Bryan in qualità di esperto conoscitore
della Bibbia. Bryan acconsentì e difese a spada tratta la verità storica e
scientifica di alcuni passi della Genesi, come la nascita di Eva da una costola
di Adamo. Lo scambio fu veemente. Bryan accusò l’avversario di voler
«ridicolizzare tutti coloro che credono nella Bibbia», Darrow ribatté che il
suo unico scopo era prevenire che «bigotti e ignoranti» controllassero
l’istruzione negli Stati Uniti. Il dibattito raggiunse il climax quando Darrow
chiese a Bryan di commentare il brano della Genesi in cui Eva viene tentata
dal serpente: per porre fine allo scambio di insulti che era seguito, il giudice
dichiarò concluso l’interrogatorio (all’evento s’ispirò nel 1955, con un
occhio anche ai processi del Maccartismo (→), un dramma di Jerome
Lawrence e Robert Edwin Lee, Inherit the Wind, da cui il regista Stanley
Kramer trasse nel 1960, un film intitolato … e l’uomo creò Satana, con
Spencer Tracy e Friedrich March).
Dopo otto giorni di dibattimento, il 21 luglio, la giuria impiegò solo nove
minuti per giungere al verdetto di colpevolezza: Scopes fu condannato a
una multa di 100 dollari (oltre un milione di oggi). Dopo la lettura della
sentenza, l’insegnante disse che avrebbe continuato a opporsi a una legge
che considerava ingiusta e che violava la sua libertà intellettuale.
L’eco del processo non si era ancora calmata che giunse un epilogo
inatteso: cinque giorni dopo la sentenza, William Jennings Bryan morì
d’infarto. Che sia un segno divino?
BIBLIOGRAFIA
Jeffrey P. Moran, The Scopes Trial: A Brief History with Documents, Bedford/St.
Martin’s, New York 2002.
Michael E. Parrish, L’età dell’ansia: gli Stati Uniti dal 1920 al 1941, il Mulino,
Bologna 1995.
S.M.Z.

Sciopero!
Uno dei luoghi comuni più diffusi sostiene che «negli Stati Uniti non
esistono classi, la fluidità sociale domina incontrastata». In parte e per un
breve periodo, l’affermazione aveva un suo fondamento: almeno fin verso
la fine dell’Ottocento, la grande disponibilità di terre all’Ovest permise a
molti di riorganizzare la propria vita, di modificare a più riprese il proprio
status sociale. Ma dopo la Guerra civile (→) e poi con la chiusura della
frontiera (→), quella fase iniziale ebbe termine e il conflitto sociale (che
peraltro non era ignoto nemmeno prima: gli interessi di classe erano già
visibili all’interno della stessa Rivoluzione americana →) divenne realtà
tangibile.
Nacquero le prime importanti organizzazioni operaie: la National Labor
Union nel 1867, i Knights of Labor nel 1869, i clandestini Molly Maguires
(→) negli anni settanta, l’American Federation of Labor (Afl) nel 1886,
l’American Railway Union nel 1893, la Western Federation of Miners a fine
secolo… E i primi partiti politici operai: nel 1876, il Working Men’s Party of
the United States (da non confondere con il Workingman’s Party fondato
grosso modo negli stessi anni in California e caratterizzato da un aperto
razzismo nei confronti della manodopera cinese), con una piattaforma
vicina a quella della Prima Internazionale (due stretti collaboratori di Marx
ed Engels, Friedrich Sorge e Joseph Weydemeyer, operavano in quel periodo
negli Stati Uniti, e la stessa direzione dell’Internazionale venne trasferita
per alcuni anni, prima del suo scioglimento, a New York), che si trasformò
presto nel Socialist Labor Party diretto da Daniel De Leon; e, nel 1901, il
Socialist Party of America, frutto della convergenza di gruppi e individui
diversi. Molto attivi erano poi gli anarchici, raggruppati intorno a
personalità come Johann Most e August Spies (→ Haymarket Square) e a
giornali come l’Arbeiter-Zeitung. Il nuovo secolo si apriva, nel 1905, con la
fondazione degli Industrial Workers of the World (Iww → Wobblies),
mentre, all’alba del drammatico decennio della Grande depressione (→), si
formava il Congress of Industrial Organisations (Cio): organizzazioni
sindacali che, con caratteristiche, peso e indirizzi diversi, si proponevano di
reagire al conservatorismo dell’Afl. Sul versante politico, invece, il 1919
vedeva la nascita di due partiti comunisti, il Communist Party of America e
il Communist Labor Party, che in seguito si sarebbero fusi in un’unica
organizzazione.
Vicenda complessa, quella della classe operaia americana, per le tante
contraddizioni prodotte dagli sviluppi stessi del paese, dal particolare
processo di formazione nazionale, dal ruolo centrale della grande massa di
lavoratori immigrati, dalla presenza di una forte componente
afroamericana: vicenda complessa che continuerà, sia sul versante
sindacale che su quello politico, per tutto il XX secolo e che qui non si può
certo riassumere. Bastano però questi cenni per dimostrare l’infondatezza
del luogo comune citato agli inizi – e gli episodi che, fra i molti, vogliamo
ricordare di seguito.
La Grande Sollevazione e la Comune di St. Louis (1877). Non era passato un
decennio dalla fine della Guerra civile che il paese si ritrovò in piena grave
crisi economica, con tagli ai salari, licenziamenti, disoccupazione crescente,
serrate, liste nere dei lavoratori combattivi e dei «sobillatori» yellow-dog
contracts («giuramenti di fedeltà» all’azienda con l’impegno a non
scioperare). Il decennio era già di per sé turbolento: le Guerre indiane (→), i
pogrom anticinesi (→ Chinatown), il malumore nelle campagne, l’attività
delle organizzazioni dei minatori in Pennsylvania (→ Molly Maguires), il
«massacro di Tompkins Square» a New York (una manifestazione di
disoccupati caricata con violenza dalla polizia a cavallo); e, sull’altro
versante, l’emergere di enormi fortune, l’affermarsi di un pugno di capitani
d’industria, banchieri e finanzieri che dominavano ogni aspetto della vita
economica e politica del paese (→ Robber barons), l’evoluzione verso una
produzione di massa con profondi mutamenti nell’organizzazione del
lavoro, la progressiva concentrazione di capitali in direzione dei grandi
monopoli. Erano anche gli anni della costruzione delle più importanti
ferrovie (→ Promontory Point), piovre che allungavano ovunque i tentacoli
suscitando tensioni sociali a non finire: non stupisce dunque che proprio
nelle ferrovie dovesse scoppiare un moto di rivolta che si trasformò presto
nel primo sciopero nazionale della storia degli Stati Uniti. Il 16 luglio 1877,
all’annuncio di un’ulteriore riduzione dei salari del 10%, i ferrovieri
entrarono in sciopero, da New York a San Francisco, a Chicago, St. Louis,
Pittsburgh, Baltimora… Intere comunità operaie scesero in campo, i
contadini misero a disposizione generi di prima necessità, i disoccupati si
unirono ai lavoratori in lotta. Nato spontaneamente, lo sciopero dilagò. Le
truppe del generale Sheridan, impegnate contro i lakota sioux, furono
inviate a Chicago, dove caricarono a più riprese picchetti e cortei. Decine di
lavoratori furono uccisi dalla milizia e dall’esercito (New York Herald del 22
luglio: «La scena che si offriva allo sguardo dopo che i soldati ebbero cessato
di sparare era nauseabonda»), ma lo sciopero si estese ad altre categorie,
finché divenne the Great Upheaval, «la Grande Sollevazione». Cruenta in
particolare fu la lotta a Pittsburgh (dove i morti furono venti, fra cui alcuni
bambini) e a Baltimora, mentre a St. Louis, allora cittadina di 300mila
abitanti, il Working Men’s Party, in cui militavano numerosi appartenenti
alla Prima Internazionale, prese la testa dell’agitazione: a fine luglio, lo
sciopero s’era così esteso da bloccare ogni attività, nella più totale
solidarietà fra manodopera americana, manodopera immigrata e
manodopera nera (i portuali neri furono tra i primi a scendere in lotta in
appoggio ai ferrovieri). Quella che, con grande orrore della stampa
benpensante (il ricordo della Comune di Parigi del 1871 era freschissimo),
divenne nota come «Comune di St. Louis» ebbe vita breve – solo pochi
giorni a fine luglio, durante i quali però la cittadina venne riorganizzata in
funzione dello sciopero generale e delle richieste dei lavoratori.
L’indecisione nella leadership e la repressione scatenata a livello nazionale
posero fine all’agitazione: ma, ebbe a scrivere il Missouri Republican, gli
scioperanti avevano proclamato «una rivoluzione, e fu una rivoluzione».
Poi, dopo due settimane di lotta, «con i fucili puntati, tornammo al lavoro».
Da Homestead a Pullman. Se gli anni settanta dell’Ottocento furono gli
anni della Grande Sollevazione, gli anni ottanta – di nuovo segnati da una
crisi economica – furono quelli dell’agitazione per le otto ore di lavoro,
culminante nei fatti di Haymarket Square (→) a Chicago, ma anche di altri
scioperi nelle ferrovie e nelle miniere (dalla Pennsylvania al Colorado), di
ripetuti scontri con milizia ed esercito, di un incessante fermento nelle
campagne (la giornalista radicale Mary Elizabeth Lease esortava i contadini
del Kansas a «piantare meno grano e più casino [hell]!»), oltre che dell’uso
ripetuto degli agenti Pinkerton (→) come infiltrati e provocatori e della
stampa come strumento di mobilitazione antioperaia (Chicago Times, 1885:
«Bisognerebbe lanciare bombe a mano fra i marinai del sindacato [in
sciopero sui Grandi laghi]»). Nel luglio 1892, circa trecento uomini della
Pinkerton furono inviati alle acciaierie Carnegie di Homestead, in
Pennsylvania: un impressionante complesso industriale sul fiume
Monongahela che, a fianco di alcuni settori di manodopera specializzata,
faceva uso di un crescente esercito di operai non-specializzati (unskilled). A
chiamare i «Pinks» era stato il direttore Frick (Carnegie era in viaggio di
piacere in Europa), dopo aver deciso una serrata con l’obiettivo di abbassare
i salari (del 22%), di negoziare un nuovo contratto e di schiacciare
l’organizzazione operaia (la Amalgamated Association of Iron, Steel, and
Tin Workers), militarizzando fabbrica e città; i lavoratori avevano risposto
con uno sciopero, sostenuti dall’intera comunità e dai compagni dei paesi
vicini. Il 6 luglio, un battello a vapore con due chiatte piene di agenti cercò
di attraccare a Homestead. Ci fu uno scambio isolato di colpi con gli
scioperanti, poi i «Pinks» aprirono il fuoco, facendo tre morti e più di trenta
feriti. A quel punto, fu battaglia, e durò tutto il giorno: imbarcazioni di ogni
tipo circondarono le chiatte, furono lanciati candelotti di dinamite, barili di
petrolio vennero rovesciati in acqua e incendiati, e molti agenti (reclutati
fra disoccupati e studenti e all’oscuro del vero obiettivo dell’azione)
minacciarono d’ammutinarsi. A sera, i «Pinks» si arresero: il comitato di
sciopero li disarmò, la folla inferocita diede alle fiamme le chiatte. Le
vittime della battaglia erano numerose: sette morti e venti feriti fra gli
agenti, nove morti e almeno quaranta feriti fra gli scioperanti e la gente
accorsa a dare man forte (in vacanza in Italia, Andrew Carnegie s’affrettò a
telegrafare a Frick: «Congratulazioni a tutti – La vita è ancora degna
d’essere vissuta – Com’è bella l’Italia»). Mentre un’ondata di solidarietà si
gonfiava in tutto il paese (l’anarchico Alexander Berkman cercò di uccidere
Frick nel suo ufficio), la lotta alle acciaierie continuò. Questa volta fu
chiamata la Guardia nazionale (tremila uomini) che impose lo stato
d’assedio, cacciando le famiglie di scioperanti dalle case della compagnia e
facendo arrivare centinaia di crumiri; seguirono processi ai principali
leader e si allungarono le liste nere; e l’Afl, organizzata lungo linee di
mestiere a esclusione dei non specializzati, fu tiepida nel sostenere gli
operai. La Carnegie era un mostro dalle molte teste e, dopo quattro mesi e
mezzo, lo sciopero terminò nella sconfitta.
Ma la lotta alle acciaierie Carnegie era appena terminata che, apertosi un
altro decennio di crisi profonda, nel maggio 1894 fu la volta dei lavoratori
della Palace Sleeping Car Company di Pullman, celebre company town (→)
nei pressi di Chicago: a fronte di minacce di tagli ai salari e di riduzione del
personale, il boicottaggio delle moderne e lussuose carrozze-letto Pullman
si trasformò presto nel blocco di tutte le linee ferroviarie dei dintorni e, a
fine giugno, in uno sciopero generale guidato dall’American Railway Union
(Aru) e da un giovane fuochista di nome Eugene V. Debs, che coinvolse
qualcosa come 250mila ferrovieri. Il «caso» divenne nazionale, e il ministro
della Giustizia Olney (che era anche uno degli avvocati delle principali
compagnie ferroviarie) scese in campo appellandosi allo Sherman Anti-
Trust Act (la legge che doveva regolamentare trust e monopoli e che, in
quegli anni, fu spesso applicata contro le organizzazioni sindacali) e
dichiarando illegale l’azione dell’Aru perché impediva la distribuzione della
posta – un reato federale. Ci furono mobilitazioni e cortei, scontri con
polizie locali e agenti Pinkerton, l’intervento dell’esercito (12mila uomini al
comando del generale Miles, uno dei protagonisti delle Guerre indiane →),
l’arresto di Debs e dei principali leader, altre liste nere – e almeno tredici
morti e una sessantina di feriti tra i ferrovieri. A metà luglio, lo sciopero
ebbe termine. Nel frattempo, in carcere, Debs aveva letto i testi basilari del
marxismo: l’Aru si sciolse di lì a poco e diede origine al Social Democratic
Party, mentre l’ex fuochista di Chicago sarebbe diventato una delle figure
più carismatiche del socialismo americano degli inizi del Novecento.
Qualche anno dopo la conclusione dello sciopero, una commissione voluta
dal presidente Cleveland (lo stesso che aveva ordinato l’intervento militare)
produsse un rapporto sulle cause, additando precise responsabilità da parte
di Pullman & Co.: a seguito di ciò, venne istituito il Labor Day (il primo
lunedì di settembre), in alternativa al militante May Day (→ Haymarket
Square).
Eserciti di disoccupati e minatori all’Ovest. Le turbolenze sociali degli anni
novanta dell’Ottocento non si limitarono ai casi di Homestead e Pullman. La
crisi economica fu profonda e i suoi effetti, combinati con le reazioni
sociopsicologiche alla chiusura della frontiera, si fecero sentire in ogni
settore. La disoccupazione toccò livelli record e grandi masse di migranti, di
stagionali, di disperati in cerca di lavoro, presero ad attraversare il paese. Il
25 marzo 1894, un centinaio di uomini al comando del populista Jacob
Coxey (l’«Esercito di Coxey») partì da Massillon nell’Ohio diretto a
Washington per chiedere misure urgenti a favore dei disoccupati; nello
stesso tempo, dalla California muoveva un altro contingente, più numeroso,
sotto la guida di Charles T. Kelly (l’«Esercito di Kelly»), che per qualche
tempo ebbe tra le sue file un giovane Jack London (nel 1907, uno dei suoi
libri più importanti, La strada, avrebbe narrato le vicende di quella marcia),
mentre altri gruppi di disoccupati, di licenziati (per lo più ferrovieri) e di
hoboes (→ Vagabondi) si formavano altrove, nel tentativo comune di
raggiungere la capitale.
Intanto, scioperi violenti dilagavano nell’Ovest, nei campi minerari
dell’Idaho (Coeur d’Alene), del Colorado (Cripple Creek) e del Montana
(Butte → Bisbee e Butte), dove l’attività di provocatori e infiltrati pagati dal
padronato (come il celebre ex cowboy e futuro uomo di legge Charles
Siringo) aveva esasperato gli animi dei minatori, già in lotta contro le
pessime condizioni di lavoro. Nel maggio del 1893, era nata la Western
Federation of Miners, un sindacato combattivo e aperto a lavoratori d’ogni
nazionalità e categoria, in reazione alla pratica conservatrice dell’Afl: fra i
suoi leader, spesso in carcere e fatti oggetto di continua persecuzione
padronale, c’era William «Big Bill» Haywood, che di lì a pochi anni sarebbe
stato uno dei fondatori degli Industrial Workers of the World; altra figura
celebre fra i minatori era Mary «Mama» Jones, che avrebbe accompagnato il
movimento operaio americano fino a tarda età: le autobiografie di entrambi
sono appassionate e appassionanti testimonianze di quell’epoca e di quelle
lotte.
Camiciaie a New York. Mentre gli Stati Uniti emergevano come il paese più
potente anche grazie al lavoro dei milioni di immigrati riversatisi in quei
decenni su suolo americano e dei discendenti degli ex schiavi neri affluiti
nelle grandi metropoli del Nord e dell’Est, il nuovo secolo vide il
moltiplicarsi dei conflitti in ogni settore. Significativi per le molte
implicazioni furono gli scioperi delle operaie dell’industria
dell’abbigliamento a New York, uno dei cuori pulsanti dell’economia
cittadina e nazionale. I piccoli laboratori (sweatshops) ricavati negli
appartamenti non contemplavano alcuna norma igienica o di sicurezza e le
grandi fabbriche con fino a trecento macchine da cucire elettriche nei vasti
stanzoni dei loft situati downtown non erano da meno – come si sarebbe
visto nel marzo 1911, con la tragedia della Triangle Shirtwaist Company
(→). La giornata lavorativa andava dalle 8 del mattino alle 6 del pomeriggio,
con una settimana di 56 ore che diventavano 70 nell’alta stagione, mentre i
salari erano compresi fra i 3-4 e gli 8-13 dollari settimanali, arrivando ai 16-
18 solo per gli operai specializzati. La manodopera era costituita in grande
maggioranza da ragazze fra i 16 e i 25 anni immigrate di recente dall’Italia o
dall’Est Europa, con aiutanti e apprendiste fra gli 11 e i 13; il lavoro
domestico e minorile era endemico; le condizioni di lavoro erano rese ancor
più intollerabili da una severa disciplina, da uno spietato sistema di multe
per la più piccola infrazione, dall’obbligo per operai e operaie di pagarsi gli
strumenti di lavoro e dalle frequenti molestie dei sorveglianti nei confronti
delle lavoratrici. Fu così che, nelle parole di un canto di lotta nato in quel
frangente, «Nel cupo inverno del 1909 / Gelando e sanguinando sui
picchetti/ Mostrammo al mondo come sanno battersi le donne».
Il conflitto ebbe inizio proprio alla Triangle il 25 settembre e si propagò a
fabbriche e laboratori: nel giro di pochi giorni, l’intero settore fu bloccato
da uno sciopero spontaneo, con rivendicazioni che andavano dagli aumenti
salariali alla riduzione dell’orario di lavoro con limitazione dello
straordinario, dall’abolizione dell’«appalto interno» alla soppressione del
sistema delle multe, dall’abbandono del sistema di far pagare ai lavoratori
gli attrezzi al riconoscimento del sindacato, la piccola e giovane
International Ladies’ Garment Workers Union. La mobilitazione fu enorme
in città: scioperi di solidarietà, intervento di socialisti, anarchici,
suffragette, comizi quotidiani in varie lingue, una grande manifestazione
cittadina il 22 novembre che ebbe il suo climax quando prese la parola
l’operaia Clara Lemlich, di sedici anni: «Ho ascoltato tutti quelli che hanno
parlato e non ho più pazienza per le parole, perché sono una di quelle che
hanno sofferto delle cose appena descritte. Siamo qui per decidere se
vogliamo scioperare o no. Presento una mozione per proclamare uno
sciopero generale – adesso!». Nell’entusiasmo generale, la mozione fu
accolta da una selva di braccia alzate e si creò un comitato di sciopero:
all’avanguardia erano sempre giovani operaie, ancora poco padrone
dell’inglese, che dovettero affrontare problemi enormi. I picchetti furono
caricati a più riprese, le ragazze picchiate e arrestate – ma non cedettero:
dopo sei mesi di lotta, a metà febbraio 1910, fu raggiunto un accordo che
andava incontro a molte delle richieste delle ventimila camiciaie.
Da Lawrence a Paterson. Gli anni intorno alla Prima guerra mondiale
conobbero una sequenza impressionante di conflitti di lavoro, spesso acuti e
repressi con violenza (→ Bisbee e Butte). Nel gennaio 1912, i lavoratori delle
fabbriche tessili di Lawrence (Massachusetts) incrociarono le braccia contro
un drastico taglio dei salari: erano per lo più italiani e polacchi, belgi,
siriani, russi, organizzati dagli Iww, e il loro sciopero (drammatico per le
condizioni in cui si svolse, in pieno inverno: ma infine, dopo più di due mesi,
vittorioso) fu uno dei più importanti del decennio, mostrando sia la
combattività di questa manodopera immigrata di fresco, sia l’abilità
organizzativa dei wobblies, fino a quel momento attivi in prevalenza negli
stati occidentali, e in particolare dei loro organizzatori Joseph Ettor e
Arturo Giovannitti. Polizia e milizia statale agirono con violenza nei
confronti degli scioperanti (una giovane immigrata italiana fu uccisa), Ettor
e Giovannitti furono arrestati, i processi si moltiplicarono; su iniziativa di
un gruppo di socialisti italiani di New York e con l’appoggio delle
femministe di Margaret Sanger, i bambini delle famiglie coinvolte furono
mandati presso altre famiglie in città e cittadine dei dintorni – e durante
una di queste partenze, il 24 febbraio, le forze dell’ordine caricarono con
ferocia, picchiando i bambini e le loro accompagnatrici. L’indignazione fu
enorme e, nel giro di pochi giorni, gli imprenditori dovettero cedere: le
richieste degli scioperanti (aumenti di salario e nessuna rappresaglia nei
confronti dei lavoratori che avevano scioperato) furono in buona parte
accolte e «Big Bill» Haywood, nel comizio finale, il 14 marzo, sottolineò il
successo della lotta «nel cementare insieme lavoratori di ogni nazionalità».
L’anno seguente, uno sciopero analogo ebbe luogo nei setifici di
Paterson, New Jersey: ma questa volta, nonostante la combattività degli
operai (di nuovo, per lo più immigrati dall’Italia e dalla Russia) e la
mobilitazione degli Iww guidati da Carlo Tresca, «Big Bill» Haywood ed
Elizabeth Gurley Flynn e di numerosi militanti della sinistra newyorkese
(Paterson dista solo 25 miglia dalla metropoli), lo sciopero venne sconfitto.
Iniziato a metà febbraio e durato cinque mesi, con richieste che andavano
dalla riduzione della giornata lavorativa ad aumenti salariali e migliori
condizioni di lavoro, fu anch’esso un conflitto drammatico, con ripetuti
scontri fra scioperanti e forze dell’ordine: l’uccisione di Valentino
Modestino, mentre se ne stava sulla veranda di casa con un figlio in braccio,
infiammò gli animi, e sarà alla base di un’iniziativa rimasta celebre, il
«Paterson Pageant» – un’imponente rappresentazione (→ Pageants) in cui
gli scioperanti stessi, convergendo in corteo sul Madison Square Garden di
New York, diretti dal giornalista radicale John Reed e dal pittore realista
John Sloan (→ Bidoni della spazzatura), narrarono le vicende del loro
sciopero. Dal punto di vista della raccolta di fondi, il «Pageant» fu un
disastro (e suscitò non pochi malumori), ma certo colpì con forza l’opinione
pubblica newyorkese. Reed seguì da vicino gli sviluppi dello sciopero e da
quell’esperienza maturò una radicalizzazione che l’avrebbe portato a
narrare in diretta la Rivoluzione d’ottobre in Russia e a essere uno dei primi
leader del comunismo americano. Ma lo sciopero non riuscì a essere
incisivo, e a poco a poco morì senza aver raggiunto gli obiettivi che s’era
prefisso.
Acciaio e carbone. La turbolenza sociale non si acquietò negli anni del
primo dopoguerra, che da un lato videro abbattersi sul movimento operaio
la violenza organizzata dello stato (→ Red Scare), dall’altro conobbero
continui episodi di ribellione da parte dei lavoratori di settori centrali alla
vita economica del paese: è il caso – fra i tanti – degli operai delle acciaierie,
che nel 1919 diedero vita al grande «Steel Strike». Mentre la temperatura
sociale cresceva per i malumori degli ex soldati smobilitati, per le tensioni
razziali (che esplosero nei disordini di Chicago, in quello stesso anno), per i
problemi legati alla riconversione delle industrie di guerra, gli operai delle
acciaierie (dalla potente United States Steel Corporation alle aziende minori
sparse in giro per il paese) sospesero il lavoro a fine agosto, chiedendo
aumenti di salario, riduzioni d’orario (la giornata lavorativa toccava le
dodici ore), reintegro degli operai licenziati a causa della riconversione e
riconoscimento del sindacato. Le risposte padronali furono le solite: uso di
crumiri (spesso di colore, creando così forti divisioni e risentimenti),
intervento di milizia, Pinkerton ed esercito, chiusura dei luoghi d’incontro
(in più di un caso gli scioperanti furono costretti a varcare i confini statali
per potersi a riunire), proclamazione della legge marziale in grossi centri
siderurgici come Gary, nell’Indiana. E Red Scare: abile creazione, attraverso i
media, di uno stato d’animo di paura per l’azione di «sobillatori stranieri».
Il principale sindacato (l’Amalgamated Association of Iron, Steel, and Tin
Workers) organizzò lo sciopero fin dagli inizi, ma – di fronte alle tante
difficoltà (anche economiche) nel condurlo – a metà ottobre decise di
sospenderlo: ai primi di gennaio 1920, nonostante l’opposizione di molte
sezioni locali, lo sciopero ebbe termine, in una grave sconfitta.
Quegli anni venti che passarono alla storia culturale del paese come il
decennio «ruggente», della spensieratezza e della facile ricchezza, furono
percorsi in realtà – al di sotto della superficie – da forti tensioni e
lacerazioni. Lo stesso Proibizionismo (→) da un lato finiva per creare settori
collaterali di affarismo spregiudicato e aggressivo, dall’altro contribuiva a
esercitare un’ulteriore pressione nei confronti della manodopera, specie di
quella immigrata di recente; al contempo, le leggi che limitavano
l’immigrazione dal Vecchio mondo, lasciando aperti altri canali (dal
Messico o dal Pacifico), creavano ulteriori spaccature e contraddizioni nel
mondo operaio. In una parola, gli anni venti non furono certo, nella loro
realtà più profonda, quel miracolo di benessere e di successo – e
prepararono il crollo del 1929. Non sorprende allora che, per tutto il
decennio, l’altro importante settore della vita economica del paese (le
miniere di carbone) fosse investito da un endemico conflitto, specie in certe
(isolate) zone montuose, abitate da comunità con forti legami identitari e
lunghe tradizioni di lotta, come gli Appalachi (→ Appalachia). Fin dagli anni
successivi alla Guerra civile, le regioni minerarie della Pennsylvania erano
vissute in una sorta di incessante «stato di guerra» (→ Molly Maguires):
qualcosa di analogo, ma in scala anche maggiore per intensità ed
estensione, si verificò negli anni venti nelle contee di Logan, Mingo e
McDowell nel West Virginia e di Harlan del Kentucky, dove si ebbero alcuni
degli episodi più clamorosi di scontro di classe – che toccarono punte di
quasi guerra civile e lasciarono, nelle generazioni successive di minatori e
delle loro comunità, una tradizione di lotta che non si è spenta nemmeno
oggi (al riguardo, si vedano il documentario di Barbara Kopple, Harlan
County, Usa, del 1976, sul durissimo sciopero di metà anni settanta, e il libro
di Alessandro Portelli, America profonda, del 2011, che documenta l’indomita
combattività di un’intera regione). Nel West Virginia meridionale, le
miniere – molto produttive – erano non sindacalizzate e ciò voleva dire
ingenti profitti per le compagnie minerarie e paghe basse, lunghi orari, alto
tasso di incidenti mortali per i minatori. La campagna promossa dal
sindacato degli United Mine Workers (Umw) si scontrò dunque con la
resistenza accanita del padronato, che mise in campo tutte le proprie forze,
legali e illegali, per contrastarne l’azione: killer prezzolati, sceriffi,
magistratura, picchiatori di professione, provocatori e agenti della
Pinkerton e della Baldwin-Felts furono protagonisti di vessazioni continue
nei confronti dei minatori e dei sindacalisti, dalle bastonature agli sfratti e
alle uccisioni.
Il braccio di ferro culminò nei «fatti di Matewan», cittadina nella contea
di Mingo, quasi al confine con il Kentucky. Qui, la mattina del 19 maggio
1920, giunsero tredici agenti della Baldwin-Felts Detective Agency (tra cui
due fratelli Felts), chiamati dalla Stone Mountain Coal Company per
sfrattare alcune famiglie di minatori che avevano aderito al sindacato e allo
sciopero. Il capo della polizia Sid Hatfield e il suo vice, entrambi schierati a
fianco dei minatori, cercarono di distoglierli dall’incarico: ma sei famiglie
furono cacciate di casa, i loro averi buttati sul bordo della strada. Attorniati
da una folla di minatori armati, Hatfield e il vice, spalleggiati dal sindaco,
intervennero per arrestare gli agenti: in un istante, era scoppiata la
battaglia – che durò pochi minuti, ma fu violenta. Sul terreno rimasero il
sindaco di Matewan, due minatori e sette agenti, compresi i due Felts (la
vicenda è stata narrata nel 1987 anche da un coinvolgente film di John
Sayles, intitolato per l’appunto Matewan). Dopo essere stato assolto
dall’accusa di omicidio, Hatfield divenne un eroe delle comunità dei
minatori: ma un anno e mezzo più tardi, sulla scalinata del tribunale di
Welch, sempre nel West Virginia, fu abbattuto da Thomas Felts, desideroso
di vendicare la morte dei fratelli – un assassinio brutale che esasperò ancor
più gli animi dei minatori. Questi, nell’estate del 1921, decisero di
organizzare una marcia verso le contee di Mingo e Logan, poste sotto la
legge marziale, per aiutare gli altri minatori in sciopero: risposero
all’appello in diecimila, variamente armati (non va dimenticato che alcuni
di essi erano soldati smobilitati della Prima guerra mondiale e dunque
dotati di una certa esperienza in campo militare), con carri, rifornimenti e
scorte di medicinali. Nel corso della marcia, giunse la notizia dell’uccisione
di cinque minatori negli accampamenti istituiti per ospitare le famiglie
sfrattate. Lo scontro armato fu inevitabile e culminò nella «battaglia di Blair
Mountain», durata alcuni giorni, che vide confrontarsi l’esercito di minatori
e duemila poliziotti privati e detective di agenzie. Il governatore del West
Virginia definì l’azione dei minatori «insurrezione contro lo stato» e chiese
l’intervento del presidente Harding, che inviò duemila soldati del 19º
Fanteria e in seguito alcuni aerei bombardieri dell’88º Light Bombing
Squadron. Di fronte a un tale dispiegamento di forze militari, i minatori
dovettero cedere: in più di cinquecento furono processati e condannati con
accuse che andavano dal tradimento alla cospirazione. Lo sciopero, iniziato
più di due anni prima, si concluse di lì a breve (un documentato romanzo di
Denise Giardina, Storming Heaven, del 1987, narra in maniera avvincente la
vicenda, su cui è tornato di recente anche Glen Taylor con La ballata di
Trenchmouth, del 2008 – a dimostrazione di quanto sia ancora viva la
memoria di quei fatti).
Ma le fiamme divamparono di nuovo qualche anno dopo, nell’estate del
1931, nella contea di Harlan – e fu un déjà vu. Questa volta, però, ci fu una
grande mobilitazione intorno allo sciopero dei minatori, che culminò nella
formazione di un National Committee for the Defense of Political Prisoners
e in un rapporto dal titolo eloquente (Harlan Miners Speak. Report on Terrorism
in the Kentucky Coal Fields, 1932), cui collaborarono scrittori come Theodore
Dreiser, John Dos Passos e Sherwood Anderson, accorsi per denunciare il
regime di terrore instaurato dalle compagnie minerarie: il volume si apre
con il testo di una celebre canzone di Aunt Molly Jackson, moglie di un
minatore e agitatrice sindacale, destinata a diventare una delle più note
cantanti di protesta dell’epoca, «Kentucky Miners’ Wives’ Ragged Hungry
Blues»: «Questa cittadina mineraria dove vivo è un posto triste e solitario, /
Questa cittadina mineraria dove vivo è un posto triste e solitario, / Dove
miseria e fame sono dipinti su ogni volto».
Intanto, con il crollo del 1929, un altro capitolo si era aperto – quello
delle lotte operaie nella Grande depressione (→), che avrebbero toccato in
pratica ogni settore della vita economica del paese: dagli scioperi nei campi
di frutta e verdura della California ai sit downs nell’industria automobilistica
di Detroit e Chicago, dalle manifestazioni di disoccupati e senza tetto a New
York al grande sciopero dei portuali di San Francisco – vicende che ci sono
state narrate anche dalla ricca produzione letteraria di quegli anni.
Il secondo dopoguerra e i decenni srotolatisi fino a noi non sono stati
peraltro avari di lotte: dei braccianti chicanos organizzati dalla United Farm
Workers Union di César Chávez (→ Chicanos), dei lavoratori neri di Detroit
e Chicago (la League of the Revolutionary Black Workers, il Dodge
Revolutionary Union Movement), dei lavoratori degli sweatshops
dell’industria dell’abbigliamento e dei ristoranti di New York, dei
camionisti (teamsters) in giro per le strade d’America, dei controllori di volo
protagonisti di un lungo braccio di ferro con il presidente Reagan. Una
condizione operaia che si può leggere in romanzi di notevole interesse
come Sciopero a Clarkton (1947) di Howard Fast e Alla catena (1957) di Harvey
Swados (ma anche in tanti racconti di Raymond Carver) e in film come Blue
Collar (1978) di Paul Schrader.
Arrivati in fondo a questa lunga (ma parziale, oltre che doverosa) voce,
che cosa rimane del luogo comune citato all’inizio?

BIBLIOGRAFIA
Louis Adamic, Dynamite, Bepress, Lecce 2010.
Richard Boyer, Herbert Morais, Storia del movimento operaio negli Stati Uniti.
1861-1955, Odoya, Bologna 2012.
Jeremy Brecher, Sciopero!, DeriveApprodi, Roma 1999.
Ronald L. Filippelli (ed.), Labor Conflict in the United States. An Encyclopedia,
Garland Publishing, New York 1990.
John Reed, Red America. Lotte di classe negli Stati Uniti, Nova Delphi, Roma
2012.
M.M.

Sciroppo d’acero
Come in ogni tradizione che si rispetti, anche in questo caso le origini si
perdono nella notte dei tempi: furono le tribù Native Americans a scoprire
l’amido che gli aceri immagazzinano nei rami e nelle radici prima
dell’inverno e a trasformarlo in un prelibato sciroppo che gronda oggi sulle
tavole da waffles, pancakes, french toasts e, per i più coraggiosi, anche dal
porridge. Gli abitanti delle regioni del Nordest presero a lavorare l’«acqua
dolce» (Sinzibuckwud, «estratto dagli alberi», nella lingua algonchina) per gli
usi più disparati, dal condimento al più inquietante impiego come
dolcificante per mascherare il veleno (servito, così vuole la leggenda, a un
crudele capo indiano). Gli algonchini, fra i primi a riconoscere nello
sciroppo una preziosa fonte di calorie, incidevano con sassi appuntiti i
tronchi di acer saccharum, acer rubrum e acer nigrum e poi v’inserivano pezzi
di corteccia concavi per far defluire il liquido nei contenitori sottostanti (da
35 a 50 litri a stagione, che durava dalle quattro alle otto settimane). Le
proprietà nutritive e le modalità di estrazione furono presto apprese anche
dai coloni europei – in larga parte cacciatori di pelli – che iniziarono una
produzione su vasta scala, mediante la raccolta ciclica dei recipienti alla
base degli alberi, trasferendo la linfa in barili e altri grossi catini e
continuando l’estrazione fino a quando il succo si fosse mantenuto dolce.
Trasportato al campo, lo sciroppo veniva versato in un contenitore di
metallo dai 20 ai 50 litri (in genere, al riparo dalle intemperie, in una «sugar
shack», «sugar-house» o cabane à sucre, come era chiamata dai trappolatori
francesi) e bollito fino a quando non avesse raggiunto la densità desiderata.
Non molto è cambiato da allora – se non il perfezionamento di
evaporatori sempre più efficienti (il primo di questi fu brevettato nel 1858),
l’uso di contenitori di plastica o di tubi collegati direttamente
all’evaporatore e di trattori che hanno sostituito nell’ultimo secolo i vecchi
animali da soma.
Certo, nonostante le centinaia di migliaia di litri prodotti dagli stati del
New England, oltre che da Wisconsin, Ohio e Michigan, la produzione
americana impallidisce di fronte a quella canadese (che ammonta all’80% di
quella mondiale). Eppure, va detto che la centralità del maple syrup sulla
tavola (almeno per la prima colazione o per il più modaiolo brunch)
corrisponde a un’uguale centralità politica: potremmo addirittura dire che
lo sciroppo d’acero aiutò gli abolizionisti a vincere la Guerra civile (→), dal
momento che il suo uso divenne indispensabile in anni in cui gli altri
dolcificanti, dallo zucchero di canna alla melassa, veniva prodotto al Sud; e
– non va dimenticato – addolcì (è il caso di dirlo) a molti americani il
razionamento di zucchero imposto durante la Seconda guerra mondiale,
durante la quale fiorirono libri di ricette per casalinghe disperate a base di
sciroppo d’acero. Se ancor oggi è celebrato non solo dalla bandiera
canadese, ma anche dalle bandiere di diversi stati del New England come
New York e il Vermont, un motivo insomma ci sarà…

BIBLIOGRAFIA
Helen Nearing, Scott Nearing, The Maple Syrup Book, Chelsea Green
Publishing, White River Junction 2000.
C. SCHIA.

Seneca Falls (o del femminismo)


Il 4 luglio 1983 ha luogo a Seneca County, New York, il Women’s
Encampment for a Future Peace and Justice, un presidio femminile
antibellicista che sarà ripreso per molte estati a venire. Le donne lì radunate
danno vita a modalità di protesta assai scenografiche, formando, con i corpi
intrecciati, disegni visibili dall’alto, cucendo bandiere ricamate con le storie
delle loro vite, producendosi in una serie di danze rituali. A pochi passi dal
Women’s Encampment si trova il Seneca Army’s Depot, un magazzino
dell’esercito: il messaggio delle dimostranti – tra cui la scrittrice e attivista
newyorkese Grace Paley – è che pacifismo non fa rima con passività
(«pacifism is not passivism») e l’appartenenza al paese non si misura sulla
lealtà a ideali patriottici e patriarcali che avallano il ricorso alla guerra e
agli scudi nucleari.
La contea non era stata scelta per caso dalle femministe «dalle voci
morbide e tenaci» dell’era reaganiana: a poche miglia da lì, a Seneca Falls,
nel 1848, un gruppo di americane si era dato convegno per discutere dei
diritti delle donne. Organizzata e animata da un manipolo di quacchere
radicali (guidate da Lucretia Coffin Mott) e da Elizabeth Cady Stanton, la
conferenza si era conclusa con la sottoscrizione, da parte di cento
partecipanti su trecento, della Declaration of Sentiments precedentemente
redatta da Mott e Stanton. Avendo come calco in negativo la Dichiarazione
d’indipendenza vergata dai padri della Repubblica nel 1776 (→ Rivoluzione
americana), la Dichiarazione dei sentimenti rappresenta un testo
costituente non soltanto del movimento suffragista, ma del femminismo
americano tout court. Come succederà, a distanza di un secolo, con le lotte
per i diritti civili e la cosiddetta «seconda ondata» femminista, le
rivendicazioni ottocentesche delle donne di Seneca Falls sono promosse dal
discorso abolizionista: l’incontro tra Mott e Stanton è infatti propiziato
dalla Conferenza antischiavista tenuta a Londra nel 1840. In aperta polemica
con il documento fondante della Rivoluzione americana, la Declaration of
Sentiments aggiunge la parola «women» a «men» («Riteniamo queste verità
assiomatiche: che tutti gli uomini e le donne sono creati uguali») e
puntualizza che la tirannia del governo contro cui il popolo ha diritto di
ribellarsi non è limitata alla sfera pubblica, ma si allarga a quella privata, in
cui le donne sono soggiogate all’imperio maschile. Il personale, come
reciterà lo slogan delle nipoti ideali di queste antesignane, sarà, da qui in
avanti, necessariamente «politico».
Nella corrente suffragista confluisce una serie di contributi anche molto
diversi tra loro: l’opera di Margaret Fuller, con il suo Women in the Nineteenth
Century (1845), considerato la controparte americana di Sui diritti delle donne
(1792) di Mary Wollstonecraft; l’attivismo intellettuale e politico di Sarah e
Angelina Grimké, Susan B. Anthony, Lucy Stone, Carrie Chapman Catt, e
dell’ex schiava Sojourner Truth (il cui discorso «Ain’t I a Woman?», del
1851, sarà pubblicato in piena Guerra civile →); l’impegno di Margaret
Sanger nella cura pionieristica degli aborti autoindotti e nel controllo delle
nascite.
La provenienza sfaccettata, a livello sociale, culturale ed etnico, delle
protagoniste di questa prima stagione del femminismo spiega la sua
sostanziale spaccatura in due grandi segmenti: da una parte, la American
Woman Suffrage Association, moderata e conservatrice; dall’altra, la
National Woman Suffrage Association, più radicale, disposta a prendere in
considerazione iniziative che prevedono anche picchettaggi e scioperi della
fame. I primi traguardi si cominciano a vedere già nel 1860, con
l’approvazione del Married Women’s Property Act, grazie al quale le donne si
assicurano il diritto di ereditare una proprietà. A inizio Novecento, le
rivendicazioni femministe sembrano poi incanalarsi in due filoni che,
separati lungo la linea di classe, sono espressione delle organizzazioni
sindacali operaie – la gloriosa International Ladies’ Garment Workers’
Union (Ilgwu) – e dell’animo riformista che innerva le opere di pulizia e
alfabetizzazione degli slum a maggioranza immigrata portate avanti da
donne urbane e borghesi (→ Famiglie A[d]dams). In questa prima fase del
movimento – che può dirsi conclusa nel 1920 con il suffragio raggiunto
grazie al passaggio del Diciannovesimo emendamento alla Costituzione –, le
differenze tra le esponenti conservatrici e quelle radicali sono molte, spesso
inconciliabili e dure a morire: nei cortei, per esempio, le attiviste nere sono
costrette a stare in seconda fila come, del resto, nel «Back of the bus» (→) le
donne afroamericane continueranno a essere relegate fino agli anni
sessanta del Novecento.
Con l’avvento della spregiudicata «new woman» degli anni venti (→
Flappers) e la crisi del decennio successivo (→ Grande depressione), le
donne americane godono di una nuova libertà. Con la Seconda guerra
mondiale, l’impiego massiccio di uomini al fronte permetterà loro di
occupare posti di lavoro altrimenti vacanti, aprendo la porte a una
rinnovata autonomia. Sebbene gli anni trenta siano un periodo di grande
fervore politico, il femminismo radicale di figure quali Tillie Olsen, Tess
Schlesinger, Meridel LeSueur e Josephine Herbst risente per molti versi
delle strettoie ideologiche venate di malcelata misoginia del drappello di
intellettuali impegnati che ruotano intorno alla rivista The New Masses.
Dopo un secolo di conquiste sociali e politiche, in cui le donne si sono a
poco a poco affrancate dalla veste di «angeli del focolare», gli anni
cinquanta del Novecento segnano un netto ripiegamento domestico. Con
l’esplosione dello stile di vita suburbano (→ Suburbs) costruito intorno alla
famiglia media bianca, il baby boom, il trionfo dei consumi e il motto «Cold
War, Warm Hearth» («Guerra fredda, Focolare Caldo»), cercano di riportare
il «secondo sesso» – così definito, nel 1949, dalla francese Simone de
Beauvoir – in una dimensione privata di pacata accettazione del ruolo
muliebre. Del senso di profonda frustrazione innescata da un quadro siffatto
parlerà La mistica della femminilità (1963) di Betty Friedan, libro cui la
storiografia fa risalire l’avvio della seconda ondata femminista. La
condizione ritratta da Friedan è molto lontana dall’immagine idilliaca, e
mistificata, della madre felice promossa dalla retorica del consenso
istituzionale e dai media (su tutti la nascente televisione – da Father Knows
Best a Ozzie and Harriet, giù fino alla rivisitazione di quel periodo offerta da
Happy Days e dalla sua mater amorosa Marion Cunningham tra il 1974 e il
1984): le donne suburbane, middle class e bianche di cui scrive Friedan sono
invece afflitte da un «problema senza nome» – quello di vedersi limitate e
circoscritte in ogni sfera esistenziale – di fronte al quale i medici
diagnosticano «nevrosi delle casalinghe» da risolvere con la prescrizione di
antidepressivi come il Miltown (→ Tranquillanti).
Quando il neoeletto John F. Kennedy (→ Camelot) nomina una
commissione presidenziale che offra uno spaccato dello status delle donne
americane, il resoconto non può che riconoscere una forte diseguaglianza di
genere. Contro questa disparità si alza l’intensa stagione di dissenso dei due
decenni successivi che vedrà la nascita, nel 1966, del Now (National
Organization of Women) fondato dalla Friedan e dal National Women’s
Caucus, concepito dalla stessa Friedan con Gloria Steinem; la storica
dimostrazione del 1968 contro il concorso di Miss America (→ Atlantic
City); la pubblicazione, nel 1970, della Politica del sesso di Kate Millett e quella
del leggendario – e per molti aspetti ancora validissimo – Noi e il nostro corpo
(Our Bodies, Ourselves, 1971) del Boston Collective (distribuito a 35 centesimi
a copia); la comparsa di MS, rivista ideata e diretta da Steinem che
accoglierà scritti femministi dal 1971 a oggi; nonché alcuni successi
giuridici, tra cui l’approvazione, nel 1960, dell’uso della pillola
contraccettiva e la controversa sentenza sull’aborto del 1973 Roe v. Wade.
Sotto il profilo legislativo, tuttavia, la battaglia più importante è ancora
aperta: si tratta dello Equal Rights Amendment (Era), passato al Congresso
nel 1972 e non ratificato per pochissimo (votato da 35 stati su 38). Ma al di là
delle conquiste reali e simboliche degli anni sessanta e settanta, è forse
nelle strategie comunicative delle proteste che vanno cercati gli aspetti più
affascinanti e l’unicità di questa seconda stagione: sulla scorta
dell’esperienza del Civil Rights Movement, attingendo al teatro
sperimentale e al suo dialogo con la strada (il Living Theatre, l’Open
Theatre e il Performance Group → Teatri viventi), e irradiandosi da un
cosmo locale fatto di associazioni di quartiere, scolastiche Pta (Parent-
Teacher Association), pacifiste (→ Vietnam) ed ecologiste (antinucleari →
Three Mile Island), la mobilitazione per le battaglie di quest’epoca del
femminismo americano sarà, pur scontando immancabili contraddizioni,
estesa e collettiva.
Eppure, nonostante un tale grado di condivisione e di coinvolgimento,
gli anni ottanta si faranno scenario di una serie di divergenze politiche.
Nutrendosi di un’accresciuta consapevolezza circa l’irriducibile
ambivalenza del concetto stesso di «genere», l’impossibilità cioè di
proiettare una visione unica e universale della condizione femminile
modellata per lo più su valori upper-middle class e bianchi – il cosiddetto
«essenzialismo» della seconda stagione –, la terza ondata riconosce alla
donna caratteristiche molteplici che ne riflettono le diversità culturali,
etniche, sociali e nazionali. In seno a questa ritrovata e orgogliosa varietà,
caratterizzata dalla ricchezza di sinergie e ibridazioni, si rafforzano
componenti fino a quel momento poco visibili: lesbiche, queer, postcoloniali,
ecofemministe, transgender e transnazionali. Tra le esponenti più
significative di questa terza stagione vanno ricordate la chicana (→
Chicanos) Gloria Anzaldúa – il cui Terra di confine: La Frontera (1987)
introduce nel movimento (nonché nell’accademia americana) la categoria
critica del «Mestizaje», il «meticciato» come esperienza culturale
necessariamente binaria; l’afroamericana bell hooks, che usa il nome di sua
nonna e lo scrive in minuscolo per cancellare la propria presenza autoriale;
Audre Lorde, poetessa newyorkese di origini caraibiche critica del Now e
dell’opera di Betty Friedan; Maxine Hong Kingston, californiana di origini
cinesi che dà corpo, con il suo La donna guerriera (1975), alla letteratura sino-
americana e infine Adrienne Rich, poeta e saggista cui si devono alcuni dei
contributi teorici più importanti per la teoria femminista degli ultimi anni
del Novecento, dalla «politica del posizionamento» alla nozione di
«eterosessualità obbligatoria» (Segreti, silenzi, bugie: il mondo comune delle
donne, 1979).

BIBLIOGRAFIA
Annie Goldman, Le donne entrano in scena. Dalle suffragette alle femministe,
Giunti, Firenze 1996.
Daniel Horowitz, Betty Friedan and the Making of the Feminine Mystique: the
American Left, the Cold War, and Modern Feminism, University of
Massachusetts Press, Amherst 1998.
Beth Norton, Ruth Alexander (eds.), Major Problems in American Women’s
History: Documents and Essays, Heath and Company, Lexington-Toronto
1996.
C. SCAR.

Serie tv
«Tv or not tv?» titola la prima puntata di una delle più famose serie tv
americane degli anni cinquanta, The Honeymooners: questo è il problema. In
realtà, non è più di tanto un dilemma per gli americani che, nonostante il
debutto in sordina del nuovo apparecchio nel 1939 (complice la crisi
economica e il conflitto imminente), ne subiranno il fascino irresistibile nel
dopoguerra, quando le vendite dei televisori esploderanno (da 8000 nel 1946
a 4milioni nel 1950) entrando in circa due terzi delle abitazioni.
Si può comprendere tale successo solo se si pensa alle contingenze
storiche e sociali di quegli anni: la relativa prosperità della famiglia media e
un’affermazione di status che passa anche attraverso il possesso di
elettrodomestici (→ Kelvinator), analogamente a quanto era avvenuto negli
anni venti; la crescita esponenziale dei consumi, di cui la televisione non
rappresenta solo il punto di arrivo, ma anche lo strumento di propaganda;
e, non ultime, le trasformazioni urbanistiche e sociali, che vedono uno
spostamento di molte famiglie (specie se giovani, mononucleari, middle class
e bianche) nelle aree suburbane (→ Suburbs): padre, madre e figli nella
linda casetta con garage, giardinetto e staccionata bianca – il tutto a
discapito del senso di comunità tradizionale e delle relazioni tipiche della
famiglia allargata (molto un-american e dunque tipica di minoranze etniche
quali italiani, irlandesi o greci).
A restare sole nei sobborghi sono soprattutto le donne (negli anni del
secondo dopoguerra, il 70% circa è dedito alle incombenze domestiche):
spesso lontane da genitori e parenti e confinate in quartieri che, senza una
seconda auto a disposizione, diventano vere e proprie prigioni, le
casalinghe (già allora alquanto disperate) trovano compagnia, conforto e
svago nella tv che, come la radio (→) qualche decennio prima, è felice di
accontentarle con programmi ad hoc, in grado di tenerle legate a sé giorno
dopo giorno, trasportarle nella comunità virtuale dei set televisivi e, se
possibile, incentivarne i desideri consumistici attraverso la pubblicità.
E così la televisione, innestatasi sia sul serbatoio cinematografico, sia su
quello della radio, riprende da quest’ultima anche i format e la propensione
all’intrattenimento leggero e seriale: programmi per lo più di quindici o
trenta minuti, scanditi da interruzioni pubblicitarie, in cui la parte da leone
nelle ore pomeridiane è appannaggio dei serial, che arrivano spesso dalla
radio (per esempio, la soap Guiding Lights, in italiano Sentieri, passata sul
piccolo schermo nel 1952, dove rimarrà fino al 2009, la serie più lunga della
storia) e conquistano subito i favori del pubblico, divenendo i programmi
più seguiti malgrado l’iniziale scetticismo dei poco lungimiranti produttori
(dalla radio arrivano anche sitcom come Amos and Andy, che si regge sulle
avventure umoristiche di due afroamericani dai tratti stereotipi ed è per
questo denunciata dalla Naacp → Back of the bus).
Ma che mondi raccontano le serie tv degli anni cinquanta?
Dimentichiamo per un attimo i vari Dallas (→), Dynasty e tutti gli altri mondi
patinati: le grandi e ricche famiglie, gli intrighi, gli scandali e il gusto del
proibito arriveranno in un secondo momento, con il mutare dei valori
dentro alla società americana. Le prime serie mirano invece a ricreare
comunità virtuali, e virtuose, in cui le spettatrici si possano riconoscere
senza distrarsi troppo dai lavori domestici. Per questo, l’azione e l’impatto
visivo sono ridotti al minimo, e molto è affidato al dialogo: il rischio di
bruciare un arrosto o la camicia del marito è elevato. Lo schermo televisivo
riflette quasi sempre ciò che sta fuori da esso: a dominare le serie dei «Silent
Fifties» sono l’universo domestico e le relazioni familiari, viste come la
cellula base della comunità (relazione sottolineata in molte sigle iniziali, in
cui alla panoramica della cittadina-comunità fa seguito l’immagine della
casa e poi del suo interno). Una cellula in cui i ruoli sono definiti: il padre è
l’indiscusso capofamiglia, esce di casa alle 9 e torna alle 5 dal lunedì al
venerdì (ma del suo lavoro non si parla mai), nel tempo libero impartisce
lezioni di vita alla prole e taglia l’erba in giardino; i figli combinano qualche
marachella, ma vengono presto riportati sulla retta via (come in Leave It to
Beaver); e la moglie-madre, lontana dalle maliarde e sensuali bad girls alla
Marilyn Monroe del grande schermo, rimane un «angelo del focolare» i cui
desideri non sembrano contemplare altro che un tappeto pulito, una torta
ben lievitata, un bucato bianchissimo e un po’ di volontariato parrocchiale
(vedi The Adventures of Ozzy and Harriet oThe Donna Reed Show). L’immagine
muliebre a dir poco idealizzata dell’era Eisenhower resta impermeabile a
qualsiasi versione non normativa della famiglia bianca suburbana: né gli
studi sulla sessualità del professor Kinsey (→ Stonewall) né il numero dei
divorzi in rapida ascesa (e nemmeno la nascita del Civil Rights Movement
→ Back of the bus) riusciranno infatti, almeno fino al termine del decennio,
a scalfire i televisivi happy ending.
Più che il cinema, infatti, saranno sitcom e soap a promuovere messaggi
e modelli fortemente conservatori improntati alle gerarchie familiari. Father
Knows Best (passata nel 1954 dalla radio alla televisione) è, in questo senso,
esemplare: le piccole crisi in famiglia, i tentativi senza successo della moglie
di risolverle e l’intervento finale del padre dimostrano che, se le donne
sono comunque il pubblico privilegiato, quel mondo creato in apparenza
per loro le dipinge come semplici comprimarie. Oppure non le rappresenta
affatto: si pensi a My Three Sons, degli anni sessanta, e a tutte le serie
successive che racconteranno di figli e padri vedovi (filone che arriverà fino
a Diff’rent Strokes, 1978-1985, conosciuta in Italia come Il mio amico Arnold). E
anche quando la donna è protagonista e tenta di sfuggire al soffocante ruolo
di casalinga (come avviene nella popolarissima serie I Love Lucy, 1951-1957),
finirà per tornare nel sicuro universo domestico e consolarsi fra le braccia
del marito.
Per fortuna, le controtendenze non tardano a manifestarsi e le serie tv
iniziano a guardare anche oltre i confini della famiglia bianca suburbana e
middle class: con The Honeymooners (1951-1955), scritta e interpretata da
Jackie Gleason, al centro della scena approda una famiglia working class (il
protagonista, Ralph Kramden, è un guidatore di autobus e vive in un
quartiere popolare di Brooklyn) senza figli – e, con essa, arrivano le liti e le
riappacificazioni condite da sani rapporti di buon vicinato. Se l’esaltazione
talvolta melensa dei legami familiari sembra uscire, per così dire, dalla
porta, essa finisce poi per rientrare dalla finestra, con «i migliori amici»
dell’uomo, ovvero gli animali: da Lassie a Campione, da Furia cavallo del West a
Le avventure di Rin Tin Tin, cani e cavalli diventeranno i nuovi paladini di
grandi e, soprattutto, piccini. Oltre al filone «sempreverde» dei western –
Riverboat e Wagon Train –, la fine degli anni cinquanta tiene anche a
battesimo Ai confini della realtà (The Twilight Zone → Robot) che, modellato
sul format del popolare Alfred Hitchcock Presenta, attinge alla fantascienza e
al paranormale, con forti elementi d’inquietudine non troppo sotterranei.
Decennio «sedato» (→ Tranquillanti) più che «tranquillo», l’universo
americano del secondo dopoguerra sarà oggetto di interpretazioni
nostalgiche nei più turbolenti anni settanta. Ma, proprio nel 1959, in
quell’idillio fatto di modelli familiari perfetti ed eroi, o supereroi (→)
altrettanto impeccabili (su tutti Superman, in onda dal 1952 al 1958),
interferiscono due eventi della vita reale dei suoi protagonisti: la star Lucille
Ball (protagonista di I Love Lucy con il marito Desi Arnaz, da cui ha anche un
figlio durante la produzione) rompe il talamo chiedendo il divorzio, mentre
George Reeves, prestante interprete di Superman, muore suicida (versione
ufficiale), un gesto forse riconducibile alla frustrazione di essere ingabbiato
in quel personaggio per sempre.
Nel decennio successivo, continuano le soap in daytime (nel 1963, è
avviata la produzione di General Hospital, la più longeva dopo Sentieri) e
arriva la novità di un serial in prime time, Peyton Place (1964-1969), riscrittura
dell’omonimo bestseller di Grace Metalious (1956 → Piccole donne
crescono) che, cucito intorno a segreti, scandali e peccati di una smalltown
(→ Piccola città), lancerà la carriera dell’attrice Mia Farrow. I network Nbc
e Abc scelgono anche di investire nel genere medical drama già frequentato
con Medic: nascono così Ben Casey e il leggendario Dr. Kildare, con un giovane
internista (Richard Chamberlain) bello e buono di cui si innamorano tutte le
pazienti del Blair General Hospital.
La rappresentazione televisiva di un decennio segnato dalle tensioni
della Guerra fredda (→ Camelot), dal movimento per i diritti civili (→ Back
of the bus), dall’inizio della guerra in Vietnam (→), dalla corsa agli
armamenti nucleari e dalla ricerca aerospaziale (che porterà al primo uomo,
americano, sulla Luna) mette spesso a tema l’incontro con l’altro – sia esso
l’alieno della fantascienza (→ Alien; → Robot), il nero, l’immigrato, oppure
il conturbante e l’eccentrico. Se sul versante della sitcom più spicciola, e
assai gustosa, entrano in scena figure poco convenzionali come la strega
suburbana di Vita da strega e l’inquietante quadretto familiare della Famiglia
Addams (→ Famiglie A[d]dams), nel mondo dei supereroi imperversano le
gesta della strana coppia di Batman e Robin (→ Supereroi) sullo sfondo di
una Gotham City dagli scenari via via più notturni. Sarà tuttavia una serie
fantascientifica, Star Trek (→ Robot), a segnare il punto più alto della
produzione del decennio. Scritta da Gene Roddenberry, la saga stellare (The
Original Series) comincia nel 1966 ma chiude dopo tre stagioni,
sopravvivendo nelle repliche e trasformandosi in una serie cult negli anni
settanta (quando il cast viene riesumato per una sequela di film) e negli
anni ottanta, con la rinascita televisiva di quattro nuovi cicli (dal 1987 al
2005). Roddenberry rivela fin da subito la volontà di fare di Star Trek un
genere ibrido, in cui le avventure tipiche dei western siano trasposte nella
galassia, emancipandosi però dal goffo – e costoso – armamentario della
fantascienza televisiva: non ci saranno alieni dall’aspetto mostruoso né
robot d’acciaio né atterraggi o lanci di missili. Con i trucchi tecnologici
limitati al geniale «teletrasporto», la serie può riflettere su questioni
socioculturali sollecitate da un confronto intelligente con la
contemporaneità americana così come su temi più universali: l’equipaggio
del Capitano Kirk è un microcosmo del paese, uno spaccato delle sue
differenze etniche e culturali di cui è simbolo la figura di Spock, mezzo
umano e mezzo vulcaniano. Il successo, anche postumo, di cui godrà la
creazione di Roddenberry va cercato nella qualità di sceneggiature originali
che (come nella migliore fantascienza) usano la metafora spaziale per
instaurare un dialogo con l’esperienza storica senza lesinare riferimenti alla
letteratura. Da un punto di vista strutturale, Star Trek è inoltre un esempio
perfetto di «serie»: i vari episodi sono conclusi in se stessi e privilegiano
una linea narrativa orizzontale («anthology plot») che non presuppone una
loro continuità cronologica. Il modello della «serie» sarà così, per molti
anni, sinonimo non solo delle sitcom ma anche dei drama di diverso genere,
contrapponendosi alla narrazione verticale aperta («running plot») dei
«serial» melodrammatici come le soap, le cui puntate sono concatenate in
uno sviluppo lineare, e virtualmente infinito, del tempo. Sarà Dallas (→),
alla fine degli anni settanta, a intervenire nella distinzione tra serie e serial,
promuovendone la sostanziale fusione. In onda nel prime time, la saga degli
Ewing andrà a introdurre una continuità narrativa interepisodica in una
fascia oraria occupata di solito da drama o sitcom, ma, a differenza dei serial
precedenti, ogni puntata manterrà una sua autonomia rispetto
all’evoluzione delle vicende dei personaggi.
Nel decennio dello scandalo politico del Watergate (→) e della
recessione che colpisce le inner cities metropolitane (→ Bronx)
aumentandone la microcriminalità, sul piccolo schermo si muovono schiere
di investigatori privati e agenti di polizia. Gli anni settanta vedono infatti
esplodere detective series, crime drama, police drama e police procedural, in cui
compaiono numerose varianti. Ci sono le coppie di piedipiatti bellocci e
accattivanti (uno biondo, uno moro) che scorazzano sulle strade della
California (Starsky & Hutch e CHiPs) e gli assai più realistici agenti di origini
etniche Colombo, Baretta e Kojak (testa pelata e leccalecca al posto del sigaro,
scaltro ma rassicurante). Alla categoria dei detective appartiene anche il
fenomeno Charlie’s Angels, un trio di investigatrici private belle come pin-up
che prendono ordini da Charlie, uomo misterioso di cui si conosce solo la
voce. Poco importano l’inconsistenza delle trame, i dialoghi inverosimili e i
personaggi di cartapesta: Sabrina (carina e intelligente), Kelly (ricca ed
elegante) e Jill (passionale, impavida, sorriso irresistibile e pettinatura da
schianto… insomma, Farrah Fawcett) stuzzicano l’immaginario erotico
maschile senza rinunciare a quello delle adolescenti.
Nella distanza tra i vestiti à l a page e le auto sportive degli «angeli» e le
mises ordinarie, se non neglette, del nucleo working class dei Bunker in
Arcibaldo (All in the Family) si misura un divario che sembra farne due mondi
a parte. In onda dal 1971 al 1979, la sitcom porta una ventata di autenticità
nel genere, dipanandosi attorno alla quotidianità di Archie Bunker, un
bianco polemico e poco amabile che non fa mistero di odiare «polacks»,
«spics», «spades», e della moglie Edith, svaporata logorroica che lo
sopporta. Ambientato tra il soggiorno e la cucina del loro appartamento
disadorno, Arcibaldo arricchisce la vena farsesca grazie alle gag dei vicini di
casa, tra cui gli afroamericani Jefferson che saranno protagonisti
dell’omonimo spin-off dal 1975 al 1985, trasferendosi, dopo essersi
arricchiti, dal quartiere working class di Queens a un lussuoso appartamento
di Manhattan. Di matrice decisamente afroamericana, l’umorismo
esilarante e autoironico de I Jefferson nasce in modo particolare dagli
incalzanti botta e risposta tra George e la cameriera Florence e si consuma,
ancora una volta, tra il soggiorno e la cucina. A riprova che, sulla scia aperta
da Arcibaldo, le sitcom degli anni settanta dimostrano un’attenzione tutta
nuova ai lavori manuali e ai ceti sociali medio-bassi, arrivano le due donne
operaie, forti e autonome, di Laverne & Shirley (spin-off di Happy Days) e Alice
che, ispirato al film di Scorsese Alice non abita più qui (1974), ruota intorno
alla vita della protagonista, cameriera al Mel’s Diner (→ Diner). Voltando le
spalle alle complessità del contemporaneo, Happy Days torna agli anni
cinquanta e ai semplici rituali di un universo adolescenziale lontano dalle
inquietudini incarnate dai personaggi di Marlon Brando e James Dean. Ricky
Cunningham, timido e mediocre (come gli amici, altrettanto goffi, Ralph e
Potsie), vive in una Milwaukee blanda e ordinaria, con un padre brontolone,
una madre troppo perfetta e una sorella odiosa. L’unico outsider è Fonzie,
meccanico, latin lover e, non a caso, fulcro dell’intera serie. Uno dei lasciti
più interessanti del decennio che coincide con la coda della guerra in
Vietnam (→) è una serie ambientata in un ospedale di campo durante la
guerra di Corea, ispirata al film di Robert Altman MASH (1970). M*A*S*H*
(acronimo per Mobile Army Surgical Hospital), in onda dal 1972 al 1977,
racconta le avventure di due chirurghi militari playboy, assestando stoccate
alle inutili durezze del regime militare e all’assurdità delle strategie
belliche. L’invenzione di Larry Gelbart crea un genere ibrido che unisce, in
modo sempre più convincente nelle ultime stagioni, sitcom, medical drama e
satira militare. Altrimenti caratteristico del decennio è il western, melenso
e talvolta struggente, che ricostruisce le asperità della vita di una famiglia di
homesteader (→ Acri) nel Minnesota del 1870: La casa nella prateria (Little
House on the Prairie), tratto dai popolari romanzi per ragazzi scritti da Laura
Ingalls Wilder fra il 1932 e il 1943.
Con gli anni ottanta, la commercializzazione di una novità tecnologica, il
Vhs, cambia le modalità di fruizione televisiva, moltiplicandole. Il
contributo di questa rivoluzione alla nascita di quella che il critico Robert J.
Thompson chiamerà «la seconda età dell’oro della televisione» –
individuando il fiorire della prima tra gli anni cinquanta e sessanta – sarà
notevole. Se tra il 1980 e il 1988 le abitazioni americane con un
videoregistratore passano dall’1 al 58%, in quello stesso arco temporale la
programmazione in prime time dei maggiori network presenta prodotti che,
per la loro qualità estetica, «meritano di essere registrati». Certo, a
guardarsi indietro, nel proliferare delle serie del decennio reaganiano,
qualcosa si può perdere (i mercenari superviolenti dell’A-Team), o tagliare (i
capelli dell’agente factotum MacGyver), così come è indiscussa l’egemonia di
poliziotti, agenti segreti e investigatori privati su tutte le altre categorie. Ma
c’è, tra agenti e detective, qualcosa di nuovo: le ambientazioni esotiche (le
Hawaii del sensuale Magnum P.I. e la solare Miami del duo, anch’esso
fotogenico e accattivante, di Miami Vice) e, in particolare, la presenza di
personaggi femminili più credibili. Se, a livello di commedie leggere,
nascono le coppie miste (un lui e una lei un po’ colleghi e un po’ amanti) del
prevedibile Remington Steele e del riuscito Moonlighting (con Bruce Willis e
Cibyll Shepherd), sarà New York New York, poliziesco della Cbs affidato ai
volti di Sharon Gless e Tyne Daly, a orientare il genere attraverso la
prospettiva femminile delle due protagoniste e a preparare il terreno
all’emergere, nel ventennio successivo, di donne capaci di calibrare la
giusta dose di coraggio, intelligenza emotiva, freddezza, pistola, chiacchiere
e distintivo. Cagney and Lacey condivide con L.A. Law (Avvocati a Los Angeles) e
Hill Street Blues (Hill Street giorno e notte) l’abilità magistrale di trattare con
accuratezza i temi di attualità, mettere a punto uno stile visivo complesso e
ideare dialoghi plausibili. Qualcosa cambia anche nelle sitcom nere:
superate le strettoie stereotipe dei due orfanelli sagaci trapiantati nella
ricca Manhattan (Il mio amico Arnold) e quelle umoristiche dei Jefferson, si
arriva al popolare I Robinson (The Cosby Show), in cui una famiglia numerosa
e benestante (padre ginecologo, madre avvocato) residente in una bella casa
di brownstones a Brooklyn Heights, dà corpo a una raffigurazione più
sfaccettata e matura di un nucleo afroamericano di classe medio-alta.
Nel ventennio successivo, all’imporsi di serie di qualità contribuisce la
nascita delle «cable tv», i canali via cavo come la Hbo, il cui slogan «It’s not
tv, it’s Hbo» rende chiara l’intenzione dei nuovi network a pagamento di
differenziarsi da quelli generalisti grazie a prodotti dalla fattura ricercata.
Nelle serie si comincia così a investire cifre cospicue, facendo ricerche di
mercato e individuando nicchie di pubblico. Sempre più i drama diventano
serializzate, combinando la regolarità conclusa degli episodi allo sviluppo
continuo e lineare dei personaggi, come farà una delle più fortunate di fine
secolo, E.R.- Medici in prima linea (E.R.) (→ E.R.) trasmessa dalla Nbc dal 1994
al 2009. Il pronto soccorso del County General Hospital di Chicago accoglie,
ancor più dell’Enterprise di Star Trek, una riproduzione corale delle diversità
etniche, culturali, religiose ed economiche del paese, dall’umanità varia che
vi approda in cerca di cure all’équipe di medici che vi lavoravano. Se le
quindici stagioni di E.R. riescono nell’impresa di affrontare in modo quasi
sempre convincente nodi nevralgici della società statunitense
contemporanea (la sanità, la convivenza multietnica, l’omosessualità e, non
ultima, la guerra in Iraq), è forse anche grazie alla regia centrale di chi ne
firma la produzione, il romanziere e sceneggiatore Michael Crichton.
Pionieristico rispetto a E.R. e a tutte le serie d’autore a venire è Twin Peaks,
raffinato ed eccentrico esperimento televisivo creato da David Lynch e
Mark Frost tra il 1990 e il 1991. Preceduta e accompagnata da un battage
pubblicitario senza precedenti, la serie mostra subito una cifra
cinematografica: le musiche di Angelo Badalamenti, le atmosfere rarefatte,
gli scenari cristallizzati del Pacific Northwest. L’unico punto di contatto con
i più tradizionali prodotti televisivi è il mistero della morte di Laura Palmer
e la sua risoluzione, espedienti narrativi che la penna di Lynch svuota fino
all’assurdo, trasformandoli in pretesti per rivelare il lato oscuro di una
cittadina patinata e oleografica.
Che Twin Peaks abbia aperto la strada a serie destinate a divenire oggetto
di culto è dimostrato dal successo di X-Files, che si muove tra Sf, teoria del
complotto (→) e alieni (→ Alien), e di Ally McBeal, sofisticato legal dramedy
(fusione di elementi drammatici e comici), ambientato in uno studio legale
di Boston.
Interessata a intercettare i favori di adolescenti che vorrebbero
comportarsi da grandi e trentenni che non vogliono crescere, la televisione
degli anni novanta lancia poi i cosiddetti teenage drama (Beverly Hills 90210,
Dawson Creek e il cult Buffy l’ammazzavampiri) e un gruppo di sitcom
metropolitane (Frasier, Seinfeld, Friends, Sex and the City, le ultime tre
newyorkesi) in cui campeggiano, tra appartamenti e caffè, adulti e adulte
bianchi e borghesi più o meno blasés, che rifuggono dagli impegni affettivi
(in primis matrimoniali) per sposarsi alle reti amicali e, nel caso delle sublimi
(ma anche un po’ stucchevoli) «thirty-something» di Sex and the City, alla
città stessa.
Con il nuovo millennio, le tendenze tematiche e strutturali già avviate
nell’ultimo ventennio si consolidano assecondando l’impatto crescente di
internet che, sotto forma di blog, mailing list, forum, fandom, podcast e
streaming, condiziona non solo le modalità di fruizione delle serie –
consumate, grazie alla diffusione di laptop e display, in una moltiplicazione
di tempi e spazi diversi –, ma anche la loro realizzazione, sempre più
sensibile alle piattaforme virtuali. Se i medical drama godono di fortuna
talvolta eccessiva (Grey’s Anatomy, o la serie «modaiola» Nip & Tuck) e
talaltra motivata (Dr. House), i teenage drama producono il fenomeno O.C., le
sitcom come Will & Grace e 30 Rock si fanno sempre più brillanti e
intraducibili e i migliori drama al femminile (imparentati, in modo diverso, a
Sex and the City) si declinano nelle suburbane Desperate Housewives e nel
gineceo lesbico losangelino di The L Word, le serie dedicate a crimini e
misfatti giungono ad altissimi livelli di accuratezza e complessità, facendosi,
in alcuni casi, tanto asettiche da appiattirsi sui personaggi episodici, ovvero
sui singoli casi (NYPD Blue, Law and Order, i tre CSI, Alias, Dexter, Criminal
Minds, Cold Case, Senza Traccia, The Closer) e ricorrendo spesso alla figura del
coroner quasi a suggerire, come scrive la studiosa Donatella Izzo, che
giustizia, nell’America di oggi, può essere fatta solo post mortem. Ci sono poi
le fuoriserie: Sopranos (→ Ziti, zeppole e capocollo), Six Feet Under, 24, Lost,
The Wire e la più recente Mad Men.
La tentazione di chiudersi in casa e non fare altro è forte, così come il
dilemma: «tv or to be»?

BIBLIOGRAFIA
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University Press, New York 2007.
Aldo Grasso, Buona Maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti dei
libri e del cinema, Mondadori, Milano 2007.
Donatella Izzo, Cinzia Scarpino (a c. di), I Soprano e gli altri, Shake, Milano
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America, University of Chicago Press, Chicago 1992.
Robert J. Thompson, Television’s Second Golden Age: From Hill Street Blues to ER,
Syracuse University Press, New York 1997.
C. SCHIA. – C. SCAR.

Silicon Valley
Procedendo verso sud dall’aeroporto di San Francisco lungo l’autostrada
101, come perle di un rosario si susseguono una dopo l’altra San Mateo,
Redwood City, Palo Alto, Mountain View, Sunnyvale, Cupertino.
All’osservatore distratto ci vorrà qualche secondo per realizzare che quella
striscia di 25miglia, fiancheggiata da motel (→), centri commerciali (→
Mall) e grossi scatoloni incolori adibiti a uffici è in realtà il luogo dove si
«inventa» il futuro – la Silicon Valley, il distretto con la più alta
concentrazione di aziende specializzate nel campo delle nuove tecnologie
(→ Xerox & Apple). Un aspetto tutto sommato anonimo, lontano sia
dall’idea di scenario pittoresco che siamo soliti associare alla parola «valle»,
sia alle architetture stravaganti che immaginiamo come tratto distintivo del
«futuro». La calma piatta, conferma il giornalista Po Bronson nel reportage
Il nudista del turno di notte (1999), è la cifra dominante: «La Valley offre ai
suoi lavoratori un livello sostenuto di non-distrazione, garantendo che il
lavoro resti l’attività più interessante ed eccitante nel ventaglio di
attrazioni disponibili». Lo stacanovismo, da queste parti, è un vanto: tempo
addietro, alcuni programmatori sfoggiavano con orgoglio t-shirt che
proclamavano «Working 90 hours a week and lovin’ it».
Il battesimo della Silicon Valley risale al 1971, quando il giornalista Don
Hoeffler usò l’espressione in una serie di articoli dedicati alle attività della
regione, prendendo spunto dall’uso del silicone come materiale di appoggio
per la realizzazione di circuiti elettronici in miniatura, i microchip. Le radici
del distretto economico affondano più indietro nel tempo: per essere
precisi, al 1939, quando in un garage di Addison Avenue, a Palo Alto, David
Packard e William Hewlett, due dottorandi dell’Università di Stanford,
realizzarono un oscillatore audio per Walt Disney (→ Disneyland), che ne
aveva bisogno per testare i suoni del film animato Fantasia, la prima
commessa della Hewlett-Packard.
Gli elementi che si rivelarono cruciali per la nascita e il consolidamento
della filiera dell’alta tecnologia ebbero però origine altrove, e in un tempo
successivo. Durante la Seconda guerra mondiale, Frank Terman, docente di
ingegneria di Stanford – dalle sue tasche arrivarono i soldi per avviare i
primi progetti degli allievi Packard e Hewlett – collaborò con il Research
Lab dell’università di Harvard (→ Ivy League), dove un’équipe di scienziati
finanziata dal governo federale lavorava sulla messa a punto di strumenti
per neutralizzare il sistema radar in uso nella Germania nazista,
responsabile delle ingenti perdite tra le file dell’aviazione alleata. Terman,
poi riconosciuto come «padre» della Silicon Valley, tornò a Stanford dopo il
1945 e intuì che, con la Guerra fredda, il governo avrebbe continuato a
investire ingenti somme nelle tecnologie legate agli armamenti (→ Armi).
Fu lui a concepire l’idea di legare le competenze accademiche all’industria,
incoraggiando gli studenti a trasformarsi in imprenditori e i docenti a
collaborare con i privati. Nel 1951, fondò lo Stanford Industrial Research
Park (Sirp), struttura che divenne un catalizzatore per lo sviluppo
regionale, finanziato per la maggior parte dalle commesse governative: tra
il 1949 e il 1959, la Varian, una delle aziende che lavorava nel Sirp, vide il
fatturato salire da 200mila a 25 milioni di dollari, soprattutto grazie agli
ordinativi legati alla guerra in Corea.
L’innovazione più duratura del Sirp fu però nel campo della gestione
aziendale: all’estrazione accademica dei nuovi imprenditori si deve
l’introduzione di uno stile informale che differiva da quello piuttosto rigido
delle grandi corporation. Le nuove parole d’ordine erano «condivisione di
responsabilità» e «lavoro di gruppo», ma anche coltivare «legami stretti»
con fornitori e persino concorrenti locali – in questo modo, i passi avanti
nella ricerca sarebbero stati più veloci e tutti avrebbero beneficiato dei
risultati.
Un’altra data da tenere a mente è il 1956. In quell’anno, la Lockheed
ottenne dal governo l’esclusiva per lo sviluppo e la realizzazione di missili a
guida radiocomandata: l’azienda, con sede nella California del Sud, decise di
lavorare al progetto in una località isolata, al riparo da occhi indiscreti, e a
questo scopo fu scelta Sunnyvale, una piccola città (→) agricola a nord est
di San Jose. In quattro anni, la Lockheed fece arrivare ventimila dipendenti:
una migrazione che sancì la fine per i vigneti e gli agrumeti per cui la città
era famosa.
Sempre nel 1956, William Shockley, un ex istruttore radar che aveva
contribuito a inventare il transistor (impresa che, lo stesso anno, gli fece
guadagnare il premio Nobel per la fisica), fondò la Shockley Semiconductor:
qui iniziarono gli esperimenti sulle potenzialità del silicone come
semiconduttore, che alcuni dipendenti proseguirono una volta messisi in
proprio (pare che Shockley, invece, non fosse tanto convinto del materiale).
Due di questi furono Robert Noyce e Gordon Moore, fondatori di Intel,
l’azienda che nel 1971, grazie al lavoro di un’équipe capeggiata dal
vicentino Federico Faggin, mise sul mercato il primo microprocessore,
componente fondamentale per l’elaborazione elettronica.
Il modello imprenditoriale basato sul flusso continuo di fondi
governativi si inceppò negli anni sessanta: la contestazione da parte di vari
gruppi sociali (→ Back of the bus; → Seneca Falls; → Movement), le
proteste contro la guerra in Vietnam (→) contagiarono anche i campus
universitari. A Stanford, nell’aprile 1969, quattrocento studenti, critici nei
confronti di una ricerca usata per distruggere vite umane anziché
migliorare l’esistenza collettiva, occuparono il laboratorio di ricerca
dell’ateneo, in cui oltre il 35% dei progetti era coperto da segreto militare.
Gli studenti dissenzienti riuscirono a imporre una linea di maggiore
trasparenza per il futuro, ufficializzata da un voto del Senato accademico
qualche settimana più tardi. A ogni modo, si era alla vigilia di un calo
significativo delle spese militari e la crisi economica dei primi anni settanta
avrebbe fatto il resto, riducendo i fondi disponibili per la ricerca nel settore.
La scelta obbligata era guardare ai privati: circa dieci anni prima, la
Fairchild Semiconductor (una delle aziende degli allievi di Shockley) era
stata finanziata per intero da capitale di rischio. Per ottenere i fondi dalle
società di venture capital concentrate a Sand Hill Road, a San Francisco, gli
studenti/imprenditori dovettero orientare la ricerca verso prodotti che
promettevano di imporsi sul mercato e generare un ritorno economico,
meglio se nel più breve tempo possibile. Nacquero così il computer, i
videogiochi, internet: ma cambiò in maniera radicale anche la cultura
lavorativa. Gli investitori, infatti, per mantenere il flusso di finanziamenti,
richiedevano che le start-up dessero risultati tangibili, in termini di crescita
di volumi d’affari, a scadenze prefissate: per raggiungere gli obiettivi nei
tempi previsti, gli studenti-imprenditori si adattarono a regimi lavorativi
proibitivi, sacrificando ore e vita personale. Da allora, il miraggio per ogni
studente che avvia un’azienda è la quotazione in borsa o l’acquisizione da
parte di una grossa corporation, passaggio che consente di disfarsi delle
quote azionarie in proprio possesso e ricavarne milioni di dollari. Lungo la
valle, tra i caffè e le palestre, gravita una popolazione convinta che, con una
buona idea e una dedizione totale al lavoro, si possa diventare miliardari
prima dei trent’anni – i modelli «vincenti» sono Jerry Young, fondatore del
motore di ricerca Yahoo!, Sabeer Bathia, l’inventore del servizio di posta
elettronica Hotmail, o il duo Larry Page-Sergei Brin, i creatori di Google.
La ricerca del successo ha tuttavia pesanti ricadute sulla vita di
relazione, riassunti in modo sarcastico dal titolo di un libro di Robert
Cringley (I ragazzi della Valle fanno i miliardi ma non riescono a rimediare una
ragazza) e studiata già nel 1985 dalla psicologa Jean Hollands, in un libro
intitolato The Silicon Syndrome. Si tratta di un disturbo che colpisce persone
che concentrano tutto il loro ardore emotivo nel lavoro e negli attrezzi del
mestiere, con l’effetto collaterale di prosciugare le «riserve» di emotività
dell’individuo, troppo apatico per «investire» nel rapporto con il prossimo
o con i propri partner.
Ci sono altri lati oscuri della filiera tecnologica: nel 2001, Alan Snitow e
Deborah Kaufman, realizzarono Secrets of Silicon Valley, un documentario che
mette in luce due aspetti poco noti della Valle, seguendo le storie di una
comunità a basso reddito la cui sopravvivenza è minacciata dall’aumento
stratosferico degli affitti (→ Gentrification) e dei lavoratori temporanei,
spesso immigrati, che formano l’esercito di occupati dell’economia
informale (guardie giurate, facchini, domestici, giardinieri) a cui non sono
riconosciuti diritti e tutele. Sotto certi aspetti, il luogo dove si inventa il
futuro appare quanto mai legato al passato.
BIBLIOGRAFIA
Po Bronson, Il nudista del turno di notte e altre storie della Silicon Valley, Fazi,
Roma 2001.
Paul Freiberger, Michael Swaine, Com’era verde Silicon Valley. Storia e successo
del personal computer, Muzzio, Padova 1988.
S.M.Z.

Skeleton Canyon
All’estremità sudorientale dell’Arizona, al confine con il New Mexico e non
lontano dal confine con il Messico e da cittadine fantasma (→) dai nomi
evocativi (Stein’s Ghost Town, Shakespeare Ghost Town), si stendono le
Peloncillo Mountains, fra boschi di conifere e aride gole scoscese (il nome,
spagnolo, suona più o meno come «pelatino»): luogo di passaggio, intricato
convergere e divergere di sentieri. In una di quelle gole – lo Skeleton
Canyon –, fra il 1879 e il 1881, si verificarono alcuni fatti di sangue, in
qualche modo simbolici di questa regione estrema, di frontiere sovrapposte
e intrecciate. Nel luglio 1879, alcuni banditi noti come «I cowboys» e
specializzati in furti di bestiame e agguati alle diligenze (l’epoca era densa
di tensioni di ogni tipo, legate anche alle conseguenze economiche e sociali
della Guerra civile →) avevano assalito un ranch in terra messicana:
inseguiti dai Rurales, la polizia a cavallo, avevano ripiegato in Arizona e qui,
nello Skeleton Canyon per l’appunto, avevano teso un’imboscata ai loro
inseguitori, massacrandoli quasi tutti – cosa che provocò addirittura un
incidente diplomatico fra i due paesi. Passano due anni e, ancora in luglio e
ancora nello Skeleton Canyon, «I cowboys» si rifanno vivi: questa volta, a
farne le spese è un gruppo d’una ventina di contrabbandieri d’argento
messicani, che viene completamente eliminato. Passerà appena un mese, e
«I cowboys» saranno a loro volta decimati non lontano, nel Guadalupe
Canyon – forse a opera di un reparto di Rurales intenzionati a vendicarsi del
primo massacro, forse a opera dei fratelli Earp (Virgin, Morgan e Wyatt),
coinvolti in quel periodo in una sorta di faida con alcuni dei «Cowboys» (in
particolare con «Old Man» Clanton) che culminerà di lì a poco nel celebre
scontro a fuoco dell’O.K. Corral, a Tombstone (→ Tombstone, Abilene,
Dodge City).
Ma non basta: tutto si tiene, anche nel vecchio West. Altri pochi anni
trascorrono e, il 3 settembre 1886, un ulteriore fatto simbolico ha luogo
nello Skeleton Canyon. Dopo un’incessante guerriglia sui due lati del
confine messico-statunitense (come dire, la frontiera della frontiera), dopo
sconfitte e vittorie, drammatiche catture e improvvise fughe dalle riserve,
Geronimo, capo militare degli apache chiricahua, si arrende al generale
Miles: in una mano stringe un Winchester (→ Colt & Winchester), nell’altra
una Colt, e al fianco porta un coltello Bowie. La sua banda è ormai ridotta a
diciassette guerrieri, contro i cinque-seimila soldati dell’esercito degli Stati
Uniti. In seguito alla resa, gli apache della regione (guerrieri, bambini,
anziani, donne) vengono deportati in Florida. Nel 1894, per allontanarlo
dalla sua gente (sono anni di rinnovate turbolenze fra i Native Americans, fra
il massacro di Wounded Knee e l’uccisione di Toro Seduto → Guerre
indiane), Geronimo è condotto a Fort Sill, in Oklahoma – e qui, diventato
anch’egli una triste attrattiva turistica, morirà nel 1909.
A questo punto, non bisogna dimenticare che quel 1886 fu anche l’anno
dei disordini di Haymarket Square (→), a Chicago, durante le dimostrazioni
per la giornata lavorativa di otto ore. E che una coincidenza simile s’era
verificata già nel luglio 1877, quando il generale Philip Henry Sheridan, già
fra i protagonisti della Guerra civile a capo delle armate nordiste, era stato
richiamato dal fronte della guerra contro i lakota e i cheyenne per
accorrere con i suoi soldati a Chicago, uno dei nodi vitali della «grande
sollevazione» operaia di quell’anno (→ Sciopero!). Come in un buco nero, la
«vecchia America» del West collassava insomma nella «nuova America» del
conflitto fra capitale e lavoro.

BIBLIOGRAFIA
Luca Barbieri, Storia dei pistoleri, Odoya, Bologna 2010.
Jean Pictet, La grande storia degli Indiani d’America, Mondadori, Milano 2000.
M.M.
Skid Row
Nelle cittadine della costa nord del Pacifico, strette fra le alte montagne e i
marosi dell’oceano, il vicolo lungo il quale venivano fatti scivolare fino al
porto, per caricarli su traghetti e piroscafi, i grossi tronchi abbattuti nei
boschi millenari o tagliati nelle segherie era detto corduroy road (= strada
fatta di tronchi) o skid row o road (to skid = far slittare, far scivolare). Era così
a Vancouver in Canada o a Seattle nello stato di Washington, e in decine di
altre località, grandi e piccole. Intorno a queste skid rows ruotava il mondo
dei boscaioli, dei marinai, degli addetti alle segherie, degli scaricatori, dei
facchini, e di tutto ciò che serviva alla loro vita quotidiana (dalla pensione a
buon mercato alla caffetteria e al bar) – ma anche dei senza lavoro, dei
licenziati e disoccupati, dei senza casa, di coloro che erano dropped out,
caduti fuori dal processo produttivo, e si trovavano ricacciati ai margini
della società. Nel corso dell’Ottocento, poi, in occasione delle periodiche
«corse all’oro» (→ Oro!), queste zone si erano di volta in volta ingrossate
per far posto alle centinaia di aspiranti cercatori, e i due fenomeni (quello
«regolare» legato al taglio del legname e quello «eccezionale» legato alle
«febbri») avevano fatto sì che esse diventassero un elemento stabile nella
geografia sociale di quelle città e cittadine. Con il tempo, e in particolare
durante la Grande depressione (→), skid row venne dunque a indicare, in
una città o cittadina, la strada o le strade dei reietti, dei senza fissa dimora,
dei vagabondi (→), degli alcolizzati o della crescente popolazione di
transients e di malati di mente ormai privi di assistenza psichiatrica, come in
tante opere degli anni trenta o in tanti racconti di Charles Bukovsky: a
Seattle, Yesler Way (dove a metà Ottocento sorgeva la segheria del sindaco
multimilionario Henry Yesler); a Los Angeles, Central City East (con i suoi
4300 senza casa: censimento 2011); a San Francisco, il Tenderloin (quasi
30mila senza casa nel 2000); a San Diego, lo Stingaree (dove, ai primi del
Novecento, i wobblies [→] condussero un’intensa agitazione nel tentativo di
organizzare gli emarginati); a Stockton, il West End (dove, nel 1972, poco
prima che il quartiere fosse demolito, John Huston girò Città amara, uno dei
suoi più bei film, basato sull’omonimo romanzo di Leonard Gardner); a New
York, la Bowery (→) (forse la Skid Row più nota); a Minneapolis, The
Gateway, e molti altri quartieri, in giro per gli Stati Uniti. Ieri e oggi.

BIBLIOGRAFIA
Michael Harrington, L’altra America. La povertà negli Stati Uniti, il Saggiatore,
Milano 1963.
Murray Morgan, Skid Road, Ballantine Books, New York 1960.
M.M.

Southern belle e (Steel) magnolia


Dall’inno all’aristocratica vita nelle piantagioni del virginiano George W.
Bagby alle implacabili descrizioni di Vita sul Mississippi (1883) di Mark Twain;
da Il Grande Gatsby (1925) a L’ultima bella (1929) di Francis S. Fitzgerald; dal
bestseller di Margaret Mitchell Via col vento (1936) ai romanzi di William
Faulkner; dai successi teatrali (e poi cinematografici) di Un tram chiamato
desiderio (1947) e La gatta sul tetto che scotta (1955) di Tennessee Williams a
quello più recente di Fiori d’acciaio (1987) di Robert Harling, giù fino alle
tonalità morbide del country (→ Grand Ole Opry) di Del Reeves («The Belles
of Southern Belle», 1965) e a quelle corrosive dell’indie rock di Elliott Smith
(«Southern Belle», 1995), la figura femminile della Southern belle (e delle sue
varianti) è dentro la cultura americana di ieri e di oggi, archetipo fertile e
ricorrente di bellezza del Sud a un tempo delicata a conturbante.
Quella della Southern lady-Southern belle è una storia che comincia nei
primi decenni dell’Ottocento, quando, ispirate dai romances di Walter Scott,
le élite terriere e schiaviste della compagine meridionale del paese
cominciano ad autorappresentarsi come un’aristocrazia modellata sul
sistema feudale di signori, cavalieri, dame e servi. Indispensabile
all’idealizzazione di una società dedita a valori medievali quali onore e
purezza è l’immagine della Southern lady, campione femminile di virtù,
grazia e buone maniere. La Guerra civile (→), che non scalfisce affatto la
mitizzazione delle grandi tenute sudiste, alimentandone altresì la
celebrazione nostalgica, segna tuttavia l’entrata in scena di un tipo
femminile meno statico e marmoreo di quello, degno di ammirazione
umana ma di poco interesse narrativo, della Southern lady. È così che nasce
la versione giovane e nubile che ne contiene, in nuce, già tutte le
caratteristiche: bella, o potenzialmente tale, leale nei confronti della
famiglia, sottomessa al padre, bisognosa di protezione maschile ma non
priva di coraggio in caso di necessità. Quasi a prevedibile corollario della sua
tenera età, la Southern belle si distingue però dalla sua controparte più
matura per essere snob e ammiccante, e un’irresistibile impulsiva. Nei
personaggi delle cugine Scarlett (Rossella in italiano) O’Hara e Melanie
Hamilton, l’epico bestseller Via col vento ambientato negli anni della Guerra
civile e della Ricostruzione (→ Carpetbaggers), ritrae non solo due
immagini contrastanti della Southern belle (Scarlett, audace e determinata;
Melanie, dolce e passiva), ma anche la sua maturazione in un tipo muliebre
che, tenace e temprato, sappia far fronte alle avversità belliche prendendo
in mano le redini della piantagione. Quando, nella scena finale
dell’omonima versione cinematografica di Victor Fleming (1939), Scarlett
(Vivien Leigh), abbandonata da Rhett Butler (Clark Gable), pronuncia la
battuta ormai leggendaria «Domani è un altro giorno», con l’ultimo
fotogramma a ritrarla davanti a Tara (la piantagione dei suoi avi), è chiaro
che, da capricciosa principessa di una ricca tenuta della Georgia, l’eroina
della Mitchell si è trasformata in una creatura di stampo nuovo, più coriacea
e resistente, capace di sopportare i tempi difficili a dispetto dell’assenza di
figure maschili di riferimento. Ecco sbocciata la Steel magnolia, il fiore più
rappresentativo del Sud (non per niente il Mississippi è anche detto «The
Magnolia State») virato in acciaio: apparenza fragrante e raffinata sostenuta
da un cuore forte e vigoroso. E appunto Fiori d’acciaio (Steel Magnolias) si
chiama il successo teatrale da cui è tratto l’omonimo film del 1989 di
Herbert Ross: commedia drammatica con un cast d’eccezione (Sally Field,
Dolly Parton, Shirley MacLaine, Daryl Hannah, Olympia Dukakis e Julia
Roberts), la pellicola di Ross mette in scena la crescente solidarietà di un
cerchio di amiche della Louisiana contemporanea. Intorno al salone di
bellezza di Truvy Jones (Dolly Parton), tra una cotonatura e una ceretta,
intrecciato alle storie ordinarie di queste belles di fine Novecento, cresce il
loro straordinario attaccamento affettivo.
Lasciando Sally Field & Co. per tornare invece alle rappresentazioni
letterarie più tradizionali della Southern belle, bisogna ricordare come questa
sia di solito descritta in età da sposa (15-16 anni: oggi, Southern belle è anche
sinonimo di «debuttante»), occupata in poche mansioni che non siano
obbedire, cavalcare, cucire, e magari imparare a leggere e a scrivere. Se ogni
Southern belle che si rispetti aspira a diventare una Southern lady, non appena
maritata, nella sua fase adulta, salita su un piedistallo di rispettabilità, essa
muterà in una matrona che supervisiona ogni attività della piantagione,
vestendo i panni di infermiera, balia e madre. Perché poi, all’interno della
cultura e della narrativa americane dei primi decenni del Novecento, la
Southern belle subisca una metamorfosi che la porta da emblema di virtù
della società del Sud a incarnazione di tutti i suoi vizi, si spiega forse con
l’eccesso di idealismo di cui essa è espressione. Schiacciate dalle aspettative
di una cultura patriarcale che le vuole caste e spirituali, votate alla
repressione delle proprie pulsioni sessuali e alla negazione della fisicità, le
donne del Sud di inizio Novecento non tardano a mostrare la corda di
questa finzione, offrendosi, alla fantasia dei romanzieri più sensibili, in
preda a materialismo, isteria, ipocondria e nevrosi. I primi segnali di queste
tensioni sono già presenti nella narrativa di Kate Chopin (1851-1904); ma è a
cominciare dagli anni venti del Novecento che figure di Southern belles
fragilissime e venate di follia compaiono con regolarità in romanzi, racconti
e drammi, a partire dal complesso personaggio di Daisy Buchanan, bellezza
dalla «voce piena di soldi» trasfigurata dall’amore di Gatsby, nel romanzo di
Fitzgerald (e forse modellata sulla moglie dello scrittore, Zelda, finita in una
clinica psichiatrica dopo averlo trascinato sul lastrico nell’euforia
survoltata dell’età del jazz → Jazz Age). Altrimenti centrali all’immaginario
letterario novecentesco sono le figure femminili che popolano, esposte a
ogni tipo di corruzione fisica e morale, la mitica contea di Yoknapatawpha
dei romanzi di William Faulkner: mentre in L’urlo e il furore (1929), Caddie
Compson, sulla quale si allunga l’ombra di uno stupro, diventa l’amante di
un fanatico generale, in Santuario (1931) Temple Drake, figlia di un giudice, è
ritratta come una ninfomane che, violentata con una pannocchia, finisce
prostituta. Se le incrinature della condizione femminile nel Sud
contemporaneo sono anche al centro dei romanzi di Ellen Glasgow (The
Sheltered Life, 1932) e dei racconti di Katherine Anne Porter (tra cui La beffa
di nonna Weatherall, 1930; e Antico stato mortale, 1939), è negli anni quaranta
che, grazie a un drammaturgo del Mississippi, Tennessee Williams, il mito
della Southern belle oramai decaduta e sconfitta guadagna la ribalta dei
palcoscenici di Broadway, grazie al personaggio di Blanche DuBois. Si tratta
di Un tram che si chiama desiderio, l’anno è il 1947, la regia della pièce è di Elia
Kazan, tra gli interpreti Marlon Brandon e Jessica Tandy; da lì a quattro
anni, lo stesso Kazan dirigerà la versione cinematografica in cui la parte di
Blanche andrà a Vivien Leigh. La parabola di Blanche DuBois, cresciuta e
educata secondo i criteri di decoro e buone maniere in una ricca famiglia
del Mississippi, parla della difficoltà di accettare la perdita di grandeur di un
passato, quello delle piantagioni dell’«Old South», che non esiste più se non
quale fantasma o relitto. Quando si reca a New Orleans (→ Congo Square)
dalla sorella Stella, sposata con il muscoloso Stanley Kowalski, Blanche non
è in visita di piacere, come lascia credere, ma in fuga da una situazione
domestica disastrosa: allontanata dalla scuola in cui insegna in seguito a una
relazione con uno studente diciassettenne e umiliata dall’affair omosessuale
del marito (che si uccide per la vergogna). Consumata da menzogne,
delusioni e alcolismo, Blanche è violentata dal cognato tanto inviso e,
vittima di un esaurimento nervoso, viene chiusa dallo stesso Stanley in
manicomio. Nell’ultima scena dell’opera, accompagnata da un dottore,
Blanche dirà: «Chiunque tu sia, sono sempre dipesa dalla gentilezza degli
estranei».
Di tutt’altra lega rispetto all’acciaio, i nervi di Blanche, così come quelli
di Zelda e di Daisy, Camden e Temple, Truvy Jones e molte altre, sono
esposti all’alto voltaggio di una cultura, quella del Sud, ossessionata dalla
purezza di un modello femminile contraddittorio e fuori dal tempo, il cui
fascino sembra però lontano dall’essersi esaurito.

BIBLIOGRAFIA
Joseph M. Flora, Lucinda H. MacKethan, Todd W. Taylor, The Companion to
Southern Literature: Themes, Genres, Places, People, Movements, and Motifs,
Louisiana State University Press, Baton Rouge 2002.
Kathryne Lee Seidel, The Southern Belle in the American Novel, University
Presses of Florida, Gainesville 1985.
C. SCAR.

Splendide guerricciole
«È stata una splendida guerricciola [a splendid little war], iniziata con le più
elevate motivazioni, condotta con grande intelligenza e magnifico spirito,
favorita dalla fortuna che ama gli audaci. Ora va conclusa, spero, grazie a
quella natura ferma e positiva che dopotutto è un tratto distintivo del
nostro carattere americano.» A esprimersi in questo modo, con uno stile
che mescola retorica e (falsa) modestia, in una lettera indirizzata nel 1897
all’amico Theodore Roosevelt, è John Hay, all’epoca ambasciatore
americano a Londra e di lì a poco Segretario di Stato del presidente William
McKinley – e, in tale veste, negoziatore nell’agosto 1898 del Trattato di
Parigi, che a quella «splendida guerricciola» metteva fine. Di che si
trattava? Per spiegarlo, facciamo un passo indietro di qualche anno.
Nel 1890, l’Ufficio del censimento statunitense dichiarava «chiusa la
frontiera», nel senso che non esistevano più «territori liberi» a ovest. In
quegli stessi anni, lo sviluppo economico del paese aveva fatto passi da
gigante verso la concentrazione in enormi monopoli dei principali settori
industriali, bancari, finanziari: gli Stati Uniti s’erano cioè avviati lungo la
strada di quello che, nel 1902, l’economista inglese John A. Hobson avrebbe
definito, in un suo libro omonimo, «imperialismo» (libro che, a sua volta,
nel 1916, avrebbe fornito a Lenin la base e i dati necessari per il suo studio
sull’«imperialismo, fase suprema del capitalismo»). In quello stesso anno
1890, usciva anche, sulle pagine di un’importante rivista, l’Atlantic Monthly,
un articolo dal titolo «The Influence of Sea Power Upon History, 1660-
1783», in cui lo storico, capitano e stratega navale statunitense Alfred T.
Mahan dichiarava: «Lo vogliano o no, gli americani devono cominciare a
guardare oltre i confini del proprio paese». Fino a quel momento, sosteneva
in pratica Mahan, erano stati impegnati nella difficile opera di sistemazione
nazionale: adesso dovevano cominciare a guardarsi intorno, consolidare e
ampliare la loro fetta di mercato mondiale; e, per far ciò, dovevano crearsi
una vera flotta mercantile e, di conseguenza, una flotta militare in grado di
solcare mari più vasti di quelli che bagnavano le coste orientali, meridionali
e occidentali del paese: una flotta dotata delle necessarie basi d’appoggio
per tutelarla e assicurarne l’operatività. La classica parola d’ordine
«l’America agli americani» assumeva connotati nuovi, al tempo stesso
continentali e mondiali.
Passarono alcuni anni e, dopo una serie di scaramucce iniziali (la «crisi
venezuelana» e un primo intervento nelle Hawaii), si giunse al cruciale
biennio 1897-1898, durante il quale gli Stati Uniti occuparono in rapida
sequenza Cuba, Portorico, Guam, le Filippine, le Hawaii e le Samoa. Per lo
più, queste operazioni seguirono un identico schema: le popolazioni locali si
ribellavano al dominio coloniale spagnolo (o a monarchie locali
compromesse con esso), gli Stati Uniti intervenivano al loro fianco
promettendo l’indipendenza e, subito dopo la vittoria congiunta,
procedevano alla conquista del «territorio liberato», sconfiggendo sul
campo gli alleati di ieri e imponendo una sorta di «protettorato»,
variamente definito a seconda delle situazioni.
Nel caso di Cuba, che certo pativa sotto il tallone di ferro spagnolo (e del
suo comandante in capo Valeriano «il macellaio» Weyler, inventore dei
campi di concentramento), il casus belli fu una misteriosa esplosione, il 15
febbraio 1898, a bordo della nave da guerra statunitense USS Maine alla
fonda nel porto dell’Avana, che causò 266 morti fra marinai e ufficiali.
L’esercito Usa, che aveva nel futuro presidente Theodore Roosevelt e nel
suo reparto di «Rough Riders» (= rudi cavalieri) la punta di diamante,
intervenne subito con l’appoggio di un grande battage giornalistico. Si
trattò della prima vera guerra mediatica: scrittori diversi come Stephen
Crane e Richard Harding Davis furono presenti sul campo e lasciarono
impressionanti testimonianze; e le due catene giornalistiche rivali, quella di
Joseph Pulitzer (New York World) e quella di William Randolph Hearst (New
York Journal), furono attivissime nel propagandare e sostenere la guerra, se
non addirittura nel patrocinarla – famosa rimase la risposta di Hearst al
disegnatore e illustratore Frederic Remington che, inviato sul posto prima
dell’intervento statunitense, riferiva che le cose erano tranquille, non
c’erano segni di conflitto imminente e non valeva la pena di restare: «Tu
bada a fornirci le illustrazioni che noi ti forniamo la guerra». Il tutto
culminò nella sanguinosa «battaglia di San Juan Hill» (1º luglio 1898), in cui
Roosevelt e i suoi Rough Riders presero d’assalto una collinetta non
distante da Santiago di Cuba, sgominando l’esercito spagnolo con un
impressionante numero di perdite da entrambe le parti – una battaglia che
diventò in quegli anni obbligato punto di riferimento patriottico e che
spianò la strada alla presidenza a Roosevelt, tre anni più tardi.
Da Cuba, l’esercito statunitense passò a conquistare l’altra colonia
spagnola vicina, Portorico, suscitando grande entusiasmo iniziale e cocente
disillusione, dubbi e forte antagonismo nei suoi sviluppi successivi, vista
anche la resistenza incessante del movimento nazionalista isolano (→
Nuyorican). Fu poi la volta delle Filippine. Qui, la guerra fra Stati Uniti e
Spagna si risolse con relativa facilità, grazie all’apporto della guerriglia
locale guidata da Emilio Aguinaldo, da tempo attiva contro l’oppressore
spagnolo; a quel punto, Stati Uniti e Spagna si accordarono sottobanco e,
con il Trattato di Parigi (1898), sistemarono le faccende: Cuba veniva
proclamata indipendente, ma sotto stretto controllo statunitense; Portorico
e Guam passavano agli Stati Uniti; e le Filippine (già «liberate»!) venivano
vendute dalla Spagna agli Stati Uniti per 20 milioni di dollari. I ribelli
filippini ripresero allora le armi e la guerra si protrasse, con fasi alterne,
fino al 1913, con circa un milione di morti fra la popolazione civile, circa
trentamila morti tra le forze ribelli e il ricorso, da parte dell’esercito
occupante statunitense, a campi di concentramento e a torture come la
famigerata water cure (oggi nota con il nome di waterboarding).
La strada era ormai tracciata e quando venne formulata la cosiddetta
«Politica della porta aperta» (la rivendicazione ufficiale da parte degli Stati
Uniti di poter partecipare insieme alle altre potenze occidentali alla
penetrazione in Cina) fu evidente che il paese stava entrando, a gran
velocità, in una fase nuova della sua storia. Le «splendide guerricciole»
l’avevano inaugurata.
Ciò non vuol dire che non ci fossero voci dissonanti, fuori del coro
patriottico. Proprio nel 1898, per esempio, era nata a Boston l’Anti-
Imperialist League, un’associazione eterogenea di cui facevano parte
uomini politici, industriali, scrittori, artisti, filosofi, riformatori, giornalisti,
spesso con posizioni e origini fra le più disparate e a volte contraddittorie.
Mark Twain, che ne fu vicepresidente fino alla morte nel 1910, ebbe a
dichiarare, nell’ottobre 1900: «Sono contro l’imperialismo. Mi oppongo a
che l’aquila pianti i suoi artigli in qualunque altro paese».
Molta acqua è passata da allora, da quelle «splendide guerricciole» – che,
nel frattempo, sono diventate piuttosto «sporche guerre».

BIBLIOGRAFIA
Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del
Bene, Feltrinelli, Milano 2004.
Mark Twain, Contro l’imperialismo, Mattioli 1885, Fidenza 2009.
Howard Zinn, Storia del popolo americano dal 1492 a oggi, il Saggiatore, Milano
2005.
M.M.

Spoon River (o dei cimiteri)


Dal piccolo cimitero di Tarrytown, a nord di New York (che ispirò
Washigton Irving per il racconto La leggenda di Sleepy Hollow, 1820) alle vaste
distese di lapidi del Queens a New York, fino alle croci di legno che
punteggiano i caduti nelle lande desolate dell’Ovest e alle tombe rialzate di
New Orleans: abituata più a parlare di inizi e rinascite che non di morti e di
fine, la cultura statunitense emerge in tutta la sua varietà e
contraddittorietà anche attraverso la storia dei suoi cimiteri.
All’origine della colonizzazione, si doveva fare di necessità virtù: dati gli
alti tassi di mortalità nelle colonie, i corpi venivano calati nella nuda terra
senza bara, avvolti in sudari di lino o di lana inzuppati, quando possibile,
nell’allume o nella pece. Le prime lapidi con incisioni decorative di cui
rimane traccia si fanno risalire agli anni settanta del Seicento – immagini
macabre, teschi e ossa per lo più, sostituite via via da visi e ali di angeli o
decorazioni floreali. In linea con le tradizioni d’oltreoceano, i cimiteri
puritani erano disposti intorno alle chiese, prestandosi così allo svago dei
vivi: luoghi per passeggiare, fare picnic, leggere, riflettere sulla caducità
della vita e sull’importanza della fede. Nelle iscrizioni tombali, gli elogi dei
morti si mescolavano con promesse paradisiache e minacce infernali. I corpi
nelle bare, fatte su misura per non sprecare legno (per quelle
preconfezionate si dovrà aspettare la Guerra del 1812, quando l’incremento
della richiesta non rese più possibile lavori personalizzati), erano disposti
con i piedi verso est, cosicché, nel giorno del Giudizio, i defunti sarebbero
risorti con il viso rivolto al sole. I personaggi principali della comunità
(nelle colonie olandesi era il maestro di scuola; in quelle inglesi, il pastore)
trovavano invece posto sotto il pavimento della chiesa, memento mori ed
esempi di virtù per i frequentatori. Cimiteri fra i più antichi, come quello di
Broome County, New York, rispecchiano gli ideali della comunità che li
aveva creati: lapidi di marmo bianco disposte in file come segno dell’unità e
dell’armonia.
Chi invece moriva lontano dalle cittadine si trovava per lo più a riposare
in eterno sul panoramico cocuzzolo di una collina o in altri luoghi che
avevano come unico denominatore comune il fatto di essere difficili da
coltivare. Molti di questi cimiteri di campagna (che un decreto voleva non
più estesi di tre acri) erano di proprietà delle famiglie che abitavano quelle
aree e si trasformavano quindi in rurali mausolei domestici. Più difficile era
invece trovare spazio per i poveri, i suicidi, gli stranieri, i criminali, i figli
illegittimi, che, espulsi dalle famiglie e dalle comunità, venivano sepolti
senza cerimonia alcuna in un «Potter’s field», il «campo del vasaio»,
accanto al cimitero vero e proprio: fra i più antichi, si ricorda quello di New
Amsterdam/New York, già molto frequentato negli anni venti del Seicento,
e quello di Hart Island, per i diseredati di due secoli dopo. L’alta mortalità
dell’epoca portò a soluzioni abbastanza fantasiose in materia di inumazioni:
all’aumentare delle richieste, molti dei cimiteri pensarono bene di
espandersi in larghezza, ma ve ne furono altri (come quello della chiesa
metodista di Lancaster, in Pennsylvania) che interrarono le tombe esistenti
e rivendettero i lotti sovrastanti – una struttura condominiale funerea ante
litteram.
I cambiamenti più radicali in materia di tumulazioni avvennero dopo la
Guerra d’indipendenza, quando avere come vicini di casa dei defunti non
era più tanto desiderabile. Così, i cimiteri newyorkesi a Washington Square
o a Madison Square, o quelli di Lincoln Park a Chicago, cessarono di esistere,
e i nuovi vennero costruiti fuori della cerchia urbana (a New York, in
particolare, a sancire la nuova disposizione fu una legge del marzo 1823, in
risposta all’incapacità delle autorità cittadine di fermare le epidemie di
febbre gialla che in quel periodo stavano decimando la popolazione locale).
Quasi ovunque, all’Est, i cimiteri rurali rimpiazzarono dunque quelli
familiari o disposti intorno alla chiesa, proponendosi come luogo di quiete e
di pace che rinnovasse la comunanza fra morte e natura, in cui i corpi,
sempre interrati, potessero ricongiungersi con un abbraccio al suolo da cui
provenivano: «Sciogliendosi nel corpo della madre terra», come scriveva il
dottor Jacob Bigelow, uno dei più accesi sostenitori dell’opera.
In parallelo con lo sviluppo della landscape architecture e del movimento a
sostegno della creazione dei parchi pubblici, i cimiteri fuori città si
plasmarono sui gusti del pittoresco, con tombe e lapidi spesso confuse fra la
boscaglia, accanto a sentieri che zigzagavano fra prati e colline, suggestivi,
ma anche poco pratici e di difficile manutenzione. Il primo e più popolare
fra i «cimiteri-giardino» fu Mount Auburn, 4miglia a ovest da Chicago,
inaugurato il 24 settembre 1831 per soddisfare il crescente bisogno di spazio
per i deceduti di un ex villaggio rapidamente trasformatosi in città. Il
successo fu clamoroso, a giudicare dai 30mila e più visitatori che lo
affollavano ogni anno. Come i parchi (e spesso con la stessa funzione
sociale), anche il cimitero-giardino divenne un elemento da quel momento
imprescindibile per ogni città americana. Auburn e Mount Hope (a
Rochester, New York) assursero a modello di spazio sacro, incontro fra la
botanica e l’architettura, in una disposizione logistica delle tombe che
aiutasse a preservare la memoria dei singoli, degli eventi storici e delle
comunità; non a caso, molti cimiteri furono divisi in settori «a tema»: il già
citato Tarrytown ha una collina, Battle Hill, dedicata ai soldati morti nella
Guerra d’indipendenza; quello di Forest Hill, una sezione dedicata ai Native
Americans (il che costituì anche una buona scusa per appropriarsi dei loro
artefatti).
Se questi cimiteri-giardino erano visti dai loro sostenitori come
contraltare alla modernizzazione e all’urbanizzazione e, non da ultimo, al
forte individualismo e falso egalitarismo dell’era jacksoniana (un luogo ove
«riflettere sul legame con il passato, essenziale per la dignità intellettuale»,
per usare le parole del saggista Henry Tuckerman), è anche vero che, oltre a
esprimere il desiderio sociale di stabilità, il camposanto era il pretesto per
ristabilire architettonicamente le giuste distinzioni di casta, con i migliori e
più costosi lotti delle famiglie benestanti zeppi di monumenti e sculture,
mentre ai più poveri non restava che una piccola lapide. Perché è in questi
anni, in cui i cimiteri passarono dalle mani delle organizzazioni religiose o
delle famiglie a quelli dei privati, che essi divennero a tutti gli effetti parte
integrante del mercato immobiliare, via via gonfiato dal desiderio dei vivi
(più che dei morti) di mantenere uno status persino dopo il trapasso, con le
famiglie che gestivano il loro lotto a piacimento – quasi fosse una seconda
(eterna) casa.
Di certo, le famiglie si lasciarono spesso prendere la mano, fra obelischi,
faraonici mausolei, angeli e immagini divine dalle dimensioni titaniche, se,
a metà del secolo circa, si levò da più parti un’accesa protesta contro
l’esibizionismo funerario. A mettersi al lavoro in cerca di altre soluzioni fu
la nuova generazione di architetti d’esterni, tra cui figurava anche
Frederick Law Olmsted, il creatore di Central Park (→), che collaborò al
progetto del Mountain View Cemetery di Oakland – senza troppa
convinzione, visto che a parer suo le tombe e i monumenti disturbavano la
continuità del paesaggio. Nonostante l’apporto marginale di Olmsted, a
partire dal 1865 circa, i cimiteri cambiarono di nuovo volto, trasformandosi
in lawn park cemeteries, più razionalisti, accessibili, con planimetrie chiare,
sezioni simmetriche, monumenti ai caduti (in troppi rimasti anonimi
durante la Guerra civile [→] e perciò celebrati collettivamente) e
raggiungibili coi mezzi pubblici. Mentre i gestori dei cimiteri rurali
invitavano i familiari dei defunti a decorare i lotti, nei più razionali lawn
parks si dissuadeva ogni iniziativa personale e si incoraggiavano le
donazioni alla struttura stessa, che disponeva di addetti alla manutenzione.
Da questo momento in avanti, sarebbe stato il sovraintendente, e non la
singola famiglia, a controllare il terreno di sepoltura; il suo compito,
paradossalmente, era quello di rimuovere ogni traccia troppo funerea –
tutto ciò che suggerisse dolore, morte, lutto e una concezione individualista
della morte. Quindi, al bando i recinti di metallo o le pietre a limitazione
delle tombe; livellate le montagnole che indicavano il luogo di sepoltura;
eliminati o ridotti gli epitaffi e (per dimensioni e numero) statue e lapidi. Un
nome e due date sarebbero stati più che sufficienti, era il motto dell’epoca.
Una ventata di democrazia, che lasciava ampi spiragli di marketing, con
luoghi di eterna quiete pubblicizzati sui giornali (immagini di pace rurale e
natura rigogliosa intorno), divisi per zone a seconda della posizione – con
prezzi elevati per i lotti più appetibili sulla cima della collina, accanto a
laghi e corsi d’acqua, o in angoli appartati. E, non da ultimo, con procedure
di gestione del trapasso (dagli ospedali alle agenzie di pompe funebri)
sempre più regolate e costose. La politica di controllo dei lawn parks ebbe
due corollari: l’uniformità delle tombe e (per ridurre il numero di elementi
architettonici) il boom dei mausolei di famiglia – il cui numero subì
un’ulteriore impennata dopo la sottrazione del cadavere di A.T. Stewart nel
1878. Il risultato furono cimiteri «seriali», con lapidi simili intervallate da
enormi blocchi di marmo, addolciti talvolta da qualche colonna dorica – un
insieme in grado di vanificare gli sforzi anche del più provetto landscape
designer.
L’ingresso nel XX secolo vide mutare ancora una volta il rapporto fra gli
americani e la morte. Dopo la fine della Prima guerra mondiale, le scoperte
scientifiche e il boom economico diminuirono notevolmente il numero di
decessi (la maggior parte dei quali avveniva ora in ospedale, e non più a
casa); la morte divenne così sempre meno parte dell’esperienza, vissuta con
più disagio, da esorcizzare con il linguaggio e temperare con l’architettura.
È significativo come da inizi Novecento in poi cimiteri assumessero il nome
meno macabro di memorial parks; l’agenzia di pompe funebri e i suoi funeral
parlors (che evitavano il passaggio della salma dal soggiorno di casa)
divennero nel linguaggio quotidiano le living rooms; i fiori rimpiazzarono le
crinoline e i nastri a lutto; i «becchini» divennero «direttori delle pompe
funebri»; le bare, prima coffins, si trasformarono in caskets («scrigni»); e
persino il morto diventò altro: «deceduto». Sul versante spaziale e
architettonico, i clienti chiedevano che il luogo di riposo perpetuo fosse più
familiare e accogliente rispetto ai razionalisti lawns, più accessibile di quelli
del secolo precedente ma anche meno anonimo e freddo.
Sulla scia del movimento «City Beautiful», che promuoveva arte e
architettura classicheggianti (→ White City; → Esposizioni universali) ad
affermarsi nell’architettura cimiteriale fu l’utilizzo sempre più frequente di
busti, statue patriottiche, Cristi sorridenti. L’obiettivo era celebrare con
sobrietà l’immortalità dello spirito attraverso richiami alla religione e alla
nazione, affinché evocassero la comunità dei morti e non la loro
individualità. Un ambiente più accogliente dei lawn parks, certo, ma con
regole precise, dove contenere il dolore come la gioia: da qui il divieto di
picnic e di biciclette, con una natura resa mero contorno delle creazioni
umane – queste ultime sì da ammirare quasi fossero attrazioni turistiche. E
alcune di esse davvero lo furono: all’interno del Forest-Lawn Memorial-
Park di Glendale, California, ecco un grande mausoleo, una sala della
crocifissione, un museo con copie di statue di Michelangelo e dell’Ultima
cena di Leonardo. Un tour di due ore, ideale per chi, come gli americani di
metà anni cinquanta, si trovava in bilico sul crinale fra la paura della morte
e la venerazione dei defunti. E a questo disagio il mondo degli affari rispose
con campagne pubblicitarie ancor più aggressive, con venditori di lotti
sull’uscio di casa; oppure attraverso la pubblicità sulla carta stampata
raffigurante quadretti di serenità domestica: la famiglia al completo
raccolta intorno al desco a scegliere in anticipo la miglior sistemazione post
mortem. Un’aggressività che si guadagnò il biasimo e le proteste di molti
cittadini e movimenti sociali dalla Seconda guerra mondiale in poi, che
accusavano le agenzie funebri di lucrare (e moltissimo) sul dolore altrui. Un
mercato che, alimentato anche dalla megalomania di alcuni, pare non aver
subito negli ultimi decenni battute d’arresto, a giudicare dalla rinascita dei
mausolei dopo gli anni ottanta e il moltiplicarsi di statue e monumenti
funerari, con un giro d’affari di centinaia di milioni di dollari l’anno (messo
alla berlina, con cinico umorismo, dallo scrittore inglese Evelyn Waugh nel
romanzo – poi film diretto da Tony Richardson – Il caro estinto, del 1948).
Per cercare un po’ di quiete e meno business fra le tombe dobbiamo
forse guardare altrove. Per esempio, ai cimiteri delle minoranze disseminati
ovunque nella nazione: quelli degli Shakers (→ Quakers, Shakers,
Mormons), con le tombe separate da una distanza fissa, spesso con un unico
monumento comune; o i riti funerari degli afroamericani, che fino a meno
di un secolo fa negli Stati del Sud si dividevano in rapide sepolture diurne
sorvegliate dal proprietario della piantagione (che non voleva perdite di
tempo) e cerimonie notturne, più elaborate, che si concludevano con una
manciata di terra sopra la bara gettata da tutti i convenuti. Ci sono poi i
cimiteri degli italo-americani, luogo di comunione con i defunti che i
parenti ricordavano con regolari visite domenicali, fiori, biglietti-ricordo,
fotografie, ritratti della madonna e di santi vari (almeno fino agli anni
quaranta, quando l’assimilazione investì anche le pietre e i riti tombali). O
degli ucraini, con le lapidi adorne di simboli di una cultura ormai lontana (il
tridente che commemora i leader della Repubblica nazionale ucraina),
uccelli e alberi della vita, candelabri e piante. O ancora quelli degli ebrei
russi (e poveri) del Lower East Side, con le tombe vicine l’una all’altra per
ridurre i costi, spesso ad altezze diverse (fino a sette strati) e una tabella con
precise misure per definire quanta distanza garantisca la sacralità. E poi i
cimiteri con le croci in cemento della California del Sud e del New Mexico
dei chicanos (→) e quelli degli amish. Oppure ancora dobbiamo ascoltare
quella letteratura che alla morte e ai cimiteri ha dato un volto
indimenticabile: come non ricordare le voci dalla collina che Edgar Lee
Masters raccoglie nella sua Antologia di Spoon River (1915), con i destini
segnati più dal fato che non dalla volontà? O l’obituary collettivo che Pedro
Pietri (→ Nuyorican) canta per i migranti portoricani, che è fine e insieme
rinascita di un popolo? Oppure guardare ai cimiteri e ai drammi che li
circondano con lo humor nero resuscitato di recente da serie tv (→) come
Six Feet Under (2001-2005), in cui la morte è il punto di partenza per
riflessioni sulla vita? Certo, ve ne sarebbero tanti altri, di cimiteri, che
arrivano direttamente dalle fantasie horror di menti che della morte
avevano visioni meno pacifiche e rassicuranti – dalle cripte domestiche di
Edgar Allan Poe ai semataries di Stephen King. Ma questa passeggiata dentro
ai cimiteri si ferma qui, prima di inquietanti visioni dall’oltretomba.

BIBLIOGRAFIA
Margaret M. Coffin, Death in Early America. A History and the Folklore of Customs
and Superstitions of Early Medicine, Funerals, Burials, and Mourning, Thomas
Nelson Publishers, Nashville 1976.
Richard E. Meyer, Ethnicity and the American Cemetery, Bowling Green State
University Press, Bowling Green 1993.
David Charles Sloane, The Last Great Necessity. Cemeteries in American History,
Johns Hopkins University Press, Baltimore 1991.
C. SCHIA.

Stagecoach
Che cos’hanno in comune la prostituta Dallas, il medico alcolizzato Boone,
la dolce sposina Lucy Mallory, il mercante di whiskey Peacock, il giocatore
Hatfield, il disonesto banchiere Gatewood, lo sceriffo Wilcox e il pistolero
Ringo Kid, mentre attraversano a gran velocità i paesaggi fascinosi e
spettrali della Monument Valley, minacciati dall’agguato dei guerrieri
apache di Geronimo, in un celeberrimo film di John Ford, del 1939? Segreti,
passioni, aneliti, vite perdute, tanti passati, qualche futuro… E una
diligenza (= stagecoach, che è poi il titolo originale del film Ombre rosse),
quello strano trabiccolo destinato a lasciare tracce indelebili nel folklore del
West: due ruote piccole davanti e due grandi dietro, una precaria cassetta a
due posti sospesa in alto sul davanti, con un guidatore e un uomo armato al
suo fianco, un «corpo» centrale altrettanto precario a forma di piccola
goletta con quattro-sei posti a sedere, una rastrelliera sul tetto e dietro un
altro portabagagli, sotto un sistema di cinghie di cuoio per assorbire i
contraccolpi, e un tiro a due, più spesso a quattro e in certi casi anche a sei,
di cavalli robusti (o muli) che potevano toccare una velocità compresa fra le
quattro e le sette miglia all’ora e coprire, con opportuni cambi alle stazioni
di posta (la distanza fra ciascuna era appunto detta stage), fra le 70 e le 100
miglia – con tutte le variazioni del caso.
La prima diligenza americana di cui si ha notizia è la «Macchina volante»
del 1766 (New York-Philadelphia), ma ben presto il servizio si estese
all’intero continente nordamericano che s’apriva alla colonizzazione. Il
viaggio in diligenza diventò così uno dei «momenti» della vita all’Ovest –
tanto necessario quanto avventuroso e pericoloso oltre che, nella
declinazione che ne diede prima la letteratura western e poi il cinema,
mitico. Gli agguati venivano non solo dai Native Americans (temibile al
riguardo il capo apache Cochise), ma, soprattutto quando le diligenze (come
quelle della Wells Fargo →) cominciarono a trasportare denaro o preziosi,
dai banditi di strada (→ Wanted!-I): il primo assalto alla diligenza in
California si ebbe nel 1852, nei pressi di Navada City, mentre la prima banda
specializzata fu quella di Tom Bell, seguita da quelle di Dick «Serpente a
Sonagli» e di Charles «Black Bart» Bolles. Ma più di ogni altro fu Jesse James
a legare il proprio nome all’assalto alla diligenza.
La Guerra civile (→), la progressiva industrializzazione e
tecnologizzazione del paese, l’introduzione del battello a vapore e in
seguito delle ferrovie portarono duri colpi a quest’icona del West, che però
rimase in servizio per molto tempo ancora, sia pure in maniera circoscritta
– almeno fino agli anni venti del Novecento, quando il colpo finale le fu
inferto dall’automobile (→ Model T).
Ma la diligenza di John Ford restò centrale alla cultura statunitense, una
sorta di Pequod melvilliano trasportato nel mezzo delle Grandi pianure: un
piccolo microcosmo d’America che, sia pure con tutte le equivoche
implicazioni, ci parla ancora del macrocosmo tutt’intorno e riproduce uno
dei leitmotiv della cultura statunitense – quello dell’assedio, della piccola
comunità accerchiata dalle forze del male (→ Alamo).

BIBLIOGRAFIA
Ray Allen Billington, Storia della conquista del West, Odoya, Bologna 2009.
Oliver W. Holmes, Peter H. Rohrbach, Stagecoach East. Stagecoach Days in the
East from Colonial Days to the Civil War, Smithsonian Books, Washington
1983.
M.M.

Stampede
Anche in questo caso l’immaginario del cinema western ci aiuta: la fuga
disordinata dei cavalli dal corral, la mandria che prende la corsa spaventata
da un piccolo rumore notturno, il galoppo tonante dei bisonti nelle praterie.
Un esempio fra tutti: il film di Kevin Costner Balla coi lupi, del 1990. Stampede
viene dallo spagnolo estampida (= scoppio, fuga) ed era uno degli
avvenimenti più temuti da cowboys (→), coloni e migranti, sia per il pericolo
di esserne travolti, sia per la possibile perdita di animali. Uno dei metodi
adottati per contenerla e annullarla (quanto mai pericoloso) era di prendere
la testa della mandria impazzita e guidarla in tondo, in cerchi concentrici
sempre più stretti, fino a che le bestie rallentavano e si fermavano. Nel caso
invece di bisonti, era meglio… non trovarsi sui loro passi – a meno di essere
abili cacciatori Native Americans: la stampede (o buffalo jump) era infatti
praticata in origine dalle tribù delle Grandi pianure prima della diffusione
del cavallo e consisteva nello spaventare con urla e altri forti rumori una
mandria di bisonti, spingendola poi verso un precipizio.
P.S.: Con sede a Boise, Idaho, esiste anche la squadra di basket degli
Idaho Stampede, affiliata all’Nba (National Basketball Association). Difficile
dire se il nome incuta altrettanta paura negli avversari.

BIBLIOGRAFIA
Ramon F. Adams (a c. di), Cowboy. Antologia di scritti e documenti (1957),
Feltrinelli, Milano 1979.
Fay E. Ward, The Cowboy at Work. All About His Job and How He Does It,
University of Oklahoma Press, Norman 1987.
M.M.

Stelle e strisce
È lunga e controversa la storia delle tredici strisce orizzontali, bianche e
rosse, emblema delle tredici colonie originarie che si ribellarono al dominio
inglese, e delle cinquanta stelle che rappresentano oggi gli stati dell’Unione,
sulla bandiera degli Stati Uniti.
In principio (o almeno così si dice) furono l’incontro fra l’ago e il filo di
una sarta di Philadelphia e George Washington: leggenda vuole che la prima
bandiera americana sia stata infatti confezionata da Betsy Ross, che cucì con
pazienza il primo vessillo americano basandosi su uno schizzo consegnatole
dal futuro presidente nella primavera del 1776. Per cogliere la sacralità
dell’evento, vero o falso che sia, basta osservare il dipinto di Charles H.
Weisgerber Birth of a Nation’s Flag (1893), in cui lo sguardo intenso fra il
padre e la madre della bandiera (e con essa della patria) restituisce con
efficacia il potere evocativo, quasi mistico, assunto dal vessillo.
Come qualsiasi icona, anche la Stars and Stripes («Stelle e strisce») ha le
sue leggi e la sua etiquette: l’asta non va mai inclinata a meno di 45°
(nemmeno in segno di saluto); la bandiera non deve mai toccare il suolo; da
cambiare se si sfilaccia ai bordi e, quando è inutilizzabile, va bruciata. Se
issata capovolta, indica una richiesta di aiuto. Non può essere usata per
scopi pubblicitari e nemmeno indossata (qualsiasi indumento la riproduca
sarebbe dunque fuorilegge – a cominciare, ironia della sorte, proprio dallo
Zio Sam), se non come drappo a onorare le bare dei caduti in guerra. Le
sanzioni che ne puniscono il vilipendio si applicano tuttavia solo a organi
governativi e non a cittadini, poiché in quest’ultimo caso si violerebbe il
diritto di espressione sancito dal Primo emendamento, come stabiliscono le
tante controversie civili che fiorirono dagli anni sessanta in poi, quando le
bandiere e ciò che rappresentavano divennero uno dei bersagli preferiti dai
contestatori di ogni ordine e grado.
Già, ma quali sono gli ideali di cui la bandiera americana è portatrice?
Quale libertà, o meglio la libertà di chi essa ha propugnato o salvaguardato?
Non certo la libertà statunitense dal giogo britannico, visto che per le
colonie il vessillo era l’ultimo dei problemi e, al momento del bisogno, pare
abbiano preso ispirazione da quello della British East India Company
(tredici strisce bianche e rosse e, nell’angolo, la bandiera inglese) per
confezionarsene uno – anzi, il primo, la Grand Union Flag. Non del tutto
convinti, la cambiarono ben ventisei volte prima che i tredici stati originari
decidessero di adottarla. E, nonostante una prima Flag Resolution del 1777
(in materia navale, poiché la bandiera serviva a quell’epoca quasi solo in
acque internazionali), negli anni successivi continuarono a circolarne molte
versioni. L’unico elemento che le accomunava erano i colori bianco rosso e
blu, più reperibili poiché propri del vessillo britannico. Per il resto, fu a
lungo il trionfo della fantasia, con stelle fluttuanti disposte prima a cerchio,
poi a semicerchio, in file orizzontali e in numero sempre crescente con
l’aumentare degli stati dell’Unione.
Il culto della bandiera si consolidò a partire da metà Ottocento – all’apice
della frattura politica e sociale che divise gli stati dell’Unione. Iniziò a
diffondersi nella primavera del 1861 negli stati del Nord, in
contrapposizione alla Southern Cross, la bandiera dei confederati. Per tutta la
Guerra civile (→), la distruzione di vite umane procedette di pari passo con
quella dei vessilli, tanto che nel 1861, per salvare la sua vecchia «Stelle e
Strisce», William Diver, un capitano in pensione di Nashville, la fece cucire
nella trapunta del letto, per poi recuperarla ed esporla l’anno successivo,
dopo la liberazione della città da parte delle truppe unioniste. Ribattezzata
con affetto «Old Glory» dal suo proprietario, la bandiera fu donata dagli
eredi alla Smithsonian Institution di Washigton. Qualche maligno ha
ipotizzato che il vessillo pervenuto al museo sia un falso: l’originale sarebbe
finito anni fa, in maniera poco onorevole, nella pancia di un vorace mulo…
E, se durante la Guerra civile la «Stelle e Strisce» divenne simbolo di libertà
soprattutto per la popolazione di colore, al termine del conflitto essa
rappresentò anche la «libertà» da parte di bianchi xenofobi e razzisti di fare
agli afroamericani ciò che più gli andava di fare: o almeno così la
interpretarono gli esponenti del Ku Klux Klan (→ Kkk), che la elessero a
orpello indispensabile durante i loro riti notturni, insieme alla Bibbia e alla
croce in fiamme.
Nell’assoluta e libera interpretazione dei valori di cui essa era portatrice,
certo è che la bandiera divenne da quel momento in poi lo strumento
prediletto dal potere per far leva sullo spirito patriottico e per coprire,
spesso in modo goffo, tensioni e contraddizioni interne: a partire dal
dipinto per il centenario dell’Indipendenza di Archibald M. Willar The Spirit
of ’76, dove un veterano, un pifferaio e un tamburino guidano la marcia delle
milizie (seguiti da un anacronistico vessillo con 13 strisce e 13 stelle). Il
richiamo allo spirito unitario della nazione attraverso la Stars and Stripes
continuò a costituire l’ancora di salvezza nei momenti difficili per la
politica statunitense – specialmente in ambito internazionale. Non è un
caso che il Flag Day, il giorno della bandiera, sia stato istituzionalizzato nel
1916; o che le leggi che ne stabilivano le misure e l’etiquette fossero
approvate agli inizi del primo conflitto mondiale.
I contestatori che dagli anni sessanta in avanti si opponevano alla
politica estera statunitense sapevano dunque bene dove colpire. Bruciare la
bandiera, indossarla, modificarla (col segno della pace, per esempio) era
però un’arma a doppio taglio: rappresentava di certo un dissenso
visivamente e simbolicamente incisivo, ma destinato anche ad alienare le
simpatie di coloro che in essa erano stati indotti a vedere (e con essa a
esprimere) il proprio essere americani, la propria appartenenza politica e
sociale. Come ogni simbolo e icona, la bandiera esercita un potente fascino
sulle masse; e il potere politico, che bene ne conosce il potenziale, è sempre
stato abile a usarla come balsamo per le fratture interne, prime fra tutte
quelle di classe. È stata infatti la classe lavoratrice, con la sua buona quota
di immigrati e figli di immigrati, a rivendicare la bandiera come simbolo di
appartenenza – dai tempi di Tammany Hall (→ Sachem e sagamore) fino al
fervore patriottico che investì la nazione dopo gli attacchi dell’11
settembre. Non è un caso che la bandiera sia divenuta parte integrante nelle
celebrazioni del Labor Day (istituito nel 1894, dopo gli eventi che portarono
alla ricorrenza del Primo maggio → Haymarket Square), sostituendosi ai
vessilli rossi e con essi alle ideologie e alle rivendicazioni sociali di cui sono
portatori.
Ma come deve sembrare questa bandiera a coloro che la osservano
dall’altra parte del confine? Come appariva agli occhi dei tanti messicani
che, con l’annessione di una buona fetta del Messico nel 1848, se la
trovarono a sventolare sopra le loro teste? Be’, più o meno come a chi fu
testimone degli interventi americani nelle Filippine a fine Ottocento, tanto
predatori nei loro intenti da spingere Mark Twain a proporre di sostituire la
bandiera a stelle e strisce con quella dei pirati.
Se da simbolo di potere forte che garrisce sulle rovine altrui la bandiera
induce di solito al biasimo (come quando per pochi istanti ricoprì la testa
della statua di Saddam Hussein a Baghdad durante l’operazione Iraqui
Freedom nel 2003, scatenando la condanna della stampa internazionale), essa
emoziona e commuove ancora quando è segno di resistenza a un potere
«altro» in procinto di sopraffarla. Come il vessillo risorto sul monte
Suribachi a Iwo Jima nel 1945, dopo esser stato recuperato fra le macerie di
Pearl Harbour (e immortalato in una celebre fotografia di Joe Rosenthal); o
quello sfilacciato e sporco issato da tre pompieri sulle rovine delle Twin
Towers.
Al di là del suo significato militare, la «Stelle e Strisce» è stata anche una
potente icona culturale, non solo per i tanti artisti della Pop Art che la
resero ambiguo segno di patriottismo consumistico, come Jasper Johns e,
nella Black Art, Faith Ringgold e Dread Scott Tyler, ma anche per coloro che
ne sfruttarono il potenziale commerciale riproducendola senza sosta su capi
d’abbigliamento, evocandola negli spot televisivi, o usandola come cornice
per le più disparate manifestazioni, dalle feste religiose ai concerti. E se in
ambito musicale ha, fra le altre cose, incorniciato la schiena (e il
fondoschiena) di Bruce Springsteen sulla copertina dell’album che lo ha
fatto conoscere al grande pubblico, Born in the Usa (1984), al cinema si può
dire che essa abbia trovato posto ovunque: sfondo delle vite dei reduci di
Nato il quattro luglio (1989) di Oliver Stone, impressa su casco e giubbotto del
ribelle Peter Fonda in Easy Rider (1969) di Dennis Hopper e sui mutandoni di
Rocky nel quarto episodio della serie omonima (1985), quando il pugile
russo avversario minacciava di «spiezzarlo in due». Anche se la bandiera più
bella, amata e sofferta del cinema degli ultimi anni è forse quella che
avvolge la vita del protagonista di La valle di Elah (2007): Hank Deerfield,
reduce del Vietnam, scopre con orrore che il suo secondo figlio, da poco
tornato dall’Iraq, è stato barbaramente ucciso per un banale diverbio dai
suoi commilitoni, che la guerra ha trasformato al contempo in vittime e
aguzzini. Dopo essere a fatica riuscito a squarciare il velo di omertà
frapposto dall’esercito, Hank fa ritorno a casa; ad attenderlo c’è un pacco
postale inviato tempo addietro dal figlio dall’Iraq, con la bandiera usurata
del suo plotone. Bandiera che Hank decide di issare, come sua sacra
abitudine, davanti al municipio, ma capovolta. C’è bisogno di aiuto, Old
Glory… per difenderci da un nemico che non riusciamo a vedere, perché
troppo simile a noi.

BIBLIOGRAFIA
Arnaldo Testi, Stelle e strisce. Storia di una bandiera, Bollati Boringhieri, Torino
2003.
C. SCHIA.

Stonewall
«Nido omosessuale sotto attacco, api regine pungono all’impazzata»: il
fantasioso titolo del Daily News, la mattina dopo i fatti di Stonewall (28
giugno1969), segna, per molti versi, l’inizio della stagione dei diritti gay
negli Stati Uniti. La reazione dell’eterogeneo gruppo di avventori dello
Stonewall Inn del Greenwich Village (→) di Manhattan – un locale
frequentato da omosessuali, in larga parte di sesso maschile, che
provenivano dalle fasce sociali più disagiate: ispanici e afroamericani, per lo
più effeminati, alcuni travestiti e diversi ragazzi di vita del sottomondo
newyorkese – al raid della polizia cittadina rappresenta un punto di rottura
rispetto alla rassegnazione con cui le frequenti retate vengono
abitualmente subite. La rabbia accumulata in decenni di dura repressione
culturale e istituzionale e l’esempio di altri movimenti – i diritti civili dei
neri (→ Back of the bus), il femminismo (→ Seneca Falls), le varie rinascite
etniche (→ Chicanos; → Movement) – sono alla base del mutato
atteggiamento dei gruppi gay di fronte al loro precedente status quo.
Fino ad allora, dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi decenni del
Novecento, punti di ritrovo cittadini per i gay erano costituiti da bar,
taverne e bagni turchi, sempre più popolari, questi ultimi, durante il
Proibizionismo (→) che rendeva difficile l’incontro nei locali pubblici, pur
permettendo una certa promiscuità negli speakeasies. All’interno delle
grandi città si erano venute a creare alcune piccole enclave gay, quali il
Tenderloin di San Francisco (→ Castro), il Greenwich Village di New York e
il Near North Side di Chicago. Ma pochi avevano il coraggio di uscire allo
scoperto: uno degli esempi forse più noti è l’attore hollywoodiano Rock
Hudson, che – minato nel fisico dall’Aids – ammise le sue frequentazioni
maschili solo in punto di morte, tre decenni dopo. Eppure già negli anni
venti l’omosessualità fu toccata da una serie di ricerche, tra cui quella di
Bement Davis, Factors in the Sex Life of Twenty-Two Hundred Women (1929), in
cui la riformista sociale riscontrava che l’omosessualità tra
«rispettabilissime donne americane» era un fenomeno assai più diffuso di
quanto si credesse. Sempre in quel decennio, i ricercatori del dipartimento
di Sociologia dell’Università di Chicago conducevano indagini sul campo,
rinvenendo reti omosessuali ben sviluppate anche nei penitenziari e nei
riformatori dell’Illinois. Sul finire dei «ruggenti anni venti» (→ Jazz Age) si
preparava il terreno per la cosiddetta pansy craze – la moda bohémienne dei
primi anni trenta di frequentare i locali gay di Manhattan – anche grazie
all’uscita di una serie di libri a tema omosessuale: dal classico lesbico Il pozzo
della solitudine (1929) della britannica Radclyffe Hall, a Strange Brother (1931)
di Blair Nile, al fortunato titolo di Robert Scully A Scarlet Pansy (1933).
Durante la Seconda guerra mondiale, molti gay impegnati nel servizio di
leva e provenienti dalle campagne e dalle piccole città (→) dell’America
profonda avrebbero avuto l’opportunità di rompere il loro isolamento e
instaurare relazioni erotiche e affettive con i commilitoni. Il grande
bestseller del 1948 fu un’opera scientifica del dottor Alfred Kinsey, Il
comportamento sessuale dell’uomo, che sviluppava una scala bipolare in sette
punti (da 0 a 6) secondo la quale classificare i vari tipi di comportamenti
sessuali (dalla completa eterosessualità dello 0 all’omosessualità altrettanto
completa del 6). L’importanza del pur controverso «Kinsey Report» fu la
novità rivoluzionaria di studiare i rapporti omoerotici come una delle
molteplici forme di sessualità umana, senza alcun giudizio morale. In quello
stesso anno, in appoggio alla candidatura del progressista Henry A. Wallace
alle presidenziali, si formava a Los Angeles un gruppo di attivisti gay guidati
da Harry Hay il quale fondò l’organizzazione «Scapoli per Wallace». Nel
1950, lo stesso Hay creò la Mattachine Society, pioniera dei gruppi gay a
venire. Sempre sulla costa pacifica, nel 1955, a San Francisco nascevano
invece le Daughters of Bilitis, la prima associazione lesbica americana. Gli
anni del dopoguerra videro però le istituzioni schierate con rinnovato
vigore contro quei costumi sociali e sessuali giudicati devianti dalla
«norma», a cominciare dall’orientamento sessuale dei dipendenti: un
celebre caso fu quello dell’astronomo al servizio dell’Army Map Service di
Washington D.C. Franklin Kameny, licenziato nel 1957 per la sua
omosessualità. D’altronde, la sanzione clinica alla censura di gay e lesbiche
era arrivata già nel 1952, a nome dell’American Psychiatric Association: nel
suo manuale diagnostico e statistico si definì l’omosessualità come un
«disturbo sociopatico della personalità». Questo responso medico, la cui
validità rimase incontestata fino al 1973, ebbe pesanti ricadute legali sugli
omosessuali: le famiglie furono autorizzate a rinchiuderli in cliniche
psichiatriche; i proprietari di casa a sfrattarli; i datori di lavoro a licenziarli.
Come mostra Lontano dal paradiso, film del 2002 di Todd Haynes con Julianne
Moore e Dennis Quaid ambientato in un ricco suburb (→) degli anni
cinquanta, l’implosione omofoba dell’America della Guerra fredda sembrò
andare di pari passo con la repressione della donna e la segregazione
razziale e farsi ancora più forte nelle realtà non metropolitane.
Nel decennio successivo, spazzato da proteste e tensioni violente
nell’ambito del movimento per i diritti civili e dalla seconda ondata
femminista, l’oppressione sociale e giuridica degli omosessuali non sarebbe
cambiata, conoscendo anzi in alcuni casi, come nella New York del Deputy
Inspector a capo della «Morale Pubblica» del NYPD Seymour Pine, un
inasprimento. I ritrovi gay nei bar di Manhattan entrarono infatti nel
mirino di Pine insieme al gioco d’azzardo, alla prostituzione e al consumo di
narcotici. Chiunque si presentasse in luoghi pubblici in una tenuta «bizzarra
o innaturale» poteva, per legge, essere arrestato. È in questo contesto che
va letto quanto accadde nel 1969, allo Stonewall Inn, un bar al 51 di
Christopher Street gestito dalla famiglia mafiosa dei Genovese. Pur di poter
frequentare uno dei pochissimi locali pubblici tacitamente aperto ai gay, il
piccolo esercito di omosessuali newyorkesi era disposto a pagare un prezzo
assai alto: maltrattati dai camerieri, serviti con liquori annacquati e molto
più cari del dovuto, costretti in un edificio privo di uscite di sicurezza e di
acqua corrente. Cosa Nostra teneva a bada la polizia, offrendo mazzette in
cambio di raid non troppo assidui. Quando, intorno all’una del 28 giugno,
un drappello di poliziotti guidati da Pine fece irruzione nello Stonewall Inn
per quello che sembrava un blitz di routine, la reazione dei presenti fu
repentina e violenta. Esasperati dalla lunga storia di prevaricazioni e
soprusi delle autorità, i frequentatori dello Stonewall affrontarono la
squadra di Pine lanciando di tutto: minacce verbali, lattine di birra, bottiglie
di vetro, monete, pietre e qualsiasi oggetto capitasse loro sotto mano,
inclusi parcometri divelti dalla strada. La polizia rispose con la forza e con
una serie di arresti. La folla in sommossa – travestiti su tacchi 10 ricercati al
buio da eleganti uomini borghesi, teenager senza tetto che si vendevano nel
vicino giardino pubblico, ispanici poveri, qualche ragazzo del college, poche
lesbiche, qualche passante attratto dal trambusto – accompagnò la battaglia
cantando, sulla melodia della sigla del popolare programma per bambini
Howdy Doody Show, «We are the Stonewall girls / We wear our hair in curls /
We don’t wear underwear / We show our pubic hairs» («Siamo le ragazze di
Stonewall / abbiamo i ricci / non portiamo le mutande / mostriamo i peli
pubici»). Per i gruppi di rivendicazione dei diritti gay, Stonewall diventò un
grido di battaglia, una sorta di «Remember the Alamo!» (→ Alamo). A poche
settimane dai disordini di Christopher Street, al motto di «gay power», si
formava a New York il Gay Liberation Front (Glf), che si sarebbe poi diffuso
in molte città del paese. Nel 1970, il primo anniversario venne celebrato con
manifestazioni dell’orgoglio gay a Chicago, Los Angeles e a New York, dove
la marcia partì dal Village e arrivò fino a Central Park.
Alimentato dalla grande stagione di lotte civili a difesa dei diritti delle
categorie sociali escluse – de jure o de facto – dalla democrazia americana, il
movimento di protesta innescato da Stonewall avrebbe affiancato i moti
antibellicisti e antinuclearisti e soprattutto, in base alla stessa idea delle
rivendicazioni identitarie, il femminismo degli anni settanta e ottanta (→
Seneca Falls).

BIBLIOGRAFIA
David Carter, Stonewall: The Riots That Sparkled the Gay Revolution, St. Martin’s
Press, New York 2010.
Dudley Clendinen, Adam Nagourney, Out for Good: The Struggle to Build a Gay
Rights Movement in America, Simon & Schuster, New York 2001.
C. SCAR.

Storyville
La città del jazz (New Orleans) è un piccolo film diretto dal prolifico Arthur
Lubin nel 1947 – trama esile e piuttosto banale, quasi solo un pretesto per
l’esibizione di musicisti come Louis Armstrong, Billie Holiday, Kid Ory e
Woody Herman. Ma è una buona ricostruzione del viaggio del jazz da New
Orleans a Chicago e poi a New York e, in particolare, di un ambiente
d’epoca. L’epoca è quella degli anni precedenti la Prima guerra mondiale e
l’ambiente quello di Storyville, il quartiere a luci rosse di New Orleans (→
Congo Square). Questo ebbe vita breve, ma – diciamo così – alquanto
intensa.
Fu creato nel 1897 dal consigliere comunale (in pratica, vicesindaco)
Sidney Story, da cui il nome, con l’intento di regolare e controllare la
prostituzione dilagante a New Orleans, sull’esempio di alcune città del Nord
Europa. Detto anche genericamente «The District» e pubblicizzato in modo
ufficiale dai Blue Books, vere e proprie guide che contenevano le
informazioni necessarie (indirizzi, numeri di telefono, prezzi,
«specializzazioni»), il quartiere era racchiuso dalle vie St. Louis, North
Robertson, Iberville e Basin, appena a nordovest del French Quarter, non
lontano da quella che era stata Congo Square: pochi isolati, ma fitti di locali
diversi, bordelli di gran lusso dai nomi improbabili come «Chateau Lobrano
d’Arlington» o «Mahogany Hall» e case a poco prezzo (dette cribs, cucce),
saloon e bische, ristoranti e rivendite di alcolici, edifici raffinatissimi a tre-
quattro piani con interni preziosi, velluti, quadri, specchi, boiseries di lusso,
oppure seminterrati e retrobottega sporchi e malsani – in tutti, come del
resto nell’intera città, si suonava il blues e in particolare quella forma che
andava evolvendosi rapidamente attraverso continue variazioni e
ibridazioni, chiamata jass e in seguito jazz (→ Jazz Age)
Nella sua autobiografia (Satchmo, 1954), Louis Armstrong ci offre vividi
squarci di quelle realtà, equivoche e degradanti per chi ci era costretto ad
abitare per campare (le prostitute bianche, creole, nere; il personale delle
case e il mondo che intorno a esse ruotava), ma anche pulsanti di grande
umanità, rette da codici precisi e da un forte senso di solidarietà. E poi,
appunto, la musica: ciascun locale aveva almeno un pianista, spesso una
piccola band. Così, non solo Armstrong crebbe, ragazzo e musicista, qui (e
nei dintorni: nelle strade, lungo Perdido e Liberty Street), ma un’intera
generazione di «grandi del jazz» suonò in quei bordelli e in quei cribs – da
Jelly Roll Morton a Buddy Bolden a King Oliver –, assimilandone umori,
aneliti, miserie, storie, tragedie, e, attraverso una sorta di metabolismo
collettivo, traducendoli in suoni, in musica. Nelle parole di Sidney Bechet,
riportate dal musicologo Arna Bontemps in apertura di un suo racconto del
1971 sulla nascita del jazz a New Orleans (Talk to the Music), «Tu lo dici alla
musica, e la musica lo dice a te».
Strano universo, quello di Storyville – fermato nel tempo dalle fotografie
(fra il documentaristico e il voyeuristico) di un non meno strano fotografo,
Joseph Ernest Joseph Bellocq, più noto come E.J. Bellocq, con laboratorio nel
French Quarter, dedito alla lastra e all’otturatore con un rigore quasi
fanatico – una sorta di Jekyll-Hyde della fotografia: da un lato, foto comuni,
di persone, di località, di oggetti, di pubblicità; dall’altro, i ritratti delle
prostitute nei loro ambienti, per lo più nude, in pose diverse, in piedi o
distese sui sofà, con cappelli o maschere sul volto, a volte a formare una
trama non detta (ritrovate in maniera avventurosa, le foto furono mostrate
una prima volta nel 1970 al Museum of Modern Art di New York e
pubblicate nel 1996 in volume con introduzione di Susan Sontag; molto
romanzate, la figura e l’attività di Bellocq riemergeranno nel 1978, nel film
di Louis Malle Pretty Baby, con Keith Carradine nel ruolo del fotografo).
Strano universo, e dalla vita breve. Nel 1917, dopo che alcuni marinai
della base navale di New Orleans erano rimasti uccisi nel corso di risse nelle
strade di Storyville, il governo decise di chiudere il quartiere, nonostante le
proteste sia degli abitanti, sia del sindaco dell’epoca, Martin Behrman. Ma
l’imminente intervento in guerra degli Stati Uniti richiedeva moralità e
moralizzazione, ordine e disciplina: così, un’ordinanza cittadina prescrisse
che, alla mezzanotte del 12 novembre, i bordelli chiudessero. Ci furono
grandi feste, fuochi d’artificio, musica nelle strade, lacrime e champagne:
poi, le «ragazze» e i musicisti, le «madame» e i lavapiatti, le domestiche, le
cuoche, i ragazzi tuttofare, i biscazzieri e i buttafuori, fecero fagotto. Alla
fine delle sue Memorie di una maîtresse americana (1970), una di quelle
«madame», Nell Kimball, ricorda il momento della partenza: «E così, addio,
Storyville, mia ultima casa. […] Le strade erano piene di cartacce e di
bottiglie rotte, e qualcuno aveva dato fuoco a un vecchio furgone di
lavandaio, a Storyville… ammesso che potesse ancora chiamarsi Storyville.
Gli ero affezionata, a quel dannato posto». Si spostarono altrove, a volte a
poche miglia da quello che era stato Storyville: ma i più andarono a nord, a
Kansas City, a Chicago, a New York – «Do You Know What It Means To Miss
New Orleans» avrebbe cantato in seguito Louis Armstrong. Con loro, si mise
in marcia il jazz – e non ha smesso di marciare.

BIBLIOGRAFIA
Louis Armstrong, Satchmo. La mia vita a New Orleans, Garzanti, Milano 1956.
Herbert Asbury, The French Quarter. An Informal History of the New Orleans
Underworld, Alfred A. Knopf, New York 1936.
Nell Kimball, Memorie di una maîtresse americana, Adelphi, Milano 1975.
Al Rose, Storyville, New Orleans, University of Alabama Press, Tuscaloosa
1978.
M.M.

Strani frutti
Poco importa, in verità, che la parola (lynching, linciaggio) derivi da Charles
Lynch, proprietario terriero quacchero della Virginia, che durante la
Rivoluzione americana (→) presiedette una corte incaricata di giudicare chi
si era schierato a fianco degli inglesi; o da William Lynch, egli pure della
Virginia, che nel 1780 stipulò con alcuni vicini un patto d’azione
extragiudiziario per far fronte alle turbolenze post-rivoluzionarie; o da
qualche altro nome o espressione. Qualunque ne sia l’etimologia, quella
parola significa lo scatenamento di istinti omicidi collettivi nei confronti di
individui ritenuti colpevoli di qualche supposto reato – o anche solo di
esistere. Difficile dire di più, senza provare disgusto e rabbia: proviamo con
le cifre (che comunque non sono al riparo da quei sentimenti – anzi!).
Bisogna dire per prima cosa che la documentazione è scarsa almeno fino
agli anni successivi alla Guerra civile (→). Per l’epoca precedente, dominata
dalla schiavitù, possiamo solo immaginare situazioni che sfocino nel
linciaggio – per esempio, a conclusione di una rivolta di schiavi (→) o di una
fuga individuale o collettiva: sta di fatto che la condizione dello schiavo in
quanto oggetto di proprietà lo metteva, entro certi limiti, al riparo da uccisioni,
che avrebbero significato un danno economico per il suo proprietario –
paradosso della schiavitù. Le cose cambieranno, e in modo significativo,
dopo la Guerra civile, quando la popolazione nera, non più schiava ma
«libera», diventava bersaglio di qualunque atto di violenza, dal piccolo
sopruso all’assassinio. E al linciaggio.
La documentazione esiste proprio a partire dal 1865, e poi in modo
particolare dal 1880-1881, quando il neonato Tuskegee Institute (→
Tuskegee) comincerà a raccoglierla in maniera metodica. Questa
documentazione ci dice che, negli anni della Ricostruzione (il periodo che
va dal 1865 al 1877, quando gli stati del Sud furono investiti da una
complessa riorganizzazione a livello economico, sociale e politico, che
suscitò tensioni acutissime), i picchi nel numero dei linciaggi si ebbero nel
quinquennio 1865-1870 (più di 1500), in coincidenza con la nascita del Ku
Klux Klan (→ Kkk) e con i diffusi disordini del periodo (gli autentici
massacri a sfondo politico, intorno al 1868). Calarono quindi nei due decenni
successivi (rispettivamente, circa 650 e poco meno di 200), per impennarsi
di nuovo nell’ultimo decennio del secolo (più di 1200), quando furono
introdotte le Jim Crow Laws (→). Restarono alti fra il 1900 e il 1909 (più di
800) e fra il 1910 e il 1919 (circa 750), l’epoca della cosiddetta Grande
migrazione verso nord; e, da quel momento, il numero prese a calare (ma
tra il 1920 e il 1929 sfiorava ancora i 500), scendendo al di sotto dei 100 a
partire dal 1940 (ma con una significativa impennata fra il 1960 e il 1965, gli
anni del movimento per i diritti civili → Back of the bus). Nell’insieme,
sempre secondo i dati raccolti dal Tuskegee Institute, fra il 1882 e il 1968, i
linciaggi furono 4743, di cui 3446 di neri e 1297 di bianchi (questa sezione
comprendeva in verità anche i messico-americani e i cinesi), con l’osceno
primato spettante al Mississippi, con 581 linciaggi (fra cui 539 di neri e 42 di
bianchi), seguito da Georgia con 531 (492 e 39) e Texas con 493 (352 e 141).
L’anno più oscuro fu il 1892, con 230 casi (161 e 69).
Numeri, che nascondono (?) sofferenze inaudite: per lo più, le vittime
erano picchiate, torturate, mutilate, prima di venir impiccate o bruciate
vive (a volte, impiccate dopo essere state bruciate vive). il tutto, non di rado,
davanti a una folla composta da uomini, donne e bambini, oltre che dagli
esecutori materiali, più o meno incappucciati, e con corredo, barbarie nella
barbarie, di cartoline ricordo (→ Occhi indiscreti).
I dati del Tuskegee Institute, integrati da inchieste come quelle condotte
fra Ottocento e Novecento dall’attivista afro-americana Ida B. Wells, autrice
fra l’altro di Southern Horrors: Lynch Law in All Its Phases (1892), mettono a
nudo alcuni aspetti significativi: da un lato, lo stretto legame fra i picchi e i
periodi di grande instabilità economica e sociale, segnati da crisi, precarietà,
tensioni (per esempio, fra Ottocento e Novecento, nel Mississippi Delta [→],
dove buona parte della popolazione nera locale era composta da mezzadri o
addirittura piccoli proprietari di lotti, i linciaggi crescevano di numero
verso la fine dell’anno, quando si trattava di regolare i conti); dall’altro, le
reali motivazioni (se si può usare questo termine), che – al di là del
sensazionalismo demagogico utilizzato per scatenare gli istinti più sordidi –
non risiedevano tanto in questo o quell’atto presunto (la violenza su una
donna bianca, in primis), ma piuttosto in un generale senso di ostilità e
rancore nei confronti di un settore di popolazione che si dava da fare per
sopravvivere e crearsi uno spazio nella società (in più di un caso,
documentato da Wells e da altri studiosi successivi, le vittime, in città e
paesi, gestivano negozi o svolgevano attività in competizione con i bianchi).
L’obiettivo era dunque quello di terrorizzare e «mettere al loro posto»
parenti e amici delle vittime – e, in questo, la furia omicida collettiva
coincideva con la pratica di gruppi organizzati come il Kkk, ma anche come
i vari vigilante committees (→ Posse e vigilantes) che spadroneggiavano,
anche prima della Guerra civile, sulla Frontiera (→) (per esempio, il San
Francisco Committee of Vigilance).
Questi due aspetti acquistano contorni più netti ed eloquenti, se si
considera che, sebbene le vittime principali dei linciaggi fossero e
rimanessero gli afroamericani, altri settori della popolazione del paese ne
furono colpiti. È il caso dei cinesi (→ Chinatown), che subirono autentici
pogrom nelle regioni dell’Ovest, dopo la Guerra civile; o dei messico-
americani che, a partire dal 1848, quando le terre del Sudovest passarono in
mani statunitensi (→ Alamo; → Destino Manifesto; → Braceros), furono
capri espiatori di tensioni più vaste e profonde, ridotti a cittadini di serie B
o C, o ad aliens (→ Alien) su terre che avevano popolato per millenni, prima
dell’arrivo degli europei; oppure degli italiani: il caso più celebre fu il
linciaggio, a New Orleans, nel 1891, di undici italiani, arrestati insieme ad
altri sette con l’accusa (poi risultata infondata) di esser membri della Mano
Nera (organizzazione clandestina, antesignana della Mafia), ritenuta
responsabile dell’uccisione del capo della polizia, l’irlandese David
Hennessy – prelevati dal carcere da una folla di cittadini ben pensanti,
furono impiccati ai lampioni della città. Altro caso che fece scalpore fu
quello di Leo Frank, ebreo americano, titolare di una piccola fabbrica a
Marietta (Georgia), accusato di avere ucciso una sua operaia e impiccato da
una folla nell’agosto del 1915, lo stesso anno in cui il Kkk fu riorganizzato
dopo il suo primo scioglimento nel 1871.
La data del 1915 è significativa: così vicina all’entrata in guerra, in piena
Grande migrazione, fra lacerazioni sociali (l’anno prima, a Ludlow, nel
Colorado, la Guardia nazionale aveva assalito una tendopoli di minatori in
sciopero, facendo una ventina di vittime, fra uomini, donne, bambini; due
anni dopo, a Butte, nel Montana, verrà linciato l’organizzatore sindacale
Frank Little, nel corso di una lunga agitazione di minatori → Bisbee e Butte)
e disordini razziali (quello di East St. Louis, fra maggio e luglio 1917 →
Banane). Ma è anche la data in cui uscì il controverso film di D.W. Griffith
Nascita di una nazione, con la sua esplicita esaltazione del ruolo del Kkk nel
«ricostruire» la nazione contro lo «strapotere» dei neri nel Sud – film che
suscitò ampia indignazione e a cui rispose il primo regista afro-americano,
Oscar Micheaux, con quel piccolo film dimenticato che fu Within Our Gates
(1920).
Sul versante istituzionale, un solo dato è eloquente: fra il 1882 e il 1968,
qualcosa come 200 proposte di legge antilinciaggio furono presentate al
Congresso, ma incontrarono sempre la ferma opposizione dei democratici
del Sud. A esso, si può aggiungere il fatto che nemmeno il riformatore
Franklin Delano Roosevelt osò toccare in maniera aperta questo nervo
scoperto, per il timore di non essere rieletto nel 1936; d’altra parte, il suo
successore Harry Truman, che pure introdusse alcune misure orientate
verso la salvaguardia dei diritti civili, vent’anni prima aveva fatto domanda
di adesione al Kkk.
Il «caso» più recente e impressionante risale al 1955: il quattordicenne
Emmett Till, di Chicago, mentre era in vacanza da parenti nel Mississippi,
ebbe l’ardire di rivolgere la parola (secondo alcuni, di lanciare un fischio di
apprezzamento) a una ragazza bianca; nella notte, fu prelevato da casa da
una squadraccia composta dal marito della ragazza e da altri due (o più)
complici, che lo picchiò a lungo e gli strappò un occhio, prima di sparargli
in testa e di gettarlo in un fiume, con un peso legato al collo con il filo
spinato; al suo funerale a Chicago, la madre volle che la bara restasse aperta
fino all’ultimo, per mostrare lo scempio fatto del ragazzo. Gli autori del
linciaggio, arrestati e processati, furono assolti.
Che dire poi degli assassinii di attivisti dei diritti civili (quello di Medgar
Evers, nel 1963, fu clamoroso) a opera di singoli individui, membri del Kkk o
di altre formazioni paramilitari, o dell’eliminazione di militanti delle
Pantere nere e di altri gruppi (→ Movement) a opera delle forze dell’ordine,
nel corso dei turbolenti anni sessanta? Rientrano anch’essi nel novero dei
«linciaggi»?
Letteratura e cinema tornarono spesso su questi fatti agghiaccianti: basti
ricordare Il buio oltre la siepe, diretto da Robert Mulligan nel 1962 e tratto dal
romanzo di Harper Lee del 1960, in cui il ragazzo nero sotto processo sfugge
a mala pena a un linciaggio; o Mississippi Burning, di Alan Parker, del 1988,
che ricostruisce l’assassinio di tre attivisti del movimento per i diritti civili,
avvenuto nel 1964; oppure La caccia, di Arthur Penn, del 1966, in cui la
vittima è un evaso bianco.
Difficile non provare disgusto per tutto ciò. Meglio lasciar parlare
(cantare) Billie Holiday, con il suo tremendo «Strange Fruit» (del 1939):
«Strani frutti pendono dagli alberi del Sud / Sangue sulle foglie / Sangue
sulle radici / Corpi neri ondeggianti alla brezza del Sud / Strani frutti
pendono dai pioppi / Scena pastorale del prode Sud / Gli occhi fuori dalle
orbite e le bocche distorte / Il dolce e fresco profumo di magnolia / E poi il
puzzo improvviso di carne che brucia».

BIBLIOGRAFIA
Philip Dray, At the Hands of Persons Unknown. The Lynching of Black America,
Modern Library, New York 2003.
Michael J. Pfeifer, Rough Justice. Lynching and American Society, 1874-1947,
University of Illinois Press, Champaign 2006.
M.M.

Strip
Negli ultimi due decenni dell’Ottocento, la comparsa di tram, metropolitane
e ferrovie sopraelevate cambia la topografia delle città. L’evoluzione del
trasporto urbano sancisce il divorzio tra la dimensione lavorativa e quella
residenziale, offrendo a uomini d’affari e colletti bianchi la possibilità di
traslocare in aree tranquille, immerse nel verde e lontane dal caos del
centro e dalla «sgradevole» prossimità degli immigrati. Il processo avrebbe
subito un’accelerazione con il diffondersi dell’automobile, ma nel
frattempo gli speculatori immobiliari avevano intravisto una nuova
possibilità di far soldi: i lotti di terreno lungo il percorso verso i suburbs (→)
erano una terra di nessuno ancora poco edificata, ma non occorreva grande
immaginazione per capire che, nel giro di qualche anno, l’espansione della
città li avrebbe inghiottiti, aumentandone il valore. In attesa di questo
inevitabile epilogo, gli speculatori fecero costruire sul ciglio della strada,
badando al risparmio, strutture basse in mattoni, cui venne affibbiato un
nomignolo curioso, taxpayers – il loro scopo era infatti quello di generare un
introito minimo, sufficiente a pagare la tassa sulla proprietà. I locali furono
dati in affitto a canoni assai convenienti, in modo da attirare commercianti
e offrire un’alternativa concorrenziale alle main streets (→) di Downtown
(→). La scelta si rivelò azzeccata, perché questi negozi intercettavano il
flusso di pendolari diretti a casa dal lavoro, che trovavano comodo fare le
compere senza doversi recare in centro. Gli edifici si moltiplicarono, dando
forma a un taxpayers strip, una «striscia di taxpayers», poi abbreviato a strip:
era nato il nuovo corridoio commerciale.
La comparsa delle automobili rappresentò un volano di sviluppo per le
strips: pensate per un traffico pedonale o equestre, le main streets erano
inadeguate ad assorbire il crescente numero di vetture in circolazione.
Mancava spazio per la sosta e gli automobilisti preferirono di gran lunga la
comodità dello shopping sulle strips, meno trafficate e più ampie, con la
possibilità di parcheggio per i veicoli. All’occorrenza, i taxpayers venivano
abbattuti e ricostruiti qualche metro più indietro, in modo da ricavare
spazio per i posteggi: la bassa qualità consentiva di sacrificarli senza troppi
patemi d’animo. In alternativa, era possibile asfaltare il terreno retrostante
e adattarlo a luogo di sosta. Definita dai contemporanei «il nuovo mercato
dell’era automobilistica», la strip convertiva così a uso commerciale alcune
arterie stradali cittadine: tra le più note, Clark Street a Chicago, Colfax
Avenue a Denver, Woodward Avenue a Detroit e Massachusetts Avenue a
Boston.
Uno sviluppo del tutto simile interessò le strade interurbane. In un
primo momento, comparve una serie di attività commerciali, spesso
improvvisate, che intendevano trarre profitto dai bisogni immediati degli
automobilisti: chioschi di bevande, stazioni di rifornimento, ristoranti. Con
il tempo, le attività divennero meno precarie e spuntarono fast food,
concessionari di automobili, supermarket, negozi, centri commerciali (→
Mall), che contribuirono a ricreare una nuova main street al di fuori dei
confini urbani. Finita la Seconda guerra mondiale, la trasformazione di
autostrade ai margini della città in fiorenti corridoi commerciali sembrò
avere del miracoloso agli occhi di una generazione che aveva vissuto le
ristrettezze della Grande depressione (→): ed ecco che si diffuse
l’espressione Miracle Mile, «miglio miracoloso», presa a prestito da un
segmento di Wilshire Boulevard a Los Angeles. La necessità di catturare
l’attenzione del cliente in un panorama dove la concorrenza era molto
sviluppata stimolò l’adozione di nuove strategie pubblicitarie, con
l’introduzione di una segnaletica di dimensioni enormi sulla cui superficie
facevano bella mostra immagini accattivanti (viene alla mente l’insegna del
Dottor Eckleburg citata ne Il grande Gatsby di Fitzgerald) o ancora scritte al
neon e architetture stravaganti ben visibili da lontano, che richiamavano le
forme più curiose, da quelle degli animali ai castelli medievali (→
Architetture).
La strip più famosa, tanto da meritarsi la lettera maiuscola («The Strip»),
è la Sunset Strip di Los Angeles, un corridoio di due miglia e mezzo sul
Sunset Boulevard, che deve la sua fortuna alla coincidenza di trovarsi al di
fuori della giurisdizione della municipalità: ciò spiega la proliferazione di
case da gioco, bordelli e nightclub (non a caso il detective Philip Marlowe,
creatura di Raymond Chandler, si trova spesso da quelle parti per svolgere
le indagini → Hardboiled; né si può dimenticare la serie tv [→] 77 Sunset
Strip, con i due detective privati Efrem Zimbalist Jr. e Roger Smith,
seguitissima fra il 1958 e il 1964 e approdata anche in Italia).
Negli anni sessanta, grazie all’apertura di club quali il Whiskey [→] Go-
Go e il Roxy, The Strip divenne uno dei fulcri dell’ancora acerba scena rock
californiana: tra i gruppi che mossero i primi passi in questi locali figurano i
Doors e i Buffalo Springfield. Un popolo variegato di fan, musicisti in erba,
hippie e spacciatori stazionava nella Strip ventiquattro ore al giorno,
provocando le proteste e il disgusto di residenti e commercianti.
Nell’autunno del 1966, la municipalità approvò un’ordinanza di coprifuoco
allo scopo di sradicare la presenza di «fricchettoni, delinquenti e oscenità».
Le proteste che ne seguirono, i Sunset Strip Curfew Riots – cui è ispirata la
canzone «For What It’s Worth» dei Buffalo Springfield –, con picchetti,
dimostrazioni e qualche scontro tra giovani e forze dell’ordine, furono un
episodio minore dei «turbolenti» anni sessanta (→ Disordini; →
Movement), ma ebbero l’effetto di catalizzare l’attenzione dei media e
consolidare la celebrità della strada. Il successo dei Doors e le regolari
apparizioni delle più note band del periodo funsero poi da calamita per
artisti in cerca di un contratto e discografici a caccia della nuova gallina
dalle uova d’oro. Van Halen, Mötley Crüe, Guns n’ Roses e Red Hot Chili
Peppers sono alcuni dei nomi transitati da queste parti.

BIBLIOGRAFIA
Chester H. Liebs, Main Street to Miracle Mile: American Roadside Architecture,
Little, Brown, Boston 1985.
Domenic Priore, Arthur Lee, Riot on Sunset Strip: Rock’n’Roll’s Last Stand in
Hollywood, Jawbone Press, London 2007.
S.M.Z.

Suburbs
A metà tra fenomeno demografico e viaggio archetipico, variante tardo-
moderna delle grandi migrazioni dell’Ottocento che vedono i coloni
muoversi verso ovest lungo la frontiera (→), l’esodo dei bianchi di classe
media dalle città ai suburbs – gli agglomerati residenziali spuntati come
funghi nelle aree non ancora edificate in prossimità delle metropoli –
costituisce la tendenza urbanistica e sociologica americana più importante
della seconda metà del XX secolo. La parabola dei suburbs – la loro nascita, il
boom, la diversificazione in sottotipologie, il parziale declino e le evoluzioni
più recenti in edge cities (→), exurbs e gated communities (→) – è espressione
tanto di alcune tensioni mitiche che presiedono all’immaginario americano
(l’allargamento dell’elbow room individuale, ovvero lo spazio di manovra ma
anche di libertà di visione, e la trasformazione della wilderness [→] in
giardino bucolico), quanto di processi antropologici complessi (quali
l’americanizzazione e il raggiungimento del successo materiale) e di
contingenze storiche precise (l’avvento dell’automobile, la costruzione di
un sistema autostradale nazionale, il progressivo degrado delle inner cities,
l’abbondante disponibilità di energia, l’ampliarsi del mercato dei consumi,
l’imporsi dell’acquisto a credito).
Sebbene forme embrionali di suburbs, quali enclave delle fasce più ricche
della popolazione, siano presenti dalla fine del XIX secolo attorno alle grandi
città della costa orientale, e sebbene l’architetto Frank Lloyd Wright
progetti la sua utopica Broadacre City già nel 1932 (→ Cittadine modello), è
solo con gli anni cinquanta del Novecento che i suburbs assumono
caratteristiche sociali e architettoniche destinate a riconfigurare il
paesaggio statunitense fino a noi. Tra i fattori che concorrono alla loro
esplosione spiccano la sopraggiunta «auto-mobilità» degli americani (→
Model T) – senza la quale il pendolarismo tra le città in cui sono concentrati
i luoghi di lavoro (per lo più uffici del terziario) e le case suburbane non
sarebbe possibile – e l’avvio, nel 1956, dell’Interstate Highway System, che,
doterà il paese di una rete di autostrade indispensabile al decentramento
urbano. Nel secondo dopoguerra, il regno dell’automobile si fa quindi
strumento della fuga dei bianchi middle class dalle grandi città: acquisito un
certo livello di benessere, un intero ceto impiegatizio stanco della densità
abitativa, della promiscuità etnica, dello sporco e del rumore metropolitani
è attratto dal sogno di maggiore spazio, maggiore privacy e decoro in una
nuova vita lontano quanto basta dai centri urbani. Certo, alla fuga dei
bianchi devono contribuire non poco le politiche urbanistiche – o, a detta
del critico Marshall Berman, «urbanicide» – che tra il 1950 e il 1960,
all’insegna del rinnovamento e della bonifica di inner cities e slums, vanno a
ridisegnare il volto di interi quartieri come il Bronx (→), spesso sventrati
per la costruzione di strade a scorrimento veloce e consegnati a un declino
impietoso.
È in questo contesto che va letta la fortuna di Levittown, il suburb creato
a Hempstead, Long Island (New York), nel 1947, grazie all’intraprendenza
della famiglia Levitt. Il primo modello di case, «Cape Cod», prevede
l’eliminazione di basement (il seminterrato abitabile), caloriferi (soppiantati
dai pannelli) e veranda (→ Porch), sostituita dal giardino sul retro: tutto
risponde non solo all’ottimizzazione degli spazi, ma anche all’insularità di
uno stile di vita che favorisce l’implosione familiare rispetto a una socialità
aperta e pubblica.
I suburbs incarnano, almeno per tre decenni, un principio di esclusione
in base al censo e al colore: per i poveri e i proletari (per lo più
afroamericani), accedere ai mutui è impossibile sia per oggettivi limiti
economici, sia per le politiche tacitamente segregazioniste della Federal
Housing Administration, tese a fare delle nuove aree residenziali altrettanti
santuari Wasp (→). Mentre i neri rimarranno a lungo – per certi versi, fino
a oggi – inchiodati ad affitti iniqui per abitazioni fatiscenti nei ghetti
metropolitani, negli anni cinquanta, Levittown è la più grande comunità
bianca del paese.
Tra le caratteristiche architettoniche di quelle dimore imbiancate vanno
annoverati almeno quattro elementi: il prato della facciata anteriore (front
lawn), la finestra panoramica (picture window), il giardino sul retro (backyard)
e il garage. Senza dubbio il luogo più curato della casa, addirittura
«manicured», il prato antistante l’ingresso è, fin dall’Ottocento, una sorta
di vetrina del prestigio familiare che testimonia anche del successo tutto
americano nell’addomesticare l’ambiente circostante. Quel fazzoletto di
verde omogeneo conquistato ai terreni e ai climi più diversi – e ostili –
richiede attenzioni costanti che vanno dalla tosatura all’irrigazione, dai
fertilizzanti ai diserbanti, in un’incessante guerriglia chimica a erbacce,
cimici, formiche ecc. Non è un caso che proprio il front lawn, la cui
apparenza immacolata cela in realtà uno sforzo di controllo impari, si offra
quale scenario filmico ideale per la rappresentazione degli istinti più
conturbanti della suburbia americana (spesso intrecciati al mondo degli
adolescenti): ricordiamo qui soltanto la sequenza del Giardino delle vergini
suicide di Sofia Coppola (1999, tratto dall’omonimo romanzo di Jeffrey
Eugenides), che ritrae la più giovane delle cinque sorelle Lisbon infilzata
nello steccato del front lawn di famiglia dopo aver spiccato il volo dalla
propria camera da letto, e la prima scena di quella summa di distopia
suburbana di David Lynch che è Velluto blu (1986), dominata dalla tipica
staccionata bianca della villetta del protagonista Beaumont.
Altro luogo connotato nel segno del doppio (trasparenza e opacità,
innocenza e colpa) è la picture window – spesso scorrevole – che dal
soggiorno dà sul front lawn e cancella, almeno a livello estetico, la
separazione tra pubblico e privato, diventando strumento e simbolo degli
impulsi voyeuristici di chi sta dentro e di chi sta fuori: si pensi ai molti
scorci di interni suburbani visti dall’esterno – attraverso le finestre
panoramiche e talvolta dai finestrini dei treni dei pendolari – firmati dallo
scrittore John Cheever (1912-1982), o alle tante scene di film (American
Beauty, 1999, di Sam Mendes) e serie tv (→; Desperate Housewives) che
ruotano intorno all’atto di spiare nelle case – e nelle vite – altrui. E come
non parlare del backyard che, nato come estensione del back porch (→) in
piena Guerra fredda, quando l’ossessione di un’invasione esterna si
riverbera anche sul ripiegamento verso l’interno della casa, prevede il box
di sabbia per i bambini, il barbecue e, nei casi più opulenti, una piscina, ed è
sorvegliato di nascosto dalla finestra della cucina? In ultimo, non va
dimenticato il classico garage sul vialetto che, a partire dagli anni
cinquanta, è integrato al resto del villino monofamiliare (basti pensare
all’oramai iconica sigla della serie animata I Simpson → Casa Simpson)
attraverso una porta che immette in cucina o nella «mud room», uno spazio
di decompressione per chi rientra dal lavoro o da scuola. Complice il boom
automobilistico che vedrà aumentare i posti per le vetture da uno a due, il
garage si farà ancora più grande negli anni sessanta e settanta, ospitando un
congelatore, una lavatrice, un’asciugatrice e un tavolo di lavoro per il pater
familias. Tipico corollario del garage sarà poi il piccolo spiazzo anteriore in
cemento in cui fare qualche tiro a canestro – immancabile elemento
ornativo di ogni facciata americana che si rispetti.
In questo spaccato, manca la televisione, protagonista indiscussa della
dimensione suburbana di ieri e di oggi. Al piccolo schermo, le case dei
suburbs riservano il centro del soggiorno, facendone un surrogato
tecnologico del vecchio focolare domestico. Ma sono poi gli stessi
programmi televisivi – su tutti le situation comedies o sitcom – di fine anni
cinquanta e inizi anni sessanta (→ Serie tv) a diffondere l’immagine di un
paesaggio privo di conflitti e di competizioni sociali, un luogo libero da
qualsivoglia preoccupazione materiale, culturale e politica. Si tratta
dell’universo felicemente raggomitolato sulla molecola familiare di serie
quali Father Knows Best (1954-1960), Leave It to Beaver (1957-1963), Ozzie and
Harriet (1952-1966), The Donna Reed Show (1958-1966) che cementano un
senso di comunità tra lo spettatore (bianco e middle class) e la sua
controparte di celluloide. Lo spazio sociale messo a disposizione dal
televisore – e dall’elettricità – è virtuale e antisettico, come si conviene
all’unica forma di intrattenimento congeniale al suburban lifestyle.
Concepito per soddisfare esigenze e capricci della famiglia borghese su
standard dettati dalle grandi multinazionali che muovono pubblicità e
strategie di marketing, quel modello di vita non tarda tuttavia a suscitare le
riflessioni puntuali di una serie di critici di provenienza diversa:
dall’urbanista Lewis Mumford, che si scaglia contro la sconsolante
omologazione della realtà ambientale suburbana, al sociologo David
Riesman che, oltre all’influente La folla solitaria (1950) – in cui elabora la
teoria dell’uomo «eterodiretto», ovvero schiacciato sul conformismo di un
pensiero di gruppo alimentato dal mercato dei consumi – offrirà, nel saggio
The Suburban Dislocation (1957), una disamina precisa della nascita dei
suburbs quali «prodotto dell’auto, della settimana di cinque giorni,
dell’orario di lavoro dei bancari diventato quello delle masse».
Il mondo dei suburbs costituisce com’è ovvio anche un enorme, e ancora
attivo, serbatoio letterario: dal bestseller di Sloan Wilson del 1955 L’uomo dal
vestito grigio a The Crack in the Picture Window di John Keats (1956), da
Revolutionary Road di Richard Yates (1961, da cui è tratto l’omonimo film di
Sam Mendes del 2008) al già menzionato John Cheever, definito bardo e
«Geremia dell’età suburbana» grazie a raccolte di racconti come The
Enormous Radio and Other Stories (1953), e ancora, dalle storie dell’esordio di
Philip Roth in Goodbye, Columbus (1959) alla tetralogia romanzesca di John
Updike (Corri, coniglio, 1960; Torna, coniglio, 1971; Sei ricco, coniglio, 1981;
Riposa, coniglio, 1990), da Tutto a posto di Ann Beattie (1980) ad alcuni
racconti di Frederick Barthelme, Raymond Carver e giù giù fino a scrittori
come David Foster Wallace, Rick Moody, Jonathan Franzen, Jeffrey
Eugenides… l’elenco potrebbe essere infinito.
Se dalla fantasia collettiva «alta», che tende a raffigurare, pur in
gradazioni diverse, i suburbs come realtà depresse e asfittiche, passiamo
invece all’impatto ambientale di un modello di sviluppo alla continua
ricerca di nuove aree edificabili su terreni a rischio geologico – perché
alluvionali, scoscesi, paludosi o, come nel caso californiano, a ridosso di una
faglia sismica –, sarà possibile aggiungere una sfumatura catastrofica al
nostro discorso, riconducendo all’espansione incontrollata dello sprawl
suburbano l’avvicendarsi sempre più frequente e violento di incendi,
inondazioni, smottamenti e crolli.
Dar conto, infine, dei recenti studi sociologici e urbanistici sullo
sfaccettato e composito fenomeno dei suburbs significa confrontarsi con una
tassonomia in continuo divenire: oltre a quelli per colletti bianchi, ricchi,
che abbiamo impressi in una memoria televisiva condivisa, ci sono infatti
quelli vecchi e oramai decaduti e quelli poveri, per colletti blu, che si
presentano etnicamente diversificati, afflitti da povertà, disoccupazione,
servizi inadeguati. Per non dire delle gated communities (→) le comunità
(invero anche in aree urbane) che, sorvegliate fino ai denti, riservano
l’accesso – elettronico – soltanto ai residenti. Non sorprende, allora, che la
sigla di una serie tv ad ambientazione suburbana come Weeds torni alle note
di una canzone del 1962 di Malvina Reynolds intitolata «Little Boxes», in cui
le case sulle colline della California settentrionale si susseguono monotone
alla stregua di piccole scatole tutte uguali, abitate da un’umanità altrettanto
irreggimentata e conforme: «Little boxes on the hillside, / Little boxes made
of ticky tacky / Little boxes on the hillside, / Little boxes all the same… /
And the people in the houses / All went to the university, / Where they
were put in boxes / And they came out all the same, / And there’s doctors
and lawyers, / And business executives, / And they’re all made out of ticky
tacky / And they all look just the same…».

BIBLIOGRAFIA
Sally Bayley, Home on the Horizon. America’s Search for Space. From Emily
Dickinson to Bob Dylan, Peter Lang, Oxford 2010.
Bernadette Hanlon, John Rennie Short, Thomas J. Vicino, Cities and Suburbs.
New Metropolitan Realities in the US, Routledge, New York 2010.
Dianne Harris (ed.), Second Suburb. Levittown, Pennsylvania, University of
Pittsburgh Press, Pittsburgh 2010.
Catherine Jurca, White Diaspora. The Suburb and the Twentieth-Century
American Novel, Princeton University Press, Princeton 2001.
C. SCAR.

Supereroi
All’apice della loro popolarità, coincidente con gli anni della Seconda
guerra mondiale, erano circa quaranta i supereroi dei fumetti che
mettevano i loro poteri eccezionali al servizio della legge, per raddrizzare i
torti e difendere gli Stati Uniti dai numerosi nemici che cospiravano contro
il benessere del paese (→ Teoria del complotto). Una proliferazione che ha
poco di casuale: la Grande depressione (→) aveva messo in discussione
l’idea che la prosperità fosse alla portata di chiunque. La trovata di dotare i
nuovi eroi di «superpoteri» è in stretta relazione con il senso di impotenza
avvertito dalla popolazione nei confronti di una realtà sulla quale non
riusciva a influire. Certo, i «progenitori» dei supereroi (dal Calza di Cuoio di
James Fenimore Cooper al cowboy [→] fino agli investigatori privati) erano
tutti dotati di qualità eccezionali, che andavano dalla perizia nell’uso delle
armi e nella lotta fino all’estremo senso del dovere e di cui si servivano per
portare ordine negli insediamenti lungo la frontiera (→) o assicurare alla
legge i criminali che agivano nelle giungle urbane (→ Città nude). La loro
origine era però rintracciabile nello stesso mondo di coloro che
beneficiavano del loro aiuto. Viceversa, a partire da Superman, il primo
supereroe, si crea un solco tra i difensori della giustizia e l’uomo comune.
Superman proviene da un altro pianeta, Krypton, mentre Wonder Woman,
la prima supereroina, è originaria di un’isola sperduta nel mezzo
dell’oceano Pacifico: i loro poteri sono dunque una diretta conseguenza del
loro statuto di alien (→). Gli sceneggiatori ricorsero ad altri espedienti per
giustificare la dotazione di superpoteri, dalla magia fino all’incidente di
laboratorio – un riflesso delle paure associate agli esperimenti scientifici, e
che sembreranno trovare «conferma» nei fatti di Roswell (→). L’unico
personaggio i cui «poteri» derivano dal duro esercizio fisico è Batman,
l’uomo pipistrello.
Jerry Siegel e Joe Shuster avevano creato Superman nel 1933, ma
dovettero aspettare cinque anni prima di vederlo pubblicato. In quel
periodo, la comparsa di albi indipendenti (comic books) come veicolo di
diffusione alternativo alla striscia dei quotidiani (→ Comics) rivoluzionò il
mercato dei fumetti. Nati come materiale promozionale – in omaggio ai
clienti delle stazioni di servizio –, gli albi a fumetti divennero vere e proprie
testate autonome a partire da Famous Funnies, un volumetto di 64 pagine
venduto a 10 centesimi, che pubblicava a colori una selezione di materiale
originale o già comparso sui giornali. Il formato favorì l’ideazione di storie
articolate e complesse e la novità ebbe un ottimo riscontro: nel 1938, la
circolazione toccò i due milioni e mezzo di copie.
La casa editrice DC Comics lanciò nel giugno di quell’anno una nuova
testata, Action Comics, e nel primo numero fece esordire Superman. Sulla
copertina dell’albo, l’eroe in calzamaglia blu e mantello rosso dava un
saggio della sua abilità sollevando un’automobile con le sole mani. Il
successo fu tale da oscurare il nome ufficiale dell’albo: i ragazzini
chiedevano ai negozianti l’albo «con le avventure di Superman», preludio
alla decisione di dedicare al personaggio una serie autonoma. La popolarità,
tuttavia, non era limitata al pubblico dei più piccoli: alcune statistiche
dell’epoca rivelano che quasi la metà degli adulti fino ai trent’anni seguiva
con regolarità le vicende dei supereroi. Del resto, erano svariati gli aspetti di
Superman che attivavano un senso d’identificazione da parte del pubblico
dei grandi. Nel «profugo» Kal-El, sfuggito alla distruzione del suo pianeta di
origine, che nasconde la sua identità di supereroe sotto le spoglie di Clark
Kent, l’impiegato goffo e impacciato, si potevano rispecchiare varie
categorie sociali, dagli immigrati che avevano lasciato il loro paese con
poche speranze di rivederlo, all’esercito di colletti bianchi intrappolati nella
routine d’ufficio: sbottonare la camicia, rivelando al mondo la «S» rossa in
campo giallo disegnata sulla divisa aveva quindi un carattere liberatorio che
i primi potevano leggere come un recupero dell’identità «sepolta» sotto
l’uniforme di un americano assimilato, mentre per i secondi esprimeva la
volontà e il desiderio represso di mostrare la loro mascolinità. Fornendo
una sintesi di fantascienza, avventura e hardboiled, Superman incorporava i
principali generi della cultura popolare di allora. Nelle sue imprese era
meno importante l’esibizione fine a se stessa della qualità sovraumana,
rispetto alla velocità e all’efficacia con le quali riusciva a risolvere i
problemi che piagavano la società nel periodo. Il che, come ebbe a
sottolineare Marshall McLuhan nel saggio La sposa meccanica (1951), poteva
avere anche implicazioni totalitarie: «Superman si dimostra oltremodo
efficiente nel portare avanti una crociata solitaria contro criminali e forze
anti sociali […] senza fare ricorso alla legge. Le sue imprese dimostrano che
la giustizia è tutta questione di forza individuale».
Sulla scia di Superman arrivarono presto decine di imitazioni. La DC
Comics diede avvio alla serie di Batman (creato da Bill Singer e Bob Kane nel
1939), mentre l’editore Fawcett pubblicò Captain Marvel, un eroe in
calzamaglia rossa e mantello giallo che, sfruttando l’espediente di creare un
alter ego adolescente (della stessa età del gruppo più consistente di lettori,
dunque), superò Superman nelle vendite. La DC Comics rispose allora
intentando una causa di plagio che portò al blocco della testata rivale.
Nel 1941, fu la volta di Wonder Woman, nata dall’incontro tra il
disegnatore Harry G. Peters e dello psicologo William Moulton Marston, con
il preciso intento di proporre un modello femminile di eroe, le cui
avventure avrebbero dato spazio agli ideali di pace, amore e uguaglianza tra
i sessi. Ma i venti di guerra soffiavano sempre più forti, infiltrandosi negli
albi a fumetti: i supereroi, di concerto con il governo di Washington,
parteciparono a missioni segrete per contrastare gli ambiziosi piani delle
potenze dell’Asse. Prima ancora dell’entrata nel conflitto, i superbeniamini
contribuirono a orientare l’opinione dei più giovani verso il sostegno
all’impegno armato. L’editore Martin Goodman lanciò nel marzo 1941 un
personaggio dal profilo apertamente patriottico, creatura della coppia Joe
Simon e Jack Kirby: si trattava di Capitan America, la cui divisa riprende gli
elementi principali della bandiera statunitense (→ Stelle e strisce). Il
supereroe è l’altra faccia di Steve Rogers, un ragazzo fragile nel fisico che
ricorre all’iniezione di un siero misterioso per acquisire le forze di cui non
dispone per natura e dare il proprio contributo al paese. Nel primo numero
della serie, Capitan America colpisce con un pugno nientemeno che Adolf
Hitler, presentato come un «supercattivo»: la trovata si rivelò azzeccata, e
l’albo vendette più di un milione di copie. Tra le tante imprese belliche degli
eroi in calzamaglia va ricordata, per il suo valore di propaganda, la serie
cinematografica del 1943 di cui fu protagonista Batman: nei quindici
episodi, l’uomo pipistrello affronta il dottor Daka, un agente giapponese al
soldo dell’imperatore Hirohito che è riuscito a scampare all’Ordine
Esecutivo 9066 (→ Campi di prigionia). Non è casuale che la fine della
guerra segnasse l’inizio di un declino per i supereroi e il numero delle
testate loro dedicate calò in maniera progressiva, fino a che, a metà degli
anni cinquanta, ne sopravvivevano solo tre.
In quello stesso periodo, gli eroi dai superpoteri dovettero affrontare un
nemico all’apparenza innocuo, ma che si rivelerà più ostico rispetto ai
cattivi incontrati nelle loro avventure. Nel 1954, lo psicologo di origine
tedesca Frederick Wertham pubblicò un libro che fece molto scalpore:
Seduction of the Innocent attaccava la cultura popolare e in particolare i
fumetti, rei di dare troppo spazio a immagini raccapriccianti (specie del
genere horror) e al culto della violenza (con riferimento esplicito ai
supereroi). Il libro sottolineava anche le numerose allusioni a pratiche
sessuali che Wertham bollò come «devianti», a partire dal nascosto
rapporto omosessuale tra Batman e il suo giovane compagno Robin, fino al
lazo magico di Wonder Woman che, immobilizzando il nemico di turno,
faceva riferimento a situazioni di tipo bondage. Il libro di Wertham puntava
anche l’attenzione sulla presenza di pubblicità nelle pagine del comic books
che invitavano i giovani lettori ad acquistare coltellini o fucili ad aria
compressa, ma fu l’elemento legato alla sessualità a destare le maggiori
preoccupazioni, tanto da spingere il governo alla creazione di una
commissione apposita che, dopo una serie di audizioni, invitò gli editori e i
distributori di fumetti a concordare una serie di linee guida modellate sul
Codice Hays (→). Il «Comics Code» proibiva rappresentazioni negative di
poliziotti, giudici e funzionari governativi, prescriveva che le forze
dell’ordine non dovessero mai soccombere ai criminali, scoraggiava le
esibizioni di violenza gratuita, escludeva il ricorso a vampiri, lupi mannari e
zombie. Inoltre, non si sarebbe dovuto accennare ad «anomalie» sessuali di
qualsiasi genere, dalle relazioni illecite agli episodi di seduzione, sadismo,
masochismo e violenza carnale. Infine, l’esposizione e la vendita in edicola
degli albi a fumetti erano subordinate a un sigillo di approvazione.
Tutto ciò non poteva non avere conseguenze sul mondo dei supereroi. E
in effetti le restrizioni tematiche imposte dal codice, insieme a fattori di
tipo diverso, come la maturità tecnica e stilistica raggiunta da disegnatori e
sceneggiatori, nonché gli echi delle battaglie politiche degli anni sessanta, si
tradussero nella nascita di una nuova generazione di personaggi.
Battistrada nel rinnovamento fu la casa editrice Marvel che, grazie alla
collaborazione tra Stan Lee e Jack Kirby, si mise al lavoro per realizzare
nuove testate nelle quali si sarebbe data maggiore attenzione all’aspetto
psicologico dei protagonisti sottolineando il loro rapporto con la realtà dei
tempi – un’innovazione riassunta dalla formula «Supereroi con
Superproblemi». Il supereroe si configurava ora come un elemento
«marginale» della società, che cercava di essere accettato, con un chiaro
richiamo alla visione inclusiva che si diffuse in concomitanza con il
movimento per i diritti civili (→ Back of the bus): nelle nuove storie, infatti,
l’atteggiamento della gente comune non è di univoca ammirazione e
ringraziamento per i supereroi e non sono rari gli episodi di aperta ostilità
nei loro confronti. Nel novembre 1961, uscirono i Fantastici Quattro, un
gruppo di personaggi che possiedono poteri derivati dall’esposizione a
radiazioni cosmiche: il leader Mr Fantastic, che può allungare il corpo a
dismisura, la Donna invisibile, la Torcia umana e la «Cosa», la cui pelle è
ricoperta da uno spesso strato di pietra. Seguirono poi l’Incredibile Hulk, un
gigante verde dalla forza sovrumana che funge da alter ego dello scienziato
Bruce Banner, gli X-Men, un gruppo di mutanti, fino all’Uomo Ragno.
Quest’ultimo, sotto le cui spoglie si cela lo studente Peter Parker, ha
acquisito l’agilità da insetto in seguito alla puntura di un ragno, il che gli
permette di percorrere New York appropriandosi degli spazi verticali di
grattacieli (→) e tenements (→ Architetture), volteggiando da un edificio
all’altro grazie alle resistenti liane che fuoriescono a comando dai polsi: un
supereroe modellato dallo spazio urbano, insomma, e forse è quest’aspetto
che ne fece il personaggio più popolare della nuova generazione. E persino
imitato: nel 1981, Dan Goodwin, indossando il costume rosso-blu dell’Uomo
Ragno, scalò i 442 metri della Sears Tower di Chicago.
La contemporanea fortuna della serie tv (→) dedicata a Batman, che
mise in moto un fiorente mercato di gadget, segnalò una sorta di passaggio
di testimone. I supereroi erano diventati ormai archetipi universali che non
avevano più bisogno del fumetto per sopravvivere. Se da un lato le case
editrici tentavano nuove strade per tenere alto l’interesse dei lettori –
sperimentazioni sui disegni, realizzazioni di storie a tinte fosche, comparsa
di alter ego malvagi, colpi di scena epocali (come la morte di Superman e la
sua reincarnazione in quattro diverse forme «etniche») –, dall’altro, mezzi
narrativi come il cinema hanno puntato sulla mitologia originaria,
limitando le innovazioni a effetti speciali che consentono di riprodurre le
gesta dei protagonisti in modi sempre più realistici. La comparsa di parodie,
dagli Incredibili (2004) prodotti dalla Pixar (→ Xerox & Apple) fino all’Uomo
Radioattivo che compare come fumetto ne I Simpson (→ Casa Simpson), non
fa altro che confermare la risonanza che questi personaggi hanno avuto
nell’immaginario americano, offrendo un’ennesima forma alla possibilità di
reinventarsi e acquisire una nuova identità.

BIBLIOGRAFIA
Alessandro Di Nocera, Supereroi e superpoteri: storia e mito fantastico
nell’America inquieta della guerra fredda, Castelvecchi, Roma 2006.
Danny Fingeroth, Superman on the Couch. What Superheroes Really Tell Us About
Ourselves and Our Society, Continuum International Publishing Group, New
York 2004.
Russel Nye, The Unembarrassed Muse. The Popular Arts in America, The Dial
Press, New York 1970.
S.M.Z.

Surf (& skate)


Sono numerosi i viaggiatori che, approdati alle Hawaii (→) dopo la metà
dell’Ottocento, lamentano la quasi totale scomparsa di una delle tradizioni
locali più antiche, il papa he’e nalu, l’usanza di scivolare sulle onde
dell’oceano in equilibrio su una lunga tavola in legno che gli occidentali
avevano ribattezzato surf-boarding. L’antica pratica, dalle origini piuttosto
oscure, era incorsa nella censura dei missionari, che all’epoca detenevano le
leve del potere nell’arcipelago, controllando e manipolando i capi tribù: i
religiosi disapprovavano la pubblica esibizione di nudità che accompagnava
questo passatempo. Per gli hawaiani, invece, si trattava di un importante
momento comunitario: spogliatisi degli ornamenti e degli indumenti, i
nativi cavalcavano le onde per celebrare la comunione con gli elementi e, al
contempo, annullare le divisioni di casta.
Il papa he’e nalu non scomparve – per sfuggire alla censura, gli isolani
cominciarono a praticarlo di nascosto, tramandando una tradizione che
sarebbe riemersa alla luce del sole all’inizio del Novecento, quando le
Hawaii erano ormai passate sotto la giurisdizione degli Stati Uniti (→
Splendide guerricciole). Duke Kahanamoku e George Freeth furono tra
coloro che contribuirono a rendere popolare il surf oltre i confini
dell’arcipelago (senza dimenticare Jack London, che a lungo esplorò quelle
«ultime frontiere», traendone ispirazione). Il primo, da ragazzo,
intratteneva i ricchi turisti del continente cimentandosi in tuffi ardimentosi
e producendosi in spettacolari evoluzioni sulla tavola di legno (allora lunga
5 metri e pesante 70 chilogrammi). Diventato una celebrità internazionale
dopo le medaglie d’oro conquistate nei 100 metri stile libero alle olimpiadi
di Stoccolma (1912) e Anversa (1920), Duke si esibì in giro per il mondo,
contribuendo a diffondere il verbo del surf. Dopo aver visto le evoluzioni di
Duke in un film, il giovane Tom Blake decise di trasferirsi dal Midwest alle
Hawaii e imparare a cavalcare le onde, per poi stabilirsi nella California
meridionale. Nel 1935, scrisse un libro, Hawaiian Surfboard, nel quale
celebrava lo stile di vita del surfer, presentato come individuo libero, a
stretto contatto con la natura, lontano dalle nevrosi delle città e dai
problemi del lavoro – un profilo che rimanda ai vari Adami americani (→
Olimpo americano) e ai loro tentativi di ritrovare la perduta comunione con
un mondo edenico; e per questo riuscì a colpire l’immaginario popolare (a
Blake si deve anche l’introduzione di accorgimenti che hanno consentito di
rendere la tavola più leggera e più semplice da manovrare).
Il vero boom giunse con la fine della Seconda guerra mondiale e la
comparsa del teenager come nuovo soggetto socioculturale – l’adolescente
che da un lato non aveva vissuto le ristrettezze della Grande depressione
(→) né i traumi del conflitto e, dall’altro, grazie a un benessere economico
diffuso, poteva ritardare l’ingresso nel mondo del lavoro. Un consumatore,
insomma, a cui l’industria culturale offrì svariati modelli per costruire
un’identità distinta dai genitori: e quello del surfista si adattava molto bene
allo scopo. Il cinema impose lo sport a livello nazionale grazie a pellicole
quali I cavalloni (1959, tratto da un romanzo di Frederick Kohnerl) e la
«trilogia» hawaiana di Elvis Presley (Blue Hawaii, 1961; Cento ragazze e un
marinaio, 1962; Paradiso hawaiano, 1965), imperniate su una vita da spiaggia
la cui unica difficoltà era la ricerca di un partner ideale per vivere
un’avventura romantica. Seguì a ruota l’industria della musica, che affibbiò
l’etichetta di surf music al genere strumentale che alcune band suonavano
nell’accompagnare le feste in spiaggia. Variante del rock’n’roll, rispetto al
quale dava più spazio agli strumenti – alla chitarra era assegnata la melodia,
la batteria enfatizzava la scansione del ritmo, al sassofono spettava l’assolo
–, la surf music fu introdotta da gruppi quali i Bel Airs, i Safari e Dick Dale
and The Del-Tones (autori di «Misirlou», il pezzo scelto dal regista Quentin
Tarantino per aprire Pulp Fiction, 1994), mentre i Beach Boys, gruppo
composto dai fratelli Brian, Carl e Denis Wilson e dal cugino Mike Love, ne
diventarono presto gli interpreti più conosciuti. A partire dal 1961, i Beach
Boys piazzarono in classifica numerosi brani costruiti su accattivanti
melodie vocali, da «Barbara Ann» a «Surfin’ Usa» (curioso il fatto che il
nome Beach Boys non si deve né ai membri del gruppo, né ai discografici: fu
un operaio a prendere l’iniziativa di stamparlo sulla facciata del primo 45
giri, «Surfin’» al posto del ben poco evocativo «The Pendeltones», perché il
pezzo gli ricordava la musica che si sentiva sulle spiagge).
L’industria dell’intrattenimento trasformò in breve tempo il fenomeno
in una mania nazionale («If everybody had an ocean/ across the Usa / then
everybody’d be surfin’ / Surfin’ Usa»), ma in tempi altrettanto brevi lo
scaricò per rivolgersi altrove: già verso la metà degli anni sessanta la moda
segnava il passo. Il successo del documentario The Endless Summer (1966) ne
indicava paradossalmente la crisi: racconto di due surfisti che si spostano
attraverso i cinque continenti seguendo il cammino dell’estate, il film
ripropone un viaggio che si configura come ricerca di paradisi e frontiere
(→) perdute destinata a non trovare mai conclusione e lascia intuire un
probabile ritorno dei personaggi nei ranghi della società, una volta esauriti i
titoli di coda. Nello stesso periodo, i Beach Boys, nonostante i ripetuti
successi commerciali, attraversarono un periodo di crisi: il sempre più
irrequieto Brian Wilson, a cui stavano stretti i confini limitati della formula
che li aveva resi popolari, inseguiva visioni musicali più complesse,
suggerite anche dal crescente abuso di droghe.
Il surf conobbe un revival verso la metà degli anni settanta, quando
l’industria mediatica diede spazio a un sentimento di nostalgia per un
passato che la situazione critica del presente – dalla crisi energetica del
1973 ai complotti politici (→ Watergate) – aveva trasformato in una perduta
«età dell’oro», idealizzando la presunta «innocenza» di venti o quaranta
anni prima. Il surf costituisce così il filo conduttore di Un mercoledì da leoni
(1978), racconto costruito sulle vicende di un gruppo di amici che, dopo
essersi persi di vista e aver lasciato sfilacciare il legame che li univa, si
ritrova per affrontare insieme la «grande mareggiata» – un evento
atmosferico che si ripete ogni venti anni e produce onde di eccezionale
altezza e intensità – e provare a domarla restando in equilibrio sulle tavole.
Negli stessi anni, i Beach Boys tornarono ai primi posti delle classifiche con
due raccolte di successi dai titoli evocativi, The Endless Summer e Spirit of
America, a sottolineare come l’anima americana si trovasse nelle melodie
ingenue di quell’epoca innocente e goliardica.
Il surf partorì anche un figlio minore, lo skateboard: nonostante il
popolare film di Robert Zemeckis, Ritorno al futuro (1985), ne attribuisca
l’introduzione a un viaggio a ritroso nel tempo del protagonista Martin
McFly, lo skateboard nasce per iniziativa di surfisti che volevano tenersi in
allenamento nei periodi in cui non era possibile andare in spiaggia. Intorno
allo skate nacque però una cultura distinta. La sua popolarità si deve a una
singolarità: rispetto ad altre attività ricreative, lo skateboarding è privo di
regole da rispettare, allenatori cui obbedire, campi di gioco o squadre in cui
stare confinati. Lo skater inventava la propria divisa, sviluppava nuove
tecniche, colonizzava gli spazi urbani seguendo il capriccio individuale e
aggredendo i manufatti della città, dalle scalinate alle ringhiere, dai cantieri
abbandonati alle rampe degli svicoli stradali, per superare i limiti imposti al
libero movimento.
La contiguità dello skater con l’ambiente urbano ne fece una figura
ribelle, non certo rassicurante come quella dell’adamitico surfista. Ne è un
esempio Corsa al massacro (1986), un film di David Winters, che inserisce le
corse a rotta di collo degli skaters per le strade di Los Angeles – fra passanti a
un tempo ammirati e inorriditi – in una tenzone tra bande rivali che si
affrontano per stabilire chi sia il migliore, proponendo persino una versione
aggiornata della giostra medievale, nella quale i due «cavalieri» corrono
l’uno verso l’altro in equilibrio su uno skateboard.
La dimostrazione di abilità, ancora una volta, diventa un rito di
passaggio, memoria dei duelli proposti nella cinematografia western: e ne
uscirà vincitore il contendente dallo spiccato profilo morale, onesto e leale
persino nei confronti del nemico. Tutto il contrario di Bart, il ragazzo ribelle
che, nella sigla di apertura de I Simpson (→ Casa Simpson) sfreccia con lo
skate per le strade di Springfield. Ma come ogni good bad boy (→ Piccoli
uomini) che si rispetti, anche per Bart ci saranno occasioni in cui mettere da
parte l’animo ribelle e dar prova della sua profonda coscienza morale.

BIBLIOGRAFIA
Kristin Lawler, The American Surfer: Radical Culture and Capitalism, Routledge,
London 2010.
Sean Mortimer, Tony Hawk, Stalefish: Skateboard Culture from the Rejects Who
Made It, Chronicle Books, San Francisco 2008.
S.M.Z.
[T]

Tacchino
«Vorrei che a rappresentare la nostra nazione non fosse stata scelta
l’aquila, animale in genere meschino e spesso molto rumoroso. Il tacchino è
un uccello molto più rispettabile», scriveva intorno al 1784 Benjamin
Franklin alla figlia Sarah. Protagonista delle tavole nel giorno del
Ringraziamento (→), il tacchino americano (Meleagris gallopavo) non è solo
un animale piuttosto bistrattato, ma è anche vittima di molti equivoci:
venne infatti chiamato turkey dagli esploratori europei intorno al 1587, che
lo scambiarono per una più piccola faraona, già diffusa in Europa e
originaria della Guinea, che arrivò nel Vecchio mondo passando dalla
Turchia. E, sebbene sia divenuto sinonimo di quella festività, è a ben vedere
il simbolo dell’intera tradizione culinaria americana: tanto che il baccalà
era anche chiamato «il tacchino di Cape Cod», mentre lo spezzatino col
cavolo (o un’altra brodaglia simile, molto diffusa fra i vagabondi →) era
soprannominato il «tacchino irlandese».
Nonostante la stima di Franklin per il volatile, nel lessico colloquiale il
tacchino ha sempre avuto connotazioni negative: l’espressione cold turkeys
(«tacchini freddi») sta a indicare «verità spesso spiacevoli» e talvolta è pure
usata per definire gli ex tossicodipendenti. Neanche l’intelligenza di questi
pennuti è stata tenuta in grande stima, se da fine Ottocento in poi è definito
«tacchino» una persona che si lascia facilmente abbindolare (il nostro
«pollo»). Passando al mondo delle arti, sappiate che a partire dagli anni
venti del Novecento «tacchino» stava a indicare un fiasco teatrale, mentre,
con l’esplodere del ragtime, la danza a esso associata era chiamata anche
turkey trot – per i balzi repentini e le sgraziate movenze dei danzatori.
Forse è per rimediare in parte alle colpe della storia americana nei
confronti di uno dei suoi animali più importanti e incompresi che dal 1963,
per volontà di John F. Kennedy, il tacchino donato all’inquilino della Casa
Bianca dalla National Turkey Federation viene graziato (in un’apposita
cerimonia, la National Thanksgiving Turkey Presentation) qualche giorno prima
del suo approdo in tavola al cospetto del presidente, per essere poi
trasferito in pompa magna a Disneyland. Non si può dire che giustizia sia
fatta, ma almeno un piccolo risarcimento morale c’è.

BIBLIOGRAFIA
Stuart Berg Flexner, Listening to America. An Illustrated History of Words and
Phrases from Our Lively and Splendid Past, Simon & Schuster, New York 1982.
Andrew F. Smith, The Turkey. An American Story, University of Illinois Press,
Urbana-Chicago 2006.
C. SCHIA.

Tall tale
L’umorismo è una cosa seria. Attraverso le sue mille sfaccettature, dalla
satira bonaria alla parodia, fino allo sferzante sarcasmo, è stato ed è uno dei
pilastri della cultura e della narrativa popolare americana. Ha
caratterizzato, con sfumature e temi diversi, Est e Ovest, Nord e Sud,
misurando a colpi di sagacia la distanza fra le diverse culture del paese e
l’abisso che intercorre fra la vuota retorica e il sano horse sense (il
buonsenso) dei pragmatici cittadini comuni. Vi sono personaggi che
sull’umorismo hanno costruito le proprie fortune: è il caso dell’ormai
leggendario Davy Crockett, uomo del Sud e poi membro del Congresso (→
Olimpo americano), il quale deve buona parte della sua fama alla
(largamente falsa) autobiografia zeppa di stereotipi e iperboli, usata in
modo consapevole per costruirsi un personaggio pubblico e acquisire
popolarità. Ve ne sono altri invece che proprio per la loro incontenibile
vena dissacratoria hanno rischiato di perderle, le fortune: così, alla cena in
onore del poeta John Greenleaf Whittier e in presenza della buona società
dell’Est, Mark Twain raccontò una delle sue storielle umoristiche in cui
metteva alla berlina i venerati (e seduti poco distanti da lui) Ralph Waldo
Emerson, Oliver Wendell Holmes e Henry Wadsworth Longfellow,
tratteggiati come «un uomo squallido e trasandato», «un pallone gonfiato»
e «un gorilla», intenti a derubare un minatore del Nevada.
Nella narrativa statunitense, l’umorismo popolare è come un fiume
carsico, che scorre sotterraneo in tante opere, per affiorare alfine in
superficie, in un genere tanto autoctono quanto universale nelle sue
tematiche e modalità discorsive: il tall tale. Saldamente radicato nella
tradizione orale, il tall tale è un racconto breve narrato in prima persona,
che ha al suo centro eventi a prima vista comuni e inseriti in una cornice
realistica, che o si risolvono in maniera imprevista, oppure divengono
sempre più assurdi e improbabili, anche grazie all’ambientazione in
contesti naturali (→ Wilderness) e sociali che l’immaginario nazionale
dipingeva in termini iperbolici. Obiettivo nemmeno troppo velato di questo
genere d’umorismo è riaffermare il potere sovversivo e insieme
democratico della risata: una democrazia, esaltata ma al contempo messa in
discussione in una forma popolare, che ai suoi albori si espresse in uno degli
strumenti di diffusione culturale più conosciuti, gli almanacchi (→).
La smargiassata, il paradosso, l’iperbole, sono dunque gli ingredienti con
cui si cucina il tall tale. Miscelando satira e giochi linguistici mutuati dal
Vecchio mondo con spunti e personaggi archetipici autoctoni (tendenza
questa che si rileva a partire dagli anni venti dell’Ottocento, col costituirsi
di un’identità nazionale), spesso rozzi e incolti, il racconto umoristico
germogliò prima nel folklore dei territori dell’Est con lo yarn (il racconto a
ruota libera), il cui finale è il vero motore della risata: come quando si narra
di una colletta per i funerali di una povera vecchia che da sei settimane
attende sepoltura – e che, si scoprirà alla fine, in verità non è morta.
Protagonista dello yarn è spesso il bugiardo contafrottole, figura non
dissimile dal trickster o dal con-man (→ Tricksters e con-man): può essere un
artigiano, un venditore ambulante o un mercante di cavalli (che rifila al
pollo da spennare una bestia che ha solo due difetti, rivelati solo a
transazione avvenuta: «impossibile da prendere e, una volta preso, buono a
nulla»). Sono figure che rimandano sovente alla tradizione picaresca: ed è la
loro marginalità dentro alle strutture sociali a generare lo scarto fra
«normalità» ed «eccentricità» che sta alla base dello humor. È un mondo in
cui il travestimento e l’inganno costituiscono il punto di forza e la
condizione della sopravvivenza: «è un bene essere sfuggenti in un paese
nuovo», dirà uno di questi bricconi con un certo autocompiacimento,
vantandosi delle proprie truffe.
In breve tempo, tuttavia, protagonisti di quel mondo assurdo e
iperbolico diverranno in primo luogo i rozzi contadini del Midwest e poi
dell’Ovest: un universo rurale in cui le qualità che più contano sono la
furbizia, l’astuzia, la prontezza di spirito e d’azione, o un universo di rudi
uomini di frontiera (→): come G.H., famoso cacciatore, che con una sola
pallottola uccide uno storione e un cervo e fa colare miele da un albero; o
come il già citato Davy Crockett, che sfugge alle truppe inglesi
arrampicandosi su per le cascate del Niagara (→) con suo fidato alligatore
Long Mississippi (→ Vie d’acqua) o si mette in salvo da un tornado saltando
a cavalcioni di un fulmine insieme all’amico-rivale Mike Fink (→ Olimpo
americano). Un universo pervaso dalla violenza accidentale e anche un po’
splatter che mai avrebbe potuto trovar posto nella letteratura «alta», una
violenza così eccessiva da risultare comica: si veda il racconto con venature
gotiche dello «sfortunato giovane di Aurelia» di Mark Twain, in cui il
promesso sposo, data l’insana abitudine di cader vittima dei più disparati
incidenti, alla fine della storia è ridotto a una testa con un tronco.
Sarà nel Sud e nel Sudovest in particolare che il tall tale ibriderà
molteplici retaggi culturali e diverse tradizioni comiche, tanto da farsi
simbolo di esperienze fondative per l’identità nazionale: è ciò che avviene
in Il grande orso dell’Arkansas (1841) di Thomas B. Thorpe, il racconto più
famoso del genere, ambientato su un battello che risale il Mississippi, su cui
s’imbarca, insieme al narratore, un singolare personaggio che racconta
della sua caccia a un animale che è demonio e fratello, creatura
soprannaturale e personificazione della wilderness (→) – un orso che muore
per mano del narratore e che tuttavia «non si poteva cacciare e morì
quando giunse la sua ora». Qui, a essere presi per il naso paiono i rispettabili
e onesti abitanti dell’Est che decidono di dar credito ai racconti degli
autoctoni, non per semplice ingenuità, ma a causa delle loro enormi
aspettative riguardo all’eccezionalità del mondo della frontiera.
Lontani i tempi in cui, come ricorda Claudio Gorlier, i puritani (→
Covenant) consideravano i motti di spirito blasfemi. Dall’Ottocento in
avanti, l’umorismo darà voce all’intelligenza del popolo, allo sguardo dal
basso sui grandi quesiti attorno a cui dibattevano in quegli anni intellettuali
e politici: dall’essenza della democrazia alle frizioni della razza, dal mito
dell’Ovest all’iniqua distribuzione della ricchezza. È tutta la società a
passare sotto la lente impietosa degli umoristi della frontiera – si pensi di
nuovo a Twain e al suo «celebre ranocchio saltatore» (del 1865), ingozzato
di nascosto dal concorrente di pallini da caccia per limitarne l’abilità nel
salto, con cui lo scrittore esordì nel mondo della letteratura: allegoria del
materialismo americano e della futilità delle ambizioni umane.
È attorno alle figure degli eroi popolari che si concentrano sovente i tall
tales più famosi, a sottolinearne la statura eccezionale e al tempo stesso a
mettere in dubbio, per l’incredibile natura dei fatti narrati, la loro stessa
plausibilità. Se alla berlina sono spesso anche le figure importanti della
società e della politica (da George Washington ad Abraham Lincoln), o più in
generale i modelli del buon cittadino (come l’eroe cavalleresco tipico della
cultura del Sud, la cui caricatura, il capitano Simon Sugg, semina morti e
disastri nel tentativo di difendere il suo villaggio da un presunto attacco
degli indiani), a essere messi in scena sono anche i margini della società. I
bianchi poveri per esempio, ben rappresentati, intorno al 1867, dal Sut
Lovinghood di George Washington Harris, il contadino del Tennessee che
condensa i tratti negativi dell’uomo di frontiera (il razzismo, il
provincialismo, la tendenza asociale), senza mostrare neppure l’ombra di
una virtù. Sut gira la regione in lungo e in largo, bevendo, amando le donne
e malmenando, a parole e nei fatti, il clero e la gente rispettabile: privo di
qualità o di una sagacia che vada oltre l’istinto, egli può vendicarsi dei torti
subiti solo attraverso la burla e lo scherzo – come quando infila durante un
sermone una decina di lucertole nei pantaloni del parroco John Buller, reo
di aver interrotto un suo incontro amoroso e di averlo picchiato per
condurlo sulla retta via. Lungi dall’essere un semplice bozzetto umoristico,
il personaggio di Sut è un patetico e grottesco simbolo di una società (quella
del Sud) in rapido sgretolamento che, dopo la sconfitta della Guerra civile
(→), si avvia lungo il viale del tramonto.
Protagonisti sono poi altri margini sociali: afroamericani in primis,
compressi nelle vesti dello stereotipo, oppure liberi e creativi
nell’invenzione: al secondo caso appartiene lo «zio Remus» di Joel Chandler
Harris che, oltre a indicare in modo profetico un’unica progenie di colore
come origine delle razze nel suo «Perché i neri sono scuri», introduce nel
folklore popolare statunitense leggende e personaggi che provengono in via
diretta dall’Africa: è il caso della Volpe che cerca di catturare l’odiato
Coniglio con un «tar baby», un bambino di catrame (storia poi ripresa da
quel grande serbatoio di cultura popolare che fu l’industria Disney →
Disneyland, oltre che titolo di un romanzo del premio Nobel per la
letteratura 1993, Toni Morrison).
Anche il mondo dell’emigrazione europea entra nel racconto folklorico,
e lo fa attraverso figure stereotipiche come il Mr Dooley di Finley Peter
Dunne, con il suo parlato irlandese-americano che rimanda alla Chicago di
fine Ottocento. Perché è nel linguaggio che risiede la forza del tall tale: sia
nei tanti dialetti e nelle plurime sfumature linguistiche (gli unici strumenti
in grado di caratterizzare appieno un personaggio che è prima di tutto
voce), sia nel linguaggio in quanto nonsense, contenitore vuoto, il cui fluire
può anche non condurre da nessuna parte. Non è raro infatti che
l’umorismo scaturisca, per così dire, dalla parola stessa, dalla parodia di una
forma narrativa che, c’insegna Mark Twain in Come raccontare una storia,
trae origine dalla capacità di divagare, di prender tempo, di fare le pause
giuste – tanto giuste «da far balzare una ragazza sulla sedia facendole
perdere le scarpe». Ecco allora che protagonisti del racconto divengono,
negli anni trenta dell’Ottocento, i logorroici Jack Downing e Jack Robinson
di Seba Smith (il secondo fa perdere una scommessa al maggiore Grant per
un’irrefrenabile tendenza alla divagazione, che lo trattiene dal rispondere
in modo diretto alla più semplice domanda); o i due amici (usciti in quegli
stessi anni dalla penna di Augustus Baldwin Longstreet) che ordiscono uno
scherzo ai danni dei loro compagni della Società del Dibattito, proponendo
come tema di discussione una frase del tutto priva di senso.
Tramontata la popolarità del tall tale nella sua forma tradizionale già a
fine Ottocento, esso è tornato a scorrere nel secolo successivo sotto la
superficie, in altre forme e altri generi. Come definire altrimenti la vena
dissacratoria e il gioco dell’assurdo che pervade il romanzo Comma 22 di
Joseph Heller, le mirabolanti acrobazie verbali di John Barth, le strampalate
trame di parole di Richard Brautigan, le esilaranti sconcezze dei personaggi
di Philip Roth, la tragica «corsa del coniglio» di John Updike (con quel
protagonista, «Rabbit», che è forse parente del suo omonimo del tall tale);
oppure la travolgente logorrea di un comico del calibro di Will Rogers o la
caustica oralità di uno stand-up comedian come Lenny Bruce e l’irrefrenabile
umor nero del suo erede Eric Bogosian; o, al cinema, le esplosioni di comica
violenza dei personaggi di Quentin Tarantino? Forse allora aveva ragione
Josh Billings, pseudonimo e alter ego di Henry W. Shaw, insieme a Mark
Twain grande umorista della seconda metà dell’Ottocento, quando diceva
che «gli americani amano le cose caustiche: preferirebbero bere trementina
piuttosto che acqua di colonia, se dovessero scegliere fra le due cose. Così
condiscono il loro umorismo: lo vogliono all’ostrica con pepe di Cajenna». A
giudicare dalla longevità dello spirito del tall tale, sono stati ampiamente
accontentati.

BIBLIOGRAFIA
Claudio Gorlier (a c. di), Gli umoristi della frontiera, Editori Riuniti, Roma 1988.
Constance Rourke, American Humor. A Study in the National Character,
Harcourt Brace Jovanovich, New York 1931.
Louis Rubin, Jr. (ed.), The Comic Imagination in American Literature, Rutgers
University Press, Rutgers 1973.
C. SCHIA.

Tea Party
Tra i momenti iconici della Rivoluzione americana, un posto particolare
occupa il Boston Tea Party. La notte del 16 dicembre 1773, un gruppo di
cittadini, mascherati da indiani mohawk, salì a bordo di tre navi mercantili
ormeggiate nel porto, la Dartmouth, la Eleanor e la Beaver. La brigata impiegò
quasi tre ore per gettare in mare l’intero carico di tè delle navi: circa 45
tonnellate, per un valore di 9000 sterline di allora.
Non si sa con precisione quanti fossero i membri del gruppo (i resoconti
variano da alcune decine a circa un centinaio) né chi vi avesse preso parte
(pare che fossero presenti il leader rivoluzionario Sam Adams, il futuro eroe
della Rivoluzione Paul Revere e Thomas Melville, nonno dello scrittore
Herman). Era tuttavia chiaro l’intento provocatorio nei confronti della
madrepatria: le colonie erano disposte a rinunciare al tè piuttosto che
pagare la tassa decisa dal Parlamento di Londra sul commercio delle spezie
da cui si ricava la bevanda. L’élite politica americana rifiutava di pagare
dazi votati da un’istituzione in cui non sedevano rappresentanti scelti dalle
colonie d’oltreoceano – atteggiamento riassunto dalla formula coniata da
un avvocato di Boston, James Otis, «la tassazione senza rappresentanza
equivale a tirannia».
Dalla lontana Philadelphia, Benjamin Franklin deprecò l’accaduto,
convinto che i ribelli bostoniani avessero passato il segno. Viceversa, un
altro Adams, il futuro presidente John (→ Famiglie Ad[d]ams), vide
nell’episodio un gesto audace e intrepido che avrebbe avuto importanti
conseguenze. L’inasprimento del confronto tra colonie e madrepatria era
del resto inevitabile: il governo inglese, sorpreso dall’efficace boicottaggio
organizzato dagli americani, aveva ritirato le tasse introdotte nel biennio
1765-1767, ma non voleva rinunciare a imporre la propria autorità sulle
colonie. Quelle entrate erano necessarie per pagare gli stipendi della
burocrazia e delle guarnigioni che prestavano servizio in America, visto che
le casse reali erano vuote dopo la dispendiosa Guerra dei sette anni contro
la Francia (1755-1763).
Il carico delle tre navi ancorate a Boston apparteneva alla East India
Company, l’impresa che aveva ottenuto dal governo inglese il monopolio
sul commercio del tè, privilegio pagato a caro prezzo nella forma di tasse
che venivano riscosse allo scarico della merce. La compagnia non navigava
in buone acque poiché subiva la feroce concorrenza del tè contrabbandato
dai mercanti olandesi: nel 1773, per evitarne la bancarotta, il Parlamento
britannico approvò il Tea Act, con il quale si autorizzava la East India
Company a vendere la merce alle colonie senza pagare alcuna tassa nel
Regno Unito, norma che rimaneva in vigore per tutte le altre merci. La
legge permetteva alla East India Company di vendere il tè a prezzo ridotto,
ma manteneva l’accisa di 3 scellini per libbra che i mercanti americani
avrebbero pagato allo scarico della merce nei porti.
Le diverse colonie concertarono una nuova azione di boicottaggio. A
Charleston, il tè venne lasciato marcire nei magazzini del porto, mentre a
Philadelphia nessuno accettò di pilotare i mercantili inglesi all’approdo. A
Boston, all’epoca il principale mercato per il tè nel Nuovo mondo, il
governatore inglese Hutchinson volle usare il pugno di ferro e non
autorizzò il ritorno in patria delle navi finché tutta la merce non fosse stata
sbarcata e la tassa pagata.
I bostoniani organizzarono una ronda intorno alle imbarcazioni per
impedire che si iniziassero le operazioni di scarico. Nel frattempo, in
un’accesa riunione presso la Old South Church, Sam Adams dal podio
convenne che l’assemblea, dopo aver tentato invano di convincere
Hutchinson a cedere, non poteva fare di più per salvare la situazione. Chi
pensava si trattasse di un’ammissione di sconfitta venne smentito la notte
del Tea Party (a questo proposito, rimane curioso il fatto che l’espressione
«Boston Tea Party» cominciasse a comparire solo a partire dal 1834). La
strada verso la Guerra d’indipendenza (→ Rivoluzione americana) era
ormai spianata.
Come tuttavia dimostrò nel 1791 la cosiddetta «ribellione del whiskey»
(→ Proibizionismo), una volta ottenuta la rappresentanza, i cittadini
americani si dimostrarono ancora restii a pagare le tasse. E in questa
tradizione si inseriscono oggi gli aderenti al nuovo Tea Party, il movimento
che, nato quasi per caso nell’inverno 2009, ha conquistato consensi tra
alcune frange rimaste insoddisfatte dalla politica del Partito repubblicano e
dalla gestione della crisi economica dell’autunno 2008. La protesta contro la
politica governativa si è coagulata sotto le insegne di un nuovo partito in
cui la parola Tea è stata intesa come acronimo dell’espressione Taxed
Enough Already (= già abbastanza tassati). Battezzati teabaggers dai
detrattori (un neologismo che deriva da teabag, la bustina di tè, ma ricorda
da vicino anche il vituperato carpetbagger →), i sostenitori del movimento
hanno dato prova di poter influenzare l’esito delle consultazioni elettorali.
L’incarnazione più recente del Tea Party ha riacceso il dibattito sul
significato non solo di quanto accaduto a Boston nel 1773, ma anche della
stessa Rivoluzione americana (→), e ha riproposto il tentativo, piuttosto
peregrino in realtà, di capire come si potrebbero comportare i padri
fondatori davanti ai dilemmi e ai problemi della contemporaneità. Nelle
celebrazioni del bicentenario, nel 1973, per esempio, questa eredità aveva
assunto connotazioni piuttosto lontane dalle rivendicazione dei teabaggers
di oggi. In un momento di tensioni interne dovute alla montante protesta
contro la guerra in Vietnam (→), il presidente Nixon cercò di sfruttare la
ricorrenza per promuovere la coesione nazionale. Alcuni uomini d’affari
avevano fatto ricostruire la Beaver riadattando un vecchio scafo e la nave,
dopo una difficile crociera transatlantica, era approdata a Boston. Il clima in
patria era incandescente per le rivelazioni sul ruolo del presidente nello
scandalo Watergate (→), e durante un incontro alla Faneuil Hall, Thomas
Boylston Adams, discendente di John Adams, arrivò a chiedere
l’impeachment del presidente, suggerendo che alle celebrazioni si sostituisse
il lutto, perché il governo nazionale era pieno della stessa corruzione, dello
stesso marciume e della stessa arroganza che gli eroi di due secoli prima
avevano combattuto. Finito il discorso, il pubblico s’incamminò verso la
nuova Beaver, sulla quale, in mezzo a gruppi di afroamericani, gay e
femministe, sei attivisti srotolarono uno striscione che diceva «Impeach
Nixon». E qualche mese più tardi alcuni proposero la creazione di un Tea
Party – stavolta acronimo di Tax Equity for Americans (= uguaglianza fiscale
per gli americani) –, un gruppo che le tasse le voleva pagare,
ridistribuendone però il peso in maniera equa, e mirava a far pagare il
dovuto alle grandi corporation.
I teabaggers di oggi sarebbero imbarazzati nel trovarsi di fianco a tale
compagnia di radicali «socialisti». Avere a che fare con il tè, dunque, sembra
problematico: e c’è da scommettere che Sam Adams sarebbe ben lieto di
sapere che oggi il suo nome compare sulle etichette di una delle birre più
diffuse di Boston.

BIBLIOGRAFIA
Bernard Bailyn, Gordon S. Wood, Le origini degli Stati Uniti, il Mulino, Bologna
1987.
Benson Bobrick, Angel in the Whirlwind. The Triumph of the American
Revolution, Penguin, New York 1997.
Howard Zinn, Storia del popolo americano. Dal 1492 a oggi, il Saggiatore, Milano
2005.
S.M.Z.

Teatri viventi
New York 1947: un gruppo di artisti guidati da Judith Malina (allieva del
regista tedesco Erwin Piscator, collega e collaboratore di Bertolt Brecht) e
da Julian Beck (pittore della corrente dell’espressionismo astratto o action
painting, di cui il nome più noto in quegli anni era Jackson Pollock → Grandi
tele) danno vita a un collettivo teatrale chiamato The Living Theatre. Le
ascendenze piscatoriane e pollockiane sono certo significative, ma ancor
più decisivo è l’incontro di Malina e Beck con l’opera del teorico del «teatro
della crudeltà», il francese Antonin Artaud, specie per quanto riguarda il
lavoro sul e del corpo dell’attore (interessante ricordare che, in quello stesso
anno, viene fondato anche l’Actors Studio [→], diretto da Elia Kazan e poi
Lee Strasberg, che si basa sulle teorie di Costantin Stanislavski relative al
lavoro dell’attore, riprese negli Stati Uniti, nel corso degli anni trenta, dal
Group Theatre). In particolare, Il teatro e il suo «doppio», pubblicato da
Artaud nel 1938, fornisce l’ispirazione costante alla compagnia che, negli
anni successivi, mette in scena lavori di Brecht, Cocteau, Eliot, Gertrude
Stein, Lorca, Pirandello e altri drammaturghi e poeti, elaborando via via uno
stile e un credo, destinati a rimanere la cifra del gruppo: forte fisicità
dell’attore, coinvolgimento diretto e provocatorio del pubblico, rifiuto di un
teatro consolatorio e di svago rappresentato in primo luogo da Broadway
(→), ripresa di certi temi delle avanguardie artistiche degli anni dieci e
venti (anche nella loro versione teatrale americana: i Provincetown Players,
il primo O’Neill, i Washington Square Players) o della sperimentazione degli
anni trenta (Orson Welles, il Group Theatre, Clifford Odets, Elmer Rice).
In una sorta di moto perpetuo da uno scantinato a un loft (un gioco a
rimpiattino con i vigili del fuoco, l’assessorato all’edilizia, l’ufficio delle
imposte – quasi una prefigurazione in piccolo del suo futuro nomadismo), il
Living Theatre diventa presto un punto di riferimento obbligato per il
mondo artistico d’avanguardia del secondo dopoguerra, fra action painting,
bebop (→), happening e letture di poesia, in aperto conflitto con l’atmosfera
di chiusura e bigottismo del Maccartismo (→) e della Guerra fredda. Le due
rappresentazioni di The Connection di Jack Gelber (1959, un crudo testo sulla
droga, affidato soprattutto all’improvvisazione degli attori) e di The Brig di
Kenneth Brown (1964, una violenta messinscena antimilitarista, ambientata
in un carcere militare), oltre a guadagnare al gruppo numerosi premi e
riconoscimenti da parte della critica, imprimono un’autentica svolta alla
scena teatrale newyorkese e nazionale. Seguiranno altre rappresentazioni
di grande impatto: Antigone, Frankenstein, Mysteries and Smaller Pieces, fino a
quella summa del lavoro teatrale del Living Theatre (ancor più politico, e in
maniera esplicita) che sarà Paradise Now, una sorta di rituale collettivo sui
temi dell’amore e del sesso, dell’anarchia e del pacifismo, ideato e
rappresentato con infinite varianti nei tardi anni sessanta, mentre il gruppo
è impegnato in una lunga tournée-esilio in Europa (tornerà negli Stati Uniti
nel 1968, per riprendere in seguito il vagabondaggio fra America del Nord,
America del Sud ed Europa, con non poche disavventure legali, arresti e
divieti – un nomadismo proseguito anche dopo la morte di Beck e sostenuto
dall’indomita energia di Malina).
Nel frattempo, l’esempio del gruppo è seguito da altri collettivi teatrali,
come il Caffè Cino di Joe Cino e il Caffè LaMama di Ellen Stewart, ciascuno
con una propria cifra stilistica, provocatoria, sperimentale, di ricerca, e in
seguito dall’Open Theatre di Joseph Chaikin (già attore del Living), dal
Performance Group di Richard Schechner (autore anche di numerosi testi
critici e direttore dell’importante The Drama Review) e dalla sua successiva
evoluzione (The Wooster Group di Elizabeth LeCompte e Willem Dafoe), e da
gruppi più politicizzati come il Bread and Puppet Theatre di Peter
Schumann, il San Francisco Mime Troupe di Ronnie G. Davis, El Teatro
Campesino di Luis Valdéz (→ Chicanos) – un universo sfaccettato e vitale,
che crea e anima la scena off-off-Broadway e nel corso degli anni sessanta
affianca le mobilitazioni contro la guerra nel Vietnam (→ Movement)
esprimendosi in maniera aperta su temi come il razzismo, l’oppressione
femminile, il cosiddetto «complesso militare-industriale», e da cui
emergeranno alcuni dei nomi più importanti (attori, registi, drammaturghi)
dell’odierna scena teatrale americana. In un continuo rimando, aperto e
non privo di rivisitazioni critiche e prese di distanza, a Dada, Brecht,
Grotowsky, Artaud, alla «commedia dell’arte» e alle culture popolari
d’Europa, Africa e Asia, questi collettivi, dalla vita spesso precaria, alcuni
scomparsi nel giro di pochi anni, altri attivi anche nei decenni seguenti con
risultati alterni, sono accomunati dall’esigenza di reagire a una tradizione
teatrale vista come incapace di rinnovamento e (cosa che li rende parte
integrante di una stagione di forte impegno civile e politico) da un rifiuto
della passività soddisfatta e priva di reazioni del pubblico, che ai loro occhi
rappresenta uno degli ingredienti centrali del «far teatro» tipico di tanta
parte del secondo dopoguerra.
Il loro lascito, diffuso e diversificato, viene ripreso, nel corso degli anni
settanta e ottanta, da esperienze come quelle del teatro nuyorican (→) o di
monologhisti come Eric Bogosian, Spalding Gray, Karen Finley, che si
riallacciano anche alla tradizione del cabaret satirico degli anni cinquanta
(Lenny Bruce) o, più indietro nel tempo, di quei particolarissimi performers
tardo-ottocenteschi (conferenzieri-umoristi come Mark Twain e George
Washington Cable, intrattenitori della Bowery [→] come Steve Brodie),
capaci di instaurare un rapporto diretto e provocatorio con il pubblico.
Teatro vivente, per l’appunto.

BIBLIOGRAFIA
C.W.E. Bigsby, A Critical Introduction to Twentieth-Century American Drama.
Volume Three: Beyond Broadway, Cambridge University Press, Cambridge
1985.
Mario Maffi, La cultura underground, Odoya, Bologna 2009.
M.M.

Teddy Bear
Chi, da bambino/a, non ha avuto (o desiderato avere) un orsacchiotto di
peluche? Negli Stati Uniti, i bambini (le bambine) potevano contare, fin
dagli inizi del Novecento, sui morbidi «teddy bears», che presto
diventarono un’autentica mania – tradottasi ormai in musei (a Naples, in
Florida), corsi di «do-it-yourself teddy bears», canzoni, festival, trasmissioni
televisive e altro (a quanto pare, posti di polizia e caserme di pompieri, in
giro per gli Stati Uniti, dispongono di orsacchiotti di peluche, per affrontare
eventuali emergenze con bambini sotto choc). Ma perché «teddy bear»,
«orsacchiotto Teodoro»?
La storia è la seguente. Novembre 1902, stato del Mississippi: il
presidente Theodore Roosevelt, cacciatore entusiasta, acceso propagandista
di una vita rude e all’aria aperta, già comandante delle truppe d’assalto
(«Rough Riders») durante una delle «splendide guerricciole» (→) di fine
Ottocento, esce in una battuta di caccia con altri amici, su invito del
governatore dello stato. Il gruppo insegue e cattura un orso e lo lega, ferito
e senza forze, a un albero. Roosevelt viene invitato a finirlo, ma si rifiuta, in
quelle condizioni, e… lascia agli altri il compito, per non farlo più soffrire.
Diffusasi la notizia, sul Washington Post compare una vignetta satirica che
raffigura il presidente che volta le terga all’orso; la vignetta è presto imitata
da altri giornali e disegnatori e, nel corso del tempo, il grosso orso nero
diventa un commovente cucciolotto. Di lì a poco, nasce anche il primo
orsacchiotto di peluche, messo in vetrina a Brooklyn dal suo creatore,
Morris Michtom (un tassidermista a tempo perso) con il cartello «Teddy’s
Bear», l’«orso di Teddy»: Mitchom farà subito fortuna con la ditta Ideal
Novelty and Toy Company. Più o meno in contemporanea, anche la ditta
tedesca Steiff creerà un orsacchiotto simile, esportandone migliaia di
esemplari negli Stati Uniti e vincendo perfino una medaglia d’oro alla Fiera
internazionale di St. Louis (→ Esposizioni universali), nel 1904.
Tutto ciò succedeva prima che arrivasse sulla scena la Barbie (→).

BIBLIOGRAFIA
Peggy Bialosky, Alan Bialosky, The Teddy Bear Catalog, Workman Publishing,
NewYork 1980.
Linda Mullins, The Teddy Bear Men: Theodore Roosevelt & Clifford Berryman,
Hobby House Press, Cumberland 1987.
M.M.

Televangelisti
A partire dagli anni ottanta del Novecento, accanto alla pay tv esiste anche,
con epicentro statunitense, una pray tv. Che poi la «tv per pregare»
raccolga spesso laute donazioni trasformandosi così, in termini virtuali, in
una «tv a pagamento» è, forse, solo una coincidenza.
I mattatori della pray tv – nonché ospiti di alcuni programmi delle reti
generaliste – sono chiamati «televangelisti» e diffondono la loro parola non
a un drappello di fedeli riuniti in una chiesa, bensì davanti a una
telecamera, registrati nel chiuso di uno studio televisivo oppure in diretta,
da una multimediale megachurch (→ Quakers, Shakers, Mormons). Il
televangelismo è infatti inseparabile dalla nascita – e dallo sviluppo – di
canali tematici quali God Channel e lo storico Trinity Broadcasting Network
(Tbn), fondato dai coniugi Paul e Jan Crouch nel 1974. Tbn è la più grande
rete televisiva (rivolta anche a cattolici ed ebrei) e il suo palinsesto offre
ventiquattro ore di programmi non-stop senza pubblicità. Per rendere
un’idea del suo impatto culturale, basterà qui ricordare come, per numero
di spettatori, Tbn sia il quarto canale americano, dopo Cbs, Fox e Nbc.
La fortuna dei predicatori mediatici comincia però negli anni trenta del
Novecento, durante la Grande depressione (→), con la rinascita del «Camp
Teaching» – ovvero il camping all’aria aperta con insegnamento del
Vangelo – nel Midwest e nel Sud del paese. È in questi anni che i
radioevangelisti impazzano nelle stazioni radio (→) americane, come nel
caso delle controverse trasmissioni di Padre Charles Coughlin, cattolico,
anticomunista e antisemita. I televangelisti di oggi sono, per molti versi,
figli di quella stagione. Tra i predicatori tv più popolari e capaci degli ultimi
trent’anni ricordiamo Jimmy Swaggart, pastore pentecostale, insegnante e
ambito ospite televisivo che, con il suo programma settimanale del 1980,
raggiunge tremila stazioni e molte tv a pagamento, in onda su 78 canali in
104 paesi, nonché su internet. Quella di Swaggart è una parabola esemplare:
prima di approdare al successo, ha fatto la fame, ma raggiunta la gloria
(terrena) è travolto da uno scandalo per aver adescato una prostituta nel
1988, peccato per il quale chiede perdono in diretta davanti a centinaia di
migliaia di spettatori. Riabilitato almeno in parte, Swaggart ricade nello
stesso errore qualche anno più tardi e questa volta per lui non c’è perdono
mediatico che tenga.
Andando indietro nel tempo, non bisogna dimenticare Oral Roberts –
anch’egli un pentecostale – assai popolare negli anni cinquanta e noto per
aver fondato la Oral Roberts University a Tulsa, in Oklahoma – istituzione
poi travolta da uno scandalo sessuale e finanziario sotto la direzione del
figlio, Richard – e per i suoi metodi di raccolta fondi non proprio cristallini
(per tacere qui della sua precettistica sessuale, di cui è facile comunque
reperire spezzoni sul web). A capo di due megachurches sono invece le
superstar di oggi: Joel Osteen, della Lakewood Church, a Houston (Texas), e
Robert Schuller, della scenografica Crystal Cathedral di Garden Grow
(California) – attrazione architettonica, quest’ultima, colpita nel 2010 da
una bancarotta finanziaria. Nel novero dei predicatori ultraconservatori
occorre poi menzionare i televangelisti Jerry Falwell e Pat Robertson
(magnate televisivo della destra cristiana) passati alla storia per aver
interpretato, davanti a milioni di spettatori, il crollo delle Torri Gemelle
(→) come «punizione divina» cui avrebbero contribuito «abortisti,
femministe, gay e laici».
Inserendosi in un’atmosfera mondana di «salute e benessere» (il
programma di punta di Oral Roberts si chiamava, tanto per fugare ogni
dubbio, The Abundant Life) e fautori di una teologia della prosperità – che per
certi versi rappresenta l’ulteriore secolarizzazione dell’etica protestante –,
i televangelisti sono molto lontani dall’ascetismo e dall’austerità predicati
nel Vangelo, di cui pure si fanno emissari. Alle cure sensazionali del cancro
proprie degli esordi televisivi – e probabile retaggio di medici imbroglioni e
con-men (→ Tricksters e con-men) intenti a vendere patent medicines sulla
frontiera (→) –, i televangelisti di oggi preferiscono piccoli rimedi per il mal
di schiena. I miracoli poi, sono stati messi da parte – o consegnati, un
gradino più sotto, alla sfera dei «santoni» televisivi: tutt’al più, a chi fa una
donazione generosa, può essere garantito l’acquisto vantaggioso di un
immobile.
E anche il ricorso, assai frequente nei primi predicatori del piccolo
schermo, alla glossolalia (il pronunciare cioè sillabe prive di senso nel
mezzo della concitazione pseudomistica), si è quasi del tutto
ridimensionato. Di recente, poi, l’età dei televangelisti pare essersi
abbassata di parecchio, se è vero che sono comparsi anche i primi
«televangelisti» bambini. Studiati come specialisti in «comunicazione
parapersonale», in grado cioè di mistificare la sostanziale impersonalità del
mezzo televisivo grazie a un sovrappiù carismatico ben dosato, i
televangelisti più abili sono proprio quelli capaci di costruire i programmi
intorno alla loro personalità.
Quanto ai canali cristiani in senso lato – che dedicano grossi spazi al
televangelismo e che sono spesso fondati da predicatori –, è interessante
notare come, a metà anni ottanta, questi si siano adattati ai canali
generalisti, mandando per esempio programmi professionali di news e
video rock: una mossa quanto mai fortunata che ha aiutato i credenti-
spettatori a sentirsi meno «hick» (sempliciotti di campagna) e più al passo
coi tempi. Unica speranza, la pray tv, per chi come Ned Flanders, vicino di
casa dei Simpson (→), devotissimo evangelico e repubblicano doc
diplomato alla Oral University, vede nella Fox un arcinemico da cui
preservare i due figli Rod e Todd.

BIBLIOGRAFIA
Bobby C. Alexander, Televangelism Reconsidered: Ritual in the Search for Human
Community, Scholars Press, Atlanta 1994.
Jeffrey K. Hadden, Charles E. Swann, Prime Time Preacher: The Rising Power of
Televangelism, Addison-Wesley Publisher, Reading 1981.
C. SCAR.

Tendoni da circo
Il film si apre con l’immagine dell’enorme tendone lentamente issato sui
pennoni e continua con una storia melodrammatica, intrecciata d’amori,
gelosie, invidie, un direttore votato anima e corpo al lavoro, un’acrobata
innamorata, un trapezista dongiovanni, un clown dal passato misterioso,
domatori, ballerine, giocolieri, nani e giganti, manovalanza, personaggi
senza scrupoli, finanziatori meschini, e intorno il variegato mondo circense
– il tutto in pieno stile spettacolare alla Cecil B. DeMille e con attori di
richiamo come Charlton Heston, James Stewart, Cornel Wilde, Gloria
Grahame, Dorothy Lamour. Il film, del 1952, s’intitola Il più grande spettacolo
del mondo (premio Oscar 1953 per il miglior film) ed è una colorata
celebrazione dell’universo del circo come quintessenza dello spettacolo
popolare e di massa (proclama alla fine l’annunciatore: «E questo è tutto,
signore e signori, questo è tutto. Ma tutti tornerete a rivedere il circo.
Piccoli e grandi, uomini e donne! Potrete scuotere la segatura dai vostri
piedi, ma non la toglierete dai vostri cuori. Perché questo è il più grande
spettacolo del mondo, e voi ci tornerete!»).
Non c’è dubbio: grosso modo per tre quarti di secolo, il circo, grande o
piccolo che fosse, in tutte le sue vesti (compresa la versione western del
Wild West Show →), fu uno dei simboli e delle icone d’America. E non è un
caso che il regista DeMille si sia rivolto al Ringling Bros. and Barnum &
Bailey Circus per l’ambientazione del film: negli annali del circo mondiale,
rimane questo il circo. Anche perché contiene il nome di quello che si può
definire l’inventore dell’intrattenimento di massa negli Stati Uniti, prima
dell’avvento del cinema: Phineas Taylor Barnum, meglio noto come P.T.
Barnum. Questi, nato nel 1810 e morto nel 1891, attraversò e caratterizzò il
secolo all’insegna dello strano, del sensazionale, dell’irresistibile attrazione.
Con il motto «Ogni minuto nasce un boccalone [sucker]» (non certo
onorevole per il grosso pubblico che accorreva ai suoi spettacoli), Barnum
mise in scena ogni genere di rappresentazione, dai freak shows ai dime
museums, dai melodrammi alle farse e ai minstrel shows (→), dall’«Usignolo
Svedese» Jenny Lind (che scatenò un’autentica «Lind-mania») al celebre
nano General Tom Thumb, dalle «Sirene delle Figi» ai gemelli siamesi Chang
ed Eng, dalla gigantessa Anna Swan al mitico elefante Jumbo, ai maghi, alle
donne cannone, agli acrobati, sulla Bowery (→) di New York come nelle
piccole città (→), arrivando (come farà poi il suo seguace Buffalo Bill) fino
nella «vecchia Europa» e ammaliando presidenti e teste coronate (ignari
tutti, con ogni evidenza, del suo motto). Fu un genio della pubblicità molto
prima che nascessero i copywriters e nella sua gustosissima autobiografia
Struggles and Triumphs. Or, Forty Years’ Recollections (1855) ricorda alcuni dei
metodi usati per attrarre ai suoi «musei» (fra cui il più noto, un’«autentica
fantasmagoria, all’esterno come all’interno», rimase l’American Museum a
New York) o per far circolare in essi i visitatori: uno consisteva nel disporre
un uomo all’angolo della strada con un mucchio di mattoni, che a poco a
poco, andando e venendo, trasportava in un punto sempre più vicino al
museo, trascinandosi dietro una folla incuriosita; un altro, nell’affiggere in
più sale un cartello con una freccia e la scritta «This Way to Egress» dove il
termine «Egress», arcaico per «Exit» e assonante con «Negress», ai più
evocava misteriose, se non pruriginose, emozioni.
Barnum arrivò abbastanza tardi al circo: dapprima, la sua creatura fu (e i
nomi sono parte dell’operazione mediatica) il «P.T. Barnum’s Grand
Traveling Museum, Menagerie, Caravan & Hippodrome», poi il «P.T.
Barnum’s Travelling World’s Fair, Great Roman Hippodrome and Greatest
Show On Earth», e infine, dopo l’incontro con James Anthony Bailey, il «P.T.
Barnum’s Greatest Show On Earth, And The Great London Circus, Sanger’s
Royal British Menagerie and The Grand International Allied Shows United»
(in seguito abbreviato in «Barnum & Bailey»). Ma quando ci arrivò, intorno
al 1870, lo fece con travolgente entusiasmo e una contagiosa, sapiente e
manipolatrice creatività. In quegli anni, Barnum fu un po’ impresario e un
po’ con-man (→ Tricksters e con-men), a volte raffinato e a volte
cialtronesco, com’era il mondo dello spettacolo di quell’epoca che teneva
insieme Shakespeare e Buffalo Bill e tanto piaceva, per le molte
contraddizioni e implicazioni, a un sagace osservatore e critico della civiltà
americana come Mark Twain.
Messo in moto, il Barnum & Bailey non si fermò più: divenne modello di
sagacia organizzativa, di metodica ricerca del divertimento, di
spregiudicatezza imprenditoriale; viaggiò per tutte le strade ferrate
d’America, d’Europa e del mondo (e significativo fu il suo uso del treno:
Buffalo Bill lo imitò per il suo Show e a sua volta il Kaiser trasse ispirazione
da entrambi per il movimento delle truppe); si attirò critiche e gelosie; fu
testimone di scandali, tragedie, passioni contrastanti e vittima d’incendi,
disastri ferroviari, incidenti mortali. Fu, insomma, Il circo, e tale rimase per
molti decenni del Novecento, prima d’essere ricacciato indietro e sullo
sfondo dalla manovra a tenaglia di cinema e automobile, di televisione e
Walt Disney: una flebile eco dell’Ottocento in un Novecento sempre più
frenetico, cangiante e smemorato. Dopo la morte di Barnum, il circo venne
acquistato dai fratelli Ringling, altri specialisti del settore, cui si aggregò,
durante la Grande depressione (→), il nipote John Ringling North: eppure, il
suo nome rimase sempre sui cartelloni, sinonimo di business e
spettacolarità.
Ma sotto i tendoni dell’America tardo-ottocentesca non si limitavano a
volteggiare ardimentosi trapezisti, a caracollare leggiadre cavallerizze, a
ruggire leoni e barrire elefanti, a inciampare irresistibili clown dalle lunghe
scarpe. Soprattutto nelle regioni lontane della provincia, della frontiera e
del Midwest, il tendone (o, se mancava, un granaio o il cielo aperto)
raccoglieva moltitudini accorse da ogni dove per ascoltare, condividere,
suggestionarsi, imparare. Il circo, o i suoi surrogati, compaiono infatti in
tutta la storia sfaccettata delle molte confessioni e congregazioni (→
Quakers, Shakers, Mormons) e in modo particolare del «revivalismo
religioso»: richiamava un uditorio che viveva e lavorava in zone disperse,
risuonava delle voci tonanti e ispirate di predicatori viaggianti a metà
strada fra i con-men e gli imbonitori da circo, tra le figure note nei villaggi
dei filosofi improvvisati (cracker-barrel philosophers) e dei venditori di patent
medicines (una scena indimenticabile si ha proprio nelle Avventure di
Huckleberry Finn, quando i due imbroglioni, il Duca e il Re, intervengono a
modo loro a un camp meeting, fingendosi pentiti e «rinati» e passando in giro
il cappello, per poter«ricominciare da capo»). E sarà protagonista delle
varie fasi di «revivalismo», non ultima quelle degli anni trenta del
Novecento legate ai nomi di Aimée McPherson e di altri meno noti
«evangelizzatori» prima che il tendone fosse sostituito dalla radio e infine
dalla televisione (→ Televangelisti).
Esisteva pure una versione laica di questi grandi raduni sotto il tendone,
e prendeva il nome da un lago nello stato di New York, il Chautauqua, sulle
cui rive, nel 1874, il predicatore metodista John H. Vincent e l’imprenditore
Lewis Miller organizzarono il primo raduno di quello che diventerà un
appuntamento regolare per la provincia americana, per la «Rural America».
Gli anni erano propizi: dopo lo shock della Guerra civile (→) e mentre la
nazione procedeva verso ovest e completava la propria formazione, si
trascinavano le Guerre indiane (→) e scoppiavano i primi episodi di lotta di
classe (→ Sciopero!), nascevano le metropoli all’Est, la tecnologia
sovvertiva con rapidità usi e costumi e grandi ondate immigratorie si
rovesciavano sulle coste americane, si mescolavano insieme fame di
conoscenza, ansia del cambiamento, tensioni e aspirazioni. L’idea di
Chautauqua era di portare in giro, negli angoli più sperduti d’America, la
cultura e la politica, gli ideali e le scoperte, tessendo una trama e un ordito
in grado di tenere insieme il paese, informarlo e omogeneizzarlo. Le
conferenze sotto il tendone divennero appuntamenti attesi con
trepidazione: uomini politici, intellettuali, esploratori e viaggiatori,
scienziati e tecnici, suffragette e attiviste di ogni genere, socialisti e
imprenditori, compositori e musicisti, cantanti d’opera, scrittori e
giornalisti, umoristi e poeti, teatranti e illusionisti, nutrizionisti e
sindacalisti venivano a raccontare e insegnare, a ispirare e riformare, a
dibattere e proporre: il populista William Jennings Bryan, il governatore del
Wisconsin Bob LaFollette, il futuro presidente Calvin Coolidge, la
«Salvazionista» e riformatrice delle prigioni Maud Ballington Booth, lo
scrittore popolare Opie Reid (che contendeva a Barnum la paternità del
detto sui «boccaloni») – un altro universo composito, che conoscerà
versioni e declinazioni diverse a seconda dei luoghi e dei momenti, nel
periodo d’oro fra Ottocento e Novecento. Poi…
La voce fuori campo che accompagna le vicende private e collettive in Il
più grande spettacolo del mondo dichiara a un certo punto: «Nella vita del circo
solo due giorni contano: l’oggi e il domani». Ma il domani sarebbe stato
dominato dall’automobile, dal cinema, dalla radio e dalla televisione – e
avrebbe, se non cancellato, certo nascosto i tendoni.

BIBLIOGRAFIA
Harry Harrison, Karl Detzer, Culture Under Canvas. The Story of Tent
Chautauqua, Hastings House Publishers, New York 1958.
Jesse Lyman Hurlbut, The Story of Chautauqua, Nabu Press, 2011.
Phillip B. Kunhardt Jr., Phillip B. Kunhardt III, Peter W. Kunhardt, P.T.
Barnum: America’s Greatest Showman, Alfred A. Knopf, New York 1995.
Monica J. Renevey, Il circo e il suo mondo, Laterza, Roma-Bari 1985.
M.M.
Teoria del complotto
Come tutte le mitologie che si rispettino, anche quella partorita dalla
Guerra d’indipendenza (→ Rivoluzione americana) ha il suo eroe negativo.
Si tratta del generale Benedict Arnold, il quale, deluso dallo scarso
apprezzamento dimostrato dalle alte sfere per il suo contributo alla causa, si
fece assegnare il comando della fortezza di West Point con l’intento di
cederla all’esercito inglese: gli Stati Uniti non erano ancora nati, e già c’era
chi complottava contro di essi (la trama fu scoperta e Arnold passò dalla
parte del nemico, mettendosi in luce in alcune brillanti operazioni).
Per Richard Hofstadter, il teorema del complotto è una costante nella
politica americana, dove proliferano «l’esagerazione, il sospetto e fantasie
cospiratorie» che danno forma a un peculiare «stile paranoico» (The
Paranoid Style in American Politics, 1964). Hofstadter prendeva spunto da
avvenimenti a lui vicini, facendo riferimento a un discorso del senatore
John McCarthy (→ Maccartismo), nel quale si attribuiva la situazione
precaria della nazione a «una cospirazione di proporzioni mai viste nella
storia umana»; tuttavia, le radici di questo atteggiamento ossessivo e
persecutorio affondavano nel tempo, giungendo addirittura agli albori della
storia nazionale: l’identità stessa del paese è stata influenzata dalla
continua paura di sinistri nemici, reali o immaginari.
La paura del complotto era dunque iscritta nel Dna della repubblica. Se
difatti l’esperimento americano era fin dall’inizio investito di millenarismo,
con gli Stati Uniti come «terra promessa» capace di portare il genere umano
alla perfezione, la constatazione di quanto la realtà storica fosse lontana
dall’ideale poteva suscitare il timore che forze oscure stessero tramando
contro il paese. Il sigillo ufficiale, poi, riprodotto sulle banconote da un
dollaro (→), dichiarava che Dio guardava con favore al progetto americano
e quindi, se il colpevole non era l’onnipotente, allora doveva trovarsi da
qualche altra parte.
Dopo la Seconda guerra mondiale, lo «stile paranoico» e la «teoria del
complotto» sono diventati parte integrante della cultura popolare. Con la
nascita e la crescita della Central Intelligence Agency (Cia) e dopo
l’«incidente» di Roswell (→), è andata diffondendosi la percezione di un
governo centrale che agisce nell’ombra e si affretta a insabbiare le prove di
fatti compromettenti che sfuggono al controllo pubblico. In particolare, i
numerosi omicidi politici degli anni sessanta – dei fratelli John e Robert
Kennedy (→ Camelot), dei leader afroamericani Malcolm X e Martin Luther
King (→ Back of the bus) – hanno contribuito a trasformare i discorsi legati
al «complotto» in una sorta di lingua franca atta a dare una spiegazione
«plausibile» ai più diversi fenomeni. Nello stesso anno in cui Hofstadter
dava alle stampe il suo saggio, per esempio, la femminista Betty Friedman
rintracciava un intento cospiratorio da parte dei mass media nei confronti
della donna, alla quale si voleva imporre un’immagine standard di
femminilità (→ Seneca Falls), mentre David Wise e Thomas Ross, ne Il
governo invisibile, registravano la distanza sempre più manifesta fra i
proclami che gli organismi politici annunciavano alla luce del sole e le
strategie perseguite di nascosto. Oppressione sociale, diffusione di malattie
letali, perfino i quattro superbowls consecutivi persi dai Buffalo Bills (→
Football) tra il 1990 e il 1993: per tutto esiste una potenziale spiegazione
cospiratoria. Il complotto allora è uno dei canali attraverso cui il cittadino
comune esprime dubbi sulla legittimità dell’autorità del governo: non è un
caso che le percentuali di affluenza alle elezioni negli Stati Uniti siano tra le
più basse del mondo.
Sfruttando i più diversi tipi di scenario, la «teoria del complotto» riesce a
dare un senso a una realtà che appare confusa e difficile da interpretare:
divide il mondo in maniera netta tra le forze del bene e quelle del male, e
così offre una spiegazione che vorrebbe far luce sulle cause di una
situazione presente, individuale o collettiva, ritenuta insoddisfacente.
Cinema e letteratura popolare hanno tratto ispirazione a piene mani dal
«complottismo», a volte facendo centro: come nel caso di L’eroe della
Manciuria (1959), thriller di Robert Condon poi adattato per il grande
schermo (con la partecipazione di Frank Sinatra) – storia di un soldato
americano catturato dai comunisti durante la guerra di Corea, che subisce il
lavaggio del cervello e diventa un killer inconsapevole (quando il film uscì,
non era ancora stato rivelato che la Cia lavorava da tempo in segreto e
senza autorizzazione al «Progetto Mkultra», il cui obiettivo era studiare e
mettere a punto tecniche per influenzare la mente umana).
L’assassinio di Kennedy e, pochi giorni dopo, del presunto cecchino Lee
Harvey Oswald per mano di Jack Ruby ha dato il via alle speculazioni più
ardite e fantasiose sui mandanti occulti e ispirato ricostruzioni
cinematografiche (JFK, di Oliver Stone, del 1991) e letterarie (Libra di Don
DeLillo, del 1988, e Il racconto di Oswald, di Norman Mailer, del 1995). Il lavoro
di DeLillo è molto significativo: il protagonista Nicholas Branch, nonostante
accumuli fatti, prove e testimonianze, riesce a intravvedere solo alcuni fili
conduttori della vicenda, ma non una singola narrazione lineare che spieghi
l’accaduto nella sua interezza – metafora della condizione umana in una
contemporaneità in cui, al proliferare delle informazioni, corrisponde una
comprensione del mondo parziale e lacunosa.
Un altro dei capisaldi del genere è I tre giorni del condor (1975), film di
Alan J. Pakula, nel quale i «cattivi» sono gli stessi americani: schegge
impazzite della Cia manovrano contro altri agenti, allo scopo di occultare
un piano per mettere sotto controllo alcuni paesi produttori di petrolio. Il
protagonista Turner, l’agente che sfugge per un soffio all’eliminazione della
sua unità, impersona un Adamo americano (→) pessimista, che vagabonda
attraverso New York senza un luogo sicuro dove rifugiarsi né amici di cui
potersi fidare.
Parto della fantasia dello scrittore Thomas Pynchon è invece il
complotto del Tristero, una compagnia di spedizioni che, scomparsa nel XVIII
secolo, avrebbe continuato aesistere in segreto e starebbe meditando un
ritorno in grande stile: ne L’incanto del lotto 49 (1963), l’esecutrice
testamentaria Oedipa Maas si imbatte in simboli e tracce nascoste, ma
questa volta è l’autore stesso a prendere per il naso il lettore – al momento
decisivo, quando il frammento mancante che spiegherà il mosaico sta per
essere mostrato, la narrazione infatti s’interrompe. Anche lo scrittore
afroamericano Ishmael Reed, nel romanzo Mumbo Jumbo (1972), crea un
complicato edificio cospiratorio, cui è imputato il fallimento del progetto di
liberazione animato dai neri d’America attraverso il «Rinascimento di
Harlem» (→ Harlem).
Sulla cospirazione, è poi giocata la serie tv (→) X-Files (1993-2002), nella
quale due agenti dell’Fbi hanno il compito di indagare su fatti misteriosi:
offrendo spiegazioni plausibili ma assai improbabili a eventi dai contorni
poco chiari (dall’apparizione di Ufo alla presenza di individui mutanti), gli
episodi instaurano un gioco con il pubblico, in cui la soluzione definitiva
agli enigmi rimane sempre differita – lasciando spazio anche all’ironia,
quando viene rivelato che il più grande battitore di ogni tempo, Babe Ruth
(→ Baseball), era in realtà un alieno.
BIBLIOGRAFIA
Gordon B. Arnold, Conspiracy Theory in Film, Television, and Politics, Praeger
Publisher, Westport 2008.
Richard Hofstadter, The Paranoid Style in American Politics and Other Essays,
Alfred A. Knopf, New York 1965.
S.M.Z.

Three Mile Island (o del nucleare)


Il 16 marzo 1979 usciva nelle sale cinematografiche statunitensi Sindrome
cinese, diretto da James Bridges, con Michael Douglas, Jane Fonda e Jack
Lemmon. Il film ruotava intorno a un incidente in una centrale nucleare e
alla teoria (la cosiddetta «Sindrome cinese») poco scientifica ma in voga in
quel periodo, secondo la quale la fusione di un reattore avrebbe portato alla
graduale perforazione della crosta terrestre fino ad arrivare in Cina. Il
successo del film fu amplificato quando, dodici giorni dopo la première, il
paese dovette affrontare l’incidente nucleare più grave della sua storia,
nella centrale di Three Mile Island, nei pressi di Harrisburg, in
Pennsylvania. Per cogliere meglio la portata anche mediatica di ciò che
accadde in quella piccola isola sul Susquehanna River, è utile tuttavia
collocare il caso di Three Mile Island nel contesto storico dei due decenni
precedenti.
Lo sviluppo del nucleare negli Stati Uniti risale, com’è noto, alle
sperimentazioni atomiche del Progetto Manhattan (→), ma è solo nel
secondo dopoguerra che l’idea di utilizzare la fissione dell’uranio e del
plutonio per produrre energia prenderà piede – più nello specifico, nel 1954,
durante la presidenza di Dwight D. Eisenhower, quando il Congresso passa
l’Atomic Energy Act. A dispetto di questo provvedimento legislativo, negli
anni cinquanta l’avvio del nucleare è rallentato dalla presenza di
abbondanti riserve di combustibili tradizionali (carbone e petrolio) a prezzi
più che competitivi. Se ancora nel 1962 soltanto sei piccole centrali nucleari
sono attive nel paese, dalla metà dello stesso decennio la fortuna dell’atomo
sembrerà decollare, portando a un’impennata nell’acquisto di reattori da
parte di compagnie private.
I temporanei favori di cui il nucleare godrà agli occhi dell’opinione
pubblica tra il 1965 e i primissimi anni settanta vanno in parte ricondotti
alla ricerca di fonti di energia alternative promossa da un nascente
movimento ecologista allarmato di fronte all’impatto inquinante di carbone
e petrolio su aria e acqua. Così, nel 1973, l’anno in cui i paesi dell’Opec (i
produttori di petrolio) impongono l’aumento del prezzo del greggio
innescando una profonda crisi energetica nel mondo occidentale (→ Oil!),
sono ben trentasette le centrali nucleari americane che operano sul
territorio nazionale. Al contrario di quanto si potrebbe pensare,
l’accresciuto costo del petrolio e il suo parziale razionamento non
aiuteranno lo sviluppo delle centrali, il cui sistema di raffreddamento delle
vasche di stoccaggio del combustibile necessita di una grande capacità
energetica. Il colpo di grazia al nucleare arriva a metà degli anni settanta,
quando le proteste di ambientalisti sempre più informati circa i danni di
eventuali scorie radioattive (fallout), le cosiddette anti-nuke demonstrations, si
fanno da locali a nazionali, crescendo in numero e in importanza. Nel 1974,
Ralph Nader – attivista politico e paladino ecologista della sinistra liberal
americana, nonchè futuro «terzo» candidato alle movimentate presidenziali
del 2000 – mette a tema la questione del nucleare in una storica conferenza
di tre giorni chiamata «Critical Mass ’74», che riesce a catalizzare
l’attenzione di centinaia di partecipanti e di giornalisti.
Al diffondersi del sospetto che la salute dei cittadini americani sia nelle
mani di multinazionali senza scrupoli disposte a manomettere i – pur pochi
– protocolli di sicurezza di qualsivoglia attività industriale (incluse quindi
quelle nucleari), deve poi contribuire il «Disastro di Love Canal» (→
Niagara) venuto alla ribalta delle cronache nel 1978. Cittadina bucolica dello
stato di New York a due passi dalle cascate del Niagara (→), Love Canal
cresce in realtà sul terreno intriso di rifiuti tossici depositati dalla Hooker
Chemical and Plastics Corporation negli anni cinquanta. A partire dagli anni
settanta, i circa 100mila fusti di scorie chimiche altamente contaminanti
della Hooker che giacciono sepolti sotto Love Canal producono effetti
funesti sulla salute della comunità: malattie croniche, difetti alla nascita,
aborti. Di tutto questo parlerà, nel 1978, un importante reportage
giornalistico firmato da Michael Brown e, anche in seguito alle tenaci
proteste degli abitanti e alla pressione mediatica, nello stesso anno il
governo di Jimmy Carter dovrà dichiarare tossica l’area e pagare per
l’evacuazione dei suoi residenti.
È insomma all’interno di questa temperie storica e sociale che va letto
l’incidente scoppiato il 28 marzo 1979 nella centrale nucleare di Three Mile
Island. La fusione parziale del nucleo dell’Unità 2 della Nuclear Generating
Station gestita dalla General Public Utilities e Metropolitan Edison Co. nasce
da una serie di guasti tecnici – alimentati da un certo grado di errore umano
– che portano alla perdita di un grosso quantitativo di liquido di
raffreddamento. Anche se dopo cinque giorni le autorità comunicano la fine
dell’emergenza – ovvero dell’emissione di radiazioni da parte del reattore –
sarà solo alcuni anni dopo l’incidente che, anche grazie alle due imponenti
commissioni d’inchiesta istituite dalla Nrc (Nuclear Regulatory
Commission) e dal presidente Carter, i dettagli circa la dinamica dei fatti e i
livelli di ricadute radioattive sulle comunità circostanti saranno in parte
rivelati al pubblico.
All’inizio del terzo millennio, a giudicare dalla persistente fortuna
commerciale delle t-shirt americane che portano impresso lo slogan «SHUT
THEM DOWN» («CHIUDETELE»), le proteste anti-nuke non sembrano affatto sopite.
In un frangente storico ed economico in cui gli Stati Uniti non possono che
guardare al nucleare come una fonte indispensabile al crescente fabbisogno
interno di energia, il futuro dei 104 reattori in funzione sul suolo americano
è avvolto più che mai nell’incertezza.

BIBLIOGRAFIA
J. Samuel Wlaker, Three Mile Island: A Nuclear Crisis in Historical Perspective,
University of California Press, Berkeley 2004.
C. SCAR.

Tin Pan Alley


Alcuni studiosi in vena di provocazioni hanno sostenuto che la vera poesia
americana della modernità non sarebbe da ricercare nei circoli di espatriati
di Parigi e Londra, dove operavano T.S. Eliot ed Ezra Pound, ma in quel
tratto della 28ª Strada di New York, compreso tra la 5ª e la 6ªAvenue, noto
sin dai primi anni del Novecento con il nomignolo di «Tin Pan Alley», il
«Vicolo della padella di stagno» (termine coniato dal giornalista Monroe
Rosenfeld, colpito dalla somiglianza tra il suono prodotto dalla miriade di
pianoforti scordati che si sentiva dalla strada e quello dei suddetti utensili).
In questo isolato, si erano trasferiti tutti gli editori musicali della città:
una posizione strategica, data la vicinanza ai teatri di rivista di Broadway.
Sull’uscio delle botteghe, i song pluggers cercavano di attirare l’attenzione di
impresari teatrali, cantanti e ballerini, e facevano loro ascoltare il
repertorio a disposizione dell’editore: all’epoca, non esistevano strumenti
di riproduzione sonora e i song pluggers si sedevano al piano davanti al
potenziale cliente ed esponevano la loro «merce». All’occorrenza, erano in
grado di modificare le canzoni secondo le richieste, trasponendole in
tonalità diverse, adattandole a un ritmo specifico, più veloci o lente o
sincopate, e cambiandone i testi.
Sta in quest’aspetto, in fondo, la «modernità» della produzione musicale
di Tin Pan Alley, un repertorio realizzato secondo le logiche dell’industria
di massa, che rispondeva alle richieste dei clienti. Una forma standard,
composta da 32 battute, suddivise in 2 strofe e 2 ritornelli, modellabile
secondo le esigenze di un particolare spettacolo di rivista – dalla tonalità dei
cantanti al tema dello spettacolo, alle coreografie. I testi non riflettevano
un’esigenza romantica di espressione individuale, ma la necessità di usare
facili rime che seguissero placidamente la melodia, enfatizzando dunque
l’aspetto sonoro (il significante) delle parole a spese di ciò che volevano dire
(il significato). I compositori dovevano rispettare scadenze, modellare le
strutture seguendo i generi più in voga, trovare sempre nuovi modi di
parlare d’amore (il tema di circa l’85% del repertorio). Non a caso, a
proposito dei compositori di Tin Pan Alley si usa spesso il termine
songsmiths, «fabbricanti di canzoni». Irving Berlin, per esempio, lavorava
come una vera e propria macchina: quando scriveva canzoni per uno
spettacolo di rivista, era solito mettersi al pianoforte dopo cena e non
andare a dormire finché non avesse composto un pezzo nuovo, che portava
il giorno dopo alle prove. Sempre Berlin era solito dire che, nella
professione di compositore, il talento contava per il 10%, il resto era solo
duro lavoro. E a chi gli faceva osservare che era l’autore del maggior
numero di brani di successo, Berlin rispondeva che era anche l’autore del
maggior numero di canzoni che avevano fatto fiasco.
Date queste premesse, sorprende che, in alcuni casi, i testi delle canzoni
abbiano persino una qualità poetica. E non si può non convenire sulla loro
modernità: Ezra Pound riteneva che l’immagine, elemento intorno al quale i
poeti imagisti costruivano le loro composizioni, fosse un «complesso
intellettuale ed emotivo in un istante di tempo»: una definizione che calza a
pennello per i quadri narrativi su cui si basano alcune canzoni, grazie a
espressioni altamente metaforiche quali, per esempio, la celebre «I’ve got
you under my skin». La componente fisica del rapporto amoroso, che mette
in risalto possesso, feticismo e ossessioni, capovolge un immaginario
ereditato dalla tradizione vittoriana, basato sulla spiritualità – in sostanza,
un’infinita sequenza di variazioni del celebre verso «I’m all for you / Body
and soul».
Tin Pan Alley diede vita a una forma artistica che esprimeva la nuova
cultura «giovanile» urbana, sottolineando la fugacità delle esperienze di
città e un atteggiamento disincantato verso il mondo e i rapporti personali.
Grazie al fiorente commercio di spartiti e alla semplicità delle partiture,
accessibili anche a esecutori mediocri, le canzoni potevano essere
«consumate» a ripetizione, in privato o in compagnia. Inoltre, era una
forma musicale breve, le liriche erano composte in un linguaggio
comprensibile e il costante ricorso alla rima rendeva più facile la
memorizzazione: fattori che spiegano l’enorme popolarità delle canzoni, il
loro successo commerciale e le somme astronomiche guadagnate dai
compositori più celebri. Berlin, in seguito al successo del suo primo hit,
«Alexander’s Rag Time Band» (1912), guadagnò 100mila dollari in un anno;
«Cheek to Cheek» (1935), scritta quando ormai era già affermato, gliene
portò 250mila; «Swanee» (1920), il primo successo firmato da George
Gershwin, fece incassare all’autore una somma che si aggirava intorno ai
100mila dollari.
La parabola di Berlin, nato Israel Baline nel 1888 in un piccolo villaggio
dell’attuale Bielorussia, è una tipica storia da rags to riches (→). Arrivato
negli Stati Uniti con la famiglia a soli cinque anni per sfuggire alle
persecuzioni del regime zarista, il giovane Israel imparò i rudimenti del
canto per osmosi: il padre infatti era un cantor, la figura a cui è demandato il
compito di guidare la preghiera nella sinagoga. Riverito e discretamente
pagato in patria, il padre di Israel non riuscì a trovare lo stesso impiego
negli Stati Uniti (dove non c’era molta richiesta) e fu costretto a svolgere i
mestieri più umili per sopravvivere; il figlio, al contrario, mise a frutto
l’abilità canora adattandola ai bisogni e al linguaggio della città: quando
cominciò a fare lo strillone, si accorse che era più facile attirare l’attenzione
dei passanti cantando i titoli su una melodia nota anziché urlandoli. Ancora
adolescente, si esibiva nei saloon (→) intorno alla Bowery (→), per poi
diventare un singing waiter (cameriere cantante) al Pelham Cafè di
Chinatown (→), dove divertiva i clienti producendosi in parodie (a volte
sconce) dei brani più popolari del momento. E nelle pause di lavoro imparò
a suonare il piano da autodidatta. La svolta arrivò allorchè fu «scoperto»
dall’impresario di una compagnia di Broadway, la Ted Snyder Company, e
cominciò la carriera ufficiale di compositore.
Anche i fratelli Gershwin, George e Ira, erano di origine ebreo-russa: il
padre, Moishe Gershowitz, emigrato da San Pietroburgo a New York ancora
giovane, sposò la connazionale Maria Bruskin. I Gershowitz erano
commercianti, e poterono assicurare ai figli un’esistenza molto più agiata
rispetto ai Baline: nel salotto di casa, com’era di rigore nelle famiglie ebree
benestanti, faceva bella mostra di sé un pianoforte, e i figli furono presto
indirizzati allo studio della musica.
Non ancora maggiorenne, George cominciò a guadagnarsi da vivere
come song plugger presso la Remick e Co. In seguito, tentò per breve tempo
la carriera di accompagnatore di cantanti, per poi essere ingaggiato da
alcune compagnie come compositore di operette e riviste. Ma le sue
ambizioni erano più alte, come dimostra la scrittura di Rapsodia in blu, pezzo
forte di un concerto tenuto alla Aelion Concert Hall il 12 febbraio 1924:
organizzato dal maestro Paul Whiteman e intitolato «An experiment in
modern music», l’evento riscosse enorme successo e proiettò l’autore
nell’olimpo della musica colta: memorabili le sue opere Un americano a Parigi
(1928) e Porgy and Bess (1935, con liriche scritte dal fratello Ira). La
collaborazione dei due fratelli partorì capolavori quali «Summertime» (da
Porgy and Bess), «The Man I Love» (1924), «Embraceble You» (1928) e «I Got
Rhythm» (1930).
Tra i principali compositori di Tin Pan Alley, una buona parte era di
origine ebraica: tuttavia, rispetto a Berlin e Gershwin, i vari Jerome Kern
(autore dei classici «Ol’ Man River», 1927; «Smoke Gets in Your Eyes», 1933;
«The Way You Look Tonight», 1936; e «All the Things You Are», 1939),
Vincent Youmans («Tea for Two», 1925), il duo Rogers & Hart («Blue
Moon», 1934; «My Funny Valentine», 1937) appartenevano alla minoranza
di origine tedesca, giunta negli Stati Uniti una generazione prima rispetto ai
correligionari russi, e a fine Ottocento era ben inserita nel tessuto sociale
americano.
Diversa la storia di un altro grande della canzone di Tin Pan Alley, Cole
Porter. Nativo dell’Indiana, come molti altri artisti nati nel Midwest, Porter
finì in Europa a combattere contro i tedeschi (pare anche – ma la questione
è avvolta dal mistero – che abbia trascorso un certo periodo nella Legione
straniera). Dopo l’armistizio, rimase a Parigi, dove poté godersi in libertà i
frutti della colossale fortuna di famiglia e, tra una festa e una bevuta,
cominciò a interessarsi di musica, riscuotendo nel tempo un notevole
successo: dalla sua penna provengono i classici «Let’s Do It», «Night and
Day» e il già citato «I’ve Got You Under My Skin». Poi, nel 1927, venne
realizzato il primo film sonoro, intitolato Il cantante di jazz e interpretato dal
popolare cantante Al Jolson (vero nome, Asa Yoelson, altro ebreo emigrato
dalla Russia zarista): la pellicola segnò un punto di svolta nell’esperienza
della fruizione musicale, dando inizio al declino di Tin Pan Alley. I grandi
compositori furono molto attivi anche nel decennio successivo, quando
radio (→) e film musicali avevano soppiantato l’esecuzione dal vivo (in
casa, nei teatri e nei locali notturni) come principale veicolo di riproduzione
musicale: ma l’industria era ormai irrimediabilmente cambiata e con essa
era stato cancellato il duro ma prezioso apprendistato, musicale e
intellettuale, rappresentato dalla professione del song plugger. Negli anni
quaranta, i jazzisti che diedero forma alla rivoluzione del bebop (→)
utilizzarono i temi di Berlin, Gershwin, Kern e altri come palestra per
affinare le innovazioni armoniche che caratterizzarono le loro ardite
sperimentazioni musicali, mentre le cantanti Ella Fitzgerald e Billie Holiday
pescarono a piene mani in quel repertorio, con interpretazioni vocali che
hanno saputo colorare di leggerezza e profondità le canzoni.
Insomma, per usare le parole di Irving Berlin, «the song has ended / but
the melody lingers on».

BIBLIOGRAFIA
Rene Chalupt, Gershwin, Nuova Accademia, Milano 1959.
David A. Jasen, Tin Pan Alley. An Encyclopedia of the Golden Age of American Pop
Song, Routledge, New York 2003.
S.M.Z.

Tombstone, Abilene, Dodge City


È difficile trovare piccole città (→) così dense di simbologie western come
Tombstone, Abilene e Dodge City. La prima si trova in Arizona, non lontano
dal confine con il Messico a sud e con il New Mexico a est, e il suo nome (da
pronunciare «tuumston») è già di per sé eloquente. La fondò nel 1879 un
certo Ed Schieffelin, guida, esploratore e minatore, battezzandola con il
nome dato alla propria concessione mineraria in risposta a chi gli aveva
detto che l’unica pietra che vi avrebbe potuto trovare sarebbe stata la sua
«pietra tombale» (tombstone). Nel giro di un paio d’anni, l’agglomerato di
tende e baracche era diventato una tra le più fiorenti città minerarie del
West (→ Oro!) e la popolazione era passata da cento anime a più di
settemila, di cui almeno seimila lavoravano nelle miniere d’oro – una
popolazione composita, come sempre in queste cittadine del West, sia dal
punto di vista sociale (minatori, cowboys, prostitute, imprenditori venuti
dall’Est, proprietari terrieri, avvocati, speculatori e profittatori di ogni
genere), sia da quello etnico (messicani, cinesi, irlandesi). La collocazione
geografica (la vicinanza di due frontiere che continuavano a essere «calde»)
e le dinamiche dello sviluppo capitalistico statunitense in quegli anni (il
contrasto fra industria e agricoltura, e fra piccoli agricoltori, grandi
allevatori e proprietari terrieri e quella manodopera particolare passata alla
storia come cowboys →) fecero sì che la cittadina divenisse teatro di grandi
tensioni e feroci scontri a fuoco.
Sta di fatto che queste contraddizioni precipitarono ben presto, a
Tombstone, e precisamente il 15 marzo 1881, cioè ad appena due anni dalla
fondazione. Il tentativo di rapinare una diligenza (→ Stagecoach) in uscita
dalla cittadina con un grosso carico d’argento portò a un primo scontro a
fuoco, durante il quale morirono il conducente e un passeggero. A quel
punto, intervenne il vicesceriffo Virgil Earp insieme ai fratelli Wyatt e
Morgan: ci fu una serie di scaramucce, in cui si mescolavano anche rancori
precedenti e ritorsioni personali, e il tutto si tradusse, il 26 ottobre 1881, in
uno scontro a fuoco nelle vie di Tombstone, nei pressi dell’entrata
posteriore dell’O.K. Corral, un recinto per la raccolta del bestiame – e in una
lunga sequenza di fatti sanguinosi, inseguimenti e vendette, un intrico
difficile da dipanare. Qualche decennio più tardi, l’episodio venne ripreso e
mitizzato da un biografo di Wyatt Earp, e a quel punto il cinema ci mise lo
zampino: prima fu la volta di John Ford, con Sfida infernale, del 1946, poi di
John Sturges, con Sfida all’O.K. Corral, del 1957, e da quel momento i «fatti di
Tombstone» diventarono una chiave di volta nella costruzione
dell’immaginario western hollywoodiano (anche attraverso la
reinterpretazione che ne diedero scrittori contemporanei, come Elmore
Leonard), riproposti con varianti, letture e implicazioni diverse in molti
altri film – una «rendita» su cui vive ancor oggi la cittadina (con lo storico
cimitero di 250 tombe di variamente assassinati, «nei loro stivali», sulla
collina detta per l’appunto Boot Hill, la «Collina degli Stivali»).
Abilene si trova invece nel Kansas (da non confondere con un’omonima
nel Texas). Intorno a metà Ottocento, non era altro che una stazione di
cambio per le diligenze. Ma, dopo la Guerra civile (→), per le sue
particolarità geografiche (la località si trovava al termine del Chisholm Trail
→ Piste e sentieri) e climatiche, fu individuata da Joseph McCoy, un grosso
allevatore dell’Illinois, come luogo favorevole per la raccolta del bestiame
da spedire poi, via ferrovia, verso i macelli del Nord e dell’Est – e in
particolare verso Chicago, che nel giro di pochi anni sarebbe diventata, non
a caso, il cuore dell’industria alimentare (→ Porkopolis). Abilene si
trasformò così nel centro di smistamento per eccellenza: i grandi, estesi
recinti, il basso continuo dei muggiti degli animali, la nube di polvere, il
fischio dei treni in arrivo e in partenza, furono i segni distintivi della
cittadina, che crebbe in importanza e ricchezza anche grazie a un’abile
operazione pubblicitaria ideata dallo stesso McCoy, con manifesti e
volantini spediti in tutte le regioni e contee. Presto però l’acuta
concorrenza di altre cittadine nate sul suo esempio e il rapido passaggio da
una situazione iniziale di monopolio a una successiva di laissez faire
(passaggio tipico dell’economia di quegli anni successivi alla Guerra civile, e
che avrebbe portato, a fine Ottocento, a un’ulteriore fase definitivamente
monopolistica) costrinsero McCoy a lasciare il campo. Nel frattempo,
Abilene era diventata una delle più famigerate cittadine del West,
attraversata dalle medesime tensioni: facili ricchezze, lavoro duro, fluidità e
contrasti sociali, illegalità diffusa. A fine novembre 1870, dopo l’uccisione e
decapitazione dello sceriffo Smith, che nel tempo aveva assicurato un certo
equilibrio alla città, a sostituirlo fu chiamato un nome destinato a diventare
celebre nella «mitologia» del West: Wild Bill Hickock – il quale tuttavia
restò poco tempo ad Abilene, lasciando la cittadina per altri lidi (→ Olimpo
americano). Prima, tuttavia, Hickock fece a tempo a incrociare i propri
sentieri (più di una volta) con quelli di un altro nome celebre del West: il
fuorilegge John Wesley Hardin (immortalato da Bob Dylan nel titolo d’uno
dei suoi più famosi Lp, del 1967), con il quale intrattenne sempre un
singolare rapporto di reciproco rispetto.
A collegare Abilene a Dodge City (Kansas) c’è, fra le tante cose, anche un
nome: quello di «Libby» Thompson, nata Mary Elizabeth Haley nel 1855 e
morta un secolo dopo. Personaggio singolare, e per molti versi tipico del
West: rapita dai comanche nel 1864 e loro prigioniera per tre anni, una volta
riscattata dalla famiglia si ritrovò emarginata dalla comunità e vittima
dell’esplicito razzismo che spesso colpiva le donne bianche ritrovatesi a
condividere, per forza o per scelta, alcuni anni di vita tra i Native Americans
(il film di John Ford Sentieri selvaggi, del 1956, è appunto una variazione su
questo tema). Dopo molte traversie, la quattordicenne «Libby» fuggì di casa
e riparò ad Abilene, dove cominciò a fare la ballerina di saloon e la
prostituta, sposando presto il giocatore Billy Thompson. I due condivisero
per qualche tempo avventure e precarietà, finché, nei primi anni settanta,
non si stabilirono per l’appunto a Dodge City, dove «Libby» divenne famosa
sia come ballerina, sia come prostituta e strinse rapporti d’amicizia con i
fratelli Earp (in seguito, si trasferirono a Sweetwater, nel Texas, gestendo
un ranch fuori città e un bordello in città, che «Libby», detta anche «Alice
Denti di Scoiattolo», diresse fino agli anni venti del Novecento, quando si
ritirò dalla professione). Dodge City era nata nel 1871, sulla località di alcuni
forti costruiti per proteggere il Santa Fe Trail (→ Piste e sentieri); l’arrivo
della ferrovia l’anno successivo aveva lanciato la città, facendone uno dei
centri nevralgici del trasporto e commercio del bestiame (e soprattutto di
quei longhorns, razza particolare di bovini dalle lunghe corna, che
costituirono un altro elemento fondamentale della realtà e
dell’immaginario western). La competizione fra le varie cattle towns
dell’epoca e alcune epidemie di carbonchio scoppiate in Texas
contribuirono a rendere ricca e potente la cittadina, che presto assunse il
nome di «Regina delle Cittadine delle Vacche», oltre che «Città più
Depravata del West», dominando incontrastata anche nei turbolenti anni
ottanta dell’Ottocento, quando poteva contare sul numero più elevato di
pistoleri (da una parte e dall’altra della legge) fra i suoi abitanti e visitatori
– assidui frequentatori del Long Branch Saloon, del bordello China Doll e
dell’arena per le corride.
E così, con la presenza anche a Dodge City dei fratelli Earp, il cerchio si
chiude. Ma, a voler insistere, esso può subito riaprirsi: che dire infatti di
Deadwood, nel South Dakota, dove ritroviamo Wild Bill Hickock, oltre a
Calamity Jane (→ Olimpo americano)? E che dire di Laredo, nel Texas, resa
celebre dalla ballata «The Streets of Laredo»: «As I walked out in the streets
of Laredo/ As I walked out in Laredo one day,/ I spied a young cowboy, all
wrapped in white linen/ Wrapped up in white linen and cold as the clay»?
Geografie del vecchio West.

BIBLIOGRAFIA
Ramon F. Adams (a c. di), Cowboy. Antologia di scritti e documenti dell’epoca dei
grandi tratturi del West, Feltrinelli, Milano 1958, 1979.
Ray Allen Billington, Storia della conquista del West, Odoya, Bologna 2009.
Stefano Rosso (a c. di), L’invenzione del west(ern), Ombre Corte, Verona 2010.
M.M.

Tranquillanti
«Betty, sei pallida. Vuoi un Miltown? È l’unica cosa che mi trattiene dal
mangiarmi le unghie».
Così Francine Hanson a Betty Draper in un impeccabile salone di bellezza
di Ossining, suburb (→) newyorkese, anno 1962. Un personaggio minore
della serie tv (→) Mad Men, Francine è l’amica del cuore di Betty, moglie –
fino alla seconda stagione – del conturbante pubblicitario dai trascorsi
oscuri Donald Draper. Entrambe casalinghe bianche upper class, le creature
di Matthew Weiner (già produttore dei Soprano → Serie tv) soffrono di
nevrosi legate al loro statuto di mogli e di madri ricche e insoddisfatte,
vittime di quel «malessere senza nome» individuato da Betty Friedan nel
1963 (→ Seneca Falls) quale dramma domestico e femminile degli anni
cinquanta. Betty, una Grace Kelly casalinga con un passato da modella, è in
terapia da uno psichiatra ma non segue alcuna cura farmacologica, mentre
Francine, una più comune housewife dell’era Kennedy (→ Camelot), ricorre
al tranquillante Miltown per resistere alla tentazione di «ucciderli tutti»
(figli e marito fedifrago).
La storia del primo ansiolitico, il meprobamato, risale al 1950: ma il
prodotto è commercializzato solo cinque anni dopo dai Carter-Wallace
Laboratories come Miltown (nome di un distretto del New Jersey). Eppure, il
ritrovato di Frank Milan Berger – il chimico di origini cecoslovacche che lo
sintetizzò in maniera accidentale, mentre era alle prese con la ricerca di
rilassanti muscolari – fu la risposta a una malattia nervosa peculiarmente
americana dalla storia assai più lunga. Se, fino al Novecento, la «cura delle
malattie mentali» – secondo la corrente definizione di psichiatria – era
sinonimo di manicomi e ospedali, per l’ansia, che non era considerata un
disordine della psiche, mancavano invece trattamenti e protocolli
scientifici. Ancora pochi decenni fa, agitazione, nervosismo e tensione
erano associati a manifestazioni di uno spirito turbato, mancanza di volontà
e costituzione poco sana. Già a fine Ottocento, molti americani cercavano
sollievo ai loro problemi di nervi nelle Spa e con le patent medicines (→
Tricksters e con-men). Nel 1869, George Miller Beard, neurologo affetto da
quella che avrebbe definito – e contribuito a far conoscere – come
«nevrastenia», scriveva il saggio American Nervousness, aprendo la strada a
una prassi diagnostica longeva. Inclini a quella patologia erano gli
americani, esposti, per via dello straordinario decollo industriale del paese e
delle sue metropoli (→ Gilded Age), a un’accelerazione febbrile dei ritmi
della vita moderna. William James – celebre psicologo e filosofo, fratello
dello scrittore Henry – che ne soffriva, la ribattezzò «Americanitis». I più
affetti da nevrastenia erano infatti gli intellettuali e i benestanti istruiti, con
un numero crescente di donne di estrazione middle class – da Jane Addams
(→ Famiglie A[d]dams) a Charlotte Perkins Gilman (→ Piccole donne
crescono) – a cui si stavano aprendo, per la prima volta, le porte di college e
università (→ Ivy League). Per tutto l’Ottocento e i primi decenni del secolo
successivo, i rimedi per i malati di nervi andavano da sciroppi e pillole di
manifattura artigianale (pubblicizzati da imbonitori itineranti) a vari
accessori di elettroterapia (cinture, bretelle, massaggiatori manuali)
distribuiti dai cataloghi (→) per corrispondenza Sears, Roebuck & Co. e
Montgomery Ward.
La diffusione delle teorie freudiane poi avrebbe trovato nei centri urbani
un terreno fertile su cui attecchire, trasformandosi in una vera moda: negli
anni trenta, la concentrazione di psicanalisti a New York e Los Angeles
aveva portato a soprannominare alcune vie «Libido Lane» e «Nightmare
Alley».
È in questo contesto socioculturale che va letta la vicenda del Miltown, il
primo «blockbuster psicotropo» della storia, approvato per uso
commerciale dalla Fda (→ E.R.) nel 1955. Venduto tanto nelle grandi quanto
nelle piccole città (→) e salutato dalla stampa come «aspirina emozionale»,
«lassativo mentale» e «pillola della pace», il Miltown gode di un battage
pubblicitario senza precedenti, tutto giocato sulla «straordinaria efficacia»
del nuovo farmaco – chiamato, per non turbare gli animi, «tranquillante» –
nella cura di malattie e disturbi che vanno dall’ansia alla depressione post
partum alla menopausa. Nel 1957, circa un terzo delle prescrizioni mediche
nazionali prevedono la somministrazione di Miltown, i pazienti lo amano e
in pochi anni la parola entra nel lessico comune: nascono così «Miltown
cocktails» e «Miltown parties», in cui le pillole di meprobamato vengono
buttate giù a sorsi di Bloody Mary.
Se il Miltown conoscerà un vero boom commerciale – alcune farmacie
dovranno affiggere alle vetrine cartelli che annunciano «No Miltown
Today» – è anche perché la cultura americana degli anni cinquanta vede
nell’ansia una conseguenza quasi desiderabile del successo lavorativo. Con
l’avvento di un’epoca in cui elettrodomestici, auto e beni di consumo usa e
getta diventano status symbol, i tranquillanti sono accolti come ulteriore
strumento di felicità. Non sorprende quindi che uomini e donne del mondo
dello spettacolo (scrittori, attori, presentatori televisivi, star dello sport) si
vantino in pubblico dell’uso di sedativi (un caso famoso è quello dell’attore
e comico televisivo Milton «Miltown» Berle). Sono anche anni di grande
incertezza: da un lato, c’è lo spettro del nemico russo che si allunga sulla
ritrovata abbondanza economica nazionale contribuendo a disseminare i
perfetti giardini dei suburbs (→) di bunker atomici formato famiglia;
dall’altro, ci sono le profonde tensioni civili (→ Back of the bus) che
lacerano il tessuto sociale del paese. Non tranquilli ma tranquillized, come
scriverà il poeta Robert Lowell, gli anni cinquanta saranno sedati con la
chimica.
Protagonista indiscusso della seconda metà del decennio di Eisenhower e
del triennio kennediano, il Miltown dovrà soccombere tuttavia all’ombra di
una nuova famiglia di ansiolitici commercializzati dalla Hoffman-Roche: le
benzodiazepine. Tra queste, il Librium sarà in voga per tutti gli anni
sessanta, mente il Valium spopolerà fino agli anni ottanta, godendo di
campagne pubblicitarie più massicce di quelle del Miltown e arrivando, nel
1972, al primato mondiale di medicinale più prescritto. Con l’avvento delle
benzodiazepine, semplici medici condotti staccano ricette a base di Valium
(ma anche di un’ampia schiera di marche meno conosciute) per un totale di
90 milioni all’anno e con un target sempre più femminile. «Mother’s Little
Helper», cantata da Mick Jagger nel 1966, testimonia di questa voga diffusa
in modo particolare tra le casalinghe statunitensi e britanniche: «Mother
needs something today to calm her down / and though she is not really ill /
there’s a little yellow pill / She goes running for the shelter of a mother’s
little helper / and it helps her on her way, gets her through her busy day».
Lo stress tutto muliebre della nuova condizione suburbana può essere
insomma alleviato da un piccolo aiuto in pillole.
È solo negli anni settanta – definiti da un critico un’età di «calvinismo
farmaceutico» – che opinione pubblica e comunità scientifica cominciano a
preoccuparsi degli effetti di dipendenza dalle benzodiazepine. Paragonati
ad autentiche droghe, gli ansiolitici continuano comunque a essere
prescritti per qualsiasi forma di disturbo psichiatrico «minore», inclusa la
depressione, una malattia di cui iniziano a essere studiati in maniera
sistematica sintomi e cure. La sintesi dei primi antidepressivi risale in realtà
agli anni cinquanta e sessanta, quando le case Geigy e Roche producono
imipramina e Moi (1957) e la Merck l’amitriptilina (1961), poi chiamata Tca
(antidepressivo triciclico). Pur crescendo l’attenzione scientifica e culturale
sugli stati depressivi – al suicidio della poetessa Sylvia Plath nel 1963
seguirà, per esempio, un dibattito circa l’efficacia di antidepressivi in casi
analoghi –, solo con il successo commerciale del Prozac, lanciato sul
mercato nordamericano dalla Ely Lilly and Company nel 1988, gli
antidepressivi prenderanno piede per la prima volta quale nuova panacea
somministrata in comodi dosaggi di una pillola al giorno. Peccato che quei
dosaggi siano eccessivi, un particolare preso in considerazione dalla Fda
soltanto con i primi casi di suicidio – uno dei possibili effetti collaterali del
farmaco. L’assunzione di Prozac – e di Zoloft, Celexa, Paxir, Effexor, tutti
Ssri (Selective Serotonine Reuptake Inhibitor) indicati per diverse forme di
depressione, ansia e disordini della personalità – diventa un fenomeno
socioculturale intorno a cui ruotano numerose pubblicazioni: da Listening to
Prozac di Peter Kramer a Noonday Demon di Andrew Solomon, ai Prozac Diaries
di Lauren Slater e a Talking Back to Prozac di Peter Breggin, fino a Prozac
Nation, il libro memoriale di Elizabeth Wurtzel da cui, nel 2001, è tratto
l’omonimo film. Nel 2000, il Prozac è il quarto farmaco più prescritto nel
paese, lo Zoloft il settimo, il Paxil l’ottavo.
Se tra i maggiori consumatori di antidepressivi ci sono spesso gli
adolescenti – Eric Harris, uno dei due carnefici di Columbine (→ Waco,
Columbine), prendeva il Luvox –, la difficoltà dei bambini di concentrarsi a
scuola (Adha, disturbo di attenzione e iperattività) è curata con il Ritalin,
metilfenidato simile alle anfetamine dagli effetti stimolanti analoghi a quelli
della cocaina. Oltre a poter creare dipendenza, Ritalin e affini sono
particolarmente appetibili in ambienti competitivi come il college, dove
l’ansia da prestazione può trovare un facile supporto in mix farmacologici
fai da te.
Ma a ben guardare, come ci ricorda il personaggio di Tony Soprano (→
Serie tv), mafioso del New Jersey che va dalla strizzacervelli e ingolla Prozac
e capocollo (→ Ziti, zeppole e capocollo), negli Stati Uniti l’ansia da
prestazione sembra non risparmiare nessuno. Nemmeno il «capo di tutti i
capi».

BIBLIOGRAFIA
Gary Greenberg, Storia segreta del male oscuro, Bollati Boringhieri, Torino
2011.
Andrea Tone, The Age of Anxiety: A History of America’s Turbulent Affair with
Tranquillizers, Basic Books, New York 2009.
C. SCAR.

Triangle Shirtwaist Company (New York 1911)


Fra Ottocento e Novecento, uno dei cuori pulsanti dell’economia
newyorkese era l’industria dell’abbigliamento, strutturata intorno ad
alcuni grossi stabilimenti sparsi per la città e a una miriade di piccoli e medi
laboratori (i cosiddetti sweatshops, o «laboratori del sudore»), concentrati
per lo più in quartieri proletari: ovunque, paghe molto basse, pessime
condizioni di lavoro, giornate di dieci-dodici ore compreso il sabato,
precarietà e ricattabilità di una manodopera in grande maggioranza
femminile, spesso giovanissima e immigrata di recente. La Triangle
Shirtwaist Company, specializzata nella confezione di camicette da donna
all’ultima moda, occupava circa 500 operaie (con una piccola percentuale di
operai) e si trovava agli ultimi tre piani dell’Asch Building, un edificio di
dieci piani al 23-29 di Washington Place, a due passi dalla pace rarefatta di
Washington Square – la «vecchia New York» dove Henry James aveva
ambientato uno dei suoi romanzi più famosi (Washington Square, del 1880).
Insieme alle loro compagne di altre fabbriche e sweatshops, le operaie della
Triangle, giunte da poco dall’Italia e dall’Est Europa o figlie d’immigrati
arrivati negli Stati Uniti a fine Ottocento e organizzate nel combattivo
sindacato International Ladies’ Garment Workers Union (Ilgwu; →
Sciopero!), erano state protagoniste di coraggiose azioni di sciopero,
culminanti fra il 1909 e il 1911 nella «Sollevazione delle 20mila» e nella
«Grande rivolta». In risposta alla combattività delle lavoranti, i proprietari
della Triangle Waist Company avevano introdotto nella loro fabbrica norme
molto rigide: in particolare, per evitare pause o assenze dal lavoro,
sottrazione di oggetti e ingresso di organizzatori sindacali, avevano
sbarrato le porte degli stanzoni dove si allineavano le macchine da cucire.
Sabato 25 marzo 1911, alle sedici e quaranta, appena prima della fine
della lunga giornata di lavoro, un incendio scoppiò all’ottavo piano
dell’Asch Building, forse provocato da una scintilla nei motori azionanti le
macchine e subito alimentato dal materiale altamente infiammabile
presente nello stanzone, e si propagò con grande rapidità ai due piani
superiori. Nel giro di qualche minuto, tra il fumo, le lingue di fuoco,
l’impossibilità di raggiungere le scale interne e la fragilità delle scale
antincendio, mal costruite e peggio tenute, il terrore e le urla, il panico
divenne generale. Mentre i due addetti all’ascensore (Joseph Zito e Gaspare
Mortillaro) facevano miracoli nel tentativo di portare in salvo chi cercava di
fuggire, dovendosi poi arrendere al fuoco e al calore, un orribile spettacolo
si offrì ai passanti: decine di ragazze si gettavano dai finestroni, spesso
abbracciate insieme, sfracellandosi sulla strada sottostante, mentre le
fiamme divoravano ciò che restava all’interno e vomitavano fuori una nera
massa di fumo. Ai pompieri che riuscirono a entrare nella fabbrica, si
presentò una scena ancor più agghiacciante: cadaveri ammucchiati contro i
portoni sbarrati, corpi carbonizzati ancora seduti alle macchine.
Freda Velakowsky, Mary Leventhal, Sofia Salemi, Sarah Kupla, Antonina
Colletti, Catherine Maltese, Julia Rosen, Jenny Leven, Anna Ardito, Rose
Weiner, Joseph Wilson… Morirono in 146: 17 uomini e 129 donne (la più
anziana, di 48 anni; le due più giovani, di 14 anni); e 6 vittime furono
identificate solo nel 2011, dopo lunghe ricerche d’archivio. Le strade del
Lower East Side, dove abitava la grande maggioranza dei morti, si coprirono
di corone scure, si riempirono di persone in lacrime. Una folla enorme seguì
i feretri qualche giorno dopo, in un imponente funerale collettivo. Alla
commemorazione tenuta il 2 aprile 1911, l’attivista Rose Schneiderman
dichiarò: «Non posso parlare di amicizia a voi che siete qui riuniti: troppo
sangue è stato versato. So per esperienza che solo i lavoratori possono
salvare le proprie vite. E l’unico modo per farlo è creare un grosso
movimento operaio».
Seguirono un’inchiesta e un processo: i proprietari della Triangle
Shirtwaist Company, Max Blanck e Isaac Harris, furono scagionati e presto
ricevettero un indennizzo di 64925 dollari (nel 1913, uno di essi, ritenuto di
nuovo colpevole di aver sbarrato le porte del proprio laboratorio, fu
multato di 20 dollari); alle famiglie delle vittime andarono 75 dollari per
ogni persona deceduta. Furono promulgate nuove leggi antinfortuni, ma
non mancarono altri incendi e altre vittime: il 19 marzo 1958, morirono in
24 nell’incendio di una fabbrica di materiali tessili al 623 di Broadway, un
vecchio stabile di cinque piani, privo d’impianti di sicurezza, a cinque
isolati di distanza dall’Asch Building.
Quello alla Triangle Shirtwaist Company fu il più grave incidente sul
lavoro nella storia di New York. L’edificio al 23-29 di Washington Place si
chiama ora Brown Building: una targa ricorda la tragedia.

BIBLIOGRAFIA
David von Drehle, Triangle: The Fire That Changed America, Grove Press, New
York 2004.
Mario Maffi, Nel mosaico della città. Differenze etniche e nuove culture in un
quartiere di New York (1992), il Saggiatore, Milano 2006.
Leon Stein, The Triangle Fire (1962), Cornell University Press, Ithaca-London
2001.
M.M.

Trickster e con-men
Gli imbroglioni hanno avuto molti nomi e molti volti nella società
americana, dai semplici ladruncoli di strada ai grandi truffatori in grado di
far evaporare milioni di dollari con abili speculazioni finanziarie. Tuttavia,
le figure più rappresentative dell’inganno o dell’imbroglio nel Nuovo
mondo sono senza dubbio due: i tricksters e i confidence-men, o con-men
Le origini del trickster si perdono nella notte dei tempi: figura spesso
antropomorfica presente in quasi ogni cultura con diversi nomi e fattezze,
esso era in origine una creatura magica che violava le norme di
comportamento comuni, facendo scherzi, imbrogliando o confondendo
l’interlocutore attraverso giochi linguistici. Il termine venne coniato nel
1885 da un personaggio piuttosto ambiguo, l’antropologo Daniel Garrison
Brinton, studioso di culture native e sostenitore al contempo delle teorie del
razzismo «su base scientifica».
I primi esempi di tricksters americani si trovano nella cultura nativa: il
coyote e il corvo, animali famosi per la loro astuzia, appaiono in racconti e
leggende in forme diverse – divinità o messaggeri, dotati di poteri magici e
dunque impegnati a ingannare gli esseri umani per burla; oppure, di contro,
creature che ricorrono all’astuzia per salvarsi la pelle (→ Pesci gatto). Una
simile varietà di figure e di ruoli si ritrova anche nelle culture
afroamericane, che tanto peso ebbero nel folklore nazionale dagli inizi
dell’Ottocento in avanti (→ Tall Tales): il coniglio Brer Rabbit e la Signifyin’
Monkey (la scimmia erede in linea diretta del personaggio di Eshu della
mitologia africana degli Yoruba) sono elementi archetipici, in grado di
sovvertire l’ordine costituito e averla vinta sui potenti attraverso la sagacia
e il gioco verbale. È grazie a ingegnosità e favella che il coniglio Brer
(parente ideale del roditore della mitologia cherokee) può cavarsela nelle
circostanze più disparate con un linguaggio simbolico e figurato; e la
scimmia riesce sempre a spuntarla sul leone, incapace di comprenderne il
messaggio in codice. Inscenando con le loro furbizie quella che si potrebbe
definire una rivincita dei deboli contro i forti, Brer Rabbit e Signifyin’
Monkey sublimano in chiave folklorica le difficoltà, le insidie e le strategie
di sopravvivenza cui gli afroamericani facevano ricorso per non essere
soffocati dalle maglie della schiavitù. Il «corpo fragile ma dalla mente forte»
di cui parla lo studioso Henry Louis Gates, che permette a Brer di «creare i
propri simboli e significati sfidando la logica perversa dell’oppressore», è il
corpo nero che si ribella alla sofferenza fisica e alla privazione della libertà.
E visto che tante furono e continuano a essere le categorie di oppressi, non
sorprende che sotto diverse maschere e forme i tricksters dimorino anche
nell’immaginario collettivo moderno: dalle versioni animali di Bugs Bunny
o Willy il Coyote (affiliati ai loro avi afroamericani e nativi) al Tom Sawyer
di Mark Twain; dai tanti poveri astuti impersonati da Charlie Chaplin alla
saga del supereroe (→) Batman, il cui rivale si chiama, non a caso, «The
Joker».
D’altre truffe (e con altre finalità) sono invece protagonisti gli «uomini
di fiducia» (confidence men) che iniziano a popolare i resoconti storici e le
trasposizioni letterarie dall’Ottocento in avanti. Poco interessati ai risvolti
simbolici e alle sovversioni sociali, i con-men sono i classici imbroglioni alla
ricerca di facili guadagni e di polli da spennare. Fantasia e arguzia,
stratagemmi e menzogne sono i requisiti essenziali per il successo delle loro
imprese; e visto che i creduloni si concentravano per lo più fra la
popolazione poco istruita o appena giunta nel Nuovo mondo, fu nelle zone
di frontiera (→) che i con-men costruirono le proprie fortune. Fra i trucchi
più usati vanno ricordati i dubbi intrugli conosciuti come patent medicines:
medicine solo nel nome, spesso contenenti oppio (negli anni settanta
dell’Ottocento, gli Stati Uniti ne importavano circa 200 tonnellate), morfina
o cocaina (→ Coca-Cola), sovente diluiti in una preparazione alcolica al 90%,
che di sicuro alleviavano i sintomi, ma nulla facevano contro le cause. I con-
men che macinavano miglia sulle strade secondarie dell’America rurale
avevano molto in comune con i predicatori dei revival religiosi (→ Quakers,
Shakers, Mormons): l’abilità oratoria, l’uso massiccio di strategie quali il call
and response per tener viva l’attenzione dell’audience, la presenza di
infiltrati a pagamento fra il pubblico a testimoniare non più miracoli divini,
ma l’efficacia delle pozioni, la manipolazione emotiva e persino il lessico
usato non erano poi così distanti da qualsiasi revival religioso che si rispetti.
Sempre in tournée al pari di spettacoli circensi (→ Tendoni da circo),
questi finti medici erano assai impegnati specie durante l’autunno, quando
le vendite dei cereali lasciavano qualche soldo in tasca agli agricoltori e il
peggioramento delle condizioni meteorologiche, combinato a standard
igienici e abitativi già alquanto bassi, rendeva il clima ancora più insalubre.
Non a caso, accanto alla frontiera, dalla Guerra civile (→) in avanti l’altro
grande terreno di caccia per questi imbroglioni furono le regioni agricole
del Sud, messe in ginocchio, sul piano economico e psicologico, dal
conflitto. Spesso, più che curare malanni fisici, le pozioni servivano come
palliativi per sofferenze mentali: fu il terrore per un presunto imminente
declino della razza anglosassone a incrementare negli anni settanta e
ottanta dell’Ottocento le vendite dei «tonici per la fertilità», dei
«rinvigorenti per il corpo», dei «regolatori femminili» e dei «rinforzanti»
(per capelli, unghie e altro), rimedi che si diceva unissero ai poteri
sciamanici naturali di radici ed erbe (apprese, così pare, dai nativi) i nuovi
ritrovati della scienza moderna. Ecco spiegato il successo del Turkey shootin’,
una panacea per il «sangue» (e, sottinteso, la virilità) degli uomini che,
invogliati dalla réclame raffigurante baldi cacciatori di frontiera pieni di
vita, accorrevano a comprare una bottiglietta che dava loro nulla più
dell’illusione di mantenere una supremazia razziale in parte minata dalla
Guerra civile. Quanto alle donne, doveva sembrare un miraggio quella
Chattanoogamedicine Co. che, al prezzo di un dollaro, prometteva di togliere
ogni disturbo correlato al ciclo mensile (→ Kleenex e Tampax); o l’«Olio di
St Jacobs», «in grado di vincere il dolore, adatto a uomini e cavalli»; o
ancora lo sciroppo di fichi, rimedio per la bile; oppure i medicinali di John
Maynard, afroamericano del Maryland attivo negli anni cinquanta
dell’Ottocento, a testimonianza di come simili infusi scavalcassero anche la
linea del colore (→).
Accanto ai venditori di patent medicines, vi erano «uomini di fiducia»
specializzati in altri tipi di truffa, come i bari, impegnati a bordo di battelli
(→ Vie d’acqua) o nei saloon (→), grazie anche al rapporto di amore-odio
della nazione con il gioco d’azzardo (→ Atlantic City; → Flamingo Hotel).
Va detto che nel Nuovo mondo l’usanza risaliva alle popolazione native,
amanti delle scommesse su corse e consimili; e a nulla valse il divieto
assoluto da parte della cultura puritana (→ Covenant) per evitare la
diffusione di questa passione fra i coloni. Il divieto con il tempo si trasformò
in semiconcessione, a patto che non si traesse sostentamento da tale
pratica: ciò tuttavia non impedì che l’azzardo s’imponesse come fonte di
reddito privilegiata e modus vivendi per alcuni imbroglioni nelle zone di
frontiera.
Vivide rappresentazioni dei con-men abitano tanto la cultura popolare
quanto la letteratura alta: si pensi all’ultimo romanzo pubblicato in vita da
Herman Melville, che con L’uomo di fiducia (1857) ci mostra un abile
imbroglione dai mille volti e travestimenti intento a truffare le proprie
vittime a bordo di un battello che discende il Mississippi il 1º aprile, il
«Fool’s Day» (ma sarà davvero sempre la stessa persona? ed è davvero un
truffatore, o la truffa è solo frutto della nostra fantasia? siamo anche noi
lettori truffati dal protagonista e dall’autore? Il dubbio permane). E va detto
che la realtà stessa offriva declinazioni altrettanto efficaci di tali figure:
humbug, «imbroglione», si definiva lo stesso P.T. Barnum (→ Tendoni da
circo), nell’autobiografico Humbugs of the World (1865), avendo trasformato
l’inganno in arte e lo spettacolo in illusione mascherata (pare che proprio a
Barnum l’autore per l’infanzia L. Frank Baum si ispirasse per un altro
immortale imbroglione, Il Mago di Oz → Piccole donne; → Oz).
Ma il più grande baro dell’Ottocento che la storia ricordi, in grado di
trasformare l’imbroglio da strada in un’autentica industria su larga scala, fu
Jefferson Randolph «Soapy» Smith II, con-man e poi gangster, i cui traffici,
negli ultimi due decenni del secolo, spaziavano dal Texas al Colorado
all’Alaska. Fin dagli inizi della carriera, Smith si avvalse di un gruppo di
collaboratori senza scrupoli, la Soap Gang, che includeva altri celebri nomi
dell’epoca come Texas Jack Vermillion e «Big Ed» Burns e si spostava di
città in città, truffando passanti con il gioco delle tre carte o delle tre
conchiglie, specialità che richiedevano mani veloci e poco altro. Quanto a
Smith, divenne famoso per un imbroglio piuttosto elaborato: munito di
tavolino treppiedi, posizionato a un angolo trafficato della strada, metteva
in bella mostra barrette di sapone che avvolgeva in banconote da uno a 100
dollari, poi incartandole e mischiandole con altre senza banconota, per
metterle quindi in vendita a un dollaro al pezzo. La lesta sottrazione delle
barrette con le somme maggiori e la presenza fra il pubblico di complici che
simulavano favolose vincite faceva il resto. Il business fiorì grazie alla
connivenza di giudici e forze dell’ordine, a cui Soapy Smith destinava parte
del ricavato, tanto che alla fine degli anni settanta era divenuto così potente
da non aver più bisogno di spostarsi di città in città, stabilendosi a Denver.
Qui arrivò a controllare il sottobosco criminale, s’ingraziò politici e
poliziotti e aprì il Tivoli Club, una sala da gioco con tanto di ufficio per
gestire le sue numerose «imprese». Con il giro di vite dei primi anni
novanta, Smith fu costretto a migrare a Creed (Colorado), cittadina
mineraria in pieno sviluppo, dove acquistò parecchi lotti adiacenti alla Main
street (→) grazie alla collaborazione di abili prostitute che, con i loro
servigi, indussero i proprietari degli immobili a vendergli i loro edifici,
presto rimpiazzati con saloon (→) e case da gioco. Anche qui, Smith si
divideva fra accumulo di ricchezze e azioni filantropiche, in perfetto stile
robber baron (→), arrivando a costituire una vera e propria amministrazione
cittadina parallela a quella ufficiale e acquisendo un potere tale da poter
ammettere, davanti alla stampa, di essere un con-man fatto e finito. Dopo un
secondo tentativo fallito di ristabilirsi a Denver, Smith seguì l’onda della
corsa all’oro (→ Oro!) e si trasferì a Skagway, in Alaska, e lì fondò il suo
terzo impero. Le truffe divennero ancora più fantasiose: oltre che in
corruzione e case da gioco, Smith si lanciò anche nella costruzione di un
finto ufficio del telegrafo (senza alcun collegamento alla rete) autorizzato a
inviare denaro – l’unica linea diretta era con le tasche sue e dei complici.
Questi ultimi, a loro volta, nelle vesti di giornalisti, preti, funzionari
pubblici, avevano il compito di localizzare e ripulire i malcapitati nuovi
arrivi in città. L’organizzazione di una brigata autonoma, la «Skagway
Military Company», che prese parte alle «splendide guerricciole» (→) del
1898, e il suo riconoscimento ufficiale da parte del presidente McKinley non
fecero che rinsaldare il potere di Smith sulla cittadina. Ma la
spregiudicatezza, l’arroganza e lo spregio del pericolo fecero sì che Smith
avesse vita breve: ucciso a trentotto anni, nella sparatoria nota come il
«Shootout on Juneau’s Dwarf», da uno degli uomini di legge che da tempo
cercavano di riportare la legalità in quell’angolo di frontiera dell’Ovest.
Eppure, come tutti i con-men, anche Smith continua ad avere un seguito –
almeno a giudicare dalle veglie sulla sua tomba l’8 luglio, data della morte.
Anche il cinema del Novecento ha a lungo celebrato più gli imbroglioni
che gli eroi virtuosi: dalle facce da schiaffi di Robert Redford e Paul Newman
ne La stangata (1973), quando l’imbroglio e la truffa erano il riscatto per una
generazione sprofondata nel buio della Grande depressione (→), fino ai loro
epigoni contemporanei, i belli e sornioni di Ocean’s Eleven (2001, remake di
Colpo grosso, 1960) e i relativi sequel; fino a Leonardo di Caprio, che in Prova a
prendermi (2002) veste i panni (veri) di Frank Abagnale, uomo di
straordinaria fantasia e prontezza di spirito che il divorzio dei genitori e la
rovina finanziaria della famiglia spinse sulla strada, e che per sopravvivere
prima e arricchirsi poi si traformò in (finto) pilota della Pan-Am,
falsificatore di assegni, medico pediatra con laurea (falsa) a Harvard,
avvocato e, dopo la cattura, collaboratore dell’Fbi.
Una vicenda così incredibile è tuttavia poca cosa, almeno dal punto di
vista monetario, se si pensa alle grandi truffe finanziarie, da Charles Ponzi
(padre dell’omonimo «schema», che ancor oggi è usato con successo per
raggirare chi ancora spera in rapide fortune senza rischi) ai suoi emulatori
contemporanei: fra questi, spicca il finanziere Bernard Lawrence «Bernie»
Madoff, che arrivò a sottrarre a migliaia di investitori più di 80 miliardi di
dollari con una versione aggiornata dello schema. Pare che Hollywood (→)
pensi a una trasposizione della sua vita per il grande schermo: ma, per
trasformarlo in eroe, servirebbe davvero un’allucinazione collettiva.

BIBLIOGRAFIA
Henry Louis Gates Jr., The Signifying Monkey, Oxford University Press, New
York 1888.
Stephen Mihm, A Nation of Counterfeiters: Capitalists, Con-Men and the Making of
the United States, Harvard University Press, Cambridge 2007.
Frank G. Robertson, Beth Kay Harris, Soapy Smith: King of the Frontier Con Men,
Hastings House, New York 1961.
C. SCHIA.

Trout fishing (o della pesca)


Appeso alle porte dei negozietti americani, può capitare di leggere un
cartello, magari a forma di trota, su cui è scritto «GONE FISHING»; la stessa
espressione può comparire nelle mail di risposta automatica di un
impiegato newyorkese in vacanza.
«Gone fishing» (alla lettera: «Andato a pescare») ha due accezioni: la
prima, pratica, indica un piccolo break, una pausa momentanea dal lavoro;
la seconda, più metaforica, suggerisce invece una fuga dalla routine
quotidiana, in special modo cittadina. In entrambi i casi, l’idiomatico «gone
fishing» («Gone Fishin’», nella canzone del 1951 di Louis Armstrong e Bing
Crosby) parla di un rapporto degli americani con la pesca che è conseguente
all’affermazione di uno stile di vita urbano che alterna intensi periodi
lavorativi e leisure: ovvero, come recita un proverbio d’oltreoceano, «A bad
day at fishing is better than a good day at work» («Una cattiva giornata a
pesca è meglio di una buona giornata al lavoro»). Ma non è stato sempre
così.
Tra Seicento e Settecento, per la maggior parte dei coloni la pesca era
un’attività di sussistenza; solo i proprietari terrieri e l’alta borghesia la
praticavano quale passatempo modellato sulle abitudini degli aristocratici
inglesi. Le cose cambiarono nel corso del XIX secolo, quando la pesca d’acqua
dolce si trasformò in uno sport nazionale. Le ragioni storiche di questo
mutamento – un fenomeno che, iniziato negli anni quaranta dell’Ottocento,
arrivò a maturazione nei decenni successivi – furono molteplici:
l’assorbimento della middle class urbana in lavori impiegatizi e abitudinari; il
progressivo esaurirsi dei territori liberi sulla frontiera (→); l’espansione
delle ferrovie (→ Promontory Point); il decollo dell’industrializzazione (→
Gilded Age); un’accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica nei confronti
del graduale impoverimento della wilderness (→) e il conseguente bisogno di
conservarla.
Andandosi a connotare come valvola di sfogo alle tensioni del vivere
civile nelle grandi e piccole città, la pesca – a due passi da casa o in località
via via più lontane, raggiungibili in treno e, in seguito, in auto – diventò
un’attività ricreativa per soli uomini, un’evasione semplice e all’apparenza
innocente nel grande outdoor americano. Quel ripiegare tutto maschile nella
natura amena dei boschi intorno ai fiumi e ai laghi, in ritirata dalle
preoccupazioni sociali, familiari e, nello specifico, coniugali, si prestò a
caricare la pesca di una serie di valori archetipici americani che ne fecero
un momento di inviolabile e imperdibile cameratismo (nonché teatro di
gesta eroiche, o eroicomiche, nella cattura di pesci di dimensioni mitiche →
Pesci gatto), un rito di passaggio in cui i padri iniziavano i figli all’età adulta
(→ Adamo americano), un’immagine idilliaca spesso associata all’infanzia
serena di «ragazzi a piedi nudi» (→ Piccoli uomini).
Più di ogni altra cosa, nella seconda metà dell’Ottocento, la pesca
diventò dunque uno sport vero e proprio, con tanto di codici e di
regolamenti. Fu la tecnica della pesca con lenza (angling) a imporsi sulle
altre: canna, amo e lenza diventarono il vangelo di numerosi club di anglers.
E quando le riserve dei fiumi e dei laghi vicini alle grandi città cominciarono
a scarseggiare, gli appassionati si misero in viaggio, in drappelli organizzati
per raggiungere destinazioni più remote: dalle Adirondack Mountains al
Maine, dal Michigan al Wisconsin e, in particolare, al Minnesota, che con i
suoi splendidi laghi e laghetti abbondava di trote e pesci persici. Di pari
passo alla popolarità dell’angling, crebbe, sin dal 1835, un mercato per le
attrezzature di pesca che aveva nelle diverse tipologie di mulinelli il suo
pezzo forte. Oltre ai ritratti della Hudson River School e alle pagine di Henry
David Thoreau (→ Wilderness) (ma già Washington Irving aveva scritto che
«c’è qualcosa nella pesca con la lenza che tende a produrre una serenità
della mente»), la sensibilità naturalistica di metà Ottocento trovò
espressione concreta e commerciale nel quadro di John Frederick Kensett,
Trout Fisherman (1852) e nella litografie prodotte da Currier & Ives (The Trout
Stream, di Francis F. Palmer, 1852). A decretare la popolarità dell’angling in
modo inequivocabile pensarono poi periodici quali The American Turf
Register and Sporting Magazine (1829); The Spirit of the Times (1831); Forest and
Stream (1873); American Angler (1881); Western Field and Stream (1896) – ma
l’elenco sarebbe lunghissimo, visto e considerato che tra il 1870 e il 1910 ne
uscirono un centinaio. Insieme alle litografie e alle riviste non mancarono i
trattati dedicati alla pesca: centoni di studi scientifici, ricognizioni della
fauna ittica americana e racconti di viaggio.
A partire dagli anni settanta dell’Ottocento, grazie anche al successo dei
romanzi di Mark Twain Le avventure di Tom Sawyer (1876) e Le avventure di
Huckleberry Finn (1884, quest’ultimo lanciato nella sua prima edizione con
una copertina firmata da E.W. Kemble che ritrae Tom e Huck con una canna
in mano), alle litografie di Currier & Ives (ancora di Palmer, The Barefoot Boy,
1872) e ai quadri di Winslow Homer, l’immagine del bambino scalzo che
pesca sul fiume entrò nella fantasia collettiva, dove sarebbe rimasta a lungo.
Alcuni decenni più tardi, alla fortuna del «barefoot boy» avrebbe
contribuito enormemente Norman Rockwell, disegnatore delle copertine di
Boys Life (la rivista dei Boy Scouts of America, attiva dal 1911) e del loro Boy
Scout Hike Book (1913), nonché, nel 1936 e nel 1940, di una riedizione
illustrata dei due romanzi di Mark Twain.
Come notava già cinquant’anni fa il critico Leslie Fiedler, i protagonisti
dell’idillio pastorale americano – quasi sempre declinato in attività di pesca
o di caccia – sono uomini senza donne, un paradiso di buddies che, in coppia,
in gruppo, ma anche solitari, si rifugiano nella natura incorrotta alla ricerca
di un luogo puro e innocente. La letteratura del Novecento è piena di questi
Adami americani (→) votati all’arte della pesca: dal Nick Adams dei racconti
del Michigan al Jack Barnes di Fiesta (1926) di Ernest Hemingway, dai
protagonisti di Dove ti porta il fiume (1970) di James Dickey (da cui è tratto il
film Un tranquillo weekend di paura, 1972) a quelli dei racconti di Raymond
Carver e al celebre Pesca alla trota in America (1967) di Richard Brautigan.
Proprio un racconto carveriano del 1981, Con tanta di quell’acqua a due
passi da casa (anch’esso trasposto sul grande schermo nel magistrale America
oggi di Robert Altman, 1993), è esemplare delle dinamiche misogine di cui
sopra: l’unico modo perché un corpo femminile si avvicini alla comitiva di
uomini in gita sul Natchez River è che sia pescato cadavere, nel corso del
fiume. D’altronde, come scriveva H.D. Thoreau, «molti uomini vanno a
pesca per una vita intera senza sapere che non è il pesce ciò che stanno
cercando».

BIBLIOGRAFIA
Kathryn Grower (ed.), Hard at Play: Leisure in America 1840-1940, The Strong
Museum, Rochester, New York 1992.
Richard L. Hummer, Hunting and Fishing for Sport: Commerce, Controversy,
Popular Culture, Bowling Green State University Popular Press, Bowling
Green 1994.
Brent Lovelock (a c. di), Tourism and the Consumption of Wildlife: Hunting,
Shooting, and Sport Fishing, Routledge, London-New York 2008.
C. SCAR.

Tuskegee
È una piccola città (oggi conta qualcosa come 12mila abitanti) della contea
di Macon, in Alabama, destinata a una fama contraddittoria. A Tuskegee
(nella lingua dei creek, «guerriero»), Booker T. Washington fondò nel 1881
la Normal School for Colored Teachers, che sarebbe diventata in seguito il
Tuskegee Institute (quindi, Tuskegee University). Washington è l’«altro»
grande nome – insieme a quello di W.E.B. Du Bois – dell’emancipazionismo
afroamericano nei decenni fra Ottocento e Novecento. Mentre però Du Bois
insisteva sullo sviluppo di una leadership nera (i talented tenth) in grado di
guidare la popolazione ex schiava e sulla necessità di contrastare il razzismo
della società americana, Washington propendeva per un’azione molto più
moderata, accettando un ruolo subordinato e separato per gli afroamericani
e proponendo scuole che si occupassero di migliorare alcune competenze
professionali, per così dire «di nicchia»: e la Tuskegee University aveva e
avrà esattamente questo compito. Tra i vari docenti succedutisi nel tempo,
molto importante dal punto di vista dell’economia contadina del Sud sarà
quello dell’agronomo George Washington Carver; anche la scrittrice Nella
Larsen, uno dei nomi del «Rinascimento di Harlem» (→ Harlem), lavorò per
qualche tempo, fra il 1914 e il 1915, come infermiera al Tuskegee Institute
(scrivendone poi anche, con accenti critici, nel romanzo Sabbie mobili, del
1928; da parte sua, Ralph Ellison, altro nome celebre delle lettere
afroamericane, ambienterà in un college del tutto simile la parte iniziale del
suo Uomo invisibile, 1952). Fu proprio a Tuskegee che nacque, nel 1911, Rosa
Parks, che nel 1955, rifiutando di andarsi a sedere nei posti in fondo
all’autobus riservati ai neri, diede origine al boicottaggio degli autobus di
Montgomery, cruciale momento di svolta del «movimento per i diritti
civili» (→ Back of the bus). Sempre a Tuskegee, e sempre nella logica di
Washington (di sostanziale accettazione della segregazione razziale), nel
1941 fu anche creata una scuola di addestramento per piloti di caccia
afroamericani, noti come i «Tuskegee Airmen», che rimase attiva fino al
1946. Oggi, la Tuskegee University è nota come «L’orgoglio del Sud in
Rapida Crescita».
A questo punto, le contraddizioni della cittadina di Tuskegee diventano
più brucianti oltre che inquietanti. A partire dal 1932 (e fino al 1972), essa fu
infatti al centro di un tremendo esperimento clinico progettato e messo in
atto dal Public Health Service degli Stati Uniti (ente, dunque, governativo),
per lo studio della sifilide e dei suoi effetti su un organismo umano non
curato: vi furono coinvolti, senza esserne consapevoli, 399 mezzadri
afroamericani malati di sifilide. Non solo a essi fu preclusa la cura con la
penicillina (nota ormai dalla fine degli anni trenta), ma l’intera popolazione
afroamericana della cittadina ne fu esclusa, con risultati devastanti sul
piano sanitario e sociale: sofferenze, diffusione della malattia a individui
sani, trasmissione a nascituri, follia e morte (va ricordato che, fra il 1946 e il
1948, esperimenti analoghi – ma in questo caso sifilide e gonorrea vennero
addirittura inoculati – furono condotti dal medesimo organismo
governativo in Guatemala, attraverso l’intermediazione della
multinazionale statunitense United Fruit Company, che dominava il paese
→ Banane). Solo una fuga di notizie nel 1972 e lo scandalo che ne seguì
portarono alla chiusura dell’esperimento: oggi, a Tuskegee, esiste il
National Center for Bioethics in Research and Health Care. Ogni commento
è superfluo.

BIBLIOGRAFIA
James H. Jones, Bad Blood. The Tuskegee Syphilis Experiment, The Free Press,
New York 1992.
Susan M. Reverby, Examining Tuskegee: The Infamous Syphilis Study and Its
Legacy, University of North Carolina Press, Chapel Hill 2009.
Booker T. Washington, Up from Slavery. An Autobiography, Tribeca Books,
New York 2011.
M.M.
[U]

Uncle Sam
Non è certo rassicurante lo zio che ci scruta da una delle più note icone
statunitensi: sguardo severo e penetrante, labbra strette, barbetta a punta,
una massa di capelli bianchi sormontati da un alto cappello a cilindro
decorato con strisce rosse e bianche e stelle bianche in campo blu, e quel
dito puntato che sembra uscire dal disegno. «I Want You!», recita la scritta:
«Voglio te!». A dirlo non è altri che «Uncle Sam» in persona, lo «Zio Sam» –
cioè, gli Stati Uniti. E la frase può significare tante cose, e non tutte poi così
piacevoli.
L’immagine dello «Zio Sam» prese a diffondersi intorno al 1812, anno di
guerra – il secondo atto della Guerra d’indipendenza dalla Gran Bretagna
(→ Rivoluzione americana). Ma la raffigurazione più famosa si ebbe
all’epoca della Prima (e poi della Seconda) guerra mondiale, quando, su un
manifesto destinato alla celebrità, quell’«I Want You» era accompagnato
dalle parole «For U.S. Army»: «per l’esercito statunitense». Insomma, nato
in epoca di guerra e reso famoso da altre guerre. Il disegnatore si chiamava
James Montgomery Flagg e s’era ispirato a un manifesto simile di
provenienza inglese, usando per maggiore praticità le fattezze del proprio
viso (debitamente invecchiato) come modello. Ma il suo «Zio Sam»
assomigliava anche a un altro personaggio: tale Samuel Wilson, scozzese
d’origine ma da tempo negli Stati Uniti, ricco industriale della carne che,
per l’appunto all’epoca della guerra del 1812, divenne il principale fornitore
dell’esercito statunitense. I suoi barili di carne conservata recavano, come
sempre per tutte le dotazioni di proprietà del governo, la stampigliatura
«U.S.» (= United States), e nell’accezione popolare erano chiamati «Uncle
Sam». E Samuel Wilson divenne «Uncle Sam» (o almeno così si dice).
La guerra, l’esercito, la carne conservata… quante possibili (e reali)
implicazioni in quel personaggio, da allora. E in quel dito puntato e nella
frase a caratteri cubitali: «I Want You!».

BIBLIOGRAFIA
Bob Fenster, They Did What? Things Famous People Have Done, Andrews
McMeel Publishing Co., Kansas City 2002.
M.M.

Underground Railroad
Non si pensi a strade ferrate, vagoni, locomotive e gallerie: la Underground
Railroad non era una ferrovia (→ Promontory Point), né tantomeno era
sotterranea, se non in senso traslato: era cioè segreta e invisibile, e di certo
più pericolosa di altre che si snodano alla luce del sole. La si potrebbe
definire come una vasta rete di percorsi, di piste o di sentieri, punteggiati da
case e da altri servizi, che correva dagli stati del Sud fino al Nord e al
Canada, creata e usata dagli schiavi afroamericani per raggiungere la
libertà.
Se infatti vi fu anche chi, come Henry Bibb (che fuggì attraverso il
Missouri e fino in Ohio sul battello a vapore, e poi fino a Detroit su un
cavallo rubato, presentandosi sempre con l’atteggiamento orgoglioso di
nero libero) o come William e Hellen Craft (che scapparono spacciandosi
per padrone e schiava: → Passing), tentò la fuga cambiando identità
razziale o status, è vero che a migliaia guadagnarono la libertà su strade
tuttora in parte sconosciute e molto ramificate (dall’Indiana e l’Ohio su fino
al Michigan o alla Pennsylvania, ma anche al Kentucky e alla Virginia, fino
al Maryland e poi nello stato di New York) che si inoltravano in zone
scarsamente abitate, spesso parallele a confini naturali come il Mississippi o
gli Appalachi (→ Appalachia), con stazioni di sosta gestite da abolizionisti.
Come il nome, preso a prestito dal mezzo di trasporto che in quegli anni si
stava ramificando sull’intero corpo nazionale, così anche il lessico adottato
dai volontari s’ispirò al mondo della strada ferrata: coloro che prendevano
contatto con gli schiavi e li aiutavano a iniziare la fuga erano «agenti», le
guide erano i «conducenti» e i luoghi che offrivano cibo e riparo si
chiamavano «stazioni», gli schiavi che prendevano contatti «ottenevano un
biglietto» e diventavano così «passeggeri» o «carico».
Sebbene di sentieri segreti e di guide si parlasse già a fine Settecento, fu
a partire dagli anni trenta dell’Ottocento che nelle piantagioni iniziò a
spargersi la voce di una strada per la libertà – e che vi fosse qualcuno (quasi
sempre un nero libero), incontrato in segreto, che avrebbe detto loro
«Seguitemi!» per condurli al sicuro, lontani dalla schiavitù.
I fuggiaschi, in piccoli gruppi o soli con la guida, si spostavano di notte,
di solito a piedi (coprendo una distanza media fra i 16 e i 32 chilometri a
tappa) e di rado su carri, in barca o in treno, quando gli abolizionisti del
Nord riuscivano, attraverso le raccolte fondi, ad acquistare i biglietti e a
rivestire gli schiavi da neri liberi. Nonostante i collegamenti, specie al Nord,
fossero bene organizzati, i gestori di una «stazione» spesso non
conoscevano i tragitti al di fuori delle immediate vicinanze – il che
garantiva una sicurezza in più per chi lavorava per la «ferrovia» e per i neri
in fuga. Le rotte potevano essere cambiate all’improvviso, se vi era il dubbio
che un tratto potesse non essere più abbastanza sicuro o che potesse essere
sulle loro tracce un cacciatore di schiavi – una specie, quest’ultima, tanto
richiesta da pubblicizzare i propri servizi sui giornali locali (il suo raggio
d’azione si limitava per lo più agli stati del Sud, poiché al Nord il tariffario
avrebbe superato il valore dello schiavo stesso).
La guida era quasi sempre nera, ma non lo era chi offriva aiuto e rifugio
lungo la strada: le stazioni di sosta nelle zone rurali erano gestite da
bianchi, molti dei quali quaccheri (→ Quakers, Shakers, Mormons), il più
famoso dei quali fu Thomas Garrett. Non va tuttavia dimenticato il
contributo di metodisti, ebrei e cattolici disposti a offrire cibo, vestiti,
rifugio – in stalle, soffitte, stanze e passaggi segreti. Nelle grandi città,
invece, a dare aiuto erano sia bianchi sia neri: fra i primi, va ricordato Isaac
Hopper, attivo a New York e a Philadelphia e sostenitore della non-violenza;
ai secondi appartiene invece David Rugglers, newyorkese, nonché primo
libraio nero, che pubblicò, oltre a numerosi pamphlet contro la schiavitù,
anche il periodico Specchio della Libertà (si dice abbia aiutato, oltre a
Frederick Douglass, altri mille schiavi in transito da New York). E nero era
pure William Still, «il Padre della Underground Railroad», che ospitò nella
sua trafficatissima casa più di seicento schiavi, divenne il segretario della
Pennsylvania Abolition Society e scrisse il libro più completo
sull’argomento, The Underground Railroad (1872). O ancora Josiah Henson
che, nato in Maryland, fuggì in Canada e, dopo l’incontro con Harriet
Beecher Stowe (che a lui s’ispirò per il celebre Tom del suo romanzo),
viaggiò, scrisse e tenne conferenze sulla difficile condizione di schiavo al
Sud.
Si calcola che, fra il 1800 e il 1850, fra 80mila e 100mila schiavi siano
fuggiti a Nord. Ad aumentare il flusso e le reti dell’Underground Railroad fu
paradossalmente la Fugitive Slave Law del 1850, la legge che obbligava a
riconsegnare gli schiavi giunti al nord ai rispettivi padroni – il tutto senza
processo. La minaccia, che incombeva anche sui neri che vivevano già da
tempo al Nord, e persino sui figli degli schiavi che vi erano nati, portò
nell’autunno del 1850 a una migrazione massiccia verso il Canada. Inoltre,
tale legge ebbe l’effetto di incendiare l’opinione pubblica e ampliare
l’uditorio degli abolizionisti, che facevano leva sulle testimonianze di
bianchi e neri liberi arrestati per aver dato loro aiuto: come raccontò a voce
e per iscritto Jonathan Walker una volta uscito dalle prigioni della Florida,
mostrando la mano marchiata a fuoco (che ispirò il poema di John G.
Whittier, The Man with the Branded Hand: «La sua mano marchiata a sangue
profetizza la salvezza degli schiavi!»). Anche se, mano marchiata a parte, il
contributo più incisivo veniva dalle testimonianze dirette, degli oratori
erano ex schiavi: Lewis Clarke, Hanry Box Brown, o Frederick Douglass,
Sojourner Truth, Harriet Tubman (quest’ultima, una sorta di Mosè che dopo
aver portato a termine la sua fuga, compì altri tredici viaggi per liberare
altrettanti gruppi di schiavi, «senza mai perderne uno»). I racconti di questi
ex schiavi descrivevano con dovizia di particolari le angherie e i soprusi
della loro vita precedente e tacevano, quasi sempre, dei percorsi della fuga,
che dovevano rimanere segreti per non compromettere il successo delle
spedizioni a venire. Per questo, quando la stazione più famosa, a Syracuse,
nello stato di New York, fu pubblicizzata durante le campagne abolizioniste,
Douglass commentò con grande sdegno che «non ho mai approvato il modo
pubblico in cui alcuni nostri amici hanno gestito ciò che loro chiamano la
“ferrovia sotterranea”, e che credo, per le loro stesse dichiarazioni esplicite,
sia diventata la “ferrovia sopraelevata”».
Se è indubbio che vi sia stata una stretta collaborazione fra gli
antiabolizionisti e i volontari dell’Underground Railroad, il movimento fu a
lungo diviso circa l’opportunità di aiutare le fughe: dal momento che, dopo
il 1850, le decisioni dell’Anti-Slavery League andavano contro le leggi del
governo americano, vi fu una corrente che temeva che un appoggio alle
fughe potesse andare a discapito della legittimità della causa; altri, più
radicali, vedevano nella Underground Railroad o in diverse forme di
liberazione (come l’acquisto degli schiavi) dei tiepidi palliativi che di fatto
riconoscevano la schiavitù o stratagemmi che giovavano al singolo fuggitivo
ma non alla comunità. Sul versante opposto, va anche detto che alcuni
volontari dell’Underground Railroad non si riconoscevano nelle
rivendicazioni di libertà universale e nei toni accesi dei movimenti
abolizionisti. Così come, del resto, erano gli stessi schiavi che talvolta si
trovavano a far ricorso al denaro, «autocomprandosi»: è il caso del celebre
Olaudah Equiano (→ Atlantico nero), o dei 476 schiavi di Cincinnati che così
si liberarono nel 1835 (il loro valore era rappresentato dagli stipendi di circa
diciotto anni di lavoro, notti incluse). Altri ancora dovettero ricorrere anche
alla compensazione in denaro una volta fuggiti: poiché il viaggio era troppo
arduo per donne e bambini, anche chi fuggì lungo le rotte della
Underground Railroad spesso finì per riscattare, attraverso i guadagni del
duro lavoro al Nord, i familiari.
Fra i mille percorsi della Underground Railroad, vanno ricordati quelli
degli schiavi che non pensavano che la libertà si trovasse per forza a Nord:
vi fu infatti chi la cercò tentando di attraversare il confine con il Messico.
Altri si fermarono, per così dire, lungo i binari morti della ferrovia,
trovando rifugio nelle paludi fra la Virginia e il North Carolina, e persino
nelle città del Sud, mescolandosi alla popolazione di neri liberi. O infine ci fu
chi, come racconta Harriet Jacobs in Vita di una ragazza schiava (1861), trovò
per quasi vent’anni anni la libertà fra le mura di una soffitta, per sfuggire
alle angherie e agli abusi del crudele padrone. Un altro binario, seppur
breve, della Ferrovia sotterranea.

BIBLIOGRAFIA
Charles L. Blockson, The Underground Railroad, Prentice Hall Press, New York
1987.
Larry Gara, The Liberty Line. The Legend of the Underground Railroad, University
of Kentucky Press, Lexington 1961.
C. SCHIA.

Union Station (Kansas City)


La mattina del 17 giugno 1933, davanti alla Union Station di Kansas City
(Missouri), tre agenti dell’Fbi, un ufficiale di polizia e un rapinatore
arrestato dopo una lunga caccia all’uomo furono uccisi in uno scontro a
fuoco con alcuni amici del prigioniero giunti in città per liberarlo (del
gruppo – ipotesi tuttora controversa – avrebbe fatto parte anche «Pretty
Boy» Floyd → Wanted-II). Secondo inchieste e analisi posteriori, almeno tre
delle morti sarebbero state causate da «fuoco amico» da parte dei tutori
dell’ordine. Quello che passò alla storia come il «massacro di Kansas City»
durò una trentina di secondi, ma conferì alla città un’ulteriore (ed
equivoca) celebrità e sembrò paradigmatico di una fase molto particolare
nella sua vita: ancor oggi, alcuni fori sulla facciata della stazione vengono
fatti risalire (non si sa quanto a ragione) a quello scontro a fuoco. La Union
Station, costruita nel 1914 su progetto dell’architetto Jarvis Hunt, era un
fulgido esempio di quel «City Beautiful Movement» che in campo
architettonico e urbanistico, a partire dalla «White City» (→) di Chicago nel
1893 e dall’Esposizione internazionale di St. Louis nel 1903 (→ Esposizioni
internazionali), s’ispirava ai principi dell’École des Beaux Arts di Parigi,
mescolando elementi barocchi, romanici e di altri stili, disegnando parchi,
viali e giardini e proponendo imponenti edifici pubblici, come ponti,
università, stazioni (celebre il Grand Central Terminal di New York).
Quando fu inaugurata il 30 ottobre 1914, la Union Station, punto di
convergenza delle dodici linee ferroviarie che servivano la città, era la
seconda stazione del paese per grandezza, con quasi 80mila metri quadrati,
una grande sala centrale con il soffitto a trenta metri dal suolo, tre
lampadari di una tonnellata e mezzo ciascuno, un orologio di quasi due
metri di diametro – decisamente il simbolo d’una metropoli dalla storia
complessa e controversa.
Alla confluenza dei fiumi Missouri e Kansas, la città fu fondata nel 1838 e
registrata (incorporated) nel 1850, ma per un secolo abbondante il sito aveva
conosciuto insediamenti diversi – oltre alle tribù di kansa («popolo del
vento»), gruppi di coloni francesi e spagnoli (fra il 1713 e il 1820) e
americani (specie dopo la spedizione di Lewis e Clark su per il fiume
Missouri → Esplorazioni). Nel 1833, John McCoy, proveniente dall’Indiana,
costruì un emporio per i viaggiatori di due delle piste, il Santa Fe Trail e
l’Oregon Trail, che insieme al California Trail (→ Piste e sentieri) passavano
in quel punto, e un imbarcadero sul Missouri, in una località al sicuro dalle
frequenti inondazioni. Quel piccolo nucleo, chiamato Westport Landing, si
sarebbe poi ampliato fino a diventare la «Cittadina dei kansa», e in seguito,
nel 1853, «Città del Kansas» e, nel 1889, Kansas City (sempre nello stato del
Missouri, e non del Kansas).
Nella prima metà del secolo, la città fu di grande importanza per la
«Westward Expansion», l’inarrestabile movimento di colonizzazione
dell’Ovest che in pochi decenni – attraverso fasi drammatiche (Guerre
indiane [→], guerre con il Messico, tensioni sociali, profondi dissensi
politici sul tema della schiavitù) – avrebbe ampliato i confini degli Stati
Uniti.
Situata in un crocevia di vitale importanza fra Nord e Sud, Est e Ovest
(una linea retta mediana che tagliasse in due il parallelepipedo irregolare
che è lo stato del Missouri collegherebbe – come fa oggi la Highway 70 – la
città a quell’altro perno vitale del Midwest che è St. Louis), Kansas City
crebbe e si sviluppò grazie al commercio, alla macellazione e/o alla
spedizione del bestiame – i grandi recinti di West Bottoms (la borsa del
bestiame) costituirono fino ai primi anni cinquanta del Novecento il volano
dell’attività economica cittadina, come narra l’alta colonna sormontata
dalla statua di un toro Hereford che ancora svetta sul quartiere, molto dopo
la chiusura dei recinti nel 1991.
La trasformazione da cittadina di frontiera (→) in moderna metropoli
imprenditoriale, negli anni successivi alla Guerra civile (→) e in particolare
nell’ultimo decennio dell’Ottocento, portò con sé anche altri effetti. Da un
lato, ebbe inizio un grosso flusso di migrazione interna dagli stati del Sud:
gli ex schiavi liberati e i loro figli, nel disperdersi sul territorio americano
fuggendo la persecuzione del Kkk (→) e delle leggi Jim Crow (→), si
spinsero fin qui, insediandosi nei quartieri poveri e popolari, e a essi si
unirono alcuni dei numerosi musicisti jazz che avevano lasciato New
Orleans in seguito alla chiusura del quartiere di Storyville (→). Il jazz
riaffiorò dunque anche a Kansas City (non va dimenticato che, non lontano,
a Sedalia, sempre nel Missouri, visse per lungo tempo, negli anni formativi,
il grande compositore ragtime [→] Scott Joplin). Fra gli anni trenta e gli anni
quaranta del Novecento, la città divenne dunque una delle grandi fucine del
jazz, ospitando musicisti destinati alla celebrità come Charlie Parker, Lester
Young, Coleman Hawkins (il film di Robert Altman Kansas City del 1996
ricostruisce quell’epoca e quell’ambiente), nel momento in cui il jazz stava
mutando di pelle e, dalle grandi band come quella di Count Basie, andava
riorientandosi verso forme più sperimentali e d’avanguardia come il bebop
(→). Il flusso migratorio portò con sé alcune abitudini alimentari (l’uso
frequente della carne di maiale, come «cibo etnico» di molti stati del Sud),
che diedero origine a quella che sarebbe diventata una delle specialità
locali, il barbecue (→ B-B-Q), prima nella versione di Henry Perry (gestore
di un chiosco che vendeva carne affumicata nelle vicinanze del quartiere
dell’industria dell’abbigliamento e poi di una trattoria ricavata da una
rimessa per tram) e in seguito in quella (ormai celebre a livello nazionale e
internazionale) di Arthur Bryant, con il suo locale su Brooklyn e la 18a
Strada.
Nello stesso tempo, Kansas City conobbe l’affermarsi sia di una malavita
locale di notevole spessore, in anni in cui il mondo malavitoso andava
riorganizzandosi sotto l’influsso del Proibizionismo (→), sia di una
«macchina politica» del Partito democratico ruotante intorno a Thomas
James «T.J.» Pendergast e alla sua famiglia. Sul modello famigerato di
«Boss» Tweed di New York a metà Ottocento, e in significativo parallelismo
con personaggi contemporanei (Edward Hull Crump a Memphis, Tennessee,
per esempio, ma anche – per certi aspetti – il controverso governatore della
Louisiana Huey P. Long), prima dal saloon del fratello Jim nei West Bottoms
e poi dal piccolo ufficio sulla Main Street, «T.J.» dominò la vita politica e
sociale di Kansas City per una trentina d’anni, fino alla «caduta» nel 1939-
1940, combinando progetti di opere pubbliche e di assistenza sociale con un
altissimo livello di corruzione, cinica spregiudicatezza e demagogia da
uomo comune, specie all’epoca del Proibizionismo (→) e della Grande
depressione (→). Con il beneplacito della polizia, fiorirono il contrabbando
di alcolici e il gioco d’azzardo, la prostituzione e la guerra fra bande
organizzate; al tempo stesso, la «gestione Pendergast» dei numerosi club
jazz aperti tutta la notte (Amos ’n’ Andy, Boulevard Lounge, Cherry
Blossom, Lone Star, Old Kentucky Bar-B-Que e molti altri) permise lo
sviluppo della nuova musica e il suo lancio a livello nazionale. Pupillo e
protetto di Pendergast fu infine quell’Harry S. Truman che nel 1945, alla
morte di Franklin Delano Roosevelt e dopo esserne stato il vice, sarebbe
diventato presidente degli Stati Uniti, dando una forte impronta
conservatrice alla politica americana, sia all’interno che all’estero.
Il secondo dopoguerra, insieme all’allargarsi della città a quartieri
diversi con storie e identità specifiche e alla creazione di vasti ghetti interni
(inner cities) alimentati da un continuo flusso migratorio, specie di messico-
americani e latinoamericani dal Sudovest, vide un progressivo declino,
culminante nella chiusura dei recinti dei West Bottoms, e una significativa
dispersione della popolazione benestante attratta dai suburbs (→)
circostanti o da altre città. Due fatti drammatici, seppure molto diversi fra
loro, segnarono questa fase di declino: i disordini (→) successivi
all’assassinio di Martin Luther King a Memphis, Tennessee, nel 1968, con
cinque morti, almeno venti feriti e un centinaio di arresti, e il crollo della
passerella dell’Hotel Hyatt Regency, nel 1981 (un anno dopo la sua
inaugurazione), durante una gara di ballo, che fece 114 morti e più di 200
feriti. Le piene del Missouri-Mississippi del 1951 (che colpirono in maniera
grave i Bottoms) e del 1993 (la peggiore dalla «grande piena» del Mississippi
del 1927) non fecero che accentuare questo senso di perdita di energia,
nonostante la bellezza dei parchi, dei viali, degli edifici Beaux Arts tardo-
ottocenteschi (Kansas City è pur sempre detta «Parigi delle Pianure») e la
vivacità di una scena artistica e in particolare musicale che viene da
lontano.
Forse, un buon esempio di questa irrisolta tensione fra passato e
presente che sembra caratterizzare la città è il film (basato su due romanzi
del 1959 e del 1969 dello scrittore locale Evan S. Connell) Mr & Mrs Bridge,
diretto da James Ivory nel 1990.
Ma Kansas City, o KC come viene di norma chiamata, è importante anche
per un altro motivo. Fra l’ottobre 1917 e l’aprile 1918, prima di partire per i
fronti di guerra europei, un giovane Ernest Hemingway fresco di studi
lavorò come reporter presso uno dei grandi quotidiani della città, il Kansas
City Star: non saranno solo la guerra e l’immediato dopoguerra parigino a
plasmare lo stile di Hemingway, ma anche l’insegnamento del suo
caporedattore – frasi brevi e un inglese vigoroso.

BIBLIOGRAFIA
David Jackson, Kansas City Chronicles. An Up-to-Date History, The History Press,
Charleston 2010.
Rick Montgomery, Shirl Kasper, Kansas City. An American Story, Kansas City
Star Books, Kansas City 1999.
John Simonson, Paris of the Plains. Kansas City from Doughboys to Expressways,
The History Press, Charleston 2010.
M.M.

U.S.A.
Man mano che l’enorme spazio nordamericano – strappato alla natura
selvaggia (→ Wilderness) e agli abitanti originari (→ Guerre indiane) –
veniva esplorato e colonizzato, si poneva il problema di come «nominarlo»,
di dargli un nome – anzi, tanti nomi. Dapprima, fu facile riecheggiare il
Vecchio mondo: Nuova Amsterdam, Nuova York, Virginia, Nuova Orleans,
Norfolk, Richmond; oppure, Florida, Colorado ecc. Ma poi, via via, i nomi si
fecero sempre più – come dire? – autoctoni: spesso, un altro caso di
riemersione della cultura Native American sconfitta e rimossa. Gli esempi
potrebbero essere migliaia. Limitiamoci ai più evidenti (anche se non
sempre le etimologie risultano certe): i nomi degli Stati americani.

Alabama Parola Native American per «villaggio tribale»; più tardi, una tribù (alabamas o alibamos) della
federazione creek.

Alaska Variante russa di una parola eschimese, alashak, per «penisola», «grande
territorio», «terra che non è un'isola».

Arizona Variante spagnola di una parola Native American per «luogo della piccola sorgente»; oppure
dall'azteco nahuatl arizuma, «filone d'argento.

Arkansas Nome algonchino degli indiani quapaw: «vento del Sud».

Nome dato dai conquistadores spagnoli (forse da Cortez) a un'isola immaginaria, una sorta di paradiso
California in terra, ispirandosi a un'opera intitolata Las sergas de Esplamdiàn (1510). Baja California (la Bassa
California, in Messico) fu visitata per la prima volta dagli spagnoli nel 1533. L'attuale stato della
California fu chiamato Alta California.

Carolina
(North e In onore di Carlo I, re d'Inghilterra, Scozia, Irlanda e Francia, dal 1625 alla morte nel 1649
South)

Colorado Dallo spagnolo per «rosso», dapprima usato per il fiume Colorado.

Connecticut Da una parola mohicana (e da altre parole algonchine) per «luogo del fiume».

Dakota
(North e Dal nome della tribù dei dakota (sioux) per «amico» o «alleato».
South)
Delaware In onore di Thomas West, barone De La Warr (1577-1618), uno dei primi governatori della Virginia;
dapprima usato per il fiume, poi per indicare una tribù indiana (i lenni-lenape), infine per lo stato.

District In omaggio a Cristoforo Colombo-


of Columbia

Florida Da Pasqua Florida, nome dato alla regione dall'esploratore-conquistatore spagnolo Juan Ponce de
Leòn, in occasione della domenica di Pasqua del 1513.

Georgia Così chiamato da James Oglethorpe (amministratore coloniale nel 1732), in onore di re Giorgio II
d'Inghilterra.

Hawaii Dalla parola autoctona hawaiki o owhyhee, per «paese d'origine».

Forse una parola shoshone con il significato di «gemma delle montagne»; forse dal termine usato dagli
Idaho apache per indicare i nemici comanche. In origine associata al territorio minerario del Pikes Peak
(Colorado) e in seguito adottata per il nuovo territorio minerario del Nordovest che dava sul Pacifico.

Illinois Dal francese per illini, «terra degli illini», parola algonchina per «uomini» o «guerrieri».

Indiana «Terra degli indiani».

Iowa Da una parola Native American, variamente tradotta con «qui riposo», «terra bellissima»,

Kansas Da una parola dakota (sioux) per «popolo del vento del Sud».

Kentucky Da una parola Native American, variamente tradotta con «terra scura e insanguinata», «terra dei
pascoli» e «terra di domani».

Louisiana Parte del territorio originario conquistato dai francesi (in pratica, l'intera valle del Mississippi), così
chiamato da Sieur de La Salle in onore di re Luigi XIV.

Maine Da Maine, antica provincia francese.

Maryland In onore della regina Henrietta Maria, moglie del re Carlo I d'Inghilterra.

Massachussetts Da una parola Native American, per «grande luogo collinare» «grande bassopiano».

Michigan Dalle parole ojibway (chippewa) mici gama, per «grandi acque, indicanti originariamente il lago
omonimo.

Minnesota Da una parola dakota (sioux) per «acque coperte da nubi» o «acque dipinte di cielo», indicante
originariamente il fiume Minnesota.

Missouri Da una parola algonchina per «fiume delle grandi canoe».

Montana Dallo spagnolo «montuoso».

Nebraska Da una parola omaha o otoe per «acque empie» o «fiume piatto» (a indicare il fiume Platter).

Nevada Dallo spagnolo «innevato».


New Così chiamato dal capitano John Mason nel 1629, in ricordo dell'originaria contea inglese.
Hampshire

New Jersey Con riferimento (1664) all'isola inglese di Jersey.

Florida Da Pasqua Florida, nome dato alla regione dall'esploratore-conquistatore spagnolo Juan Ponce de
Leòn, in occasione della domenica di Pasqua del 1513.

New Mexico Nome usato dagli spagnoli in Messico per designare la terra a nord e a ovest del Rio Grande nel 1500,
probabilmente dalla parola azteca nahuatl.

New York Con riferimento al duca di York e Albany (1633-1701).

Ohio Da una parola irochese per «fiume bello» o «fiume buono».

Oklahoma Da una parola choctaw per «uomo rosso».

Di origine sconosciuta (le ipotesi sono molte e fantasiose: forse dal nome del fiume Wisconsin, indicato
Oregon su una mappa francese del 1715 come «Ouariconsint»; forse dal francese ouragan, per i forti venti;
forse da un'espressione portoghese per «Senti le cascate!»).

Pennsylvania Da William Penn (oltre che da suo padre), il quacchero nominato assoluto proprietario di quest'area
da Carlo II nel 1677-1680, e da «Sylvania», «terra dei boschi».

Portorico Dallo spagnolo, per «porto ricco».

Di origine sconosciuta (una teoria sostiene che nel 1524 Giovanni da Verrazzano abbia registrato
Rhode Island un'isola di dimensioni simili alla mediterranea Rodi, mentre secondo altri il nome deriverebbe da
Roode Eylandt, olandese per «terra rossa»).

Tennessee Dal nome dei villaggi cherokee (tanasi) sul Little Tennessee River.

Texas Variante usata dai caddo e da altri Native Americans per «amici» o «alleati».

Utah Da una parola navajo per «superiore», o «più su», usato per la tribù shoshone chiamata Ute.

Vermont Dal francese vert («verde») e mont («monte»).

Virginia Così chiamata da Walter Raleigh, capo della spedizione del 1584, in onore della regina Elisabetta I,
(e West «Virgin Queen of England».
Virginia)

Washington In onore di George Washington.

Wisconsin Da una parola Native American (ouisconsin e mesconsing) che nella lingua ojibway (chippewa) poteva
significare «luogo erboso».

Wyoming Alle parole algonchine per «grandi praterie» o «sulle grandi pianure».
[V]

Vagabondi
Nell’abbondante letteratura on the road degli anni cinquanta e sessanta del
Novecento, fra alcuni scritti meno noti di Jack Kerouac (Lonesome Traveler,
1960) e alcune canzoni del primissimo Bob Dylan, compare spesso, quasi
fantasmatica presenza d’un mondo passato o almeno parallelo, la figura del
«vagabondo».
Ma, nella storia e cultura americane, questa figura viene da molto
lontano – forse dagli inizi stessi di un paese nato da migranti di ogni genere
e origine. Sta di fatto che, con il configurarsi della nazione statunitense tra
fine Settecento e inizi Ottocento, quella figura acquista sempre maggior
corpo e identità, spesso intrecciandosi con l’Adamo americano (→). Un
vagabondo sui generis è Rip Van Winkle di Washington Irving, come lo è in
fondo Calza di cuoio di James Fenimore Cooper, personaggi paradigmatici
della neonata letteratura. E di «vagabondite» soffre (lo dichiara lui stesso) il
melvilliano Ismaele: il quale, ogni volta che si ritrova sulla bocca «una
smorfia amara» o nell’anima sente «un novembre umido e stillante» o
prova il desiderio di darsi «metodicamente» a buttar a terra il cappello alla
gente, capisce che è giunto il momento di mettersi per mare. Per mare, o
per strada: con Walt Whitman e il suo «Canto della strada aperta» («A piedi
e a cuor leggero prendo la strada aperta»), il vagabondo trova infatti la
prima vera voce poetica. La trova, perché è ormai una figura sociale
presente, diffusa – e visibile, sia pure d’una visibilità molto particolare, in
quanto la sua è una presenza marginale ed emarginata: ma di questi visibili-
invisibili è fatta tanta parte della letteratura e cultura degli Stati Uniti, da
centocinquant’anni almeno.
Nella seconda metà dell’Ottocento, il vagabondo è su tutte le strade
(sterrate e ferrate) d’America: fra grandi migrazioni e spostamenti di massa,
si creano nicchie in cui a muoversi sono individui sradicati o senza radici,
oppure in cerca di radici o in fuga perenne, in una dimensione in cui
s’intrecciano dinamiche e pulsioni individuali e collettive, in un paese in cui
il tessuto sociale, tendendosi al massimo per coprire e avvolgere il
continente, si lacera e si slabbra in più punti. La Guerra civile (→) e in
particolare il post-Guerra civile, la nascita e la morte di mille piccole città
(→) all’Ovest, le ripetute scoperte dell’oro (→ Oro!), l’intenso processo di
industrializzazione con i suoi slanci travolgenti e le brusche frenate, le crisi
economiche degli anni settanta, ottanta, novanta, il mare in tempesta di
successive ondate immigratorie e migratorie, il flusso e riflusso della
popolazione nera ex schiava dal Sud verso il Nord – tutto ciò contribuisce a
generare le figure reali, fisiche, dei vagabondi e le inserisce in profondità
nell’immaginario collettivo.
Così, a fine secolo, l’«Esercito di Coxey» e l’«Esercito di Kelly»
raccolgono centinaia e migliaia di disoccupati in marcia da ogni dove verso
Washington, con la richiesta impellente di misure di assistenza e
programmi di lavori pubblici: e lasciano tracce indelebili – per esempio, nel
libro di Jack London La strada (1907), che narra le avventure on the road del
giovane non ancora scrittore e delinea le prime tipologie culturali e
linguistiche del vagabondo. Ma ancor prima di London, la figura è familiare
a sociologi ante litteram e studiosi dell’«altra America» come Josiah Flynt, il
cui Tramping with Tramps (1899) è una prima analisi d’un fenomeno
diventato di massa. A quest’epoca risalgono anche i tre appellativi sotto cui
si articola la figura del «vagabondo»: hobo (di etimologia incerta: forse dalla
formula di saluto «Ho, boy!»), «colui che viaggia e lavora», il lavoratore
migrante, il disoccupato in cerca di un impiego, il lavoratore stagionale,
l’agitatore sindacale e politico; tramp, «colui che viaggia e sogna», il
vagabondo per amor d’indipendenza e curiosità di luoghi e genti, per
insofferenza di regole fisse e normative sociali; bum, «colui che viaggia e
beve», il vagabondo alcolizzato, il frequentatore di ricoveri di mendicità, a
un passo dall’ospizio per poveri, senza più speranza di un reinserimento
nella vita collettiva.
A Flynt seguirà Nels Anderson, con Il vagabondo. Sociologia dell’uomo senza
dimora (1923), mentre Harry Kemp con le sue poesie e ballate, Jim Tully con
il romanzo Beggars of Life (1924; la versione cinematografica del 1928 è
diretta da William Wellman e interpretata da Wallace Beery e da una
splendida Louise Brooks), i wobblies (→) con le loro canzoni di lotta e Charlie
Chaplin con il suo Il vagabondo (1916) ne offriranno altre decisive (e
variegate) declinazioni culturali. Gli anni trenta, gli anni della Grande
depressione (→), non faranno che moltiplicare all’infinito, in un
drammatico gioco di specchi, il personaggio dell’uomo (e della donna:
perché furono moltissime, giovani e non più giovani, le donne «sulla
strada») in viaggio perenne, senza dimora fissa, su e giù dai treni merci –
quest’icona sempiterna del mondo marginale d’America, fatta di assali su
cui stendersi a pochi centimetri da ruote e rotaie, scalette laterali su cui
arrampicarsi veloci, vagoni ciechi in cui infilarsi cercando di giocare la
spietata polizia ferroviaria o il crudele capotreno, tetti di vagoni passeggeri
su cui distendersi legati a una maniglia con la sola cintura… Situazioni
familiari a chi conosca la straordinaria letteratura di quel decennio (→
Furori), fra John Steinbeck e Erskine Caldwell, Robert Cantwell e Jack
Conroy, Woody Guthrie e Tom Kromer e Ben Reitman (al libro di
quest’ultimo si ispirò Martin Scorsese per il film del 1972 noto in Italia con
il titolo indegno di America 1929: Sterminateli senza pietà) – o abbia visto
decine di film, da John Ford a oggi (il migliore, fra i più recenti, è del 1973:
L’imperatore del Nord, diretto da Robert Aldrich; ma non male è anche L’eroe
della strada, del 1975, di Walter Hill).
In quei primi tre decenni del Novecento (e in realtà anche dopo, come
mostrano il bellissimo documentario Riding the Rails di Michael Uys e Lexy
Lovell, del 1997, e lo studio recente di Dale Maharidge e Michael Williamson,
Journey to Nowhere. The Saga of the New Underclass, del 1996), il vagabondo
acquistò contorni sempre più netti e chiari, abitò un universo sempre più
riconoscibile: le «giungle» (i punti d’incontro, per lo più vicini agli snodi
ferroviari, con casupole e attrezzi da cucina da lasciare puliti e in ordine
dopo l’uso e spesso con una piccola «biblioteca del vagabondo», dove fare
sosta, rifocillarsi, scambiarsi informazioni, trovare compagnia per il
prossimo tratto di viaggio), gli Hobo Colleges di Chicago sulla West Madison
(creato dal dottor Ben Reitman) e New York sulla Bowery (creato dal
«milionario hobo» James Eads How), una lunga lista di geroglifici da
scarabocchiare con il gesso o il carbone su muri e marciapiedi (una croce =
«Cibo d’angelo», cioè servito dopo una predica in una missione; un
triangolo con una mano = «Attenzione! Chi abita qui ha un fucile»; un
quadratino senza la linea superiore = «Buon posto per accamparsi»; un
gatto = «Vecchietta caritatevole»; una croce con un viso sorridente =
«Dottore ben disposto»; tre linee diagonali = «Tenersi alla larga»), raduni
nazionali (durante la National Hobo Convention di St. Louis, nel 1889, fu
promulgato anche un «Codice Etico dello Hobo»), giornali e pubblicazioni a
poco prezzo, un gergo specifico (banjo = padella portatile o badile portatile;
big house = prigione; bone polisher = cane che morde; bull = poliziotto
ferroviario; California blankets = giornali da usare come coperte; flop =
pensione a buon mercato; gay cat = principiante; to carry the banner = passar
la notte in cerca di un posto in cui dormire; main drag = strada principale;
mulligan = stufato ottenuto mettendo insieme tutto quel che si può trovare;
cannonball = treno molto veloce e pericoloso da abbordare; reefer = vagone
frigorifero; on the fly = abbordare un treno in corsa). E, a continuare la
tradizione di Woody Guthrie, cantori celebri come Harry McClintock (1882-
1957: «Big Rock Candy Mountain») e Utah Phillips (1935-2008: «Daddy,
What’s a Train?»).
E poi tante storie, di viaggio e di lavoro, di lontananze e di lotta, narrate
accanto ai fuochi delle «giungle» o fra i ritmici scossoni dei treni merci.

BIBLIOGRAFIA
Kenneth Allsop, Hard Travellin’. The Hobo and His History (1967), Penguin
Books, Harmondsworth, Middlesex, 1972.
Nels Anderson, Il vagabondo. Sociologia dell’uomo senza dimora, Donzelli, Roma
1994.
Roger A. Bruns, Knights of the Road. A Hobo History, Methuen, New York 1980.
Todd DePastino, Citizen Hobo. How a Century of Homelessness Shaped America,
University of Chicago Press, Chicago 2005.
M.M.

Vampiri
Pur senza castelli e con meno brume della Transilvania o dell’Inghilterra,
gli Stati Uniti si sono rivelati luogo caro alle creature soprannaturali –
vampiri e lupi mannari (→ Cajun) in primis. A partire dalle suggestioni di
John William e del suo The Vampyre (1819), ispirato alla vita e alla leggenda
di Lord Byron, i vampiri hanno a lungo parlato inglese. Non a caso il volto
cinematografico più celebre del conte Dracula è probabilmente quello di un
attore americano (ma proveniente dalla Romania, terra del modello
originario, il conte Vlad): Bela Lugosi, che avrà tanto successo come attore
teatrale e cinematografico in quei panni da rimanere imprigionato in un
ruolo che diventerà ossessione anche nella vita reale.
Di certo il vampiro anglosassone, e quello americano in particolare, è
stato anche personaggio urbano, oltre che rurale, incarnando l’oscurità,
l’ambiguità e l’erotismo a cui nell’immaginario popolare era associata la
metropoli da fine Ottocento in avanti: si pensi alla versione di Francis Ford
Coppola del capolavoro di Bram Stoker, del 1992, con il conte ungherese
perso nei nickelodeon di una metropoli in vorticosa accelerazione verso la
modernità. Accanto alla giungla urbana, gli habitat ideali del vampiro
americano si riveleranno, nell’ultimo secolo, alquanto diversi e
sorprendenti: a cominciare dalle atmosfere decadenti e sensuali del Sud che
pervadono il romanzo che più ha contribuito a resuscitare le storie di
vampiri e a rendere questi ultimi figure del tutto moderne: come non
lasciarsi affascinare dal languido Luis de Pointe du Lac, novello Dracula di
Intervista col vampiro (1976, di Anne Rice), latifondista del Sud, divenuto
vampiro per scelta in seguito al grande dolore per la morte del fratello,
mentre racconta le sue vicende a un giovane giornalista che invano
implorerà di divenire a sua volta un immortale?
Se, come il Dracula di Stoker, molti dei vampiri americani simboleggiano
tutto ciò che vi è di represso, desiderio sessuale in primis (ma anche
l’inconscio, come racconterà Suzy McKee Charvas in L’arazzo del vampiro,
1980, centrato sugli incontri terapeutici fra uno psichiatra e la sua cliente
dai canini aguzzi), sempre come Dracula sono per lo più benestanti o
addirittura aristocratici e vivono di fortune, di un capitale, che come già
Karl Marx suggeriva nel Capitale, è «lavoro morto che, come un vampiro,
vive solo succhiando il lavoro vivo e più vive, più lavoro succhia».
Con un bisogno di espandere all’infinito il proprio dominio, così come di
prolungare in eterno la propria esistenza che è al contempo volontà e
maledizione, non è difficile, per il vampiro moderno, «passare» (→ Passing)
per uomo d’affari: è quel che avviene in una delle serie tv (→) di maggior
successo fra gli anni sessanta e settanta (e film di successo di Tim Burton del
2012), Dark Shadows (1966-1971), soap opera dalle sfumature dark con
uomini-lupo, zombie, streghe, viaggi nel tempo e in universi paralleli, la cui
star indiscussa è il vampiro Barnaba Collins. Questi, membro di una famiglia
del Maine, in seguito a una maledizione di Angelique, l’amante respinta
esperta in arti magiche, viene morso da un pipistrello e si trasforma in
vampiro: imprigionato nel mausoleo di famiglia, sarà liberato due secoli
dopo da un ladro alla ricerca dei gioielli della famiglia. Per integrarsi nella
comunità, Barnaba si presenta ai discendenti che ancora vivono nella
cittadina come un lontano cugino inglese, gran lavoratore, al punto da non
essere mai visto di giorno. Nell’economia del lavoro, oltre che capitale
morto, il vampiro americano diviene anche emblema dell’etica protestante
e del rifiuto del superfluo: da bravo capitalista, non spreca una sola goccia di
quella ricchezza accumulata nel tempo, come del resto non spreca una sola
goccia del sangue delle sue vittime.
Ma è dagli anni ottanta in avanti che i vampiri conosceranno una
seconda vita, tanto nel cinema quanto nella letteratura statunitense,
assumendo nell’immaginario le forme e i caratteri più disparati. Saranno
per esempio rednecks (→) dell’Oklahoma, come nel film di Kathryn Bigelow
Il buio si avvicina (1987), in cui il giovane Caleb Colton entra in contatto con
una famiglia di vampiri nomadi: morso dalla vampiressa Mae con cui ha
trascorso la notte, Caleb riesce attraverso una trasfusione a invertire il
processo e, dopo una cruenta lotta con i mostri per difendere la sorellina,
prescelta futura vampira, salva anche la sua untrice. Certo, vi sono ancora
vampiri che prediligono i climi rigidi e le atmosfere nordiche del New
England, come in Le notti di Salem (1975) di Stephen King: gli abitanti di una
tipica smalltown (→ Piccola città) del Maine, dove lo scrittore di successo
Ben Mears torna per scrivere un libro su una misteriosa casa legata a eventi
drammatici, vengono via via trasformati in vampiri dai due nuovi occupanti
della magione, Mr Straker e Mr Barlow; e l’unico modo che Mears
escogiterà per fermare la pandemia sarà quello di dare alle fiamme l’intera
cittadina.
Accanto a questi eredi di Dracula, però, ve ne sono altri che rischiano
ancor di più la vita (o la morte?), prediligendo i climi assolati della
California: come in Buffy l’ammazzavampiri (1992; flop sul grande schermo e
poi serie tv di successo), in cui l’allegra majorette di un liceo californiano
scopre di essere la prescelta sterminatrice dei (tanti) vampiri che hanno
scelto di trasferirsi nei climi caldi del Sud; o in Ragazzi perduti (1987, di Joel
Schumacher), dove i vampiri sono la gang giovanile di una cittadina della
costa, poco solitari a differenza dei loro predecessori, e anche un po’ meno
selettivi, ma infine vittime più che artefici di violenza e di morte.
Oltre a giovani ribelli e a collegiali palestrati, i vampiri mantengono
anche oltreoceano il loro status antico di emarginati. «Metafore degli
outsider», li definì la stessa Ann Rice, anche se le categorie di outsider, dagli
anni ottanta in poi, sono tante e complesse da definire: sono le donne, infine
non più prede passive ma, come insegnava già a metà Ottocento Edgar Allan
Poe, agenti: Ligeia, Rowena, Madeleine Usher, vittime senzienti
trasformatesi in non-morte. La narrativa contemporanea ha rivisitato
queste vampiresse in chiave lesbo e femminista (→ Seneca Falls): in The
Gilda Stories: A Novel (1991), per esempio, attraverso la metafora del vampiro,
Dijewelle Gomez racconta di margini razziali e di genere. Al contempo, la
cultura statunitense odierna rappresenta il vampirismo come patologia –
sia come «infezione» da combattere (si pensi a Io sono leggenda, 1954, di
Richard Matheson, in cui, il protagonista, unico sopravvissuto a una
pandemia batterica che ha trasformato tutti gli altri uomini in vampiri,
deve trovare il rimedio per sconfiggere la malattia e salvarsi ogni notte la
pelle; o ai molti film sugli zombies, seguiti al «capostipite» di George A.
Romero La notte dei morti viventi, del 1968) sia come metafora dell’Aids (nel
romanzo di Barbara Hambly, Cacciatori delle tenebre, del 1988, ambientato a
Londra, dove i vampiri sono vittime di un misterioso sterminatore).

BIBLIOGRAFIA
Ken Gelder, Reading the Vampire, Routledge, London 1994.
Veronica Hollinger, Blood Read: The Vampires as Metaphor in Contemporary
Culture, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1997.
Franco Moretti, Signs Taken for Wonders: On the Sociology of Literary Forms,
Verso, London 1983.
C. SCHIA.

Vaudeville
Trasformare il teatro dell’Ottocento in show business e, al contempo, in
veicolo di americanizzazione per il crescente numero di immigrati che si
riversavano dall’Europa nelle metropoli dell’Est: ecco che cosa fece il
vaudeville (forse dal francese «voix de ville», «voce di città») nei decenni del
suo massimo fulgore, fra la Guerra civile (→) e il suo declino agli inizi della
Grande depressione (→). Non si esagera nel dire che questa forma di
intrattenimento popolare fu la culla della cultura di massa statunitense, un
grande serbatoio su cui si innestarono e a cui attinsero il cinema, la radio
(→) e la televisione (→ Serie tv) e, non da ultimo, che contribuì a creare e
consolidare l’evoluzione di gruppi diversi, distinti per classe, etnia o
genere, in un unico, folto pubblico.
Le forme di intrattenimento precedenti più simili al vaudeville erano il
minstrel show (→), con la sua per nulla degna componente razzista, e gli
spettacoli da saloon (→), che attiravano il pubblico (maschile) grazie in
particolare a due elementi: alcol e sesso. Per questo, quando il varietà o
vaudeville (il francese aggiungeva un tocco di ricercatezza e al tempo stesso
un certo che di frizzante) arrivò in città dopo la Guerra civile (→), cercò
subito di distinguersi dalle forme autoctone precedenti: pubblico sia
maschile che femminile, al bando l’alcol, ammiccamenti sessuali e qualsiasi
altro tipo di volgarità.
La data di nascita del nuovo genere è fissata al 24 ottobre 1881, giorno in
cui Tony Pastor, impresario newyorkese (e in precedenza acrobata, soprano
e attore) aprì un teatro sulla 14ª Strada di New York e, per attirare le
famiglie benestanti, iniziò a ospitare versioni «morigerate» del varietà. Da
qui in avanti il vaudeville sarà sempre legato a Union Square, un’area che,
dagli anni settanta dell’Ottocento, era divenuta il theatre distict della città e
il centro nevralgico dei trasporti e dello shopping (paragonabile solo alla
Times Square di oggi). Sempre qui, all’angolo fra la 14ª Strada e la 4ª
Avenue, sorse presto un altro famoso teatro di varietà, comprato nel 1893
dagli altri due «padri» del genere: B.F. Keith (in precedenza al servizio del
circo di P.T. Barnum → Tendoni da circo) e E.F. Albee (nonno del futuro
drammaturgo Edward Albee). Obiettivo dei tre impresari era di raggiungere
un pubblico che abbracciasse working e middle class, il più vasto (e redditizio)
possibile: obiettivo non facile, in un periodo in cui non erano solo i confini
di classe, ma anche dell’etnicità a solcare il tessuto urbano – con gli
autoctoni e i sempre più numerosi immigrati distanti fra loro anche per le
concezioni molto diverse riguardo al divertimento e alla morale.
La soluzione fu mettere sul palco un’ampia gamma di spettacoli, che
soddisfacesse i bisogni di ognuno: folklore americano per i più piccoli (da
Yankee Doodle a Davy Crockett → Olimpo americano), per inculcare i giusti
valori nazionali; stralci di spettacoli europei per gli immigrati nostalgici;
messaggi morali per i più conservatori e divertimento per tutti gli altri.
Venti o trenta «atti» che alternavano duetti comici (e un umorismo sempre
più orientato alla battuta sapida e veloce, grazie anche all’influsso della
cultura ebraica), brani teatrali, balletto, imitatori e parodisti: il tutto
condito da emozioni forti, personaggi vividi, intrecci melodrammatici e al
contempo «adatto ai gusti di signore e bambini», come reclamizzavano le
locandine – anche al fine di anticipare gli attacchi del clero protestante che
nel vaudeville continuava a vedere un veicolo di corruzione e di malcostume.
Oltre che pubblico, coloro che venivano da oltreoceano o da altre regioni
dell’interno divennero in breve tempo anche l’anima degli spettacoli:
tenori irlandesi, comici ebrei, ballerini russi, pianisti neri di ragtime (→)
andarono a comporre il firmamento di star del vaudeville. Pochi erano
coloro che non avevano mai sentito parlare di Carmencita la Ballerina
Spagnola, Sandow l’Uomo Forzuto, il mago Houdini, Pat Rooney l’Uomo che
canta e balla, Harry Lauder il monologhista scozzese, il comico Nat
Goodwin, oltre a presenze femminili come Lottie Collins, May Irwin, Lillian
Russell, Lily Langtry, Vesta Victoria e Yvette Guilbert. E talvolta fra costoro
faceva capolino anche qualche vera star dell’epoca, da Sarah Bernhardt a
Enrico Caruso e Alla Nazimova, che (grazie anche ai lauti compensi)
gettavano in tal modo un ponte fra cultura alta e cultura bassa.
Il vaudeville non restò tuttavia confinato ai soli teatri, ma si ritagliò uno
spazio anche in locali di intrattenimento popolare come i bier gartens – una
combinazione di sale da concerto e taverne dove gli avventori potevano
bere, socializzare e gustarsi, oltre al cibo, anche spettacoli di ottima qualità.
Il più famoso, l’Atlantic Garden, al numero 50-52 della Bowery (→), che
mantenne la propria reputazione di luogo ben frequentato nonostante il
malaffare e la criminalità delle zone circostanti, ospitava nei suoi giorni di
gloria fra le millecinquecento e le tremila persone a sera.
Visto l’enorme e repentino successo, a partire dagli inizi del Novecento i
teatri di vaudeville passarono sempre più sotto il controllo delle grandi
catene: la Percy-Williams gestiva le sale di New York, la Sylvester Poli quelle
del New England, la Kohl and Castle si occupava del Midwest e la Alexander
Pantages del West. In mezzo a queste, svettava la Keith-Albee (ricordate il
teatro su Union Square?), che negli anni venti controllava più di
quattrocento sale. Il sontuoso Palace di New York, costruito nel 1913,
divenne il centro nevralgico del vaudeville e l’emblema dello show business,
con i suoi guadagni esorbitanti e la sua parata quotidiana di stelle dello
spettacolo. Eppure, questo boom ebbe vita breve. Indebolito dalla radio, che
iniziò a rubargli non solo temi e spettacoli, ma anche gli artisti, il vaudeville
affrontò la sua fine negli anni trenta del Novecento, battuto dalla Grande
depressione e dal cinema. Un destino triste e insieme ironico, visto che non
solo a quest’ultimo aveva a lungo e generosamente prestato gli spazi (le
prime proiezioni cinematografiche avvennero infatti in questi teatri), ma
anche perché con il cinema il vaudeville aveva cercato un improbabile
compromesso artistico fin dai primi anni del secolo, incorporando nella
scaletta brevi filmati a inizio o a conclusione delle esibizioni. Così, come c’è
una data di nascita, ce n’è anche una di morte: il 16 novembre 1932, quando
il Palace fu trasformato in sala cinematografica.
Poco oggi rimane degli spettacoli di vaudeville, e altrettanto dei teatri: il
primo e più famoso, su Union Square, fu abbattuto nel 1992, dopo essere
stato per anni usato come magazzino; il Jefferson Theatre, altro famoso
teatro sulla 3ª Strada, fu raso al suolo nel 2000. Eppure, a ben guardare, fra
gli attori che raggiunsero la radio e il grande schermo, non sono pochi
coloro che proprio a Union Square devono la loro fortuna: pensate a Buster
Keaton, ai Fratelli Marx, a Eddie Cantor, Bob Hope, Judy Garland, Sammy
Davis Jr…

BIBLIOGRAFIA
Richard Butsch, The Making of American Audiences: From Stage to Television,
1750-1990, Cambridge University Press, Cambridge 2000.
David Freeland, Automats, Taxi Dances, Vaudeville: Excavating Manhattan’s Lost
Places of Leisure, New York University Press, New York 2009.
Albert McLean, American Vaudeville as Ritual, University of Kentucky Press,
Lexington 1965.
Russell Nye, The Unembarassed Muse: The Popular Arts in America, The Dial
Press, New York 1970.
C. SCHIA.

Veterani
Ferito durante un’azione di guerra contro un villaggio vietnamita (→
Vietnam), il marine Ron Kovic passa un lungo periodo di riabilitazione in
una struttura ospedaliera fatiscente, per uscirne in sedia a rotelle e tornare
in una società che sembra ricordarsi dei sacrifici sopportati dagli eroi di
guerra solo in occasione della parata del giorno dell’Indipendenza e li
guarda con un misto di sufficienza e compassione per il resto dell’anno. La
vicenda di Kovic è raccontata nel film Nato il quattro luglio (1989), diretto da
Oliver Stone – anch’egli reduce del Vietnam – e interpretato da Tom Cruise.
Al ritorno in patria, i soldati smobilitati dopo la Seconda guerra
mondiale erano stati salutati come gli eroi che avevano sconfitto la
Germania nazista; al contrario, i reduci dal Vietnam trovarono un paese
lacerato da un’ondata di contestazione mai vista: larga parte dell’opinione
pubblica era convinta che l’impegno in Indocina fosse il prodotto di una
politica imperialista ed era rimasta sconvolta dalle rivelazioni di giornali e
tv sui massacri che l’esercito americano aveva compiuto sugli inermi
contadini vietnamiti (primo fra tutti, il massacro di My Lai) (→ Movement).
Per la prima volta nella storia, i reduci stessi presero parte alle
manifestazioni pacifiste e l’organizzazione Vietnam Veterans Against the
War (Vvaw) fu uno dei soggetti più attivi del movimento di protesta: alla
manifestazione convocata a Washington nell’aprile 1971 parteciparono più
di 500mila persone.
A scavare nella storia, tuttavia, si scoprirebbe che il rapporto con i
veterani delle guerre combattute dagli Stati Uniti fu sin dall’inizio tutt’altro
che idilliaco. Certo, numerosi sono stati i presidenti entrati in politica dopo
una fruttuosa carriera militare, da Andrew Jackson a Zachary Taylor, da
Ulysses S. Grant a Dwight D. Eisenhower; e, ogni volta che un cittadino si
presenta come candidato a una carica pubblica, è il curriculum di guerra
una delle prime fonti che i giornalisti vanno a scandagliare – il senatore
repubblicano John McCain, per esempio, ha costruito la sua carriera sulla
fama di «duro» che gli proviene dall’avere trascorso parecchi anni come
prigioniero dei Vietcong. I reduci della vittoriosa Guerra d’indipendenza
contro l’Inghilterra (→ Rivoluzione americana) provarono tuttavia sulla
loro pelle la discrepanza tra la retorica ufficiale, che li celebrava come eroi,
e l’amara realtà dei fatti – il neonato governo federale, anche a causa di una
situazione di indebitamento, aveva smobilitato l’esercito continentale
senza elargire paghe o indennità. Due anni dopo la fine del conflitto, nel
1783, alcune centinaia di veterani decisero di marciare su Philadelphia, dove
il Congresso era in seduta, con l’intento di fare pressione per ottenere un
riconoscimento monetario per il servizio prestato. I deputati, impauriti,
scapparono a Princeton (New Jersey), mentre all’esercito ufficiale fu
affidato il compito di liberare la città dell’«amore fraterno» dalla presenza
degli sgraditi ospiti.
L’argomento rimase tabù fino al primo dopoguerra: i soldati tornati
dall’Europa incontrarono molte difficoltà di reinserimento nella società
civile e rappresentarono un fattore di instabilità durante la Red Scare (→);
per questo motivo, nella classe politica si diffuse l’idea di offrire un
compenso per il servizio prestato dai veterani, quale risarcimento per il
periodo di ferma.
Il Congresso superò il veto posto dal presidente Coolidge e, nel 1924,
approvò il World War Adjusted Compensation Act, con il quale si
autorizzava il pagamento di un indennizzo (bonus) di un dollaro al giorno
per il servizio svolto in patria e di un 1,25 centesimi al giorno per il servizio
all’estero. La misura legislativa prevedeva di finanziare l’esborso con
l’emissione di buoni del tesoro, che sarebbero stati erogati ai beneficiari nel
1945. Nel frattempo, i veterani che ne avevano diritto potevano ricevere un
anticipo pari al 22,5% della somma di loro spettanza.
Con la crisi economica e l’inizio della Grande depressione (→), il
Congresso autorizzò l’aumento della percentuale esigibile, mentre era allo
studio la possibilità di rendere da subito disponibile l’intero compenso. Il
presidente Hoover (→) pose il veto, preoccupato del fatto che per coprire la
spesa il governo avrebbe dovuto aumentare le tasse.
Così come i loro predecessori della Guerra d’indipendenza, anche i
veterani del primo conflitto mondiale formarono un piccolo esercito di
43mila persone (17mila veterani, più le loro famiglie e i loro sostenitori), il
Bonus Army, e, nella primavera del 1932, marciarono verso la capitale,
sistemandosi negli Anacostia Flats, un’area fangosa e paludosa sulle rive del
fiume Anacostia, a un tiro di schioppo dagli edifici del governo federale di
Washington. Organizzarono un accampamento usando i materiali di scarto
che avevano raccolto in una vicina discarica e mantennero l’ordine e la
pulizia grazie a un efficiente servizio di sorveglianza.
Il 17 giugno 1932, il Senato respinse la misura legislativa che avrebbe
consentito il pagamento immediato della somma, ma il Bonus Army rimase
nei pressi della capitale per spingere il presidente Hoover a interessarsi alle
loro richieste. Hoover agì, ma non nel senso auspicato: autorizzò
l’intervento di polizia ed esercito per disperdere i contestatori. George
Patton, futuro protagonista della Seconda guerra mondiale, ordinò la carica,
nella quale rimasero uccisi due veterani. L’episodio, a pochi mesi dalle
elezioni, rappresentò il colpo di grazia alle speranze di rielezione di Hoover
e spianò la strada al candidato dei democratici, Franklin Delano Roosevelt.
Lo stesso Roosevelt, dodici anni più tardi, firmò il Servicemen’s
Readjustment Act, meglio noto con il nomignolo di G.I. Bill, che cercava di
rendere meno traumatico possibile il reinserimento nella società civile dei
milioni di soldati che sarebbero tornati in patria una volta conclusa la
Seconda guerra mondiale – il fatto che la legge venisse approvata tempo
prima dell’armistizio è un chiaro indizio dei timori che si nutrivano nei
confronti dell’instabilità sociale che si sarebbe potuta creare. Il G.I. Bill
rendeva disponibili prestiti a interessi bassi per l’acquisto di una casa e
stanziava fondi per l’iscrizione a università (→ Ivy League) o per la
frequenza di corsi di formazione: nell’arco dei dieci anni di validità, 7,8
milioni di veterani ebbero la possibilità di accedere all’istruzione superiore
e altri 2,4 milioni divennero proprietari di un’abitazione.
Meno fortunati furono i reduci dal Vietnam. Del resto, come s’è
accennato, gli Stati Uniti stavano attraversando un periodo di grave crisi
economica, a cui si aggiungeva la contestazione di vari gruppi sociali alla
linea del governo: il leader afroamericano Martin Luther King (→ Back of
the bus), per esempio, più volte sottolineò il paradosso di un paese che
spendeva cifre astronomiche per combattere i Vietcong e allo stesso tempo
lasciava una gran parte della popolazione nella povertà.
Per chi tornava dal Vietnam, la guerra non finiva con il ritorno in patria.
Molti subirono un’accoglienza tutt’altro che trionfale, simile a quanto
descritto da John Rambo (protagonista del film Rambo, del 1985): «Non era la
mia guerra. Io ho fatto quello che dovevo fare per vincerla, e il giorno che
torno a casa mia, trovo un branco di vermi all’aeroporto che m’insultano,
mi sputano addosso, mi chiamano assassino e mi dicono che ho ammazzato
vecchi e bambini». E la guerra personale che il reduce ingaggia contro il
corpo di polizia della città di Hope, sfuggendo alla cattura e nascondendosi
nella foresta – e poco manca che metta a ferro e fuoco l’intera cittadina – fa
risaltare, in maniera fin troppo spettacolare, il sentimento di alienazione
nei confronti di una società alla quale i veterani non sanno e non vogliono
appartenere.
La dimestichezza con la natura e il rapporto conflittuale con la civiltà
fanno di John Rambo l’incarnazione moderna di un archetipo caro alla
cultura americana, che ebbe in Calza di cuoio, il protagonista de L’ultimo dei
Mohicani, romanzo di James Fenimore Cooper, la prima manifestazione. E
per questo motivo la figura del reduce verrà sfruttata in numerose serie tv
(→) per conferire un’aura romantica e cavalleresca a una nuova
generazione di investigatori e poliziotti del piccolo schermo: da Magnum P.I.
(→ Hawaii) a Riptide, da A-Team a Hunter, fino a Simon & Simon, i paladini
della giustizia degli anni ottanta nascondono un passato traumatico.
L’esperienza in Vietnam diventa così un «rito di passaggio» dove la morte
di un amico, il tradimento di un commilitone o la scoperta di un massacro
perpetrato contro donne e bambini rappresentano per l’eroe la perdita
dell’innocenza, personale ma anche, per esteso, collettiva. Tornati a casa,
questi eroi, nel tentativo di acciuffare colpevoli e malviventi, cercano di
pagare una sorta di debito che gli Stati Uniti, loro tramite, hanno contratto
con il mondo intero, impegnandosi in una guerra ingiusta e inutile: ogni
caso risolto, ogni ingiustizia riparata vanno letti come piccoli passi nella
direzione di rendere il paese una società migliore.
Il cacciatore (1977), film diretto da Michael Cimino, rifiuta invece ogni
tipo di riconciliazione per insistere sulla cesura che la guerra ha
rappresentato per il reduce. Nick, uno dei protagonisti, dopo la ritirata delle
forze americane dall’Indocina resta a Saigon, vive in uno stato
semicatatonico e ha in apparenza dimenticato gli amici e l’esistenza
precedente alla chiamata alle armi. Rischia quotidianamente la vita
giocando alla roulette russa, e nel momento in cui il vecchio amico Michael
riesce a scovarlo e insiste per riportarlo a casa, si spara il colpo fatale, quasi
a significare che non è più possibile tornare indietro. Il film fu, da questo
punto di vista, profetico: molti saranno infatti i veterani delle guerre in
Afghanistan e Iraq, iniziate in seguito all’attacco alle Torri Gemelle (→
World Trade Center) che, tornati a casa e tentato senza successo di
reinserirsi nella società civile, si toglieranno la vita (meno cupo e disperato,
ma efficace nel mostrare la difficoltà e le contraddizioni del ritorno alla vita
civile, sarà, l’anno dopo, il film di Hal Ashby, con Jane Fonda e John Voight,
Tornando a casa).
Dopo aver visto Il cacciatore, l’ex soldato Jan Scruggs capì l’importanza di
non dimenticare i caduti e onorare i reduci: si fece promotore di
un’iniziativa per costruire un monumento, raccolse 8 milioni e mezzo di
dollari e ottenne dal Congresso un appezzamento di terra nel cuore di
Washington, lungo il National Mall e a poco distanza dal monumento a
Lincoln. Fu indetta una gara, e tra oltre 1400 proposte una giuria scelse il
progetto presentato da una studentessa di architettura, Maya Ying Lin: due
lastre in granito nero, della lunghezza di 75 metri per tre metri di altezza,
sulle cui superfici sono incisi i nomi di oltre 58mila caduti. Dopo tante
polemiche sulla scelta di un design scarno e senza concessione alcuna alla
figuratività, il memoriale è diventato una sorta di santuario laico: la pietra
utilizzata, proveniente dall’India, riflette l’immagine del visitatore che
scorre la lista dei nomi incisi sulla lastra, un accorgimento che mette in
comunicazione il passato e il presente, i caduti e i sopravvissuti.

BIBLIOGRAFIA
Stefano Ghislotti, Stefano Rosso (a c. di), Vietnam e ritorno: la guerra sporca nel
cinema, nella narrativa, nel teatro, nella musica e nella cultura bellica degli Stati
Uniti, Marcos y Marcos, Milano 1996.
Stephen R. Ortiz, Beyond the Bonus March and GI Bill: How Veteran Politics
Shaped the New Deal Era, New York University Press, New York 2010.
S.M.Z.

Vicksburg
Fino al 1945, i cittadini di Vicksburg non hanno celebrato la ricorrenza del 4
luglio, festa nazionale. Nella cittadina del Mississippi, adagiata su un
promontorio sullo Yazoo River alla confluenza con il Mississippi River, non
si svolgevano parate e non si organizzavano picnic al parco – soprattutto,
niente fuochi artificiali. Gli abitanti avevano fatto indigestione di scoppi e
spari nel corso del lungo assedio della città svoltosi durante la Guerra civile
(→): durato quarantotto giorni, si concluse il 4 luglio 1863 con la
capitolazione.
Vicksburg era un punto chiave della strategia dei nordisti. Le truppe
unioniste, comandate dal generale Ulysses S. Grant, avevano il compito di
conquistare la postazione, in modo da poter completare il controllo del
fiume Mississippi e tagliare in due la zona confederata. Durante la
primavera del 1863, i nordisti tentarono a più riprese di espugnare la città,
ma i ripetuti assalti incontrarono l’agguerrita resistenza della guarnigione,
a cui si aggiunse la difficoltà di manovrare in un terreno circostante fatto di
paludi e bayou (→).
Grant decise di ricorrere all’arma del tempo: aggirò con le truppe la città
e la mise sotto assedio, sottoponendola a un costante cannoneggiamento
che, oltre a causare danni, puntava a logorare i nervi degli assediati
(costretti a riparare in grotte ricavate nelle cave d’argilla) e accelerarne la
resa. Al problema degli approvvigionamenti si aggiunsero le malattie: la
popolazione arrivò a mangiarsi gli animali da soma e, in alcuni casi, a
nutrirsi di cuoio, mentre scorbuto, malaria, dissenteria e diarrea facevano
più vittime del nemico. La città si riprese molto lentamente da questa
esperienza traumatica – un ulteriore episodio che suggerisce come la
specifica esperienza storica di alcune realtà del paese possa contestare la
retorica e i simboli nazionali.
I motivi di interesse per Vicksburg non si esauriscono con la storia
dell’assedio, cui è dedicato, ai margini della città e sui luoghi stessi della
battaglia, un intero parco, con percorsi interattivi, documentazioni e
ricostruzioni, e un museo dedicato alla piccola corazzata di fiume USS Cairo,
utilizzata dall’esercito nordista. Nella cittadina, per esempio, nacque il
bluesman Wille Dixon, autore di classici quali «Little Red Rooster»,
«Hoochie Coochie Man», «I Ain’t Superstititous», «You Shook Me», «Back
Door Man» – brani su cui studiò un’intera generazione di musicisti rock
intorno alla metà degli anni sessantadel Novecento e che vennero ripresi da
importanti gruppi quali Led Zeppelin, Rolling Stones, Doors e Yardbirds (→
Mississippi Delta). E qui sorge, oltre alle ricche magioni dei piantatori di
cotone (molte delle quali dotate di regolare fantasma), l’imponente
costruzione del 1894, quasi un castello, che oggi ospita la Mississippi River
Commission, l’organismo creato ad hoc per «tenere sotto sorveglianza» il
fiume Mississippi, che in quest’area infuriò a più riprese negli anni venti e
trenta del Novecento. E ancora: nel 1894, in un candy store su Washington
Street (la continuazione, entro la cittadina, della mitica Highway 61 →
Route 66 e Highway 61), il tedesco americano Joseph Biedenharn ebbe l’idea
di imbottigliare una bevanda dolce dal colore scuro di recente invenzione.
Si trattava della Coca-Cola (→), e Biedenharn intuì che l’enorme successo
riscontrato dalla bevanda tra i consumatori che venivano a dissetarsi nel
suo negozio si sarebbe potuto replicare nelle località dove non c’erano
ancora distributori, ricavando un enorme profitto. Il negoziante utilizzò le
bottiglie che aveva adoperato in precedenza per la soda, e creò in breve
tempo una rete di vendita nel territorio circostante. A ricordare tutto ciò,
negli stessi locali del candy store, c’è oggi il Biedenharn Coca-Cola Museum.
Se dunque vi trovate in visita a Vicksburg e non resistete alla tentazione
di berne un sorso, fate in modo di accompagnare la Coca-Cola alla vera
specialità del luogo, il «Vicksburg tomato sandwich»: una Southern belle (→
Southern belle) che si rispetti ve lo preparerà con fette di pane vecchie di
un giorno, pomodori pelati, sale, pepe nero, cipolla e paprika.

BIBLIOGRAFIA
Mario Maffi, Mississippi. Il Grande Fiume, il Saggiatore, Milano 2009.
S.M.Z.

Vie d’acqua
Se, nella geografia reale e immaginaria degli Stati Uniti, le terre (le catene
montuose, le sterminate pianure) sono senza dubbio l’ingrediente principe,
non sono poche le valenze (complesse) delle vie d’acqua, di quei fiumi e
canali che disegnano arabeschi sulle carte fisiche del continente
nordamericano – valenze tanto complesse che è impossibile qui offrirne un
quadro d’insieme. Basti partire da una considerazione/constatazione: la
colonizzazione di quel continente avvenne non solo tramite i cavalli e i
carri coperti, ma anche attraverso le canoe e i battelli di ogni tipo.
Così, fra storia, mito e mistero, il Roanoke River e il James River, nella
Virginia e nel North Carolina, stanno alle origini della costruzione
identitaria nazionale: sulle loro rive, sulle loro foci, si svilupperanno le
vicende misteriose della «colonia perduta» del 1586 (l’insediamento
promosso da sir Walter Raleigh, di cui non si ebbe più traccia negli anni
seguenti) e, qualche decennio più tardi, si snoderà l’intreccio di sentieri
(acquatici e non) che vedranno protagonisti John Smith, John Rolfe e la
giovanissima Pocahontas (→ Nuovo mondo). Quanto all’Hudson River, che
lambisce Manhattan nel suo tratto finale, esso è fiume di narrazioni
letterarie e di raffigurazioni pittoriche: nel 1819, Washington Irving
ambienta sulle sue sponde, nell’atmosfera ovattata e sognante di un
passato-presente olandese-inglese-americano, due racconti fondativi della
letteratura nazionale come Rip Van Winkle e La leggenda di Sleepy Hollow, e,
nella prima metà dell’Ottocento, la Hudson River School of Painting (→
Bidoni della spazzatura) trae ispirazione dai suoi paesaggi per cominciare a
strappare la pittura americana dalla piatta riproposizione di modelli
europei. Dal canto suo, l’Ohio River, «La Belle Rivière» dell’epoca del
dominio francese, si configura (ed è vissuto) come un fiume edenico, presto
macchiato dalle guerre anglofrancesi (che sono «guerre contro i Native
Americans», con tutto quello che ne seguì in termini di colonizzazione e
genocidio → Guerre indiane), e poi fiume di banditi ed eroi popolari come il
battelliere Mike Fink, «mezzo cavallo e mezzo alligatore» (→ Olimpo
americano), e fiume della difficile libertà (il «River Jordan») per migliaia di
schiavi in fuga pericolosa verso il Nord (→ Underground Railroad). Quanto
al Missouri River, che dai picchi delle Montagne Rocciose si getta, a poca
distanza da St. Louis, in altre maestose acque fluviali (quelle del Mississippi
River), nell’immaginario americano esso è un fiume di continuo ripercorso
e risalito, sulle orme della spedizione di Lewis e Clark (1804-1806; →
Esplorazioni) che aprì a una nazione in fieri un West fino a quel momento
sconosciuto, depositando nel suo immaginario elementi fascinosi e
contraddittori (la flora e la fauna americane, l’incontro con l’altro e il ruolo
del mediatore culturale, la relazione scientifica e la scrittura di viaggio). C’è
quindi il Rio Grande, che segna una buona metà del confine fra Stati Uniti e
Messico (→ Bordertowns): altro fiume di leggende, di guerre, di banditi, di
gente di frontiera e di wetbacks (le «schiene bagnate», i clandestini preziosi
per il mercato del lavoro statunitense e bersagli di feroci persecuzioni →
Braceros). E ci sono il Colorado (con lo scenario maestoso e misterioso del
Grand Canyon →), il Potomac (detto anche «Fiume della nazione», dove
nacque e prosperò George Washington e dove sorse – fors’anche con lo
zampino di qualche sua speculazione immobiliare – la capitale del paese), il
Platte, il Pecos, il Fiume Rosso, il Susquehanna, il Tennessee, il Sabine, il
Wabash, a nord, a sud, a est, a ovest, che hanno riempito del loro nome
decine di relazioni scientifiche e creazioni letterarie e cinematografiche
sulla «conquista del West».
E c’è il Mississippi River, che è forse il più noto. Più noto, e più ignoto – fin
dalle origini della nazione e della cultura degli Stati Uniti. A dire questa sua
inafferrabilità, sono prima di ogni altra cosa i suoi molti nomi. Per i Native
Americans, era di volta in volta, di tratto in tratto, Sassa-goula, Ha-Ha Wa-
kpa, Culata, Nomosi-sipu, Chucagua, Tamaliseu, Tapatu, Mico; per gli
spagnoli, Río Grande, Río del Espíritu Santo, Escondido, Palisado; per i
francesi, Rivière de la Conception, Buade, Colbert, Rivière Saint Louis; per
gli americani, Great Father of Waters, Old Man River, Deep River… tanti
nomi per 2552 miglia d’acque, legate a culture e a tempi diversi e con
significati diversi, prima che si affermasse la dizione «Mississippi». Ma
anche questa dizione ha origini incerte e, nell’incertezza, significative:
viene infatti dall’ojibway Michi Sipi («acqua che si stende su un’ampia
superficie») o dal choctaw Misha Sipokni («acqua che viene da oltre il
tempo»)? Che si accetti l’una o l’altra etimologia, è certo che al cuore del
nome, fin dalle origini, stanno i concetti di spazio e tempo – sia pure avvolti
nelle brume di quell’indeterminatezza che caratterizza il fiume (per quanto
tempo se ne sono cercate invano le sorgenti!). Qualcuno, in piena Guerra
civile (→), lo chiamò il «corpo della nazione». E non aveva torto. Attraverso
i millenni, con i suoi sedimenti il Mississippi aveva depositato, in senso
letterale, il continente nordamericano compreso fra la catena degli
Allegheni e quella delle Montagne Rocciose; era stato il teatro delle Guerre
indiane (→) e dei drammi collettivi che le avevano accompagnate (→ Piste
e sentieri); aveva conosciuto il lungo periodo del dominio francese, con i
suoi esploratori, cacciatori, apripista, mercanti di pelli e i primi
insediamenti in forma di fortini (→ Louisiana Purchase); aveva visto
scivolare sulle proprie acque ogni genere d’imbarcazione (dalle canoe
indiane ai battelli a vapore →); aveva ospitato sulle proprie rive le grandi
piantagioni di tabacco e cotone ed era stato arteria di fuga per migliaia di
schiavi (→ Undergorund Railroad) o scenario delle loro insurrezioni (→
Rivolte di schiavi); aveva costituito un primo confine naturale da superare
(con i traghetti e in seguito con i ponti) per colonizzare l’Ovest; aveva visto
nascere villaggi, piccole città (→), metropoli come St. Louis (→ Gateway
Arch) e New Orleans (→ Congo Square); aveva fatto riecheggiare lingue
diverse (quelle indiane, quelle europee, le molte inflessioni dell’inglese
d’America); aveva raccolto e trasportato voci, storie, leggende, alimentando
in maniera decisiva e suggestiva la letteratura nazionale (da Mark Twain a
William Faulkner, da Kate Chopin a George Washington Cable); a più riprese
s’era gonfiato in maniera impressionante rovesciandosi fuori con violenza
selvaggia; aveva conosciuto il sangue, i bombardamenti, il fumo, le
cannonate della Guerra civile e le tensioni del dopoguerra; aveva ascoltato
la musica che germogliava nei suoi porti e lo risaliva da sud a nord… Il
«corpo della nazione», un fiume reale e mitico insieme, un geroglifico di
storie e di storia.
Ma la carta geografica ci restituisce anche altre vie d’acque. Ce n’è una,
per esempio, che da Albany, nello stato di New York, sul fiume Hudson,
giunge fino a Buffalo, sempre nello stato di New York ma sul lago Erie, non
lontano dalle cascate del Niagara (→). È l’Erie Canal, 580 chilometri, scavati
fra il 1817 e il 1821, quando ancora non c’erano linee ferroviarie e il
trasporto di merci ed esseri umani era lungo e faticoso, su e giù per monti e
attraverso fiumi. In quegli anni, il canale costituì un altro grimaldello
fondamentale per aprire la porta del West agli Stati Uniti nascenti – e fu
un’opera di epica e drammatica costruzione (più di mille operai morirono
per incidenti e febbri malariche), con enormi problemi di ingegneria
idraulica, in un’epoca – fra l’altro – di grande instabilità politica e sociale.
Ne scrissero in molti (Melville, Hawthorne, Mark Twain) e fu all’origine di
numerosi canti (→ Newport Folk Festival), di cui i più noti sono certo «The
E-ri-e» e «The Erie Canal» (o «Low Bridge», scritta nel 1905 da Thomas S.
Allen, compositore di musiche da vaudeville →), che narrano dei tempi in cui
il canale (ancor oggi in funzione, sia pure non sempre nei tratti originari)
era solcato dalle grandi chiatte trascinate da muli: «Ho un mulo di nome Sal
/ Quindici miglia sull’Erie Canal».
Ancora, da nord a sud, attraverso l’est: l’Intracoastal Waterway, 4800
chilometri di canale navigabile per chiatte e imbarcazioni mercantili, che va
dal New Jersey fino al Texas, intrecciando insieme golfi e baie, fiumi
secondari e bayou (→) e il labirinto d’acque della Florida o della Louisiana,
spesso disegnando paesaggi surreali in cui i bassi navigli scorrono in una
terra-acqua di nessuno fra il mare e la terraferma, e l’odor di ruggine,
sostanze chimiche e petrolio (→ Oil!) si mescola in modo sgradevole ai
profumi intensi del sottobosco tropicale (in occasione dell’uragano Katrina,
nell’estate del 2005, l’Intracoastal Waterway subì non pochi danni) – una
presenza strana e a volte inquietante, per le molte ricadute sull’ecosistema
che essa implica.
E allora, se di presenze inquietanti parliamo, dobbiamo anche spingerci
altrove, lungo queste vie d’acqua ora solo artificiali, e arrivare a quello che
è un po’ il conradiano «cuore di tenebra» degli Stati Uniti. Perché, se è vero
che l’impero britannico aveva il suo fiume Congo, lontano dal centro ma
legato a esso nel sangue e nello sfruttamento, il fiume Congo d’America non
può che essere il Canale di Panama. Dunque: in quella che nella seconda
metà dell’Ottocento era ancora chiamata Colombia, la Francia progettava di
costruire un canale – erano anni in cui l’America Centrale stuzzicava gli
appetiti delle grandi potenze, compresa quella emergente degli Stati Uniti
(che, non a caso, da tempo miravano a costruire un canale attraverso il
Nicaragua: progetto sostenuto con insistenza da Cornelius Vanderbilt, il «re
delle ferrovie» → Robber barons). Un canale attraverso quella lingua di
terra fra America del Nord e America del Sud non solo avrebbe abbreviato i
tempi di navigazione fra Atlantico e Pacifico abbattendo i costi, ma avrebbe
costituito un’importante testa di ponte strategica per la penetrazione nel
continente. Dopo un decennio di lavori (con qualcosa come 22mila operai
morti per incidenti e febbri) e di acute polemiche per la corruzione e la
cattiva gestione della società appositamente costituita, il progetto francese
s’arenò nel 1893. E gli Stati Uniti si fecero avanti: nel 1903 (attenzione alle
date: nello stesso periodo, la United Fruit Company allungava le mani sul
Guatemala → Banane), firmarono con l’incaricato d’affari colombiano a
Washington un accordo che concedeva loro un contratto di locazione
rinnovabile in perpetuo sul territorio in questione. Ma il governo colombiano
non ratificò il trattato, e le tensioni interne al paese e fra Colombia e Stati
Uniti presero a crescere. Il presidente Theodore Roosevelt, esperto in
questo genere di manovre diplomatico-militari (→ Splendide guerricciole),
decise d’intervenire e, mentre nella regione scoppiava una provvidenziale
rivolta, inviò navi da guerra militari, bloccando così l’intervento
colombiano e appoggiando il movimento separatista panamense. Nel
novembre 1903, Panama si dichiarò indipendente, gli Stati Uniti la
riconobbero subito e al contempo, con un trattato equivoco che sarà
oggetto continuo di contenzioso, ottennero il diritto di amministrare a
tempo indefinito il canale. A quel punto, la costruzione riprese e si concluse
(con altri 5600 morti fra gli operai) nel 1914 – giusto in tempo per lo scoppio
della Prima guerra mondiale.
Sempre di più, il Golfo del Messico, in cui si gettano le acque del
Mississippi raccolte da tutti i grandi fiumi del continente nordamericano,
diventava una sorta di «mare interno» degli Stati Uniti: dove finiva dunque
«il corpo della nazione»?

BIBLIOGRAFIA
Russell Bourne, Rivers of America. Birthplaces of Culture, Commerce, and
Community, Fulcrum Publishing, Golden 1998.
Gerard Koeppel, Bond of Union: Building the Erie Canal and the American Empire,
Da Capo Press, Cambridge 2009.
Mario Maffi, Mississippi. Il Grande Fiume. Un viaggio alle radici dell’America, il
Saggiatore, Milano 2009.
David McCullough, The Path Between the Seas: The Creation of the Panama Canal,
1870-1914, Simon & Schuster, New York 1977.
M.M.

Vietnam
«… c’mon on all you big strong men / Uncle Sam needs your help again /
he’s got himself in a terrible jam / way down yonder in Vietnam (Su, venite,
uomini forti / lo zio Sam ha di nuovo bisogno di voi / s’è ficcato in un
terribile casino, laggiù nel Vietnam)»: sono i versi iniziali di «I-Feel-Like-
I’m-Fixin’-to-Die Rag», il pezzo di Country Joe McDonald, diventato uno dei
più celebri manifesti contro l’impegno statunitense nelle penisola
indocinese. Un «terribile casino» dal costo elevatissimo in termini di vite
umane (58mila gli americani morti; più difficile il calcolo per vietnamiti: le
cifre si aggirano comunque intorno ai 2 milioni) e di risorse finanziarie (168
miliardi di dollari). Nel corso di un ventennio, la nazione più potente del
mondo ha profuso risorse enormi e ha fatto ricorso agli armamenti più
sofisticati e letali per piegare il movimento di liberazione di un piccolo
paese asiatico: Washington temeva che la vittoria degli indipendentisti
avrebbe compromesso l’equilibrio politico tra il blocco occidentale e quello
sovietico e che, dopo la vittoria di Mao in Cina, il Pacifico orientale avrebbe
finito per diventare un oceano «rosso».
Gli Stati Uniti avevano puntato a vincere il conflitto sfruttando la
superiorità tecnologica nel campo degli armamenti e nella loro capacità
distruttiva (7 milioni di bombe furono sganciate in Indocina, più del doppio
di quelle usate durante la Seconda guerra mondiale), ma si trovarono di
fronte l’inaspettata caparbietà di una popolazione decisa a ottenere
l’indipendenza, guidata dal carisma del leader Ho Chi Min e del generale Vo
Nguyen Giap.
I danni provocati dalla guerra non sono solo da contare in termini di
costi e di vite umane. Il conflitto intaccò il prestigio internazionale degli
Stati Uniti, compromettendo l’immagine di potenza che sosteneva una
diplomazia improntata su principi morali e sulla diffusione di democrazia e
diritti umani. Il crollo della reputazione in politica estera andò di pari passo
con la contestazione interna: l’opposizione alla guerra si inserì sul tracciato
di proteste promosse da vari gruppi sociali – dagli afroamericani (→ Back of
the bus) alle donne (→ Seneca Falls), dagli studenti agli omosessuali (→
Stonewall) – che reclamavano parità di diritti (→ Movement).
Origine del conflitto e fase francese. Il Giappone, dopo aver occupato la
colonia francese dell’Indocina (comprendente gli attuali Laos, Cambogia e
Vietnam) durante la Seconda guerra mondiale, al momento della ritirata
concede l’indipendenza (gennaio 1945). La mossa non è gradita alle potenze
europee e le truppe francesi sbarcano in Vietnam per riprendere il
controllo. Il Viet Minh, principale movimento indipendentista, guidato da
Ho Chi Min, fa appello agli Stati Uniti, che si propongono come campioni
dichiarati dell’anticolonialismo. Il presidente Truman, tuttavia, deciso a
porre un argine alla diffusione del comunismo nel Sudest asiatico, appoggia
senza riserve le richieste della Francia. Oltre al sostegno diplomatico,
Washington garantisce risorse finanziarie e armamenti.
La resistenza vietnamita è però robusta, coordinata dal Viet Cong, il
braccio armato del movimento indipendentista, e bilancia l’inferiorità
tecnica e strategica coinvolgendo la popolazione, specie nelle campagne. Il
comando francese concentra le truppe nella cittadella fortificata di Dien
Bien Phu, contando di ingaggiare una battaglia decisiva contro il nemico. I
vietnamiti invece assediano la piazzaforte per oltre tre mesi (marzo-maggio
1954), costringendo l’esercito francese alla resa.
Spartizione. Gli accordi di pace siglati a Ginevra tra Francia e Viet Minh
prevedono il cessate il fuoco, la divisione del Vietnam in due zone lungo il
17º parallelo, la creazione di due governi transitori, il Nord con capitale
Hanoi e il Sud con capitale Saigon: dopo due anni, sarebbero state indette
elezioni in tutto il paese, preludio all’unificazione. Al Nord, rimangono al
potere i comunisti, mentre al Sud s’insedia l’imperatore Bao Dai.
Prevedendo un facile successo dei comunisti nelle future elezioni, gli Stati
Uniti decidono di spodestare Bao Dai e installare un governo democratico,
alla cui guida mettono l’anticomunista Ngo Dien Diem, contrario a qualsiasi
tipo di negoziato con la controparte del Nord. Washington e Diem, non
avendo firmato gli accordi di Ginevra, non si ritengono vincolati a
rispettarne le disposizioni.
Resistenza al Sud. Appoggiato dagli aiuti economici americani, Diem
procede alla pacificazione del Sud con arresti di persone sospette, raid e
torture. Stringe un’alleanza con i ceti medi urbani e i grandi proprietari
terrieri, a vantaggio dei quali approva una riforma agraria che cristallizza le
divisioni sociali esistenti e acuisce il malcontento dei piccoli contadini. Nei
villaggi e nelle campagne, nascono piccoli nuclei di resistenza contro
l’azione repressiva, a cui dà man forte il governo del Nord. Con efficaci
azioni di guerriglia, questi nuclei rappresentano una spina nel fianco per il
governo di Diem, il cui controllo è limitato ai soli centri urbani.
I villaggi strategici e la caduta di Diem. L’amministrazione guidata da
Kennedy (→ Camelot) tenta una soluzione per controllare le campagne: i
villaggi strategici. Il programma prevede il trasferimento coatto di interi
villaggi all’interno di cittadelle fortificate costruite dai genieri americani, le
quali dovrebbero consentire di tenere sotto osservazione la comunità ed
evitare contatti con il nemico. Washington dà il via all’intervento di
elicotteri e bombardieri in appoggio all’esercito del Sud: data la difficoltà di
stanare nemici nascosti al riparo della giungla, si propende per attacchi a
tappeto contro i villaggi, che lasciano un seguito di abitazioni incendiate,
terre devastavate e decine di morti. In queste operazioni, s’inizia a
utilizzare l’agent orange, terribile erbicida e defoliante tossico derivato dalla
diossina.
La protesta dei monaci buddisti contro le malversazioni di Diem
raggiunge l’apice con il sacrificio di Quang Duc, un monaco di sessantasei
anni che si dà alle fiamme a Saigon. Il gesto provoca rimostranze e nella
comunità internazionale e in patria. La Casa Bianca constata la difficoltà di
continuare a sostenere un regime impopolare e decide di sacrificare Diem: il
1º novembre 1963, il capo di stato viene assassinato (tre settimane prima di
Kennedy) e al suo posto si insedia una giunta militare.
L’incidente del Tonchino. Nell’agosto 1964, nel Golfo del Tonchino si svolge
uno scontro a fuoco tra il cacciatorpediniere americano Maddox e un’unità
nordvietnamita senza né danni né vittime. L’episodio viene «trasformato»
dall’amministrazione Usa in un atto di aggressione. Da tempo, il presidente
Johnson è alla ricerca di un casus belli che giustifichi un intervento diretto
degli Stati Uniti nella guerra e, come si scoprirà più tardi, la Cia era stata da
lui autorizzata a compiere azioni di disturbo. Sfruttando l’onda emotiva
dell’opinione pubblica, Johnson ottiene dal Congresso carta bianca per
proseguire il conflitto con i mezzi e le strategie che ritiene più opportune.
Preceduto di qualche settimana dall’operazione «Rolling Thunder», con la
quale i B-52 (→ Enola Gay) americani hanno bombardato a tappeto anche il
Vietnam del Nord, nell’aprile 1965 sbarcano a Danang i primi due
battaglioni di marine. Il 17 dello stesso mese, a una manifestazione contro la
guerra organizzata in sordina dagli Students for a Democratic Society, si
presentano a Washington 25mila persone – dando il via ufficiale alla
stagione delle proteste contro la guerra (→ Movement).
«Ricerca e distruzione». Lo staff del generale William C. Westmoreland,
capo delle operazioni militari, elabora una nuova strategia di supporto ai
bombardamenti: «search and destroy» – ricerca e distruzione. Per
contrastare la perdurante difficoltà di tenere sotto controllo le campagne,
pattuglie di marine sono incaricate di radere al suolo i villaggi localizzati
vicino a zone dove sono avvenuti attacchi di cecchini o scontri a fuoco, allo
scopo di eliminare qualsiasi possibile presenza nemica.
L’offensiva del Tet. Nel gennaio 1968, durante la ricorrenza del Tet (il
capodanno locale), le truppe del Nord conducono un attacco coordinato
contro varie postazioni del Sud, cogliendo alla sprovvista i comandi
dell’esercito americano. Grazie alla collaborazione di una popolazione
ormai ostile al governo, i Viet Cong prendono d’assalto le principali città del
Sud, Saigon compresa. I marine rispondono e ricatturano le città senza
risparmiare forze e munizioni: Hue viene ripresa distruggendo oltre la metà
delle sue 17mila abitazioni e lasciando sul terreno fra le 3000 e le 5000
vittime. Nell’ambito della stessa operazione, soldati americani massacrano
la popolazione disarmata del villaggio di My Lay. L’esercito decide di
insabbiare l’accaduto per evitare un pesante imbarazzo – la notizia trapela
solo l’anno successivo. Allo stesso modo, vengono tenuti sotto silenzio gli
episodi di fragging, eliminazione di ufficiali brutali o il cui carrierismo mette
a repentaglio la vita dei soldati – segno di una diffusa insofferenza e
disillusione tra i ranghi più bassi dell’esercito (in cui fra l’altro, la
componente di origine etnica – neri, portoricani, messico-americani – è
molto alta: non si dimentichi che la leva era obbligatoria). Le truppe Usa
raggiungono il massimo livello: 600mila unità. Iniziano operazioni di
bombardamento anche in Laos e Cambogia.
Vietnamizzazione. Richard Nixon vince le presidenziali del 1968 con la
promessa di procedere al ritiro delle truppe: ciò, anziché preludere a una
soluzione del conflitto, costituisce il primo passo di una nuova strategia, la
«vietnamizzazione» – gli americani avrebbero diminuito la presenza
numerica delle truppe, continuando però ad appoggiare le manovre
dell’esercito del Sud. Inoltre, il presidente autorizza l’estensione del
conflitto a Cambogia e Laos, in modo da impegnare i Viet Cong su un nuovo
fronte.
I Pentagon Papers. Il 1971 è un anno cruciale: ad aprile, i Vietnam Veterans
Against the War (→ Veterani) organizzano un’imponente manifestazione a
Washington in cui i reduci, con un gesto altamente simbolico, gettano a
terra medaglie, decorazioni e gradi ricevuti durante il servizio. A giugno, il
New York Times inizia la pubblicazione di un rapporto ottenuto da Daniel
Ellsberg, un collaboratore della Casa Bianca: noto come Pentagon Papers, il
rapporto rivela al pubblico numerosi retroscena di cui era stato tenuto
all’oscuro, tra cui la dinamica reale dell’incidente del Tonchino.
Ritiro. Mentre continuano i bombardamenti, l’esercito del Nord si
produce in un’efficace offensiva al Sud nel marzo 1972. Nixon ritiene che,
per giungere a una pace nei termini più favorevoli e onorevoli per gli Stati
Uniti, Washington abbia bisogno dell’appoggio della Cina, di cui si
sopravvaluta il ruolo di appoggio al Vietnam del Nord. Questa è una delle
motivazioni che porta al viaggio a sorpresa di Nixon a Pechino e al mutuo
riconoscimento tra i due paesi. Il ministro degli Esteri Henry Kissinger avvia
una serie di incontri segreti con l’omologo vietnamita Le Duc Tho per
stendere un accordo di pace. Il documento risultante non trova il sostegno
dell’amministrazione, e solo dopo un lungo tergiversare viene posta la
firma (23 gennaio 1973). Inizia il ritiro delle truppe, che si conclude in
aprile. Il Congresso non autorizza ulteriori finanziamenti al regime del Sud,
condannandolo a soccombere. Nei primi mesi del 1975, l’esercito del Nord
avanza piegando con facilità una debole resistenza: il 30 aprile, la caduta di
Saigon segna la conclusione definitiva del conflitto.
Gli Stati Uniti lasciavano un paese devastato, le cui strutture sociali
tradizionali erano state distrutte e l’attività economica disintegrata, dove
dominavano la corruzione e la prostituzione. Inoltre, il lungo conflitto
aveva alimentato un odio tra le fazioni a cui venne dato libero sfogo dopo
l’aprile 1975: le vecchie ruggini trasformarono il dopoguerra in un periodo
tormentato, contrassegnato da omicidi di massa, incarcerazioni e torture.
La situazione fu particolarmente drammatica in Cambogia, con la presa del
potere dell’ala più intransigente dei Khmer Rossi guidata da Pol Pot.
Riflessi scritti e filmati. Nonostante l’affermazione del critico Fredric
Jameson, secondo cui la guerra del Vietnam «non può essere raccontata
all’interno di uno dei paradigmi tradizionali del romanzo o del film di
guerra», scrittori, sceneggiatori, registi e musicisti si misero subito
all’opera con il conflitto ancora in corso. Uno dei primi film sulla guerra fu
il controverso Berretti verdi (1968), codiretto e interpretato da John Wayne –
il racconto dai toni eroici voleva rispondere al crescente sentimento
antibellico, attribuito a una stampa che criticava l’esercito senza essere a
conoscenza delle condizioni sul campo di battaglia. Il tono della produzione
successiva fu molto diverso, dando spazio al senso di disorientamento di
soldati inesperti e alla difficile lotta per mantenere integra la propria
umanità in un contesto dove regnavano violenza e brutalità. Oltre all’epico
Apocalypse Now (1979), che riscrive la guerra sul solco tracciato da Joseph
Conrad in Cuore di tenebra, e al Cacciatore (1977) di Michael Cimino (→
Veterani), nella migliore cinematografia sul Vietnam vanno inseriti Platoon
(1986), Full Metal Jacket (1987) e Hamburger Hill (1987), pellicole che seguono
da vicino la vita quotidiana delle piccole unità.
In campo letterario, i migliori risultati, in gran parte opera di reduci,
sono usciti negli anni successivi alla conclusione del conflitto. Tra questi
vanno ricordati, If I Die in Combat Zone (1973) e Inseguendo Cacciato (1978) di
Tim O’Brien, Un rumore di guerra (1977) di Philip Caputo, il «giornalistico»
Dispacci (1977) di Michael Herr e il dramma Tracers (1985) di John Di Fusco.
Ampia, infine, anche la produzione musicale – alquanto prolifica durante
la guerra, quando si fece veicolo del movimento di protesta. Oltre al già
citato Country Joe McDonald, un elenco lontano dall’essere esaustivo
include «Waist Deep in the Big Muddy» (1966) di Pete Seeger, la beatlesiana
«Sky Pilot» (1968) di Eric Burdon & the Animals, «The War is Over» (1968) di
Phil Ochs, «Lyndon Johnson Told the Nation» di Tom Paxton, «Singin’ in
Vietnam Talkin’ Blues» (1971) di Johnny Cash, «People Let’s Stop the War»
(1971) dei Grand Funk Railroad. Joan Baez registrò un’intera facciata del
disco Where Are You Now, My Son (1972) a Hanoi, durante un bombardamento
dell’aviazione americana. Finita la guerra, si spense la protesta per lasciare
spazio a toccanti rievocazioni, quali «Goodnight Saigon» (1982) di Billy Joel
e «Born in the Usa» (1984) di Bruce Springsteen. Quest’ultima, che racconta
la storia di un uomo segnato dall’esperienza e dalla difficoltà nel
reinserimento in società, fu fraintesa in maniera clamorosa al momento
dell’uscita: il suo ritornello dall’incedere epico, che nell’intenzione
dell’autore voleva essere un grido di dolore, fu inteso come canto
nazionalista, tanto che lo stesso presidente Reagan lo usò durante la
campagna elettorale del 1984.

BIBLIOGRAFIA
David L. Anderson (ed.), The Columbia Guide to the Vietnam War, Columbia
University Press, New York 2002.
Stefano Ghislotti, Stefano Rosso, Vietnam e ritorno. La guerra sporca nel cinema,
nella narrativa, nel teatro, nella musica e nella cultura bellica degli Stati Uniti,
Marcos y Marcos, Milano 1996.
Stefano Rosso, Musi gialli e berretti verdi. Narrazioni Usa sulla guerra del
Vietnam, Sestante, Bergamo 2003.
Marilyn B. Young, Le guerre del Vietnam: 1945-1990, Mondadori, Milano 2007.
S.M.Z.
[W]

Waco, Columbine e dintorni


Jonestown (1978 → Castro), Ruby Ridge (1992), Waco (1993), Oklahoma City
(1995), Unabomber (1995), The Republic of Texas (1997), Heaven’s Gate
(1997), The Montana Freemen (1996), Columbine (1999), Red Lake Massacre
(2005), Virginia Tech Massacre (2007), Tucson Supermarket Massacre
(2011): sono molte e diverse le stragi consumate su suolo americano che
vedono protagonisti sia l’uso di armi da parte di individui sia l’intervento
delle forze dell’ordine (Fbi; Bureau of Alcohol, Tobacco, and Firearms, o Atf;
U.S. Marshals Service, o Usms). I contesti e i moventi sono quasi altrettanto
vari: dalla teenage (o post-teenage) angst al fanatismo religioso, ufologico e
millenaristico, alle rivendicazioni di tipo anarchico o neonazista. Tuttavia,
l’insieme di questi eventi tragici – assedi, deflagrazioni, suicidi di massa,
sparatorie, attacchi terroristici a luoghi pubblici – è percorso da una
completa sfiducia – nonché ostilità – nei confronti delle istituzioni, un
sospetto irriducibile verso tutto ciò che viene dalla società cosiddetta
«civile», un accanimento razzista contro neri, ebrei e immigrati aizzato da
formazioni di suprematisti bianchi (→ Alien), un desiderio di fuga in un
mondo altro e un ripiegamento autarchico che giustifica ed esalta la
detenzione di armi da fuoco (→ Armi). In una «Gunfighter Nation» (come
l’ha ribattezzata il critico Richard Slotkin), in cui il diritto alla difesa armata
è sancito e tutelato dal Secondo emendamento alla Costituzione e i corpi di
polizia (Fbi) godono di una libertà di manovra così vasta da poter talvolta
sconfinare nell’arbitrio, il riproporsi di episodi di enorme impatto
traumatico come le stragi di Waco e Columbine (per citare soltanto due
delle più note) si aprono, con cadenza regolare, a infiniti dibattiti e costanti
migliorie legislative che cercano di sanare uno iato irriducibile: quello tra
libertà individuale e patto sociale, tra l’«elbow room» di Daniel Boone (→
Olimpo americano) e l’azione delle forze dell’ordine. Vediamone alcuni.
Ruby Ridge 1992. È il luogo nel Nord dell’Idaho teatro di un assedio che
coinvolge Randy Weaver, la sua famiglia, l’amico Kevin Harris, gli agenti
dello Usms (il braccio armato della corte federale americana) e dell’Fbi.
Randy Weaver – ex «berretto verde» (→ Vietnam; → Veterani) – e Vicky
sono battisti devoti dell’Iowa sempre più vicini a religioni alternative.
Spinti dalla convinzione che, con il mondo giunto alla fine, la loro missione
sia di spostarsi in un luogo isolato a ovest, sulle montagne, per sopravvivere
all’apocalisse, negli anni ottanta si trasferiscono in Idaho, nei pressi di Ruby
Ridge. Simpatizzante dell’estrema destra, Randy decide di frequentare
insieme alla moglie i raduni di Aryan Nations, un’organizzazione religiosa
di suprematisti bianchi con sede a Hayden Lake in Idaho (classificata
dall’Fbi come una «minaccia terroristica»), pur senza diventarne membro.
Nel 1989, viene avvicinato da un agente dell’Atf sotto copertura che gli
propone di vendere fucili illegali. Weaver accetta, l’agente lo coglie in
flagrante e gli offre di patteggiare in cambio di un’attività di spionaggio
all’interno di Aryan Nations. Weaver rifiuta ed è incriminato: ma non si
presenta al processo. L’Usms va ad arrestarlo, ma l’uomo non si consegna; i
negoziati non portano da nessuna parte, e il capanno – in cui vivono Randy,
Vicky, i figli Sara (16 anni), Sammy (14 anni), Rachel (10 anni), Elisheba (10
mesi), e Kevin Harris – viene circondato. Le operazioni sono sospese per tre
mesi e riprendono nell’agosto 1992, quando un agente spara a Sammy,
uccidendolo; Harris risponde, freddando l’agente Francis Degan. Il secondo
giorno d’assedio, un tiratore scelto dell’Fbi spara prima a Randy, uscito dal
capanno per recuperare il corpo del figlio morto, ferendolo, e poi a Vicky,
che tiene in braccio Elisheba: la donna muore sul colpo, Harris è ferito, la
neonata resta incolume. Poi, la resa: Weaver è condannato a ventidue mesi
di prigione. Ispirata alla tragedia sarà la miniserie della Cbs Ruby Ridge: An
American Tragedy (1996) – conosciuta anche come The Siege at Ruby Ridge –
diretta da Roger Young e interpretata da Laura Dern, Kirsten Dunst e Randy
Quaid. Per l’«errore» di valutazione dell’Fbi (l’uccisione di una donna
inerme), il suprematista bianco (che, nel processo finale, dichiarerà: «Sono
nato bianco. Non posso farci niente. […] Non penso di essere superiore a
nessuno, ma credo di avere il diritto di stare con la gente come me, se scelgo
di farlo») otterrà 3 milioni di dollari di risarcimento. Mentre la destra
oltranzista delle milizie, spalleggiata dalla Nra (National Rifle Association →
Armi) farà di Weaver un martire, né Fbi né Atf saranno in grado di imparare
granché dall’intera vicenda, a giudicare da quanto succederà in una
tragedia ben più grande l’anno successivo, in Texas [cfr. Jess Walter, Every
Knee Shall Bow: the Truth and Tragedy of Ruby Ridge and the Randy Weaver
Family, Harper Paperbacks, New York 1996].
Waco, 1993. Il 28 febbraio 1993, settantacinque agenti dell’Atf armati fino
ai denti tentano di fare irruzione al Mount Carmel Center, poco fuori Waco
(Texas) per eseguire un mandato di perquisizione e di arresto nei confronti
di alcuni membri della setta religiosa dei Branch Davidians (→ Quakers,
Shakers, Mormons), tra cui il leader-profeta David Koresh. Gli agenti sono
convinti – dopo una serie di investigazioni sul possesso illegale di armi
all’interno della base dei davidiani – che i residenti stiano raccogliendo
munizioni e armi. Il raid però non va a buon fine e ne nasce un vero e
proprio scontro armato di due ore, in cui muoiono quattro agenti e sei
membri della setta. Raggiunto un difficile cessate il fuoco, comincia una fase
di assedio di 51 giorni, con Atf, Texas National Guard e Fbi a cingere il
Mount Carmel Center in una morsa. Koresh rilascia 19 bambini, senza
genitori, i quali vengono poi interrogati circa presunti abusi sessuali che
avrebbero subito per mano sua e, nonostante le accuse non siano suffragate
dalle testimonianze dei minori, l’Fbi ottiene dal presidente Bill Clinton e
dall’Attorney General – il ministro della Giustizia – Janet Reno il permesso
di lanciare lacrimogeni contro l’edificio. Il blocco continua, con Koresh che
cerca di temporeggiare e l’Fbi divisa in due fazioni, una interventista e una
per il negoziato. Dopo aver tagliato acqua e luce all’edificio, a dispetto del
rilascio di 11 persone da parte del sedicente profeta, paventando lo spettro
di un suicidio di massa sul modello di Jonestown (→ Castro) e insistendo
ancora sulla carta dell’abuso su minori, il 19 aprile l’Fbi ottiene
l’autorizzazione a procedere con un assalto a base di gas lacrimogeni. Dopo
circa sei ore, all’interno dell’edificio scoppia una serie di incendi appiccati,
nella versione ufficiale del Fbi, dagli stessi davidiani che, rimanendovi
intrappolati per loro volontà, periscono nel rogo ripreso dalle telecamere di
tutto il mondo. Soltanto 9 degli 83 proseliti sopravvivono alla fiamme; tra i
76 morti ci sono 20 bambini, 2 donne incinte e lo stesso Koresh, nei suoi
biblici trentatré anni. Se questa è la cronaca degli avvenimenti ufficiali,
l’ascendente evocativo e mediatico della vicenda di Waco deve molto a due
elementi: da un lato, il dispiegamento muscolare di una quantità
straordinaria di forze dell’ordine in pieno assetto antisommossa; dall’altro,
lo spettacolo del potenziale distruttivo, o autodistruttivo, di un universo
parallelo alla società civile, quello delle sette religiose. Sull’eccessivo uso di
mezzi militari da parte dell’Atf, non saranno in pochi, a vicenda conclusa, a
sospettare che il primo blitz a Waco – con tanto di telecamere e di
giornalisti sul posto – sia stato studiato a tavolino, per far riacquistare
popolarità all’agenzia federale. La strategia dell’aggressione e
dell’accerchiamento poi scelta dall’Fbi avrebbe, secondo alcuni studiosi del
pensiero millenarista e apocalittico, corroborato il senso di Armageddon già
vivo nel vangelo di Koresh e seguaci. I Branch Davidians 7th Day Adventists
sono infatti una setta protestante nata nel 1955 in seguito a uno scisma dai
Davidians 7th Day Adventists – a loro volta nati negli anni trenta del
Novecento dopo una separazione dalla denominazione religiosa degli
avventisti del Settimo giorno – che crede nel secondo avvento di Gesù Cristo
(→ Quakers, Shakers, Mormons). Se, dando credito alle successive
testimonianze dei sopravvissuti, la custodia e la vendita di armi all’interno
del Mount Carmel Center sarebbero legali (costituendo un’attività
economica documentata di alcuni membri dell’associazione), il fanatismo
visionario dei messaggi di Koresh non tarda ad attrarre l’attenzione del
Waco Tribune Herald, testata locale che pubblica, nel febbraio 1993, pochi
giorni prima del blitz, una serie di articoli intitolati «Sinful Messiah»
(«L’empio Messia»). Dall’inchiesta giornalistica, emerge un Koresh che
abusa, a suo stesso dire, delle bambine presenti a Mount Carmel, avendo poi
sposato diverse minorenni (alcune di 12 e 13 anni). Mai smentite dal diretto
interessato, le accuse di violenza carnale interne al centro-harem di Mount
Carmel accrescono quindi l’urgenza delle indagini federali. A tragedia
consumata, il processo dell’agosto 1993 durerà un anno e condannerà otto
tra i davidiani superstiti per detenzione illegale di armi da fuoco. Ma al di là
dei numerosi ricorsi avanzati dalle famiglie dei fedeli morti nell’incendio, le
ombre sull’azione delle forze dell’ordine coinvolte a Waco saranno molte e
torneranno, più plumbee che mai, da lì a due anni, con l’attentato
terroristico di Oklahoma City. Incalzata dall’emergere di presunti legami tra
quelle due stragi, Janet Reno nominerà, nel 1999, il senatore John C.
Danforth a capo di un consiglio speciale per investigare sull’eventuale
cattiva condotta dell’Fbi a Mount Carmel. Il Danforth Report ricondurrà la
sostanziale colpevolezza per l’intero accaduto al solo David Koresh (e a un
circolo ristretto di davidiani), scagionando così, almeno sulla carta, le
agenzie federali [cfr. Dick J. Reavis, The Ashes of Waco: An Investigation, Simon
& Schuster, New York 1995].
Oklahoma City, 1995. Attacco terroristico su territorio Usa, superato, per
numero di vittime, soltanto dall’attentato dell’11 settembre (→ World
Trade Center), la deflagrazione che distrugge il Murrah Federal Building,
nel centro di Oklahoma City, avviene il 19 aprile 1995 ed è a opera di
Timothy McVeigh, che fa detonare un camion carico di esplosivo
parcheggiato di fronte. I morti sono 168, tra cui 19 bambini sotto i sei anni, e
i feriti superano i 680. McVeigh viene catturato a un’ora e mezzo
dall’esplosione, reo di guidare un’auto senza targa, ma è poi incastrato dalle
perizie forensi come direttamente coinvolto nell’attentato. I legali
associano inoltre a McVeigh Terry Nichols, anch’egli arrestato, e in seguito
Michael e Lori Fortier, in qualità di complici. McVeigh, simpatizzante
dall’American Militia, movimento di estrema destra con orientamento
antigovernativo e influenzato da teorie del complotto (→), ha 27 anni
quando fa saltare in aria il Murrah Federal Building. Si è arruolato a
vent’anni come soldato, partecipando alla Guerra del Golfo; tornato in
patria, viene congedato nel 1992, dopo di che si dà a lavori saltuari,
accumulando frustrazioni su vari fronti (non ultimo con le donne) e
sviluppando un’ossessione per il gioco d’azzardo che gli costa cifre cospicue
e un indebitamento cronico. Il suo odio per il governo cresce di giorno in
giorno, così come la sua passione per le armi da fuoco: dal 1992 al 1995,
visita Gun Shows in tutto il paese, incontrando e stringendo amicizia con i
Fortier e con Terry Nichols, che gli insegna come costruire ordigni esplosivi,
aiutandolo ad assemblare la bomba destinata al Murrah Federal Building.
Non pago di essersi recato a Waco, durante l’assedio, a sostegno della
libertà di portare armi, McVeigh scriverà diversi messaggi minacciosi a
Hourichi, il «cecchino» di Ruby Ridge. E sono l’odio per il governo federale
e il risentimento nei confronti della cattiva condotta di quest’ultimo a Waco
e a Ruby Ridge a spingere McVeigh all’«atto di rappresaglia» contro un
importante simbolo delle istituzioni (l’edificio ospita gli uffici della Social
Security Administration, del Drug Enforcement Administration e dell’Atf).
McVeigh sarà condannato alla pena di morte – eseguita l’11 giugno 2001; a
Nichols, andrà l’ergastolo [cfr. Geraldine Giordano, The Oklahoma City
Bombing, Rosen Publishing Group, New York 2003].
Unabomber, 1996. A un anno dall’attacco al Murrah Federal Building,
viene catturato, al termine di un’operazione investigativa tra le più lunghe
e costose della storia del Fbi, Theodore John «Ted» Kaczynski (1942),
altrimenti noto come Unabomber, reo della spedizione, tra il 1978 e il 1995,
di 16 pacchi-bomba a obiettivi che includono università e compagnie aeree
(da qui, il nome in codice UNiversityAirlinesBomber), con la morte di 3
persone e il ferimento di 23. Il profilo di Kaczynski è quello di un prodigio
della matematica che, nato a Chicago in una famiglia di origini polacche, si
laurea a Harvard a soli 16 anni e diventa ricercatore a Berkeley a 25,
dimettendosi dall’incarico due anni dopo. Nel 1971, si trasferisce in
Montana, in un capanno senza acqua corrente né elettricità, dove decide di
cominciare una campagna di bombardamenti in segno di protesta contro la
distruzione della wilderness (→) di fronte al dilagante sviluppo industriale.
La prima bomba è un ordigno rudimentale recapitato via posta nel 1978, ma
le abilità ingegneristiche di Unabomber si raffineranno col tempo. Il 24
aprile 1995, il New York Times e il Washington Post ricevono una lettera in cui
promette di desistere dagli atti di terrorismo a condizione che questi
giornali pubblichino il suo manifesto, Industrial Society and Its Future, un
dattiloscritto che, secondo una moda terminologica corrente, potremmo
dire di «ecoterrorismo». Qui, Kaczynski analizza come «la Rivoluzione
industriale e le sue conseguenze» siano state «un disastro per l’umanità».
Quando, il 19 settembre dello stesso anno, i due quotidiani pubblicano il
«manifesto» e l’Fbi dirama un comunicato in cui delinea un suo profilo, il
fratello David, invitato dalla moglie a riflettere sulla sospetta familiarità di
quell’identikit, avvia indagini private per seguire Ted, con cui non ha
rapporti da anni. Grazie alla sua collaborazione e a una serie di perizie
grafiche che confrontano alcune lettere di protesta scritte a diverse testate
da Ted nel 1971, il 54enne Unabomber viene individuato nel suo capanno
nei boschi e arrestato il 3 aprile 1996. Sarà condannato all’ergastolo [cfr.
Alston Chase, A Mind for Murder: The Education of the Unabomber and the Origins
of Modern Terrorism, Norton & Co., New York 2004].
Columbine, 1999. Il 20 aprile 1999, Eric Harris (18 anni) e Dylan Klebold
(17), studenti della Columbine High School in Colorado, sono artefici di un
massacro che s’imprimerà per sempre nella psiche americana. Pur non
riuscendo a far saltare in aria la propria scuola come progettato, compiono
una carneficina: uccidono 12 compagni e un insegnante e si tolgono la vita.
L’azione di Harris e Klebold ha almeno due precedenti (la strage della Bath
School, del 1927, dove muoiono 38 bambini delle elementari, due insegnanti
e altri 4 adulti; e la sparatoria alla University of Texas, del 1966, in cui
periscono 16 persone e vengono ferite 32) e almeno due ancor più
drammatici seguiti (il massacro al Red Lake, del 2005; e quello al Virginia
Tech, del 2007). La Columbine High School si trova a Jeffco, in Colorado, un
suburb (→) altoborghese a circa 20 chilometri da Denver a forte impronta
conservatrice e religiosa, in cui le chiese spuntano ovunque e il 40% della
popolazione è di fede cristiana evangelica. Il liceo ha un’ottima fama per la
sua tradizione sportiva. Due target – gli adolescenti evangelici e gli atleti –
contro i quali la coppia di Columbine si accanirà con particolare violenza. Il
20 aprile, i due ragazzi preparano l’esplosione della scuola collocando
bombe fatte in casa nella caffetteria e attendendo la deflagrazione
all’esterno dell’edificio, in due macchine diverse, per essere pronti a
sparare sugli studenti che si riverseranno fuori in preda al panico. Ma le
bombe non scoppiano. Alle 11.30, vestiti con un impermeabile nero, come
nella tradizione dei «Goth» (sottogenere culturale nato dal gothic rock,
sensibile al fascino del dark e fedele a un look tra la famiglia Addams [→] e
Marilyn Manson) e del «Trench Coat Mafia Group» (un gruppo di
adolescenti abbigliati con lunghi cappotti di taglio militare), impugnano
fucili a canna mozza, altre armi semiautomatiche e ordigni assemblati in
casa e cominciano la mattanza, sparando ai compagni nei corridoi. Poi,
entrano nella biblioteca, gridano «in piedi, tutti gli atleti si alzino», e
uccidono, ridendo, dieci studenti, ferendone dodici. Tentano quindi di
nuovo di far detonare le bombe, ma falliscono una seconda volta: a questo
punto, si uccidono con due colpi alla testa. L’assedio di Columbine arriva il
giorno del compleanno di Hitler e il giorno successivo agli anniversari dei
fatti di Waco e di Oklahoma City. Nelle intenzioni di Harris e Klebold, c’è
forse l’aspirazione alienata di compiere qualcosa di ancora più «grande». La
messa in sicurezza dell’edificio richiede quattro ore, le forze dell’ordine che
accorrono sono prese in contropiede di fronte a questa tipologia di attacco,
non sapendo né quanti siano gli esecutori del massacro né se siano ancora
vivi. L’odio di Harris e Klebold si scaglia contro i compagni di classe: atletici
jocks (→ Nerd), ragazze colpevoli di averli rifiutati, studenti accusati di atti
di bullismo e di insulti ai loro danni. Ma chi sono i massacratori di
Columbine? Harris, artefice del piano (come ha lasciato scritto nel diario), è
figlio di un pilota dell’Air Force in pensione e più volte gli sono stati
diagnosticati, alternativamente, una depressione bipolare e un disordine
comportamentale ossessivo compulsivo (al momento dell’attacco, è sotto
l’effetto del Luvox, un antidepressivo che può causare forti reazioni
paranoiche: per questo motivo, cinque giorni prima gli è stato negato
l’ingresso nel corpo dei marine); s’identifica con il Trench Coat Mafia
Group, trascorre molto tempo a giocare a un videogame dall’iconografia
satanica e dal nome sinistro, Doom, e odia i suoi coetanei per le presunte
prevaricazioni ricevute da atleti muscolosi e consorterie cristiane. Klebold è
alto e sgraziato, socialmente impacciato, affetto da psicosi maniaco-
depressiva e oggetto del bullismo dei compagni; proviene da un contesto
cristiano-ebraico e la sua reazione al retaggio familiare prende le forme
dell’antisemitismo e del culto per Hitler. Tutti e due sono già noti alla
polizia di Jeffco per diversi incidenti, ma, a dispetto di un potenziale
mandato di perquisizione a casa di Harris, nessuna azione viene intrapresa
nei loro confronti. All’indomani del massacro, le scuole introdurranno
nuove misure di sicurezza: scanner per gli zaini, metal detector, guardie,
politiche antibullismo e tolleranza zero per la detenzione di armi e i
comportamenti minacciosi. Inevitabile sarà anche la controversia sulla
facilità con cui si possono acquistare armi ai Gun Shows. Alla strage di
Columbine saranno dedicati il documentario di Michael Moore Bowling a
Columbine (2002) e il film di Gus Van Sant Elephant (2003), liberamente
ispirato ai fatti e tornato alla ribalta delle cronache nel 2005, con il
massacro del Red Lake (Minnesota). Protagonista di quest’ultimo, il
sedicenne Jeff Weise uccide il nonno e la di lui compagna e si reca al campus
della Red Lake Senior High School, freddando 7 persone e togliendosi la vita:
anche lui un «Goth», anche lui in trench nero, anche lui vittima di bullismo
e ammiratore di Hitler. Per quanto agghiaccianti ed efferati, i fatti di
Columbine saranno sopravanzati, per numero di vittime, dalla strage al
Virginia Tech: il 16 aprile 2007, nel campus dell’università, il ventitreenne
di origini coreane Seung-Hui Cho uccide 32 persone e ne ferisce 17, prima di
suicidarsi. Quanto a Columbine, Time Magazine pubblica quasi subito la
trascrizione di parte dei dialoghi contenuti nei basement tapes, i video girati
dai due killer nei giorni precedenti all’assalto; eccone uno dei passi:
«Abbiamo bisogno di una fottuta messa in moto. Se abbiamo una fottuta
guerra religiosa – o per il petrolio – o qualsiasi cosa. Abbiamo bisogno di
una reazione a catena qui. Sarà come il fottuto Giudizio finale, bello – dopo
che le bombe saranno esplose. Tick tick tick tick… Ah! Quel fottuto fucile
[lo bacia] che viene dritto dritto dal Giudizio finale; andate avanti e
cambiate le leggi sulle armi – come credete che ci siamo procurati le
nostre?» [cfr. David Cullen, Columbine, Twelve, New York 2009].
«Muoiano Sansone e tutti i filistei»!

BIBLIOGRAFIA
Ballard C. Campbell, Disasters, Accidents, and Crises in American History, Facts
on File, New York 2008.
Joseph T. McGann, Terrorism on American Soil: A Concise History, Sentient
Publications, Boulder 2006.
C. SCAR.

Wall Street
Durante la crisi finanziaria del 2008, i media americani (e non solo) hanno
contrapposto i «mondi» antitetici di Main Street (→) e Wall Street. Se la
prima veniva evocata come incarnazione delle virtù dell’America profonda,
del lavoro produttivo, dei costumi morigerati, della semplicità delle
ambizioni, la seconda, invece, oltre a indicare la borsa di New York e il
settore finanziario statunitense in generale, richiamava maneggi oscuri,
manipolazioni economiche, ostentazione del lusso, stipendi e bonus ingenti,
nonché corruzione e mancanza di scrupoli. Il monologo di Gordon Gekko, lo
speculatore protagonista del film Wall Street (1987), diretto da Oliver Stone,
è stato più volte ricordato come summa dell’atteggiamento spregiudicato e
cinico dell’operatore finanziario: «L’avidità è giusta. L’avidità in tutte le sue
forme: l’avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha impostato lo
slancio in avanti di tutta l’umanità. E l’avidità, ascoltatemi bene, […]
salverà […] anche l’altra disfunzionale società che ha nome America».
Wall Street, però, è abituata al biasimo e in fondo l’atteggiamento
denigratorio nei suoi confronti non fa altro che ribadire la centralità del
settore finanziario per l’economia degli Stati Uniti e di New York in
particolare: basti pensare che, pur impiegando il 9% della forza lavoro della
città, la finanza genera oltre il 30% del suo reddito, e che, nel momento in
cui, durante la crisi di fine anni ottanta del Novecento, la borsa aveva
contemplato la possibilità di trasferirsi nel vicino New Jersey per
risparmiare sugli affitti degli uffici, la municipalità è intervenuta offrendo
altissimi sconti fiscali per scongiurare un trasloco che avrebbe comportato
un danno economico enorme.
Sin dall’epoca olandese, quando si chiamava ancora de Waal Straat e la
fortificazione che delimitava il confine di Nieuw Amsterdam (cui si deve il
nome wall = muro) era ancora in piedi, questa strada ha sviluppato una
vocazione commerciale: qui avevano sede infatti i mercati della città,
compreso quello riservato alla compravendita degli schiavi. La
denominazione rimase anche quando, nel 1699, sotto il dominio inglese (il
passaggio di mano della città era avvenuto nel 1664), l’abitato si estese oltre
l’antico confine e la palizzata fu rimossa. A questo periodo risale anche il
soggiorno, in una delle case che affacciavano sulla strada, del pirata William
Kidd, che secondo alcune leggende avrebbe sotterrato un favoloso tesoro da
queste parti (sarà forse per trovarne qualche traccia che, nonostante la
penuria di edifici di pregio artistico, i turisti in visita alla Big Apple [→] non
mancano di fare tappa a Wall Street?).
La nascita ufficiale della borsa, oggi nota con l’acronimo Nyse (New York
Stock Exchange) risale a un secolo più tardi. La speculazione avviata dai
maneggi di William Duer e Alexander Macomb aveva fatto precipitare il
valore dei titoli, costringendo il ministro del Tesoro Alexander Hamilton a
intervenire sul mercato per ristabilire l’equilibrio e prevenire una crisi
economica. Il 17 maggio del 1792, 24 operatori si riunirono all’ombra di un
platano (buttonwood) davanti al numero 68 di Wall Street e siglarono il
Buttonwood Agreement, un accordo con il quale nasceva lo Stock Exchange
e al contempo veniva definito un regolamento comune, a cui tutti si
impegnavano a sottostare per evitare future manipolazioni illecite del
sistema. I membri del Nyse si riunivano tre volte la settimana, in due
sessioni giornaliere, all’una del pomeriggio e alle sette di sera; con l’arrivo
dell’autunno, le sedute furono spostate in una sala privata della Tontine
Coffee House (altro nome evocativo: la «tontina» era una forma
d’investimento ideata nel 1653 dal finanziere italiano, attivo in Francia,
Lorenzo de Tonti, padre dell’esploratore Henri de Tonti, compagno di viaggi
americani di Robert de La Salle → Louisiana Purchase), all’angolo con
Water Street, che rimase la sede deputata alle contrattazioni fino al 1827,
quando William Backhouse Astor e Stephen Whitney raccolsero i fondi per
la costruzione del primo edificio dedicato soltanto alle operazioni di borsa.
Il trasloco era reso necessario per la crescita dell’attività finanziaria
verificatasi in seguito all’afflusso di capitali attirati dalla costruzione e
dall’apertura dell’Erie Canal (→ Vie d’acqua) negli anni venti
dell’Ottocento: da allora, Wall Street diventò la principale piazza finanziaria
degli Stati Uniti.
La confusione quotidiana spinse i residenti rimasti nel quartiere a
trasferirsi verso zone più tranquille della città, e andò consolidandosi il
peculiare ciclo vitale dell’area, in cui si alternavano l’attività frenetica della
giornata lavorativa e il deserto e il silenzio delle notti e dei fine settimana.
Come nota il narratore di Bartleby lo scrivano, il racconto pubblicato da
Herman Melville nel 1856, «alla domenica Wall Street è deserta come Petra;
la notte, alla fine di ogni giornata, è il vuoto. Questo edificio, che nei giorni
feriali brulica di operosità e di vita, di notte rimanda l’eco del nulla, e
durante tutta la domenica è abbandonato». Ancora oggi, il quartiere è uno
dei meno abitati di New York.
L’espansione della piazza finanziaria conobbe un’ulteriore accelerazione
durante la Gilded Age (→), periodo in cui le iniziative dei robber barons (→)
e degli altri grandi capitalisti inserirono di prepotenza gli Stati Uniti nel
circuito economico globale, nel quale Wall Street assumeva sempre
maggiore peso: a quei tempi, gli addetti ai lavori individuavano nell’edificio
al numero 23, dove si trovava la sede della banca J.P. Morgan, il centro
finanziario del mondo intero.
La tragica conferma del ruolo preminente di Wall Street nell’economia
mondiale si ebbe nel 1929, con il crollo della borsa dopo un decennio di
crescita spettacolare dei valori azionari sotto la spinta della speculazione –
a cui contribuì l’illusione diffusa che operare con le azioni fosse il metodo
più veloce e sicuro per ottenere colossali guadagni. Il 24 ottobre (il «giovedì
nero»), i titoli precipitarono, dando inizio a un panico finanziario le cui
ripercussioni si sarebbero fatte sentire in tutto il mondo occidentale per
l’intero decennio successivo (→ Grande depressione).
Diventata marginale nell’immediato secondo dopoguerra in
conseguenza delle rigide restrizioni imposte dal governo centrale sulle
transazioni, Wall Street ritornò in auge con la crisi economica d’inizio anni
settanta, che segnò l’eclissi del settore manifatturiero e una contemporanea
rinascita dell’industria dei servizi. Grazie a un nuovo ciclo di riforme tese a
liberalizzare le contrattazioni, gli anni ottanta produssero un nuovo boom e
una rinnovata fiducia nella borsa come strada verso il successo economico,
come mostrava la produzione cinematografica mainstream di quegli anni, da
Una poltrona per due (1983, diretto da John Landis e interpretato dalla coppia
Dan Aykroyd-Eddie Murphy) a Una donna in carriera (1988, con Melanie
Griffith e Harrison Ford) e Il segreto del mio successo (1987, con Michael J.
Fox). In questi film, personaggi dotati allo stesso tempo di acume
intellettuale e integrità morale – versione aggiornata degli eroi di Horatio
Alger (→ Rags to riches) – si inseriscono nel gioco borsistico da outsiders e
sconfiggono antagonisti senza scrupoli sul loro stesso terreno. A tanto
ottimismo farà tuttavia seguito un’altra doccia fredda, il crash finanziario
dell’ottobre 1987: se da un lato la crisi non ebbe ripercussioni paragonabili a
quelle di quarant’anni prima, dall’altro segnalò l’intrinseca fragilità di un
sistema dove la ricerca dei profitti aveva portato alla creazione di valore
monetario attraverso complicate operazioni su cambi, interessi sui prestiti,
compravendita di titoli – una ricchezza slegata dalla produzione di beni
concreti e quindi volatile per definizione.
Del resto, come scrive il romanziere Stephen Frey in uno dei suoi thriller
finanziari, La scalata (1995), Wall Street è «il casinò più prolifico del mondo».
La conferma di un’affinità storica tra finanza americana e azzardo la si
scopre in una singolare coincidenza: accanto al Tontine Coffee House,
quando ancora vi si tenevano le contrattazioni, operava una fiorente casa
da gioco. E forse è proprio il fatto di occupare una linea d’ombra a cavallo
tra legalità e truffa che suggestiona i turisti e li spinge, come in una sorta di
pellegrinaggio, a vedere com’è fatta Wall Street. E, dopo un’occhiata
distratta alla forma allungata di Trinity Churh e al porticato
classicheggiante di Federal Hall (sul sito della struttura dove, nel 1781,
George Washington pronunciò il giuramento come primo presidente degli
Stati Uniti), ad accodarsi allo Scoundrel Wall Street Walking Tour,
un’escursione guidata che ricostruisce l’ascesa e il declino dei grandi
speculatori dei giorni nostri: da Kenneth Lay, artefice del crack Enron nel
2001, a Bernard Lawrence Madoff, ideatore di un imbroglio finanziario
durato oltre un decennio e scoperto solo nel 2009. Il pirata Kidd sarebbe
orgoglioso dei suoi epigoni.

BIBLIOGRAFIA
Edwin G. Burrows, Mike Wallace, Gotham: a History of New York City to 1898.
Oxford University Press, New York 1999.
Eric Homberger, New York City, Bruno Mondadori, Milano 2003.
S.M.Z.

Wanted!-I
Il manifesto è familiare: il disegno di un volto (solo più tardi una foto), in
alto la scritta «Wanted!», in basso la scritta «Reward», seguita dalla relativa
monetizzazione e da una sintetica descrizione fisica del personaggio. Il
fuorilegge era creato. Ma, per l’appunto, chi era davvero?
Arduo distinguere, nella storia della conquista del West e del suo
consolidamento come parte integrante degli Stati Uniti e del suo
immaginario, il vero dal falso, e ricondurre l’operato di gruppi e individui
alle ragion d’essere profonde, materiali. A complicare le cose, il cinema
western ci ha messo del suo, con la mitizzazione e romanticizzazione di
tutto ciò che concerne il West (anche se, negli ultimi tre decenni, sia
Hollywood sia il cinema indipendente hanno abbondantemente «rivisto» il
canone tradizionale). Non mancano però gli studi di storia culturale degli
Stati Uniti che analizzano la dimensione violenta della «conquista», in
contrapposizione a una lettura rassicurante, retorica e democratica, figlia –
per lo più – della tesi sulla Frontiera (→) elaborata da Frederick J. Turner a
fine Ottocento. Possiamo limitarci a ricordarne due: The Six-Gun Mistique di
John Cawelti (1984) e Gunfighter Nation di Richard Slotkin (1998).
In questo quadro complesso rientra l’ampia, corposa galleria di outlaws –
banditi, fuorilegge, pistoleri, desperados, e chi più ne ha più ne metta. Chi
furono davvero? Che cosa significarono? Perché restano così radicati
nell’immaginario? E con che ruolo? Perché il «cattivo» è personaggio tanto
ricorrente nella cultura americana da influenzare anche altre culture (si
pensi a Sergio Leone e alla sua lettura del West: «Il buono, il brutto, il
cattivo»)? E dov’è comunque la linea che divide il «cattivo» dal «buono»?
Tempi duri, brutti, polverosi e sanguinari, quei decenni a cavallo di metà
Ottocento, e tali almeno fino alla fine del secolo. Tempi di sommovimenti
enormi (→ Guerre indiane; → Guerra civile), di strappi e lacerazioni (non si
contano i conflitti locali, legati a situazioni specifiche dei «Territori» non
ancora entrati a far parte dell’Unione), di illusioni e delusioni («Di Dio ci
siam fidati, nel Kansas siam scoppiati» recitava un famoso cartello visto da
un viaggiatore europeo su un carro di coloni che tornavano sconfitti da
quell’Ovest cui avevano guardato come miraggio potentissimo), di
improvvise fortune (→ Oro!) e altrettanto improvvisi fallimenti, di mobilità
geografica e sociale… «Go West, young man!» raccomandava il giornalista e
editore Horace Greeley, nel 1865: perché là si poteva «crescere con il
paese». La tentazione era forte, e non si aspettò certo Greeley per tradurla
in parole e in fatti.
Poi, una volta là, ci si doveva anche arrangiare. Ce l’hanno narrato in
molti: senza scomodare l’onnipresente Mark Twain, ecco Francis Bret Harte
con i suoi racconti di minatori, cercatori d’oro, ubriaconi, prostitute,
banditi (The Luck of Roaring Camp, 1870) o Stephen Crane, con il racconto
umoristico e quasi «cinematografico» The Bride Comes to Yellow Sky (1898). E
ce l’hanno narrato i molti autori di un West già oleografico, e manicheo
nella sua retorica (qui i buoni, là i cattivi): Owen Wister, Zane Grey, Clarence
Mulford, e via di seguito (senza contare le «autobiografie», più o meno
apocrife, di «buoni» e «cattivi»).
Dunque, chi era il fuorilegge? Spesso, nella società fluida della Frontiera,
dove il confine fra legalità e illegalità risultava labile, era un ladro di cavalli
o di vacche: e incorrere in questo reato nelle terre occidentali poteva
significare la morte per impiccagione o una svolta definitiva nella propria
vita. A volte, era un giovane impulsivo motivato dal desiderio di vendicare
un torto subito, o un soldato smobilitato e privo di prospettive (oppure,
negli anni intorno alla Guerra civile, un «guerrigliero», membro di gruppi
militari non istituzionali). O un baro di professione, incappato in qualche
incerto del mestiere. O un individuo senza arte né parte assoldato da un
proprietario di mandrie o di terre (o, all’opposto, un individuo che
conduceva una propria «piccola guerra privata» contro questo o quello). O
un rapinatore di diligenze per necessità… La tipologia poteva essere
davvero la più ampia.
Certo è che, se esisteva un «Olimpo americano» (→) di eroi quasi mitici,
quintessenza di virtù nazionali (non sempre linde, ma poco importava), ne
esisteva uno anche di «cattivi» (non sempre del tutto tali). Grazie a
Hollywood, almeno in parte i loro nomi sono noti, e vale comunque la pena
ricordarli – anche per comprendere meglio quanto sia stata complicata la
storia dell’Old West. E, come si vedrà, non solo quella.
A malincuore sarà necessario rinunciare a soffermarsi su personaggi
(peraltro molto significativi) come Black Bart il poeta bandito (1829-dopo il
1888), l’amletico Johnny «Ringo» Ringgold (1850-1882), Sam Bass (1851-
1878), Pearl Hart (1871?-dopo il 1928) la protagonista dell’ultimo assalto alla
diligenza, o la leggendaria e misteriosa Annie Christmas (quasi 115 chili di
peso e poco meno di due metri d’altezza), che a metà Ottocento movimentò
la vita fra Natchez e New Orleans alla guida di un «battello-bordello» – e
tanti altri, presi dentro la rete a maglie strette di quei decenni drammatici
pre- e post-Guerra civile; e cominciare con una figura alquanto particolare:
quella di Joaquín Murieta (1829?-1853?). Con lui, siamo in anni e in territori
lontani – la California della prima «corsa all’oro» (→ Oro!) – e ciò
contribuisce all’aura vaga che avvolge il personaggio. Di lui ben poco si sa,
ma entrò da allora a far parte del bagaglio culturale delle popolazioni
messico-americane (→ Chicanos): il Robin Hood dell’Eldorado, protagonista
di numerose ballate e corridos: «Capisco l’inglese ma non sono americano, /
al diritto e al rovescio / da mio fratello l’ho imparato / e ai miei piedi faccio
tremare ogni americano. […] Vengo da Hermosillo in cerca d’oro e di
ricchezza / gli Indios buoni e semplici / ho difeso con fierezza. / Una grossa
taglia gli sceriffi sulla mia testa posero!…». Forse messicano o forse cileno,
forse di origini cherokee per parte di madre, Joaquín emigrò in cerca di
lavoro nella contea californiana di Calaveras, dove si ritrovò presto in prima
linea nella cosiddetta «Guerra cilena»: nel dicembre 1849, la contea
promulgò un codice locale che imponeva a tutti i minatori stranieri (in gran
parte di origine cilena o messicana) di lasciare la regione entro due
settimane; ci furono disordini e persecuzioni, autentici pogrom; Murieta fu
aggredito con violenza, la moglie Carmelita violentata, il fratello ucciso.
Così, «per tutti i saloon sono andato a castigar gli americani», in combutta
con quelli che passarono alla storia come i «cinque Joaquín» – una banda di
amici e parenti con lo stesso nome che si mosse su e giù per la California,
rubando e vendicandosi e infine scontrandosi con i neocostituiti California
Rangers. Finché, nei pressi di Monterey, la banda fu sbaragliata e due dei
membri furono uccisi: a entrambi fu mozzata la testa, i macabri trofei
conservati in vasi pieni d’alcol come prova del fatto compiuto e i vasi
custoditi a San Francisco – fino al 1906, quando il grande terremoto che
devastò la città s’incaricò di cancellare l’obbrobrio. Ma la certezza della
morte di Murieta non si ebbe mai: e questo (insieme alle gesta del nipote
Procopio, famoso desperado degli anni sessanta e settanta) alimentò
ulteriormente la leggenda. Che forse fu anche alla base del personaggio di
Zorro, e di certo ispirò, oltre alle ballate e ai corridos, numerosi altri prodotti
culturali – poesie, romanzi (The Life and Adventures of Joaquín Murieta, dello
scrittore cherokee John Rollin Ridge, del 1854), testi teatrali (anche di Pablo
Neruda), canzoni, film (Il Robin Hood dell’Eldorado, di William Wellman, del
1936; ma in fondo l’atmosfera, se non la trama, dei Magnifici sette, il film del
1960 di John Sturges, riecheggia quella vicenda).
L’anno della morte ipotetica di Murieta è anche l’anno di nascita di John
Wesley Hardin (1853-1895), che visse più a lungo e uccise di più (forse 42
persone). Figlio di un pastore metodista, fu presto un «ribelle senza causa»:
sbandato, violento, passionale, girovagò per il Texas, dove, appena
quindicenne, uccise il suo primo uomo. Di nuovo in fuga, riparò
nell’infuocata Abilene (→ Tombstone, Abilene, Dodge City), dove fu
protagonista di altri fatti di sangue e sfuggì per un soffio all’arresto (o alla
morte) per mano di Wild Bill Hickock (che diventò anche suo amico →
Olimpo americano). Quindi, mise insieme una banda con alcuni cugini: risse,
duelli e faide, uccise uno sceriffo e poi un altro. Aveva un modo particolare
di sparare con le sei-colpi: incrociando le braccia ed estraendo le pistole
dalle fondine cucite oblique nel panciotto. Fu vaquero nel Kansas,
accompagnò le mandrie lungo le piste di transumanza (→ Cowboy), ebbe
scontri a fuoco con messicani e indiani. Braccato dai Texas Rangers, fu
arrestato mentre fuggiva in treno verso la Florida. Si fece diciassette anni di
prigione e, quando uscì, lavorò come aiutosceriffo a El Paso, in Texas. Qui
venne ammazzato: da un ex poliziotto, diventato fuorilegge e rientrato nei
ranghi. La leggenda nacque subito: romanzi, racconti, testimonianze più o
meno false, e poi il cinema e la televisione. E la musica: Johnny Cash, prima,
con «Hardin Wouldn’t Run» (1965) e, due anni dopo, Bob Dylan con l’album
intitolato John Wesley Harding (con la «g» in più), significativa e dylanesca
rivisitazione di momenti e personaggi della storia americana.
Difficile dire quanto tutti questi personaggi si conoscessero davvero,
avessero rapporti gli uni con gli altri. Di certo li ebbe Belle Starr (1848-
1889), nata Myra Maybelle Shirley Reed, in una famiglia benestante del
Missouri, pianista e diplomata in un istituto privato per donne: fra i suoi
amici, Jesse James e i fratelli Younger. Negli anni intorno alla Guerra civile,
Belle ebbe vita avventurosa: simpatie sudiste, istanze d’autonomia politica e
storie di frontiera, fra Arkansas, California, Oklahoma e Texas. Tiratrice
scelta, cavalcava all’amazzone con due cartuccere incrociate sui fianchi,
indossava un abito nero di velluto e portava un cappello piumato. Dopo la
morte (violenta) del primo marito, sposò (per qualche mese) uno degli
Younger e in seguito un indiano cherokee, Sam Starr, con il cui cognome
diventò celebre. La «Bandit Queen» fu ladra di cavalli, abile ricettatrice e
organizzatrice di rifugi per i fuorilegge, per i quali raccoglieva anche
cauzioni; nel 1883, fu condannata a nove mesi di carcere, che scontò nelle
prigioni di Detroit; tre anni dopo, rischiò di nuovo l’arresto e, poco dopo, il
marito morì in uno scontro a fuoco. Anche la morte di Belle, in Oklahoma,
resta avvolta nel mistero: un agguato mentre tornava a casa a cavallo,
pallottole di fucile alla schiena, un colpo di grazia alla testa, ignoto
l’assassino. La figlia Pearl divenne col tempo una celebre madame
dell’Arkansas, il figlio Eddie fu prima ladro di cavalli, poi agente di polizia.
Anche qui, romanzi, racconti, e film: La ribelle del Sud con Gene Tierney, del
1941; La regina dei desperados, con Jane Russel, del 1952; e, più di recente, nel
1980, I cavalieri dalle lunghe ombre di Walter Hill, che narra le avventure di
Jesse James e dei fratelli Younger (ancora Bob Dylan ebbe a dire la sua,
citando Belle Starr in «Tombstone Blues», nell’album Highway 61 Revisited,
del 1965).
È dunque tempo di parlare di Jesse James (1847-1882). E qui la storia si fa
davvero complessa, come si diceva agli inizi. Ancor oggi, Jesse James è un
mito: canzoni, film, romanzi lo hanno celebrato e continuano a celebrarlo
come un Robin Hood del West, che rubava ai ricchi per dare ai poveri – una
celebrità che precedette di molto la sua morte. La più nota ballata su di lui
(«Jesse James was a lad that killed many a man, / He robbed the Glendale
train, / He stole from the rich and he gave to the poor, / He’d a hand and a
heart and a brain…») è stata ripresa da artisti come Woody Guthrie e Pete
Seeger, Van Morrison e Bruce Springsteen, e ha contribuito alla creazione
del mito. Ancor più delle altre, la sua figura va però collocata e compresa nel
contesto di quegli anni convulsi ed equivoci, specie in luoghi «di confine»
come Missouri e Kansas, che subivano le tensioni e lacerazioni legate alla
questione della schiavitù. Figli di un predicatore battista, famiglia
benestante e proprietaria di schiavi, Jesse e Frank James, si danno presto a
quelle forme di autentica guerriglia che caratterizzarono l’epoca: contro gli
abolizionisti prima (sotto la guida del famigerato William Quantrill), a
fianco dell’esercito sudista poi e infine, nel periodo della Ricostruzione,
contro i simboli del nuovo potere uscito dalla guerra. Jesse ci appare
dunque come un convinto sudista, con forti venature razziste (negli anni
settanta, quando il Kkk [→] verrà messo fuori legge, la sua banda utilizzerà
a più riprese i cappucci bianchi, quasi come segno distintivo). Seguire le
imprese di Jesse e Frank – che si unirono ai fratelli Younger, formando la
banda James-Younger – è difficile, anche per l’ampiezza del loro raggio
d’azione (dal Texas al Minnesota, dall’Iowa al West Virginia!) e per
l’intreccio di motivi che vi stava dietro. Assalti al treno, rapine in banca,
ritorsioni, vendette, inseguimenti e imboscate: il tutto, non senza un’aperta
simpatia da parte dei politicanti del Sud riemersi dalla marginalità post-
Guerra civile e un’altrettanto aperta ostilità da parte di Allan Pinkerton (→)
e della sua agenzia investigativa (non a caso di stretta osservanza nordista e
strumento preferito degli industriali). Dopo la morte o l’arresto dei fratelli
Younger, cominciò il declino della banda James. Nel 1881, si unirono altri
due fratelli, Charles e Robert Ford, e fu Robert – che, a quanto pare, aveva
intavolato trattative segrete con il governatore del Missouri per ottenere la
taglia messa sulla testa di Jesse – a ucciderlo a tradimento sparandogli alle
spalle, nella casa dove vivevano tutti insieme: «Well, it was Robert Ford,
that dirty little coward, / I wonder how he feels, / For he ate of Jesse’s
bread and he slept in Jesse’s bed, /And he laid poor Jesse in his grave». Il
resto – si sa – è leggenda.
Ancor più complessa è la figura di William H. McCarthy (1859?-1881),
noto anche come Henry Antrim e William H. Bonney: il celeberrimo «Billy
the Kid», immortalato in decine di canzoni, articoli, libri e film, ma quasi
sconosciuto fino a pochi mesi prima della sua morte – il che rese ancor più
rapida la sua trasfigurazione leggendaria. Di origine irlandese, forse nato
nel Lower East Side (→) di New York da padre ignoto e madre malata di Tbc,
Billy si ritrovò orfano a quattordici anni e iniziò una vita vagabonda e
irregolare: piccoli furti, arresti, fughe precipitose. Fu cowboy in Arizona e
infine ladro di cavalli. Nel 1877, in Arizona, Billy (detto «Il ragazzino» per il
suo aspetto esile), uccide il suo primo uomo, secondo alcuni per autodifesa,
secondo altri in modo del tutto gratuito. Fugge nel New Mexico e qui si
aggrega prima a un gruppo di ladri di bestiame e poi a una banda detta «The
Regulators», coinvolta in una lunga e sanguinosa faida fra due gruppi
contrapposti di mercanti, politici e uomini di affari – la cosiddetta «Guerra
della Contea di Lincoln», che vide all’opera personaggi famosi del West,
come il magnate del bestiame John Chisum e il cacciatore, barista e poi
sceriffo Pat Garrett. Quest’ultimo, personaggio altrettanto complesso, si
mette subito sulle tracce di Billy, con cui intrattiene un rapporto di
amore/odio, ampiamente romanticizzato. Il resto è una specie di fuga
ininterrotta, amplificata dai giornali (dell’Ovest come dell’Est) e dallo stesso
governatore del New Mexico, Lew Wallace (autore del polpettone storico e
bestseller Ben Hur, 1880) che mette una grossa taglia sul capo di Billy. È a
questo punto che nasce la leggenda. Arrestato, Billy viene condotto prima a
Las Vegas e poi a Santa Fe, dove viene processato e condannato
all’impiccagione: ma a Lincoln, mentre si appresta la forca, riesce a fuggire
uccidendo due guardie. Tre mesi dopo, nel luglio 1881, Garrett e Billy
s’incrociano di nuovo, quasi per caso. Le versioni relative alla dinamica dei
fatti sono molte e discordanti: certo è che Garrett uccide «il ragazzino» –
che viene sepolto a Fort Sumner, insieme a due suoi compagni di avventura:
la lapide reca, sopra ai tre nomi, la parola «Pals» («Amici»). Allegro,
spensierato, amante della danza, amico leale dei poveri messico-americani e
nemico giurato dei grandi proprietari di mandrie, costretto a uccidere più
che assetato di sangue: queste le testimonianze su di lui. Sta di fatto che, da
quel luglio 1881, le biografie, i romanzi, le poesie, le ballate e in seguito i
film su di lui si sono moltiplicati: dalle canzoni (la tradizionale «Billy the
Kid», l’omonima di Woody Guthrie, le altre di Ry Cooder, Bon Jovi, Billy
Joel) ai libri di Michael Ondaatje e Larry McMurtry, a un elenco
impressionante di film, fra i quali spiccano Furia selvaggia di Arthur Penn
(del 1959) e Pat Garrett e Billy the Kid di Sam Peckinpah (del 1973, con la
celebre colonna sonora di Bob Dylan).
Leggendaria divenne anche la vicenda di Robert LeRoy Parker (1866-
1908) e di Harry Alonzo Longabaugh (1867-1908), che al lettore dicono
molto di più come «Butch Cassidy» e «Sundance Kid», il primo nato in Utah,
il secondo in Pennsylvania – ovest ed est che convergono a creare la
famigerata «Wild Bunch Gang», la «Banda del Mucchio Selvaggio», con base
e rifugio – comune ad altri outlaws dell’epoca – nel famoso «Hole-in-the-
Wall», una serie di capanne di tronchi in una gola quasi inaccessibile nel
Nord Wyoming. Gli «inizi», per entrambi, furono simili a quelli di molti
fuorilegge: piccoli furti, arresti e qualche mese in prigione, lavoro come
cowboy, coinvolgimento in faide locali – per qualche tempo, Parker fece il
macellaio (= butcher) e a un certo punto fu anche proprietario di un piccolo
ranch nel Wyoming (senza fortuna), mentre Longabaugh fu uno dei giovani
che «andarono all’Ovest» (mentre lavorava in un ranch di Sundance, nel
Wyoming, rubò un fucile, un cavallo e una sella – il che, oltre a dargli il
soprannome, lo spinse sulla strada di Parker). Il «Mucchio Selvaggio»
nacque intorno al 1896, quando ormai l’«avventura» della frontiera si era
conclusa: ma il West restava un luogo lontano, fuori mano e in parte
selvaggio – e pieno d’oro, di banche in paesini isolati, di treni che
attraversavano lande solitarie. Fra Utah e New Mexico, Texas e Wyoming,
Nevada e Arizona, si svilupparono così le attività della banda, inseguita da
agenti Pinkerton famosi come Tom Horn e Charles Siringo e allietata dalla
presenza delle fidanzate di Butch e Sundance, Ann Bassett ed Etta Place
(altri personaggi misteriosi e leggendari, i cui percorsi sarebbero pure
interessanti, ma ci porterebbero davvero troppo lontano). A un certo punto,
dopo vari assalti e scontri a fuoco (e un tentativo fallito di ottenere
un’amnistia), Butch e Sundance, autori della più lunga serie di rapine
andate a segno nella storia dell’epoca, s’imbarcarono a New York, insieme a
Etta, per l’America del Sud. Qui, dopo numerosi viaggi e andirivieni, altri
colpi a banche e convogli, la loro vicenda ebbe fine, sia pure in maniera
ancora non del tutto chiarita. Quel che si sa è che, nella notte del 6
novembre 1908, due fuorilegge americani furono circondati da polizia e
soldati, in una locanda a San Vincente, in Bolivia, dopo la rapina delle paghe
di una compagnia mineraria – ci fu un lungo scontro a fuoco, due colpi di
pistola a una certa distanza l’uno dall’altro, forse un caritatevole colpo di
grazia seguito da un suicidio. I corpi erano martoriati, ma non si seppe mai
con certezza se fossero davvero quelli di Butch e Sundance: il che diede
l’avvio a un’altra serie di speculazioni e leggende, romanzi e film,
culminanti, nel 1969, nel film di George Roy Hill Butch Cassidy – una delle
rilettura del West proprie di quegli anni (Redford, allora poco conosciuto,
darà il nome di Sundance al festival di cinema indipendente da lui creato
qualche anno dopo).
Con Butch Cassidy e Sundance Kid siamo arrivati, in maniera rapida e
sintetica, agli inizi del Novecento. Altri «fuorilegge» ora ci attendono.

BIBLIOGRAFIA
Charles D. Anderson (ed.), Outlaws of the Old West, Mankind Publishing
Company, Los Angeles 1973.
Ray Allen Billington, Storia della conquista del West, Odoya, Bologna 2009.
Richard W. Etulain, Glenda Riley (eds.), With Badges and Bullets. Lawmen &
Outlaws in the Old West, Fulcrum Publishing, Golden, Colorado 1999.
Eric J. Hobsbawm, I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Einaudi,
Torino 2002.
M.M.

Wanted!-II
Cantava Woody Guthrie: «C’è chi ti deruba con una sei-colpi / e chi lo fa con
una penna stilografica». La canzone s’intitola «Pretty Boy Floyd», è del 1939
e narra, in forma di ballata, le gesta di Charles Floyd, detto «Pretty Boy», «Il
Bel Ragazzino». Più popolare di quanto lo sia mai stato qualunque
governatore, Pretty Boy Floyd era un fuorilegge, e ancora Guthrie, in una
raccolta di «canzoni che picchiano duro per gente che è stata picchiata
duro», così commenta: «Il Fuorilegge è ormai sceso nella sua tomba. È così
per Jesse James. È così per Billy the Kid, e per Cole Younger e per Belle
Starr… Eppure li cantiamo ancora. Ci sono canzoni che spuntano fuori
ovunque e parlano di questi tipi, spuntano come fiori al momento giusto
agli inizi di primavera». Gli anni trenta del Novecento, gli anni della Grande
depressione (→), erano, purtroppo, uno di quei momenti giusti.
Alcune delle cose dette a proposito dei fuorilegge del Vecchio Ovest
valgono anche per questo decennio – anni duri, disperati, di disastro
economico e sociale (dopo l’illusoria ubriacatura degli anni venti), di vite
consumate sulle strade delle metropoli e delle campagne, ad aspettare un
lavoro o un piatto di minestra, a scontrarsi davanti ai cancelli delle
fabbriche con picchiatori e crumiri, polizia ed esercito, a fuggire dalla
«legge e ordine», a inventarsi un domani che arrivava solo a stasera, di
vagabondaggi senza fine in cerca di… di, come lasciò scritto uno di quei
vagabondi, «giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, anno dopo
anno, sempre lo stesso, tre pasti caldi e una cuccia» (Tom Kromer,
Vagabondi nella notte, del 1935). Anni di grandi sommovimenti, in cui
s’incrinavano facilmente anche certi fondamenti basilari del vivere
americano: la vita, la libertà e il conseguimento della felicità, il «farsi da sé»,
il successo come prova della grazia divina e il lavoro come benedizione
dell’uomo comune, la casa come focolare inattaccabile, l’uomo come
procacciatore di sostentamento e la donna come simbolo di virtù materna e
familiare, la famiglia come nucleo compatto e stabile, la fiducia ottimistica
nel domani, la sacralità della proprietà privata, e via di seguito. Tutto ciò si
dissolse nell’aria, insieme alla montagna di denaro virtuale bruciato nella
vampata del «giovedì nero», il 24 ottobre 1929.
C’era da stupirsi che la disperazione di quei giorni, settimane, anni, si
coniugasse con il tacito appello ad arrangiarsi, a farcela da soli – in un certo
senso, reinterpretando in modo nuovo sia il famoso pragmatismo
americano sia l’altrettanto famoso individualismo? Certo, le reazioni furono
molte, le più disparate. Ci fu un vigoroso movimento operaio contro i
licenziamenti e i tagli ai salari, che riprese la fulgida tradizione dei decenni
a cavallo fra Ottocento e Novecento (→ Sciopero!); ci fu una mobilitazione
altrettanto vigorosa nelle campagne (quell’orgoglio nazionale!) contro le
ipoteche, i sequestri, i decreti di sfratto; e, come ci narrano i capolavori di
Steinbeck, di Dos Passos, di Conroy, di Tillie Olsen e di Grace Lumpkin, gli
individui, i gruppi, i settori anche più isolati riscoprirono, di necessità, il
bisogno di reagire insieme, collettivamente, a un disastro che era generale.
Ma, come sempre, ci furono anche altre reazioni – da parte di chi non
poteva o non sapeva aspettare, di chi non aveva forse modo di collegarsi
con altri fronti di lotta, e dunque era spinto a imboccare strade diverse,
forse scorciatoie, in una sorta di «guerriglia privata». Un po’ come nel
Vecchio Ovest (eppure, si era ormai nel Novecento). E allora quel manifesto
di cui si è parlato a proposito di quegli altri outlaws – la campeggiante parola
«Wanted!» – tornò a essere familiare in questo decennio. Perché, in quelle
condizioni, la linea che separava legalità e illegalità si fece sempre più labile
e sottile, e sovente fu quasi inevitabile varcarla. Ce lo mostrano, con
particolare crudezza e intensità, anche solo due capolavori della
cinematografia dell’epoca: Io sono un evaso, di Mervyn LeRoy, del 1932, e
Sono innocente, di Fritz Lang, del 1937, con Henry Fonda e Sylvia Sidney,
oppure il racconto autobiografico di Tom Kromer citato sopra.
Attenzione: nulla a che vedere con un’altra forma di illegalità diffusasi
già negli anni venti, grazie (si può ben dire) al Proibizionismo (→): cioè a
quel business illegale, ma con forti legami con l’economia e la politica reali
e legali, che ruotava intorno a Murder, Inc., alle grosse macchine
imprenditoriali sui generis che funzionavano a pieno ritmo a Chicago, New
York, Detroit, New Orleans, e via di seguito, e costruivano imperi ed
economie parallele (→ Flamingo Hotel). Insomma, nulla a che vedere con i
Lucky Luciano, gli Al Capone, i Bugsy Siegel – criminali imprenditori che
continuavano la tradizione americana dei self-made men in un mondo di
finanza criminale.
Qui abbiamo individui con un retroterra popolare, con legami forti con le
comunità da cui provenivano, segnati in profondità (anche incattiviti, resi
cinici e crudeli: certo) dalle tragedie personali e collettive della Grande
depressione, che – guarda caso – se la prendevano per lo più con le stesse
banche, con gli stessi banchieri (gli uomini con la penna stilografica), che
avevano voluto dire il fallimento, la miseria e a volte la morte di decine di
migliaia di piccoli agricoltori e mezzadri, di gente comune, di poveracci.
Come non provare simpatia per chi assaltava la banca all’angolo della main
street (o della città più vicina, dove si aprivano e chiudevano affari e conti,
senza che ci si potesse metter becco), anche se la sei-colpi sputava fuoco e
qualcuno ci rimetteva la pelle? Forse che le banche, i banchieri, i politicanti
là all’Est, si preoccupavano molto di chi tirava le cuoia nelle terre
dell’Arkansas o dell’Oklahoma, o lungo la Highway 66, o nei ricoveri per
barboni e senzatetto delle metropoli? E simpatia ci fu, e li trasformò sovente
in folk heroes, in una sorta di Olimpo parallelo.
Ecco allora gli outlaws degli anni trenta – nomi spesso noti, quasi come
quelli di John Wesley Hardin o di Billy the Kid.
Bonnie & Clyde, per esempio: cioè, Bonnie Elizabeth Parker (1910-1934) e
Clyde Chestnut Barrow (1909-1934). Come scrisse Bonnie in una delle molte
poesie scribacchiate su un quaderno, «Se avete letto la storia di Jesse James
e di come visse e morì, / E avete voglia di qualcos’altro da leggere / allora la
storia di Bonnie e Clyde eccovi qui». Lei, nata a Rowena, nel Texas; lui,
vicino a Telico, sempre nel Texas – provincia del profondo Sud, per
entrambi. S’incontrano, s’innamorano: è il 1930, sono giovanissimi. Il
futuro? Piccoli furti, piccole rapine, fra Texas e Oklahoma – stati colpiti
duramente dalla crisi economica. Mettono insieme una piccola banda, il
fratello di Clyde, sua moglie Blanche, l’amico W.D. Jones, un paio di altri.
Viaggiano senza posa, da uno stato all’altro, ben sapendo che la polizia di
uno non può seguirli in quello vicino. Quindi, l’uccisione di un vicesceriffo e
di un bottegaio – nel 1933, la banda di Bonnie & Clyde è sulle prime pagine
dei giornali: e inizia un vero gioco al massacro. La stampa crea sensazione, e
loro rispondono, si fanno fotografare armati di tutto punto, lei con il sigaro
in bocca (ahi, la donna angelicata!), lui con un fucile automatico e un sorriso
strafottente (ahi, l’uomo comune!); poi, ci sono le poesie di Bonnie, il
glamour di una vita in fuga, le fantasie su una sessualità fuori delle regole
matrimoniali – e i furti, gli assalti alle banche, le sparatorie, la morte di
Buck e l’arresto di Jones, un’evasione e l’inseguimento da parte dei Texas
Rangers. C’è materiale abbondante per il romanticismo, oltre che per lo
scandalo. I media creano il «mito Bonnie & Clyde» ingigantendo ogni loro
mossa, e al contempo ne decretano la morte. Che verrà nel 1934: una
soffiata e un’imboscata su una strada solitaria della Louisiana – una di
quelle strade della Grande depressione, assolata, polverosa. Su Bonnie e su
Clyde, soli in auto, piovono più di cento colpi di pistola, carabina, fucile a
ripetizione – forse venticinque, forse cinquanta colpi per ciascuno. È la
scena tremenda, agghiacciante, su cui si chiude il film di Arthur Penn,
Gangster Story, (1972).
Oppure Charles «Pretty Boy» Floyd (1904-1934). Nato in Georgia,
cresciuto in Oklahoma, vagante fra Kansas, Missouri e Arkansas, presto in
galera per furto e rapina; quindi, a contatto con il sottobosco di Kansas City
(dove gli viene appioppato il nomignolo, che non sempre gli va a genio).
Vagabondaggi continui, furti e rapine, arresti ed evasioni, scontri a fuoco e
uccisioni di agenti di polizia: a Kansas City e a St. Louis nel Missouri, a
Pueblo nel Colorado, a Toledo nell’Ohio, a Boley in Oklahoma – la geografia
mobile dell’outlaw anni trenta, luoghi di provincia, piccole città (→),
qualche città media. Ma anche, vuole la leggenda (ma molte leggende di
quegli anni furono solo realtà), banconote da mille fatte scivolare sotto il
tovagliolo d’un contadino impoverito alla cui tavola s’era seduto per cena,
ipoteche pagate a qualche fittavolo disperato, un carretto pieno di cibo per
la fila dei poveri il giorno di Natale… Con un biglietto inviato alla polizia,
nega di aver partecipato al «massacro di Kansas City» (→ Union Station),
ma ormai l’Fbi gli è alle costole, nella persona dell’agente Melvin Purvis,
accanito cacciatore di fuorilegge: che, nell’ottobre 1934, lo uccide in un
campo di grano fuori East Liverpool, nell’Ohio, in quella che a molti parve
un’esecuzione in piena regola. Il suo funerale fu seguito da una folla di
40mila persone: segno del legame che univa la sua figura alla popolazione
martoriata dalla crisi. Come continuava sempre Woody Guthrie nella sua
ballata, «And as through your life you travel, / Yes, as through your life you
roam, / You won’t never see an outlaw / Drive a family from their home».
Anche John Dillinger (1903-1934) incontrerà la morte per mano di Purvis.
Nato nei sobborghi di Indianapolis, in Indiana, adolescente ribelle e
insoddisfatto, precoce disertore dalla Marina, ladruncolo senza arte né
parte, una prima condanna a una pena da dieci a venti anni, con relativa
evasione e successiva cattura, Dillinger uscì dal carcere indurito e
incattivito: era il 1933, uno degli abissi della Grande depressione – le
prospettive non erano molte. Una rapina a Blufton nell’Ohio, un nuovo
arresto, un’evasione clamorosa travestito da poliziotto, con l’aiuto di quella
che ormai era la sua banda. Poi, una sequenza impressionante di rapine in
banca: Ohio, Illinois, Indiana, South Dakota, Iowa, forse 300mila dollari –
una volta, fingendosi rappresentante di una ditta specializzata in antifurto;
un’altra, fingendosi una troupe cinematografica in cerca di luoghi adatti a
una scena di… rapina in banca. Dillinger uccise un solo uomo, in quei mesi,
e anche quell’uccisione rimane incerta: ma la taglia su di lui non smise di
crescere – 5000 dollari, 10mila dollari. In fuga da uno stato all’altro, su auto
rubate, la banda accumulò un reato federale sull’altro: percorsero tutto il
Sud degli Stati Uniti e poi salirono verso il Nord, verso St. Paul, nel
Minnesota, dove ricomposero una nuova banda (fra cui «Baby Face» Nelson,
che già cominciava a farsi un nome). Ci furono altri scontri a fuoco: e
Dillinger divenne sempre più famoso per l’audacia e l’astuzia (arrivò a
evadere da un carcere dell’Indiana grazie a una pistola di legno) – famoso e
indubbiamente ammirato, con grande ira di Purvis e soci (il neocostituito
Boi, Bureau of Investigation, nucleo del futuro Fbi → Hoover). I quali, però,
riuscirono a poco a poco a metterlo nell’angolo: a Chicago, grazie alla
disponibilità di una prostituta rumena minacciata di rimpatrio. All’uscita
del Biograph Theater, un cinema dove si proiettava Manhattan Melodrama,
un poliziesco con Clark Cable e Myrna Loy, Dillinger non fa a tempo a
estrarre la pistola, fugge in un vicolo laterale, viene colpito più volte alla
schiena e alla testa. Anche lui diventa, già in vita, un folk hero, e il cinema
non tarda a ricordarlo – fino a tempi recenti: Dillinger, di John Milius, con
Warren Oates (1973), e Nemico pubblico di Michael Mann (2009), senza
dimenticare Faccia d’angelo (1957) di Don Siegel.
Dunque, Baby Face Nelson (1908-1934), nato Lester Joseph Gillis a
Chicago da famiglia belga immigrata, in riformatorio già a dodici anni e poi
di nuovo a tredici e a sedici, un padre suicida; a vent’anni è già un piccolo
rapinatore, fa parte di una gang di quartiere, è arrestato e condannato a un
anno, evade, abbandona la città, «va all’Ovest», si muove fra Michigan,
Minnesota, Nevada, California, Texas, si scontra ripetutamente con gli
uomini dell’Fbi – è deciso e spietato, usa le armi con molta facilità (in
particolare, il fucile mitragliatore, reso famoso in quegli stessi anni da un
altro fuorilegge, «Machine Gun» Kelly). Entra in contatto con Dillinger (lo
aiuterà a evadere di prigione con la pistola di legno), riesce a sfuggire
all’assedio condotto dall’Fbi al rifugio della banda (il Little Bohemia Lodge
di Manitowish Waters, nel Wisconsin), si nasconde per qualche tempo
presso una famiglia di indiani ojibway, poi con alcuni uomini fidati riprende
i «vagabondaggi con rapina» un po’ ovunque nel Midwest, spesso insieme
alla moglie e ai figli. Con la morte di Dillinger, diventa «Nemico Pubblico
Numero 1», viaggiando fra Illinois, Minnesota, Wisconsin, con puntate in
Nevada e California. L’Fbi gli dà una caccia spietata, mobilitando uomini e
risorse (per gli smacchi subiti nel frattempo, a un certo punto Hoover
rischia il posto) – fino al novembre 1934, quando nella cittadina di
Barrington, appena fuori Chicago, c’è un ennesimo scontro a fuoco: Nelson,
ferito gravemente, fugge con la moglie Helen Gillis, il suo braccio destro
John Paul Chase muore all’ospedale. Il giorno dopo, la moglie viene
arrestata e il corpo di «Baby Face» viene trovato in un fosso, avvolto in una
coperta. Anche Nelson ispirerà numerosi film, fra cui i già citati Faccia
d’angelo di Siegel e Nemico pubblico di Mann.
A questo punto, mentre non si può certo ripercorrere il lungo elenco dei
veri o presunti outlaws di quel decennio (una lista approssimativa ne indica
almeno un centinaio, e la grande maggioranza d’essi poteva contare su una
banda), si deve comunque ricordare un altro personaggio singolare: Arizona
Clark Barker, più nota come «Ma» Barker (1873?-1935), madre di quattro
figli che si diedero presto al crimine formando la banda Barker-Karpis, il
marito George Barker che a un certo punto, a fine anni venti, abbandona la
famiglia e scompare, e un ruolo di «mente criminale» che in realtà viene
costruito dalla stampa e in particolare dall’Fbi al momento della sua
uccisione e che sarà all’origine di una serie di leggende e creazioni
artistiche successive, dal film di Roger Corman Il clan dei Barker (del 1970,
non privo di qualche concessione al sensazionalismo) al romanzo di James
Hadley Chase Niente orchidee per miss Blandish (1939), liberamente ispirato
alla vicenda di «Ma» Barker e a sua volta portato sullo schermo da Robert
Aldrich nel 1971. La banda Barker-Karpis sarà attiva per tutti gli anni trenta,
anche dopo l’uccisione della più che sessantenne «Ma» Barker e del figlio
Fred, a Lake Weir, in Florida, da parte degli uomini dell’Fbi.
Ora, una cosa accomuna tutti questi outlaws, al di là delle origini, dei
motivi, delle storie, delle personalità e delle dinamiche: la data di morte, il
1934-1935 – uno dei picchi della crisi economica nel decennio della Grande
depressione, con una disoccupazione altissima (intorno al 28%), la chiusura
forzata del sistema bancario, ondate violente di siccità nelle campagne,
esodi biblici di contadini, mezzadri, braccianti, gravi disordini nelle città e
nelle campagne. Intanto, si metteva in moto la macchina del «primo New
Deal», all’insegna di una normalizzazione della vita economica e sociale.

BIBLIOGRAFIA
Eric J. Hobsbawm, I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Einaudi,
Torino 2002.
Alan Lomax, Woody Guthrie, Pete Seeger (eds.), Hard Hitting Songs for Hard-
Hit People, Oak Publications, New York 1967.
Robert S. McElvaine, The Great Depression. America, 1929-1941, Three Rivers
Press, New York 1993.
Richard Owen, James Owen, Gangsters and Outlaws of the 1930s, White Mane
Publishing Company, Shippensburg 2003.
M.M.

Wasp
«White, Anglo-Saxon Protestant», ovvero «bianco, anglosassone e
protestante»: il termine risale al 1964, quando il sociologo E. Digby Baltzell
lo impiegò nel suo The Protestant Establishment: Aristocracy and Caste in
America per definire uno dei più diffusi prototipi dell’uomo americano. Se in
origine esso aveva una connotazione etnica e religiosa (un individuo di
origini inglesi o scozzesi, di religione presbiteriana o episcopale anglicana),
il termine passò sempre più a definire un preciso status economico, con
forti ruoli di potere dentro alla società. Quartieri residenziali lussuosi (come
l’Upper East Side newyorkese, la Beacon Hill di Boston, la Georgetown di
Washington) e vacanze a Cape Cod, a Martha’s Vineyard o agli Hamptons;
buone scuole private e università, meglio se Ivy League (→); sport come il
tennis, il polo, lo squash, la vela e ogni altro hobby che richiedesse denaro e
molto tempo libero. Più dell’origine, a rendere Wasp sono l’appartenenza a
una società raffinata, l’inserimento in una rete fitta di rapporti (spesso
interessati) e le alleanze intessute attraverso i circoli esclusivi, le cene o gli
eventi filantropici. Che non si tratti di antenati illustri e di religione, ma di
conquista e affermazione di uno status, lo dimostra il fatto che Wasp si può
diventare, o almeno, cercare di diventare – e tante sono le storie di ascesa (e
caduta) sociale, di bisogni e aspirazioni di appartenenza all’élite: si pensi al
grande Gatsby nell’omonimo romanzo di Fitzgerald, finto Wasp
autocreatosi dal nulla per inseguire l’amore di una Southern belle (→); a
Donald Draper, protagonista della serie Mad Men, novello Gatsby dal passato
torbido; o all’ambizioso Tom Ripley, al centro di diversi romanzi di Patricia
Highsmith, che ne Il Talento di Mr Ripley (1955, portato sullo schermo nel
1999 con il volto di Matt Damon) si innamora a tal punto del mondo dorato
degli americani in Europa da rubare l’identità di un Wasp vero (e defunto);
o ancora al ben meno gradevole Monty Burns, odioso proprietario della
centrale nucleare ne I Simpson (→), avaro e privo di sentimenti e umanità.
Quando si parla di Wasp, a prevalere sono non a caso i personaggi negativi:
il termine è entrato nell’accezione corrente come sinonimo di arroganza e
presunzione, difesa dello status e del privilegio, in netto contrasto con i
valori americani dell’operosità e del buon senso che molti eroi pur arrivati
al successo (→ Rags to riches) incarnano.
Mondo maschile per eccellenza, l’universo Wasp relega le donne a mero
elemento decorativo. E tuttavia a esso il gentil sesso si deve preparare,
frequentando prestigiosi college femminili o, per le meno dotate, seguendo i
consigli delle rubriche di Martha Stewart e Judith Martin (nessuna delle due
anglosassoni né tantomeno protestanti) sul giardinaggio e sulle buone
maniere.
Un dominio nelle alte sfere, quello Wasp, che è rimasto inalterato fino
alla metà del Novecento, quando l’ingresso nella middle e upper class
americana di un numero sempre maggiore di immigrati di origine ebraica e
cattolica, e di neri, ispanici e asiatici, ha portato al ridimensionamento
dell’egemonia bianca. Se un potente affondo a tale supremazia furono nel
1952 l’elezione a carica di senatore per lo stato del Massachusetts
dell’irlandese John Fitzgerald Kennedy (→ Camelot) e la sconfitta
dell’«aristocratico» Henry Cabot Lodge, la fine simbolica fu sancita prima
nel 2000, quando un organo altamente rappresentativo come la Corte
Suprema americana non poteva più vantare fra le sue fila alcun esponente
anglosassone protestante, e poi nel 2008, con l’elezione di un presidente
afroamericano – categoria che, a differenza di Gatsby o Ripley, per Wasp
mai avrebbe potuto passare.

BIBLIOGRAFIA
Paul Fussell, Class: A Guide through the American Status System, Ballantine
Books, New York 1983.
C. SCHIA.

Watergate
Se i plumbers, «gli idraulici» di Nixon (il nome in codice dell’unità operativa
segreta da lui voluta per spiare le mosse dei democratici nel quartier
generale a Washington, all’interno del complesso residenziale Watergate),
fossero stati più abili nell’arte dello scasso, forse lo scandalo del Watergate
non sarebbe mai venuto alla luce. E se il Watergate fosse apparso negli
annali americani solo dieci anni prima, nel pieno della temperie politica e
culturale della Guerra fredda, del Cointelpro (→ Hoover), della paura dei
«rossi» (→ Maccartismo; → Caccia alle streghe), il Congresso non sarebbe
forse arrivato all’impeachment (la messa in stato di accusa per aver violato la
Costituzione) del 37º presidente, costringendolo di fatto ad abbandonare la
Casa Bianca prima del termine del secondo mandato. Ma tant’è: quel vaso di
Pandora – che conteneva crimini quali il finanziamento illecito al Partito
repubblicano, lo spionaggio nei confronti di una vasta schiera di forze
politiche (non solo democratiche) e l’insabbiamento volontario delle prove
con la collusione di Cia, Fbi e ministero della Giustizia – scoperchiato tra il
1972 e il 1974 e chiamato Watergate (calco linguistico per tutti gli scandali
politici, americani e non, a venire) si abbatté su Washington affossando il
presidente repubblicano e le sue molte pedine. A ricordare gli eventi di
quella stagione convulsa sarebbero stati il bestseller del 1974 scritto a
quattro mani dai reporter d’inchiesta del Washington Post Carl Bernstein e
Bob Woodward e il film – a esso ispirato – del 1976 di Alan J. Pakula Tutti gli
uomini del Presidente (con i giornalisti interpretati, rispettivamente, da
Dustin Hoffman e Robert Redford).
Perché Nixon non sia riuscito a sopravvivere allo scandalo così come,
sebbene in contesti storici diversi, ci fossero riusciti Kennedy con il flop
della Baia dei Porci (→ Camelot) e un Lyndon Johnson non più in carica con
i Pentagon Papers (→ Vietnam) pubblicati proprio nel 1971 – per tacere qui di
quello che sarebbe riuscito a Ronald Reagan negli anni ottanta con lo
scandalo Iran-Contra – è questione controversa e ancora dibattuta dagli
storici. Non poco, oltre alla mutata atmosfera politica, dovette incidere la
stessa personalità di Nixon. Nato in una famiglia modesta (il padre era stato
tramviere, coltivatore di limoni e fruttivendolo), Richard Milhous Nixon si
era fatto da solo e la sua carriera sarebbe stata tutta in salita. Dopo otto anni
di vicepresidenza piuttosto incolore alle spalle di Dwight D. «Ike»
Eisenhower, perse per un soffio le presidenziali del 1961 contro John F.
Kennedy, schiacciato dalla figura brillante e vincente del giovane rampollo
di una delle famiglie più ricche e potenti d’America. Riuscì invece a
spuntarla nelle presidenziali del 1968, dovendo tuttavia vedersela poi con
un Congresso a maggioranza democratica. Quattro anni dopo, a scandalo
Watergate appena avviato, Nixon avrebbe comunque stravinto contro il
debole candidato democratico George McGovern. Un successo che gli
sarebbe servito a poco: da lì a due anni, annientato dalle accuse oramai
provate di coinvolgimento diretto nel Watergate, Nixon sarebbe uscito di
scena lasciando il posto al vicepresidente Gerald Ford.
Personalità ombrosa incline al sospetto e al complotto (→ Teoria del
complotto), uomo frustrato dal confronto con i cosiddetti «Harvard Boys» (i
politici che avevano frequentato le prestigiose università della Ivy League
→), palmo della mano sudaticcio, rasatura imperfetta, scuro in volto e a
disagio davanti alle telecamere e alla stampa, Nixon non ebbe mai
l’immagine di un vincente. Eppure, l’impronta del suo operato – per lo più
sul fronte estero – non fu affatto trascurabile. I risultati dei suoi cinque anni
di mandato effettivo avrebbero infatti annoverato il miglioramento delle
relazioni con la Cina e con le nazioni arabe e la firma, nel 1972, di accordi
per la limitazione dell’uso delle armi nucleari con l’Unione Sovietica (Anti-
Ballistic Missile Treaty, Salt Treaty). Quali furono dunque i momenti salienti
dello scandalo che lo inchiodò?
Alla base della vicenda, la Special Covert White House Investigation Unit
(«Plumbers»), creata già nel 1971 con il finanziamento – illecito – della
Commissione per la rielezione del presidente (Committee to Re-Elect the
President, la cui sigla, Creep, conteneva già i risvolti sinistri dell’intera
vicenda: to creep = «muoversi furtivamente»). Gli uomini incaricati di
installare alcune cimici nei telefoni degli esponenti del Partito democratico
all’interno del grande albergo Watergate furono, agli inizi, cinque: Bernard
Barker, James W. McCord, Frank Sturgis e due cubani (emigrati
anticastristi), Virgilio Gonzàlez e Eugenio Martinez. Il primo tentativo di
fare breccia nel Watergate risale al settembre 1971 e fu fallimentare, con
esiti che rasentarono la comicità: i cubani, travestiti da venditori, entrati
nella sala banchetti dell’hotel e nascostisi in un armadio, dovettero
aspettare la mattina successiva per uscire dal complesso, perché i camerieri
li avevano chiusi dentro. Ci riprovarono otto mesi dopo, e per ben due volte,
a questo punto coadiuvati da altri due uomini di Nixon (E. Howard Hunt Jr. e
G. Gordon Liddy, che aveva orchestrato l’intero piano), e andò meglio: il 17
maggio, gli «idraulici» misero le cimici ai telefoni di segretario e
vicesegretario del Partito democratico; giorni dopo, i cubani e McCord (ex
agente Cia) tornarono in loco e aprirono le porte togliendo un nastro e
rimettendolo, inavvertitamente, in modo sbagliato. L’operazione sospetta
colpì l’attenzione di un uomo della sicurezza che chiamò quindi la polizia.
L’arrivo delle forze dell’ordine fu però segnalato in ritardo a McCord
perché chi doveva fare da palo all’esterno non era riuscito a comunicare coi
cubani, i cui walkie-talkies erano spenti: l’ennesima sprovvedutezza
organizzativa.
A quel punto, i protagonisti dell’operazione – inclusi Hunt e Liddy –
furono accusati di cospirazione, scasso e violazione delle leggi federali sulle
intercettazioni. Il processo fu assegnato al giudice repubblicano John J.
Sirica, soprannominato, per la severità dei suoi verdetti, «Maximum John»:
il quale sospettò fin da subito del coinvolgimento di alte sfere governative.
Con McCord che confessava di essere stato oggetto di pressioni affinché si
pronunciasse colpevole e le indagini che si allargavano fino a travolgere
John Mitchell – ex ministro della Giustizia nonché direttore delle campagne
presidenziali di Nixon dal 1969 al 1973 – accusato di aver manovrato
l’intelligence contro i democratici alle elezioni del 1972 e primo a cadere dei
«sette del Watergate».
Fu dal New York Times e, soprattutto, dalle pagine locali del Post in cui
lavoravano Woodward e Bernstein – informati dalla misteriosa «Gola
profonda» (la cui vera identità sarebbe stata svelata solo nel 2005, come
quella dell’ex vicedirettore dell’Fbi William Mark Felt) – che partirono gli
affondi più taglienti all’establishment istituzionale: eppure, nonostante
tutto, Nixon riuscì, non già a vincere, ma a stravincere le presidenziali del
1972. Il Congresso – che rimaneva sempre in mano ai democratici – andò
comunque avanti sull’affaire Watergate, incaricando il senatore Sam Ervin
di condurre le indagini. Spiccati da Ervin una serie di mandati d’arresto per
alcuni membri della Casa Bianca, il 30 aprile Nixon dovette chiedere le
dimissioni di altri due stretti collaboratori (anch’essi tra i «sette del
Watergate»: H.R. Hadelman, capo dello staff, e John Ehrlichman, assistente
in politica interna) e licenziare il consigliere John Dean, diventato nel
frattempo un testimone chiave contro il presidente. Le udienze della
Commissione del Senato andarono in onda dal 17 maggio al 7 agosto 1973,
con un grande seguito di pubblico. È in questa sede che alcuni testi
rivelarono l’esistenza di un numero non precisato di registrazioni fatte
nello Studio Ovale dallo stesso Nixon: le conseguenti richieste di consegna
dei nastri da parte della Commissione del Senato furono quindi
ripetutamente disattese da un presidente in sempre maggiori difficoltà.
Dopo aver licenziato, nel corso del cosiddetto «Saturday Night Massacre»,
Archibald Cox (Procuratore speciale), Elliot Richardson (ministro della
Giustizia) e William Ruckelshaus (viceministro della Giustizia), nel
novembre dello stesso anno, davanti ai microfoni e alle telecamere della
Associated Press, Nixon pronunciò le fatidiche parole «I’m not a crook»
(«non sono un imbroglione»).
Ma i fatti gli avrebbero dato torto, mettendolo alle corde. Le
registrazioni vennero consegnate alla Commissione dopo tanti indugi; non
erano però integrali e la Corte Suprema ingiunse a Nixon di rilasciare tutti i
nastri originali. Il 1º marzo 1974, i «sette del Watergate» (oltre ai già citati
Mitchell, Hadelman, Ehrlichman, il consigliere speciale di Nixon dal 1969 al
1973 Charles Colson, l’aiuto di Hadelman, Gordon C. Strachan, l’aiuto di
Mitchell nonché membro del Creep, Robert Mardian, e un altro membro del
Creep, Kenneth Parkinson) furono accusati di aver cospirato per insabbiare
le indagini. La Camera avviò quindi le procedure formali per l’impeachment
con i seguenti capi d’accusa: ostruzione della giustizia, abuso di potere e
oltraggio al Congresso. Il 5 agosto, veniva poi rilasciato un nastro nuovo –
ribattezzato, per i contenuti scottanti, «Smoking Gun Tape» – che risaliva a
una conversazione tenutasi alla Casa Bianca il 23 giugno 1972 tra Nixon e
Hadelman, in cui i due prendevano accordi per bloccare le indagini sul
Watergate ricorrendo alla copertura di Cia e Fbi. A quel punto, era chiaro
agli americani che Nixon aveva mentito a tutti – persino ai suoi uomini più
fidati e ai suoi avvocati – per almeno due anni.
Le dimissioni, ormai inevitabili, arrivarono la sera dell’8 agosto 1974, con
un discorso del presidente uscente. Gli succedette Ford che – con una
manovra che si sarebbe poi rivelata concordata con lo stesso Nixon – gli
garantì il perdono, vale a dire l’impunibilità per ogni possibile reato
commesso.
Il Watergate segnò per molti versi uno spartiacque nella storia
americana, la fine di una presunta innocenza del corpo politico nazionale, il
tradimento del patto di lealtà stretto tra elettori e presidente, il venire alla
ribalta della corruttela e corruttibilità di chi, alla stregua di Charles Colson,
uno degli uomini più vicini a Nixon, aveva appeso nel suo ufficio la scritta:
«Quando li tieni per le palle, vedrai che seguiranno anche i loro cuori e le
loro teste».

BIBLIOGRAFIA
Dale Anderson, Watergate: Scandal in the White House, Compass Point Books,
Minneapolis 2007.
Kim McQuaid, The Anxious Years: American in the Vietnam-Watergate Era, Basic,
New York 1989.
C. SCAR.

Watts Towers (Los Angeles)


Sabatino Rodia, un piastrellista siciliano immigrato a Los Angeles, impiegò
trentatré anni, dal 1921 al 1954, per dare forma a una visione architettonica
di cui si occupava nel tempo libero. Nel quartiere-ghetto di Watts, allora
abitato da afroamericani, in un terreno incolto sulla 107ª Strada, è così sorto
un complesso monumentale realizzato con materiali di scarto, dall’acciaio
al vetro, dalle conchiglie ai pezzi di lamiera, recuperati sulla spiaggia, in
giro per il quartiere o al lavoro. Rodia aveva battezzato l’opera Nuestro
Pueblo, ma furono le forme slanciate delle sette torri al suo interno a colpire
l’immaginazione, determinando l’adozione del nome «Watts Towers» –
tanto più che la loro spinta rappresentava un’anomalia nel panorama della
metropoli, che tende invece a una dimensione orizzontale.
Abbandonate a se stesse, oggetto di atti vandalici, le Torri hanno
rischiato di essere abbattute. L’amministrazione comunale aveva
manifestato perplessità sulla resistenza della struttura e seria
preoccupazione per il rischio di crollo, anche se in realtà nascondeva un
piano per la riqualificazione del quartiere che avrebbe dovuto portare
all’abbattimento di alcuni isolati per fare spazio a progetti più redditizi (in
modo analogo a quanto stava avvenendo a Bunker Hill e Chavez Ravine →
Echo Park). Due amici, William Cartwright e Nicholas King, decisero di
investire tempo ed energie nel tentativo di salvare quel complesso
dall’aspetto tanto affascinante quanto misterioso. Crearono un comitato
per la salvaguardia, coinvolsero artisti e instituirono un centro educativo
per i ragazzi del quartiere: la loro battaglia ebbe successo e, dopo che uno
stress test dimostrò la stabilità del complesso, nel marzo 1963 il governo
municipale decretò che le Torri erano «degne di essere conservate per il
loro valore artistico e culturale». Su scala titanica, il complesso di Rodia
riproponeva lo spirito di quanto andavano sperimentando altri artisti
californiani del periodo, quali Wallace Berman e Edward Kienholz, nei cui
lavori i materiali di scarto erano usati per creare stati emozionali in
maniera analoga a quanto aveva proposto l’action painting di Jackson
Pollock.
Nell’agosto 1965, Watts andò in fiamme. La folla protestava contro
l’arresto di un giovane, Marquette Frye, per guida in stato di ubriachezza.
La tensione durò sei giorni (→ Disordini), durante i quali gli afroamericani
del quartiere si abbandonarono alla violenza, assaltando negozi, dando alle
fiamme auto e edifici e affrontando le forze dell’ordine con lanci di oggetti
– la risposta di un gruppo sociale frustrato per l’alto livello di
disoccupazione, l’assenza di servizi sociali, una lunga catena di
prevaricazioni subite da una forza di polizia (il Lapd), nota per gli abusi e le
maniere forti (→ Armi). Il bilancio dei Watts Riots fu di trentaquattro morti,
novecento feriti e oltre quattromila arresti.
Le Torri, in questo episodio, non ebbero un ruolo, se non quello di
prestarsi a scatti fotografici che le abbinavano alle volute di fumo prodotte
dai roghi accesi in quei giorni. Dopo l’agosto 1965, tuttavia, emerse una
continuità tra le mute strutture in acciaio e la popolazione afroamericana: il
lavoro di Rodia, che assemblava scarti e oggetti dimenticati, rivendicava un
pezzo della città per gli abitanti del ghetto e la spinta verticale testimoniava
una volontà di emergere ed essere visti da una collettività che, ancora in
larga parte Wasp (→), non aveva mai fatto troppo caso a loro. Come
sottolineò il romanziere Thomas Pynchon in un articolo pubblicato dalla
New York Review of Books nel 1966, «Watts è un territorio che si trova a una
distanza maggiore di quanto i bianchi siano disposti ad andare». Non solo:
Watts rappresentava un messaggio diretto all’intero paese, dove «Los
Angeles è conosciuta solo attraverso le immagini della tv». Il legame fra le
Torri e le rivendicazioni della comunità afroamericana è sottolineato anche
da due film che hanno voluto raccontare, cercando di evitare
sensazionalismo e stereotipi, la realtà di South Central, l’area depressa in
cui si trova Watts: Colors – Colori di guerra (1988) e Verdetto finale (1991).
Numerose iniziative hanno tentato di sfruttare l’appeal estetico della
creazione di Rodia per ideare progetti indirizzati in particolare ai ragazzi, ai
quali fornire un’alternativa alle bande di strada (→ Gangs). A oggi, però, il
pericolo maggiore rimane il deterioramento delle Torri, per il cui restauro
occorrono svariati milioni di dollari. Che, data la perdurante situazione di
povertà del quartiere, non potranno essere certo i suoi abitanti a sborsare.

BIBLIOGRAFIA
Sheri Barron, Sheri Bernstein, Ilene Susan Fort, Reading California: Art, Image,
and Identity, 1900-2000, University of California Press, Los Angeles 2000.
Gerald Horne, The Fire This Time. The Watts Uprising and the 1960s, University
of Virginia Press, Charlottesville 1995.
S.M.Z.
Wells Fargo
Sono molte le suggestioni di questo doppio nome. Sgombriamo il campo da
quelle più ovvie e comuni: non si tratta della cittadina di Fargo, fondata nel
1871, capoluogo della Contea di Cass, nell’estremo Nordest del North
Dakota, detta anche «Il cancello del West»; né del film omonimo dei fratelli
Coen (del 1996), per il quale però nessuna scena fu girata a Fargo. Si tratta di
un doppio nome che – come dire? – profuma di dollari.
Wells Fargo rimanda infatti ai signori Henry Wells e William Fargo: i
quali, nel 1850, fusero le rispettive compagnie di trasporto valori, già attive
nell’Est, fondando l’American Express Company (storia lunga, la sua, che
giunge fino a noi: con l’invenzione, nel 1891, dei travellers’ cheques e poi, nel
1958, con la creazione della carta di credito). Quelli in cui operavano Wells e
Fargo erano anni particolari: nel 1848, in California, era stato trovato l’oro,
e ciò aveva messo in moto una reazione a catena – la prima «corsa all’oro»
(→ Oro!). L’Ovest si stava aprendo alla colonizzazione: un processo reso
ancor più travolgente dal Trattato di Guadalupe Hidalgo, che – a seguito
della guerra messicano-statunitense (1846-1848 → Alamo) – consegnava
alla giovane nazione un’enorme estensione territoriale. Erano insomma gli
anni del «destino manifesto» (→), del «Go West, young man».
E Wells e Fargo andarono per l’appunto all’Ovest, fondando, nel 1852, la
Wells, Fargo & Company: una ditta che s’occupava del trasporto valori e
della compravendita di oro (in polvere, in lingotti, in monete) in territori
ancora scarsamente popolati e colonizzati – un settore in cui esisteva già
una feroce (e non controllata) concorrenza. Dopo anni difficili, di aggressive
speculazioni e gravi tracolli finanziari, la Wells Fargo emerse come la
compagnia più forte e affidabile e diversificò la propria attività, sempre
però nel settore trasporti: non solo partecipò alla lunga avventura del Pony
Express (→), ma diede inizio a un servizio di diligenze (→ Stagecoach) e
inaugurò la Overland Mail Company, servizio postale continentale. A fine
Ottocento, era ormai diventata qualcosa di più di una compagnia di
trasporti, sia pure di valori: era un colosso bancario, con ramificazioni un
po’ ovunque nel paese e all’estero (in Europa, Sudamerica, Asia…). Una
grossa piovra (octopus), al pari di altre banche, ferrovie, industrie
dell’acciaio – l’intricata rete di interessi finanziari che, fra i due secoli,
trasformò l’iniziale laissez faire statunitense in monopolismo e imperialismo.
Il resto – fra crisi e scandali, recessioni (come quella dei primi anni
novanta o quella apertasi nel 2008) e acquisizioni (come quella della
traballante Wachovia Corporation, nel 2008) – è storia dei nostri giorni. Ma,
nell’immaginario collettivo, restano soprattutto i fotogrammi accelerati
delle diligenze cariche d’oro in corsa lungo le piste dell’Ovest e delle piccole
banche di provincia, meta prediletta dei fuorilegge dell’Ottocento e del
Novecento.

BIBLIOGRAFIA
Noel Loomis, Wells Fargo, Clarkson Potter, New York 1968.
Ralph Moody, Stagecoach West, Thomas Y. Crowell, New York 1967.
M.M.

«Which Side Are You On?»


Quando Utah Phillips cantava, ancora pochi anni fa, «I’ll tell you about the
worst job I ever had. It was working for the Santa Fe Rail Road south of Las
Vegas, Nevada» («Moose Turd Pie»), o quando Bruce Springsteen canta «I
got a job working construction for the Johnstown Company / But lately
there ain’t been much work on account of the economy» («The River»), il
richiamo, consapevole e voluto, era ed è a una lunga tradizione culturale:
quella dei canti di lavoro e di lotta, una sezione importante dell’enorme
repertorio (→ Newport Folk Festival) che narra la storia dal basso, non
ufficiale, degli Stati Uniti. Infatti, se la storia del movimento operaio
statunitense è densa e complessa (oltre che poco conosciuta → Sciopero!),
altrettanto si può dire del suo, come dire?, accompagnamento musicale –
che è insieme cronaca, manifesto, inno, strumento di organizzazione e
agitazione, veicolo di solidarietà.
Sfogliamo un libro grosso e importante (American Labor Songs of the
Nineteenth Century, a cura di Philip S. Foner), e per brevità soffermiamoci sul
periodo post-Guerra civile (ma le cento pagine precedenti sono tutt’altro
che secondarie). Nei canti che si susseguono, per lo più anonimi, altri di
autori occasionali o semisconosciuti, alcuni su temi musicali originali, molti
che riprendono motivi noti, possiamo seguire lo sviluppo delle battaglie,
delle mobilitazioni, delle questioni che occuparono il movimento operaio
statunitense fino alla fine dell’Ottocento: le condizioni di vita, l’identità e
l’orgoglio di classe, lo scontro con il capitale, il problema
dell’immigrazione, la «questione razziale», le rivendicazioni quotidiane, la
giornata di lavoro, la lotta contro i monopoli, la disoccupazione e il
vagabondaggio, il rapporto con i partiti principali, le prime organizzazioni
operaie, i periodi di depressione economica – e, primo fra tutti, lo sciopero:
«The General Strike», «The Strikers», «The Workingman’s Marseillaise»,
«Ho! Workingmen!». I Knights of Labor (attivi fra il 1869 e la metà degli anni
ottanta) iniziarono poi una tradizione di canti legati alla loro storia e prassi
(«Knights of Labor», «The Red Flag»); e lo stesso avrebbe fatto, a partire dai
primi anni ottanta, l’American Federation of Labor («Don’t Forget the
Union Label», «When Workingmen Combine»). Ci sono poi i canti dei
minatori («Song of the Pennsylvania Miners», «The Hard Working Miner»,
«Down In a Coal Mine») e della United Mine Workers of America («Stand
Out, Ye Miners», «Break the News to Morgan»); i canti legati all’agitazione
per le otto ore («Eight Hours A Day», «Eight Hours») e quelli ispirati ai «fatti
di Haymarket Square» (→) («A Shout of Protest», «Who Were They?»);
quelli nati nell’ultimo, caldo decennio del secolo («The Homestead Strike»,
«The Pullman Strike», «The Scab», «Blacklisted», «Coxey Army!») e quelli
legati agli sviluppi del movimento socialista e anarchico («The Time Has
Come», «The Hymn of the Proletariat», «The Song of the Workers», «The
Red Flag Is Unfurled»); e infine, ormai proiettati verso il nuovo secolo, i
versi di autori come David Edelshtat, Morris Rosenfeld, Joseph Bovshover e
dell’inglese William Morris, ospite frequente della stampa operaia e
socialista statunitense. Su tutte, svetta la trascinante «Hold the Fort»,
nuove parole su un famoso motivo della Guerra civile, rimbalzato di qua e di
là dall’Atlantico: «Tenete il forte, stiamo arrivando! / Uomini del sindacato,
siate forti! / Fianco a fianco combatteremo, / Nostra sarà la vittoria».
Il primo ventennio del nuovo secolo vede protagonisti gli Industrial
Workers of the World (→ Wobblies) e, insieme alla tessera sindacale, il loro
Little Red Song-Book si diffonde subito tra le file dei lavoratori. In particolare,
uno dei tanti loro martiri (Joe Hill, fucilato nel 1915 dallo stato dello Utah
dopo un’autentica montatura giudiziaria), offre il primo esempio di
militante e cantore, che accompagna (e con il canto diffonde) le lotte. Fra il
1910 e il 1915, Hill scrive una ventina di straordinarie canzoni (da «Casey
Jones, the Union Scab» a «The Preacher and the Slave», da «Mister Block» a
«Ta-ra-ra Boom De-ay!», da «The Tramp» a «Scissor Bill», da «The Rebel
Girl» a «Workers of the World, Awaken!»), prendendo a prestito i motivi di
inni religiosi o di canzonette in voga e su quelle note creando ironici, gioiosi
e travolgenti canti agitatori: «Predicatori dai lunghi capelli saltan fuori ogni
sera, / e cercano di dirti quel ch’è giusto e quel ch’è sbagliato. / Ma quando
gli chiedi come rimediar da mangiare,/ vi rispondono con voci mielate: /
“Mangerai, quando sarà il momento, / in quel paese di grazia al di sopra del
cielo; / lavora e prega, vivi d’erba, / avrai la torta in cielo quando morirai”».
O: «Ci sono donne d’ogni genere e descrizione/ in questo strambo mondo,
come ognuno sa. / Alcune vivono in splendide magioni, / e indossano i
vestiti più fini. / Ci sono regine e principesse di sangue blu, / che hanno
ciondoli di diamanti e di perle. / Ma l’unica, vera donna di classe è la
ragazza ribelle».
Le canzoni di Joe Hill e, insieme a lui, di Ralph Chaplin (la celebre
«Solidarity Forever»), Harry McClintock («Hymn of Hate»), Richard Blazier
(«Meet Me in the Jungle, Louie», che ribalta la celebre pop song dell’epoca,
«Meet Me in St. Louis, Louis») e di molti altri, lasciarono il segno. E così,
quando la Grande depressione (→) s’abbatté sulla classe lavoratrice
statunitense, altri nomi di cantori emersero. Prima di tutti, un terzetto di
donne non comuni, mogli di minatori, attiviste e organizzatrici sindacali:
Aunt Molly Jackson, autrice di alcuni canti rimasti famosi («I Am a Union
Woman», «Kentucky Miners’ Wives’ Ragged Hungry Blues») e «maestra» di
molti folksingers; sua sorella Sarah Ogan Gunning, autrice di «Down on the
Picket Line», «Girl of Constant Sorrow», «I Hate the Capitalist System»;
Florence Reece, attiva fino alla metà degli anni settanta, il cui inno «Which
Side Are You On?» («Non fate i crumiri per i padroni, / Non ascoltate le loro
bugie, / Noi gente povera non abbiamo nessuna possibilità / Se non ci
organizziamo. / Da che parte stai? Da che parte stai?») fu reso famoso da
Pete Seeger e dagli Almanac Singers. E poi, è naturale, Woody Guthrie, il più
rappresentativo di questo genere di cantori-attivisti che riassumono nel
loro lavoro la dimensione collettiva di un’esperienza, al di là degli episodi
specifici: narrazione di un’epoca vista attraverso le esperienze di chi è, di
norma, privato di voce. La produzione di Woody Guthrie è vastissima: va dai
canti di lotta degli anni trenta alle «Ballate dei catini di polvere» (→ Dust
Bowl), dai ritratti di eroi popolari dell’epoca («Pretty Boy Floyd») ai
ritornelli per bambini, dalle canzoni su questioni o eventi particolari (topical
songs come «Deportee» → Braceros) a inni politici («This Land Is Your
Land»: «Mentre camminavo, vidi laggiù un cartello / E il cartello diceva:
“Proprietà privata” / Ma sull’altro lato… non diceva niente! / Be’, quel lato
è fatto per voi e per me!»); e accanto a questa produzione musicale, un
torrente in piena di scritti autobiografici, schizzi, abbozzi, disegni, spartiti.
Per qualunque folksinger, da Pete Seeger a Burl Ives, da Lee Hays a Peter
LaFarge, da Joan Baez al Bob Dylan degli inizi, impossibile non fare i conti
con lui. L’altro grosso volume imprescindibile per comprendere questa
tradizione nella sua accezione anni trenta (Hard-hitting Songs for Hard-hit
People, curato da Alan Lomax, Woody Guthrie e Pete Seeger) ne è la prova
più evidente.
Dopo di lui, emergendo dalle battaglie degli anni trenta e quaranta,
dall’attività del Cio e dal tunnel del Maccartismo (→), saranno per
l’appunto Pete Seeger (e, più in generale, la famiglia Seeger, con Mike e
Peggy), gli Almanac Singers, i New Lost City Ramblers, i molti e variegati
nomi di una robusta tradizione folk, a continuare la sua opera, conservando
il legame con un passato di lotte vigorose e riproponendolo in un presente
(dal secondo dopoguerra a oggi) senza dubbio più avaro di grandi conflitti,
ma non meno pieno di contraddizioni. Di lì partono, nei loro modi
personali, Bruce Springsteen e i molti che in quella tradizione continuano a
riconoscersi. E che sanno da che parte stare.

BIBLIOGRAFIA
Classic Labor Songs, Smithsonian Folkways Recordings (Sfw cd 40166).
Classic Protest Songs, Smithsonian Folkways Recordings (Sfw cd 40197).
Philip S. Foner (ed.), American Labor Songs of the Nineteenth Century,
University of Illinois Press, Urbana 1975.
Edith Fowke, Joe Glazer, Songs of Work and Protest, Dover Publications, New
York 1973.
Alan Lomax, Woody Guthrie, Pete Seeger (eds.), Hard-Hitting Songs for Hard-
Hit People, Oak Publications, New York 1967.
Alessandro Portelli, Canzone politica e cultura popolare negli Stati Uniti. Il mito di
Woody Guthrie, DeriveApprodi, Roma 2004.
Barrie Stavis, Frank Harmon (ed.), The Songs of Joe Hill, Oak Publications, New
York 1960.
M.M.

Whiskey
Lo storico Bernard DeVoto riteneva che nel passato americano ci fossero
parecchie vergogne da biasimare, «la peggiore delle quali è il rum». Prima
della Rivoluzione (→), infatti, il distillato ricavato dalla melassa e dalla
canna da zucchero era la bevanda alcolica più diffusa nelle colonie.
Importato dai Caraibi e in seguito prodotto anche nel puritano New
England, dove si pensava che un bicchierino al mattino fosse il modo
migliore per prevenire la malaria, il rum divenne presto una delle principali
esportazioni dell’area, utilizzato in particolare come moneta di scambio per
l’acquisto di schiavi africani.
L’idillio tra americani e rum era però destinato a finire, complice il
tirannico governo di Londra che, nella necessità di ripianare i debiti e i costi
crescenti dell’amministrazione coloniale, decise di tassare i sudditi di oltre
Atlantico. Il Molasses Act del 1733 e lo Sugar Act del 1764 andarono a colpire
le materie prime della fabbricazione del rum, e il rifiuto dei coloni di
sottostare a questa ingiusta imposizione provocò un boicottaggio che
risultò nell’azzeramento di produzione e consumo.
È possibile che l’atteggiamento intransigente dei rivoltosi americani sia
stato agevolato dal fatto che sul continente erano già presenti alcune valide
alternative per combattere la malaria: quando ancora la «guerra del rum»
era di là da venire, gli immigrati scoto-irlandesi (presbiteriani originari
dell’Ulster che si erano stabiliti in Pennsylvania) avevano iniziato a
distillare la segale per produrre l’usquebaugh, voce gaelica traducibile come
«acqua della vita», da cui derivò la parola «whiskey». Ebbe così inizio il
legame profondo tra il whiskey (in americano è rimasta la grafia irlandese,
mentre nel vicino Canada si è mantenuta quella inglese, whisky) e gli Stati
Uniti, un amore tanto viscerale quanto tormentato. Perché, se da una parte
il whiskey è diventato uno dei simboli della mascolinità americana – si pensi
all’immancabile bicchierino svuotato dai cowboys (→) nei saloon (→) in
centinaia di film western, oppure all’iconico J.R. della serie tv (→) Dallas –,
dall’altra tutto ciò è avvenuto non senza contrasti, come testimonia la lunga
e complessa storia dei movimenti per la temperanza culminata
nell’approvazione del Volstead Act (→ Proibizionismo). E persino il modo
in cui il whiskey viene per lo più consumato – annegato in abbondanti dosi
di ghiaccio e acqua nelle due varianti dell’old fashioned (il bicchiere
cilindrico da 18 centilitri) e dell’highball (24 centilitri) – tradisce una punta
di disagio anche nel bevitore occasionale.
Lo stesso George Washington fu un importante produttore di whiskey,
arrivando a ricavare anche 1000 dollari l’anno (varie centinaia di migliaia in
valuta odierna) dal suo distillato, noto e stimato in tutte le colonie – sarà
stato forse in segno di gratitudine che venne scelto per guidare l’esercito
continentale durante la Guerra d’indipendenza (→ Rivoluzione americana),
nonostante la sua discutibile preparazione militare? Tuttavia, la necessità di
ripianare il bilancio del governo federale, in condizioni disastrose dopo la
pace con l’Inghilterra, spinse il presidente ad appoggiare l’introduzione di
una tassa che colpì i piccoli produttori. E, quando questi si rifiutarono di
pagarla, dando vita alla «ribellione del whiskey» (1794), il vecchio generale
non esitò a mettersi a capo dell’esercito contro i rivoltosi.
Una delle conseguenze dell’episodio fu la migrazione dei produttori
dalla Pennsylvania nei territori oltre gli Appalachi (→ Appalachia), al di
fuori della giurisdizione del governo federale e dunque non sottoposti alle
imposte. E in queste zone, ricche di rocce calcaree, ideali sia per la qualità
dell’acqua sorgiva che per la produzione di mais (più abbondante e a buon
mercato della segale), nacque una delle varianti più popolari del whiskey, il
bourbon, che prende il nome dalla contea di Bourbon, nel Kentucky.
Insieme al Tennessee, questo stato è tuttora il cuore della produzione
(anche illegale: il famoso moonshining, al centro di tante vicende e
narrazioni letterarie e cinematografiche, relative soprattutto alle regioni
degli Appalachi) del whiskey – anche in questo caso, non senza alcuni
paradossi. Nel Tennessee, per esempio, il Proibizionismo (→) durò più a
lungo che nel resto del paese (dal 1910 al 1938), mentre nel Kentucky alcune
delle contee in cui sorgono importanti distillerie sono rimaste dry (secche) e
ancor oggi vige il divieto di consumare alcol – una restrizione che, a ben
pensarci, potrebbe avere a che fare con la volontà di evitare pericolosi
ammanchi alla produzione quotidiana.
Il fascino del whiskey rimane comunque intatto, in barba alle guerre
culturali dirette contro il consumo. Il romanziere Walker Percy, autore di
un saggio sul bourbon (Bourbon, 1982), sostiene che la bevanda ha «lo stesso
effetto che aveva la madeleine per Proust»: distrae dall’anonimato del lindo
suburb (→)e trasporta la mente alla piccola città (→), a quell’universo
associato a tradizione, stabilità e lentezza – valori che fungono da antidoto
alla mutevolezza, precarietà e competizione che dominano il presente, e
non a caso ritornano con regolarità negli annunci pubblicitari delle
principali marche.
Il sapore antico è mantenuto nelle etichette zeppe d’informazioni, vere e
proprie mappe che orientano il consumatore attento. Su ogni bottiglia che
si rispetti dev’essere infatti precisato il tipo di whiskey. Il primo particolare
da verificare è la presenza della dicitura blended (nel quale solo il 51% è
composto da una varietà di whiskey diversi) o straight (invecchiato secondo
le norme e non allungato con alcol). Di quest’ultimo, la variante più antica è
il rye, ottenuto dalla segale e caratterizzato da un gusto amaro con sentori
di frutta. Nella fase di fermentazione vengono aggiunte una piccola quantità
di malto di orzo, necessaria per innescare l’intero processo, e una
percentuale di mais, che serve a addolcire il liquido. Le norme federali
prevedono che alla dicitura straight rye whiskey corrisponda un contenuto di
segale pari almeno al 51% e l’invecchiamento in barili di rovere dall’interno
carbonizzato (charcoal filtered) per almeno due anni. Lo straight Kentucky
bourbon, invece, dal gusto dolce e vanigliato, prevede il 70% circa di mais e
una quantità variabile da 5 al 15% sia per segale (o grano) che per l’orzo;
l’invecchiamento deve durare almeno quattro anni. Caratteristica del
bourbon è la cosiddetta sour mash, l’infusione acida, nella quale è aggiunto il
residuo della precedente distillazione, prelevato dalla base della colonna
utilizzata per il processo. Le etichette di bourbon portano anche la dicitura
proof, preceduta da un numero variabile da 80 a 101: si tratta della
gradazione – un proof equivale a circa mezzo grado. Anche il Tennessee
whiskey usa l’infusione acida e si differenzia dal bourbon per il metodo di
filtrazione, effettuato prima della messa in barile, e per la durata maggiore
della maturazione rispetto alle altre varietà, circa dieci giorni. Il carbone
per la filtrazione, ricavato dall’acero, viene prodotto nella distilleria in una
sorta di rituale chiamato Lincoln County process, dal nome della contea dove
era sita la prima distilleria della Jack Daniels. Esiste, infine, anche un corn
whiskey, realizzato con l’80% di mais, ed è di qualità piuttosto bassa, tanto
che non matura in botti di legno carbonizzato ma in semplici contenitori di
terracotta.
Altre varietà, come il Maryland rye – che, come ricorda il critico Henry
Louis Mencken, accompagnava la degustazione di ostriche nella natia
Baltimora – e il Pennsylvania rye sono scomparse o sopravvivono in piccole
nicchie di mercato, conseguenza di un cambiamento nei gusti e nelle mode
di cui è responsabile il Proibizionismo. Durante gli anni venti, il mercato
americano fu invaso dalle varietà canadesi e nello stesso tempo ebbe inizio
l’abitudine di «occultare» il whiskey in cocktail variopinti, più attraenti per
il giovane consumatore urbano e cosmopolita. Il whiskey liscio rimase
associato a un bevitore di età matura e «campagnolo», specie del Sud – non
a caso, il whiskey è un tema ricorrente nella musica country (→ Grand Ole
Opry), come nel classico «Rye Whiskey» di Tex Ritter. In questo ritratto, si
riconosceva certo William Faulkner, che per scrivere ammetteva di aver
bisogno di carta, tabacco e whiskey. Alla sua morte, il critico Leslie Fiedler
registrò, con preoccupazione, una svolta epocale nella cultura americana: il
passaggio dall’era del whiskey a quella della droga. In Aspettando la fine
(1964), Fiedler vede nell’avvento dei beat (→ Generazioni) l’affermazione di
un intellettuale che, per trasgredire, non si accontenta del temporaneo
offuscamento dei sensi prodotto dall’alcol, ma va alla ricerca della ben più
radicale riconfigurazione del sistema percettivo e persegue l’alterazione
stessa del corpo e del mondo circostante.
Non tutti la pensavano allo stesso modo. Hunter S. Thompson, per
esempio, non era poi così sicuro che tali offuscamenti fossero prerogativa
esclusiva delle droghe: nell’articolo «The Kentucky Derby Is Decadent and
Depraved» (1970), è il whiskey, da liscio alla versione mint julep, a rubare la
scena alla corsa dei cavalli, di cui non sembra accorgersi nessuno dei molti
ospiti appartenenti alla whisked-gentry del Sud – classe dirigente nutrita di
«ubriachezza, sogni falliti e in crisi terminale d’identità… il prodotto di
troppi accoppiamenti all’interno di una cultura chiusa e ignorante».
Nel dubbio su quale posizione prendere nel dibattito sulla cultura del
whiskey, gioverà tenere a mente il consiglio del comico W.C. Fields: «Porta
sempre con te una fiaschetta di whiskey nel caso ti morda un serpente. E
ricordati anche di portare sempre un serpente con te».
BIBLIOGRAFIA
Michael Jackson, Whisky di tutto il mondo, Idealibri, Milano 1987.
Charles D. Thompson Jr., Spirits of Just Men: Mountaineers, Liquor Bosses, and
Lawmen in the Moonshine Capital of the World, University of Illinois Press,
Champain 2011.
Mark H. Waymack, James F. Harris, The Book of Classic American Whiskeys,
Open Court Publishing Company, Chicago 1995.
S.M.Z.

White City (Chicago)


Si dice White City e si pensa alla cittadella imbiancata e neoclassicheggiante
costruita da Daniel Burnham in occasione dell’Esposizione mondiale
colombiana di Chicago del 1893 (→ Esposizioni universali). Si trattò di un
evento epocale e senza precedenti, in cui la metropoli affacciata sul lago
Michigan fece mostra delle sue straordinarie risorse urbanistiche e
imprenditoriali, di un forte dinamismo economico e di un fiuto infallibile
per gli affari. Nella fantasmagoria immacolata di Burnham, messa in piedi in
tempi record su un’aria bonificata nei pressi di Jackson Park, sarebbero stati
rimossi gli aspetti più sporchi e maleodoranti legati alla natura industriale e
commerciale di Chicago, ai suoi macelli e alle sue fabbriche per la
lavorazione della carne (→ Porkopolis), agli slum etnici, alla criminalità e
alla popolazione di senzatetto e sbandati lungo il fiume. Impossibile
concepire la bianca facciata della fiera del 1893 senza il rosso dei macelli:
per quanto tra gli intenti del movimento City Beautiful, di cui Burnham era
il fautore più convinto, ci fosse quello di creare nuove forme
architettoniche ed estetiche in grado di affrancare Chicago dalla nomea di
Porkopolis, la bellezza estemporanea della White City non poteva che essere
vissuta come un «sogno» sotto cui pulsava una realtà industriale altrimenti
materiale e permanente. Non a caso, lo scrittore francese Paul Bourget,
attento osservatore della Chicago di quel tempo, a una visita
all’allestimento spettacolare di Burnham avrebbe preferito un sopralluogo
nei macelli, quintessenza dell’anima imprenditoriale che aveva fatto la
fortuna del grande centro dell’Illinois. Nel corso dell’Ottocento, infatti,
Chicago – città che, nelle parole del romanziere Theodore Dreiser, «non
conosceva tradizioni… ma le creava» – aveva visto la nascita di una serie di
istituzioni commerciali rivoluzionarie: il vagone ferroviario Pullman (→
Company town), il vagone refrigerato di Gustavus Swift, la tecnica di
macellazione e di lavorazione della carne (→ Porkopolis) e i cataloghi di
vendita per corrispondenza (→ Cataloghi). Le ragioni del successo
economico della «più americana delle città» risiedevano in buona parte in
una posizione geografica che si prestava a farne una naturale giunzione tra
il Nord e il Sud e, in particolare, tra l’Est e l’Ovest del paese.
Il primo a intuire le potenzialità dell’area della futura Chicago – un
passaggio via terra, il portage, utilizzato dai nativi – è Louis Jolliet, in una
spedizione perigliosa del 1673 con il padre gesuita Jacques Marquette.
Mandato in avanscoperta dal governatore della Nuova Francia a esplorare il
territorio dell’attuale Illinois alla ricerca di un mitico passaggio in Cina,
Jolliet si ritrova in un luogo poco invitante, abitato, nelle stagioni più
propizie, dagli indiani miami e pottawatomie: una palude sulle sponde di un
lago enorme attraversata da un piccolo fiume dalle esalazioni maleodoranti.
Osservatore attento, Jolliet capisce che si può costruire un canale attraverso
la palude (come sarà fatto solo più tardi), ma le sue preziose carte finiscono
in un fiume del Canada in seguito al rovesciamento della canoa che lo
trasporta. Quanto a Marquette, l’anno successivo torna nella regione
ribattezzata Chicago – dalla parola indiana «Chigagoua», «il luogo delle
cipolle selvatiche» – e vi stabilisce una missione, morendovi di dissenteria
nel 1678. Dall’arrivo dell’altro celebre esploratore francese, René-Robert
Cavelier, Sieur de La Salle (1681) in poi, quell’avamposto palustre comincia
a delinearsi quale snodo lacuale e fluviale per il commercio delle pelli dal
Canada al fiume Mississippi. Situata alla confluenza di un lago e due fiumi (il
Chicago e il Calumet River), Chicago vedrà aumentare il volume dei propri
traffici in maniera costante per tutto il Settecento, ma solo agli inizi del
secolo successivo sarà fondata come municipalità, eleggendo il suo primo
sindaco nel 1837, nella persona di William B. Ogden. Di lì a un decennio, la
costruzione dell’Illinois e Michigan Canal – canale navigabile che collega i
Grandi laghi al fiume Illinois – creerà una rotta di vitale importanza,
permettendo alle merci di viaggiare dal Canada al Golfo del Messico
attraverso il Mississippi e accentuando la vocazione di centro di
smistamento portuale di Chicago, snodo da cui transiteranno grano, carne e
legname. All’alba della Guerra civile (→), l’acquitrino si è trasformato in
una città di più di 300mila anime, capace di dotarsi di una rete ferroviaria di
3000 miglia e di diventare così, a tutti gli effetti, il grande raccordo
commerciale della nazione.
Tuttavia, un tale boom economico e demografico non sarebbe possibile
(non a questi ritmi almeno) senza l’espansione urbana istantanea e
virtualmente illimitata garantita dall’applicazione del «grid», o reticolo (→
Acri). A partire dagli anni trenta dell’Ottocento, il piano della città sarà
regolato in modo semplice e simmetrico in tanti lotti di misura uniforme
(caratteristica che ne faciliterà la compravendita immobiliare), formando
uno scacchiere ampliabile all’infinito senza difficoltà progettuali: «qualsiasi
garzone di bottega con un righello T-quadrato», avrebbe scritto lo studioso
Lewis Mumford, «poteva progettare una metropoli, con i suoi lotti tutti
uguali e le strade di larghezza standard». Ma il «grid» da solo non basta:
serve una tecnica edilizia altrettanto rapida. Arrivano così i «balloon
frames», o telai a mongolfiera, composti di travetti di legno molto più sottili
di quelli tradizionali che, inchiodati tra loro e posti a distanza standard,
permettono una stabilità maggiore scaricando a terra il peso della
costruzione. Leggere, prefabbricate e trasportabili, queste intelaiature
presentano anche il vantaggio di poter essere montate senza competenze
edili particolari. Chicago – così come San Francisco – sarà quindi una città di
legno, costruita con travetti di pino sensibili ai frequenti incendi delle
praterie circostanti.
Uno sviluppo, industriale e demografico, tanto imponente quanto
repentino aggrava però alcuni limiti geologici di un centro urbano fondato
su uno strato di argilla non porosa, accrescendone i problemi di drenaggio e
di scarico delle acque. Come altre città di metà Ottocento che usano il lago
sia come fonte di approvvigionamento idrico sia come scolo fognario,
Chicago deve presto affrontare gli effetti devastanti delle epidemie di
colera, su tutte quella del 1854. Sarà proprio l’emergenza endemica di
quell’anno – insieme alle teorie dell’epoca, che associano il colera alle
esalazioni miasmatiche degli scarichi cittadini – a promuovere, in seno al
Board of Public Works guidato dall’ingegnere E.S. Chesbrough, lo studio di
soluzioni in grado di installare un sistema di filtraggio idrico in appositi
bacini del lago. Chesbrough metterà a punto un progetto all’avanguardia –
realizzato solo negli anni ottanta dell’Ottocento – che consiste nel costruire
un canale navigabile mirato a invertire il corso del fiume Chicago,
permettendo così agli scarichi fognari della città di essere convogliati nel
fiume Illinois anziché nel lago Michigan. Molto urgente risulta invece la
complessa realizzazione di una rete fognaria sotto la città, che porterà a
innalzare il livello delle case e pavimentare strade e marciapiedi ex novo.
Sul principio degli anni settanta, la metropoli del Midwest ha insomma
provato di essere capace di imprese urbanistiche epiche – una fama
internazionale che farà ammettere a Otto Von Bismarck il desiderio di
vedere l’America «non foss’altro che per quella Chicago» –, rafforzandone
ancor più il primato di mercato del grano («stacker of wheat», «impilatrice
di frumento», avrebbe scritto il poeta Carl Sandburg; all’alba del Novecento,
a questa sua funzione il romanziere realista Frank Norris vorrà dedicare una
«trilogia del grano», rimasta incompiuta dopo The Octopus, del 1901, e
Chicago, del 1903) e quello, appena strappato a Cincinnati, di centro di
macellazione della carne. Il 1871, l’anno in cui un terribile incendio la
distrugge in buona parte, diventerà un drammatico spartiacque nella storia
urbana, rappresentando al tempo stesso un’incredibile occasione di
rinascita. Nella prima settimana di ottobre, la metropoli fatta di legno è
inaridita dalla siccità e sferzata da un vento caldo che soffia dalle praterie
meridionali e la trasforma in un fiammifero pronto ad accendersi. Una delle
catastrofi della modernità (→ Big One), l’incendio di Chicago abbatte
proprietà per un valore di 190 milioni di dollari, 73 miglia di strade e 17450
edifici, lasciando circa 100mila persone senzatetto e una cinquantina di
compagnie assicurative in bancarotta. La ricostruzione sarà un’impresa
titanica in due tappe: nei primi due anni, si avvierà la riedificazione delle
parti rase al suolo, mentre nel periodo che va dal 1880 (quando la città esce
da una depressione economica durata quasi un decennio) alla chiusura
dell’Esposizione mondiale, si assisterà a una fioritura urbanistica e
architettonica che ne farà, nelle parole di Theodore Dreiser, «una Firenze
del Midwest».
Il miracolo di Chicago non deve però trarre in inganno: le stesse forze
industriali alla base del suo successo hanno formato sacche di profonda
indigenza nei quartieri immigrati, slums in cui vivono ammassate le famiglie
operaie che trovano lavoro soprattutto nei macelli delle Stock Yards (→
Porkopolis), aperte nel 1879. Concentrato di tanfo, fumo e melma e
incubatore di malattie, le Yards confinano a ovest con la maggiore discarica
cittadina, a sud con la ferrovia e a nord con Bubbly Creek, un braccio
stagnante del Chicago River così chiamato per i rifiuti che vi fermentano in
superficie. L’insalubrità di Packingtown – la cittadella sorta attorno ai
macelli – e la totale mancanza di igiene nella lavorazione della carne
saranno denunciate dai muckrakers (→), e in modo particolare da Upton
Sinclair nel romanzo La giungla, mentre le tensioni tra capitale e lavoro si
fanno sempre più forti, sfociando nei sanguinosi disordini di Haymarket
Square (→) nel 1886. Il degrado e la povertà in cui versano i quartieri più
popolari sono invece al centro dell’azione riformista di Jane Addams (→
Famiglie A[d]dams) e Florence Kelley, impegnate nel presidio volontario di
Hull House nel West Side, un agglomerato di tenements (→ Architetture) e
sweatshops in cui imperversano, data la mancanza di bagni e la scarsa
disponibilità di acqua potabile, tifo, scarlattina, vaiolo, colera e tubercolosi.
Di altra matrice è invece il paternalismo di George Pullman che nel 1881
erige una cittadina modello (→ Company town), dando il via a una
tradizione ripresa, a qualche decennio di distanza, da Henry Ford (→ Model
T).
Uno degli aspetti più efficienti e democratici della Chicago di fine
Ottocento è senza dubbio la sua rete tramviaria che, avviata nel 1882,
raggiunge il punto di massima espansione nel 1893, con le linee del South
Side che convergono vicino a Field’s State Street creando un raccordo o
«loop». Da quel momento in avanti – ancora prima del completamento della
sopraelevata –, il «Loop» diventa sinonimo di uno dei Commercial Business
District più densi del mondo. Oltre a essere capillare e ad allungarsi verso i
nascenti suburbs (→), il sistema di trasporti pubblici ha un costo accessibile:
a esclusione dei senzatetto e dei poverissimi, chiunque può salire su un
tram e muoversi nella città. L’accresciuta mobilità degli e delle abitanti di
Chicago permette loro di raggiungere i sempre più ricchi department stores
(→), empori a uso e consumo delle donne di classe media, un contesto
evocato da Dreiser nel romanzo Nostra sorella Carrie (1900). Comoda
alternativa ai grandi magazzini di città sono poi i cataloghi (→) di
Montgomery Ward e di Sears & Roebuck, storici rivali di stanza a Chicago.
Tra il 1880 e il 1893, la città cambia volto, nel vero senso del termine: gli
architetti della Scuola di Chicago operano infatti una rivoluzione
«verticale», teorizzando e applicando metodi edilizi che permettono di
costruire in altezza eleganti edifici sostenuti da intelaiature in ghisa e
intervallati da ampie superficie di vetro. Sono Jenney, Root e Sullivan a
perfezionare l’arte dei grattacieli (→), arricchendo Chicago di monumenti
quali l’Auditorium Building (1887-1890), i Magazzini Walker (1889), Carson
Piries Scott (1884-1885), il Montauk e il Monandock Building.
A un altro esponente della stessa scuderia, Daniel Burnham (che
disegnerà anche lo splendido Flatiron Building di New York), spetterà
invece la progettazione dell’Esposizione colombiana del 1893. I lavori
cominciano nel 1891, con lo scavo e lo spostamento di tonnellate di terra
nel luogo prescelto. Gli edifici maestosi eretti a formare una sorta di città
augustea si reggono in realtà su strutture che sono quanto di più
estemporaneo si possa concepire: armature in legno ricoperte in gesso.
Aperti i battenti, l’Esposizione colombiana attrarrà 27 milioni di visitatori,
di cui 14 milioni stranieri, rivelandosi la più grande attrazione turistica
americana di sempre. Il vasto bacino attorno a cui sorgono padiglioni e
monumenti – tra i quali una dorata statua della Repubblica – è quello della
Corte d’onore che di sera offre uno spettacolo suggestivo inondando i
passanti di luce elettrica. Se il susseguirsi di padiglioni ricolmi di ogni bene,
porticati e Golden Door sortisce spesso un senso di stordimento e di
passività nei visitatori sopraffatti, l’enorme successo popolare della fiera si
deve allo spazio divertimenti del Midway Plaisance, un corridoio di un
miglio collocato fuori dalla White City. Antesignano di Disneyland (→) e di
Coney Island (→), il Midway accoglie di tutto: ci sono i freaks, la Ferris
Wheel, gli struzzi, gli elefanti nani, le riproduzioni in miniatura delle Alpi
svizzere e delle strade del Cairo (un Franklin Delano Roosevelt ancora
bambino ricorderà l’esperienza del Midway come uno dei momenti più
divertenti della sua infanzia). White City è un esperimento urbano a tutti gli
effetti: Burnham la doterà delle misure igienico-sanitarie che difettano alla
città reale, costruendovi un impianto di purificazione moderno, un sistema
fognario autonomo, impianti idrici (ogni fontanella avrà un filtro per la
pastorizzazione dell’acqua) e idroelettrici, e affidandone il funzionamento a
pompieri, polizia e netturbini.
Mancano, in questa proiezione moderna e ideale, le presenze più
scomode della città: non solo i suoi rifiuti materiali, ma anche i suoi
cittadini più poveri e marginali e in particolare i neri e i nativi.
È l’ex schiavo e leader abolizionista Frederick Douglass (→ Linea del
colore) a denunciare come, nel disegno del «Sepolcro imbiancato» creato da
Burnham, non ci sia posto per la civiltà afroamericana, relegata invece al
carrozzone esotico del Midway, dove è ridotta alla rappresentazione di «riti
barbarici di selvaggi africani». Un’esclusione sociale, quella degli
afroamericani della città, che resterà una ferita dolorosa per i decenni
successivi perché, come dice il nero Bigger Thomas in Paura (1940) di
Richard Wright, «Maledizione! Noi viviamo qui e loro vivono lì… Noi neri e
loro bianchi. Loro hanno la roba e noi non l’abbiamo. […] È come vivere in
prigione».
Inaugurata in un periodo di speranza e prosperità crescenti,
l’Esposizione colombiana si chiude tuttavia in un clima di crisi economica e
di sollevamenti operai: nell’autunno del 1893, i disoccupati dimostreranno
per pane e salario di fronte ai cancelli della ex White City e l’anno dopo gli
operai delle fabbriche Pullman daranno vita a un grande sciopero (→
Sciopero!). Sarà un incendio a distruggere, il 5 luglio 1894, le strutture
ormai abbandonate (e occupate dai senzatetto) di ciò che rimane di quel
simbolo della città. E ancora una volta, proprio da un incendio, Chicago
saprà ripartire.

BIBLIOGRAFIA
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Feltrinelli, Milano 1995.
Donald L. Miller, City of the Century. The Epic of Chicago and the Making of
America, Simon & Schuster, New York 1996.
Dominic A. Pacyga, Chicago. A Bibliography, University of Chicago Press,
Chicago 2009.
C. SCAR.

Wild West Show


La storia del Wild West Show – o meglio: del Buffalo Bill’s Wild West Show –
inizia nel 1882, quando il colonnello William «Buffalo Bill» Cody (→ Olimpo
americano) fa ritorno all’Ovest, stanco di recitare insieme a Wild Bill
Hickock e alla giovane ballerina milanese Giuseppina Morlacchi nei
rumorosi e sgangherati teatri popolari di Chicago e New York in improbabili
«melodrammi della frontiera», per lo più frutto della penna tutt’altro che
sofisticata di «Ned Buntline» (al secolo E.Z.C. Judson), prolifico scrittore di
dime novels (→). Ma, per quanto frustrante e poco remunerativa,
quell’esperienza si dimostrerà preziosa per Cody: proprio dalla necessità di
sottrarre alle limitazioni del chiuso teatrale uno spettacolo che in qualche
modo restituisse il sapore e il colore della vita sulla frontiera nascerà infatti
il Wild West Show.
Il 4 luglio 1882, a North Platte (Nebraska), Cody organizza dunque l’«Old
Glory Blow Out»: una serie di prove di destrezza a cavallo, con inseguimento
e cattura di bisonti. L’anno dopo, a Omaha, sempre nel Nebraska, è la volta
di una versione più elaborata, chiamata «Wild West, Hon. W.F. Cody and Dr.
W.F. Carver’s Rocky Mountain and Prairie Exhibition»: una gara di tiro a
segno con fucile e pistola, altre prove di destrezza a cavallo, la messinscena
di un inseguimento di Native Americans, un assalto alla diligenza, una caccia
al daino e al bisonte, una dimostrazione di cavalieri del Pony Express (→).
La strada era aperta.
Gli anni successivi sono caratterizzati da estenuanti tournée e da una
progressiva definizione dello spettacolo e da una crescente professionalità
del complesso. E dalla ricerca e acquisizione di una formula che meglio
caratterizzi il Wild West Show come «unica e vera» riproposizione
dell’esperienza della Frontiera attraverso dimostrazioni pratiche di
specifiche abilità (uso delle armi e del lazo, monta e doma di cavalli,
accerchiamento di mandrie), mostra di tipici «oggetti» del West, galleria di
personalità (Toro Seduto, il figlio di Nuvola Rossa, Annie Oakley, la migliore
tiratrice del West) ed eccitanti «scene dal vero».
Il periodo d’oro del Wild West Show sarà quello fra il 1886 e il 1893: in
questi anni, si rivela appieno il senso teatral-spettacolare di Cody e dei suoi
collaboratori (fra cui spicca Nate Salsbury): la calibratura delle sequenze, il
ritmo sostenuto, l’uso accorto delle attrazioni, l’abile «spacconeria» che
pervade lo spettacolo, l’efficace pubblicità di manifesti e programmi e il
sapiente alternarsi di realismo e finzione ne fanno un autentico «grande
spettacolo», a metà fra le attrazioni circensi di P.T. Barnum (→ Tendoni da
circo) e un cinema che stava ormai per nascere. Il successo negli Stati Uniti
è strepitoso, e così in Europa: la regina Vittoria, il re Edoardo VII, il Kaiser,
papa Leone XIII, decine e decine di migliaia di spettatori a Londra,
Manchester, Parigi, Milano, Roma, Berlino, s’entusiasmano alla vista di
indiani e cowboys, della diligenza di Deadwood e dei cavalieri del Pony
Express – e del simbolo vivente di una pagina intera (sappiamo quanto
equivoca) di quella storia degli Stati Uniti che si comincia a scoprire e
conoscere: Buffalo Bill.
Molte cose cambiarono nello spettacolo, fra la nascita nel 1883 e le
malinconiche «Fare-well Exhibitions» del 1910-1912, con un Wild West Show
e un colonnello Cody ridotti ormai all’ombra di loro stessi. Ci furono alti e
bassi, contingenze, inevitabili modifiche, aggiustamenti; ma, al di là di tutto
ciò, due furono i contributi che questo tipico prodotto della cultura
popolare dell’Ottocento americano seppe offrire alla storia dello show
business novecentesco: il «Drama of Civilization» e il «Congress of Rough
Riders of the World».
Nel dicembre 1886, al vecchio Madison Square Garden di New York,
viene messo in scena quello che, salvo sporadici cambiamenti, costituirà il
nucleo centrale del Wild West Show. Il «Drama of Civilization» era stato
ideato da Cody e dai suoi collaboratori (fra cui Steele MacKaye, mago degli
effetti speciali e delle macchine teatrali) ed era strutturato intorno a sette
(in seguito, quattro) «epoche», che avevano il compito di riassumere, fissare
e rappresentare stadi e momenti della colonizzazione del continente. Dalle
scene di vita nella foresta vergine e selvaggia («The Primeval Forest»), si
passava al viaggio degli emigranti verso ovest, con la caccia al bisonte,
l’accampamento e i preparativi per la notte, l’improvviso incendio della
prateria, la fuga precipitosa di uomini e animali («The Prairie»). Seguiva un
quadro della vita alla fattoria, con un attacco di Indiani e il provvidenziale
intervento degli scouts («The Cattle Ranch»). A conclusione, «The Mining
Camp» presentava la vita in un accampamento di minatori, fra duelli, risse e
passatempi, l’arrivo del Pony Express, il cambio dei cavalli della diligenza,
l’agguato dei banditi nella gola del canyon, e infine – tocco di magia di
MacKaye – un ciclone che spazza via tende e uomini. Un quadro ulteriore fu
aggiunto in seguito: quel «Custer’s Last Stand» che doveva inaugurare una
serie di spettacolari riproposizioni di eventi dell’epoca (il «massacro di
Wounded Knee» [→ Sand Creek e Wounded Knee], la «battaglia di San Juan
Hill»), di dimostrazioni pratiche di nuovi congegni tecnologici, di
rievocazioni di altri momenti della vita di coloni, cowboys, indiani. Tra un
quadro e l’altro, avevano luogo le solite prove di destrezza, e il tutto era
accompagnato dai cycloramas in dissolvenza dipinti da Matt Morgan su
progetto di MacKaye.
A Chicago, invece, nell’estate 1893, viene offerta una nuova versione
dello spettacolo, dal titolo Buffalo Bill’s Wild West and Congress of Rough Riders
of the World. L’accento è ora posto sulle arti equestri: lo spettacolo è
un’emozionante rassegna di cavalieri provenienti da varie parti del mondo
(Messico, Russia, Marocco, Argentina, Hawaii, Filippine, Portorico, oltre che
Stati Uniti) – un autentico peana al cavallo e al cavaliere e, poiché siamo in
epoca di «splendide guerricciole» (→), al loro uso militare. Così, il punto
culminante dello spettacolo è la grande parata, in cui sfilano la cavalleria
statunitense, gli ulani, i chasseurs à cheval, i lancieri britannici, in un
tripudio di sciabole, divise, stendardi. All’apice della fama e del successo, lo
spettacolo creato da Buffalo Bill e Nate Salsbury si distingue dunque per un
singolare miscuglio di rievocazioni di un mitico passato, di curiosità
etnografica (in sintonia con le contemporanee esposizioni universali →) e
di celebrazione militaresca. Già si percepiva nell’aria l’annuncio del
kolossal cinematografico alla David W. Griffith e alla Cecil B. DeMille:
l’«Arrivano i nostri!» era vicino.
Inoltre, lo spettacolo era diventato una macchina di dimensioni
ragguardevoli: 640 i membri della compagnia, fra cui 20 soldati tedeschi, 20
soldati britannici, 20 soldati statunitensi, 12 cosacchi, 6 gauchos argentini, 20
vaqueros messicani, 25 cowboys, 6 cowgirls, 100 indiani sioux, e una banda
composta di 37 musicisti, e poi attrezzisti, tecnici, cuochi, manovalanza
varia, e via di seguito. Spostare un complesso di queste dimensioni
comportava problemi logistici non indifferenti, specie nelle tournée: le
soluzioni adottate rivelavano la sagacia organizzativa e l’abile applicazione
di moderne tecnologie da parte del management. Non stupisce che, in
occasione della tournée del 1891 in Germania, ufficiali dell’esercito tedesco
prendessero l’abitudine di seguire il convoglio ferroviario di Buffalo Bill
(come quello del circo Barnum → Tendoni da circo) annotandosi con
precisione le tecniche adottate per caricare e scaricare uomini, materiali,
animali…
Negli anni delicati del trapasso da un secolo all’altro, il Wild West Show
svolse una funzione ideologica tutt’altro che marginale. Attingendo a fonti
diverse (i romanzi della serie di Calza di cuoio di J.F. Cooper, i diari di
viaggio degli esploratori, i dime novels, le autobiografie più o meno apocrife
di apripista, cacciatori e scouts, i «melodrammi della frontiera» e i fatti
grandi e piccoli della storia della conquista del West), aveva elaborato,
custodito e diffuso un’immagine tutta particolare del passato-presente
americano. Operando su quest’immagine con indubbia abilità pubblicitaria,
Cody & Co. avevano contribuito a fare di essa un mito e una leggenda, un
riferimento quasi obbligato, da proporre a un pubblico urbano (e per lo più
immigrato) sradicato dal punto di vista sociale e culturale e bisognoso di
sicurezze e punti di riferimento. Una medesima funzione ideologica (di
americanizzazione ante litteram) il Wild West Show aveva svolto anche al di
fuori dei confini nazionali, iniziando e alimentando quel fenomeno di
capillare invasione del Vecchio mondo da parte dell’immaginario di massa
americano che tante conseguenze avrebbe avuto nei decenni successivi,
specie dopo l’avvento del cinematografo: l’entusiasmo con cui la troupe fu
accolta per esempio a Berlino e il profondo interesse mostrato per le
tematiche del West da molti artisti tedeschi di primo Novecento (Georg
Grosz, solo per fare un esempio) ne sono una testimonianza eloquente.
Certo, della realtà del West lo show proponeva un’immagine già
stereotipata e spesso del tutto fraudolenta. Ma proprio perché si situava in
quella terra di nessuno fra realtà e finzione, offrì un contributo decisivo a
forme successive di spettacolo. Al cinema esso infatti già tendeva: non solo
nei temi trattati, nelle situazioni passibili di serializzazione continua,
nell’uso di accorgimenti ed effetti speciali, nell’organizzazione per blocchi
narrativi (montaggio) e nelle scene di massa, nei ritmi interni abilmente
calibrati, nella recitazione stilizzata, elementare, gestuale per la quasi totale
mancanza di dialogo. Una sessantina d’anni dopo la scomparsa dello show,
il regista Robert Altman con l’omaggio tagliente del suo Buffalo Bill e gli
indiani (1976), basato sul testo teatrale di Arthur Kopit, Indiani, del 1968)
avrebbe in parte pagato il debito.
P.S.: Se a Milano vi spingete fino al quartiere periferico di Niguarda, non
vi è difficile trovare una vecchia trattoria dal nome improbabile di
«California»: leggenda vuole che ad aprirla agli inizi del Novecento sia stato
un cowboy del Buffalo Bill’s Wild West Show che, durante la tournée italiana,
avrebbe incontrato qui il grande amore, abbandonando per lei il colonnello
Cody. Leggenda romantica, può darsi: sempre meglio di quella che, a
Londra, individuava in un altro cowboy del Wild West Show il possibile,
«vero» Jack lo Squartatore!
BIBLIOGRAFIA
Don Russell, The Wild West; or, A History of the Wild West Shows, Amon Carter
Museum of Western Art, Fort Worth 1970.
Robert W. Rydell, Rob Kroes, Buffalo Bill Show, Donzelli, Roma 2006.
Louis S. Warren, Buffalo Bill’s America. William Cody and the Wild West Show,
Alfred A. Knopf, New York 2005.
M.M.

Wilderness
L’atteggiamento degli americani rispetto alla wilderness è alquanto
contraddittorio. Wilderness è una di quelle parole di fronte a cui, non solo
per la mancanza di un corrispettivo italiano, ma per la complessità e la
pregnanza culturale che ricopre nella storia americana, qualsiasi tentativo
di traduzione è destinato a fallire. Deriva dall’inglese medio «wildern»
(selvaggio) e dall’inglese antico «wilddēoren» (delle bestie feroci) e, nella
definizione che ne dà il Merriam-Webster, sta per «un tratto o una regione
non coltivata e disabitata da esseri umani». Negli Stati Uniti, il significato
stesso di wilderness e le sue connotazioni antropologiche sono cambiati nel
corso dei secoli, approdando, a partire dagli anni venti e trenta del
Novecento, a un’idea romantica e idealizzata di una natura mantenuta
pristina in parchi nazionali e altre oasi a uso turistico. Se i primati degli
Stati Uniti in materia di salvaguardia di vasti tratti del territorio nazionale
sono molti e inconfutabili (il primo parco nazionale al mondo, nel 1872 a
Yellowstone, e il primo National Park Service, nel 1916), altrettanto
numerose – e palesi – sono le zone d’ombra nel loro rapporto con
l’ambiente. Non è un caso che una delle voci più innovative degli studi
ambientali degli ultimi trent’anni, William Cronon, abbia parlato in un suo
celebre saggio del 1995 di una sorta di schizofrenia della produzione critica
statunitense nei confronti dell’idea di wilderness: concentrandosi sulla tutela
di pochi santuari adibiti a riserve, questa si sarebbe dimenticata della
wildness – parente meno prestigiosa della prima – domestica, e degli aspetti
quotidiani di uno stile di vita che sull’uso illimitato delle risorse naturali ha
fatto la propria fortuna. Gli americani sono attenti alla sacra inviolabilità
della wilderness solo in vacanza, essendo al contrario sprovvisti di
qualsivoglia preoccupazione ecologista una volta tornati nello sprawl (→
Suburbs) che continua a fagocitare ettari di terra – nonché serbatoi di
benzina e di acqua. Non è facile venire a capo di questa incoerenza di fondo:
la stessa prosperità di cui il paese ha goduto storicamente è dipesa, in
massima misura, dalla sua capacità – e dalla sua fermezza – nel piegare la
natura in funzione di un progresso identificato con l’allargamento costante
dei consumi individuali e collettivi. Ed è forse – lo diceva già mezzo secolo fa
uno dei più autorevoli studiosi della wilderness, Roderick Nash – quello
stesso benessere che ha reso possibile tutelare intere parti del territorio
come riserve naturali: se quella americana fosse stata un’economia di
sussistenza, i parchi nazionali non avrebbero mai visto la luce.
Ma torniamo alle origini della storia coloniale, quando, fedele al suo
etimo, la parola wilderness indicava l’incontro, inquietante, con bestie feroci
e natura selvaggia. I primi colonizzatori europei arrivarono sulle sponde
atlantiche del continente nordamericano impreparati alla straordinaria
varietà botanica e zoologica che vi albergava. Sulla scorta delle conoscenze
e della lingua che avevano a disposizione, guidati da intenti precisi (fossero
questi il disegno puritano o quello mercantilistico o, spesso, entrambi), i
loro resoconti del Nuovo mondo presero in sostanza due forme, per certi
versi complementari: quella della proiezione allegorica di una «howling
wilderness», una terra desolata e selvaggia e disabitata che avrebbe messo
alla prova la missione di rinascita spirituale dei puritani del New England
(→ Città sulla collina; → Covenant); e quella della «land of plenty», del
forziere di ricchezze potenzialmente sfruttabili dalle monarchie europee
(→ Cataloghi). Entrambi i modelli presupponevano la presenza di una
«virgin land», uno spazio vuoto, su cui iscrivere copioni di dominio
strumentali a un disegno antropocentrico, cristiano, bianco e maschile.
Tanto la «errand into the wilderness» dei puritani – dove «errand» ha, non
a caso, due significati: vocazione spirituale e compito materiale – quanto le
spedizioni esplorative dei colonizzatori (→ Piste e sentieri) dovettero poi
individuare nella creazione di un «giardino» a metà tra wilderness e civiltà,
in cui la natura fosse dolce e accogliente, il frutto dell’opera di
addomesticamento di stampo cristiano di cui si facevano emissari. Thomas
Cole, pittore paesaggista di metà Ottocento ed esponente di spicco della
Hudson River School of Painting, rendeva il senso di questo percorso ideale
nei contorni morbidi del suo ciclo The Course of Empire, di cui ricordiamo qui
View from Mount Holyoke, Northampton, Massachusetts, noto anche come The
Oxbow (1836).
Nel corso del XIX secolo, tuttavia, a indipendenza avvenuta, gli americani
arrivarono a capire che l’unicità del loro paese nasceva in fondo dal
contatto con la wilderness, una natura sublime che sopravanzava, per
estensione e varietà, quella europea. Non poco, a questa presa di coscienza,
contribuirono i Diari di Lewis e Clark (→ Esplorazioni) frutto della loro
spedizione nell’Ovest tra il 1804 e il 1806; l’Oregon Trail (1849) di Francis
Parkman (→ Piste e sentieri); e le riflessioni di Henry David Thoreau sulla
natura del New England in Walden, ovvero Vita nei boschi (1854) in cui, oltre a
celebrare la bellezza dei dintorni di Concord, Massachusetts, il discepolo di
Ralph Waldo Emerson ne lamentò la graduale deforestazione. In modo
analogo, nel 1855, un quadro di Asher B. Durand (amico di Cole e altro
rappresentante della Hudson River School), The First Harvest in the
Wilderness, ritraeva le ferite che l’abbattimento di alberi stava producendo
sul territorio: nelle menti più sensibili, la consapevolezza crescente di avere
– come popolo – un rapporto privilegiato con la wilderness andava ormai di
pari passo con la triste percezione che quella natura stesse per scomparire.
Fu così che, tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento,
si fecero largo una serie di teorie sulla conservazione della fauna e della
flora autoctone che avrebbero portato, con l’appoggio delle istituzioni,
all’invenzione americana dei parchi nazionali e della wilderness come
attrazione ricreativa. Fautore di queste politiche fu Theodore Roosevelt (→
Teddy bear), newyorkese appassionato di vita all’aria aperta che, durante il
suo doppio mandato presidenziale (1901-1909), si prodigò per la
salvaguardia delle risorse naturali del paese, avviando misure federali di
fondamentale importanza. A questo periodo risale quindi la
contrapposizione tra il movimento «conservazionista» e quello
«preservazionista»: i primi professavano l’uso più appropriato (= proficuo)
della natura; i secondi, la sua difesa da qualsiasi uso commerciale. Nelle file
dei conservazionisti militavano lo stesso Roosevelt e uno dei suoi uomini
più fidati, Gifford Pinchot, capo del Servizio forestale (istituito nel 1905); tra
i preservazionisti, John Muir e, in posizione mediana, Aldo Leopold, figura
di rilievo per la nascita di un’«etica ambientalista». Il vangelo di Pinchot –
espressione dell’efficientismo progressista del tempo – prevedeva la
modificazione della natura attraverso l’ingegneria: dalla soppressione degli
incendi (i cui effetti sull’ambiente si sarebbero rivelati funesti) a quella,
altrettanto infelice, di alcune specie animali poco gradite a rancher e turisti
(lupi, linci, coyote, scoiattoli, lepri). Le due fazioni di Pinchot e Muir
trovarono un terreno di scontro in quello che sarebbe diventato un caso
nazionale: la costruzione nella Hetch Hetchy Valley, all’interno del parco
nazionale di Yosemite, in California, di una diga che sbarrasse il corso del
Tuolumne River approvvigionando poi un acquedotto destinato ad arrivare
a San Francisco, a 150 miglia di distanza. Sebbene del progetto si parlasse
dal 1892, fu solo con il terremoto-incendio di San Francisco del 1906 (→ Big
One e altre catastrofi) che le ragioni del sì divennero più incalzanti;
quell’area tuttavia, come rivendicava Muir, era stata designata riserva
naturale da una legge federale del 1890 e l’intervento umano ne avrebbe
deturpato l’equilibrio. La controversia andò avanti fino al 1913, quando il
presidente Woodrow Wilson optò per il sì: la O’Shaughnessy Dam fu
completata in un decennio e San Francisco e la San Joaquin Valley ebbero il
loro sovrappiù di acqua ed elettricità a svantaggio dell’integrità ecologica
della Hetch Hetchy Valley.
Il credo conservazionista si impose anche nei decenni successivi,
quando, accanto alla fioritura turistica dei parchi nazionali, la costruzione
di dighe (→ Hoover) andò a incidere sulla conformazione naturale delle
regioni occidentali. A quel punto, l’idea di wilderness aveva subito un
ulteriore slittamento rispetto alle origini coloniali: da quel momento in poi,
gli americani l’avrebbero considerata come una realtà simbolica a parte,
avulsa dalla loro vita quotidiana eppure raggiungibile con facilità a bordo di
un treno (→ Promontory Point) e di un’auto (→ Model T).
Solo con gli anni sessanta del Novecento, quando le ferite apportate dalla
crescita industriale e militare del dopoguerra e il prezzo ambientale del
boom dei consumi si fecero visibili, tornò una sensibilità «preservazionista»
capace di riportare il discorso ambientale sotto i riflettori del Congresso,
anche in seguito alla pubblicazione, nel 1962, di Primavera silenziosa di
Rachel Carson, bestseller che segnò la nascita del moderno movimento
ecologista. Sull’onda della rinnovata attenzione dell’opinione pubblica, il
presidente Lyndon Johnson avrebbe approvato, nel 1964, il National
Wilderness Act, in cui si sanciva la responsabilità politica del Congresso di
«assicurare al popolo americano delle generazioni presenti e future i
vantaggi di una riserva duratura di wilderness». Così, in virtù di una
legislazione per molti versi all’avanguardia, le aree statunitensi designate
oggi come wilderness coprono circa 100 milioni di acri (400mila chilometri
quadrati) ed equivalgono al 4,71% del territorio totale. Il 54% di quei
territori si trova però in Alaska, dove l’Arctic National Wildlife Refuge, ricco
di petrolio, rischia da decenni di perdere la propria integrità naturalistica a
favore delle mire estrattive della lobby del Congresso.
Sul ruolo della wilderness all’interno della cultura nazionale si sono
concentrate le ricognizioni critiche di molti studiosi americani del
Novecento: Roderick Nash, Wilderness and the American Mind (1967); Henry
Nash Smith, Virgin Land: The American West as Symbol and Myth (1950), che
avrebbe fondato gli American Studies e la cosiddetta «Myth and Symbol
School», un approccio interpretativo destinato a grande longevità; Leo
Marx, La macchina e il giardino (1964); Richard Slotkin, Regeneration Through
Violence (1973); Annette Kolodny, The Lay of the Land (1975), una pietra
miliare della critica letteraria femminista; Donald Worster, Dust Bowl (1979)
e Rivers of Empire (1985), e il già citato William Cronon, The Trouble with
Wilderness (1995) – solo per elencare i più importanti.
Impossibile invece rendere qui la centralità e l’onnipresenza della
wilderness nella fantasia collettiva americana. Nelle sue varianti tematiche,
tra cui l’importanza archetipica di caccia e pesca (→ Trout fishing), la
natura selvaggia costituisce l’ambientazione privilegiata di tanta parte della
letteratura nazionale, presiedendo alla nascita del romanzo e continuando
in un filone ancora molto vitale (da James F. Cooper a Herman Melville, da
Henry David Thoreau a Mark Twain, da Jack London a Ernest Hemingway,
da Raymond Carver a Cormac McCarthy). Per chi non avesse dimestichezza
con le pagine dedicate ai sentieri dei boschi del Nord, le baleniere dei mari
del Sud, il corso del Mississippi, le distese ghiacciate del Grande Nord e le
lande deserte del New Mexico, c’è comunque il cinema: ma anche qui il
catalogo sarebbe infinito.
Varrà forse allora la pena di concludere sulla pubblicità e ricordare la
strategia commerciale delle tre multinazionali dell’auto americane di
riservare ai loro Suv nomi esotici e spot scenografici, con mastodonti
trangugia-benzina come la Gmc Yukon che scivolano silenziosi ai margini di
paesaggi mozzafiato. Per non dire di una delle pubblicità più riuscite di ogni
tempo, quella del Marlboro Man, riproposta dalla Leo Burnett (storica firma
pubblicitaria) dal 1954 al 1999: un cowboy (→) a cavallo, che fuma una
sigaretta in mezzo alla natura. Del Marlboro Country, ovvero della
wilderness.

BIBLIOGRAFIA
Michael Lewis (ed.), American Wilderness: A New History, Oxford University
Press, Oxford 2007.
Ted Steinberg, Down to Earth. Nature’s Role in American History, Oxford
University Press, Oxford-New York 2002.
Thomas R. Vale, The American Wilderness: Reflections on Nature Protection in the
United States, University of Virginia Press, Charlottesville 2005.
C. SCAR.

Wobblies
Si riunirono a Chicago, il 27 giugno 1905, alla Brand’s Hall: più di 200 fra
delegati sindacali, militanti di base, socialisti, anarchici, organizzatori e
agitatori, nomi celebri del radicalismo americano – Eugene V. Debs
(Socialist Party), Daniel De Leon (Socialist Labor Party), William «Big Bill»
Haywood (Western Federation of Miners), A.M. Simons (direttore
dell’International Socialist Review), Lucy Parsons (vedova di uno dei «martiri
di Chicago» → Haymarket Square), l’anziana ma sempre battagliera Mary
«Mother» Jones… Haywood aprì i lavori, dichiarando: «Questo è il
congresso continentale della classe operaia». Erano nati gli Industrial
Workers of the World, conosciuti popolarmente come wobblies, termine di
origine molto incerta. Il Preambolo alla Costituzione che uscì da quel
congresso si apriva con le seguenti parole: «La classe lavoratrice e la classe
dei datori di lavoro non hanno niente in comune. Non vi può essere pace
fino a quando fame e bisogno sono diffusi tra milioni di lavoratori e i pochi
che costituiscono la classe dei datori di lavoro godono dei beni della vita.
Fra queste due classi la lotta deve necessariamente continuare, finché tutti
gli operai non si uniscano in campo politico come in campo industriale e
prendano e mantengano possesso di quello che producono con il loro
lavoro, attraverso un’organizzazione economica della classe operaia senza
affiliazione ad alcun partito politico…».
I wobblies si rivolgevano a quei settori del proletariato americano
trascurati dalle organizzazioni sindacali tradizionali (come l’American
Federation of Labor, nata nel 1886, organizzata su base di mestiere e per
tradizione rivolta ai lavoratori specializzati) e ormai prevalenti, dopo le
trasformazioni del capitalismo statunitense e del mercato del lavoro: neri,
immigrati, donne, disoccupati in cerca di lavoro, lavoratori stagionali e
migranti (→ Vagabondi). La loro visione del processo rivoluzionario aveva
un impianto anarco-sindacalista: l’accento sull’«azione diretta», la società
futura come già esistente «nel guscio della vecchia», il rifiuto dell’azione
politica, vista come solo parlamentare (orientamento che divenne
prevalente specie dopo che, nel 1907, la componente più «politica» – il
gruppo di Daniel De Leon – abbandonò l’organizzazione). Ma conteneva
anche elementi di analisi socialisti ed era sorretta da una straordinaria
combattività: non a caso, ai wobblies guardò con particolare interesse, fra il
1919 e il 1922, la neonata Terza Internazionale.
Dopo aver ricordato l’opera di divisione prodotta dai sindacati
tradizionali, il Preambolo alla Costituzione così concludeva: «Per cambiare
queste tristi condizioni e per portare avanti gli interessi della classe operaia
occorre un’organizzazione strutturata in modo tale che i suoi membri, in
ciascun settore industriale o in tutti i settori se necessario, cessino di
lavorare ogni volta che sia in atto in una fabbrica uno sciopero o una
serrata, facendo così di un torto fatto a uno un torto fatto a tutti».
Nei quindici anni successivi a quel giugno 1905, gli Iww operarono per
essere quella organizzazione. Furono protagonisti di campagne per la libertà
di organizzazione, specie negli stati dell’Ovest (a Spokane, Fresno, Seattle,
San Diego), durante le quali decine e decine di militanti furono incarcerati
(ma, non appena rilasciati, continuavano a spostarsi da un luogo all’altro al
canto di «Halleluja On the Bum!»: «È primavera e son appena fuori prigione
/ Senza soldi e senza cauzione»), di intense e diffuse agitazioni antibelliciste
(che li portarono a scontrarsi più volte con la crescente isteria patriottica),
della mobilitazione dei taglialegna del Nordovest (stato di Washington,
California, Oregon, dove le condizioni di vita e lavoro erano tremende) e del
Sud (Louisiana, Arkansas, Texas, dov’era presente una manodopera in
grande maggioranza nera, ultrasfruttata e oggetto di costante razzismo), dei
minatori (oro, argento, rame, piombo, ferro, antracite: Nevada, Montana,
Minnesota, Pennsylvania, California, Arizona, West Virginia, luoghi in
fermento già da decenni → Sciopero!), dei raccoglitori agricoli stagionali
(California, Oregon, stato di Washington, Utah, Kansas, South Dakota: i
lavoratori si spostavano da uno stato all’altro, da un campo all’altro,
cantando, sulla melodia di «Yankee Doodle»: «A farmer boy once worked in
town, / He thought to make a fortune. / The bosses cut his wages down / By
capitalist extortion»). E furono alla testa di alcune delle lotte più aspre e
decise (→ Sciopero!), come lo sciopero vittorioso di Lawrence
(Massachusetts) nel 1912, con il blocco totale dell’industria tessile e un
violento scontro con il padronato e le forze dell’ordine, gli arresti e i
processi, il contributo fondamentale delle operaie, molte delle quali
giovanissime e da poco immigrate (il loro slogan diceva «We want bread,
and roses too»); e come quello sconfitto di Paterson (New Jersey) nel 1913,
che fermò per lunghi mesi invernali i setifici della cittadina non lontana da
New York, fu represso con molta violenza e colpì con forza l’opinione
pubblica (→ Pageants) per l’abnegazione con cui i lavoratori e le lavoratrici
resistettero fino all’ultimo.
Il loro fu un movimento combattivo, dotato di grande coraggio,
determinazione e carica creativa e agitatoria. Discorsi, racconti, poesie e
canzoni destinate a rimanere nel repertorio dei canti di protesta (→
«Which Side Are You On?»), la ferma posizione antimilitarista ribadita
anche nei momenti di maggiore esaltazione sciovinista e interventista, la
rossa tessera Iww che funzionava da lasciapassare e il libricino-canzoniere
The Little Red Song-Book che passava di mano in mano, gli opuscoli distribuiti
ai vagabondi nelle «giungle» e i volantini in tante lingue diverse preparati
per l’eterogenea manodopera delle fabbriche dell’Est, i giornali e i fogli di
agitazione (Industrial Worker, Solidarity, One Big Union Monthly, Industrial Union
Bulletin), le vignette (celebre la serie su «Mr Block», il crumiro con un blocco
squadrato di legno al posto della testa), le orgogliose dichiarazioni in
occasione dei processi, l’incessante spostamento di agitatori e organizzatori
sui treni merci, tutto ciò lasciò segni profondi nella cultura americana
dell’epoca e dei decenni successivi: per esempio, su importanti riviste
radical come The International Socialist Review, The Masses e The Liberator,
oppure su autori come Jack London (un racconto come A Sud dello Slot e il
progettato Sabotage sono ispirati dall’attività dei wobblies), John Reed (il suo
arresto in occasione dello sciopero di Paterson fu il primo passo di una
rapida radicalizzazione e molti suoi scritti successivi torneranno sulle lotte
degli Iww), John Dos Passos (lo dimostra la frequenza con cui i wobblies
compaiono nella trilogia U.S.A., autentica summa letteraria dei primi tre
decenni del Novecento).
La repressione nei loro confronti fu violenta, culminando negli anni
intorno alla Prima guerra mondiale (che, per gli Stati Uniti, iniziò nel 1917 e
si concluse nel 1918), durante quella che fu chiamata Red Scare (→). Ne sono
testimonianze drammatiche l’esecuzione del cantore wobbly Joe Hill nel
1915 (→ «Which Side Are You On?»), il martirio di Frank Little nel 1917 e di
Wesley Everest nel 1919 (→ Bisbee e Butte), gli operai uccisi o incarcerati
durante i «fatti di Centralia» nel 1919, la distruzione delle sedi Iww in giro
per il paese, le deportazioni di militanti di origine straniera dopo la fine
della guerra.
Nel corso degli anni venti, in parte per la repressione subita, in parte per
la più ampia sconfitta del movimento operaio in quel periodo e in parte per
le trasformazioni che andava subendo il mondo del lavoro, gli Iww persero
molta della loro presa sul proletariato americano: ma, sempre presenti sulla
scena, continuarono a esercitare un fascino indubbio su generazioni
successive, nel corso dei turbolenti anni trenta come nel difficile secondo
dopoguerra (oggi, godono per esempio di un certo seguito fra i lavoratori
sottopagati di varie catene alimentari, come Starbucks). Così, «Solidarity
Forever», scritto da Ralph Chaplin nel 1915 sull’aria di «John Brown’s
Body», resta un inno della classe operaia americana, ripreso più volte da
cantanti impegnati come Pete Seeger o Utah Phillips: un torto fatto a uno è
un torto fatto a tutti.

BIBLIOGRAFIA
Bruno Cartosio (a c. di), Wobbly, Shake, Milano 2007.
Joyce L. Kornbluh (ed.), Rebel Voices. An I.W.W. Anthology, University of
Michigan Press, Ann Arbor 1968.
Renato Musto (a c. di), Gli I.W.W. e il movimento operaio americano, Thélème,
Napoli 1975.
Patrick Renshaw, Il sindacalismo rivoluzionario negli Stati Uniti, Laterza, Bari
1970.
M.M.
World Trade Center (New York)
Difficile, nel post-11 settembre, non associare il World Trade Center (Wtc)
all’attacco terroristico che ha raso al suolo le Torri Gemelle, suo simbolo
incontestato. Da allora, il cuore del Financial District è diventato sinonimo
di Ground Zero, cratere materiale e metaforico di quell’evento traumatico e
della sua ricostruzione.
Ma che cosa sorgeva su quel fazzoletto di terra nella parte più bassa di
Manhattan prima degli anni sessanta del Novecento, quando fu progettato il
complesso di edifici e grattacieli (→) che avrebbero formato il Wtc? Quali
furono le dinamiche economiche e sociali di quella svolta urbanistica? E le
reazioni dei newyorkesi?
Già alle origini della storia coloniale, vale a dire con la fondazione di New
Amsterdam agli inizi del Seicento, l’estremità meridionale dell’isola (→
Isole) su cui si sarebbero stagliate le Torri Gemelle fu un luogo conteso,
teatro di scontri sanguinosi innescati a tutela della logica mercantilistica e
della proprietà privata. Com’è noto, furono gli olandesi della Dutch East
India Company a insediarsi per primi sulla punta di Manhattan
costruendovi, nel 1625, un fortino da cui amministrare e proteggere il
commercio di pelli lungo l’Hudson River. Peter Minuit, direttore generale di
quell’avamposto, decise di acquistare l’isola dai nativi lenape – i cui terreni
coltivabili erano comunque già stati occupati e recintati dai coloni olandesi
– con una negoziazione proditoria che li avrebbe privati della terra in
cambio della cifra irrisoria di 60 fiorini. Con l’arrivo del nuovo governatore
Willem Kieft, tra il 1640 e il 1645 le violenze contro i nativi si intensificarono
fino al massacro di Corlears Hook nel 1643, in cui i soldati olandesi uccisero
120 indiani (fra cui donne e bambini), avviando un biennio di belligeranza
(la «Kieft’s War») destinato a mietere vittime su entrambi i fronti. Oltre alla
mappa sghemba e irregolare delle strade di Lower Manhattan (così diverse
dal resto del reticolo cittadino → Acri) e ai classici stoops (→ Architetture),
del passaggio olandese nella futura New York (ribattezzata come tale nel
1664, quando gli inglesi la conquistarono), sarebbe rimasta quindi una
vocazione mercantile improntata all’azione sistematica e spesso spietata di
«arraffaterra» (land grabbers) senza scrupoli.
Lo spirito d’impresa che avrebbe costituito uno dei tratti salienti e più
affascinanti della città si diede quindi al costo di dolorose dislocazioni
umane: non solo gli indiani, ma anche gli schiavi africani che, trasportati
dalle navi negriere a partire dal Seicento, formavano il 40% della colonia
olandese e il 20% di quella inglese. In tempi assai più recenti, nel 1991, a
qualche isolato dal Wtc, è stato scoperto un cimitero afroamericano del
Settecento con i resti di 20mila neri, quasi tutti schiavi: i segni di usura
fisica riscontrati su quei cadaveri rendono memoria allo sfruttamento
umano su cui si è retta – scrive Andrew Ross – la fortuna commerciale della
città di allora, anticipando per molti versi le nuove forme di schiavitù
dettate dalle logiche della finanza globale, oggi incarnate da Wall Street
(→).
Più di tutto però, dalla seconda metà dell’Ottocento, la storia del Lower
West Side (così come era chiamato il corrispettivo occidentale del Lower
East Side [→], prima dell’avvento del Wtc) si legò a filo doppio a quella del
porto di New York, distribuito sulle due sponde dell’Hudson (da una parte
Manhattan, dall’altra il New Jersey), le cui acque, in mancanza di ponti e di
tunnel (il George Washington Bridge e il Lincoln Tunnel sarebbero stati
inaugurati negli anni trenta del Novecento, il Verrazzano-Narrows Bridge
nel 1964), erano solcate da imbarcazioni di ogni tipo. Oltre a essere il porto
più importante del paese, New York era anche stazione d’ingresso per i
milioni d’immigrati provenienti dall’Europa che, passati i cancelli di Ellis
Island (→ Isole), approdavano nel Nuovo mondo. Di questo brulicante
universo portuale il Lower West Side (come per altro il Lower East Side,
sull’East River) rappresentava il cuore pulsante: pontili, magazzini, uffici,
esercizi commerciali, in uno straordinario via vai di merci e di persone. Dal
1880, vi sarebbe fiorito il quartiere immigrato di Little Syria, una sorta di
bazar mediorientale che ospitava negozi siriani, libanesi, palestinesi,
iracheni ed egiziani. Quell’angolo di Manhattan avrebbe ospitato inoltre,
almeno fino agli anni sessanta, tanto Wall Street (→), fulcro del mercato
azionario nazionale e internazionale, quanto i tenements (→ Architetture)
più cadenti della città. Quando, alla fine degli anni cinquanta, David
Rockefeller (nipote di John → Robber barons) decise di costruire il quartier
generale della Chase Manhattan Bank tra Pine e Liberty Street, nel disegno
di «riqualifica» di Lower Manhattan cominciò a prendere forma l’idea di
realizzare un grande «Trade Center» sul modello del Rockefeller Center
costruito negli anni trenta a Midtown. Con l’appoggio politico del fratello
Nelson, allora governatore dello stato di New York, il magnate chiese
dunque all’istituzione più potente della città, la Port Authority, un progetto
di riconversione dei 564 acri sotto Canal Street, prospetto urbanistico
accolto dal New York Times come soluzione opportuna per radere al suolo gli
edifici più poveri di quel terreno «così prezioso» e riportare «l’ordine» in
quell’angolo di città. Nata nel 1922, la Port Authority era un ente pubblico
dalle competenze multiformi e dalle risorse immense, incaricato di
progettare, finanziare e amministrare la costruzione di infrastrutture
urbane e interurbane imponenti (ponti, sopraelevate, tunnel).
Accettando la proposta dei fratelli Rockefeller, la Port Authority scelse
quindi di mettere al servizio delle multinazionali i propri mezzi (architetti,
maestranze, avvocati, esperti finanziari) e si trasformò, come scrive Eric
Darnton, in un grande speculatore immobiliare. Mentre i maggiori servizi
commerciali e amministrativi del porto di New York venivano trasferiti nel
New Jersey, l’intero progetto del futuro Wtc fu così presentato dalla Port
Authority quale nuova sede degli esercizi un tempo distribuiti lungo i moli
(i cantieri navali, le ditte di spedizione, gli uffici contabili e assicurativi di
Whitehall Street). Nell’area designata alla costruzione del Wtc, si trovavano
– oltre alla già citata Little Syria, destinata a migrare verso Brooklyn – 43
fabbriche, più di un migliaio di uffici, un centinaio di residenti e circa 280
negozi, tra cui delicatessen, calzolai, ferramenta, barbieri e, in primo luogo, i
rivenditori di elettronica della cosiddetta Radio Row (che copriva quasi 15
isolati). Altro protagonista del vecchio Lower West Side spazzato via dal Wtc
era il Washington Market, un mercato che si estendeva fino al Lower East
Side. Nonostante la resistenza tenace dei commercianti, Port Authority
ebbe la meglio e vinse tutte le cause, sfrattando i vecchi residenti.
Cominciarono così, nel 1966, i lavori di demolizione e di scavo del
progetto firmato dall’architetto Minoru Yamasaki per l’erezione delle Torri
Gemelle, punta di diamante dell’intero Wtc – lavori che sarebbero terminati
sette anni dopo. Grazie agli ingenti capitali forniti da Rockefeller, Chase
Bank e Port Authority, l’impresa ingegneristica fu portata avanti usando il
meglio dei materiali e delle tecniche costruttive e confezionata in
un’estetica minimalista figlia degli anni sessanta e delle lezioni di Le
Corbusier e Donald Judd. La terra di riporto degli scavi delle Torri Gemelle
sarebbe stata utilizzata per la costruzione di Battery Park City, l’altro luogo
deputato alla riqualifica estetica di Lower Manhattan, una enclave ricca di
case, negozi, cinema, ristoranti, porticcioli, uffici e passeggiate.
La ricezione dei newyorkesi di quei nuovi giganti che svettavano nel
cielo di Manhattan fu, al meglio, controversa. Se celebre fu la stroncatura
del decano dell’urbanistica americana Lewis Mumford, che definì le Twin
Towers esempi di «gigantismo inutile ed esibizionismo tecnologico», specie
se paragonati a Empire, Chrysler e Woolworth, i grattacieli di Yamasaki,
scrive Phillip Lopate, sono sempre apparsi (almeno fino al loro crollo), dei
«parvenu». A dispetto della freddezza iniziale con cui furono salutate,
quelle due lastre di «vetro riflettente e alluminio anodizzato» diventarono il
simbolo dello skyline di Manhattan e con la completa occupazione dei loro
spazi furono artefici della rinascita di Lower Manhattan.
Diversi e altrettanto suggestivi gli epiteti con i quali scrittori e critici
hanno cercato di racchiudere la cifra culturale ed estetica di quei grattacieli
siamesi. Ne ricordiamo solo alcuni: «Everest del nostro Himalaya urbano» (e
come tali hanno ispirato le imprese più fantasiose: uno skydiver atterrò sulla
South Tower nel 1972; l’equilibrista francese Philippe Petit camminò avanti
e indietro tra i due grattacieli su una corda nel 1974; lo scrittore Colum
McCann vi si ispirò per il romanzo Questo bacio vada al mondo intero, del 2009;
George Willig scalò la stessa South Tower con attrezzatura da arrampicata
nel 1977; e King Kong vi torreggiò nel finale del remake 1976 del film
omonimo); «accendini coordinati» (sfingei e disumanizzanti, come sembra
ricordare l’esilarante episodio dei Simpson → Casa Simpson, in cui Homer
esplora tutti i loro 220 piani, alla vana ricerca di una toilette); «mastodontici
prodotti di massa» (perfetti per simboleggiare la funzione di hub del
mercato globale costruito sulla rimozione del tessuto sociale preesistente);
«altari di alluminio» e «Stonehenge» di New York, profanati, nella loro
opacità astratta e un po’ misteriosa, dagli attacchi terroristici del 26
febbraio 1993 (in cui, in seguito all’esplosione di una bomba, restarono in
piedi nonostante la tragica perdita di vite umane) e dell’11 settembre 2001,
quando crollarono su se stessi sotto lo schianto dei due aerei che li
trafissero.

BIBLIOGRAFIA
Eric Darton, Divided We Stand: A Biography of New York’s World Trade Center,
Basic Books, New York 1999.
Phillip Lopate, I segreti di Manhattan. La ricerca dell’isola perduta, il Saggiatore,
Milano 2008.
Michael Sorkin, Sharon Zukin (eds.), After the World Trade Center: Rethinking
New York City, Routledge, New York 2002.
C. SCAR.
[X]

Xerox & Apple


Siamo nel 1979, e un nerd (→) ventiquattrenne si reca in visita allo Xerox
Parc di Palo Alto, in California. La struttura, creata dieci anni prima dalla
Xerox, azienda leader nel mercato delle fotocopiatrici e delle stampanti, era
un laboratorio di ricerca e sviluppo dove lavoravano alcuni dei più quotati
ingegneri informatici e programmatori degli Stati Uniti. Il loro compito, in
maniera del tutto analoga a quanto facevano un secolo prima gli scienziati
di Menlo Park (→), era quello di creare i prodotti che la compagnia avrebbe
messo in commercio nel futuro.
Il giovane era Steve Jobs, fondatore della Apple Computers, una piccola
azienda molto promettente, per cui Xerox aveva ottenuto l’opzione di
acquisto su una massiccia quota azionaria. In cambio, per tre giorni Jobs
avrebbe potuto curiosare nello Xerox Parc: nessuno ancora poteva saperlo,
ma in quei tre giorni avrebbe avuto un’idea destinata a cambiare la nostra
vita quotidiana.
Un oggetto in particolare attirò la sua attenzione: lo Xerox Alto, una
versione primordiale di personal computer. Si trattava di una macchina
innovativa, perché consentiva all’utilizzatore di comunicare i comandi
senza usare la tastiera e inserire codici in un complicato linguaggio di
programmazione: per dare le istruzioni, si usava un oggetto dalla forma
squadrata, collegato con un cavo al computer – un antenato del mouse.
Grazie a questo congegno si potevano aprire e chiudere programmi,
cliccando sulle varie icone presenti sullo schermo. Jobs intuì che quella
procedura era la strada da battere nel futuro e che avrebbe consentito di
fare del computer un bene di massa.
Fondata nel 1906 con il nome The Haloid Photographic Company a
Rochester, nello stato di New York, la Xerox aveva sempre puntato su
prodotti innovativi. Agli inizi, si era concentrata su carta e strumenti per la
fotografia e, nel 1959, cambiato il nome in Haloid Xerox, aveva sfruttato la
xerografia – un metodo per la riproduzione di immagini a secco (xeros in
greco) inventato dal fisico Chester Carlson nel 1938 – come base di
funzionamento per la 914, la prima fotocopiatrice.
Il successo fu immediato e in pochi anni la Xerox era diventata un
colosso planetario, arrivando a oltre 500 milioni di dollari di utili in un
anno. La parola xerox entrò di prepotenza nell’American English, sia come
sostantivo per indicare la fotocopia sia come verbo per significare l’azione
della fotocopiatura. Il dominio del mercato era tale da indurre la Federal
Trade Commission, l’organismo che protegge i diritti dei consumatori, a
promuovere un’azione legale contro l’azienda, che si concluse con l’obbligo
di divulgare i brevetti: in poco tempo, le quote di mercato scesero dal 100 al
14%. Anticipando questo epilogo, la dirigenza aveva destinato risorse per la
ricerca su nuovi prodotti e da questo sforzo finanziario era uscito lo Xerox
Alto, che era però ancora troppo lento e costoso (16mila dollari) per essere
immesso sul mercato.
Jobs era convinto che si potesse produrre una macchina simile a prezzi
accessibili. Insieme a Steve Wozniak e Ronald Wayne, aveva fondato la
Apple Computers nel 1976 nel garage di casa, e nei primi tempi la scarsità di
mezzi aveva costretto i fondatori ad assemblare personalmente i primi pc.
Dopo la visita allo Xerox Parc, Jobs si mise al lavoro per riprodurre
un’interfaccia grafica simile a quella dell’Alto e commissionò a un
ingegnere progettista, Dean Hovey, un mouse che potesse essere venduto a
prezzo contenuto e fosse più resistente rispetto al prototipo visto in
funzione nel laboratorio.
Dopo soli tre anni, nel 1984, le fatiche furono premiate e l’azienda lanciò
sul mercato il computer Apple Macintosh che, grazie anche al filmato
pubblicitario girato da Ridley Scott (il regista di Blade Runner) ebbe un
discreto successo. A questo punto, si crearono attriti fra l’anima «creativa»
dell’azienda, capeggiata da Jobs, e quella più attenta ai bilanci, guidata dal
nuovo amministratore delegato John Sculley, incaricato dagli azionisti di
tenere a freno il primo, reo di usare eccessive risorse finanziarie per
realizzare prototipi di nuovi prodotti in cui l’azienda non credeva. Jobs fu
esautorato durante un consiglio di amministrazione e decise di lasciare la
sua creatura per lavorare senza restrizioni al miglioramento delle soluzioni
grafiche: nel 1986, fondò la NeXT Computers e l’anno successivo acquistò
The Graphics Group, la divisione grafica della Lucas Film, azienda di
produzione cinematografica fondata da George Lucas, il creatore della saga
Guerre stellari. Cambiato il nome in Pixar, la divisione realizzò alcuni film
animati di successo in collaborazione con la Disney, come Toy Story (1995).
Nel frattempo, Apple subiva la concorrenza di nuovi e più aggressivi
attori nel mercato dell’informatica: in primis, la Microsoft di Bill Gates che,
grazie al software Windows e soprattutto ai programmi di videoscrittura
adatti per computer a basso costo, conquistò presto una posizione
dominante. Jobs fu richiamato e, nominato amministratore delegato,
cominciò a ristrutturare in maniera aggressiva l’azienda. La parola
«Computers» scomparve dal nome ufficiale della compagnia, a significare
un cambio di rotta: Apple avrebbe continuato a puntare sulla qualità, ma
avrebbe differenziato la gamma dei prodotti, per raggiungere nuove fasce di
consumatori. Con gli anni 2000, furono lanciati prodotti per la riproduzione
musicale e per la telefonia, che integravano funzioni specifiche del pc e la
connessione a internet: fu la svolta che trasformò Apple in un colosso
globale e nell’azienda di valore più alto dell’intera borsa americana. La
resurrezione deve molto alla «visione» di Jobs, anche se da più parti
giunsero aspre critiche riguardo a un’organizzazione del lavoro giudicata
sovente «dittatoriale». La sua parabola ne fa comunque un nuovo «eroe»
americano, che combina il genio di Edison (→ Menlo Park) alla retorica sul
duro lavoro alla Horatio Alger (→ Rags to riches), un’identificazione
rinforzata dal discorso inaugurale tenuto all’Università di Stanford nel 2005
e diventato ormai celebre: l’infanzia difficile di bambino adottato, i sacrifici
per andare al college (mai terminato), le sette miglia di cammino ogni
settimana per un pasto gratis al tempio Hare Krisna, le notti a dormire sul
pavimento della stanza di un amico…
Resta ancora il mistero legato al nome Apple. Ci sono almeno dieci
versioni diverse in circolazione: alcuni lo ritengono un omaggio ai Beatles
(la cui casa discografica si chiamava Apple), altri fanno riferimento al
periodo in cui Jobs lavorava alla raccolta delle mele in Oregon, altri ancora
attribuiscono l’illuminazione a una mela addentata nella cucina dove i tre
fondatori stavano cercando un nome dal sapore familiare, in
contrapposizione alle sigle fredde e incomprensibili tipiche delle aziende
informatiche di allora. Le idee migliori stanno sempre sotto il naso: l’hanno
imparato persino quelli della Xerox.

BIBLIOGRAFIA
Michael Hiltzik, Dealers of Lightning: Xerox PARC and the Dawn of the Computer
Age, HarperCollins, New York 2000.
Elliot Jay, Simon L. William, Steve Jobs, l’uomo che ha inventato il futuro, Hoepli,
Milano 2011.
S.M.Z.
[Y]

Yankee
I «New York Yankees», il «Yankee Stadium», «Yankee Doodle went to
town», «A Connecticut Yankee», «Yankees, Go Home»… È un termine che
si carica di volta in volta d’affetto, ironia, disprezzo, odio. Ma che cosa
significa? da dove viene?
A voler essere irriverenti, vien subito da dire che è sinonimo di
«Giovannino Formaggino». Il Webster’s New World Dictionary spiega infatti
che il termine potrebbe venire dall’olandese «Jan Kees», forma dialettale di
kaas = formaggio, e che sarebbe stato usato in origine dagli inglesi come
appellativo spregiativo nei confronti dei pirati olandesi – e, in seguito,
viceversa: dagli olandesi nei confronti dei coloni inglesi del Connecticut. Per
l’appunto, «Giovannino Formaggino». Ma l’inevitabile Henry Louis
Mencken aggiunge altre ipotesi: dallo scozzese yankie = «balla colossale»;
dall’originale olandese della canzone «Yankee Doodle», che inizia con
«Yanker didee doodle down»; dalla pronuncia sbagliata di «English» (o del
francese «Anglais») da parte di qualche parlante indiano-americano. Il
commento di Mencken è rivelatore: «Qui, come in altre occasioni, la ricerca
delle etimologie americane resta tristemente incompleta».
«Yankee» rimase comunque a indicare un americano di origine inglese, e
ancor più specificamente del New England, con le qualità (o i vizi?) che gli
vennero via via attribuiti: pragmatismo, inventiva, ottimismo,
efficientismo, faciloneria, arroganza – insomma, il vero «Connecticut
Yankee» di Mark Twain. Così, c’erano «Yankee whalers» (baleniere),
«Yankee peddlers» (venditori ambulanti di orologi costruiti nel
Connecticut), e anche uno «Yankee rhum». Certo, un che di spregiativo gli è
sempre rimasto attaccato: fin da quando, durante la Guerra civile (→), fu
usato nel Sud per indicare i «nordisti».
(Le contraddittorie valenze del termine sono bene riassunte nel film di
John Schlesinger Yankee, del 1979, ambientato in una cittadina
dell’Inghilterra settentrionale, durante la Seconda guerra mondiale).
BIBLIOGRAFIA
Oscar Handlin, «Yankees», in Stephan Thernstrom (ed.), Harvard
Encyclopedia of American Ethnic Groups, Harvard University Press,
Cambridge 1980.
Henry Louis Mencken, The American Language, Alfred A. Knopf, New York
1923.
M.M.

Yoghi (Yellowstone, Yosemite e altri parchi)


L’episodio inaugurale dello Yogi Bear Show (L’orso Yoghi, 1961), cartone
animato di Hanna e Barbera, si apre su un bosco a misura d’uomo, con
alberi ben potati e sentieri puliti in cui sfila una processione di auto colorate
con camper a rimorchio: «Ogni estate», recita la voce fuori campo, «migliaia
di turisti che vogliono divertirsi si recano in villeggiatura nei grandi spazi
aperti d’America e il loro luogo preferito è la meraviglia della natura
chiamata Jellistone National Park». Dopo i fotogrammi iniziali, da dietro un
cespuglio spuntano un orso in cravatta (Yoghi) e un altro, più piccolo, con
papillon (Bubu). Al lamento di Yoghi, stanco di essere additato dai bambini e
smanioso di uscire da Jellistone, seguiranno, per tutte le puntate a venire, i
suoi goffi tentativi di rubare i cestini da picnic ai campeggiatori e le
immancabili scaramucce con il Park Ranger Smith.
Simulazione televisiva di Yellowstone, Jellistone compendia alcune delle
caratteristiche di molti parchi nazionali: un’irrinunciabile vocazione
turistica, un accesso preferenziale alle auto, la predominanza, almeno nella
prima metà del secolo scorso, di animali di grossa taglia. Il cartoon di Hanna
e Barbera ci riporta a un’idea di natura che prende forma nell’era
progressista, a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando la nozione di
wilderness (→), alimentata da una fantasia pastorale intenta ad
addomesticare il «great outdoor» del paese, è «costruita» a livello culturale
grazie a una congiuntura storica che vede lo sviluppo delle ferrovie
transcontinentali (→ Promontory Point), la nascita del mercato nazionale,
la diffusione della pubblicità stampata e, non ultimo, un interesse di
Washington a fruire in modo conveniente degli spettacolari scenari
dell’Ovest (→ Grand Canyon).
La storia di Yellowstone, così come quella di Yosemite, va letta alla luce
di un periodo, gli anni settanta dell’Ottocento, in cui, grazie ai
finanziamenti del governo centrale, l’Ovest è oggetto di esplorazioni
geologiche e mappature geografiche straordinarie. Nel 1871, mentre
Clarence King, futuro direttore dello U.S. Geological Survey, laureato in
geologia a Yale e amico di Henry Adams (→ Famiglie A[d]dams), scrive un
resoconto sulla natura geomorfologica della Sierra Nevada (Mountaineering
in the Sierra Nevada), George Wheeler comincia il suo survey cartografico dei
territori del Nevada orientale e dell’Arizona, Ferdinand V. Hayden guida
una spedizione sullo Yellowstone River, nella regione del Wyoming che
ospiterà il primo parco nazionale, e John W. Powell inizia a ridiscendere il
Colorado e il Green River, verso il Grand Canyon. La divulgazione delle
pagine dei diari e dei resoconti di queste spedizioni contribuisce non solo al
consolidarsi di un interesse federale nella conservazione di alcune aree
naturali, ma anche all’imprimersi dei paesaggi delle Montagne Rocciose, del
Grand Canyon e della Sierra Nevada nell’immaginario dell’intero paese
(specie dell’Est). Le descrizioni metaforiche di Clarence King aprono la
strada al paradigma geologico del catastrofismo (in opposizione a uno
statico creazionismo), collocando l’orogenesi della Sierra Nevada in un
teatro preistorico («un tempo in cui Atlantico e Pacifico erano un unico
oceano nelle cui profondità si stavano raccogliendo e stratificando enormi
cumuli di sabbia e rocce polverizzate»), in cui si avvicendano continui
cataclismi. Nel 1863, di fronte a quei segni di incredibile potenza tellurica,
Frederick Law Olmsted, l’architetto del paesaggio da poco incaricato della
progettazione di Central Park (→), dirà che la Yosemite Valley è «la più
grande gloria della natura». Il passaggio nella Sierra Nevada di Olmsted non
è casuale: se negli sviluppi futuri del parco la sua influenza sarà
trascurabile, a livello simbolico, l’impronta architettonica e ingegneristica
da lui incarnata risulterà seminale nell’esperimento di conservazione della
wilderness (→) dei decenni successivi.
Al cospetto della bellezza terribile e sublime di innumerevoli scorci delle
Montagne Rocciose, del Grand Canyon e, soprattutto, della Sierra Nevada –
una regione il cui segreto, scrive il filosofo Jean Baudrillard, «è forse il fatto
di essere stata in origine un rilievo sottomarino, e di aver conservato una
surrealtà di rilievo oceanico a cielo aperto» (si vedano al riguardo le
straordinarie fotografie di Ansel Adams, scattate negli anni quaranta del
Novecento) –, il senso di sopraffazione degli esploratori lascerà spazio a
politiche federali mirate alla salvaguardia di quegli ambienti,
provvedimenti che si andranno a intensificare sotto la presidenza di
Theodore Roosevelt (1901-1909), convinto sostenitore della vita all’aria
aperta (→ Teddy bear). È grazie alla sua spinta propulsiva che Washington
interverrà a difesa delle foreste nazionali minacciate dall’azione
incontrollata di ranchers, cacciatori di professione e taglialegna. A questo
scopo, il 26º presidente degli Stati Uniti istituirà il Servizio forestale (1905) e
lo affiderà alla guida di Gifford Pinchot, maggiore apostolo del vangelo
conservazionista, sotto il cui operato saranno avviate politiche di controllo
degli incendi e di selezione di alcune specie biologiche e zoologiche, che si
riveleranno spesso controproducenti, portando tanto all’accrescimento
della potenza dei primi quanto alla proliferazione incontrollata delle
seconde. Nei parchi nazionali, questa matrice ingegneristica sarà, se
possibile, ancora più vigorosa.
Nel 1872, il Congresso decide di recintare un appezzamento di terra di
circa 8900 chilometri quadrati (un po’ più della superficie dell’Umbria) là
dove scorre il fiume Yellowstone (così chiamato per le rocce gialle che vi si
riflettono), nel punto in cui il territorio dell’attuale Wyoming
nordoccidentale incontra i confinanti Idaho e Montana. Inadatto a un uso
agricolo – considerati i 6000 piedi di altitudine e il congelamento per lunghi
periodi dell’anno –, quel luogo così primitivo presenta tuttavia una serie di
meraviglie geotermiche (migliaia di geyser, di cui il più celebre, l’Old
Faithful, intervalla i suoi getti a cadenze tanto regolari da poter essere
cronometrate a uso e consumo dei visitatori) che non devono sfuggire alle
lobbies (→ Lobby & caucus) delle compagnie ferroviarie (→ Promontory
Point) e del nascente turismo.
Il senatore Henry Dawes – lo stesso che firmerà il General Allotment Act
del 1887 – nell’adoperarsi alla creazione di Yellowstone dirà che l’ambiente
lì è talmente selvaggio da risultare impervio persino per gli indiani. Com’è
noto, non saranno le asperità naturali di Yellowstone ad allontanare i nativi
che, al contrario, dalle risorse di quella regione dipendono per la
sussistenza, ma una serie di leggi volte a confinare le tribù bannock,
shoshone, blackfeet e crow nelle riserve (→ Ombre rosse), impedendo loro
di cacciare e pescare su altri terreni pubblici. Il destino degli indiani nel
parco nazionale di Yellowstone (e in molti altri) sarà insomma strumentale
ai profitti delle ferrovie: in una prima fase, la presenza dei nativi sarà vista
come un deterrente allo sviluppo commerciale, una minaccia
all’impacchettamento turistico di quell’ecosistema; in una seconda, la
Northern Pacific riesumerà i Blackfeet per magnificare la bellezza del
Glacier National Park.
Fin qui lo Yellowstone storico e turistico. C’è poi uno Yellowstone
scientifico, delizia di geologi intenti a spiegarne gli straordinari fenomeni
geotermici. Circa 65 milioni di anni fa, all’epoca dell’orogenesi delle
Montagne Rocciose, potenti attriti tettonici attraversano la regione di
Yellowstone e il magma del centro della terra erutta da enormi vulcani. Le
esplosioni continuano, e dall’ultima (circa 600mila anni fa) emerge il
paesaggio che conosciamo ancora oggi, caratterizzato dal formarsi di un
calderone vulcanico disseminato di coni montagnosi al di sotto del quale
acque pressurizzate risalgono in superficie, si riscaldano e danno vita a
fumarole, laghi caldi, pozze di fango ribollenti e, in particolare, geyser (circa
trecento: oltre al già citato Old Faithful, ci sono l’Excelsior, il Riverside, il
Grotto, il Beehive, il Castle, il Great, il Fountain ecc.); di epoca più recente,
risalente cioè all’ultimo ritiro dei ghiacciai 16mila anni fa, è invece la
formazione della verdissima Hayden Valley. Nel suo insieme, Yellowstone è
una terra generata dal fuoco dei vulcani e scolpita dall’azione dei ghiacci e
delle acque (il fiume e il lago) e tutta da contemplare (molti sono i punti in
cui la visuale è mozzafiato: Artist Point, Inspiration Point, Lookout Point). E
che dire dello Yellowstone di botanici e zoologi, che ospita ricchissime
varietà di flora (le foreste di conifere, i prati delle valli, la vegetazione
lacustre) e di fauna (bisonti, grizzly e alci nella Hayden Valley; uccelli
acquatici e gabbiani sul fiume; alci, bisonti, daini, coyote, bighorn e grizzly
nella Lamar Valley)?
Per molti versi, il primato storico di Yellowstone è anticipato da
Yosemite che, pur diventando parco nazionale solo nel 1890, gioca un ruolo
fondamentale nella nascita e nello sviluppo del Park Movement, grazie alla
figura di John Muir, pioniere dell’ambientalismo (→ Wilderness). Prima
della Gold Rush (→ Oro!), l’area di Yosemite è abitata dai nativi paiute,
miwok e ahwahneechee: contro questi ultimi si consumano, nel 1851, le
Mariposa Wars (→ Guerre indiane) che portano alla loro estromissione dalla
regione. Preoccupato dello sfruttamento commerciale crescente – e
incontrollato – di Yosemite, nel 1864, il presidente Lincoln firma lo
Yosemite Grant, una legge che, per la prima volta nella storia nazionale,
prevede la creazione di un’area naturale protetta. Negli anni novanta
dell’Ottocento, insieme al giornalista Robert Underwood Johnson, Muir
diventa uno strenuo assertore della necessità di tutelare la Yosemite Valley,
soprattutto gli alpeggi (consumati dal pascolo) e le sequoie (abbattute per il
legname), facendone un parco nazionale: ciò che avverrà nel 1890, quando il
Congresso lo dichiarerà tale, lasciandolo però sotto la giurisdizione dello
stato californiano. L’obiettivo di Muir e del Sierra Club – il primo circolo
ambientalista grassroots, «dal basso», fondato nel 1892 – sarà quindi di
rendere Yosemite un parco unificato, controllato dal governo centrale. Nel
1903, proprio quando si apre il contenzioso circa la Hetch Hetchy Valley (→
Wilderness), luogo interno al territorio di Yosemite dove i
«conservazionisti» di Gifford Pinchot (e le istituzioni di San Francisco)
vogliono costruire una diga (→ Hoover; → Big One), Muir campeggia con
Roosevelt nel parco cercando di convincerlo dell’urgenza di salvaguardare
quel patrimonio naturale: così sarà, e dal 1906 Yosemite entrerà sotto la
giurisdizione federale.
Nel cuore della Sierra Nevada – il cui nucleo è costituito da un unico
blocco di batolite, un enorme pezzo di crosta terrestre spinta all’insù tra i
115 e gli 87 milioni di anni fa –, c’è dunque Yosemite, con i suoi picchi di
colore blu, grigio e alabastro, i canyon, i più grandi alberi al mondo e
cascate formidabili. La Yosemite Valley è un corridoio verde di origine
glaciale punteggiato dai classici cedri della California (con la corteccia
rossastra), il Pacific Dogwood, gli abeti bianchi, i pini ponderosa e i
Lodgepole, gli aceri e quei monumenti all’antichità che sono le querce nere
della California. A delimitare la valle, quasi alla stregua di sentinelle, si
ergono bastioni di granito a forma di pomi, spirali, cupole arrotondate e
monoliti spigolosi che arrivano fino a 1200 metri di altezza, tra cui spiccano
El Capitan e Half Dome. L’aspetto smussato di queste rocce è il frutto del
fenomeno geologico di foliazione con cui il granito perde i suoi strati
esterni in seguito alle variazione delle temperature. Conosciuto come il
«luogo delle acque danzanti», il solo parco di Yosemite ospita la metà delle
cascate più alte del paese: le Yosemite Falls, 739 metri, hanno il record
nordamericano e sovrastano i 50 metri delle Niagara Falls (→). Anche
quanto a ricchezza faunistica, con le sue 220 specie di uccelli e 75 di
mammiferi Yosemite è un patrimonio mondiale.
Sebbene il primato storico di Yellowstone e Yosemite ne abbia fatto due
simboli della wilderness americana e due pietre miliari della fantasia
pastorale collettiva, esistono altri 56 parchi nazionali sul territorio degli
Stati Uniti (e non solo nell’Ovest, dove pure prevalgono per numero e
superficie): Sequoia (California, 1890), Mount Rainier (Washington, 1890),
Crater Lake (Oregon, 1902), Mesa Verde (Colorado, 1906), Glacier (Montana,
1910), Montagne Rocciose (Colorado, 1915), Haleakal (Hawaii, 1916), Denali
(Alaska, 1917), Zion (Utah, 1919), Grand Canyon (Arizona, 1919), Acadia
(Maine, 1919), Hot Springs (Arkansas, 1921), Shenandoah (Virginia, 1926),
Bryce Canyon (Utah, 1928), Grand Teton (Wyoming, 1929), Isle Royale
(Michigan, 1931), Great Smoky Mountains (North Carolina, 1934), solo per
citare quelli più storici. Gestiti dal National Park Service istituito nel 1916 da
Woodrow Wilson con il National Park Service Organic Act (destinato a
«preservare e proteggere… e consentire il divertimento ai visitatori»), i
parchi nazionali sono una delle maggiori risorse del turismo americano, una
vocazione commerciale che stride con le politiche di preservazione naturale
di ecosistemi complessi e fragili minacciati dalla presenza delle automobili.
Tornando a bomba su Yoghi, un paio di consigli a chi volesse visitare
Yellowstone o Yosemite senza avere incontri spiacevoli (o contrarre multe
salate). Non lasciare provviste e spazzatura all’aperto (se non nei
contenitori appositi) e non credere che gli orsi abbiano la voce di Oreste
Lionello (doppiatore di Bubu) o l’aspetto tenero del Teddy bear. Fidarsi
invece della scritta che può comparire su alcuni specchietti retrovisori delle
auto: «Attenzione: gli oggetti potrebbero essere più vicini di come
appaiono».

BIBLIOGRAFIA
Alston Chase, Playing God at Yellowstone: The Destruction of America’s First
National Park, Atlantic Monthly Press, Boston 1986.
Richard A. Grusin, Culture, Technology, and the Creation of American National
Parks, Cambridge University Press, New York 2004.
National Geographic Society, Guide to National Parks of the United States,
National Geographic, Washington 19896.
Alfred Runte, Yosemite: The Embattled Wilderness, University of Nebraska
Press, Lincoln 1990.
C. SCAR.
[Z]

Ziegfeld Follies
Sbirciare di tra le quinte del Jardin de Paris o del New Amsterdam Theatre
di New York le Ziegfeld Girls, con i loro abiti ricchi e stuzzicanti (spesso
disegnati da Erté), le paillettes e le luci, o ascoltare le canzoni-monologo di
artiste spregiudicate come Sophie Tucker («Nessuno ama una ragazza
grassa, ma, oh!, come può amare una ragazza grassa»), Eva Tanguay («L’han
sempre fatto prima, ma non come lo faccio io»), Fanny Brice («Il mio
uomo», dall’omonimo successo francese reso famoso da Mistinguett), i
numeri di cantanti-attori come W.C. Fields, Eddie Cantor o Will Rogers, le
musiche di Irving Berlin e George Gershwin, sarebbe un po’ come stare con
un piede nella Bowery (→) e uno a Broadway (→).
Fra il 1907 e il 1931, ma con qualche edizione successiva (quella del 1936
si avvarrà di Ira Gershwin per le parole), le Ziegfeld Follies si proponevano
come la risposta americana alle Folies-Bergère parigine: una rivista,
suddivisa in scene e atti, che proponeva quanto di meglio offriva, in termini
di musica e testi, il mondo dell’entertainment contemporaneo. Nate dal
vaudeville (→), dal minstrel show (→) e da spettacoli affini a quelli cui si
poteva assistere lungo la Bowery (Tucker, in particolare, utilizzava spesso
compositori afroamericani per i suoi numeri e avrà più tardi un successo
clamoroso con la canzone «My Yiddishe Momme», mentre Tanguay
riprendeva la tradizione delle cantanti da saloon metropolitano), le «Follie»
furono inventate da Florenz Ziegfeld, grande impresario teatrale di madre
belga e padre tedesco, dietro suggerimento della moglie Anne Held, altra
stella spregiudicata dell’avanspettacolo dell’epoca.
Le «ragazze di Ziegfeld», le componenti della chorus line (la fila di
ballerine che accompagnavano l’esibizione di un/a cantante, muovendosi
sinuosamente), venivano scelte di persona dall’impresario, avevano tutte la
stessa statura ed erano senza dubbio alquanto attraenti. Per molte di loro, le
«Follie» sarebbero state il trampolino verso carriere prodigiose, e non
soltanto nel campo dello spettacolo: è il caso di Louise Brooks, la celebre
Lulù del regista espressionista tedesco G.W. Pabst, o di Paulette Goddard, la
cui strada incrociò presto, sul piano professionale come su quello
sentimentale, quella di Charlie Chaplin (Tempi moderni, 1936), mentre
Marion Davies incontrerà il magnate della carta stampata William Randolph
Hearst, con cui avrà una «scandalosa» relazione per parecchi anni e che
finanzierà numerosi dei suoi film nel corso degli anni venti. A produrre le
«Ziegfeld Follies» era invece il duo Klaw & Erlanger, che, nei primi anni del
Novecento, giunse a monopolizzare il mondo del teatro musicale e fu
decisivo nel mettere in moto la macchina di Broadway (→).
Storie spesso travagliate, di lustrini e miserie umane, di amori
travolgenti e grandi falsità, di rapidi successi e cadute rovinose, in un
mondo che stava ormai diventando Hollywood. Eva Tanguay aveva
progettato di intitolare la propria autobiografia, Up and Down the Ladder –
«Su e giù dalla scala»: e per una volta non aveva cercato di essere allusiva.

BIBLIOGRAFIA
Robert C. Allen, Horrible Prettiness. Burlesque and American Culture, University
of North Carolina Press, Chapel Hill 1991.
Russell Nye, The Unembarrassed Muse. The Popular Arts in America, The Dial
Press, New York 1970.
M.M.

Ziti, zeppole e capocollo


Gli immigrati italiani che approdano a Ellis Island sul finire dell’Ottocento
non credono, come vuole una leggenda, che in America le strade siano
lastricate d’oro: ma che le tavole siano ricolme di cibo, questo sì.
Provenienti per lo più dalle regioni rurali d’Italia (Sicilia, Campania, Lucania
e Calabria; ma non solo: anche Liguria e Veneto), i protagonisti delle
imponenti ondate migratorie che si riversano al di là dell’Atlantico tra il
1880 e il 1920 hanno alle spalle diete di sussistenza misurate su pane,
polenta, riso e poco altro. Lontane dalle combinazioni culinarie di
Pellegrino Artusi che, con La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891),
contribuisce a divulgare l’idea di una gastronomia italiana ricca, in cui
compare una messe di carni, formaggi e oli ad appannaggio esclusivo delle
classi più alte, le ricette dei contadini paesani sbarcati a New York si
compongono di elementi poveri. Luogo di proverbiale abbondanza, il
Bengodi americano permetterà agli italiani di prima generazione di saziare
la loro fame atavica nonostante le condizioni di estrema miseria in cui
vivranno. Nel tempo, la natura contadina dei loro piatti magri andrà
tuttavia a mutare a contatto con la sopraggiunta disponibilità di carni,
formaggi, uova e latte. Se, in ambito domestico, i celebri «Sunday dinners»
si faranno luculliani e nelle festività patronali prenderà piede il «cannoli
eating contest» (la gara a chi mangia più cannoli), in pubblico le trattorie e i
ristoranti italiani appronteranno menù acconci agli usi americani in cui,
oltre a offrire porzioni extralarge, la pizza (fatta all’origine con gli avanzi
dell’impasto del pane) si trasformerà in un disco volante guarnito degli
ingredienti più disparati e gli spaghetti non si daranno mai senza polpette
(è agli immancabili «spaghetti and meatballs» che i ristoratori di origini
abruzzesi di Big Night, film del 1996 di Stanley Tucci, tentano di sottrarsi,
«perché gli spaghetti, a volte, preferiscono starsene da soli»).
Al ricordo degli stenti e del duro lavoro nelle campagne si aggiunge,
nella memoria individuale e collettiva degli immigrati italiani, la centralità
di una serie di consuetudini socioalimentari che vedono nella donna l’unica
vestale del cibo, la figura incaricata di custodire denari e dispensa e di
gestire i pasti con parsimonia, garantendo un minimo di provviste
supplementari per le festività. Data la fatica di mettere sulla tavola il pane
quotidiano, i pranzi sono investiti di una sacralità pagana, diventando
occasioni conviviali di unità familiare. Nella narrazione collettiva
dell’etnicità italoamericana, i momenti di preparazione e di consumazione
del cibo sono quindi depositari di valori tradizionali, diventando strumenti
di trasmissione culturale tra le diverse generazioni; la letteratura ne è ricca:
da Cristo tra i muratori (1938) di Pietro Di Donato ad Aspetta primavera, Bandini
(1938) di John Fante, da Mount Allegro (1943) di Jerre Mangione a The
Fortunate Pilgrim (1965) e Il padrino (The Godfather, 1969) di Mario Puzo e lo
studio autobiografico di Richard Gambino Blood of My Blood (1974). Molte di
queste opere di matrice autobiografica sottolineano l’importanza del
succulento pranzo della domenica, occasione in cui il clan (nonni, padri,
madri e nipoti) si riunisce intorno a una tavola imbandita a festa dalle
donne. Il rispetto del «Sunday dinner» – che comincia nel primo
pomeriggio e prosegue fino a sera – è una tappa indispensabile
nell’educazione della prole e non parteciparvi significa venir meno ai
legami di discendenza, come suggerisce l’epiteto «mangia cake» (o, meglio,
«mangiachecche» → Forte gelato) affibbiato ai figli che si stanno
convertendo ad abitudini alimentari troppo «American» (o «merdican», con
allusione sprezzante agli yankees →). Benché la cura dei pasti (festivi e
ordinari) secondo un ricettario trasmesso di madre in figlia sia una faccenda
femminile, i romanzi appena citati seguono una prospettiva maschile che
sarà ulteriormente rafforzata dai classici cinematografici di Francis Ford
Coppola Il padrino (I 1972, II 1974, III 1990, scritto con Mario Puzo) e Martin
Scorsese, Quei bravi ragazzi (GoodFellas, 1990) – ma anche, in parte, dal
raffinato e satirico L’onore dei Prizzi (1985) di John Huston – in cui il cibo
italiano è associato alla vita di mafiosi. Vista la qualità estetica dei film di
Coppola e Scorsese, non stupisce che fotogrammi con polpette ingollate tra
una sparatoria e l’altra, banchetti di famiglie molto particolari, piatti di
pasta al forno divorati nel mezzo della notte da «bravi ragazzi» con la
pistola (offerti, in GoodFellas, dalla madre di Tommy de Vito interpretata da
Catherine Scorsese, già protagonista del film documentario del figlio
Italoamericani, 1974, e futura autrice di Italianamerican: The Scorsese Family
Cookbook) e matrimoni con mandolini e mazzette abbiano finito per
colonizzare l’immaginario collettivo. Queste narrazioni, filmiche e
letterarie, assegnano alla donna un ruolo precostituito e stereotipo che la
vuole reclusa in cucina in una visione assai patriarcale. Saranno alcune
scrittrici italoamericane di terza generazione a mettere in discussione la
vulgata culturale Puzo-Coppola, dando voce all’esperienza femminile
all’interno di quell’universo a partire dalla gastronomia. Oltre a Helen
Barolini, autrice di spicco di Umbertina (romanzo autobiografico del 1979),
The Dream Book (raccolta di opere di narratrici e poetesse italoamericane del
1985) e Festa: Recipes and Recollections of Italian Holidays (1985), ricettario
recuperato alla memoria al motto di «mangiando, ricordo», ci sono Louise
DeSalvo, Rose Romano, Giovanna Capone, Nancy Caronia e Sandra M.
Gilbert che, in una poesia intitolata Mafioso, rifiuta di sentirsi affiliata, in
quanto americana di origini italiane, a un cliché sociologico in cui celebri
figure della malavita fanno tutt’uno con spaghetti e lasagne: «Frank
Costello che mangia spaghetti in una cella a San Quentin / Lucky Luciano
che fa su una raffica di proiettili e chiede il parmigiano / Al Capone che
cuoce un fucile a canna mozza in / un’enorme lasagna – / siete voi i miei zii,
i miei / soli zii?». Altro stereotipo di matrice maschile rivoltato come un
guanto, per esempio da Louise DeSalvo in Vertigo, è quello che vede nel cibo
della madre italiana un concentrato simbolico di amore capace di nutrire in
maniera assoluta l’emotività dei figli (e delle figlie), nascondendo invece
aspetti di oppressione psicologica che possono portare a bulimia e
anoressia.
Se, a questo punto, è chiaro che zeppole, cannoli e sfogliatelle non sono
poi innocenti come sembrano – a ricordarcelo anche un paio di belle
commedie newyorkesi sulla vita di onesti cittadini in procinto di (non)
sposarsi sulle note di O sole mio come Stregata dalla luna (Moonstruck, 1987), di
Norman Jewison, e True Love (1989) di Nancy Savoca – uno sguardo a I
Soprano, serie tv (→) creata da David Chase e trasmessa dalla Hbo dal 1999 al
2007, può complicare ulteriormente le cose. Sebbene non proprio al
corrente delle implicazioni psicoanalitiche che possono scaturire dalla
parmigiana che gli ammannisce la terribile madre Livia, persino il mafioso
del New Jersey Tony Soprano deve farsi, con l’aiuto di una strizzacervelli,
un’idea circa le associazioni patologiche tra cibo e affettività. Per molti
versi I Soprano riprende la parabola disegnata da Coppola e Scorsese di una
rappresentazione del cibo italiano quasi corollario della cultura mafiosa,
mentre per altri la mette in discussione. Simile ma non del tutto
assimilabile ai toni eroicomici di Scorsese, la stessa ironia residuale con cui
David Chase tratta le aspettative ridotte e frustrate degli uomini di Tony –
mafiosi in minore che uccidono per carichi di provolone e Vespe rubate e
sono pronti a sparare su un commesso per un vassoio di napolis e sfugliadels
– si dispiega anche sulla dimensione simbolica del cibo. Così, Tony Soprano
(interpretato da un James Gandolfini tanto credibile da essere lievitato di
peso nel corso delle sei stagioni), che soffre di attacchi di panico legati alla
visione della carne di una macelleria a cui il padre chiedeva il pizzo, sviene
più volte al cospetto di fettine di gobagool (capocollo) e bottoni di sazeech
(salsiccia). Anche sugli ziti – nella variante al forno, «baked ziti» – si
consumano scene esilaranti: dalla battuta di Anthony Jr (figlio di Tony e
Carmela) che, il giorno del suo compleanno, di fronte alla defezione della
nonna Livia sbotta con un «no fuckin’ ziti then?», alle gare a suon di «ziti
casseroles» tra Carmela e altre consorti malavitose per ingraziarsi le
simpatie di padre Phil, appena arrivato nella parrocchia. A soddisfare
l’appetito pantagruelico di Tony Soprano, nella cucina di Carmela così come
nei ristoranti che frequenta (in cima alla lista, il «Nuovo Vesuvio»
dell’amico Artie Bucco), è possibile trovare un campionario completo di
cultura culinario-linguistica italoamericana: manigotti, rigatoni, ziti, lasagne,
pastin’, pizzaiol’, parmigiana, pizza, calzon’, mortadell’, gobagool, salami, sazeech,
provolone, parmigiano, mozzarell’, buffalo mozzarell’, ricotta, pecorino, capucchino,
mostaccioli, zabaione, limoncello, sambuca, cannoli, sfugliadel’, napolis…
E poi le zeppole, le cui proprietà «stupefacenti», a detta di Tony
Blundetto (Steve Buscemi), finiscono direttamente nel sangue: «Il nostro
corpo è per l’86% acqua. Nelle sue ultime analisi del sangue era 65%
zeppola».

BIBLIOGRAFIA
Simone Cinotto, Una famiglia che mangia insieme. Cibo ed etnicità nella comunità
italoamericana di New York, 1920-1940, Otto, Torino 2001.
Hasia R. Diner, Hungering for America. Italian, Irish, and Jewish Foodways in the
Age of Migration, Harvard University Press, Cambridge 2001.
Donna R. Gabaccia, We Are What We Eat: Ethnic Food and the Making of
Americans, Harvard University Press, Cambridge 1998.
Fred L. Gardaphe, Leaving Little Italy: Essaying Italian American Culture, State
University of New York, New York 2004.
Edvige Giunta, Writing with an Accent: Contemporary Italian American Women
Writers, Palgrave, New York 2002.
C. SCAR.

Zoot suit
La Grande depressione (→) non solo privò la popolazione statunitense di
mezzi di sostentamento, ma ebbe ricadute anche sulla psiche collettiva: gli
uomini, per esempio, non più in grado di svolgere il ruolo di breadwinners e
di provvedere alla famiglia, si sentivano privati della loro stessa mascolinità.
Uno dei modi per riconquistarla – intuì Frederick Scholte, sarto tedesco
trapiantato a Londra – poteva passare attraverso il vestiario: la sua idea era
creare un abito che, grazie ad alcuni accorgimenti (giacca ampia, spalle
rinforzate, petto ingrandito, pantaloni larghi a vita alta), producesse
l’effetto di aumentare la massa corporea di chi lo indossava.
Lo stile di Scholte attraversò l’Atlantico e, con il nome «English drapes»,
non impiegò molto a diventare popolare, assumendo fin da subito una
connotazione «trasgressiva». A Hollywood, per esempio, mentre i «buoni»
interpretati da Cary Grant e Clark Gable vestivano tagli tradizionali, i
gangster di James Cagney e Edward G. Robinson sfoggiavano il nuovo stile. I
giovani afroamericani furono i più lesti a adottare (e adattare) la moda
inglese: i sarti ebrei e italiani di Harlem (→) e del South Side di Chicago
raccontano che, agli inizi degli anni quaranta, i loro clienti neri chiedevano
modifiche su misura all’«English drapes», per allungare le giacche e
gonfiare i pantaloni – sulle prime, gli interventi servivano a coprire le parti
lise, ma poi si trattò solo di una questione di gusto. Soprattutto, i clienti
volevano modelli dai colori più sgargianti. Con il complemento di un
cappello a tese larghe da cui spuntava una piuma e una catenella
penzolante dalla tasca dei pantaloni, era nato lo zoot suit (l’origine del
termine è incerta: pare comunque che zoot sia la ripetizione corrotta di suit
= «completo»). Per afroamericani e latinos, ma anche per giovani di altre
minoranze, lo zoot suit era un modo semplice per affermare un’identità (→
Etnicità) che rifiutava sia il modello anglosassone, standardizzato e un po’
grigio, sia quello dei genitori, povero e dimesso: Malcolm X racconta nella
sua autobiografia che, prima della conversione alla Nation Of Islam, non
usciva mai di casa senza.
Con l’arrivo della Seconda guerra mondiale, la scelta di vestire un zoot
suit si trasformò in un’aperta dichiarazione di antipatriottismo. In
conformità con le politiche di razionamento decise dal governo, il War
Production Board impose all’industria dell’abbigliamento precisi limiti
nell’utilizzo di tessuto, in modo da lasciarne maggiori quantità disponibili a
fini militari. Una delle vittime delle restrizioni fu lo zoot suit, per il cui
confezionamento occorreva più tessuto rispetto a un abito tradizionale. Gli
zoot-suiters non volevano rinunciare a una componente tanto centrale alla
definizione di se stessi e non solo continuarono a sfoggiare i vecchi
completi, ma trovarono sarti compiacenti disposti a cucire nuovi esemplari
in clandestinità.
I marinai di stanza a Los Angeles non gradivano la vista dei gruppi di
pachucos (giovani messicani) che si pavoneggiavano nelle strade nei loro
completi colorati e consideravano un affronto il fatto che non si
adeguassero alla politica di austerità imposta dal governo. Nella zona est
della città, dove era localizzato il quartiere a luci rosse, si verificavano
spesso scontri verbali, e a volte anche fisici, tra i militari in libera uscita e i
ragazzi immigrati. Tuttavia, venuto a galla il caso «Sleepy Lagoon» (→ Casi
celebri), la cui responsabilità fu attribuita a una gang messicana, la tensione
crebbe. Dopo alcuni tafferugli tra maggio e giugno 1943, circa duecento
marinai, autoproclamatisi restauratori dell’ordine, si diressero con un
convoglio di taxi verso East Los Angeles, dove malmenarono un gruppo di
ragazzini, li spogliarono e li lasciarono seminudi per strada, costringendoli
a osservare impotenti i loro zoot suits dati alle fiamme. Nei giorni seguenti,
altri militari si aggiunsero alla spedizione punitiva: assaltarono locali,
fecero irruzione nei cinema e infierirono con pugni e mazze su tutti i latinos
che capitavano sulla loro strada. La polizia chiuse entrambi gli occhi,
lasciando in pace i violenti e arrestando i pachucos con accuse di
vagabondaggio e comportamento antipatriottico. La stampa cittadina
plaudì all’iniziativa e redarguì persino la First Lady, Eleanor Roosevelt,
colpevole di avere espresso preoccupazione per la tensione razziale a Los
Angeles.
Scemati di intensità e presto dimenticati, gli Zoot Suit Riots (→ Disordini)
hanno continuato a tormentare la coscienza californiana, diventando non
solo episodio centrale per l’esperienza dei messico-americani – si pensi ai
romanzi di Thomas Sanchez e al musical di Luis Valdez, Zoot Suit (1979), poi
realizzato per il grande schermo – ma anche per chi, come lo scrittore
James Ellroy, ha voluto scavare nei meandri della storia cittadina per
proporre un ritratto di Los Angeles fuori dai luoghi comuni: Dalia nera
(1987), il primo capitolo della tetralogia sulla città, inizia appunto con gli
Zoot Suit Riots.

BIBLIOGRAFIA
Kathy Peiss, Zoot Suit: The Enigmatic Career of an Extreme Style, University of
Pennsylvania Press, Philadelphia 2011.
George J. Sánchez, Becoming Mexican American: Ethnicity, Culture, and Identity
in Chicano Los Angeles 1900-1930, Oxford University Press, New York 1984.
S.M.Z.
Zucche e cocomeri
Niente ricette, questa volta (anche se in verità non mancherebbero), ma
alcune considerazioni sul posto che zucche e cocomeri hanno nella cultura
statunitense, e in particolare afroamericana. Se dunque lasciamo da parte
Halloween (→), la zucca (gourd) ci rimanda a un canto dell’epoca della
schiavitù intitolato «Follow the Drinkin’ Gourd» e diventato poi celebre nel
repertorio folk americano (→ Newport Folk Festival). La drinking gourd era
quella zucca scavata, a forma più o meno di mestolo, che serviva per bere
dal secchio o dal barile – oggetto ben noto agli schiavi nelle piantagioni di
cotone. Ma, per quella sua forma particolare, ricordava anche la
costellazione dell’Orsa Maggiore o Grande Carro, che per l’appunto era
detta «Drinkin’ Gourd». Come si sa, il Grande Carro si situa non lontano
dalla Stella Polare, la stella che indica il nord (collegando con una linea retta
le ultime due stelle-ruote del carro e continuando la linea per una distanza
grosso modo cinque volte quella che separa le due stelle, si arriva alla Stella
Polare): ed era quella la direzione seguita da centinaia di schiavi in fuga
grazie all’Underground Railroad (→), come indica appunto «Follow the
Drinkin’ Gourd»: «Quando torna il sole / E canta la prima quaglia, / Allora è
il momento giusto / Segui la Zucca per Bere / Segui la Zucca per Bere /
Segui la Zucca per Bere / Il Vecchio ti dice / Segui la Zucca per Bere…».
Quanto al cocomero (watermelon), appartiene anch’esso, come la zucca,
alle Cucurbitacee, e viene dall’Africa – non è escluso dunque che i semi della
pianta siano stati importati in America dagli schiavi africani (non parliamo
qui del Grande Cocomero dei Peanuts →). Forse per questo, il frutto è stato
a lungo associato agli afroamericani come stereotipo razzista, secondo il
quale ne sarebbero golosissimi – stereotipo che fu ripetuto più e più volte,
specie in volgari vignette di fine Ottocento, quando il razzismo ideologico
s’accompagnava a quello «pratico» e sanguinario del Ku Klux Klan (→ Kkk),
nell’isolare il nero dal bianco, terrorizzando il primo e abbrutendo il
secondo. Questo stereotipo (che, con il tempo, è stato «rovesciato» dalla
cultura afroamericana, che si è appropriata dell’immagine del cocomero
facendone un simbolo di dignità, in contrapposizione alla stupida volgarità
dell’originale) può anche prendere direzioni singolari. Ammesso infatti che
la (presunta) proprietà afrodisiaca del frutto fosse nota a quell’epoca (ed è
possibile che a livello popolare lo fosse: si pensi al pezzo jazz di Herbie
Hancock «Watermelon Man» del 1970 e al film omonimo del 1970 del primo
grande regista afroamericano Melvin Van Peebles, noto in italiano come
«L’uomo caffelatte»), essa andava a rafforzare l’altro stereotipo diffuso:
quello dell’afroamericano virilmente potente, il cui spettro agitava i sonni
di bianchi (e bianche) negli anni della Black Reconstruction e dell’esodo
post-Guerra civile dal Sud al Nord (e di questi incubi ci narra anche il
romanzo Paura, di Richard Wright, del 1940). Non è escluso che una traccia
di questo sgradevole viluppo di stereotipi si possa cogliere pure nello slang
americano, dove l’espressione «to swallow a watermelon seed» (= ingoiare
un seme di cocomero) significa «rimanere incinta».
Ma, stereotipi razziali a parte, è un dato di fatto che il cocomero sia
centrale all’immaginario americano (soprattutto del Sud) – oltre che della
dieta più semplice e popolare, specie in periodi di miseria come quelli della
Grande depressione (→). D’altra parte, non fu Mark Twain a scriverne il
miglior omaggio? «L’autentico cocomero del Sud è una manna a sé, che non
va confusa con cose più volgari. È la prima leccornia di questo mondo, e
regna per Grazia di Dio su tutti i frutti della terra. Una volta che lo si è
gustato, si sa di che si cibano gli angeli. Non fu un cocomero del Sud il frutto
staccato da Eva: lo deduciamo dal fatto che dopo s’è pentita» (Wilson lo
zuccone, 1894).

BIBLIOGRAFIA
Robert M. Entman, Andrew Rojecki, The Black Image in the White Mind,
University of Chicago Press, Chicago 2000.
Charles Reagan Wilson, «Watermelon», in Charles Reagan Wilson, William
Ferris, Encyclopedia of Southern Culture, University of Carolina Press,
Chapel Hill 1989.
M.M.

Zydeco (o dei fagiolini)


Ovvero, la variante di origine afroamericana della musica cajun (→). Lo
zydeco è il frutto dell’incrocio fra le comunità di origine franco-canadese
giunte a metà Settecento nella Bassa Louisiana e quelle degli schiavi
fuggiaschi (o, in seguito, degli ex schiavi), rifugiatisi nelle paludi e fra i
bayou (→) a ovest del fiume Mississippi nel corso dell’Ottocento. Ha dunque
una forte componente blues e prevede l’impiego di altri strumenti oltre a
quelli tradizionali, come il washboard (l’asse per lavare) o il vest frottoir o rub-
board (una specie di corpetto di metallo, scanalato come un’asse da lavare,
che viene appeso al petto del musicista ed è suonato con cucchiai) e la
fisarmonica. Inoltre, si è più volte ibridato con altre forme musicali, come lo
shuffle, il two-step, il R&B, e in tempi più vicini il reggae, uscendo dai confini
regionali. Noto agli inizi come la-la e oggetto di vivo interesse da parte di
studiosi come Charles Seeger e Alan Lomax e interpreti come Pete Seeger, è
diventato popolare fin dagli anni cinquanta del Novecento, quando
cominciarono a proporlo musicisti cajun come il grande Clifton Chenier,
operaio in una raffineria sulle coste della Louisiana. Fu proprio Chenier a
incidere il primo grande successo zydeco, «Les haricots sont pas salés» (= i
fagiolini non sono salati; «Oh, mamma, mamma! Che cosa hai fatto alla
cena?/ I fagiolini non sono salati! I fagiolini non sono salati!»), ed è dalla
pronuncia tutta particolare di «les haricots» che deriva per l’appunto il
termine «zydeco». Altri celebri interpreti sono Queen Ida e Rockin’ Dopsie,
John Delafose e Boozoo Chavis, spesso con testi improntati a una forte
critica al Sogno Americano. Nel film The Big Easy, di Jim McBride (1986),
l’attore Dennis Quaid interpreta alcuni pezzi zydeco, mentre in Schultze Gets
the Blues (2003, del regista tedesco Michael Schorr) si narra di un minatore
in pensione di Halle (Germania), suonatore a tempo perso di polka con la
fisarmonica, che – invitato a un festival musicale negli Stati Uniti – viaggia
nei bayou della costa sul Golfo del Messico, scoprendo singolari affinità con
la musica zydeco.

BIBLIOGRAFIA
Barry Jean Ancelet, Cajun Music. Its Origins and Development, The Center for
Louisiana Studies, University of Southwestern Louisiana, Lafayette 1989.
Raymond E. François (ed.), Yé Yaille, Chère. Traditional Cajun Dance Music,
Swallow Publications, Ville Platte 2000.
M.M.
Zzv
Si tratta del codice internazionale dell’aeroporto municipale di Zanesville,
nell’Ohio. Piccola città (→) come tante nella provincia americana, situata
sul fiume Muskingum, affluente di destra dell’Ohio (fiume importante,
questo Muskingum, perché costituiva una delle principali vie di fuga verso
nord dell’Underground Railroad →), non lontana dalla pista chiamata
Zane’s Trace aperta dal colonnello Ebenezer Zane a fine Settecento (in suo
nome fu chiamata la cittadina dal fondatore John McIntire nel 1797) – non
così significativa come il Natchez Trace (→ Piste e sentieri), ma d’un certo
peso, in un’epoca di traffici crescenti e vie di comunicazione rare ed
effimere. Un canale e un interessante sistema di chiuse che lo collega al
fiume, un imponente tribunale costruito nel 1877 in Italianate Style (non a
caso, uno dei grandi architetti americani, Cass Gilbert, nacque proprio a
Zanesville nel 1859), un singolare ponte a Y costruito nel 1850 (l’unico
esempio negli Stati Uniti), i natali a uno dei maggiori scrittori western (Zane
Grey, nel 1872: I cavalieri della prateria, del 1912, il suo romanzo più famoso) e
all’attore Richard Basehart (Ismaele nel Moby Dick di John Huston, Il Matto
ne La strada di Federico Fellini). Che altro?
Niente di che, dunque. Ma abbiamo pensato che, dalla A alla Z, e dopo
tante pagine, così potesse finire questo «dizionario»: non con un fuoco
d’artificio, ma con una voce dal suono che si spegne a poco a poco…
MARIO MAFFI
CINZIA SCARPINO
CINZIA SCHIAVINI
SOSTENE MASSIMO ZANGARI
I testi

Avvertenza. Questa non è una bibliografia, ma solo un elenco delle opere citate (a
esclusione della saggistica, per la quale rimandiamo alle minibibliografie in calce a
ogni singola voce). Abbiamo sempre cercato di indicare il titolo dell’edizione
italiana: là dove esso non compare, è perché l’opera non è stata – o non ci risulta –
tradotta. Quanto alla data finale, essa fa sempre riferimento all’edizione originale.

… E la terra non si aprì (… Y no se lo tragó la tierra), Tomás Rivera 1971


12 Million Black Voices, Richard Wright 1941
1919 (1919), John Dos Passos 1932
2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey), Arthur C. Clarke 1968
42º parallelo, Il (The 42nd Parallel), John Dos Passos 1930

Acadie tropicale. Poésie de la Louisiane, Aa.Vv. 1983


Across the Continent, or, Scenes from New York Life and the Pacific Railroad, James
Closkey 1870
Addio, Columbus (Goodbye, Columbus), Philip Roth 1959
Addio, mia amata (Farewell, My Lovely), Raymond Chandler 1940
Ain’t I a Woman?, Sojourner Truth 1853
All I Asking for Is My Body, Milton Murayama 1975
America (American Notes for General Circulation), Charles Dickens 1842
American Buffalo (American Buffalo), David Mamet 1976
American Exodus: A Record of Human Erosion, An, Dorothea Lange, Paul S.
Taylor 1939
American Songbag, The, Carl Sandburg 1927
American Tabloid (American Tabloid), James Ellroy 1995
Americano, L’ (The American), Henry James 1877
Ammutinamento del Caine, L’ (The Caine Mutiny: A Novel of World War II),
Herman Wouk 1951
Anima in ghiaccio (Soul on Ice), Eldridge Cleaver 1968
Anime del popolo nero, Le (The Souls of the Black Folks), W.E.B. Du Bois 1903
Anno dell’uragano, L’ (The Big Blow), Joe R. Lansdale 2000
Antico stato mortale (Old Mortality), Katherine Anne Porter 1939
Antigone, Living Theatre 1967
Antologia di Spoon River (Spoon River Anthology), Edgar Lee Masters 1915
Appunti di un tifoso (A Fan’s Note), Frederick Exley 1968
Arazzo del vampiro, L’ (The Unicorn Tapestry), Suzy McKee Charnas 1980
Arriva Charlie Brown, Charles M. Schulz 1963
Art of Cookery, Made Plain and Easy, Hannah Glasse 1763
Arthur Mervin, Charles Brockden Brown 1799
Aspetta primavera, Bandini (Wait until Spring, Bandini), John Fante 1938
Aspettando Lefty (Waiting for Lefty), Clifford Odets 1935
Assalonne! Assalonne! (Absalom! Absalom!), William Faulkner 1936
Astronomical Diary, Nathanael Ames 1742
Autobiografia (Autobiography), Falco Nero 1833
Autobiografia di Alice B. Toklas, L’ (The Autobiography of Alice B. Toklas),
Gertrude Stein 1933
Autobiografia di Malcolm X, L’ (The Autobiography of Malcolm X) 1964
Autobiografia di un ex uomo di colore (The Autobiography Of An Ex-Colored
Man), James Weldon Johnson 1912
Avventure di Gordon Pym, Le (The Adventures of Gordon Pym) 1838
Avventure di Huckleberry Finn, Le (Adventures of Huckleberry Finn), Mark
Twain 1884
Avventure di Tom Sawyer, Le (Adventures of Tom Sawyer), Mark Twain 1876

Baby aerodinamica kolor karamella, La (The Kandy-Kolored Tangerine-Flake


Streamline Baby), Tom Wolfe 1965
Bakery Hill, The/La Señora de la panadería, Pat Mora 2001
Ballata di Trenchmouth, La (The Ballad of Trenchmouth Taggart), Glen Taylor
2008
Bambino, Il. Come si cura e come si alleva (Baby and Child Care), Bejamin Spock
1946
Banda di idioti, Una (A Confederacy of Dunces), John Kennedy Toole 1980
Bartleby lo scrivano: una storia di Wall Street (Bartleby, the Scrivener: A Story
of Wall Street) 1853
Battaglia, La (In Dubious Battle), John Steinbeck 1936
Bayou Folk, Kate Chopin 1894
Beffa di nonna Weatherhall, La (The Jilting of Granny Weatherhall), Katherine
Anne Porter 1930
Beggars of Life, Jim Tully 1924
Benito Cereno (Benito Cereno), Herman Melville 1855
Big Business and the Bench, C.P. Connolly 1912
Billy Budd (Billy Budd, Sailor), Herman Melville 1924
Bistecca, Una (A Piece of Steak), Jack London 1909
Bitter Cry of Children, The, John Spargo 1906
Black Crook, The, Charles M. Barras 1866
Black Like Me, John Howard Griffin 1961
Black Monday, Thomas Brady 1955
Black Schooner, or, The Pirate Slaver Amistad, The, autore ignoto 1839
Blood of my Blood, Richard Gambino 1974
Bomb (Bomb), Gregory Corso 1958
Book of Mormons, The, [Joseph Smith] 1830
Book of the Dead, The, Muriel Rukeyser 1938
Boy Scout Hike Book, Boy Scouts of America 1913
Bride Comes to Yellow Sky, The, Stephen Crane 1898
Brig, The, Kenneth Brown 1964
Brown Girl, Brownstones, Paule Marshall 1959
Buio oltre la siepe, Il (To Kill a Mockingbird), Harper Lee 1960
Buona terra, La (The Good Earth), Pearl Buck 1932

Cabaret, John Kander, Fred Ebb 1966 (musical)


Cabbages and Kings, O. Henry 1904
Cacciatori delle tenebre (Those Who Hunt the Night), Barbara Hambly 1988
Caduta della casa Usher, La (The Fall of the House of Usher), Edgar Allan Poe
1845
Calabrone nero, Il (The Black Hornet), James Sallis 1994
Canto della strada aperta (Song of the Open Road), Walt Whitman 1856
Capanna dello zio Tom, La (Uncle Tom’s Cabin) Harriet Beecher Stowe 1852
Caro estinto, Il (The Loved One: An Anglo-American Tragedy), Evelyn Waugh
1948
Carrie (Carrie), Stephen King 1974
Carta gialla, La (The Yellow Wallpaper), Charlotte Perkins Gilman 1892
Casa dei sette abbaini, La (The House of the Seven Gables), Nathaniel
Hawthorne 1851
Casa della gioia, La (The House of Mirth), Edith Wharton 1905
Casa d’inferno, La (Hell House), Richard Matheson 1971
Casa senza chiavi, La (The House Without a Key), Earl Derr Biggers 1925
Cavalieri della prateria, I (Riders of the Purple Sage), Zane Grey 1912
Cavalli selvaggi (All the Pretty Horses), Cormac McCarthy 1992
Cella 2455: braccio della morte (Cell 2455, Death Row), Caryl Chessman 1954
«Central Park all’imbrunire» (Central Park at Dusk), Sara Teasdale 1911
Cerchio del lupo, Il (Echo Park), Michael Connelly 2006
Cerimonia (Ceremony), Leslie Marmon Silko 1977
Chi ha paura di Virginia Woolf (Who’s Afraid of Virginia Woolf), Edward Albee
1962
Chiamalo sonno (Call It Sleep), Henry Roth 1934
Chicago (Pit, The), Frank Norris 1903
Chicago, John Kander, Fred Ebb 1975 (musical)
Child of the Americas, A, Aurora Levins Morales 1986
China Men, Maxine Hong Kingston 1980
Chinatown (Chinatown. A Work in Progress), Fay Chiang 1983
Chinese Cinderella, Deline Yen Mah 1999
Chronicles – Volume 1 (Chronicles: Volume One), Bob Dylan 2004
Ciclo di Barsoom, Il (The Barsoom Series), Edgar Rice Burroughs 1912-1943
Ciò che Katy fece (What Katy Did), Susan Coolidge 1872
Cioccolata a colazione (Chocolates for Breakfast), Pamela Moore 1956
Citizen 13660, Miné Okubo 1946, 1983
Città della pianura (Cities of Plain), Cormac McCarthy 1998
City, The, Clyde Fitch 1909
Clotel; or the President’s Daughter, William Wells Brown 1853
Col sangue agli occhi (Blood in My Eye), George Jackson 1971
Colosso d’argilla, Il (The Harder They Fall), Budd Schulberg 1947
Come raccontare una storia e l’arte di mentire (How To Tell a Story), Mark
Twain 1897
Comeback, The, Ed Vega 1985
Comma 22 (Catch-22), Joseph Heller 1953
Complete Home, Julia McNair Wright 1870
Complete Housekeeper, The, Emily Holt 1913
Complotto contro l’America, Il (The Plot Against America), Philip Roth 2004
Con tanta di quell’acqua a due passi da casa (So Much Water So Close to Home),
Raymond Carver 1981
Coney Island della mente, A, Lawrence Ferlinghetti 1958
Confessioni di Nat Turner, Le (The Confessions of Nat Turner), William Styron
1967
Conjure Woman, The, Charles W. Chesnutt 1899
Connection, The, Jack Gelber 1959
Conquest of Arid America, The, Ellsworth Smythe 1899
Conquest. The True Story of Lewis and Clark, The, Eva Emery Dye 1902
Contemplando l’inferno (Nachdenkend über die Hölle), Bertolt Brecht 1941
Contrast, The, Royall Tyler 1787
Contro l’imperialismo, Mark Twain 1900-1905
Corri, coniglio (Rabbit, Run), John Updike 1960
Corvo, Il (The Raven), Edgar Allan Poe, 1845
Cowboy Detective, A, Charles Siringo 1912
Crack in the Picture Window, The, John Keats 1956
Cradle Will Rock, The, Mark Blitzstein 1937
Cristo fra i muratori (Christ in Concrete), Pietro di Donato 1939
Crogiuolo, Il (The Crucible), Arthur Miller 1953
Crogiuolo, Il (The Melting Pot), Israel Zangwill 1908
Cronache marziane (The Martian Chronicles), Ray Bradbury 1950
Cyborg, Martin Caidin 1972

Daisy Brooks; or, A Perilous Love, Laura J. Libby 1883


Dalia nera, La (The Black Dahlia), James Ellroy 1987
Deadwood Dick on Deck; or, Calamity Jane, the Heroine of the Whoop-up, Edward L.
Wheeler 1878
Death Mystery. A Crimson Tale of Life in New York, The, E.Z.C. Judson 1861
Desert, The, John Van Dyke 1901
Deserto Solitario: una stagione nei territori selvaggi (Desert Solitaire. A Season in
the Wilderness), Edward Abbey 1968
Desiderio sotto gli olmi (Desire under the Elms), Eugene O’Neill 1924
Diary of a Motor Journey from Chicago to Los Angeles, Vernon McGills 1922
Disinherited, The, Jack Conroy 1933
Dispacci (Dispatches), Michael Herr 1977
Dolce ala della giovinezza, La (Sweet Birth of Youth), Tennessee Williams 1959
Donna guerriera, La (The Woman Warrior), Maxine Hong Kingston 1975
Dono totale, Il (The Gift Outright), Robert Frost 1961
Dopo (Afterwards), Edith Wharton 1910
Double-Crossing America, Roland Wild 1938
Down These Mean Streets, Piri Thomas 1967
Dream Book: An Anthology of Writing by Italian American Women, The, Helen
Barolini (ed.) 1985
Drunkard; or, The Fallen Saved, The, William H. Smith 1844
Due anni a prora (Two Years Before the Mast), Richard Henry Dana 1840

Eat a Bowl of Tea, Louis Chu 1961


Ebrei senza denaro (Jews Without Money), Michael Gold 1930
Ecotopia: The Notebooks and Reports of William Weston, Ernest Callenbach 1975
Edgar Huntly: memorie di un sonnambulo (Edgar Huntly; or Memoirs of a Sleep-
Walker), Charles Brockden Brown 1799
Elogio funebre portoricano (Puerto Rican Obituary), Pedro Pietri 1973
Emigrant’s Guide: In Ten Letters Addressed to the Taxpayers of England; Containing
Information of Every Kind, Necessary to Persons Who Are About to Emigrate,
William Cobbett 1829
Emigrants’ Guide to California, Joseph Ware 1849
Emigrants’ Guide to Oregon and California, Lansford W. Hastings 1845
Emigrants’ Guide to the United States of America; Containing All Things Necessary
to be Known by Every Class of Persons Emigrating to that Continent, The, S.H.
Collins 1830
End Zone, Don DeLillo 1972
Enormous Radio and Other Stories, The, John Cheever 1953
Erano tutti miei figli (All My Sons), Arthur Miller 1947
Eroe della Manciuria, L’ (The Manchurian Candidate), Richard Condon 1959
Ethan Frome (Ethan Frome), Edith Wharton 1911
Evangeline, Henry W. Longfellow 1847
Evils of San Francisco, The, J.G. Grant 1884
Expeditions of Zebulon Montgomery Pike to Headwaters of the Mississippi, Zebulon
M. Pike 1805-1807

Fahrenheit 451 (Fahrenheit 451), Ray Bradbury 1953


Falco maltese, Il (The Maltese Falcon), Dashiell Hammett 1930
Farewell to Manzanar, Jeanne Wakatsuki Houston, 1973
Fashion, Ann Cora Mowatt 1845
Festa del Ringraziamento di John Inglefield, La (John Inglefield’s Thanksgiving),
Nathaniel Hawthorne 1840
Festa: Recipes and Recollections of Italian Holidays, Helen Barolini 1985
Fiesta (The Sun Also Rises), Ernest Hemingway 1926
Figli dello Zio Tom, I (Uncle Tom’s Children), Richard Wright 1938
Figlio di Dio (Child of God), Cormac McCarthy 1973
Foglie d’erba (Leaves of Grass), Walt Whitman 1855
Folks from Dixie, Paul Laurence Dunbar 1898
Foresta della notte, La (Nightwood), Djuna Barnes 1936
Forster Rose; or, The American Farmer, The, Samuel Woodworth 1825
Fortunate Pilgrim, The, Mario Puzo 1965
Fourth of July, 1776, George Lippard 1847
Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno (Frankenstein; or, The Modern
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Frankenstein, Living Theatre 1968
Fratelli di Soledad, I (Soledad Brothers), George Jackson 1970
From Ocean to Ocean in a Winton, Horatio Nelson Jackson 1903
Furore (The Grapes of Wrath), John Steinbeck 1939

Gatta sul tetto che scotta, La (Cat on a Hot Tin Roof), Tennessee Williams 1955
General Historie of Virginia, New England and the Summer Isles, The, John Smith
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Generazione X. Storie per una cultura accelerata (Generation X: Tales of An
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Ghetto negro (Lawd Today!), Richard Wright 1963
Giant, The, Edna Ferber 1952
Giants in the Earth (Verdens Grøde), Ole Edvart Rølvaag 1927
Gilda Stories. A Novel, The, Dijewelle Gomez 1991
Gioco di Henry, Il (The Universal Baseball Association, Inc., J. Henry Waugh,
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Giorno della locusta, Il (The Day of the Locust), Nathanael West 1939
Giovane Holden, Il (The Catcher in the Rye), J.D. Salinger 1951
Giungla, La (The Jungle), Upton Sinclair 1906
Go, John Clellon Holmes 1952
Gombo Zhebes, Lafcadio Hearn 1885
Gossip Girl (Gossip Girl), Cecily Von Ziegesar 2002
Gotico Americano (American Gothic), William Gaddis 1985
Gran coraggio del piccolo Babaji, Il (Little Black Sambo), Helen Banneman 1899
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Grande Gatsby, Il (The Great Gatsby), Francis Scott Fitzgerald 1925
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Gruppo, Il (The Group), Mary McCarthy 1963
Guardando indietro, 2000-1887 (Looking Backward, 2000-1887), Edward Bellamy
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Harriet the Spy, Louise Fizhugh 1964
Hazard of New Fortunes, A, William Dean Howells 1890
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Hidden Hand, The, E.D.E.N. Southworth 1888
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Hiroshima, John Hersey 1946
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Home Town, Sherwood Anderson 1940
Hoosier Schoolmaster, The, Edward Eggleston 1871
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Improvvisamente l’estate scorsa (Suddenly Last Summer), Tennessee Williams
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In diretta dal braccio della morte, Mumia Abu-Jamal 1996
In fondo alla palude (The Bottoms), Joe R. Lansdale 2000
In the Tennessee Mountains, Charles Egbert Craddock (Mary N. Murfree) 1884
In un paese lontano (In a Far Country), Jack London 1899
In viaggio per Cardiff (Bound East for Cardiff), Eugene O’Neill 1916
Incanto del lotto 49, L’ (The Crying of Lot 49), Thomas Pynchon 1966
Incredibile storia di Olaudah Equiano, o Gustavus Vassa, detto l’Africano, L’ (The
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Indiani (Indians), Arthur Kopit 1968
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Inseguendo Cacciato (Going After Cacciato), Tim O’Brien 1978
Intervista col vampiro (Interview with the Vampire), Anne Rice 1976
Invasati, Gli (The Body Snatchers), Jack Finney 1955
Io sono leggenda (I Am Legend), Richard Matheson 1954
Io, Robot (I, Robot), Isaac Asimov 1950
Iola Leroy; or Shadows Uplifted, Frances Helen Watkins Harper 1892
Irish Emigrant’s Guide for the United States, The, John O’Hanlon 1851
Ishmael; or, In the Depths, E.D.E.N. Southworth 1876
Island. Poetry and History of Chinese Immigrants on Angel Island, 1910-1940, Him
Mark Lai, Genny Lim, Judy Yung (eds.) 1980
Isola delle illusioni, L’ (Tar Baby), Toni Morrison 1981
Isole nella corrente (Islands in the Stream), Ernest Hemingway 1970
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It Might Have Been Worse: A Motor Trip from Coast to Coast, Beatrice Larned
Massey 1920
Italianamerican: The Scorsese Family Cookbook, Catherine Scorsese 1996

Jesus Christ Superstar, Tim Rice, Andrew Lloyd Webber 1970 (musical)
Josephine, Josephine Baker 1977
Journals of Lewis and Clark, The, Meriwether Lewis e William Clark 1812

Kinky, Denise Duhamel 1997


Kit Carson’s Own History of His Life, Kit Carson 1856-1857
Knickerbocker Holiday, Kurt Weill 1938 (musical)

L.A. Confidential (L.A. Confidential), James Ellroy 1990


Lamb in His Bosom, Caroline Miller 1933
Lamplighter, The, Maria S. Cummins 1854
Land of Little Rain, The, Mary Austin 1903
Land of the Free, Archibald MacLeish 1938
Lanterns on the Levees, William A. Percy 1941
Latter-Day Saints’ Emigrant Guide from Council Bluffs to the Valley of the Great Salt
Lake, The, William Clayton 1848
Legge mi vuole morto, La (Trial By Ordeal), Caryl Chessman 1955
Leggenda di Sleepy Hollow, La (The Legend of Sleepy Hollow), Washington
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Legione Nera, La (The Underground Stream), Albert Maltz 1950
Leopard’s Spots, The, Thomas Dixon 1902
Lettera dal carcere di Birmingham (Letter From Birmingham Jail), Martin
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Lettera scarlatta, La (The Scarlett Letter), Nathaniel Hawthorne 1850
Lettere di un coltivatore americano (Letters from An American Farmer), J.
Hector St. John de Crèvecœur 1782
Libra, Don DeLillo 1988
Life and Adventures of Buffalo Bill, The, William Cody 1879
Life and Adventures of Joaquín Murieta, The, John Rollin Ridge 1854
Lines for Men of the Greater Interior, John Knoepfle 1965
Lisa, Bright and Dark, John Neufeld 1969
Little Boy Blue (Little Boy Blue), Edward Bunker 1981
Lolita (Lolita), Vladimir Nabokov 1955
Loro occhi guardavano Dio, I (Their Eyes Were Watching God), Zora Neale
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Lost Weekend, The, Charles R. Jackson 1944
Luce d’agosto (Light in August), William Faulkner 1932
Luck of Roaring Camp, The, Bret Harte 1868
Lungo addio, Il (The Long Good-Bye), Raymond Chandler 1953
Lungo viaggio del giorno verso la notte, Il (Long Day’s Journey into Night),
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Lutto si addice ad Elettra, Il (Mourning Becomes Electra), Eugene O’Neill 1931

Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (Do Androids Dream of Electric


Sheep?), Philip K. Dick 1968
Macchia umana, La (The Human Stain), Philip Roth 2000
Macchina calcolatrice, La (Adding Machine, The), Elmer Rice 1923
Madama Butterfly (Madama Butterfly), David Belasco 1900
Mafioso, Sandra M. Gilbert 1985
Maggie (Maggie: A Girl of the Streets), Stephen Crane 1893
Mago di Oz, Il (The Wonderful Wizard of Oz), Frank L. Baum 1900
Malaeska, the Indian Wife of the White Hunter, Ann S. Stephens 1860
Maledizione dei Dain, La (The Dain Curse), Dashiell Hammett 1929
Mambo degli orsi, Il (Two-Bear Mambo), Joe R. Lansdale 1995
Man of Letters As a Man of Business, William Dean Howells 1902
Maniera di farsi ricco, La. Chiaramente dimostrata nella Prefazione di un vecchio
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Marcia, La (The March), Edgar L. Doctorow 2005
Marrow of Tradition, The, Charles W. Chesnutt 1901
Maschiette e filosofi (Flappers and Philosophers), Francis Scott Fitzgerald 1921
Mason & Dixon (Mason & Dixon), Thomas Pynchon 1997
Medium Well Done, Hugh Wiley 1934
Memorie di una maîtresse americana (Her Life as an American Madam, by
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Memorie di uno schiavo fuggiasco (Narrative of the Life of Frederick Douglass,
an American Slave. Written By Himself), Frederick Douglass 1845
Mentre morivo (As I Lay Dying), William Faulkner 1930
Meridiano di sangue (Blood Meridian), Cormac McCarthy 1985
Metamora; or The Last of the Wampanoags, John Augustus Stone 1829
Metropolitana, La (The Subway), Elmer Rice 1929
Metzengerstein, Edgar Allan Poe 1832
Mia Antonia, La (My Àntonia), Willa Cather, 1918
Mia città perduta, La (My Lost City), Francis Scott Fitzgerald 1932
Middlesex (Middlesex), Jeffrey Eugenides 2002
Miei luoghi oscuri, I (My Dark Places), James Ellroy 1996
Migliore, Il (The Natural), Bernard Malamud 1952
Misteri di Bleecker Street, I, Bernardino Ciambelli 1899
Misteri di Mulberry, I, Bernardino Ciambelli 1893
Mistero di Marie Rôget, Il (The Mystery of Marie Rôget), Edgar Allan Poe 1842
Moby Dick o La Balena (Moby-Dick; or The Whale), Herman Melville 1851
Model of Christian Charity, A, John Winthrop 1630
Mongo Affair (Mongo Affair), Miguel Algarín 1978
Monks of Monk Hill, The (The Quaker City), George Lippard 1844
Morte di un commesso viaggiatore (Death of a Salesman), Arthur Miller 1949
Mosca dalle gambe lunghe, La (The Long-Legged Fly), James Sallis 1992
Mount Allegro, Jerre Mangione 1943
Mrs Bridge (Mrs Bridge, Mr Bridge), Evan S. Connell 1959, 1969
Mumbo Jumbo (Mumbo Jumbo), Ishmael Reed 1972
My Diary from Here to There, Amada Irma Pérez 2002
Mysteries and Miseries of New York, The, E.Z.C. Judson 1848
Mysteries and Smaller Pieces, Living Theatre 1964
Mysteries of Cincinnati, The, Emil Klauprecht 1854
Mysteries of New Orleans, The, Baron Ludwig von Reizenstein 1854-55
Mysteries of Philadelphia, The, autore ignoto 1848
Mysteries of St. Louis, The, Heinrich Bornstein 1852

Narrative of the Captivity, Sufferings, and Removes of Mrs Mary Rowlandson, A,


Mary Rowlandson 1682
Nel mare della vita (The Big Sea), Langston Hughes 1945
Nelle terre estreme (Into the Wild), Jon Krakauer 1996
Neuromante (Neuromancer), William Gibson 1984
New England Nun, A, Mary E. Wilkins Freeman 1891
New Guide for Emigrants to the West, The, John Mason Peck 1836
New Negro, The, Alain Locke 1925
New York. Its Upper Ten and Lower Million, George Lippard 1854
Nick of the Woods, Robert Montgomery 1837
Niente orchidee per miss Blandish (No Orchids for Miss Blandish), James Hadley
Chase 1939
Nilda, Nicholasa Mohr 1973
Non e nemmeno (Not Neither), Sandra María Esteves 1984
Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men), Cormac McCarthy 2005
Nostra sorella Carrie (Sister Carrie), Theodore Dreiser 1900
Note sulla Virginia (Notes on the State of Virginia), Thomas Jefferson 1785
Notte del drive-in, La (The Drive-In), Joe R. Lansdale 1988
Notti di Salem, Le (Salem’s Lot), Stephen King 1975
Nuyorican Poetry, Miguel Algarín, Miguel Piñero 1975

Occhio del ciclone, L’ (In the Electric Mist with the Confederate Dead), James
Lee Burke 1993
Octopus, The, Frank Norris 1901
Octoroon, The, Dion Boucicault 1859
Of Thee I Sing, Ira Gershwin, Morrie Ryskind 1931 (musical)
Oil!, Sinclair Lewis 1927
Oklahoma, Richard Rodgers, Oscar Hammerstein II 1943 (musical)
Old-Fashioned Thanksgiving, An, Louisa May Alcott 1881
Oltre il confine (The Crossing), Cormac McCarthy 1994
Ombre sulla rocca (Shadows on the Rock), Willa Cather 1931
On Being Brought from Africa to America, Phillis Wheatley 1773
On the Town, Leonard Bernstein, Betty Comden, Adolph Green, 1944
(musical)
One Art, Elizabeth Bishop 1975
Ormond, Charles Brockden Brown 1799
Orso, L’ (The Bear), William Faulkner 1942

Padrino, Il (The Godfather), Mario Puzo 1969


Paese degli abeti aguzzi, Il (The Country of the Pointed Firs), Sarah O. Jewett
1896
Pal Joey, John O’Hara 1940
Palme selvagge, Le (The Wild Palms/If I Forget Thee Jerusalem), William
Faulkner 1939
Paradise Now, Living Theatre 1968
Passing, Nella Larsen 1929
Pasto nudo, Il (The Naked Lunch), William Burroughs 1959
Pastorale americana (American Pastoral), Philip Roth 1997
Pastures of Plenty: A Self-Portrait, Woody Guthrie, Dave Marsh, Harold
Leventhal (eds.) 1990
Paura (Native Son), Richard Wright 1940
Paura e disgusto a Las Vegas (Fear and Loathing in Las Vegas), Hunter S.
Thompson 1971
Peccati di Peyton Place, I (Peyton Place), Grace Metalious 1956
Peccatori nelle mani di un Dio adirato (Sinners in the Hands of An Angry God),
Jonathan Edwards 1741
Per chi suona la campana? (For Whom the Bell Tolls), Ernest Hemingway, 1940
Per un mucchio di quattrini (The Big Money), John Dos Passos 1936
Perduti in America: una storia del ghetto di New York (Yekl, A Tale of the New
York Ghetto), Abraham Cahan 1896
Pesca alla trota (Trout Fishing in America), Richard Brautigan 1967
Pet Sematary (Pet Sematary), Stephen King 1983
Piccola città (Our Town), Thornton Wilder 1938
Piccole donne (Little Women), Louisa May Alcott 1868
Piccolo campo, Il (God’s Little Acre), Erskine Caldwell 1933
Piccolo lord, Il (Little Lord Fauntleroy), Frances Hogdson Burnett 1886
Pierre, o le ambiguità (Pierre; or the Ambiguities), Herman Melville 1852
Pista dell’Oregon, La (The Oregon Trail), Francis Parkman 1849
Plum Plum Pickers, The, Raymond Barrio 1969
Plymouth Plantation, Of, William Bradford 1620-1647
Poeta, Il (The Poet), Ralph Waldo Emerson 1844
Pollyanna (Pollyanna), Eleanor H. Porter 1913
Poor of New York, The, Dion Boucicault 1857
Popolo dell’abisso, Il (The People of the Abyss), Jack London 1903
Powers That Prey, The, Josiah Flynt 1900
Pozzo della solitudine, Il (Well of Loneliness), Radclyffe Hall 1929
Pozzo e il pendolo, Il (The Pit and the Pendulum), Edgar Allan Poe 1842
Prateria (PrairyErth: A Deep Map), William Least Heat-Moon 1991
Pretty Madcap Dorothy; or, How She Won a Lover, Laura Jean Libby 1891
Primo Maggio (May Day), Francis Scott Fitzgerald 1920
Promised Land, The, Mary Antin 1912
Prophet of the Great Smoky Mountains, The, Charles Egbert Craddock (Mary N.
Murfree) 1885
Protestant Establishment. Aristocracy and Caste in America, The, E. Digby Baltzell
1964
Prozac Diaries, Lauren Slater 1998
Prozac Nation: Young and Depressed in America: A Memoir, Elizabeth Wurtzel
1994

Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest), Ken
Kesey 1962
Quarantanove racconti, I (The Fifth Column and the First Forty-Nine Stories),
Ernest Hemingway 1938
Quattro quartetti (Four Quartets), T.S. Eliot 1935-1942
Questa terra è la mia terra (Bound for Glory), Woody Guthrie 1943

Rabbia ad Harlem (A Rage in Harlem), Chester Himes 1957


Raccolto rosso (Red Harvest), Dashiell Hammett 1929
Racconti dell’età del jazz (Tales of the Jazz Age), Francis Scott Fitzgerald 1922
Racconto di Oswald. Un mistero americano, Il (Oswald’s Tale: An American
Mystery), Norman Mailer 1995
Ragazza del West, La (The Girl of the Golden West), David Belasco 1906
Ragged Dick; or, Street Life in New York with the Bootblacks, Horatio Alger Jr.
1868
Ragtime (Ragtime), Edgar L. Doctorow 1975
Ranocchio saltatore della contea di Calaveras, Il (The Celebrated Jumping Frog of
Calaveras County) Mark Twain 1865
Red Earth, Alice C. Henderson 1920
Redwood, Catherine M. Sedgwick 1824
Rent, Jonathan Larson 1996 (musical)
Revolutionary Road (Revolutionary Road), Richard Yates 1961
Ricordati di ricordare (Remember To Remember), Henry Miller 1947
Right You Are, Mr Moto, John P. Marquand 1959
Rip Van Winkle (Rip Van Winkle), Washington Irving 1819
Riposa coniglio (Rabbit At Rest), John Updike 1990
Rise of David Levinsky, The, Abraham Cahan 1917
Ritorno degli esuli, Il (Exile’s Return), Malcolm Cowley 1934
Rosemary’s Baby (Rosemary’s Baby), Ira Levin 1967
Ruggine americana (American Rust), Philip Meyer 2010
Rulli di tamburo (Drum-Taps), Walt Whitman 1865
Rumore bianco (White Noise), Don DeLillo 1985
Rumori di guerra (A Rumor of War), Philip Caputo 1977
Running a Thousand Miles for Freedom, William Craft, Hellen Craft 1860
Rusty il selvaggio (Rumble Fish), S.E. Hilton 1975

Sabbie mobili (Quicksand), Nella Larsen 1928


Sabotage, Jack London, mai pubblicato
Sacajawea, Anna Lee Waldo 1984
Sacajawea, Grace Hebard 1933
Sangue è randagio, Il (Blood’s a Rover), James Ellroy 2009
Sangue freddo, A (In Cold Blood), Truman Capote 1966
Satchmo (Satchmo), Louis Armstrong 1954
Scalata, La (The Takeover), Stephen Frey 1995
Scandalo al sole (A Summer Place), Sloan Wilson 1958
Scarlet Pansy, A, Robert Scully 1933
Scena americana, La (The American Scene), Henry James 1907
Schiavitù è uno stato di guerra, La, John Brown 1851-1859
Sconosciuti in treno (Strangers on a Train), Patricia Highsmith 1950
Secret Sins of Society, The, C.E. Rogers 1882
Segno rosso del coraggio, Il (The Red Badge of Courage), Stephen Crane 1894
Segreti di Brokeback Mountain, I (Brokeback Mountain), Annie Proulx 1997
Sei pezzi da mille (The Cold Six Thousand), James Ellroy 2001
Sei ricco, coniglio (Rabbit Is Rich), John Updike 1981
Selling Mrs Consumer, Christine Frederick 1929
Semplice arte del delitto, La (The Simple Art of Murder), Raymond Chandler
1944
Seth Jones; or, The Captives of the Frontier, E.S. Ellis 1861
Sfortunato giovane di Aurelia, Lo (Aurelia’s Unfortunate Young Man), Mark
Twain 1867
Shane, A.B. Guthrie Jr. 1949
Sheltered Life, The, Ellen Glasgow 1932
Shining (The Shining), Stephen King 1977
Shoeless Joe, W.P. Kinsella 1982
Short Eyes, Miguel Piñero 1975
Show Boat, Edna Ferber 1926
Show Boat, Jerome Kern, Oscar Hammerstein II 1927 (musical)
Sia lode ora a uomini di fama (Let Us Now Praise Famous Men), James Agee e
Walker Evans 1941
Sillabario del New England (New England Primer), Benjamin Harris 1687-1690
Simbolo perduto, Il (The Lost Symbol), Dan Brown 2009
So Far from the Bamboo Grove, Yoko Kawashima Watkins 1986
So Red the Rose, Stark Young 1934
Sogni di mio padre, I (Dreams From My Father), Barack Obama 1995
Sojourn in the City of Amalgamation in the Year of Our Lord 19. By Oliver Bolokitten,
Jerome B. Holgate 1835
Soldi neri ladri bianchi (Cotton Comes to Harlem), Chester Himes 1965
Some Strange Corners of Our Country, Charles F. Lummis 1892
Sorellina, La (The Little Sister), Raymond Chandler 1949
Sotterranei di New York, I, Bernardino Ciambelli 1915
Sottile linea scura, La (A Fine Dark Line), Joe R. Lansdale 2003
Southern Horrors. Lynch Law in All Its Phases, Ida B. Wells 1892
Spirit of the Ghetto, The, Hutchins Hapgood 1902
Splendor in the Grass, William Inge 1961
Steffie Can’t Come Out to Play, Frank Arrick 1978
Storia di un cattivo soggetto, La (Story of a Bad Boy), Thomas Bailey Aldrich
1870
Stories of the Great Railroads, C.E. Russell 1912
Storming Heaven, Denise Giardina 1987
Story of a Country Town, The, Edgar W. Howe 1882
Strada principale (Main Street), Sinclair Lewis 1920
Strada, La (The Road), Jack London 1907
Strada, La (The Road), Cormac McCarthy 2006
Strade maestre (Main-Travelled Roads), Hamlin Garland 1891
Strange Brother, Blair Niles 1931
Strange True Stories of Louisiana, George Washington Cable 1888
Strano caso di Benjamin Button, Lo (The Strange Case of Benjamin Button),
Francis Scott Fitzgerald 1922
Street Scene, Elmer Rice 1929
Struggles and Triumphs; or, Forty Years’ Recollections, P.T. Barnum 1855
Sud dello Slot, A (South of the Slot), Jack London 1909
Sulla strada (On the Road), Jack Kerouac 1957
Sulla stuoia di makaloa (On the Makaloa Mat), Jack London 1919
Summer in Williamsburg, Daniel Fuchs 1934

Taipi (Typee: A Peep At Polynesian Life), Herman Melville 1846


Talento di Mr Ripley, Il (The Talented Mr Ripley), Patricia Highsmith 1955
Talk to the Music, Arna Bontemps 1971
Ten Nights in a Bar-Room. And What I Saw There, Timothy Shay Arthur 1854
Tenements of Trinity Church, The, C.E. Russell 1908
Tenera è la notte (Tender is the Night), Francis Scott Fitzgerald 1934
Terra di confine: La Frontera (Borderlands/La Frontera: The New Mesitza),
Gloria Anzaldúa 1987
Terra incantata dei Pueblo, La (The Land of Poco Tiempo), Charles F. Lummis
1893
Topi nel muro, I (The Rats in the Walls), H.P. Lovecraft 1924
Torna, coniglio (Rabbit Redux), John Updike 1971
Tracers, John DiFusco 1980
Tram che si chiama desiderio, Un (A Streetcar Named Desire), Tennessee
Williams 1947
Tramping with Tramps, Josiah Flynt 1899
Tranquillo weekend di paura, Un (Deliverance), James Dickey 1970
Traveler From Altruria, A, William Dean Howells 1894
Travis Hallett’s Half Back, Frank Norris 1894
Treatise on Domestic Economy for the Use of Young Ladies at Home and at School,
A, Catherine Beecher 1841
Trilobiti (The Stories of Breece D’J Pancake), Breece D’J Pancake 1977-1983
Trilogia della fondazione (Foundation Trilogy), Isaac Asimov 1951-1953
Tropico del cancro (Tropic of Cancer), Henry Miller 1934
Tutti i figli di Dio hanno le ali (All God’s Chillum Got Wings), Eugene O’Neill
1924
Tutto a posto (Falling in Place), Ann Beattie 1980

U.S.A. Trilogy, The (42nd Parallel; 1919; The Big Money), John Dos Passos,
1930-1936
Ultima bella, L’ (The Last of the Belles), Francis Scott Fitzgerald 1929
Ultimo dei Mohicani, L’ (The Last of the Mohicans), James Fenimore Cooper
1826
Ultimo spettacolo, L’ (The Last Picture Show), Larry McMurtry 1971
Umbertina, Helen Barolini 1979
Underground Railroad, The, William Still 1872
Underworld (Underworld), Don DeLillo 1997
Unguarded Gates, Thomas Bailey Aldrich 1892
Unseen Hand, The, Sam Shepard 1970
Uomo che andava al cinema, L’ (The Moviegoer), Walker Percy 1961
Uomo dal vestito grigio, L’ (The Man in the Gray Flannel Suit), Sloan Wilson
1955
Uomo del Ku Klux Klan, L’ (The Clansman), Thomas Dixon 1905
Uomo della folla, L’ (The Man of the Crowd), Edgar Allan Poe 1840
Uomo di fiducia, L’ (The Confidence-Man), Herman Melville 1857
Uomo invisibile (Invisible Man), Ralph Ellison 1952
Up From Slavery, Booker T. Washington 1901
Urlo del vento, L’ (The Tin Roof Blowdown), James Lee Burke 2007
Urlo e il furore, L’ (The Sound and the Fury), William Faulkner 1929
Urlo (Howl), Allen Ginsberg 1956

Vacanze matte (Pioneer, Go Home!), Richard Powell 1959


Vagabondi nella notte (Waiting for Nothing), Tom Kromer 1935
Valle della paura La (The Valley of Fear), Arthur Conan Doyle 1915
Vecchio mondo creolo (Old Creole Days), George Washington Cable 1879
Velo nero del pastore, Il (The Minister’s Black Veil), Nathaniel Hawthorne
1837
Vergini suicide, Le (The Virgin Suicides), Jeffrey Eugenides 1993
Via col vento (Gone with the Wind), Margaret Mitchell 1939
Via da Las Vegas (Leaving Las Vegas), John O’Brian 1990
Via del tabacco, La (Tobacco Road), Erskine Caldwell 1932
Viaggio del pellegrino, Il (The Pilgrim’s Progress), John Bunyan 1678
Viaggio per le praterie occidentali degli Stati Uniti (A Tour of the Prairies),
Washington Irving 1835
Virginiano, Il (The Virginian), Owen Wister 1902
Visioni democratiche (Democratic Vistas), Walt Whitman 1871
Vita di Studs Lonigan, La (Studs Lonigan: A Trilogy), James T. Farrell 1932-
1935
Vita di una ragazza schiava (Incidents in the Life of a Slave Girl), Harriet
Jacobs 1861
Vita sul Mississippi (Life on the Mississippi), Mark Twain 1883

Walden, ovvero Vita nei boschi (Walden; or Life in the Woods), Henry David
Thoreau 1854
Walker, The, Arturo Giovannitti 1914
Wayfarer to New York, The, Edward S. Martin 1909
West Side Story, Leonard Bernstein, Stephen Sondheim 1957 (musical)
Western Portraiture, and Emigrants’ Guide: a Description of Wisconsin, Illinois, and
Iowa; with Remarks on Minnesota, and Other Territories, Daniel S. Curtiss,
Joseph Parrish Thompson 1852
What to the Slave Is the 4th of July?, Frederick Douglass 1852
When the Cock Crows, Arturo Giovannitti, 1917
White Jazz (White Jazz), James Ellroy 1992
Whose Names Are Unknown, Sanora Babb 1939, 2004
Wide, Wide World, The, Susan Warner 1850
Wieland, o la trasformazione (Wieland; or, The Transformation), Charles
Brockden Brown 1798
Wilson lo zuccone (Puddn’head Wilson), Mark Twain 1894
Winesburg, Ohio (Winesburg, Ohio), Sherwood Anderson 1919
Woman Who Toils, The, Marie Van Vorst 1903
Women in the Nineteenth Century, Margaret Fuller 1845
Wounded Planet, The, Roger Elwood (eds.), Virginia Kidd 1974

Yankee alla corte di re Artù, Uno (A Connecticut Yankee In King Arthur’s


Court), Mark Twain 1889
Yonnondio, Tillie Olsen 1974
You Have Seen Their Faces, Margaret Bourke-White, Erskine Caldwell 1937
Your Turn, Mr Moto, John P. Marquand 1935

Zanzare (Mosquitoes), William Faulkner 1927


Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Lo (Zen and the Art of
Motorcycle Maintenance), Robert M. Pirsig 1974
Zio Mosè, Lo (Onkl Mozes), Scholem Asch 1918
Zoo di vetro, Lo (The Glass Menagerie), Tennessee Williams 1944
La musica

Avvertenza. Tra parentesi abbiamo indicato il cognome o i cognomi degli autori di


musica e parole, tranne nel caso di canzoni tradizionali. Segue la data della prima
esecuzione o pubblicazione, preceduta, quando necessario, dall’indicazione
dell’interprete principale. Là dove manchi la parentesi con cognome/i, ciò vuol dire
che autore/i e interprete coincidono. In corsivo, i titoli di alcuni album.

«3rd Base, Dodger Stadium» (Cooder, Garcia, Kevany), Ry Cooder 2005

«ABC» (Gordy, Perren, Mizell, Richards), Jackson 5 1970


«Across 110th Street» (Womack, Johnson), Bobby Womack 1972
«Across the Western Ocean» (Tradiz.)
«Ain’t Go’n’ To Study War No More» (Tradiz.)
«Alexander’s Ragtime Band» (Berlin), 1911
«All Mixed Up», Pete Seeger 1965
«Alligator Bayou», Eddy Raven 1972
«All the Things You Are» (Kern, Hammerstein II), 1939
«Amelia», Joni Mitchell 1976
«Atlantic City», Bruce Springsteen 1982

«Back Door Man» (Dixon), Howlin’ Wolf 1961


«Barbara Ann» (Fassert), The Beach Boys 1965
«Barbra Allen» (Tradiz.)
«Basin Street Blues» (Williams), Louis Armstrong 1926
«Battle Hymn of the Republic, The» (Howe), 1861
«Bayou Pon Pon», Angelas LeJeune 1929
«Belles of Southern Belle», Del Reeves 1965
«Big Rock Candy Mountain», Harry McClintock 1895, 1928
«Billy the Kid» (Tradiz.)
«Billy the Kid», Woody Guthrie 1944
Blizzard of Ozz, Ozzy Osbourne 1980
«Blowin’ in the Wind», Bob Dylan 1963
«Blue Moon» (Rodgers, Hart), 1934
«Boll Weevil Song» (Tradiz.)
«Born in the U.S.A.», Bruce Springsteen 1984
«Bowery, The» (Hoyt), 1891
«Bracero», Phil Ochs 1965
«Bridge, The», Mc Shan 1985
«Bridge Is Over, The» (KRS-One, D-Nice, La Rock), KRS-One 1988
«Bring the Noise» (Ridenhour, Shocklee, Sadler), Public Enemy 1987
«Buffalo Gals» (Tradiz.)
«Bury Me Not on the Lone Prairie» (Tradiz.)

«C.C. Rider» (Tradiz.)


«Calm Like A Bomb» (De La Rocha, Commerford, Wilk, Morello), Rage
Against The Machine 1999
«Can’t Truss It» (Ridenour, Robertz, Gary G, Wiz, Depper), Public Enemy
1991
«Candy man, The» (Bricusse, Newley), Sammy Davis Jr. 1972
«Casey Jones, the Union Scab» (Hill), 1911
«Cheek to Cheek» (Berlin), Fred Astaire 1935
«Chewy Chewy», Ohio Express 1968
«Chiquita Banana Song» (Montgomery, Mackenzie, Wirges), Carmen
Miranda 1944
«Coat of Many Colors», Dolly Parton 1969
«Cop Killer» (Ice-T, Ernie C), Body Count 1992
«Cross Roads Blues», Robert Johnson 1936

«Daddy, What’s a Train?», Utah Phillips 1976


«Day-Ho (Banana Boat Song)» (Tradiz.), Harry Belafonte 1956
«Dead Presidents» (Carter, Willis, Liston Smith, Jones, Phillips), Jay-Z 1996
«Deportee (Plane Wreck at Los Gatos)» (Guthrie, Hoffman), Woody Guthrie
1948
«Do You Know What It Means To Miss New Orleans» (Alter, Delange), Louis
Armstrong 1947
«Don’t Believe the Hype» (Ridenhour, Shocklee, Sadler, Drayton), Public
Enemy 1988
«Down on the Picket Line», Sarah Ogan Gunning 1932
«Downtown» (Hatch), 1964
«Downtown Train», Tom Waits 1985
Dust Bowl Ballads, Woody Guthrie 1940

Elvis Presley Boulevard, Memphis, Tennessee, Elvis Presley 1976


«Embraceable You» (George Gershwin, Ira Gershwin), 1928
«Erie Canal, The» (o «Low Bridge») (Allen), 1905
«Erie Canal, The» (Tradiz.)
«E-ri-e, The» (Tradiz.)

«Fear of a Black Planet» (Shocklee, Sadler, Ridenhour), Public Enemy 1990


«Fight the Power» (Ridenhour, Sadler, H. Boxley, K. Boxley), Public Enemy
1989
«Foggy, Foggy Dew» (Tradiz.)
«Follow the Drinkin’ Gourd» (Tradiz.)
«For What It’s Worth» (Stills), Buffalo Springfield 1967
«Frankie and Johnny» (Tradiz.)

«(Get Your Kicks) On Route 66» (Troup), Nat King Cole 1946
«Ghost of Tom Joad, The», Bruce Springsteen 1995
«Girl of Constant Sorrow», Sarah Ogan Gunning 1936
«Git Along, Little Dogies» (Tradiz.)
«Goodnight Saigon», Billy Joel 1983
«Graceland», Paul Simon 1987
«Great Dust Storm, The», Woody Guthrie 1940

«Halleluja, I’m a Bum!» (Tradiz.)


«Halloween Parade», Lou Reed 1989
Hammertime, M.C. Hammer 1990
«Hardin Wouldn’t Run», Johnny Cash 1965
«Harlem Rag» (Turpin), 1899
«Here’s to You» (Baez, Morricone), Joan Baez 1971
Highway 61 Revisited, Bob Dylan 1965
«Hinky-Dinky, Parlee-Voo» (Tradiz.)
«Hold the Fort» (Bliss/Anon.), 1870
«Hoochie Coochie Man» (Dixon), Muddy Waters 1954
«Hymn of Hate» (McClintock), 1916

«I Ain’t Superstitious» (Dixon), Howlin’ Wolf 1961


«I Am a Union Woman», Aunt Molly Jackson 1931
«I Got Rhythm» (George Gershwin, Ira Gershwin), 1930
«I Hate the Capitalist System», Sarah Ogan Gunning 1938
«I Think We’re Alone Now» (Cordell), Tommy James & the Shondells 1967
«I Wish I Was in Dixie», (Tradiz.)
«If You Miss Me at the Back of the Bus» (Neblett), Pete Seeger 1963
«I-Feel-Like-I’m-Fixin’-to-Die Rag» (McDonald), Country Joe and the Fish
1967
«I’ve Got You Under My Skin» (Porter), 1936

«Jackson», Johnny Cash 1963


«Jesse James» (Tradiz.)
«John Brown’s Body» (Tradiz.)
John Wesley Harding, Bob Dylan 1967
«Jolie Blonde» (Tradiz.)

«Kentucky Miners’ Wives’ Ragged Hungry Blues», Aunt Molly Jackson 1931-
32
«Kill That Noise», Mc Shan 1987
«Kindhearted Woman», Robert Johnson 1936
«King Tim III (Personality Jock)», Fatback Band 1979
«Kodachrome», Paul Simon 1973
«Ko-Ko» (Parker), 1945

«La Cucaracha» (Tradiz.)


«La valse de chère bebé», Jo-El Sonnier 1995
«Les haricots sont pas salés» (Tradiz.)
«Les maringouin ont tout mangé ma belle» (Tradiz.)
«Let the Good Times Roll» (Jordan), B.B. King 1946
«Let’s Do It» (Porter), 1928
«Liberty Bell March, The» (Sousa), 1893
«Lincoln and Liberty» (Tradiz.)
«Lindbergh (The Eagle of the U.S.A.)» (Johnson, Sherman), Vernon Dalhart
1927
«Little Boxes», Malvina Reynolds 1962
«Little Red Rooster» (Dixon), Howlin’ Wolf 1961
«Lone Star Trail, The» (Tradiz.)
«Lonesome Road» (Tradiz.)
«Long Legged Guitar Pickin’ Man», Johnny Cash 1967
«Lucky Lindy» (Gilbert, Baer), Nat Shilkret & The Victor Orchestra 1927
«Lyndon Johnson Told the Nation», Tom Paxton 1965

«Ma Louisianne», Zachary Richards 1977


«Magic’s Wand» (Hutchins, Fletcher, Carter), Whodini 1983
«Man I Love, The» (George Gershwin, Ira Gershwin), 1924
«Man in Black», Johnny Cash 1971
«Man of Constant Sorrow» (Tradiz.)
«Mansion over the Hilltop» (Stanphill), Elvis Presley 1960
«Maple Leaf Rag» (Joplin), 1899
«Mary Had a William Goat» (Tradiz.)
«Me and the Devil Blues», Robert Johnson 1936
«Meet Me in St. Louis, Louie» (Sterling-Mills), 1904
«Meet Me in the Jungle, Louie» (Sterling-Mills, Hill, Blazier), 1911
«Message, The» (Chase, Fletcher, Glover, Robinson), Grandmaster Flash
1982
«Midnight Special» (Tradiz.)
«Mississippi Goddam», Nina Simone 1964
«Mister Block» (Hill), 1911
«Misterioso» (Monk, Best), Thelonious Monk 1958
«Money to Blow» (Graham, Carter, Williams), Birdman 2009
Moody Blue, Elvis Presley 1977
«Mother’s Little Helper» (Jagger, Richards), The Rolling Stones 1966
«Motor City is Burning, The», John Lee Hooker 1967
«Mule Skinner’s Boy» (Tradiz.)
«Mulligan Guard», Edward Harrigan & David Braham 1878
«My Adidas» (Simmons, McDaniels ), Run Dmc 1986
«My Funny Valentine» (Rodgers, Hart), 1937
«My Hometwon», Bruce Springsteen 1984

Nevermind, Nirvana 1991


«Night and Day» (Porter), 1932
«Night in Tunisia» (Gillespie, Paparelli), 1942
Nighthawks at the Diner, Tom Waits 1975

«Oh, Lady be Good» (George Gershwin, Ira Gershwin), 1924


«Oh, My Darling Clementine» (Tradiz.)
«Oh, Susanna!» (Tradiz.)
«Ol’ Man River» (Kern, Hammerstein II), Paul Robeson 1922
«One in a Million» (Rose), Guns n’ Roses 1988
«Over the Rainbow» (Arlen, Harburg), Judy Garland 1939

Pat Garret & Billy the Kid, Bob Dylan 1973


«People, Let’s Stop the War» (Farner), Grand Funk Railroad 1971
«Pie in the Sky» (Tradiz., Hill)
«Poor Lonesome Cowboy» (Tradiz.)
«Poor Paddy Works on the Railway» (Tradiz.)
«Poor Working Girls, The» (Tradiz.)
«Preacher and the Slave, The» (Hill), 1911
«Pretty Boy Floyd», Woody Guthrie 1939

«Rapper’s Delight» (Robinson, Edwards, Rodgers), The Sugarhill Gang 1979


«Rappin’ Blow » (Blow, Ford, Miller, Moore, Smith), Kurtis Blow 1980
«Rebel Girl, The» (Hill), 1911
«Rednecks», Randy Newman 1974
«Red River Valley» (Tradiz.)
«Remember the Alamo» (Bowers), Johnny Cash 1963
«Rapsodia in blu» (George Gershwin), 1924
«Rhyme Syndicate Comin’ Through» (Ice-T), Rhyme Syndicate 1988
«River, The», Bruce Springsteen 1980
«’Round Midnight», Thelonious Monk 1944
«Ruby, My Dear», Thelonious Monk 1947
«Rye Whiskey», Tex Ritter 1933
«Salt Peanuts» (Gillespie, Clarke), Dizzy Gillespie 1943
«San Francisco (You’ve Got Me)» (Belolo, Morali, Hurtt, Whitehead), Village
People 1977
«Say, Say, Say», Paul McCartney, Michael Jackson 1983
«Scissor Bill» (Hill), 1911
«See You Later, Alligator» (Guidry) 1955
«Singing in Vietnam Talking Blues», Johnny Cash 1971
«Sky Pilot» (Burdon, Briggs, Weider, Jenkins, McCulloch), Eric Burdon & The
Animals 1968
«Smell Like Teen Spirit» (Cobain), Nirvana 1991
«Smoke Gets in Your Eyes» (Kern, Harbach), 1933
«Solidarity Forever» (Chaplin), 1915
«South Bronx» (KRS-One, La Rock), Boogie Down Productions 1986
«Southern Belle», Elliott Smith 1995
«Strange Fruit» (Meeropol), Billie Holiday 1939
«Streets of Laredo, The» (Tradiz.)
«Sugar Sugar» (King, Barry), Archies 1969
«Summertime» (George Gershwin, Ira Gershwin), 1935
«Surfin’ USA» (Wilson), The Beach Boys 1963
«Swanee» (Gershwin, Caesar), Al Jolson 1919
«Sweet Betsy from Pike» (Tradiz.)
«Sweet Home Chicago», Robert Johnson 1936

«Ta-ra-ra Boom De-ay!» (Hill), 1911


«Tea for Two» (Youmans, Caesar), 1925
«This Land Is Your Land», Woody Guthrie 1940
«Tiger Rag» (Original Dixieland Jass Band), 1917
«Tombstone Blues», Bob Dylan 1965
«Trail to Mexico, The» (Tradiz.)
«Tramp, The» (Hill), 1911

«Valse de Bayou Tèche» (Abshire), 1969


«Vigilante Man», Woody Guthrie 1960

«Waist Deep in the Big Muddy», Pete Seeger 1967


«Walking in Memphis», Mark Cohn 1991
«War is Over, The», Phil Ochs 1968
«Watermelon Man», Herbie Hancock 1962
«Way You Look Tonight, The» (Fields, Kern), Fred Astaire 1961
«Weaver, The» (Tradiz.)
«When the Saints Go Marchin’ In» (Tradiz)
«When the Work’s All Done This Fall» (Tradiz.)
Where Are You Know My Son?, Joan Baez 1973
«Which Side Are You On?», Florence Reece 1931
«Workers of the World, Awaken!» (Hill), 1911

«Yankee Doodle» (Tradiz.)


«Yellow Dog Blues» (Handy), 1903
«Yes! We Have No Bananas» (Silver, Cohn), Eddie Cantor 1922
«YMCA» (Belolo, Morali, Willis), Village People 1978
«You Shook Me» (Dixon, Lenoir), Muddy Waters 1962
«Youngstown», Bruce Springsteen 1995
I film

Avvertenza. Per ovvi motivi di spazio, abbiamo dovuto rinunciare a indicare i nomi
degli interpreti.

… E l’uomo creò Satana (Inherit the Wind), Stanley Kramer 1960


1941: Allarme a Hollywood (Warhawk), Steven Spielberg 1979
2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey), Stanley Kubrick 1968
25ª ora, La (25th Hour), Spike Lee 2002

A cena con gli amici (Diner), Barry Levinson 1982


A Serious Man (A Serious Man), Joel e Ethan Coen 2009
Alambrista! Il clandestino (Alambrista!), Robert M. Young 1977
Alamo – Gli ultimi eroi (The Alamo), John Lee Hancock 2004
Ali della libertà, Le (The Shawshank Redemption), Frank Darabont 1994
Alice non abita più qui (Alice Doesn’t Live Here Anymore), Martin Scorsese
1974
Alien (Alien), Ridley Scott 1979
Alphabet City (Alphabet City), Amos Poe 1984
Altro uomo, L’ (Strangers on a Train), Alfred Hitchcock 1951
America 1929 – Sterminateli senza pietà (Boxcar Bertha), Martin Scorsese 1972
America oggi (Short Cuts), Robert Altman 1993
American Beauty (American Beauty), Sam Mendes 1999
American Graffiti (American Graffiti), George Lucas 1973
American History X (American History X), Tony Kaye 1998
Amistad (Amistad), Steven Spielberg 1997
Amityville Horror (The Amityville Horror), Stuart Rosenberg 1979
Amore splendido, Un (An Affair to Remember), Leo McCarey 1957
An Injury To One, Travis Wilkerson 2002 (docum.)
Animal House (National Lampoon’s Animal House), John Landis 1978
Anno del dragone, L’ (Year of the Dragon), Michael Cimino 1985
Apocalypse Now (Apocalypse Now), Francis Ford Coppola 1979
Aquila solitaria, L’ (The Spirit of St. Louis), Billy Wilder 1957
Aquile sul Pacifico (Flight for Freedom), Lothar Mendes 1943
Assalto al treno (The Great Train Robbery), Edwin S. Porter 1903
Atlantic City (Atlantic City), Louis Malle 1980
Atomic Cafe, The, Jayne Loader, Kevin Rafferty, Pierce Rafferty 1982 (docum.)
Attimo fuggente, L’ (Dead Poets Society), Peter Weir 1989
Autunno a New York (Autumn in New York), Joan Chen 2000
Avatar (Avatar), James Cameron 2009
Avventure di Davy Crockett, Le (Davy Crockett: King of the Wild Frontier),
Norman Foster 1955

Balla coi lupi (Dances with Wolves), Kevin Costner 1990


Bamba, La (La Bamba), Luís Valdéz 1987
Batman (Batman), Tim Burton 1989
Battaglia di Alamo, La (The Alamo), John Wayne 1960
Beggars of Life, William Wellman 1928
Bella e la bestia, La (The Beauty and the Beast), Gary Trousdale, Kirk Wise
1991
Benvenuti in paradiso (Come and See the Paradise), Alan Parker 1990
Berretti verdi (The Green Berets), John Wayne, Ray Kellogg, John Gaddis 1968
Big Easy, The (The Big Easy), Jim McBride 1987
Bird (Bird), Clint Eastwood 1988
Black Caesar - Il Padrino nero (Black Caesar), Larry Cohen 1973
Black Dahlia (The Black Dahlia), Brian De Palma 2006
Blade Runner (Blade Runner), Ridley Scott 1982
Blue Hawaii (Blue Hawaii), Norman Taurog 1961
Bordertown (Bordertown), Gregory Nava 2007
Bowling a Columbine (Bowling for Columbine), Michael Moore 2002 (docum.)
Brivido nella notte (Play Misty for Me), Clint Eastwood 1971
Bronx (A Bronx Tale), Robert De Niro 1993
Bronx 41mo distretto di polizia (Fort Apache the Bronx), Daniel Petrie 1981
Brubaker (Brubaker), Stuart Rosenberg 1980
Bucanieri, I (The Buccaneer), Anthony Quinn 1958
Buffalo Bill e gli indiani (Buffalo Bill and the Indians), Robert Altman 1976
Buffy l’ammazzavampiri (Buffy, the Vampire Slayer), Fran Rubel Kuzui 1992
Bugsy (Bugsy), Berry Levinson 1991
Buio oltre la siepe, Il (To Kill a Mockingbird), Robert Mulligan 1962
Buio si avvicina, Il (Near Dark), Kathryn Bigelow 1987
Butch Cassidy (Butch Cassidy and the Sundance Kid), George Roy Hill 1969
Butte, America, Pamela Roberts 2009 (docum.)

C’era una volta in America, Sergio Leone 1984


Cabaret (Cabaret), Bob Fosse 1972
Caccia, La (The Chase), Arthur Penn 1966
Cacciatore, Il (The Deer Hunter), Michael Cimino 1978
Calunnia, La (These Three), William Wyler 1936
Cancelli del cielo, I (Heaven’s Gate), Michael Cimino 1980
Cantante di jazz, Il (The Jazz Singer), Alan Crosland 1927
Carcere (The Big House), George W. Hill 1930
Carrie – Lo sguardo di Satana (Carrie), Brian De Palma 1976
Cars – Motori ruggenti (Cars), John Lasseter 2006
Casa, La (The Evil Dead), Sam Raimi 1981
Casablanca (Casablanca), Michael Curtiz 1942
Casinò (Casino), Martin Scorsese 1995
Cavaliere della valle solitaria, Il (Shane), George Stevens 1953
Cavalieri dalle lunghe ombre, I (The Long Riders), Walter Hill 1980
Cavalloni, I (Gidget), Paul Wendkos 1959
Cento ragazze e un marinaio (Girls! Girls! Girls!), Norman Taurog 1962
Chelsea Girls, Andy Warhol 1966
Chi ha paura di Virginia Woolf (Who’s Afraid of Virginia Woolf), Mike Nichols
1966
Chinatown (Chinatown), Roman Polanski 1974
Cinderella Man – Una ragione per lottare (Cinderella Man), Ron Howard 2005
Città amara (Fat City), John Hurston 1972
Città del jazz, La (New Orleans), Arthur Lubin 1947
Città nuda (Naked City), Jules Dassin 1948
Clan dei Barker, Il (Bloody Mama), Roger Corman 1970
Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany), Blake Edwards 1961
Colline hanno gli occhi, Le (The Hills Have Eyes), Wes Craven 1977
Colors – I colori di guerra (Colors), Dennis Hopper 1988
Colpo grosso (Ocean’s Eleven), Lewis Milestone 1960
Come eravamo (The Way We Were), Sydney Pollack 1973
Common Threads: Stories from the Quilt, Rob Epstein, Jeffrey Friedman 1989
(docum.)
Condannato! (Convicted), Henry Levin 1950
Confessioni di una spia nazista (Confessions of a Nazi Spy), Anatole Litvak 1939
Corsa al massacro (Thrashin’), David Winters 1986
Cospiratori, I (Molly Maguires), Martin Ritt 1970
Country (Country), Richard Pearce 1984

Dalia azzurra, La (The Blue Dahlia), George Marshall 1946


Dalle 9 alle 5… orario continuato (Nine to Five), Colin Higgins 1980
Dark Shadows (Dark Shadows), Tim Burton 2012
Dead Man Walking. Condannato a morte (Dead Man Walking), Tim Robbins 1995
Dillinger (Dillinger), John Milius 1973
Dimenticati, I (Sullivan’s Travels), Preston Sturges 1941
Divina, La (The Goddess), John Cromwell 1958
Dolce ala della giovinezza, La (Sweet Birth of Youth), Richard Brooks 1962
Donna che visse due volte, La (Vertigo), Alfred Hitchcock 1958
Donna del ritratto, La (The Woman in the Window), Fritz Lang 1944
Donna in carriera, Una (Working Girl), Mike Nichols 1988
Dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba,
Il (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the
Bomb), Stanley Kubrick 1964
Dracula (Dracula) Francis Ford Coppola 1992
Due banditi, I (Under the Gun), Ted Tezlaff 1951
Due strade, Le (Manhattan Melodrama), W.S. Van Dyke II 1934

E.T. L’extraterrestre (E.T.: The Extra-Terrestrial), Steven Spielberg 1982


Easy Rider (Easy Rider), Dennis Hopper 1969
Elephant (Elephant), Gus Van Sant 2003
Endless Summer, The, Bruce Brown 1966 (docum.)
Eroe della strada, L’ (Hard Times), Walter Hill 1975
Esorcista, L’ (The Exorcist), William Friedkin 1973
Evita (Evita), Alan Parker 1996

Fa’ la cosa giusta (Do the Right Thing), Spike Lee 1989
Faccia d’angelo (Baby Face Nelson), Don Siegel 1957
Febbre dell’oro, La (The Gold Rush), Charlie Chaplin 1925
Fiamma del peccato, La (Double Indemnity), Billy Wilder 1944
Fighter, The (The Fighter), David O. Russell 2010
Filibustieri, I (The Buccaneer), Cecil B. DeMille 1938
Fiori d’acciaio (Steel Magnolias), Herbert Ross 1989
Fiume rosso, Il (Red River), Howard Hawks e Arthur Rosson 1948
Flapper, The, Alan Crosland 1920
Fog (The Fog), John Carpenter 1980
Folli notti del Dottor Jerryll, Le (The Nutty Professor), Jerry Lewis 1963
Food Inc. (Food Inc.), Robert Kenner 2009
Forza bruta (Brute Force), Jules Dassin 1947
Fratelli Marx al college (Horse Feathers), Norman Z. McLeod 1932
Fratello, dove sei? (O Brother, Where Art Thou), Joel e Ethan Coen 2000
Fronte del porto (On the Waterfront), Elia Kazan 1954
Fuga da Alcatraz (Escape from Alcatraz), Don Siegel 1979
Fuga di mezzanotte (Midnight Express), Alan Parker 1978
Fuggitivo, Il (The Fugitive), Andrew Davis 1993
Full Metal Jacket (Full Metal Jacket), Stanley Kubrick 1987
Furia (Fury), Fritz Lang 1936
Furia selvaggia (The Left-Handed Gun), Arthur Penn 1959

Gangs of New York (Gangs of New York), Martin Scorsese 2002


Gangster Story (Bonnie & Clyde), Arthur Penn 1967
Gangsters, I (The Killers), Robert Siodmak 1946
Gardenia blu, La (The Blue Gardenia), Fritz Lang 1953
Gatta sul tetto che scotta, La (Cat on a Hot Tin Roof), Richard Brooks 1958
Geronimo (Geronimo), Walter Hill 1994
Ghostbusters (Ghostbusters), Ivan Reitman 1989
Giardino delle vergini suicide, Il (The Virgin Suicides), Sofia Coppola 1999
Gigante, Il (The Giant), George Stevens 1956
Giorni perduti (The Lost Week-end), Billy Wilder 1945
Giorno in cui la terra si fermò, Il (The Day the Earth Stood Still), Robert Wise
1951
Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause), Nicholas Ray 1955
Giustizieri del West, I (Posse), Kirk Douglas 1975
Glory – Uomini di gloria (Glory), Edward Zwick 1989
Godzilla (Godzilla), Roland Emmerich 1998
Good Morning Vietnam (Good Morning Vietnam), Barry Levinson 1987
Good Night, and Good Luck (Good Night, and Good Luck), George Clooney 2005
Grande amore, Un (Love Affair), Leo McCarey 1939
Grande caldo, Il (The Big Heat), Fritz Lang 1953
Grande sonno, Il (The Big Sleep), Howard Hawks 1946
Grease (Grease), Randal Kleiser 1978
Grissom Gang (Niente orchidee per miss Blandish) (The Grissom Gang), Robert
Aldrich 1971
Grosso guaio a Chinatown (Big Trouble in Little China), John Carpenter 1986
Gruppo, Il (The Group), Sidney Lumet 1966
Guerre stellari (Star Wars), George Lucas [Una nuova speranza (A New Hope),
1977; L’impero colpisce ancora (The Empire Strikes Back), 1980; Il ritorno
dello Jedi (Return of the Jedi), 1983]
Guerrieri della notte, I (The Warriors), Walter Hill 1979
Guerrieri della palude silenziosa, I (Southern Comfort), Walter Hill 1981

Halloween – La notte delle streghe (Halloween), John Carpenter 1978


Hamburger Hill: collina 937 (Hamburger Hill), John Irvin 1987
Harlan County War, Tony Bill 2000
Harlan County, Usa, Barbara Kopple 1975 (docum.)
Harry ti presento Sally (When Harry Met Sally…), Rob Reiner 1989
He Got Game (He Got Game), Spike Lee 1998
Ho sposato una strega (I Married a Witch), René Clair 1942

Idolo delle donne, L’ (The Prizefighter and the Lady), W.S. Van Dyke 1933
Idolo delle folle, L’ (The Pride of the Yankees), Sam Wood 1942
Il caro estinto (The Loved One), Tony Richardson 1965
Impareggiabile Godfrey, L’ (My Man Godfrey), Gregory La Cava 1936
Imperatore del Nord, L’ (Emperor of the North Pole), Robert Aldrich 1973
Imperatrice Caterina, L’ (The Scarlet Empress), Josef von Sternberg 1934
Improvvisamente l’estate scorsa (Suddenly Last Summer), Joseph Mankiewicz
1959
In amore niente regole (Leatherheads), George Clooney 2008
Inafferrabile signor Jordan, L’ (Here Comes Mr Jordan), Alexander Hall 1941
Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind), Steven
Spielberg 1977
Incredibile Hulk, L’ (The Incredible Hulk), Louis Leterrier 2008
Indipendence Day (Indipendence Day), Roland Emmerich 1996
Indovina chi viene a cena? (Guess Who’s Coming to Dinner), Stanley Kramer
1967
Infernale Quinlan, L’ (Touch of Evil), Orson Welles 1958
Inferno di cristallo, L’ (Towering Inferno), John Guillermin, Irwin Allen 1974
Intervista col vampiro (Interview with the Vampire: The Vampire Chronicles),
Neil Jordan 1994
Intoccabili, Gli (The Untouchables), Brian De Palma 1987
Intrigo internazionale (North by Northwest), Alfred Hitchcock 1959
Invasione degli ultracorpi, L’ (Invasion of the Body Snatchers), Don Siegel 1956
Invasori spaziali, Gli (Invadors from Mars), William Cameron Menzies 1953
Investigatore Marlowe, L’ (Marlowe), Paul Bogart 1969
Io sono leggenda (I am Legend), Francis Lawrence 2007
Io sono un evaso (I Am a Fugitive from a Chain Gang), Mervyn LeRoy 1932
Italoamericani (Italianamerican), Martin Scorsese 1974 (docum.)

Jesus Christ Superstar (Jesus Christ Superstar), Norman Jewison 1973


J. Edgar (J. Edgar), Clint Eastwood 2011
JFK – Un caso ancora aperto (JFK), Oliver Stone 1991
Jungle Fever (Jungle Fever), Spike Lee 1991

Kansas City (Kansas City), Robert Altman 1996


Karate Kid -– Per vincere domani (The Karate Kid), John G. Avildsen 1984
King Corn, Ian Cheney, Curtis Ellis 2007
King Kong (King Kong), Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack 1933

Lassù qualcuno mi ama (Somebody Up There Likes Me), Robert Wise 1956
Laureato, Il (The Graduate), Mike Nichols 1967
Legge del Signore, La (Friendly Persuasion), William Wyler 1956
Lontano dal paradiso (Far From Heaven), Todd Haynes 2002
Louisiana Story (Louisiana Story), Robert Flaherty, 1948
Love Story (Love Story), Erich Segal 1970
Lungo addio, Il (The Long Goodbye), Robert Altman 1973
Macchia umana, La (The Human Stain), Robert Benton 2003
Magnifici sette, I (The Magnificent Seven), John Sturges 1960
Mago di Oz, Il (The Wizard of Oz), Victor Fleming1939
Maratoneta, Il (Marathon Man), John Schlesinger 1976
Marlowe, il poliziotto privato (Farewell, My Lovely), Dick Richards 1975
Marocco (Morocco), Josef von Sternberg 1930
Massacro di Fort Apache, Il (Fort Apache), John Ford 1948
Matewan (Matewan), John Sayles 1987
Matrix (The Matrix), Larry Wachowski, Andy Wachowski 1999
Mercoledì da leoni, Un (Big Wednesday), John Milius 1978
Mezzogiorno di fuoco (High Noon), Fred Zinnemann 1952
Miglio verde, Il (The Green Mile), Frank Darabont 1999
Mi vida loca (Mi vida loca), Allison Anders 1994
Miglior piccolo bordello del Texas, Il (The Best Little Whorehouse in Texas),
Colin Higgins 1982
Milk (Milk), Gus Van Sant 2008
Million Dollar Baby (Million Dollar Baby), Clint Eastwood 2004
Mississippi Adventure (Crossroads), Walter Hill 1986
Mississippi Burning – Le radici dell’odio (Mississippi Burning), Alan Parker 1988
Moby Dick, la balena bianca (Moby-Dick), John Huston 1956
Mondo dei robot, Il (Westworld), Michael Crichton 1973
Morire all’alba (Each Dawn I Die), William Keighley 1939
Moulin Rouge (Moulin Rouge), Baz Luhrmann 2001
Mr and Mrs Bridge (Mr & Mrs Bridge), James Ivory 1990
Mr Smith va a Washington (Mr Smith Goes to Washington), Frank Capra 1939
Mulholland Drive (Mulholland Dr.), David Lynch 2001
Musketeers of Pig Alley, The, David W. Griffith 1912

Nascita di una nazione (The Birth of a Nation), D.W. Griffith 1915


Native Land, Leo Hurwitz, Paul Strand, 1942
Nato il quattro luglio (Born on the Fourth of July), Oliver Stone 1989
Nemico pubblico (Public Enemies), Michael Mann 2009
Next Voice You Hear, The, William Wellman 1950
Niagara (Niagara), Henry Hathaway 1953
Nick mano fredda (Cool Hand Luke), Stuart Rosenberg 1967
Nightmare: dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street), Wes Craven
1984
Ninotchka (Ninotchka), Ernst Lubitsch 1939
Nodo alla gola (Rope), Alfred Hitchcock 1948
Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre), Tobe Hooper 1974
Non è peccato – La Quinceañera (Quinceañera), Richard Glatzer, Wash
Westmoreland 2006
Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men), Joel e Ethan Coen 2007
Notte dei morti viventi, La (Night of the Living Dead), George Romero 1968
Nuovo Mondo, Il (The New World), Terrence Malick 2005
Nuovomondo, Emanuele Crialese 2006

Ocean’s Eleven – Fate il vostro gioco (Ocean’s Eleven), Steven Soderberg 2001
Ogni maledetta domenica (Any Given Sunday), Oliver Stone 1999
Ombra del passato, L’ (Murder, My Sweet), Edward Dmytryk 1944
Ombre rosse (Stagecoach), John Ford 1939
On the Bowery, Lionel Rogosin 1956 (docum.)
Otto celle della morte, Le (The Last Mile), Howard Koch 1959

Padrino, Il (The Godfather), Francis Ford Coppola [Parte I, 1972; Parte II, 1974,
Parte III, 1990]
Paradiso hawaiano (Paradise, Hawaiian Style), Michael D. Moore 1966
Paradiso può attendere, Il (Heaven Can Wait), Warren Beatty & Buck Henry
1978
Paris, Texas (Paris, Texas), Wim Wenders 1984
Pat Garret & Billy the Kid (Pat Garret & Billy the Kid), Sam Peckinpah 1973
Paura d’amare (Frankie and Johnny), Garry Marshall 1991
Peccatori di Peyton Place, I (Peyton Place), Mark Robson 1957
Pensieri pericolosi (Dangerous Minds), John N. Smith 1995
Pianeta proibito, Il (Forbidden Planet), Fred McLeod Wilcox 1956
Piano 9 da un altro spazio (Plan 9 from Outer Space), Edward D. Wood Jr. 1959
Piccolo Cesare (Little Caesar), Mervyn LeRoy 1930
Piccolo fuggitivo, Il (The Little Fugitive), Morris Engel, Ruth Orkin, Ray Ashley
1953
Piccolo grande uomo, Il (Little Big Man), Arthur Penn 1970
Più grande corrida, La (The Brave One), Irving Rapper 1956
Più grande spettacolo del mondo, Il (The Greatest Show On Earth), Cecil B.
DeMille 1952
Platoon (Platoon), Oliver Stone 1986
Plow that Broke the Plains, The, Pare Lorentz 1937 (docum).
Poltrona per due, Una (Trading Places), John Landis 1983
Porky’s – Questi pazzi pazzi porcelloni (Porky’s), Bob Clark 1981
Porky’s 2 – Il giorno dopo (Porky’s II), Bob Clark 1984
Posse. La leggenda di Jesse Lee (Posse), Mario Van Peebles 1993
Precious (Precious), Lee Daniels 2009
Pretty Baby (Pretty Baby), Louis Malle 1978
Prova a prendermi (Catch Me If You Can), Steven Spielberg 2002
Prozac Nation, Erik Skjoldbjærg 2001
Psycho (Psycho), Alfred Hitchcock 1960
Pull My Daisy, Robert Frank, Alfred Leslie 1959
Pulp Fiction (Pulp Fiction), Quentin Tarantino 1994
Punto zero (Vanishing Point), Richard Sarafian 1971
Pupe calde e mafia nera (Cotton Comes to Harlem), Ossie Davis 1970

Quando eravamo re (When We Were Kings), Leon Gast 1996


Quando l’amore brucia l’anima (Walk the Line), James Mangold 2005
Quarto potere (Citizen Kane), Orson Welles 1941
Quei bravi ragazzi (Goodfellas), Martin Scorsese 1990
Quel fenomeno di mio figlio (That’s My Boy), Hal Walker 1951
Quella sporca ultima meta (The Longest Yard), Robert Aldrich 1974
Quelle due (The Children’s Hour), William Wyler 1961

Radio America (Radio America), Robert Altman 2006


Radio Days (Radio Days), Woody Allen 1987
Ragazzi della 56ª Strada, I (The Outsiders), Francis Ford Coppola 1983
Ragazzi perduti (The Lost Boys), Joel Schumacher 1987
Rambo (First Blood), Ted Kotcheff 1982
Re Leone, Il (The Lion King), Roger Allers, Rob Minkoff 1994
Re Mida (The Golden Touch), Walt Disney 1935
Regina dei desperados, La (Montana Belle), Allan Dwan 1951
Revolutionary Road (Revolutionary Road), Sam Mendes 2008
Ribelle del Sud, La (Belle Starr), Irving Cummings 1941
Riding the Rails, Michael Uys, Lexy Lovell 1997 (docum.)
Ritorno al futuro (Back to the Future), Robert Zemeckis 1985
River, The, Pare Lorentz 1938 (docum.)
Rivincita dei nerds, La ( Revenge of the Nerds), Jeff Kanew 1984
Rivolta al blocco 11 (Riot in Cell Block 11), Don Siegel 1954
Robin Hood dell’Eldorado (The Robin Hood of El Dorado), William Wellman
1936
Rock’n’Roll High School (Rock’n’Roll High School), Allan Arkush 1979
Rocky (Rocky), John G. Avildsen 1976
Rocky II (Rocky II), Sylvester Stallone 1979
Rocky III (Rocky III), Sylvester Stallone 1982
Rocky IV (Rocky IV), Sylvester Stallone 1985
Rocky V (Rocky V), John G. Avildsen 1990
Roger & Me (Roger & Me), Michael Moore 1989 (docum.)
Rosemary’s Baby (Rosemary’s Baby), Roman Polanski 1968
Rusty il selvaggio (Rumble Fish), Francis Ford Coppola 1983

Salt of the Earth, Herbert J. Biberman 1954


Scala a chiocciola, La (The Spiral Staircase), Robert Siodmak 1945
Scandalo al sole (A Summer Place), Delmer Daves 1959
Scarface – Lo sfregiato (Scarface), Howard Hawks, Richard Rosson 1932
Scarface (Scarface), Brian De Palma 1983
Scena di strada (Street Scene), King Vidor 1931
Scent of a Woman – Profumo di donna (Scent of a Woman), Martin Brest 1992
Schulze vuole suonare il blues (Schultze Gets the Blues), Michael Schorr 2003
Scoprendo Forrester (Finding Forrester), Gus Van Sant 2000
Scream (Scream), Wes Craven 1996
Secrets of Silicon Valley, Alan Snitow, Deborah Kaufman 2001 (docum.)
Segno degli Hannan, Il (Last Embrace), Jonathan Demme 1979
Segreti di Brokeback Mountain, I (Brokeback Mountain), Ang Lee 2005
Segreto del mio successo, Il (The Secret of My Success), Herbert Ross 1987
Selvaggio, Il (The Wild One), László Benedek 1954
Seme della violenza, Il (The Blackboard Jungle), Richard Brooks 1955
Sentieri selvaggi (The Searchers), John Ford 1956
Sfida all’O.K. Corral (Gunfight at the O.K. Corral), John Sturges 1957
Sfida infernale (My Darling Clementine), John Ford 1946
Shanghai Express (Shanghai Express), Josef von Sternberg 1932
Shining (The Shining), Stanley Kubrick 1980
Shutter Island (Shutter Island), Martin Scorsese 2010
Sindrome cinese (The China Sindrome), James Bridges 1979
Singles – L’amore è un gioco (Singles), Cameron Crowe 1992
Skulls – I teschi, The (The Skulls), Rob Cohen 2000
Soldato blu (Soldier Blue), Ralph Nelson 1970
Solo sotto le stelle (Lonely Are the Braves), David Miller 1962
Sono innocente (You Only Live Once), Fritz Lang 1937
Soul Man (Soul Man), Steve Miner 1986
Space Jam (Space Jam), Joe Pytka 1996
Spider Man (Spider Man), Sam Raimi 2002
Splendore nell’erba (Splendor in the Grass), Elia Kazan 1961
Stangata, La (The Sting), George Roy Hill 1973
Storia del generale Custer, La (They Died With Their Boots On), Raoul Walsh
1942
Strade violente (Boyz n the Hood), John Singleton 1991
Stranger Inside (Stranger Inside), Cheryl Dunye 2001
Strano caso di Benjamin Button, Lo (The Curious Case of Benjamin Button),
David Fincher 2008
Stregata dalla luna (Moonstruck), Norman Jewison 1987
Super Size Me (Super Size Me), Morgan Spurlock 2004

Talento di Mr Ripley, Il (The Talented Mr Ripley), Anthony Minghella 1999


Tarzan e la compagna (Tarzan and His Mate), Cedric Gibbons 1934
Tarzan of the Apes, Scott Sidney 1918
Tempi moderni (Modern Times), Charlie Chaplin 1936
Tenenbaums, I (The Tenenbaums), Wes Anderson 2001
Terminator (The Terminator), James Cameron 1984
Thank You for Smoking (Thank You for Smoking), Jason Reitman 2005
Tin Men – Due imbroglioni con signora (Tin Men), Barry Levinson 1987
Tootsie (Tootsie), Sydney Pollack 1982
Tornando a casa (Coming Home), Hal Ashby 1978
Toro scatenato (Raging Bull), Martin Scorsese 1956
Toy Story – Il mondo dei giocattoli (Toy Story), John Lasseter 1995
Traffic (Traffic), Steven Soderbergh 2000
Tram che si chiama desiderio, Un (A Streetcar Named Desire), Elia Kazan 1951
Tranquillo weekend di paura, Un (Deliverance), John Boorman 1972
Tre giorni del condor, I (Three Days of the Condor), Sydney Pollack 1975
True Love, Nancy Savoca 1989
Truman Show, The (The Truman Show), Peter Weir 1998
Tutti gli uomini del presidente (All the President’s Men), Alan J. Pakula 1976

Ufficiale e gentiluomo (An Officer and a Gentleman), Taylor Hackford 1982


Ultimo buscadero, L’ (Junior Bonner), Sam Peckinpah 1972
Ultimo dei Mohicani, L’ (The Last of the Mohicans), Michael Mann 1992
Ultimo spettacolo, L’ (The Last Picture Show), Peter Bogdanovich 1971
Uomo caffelatte, L’ (Watermelon Man), Melvin Van Peebles 1970
Uomo chiamato cavallo, Un (A Man Called Horse), Elliott Silverstein 1970
Uomo dai sette capestri, L’ (The Life and Times of Judge Roy Bean), John
Huston 1972
Uomo dei sogni, L’ (Shoeless Joe), Phil A. Robinson 1989
Uomo di Alcatraz, L’ (Birdman of Alcatraz), John Frankenheimer 1962

Va’ e uccidi (The Manchurian Candidate), John Frankenheimer 1962


Vacanze romane (Roman Holiday), William Wyler 1953
Vagabondo, Il (The Tramp), Charlie Chaplin 1916
Valle delle bambole, La (Valley of the Dolls), Mark Robson 1967
Valle di Elah, La (In The Valley of Elah), Paul Haggis 2007
Velluto blu (Blue Velvet), David Lynch 1986
Venerdì 13 (Friday the 13th), Sean S. Cunningham 1980
Venere bionda (Blonde Venus), Josef von Sternberg 1932
Vento, Il (The Wind), Victor Sjöström 1928
Verdetto finale (Ricochet), Russell Mulcahy 1991
Via col vento (Gone with the Wind), Victor Fleming 1939
Via da Las Vegas (Leaving Las Vegas), Mike Figgis 1995
Viva Las Vegas (Love in Las Vegas), George Sidney 1964
Viva lo sport (The Freshman), Sam Taylor 1925
Voci nella notte (Talk Radio), Oliver Stone 1988

Wall Street (Wall Street), Oliver Stone 1987


Wall-E (Wall-E), Andrew Stanton 2008
West Side Story (West Side Story), Robert Wise 1961
When the Levees Broke: A Requiem in Four Acts, Spike Lee 2006 (docum.)
Within Our Gates, Oscar Micheaux 1920
Winchester ’73 (Winchester ’73), Anthony Mann 1950

Yankees (Yanks), John Schlesinger 1979

Zardoz (Zardoz), John Boorman 1973


Zoot Suit (Zoot Suit), Luís Valdéz 1981
Sommario

Colophon
Frontespizio
Introduzione
A
A
Acri (160)
Actors Studio
Adamo americano
Alamo
Alien
Almanacchi
Amistad (e altri ammutinamenti)
Appalachia
Apple pie
Appomattox (e Ricostruzione)
Aquile solitarie
Architetture
Armi
Atlantico nero
B
B-B-Q
Back of the bus (o dei diritti civili)
Banane
Barataria
Barbie
Baseball
Basketball
Battelli a vapore
Bayou
Bebop
Bidoni della spazzatura
Big Apple
Big One e altre catastrofi
Bisbee e Butte
Boardwalk (Atlantic City)
Bordertowns
Bowery (New York)
Bowie Knife
Braceros
Broadway-I (o del teatro)
Broadway-II (o del musical)
Bronx (New York)
C
Caccia alle streghe
Cajun
Camelot
Campbell
Campi di detenzione
Cappucci bianchi
Carpetbaggers
Casa Simpson
Case stregate
Casi celebri
Castro (San Francisco)
Cataloghi
Central Park (New York)
Chewing-gum
Chicanos
Chinatown
Cinture
Città nude
Città sulla collina
Cittadine fantasma
Cittadine modello
Cittadine museo
Clam chowder (e altre zuppe)
Coca-Cola
Codice Hays
Colt & Winchester
Comics (Yellow Kid, Krazy Kat e gli altri)
Company town
Conestoga e prairie schooner
Coney Island (New York)
Congo Square (New Orleans)
Covenant
Cowboy
Crocevia
D
Dallas
Ddt (e primavere silenziose)
Department stores
Deserti
Destino manifesto
Dime novels
Diner
Disastri
Disneyland
Disordini
Dixie
Dollaro
Downtown
Drive-in
Dust Bowl
E
E.R. (o della sanità)
Eccezionalismo
Echo Park (Los Angeles)
Economia domestica
Edge cities
Enola Gay
Espatriati ed esuli
Esplorazioni
Esposizioni universali
Etnicità
F
Famiglie Ad(d)ams
Flamingo Hotel (Las Vegas)
Flappers
Football americano
Forte gelato (e altri -glish)
Frontiera
Fsa (o Fotografie della Grande depressione)
Furori (o Scritture della Grande depressione)
G
Gang
Gated communities
Gateway Arch (St. Louis)
Generazioni
Gentrification
Geremiade
Gettysburg
Gibson Girls
Gilded Age
Golden Gate Bridge (San Francisco)
Gotico americano
Graceland & Neverland
Grand Canyon
Grand Hotels
Grande depressione
Grandi pianure
Grandi tele
Grand Ole Opry (o della country music)
Grattacieli
Greenwich Village
Grunge (Seattle)
Guerra civile
Guerre indiane
Guide per emigranti
Gumbo e jambalaya
H
Halloween
Hamburger & fast food
Hardboiled
Harlem (New York)
Harley Davidson
Harpers Ferry
Hawaii
Haymarket Square (Chicago)
High School
Hollywood/land (Los Angeles)
Hoover (aspirapolveri, ma non solo)
I
Indian Mounds
Isole
Ivy League
J
Jazz Age
Jeans
Jim Crow (o della segregazione)
K
Kelvinator (frigoriferi e altro ancora)
Kfc (Kentucky Fried Chicken)
Kkk (Ku Klux Klan)
Kleenex e Tampax
K.O.
Kodak
Kosher
Kwanza
L
Levees
Liberty Bells
Linea del colore
Little Bighorn (1876)
Lobby & caucus
Louisiana Purchase (Acquisto della Louisiana)
Lower East Side (New York)
M
Maccartismo
Main Street
Mall
Marshmallows
Mason-Dixon Line
Melting pot
Menlo Park
Minstrel show
Miscegenation
Mississippi Delta
Model T
Molly Maguires
Motel
Movement
Muckrakers
N
Nerds
Newport Folk Festival (o della musica folk)
Niagara
Nuovo mondo
Nuyorican
Nylon
O
Occhi indiscreti (o della fotografia sociale)
Oil!
O.K.
Okies
Olimpo americano
Ombre gialle
Ombre rosse
Oro!
Oz
P
Pageants
Passing
Peanuts
Pesci gatto (e altri animali mitici)
Phi Beta Kappa
Piccole città
Piccole donne
Piccole donne crescono
Piccoli uomini
Pinkerton Detective Agency
Piste e sentieri
Plymouth Rock
Pony Express
Popcorn
Porch
Porkopolis
Posse e vigilantes
Potlatch e Pow Wow
Progetto Manhattan
Proibizionismo
Promontory Point (o delle ferrovie)
Pueblos (Santa Fe e Taos)
Q
Quakers, Shakers, Mormons (e altre denominations)
Quilt
R
Radio
Rags to riches
Ragtime & Honky Tonk
Rap
Red Scare
Redneck
Ringraziamento
Rivolte di schiavi
Rivoluzione americana
Robber barons
Robot (e SF)
Rodeo
Roswell (e Area 51)
Route 66 e Highway 61
Rushmore
S
Sachem e sagamore
Salem
Saloon
Sand Creek (1864) e Wounded Knee (1890)
Sandwich e hot dog
Sbarre
Scimmie alla sbarra
Sciopero!
Sciroppo d’acero
Seneca Falls (o del femminismo)
Serie tv
Silicon Valley
Skeleton Canyon
Skid Row
Southern belle e (Steel) magnolia
Splendide guerricciole
Spoon River (o dei cimiteri)
Stagecoach
Stampede
Stelle e strisce
Stonewall
Storyville
Strani frutti
Strip
Suburbs
Supereroi
Surf (& skate)
T
Tacchino
Tall tale
Tea Party
Teatri viventi
Teddy Bear
Televangelisti
Tendoni da circo
Teoria del complotto
Three Mile Island (o del nucleare)
Tin Pan Alley
Tombstone, Abilene, Dodge City
Tranquillanti
Triangle Shirtwaist Company (New York 1911)
Trickster e con-men
Trout fishing (o della pesca)
Tuskegee
U
Uncle Sam
Underground Railroad
Union Station (Kansas City)
U.S.A.
V
Vagabondi
Vampiri
Vaudeville
Veterani
Vicksburg
Vie d’acqua
Vietnam
W
Waco, Columbine e dintorni
Wall Street
Wanted!-I
Wanted!-II
Wasp
Watergate
Watts Towers (Los Angeles)
Wells Fargo
«Which Side Are You On?»
Whiskey
White City (Chicago)
Wild West Show
Wilderness
Wobblies
World Trade Center (New York)
X
Xerox & Apple
Y
Yankee
Yoghi (Yellowstone, Yosemite e altri parchi)
Z
Ziegfeld Follies
Ziti, zeppole e capocollo
Zoot suit
Zucche e cocomeri
Zydeco (o dei fagiolini)
Zzv
I testi
La musica
I film

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