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L’Istituto di Studi Politici “S.

Pio V”, con sede in Roma, in conformità alla


Legge 23 ottobre 2003, n. 293 e secondo i suoi fini istituzionali, promuove e
incoraggia studi nelle discipline giuridiche, economiche ed umanistiche, con
particolare riferimento a quelle storico-politiche e linguistiche, nonché, più in
generale, alle discipline che analizzano i problemi della società contemporanea.

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compresa la fotocopia, anche ad uso interno e didattico, non autorizzata.

I contributi pubblicati in questo volume sono stati sottoposti a processo di


referaggio anonimo.
L’Europa di Charta 77
a cura di
Benedetto Coccia
Indice

7 Introduzione del curatore


Benedetto Coccia

11 1. Il percorso storico di Charta 77


Francesco Caccamo

53 2. Charta 77: grido di libertá degli intellettuali


cecoslovacchi e gravicentro della letteratura
di dissenso
Stefania Mella

150 3. Václav Havel: drammaturgia, politica, Europa


Viviana Pansa

212 4. Jan Patočka. Charta 77 e il problema dello Stato


Riccardo Paparusso

274 5. Volti del dissenso: il percorso di Karel Kosík


tra Primavera di Praga e Charta 77
Francesco Tava

320 6. Charta 77 nella letteratura secondaria


Marco Barcaro

417 Note biografiche


4. Jan Patočka. Charta 77 e il problema dello Stato
Riccardo Paparusso

In memoria di Edoardo Ferrario

Desidero per prima cosa rivolgere un sentito ringraziamento all’I-


stituto di Studi Politici San Pio V, nella persona di Benedetto Coc-
cia per il decisivo, e non comune, sostegno che negli ultimi anni
egli sta offrendo alla diffusione della cultura ceca in Italia, come tra
l’altro testimonia la presente pubblicazione.

4.1. Introduzione

A partire dalle riflessioni sviluppate intorno a Charta 771 è possibi-


le rintracciare e ricostruire la riflessione di Jan Patočka sulla teoria

1
Nel 1972 il partito comunista cecoslovacco pose anticipatamente in pensi-
one Jan Patočka il quale, a partire da quell’anno, iniziò a svolgere la propria attivi-
tà didattica nel segreto dei seminari d’appartamento (bytové semináře) che si svol-
gevano nella sua casa o in abitazioni messe a disposizione da i più affezionati tra i
suoi allievi e amici. Nel 1977, il filosofo – che nel 1976 aveva firmato la petizione
per la difesa del gruppo underground The Plastic People and the Universe bandi-
to dal regime Husák – decise di accettare l’incarico di portavoce di Charta 77, in-
sieme a Václav Havel e Jiří Hájek.
Il 28 febbraio di quell’anno, Patočka – la cui salute era già precaria – incon-
trò presso l’hotel Intercontinental di Praga l’allora ministro degli esteri olandese
Max van der Stoelem. Durante l’incontro, che avvenne alla presenza dei giorna-
listi olandesi, espresse nei cofronti di Charta 77 parole di sostegno la cui eco fece
il giro del mondo e, inevitabilmente, irritò il governo comunista.
Dopo quell’incontro, la polizia segreta del regime, che già da Gennaio aveva
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 213

dello Stato e della sovranità. Tale riflessione scorre sotterraneamente


lungo le analisi che il filosofo ceco offre del rapporto tra la civiltà li-
berale e quella totalitaria, nello scenario storico costituito dal mondo
bipolare, proprio della seconda metà del XX secolo.
Aprendo il testo Che cos’è e cosa non è Charta 77, si può leggere:

L’umanità di oggi è lacerata dalle ideologie; pur trovandosi nel


pieno di un’epoca di benessere, essa è insoddisfatta e attende con
febbrile desiderio, che ricette tecnologiche sempre nuove le for-
niscano una soluzione ai suoi mali. A ciò si deve il fatto che essa
si affidi al potere politico statale; lo stato si configura, infatti, con
sempre maggior nettezza, come il luogo di produzione e di conser-
vazione di un potere che dispone di tutte le forze esistenti, tanto
fisiche quanto spirituali2.

Qualche anno dopo la nascita del movimento, Radim Palouš, un


altro dei portavoce di Charta 77, rilasciò una dichiarazione in cui
fece un netto riferimento alle riflessioni sviluppate da Patočka nel
passo appena citato:

Chi veramente siamo noi, uomini del tempo attuale che ci vantia-
mo di un così alto grado di presunta civilizzazione? Questa è la do-
manda che si era posto nel 1977, poco prima di morire, il filosofo

iniziato a seguire e interrogare Patočka, intensificò la persecuzione del filosofo


con interrogatori sempre più estenuanti, finché nella notte tra il 3 e il 4 Marzo le
sue condizioni fisiche precipitarono.
Il 13 Marzo Jan Patočka morì.
Per una ricostruzione più approfondita dell’impegno civile e umano che Jan
Patočka ha profuso per Charta 77 e del prezzo che egli pagò per questo si con-
sulti: E. Kohák, Jan Patočka and selected wrtings, The University of Chicago
Press, Chicago and London, 1989, pp. 3-8; J. Bolton, Worlds of Dissent. Charter
77, The Plastic People of the Universe and Czech Culture under communism, Har-
vard University Press, Cambridge, Massachusetts, and London, England, 2012,
pp. 155-172; A. Tucker, The philosophy and politics of Czech dissidence from Pa-
točka to Havel, University of Pittsburgh, Press, Pittsburgh, 2000.
2
J. Patočka, Čím je a čím není Charta 77 (1977), in Češi (Cechi), Vol. I, a cu-
ra di K. Palek e I. Chvatík e Pavel Kouba, Oykoymenh, Praga, 2006, pp. 428-430;
tr. it a cura di F. Tava, Cos’è e cosa non è Charta 77, in La superciviltà e il suo con-
flitto interno. Scritti filosofico-politici, a cura di F. Tava, Edizioni Unicopli, Milano,
2012, pp. 173-176, p. 173.
214 riccardo paparusso

ceco JanPatočka, e aveva osservato che viviamo nel grembo di una


potente istituzione dello stato. Ma è veramente solo un abbraccio
protettivo, amabile? La risposta suonerebbe senza dubbio: è pre-
sente una grave malattia. La maggior parte di noi ha a che fare con
uno stato malato il cui abbraccio malato è una stretta convulsa.
Lo stato è oggi una fabbrica e una riserva di forze in cui tutto è
divenuto strumento, tecnica, che serve a questo stesso malato e a
coloro che con lo stato si sono identificati3.

Situato nella condizione politica di normalizzazione in cui la Ceco-


slovacchia versa nei giorni in cui vengono scritte queste righe, Pa-
točka pensa lo Stato contemporaneo come il luogo di sorgenza e di
esercizio di un potere che, grazie alla sua struttura e alla sua capacità
tecnica tende a pervadere totalmente tanto la sfera fisico-individuale
tanto quella spirituale-personale dell’essere umano, del cittadino.
Facendo riferimento alle tesi di Herbert Marcuse si potrebbe
dire, più precisamente, che lo Stato della civiltà europea contempo-
ranea, della civiltà industriale, si manifesta allo sguardo patočkiano
come lo spazio di una pratica del potere politico che si impone
in virtù del controllo che esso esercita sulla struttura tecnologica
dell’apparato produttivo-economico.
Affermandosi a partire dalla disposizione dell’assetto tecnolo-
gico su cui si installa la produzione, il potere politico assegna allo
Stato un’organizzazione macchinica, rendendolo un centro di pro-
pagazione di una tecnica, per dirla con Foucault, di normalizzazio-
ne e controllo dello spessore biologico del cittadino come della sua
profondità coscienziale, spirituale.
Dal controllo capitalistico dell’apparato produttivo a partire da
cui si costituisce il potere statuale, la ragione assimila una modalità
tecnica di funzionamento che il potere stesso applica all’organizza-
zione della sua struttura così come al governo delle vite umane ad
esso soggette.

3
R. Palouš, In difesa dll’uomo: la responsabilità dei senza potere. Dichiarazione
di Radim Palouš, portavoce di Charta 77, tr. it, in Aa.Vv., Charta 77, cinque anni di
non-consenso, CSEO, Bologna, 1982, p. 30.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 215

Lo Stato funziona come una macchina che, dunque, amministra


le singole vite umane attraverso processi di oggettivazione – che
riducono le esistenze umane a forze e tecniche di disciplinamento
e di manipolazione dei corpi, nonché del loro tessuto psichico-co-
scienziale.
Nella civiltà industriale, dunque, lo Stato, sia nella sua declina-
zione statalista che in quella democratico-liberale, è sempre, ovun-
que, essenzialmente, totalitario4.
Nella considerazione succitata, infatti, Patočka parla dell’u-
manità di oggi, di un’umanità che su scala planetaria si affida ad
un potere statuale che dispone di tutte le forze esistenti, tanto fi-
siche quanto spirituali. Abbiamo a che fare, in altre parole con
uno Stato che, dovunque, tende ad una totale permeazione tanto
dell’elemento naturale tanto di quello esistenziale, entrambi ridotti
a forze, a risorse dell’impianto tecnico del sistema economico di
produzione, distribuzione e consumo.
In altre parole, sia nella sua versione democratico-liberale che
in quella statalista-totalitaria, lo Stato, incardinato sulla proprietà
dei mezzi di produzione, penetra totalmente le vite dei singoli
mediante strategie tecnocratiche ispirate all’impianto tecnologico
dell’apparato produttivo.
In questo senso, come vedremo più dettagliatamente nel corso
delle analisi seguenti, lo Stato dell’era industriale-planetaria costi-
tuisce il frutto di una dilatazione ipertrofica dello Stato moderno.
Quest’ultimo è infatti centrato su una sovranità che, dotandosi di
una struttura reticolare, punta ad estendere totalmente il raggio
della sua azione di controllo, incuneandosi sempre più in campi
della vita che in epoca pre-moderna rimanevano inesplorati dal
potere politico5.
In Patočka, sul quale agisce nettamente l’influenza di Max We-

4
Cfr. H. Marcuse, One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced
Industrial Society, Beacon Press, Boston, 1964; tr. it. di L. Gallino e T. G. Galli-
no, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einau-
di, Torino, 1967, p. 23.
5
Cfr., G. Galasso, Prima lezione di storia moderna, Laterza, Roma, 2012, pp. cap. IV.
216 riccardo paparusso

ber, lo Stato così inteso è l’organo, la protesi politico-giuridica


della ragione dell’uomo, del sovrano moderno che, oltrepassando,
violando, quel limite costituito dalla residuale fibra sacra posta al
fondo del Cristianesimo – del religioso – assume una vocazione
totalizzante che essa sostiene, dalla modernità alla contemporanei-
tà, attraverso il raffinamento delle facoltà tecniche, di produzione
(economica e scientifica) di difesa, di controllo6.
Attraverso gli sviluppi del capitalismo e la sua evoluzione in
capitalismo industriale, la ragione moderna si riduce lentamente a
«razionalità formale», a «ragione strumentale», per mirare ad una
penetrazione della vita che sia totale, che progressivamente riduca
l’opposizione di qualsiasi territorio franco della dimensione vita-
le. A tal fine essa innesca un dispiegamento e una mobilitazione
di forze tecniche in grado di dissipare la resistenza di qualsivoglia
campo del reale, ingovernato della ratio. Ed è su questo fondo, su
questo impianto tecnico che lo Stato si edifica, per organizzare,

6
In Patočka non si compie lo sviluppo di uan teoria sistematica della
sovranità. Tuttavia, nel testo Doba poevropská a její duchovní problémi, il fi-
losofo boemo offre una fugace considerazione che permette di rintracciare
una patočkiana concezione della sovranità. Vale la pena gettare uno sguar-
do al passo dove troviamo la riflessione in questione. «L’idea di Stato sovra-
no proposta da Hegel, che nello Stato vede la forma concreta della libertà [...]
produce un’idea di Stato come Dio sceso in terra, idea che rappresenta il coro-
namento della tendenza europea, della concezione europea del soggetto asso-
luto» (J. Patočka, Doba poevropská a její duchovní problémi, in Péče o duši II,
a cura di I. Chvatík e P. Kouba, Oikoymenh, Praga, 1999, pp. 29-44, p. 42).
Alla luce di tale considerazione, possiamo inferire che la sovranità moderna si
afferma, secondo Patočka, con il sorgere del soggettivismo moderno e trova,
dunque, la propria completa attualizzazione nella concezione hegeliana dello
stato come soggetto assoluto. Nella filosofia politica di Hegel, il soggetto asso-
luto dello stato moderno raggiunge una perfetta coincidenza con lo Stato st-
esso. Quest’ultimo, a sua volta, si chiude nella propria soggettività per config-
urarsi come totalità che permea ogni tessuto vitale per neutralizzare ogni el-
emento che possa ostacolarne l’isolamento. (Nel proporre questa riflessione
sull’origine e il destino della sovranità moderna in Patočka sono debitore del-
le analisi che Ivan Chvatík offre nella prefazione all’edizione italiana, in cor-
so di pubblicazione, di Europa und Nach-Europa. Die Nacheuropaische Ep-
oche undihre geistigen Probleme, tradotta da Fausto Fraisopi e curata da Vale-
rio Mori).
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 217

mediante processi di monopolizzazione del potere7, la razionaliz-


zazione totale della vita – fino ad instaurare, appunto, un regime di
«disincantamento».
Il potere statuale contemporaneo, biforcatosi in un corno de-
mocratico(-liberale) e in uno estremistico, rappresenta la piena at-
tualizzazione del processo di totalizzazione della moderna diade
ragione-stato che, trainata da un logos tecnico, riesce, nel quadro
del mondo bipolare scisso tra Nato e Patto di Varsavia, nell’occu-
pazione di tutti i territori della vita umana.
Ora, è evidente come in un simile contesto la dignità dell’uo-
mo e i diritti universali della persona siano, ontologicamente, su-
bordinati allo stato di diritto, al diritto di stato, alla legge (e alla sua
forza) che, in quanto tale, non può far altro che produrre anticor-
pi che inibiscano l’espressione e il pieno riconoscimento del dirit-
to umano. Quest’ultimo, germogliando sul campo di una dignità
personale, della giustizia, che eccede i confini statuali, rappresenta
una seria minaccia per il meccanismo di totalizzazione della ra-
gione e del potere tecnico-legale mediante cui essa si manifesta e
si dissemina.
È questa la cifra politico-filosofica che nel 1977 Jan Patočka,
spossato, ma non ammansito, da una vita di silente e quotidiana
lotta per libertà, registra nella Cecoslovacchia normalizzata dalla
«dottrina Brežnev». Il movimento Charta 77 ha il suo punto di
riferimento nei dieci principi affermati nel 1975 nell’Atto finale di
Helsinki, soprattutto nel settimo, quello che afferma, appunto, il
rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la
libertà di pensiero, coscienza, religione o credo.
Alla luce di quanto affermato, risulta evidente come, nell’e-
conomia del pensiero patočkiano, la riflessione su Charta 77
rappresenti l’occasione per porre in questione il concetto politi-
co-giuridico di Stato, divincolandolo dalla stretta della sovranità
nazionale.

7
Cfr., M. Weber, Wissenschaft als Beruf, Duncker & Hhumblot, München;
Leipzig, 1919; tr. it. a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano, 1980.
218 riccardo paparusso

Infatti, il nucleo politico della Charta si struttura intorno alla


rivendicazione all’osservanza dei diritti e delle libertà universali,
l’idea di Stato deve, secondo la prospettiva patočkiana che pro-
porremo, sollevarsi dal suo schiacciamento sul paradigma della
sovranità nazionale (acme dello stato moderno e cellula originaria
dello stato totalitario), che comunque, come vedremo, continua
a giocare un ruolo cardine nell’Atto finale della conferenza sulla
sicurezza e sulla cooperazione in Europa, così come in tutti i fon-
damentali trattati internazionali, compresi i Trattati di Roma, che
hanno scandito il percorso verso la nascita dell’Unione Europea.
Ora, sulla genesi e sui nuclei essenziali della totalità statuale,
scorre sottotraccia lungo la profonda analisi che negli anni ’50
il filosofo ceco dedica al concetto di superciviltà (nadcivilizace).
La presente ricerca esige, dunque, innanzitutto di ritracciare il
percorso che Patočka compie in Nadcivilizace a její vnitřní konflikt
(La superciviltà e il suo conflitto interno)8.

4.2. Superciviltà moderata e radicale. Differenze e intersezioni

Attraverso la nozione di «superciviltà»9, Jan Patočka indica la for-


ma di civiltà propria della modernità, del mondo occidentale indu-
strializzato. Con il termine in questione, in altre parole, il filosofo

8
J. Patočka, Nadcivilizace a její vnitřní konflikt (metà anni ’50), in Péče o duši
I, a cura di I. Chvatík e P. Kouba, Oikoymenh, Praga, 1996, pp. 243-302; tr. it. a
cura di F. Tava, La superciviltà e il suo conflitto interno, in La superciviltà e il suo
conflitto interno. Scritti filosofico-politici, cit., pp. 51-126.
9
Nell’avvicinarmi al concetto di «superciviltà» mi sento debitore del prezio-
so lavoro di Francesco Tava che nel 2012 ha introdotto questa nozione patočki-
ana al panorama scientifico italiano traducendo e curando il già citato La su-
perciviltà e il suo conflitto interno. Scritti filosofico-politici. Successivamente Ta-
va ha ulteriormente approfondito lo studio di tale concetto nella monografia Il
rischio della libertà. Etica, Fenomenologia, Politica in Jan Patočka, Mimesis, Mi-
lano, 2014. Questo volume, che nel 2016 è stato tradotto in inglese, oltre a cos-
tituire una valida introduzione al pensiero del filosofo ceco rappresenta il primo
studio sistematico sul pensiero politico di Jan Patočka e dunque costituisce un
punto di riferimento imprescindibile per chi voglia avvicinarsi alla filosofia po-
litica patočkiana. Del libro in questione segnalo, inoltre, il quinto capitolo, Pra-
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 219

ceco definisce la civiltà contemporanea come un’umanità guidata


da una razionalità che ha il suo fine ultimo nella completa neutra-
lizzazione di ogni possibile residuo irrazionale, per attualizzare il
progetto di universalizzazione, ossia di totalizzazione della stessa
razionalità che, sospinta dall’energia sprigionata dal capitalismo,
estende il proprio controllo a ogni possibile area della vita, naturale
e umana. In tal modo, essa si afferma come «ragione strumentale»,
«soggettiva», che struttura i rapporti sociali, e dunque gli assetti
politici, secondo una modalità sempre più tecnica, burocratizzata,
e quindi pervasiva10.
La «superciviltà» coincide, dunque, con la moderna società ca-
pitalistica europea che weberianamente possiamo intendere come
animata da una ragione che – profondamente marcata dal «princi-
pio di responsabilità» di origine calvinista e sostenuta dalla tecnica
raffinata dalla produzione capitalistica – si limita all’interesse nei
mezzi, trasfigurandosi nella mera «razionalità formale» dell’homo
oeconomicus che consacra la sua intera vita al routinante calcolo del
profitto, della redditività. Con Edmund Husserl diremmo che la
ragione (positivistico-)capitalistica, identificatasi con quella tecno-
scienza che essa stessa partorisce e controlla, perde l’interesse nel
senso delle cose, smarrisce l’originaria funzione di adeguazione e
accesso alla verità del reale, dell’oggetto, lasciandosi assorbire dalla
ricerca del risultato, dell’efficacia11.

tiche del dissenso, in cui è contenuto un paragrafo, il quarto, vertente su Charta


77: Charta 77 e il destino del dissenso, pp. 209-227.
Sul concetto di «superciviltà» si consulti anche D. Meacham, Superciviliza-
tion and Biologism, in F. Tava e D. Meacham (a cura di), Thinking After Europe.
Jan Patočka and Politics, Rowman & Littelfield, London – New York, 2016, pp.
95-116; e J. Homolka, Koncept racionalní civilizace. Patočkovo pojetí modernity ve
světle civilizační análýzy, Togga, Praga, 2016.
10
Cfr, M. Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus
(1904-1905), tr. it. di A. M. Marietti, L’etica protestante e lo spirito del capitalis-
mo, Bur, Milano, 2016.
11
E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzenden-
tale Phänomenologie (1926-37), Martinus Nijhoff, Den Haag, 1954, [Husserliana,
Vol. VI]; tr. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia tra-
scendentale, prefazione di E. Paci, Net, Milano, 2002.
220 riccardo paparusso

Vale la pena, a questo punto, leggere alcuni dei passaggi intro-


duttivi de La superciviltà e il suo conflitto interno.

Nelle civiltà primitive, la vita appare regolata e diretta, come se le


relazioni sociali costituissero un dispositivo organico, naturalmen-
te conferito e, in questo senso, dotato della stessa necessità di una
struttura biologica. La vita circola entro i margini, saldamente fis-
sati, di questa forma; si tratta di una situazione stazionaria che, una
volta instaurata, riceve eoipso la propria legittimità; o, per meglio
dire è una formula per impedire che intervengano problematiche
di sorta. Certo, tutte le istituzioni culturali, ogni strumento, per
quanto primitivo, o pratica magica, li si è dovuti inventare; tale
invenzione sembra, tuttavia, seguire ancora le regole proprie del-
la natura organica: essa è, cioè, immediatamente riassorbita nella
regolarità naturale e tutto avviene come se ogni cosa fosse andata
così fin dall’origine del mondo, in base ad un’evidenza del tutto
chiara e pacifica. Per questo, tali culture primitive sono non stori-
che, non temporali. [...]
Se, come afferma Aron, vivere storicamente significa, ad un tem-
po, conservare, rivivere e giudicare l’esistenza degli antenati, il
primitivismo contiene, sì, i primi due elementi della storicità, ma
il terzo gli è totalmente estraneo. Inoltre, se ad un grande numero
di culture primitive è associabile un numero relativamente ristretto
di tipi, ogni civiltà superiore rappresenta, al contrario, un tipo unico:
qualcosa di completamente originale, per quanto riguarda la sua
formazione, le sue funzioni e il suo processo vitale. [...]
Analogamente, di culture meno sviluppate ce n’è un gran numero,
ma i loro tipi sono pochi; di civiltà evolute ce ne sono poche, ma
ciascuna è in tutto e per tutto specifica, nessuna può essere intesa
come la particolarizzazione, la concretizzazione di un tipo genera-
le, comune a tutte. [...]
Le società primitive si accontentano essenzialmente di essere una
forma determinata della vita sociale; esse esauriscono le disparate
possibilità offerte dalla vita sociale degli uomini, spingendosi ai mi-
nimi particolari. Le civiltà evolute sono, in compenso, per il loro stes-
so significato, universali; ciascuna pretende di essere la civiltà in gene-
rale, la civiltà “vera” agli occhi di tutti, al di fuori della quale non vi
sarebbe autentica vita umana, o per lo meno autentica vita civilizzata.
Se le cose stanno così, va ora meglio chiarito questo aspetto della
civiltà, legato al suo carattere storico. La civiltà si sforza di adem-
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 221

piere il proprio compito universale di organizzazione generale


dell’umanità storicamente desta, sviluppando e predisponendo
una potenza alla quale nessuna forza estranea sia in grado di resi-
stere. Ogni civiltà tende a salvaguardare la propria sicurezza, non
tramite una forma di conservatorismo, ma attraverso un moto di
espansione: essa si scatena e offre un modello di contaminazione o
di soppressione degli avversari e di chi si trova al di fuori di essa.
Ogni potenza è una potenza sugli uomini e la fonte di ogni potenza
è la forza. A ben vedere, non ci sono che due tipi di forza di cui la
potenza, vale a dire il dominio sugli uomini, può alimentarsi: da
una parte, la superiorità fisica, la padronanza delle forze fisiche;
dall’altra la superiorità spirituale, il controllo diretto nei confronti
degli altri, della loro interiorità, in assenza di una simultanea pre-
ponderanza fisica. Nel primo caso, gli uomini subiscono un dominio
mediato, nel secondo un dominio immediato. Ogni civiltà è quindi
accumulazione e organizzazione della potenza, ma non solo que-
sto; in origine, la civiltà costituisce una svolta concreta nel modo di
risolvere i problemi della vita, di rispondere ai quesiti che riguar-
dano il proprio fondamento interiore: “come vivere?” e “perché
vivere?”. Ogni civiltà combina i propri metodi specifici – fisici e
umani – i quali sono entrambi strumenti nelle mani della potenza.
Mediato o immediato che sia, il dominio sugli uomini si realiz-
za grazie a mezzi psichici, in parte simili, in parte completamente
differenti fra loro. In entrambi i casi, è possibile procedere “ra-
zionalmente”, ovvero con un atteggiamento pragmatico, distacca-
to, analitico. Solo il dominio immediato dell’uomo può, tuttavia,
essere attuato anche con un atteggiamento irrazionale in cui colui
che domina e colui che è dominato si sottomettono entrambi e
partecipano in comunione alle emozioni della venerazione e del
timore, dell’angoscia e dell’entusiasmo.
Nessuna civiltà del passato è riuscita a realizzare lo scopo intrinse-
co di tutte le civiltà, nessuna è divenuta effettivamente universale.
Nessuna ha realizzato uno stato universale o ha generato realmen-
te una religione universale, a nessuna è riuscito di assimilare effet-
tivamente i proletariati, né quelli ad essa interni né quelli esterni.
Nessuna ha saputo mettersi al riparo, una volta per tutte, liberan-
dosi dei suoi nemici, sia interni che esterni12.

12
J. Patočka, La superciviltà e il suo conflitto interno, cit., pp. 52-54; corsivi miei.
222 riccardo paparusso

Tutte le civiltà, in quanto tali, sono animate da una movimento


di universalizzazione. Tutte sognano un’estensione universale del
loro nucleo essenziale e, quindi, della loro potenza. L’esercizio del-
la potenza sugli uomini e, dunque, il tentativo di planetizzazione
della potenza stessa, si sviluppa attraverso una combinazione di
mezzi fisico-irrazionali e di forze intellettuali-razionali. Nella misu-
ra in cui, solo gli strumenti razionali consentono al potere di realiz-
zare un dominio immediato, pervasivo, e pertanto veramente effi-
cace, l’universalizzazione della potenza necessita un contenimento,
un’assimilazione razionale dell’elemento irrazionale.
Ora, le civiltà antiche, caratterizzate da uno sbilanciamento ver-
so l’elemento fisico-irrazionale, falliscono continuamente il loro
tentativo di universalizzazione. Solo la «superciviltà» generata in
Europa dal capitalismo e, conseguentemente, dal capitalismo in-
dustriale realizza pienamente il progetto di espansione universale
della propria potenza. La ragione europea partorisce il sistema eco-
nomico capitalistico – fondato sulla ricerca della redditività – per
perfezionare l’efficacia della propria attività calcolante, razionale.
Attraverso la forza tecnica sprigionata dalla produzione capitalisti-
ca, infatti, la ragione riesce ad assimilare in modo sempre crescente
l’elemento fisico-irrazionale, e a razionalizzarne la violenza.
A sua volta, la neutralizzazione del limite irrazionale permette
alla ragione stessa di espandersi al di là i propri confini, permeando
totalmente il mondo extraeuropeo, che dunque, a sua volta, intro-
ietta la ragione europea nel suo aspetto di potenza tecnico-razionale.
Politicamente, la «superciviltà» trova due espressioni ad un
tempo divergenti e intimamente connesse: la versione moderata,
ossia la sua espressione democratico-liberale, e la versione radicale,
la cui manifestazione politica consiste nello statalismo totalitario.

La prima di queste due varianti è consapevole del fatto che la su-


perciviltà razionale presenta un limite peculiare; essa si rende conto
che la capacità di organizzazione della superciviltà, il suo successo
e il suo universalismo, non sono dovuti alla volontà o alla possibili-
tà effettiva che essa avrebbe di impadronirsi interamente della vita,
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 223

ma, al contrario, al fatto che essa se ne astrae, limitandosi alle pure e


semplici possibilità umane; al fatto che essa, intervenendo sulla real-
tà, si concentra su una sola funzione inerente alla vita, una funzione
che si presenta come eminentemente oggettiva, impersonale e, in
questo senso, universale. Secondo questa concezione, la superciviltà
razionale non mira, come le grandi civiltà del passato, a riempire
totalmente la vita; il suo antagonismo nei confronti di altri principi
vitali arriva a tanto solo nel caso in cui essi oppongano un ostacolo
all’universalità della civiltà. A parte questo caso, tale versione com-
prende che la civiltà, nella sua figura universalistica, altro non è che
un ambito in cui la nostra vita, nel suo insieme tende ad acquisire
una lucidità particolare e una trasparenza razionale sempre maggio-
re, anche se, in tale ambito, si potranno risolvere solo le questioni
relative ai mezzi, e non ai fini. Questa variante dell’idea di superci-
viltà può dunque conciliarsi, in qualche misura, con le idee di civiltà
del passato: essa può incorporarle come situazioni personali, non
razionalizzabili, e tuttavia essenziali, dell’umanità.
La seconda versione è assai più radicale. Essa intende spingere l’an-
tagonismo della superciviltà nei confronti delle civiltà del passato
fino alle estreme conseguenze; rendendo l’organizzazione razionale
la chiave di tutte le questioni esistenziali, fino a mettere in atto la
rivoluzione della superciviltà, non attraverso un processo di assi-
milazione [zařazením], ma recidendo ed eliminando [vyřazením]
completamente tutti gli altri momenti della vita. In questa versione
radicale è la soluzione a tutte le domande della vita; non esiste alcun
problema esistenziale di cui essa, da ultimo, non costituisca il rime-
dio, in positivo o in negativo. [...] Questo radicalismo fonda così
il regno di una razionalità ultima, dispensatrice di senso; instaura
l’assoluto nel cuore del quotidiano, inaugura il regno dell’assoluto
umano. La grande distinzione che anima la vita umana, rendendola
diversa da tutti gli altri elementi della natura, la distinzione tra la
realizzazione totale che la vita cerca di perseguire con ogni sforzo e
la vita semplicemente data, operante nella sfera della mera strumen-
talità, la distinzione tra super-umano e umano, tra giorno festivo e
giorno feriale, tra il “senso” e i mezzi della vita; tutto ciò deve esse-
re completamente cancellato, in modo tale che, come si esprimono
certuni in tono poetico, questi due piani “si fondano” in uno, oppu-
re in modo che il primo venga semplicemente annullato nell’altro13.

13
Ivi, pp. 60-61.
224 riccardo paparusso

La superciviltà moderata si limita a esercitare sulla vita un dominio


razionale estrinseco che è, sì, finalizzato alla subordinazione de-
gli elementi vitali alla tecnica razionale-capitalistica di calcolo del
profitto, ma non pretende di annullarli, di spegnerli in sé. Il potere
razionale moderato, piuttosto, mantiene a distanza, marginalizza
gli aspetti della vita eccedenti l’oggettivazione tecno-scientifica ac-
cordando ad essi un margine di autosufficienza garantita finché
questa stessa non si ponga come ostacolo all’efficace funzionamen-
to dell’ordine razionale. A partire da tale distanza, il sistema razio-
nale-capitalistico-statuale può agevolmente agire sulle differenze
della vita convertendole in mezzi per il perseguimento dei propri
fini. L’isolamento dell’elemento irrazionale è pertanto funzionale
al suo assoggettamento alla produzione di redditività.
La nozione di «superciviltà moderata» rivela, dunque, l’intela-
iatura socio-economico-metafisica della concezione liberale del go-
verno dello stato. È chiaro come il liberalismo ispiri un sistema po-
litico e giuridico fondato sulla difesa dei diritti dell’individuo, diritti
che, a loro volta, sono originati, condizionati dal diritto di ciascuno
alla proprietà privata, e dunque all’estensione della proprietà stessa
attraverso l’incremento del profitto. In un regime liberale, pertanto,
ogni aspetto della vita – pubblica e individuale – è vincolato al di-
ritto della ragione di stimare utilità per il mantenimento e l’amplia-
mento del possedimento privato. È per questo che ogni elemento
vitale refrattario alla contabilizzazione – il sacro, l’emozionale, il fe-
stivo – viene marginalizzato e rimosso. Si può inferire, pertanto, che
nella sua variante moderata la «superciviltà» europea è portatrice di
una ragione che può universalizzarsi solo mediatamente, o meglio
solo accettando, tollerando l’autonoma manifestazione del fenome-
no alieno al razionale. In tali condizioni, la ragione può senz’altro
subordinare, ridurre il (pre-)razionale, ma solo intervenendo secon-
dariamente sulla sua spontanea apparizione.
Dall’altro lato, l’alternativa radicale della «superciviltà», è es-
senzialmente caratterizzata dalla tensione alla totale inibizione del
non conforme, del non funzionale alla ragione. Se la variante mo-
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 225

derata della superciviltà mira all’isolamento dell’irrazionale, la sua


configurazione radicale punta alla definitiva cancellazione di ogni
traccia, segno, di una vita estranea alla ragione. La superciviltà
radicale, in altre parole, è governata da una ragione che si univer-
salizza immediatamente, soffocando qualsiasi possibilità di in‒sé,
di fuori di sé. Per perseguire un simile risultato il razionalismo
radicale non può procedere per mera rimozione (che dilatando
la distanza dall’ineffabile gli garantisce l’autonomia necessaria
all’apparizione nevrotica) ma neutralizza la spontanea emergenza,
l’autonoma ostensione dell’irrazionale mediante un’operazione di
pianificata generazione, di rilascio dell’eccedente stesso. Il radi-
calismo, in altre parole, soffoca in sé e poi riproduce l’ecceziona-
le, per dissolverne la distanza, la differenza, e dunque esaurirne
il senso, la portata veritativa. Quindi, elaborando la categoria di
«superciviltà radicale», Patočka mette a fuoco la cifra essenziale
del totalitarismo del XX secolo che si struttura sul radicalismo
della superciviltà e, simultaneamente, conduce quello a definitiva
attualizzazione.
Sono i totalitarismi del XX secolo, infatti, a inaugurare il movi-
mento di progressivo assottigliamento della differenza tra il piano
razionale, quotidiano, economico, produttivo, e quello oscuro, se-
greto, del sacro, della festa, dell’estatico. Gli statalismi portano a
estreme conseguenze la secolarizzazione di marca liberale: inietta-
no il sacro, il mitico, nella pienezza della routinante vita socio-po-
litica proprio al fine di dissolvere in essa – e nella razionalità stru-
mentale che la organizza – la sua portata trascendente, le possibili-
tà di sospensione che dal sacro stesso si aprono.

La festa del lavoro ne offre un esempio. In origine semplice manife-


stazione rivoluzionaria, essa diviene una festa vera e propria, vale a
dire un rinnovamento della vita sulla terra, uno stringersi allo stato
primordiale e “normale”, un ritorno dell’uomo alla pienezza della
sua potenza e delle sue forze. È in questa stessa dimensione che
ogni prestazione fornita nel quadro della nuova società, ogni atto in
se stesso grigio e razionale, attinge anch’esso la possibilità di essere
226 riccardo paparusso

mitizzato, di riflettere lo splendore di un sole nuovo. Non c’è dub-


bio che vi siano qui in gioco grandi forze, ma il punto in questione
è se si tratti di forze della superciviltà razionale in quanto tale.
Il radicalismo tenta dunque di realizzare qui uno dei suoi salti mor-
tali concettuali più spettacolari, cioè il superamento dei contrari:
la vita quotidiana e l’eccezionale, la realtà e il mito, il giorno lavo-
rativo e la festa, il lavoro e il riposo o il divertimento, la vita privata
e quella pubblica: queste opposizioni devono essere tutte rifuse in
una vita nuova, non compartimentale, totale, in cui il sogno non
sarà più separato dalla realtà. La concezione radicale della super-
civiltà rinnova così l’antico concetto di kairós, l’idea della pienezza
del tempo, di una salvezza che non è più religiosa, ma religioso-po-
litica: il “tempo per” l’azione, per il grande momento decisivo,
il “giorno” della libertà e del regolamento definitivo dei conti, la
cui decisione spetta a un corpo di teocrati eletti, espressamente
incaricati e, per così dire, carismaticamente chiamati. Una simile
società non vive soltanto il tempo circolare delle feste periodiche,
ma anche il tempo unico degli eventi decisivi che la vita moderna,
con tutti i suoi problemi attende. In questa duplice ed eccezionale
esperienza del tempo, si palesa, con particolare enfasi, l’aspetto
mistico della superciviltà radicale. Misticismo che si manifesta a
sua volta nella tendenza al collettivismo propria del radicalismo,
al quale si lega strettamente la natura totale, il carattere totalitario,
caratteristica di questa forma di superciviltà14.

Ora, in vista delle analisi che seguono, è di fondamentale impor-


tanza inquadrare storicamente l’evoluzione del fenomeno che
stiamo indagando: la «superciviltà» emerge alla fine del XVI sec.
con l’apparizione, in area britannica, di quello che possiamo defi-
nire proto-capitalismo che, un secolo dopo, trova la sua inaugurale
espressione filosofica nell’empirismo inglese e, su un piano filo-
sofico-politico, nel liberalismo di matrice lockiana, ossia in una
concezione dello Stato come organo di tutela dei diritti pre-poli-
tici dell’individuo, innanzitutto quello della proprietà privata. In
origine, dunque, la «superciviltà» razionale esprime uno spirito

14
Ivi, pp. 67-68.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 227

esclusivamente moderato. Lungo il corso di tre secoli – mediante la


maturazione della dottrina moderna dello stato nell’idea hegeliana
di Stato-Nazione – la superciviltà razionale giunge, nel XX sec. a
manifestare anche un volto radicale, biforcandosi in una variante
estremista-statalista, e in un moderatismo che si perfeziona nelle
ideologie liberiste.

4.3. Diradamento del mistero sacro. La radice liberale del to-


talitarismo

Tra la versione moderata della superciviltà europea e quella ra-


dicale-totalitaria Patočka non stabilisce un rapporto di necessaria
continuità, di teleologica filiazione. Purtuttavia, egli ci lascia in-
tuire come il moderatismo produca i germi originari a partire da
cui il radicalismo – non accidentalmente – insorge e si propaga. Si
potrebbe dire, dunque, che tra le due forme di superciviltà ci sia
un rapporto di non-necessaria compenetrazione che, come vedre-
mo più dettagliatamente, trova il suo punto d’intersezione nello
Stato-Nazione di matrice hegeliana.
Ora, se il radicalismo si afferma essenzialmente mediante un
doppio processo di assorbimento del sacro nel razionale e di mi-
tizzazione dei volti della ragione, è proprio la vena secolarizzante
della superciviltà moderata a tracciare la condizione di possibilità
del radicale movimento di indifferenziazione. È lo spirito filosofico
della superciviltà moderata a preparare in modo decisivo l’azze-
ramento della distanza, della differenza, tra la ragione e il sacro
mediante una – protestante – operazione di demitizzazione del
Cristianesimo, di neutralizzazione della sua misteriosità, della sua
trascendenza.
Percorrendo il tracciato aperto dalla teologia razionale, il pen-
siero liberale inaugurato tra la fine del XVII e il XVIII sec. porta
ad estreme conseguenze gli effetti che la prova ontologica dell’esi-
stenza di Dio ha rilasciato sul pensiero medievale e moderno.
228 riccardo paparusso

Ora, per comprendere tutto questo non dobbiamo, come ci


suggerisce Patočka, guardare

al mero liberismo nella sua accezione economica, come avviene dal


punto di vista marxista, perché il principio moderno della libertà
non ha niente a che fare con il liberismo economico. I principi
liberali non hanno origine a partire dall’economia liberista, ma al
contrario dalle lotte che si svolgono tra il XVI e il XVIII secolo per
l’indipendenza in merito alla questione centrale della determina-
zione del senso ultimo della vita, dell’autodeterminazione religiosa
dell’individuo di fronte a Dio. È da qui, da questo fondamento
assoluto, che nasce il pensiero “liberale” dell’Occidente (in parti-
colare nei paesi anglossassoni)15.

Abbiamo perciò sufficienti ragioni per sostenere che Patočka identi-


fichi una radice teologica al fondo del pensiero politico liberale.
Soffermiamoci sulla succitata espressione «autodeterminazione
religiosa dell’individuo di fronte a Dio»: nell’alveo del protestante-
simo anglicano, il liberalismo, sorge, dunque a partire dalla volontà
dell’uomo, di affermare la propria libertà al cospetto di Dio, di
rivendicarsi libero nel suo rapporto con Dio.
Il pensiero liberale, in altre parole, emerge originariamente
dalla scossa prodotta dalla capacità dell’uomo di autodeterminarsi
nella fede cristiana, di stabilire, attraverso la ragione, le condizioni
di accesso al divino.
A partire dalla svolta che, nell’ambito dell’illuminismo inglese,
il deismo dei liberi pensatori inglesi (Edward Herbert e Charles
Blount su tutti) – e poi di JohnLocke – imprime alla filosofia della
religione, la fede troverà il suo basamento – e la sua legittimazione
– nelle verità inanate nella ragione e nei suoi criteri valutativi. In
questa prospettiva, pertanto, la veridicità, e dunque l’esistenza di
Dio, diventano tali solo nella misura in cui si attaglino alle struttu-
re della ragione, ai fondamenti naturali di ogni religione possibile.
Come se la ragione, rendendo possibile l’originaria rivelazione di

15
Ivi, p. 70.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 229

Dio, credesse nient’altro che se stessa nella sua professione di fede.


Come se Dio stesso riflettesse la ragione rivelatrice16.
Gettando uno sguardo all’età medievale possiamo osservare
come la prova ontologica scolastica (in particolare quella tomisti-
ca) proceda mediante la ragione verso la dimostrazione dell’esi-
stenza di Dio che – incommensurabile, infinita grandezza – rimane
irrimediabilmente assente perché incomprensibile nel suo che cosa,
e attingibile alla conoscenza della ragione naturale solo attraverso
gli effetti. Il pensiero cristiano allora medievale continua a ricono-
scere l’imperscrutabilità, l’assoluta alterità paolina17, del piano di
Dio e proprio per questo si affida all’intelletto per poter procedere,
in aiuto alla fede, non oltre la prova dell’esistenza di Dio che in se
stesso, nella sua natura propria, mantiene un’insanabile impenetra-
bilità. Più semplicemente, la scolastica concepisce l’intelletto come
via per avvicinarsi a Dio, consapevole di non poter andare oltre la
prova della sua esistenza.
Dunque, da un lato, in ambito scolastico la conoscenza si in-
cammina verso Dio, adattandosi, adeguandosi al limite della sua
esistenza, per arrestarsi di fronte all’irriducibile assenza della sua
essenza, dall’altro il liberalismo, di matrice protestante-anglicana,
conduce Dio al cospetto della ragione, che inizia a sguardare Dio
stesso, indugiando, soffermandosi presso l’enigmaticità della sua
essenza per rivendicare la propria facoltà di autodeterminazione.
La ragione protestante-liberale, si pone faccia a faccia con Dio fino
a riconoscersi in lui, fino a neutralizzarne l’ultimo residuo di ne-
gatività. In tal modo, essa evoca, e in un certo senso radicalizza,
lo speciale rapporto con Dio instaurato dal principe moderno di
memoria machiavelliana che, appellandosi al mandato divino del
suo compito, si avvicina sempre più all’Onnipotente fino a riven-
dicarne una prossimità che legittima la sua appropriazione dello
Stato, e dunque l’esclusività del suo potere sovrano sul territorio e

16
Cfr, C. Blount, The Oracles of Reason (1693), Kessinger Publishing, White-
fish, Montana, Stati Uniti, 2003.
17
Paolo Tarso, Prima Lettera ai Corinzi, 1, 20.
230 riccardo paparusso

su qualsiasi persona che quel territorio stesso lo calchi. Il sovrano è


infatti responsabile di fronte a Dio nei confronti di tutti coloro che
cadano sotto la sua giurisdizione18.
Se il sovrano siede a fianco di Dio, percependosi all’altezza di
Dio, con Patočka scopriamo che il democratico liberale lo affronta
a viso aperto, esacerbando lo spirito di sfida manifestato dal prin-
cipe e, dunque, tradendo il suo recondito innesto sul terreno del-
la sovranità assoluta. Per essere più precisi si potrebbe dire che,
osservata da questa prospettiva, la struttura statuale liberale, mo-
dulata dal potere, dalla volontà di potenza della ragione, si rivela
dunque come il risultato della maturazione, del perfezionamento,
dell’eccezionalità dello Stato sovrano moderno, sorto alla fine del
XV sec. e poi codificato da Jean Bodin e Thomas Hobbes19. Si può
parlare di perfezionamento nella misura in cui la dottrina liberale
dello Stato prende origine a partire dal diradamento dell’ultimo,
invalicabile, limite che ancora l’epoca moderna pone a interdizio-
ne della ragione umana: ci riferiamo alla misteriosità, all’abissale
alterità paolina del Dio persona che guarda senza essere visto20,
misteriosità in cui risplende tutta l’irrazionalità di quel sacro che,
per dirla con Rudolf Otto, costituisce la caratteristica più intima di
ogni religione21, e in cui dunque riecheggia sempre di nuovo l’espe-
rienza religiosa primitiva, mitica. Infatti il sovrano moderno siede
al fianco di Dio, governa con Dio, ossia giustifica divinamente il
proprio potere assoluto riconoscendo tuttavia l’inviolabilità della

18
Cfr. J. H.Shennan, The Origins of the Modern European State: 1450-1725,
Hutchinson & Co., London, 1974; tr. it. di L. La Penna, Le origini dello stato mod-
erno in Europa, 1450-1725, Il Mulino, Bologna, 1991, pp. 22-23, 32.
19
Sulla sorgenza dello stato moderno cfr, G. Galasso, Prima lezione di storia
moderna, Laterza, Roma, 2012, cap. II § 4 e J. H.Shennan, Le origini dello stato
moderno in Europa, 1450-1725, cit., cap. IV.
20
Cfr. J. Patočka, Kaciřske eseje o filosofii dějin (1975) in Péče o duši (Cura
dell’anima) III, a cura di I Chvatík e P. Kouba, Oikoymenh, Praga, 2002; tr. it di
G. Pacini, Saggi eretici sulla filosofia della storia, CSEO, Bologna, 1981, p. 131.
21
R.Otto, Das Heilige: Üeber das Irrationale in der Idee des Goettlichen und
sein Verhaeltniszum Rationalen 1917, Munich, C.H. Beck, 1917; tr. it. a cura di A.
N. Terrin, Il Sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razi-
onale, Morcelliana, Brescia, 2011, p. 32.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 231

legge di Dio che, come possiamo dire assumendo la prospettiva di


Bodin, rappresenta un’autorità che oltrepassa quella di qualunque
principe22. In altre parole, il principe tende in qualche modo, a
stabilire con Dio un rapporto di parità, ma solo, potremmo dire,
limitatamente al governo dei sudditi, che il sovrano infatti eser-
cita nella responsabilità nei confronti di Dio. Il sovrano, che non
riconosce alcun condizionamento da parte del potere papale (né
tantomeno da quello imperiale), presuppone di rappresentare Dio
esclusivamente sul territorio sottostante alla propria autorità giu-
risdizionale. Ma mai rivendicherebbe nei suoi confronti, come il
liberale, un’autodeterminazione, una libertà nell’esercizio della
propria fede, tale da calibrare la natura divina a quella della sua
stessa ragione. Si potrebbe dire che il principe è ancora, in qualche
modo, attraversato, o almeno lambito, da quello che Otto definisce
«sentimento creaturale, «il sentimento della creatura che sprofon-
da nel proprio nulla e scompare di fronte a quella realtà che è al di
sopra di ogni creatura»23.
Ora, si può ben comprendere come il nucleo liberale della
«superciviltà» moderata, portando la ragione a eludere, a viola-
re, la presenza inibitoria costituita dalla filigrana sacra, liminare,
del religioso, del Cristianesimo, la rende potenzialmente capace
di dissolvere ogni differenza inaccessibile alla concettualizzazione
razionale. È così che il moderatismo liberale, dando impulso all’e-
spansione universale della ragione, prepara il terreno al radicali-
smo che consiste, come abbiamo visto, nel simultaneo movimento
di assimilazione e svuotamento di ogni distanza, di ogni incalcola-
bilità, originariamente propagata dal sacer.
Il fondamento protestante-anglicano del liberalismo, rivendi-
cando l’autodeterminazione dell’individuo di fronte a Dio, viola
la trascendenza della metafisica religiosa – in cui riluceva l’irra-

22
Cfr. J. Bodin, Les Six Livres de la République, Paris, 1576; tr. it. a cura di
M. Isnardi Parente, D. Quaglioni, I sei libri dello Stato, Utet, Torino, 1997, libro
1 cap. 8.
23
R. Otto, Il sacro, cit., p. 36
232 riccardo paparusso

zionale, folle24, ineffabilità paolina– attivando una volta per tutte,


e in modo irreversibile, il movimento di universalizzazione della
ragione, e dunque della potenza europea. Mediante tale violazio-
ne del sacer, del limite divino, la ragione protestante liberale dà
slancio all’avanzamento del capitalismo che, mediante le due ri-
voluzioni industriali dota l’apparato produttivo di una struttura
tecnologica e rende la ragione stessa capace di una razionalizza-
zione sempre più raffinata del sacro e della violenza (di cui il sacro
stesso è gravido) per estrarre da essi potenza, forza che possa es-
sere impiegata dall’apparato tecnologico in una sempre crescente
accumulazione di redditività, di profitto che, a sua volta, garantisca
nuovo accrescimento di potenza tecnica. È così che sul terreno di
tale tecno-potere germina uno Stato che si afferma come potenza e
che funziona come generazione capitalistica di profitto finalizzato
all’intensificazione della forza militare.
Ora, Patočka non si può definire un marxista. Piuttosto egli
interpreta il marxismo come movimento di pensiero che sostiene
la ragione europea nel suo meccanismo di universalizzazione e di
espansione planetizzante. Purtuttavia, tra le pieghe de La superci-
viltà e il suo conflitto interno si può scorgere l’elaborazione di una
critica di stampo marxiano allo stato liberale-borghese. Alla luce
delle considerazioni fin qui sviluppate, si può affermare che lo Sta-
to liberale agli occhi di Patočka compia la seguente traiettoria: esso
è, a prima vista, una particolare fisionomia dello stato moderno che
rinuncia alla sovranità assoluta e si concepisce a partire dalla liber-
tà degli individui. Ora, nella misura in cui i diritti dell’individuo
derivano dal primario diritto alla proprietà privata, gli individui
che strutturano e configurano lo Stato sono esclusivamente, in pri-
mis, coloro che detengono la potenza necessaria (i mezzi tecnolo-
gici di produzione) a metabolizzare e accumulare la potenza stessa,
sempre nuova potenza, per esercitarla in modo tendenzialmente

24
Cfr, J. B. Souček, Bláznovství v křiže – smysl a význam paradoxu v Novém
zákoně (1932, La follia nella croce – senso e significato del paradosso nella Legge
Nuova), Eman, Heršpice (Repubblica Ceca), 1996.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 233

assoluto – sciolto da ogni limite – sulle nude vite escluse, perché


asservite (e dunque incluse) al sistema produttivo. Lo Stato bor-
ghese, in altre parole, ereditando il principio della sovranità asso-
luta dalla precedente formazione dispotica dello Stato moderno,
rinuncia ad applicarlo, ad esercitarlo direttamente. Esso, piuttosto,
spartisce, dissemina, il suo congenito assolutismo tra gli individui,
così da esercitarlo – in modo mediato, ma forse più efficace rispet-
to al Leviatano – su tutte le singole vite escluse dalla potenza.
Mediante questa distribuzione di sovranità ai soggetti indivi-
duali capitalistici lo stesso volere razionale universale che prima
apparteneva solo al monarca abbandona l’originaria condizione
di astrazione, esce fuori di sé, per manifestarsi e immanentizzarsi
in soggetti individuali concreti. La configurazione liberale dello
Stato prepara in qualche modo lo Stato-Nazione hegeliano che
è ragione che si incarna, che raggiunge la sua definitiva configu-
razione nella monarchia costituzionale, che a sua volta esprime
ad un tempo il fine universale e quello particolare di ogni in-
dividuo25. Esso, dunque, fonde in sé elementi liberali con tratti
assolutistici. Lo Stato concepito hegelianamente si articola come
spazio di affermazione della libertà del singolo senza tuttavia ri-
dursi a un mero mezzo per la realizzazione di tale libertà; piutto-
sto, esso si impone come fine assoluto di questa libertà. In questa
misura, lo Stato hegeliano è Stato etico, perché è la sfera in cui la
libertà del soggetto è concretamente diretta non alla mera scelta
tra due alternative, bensì all’assunzione della responsabilità per
il bene universale.
Nella prospettiva hegeliana lo Stato coincide con la concretiz-
zazione nel reale dell’idea etica. Cosicché in esso, e solo in esso, la
singola autocoscienza, il singolo individuo trova la realizzazione
della propria libertà26.

25
Cfr, G. W. F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, F. Meiner, Lip-
sia, 1921, tr.it. acura di G. Marini, Lineamenti di filosofia del diritto. Dirittonatu-
rale e scienza dello Stato in compendio, Laterza, Roma-Bari, 2000, parte II § 258.
26
Cfr, ivi, parte III, § 257.
234 riccardo paparusso

Uno Stato che costituisce l’essenza della libertà della singola au-
tocoscienza non può che compenetrare tutto – attraverso il potere
governante del monarca – spingendo la sovranità dello stato mo-
derno fin dove esso – nella sua strutturazione assolutistico-liberale
– non era riuscito a penetrare: nel nucleo sostanziale di ogni sin-
gola libertà. Infiltrandosi in ogni momento della facoltà di sceglie-
re, di decidere, di agire, lo Stato etico porta ad attualizzazione la
tendenza, originariamente machiavellica, della sovranità dispotica
a pervadere ogni singolo aspetto, ogni strato dell’esistenza umana
sopprimendo ogni componente di quella che sia irreconciliabile
con la concettualizzazione razionale. È così che, dal punto di vista
patočkiano, la filosofia del diritto di Hegel getta le fondamenta su
cui verrà edificato lo statalismo, lo Stato totalitario del XX secolo.
Egli si rivela, in altre parole, il «padre di tutte le ideologie storica-
mente collettive della nostra superciviltà razionale»27.
Più precisamente, integrando ancora l’analisi patočkiana con
quella marxiana, dovremmo dire che Hegel – ispirato da Napoleo-
ne, «primo grande sperimentatore della potenza pura» 28 – ricalca,
e legittima, il governo oppressivo dello Stato Prussiano, così da
teorizzare uno Stato assoluto, etico, pienamente secolarizzante, su
cui si innesterà l’ideologia collettivista di stampo marxista il cui ra-
zionalismo radicale troverà attualizzazione oltre l’Europa, in quella
Russia che secolarizzerà la sua radice nel cristianesimo mistico.
Continuiamo a leggere La superciviltà e il suo conflitto interno.

La Germania ha sacrificato il fondamentale principio che permette lo


sviluppo del moderatismo, ovvero una liberalizzazione della struttura
sociale a favore degli strati popolari; processo, questo, che in generale
caratterizza perfettamente la storia sociale e politica del XIX secolo,
in tutti i paesi europei. Sacrificando questo elemento, la Germania ha
reso possibile il sorgere del radicalismo. Da questo momento in poi,
il radicalismo fa irruzione nella storia, intensificandosi progressiva-
mente, con la nascita di un potente stato socialista, il declino delle de-

27
J. Patočka, La superciviltà e il suo conflitto interno, cit., p. 96.
28
Ivi, 95.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 235

mocrazie occidentali nel dopoguerra e il rafforzamento di radicalismi


particolari nell’Europa centrale. Nell’Europa occidentale, lo sviluppo
della superciviltà risale al secolo dei Lumi, cioè all’era di un pensiero
individualista che porta ancora l’impronta del cristinaesimo. Solo in
Germania questa corrente incontra un pensiero non individualisti-
co, fondamentalmente storico e collettivistico, laddove per storico si
intende coscientemente secolarizzato. Ma la Germania, pur avendo
ideato a livello teorico questa nuova forma della superciviltà, non è
ancora in grado di realizzarla. La sua realizzazione sarà riservata ad
un paese in cui il collettivismo tradizionale – radicato nel primitivismo
sociale persistente, nell’assenza di città e di una nobiltà, nel cristia-
nesimo mistico (la sobornost) – si collega all’ondata di un pensiero
puramente secolare, collettivistico e razionale.29

La Germania bismarckiana, punto apicale dell’accumulazione di


potenza messa in opera della – moderata – razionalità tecnica euro-
pea, genera uno Stato potenza come persona suprema assoggettan-
te i cittadini alla propria volontà di autoaffermazione30.
Lo Stato Assoluto hegeliano – la cui volontà coincide con la vo-
lontà del monarca – simultaneamente prepara le condizioni dello
Stato potenza bismarckiano e traccia la struttura concettuale del ra-
dicalismo collettivista marxista. Ora, sia la potenza tecno-logica che
il collettivismo – partoriti dalla ragione strumentale europea, non
trovano piena maturazione sul suolo europeo, ma originariamente
nella Russia leninista che collettivizzando, statalizzando la potenza
capitalistica, radicalizza la «superciviltà» razionale ereditando il cul-
mine, il rovescio, della razionalizzazione europea, che con il marxisi-
mo dà un impulso decisivo alla propria vena universalizzante31.

29
Ivi, p. 93-95.
30
Cfr, H. von Treitschke, Politik, S. Hirzel, Leizpig, 1918; tr. it. di E. Ruta, La
Politica, Laterza, Bari, 1918 (4 voll.).
31
J. Patočka, Die Selbstbesinnung Europas, in «Perspektiven der Philosophie»,
Neues Jahrbuch, 20, Amsterdam-Atlanta 1994, pp. 241-274; tr. it. a cura di F. Ta-
va, La razionalità europea e il segreto del mondo, in La Superciviltà e il suo conflit-
to interno. Scritti filosofico-politici, cit., pp. 127-156.
Sul rapporto di Patočka con Marx e il marxismo si consulti F. Tava, The Her-
esy of History: Patočka’s reflection on Marx and Marxism, in F. Tava, D. Meacham
(a cura di), Thinking after Europe, cit., pp. 183-200.
236 riccardo paparusso

Le analisi sin qui prodotte ci danno la possibilità di enucleare le


tappe del processo involutivo dello Stato liberale, esso, incardinato
sul principio di sovranità, introietta e cresce nel suo ventre il germe
rimosso del dispotismo, della volontà di potenza di origine machia-
vellica, fino a sboccare, dopo aver toccato il suo apice nello Stato
Nazione di matrice prussiano-hegeliana, nello Stato totalitario di
origine marxista-leninista. È così che, a partire dalla Rivoluzione
d’Ottobre, la «superciviltà» moderata-liberale si auto-ramifica in
una versione radicale, nazionalista-totalitaria e in una rinnovata
versione moderata – che assumerà connotati politici neoliberisti
– che quest’ultima stabilisce con il ramo radicale un rapporto dia-
lettico di vicendevole influenza e alimentazione.
Ora i due corni, moderato-democratico e radicale-dittatoria-
le, della «superciviltà», sono accomunati dall’esercizio politico e
sociale di quella potenza tecnica che la politica stessa, lo Stato, la
società, assorbono dall’avanzata struttura tecnologica dell’appara-
to produttivo. Leggendo Patočka attraverso le lenti di Marcuse,
si potrebbe dire che entrambe sono espressioni di una razionalità
tecnologica che, nell’epoca contemporanea, appare come «l’in-
carnazione stessa della ragione»32. Il socialismo, infatti, partorito
dalla potenza tecnica della ragione europea «distrugge l’apparato
politico del capitalismo, ma conserva l’apparato tecnologico, socia-
lizzandolo»33. Tuttavia, è nel rapporto che stabiliscono tra politica
e tecnica, o meglio tra la tecnica e la dimensione personale, che
moderatismo e radicalismo si differenziano:

Nel moderatismo predomina una tecnica oggettiva, orientata ver-


so le macchine, gli utensili, gli strumenti. L’ambito naturale della
tecnica moderata riguarda, innanzitutto, l’aspetto naturale delle
cose; in tale ambito rientra ciò che facilità la vita per mezzo di un
controllo su ciò che a cui la scienza, ossia un sapere generalmente
vincolante, può accedere. [...] Il moderatismo tende a guardare la
politica come una sorta di tecnica, mentre il radicalismo conside-
ra, all’opposto, la tecnica come prolungamento della politica, in

32
H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 29.
33
Ivi, p. 42.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 237

vista di determinati obbiettivi; come uno strumento della politica


e una particolare azione di conflitto. “Conflitto” che, a sua volta,
si rivela una categoria politica. In ciascuno dei due sistemi, ci sono
degli strati, delle classi, dei gruppi o frazioni della società che sono
privilegiati, così come ce ne sono altri vittime dell’oppressione34.

Ispirati dal funzionamento tecnologico del sistema economico, i re-


gimi democratici moderati perfezionano – in continuità con lo Sta-
to moderno – una tecnica politica di organizzazione della macchina
statale e di controllo delle classi sociali subalterne. Prendendo a
modello le tecniche di generazione di profitto, la politica moderata
fissa il suo obiettivo nell’efficacia dell’amministrazione e del disci-
plinamento, finalizzati a loro volta a ciò che, pensando con Foucau-
lt, potremmo definire meccanismo regolarizzatore della vita35.
D’altro lato, invece, le realtà radicali applicano i meccanismi
delle tecniche di produzione e accumulazione all’esercizio del po-
tere politico. Questo, coincidendo con la gestione dell’apparato
tecnologico di produzione, sviluppa una tecnica di dominio sulle
masse finalizzata all’atomizzazione, alla manipolazione, e dunque
alla fabbricazione dell’uomo.

Nel radicalismo c’è un’altra tecnica che prevale, di carattere politi-


co, umano-sociale: la tecnica del dominio sugli uomini, sugli indi-
vidui così come sui gruppi sociali. [...] Le società radicali portano
in primo piano [...] qualcosa che può essere definito come una
tecnica morale. Caratteristico di tutti questi sistemi è il dominio
degli uomini per mezzo del lavoro, del divertimento, dell’indot-
trinamento, dell’informazione; il dominio imposto da una tecni-
ca capace di spezzare non soltanto le volontà momentanee, ma la
personalità stessa dell’uomo; una tecnica in grado di calcolare i
cambiamenti repentini, i capovolgimenti di fronte, tutti i momenti
passionali, come se li tenesse in pugno36.

34
J. Patocka, La superciviltà e il suo conflitto interno, cit., p. 74.
35
Cfr, M. Foucault, Il faut défendre la société, Paris, Gallimard, 1997; tr. it., a
cura di M. Bertani e A. Fontana, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano,
2009, corso del 17 Marzo 1976.
36
J. Patocka, La superciviltà e il suo conflitto interno, cit., p. 74.
238 riccardo paparusso

Il moderatismo, dunque, si limita, secondo Patočka, ad esercitare


la propria portata tecnologica sul mondo naturale,"přirozený svět"
(nonché sulla corporeità umana che partecipa del «mondo naturale»
stesso), finalizzando la capacità tecnica di calcolazione al perfeziona-
mento dell’efficacia della produzione e della conseguente genera-
zione di profitto. Il radicalismo, invece, estende l’applicazione della
funzionalità tecnologica anche alla realtà immateriale, elaborando,
dunque, una tecnica di manipolazione della persona, che ha il suo
punto di innesco in quell’assoluta riduzione della distanza, della
differenza tra profano e sacro. Sviluppando tecniche di produzio-
ne della differenza sacrale, la superciviltà radicale può perfezionare
una pratica di controllo e gestione di qualsiasi, possibile, movimen-
to umano di liberazione. Più precisamente, il radicalismo estende
all’elemento religioso e sacro dell’esistenza umana quella razionaliz-
zazione estrema che il progresso tecnologico garantisce al proces-
so produttivo del sistema industriale. Neutralizzando tecnicamente
ogni possibilità di apertura ("otevřenost") al mistero, e di spontanea
evasione sacrale dalla quotidiana razionalità, il radicalismo destrut-
tura la natura umana – che si articola infatti proprio in apertura e
alienazione – fino ad entrare in pieno controllo dell’uomo stesso.
Esasperando il proprio movimento di incorporazione e fab-
bricazione dell’irrazionale, il radicalismo finisce per riportare in
superfice l’irrazionale apparentemente rarefatto, manifestando un
carattere mistico che esercita una fascinazione da cui neanche il
mondo moderato resta immune. Attratto dal carattere magico, de-
moniaco, dell’irrazionale razionalizzazione del radicalismo, il mo-
deratismo stesso si converte a una concezione manipolatoria della
tecnica, come dominio sull’uomo.

4.4. Il mondo bipolare. L’universalizzazione tecnica dello Stato Totale

Cogliendo nel radicalismo la piena attualizzazione del proprio


originario progetto di razionalizzazione, il moderatismo si lascia
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 239

attrarre da esso, scivolando in un processo mimetico che lo porta


ad emulare e ad apprendere la neutralizzante tecnicizzazione del
mistero cristiano, e del sacro. A tal proposito, è necessario portare
l’attenzione sul testo del 1975, La civiltà tecnica è decadente e per-
ché, il quarto dei Saggi eretici sulla filosofia della storia. Qui, più o
meno venticinque anni dopo la stesura de La superciviltà e il suo
conflitto interno, nel mondo bipolare ormai consolidato, Patočka
vede un’unica civiltà tecnica in cui – a dispetto della loro polariz-
zazione – il moderatismo e il radicalismo si fondono e si riflettono.

Il XIX il XX secolo sono l’epoca della civiltà industriale che – a


quanto pare – ha definitivamente spazzato via gli altri e più antichi
tentativi dell’umanità di formare o addirittura produrre la propria
vita senza il concorso della scienza e della tecnica (della tecnica
che si fonda sulla scienza e in un certo senso si fonde con essa)37.

Negli anni settanta dello scorso secolo, dunque, Patočka osser-


va una civiltà che si rapporta all’essere umano, oltre che alla realtà
esterna, solo ed esclusivamente mediante quel metodo di massima
razionalizzazione mutuato dall’impianto tecnologico della vita eco-
nomica delle società. La civiltà intera dunque, a prescindere dalle
differenze, dalle divisioni socio-politiche, attua un utilizzo radicale
della razionalità tecnologica come dominazione, macchinazione, e
isterilimento, dello spirito umano.
Seguendo, dunque, il processo che abbiamo già ritracciato,
possiamo affermare che la civiltà del mondo bipolare sviluppa una
tecnica di manipolazione dell’uomo applicando, innanzitutto, la
razionalità tecnologica sullo strato sacrale dell’esistenza umana.

L’umanità europea – e oggi ormai l’umanità in generale – nella


differenziazione dei suoi compiti e nell’intrecciarsi degli interes-
si non può ormai più addirittura esistere fisicamente senza quel
modo di produzione che si fonda sempre più massicciamente

37
J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, cit., p. 121.
240 riccardo paparusso

sulla scienza e sulla tecnica (modo di produzione, peraltro, che


distrugge le riserve mondiali, anzi, planetarie, di energia). Cosic-
ché il dominio razionale. La fredda «verità» di questo che è il più
freddo tra tutti i freddi mostri, ci nasconde oggi praticamente il
suo sorgere – tradizionali nella nostra società – di superamento
della quotidianità in un modo non orgiastico e pertanto auten-
tico [...]38.

Misconoscendo qualsiasi entità inconciliabile con le proprie prete-


se di oggettivazione totale, la civiltà tecnica elude ed occlude quel
mysterium tremendum che Patočka mutua da Otto per definire il
sacro responsabilizzato, interiorizzato, autentico, che costituisce a
sua volta il nucleo essenziale del cristianesimo. Conseguentemente,
la civiltà contemporanea, in modo radicale, recupera e riconosce
esclusivamente il sacro primitivo, che Patočka codifica attraverso
le lenti di Durkheim39. Si tratta di quel sacro irresponsabile e alie-
nante, traboccante di misterico esteriore, di orgiastico, di ebbrez-
za, di sessualità tumultuosa, di violenza. Ad ogni modo, la razio-
nalità tecnologica non può, ovviamente, tollerare nessuna libera
esplosione di evasione orgiastica che non rientri nei suoi processi
di calcolazione. Essa, piuttosto, organizza e produce tecnicamen-
te – innanzitutto attraverso la guerra – la sacralità orgiastica: da
un lato, la sfrutta come energia necessaria all’accumulazione della
potenza, dall’altro la trasforma in forza necessaria per schiacciare
la persona su un’alienazione (orgiastica) che – priva di qualsiasi
slancio liberatore – riduca l’essere umano ad animale perfettamen-
te manipolabile. Attraverso una simile dinamica l’essere umano di-
viene completamente identificabile nel ruolo che esso deve giocare
all’interno del meccanismo di intensificazione e universalizzazione
della potenza.

Ivi, pp. 135-136.


38

Cfr, E. Durkheim, Les Formes élémentaires de la vie religieuse: le système


39

totémique en Australie, PUF, Paris, 1912; tr. it. a cura di M. Rosati, Le forme el-
ementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Mimesis, Milano,
2013.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 241

Il problema dell’individuo, e cioè il problema della persona uma-


na, stato fin dall’inizio il problema del superamento della routine
e dell’elemento orgiastico. Esso inoltre significava che l’uomo non
può mai essere identificato con nessun ruolo che egli possa rivestire
nel mondo. L’individualismo moderno che si sviluppa dall’epoca
rinascimentale, secondo Burckhardt e molti altri, non significa l’im-
pegno e la lotta di penetrare la sostanza dei ruoli bensì di recitare
un ruolo importante [...]. L’individualismo moderno si sviluppa
sempre più come collettivismo (universalismo), e il collettivismo
come falso individualismo. Il vero problema dell’individuo pertan-
to non si pone tra il liberalismo e il socialismo, tra la democrazia
e il totalitarismo, i quali – nonostante le profonde differenze che li
separano – hanno come denominatore comune il prescindere da
tutto ciò che non è obbiettivo e non è il ruolo. Pertanto la soluzione
del conflitto tra liberalismo e socialismo non può portare con sé la
soluzione al problema di rimettere l’uomo al suo posto e di mettere
fine al suo errare fuori di sé e fuori del posto che gli appartiene40.

Con un gesto che per certi versi ricorda quello del personalismo,
e soprattutto di Emmanuel Mounier41, Patočka vede il collettivi-
smo e l’individualismo liberale come due attori di una stessa, più
fondamentale, operazione di decadimento della persona, ossia di
dissoluzione della cifra spirituale dell’uomo che, mediante le tec-
niche di alterazione già tematizzate, viene ridotto a mera forza, ac-
cumulata, calcolata, sfruttata, manipolata, appunto, come qualsiasi
altra forza42.
Ora, seguendo – insieme a Patočka – il filo del lavoro heideg-
geriano sulla tecnica, comprendiamo come una tale civiltà, ad un
tempo liberale e socialista, incapace di rapportarsi al mondo e
all’uomo se non attraverso le categorie di manipolazione recepi-
te dal fondamento tecno-scientifico del suo apparato produttivo,
comprende la verità stessa, l’essere, come Gestell, ossia come im-
pianto che provoca l’esistenza umana a estrarre da ogni cosa, come

40
Ivi, pp. 138-139.
41
Cfr, E. Mounier, Le personnalisme, PUF, Parigi, 1950; tr. it. a cura di G.
Campanini e M. Pesenti, Il personalismo, AVE, Roma, 2004.
42
Cfr, J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, cit., p. 139.
242 riccardo paparusso

da ogni vita umana, tutta la forza possibile che possa essere utiliz-
zata in vista dell’ottenimento di un risultato, dell’intensificazione,
dell’accrescimento della potenza43.

Gestell è simultaneamente la creazione di un’umanità che non fa al-


tro che eseguire questi ordini [...] al punto da perdere di vista qual-
siasi cosa che non rientri in questo sistema, che non sia un ordine
capace di assicurare il comune, ordinario funzionamento dei bisogni
e della loro soddisfazione44.

Alla luce di questa citazione, e sulla base delle considerazioni pre-


cedenti, potremmo affermare che la civiltà tecnica – nel suo dop-
pio volto individualista e collettivista, liberale e totalitario – de-
grada la vita umana al suo livello preistorico-mitico, dove essa si
comprende e accetta come essere interamente assorbito dalla fatica
per il sostentamento biologico. In questa prospettiva, potremmo
comprendere l’analisi patočkiana della civiltà tecnica come il ri-
sultato dell’integrazione tra il concetto heideggeriano di Gestell e
l’arendtiana concezione della vita umana contemporanea, e secola-
rizzata, i cui unici contenuti rimasti sono «gli appetiti e i desideri, i
bisogni incoscienti del suo corpo [...]»45.
Se, da un lato, Patočka sviluppa la sua riflessione sulla tecni-
ca prendendo le mosse dall’heideggeriana nozione di Gestell, egli
dall’altro distingue la sua propria tematizzazione da quella di Hei-
degger, stabilendo una relazione necessaria tra la comprensione
tecnologica del mondo e la sottomissione dell’umanità al potere
di una mera vita economica, che è vita esclusivamente orienta-
ta al riempimento dei vuoti scavati dai suoi bisogni. In un certo
senso, potremmo dire che il Gestell analizzato da Patočka sia una
specifica comprensione dell’essere che esorta l’esistenza umana a

Cfr, ivi, p. 140.


43

J. Patočka, Čtyři semináře k problému Evropy, in Péče o duši III, a cura di I.


44

Chvatík e P. Kouba, Oikoymenh, Praga, 2002, pp. 374-423, p. 388.


45
H. Arendt, The Human Condition, The University of Chicago Press, Chi-
cago, 1958; tr. it. di S. Fnzi, Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Mila-
no, 2005, p. 320.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 243

consacrare se stessa alla preistorica condizione di esclusiva cura


per la vita auto-consumantesi. «Il Gestell esercita il suo potere su
di noi attraverso la nostra vita, mediante ciò che ci lega alla vita46;
dunque il tecno-potere provoca la vita umana a tenersi aggrappata
alla vita, a ridurre se stessa al livello della mera vita vivente.
La civiltà tecnica, dunque, spersonalizza l’uomo, lo depriva di
spontaneità, riducendolo infine a mera vita animale.
Ora, rispostandoci su un piano politico, potremmo dire che
una simile civiltà non può che concepire un’idea totalitaria di Stato
il cui segreto ed essenziale meccanismo, consiste proprio, come ap-
prendiamo da Hanna Arendt, in un processo di riduzione dell’uo-
mo a pura animalità, a un cadavere vivente che, sottratto della sin-
golarità della sua persona, non svolge altro compito se non quello
della conservazione della specie47.
A questo punto possiamo gettare un nuovo sguardo sul passo
Che cos’è e cosa non è Charta 77 già citato in apertura:

L’umanità di oggi è lacerata dalle ideologie; pur trovandosi nel


pieno di un’epoca di benessere, essa è insoddisfatta e attende con
febbrile desiderio, che ricette tecnologiche sempre nuove le for-
niscano una soluzione ai suoi mali. A ciò si deve il fatto che essa
si affidi al potere politico statale; lo stato si configura, infatti, con
sempre maggior nettezza, come il luogo di produzione e di conser-
vazione di un potere che dispone di tutte le forze esistenti, tanto
fisiche quanto spirituali48.

Rileggendo le righe sopracitate alla luce del percorso fin qui com-
piuto, troviamo buone ragioni per sostenere che, combinando le
tesi sul totalitarismo della Arendt a quelle di Marcuse sulla civiltà
industriale, Patočka colga nella civiltà tecnica una concezione totali-
taria dello Stato che funziona come sostrato comune delle politiche
dei regimi democratici e di quelli dittatoriali.
46
J. Patočka, Čtyři semináře k problému Evropy, cit., p. 391.
47
Cfr, H. Arendt, The Origins of Totalitarianism (1948), Schocken Books,
New York, 1951; tr. it. di A. Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Einaudi, To-
rino, 2004, parte III, cap. XII.
48
J. Patočka, Che cos’è e cosa non è Charta 77, cit., p. 173.
244 riccardo paparusso

Totalitario non è lo stato governato dittatorialmente, ma


quell’assetto statuale che, sia con strumenti democratici che con
mezzi dittatoriali, permea totalmente la vita umana mediante tec-
niche di de-personalizzazione dell’uomo.

4.5. La sovranità post-europea

La fase politica dominata da un totalitarismo tecnico, e dunque tra-


sversale, coincide su un piano filosofico-storico, con la «post-Eu-
ropa».
La «superciviltà» industriale, rovesciando il principio spirituale
europeo – «cura dell’anima» (peče o duši) come «responsabilità»
(odpovědnost), solidarietà – nella ragione strumentale e tecnoscien-
tifica, universalizza la potenza europea49. Essa, in altre parole, eu-

49
Nel pensiero di Jan Patočka la storia, la storia d’Europa, fiorisce sul terreno
dell’originaria polis greca. Come apprendiamo dalla lettura dei Saggi eretici sulla
filosofia della storia, essa inizia il suo corso nel momento in cui la vita umana af-
ferma se stessa come bios che si eleva dalla soggiogazione al suo fondamento na-
turale riconoscendo la responsabilità come destino ineludibile. Secondo Patoč-
ka l’ingresso dell’uomo nella storia, l’assunzione della responsabilità come fonda-
mentale destino dell’umanità – e, dunque, l’originaria manifestazione di Europa –
coincide con la fondazione dell’originaria polis ateniese.
Il mondo preistorico – mondo della prima cellula familiare così come quel-
lo dei grandi imperi orientali – è essenzialmente caratterizzato da un’incessante
oscillazione sul piano dell’antinomia tra sacrum e profanum, polarità che Patoč-
ka mutua da Emile Durkeheim e rimodula come tensione tra vita schiacciata sul
lavoro (práce) e apertura mitica al sacro che sfocia continuamente in scatenamen-
to estatico-orgiastico. L’umanità preistorica conduce un’esistenza totalmente as-
sorbita della preoccupazione per il riempimento dei bisogni biologici. Usando un
paradigma coniato da Walter Benjamin, e diffuso da Giorgio Agamben, potrem-
mo definire la vita preistorica come mera nuda vita (zoé): vita priva di ogni quali-
ficazione. Il suo corso è essenzialmente regolato da una logica economica di resti-
tuzione: essa si sfinisce per ottenere un ritorno (výkon), per riempire il vuoto dei
propri bisogni corporei; essa si svuota per riempire il vuoto che scava; vive per
guadagnare, per incrementare. Nel fare ciò, essa riconosce la narrativa mitico-po-
etica come il solo possibile orizzonte di comprensibilità. Il mito e il divino, a cui
il mito stesso apre, costituiscono il centro di gravità del mondo preistorico, nella
misura in cui giustificano l’immobilizzazione dell’umanità in uno stato di a-prob-
lematicità, in cui l’esistenza umana si esaurisce nello sforzo di resistere alla con-
sumazione.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 245

Il rapporto mitico, arcaico, con il sacro, il quale è immediato, incondizion-


ato, onnipervasivo, perché, costituendo il referente ultimo del governo dei pro-
cessi economici, è ridotto alla sua funzione assicurativa, incentrato sull’elemento
sacrificale e dunque assorbito, completamente sedotto, dalla dimensione demoni-
aca, misterica, orgiastica.
Contrariamente alle società delle antiche civiltà asiatiche, la polis è una comu-
nità che i suoi membri riconoscono come frutto del loro «proprio lavoro», e non
come l’effetto del potere sovrastante l’essere umano. Essa, piuttosto, è lo spazio
che l’uomo crea per un altro, uno spazio pubblico dove ognuno sente il dovere
(uloha) fondamentale di agire per un altro – per i propri concittadini così come
per i propri successori.
Dovremmo chiederci: perché l’apparizione della vita politica corrisponde
all’originale manifestazione della storia? La risposta deve essere trovata nella
particolare relazione con l’altro che la vita politica stabilisce mediante la propria
azione. Rispetto al guerriero prepolitico, l’agente politico non lotta per un altro
che è utile per il sostentamento e la continuità della sua propria vita economi-
co-naturale. Piuttosto, egli lotta per un altro la cui reazione è imprevedibile: la
responsabilità dell’uomo politico è indirizzata a qualcuno che non garantisce il
suo sostrato biologico, ma che rappresenta invece una potenziale minaccia per
la sopravvivenza dello stesso attore politico. In altre parole, l’esistenza politica è
responsabile per un altro incalcolabile che non può promettere nessun riempi-
mento, nessun ritorno. Conseguentemente, la relazione all’altro caratterizzante
l’agire del politico disattiva la circolarità economica che regola il rapporto pre-
istorico al mondo così da inaugurare il corso della storia, il cui telos non può es-
sere altro che responsabilità per l’altro, responsabilità per un altro indetermina-
to (un altro rassomigliante all’alterità a cui è diretta la responsabilità di Emman-
uel Levinas). Come si evince dalla lettura di Platone e l’Europa, nel pensiero pa-
točkiano la «cura dell’anima» platonica costituisce la formulazione filosofica del-
la responsabilità che emerge lungo il terreno delle poleis originarie. È come se Pa-
točka individuasse due inizi della storia: uno spontaneo inteso come emergenza
della responsabilità innescata da un’azione politica originaria, e per questo irrif-
lessa, e un nuovo inizio, metafisico, della stessa «responsabilità» che avviene con
Platone, il quale anni e anni dopo, successivamente alle guerre del Peloponneso,
sente la necessità di una codificazione della «responsabilità» come norma etica
cui obbedire, come esplicito principio regolatore dell’azione storica, in altre pa-
role come telos da attualizzare.
Ricapitolando, nel suo momento di originaria manifestazione la «respons-
abilità» (il telos) è ancora irriflessa, vissuta, ma non riconosciuta, e dunque non
consapevole. In altre parole, l’agente che compie l’azione ancora non si ricono-
sce. In tale condizione di irriflessione, l’azione responsabile per la libertà degli al-
tri, dei concittadini, non riconosce ancora la libertà in se stessa, come valore as-
soluto, come libertà dell’altro, di ogni altro.
Nel suo stato nascente, la polis è ancora contaminata dal potere del misterico
e dunque costantemente minacciata da una deriva verso il deresponsabilizzante
inebriamento orgiastico. L’affermarsi dell’azione politica attraverso l’edificazi-
one di uno spazio pubblico indica la via verso la «responsabilità», ma rimane,
246 riccardo paparusso

fondamentalmente, attività, procedura preistorica, fino a quando il sentimento


religioso non si depura dall’elemento demoniaco; fino a quando, cioè, la religi-
one, scaricando il peso della sacralità orgiastica che pre-originariamente la cor-
rompe, non afferma la sua responsabile autenticità.
Dopo le guerre persiane e la massima affermazione dalla vita libera in se stes-
sa la responsabilità subisce un crollo vertiginoso, perché ancora priva di una sol-
ida struttura filosofica che la tramandi come eredità.
Finalmente, con la «cura dell’anima» platonica, che codifica la responsabil-
ità come principio, la vita stessa non può più non scegliere. Il pensiero platoni-
co espone per la prima volta l’esistenza umana di fronte a due alternative incon-
ciliabili che Patočka coglie e definisce sotto una luce ad un tempo kierkegaard-
iana e heideggeriana: la prima possibilità è quella rappresentata dalla deiezione,
dal comprendersi a partire da un piano ontico, dal campo delle cose che satura-
no il vuoto biologico; la seconda alternativa consiste nel rispondere alla chiama-
ta del proprio essere e, dunque, della fenomenalità.
Dopo la vittoria di Atene nelle Guerre Persiane e i cinquant’anni di pace di
Pericle, la polis subisce la catastrofe delle Guerre del Peloponneso (431 a.C. – 404
a.C.), il periodo della Tirannide e il ritorno degli esuli democratici (che erano sta-
ti cacciati dai Trenta Tiranni) che paradossalmente condannano Socrate a morte.
Perché? Perché avevano smarrito il telos, la responsabilità, la libertà, contaminata
dalla tirannide che la sostiene sin dal suo originario sorgere. Avevano perso me-
moria di loro stessi: per questo il telos non riconosce più se stesso nelle parole di
Socrate e negli inviti alla responsabilità, vita per ciascun altro, rischio senza calco-
lo di ricompensa. La responsabilità, dalla sua originaria emersione, aveva subito
la mancanza della solidità filosofica, del riconoscimento di sé. La «cura dell’ani-
ma» interviene proprio per codificare la responsabilità come principio regolatore
o, più fenomenologicamente, come possibilità autentica.
La storia dell’Europa, dunque, si mette effettivamente in cammino con la
«cura dell’anima». Perché? Platone recupera l’originario elemento greco della
responsabilità, sorto e poi smarritosi, lo riconosce e lo configura filosoficamente.
Formula la responsabilità come vita dedita a ogni altro, vita condotta alla luce del-
la somma idea di Bene.
L’idea di Bene di un Platone riletto patočkianamente non si colloca nel mon-
do sovrasensibile, fiorisce, piuttosto, nell’immanenza storico-politica di una vita
che è condotta per la responsabilità e che ora si riconosce mentre agisce.
Con la «cura dell’anima» l’uomo, già storicizzato, trova il principio guida del
proprio movimento. È così che la storia, già affiorata sul terreno della vita umana,
può mettersi in cammino. Il movimento della vita umana può affermarsi come sto-
ria, come percorso ritmato dal tentativo di affermare il compito della vita per la re-
sponsabilità, e dunque per la libertà. La vita storica ha ora acquisito consapevolezza
di quale sia lo scopo (ůčel), perciò ha la possibilità e la facoltà di tracciare un percor-
so. Tuttavia, tale percorso non assumerà mai un carattere regolarmente teleologico,
perché la catastrofe a partire da cui si attiva rimarrà sempre un residuo incalcolabile.
Ora, c’è un altro fondamentale motivo per cui la storia si mette in cammino
soltanto a partire dalla formulazione della «cura dell’anima». Mi riferisco alla di-
sattivazione della potenza orgiastica che la «cura dell’anima» platonica garantisce
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 247

grazie all’affermazione di una nova concezione di immortalità, che il filosofo ceco


delinea attraverso il filtro della nozione di essere per la morte heideggeriana, non-
ché di quello hegeliano della dialettica servo-signore.
La «cura dell’anima» rivoluziona il rapporto dell’esistenza umana con la morte.
Infatti, una vita che assume come dovere e come fine, il rischio di sé per l’esistenza di
qualcun altro è vita continuamente esposta alla morte. È un’esistenza che – come il
servo di Hegel – ponendosi faccia a faccia con la morte la sconfigge come minaccia
estrinseca, derivante da una dimensione divina assolutamente distante. L’immortal-
ità dell’anima platonica consiste, dunque, per Patočka nella sconfitta della morte
come minaccia estrinseca, nell’affermazione della morte come autentica possibil-
ità esistenziale. In altre parole, l’immortalità platonica coincide qui con la consape-
volezza della mortalità che depura la relazione con la morte dall’elemento misterico,
orgiastico. Infatti, il processo di consapevolizzazione del rapporto con la mortalità
neutralizza il potere demoniaco sulla morte umana, superando la necessità di quelle
pratiche orgiastiche finalizzate alla rassicurazione di tali forze divino-demoniache.
Il platonismo, dunque, subordinando l’orgiastico alla decisione responsa-
bile, rovescia il culto misterico per istituire una religione eticamente fondata,
sul cui terreno fiorirà la religione morale kantiana. Dall’altro lato, tuttavia, il pla-
tonismo stesso supera l’elemento orgiastico senza però eliminarlo, attuando –
piuttosto – un’economia dell’incorporazione che conserva il misterico affinché
lavori alle dipendenze della «responsabilità», la quale a sua volta si riscopre os-
taggio di una componente essenziale della vita biologica. La metafisica sorge,
dunque, in risposta all’esigenza di un superamento non orgiastico, responsabile,
della quotidianità. Ma questo suo superamento si rivela tale solo in quanto ali-
mentato da un processo economico di assicurazione. Come se la metafisica, sin
dal suo stato nascente (platonico), neutralizzasse l’orgiastico non per educare,
risvegliare a un autentico raddrizzamento dalla decadenza nella quotidianità, ma
solo per tutelare l’efficacia della gestione del quotidiano – dell’economico – dal
rischio connesso all’eccentricità dell’orgiastico, che dall’economico stesso inevi-
tabilmente trabocca. E l’effetto prodotto in tal modo è una sospensione dell’or-
giastico che altro non è che preparazione a nuovi scatenamenti, a nuovi straripa-
menti. Il cristianesimo di Patočka è di radice cattolica ma caratterizzato da una
forte inclinazione protestante ereditata dalla vicinanza umana e scientifica con
Bouhumil Souček, teologo evangelico che si segnala per aver introdotto il lavoro
di Karl Barth nel dibattito teologico-filosofico ceco; pertanto il rapporto con
Souček lascia sul cristianesimo patočkiano l’impronta dell’interpretazione bar-
thiana della kènosis paolina.
Nel pensiero patočkiano il cristianesimo si afferma come religione demitiz-
zante per eccellenza che – portando a termine il compito di purificazione dall’el-
emento orgiastico, costitutivamente insito nell’apertura al sacro – si impone, kan-
tianamente, come suprema istanza morale.
Patočka, compiendo un gesto teoretico simile a quello di René Girard, av-
verte nel cristianesimo la condizione di possibilità di un autentico rovesciamento
del mito, di una piena neutralizzazione della sua cifra demoniaca, orgiastica, nel-
la misura in cui ne coglie il nucleo essenziale in un atto sacrificale che, disinnes-
cando il circuito economico in cui scorre l’originaria funzione rituale, sfonda lo
248 riccardo paparusso

ropeizza l’umanità globale mediante la diffusione della trasfigura-


zione, del tradimento del proprio principio, attraverso la dissemi-
nazione della negazione della «responsabilità» dell’Europa stessa.
Universalizzando la propria razionalità, la moderna civiltà europea
diffonde nel mondo la propria sapienza tecnologica, realizzando il
progetto europeo di dominazione globale che, tuttavia, l’Europa
stessa paga con l’alienazione della sua propria eredità.

stesso terreno mitico che pure al tempo stesso percorre e in cui, inevitabilmente,
rimane radicato. In altre parole, il cuore del cristianesimo risiede, per il filosofo
boemo, in un sacrificio che, in quanto tale, estingue lo stesso movimento sacrifi-
cale, lo rende inutile, lo svuota di scopo. Il movente di tali considerazioni si può
cogliere nelle pagine di Quattro seminari sul problema dell’Europa. Qui, tematiz-
zando la crisi aperta dal processo di assoluta tecnicizzazione del mondo, egli indi-
vidua l’unica possibilità di rovesciamento del dominio della ≪disponibilità≫ e del-
la ≪semplice presenza≫ nel rinnovamento dell’abbandono patito nell’autosacrificio
(sebeobětovani) cristiano.

Perché mi hai abbandonato? La risposta è nella domanda. Cosa sarebbe accadu-


to se tu non mi avessi abbandonato? Non sarebbe accaduto niente, può accad-
ere qualcosa soltanto nel momento in cui mi abbandoni. Mi hai abbandonato af-
finché non ci sia niente a cui possa ancora aggrapparmi. (J. Patočka, Quattro semi-
nari sull’Europa, cit., p. 413)

L’immolazione cristiana – portatrice di un messaggio indirizzato ad ognuno ̶ si


rivolge ad un altro indeterminato che, contrariamente alla divinità mitica, delude
ogni aspettativa di restituzione. Il Cristo inchiodato alla croce lamenta l’incomp-
rensibilità dell’abbandono, la sua mancanza di direzione, perché quello che avvi-
ene è un sacrificio finalizzato a niente. Esprimendo tutta l’influenza che Karl Barth
esercita sul suo pensiero religioso, Patočka concepisce il sacrificio cristiano, come
un atto sacrificale che va oltre la miticità nella misura in cui espone all’abissale di-
mensione del nulla.
Dunque la croce, l’evento originario del cristianesimo innesca autenticamente
il movimento storico perché, in quanto sacrificio per niente, disattiva la logica in-
terna alla sfera mitica offrendo il più vigoroso slancio alla possibilità di respons-
abilità, il telos storico. Se infatti la responsabilità è propria di un essere che, rispon-
dendo di un altro, per un altro infinito, torna in se stesso solo al prezzo di lascia-
re vuote le sue pretese fondanti, essa può riconoscersi solo in un sacrificio che non
si lascia regolare da nessuna rivendicazione, da nessuna previsione di restituzione.
È alla luce della conclusione raggiunta con le considerazioni che abbiamo ap-
pena sviluppato che è possibile comprendere come, nella prospettiva patočkiana,
l’originaria manifestazione dell’Europa attualmente intesa sia individuabile Sacro
Romano Impero. Questo, infatti, ponendo fine alla schiavitù intesa come riduz-
ione dell’uomo a proprietà, a cosa, ed estendendo a ciascuno, almeno potenzial-
mente, lo status di persona libera, segna l’alba dell’Europa dei diritti così come è
concepita nel tempo odierno.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 249

In altre parole, attraverso le due Guerre Mondiali, il mondo extra-


europeo rovescia contro l’Europa tutta la potenza tecnica assorbita in
virtù del movimento europeo di espansione della propria razionalità.
Da tale processo, risulta un mondo, quello bipolare, essenzialmente
post-Europeo perché abitato da un Europa che ha ceduto la leader-
ship economica, politica, e dunque spirituale, alle superpotenze pro-
tagoniste della civiltà tecnica, Stati Uniti e Unione Sovietica.
Le due Guerre Mondiali, in altre parole, aprirono un mondo

[...] in cui l’Europa smise di giocare un ruolo decisivo sul pia-


no del potere come su quello della cultura, un mondo in cui,
accanto alle due superpotenze, cominciarono a imporsi altri co-
lossi demografici e politici extraeuropei, che decretarono la fine
del «concerto europeo» ponendo al centro le loro alleanze, le
loro rivendicazioni e le questioni che, in futuro, sarebbero sta-
te determinanti. Nel frattempo, assumendo una fisionomia tec-
no-scientifica, la rivoluzione industriale diede vita a una società
alimentata da nuove fonti: la procedura tecnica, la cibernetica,
l’automazione. L’interno dell’atomo si aprì liberando forze che
resero possibili le spedizioni cosmonautiche, nonché la creazione
di dispositivi in grado di regolarne con precisione il funziona-
mento. Nello stesso tempo, lo scacco atomico che ne seguì de-
terminò una cristallizzazione della tensione tra le posizioni delle
superpotenze e le loro ideologie50.

Risucchiata dal suo stesso processo di espansione della potenza,


l’Europa genera, dunque, una civiltà tecnica post-europea che, go-
vernata da uno stato essenzialmente e inevitabilmente totale, non
può che minacciare quei diritti umani sorti sul terreno europeo,
universalizzati dalla dichiarazione del 1948 e finalmente ricono-
sciuti come fondamentale norma regolatrice delle relazioni Est-O-
vest dal settimo principio dell’Atto finale di Helsinki del 1975.

50
J. Patočka, Duchovní zaklady zivota v naši době (1969), in Péče o duši (Cura
dell’anima) II, a cura di I. Chvatík e P. Kouba, Oikoymenh, Praga, 1999, pp. 9-28;
tr. it., a cura di R. Paparusso, Fondamenti spirituali della vita contemporanea, in J.
Patočka, Cristianesimo e mondo naturale e altri saggi, a cura di R. Paparusso, Lith-
os, Roma, 2011, pp. 55-83, pp. 57-58.
250 riccardo paparusso

Se, infatti, si ripercorre la storia del dibattito internazionale in-


torno ai diritti umani dagli anni ’50 fino alla Conferenza sulla sicu-
rezza e la cooperazione in Europa (1975), si può constatare come la
loro portata coattiva sia stata continuamente mutilata dalla premi-
nenza della sovranità nazionale ogni volta salvaguardata – a scapito
di un’efficace applicazione dei diritti umani – da entrambe le su-
perpotenze. Queste, in quanto tali, si sono più volte scoperte com-
plici nel prevenire l’affermazione di qualsiasi dimensione giuridica
che ecceda, e minacci, la sovranità degli stati negli affari nazionali.
Nello stesso atto finale di Helsinki, l’impatto del settimo principio
sulla relazione tra gli stati partecipanti sembra essere, precauzio-
nalmente, limitato dal precedente principio di “non-intervento ne-
gli affari interni” promosso da Mosca nel tentativo di garantire agli
stati-partito di area sovietica un margine d’azione, e d’impunità,
più ampio possibile nella repressione del dissenso interno51.
Il paradigma moderno della sovranità statuale che, come direm-
mo con Schmitt52, in quanto tale conduce al totalitarismo contempo-
raneo non può che costituire un freno a qualsiasi operazione di raf-
forzamento giuridico dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
È per questo che la riflessione patočkiana sul movimento Char-
ta 77 affonda le sue radici in una critica all’idea di Stato-Nazione
– che pone in qualche modo il filosofo ceco in comunicazione con
il pensiero federalista – nonché nel ripensamento della categoria
politica di Stato. Conseguentemente, un lavoro sul rapporto tra
Patočka e Charta 77 offre l’occasione per tematizzare la critica pa-
točkiana al regime dello Stato-Nazione e di portare in superficie
l’idea di Stato implicita nel pensiero che Patočka sviluppa nel cor-
so degli anni settanta.

51
Cfr. D. C. Thomas, The Helsinki effect, Princeton University Press, 2001,
Introduction - cap. IV.
52
Cfr, C. Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränit-
ätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf, München & Leipzig, 1921; tr.
it di B. Liverani, La dittatura : dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lot-
ta di classe proletaria, Laterza, Roma-Bari, 1975.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 251

4.6. Il vulnus dello Stato-Nazione. L’esempio ceco

Per mettere a fuoco la posizione che il filosofo ceco assume nei


confronti dello Stato-Nazione è necessario prendere le mosse dal
testo del 1973 intitolato Co jsou Češí? (Cosa sono i Cechi?)53, in cui
Patočka ripercorre la storia della Cechia dall’originaria tribù slava
dei Cechi fino alla costituzione, nel 1918, della prima repubblica
democratica cecoslovacca, che durò fino al 1938, e che dall’anno di
fondazione fino al 1935 fu presieduta da Tomáš Garrigue Masaryk.
Più precisamente, porto l’attenzione al sesto capitolo intitolato
Zrod moderního nacionalismu (Nascita del nazionalismo ceco).
Nel 1973 la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Euro-
pa che – a causa del rafforzamento normativo del rispetto dei diritti
umani – veniva vissuta dai paesi del Patto di Varsavia, e quindi dal
regime Húsak, come una minaccia alla loro sovranità nazionale, è
indicativo che proprio quell’anno Patočka si cimenti in profonde
analisi storiche che confluiscono nel rilevamento del deterioramen-
to politico e spirituale causato dalla genesi dei nazionalismi slavi e,
più in generale,dell’entità europea di Stato-Nazione54.
Attraverso il filtro della storia ceca, Patočka punta il proprio
sguardo all’intera storia europea; di conseguenza, esaminando il
nazionalismo ceco e gli effetti nefasti causati dalla sua sorgenza,
egli analizza lo Stato-Nazione come regime europeo rilevando le
conseguenze negative che quel regime ha determinato per il desti-
no dell’Europa del XX secolo.
Sancendo la fine della Guerra dei Trent’anni (così come della
Guerra degli Ottant’anni) la pace di Westfalia (1648) trasformò
il Sacro Romano Impero in un concerto di stati più o meno in-

53
J. Patočka, Was sind die Tschechen? Kleiner Tatsachenbericht und Erklärung­
sversuch (1973); tr. ceca di V. Jochmann, a cura di J. Sokol, Co jsou Češi?, in Češi
II, a cura di K. Palek e I. Chvatík, Praga, 2006, pp. 255-324.
54
«[...] gli attuali problemi della Cechia sono in gran parte identici ai proble-
mi dell’Europa; e nella misura in cui l’Europa occidentale coincide con il mondo
storico di allora, in Cechia si tenta di risolvere almeno parte dei problemi mondia-
li» (J. Patočka, Co jsou Češi, cit., p. 257).
252 riccardo paparusso

dipendenti, esercitanti, dunque, una quasi piena sovranità terri-


toriale.
In apertura del capitolo che stiamo prendendo in esame, Pa-
točka concentra la sua attenzione su Maria Teresa d’Austria (1717-
1780), la quale operò numerose riforme indirizzate a una centra-
lizzazione del potere sui territori direttamente controllati dagli
Asburgo, tra cui il Regno di Boemia.
«Quando Maria Teresa riuscì a conservare il nucleo della sua ere-
dità, nonostante avesse perduto la ricchezza della Slesia, comprese
decisamente la necessità di convertire questo residuo in un unico
stato moderno»55. In altre parole, mediante una politica di riduzio-
ne dei poteri locali, Maria Teresa contribuì in modo significativo
alla strutturazione dello Stato moderno inteso come Stato dotato di
un’organizzazione estremamente capillare e razionale che consenti-
va allo Stato stesso di esercitare, a partire dal monopolio della forza,
un potere esclusivo su molteplici aspetti della vita della popolazione.
Il nucleo di eredità di cui Patočka parla nel passo sopraccitato,
non è solamente economico, ma fondamentalmente spirituale: il
filosofo ceco sottolinea come la politica di Maria Teresa fosse an-
cora ispirata, in qualche modo, dai principi della Controriforma,
dall’universalismo cristiano cattolico. In altre parole, applicando
le categorie patočkiane, potremmo dire che Maria Teresa governò
l’Impero come un unico stato caratterizzato, in certo senso, dall’e-
sposizione al mistero dell’alterità cristiana. E noi sappiamo come in
tale esposizione Patočka colga il massimo slancio, il perfezionamen-
to del telos dell’Europa, della «cura dell’anima», che nel cristiane-
simo, e quindi nel Sacro Romano Impero, non è più mero dialogo
interiore, individuale, ma apertura alla pluralità della differenza.
Qualcosa, a poco a poco, iniziò a cambiare con la reggenza del figlio
di Maria Teresa, Giuseppe II (1741-1790). Egli proseguì e intensifi-
cò la politica centralista avviata dalla madre, smorzando ogni aspi-
razione nazionalista; tuttavia rigettò «la Controriforma come fonda-
mento spirituale del proprio impero [...]», aprendo «ampiamente le

55
Ivi, p. 301.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 253

porte all’Illuminismo. In questo modo, le aspirazioni spirituali del


tradizionalismo ceco persero il terreno sotto i piedi. Il nuovo Stato
non volle più riconoscere gli organismi storici e i loro contenuto
spirtuale»56. Introiettando l’Illuminismo, l’Impero – e di riflesso lo
Stato ceco – consuma la propria sacralità, centrandosi su una ragio-
ne tecnica57, strumentale, capace di occludere l’apertura all’incalco-
labile alterità del mysterium tremendum. In altre parole, Giuseppe
II avviò un’opera di laicizzazione vertente su quel principio – ori-
ginariamente liberale – di autodeterminazione dell’individuo nella
fede, nei cui rovesci Patočka coglie il germe del radicalismo, della
totalizzazione contemporanea dello Stato.
Ora, proprio l’Illuminismo e il centralismo di Giuseppe II pre-
parano, paradossalmente, la via al sentimento nazionalista imper-
versante nel diciannovesimo secolo.
Riferendosi alla comunità di lingua ceca che nel diciannovesimo
secolo afferma un sentimento di rinascita nazionale, Patočka scri-
ve: «l’impulso alla creazione di questa nuova comunità, di questo
nuovo popolo, fu (positivamente) l’emancipazione illuministica e
(negativamente) il centralismo illuministico».58
Nei popoli dei territori gestiti direttamente dagli Asburgo,
l’esercizio centralista del potere attuato da Giuseppe II suscitò e
fomentò, per reazione, un atteggiamento di rivendicazione di au-
tonomia. Tale regionale desiderio di indipendenza avrà, un seco-
lo più tardi, un punto di riferimento in un elemento del pensiero
illuminista, come quello della libertà del cittadino in cui i liberali
dell’Ottocento, eredi del pensiero illuminista e oppositori della Re-
staurazione, individuarono la guida per l’emancipazione di nazioni
herderianamente concepite come fondate su una comunanza, un’i-
dentità etno-linguistica59.

56
Ibidem
57
Cfr, ivi., p. 304.
58
Ivi, p. 305.
59
Cfr, J. G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, Lip-
sia, 1784-1791; tr. it., a cura di V. Verra, Idee per la filosofia della storia dell’uma-
nità, Laterza, Roma-Bari, 1992.
254 riccardo paparusso

Ora, a causa dell’interna frattura tra popolazione ceca e tede-


sca, in Boemia i tumulti del 1848 furono un insuccesso rispetto a
quanto avvenne in altri territori europei. In ogni caso, proprio in
contrapposizione a quella tedesca, la comunità ceca marcò sempre
più la propria identità nazionale installandola sul proprio elemento
culturale e soprattutto sul proprio ceppo linguistico slavo.
È a partire dall’Illuminismo, scrive Patočka, che i Cechi sono
una «nuova nazione, nel senso che, a differenza di quella vecchia
[...] crea una nuova comunità di pari, che si definisce attraverso la
lingua madre»60.

Continuiamo a leggere Patočka,

Il nazionalismo linguistico, che insieme al Romanticismo si im-


pose dappertutto, trovò nell’Europa centro-orientale un terreno
classico. In Europa occidentale le cose andarono diversamente: in
Francia, per esempio, la lingua era subordinata allo stato e veniva
gestita secondo le direttive di quello. In Austria, invece, sorsero
nazioni che persero le loro proprie strutture statali, ma continua-
rono ad esistere come nazioni: nell’epoca giuseppina i Cechi, i Po-
lacchi, erano parti dell’unica monarchia asburgica (anche più tardi
nell’epoca di von Metternich) così come gli Ungheresi. A ciò ora si
aggiunge lo specifico momento del patriottismo slavo che, insieme
alla definizione linguistica della nazione, deriva da Herder, il qua-
le visse in Russia e tentò di demarcare le «nazioni slave». È sotto
questa prospettiva che nella monarchia vivevano le nazioni slave
e le nazioni non slave. A partire da ciò ebbe origine il contrasto
slavi – non slavi, contrasto che fu trasferito nella sfera della politi-
ca pratica: slavi e contro-slavi. Naturalmente, allora, certe nazioni
divennero fautrici della causa slava e altre si opposero a tale causa.
[...] Come possiamo vedere questo processo di rinascita nazionale
da un punto di vista sociologico61?

Si affermarono, spiega Patočka, due comunità indipendenti, una di


lingua tedesca e l’altra di lingua ceca, che aveva una vasta base, di

60
Ivi, p. 303.
61
Ivi, p. 304.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 255

cui lo strato alto era costituito dall’intellighenzia, ma «a cui man-


cava sia la ricca burocrazia commerciale e industriale, sia l’aristo-
crazia [...]»62.
Tornando indietro di qualche riga, leggiamo:

Il moderno nazionalismo mi sembra proprio, in qualche modo,


un anacronismo, un residuo del passato. Quando si perse la volta
del cristianesimo medievale rimase ciò che lo precedeva: il parti-
colarismo, la nazionalità, la frammentazione dei linguaggi e la tra-
dizione. E poiché la gente non conosceva nulla di più alto tentò,
a partire da ciò in cui erano abituati a vivere, di formare un unico
organismo, direttamente alla fonte dell’umanità.
È vero che, negli eventi fattuali ci troviamo a casa, senza cui non
possiamo vivere: ma com’è possibile poi incontrare gli altri, se esi-
ste solo l’individuale e il casuale, oppure se è solo quello ciò che
abbiamo in comune63?

I nazionalismi del XIX secolo, considerevolmente alimentati, se-


condo la lettura di Patočka, dalla fredda ragione tecnica dell’Il-
luminismo, deprivarono l’Europa di quell’accesso alla trascen-
denza cristiana che lungo il Sacro Romano Impero – secondo la
prospettiva patočkiana – elevava la vita umana rispetto alla mera
cura del proprio elemento biologico e raccoglieva, seppur solo po-
tenzialmente, le differenti identità dei popoli intorno a un elemen-
to universale, comune, embrionalmente comunitario. Essi, allora,
sprofondarono la civiltà europea in una condizione di frammen-
tazione che, alla luce delle categorie patočkiane, chiude l’esistenza
umana nella propria individualità, in una preistorica incapacità di
guardare al di là della dimora, di uscire da sé per riconoscersi, ri-
trovarsi, nell’altro (fuori o dentro i confini nazionali). Portando
l’analisi storico-politica su un piano metafisico-morale, potremmo
dire che il nazionalismo esclusivista64 e l’idea herderiana di nazione

62
J. Patočka, Co jsou Češi, cit., p. 305.
63
Ivi, p. 303.
64
Cfr. A.Carteny, Il micronazionalismo e l’Europa, Edizioni Nuova Cultura,
Roma, 2010, cap. II.
256 riccardo paparusso

fondata sull’identificazione linguistica, atomizzano la vita umana


preparando conseguentemente la via a quel processo di manipo-
lazione e animalizzazione che per Patočka, e Arendt, è peculiare
del totalitarismo, allo Stato Totale che governa, permea, la civiltà
contemporanea osservata dal filosofo boemo, la civiltà tecnica65.
Ora, è proprio alla luce delle analisi fin qui sviluppate, è possi-
bile comprendere la contraddittorietà che caratterizza il rapporto
di Patočka con Masaryk, il padre della patria, il filosofo, l’uomo
che dedicò la sua intera vita politica alla creazione di una Repub-
blica Cecoslovacca indipendente, della quale divenne presidente
nel 1918.
Quella di Masaryk è la personalità filosofica nel cui pensiero e
nella cui azione trova finalizzazione quel movimento di rinascita
nazionale, quel processo di costruzione di una nuova nazione che
individua il suo fattore identitario nella lingua madre. Ma agli oc-
chi di Patočka Masaryk è anche, insieme a Husserl, uno dei due
maggiori filosofi della crisi, un pensatore che ha interamente inve-
stito il proprio cammino filosofico nel rilevamento e nel tentativo
di cura della crisi che affligge la civiltà europea contemporanea.
Se, da un lato, Patočka, non può che guardare a Masaryk come
guida spirituale nella propria riflessione sulla decadenza della mo-
dernità, dall’altro, tuttavia, egli non può che rigettare, per le ragio-
ni sin qui enucleate, il suo nazionalismo filosoficamente fondato
su quel deismo (filtrato dal positivismo) in cui, come sappiamo,
Patočka coglie la radice del livellamento del sacro sul profano e,
conseguentemente, il germe originario della «superciviltà» radica-
le, e della susseguente civiltà tecnicamente totalizzata.

65
Sulla critica di Patočka alla fondazione della nazione sull’identità linguisti-
ca si veda F. Tava, Il rischio della libertà, cit., pp. 199-209. Qui l’autore, lavoran-
do sugli scritti di Patočka raccolti ne Il senso dell’oggi in Cecoslovacchia (Lampug-
nani Nigri, Milano, 1970), ricostruisce la critica che Patočka muove alla concezi-
one della nazione propria di Josef Jungmann – che coglie il fondamento dell’iden-
tità nazionale in un fattore etno- linguistico – attraverso le lenti di Bernard Bolza-
no, il quale propone una concezione socio-politica della nazione.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 257

Come infatti leggiamo in Due studi su Masaryk66, la democrazia


non è compresa da Masaryk

come espressione formale dello Stato, bensì come manifestazione


di una metafisica teista che corrisponde al carattere morale della
realtà umana. Questa metafisica [...] offre, contemporaneamente,
la soluzione della crisi: teologia e teocrazia. È così che Masaryk ri-
assume il comtismo: una fase teocratica, una fase mitica dominata
da una violenza esercitata dall’alto; una fase democratica caratte-
rizzata da un’espressione critico-razionale della scienza e della fi-
losofia. La questione ceca è connessa a quella della crisi mondiale:
[...] la rinascita si afferma grazie alla democrazia, in virtù di quella
disciplinata essenza morale dell’umanità che consiste nell’offrire
agli uomini un’organizzazione politica e che, grazie all’organiz-
zazione e alla comprensione del suo stesso senso, deve favorire
la liberazione, un nuovo ingresso della Nazione all’interno della
storia. [...] La democrazia, l’umanità, il passaggio a un nuovo pe-
riodo organico contraddistinto da crisi e rivoluzione: in tutto ciò
[...] si dimostra l’incongruenza e l’ambivalenza di questa filosofia.
L’incongruenza risiede nel fatto che Masaryk, nonostante tutto il
suo moralismo pratico fondamentale [...], innesta questi concetti
su un’ossatura comtiano-positivista, naturalista67.

Masaryk concepisce la creazione dello Stato democratico ceco-


slovacco non solo come il risultato necessario di un processo di
nazionalizzazione ma, anche, come risposta, democratica, alla
crisi mondiale del suo tempo. Tuttavia, agli occhi di Patočka, il
suo pensiero politico è affetto da un’insanabile discrepanza che
consiste nella fondazione dello Stato-Nazione cecoslovacco su una
filosofia politico-morale – una filosofia nazionale – che, nonostante
verta sul principio di «responsabilità», affonda le sue radici nel
positivismo e, dunque, in quel razionalismo che Patočka identifica,
come sappiamo, con la fonte della decadenza intrinseca alla mo-
dernità, della sua deriva totalitaria. Alla luce delle considerazioni

66
J. Patočka, Dvě studie o Masarykově, in Češi I, a cura di K. Palek e I. Chvatík,
Praga, 2006; tr. it. a cura di R. Paparusso, Due studi su Masaryk, Apes, Roma, 2006.
67
Ivi, pp. 71-72.
258 riccardo paparusso

sul nazionalismo ottocentesco sviluppate nelle pagine precedenti,


sappiamo come l’incongruenza che Patočka individua nel tentativo
masarykiano di filosofia nazionale è proprio costitutiva dell’idea
liberale di nazione che, intrisa di Illuminismo – che nel caso di
Masaryk è filtrato anche da un retaggio positivista – non può che
installarsi su quella ragione tecnico-strumentale che ha trascinato
l’Europa, la civiltà mondiale a una decadenza abissale.

4.7. Per i diritti umani. Lo Stato giusto

Alla luce delle considerazioni elaborate nel precedente paragrafo, è


ragionevole affermare che, nell’economia del pensiero patočkiano,
l’unica strada percorribile per rinascere dalla crisi, per restituire
l’Europa a se stessa, e quindi per assumere il rispetto dei diritti
umani, come volta, orizzonte della civiltà europea e mondiale, sia
ripensare lo Stato al di là della categoria Stato-Nazione, al di là
della sovranità nazionale68. Pensare l’idea di Stato al di là del pa-
radigma, della rigida coincidenza Stato-Nazione, non significa ri-
gettare completamente quel paradigma stesso, bensì garantire allo
Stato-Nazione stesso un fondamento più profondo, una direzio-
ne verso una sfera moralmente più alta rispetto a quella costituita
dall’identità e dalla sovranità che la Nazione – lo Stato – esercita in
nome di questa identità, di quel presunto idem comune.
Per muoverci in questa direzione, prendiamo le mosse da un
passo dei Saggi eretici in cui l’autore, tematizzando la civiltà inca-
tenata alla «forza omnidominatrice»69, e tentando di scorgere una
possibilità di autentico risollevamento, spirituale e politico, dal de-
predamento interiore di cui è vittima l’uomo tecnico, scrive:

68
Per un approfondimento della questione dei diritti umani in Jan Patočka
si consulti, J. R. Mensch, Patočka’s Asubjective Phenomenology: Toward a New
Concept of Human Rights, Verlag Königshausen & Neumann GmbH, Würzburg,
2016.
69
J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, cit. p. 141.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 259

ma la possibilità principale che emerge nella nostra civiltà è


quella, che per la prima volta si presenta nella storia, di un pas-
saggio da un potere casuale a un governo di saggi, a cui appunto
la storia tende. Sarebbe una tragica colpa (e non una disgrazia)
dell’intellighenzia se questa possibilità non venisse compresa e
colta70.

A partire da questo passo, si deve fare immediatamente un salto


indietro al 1972, al già citato Fondamenti spirituali della vita con-
temporanea. Nella parte conclusiva del testo, dopo aver definito
l’uomo post-europeo, l’uomo totalizzato, come uomo in «pericolo
di perdere la sua anima»71, il filosofo boemo scrive:

Nella situazione in cui ci troviamo non possiamo far altro che


tentare di indicare l’orientamento spirituale in grado di neutra-
lizzare la nuova strumentalità del corpo planetario e di giocare il
ruolo di anima planetaria. Questa nuova spiritualità dovrà conte-
nere i germi di una possibile soluzione della conflittualità; di una
conciliazione positiva tra le sostanze storiche che non provochi
né impoverimento né scetticismo. Solo colui che avrà raggiunto
il proprio centro – «l’uomo con l’anima», per usare un’espressio-
ne di Josef Čapek – potrà trovare la pazienza e la moderazione
necessarie a questo scopo. [...] L’uomo con l’anima non è solo
colui che ha sensibilità per l’indigenza, per la manifesta miseria
dell’altro. L’uomo con l’anima sente il segreto essenziale di tutte
le cose72.

L’unica possibilità spirituale di emancipazione, di salvezza, dall’


incantamento della strumentalità risiede nell’uomo capace di cura-
re ancora la propria anima. Conseguentemente, l’unica alternativa
politica alla deriva totalitaria della civiltà tecnica risiede nella fon-
dazione dello Stato sulla «cura dell’anima», nella riconfigurazione
e nell’applicazione dell’idea platonica di Stato aristocratico fonda-
to non sulla sovranità nazionale, bensì su una giustizia (spravedl-

70
Ibidem.
71
J. Patočka, Fondamenti spirituali vita contemporanea, cit., p. 82.
72
Ivi, p. 82-83.
260 riccardo paparusso

nost) che non ha una natura meramente economico-sociale, ma è


moralmente radicata in un prepolitico movimento di solidarietà, di
mutuo soccorso.
Per procedere nel tentativo di portare in superficie la proposta
politica del filosofo ceco, è necessario tematizzare e definire ulte-
riormente la «cura dell’anima».
Nella prospettiva patočkiana, la cura dell’anima è affermazione
di libertà, liberazione rispetto all’alienazione economica e all’estra-
neazione orgiastica, nella misura in cui è «responsabilità» per la
verità, che a sua volta è tale in quanto è assunzione della propria
finitezza, della propria mortalità. Perché? Perché solo nel rischio
della vita, solo nell’esposizione alla morte – e dunque nell’assun-
zione della propria finitezza – si può essere responsabili per la ve-
rità, per la verità dell’essere proprio e delle cose. Riassumendo,
dunque, la «cura dell’anima» coincide con la libertà nella misura
in cui è apertura alla verità di sé. Ora, proprio per indagare più
in profondità la «cura dell’anima» dobbiamo definire meglio la
comprensione di sé. La questione è: in che modo il sé, l’anima,
si manifesta alla comprensione ottenuta mediante la cura che la
vita umana compie nei confronti dell’anima stessa? Mediante la
cura, l’anima si rivela un tutto armonico di parti, di «momenti che
agiscono simultaneamente, di concerto o nell’incontro degli uni
con gli altri»73. Parallelamente lo Stato, che Platone concepisce
analogamente all’anima, è essenzialmente uno scambio di mutuo
soccorso, una comunità che ha la sua essenza nell’armonia tra i
membri che la compongono. Per continuare nella direzione indi-
cata, dobbiamo riflettere sulla divisione del lavoro come l’innesco
della formazione dello Stato platonico; ce ne occupiamo attraverso

73
J. Patočka, Europa und Nach-Europa. Die Nacheuropäische Epoche und ihre
geistigen Probleme (1970-77) J. Patočka, Ketzerische Essais zur Philosophie der
Geschichte und ergänzende Schriften, Ausgewählte Schriften Bd. 2, a cura di K.
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L’Europe et après. L’époque posteuropéenne et ses problèmes spirituels, in L’Europe
après l’Europe, pp. 37-136; p. 115.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 261

la spiegazione che ne dà Patočka in Platonová peče o duši a sprave-


dlivý stat (La cura dell’anima platonica e lo stato giusto), un volu-
me che l’Archivio Jan Patočka di Praga ha pubblicato nel 2012 a
partire dalla registrazione di un corso che il filosofo ceco professò
nell’anno accademico 1971/1972. Mi soffermerò sulla quattordice-
sima lezione del 21 Marzo 1972 – un anno prima l’inizio dei lavori
della Conferenza di Helsinki – vertente sul secondo libro de La
Repubblica e intitolata Il discorso di Glaucone e Adimanto. L’origi-
ne ideale della comunità.
Alla base del processo che conduce alla vita associata, Platone
coglie, innanzitutto, la consapevolezza da parte di ciascun indivi-
duo della propria incapacità di essere autosufficiente. Affinché,
all’interno della comunità, gli uomini riescano a provvedere a tutte
le loro necessità, essi devono curarsi di svolgere bene la propria
mansione, il proprio compito. L’origine della polis, dunque, deve
essere cercata nella nudità della vita, e individuata nell’urgenza di
soddisfarne il bisogno. Conseguentemente, la comunità, lo Stato,
non può che fondarsi sulla divisione del lavoro necessaria all’appa-
gamento dei bisogni di tutti.
Ora, individuare il fondamento dello Stato nella divisione del
lavoro non significa, in questa prospettiva, ridurre il politico al suo
mero sostrato biologico. Infatti, proprio nella misura in cui lo Stato
affonda le sue radici nella divisione del lavoro, esso trova il suo
fondamento ultimo in una dimensione più profonda rispetto alla
pienezza della soddisfazione del bisogno, la giustizia, o meglio, la
sorgente originaria della giustizia.
È opportuno leggere qualche riga dalle pagine che stiamo pren-
dendo in esame:

[...] prima che la pretenziosità possa intervenire in qualche modo,


per appropriarsi di qualcosa, per commettere l’ingiustizia, il torto,
deve esserci prima qualcosa d’altro, che permetta all’essere umano
di aiutarsi, di aiutarsi nella sua situazione di indigenza. Già nella
sua particolarità, nella sua privatezza, l’uomo è qualcosa di comu-
ne. [...]. L’uomo non può agire, non può ad esempio lavorare, se
262 riccardo paparusso

non fosse contemporaneamente particolare e comune. In questa


determinazione esteriore si manifesta qualcosa come la ragione74.

Gli esseri umani, nella loro originaria condizione di indigenza, or-


ganizzano il loro lavoro prestandosi mutuo soccorso perché sono
mossi da qualcosa di più profondo rispetto all’esigenza di soddi-
sfare i bisogni individuali e collettivi. Parliamo della «giustizia»
(spravedlnost) che, nella concezione platonico-socratica declinata
da Patočka, non risulta dalla forza, ma è solidarietà, armonia che
costituisce la fonte della forza. In quanto tale, essa è rinuncia di
sé nella «dedizione» all’altro – all’assolutamente altro – che si ma-
nifesta proprio nella miseria, nell’indigenza originariamente costi-
tutiva dell’essere umano. Infatti, secondo la lettura che il filosofo
ceco offre de Il politico in Europa e post-Europa, i saggi, coloro che
reggono lo Stato – i quali sono dotati dello sguardo (nahlednutí)
nel giusto in sé, nel bene comune – possono educare i lavoratori/
produttori alla cura dell’anima solo in virtù di una conversione in-
condizionata che li renda capaci di rinunciare al possesso, all’accu-
mulo, di beni esteriori75.
Ora, è significativo, a mio avviso, che nello svolgere queste ana-
lisi, Patočka scelga di confrontarsi con Adam Smith, il quale ne La
ricchezza delle Nazioni76, come il filosofo ceco sottolinea, pone la
divisione del lavoro non come fondamento dello Stato, ma della co-
munità che è già nello Stato, in uno Stato già costituito, già fondato
su se stesso, sulla propria sovranità, sulla tutela della Nazione e della
sua identità. Ne deduciamo, allora, che Patočka rifletta sull’origine
platonica dello Stato proprio in una prospettiva critica nei confron-
ti dell’ideologia liberale dello Stato-Nazione. Potremmo dire che, in

74
J. Patočka, Platonova péce o duši a spravedlivý stát [1971/72] (La cura dell’ani-
ma platonica e lo Stato giusto), a cura di J. Polívka, Praga, Oikoymenh, 2012, p. 197.
75
Cfr, J. Patočka, L’Europe et après, cit., p. 115; in L’Europe après l’Europe,
pp. 37-136; p. 126.
76
A. Smith, An Inquiery into the Nature and Cuases of the Wealth of Nations,
Londra, 1776; tr. it. di F. Bartoli, C. Camporesi e S. Caruso, La ricchezza delle na-
zioni, Newton Compton, Roma, 2013; libro I, cap. I e II.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 263

contrappunto al nazionalismo liberale – sorgente sotterranea del ra-


dicalismo totalitario – il filosofo boemo, mediante le lenti di Plato-
ne, propone di ripensare la fondazione dello Stato sulla «giustizia»
che, anticipando la forza, precede e condiziona la sovranità dello
Stato e il diritto che esso crea proprio attraverso l’uso, eccezionale,
della forza stessa77. Dal lavoro fenomenologico-morale che Patočka
compie su Platone, emerge la proposta politica consistente in un’i-
dea di Stato che non si incardini, e non si chiuda, sulla sovranità
nazionale, bensì su una giustizia naturale che anticipi la sovranità,
sfuggendo al suo monopolio, così da immunizzare le vite governate
dallo Stato dalla sua stessa tendenza dispotica, totalizzante.
Solo in un ordinamento statuale così concepito si può garantire
priorità al riconoscimento dei diritti umani come istanza giuridica
normativa rispetto all’interesse nazionale, che – parlando in una pro-
spettiva spinelliana – non è mai autentico interesse del popolo, ma
di gruppi monopolistici che sulla nazione esercitano il potere, in una
relazione di complicità o subalternità con altre potenze statali78.
È utile, in questa prospettiva, tornare a leggere qualche riga dal
testo citato nell’apertura del presente saggio, Che cos’è e cosa non
è Charta 77.

77
Cfr, M. Weber, Politik als Beruf, 1919; tr. it. di F. Tuccari, introduzine di M.
Cacciari, La politica come professione, Mondadori, Milano, 2009.
La parola giustizia (spravedlnost) è un lemma che ricorre continuamente nei
documenti di Charta 77. Nel leggerli, si può soffermare l’attenzione sulla comunica-
zione del 14 Novembre 1983, in cui Jan Kozlik, Marie Rut Křižkova e Anna Marva-
nova esprimono un’idea di giustizia come virtù che eleva il cittadino al di sopra del
mero interesse della nazione. Questa, in ogni caso, rappresenta uno dei destinatari
degli atti di giustizia e dunque si erige sul terreno di un ordine virtuoso sconfina-
to, i cui limiti si estendono e si diradano fino alle future generazioni dell’umanità.
«Affinché tale azione abbia una minima speranza di successo, affinché non sia
un «dialogo tra sordi», deve esserci tra i suoi partecipanti un qualcosa di comune.
Quel qualcosa di comune deve essere il rispetto del diritto, della giustizia e del-
la verità, della responsabilità di ogni governo nei confronti della propria nazione
e di tutta l’umanità, delle presenti come delle future generazioni» (B. Císařovská,
V. Prečan (a cura di), Charta 77: Dokumenty: Soubor tří knih, Ústav pro soudobé
dějiny, AV ČR, Praga, 2007, p. 560).
78
Cfr, A. Spinelli, Manifesto dei federalisti Europei, Guanda, Parma, 1957,
cap. II.
264 riccardo paparusso

Affinché l’umanità si sviluppi in armonia con le potenzialità della


ragione tecnica e strumentale, rendendo possibile il progresso del-
la scienza e del lavoro, deve persuadersi della necessità di una serie
di principi che possiamo definire “sacri”: sempre vincolanti per
tutti e in grado di definire i propri fini. In altre parole: c’è bisogno
di qualcosa di essenzialmente non-tecnologico, di non meramente
mediato; occorre una morale in nessun caso capziosa e occasionale,
ma assoluta. [...] Il concetto dei diritti umani non consiste in altro
se non nella convinzione che anche gli stati e le società debbano
sottostare, nel loro complesso, alla supremazia del sentire morale;
che anch’essi debbano rispettare qualcosa di incondizionato che le
sopravanzi, qualcosa che sia anche per loro necessariamente sacro
(intoccabile) e che debbano, con il loro potere di creare e approva-
re norme giuridiche, essere disposti a contribuire a questo scopo.
Charta 77 è un’espressione di questa convinzione, una manifesta-
zione della gioia dei cittadini per il fatto che il loro Stato, con la
firma grazie alla quale i diritti dell’uomo sono stati affermati e ra-
tificati nella legislazione cecoslovacca, si faccia sostenitore di un
principio morale più elevato di qualsiasi questione politica79.

La «giustizia» su cui Platone fonda lo Stato si definisce, in Pa-


točka, come sfera dei diritti umani che si staglia alle spalle dell’e-
dificio statuale come sfondo sacro che ne ispira l’attività giuridica.
Ciò che nel passo succitato risulta decisivo è la natura sacra che
viene attribuita alla volta dei diritti umani, quindi alla «giustizia».
Tale fugace riferimento al sacro ci permette di avanzare l’ipotesi
secondo cui lo Stato concepito da Patočka trovi la sua chiave di
volta in una giustizia trascendente, divina, che si manifesta, ap-
punto, nella costellazione dei diritti umani. Come se Patočka ten-
tasse di mettere fuori circuito il meccanismo tecnico dello Stato
totale – la cui originaria scaturigine consiste nella neutralizzazio-
ne razionale dell’insondabilità del Dio persona – mediante una
traduzione politica del gesto kenotico con cui Paolo subordina la
legge umana alla giustizia divina che, in quanto tale, condiziona
la giustizia umana rimanendo incomparabile al diritto umano, ir-

79
J. Patočka, Che cos’è e che cosa non è Charta 77, cit., p. 173-174.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 265

riducibile alla sua logica razionale, calcolante80. Così come Paolo


sottomette la giustizia umana a quella di Dio, Patočka condiziona
la legge positiva statuale ad una giustizia divina che si esprime
nell’architettura naturale dei diritti umani, che è incondizionata
rispetto alla ragione tecnico-strumentale che anima lo Stato con-
temporaneo.
La riflessione patočkiana sulla categoria moderna di Stato e sul
suo processo di progressiva monopolizzazione (che sbocca nella
sua contemporanea totalizzazione democratico-totalitaria) è inti-
mamente intrecciata alla sua filosofia della religione, o meglio al
suo rapporto umano e speculativo con il Cristianesimo. Il pensiero
politico di Jan Patočka affiora dalla sua filosofia cristiana, dalla sua
riflessione sul sacrificio, sulla croce, e sul suo mistero, sulla sua fol-
lia. Dunque può svilupparsi e strutturarsi solo confrontandosi con
tali categorie religiose.
La ragione europea intraprende il percorso di inarrestabile e ir-
reversibile totalizzazione a partire dalla seconda metà del XVII sec.,
non appena il pensiero liberale inglese, proponendosi come erede e
garante della teologia razionale, comprende Dio come oggetto di co-
noscenza conforme a criteri innati nella natura, nella ragione umana.
Grazie a questa mossa gnoseologica il logos neutralizza (o pre-
sume di neutralizzare) l’ultimo ostacolo alla sua tensione univer-
salizzante: il residuo misterico, segreto, serbato nel ventre del Cri-
stianesimo. Liberata finalmente da ogni freno inibitore, la ragione
e il potere sovrano dello Stato prendono lo slancio necessario per
immergersi fino agli strati più profondi della vita umana.
Ora è per questo che, nell’economia del pensiero patočkiano,
la proposta di rinviare la legge sovrana – positiva – dello Stato al
giudizio di un diritto universale – naturale – deve essere intrinse-
camente nutrita e sostenuta da una rinnovata apertura al mistero e
allo scandalo del Cristianesimo.

80
Cfr, K. Barth, Der Römerbrief, Evangelischer Verlag Zollikon, Zürich, 1954;
trad. it. a cura di G. Miegge, L’Epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano, 2009, cap.
II e III.
266 riccardo paparusso

Il tentativo politico di rinviare la legge posta dal potere sovrano


– il diritto positivo – ad una dimensione giuridica sovra-statuale
– naturale – non può che essere intrinsecamente alimentato e con-
tinuamente sostenuto da una rinnovata apertura al sacro, quella
pre-tetica profondità irrazionale in cui la vita cristiana affonda le
sue radici.
In altre parole, se il movimento totalizzante della coppia ragio-
ne-sovranità (ragion-di-stato) riceve impulso decisivo dal dirada-
mento teologico-liberale del mistero, del negativo divino, la disob-
bedienza civile, che guarda alla costellazione del diritto universale,
trova intimamente ispirazione nel gesto kenotico – aneconomico
– eseguito da Paolo nella Lettera ai Romani. Più precisamente, il
dissenso – come quello dei chartisti – diretto contro la legge so-
vrana, che giustifica la perpetrazione della violazione della libertà
umana, può, in questa prospettiva patočkiana, trovare la sua fonte
di nutrimento nel movimento attraverso cui Paolo sposta la causa
della giustificazione dall’esecuzione dell’opera conforme alla legge,
alla fede in una volontà divina che indebitamente – diremmo con
Sant’Agostino – dona all’empio la grazia81.
Il rinvio della legge sovrana alla dimensione sovra-statutale,
assoluta, dei diritti umani può trovare, in tale prospettiva, il suo
impulso decisivo nell’atto mediante cui Paolo svuota la legge della
sua presunta potenza giustificatrice, volgendola e condizionandola
all’assoluta giustizia ricevuta per fede e realizzata per grazia che
si manifesta non come oggetto, come idea, ma come persona alla
singolarità di ogni persona82.

81
Sull’idea di “grazia indebita” in Agostino si consulti G. Lettieri, L’altro
Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi del De
doctrina christiana, Morcelliana, Brescia, 2002.
82
Cfr, Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 3, 21; 22; 23; 24.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 267

4.8. Uno sguardo patočkiano sui Trattati di Roma

In via di conclusione, ritengo interessante, nonché necessario ai


fini della ricerca in cui il presente saggio si inserisce, proporre una
riflessione sui Trattati di Roma – di cui quest’anno ricorre il ses-
santesimo anniversario – alla luce del movimento di pensiero pa-
točkiano fin qui sviluppato.
Si tratta qui di tentare di configurare, sulla scorta del percorso
sin qui compiuto, una possibile posizione patočkiana sui trattati che
hanno istituito la Comunità Economica Europea. È utile a tal propo-
sito citare un ulteriore passo da Che cos’è e cosa non è Charta 77, in
cui l’autore, nel continuare a definire i diritti umani come elementi
di un’orbita morale superiore e irriducibile rispetto alla legge degli
Stati, offre un breve ma netto giudizio sulla natura dei trattati inter-
nazionali:

I firmatati di Charta 77 ritengono, perciò, che questo atto superi


di gran lunga, per sua rilevanza, i consueti trattati internazionali, i
quali sono materia di opportunità statale (opportunità di potere);
entra qui, infatti, in gioco una componente morale e spirituale83.

È indubbio che i Trattati di Roma, così come ovviamente l’Atto


finale di Helsinki, rappresentino, anche se solo parzialmente, un
punto di riferimento per l’idea patočkiana di Stato che condizioni
la propria sovranità ad una struttura giuridica articolata a partire
dall’assoluta sacralità dei diritti umani.
Sancendo la libera circolazione dei lavoratori in tutti gli Sta-
ti membri, la libertà di stabilimento, la parità tra donna e uomo
in ambito lavorativo, nonché la libertà di accesso alle attività non
lavorative, i Trattati di Roma danno impulso al principio della libe-
ra circolazione delle persone e dunque all’esercizio dei diritti84, di
pari diritti, di diritti inalienabili, umani.

83
J. Patočka, Che cos’è e cosa non è Charta 77, cit., p. 175.
84
Cfr, G. Tesauro, Il ruolo della corte di giustizia nella tutela dei diritti fondamen-
tali e il parere negativo sull’adesione alla CEDU, in A. Tizzano, Verso i sessant’anni
268 riccardo paparusso

Se si entra nel campo giuridico attraverso cui si accede alla di-


mensione politica sovranazionale, si comprende come sia lo Stato,
nell’esercizio della sua sovranità, ad agire, insieme ad altri Stati,
come soggetto costituente dell’ordinamento internazionale. Sono gli
Stati sovrani le persone giuridiche che possono agire sulla scena del
diritto internazionale, che è una materia su cui ogni singolo Stato
esercita, sul proprio territorio, completa sovranità. Sul suo territorio,
lo Stato, che già detiene l’esclusività sulla creazione del diritto inter-
no, detiene il monopolio della relazione giuridica internazionale85.
Potremmo dire, allora, che nel campo del diritto internazionale le
persone si fondono nell’unica persona giuridica rappresentata dallo
Stato sovrano. È per questo che, in un’ottica patočkiana, i Trattati
di Roma, così come tutti i trattati internazionali, pur conducendo a
una realtà sovranazionale, sono inevitabilmente «materia di oppor-
tunità statale (opportunità di potere)» e corroborano proprio quella
sovranità nazionale che invece, secondo la proposta interpretativa
qui proposta, Patočka ci invita a ridimensionare, condizionandola a
una giustizia assoluta rispetto a ogni fattore politico.
In particolare, i Trattati di Roma, prediligono un approccio
funzionale rispetto a quello federalista orientato alla creazione
di un’unione politica: la Comunità economica europea risponde,
quindi, a un’idea di integrazione «di carattere orizzontale, allar-
gata, in cui le istituzioni sovranazionali esistono solo in funzione
dell’organizzazione e della gestione del mercato»86.
Assumendo uno sguardo patočkiano, si potrebbe concludere
che i trattati del 1957 contribuiscono a quella trasfigurazione del
fondamento spirituale europeo – «la responsabilità» – in quella po-
tenza tecnico-economica che costituisce il cardine ideale del mondo
post-europeo, dominato da una statualità essenzialmente totale.

dei Trattati di Roma. Stato e prospettive dell’Unione Europea, G. Giappichelli Edi-


tore, Torino, 2016, pp. 93-113, pp. 94-95.
85
Cfr, R. Bin, P. Caretti, Profili costituzionali dell’Unione europea, Il Mulino,
Bologna, 2008, pp. 33-35.
86
D. Preda (a cura di), Avanti adagio. I trattati di Roma e l’Unità Europea, Ce-
dam, Padova, 2013, p. 2.
jan patočka. charta 77 e il problema dello stato 269

4.9. Bibliografia

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5. Volti del dissenso: il percorso di Karel Kosík
tra Primavera di Praga e Charta 77
Francesco Tava

Il rapporto tra lo spazio europeo e le svariate forme di dissenso


politico che hanno animato la sua storia recente è intenso quanto
complesso. Intenso, perché la storia europea è descrivibile come un
susseguirsi di tentativi volti a stabilire un’egemonia continentale e,
di conseguenza, mondiale. A ciascuno di questi tentativi sono corri-
sposte reazioni contrarie di opposizione e dissenso, provenienti da
forze politiche concorrenti, ma anche da masse popolari, individui
e gruppi organizzati, insofferenti all’idea di essere strumentalizzati
al fine di servire obbiettivi altrui. Rapporto anche complesso, quel-
lo tra Europa e dissenso, perché la stessa definizione di “dissenso”
risulta problematica. “Il dissenso politico è una forma di protesta
contro specifiche pratiche e decisioni politiche, o anche contro il
sistema e la cultura politica in generale. Esso corrisponde a ogni
azione finalizzata a un cambiamento politico, che operi al di fuori
dei comuni processi decisionali [...]. Il dissenso mette alla prova le
forme costituite di comunicazione politica e può essere individuale
o collettivo, spontaneo o organizzato”.1 Così il filosofo del diritto
Jiří Přibáň ha tentato di fissare un concetto di per sé sfuggente
e connotato più da elementi negativi che positivi. Sappiamo ciò

1
J. Příbáň, Political Dissent, in Encyclopedia of Law & Society: American and
Global Perspectives, a cura di D.S. Clark. Sage Publications, Los Angeles CA,
2007, p. 1131. Dello stesso autore, si veda su questo argomento anche J. Příbáň,
Political Dissent, Human Rights, and Legal Transformations: Communist and
Post-Communist Experiences, in “East European Politics and Societies”, vol. 19,
n. 4, 2005, pp. 553-572.
418 note biografiche

Viviana Pansa, dopo la laurea in Filosofia a Torino, ha conseguito


il titolo di Dottore di ricerca in Storia delle Dottrine Politiche e
Filosofia della Politica presso il Dipartimento di Studi Politici della
Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Sapienza, con una tesi
sul pensiero politico di Jürgen Habermas. All’Università di Fran-
coforte ha seguito le lezioni di Rainer Forst, allievo di Habermas e
della terza generazione della Scuola di Francoforte. Lavora come
giornalista, si occupa in particolare migrazioni, diritti umani e in-
tercultura.

Riccardo Paparusso è professore incaricato presso la Facoltà di Fi-


losofia della Pontificia Università San Tommaso d’Aquino – Ange-
licum, dove insegna storia della filosofia contemporanea. Insegna
inoltre filosofia e teoria della conoscenza presso la Rome Interna-
tional School. Dal 2012 collabora con l’Istituto di studi politici San
Pio V. È specialista del pensiero di Jan Patočka. Tra i suoi ultimi
saggi: L’animale ek-statico. Tracce di una fenomenologia patočkiana
del vivente (2017); The End of History and After: Rethinking Ko-
jève and Patočka on the idea of Post-History (2016). L’ultimo libro
da lui tradotto e curato è J. Patočka, Due studi su Masaryk, Apes,
2014 (da un progetto coordinato da Benedetto Coccia).

Francesco Tava è Senior Lecturer in Philosophy presso la Uni-


versity of the West of England, Bristol (UK). I suoi principali in-
teressi riguardano la filosofia morale e politica, la fenomenologia
e la storia della filosofia. Tra le sue pubblicazioni più recenti, The
Risk of Freedom: Ethics, Phenomenology and Politics in Jan Patočka
(London-New York, 2015); Thinking after Europe: Jan Patočka and
Politics (London-New York, 2016); Phenomenology and the Idea
of Europe (London, 2017). Sta attualmente lavorando a un nuovo
progetto di ricerca sull’idea di solidarietà politica nel contesto eu-
ropeo contemporaneo.
Istituto di Studi Politici “S. Pio V”

istituto
di studi
politici

La ricorrenza dei sessant’anni della firma dei Trattati di Roma è stata per “s. pio v”
roma

l’Istituto di Studi Politici S. Pio V l’occasione per avviare una serie di ri-
flessioni sul processo, avviato con la firma di quei Trattati, che ha condotto
alla realizzazione dell’attuale Unione Europea. Le condizioni geopolitiche
in essere nel 1957 hanno fortemente condizionato la nascita della futu-
L’Europa di Charta 77
ra Unione, confinandola, inizialmente, al di qua della “cortina di ferro” e
costringendola a successivi “allargamenti ad est” all’indomani della caduta a cura di
del Muro di Berlino. La connotazione squisitamente occidentale del primo

l’europa di charta 77
nucleo dell’Unione ci ha spinto ad interrogarci su come fosse percepito, al Benedetto Coccia
di là del muro, il progressivo processo di integrazione europea e abbiamo
preferito farlo attraverso lo sguardo e la riflessione di quello che in occidente
veniva chiamato “dissenso”. Come caso di studio abbiamo scelto la Ceco-
slovacchia, spinti dalla ricorrenza del quarantesimo anniversario sia della
diffusione della dichiarazione costitutiva di Charta 77 che della morte di Jan
Patočka, uno dei firmatari e ispiratori dell’iniziativa.
Benedetto Coccia è Primo Ricercatore dell’Istituto di Studi Politici S. Pio V presso il qua-
le è Coordinatore scientifico dell’Area Sociale, Umanistica e Linguistica. Ha conseguito il

a cura di benedetto coccia


Dottorato di Ricerca in Storia Contemporanea presso l’Università di Roma “La Sapienza”.
È autore di numerosi saggi, articoli e recensioni.

€ 25,00 i.i.

Editrice Apes 2017

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