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La questione tibetana
Nel 1959, dopo anni di lenta penetrazione, l'Esercito Popolare Cinese di Mao occupò
il Tibet: un'occupazione che si volle far passare come "liberazione", ma che in realtà è
stata condotta con un'estrema violenza fisica e morale nei confronti del pacifico
popolo tibetano, al solo scopo di annettersi un territorio di importanza strategica.
Durante gli anni della "rivoluzione culturale", furono distrutti quasi tutti i seimila
monasteri disseminati sul territorio tibetano, insieme ai testi sacri ed alle opere d'arte
lì conservate da secoli. I monaci e le monache sono stati arrestati, uccisi, torturati o
costretti a rinunciare alla vita monastica. Anche la popolazione laica ha subito ogni
sorta di violenza, allora come oggi.
Ognuno dei diritti elencati nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, viene
puntualmente disatteso.
Il dramma ambientale
Anche l'ambiente, fino a 50 anni fa totalmente incontaminato, sta subendo senza
tregua una sistematica distruzione: le poche foreste vergini sono state decimate e
molte montagne ormai prive di sostegno franano a valle annientando spesso i pochi
campi coltivati e i rari pascoli per gli yak che rappresentano unica fonte di
sopravvivenza per alcune vecchie famiglie nomadi tibetane.
Vaste aree disabitate sono diventate discariche per scorie di ogni tipo, anche nucleari,
provenienti da tutto il mondo. Molti animali, alcuni rarissimi, sono stati sterminati e
sono destinati all'estinzione.
Lhasa ha perso tutto il suo millenario fascino, è divenuta una città disordinata e
caotica, il Potala, la residenza invernale dei Dalai Lama, è stato ridotto a curiosità per
turisti e trasformato in museo...
Circa 135.000 tibetani sono riusciti a scappare, a piedi o con mezzi di fortuna,
attraversando gli altissimi valichi himalayani, e sono stati accolti come profughi
dall'India e dal Nepal. Sua Santità il Dalai Lama, premio Nobel per la Pace nel 1989,
vive a Dharamsala, in India, sin dal 1959, dove cerca di mantenere viva la cultura e la
pacifica filosofia tibetana. I profughi tibetani continuano a scappare dalla loro terra
per sfuggire alle persecuzioni religiose e alle insostenibili condizioni di vita imposte
dal governo cinese. Si rifugiano nei campi profughi, allestiti in località
geograficamente e climaticamente molto diverse da quelle originarie e spesso si
ammalano e muoiono per malattie a loro sconosciute, come malaria e tubercolosi,
aggravate anche dalla denutrizione. Oggi molte organizzazioni stanno alleviando le
sofferenze di questo popolo pacifico e fiero, che sopporta con grande dignità la
tragedia che li ha colpiti, ma c'è ancora molto da fare: alcuni campi profughi sorgono
in località isolate, spesso sconvolte da calamità naturali. In questi luoghi ammalarsi o
procurarsi una frattura vuol dire rischiare di morire, per la mancanza di ospedali ed
ambulanze.