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Questa riflessione sullo sport non nasconde una modesta ambizione: quella di rendere meno

distanti e più capaci di dialogo due sistemi culturali. Da un lato, l'universo degli sportivi; dall'altro,
quello dei sociologi e degli studiosi di scienze sociali. I primi tendono a una rappresentazione della
propria esperienza come qualcosa di sostanzialmente separato dalle trasformazioni della società.
Tendono, cioè, a una forma di autoreferenzialità che - per complesse ragioni di ordine storico e
culturale - sembra particolar- mente accentuata nel caso italiano. Senza accorgersi di rinunciare,
così, ai preziosi strumenti di conoscenza e di intervento che la ricerca sociale, anche nella sua
strumentazione empirica, può mettere a loro disposizione. E, soprattutto, senza avvedersi di
abdicare a un ruolo importante: quello di rivendicare fino in fondo, sul terreno della cultura
collettiva, le ragioni dello sport come movimento e come diritto di cittadinanza.
I secondi stentano ancora a liberarsi da una rappresentazione ancillare dello sport, inteso di volta
in volta come fatto puramente commerciale, legato agli umori della cultura di massa, oppure come
esperienza del tutto privata, relegata ala sfera dele opzioni personali e di scarso interesse
scientifico. Una visione inconsapevolmente aristocratica, che impedisce ai ricercatori di utilizzare lo
sport - fenomeno assai più differenziato e denso di implicazioni sociologiche di quanto non appaia
all'osservazione accademica - come uno straordinario sensore del mutamento. Il tentativo è
dunque di offrire ai cittadini dello sport - a cominciare da chi frequentai corsi universitari di Scienze
motorie un panorama sintetico della produzione scientifica sul tema e di selezionare alcune
questioni nevralgiche che incrociano e condizionano lo sviluppo dei sistemi sportivi
contemporanei. Per questo - dopo una rassegna sui costrutti teorici e una rapida analisi sul nesso
nevralgico fra sport e modernità - ci si occuperà, nella seconda parte del volume, di tematiche
come l'ambiente, la rappresentazione dello spazio e del tempo, li corpo, la tecnologia e la
globalizzazione. Concentrandosi, poi, sule due principali sfide ambientali che stanno davanti alo
sport come fenomeno della modernità matura: la rivoluzione dei mezzi di comunicazione di massa
e la riforma dello Stato sociale. Ai cultori, o ai semplici curiosi di scienze sociali, si cercherà, invece,
di offrire esempi dele suggestioni e delle opportunità di analisi a largo raggio che possono venire
da un approccio non estemporaneo e non pregiudiziale ala tematica sportiva. Un approccio
capace, cioè, di comprendere le articolazioni, le contaminazioni, le trasformazioni di paradigma
indotte dalla implosione del modello industrialistico e produttivi stico che aveva ispirato al prima
stagione della sportivizzazione. In un certo senso, li volume rappresenta un primo, provvisorio
bilancio del lavoro collegiale avviato, già agli inizi degli ani Novanta, con l'esperienza del laboratorio
Sport & Loisir preso li Dipartimento di Sociologia di Roma “La Sapienza". Un'esperienza che ho
cercato di trasferire nella pratica didattica del Corso di laurea ni Scienze motorie dell'Università di
Cassino e nell'insegnamento di Sociologia del mutamento da me ricoperto preso al Facoltà di
Lettere e Filosofia. Il mio ringraziamento va, pertanto, a tutti i colleghi ei collaboratori che, prima a
Roma e poi a Cassino, hanno favorito e accompagnato questo itinerario of record rispetto ala
tradizione accademica. Sono particolarmente grato, inoltre, agli amici Daniela Rossi, Giulio
Bizzaglia, Marco Geri e Pippo Russo per i consigli, i suggerimenti, le segnalazioni bibliografiche e la
pazienza dimostrata nell'esercitare l'insostituibile funzione di "interfaccia" nelle diverse fasi di
elabora- zione del testo. A Teresa Giacobbi debbo li prezioso supporto tecnico che mi ha consentito
di produrre più speditamente apparati bibliografici e grafici. All'unione italiana sport per tutti,
infine, va la mia riconoscenza per aver fornito alla riflessione teorica un appassionante e concreto
retroterra di esperienza. Roma dicembre 2000.
INTRODUZIONE
Lo sport del Novecento ha rappresentato un fenomeno socialmente ingombrante e
sociologicamente sommerso. È stato una delle principali, forse la principale, forma di
intrattenimento per miliardi di spettatori che in tutto il pianeta hanno popolato stadi, impianti,
strutture specializzate o ambienti all'aria aperta per partecipare di una passione, di un'emozione,
di una mitologia collettiva. Spettatori fisicamente, spesso fragorosamente presenti ai bordi di un
campo e poi, con lo sviluppo delle comunicazioni di massa, sterminato pubblico dei media.
Pubblico radiofonico, cinematografico, televisivo e infine telematico che attorno alo sport, ai suoi
simboli, ai suoi campioni, ha vissuto esperienze eccitanti, talvolta irripetibili, sviluppando processi
d’identificazione e persino costruendo appartenenze socialmente significative. Ma anche esercito
di appassionati che, nelle forme più diverse e con differenti tassi di coinvolgimento,
quell'esperienza hanno voluto praticare direttamente. Trovando forse in essa, nella reiterazione di
un gesto arcaico - come il correre, il saltare, il nuotare o il lanciare - via via disciplinato in codici,
regole del gioco, imperativi tecnici, una risposta emozionalmente densa a bisogni che altre
manifestazioni della vita sociale non riescono a soddisfare con pari capacità espressiva. Questa
tensione fra le ragioni dell'emozione e quelle della regolazione, imposta dalla logica tecnica del
competere, è elemento essenziale del fascino e della irrisolta contraddizione dell'esperienza
sportiva. Insieme, li carattere di opportunità aperta ai più diversi vissuti - da semplice
intrattenimento a ragione di vita, da spettacolo fruito passivamente a rigorosa disciplina del sé -
enfatizza l'ambiguità di fondo del fenomeno. È forse questa natura anfibia che
spiega, almeno ni parte, come lo sport rappresenti un fenomeno indocile, sfuggente, non
facilmente addomesticabile dalle tradizionali categorie analitiche dele scienze sociali.
Se a ciò aggiungiamo l'eredità di una cultura accademica che ha vissuto a lungo con
disorientamento, e persino con fastidio, li rapporto con le varie manifestazioni della disprezzata
cultura di massa, cominciamo a comprendere li paradosso per cui, sino a pochi anni fa, un
fenomeno così ingombrante risultava tanto privo di interesse e di visibilità agli occhi di competenze
scientifiche non strettamente tecnico-strumentali. Materia da fisiologi e biomeccanici, poco
consigliabile agli studiosi di scienze sociali, per i quali continuava a rappresentare una specie di
continente sommerso. Eppure si calcola che ni un Paese come l'Italia l'indotto commerciale dello
sport abbia movimentato nel 2000 oltre sessantamila miliardi di lire. Vale adire che, in termini di
fatturato, lo sport costituirebbe li quinto comparto produttivo del Paese, davanti a settori
tradizionali del made in Italy, come li tessile o l'abbigliamento. Fra li luglio 1998 e li giugno 19 el reti
televisive a diffusione nazionale hanno trasmesso qualcosa come 1.971 ore di trasmissioni
dedicate il solo calcio. Un immaginario spettatore che avesse seguito tutto il calcio trasmesso in VT
sulle reti nazionali avrebbe trascorso 82 giorni filati seduto davanti al video. Venticinque milioni
d'italiani lo hanno seguito con maggiore o minore assiduità, ma con un tasso complessivo di
fedeltà che nessun altro tipo di programma televisivo ha potuto vantare. Più di trentasei milioni di
italiani - quasi due terzi della popolazione del Paese - praticherebbero, secondo ISTAT (Multiscopo,
1998), qualche forma di attività fisico-motoria. Di questi, oltre quindici milioni con modalità che
possiamo definire propriamente sportive. Cifre che parlano da sé, rendendo stridente li contrasto
fra le dimensioni culturali, economiche e demografiche del fenomeno e l'attenzione che ad esso
dedica la ricerca sociale. Significativamente, in un Paese pervenuto per ultimo ni Europa a
riconoscere dignità di studi universitari alle scienze motorie (i vecchi isef sono stati sostituiti dalle
nuove Facoltà di Scienze motorie soltanto con l'anno accademico 1999-2000, in mezzo a mille
resistenze di ordini, ceti e corporazioni), si ha ancora pudore a inserire nel curriculum formativo
degli studenti insegnamenti ispirati al metodo e ai contenuti dele scienze sociali. Scienze che, dal
canto loro, si accontentano di osservare dal buco della serratura un fenomeno insieme gigantesco
e appassionante, complesso e persino inquietante. Prevale l'effetto "lettera rubata". Lo sport è lì,
invadente e insinuante, a riempire le nostre giornate televisive, a risvegliare emozioni sopite, a
scandire li tempo di vita dei nostri figli, a fornire uno sconfinato repertorio metaforico ai nostri
uomini politici. Ma noi, i sociologi, non ce ne accorgiamo, non ce ne occupiamo. Lo consegniamo
distratti agli "specialisti' ' , ai pochi giornalisti sportivi disposti a guardare un po' più in là del
prossimo derby calcistico, ai funzionari dello sport ufficiale - che, con rare eccezioni, si muovono
nei meandri della cultura dello sport come elefanti in un negozio di cristalli - , alle possenti
corporazioni professionali che della pratica sportiva hanno fatto una lucrosa opportunità
commerciale. È tempo, insomma, che la latitanza delle scienze sociali rispetto il fenomeno sportivo
venga meno. E non solo per le ragioni che intuitivamente discendono dalle dimensioni strutturali
del problema e che pongono la questione della responsabilità della scienza, dell'imperativo del
"conoscere per agire" in cui si è identificata, sin dai suoi albori positivistici, alla missione della
sociologia contemporanea. Oltre a compiti di censimento delle informazioni, di elaborazione di
conoscenze, di corretta lettura del fenomeno e delle sue intricate traietto- rie culturali, esistono
opportunità altrettanto stimolanti. Lo sport, infatti, è anche una straordinaria lente del mutamento
sociale tout court, in quanto manifestazione espressiva, stile di vita, modello di comportamento,
veicolo comunicativo, ideologia, passione popolare, tecnologia, chiacchiera quotidiana. Si tratta
allora di approfondire l'intuizione di quei pionieri senza seguaci che, sule orme di Marcel Mauss, si
sono spinti a descriverlo come un fatto sociale totale, capace di mettere in luce la trama
sotterranea che regola el relazioni collettive. Recuperando, anche, alla lezione dei classici della
sociologia - da Durkheim a Weber - attenti a cogliere quella sotterranea produzione del significato
che gli individui e el comunità umane conferiscono alle manifestazioni della vita collettiva. Anzi,
indagando quali rappresenta zioni collettive sorreggano la straordinaria costruzione
dell'immaginario sportivo. Per questo, mi sembra, dobbiamo percorrere due sentieri poco
frequentati della ricerca sociale contemporanea. Da una parte, quello che conduce a una
sommaria ricostruzione dei modelli interpretativi che la teoria sociale mette a disposizione di una
sociologia dello sport che non voglia accontentarsi di compiti ancillari, di pura rilevazione
descrittiva. Dall'altra, quello che indaga la storicità del fenomeno, che en individua i nessi con lo
"spirito del tempo", aiutando. ci a contestualizzare e a problematizzare il lavoro degli storici e degli
etnografi. Come si cercherà di argomentare, questo sforzo di analisi ni parallelo - come la teoria
sociale ha captato li potenziale euristico dello sport e come si è prodotta nel tempo alla
metamorfosi del sistema sportivo, delle sue culture e delle sue subculture - porta a un primo
elemento identificativo. Esso consiste nella modernità dello sport come fenomeno sociale e,
quindi, nella irriducibilità dell'agonismo contemporaneo a puro effetto di derivazione di una lunga
catena genetica. In questa ipotesi interpretativa, lo sport del Novecento è figlio di una cesura
culturale, è un prodotto peculiare del suo tempo storico. Non è possibile comprenderlo, insomma,
facendo astrazione dai drammi, dai miti e dalle nevrosi del Novecento. Solo un approccio attento
ala storicità del fenomeno ci può consentire, se ne saremo capaci, di gettare un'occhiata sullo sport
del secolo che nasce. Al di là di qualche estemporanea intuizione o di qualche digressione
intellettuale, li fenomeno sportivo non è però mai entrato compiutamente, come si è accennato,
nel raggio d'attenzione dele scienze sociali. A ragione Eric Dunning, nella prefazione all'edizione
inglese del suo Quest for Excitement (1986), scritto insieme a un maestro eterodosso come
Norbert Elias, individuava in questa rimozione un problema esemplare della sociologia
contemporanea. Una disciplina che ha costruito i propri paradigmi dominanti - in un certo senso, la
propria stessa epistemologia - attorno a un numero relativamente ristretto di attività umane.
Cammin facendo, man mano che alla scienza sociologica si istituzionalizzava, entrando nei curricula
universitari, producendo carriere e insediandosi nelle più accreditate sedi editoriali, smarriva
qualcosa, ne censurava qualche altra, ne delegava altre ancora a competenze iperspecialistiche,
rinunciando, così, all'ambizione di rappresentare la coscienza critica delle società di massa. Per
lunghi decenni alla guerra, le emozioni, li gioco, alla sessualità sono stati relegati nel cono d'ombra
della sociologia ufficiale. Marxisti dogmatici e vestali dello struttural-funzionalismo, storicisti di
ritorno e nostalgici di un sano quantitativismo empirico, esegeti della Grande teoria e cultori del
frammento hanno concorso così a mutilare la ricerca della sua ragione fondante: comprendere li
mutamento sociale, individuare i luoghi ni cui si produce, esercitare l'indagine critica su-l l'insieme
dele condotte umane. Lo sport ha seguito lo stesso destino dele altre fondamentali esperienze
individuali e collettive segnalate da Dunning: quello di essere alo stesso tempo nu fenomeno fra i
più discussi e fra i meno compresi della nostra vita quotidiana. Anche perché una lettura
criticamente orientata impone di assumere i rischi e le fatiche dell'interdisciplinarità. Esige un
occhio allenato alla complessità, alla contraddizione e a rappresentazioni multidimensionali,
chiama ni causa gli infiniti effetti in intenzionali dell'azione sociale, mette a rischio letture nitide,
formalisticamente coerenti, tipologicamente semplificate. C'è insomma, una sotterranea sfida
intellettuale che lo sport lancia alla sociologia. Essa consiste nell’implicito rifiuto di quella
confortevole lettura dicotomica della vita sociale attorno alla quale si è sviluppato un sistema di
coerenze false, o comunque obsolete: lavoro versus tempo libero; mente versus corpo; sfera della
serietà versus ambito del divertimento; economico versus non economico. Categorie analitiche che
hanno permesso la preservazione nel tempo di venerande tradizioni accademiche, e insieme, la più
prosaica moltiplicazione delle cattedre universitarie. Ma anche categorie rese inservibili dalla forza
ni sé del mutamento sociale e culturale. Lo sport è ingombrante perché si situa al crocevia di
ciascuna di quelle dimensioni dicotomiche ed è scientificamente indocile perché non si esaurisce ni
nessuna di esse. Per orientarci nei suoi meandri forse non abbiamo bisogno di una sociologia dello
sport specializzata e tendenzialmente autoreferenziale. Certamente, invece, abbiamo bisogno che
alla sociologia in quanto tale si occupi dello sport, rinunciando alle tentazioni del riduzionismo e
assumendo una prospettiva che non cancelli né rimuova el contaminazioni, gli spazi di frontiera,
l'esplorazione dell'ignoto.

CAPITOLO 1- Lo sport e le scienze sociali


Una corporatura sviluppata dalla ginnastica e una mente intellettualmente addestrata sono
prodotti “culturali", alo stesso modo ni cui l o sono le varie forme di relazione interpersonale, le
istituzioni sociali e le organizzazioni di ogni
H. Gerth, Ch. Wright Mils
1.1 Esploratori del continente sommerso
1.1.1. I sociologi configurazionali
A dare voce alla critica epistemologica ala sociologia riduzionistica è stata soprattutto alla
cosiddetta teoria configurazionale. Per Norbert Elias, che ne ha prodotto la prima e più compiuta
elaborazione concettuale, ogni contesto sociale presenta una specifica configurazione. Essa può
essere colta e rappresentata sociologicamente osservando i nessi di interdipendenza, le catene di
funzioni e gli assi di tensione che si generano nella dialettica fra cooperazione e conflitto.
Cooperazione e conflitto rappresentano, secondo questo modello teorico, le sole dinamiche
sempre presenti nelle relazioni fra gli uomini. La danza o il gioco - e specialmente li gioco sportivo -
costituiscono manifestazioni capaci di evidenziare con straordinaria efficacia alla rete sotterranea
delle relazioni fra gruppi e individui entro una determinata società. Dando vita a un complesso e
mutevole reticolo di gesti, significati, allusioni a credenze collettive e valori condivisi, sono capaci di
rivelare la configurazione della società meglio dele tradizionali interpretazioni strutturali, basate su
puri dati economici o demografici. La teoria configurazionale, così attenta al retroterra storico del
mutamento sociale, si è concentrata soprattutto sull'interpretazione della civilizzazione occidentale
nella stagione della modernità. La particolare attenzione rivolta, in questa prospettiva, al
fenomeno della sportivizzazione ha alimentato li fiorire id numerosi e suggestivi studi, condotti
soprattutto nell'ambito accademico dell'Università di Leicester, in Inghilterra. Queste ricerche, a
cominciare da quelle di Eric Dunning e, più tardi, di Joseph Maguire, offrono una lettura a tutto
campo, che innesta nella sociologia alla storia sociale e la psicoanalisi per contrastare qualsiasi
visione puramente statica e descrittiva del mutamento sociale. La critica al riduzionismo
sociologico è, letteralmente, critica alla Zustandreduktion, a quella "riduzione a stato" che
rappresenta li sistema sociale come un inerte oggetto di analisi, trasformando li sociologo nel
perito settore di un corpo vitale e cangiante come la società. Per Elias e Dunning (1986), come si è
detto, li fenomeno sportivo non è stato banalmente "dimenticato" dalle scienze sociali. È stato,
piuttosto, consapevolmente rimosso da una visione del mondo domi- nata dai propri tabù. Lo sport
chiama in causa la corporeità, esorcizzata da un'etica religiosa, come quella giudaico-cristiana, che
vi ha a lungo individuato al prigione dello spirito o li luogo della tentazione e della colpa (Gehlen,
1965). Lo sport aggredisce la relazione somatopsichica primaria, e con essa la pretesa
razionalistica, di matrice cartesiana, che subordinava la materialità della ser extensa al primato
della res cogitans. La materia dello sport è fatta prima di tutto di emozioni, in potenziale rotta di
collisione con un modello pedagogico - quello che Freud riconduceva all'etica vittoriana e alla
morale borghese dell'Ottocento - che ha imposto la repressione, la regolazione, il controllo come
fattori portanti della relazione individuo-società. Per tutte queste ragioni è importante un'analisi
non convenzionale del progressivo addomesticamento alle esigenze dell’ordine sociale dei
contenuti emozionali primari dell'azione ludica e motoria, indagando il contesto temporale e
territoriale in cui tale dinamica di cooperazione e conflitto si produce: l'Europa occidentale nella
stagione compresa fra li xv e li xIx secolo, il tempo storico in cui si sviluppano contestualmente la
civiltà delle buone maniere, lo Stato nazionale e li parlamentarismo. Cercando di elaborare una
teoria sociale dele emozioni, Elias ritorna così alla fine dell'età medievale, ala formazione delle
monarchie nazionali, alo sviluppo del prime società urbane moderne. Man mano che la ricerca
storiografica fornisce nuovi tasselli, li mosaico della cosiddetta civilizzazione si fa più nitido e
preciso. Insieme, mette in luce l'azione fondamentale di due processi complementari. Come aveva
intuito Sigmund Freud nelle sue opere sociali- da Totem e tabù a Mosè e il monoteismo, sino la
Disagio della civiltà - il primo di questi processi consiste in quell'azione di repressione della sfera
istintuale, di controllo dele emozioni e di interiorizzazione delle norme che è funzionale alla
produzione di tratti della personalità individuale coerenti con un nuovo modello di società. Una
filosofia pedagogica e una pratica di socializzazione che appartengono alla categoria del
disciplinamento. Il secondo versante dell'analisi di Elias, maggiormente influenzato dalla sociologia
weberiana, riguarda la sfera politica e istituzionale. La civilizzazione occidentale, come più tardi la
nazionalizzazione - intesa come radicamento dello Stato su un territorio di cui esercita la sovranità
- e la modernizzazione in senso lato presuppongono li trasferimento a un'autorità pubblica del
«monopolio della violenza legalizzata». La costruzione dello Stato-nazione, forma politica della
modernità occidentale, va di pari passo con lo sviluppo di sistemi e mezzi finalizzati alla
preservazione dell'ordine e del controllo sociale. Nasce un sistema di prevenzione e repressione
penale interamente gestito da istituzioni specializzate al servizio dello Stato (polizia, magistratura).
L'ordine pubblico si afferma come un pilastro sociale della nazionalizzazione, capace di estendersi
dalla sfera della devianza strettamente intesa a quella, più ampia e composita, della marginalità
sociale. Non a caso, come avevano dimostrato gli studi pionieristici di Michel Foucault(1975), le
cosiddette istituzioni totali - carceri, mani. comi e altri luoghi di segregazione - si sviluppano in
sincronia con lo Stato-nazione, trasformandosi ni mezzi sempre più efficienti e strutturati di
controllo ed esclusione delle classi pericolose. La civilizzazione non opera soltanto, però, attraverso
li rafforzamento e li perfezionamento di strumenti coercitivi di controllo sociale. Deve anche ideare
e proporre paradigmi di comportamento, stili di vita distintivi, Nell'interpretazione di Elias, al
"civiltà dele buone maniere" è un caposaldo della rivoluzione sociale e culturale della
modernità. Il Galateo di monsignor Della Casa rappresenta un manifesto politico e programmatico
dele classi in ascesa, assai più che un corredo di leziose e spesso astruse regole di comportamento.
Siamo in presenza di codici di regolazione sociale che nascondono, dietro la precettistica della
buona creanza (funzione manifesta), una poderosa funzione latente. Essa consiste nel fornire
visibilità alle gerarchie di status, imponendo ai ceti dominanti li possesso di abilità e di norme
quasi sempre prive di qualsiasi utilità pratica. Osservare rigorosamente le regole del galateo
costituisce un codice indispensabile di accesso e di riconoscimento per i ceti dominanti. Come
aveva intuito Thorstein Veblen (1899) già ala fine del xix secolo, l'elaborazione, acquisizione e la
trasmissione di regole del gioco e stili di vita distintivi servono, insomma, a rendere visibili el
gerarchie sociali. Fra el caratteristiche di questo processo c'è la sopravvivenza di pratiche sociali
appartenenti alle classi dirigenti del passato. La trasformazione in attività sportive, da parte della
borghesia industriale dell'Ottocento, di quelli che erano stati i passatempi "oziosi", i loisir della
vecchia aristocrazia, costituisce un esempio illuminante. La caccia alla incommestibile volpe
diviene una pratica distintiva quando li ricorso alla caccia ha cessato di rappresentare un mezzo di
integrazione della dieta alimentare, mentre la bonifica del territorio dagli animali nocivi rimane
prerogativa del proprietario terriero. La «futilità sostanziale» costituisce un tratto essenziale dei
passatempi sportivizzati, prima che questi siano ricondotti per intero ai più rigorosi imperativi
dell'efficientismo e del produttivismo. Scrive Veblen (ivi, trad. .it p. 198-9), occupandosi della
«sopravvivenza della virtù del coraggio»: Gli sport soddisfano esigenze di futilità sostanziale
insieme con la plausibile finzione di uno scopo. Oltre a ciò, essi danno campo all' emulazione e
sono attraenti anche per questo. Per riuscire decorosa, un'attività deve uniformarsi al canone dello
sciupio onorevole della classe agiata; nello stesso tempo, ogni attivita, per essere accettata come
espressione di vita abituale, anche se sol tanto parziale, deve uniformarsi al canone generalmente
umano dell'efficienza. in vista di qualche utile scopo obiettivo. Analogamente, i combattimenti
all'arma bianca si trasformano in gesto agonistico quando le armi da fuoco hanno reso inutile ai fini
pratici li loro impiego militare. in altre parole, ogni emergente classe dominante adotta ed adatta
stili e comportamenti di quelle che l'hanno preceduta, infondendole i propri valori e significati.
Esemplare sarà proprio l'invenzione dello sport moderno da parte della borghesia britannica
ottocentesca, che rivisitando tanta parte dei gesti espressivi dell'antica aristocrazia (cacciare,
cavalcare, duellare ecc.) ne produrrà una rielaborazione culturale coerente con i propri valori: al
competi- zione, li successo tecnicamente misurabile, l'etica della prestazione come allegoria del
profitto commerciale. Industrialismo, produttivismo, competitività si affermano come i nuovi valori
fondanti, cui gli antichi gesti cavallereschi, rielaborati e stilizzati nella forma del confronto
agonistico, conferiscono un potente surplus simbolico. Ma la civilizzazione, come viene descritta
nei lavori di Freud e di Elias, lavora anche nel profondo, si insinua nei meandri della psiche
individuale, plasma nuove rappresentazioni del mondo agendo su sedimenti antichi. In consonanza
con la storiografia dele "Annales" e con la ricerca antropologica e psicoanalitica del Novecento, la
teoria configurazionale mostra tutta la relatività culturale di principi e regole di condotta
comunemente ritenuti universali e perenni. La percezione sociale del pudore, della vergogna, del
rischio, del decoro e persino della ripugnanza, così come un'accresciuta sensibilità alla violenza,
sono per Elias li prodotto di incessanti trasformazioni della mentalità. Queste premesse teoriche
aiutano a comprendere perché, analizzando in maniera non riduttivistica le configurazioni sociali,
lo sport moderno costituisca un oggetto privilegiato di indagine per Elias e per i suoi allievi. Si
tratta, infatti, di un fenomeno che matura per passaggi progressivi, differenziandosi tanto dalla
tradizione competitiva classica quanto dai giochi cavallereschi e dalle pratiche di villaggio
caratteristiche delle società rurali (i folkgame), sino a dar vita a una produzione di significato del
tutto inedita. Essa si sviluppa negli interstizi della civilizzazione occidentale per divenire, situandosi
al crocevia fra natura e cultura, una delle sue manifestazioni più coerenti ed esemplari.
L'antichità classica possedeva certamente una propria idea di competizione agonistica e anticipava
alcune forme espressive rintracciabili ancora nello sport moderno. Sarebbe però errato enfatizzare,
come faranno gli ottocenteschi rifondatori del movimento olimpico, qualunque elemento di
continuità. È in proposito difficilmente contestabile la lettura proposta da Allen Guttmann, di cui ci
occuperemo più avanti. Basti qui ricordare come, soprattutto ni età romana, fosse molto difficile
distinguere fra competizione ni senso proprio e spettacolo. I giochi del Circo, ni particolare, si
basavano sulla spettacolarizzazione della violenza e sulla teatralizzazione della crudeltà assai più
che sull'etica della competizione retta da regole, che è un'acquisizione relativamente recente della
cultura sportiva. L'incorporazione nello spettacolo delle categorie di violenza e crudeltà è propria di
una cultura sociale antecedente ala moderna civilizzazione. D'altronde,
sino a pochi secoli fa, anche le esecuzioni capitali o la tortura erano considerate spettacoli pubblici,
non privi di implicazioni pedagogiche esaltate da festose manifestazioni di contorno. Al contrario,
lo sport moderno tende a costruire eventi mimetici, incorporando il rifiuto della violenza e
sottoponendo li gesto aggressivo a un intricato sistema di regole e di sanzioni. La violenza non è
cancellata: è rimossa, addomesticata, fatta oggetto di dinamiche di allusione e simulazione che
producono complessi apparati evocativi e normativi. I giochi di squadra, ni particolare, consentono
di operare una potente traslazione allegorica, sino alla stilizzazione e alla miniaturizzazione della
guerra, operazione di ingegneria simbolica quanto mai precaria e vulnerabile, come dimostra li
periodico riemergere della violenza ni forme di aggressività incontrollabile, individuale e di gruppo.
Si pensi al fenomeno contemporaneo - ma ricco di antecedenti - dell'hooliganism, proliferato
soprattutto ai margini del calcio spettacolo. Tuttavia, obietta- no i sociologi configurazionali, è
proprio la civilizzazione, cui i giochi sportivi sono stati sottoposti a partire dall'Ottocento, a rendere
possibile la nostra percezione della violenza come qualcosa che "non ha niente a che fare con lo
sport".» E ciò che puntualmente ci ricordano gli scandalizzati editoriali della stampa all'indomani di
qualche episodio di violenza o di teppismo particolarmente impressionante, un'idea che un
lottatore greco coscienziosamente impegnato a slogare al clavicola del proprio avversario avrebbe
compreso con difficoltà, e che sarebbe parsa bizzarra a un frequentatore dei circenses romani,
abituato a guadagnare l'uscita dell'arena fra i cadaveri di tifosi calpestati dalla folla, eccitata da
un'esibizione particolarmente cruenta del proprio gladiatore preferito. Nell'analisi di Elias le
pratiche sportive civilizzate concorrono, insomma, a realizzare quel programma di interiorizzazione
delle norme e delle obbligazioni sociali attorno la quale si sviluppa la modernità occidentale.
Soprattutto i giochi id squadra manifesterebbero li superamento del conflitto simbolico fra costumi
agrari tradizionali, appresentati dai giochi di villaggio e dalle pratiche id forza e destrezza associate
alla devozionalità religiosa, e l'ideologia competitiva, propria dei nuovi ceti borghesi. Un
superamento che fa propria l'ideologia della norma e della prestazione, al quale riflette, a sua
volta, i principi della modernità e del nascente capitalismo. La regolazione dei giochi di squadra è
un lungo processo di costruzione di un sistema di norme, garanzie e sanzioni che appare una
perfetta esemplificazione della costruzione dello Stato moderno e della usa dominante
configurazione istituzionale, li parlamentarismo. Così, come lo Stato-nazione edifica il suo sistema
giudiziario, legittimandolo attraverso il vincolo del l'imparzialità e l'universalismo dele regole, lo
sport moderno elabora codici, regolamenti, statuti e sanzioni che servono a disciplinare lo
spontaneo vitalismo dei vecchi giochi popolari e a sportivizzare gli antichi loisir aristocratici. La
figura dell'arbitro è una metafora di quella del giudice. Lo spazio fisico del gioco viene via via
delimitato, circoscritto, recintato entro el geometrie ossessive dello stadio o di un altro perimetro
regolamentare. Si produce anche una differenziazione sempre più precisa di attività in origine
scarsamente distinguibili, perché eredi comuni dei vecchi giochi di villaggio. Questa
differenziazione assume significati funzionali alla produzione di senso del nuovo ordine sociale.
Magistrale è, in proposito, la minuta ricostruzione della progressiva distinzione fra football e rugby
nell'Inghilterra vittoriana proposta da Elias e Dunning. Un processo ni apparenza tecnico-
strumentale, orientato all’obiettivo pratico di definire regole del gioco condivise per consentire
l'omologazione delle competizioni. Da esso traspaiono, però, precisi intenti politici ed etico-
pedagogici. Il football, è ad esempio, precocemente professionalizzato, in quanto pratica popolare
attorno alla quale prospera al cultura della scommessa. Nello stesso tempo, li regolamento
calcistico si fa presto minuzioso, sottilmente sanzionatorio: rigore, fallo, punizione sono parole
chiave tratte dal repertorio del disciplinamento. Una convincente metafora di quell'etica del
controllo dele classi pericolose che non a caso si applica la più proletario dei giochi di squadra,
quello che maggiormente appassiona la classe operaia urbana della Gran Bretagna vittoriana.
Nasce da questa filosofia della differenziazione la separazione fra calcio e rugby, praticato
soprattutto dalle élite militari ed universitarie. Il rugby, in realtà, presenta una duplice
configurazione culturale. Sport amatoriale, rigorosamente non professionistico, esalta l'esibizione
della forza e del coraggio, caratterizzandosi come una pedagogia civile per i rampolli delle classi
superiori. Individui "civilizzati", che si presume abbiano già interiorizzato il rispetto delle buone
maniere e li tabù della violenza. Nello stesso tempo, in quanto disciplina di squadra a forte
contenuto spettacolare, si associa facilmente ala cultura dei particolarismi, radicandosi nelle
appartenenze simboliche del college, della città e, nel caso britannico, delle stesse Nazioni senza
Stato. Le sfide rugbistiche fra squadre nazionali di Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda continuano a
costituire formidabili oggetti di studio del caso sotto li profilo etnografico. Sportivizzazione,
nazionalizzazione e parlamentarizzazione costituiscono, dunque, aspetti diversi e complementari
del processo di civilizzazione, che - pur avendo antecedenti in età rinascimentale - acquista
intensità e velocità a cavallo fra Settecento e Ottocento, informando di sé, secondo la lettura di
Elias e dei suoi allievi, l'intero xIx secolo. L'età vittoriana, convenzionalmente identificata con il
lungo regno della regina eponima (1837-1901), ne rappresenta la fase culminante, in cui la
sportivizzazione si sviluppa e si diffonde a vasto raggio tramite li colonialismo britannico. Ma alla
proiezione esterna, coloniale, va associata la dimensione politica interna, con il radicamento
del parlamentarismo e l'affermazione di regole del gioco che mirano a coinvolgere tutti gli attori ni
competizione: la borghesia imprenditoriale in ascesa, al declinante aristocrazia terriera e lo stesso
movimento operaio, sociologicamente partorito dalla prima industrializzazione. Lo sport vittoriano
dimostra come li conflitto possa essere disciplinato e razionalizzato attraverso regole che
estromettano la violenza, definiscano i ruoli, sanciscano el differenze. È la compiuta allegoria di una
democrazia ristretta, che però si sforza di costruire un complesso di norme e principi capaci di
regolare ni modo incruento li conflitto sociale. Il gioco sportivo diviene una esemplare
configurazione, attraverso al quale le ragioni della cooperazione e quelle del conflitto vengono
riconosciute, stilizzate e "miniaturizzate" in una plastica allegoria delle dinamiche sociali.
La sportivizzazione produce, inoltre, esperienze importanti id coesione sociale. In particolare,
sviluppa sistemi di identità alternativi a quelli propri delle società rurali tradizionali o dei clan
aristocratici, regno di quella che Durkheim avrebbe chiamato la solidarietà meccanica. In Gran
Bretagna, ma anche altrove - si pensi al fenomeno dei Turnen ni Germania, el esibizioni di
ginnastica non competitiva che Mose (1974) considererà uno dei tre pilastri della nazionalizzazione
germanica, o al movimento ginnico francese, che dà forma sociale alo sport della Repubblica -
prende vita una fitta rete di associazioni volontarie, club e società sportive. Questo aspetto è
particolarmente visibile ni quella che Elias ha definito la seconda ondata della sportivizzazione,
grosso modo coincidente con l'età vittoriana. E la stagione che vede costituirsi, oltre al calcio e al
rugby, anche pratiche individuali a notevole caratura tecnica, come l'atletica leggera e li tennis. La
prima ondata, attorno al xvIi secolo, era stata caratterizzata dalla trasformazione ni pratica sportiva
dei giochi tradizionali britannici (il cricket), dall'incorporazione dei vecchi passatempi aristocratici
i( loisir del genere caccia ala volpe e corse dei cavalli) o dalla rielaborazione "civilizzante" - cioè
regolata e disciplinata tecnicamente - di forme di combattimento individuale a bassa strutturazione
(la boxe) .' È sintomatico che el maggiori reti associative si sviluppino intorno agli sport di seconda
generazione e, in particolare, nell'humus culturale dei giochi di squadra, dove è più facile attivare
dinamiche di identificazione. Appartenere a un esclusivo circolo rugbistico diviene una prerogativa
di status, mentre le prime tifoserie calcistiche si organizzano secondo modalità culturali, codici
comunicativi e apparati simbolici mutuati dalla subcultura operaia britannica. Fra al fine del xix e
l'inizio del xx secolo si produce quella terza ondata che i teorici della configurazione associano
principalmente ala mondializzazione dello sport. Se, infatti, la prima ondata può riferirsi ai
progressi del processo di civilizzazione occidentale e la seconda collegarsi alle dinamiche di
nazionalizzazione e costruzione delle regole politiche del parlamentarismo, la terza ondata - che si
sviluppa ni rapporto al colonialismo britannico, nonché ala sportivizzazione dell'Europa
continentale e poi degli USA - anticipa la questione controversa della globalizzazione. Fra gli ultimi
due decenni dell'Ottocento e i primi del Novecento prendono corpo le prime istituzioni e i primi
eventi sportivi internazionali. I regolamenti agonistici costituiscono le prime "leggi" che trovano
applicazione sovranazionale. Lo sport diviene progressivamente un idioma globale dele nascenti
società di massa, senza perdere quella funzione di ancora di significato che ne aveva facilitato li
radicamento ni infinite culture particolaristiche. La sottile e sofisticata opera di scavo nelle matrici
storico-culturali del fenomeno sportivo, sorretta da un robusto apparato teorico, costituisce un
merito indiscutibile della teoria configurazionale. Elias e i suoi allievi hanno saputo portare alla luce
le straordinarie potenzialità dello sport come strumento e oggetto di analisi sociologica a largo
raggio, aprendo la strada a sviluppi quanto mai suggestivi. Queste considerazioni non possono
esimere, però, dal segnalare i limiti della teoria. Non c'è dubbio, ad esempio, che l'approccio
configurazionale risenta di un'osservazione privilegiata, in qualche caso esclusiva, del caso
britannico, presentato come archetipo di tutte le possibili forme di sportivizzazione, con il rischio di
produrre indebite generalizzazioni: dalle ricerche della storia sociale sappiamo, infatti, che li
processo ha seguito percorsi molto diversi nella stessa Europa continentale. Nella prospettiva
configurazionale, inoltre, non trovano accoglienza esperienze non riconducibili al modello
agonistico disegnato nella fase della seconda ondata della sportivizzazione. Si pensi alle pratiche
prodottesi negli anni Ottanta del Novecento, dagli sport open air "californiani" al fenomeno del no
limits, alla stessa diffusione di attività fisico-motorie a finalità non agonistica (dal fitness al turismo
sportivo, alle ginnastiche per gli anziani). Sommaria risulta anche la ricostruzione della variegata
mappa delle esperienze associazionistiche, sbrigativamente e impropriamente omologate al
modello dei club britannici, che non è congruente, da esempio, con la storia organizzativa dei
circoli ginnastici tedeschi o delle società amatoriali italiane. Apa- re eccessiva, insomma, la pretesa
degli studiosi della Scuola di Leicester di porsi come le vestali dell'unica possibile e teoreticamente
fondata sociologia dello sport. Ciò senza disconoscere il prezioso contributo fornito dagli studi
configurazionali, sia restituendo lo sport all'attenzione delle scienze sociali, sia proponendone una
lettura originale, densa e innovativa.
1.1.2. Gli opposti elitismi
La scuola configurazionale ricerca soprattutto, nell'analisi della sportivizzazione occidentale,
l'opportunità di fondare una teoria multidisciplinare delle emozioni. Per una rassegna, seppure
necessariamente sommaria, di teorie che, da differenti angolazioni, avevano già intuito el
potenzialità di un tale approccio, occorre tornare indietro di alcuni decenni rispetto ala fioritura
degli studi ispirati da Elias, riandando a quell'interpretazione, originale e fortemente polemica,
della sportivizzazione che è presente nella Teoria della classe agiata di Thorstein Veblen, edita nel
1899, appena tre anni dopo al rifondazione olimpica celebrata con i Giochi di Atene. Il sociologo
nordamericano di origine norvegese, un altro grande outsider delle nascenti scienze sociali, dedica
non poche pagine della sua opera maggiore (nell’intero capitolo decimo) alle attività di
competizione che si andavano diffondendo a cavallo del secolo sule due sponde dell'Atlantico.
Veblen coglie il fenomeno come una manifestazione di sopravvivenza dell'istinto predatorio della
vecchia aristocrazia, acclimatato nella cultura e negli stili di vita della nuova borghesia del denaro.
Lo sport come pratica fondamentalmente elitaria, a forte impronta distintiva, esprimerebbe quella
tendenza alo sciupio vistoso del tempo e del denaro che gli pare la chiara manifestazione di una
simbologia di status. Sprecare li tempo e li denaro in attività oziose, parodia dele attività distintive
dell'epoca cavalleresca, gli sembra del tutto organico all'ideologia latente di una società
ossessionata dall'equazione tempo = denaro, che peraltro non rinuncia a caricare gli sport dei
propri imperativi funzionali. In questo senso, l'etica del risultato e la filosofia del successo,
l'achievement, rappresentano per Veblen precisamente li modo ni cui la borghesia anglosassone di
fine Ottocento avrebbe reinterpretato l'etica aristocratica della competizione. Lo sport costituisce,
così, uno dei principali tratti distintivi della leisure class. La lettura è suggestiva, ricca di intuizioni,
ma irrimediabilmente viziata da una visione angusta del fenomeno. E completamente priva di una
rappresentazione predittiva, non coglie l'intreccio con la cultura di massa che la diffusione e la
popolarizzazione dello sport stavano già all’epoca producendo. È come se Veblen osservasse la
sportivizzazione - già nella fase della seconda ondata - dal buco della serratura, cogliendone
soprattutto, sia pur genialmente, gli aspetti residuali: l'apparente continuità fra el antiche pratiche
di loisir e le nuove attività distintive; li profilo di simbolo di status insito nella competizione, che già
all'epoca costituiva solo uno dei tratti, e fra i più effimeri, della sportivizzazione; l'ostentazione
dell'amatorialità come spreco del tempo e del denaro, già insidiata dal poderoso sviluppo del
professionismo. Veblen, insomma, non riesce a intravedere, dietro lo sviluppo delle attività
agonistiche a cavallo fra i due secoli, l'avvento dele società di massa, né percepisce li complesso e
talvolta contraddittorio rapporto che queste istituiranno con i processi di democratizzazione.
Questa visione parziale, e fondamentalmente elitistica, accomuna peraltro Veblen ad altri critici
sociali ni cui l'attenzione alle grandi trasformazioni dell'epoca si accompagna a un riflesso
conservatore, ala nostalgia per l'ordine tradizionale insidiato dall'avvento di una nuova società.
Una rappresentazione che ritroviamo anche ni una parte di intellettuali e letterati dell'epoca. Sarà
uno scrittore come Robert Musil, ad esempio, a descrivere lo sport come una manifestazione
intrinsecamente violenta, anzi come «il sedimento di un odio universale finissimamente diffuso che
precipita nelle competizioni». Un altro inquieto osservatore d'inizio secolo, ol spagnolo. J Orteag y
Gasset (1957), nella popolarizzazione dello sport riesce a cogliere soltanto il soddisfacimento di
bisogni indocili e plebei, caratteri- stici dell'uomo-massa. Un fenomeno condannato a riprodurre
drammatismi semplici e arcaici, funzionali alo sfogo emozionale di individui e gruppi sottoposti
all'imbarbarimento dell'età delle macchine e refrattari alla civilizzazione. Negli anni Trenta la
rappresentazione dell'agonismo come drammaturgia sociale ritorna in Lewis Mumford, il quale, in
Tecnica e cultura (I990), si abbandona a sconfortate considerazioni sul declino dello sport che, nel
periodo fra le due guerre, gli sembra via via declassarsi da evento sacrale comunitario a puro
spettacolo di intrattenimento. Un approccio, quello di Mumford, che non ha niente a che vedere
con el rappresentazioni elitistiche di Veblen o di Ortega y Gasset. Egli coglie, piuttosto, una
continuità fra sport moderno e bisogni espressivi antichi (non quindi fra sport moderno e
agonismo classico, bensì fra sport e dramma), destinata a interessanti sviluppi quando gli studiosi
cominceranno a cimentarsi con il rapporto fra sport e produzione mediatica. Fra le righe affiora,
tuttavia, quella parabola del disincanto che sarà magistralmente descritta più o meno nello stesso
periodo, dallo storico olandese Johan Huizinga nel suo affascinante Homo ludens (195, 1°ed. 1938).
Come Huizinga, Mumford guarda allo sport di massa con gli occhi di un innamorato deluso. Ricerca
quel pathos primigenio che deriva dall'intrinseca natura drammaturgica del gioco e della
competizione e vi trova, invece, li trionfo dell'esibizione, il campionismo esaltato dal nascente
sistema mediatico, l'apologia del denaro e del successo a tutti i costi. Ciò gli pare ni contrasto con
la promessa di de Coubertin e con li mito di fondazione dell'olimpismo moderno, senza che però la
critica si coniughi con un'indagine non impressionistica del fenomeno. L'analisi di Mumford è
insomma esemplare di una rappresentazione letteraria e retorica, che, ad esempio, rinuncia a
scavare in quell'autentica dinamica di invenzione della tradizione su cui si è fondato il tentativo di
ripristinare la continuità simbolica fra classicità e sport moderno. Non dissimile è l'approdo della
ricerca storico-sociale di Huizinga, che però propone del fenomeno un'analisi assai più impegnativa
e documentata. Soprattutto, essa è dominata dall'incubo della manipolazione dello sport, dell'uso
strumentale e aggressivamente nazionali- stico che ne andavano facendo i regimi dittatoriali del
tempo. Le Olimpiadi di Berlino (1936) precedono di appena due anni la pubblicazione di Homo
ludens. Allo storico e se appaiono retrospettivamente come l'annuncio e l'anticipazione simbolica
di una guerra che costringerà il pensiero occidentale a rideclinare la nozione stessa di civiltà.
Huizinga, studiando li gioco e le sue trasformazioni nelle società umane, intende lanciare un
allarme. Dietro l'avvento dello sport politicizzato e commercializzato avverte lo smarrimento
culturale di una società che ha rinunciato alla ludicità, interiorizzando imperativi estranei e persino
antagonistici rispetto all'etica del piacere: la rappresentazione metaforica del produttivismo, la
celebrazione dell’aggressività ideologica e del nazionalismo, la logica compulsiva del risultato. In
coerenza con la critica corrosiva rivolta ala società di massa anche la Scuola di Francoforte ha
dedicato qualche rara e succinta riflessione alo sport contemporaneo. Theodor W. Adorno (1955),
in particolare, si è soffermato sulle nevrosi dell'agonismo: l'ossessione quanto frenica della
misurazione, l'ansia da prestazione, l'elaborazione di mitologie capaci di nutrire un immaginario
collettivo impoverito dalla massificazione e dalla desertificazione culturale generata grandi media.
Un approccio apocalittico caratteristico, peraltro, del profilo bifronte della teoria critica
francofortese, per un verso impietosa radiografia del capitalismo maturo, per l’altra
rappresentazione elitistica e sdegnosa della società di massa. Esemplare è li passaggio ni cui
Adorno paragona lo sguardo dello sportivo, ipnotizzato dalla misurazione della performance, a
quello del «costruttore di bare», la sola figura autorizzata dall'etica ebraica tradizionale a misurare
le dimensioni del corpo umano. Più in generale, i francofortesi riproducono nei confronti dello
sport contemporaneo lo stesso pregiudizio ri- volto a tutte el altre manifestazioni espressive della
cultura di massa. Un pregiudizio che si tingerà di ideologia radicale fra gli anni Sessanta e Settanta,
quando alcuni critici, soprattutto ni Francia e Germania - dal prolifico Brohm (1967, 1975, 1976a,
1976b, 197) a Vinnai (1970, 1972), da Laguillaumie (I968) ala Prokop (1971) - , cerche- ranno di
sviluppare, attingendo agli armamentari del neomarxismo e della teoria francofortese,
un'interpretazione demolitoria dello sport id prestazione. Brohm (1976a), in particolare, ne fornirà
una lettura ampiamente ispirata a H. Marcuse e ala sua teoria della sublimazione repressiva.
Sull'onda dell'elaborazione ideologica dei movimenti di rivolta postsessantotteschi, questi studiosi
si sforzano di avallare una rappresentazione dell'agonismo come pura mercificazione e sotterranea
apo- logia della violenza. Analisi che, paradossalmente, si avvicina a quella dei critici conservatori
di inizio secolo, riproducendone inconsapevolmente la diffidenza aristocratica per nu imponente
fenomeno di costume, La critica allo sport come «nuovo oppio dei popoli» sarà destinata a
scontrarsi con quelle genuine passioni popolari che solo lo sport è capace di evocare, ripiegando
progressivamente ni una visione risentita e vagamente esoterica del problema. Ciò non toglie
validità, peraltro, ad alcune intuizioni stimolanti circa, ad esempio, l'emergente compenetrazione
fra sport e-business mediatico o l'affermarsi di un'etica del cinismo dietro el retoriche
dell'olimpismo o della (falsa) amatorialità. La stessa critica femminista all'impianto patriarcale e
intrinsecamente autoritario del sistema sportivo e delle sue subculture - quale si esprimerà
soprattutto nei womens' studies degli ani Settanta e Ottanta - ha ampiamente attinto a queste
provocazioni intellettuali. Di quegli eroici furori risente anche l'approccio ecopacifista che traspare,
ad esempio, negli interventi di un filosofo come li norvegese. J Galtung. In un'ottica fortemente
critica verso al nascente mitologia della globalizzazione - identificata con un nuovo e più insidioso
colonialismo - li grande sport commercializzato gli sembra riprodurre ni maniera esemplare la
persistente subordinazione della periferia (il Terzo Mondo) la centro i (Paesi leader del capitalismo
maturo). Lo sviluppo dele tecnologie della comunicazione e al crescente egemonia della finanza nel
sistema economico costituirebbe un sistema, oppressivo di interdipendenze, funzionale soltanto
alla preservazione e al rafforzamento dei vecchi equilibri di potere. Lo sport-evento, nella stagione
dell'egemonia televisiva, diviene, anzi veicolo di un modello culturale anti-egualitario. Aggressivo
tanto verso la periferia del mondo quanto verso l'ambiente naturale. Questa rapida rassegna ha
proposto alcune rappresentazioni critiche, talvolta apocalittiche, che - mutuando li linguaggio della
politica - accomunano destra e sinistra del Novecento intellettuale. Accomunano, cioè, la critica
conservatrice alle società di massa e la contestazione al connubio fra sistema sportivo e
capitalismo. Si tratta, peraltro, di interpretazioni che risentono dell'impatto del tempo storico: la
minaccia totalitaria fra le due guerre mondiali (Mumford, Huizinga, la Scuola di Francoforte), li ciclo
di protesta degli anni Settanta (neo- marxisti e neofrancofortesi), la sindrome d'ansia indotta
dall'incipiente sviluppo della globalizzazione (Galtung). Al di là della doverosa contestualizzazione,
queste letture sono sintomatiche di un pregiudizio culturale non rimosso e, quindi, di una
complessiva difficoltà del le scienze sociali a misurarsi con l'indocile fenomenologia dello sport
contemporaneo.
1.1.3. Un pioniere: Heinz Risse
La nostra panoramica non può limitarsi ai soli "critici" dello sport. Non mancano autori, infatti, che
si sono sforzati di indagarne le ragioni e le dinamiche, senza indulgere a visioni astratte o
precostituite. lI primo esempio è d'inizio secolo e rinvia a quella quasi dimenticata Soziologie des
Sports (I921) con cui lo studioso tedesco Heinz Risse aveva fornito un primo esempio di possibile
analisi sociologica del problema. Tentativo condotto sviluppando intuizioni ancora parzialmente
attuali, come nel caso della critica rivolta agli specialismi sociologici, incapaci di interpretare un
fenomeno caratterizzato da troppe valenze e implicazioni per essere recintato nell'ambito di una
sottodisciplina. O come quando, captando li potenziale innovativo di un'analisi delle nascenti
società di massa dal punto di osservazione dello sport, definisce la propria ricerca come «critica
culturale». Un'autocollocazione che rimanda chiaramente ala stagione genetica della sociologia
tedesca e a quei fermenti e umori intellettuali che saranno presto compressi dal nazismo. Nella
elaborazione di Risse si avvertono gli echi suggestivi di Nietzsche e Weber, di Sombart e Tönnies, di
Spengler e Marx. Ma nulla sarebbe più fuorviante che ridurre li lavoro pionieristico di Risse a una
pur originale variazione sul tema della critica irrazionalistica alla civilizzazione occidentale e
del pessimismo romantico. Al contrario, Soziologie des Sports intuisce alcune questioni
sociologicamente rilevanti, come la relazione fra spazio e movimento e quella fra ambiente e
«corpo sportivo». Illuminanti sono, ad esempio, le riflessioni dedicate al progressivo passaggio
dalle pratiche all'aria aperta a quelle che si svolgono al coperto, ni strutture sempre più
specializzate è(l’epoca in cui si costruiscono stadi, piscine e velodromi e si inventano le prime prove
indoor). Risse individua una dinamica di tecnicizzazione dello sport che si accompagna a un
processo di crescente burocratizzazione e razionalizzazione. Sono gli anni della seconda ondata,
quando si afferma li principio di misurazione esatta del risultato - con li perfezionamento e
l'adozione su larga scala della registrazione cronometrica - e, con esso, un'inedita tecnologia
impiantistica e un perfezionamento dei materiali e delle dotazioni. Si rafforza li ruolo dell'arbitro
come dominus della competizione, ni una rappresentazione legal-razionale dell'agonismo. Si
produce anche un'idea dell'evento sportivo come spettacolo pubblico. In particolare, si progettano
impianti che devono garantirne una visibilità piena, assicurando - nel perimetro dello stadio, della
pista o della piscina - quella aristotelica unità di luogo, di tempo e d'azione che collega
drammaturgia classica e sport contemporaneo. La città incorpora lo sport come luogo di
produzione di eventi, di emozioni e di simboli. Insieme, lo stadio-santuario diviene parte della
metropoli avvelenata, che si espande violentando l'ambiente naturale e riproducendo all'infinito
spazi sempre più funzionali, specializzati, separati. Nello sport si manifesta anche quella
contraddizione uomo-macchina che, per lo storicista Risse, rappresenta la cifra latente del conflitto
fra civilizzazione e cultura, individuato come un tipico portato della modernità. Il corpo umano, che
lo sport è capace di sottoporre alle ferree regole del disciplinamento tecnico, e insieme di
trasformare in oggetto simbolico e in metafora della potenza e del desiderio, diviene li luogo
sociale in cui si esprime un poderoso conflitto culturale. Spunti suggestivi e potenzialmente
fecondi, che la sociologia accreditata ha preferito lasciare nel dimenticatoio o consegnare a
interpretazioni ideologiche ed enfatiche (e perciò inservibili). L'analisi id Risse ci appare oggi più
attuale, ad esempio, di quella di Bero Rigauer (1969) che, cinquant'anni dopo, liquiderà tutto li
fenomeno sportivo come espressione della «razionalizzazione repressiva» del capitalismo maturo,
dominato dal principio di prestazione e dal feticismo del risultato. Molto perspicace è l'attenzione
che Rise rivolge ala corporeità come crocevia di dinamiche di alienazione e di produzione di
identità. Un filone al cui sviluppo contribuiranno, solo dopo diversi decenni, gli studi culturali
anglosassoni e nu ricercatore eterodosso come Henning Eichberg. Sicuramente più datate sono le
riflessioni sula natura sociale dele discipline agonistiche. Sebbene Rise, a differenza di Veblen,
avverta li potenziale emancipativo della sportivizzazione diffusa, egli ne osserva gli sviluppi in una
fase in cui convivono paradigmi competitivi diversi e ancora fortemente distintivi in termini di
status. Di qui una rappresentazione tipologica che ci appare oggi angusta e obsoleta. Secondo
questa rappresentazione, le attività agonistiche borghesi - come erano ancora considerate li tennis
e li canottaggio - interpretano i modello culturale del formalismo regolamentare e del risultato
tecnico. Invece, gli sport popolari, giocati sull'erba, come li calcio, incorporano i principi del
solidarismo operaio e la logica funzionale della squadra, coerente tanto con la tradizione
preindustriale dei giochi di villaggio (interni ala cultura comunitaria della Gemeinschaft descritta da
Tönnies) quanto con gli imperativi del produttivismo industriale (modello della società complessa,
al Gesellschaft). In Risse sopravvive anche un marcato volontarismo pedagogico: lo sport come
educazione alla disciplina e a un rigoroso autocontrollo. Motivi che saranno più tardi facilmente
manipolati dalla propaganda nazista, malgrado I debole e tardiva rivendicazione del carattere
puramente scientifico della sua ricerca opposta da Rise. La verità è che questo semisconosciuto
pioniere della sociologia dello sport guarda - finalmente senza pregiudizi - all'insediamento dello
sport nelle società di massa dall'angolo visuale di un appassionato neofita. Contrasta quasi d'istinto
la supponenza aristocratica dei critici dello sport ed esalta, un po' ingenuamente, la capacità delle
masse di appropriarsi di questo prodotto della modernità. Una visione compatibile, a ben vedere,
tanto con il radicalismo antiborghese dei fascismi europei, quanto con l'ideologia di classe del
movimento proletario. Anche la perentoria affermazione per cui l’uomo europeo del futuro non è
«contemplativo», ma «volitivo», riflette un'ambiguità culturale che troverà accoglienza - la di là
delle intenzioni - nel vitalismo reazionario. Di questo sarebbe ingiusto far colpa al povero Risse, la
cui ricerca si rivolge piuttosto ala genesi degli sport moderni nel loro contesto nazionale. Gli antichi
Turnen tedeschi e la loro derivazione ginnastica (prevalentemente non competitiva) gli sembrano li
prodotto di una ricerca artificiale della bellezza, di un estetismo che rifiuta la spontaneità del gesto
e produce la coercizione della forma. Il contrario dello sport britannico id competizione, che gli
pare invece espressione di una ricerca di dominio totale della corporeità ed esemplare punto di
incontro dei due inseparabili elementi della regola e del gioco. Anche per questa ragione lo sport
agonistico costituirebbe un modello pedagogico fondato sull'esaltazione dele capacità affinate
dalla disciplina, assai più "moderno" di quello suggerito dalle stereotipate esibizioni non
competitive dei Turnen. Risse va anche più in là collegando le origini britanniche dello sport
moderno non già all'industrialismo genericamente inteso, quanto piuttosto ala reazione al
macchinismo. A costo di qualche forzatura, li sociologo tedesco coglie nel modello competitivo
britannico un bisogno latente di riappropriazione del corpo, confinato negli spazi della fabbrica, e
di un'espressività negata proprio dalla produzione industriale di massa. Lo sport, insomma,
coincide con una pedagogia e, insieme, con una filosofia di vita. Questa enfasi sui contenuti
educativi impedisce a Risse, però, di dilatare el prospettive di un'autonoma ricerca sociologica sul
tema. L'opposizione fra sport e macchinismo (contenuto) e la nascita di un sistema sportivo
razionalizzato (forma) vengono indebitamente separate nelle conclusioni della sua analisi. La felice
intuizione che collega lo sport moderno al bisogno di espressività, e quindi lo riconduce alle
categorie di dramma e di arte, rimane priva di sviluppi convincenti. A Risse va tuttavia riconosciuto
il merito di aver prodotto una prima lettura tendenzialmente sistematica del fenomeno,
sottraendolo al monopolio interpretativo della sociologia britannica e mostrandone el diverse
articolazioni nel contesto europeo continentale. Ma, soprattutto, egli anticipa tematiche e campi di
ricerca che solo dopo decenni torneranno a trovare accoglienza nella ricerca sociologica.
1.I.4. Perlustrazioni dei confini
La ricerca sociologica ha complessivamente trascurato, come si è detto, il fenomeno sportivo
contemporaneo. Non mancano, però, interessanti e talora stravaganti antecedenti i n quell'area di
confine fra scienze sociali moderne e descrittivismo etnografico che ha rappresentato
nell'Ottocento una sorta di incubatrice della futura sociologia positivistica. Già nel 1801 Joseph
Strutt aveva compilato una diligente disamina - intitolata The Sports and Pastimes of the People of
England - non priva di intuizioni sociologiche ante litteram. La formazione dei giochi sportivi è
ricondotta ala distinzione fra attività ludiche del mondo rurale e passatempi urbani, istituendo una
prima, embrionale differenziazione fra sport di ascendenza aristocratica e folkgames. Esattamente
un secolo dopo sarà uno storico francese, Jean-Jules Jus- serand, con il suo Sports et exercises dans
l’Ancienne France, a produrre un'accurata ricostruzione dele matrici genetiche dello sport
contemporaneo, da lui situate nel tardo medioevo. Non si tratta di una pura ricostruzione erudita.
Fra li lavoro di Strutt e quello di Jus. serand si sviluppano le due ondate della sportivizzazione
europea. Il 25 novembre 1893 il barone ed Coubertin aveva proposto, in un colto e appassionato
discorso programmatico tenuto ala Sorbona, la ricostituzione del movimento olimpico. Dietro le
differenti genealogie si celano logiche politiche e persino diplomatiche non trascurabili. La Francia
contende ala Gran Bretagna al primogenitura di quella che ritiene una autentica rifondazione dello
sport - riallacciandosi al mito olimpico greco (de Coubertin) o alla tradizione feudale (Jusserand) ,-
mentre per gli inglesi lo sport moderno appare come li geniale -prodotto di contaminazione made
in Britain del vecchio loisir aristocratico, dei giochi di villaggio e della filosofia competitiva
industrialistica. Sullo sfondo vi è la lotta per l’egemonia fra due imperi e due modelli di
colonialismo. Traspare anche, però, l'influenza della nascente scuola etno-socio-logica alla cui
affermazione scientifica contribuisce nei primi anni del novecento la ricerca di Emile Durkheim
sulle Forme Elementari della vita religiosa (1912). Un'opera, quest'ultima, che non presenta
nessuna attinenza esplicita al tema dello sport, ma che indaga genialmente nelle categorie del rito
e del mito, fornendo una miniera di potenziali strumenti di analisi del fenomeno. Soprattutto, si
deve a Durkheim l'elaborazione di quel concetto di rappresentazione collettiva che renderà
possibile la collocazione dello sport all'interno della sociologia della cultura. Forse non
casualmente, del resto, l'interesse degli studiosi per questa negletta manifestazione della vita
sociale si riaccenderà in maniera intermittente in occasione di alcuni importanti passaggi d'epoca.
Valgano el testimonianze di Rise negli anni della crisi della democrazia tedesca; quelle di Mumford
e Huizinga nella stagione dei gran- di totalitarismi; la stessa gestazione di una scuola di pensiero
inglese che si produrrà in concomitanza con l'apertura di una riflessione storiografica sulla
decolonizzazione. Sembra quasi che lo sport venga .periodicamente e transitoriamente riscoperto
in relazione la bisogno di comprendere per via indiretta, scandagliando el trasformazioni degli
umori, dei gusti e delle passioni collettive, l'operare di dinamiche sot- terranee del mutamento
culturale. Raramente il tema si impone per forza propria all'agenda scientifica. Un'eccezione
importante è costituita, forse, da un evento-simbolo come le Olimpiadi di Roma del 1960, che
aprono la strada al superamento di fatto della vecchia mitologia del dilettantismo e inaugurano la
stagione dello sport-spettacolo a misura televisiva. Seguirà la fase della diplomazia del ping-pong,
dei boicottaggi olimpici, dei grandi scandali e del gigantismo commerciale e mediatico. Ma sono
sempre eventi in cui lo sport evoca qualcosa di diverso da sé: la politica, la diplomazia, il
mutamento delle tecnologie e dell'economia. Timide e rare sono, anche negli Usa, le indagini
specificamente orientate al tema. Viene da ricordare soltanto l'effimero filone degli anni Cin-
quanta, con la ricerca di David Riesman e Renel Denney sull'impatto della cultura del football
americano sul «senso comune» degli statunitensi (1951). O li tentativo di fondare un'autonoma
antropologia dello sport da parte di F. W. Cozens e F. S. Stumpf-Fredericksen (il loro Sport and
American Life è del I953). Nel I956 al "Chicago Review" ospita li brillante saggio di G. P. Stone Sport:
Play and Display, ni cui l'agonismo è analizzato come fenomeno di frontiera fra gioco e spettacolo,
suggerendo un'interpretazione destinata presto a entrare ni rota di collisione con la scuola
dell'interazionismo simbolico e, principalmente, con i seguaci di Erving Goffman. Se infatti Stone
tende a differenziare i concetti di gioco e di spettacolo, ricostruendone storicamente la genesi e
sforzandosi di fornire ad essa una cornice spazio- temporale, gli interazionisti - attenti a cogliere la
dimensione drammaturgica della vita quotidiana (Goffman, 1959) - considerano la distinzione fra le
categorie di gioco e spettacolo analiticamente fuorviante e priva di qualunque significato.
Gli anni Settanta fanno emergere nuovamente al tematica del corpo, in relazione ai nuovi stili di
vita e ai modelli culturali che verranno indagati dall'analisi psicosociologica id .J LoeyG. Kenyon
(1969) e, soprattutto, dal lavoro di Cristopher Lasch (1979) sulla cultura del narcisismo. E li periodo
in cui, ni parallelo con l'accreditamento del paradigma configurazionale, si producono in Germania
i lavori di G Lüschen, ispirati all'approccio transculturale, e la polemica requisitoria id B. Rigauer
contro lo sport del capitalismo maturo. In Francia G. Magnane pubblica nel 1964 la sua scolastica
Sociologie du sport e sul tema si cimenta anche, con maggiore originalità, .J Dumazedier (I962),
autore di un brillante ma episodico pellegrinaggio nei nuovi loisir urbani. La sociologia militante
trova espressione nelle già richiamate produzioni di P. Laguilamie e id .J M. Brohm. Soltanto venti
anni dopo una bella monografia id "Esprit" 987I)( - con contributi di Ehrenberg, Gaborieu, Pociello
e altri - rilancerà al questione spor-vita nel dibattito delle scienze sociali francesi.
Forse, però, i contributi più criticamente orientati nella produzione postbellica vanno cercati in
autori che non hanno dedicato allo sport pubblicazioni specifiche, ma che lo hanno utilizzato
originalmente per una lettura d’insieme delle dinamiche sociali. È il caso delle riflessioni sula vita
pubblica americana di Charles Wright Mils (I951) o di quelle dedicate alle persistenze e
trasformazioni delle culture collettive da Roger Caillois (1958), nonché della controffensiva
intellettuale di Edgar Mnoir (1962), che al critica demolitrice dei francofortesi alla cultura di massa
contemporanea oppone una più articolata e ottimistica lettura della cultura popolare, o anche
delle elaborazioni di Pierre Bourdieu (1979) sula cultura della distinzione e le metamorfosi del
gusto. Erede intellettuale della tradizione di Vebeln e dei muckraker - i corrosivi giornalisti "di
costume" della provincia statunitense -, Char- les Wright Mils, autore dei Coleti bianchi e dele Élite
del potere, analizza lo sport nelle moderne società id massa come il tipico prodotto di un doppio
codice normativo. Da un lato l'interiorizzazione dell'etica del lavoro, di ascendenza calvinistica o (l
sport contemporaneo affonda radici soprattutto nell'universo sociale anglosassone), che produce
una work morality orientata ala prestazione, al successo, alla produttività. Dall'altro, le ragioni
insopprimibili del piacere e della stesa futilità - qualcosa, insomma, di non riducibile la puro svago
o alla valvola di sfogo di fronte a una vita quotidiana sempre più dominata dalla routine e dalla
banalizzazione della vita quotidiana – che non cessano di generare al morale del divertimento, al
fun morality. Alla relazione fra gioco e pratica agonistica si rivolge anche l'originale analisi di Roger
Caillois (I giochi e gli uomini). Per lo storico de etnologo francese, che utilizza per la propria ricerca
sula «maschera e al vertigine» un'impressionante mole di documentazione, spaziando dalla
preistoria all'età contemporanea e abbracciando le più diverse culture umane, si tratta di
rintracciare li nucleo germinale che, presso tutte el civiltà, produce e riproduce domande
espressive e bisogni mimetici. Il suo viaggio nell'immaginario ludico è affascinante ed
estremamente difficile da ricondurre a sintesi. Al cuore del suo interesse c’è comunque la tensione
irriducibile fra le ragioni del disciplinamento – la civilizzazione - e domande di ebbrezza, di rischio,
di affermazione d'identità. Rappresentazione che, in qualche passaggio, richiama l'opposizione
istituita da Nietzsche fra spirito dionisiaco ed apollineo nella nascita della tragedia. Lo sport, ni
questa prospettiva, appare come l'emersione di un torrente carsico, che porta ala superficie
bisogni generati dall'istinto e, insieme, li mescola con logiche proprie dell'ordine sociale. Quello di
Caillois, è insomma, un contri- buto suggestivo, da maneggiare con cura, che ha li merito di
restituirci tutta la complessità e la multidimensionalità del fenomeno, sot- traendolo a letture di
corto respiro. Edgar Morin, pioniere delle ricerche sula cultura popolare, non ha difficoltà a
recepire lo sport nel contesto di una vera e propria mutazione antropologica (la cultura del loisir),
che descrive nelle sue luci e nelle sue ombre senza intenzioni moralistiche. E Pierre Bourdieu,
indagando al genesi sociale del gusto, utilizza le preferenze per determinate pratiche e specialità
come un potente indicatore della auto collocazione di status. Un altro eccentrico sociologo
francese, Piere Parlebas (198I, 1990), Si sforza - forse in maniera eccessivamente tassonomica - di
classificare e tipizzare el diverse esperienze competitive, e insieme, di suggerire una connessione
fra sviluppo storico dele diverse specialità e cicli dell'innovazione scientifica e tecnologica.
Esplorando el intersezioni fra formazione dei sistemi sportivi contemporanei e dinamiche di
democratizzazione, anche li canadese. R Gruneau (1983, 1988) si è concentrato sula fase genetica
dello sport contemporaneo. Si deve soprattutto a lui il tentativo di dilatare il campo d'osservazione
che la scuola configurazionale aveva ristretto al paradigma britannico-vittoriano. Il progressivo
costituirsi di un universo competitivo gli appare come uno dei momenti cruciali del passaggio dalle
società tradizionali preindustriali a quelle industriali contemporanee. Lo sport, secondo Gruneau,
riproduce in modo paradigmatico l'ambiguità intrinseca di queste ultime formazioni sociali. Da un
lato, il successo agonistico diviene un paradigma della mobilità ascensionale, sintonizzandosi con la
mitologia del self-made man. Dall'altro, seleziona i propri eroi dentro il recinto della promozione
individuale, esaltando il possesso di virtù eccezionali, come il talento, la tenacia, la fortuna. È in
questa chiave, da esempio, che i campioni di colore negli USA possono divenire emblemi di una
falsa mobilità ascensionale, alimentando nell'immaginario pubblico la retorica delle opportunità
illimitate - cioè il fondamento ideologico dell'American Dream - pur in assenza di efficaci politiche
dello sport dei cittadini. È però altrettanto vero che il professionismo agonistico e lo stesso
campionismo, sin dalla fine del xix secolo, contribuiscono a depotenziare e, più tardi, a superare
definitivamente l'eredità culturale dei vecchi loisir aristocratici sportivizzati, che avevano attirato la
polemica attenzione di Veblen. E’ Gruneau a sottolineare come le strutture simboliche dello sport
rinforzino il ruolo dello Stato e agiscano come strumento di coesione sociale, facendone l'unico
idioma globale del Novecento.
1.1.5. Allen Guttmann: un itinerario nella modernità
Lo sport del Novecento è nu prodotto della modernità, che si sviluppa ni radicale discontinuità
rispetto ai precedenti modelli (Man- del, 1984). Chi ha cercato di ricostruire la catena genetica del
fenomeno risalendo all'antichità classica, al mito di fondazione olimpico, all'eredità campionistica
cavalleresca, alle pratiche devozionali del medioevo cristiano o ai giochi di villaggio rurali ha
compiuto, seppure ni perfetta buona fede, un'opera di autentica invenzione della tradizione.
Significativamente, è la riflessione di Max Weber sui tratti costitutivi della modernità a fare da
guida all'analisi più penetrante che le scienze sociali abbiano dedicato all'argomento. Mi riferisco
all'itinerario che conduce «dal rituale al record», così come lo ha ricostruito Allen Guttmann
(1978). Un percorso che muove dalle originarie pratiche liturgiche e devozionali della fisicità per
approdare, a cavalo fra xix e xx secolo- con lo sport britannico vittoriano- all’ideologia secolare del
risultato, attraverso una sequenza di sette principali cesure culturali. lI primo passaggio è connesso
ala secolarizzazione della società. Nessuna civiltà premoderna ha coniato una parola che indichi ciò
che noi definiamo sport, intendendo una pratica competitiva, retta da regole ed esercitata tramite
il ricorso prevalente ala fisicità. Tutte le attività cerimoniali a sfondo religioso, tutte el pratiche
collettive legate a bisogni di integrazione comunitaria, sono ispirate a modelli liturgici in cui la
competizione - quando esiste - ha un ruolo del tutto accessorio. L'agonismo greco classico -
rielaborato dalla fantasia di de Coubertin - presenta, caso mai, connessioni interessanti con la
produzione artistica e drammaturgica. Quello romano, invece, si collega a un programma
pedagogico (mens sana in corpore sano) orientato non alla competizione, bensì alla formazione
premilitare e all'educazione del civis. In realtà, come ha documentato Paul Veyne (1973),
i giochi del circo rappresentano soprattutto una manifestazione di spettacolarizzazione della
violenza, forse originariamente associata alle cerimonie funebri. L'estetizzante agonismo ellenico
non appassionò mai la plebe romana. La teologia giudaico-cristiana, come pure li razionalismo
laico occidentale, ha impiegato secoli per affrancarsi da un'idea negativa della corporeità e liberarla
da infiniti tabù di ordine etico e culturale. Lo sport moderno si è costruito nei secoli della
civilizzazione occidentale proprio emancipandosi da una matrice religiosa arcaica e contribuendo,
così, a quella più vasta dinamica culturale che Weber definisce disincanto. Per questa via, ha
progressivamente isolato nuclei di competitività presenti nelle culture tradizionali, modificandone
il senso e orientandolo verso un'idea laica e altamente tecnicizzata di prestazione. Questa
metamorfosi del significato non ha impedito all'agonismo moderno di inglobare evocazioni
espressive che rinviano ala sfera del sacro. Basti pensare ai rituali scaramantici, così popolari fra gli
atleti, o riflettere sula definizione di religione civile, attribuita allo sport dagli storici per
sottolinearne la funzione simbolica nella stagione della nazionalizzazione. Nemmeno è contestabile
che nella passione sportiva si siano travasate domande di identità un tempo soddisfate dai rituali
religiosi o dalla tenzone cavalleresca. Un filo rosso connette il mito del campione-paladino all'eroe
sportivo contemporaneo, figura che si afferma prima nei Paesi protestanti, dove forse – oltre a
fattori legati allo sviluppo produttivo e alla precoce maturità del sistema sportivo - agisce anche un
elemento culturale che ha radici in una specie di sentimento negato. Mi riferisco a quel bisogno
latente di identificazione in figure intermedie fra l’uomo e la divinità – eroi, semidei, esseri
immaginati al confine fra l’umano e il sovrannaturale- che il cattolicesimo latino aveva in parte
soddisfatto preservando il culto dei santi, rifiutato come residuo pagano dal più austero e
iconoclasta protestantesimo. Negli stessi Paesi protestanti, del resto, ancora agli inizi
dell'Ottocento prevalgono diffidenze religiose a tinte fondamentalistiche nei confronti della
corporeità e di tutte le manifestazioni comunitarie che sembrano richiamare, a torto o a ragione,
pratiche di ascendenza pagana, espressione di una festività popolare sregolata e potenzialmente
licenziosa. Il carattere compiutamente secolare del fenomeno emergente non è insomma
compreso, ma genera ansia e sospetti che, per inciso, ritroveremo più avanti - agli inizi del
Novecento - nelle avanguardie più ideologizzate del movimento operaio, timorose che
la passione sportiva divenga una sorta di nuovo e più insidioso oppio dei popoli. Nelle "campagne
per la temperanza", da esempio, opera un pregiudizio etico, che associa lotta all'alcolismo, rispetto
integrale del riposo domenicale e timore di una incontrollabile popolarizzazione della cultura della
competizione. Non si possono negare, insomma, persistenze e resistenze culturali che peraltro non
inficiano, e anzi confermano, il profilo dello sport moderno come fenomeno altamente
secolarizzato, capace, cioè metabolizzare el sopravvivenze conferendo loro nu significato inedito.
Scrive ni proposito Guttmann (1978, trad. it. p. 38,) quasi a scandire tre distinte stagioni culturali: Si
considerino o meno el passioni, i rituali e i miti degli sport moderni come una religione secolare, i l
contrasto fondamentale tra sport primitivi e sport dell'antichità rimane. Il legame tra il secolare e il
sacro è stato spezzato, l'attaccamento al regno del trascendente e stato reciso. Gli sport moderni
sono attività in parte perseguite come fini a se stesse e in parte per altri fini che sono altrettanto
secolari. Noi non corriamo affinché la terra sia più fertile. Noi non corriamo affinche la terra o
lavoriamo nelle nostre fabbriche e nei nostri uffici in modo da poter avere del tempo per giocare.
-pag 41 – 30 sul comp.

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