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distanti e più capaci di dialogo due sistemi culturali. Da un lato, l'universo degli sportivi; dall'altro,
quello dei sociologi e degli studiosi di scienze sociali. I primi tendono a una rappresentazione della
propria esperienza come qualcosa di sostanzialmente separato dalle trasformazioni della società.
Tendono, cioè, a una forma di autoreferenzialità che - per complesse ragioni di ordine storico e
culturale - sembra particolar- mente accentuata nel caso italiano. Senza accorgersi di rinunciare,
così, ai preziosi strumenti di conoscenza e di intervento che la ricerca sociale, anche nella sua
strumentazione empirica, può mettere a loro disposizione. E, soprattutto, senza avvedersi di
abdicare a un ruolo importante: quello di rivendicare fino in fondo, sul terreno della cultura
collettiva, le ragioni dello sport come movimento e come diritto di cittadinanza.
I secondi stentano ancora a liberarsi da una rappresentazione ancillare dello sport, inteso di volta
in volta come fatto puramente commerciale, legato agli umori della cultura di massa, oppure come
esperienza del tutto privata, relegata ala sfera dele opzioni personali e di scarso interesse
scientifico. Una visione inconsapevolmente aristocratica, che impedisce ai ricercatori di utilizzare lo
sport - fenomeno assai più differenziato e denso di implicazioni sociologiche di quanto non appaia
all'osservazione accademica - come uno straordinario sensore del mutamento. Il tentativo è
dunque di offrire ai cittadini dello sport - a cominciare da chi frequentai corsi universitari di Scienze
motorie un panorama sintetico della produzione scientifica sul tema e di selezionare alcune
questioni nevralgiche che incrociano e condizionano lo sviluppo dei sistemi sportivi
contemporanei. Per questo - dopo una rassegna sui costrutti teorici e una rapida analisi sul nesso
nevralgico fra sport e modernità - ci si occuperà, nella seconda parte del volume, di tematiche
come l'ambiente, la rappresentazione dello spazio e del tempo, li corpo, la tecnologia e la
globalizzazione. Concentrandosi, poi, sule due principali sfide ambientali che stanno davanti alo
sport come fenomeno della modernità matura: la rivoluzione dei mezzi di comunicazione di massa
e la riforma dello Stato sociale. Ai cultori, o ai semplici curiosi di scienze sociali, si cercherà, invece,
di offrire esempi dele suggestioni e delle opportunità di analisi a largo raggio che possono venire
da un approccio non estemporaneo e non pregiudiziale ala tematica sportiva. Un approccio
capace, cioè, di comprendere le articolazioni, le contaminazioni, le trasformazioni di paradigma
indotte dalla implosione del modello industrialistico e produttivi stico che aveva ispirato al prima
stagione della sportivizzazione. In un certo senso, li volume rappresenta un primo, provvisorio
bilancio del lavoro collegiale avviato, già agli inizi degli ani Novanta, con l'esperienza del laboratorio
Sport & Loisir preso li Dipartimento di Sociologia di Roma “La Sapienza". Un'esperienza che ho
cercato di trasferire nella pratica didattica del Corso di laurea ni Scienze motorie dell'Università di
Cassino e nell'insegnamento di Sociologia del mutamento da me ricoperto preso al Facoltà di
Lettere e Filosofia. Il mio ringraziamento va, pertanto, a tutti i colleghi ei collaboratori che, prima a
Roma e poi a Cassino, hanno favorito e accompagnato questo itinerario of record rispetto ala
tradizione accademica. Sono particolarmente grato, inoltre, agli amici Daniela Rossi, Giulio
Bizzaglia, Marco Geri e Pippo Russo per i consigli, i suggerimenti, le segnalazioni bibliografiche e la
pazienza dimostrata nell'esercitare l'insostituibile funzione di "interfaccia" nelle diverse fasi di
elabora- zione del testo. A Teresa Giacobbi debbo li prezioso supporto tecnico che mi ha consentito
di produrre più speditamente apparati bibliografici e grafici. All'unione italiana sport per tutti,
infine, va la mia riconoscenza per aver fornito alla riflessione teorica un appassionante e concreto
retroterra di esperienza. Roma dicembre 2000.
INTRODUZIONE
Lo sport del Novecento ha rappresentato un fenomeno socialmente ingombrante e
sociologicamente sommerso. È stato una delle principali, forse la principale, forma di
intrattenimento per miliardi di spettatori che in tutto il pianeta hanno popolato stadi, impianti,
strutture specializzate o ambienti all'aria aperta per partecipare di una passione, di un'emozione,
di una mitologia collettiva. Spettatori fisicamente, spesso fragorosamente presenti ai bordi di un
campo e poi, con lo sviluppo delle comunicazioni di massa, sterminato pubblico dei media.
Pubblico radiofonico, cinematografico, televisivo e infine telematico che attorno alo sport, ai suoi
simboli, ai suoi campioni, ha vissuto esperienze eccitanti, talvolta irripetibili, sviluppando processi
d’identificazione e persino costruendo appartenenze socialmente significative. Ma anche esercito
di appassionati che, nelle forme più diverse e con differenti tassi di coinvolgimento,
quell'esperienza hanno voluto praticare direttamente. Trovando forse in essa, nella reiterazione di
un gesto arcaico - come il correre, il saltare, il nuotare o il lanciare - via via disciplinato in codici,
regole del gioco, imperativi tecnici, una risposta emozionalmente densa a bisogni che altre
manifestazioni della vita sociale non riescono a soddisfare con pari capacità espressiva. Questa
tensione fra le ragioni dell'emozione e quelle della regolazione, imposta dalla logica tecnica del
competere, è elemento essenziale del fascino e della irrisolta contraddizione dell'esperienza
sportiva. Insieme, li carattere di opportunità aperta ai più diversi vissuti - da semplice
intrattenimento a ragione di vita, da spettacolo fruito passivamente a rigorosa disciplina del sé -
enfatizza l'ambiguità di fondo del fenomeno. È forse questa natura anfibia che
spiega, almeno ni parte, come lo sport rappresenti un fenomeno indocile, sfuggente, non
facilmente addomesticabile dalle tradizionali categorie analitiche dele scienze sociali.
Se a ciò aggiungiamo l'eredità di una cultura accademica che ha vissuto a lungo con
disorientamento, e persino con fastidio, li rapporto con le varie manifestazioni della disprezzata
cultura di massa, cominciamo a comprendere li paradosso per cui, sino a pochi anni fa, un
fenomeno così ingombrante risultava tanto privo di interesse e di visibilità agli occhi di competenze
scientifiche non strettamente tecnico-strumentali. Materia da fisiologi e biomeccanici, poco
consigliabile agli studiosi di scienze sociali, per i quali continuava a rappresentare una specie di
continente sommerso. Eppure si calcola che ni un Paese come l'Italia l'indotto commerciale dello
sport abbia movimentato nel 2000 oltre sessantamila miliardi di lire. Vale adire che, in termini di
fatturato, lo sport costituirebbe li quinto comparto produttivo del Paese, davanti a settori
tradizionali del made in Italy, come li tessile o l'abbigliamento. Fra li luglio 1998 e li giugno 19 el reti
televisive a diffusione nazionale hanno trasmesso qualcosa come 1.971 ore di trasmissioni
dedicate il solo calcio. Un immaginario spettatore che avesse seguito tutto il calcio trasmesso in VT
sulle reti nazionali avrebbe trascorso 82 giorni filati seduto davanti al video. Venticinque milioni
d'italiani lo hanno seguito con maggiore o minore assiduità, ma con un tasso complessivo di
fedeltà che nessun altro tipo di programma televisivo ha potuto vantare. Più di trentasei milioni di
italiani - quasi due terzi della popolazione del Paese - praticherebbero, secondo ISTAT (Multiscopo,
1998), qualche forma di attività fisico-motoria. Di questi, oltre quindici milioni con modalità che
possiamo definire propriamente sportive. Cifre che parlano da sé, rendendo stridente li contrasto
fra le dimensioni culturali, economiche e demografiche del fenomeno e l'attenzione che ad esso
dedica la ricerca sociale. Significativamente, in un Paese pervenuto per ultimo ni Europa a
riconoscere dignità di studi universitari alle scienze motorie (i vecchi isef sono stati sostituiti dalle
nuove Facoltà di Scienze motorie soltanto con l'anno accademico 1999-2000, in mezzo a mille
resistenze di ordini, ceti e corporazioni), si ha ancora pudore a inserire nel curriculum formativo
degli studenti insegnamenti ispirati al metodo e ai contenuti dele scienze sociali. Scienze che, dal
canto loro, si accontentano di osservare dal buco della serratura un fenomeno insieme gigantesco
e appassionante, complesso e persino inquietante. Prevale l'effetto "lettera rubata". Lo sport è lì,
invadente e insinuante, a riempire le nostre giornate televisive, a risvegliare emozioni sopite, a
scandire li tempo di vita dei nostri figli, a fornire uno sconfinato repertorio metaforico ai nostri
uomini politici. Ma noi, i sociologi, non ce ne accorgiamo, non ce ne occupiamo. Lo consegniamo
distratti agli "specialisti' ' , ai pochi giornalisti sportivi disposti a guardare un po' più in là del
prossimo derby calcistico, ai funzionari dello sport ufficiale - che, con rare eccezioni, si muovono
nei meandri della cultura dello sport come elefanti in un negozio di cristalli - , alle possenti
corporazioni professionali che della pratica sportiva hanno fatto una lucrosa opportunità
commerciale. È tempo, insomma, che la latitanza delle scienze sociali rispetto il fenomeno sportivo
venga meno. E non solo per le ragioni che intuitivamente discendono dalle dimensioni strutturali
del problema e che pongono la questione della responsabilità della scienza, dell'imperativo del
"conoscere per agire" in cui si è identificata, sin dai suoi albori positivistici, alla missione della
sociologia contemporanea. Oltre a compiti di censimento delle informazioni, di elaborazione di
conoscenze, di corretta lettura del fenomeno e delle sue intricate traietto- rie culturali, esistono
opportunità altrettanto stimolanti. Lo sport, infatti, è anche una straordinaria lente del mutamento
sociale tout court, in quanto manifestazione espressiva, stile di vita, modello di comportamento,
veicolo comunicativo, ideologia, passione popolare, tecnologia, chiacchiera quotidiana. Si tratta
allora di approfondire l'intuizione di quei pionieri senza seguaci che, sule orme di Marcel Mauss, si
sono spinti a descriverlo come un fatto sociale totale, capace di mettere in luce la trama
sotterranea che regola el relazioni collettive. Recuperando, anche, alla lezione dei classici della
sociologia - da Durkheim a Weber - attenti a cogliere quella sotterranea produzione del significato
che gli individui e el comunità umane conferiscono alle manifestazioni della vita collettiva. Anzi,
indagando quali rappresenta zioni collettive sorreggano la straordinaria costruzione
dell'immaginario sportivo. Per questo, mi sembra, dobbiamo percorrere due sentieri poco
frequentati della ricerca sociale contemporanea. Da una parte, quello che conduce a una
sommaria ricostruzione dei modelli interpretativi che la teoria sociale mette a disposizione di una
sociologia dello sport che non voglia accontentarsi di compiti ancillari, di pura rilevazione
descrittiva. Dall'altra, quello che indaga la storicità del fenomeno, che en individua i nessi con lo
"spirito del tempo", aiutando. ci a contestualizzare e a problematizzare il lavoro degli storici e degli
etnografi. Come si cercherà di argomentare, questo sforzo di analisi ni parallelo - come la teoria
sociale ha captato li potenziale euristico dello sport e come si è prodotta nel tempo alla
metamorfosi del sistema sportivo, delle sue culture e delle sue subculture - porta a un primo
elemento identificativo. Esso consiste nella modernità dello sport come fenomeno sociale e,
quindi, nella irriducibilità dell'agonismo contemporaneo a puro effetto di derivazione di una lunga
catena genetica. In questa ipotesi interpretativa, lo sport del Novecento è figlio di una cesura
culturale, è un prodotto peculiare del suo tempo storico. Non è possibile comprenderlo, insomma,
facendo astrazione dai drammi, dai miti e dalle nevrosi del Novecento. Solo un approccio attento
ala storicità del fenomeno ci può consentire, se ne saremo capaci, di gettare un'occhiata sullo sport
del secolo che nasce. Al di là di qualche estemporanea intuizione o di qualche digressione
intellettuale, li fenomeno sportivo non è però mai entrato compiutamente, come si è accennato,
nel raggio d'attenzione dele scienze sociali. A ragione Eric Dunning, nella prefazione all'edizione
inglese del suo Quest for Excitement (1986), scritto insieme a un maestro eterodosso come
Norbert Elias, individuava in questa rimozione un problema esemplare della sociologia
contemporanea. Una disciplina che ha costruito i propri paradigmi dominanti - in un certo senso, la
propria stessa epistemologia - attorno a un numero relativamente ristretto di attività umane.
Cammin facendo, man mano che alla scienza sociologica si istituzionalizzava, entrando nei curricula
universitari, producendo carriere e insediandosi nelle più accreditate sedi editoriali, smarriva
qualcosa, ne censurava qualche altra, ne delegava altre ancora a competenze iperspecialistiche,
rinunciando, così, all'ambizione di rappresentare la coscienza critica delle società di massa. Per
lunghi decenni alla guerra, le emozioni, li gioco, alla sessualità sono stati relegati nel cono d'ombra
della sociologia ufficiale. Marxisti dogmatici e vestali dello struttural-funzionalismo, storicisti di
ritorno e nostalgici di un sano quantitativismo empirico, esegeti della Grande teoria e cultori del
frammento hanno concorso così a mutilare la ricerca della sua ragione fondante: comprendere li
mutamento sociale, individuare i luoghi ni cui si produce, esercitare l'indagine critica su-l l'insieme
dele condotte umane. Lo sport ha seguito lo stesso destino dele altre fondamentali esperienze
individuali e collettive segnalate da Dunning: quello di essere alo stesso tempo nu fenomeno fra i
più discussi e fra i meno compresi della nostra vita quotidiana. Anche perché una lettura
criticamente orientata impone di assumere i rischi e le fatiche dell'interdisciplinarità. Esige un
occhio allenato alla complessità, alla contraddizione e a rappresentazioni multidimensionali,
chiama ni causa gli infiniti effetti in intenzionali dell'azione sociale, mette a rischio letture nitide,
formalisticamente coerenti, tipologicamente semplificate. C'è insomma, una sotterranea sfida
intellettuale che lo sport lancia alla sociologia. Essa consiste nell’implicito rifiuto di quella
confortevole lettura dicotomica della vita sociale attorno alla quale si è sviluppato un sistema di
coerenze false, o comunque obsolete: lavoro versus tempo libero; mente versus corpo; sfera della
serietà versus ambito del divertimento; economico versus non economico. Categorie analitiche che
hanno permesso la preservazione nel tempo di venerande tradizioni accademiche, e insieme, la più
prosaica moltiplicazione delle cattedre universitarie. Ma anche categorie rese inservibili dalla forza
ni sé del mutamento sociale e culturale. Lo sport è ingombrante perché si situa al crocevia di
ciascuna di quelle dimensioni dicotomiche ed è scientificamente indocile perché non si esaurisce ni
nessuna di esse. Per orientarci nei suoi meandri forse non abbiamo bisogno di una sociologia dello
sport specializzata e tendenzialmente autoreferenziale. Certamente, invece, abbiamo bisogno che
alla sociologia in quanto tale si occupi dello sport, rinunciando alle tentazioni del riduzionismo e
assumendo una prospettiva che non cancelli né rimuova el contaminazioni, gli spazi di frontiera,
l'esplorazione dell'ignoto.