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UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA” DI ROMA

Dipartimento di Storia, Culture, Religioni


Dottorato di Ricerca
“Mito, rito e pratiche simboliche” XXV ciclo

Le forme dell’abitare. Badolato tra abbandono e


costruzione d’identità

COORDINATRICE
Prof.ssa Laura Faranda
TUTOR
Prof.ssa Tiziana Banini
CO-TUTOR DOTTORANDO
Prof. Antonello Ricci Giampiero Scaccia

ANNO ACCADEMICO 2013 - 2014


In copertina: Badolato. Recupero della memoria e quesiti dell’identità
(Foto dell’A.)
INDICE

INTRODUZIONE p. 8

Capitolo I
LE DINAMICHE DELL’INSEDIAMENTO 15
I. 1. Badolato. Immagini di un paese-presepe 23
I. 1. 1. Profilo di storia e geografia del sito 27
I. 1. 2. I caratteri insediativi 33
I. 1. 3. Morfologia del costruito 40

Capitolo II
LE FORME DELL’ABITARE 53
II. 1. Le declinazioni del «centro» 62
II. 2. La casa come centro del mondo 64
II. 2. 1. Riti di fondazione e di propiziazione 67
II. 2. 2. Simbologia della soglia 69
II. 2. 3. L’organizzazione dello spazio domestico 74
II. 3. Organizzazione dello spazio e rapporti di socialità:
la ruga 78
II. 4. Spazi abitativi, spazi produttivi 83

Capitolo III
I PERCORSI DELL’IDENTITÀ 93
III. 1. Organizzazione dello spazio, identità di classe
e identità di genere 106
III. 1. 1. Luoghi della socialità femminile 111
III. 1. 2. Luoghi della socialità maschile 115
III. 2. Suddivisione dello spazio, identità territoriale
e identità religiosa 118
III. 2. 1. Le forme dell’identità religiosa:
la Settimana Santa 120
Capitolo IV
LE FASI E I MODI DELL’ABBANDONO 136
IV. 1. Erosione, consunzione, espropriazione.
La fine del paese-presepe 146
IV. 1. 1. Abbandono, alterazioni del paesaggio e
de-cultura dell’abitare 152
IV. 1. 2. Perdita del «centro», spaesamento e
percezione di marginalità 156
IV. 2. Badolato. I dati dello spopolamento 162
IV. 3. Le fasi e le forme dell’abbandono 171
IV. 3. 1. Spinte centrifughe e resistenze centripete 174
IV. 3. 2. Il racconto dell’abbandono: l’alluvione del 1951 178
IV. 3. 3. Sdoppiamento e lacerazioni dell’identità 191
IV. 3. 4. Mediatizzazione dell’abbandono 199

CONCLUSIONI 208

BIBLIOGRAFIA 211
Ringraziamenti

Visitare paesi, studiare luoghi, analizzare spazi significa incontrare persone, intrec-
ciare rapporti, tessere legami. Esprimo gratitudine e riconoscenza a quanti ho avuto modo
di incrociare e di conoscere durante questo percorso di ricerca, e di vita insieme. Mi piace
ringraziarli legando i loro nomi a quelli dei luoghi cui, in una privata geografia della me-
moria, li colloco: a Badolato Vincenzo Squillacioti, memoria storica del luogo, persona
squisita e studioso appassionato, prodigo di informazioni; Franco Muià, punto di riferimen-
to tenace, in continua lotta, per il lavoro di ricostruzione della memoria e per il suo radi-
camento al luogo; Imelda Bonato, per la trasparenza del suo sguardo.
A Badolato e a Pentadattilo Francesca Chirico, scrittrice a dispetto dei suoi dinieghi,
per il breve incontro. A San Sostene Rocco Codispoti, per la malinconia del suo sguardo e
con l’augurio di resistere. A Isca sullo Ionio Marziale Mirarchi, cultore di storie di paesi e
archivio di immagini, per la generosa disponibilità. A Pizzo Francesca Viscone, che non
ama le ipocrisie e le celebrazioni del nulla. A Badolato Marina Domenico Lanciano, per a-
ver voluto rievocare e rivivere le speranze e delusioni del “paese in vendita”.
Ancora a Badolato Pietro Parretta, per il puntiglio delle sue annotazioni e, a vario ti-
tolo, Domenico Frascà, Antonio Guarna, Celestino, Pasquale, la signora Rosa; a Olivadi,
Anna Maria Colabraro; a Catanzaro, Daniele Mellace; a Petrizzi, Antonio Piperata; a Sa-
triano, Giulio De Loiro; a Torre di Ruggiero, Gregorio Maletta.
E poi Gianfranco (Gengi) e la sua famiglia, Cristina, Paola incontrati nell’energia e
nella serenità di Luppino; Teo, Fabiana, Lorenzo, Anna, con cui ho condiviso parte del mio
percorso romano; Federico e Salvatore, compagni di scorribande per i luoghi. E finalmente
Nadia, vicina nella lontananza di Recoaro e dei luoghi condivisi.
Sono riconoscente al prof. Mario Aldo Toscano e alla dott.ssa Antonella Cirillo del-
l’Università di Pisa per avermi fatto reperire un loro studio. E ai dipendenti dell’ISTAT di
Catanzaro, per l’aiuto nella ricerca dei dati demografici.
Ringrazio le prof.sse Laura Faranda e Tiziana Banini, il prof. Antonello Ricci e i
membri tutti del Collegio Docenti del Dottorato “Mito, rito e pratiche simboliche” dell’U-
niversità “La Sapienza”, per i consigli di metodo, per la pazienza e le comprensioni usatemi.
Esprimo gratitudine, infine e ancora, a Vito Teti e Alfonsina Bellio, che hanno conosciuto i
miei lunghi silenzi e i miei ritorni, il mio frequente eclissarmi e le mie discontinue ricom-
parse. Vorrei garantire una maggiore presenza.
A mio padre, al suo viaggio nei luoghi
E a Matteo, nella promessa dei luoghi che visiteremo
A Ersilia, per stabilire i rapporti che reggono la vita della cit-
tà, gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case, bianchi o
neri o grigi o bianchi-e-neri a seconda se segnano relazioni di pa-
rentela, scambio, autorità, rappresentanza. Quando i fili sono tanti
che non ci si può più passare in mezzo, gli abitanti vanno via: le ca-
se vengono smontate; restano solo i fili e i sostegni dei fili.
Dalla costa d’un monte, accampati con le masserizie, i profu-
ghi di Ersilia guardano l’intrico di fili tesi e pali che s’innalza nella
pianura. È quello ancora la città di Ersilia, e loro sono niente.
Riedificano Ersilia altrove. Tessono con i fili una figura simile
che vorrebbero più complicata e insieme più regolare dell’altra. Poi
l’abbandonano e trasportano ancora più lontano sé e le case.
Così viaggiando nel territorio di Ersilia incontri le rovine del-
le città abbandonate, senza le mura che non durano, senza le ossa
dei morti che il vento fa rotolare: ragnatele di rapporti intricati che
cercano una forma.

Italo Calvino, Le città invisibili

«Paul, guarda quel villaggio lassù. Le vedi tutte quelle luci ac-
cese sulla collina? Se penso che sono tutti intenti alle loro faccende
– le donne preparano la cena, i bambini fanno i compiti – ecco, mi
sento così esclusa e ho tanta nostalgia della mia casa. Ma quando
sono lì, poi, mi rendo conto che mi aspettavo di trovare qualcosa
che non esiste».

Ingmar Bergman, Sinfonia d’autunno

Viaggiare sentendosi sempre, nello stesso momento, nell’i-


gnoto e a casa, ma sapendo di non avere, di non possedere una ca-
sa. Chi viaggia è sempre un randagio, uno straniero, un ospite; dor-
me in stanze che prima e dopo di lui albergano sconosciuti, non
possiede il guanciale su cui posa il capo né il tetto che lo ripara.

Claudio Magris, L’infinito viaggiare

Lo sapevamo anche noi il colore dell’offesa, e un abitare ma-


gro e magro che non diventa casa.

Gianmaria Testa, Ritals


INTRODUZIONE

Il titolo scelto per il presente saggio di tesi – Le forme dell’abitare. Ba-


dolato tra abbandono e costruzione d’identità – intende già enucleare, alle
soglie del testo, la pluralità dei concetti e degli argomenti attorno ai quali si
costruisce il nostro studio, e vuol suggerire la multisettorialità disciplinare
del contenuto, pur declinato secondo una sensibilità antropologica. La tesi
affronta i temi dell’abitare, dell’insediarsi e del costituirsi di una comunità
specifica – Badolato, in Calabria – di cui si ricostruiscono e si analizzano le
dinamiche connesse ai processi di abbandono, appunto, e di costruzione
dell’identità. Abitare, insediamento, abbandono, identità – concetti di per
sé complessi e sfuggenti ad una qualsivoglia sistemazione e inquadramento
teorico univoci1 – a loro volta rimandano a quelli di organizzazione, gestio-
ne, sacralizzazione dello spazio; di ricerca del centro e di perdita del potere
del centro; di luogo e di non-luogo antropologico; di angoscia territoriale,
di spaesamento e appaesamento che hanno interessato molteplici ambiti di-
sciplinari e hanno tracciato un lungo percorso di riflessione nel panorama
culturale e intellettuale delle scienze non solamente sociali2.
Lo studio – che ibrida metodologie e strumenti di analisi, nella con-
vinzione della necessità di un appressamento transdisciplinare ai temi della
ricerca, aperto agli apporti forniti non soltanto dalla specifica letteratura di
settore – intende dunque porsi come esempio di sincretismo scientifico, nel
tentativo di offrire una sistemazione strutturale, pur non univoca, in cui
trovano espressione questioni tra loro strettamente correlate ma che spesso
sono state affrontate disgiuntamente. Lo sforzo è quello di unificare pro-
spettive di analisi differenti in un quadro di riflessione coerente che con-
senta – prendendo a modello una comunità – di legare tra di loro tali con-
cetti e in cui gli sconfinamenti disciplinari siano sorretti da una visione or-
1 Vastissima ed eterogenea, infatti, la letteratura su questi temi. Nella presente breve introduzione limi-
tiamo i rimandi a pochi, imprescindibili contributi, che rappresentano lo sfondo teorico di riferimento per il no-
stro studio. Sull’abitare si vedano Heidegger M. 1993a; Bourdieu P. 2003; Norberg-Schulz C. 1995; La Cecla F.
2006; Id. 2007; Id. 2000. Sul tema dell’abbandono dei paesi vedi Klapisch-Zuber C., Day J. 1965; Klapisch-Zuber
C. 1975; Colistra D. (a cura di) 2001; Teti V. 2007a. Sul concetto di identità cfr. Lévi-Strauss C. (a cura di) 1996;
Fabietti U. 1998; Remotti F. 2009; Id. 2010; Banini T. (a cura di) 2009; Id. (a cura di) 2011.
2
Anche in questo caso, talmente ricca la produzione teorica di riferimento da consentire di segnalare, in
questa sede, solo gli studi essenziali. Sul concetto di spazio cfr. Archetti M. 2003, che offre un dettagliato resocon-
to circa la trattazione del tema in ambito socio-antropologico. Su quello di centro vedi Eliade M. 2008; Id. 1989;
Geertz C. 2009; Remotti F., Scarduelli P., Fabietti U. 1989. Sulle nozioni di luogo e di non-luogo vedi Augé M.
1995. Sui temi dello spaesamento e dell’angoscia territoriale rimandiamo a de Martino 2008a; Id. 2002a.

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ganica che privilegia, nel nostro specifico, la prospettiva antropologica. Il
modello teorico perseguito è perciò quello di uno studio di comunità in
grado di far dialogare branche che presentano tra loro punti di contiguità o
condividono temi di interesse quali l’antropologia e l’architettura, ad esem-
pio. O ancora l’antropologia e l’urbanistica, la geografia, la filosofia.
La letteratura – prodotta da Vito Teti e dal gruppo di esperti che affe-
riscono al Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo dell’Uni-
cal – sui temi dell’abbandono dei paesi, dello spostamento e dello sdoppia-
mento di abitati, della fondazione e della rifondazione dei luoghi, confluita
in una serie di pubblicazioni e in attività di studio e di divulgazione, costi-
tuisce un primo corpus teorico di riferimento su cui si fonda il nostro per-
corso3; al quale è doveroso aggiungere i contributi di Luigi M. Lombardi Sa-
triani e Mariano Meligrana, di Francesco Faeta, di Maria Minicuci sul rap-
porto tra insediamento e costruzioni simboliche, tra organizzazione dello
spazio e percorsi di appaesamento4, che a loro volta rimandano ad alcuni
fondamentali scritti di Mircea Eliade, Ernesto de Martino, Pierre Bourdieu5.
Ulteriori e centrali apporti alla nostra discussione vengono dagli studi di
Franco La Cecla e Lidia Decandia sul rapporto tra le pratiche antropologi-
che dell’abitare e la pianificazione urbanistica6. O quelli di Luisa Bonesio
sul rapporto tra insediamento e paesaggio e di Tiziana Banini su quello tra
abitare e identità7.
La scelta dell’argomento della tesi è motivabile quale prosecuzione di
un itinerario di studio sui temi dell’abbandono dei paesi calabresi già avvia-
to nel 2008, con la partecipazione – in qualità di assegnista di ricerca presso
l’Università degli Studi della Calabria – al progetto “Nuove tecniche di cata-
logazione dei beni etno-antropologici (abitare i luoghi, abitare le tradizio-
ni)”. Il tirocinio svolto in quell’occasione – all’interno di un’équipe di ricer-
ca afferente alla cattedra di Etnologia delle culture mediterranee – ci ha
impegnati in un lavoro di rilevazione, schedatura, catalogazione delle evi-
denze antropologiche, urbanistico-architettoniche, demografiche di alcune
comunità in fase di spopolamento della Sila Greca, in provincia di Cosenza,
e ci ha consentito di intraprendere un percorso di riflessione – che si inten-

3 Teti V. 2007a; Id. 1984; Id. 1989; Id. 2007b; Id. 2011a; Id. 2011b; Bellio A. 2010; Id. 2011; «Spola» 2007.
4
Vedi Lombardi Satriani L. M., Meligrana M. 1996; Id., Id., 1987; Lombardi Satriani L. M. 1989; Id. 2000;
Id. 2004; Faeta F. 1978; Id. 1984a; Minicuci M. 1981; Id. 1982; Id. 1984; Id. 1989.
5 Cfr. de Martino E. 2008a; Id. 2002a; Eliade M. 1989; Id. 1990; Id. 2008; Bourdieu P. 2003.
6 La Cecla F. 1999; Id. 2006; Id. 2007; Id. 2010; Decandia L. 2000; Id. 2004.
7 Bonesio L. 2001; Id. 2002; Id. 2007; Banini T. 2003; Id. (a cura di) 2009; Id. (a cura di) 2011.

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de qui approfondire, spostando l’attenzione su un’altra area della regione –
sulle dinamiche connesse ai processi di abbandono dei paesi.
Nella fase di impostazione del lavoro si è proceduto ad una ricogni-
zione d’insieme circa le aree della provincia di Catanzaro significativamente
interessate da fenomeni di abbandono e spopolamento. Questa prima rico-
gnizione è stata effettuata principalmente attraverso il reperimento dei dati
relativi all’andamento demografico delle diverse comunità. Da tali dati, de-
sunti dalla letteratura specifica di settore8 e dai registri dell’Ufficio Regiona-
le Istat, abbiamo individuato le principali manifestazioni di malessere de-
mografico riscontrabili in molti paesi catanzaresi e, conseguentemente, ab-
biamo potuto indicare una specifica area della provincia – la fascia del basso
Jonio – come quella che sembra concentrare in sé le più acute e al contem-
po multiformi dinamiche di abbandono e spopolamento. All’interno di que-
sta area abbiamo quindi selezionato, quale territorio per la ricerca, il paese
di Badolato che, per le trasformazioni urbanistico-paesaggistiche intervenu-
te negli ultimi decenni, per le vicende storiche e per l’andamento demogra-
fico dell’ultimo secolo, è emerso quale finestra prospettica da assumere co-
me modello funzionale alla nostra riflessione. Il paese, infatti, è tra quelli
maggiormente interessati da processi di abbandono e malessere demografi-
co della provincia di Catanzaro e dell’intero contesto regionale, ma appare
anche percorso da significative manifestazioni di resistenza allo spopola-
mento e di costruzione di una nuova identità, così da assumere ai nostri oc-
chi un alto valore paradigmatico e da costituirsi come “paese metafora del-
l’abbandono, della rovina, della fuga, della speranza”9.
Determinato così il terreno di ricerca abbiamo dato avvio all’attività
sul campo, condotta secondo una prassi epistemologica fondata sui canoni
dell’osservazione partecipante e articolata in sei diverse spedizioni, compre-
se tra l’aprile del 2011 e l’agosto del 2013. Per approntare una lettura del
territorio dettagliata, particolareggiata ed esaustiva abbiamo provveduto a
elaborare una scheda di lavoro per la rilevazione delle evidenze presenti in
loco e ci siamo avvalsi di molteplici strumenti. Attraverso la consultazione
di alcune planimetrie storiche abbiamo ricostruito a grandi linee le fasi di
sviluppo urbanistico di Badolato, integrando i dati reperiti con la consulta-
zione e lo studio dei testi storici. Alla ricerca della documentazione storica
si è accompagnata una rilevazione fotografica circa le evidenze urbanistico-
8 Vedi Izzo L. 1961; Id. 1965; Gambi L. 1961; Galasso G. 1958; Id. 1959.
9 Teti V. 2007a, p. 459.

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architettoniche del paese. L’apparato iconografico così prodotto è stato in-
serito a supporto del testo, andando ad integrare o approfondire taluni a-
spetti affrontati nel corso della trattazione. Fatta eccezione, perciò, per al-
cune immagini che compaiono nel Capitolo I – per le quali viene specificata
a margine la fonte – tutte le fotografie presenti nel testo sono dell’Autore.
Al reperimento della documentazione demografica e storica su Bado-
lato e alla produzione di quella fotografica è seguita, nelle principali fasi
della ricerca sul campo, l’osservazione e il rilevamento circa le evidenze an-
tropologiche, principalmente in connessione ai processi di abbandono del
borgo nonché ai percorsi di costruzione dell’identità. La prospettiva teorica
utilizzata ci ha consentito sia di osservare in prima persona le più significa-
tive manifestazioni legate alle dinamiche suddette e alle strategie poste in
essere per arginarle o, viceversa, per potenziarle, sia di entrare in contatto
con i principali referenti culturali della comunità, con le associazioni che o-
perano al suo interno e con gli attori sociali, così da poter raccogliere fon-
damentali notizie e informazioni sulla storia, la cultura, la mentalità dei ba-
dolatesi. La fase di osservazione ci ha permesso di indagare quali sono le di-
namiche sociali, religiose, simboliche, rituali che intervengono a definire il
senso di appartenenza e il sentimento identitario, o al contrario ad erodere
le antiche pratiche di socialità. Abbiamo inteso analizzare quanto sopravvi-
ve attualmente a Badolato dei processi di plasmazione simbolica dello spa-
zio e delle pratiche di appaesamento che in passato hanno rappresentato gli
elementi ai quali incardinare il proprio senso di appartenenza alla comunità
e al paese, vissuto e percepito come fulcro e centro del proprio esserci nel
mondo. E attorno a quali pratiche si costruisce oggi tale senso collettivo di
appartenenza e come si risponde alle lacerazioni identitarie sollecitate dalle
emigrazioni, dallo sdoppiamento urbano dell’abitato e dal continuo depau-
peramento demografico.
Il materiale raccolto attraverso le schede di rilevamento, lo studio e
l’osservazione del territorio, il dialogo con gli attori sociali, l’analisi demo-
grafica e storico-antropologica ci hanno consentito di elaborare così un par-
ticolareggiato studio su alcuni aspetti centrali della vita del paese in riferi-
mento a concetti nodali dell’attuale pensiero scientifico. Il presente scritto
intende dunque collocarsi nel panorama del dibattito culturale circa un ri-
pensamento critico dell’idea di identità, del concetto di luogo, dei temi del-
l’abitare nonché condividere la necessità – postulata da molti autori – di un
cosciente ritorno ai luoghi, di un recupero della dimensione esistenziale lo-

- 11 -
cale come risposta alla perdita di senso e alla sciatteria di molte tra le prati-
che insediative contemporanee10.
Data la complessità e l’eterogeneità delle questioni affrontate, il nu-
cleo concettuale dei singoli capitoli è introdotto da una premessa che anti-
cipa, su un piano generale e teorico, i temi delle sezioni monografiche. Le
pagine scritte a introduzione di ciascun capitolo non hanno valore né prete-
sa di esaustività. Sono state concepite e redatte seguendo un principio di
sintesi piuttosto che quello dell’analisi. Come tali, esse non solo non sono
esaustive, ma sono anche parziali, persino arbitrarie nelle scelte e nelle se-
lezioni operate. Hanno, pertanto, il solo intento di introdurre una serie di
concetti nodali attorno ai quali si sviluppa lo studio di tesi. Vogliono rap-
presentarne la cornice, lo sfondo teorico di riferimento. Vogliono inquadra-
re le nostre argomentazioni entro una tradizione, pur molteplice e plurale,
di riflessione antropologica sui temi trattati.
All’introduzione teorica segue, per ogni capitolo, l’affondo sul caso di
studio paradigmatico. Nella trattazione monografica vengono dunque ripre-
si gli argomenti delineati nella parte generale e si espongono e interpretano
i dati e i risultati della campagna di ricerca sul campo. Si crea così una sorta
di vertigine, un procedere dal generale al particolare ciclicamente intrapre-
so-interrotto-ripreso. È un movimento di perpetua circolarità che accenna
temi, li introduce, li formula, li lascia in sospeso, li riprende e li riformula,
ogni volta spostando di qualche grado l’angolazione della prospettiva di
analisi. L’architettura del testo e l’impianto espositivo, insomma, traducono
la complessità dei temi in uno sforzo di sintesi e di inquadramento e collo-
camento concettuale.
Nel primo capitolo, in particolare, viene tracciato un profilo storico-
geografico circa il processo di insediamento e di evoluzione urbanistica del
paese. In questa prima parte abbiamo inteso evidenziare il costituirsi di Ba-
dolato come esempio di paese-presepe, come espressione paradigmatica di
quei processi e di quei caratteri insediativi comuni a molti altri paesi – prin-
cipalmente di origine medievale – della Calabria. Abbiamo quindi indagato
e ricostruito quelle che sono state le tecniche edilizie, le forme e le espres-
sioni del costruito che hanno caratterizzato la storia urbanistica di Badolato.
Nel secondo capitolo l’esame antropologico di tali vicende urbanisti-
che si è focalizzato sul rapporto tra insediamento e forme e culture dell’abi-
10 Si vedano, a tal proposito La Cecla F. 2006; Id. 2007; Magnaghi A. (a cura di ) 1998; Id. 2010; Bonesio
L. 2007; Scandurra E. 2007; Tarpino A. (a cura di) 2011; Id. 2012.

- 12 -
tare. In questa sezione, in particolare, abbiamo analizzato il valore cultura-
le, psicologico, emotivo della casa come centro del mondo, come axis mun-
di, come punto di orientamento nello spazio. E abbiamo studiato le connes-
sioni tra la simbologia della casa e l’organizzazione dello spazio domestico,
tra le forme della produzione e i rapporti di socialità.
Nel terzo capitolo ci siamo soffermati sul rapporto tra organizzazione
dello spazio e dinamiche socio-antropologiche di costruzione dell’identità.
In particolare, si è studiata la concezione dell’abitare della comunità badola-
tese come veicolo e affermazione delle identità di genere (con la suddivi-
sione degli spazi paesani tra luoghi della socialità maschile e luoghi della
socialità femminile) e l’organizzazione dello spazio come espressione di i-
dentità territoriale e religiosa.
Nel quarto capitolo, infine, abbiamo ricostruito e analizzato le cause e
le forme di abbandono e di spopolamento verificatisi a Badolato, soprattutto
in connessione al terremoto del 1947 e alle alluvioni del 1951 e del 1953,
con conseguente processo di sdoppiamento dell’abitato e di trasferimento in
marina di parte della comunità. In quest’ultima parte lo sguardo si è con-
centrato quindi sui rischi di dispersione della comunità e sulle dinamiche di
polverizzazione delle identità da una parte, e dall’altra sulle manifestazioni
di un nuovo radicamento al territorio e di un rinnovato processo di riappae-
samento con i luoghi.
La bibliografia del testo riproduce l’eterogeneità e la complessità delle
prospettive considerate. La letteratura consultata, interrogata, studiata, cita-
ta è perciò inevitabilmente vasta e afferente a molti ambiti disciplinari. E
tuttavia, essa è incompleta, non esaustiva. Le citazioni di passi e considera-
zioni degli studiosi, e le note di approfondimento sono inserite a fondo pa-
gina per una più facile e immediata individuazione. Le note a piè di pagina
rispondono a due orientamenti: in primo luogo segnalano, ovviamente, i
rimandi bibliografici alle opere di riferimento e forniscono gli estremi nel
caso di citazioni. In questi casi abbiamo adottato il rapido e agevole sistema
autore-data (es.: Augé M. 1995) e i testi citati sono immediatamente rin-
tracciabili nella bibliografia finale. In secondo luogo, le citazioni possono
segnalare – a fronte di un tema particolarmente composito ed eterogeneo –
delle possibili vie di connessione con altri ambiti disciplinari o approfondire
specifici aspetti che esulano dalla trattazione principale. In questi casi i testi
non sono presenti nell’elenco finale, e vengono pertanto citati segnalando
per esteso, in nota, gli estremi bibliografici. Ad es.: Di Carlo A., Di Carlo S.

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(a cura di) 1986, I luoghi dell’identità. Dinamiche culturali nell’esperienza
di emigrazione, Milano, Franco Angeli. Nel caso di citazioni successive dei
medesimi testi, essi sono stati richiamati adottando le abbreviazioni di uso
comune e indicando, ove necessario, le pagine della citazione.

- 14 -
Capitolo I

LE DINAMICHE DELL’INSEDIAMENTO

Il quadro insediativo della Calabria1 è stato da sempre contrassegnato


dal difficile rapporto delle popolazioni con un territorio dalla struttura oro-
grafica endemicamente fragile, squassato dal ripetersi di funesti e devastanti
terremoti2 che, ricordava Augusto Placanica, hanno agito sia in termini di
distruzione di contesti urbani sia come agenti di trasformazione dello stesso
assetto geologico regionale, incidendo negativamente sulla costituzione del-
le montagne3. Storici e geografi, inoltre, hanno sottolineato come la partico-
lare morfologia del territorio abbia determinato la presenza di corsi d’acqua
brevi e con portata spiccatamente violenta; e come la loro rovinosa azione
abbia innescato quei processi di erosione del suolo cui vanno principalmen-
te ascritte le frane e le alluvioni – elemento strutturale delle vicende idro-
geologiche regionali – verificatesi nel corso dei secoli.
1 Le componenti insediative, le dinamiche del popolamento storico e l’uso del territorio in Calabria sono
stati oggetto di organiche ricerche e di sistematici studi di eterogenei settori disciplinari (geologia, architettura,
geografia, storia, antropologia). Per un quadro evolutivo d’insieme vedi d’Orsi Villani P. F. 1993; Id., Rossi-Doria
B. 1984; Bevilacqua P., Placanica A. (a cura di) 1985, segnatamente i distinti contributi dei due curatori. Cfr. Lo
Curzio M. 1995; Calì P. 1995. Riferimenti imprescindibili rimangono Isnardi G. 1965e; Gambi L. 1965. Cfr. Lac-
quaniti L. 1946, “Morfologia ed evoluzione dei centri abitati della Calabria: considerazioni ed esempi”, in «Bollet-
tino Società Geografica Italiana», pp. 31-37; Meyriat J. 1961, La Calabria [1960], Milano, Lerici; Klapisch-Zuber C.
1975, pp. 31-69. Vedi anche Rossi G. 1999, pp. 117-125; Curti G. 2001a, pp. 99-108; Fatta F. 2001, pp. 19-30.
2
La letteratura sorta attorno ai principali e più drammatici eventi sismici della regione è estremamente
vasta e ricca, tanto da non poterne dare, in questa sede, diffusa e adeguata indicazione. Per gli opportuni riferi-
menti bibliografici e per una storia e un’antropologia dei terremoti in Calabria rinviamo tuttavia a Teti V., Meli-
grana L. (a cura di) 2008, La Calabria e i terremoti, Reggio Calabria, Falzea Editore; Boschi E., Ferrari G., Guido-
boni E., Valensise G., Gasperini P. 1997, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1990, Bologna, ING-
SGA (Istituto Nazionale di Geofisica – Storia Geofisica Ambiente); Guidoboni E. 2001, “Il flagello della Calabria: i
terremoti”, in Bevilacqua P. (a cura di) 2001, Storia della Calabria. Vol. 4: Dal 1650 al 1900 , Bari, Laterza, pp. 51-
68; Bevilacqua P. 1981, “Catastrofi, continuità, rotture nella storia del Mezzogiorno”, in «Laboratorio Politico»,
Torino, Einaudi, nn. 5-6, pp. 179–219; Sole G. 1981, “Terremoti e comportamenti di massa. I pensatori del XVIII
secolo e i terremoti nelle Calabrie”, in «Classe. Rivista di analisi critica della società», Bari, Edizioni Dedalo, anno
XII n. 20, dicembre, pp. 22-45; Placanica A. 1982, L’Iliade funesta. Storia del terremoto calabro-messinese del
1783, Torino, Einaudi; Id. 1985, Il filosofo e la catastrofe. Un terremoto del Settecento, Torino, Einaudi; Inglese S.
F. 1990, “Razza tellurica, razza criminale: il «carattere» calabrese nella mitografia scientifica della prima metà del
Novecento”, in «Daedalus», Castrovillari (Cs), n. 4, gennaio-giugno, pp. 111–126.
3
Scrive in proposito lo storico, dopo aver analizzato le altre componenti che sono intervenute nella for-
mazione del contesto orografico regionale: “Dal canto loro, infine, i terremoti hanno spesso inciso negativamente
anche sulla costituzione dei monti: al di là del danno ai nuclei abitati, i sommovimenti tellurici – a cui la Calabria
è tristemente abituata, presentando uno dei più alti livelli di sismicità della penisola italiana – hanno avuto un
ruolo non piccolo nello scomporsi e ricomporsi di fasce geologiche, per cui la frequente successione di scosse por-
ta masse disomogenee di terreno a slittare sui basamenti cristallini e a traslarsi, con meccanica ed esiti simili a
quelli delle frane locali” (Placanica A. 1985, p. 15). Cfr. Ruggiero V. 1987b.

- 15 -
Anzitutto il versante jonico centromeridionale – come già rilevava
Roberto Almagià4 nel primo decennio del Novecento e come più tardi riba-
dirà Corrado Alvaro – era riconosciuto come area maggiormente esposta al-
l’attività erosiva delle fiumare e soggetta a elevata franosità. Lo scrittore di
San Luca, in particolare, nel racconto L’urlo del torrente (edito negli anni
’50), tracciava in questi termini lo stato di dissesto del paesaggio, e di conse-
guente instabilità degli insediamenti, nel litorale orientale:

Chi dia uno sguardo a una carta della Calabria, si renderà conto della esten-
sione della catastrofe che ha colpito la regione, per l’arco di duecento chilometri da
Reggio a Catanzaro, oltre ad alcune limitate zone dell’interno. È la costiera dell’Jo-
nio, la più illustre per le memorie della fiorente vita antica, e di ciò le è restata
un’arcana bellezza che tanti secoli oscuri non sono riusciti a cancellare, la più pove-
ra ai tempi moderni. I fenomeni sismici da due secoli vi hanno cancellato quasi inte-
ramente le tracce dell’architettura di un millennio di vita; le collere della natura vi
devastano periodicamente le preziose colture che l’uomo pure strappa alla terra ava-
ra. […] La furia delle acque del versante più spoglio, l’Jonio, allarga i letti dei tor-
renti d’anno in anno, divora ettari di terra di colture ricche, e questi fenomeni non
si registrano fino a quando le alluvioni grandiose non compiono l’opera creando un
cataclisma come quello ultimo, che mutano addirittura la configurazione del terre-
no, spianano monti, coprono valli, preparano il crollo dei paesi sulle pendici dei
monti. Lo Stato interviene spendendo somme ingenti a fortificare i paesi pericolanti;
e a distanza di pochi anni le crepe segnano i bastioni che trattengono la terra5.

La disastrosa incidenza di frane e alluvioni nella storia e nell’economi-


a regionali (ma anche nella psicologia del popolo calabrese) è stata interpre-
tata dagli studiosi in chiave ancor più condizionante rispetto ai pur tragici
eventi sismici. Giuseppe Isnardi, a tal proposito, scriveva: “Le frane costrin-
gono spesso allo spostamento parziale e talora totale di abitati, rendono co-
stosissima e interminabile la costruzione di strade e difficilissima la loro
manutenzione, […] sconvolgono e distruggono opere di bonifica, impianti
di irrigazione, culture intensive privilegiate. Il terremoto passa, infine, ma
le frane non passano mai, maledizione senza rimedio, che divora case, terre

4 Almagià R. 1907-1910, Studi geografici sopra le frane in Italia, Roma, Società Geografica Italiana, 3
voll., vol. II. Nelle sue indagini l’autore rilevava, ad esempio, frane e danneggiamenti in molti paesi della provin-
cia di Catanzaro, segnalati come aree ad alto rischio idrogeologico (Badolato, Satriano, Petrizzi, Cardinale, Sellia,
Caraffa, Marcellinara, Pentone, Magisano, Fossato Serralta, Sorbo San Basile, Maranise, Martirano). Per un quadro
storico del fenomeno frane in Calabria e per gli opportuni rimandi bibliografici vedi Palmieri W. 2002. Vedi an-
che Trischitta D. 1992, “La politica delle acque in Calabria”, in «Rivista Geografica Italiana», anno XCIX fasc. 4,
dicembre, pp. 839-850.
5 Alvaro C. 1958, pp. 164-166. Cfr. Id. 1925, pp. 198-200.

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e denaro e rende la vita inquieta ed errante anche nella breve cerchia del
paese o del villaggio lontani fra i monti”6.
Topografia accidentata e impervia, sconvolgimenti tellurici, dissesto i-
drogeologico hanno a tal punto scompaginato l’assetto del territorio da qua-
lificare la Calabria (e più in generale il Meridione) – secondo la ben nota
definizione di Giustino Fortunato7 – come «uno sfasciume pendulo sul ma-
re». Il convergere e/o il sovrapporsi di questi fenomeni ha causato, nel lun-
go periodo, il costituirsi di un’economia agricola precaria, segnata dalla po-
vertà dei mezzi e dall’insicurezza e transitorietà dei luoghi. Comunemente a
molte altre aree del Mediterraneo, inoltre, da una parte il lungo persistere
di virulente forme malariche lungo le zone costiere, malsane e paludose
(immagine riflessa del dissesto idrico e male endemico della regione dal
Medioevo al Novecento), e dall’altra le incursioni di popoli provenienti dal
mare (Arabi, Saraceni, Turcheschi, che a partire dal IX secolo e fino all’Ot-
tocento hanno saccheggiato coste e paesi della Calabria8) hanno determina-
to il continuo ripiego delle popolazioni locali verso le aree interne della col-
lina e della montagna.
Tale processo di arretramento – frutto anche di scelte di carattere e-
conomico-produttivo e di trasformazioni in ambito agronomico, come criti-
6 Isnardi G. 1965f, p. 11. Alle parole di Isnardi fanno seguito quelle di Lucio Gambi, per il quale il “dila-
vamento delle rilevanti piogge invernali sui pendii spogliati dei boschi, e la rapacità dei ruscelli non più tenuti a
freno o distanziati fra loro dagli alberi, e l’irruenza e l’impeto delle fiumare in piena che rodono e scalzano i fian-
chi dei rilievi e si slanciano dagli sbocchi delle valli sui coni di deiezione e su le piane adiacenti, sono congiunta-
mente le cause di uno dei più gravi fenomeni che feriscono e avviliscono annualmente la regione: cioè le frane e
le inondazioni. […]. Se pure di volta in volta – e cioè di anno in anno – le sue conseguenze sian meno catastrofi-
che di quelle che sono dovute in un sol giorno ai moti sismici, però la sua continuità e la sua ripetizione […] pe-
sano nella vita della regione ben più fortemente che non i sismi” (Gambi L. 1965, p. 97). Anche per Corrado Alva-
ro, il “torrente in Calabria è un mostro perfido ben più presente del terremoto; frantuma i ponti come fragili gab-
bie, passa sopra gli agrumeti e gli uliveti, demolisce le strade a mezza costa, spacca la casupola lassù” (Alvaro C.
1958, p. 162). A testimonianza di quanto profondamente tali fenomeni abbiano agito nel modellare la psicologia
delle popolazioni, una lunga tradizione folklorica attesta l’identificazione fiume-drago, rinviando a complesse e
articolate simbologie ctonie (cfr. Douglas N. 1998, pp. 149-156). Per questi aspetti e per una geoantropologia
dell’acqua in Calabria, connessa al sentimento di irrequietezza, di inquietudine, di erranza delle genti calabresi,
vedi Teti V. 1987a; Id. 2003a. Cfr. Bevilacqua P. 2003. Vedi anche Alvaro C. 1995b, pp. 3-7.
7 Fortunato G. 1911. Discutendo – all’interno dell’acceso dibattito sulla Questione meridionale – delle
condizioni di arretratezza del Sud Italia, e ricercandone le cause nel profilo geomorfologico e climatico, il grande
meridionalista scriveva: “Nessuno ricordò le singolari asprezze della struttura topografica, che fanno della bassa
Italia un regno appartato e fuori mano, il regno della discontinuità, con gl’intrigati laberinti delle sue montagne
franose, con i molti sregolati suoi torrenti in cambio di fiumi, con tanta frequenza di deserti non irrigui né irriga-
bili, su cui impera la malaria […]. Tra noi, […] tra il nodo calcareo degli Abruzzi a settentrione, che è tutto un
erbaio da pascolo, e la punta granitica della Calabria a mezzogiorno, che è un vero sfasciume, corrono immense
estensioni di argille scagliose, di scisti galestrini, di marne cretose più o meno impermeabili, acconce, se pure, alle
selve d’alto fusto od a’ pascoli bradi, qua e là alle colture specializzate, non mai, o assai poco, alle colture promi-
scue, intensive, causa efficiente di una fitta popolazione sparsa per le campagne” (Ivi, pp. 314-315).
8 Sull’argomento vedi Placanica A. 1993; Valente G. 1973a.

- 17 -
camente rimarcava Christiane Klapisch-Zuber9 – ha spesso portato all’ab-
battimento del manto boschivo per ricavare grami terreni da coltura, pro-
ducendo di fatto un’instabilità del sistema agricolo che è, insieme, causa ed
effetto del più generale squilibrio idrogeologico. Le popolazioni calabresi
sono arretrate verso i monti, allontanandosi da aree coltive potenzialmente
più redditizie. Di conseguenza si sono organizzate in agglomerati isolati e si
sono ridotte in contesti territoriali angusti, in cui la sopravvivenza era se-
gnata da una persistente fame di terra. Fame di terra che si è tradotta nella
distruzione dei terreni arborati – convertiti a coltivo e a pascolo tramite la
diffusa pratica del debbio –, agevolando in tal modo l’instabilità dei versanti
ovvero la condizione di precarietà degli abitati, così come lo scorrimento
rapido delle acque superficiali, il cui susseguente ristagno in pantani e ac-
quitrini lungo le aree di costa è stato alla base dell’insorgere dei focolai ano-
felici e del permanere di gravi condizioni di insalubrità10. Definitosi nel cor-
so dei secoli, tale modello di sfruttamento della terra e di conflittuale rap-
porto con il territorio ha fatto della Calabria – nelle autorevoli parole di I-
snardi – un “paese isolato e che par quasi fatto di isole instabili”11.
Il particolare profilo topografico, l’infelicità degli spazi, la strutturale
fragilità del terreno e la conseguente insicurezza delle attività umane hanno
determinato un sistema insediativo basato sulla tipologia accentrata a scapi-
to di quella sparsa. La Calabria, scriveva ancora Isnardi, era regione agricola
con “popolazione contadinesca non sparsa, ma accentratamente sparsa o
sparsamente accentrata, come dir si voglia”12. Nella storia regionale, lo svi-
luppo dell’agricoltura (strettamente correlato alla formazione dei nuclei a-
bitati) si è caratterizzato per una sostanziale divaricazione tra centri di pro-
9 Per la studiosa, l’applicazione sistematica delle necessità difensive quale “spiegazione a tutti i diversi in-
sediamenti elevati, sorti in età assai differenti e non caratterizzati necessariamente da una particolare mancanza di
sicurezza, trascura spesso motivazioni più profonde e indirette, come le trasformazioni economiche e i nuovi o-
rientamenti agricoli, che possono rendere caduchi gli antichi centri abitati, o come lo sviluppo di nuove forme di
vita politica e giuridica, impensabili fuori del possesso o dell’occupazione di un sito meglio individuato” (Kla-
pisch-Zuber C. 1975, p. 316). Vedi anche Id., Day J. 1965.
10 Per un quadro diacronico dell’agricoltura e dello sfruttamento del territorio in Calabria vedi Bevilac-
qua P. 1985; Id. (a cura di) 1989; Id. 2003; Gorgoni M. 1985; Trischitta D. (a cura di) 2005. Cfr. Soriero G. 1985.
Sull’uso storico del fuoco come strumento modellatore e devastatore del paesaggio vedi Sereni E. 1981, Terra
nuova e buoi rossi e altri saggi per una storia dell’agricoltura europea , Torino, Einaudi. Cfr. Minervino F. M. 2008.
Sulla catena disboscamento-frane-paludi-malaria interessanti notazioni venivano già formulate, con riferimento
alla regione, da Galanti G. M. 2008, pp. 55-136 e Douglas N. 1998, pp. 420-431.
11
Isnardi G. 1965f, p. 12.
12 Id. 1965c, p. 272. Più avanti lo studioso aggiunge: “L’anima ed il costume contadinesco sono espressi as-
sai meglio dal piccolo e dal piccolissimo centro, viventi una loro particolare vita omogenea e monotona, in cui
ogni famiglia è occupata senza tregua a risolvere per proprio conto il problema dell’esistenza, a volte si direbbe
quello della propria sopravvivenza fisica” (Ivi, p. 273).

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duzione e centri di residenza, come ha sottolineato Piero Bevilacqua: “Po-
polazione in gran parte accentrata sulla sommità di colline dell’entroterra, e
spesso rifugiata su alture imprendibili, quella calabrese rientrava pienamen-
te nel quadro di questo assetto divaricato fra storia – e necessità – degli in-
sediamenti e dinamiche della vita produttiva, fra i vincoli dell’abitare e i bi-
sogni del lavoro”13.
Se da una parte questo modello insediativo è segnato da un assogget-
tarsi al dominio degli spazi e da una subalternità ai caratteri storici del terri-
torio – che hanno imposto un atteggiamento difensivo alle genti calabresi,
per le quali per lunghi secoli uscire “dagli abitati, rompere il confinamento
spaziale in cui erano rinchiusi i paesi, significava entrare in una dimensione
infelice dell’esistere”14 – per altro verso, il costituirsi delle comunità in vil-
laggi e paesi di piccole dimensioni, distanti dalle terre coltivate, ha deter-
minato un’accentuata mobilità interna delle classi contadine15. Queste, in-
fatti, muovevano quotidianamente dai centri abitati verso i campi, spesso
lontani alcune ore di cammino (tanto che la giornata di lavoro andava da
scuru a scuru, dal buio che precedeva l’alba al buio che seguiva il tramon-
to). Anche durante le migrazioni stagionali – con centinaia di braccianti in
cammino verso le vaste aree ad agricoltura estensiva, come il Marchesato di
Crotone, per la mietitura e la spigolatura del grano, e le donne che trasmi-
gravano in montagna e in collina per la raccolta delle castagne prima e delle
olive poi –, o nei periodi della transumanza del bestiame – con il trasferi-
mento di uomini e animali nei mesi di maggio/giugno verso i pianori della
Sila, delle Serre o dell’Aspromonte e il ritorno nei paesi nei mesi di otto-
bre/novembre –, oppure ancora in occasione di feste, fiere, mercati, pelle-
grinaggi, una moltitudine di individui raggiungeva i distanti luoghi di pro-
duzione, di raccolta, di vendita, di culto percorrendo le teorie di sentieri
naturali e le numerose «vie dei canti» del paesaggio umanizzato16.

13 Bevilacqua P. 1985, p. 117.


14 Ivi, p. 125.
15 Ribaltando le immagini che vogliono le società contadine come entità statiche, immobili ancora Piero
Bevilacqua scrive: “In realtà, la società rurale non era, e non era mai stata – tanto nel Sud come nel Nord d’Italia e
non diversamente dai vari punti cardinali dei paesi d’Europa – una società immobile, chiusa nei suoi ritmi lenti di
riproduzione sociale, fissata nella immutabile residenzialità dei suoi abitanti. Proprio perché non fondata su una
economia pienamente autosufficiente, la società rurale non poteva bastare a se stessa e non poteva restare un am-
bito autodelimitato, senza comunicazione con il mondo esterno” (Id. 2001, p. 96). E conclude: “Senza troppo esa-
gerare potremmo dire che il lavoro agricolo era allora, di per sé, una pratica migrante” (Ivi, p. 98).
16 “Stanzialità e fuga, radicamento ed erranza – ha ribadito di recente Vito Teti – sono manifestazioni di
un’antropologia legata alla produzione e alla «proprietà» dei territori abitati e coltivati” (Teti V. 2013, p. 111). Su
tali aspetti e sulle «vie dei canti», intese come mappe mentali che organizzavano il territorio e consentivano

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La geologia, la geografia, la storia e l’economia agraria della Calabria
hanno dunque concorso nel tracciare – in un quadro di lunga durata – le
dinamiche dell’insediamento. Frantumazione del territorio e degli abitati,
precarietà fisica, marginalità (a livello di produttività economica quanto a
livello culturale) sono diventate i tre caratteri paradigmatici delle fasi del
popolamento. A meditare sulle componenti insediative della regione, scri-
veva Lucio Gambi, “si ha come l’impressione, in diverse zone, di un pulvi-
scolo di villaggi: che è il risultato di secoli e secoli di depressione economica
e di vita così elementare che la natura fu in grado, quasi ovunque, di dire
apertamente la sua parola e costringere gli uomini ad umiliarsi ad alcune
sue configurazioni: e quindi a frazionare in modo incredibile i loro abitati e
i loro campi, secondo le diverse qualità dei coltivi, e a dare origini ad abitati
di uniforme positura”17. In particolare, numerosi paesi calabresi, di medio-
piccole dimensioni, sono sorti su balze scoscese e luoghi rocciosi difficil-
mente accessibili. In questa loro posizione arroccata e protetta, «rattratti sul
culmine d’un colle» – per dirla con Umberto Zanotti Bianco – e nascosti ta-
lora alla vista dal mare, essi si sono storicamente affrancati dal pericolo rap-
presentato da malaria e incursioni straniere, ma si sono anche ineluttabil-
mente condannati all’isolamento e all’emarginazione: “I paesi sono per lo
più distanti l’uno dall’altro, ma non in linea d’aria, bensì a causa della natu-
ra anfrattuosa e dirupata dei terreni, e si guardano indifferenti l’uno all’al-
tro, come poveri che sanno di non potersi nemmeno dare una mano”18.
Corrado Alvaro, con fine sensibilità antropologica, ha narrato di que-
sti agglomerati discosti tra loro pochi chilometri, in cui tuttavia “le distanze
paiono lunghissime, e fra paesi vicini ci si considera come gente di altro
tempo, di altro clima, di altro dialetto”19. Sono centri in cui non la distanza,
ma il “sentimento della distanza stringe gli uomini in comunità chiuse, crea
nelle patrie le piccole patrie”20; abitati vicini geograficamente ma cultural-
mente lontani l’uno dall’altro, eppure centro di appartenenza, identifica-
zione, riconoscimento: “Il ragazzo scalzo col suo paniere di pomodori, era
interrogato di dove venisse, di che paese fosse. Le distanze erano allora
grandi. Una mandra a tre chilometri era remota come un presepe, e un pae-

l’orientamento, vedi Id. 2002a; Id. 2003a. Cfr. Chatwin B. 2011. Sulla natura nomade dei calabresi, costretti al
viaggio e alla fuga, restano fondamentali le pagine di Alvaro C. 1958, pp. 121-127. Cfr. Pavese C. 2005, pp. 3-16.
17 Gambi L. 1965, pp. 258-259. Cfr. d’Orsi Villani P. F. 1993.
18 Isnardi G. 1965f, p. 13.
19 Alvaro C. 1931, p. 59.
20 Id. 1995b, p. 246.

- 20 -
se a dieci chilometri, l’estero: vi si parlava un dialetto diverso, con una pro-
nunzia di cui si rideva”21.
La vita all’interno di questi paesi ha trovato la sua immagine corri-
spondente nel presepe. Alvaro ha insistentemente rappresentato il paese ca-
labrese come un presepe, descrivendolo nella sua dimensione agropastorale,
montana, arroccata. In Gente in Aspromonte leggiamo: “Il paese è caldo e
denso più di una mandra. Nelle giornate chiare i buoi salgono pel sentiero
scosceso come per un presepe, e, ben modellati e bianchi come sono, sem-
brano più grandi degli alberi, animali preistorici”22. E più avanti: “L’Argirò
col figliolo arrivarono al paese che era l’alba. Risalito il poggio, le case ad-
dossate una all’altra come una mandra si presentarono ai loro occhi. Da se-
coli questo paese si era cacciato nella valle, e vi si era addormentato. Intor-
no, a qualche miglio di distanza, gli altri paesi che si vedevano in cima ai
cocuzzoli rocciosi si confondevano con la pietra, ne avevano la stessa strut-
tura, lo stesso colore, come la farfalla che si confonde col fiore su cui è posa-
ta. Sembra un mondo spento, lunare. Attraverso i letti dei torrenti, i vian-
danti che tentano di raggiungere le vallate, nel silenzio reso più solitario dal
ritmo della cavalcatura, sembrano abitatori di spelonche”23.
Nel racconto Donne di Chiaravalle, lo scrittore calabrese precisa il le-
game tra la vita di paese e la rappresentazione della vita del presepe, esplici-
tando così la metafora del paese-presepe:

L’umile vita quotidiana della Calabria ha il suo modello nel Presepe. Quel
tanto che vi turba inconsultamente e rimescola in voi non si sa quali mondi puerili
dimenticati o addirittura non conosciuti ma almeno una volta intravisti, è quel pe-
regrinare, trasportare i beni della terra; e quando avrete capito di che si tratta, che è
il presepe vivente, che tutte le figurine del presepe sono qui, e quella che porta
l’agnello, e quella del sacco, quella del formaggio e quella col bimbo, allora la vostra
emozione sarà piena. Avrete capito la poesia umana del presepe, e quella della Cala-
bria. Il mattino e la sera sono le grandi ore di questa terra. Il luogo per tali ore è là
dove, all’ingresso di ogni paese dell’interno, sono erette le tre croci del Calvario, e
che calvario si chiama. […] Di qua si scorge il mare, più vicini i colli, un paese diru-
to e abbandonato con le finestre vuote sul colle franoso con la scorticatura bianca
della frana, e le siepi di gerani e di agavi e di cacti lungo la strada; il letto del torren-
te su cui la primavera e l’estate lasciano fiorire gli oleandri; i lontani paesi sui colli a
picco, o raccolti tra le cuspidi dei monti corrose dal vento, come tra le dita d’una

21 Id. 1958, pp. 109-110.


22 Id. 2000, p. 4.
23 Ivi, pp. 8-9. Cfr. Id. 1995a.

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mano. Lontano, il mare, da un capo all’altro, dallo Spartivento a Punta Stilo, da
Squillace a Crotone, deserto24.

Gli elementi morfologici, geoantropologici, urbanistici, architettonici


dei paesi-presepi della Calabria e i caratteri storici del paesaggio antropico
sono stati mirabilmente descritti da numerosi altri studiosi meridionalisti e
narratori calabresi (Fortunato, Isnardi, Gambi, Zanotti Bianco; ma anche
Vincenzo Padula, Nicola Misasi, Francesco Perri, Leonida Répaci; e poi,
Fortunato Seminara, Mario La Cava, Saverio Strati, Natalino Lanucara, Sha-
ro Gambino)25. Isnardi, in particolare, ne consegna la seguente immagine:

Gli abitanti, per lo più informi, si arrampicano su rupi nude e scoscese (quasi
sempre arenarie e sabbie gialle) che spesso grossi muraglioni tentano faticosamente
di salvare dalle frane; le vie, strette e in salita, sono non di rado scavate nello stesso
masso che regge il paese, a lunghe e rozze gradinate. Le case, piccole e basse, fra le
quali spicca qualche cadente palazzo signorile dal grande portone ad arco bugnato, e
dai balconi a ringhiera panciuta e di ferro battuto, hanno quasi sempre aspetto di
non finito e di misero, anche per la tinta nerastra che dà loro il calcare siliceo […].
Gli edifici di carattere monumentale artistico sono rari e per lo più ridotti a ruderi
malinconici o a frammenti […]; le chiese sono povere e rozze, quasi sempre senza
campanile o con campanili assai bassi, che non contribuiscono in nulla, contraria-
mente a ciò che avviene in tanta parte d’Italia, alla fisionomia dei paesi 26.

Nelle sue componenti essenziali, il quadro sin qui tracciato pare resti-
tuirci – pur con le dovute dissomiglianze – la figura e le suggestioni di Ba-
dolato, centro medievale del basso Jonio catanzarese, compreso nell’area del
Golfo di Squillace.

24 Id. 1958, p. 141. Nello scrittore di San Luca la reiterata metafora del paese-presepe trova la sua imma-
gine speculare in quella del presepe-paese. Il paese è un presepe, ma anche il presepe può talora essere un traslato
del paese: “Nei paesi s’è lavorato tutta una settimana per fare il presepe. Nel fondo si stendono rami di aranci cari-
chi di frutta. Si lanciano ponti coperti di muschio da un punto all’altro del Presepe, si costruiscono montagne e
strade ripide, steccati per le mandre e laghetti. Il Presepe ha l’aspetto d’un paesaggio calabrese. Dalle valli sbucano
fiumi; le montagne sono ripide e selvagge. […] tutti i pastori somigliano a persone conosciute. Sembra un paese
vero” (Id. 1925, p. 50). E altrove aggiunge che “gli stessi Presepi sono trasformati in rappresentazioni della vita
locale, con la zingara, lo scemo, il cacciatore, i carabinieri che arrestano un ladro di montagna” (Id. 1931, p. 60).
Per una proficua riflessione antropologica ed un approfondimento teorico sul paese-presepe in Calabria si
rimanda a Lombardi Satriani L. M. 2000; Teti V. 2007b. Per una interpretazione del presepe come compitazione,
immagine cosmogonica e proiezione esemplare del paese; come essenzializzazione dello spazio della comunità;
come ricapitolazione dello spazio sacro immaginario e dello spazio profano reale, vedi Faeta F. 1993, “La casa e la
grotta. Qualche osservazione sugli aspetti spaziali e architettonici delle rappresentazioni presepiali”, in Appella G.
(a cura di) 1993, Calabria e Lucania: i presepi, Milano, Scheiwiller, pp. 43-53.
25 Per una opportuna sintesi e per le utili – pur parziali – indicazioni bibliografiche si veda Crupi P. 2007.
26 Isnardi G. 1965f, pp. 16-17. Cfr. Gambi L. 1965, pp. 274-276. E Cesare Pavese, della Brancaleone del
suo confino, scrive che sorge sulla “collina brulla dai muraglioni bianco-sporchi in cima” (Pavese C. 2005, p. 16).

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I. 1. Badolato. Immagini di un paese-presepe

Nel delineare le caratteristiche insediative e il quadro paesaggistico di


Badolato, storici e studiosi locali, poeti, scrittori, documentaristi, antropolo-
gi e osservatori contemporanei hanno più volte evocato, suggerito, ribadito
l’immagine del paese-presepe, arroccato e quasi fantastico; dell’agglomerato
dal singolare profilo urbanistico; del borgo di impronta e costume agropa-
storali. Nel poemetto Il mio paese, ad esempio, il poeta Nicola Caporale – re-
cuperando una lunga tradizione di sguardi – descrive le atmosfere, le usanze
e i riti delle festività natalizie operando una sovrapposizione tra il paesaggio
arcadico, rurale della vita badolatese e quello idilliaco, bucolico delle rap-
presentazioni presepiali. Nei suoi versi lo scenario contadino, rustico, agre-
ste del paese si confonde così con l’ambiente del presepe, e viceversa:

Ed era il tempo della ninna-nanna / che la zampogna il grande petto enfiava /


e, dagli ulivi, le raccoglitrici / il mesto e lento canto di Natale. / Noi si tentava al
cànnico sonante / le dolci note de la pastorale / per far corona poi a la ciaramella /
nella penombra della grande chiesa; / dove un presepe con le candeline / si animava
per noi di fantasia. / Lasciavan la bottega i falegnami / per disegnare, erigere e ordi-
nare / quel vasto paesaggio francescano! / Era per me una favola. Vedevo / su per i
colli in ombra i paesini / con le casette illuminate appena; / scender vedevo gente a
la pianura / per biancheggianti viottole rupestri / come nastri di seta. Biancheggiava
/ pei verdi greppi e per le ardite balze, / la sparsa greggia intesa alla pastura, / mentre
il pastore, dentro manto a ruota, / suonava curvo a ritmo danzante / la cara ninna-
nanna natalizia. […] // Udivi rimbombar nel buio a valle / il tonar degli schioppi e
dei petardi. / Ammiccavan dal cielo anche le stelle / e per gli opposti monti le cam-
pane / e le vallate intorno e gli alti poggi / profonda l’eco rimbalzava “È nato!” / e le
case e le strade le lucerne / accendevano tosto ed il paese / altro presepio mi parea
nel buio27.

Pietro Cossari, studioso locale, descrive a sua volta il paese come un


presepe illuminato, poggiato a dorso d’asino su una collina28. Anche France-
sca Viscone, autrice del romanzo Concerto a Berlino – ambientato tra la
Germania e Badolato, trasfigurato nel nome Castelluccio – ripresenta espli-
citamente la metafora del paese-presepe, offrendo la seguente concisa de-
scrizione del borgo: “È la veduta di Castelluccio. Paese presepe. Altissimo il
campanile. Altissime le case arroccate e ammucchiate una sull’altra. Stradi-

27 Caporale N. 2006, pp. 70-71.


28 Cossari P. 2003, p. 13.

- 23 -
na su casina. Casina su stradina. Gironi su gironi e giravolte di bambini”29. E
altrove descrive il paese – “con il suo reticolato di viuzze, le sue tredici
chiese, i piccoli campi a Mingiano, le processioni e le feste secolari”30 – co-
me “un vegliardo millenario che non sembra andare molto d’accordo con il
tempo, abbarbicato com’è su questo cocuzzolo, difeso dai saraceni, dai bom-
bardamenti, dai terremoti e le alluvioni, testardamente deciso a rimanere
identico a se stesso”31. La poetessa Tota Gallelli, nella lirica Pajìsi meu, che
dà il titolo ad una sua raccolta, ne traccia il seguente profilo:

Pajìsi meu si supa nu timpùni Paese mio sei sopra un colle


ammènzu de Vudà e de Granèli, in mezzo al Vodà e al Granèli,
darìttu ti lirgi, comu biastiùni, dritto ti ergi, come bastione,
comu cavàhṛu cu lu cavalèri. come il cavallo col cavaliere.
L’una cu l’attra, i casi jungiùti L’una con l’altra, le case giunte
’e carci e de petra frabbicati di calce e di pietra fabbricate
tutti vicini stringiùti, stringiùti tutte vicine congiunte, congiunte
comu du cotrarèhṛi nnammuràti. come due ragazzi innamorati.
I strati eranu fatti ’e petri vivi, Le strade erano fatte di pietra viva,
scali stritti stritti, vichi, vinèhṛi; scale strette strette, vicoli, viuzze;
passàu chihṛu tempu quando sentivi passò quel tempo quando sentivi
i canti de li mammi ahṛi zzitèhṛi. i canti delle mamme ai bambini32.

La scrittrice Francesca Chirico ritrae il paese “con le case stipate sul


pizzo del colle”33 e in un recente romanzo, che rievoca un episodio della
storia contadina badolatese, recupera e restituisce la dimensione agropasto-
rale che ne ha caratterizzato il passato, estendendone l’identificazione agli
abitanti: “Tra i grappoli di case che il ritorno dei reduci aveva reso più ru-
morose lo sapevano tutti che era solo questione di tempo: la strada che i
braccianti e le raccoglitrici d’olive evocavano ogni giorno come un sogno,
scavando a piedi nudi o a dorso di mulo il viottolo comunale stretto come
un budello, stava accendendo una scintilla, e sulle colline, si sa, le scintille
diventano sempre incendi. Restava solo da sperare che il vento non soffiasse
troppo forte. Sul fianco del paese proprio in faccia a Giambartolo, tra i pa-
stori di San Gianni dove uomini e bestie dividevano lo stesso tetto e le case,
a passarci vicino, le potevi sentire belare, la questione per la verità non at-
29
Viscone F. 2009, p. 11.
30 Id. 2010, p. 128.
31 Id. 2000, p. 25.
32 Gallelli T. 2008, p. 6.
33 Chirico F. 2011, p. 79.

- 24 -
tecchiva troppo: di strade larghe o strette le capre non avevano mai sentito
il bisogno”34. Per la documentarista Imelda Bonato, che ha dedicato al borgo
alcuni suoi lavori – incentrati sul nesso tra dinamiche insediative e forme di
socialità nonché sulla relazione tra paesaggio umano e paesaggio naturale –

Badolato […] appare all’improvviso, suggestiva immagine di un paese in lontananza,


aggrappato ad un colle, circondato da colline, quasi sospeso e irreale, l’immagine di
un tempo antico, tutto lì raccolto, ampio e stretto nello stesso tempo, con le sue case
aggrappate le une alle altre, quasi a tenersi insieme, come un abbraccio. Un paese di
fiaba abbandonato dai personaggi, […] un antico borgo, affascinante nella sua arti-
colata struttura urbanistica di case, palazzi e chiese, vicoli e stradine, inserito in un
ambiente naturalistico quasi intatto, davanti al mare azzurro dello Jonio. Una signi-
ficativa produzione di cultura popolare: una tensione corale vissuta come bisogno di
stare insieme, di partecipare, di esserci. […] Le persone che hanno «incontrato» il
paese, sono state catturate dal senso di comunità che il luogo emana. Il dialogo felice
di paese e paesaggio suggerisce bellezza e armonia, rende l’incontro semplice e ne-
cessario […]. Le antiche case di Badolato, in quest’ora inondate di luce, sembrano
sorgere dalla terra, della terra hanno lo stesso colore argilloso, sono chiuse e silen-
ziose ma altrettanto, nella loro semplice e armoniosa struttura, sembrano in attesa di
essere dolcemente rivissute35.

Anche per Vito Teti “l’antico paese ti appare inatteso, improvviso co-
me un fantasma, inconfondibile con le sue case, i suoi palazzi, le sue chiese,
i suoi vicoli che si attorcigliano a una collina e si tengono stretti come per
paura di essere trasportati via da qualche malefica entità”36 e, con echi pave-
siani, ne consegna la seguente immagine: “Amo Badolato di un forte e anti-
co amore. Ho passato, in tempi ormai lontani, ore ed ore a guardare quella
«pignolata» di case che si distende verso rosse terre e verso un mare infuo-
cato da cui ti aspetti il ritorno dei greci e dei «turchi». Chi al tramonto si è
seduto sui gradini di S. Domenico, guardando, ora in direzione di alti e per-
plessi pini ora verso l’abitato e il mare, sa di trovarsi di fronte a uno dei più
bei paesaggi naturali e umani della Calabria. […] Quel paese che si innalza
incerto tra il mare e i monti, tra l’azzurro del mare e quello del cielo, tra il
rossastro della terra e il bianco arrabbiato delle nuvole, cattura immediata-
mente l’attenzione e spinge a visioni di viaggio”37.

34
Ivi, p. 19. E più oltre aggiunge che “attorno gli scioperanti sembravano un gregge sparso sotto gli alberi
e tra gli sterpi, alcuni in piccoli gruppi come pecore, altri da soli come capre testarde” (Ivi, p. 33).
35 Bonato I. 2006, pp. 14-16.
36 Teti V. 2007a, p. 459.
37 Id. 1987b, pp. 64-65.

- 25 -
Fig. 1. Immagini di un paese-presepe. Vista di Badolato da nord-est

Fig. 2. Immagini di un paese-presepe. Vista di Badolato da sud-ovest

- 26 -
I. 1. 1. Profilo di storia e geografia del sito

Badolato sorge nel versante jonico delle Serre, in posizione collinare,


alle pendici nord-occidentali del monte San Nicola. Ha un’altitudine media
di 240 metri slm, con un dislivello di 100 m tra la chiesa di San Domenico a
ovest (295 m) e quella dell’Immacolata a est (195 m). Vi si arriva, da Catan-
zaro, percorrendo per 47 km la statale 106 in direzione sud e proseguendo
per 6 km lungo la strada provinciale che dall’abitato di Badolato Marina
porta verso l’interno. Il suo territorio confina a nord con quello dei comuni
di San Sostene e di Isca sullo Jonio, a sud con quello di Santa Caterina dello
Jonio e a ovest con quello di Brognaturo. A est si affaccia sul mare. Entro i
suoi confini scorrono il fiume Gallìpari (anticamente navigabile, secondo le
fonti38), la fiumara Vodà, i torrenti Granèli, Ponzo, Fosso Provvidenza, Ba-
ròne, Copìno. E più oltre, il torrente Àlaco.
Eruditi, storici, geografi collocano l’epoca di fondazione del borgo al
1080 circa, eretto – pare – per volere di Roberto il Guiscardo, in un territo-
rio in cui tuttavia è stata individuata l’esistenza di preesistenti insediamenti
di contadini e pastori, come emerso da alcuni rinvenimenti archeologici
nelle località circostanti di Santa Domenica, Malàndro, Mungiòi, Polèio e
lungo il Gallìpari (consistenti in frammenti di vasellame in argilla, resti di
ricoveri costruiti a secco, una tomba di incerta datazione)39. Giovanni Fiore
da Cropani ne scrive come di “abitazione antichissima, e forse di quei primi
Arcadi, e lo conghietturo dalla qualità del sito, alto, e scosceso, e dalla natu-
ra ben munito”40. Anche altri studiosi insistono sulle immagini di paese
d’altura, di rocca prominente posta alla confluenza di due fiumare e che,
“avendo delle scoscese balze all’intorno, […] è dalla natura quasi tutta mu-
rata”41. E proprio dal contesto insediativo ne fanno discendere il toponimo.
Tommaso Aceti, nelle note all’edizione settecentesca del De antiquitate et
situ Calabriae, lo dice derivato dal greco, con significato di “mi nascondo.
Infatti questa cittadella è circondata da rupi”42. Gabriele Barrio ricava il
nome del paese “dalla parola greca vadome, che significa prediligo, perché
questo luogo è ricco di predilezione”43.

38 Cfr. Barrio G. 1985, p. 409.


39
Cfr. Valente G. 1973b, vol. I, pp. 77-80; Gesualdo A. 2009.
40 Fiore G. 1999, p. 390.
41 Giustiniani L. 1969, vol. II, p. 126.
42 Barrio G. 1985, p. 411.
43 Ivi, p. 409.

- 27 -
La tradizione erudita, inoltre, elabora per Badolato il topos di luogo
fertile, provvisto dalla natura di ogni bene, e in grado di fornire alla popola-
zione tutto ciò di cui abbisogna. Sempre per Barrio, ad esempio, in “questo
territorio nascono il cotone e il sesamo, ugualmente si producono vino, olio,
miele e stoffe di seta preziosissime, cresce il terebinto. Vi si producono an-
che panni di cotone quali a Catarena”44. Girolamo Marafioti ne parla come
di nobile castello, posto in alto, e nei cui territori “si fa abbondanza d’oglio,
di seta, di bambaggio, e sesama, e di molte altre cose alla vita humana ne-
cessarie”45. Lorenzo Giustiniani lo dice “territorio […] fertilissimo nel pro-
durre tutti i generi di vettovaglie”46.
E non è da escludere che un influsso nel toponimo possa averlo il
termine greco bathuleion, che significa appunto fertile. Diversi studiosi, in-
vece, derivano il nome del paese da quello della fiumara Vodà, che scorre a
est dell’abitato, e interpretano il dialettale Vadolàtu come “a lato del fiume
Vodà”. Secondo ulteriori ipotesi, il toponimo potrebbe discendere dal co-
gnome Vadalà, adattamento e alterazione del nome arabo ’Abd Allàh, tra-
dotto come “servo di Dio”. Padre Angelo Pileggi, autore locale, congettura
piuttosto che anticamente il paese si chiamasse Bardolato, poiché “costruito
a guisa di sella, di cui una parte, piena di sole, volge a mezzogiorno; ed
un’altra, brumale nei mesi d’inverno, e sorride nei mesi d’estate, volge a set-
tentrione”47. Negli intenti encomiastici e nobilitanti dei suoi versi, poi, Ni-
cola Caporale vagheggia che il nome Badolato derivi dal mitico passaggio in
paese della dea Latona, costretta a raggiungere l’isola di Delo per partorire
due gemelli (Apollo e Artemide) frutto della fedifraga relazione con Gio-
ve48. Tuttavia, l’ipotesi etimologica più plausibile e accreditata, avanzata da
Marafioti e adottata da Gerhard Rohlfs, è quella di una derivazione dal lati-
no vadum latum, guado largo, ancora una volta con probabile riferimento
alla fiumara Vodà49.
I primi ricetti e insediamenti preurbani – da connettere all’arrivo, in
queste aree, di monaci basiliani e ai ripiegamenti di popolazioni verso le a-
ree interne, per sfuggire alle incursioni saracene – sorsero a scopo difensivo
44 Ibidem. Cfr. Galanti G. M. 2008, pp. 89-102.
45
Marafioti G. 1981, p. 146a.
46 Giustiniani L. 1969, vol. II, p. 126.
47
Cit. in Squillacioti V. 2006b, p. 8. Cfr. Nisticò U. 2002, “Lucus a non lucendo”, in «Pagine bianche»
2002, Girifalco (Cz), Tipografia Elisabetta Vitaliano, anno VI n. 10, ottobre, p. 28; Cossari P. 2003, p. 25.
48 Caporale N. 2006, p. 10.
49 Rohlfs G. 1974a, p. 20. Cfr. Valente G. 1973b, vol. I, p. 77; Marafioti G. 1981, p. 146a; Fiore G. 1999,
pp. 390-391; Giustiniani L. 1969, vol. II, pp. 125-128.

- 28 -
Figg. 3-4. Fiumara Vodà

- 29 -
nel lato nord dell’attuale abitato e si svilupparono attorno alla chiesa di San-
ta Caterina Vergine e Martire d’Alessandria (eretta nel X-XI secolo), confe-
rendo presto, all’agglomerato, forma e consistenza di paese. Al successivo
periodo Normanno (XI-XII secolo), durante il quale Badolato divenne con-
tea di Catanzaro, risale invece la formazione del tracciato viario di crinale e
l’espansione del tessuto edilizio minore a nord-est (rione Mancùsu). Tra il
1200 e il 1400 nacquero nella parte sudorientale i quartieri Destru e Jusu-
tèrra, con la costruzione delle chiese di Santa Maria in Crignetto e di San
Nicola. Tra il Cinquecento e l’Ottocento si ebbe il completamento del tessu-
to urbano, con l’ulteriore sviluppo dell’edilizia minore e l’erezione delle
chiese dell’Immacolata Concezione (XVII secolo) e del Santo Rosario (o San
Domenico, XVIII secolo). Una nuova ma limitata espansione urbanistica si
produsse con la nascita del quartiere Jardìnu nel versante nordoccidentale,
a seguito del terremoto del 194750.
E la storia del paese – per molti secoli importante centro economico e
politico della zona, nel cui possesso si susseguirono numerose famiglie nobi-
liari (dai Ruffo di Catanzaro ai Toraldo di Tropea, dai Borgia di Squillace ai
Ravaschieri di Genova) – è segnata proprio dal succedersi di ripetuti e deva-
stanti terremoti. Si ha documentazione storica del sisma del 1544 (che pro-
dusse il crollo di 26 abitazioni), e di altri sette terremoti prodottisi prima di
quello – gravissimo – del 19 giugno 1640, che distrusse numerose costru-
zioni del paese e causò la morte di 300 persone. Grandi danni provocò an-
che quello del 5 novembre 1659, nel quale i paesi di “S. Catarina, Ischia,
Badolato, S. Andrea, Satriano, Davoli, Sansosto, Soverato poco men che ab-
battute da fondamenti, perderono buona parte de gli habitanti”51. Ulteriori
rovine provocò il terremoto del 5 febbraio 1783. Con quello dell’8 settem-
bre 1905 venne disposto in un primo tempo il consolidamento dell’abitato e
successivamente il trasferimento (mai messo in atto) a totale carico dello
Stato. A seguito del sisma del 1947 e delle alluvioni del 1951, su cui avrem-
mo modo di soffermarci nel corso della trattazione, si produsse invece lo
sdoppiamento del paese con la nascita della frazione in marina52.

50
Per le notizie storiche circa le origini del paese vedi Valente G. 1973b, vol. I, pp. 77-80; Gesualdo A.
2009. Sulle fasi dello sviluppo urbanistico si vedano Sergi C. 1995a, pp. 79-89; Gallelli M. R. 2009, pp. 30-31.
51
D’Amato V. 1975, pp. 241-242. Nel solo circondario di Badolato, del quale facevano parte anche i casali
di Isca sullo Jonio e di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio, perirono 60 persone.
52 Sui terremoti e le alluvioni verificatesi nei secoli a Badolato vedi Gesualdo A. 2009, pp. 16-22. Per una
disamina degli eventi prodottisi in particolare nel 1947 e nel 1951 rimandiamo invece a Squillacioti V. 1995a; Id.
1996. Cfr. Mirarchi M. 1986, pp. 190-199. Sullo sdoppiamento del paese si veda Teti V. 2007a, pp. 457-488.

- 30 -
a) Sec. X

b) Secc. XI-XII

- 31 -
c) Secc. XIII-XV

d) Secc. XVI-XIX

Fig. 5. Evoluzione dell’impianto edilizio di Badolato (secc. X-XIX)


Fonte: Sergi C. 1995a, pp. 80-81.

- 32 -
I. 1. 2. I caratteri insediativi53

Visto dall’alto, e nella prospettiva bidimensionale delle foto satellitari,


il perimetro urbano del paese assume – nella sua disposizione stretta e al-
lungata – la vaga forma di una lucertola, adagiata e distesa sulla sommità di
una collina, e rivolta verso oriente. La testa è rappresentata perciò dal rione
Jusutèrra che, oltrepassati i ruderi del Bastiùni e della Porta ’e Jàpacu, risale
verso ovest a partire dall’edicola votiva del Cristo in croce (localmente nota
come calvario), e che ad est si protende – come fosse la lingua del rettile –
fino ad includere la pregevole e solitaria chiesa dell’Immacolata, in posizio-
ne distaccata; il busto, poggiante su lobi che ora si allargano e ora si restrin-
gono, è costituito dai rioni Mancùsu e Destru – con il loro alternarsi di pie-
ni e di vuoti dello spazio architettonico e le poderose mura di contrafforte –
e completato dal rione di Santa Caterina a nord e da piazza Castello nel ver-
sante che si affaccia a sud. Le zampe e la coda sono composte dal rione Jar-
dìnu, fino a risalire al Calvario e alla chiesa di San Domenico, all’estremità
ovest dell’abitato.

Fig. 6. Badolato visto dal satellite. Fonte: Google Earth (2011)


53 Per un quadro di riferimento del profilo geologico, delle componenti insediative, dell’impianto urba-
nistico e delle emergenze architettoniche del paese vedi Sergi C. 1995a, pp. 79-89; Calì P. 1995, pp. 25-38; Ge-
sualdo A. 2009, pp. 589-650; Carnuccio P. 2006; Gallelli M. R. 2009; Leuzzi A. 1996. Cfr. Fabbri M., Saba A.
1965, pp. 63-105; Garzillo E. 1979, Salvaguardia e valorizzazione del patrimonio dei beni culturali della Provin-
cia di Catanzaro. Indagine preliminare per una corretta impostazione, a cura del Ministero per i beni culturali e
ambientali, s.l., Tipografica Pompei, p. 269.

- 33 -
La conformazione orografica del terreno, che soprattutto nel settore
orientale si presenta in pronunciata acclività, ha condizionato e determina-
to l’andamento dello sviluppo urbano, che solo nelle aree di crinale segue
un andamento regolare. Il paese si erge infatti in posizione arroccata, su un
colle lambito a nord e a sud – rispettivamente – dai torrenti Granèli e Fosso
Provvidenza, affluenti della fiumara Vodà (che scorre ad est nella valle in
basso, oltre la chiesa dell’Immacolata). Il tessuto edilizio non si conforma
secondo una precisa progettazione urbanistica ma si adatta alla morfologia
del sito, seguendone le curve di livello e dando così origine ad una struttura
insediativa spontanea fortemente frammentaria, fatta di piccoli rioni (ru-
ghe) separati da strettissimi e tortuosi vicoli (vinèhṛi), e collegati da conti-
nui e ripidi saliscendi.
Il complesso delle edificazioni si configura come un avvicendarsi di
strutture conoidali, i cui punti sommitali sono oggi rappresentati – risalen-
do l’angusto corso Umberto I da est verso ovest – dal possente palazzo dei
baroni Paparo, a pianta quadrangolare e oggi in abbandono, dai resti del-
l’antica Torre Campanaria (del 1539), e dalla chiesa matrice del SS. Salvato-
re (riedificata nel XVIII secolo), individuabile come culmine dell’intero
corpo edilizio. In passato, invece, l’impianto urbano era contrassegnato dal-
la presenza – in posizione dominante – di una rocca, u Castèhṛu, la cui edi-
ficazione è da collocare al 1287. Della struttura fortilizia, irrimediabilmente
danneggiata nel corso dei secoli dai numerosi terremoti e definitivamente
abbattuta nel 197954, si conserva la memoria storica nel toponimo di piazza
Castello (un tempo, per uso invalso, il Fosso) – che ne ha rimpiazzato l’esi-
stenza ma ne ha comunque mantenuto la centralità come riferimento spa-
ziale –, cui si connettono altri due toponimi: Bastiùni (Bastione) e Porta ’e
Jàpacu, che recano testimonianza dell’antica presenza, nel versante orienta-
le dell’abitato, di una cortina muraria e di una porta d’accesso.
Gli edifici religiosi, disposti a croce latina, sembrano demarcare il pe-
rimetro urbano, individuando una serie di punti focali che chiudono il pae-
saggio entro uno spazio reale, culturale, mentale, simbolico ben delimitato e
54 Già la Platea della Baronia di Badolato, datata 20 gennaio 1738, definiva il Castello come sfatto e poco
abitabile. Ne forniva, poi, una breve descrizione, da cui si ricava che il lato d’ingresso era esposto a nord e consta-
va di quattro camere e una sala adibita a dispensa, sotto la quale vi era il magazzino per la lavorazione della seta.
Vi erano, inoltre, la camera per abitazione del castellano e una cantina diruta in basso, impiegata come carcere. Il
lato esposto a sud era invece composto da cinque camere, una cucina con sotto due magazzini per la conservazio-
ne dell’olio, una cisterna per la raccolta dell’acqua, un carcere femminile ed una stalla. Nel mezzo dei due quarti
vi erano infine un vaglio o cortile con scale di accesso ai due lati del castello, un orto e alcune baracche (Vedi Ge-
sualdo A. 2009, pp. 81-82).

- 34 -
Figg. 7-8. Le caratteristiche dell’insediamento

- 35 -
delineato, di cui il paese nel suo insieme costituisce il centro. Le chiese di
Santa Caterina a nord e della Provvidenza a sud, di San Domenico a ovest e
dell’Immacolata a est, inscrivono l’abitato entro i quattro punti cardinali. Le
numerose altre chiese, i due Calvari (quello propriamente detto e la cona
col Cristo in croce, posti rispettivamente alle estremità di ponente e di le-
vante del corpo urbano), e le piazzette presenti in paese costituiscono al-
trettanti luoghi centripeti disseminati entro l’intero impianto edilizio, in
una complessa e stratificata interazione tra sistema insediativo, rapporti di
socialità, pratiche devozionali e identità territoriale. E fuori dal perimetro
dell’abitato, a nord del territorio comunale, lungo la strada per Serra San
Bruno, sorgono il cimitero e altri due importanti luoghi di culto: il seicente-
sco monastero di Santa Maria degli Angeli – esempio quasi unico di con-
vento calabrese a due chiostri, che dal 1987 ospita la comunità di recupero
Mondo X – e più oltre la chiesa basiliana della Madonna della Sanità, che
presenta avanzi di mura con tracce di affreschi bizantineggianti raffiguranti
la Pietà, il Cristo Redentore e due Santi. E un’altra chiesa – di origine lon-
gobarda e intitolata a San Michele Arcangelo, e oggi diruta e abbandonata –
si colloca nelle non lontane campagne di Mingiànu.
Il patrimonio architettonico e l’articolazione urbanistica di Badolato
trovano poi espressione nella presenza di residenze signorili e di alcuni pa-
lazzi nobiliari – spesso di mera rappresentanza, vivendo i proprietari fuori
paese – che si collocano lungo le direttrici di percorso più importanti, riba-
dendo e replicando la partizione degli spazi e le gerarchie del costruito
(specchio delle gerarchie sociali) osservabili anche per gli edifici religiosi,
cui spesso sono attigui. Pur accostandosi infatti alle molte case contadine,
contribuendo così ad un tessuto urbano assai composito e variegato, gli edi-
fici gentilizi selezionano e distinguono (o perlomeno, selezionavano e di-
stinguevano in passato) i percorsi nobiliari dai percorsi popolari che, pur
nella loro inevitabile tendenza a confluire, recano ancora testimonianza
delle suddivisioni di classe operanti in paese.
Le maggiori emergenze architettoniche si affacciano infatti quasi tutte
su corso Umberto I, l’asse viario principale che taglia in due l’intero abitato,
attraversandolo lungo la linea di mezzeria che va da ovest verso est, distin-
guendo così i due versanti del Mancùsu e del Destru. Lungo tale tragitto si
dispongono le chiese di San Domenico, dell’Annunziata, del SS. Salvatore
(intitolata a Sant’Andrea Avellino, patrono), e scendendo ancora quelle di
Santa Maria in Crignetto, di San Nicola, dell’Immacolata. Inoltre, vi si sta-

- 36 -
Fig. 9. Chiesa di Santa Caterina Vergine e Martire d’Alessandria (lato nord dell’abitato)

Fig. 10. Chiesa della Provvidenza (lato sud dell’abitato)

- 37 -
Fig. 11. Chiesa del Santo Rosario (lato ovest dell’abitato)

Fig. 12. Chiesa dell’Immacolata Concezione (lato est dell’abitato)

- 38 -
gliano palazzo Menniti (nelle vicinanze di piazza Santa Barbara), palazzo
Sgrò (accanto alla Chiesa matrice), palazzo Caporeale (sede del Municipio) e
palazzo Paparo, che domina con la sua imponenza il paesaggio urbano cir-
costante55. Altri manufatti di rilievo si trovano nel Mancùsu, dove sorgono
palazzo Gallelli (lungo la via omonima, anch’esso in stato di abbandono), e
la chiesa di Santa Caterina. Sulla via provinciale che conduce alla marina si
erge invece l’elegante e imponente Villa Pietranera, residenza di caccia dei
baroni Gallelli, costruita nel 1856. Nelle campagne circostanti il paese, infi-
ne, si collocano diversi casini rurali – oggi per lo più fatiscenti – tra cui il
palazzo-casino di Giambàrtolo, sempre di proprietà dei Gallelli.
Le case contadine, invece, risalgono faticosamente e disordinatamente
le pendici dello sperone roccioso, convergendo verso i punti focali dei di-
versi rioni. Appollaiate e giustapposte le une sulle altre, formano un insie-
me architettonico stratificato e compatto tanto da evocare – in poeti, stu-
diosi, viaggiatori e osservatori – l’immagine della pigna, con la sua forma a
cono, o della pignolàta, il dolce natalizio a palline ammonticchiate a pira-
mide, tenute insieme dal miele56. In passato, a contrassegnare e a completa-
re il quadro urbanistico-ambientale e socio-economico del paese vi erano
inoltre molte botteghe artigiane – oggi scomparse57 – dodici frantoi (trappì-
ti) per la molitura delle olive, vari palmenti (purmènta) per l’uva, fucine
(forgi) per la lavorazione del ferro. Numerosi erano anche i mulini ad ac-
qua, dislocati lungo il corso delle diverse fiumare58. Infine, soprattutto nel

55
Per Pietro Parretta, architetto e studioso locale, il concentrarsi delle dimore nobiliari lungo l’asse via-
rio di crinale è il frutto di un’edilizia di sostituzione affermatasi, a partire dal XVIII secolo, con la nascita in paese
del ceto borghese. Nelle ipotesi dell’architetto, il fenomeno avrebbe prodotto il progressivo accorpamento di edi-
fici preesistenti o l’abbattimento delle costruzioni contadine presenti e l’erezione dei palazzi. Ciò, tuttavia, occu-
pando la medesima superficie di fabbrica e omogeneizzando i prospetti, dunque senza alterare il tessuto urbano
(Intervista del 29 luglio 2013).
56 Cfr. Caporale N. 2006, p. 12; Teti V. 1987b.
57
In paese, fino ad almeno gli anni 1950-1960, operavano falegnami e mastri d’ascia, fabbri-maniscalchi,
canestrai e panierai, impagliatori, bastai (mbastàri), bottai (varihṛàri), ciabattini e calzolai (scarpàri), stagnini e
calderai (cardaràri), sarti (custurèri), barbieri (varvèri), cardatori (manganijatùri). Cfr. Squillacioti V. 2010,
“L’artigianato badolatese”, dattiloscritto; Cossari 2003, pp. 46-47, 125-129; Fiorenza A. 2010, pp. 125-136.
58 Alle porte dell’abitato, in prossimità dei vicini torrenti, sono ancora visibili sei mulini. Il primo, a due
piani e ad una sola macina e con copertura a tetto a due falde, si trova all’ingresso del paese in un pendio sistema-
to a terrazze (ràsuli), ed è l’unico in condizioni edilizie discretamente conservate. La struttura è custodita e pre-
senta il cunicolo adibito a porcilaia. Altri due mulini si trovano ai piedi del paese, nelle vicinanze della strada
provinciale di collegamento con la statale 106 jonica, rispettivamente a valle e a monte del ponte che scavalca il
torrente Granèli. Il primo, ad un piano e con copertura a uno spiovente in lamiera zincata, è alla sinistra del tor-
rente. La torre è addossata al terreno ed ha la base interna al fabbricato, in posizione angolare. Il secondo, ad un
piano e con la copertura ad una falda crollata, è senza infissi e si trova alla destra del torrente. Numerose lesioni
sono visibili nel manufatto, danneggiato dalle piene del torrente. La torre è alimentata da un corto ponte-canale
ad un arco. Un quarto mulino si trova fuori dal centro abitato, lungo la strada selciata che dalla chiesa dell’Imma-

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versante nord-ovest a ridosso dell’abitato e lungo il sentiero di campagna
che dalla chiesa dell’Immacolata scende verso il torrente Vodà, sono ancora
oggi visibili i resti di molte porcilaie, che replicavano – nell’uso dei materia-
li, nelle tecniche di fabbricazione e negli schemi edilizi – i moduli costrut-
tivi delle case contadine, di cui rappresentano una sorta di riproduzione mi-
niaturizzata.

I. 1. 3. Morfologia del costruito59

Le abitazioni comuni di Badolato erano in genere strette, anguste, co-


struite a torre su tre o più livelli, dovendo guadagnare spazio verso l’alto in
un contesto territoriale che non permetteva uno sviluppo delle singole uni-
tà abitative per linee orizzontali. Tuttavia, l’altezza dei singoli piani era di
circa 2,30 m contro i 2,70 m delle abitazioni contemporanee. Questo con-
sentiva di ottenere più vani sovrapposti senza tuttavia che l’intera struttura
di fabbrica raggiungesse altezze eccessive, che avrebbero presentato sup-
plementari problemi di stabilità. Inoltre, sorgendo in aree fortemente con-
dizionate dalla morfologia del terreno e assoggettati all’esiguità degli spazi, i
fabbricati – abbiamo detto – venivano addossati gli uni agli altri in una sorta
di reciproco soccorso che sembrava replicare e concretare i legami di solida-
rietà e di assistenza presenti nel tessuto sociale60.
In passato, le case del paese – come quelle di moltissimi altri centri
della regione – erano costruite direttamente sulla pietra. Una volta indivi-
duata l’area di fabbrica (spesso in pendenza, così da poter sfruttare le curve

colata conduce alle campagne e al torrente sottostanti. Il mulino, con massiccia torre con ponte-canale si trova in
una zona incolta e parzialmente terrazzata, sulla sponda sinistra di un modesto corso d’acqua che confluisce nella
fiumara di Fosso Provvidenza. Gli ultimi due mulini sono allo stato di rudere. I loro resti sono visibili lungo la via
provinciale che, affacciandosi sul torrente Granèli e costeggiando l’abitato, giunge a piazza Castello. Del primo è
individuabile la sola torre, parzialmente celata dalla vegetazione. Del secondo, meglio conservato e sito in una
zona meno accidentata, si scorgono con chiarezza la vasca parzialmente interrata, la bassa torre con decori e i
muri del manufatto (Medici F. 2003, Il vecchio mulino ad acqua in Calabria. La tecnica, la storia , Reggio Cala-
bria, Laruffa Editore, p. 256).
59
Per gli aspetti teorici e analitici dei temi trattati nel paragrafo vedi Teti V. 1984; Sergi C. 1995, pp. 39-
66; Cavalcanti O., Chimirri R. 1999. Cfr. Chimirri R. 2007, pp. 73-154; Id. 2008, pp. 41-80. Fondamentali alla
completezza e alla coerenza del resoconto etnografico sono stati i colloqui intercorsi con con l’architetto Pietro
Parretta e con Vincenzo Squillacioti, operatore culturale e profondo conoscitore del luogo, da tempo promotore
del recupero della memoria storica del luogo. In particolare, le informazioni qui riportate sono state raccolte nel
corso di tre interviste effettuate il 18 maggio, il 29 luglio e il 2 agosto 2013.
60 Imelda Bonato ha lucidamente sottolineato l’interazione esistente tra il sistema insediativo del paese e
il contesto sociale di produzione, tra il quadro urbanistico e il senso di comunità, tra il dispiegarsi dell’abitare e le
aperture all’accoglienza. Vedi Bonato I. 2006, pp. 14-16. Cfr. Teti V. 1987b.

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di livello del sito) si dava avvio allo sbancamento del suolo. Nelle operazio-
ni di scavo si estraeva u scògghju, materiale di risulta della roccia friabile,
fino ad arrivare alla parte di terreno più dura e compatta. Quindi si proce-
deva orizzontalmente tanto da ricavare un vano ipogeo – successivamente
impiegato come deposito per derrate alimentari – che sfruttando il princi-
pio statico (empiricamente collaudato) della struttura voltata, consentiva di
scaricare il peso dell’intera costruzione verso l’esterno, alleggerendo così il
compito dei muri portanti. Questo ricorso a moduli architettonici a volta –
usuale anche per i corpi di fabbrica in superficie – rappresentava una valida
soluzione pure sotto il profilo urbanistico, poiché consentiva di ricavare
una serie di sottopassi che soccorrevano la frammentaria viabilità interna
del paese. Alla tenuta statica del tessuto edilizio concorreva poi l’impiego,
assai diffuso e reiterato nel corso dei secoli, di muraglioni di contenimento
presso i fianchi scoscesi dell’abitato e di muri di contrafforte (scarpe), che
determinavano l’ampliamento del perimetro basale degli edifici, dando an-
che vita – nel caso dei palazzi gentilizi – a loggiati e ballatoi.
La realizzazione delle strutture edilizie a più piani era resa possibile
dalla tecnica dei passamùri. Man mano che con la costruzione si procedeva
verso l’alto si rendeva necessario garantirsi dei punti d’appoggio per salire
ulteriormente di livello. A tale scopo venivano lasciati dei buchi (ànditi) di
forma quadrata nella muratura perimetrale, i quali servivano per posiziona-
re delle travi che, sporgendo all’esterno, consentivano di adagiarvi delle assi
e realizzare le impalcature sulle quali si muovevano il mastro fabbricatore, i
carpentieri e i discepoli (manovali).
I materiali di fabbrica tradizionalmente utilizzati, oltre a quanto rica-
vato durante le fasi di sterro, erano pietre granitiche recuperate nei greti
delle fiumare61 o provenienti dalle locali cave a cielo aperto, e calce frammi-
sta a terra e sabbia62. Le pietre venivano impiegate a seconda della forma e

61 Nella società tradizionale calabrese, il trasporto delle pietre nei siti di fabbrica era attività quasi esclusi-
vamente femminile. Corrado Alvaro ha offerto intense e commosse descrizioni della vita di fatica delle donne,
impegnate a scegliere e portare, da fiumi e campagne, tutto quanto potesse occorrere all’edificazione delle case:
“A primavera si riprendono le costruzioni dei fabbricati. Lunghe file di donne vanno avanti e indietro pei campi a
trovar pietre per la muratura: se le caricano sulla testa e le portano fino alla casa nuova. E così vanno avanti e in-
dietro, come una fila di formiche. Così sono nati i nostri paesi, così crescono, pietra su pietra, fatica su fatica. Da
noi tutto nasce da una dura fatica. L’acqua è trasportata negli orci, dalle fontane lontane, sul capo delle donne:
così la legna, così le pietre” (Alvaro 1925, p. 127). Dello stesso tono, le descrizioni presenti nel racconto Donne
perdute, in Id. 1958, pp. 155-158. Sul valore materiale e simbolico delle pietre vedi Teti V. 2007a, pp. 180-191.
62 Ipotizzabile pure per Badolato, ma non suffragato da validi riscontri oggettivi né da documentazioni
storiche, è l’impiego delle breste, mattoni in terra cruda. Il loro uso – attestato in un vasto contesto euroasiatico
sin dall’antichità – era largamente diffuso anche in Calabria. I primi dati relativi alla regione risalgono al VI seco-

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della grandezza. Si prediligevano quelle da cava piatte o squadrate, che con-
sentivano di procedere al lavoro di connessione con minore difficoltà e fa-
vorivano, in virtù della loro scabrosità, le successive operazioni di alletta-
mento con la malta (livellamento). Venivano sistemate prima le pietre più
grandi – che potevano pesare fino a 50 kg e che generalmente erano posi-
zionate con la parte piatta rivolta verso l’alto (verso l’esterno, invece, ossia a
Madonna, per le abitazioni prive di intonaco) – quindi quelle di media
grandezza (mazzacàni). Tra gli interstizi rimasti venivano inseriti frammen-
ti di mattoni (zeppe), pietre più piccole (savùrre), tegole sminuzzate e parti
di calce non cotta (straci), pietrisco e altro materiale di risulta, così da otte-
nere un’orditura più fitta. La muratura – si diceva – veniva civàta, ossia nu-
trita, alimentata, riempita. E successivamente amalgamata e uniformata per
mezzo della calce, che i carcaròti ottenevano dalla cottura della marna (ar-
gilla) nte carcàri, nelle fornaci presenti attorno al paese63. A costruzione ul-
timata si procedeva, all’intonaco esterno. Per le case più umili esso era ese-

lo a.C., riguardanti l’antica città di Locri. Nel corso dei secoli, molti studiosi, viaggiatori, scrittori hanno testimo-
niato l’uso di questi mattoni e di altri materiali in terra cruda. Giuseppe Maria Galanti, ad esempio, ne attestava a
fine Settecento l’impiego nei paesi del Pollino. Per l’area centro-meridionale della regione, invece, nella Statistica
Murattiana del 1811 si legge: “Gli abituri della gente povera son formati da cantonetti di terra impastata con ac-
qua, a’ quali si procura maggior adesione frammischiandovi della paglia e delle sabbiuole silicee. Quindi ridotta in
forma parallelepipede, riesce agevole il costruirvi. La malta che li lega è il fango arteficiato. La gente estremamen-
te misera usa muri meno solidi e sicuri, costituiti da pietre e fango rozzamente connesse”. Per un generale inqua-
dramento storico ed un’etnografia dell’architettura in terra cruda in Calabria vedi Cavalcanti O., Chimirri R.
1999, principalmente pp. 11-82.
Le breste erano mattoni di sterro (tàju) e paglia lavorati a crudo all’interno di grandi buche (gèbbie) sca-
vate nel terreno. Venivano ottenute mescolando terra, acqua e paglia tagliata a pezzetti (possibilmente di erba di
gramigna, per via della sua nodosità che facilitava la coesione tra i materiali). L’impasto veniva rimestato con le
mani o pigiato con i piedi, abitualmente dagli uomini, mentre alle donne era demandato il compito di versare
gradualmente la paglia trinciata, trasportata nel grembiale (fardìli). Il composto veniva lavorato fino ad ottenerne
la lievitazione, quindi veniva lasciato ad essiccare al sole distribuito in stampi di legno (furmi) a struttura di paral-
lelepipedo, livellati nella parte superiore per mezzo di una tavoletta ( rasèra) impiegata a mo’ di spatola. La fer-
mentazione delle breste, dunque, non avveniva mediante cottura, e per questo motivo erano dette àjime, azzime,
crude. La loro fabbricazione, data la particolare cura e attenzione richieste, poteva avvenire solo d’estate, in con-
dizioni atmosferiche favorevoli. Sulle breste e i tradizionali materiali e metodi di costruzione in Calabria vedi Teti
V. 1984, pp. 130-135; Id. 2007a, pp. 270-273; Sergi C. 1995, pp. 39-66.
63 Per il Novecento, le testimonianze orali parlano di cinque carcàri presenti e attive nel territorio bado-
latese. “Una – ci informa il nostro interlocutore, Vincenzo Squillacioti, nel corso di due interviste registrate il 18
maggio e il 29 luglio 2013 – apparteneva sicuramente al barone Paparo, e un’altra al barone Gallelli, i quali, però,
le davano in affitto a persone esperte il cui soprannome è diventato Carcaròti”. Le calcare erano forni rustici di
forma cilindrica, sviluppati in verticale, e realizzati in luoghi extraurbani individuati – grazie alla presenza di un
tipo particolare di erba che ivi cresceva – come siti in cui si trovava l’argilla di migliore qualità. Mediante piccone
si scavava il terreno fino a trovare il filone di marna più adatto, localmente detto ovu, che veniva rotto in pezzi e
sistemato nella carcàra attraverso la porta superiore. Da una porta laterale inferiore si accendeva poi il fuoco, ali-
mentato per almeno 48 ore continuative al fine di garantire una cottura ottimale. Il processo di combustione pro-
vocava la disidratazione dell’argilla, che si trasformava in carbonato di calcio. La calce così ottenuta veniva con-
servata – per almeno un anno, prima dell’uso – all’interno di botti in legno in luoghi molto asciutti.

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Fig. 13. Ricorso al modulo architettonico a volta per la creazione di un sottopasso

Fig. 14. Buchi nella muratura esterna (ànditi) impiegati nella tecnica edilizia dei passamùri

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guito in due soli strati, arricciatura e rinzaffo, con calce e sabbia grossa. Per
le dimore più agiate si procedeva anche alla fase di finitura – con uno strato
di grassello di calce e sabbia fine di fiume, dello spessore di circa mezzo
centimetro – e a quella di allisciatura, eseguita col fracàssu (spatola). In casi
rari, scarsamente documentati nella tradizione edilizia di Badolato, la mura-
tura non veniva intonacata, ed era perciò detta a faccia vista.
Le coperture (i cuvertùri) – a uno o più spesso a due spioventi (span-
dìte) per le abitazioni più modeste, a quattro per quelle più facoltose e isola-
te – erano realizzate con una grossa orditura, fatta con travi di castagno o di
quercia. In molti casi, le travi maestre poggiavano direttamente sui muri
perimetrali. Diversamente, esse erano disposte a capriate. Le capriate pog-
giavano sulle ciarmàri, le travi poste trasversalmente lungo i muri maestri. I
punti d’incontro (cornìti) delle strutture capriate erano quindi collegati per
mezzo della trave traversa (o trave di colmo). Si otteneva così un’orditura
primaria, sulla quale erano poi posti – paralleli alle capriate, e trasversali al-
le ciarmàri – i ciarvùni, listelli di castagno grossolanamente squadrati. Su di
essi venivano adagiati i ciaramìdi, le tegole in terracotta ottenute dall’impa-
sto di sterro, che i ciaramidòti lasciavano prima riscaldare al sole e poi cuo-
cevano nelle fornaci del paese64. I ciaramìdi erano collocati tra un ciarvùne
e l’altro con la parte ricurva rivolta verso il basso, prendendo così il nome di
canàli. A cavallo di questo primo ordine ne veniva collocato un secondo,
questa volta con le tegole sistemate in posizione convessa, e perciò dette
coppi. Un’ulteriore fila di tegole era invece posta, a completamento dell’o-
pera, lungo la trave di colmo. Talvolta, infine, in diversi punti del tetto era
uso sistemare grossi mazzacàni, con la funzione di impedire che il vento e la
pioggia facessero cadere i ciaramìdi e scoperchiassero così il tetto.
Le aperture di porte, finestre e balconi erano realizzate da valenti pe-
tràri (gli scalpellini, spesso provenienti da Serra San Bruno, cui si devono
anche i portali in blocchi di pietra granitica dei palazzi nobiliari), che uti-
lizzavano dei conci squadrati, incastonati nella muratura per formare il te-

64
Ancora Squillacioti ci informa della presenza, nel territorio comunale, di due fornaci per laterizi attive
fino agli anni ’40-’50 dello scorso secolo: “Una si trovava nella marina (dove oggi si trova, più o meno, la chiesa
dei Santi Angeli Custodi): è scomparsa qualche anno prima che nascesse il nuovo centro abitato. L’altra si trovava
in località San Rocco, prospiciente il paese, proprio nei pressi della chiesetta di San Rocco, ancora esistente anche
se deserta e vuota. Quella di San Rocco è appartenuta sempre, a memoria di uomo, alla famiglia Gallelli, detti,
appunto, Ciaramidòti: è scomparsa anch’essa nel corso degli anni Cinquanta del ventesimo secolo. Le due fornaci
producevano soprattutto mattoni per pavimenti, mattoni per muratura e tegole. Ma producevano anche delle gia-
re per olio, fornacette, coperchi per forni a legna, oggetti per la lisciviatura della biancheria” (Intervista del 18
maggio 2013).

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laio al quale infiggere i battenti. Più spesso, però, gli stipiti erano in mattoni
di ceramica, sormontati da una trave in legno o in pietra ( suprapòrta), op-
pure da una piattabanda con architrave di scarico in mattoni cuneiformi
(introdotta, tuttavia, solo intorno al XIX secolo). I balconi erano di solito di
piccole dimensioni, con il piano di calpestio di una lunghezza di 50 cm cir-
ca, sovente anche meno. Erano delimitati da una ringhiera in ferro e sul
corrimano erano talvolta presenti piccoli canestri di forma circolare, utiliz-
zati per collocarvi e gràste, i vasetti con piantine di uso alimentare (pepe-
roncino, basilico, ecc.). Nei piani alti venivano talora ricavati dei poggioli –
pratica intensificatasi negli ultimi decenni –, sui quali spesso erano sistema-
te le reti e le tafàrie, artigianali ceste di ginestra intrecciata, adoperate per
far essiccare al sole pomodori, fichi, funghi, mentre in chiodi infissi alle pa-
reti esterne venivano appesi ed essiccati i fichi d’india. Nelle residenze agia-
te i terrazzi erano più ampi, e di frequente con balconata in muratura.
Le abitazioni comuni del paese, come detto, erano a tre o più spesso a
quattro piani. La loro altezza e ampiezza dipendeva dalle possibilità econo-
miche dei proprietari, ossia dalla maggiore o minore disponibilità e qualità
dei materiali di fabbrica (pietre e travi). I muri portanti delle case più mo-
deste, solitamente, avevano una lunghezza di circa 4 m (per un totale di 16
m2 a vano, ossia poco più di 60 m2 ad abitazione), mentre per le dimore gen-
tilizie si poteva arrivare fino ai 5,80 m delle sale di rappresentanza. Tuttavia
le travi di cui si poteva disporre avevano, sovente, misure differenti l’una
dall’altra; la loro messa in opera determinava perciò la realizzazione di vani
fuori squadro, con pareti di disuguale lunghezza.
Essendo i piani collocati a torre l’uno sull’altro, a ognuno di essi corri-
spondeva una stanza, che formava dunque un ambiente unico privo di pare-
ti divisorie interne (che – realizzate con tavole o incannucciate, o con mat-
toni posti di coltello – faranno la loro comparsa soltanto negli sviluppi edi-
lizi degli anni ’60-’70 del Novecento65). Ciascun vano aveva distinte desti-
nazioni d’uso. Quello inferiore – in seminterrato e quasi sempre incassato
nella roccia, così da dar vita a contesti parzialmente rupestri – prendeva il
65 Negli stessi anni, inoltre, si completerà una lunga fase – già avviata a inizio Novecento – di edilizia di
sostituzione, che aveva lasciato intatto il tessuto urbano ma aveva modificato gli interni delle abitazioni. In que-
sta pratica, un singolo proprietario – generalmente un esponente della borghesia o del notabilato locale – acqui-
stava e rilevava più abitazioni tra loro attigue. I diversi fabbricati venivano quindi accorpati così da ottenere di-
more più ampie e comode, com’è avvenuto per molti dei palazzi gentilizi disposti lungo corso Umberto I. Il profi-
lo urbanistico restava così immutato ma si passava da una sistemazione a torre dei singoli piani ad una disposi-
zione secondo linee orizzontali, con la ripartizione dei vani interni tramite pareti divisorie (molto spesso costitui-
te dagli stessi muri portanti che separavano i distinti appartamenti originari).

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Fig. 15. Piattabanda con architrave di scarico in mattoni

Fig. 16. Forme del costruito. Coperture, terrazza e bagno aggettante

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nome di catòju ed era impiegato come ricovero per il bestiame minuto (asi-
ni, pecore, capre, galline) oppure fungeva da magazzino per gli attrezzi da
lavoro e da luogo di trasformazione e conservazione delle derrate alimenta-
ri66. Aveva generalmente un’entrata esterna indipendente e, dal piano supe-
riore, vi si accedeva da una botola ricavata nel pavimento, detta catarràttu,
discendendo una ripida scala a pioli. L’ingresso al primo piano era invece
collocato sulla facciata opposta rispetto a quello del catòju. Le case in testa-
ta, inoltre, potevano presentare una terza entrata, disposta lateralmente. Un
vano di accesso con brevi scalini (talvolta culminanti in un pianerottolo,
detto mignànu, davanti alla porta di casa) o – in presenza di salti di quota –
una scala esterna in pietra (raramente in legno), con ringhiera anch’essa in
pietra o con corrimano in ferro, consentivano l’accesso ai piani abitati,
quando questi non erano direttamente a livello strada. Nel sottoscala, inve-
ce, veniva generalmente ricavato un piccolo spazio, impiegato come deposi-
to per la legna. Nelle case contadine, i collegamenti interni tra un livello e
l’altro erano assicurati sempre per mezzo di scoscese rampe in legno, talvol-
ta delimitate da parapetti, mentre nelle dimore gentilizie le scale erano co-
struite in pietra e sorrette da una volta a botte in mattoni.
Le abitazioni più modeste, normalmente, si componevano dunque di
quattro ambienti sovrapposti: u catòju, di cui s’è detto; quindi u menzanìnu,
che si affacciava sulla strada o sulla ruga ed era il primo vano che si incon-
trava introducendosi nella parte abitata della casa; più su si trovavano inve-
ce la camera da letto (genericamente detta càmmara) e u salàru (la cucina),
che al contrario non erano direttamente accessibili né visibili dall’esterno.
U menzanìnu – così chiamato perché stava in posizione intermedia tra un
livello e l’altro della casa – era un vano di sacrificio, quasi sempre più basso
rispetto agli altri piani. Aveva molteplici e complementari impieghi, a se-
conda delle esigenze familiari e dei momenti della giornata. Le donne vi la-
voravano stoffe al telaio (aṛhu tilàru); poteva fungere da anticamera in cui
accogliere e ricevere ospiti; più spesso serviva come dormitorio per i figli e
come ripostiglio dove era solitamente collocato u casciùni, grossa cassapan-
ca in legno di castagno suddivisa in scomparti, in cui si serbavano grano,
granturco, farina, frutta e altri cibi secchi.
66
Il termine catòju deriva dal greco katògheion, con significato di sotterraneo. In Calabria indica appun-
to il piano in seminterrato delle case, utilizzato come stalla o magazzino, raramente come abitazione. In altri
contesti, tuttavia, esso indica la casa nel suo complesso. Per l’ambiente siciliano, ad esempio, Giuseppe Pitrè lo
definiva come il tipo classico dell’abitazione cittadina, ricavato a pianterreno e abitato dagli strati più umili del
ceto dei burgisi (Pitrè G. 2002, pp. 72-73).

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Fig. 17. Scale e pianerottoli di accesso alle abitazioni (mignàni)

Fig. 18. Menzanìnu con scala e parapetto in legno

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Nelle case costruite su tre piani, u menzanìnu coincideva con la stan-
za da letto. In tal caso, aveva la stessa altezza degli altri piani e, per la notte,
ospitava l’intero nucleo familiare, quando non anche animali. L’ambiente
veniva riscaldato per mezzo di un braciere (vrascièri) e l’arredamento era
povero ed essenziale. Addossato alla parete, accanto ai pochi mobili, c’era il
letto in cui dormivano il capofamiglia e la moglie, e spesso anche i figli,
quando non vi era qualche altro giaciglio ad essi destinato (consistente in
un sacco di lino riempito con le foglie secche della pannocchia di granturco
o con paglia). In un grosso baule si conservava la biancheria del corredo,
portato dalle spose al momento del matrimonio, mentre alla spalliera di una
sedia o in chiodi infissi ai muri si posavano o appendevano giacche e indu-
menti di uso quotidiano. Nella stanza si trovavano anche la bacinella (bacì-
li) e la tinozza utilizzate per lavarsi, e il pitale (càntaru) per i bisogni. Poche
case, infatti, erano provviste di servizi igienici67. Nelle poche che ne erano
dotate, invece, essi potevano essere di due tipologie: o aggettanti dal corpo
di fabbrica e sorretti da sbarre in ferro incastonate diagonalmente nella mu-
ratura portante, oppure – sempre al fine di privare del minor spazio possibi-
le l’interno, già angusto, delle camere – direttamente ricavati all’esterno, sul
pianerottolo di accesso.
Al piano più alto si trovava u salàru, il vano cucina. Manufatto fon-
damentale di quasi tutte le cucine badolatesi del passato era u cocipàna, il

67 Un’estrema indigenza ha accompagnato gli abitanti delle case badolatesi per un quadro di lunga durata.
Ancora a inizio Novecento, infatti, erano pochissime le dimore provviste delle pur minime comodità, e solo nella
seconda metà del secolo si assiste ad un repentino cambiamento. Riportiamo, in proposito, i dati relativi ai due
censimenti ISTAT effettuati nel 1951 e nel 1961, che segnano la fase cruciale del passaggio di Badolato da una
dimensione abitativa tradizionale ad una prima integrazione delle dotazioni sanitarie, dei servizi e dei comfort
delle dimore moderne.
Nel 1951, delle 1128 abitazioni censite in paese, 52 erano sprovviste di qualsiasi servizio. 654 avevano le
latrine per i bisogni (513 all’interno, 141 all’esterno), e appena 6 il bagno. Le case con acqua potabile erano solo
102, mentre 306 risultavano sfornite sia di acqua che di latrine. L’impianto fisso di illuminazione elettrica era pre-
sente in 465 dimore. Nessuna, invece, era dotata di impianto di riscaldamento e di gas per la cucina. A distanza di
un decennio, con i dati che integrano anche le abitazioni sorte in marina a seguito delle alluvioni del 1951, il
quadro evolveva sensibilmente. Su 1115 abitazioni censite, comprendenti solo quelle effettivamente occupate,
ben 1063 erano dotate di gabinetto (1045 all’interno, 18 all’esterno) e 89 di bagno. Ancora relativamente poche,
ma notevolmente in aumento rispetto al rilevamento precedente, le case con acqua potabile, il cui numero saliva
a 775. Scendeva a 36, invece, il numero delle abitazioni sfornite di acqua potabile e di latrine. Quasi tutte le dimo-
re, 1053 sul totale, avevano l’impianto elettrico. Inoltre, 658 alloggi erano forniti di impianto per le bombole a gas
e 3 avevano quello di riscaldamento.
Per i dati riportati vedi ISTAT (a cura di) 1956, 9° Censimento generale della popolazione. 21 ottobre
1951. Provincia di Catanzaro, 3 voll., vol. III, fasc. 78 tav. 10 (Abitazioni occupate e non occupate, per servizio
installato), Roma, Istituto Centrale di Statistica, p. 65; Id. (a cura di) 1965, 10° Censimento generale della popola-
zione. 20 ottobre 1961. Provincia di Catanzaro, 3 voll., vol. III (Dati sommari per Comune), tav. 11 (Abitazioni
occupate e non occupate, per servizio installato), Roma, Istituto Centrale di Statistica, pp. 92-93.

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forno familiare che veniva utilizzato per la cottura del pane e dei cibi (ca-
stagne, fichi). U cocipàna – solitamente collocato ad angolo, più raramente
a parete e a sbalzo dalla muratura perimetrale – era rivestito con uno strato
di cintròpahṛu, un tipo di argilla dalla cui lavorazione si otteneva un into-
naco. Veniva chiuso da un coperchio (timpàgnu) ed era provvisto di con-
dotto fumario. Sorgeva a mezza altezza sorretto da una base, in legno o in
mattoni, trasversalmente incastonata tra due pareti d’ambito, talvolta pun-
tellata con pali in legno gravanti sul pavimento. Nello spazio vuoto sotto-
stante venivano raccolte le frasche, che servivano per la sua accensione. E
qui talora le galline s’ammasunàvanu, facevano il loro pollaio. Il piano di
base del forno era costituito da laterizi di varia forma detti chjànchi, lavora-
ti nelle fornaci. La calotta era invece realizzata in mattoni refrattari cunei-
formi, e nel mezzo vi veniva usualmente incastonata una pietra che, va-
riando colore riscaldandosi, indicava quando il forno aveva raggiunto la
temperatura adeguata per introdurre il pane da cuocere. Accanto al forno si
conservavano u crivu, il setaccio che serviva per la cernita della farina, u
stricatùri, il lungo bastone che serviva per distribuire le braci o per pulire il
piano di cottura, e la pala utilizzata per infornare. La stanza era riscaldata da
un piccolo focolare (foculàru), impiegato anche per la cottura dei cibi aṛha
pignàta, nella pignatta in terracotta, o aṛha cardàra, nel calderone sorretto
da una catena (camàstra) oppure poggiato su un treppiedi (tripòdi). Il foco-
lare sorgeva di solito a parete, più raramente ad angolo, ed era sprovvisto di
canna fumaria. I muri della camera erano perciò anneriti, l’ambiente fulig-
ginoso e l’aria acre e soffocante. Nella maggioranza delle case – prive di so-
laio – il fumo, salendo verso l’alto, usciva dagli interstizi presenti tra una te-
gola e l’altra del tetto o da un’apertura tubulare richiudibile, detta fanò68, ri-
cavata disponendo a perpendicolo due coppi in una delle falde.
Nelle poche cucine mansardate vi erano talvolta delle pertiche (paral-
lele al soffitto e assicurate da incastri in legno o da ganci in ferro) alle quali
venivano appesi e fatti maturare prosciutti, salumi e insaccati (sarzìzzi, sup-
pressàti, capicòhṛi, buχjulàri). Oppure, a mezza altezza, al di sopra della ta-
68 In altre aree della regione, ad esempio nel vibonese, un termine del tutto similare, fenò, designava in-
vece una piccola apertura presente in uno dei frontoni delle case (la quinta). Poteva avere forma triangolare (con
lati di 40 cm circa) e chiusa con paglia o con un pezzo di stoffa o di sacco; oppure forma circolare ed essere deli-
mitata dai bordi di una giara in terracotta. La fenò disciplinava la realizzazione dei vani di apertura delle finestre
con una serie di norme di carattere preservativo. Secondo una consuetudine attestata dagli studi di demologia
giuridica, infatti, attraverso questa piccola apertura veniva precluso al proprietario della casa il diritto di aprire –
in una fase successiva a quella di edificazione – delle finestre sul lato della quinta in cui essa era collocata. Cfr.
Teti V. 1984, p. 134.

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Fig. 19. Forno casalingo (cocipàna)

Fig. 20. Sfiatatoio (fanò)

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vola, era disposto un filare di canne (u cannìzzu), retto da un’intelaiatura
agganciata al soffitto, che serviva come ripiano sul quale porre il pane e a-
limenti di consumo quotidiano, impedendo al contempo a gatti, galline o
altri animali presenti in casa di giungere a contatto con il cibo. L’arreda-
mento era completato da qualche sedia e da un piccolo tavolo ( buffettèhṛu,
con cassetto per le posate), attorno al quale tutta la famiglia si riuniva per
mangiare, spesso in un’unica grande scodella (a limba). Le credenze, in cui
si conservavano piatti, ciotole, bicchieri, bottiglie, erano di solito diretta-
mente incassate nei muri portanti e formate da scansie in legno di castagno
chiuse da sportelli (stipi). In assenza di credenze, le pentole, le casseruole,
le padelle e gli altri tegami venivano appesi a chiodi infissi ai muri e i piatti
sistemati in una spalliera in legno addossata a una parete o posti a sgocciola-
re sul tavolo. Nelle cucine si custodivano anche i varìhṛi, barili per il quoti-
diano approvvigionamento di acqua (posti nella varihṛarìa, altra spalliera in
legno con pioli sporgenti); le majìhṛe, madie utilizzate per lavorare le carni
di maiale e soprattutto per impastarvi il pane; i ciarnìgghji e i ciarnigghjè-
hṛi, contenitori circolari in fibra vegetale in cui l’impasto del pane, ricoper-
to cu na farda (con una stoffa), veniva invece lasciato a crìscere, a lievitare,
prima di essere infornato.
La pavimentazione era in genere in terra battuta per il piano inferiore,
mentre per il piano abitato si faceva uso di mattonelle in argilla pressata a
mano e successivamente cotte nelle fornaci (ammattunàtu) messe in opera
con l’utilizzo di malta. Gli impiantiti dei piani più alti e della soffitta, inve-
ce, erano perlopiù in legno. I solai, quando presenti, avevano un’orditura
principale, costituita da travi di castagno o di quercia direttamente appog-
giati ai muri d’ambito, e un’orditura secondaria formata da listelli di casta-
gno (scàndala) appoggiati trasversalmente a due travi, e talvolta fissati con
uno strato di argilla leggermente inumidito, che fungeva anche da isolante
termico e serviva a livellare il pavimento. Il rivestimento così ottenuto, gra-
vante direttamente sul solaio, era chiamato scandalàte. Raramente, sui li-
stelli dell’orditura secondaria era steso un ulteriore assito di tavole, e in tal
caso la struttura prendeva il nome di tavulàtu. Altre volte ancora, il soffitto
poteva essere costituito da un’incannucciata frammista a fango, e perciò era
denominato cannizzàtu. Il sistema a canne poteva inoltre fungere da con-
trosoffittatura, sia per nascondere l’orditura del solaio che come coibente
termico. Nel sottotetto, in genere, si conservavano alimenti (patate, fagioli,
fichidindia, castagne, noci, nocciole), e si coltivava il baco da seta.

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Capitolo II

LE FORME DELL’ABITARE

Una vasta quanto poco organica letteratura, afferente a differenziati


ambiti di ricerca (filosofia, geografia, antropologia, sociologia, architettura,
urbanistica), ha posto in relazione dialettica l’abitare dell’uomo con i con-
cetti di confine, di spazio, di luogo, e con il tema della Cura1. Abitare, so-
prattutto presso le civiltà preindustriali, – è stato affermato – significa trac-
ciare confini e stabilirsi in uno spazio racchiuso, delimitato; significa avere
consuetudine con il luogo, e prendersene cura.
Per Martin Heidegger, in particolare, l’abitare è il modo attraverso cui
l’uomo (anche l’uomo moderno) manifesta il proprio esser-ci nel mondo, la
propria presenza (Dasein) sulla terra. “Esser uomo significa: essere sulla ter-
ra come mortale; e cioè: abitare”2. L’uomo è in quanto abita, e abita in
quanto costruisce. Per il filosofo tedesco il costruire è già di per sé un abita-
1 Nel campo degli studi filosofici sull’abitare dell’uomo, ineludibile punto di partenza rimane l’opera di
Martin Heidegger. Del filosofo tedesco citiamo, in particolare, le dense pagine “Costruire abitare pensare”, scritte
per la conferenza Uomo e spazio tenutasi a Darmstadt il 5 agosto 1951. Vedi Heidegger M. 1993a. Cfr. Id. 1993b.
Per un’introduzione critica del tema nell’opera heideggeriana vedi Resta C. 1996, Il luogo e le vie. Geografia del
pensiero in Martin Heidegger, Milano, Franco Angeli; Berto G. 1999, Freud, Heidegger. Lo spaesamento, Milano,
Bompiani. Le tematiche del filosofo tedesco sull’abitare come aver cura sono state di recente discusse criticamente
da Pesare M. 2006; Id. 2007; Id. 2009. Per una fenomenologia ed un’estetica della casa e dell’abitare vedi Bache-
lard G. 2006; Cardi M. V. 2000; Tarpino A. 2008. Per una geofilosofia ed un’antropologia del paesaggio e dei luo-
ghi vedi Turri E. 1990; Id. 1998; Id. 2008; Lai F. 2004; Bonesio L. 2001; Id. 2002; Id., Micotti L. (a cura di) 2003;
Dematteis G., Ferlaino F. (a cura di) 2003; Hillman J. 2004; Raffestin C. 2005; Quaini M. 2006; Bevilacqua F. 2010.
Molto articolata la letteratura socio-antropologica sull’abitare, connessa ai concetti di luogo, nonluogo,
spazio, confine. Per un’introduzione all’antropologia urbana vedi Signorelli A. 1996. Cfr. Rykwert J. 1981, con
riferimento alle civiltà del mondo antico. Per una geoantropologia dell’abitare si vedano, tra i riferimenti possibi-
li, Bourdieu P. 2003; Faeta F. (a cura di) 1984; La Cecla F. 2006; Id. 2007; Ingold T. 2004; Pesare M. 2007; Id. 2009,
pp. 107-135; Varotto M. 2006. Sulla nozione di «luogo» nella sociologia classica francese si rimanda a Durkheim
É., Hubert H., Mauss M. 1999; Durkheim É. 2005; Mauss M. 2009. Sul concetto di «nonluogo» nelle società com-
plesse vedi de Certeau M. 1990, L’invention du quotidien 1. Arts de faire, Paris, Gallimard; Augé M. 1995; Id.
2007; Id. 2010d. Sull’«eterotopia» cfr. Foucault M. 2010a. Su «senso dei luoghi», «non più luogo», «non ancora luo-
go», connessi alle dinamiche di abbandono, trasferimento, rifondazione di abitati vedi Teti V. 2007a. Per una an-
tropologia dei luoghi cfr. Ronzon F. 2008; Grasseni C. 2009. Dell’ampia bibliografia su organizzazione, gestione,
sacralizzazione dello spazio nelle culture dell’abitare tradizionali limitiamo i rimandi a Condominas G. 1977, Pour
une définition anthropologique du concept d’espace social, in «ASEMI», n. 2, pp. 315-343; Minicuci M. 1981; Id.
1982; Id. 1984; Lombardi Satriani L. M., Meligrana M. 1996, pp. 27-160; Lombardi Satriani L. M. 1984; Id. 2004;
Teti V. 1984; Remotti F., Scarduelli P., Fabietti U. 1989; Remotti F. 1993; Zanini P. 1997; Archetti M. 2003.
Sul tema dell’abitare, nell’ambito degli studi di architettura, si segnalano le importanti opere di Norberg-
Schulz C. 1995; Id. 2000. Vedi anche Coppola Pignatelli P. 1977; Vitta M. 2008. Sull’idea di «luogo» e la gestione
dello spazio, sulla pianificazione del territorio e la costruzione del paesaggio citiamo Lynch K. 1977; De Seta C.
1986; Magnaghi A. (a cura di) 1998; Id. 2010; Decandia L. 2000; Id. 2004; Ferraro G. 2001; Scandurra E. 2007.
2 Heidegger M. 1993a, p. 97. Cfr. Vitta M. 2008, pp. 3-21.

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re, anche se non tutte le costruzioni divengono abitazioni. Un ponte, un ae-
roporto, uno stadio sono costruzioni ma non sono abitazioni. Il camionista
avverte l’autostrada come la propria casa ma non abita in essa; l’operaia è
come a casa propria nella filanda ma non è quella la sua abitazione, e così
via. Nondimeno, tali costruzioni sono connesse e determinate in riferimen-
to all’abitare, ossia sono concepite e realizzate al servizio dell’abitare del-
l’uomo. La loro presenza, anzi, permette la riconoscibilità e l’organizzazione
stessa delle pratiche dell’abitare. Il ponte non è solo un ponte: esso con-
giunge le rive, raduna e unifica ambienti diversi; è il collegamento tra due
alterità. Ed è proprio la sua esistenza che consente all’uomo di percepire e
visualizzare l’opposizione tra tali realtà.
Ogni costruzione, pertanto, crea, organizza, scandisce, definisce «luo-
ghi», segnando e demarcando punti, linee e aree di confine all’interno di
uno «spazio». Costruire significa organizzare e disporre spazi, e – con ciò –
erigere e fondare luoghi. Per Heidegger, lo spazio è pura extensio e i luoghi
– per mezzo degli edifici – aprono e dispongono spazi. I luoghi non esistono
se non in virtù del costruito, dunque. Sono le costruzioni che determinano
le località e le vie, grazie alle quali lo spazio si ordina e si dispone. Lo spa-
zio, in ultima istanza, è ciò che viene delimitato per consentire la creazione
di luoghi. “Di conseguenza, – scrive il filosofo – gli spazi ricevono la loro es-
senza non dallo spazio, ma dai luoghi”3.
La vita dell’uomo è tutta compresa entro il rapporto che egli mantiene
con i luoghi e con gli spazi. “Che i mortali sono – sostiene ancora Heidegger
– vuol dire che, abitando, abbracciano spazi e si mantengono in essi […]. E
solo perché i mortali, conformemente alla loro essenza, abbracciano spazi
stando in essi, possono anche percorrerli […]. Il rapporto dell’uomo ai luo-
ghi e, attraverso i luoghi, agli spazi, risiede nell’abitare. La relazione di uo-
mo e spazio non è null’altro che l’abitare pensato nella sua essenza”4.
Nelle pratiche dell’abitare e dell’insediarsi dell’uomo – così come de-
lineate dal filosofo tedesco – lo spazio accoglie luoghi, e i luoghi fondano la
loro entità sulla creazione degli edifici. Le costruzioni si configurano come
compitazione del cosmo, ricapitolazione dell’universo. In esse hanno acces-
so la terra e il cielo, i divini e i mortali. L’uomo che abita il mondo, alloggia
gli edifici, soggiorna presso di essi. Ne protegge e custodisce la fondazione,
anche. Costruire non ha solo significato di edificare. Nell’ermeneutica hei-
3 Heidegger M. 1993a, p. 103.
4 Ivi, p. 105.

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deggeriana, l’analisi semantica del lemma «costruire» individua un secondo
significato, racchiuso nei verbi coltivare, trattenersi, dimorare, soggiornare
presso. Costruire – quindi abitare – significa anche “custodire e coltivare il
campo […], coltivare la vigna”5. L’abitare, dunque, si dispiega sia nel «co-
struire» che edifica costruzioni, sia nel «costruire» che coltiva. Cioè che pro-
tegge, che ha cura. Ed è proprio in questo aver cura che Heidegger indivi-
dua il tratto essenziale dell’abitare, dell’esser-ci dell’uomo nel mondo. L’uo-
mo abita la terra poiché ne ha cura; avere cura significa custodire la terra,
preservarla, metterla al riparo, salvarla: “salvare la terra, accogliere il cielo,
attendere i divini, condurre i mortali – questo quadruplice aver cura è la
semplice essenza dell’abitare. Così i veri edifici imprimono il loro segno sul-
l’abitare, portandolo nella sua essenza e dando ricetto a questa essenza” 6.
L’abitare dell’uomo, perciò, non è un semplice soggiornare sulla terra, ma
piuttosto un soggiornare presso le cose, un identificarsi e mantenersi in es-
se, un prendersene cura.
Lo stesso vocabolo «abitare» implica un’idea di abitudine, di rapporto
continuativo con le cose e con gli spazi. L’etimologia del verbo abitare vie-
ne dal latino habito-as, frequentativo di habeo, cioè avere. Ha il significato
di alloggiare, risiedere, dimorare ma anche quello di “«avere abitualmente,
continuare ad avere», che apre il verbo all’idea di proprietà e a quella, reci-
proca, di appartenenza”7, permanenza, consuetudine. Nella struttura del
verbo è insita l’idea stessa della familiarità, dell’abitudine, della domesticità
con i luoghi. L’abitare è allora intimamente correlato all’idea di tracciamen-
to di limiti e confini8, attraverso cui l’uomo opera una distinzione tra mon-
do noto e mondo ignoto, individuando punti di domesticazione dello spazio
che consentono di orientarsi e determinarsi al suo interno.
Per Christian Norberg-Schulz9, profondamente influenzato dalla pro-
spettiva heideggeriana di approccio al tema dell’abitare, lo spazio organizza-
to trova forma ed espressione attraverso l’architettura. Orientamento e i-
dentificazione diventano le matrici di un costruire e di un abitare che con-
figurano il progetto esistenziale come scambio sociale, come pratica di co-
struzione e condivisione di valori comuni. L’uomo abita, riesce ad abitare,
quando è capace di orientarsi in un ambiente e di identificarsi con esso, e-
5
Ivi, p. 98.
6 Ivi, p. 106. Cfr. Pesare M. 2006; Id. 2009.
7 Vitta M. 2008, p. 11. Cfr. Coppola Pignatelli P. 1977, pp. 169-171.; Archetti M. 2003, pp. 97-100.
8 Cfr. Zanini P. 1997; Bonesio L. 2007.
9 Norberg-Schulz C. 1995, pp. 13-31.

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sperendone il significato. “Quando un uomo abita, – scrive l’architetto nor-
vegese – è simultaneamente localizzato in uno spazio ed esposto ad un certo
carattere ambientale. Le due funzioni psicologiche implicite nell’abitare,
possono essere così chiamate «orientamento» e «identificazione». Per acqui-
sire nel vivere un punto sicuro di appoggio, l’uomo deve essere capace di o-
rientarsi, deve cioè conoscere dove egli è, ma deve essere anche capace di
identificarsi con l’ambiente, il che significa sapere come è un certo luogo” 10.
E più avanti aggiunge: “L’identità dell’uomo presuppone l’identità del luo-
go. Identificazione e orientamento sono aspetti primari dello stare al mon-
do. Mentre l’identificazione è la base del senso di appartenenza ad un luogo
dell’uomo, l’orientamento è la funzione che lo fa divenire quell’homo viator
che è parte della sua natura”11.
Muoversi nello spazio, dunque, impone la fissazione di centri, di punti
di riferimento, che consentono l’orientamento e intervengono a definire
l’opera di plasmazione dell’uomo sulla natura. Abitare come coltivare signi-
fica anche coltivare per trasformare. Stabilirsi in uno spazio presuppone la
trasformazione e la conversione del luogo naturale, il che produce un inse-
diarsi in un luogo artificiale, costruito. “Un paesaggio culturale – scrive an-
cora Norberg-Schulz – si basa sulla «coltivazione» e contiene luoghi definiti,
percorsi e domini, che concretizzano l’intelligibilità dell’ambiente naturale,
da parte dell’uomo”12. Stabilirsi in un luogo indica “un concetto esistenziale,
che denota la capacità di simbolizzare dei significati. Quando l’ambiente ar-
tificiale è significativo, l’uomo si sente «a casa»”13.
Abitare il luogo, perciò, richiede sempre la pratica e l’esperienza dei
suoi margini e delle sue soglie, prevede la costruzione e la conoscenza dei
suoi limiti e confini, delle sue linee interne di demarcazione14. L’abitare im-
plica il riconoscimento e l’identificazione del/con il «luogo», che si configu-
rerà come centro orientato, contrassegnato, simbolizzato. Muoversi, trasfe-
rirsi, insediarsi, abitare in uno spazio presuppongono l’individuazione di
punti mediani, di traiettorie e domini, atti all’edificazione del luogo. Tutta-
via – nelle prassi insediative delle società tradizionali – ammettono anche la
10 Id. 2000, p. 19. Anche per La Cecla, l’orientamento è azione indispensabile all’abitare dell’uomo. Solo
orientandosi, infatti, l’uomo può fondare la propria dimora e stabilire la propria presenza nel mondo: “Insediarsi
vuol dire ritagliare un posto nella genericità dei luoghi, porre un confine tra l’abitato e il non abitato. Questo ge-
sto è un gesto di fondazione, ed ogni fondazione implica un orientamento” (La Cecla F. 2006, pp. 34-35).
11 Norberg-Schulz C. 1995, p. 22.
12 Ivi, p. 52.
13 Ivi, p. 50.
14 Cfr. Archetti M. 2003, pp. 85-95.

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possibilità del perdersi, del riarticolare il processo di domesticazione dello
spazio. Per Franco La Cecla15, perdersi è anzi condizione imprescindibile,
propedeutica alla conoscenza dei luoghi e alla loro organizzazione; garanti-
sce la possibilità di riattivare quelle abilità umane di appaesamento, di am-
bientamento, di domesticazione e costruzione dello spazio che l’antropolo-
go definisce come «mente locale»16. Perdersi, allora, è la condizione dello
spaesamento fertile che impone la ridefinizione e la ricomposizione dei
punti di orientamento; è la situazione a partire dalla quale si rende possibile
quel processo di reintegrazione dello spazio, di sua ri-significazione reale e
simbolica, che è esperienza costitutiva dell’esistenza. In virtù di questo suo
fare «mente locale», ossia ri-orientandosi nel territorio erigendo confini e
individuando centri, l’uomo conferisce allo spazio significatività formale,
stabilisce e determina il senso e la direzione del suo intervento sulla natura,
e produce un’immagine ed un’elaborazione mentale del proprio territorio di
insediamento. “Nelle culture dell’abitare – scrive ancora La Cecla – la per-
cezione della forma dello spazio è già una «mente locale» di esso, un senso
delle forme e presenze. […] Chi abita percepisce i luoghi come una latenza
di forme visibili ed invisibili che possono mutare ed essere mutate”17.
Chiudere gli spazi, definire i luoghi, individuare un «centro» consen-
tono all’uomo di proiettarsi in diverse direzioni nell’ambiente circostante,
appropriandosene. In questo suo agire sul paesaggio, l’uomo territorializza
lo spazio e fornisce una rappresentazione culturale del territorio. E solo at-
traverso questa costruzione mentale dei luoghi insediativi – ha recentemen-
te ribadito Claude Raffestin – l’uomo abita veramente il territorio: “La rela-
zione dell’uomo con il territorio trova la sua finalità, non solo nella produ-

15
La Cecla F. 2007; Id. 2006.
16 La «mente locale», per l’antropologo italiano, è “percezione, ma anche definizione dello spazio intorno,
tracciamento su di esso delle proprie intenzioni, dei propri movimenti. Ed è anche uso di questo stesso spazio” (Id.
2007, p. 94). Di contro, la condizione di smarrimento e spaesamento viene definita come un «fuor-di-luogo»: “Es-
sere spaesati non significa essere altrove, ma non sapere accoppiare alla nostra località un luogo determinato. Es-
sere cioè fuor-di-luogo. […] Perdersi significa perdersi rispetto ad un contesto. È quindi l’inversione, o il corto
circuito di un processo culturale, lo svanire di una attenzione al mondo circostante. Eppure, non sempre ha avuto
questa dimensione frustrante e banale o è stato sintomo soltanto di un atto mancato. In culture a cui era essenzia-
le il rapporto con la propria località di vita, in quelle che ancora oggi lo posseggono, smarrirsi è un processo carico
di significato” (Ivi, p. 10); “è la condizione d’origine, il bisogno ed il terreno su cui si comincia o si ricomincia ad
orientarsi” (Ivi, p. 16). La relativizzazione della dimensione locale e la conseguente incapacità di perdersi (di quel
perdersi inteso come riattivazione del processo orientativo) vengono lette da La Cecla come la manifestazione di
una acuta crisi che, soprattutto nel mondo occidentale, affligge l’abitare dell’uomo contemporaneo: “In culture
come la nostra che attribuiscono sempre meno importanza alla specificità dell’essere in un luogo – in questo e
non in un altro – si è perduto l’altro modo del perdersi” (Ivi, p. 10).
17 Ivi, p. 96.

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zione materiale dell’insediamento, ma anche nella produzione della rappre-
sentazione di questo insediamento. Non si può abitare la realtà senza pensa-
re l’immagine di questa realtà”18.
Perché sia possibile la vita, e quindi l’abitare – scriveva, del resto, già
Ernesto de Martino – l’uomo deve possedere una «patria culturale», «un vil-
laggio nella memoria», a cui fare ritorno quale mappa mentale di spazi do-
mesticati, quale rappresentazione orientata e simbolizzata di luoghi, quale
insieme di punti di riferimento e orientamento esistenziali19. Il dover esser-
ci nel mondo come ethos del trascendimento della datità dell’esistenza, co-
me incessante processo di domesticazione dello spazio, come identificazio-
ne/orientamento nel luogo e suo inveramento, rappresentano la riabilitazio-
ne e il riscatto da quel radicale rischio della presenza, da quella perdita di
domesticità e di operabilità domesticatrice che sono al centro di molte, fon-
damentali pagine del grande antropologo italiano20. Per de Martino “la pre-
senza entra in rischio quando tocca i confini della sua patria esistenziale,
quando non vede più il «campanile di Marcellinara», quando perde l’oriz-
zonte culturalizzato oltre il quale non può andare e dentro il quale consuma
i suoi «oltre» operativi: quando cioè si affaccia sul nulla”21. Lo spaesamento,

18Raffestin C. 2005, p. 84. Sull’abitare come costruzione culturale, come metafora attiva e segno-
costituente della vita umana all’interno dell’immaginario collettivo, vedi Pesare M. 2006; Id. 2009, pp. 109-135.
19 de Martino E. 1959. Cfr. Lombardi Satriani L., Meligrana M. 1987.
20 Le tematiche, qui solo accennate, richiederebbero un approfondimento e una problematizzazione ben
maggiori che esulano, tuttavia, dall’economia del nostro scritto. In questa sede, ci limitiamo a segnalare de Marti-
no E. 2002a, in cui l’autore riprende e rielabora il tema delle patrie esistenziali e dello spaesamento, già discusso
in uno studio sull’angoscia territoriale (Id. 2008a). Nell’esporre il caso di un contadino bernese, il cui orizzonte
spaziale ha subito una radicale trasformazione a seguito dell’abbattimento della quercia posta nelle prossimità
della sua fattoria, de Martino evidenzia come la distruzione del paesaggio domestico abbia innescato nel malato
un delirio di fine del mondo. Il mutamento dei luoghi e degli ambienti familiari gettano l’ammalato nello smarri-
mento, in un’angoscia che sembra non avere riscatto: “L’esistenza abbandonata alla mancanza di delimitazione di
questa spazialità senza interni limiti di articolazione, non ritrova più il qui e il là, il determinato luogo e posto, in
cui si collocano e a cui appartengono le cose. […] Esse sono diventate per lui un «altrove» non familiare, estranee,
straniere, strane, anche nella loro composizione e struttura. Devastazione e solitudine del mondo, e assenza di
limiti vanno così insieme a una «perdita della domesticità», ad una «estraneità» del mondo” (Id. 2002a, p. 200).
21 Ivi, p. 480. Nelle note pagine sul «campanile di Marcellinara», lo studioso riporta l’esperienza di un pa-
store calabrese che, avendo perso – pur temporaneamente – l’orizzonte del proprio spazio esistenziale, vive l’espe-
rienza dello spaesamento: “Ricordo un tramonto, percorrendo in auto qualche solitaria strada calabrese. Non era-
vamo sicuri della giustezza del nostro itinerario, e fu per noi di sollievo imbatterci in un vecchio pastore. Fer-
mammo l’auto e gli chiedemmo […] di salire […] e di accompagnarci […]. Accolse con […] diffidenza la nostra
preghiera […]. Lungo il breve percorso la sua diffidenza aumentò, e si andò tramutando in vera e propria ango-
scia, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista familiare del campanile di Marcellina-
ra, punto di riferimento del suo minuscolo spazio esistenziale. Per quel campanile scomparso, il vecchio pastore si
sentiva completamente spaesato: e a tal punto si andò agitando mostrando i segni della disperazione e del terrore,
che decidemmo di riportarlo indietro […]. Sulla via del ritorno stava con la testa sempre fuori […], spiando ansio-
samente l’orizzonte per vedervi riapparire il domestico campanile: finché quando finalmente lo rivide, […] il suo
vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una patria perduta” (Ivi, pp. 479-480).

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lo sradicamento dai luoghi, l’angoscia territoriale – intesi come smarrimen-
to degli orizzonti familiari e domestici – vengono allora trascesi mantenen-
dosi entro i limiti del proprio spazio esistenziale, esperendone i confini e
dandone una rappresentazione culturalmente simbolizzata. Il dover esserci
nel mondo, quindi, si inscrive nella fatica e nell’abilità umane di costruzio-
ne dello spazio vitale, di plasmazione simbolica della natura, di elaborazio-
ne culturale del territorio di insediamento. “Ciò che l’uomo produce col suo
lavoro, la sfera di controllo che l’uomo racchiude nel suo lavorare, costitui-
scono il centro di relazione e di riferimento della addomesticazione del
mondo: e anche «il sole» o la «luna» o «il cielo» sono «normali», appaesati,
domestici nella misura in cui sono stati «lavorati» dall’uomo, e si presentano
con tutte le tracce di appaesamento che questo lavoro vi ha immesso”22.
Pertanto, vivere – e di conseguenza abitare – richiedono una trasfor-
mazione culturale degli elementi naturali. L’uomo rielabora, modella, pla-
sma – realmente e simbolicamente – lo spazio naturale; vi traccia sopra un
proprio sistema culturale di controllo, assoggettando l’ambiente alle proprie
esigenze. In tal modo garantisce e mantiene la domesticità dello spazio in
cui vive, fornisce una rappresentazione mentale di esso, e al contempo arti-
cola il necessario processo di uso economico del territorio. Nelle pratiche
dell’abitare dell’uomo, la disposizione e la gestione del paesaggio, la costru-
zione dell’ambiente di vita, ma anche – come ha fatto notare Pierre Bour-
dieu – la “fissazione della casa nello spazio geografico e nello spazio sociale
e la sua organizzazione interna sono uno dei «luoghi» in cui si articolano la
necessità simbolica e la necessità tecnica”23. Abitare, per una data comunità,
significa perciò adattarsi al luogo prescelto, significa impiegarne le risorse e
organizzarne lo spazio al fine di costruire un’economia dei beni e simbolica.
L’abitare, dunque, prevede un’edificazione del luogo che è sia simbo-
lica, immateriale, psichica sia concreta, materiale, tangibile. Luisa Bonesio
ha definito paesaggio questa costruzione – anche mentale – dei luoghi, que-
sta riproduzione culturale del territorio. Per la studiosa, infatti, il paesaggio
non è che la forma dell’abitare di una cultura, nella quale si esprime la sua
modalità di interpretazione e attivazione di un modo di essere al mondo. Il
paesaggio, in quest’ottica, viene interpretato come spazio segnato, organiz-
zato, condiviso; è luogo di identificazione; è configurazione visibile del sen-
so dell’abitare elaborato dalla comunità. Esso si definisce come spazio cultu-
22 Ivi, p. 437.
23 Bourdieu P. 2003, p. 54. Cfr. La Cecla F. 2006, pp. 90-105.

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ralmente costruito, che rimanda a quell’intervenire e agire sull’ambiente, a
quell’individuare confini e domini, a quel fondare luoghi che, con Heideg-
ger, abbiamo detto essere pratica antropologica archetipica dell’abitare. Bo-
nesio nota come la stessa genesi dei termini paese e paesaggio – che nelle
società preindustriali definivano il graduale assorbimento nel territorio abi-
tato degli spazi ad esso contigui – sembri recare testimonianza di questa dia-
lettica del tracciare, delimitare, radunare, racchiudere, unificare, simboliz-
zare luoghi e identificarsi in essi. Infatti, scrive la studiosa,

il termine paese rimanda al verbo latino pangere, conficcare paletti, da cui pagus, il
cippo confitto nel terreno per segnare un limite (del campo, dell’abitato, una strada,
ecc.), che genera a sua volta l’aggettivo pagensis, da cui, appunto, paese. Il “paese” (o
Land) che darà il conio “paesaggio”, non è, secondo questa genealogia linguistica,
tanto il “paesetto” come oggetto e genere pittorico, quanto, ben più originariamente,
il rimando a un’idea di articolazione spaziale che genera territorialità, appartenenza,
istituisce riconoscibilità e differenze, consente, attraverso l’attività di imporre limiti,
di strutturare forme e leggibilità, simbolicità e possibilità operative, distinzioni, le-
gami, separazioni, rimandi: una regione, una contrada, realizzata come opera collet-
tiva, come ricorderà il suffisso (-schaft, -aggio). […] Il paesaggio rivela, da questa
prospettiva, il modo culturale dell’abitare dell’uomo sulla terra, una creazione che
sintetizza natura e stile storico lungo archi temporali molto lunghi 24.

Il paesaggio, così, è l’esito di un processo culturale. È il frutto di una


cultura dell’abitare. Il prodotto, cioè, dell’attività di una comunità insediata;
della sua prassi di delimitazione di spazi, finalizzata alla fondazione di luo-
ghi. Il paesaggio è una summa di luoghi. E i luoghi sono diretta emanazione
del lavoro collettivo dell’uomo sull’ambiente. Uomo e spazio, comunità e
luogo sono perciò concetti inscindibili, tra loro intimamente interconnessi.
Una consolidata tradizione di studi socio-antropologici, risalente almeno a
Marcel Mauss, ha associato la nozione di luogo a quella di comunità, ossia
di una cultura localizzata nel tempo e nello spazio. Il «luogo antropologico»
è delimitato e definito dalle persone che lo abitano e lo umanizzano. E a sua
volta, come ha documentato la ricerca sociologica di Émile Durkheim (tra i
primi ad aver provato a sistematizzare il rapporto fra società e spazio), le
comunità si plasmano e si organizzano in relazione allo spazio e al luogo25.
Il luogo, dunque, è una costruzione – insieme fisica e metafisica – del terri-

24 Bonesio L. 2007, pp. 155-156. Della stessa autrice si vedano anche Id. 2001; Id. 2002; Id., Micotti L. (a
cura di) 2003. Cfr. Decandia L. 2000, pp. 257-259.
25 Cfr. Durkheim É., Mauss M. 1999; Durkheim É. 2005; Mauss M. 2009.

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torio insediativo; è una proiezione, realistica e simbolica, dell’intervento
dell’uomo sulla natura; è l’espressione formalmente significativa del senso
dell’abitare di una comunità. Nel luogo, l’uomo estrinseca la sua identità e
inscrive i rapporti con i propri simili. Il luogo, perciò, è spazio di relazione,
di convivenza, di individuazione e condivisione di elementi comuni. Esso
crea riconoscibilità, costruisce appartenenze, racchiude storie, genera con-
tatti, definisce identità. Nella sua nota formulazione teorica sul «nonluogo»,
inteso come esito della perdita dei valori del «luogo», Marc Augé ha sottoli-
neato come i luoghi siano concepiti per l’appunto in riferimento ai tre attri-
buti fondamentali di identità, relazione, storia. Per l’antropologo francese

il luogo, il luogo antropologico, è simultaneamente principio di senso per coloro che


l’abitano e principio di intelligibilità per colui che l’osserva. […] Questi luoghi han-
no almeno tre caratteristiche comuni. Essi si vogliono (li si vuole) identitari, rela-
zionali e storici. La mappa della casa, le regole di residenza, i quartieri del villaggio,
gli altari, i posti pubblici, la divisione del territorio corrispondono per ciascuno ad
un insieme di possibilità, di prescrizioni e di interdetti il cui contenuto è allo stesso
tempo spaziale e sociale. Nascere, significa nascere in un luogo, essere assegnato a
una residenza. In questo senso il luogo di nascita è costitutivo dell’identità indivi-
duale […]. […] in uno stesso luogo possono coesistere elementi distinti e singoli,
certo, ma di cui non si possono negare né le relazioni reciproche né l’identità condi-
visa che conferisce loro l’occupazione dello stesso luogo comune. […] Storico, infi-
ne, il luogo lo è necessariamente dal momento in cui, coniugando identità e relazio-
ne, esso si definisce a partire da una stabilità minima. Lo è nella misura in cui coloro
che vi vivono possono riconoscervi dei riferimenti che non devono essere oggetti di
conoscenza26.

L’edificazione del luogo e l’articolarsi delle sue componenti identita-


rie, relazionali, storiche si estrinsecano attraverso un imporre limiti che in-
dividua centri. Tale ricerca del centro organizza lo spazio attorno a luoghi
definiti; distingue spazi coltivati da spazi incolti, luoghi noti da luoghi igno-
ti; differenzia l’abitato dal non abitato. E consente all’uomo di proiettarsi
nel territorio, orientando in esso il proprio cammino di costruzione di iden-
tità, di relazione con i propri simili e di condivisione di una storia comune.
Ci occuperemo ora di analizzare – interrogando ulteriormente l’idea
di «centro» – come tali processi e pratiche dell’abitare abbiano trovato e-
spressione a Badolato, in relazione alla struttura urbanistica del paese, al-
l’organizzazione dello spazio insediato, alla costruzione delle case.

26 Augé M. 1995, pp. 51-53. Cfr. Id. 2010b, pp. 42-52; Decandia L. 2000, pp. 121-124.

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II. 1. Le declinazioni del «centro»27

Nel capitolo sulle pratiche dell’insediamento abbiamo osservato come


Badolato si strutturi per un verso come corpus edilizio omogeneo, chiuso
entro i confini tracciati dalla sue molte chiese e proteso verso il riconosci-
mento e la focalizzazione del «centro» o dei «centri», identificabili con la
chiesa matrice, quale opera architettonica collocata al vertice dell’impianto
urbano, e con piazza Castello, quale centro geometrico. Per altro verso, pe-
rò, si è detto di come la conformazione orografica del sito abbia determina-
to una forte frammentarietà del costruito, dando vita ad una sovrapposizio-
ne di rioni e sotto-nuclei urbani, ciascuno dei quali facente capo ad un pro-
prio «centro», individuabile di volta in volta in una chiesa, un palazzo, una
piazza28. Sul piano urbanistico, dunque, il paese si articola in una sovrappo-
sizione di «centri»; il tessuto edilizio si scompone in una serie di sottosiste-
mi centrati, che si compenetrano l’un l’altro e che ambiscono a partecipare
del «potere del centro»29, inteso – in questo specifico contesto – come un in-
sistere ed un convergere delle strutture urbane verso un modello insediati-
vo accentrato e verticistico.
Tuttavia, la letteratura sul «centro» ha chiarito come questi spazi non
esperiscano e non esauriscano la loro centralità solo in termini urbanistico-
architettonici. Accanto, o piuttosto in sostituzione a questa, persiste e agisce
in essi una centralità sociale, religiosa, simbolica. Tali spazi sono assunti
come centri paradigmatici per l’orientamento dell’uomo all’interno del ter-
ritorio, ma questo orientamento è anzitutto culturale prima ancora che spa-
ziale. Poiché investiti di una forte valenza simbolica e di un pregnante valo-
re culturale, questi centri, afferma de Martino, “non sono centri in senso
geometrico: possono quindi essere anche geometricamente eccentrici ri-
27
La nozione di «centro» è stata lungamente dibattuta e affrontata all’interno degli studi socio-
antropologici. Per una preliminare e opportuna analisi critica dell’uso di questo concetto all’interno del settore
disciplinare rimandiamo a Remotti F. 1989. Tra gli autori per i quali il tema ha rivestito una particolare pregnan-
za teorica, insieme a quelli già citati, ci limitiamo a segnalare Eliade M. 1990; Id. 1989; Id. 2008; de Martino E.
2008a, pp. 225-239; Id. 2002a, passim; Shils E. 1984, Centro e periferia. Elementi di macrosociologia [1961], Bre-
scia, Morcelliana, (Trad. it. di P. Spelta); Geertz C. 2009. Più recenti acquisizioni teoriche sono presenti in Faeta
F. 1984a; Scarduelli P. 1989; Decandia L. 2000; Id. 2004; La Cecla F. 2007; Id. 2006.
28
L’esiguità degli spazi e gli scoscendimenti del terreno hanno determinato, in realtà, la presenza di
un’unica vera piazza in paese, peraltro esito dell’abbattimento dei resti del castello medievale, come si è detto.
Negli altri casi si può parlare di piazzette (ad es. piazza Municipio, antico cuore del centro storico) e di piccoli
slarghi, detti chjiàni (quali chjànu do Pilèri, vicino alla chiesa di San Nicola e chjànu de Brei, nel Mancùsu).
29 Mutuiamo l’espressione da Rudolf Arnheim, che definisce il «centro» come il “centro di un campo di
forze, un punto focale da cui esse scaturiscono e verso cui convergono” (Arnheim R. 2011, p. 18). Sui concetti di
«potere del centro» e di «perdita del potere del centro» cfr. i contributi di studio in Pedrazza M. (a cura di) 1999.

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spetto al territorio del loro mondo, e sono suscettibili, in questo stesso terri-
torio, di molteplici iterazioni”30.
Le chiese, i palazzi, le piazzette e i piccoli slarghi (chjàni), i rioni di
Badolato (ma il discorso andrebbe esteso anche ai Calvari, al cimitero, alle
campagne circostanti), non hanno dunque soltanto – o non hanno affatto –
funzione di «centri» da un punto di vista geometrico, spaziale, geografico,
architettonico. La loro centralità è costantemente articolata, negoziata, di-
scussa nell’ambito di più complessi fenomeni di ordine culturale. Questi
centri, cioè, sono i luoghi di riferimento in cui si dispiegano e trovano ma-
nifestazione le funzioni sociali della collettività, i rapporti di classe, le divi-
sioni di genere, le appartenenze di ordine religioso, le pratiche simboliche e
mitico-rituali. Sono gli spazi in cui si compiono le azioni decisive per la vita
della comunità. Sono i luoghi della socialità esercitata e della ritualità ca-
lendarizzata e istituzionalizzata. Con Geertz, diremo allora che questi “cen-
tri […] sono essenzialmente luoghi concentrati di atti seri: consistono nel
punto o nei punti in cui in una società le sue linee-guida convergono con le
sue istituzioni-guida a creare un’arena in cui hanno luogo gli avvenimenti
che influenzano maggiormente la vita dei suoi membri”31.
All’interno di questo articolato quadro, dunque, la casa, la ruga, il rio-
ne, la chiesa, la piazza, il Calvario, il cimitero, la campagna coltivata costi-
tuiscono i fondamentali punti centripeti del tessuto insediativo. Sono gli
spazi rispetto ai quali l’individuo si fissa e si coglie egli stesso come punto
centrale, ma sono anche luoghi che a loro volta aspirano a partecipare della
centralità allargata, estesa, dilatata rappresentata dal paese come realtà ur-

30 de Martino E. 2008a, p. 232. Tutti gli autori, da Eliade a de Martino, da Shils a Geertz assegnano ai
«centri» un valore esemplare che trascende la dimensione geometrica e geografica, e ammettono una possibile
coesistenza di più centri all’interno di uno stesso territorio. Eliade, ad esempio, scrive: “La molteplicità, anzi
l’infinità dei Centri del Mondo, non costituisce alcuna difficoltà per il pensiero religioso. Non si tratta di spazio
geometrico, bensì di spazio esistenziale e sacro, con una struttura completamente diversa, suscettibile di
un’infinità di rotture, quindi di comunicazioni con il trascendente” (Eliade M. 2008, p. 41). Anche per Francesco
Faeta, che articola le proprie argomentazioni con riferimento alla cultura contadina calabrese, il centro assume un
carattere che trascende la dimensione storica e assomma elementi metastorici. E nella formazione dei paesi – esito
di una duplice attività: di domesticazione realistica e di sacralizzazione simbolica dello spazio – coabita una plura-
lità di centri. “Il centro – scrive l’antropologo – si configura come luogo di convergenza di più realtà spaziali e di
relazione tra spazio (dimensione orizzontale) e tempo (dimensione verticale); come sintesi tra territorio e realtà
genealogica […]. Il paese è il luogo dove si dispiega, sommandosi, il potere rassicurante della casa; insieme urbani-
sticamente interrelato dei centri del mondo di quanti partecipano della medesima vicenda umana, di chi è legato
da rapporti di consanguineità, dallo stesso sforzo produttivo, dal comune esercizio della parola e della denomina-
zione, dai medesimi commerci e da antenati e divinità eguali, si pone esso stesso come centro rispetto alla più va-
sta distesa delle terre umanate e di quelle ignote che, oltre, si estendono” (Faeta F. 1984a, p. 208). Sul tema cfr.
Scarduelli 1989, pp. 45-105; La Cecla F. 2007, pp. 41-83; Decandia L. 2000, pp. 61-95; Id. 2004, pp. 37-86.
31 Geertz C. 2009, p. 155.

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bana storicamente determinata e come universo metastorico simbolicamen-
te plasmato. Essi rappresentano perciò i principali referenti nell’organizza-
zione dello spazio all’interno del paese, i poli ai quali incardinare il proprio
senso di appartenenza e i confini entro cui si inscrive l’opera di domestica-
zione dello spazio abitato.

II. 2. La casa come centro del mondo

Il punto di partenza o, se si vuole, di arrivo di questo itinerario è co-


stituito dalla casa. “Nelle società contadine tradizionali – scrive Vito Teti –
lo spazio in cui si vive si definisce rispetto a un centro. La casa era il «cen-
tro» di quel «centro del mondo» che era il paese. Era il centro del centro. La
casa, il luogo di fondazione mitica, proiezione dell’io, centro di unità pro-
duttiva e lavorativa, luogo della famiglia, del ritorno dei morti, luogo della
nostalgia e della memoria, parte del mondo da cui incominciava il viaggio,
dove quasi sempre finisce il viaggio. La casa è il luogo di partenza, il punto a
cui si torna, il rifugio”32. È spazio del soggiornare e dell’abitare dell’uomo;
punto di riferimento che consente l’orientamento nel territorio. Nella casa
trovano forma ed espressione i processi di coesione interna del nucleo fami-
liare e i rapporti orizzontali di aggregazione solidaristica con parenti e vici-
ni; avviene la comunicazione verticale con i propri defunti; si perpetuano la
memoria genealogica, la discendenza e l’identità della famiglia33.
La casa accorda all’uomo la possibilità di organizzare la propria pre-
senza nel mondo e di mantenersi in esso; è punto di ancoraggio e radica-
mento al luogo. La sua costruzione permette all’uomo di individuare un
punto centrale a partire dal quale cogliersi in un sistema di riferimenti spa-
ziali, culturali, simbolici, identitari, affettivi, in grado di conferire senso al
suo stare nel mondo e al suo abitare. Solo individuando un centro e operan-
32 Teti V. 2007a, pp. 375-376. Tale centralità, che molti altri studiosi – da Luigi Lombardi Satriani a
Francesco Faeta, da Elio Manzi a Vittorio Ruggiero, a Pino Stancari – assegneranno alla casa come polo fonda-
mentale delle pratiche dell’abitare in Calabria, veniva singolarmente negata da Norman Douglas che, descriven-
do i paesi d’origine albanese della Sila Greca, notava: “Manca qui il senso della casa come punto di riferimento
topografico fisso e preesistente; come gli arabi e i russi, nessuno dei quali possiede un vocabolo che significhi il
nostro «home» o il germanico «Heimat». Qui, l’equivalente più prossimo è la famiglia […]; loro considerano la
«casa» non come centro geografico, ma sociale, passibile di venir trasferito da un luogo all’altro; dovunque sono
«a casa» purché il loro clan sia riunito intorno a loro. […] Da qui nasce l’aria provvisoria delle loro abitazioni,
all’esterno e all’interno. Perché sprecare fatica e denaro per qualcosa che domani si dovrà forse abbandonare?”
(Douglas N. 1998, pp. 269-270).
33 Cfr. Teti V. 2007a, pp. 375-384; Stancari P. 1997, pp. 49-57.

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do una distinzione qualitativa del territorio d’insediamento – ossia definen-
do e separando luoghi noti da luoghi ignoti, spazi coltivati da spazi incolti –,
l’uomo è in grado di trascendere l’indeterminatezza di uno spazio amorfo,
omogeneo, anonimo, sconosciuto, e perciò stesso ostile. L’edificazione della
casa, quindi, implica e presuppone la scelta di un sito. E, con essa, la consa-
crazione di un centro, di un axis mundi che funga da punto di orientamento
per vivere nel mondo e vincere il caos. La casa come axis mundi attribuisce
ordine e conoscibilità al mondo circostante, e garantisce all’uomo la possibi-
lità di sottrarsi al nulla incombente. Scrive Luigi Lombardi Satriani:

Stabilire la propria casa non è atto disinvolto o marginale, è azione decisiva,


ancora la presenza nel mondo. L’uomo rischia di essere sopraffatto dall’ignoto, dallo
spazio alieno, deve impegnarsi quindi in un complesso lavorio per conferire dome-
sticità al mondo esterno, a tutto il mondo cioè. Lo stare dell’uomo può essere per-
manenza nel mondo se egli fissa una serie di punti di riferimento. Ma i punti di rife-
rimento vengono fissati a partire da un centro e il centro è il paese: casa e campani-
le. Questi stabiliscono un campo dialettico entro il quale può dispiegarsi l’esistenza
dell’uomo. Fuori resta l’ignoto, verso cui si possono effettuare sortite, purché non si
perda la possibilità di ritornare alla propria casa, al proprio campanile che garantisce
la propria presenza e, quindi, l’operabilità culturale nel mondo 34.

La letteratura antropologica ha mostrato come nelle società tradizio-


nali la costruzione della casa fosse concepita come atto di fondazione miti-
ca, come riproduzione rituale dell’atto della Creazione; e ha chiarito come
la scelta del sito fosse accompagnata da riti e pratiche di reintegrazione
simbolica di un ordine sovvertito. Mircea Eliade, in particolare, ha messo in
evidenza come nelle società primitive, ma anche nelle civiltà agricole arcai-
che, operasse – in rapporto all’organizzazione degli spazi e ai riti di inse-
diamento – una distinzione tra spazio sacro e spazio non ancora consacrato,
tra le categorie del cosmos e del caos: “Un territorio sconosciuto, straniero,
non abitato […] fa parte della modalità fluida, embrionale del «Caos». Oc-
cupandolo, ma soprattutto installandovisi, l’uomo lo trasforma simbolica-
mente in Cosmo, attraverso una ripetizione rituale della cosmogonia”35. Ri-
producendo l’atto esemplare di fondazione, l’uomo che costruisce la casa ri-
34 Lombardi Satriani L. M. 1984, p. 178. Cfr. le già citate pagine di de Martino E. (2002a, pp. 478-481) sul
«campanile di Marcellinara», quale fondamentale punto di orientamento nello spazio esistenziale dell’uomo.
35 Eliade M. 2008, p. 25. Cfr. Ferraro G. 2001. La sacralità del centro che Eliade postula per le società pri-
mitive viene ribadita invece da Edward Shils con riferimento alle società moderne. Pur approdando dunque a
posizioni apparentemente antitetiche, esiste tra i due autori – come ha analizzato Francesco Remotti – una sor-
prendente analogia nel riconoscere la valenza sacra e religiosa del «centro». Vedi Remotti F. 1989.

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fonda il mondo. La casa stessa è anzi una imago mundi, una immagine del
mondo primordiale, e come tale partecipa della sacralità dello spazio consa-
crato36. È essa stessa spazio sacro, «centro», che consente l’orientamento
nell’omogeneità del caos. Costruire significa interrompere l’uniformità, l’in-
definitezza, la fluidità dello spazio profano. Stabilirsi in un territorio equi-
vale a consacrare uno spazio e assumerlo come centro. “Per questo, – chiari-
sce ancora Eliade – quando si prende possesso di un determinato territorio,
cioè quando si comincia ad esplorarlo, si compiono riti che ripetono simbo-
licamente l’atto della creazione; la zona incolta è prima di tutto «cosmiciz-
zata», poi abitata”37.
Ma replicare l’atto della Creazione non equivale semplicemente a di-
stinguere uno spazio sacro da uno spazio profano, non significa soltanto i-
dentificare e circoscrivere un territorio in cui viene reso pensabile, e quindi
possibile, l’abitare. La reiterazione dell’atto di fondazione si carica di valen-
ze esistenziali radicali, consente all’uomo di trascendere il divenire storico
della sua condizione e di proiettarsi nel mondo del mito, annullando così il
tempo. Ernesto de Martino ha dimostrato come la riplasmazione simbolica
del territorio dell’abitare consenta all’uomo di riscattarsi culturalmente dal-
la storicità della propria esistenza, apportatrice di angoscia, e di accedere ad
un piano metastorico che consente di controllare e destorificare tale ango-
scia esistenziale, di incanalarla entro forme culturalizzate e trascendenti di
superamento e inveramento38. Con la ripetizione dell’atto di fondazione mi-
tico, “l’inaccettabile territorio della «storia» diventa la «patria» o il «paese»
della mitologia, cioè il documento di eventi di fondazione prodottisi in illo
tempore, e tuttavia almeno potenzialmente attuali, perché possono cerimo-
nialmente essere iterati”39. Mediante la riproduzione del centro, ritualmen-
te rinnovabile, l’uomo dispiega le forme culturali di controllo di una crisi
36
Franco La Cecla ha ribadito che il sistema della geomanzia, ossia della conoscenza locale, dell’orienta-
mento relativistico, consente all’uomo arcaico di centrare il cosmo su di sé. In quest’ottica, il “villaggio o la città o
la casa non sono l’immagine ridotta del cosmo; sono già il cosmo” (La Cecla F. 2007, p. 59).
37 Eliade M. 1989, pp. 22-23.
38 de Martino E. 2008a; Id. 2008b, pp. 77 sgg. Ancora Francesco Remotti ha evidenziato come de Martino,
rispetto a Eliade, introduca nella trattazione del tema del «centro» un senso del tragico che va assai oltre le ottimi-
stiche e rassicuranti considerazioni dello storico delle religioni rumeno. In de Martino, per Remotti, “vi è un sen-
so ben maggiore dell’«angoscia», della «crisi», della precarietà del centro, della difficoltà di mantenere un orien-
tamento non soltanto nella propria civiltà, ma anche – e forse prima di tutto – nelle altre società. Il tema del cen-
tro in De Martino non è così rassicurante come in Eliade, ma si colora di […] drammaticità esistenziale” (Remotti
F. 1989, p. 20).
Per un approccio comparativo alle posizioni dei due autori, si vedano anche le riletture critiche
dell’opera di Eliade compiute dello stesso de Martino E. (2002a, pp. 218-282).
39 Id. 2008a, p. 227.

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esistenziale. Con l’opera di plasmazione simbolica del territorio “il luogo
«nuovo» è sottratto alla sua angosciante storicità, alla sua rischiosa caotici-
tà, e diventa una iterazione dello stesso luogo assoluto, del centro, nel quale
una volta, che è la volta per eccellenza, il mondo fu garantito”40.

II. 2. 1. Riti di fondazione e di propiziazione

L’atto del costruire, per il tramite dell’individuazione del centro, pro-


ietta dunque l’uomo oltre la finitudine del suo essere storico, e argina lo
scorrere del tempo e l’irresolutezza dello spazio41. Tuttavia, proprio in
quanto interruzione dell’ordine di natura, proprio in quanto esito culturale
che sovverte il naturale fluire del tempo e il caotico determinarsi dello spa-
zio, il costruire dell’uomo richiede una spiegazione. Joseph Rykwert ha sot-
tolineato come nel mondo antico “l’atto del costruire è sempre e necessa-
riamente un atto innaturale […]. Chi sceglie un sito lo isola dalla natura
[…]. Per questo, la scelta del sito e l’impianto dell’edificio sono atti che de-
vono includere in sé una spiegazione e anzi – trattandosi in qualche modo
di atti contro la natura – una giustificazione”42.
È dunque necessario operare una reintegrazione simbolica del mondo
sopraffatto e sconvolto della natura. Ancora Eliade, esaminando un corpus
di leggende e di materiali folclorici dell’area rumena, ha raccontato dei sa-
crifici – umani o animali, di sangue o simbolici – con cui le società arcaiche
si preoccupavano di ri-armonizzare il loro operato con il mondo turbato
della natura43. Nel mondo antico, ogni costruzione è una imitazione dell’at-
to di fondazione divino. Ma poiché soltanto Dio è l’essere perfetto in grado
di creare, la costruzione dell’uomo rimane sterile fintantoché egli non la a-
nima con il sacrificio di sé o di un suo prossimo. La casa riceve vita e so-
stanza assorbendo l’anima della vittima sacrificata. “I sacrifici di costruzione
– chiarisce lo studioso – hanno come scopo l’«animazione» dell’edificio o
dell’oggetto costruito ma questa «animazione» non si fa comunque (cioè sa-
crificando puramente e semplicemente una creatura vivente) ma si fa in
conformità con un modello divino, ripetendo l’atto iniziale della Creazione.

40 Ivi, p. 233.
41 Cfr. Archetti M. 2003, pp. 13-26.
42 Rykwert J. 1981, p. 220.
43 Vedi Eliade M. 1989; Id. 1990; Id. 2008.

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In altre parole, il senso originario di questi sacrifici non era: si sacrifica per
animare una cosa, ma: si sacrifica perché così si è fatto «all’inizio», quando
hanno avuto origine i mondi e poiché soltanto così si anima una cosa e le si
conferisce realtà e durata”44.
La consacrazione del centro, come imitazione dell’atto di fondazione,
avviene dunque per il tramite del sacrificare, inteso appunto come un sa-
crum facere, un fare sacro, rendere sacro. E solo il sacrificio permette al-
l’uomo arcaico di entrare in una condizione di armonia con il cosmo, di ri-
stabilire l’assetto naturale delle cose, e di assicurare al proprio agire e al
proprio costruire realtà e durata45.
Pur senza postulare e affermare una natura sacra e religiosa del «cen-
tro», nelle società contadine tradizionali del Meridione d’Italia è ampia-
mente attestata la presenza di complessi rituali di propiziazione del territo-
rio e di procedure cautelative atte a ristabilire – integrandolo in un nuovo
orizzonte operazionale – l’ordine turbato dal costruire dell’uomo. Ogni tra-
sformazione della natura è infatti vissuta e percepita “come un sacrilegio;
una costruzione interrompe la verticalità e ferisce il mondo ctonio. Occor-
re, quindi, placare gli spiriti, esorcizzare il loro potere malefico, che può
danneggiare, in forme irreversibili, la costruzione, i suoi abitanti. […] Ma
gli spiriti vanno, oltre che placati, propiziati; la vita della casa (che è la vita
dei suoi abitanti) non soltanto deve non essere danneggiata dagli influssi
nefasti, ma deve essere protetta e su di essa va stesa una griglia di protezio-
ne simbolica”46.
Nel territorio calabrese, sacrifici simbolici, pratiche scaramantiche e
riti propiziatori erano eseguiti in occasione della fabbricazione o della inau-
gurazione di una casa. In alcune aree della regione, ad esempio, si usava sa-
crificare un gallo e spargerne il sangue per le stanze. Oppure si uccideva un
serpente, richiamandosi così ad un quadro allegorico estremamente artico-
lato e complesso47. Quando si “gettava il solaio” di una casa, generalmente i

44 Id. 1990, p. 51. Cfr. Ferraro G. 2001, pp.15-139; Decandia L. 2004, pp. 13-86.
45
Critiche a questo impianto teorico rigidamente determinato, ha mosso ancora una volta Francesco Re-
motti, per il quale le posizioni di Eliade sono facilmente confutabili sia su un piano etnologico che su un piano
etologico. Esse rivelano tuttavia quello che viene definito il “fascino del centro, ovvero il potere di suggestione
che esso manifesta in certi casi e su certi autori” (Remotti F. 1989, p. 14).
46
Lombardi Satriani L. M. 1984, pp. 183-184.
47 Circa le valenze simboliche del serpente nei riti di costruzione ancora Eliade rileva che nelle convin-
zioni delle popolazioni arcaiche il “serpente tellurico riposa attorcigliato sotto terra ma la sua testa si trova esat-
tamente al centro della terra. La costruzione di ogni casa implica il trafiggere la testa del grande serpente e quindi
presuppone la creazione rituale del «centro»” (Eliade M. 1990, p. 59).

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muratori e gli operai festeggiavano con un pranzo, in cui la presenza, tra le
pietanze, di un capretto o di un gallo potrebbero alludere, come ha suggeri-
to Lombardi Satriani, ai riti sacrificali dell’antichità. Con il fine simbolico,
poi, di propiziare prosperità e ricchezza, e di allontanare il malocchio, in
molti paesi dell’area del catanzarese e del vibonese si usava spargere delle
monete e delle pietruzze di sale nelle fondamenta o versare del vino sui so-
lai. Con analogo valore di protezione simbolica si usava anche collocare in
vari punti della costruzione immagini sacre di santi. Infine, si usava far be-
nedire la casa dal parroco prima di entrarvi per abitarla48.
L’abitazione dell’uomo, dunque, andava sottoposta ad un duplice pro-
cesso: di protezione e di propiziazione simbolica, al fine di garantirne stabi-
lità e durata. E riti adeguati andavano approntati – come ha rilevato Pierre
Bourdieu con riferimento ad altro contesto mediterraneo – per assicurare
fertilità e fecondità nel processo di procreazione sessuale della famiglia e di
riproduzione dei mezzi di sussistenza all’interno della casa. Nella società
cabila – più volte al centro delle ricerche sul campo e delle speculazioni di-
sciplinari dell’antropologo francese – “un gran numero di atti rituali mirano
ad assicurare il «riempimento» della casa, come quelli che consistono nel
gettare nelle fondamenta, sulla prima pietra, dopo aver versato il sangue di
un animale, i frammenti di una lampada matrimoniale (la cui forma rappre-
senta un accoppiamento e che ha un ruolo nella maggior parte dei riti di fe-
condità), o nel far sedere la giovane sposa, al suo ingresso nella casa, su un
otre colmo di cereali”49.

II. 2. 2. Simbologia della soglia

Soprattutto la soglia d’ingresso delle abitazioni, fungendo da punto di


mediazione tra la dimensione privata e quella pubblica del vivere quotidia-
no, era usualmente investita di una forte carica simbolica e conseguente-
mente fatta oggetto di particolari rituali di protezione. “Ogni primo ingres-
so nella casa – scrive ancora Bourdieu – è una minaccia per la pienezza del
mondo interno che i riti della soglia, nel medesimo tempo propiziatori e

48 Per questi aspetti rimandiamo a Lombardi Satriani L. M. 1984; Teti V. 1984; Cavalcanti O., Chimirri R.
1999, pp. 33-47. Vedi anche Lombardi Satriani L. M., Meligrana M. 1996, pp. 465-489; Faeta F. 1984a; Meligrana
F. S. 1984; Seppilli A. 1977, Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti, Palermo, Sellerio.
49 Bourdieu P. 2003, p. 67.

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profilattici, devono scongiurare”50. La soglia, delle porte come delle finestre,
segna una soluzione di continuità dello spazio, si configura come punto di
cesura, come zona liminare compresa tra lo spazio protetto e sacralizzato
dell’abitazione e quello ignoto e minaccioso del mondo esterno. In essa, ha
notato Norberg-Schulz, “è posto in evidenza il problema dell’abitare”51. La
soglia è perciò stesso – costitutivamente – area di rischio per la sicurezza
della casa e dei suoi abitanti, e come la casa va adeguatamente custodita per
mezzo di sacrifici e rituali di propiziazione. “Tutta l’armatura della porta –
ha scritto Arnold Van Gennep – forma un insieme […]: si bagna la soglia di
sangue o di acqua lustrale; si aspergono i montanti di sangue, di profumi, vi
si appendono o vi si inchiodano dei sacra, come per l’architrave”52.
In Calabria, funzione apotropaica di salvaguardia da malefici esterni
era attribuita a maschere in pietra scolpite nei portali e nei balconi di case e
palazzi; a corna di animali infisse alle facciate d’ingresso delle abitazioni; a
chiodi piantati agli stipiti di porte e finestre; a nastri rossi appesi alle ante
delle porte53. A Badolato, inoltre, nel corso della campagna di rilevazione
abbiamo riscontrato anche la presenza di alcune piccole nicchie – ricavate
nelle murature delle case, accanto all’uscio di entrata – in cui erano custodi-
te, a tutela della soglia, immagini di Cristo, figurine di santi o statuette della
Madonna. La stessa porta d’ingresso delle abitazioni recava in sé una fun-
zione protettiva. Essa poteva essere ad anta unica, con antistante sportello a
mezza altezza (porticèhṛa); oppure a due ante divise orizzontalmente, di cui
quella inferiore detta menzapòrta. Durante il giorno, la porta veniva gene-
ralmente lasciata aperta, a rappresentare una sorta di finestra sull’esterno, e
così da far penetrare luce e aria in contesti abitativi spesso bui e maleodo-
ranti; lo sportello o la mezza porta, invece, restavano quasi sempre chiusi, a
salvaguardia della casa da intrusioni esterne reali (serpenti, rettili) e simbo-
liche (streghe e spiriti maligni). La porticèhṛa o la menzapòrta si configura-

50 Ibidem.
51 Norberg-Schulz C. 2000, p. 9.
52 Van Gennep A. 2009, p. 17. Lo studioso definiva le azioni rituali compiute sulla soglia come riti di
margine, per merito dei quali viene garantito il passaggio e l’aggregazione ad un mondo nuovo. “La porta […] co-
stituisce il limite tra il mondo estraneo e il mondo domestico, nel caso di un’abitazione ordinaria; tra il mondo
profano e il mondo sacro nel caso di un tempio. Perciò «varcare la soglia» significa aggregarsi ad un mondo nuovo,
ed è questo anche un atto importante nelle cerimonie del matrimonio, dell’adozione, dell’ordinazione, dei funera-
li” (Ivi, p. 18). Cfr. Norberg-Schulz C. 2000, p. 6-11; Bonesio L. 2003.
53 A Badolato, tre maschere sono visibili in una residenza gentilizia, nelle basi di sostegno di un balcone.
Altre due maschere gorgoniche sono invece presenti nei canali della Funtàna ’e Granèli, all’ingresso nord-occi-
dentale del paese. Corna di animali e chiodi infissi nelle architravi sono ancora visibili in alcune abitazioni popo-
lari, mentre si è perso l’uso di nastri.

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Figg. 21-24. Protezione e propiziazione simbolica dello spazio domestico

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vano, dunque, come vere e proprie aree di soglia, segnavano un confine –
pratico e simbolico – tra il dentro e il fuori della casa. Aprirle e superarle
significava inserirsi nel sistema di valori su cui era fondato il nucleo fami-
liare, significava essere simbolicamente integrati e concretamente accettati
nel sistema affettivo o solidaristico del nucleo stesso; varcarle senza autoriz-
zazione costituiva infrazione54.
Funzione propiziatoria, con rimandi alla sfera sessuale, era invece ri-
conosciuta ai ferri di cavallo, appesi agli usci, nonché ai batacchi e alle ma-
niglie, spesso a forma di otto e di nove (simboli di pienezza e abbondanza, o
riproduzione dell’apparato genitale maschile). Anche lo spazio interno della
casa richiedeva un idoneo sistema di controllo. Appena dietro l’uscio, ad e-
sempio, venivano lasciati fili intrecciati e scope, che avevano la funzione di
irretire gli spiriti ostili durante le loro incursioni notturne. Soprattutto il
camino e il tetto rappresentavano punti nevralgici in cui predisporre un a-
deguato impianto protettivo. Se la soglia era punto di sospensione tra spazio
domesticato e spazio alieno, potenzialmente minaccioso, il camino (o tal-
volta il forno) era individuato dalla tradizione folclorica come percorso pri-
vilegiato per le anime dei morti, dunque come punto di mediazione tra uni-
verso terreno e mondo sotterraneo. Perciò, quando si andava a dormire, si
aveva cura di chiudere la bocca del camino o di lasciarvi delle frasche per
impedire l’irrompere incontrollato dei defunti, che nei racconti popolari
badolatesi andavano raminghi in processione, durante la notte, per le vie
del paese. Anche il tetto era percepito come area di rischio, essendo la parte
della casa più esposta alla presenza di creature errabonde, foriere di atti ne-
fasti. Per questo, alla sua sommità, nel punto di confluenza delle falde, era
tradizionalmente murato un recipiente in terracotta (pignàta) o un orcio
(mbùmbalu) o una piccola giara (gozza) che, in virtù della loro forma pan-
ciuta, erano assunti quali simbolo e augurio di prosperità55.

54 Sull’uso della menzapòrta in Calabria, Norman Douglas – nel corso dei suoi viaggi e dei numerosi sog-
giorni nella regione (compiuti tra il 1907 ed il 1911) – aveva modo di annotare: “Mi è piaciuto il sistema calabrese
per le porte d’ingresso, un sistema che la vita dei paesi civilizzati mi aveva fatto dimenticare: le porte sono divise
in due, non nel senso verticale, come le nostre, ma in quello orizzontale. La parte superiore resta di solito aperta,
così che la massaia seduta all’interno ha aria e luce e la possibilità di chiacchierare con le vicine dall’altra parte
della via; la parte inferiore è chiusa, per impedire ai maiali di entrare in casa durante il giorno (di notte ci vanno a
dormire). È un sistema che dimostra il loro istinto sociale e un certo senso di raffinatezza (Douglas N. 1998, p.
223). Sulle funzioni simboliche della porticèhṛa cfr. Teti V. 1984, p. 35. Sul tema della “soglia” cfr. Bonesio L.
2003, pp. 109-114.
55 Sui vari aspetti esaminati vedi Van Gennep A. 2009, pp. 14-21; Eliade M. 2008, pp. 19-46; Lombardi
Satriani L. M., Meligrana M. 1996, pp. 28-53 e 197-203; Lombardi Satriani L. M. 1984, pp. 187-193; Cavalcanti O.,
Chimirri R. 1999, pp. 33-47. Con specifico riferimento a Badolato cfr. Cossari P. 2003, passim.

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II. 2. 3. L’organizzazione dello spazio domestico

Anche l’articolazione interna degli ambienti rispondeva, oltre che a e-


sigenze di carattere pratico, a motivazioni di ordine simbolico. Ancora Pier-
re Bourdieu, nel già menzionato studio sulla società berbera, ha evidenziato
come la casa fosse progettata secondo un insieme di contrapposizioni omo-
loghe: alto/basso, pieno/vuoto, luce/ombra, giorno/notte, maschile/femmi-
nile, fuoco/acqua, cotto/crudo, cultura/natura56. Le medesime categorie, che
hanno sostanziato le forme dell’abitare delle civiltà del Mediterraneo, han-
no agito nell’organizzazione dello spazio domestico delle case badolatesi.
Già nelle abitazioni a più piani, in cui i catòja erano impiegati come
ricovero per il bestiame (capre, pecore, galline, asini) e come deposito per il
letame, si definiva una separazione – sia pur mai netta e passibile di fre-
quenti contiguità e promiscuità – tra piano basso e piano alto della casa, tra
zona umida e zona asciutta, tra spazio degli animali e spazio dell’uomo, tra
condizione naturale e condizione culturale dell’esistenza. Nella suddivisio-
ne dei piani abitati, poi, ripartiti in cucina e camera da letto, era implicita
una contrapposizione giorno/notte, luce/ombra, cultura/natura. La camera
da letto era il luogo delle attività naturali fondamentali (sonno, atto sessua-
le, parto, morte); in essa trovava compimento il ciclo della vita. Nella cuci-
na invece si preparavano e si cuocevano i cibi, si attuava il passaggio dal
crudo al cotto, si concretava la trasformazione dal naturale al culturale.
La stanza da letto era il luogo della riproduzione sessuale della fami-
glia, che in essa perpetuava la propria esistenza. Ma era anche spazio del
cordoglio e del lutto, zona d’ombra, in cui i familiari defunti venivano lava-
ti, vestiti, vegliati. Era il punto della casa in cui trovavano manifestazione
aspetti cruciali dell’esperienza umana. Era perciò il luogo più intimo e sacro
dell’abitazione, il suo nucleo fondante. Come tale necessitava di un integra-
tivo sistema simbolico di controllo. La camera da letto doveva anzitutto es-
56 Bourdieu P. 2003, p. 60 sgg. “La casa, la città, il villaggio – fa eco La Cecla – sono concepiti da molti po-
poli come un corpo più ampio, una ramificazione allargata delle funzioni (e dell’apprendimento) del corpo ma-
schile e di quello femminile” (La Cecla F. 2007, p. 94). Con riferimento alle forme dell’abitare in Calabria, Faeta
scrive: “Una tensione dialettica si manifesta con uniformità su tutto il territorio regionale: spazio noto e ignoto,
protetto e rischioso; paese alto e basso; interno ed esterno; comunità pastorale e contadina (o contadina e artigia-
na); proprietari e contadini; maschile e femminile; ambito familiare e sociale; tempo quotidiano e festivo, diurno e
notturno, sono alcune delle categorie che sembrano antinomicamente costruire la cultura architettonico-spaziale
popolare” (Faeta F. 1984b, p. 8). Vedi anche Minicuci M. 1981; Id. 1984; Teti V. 1984. Cfr. Lombardi Satriani L.
M., Meligrana M. 1996, pp. 27-160. Sempre con riferimento al territorio calabrese, suggestive riflessioni sulla cul-
tura dell’abitare – in particolare sulla dialettica interno/esterno, passato/presente, memoria/avvenire, morte/vita –
si trovano in Stancari P. 1997.

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sere preclusa alla vista degli estranei, andava protetta dal loro sguardo, po-
tenzialmente carico di invidia. Per questo motivo – sorgendo la stanza al di
sopra del menzanìnu – il suo interno non era visibile dalla strada né dall’in-
gresso ed era sottratto, con ciò, a possibili fonti di fascinazione. Il perpe-
tuarsi, in essa, della vita e della procreazione andava garantito con adeguati
gesti e riti propiziatori. A tale scopo, agli stipiti della porta si replicava la
presenza di immagini religiose, di ferri di cavallo o di altri amuleti. E figu-
rine di santi o della Vergine si trovavano abitualmente nella parete in cui
era addossato il letto, il quale a sua volta si configurava come soglia da pro-
teggere, come punto di passaggio che articolava la dialettica vita/morte57.
La cucina, invece, costituiva lo spazio deputato alle pratiche di sussi-
stenza materiale della famiglia; era la stanza più intensamente vissuta, abi-
tata, sfruttata della casa. Ne rappresentava il nucleo vitale. Qui il gruppo
familiare si riuniva, e attorno al tavolo e al focolare (punti focali della ca-
mera) mangiava, lavorava, si ristorava, prendeva le decisioni più importanti
legate al proprio sostentamento, all’educazione dei figli e ai più disparati a-
spetti della vita quotidiana. La cucina era spazio di produzione e di consu-
mo; territorio di iniziazione e di inculturazione; centro di trasmissione di
valori, tradizioni, cultura. Ed era luogo di riconoscimento e di protezione.
In essa la famiglia celebrava la propria unione e definiva la propria identità
di clan58. Come tale era spazio chiuso, esclusivo, interdetto a persone estra-
nee al gruppo familiare. E tuttavia suscettibile di aperture verso l’esterno,
reali e simboliche, e di comunicazioni con il trascendente. Nella cucina si
precisava la dialettica tra protezione dello spazio interno della casa e proie-
zione verso lo spazio esterno ad essa, tra la dimensione privata e quella
pubblica del vivere quotidiano. Vi trovava espressione il dialogo con il
mondo ctonio e l’universo celeste; vi si articolava il presente mantenendo
saldi i legami con il passato, recuperando – in funzione identitaria – la me-
moria genealogica della famiglia.
La cucina, e più precisamente il camino, era tradizionalmente identi-
ficata come sede dell’anima della casa, domicilio dei numi tutelari, delle a-
57 Nell’orizzonte magico-rituale dell’area lucana, Ernesto de Martino registrava, ad esempio, la pratica di
collocare un vomere sotto il letto, impiegato contro la fascinazione e per il felice esito, in particolare, della prima
notte di nozze. Per questi aspetti, e per un’analisi antropologica del rapporto tra spazio domestico e riti funerari,
vedi de Martino E. 2001, pp. 13-85; Id. 2005, pp. 55-103; Lombardi Satriani L. M., Meligrana M. 1996, pp. 94-272.
Cfr. Minicuci M. 1981. Sul letto nella dialettica vita-morte, da prospettive psicoanalitiche, cfr. Risé C. 2003.
58 Sul ruolo della famiglia e delle relazioni parentali all’interno delle comunità calabresi del passato si ve-
da Piselli F., Arrighi G. 1985. Cfr. le controverse e opinabili indagini sociologiche sul familismo amorale di Ban-
field E. C. 2006.

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nime degli antenati che, divinizzate, erano poste a difesa dell’abitazione.
Anche il tavolo, «centro» della cucina in cui si radunava la famiglia, era in-
dividuato come punto di presenze simboliche. A Badolato era diffusa la cre-
denza secondo cui sotto al desco stava l’Angelo del Signore, inginocchiato
in preghiera a protezione della famiglia. Per questo, era buona creanza spa-
recchiare subito dopo aver mangiato, al fine di non indispettire l’angelo co-
stringendolo per lungo tempo nella scomoda posizione59. Quando si imban-
diva la tavola, soprattutto in occasione delle feste, si aveva cura di apparec-
chiare anche per un proprio congiunto scomparso, cui veniva serbato il po-
sto abitualmente occupato in vita. E il camino, abbiamo visto, era via predi-
letta per il ritorno – calendarizzato e, all’occorrenza, ritualmente propiziato
– dei morti. In particolare nella cucina, dunque, si articolava il dialogo con
il passato e la memoria familiare, aveva luogo la comunicazione verticale e
la riconciliazione simbolica tra mondo dei vivi e mondo dei morti, tra pre-
senti e assenti, tra rimasti e partiti. In essa si aggregava la famiglia storica
con quella metastorica60, formata dai propri cari defunti o emigrati. La casa,
e soprattutto la cucina, si costituivano come “spazio di una moltitudine di
assenti”61 e come spazio in cui si attuava una loro presentificazione simboli-
ca. E un ruolo fondamentale, in tal senso, avevano le fotografie62. In un an-
golo della casa, su di un mobile – non di rado in cucina –, erano infatti col-
locate le foto dei familiari deceduti, dei figli partiti, dei nipoti lontani. Si al-
lestiva così un piccolo altare per il culto della memoria, in cui i presenti dia-
logavano con i propri morti e con i propri cari emigrati.
Ma la cucina, come hanno osservato Ottavio Cavalcanti e Rosario
Chimirri, era anche “il luogo sociale delegato agli scambi reali e simbolici
tra i membri della famiglia, con estensione temporanea alla cerchia paren-
tale e amicale, in particolare a quella compresa nella dimensione del vicina-
59
Cossari P. 2003, p. 173.
60 Sul concetto di famiglia metastorica si rimanda a Lombardi Satriani L. M., Meligrana M. 1996.
61 Stancari P. 1997, p. 57.
62 Non possiamo, in questa sede, dar conto delle profonde implicazioni antropologiche nel rapporto tra
emigrazione e fotografia e tra morte e fotografia nel territorio calabrese. Sul primo tema ci limitiamo a segnalare
Teti V. 1989, pp. 38-45; Faranda L., Lombardi Satriani L. M. 1990, “Memoria e auto rappresentazione nello scam-
bio di immagini fra nuclei familiari di immigrati italiani all’estero”, in Pitto C. 1990 (a cura di), pp. 159-201. Cfr.
Faranda L., Lombardi Satriani L. M. 1986, “Lo sguardo dell’altrove”, in Di Carlo A., Di Carlo S. (a cura di) 1986, I
luoghi dell’identità. Dinamiche culturali nell’esperienza di emigrazione, Milano, Franco Angeli, pp. 163-180. Per
un più generale riferimento teorico circa il rapporto tra fotografia e antropologia, e sul valore della fotografia co-
me presentificazione simbolica dei defunti all’interno della società calabrese, si rimanda ai molteplici contributi di
studio recati da Francesco Faeta. Si vedano in particolare Faeta F., Malabotti M. 1980, Imago mortis. Simboli e
rituali della morte nella cultura popolare dell’Italia meridionale, Roma, De Luca; Faeta F. 1995, Strategie dell’oc-
chio. Etnografia, antropologia, media, Milano, Franco Angeli; Id. 2000, pp. 119-166 e 213-278.

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to”63. Nella cucina, pertanto, si scandivano le aperture verso l’esterno, avve-
niva la comunicazione orizzontale tra le famiglie della ruga e si rinsaldava-
no i legami di solidarietà all’interno della collettività.
La preparazione e il consumo dei cibi, in particolare, immetteva in un
sistema di relazioni sociali e di comunicazione simbolica. In occasioni ritua-
lizzate, l’accesso alla cucina (e quindi alla casa) era consentito pure a perso-
ne non appartenenti al nucleo familiare. A Badolato, per la festa di San Giu-
seppe (19 marzo), a Natale e nei principali appuntamenti del calendario re-
ligioso, vi era l’usanza di invitare a pranzo tre poveri (due anziani e un
bambino, figure vicarie dei morti), offrendo loro pasta e ceci. Ancora oggi, a
Capodanno, il corteo che trasporta per le vie del paese la statua del Bambin
Gesù, in visita per la benedizione delle case, viene accolto con offerte ali-
mentari, consistenti principalmente in salumi, affettati, formaggi. Consue-
tudine formalizzata era il pranzo in casa elargito in occasione di battesimi,
fidanzamenti o matrimoni. In tali circostanze, in segno di rispetto e di affet-
to, venivano anche distribuiti a parenti e conoscenti dolci fatti in casa, quali
i pastètti pajisàni e i mastazzòla ’e vinu cottu. Nelle visite di cordoglio in
occasione di funerali, il vicinato nutriva la famiglia del defunto inviando u
cònsulu. Anche lo scambio di giornate lavorative e le prestazioni di soccor-
so (ad esempio in occasione della vendemmia o per la tosatura delle pecore)
venivano suggellate con una scialàta, una mangiata in casa cui prendevano
parte amici, parenti, vicini di casa64. Nelle fasi di uccisione e lavorazione del
maiale – rigorosamente praticate a Carnevale – la famiglia proprietaria
dell’animale spartiva le carni con congiunti che ne erano sprovvisti. Inoltre,
durante la macellazione, era uso elargire a persone povere e a famiglie a lut-
to un piatto con dentro delle porzioni di carne (muscolo, fegato, cotenna).

63 Cavalcanti O., Chimirri R. 1999, pp. 41-42.


64
Sulle usanze riscontrate a Badolato cfr. Cossari P. 2003. Per uno studio dell’alimentazione come sistema
di codici e di comunicazione simbolica, cui abbiamo fatto cenno nella trattazione, vedi Barthes R. 1961, “Pour
une psycho-sociologie de l’alimentation contemporaine”, in Hémardinquer J. J. (Racueil de travaux présentés par)
1970, Pour une histoire de l’alimentation, Paris, École Pratique des Hautes Études, pp. 307-315; Douglas M. 1999,
pp. 165-229. Cfr. Cavalcanti O. 1984, Il materiale, il corporeo, il simbolico. Cultura alimentare ed Eros nel Sud,
Roma, Gangemi Editore. Per uno studio di storia e ideologia dell’alimentazione si rimanda a Montanari M. 1993,
La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Roma-Bari, Laterza; Teti V. 1976, Il pane, la beffa e
la festa. Cultura alimentare e ideologia dell’alimentazione nelle classi subalterne, Rimini-Firenze, Guaraldi Edito-
re; Id. 1999, Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Roma, Meltemi; Campo-
resi P. 1980, Alimentazione folclore società, Parma, Pratiche Editrice; Id. 1989, La terra e la luna. Alimentazione
folclore società, Milano, Il Saggiatore. Sulle implicazioni simboliche nel rapporto tra cibo, oblazioni alimentari e
ideologia della morte rimandiamo a Lombardi Satriani L. M., Meligrana M. 1996, pp. 135-160; Cavalcanti O.
1995, Cibo dei vivi, cibo dei morti, cibo di Dio, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino; Faeta F. 2000, pp. 59-118 e
167-212 (in particolare per quanto riguarda il simbolismo delle offerte alimentari di dolci e mostaccioli).

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II. 3. Organizzazione dello spazio e rapporti di socialità: la ruga.

In paese, la dialettica interno/esterno, protezione/proiezione, privato/


pubblico, trovava ulteriore articolazione nel menzanìnu, il vano di entrata
dell’abitazione. Tale spazio era una sorta di luogo di decantazione che sepa-
rava il piano basso (impiegato come ricovero per il bestiame) dai piani alti
(destinati all’abitare dell’uomo), ma soprattutto fungeva da filtro tra il den-
tro ed il fuori della casa, articolava i rapporti tra la dimensione privata e
quella pubblica del vivere quotidiano. Il menzanìnu, dunque, era uno spa-
zio amorfo e sfocato dell’abitazione, non esattamente definito. Sorgeva co-
me vano di risulta, luogo di semplice transito ma poteva anche configurarsi
come spazio plurale, suscettibile di molteplici e non rigidamente fissate de-
stinazioni d’uso. A seconda delle esigenze familiari, abbiamo visto, esso era
un luogo per lavorare, per conservare cibi, per dormire, per ricevere ospiti.
Nel menzanìnu, infatti, si trovavano solitamente i telai (oltre 150 ancora a
metà Novecento65) ai quali le donne badolatesi producevano fazzoletti, sal-
viette, tovaglie, tovaglioli, coperte (molto ricercata quella di seta66) per for-
mare, anzitutto, il corredo alle figlie da maritare. Vi era inoltre collocata la
grossa cassapanca in legno per la conserva di derrate alimentari. Qui spesso
vi erano anche giacigli destinati ai figli per la notte. E, assieme ad altri am-
bienti della casa, formava il “salotto” in cui si intrattenevano i rapporti con
ospiti e vicini.
Anche gli spazi contigui all’abitazione – che definivano il territorio
della ruga, unità spaziale e sociale di riferimento per i suoi abitanti – parte-
cipavano della medesima dialettica tra spazio privato e spazio pubblico. In
particolare, il pianerottolo di accesso (u mignànu), gli scalini antistanti le
porte d’ingresso (i scalùni), i sedili in pietra (e chjànche) addossati ai muri
perimetrali delle case o ai parapetti dei vicoli, i magazzini (i catòja) rappre-
sentavano un’estensione dello spazio domestico. Erano elementi architetto-
nici distintivi di ciascuna unità abitativa, ma erano anche spazi comunitari,
in cui si costruiva la dimensione quotidiana dei rapporti sociali e di vicina-
to, e in quanto tali rappresentavano un’apertura simbolica verso l’esterno.
Per un verso fungevano da fondamentale elemento di socializzazione, di
comunanza e compartecipazione, di condivisione di un medesimo orizzonte

65 Vincenzo Squillacioti, intervista del 18 maggio 2013.


66 “In Badolato – scriveva Giuseppe Maria Galanti già nel 1792 – si fanno tovaglie di seta per femmine,
fettucce e legacce ordinarie di seta” (Galanti G. M. 2008, p. 102).

- 78 -
Figg. 25-26. Gli spazi di socialità della ruga

- 79 -
Figg. 27-28. Nuovi spazi di socialità

- 80 -
spaziale e culturale; per altro verso – in un contesto orografico e urbanistico
fortemente irregolare – segnalavano la presenza dei diversi nuclei abitativi,
fungevano da confine tra casa e casa, tra famiglia e famiglia. Indicavano do-
ve finiva una casa (una famiglia) e dove ne incominciava un’altra. Così, da
elemento di apertura verso l’esterno, potevano tradursi in elemento di chiu-
sura, in soglia invalicabile in cui ogni nucleo familiare attestava, riafferma-
va, difendeva la propria identità in contrapposizione a quella altrui.
La ruga era teatro dei rapporti sociali; dei processi di coesione come
delle conflittualità. Vi si stringevano amicizie e alleanze, o vi trovavano
sfogo tensioni e ostilità (in particolare tra le donne, le cui liti e zuffe – come
ha rilevato La Cecla – si configuravano come “«attriti di soglia» e discussioni
per la determinazione di ambiti di appartenenza”67). Il vicinato era luogo
del contatto e delle interazioni quotidiane, zona degli scambi familiari, spa-
zio di rapporti di contiguità che lo stesso assetto urbanistico rendeva inelu-
dibili. “Case anguste dalle pareti sottili, strette l’una all’altra, – scriveva Al-
varo – fanno di queste comunità un organismo solo; sentimenti e risenti-
menti vi sono chiari, gioie e dolori non hanno segreti da muro a muro” 68.
Nella ruga trovava esplicazione quella che possiamo definire come una so-
cialità obbligata69, considerata anche nei suoi aspetti deteriori. Lo spazio del
vicinato era punto di orientamento e identificazione, «centro» di relazione e
di riconoscimento, unità di luogo in cui la (con)divisione dello spazio con-
tribuiva a costruire l’identità sociale. Ma, al contempo, era territorio di con-
trollo, di coartazione, di limitazione della libertà individuale; era spazio di
imposizione di modelli, valori e comportamenti culturali70.

67 La Cecla F. 2006, p. 104.Cfr. Minicuci M. 1981.


68 Alvaro C. 1931, p. 50. Sul significato e l’importanza della ruga nell’organizzazione dello spazio e nei
rapporti di socialità, e sui legami di solidarietà in seno alle comunità calabresi, vedi Piselli F., Arrighi G. 1985. Da
prospettive antropologiche e sociologiche, interessanti spunti di riflessione in merito sono forniti da alcuni studi
di comunità. Si vedano, in particolare, Minicuci M. 1981; Id. 1982; Abate C., Behrmann M. 2006. Sul declino e
l’erosione della ruga, connesso ai processi di spopolamento in atto in Calabria, vedi Teti V. 2007a, pp. 319-324.
69 Di «socialità obbligata», con riferimento a Badolato, parla Imelda Bonato, che descrive il paese come
“delizioso borgo, dalla struttura urbanistica fortemente socializzante, che potrebbe essere definito un paese dalla
socialità obbligata, tanto deve essere stato ravvicinato il contatto, tanto deve essere stato naturale viverci come
famiglia allargata. […] Le case un tempo erano impregnate di vita e di socialità; le porte sempre aperte. […] «Pae-
se e popolo» sono termini pregni di senso per i badolatesi, che rimandano a una vita faticata, ma partecipata, vis-
suta intensamente” (Bonato I. 2006, pp. 14-15).
70 Molti studi di comunità hanno considerato gli aspetti contraddittori e distorti dei rapporti di socialità,
superando l’immagine edificante e astorica di comunità rette da un’indistinta e acritica solidarietà. Maria Minicu-
ci, ad esempio, descrive il paese come universo di solitudine, ristretto e angusto, governato da asfissianti meccani-
smi di controllo sociale. Vedi Minicuci M. 1989, pp. 111-150. Cfr. Lombardi Satriani L. M. 1990. Per Carmine
Abate e Meike Behrmann, erano i comuni bisogni socioeconomici a favorire i rapporti di quotidianità e la sociali-
tà di vicinato, che tuttavia “se da un lato contribuiva decisamente a far maturare nel singolo una identità culturale

- 81 -
La ruga si articolava come necessaria appendice della casa, spazio in
cui si abitava in diversi momenti della giornata e dell’anno. La stretta pros-
simità dei contesti abitativi, l’inadeguata areazione e illuminazione al loro
interno, l’angustia degli spazi casalinghi, infatti, rendevano inevitabile svol-
gere parte delle attività domestiche all’esterno. Qui le donne badolatesi at-
tendevano ai lavori a maglia, cucivano, levavano le foglie dalle piante di se-
samo (da cui traevano il frutto impiegato, nel periodo natalizio, per la pre-
parazione del tradizionale torrone locale, u cumpèttu). Negli spazi della ru-
ga (menzanìni, scalùni, mignàni, chjànche, catòja) si istituivano legami di
quotidianità, di familiarità, di solidarietà71. Qui avveniva la circolazione e lo
scambio – con obbligo di reciprocità – del lavatèhṛu, il lievito madre utiliz-
zato per la panificazione72; qui le donne si aiutavano a vicenda per fare a

e sociale e ad assicurargli la sopravvivenza (attraverso la solidarietà, l’aiuto reciproco e la fiducia), dall’altro ne


ostacolava lo sviluppo individuale: i marcati meccanismi di controllo sociale (per esempio, le costrizioni di gruppo
attraverso pettegolezzi o litigi) dovevano garantire la stabilità della comunità a scapito dell’individualità dei
membri. […] Accanto al sistema familiare-parentale e alla gerarchia sociale, il vicinato era uno dei meccanismi
più importanti di strutturazione e di organizzazione dei rapporti di interazione. Esso obbligava i suoi membri alla
solidarietà economica oppure alla reciprocità generalizzata, una forma di mutuo scambio non bilanciato di beni e
di servizi” (Abate C., Behrmann M. 2006, p. 143). Per Francesco Remotti, parlare di società e di socialità equivale
a parlare di centro, “perché è il centro ciò che fornisce i valori, i simboli e le motivazioni per l’aggregazione e la
coesione sociale; ma dire centro significa alludere a una zona della società in cui questi valori non soltanto sono
più organicamente condivisi, ma anche più indiscutibilmente imposti” (Remotti F. 1989, p. 15).
71 “L’angustia di spazio e il difetto d’aria – scriveva Giuseppe Pitrè – spiegano perché i contadini stiano
all’aperto; e non solo i contadini, ma anche gli abitanti delle città e dei grandi comuni che non abbiano modo di
muoversi e luce sufficiente per lavorare dentro la casa. Quando la stagione lo permette vi risposano. Lì gli uomini
(non mai le donne!) dormono la notte, lì conversano o lavorano di giorno; lì le donne si pettinano dando le spalle
ai passanti, lì fanno il bucato, cuociono, rappezzano, compiono molte e svariate faccende, cicaleggiano, novella-
no” (Pitrè G. 2002, p. 74). La socialità della ruga dei paesi calabresi è stata raccontata da molti scrittori. Di rilievo
antropologico le descrizioni, ad esempio, di Francesco Perri: “In quelle piacevoli e miti sere settembrine, dopo
consumata la cena, i contadini solevano radunarsi in crocchi numerosi e lì, seduti sulle scale esterne delle piccole
case di gesso tutte screpolate dai terremoti e dall’umidità dello scirocco, i giovani amoreggiavano con le ragazze,
le anziane filavano e cicalavano del più e del meno, e gli uomini maturi discorrevano del raccolto, delle annate
che erano scarse, della semina futura, dei pochi emigrati che facevano fortuna, e qualche volta dicevano male di
quelli del Comune. […] Il luogo dove queste riunioni erano più numerose, e le discussioni più appassionate, era
la scala di Rocco Blèfari, in fondo alla Ruga Grande. Era una scala esterna in pietra e gesso, che guardava al mare.
Davanti si allargava una specie di piazzetta – il Murello – e un orto abbandonato, circondato da macee mezzo
cadenti, che servivano da sedile per coloro che non trovavano posto sul minuscolo anfiteatro dei gradini. In alto
sedevano le donne, in basso gli uomini: in mezzo, tra l’una e l’altra rampa della scala, sopra una piccola sedia ri-
coperta di sala, sedeva Rocco Blèfari come un patriarca antico” (Perri F. 2001, p. 20).
72
A Badolato, come in altri contesti rurali calabresi, il pane veniva preparato ogni 10-15 giorni circa nel
cocipàna casalingo. Poiché il lievito non poteva essere conservato per così lungo tempo, la famiglia che doveva
fare il pane andava da un’altra che aveva panificato il giorno precedente a chiedere u lavatèhṛu, un pezzo di im-
pasto di sola acqua e farina lavorato per più giorni e lasciato montare in acido, tenuto appositamente in serbo per
essere scambiato con i vicini. Una volta creati gli impasti da infornare, a sua volta la famiglia di turno metteva da
parte u lavatèhṛu, da cedere il giorno successivo ad un’altra famiglia del vicinato. Si istituiva, così, una rete di
scambio e di collaborazione reciproca, che contribuiva a rinsaldare i legami simbolici all’interno della ruga e del-
la comunità. Per la panificazione, a Badolato si utilizzava in particolare la farina di mais, con cui si preparavano a
pizzàta e i mandalèhṛi, piccoli pani infornati con una foglia di cavolo. Cfr. Cossari P. 2003.

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sarsa, la conserva annuale di pomodori, o per preparare il sapone (ottenuto
dal grasso suino o dai residui dell’olio); qui le diverse famiglie collaboravano
alle fasi di uccisione e lavorazione del maiale.

II. 4. Spazi abitativi, spazi produttivi

Nella civiltà contadina badolatese la casa non era soltanto territorio


dell’abitare dell’uomo, luogo della famiglia, spazio che – nella sua suddivi-
sione tra interno ed esterno, tra il dentro ed il fuori – organizzava e scandi-
va i tempi e i modi delle relazioni sociali. La casa era anche organismo di
produzione, trasformazione, conservazione dei beni di consumo (alimentari
e non); «centro» che articolava il rapporto tra paese e campagna. Era spazio
di processi produttivi, luogo di elaborazione culturale del cibo e delle risor-
se materiali. Qui moltissimi frutti della terra (pomodori, melanzane, pepe-
roni, fave, fagioli, ceci, olive, fichi, fichidindia, funghi, castagne ecc.) erano
sottoposti ai più svariati metodi e tecniche di conservazione: essiccazione,
tostatura, salagione, messa in salamoia sotto pressa (sutta màzzara), prepara-
zione sott’olio e in agrodolce, cottura a bagnomaria. Qui avveniva la stagio-
natura degli insaccati (opportunamente salati e pepati – a seconda della ti-
pologia di salume – e talvolta affumicati, utilizzando le braci distribuite in
un vrascièri), si conservavano alimenti e vivande (farine, frutte, vino, ac-
qua), si faceva il pane, si preparavano le pietanze giornaliere.
Inoltre, vi si allevava il baco da seta (voce fondamentale dell’econo-
mia domestica tradizionale); si producevano tessuti e stoffe al telaio (otte-
nuti dalla lavorazione della seta, appunto, ma anche della lana, del cotone,
della ginestra, del lino); si costruivano attrezzi e utensili da lavoro, collari e

Tra la vastissima letteratura sulla centralità alimentare, culturale, simbolica del pane nelle società del
passato segnaliamo Cirese A. M. 1992, “Il pane cibo e il pane segno”, in Papa C. (a cura di) 1992, Il pane, Perugia,
Electa Editori Umbri, pp. 29-34; Teti V. 1976, Il pane, la beffa e la festa, op. cit.; Id. 1999, Il colore del cibo, op.
cit.; Camporesi P. 1983, Il pane selvaggio [1980], Bologna, Il Mulino; Bianchi E. 2008, Il pane di ieri, Torino, Ei-
naudi; Matvejević P. 2010, Pane nostro, Milano, Garzanti, (prefazione di E. Bianchi), (postfazione di E. De Luca).
Con riferimento agli aspetti rituali dei processi di panificazione e al valore sociale del pane all’interno della socie-
tà calabrese vedi Padula V. 1977, Calabria prima e dopo l’Unità, scritti demologici inediti, Roma-Bari, Laterza, 2
voll. (a cura di A. Marinari); Rasmussen H. 1997, “Panificazione in Italia meridionale” [1959], in Id. 1997, Paesi e
campagne del Sud. Ricerche etnologiche nella Calabria e nella Basilicata degli anni ’50, Soveria Mannelli (Cz),
Rubbettino, 1997, (a cura di O. Cavalcanti), pp. 47-72. Pagine fondamentali sul pane si trovano anche nelle opere
di molti scrittori meridionali. Si vedano, su tutti, Silone I. 2000; Id. 2001, Vino e pane [1937], Milano, Mondadori
e, per la Calabria, Misasi N. 1976, “Mentre piove” [1883], in Id. 1976, In Magna Sila. Giosafatte Tallarico. Il Gran
Bosco d’Italia, Cosenza, Pellegrini Editore, pp. 113-127; Alvaro C. 2000.

- 83 -
gioghi per gli animali, recipienti, ceste e altri oggetti di uso quotidiano, ge-
neralmente in legno (mestoli, cucchiai, ciotole, scodelle).
Nella casa, dunque, avevano luogo importanti fasi della produzione di
sussistenza del ceto rurale badolatese. In quest’ottica, fulcro dell’abitazione
era considerato soprattutto il catòju, che rappresentava molto più che un
semplice spazio in cui concentrare animali, oggetti, cibo. Come ha sottoli-
neato Imelda Bonato, esso può essere assunto quale simbolo della socialità e
della microeconomia del luogo73. Nelle parole dei contadini del paese, il ca-
tòju – porta sempre aperta su vicoli e stradine, e centro di produzione e la-
vorazione dei beni materiali – era ritenuto più importante della casa stessa,
ne preservava e riproduceva la ricchezza dei mezzi di sostentamento. Nel
suo utilizzo in qualità di deposito per gli attrezzi agricoli (zappe, scuri, ron-
cole, tridenti, picconi, badili, erpici) o di ricovero per il bestiame (in parti-
colare capre e pecore, emblemi dell’universo agropastorale locale), il catòju
articolava la dialettica tra pieno e vuoto, tra abbondanza e penuria, tra pro-
sperità e miseria materiale della casa. Nel suo impiego come magazzino, poi,
fungeva da fondamentale spazio di produzione, trasformazione e conserva-
zione alimentare. Qui infatti veniva fatta la salsa, si macellavano i maiali, si
serbavano i capicolli, le salsicce, le soppressate e gli altri prodotti suini, già
stagionati. C’erano poi orzo, giggiolèna (sesamo), vino cotto, carne salata,
formaggio, acciughe, sarde, uva passa, noci, mandorle, sorbe, mele.
Vi erano custoditi, inoltre, l’olio spremuto dalle proprie olive e il vino
ottenuto dalla piccola vigna di proprietà, vanto e orgoglio di generazioni di
coltivatori badolatesi. Nelle case dei contadini più agiati (i cosiddetti tamàr-
ri còmmati), ma anche in quelle di appartenenti alla borghesia locale, anzi,
il catòju era spesso adibito a palmento proprio per la pigiatura dell’uva e la
produzione del vino, vivanda centrale nell’universo agricolo e nelle rela-
zioni di socialità del paese. Ancora a metà ’900, come ci informa – in un
colloquio del maggio 2013 – Vincenzo Squillacioti, studioso locale acuto e
approfondito, direttore della rivista di comunità La Radice, si contavano a
Badolato circa ottanta palmenti74. Il vino era lasciato ad invecchiare in botti

73
Bonato I. 2006.
74 Il nostro interlocutore chiarisce, inoltre: “I palmenti erano dislocati in parte al piano terra di numerose
abitazioni in paese. Coprivano un po’tutto il centro abitato, ma non ne esistevano lungo il corso principale. Se ne
servivano, oltre ai relativi padroni, i proprietari di piccoli vigneti nel cui terreno non c'era la casetta rurale, o, se
c’era, non vi era stato realizzato il palmento. L’uso veniva concesso a turno tra quelli che ne facevano richiesta
(con anticipo), e dietro compenso in natura, usando il masuratùri (recipiente di 5 litri) pieno di mosto. Numerosi
palmenti si trovavano in campagna in modo che l’uva venisse pigiata (a piedi nudi, da adulti e da bambini, ma

- 84 -
di varia grandezza, adagiate su un’impalcatura in legno. Quello migliore si
conservava nel carratehṛu, un barilotto stretto e lungo.
Il catòju, dunque, era luogo centrale della casa. Ed era punto di con-
vergenza – sia spaziale che culturale – in cui si incontravano il mondo della
produzione e quello della conservazione, l’universo della fatica e quello del-
la custodia. Idealmente, esso si posizionava tra la campagna e la casa; era e-
spressione di una interconnessione tra lo spazio produttivo e lo spazio abi-
tativo, partecipava di quella dialettica tra bisogni del lavoro e vincoli dell’a-
bitare di cui s’è già discusso. Ma il catòju era soprattutto punto di confluen-
za e di mediazione tra mondo maschile e mondo femminile. In quanto spa-
zio di produzione e riproduzione dei beni di consumo, luogo di trasforma-
zione e conservazione del cibo, esso metteva in relazione il lavoro dell’uo-
mo con quello della donna, gli sforzi produttivi dell’uno con quelli ripro-
duttivi dell’altra. Qui, infatti, le donne avevano la funzione di accumulare,
economizzare, preservare, custodire, trasformare i beni prodotti dal lavoro
degli uomini75. In quest’ottica, nel catòju trovava piena esplicazione quella
condivisione e collaborazione di saperi, quella “interazione maschile-fem-
minile [che] nelle culture dell’abitare è interazione di due sistemi di cono-
scenza locale, di due «menti locali» che convergono alla realizzazione della
sussistenza economica dell’insediamento”76.
Nella cultura popolare badolatese e, più in generale, in quella regiona-
le – come ha sottolineato Vito Teti – le forme dell’abitare e le dinamiche
della vita produttiva erano elementi indissociabili; “esisteva una stretta in-
terdipendenza tra strutture architettoniche ed urbanistiche e modi, luoghi e

maschi) appena recisa dalla vite. Questi palmenti appartenevano in genere ai proprietari dei terreni nei quali insi-
stevano, ma talvolta venivano fittati a proprietari di vigneti vicini. Capitava, non tanto raramente, che un solo
vigneto fosse ripartito un po’ ciascuno ai figli, e la casetta col palmento capitava, ovviamente, in una sola quota: in
quel caso si stabiliva, anche nell’atto notarile di ripartizione, una servitù, tale che i proprietari delle altre quote
avessero il diritto di vendemmiare in quel palmento. I borghesi e i nobili avevano i loro palmenti, in genere nelle
campagne, e, all’occorrenza, li fittavano anche loro. Nella marina di Badolato la casetta rurale dei baroni Paparo
accanto alla loro villa (nei pressi del mare) aveva due palmenti – unico caso qui da noi – che venivano usati con-
temporaneamente. Va ricordato, infine, che il vino per i Badolatesi aveva importanza fondamentale; non era con-
cepibile alcuna attività lavorativa senza il vino, che era necessario per dare energia, per creare allegria, per essere
ospitale con chi ci stava vicino, a qualunque titolo. Ed era indispensabile in ogni ricorrenza importante: festa,
promessa di matrimonio, matrimoni, ecc.” (Intervista a Vincenzo Squillacioti del 18 maggio 2013).
75
Cfr. Bourdieu P. 2003. “L’uomo – scriveva Corrado Alvaro – raccoglie, pesca, rimedia, il suo lavoro fini-
sce nell’urto e nella lotta, nella esplicazione di una tecnica di mestiere; la donna trasporta il carico sulla testa, la-
vora il porco, il pescespada, il capretto, il tonno, la sardina, l’alice, il pane, con quelle mani che conoscono il peso
e il valore di tutto l’universo mangiabile per le bocche che hanno fame” (Alvaro C. 1958, p. 145).
76 La Cecla F. 2007, p. 114. “La mediazione maschile-femminile – prosegue lo studioso – è la condizione di
possibile accordo sulle risorse e sull’uso del territorio, quell’accordo che caratterizza culture basate sulla località e
sul suo uso ai fini della sussistenza” (Ibidem).

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fasi della produzione, trasformazione, distribuzione, conservazione e con-
sumo dei beni alimentari. L’organizzazione territoriale e dell’abitato, i modi
di vivere lo spazio interno ed esterno alla casa e al paese rinviavano imme-
diatamente all’organizzazione sociale, ai rapporti tra le classi, ai rapporti re-
ligiosi-interclassisti presenti nella comunità, ai modi e alle tecniche di pro-
duzione. Paesaggio agrario e paesaggio abitativo erano strettamente collega-
ti, reciprocamente dipendenti”77. Il dato alimentare, dunque, partecipava al-
la definizione e strutturazione degli spazi abitativi e produttivi della comu-
nità badolatese. Ai punti di produzione della casa facevano da integrazione
ed estensione gli altri luoghi del lavoro delle categorie sociali più umili: ar-
tigiani, contadini, pastori. La disposizione dello spazio domestico e urbano
rinviava all’organizzazione dello spazio extrapaesano, articolato in una sca-
larità di luoghi che estendeva al paesaggio circostante il processo di dome-
sticazione della natura ad opera dell’uomo.
Nel paese si collocavano la casa (con le annesse sue funzioni tecni-
che), i menzanìni (con la presenza dei numerosi telai) e i catòja, impiegati
dai contadini come centro di trasformazione e conservazione dei beni, o
come botteghe da parte degli artigiani (falegnami, fabbri, calderai, calzolai,
sarti). Strutture produttive inserite nel tessuto urbano erano anche i frantoi,
di proprietà delle famiglie più facoltose (che anche nella loro gestione, dun-
que, esercitavano funzione di egemonia economica e di prestigio sociocul-
turale sulle classi popolari)78. Dentro il paese si trovavano i cortili messi a
coltura e, appena ai suoi margini, gli orti e i giardini – spesso terrazzati (rà-
77 Teti V. 1984, p. 137.
78 “In paese c’erano 16 frantoi per la molitura, a trazione animale (bue o vacca, ma anche cavallo o mulo),
quasi tutti di proprietà di famiglie borghesi. Erano uniformemente distribuiti nelle varie zone, con qualche preva-
lenza nella Jusutèrra; neanche uno, invece nella zona di Santa Barbara e San Domenico, la parte più nuova del
centro abitato; scarsa la presenza al Destru. In ogni frantoio ci lavoravano quattro persone: un massàru (responsa-
bile dell’attività), un suttamassàru e due troppitàri. I due frantoiani portavano le olive sulle spalle dalle case al
frantoio, e poi portavano l’olio alle case per mezzo di un otre, sempre sulle spalle. Il proprietario delle olive paga-
va la molitura in natura, cioè con olio che veniva misurato in litre (misura locale equivalente a 3,75 litri). Anche i
frantoiani venivano pagati dal padrone in natura, cioè con olio. A carico del padrone del frantoio erano anche i
pasti dei frantoiani che facevano orari proibitivi. Il pasto, con l’immancabile mbùbula di vino, veniva portato al
frantoio da una donna, in genere parente o dipendente del padrone. Per completezza va detto che in paese
c’erano anche frantoi funzionanti con energia elettrica, ma questi (erano tre) appartengono al periodo successivo
all’alluvione del 1951. L’unico elettrico anteriore al 1951 si trovava nella tenuta Pietranera del barone Gallelli, in
quanto lui, proprietario della centrale idroelettrica del Romito, era fornito di energia elettrica fin da quando la
centrale era entrata in funzione, nel 1927. Altri due frantoi, uno a trazione animale e un altro ad energia elettrica,
esistevano in marina ed erano dei baroni Paparo. Alle case di Gallipari (nei pressi dell’omonimo fiume), di pro-
prietà della famiglia borghese Bruno, v’era un altro frantoio a trazione animale. Sul Monte Manna, proprietà della
baronessa Scoppa sino al 1923, (anno in cui tutta la proprietà degli Scoppa è stata acquistata dai baroni Paparo),
c’erano due frantoi, ovviamente a trazione animale, all’interno del grande fabbricato rurale che troneggiava sul
monte” (Intervista a Vincenzo Squillacioti del 18 maggio 2013).

- 86 -
suli) e irrigati – di cui reca traccia anche la toponomastica locale, che desi-
gna una zona del paese con il nome di Jardìnu79. In una posizione interme-
dia tra nucleo abitato e campagna c’erano le porcilaie (almeno una decina a
metà Novecento). Lungo le fiumare erano messi a coltura centinaia di gelsi
per l’allevamento del baco da seta. Inoltre vi erano collocati numerosi mu-
lini, anch’essi di proprietà di notabili e maggiorenti del luogo80. Fuori del
paese, lontani dal centro abitato, si posizionavano invece le campagne colti-
vate, le vigne, e soprattutto gli ulivi (pianta cardine nel paesaggio agrario
badolatese, la cui importanza economica è testimonia dal proverbio Si vo’
avìra munìta… ògghju, ranu e sita81, che rimarca come la coltivazione del-
l’albero per la produzione di olio, i campi – pochi invero – seminati a grano,
e la coltura del baco per ottenere la seta costituissero le basi della locale ric-
chezza). Scendendo verso la marina, poi, vi erano aranceti e altri importanti
frutteti (ciliegeti e, soprattutto, pescheti, come testimoniano i toponimi Ce-
rasìa e Scalo dei pescheti82). Risalendo verso la montagna, invece, si rag-
giungevano i pascoli, i castagneti, il bosco (legato alle attività di lavorazione
e raccolta della legna o alla produzione del carbone).
I cortili, gli orti, i giardini erano gli spazi dell’autoproduzione agricola
e dell’economia di sussistenza delle famiglie contadine. Generalmente era-
no le donne ad occuparsi della cura e della coltivazione di questi terreni,
che rappresentavano una continuità spaziale, economica, culturale con la
casa e la ruga. Anche gli uliveti e i castagneti erano, sia pur parzialmente,
luoghi del lavoro femminile, essendo perlopiù le donne a venire impiegate
79 Il toponimo Jardìnu indicava in passato un’area contrassegnata dalla presenza di giardini per la produ-
zione di ortaggi e verdure e per la coltura di alberi da frutto (fichi, aranci, limoni); oggi indica invece la propaggi-
ne nord-ovest dell’agglomerato urbano sorto, come già ricordato, per i trasferimenti di popolazione a seguito del
terremoto del 1947.
80
Le testimonianze orali parlano di 19 mulini presenti in paese almeno fino al 1920. Di questi, solo sei
sono ancora chiaramente rintracciabili nel paesaggio circostante. Cfr. Medici F. 2003, Il vecchio mulino ad acqua
in Calabria, op. cit. “Il funzionamento dei mulini era affidato dai proprietari ai mugnai, la cui attività consisteva
nel macinare dietro un compenso in natura, un coppo circa (1/32) di grano per ogni tomolo macinato, e nel porta-
re la sera la farina in groppa all’asino ai clienti in paese” (Intervista a Vincenzo Squillacioti, 18 maggio 2013).
81 Traduzione: Se vuoi avere denaro… olio grano e seta. In merito, Giuseppe Galanti aveva modo di nota-
re: “Il principale prodotto è l’olio, il secondo la seta. I luoghi marittimi di Badolato, Isca, Sant’Andrea, San Soste,
Davoli e Satriano raccolgono circa 20.000 libbre di seta” (Galanti G. M. 2008, p. 98).
82 Il primo toponimo designa una zona suburbana nel versante nord del paese, non molto distante dal
centro abitato, che in passato era caratterizzata dalla presenza di ciliegi e giardini. Il toponimo Scalo dei pescheti è
invece di più recente coniazione e fa riferimento ad uno dei molti centri di raccolta e smistamento dei frutti che
erano presenti in marina, nelle vicinanze della stazione ferroviaria e dell’attuale statale 106 jonica. La produzione
di pesche è stata una delle voci economiche più rilevanti dell’agricoltura badolatese fino al 1951, prima cioè
dell’alluvione. I frutti, pregiati e particolarmente apprezzati, venivano raccolti nel mese di agosto e trasportati con
gli asini o sulla testa nei vicini punti di smercio. Da qui venivano quindi convogliati in vagoni ferroviari e spediti
alle industrie confetturiere nazionali (con sedi a Palermo, Catania, Napoli).

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Figg. 29-30. Giardini

- 88 -
Fig. 31. Porcilaie

Fig. 32. Frutteto

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come manodopera nella raccolta stagionale dei frutti. Le campagne lontane
dall’abitato, i frutteti e il bosco erano invece i luoghi della fatica dell’uomo,
gli spazi del lavoro di braccianti, coloni, pastori, che operavano alle dipen-
denze dei grossi possidenti terrieri (i Paparo, i Gallelli, i Menniti). I processi
produttivi implicavano lo spostamento di contadini e contadine, di fattori,
di pecorai, caprai, vaccari, di boscaioli e carbonai, dall’interno verso l’ester-
no, dalla casa e dal paese in direzione di terreni orticoli, campi, poderi, pa-
scoli, boschi. Necessità produttive e di approvvigionamento di materie pri-
me, inoltre, portavano a muoversi verso aree anche più distanti. In partico-
lare, avendo il territorio di Badolato una produzione granaria irrisoria (tan-
to che si diceva Isca, Badulàtu e Sant’Andrìa de ’ranu carricàru nu pullì-
tru83), il paese forniva al Marchesato di Crotone ingenti gruppi di mietitori
e spigolatrici, che trasmigravano dal borgo per l’intero ciclo dei lavori.
I confini del paese – inteso come «centro» territoriale, come spazio
urbano domesticato e culturalizzato – si dilatavano, si espandevano ad in-
cludere (tuttavia mai definitivamente e risolutivamente), i sentieri, i trattu-
ri, le campagne, i boschi, sottoposti ad un continua azione di conferimento
di senso. Paese e campagna non rappresentavano, perciò, due entità del tut-
to distinte e indipendenti, quanto piuttosto un continuum abitativo e pro-
duttivo. Negli spazi del paese si abitava e si coltivava; nella campagna e nei
boschi si coltivava, si allevava e – non di rado, ma provvisoriamente – si a-
bitava. Determinate attività agropastorali, infatti, quali la raccolta delle ca-
stagne (praticata soprattutto nel limitrofo comune di San Sostene) e i trasfe-
rimenti del bestiame, oppure i doveri di vigilanza sui terreni concessi in en-
fiteusi o a mezzadria imponevano il temporaneo risiedere dell’uomo sui
luoghi di lavoro. Negli appezzamenti più distanti dal centro abitato e nei
boschi delle vicine Serre non era perciò rara la presenza di ricoveri provvi-
sori, di baracche e pagliai, in cui trovavano riparo pastori, taglialegna, car-
bonai. Nei castagneti erano numerosi i pogghjiàra, i manufatti architettoni-
ci in cui si essiccavano i frutti e in cui talvolta pernottavano le raccoglitrici.
Attraverso l’edificazione di queste strutture e mediante tutte le altre
operazioni di intervento sull’assetto dei luoghi, il paesaggio naturale veniva
aggredito dal lavorio umano di trasformazione e controllo, che era, insieme,
reale e simbolico. Le pratiche di sistemazione agronomica dei terreni in de-
clivio, ad esempio, erano attività dagli esiti tanto materiali quanto immate-

83 Traduzione: Isca, Badolato e Sant’Andrea, di grano caricarono appena la soma di un puledro.

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riali: i gradonamenti, i ciglionamenti, i terrazzamenti – che davano vita alle
ràsuli84, ancora oggi individuabili nel paesaggio agrario attorno a Badolato –
avevano la funzione concreta di limitare i fenomeni di erosione del suolo e
di consentire una più razionale organizzazione degli spazi agricoli. Ma, al
pari di qualsiasi altra attività legata al ciclo delle colture, erano anche e-
spressione di un processo culturale. Mediante tali azioni l’uomo esercitava
sul paesaggio il proprio ruolo di soggetto storico, in grado di intervenire at-
tivamente sulla realtà e di affermare la propria presenza di agente di cultu-
ra, come hanno evidenziato Luigi Lombardi Satriani e Mariano Meligrana:

La campagna è «natura», anche se continuamente aggredita dallo sforzo uma-


no di plasmazione e di controllo; come luogo del lavoro contadino è esperienza di
dipendenza e di iniziativa […]. Dipendenza, in quanto la natura non obbedisce im-
mediatamente ed esaustivamente a progetti umani, ma conserva un’ulteriorità irri-
solta, che si accompagna al progetto contadino come suo limite interno e come mi-
naccia immanente alla sua realizzazione. Iniziativa, in quanto deve tendere alla pla-
smazione e al controllo, per far sì che la natura coincida con la razionalità del pro-
getto umano. […] La natura, in quanto minaccia è minaccia di morte, di disordine,
di vuoto, di irrazionalità; il contadino in quanto agente di storia deve dare un ordine
anche a questa minaccia, perché sia possibile la vita. […] Solo divenendo procurato-
re di morte, e cioè inserendosi come soggetto storico nel flusso della naturalità, il
contadino può imbrigliare la minacciosità residua e la casualità della natura nel pro-
getto realistico connesso all’organizzazione produttiva 85.

Il paesaggio rurale, le campagne, gli orti assolvevano dunque a una con-


creta funzione di sostentamento delle classi contadine di Badolato. Al con-
tempo, erano parte integrante delle pratiche dell’abitare dell’uomo, parteci-
pavano al processo di creazione formalmente significativa di spazi e di luo-
ghi. La costruzione del paesaggio agrario dava vita a sistemi produttivi, ma
anche a sistemi abitativi e culturali. Articolava il rapporto ambiente-uomo
in un processo di “fecondazione della natura da parte della cultura” 86, in
grado di generare territori e territorialità, luoghi e radicamento ai luoghi,
appartenenze e identità. E diceva della capacità umana di governare il flusso
della natura; era espressione di una attestazione di presenza, esito di quel
dover esserci dell’uomo nel mondo di demartiniana formulazione.

84 Su tali pratiche agronomiche nel paesaggio rurale italiano e, in particolare, meridionale vedi Trischitta
D. (a cura di) 2005; Sereni E. 1974; Bevilacqua P. (a cura di) 1989.
85 Lombardi Satriani L. M., Meligrana M. 1996, pp. 85-86.
86 Magnaghi A. 2010, p. 17.

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Figg. 33-34. Paesaggio agrario

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Capitolo III

I PERCORSI DELL’IDENTITÀ

Il concetto di identità presiede a qualsiasi riflessione antropologica ed


è suscettibile di numerosissime determinazioni e specificazioni, oltre che
intersecazioni con altri ambiti scientifici. Antropologia e linguistica, filoso-
fia e matematica, biologia e psicoanalisi, ma poi anche geografia, psicologia,
sociologia hanno lungamente analizzato la nozione e dibattuto attorno ad
essa, dando luogo a una letteratura critica ampia e articolata1. Non è ipotiz-
zabile, in questa sede, dare esaurientemente conto dell’evolversi del concet-
to di identità nel settore disciplinare specifico né delle profonde implica-
zioni con gli altri campi di studio. Nell’economia del seguente contributo,
quindi, ci limiteremo a percorrere poche e tuttavia significative tappe di ri-
flessione sull’argomento, tenendo come punto di riferimento pochi autori,
delle cui considerazioni ci avvarremo per l’introduzione al capitolo.
Nel 1975 Jean-Marie Benoist, filosofo, e Claude Lévi-Strauss, antropo-
logo, tennero a Parigi le fila di un seminario che costituisce un primo im-
portante tentativo di indagine multidisciplinare sul tema. I differenti con-
tributi offerti in quell’occasione (pubblicati, nell’edizione italiana, sotto la
curatela del grande antropologo strutturalista) si proponevano il compito di
tracciare – ciascuno da una propria, specifica prospettiva epistemologica –
un profilo di morfologia dell’identità, sia con riferimento a civiltà cosiddet-
te esotiche (oggetto tradizionale dell’esplorazione etnologica) che a società
contemporanee. Nel quadro, dunque, di una pluralità di voci e nell’ottica di
una analisi comparativa tra popoli tribali del Sud America o dell’Africa e
gruppi dell’Europa orientale o della Francia, gli studiosi parevano converge-
re sul carattere composito e problematico delle costruzioni identitarie in
seno alle diverse culture: “A dispetto della lontananza spaziale e nonostante
i contenuti culturali profondamente eterogenei, – ricapitolava in proposito
Lévi-Strauss – nessuna delle società, prese a campione, sembra considerare

1 Per un contributo decisivo sul tema, in chiave interdisciplinare, si rimanda a Lévi-Strauss C. (a cura di)
1996, con il concorso di antropologi, filosofi, linguisti, matematici, psicanalisti. Nell’ambito degli studi geografici
– ma con aperture alla psicologia ambientale e all’antropologia – si vedano i seguenti volumi collettanei sui luoghi
e le identità territoriali: Dematteis G., Ferlaino F. (a cura di) 2003; Amato V. (a cura di) 2004; Banini T. (a cura di)
2009; Id. (a cura di) 2011. Di taglio sociologico – con innesti dall’antropologia, dalla psicologia sociale, dalla psica-
nalisi, dalla matematica – è invece Pedrazza M. (a cura di) 1999, sulla costruzione dell’identità personale e sociale.

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come acquisita una identità sostanziale: ogni società la scompone in una
moltitudine di elementi la cui sintesi, sebbene in termini diversi per ciascu-
na cultura, costituisce un problema”2. E aggiungeva, a chiosa del seminario:
“Da tale problema abbiamo tratto una sensazione che è, forse, il comune
denominatore della problematica tanto di queste società esotiche quanto
della nostra. La sensazione è che l’identità non stia tanto nel fatto di postu-
larla o nel fatto di affermarla quanto nel fatto di rifarla, di ricostruirla”3.
Per l’antropologo francese, dunque, l’identità è una costruzione me-
diata dalle contingenze spazio-temporali; è il frutto di un iterato processo di
ridefinizione e riformulazione. Ciò implica una manipolazione che avviene
tanto a livello del singolo individuo, quanto a livello della società o cultura
o gruppo etnico di appartenenza. La discussione si apre così ad una dicoto-
mica prospettiva di analisi: da una parte c’è la riflessione sull’identità sociale
e dall’altra quella sull’identità individuale, specificazioni che introducono
allo iato tematico tra discipline come l’antropologia e la psicoanalisi. Infatti,
mentre quest’ultima – anche nelle sue formulazioni più recenti – ha avuto
come oggetto privilegiato di indagine l’identità personale4, e ci ha resi av-
vertiti circa il carattere plurale, fluido, multicentrico dell’ego nei processi di
costruzione identitaria (soprattutto presso le società complesse contempo-
ranee)5, l’antropologia ha da sempre inteso affermare la preminenza della
struttura sociale rispetto alla definizione identitaria del singolo.
Per Françoise Héritier, allieva di Lévi-Strauss, ad esempio, l’identità si
configura esclusivamente come prodotto a livello sociale, in grado di tra-
scendere – anzi, di derubricare dalla rassegna delle ipotesi costruzioniste –
le stessa identità personale: “L’unica vera impalcatura, quella che fa e co-
struisce l’identità, è data dalla definizione sociale. La regola sociale colletti-
va si incarna nell’individuo e gli dà la sua identità, assegnandogli un posto,
2
Lévi-Strauss C. (a cura di) 1996, p. 12.
3 Ivi, p. 309.
4 Per lo psicoanalista freudiano André Green, ad esempio, l’identità si costituisce come fissazione di carat-
teri nell’individuo, prima ancora che a uno stadio più ampio e partecipato. E ha nei principi della permanenza,
dell’unità e dell’identico le sue determinazioni qualificanti: “L’identità è collegata alla nozione di permanenza,
cioè alla nozione di mantenimento di punti di riferimento fissi, costanti e tali da sfuggire a quei cambiamenti che
interessano il soggetto o l’oggetto nel corso del tempo. L’identità si applica pure alla delimitazione, che assicura
una certa esistenza allo stato separato e permette di circoscrivere l’unità. Cioè la coesione totalizzatrice che è indi-
spensabile al potere di distinzione. L’identità, infine, è uno dei rapporti possibili tra due elementi: quello per cui è
stabilita la somiglianza assoluta, che regna tra questi e permette di riconoscerli come identici. Questi tre caratteri
– costanza, unità e riconoscimento dell’identico – vanno insieme” (Green A. 1996, pp. 79-80).
5 Per una trattazione – in ambito psicoanalitico – del concetto di identità personale multicentrica, con-
nesso a quello di famiglia poliadica, cfr. Castiglioni M. 1999. Sull’identità soggettiva cfr. Turco A. 2003, “Socioto-
pie: istituzioni postmoderne della soggettività”, in Dematteis G., Ferlaino F. (a cura di) 2003, pp. 21-31.

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un nome e un ruolo. […] È la società ad essere primaria e ad incarnarsi
nell’individuo. […] l’individuo non ha altra identità che quella dettata dalla
volontà collettiva del gruppo che gli assegna il suo posto”6.
Meno categorica la posizione di Paul Henri Stahl, tuttavia anch’egli
incline a postulare chiaramente un predominio del gruppo sul singolo. Per
l’etnologo, che muove le proprie considerazioni con riferimento alla società
contadina rumena, l’identità dell’individuo si definisce anzitutto in relazio-
ne alla famiglia: “L’uso di indicare che uno è di un altro si è mantenuto nel-
la lingua d’ogni giorno; i contadini rumeni chiedono ancora al loro interlo-
cutore di chi egli è parente, per identificarlo meglio. Quando ci si rivolge ai
bambini si dice: «come ti chiami?» e subito dopo «a chi appartieni?» (al cui
eṣti)”7. E più avanti: “Un tempo i contadini […] facevano costantemente ri-
corso, per classificare gli individui, a diverse categorie. La prima categoria,
citata nella vita di tutti i giorni, è la più piccola unità sociale, la casa; essa
comprende il gruppo familiare […], con l’abitazione e la proprietà”8. Nelle
società contadine, dunque, l’individuo è riconosciuto e identificato quale
membro di una cellula sociale di base. L’uomo non possiede un proprio sta-
tuto identitario autonomo, egli esiste in quanto attore sociale, che condivi-
de vincoli di appartenenza e rappresentazione con i propri simili. L’identità
personale è subordinata a quella di gruppo, declinato nella sua forma mini-
ma. E l’identità del gruppo partecipa a sua volta di una dimensione più este-
sa, regolata dai rapporti di parentela, scambio, solidarietà, reciprocità e tal-
volta di contiguità spaziale: “Nell’ambito del villaggio c’era inoltre un se-
condo criterio, che era necessario aver presente, atto a identificare e classi-
ficare gli individui. Nella maggioranza dei villaggi, alcuni cognomi si ripe-
tono; molte case portano lo stesso cognome e si considerano, abitualmente,
apparentate. […] questi gruppi apparentati potevano occupare un quartiere
o formare un solo casale, avevano inoltre alcuni diritti comuni sulla pro-
prietà delle terre e conservavano relazioni strette di vicendevole aiuto”9.

6 Héritier F. 1996, pp. 67-68.


7
Stahl P. H. 1996, p. 276.
8 Ivi, p. 279. Più avanti, lo studioso ribadisce e chiarisce che “nella vita giornaliera del villaggio, in cui
tutti si conoscono, ciascuno è individuato per mezzo della casa a cui appartiene. Sotto questo rispetto, gli uomini
cambiano solo di rado la loro identità, mentre le donne la cambiano spesso, dal momento che il matrimonio, ge-
neralmente, è patrilocale” (Ivi, p. 280).
9 Ibidem. Ne consegua, scrive ancora l’autore, che “l’identità prende forme molteplici, secondo le situa-
zioni, e […] ciascun individuo possiede molte identità. Per gli uni egli è membro di una casa, per gli altri di una
linea di discendenza, d’un villaggio, d’una tribù, d’un gruppo etnico: molteplicità e variabilità dell’identità che
discendono direttamente dal rapporto che corre tra colui che identifica e chi è identificato” (Ivi, p. 284).

- 95 -
L’importanza – solo accennata da Stahl – delle prassi insediative, del-
l’organizzazione dello spazio del villaggio e della distribuzione degli uomini
al suo interno quali elementi primigeni nella definizione e costruzione del-
l’identità rappresentano il nucleo teoretico della speculazione di Christo-
pher Crocker. Riprendendo alcune formulazioni di Lévi-Strauss sui Bororo,
popolo dell’Amazzonia10 – di cui studia la disposizione sul territorio –
l’etnologo americano scrive:

Lo stanziamento originario Bororo […] ha il suo primitivo modello nell’orga-


nizzazione del villaggio, modello che ciascuna comunità Bororo tenta di riprodurre
nei limiti delle proprie possibilità demografiche e politiche. La prima proprietà di
questo modello è l’orientazione permanente dei gruppi sociali all’interno di uno
spazio definito dalle discontinuità naturali; da est ad ovest, secondo il percorso del
sole e il corso del fiume. Le metà sono pertanto concettualizzate come unità spaziali
e lo stesso avviene per le otto categorie sociali che simmetricamente le dividono.
Questo modello implica, quindi, che i clan Bororo siano definiti logicamente non
come entità genealogiche, bensì grazie alle unità dello spazio naturale che essi oc-
cupano. Le divisioni spaziali in questione dividono i clan in otto unità eterogenee,
stabilendo, al tempo stesso, il “terreno delle loro relazioni11.

E più avanti lo studioso aggiunge: “I Bororo ritengono che le persone,


non legate né da rapporti di sangue né dal fatto di appartenere ad uno stesso
gruppo sociale, che però abitano nello stesso spazio fisico, mangiano gli
stessi cibi […], dormono e si lavano insieme, fanno nello stesso posto i loro
bisogni, vengano, col passare degli anni, a partecipare di uno stesso spazio
naturale”12. È, in primo luogo, la condivisione di un medesimo orizzonte fi-
sico, dunque, a determinare il senso di identità. Anche in assenza di altri
vincoli di parentela o di appartenenza clanica, è il risiedere in una medesi-
ma area che costruisce legami, genera partecipazione, individua elementi
rappresentativi comuni, istituisce l’individuazione di spazi di relazionalità.
L’occupazione di uno stesso territorio presiede, così, alle stesse componenti
sociali o individuali di costruzione dell’identità.
I contributi, qui velocemente richiamati, ci permettono di isolare al-
cuni nuclei attorno ai quali si impernia la riflessione disciplinare sul tema.
Anzitutto l’identità è – per l’antropologia – una costruzione sociale. Essa si
declina in rapporto ad una società, un gruppo etnico, una tribù, un clan,

10 Cfr. Lévi-Strauss C. 2004, in particolare pp. 61-75.


11 Crocker C. 1996, p. 153.
12 Ivi, p. 155.

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una famiglia di appartenenza. Sotto questo aspetto – come testimonia l’e-
sempio rumeno e come hanno dimostrato studi riferiti ad altre aree – essa è
intimamente connessa a fattori di discendenza genealogica, nonché ai rap-
porti di reciprocità e alle prestazioni di soccorso tradizionalmente presenti,
ad esempio, in seno alle società contadine, che proprio su questi elementi
basavano la loro stabilità economica e la loro interna coesione sociale13. In
secondo luogo, l’identità è una costruzione soggetta alle trasformazioni in-
dotte dal tempo e dal contesto collettivo. Essa, dunque, ha carattere di sto-
ricità e di transitorietà; non è mai un prodotto né statico né unidimensiona-
le. Come tale, postula la necessità di una costante ridefinizione e accoglie in
sé elementi di permanenza e di cambiamento, dovuti a mutamenti di carat-
tere sia endogeno che esogeno alla società14. Infine, l’identità si costruisce in
relazione a uno spazio, a un territorio, materialmente organizzato e simbo-
licamente plasmato dall’azione dell’uomo, che in esso inscrive i propri rap-
porti di interrelazione, di socialità e di costruzione identitaria.
A questa prima estrapolazione teorica vanno aggregate più recenti ac-
quisizioni circa gli aspetti “tecnici” di tali costruzioni e circa il valore socia-
le, politico e culturale ad esse assegnato, secondo quanto emerge dall’at-
tuale dibattito scientifico in materia. Nel panorama antropologico italiano,
gli studiosi hanno ammesso la non eludibilità della questione identitaria,
che inerisce l’essenza stessa dell’uomo in quanto animale sociale. Ugual-
mente, però, hanno inteso esplicitarne il carattere plurale, equivoco e pro-
blematico. Ugo Fabietti15, declinando la propria esposizione in riferimento
all’identità etnica, ha sottolineato come questa sia stata impiegata da alcuni
popoli, nel corso della storia, quale strumento di rivendicazioni nazionali-
stiche o a sfondo razziale, sfociate in conflitti, guerre, stermini. L’identità
etnica si configura, per lo studioso, come definizione del sé e dell’altro col-
lettivi, che tuttavia trovano le proprie radici in rapporti coercitivi, in rela-
zioni di forza tra gruppi coagulati attorno a interessi specifici. Come tale,
essa è retta dai principi – apparentemente antitetici – di riconoscimento

13
I meccanismi identitari individuati da Stahl per il mondo contadino rumeno, infatti, si ritrovano in
molte altre realtà dell’Europa preindustriale. Ad esempio, con riferimento alla Calabria rurale, la centralità della
famiglia nei processi di costruzione delle identità individuali e sociali è stata lucidamente ricostruita dagli studi
storici di Fortunata Piselli e Giovanni Arrighi. In essi, gli autori hanno sottolineato anche il ruolo decisivo delle
prestazioni di soccorso e dello scambio di giornate lavorative all’interno del mondo contadino regionale quale
strumento di costruzione delle appartenenze e di coesione comunitaria. Vedi Piselli F., Arrighi G. 1985.
14 Cfr. Monastra G. 1998.
15 Fabietti U. 1998. Sull’identità etnica cfr. Izard M. 1996. Sui concetti di etnia e di identità, connessi alle
dinamiche di radicamento e sradicamento, si veda anche Monastra G. 1998.

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dell’identico e di rifiuto del diverso. L’identità etnica – parrebbe suggerire
Fabietti – è un costrutto che contempla in sé un’idea di sopraffazione e re-
pressione, messa in atto in determinate contingenze e storicamente esplosa
in forme ed esiti altamente drammatici. Essa veicola l’affermazione di speci-
ficità e la negazione delle alterità, guida dinamiche di inclusione ed esclu-
sione, rinvia alle pratiche di rivendicazione – pacifica o violenta – del dirit-
to di accesso alle risorse.
Per Francesco Remotti16, inoltre, l’identità è sottoposta allo sforzo u-
mano di definizione e fissazione in caratteri che la sottraggano al divenire
della storia e ai mutamenti della società. Essa, dunque, è frutto di elabora-
zioni a livello collettivo, le quali si realizzano attorno ai meccanismi di i-
dentificazione di costituenti comuni, di ricusazione di elementi altri e di
tendenziale sottrazione alle alterazioni.

L’identità – scrive l’antropologo – è costruzione; ma essa implica anche uno


sforzo di differenziazione. […]: l’identità è costruita (livello C) differenziandosi od
opponendosi sia all’alterità (livello B), sia alle alterazioni (livello A). Proprio in
quanto costruzione, l’identità (C) si presenta come una riduzione drastica rispetto
alle possibilità di connessione (B) e come un irrigidimento massiccio rispetto
all’inevitabilità del flusso (A). In quanto prodotto di uno sforzo di differenziazione,
essa comporta anche una forza, un potere e in qualche modo l’esercizio di una vio-
lenza: si strappano legami, si interrompono connessioni per dar luogo alle costru-
zioni dell’identità; e i soggetti dell’identità manifestano in questa maniera la loro
forza, il loro potere. “De-cidere” l’identità è un “re-cidere” le connessioni (B), che
altrimenti la imbriglierebbero e la soffocherebbero. Decidere l’identità è anche però
un elevare costruzioni al di là del magma del mutamento (A), sottraendole (fin che
si può) al flusso de-struttivo che permane al fondo di ogni vicenda 17.

L’identità scaturisce dalla dialettica tra assimilazione ed eliminazione,


è costruita attraverso tagli e separazioni, ma anche assemblaggi e accorpa-
menti. Contempla l’idea di pulizia e di purezza18 (si pensi alle derive della
pulizia etnica), e quella di occultamento dell’alterità, i cui contorni tuttavia
possono venire progressivamente sfumati, attenuati, diluiti fino a confon-
dersi e ad essere assimilati entro lo spazio dell’identità, che la incorpora
mediante meccanismi di riduzione. Per Remotti, dunque, l’identità si defi-
nisce per il suo essere artefatta, fittizia, persino posticcia. Eppure, al tempo

16 Remotti F. 2009; Id. 2010.


17 Id. 2009, pp. 9-10. Cfr. Ricoeur P. 1996, Sé come un altro, Milano, Jaca Book, pp. 204 sgg.
18 Remotti 2009, pp. 21-29. Cfr. Douglas M. 1996.

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stesso, è prassi irrinunciabile dell’agire umano. Richiamando alcuni postula-
ti dell’antropologia interpretativa di Clifford Geertz – per il quale l’uomo è
una creatura biologicamente incompleta, irrisolta, e di conseguenza incapa-
ce di sopravvivere nella natura se non organizzandosi in forme culturali 19 –
l’antropologo italiano ribadisce il carattere ineludibile, prioritario, centrale
dell’identità nelle pratiche di vita umane20.
Ulteriori apporti alla questione confermano l’imprescindibilità dei
processi identitari negli esercizi di socialità dell’uomo. Al contempo, tali
contributi sembrano ripensare in maniera critica la nozione stessa di identi-
tà e – nell’ottica di una ridefinizione concettuale e di un riposizionamento
teoretico – invitano a superare la prospettiva decostruzionista, che pare co-
gliere il solo lato eversivo dell’affermazione identitaria e sottolinearne le
strutture e le dinamiche coercitive di fondo. Per Tiziana Banini, ad esem-
pio, è doveroso sgombrare il campo da malintesi interpretativi e riconoscere
l’importanza dei percorsi di appartenenza e di auto-rappresentazione quali
forme di riscatto ed emancipazione per milioni di individui:

È noto […] – scrive la geografa – come tante guerre etichettate come etniche
traggano origine in realtà da motivazioni politiche ed economiche, che utilizzano la
questione identitaria come mezzo improprio, ancorché potente, di sollevazione po-
polare […]. Poco ha senso, dunque, delegittimare il concetto di identità prendendo
a spunto i conflitti sanguinosi che opportunisticamente e impropriamente ha gene-
rato e continua a generare: non è certo l’uso distorto di un concetto ad invalidare il
concetto stesso […]. Non è il termine identità ad essere inadeguato, corrotto e inuti-
lizzabile, ma il significato che gli si attribuisce. […] Così l’identità può essere invo-
cata per accendere rivalità e rancori interetnici, ma anche per combattere ingiusti-
zie, emanciparsi dalla subalternità, rivendicare legittimi diritti, ridefinire il signifi-
cato dell’appartenenza collettiva, soprattutto quando essa sia sottoposta a margina-
lizzazione, sradicamento, egemonia21.

In quest’ottica, la studiosa evidenzia come a fronte di una rinnovata


sensibilità per il tema, l’identità debba necessariamente declinarsi – a livello
politico e sociale – in funzione di un costruttivo riconoscimento del valore
della diversità, e non più orientarsi verso una sua negazione. Anche Luigi
Lombardi Satriani sembra suggerire la necessità di una assunzione critica
dell’identità, che sappia evitare e superare i rischi e le retoriche ad essa

19 Geertz C. 1998. Sull’incompiutezza biologica umana cfr. Gehlen A. 1983, L'Uomo, Milano, Feltrinelli.
20 Remotti F. 2009, pp. 11-19 e 77-104.
21 Banini T. 2011, p. 17.

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connessi. Assunzione critica che non può prescindere, anzitutto, dall’accet-
tazione della processualità che sottende alla formulazione medesima dell’i-
dentità. E poi, dalla molteplicità delle sue declinazioni e dei suoi rapporti
con l’alterità. Per l’antropologo italiano, in definitiva, si rende opportuno
articolare il difficile processo di fissione di elementi plurimi – attenuare,
cioè, se non invertire, quelle dinamiche di re-scissione di cui parlava Re-
motti – aprendosi agli apporti dell’alterità (il che postula l’abbattimento di
steccati e confini) e consapevolizzando così la dimensione composita, sfac-
cettata e storica dell’identità. Scrive infatti Lombardi Satriani:

Non esiste l’Altro, categoria onnicomprensiva di ogni possibile alterità; esi-


stono gli Altri nella loro variegata mutevolezza storica e a questi altri, non a un mi-
tico Altro, dobbiamo rapportarci. L’identità culturale di un gruppo, di una classe so-
ciale di un popolo non è una realtà monolitica e statica. […] In effetti, l’identità è un
prodotto storico e quindi muta storicamente modulandosi variamente in connessio-
ne, non meccanica, con le trasformazioni socio-economiche e più genericamente
storiche che investono i diversi gruppi, classi, popoli. […] Non si parli più, dunque,
di identità in un’ottica di staticità, di immobilismo, di realtà metastorica, ma la si as-
suma problematicamente nella contemporanea presenza di permanenze culturali e
di nuove acquisizioni22.

Ripensare l’identità significa, quindi, ricercare un equilibrio tra le di-


namiche di appartenenza e l’accettazione dell’altro, significa per un verso
rifuggire le esaltazioni campanilistiche e le chiusure – di ordine sociale, cul-
turale, politico, religioso – su base locale, e per altro verso aprirsi al dialogo
con la diversità, sottraendosi alle paure e alle fobie della contaminazione e
dei nuovi innesti. Questa istanza di prospettive aperte, fluide, complesse in
merito ai percorsi di costruzione dell’identità sembra peraltro riflettersi nei
nuovi orientamenti metodologici posti in essere per il suo studio e tradursi
– nel campo delle scienze umane e sociali – in una postulata necessità di un
appressamento transcalare al tema, in grado di accogliere voci e prospettive
analitiche le più diversificate. A fronte del già “travagliato iter concettua-
le”23 dell’identità, infatti, Banini richiama la difficoltà – per gli studiosi – di
mettere a punto strategie, obiettivi e strumenti comuni nello studio del
concetto, la cui complessità sfugge a un inquadramento teorico univoco24.

22 Lombardi Satriani L. M. 2009, p. 34. Analoghe conclusioni raggiungono Ricoeur P. 1996, Sé come un
altro, op. cit., pp. 204 sgg. e Monastra G. 1998.
23 Lombardi Satriani L. M. 2009, p. 37.
24 Banini T. (a cura di) 2009, p. 3. Cfr. Id. 2003.

- 100 -
L’approccio interdisciplinare proposto dagli attuali contributi italiani al te-
ma, dunque, sembra essere lo strumento più adeguato di ricerca e analisi,
capace di restituire la pluralità e la varietà delle articolazioni identitarie e
delle interpretazioni attorno ad esse.
È soprattutto il tema della identità territoriale, oggi, a convogliare gli
interessi eterogenei di geografi, psicologi, antropologi, sociologi, storici, e-
cologi, urbanisti. La nozione – elaborata in sede geografica25 – è declinata in
riferimento a “contesti territoriali di limitata estensione, ove i vissuti indi-
viduali e collettivi si esperiscono con maggiore frequenza e intensità”26, e
inerisce le pratiche di costruzione partecipata del territorio. Come tale, essa
è per un verso in grado di trascendere la nozione di identità culturale, poi-
ché si applica ad ambiti spaziali non necessariamente dotati di una loro spe-
cifica cultura; per altro verso induce a superare il generico senso di appar-
tenenza locale per introdurre ad una dimensione consapevole della relazio-
ne con i luoghi: “Volentieri o meno, – afferma in proposito Banini – il terri-
torio in cui si sta più o meno durevolmente è uno spazio di condivisione
collettiva ed è espressione di storie di collettività avvicendatesi nel tempo,
che hanno restituito ad esso una specificità materiale (edifici, strutture ur-
banistiche, monumenti, ecc.) e immateriale (ritualità sociali, codici di co-
municazione, tradizioni, ecc.). Il territorio dell’abitare è quindi motivo im-
plicito di condivisione che travalica le segmentazioni sociali e culturali per
il solo fatto di trovarsi lì, in quel momento; si tratta quindi di renderlo mo-
tivo esplicito di condivisione, con i suoi caratteri ambientali, i suoi segni, la
sua personalità, la sua storia”27.
L’identità territoriale, dunque, richiede la tensione verso una gestione
partecipata e consapevole del territorio di insediamento. Implica, cioè, il
passaggio da un generico e non meglio esplicitato senso di appartenenza ai
luoghi (stadio percettivo-emozionale) a una loro introiezione consciamente
elaborata e socialmente orientata verso la comprensione/condivisione delle
sue peculiarità (stadio cognitivo), passando per un processo di identificazio-
ne individuale con i luoghi (stadio dell’identità personale). La psicologia
ambientale distingue queste tre fasi parlando di radicamento al luogo, senso
del luogo e identità di luogo. Il primo designa “l’attaccamento principal-
mente fisico-emotivo, che si manifesta nella semplice volontà di non muo-

25 Dematteis G., Ferlaino F. (a cura di) 2003; Banini T. 2003; Id. (a cura di) 2009; Id. (a cura di) 2011.
26 Id. 2009, p. 7.
27 Ivi, p. 10. Cfr. Raffestin C. 2003; Giulani Balestrino M. C. 2009; Grillotti Di Giacomo M. G. 2009.

- 101 -
versi o allontanarsi dal luogo in questione e che risulta tipicamente caratte-
rizzato da poca o nessuna consapevolezza del luogo (place unawareness). Il
secondo [identifica] l’attaccamento affettivo più cognitivamente elaborato e
articolato e quindi più consapevole sotto vari aspetti del luogo stesso (place
awareness). Il senso del luogo appare infatti basato su varie consapevolezze
di luogo, prevalentemente connesse alle esperienze pregresse con questo, in
senso non solo personale, ma anche in senso collettivo e condiviso” 28. L’i-
dentità di luogo è invece “definita come quella parte dell’identità personale
che deriva dall’abitare in specifici luoghi”29.
Tirando le fila delle trame fin qui accennate, tentiamo, a questo pun-
to, un’esplicitazione complessiva del concetto di identità, procedendo in se-
conda battuta a isolare ulteriori aspetti pertinenti il nostro discorso. Partia-
mo dalle parole di Claude Raffestin, cui ricorriamo per individuare alcuni
caratteri di base: “L’identità è un processo nel quale lo spazio, il tempo, il
lavoro e la memoria sono gli elementi portanti. […] L’identità si costruisce,
si decostruisce e si ricostruisce nel tempo o meglio, attraverso il tempo. […]
Non vi è un’identità, ma un susseguirsi di identità. Queste identità, anche
quando si disgregano, si erodono, e si cancellano poco a poco, non scom-
paiono con il loro carico di persone e cose nel naufragio del tempo, lasciano
delle tracce materiali o immateriali”30.
Spazio, tempo, lavoro e memoria, dunque. La memoria rimanda esat-
tamente a queste tracce materiali e immateriali, a queste sedimentazioni fi-
siche e simboliche connesse al concetto di identità. E allude a uno spazio di
condivisione. La memoria può anche essere il ricordo del singolo ma questo
ricordo è declinato in riferimento a un quadro di appartenenza collettivo o
a un territorio condiviso. Il termine lavoro rinvia a quello locutivo di co-
struzione dell’identità. Le pratiche di aggregazione e la formulazione del
senso di relazionalità sono frutto di un lavoro, di un impegno, di una fatica
atti a consentire connessioni e a disciplinare rapporti tra i membri di una
data comunità, e tra questi e l’ambiente organizzato. Il tempo accenna alla
dimensione storica dell’identità, che si definisce, si trasforma, si ricompone
all’interno di un arco temporale più o meno lungo, e non necessariamente
concluso. L’identità è ineludibilmente subordinata alle trasformazioni stori-
che e culturali che intervengono in seno alla società che la elabora. La paro-

28 Bonnes M., Bilotta E., Carrus G., Bonaiuto M. 2009, pp. 18-19.
29 Ivi, p. 19.
30 Raffestin C. 2003, p. 5.

- 102 -
la spazio, infine, restituisce la dimensione territoriale e locale delle costru-
zioni identitarie. L’identità non prescinde dai luoghi dell’abitare di coloro
che la interpretano e la perpetuano. Essa si inscrive in uno spazio, in un ter-
ritorio, che può essere più o meno grande, più o meno esteso, e che riporta i
segni concreti e simbolici delle pratiche insediative e abitative dell’uomo.
La costruzione del territorio non è mai disgiunta dalla costruzione dell’i-
dentità. Le complesse dinamiche attraverso cui quest’ultima prende forma e
si modula, infatti, sono coincidenti ai processi di trasformazione e plasma-
zione del territorio, come sostiene ancora Raffestin: “La ricomposizione ter-
ritoriale è parallela a quella dell’identità […]. Non vi è sovrapposizione tra
le fasi di costruzione, decostruzione e ricostruzione dell’identità e quelle di
territorializzazione, deterritorializzazione e riterritorializzazione che si sus-
seguono”31.
L’identità, riassumendo, è: esito di un processo di costruzione deco-
struzione ricostruzione; effetto di un’azione collettiva; risultato di un ade-
guamento ai mutamenti storici e culturali indotti dal tempo in una data so-
cietà; frutto dell’interazione tra l’uomo e il territorio di insediamento, non-
ché – infine – della condivisione sociale di uno spazio e della sua organizza-
zione. L’identità, dunque, è un prodotto dinamico, complesso, mutevole,
spurio. Partecipa di molteplici determinazioni e specificazioni, a seconda
degli aspetti analizzati e dei punti di osservazione adottati. Ed è suscettibile
di numerose sottoclassificazioni. È possibile segmentare, ad esempio, l’iden-
tità sociale e culturale – procedendo dal generale al particolare – in identità
etnica, per individuare una comune appartenenza a una etnia; in identità di
classe, per designare gli appartenenti alle diverse categorie sociali; in identi-
tà di genere, per distinguere le appartenenze di carattere sessuale e i diffe-
renti ruoli ricoperti da uomini e donne all’interno di una data comunità; in
identità di clan, per indicare i membri di un gruppo sociale costruito su
rapporti sia esogamici che endogamici; in identità familiare, per definire
persone accomunate da rapporti di consanguineità.
Molte di queste sottoclassificazioni agiscono in relazione ai luoghi
dell’abitare. È possibile, cioè, distinguere tra diverse forme di identità che
scaturiscono dall’organizzazione e dalla gestione del territorio – finalizzate
alla produzione dei mezzi di sussistenza – e dalla distribuzione della popo-
lazione al suo interno. Molte ricerche etnologiche hanno dimostrato che le

31 Ibidem.

- 103 -
società, per potersi definire tali, si sono fatte carico di simbolizzare e ordi-
nare uno spazio, ed in questo spazio hanno inscritto le dinamiche di rappre-
sentazione identitaria e i rapporti di contrapposizione all’alterità. Abbiamo
già fatto cenno, in più punti del nostro studio, a questi aspetti. Esplicitiamo-
li ora facendo appello a Marc Augé:

La tradizione antropologica ha collegato la questione dell’alterità (o dell’iden-


tità) a quella dello spazio, perché i processi di simbolizzazione attuati dai gruppi so-
ciali dovevano comprendere e dominare lo spazio per comprendere e organizzare se
stessi. Questo legame non si esprime soltanto al livello politico del territorio o del
villaggio. Influenza la stessa vita domestica, ed è molto interessante trovare traccia,
in società allontanate le une dalle altre dalla storia o dalla posizione geografica, di
una necessità che le accomuna: necessità di sistemare spazi interni e di predisporre
aperture sull’esterno, di simbolizzare il focolare e la soglia, ma contemporaneamen-
te anche necessità di pensare l’identità e la relazione, il medesimo e l’altro. Il centro,
la soglia e la frontiera sono nozioni spaziali che si applicano alla scala dello spazio
domestico32.

L’affermazione dell’identità e la costruzione dell’alterità trovano nello


spazio il proprio palcoscenico. Comporre l’identità vuol dire contrassegnare
il territorio del noi, marcarlo, definirlo, distinguerlo da quello degli altri.
Significa istituire confini e frontiere, stabilire barriere e soglie33. Questo
processo di insediamento nello spazio e di sua organizzazione è un disporsi
nel territorio, funge da edificazione orientata di luoghi nei quali rappresen-
tare la propria identità individuale ma anche sociale, perché partecipata con
gli altri abitanti che in quel luogo si riconoscono e di cui esperiscono i tratti
distintivi. Lo spazio in cui si abita è il luogo dell’identità condivisa, è il ter-
ritorio in cui ci si sente a casa propria, al sicuro; in cui si usano codici lin-
guistici e di comunicazione noti e si entra facilmente nei ragionamenti del
proprio interlocutore.
Tuttavia, tracciare margini equivale anche a istituire possibili apertu-
re, a individuare spazi di adiacenza e punti di contatto con gli altri uomini,
e quindi a rendere manifesto il territorio delle relazioni con essi. L’identità,
dunque, è un differenziarsi dall’altro. Ma è pure un relazionarsi ad esso. “La
relazione – scrive ancora Augé – è al cuore dell’identità. L’alterità e l’identi-
tà non sono concepibili l’una senza l’altra”34.

32 Augé M. 2010b, p. 47.


33 Su questi temi vedi Zanini P. 2012.
34 Augé M. 2010b p. 50.

- 104 -
L’antropologo francese distingue tra due tipologie di alterità, in rela-
zione alle quali si costruisce l’identità. Esiste, infatti, un’alterità esterna al
gruppo, rappresentata da coloro che del gruppo non fanno parte, che sono
collocati al di fuori, al di là dei confini dello spazio della comunità. Ed esiste
un’alterità endogena alla società, che corrisponde ai criteri differenziali con
cui essa istituisce divisioni, ruoli e appartenenze al suo interno: il sesso,
l’età, la filiazione, lo status sociale. Ossia, ciò che in questa sede abbiamo
definito come sottoclassificazioni o segmenti dell’identità.
La simbolizzazione e organizzazione dello spazio, che costruisce il ter-
ritorio dell’abitare, si declina in rapporto a queste segmentazioni e “gioca su
più ordini di grandezza: si applica alla casa, ai gruppi di case, alle regole di
residenza, alle divisioni del villaggio (in quartieri, in zone profane e zone
sacre), alla terra, al territorio, alla frontiera fra spazio acculturato e natura
selvaggia. Se essa costruisce una identità relativa è sempre in opposizione a
un’alterità esterna e in funzione di un’alterità interna”35. Costruire l’identi-
tà, in relazione ai luoghi dell’abitare, dunque, implica un processo di con-
trapposizione all’esterno e di differenziazione all’interno: di qui la necessità
di una suddivisione dello spazio tra aree sacre e aree profane, tra centro abi-
tato e campagna, tra spazi abitativi e spazi produttivi, come s’è visto già. Ma
implica anche un riconoscere ruoli, assegnare funzioni, distribuire compiti
tra i componenti della comunità che, differenziandosi gli uni dagli altri, co-
struiscono specifici profili identitari. In seno a una data collettività, perciò,
è possibile osservare come l’identità si costruisca sulle citate appartenenze
(o alterità, per dirla con Augé) di classe, di genere, di clan e familiari. Ma è
anche possibile individuare ulteriori aspetti, legati all’appartenenza a una
specifica categoria lavorativa o a un gruppo di potere, all’iscrizione a un
partito o all’adesione a una congregazione religiosa.
Nel caso di Badolato, oggetto del nostro studio, la riflessione sull’orga-
nizzazione e la gestione degli spazi ci consente di cogliere le dinamiche che
costruivano le opposizioni tra cultura egemonica e culture subalterne (vo-
lendo richiamare le categorie analitiche di Alberto Cirese36) ma anche il
forte senso di appartenenza a un rione, a una zona, a una Chiesa, a una
Confraternita – prima ancora che alla comunità nel suo insieme – che ha
ancora oggi un peso decisivo nei percorsi identitari della comunità e che
trova nei riti della Settimana Santa la sua più articolata espressione.
35 Ivi, p. 46.
36 Cirese A. M. 1992.

- 105 -
III. 1. Organizzazione dello spazio, identità di classe e identità di genere

Nei capitoli precedenti abbiamo discusso della partizione degli spazi


urbani di Badolato come specchio e riflesso della stratificazione sociale. E
abbiamo visto come la suddivisione del territorio dell’abitare rispondesse a
esigenze e necessità di differenziazione tra ceti. Nel paese, infatti, si distin-
guevano gli spazi borghesi da quelli popolari, gli spazi delle baronie locali
da quelli degli artigiani, dei contadini, dei pastori. Ed era possibile distin-
guere tra un alto e un basso, tra una parte soprana e una parte sottana, tra
un susu e un jùsu (o un irtu e un vàsciu) che riflettevano appunto queste
differenze di classe. Nella zona alta del paese, infatti, erano concentrati i
principali contesti abitativi gentilizi, laddove i rioni Jusutèrra, le aree mar-
ginali del Mancùsu e del Destru e gli altri quartieri periferici del versante
occidentale ospitavano i numerosi nuclei popolari. I palazzi e le residenze
baronali, le case palaziate e i domicili borghesi – contigui ai luoghi di culto
– erano dislocati lungo le principali direttrici di percorso del paese; le case
contadine, al contrario, erano ricavate in contesti disagevoli, lungo gli sco-
scesi versanti del costone roccioso37.
“Dalla Chiesa Matrice alla chiesa di San Domenico – ci riferisce Vin-
cenzo Squillacioti – era «la piazza», luogo di incontro, di passatempo, di pas-
seggio: i contadini raramente frequentavano il corso, magari vi capitavano
di passaggio, per delle commissioni presso famiglie borghesi o di professio-
nisti, durante le processioni, in occasione di alcune feste e per acquisti nei
negozi”38. Proprio per distinguerla dalla massa contadina, la gente che gra-
vitava su piazza Castello e corso Umberto I (con le sue botteghe e negozi)
“era detta da chjàzza o do café. Nel Mancùsu vi erano invece i cosiddetti
tamàrri còmmati, i contadini più agiati che possedevano le terre che anda-

37 Significative testimonianze di queste partizioni del territorio si possono rintracciare anche nella topo-
nomastica locale. Centri di potere, palazzi nobiliari, residenze borghesi, infatti, fornivano gli elementi simbolici di
riconoscimento e denominazione degli spazi paesani, agendo come segni di identificazione e come marche di ap-
partenenza di gruppo. Toponimi derivati dai centri di potere, e tuttora in uso, sono piazza Castello, così detta per
l’antica presenza di una rocca; Bastiùni, che perpetua la memoria collettiva di un elemento architettonico storico
del paese; piazza Municipio, antico cuore del centro storico. Altri toponimi derivano dalla presenza delle residen-
ze gentilizie, che hanno esteso il proprio nome a quello della via occupata (palazzo Gallelli) o sono assunti quali
punti cardine dell’impianto urbano (palazzo Paparo). Anche i centri religiosi hanno rappresentato un fondamen-
tale riferimento per definire e nominare gli spazi del paese. Nella toponomastica e nell’uso orale le vie, gli slarghi,
a volte interi quartieri prendevano il nome dalla devozione verso un santo (Sant’Èrmu, Santa Barbara) o, più spes-
so, dalla presenza di una chiesa (Santa Caterina, Immacolata, San Domenico, San Nicola, a petta ’e l’Àngeli o, an-
cora, Monacèhṛi e San Giànni, che alludono a un antico monastero e a una chiesa oggi scomparsi).
38 Vincenzo Squillacioti, intervista del 18 maggio 2013.

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Fig. 35. Dimore gentilizie. Palazzo Paparo Fig. 36. Palazzo Gallelli

Fig. 37. Villa Pietranera (Residenza estiva dei baroni Gallelli)

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Figg. 38-39. Dimore contadine

- 108 -
vano a coltivare. Al Destru abitavano persone dette da leggèra, che non a-
mavano i lavori pesanti, per cui, ad eccezione di alcune famiglie che erano
esempio di laboriosità ed anche di benessere, si dedicavano ad attività meno
impegnative”39.
A questa differente posizione dei contadini negli spazi paesani corri-
spondeva anche una diversificata organizzazione degli spazi agricoli per ti-
pologia di prodotti coltivati e per provenienza dei lavoratori. I Mancusàni,
ad esempio, si dedicavano soprattutto alla produzione di pesche, uva e olive
nelle terre vicino al fiume Gallipari (Cahṛìpparu, Cardàra, Vahṛìna). Gli a-
bitanti della Jusutèrra, detti pittehṛàri (da pittèhṛi, le pale di ficodindia che
abbondavano nella loro zona) coltivavano invece grano e altri cereali, a-
grumi e ortaggi nei campi a sud e ad est del territorio comunale, attraversati
dalla fiumara Vodà40.
Ulteriore, importante elemento che interveniva nell’organizzazione
dello spazio urbano era la suddivisione del centro abitato per aree e settori
produttivi. Abbiamo già fatto cenno alla presenza, in paese, di frantoi e mu-
lini, la cui gestione – concentrata nelle mani dei possidenti locali – rappre-
sentava un significativo elemento di differenziazione di classe. Inoltre, co-
me ha evidenziato ancora Squillacioti, molte rughe di Badolato (una venti-
na circa) si caratterizzavano “per le loro funzioni primarie, e il rione pren-
deva il nome dell’attività che si svolgeva in esso piuttosto che della chie-
sa”41. Nella parte nord-orientale del paese, ad esempio, – lungo la strada car-
rabile che dalla zona denominata Arcu conduceva alla chiesa di San Nicola
– si concentravano i quartieri dei falegnami, dei bottai (varihṛàri), dei bastai
(mbastàri), dei calderai (cardaràri), dei calzolai (scarpàri), dei sarti (custurè-
ri), dei barbieri (varvèri). Erano rioni che venivano identificati con le bot-
teghe artigiane in essi operanti e, con ciò, erano distinti, a loro volta, dai
quartieri abitati dai massàri, dai contadini, dai pastori, che insistevano prin-
cipalmente sui rioni Jusutèrra e San Giànni, nei versanti est e sud-est dell’a-
bitato. Lungo il corso principale, invece, almeno fino agli anni ’70 del seco-
lo scorso, c’erano il rivenditore di giornali, la cartoleria, tre rivendite di sale
e tabacchi, quasi tutti i negozi e non poche botteghe di artigiani (qualche
fabbro, il fotografo, l’orologiaio). E ancora oggi, corso Umberto I, piazza Ca-
stello e le aree immediatamente adiacenti ospitano le uniche attività com-

39 Ibidem.
40 Ibidem.
41 “Paesi” 2007, p. 125. Cfr. Fiorenza A. 2010, pp. 125-136.

- 109 -
merciali presenti in paese: un negozio di generi alimentari, un tabacchi,
uno studio fotografico, la farmacia, due bar, un’agenzia immobiliare, una
pizzeria (aperta, tuttavia, solo durante i mesi estivi), una trattoria.
Pur all’interno di una struttura urbanistica e agricola nel complesso
omogenea e compatta, quale rimane quella di Badolato, dunque, la partizio-
ne geografica replicava una stratificazione sociale. Insieme a fattori di ordi-
ne religioso – dei quali tratteremo più diffusamente in seguito – queste sud-
divisioni operavano come imprescindibili componenti identitarie nella co-
struzione della fisionomia sociale del paese. Contribuivano a selezionare e
distinguere i percorsi borghesi da quelli popolari e, con ciò, a delineare
quelle che abbiamo qualificato come identità di classe42.
Accanto a questa distribuzione e occupazione dei contesti abitativi e
agricoli per ceto di appartenenza o per categoria lavorativa, nell’organizza-
zione dello spazio urbano ed extraurbano agivano ulteriori dinamiche di ca-
rattere socio-culturale. La differente fruizione del territorio, espressione ed
esito dei rapporti e delle divisioni tra i sessi, infatti, contrassegnava e suddi-
videva il contesto insediativo tra spazi del dominio maschile e spazi del
dominio femminile. La partizione, per sesso, della popolazione e l’ap-
partenenza di genere erano ribadite dall’organizzazione dello spazio, che
accanto ai punti promiscui – in cui interagivano le due parti della società
paesana o in cui ritualmente si verificava la compenetrazione tra le soglie e
la diluizione dei confini – distingueva tra spazi fruiti dagli uomini e spazi
fruiti dalle donne. Il paese si scomponeva e si organizzava, sia pur in manie-
ra non rigidamente determinata, in luoghi della socialità maschile e luoghi
della socialità femminile. E questi contribuivano significativamente ad arti-
colare quelle che abbiamo definito come identità di genere. La collocazione
e la mobilità delle donne e degli uomini nello spazio-paese, infatti, replica-
va la posizione degli stessi nella struttura sociale e configurava i ruoli delle
une in rapporto agli altri43.

42 Molta narrativa meridionalista ha saputo cogliere, con acuta e lucida visione antropologica, le dinami-
che dell’organizzazione dello spazio paesano come riflesso dei rapporti di classe e delle gerarchie sociali. Si veda-
no, su tutti, Alvaro C. 2000; Seminara F. 2003; Strati S. 2007.
43
Il tema della suddivisione dello spazio dell’abitare tra ambiti del maschile e del femminile appartiene a
una consolidata tradizione di studi antropologici. Limitiamo i rimandi a Bourdieu P. 2003; Roubin L. 1970, “Espa-
ce masculin, espace femminin en communautè provençal”, in «Annales ESC», année 25 n. 2, mars-avril, pp. 337-
368; Carol Rogers S. 1979, “Espace masculin, espace femminin. Essai sur la différence”, in «Etudes Rurales», n. 73,
Paris, pp. 84-110; Segalen M. 1980, Mari et femme dans la société paysanne, Paris, Flammarione; Minicuci M.
1981; Id. 1982; La Cecla F. 2007, pp. 111-119. Per un quadro globale del rapporto maschile-femminile cfr. Héri-
tier F. 2006, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza [1987], Roma-Bari, Laterza, (Trad. it. di B. Fiore).

- 110 -
III. 1. 1. Luoghi della socialità femminile

L’analisi delle componenti insediative di Badolato ha dimostrato come


le relazioni di socialità – in particolare femminile – fossero costitutivamente
inscritte nella stessa concezione dell’abitare maturata dalla comunità. Il di-
segno architettonico del paese, infatti, contemplava una serie di punti di in-
contro disseminati spontaneamente nel tessuto urbano. I piccoli slarghi (i
cosiddetti chjàni, che sorgevano generalmente in prossimità delle chiese),
gli scalùni e i mignàni (scale e pianerottoli di accesso alle abitazioni), e
chjànche e le soglie delle case, i catòja in cui le donne attendevano ai lavori
domestici erano spazi che consentivano, prevedevano, prescrivevano – al-
l’interno delle interazioni sociali – momenti di incontro e tempi di sosta.
Erano spazi in cui trovava manifestazione quel complesso di “relazioni in-
formali e apparentemente casuali su cui si organizzavano scambi di notizie
ma anche di oggetti, di cibi, di prodotti della campagna, di servizi, senza
impegnare in rapporti più chiaramente definiti e strutturati”44.
L’appartenenza ai luoghi, il quotidiano appropriarsi e servirsi dei me-
desimi spazi generava l’aggregazione tra donne. Gli spazi della ruga erano,
perciò, pressoché esclusivi della socialità femminile. Qui le donne interagi-
vano nel costruire rapporti di frequentazione e di collaborazione. Qui si in-
contravano e si aiutavano nei lavori agricoli, nelle attività domestiche, tal-
volta nella sorveglianza dei figli45. Nella dimensione del vicinato, lavoro
privato e interrelazioni pubbliche andavano di pari passo. Al contrario della
socialità tra uomini – il cui riunirsi si configurava come momento di svago e
di riposo dalle fatiche quotidiane – quella femminile era scandita da una
marcata laboriosità, e non conosceva quasi mai tempi di ozio e di inattività.
Nello spazio della ruga si inscrivevano, dunque, i rapporti di coopera-
zione e di solidarietà femminili. Ma anche i meccanismi di controllo socia-
le. Qui le donne scambiavano informazioni, giudizi, critiche, pettegolezzi,
maldicenze e si mettevano all’addùgnu, ossia controllavano e si tenevano al
corrente di ciò che succedeva in paese, prestavano attenzione ai piccoli e
44 Minicuci M. 1981, p. 19.
45
Singolare consuetudine nel controllo dei bambini era la pratica dell’addimùru, presente anche a Bado-
lato. Per l’ambiente siciliano ne ha descritto i meccanismi di funzionamento Leonardo Sciascia: “ADDIMURU.
Dal verbo «addimurari», ritardare, questa parola d’intesa tra adulti, a inganno dei bambini. Una madre tediata dai
bambini mentre sbriga le faccende di casa, a liberarsene li manda da una parente o da una vicina a chiedere «tan-
ticchia d’addimuru», un poco: quasi fosse un ingrediente da cucina. La parente o vicina capisce che deve tratte-
nerli, e inventare qualcosa che li trattenga. A meno che non abbia per sua parte da fare: e li rimanda alla madre
dicendo che di «addimuru» è sprovvista” (Sciascia L. 2004, Occhio di capra [1984], Milano, Adelphi, pp. 22-23).

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grandi accadimenti che in esso si verificavano. Diventavano, così, deposita-
rie delle notizie concernenti il paese, ne raccoglievano e ne divulgavano le
storie e i segreti così come le indiscrezioni e le confidenze46. Con il loro
procedere di casa in casa, di ruga in ruga, le donne disegnavano e designa-
vano gli spazi del dominio e dell’identità femminile nel paese, che durante
il giorno – assenti gli uomini, impegnati nei campi – poteva essere esteso ai
luoghi altrimenti riconosciuti come maschili. Attraverso le direttrici dei lo-
ro percorsi, dunque, le donne si ponevano come mediatrici dello spazio, e la
loro mobilità sociale – che si articolava con il matrimonio e i rapporti di pa-
rentela – consentiva di dissolvere conflittualità tra famiglie, di accorciare le
distanze (spaziali e culturali) tra un rione e l’altro, di stringere alleanze47.
Se la ruga e il vicinato erano luoghi privilegiati per i rapporti di socia-
lità tra donne, la casa era – per eccellenza – luogo dell’identità femminile,
“universo delle donne, mondo dell’intimità e del segreto”48. Come tale si
contrapponeva “al mondo esterno, mondo propriamente maschile della vita
pubblica e del lavoro agricolo”49. La donna governava la casa e gli spazi ad
essa attigui (cortili, orti, giardini), trascorrendovi gran parte della sua gior-
nata, laddove l’uomo – perlomeno fino a sera, quando rientrava dal lavoro
nei campi o dagli svaghi in paese – ne era escluso. Nella casa avveniva l’e-
ducazione delle figlie femmine, che qui imparavano a cucinare e a fare il
pane, a cucire, ricamare, lavorare a maglia e all’uncinetto. Qui apprendeva-
no le cure per l’allevamento del baco da seta e l’arte della tessitura al telaio.
La casa era luogo di socializzazione, iniziazione e apprendistato in cui veni-
vano trasmessi i saperi popolari e le conoscenze magico-rituali50, e in cui si
perpetuava la memoria genealogica della famiglia.

46
Con il loro operato, le donne ribadivano la condizione di subalternità nei confronti della società ma-
schile, di cui finivano per accettare e veicolare le regole di convivenza. I meccanismi di controllo sociale, infatti,
inerivano e regolamentavano anzitutto il comportamento femminile, che doveva conformarsi al mantenimento
dell’onore maschile e della rispettabilità della famiglia. Sia pure in tale condizione di sudditanza, la storia recente
del paese ha registrato il fondamentale ruolo delle donne nei movimenti di lotta e di protesta civile e politica, in
genere appannaggio esclusivo della società maschile. Si ricordano, in particolare, la partecipazione femminile at-
tiva allo sciopero a rovescio del 1950-1951 per la costruzione della strada carrozzabile di montagna Badolato-
Brognaturo; l’asserragliamento nella chiesa di Santa Caterina per impedire la rimozione d’una preziosa pala arti-
stica nel 1973; le proteste per la sistemazione della via d’accesso al paese nel 1985 e quelle contro la chiusura della
Scuola Materna nel 1995.
47 Cfr. Minicuci M. 1981; Id. 1982.
48
Bourdieu P. 2003, p. 60.
49 Ibidem.
50 Sull’universo magico-rituale di Badolato, con specifico riferimento al rapporto tra società femminile e
pratiche di malocchio, fascinazione e affatturamento, vedi Caporale F. 2003-2004, Donne e Malocchio, Tesi di
Dottorato, Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, XV ciclo, (Relatore: Prof. L. M. Lombardi Satriani).

- 112 -
Oltre alla ruga e alla casa, luoghi essenzialmente femminili erano le
fiumare, i lavatoi, le fontane presenti nei diversi rioni del paese. In questi
spazi, raccogliere le foglie per l’allevamento del baco da seta, fare il bucato,
lavare la biancheria, attingere l’acqua (trasportata negli orci sistemati sulla
testa) diventava occasione di incontro, di discussione, di socializzazione, di
interazione tra donne di differenti età (adulte, giovani, adolescenti, bambi-
ne)51. Qui avvenivano vere e proprie assemblee femminili, nelle quali la
stessa femminilità (svincolata dalla presenza maschile) si esprimeva in for-
me e maniere inusuali, con un linguaggio allusivo, sboccato, carico di doppi
sensi. Erano i luoghi del discorso femminile, soprattutto sugli uomini e sul
loro comportamento, e della visione delle donne circa la vita del paese52.
Le chiese, invece, potevano solo parzialmente dirsi luogo del femmi-
nino. Le donne, spesso mere spettatrici delle funzioni liturgiche, vi rivesti-
vano un ruolo passivo rispetto agli uomini che – nella loro qualità di mem-
bri delle tre confraternite operanti in paese – presiedevano, coordinavano e
organizzavano le pratiche rituali, ricoprendo un ruolo di protagonisti asso-
luti nei più importanti appuntamenti religiosi. Tuttavia, nella dimensione
giornaliera le chiese erano spazio di frequentazione quasi esclusivamente
femminile. Soprattutto le donne anziane prendevano quotidianamente par-
te a messe, novene, recite del Santo Rosario e facevano della chiesa un luo-
go di ritrovo, di riunione, di aggregazione, di identità condivisa.
In occasione dei rituali funebri o di altre funzioni, invece, si assisteva
in chiesa ad una parziale compenetrazione tra mondo maschile e mondo
femminile, tuttavia rigidamente marcata dalla diversa collocazione di uomi-
ni e donne all’interno dell’edificio religioso, come testimonia Squillacioti:
“Ancora oggi – e non soltanto nel vecchio paese medioevale, ma anche nel
nuovo cento urbano di Badolato Marina sorto dopo le alluvioni dell'ottobre
1951 – in chiesa le donne siedono sui banchi, dall'altare in giù, verso la por-
ta; gli uomini, invece, rimangono quasi sempre e quasi tutti in piedi, in fon-
do, nei pressi della porta. Così nel momento delle condoglianze ai parenti di
un defunto, all'uscita dalla chiesa dopo l'esequie: le donne danno la mano ai
parenti per prime, e poi gli uomini”53.

51 Molti scrittori calabresi hanno saputo raccontare, con notevole acume antropologico, l’essenza femmi-
nile di questi luoghi. Si vedano, a titolo esemplificativo, alcuni racconti contenuti in Alvaro C. 1958, pp. 105-111,
137-158. Vedi anche Strati S. 2007. Sui lavatoi come luogo della costruzione identitaria femminile si rimanda a
Marengo M. 2002.
52 Cfr. Minicuci M. 1981; Id. 1982.
53 Intervista a Vincenzo Squillacioti, 18 maggio 2013.

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Figg. 40-41. Luoghi e modi della socialità femminile

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III. 1. 2. Luoghi della socialità maschile

La socialità maschile trovava, all’interno del paese, una collocazione


spaziale più ricca e diversificata. I luoghi maschili, infatti, erano più nume-
rosi e meglio strutturati – ma anche più rigidamente definiti – rispetto a
quelli, frammentari ma fluidi, della socialità femminile. Se le rughe e i vico-
li – nascosti e protetti nei meandri del corpo-paese – erano i luoghi del pre-
sidio femminile, la strada e la piazza principali (corso Umberto I, piazza
Municipio e poi piazza Castello) erano spazi pubblici per definizione. In
quanto tali, erano luoghi attraversati, percorsi, frequentati principalmente
dagli uomini. Le donne non vi sostavano che per brevi momenti e in circo-
stanze occasionali; in genere vi transitavano soltanto: per andare a sbrigare
mbasciàte e faccende per conto terzi, per fare le compere giornaliere, per
recarsi in chiesa o andare in visita presso parenti e vicini.
Gli uomini, invece, vi incarnavano e recitavano il proprio ruolo socia-
le. “Le strade – in particolar modo il Corso, il sagrato, altri luoghi rilevanti
per la vita della comunità – diventano, in alcune circostanze o in alcuni
momenti, il teatro entro cui rappresentare bene la propria parte, ognuno
impersonando il suo ruolo nel quadro del paese che celebra così la sua auto-
rappresentazione”54. In particolare durante le processioni religiose e i riti
della Settimana Santa – su cui torneremo più avanti – il corso, la strada e la
piazza di Badolato diventavano teatro della presenza maschile sul territorio.
Pur contemplando, infatti, una larga partecipazione femminile e articolan-
do con ciò una correlazione tra i sessi, le processioni erano dirette, gestite,
amministrate dagli uomini, che ne scandivano modi, tempi, regole di attua-
zione e se ne attribuivano le mansioni di comando e di guida.
La strada e la piazza erano dunque luogo centrale per l’aggregazione
maschile, spazio pubblico di incontro, confronto, scontro tra uomini, che
qui esercitavano le loro prerogative di attori sociali. La strada e la piazza e-
rano luoghi della vita e della coesistenza civile, spazi della socialità esercita-
ta, nei quali l’individuo si definiva appunto come essere sociale in rapporto
agli altri individui, assumendo la strada come universo simbolico e materia-
le dell’appartenenza di genere.
Tuttavia, tali spazi erano frequentati soprattutto nei mesi caldi, quan-
do le condizioni atmosferiche consentivano di sostare all’aperto. Più spesso,

54 Lombardi Satriani L. M. 1989, p. 82.

- 115 -
Figg. 42-43. Luoghi e modi della socilità maschile

- 116 -
la socialità maschile si esercitava in luoghi determinati, in spazi chiusi de-
putati e preposti ai momenti d’incontro e di riunione. Territorio esclusiva-
mente maschile erano, ad esempio, le associazioni sportive, il Circolo del
Dopolavoro Comunale, le federazioni politiche e le sezioni di partito55. La
scelta di questi luoghi avveniva sulla base dell’aggregazione di classe, oppu-
re su quella politica o religiosa. L’appartenenza alla stessa categoria sociale
(ceto borghese, artigiano, classe contadina), la comune militanza politica, o
l’adesione a una delle Congreghe favorivano il ritrovarsi nei medesimi spa-
zi, in tal modo rigidamente definiti e strutturati.
Accanto a questi, esistevano in paese luoghi per così dire liquidi, fluidi
della socialità maschile; spazi – cioè – non gerarchizzati, in cui interagivano
uomini di eterogenea estrazione sociale e di differente età e dove la scelta di
frequentazione era fatta sulla scorta di fattori contingenti, quali ad esempio
la vicinanza territoriale. In particolare, i catòja adibiti a cantine o a botte-
ghe artigiane – e negli anni più recenti i bar – si configuravano come luogo
dell’aggregazione maschile e come spazio sociale del riposo, della pausa e
della sospensione dalla tensione del lavoro. In questi luoghi ci si riuniva per
discutere dell’annata agricola e della campagna, per parlare della caccia e
dibattere di politica, per commentare i fatti e i problemi del paese, per rac-
contarne le vicende passate e condividerne la memoria. Nelle bettole e nei
bar si beveva, talvolta si mangiava, soprattutto si giocava a carte. Qui i le-
gami tra i giocatori e le scelte di gruppo riproponevano e ribadivano le
competitività, le conflittualità e le tensioni private, nello sforzo comune –
tuttavia – di mettersi in relazione gli uni con gli altri. Qui si veicolava l’in-
formazione maschile, si articolavano le dinamiche di inclusione o esclusio-
ne sociale, trovavano espressione le schermaglie, i lazzi e le ironie tra i
gruppi presenti, si coniavano i soprannomi56. E qui avvenivano l’iniziazione

55 Diverse le associazioni politiche che si sono succedute a Badolato nel corso dei decenni. Nel 1897 nac-
que il Circolo Socialista; nel 1921 venne fondata la sezione del Partito Comunista Italiano; nel 1924 quella del
Partito Nazionale Fascista; nel 1946 la sezione del Partito Repubblicano Italiano.
56 Cfr. Minicuci M. 1981. La coniazione dei soprannomi all’interno delle società tradizionali, come hanno
evidenziato alcuni studi antropologici, è attività di orientamento simbolico nello spazio, articola le forme
dell’iscrizione spaziale della comunità in un dato territorio, designa gli uomini in riferimento allo spazio in cui
essi sono geograficamente situati. Per Françoise Zonabend, ad esempio, i soprannomi – come i nomi e i patroni-
mici (in un villaggio rurale francese) – servono da supporto per la memoria della comunità, ricordano i compor-
tamenti degli individui e le abitudini delle famiglie, rendono più viva e collettivamente partecipata la storia dei
rapporti sociali. “Il soprannome – scrive la studiosa – è un segno che serve ad organizzare cognitivamente gli in-
dividui; esso informa sui comportamenti e sulle abitudini di ciascuno, e, allo stesso tempo, fornisce dati sulle for-
me di sensibilità e sui valori del gruppo. […] Al contrario del patronimico e, in parte, del nome, che restano di
competenza del parentado, il soprannome spetta alla comunità: esso è lasciato alla libera creatività del gruppo

- 117 -
e l’integrazione dei giovani e degli adolescenti nel mondo degli adulti, di
cui apprendevano gli schemi di comportamento, i modi di parlare e di ge-
sticolare, le modalità di esplicazione delle proprie funzioni sociali. Cantine,
bettole e bar si configuravano dunque come spazio di inculturazione e tra-
smissione di valori dell’universo maschile.

III. 2. Suddivisione dello spazio, identità territoriale e identità religiosa

La riaffermazione delle differenti identità di genere e di classe, sin qui


delineate, nonché l’articolazione e la suddivisione dello spazio paesano per
ambiti di appartenenza territoriale trovavano espressione e risoluzione an-
che sul piano religioso, come già accennato. Le celebrazioni delle proces-
sioni e dei riti, di cui si facevano carico le tre confraternite del paese (tutto-
ra operanti), diventavano importante e ulteriore testimonianza della pre-
senza maschile sul territorio. I membri delle congreghe, infatti, erano esclu-
sivamente uomini e a loro spettava la funzione di comando nella pianifica-
zione e conduzione delle feste religiose e di altri momenti rituali. Dall’orga-
nizzazione del cordoglio (assistenza alle famiglie dei defunti, veglie funebri,
trasporto delle salme) ai riti della Settimana Santa, dal Corpus Domini alla
celebrazione dell’Assunta (15 agosto), dalla festa patronale in onore di San-
t’Andrea Avellino (10 novembre) a quella dell’Immacolata Concezione (8
dicembre), l’attività dei confratelli scandiva – e in larga parte scandisce an-
cora – la vita religiosa e il calendario liturgico di Badolato affermando, su
tutto il territorio, il dominio maschile sulla società femminile.
La religiosità maschile si esprimeva in forme pubbliche, quella fem-
minile era confinata alle forme private (come le recite serali del Rosario che
riunivano le donne del vicinato) e alla frequentazione delle chiese per assi-
stere alle messe e alle novene. Ancora oggi, sono gli uomini che ricoprono i
principali ruoli nelle sacre rappresentazioni; che conducono in processione
le statue di Cristo, della Madonna e dei Santi; che procedono con gli sten-

sociale. […] Ma, mentre afferma le differenze, il gruppo enuncia l’assenza di gerarchia, […] il soprannome aboli-
sce le differenze sociali e, al contrario del nome e del cognome, non definisce una posizione sociale, ma segna un
posto nell’ambito della comunità. […] Con la lingua specifica costituita dai soprannomi si colgono alcune stratifi-
cazioni attorno alle quali si organizza la comunità locale” (Zonabend F. 1996, pp. 255-257). Per la studiosa, cui fa
eco La Cecla, le operazioni onomastiche e la mappa dei soprannomi che una cultura dell’abitare dà ai suoi abitanti
sono un riflesso della mappa dei toponimi assegnati allo spazio: “denominazioni toponimiche e denominazioni
individuali sortiscono da un medesimo sistema e […] c’è somiglianza tra categorie spaziali e categorie nominali.
[…] c’è continuità tra nomi dello spazio e denominazioni della società” (Ivi, p. 263). Cfr. La Cecla 2007, p. 50-53.

- 118 -
dardi delle diverse compagnie religiose; che eseguono i canti durante i cor-
tei processionali, di cui annunciano il passaggio con il suono dei tamburi. La
partecipazione delle donne ai vari appuntamenti liturgici è invece margina-
le, passiva. Esse prendono parte ai riti come spettatrici, assistono alle mani-
festazioni ma non ne sono – tranne qualche eccezione – coinvolte attiva-
mente in qualità di protagoniste: gremiscono i luoghi di culto durante le
funzioni o affollano il corteo dei fedeli nelle processioni, seguendo però a
una certa distanza l’articolata successione rituale degli officianti uomini.
Oltre che come veicolo delle identità di genere, l’istituzione delle va-
rie congregazioni ha storicamente agito quale elemento di separazione e di
riconciliazione sul piano spaziale, sociale, culturale, religioso. L’adesione a
esse era ed è tuttora subordinata a legami di appartenenza territoriale non-
ché a vincoli di parentela, a sistemi di alleanza, a rapporti tra gruppi di po-
tere. Le congreghe badolatesi, sorte in tre delle principali chiese del paese,
hanno anzitutto instaurato una partizione spaziale degli ambiti di compe-
tenza. La Confraternita del Santissimo Rosario (istituita nel 1636 con sede
nella chiesa di San Domenico), quelle dell’Immacolata Concezione (già pre-
sente nel 1736) e di Santa Caterina Vergine e Martire d’Alessandria (risa-
lente al 1782) – facenti capo alle omonime chiese – dividono infatti lo spa-
zio urbano in tre distinte unità di luogo, collocandosi rispettivamente nei
settori ovest, est e nord dell’abitato. Il forte senso di appartenenza a una
congregazione piuttosto che a un’altra ha concorso ad affermare un correla-
tivo senso di appartenenza ai singoli rioni di loro specifica inerenza – prima
ancora che alla comunità nel suo insieme – e ha agito come una vera e pro-
pria marca dell’identità territoriale57.
I conflitti tra le compagnie religiose e le contese durante l’esecuzione
dei riti possono anzi essere letti proprio come l’esito di questa ripartizione
del territorio. La percezione dello spazio e il sentimento dei luoghi hanno
operato quali elementi di coesione e riconoscimento tra i vari confratelli,
contribuendo a creare identità di gruppo e – al contempo – un senso di e-
straneità e rivalità verso coloro che di esso non fanno parte, oggetto perciò
di possibili derisioni. Ancora adesso, i badolatesi si sentono membri di una
confraternita, marcano le differenze con le altre, alle quali si riferiscono in
maniera spregiativa o sarcastica e con cui talora instaurano rapporti di osti-
lità. Gli stessi appellativi con cui le tre congreghe sono popolarmente con-
57 Per una disamina circa il ruolo religioso, sociale, culturale delle confraternite nelle comunità calabresi,
anche con riferimento a Badolato, vedi Teti V. 2002b; Id. 1989, pp. 5-26. Su altro contesto cfr. Torre A. 2011.

- 119 -
notate testimoniano di questo processo di differenziazione e di “svalutazio-
ne”. I membri della Confraternita del SS.mo Rosario, infatti, sono definiti
corvi neri, per via del mantello nero che indossano; quelli di Santa Caterina
sono detti paparinàri, da papaveri (per il rosso della mantellina che richia-
ma il martirio subito dalla loro matrona); quelli dell’Immacolata, con manto
azzurro, sono infine indicati come pittehṛàri (da pittèhṛi, le pale di ficodin-
dia di cui è ricca la loro zona).
L’adesione ai gruppi confraternali, specie in passato, era anche il ri-
flesso delle stratificazioni sociali. Nella Congrega dell’Immacolata, ad esem-
pio, confluivano maggiormente contadini e pastori mentre di quella di San-
ta Caterina o del SS.mo Rosario facevano perlopiù parte esponenti del ceto
borghese. Tuttavia, il seggio priorale di ogni compagnia (con gli annessi in-
carichi di segreteria e di tesoreria) era normalmente composto da membri
dell’aristocrazia e delle baronie locali che, spesso in lotta fra loro, esercita-
vano egemonia sul territorio di propria competenza e condizionavano lo
svolgimento della vita religiosa, sociale e culturale della comunità. I conflit-
ti – reali o rituali – e i contrasti, anche violenti, tra le famiglie borghesi per
il prestigio sociale oltreché per il potere economico e politico-amministrati-
vo, dunque, si riflettevano – e trovavano codificata espressione e simbolica
rappresentazione – in quelli fra le congregazioni.

III. 2. 1. Le forme dell’identità religiosa: la Settimana Santa

In particolare, l’articolazione dei riti della Settimana Santa 58 – che an-


cora oggi rappresenta il polo principale nei processi di costruzione identita-
ria di Badolato – ricalca questa partizione del territorio per ambiti di appar-
tenenza e rimanda alle competitività e alle conflittualità presenti nel tessuto
sociale nonché alla loro metastorica risoluzione. La celebrazione della Pa-
squa, come di altre feste religiose nel corso dell’anno, è scandita da una di-
visione dei compiti tra le diverse compagnie religiose e prevede la loro par-
tecipazione singolarmente o in simultanea. I riti del lunedì, martedì e mer-

58 Sui riti della Pasqua a Badolato si vedano Caporale N. 1980; Teti V. 2002b, pp. 65-87; Cossari P. 2003,
pp. 52-73; Santagati V. 2007; Chirico F. 2008; Muià 2011. Per un più organico studio della Settimana Santa in
Calabria si rimanda ai decisivi Faeta F., Ricci A. (a cura di) 2007; Teti V. 2003, “Rito, festa, teatro. Etnografie del-
le forme teatro e del rito-spettacolo in Calabria”, in Costantino V., Fanelli C. (a cura di) 2003, Teatro in Calabria
1870-1970. Drammaturgie Repertori Compagnie, Vibo Valentia, Monteleone, pp. 211-280. Vedi anche Alvaro C.
1925, pp. 121-127; Angarano F. A. 1973, pp. 311-321; Lombardi Satriani L. M. 1989, pp. 73-76; Bellio A. 2010.

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Fig. 44. Giovedì Santo 2011. Coena Domini

Fig. 45. Venerdì Santo 2011. Via Crucis

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coledì sono gestiti separatamente dai tre gruppi confraternali, che a turno
fanno visita ai Santissimi Sepolcri allestiti nella chiesa Matrice, mentre nel-
le giornate del venerdì, del sabato e della domenica vi è la compartecipa-
zione di due congregazioni per volta.
Nelle funzioni in comune si assiste ad una rigida suddivisione dello
spazio paesano per territori di pertinenza. Nella processione della Madonna
Addolorata, che si tiene il venerdì pomeriggio, la Confraternita del SS.mo
Rosario muove dalla propria chiesa con la statua di Maria e percorre tutto il
corso comunale da ovest verso est raggiungendo la chiesa dell’Immacolata,
con il consenso dei congregati di quest’ultima; quindi percorre il versante
nord-est dell’abitato, si immette sulla via provinciale e, salendo per una ri-
pida strada a gradoni (petta), raggiunge il monastero di Santa Maria degli
Angeli, dove gli officianti consumano uno spuntino a base di pane, provola,
vino e cuzzùpe (dolci rituali con dentro uova, simboli di vita risorgente). Al
ritorno dal convento, i corvi neri si arrestano sul ponte del fiume Granèli,
dove subentrano i confratelli di Santa Caterina. L’usanza del cambio a Gra-
nèli – che si ripete nelle manifestazioni processionali più significative della
comunità – rimanda ai contrasti tra i reggenti delle varie congreghe, i quali
consentono il passaggio dei cortei sul loro territorio a patto che siano le ri-
spettive confraternite a guidarlo. In tal modo il ponte – ideale collegamento
tra il monastero in posizione isolata e il borgo abitato – si configura come
un luogo ad alta densità simbolica, come una zona franca, un punto di dis-
solvenza delle ostilità in cui è possibile l’incontro tra i diversi gruppi con-
fraternali, ciascuno dei quali riprende poi pieno possesso della propria area
di giurisdizione. Dopo aver percorso strade e vicoli del proprio territorio, i
paparinàri riconsegnano la statua dell’Addolorata ai congregati del SS.mo
Rosario, che concludono il rito facendo ritorno alla loro sede.
La Processione dei Misteri Dolorosi del Sabato Santo – curata e gestita
dalla Confraternita dell’Immacolata – muove dalla loro chiesa con inizio al-
le ore 13:00 e prevede la partecipazione, in funzione subordinata, della
Congrega di Santa Caterina. L’itinerario della processione istituisce punti di
cesura tra i domini spaziali delle due compagnie coinvolte, ognuna delle
quali s’impegna a percorrere, proteggere e sacralizzare in maniera particola-
re il territorio di relativa pertinenza e le zone in cui prevalentemente abita-
no i propri congregati. Principalmente i pittehṛàri, esautorati ed estromessi
dal rito della Cumprùnta del giorno successivo, celebrano il proprio orgo-
glio di appartenenza confraternale in questa giornata. Essi guidano la fun-

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Figg. 46-49. Venerdì Santo 2011. Processione della Madonna Addolorata

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zione per lunghi tratti; molti dei suoi membri, durante il cammino, fanno
sosta nei catòja di familiari, parenti, amici che li ristorano offrendo loro ci-
bo, acqua e soprattutto vino. I fratelli di Santa Caterina partecipano invece
al rito con un peso minore: subentrano come di consueto presso il ponte di
Granèli e fino all’arrivo nella propria sede ma lasciano a quelli dell’Im-
macolata la conclusione della cerimonia, che avviene in tarda serata nella
loro chiesa. Gli officianti, fatta eccezione per i soldati romani, dismettono
quindi i loro panni e si recano alla chiesa matrice del SS. Salvatore per assi-
stere alla Rivelazione di Cristo e alla benedizione dell’acqua e del fuoco.
Al di là degli aspetti sottolineati, la funzione si configura innanzitutto
come rito altamente spettacolare di auto-rappresentazione identitaria della
collettività badolatese. Se le altre celebrazioni liturgiche della Settimana
Santa si configurano come riti interni alla comunità, quasi intimi, privati –
ad esempio la benedizione delle Palme, le visite ai Sepolcri, la Coena Domi-
ni del giovedì sera (con la distribuzione rituale ai fedeli di una ciambella di
pane benedetto, a cuccehṛàta) o la Via Crucis che si svolge all’alba del ve-
nerdì ad opera di un piccolo gruppo di congregati di Santa Caterina e del
SS.mo Rosario – al contrario, la Processione dei Misteri Dolorosi (come pu-
re la Cumprùnta) è una cerimonia pubblica. In essa è il paese intero che ce-
lebra se stesso, offrendosi allo sguardo di una copiosa folla di fedeli, studiosi,
turisti che assiste alle interpretazioni degli oltre 200 figuranti coinvolti.
Il lunghissimo corteo è aperto da un tamburinàro che col suono cupo
del suo strumento scandisce l’incedere dei partecipanti. Gli vanno dietro al-
cuni cantori delle confraternite che, disponendosi in circolo nelle soste du-
rante il cammino, eseguono canti della pietà popolare improntati alla mesti-
zia per la morte del Signore59. Dietro – scortati da un drappello di legionari
romani comandato da centurioni – procedono due ladroni scalzi, con catene
ai piedi e un tronco legato su collo e braccia. Ancora oltre – gravato dal tra-
sporto della pesante croce in legno – incede Cristo, accerchiato da otto Giu-
dei che lo ingiuriano e lo percuotono tenendolo legato alle funi. I tre attori
che si alternano nella parte di Gesù e quelli dei due ladroni hanno il volto
coperto da una parrucca, dovendo la loro identità restare segreta. Disposti
su due file parallele seguono poi gli oltre 70 penitenti incappucciati, sia
uomini che donne, noti come disciplinàri (dal nome delle placchette metal-

59 I canti, in dialetto e in italiano, eseguiti a Badolato durante la Settimana Santa sono stati raccolti in un
volumetto su interessamento delle tre confraternite del paese. Si veda Rudi P., Scoppa A. (a cura di) 1990. Per un
più ampio quadro circa il paesaggio sonoro della Pasqua in Calabria si vedano Ricci A. 2007b; Tucci R. 2007.

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Figg. 50-55. Sabato Santo 2011. Processione dei Misteri Dolorosi (I disciplinàri)

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Fig. 56. Sabato Santo 2011. Processione dei Misteri Dolorosi (Gesù accerchiato dai Giudei)

Fig. 57. Sabato Santo 2011. Processione dei Misteri Dolorosi (Incontro sul ponte Granèli)

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liche che utilizzano per autoflagellarsi, dette appunto disciplìne). Essi par-
tecipano al rito per voto perciò anche la loro identità rimane anonima e il
percorso di espiazione di cui sono protagonisti assume valenza collettiva. Al
centro del corteo, accompagnati dagli alabardieri, vi sono i portantini della
varètta di Cristo deposto e della statua dell’Addolorata, quindi altri cantori
e le addoloratine (bambine con mantello nero della Madre Dolorosa)60.
I contrasti e le suddivisioni territoriali statuiti nelle funzioni proces-
sionali trovano esemplare manifestazione nel rito della Cumprùnta. L’in-
contro tra il Cristo risorto e la Madonna – che si svolge la domenica di Pa-
squa a cura della compagnia del SS.mo Rosario – segna il momento di più
acuta conflittualità tra le congreghe e di contestuale risoluzione e reinte-
grazione simbolica. Anticamente, il rito era esclusiva prerogativa della Con-
fraternita dell’Immacolata che lo eseguiva ahṛu chjànu ’e Cozzàla, ricadente
nella propria area di giurisdizione. Tuttavia – secondo quanto tramandato
dalla memoria orale – risultando il sito logisticamente poco adatto alla rap-
presentazione dell’avvenimento, i pittehṛàri avrebbero chiesto ai fratelli del
SS.mo Rosario il permesso di poterla realizzare nel loro territorio e questi,
acconsentendo, avrebbero ottenuto il diritto di utilizzare la statua della loro
Madonna al posto di quella dell’altra congrega. Dopo qualche anno, dietro
pagamento di una cifra irrisoria, i corvi neri avrebbero persino rilevato la
statua del Cristo risorto, spodestando di fatto la Confraternita dell’Immaco-
lata dalla cerimonia ed escludendola completamente dall’esecuzione del ri-
to. L’episodio – all’origine dell’accesa rivalità e conflittualità tra le due con-
greghe – trova espressione rituale ancora oggi nella solenne scansione della
festa. I pittehṛàri, infatti – derisi e accusati di aver svenduto la statua di Ge-
sù per un quarto di scatapòzzala (fichi secchi di scarsa qualità) e così privati
di autorità e prestigio – minacciano di vendicarsi nascondendo nei pressi
della funtàna ’e Jàpacu la loro statua della Vergine e di eseguire lì – nella lo-
ro zona, e a sorpresa – a Cumprùnta. Per questo motivo, la domenica di Pa-
squa, i congregati del SS.mo Rosario – dovendo scongiurare la paventata ri-
torsione – perlustrano con attenzione il luogo sospettato e percorrono con
angoscia e in un clima di tensione il territorio della confraternita rivale61.
Lo svolgimento della cerimonia prevede una serie di altri ostacoli ri-
tuali e di prove di abilità che caricano di pathos l’atmosfera e che recano
ancora testimonianza degli antagonismi tra le congregazioni. La funzione
60 Sulle addoloratine e sui misteri collettivi del Sabato Santo si veda il dattiloscritto di Chirico F. 2008.
61 Cfr. Cossari P. 2003, p. 68.

- 130 -
ha inizio alle ore 10:00 quando i fratelli del SS.mo Rosario escono dalla loro
chiesa e – sotto un imponente palio retto da sei portantini – conducono in
trionfo per le vie del paese la statua del Salvatore, accompagnati dal loro
bianco vessillo e da quello rosso della Confraternita di Santa Caterina. I
congregati, preceduti dai suoni a festa di quattro tamburinàri, giungono in
piazza Castello. Qui lo stendardo bianco, dopo tre rapidi inchini al Cristo
resuscitato, corre in direzione del monastero di Santa Maria degli Angeli al-
l’inseguimento di uno dei tamburini. Il resto del corteo, invece, s’inoltra nel
centro storico e fa sosta nella chiesa di Santa Caterina. Quando dal conven-
to i confratelli scorgono la statua di Gesù, che nel frattempo ha ripreso la
sua marcia, ripartono all’inseguimento del tamburino. La corsa è tutta rivol-
ta ad acquisire il diritto di prelazione nell’annunciare alla Madonna la risur-
rezione del figlio. I conduttori dello stendardo, perciò, devono mostrarsi più
veloci del tamburinàro e, qualora riescano a raggiungerlo, possono sfondare
il suo tamburo e appenderlo come trofeo sulla cima fiorita del proprio laba-
ro. Al termine della competizione rituale, i congregati si ricongiungono al
resto della processione che percorre le aree della Jusutèrra e risale verso la
chiesa del SS.mo Salvatore, dove il parroco officia la sacra liturgia di Pasqua.
Alle 12:45 circa, ultimata la funzione, riparte il corteo: per sette volte
lo stendardo bianco percorre il tragitto che separa la Madonna vestita a lut-
to – allogata nei pressi della chiesa di San Domenico – dal Figlio, che le vie-
ne incontro muovendo dalla chiesa Matrice. Per tre volte, poi, fa la spola tra
le due statue annunciando l’avvenuta Resurrezione. Solo quando l’annun-
ciazione è confermata dallo stendardo rosso di Santa Caterina – che rappre-
senta l’Apostolo Giovanni – la Madre Addolorata, dapprima incredula, parte
all’ansante ricerca del figlio. Quando la Madonna e il Cristo risorto riescono
a scorgersi in lontananza, si scambiano simultaneamente tre inchini; quindi
accelerano il passo e, in un tripudio di gioia, corrono l’una incontro all’al-
tro. Nella trepidazione della corsa, un congregato del SS.mo Rosario, con e-
strema destrezza e rapidità, sfila alla Vergine il mantello nero simbolo del
lutto facendola di colpo apparire nello sfavillante bianco della sua veste di
gala. Tra la commozione e gli applausi degli spettatori che affollano piazza
Santa Barbara, dove ha luogo l’incontro, viene quindi eseguito il “ballo degli
stendardi”: al ritmo fragoroso e convulso dei tamburi, due confratelli ten-
gono in equilibrio – ritti sopra il mento e i denti – le aste delle loro insegne,
alte circa tre metri, e, dando prova di straordinaria abilità e forza, eseguono
la devozionale danza in onore di Gesù e Maria.

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Figg. 58-62. Domenica di Pasqua 2011. A Cumprùnta

Figg. 63-64. Domenica di Pasqua 2011. Il ballo degli stendardi

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I riti della Settimana Santa rappresentano un delicato periodo di pas-
saggio nell’arco dell’anno, in cui entrano in gioco elementi cruciali della re-
altà culturale del paese. Ineriscono tutti gli aspetti della vita della comunità
e ne condizionano la mentalità; si configurano come luogo di affermazione
e costruzione dell’identità territoriale, sociale, religiosa. La felice conclusio-
ne delle cerimonie pasquali è accolta dai fedeli badolatesi come momento
liberatorio. La tensione emotiva accumulata nel corso dei giorni precedenti,
le separazioni e i conflitti messi in scena nelle diverse funzioni trovano fi-
nalmente piena e appagante risoluzione. Le prove sostenute e superate nel
rito della Cumprùnta – l’inseguimento del tamburino, la svelatura della
Madonna, il ballo degli stendardi – hanno perciò valenza catartica. Rappre-
sentano un fondamentale polo espressivo e simbolico in cui la comunità ri-
trova se stessa, vincendo lacerazioni e contrasti interni e mostrandosi com-
patta allo sguardo esterno.
Le partizioni e le suddivisioni dello spazio paesano per ambiti di ap-
partenenza territoriale, di cui abbiamo discusso, conducono a contrapposi-
zioni tra fazioni, gruppi di potere, confraternite e sono il riflesso delle ten-
sioni presenti all’interno della società; ma proprio perché si estrinsecano e
trovano manifestazione a livello rituale, queste tensioni finiscono per agire
quali elementi di riaffermazione di unità e coesione interne. La riorganizza-
zione simbolica dello spazio, operata tramite le processioni, sospende il fra-
zionamento, reale o ideale, del paese; consente di risolvere sul piano meta-
storico le conflittualità tra i diversi gruppi per il controllo del territorio,
permettendo di incanalarle entro forme ritualizzate di espressione. Le fun-
zioni liturgiche e i culti della Settimana Santa affermano le differenti iden-
tità di gruppo ma agiscono anche a livello collettivo. “L’esultanza per la riu-
scita del rito – scrive Vito Teti – si coniuga con l’orgoglio di appartenere a
un’istituzione che organizza e gestisce un evento fondante e significativo
per l’intera comunità”62. Ogni confraternita insegue il proprio prestigio e si
contrappone alle altre rivaleggiando in autorità e abilità (nell’organizzazio-
ne e gestione dei cerimoniali, nella loro corretta scansione rituale, nell’ese-
cuzione dei canti) ma tutte, infine, concorrono al buon esito della festa.
Tutte cercano di scongiurare la cattiva riuscita dei riti, foriera di sciagure
per la collettività. L’orgoglio di appartenenza confraternale confluisce così
nel senso di appartenenza alla comunità, di cui si ricompone l’unità.

62 Teti V. 2002b, p. 85.

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Capitolo IV

LE FASI E I MODI DELL’ABBANDONO

Ce ne andiamo.
Ce ne andiamo via.
Vigna vigna
fiumara fiumara.
Dai paesi
più vecchi più stanchi
in cima
al levante delle disgrazie.
Usciamo dai bassi terranei
dal sudario dei loro trappeti
dai palmenti della vendemmia
profondi a lume di candela
e senza respirazione.
Noi ce ne siamo già andati
dai catoj
dagli stretti orizzonti

Franco Costabile, La rosa nel bicchiere

Accanto ad epifenomeni di natura storico-geografica (calamità natura-


li, guerre, pestilenze) o socio-economica (crisi del sistema produttivo, emi-
grazione, alterazione della struttura sociale), l’abbandono è una delle moda-
lità attraverso cui si produce spopolamento; ha costituito e costituisce anzi –
da una prospettiva di analisi antropologica – la più significativa espressione
di spopolamento, di depauperamento culturale, di lacerazione e polverizza-
zione delle identità, di declino economico di paesi, città, aree geografiche. I
due termini – spopolamento e abbandono, strettamente correlati – sono sta-
ti talora sovrapposti e utilizzati come sinonimi, con il rischio di ingenerare
confusione e fraintendimenti. Occorre perciò chiarire il significato dei due
vocaboli e precisarne l’impiego che, in questa sede, ne viene fatto. Possiamo
definire lo spopolamento come una marcata contrazione della popolazione
di una regione, ossia come il risultato dell’abbandono (volontario o coatto)
di determinate zone da parte dei suoi abitanti. Tuttavia per spopolamento
dobbiamo intendere anche un’involuzione non necessariamente provocata
dall’abbandono dei luoghi. Esso, infatti, può configurarsi come conseguenza
del ridotto incremento naturale determinato, ad esempio, dal progressivo
invecchiamento della popolazione e dal calo delle nascite. Il termine spopo-
lamento designa dunque un processo di tipo prettamente demografico, pro-

- 136 -
dotto dal convergere di molteplici fattori all’interno di una data società e
registra, in una mera ottica quantitativa e statistica, un decremento di abi-
tanti (avvenuto o in atto) in una definita congiuntura spazio-temporale.
L’abbandono, invece, trascende la dimensione quantitativa e suggeri-
sce, sin dalla sua radice etimologica, un approccio di tipo qualitativo al pro-
blema. Il termine deriva dall’antico francese a bandon, locuzione che rinvia
all’idea di “mettere al bando”, “vendere al bando”, “disertare la bandiera”,
da cui scaturiscono quelle di “lasciare senza aiuto e protezione”, “lasciare al-
la mercé o in balìa di se stesso”, “dare in libero uso”, “trascurare”, “mettere
fuori di mano”. Abbandonare la casa, mettere al bando un luogo, bandire o
disertare un paese racchiude in sé laceranti travagli psicologici; è – come ha
scritto Vito Teti – un gesto “carico di emotività e denso di sacralità”1: signi-
fica mettere in discussione le radici della propria appartenenza territoriale e
della propria identità culturale; equivale ad allentare, rifiutare o recidere i
legami col proprio universo di riferimento; può voler dire interrompere,
volutamente o perché costretti, quelle pratiche dell’abitare come aver-cura
delineate nel secondo capitolo. L’abbandono di un sito – che può essere
parziale o totale, temporaneo o definitivo, repentino oppure effetto di de-
flussi continui e prolungati – è sempre frutto di una scelta, di una separa-
zione; certamente sofferta, contrastata ma pur sempre operata cosciente-
mente. Come tale presuppone la consapevolezza dell’atto da parte degli at-
tori sociali coinvolti e, in quanto scelta, esula da un quadro puramente nu-
merico e rinvia a fattori che possiamo dire di tipo culturale. In questa sede
definiremo allora l’abbandono come la forma culturale dello spopolamento.
Il rapporto di stretta interdipendenza tra i due fenomeni è stato ripe-
tutamente ribadito dalla letteratura teorica di riferimento. In una prospetti-
va di lunga durata, gli studiosi delle discipline sociali (storici, geografi, an-
tropologi) ma anche architetti e archeologi hanno infatti posto lo spopola-
mento in connessione all’abbandono dei paesi, agli spostamenti di abitati,
alla creazione di nuovi insediamenti2.

1
Teti V. 2007a, p. 154.
2 Si deve in particolare alla storiografia economica francese inaugurata da Fernand Braudel e alla ricerca
sui villages désertés un interessamento organico e capillare alle tematiche dell’abbandono in età medievale e mo-
derna. Per un quadro di lunga durata relativo al contesto europeo, e francese in particolare, si veda Villages déser-
tés et histoire économique XIᵉ - XVIIIᵉ siècle 1965, Paris, S.E.V.P.E.N.; mentre con specifico riferimento all’Italia
e al Meridione si rimanda a Migliorini E. 1951, “Per uno studio geografico delle località abbandonate dall’uomo
in Italia”, in «Atti del XV Congresso geografico italiano» 1951, Torino 11-16 aprile 1950, (a cura di C. F. Cappello),
vol. I, Torino, I.T.E.R.; Klapisch-Zuber C., Day J. 1965; Klapisch-Zuber C. 1975; Bussi R. 1980, Popolamento e
villaggi abbandonati in Italia tra Medioevo ed età moderna, Firenze, La Nuove Italia; Caridi G. 2001, pp. 43-59.

- 137 -
Lo spopolamento è un fenomeno che ha riguardato e che riguarda va-
ste aree dell’Europa e del Mediterraneo. Situazioni di indebolimento e tal-
volta di vero e proprio malessere demografico – soprattutto in contesti rura-
li e nelle aree interne – sono stati registrati e sono tuttora in atto in Grecia;
nella penisola iberica; nelle Alpi svizzere, francesi e italiane; nell’Appenni-
no dell’Italia centrale; nelle regioni del Mezzogiorno continentale; nelle
isole3. In Calabria, per molteplici ragioni storiche, geografiche, economiche,
il processo di abbandono – con conseguente spopolamento, talvolta anche
di intere aree insediate – ha assunto forme e dimensioni più articolate,
complesse e generalizzate che altrove, tanto da diventare una vera e propria
struttura mentale, un fattore endemico, un elemento costitutivo e caratte-
rizzante il senso dei luoghi e il sentimento dell’abitare dei calabresi4.

L’abbandono del paese, dell’abitato, del villaggio, della casa – scrive ancora
Teti – […] ha molto da dirci sul senso di precarietà, sull’instabilità, sulla mobilità,
sulla melanconia delle popolazioni. C’è nel sottofondo della memoria e della psico-
logia delle persone una storia di abbandoni, la paura e il terrore, il desiderio e la spe-
ranza di abbandonare il luogo. Questi fenomeni […] hanno concorso alla costruzio-
ne di una peculiare mentalità delle popolazioni che nell’abbandono scorgono non
già un evento eccezionale, ma un evento sempre possibile, quasi un fatto inevitabile,

3 Storia e geografia, antropologia e sociologia hanno fornito negli ultimi decenni molteplici apporti allo
studio delle dinamiche demografiche e ai processi di abbandono e spopolamento in atto in Europa e nell’area me-
diterranea, in particolare relativamente ai contesti rurali e alle zone interne della collina e della montagna. Per
l’elaborazione di una geoantropologia dell’abbandono e dello spopolamento si rimanda ai decisivi contributi di
Teti V. 2007a; Id. 2007b; Id. 2011a; Id. 2011b. Vanno in questa direzione anche gli studi sul malessere demografi-
co della Spagna rurale ad opera di Acín Fanlo J. L., Pinilla Navarro V. (a cura di) 2000, Pueblos Abandonados. Un
mundo Perdido, Zaragoza, Edizions de l’Astral; Acín J. L., Collantes F., Pinilla V., Saéz L. A. 2007. O quelli sulla
catena alpina, per i quali si rimanda, tra i tanti riferimenti possibili, a Bailey F. G. (edr.) 1971, Gifts and Poison.
The Politics of Reputation, Oxford, Blackwell; Viazzo P. P. 1990, Comunità alpine. Ambiente, popolazione, strut-
tura sociale nelle Alpi dal XVI secolo a oggi, Bologna, Il Mulino; Varotto M., Psenner R. (a cura di) 2003, Spopo-
lamento montano: cause ed effetti, Atti del Convegno di Belluno (13 ottobre 2001) e del Convegno di Innsbruck
(14-16 novembre 2002), Innsbruck, Unipress; Salsa A. 2007; Steinicke E., Cirasuolo L., Čede P. 2007; Gretter A.,
Zucca M. 2007; Marchesoni C. 2007; Camanni E. 2011. Uno sguardo generale ai luoghi in abbandono nel contesto
nazionale è dato da Tarpino A. 2012. Sullo spopolamento in Calabria, pur da prospettive tra loro assai distanti, cfr.
Teti M. A. (a cura di) 2013, di impianto tecnico-urbanistico; Calabrese E. 2006, di taglio demografico; De France-
sco L. 2014; Cirillo A. 2011, da angolazione sociologica. Su altri quadri regionali si vedano, a titolo esemplificati-
vo,Tiragallo F. 2008, Damari C. 2011, Milanese M. 2011, sulla Sardegna; Marchesano L. 2011, sul Piemonte; Cer-
via S. 2011, sulla Toscana; Spitilli G. 2011, sull’Abruzzo. Cfr. le testimonianze di scrittori come Arminio F. 2011,
sui paesi dell’Irpinia e dell’area lucana; Corona M. 2009, sull’abbandono e lo svuotamento dei paesi del Vajont.
4
Accanto ai citati scritti storico-antropologici di Klapisch-Zuber (1975) e Teti (2007a; 2007b; 2011a;
2011b), importantissimi contributi allo studio dello spopolamento, dell’abbandono dei paesi, del trasferimento di
abitati nel contesto calabrese sono stati forniti dalla geografia, dall’architettura, dall’archeologia. Si vedano, in
quest’ottica, Zanotti-Bianco U. 1954; Marando A. 1955; Id. 1958; Vecchio B. 1989; Tino P. 2002; Mollica E. et al.
1996; Nucifora S. 2001; Colistra D. 2001; Ginex G. 2001; Giovannini M. 2001; Giorgianni G., Sartori C. 1992; Ma-
laspina R. 1992; Cuteri F. A., Iannelli M. T. 2011. Vedi anche Decandia L. 2004, pp. 99-139 e, più recentemente,
Tarpino A. 2012, pp. 193-243.

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comunque un’esperienza nota. Ognuno di noi, intendo ogni persona nata e cresciuta
in Calabria, ha una grande familiarità con luoghi nei quali le storie di abbandono e
di nuove costruzioni sono ricorrenti. Questo senso dell’abbandono, questa consue-
tudine continua a “rimpastare” e “rimpaginare” luoghi hanno segnato la cultura e la
mentalità delle popolazioni […]. L’abbandono è la testimonianza, talora drammatica
e vistosa, altre volte lieve e nemmeno documentata, di quella fuga che costituisce un
tratto decisivo dell’antropologia del calabrese5.

Nel delineare un breve profilo diacronico del fenomeno, Daniele Co-


listra ha individuato quattro fasi cruciali di abbandono dei luoghi in Cala-
bria. La prima intensa epoca di abbandono viene fatta risalire ai secoli I-II
d.C., periodo in cui l’espansione militare di Roma nella regione conduce al-
la diserzione di molti centri costieri magnogreci (soprattutto lungo la fascia
jonica) e al ripiegamento delle popolazioni verso l’entroterra. La seconda
acuta fase di abbandono interessa l’intero arco del XIV secolo – segnato da
guerre, pestilenze, carestie, malaria – in cui si stabilizza il processo di popo-
lamento delle aree interne. Il disastroso terremoto del 1783 viene indicato
invece come l’evento storico che dà avvio alla terza epoca di abbandono dei
luoghi, caratterizzata da una prima rilocalizzazione di alcuni insediamenti
lungo le fasce costiere. Una quarta fase, infine, si registra intorno alla metà
del XX secolo, con la rottura definitiva di equilibri insediativi già da tempo
fragili e il consolidarsi delle dinamiche di ripopolamento delle marine6.
Le cause dei numerosi abbandoni storicamente prodottisi nel contesto
regionale sono estremamente varie, interrelate, sistemiche. Esse possono es-
sere ricondotte e imputate tanto a catastrofi naturali quanto all’azione del-
l’uomo. Anzitutto, si è detto, il quadro insediativo della Calabria è stato de-
finito e condizionato per un verso dal ripetersi di devastanti movimenti tel-
lurici, dalla fragilità del contesto orografico e dall’insalubrità delle aree di
costa; per l’altro dalle invasioni e dalle depredazioni da parte di popoli stra-
nieri. Ne consegue che terremoti, frane, alluvioni, malaria da un lato, incur-
sioni e saccheggi dall’altro sono da annoverare anche tra i principali fattori
che hanno determinato, sin dall’antichità, un accentuato processo di abban-
dono dei luoghi.
Tuttavia, abbiamo detto che l’abbandono è il prodotto di una scelta;
non sempre, perciò, si è registrata la diserzione degli abitati colpiti da cala-
mità naturali o interessati dalle azioni predatorie di genti nemiche. Chri-

5 Teti V. 2011b, p. 41.


6 Cfr. Colistra D. 2001, pp. 42-48.

- 139 -
stiane Klapisch-Zuber, anzi, ha dimostrato che la distruzione a seguito di
disastri naturali o per mano dell’uomo o, ancora, l’allontanamento a seguito
di epidemie (peste, colera, ecc.) raramente impedivano la ricostruzione e il
ripopolamento di un villaggio, laddove non fossero presenti ragioni di ca-
rattere più generale o motivi che rendevano non più sicuro il sito origina-
rio. Per la storica francese, piuttosto, alla base di molti abbandoni in epoca
medievale e post-medievale c’era la ricerca di terre più fertili e una certa
inclinazione all’accentramento urbano che diverrà, come si è visto, uno dei
caratteri originali delle pratiche insediative della regione. La scelta, allora,
di trasmigrare da un sito e di rifondare un paese in un altro punto risponde-
va essenzialmente a ragioni di mobilità economica, produttiva, sociale e, in
seconda battuta, alla percezione di insicurezza dei luoghi7.
Ancora Klapisch-Zuber ha rilevato che già nel XIII secolo l’affermarsi
di un modello agricolo basato sull’allevamento e sulle coltivazioni estensive
– a scapito di quelle intensive – provoca in Calabria, come nel resto del Me-
ridione d’Italia, la diserzione delle campagne e conduce alla creazione di
vasti quanto poco produttivi feudi nonché all’organizzazione della popola-
zione in insediamenti accentrati e al conseguente abbandono di numerosi
piccoli borghi, nati in passato con finalità di controllo e di gestione minuta
dei terreni messi a coltura. Tra Trecento e Quattrocento, le distruzioni per-
petrate da briganti e compagnie di ventura pregiudicano sempre più la sicu-
rezza del territorio, rappresentando un’ulteriore causa di esodo da paesi,
frazioni, contrade, case sparse e alimentando la propensione alla concentra-
zione degli abitati. Nel corso del Cinquecento, inoltre, trova compimento in
Calabria quel processo – già intrapreso nei secoli precedenti, allo scopo di
sfuggire alla malaria e alle incursioni piratesche – di abbandono dei centri
costieri e di arretramento verso le aree interne della collina e della monta-
gna, che avevano conosciuto un loro popolamento sin da epoca protostori-
ca. Altri paesi, distrutti da terremoti e minacciati da frane, vengono a loro
volta abbandonati a favore di siti ritenuti meno esposti ai rischi naturali.
Tra Seicento e Settecento, poi, il Mezzogiorno e la Calabria conoscono nuo-
vi abusi e soprusi da parte di latifondisti e possidenti, che usurpano terreni e
danno origine a proprietà sempre più estese ma sempre meno popolate. Con
la recinzione delle terre feudali e l’interdizione da tali terre di larghe fasce
della popolazione contadina si registra il declino di tentativi di habitat di-

7 Klapisch-Zuber C. 1975, pp. 313-316; Placanica A. 1985.

- 140 -
sperso e di creazione di villaggi diffusi; si affermerà definitivamente, al con-
trario, la tendenza all’accentramento degli insediamenti e l’evolversi delle
dinamiche di abbandono e spopolamento di molti centri rurali8.
Con Sebastiano Nucifora, a questo punto, tentiamo una teoria analiti-
ca dell’abbandono, individuando e isolando le tre cause di carattere genera-
le che hanno storicamente portato alla diserzione dei luoghi in Calabria: “1)
si abbandona un luogo non più considerato sicuro perché esposto agli attac-
chi dei nemici; 2) si abbandona un luogo non più considerato sicuro perché
il sito su cui insiste subisce eventi naturali che ne compromettono la sua
stabilità fisica; 3) si abbandona un luogo perché non più considerato eco-
nomicamente produttivo”9. In stretta attinenza con le cause dell’abbandono
sono anche le forme dell’abbandono:

A volte si parte, a volte si fugge, a volte, per così dire, si è costretti malgrado
tutto ad andarsene. Possiamo dunque parlare di un abbandono lento e di un abban-
dono rapido. […]. Nel caso di un evento traumatico quale un terremoto, un bom-
bardamento o una alluvione violenta, la forma con cui si lascia un posto è quella del-
la fuga rapida: tutto viene perso nel tentativo primario di salvarsi la vita. È un ab-
bandono di massa, forzato in modo diretto dalla fatalità del cataclisma, e investe
principalmente il centro abitato piuttosto che l’intero luogo. L’abbandono lento è
invece legato alla progressiva decadenza politica, economica, sociale e culturale di
un’intera area. La terra non produce più, c’è difficoltà di trovare l’acqua, non c’è più
lavoro, non c’è più scambio di merci e di cultura. La forma più consueta è l’emigra-
zione […]. Si lascia un luogo portandosi dietro tutto quello che si può. In qualche
modo si può parlare di un abbandono voluto o quanto meno più meditato, alla ricer-
ca di migliori condizioni di vita.
[…] Sul luogo precedentemente lasciato si possono verificare due casi: il ri-
torno (abbandono temporaneo) o il non ritorno (abbandono definitivo). Questo
comportamento […] ci spiega se ad entrare in crisi al momento dell’abbandono sia
stato tutto il contesto territoriale o le sole strutture abitative […]. Il ritorno imme-
diato, o in tempi relativamente brevi, indica come, passato il momento traumatico,
risulti ancora conveniente per gli abitanti reinsediarsi in quel luogo. Il caso più em-
blematico è quello dei terremoti che colpiscono zone pienamente vitali e che produ-
cono la distruzione o il danneggiamento dei suoi nuclei abitati. Ad una attenta anali-
si dei danni si sceglierà tra la ricostruzione o la ristrutturazione in sito dell’abitato,
oppure la sua rifondazione, ma in una posizione la più vicina possibile alla preceden-
te, con la possibilità così di non abbandonare le terre coltivate. Al contrario, se al ca-
taclisma segue il non ritorno, è evidente che il terremoto risulta essere solo l’acci-
dentalità scatenante di un processo di abbandono latente, o l’accelerazione di uno

8 Cfr. Klapisch-Zuber C. 1975, pp. 329-364.


9 Nucifora S. 2001, p. 70.

- 141 -
già in atto. Alla comunità, in questo caso, si presentano due alternative: disperdersi
in centri abitati vicini o rifondare, ma questa volta in luoghi più produttivi, il pro-
prio paese10.

La diserzione – circoscritta o completa, provvisoria o definitiva – di


un luogo (ossia non solo di un nucleo abitato ma anche del contesto territo-
riale, economico e produttivo ad esso riferito) viene ricondotta a molteplici
fattori che agiscono come vere e proprie forze centrifughe all’interno di una
comunità. La scelta della fuga, l’atto della partenza sono sempre vissuti con
sentimenti ambivalenti, con dolore e rabbia, rassegnazione, senso di neces-
sità. Talvolta con una sorta di contagio, di effetto trascinamento; come nelle
catene migratorie, ricorda Teti. L’abbandono – motivato dalla ricerca di mi-
gliori condizioni di vita oppure giustificato da ragioni legate all’insicurezza
o, piuttosto, alla percezione di insicurezza dei luoghi – è inevitabilmente
segnato da contrasti, lacerazioni, risentimenti, accuse tra chi decide di par-
tire e chi decide di restare. Spesso è predisposto, accompagnato, legittimato
da narrazioni che ne ratificano l’ineluttabilità: “L’abbandono, in definitiva,
avviene non quando un posto è realmente inabitabile, ma quando è consi-
derato inabitabile, invivibile. Esso ha avuto quasi sempre delle ragioni pra-
tiche, o percepite come tali, ma quasi sempre ha comportato fatica, ha avuto
bisogno di elaborazioni del distacco, come avviene in presenza di un lutto.
L’abbandono ha bisogno di motivazioni che lo rendano accettabile. Ha bi-
sogno di racconti che lo rendano inevitabile, come nel caso di terribili cata-
strofi. E quasi sempre ha una fondazione mitica”11.
Abbandonare il villaggio, lasciare il territorio conosciuto ed esperito
culturalmente, inoltrarsi in un’area ignota, dare vita ad un nuovo insedia-
mento sono atti precari dall’esito a dir poco incerto; sono gesti rischiosi che
possono porre in pericolo l’intera comunità e minarne la presenza. Ritualiz-
zarli, sacralizzarli o legittimarli seguendo un racconto mitico significa sot-
trarli a tale rischio. Nelle vicende storiche della Calabria l’abbandono si è
spesso configurato come fine di un paese e formazione di un paese nuovo. Il
mito di fondazione dell’uno, allora, non è che un mito di abbandono dell’al-
tro: il racconto o la cronaca della fuga, della distruzione, della diserzione di
un abitato coincidono con la narrazione di una sua ricostruzione, in loco o
in altri luoghi. Cirella, nel cosentino; Belforte, nel vibonese; Pentedattilo,

10 Ivi, p. 72.
11 Teti V. 2011b, p. 37.

- 142 -
nel reggino; Cerenzia, nel crotonese – per citare solo alcuni esempi – sono
tutti centri le cui storie di abbandoni e di rifondazioni si associano a male-
dizioni, all’indifferenza o all’intervento di divinità incollerite, all’attacco di
mostri giganti, alla presenza di draghi. Innumerevoli, poi, sarebbero gli e-
sempi di paesi la cui nascita è raccontata in connessione all’apparizione del-
la Madonna, al culto di un Santo, alla traslazione di sacre reliquie12.
In epoca moderna e contemporanea, nuove leggende di fondazione e
storie mitiche di abbandono accompagnano nuove fasi di fuga ed esodo dai
paesi calabresi. In questo periodo, la scarsa fertilità di terreni che non dan-
no più buoni raccolti, la carenza di acqua e le cattive condizioni delle arte-
rie stradali (che determinano l’isolamento e il distacco dai centri di produ-
zione) sono tutti da annoverare tra le cause di un reiterato stato di crisi eco-
nomica, sociale, culturale che spesso sfocia nell’abbandono di nuclei abitati
e che dà avvio allo svuotamento delle aree collinari e montane in direzione
di un lento ripopolamento delle coste, incoraggiato anche dall’estinguersi
del pericolo di invasioni.
A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento e poi nel Novecento le
dinamiche di abbandono si associano al fenomeno dell’emigrazione, ai temi
dell’esodo agricolo e dell’esodo rurale, alla progressiva erosione delle eco-
nomie tradizionali, alla dissoluzione della civiltà contadina, all’imborghesir-
si della popolazione, alla terziarizzazione dei settori produttivi. Inoltre, la
costruzione, tra il 1870 e il 1880, della linea ferroviaria lungo il litorale o-
rientale e la graduale bonifica, sul Tirreno come sullo Jonio, delle aree co-
stiere (con la risolutiva eliminazione dei focolai anofelici) innescano, favo-
riscono, accelerano il processo – già in atto nel XVIII secolo – di discesa e
“riconquista” delle marine, che avrà come singolare esito urbanistico e an-
tropologico lo sdoppiamento di molti paesi dell’interno.
Col grande esodo migratorio di fine Ottocento verso il continente a-
mericano (soprattutto in Canada, negli Stati Uniti, in Argentina) e, più tar-
di, con i flussi verso il centro Europa (Germania, Francia, Svizzera, Belgio,
ecc.) o le regioni del Nord Italia (Piemonte e Lombardia in primo luogo),
12 Su questi aspetti si veda Id. 2000, “Reliquie, sentimento religioso dei luoghi e identità”, in Ceravolo T.,
Teti V. (a cura di) 2000, Reliquie e culto dei santi nella Certosa di Serra S. Bruno, Centro di Antropologie e Lette-
rature del Mediterraneo - Unical – Museo della Certosa, pp. 19-37. Cfr., a titolo esemplificativo, Codispoti R.
2001, sulla fondazione di San Sostene (nel catanzarese) a opera di monaci Basiliani, che unificarono sei casali sotto
l’egida delle reliquie del santo. Sul mito di abbandono di Cirella, attaccata da formiche giganti che mangiano i
suoi abitanti; sulle maledizioni che portano all’abbandono di Pentedattilo e alla distruzione del monastero e del
paese di Belforte; sul mito di fondazione di Cerenzia come sconfitta del drago grazie all’intervento di un santo
(San Teodoro martire, patrono) vedi Teti V. 2007a, rispettivamente alle pp. 543-559; 23-53; 130-132; 489-541.

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paesi, frazioni e villaggi calabresi sperimentano inedite forme di dissipazio-
ne e polverizzazione delle identità. Il paese, inteso come luogo materiale e
simbolico di riconoscimento per i suoi abitanti, smette di essere punto di o-
rientamento geografico e culturale esclusivo, fulcro che organizza e dire-
ziona il proprio esserci nel mondo. Con l’emigrazione si assiste alla scom-
parsa dei punti di riferimento; essa pone di fronte al rischio di perdita della
presenza, a volte diviene espressione della presenza che non si mantiene13.
Con l’apparire del fenomeno si consumano la diaspora, la scissione, la
separazione, il distacco dal centro. L’emigrazione – che è una nuova forma
di abbandono del paese – è l’evento storico in cui hanno luogo la frantuma-
zione del centro, il decentramento, la proliferazione di nuovi centri; si con-
figura come dissoluzione, talora smarrimento in mille luoghi dispersi. Essa
genera angoscia territoriale, spaesamento; impegna in nuovi percorsi di ap-
paesamento nei luoghi di approdo; alimenta sentimenti di nostalgia e me-
lanconia. Con l’emigrazione, il paese totalità – la cui unità sociale non veni-
va mai intaccata pur agendo al suo interno forze centrifughe ed essendo
percorsa da rivalità, separatezze, conflittualità – si scompone, esplode, si
dimezza. Per la prima volta il paese deve fare i conti con il suo doppio, con
la sua ombra e la sua proiezione, con il suo sosia14: “Nasce altrove, fuori del
paesaggio geografico ed esistenziale noto, il paese due come trasferimento,
dispersione, dilatazione, emanazione del paese uno”15. Il paese si disgrega, si
dissolve. E, con esso, l’identità dell’individuo e quella della collettività.
Tuttavia, se l’esodo transoceanico – come hanno evidenziato gli studi
di Fortunata Piselli e Giovanni Arrighi – si reggeva, in realtà, su dinamiche
reattive di cooperazione tra gruppi parentali e amicali nei luoghi di emigra-
zione (in cui, quindi, i legami solidaristici e le relazioni di vicinato finivano
per essere rinsaldati, piuttosto che disgregarsi); e se esso ha quale esito im-
mediato quello di un alleggerimento della pressione demografica dei paesi

13 Sul concetto di crisi della presenza si è già avuto modo, in altro punto del testo, di ricordare i noti e
fondamentali studi di Ernesto de Martino. Si vedano, in particolare, de Martino 2002a; Id. 2005. Esula dall’econo-
mia del nostro studio una trattazione circostanziata circa le cause, le fasi e le forme di emigrazione registratesi in
Italia e in Calabria nel XIX e nel XX secolo. In questa sede ci limitiamo ai rimandi ad alcuni importanti studi di
settore. Per un complessivo inquadramento del fenomeno ed una lettura dell’emigrazione in chiave sia diacronica
che sincronica si veda Bevilacqua P., De Clementi A., Franzina E. (a cura di) 2001-2002, Storia dell’emigrazione
italiana, Roma, Donzelli, 2 voll.; per uno studio dell’emigrazione come causa di nostalgia, di melanconia, di lace-
razione identitaria, come crisi della presenza e spaesamento rinviamo a Frigessi Castelnuovo D., Risso M. 1982, A
mezza parete. Emigrazione, nostalgia, malattia mentale, Torino, Einaudi, 1982.
14 I temi del doppio, dell’ombra, della melanconia come nuclei concettuali di riferimento per l’elaborazio-
ne di una teoria antropologica dell’emigrazione sono al centro di Teti V. 1989, pp. 27-107.
15 Ivi, p. 31.

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(con conseguente riequilibrio nella distribuzione dei beni di consumo e raf-
forzamento del sistema economico)16, è con la seconda ondata migratoria e
le trasformazioni sociali di metà Novecento che si assiste all’irreversibile
decadenza di molte comunità calabresi e alla cancellazione di culture e mo-
delli di vita sedimentati nel tempo.
Secolari sistemi insediativi e abitativi – coi paesi concepiti come cen-
tro di attività produttive legate al lavoro della terra e alla pastorizia, e nei
quali si registrava una fortissima mobilità interna, coi lavoratori che si spo-
stavano quotidianamente verso i campi vicini o risiedevano stagionalmente
presso i grandi appezzamenti a coltura estensiva – entrano definitivamente
in crisi. Vengono erosi alle fondamenta il tradizionale assetto del territorio
e l’economia che di esso era espressione. Nel volgere di pochi decenni ven-
gono invalidati quei saperi agronomici, quelle sedimentazioni materiali e
immateriali nell’organizzazione e nella gestione degli spazi abitativi e pro-
duttivi che hanno costituito per secoli il patrimonio culturale e identitario
della Calabria e delle società tradizionali. Corrado Alvaro, con l’usuale luci-
dità analitica e capacità di penetrazione della sua scrittura, già nel 1926 si
interrogava sulla portata e sugli esiti del fenomeno, e ne coglieva i più sa-
lienti aspetti sociali ed economici:

L’Italia meridionale, e specialmente le regioni meno a contatto coi traffici,


come la Calabria, sta vivendo i suoi ultimi anni di vita tradizionale e antica. Quando
le generazioni nate nella prima metà del secolo scorso saranno scomparse, di molte
tradizioni e modi di vita non rimarranno che labili tracce; già sui treni della costa
industriosa dello Jonio i giovani che sono stati a Torino e a Milano si salutano a col-
pi di ciao e di cerèa, dànno in espressioni lombarde e venete. […] Le voci degli affari
sono già altre, e il vocabolario del dialetto, quasi tutto composto di voci inerenti alla
terra e alla casa, si arricchisce delle parole dell’industria moderna che suonano sulla
vecchia struttura dialettale come colpi d’ascia. Lentamente le genti dei monti scen-

16 Nella loro dettagliata analisi sulle modalità del primo grande esodo migratorio e sulle ripercussioni po-
litiche, economiche e sociali nelle comunità calabresi, i due autori scrivono che solo “il gruppo parentale suffi-
cientemente coeso ed esteso poteva mobilitare sia le risorse materiali necessarie a coprire i costi del viaggio
dell’emigrato, sia l’as-sistenza necessaria al suo inserimento nei luoghi di immigrazione e al sostentamento della
sua famiglia di norma lasciata per periodi relativamente lunghi al paese d’origine. Infatti, se l’emigrazione era di
fatto un elemento di lacerazione del nucleo familiare, i meccanismi di reazione che essa metteva in atto compen-
savano tale frattura e incentivavano e rafforzavano le relazioni parentali soprattutto di collateralità. […] Infine, se
emigravano insieme alcuni vicini di casa o parenti, come succedeva nella maggioranza dei casi, l’emigrazione co-
stituiva un elemento di stabilizzazione e accentuazione delle abitudini comunitarie, dei vincoli di solidarietà già
esistenti o rappresentava l’occasione per crearne di nuovi. L’effetto immediato dell’emigrazione oltreoceanica,
indipendentemente dal ritorno dell’emigrato, era, dunque, il rafforzamento dei rapporti di parentela e di vicinato
nei luoghi di emigrazione e la formazione di «catene di richiamo» nei luoghi di immigrazione” (Piselli F., Arrighi
G. 1985, p. 387).

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dono alla spiaggia del mare, e sul mare deserto le prime officine si specchiano. […] I
monti sono lontani da qui e s’intravedono come luoghi di difesa, con l’aspetto ostile
e muto d’una frontiera di battaglia. […] Si rivelano i paesi coi loro fiocchi di fumo,
le voci disperse, i suoni intermessi, la voce soprana delle campane […]. Ma per poco.
Come al contatto dell’aria le antiche mummie si polverizzano, si polverizzerà così
questa vita di paese. È una civiltà che scompare, sulla quale non v’è da piangere, ma
da cui bisognerebbe trarre il maggior numero di documenti, per memoria17.

Emigrazione, rottura dell’isolamento dei paesi, trasformazione profes-


sionale dei contadini, mutazioni delle strutture linguistiche e mentali, di-
scesa delle popolazioni lungo le marine, polverizzazioni delle identità ven-
gono così registrate, da Alvaro, quali voci difformi ma correlate di quella
che Francesco Compagna, con felice e fortunata espressione, avrebbe più
tardi definito come la «crisi dei presepi».

IV. 1. Erosione, consunzione, espropriazione. La fine del paese-presepe

Tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, i processi di abbandono dei paesi
calabresi si connettono, su un piano più generale, ai profondi mutamenti
culturali che si registrano nel panorama nazionale. In Italia sono gli anni
dell’avvenuta ricostruzione e del miracolo economico; della massiccia fuga
dalle campagne verso la città e dell’affermarsi di modelli di vita urbana; del-
la crescente industrializzazione e della conversione di ampie fette della po-
polazione contadina ai settori secondario e terziario. In questo periodo, poi,
si dà avvio ad un distorto rapporto con il territorio e con il paesaggio che fa-
rà dell’Italia della «Grande Trasformazione» un cantiere di lavoro in peren-
ne attività: sono gli anni di un disastroso modello di sviluppo urbano e degli
scempi di una cementificazione scriteriata18; prende forma quella sfrontata
«speculazione edilizia», colta con lucida visione antropologica da Italo Cal-

17 Alvaro C. 1995d, pp. 152-153.


18 Sulla «Grande Trasformazione», le devastazioni del paesaggio e lo squallore urbano delle città italiane
del post-ricostruzione cfr. Turri E. 1990; Magnaghi A. 2010. Anche Luisa Bonesio ha interpretato l’impiego del
cemento e la cementificazione dell’Italia dell’industrializzazione quali elementi di degrado ambientale e di ag-
gressione del paesaggio, oltreché espressione di una mutata e spesso stravolta cultura dell’abitare. Per la studiosa
“il cemento, nella sua nudità e inarticolazione, risulta essenzialmente dissonante sia della naturalità che della cul-
tura: sostituendo interamente la pietra o il legno, anziché essere limitato a un uso semplicemente coesivo, con la
sua amorfia finisce con il dissolvere, mediante un intervento relativamente elementare e rapido, la complessa se-
dimentazione delle forme del paesaggio culturale, assimilandole forzosamente alla sua innegabile inesteticità e
refrattarietà a qualsiasi significato simbolico” (Bonesio L. 2001, p. 62). Sul tema e sull’uso del cemento come can-
cellazione dell’artigianato edilizio cfr. le considerazioni critiche già avanzate da Alvaro C. 1995c, pp. 624-633.

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vino, che stravolge assetti economici, quadri ambientali, modelli culturali19.
La società rurale tradizionale, quell’«illimitato mondo contadino prenazio-
nale e preindustriale» cui Pier Paolo Pasolini accorderà pietas e rimpianto,
la civiltà delle veglie e delle cascine del Nord Italia evocata nei romanzi di
Cesare Pavese, l’universo popolare meridionale che era stato narrato da I-
gnazio Silone e Carlo Levi, e che in quegli anni veniva studiato da Ernesto
de Martino e Rocco Scotellaro20, tutte queste culture della fatica e del lavo-
ro ma anche della fame e della miseria scompaiono, si disgregano, si cancel-
lano sotto gli effetti di mutamenti epocali intervenuti nel tessuto sociale ita-
liano. Sono gli anni di una apocalisse culturale, della dissoluzione e della fi-
ne irreversibile di un intero mondo. In tale contesto trovano compimento
quella «rivoluzione conformistica», quella «omologazione culturale», quella
«mutazione antropologica» che sono al centro, ancora una volta, della disin-
cantata critica politica e sociologica del Pasolini degli Scritti corsari.
In Italia e – per ragioni non dissimili ma con esiti propri – in Calabria
si assiste a una vera e propria svalutazione ed espropriazione di cultura, che
si acuirà nei decenni a seguire. I profondi mutamenti innescati dal boom
economico nazionale e l’introiezione – su scala regionale – di modelli socia-
li e culturali esogeni “vengono a poco a poco sgretolando il mondo arcaico
dell’economia di sussistenza […]. L’urbanizzazione e la scolarizzazione co-
minciano ad affermarsi come fattori di irreversibilità del mutamento cultu-
19
Nel romanzo intitolato appunto La speculazione edilizia Calvino narra i processi di trasformazione eco-
nomica e culturale della società ligure degli anni ’50, mettendo in scena la vicenda di un intellettuale, Quinto An-
fossi, che decide di speculare sulla vecchia casa di famiglia per ricavarne appartamenti per turisti e, affascinato dal
dinamismo e dall’intraprendenza di un contadino convertitosi a imprenditore edile, Pietro Caisotti, decide di en-
trare in società con questi, rimanendo tuttavia vittima dei suoi raggiri. In un passo del racconto leggiamo: “«È sce-
so a *** dalla montagna coi calzoni rattoppati, mezzo analfabeta, e adesso impianta cantieri dappertutto, maneggia
milioni, fa la pioggia e il bel tempo col Comune, coll’Ufficio Tecnico...». Quinto riconobbe l’astio nelle parole di
Canal come un accento familiare; era la vecchia borghesia del luogo, conservatrice, onesta, parsimoniosa, paga del
poco, senza slanci, senza fantasia, un po’ gretta, che da mezzo secolo vedeva intorno cambiamenti cui non riusciva
a tener testa, gente nuova e difforme prender campo, e doveva ogni volta recedere dalla propria chiusa opposizio-
ne facendo ricorso all’indifferenza, ma sempre a denti stretti. […] La squallida invasione del cemento aveva il vol-
to camuso e informe dell’uomo nuovo Caisotti” (Calvino I. 2005, p. 796). In un altro punto l’autore scrive: “Era
una folta Italia in tailleur, in doppiopetto, l’Italia ben vestita e ben carrozzata, la meglio vestita popolazione d’Eu-
ropa […]. Eppure, […] affiorava […] il sospetto che ogni nostra ostentazione di prosperità non fosse che una faci-
le vernice sull’Italia dei tuguri montani e suburbani, dei treni d’emigranti, delle pullulanti piazze di paesi nerove-
stiti” (Ivi, p. 845). E ancora oltre: “Quinto rincasò d'umor nero. Non solo l’inquietava il non essere riuscito ancora
a farsi pagare, ma anche l’aver scoperto in Caisotti un antico compagno di lotte. Bella curva aveva fatto la società
italiana! esclamava tra sé. Due partigiani, un paesano e uno studente, due che s’erano ribellati insieme con l’idea
che l’Italia fosse tutta da rifare; e adesso eccoli lì, cosa sono diventati, due che accettano il mondo com’è, che tira-
no ai quattrini, e senza più nemmeno le virtù della borghesia d’una volta, due pasticcioni dell’edilizia, e non per
caso sono diventati soci d’affari, e naturalmente cercano di sopraffarsi a vicenda...” (Ivi, pp. 862-863).
20 Degli autori menzionati citiamo, in particolare, Pasolini P. P. 2013b; Id. 2013d; Pavese C. 2011f; Id.
2011e; Silone I. 2000; Levi C. 2001; de Martino 2008b; Id. 2005; Id. 2001; Id. 2002b; Id. 2002a; Scotellaro R. 2012.

- 147 -
rale e segnano definitivamente l’evoluzione e l’apertura dei sistemi tradi-
zionali e la loro disgregazione. […] I vecchi equilibri demografici comin-
ciano ad alterarsi: […] i flussi migratori dalle frazioni e dalle contrade pro-
vocano un consistente processo di concentrazione della popolazione nei
centri abitati e un progressivo spopolamento e abbandono dei nuclei isolati
e delle case sparse”21 così come di diversi paesi a economia agricola.
Il trasferimento della popolazione calabrese verso la città e le marine
o l’emigrazione – che in questa fase si indirizza in prevalenza verso il centro
Europa e il Settentrione d’Italia – provocano il collasso delle attività eco-
nomiche tradizionali. Molto spesso, infatti, a partire sono giovani maschi,
artigiani e manovali, contadini e braccianti. Ciò determina, nei paesi e nelle
campagne della regione, la scomparsa di diverse figure professionali e un al-
lentamento di pratiche colturali fino ad allora portate avanti grazie all’ab-
bondanza di manodopera. Si registra, pertanto, un arretramento verso for-
me di sussistenza che impediscono uno sviluppo in senso moderno delle at-
tività artigianali e dell’agricoltura. Inoltre, i proprietari borghesi reinvesto-
no il denaro ottenuto dalla vendita delle terre nel settore delle costruzioni,
trasferendo alla città i loro interessi di rendita. E proprio lo sviluppo, spesso
dissennato, del mercato edilizio sottrae ulteriore terreno all’agricoltura22,
che appare così come il comparto maggiormente interessato dal mutamento
sociale e in cui è più evidente il processo di involuzione economica.
In particolare, nelle aree costiere regionali si produce un fortissimo
esodo agricolo, manifestazione di tipo prevalentemente «economico» che si
articola, in sostanza, nell’abbandono delle colture, nell’intensa urbanizza-
zione e nei tentativi di conversione turistica delle marine, infine nel ricol-
locamento professionale dei contadini, che passano ad altri lavori senza che
ciò comporti, tuttavia, l’abbandono dei luoghi di residenza. Nelle zone col-
linari e montane, invece, si registrano sempre più accentuate problematiche
di contrazione demografica (con un riacutizzarsi delle fasi di abbandono dei
paesi) e di declino economico legati all’esodo rurale, che implica – diversa-
mente da quello agricolo – un atteggiamento di più radicale rifiuto del si-
stema produttivo e socio-politico su cui si reggevano le società tradizionali e
si configura, dunque, come fenomeno più spiccatamente «sociale»23.

21 Piselli F., Arrighi G. 1985, p. 464.


22 Cfr. Gorgoni M. 1985, pp. 798-818. Vedi anche Bevilacqua P. 2001.
23 Per Carmelo Formica “i due aggettivi, rurale ed agricolo, se dal punto di vista lessicale possono conside-
rarsi sinonimi, di fatto sottointendono due situazioni differenti: il primo qualifica l’ambiente sociale della campa-

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In questo quadro, l’esodo rurale finisce per coincidere spesso con l’ab-
bandono dei paesi dell’interno e la marginalizzazione delle aree collinari e
montane24. Tale esodo diventa espressione di una volontà di affrancamento
da forme di vita deprimenti e mortificanti che si riflette anche nel rigetto
del contesto territoriale entro cui quelle forme trovavano articolazione. Al
rifiuto della terra, spazio paradigmatico di esistenze segnate da fame, fatica
e sfruttamento, si accompagna la ricusazione del paese, luogo fisico e sim-
bolico entro cui quelle grame esistenze si consumavano ed emblema di quel
modello abitativo e produttivo che si intende ora abbandonare.
Il paese-presepe calabrese comincia ad essere percepito e vissuto sem-
pre più come realtà arretrata, immobile, statica, dal quadro sociale avvilen-
te, segnato da malattia, indigenza, sfruttamento, repressione, asservimento
al potere. “Il paese calabrese – scrive Vito Teti – fino a tutti gli anni cin-
quanta è un agglomerato fatiscente, insieme di poveri tuguri, luogo della
sporcizia, della malattia, della fame contadina. Fumo, vento, cimici, insetti,
acqua piovana: la casa dei ceti popolari appare in mille descrizioni quasi un
luogo di sofferenza”25. Quello del paese è l’universo chiuso, spento, appa-
rentemente addormentato che negli anni è stato raccontato da Corrado Al-
varo, Francesco Perri, Saverio Montalto. È il paese come ristagno di menta-
lità, fucina di indolenza, coacervo di invidie e torvi risentimenti restituitoci
da Fortunato Seminara. È l’ambiente angusto e asfittico, segnato da forti
condizionamenti sociali; è il paese-prigione, il paese maledetto da cui si de-
sidera scappare narrato da Saverio Strati26. È, ancora, il paese della mortifi-

gna, nelle sue strutture economiche ed organizzative, il secondo definisce invece un’attività ben precisa, cioè
quella di coloro che si dedicano al lavoro della terra. La distinzione non è soltanto formale, ossia terminologica,
ma anche metodologica: l’esodo rurale esprime più che altro la mobilità territoriale della popolazione, per cui tra
coloro che lasciano la campagna vi possono essere anche persone estranee al lavoro della terra, mentre l’esodo
agricolo esprime la mobilità professionale dei contadini, i quali disertano i campi per passare ad altre occupazioni,
senza tuttavia trasferire necessariamente la residenza. [Per cui] mi pare di poter asserire che l’esodo rurale è da
attribuire a motivazioni di indole più ampia e più generale rispetto a quelle che determinano l’esodo agricolo, in
quanto esso comporta sempre un ripudio della società tradizionale e gli individui che lo attuano soggiacciono for-
temente all’influenza psicologica e culturale delle forme di vita urbana. In altri termini l’esodo rurale appare un
fenomeno di natura essenzialmente sociale, mentre l’esodo agricolo è una manifestazione di tipo prevalentemente
economico, che non sempre ha come sbocco finale la città” (Formica C. 1975a, pp. 64-65). Per un’opportuna diffe-
renziazione terminologica tra le espressioni esodo agricolo ed esodo rurale si vedano anche Id. 1975b; Gambino J.
1977. Cfr. Isnardi G. 1965c; Lopreato J. 1968; Filangeri A. 1966; Soriero G. 1985, pp. 754-758.
24 Sui processi di marginalizzazione economica e culturale delle aree montane calabresi, con conseguenti
disagi sul piano esistenziale e manifestazioni di spopolamento e malessere demografico, cfr. Cirillo A. 2011, pp.
55-74. Per una più ampia sintesi, tarata sul quadro nazionale, si veda invece Toscano M. A. 2011, pp. 26-32.
25 Teti V. 2007a, p. 377.
26 Si vedano, in particolare, Alvaro C. 1995a; Id. 1995d; Id. 2000; Perri F. 2001; Montalto Saverio 1973, La
Famiglia Montalbano, Chiaravalle Centrale (Cz), Edizioni Frama’s; Seminara F. 2003; Strati S. 1957; Id. 2007.

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cazione, in cui la dimensione pacificata – spesso ad esso astoricamente asse-
gnata – viene pregiudicata dai ristretti orizzonti culturali che lo delimitano
e dalla presenza di dinamiche degradanti e strutture sociali coercitive che
agiscono al suo interno. Nelle parole di Luigi Lombardi Satriani, “il paese in
quanto casa, orizzonte denso di tepore, può essere manto che avvolge, radi-
cale antidoto alla solitudine e può essere cappa e maledizione. La vita socia-
le nelle nostre regioni è spesso avvelenata dall’aggressività che permea i
rapporti, e da una sorta di svalutazione di se stessi. È un universo compres-
so, che comprime, secondo una trainante logica di progressiva mortificazio-
ne; è un collettivo degradato che si esprime degradando e degradandosi”27.
Anche sul piano urbanistico, il modello dei paesi-presepi risulta inevi-
tabilmente desueto e superato, inadeguato al sorgere di nuove forme inse-
diative e di mutate esigenze abitative. La difficile accessibilità, la frammen-
taria viabilità interna (che impedisce, spesso, la circolazione dei moderni
mezzi di locomozione), le abitazioni non all'altezza degli standard pretesi e
la carenza dei servizi diventano cause strutturali dell’abbandono. Quelli ca-
labresi – volendo prendere a prestito una definizione di Eugenio Turri – so-
no i paesi della consunzione storica28, abitati il cui abbandono risponde a
una differente (anche se spesso incompiuta e male interpretata) cultura del
cambiamento e della dinamicità. Il mito dell’inurbamento e il modello abi-
tativo delle città industrializzate – verso cui si dirigono le nuove partenze –
agiscono, nelle società tradizionali, quali elementi di forte richiamo e di
profonda erosione culturale. Tuttavia, questa mutazione dei canoni dell’abi-
tare non può essere interpretata solo ed esclusivamente come la volontà di
avvicinarsi ai profili abitativi moderni, tanto più che gli emigrati – almeno
in una prima fase del loro inserimento nelle città di nuova residenza – spes-
so ne restano ai margini: “Chiuse le porte dell’emigrazione, da trent’anni e
con moto veloce nei nostri anni, – ricordava a questo proposito Alvaro –
non è più il meridionale qualificato che tenta la sorte nelle città grandi d’I-
27 Lombardi Satriani L. M. 1990, p. 35.
28 In un suo libro, nel capitolo dall’evocativo titolo Il paesaggio dell’isterilimento, Turri analizza questa
consunzione storica degli antichi modelli insediativi nazionali (e meridionali in particolare), avulsi ormai dal cir-
cuito della modernità. Scrive lo studioso: “C’è anche un’Italia rimasta immobile, povera, nella quale manca sia il
dinamismo che può dire ottimismo, sia la pace dei paesi che vivono in una loro raccolta dignità. Il sentimento che
il suo paesaggio suggerisce è quello, avvilito, delle cose superate, rimaste indietro nella storia, emarginate rispetto
ai processi evolutivi più avanzati, dai quali hanno ricevuto quasi sempre più influssi deleteri che spinte costrutti-
ve. […] quest’Italia è subito delineabile: è la parte interna, montuosa, esclusa dal tumulto delle coste in rapido
aumento. Qui è la vita, l’innovazione (benché sovente così malintesa); sui monti interni, che spesso guardano da
vicino quel tumulto, c’è invece l’immobilità, il ritardo, l’attesa di qualche cosa che non arriva” (Turri E. 1990, p.
237). Sul tema vedi anche Id. 2008; Id. 1998. Cfr. Damari C. 2011.

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talia, ma quello che fugge il suo paese dietro ai nomi, magici per qualunque
meridionale, delle città del Nord. Esso arriva entrando nelle grandi città in-
dustriali e commerciali, si adatta ad abitare comunque e dovunque, si con-
tenta delle forme di vita più misere ben sapendo che, a parte il clima, sa-
ranno sempre meno misere che al suo paese”29. La tentata conversione alla
modernità insediativa e alla comodità abitativa risponde a fattori culturali
più ampi e complessi; coincide, si è detto, con il rifiuto del paese inteso nel-
la sua totalità di universo sociale, politico ed economico della miseria30.
In questa fase storica, le dinamiche degli esodi rurali e degli abbando-
ni dei paesi calabresi si innestano su un più generale processo di negazione
e cancellazione del patrimonio folclorico e contadino, che produrrà negli
anni insanabili scompensi socio-culturali e irreversibili squilibri ambientali.
Le classi subalterne – nel desiderio e nella speranza di affrancarsi da secolari
forme di sfruttamento e di povertà e nel tentativo di entrare a far parte del
ceto borghese – partecipano con consenso pieno, quasi entusiasta alla di-
struzione della loro stessa identità. Lombardi Satriani ha scritto pagine il-
luminanti in merito a questa colossale auto-espropriazione di cultura, indi-
viduando nell’articolazione della dialettica tra memoria e oblio, tra affer-
mazione e negazione, tra ricordanza e dimenticanza uno dei nodi tematici
ai quali incardinare tale composito processo culturale.

Ricordare – sostiene l’antropologo – comporta a volte un costo elevatissimo,


può essere condanna non meno spietata dell’oblio. Il ricordo è fonte di calore, ma
può essere ferita lancinante, dolore così acuto da non potersi sopportare e la dimen-
ticanza apparire meta seducente, refrigerio e riposo dalla fatica, dal peso di una me-
moria implacabile. Chi ha sperimentato privazione e dolore sa come il ricordo possa
essere ferro rovente che martoria una ferita mantenendola viva, fonte inesausta di
sofferenza. […] Non meraviglierà, dunque, che la gigantesca opera di rimozione dei
ricordi di intere collettività si sia svolta anche con la complicità oggettiva delle vit-
time, tentate dalle sirene dell’oblio, cui hanno prestato orecchio perché dell’antica
sofferenza non si abbia più, appunto, memoria31.

Non si possono comprendere a fondo l’abbandono dei paesi calabresi e


lo spopolamento delle aree interne se si trascende dal passato di miseria, in-
digenza, afflizione delle popolazioni e dalla conseguente urgenza dell’oblio
o – in una prospettiva dialetticamente opposta ma tendente al medesimo o-
29 Alvaro C. 1995a, p. 835.
30 Cfr. Lopreato J. 1968.
31 Lombardi Satriani L. M. 1990, pp. 30-31.

- 151 -
rizzonte operazionale – dall’impellenza del ricordo. L’esodo “dai paesi più
vecchi, più stanchi, in cima al levante delle disgrazie”32 cantati da Franco
Costabile, l’abbandono degli antichi e consunti abitati, lo svuotamento delle
vecchie case, le sistemazioni edilizie nelle terre di approdo, le riedificazioni
nei paesi di origine approntate con i soldi delle rimesse, le sperequazioni
urbanistiche nelle aree di costa sono i complessi e articolati esiti di un biso-
gno duplice e singolare al contempo: dimenticare per riuscire ad andare a-
vanti, ricordare per non ritornare indietro.
Lo sdoppiamento dei paesi, la fuga verso le marine, le devastazioni
ambientali e il consumo indiscriminato del suolo in processi urbanistici per-
versi, la diffusa costruzione di palazzine informi, di casermoni, di quartieri-
dormitorio negli insediamenti costieri possono essere interpretati come
conseguenza, insieme, di una «organizzazione della dimenticanza»33 – che si
esplica come necessità di rimuovere, attraverso l’oblio, il ricordo della mise-
ria – e di una «strategia della memoria», che si articola a sua volta in una
duplice direzione: per un verso come fuga nel mito di un buon tempo anti-
co (che dunque seleziona, rielabora, inventa i soli ricordi positivi e riformu-
la il discorso della memoria così da rimuovere – ancora una volta, e per dis-
simulazione – il ricordo della miseria), e per altro verso come riscatto dal
negativo storico, esorcizzato attraverso il ricorso al mito della modernità e
l’ingresso, reale o presunto tale, nel flusso della storia. E dunque, ancora
una volta, cancellazione forzata, rimozione coatta, distruzione programma-
tica del passato e delle forme culturali che ne sostanziavano le peculiarità.

IV. 1. 1. Abbandono, alterazioni del paesaggio e de-cultura dell’abitare

L’abbandono dei paesi – nell’accezione etimologica di “trascuratezza”


e quindi inteso quale interruzione dell’abitare come aver-cura – afferma, sul
territorio calabrese, una diffusa de-cultura dell’abitare. Se l’antico costruire,
infatti, era contrassegnato da un continuo adattamento alle forme della na-
32 Costabile F. 1994, p. 110.
33
L’espressione, già adottata da Mariano Meligrana con riferimento all’abbandono di Nardodipace (nel
vibonese), è ripresa da Lombardi Satriani L. M., Meligrana M. 1987, pp. 68-73. Per un complessivo inquadramen-
to delle trasformazioni della realtà folclorica in Calabria, del ruolo della memoria e della dimenticanza nei proces-
si sin qui accennati vedi anche Lombardi Satriani L. M. 1989; Id. 1990. Cfr Lombardi Satriani L. M., Meligrana M.
1975, Diritto egemone e diritto popolare. La Calabria negli studi di demologia giuridica , Vibo Valentia, Qualecul-
tura. Circa gli esiti antropologici dei processi di sdoppiamento degli abitati e fuga verso le marine si rimanda a
Teti V. 2007a; Id. 2007b.

- 152 -
tura e le case – perfettamente inserite nel contesto paesaggistico del sito su
cui sorgevano tanto da rappresentarne una sorta di naturale prosecuzione –
parevano affiorare dalla terra e della terra avevano lo stesso colore e la me-
desima consistenza, come suggeriva Alvaro34; al contrario, le forme dell’abi-
tare e del costruire affermatesi a partire dagli anni ’50-’60 del Novecento
sono espressione di una continua aggressione ai danni del paesaggio e di un
forzato processo di dominio della tecnica sulla natura, ormai concepita co-
me realtà materiale indifferenziata da piegare alle esigenze dell’uomo35. Le
nuove costruzioni, in Calabria come altrove, non si adattano più alle com-
ponenti geografiche, storiche, culturali dei luoghi in cui sorgono; sono pro-
gettate come modelli standard validi ovunque ed è la natura ad essere sot-
tomessa alle loro forme. “Se in passato – scrive a tal proposito Luisa Bonesio
– l’abitare era per necessità di cose situato in un «paesaggio», oggi il legame
è diventato molto più problematico, quando non sia stato semplicemente
spezzato: da qui l’infelicità abitativa, la bruttezza estetica dei nostri luoghi
di residenza, lo sprezzo (effettivo) per il genius loci e la nostalgia (spesso
compensativa) per un’armonia infranta”36.
Nella realtà calabrese, i disastri indotti da una scellerata condotta ur-
banistica e l’insorgere di una stravolta cultura dell’abitare – che, soprattutto
lungo le coste, si possono osservare nei tratti più esasperati dell’abusivismo

34 Alvaro C. 2000, pp. 8-9.


35
Le perverse dinamiche del moderno approccio ai temi del costruire, gli elementi fortemente problema-
tici dello sviluppo urbano dell’Italia del dopoguerra e gli scompensi culturali e ambientali che ne sono scaturiti
sono stati lungamente dibattuti e criticamente analizzati da Alberto Magnaghi, che scrive: “Nell’epoca storica ca-
ratterizzata dal fordismo e dalla produzione di massa le teorie tradizionali dello sviluppo, fondata sulla crescita
economica illimitata, hanno trattato il territorio in termini sempre più riduttivi: il produttore/consumatore ha
preso il posto dell’abitante, il sito quello del luogo, la regione economica quello della regione storica e della biore-
gione. Il territorio da cui ci si è progressivamente «liberati», grazie anche allo sviluppo tecnologico, è stato rappre-
sentato e utilizzato come un puro supporto tecnico di attività e funzioni economiche, che sono […] sempre più
indipendenti da relazioni con il luogo e le sue qualità ambientali, culturali, identitarie” (Magnaghi 2010, p. 25).
“Attraverso il sapere tecnico e le protesi tecnologiche – prosegue lo studioso – ci si è «liberati» dai vincoli territo-
riali e si può localizzare in piena libertà, dovunque, tutto, sempre. Questa […] liberazione progressiva dai vincoli
territoriali (deterritorializzazione) ha portato nel tempo a una crescente ignoranza delle relazioni tra insediamen-
to umano e ambiente, relazioni che hanno generato l’arte di edificare, la storia dei luoghi e la loro identità, unica,
riconoscibile, irripetibile. La distruzione della memoria e della biografia di un territorio ci fa vivere in uno sito
indifferente, ridotto a supporto di una società istantanea, che ha interrotto bruscamente ogni relazione con la sto-
ria del luogo” (Ivi, pp. 30-31). Su questi temi si vedano anche gli importanti contributi di La Cecla F. 1988, in par-
ticolare pp. 37-40, e Decandia L. 2000, pp. 107-120.
36 Bonesio L. 2003, p. 13. Alla studiosa fa eco la sociologa Antonella Cirillo, per la quale “i processi uni-
formanti messi in atto dal dominio della razionalità economica e tecnica, concependo i territori come spazi amorfi
e anonimi, li sottopongono a trattamenti indifferenziati e a manipolazioni incontrollate che, insistentemente rei-
terati, finiscono per stravolgere gli assetti tradizionali. Avanzano così devastazioni di interi habitat ecologici ed
estinzioni di culture e valori tradizionali, ascrivibili alla assunzione di modelli di sviluppo incompatibili con le
caratteristiche geo-antropologiche delle singole realtà locali” (Cirillo A. 2011, p. 59).

- 153 -
edilizio, nel ricorso alla tipologia del costruito non-finito, nell’appiattimen-
to delle forme dell’insediamento secondo modelli avulsi dal contesto storico
locale – sono il risultato di un progetto di investimento economico e sociale
dagli esiti drammaticamente fallimentari (tipologie edilizie talmente ambi-
ziose da non poter, spesso, essere condotte a termine e, sovente, lasciate i-
nabitate per le nuove partenze37) e di un processo di avvilente espropriazio-
ne culturale. Tale espropriazione, che si sia prodotta con la complicità attiva
della popolazione calabrese o anche soltanto con la sua complice inerzia –
ha sostenuto, tra gli altri, Lombardi Satriani – ha determinato una realtà di
devastazione, desolazione, asservimento. La precipitosa fuga da un mondo
di miseria non ha necessariamente condotto all’approdo e alla costruzione
di un mondo migliore, economicamente più sano; “il «nuovo» non si è rea-
lizzato soltanto nel segno della crescita e della positività; processi di disgre-
gazione, di deculturazione hanno dispiegato tutta la loro carica mortifican-
te, per cui queste nostre regioni sono anche il triste scenario di una gigante-
sca desolazione”38.
Le testimonianze sullo squallore, la sciatteria, l’incompiutezza e inde-
finitezza degli insediamenti lungo le aree costiere sono molte e inequivoca-
bili. All’antica desolazione e insalubrità delle marine calabresi, descritte da
molti viaggiatori e osservatori del passato come zone aride, malsane, in cui
“grandi tratti di paese […] assumono un impressionante carattere di solitu-
dine quasi desertica”39, si sostituisce una desolazione moderna. Se intorno
alla metà degli anni ’50 Giuseppe Isnardi descriveva le profonde trasforma-
zioni del paesaggio regionale – comunque non ancora deturpato – con la
nascita di agglomerati sempre più consistenti lungo le coste, per cui “quasi
dappertutto il senso di solitudine silenziosa e primitiva, di malinconia se-
mideserta si va attenuando e talora scomparendo”40, a distanza di appena
qualche anno Lucio Gambi ha già modo di sottolineare, invece, come questi
agglomerati siano in realtà “esteriormente mancanti di qualunque persona-

37 “Le comunità, soprattutto meridionali, – ha di recente notato Mario Aldo Toscano – […] espongono
con malinconica durezza nelle costruzioni in cemento sovradimensionate e inconcluse la speciale versione della
promessa inesaudibile che accompagna il declino. Anche le nuove case vanno a incrementare il numero già eleva-
to di case deserte; e mentre quelle vecchie e cadenti testimoniano di generazioni ormai spente e dileguate, quelle
nuove e rapidamente fatiscenti documentano di generazioni di figli e nipoti insediate altrove, che non le abite-
ranno mai deludendo attese patetiche e malferme speranze. Così nuovo deserto si aggiunge ad antico deserto”
(Toscano M. A. 2011, pp. 44-45).
38 Lombardi Satriani L. M. 1990, p. 35.
39 Isnardi G. 1965g, p. 34.
40 Id. 1965d, p. 105.

- 154 -
lità: uguali, scialbi, che stancano. E ove – per quanto la vita sia più dinamica
– neanche la novità della costruzione ha eliminato quel tono di malinconia
e torbida desolazione che fino ai nostri giorni ha riempito la vita dei centri
in Calabria”41.
Negli anni il quadro si deteriora ulteriormente, con la creazione di in-
sediamenti sempre più anonimi e caotici, che diventano testimonianza di
una persistente disaffezione e trascuratezza dei calabresi nei confronti del
proprio territorio di appartenenza e di una crescente dissoluzione della co-
scienza civile.

I paesaggi urbani recenti della regione – scrive a tal proposito l’architetto Pi-
no Scaglione – sono connotati da un diffuso senso di precarietà, di incompletezza, di
provvisorietà. Ancora una volta solo il ricorso al “campo lungo” evita di accorgersi
dei molti problemi e della scarsa qualità di questi paesaggi, pervasi da quello che po-
tremmo definire un recente, ma significativo e cronico smarrimento di cultura del-
l’insediarsi dei calabresi. La “resistenza” a forme di innovazione urbana e dell’abita-
re, da parte dell’intero e instabile tessuto sociale – cui fa da riflesso, come in uno
specchio, un instabile territorio – ha generato fenomeni di aggressione selvaggia e
incontrollata dei territori dell’urbanizzazione, e oltre a stridenti contrasti ha prodot-
to immagini di paesaggi urbani dimessi e dismessi, privi del più elementare senso e-
stetico e collettivo dei luoghi, del significato stesso di spazio pubblico 42.

A partire dalla metà del secolo scorso, e con particolari recrudescenze


nel corso degli anni ’70 e ’80, la regione conosce un consumo del suolo tra i
più elevati del panorama nazionale e un accentuato processo di rigonfia-
mento urbanistico che stravolgono le antiche trame insediative43. Le marine
continuano a espandersi e a svilupparsi come risultanti di processi distorti e
patetici orientati all’accentramento di pseudo funzioni produttive; come e-
siti di fasi di terziarizzazione dell’economia regionale, di slancio e ambizio-
ne – puntualmente frustrata – alla formazione di moderne città sul modello
delle conurbazioni industriali. Tali fenomeni producono una radicale tra-
sformazione del quadro insediativo; si afferma – lungo estesi tratti litoranei
– il modello urbanistico della città-diffusa che della città, tuttavia, emula
maldestramente le caratteristiche e finisce spesso per avere solo i disservizi:
movimento caotico e convulso di uomini e cose, trambusto, traffico, conge-
stione stradale, rumore, disordine edilizio, stress, disorientamento culturale.

41 Gambi L. 1965, p. 284.


42 Scaglione P. 2003, p. 84.
43 Per un’approfondita analisi in merito rimandiamo ai contributi presenti in Bellagamba P. 1993.

- 155 -
Intere aree della Calabria – invita a riflettere Giuseppe Soriero – sono passate
dall’isolamento dei centri all’improvvisa e improvvida contiguità tra gli stessi. È
un’immagine anomala di città lineare. Non si tratta più soltanto della creazione del-
le marine, ottenute dallo scivolamento dei vecchi abitati verso il mare, oppure dalla
creazione dei nuovi insediamenti lungo le coste. C’è qualcosa di più e di diverso. C’è
un cambiamento di direzione nelle trasformazioni del territorio. È come se gli spazi,
lungo la traccia del mare, longitudinalmente tentassero di riconnettere un’antica
frantumazione. La crescita avvenuta sui diversi tratti delle fasce litorali – quella tir-
renica (specie da Diamante a Praia a Mare) e quella ionica (da Catanzaro a Soverato;
da Roccella a Locri) – individua vere e proprie «aree continue» nella conformazione
degli insediamenti44.

In questo contesto si consuma il paradosso di una modernizzazione


distorta e mancata, spesso cercata in modelli esterni ed estranei al contesto
storico e culturale regionale, o espressione di logiche di interesse e dinami-
che del malaffare e della cattiva politica. Ne sono derivate nuove e più acute
forme di degrado ambientale che alla rottura del vecchio isolamento dei
luoghi e alla legittima aspirazione delle persone di accedere ai servizi e di
soddisfare pretese di comodità e benessere non hanno saputo unire un vero
affrancamento da condizioni di precarietà nel rapporto tra l’uomo e lo spa-
zio, rapporto che è divenuto anzi più problematico. Mauro Francesco Mi-
nervino ha di recente ribadito, con pessimismo senza riscatto, come il con-
sumo del territorio nel panorama calabrese e l’invadenza delle costruzioni
siano “causa ed effetto di una cocente disfatta culturale, di un mutamento di
costume e di abitudini umane e sociali le cui conseguenze non sono in mi-
nor grado gravi e disperate dei danni terribili già inferti dalle pretese spa-
ziali: la mostrificazione antropologica della vita dei paesi e degli abitanti
raccolti sulla strada è l’ulteriore conferma del dominio di un’ideologia per la
quale non ci sono, non ci sono mai state e non ci saranno mai alternative al-
l’individualismo più sfrenato”45.

44 Soriero G. 1985, p. 723.


45 Minervino M. F. 2010, pp. 16-17. In un altro passo del suo testo, l’antropologo scrive che la Calabria
delle devastazioni e degli scempi edilizi è l’espressione di “un sud-surmoderno, investito pesantemente dal degra-
do dell’ambiente e della qualità della vita, costellato di infrastrutture e mega-attrezzature inutili e dannose, asser-
vito a una monocoltura del turismo e di attività pseudo-produttive costruite a rimorchio di uno sviluppo che resta
tanto ipotetico quanto gravemente impattante” (Ivi, pp. 36-37). Già Vito Teti, a proposito dello sviluppo delle
marine calabresi, aveva scritto: “Luoghi come questi, quasi disabitati fino a cinquant’anni fa, si presentano con la
sfrontata, perduta verginità dei luoghi senza storia. Dentro questi luoghi, qualcuno dice non-luoghi, più che nei
paesi dell’interno, è possibile pensare, scorgere, progettare una sorta di modernità, di surmodernità” (Teti V.
2007a, p. 458). Sulle trasformazioni e le devastazioni del paesaggio regionale vedi anche Isnardi G. 1965e; Gambi
L. 1965; Placanica A. 1985; Bevilacqua P. 1985; Soriero G. 1985; Bellagamba P. 1993; Scaglione G. 2003; Minervi-
no M. F. 2008; Iannace R. (a cura di) 2010.

- 156 -
IV. 1. 2. Perdita del «centro», spaesamento e percezione di marginalità

Abbandono delle colture, esodo rurale, degrado ambientale, depaupe-


ramento delle risorse economiche, emigrazione, diserzione dei paesi, spopo-
lamento delle aree interne, urbanizzazione selvaggia della costa hanno rap-
presentato, dunque, le direttive delle nuove vicende abitative della Calabria
e dei movimenti di popolazione verificatisi nel recente passato46. Erosione
del sistema produttivo, consunzione degli antichi abitati, espropriazione
culturale, rottura dell’isolamento dei paesi, devastazione delle marine, deso-
lazione del quadro urbano e paesaggistico, disgregazione e dissoluzione del-
le identità hanno segnato nel profondo la mentalità, la psicologia, la cultura
delle genti calabresi e rendono oggi testimonianza del profondo mutamento
dell’ambiente insediativo regionale. Con le trasformazioni indotte nei paesi
e nei paesaggi è mutata la percezione stessa che gli abitanti avevano del
paese e del paesaggio. L’abbandono dei centri interni e il trasferimento nel-
le marine hanno comportato e comportano “la fine di antiche forme eco-
nomiche, una nuova organizzazione e una diversa percezione dello spazio,
l’insediamento in tipologie abitative diverse del passato. I nuovi abitati na-
scono all’insegna di un’orizzontalità che rispetto alla verticalità dei paesi
appollaiati sui monti significa la necessità di passare a nuove forme di eco-
nomia, di cambiare il rapporto uomo-natura tradizionale, di inventarsi un
nuovo mestiere”47.
L’erosione dell’economia di sussistenza, che per secoli ha garantito la
sopravvivenza delle diverse comunità, ha trasformato il legame con il paese
e con il sistema produttivo che di esso era espressione. Il progressivo ab-
bandono delle terre, l’esodo dalle campagne, il graduale passaggio a un mo-
dello di sviluppo basato sul settore terziario hanno comportato una perdita
del senso della centralità del paese, un tempo concepito come unità spazia-
le, culturale ed economica di riferimento. Il venir meno del «potere del
centro», di cui il paese era investito, ha introdotto una profonda cesura tra
pratiche dell’abitare e forme della produzione, tra impianto insediativo e
struttura economica. Il paese si è trasformato da «centro» delle proprie atti-

46 Sul depauperamento economico, sociale, demografico delle aree rurali, sui movimenti di popolazione
verificatisi nel recente passato e sullo spopolamento dei paesi calabresi si vedano, accanto ai testi già citati nel
corso della trattazione, Galasso G. 1958; Id. 1959; Cavallaro C. 1979; Vecchio B. 1989; Bevilacqua P. 2001; Tino
P. 2002; Calabrese E. 2006; De Francesco L. 2014. Sullo sviluppo delle marine calabresi rimandiamo invece al
contributo, pur parziale, di Monheim R. 1977.
47 Teti V. 2007a, pp. 396-397.

- 157 -
vità di sostentamento a realtà urbana arretrata, espressione di un mondo
superato, cascame e rimasuglio di un sistema di vita obsoleto da abbandona-
re in favore di un diverso e presunto sviluppo socio-economico e di un eso-
do verso la città o la marina. In un tale scenario, tuttavia, i “paesi della costa
– sottolinea ancora Teti – sembrano tante periferie di una città che non esi-
ste. E quelli dell’interno, sempre più spopolati e tra loro isolati, si guardano
da lontano e non convergono mai verso un centro, hanno tante linee di fu-
ga che non trovano un punto d’incontro”48.
Se in passato i paesi dell’entroterra erano legati da pratiche di socialità
in seno alle quali i mercati, le fiere, i pellegrinaggi costituivano un fulcro
economico, culturale, religioso di notevole rilievo e importanza – capace di
mettere in comunicazione comunità tra loro distanti e di rompere, sia pur
temporaneamente, l’isolamento geografico dei diversi nuclei, creando tra
essi consuetudini e vincoli di scambio – le dinamiche odierne sembrano
sancire e veicolare nuove forme di isolamento e di emarginazione. Già nel
1955, riflettendo sulle dinamiche di sdoppiamento degli abitati e sugli svi-
luppi urbanistici delle marine calabresi lungo il litorale jonico, Antonio
Marando coglieva il progressivo ripiegarsi su se stessi dei paesi-presepi in
abbandono e ne interpretava le compensative esaltazioni campanilistiche
come atto di reazione che finiva, tuttavia, per promuovere solo più accen-
tuate forme di chiusura: “A qualche chilometro di distanza nell’interno so-
pravvive l’anima delle vecchie generazioni e si manifesta in un campanili-
smo acceso e chiuso ad ogni possibilità di autocritica, nella caparbietà che
vorrebbe apparire tenacia e fermezza di carattere, nel sentimentalismo che
sfocia in retorica: male, questo, che non risparmia neanche persone per al-
tro verso assai assennate”49.
Rovesciando le immagini ereditate dagli sguardi di viaggiatori, studio-
si e osservatori del passato, allora, si potrebbe affermare che l’arroccamento
definitivo dei paesi calabresi in contesti abitativi e culturali sempre più an-
gusti sia in realtà un fenomeno degli ultimi decenni. L’erosione, il declino e
la scomparsa del mondo agropastorale tradizionale hanno via via condotto
le popolazioni residenti a rinchiudersi entro il ridotto spazio urbano dell’a-
bitato, pur sfrangiato, spesso, dalle recenti evoluzioni edilizie. L’abbando-
no progressivo dell’allevamento animale e delle colture – che in passato
lambivano finanche le fiumare a ridosso degli agglomerati – ha portato le
48 Ivi, p. 42.
49 Marando A. 1955, p. 53.

- 158 -
genti di paese ad accorciare il proprio raggio d’azione sull’ambiente circo-
stante, fino a relegarlo e mortificarlo entro il solo perimetro urbano. I bo-
schi e le campagne – un tempo guadagnati alla cultura tramite concrete pra-
tiche di assoggettamento e mediante un costante lavorio di plasmazione
simbolica – sono oggi disertati. I campi, gli orti, i giardini – che in passato
erano diretta emanazione del modello abitativo delle società rurali – sono
lasciati in abbandono nel presente. Gli orizzonti culturali e il sentimento di
appartenenza al territorio si restringono fino ad interessare il solo nucleo
abitato, con un graduale distacco e una conseguente disconoscenza del pae-
saggio circostante.
La mancata frequentazione, fruizione, plasmazione delle aree extra-
urbane comporta una perdita di conoscenza del contesto ambientale gene-
rale. Gli spazi attorno ai paesi non vengono più fatti oggetto di quei mecca-
nismi di umanizzazione e cosmicizzazione che li qualificavano come luoghi.
Con il tempo, anzi, si smarrisce la consuetudine con tali luoghi, il territorio
non è più sottoposto a cura e tutela, vengono occultate le tracce insediative
del passato, si cancellano gli antichi riferimenti territoriali. E si erodono, di
conseguenza, quelli identitari; vengono meno, negli abitanti, la coscienza di
luogo e il rapporto con la storicità del luogo. Nelle dinamiche di spopola-
mento e smantellamento i paesi tendono a costituirsi come non-più-luoghi,
in cui l’abbandono coincide con uno smarrimento del senso di identità e di
appartenenza ad un orizzonte spaziale e culturale definito e condiviso. La
vita si svolge entro i ristretti confini del paese, sempre più chiuso e isolato,
incapace di dialogare con gli altri paesi e talvolta persino col proprio doppio
lungo la costa. Alla «melanconia da angoscia territoriale» degli antichi abi-
tanti, impegnati nell’assidua elaborazione culturale del paesaggio insediati-
vo, si sostituisce una rinnovata «melanconia da angustia territoriale»50 di re-
sidenti che, adagiatisi in uno stato di inerzia, noncuranza, rassegnazione,
non esperiscono più – e dunque non abitano, nel significato heideggeriano
del termine – lo spazio occupato. Il paese regredisce dallo status di luogo a
quello di spazio; la casa cessa di essere dimora per trasformarsi in mero con-
tenitore spaziale, segnando il definitivo scollamento tra l’individuo e il ter-
ritorio di appartenenza51.
I paesi in abbandono diventano così sempre più anemici, devitalizzati.
E si accartocciano su se stessi. La decadenza economica, il regresso demo-
50 Mutuiamo ambedue le espressioni da Teti V. 1989, p. 35.
51 Su questi temi si vedano Decandia L. 2000, pp. 51-120; Bonesio L. 2002, pp. 43-95.

- 159 -
grafico, lo svuotamento dei rioni, la scomparsa della socialità della ruga, la
chiusura delle case, l’estinzione delle famiglie producono nelle comunità
sentimenti di desolazione e una diffusa percezione di marginalità. Gli abi-
tanti fanno quotidianamente i conti con un paesaggio umano e urbano in
progressivo mutamento e disfacimento. La vita sociale langue, si atrofizza. Il
silenzio e la solitudine invadono spazi in passato conosciuti e narrati come
luoghi dell’affollamento, zone pienamente vitali sede di scambi, di incontri,
di condivisione e compartecipazione ma anche teatro di scontri e conflit-
tualità. Dal troppo pieno delle abitazioni contadine del passato – in cui uo-
mini e animali occupavano talora gli stessi ambienti casalinghi – si passa al
vuoto e alla consunzione delle case abbandonate, dei vicoli deserti, delle
rughe senza più persone. All’interno del paese, «luogo» antropologico per
eccellenza, si creano così dei «non-più-luoghi»52, spazi disgregati in cui ven-
gono a mancare quelle pratiche di identità e si erodono quei lineamenti re-
lazionali e storici di cui parlava Marc Augé. Gli antichi connotati del paese-
luogo tendono a sfumare, a dissolversi e chi rimane vive “l’esperienza dolo-
rosa e autentica dell’essere sempre «fuori luogo»”53. L’abbandono del paese
provoca in chi resta un senso di straniamento e spaesamento, di smarrimen-
to dei confini spaziali, sociali, culturali di riferimento e di riconoscimento.
Il paese che perde i contorni e le caratteristiche di luogo diviene spa-
zio deterritorializzato, periferico, privo dei caratteri di centralità – urbani-
stica, produttiva, sociale, culturale, simbolica – che ne sostanziavano l’esi-
stenza; con un territorio non più in grado di offrire motivi economici per
mantenerlo né di indicare, al proprio interno, forme alternative di svilup-
po54. La decadenza economica e sociale trasforma intere aree insediate in
«scarti» (per dirla con Kevin Lynch); ne prepara e ne dispone l’abbandono,
con le penose lacerazioni che ne seguono55. A partire dagli anni del secondo
dopoguerra, gli insediamenti delle aree interne calabresi vengono sempre
più insistentemente avvertiti, vissuti e classificati secondo parametri di de-
centralizzazione, isolamento, marginalità. Nelle evoluzioni insediative della

52
Sulla definizione di «non-più-luogo» cfr. Teti V. 2007a, pp. 297-324.
53 Id. 2011a, p. 21.
54
Sui processi di spopolamento, deterritorializzazione e disurbanizzazione dei paesi e delle aree interne
calabresi cfr. Teti M. A. (a cura di) 2013; Mollica E. et al. 1996.
55
“Quando tutta una zona diventa «scarto» – avvertiva a questo proposito il famoso architetto – ci tro-
viamo di fronte a uno dei cambiamenti ambientali più dolorosi e che meno siamo preparati a risolvere:
l’abbandono progressivo. È un cambiamento che pesa sulla popolazione in modo ineguale perché sul posto riman-
gono gruppi di persone con servizi degradati in una società sfasciata. I luoghi abbandonati creano un’immagine
inquietante di morte e di decadenza” (Lynch K. 1977, p. 229).

- 160 -
regione, il paese-presepe ha finito spesso per smarrire le ragioni stesse della
propria fondazione; il suo destino è sembrato quello di venire trascurato (a
più livelli: sociale, culturale, politico-amministrativo), di essere dimentica-
to. E proprio “questa dimenticanza – ritornando alle parole di Sebastiano
Nucifora – può essere considerata come la prima fase del processo di abban-
dono. La diserzione ha inizio in modo lento e progressivo, e porterà presto
allo spopolamento del centro. L’eventuale comparsa di una calamità natura-
le fungerà, in qualunque momento, solo da acceleratore”56.
L’abbandono di molti paesi è stato a lungo meditato, ponderato e poi
messo in atto per i vari motivi sin qui illustrati. Il verificarsi di eventi sismi-
ci, alluvionali, o di altra natura – come dimostrano le vicende storiche degli
ultimi settant’anni circa – è stato spesso assunto quale ragione per affrettare,
per giustificare e legittimare la scelta, preesistente, della partenza o della
fuga. Con il terremoto del 1947 e le alluvioni degli anni ’50 e ’70 molte co-
munità calabresi (Petrizzi, Cardinale, Amendolea, Brancaleone Superiore,
Pentedattilo) conoscono nuove storie e nuovi miti di abbandono. Africo,
Natile, Canolo, nel reggino, sperimentano vicende di sradicamento cultura-
le e territoriale, di disgregazione della comunità, di distruzione delle colture
e del patrimonio zootecnico. E conoscono accese polemiche e conflitti nella
scelta dell’abbandono e nelle fasi della ricostruzione, da cui emergono le
pressioni e le spinte operate dalle famiglie borghesi e gli interessi privatisti-
ci di gruppi di potere, come denunciavano Umberto Zanotti Bianco e An-
tonio Marando57. Paesi come Nardodipace, Ragonà, Isca sullo Jonio, Roghu-
di e Ghorìo di Roghudi vivono profonde lacerazioni identitarie con la crea-
zione, controversa, di propri doppi, all’interno o più spesso lungo la costa.
Badolato, oggetto del nostro studio, conosce dinamiche simili a quelle
di questi e di altri paesi della regione colpiti da sismi, frane, alluvioni e ab-
bandonati o in fase di abbandono intorno alla metà del secolo scorso. Rottu-
ra dell’isolamento, eventi naturali, sdoppiamento dell’abitato, conversione
economica esercitano tutta la loro carica erosiva anche a Badolato. Nelle
pagine che seguono – dopo un preliminare sguardo alle dinamiche di evolu-
zione demografica del borgo, focalizzato in particolare sull’ultimo secolo, e
al processo di progressivo spopolamento – affronteremo l’analisi delle prin-
cipali vicende che hanno condotto al suo abbandono.

56 Nucifora S. 2001, p. 79.


57 SI vedano, in proposito, Zanotti Bianco U. 1954 e Marando A. 1958. Per una ricostruzione, a posteriori,
delle diverse vicende si rimanda a Teti V. 2007a, pp. 209-257.

- 161 -
IV. 2. Badolato. I dati dello spopolamento

I dati sull’evoluzione demografica di Badolato, procedendo per macro-


tappe e senza soffermarsi su elementi di dettaglio, testimoniano una crescita
della popolazione pressoché continua, pur con qualche battuta d’arresto,
dalle origini fino alla metà del XX secolo. A partire da questo periodo, inve-
ce, e in concomitanza con la nascita del nucleo di Badolato Marina, nel bor-
go superiore si comincia a registrare una progressiva inversione di tendenza
che conduce, nei decenni successivi, ad accentuati e significativi processi di
declino e di malessere demografico.
A ridosso della sua fondazione, avvenuta nel 1080 circa, il paese viene
tassato per 60 fuochi – con una popolazione stimata di 360 anime – per poi
arrivare a 164 fuochi nel 1444. Nel Dizionario geografico-ragionato del Re-
gno di Napoli, finito di editare nel 1805, l’erudito Lorenzo Giustiniani atte-
sta l’ulteriore aumento di abitanti nei secoli a seguire. Badolato passa infatti
dai 196 fuochi del 1532 ai 499 del 1648. Nel 1669 regredisce a 327 fuochi,
corrispondenti circa a 1.962 anime, ma nel 1797, alla data di stesura dell’o-
pera, l’autore testimonia la presenza in paese di circa 3.200 residenti, regi-
strando così una netta ripresa della fase evolutiva ascendente (vedi Tab. 1).

Tab. 1. Numero dei fuochi e popolazione stimata (1083-1797)58

Anno Numero dei fuochi Popolazione stimata

1083 60 360

1165 86 518

1276 130 783

1444 164 987

1532 196 1.176

1545 275 1.650

1561 337 2.022

1648 499 2.994

1669 327 1.962

1797 533 3.200

Fonte: Giustiniani L. 1969, vol. II, pp. 125-128.

58 Cfr. Valente G. 1973, vol. I, pp. 77-80; Squillacioti V. 2006a, “Abitanti di Badolato nei secoli”, in «La
Radice», anno XII n. 3, 30 settembre, pp. 33-34.

- 162 -
Nel corso del XIX secolo, dopo una prima fase involutiva, la popola-
zione di Badolato continua a crescere. Stando alle risultanze delle rilevazio-
ni statistiche ufficiali troviamo 3.677 abitanti nel 1861, che salgono a 3.932
un decennio più tardi. Nel 1881 si registra una nuova lieve flessione ma con
l’approdo al nuovo secolo il paese ha ormai ampiamente superato il tetto dei
4.000 presenti, tanto da raggiungere quota 4.529 già nel 1901. In questo pe-
riodo l’andamento demografico del paese e i movimenti di popolazione si
pongono in netta controtendenza rispetto al quadro regionale. La fine di se-
colo, infatti, è per la Calabria (come per molte altre regioni italiane) l’epoca
della grande, impressionante ondata migratoria oltreoceanica, che produce
un generalizzato depauperamento di abitanti – in particolare nelle comuni-
tà rurali – e l’esodo dell’85% della popolazione maschile in età lavorativa59.

Tab. 2. Andamento della popolazione presente nel comune di Badolato (1861-1931)

Anno Popolazione Saldo dal decennio precedente

1861 3.677 -

1871 3.932 + 255

1881 3.852 – 80

1901 4.529 + 677

1911 4.480 – 49

1921 4.482 +2

1931 4.205 – 277

Elaborazione su dati Istat

Nel caso di Badolato le prime partenze risalgono al 1891 ma è soltanto


nei primi decenni del Novecento che il fenomeno assume carattere e forme
di esodo60. Tra il 1902 e il 1914 vengono conteggiati – su una popolazione
media di 4.505 abitanti – 1.816 emigrati, con un picco massimo (277 par-
tenze) registrato nel 1910. L’avvio di questi massicci flussi migratori, diretti
soprattutto verso Argentina e Stati Uniti d’America, comporta nel paese una
prima, effettiva fase di contrazione demografica. Tuttavia, come documen-
59 Cfr. Izzo L. 1961, p. 459.
60
Per i dati sull’emigrazione badolatese in questo periodo e per una dettagliata e documentata ricogni-
zione storico-economica del fenomeno migratorio nell’area del Golfo di Squillace, entro cui il paese è compreso,
si rimanda a Lijoi D. 2009. Per un più ampio quadro circa i processi demografici, le dinamiche insediative e i mo-
vimenti migratori della Calabria tra Ottocento e Novecento si vedano i contributi di Izzo L. 1961; Id. 1965; Gambi
L. 1961; Galasso G. 1958; Id. 1959.

- 163 -
tano i dati censuari successivi al 1901, il calo della popolazione risulta, nel-
l’insieme, assai contenuto, anche per effetto di una discreta quota di rimpa-
triati (939 tra il 1891 e il 1915)61. Dall’inizio del secolo al 1931, pur a fronte
di un numero totale di emigrati pari a 2.342, si ha un saldo negativo com-
plessivo di soli 324 abitanti e i censiti in paese passano da 4.480 nel 1911 a
4.205 nel ventennio seguente (v. Tab. 2). In questo quadro, dunque, la pri-
ma grande emigrazione non produce a Badolato situazioni di declino demo-
grafico né altera in maniera particolarmente significativa la struttura della
popolazione. A partire sono individui singoli – in prevalenza maschi, di di-
verse età – ma è quasi del tutto assente, in questa fase storica, l’emigra-
zione di interi nuclei familiari. Anche le strutture economiche del paese
rimangono immutate. L’economia delle rimesse, infatti, è sostanzialmente
indirizzata verso un’immediata conservazione monetaria, con l’apertura di
numerosi libretti per i depositi postali, e i soldi degli emigrati – almeno in
una prima fase – non trovano un reinvestimento sul territorio62.
Il processo di spopolamento di Badolato, dunque, è posteriore ai pur
ingenti flussi migratori che si producono a cavallo del XIX e del XX secolo e
trova piena manifestazione solo nella seconda metà del Novecento. Spo-
stando l’attenzione sul movimento anagrafico e sulla popolazione residente
tra il 1931 e il 1951, infatti, possiamo osservare come il saldo naturale con-
tinui ad agire quale fondamentale elemento riequilibratore del tasso di emi-
grazione. Quella badolatese è, ancora in questi anni, una società in piena sa-
lute demografica, con un livello di natalità assai elevato. Il saldo naturale si
mantiene di molto superiore a quello migratorio (+905 censiti) e il numero
di abitanti continua a crescere in maniera significativa. Nel 1951 il paese
raggiunge il culmine della propria parabola evolutiva, con una popolazione
di 5.102 residenti, di cui 4.844 presenti (v. Tabb. 3-4).
Proprio il 1951 può essere individuato come l’anno di cesura, come lo
spartiacque tra la fase ascendente e quella discendente della popolazione
badolatese. A partire da questa data, infatti, si innescano dinamiche involu-
tive che nei decenni successivi non soltanto interverranno a modificare e ad
intaccare la struttura demografica ma stravolgeranno l’intero assetto (urba-
nistico, sociale, culturale) del paese. Il 1951 è l’anno delle disastrose allu-
vioni a seguito delle quali si sviluppa la frazione di Badolato Marina; ed è in
questo periodo che si registra una seconda, intensa stagione migratoria.
61 Cfr. Lijoi D. 2009, pp. 71-130.
62 Ivi, pp. 177-210.

- 164 -
In una fase iniziale tale nuova ondata, in verità avviata nell’immediato
secondo dopoguerra, si configura come completamento ed esito conclusivo
degli esodi di inizio Novecento; è un’emigrazione a chiamata, in cui avviene
il ricongiungimento familiare tra gli emigrati della prima generazione e i
propri cari rimasti in paese, cui negli anni erano stati inviati i soldi delle ri-
messe. Famiglie intere, perciò, abbandonano ora Badolato e raggiungono i
propri congiunti affluendo nelle principali città statunitensi e, soprattutto,
in Argentina. A Buenos Aires, in particolare, si forma una consistente colo-
nia di badolatesi, dando avvio alla nascita di “doppi” del paese nei luoghi di
destinazione. In una seconda fase, invece, le sempre più numerose partenze
si indirizzano verso gli stati europei. Intorno agli anni ’50-’60, in paesi come
Germania, Francia, Belgio, Svizzera vi è una grande richiesta di personale
specializzato. Molti badolatesi decidono di seguire i corsi professionalizzan-
ti (per muratori, carpentieri, potatori, innestatori, ecc.) istituiti dalla Regio-
ne Calabria nel dopoguerra, e con i diplomi conseguiti si apriranno per loro
le porte dell’emigrazione intercontinentale. Quello di questo periodo è un
nuovo esodo di massa che in soli dieci anni registra, secondo dati Istat,
1.656 partenze. Colonie di emigrati nascono in Francia, in Germania (tra
Hannover e Monaco) e, soprattutto, in Svizzera, a Wetzikon, cittadina del
cantone di Zurigo dove negli anni si stabilisce, con i suoi 700 membri circa
(oggi tuttavia scesi a 349), la più grossa comunità di badolatesi all’estero63.
Nel ventennio 1951-1971 il saldo migratorio di Badolato è in netto
passivo (–1.542) ma è bilanciato da un saldo naturale ancora più che positi-
vo (+1.231). La contrazione della popolazione residente è di sole 311 unità e
a fine periodo il paese conta 4.791 abitanti (v. Tab. 3). Il forte esodo di que-
sti anni, tuttavia, inizia ad alterare la struttura demografica del paese. A dif-
ferenza di quanto avvenuto nella prima emigrazione, infatti, con la seconda
ondata si assiste alla partenza non solo di popolazione giovane (maschile e
femminile, in età lavorativa) ma, come detto, soprattutto di interi gruppi fa-
miliari. In paese restano perlopiù persone adulte o anziane. L’esodo e gli
squilibri indotti, che diverranno più evidenti nei decenni a seguire, provo-
cano un’emorragia in molti settori produttivi (con una perdita netta di forza
lavoro) e la scomparsa di diverse figure professionali, soprattutto artigiani.
Nel periodo 1971-1991 il saldo naturale si mantiene ancora su valori
positivi ma è comunque in palese calo rispetto al passato, a testimonianza di

63 Vincenzo Squillacioti, intervista del 15 giugno 2011.

- 165 -
un progressivo decadimento della popolazione, che produce una significati-
va riduzione delle nascite. I flussi migratori risultano ancora molto consi-
stenti (1.955 partenze nell’arco del ventennio) ma i nuovi esodi non si indi-
rizzano quasi più verso gli stati esteri. Le nuove mete di emigrazione diven-
tano le città industrializzate del Nord Italia. Piemonte e Lombardia accol-
gono il maggior numero di emigrati badolatesi e a Rho, nel milanese – dopo
le Badolato sorte in marina, a Buenos Aires e a Wetzikon – nasce una quin-
ta Badolato, con una comunità di 500 individui circa.
Nel periodo 1991-2013 gli scompensi rilevati nei decenni precedenti
divengono fattori endemici del declino demografico del paese. Il saldo mi-
gratorio continua ad essere in passivo (anche se con cifre più moderate) e –
quel che è più indicativo – per la prima volta nella storia evolutiva di Bado-
lato, anche quello naturale presenta valori negativi. L’invecchiamento della
popolazione produce un aumento dei decessi e un sempre più marcato calo
della nascite (–75,22% rispetto al ventennio 1931-1951), con un decremen-
to di ulteriori 284 abitanti. Dall’anno di massima espansione al 2013 la po-
polazione badolatese passa così dai 5.102 residenti ai 4.669 (v. Tab. 3).

Tab. 3. Movimento anagrafico e popolazione residente nel comune di Badolato


(1931-2013)

Saldo Saldo Saldo Popolazione


Periodo
naturale migratorio complessivo totale
1931-1941 + 530 – 208 + 322 4.519

1941-1951 + 630 – 47 + 583 5.102

1951-1961 + 706 – 760 – 54 5.048

1961-1971 + 525 – 782 – 257 4.791

1971-1981 + 297 – 194 + 103 4.894

1981-1991 + 130 – 71 + 59 4.953

1991-2001 –4 + 13 +9 4.962

2001-2011 – 137 – 121 – 258 4.704

2011-2013 – 28 –7 – 35 4.669

Elaborazione su dati Istat

In questo periodo i flussi migratori si riducono considerevolmente ri-


spetto a quelli di un tempo; ciò nonostante la gente – alla spicciolata, a po-
chi alla volta ma con preoccupante costanza – continua ad andare via da Ba-

- 166 -
dolato. La mancanza di lavoro resta la causa principale; tuttavia, mentre nei
vari esodi del passato emigravano soprattutto braccianti, contadini, artigiani
che trovavano impiego nel settore edilizio, oppure all’interno delle miniere
o nelle fabbriche, ora le mutate condizioni sociali e le diverse aspettative di
vita fanno sì che a partire siano soprattutto giovani laureati, che cercano
un’affermazione professionale in contesti sociali e lavorativi più dinamici
rispetto a quello di appartenenza. Spesso le partenze sono anche più preco-
ci. Molti badolatesi vanno via già per studiare, raggiungendo le città univer-
sitarie della regione (Cosenza, Reggio Calabria) o fuori di essa, per poi resta-
re generalmente nei nuovi luoghi di residenza e fare ritorno in paese solo
stagionalmente o occasionalmente64.
La relativa vicinanza dei posti di destinazione – risultando quasi del
tutto conclusa la stagione dell’emigrazione all’estero – e la facilità e rapidità
di spostamento odierne consentono di avvertire con meno preoccupazione
queste partenze, che sembrano connesse a problemi contingenti e vengono
percepite, in certa misura anche dagli stessi emigranti, come partenze tem-
poranee. Molti tra essi, ad esempio, pur vivendo stabilmente altrove non
trasferiscono la propria residenza anagrafica dal comune di origine, come a
testimoniare l’intenzione, la speranza o l’illusione di possibili, futuri ritorni
che tuttavia avvengo di rado e sono tali da non segnare alcun significativo
mutamento di rotta.
Se per un verso i dati sull’evoluzione di Badolato sin qui analizzati in-
troducono alla considerazione dei fattori di declino che hanno agito al suo
interno – alta percentuale di emigrazione, progressiva senescenza demogra-
fica e involuzione della natalità (con conseguente inversione del saldo natu-
rale) – dall’altro finiscono per registrare, dalla metà del Novecento agli ul-
timi rilevamenti, una riduzione complessiva della popolazione residente pa-
ri appena all’8,49%, tale che non consentirebbe, dunque, di parlare di tan-
gibili processi di spopolamento65. Già concentrando l’attenzione, però, sui
dati della popolazione effettivamente presente possiamo più correttamente
rilevare un decremento pari, in realtà, al 35,1%. Dopo la crescita dei primi
decenni del secolo, infatti, il paese, già tra il 1951 e il 1971, passa dal picco
dei 4.844 presenti ai 3.774, con uno scarto netto di 1.070 abitanti. Nei dieci

64 Ibidem.
65 E infatti un recente e già citato studio di catalogazione e analisi dei centri in via di spopolamento in Ca-
labria non inserisce nell’indagine Badolato, classificato semplicemente come centro di interesse storico in calo
demografico ma non a rischio abbandono. Vedi Teti M. A. (a cura di) 2013.

- 167 -
anni seguenti, in una fase transitoria di relativo stallo dei processi involuti-
vi, Badolato conosce un lieve incremento che riporta la popolazione alle so-
glie dei 4.000 censiti. In seguito, però, il trend negativo riprende il suo cor-
so e non si registrano più nuovi aumenti. Nel 1991 troviamo in paese 3.552
abitanti, che scendono a 3.143 nel 2013. Il saldo passivo complessivo, dal
1951 a oggi, viene così calcolato in 1.701 individui, con un tasso di decresci-
ta più che quadruplicato rispetto ai 433 del calcolo sui residenti (v. Tab. 4).

Tab. 4. Popolazione residente e popolazione presente nel comune di


Badolato (1931-2013)66

Anno Popolazione residente Popolazione presente

1931 4.414 4.205

1941 4.519 4.316

1951 5.102 4.844

1961 5.048 4.417

1971 4.791 3.774

1981 4.894 3.994

1991 4.953 3.552

2001 4.962 3.436

2011 4.704 3.178

2013 4.669 3.143

Elaborazione su dati Istat

Tuttavia, è solo ricorrendo ai dati sulla popolazione presente per cen-


tro abitato che è possibile cogliere con maggiore puntualità e quantificare
con più esattezza i processi di spopolamento in atto nel paese. Nelle pagine
di questo paragrafo abbiamo parlato di Badolato facendo riferimento all’abi-
tato nel suo insieme, ossia comprendendo nell’analisi sia i dati relativi al
borgo superiore che quelli riferiti alla frazione sorta in marina. E abbiamo
dunque rilevato che il paese vive da tempo – ma con esiti relativamente
contenuti – una fase di regresso demografico. Quando parliamo di rischio

66
Per popolazione residente – da definizione propria degli studi di demografia – si intende qui quella co-
stituita dalle persone, di cittadinanza italiana e straniera, che hanno posto domicilio anagrafico in paese, anche se
assenti al momento della rilevazione perché temporaneamente presenti in altro comune o all’estero. Per popola-
zioni presente, invece, si intende quella effettivamente presente in paese ed avente in esso dimora abituale non-
ché quella presente nel comune alla data del censimento ma avente dimora abituale in altro comune o all’estero.

- 168 -
abbandono e di spopolamento, però, dobbiamo più opportunamente riferir-
ci a Badolato Superiore. Se i due centri, infatti, costituiscono un’unica realtà
sotto il profilo politico-amministrativo non altrettanto unificate né sovrap-
ponibili appaiono le vicende demografiche, urbanistiche, storiche, culturali
che vi si sono prodotte da sessant’anni circa a questa parte.
Limitatamente ai movimenti anagrafici e alle fasi del popolamento, la
nascita di Badolato Marina ha costituito anzi uno dei principali motivi – se
non il fondamentale – dello svuotamento del borgo superiore. Accanto ai
flussi migratori e all’involuzione dei fattori di crescita dobbiamo pertanto
considerare – quale elemento determinante nelle dinamiche di spopola-
mento del nucleo storico – il progressivo trasferimento della popolazione
verso la frazione di costa.

Tab. 5. Popolazione presente per centro abitato (1931-2013)67

Popolazione presente
Anno Differenza
Badolato Superiore Badolato Marina

1931 4.205 - + 4.205

1941 4.316 - + 4.316

1951 4.844 - + 4.844

1961 3.237 1.184 + 2.053

1971 2.397 1.384 + 1.013

1981 1.768 2.238 – 470

1991 996 2.556 – 1.560

2001 500 2.936 – 2.436

2009 314 2.970 – 2.656

2013 237 (Ind.) 2.906 (Ind.) – 2.669

Elaborazione su dati Istat

Lo spostamento di abitanti in marina e la creazione di un nuovo nu-


cleo urbano prendono avvio, come ricordato più volte, a seguito del sisma

67 Per un puntuale riscontro circa la popolazione effettivamente domiciliata a Badolato Superiore nel cor-
so degli ultimi decenni ci siamo avvalsi, oltre che dei consueti registri anagrafici elaborati dall’ISTAT, dei seguenti
contributi: Squillacioti V. 2005a, “Censimento a Badolato Superiore – 8 febbraio 2005”, in «La Radice», anno XI n.
1, 31 marzo, parte Iª, p. 29; Id. 2005b, “Censimento a Badolato Superiore – 8 febbraio 2005”, in «La Radice», anno
XI n. 2, 30 giugno, parte IIª, pp. 8-9; Id. 2009, “Un censimento ancora”, in «La Radice», anno XV n. 3, 31 dicem-
bre, pp. 14-15.

- 169 -
del 1947 e delle alluvioni del 1951. L’esodo dal borgo è, da subito, consi-
stente. Già nel 1961, in soli dieci anni, il nuovo insediamento raggiunge
quota 1.184 presenti mentre il centro storico registra una contrazione di
1.607 abitanti. Nel corso dei successivi decenni la popolazione presente in
alto continua a diminuire incessantemente e con ritmo vertiginoso, a fronte
di un progressivo aumento di quella lungo la costa. Nel 1971 lo scarto tra i
due centri si assottiglia sempre più e nel 1980 avviene il sorpasso: la popola-
zione di Badolato Superiore è in numero minore rispetto a quella di Badola-
to Marina (1.948 abitanti contro 1.965, con uno scarto passivo pari a –17).
Negli anni la forbice negativa si allarga in maniera sempre più evidente, fi-
no a raggiungere quota –2.656 nelle ultime rilevazioni ufficiali. Già nel
1991 il borgo regredisce sotto i 1.000 abitanti e a distanza di un decennio la
popolazione, ulteriormente dimezzata, scende a 500 individui. Nel 2009 il
paese conta appena 314 anime, con un numero di abitanti ormai inferiore a
quello registrato all’epoca della sua fondazione. In poco più di sessant’anni,
dunque, il borgo perde una popolazione costruita in oltre nove secoli di sto-
ria. E la parabola discendente prosegue fino ai nostri giorni. Nel 2013, se-
condo alcune stime, vivono stabilmente nel centro in collina soltanto 237
persone contro le 2096 domiciliate in marina (v. Tab. 5). Dal 1951 ad oggi
Badolato Superiore vede smarrire qualcosa come 4607 abitanti, con un im-
pressionante saldo negativo (–95,11% della popolazione totale) che sembra
presagire il completo svuotamento del paese.
Se i mutamenti organici della popolazione di Badolato – considerato
nella sua unità amministrativa di borgo superiore e di frazione marina – in-
troducono, dunque, elementi di decremento e, specie negli ultimi decenni,
di declino demografico, circoscrivendo l’analisi al solo abitato collinare pos-
siamo invece osservare che le dinamiche del popolamento mostrano accen-
tuati caratteri di problematicità che sfociano in vere e proprie manifesta-
zioni di malessere demografico, inteso come “una sintesi delle conseguenze
demografiche, economiche, sociali, culturali e psicologiche di una popola-
zione a causa dell’alterazione della sua struttura”68. Abbiamo sin qui osser-
vato alcuni aspetti di carattere demografico del problema, parlando dello
spopolamento del borgo. Nelle pagine che seguono, invece, ci occuperemo
delle dinamiche di più specifica natura sociale, culturale, psicologica tor-
nando a parlare – più pertinentemente – di abbandono.
68 Calabrese E. 2006, p. 205. Sul concetto si veda Golini A., Mussino A., Savioli M. 2000, Il malessere de-
mografico in Italia, Bologna, Il Mulino.

- 170 -
IV. 3. Le fasi e le forme dell’abbandono

L’abbandono di Badolato, in maniera non difforme da quanto traccia-


to nella sezione teorica del capitolo, è determinato dal convergere e dal so-
vrapporsi di molteplici fattori di cambiamento all’interno del quadro socia-
le, culturale, economico, urbanistico del paese. Ed è da porre in connessio-
ne al prodursi, sul territorio, di eventi naturali che hanno agito quali agenti
di trasformazione del paesaggio nonché segnato la mentalità e la psicologia
delle genti.
Nell’arco dei secoli la popolazione di Badolato sperimenta in più occa-
sioni il senso di impotenza e di smarrimento, l’angoscia e il sentimento del-
la fine di fronte a rovinose calamità che hanno sedimentato, nel tempo, me-
lanconie da catastrofe, desideri di fuga e nostalgie da abbandono. Nel 1544
un violento terremoto causa il crollo di 26 abitazioni e altri eventi tellurici,
tuttavia di modesta entità, si verificano nel 1596 e nel 1599. Il Seicento è,
per il paese, un secolo funesto, segnato dal fitto susseguirsi di ulteriori sismi.
Tra il 1609 e il 1635 se ne registrano cinque, di varia intensità e dannosità.
Nel 1638 un nuovo, disastroso terremoto provoca la morte di 34 persone ma
è con le scosse devastatrici del 19 giugno 1640 che Badolato vive per la pri-
ma volta l’esperienza del rischio abbandono. Il sisma procura danni gravis-
simi a tutto il tessuto edilizio e causa la morte di circa 300 abitanti, rappre-
sentando così l’evento più tragico nella storia del paese. La gente si mette in
fuga, l’abitato viene repentinamente disertato. L’abbandono, tuttavia, non è
né totale né definitivo. Dopo una prima fase di dispersione della comunità,
infatti, le case vengono ricostruite in loco e il paese lentamente ripopolato,
come dimostrano le fasi evolutive dell’impianto edilizio e l’incremento de-
mografico registrato a distanza di qualche anno.
Altre vittime ancora si registrano con il terremoto del 5 novembre
1659. Nel distretto di Badolato, che include i limitrofi centri di Sant’Andrea
Apostolo e di Isca sullo Ionio, si contano 60 morti (di cui 19 sono i badola-
tesi). In paese, inoltre, 140 case e 8 chiese risultano distrutte. Con il tragico
sisma del 178369, che devasta ampie zone della Calabria, Badolato viene di-

69 Per le notizie storiche sul terremoto del 1659 vedi De Marinis D. A. 1660, Relazione fatta a S. E. sopra

li danni che hanno patito città, terre e casali nella Provincia di Calabria Ultra, per cagione del terremoto, che se-
guì la notte delli 5 di Novembre 1659, Napoli; D’Amato V. 1975, pp. 241-242. Per quelle relative al sisma del 1783
si veda Vivenzio G. 1788, Istoria de’ tremuoti del 1783, Napoli, Stamperia Reale; Grimaldi A. 1863, La Cassa Sa-
cra, ovvero la soppressione delle manimorte in Calabria nel secolo XVIII, Napoli, Stamperia dell’Iride, pp. 137-
144; Colletta P. 1846, Storia del Reame di Napoli, Le Monier, vol. I, pp.127-128.

- 171 -
chiarato inabitabile e con quello del 1905 ne viene disposto il trasferimento
a totale carico dello Stato, sottoponendo così la popolazione al rischio di un
nuovo, paventato abbandono che tuttavia non si concretizza per la mancata
attuazione del piano di ricostruzione.
Nel 1908 il terremoto che rade al suolo Reggio Calabria e Messina
viene avvertito anche a Badolato, procurando nuovi momenti di panico. Il 9
ottobre 1925, invece, una terribile alluvione – che provoca danni soprattut-
to nel territorio in marina – determina il crollo di un ponte ferroviario sul
fiume Ponzo e nel deragliamento di un treno trovano la morte 7 persone.
Nuove scosse, poi, colpiscono il paese il 2 febbraio 192870.
Come per molti altri centri della Calabria, dunque, la minaccia del-
l’abbandono, a seguito di calamità naturali, è una componente costante nel-
la storia di Badolato; e il desiderio di fuga e la prospettiva di rifondazione
sono sentimenti e pensieri che covano nell’animo dei suoi abitanti e matu-
rano nel tempo. Tuttavia, è solo con il nuovo sisma del 1947 e, soprattutto,
con le alluvioni del 1951 (con un’appendice nel 1953) che la diserzione del
paese e la sua dislocazione lungo la costa trovano pratica attuazione. A dif-
ferenza che nel passato, infatti, gli episodi calamitosi di questi anni si inne-
stano su dinamiche di profonda trasformazione socio-culturale e di conver-
sione dell’assetto economico-produttivo che rendono non solo pensabile ma
ora anche possibile l’abbandono. Gli eventi naturali agiscono cioè come ac-
celeratori di processi erosivi, di mutamenti culturali e di spinte moderniz-
zatrici già presenti nel tessuto della società badolatese. In questo contesto,
anzi, il sisma e le alluvioni finiscono per giustificare e dare legittimità ad un
percorso di innovamento e di trasformazione già avviato.
Vincenzo Squillacioti, interlocutore privilegiato nel corso della nostra
ricerca, profondo conoscitore del luogo, individua allora i germi dell’abban-
dono di Badolato anzitutto nella rottura dell’isolamento – sociale e culturale
– rappresentato dalla presenza, sul territorio, dei soldati americani a ridosso
del secondo conflitto mondiale. Quello badolatese di allora è un mondo
chiuso, autarchico, quasi completamente autosufficiente da un punto di vi-
sta economico. Anche sul piano culturale il paese è ancorato a un orizzonte
ristretto, limitato, che pure le emigrazioni dei primi decenni del Novecento
già erano intervenute a modificare. Nel corso del primo colloquio, avuto nel
giugno del 2011, il nostro interlocutore argomenta:

70 Cfr. Gesualdo A. 2009, pp. 16-22; Mirarchi M. 1986, pp. 177-204.

- 172 -
Le progressioni di tipo civico, di tipo culturale, di tipo umano sono state mol-
to, molto lente. Per secoli la civiltà badolatese, anche quella che io ho conosciuto a
metà del secolo scorso, ha mantenuto gli stessi schemi di civiltà, le stesse strutture di
civiltà. Strutture mentali, strutture sociali, strutture economiche, e così via. Badola-
to, fino almeno al 1870, come un po’ tutto il Sud, è rimasto immobile. Anche come
movimenti umani. Erano quei movimenti umani nei paesi vicini, legati soprattutto
alle colture, alle esigenze di manodopera o ad altre attività. Alla fine del secolo, è
vero, cominciano già le partenze per le Americhe. Ma il processo di trasformazione
– sul piano urbanistico, sul piano demografico, sul piano storico – si innesca solo a
ridosso della seconda guerra mondiale.
E io il lievito, le prime gocce di lievito del cambiamento, della trasformazio-
ne, dell’abbandono di Badolato Superiore le pongo proprio nel 1943. Perché questa
data così precisa? Perché io ricordo che ancora allora la massa dei badolatesi, che era
costituita per il 90% circa da contadini e per un altro 4-5% da artigiani, non cono-
sceva il cioccolato, non conosceva le scatolette di carne, non conosceva la birra, non
conosceva il latte condensato, non conosceva la sigaretta che non fosse indigena o
Africa. Ebbene, quando il 9 settembre del 1943, dopo l’armistizio, anche da Badolato
sono passati i soldati americani io vedevo e ricordo come gli adulti giovani di 20-25
anni scendevano in marina in quei giorni, caricavano i panieri di pesche e di pro-
dotti locali, li porgevano ai soldati americani i quali davano loro in cambio questo
latte condensato, le scatolette di carne, le sigarette Chesterflield. Io ho maturato la
sensazione netta, precisa, ma non ho documenti per dimostrarlo, che questo è stato
un po’ una prima scossa di terremoto per la popolazione immobile di Badolato. C’è
per la prima volta il contatto con un mondo che non si conosceva. E si vedeva subito
che era un mondo paludato. E io ho notato, a livello epidermico, che i giovani più
avanti di me negli anni erano affascinati da questo mondo71.

La novità, dunque, e l’immagine di benessere che traspare da questo


mondo appena intravisto esercitano, sull’universo contadino badolatese (in
particolare sulla popolazione giovane), tutto il proprio potere di attrazione.
Quella della Badolato di quegli anni è ancora una società chiusa, legata a
forme economiche di sussistenza, con una scarsissima circolazione di pro-
dotti alimentari, se non di quelli direttamente ricavati dal lavoro nei campi.
Ed è una società pervasa da ristrettezze di idee, al cui interno agiscono mec-
canismi di coercizione e di sfruttamento, che creano servilismo e assogget-
tamento culturale. La vista del mondo esterno, pur parziale, consente ora a
questo mondo arcaico, contadino, di uscire dal proprio isolamento e di spa-
lancarsi alla modernità. Cominciano a insinuarsi, negli animi dei badolatesi,
volontà di riscatto economico e di emancipazione culturale che agiranno, in
breve tempo, come forze centrifughe e innescheranno meccanismi di fuga.
71 Vincenzo Squillacioti, intervista del 15 giugno 2011.

- 173 -
IV. 3. 1. Spinte centrifughe e resistenze centripete

Una notte parve nel sonno di perdere l’equilibrio, di non trovare il


verso per stare coricati, e neppure seduti, e neppure in piedi. Si sentiva
lo scricchiolio delle travi, lo sgretolio dei muri, come un lamento di
tutto quello che deve sopportare un edificio. I bicchieri si urtavano fra
loro nella credenza; fuori era un boato che si lasciava dietro, come un
uragano, le foglie secche; un vocio, un implorare, un chiamarsi. Mio
padre, carponi sotto il tavolo, alla luce del lumicino notturno, credeva
di uscire dalla porta. Il terremoto. Non sapendo più se camminare coi
piedi o con le mani, ci trovammo sul ballatoio della scala esterna. Il
mare era torbido, di piombo, senza respiro. Il cielo maligno, percorso
da stracci grigi, con una luna che fuggiva all’impazzata. La gente corre-
va verso il mare. Sulla spiaggia, in ginocchio, tra lumini accesi, le don-
ne pregavano cantando con quella voce accorata, un po’ brusca come se
richiamassero un nume distratto. L’alba rivelava che non era successo
niente di grave. Si erano fermati gli orologi. Furono regolati sull’appa-
rizione puntuale della locomotiva.

Corrado Alvaro, Stagione sull’Jonio

Nella notte del 10 maggio 1947 la popolazione badolatese viene risve-


gliata da alcune scosse di terremoto72. Trascorre la nottata in stato d’allerta
poi, alle 8,30 del mattino seguente, l’intera area del Golfo di Squillace viene
percorsa da una terza, violenta scossa dell’VIII-IX grado della scala Mercal-
li. I badolatesi fuggono in massa dalle loro case appese allo sperone di roc-
cia; cercano rifugio e riparo in aree pianeggianti del paese, raggiungono i
casini di campagna. Molti si dirigono verso le terre di Mingiànu per siste-
marsi in un baraccone che già nel 1908 aveva ospitato terremotati; altri si
assiepano in località Jardìnu, dove vengono approntate baracche di emer-
genza. E tende da campo vengono allestite anche in piazza Santa Barbara. Il
13 maggio, alla presenza dell’Arcivescovo, viene celebrata una solenne pro-
cessione. La statua del patrono protettore, Sant’Andrea Avellino, è condotta
in corteo per i vicoli, le rughe e le campagne del paese ad impetrare prote-
zione e a pregare di far cessare quello che la popolazione continua a vivere
come un castigo divino.
I badolatesi trascorrono ancora alcuni giorni nelle campagne poi, pas-
sati il panico e il senso di smarrimento iniziali, cominciano a rientrare – la
maggior parte – nelle proprie case. Alla conta dei danni vengono accertati
sette feriti, rilevate lesioni a una cinquantina di abitazioni e, almeno secon-
72 Per le notizie sul terremoto di seguito riportate rinviamo al contributo di Squillacioti V. 1996. Cfr. Mi-
rarchi M, 1986, pp. 194-202.

- 174 -
do talune fonti, disposta l’evacuazione di 500 famiglie73. Le zone di declivio
della Jusutèrra e alcune aree del Mancùsu e del Destru – tutti rioni ad alta
densità contadina – risultano essere quelle più colpite dal sisma ma danneg-
giamenti, sia pure di modesta entità, vengono registrati anche in altri punti
del tessuto urbano.
Nei giorni e nei mesi successivi si fa pressante la necessità di costruire
nuove case per ospitare gli sfollati, e si comincia a discutere circa l’ubicazio-
ne di queste nuove costruzioni. Per le sue intrinseche caratteristiche inse-
diative il paese non consente alcun ulteriore sviluppo edilizio, se non nella
citata località Jardìnu, area agricola – comunque di limitata estensione –
non lontana dai resti del castello. Alcuni privati decidono di stanziarvisi e,
negli anni, vi fabbricano una quindicina abitazioni. Per il resto dei terremo-
tati, invece, i rilevamenti e le relazioni dei tecnici individuano come area
idonea per le nuove edificazioni – contro il parere di gran parte dei diretti
interessati – un breve tratto di terreno, distante sette chilometri dal centro,
lungo la statale litoranea 106, vicino al casello ferroviario di Marina di Ba-
dolato (non ancora Badolato Marina). Le scelte politiche avallano il proget-
to e, con gli stanziamenti dello Stato, si dà avvio ai lavori. Il primo lotto di
case viene consegnato già nel novembre del 1947. Tra l’ottobre del 1949 e il
febbraio del 1951 vengono consegnati altri tre lotti, per un totale di trenta-
due appartamenti.
All’assegnazione degli alloggi, molti degli evacuati – che nel frattem-
po hanno riattato alla meglio e riabitato le case in paese – rifiutano di tra-
slocare in marina e disertano le nuove costruzioni, che restano vuote per
molti mesi. Essendo i più tra loro, infatti, contadini e braccianti, legati dun-
que alla produzione agricola, trovano inconcepibile trasferire la propria re-
sidenza in luoghi lontani dai campi e dagli orti. In questa fase, perciò, gli
impulsi di sviluppo della marina sono marginali e molti badolatesi non av-
vertono quelle esigenze di cambiamento e di ammodernamento che, come
si è detto, cominciavano ad essere presenti nel tessuto sociale ed erano ora
rafforzate dalla sopraggiunta calamità. La loro vita continuava a svolgersi
secondo gli schemi del passato, come conferma Squillacioti: “Il terremoto
dell’11 maggio 1947 non ha sconvolto l’assetto tradizionale della società e
dell’economia badolatese. Non ha sconvolto niente. Non ha prodotto danni
né alla visione del mondo, né all’economia, né alle famiglie. Anche i danni

73 Cfr. Gesualdo 2009, pp. 16-20.

- 175 -
all’assetto edilizio sono in realtà minimi. Le case in marina, allora, comin-
ciano ad essere abitate dopo qualche tempo da persone che in realtà avver-
tivano il germe delle trasformazioni in atto e si trasferiscono alla ricerca di
migliori condizioni di vita, di case più comode, pur non essendo nell’elenco
dei terremotati”74.
L’orizzonte culturale, sociale, economico della popolazione badolatese
resta saldamente ancorato, in questi anni, all’universo contadino, al lavoro
nei campi. E i fermenti di riscatto passano, anzitutto, proprio attraverso la
ricerca di nuove terre da coltivare. Molti emigrati, per esempio, cominciano
ad investire i soldi delle rimesse nell’acquisto di qualche appezzamento di
terreno, anche in vista di un possibile ritorno. Di volta in volta comperano
un piccolo vigneto, un pezzo di uliveto, e così via, in modo da assicurarsi un
primo affrancamento – di natura essenzialmente economica, non ancora so-
ciale – e da favorire una frammentazione, per quanto risibile, della grande
proprietà fondiaria in mano alle baronie locali.
La vita, non soltanto dei badolatesi, continua a svolgersi all’interno;
guarda verso la montagna piuttosto che verso il mare. Per ampie fette della
popolazione calabrese (e meridionale più in generale), infatti, la montagna,
le campagne, l’economia della terra (a discapito di un’economia del mare)
continuano ad essere il «centro» di riferimento del loro mondo produttivo e
culturale, come dimostra anche, tra gli anni ’40 e gli anni ’50, l’esaltante e
spesso dolorosa stagione delle lotte contadine per l’occupazione delle ter-
re75. Badolato – afflitta ancora da fame, miseria e latifondo – partecipa alle
manifestazioni di riscatto civile di questi anni con uno sciopero a rovescio,
che segna una tappa fondamentale della recente storia del paese in merito ai
rapporti di solidarietà e condivisione, alla compattezza e coesione interna,
al senso di comunità manifestati dai suoi abitanti.
Nel 1950, infatti, la popolazione badolatese, in continuo aumento e al-
la ricerca di nuove terre da coltivare, decide – dietro esortazione dei diri-
genti del locale Partito Comunista – di far fronte alla fase di profondo re-
gresso economico e alla cronica mancanza di lavoro recuperando un vec-
chio progetto per la realizzazione di una carrozzabile di collegamento tra il

74 Vincenzo Squillacioti, intervista del 15 giugno 2011.


75
Sull’occupazione delle terre nel Meridione d’Italia e, più specificamente, in Calabria si vedano, tra i
molti riferimenti possibili, Cinanni P. 1979, Lotta per la terra nel Mezzogiorno 1943-1953, Venezia, Marsilio Edi-
tore; Id. 1977, Lotte per la terra e comunisti in Calabria 1943-1953, Milano, Feltrinelli; Alcaro M., Paparazzo A.
1976, Lotte contadine in Calabria 1943-1950, Cosenza, Lerici. Sulla centralità – economica, culturale, simbolica –
della montagna per la popolazione calabrese si veda Teti V. 2002a.

- 176 -
paese e le montagne delle Serre, fino a Brognaturo. La strada, che avrebbe
ampliato il viottolo comunale esistente, doveva servire, nelle intenzioni, a
mettere in comunicazione il litorale jonico con quello tirrenico. In tal modo
si sarebbe potuto rompere l’isolamento geografico del paese, facilitando gli
spostamenti e incentivando i rapporti e gli scambi con altri centri abitati, e
si sarebbero potuti raggiungere, con maggiore agio e in minor tempo, nuovi
terreni da mettere a coltura.
Dopo la regolare approvazione del progetto, voluta e ottenuta dai di-
rigenti di partito che speravano in tal modo di garantire ai partecipanti il
diritto di essere pagati per il lavoro che avrebbero svolto – paga che non
verrà mai corrisposta – lo sciopero a rovescio viene annunciato alla popola-
zione dalla tromba del banditore (vandèri) dell’epoca e, all’alba del 13 otto-
bre, circa 400 badolatesi (uomini, donne, ragazzi) si ritrovano in piazza Fos-
so, qualcuno munito di paioli e vettovaglie per la mensa da campo e tutti di
arnesi da lavoro (zappe, picconi, badili, roncole, scuri) per gli sbancamenti e
i dissodamenti da eseguire. La massa scioperante si dirige così verso la cam-
pagna di Giambartolo, a ovest del paese, e nel casino lì presente del barone
Gallelli – per l’occasione illecitamente occupato – stabilisce il proprio quar-
tier generale. La manifestazione (faticosa e di lunga durata, nelle previsioni)
viene osteggiata dai tutori dell’ordine che, temendo sobillazioni e rivolte di
popolo, già nella fase iniziale arrestano alcuni degli organizzatori (successi-
vamente prosciolti in fase processuale) e in più occasioni, ma evitando uno
scontro frontale con i manifestanti, cercano di sedare la protesta. La resi-
stenza e il lavoro dei badolatesi si protraggono per quasi tre mesi, fino al 9
gennaio 1951, al termine dei quali risultano realizzati circa tre chilometri e
mezzo di strada, che non sarà poi portata a termine76.
Con l’esperienza dello sciopero a rovescio la popolazione di Badolato,
culturalmente lontana dal mare, rivolge ancora le proprie idee e prospettive
di sviluppo verso la montagna e le aree interne. La marina continua ad esse-
re percepita, dalla maggioranza degli abitanti, come un deserto, come un’a-
rea improduttiva e insalubre. Il permanere, inoltre, delle vaste proprietà di
stampo latifondista, appena intaccate dai processi di ridimensionamento cui
si è accennato, impedisce a contadini e braccianti di guardare ai territori di
costa come a zone di possibile e stabile trasferimento.

76 Per una puntuale ricostruzione dei fatti di Badolato, qui solo accennati, si veda Squillacioti V. 2000.
Cfr. la rielaborazione in veste di romanzo fattane da Chirico F. 2011. Allo sciopero a rovescio Franco Muià, foto-
grafo e operatore culturale, da tempo attivo a Badolato, ha dedicato una mostra fotografica nell’estate del 2011.

- 177 -
IV. 3. 2. Il racconto dell’abbandono: l’alluvione del 1951

I muri delle case erano bagnati. L’acqua continuava a cadere fitta,


ostinata, e faceva una musica strana, sulle tegole. Nel fondo della notte
udii un gran fracasso. Era caduta certo qualche casa di terra e pietra.
Molte case a Terrarossa erano di terra e pietra e minacciavano di cade-
re. Un altro fracasso. Certo un’altra casa era caduta. Non potevano resi-
stere quelle catapecchie sotto la pioggia.
Non si udiva una sola voce umana, tanto forte era lo scroscio
dell’acqua; ed il rumore della fiumara era assordante. Intere montagne
franavano, e pecore e capre morivano e vacche. Già molti avevano la-
sciata la propria casa e si erano rifugiati in quelle più forti; e molti altri
erano andati nella chiesa che era di ferro e cemento e non poteva cade-
re. Il cielo era diventato cupo cupo; le nubi si erano abbassate di più
sulla terra. Un tuono sordo risuonò per il cielo e sulle case, come una
bomba. Sentimmo tutta la casa tremare, come se ci fosse un violento
terremoto. Voci di uomini e di donne gridavano nel buio; grugniti di
porci e belati di capre. «Alla chiesa, alla chiesa!» si sentiva. «Sono le
rocce che rotolano da sopra!».
Anche noi corremmo alla chiesa, che era già piena di grida e di
pianti, e che era quasi buia. Arrivavano sempre uomini e donne coi
bimbi in braccio, in collo, erano fradici d’acqua e tremavano. «Bisogna
pregare!» disse il prete, alzandosi. S’inginocchiarono tutti; noi tre fore-
stieri stemmo all’impiedi, in un lato. «Mettiamo fuori dallo stipo San
Rocco» disse il prete. «San Rocco!» ripeterono tantissime voci; e degli
uomini misero fuori il santo; e le donne s’incominciarono a pestare il
petto; ma l’acqua fuori aumentava. Delle schegge di teda accesa furono
messe davanti al santo, e rischiaravano tristemente la chiesa.
Si allargò il cielo la mattina appresso. Pioveva di meno e verso le
dieci un bianco raggio di sole illuminò Terrarossa, che era quasi di-
strutta. Anche la nostra casa era caduta, e quella di Carmela, e quella di
Peppino che era morto. Non vi so raccontare quello che era successo.
«Che disastro!» esclamavano ad ogni passo. «Che sarà di noi, ora?» fece
Biasi, guardando Terrarossa. «Sarà che la guerra finirà presto. E, a guer-
ra finita, pianteranno Terrarossa in un altro posto, e costruiranno le ca-
se con un altro criterio» disse Costanzo.

Saverio Strati, La teda

Il 1951 è l’anno di grandi, tragiche alluvioni che si abbattono su diver-


se regioni italiane. Tra i mesi di ottobre e di novembre le piogge torrenziali
provocano danni gravissimi nella Sicilia orientale (principalmente a Catania
e provincia) e, ancor più, nella parte centro-orientale della Sardegna (con
l’abbandono dei paesi di Gairo e Osini) e in Veneto (nell’area del Polesine,
con lo straripamento del Po e la morte di circa 100 persone). La Calabria,
con le sue 70 vittime, è una delle regioni più martoriate77. I disastri più rile-
vanti si registrano nel versante jonico del reggino, dove l’alluvione porta a
77 Cfr. Caloiero D., Mercuri T. 1980, Le alluvioni in Calabria dal 1921 al 1970, Cosenza, CNR.

- 178 -
compimento l’abbandono di Brancaleone Superiore; determina quello di A-
frico e della frazione Casalnuovo, di Amendolea, di Canolo; e avvia quelli di
Pentedattilo, Roghudi e Ghorìo di Roghudi. Parziali abbandoni si produco-
no pure nel cosentino (Laino Castello) e nel vibonese (Nardodipace, allora
in provincia di Catanzaro)78. Nel catanzarese subiscono danni alcuni paesi
dell’interno, come Cardinale (di cui si occuperà, con un’inchiesta giornali-
stica, lo scrittore Sharo Gambino79) e allagamenti e guasti sono segnalati in
quasi tutti i comuni del comprensorio di Soverato (Petrizzi, Satriano, Davo-
li, San Sostene, Sant’Andrea Apostolo, Isca sullo Jonio, Guardavalle). Bado-
lato è il centro più colpito dell’area80.
Le piogge, in paese, cominciano sul finire del mese di settembre poi,
trascorsa una breve pausa, riprendono senza sosta l’11 ottobre. Già dopo i
primi giorni iniziano a franare le colline a monte, che vanno a intorbidare e
ostruire i diversi corsi d’acqua che lambiscono l’abitato. “Ad ogni ostruzio-
ne, dovuta ad alberi divelti, – ricorda Squillacioti – seguiva un’esplosione il
cui rumore già cominciava a mettere seria paura a chi osservava lo spettaco-
lo dalla finestra, dal balcone, dal terrazzo. E poi l’inondazione che tutto tra-
volgeva al suo passaggio, coprendo orti, mbarchi, càlatri e mulini”81. Le pre-
cipitazioni proseguono incessanti per diversi giorni. Il vento scoperchia non
pochi tetti e l’acqua infradicia i muri. Nella notte tra il 15 e il 16 ottobre
una parete di un edificio in fase di ristrutturazione si abbatte su di una casa
sottostante, provocando la morte di una persona. Il cadavere, estratto dopo
alcune ore dalle macerie e deposto in una bara, viene trasportato presso l’a-
bitazione della figlia ma anche la casa di quest’ultima, durante il rituale fu-
nebre di cordoglio, finisce per rovinare seppellendo per la seconda volta la
vittima. La salma, nuovamente recuperata, viene quindi allogata per qual-
che giorno nella chiesa di San Domenico, risultando il cimitero ancora ina-
gibile per i nubifragi e le frane che hanno creato fanghiglia ovunque, squas-
sato loculi e dissepolto resti umani82.
All’alba del 18 ottobre un rimbombo prolungato e continuo si produ-
ce nella zona sud-est del paese. Diverse abitazioni, pare 15, cominciano a
78 Per uno sguardo complessivo ai casi di abbandono qui citati rimandiamo a Colistra D. (a cura di) 2001;
Teti V. 2007a.
79 Cfr. Gambino S. 1952a; Id. 1952b. Altre inchieste dello scrittore sono invece dedicate a Nardodipace.
Cfr. «Atti Parlamentari» 1951; Catenacci V. 1992, “Cronistorie calabresi”, in Id., Il dissesto geologico e
80

geoambientale in Italia dal dopoguerra al 1990, Memorie descrittive della Carta geologica d’Italia, vol. XLVII,
Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, pp. 228-245.
81 Squillacioti V. 1995a, p. 19.
82 Ibidem.

- 179 -
- 180 -
Figg. 65-68. Case alluvionate

- 181 -
crollare, quasi in sequenza, atterrendo e mettendo in fuga la popolazione.
L’abbandono è rapido, immediato, totale. I più scappano dalle loro case sen-
za possibilità di portare nulla con sé. Qualcuno, invece, cerca di salvare il
salvabile, qualche suppellettile, un oggetto caro. Un ragazzo – riporta Squil-
lacioti – dopo esser fuggito con il resto dei familiari, fa ritorno alla propria
abitazione, di nascosto dai genitori, per prendere il fucile del padre e la va-
ligetta dei ricordi di famiglia mentre, con sgomento e senso di spaesamento,
vede crollare le altre case tutt’intorno83. In poche ore scompaiono intera-
mente i rioni Monacèhṛi e San Giànni, che già nel 1855 avevano subito gra-
vi sconquassi per l’insistere di eventi alluvionali e che ora creano voragini
nel tessuto edilizio. Numerosi cedimenti e case sventrate vengono rilevati
pure nel Destru e nella Jusutèrra. Tutta la zona bassa del paese viene perciò
evacuata e, come già per il sisma del 1947, la gente si riversa nella parte alta
e pianeggiante dell’abitato, gremendo piazza Fosso e il rione Santa Barbara.
Le immagini di distruzione e il senso di smarrimento e disorientamen-
to patito in queste ore si imprimono nella memoria e nella coscienza dei
badolatesi, che attraverso preghiere e invocazioni implorano la salvezza. E
con canzoni, poesie, racconti esorcizzano paure e angosce e, nel tempo, rie-
vocano la tragica esperienza vissuta in una sorta di rito collettivo di cordo-
glio. In occasione del Carnevale del 1952, ad esempio, il farsàru Nicola Te-
desco – uno degli ultimi ’mprovvisatùri del paese, esponente di una tradi-
zione di rimatori semianalfabeti e autori di farse che aveva in Calabria larga
diffusione84 – compone ed esegue la Canzona della alluvione, nella quale re-
stituisce il senso di desolazione della comunità di fronte alle devastazioni; e
in cui evoca l’animo affranto e abbattuto degli abitanti, la loro disperazione
per le case crollate e per le ricchezze perdute, la speranza di salvezza già ri-
volta verso lo spostamento dell’abitato in marina, la pena per un mondo che
finisce, per una vita che non sarà più la stessa:

L’annu passato carnalavàra L’anno passato Carnevale


ava arrivato con tanta Vittoria è arrivato con tanta Vittoria
ava arrivato con tanta Vittoria è arrivato con tanta Vittoria
ca fu na festa di grassi maiala. che fu una festa di grassi maiali.

E mo quest’anno chi ava arrivato E ora quest’anno che è arrivato


e scalzi e nudi mi ava trovato e scalzi e nudi ci ha trovati

83 Ibidem. Il tragico ricordo, riferisce ancora Squillacioti, si è impresso nella memoria del ragazzo che solo
dopo oltre quarant’anni è riuscito a ritornare a Badolato Superiore e a visitare i luoghi del disastro.
84 Su queste figure di cantori e poeti dialettali cfr., a titolo esemplificativo, Teti V. 2011a, pp. 139-153.

- 182 -
- 183 -
Figg. 69-72. Rovine

- 184 -
e scalzi e nudi mi ava trovato e scalzi e nudi ci ha trovati
carnalavàra scuntento a venuto. Carnevale scontento è venuto.

Do 17 o vergine bella Dal 17, oh vergine bella,


tieni i tuoi figli che dormono a terra tieni i tuoi figli che dormono a terra
dormono a terra con disperazione dormono a terra con disperazione
che mi a portato stu grande alluvione. che ci ha portato questa grande alluvione.

Dei nostri casi abiamo scappato Dalle nostre case siamo scappati,
a Santa Barbara siamo arrivati a Santa Barbara siamo arrivati;
de tutti i Santi cercamma l’aiuto di tutti i Santi abbiamo cercato l’aiuto
e lu Signuri mi ava salvato. e il Signore ci ha salvati.

Poi l’alluvione si ava calmato Poi l’alluvione si è calmata


ai nostri casi abiamo tornati alle nostre case siamo tornati
ai nostri casi abiamo tornati alle nostre case siamo tornati
e tutti a terra l’abbiamo trovato. e tutte a terra le abbiamo trovate.

E tutti a terra l’abiamo trovati E tutte a terra le abbiamo trovate,


le nostri ricchezzi l’abiamo perduto le nostre ricchezze le abbiamo perdute
le nostri ricchezzi l’abiamo perduto le nostre ricchezze le abbiamo perdute
e morti di fame siamo restati. e morti di fame siamo restati.

Mo questi giorni di carnalavàre Ora questi giorni di Carnevale


la nostra storia vi voglio cantare la nostra storia vi voglio cantare
la voglio cantare con tanta espressione la voglio cantare con tanta espressione
costruendo il paese immarina stazione costruendo il paese nella stazione in marina.

Costruendo il paese immarina stazione Costruendo il paese nella stazione in marina


non c’è più paura di un’altro alluvione non c’è più paura di un’altra alluvione.

O cari signori la storia e finita Oh cari signori la storia è finita,


non c’è più riparo per la nostra vita non c’è più riparo per la nostra vita
non c’è più riparo o cari signori non c’è più riparo, oh cari signori,
perché abbiamo perso i nostri lavori. perché abbiamo perduto i nostri lavori85.

85 Dattiloscritto in allegato a Squillacioti. V. 1995. Anche il poeta Nicola Caporale mette in versi la dolo-
rosa esperienza vissuta e offre un minuzioso e particolareggiato resoconto dell’alluvione: “Piovve. Ripiovve. Il
lungo giorno piovve: / e Copino e Graneli ebbero voce / profonda e cupa nella sporca fuga, / correndo a gara nel
robusto Bruda […]. / Più l'orecchio non colse altro rumore, / né distinguere seppe in quel concerto. / Tutto fu
rombo rimbombante in giro. / […] Sparì la terra nella spessa nebbia, / e nella nebbia la paura crebbe. / Ancor più
crebbe quando il vento quella / a folate rapì: Bruda non rio, / ma orrendo mostro che, giardini ed orti / già divora-
ti da voraci flutti, / al mar mugliante tutto seco addusse. / […] Nel buio della notte e poi del giorno / sotto la fred-
da pioggia, a tempo a tempo, / come frutta matura si staccava / una casa, una ruga. E il rombo intanto / della piog-
gia e del vento e della valle […]. Atterrita e smarrita la tua gente / tentava a la miseria almen sottrarre / le poche
cose : e chi spingeva innanzi / un porco spaventato e chi una sporta / in testa con qualcosa necessaria; / i bimbi si
attaccavano a le gonne / per non sperdersi in tanta spessa calca. / Strilli di infanti, desolati pianti, / alte e strazianti
invocazioni al Cielo / insieme a gran bestemmie contro il Fato. (Caporale N. 2006, pp. 104-106). Francesca Visco-
ne descrive invece così il tragico evento: “Dietro la chiesa i tetti scendevano a poco a poco da un lato. Dall’altro
tutto spariva all’improvviso e non c’era più il paese, non c’era la strada, non c’era pietra non c’era fiore o erba.
All’improvviso il giallo miele delle dune, colline di sabbia o di restuccia rappresa nel sole d’agosto, il grano taglia-

- 185 -
Con l’alluvione del 1951 i badolatesi vivono, come per altre calamità
del passato, il sentimento della fine. E sperimentano, forse più che nel pas-
sato, il dramma per la distruzione dei terreni agricoli (fonte primaria della
loro sussistenza) e per la perdita della casa e dei propri averi. Alla stima dei
danni – secondo quanto riportato nel corso di un’interrogazione parlamen-
tare sullo stato di dissesto del paese – si parla di 890 persone rimaste senza
tetto, per un numero di 234 famiglie86. Di queste, 199 trovano sistemazione
presso il convento di Santa Maria degli Angeli oppure ricevono ospitalità,
per giorni o per mesi, presso parenti e amici. Le rimanenti 35 rifiutano di
occupare le tende da campo allestite dal Genio Civile, per il “timore che tale
provvisoria sistemazione potesse procrastinare la costruzione di ricoveri
stabili”87 (come in parte era successo nell’ultimo terremoto). Alcuni gruppi,
perciò, si stabiliscono presso l’edificio scolastico – allora in fase di ultima-
zione – nelle vicinanze della chiesa di San Domenico; altri, invece, si siste-
mano nel baraccone di Mingiànu (nelle terre della famiglia Paparo), dove
vivranno per oltre un anno. In un passaggio dell’interpellanza viene tutta-
via denunciata la resistenza degli eredi Paparo nel concedere ai senza tetto
altri edifici di loro proprietà88. Nel bilancio consuntivo che viene poi fornito
si parla dell’insostenibile situazione in cui versa il paese, dove

circa 90 case sono crollate seppellendo mobili, danaro, valori, indumenti, prodotti,
sementi, bestiame; altre 405 case sono cadenti; il resto delle case presenta lesioni che
piogge e frane aggraveranno; l’acquedotto e la fognatura sono divenuti inefficienti;
dove le campagne, sia a monte che a valle dell’abitato, sono sconvolte da frane e da
allagamenti che hanno distrutto casette, impianti arborei, raccolti, e che hanno a-
sportato ogni strada poderale; dove i danni a privati già ascendono a parecchi mi-
liardi e quotidianamente si aggravano; dove la popolazione, privata di ogni risorsa,
senza case, senza acqua potabile, in preda al panico, assiste di giorno impotente e di-
sperata alla progressiva distruzione di quanto è rimasto e la sera si ammucchia, in
forma promiscua ed antigienica (dodici a sedici persone per vano) nei portoni, nelle
stalle, nelle case superstiti, minacciata dalla pioggia, dalla fame, dalle epidemie89.

to e bruciato dal sole. Il terribile infante si scatenava in giochi mostruosi e risucchiava la fiumara. La fiumara dove
mia madre e la madre di mia madre e tutte le madri che ci hanno precedute lavavano i panni bolliti nella cenere,
lavavano il freddo della storia e le ferite con una solidarietà e un canto senza fine” (Viscone F. 2000, pp. 10-11).
86
Cfr. «Atti Parlamentari» 1951, p. 32952.
87 Ibidem.
88
Ivi, pp. 32979-32980.
89 Ivi, p. 32948. In un altro passaggio si ribadisce: “A Badolato sono crollate o pericolanti circa 500 case,

ma le altre 700 sono tutte lesionate e anche piogge normali possono provocarne il crollo” ( Ivi, p. 32980). Altri
interventi contestano invece questi dati e parlano di 68 crolli e di 166 abitazioni in rovina ( Ivi, p. 32952). Secondo
altri dati ancora sono 33 le case cadute e 90 le famiglie evacuate. Cfr. Catenacci V. 1992, p. 229.

- 186 -
Nei giorni successivi, il consumo di acqua non potabile e i miasmi –
prodotti dalle carogne in putrefazione degli animali seppelliti sotto le mace-
rie, e non ancora rimossi – sono la causa più plausibile dell’insorgere di
quattro casi di tifo. La popolazione, per più di un mese, è costretta a rifor-
nirsi di acqua nelle fontane fuori dall’abitato e l’acquedotto rimane per lun-
go tempo del tutto inutilizzabile, anche per la distruzione delle opere di
captazione della sorgenti. L’impianto fognario risulta compromesso, in par-
ticolare nel versante orientale dell’abitato, più gravemente rovinato a segui-
to delle piogge90. Danni ingenti vengono arrecati a tutta la viabilità. Il paese
resta isolato per giorni a causa di smottamenti e slavine che rendono impra-
ticabili la strada del Demanio Comunale “Montagna” e le altre vie di colle-
gamento (secondarie o interpoderali) con Santa Caterina e Guardavalle.
Le devastazioni più estese e impressionanti si osservano nel paesaggio
agrario. Il quadro ambientale tutto attorno al paese viene completamente
stravolto da frane e inondazioni che squarciano colline, sfaldano fianchi di
montagne, ricoprono di detriti le valli, sotterrano letti di torrenti, travolgo-
no alberi e colture, distruggono terreni. “Le alluvioni – ci dice Squillacioti –
hanno creato il dissesto, il dissesto totale. Sono scomparse le fiumare. Sono
diventate plaghe deserte larghe 100-200-300 metri. Le fiumare che a destra
e a sinistra avevano terreni irrigui che davano al paese le melanzane, i po-
modori, i fagiolini, sono scomparse. Il torrente Gallìpari, che era la grande
riserva di frutta di Badolato, una riserva alimentare immensa di agrumi di
ogni genere e di pesche soprattutto (che Badolato mandava in Campania,
alla Cirio), viene distrutto. Da lì inizia l’emigrazione. Ecco, l’emigrazione di
massa è avvenuta dopo l’alluvione del 1951; emigrazione che ha depaupera-
to il paese di molte delle sue risorse, economiche e culturali”91.
L’alluvione non soltanto abbatte i molti pescheti che rappresentavano
la voce fondamentale della produzione agricola del paese – tanto che i dan-
ni complessivi per la mancata produzione ed esportazione dei frutti vengo-
no stimati attorno ai 700.000.000 di lire – ma rende anche inservibili, se
non a prezzo di costosissime bonifiche, gran parte degli altri terreni che e-
rano stati messi a coltura, ricoperti ora per oltre 1,20 m di materiale allu-
vionale del tutto sterile. I disastri prodottisi, dunque, mettono in ginocchio
l’intera economia agraria badolatese e almeno 30 famiglie, con la distruzio-
ne della casa e delle sementi o con le rovine dei campi, perdono ogni loro
90 «Atti Parlamentari» 1951, pp. 32952-32979
91 Vincenzo Squillacioti, intervista del 15 giugno 2011.

- 187 -
avere92. In questo contesto, l’emigrazione si configura ancora come la prin-
cipale via di fuga dallo stato di miseria e di disperazione in cui versa la po-
polazione. Si intensificano, in questi anni, le partenze per l’Argentina, per
gli Stati Uniti d’America o persino per l’Australia (con i processi di ricon-
giungimento familiare di cui si è detto) ed esplode il massiccio esodo verso
il centro Europa, per la Svizzera in particolare.
A seguito dell’alluvione, dunque, il quadro ambientale, quello econo-
mico e quello sociale del paese subiscono trasformazioni radicali. E, con es-
si, va soggetto a profonde alterazioni anche il quadro urbanistico. La scom-
parsa dei rioni Monacèhṛi e San Giànni, intanto, costringe a ridisegnare il
profilo dell’impianto edilizio, con la realizzazione – nel lato sud-est dell’a-
bitato – di imponenti mura di contenimento, dopo che già intorno al 1920-
1930 erano state ultimate quelle nel versante nord. In paese, poi, molte case
in rovina, già nell’immediato post-alluvione, vengono abbattute per esigen-
ze di pubblica sicurezza e, nei mesi a seguire, diverse altre finiscono per ca-
dere. Ulteriori crolli, pur esigui, si registreranno a seguito delle nuove piog-
ge torrenziali che si producono in paese tra il 21 e il 29 ottobre del 1953. E
una parte di abitato, coincidente in parte coi rioni Destru e Jusutèrra, viene
demarcata come area ad elevato rischio idrogeologico e le case che vi insi-
stono classificate come inabitabili. Il paese viene dunque segnalato, indica-
to, additato dalle autorità preposte come luogo insicuro, pericoloso, inagibi-
le, da collocare ai margini dei futuri processi abitativi della comunità. “Nel-
la parte franata del paese – si dichiara perentoriamente – non è possibile al-
cuna opera di ricostruzione”93 e si invoca, pertanto, un “inizio immediato
della costruzione di almeno 500 alloggi in contrada «Marina di Badolato»,
con strutture prefabbricate, per spostarvi prima dell’inverno tutti i senza
tetto, con la predisposizione di un piano per il trasferimento in tale località
dell’intera popolazione del comune”94.
All’insicurezza – reale – delle zone demarcate si accompagna la perce-
zione di insicurezza, proiettata sull’intero abitato. A partire dal 1951 si parla
con sempre maggiore insistenza “del continuo pericolo di disfacimento del-
l’abitato di Badolato”95 e la perimetrazione delle aree soggette a frane viene
estesa ad includere il Mancùsu e le pendici dei rioni di Santa Caterina e di

92 Cfr. «Atti Parlamentari» 1951, pp. 32977-32978.


93 Ivi, p. 32952.
94 Ivi, p. 32948.
95 «Atti Parlamentari» 1958, p. 40592.

- 188 -
Fig. 73. Muraglioni di contenimento nel rione Destru

Fig. 74. Muraglioni di contenimento nel rione Mancùsu

- 189 -
Santa Barbara. I badolatesi – oltre a elaborare in proprio immagini di rovi-
na, ricavate dall’oggettivo stato di degrado delle zone franate – assorbono e
introiettano anche quelle veicolate dall’esterno, che guardano ormai al pae-
se come a un agglomerato obsoleto e fatiscente. In una nuova interrogazio-
ne parlamentare, ad esempio, si afferma:

Il suolo su cui è costruito il centro abitato di Badolato Superiore, costituito da


terreni in disfacimento geologico e in stato di smottamento, nonché eroso da due
torrenti, è in continuo preoccupante, progressivo movimento. Già dal 1911 con la
legge del 13 aprile, n. 311, Badolato Superiore fu, per questi motivi, tra i pochi co-
muni della provincia di Catanzaro dichiarati in pericolo ed inclusi nell'elenco degli
abitati da trasferire. Da allora ad oggi, anche a causa del terremoto del 1947 e delle
alluvioni del 1951 e del 1953, le condizioni di stabilità di tale centro abitato sono
peggiorate al punto che la prefettura di Catanzaro, con sua nota del 22 gennaio
1954, n. 613, divisione IV, notificava l'ordine di sgombero di molte case; e ciò in ot-
temperanza a disposizioni del genio civile, giustamente preoccupato delle possibilità
di ulteriori franamenti e slittamenti del terreno 96.

Lo sguardo endogeno, quello che i badolatesi proiettano sul loro pae-


se, si modella ora su quello esogeno, e all’immagine della pigna, del borgo
arroccato – nel senso di difeso, riparato, protetto – costruita nel corso dei
secoli, subentra quella del paese diroccato, ossia disfatto, abbattuto, cadente.
A seguito dell’alluvione si diffonde nella comunità la sensazione che la vita
non può più svolgersi in paese, che non è più possibile abitare il paese. Ba-
dolato viene bandito, messo al bando dalle autorità, e lentamente vuotato,
disertato, abbandonato – non senza manifestazioni di travaglio e conflittua-
lità – dai suoi abitanti.
Se lo sciopero a rovescio del 1950 si poneva in chiave antitetica all’ab-
bandono, come forma di resistenza all’esodo e alla mancanza di lavoro, con
l’alluvione del 1951 si giunge al punto di cesura. Nelle dinamiche innesca-
tesi a seguito del disastro si assiste a una divaricazione sempre più netta tra
vecchie e nuove aspirazioni di sviluppo socio-culturale, economico e si con-
suma lo scarto tra antiche e moderne forme dell’abitare. Sedimentate strut-
ture mentali, che facevano delle aree interne il loro orizzonte di pensiero, e
il tradizionale assetto abitativo e produttivo entrano definitivamente in crisi
e cedono il passo al processo di modernizzazione della società badolatese,
che ha come primo esito lo sviluppo urbanistico della frazione in marina.

96 «Atti Parlamentari» 1962, p. 28905.

- 190 -
IV. 3. 3. Sdoppiamento e lacerazioni dell’identità

Nella storia di Badolato le esigenze di dislocazione dell’abitato si pro-


filano almeno a partire dal tragico terremoto del 1640 che, come abbiamo
visto, ha distrutto gran parte delle strutture edilizie allora esistenti, causan-
do la morte di circa 300 persone. Anche le devastazioni apportate dal sisma
del 1783 conducono a considerare il paese come inabitabile e a ipotizzarne
la ricostruzione in altro sito. In questa fase storica, tuttavia, sono ancora del
tutto remote le ipotesi e le possibilità di trasferimento nella marina a causa
delle incursioni piratesche e della malaria che continuano a infestare l’area.
L’ultima scorreria nel territorio di Badolato, infatti, verrà registrata nell’a-
gosto del 181597 mentre i focolai anofelici saranno debellati solo nella prima
metà del Novecento. Agli occhi dei badolatesi del XVII e del XVIII secolo,
dunque, le zone costiere appaiono insicure e malsane, e come tali vengono
disertate dagli uomini, che seguitano ad abitare il borgo. Le medesime con-
dizioni permangono per lungo tempo ancora e, anche per il periodo succes-
sivo, valgono le considerazioni e le descrizioni prodotte dal poeta e scrittore
romantico Charles Didier che, in transito per questi luoghi nel 1830 duran-
te il suo viaggio nel Mezzogiorno d’Italia, parla delle “insignificanti marine
di Guardavalle, Santa Caterina, Badolato, contrade deserte, povere, prive di
tutto, anche del pane, anche dell’acqua”98 e delinea in questi termini il pae-
saggio di costa:

Questa lunga marina, come del resto tutte le marine orientali della Calabria,
è colpita dalla malaria e manca di acque correnti. I torrenti che si riversano dall’Ap-
pennino scaricano pietre e fango durante le piene invernali; essi imputridiscono d’e-
state e questa circostanza, unita allo spopolamento, non fa che raddoppiare l’intensi-
tà del flagello, anche se non ne è la causa. Non esiste un villaggio per tutta la spiag-
gia, ma le colline a cinque o sei miglia dal mare ne sono tutte popolate. Il terrore dei
barbareschi, da cui queste coste furono a lungo infestate, ha costretto gli abitanti a
rifugiarsi sulle alture; le inutili fortezze di Carlo v sono in rovina come a Locri e
servono solo a rendere pittoresco il paesaggio. La costa è arida, deserta, senza una
conchiglia; qua e là all’inizio verdeggiano alcune oasi; qui ulivi, là fichi, altrove gel-
si; ma gli alberi ben presto scompaiono; vaste piantagioni di frusciante granturco,
interrotte da qualche campo di cotone, li rimpiazzano per far posto a loro volta a
dune di sabbia arida, disseminate di radi ciuffi di lentischi99.

97 Cfr. Valente G. 1973a, p. 340; Teti V. 2007a, pp. 465-469.


98 Didier C. 2008, p. 76.
99 Ivi, p. 73.

- 191 -
Le prime installazioni antropiche stabili nel territorio costiero badola-
tese datano attorno al 1875, con l’edificazione della stazione ferroviaria del-
le Calabro-Lucane. Per il resto, la presenza umana nella Marina di Badolato
è limitata all’esistenza di ricoveri provvisori per contadini nelle terre del la-
tifondo e, durante la stagione dei bagni, all’erezione dei pagghjàra, sorta di
gabbiotti fatti di canne e rami, realizzati sulle spiagge per conto di famiglie
borghesi e da queste utilizzati per riposare riparati dal sole e per cambiarsi
prima di entrare in mare.
Pur a fronte dei danni arrecati all’impianto edilizio dal terremoto del
1908, a seguito del quale viene prodotta una nuova dichiarazione di inagibi-
lità dell’abitato e predisposto il trasferimento della popolazione, l’ipotesi di
un insediamento in marina non trova sufficiente credito. Negli anni succes-
sivi, però, lo sguardo proiettato sulle aree costiere va via via mutando in
virtù della loro progressiva bonifica e della conseguente eliminazione del
morbo malarico, che favoriscono una timida apertura alla possibilità di abi-
tare tali spazi. Nel 1930 Ubaldo Valbusa, uno dei redattori dell’ Enciclopedia
Treccani, nel compilare la scheda su Badolato scrive già della presenza, nei
pressi del casello ferroviario, di un piccolo centro100 e nel 1931 la realizza-
zione di un tratto di strada litoranea (la futura SS 106 jonica) facilita gli spo-
stamenti e rende più assidua la frequentazione di questi luoghi. La marina,
che in virtù della sua prossimità appare come una naturale estensione del
borgo, inizia ad essere pensata come zona abitabile e, seppur con esiti ini-
zialmente modesti, lentamente popolata. E ulteriore spinta alla discesa dei
badolatesi si produce a seguito del sisma del 1947 che, pur con le resistenze
di cui si è detto, porta allo sviluppo di un primo agglomerato urbano.
Tuttavia è solo nel 1951 che il processo di sdoppiamento dell’abitato e
di spostamento della popolazione trova piena attuazione. E ciò per il con-
fluire di più elementi. Intanto, le distruzioni apportate dall’alluvione sono
ben maggiori rispetto a quelle prodotte dalle scosse del 1947 e il quadro e-
conomico ne risulta fortemente compromesso, innescando nuovi meccani-
smi di fuga. La rottura, poi, dell’isolamento in cui il paese ha vissuto per se-
coli e la lenta introiezione di modelli di vita esogeni introducono esigenze
di mutamenti culturali e sociali che trovano supplementare impulso proprio
a seguito dell’alluvione, che mostra il carattere arretrato e anacronistico del
vecchio insediamento. Inoltre, se pure le case contadine del passato – angu-
100 Cfr. la voce “Badolato” a cura di Valbusa U., in Enciclopedia Italiana Treccani 1930, Roma, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, vol. V.

- 192 -
ste agli occhi di odierni osservatori – erano costruite a misura delle esigenze
di chi le abitava (con tutte le sedimentazioni culturali di cui ci siamo occu-
pati nel corso del secondo capitolo), a metà del Novecento la pressione de-
mografica in paese raggiunge livelli tali da rendere difficilmente sostenibile
il sovraffollamento che in esse si produce. Nel 1951, si è visto, la popolazio-
ne presente a Badolato raggiunge il suo massimo storico e il paese, che co-
nosce situazioni di promiscuità e manifestazioni di disagio abitativo, diven-
ta sempre più invivibile. Si innescano, perciò, bisogni contrari, necessità di
diradare la presenza umana nelle abitazioni, per poter vivere più decente-
mente. E molti badolatesi guardano alla discesa in marina e al trasloco in
nuove case come – finalmente – alla conquista di un’esistenza più civile.
L’evento calamitoso, dunque, colpisce il paese in una fase di profonda
transizione e il convergere e il sovrapporsi di molteplici fattori porta a ma-
turazione quei germi di rinnovamento che erano presenti da tempo nel tes-
suto sociale. L’alluvione predispone, avvia, legittima, rafforza, porta a com-
pimento il processo – fino ad ora latente – di abbandono del borgo e di tra-
sferimento della comunità lungo la costa. Eppure non mancano, anche in
questa circostanza, le resistenze. “Si è discusso a lungo, dopo il 1951, – ri-
corda ancora Squillacioti – di spostare il paese nelle terre di Mingiànu. Non
era accettabile, per la maggior parte della popolazione, spostare il paese in
marina perché la marina era considerata un deserto, era coltivata solo a
grano. Tutt’attorno al paese, invece, c’era una corona di vigneti, di uliveti e
nelle fiumare c’erano frutta e ortaggi a non finire. Le inondazioni, è vero,
avevano distrutto molti di questi terreni che col tempo, però, avrebbero po-
tuto tornare a essere produttivi. Invece il politico e il tecnico provinciale,
che avevano idee di altro genere, non tarate sulle esigenze dei contadini,
hanno scelto la marina. I badolatesi sono entrati in crisi di ogni tipo. Crisi
economica, crisi esistenziale”101.
A Badolato, come in molti altri paesi della regione, l’abbandono del
vecchio abitato viene presentato, in questa fase storica, come necessario e
inevitabile, e l’attenzione delle classi dirigenti e degli uomini politici si spo-
sta verso le zone di costa e le aree del latifondo, individuate e ideologizzate
come luogo del cambiamento e del progresso102. L’idea di sviluppo civico ed
economico che si comincia a perseguire implica la marginalizzazione e l’ac-
cantonamento dell’antico assetto produttivo ma anche di quello abitativo. E
101 Vincenzo Squillacioti, intervista del 15 giugno 2011.
102 Cfr. Teti V. 2007a, pp. 233-237.

- 193 -
la presenza in paese di nuove figure sociali, idealmente lontane dal mondo
contadino, favorisce l’affermarsi di differenti sensibilità e il consolidarsi di
quelle istanze di miglioramento e di riscatto culturale che trovano ora la
massima espressione:

In quegli anni stava avvenendo una certa evoluzione negli abitanti di Badola-
to ed essendo la popolazione, in parte, connotata diversamente che nel passato c’era
l’inutilità delle vecchie strutture e l’esigenza di avere strutture più snelle. Io parlo
anche di strutture edilizie più snelle. Con la nascita, in questo periodo, della scuola
media arriva in paese un nuovo ceto, quello formato da professori, segretari, bidelli.
E si manifestano difficoltà ubicative. Io ricordo che gli insegnanti che lavoravano a
Badolato facevano fatica a vivere nel borgo; non erano abituati alle case sviluppate
in verticale, come quelle dei contadini, dove sotto c’era la stalla per gli animali. Era
gente abituata a vivere in case diverse e quindi la scelta era stanziarsi nelle marine.
Il paese cominciava ad andare stretto anche agli altri professionisti (impiegati co-
munali, dipendenti delle poste, ecc.), tant’è che i primi a scendere lungo la costa sa-
ranno proprio loro103.

La manifestazione di presenza dello Stato – con la tempestiva visita


nei vari paesi alluvionati dell’allora Presidente della Repubblica Luigi Ei-
naudi, che si impegna per un pronto intervento sul piano politico – e la so-
lerzia nella costruzione degli alloggi per i sinistrati accelerano le fasi di di-
slocazione dell’abitato e di espansione della frazione litoranea. Il 24 marzo
1952, ad appena cinque mesi dal disastro, il capo del governo Alcide De Ga-
speri – pur contestato da un piccolo numero di dimostranti e, secondo alcu-
ne voci di dissenzienti, non senza una certa espressione di alterigia – offre
al sindaco comunista di Badolato, Andrea Talotta, le chiavi delle prime 78
abitazioni da destinare agli sfollati. Le promesse degli uomini politici del
tempo non rimangono disattese e nel giugno dello stesso anno gli apparta-
menti – cui se ne aggiungeranno altri 80 nel settembre del 1954 – sono resi
abitabili e assegnati.
In tale contesto, l’opposizione al trasferimento da parte della popola-
zione contadina badolatese – fiaccata dalla perdita dei terreni, dalla crisi e-
conomica e dalle continue partenze – si allenta, si sfibra e la discesa lungo la
costa diventa non più arginabile. Tra il maggio del 1955 e il novembre del
1956 vengono costruiti ulteriori due lotti di case. In totale vengono conse-
gnati 244 alloggi, che daranno notevole e definitivo impulso allo sviluppo

103 Vincenzo Squillacioti, intervista del 23 giugno 2011.

- 194 -
del centro costiero104. E anche il linguaggio inizia a riflettere le trasforma-
zioni in atto: quella che era conosciuta come la Marina di Badolato, ossia
come un’estensione dipendente dall’antico e unico abitato, prende ora il to-
ponimo di Badolato Marina, quasi a voler sottolineare una raggiunta auto-
nomia insediativa, con un proprio statuto ed una propria ragion d’essere, a
prescindere dal borgo superiore.
Con l’alluvione del 1951, dunque, hanno inizio lo sdoppiamento, lo
svuotamento, l’abbandono di Badolato; e la disgregazione, la frantumazio-
ne, la dispersione della sua comunità105. I cronisti dell’epoca testimoniano le
manifestazioni di disadattamento e spaesamento delle persone trasferite nel
nuovo contesto. Il paesaggio urbano e domestico appare loro radicalmente
differente; i confini e i riferimenti territoriali si sfrangiano; le tipologie abi-
tative nate in marina rispondono a canoni costruttivi affatto diversi e co-
stringono a ripensare e a riformulare il rapporto con lo spazio. “Non si co-
nosceva e non poteva entrare nella concezione delle persone – ci dice anco-
ra Squillacioti – l’esigenza della casa a un piano, in orizzontale, piuttosto
che a quattro-cinque piani in verticale. E non si conosceva la vasca da ba-
gno. Non solo non si conosceva, ma quando finalmente la si era ottenuta,
alcune famiglie nella vasca coltivavano il basilico, il prezzemolo”106. Le co-
struende case popolari mancano di molti dei tratti salienti delle vecchie di-
more e non esaudiscono le richieste e le aspettative degli evacuati. Attorno
a esse, per esempio, non viene previsto alcun appezzamento di terreno da
poter coltivare – così da mantenere uno dei caratteri originari degli schemi
insediativi badolatesi, con i campi orticoli a ridosso delle abitazioni – men-
tre perlomeno si riesce a ottenere la costruzione di forni di quartiere, che
parzialmente mantengono le dinamiche relazionali legate alla produzione
del pane e all’utilizzo dei cocipàna.
Inoltre, il trasferimento genera spesso contiguità che non ricalcano
quelle presenti in paese. Nel nuovo insediamento non si possono riprodurre
e non vengono riprodotte le medesime dinamiche di appartenenza rionale,
che come abbiamo visto rappresentavano uno dei canali fondamentali per la
costruzione identitaria dei badolatesi. Nelle case di Badolato Marina si tro-
vano a vivere vicine persone che originariamente abitavano differenti rioni

104 Sulla visita di De Gasperi a Badolato, sulla consegna degli alloggi e sulla nascita di Badolato Marina
vedi «Atti Parlamentari» 1951; «Atti Parlamentari» 1958; Squillacioti V. 1995a; Id. 1995b; Monheim R. 1977.
105 Su questi aspetti rimandiamo a Teti V. 2007a, pp. 476-488.
106 Vincenzo Squillacioti, intervista del 15 giugno 2011.

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del paese e non avevano contatti strutturati né significativi. Inoltre, alla so-
cialità obbligata presente nel borgo tende a sostituirsi la ricerca dell’intimità
abitativa, dell’isolamento individualistico che caratterizzano le nuove forme
di residenza, non solo badolatesi107. La marina, poi, appare come una sorta
di terra di frontiera, e come tale diventa meta anche di persone provenienti
da paesi diversi e lontani, che non hanno nessun legame con Badolato, con
la sua storia e la sua cultura. I rapporti si fanno perciò più aperti, dinamici
ma anche più sfumati, precari, irrisolti108.
L’antica socialità della ruga si dissolve di fronte alla radicale alterità
del nuovo abitato e il senso di appartenenza territoriale e l’identità culturale
– minati anche dagli ingenti flussi migratori – rischiano di scomparire, di
dissolversi. Lo sdoppiamento del paese crea lacerazioni all’interno della co-
munità; produce sentimenti di amarezza, risentimento, animosità tra quanti
hanno deciso di restare e quanti si sono invece trasferiti in marina. Ben pre-
sto, poi, il nucleo costiero aspira a raggiungere e tende ad affermare, rispet-
to al centro originario, una propria indipendenza anche sul piano religioso e
nel 1956 ottiene l’istituzione della chiesa di Badolato Marina. I rapporti tra
le due parrocchie sono da subito tesi, quasi impossibili, dando origine a in-
comprensioni, reciproche accuse e accese conflittualità soprattutto tra i di-
versi rappresentanti istituzionali e costituendo un potenziale e ulteriore e-
lemento di disgregazione per tutta la comunità badolatese109.
Ai profondi e destabilizzanti mutamenti sociali prodotti dalla nascita
di Badolato Marina, inoltre, non corrisponde un adeguato cambiamento e-
conomico. Lo spostamento nei territori di costa avviene senza che si creino
le basi per un’economia che supporti tale trasferimento. In una fase iniziale
lo sviluppo, anche urbano, del centro costiero è frenato dalla locale borghe-
sia che – contrariamente a quanto avviene in altri contesti regionali – non è
interessata alla cessione dei terreni, intendendo mantenere intatta la pro-
prietà fondiaria, e mira a speculare piuttosto sulla vendita degli edifici pos-
seduti in paese e abbandonati da tempo110. Esaurita questa prima direzione –
anche per effetto delle espropriazioni statali finalizzate alla costruzione de-
gli alloggi per gli alluvionati – la classe borghese di Badolato si converte alla
speculazione economica sui possedimenti in marina, pretendendo il passag-

107 Cfr. Banini T. 2009, pp. 6-9.


108 Cfr. Teti V. 2007a, pp. 457-459.
109 Cfr. Vincenzo Squillacioti, intervista del 15 giugno 2011.
110 Su questi aspetti cfr. Fabbri M., Saba A. 1965, pp. 63-82; Monheim R. 1977, pp. 204-208.

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gio su di essi dei tortuosi tracciati viari di collegamento tra il paese e la fra-
zione e, successivamente, mutando la destinazione d’uso di molti suoli che
da agricoli divengono edificabili, così da farne aumentare il valore al mo-
mento della vendita. Quella che si crea è così un’economia di corto respiro,
basata sugli interessi privatistici di pochi e ristretti gruppi, che perpetuano
un sistema chiuso di potere discrezionale111. La maggioranza della popola-
zione, invece, non ha accesso alla proprietà fondiaria e continua a vivere in
uno stato di asservimento, che il trasferimento lungo la costa finisce per
rendere più acuto. Gli evacuati che hanno mantenuto il possesso di impervi
e poco produttivi terreni attorno al paese antico, infatti, tendono ora ad ab-
bandonarli a causa dell’accresciuta distanza dalle nuove residenze, e fini-
scono per basare il proprio mantenimento economico sull’assistenzialismo.
A partire dagli anni ’60, poi, si dà avvio alla caotica e spesso incontrol-
lata fase di urbanizzazione della marina badolatese, che non solo devasta e
deturpa ampi tratti di costa ma, in più, non crea alcun significativo e stabile
indotto economico. “Essa – avverte anzi il geografo Rolf Monheim – si fon-
da piuttosto sul denaro che affluisce: lo stato dà il suo incentivo tramite in-
vestimenti pubblici, anche all’economia privata; le rimesse degli emigrati
vengono investite in case e piccole attività economiche senza che questo
permetta di creare a lunga scadenza delle basi di sussistenza solide ed eco-
nomicamente produttive”112. Negli anni l’agglomerato costiero si sviluppa in
direzione di una confusa e mai compiuta aspirazione al modello cittadino
che – in mancanza di una valida progettazione urbanistica e senza memoria
architettonica – conduce perlopiù alla realizzazione di disadorni casermoni
e di anonimi quartieri dormitorio.
La progressiva urbanizzazione dello stile di vita produce scompensi
ambientali e culturali, che stravolgono il rapporto con il paesaggio e muta-
no il significato assegnato al bene casa. Per gli emigrati che investono i soldi
delle rimesse e soprattutto per i tanti badolatesi che, nel corso dei decenni,
decidono di abbandonare il borgo per stabilirsi in marina la casa rappresen-
ta un fondamentale elemento di riscatto sociale ed economico. Ma al legit-
timo desiderio di affrancarsi da situazioni di miseria o di garantire a se stessi
e ai propri familiari un’esistenza più civile si sostituisce spesso un’affrettata
fuga da case che non sono, realmente, né pericolanti né invivibili quanto
piuttosto considerate tali. I bisogni indotti, la ricerca di nuove comodità, il
111 Cfr. Cantalamessa Carboni G. 1965a, pp. 147-151.
112 Monheim R. 1977, pp. 205-208.

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mito dell’inurbamento innescano, come per le catene migratorie, un effetto
trascinamento che conduce ad un sempre più massiccio esodo dal borgo in
direzione della costa e a una corsa alla costruzione di nuove abitazioni.
In questo contesto la casa, da simbolo di riscatto, diventa ostentazione
di tale riscatto, espressione della raggiunta – ma talvolta anche solo deside-
rata – emancipazione economica e sociale. E proprio in quanto ostentazione
di benessere la casa dei badolatesi comincia a essere sovradimensionata. So-
prattutto nel corso degli anni ’70-’80 si assiste a una sorta di gara per il pre-
stigio sociale che conduce alla realizzazione di costruzioni private sempre
più grandi e spesso sproporzionate rispetto alle capacità di spesa degli stessi
committenti. Il risultato è per un verso il ricorso alla tipologia del costruito
non-finito e per l’altro il capovolgimento delle categorie abitative del passa-
to. Alla verticalità delle case di Badolato Superiore – in cui a ogni piano
corrispondeva una stanza, con sue distinte destinazioni d’uso (catòju, men-
zanìnu, càmmara, salàru) – quelle di Badolato Marina assommano uno svi-
luppo in senso orizzontale degli alloggi monofamiliari, formati in genere da
cucina, soggiorno, due bagni (quello di servizio e quello “degli ospiti”), sga-
buzzino, camera da letto, stanzette per i bambini. Le case, a differenza di
quelle progettate e realizzate dallo Stato per gli alluvionati, sono costruite
sempre a più livelli poiché, nelle intenzioni dei proprietari, devono ospitare
le future famiglie dei figli e per ogni piano si sviluppa appunto un intero ap-
partamento. Si erigono così casermoni costruiti su quattro-cinque-sei livelli,
con al piano terra il grande magazzino per le auto (che sostituisce, nelle
funzioni e nelle dimensioni, il piccolo e ricolmo catòju delle vecchie case).
Spesso, tuttavia, gli alloggi superiori non vengono ultimati o restano sfitti
perché nel frattempo i figli sono emigrati e hanno scelto di vivere altrove.
Le case dei badolatesi che sono scesi in marina, perciò, sono grandi,
moderne, confortevoli, tanto spaziose da risultare spoglie e da trasmettere
una sensazione di vuoto. All’antica desolazione delle aree costiere, descritte
da molti viaggiatori e osservatori come spazi deserti e malsani, subentra un
nuovo tipo di desolazione, che scaturisce in primo luogo dalle devastazioni
di un inurbamento disordinato e selvaggio e, poi, proprio dallo scarto tra la
dimensione delle case e il numero delle persone che le abitano. Se a metà
Novecento a Badolato Superiore si vive in regime di iperaffollamento, in ca-
se che non riescono più a contenere l’aumento di abitanti in esse presenti, a
Badolato Marina si producono invece dinamiche di ipoaffollamento, acuite
dal regresso demografico registrato nel corso dei decenni.

- 198 -
IV. 3. 4. Mediatizzazione dell’abbandono

Nu prufessuri chi la pensa giusta Un professore che la pensa giusta


a Badulatu ficia u scoppia na tempesta: a Badolato fece in modo da far scoppiare una tempesta:
cu quattru righi chi nto giornala scrissa con quattro righe che nel giornale scrisse,
nto menzu nda zziccau quantu nda potta. nel mezzo ne ficcò quante ne potette.

Tuttu lu Fossu iiu mu si gusta Tutto il Fosso andò per guardare


quando a Televisioni vinna u ntervista. quando la Televisione venne per intervistarlo.
Alli domandi delli giornalista Alle domande dei giornalisti
quarcunu rispundiu cu a facci storta. qualcuno rispose con la faccia storta.

E n’architettu antipagnottista, E un architetto antipagnottista,


senza bisognu mu sinda presta, senza bisogno di prestarsene,
(rotta de collo, chi faccia tosta) (rotta di collo, che faccia tosta!)
puru iyhu ncinda cantau cchiù chi nda seppa. pure lui gliene cantò più che ne seppe.

E vìndara nu paiisi mai si dissa Di vendere un paese mai si disse prima,


e qu’è chi lu stimau quantu è chi custa?! e chi è che lo stimò quant’è che costa?!
E, ppoi, sti casi vecchi cui l’accatta? E, poi, queste case vecchie chi le compra?

Ma quantu è fessu lu capitalista Ma quanto è fesso il capitalista


ca lu paiisi meu vola u s’accatta! che il paese mio vuole comprarsi!
L’antichi lu chiamaru «Rocca Russa» Gli antichi lo chiamarono «Rocca Rossa»
e mo lu paiiseyhu meu è a menza cappa! e ora il paesello mio è a mezza cappa!

Stàmoni attenti do capitalista Stiamoci attenti al capitalista


ca lu paiiseyhu meu vola u s’accatta!... che il paesello mio vuole comprarsi!...

Chistu è n’appellu aii Badulatisi Questo è un appello ai Badolatesi


do stessu Badulatu dissestatu da parte dello stesso Badolato dissestato
mentr’è chi grida cu li mani mpisi: mentre è che grida con le mani al vento:
«Veniti e tutt’u mundu u ni sarvati!» «Venite da tutto il mondo per salvarci!»

L. R., Badolato 1986

In seguito all’alluvione del 1951 e allo sviluppo della frazione in ma-


rina, Badolato Superiore vive un’esistenza sempre più spenta, segnata dalla
marcata involuzione demografica, dalle continue migrazioni e da un più ac-
centuato degrado del paesaggio urbano. La tendenza, inoltre, all’accentra-
mento delle infrastrutture civili, amministrative, commerciali lungo la costa
depaupera ulteriormente il borgo, che sembra così avviarsi con rassegna-
zione a una morte lenta e inesorabile. All’inizio degli anni ’80 Badolato Su-
periore ha ormai una popolazione inferiore a quella di Badolato Marina, ha
già perso da tempo la scuola media e vari negozi (trasferiti appunto nel
nuovo agglomerato) e in paese continuano i piccoli e grandi cedimenti di
case alluvionate o anche solo abbandonate. A vivere nelle vecchie dimore
- 199 -
Figg. 75-76. Degrado del quadro urbano

- 200 -
sono rimasti perlopiù gli anziani, che nelle parole dello scrittore Domenico
Gangemi sembra “gente irreale e incomprensibile, ancorata alla miseria, in
case umide e in rovina, anguste e maleodoranti, le stesse dei loro padri, dei
loro nonni e dei padri dei loro nonni. Non […] pronti a cogliere il nuovo:
davvero fantasmi, incomprensibili testimoni di un tempo che si è fermato,
ignari tramandatori del passato. Erano rimasti per paura di un confine vici-
no ma ignoto, là, a breve orizzonte, o perché i più poveri, di averi e senti-
mento, non pronti a mutar pelle e costumi. Altri, i più, avevano visto trop-
po vicino il mare e invitanti terre pianeggianti per potervi resistere. Se ne
erano andati, lasciandosi dietro vecchi vinti dalle radici e dall’abitudine. E-
rano rimasti i fantasmi”113.
La desolazione, l’impressione di decadimento, il grigio quadro sociale,
l’abbandono della Badolato di questi anni sono quelli che efficacemente sa-
prà descrivere ed evocare, con commozione e senso di nostalgia, pure Fran-
cesca Viscone, che nel racconto Le porte del silenzio narra degli “anziani
curvi sotto il peso del lavoro nei campi [che] circondavano le piazze e riem-
pivano le chiese. Fermi sulle gambe incerte con le loro storie di guerra e di
bombardamenti, con il vuoto che divorava la memoria di gioventù mentre
crescevano vispi i nipoti e si perdevano tra le case alluvionate le loro facce
tonde e gli occhi tristi di scoprire sentieri di distruzione là dove il silenzio
regnava, eterno cumulo di storia sulle gradinate da un passo e mezzo”114. E
più avanti aggiunge, definendo il quadro: “La piazza vuota le case chiuse i
portoni eternamente muti i cortili rattrappiti e rugosi i balconi arrugginiti
sotto il sole ringhiante. Divorati dalla marina dispersi prima nelle scuole poi
nelle università, gli uomini partiti per il vasto mondo, le donne andate in
sposa chissà a chi chissà dove, avevate lasciato i vicoli vuoti e il semaforo
accecato. Odore di sansa tra le case. I trappeti nascosti nei buchi delle rocce.
Odore di muffa per le strade115.
Nel 1986, in questo clima di declino, di apatia e indolenza, Badolato
vive il rischio di un nuovo abbandono, questa volta nell’accezione etimolo-
gica di “vendita al bando”. L’idea arriva dall’allora bibliotecario comunale
Domenico Lanciano che, in un articolo del 7 ottobre apparso sul quotidiano
“Il Tempo”, lancia un grido di allarme per lo stato di degrado urbanistico e
architettonico del borgo e avanza il suggerimento di metterlo in vendita per

113 Gangemi D. 1994, p. 3.


114 Viscone F. 2000, p. 9.
115 Ivi, p. 12.

- 201 -
- 202 -
Figg. 77-80. Case abbandonate

- 203 -
scongiurarne il definitivo abbandono116. Nel suo intervento l’autore scrive
di ben 815 abitazioni potenzialmente in liquidazione (di cui il 51% subito
abitabili, il 43% da restaurare e il 6% da ricostruire) e scrive – quasi fosse
cosa già fatta - della trasformazione di Badolato in un villaggio turistico. In
realtà, la proposta – che è, insieme, provocazione e cocente interrogativo
sociale circa il destino del paese – intende intercettare l’interesse di un turi-
smo consapevole, rispettoso del luogo e delle sue tradizioni; di un turismo
in grado di riconvertire il degrado delle case ormai fatiscenti e di rivitaliz-
zare la componente sociale, sempre più inerte.
Dopo i primi giorni di silenzio, la notizia comincia a fare il giro dei
quotidiani locali ma anche nazionali ed esteri e a metà ottobre cominciano
ad arrivare i giornalisti, anche stranieri, e qualche potenziale acquirente. I
primi ad essere attratti sono gli inglesi, che credono e sperano di trovare lo
stesso paesaggio dolce delle colline toscane e che invece perdono presto in-
teresse perché turbati e delusi di fronte alle forre e ai dirupi in cui sembra
precipitare l’abitato, di fronte al paesaggio brullo, arido, riarso della campa-
gna badolatese, di fronte ai calanchi e alle scorticature delle frane presenti
nei versanti collinari e montani attorno al territorio comunale.
Nella seconda metà di novembre il rilancio della notizia sulle emit-
tenti televisive regionali e nazionali fa esplodere il “caso Badolato”117. La
provocazione di Lanciano coglie nel segno, attira le prime agenzie immobi-
liari (che mostrano anche una certa aggressività) e scuote le coscienze di
molti badolatesi, dei rimasti e soprattutto dei tanti che sono andati via e che
vivono ora con apprensione la paventata perdita del paese. La vicenda trova
eco sempre più ampia sui mezzi di informazione e la situazione sfugge pre-
sto di mano dando avvio ad una sorta di mediatizzazione dell’abbandono118
non priva di strumentalizzazioni, dall’interno quanto dall’esterno. L’inten-
to, generoso e appassionato, di recuperare e riqualificare le vecchie case ab-
bandonate e il tentativo di ripopolare Badolato, semivuoto e morente, ri-
schiano di trasformarsi in una svendita a qualche ricco speculatore forestie-
ro o a grosse società di marketing, indifferenti alle sedimentazioni geografi-
che, storiche, culturali del paese e interessate solo a farne una località di ri-

116 Lanciano D. 1986. Cfr. Id. 1987.


117
I primi servizi, a firma di Pino Nano, vanno in onda tra il 20 e il 22 novembre sul TG3 regionale e poi
nei notiziari di Rai Uno e Rai Due. Per un approfondito e completo elenco delle trasmissioni televisive e dei ser-
vizi radiofonici ma anche dei numerosi articoli e reportage che si sono occupati della vicenda si veda Squillacioti
V. 1996, “Badolato: parole e silenzi, fatti e non fatti”, in «La Radice», numero monografico speciale, pp. 6-10.
118 Cfr. Sergi P. 1993, pp. 104-106.

- 204 -
chiamo turistico, anche sfruttando l’onda di notorietà improvvisamente ac-
quisita. Si alimentano così speranze e preoccupazioni; si aprono accese po-
lemiche, dibattiti, interrogativi; si creano schieramenti e prese di posizione
tra favorevoli e contrari; si scrivono articoli, resoconti, reportage, persino
poesie e canzoni119.
Soprattutto, si producono strappi e contrasti tra la popolazione bado-
latese, creando nuove dinamiche di disgregazione. Diverse famiglie, soprat-
tutto tra quelle che stavano costruendo gli appartamenti in marina (e che
dunque necessitavano di immediati introiti), si dichiarano disponibili alla
vendita e finiscono per accettare anche una politica al ribasso nella cessione
delle case. Anche altri badolatesi, scesi da tempo lungo la costa, guardano
con occhio favorevole all’inattesa e insperata possibilità di far fruttare (sia
pure per cifre esigue) possedimenti e proprietà di immobili lasciati ormai
all’incuria e all’abbandono. I residenti nel borgo, dal canto loro, difendono
la scelta di essere rimasti e male accettano la propaganda di un paese messo
in vendita, come se di esso non si avesse più nessuna cura e interesse; sven-
duto per pochi milioni a gente estranea e a grandi ditte che li avrebbero e-
spropriati, nelle loro preoccupazioni, della propria storia e identità.
È per l'appunto l’espressione «vendere il paese», ha sottolineato Vito
Teti, “che più ha colpito in maniera negativa i badolatesi residenti a Badola-
to o emigrati. E in realtà già l’idea di una vendita collettiva di un abitato
crea disagio e fastidio a quanti pensano che le case non siano fatte soltanto
di pietre, calce, creta, ma anche di storie, di affetti, di legami”120. E di me-
moria. Le opposizioni più accese al progetto di vendita, infatti, vengono dai
molti emigrati badolatesi in Svizzera, che in qualche misura erano stati co-
stretti al distacco dalle vecchie case e per i quali il rimorso per l’abbandono
consumato rende ora inaccettabile saperle in vendita. Il paese antico è, per
essi, un morto che rimorde; da tempo hanno lasciato l’abitato in balia di se
stesso ma lo hanno comunque custodito nella memoria. E vendere il paese
equivarrebbe a essere privati persino dei ricordi, ossia di tutto ciò che è loro
rimasto della vita passata. Nelle comunità di emigrati si producono perciò
sentimenti di rabbia e irritazione, di sgomento e apprensione. Alcuni ri-
mangono attoniti e avviliti ma perlopiù le reazioni sono accalorate, tanto da
costringere una delegazione di badolatesi (tra cui il sindaco Ernesto Menniti

119 Tra i numerosissimi scritti prodotti sull’esperienza del “paese in vendita” limitiamo i rimandi a Squil-
lacioti V. 1987; Teti V. 1987b; Id. 2007a, pp. 463-465; Gambino S. 1987; Carra L. 1988.
120 Teti V. 1987b, p. 66.

- 205 -
Figg. 81-82. Percorsi di riappropriazione

- 206 -
e Domenico Lanciano) a recarsi, il 22 febbraio 1987, a Wetzikon nel tenta-
tivo di placare gli animi e di spiegare alla comunità di emigrati la buona fe-
de e la bontà della proposta iniziale, che mirava ad una complessiva riquali-
ficazione urbanistica del borgo e ad un turismo di qualità.
Nel frattempo, a seguito degli interventi istituzionali dell’allora sotto-
segretario regionale ai beni culturali Giuseppe Galasso e soprattutto dell’as-
sessore al turismo Ubaldo Schifino – che muovono aspre critiche alle distor-
sioni e alle strumentalizzazioni poste in atto – l’iniziativa viene bloccata e le
grosse agenzie immobiliari si ritirano dall’affare. Il progetto di vendita co-
nosce così un sostanziale fallimento. Ad ogni modo, la visibilità conosciuta
da Badolato produce interesse in diversi forestieri che decidono, negli anni,
di acquistare e restaurare alcune case abbandonate per trascorrervi le va-
canze estive. E soprattutto innesca un percorso di consapevolizzazione in
molti badolatesi, rimasti e soprattutto partiti, che prendono coscienza delle
potenzialità del borgo e talora decidono di riattare e riabitare le vecchie ca-
se, sia pure per pochi mesi l’anno.
Il paese, tuttavia, continua a depauperarsi e anche altre speranze di
rinascita – alimentate, negli anni ’90, da un progetto di accoglienza di cen-
tinaia di immigrati curdi, che trovano ospitalità e sistemazione in molte ca-
se abbandonate del borgo, in tal modo temporaneamente ripopolato121 – si
traducono in una nuova illusione e in una dolorosa sconfitta. Eppure Bado-
lato – che attira turisti ma anche artisti, musicisti, registi provenienti da di-
verse regioni italiane e soprattutto dagli stati del nord Europa – continua a
lottare per scongiurare il suo definitivo abbandono. L’attività delle associa-
zioni culturali – prime fra tutte La Radice – l’operato degli attori sociali,
l’impegno delle Confraternite religiose continuano ad affermare una volon-
tà di presenza che si organizza nell’ottica di un recupero delle componenti
identitarie della comunità, in un lavoro di scavo della memoria e di valoriz-
zazione delle risorse artistiche, architettoniche, antropologiche. Badolato
continua a sollecitare dibattiti e interessi, a interrogarsi sul suo futuro, a
mantenere una centralità assoluta nell’orizzonte simbolico e rituale dei suoi
abitanti, di quelli partiti, di quelli rimasti e, negli anni, di quelli arrivati.

121 La vicenda del progetto di accoglienza dei curdi a Badolato meriterebbe ben altro approfondimento
del semplice cenno che ne viene fatto nell’economia del presente studio. Per una puntuale ricostruzione e rifles-
sione critica sull’esperienza si vedano Teti V. 2007a, pp. 469-476; Id. 2006; Trapasso D. 1998a; Id. 1998b; Id. 2006;
Squillacioti V. 1998; Viscone F. 2006; Id. 2010. Nel 2010 la vicenda ha ispirato il documentario di Wim Wenders
Il volo, dando nuovo risalto internazionale alle storie di accoglienza prodottesi a Badolato e a Riace. Sulla realiz-
zazione del film vedi Teti V. 2010.

- 207 -
CONCLUSIONI

Le analisi sin qui condotte e le considerazioni avanzate ci hanno per-


messo di tracciare il quadro delle vicende storiche e geografiche che hanno
condotto al progressivo abbandono di Badolato e che pongono attualmente
il paese a rischio di un definitivo svuotamento. E, di contro, ci hanno con-
sentito di individuare le principali manifestazioni di resistenza all’abbando-
no. Il risultato, come detto nelle pagine dell’introduzione, è stato consegui-
to ibridando metodi e strumenti di analisi e ricerca. Lo studio si è anzitutto
articolato nella lettura dei dati demografici storici nonché delle caratteristi-
che e delle componenti urbanistico-architettoniche e insediative del paese.
A questo duplice canale di ricerca si è quindi accompagnato lo studio delle
principali vicende storiche di Badolato, per poi passare all’analisi della geo-
grafia della zona e delle trasformazioni del paesaggio intervenute a seguito
di calamità naturali (terremoto, alluvioni) o di processi di trasformazione
economica e di declino socio-culturale, indotti dall’esodo agricolo e dall’e-
sodo rurale. Attraverso la lettura dettagliata di tali componenti abbiamo ri-
costruito la parabola evolutiva del paese, che da importante centro econo-
mico e politico durante il periodo medievale è passato a configurarsi come
uno dei casi emblematici dei processi di abbandono e spopolamento in atto
in Calabria. Tuttavia, l’osservazione delle dinamiche sociali, religiose e dei
processi collettivi di costruzione dell’identità ha rilevato l’esistenza di una
serie di forze centripete che si pongono come argine all’abbandono del luo-
go, che continua a mantenere un’assoluta centralità nelle pratiche rituali e
simboliche della comunità.
Più nel dettaglio, dunque, la lettura dei dati demografici storici, riferi-
ti in particolare all’ultimo secolo, ha consentito una quantificazione per dati
oggettivi del fenomeno di spopolamento in atto a Badolato, principalmente
in riferimento al borgo superiore. Unitamente allo studio delle principali
vicende storiche intervenute in seno alla comunità, l’analisi ci ha permesso
di storicizzare i processi di involuzione demografica, di esodo e abbandono
e di inserirli entro un alveo temporale preciso e delimitato. La lettura dei
dati storici ha inoltre consentito di gettare uno sguardo sull’incidenza avuta
dal fenomeno migratorio nel determinare una progressiva diminuzione di
popolazione all’interno della comunità, fino a giungere a vere e proprie
manifestazioni di malessere demografico e di spopolamento.

- 208 -
L’analisi dei mutamenti indotti da grandi eventi naturali (terremoti,
alluvioni) e il contestuale esame del fenomeno della diserzione delle cam-
pagne e dell’esodo rurale ci ha permesso di ripercorrere le principali fasi di
trasformazione del paesaggio e di abbandono del paese, nonché di osservare
quanto queste trasformazioni abbiano provocato l’insorgere o l’aggravarsi di
fasi di declino economico e produttivo di tutta l’area e come ciò abbia for-
temente agito sul mutamento della percezione stessa del paese e dei suoi
dintorni paesaggistici. Inoltre, quanto questi fenomeni abbiano rappresen-
tato forti elementi di destabilizzazione e di disgregazione sociale, intaccan-
do in profondità i rapporti di comunità e il senso di appartenenza ai luoghi.
Dall’analisi delle trasformazioni intervenute nel paesaggio naturale,
siamo quindi passati all’analisi del paesaggio rurale e urbano. Abbiamo in-
dagato in che misura i mutamenti in ambito urbanistico e architettonico al-
l’interno del paese rispondano a mutate esigenze di ordine economico e so-
ciale; come queste mutate esigenze abbiano determinato l’abbandono in
particolare del centro storico, non più idoneo e adeguato al diversificato sti-
le di vita e alle nuove esigenze della comunità. Abbiamo inoltre interpreta-
to i dati e le forme dello spopolamento secondo un modello di scalarità: dal-
l’abbandono delle aree agricole circostanti il paese all’abbandono delle
strutture insediative rurali; dall’abbandono di singole abitazioni a quello di
interi rioni e quartieri (con la relativa erosione e cancellazione di quella
“socialità obbligata” rappresentata dai rapporti all’interno della ruga, del vi-
cinato); dall’abbandono della città storica ai rigonfiamenti urbanistici, e-
spressione di un consumo del suolo talvolta senza senso e senza regole. E
abbiamo analizzato come questo progressivo distacco dal paese e dalle rela-
tive strutture urbane abbia contribuito e stia contribuendo alla cancellazio-
ne della socialità e della cultura dell’abitare di cui il paese era espressione.
In riferimento a queste trasformazioni, la lettura delle dinamiche so-
ciali e dei processi collettivi identitari ci ha consentito di studiare i percorsi
di appartenenza e di appaesamento che hanno operato all’interno della co-
munità badolatese come forze centripete o al contrario di individuare le
cause e le forme di una disgregazione sociale che si è configurata quale for-
za centrifuga primaria. In particolare, abbiamo inteso analizzare come le
manifestazioni rituali e liturgiche (principalmente i riti della Settimana
Santa) continuino a rappresentare un legame memoriale e culturale fonda-
mentale per i membri della comunità e per le loro dinamiche di riappaesa-
mento con i luoghi. Come alcune manifestazioni religiose e civili contribui-

- 209 -
scano a definire un nuovo rapporto con il paese abbandonato, come la me-
moria storica stia ridisegnando le dinamiche di costruzione di una nuova
identità. E, di contro, come la disgregazione e l’allontanamento dal paese
abbia generato in altri casi un rapporto di forte conflittualità con la comu-
nità abbandonata e come questa conflittualità si sia tradotta in una progres-
siva frantumazione delle identità e del senso di appartenenza.
Ci siamo quindi soffermati sul ruolo svolto a Badolato dalle Confra-
ternite religiose, che si configurano quali centri di attrazione, propulsori di
dinamiche relazionali in grado di arginare i fenomeni di dispersione sociale
e culturale riscontrabili tra il paese e il suo doppio (sorto lungo la statale
106), e di rappresentare un imprescindibile punto di riferimento per la co-
struzione dell’identità e per il recupero della memoria storica. Al contempo,
abbiamo indagato quanto queste Confraternite – originatesi storicamente in
vari rioni del paese e facenti capo a diverse chiese presenti sul territorio –
risentano e riproducano un forte legame di identità territoriale, prima anco-
ra che religiosa o sociale. Come, cioè, l’operato delle compagnie religiose sia
fortemente ancorato al senso di appartenenza al rione prima ancora che al
paese, agendo al suo interno ora come elemento di disgregazione, di separa-
tezza e di rivalità tra i membri della comunità, ora come polo dialettico di
un nuovo processo di ricerca del centro e di costruzione di una nuova fisio-
nomia identitaria.
Accanto all’analisi delle principali componenti di ordine religioso che
intervengono nel processo di recupero memoriale dell’identità e di costru-
zione di nuovi itinerari di rappresentazione e auto-rappresentazione collet-
tiva, abbiamo considerato ed esaminato i percorsi di organizzazione simbo-
lica dello spazio urbano connessi alle pratiche di socialità. In particolare,
abbiamo osservato se e in che misura il tradizionale impianto residenziale
risponda ancora al permanere di relazioni comunitarie incentrate sui rap-
porti di vicinato, sulla solidarietà e la coesione sociale, sui principi di reci-
procità. Abbiamo individuato, all’interno del paese, i luoghi e gli spazi in
cui si articolano le interazioni tra i diversi membri della comunità. E ab-
biamo inteso rilevare quanto queste interazioni risentano ancora oggi delle
differenze di classe, di genere (spazi della socialità maschile e spazi della so-
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