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SCHIERE NOTTURNE

Dalle leggende medievali al folclore contemporaneo

Facoltà di Lettere e Filosofia


Corso di laurea magistrale in Studi storici, storico religiosi e antropologici
Cattedra di Storia delle Religioni

Candidato
Alessandro Vivaldi
Matricola 1180807

Relatore Correlatore
Sergio Botta Lidia Capo

Anno Accademico 2014/2015


INDICE
INTRODUZIONE ...................................................................................................................2

1. FONTI E STORIA DEGLI STUDI .......................................................................................9

1.1 L’ANTOLOGIA DEL MEISEN ...................................................................................9

1.2 ALTRE FONTI ...................................................................................................... 20

1.3 STORIA DEGLI STUDI ........................................................................................... 22

2. MORFOLOGIA E TEMI ................................................................................................. 31

2.1 QUESTIONI METODOLOGICHE .............................................................................. 31

2.2 INTERPRETAZIONI STORICHE ............................................................................... 37

2.3 FIGURE, TEMI E MORFEMI RICORRENTI ................................................................. 40

2.4 I SIGNORI DELLE SCHIERE ................................................................................... 44

3. DAL MITO AL FOLKLORE ............................................................................................ 49

3.1 PREMESSA ETNOANTROPOLOGICA ........................................................................ 49

3.2 SCHIERE NOTTURNE DEL FOLCLORE ITALIANO ..................................................... 51

3.3 DAL MITO AL RITO: CORTEI E ISOMORFISMI .......................................................... 67

3.4 LA KRAMPUSLAUF: ULTIMA SCHIERA NOTTURNA? ............................................... 74

CONCLUSIONI ................................................................................................................... 80

TAVOLE............................................................................................................................ 84

BIBLIOGRAFIA .................................................................................................................. 91

1
INTRODUZIONE
Che cos’è una Schiera Notturna? Nel 1820 lo statunitense Washington Irving

pubblicò il suo racconto La leggenda della valle addormentata, più famoso con il titolo

cinematografico di La leggenda di Sleepy Hollow, in cui antagonista principale è un

cavaliere senza testa che resuscita per cacciare agli ordini di una megera, e che era

originariamente un soldato dell’Assia, regione tedesca. Irving rielaborò, durante un

soggiorno in Inghilterra, a Birmingham, una tematica cara al folklore europeo, quella del

cacciatore furioso che torna dagl’inferi, imparentato con quelle schiere notturne che qui

verranno trattate: exercitus mortuorum, eserciti di dannati, cacce selvagge, truppe di

ritornanti (ravenants), torme di demoni (o morti demonizzati), Re dei morti e talvolta

anche Imperatori che tornano a capo delle proprie armate. Temi che hanno molto in

comune e che dagli albori dell’Europa vengono raccontati, dalla Galizia all’Ucraina, dalla

Scandinavia alla Sicilia. Si potrebbe dire che rintracciarne un’unica o primeva origine è

impossibile. Questo toglie significato allo studio di una sorta di morfologia di un mito

“europeo”?

Il 28 Maggio 2015 scadeva il bando della Commissione Europea denominato

“Horizon 2020: Reflective society, cultural heritage and European Identity”, che metteva a

disposizione 17.8 milioni di Euro per la ricerca umanistica 1. Non è un caso che la

Commissione Europea e di concerto l’Europarlamento si interessino del concetto di

“identità europea”, tenendo conto che esso è seguito dalle medesime istituzioni e

dibattutissimo dall’opinione pubblica di tutti i paesi membri 2. Dibattito che non di meno

1
Cfr: <https://ec.europa.eu/programmes/horizon2020/en/h2020-section/europe-changing-world-inclusive-
innovative-and-reflective-societies>, bando codificato H2020-REFLECTIVE-SOCIETY-2015.
2
Alcuni esempi: S.D. Meyer, Identità europea, ma che cos’è?,
<http://www.cafebabel.it/politica/articolo/identita-europea-ma-che-cose.html>; P. Di Stefano, Scoprire nei
2
rientra in vasti ambiti accademici, che includono, tra i tanti, la produzione di Franco

Cardini sul tema delle radici cristiane europee e le giornate di approfondimento tenute

presso la Facoltà di Filosofia della Sapienza sul tema “Le radici ebraiche dell’Europa” nel

2010; a questi si aggiungono gli infiniti dibattiti multidisciplinari sul concetto stesso di

identità culturale, laddove essa è imprescindibile secondo quanto affermato dalla

psicologia e dalla geografia culturale, mentre è totalmente da abbandonare in quanto

pericolosa per taluni antropologi3. Il tema tuttavia diventa particolarmente complesso

quando si arriva alle tendenze denominate glocal, ovvero quella presa di coscienza di una

imprescindibile dualità dinamica di tipo dialettico costituita da globalizzazione e

localizzazione: laddove il mondo postmoderno si è spostato verso il mercato globale, la

reazione delle piccole comunità si è spinta alla riscoperta delle proprie radici, anche e

soprattutto culturali, probabilmente per evitare l’appiattimento imposto dai mercati4.

Queste reazioni glocal sono ulteriormente definite da Alma Bianchetti, che commenta le

tesi di Samuel Huntington nel suo Scontro di Civiltà5: «aveva dato conto nel suo discusso

saggio dell’insofferenza all’egemonia politico economica e culturale occidentale incarnata

dagli Stati Uniti da parte di ciò che definiva the rest, al cui interno evidenziava tra l’altro,

in molti paesi di recente indipendenza, il fenomeno generazionale della indigenizzazione

delle culture. Rilevava cioè il ritorno alle tradizioni locali da parte delle nuove elites al

potere, per il quasi generale fallimento dei modelli esogeni importati dalle potenze

romanzi l’identità europea, Corriere della Sera, <http://www.corriere.it/cultura/libri/14_aprile_13/scoprire-


romanzi-l-identita-europea-54437330-c2ef-11e3-a3de-4531ca6bc782.shtml>; M. Franco, Per una nuova
identità europea, Huffington Post, <http://www.huffingtonpost.it/marco-franco/per-una-nuova-identita-
europea_b_4657092.html>; I.E. Pingitore, Ripensare l’identità europea, L’Intellettuale dissidente,
<http://www.lintellettualedissidente.it/societa/ripensare-lidentita-europea/>.
3
Cfr. F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Bari 2010, e Idem, Contro l’identità, Laterza, Bari 2007.
4
Cfr. Z. Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione, Armando Editore, Milano 2005.
5
S. P. Huntington, Scontro di civiltà e nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2006.
3
coloniali dell’Occidente. Non dimenticava altresì di sottolineare, all’interno della stessa

Europa, il nuovo successo dei micro nazionalismi delle piccole patrie. […] Se la

globalizzazione attraverso la società dei consumi ha trovato il modo di mercificare e

rendere oggetto di consumo effimero anche le specificità culturali, bisogna tuttavia

osservare che essa stessa offre al suo interno qualche anticorpo a contrastare i processi

deterritorializzanti ed omologativi. Non per nulla, la identifica il neologismo glocal, che ne

esplica la natura duale: il globale esiste solo in funzione del locale, la sua nascita, la sua

affermazione a scala planetaria e la sua sopravvivenza dipendono inscindibilmente dalla

sua dipendenza dai luoghi e dalle loro risorse. In breve, il globale incorpora in sé anche i

geni anti-omologazione. Lo evidenzia banalmente il successo di paesi oggetto dei primi

processi delocalizzativi ad opera degli stati di antica industrializzazione, i quali hanno

saputo divenire potenze mondiali di prima grandezza, riprendendo in mano il timone della

loro economia e assumendo nuovi e rilevanti ruoli nel quadro geopolitico internazionale

(paesi BRIC e CIVETS)»6. È in questo dibattito, che era imprescindibile introdurre, che

dovrebbero inserirsi quegli studi che tentano di approfondire la consistenza e le

caratteristiche di una morfologia culturale europea o meglio della morfologia di una cultura

europea (e necessariamente la sua storia come unicum), che, se da una parte è composta da

unità a sé stanti (i temi delle culture nazionali), dall’altra mostra una condivisione di temi

riscontrabili anche e soprattutto a livello locale, tra i quali, sul piano dell’Antropologia e

della Storia delle religioni, è possibile rintracciare miti, leggende e festività condivisi,

come detto, da tutto il continente.

6
A. Bianchetti, Conoscersi, riconoscersi, rappresentarsi, in Identità territoriali, a cura di T. Banini, Franco
Angeli, Milano 2013. Cfr. anche A. Vivaldi, Cultural Intelligence, Geopolitica e Scienze Umane, in Il Mondo
dell’Intelligence, Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica, 2014,
https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/approfondimenti/cultural-intelligence.html
4
Da questo milieu di riflessioni nasce l’idea di indagare il rapporto tra un mito o

leggenda definibile – come vedremo – paneuropeo, quali le Schiere notturne nelle loro

molteplici declinazioni, e gli eventuali rapporti con festività e temi folklorici ancora

esistenti o da poco scomparsi. L’indagine è tutt’altro che semplice: certamente perché

convoglia tematiche che muovono da una triplice matrice accademica, quale quella storica

(ed in particolare storica medievale), quella antropologica e non meno importante quella

storico-religiosa. In seconda istanza, perché essa si va a confondere con fenomeni

tendenzialmente postmoderni e artificiosi, quali ad esempio le ultime manifestazioni di

festività oramai globalizzate quali Halloween, che rischiano inevitabilmente di viziarne

l’esito.

È necessario partire da un pilastro degli studi folklorici del secolo scorso, uno

studioso formatosi a Berlino, che ha dedicato al tema qui trattato forse la più completa

antologia di fonti ad oggi nota, Karl Meisen, di cui utilizzeremo la recente edizione italiana

curata da Sonia Maura Barillari7. A tale antologia si può aggiungere oggi poco, per quanto

concerne le fonti, se non qualche dettaglio rintracciabile negli importanti contributi alla

ricerca sul tema dati da noti medievisti quali Claude Lecouteux, Jean Claude Schmitt e

Jacques Le Goff. Dal punto di vista specificatamente antropologico e storico religioso è

fondamentale l’apporto degli studi di Carlo Ginzburg, sul cui metodo e sul concetto di

isomorfismo, cioè di medesima forma ed evoluzione, tra leggenda/mito e rito folklorico si

basa l’idea del presente elaborato. Per l’apparato concettuale storico religioso, va

dichiarato il debito verso gli studi di Angelo Brelich: se infatti i concetti sviluppati da

quest’ultimo valgono per lo più per l’ambito degli studi storico – religiosi di tipo classico,

7
K. Meisen, La leggenda del cacciatore furioso e della caccia selvaggia, Edizioni dell’Orso, Alessandria
2001, a cura di S.M. Barillari. Originale Die Sagen vom Wütenden Heer und Wilden Jäger, Müster i. W.,
Aschendorffsche Verlagsbuchhandlung, 1935.
5
tuttavia credo sia importante sottolineare come alcuni concetti sviluppati da questi siano a

grandi linee pertinenti anche per lo studio del materiale medievale e moderno che qui ci

interessa. Certo, si può, e si deve, dire quanto differisca il mito greco su cui si focalizza il

Brelich rispetto alle leggende medievali, ma è ancora oggi difficile comprendere e

quantificare quante di quelle leggende vadano poi a comporre, in vari modi, una sorta di

mitologia medievale (ed europea) non necessariamente integrata nello schema dottrinale

del cristianesimo cattolico, e che non può di certo essere ridotta ad un rango inferiore

perché – teoricamente – proveniente dalla “cultura popolare”. Il discorso sulla mitologia,

elaborato più e più volte da Brelich, è indubbiamente applicabile al nostro contesto: «Nelle

ricerche storiche contemporanee lo studio della mitologia ha riconquistato un posto

eminente. Studiata attentamente nelle sue peculiarità formali, nel suo funzionamento

sociale, nei suoi aspetti psicologici, la mitologia è venuta gradualmente rivelando la

propria irriducibilità a fattori extrareligiosi, ed oggi è generalmente considerata sullo stesso

piano delle altre forme fondamentali della religione, se non addirittura come fonte ultima

di queste altre forme»8. Certo, a differenza del mito come descritto da Brelich, le leggende

che qui trattiamo non sono apparentemente “fondanti” la realtà (con alcune eccezioni

“fondanti” monasteri), non avvengono in un tempo antichissimo, non interessano

esclusivamente esseri extraumani. Ciò non di meno, quando mostrano gli isomorfismi di

cui abbiamo già parlato, quando cioè tendono ad intersecarsi o sovrapporsi con riti

folclorici, esse de facto fondano l’identità di una comunità e i suoi valori, allo stesso modo

in cui lo fanno certi temi agiografici relativi ai Santi patroni, che fondano l’identità

urbana/cittadina ed ereditano molto della natura del patronato romano. Ancora più

importante si rivela una caratteristica che accomuna il mito di Brelich e le leggende

medievali, relativa alla narrazione: «Dal punto di vista formale, la narrazione del mito ha,

8
A. Brelich, Gli eroi greci, Adelphi, Milano 2010, pag. 33.
6
anzitutto, due caratteri opposti e complementari. È essenziale che essa si adegui alla

tradizione; i miti non s’inventano, non s’improvvisano; essi fanno parte di un patrimonio

tradizionale della comunità, tramandato da tempi immemorabili, cui i narratori attingono; i

miti traggono, anzi, la propria giustificazione dal fatto di esser tramandati di generazione in

generazione. D’altra parte, però, ogni volta che un mito viene raccontato, esso è diverso e

nuovo: e ciò non tanto per un involontario processo di alterazione che la trasmissione

puramente orale subirebbe inevitabilmente (questo genere di alterazioni è sufficientemente

arginato dai metodi e tecniche della trasmissione dei miti presso i primitivi), quanto per

ragioni inerenti alla natura stessa della narrazione mitica. Il mito come tale non ha, infatti,

un’esistenza propria, indipendente dalla sua narrazione; esso è mito solo in quanto è

narrato, si attua cioè mediante le parole del narratore. Ri-narrare il mito tradizionale –

mentre con l’andar del tempo cambiano le occasioni, gli ascoltatori, cambia il narratore

stesso – significa ri-crearlo di volta in volta, realizzarlo sempre con nuovi mezzi, ciò che

già esclude una ripetizione meccanica, richiedendo un contributo creativo da parte del

narratore. In secondo luogo ogni mito è complesso e consiste nell’organizzazione, ora più

stabile ora più labile, di più temi, di più riferimenti; è una sequenza o un gruppo di

sequenze di temi particolari di una mitologia. Non è quindi affatto necessario che ogni

volta esso riunisca esattamente nello stesso ordine esattamente gli stessi elementi o che dia

ad ognuno di essi esattamente lo stesso rilievo»9. Questa variabilità e questa intrinseca

natura, inscindibile tanto dalla tradizione quanto dalla narrazione dalla forma variabile,

rende l’interpretazione delle fonti medievali circa il materiale leggendario e folklorico così

come è per il mito greco che interessa Brelich sostanzialmente avulsa da schemi rigidi:

come a dire che il cambiare forma e particolari non altera l’essenza stessa del

mito/leggenda. Non solo: la persistenza di alcuni temi in variazioni a noi contemporanee e

9
Ivi, pag. 34-35.
7
l’analisi di manifestazioni simili ancora oggi vive dimostra come, ancorché si sia spesso

persa la consapevolezza del simbolismo di una festività o di un mito, essi concorrono

comunque a definire l’identità culturale di un luogo, di una popolazione, di una intera

regione, ricordando per altro una funzione della religione che è stata ampiamente

sottolineata da studiosi quali Émile Durkheim e Alfred Reginal Radcliffe-Brown.

La struttura dell’elaborato si fonda sulla stessa duplicità della ricerca: il primo

capitolo e il secondo sono dedicati all’ambito più specificatamente storico e alle fonti

scritte, mutuate soprattutto dall’antologia del Meisen, con un’analisi morfologica dei temi

e una contestualizzazione storica delle fonti, preceduta da una sintetica rivista degli studi

sul tema realizzati fino ad oggi. La seconda parte è quella più specificatamente

antropologica, e si cercherà di interpretare il “fenomeno” delle schiere notturne e della

Caccia Selvaggia, il significato della sua diffusione e della sua lunga persistenza.

8
1. FONTI E STORIA DEGLI STUDI

1.1 L’ANTOLOGIA DEL MEISEN

Uno studio sulle schiere notturne nelle loro molteplici articolazioni non può

prescindere dall’antologia del Meisen10. Se da una parte Lecouteux ne rileva una presunta

confusione11, dall’altra va detto che Meisen contestualizza – forse involontariamente data

la ristrettezza della sua interpretazione che verrà successivamente analizzata – il soggetto

all’interno di un contesto culturale non solo europeo, ma temporalmente continuativo tra

l’antichità, la tardo antichità, il medioevo e la prima età moderna, per altro in maniera

molto simile alla contestualizzazione di Schmitt per quanto concerne la superstitio

medievale12. La “confusione” nel Meisen delineata dal Lecouteux non può non essere

considerata in realtà un utile ampliamento di riferimenti tematici da cui potrebbe essersi

sviluppato il tema generale dell’antologia, arricchendolo di particolari e varianti che non

inficiano l’unità intrinseca di un mitologema di base. Vediamo i brani che nell’antologia

sono da ritenersi fondamentali per la presente trattazione.

Tra le fonti antiche e tardo antiche citate dal Meisen, sotto il titolo Gli eserciti

spettrali, si trova Erodoto con il libro VIII delle Storie, nella fattispecie l’episodio in cui i

Focesi, dipinti di bianco con del gesso, attaccarono di notte i Tessali: tale passo è integrato

da quello di Polieno (Stratagemmi, VIII) in cui lo stratagemma è così esplicato:

10
K. Meisen, op. cit..
11
«Molte delle fonti medievali collezionate dal Meisen nella sua utile antologia sono piuttosto dubbie: alcune
confondono la Caccia Selvaggia con cacciatori di ogni tipo, mentre altre, di difficile identificazione, offrono
poche informazioni utili», in C. Lecoteux, Phantom Armies of the Night, Inner Traditions International,
Rochester 2011, pag. 206, traduzione nostra.
12
Trattando delle superstizioni medievali, Schmitt traccia una continuità di 15 secoli, pur ammettendo la
dinamicità della nozione stessa di superstitio. Cfr. J.C. Schmitt, Medioevo superstizioso, Laterza, Bari 2004.
9
«convenuto fra di loro di risparmiare chi si presentava così imbiancato (tra i Focesi, già

dipinti di bianco – NdA), in una notte di luna piena scesero in campo ad assalire i nemici.

Questi, spaventati come di fronte a un fantasma strano e diverso […] vennero sconfitti».

Segue il Libro II (148) della Storia Naturale di Plinio il Vecchio, con l’episodio della

battaglia in cielo tra due eserciti, durante il terzo consolato di Mario (103 a.C.); Pausania è

presente con il Libro I del Viaggio in Grecia, ove riporta come presso Maratona, di notte,

si senta ancora il nitrire dei cavalli e il combattere dei soldati; sempre di anime di soldati

che continuano a combattere tratta Damascio di Damasco nella Vita di Isidoro

Alessandrino, sia per quanto riguarda una battaglia alle porte di Roma, sia per quanto

concerne fenomeni simili presso Kurba, località della Caria, e in Sicilia; con Paolo

Diacono (Storia dei Longobardi, II, 4) che tratta del fragore di un esercito invisibile in

Liguria, il Meisen chiude la sezione riguardo gli eserciti spettrali nelle fonti antiche.

La successiva sezione copre i cortei delle divinità ctonie ed è introdotto con un brano

di Ippocrate (De morbo sacro), che trattando la sintomatologia degli incubi introduce la

definizione di assalto degli eroi, intesi come i trapassati che accompagnano Ecate; segue il

frammento di un tragico anonimo (Tragicorum Graecorum Fragmenta, 375) del V – IV

sec. a.C. che menziona la schiera infera di Ecate, di cui tratta anche lo Scoliasta ad

Apollonio Rodio in Argonautica, III, 861; segue Tacito (De origine et situ germanorum,

43, 6) che tratta dell’uso degli Arii di dipingersi i corpi e di scegliere per le battaglie le

notti più scure, assomigliando così ad un esercito spettrale 13. I passi successivi

(Tertulliano, De anima, 56; Eusebio di Cesarea, Praeparatio evangelica, IV, 22,15; Inni

Orfici, ad Ecate, I, vv 3-5;) servono a Meisen per contestualizzare definitivamente la

credenza sia antica che tardo imperiale nel ritorno delle anime, anche e soprattutto sotto

13
Non è chiaro – ed è quanto meno peculiare – perché Meisen abbia messo qui questo brano piuttosto che
ricollegarlo a Erodoto e Polieno.
10
forma di corteo guidato da Ecate, contesto che permarrà nel medioevo in maniera tangente

l’exercitus mortuorum.

La terza sezione è dedicata all’esercito diabolico medievale e comincia con quella

che possiamo considerare se non la prima (per un mero dubbio circa l’esaustività dei testi

ad oggi rintracciabili), comunque la fonte fondante per il problema in esame, ovvero il

brano dalla Historia Ecclesiastica (VIII, 17) di Orderico Vitale 14, che descrive con minuzia

di particolari quanto accade al prete Walchelin, che incontra lungo la sua strada una

tenebrosa processione. Questa viene aperta da un gigante armato di clava, cui seguono

fanti con bestie da soma e bagagli, poi beccamorti che portano bare da cui fuoriescono

nani, delle dame a cavallo tormentate da selle chiodate, sacerdoti, monaci, abati ed infine

un drappello di cavalieri neri tra i quali Walchelin riconosce alcuni morti recenti.

Fondamentale è notare tra questi il fratello del prete, che dichiara essere quel vagare

tormentato (da armi infuocate) il suo modo di scontare i peccati. Il brano successivo è di

Guglielmo di Malmesbury15 (De gestis regum Anglorum libri quinque, 205), che

nell’ambito di una più ampia vicenda negromantica descrive un corteo piuttosto simile al

precedente, con la sola variante del gigante con la clava, qui posto a chiusura del corteo,

ma comunque in un ruolo di comando dello stesso. Segue il Chronicon Uraugensis di

Ekkehard Von Aura16, che riporta all’anno 1123 l’apparizione presso Worms dell’esercito

spettrale, quotidianamente proveniente da un monte vicino, in mezzo al quale l’anonimo

abitante protagonista dell’episodio riconosce Emicho, nobile ucciso pochi anni prima

14
Monaco del monastero di S.Evroult a Ouche, in Francia. Nato nel 1075 a Attingesham in Inghilterra, visse
nel monastero citato dall’età di dieci anni fino alla sua morte, nel 1150. Questa e le note successive relative
agli autori dei brani sono mutuate da K. Meisen, op. cit.., al quale rimando anche per le edizioni consultate.
15
Benedettino e storico. Nato nel 1096 forse nel Somersetshire, entrò giovane nel monastero di Malmesbury
dove morì nel 1143.
16
Primo abate del monastero benedettino di Aura sulla Saale di Franconia, fondato nel 1108. Autore di una
Cronaca Universale, morì dopo il 1125.
11
(1117, ivi). Nel Chronicon Saxonicum, all’anno 1127, si parla invece dell’attività venatoria

di cacciatori su destrieri e capre neri, guidati da cani anch’essi neri, che generavano con dei

corni un frastuono che fu udito durante tutta la Quaresima e il periodo di Pasqua.

L’episodio viene raccontato in relazione all’insediamento di un nuovo abate (Heinrich Von

Peitowe) nel monastero di Peterborough. Dal De fundatione monasterii S.Fidis

Sletstatensis, testo anonimo che copre gli avvenimenti inerenti il monastero tra il 1108 e il

1138, si evince invece che il cavaliere Walter, facendo penitenza notturna presso il

medesimo luogo, vide una processione di pellegrini, tra i quali si fece avanti il suo

compagno d’arme precedentemente morto, Corrado, che gli mostrò i tormenti che quelle

anime affrontavano per i propri peccati. Il brano successivo è tratto dal De Nugis

Curialium (I, 11; IV, 13) di Walter Map e costituisce la prima connessione, nell’antologia

del Meisen, del motivo dell’esercito furioso o caccia selvaggia col tema della regalità e

l’identificazione del leader dell’esercito con un re, tema che come vedremo tornerà

ciclicamente, non ultimo col cosiddetto Teoderico cacciatore presente nella Basilica di San

Zeno a Verona, attestazione di una variante del cacciatore furioso con protagonista il re

goto. Nell’excursus di Map si parla del Re Herla il Bretone e delle sue nozze con la figlia

del re dei Franchi, che sono precedute da un patto che Herla sigla con un re misterioso, e

che porta sul bretone una maledizione rappresentata da un piccolo bulldog donatogli dallo

sconosciuto re. La maledizione vuole che la corte di Herla vaghi per l’Inghilterra finché il

cane non scenderà dal cavallo del re. Map sembra anche identificare questa corte vagante

con quella detta di Erletingo e ne definisce un termite temporale corrispondente al regno di

Enrico II. Interessante è la trattazione di Elinando de Froidmont 17, nel suo De cognitione

sui (X – XIII), che rispetto alle fonti precedenti non solo tratta delle leggende, per così dire

17
Cistercense nato attorno al 1150 a Pron le Roi presso Beauvais, entrò nell’ordine cistercense a Froidmont
dove morì tra il 1221 e il 1229.
12
“raccolte sul campo” quasi con metodo etnologico, ma per la prima volta le contestualizza

all’interno della cultura classica citando Platone, Aristotele, Macrobio e Virgilio: «Nel

medesimo conto si deve tenere l’opinione di Virgilio a proposito degli eroi che confinò

negli inferi, dei quali dice che conoscono un loro sole e loro stelle; e con queste parole

attesta come essi dopo la morte continuino a fare quelle cose, anche le più insignificanti,

che avevano fatto in vita [...]. E tale fallacia di opinione, o opinione di fallacia, se non erro,

ebbe inizio da qui, dal fatto che le anime dei defunti che scontano le pene dei propri peccati

sono solite apparire a molti con quelle vesti che avevano portato in vita: cioè i contadini in

abiti contadineschi e i cavalieri in abiti militari, come la gente comune è solita affermare a

proposito della masnada di Hellequinus». La già citata intersezione con l’ambito regale

appare anche negli Otia Imperialia (II, 12; III, 58) di Gervasio di Tilbury18, che parla di

apparizioni della caccia selvaggia legate alla figura di Artù sia in Sicilia che in Bretagna e

Catalogna. Particolare importanza riveste la trattazione, anche questa dal sorprendente

taglio quasi antropologico, di Guglielmo d’Alvernia 19, che nel suo De universo (III, 12 –

25) narra della natura di quello che chiama esercito di Hellequin (per quanto concerne il

volgare francese o esercito antico per lo spagnolo). L’importanza è data dalle ipotesi

dell’autore, che contestualizza anche qui attraverso dei precedenti pagani: «Tuttavia, se il

volgo idolatra credesse a tale protezione e difesa (dall’esercito, NdA), oppure ne sentisse

parlare, la attribuirebbe alla divinità dei campi. E se qualcuno di loro, spinto da un simile

timore, fuggisse nei campi non si penserebbe semplicemente che cerca scampo nei campi,

ma piuttosto che corre a mettersi sotto la protezione e la difesa dei suddetti numi. Ritengo

18
Nato a Tilbury, in Inghilterra, attorno al 1155, compì i suoi studi a Reims e a Bologna. Dopo la morte del
re Giovane soggiornò dapprima presso la corte normanna in Sicilia, quindi ad Arles, dove ricoprì la carica di
maresciallo imperiale. Per Ottone IV di Brunswick compose, tra il 1209 e il 1214, gli Otia Imperialia.
19
Nato ad Aurillac in Alvernia, studiò a Parigi dove fu poi docente di filosofia e telogia all’Università; fu
nominato vescovo di Parigi da Papa Gregorio IX nel 1228. Redasse il De universo tra il 1231 e il 1236. Morì
nel 1249.
13
anche che crederebbero che la dea Cerere, patrona dei campi, abbia protetto quest’uomo, e

che quell’esercito non possa arrecare danno a nessuno all’interno dei domini e del regno di

Cerere. Inoltre, riguardo al fatto che appaiono in sembianze di uomini, intendo di uomini

morti, e soprattutto morti di morte violenta, ad alcuni ciò potrebbe forse sembrare

conforme al parere di Platone secondo cui le anime di simili morti erano viste vagare per il

numero di giorni o per il lasso di tempo loro destinato, lasso di tempo, intendo, durante il

quale sarebbero vissuti nei corpi se la violenza di tale morte non li avesse strappati da

essi». Come vedremo, le note di Guglielmo costituiscono un buon supporto alla teoria già

adombrata da Schmitt circa la continuità temporale del mitologema che qui trattiamo tra

tardo antico, medioevo ed età moderna: pur bollando come eretiche e pagane tali credenze

infatti, egli ne ammette l’esistenza (seppur erronea). Cesario di Heisterbach20 accenna ai

tornei dei morti nel suo Dialogus miraculorum (XII, 16 – 20), specificando tuttavia che in

un caso, quello inerente il torneo di Montenake (Belgio), si trattava di demoni piuttosto che

spiriti, mentre nel successivo, definito di Walter di Millen (nome acclamato dagli spiriti

partecipanti al torneo) si trattava per lo più di veri e propri ravenant, ovvero spiriti dei mori

(ritornanti). L’ultimo caso, registrato presso Magonza, riguarda un cavaliere che incontra

una donna morta in precedenza e che tenta di proteggerla da un cacciatore furioso, definito

in questo caso demone, che alla fine però la strappa al suo protettore e la porta con sé. Con

il Tractatus de diversis materiis praedicabilibus di Stefano di Bourbon21 tornano i

riferimenti ad una possibile identità tra Allequinus ed Artù, quest’ultimo avvistato con la

20
Monaco cistercense, fu autore di scritti edificanti assai ricchi di racconti esemplari. Nato attorno al 1180 a
Colonia, si fece monaco nel 1199, poi fu maestro dei novizi nel monastero di Heisterbach ppresso Bonn.
Morì attorno al 1240.
21
Domenicano, predicatore e inquisitore, era originario di Belleville-sur-Saone e compì i suoi studi a Parigi;
svolse la sua attività prevalentemente nella Francia orientale e meridionale. Morì a Lione nel 1261. Il
Tractatus fu composto tra il 1250 e il 1260.
14
corte vicino al Mont du Chat 22. Stefano segnala tuttavia che gli spiriti componenti le

masnade che descrive sono in realtà demoni travestiti. Segue il capitolo CXXXVI del

Codex Runensis23, che raccoglie la testimonianza di un monaco cui viene riferita, da parte

di una donna, la visione della masnada di Herlequino; in questo caso si parla di una

comunicazione tra la testimone e un membro della masnada, sempre al fine di alleviare la

penitenza di quest’ultimo.

Di altro tenore cominciano ad essere i testi della seconda metà del XIII secolo. Il

capitolo LX de Les Miracles de Saint Eloi 24 e il Luque la maudite25 identificano

definitivamente Hellequin con il demonio, fino a farlo maritare in quest’ultimo testo con la

strega Luque, mentre nel poco più tardo (fine del medesimo secolo) Das Väterbuch Paolo

l’Eremita, uno dei personaggi utilizzati come exemplum per la comunità, incontra l’esercito

furioso incarnato da cavalieri infernali. Il successivo Mitteldeutsche Beschwörungsformel

(Nachtsegen) del XIV secolo, proveniente dalla Germania centrale, risulta ulteriormente

interessante sia per la forma in versi di benedizione notturna, che si presenta come poesia

popolare ma rappresenta probabilmente una preghiera, sia per l’identificazione

dell’esercito furioso con l’esercito di Odino e l’inserimento di elfi ed altre creature tipiche

della mitologia germanica.

22
Non è dato sapere di quale specifica località si tratti, essendoci molteplici toponimi simili. Tuttavia la
località più famosa è nei pressi del Lago Bourget in Savoia.
23
Dell’Abbazia cistercense di Reun presso Gratwein in Stiria, metà XIII secolo.
24
Testo sui miracoli attribuiti a Sant’Eligio, seconda metà del XIII secolo, proveniente dalla Piccardia.
25
Pubblicato sulla base di un manoscritto della seconda metà del XIII secolo da Gaston Raynaud in Romania
XII (1883): 224-26.
15
Fonte italiana è invece Giovanni Villani26 con le sue Istorie fiorentine fino all’anno

1348, dove si narra del Marchese Ugo di Brandeburgo, vicario dell’Imperatore Ottone III

che, smarritosi durante una caccia, incontrò una processione di anime dannate torturate da

uomini neri e deformi; quando Ugo chiese chi fossero, risposero che quelle torture

l’avrebbero atteso se non avesse deviato dal suo personale cammino di perdizione.

Del XIV secolo è anche il poema anonimo Roman de Richart filz de Robert le

Diable, qui fut Duc de Normendie, in cui il protagonista Richard incontra la masnada di

Hellequin, di cui fa parte un suo scudiero morto l’anno precedente. Da questi il

protagonista si fa accompagnare al cospetto del leader della processione, il quale spiega la

penitenza che sono costretti a sopportare, sotto forma di eterno vagare.

Nella Exposition de la doctrine chrétienne del XIV secolo si trova associata

l’identità demonica della Mesnie Hellequin, che viene tuttavia “etimologicamente”

spiegata con la già citata identità – diciamo “politica” – con il re francese Carlo V. Per il

XV secolo si hanno innanzitutto due episodi dal Myrmecia Bonorum sive Formicarius (V,

1) di Johannes Nider(ius) 27: nel primo, due cavalieri vanno incontro ad un’adunanza

notturna di cavalieri in Boemia, ed uno, fattosi più vicino, ne esce decapitato; nel secondo,

un nobile si imbatte nell’esercito notturno e riconosciuto un suo servo, cavalca con questi,

in una sola notte, in Terra Santa e ritorno. Si arriva poi in Spagna, con il Fortatitium fidei

contra iudeos, saracenos aliosque christianae fidei inimicos (V, 10) del 1496, in cui al

26
Cronista, nato a Firenze alla fine del XIII secolo, viaggiò a lungo in Francia e Fiandra fra 1302 e 1308.
Partecipò attivamente alla vita politica della sua città ricoprendo, fra le altre, le cariche di uffiziale della
moneta, camarlingo del Comune ai lavori della nuova cinta muraria, ufficiale preposto al sostentamento del
popolo e priore. Morì di peste nell’estete del 1348.
27
Domenicano, scrittore, riformatore e diplomatico, nato attorno al 1380 a Isny in Svevia, entrò giovane
nell’ordine domenicano a Colmar; viaggiò a lungo in tutta la Germania, fu professore a Vienna, poi priore a
Norimberga. Morì a Colmar nel 1438.
16
capitolo intitolato in che modo i demoni sono visti ingaggiare battaglie torna la già citata

espressione ispanica di esercito antico riferita a torme di guerrieri, visti passare per le

strade strappando ulteriori anime alle popolazioni del luogo.

Del 1474 è il poemetto Von dem edeln hern von Bruneczwigk, als er über mer fure di

Michel Wyssenherre28, in cui il protagonista principe di Brunswick, giunto in Terra Santa e

perso tutto il suo seguito, incontra il wöden here o esercito furioso, col cui capo – descritto

come un gigante – stipula un patto, al fine di essere riportato salvo al suo castello. Giunto

qui, con l’aiuto di Dio evita di tener fede al patto che lo avrebbe reso schiavo e parte

dell’esercito furioso. Del successivo decennio (1487) è l’anonima Chronique de

Normandie, in cui il duca normanno Riccardo incontra l’esercito furioso identificato –

ancora una volta – con la corte armata di Carlo V, che gli illustra come, per penitenza, sia

tenuto con il suo seguito a scontare i propri peccati combattendo contro i saraceni ed altri

miscredenti e nemici della cristianità.

Il XV secolo è quindi chiuso da due interessanti brani. Il primo è di Giovanni di

Trittenheim29, tratto dagli Annales Hirsaugiensies, e riveste particolare importanza perché

sottolinea la data solstiziale del 21 dicembre, data in cui il conte Walramo,

precedentemente morto, torna nella forma di Cacciatore furioso. Il secondo brano è di

Heinrich Bebelius30, che pur non menzionando come i precedenti una visione o un incontro

per così dire “diretto”, è estremamente valido per la ricerca in quanto per primo cita il

carnevale, i demoni e il rovesciamento dell’ordine costituito:

28
Poeta della Germania centrale, forse renano meridionale, giullare del XV secolo di cui è tramandata in un
manoscritto del 1474 la poesia.
29
Abate benedettino, poligrafo, nato nel 1462 a Trittenheim, dopo gli anni di studio trascorsi a Heidelberg
entrò nel 1482 nel monastero di Sponheim dove ricoprìla carica di abate fino al 1505; da questa data fino alla
morte nel 1516 fu abate del monatero di S.Giacomo presso Würzburg.
30
Umanista e giurista, nato nel 1472 a Justingen in Svevia.
17
«Per cui non molto tempo fa quando un prete, succube in tutto e per tutto della sua

concubina al punto da assecondarla in ogni suo capriccio, chiese al prefetto di un villaggio

di portarli sulla neve in carrozza per divertirsi (come si usa dalle nostre parti d’inverno e

nei giorni folli del carnevale), e venne accontentato, saltò su una donna e disse: “un tempo

erano i demoni a portare nell’aria le puttane dei preti, oggi lo fanno i prefetti e i potenti di

questo mondo in carrozze lussuose, e il mondo va alla rovescia»

Il XVI secolo inizia con le prediche del 1508 di Johann Geiler detto von

Kaisersberg31, stampate nel 1516 a Strasburgo (Die emeis von Unholden, Hexen,

Gespenstern, etc.). Tra queste la XVIII tratta dell’esercito furioso, che viene innanzitutto

descritto come composto da anime falciate anzitempo e di conseguenza costrette a vagare.

Particolarmente interessante è il particolare che ne asserisce la visibilità ai mortali nei

giorni preparatori al Natale. Sempre del 1516 è quanto annotato da Jakob Trausch 32

(Straßburger Cronik, II, 2), ovvero che nell’anno stesso dell’annotazione l’esercito furioso

fu avvistato in Alsazia, Brisgovia, Francia e Italia. Avvistamento che si ripete ogni anno

nel Giovedi di Quaresima avviene nella regione di Mansfeld, annotato da Johannes

Agricola33 (Sybenhundertundfünfftzig Teutscher Sprichwörter, verneuwert und gebessert).

A cura di Hans Sachs34 (Das wütend heer der Kleynen dieb) è invece l’episodio registrato

in Vestfalia, dove però l’esercito furioso è composto letteralmente da poveretti che cercano

Giustizia senza trovarla, in un evidente espediente volto alla critica della società tipico

della letteratura dei meistersinger in cui si inserisce.

31
Predicatore, insegnò alle università di Basilea e Friburgo; dal 1478 fu predicatore del duomo di Strasburgo,
città dove morì nel 1510.
32
Cronista e avvocato del Consiglio cittadino di Strasburgo, morto nel 1610.
33
Teologo protestante, fu insegnante e pastore a Eislebem, nel 1536 professore a Wittenberg e dal 1538
predicatore di corte e Sovrintendente Generale a Berlino, dove morì nel 1566.
34
Maestro cantore di Norimberga dal 1516, Morì nel 1576. Considerato il più importante meistersinger e
simbolo del ceto popolare e borghese delle città imperiali tedesche del suo secolo.
18
Queste, come detto, le principali fonti dell’antologia, che tuttavia è tanto ampia da

permettere di delineare a livello spaziale la sussistenza dei medesimi temi dalla Sicilia alla

Scandinavia e dalla Spagna alla Germania (se non oltre, verso est, in Russia).

Temporalmente, Meisen arriva a coprire gli inizi del secolo XX, con due testimonianze

provenienti da Francia e Inghilterra, rispettivamente del 1905 e del 1908, che si iscrivono

oramai nella letteratura di stampo antropologico e nell’ambito dello studio delle tradizioni

popolari.

19
1.2 ALTRE FONTI

La versione italiana dell’antologia del Meisen, che qui uso, è integrata dalla curatrice

con ulteriori fonti per un maggiore supporto filologico e a dimostrazione della persistenza

temporale e diffusione geografica del mitologema. La prima è del secolo XI, un passo

Rodolfo il Glabro 35 (Historia, V, 6) che parla di un esercito in armi che nel cielo si muove

verso occidente. Segue Othlone di Sant’Emmeram36 (Liber visionum, VII), che tratta

sempre di eserciti celesti. Il successivo riferimento, dalla Philomena di Chrétien de Troyes,

XII secolo, è piuttosto interessante per la citazione diretta dell’esercito di Hellequin. Molto

lunga e dettagliata, quasi a ricalcare Orderico Vitale, è la citazione da Andrea

Cappellano 37, De Amore, I, che ritrae una processione molto lunga, estremamente

articolata alla cui testa il protagonista, scudiero del nobile Robero, interloquisce con una

dama, che asserisce la processione di cui fa parte essere l’esercito dei morti. Ulteriormente

interessante, ancora una diretta citazione dell’esercito di Hellequin, troviamo in Le

tournoiement de l’antichrist di Huon de Méry, del 1235, e medesimo oggetto si trova 50

anni più tardi circa (1289) nel Renart le Nouvel di Jacquemart Gielée. Nel Les Merveilles

de Rigomer di Jehan (metà del XIII secolo) è Lancillotto, nella foresta, a incontrare la

Caccia Selvaggia. Nel La pergola ovvero il gioco della follia di Adam de la Halle, infine, il

corteo di Alichino 38.

35
Nato attorno al 945 presumibilmente in Borgogna, muore presso Cluny nel 1047.
36
Nato attorno al 1010nella diocesi di Frisinga, di famiglia nobile, entra nella scuola del monastero di
Tergensee. Prende i voti nell’abbazia di Sant’Emmeram, a Ratisbona, dove muore nel 1070.
37
Nato attorno alla metà del XII secolo, visse prima alla corte di Maria di Champagne, poi a quella parigina
di Filippo Augusto dove presumibilmente ricoprì il ruolo di cappellano e/o ciambellano.
38
Nell’antologia del Meisen citata ed integrata dalla Barillari, il testo della Pergola è presentato nella
traduzione di R. Brusegan, Marsilio, Venezia 1986, p.90. Da notare è che la Brusegan traduce con Alichino
l’originale Hielekin.
20
A sua volta Claude Lecouteux integra giustamente il Meisen con i confronti

comparativi delle cosiddette falangi e legioni di demoni presenti nella Confessio Cypriani

dell’Imperatrice Eudocia, nella Vita di San Martino (23,6) di Sulpicio Severo e nella Scala

Coeli (95) di Jean Gobi39 – nella forma di cavalieri neri. Di particolare interesse è poi la

citazione dalle Cronache dei tempi andati, testo russo:

«Nell’anno 6600, qualcosa di molto strano accadde a Polotsk. Fu forse prodotto

dall’immaginazione. Di notte, all’improvviso, un forte rumore si udì nelle strade: demoni

galopparono come se fossero uomini. Chi voleva vedere meglio, uscendo di casa, venne

immediatamente ferito mortalmente in modo invisibile agli occhi, e così la popolazione

non osò più uscire. Poi, questi demoni cominciarono ad apparire a cavallo di giorno, ma

non c’era modo di vederli. Ma la gente poteva vedere gli zoccoli dei cavalli. Mangiarono

anche alcuni degli abitanti, cosicché i vicino cominciarono a mormorare che gli abitanti di

Polotsk, certamente, furono assassinati»40.

39
Libro di exempla del 1330 ca.
40
Leucoteux non riferisce meglio nel tuo testo (capitolo II, nota 17) la provenienza della citazione, se non
che gli è stata fornita e tradotta da J.P. Sémon della Sorbona. Pur avendo mantenuto il titolo del testo come
citato da Leucoteux (traduzione nostra dal testo inglese), si tratta in realtà del Se povesti vremyanykh let,
generalmente reso in inglese con The tale of bygone years, russo antico Повѣсти времѧньных лѣт, Pověsti
vremęnĭnykh lět, in russo moderno: Повесть временных лет, Povest' vremennych let, ossia Racconti degli
anni passati, testo del 1113 circa del monaco Nestore del Monastero di Kiev, ed è generalmente considerata
la prima cronaca annalistica attestabile nella letteratura russa. Conosciuta anche come Russian primary
chronicles è oggi consultabile digitalmente su http://www.mgh-bibliothek.de/dokumente/a/a011458.pdf, in
cartaceo su Einaudi, Tornino 1975.
21
1.3 STORIA DEGLI STUDI

Il tema delle truppe o schiere notturne, in particolar modo della Caccia selvaggia e

temi attigui, è oggetto di studio per così dire folklorico dal XIX secolo. Jacob Grimm è

certamente tra i primi studiosi di mitologia germanica ad occuparsene, giungendo alla

conclusione che il tema sia da rintracciare nella suddetta mitologia ed in particolar modo

nella figura di Odino, successivamente degradata o demonizzata dalla cristianità 41.

Possiamo dire che Grimm inaugura la scuola interpretativa cosiddetta mitologica, che

continua con J.W. Wolf, che sostituisce la figura di Odino con quella di Thor 42, e che

arriva fino agli inizi del XX secolo con le ricerche di L. Weniger del 190643.

J. Lippert invece basava la propria interpretazione su un punto ulteriormente a

monte: le schiere notturne trovano innanzi tutto fondamento nella credenza nella

sopravvivenza dell’anima alla morte44, ipotesi teoricamente confermata dalla composizione

di molte schiere, formate appunto dai ravenants. La medesima idea è stata ripresa da W.

Golther, che tuttavia si allontana maggiormente dall’ipotesi di un legame con la teoria della

scuola mitologica di una derivazione prettamente germanica del tema 45. H. Plischke è il

primo a cercare di creare una sintesi tra le due posizioni, cercando una concatenazione di

cause (credenza nella vita dopo la morte, necessità di spiegare condizioni metereologiche

particolari, ciclicità annuali di tipo agricolo) alla base delle leggende46. Nel 1937 E.

Mudrak mise insieme uno studio che includeva anche fonti recenti, pur non pervenendo a

41
J. Grimm, Deutsche Mythologie, vol. 2, 766-93; vol. 3, 280-84, Darmstadt, WBG 1835.
42
J.W. Wolf, Beiträge zur deutschen Mythologie II, Göttingen, 1857.
43
L. Weniger, Feralis exercitus,in Archiv für Religionswissenschaft 9,
44
J. Lippert, Die religionen der europäische Kulturvölker, Berlin, 1881.
45
W. Golther, Handbüch der germanischen Mythologie, 283-95, Leipzig 1895.
46
H. Plischke, Die sage vom Wilden Heere im deutschn Volke, dissertazione, Leipzig 1914.
22
conclusioni definite47, mentre G. Roheim fu il primo a tentare delle interpretazioni

psicoanalitiche, finendo però per maneggiare in malo modo fonti e materiale mitologico,

nonché mischiando temi e trame tra di loro diversi 48.

Nell’introduzione alla sua antologia, Karl Meisen si pone invece su una posizione

completamente diversa rispetto a tutti i predecessori, ammettendo si che l’origine del tema

possa trovarsi nelle credenze circa la sopravvivenza dell’anima nella tarda antichità, ma

vedendo l’essenza della leggenda nel suo essere diretta espressione del dogma cristiano

della punizione per le colpe commesse in vita. All’interno del sistema colpa-punizione

cristiano medievale secondo Meisen è possibile intravedere origine e mutazioni della

Caccia, sia nella sua versione – per così dire – di purgatorio per i ravenants, sia nella sua

versione infernale con il demonio a capo di una truppa di dannati o di demoni.

Una menzione a parte va fatta per la questione linquistica presente in quasi tutti gli

studi, soprattutto francesi e tedeschi, riguardante la figura di Hellequin e in generale tutti

quei leader delle schiere che presentano nel nome un’assonanza con questo, quali

Helechinus, Herlewinus, Herlethingus, Herla. Di volta in volta si è visto nel nome e

nell’assonanza significati/temi originari quali il re degli inferi (hell king), il figlio degli

inferi (höllenkind), re degli ontani (Erlkönig). La questione è tutt’altro che chiusa: se da

una parte gli studi di H.M. Flasdieck avevano già dimostrato come molte delle tentate

etimologie fossero filologicamente quanto meno instabili49, dall’altra ancora oggi se ne

discute, come ben riassunto dalla Barillari nell’introduzione alla citata antologia del

Meisen.

47
E. Mudrak, Das wütende Heer und der wilde Jäger, in Bausteine zur Geschichte, Völkerkunde un
Mythenkunde, 6, Walter de Gruyter, Berlin 1937.
48
G. Roheim, Les Portes du reve, 521-33, Payot, Paris 1973.
49
H.M. Flasdieck, Harlekin, germanischer mythos in romanischer Wandlung, in Anglia 61, 1937.
23
È Otto Höfler nel 1934 ad aggiungere una nuova interessante tematica nell’ambito

dello studio delle schiere notturne, postulando la priorità del culto estatico sulla leggenda

mitica50. Quello che tenta di dimostrare, partendo dal passaggio di Tacito sugli Arii

(Germania, 43), è che la leggenda non è altro che l’espressione di riti di passaggio volti ad

iniziare i guerrieri germanici in una fratellanza riconoscibile dai segni sul volto o

maschere51. Secondo Höfler si tratterebbe di riti strettamente connessi all’aristocrazia

guerriera germanica, i cui doveri sociali erano legati anche al culto dei morti attraverso

l’iniziazione svolta con un rito di finta morte. Le processioni di queste associazioni

guerriere si sarebbero poi trasmesse alla tradizione orale sotto forma di schiere di morti. Lo

studio di Höfler individua inoltre 30 punti in comune tra le cacce e le processioni

mascherate che si tengono ancora in Europa centrale (e non solo, come vedremo nel terzo

capitolo) per l’equinozio d’inverno. Dalla tesi di Höfler all’ambito di pertinenza più

generale dell’indoeuropeistica di Dumézil il passo è breve, e viene compiuto da H.P.

Hasenfratz nel 1982, che assegna il passaggio delle schiere ai rituali e miti connessi con la

terza funzione (fertilità, fecondazione), pur non chiarendo il collegamento con le

confraternite guerriere del suo predecessore52, collegamento su cui insisterà anche il

Lecouteux ma che rimane tutt’altro che chiaro. L’allieva di Höfler C.N.F. Eike fonda

invece la propria teoria (desunta soprattutto dall’analisi dell’Oskoreia, versione norvegese

della Mesnie Hellequin) sull’ipotesi di un fenomeno di trance e la derivazione della

leggenda dalla formazione di doppi che viaggiano, sulla base di similarità con altre

50
O. Höfler, Kultische Geheimbünde der germanen, vol. I, Frankfurt 1934.
51
Si tratta degli Úlfhéðnar, i guerrieri lupo, e dei Berserkir, i guerrieri orso, che combattevano in evidente
stato di coscienza alterata.
52
H.P. Hasenfratz, Der indogermanische Männerbund. Ammerkungen zur religiösen und sozialen Bedeutung
de Jugendalters, in Zetischrift für Religionsund Geistesgeschichte 34, 1982.
24
tradizioni sciamaniche nonché con alcune letture del sabba 53. In completa antitesi con

Höfler si pone invece Ranke, che ne criticò puntualmente le teorie soprattutto in base alla

mancanza di fonti attestanti l’esistenza storica delle associazioni guerriere tanto care al suo

collega.

Alle teorie di Höfler si rifà per sua stessa ammissione Carlo Ginzburg sia in Storia

Notturna54 che in Charivari, associations juvéniles, chasse sauvage55. Isomorfismo e

fusioni tra temi, miti e riti sono alla base dell’interpretazione di Ginzburg, che vede un

poderoso sfondo iniziatico – simile a quanto descritto da Höfler - dietro la Caccia

Selvaggia, in parallelo, o meglio nel contesto più ampio di una morfologia decifrativa di

temi similari al sabba56 (da cui invece vedremo come e quanto differisce). Sulla stessa

linea si muove il più recente Diana, Arlecchino e gli spiriti volanti di Emanuela

Chiavarelli, che anche rispetto a Ginzburg tende maggiormente a confondere gli ambiti

della Caccia selvaggia e del Buon Zogo57, fino a ricollegare Hellequin ad un dio cornuto e

ad un culto primevo materno confondendo il tutto con temi come quello della grande

madre che forse risultano un po’ troppo arditi.

Su una linea diversa si pone J.C. Schmitt, che mettendo da parte le possibili origini

germaniche, si concentra maggiormente sull’evoluzione letterario-simbolica della schiera:

53
C.N.F. Eike, Oskoreia og ekstaseriter, in Norveg 23, 1980.
54
«Nel criticare la mia interpretazione, Bausinger ha osservato che essa ricalca in sostanza quella di Höfler.
Avrei dovuto sottolinearlo – inseme al fatto che era stato a sua volta proceduto da Meuli.», in C. Ginzburg,
Storia Notturna, pag. 171, nota 47, Einaudi, Milano 1989.
55
C. Ginzburg, Charivari, associations juvéniles, chasse sauvage, in Le Charivari, a cura di J. Le Goff e J.C.
Schmitt, Paris et La Haye, 1981, pp. 131-140.
56
Cfr. C. Ginzpurg, Storia notturna, pp. 79, 171-172, 283.
57
E. Chiavarelli, Diana, Arlecchino e gli spiriti volanti, Bulzoni, Roma 2007.
25
«Hellequin, Herla, Artù sono i nomi di uno stesso personaggio mitico, il re dei morti, che,

ora di notte nelle foreste o sulla strada maestra cavalca alla testa della sua schiera furiosa,

ora è assiso sul trono nel suo palazzo sotterraneo alla frontiera del paese del Galles,

nell’Etna o nel Mont-Chat, intento ad attirare i vivi in una pratica di dono e di scambio, la

cui posta in gioco sono la vita e la morte. Ora, in mezzo secolo, i predicatori formati dalla

teologia scolastica succedono agli ecclesiastici di corte avidi di mirabilia. Al re dei morti

finiscono con il sostituire il diavolo. Anche se non escludono totalmente che la schiera

furiosa possa avere un aspetto penitenziale (e offrire ad alcuni dei suoi membri una

speranza di salvezza), la masnada di Hellequin si allontana sempre più dal mondo insieme

materiale e immaginario che governa l’economia dei suffragi per le anime in pena. […]

Così nel XIII secolo trionfa un’interpretazione religiosa e morale del tema della masnada

di Hellequin. Nei racconti precedenti il tema abbracciava contemporaneamente le strategie

secolari del potere e l’ideologia monarchica. A Sainte-Foy di Sélestat si trattava non solo

della conferma di una fondazione monastica, ma anche dell’espressione retrospettiva di

una profezia politica a vantaggio degli Hohenstaufen. […] Il potere mitico del re dei morti

non doveva forse rafforzare la legittimità e l’efficacia del potere del re dei vivi sullo spazio

gelosamente custodito della foresta? Per proteggere le proprie foreste e il proprio esclusivo

diritto di caccia, il re poteva trar partito dai terrori che la masnada di Hellequin incuteva

nei suoi sudditi. Negli exempla, al contrario, il solo re al quale Hellequin-Artù è associato è

il diavolo, sovrano dell’inferno. Il quadro di riferimento non è più l’ideologia monarchica,

ma la teologia morale, gli atteggiamenti penitenziali e l’angoscia della morte di sé, che

predicatori e confessori, nella linea del concilio Laterano IV (1215) si sforzano d’inculcare

nel popolo cristiano. Infine a Parigi, al principio del XIV secolo, sotto la forma letteraria

del Roman de Fauvel, negli anni torbidi della fine del regno di Filippo il Bello, la satira

26
morale, l’ideologia politica e il rito folclorico dello charivari58 si uniranno nell’evocazione

di Hellequin, il re dei morti e delle maschere»59.

Il limite dell’interpretazione di Schmitt, pur nella sua importanza, risiede

probabilmente nella sua considerazione del dato puramente storico, legato alle sole fonti

letterarie (in particolar modo, delle cronache), rispetto ad una concezione metodologica più

ampia come quella di Ginzburg (e, come vedremo, della Barillari e del Lecouteux), che

utilizza anche gli strumenti mutuati dall’Antropologia Culturale e dalla Storia delle

Religioni.

Di fondamentale importanza rimane l’unica monografia contemporanea sul tema,

quella di Lecouteux, Chasses fantastiques et cohortes de la nuit au Moyen Age60. Lo

studioso francese parte dalle fonti già acquisite dai suoi predecessori per un’analisi

comparata, talvolta forse troppo liberamente arbitraria nell’attribuire originalità o meno

agli elementi, che tuttavia ha il grande pregio di non cristallizzare categorie in cui una

materia estremamente fluida come quella presa in esame, costituita da fonti di ambiti

letterario-cronachistici da una parte e folclorici dall’altra, non può essere chiusa. Lungi

dall’ammettere qualsiasi conclusione “fissa”, Lecouteux attraverso la sua analisi giunge ad

individuare due direttrici fondamentali:

«Quello che colpisce di più nella storia della Caccia Selvaggia è la sua variabilità, la sua

abilità di confondersi con altre credenze, di prendere da queste degli elementi ed assorbirli.

Le trame viste fin’ora ci permettono di individuare due direttrici portanti. La prima è il

58
Parleremo del rituale dello charivari e della presenza di Hellequin nel terzo capitolo.
59
J.C.Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale, pp. 127-165, Laterza, Bari 1995.
60
C.Lecouteux, Chasses fantastiques et cohortes de la nuit au Moyen Age, Editions Imago, Paris 1999; per
l’elaborato presente, è stata utilizzata la traduzione inglese Phantom Armies of the Night: the wild hunt and
the ghostly procession of the undead, Inner Traditions Int., Rochester, Vermont 2011.
27
culto degli antenati che incoraggia la commistione del tema portante con il sabba […]. In

seconda istanza, i rituali che culminano in mascherate e processioni carnevalesche.

Innestati su questo fusto vi sono motivi presi dalla leggenda del Cacciatore Furioso e,

tramite l’assimilazione da parte del clero del tema, in accordo con il dogma cristiano e altri

elementi di origine medievale, la leggenda del cacciatore infernale, versione ai minimi

termini della Caccia Infernale»61.

La flessibilità del tema, nonché la confusione delle fonti, riecheggia in quanto

scritto dalla Barillari:

«Questo, in breve, il nucleo di una leggenda la cui eco rimbalza e riecheggia in un’ampia

messe di testimonianze diverse per natura, intento e tenore, rifratta in una molteplicità di

varianti fra le quali è arduo, talvolta impossibile, individuare direttrici coerenti di

evoluzione, anche e soprattutto a causa dei frequentissimi fenomeni di ibridazione e

contaminazione che intervengono a complicare ulteriormente il quadro diacronico e

geografico (di per sé già abbastanza complesso) delle numerose registrazioni – e relative

interpretazioni – di tale credenza. Perché, come sempre accade quando si ha a che fare con

la cultura folclorica, i dati in nostro possesso ci giungono “filtrati” dal medium della

tradizione colta che, se ha il merito di emanciparli dal dominio fluttuante dell’oralità per

affidarli alla memoria più stabile e duratura della pagina scritta, lo fa a prezzo di una

selezione-riorganizzazione (non necessariamente volontaria o consapevole) dei loro tratti

originari, tale da determinarne una sensibile semplificazione, se non uno staturamento

radicale»62.

61
C.Lecouteux, op. cit., pag. 237, trad. nostra.
62
S.M.Barillari, Introduzione a K.Meisen, op. cit., pp. 6-28.
28
La Barillari rileva, insieme a Lecouteux e ai precedenti, il collegamento non troppo

esplicito, non di meno esistente, tra il tema mitico e le processioni carnevalesche, pur

rimanendo il suo rilevamento sul piano della “somiglianza” piuttosto che sul piano di una

palese realtà esplicita:

«Ma le coorti fantasma, proprio in quanto composte da morti di ritorno (o di passaggio) su

questa terra, sollecitano e autorizzano anche l’istituzione di un’analogia con i rituali che

tale ritorno (o passaggio) celebrano e auspicano, evocandolo con l’ausilio di maschere e

travestimenti. Nelle feste calendariali che scandiscono i momenti cruciali del ciclo

stagionale - e che registrano, come si vedrà, singolari coincidenze temporali con le date

degli “avvistamenti” – il mascheramento diventa infatti il principale tramite di

superamento e di vanificazione di ogni confine, di ogni barriera sussistente fra condizioni e

stati differenti: fra maschio e femmina, fra uomo e bestia, fra uomo e pianta, fra vita e

morte. In questa prospettiva è facile comprendere, per un verso, come l’esercito spettrale e

le turbe carnevalesche (il mito e il rito) abbiano potuto fornirsi reciprocamente modelli

descrittivi di sicuro impatto emotivo sulla mentalità comune, per l’altro, le ragioni

dell’imbarazzante omonimia che lega l’ambigua figura che guida la turbolenta masnada

(Herlethingus, Herlewinus, Herlechinus, Herlequinus, Hellequinus, Herlekin, Hellequin,

Hennequin…), il noto personaggio della commedia dell’arte, infine il dantesco diavolo

Alichino».

Come Lecouteux, la Barillari individua similarità e differenze tra temi e trame

sovrapponibili, in particolar modo caccia selvaggia ed exercitus mortuorum o esercito

spettrale, per altro entrambi sovrapposti nella mesnie hellequin, concludendo che «risulta

evidente come le attestazioni che registrano o commentano la credenza nell’esercito

29
spettrale siano caratterizzate, al di là del referente mitico comune, da una sostanziale

quanto irriducibile disomogeneità riscontrabile a livello fenomenologico».

30
2. MORFOLOGIA E TEMI

2.1 QUESTIONI METODOLOGICHE


Il soggetto di questo elaborato richiede almeno una breve riflessione su alcune

questioni metodologiche imprescindibili, che in particolar modo svelano la necessità di

strumenti multidisciplinari. Si è scelto innanzi tutto di isolare le schiere notturne da un

parallelo utilizzato precedentemente sia da Ginzburg che dalla Chiavarelli e, in minor

misura, da Lecouteux, ovvero quello dei fenomeni simili legati al sabba, al Bon Zogo e

simili temi più specificatamente femminili (con la sola eccezione forse dei Benandanti, che

si differenziano dalle schiere in quanto non armati). Nel caso del Bon Zogo e dei sabba

parliamo di contesti esclusivamente o comunque prevalentemente femminili, le cui

testimonianze sono sempre contestualizzate nell’ambito specifico dei processi, come

documentato in Storia notturna, e che sono evidentemente sempre di tipo partecipativo

(chi narra ha partecipato), rispetto alle schiere notturne, a cui si assiste ma non si partecipa.

Già il citato Ginzburg aveva ovviamente premesso un parallelo basato sul genere che

quindi non poteva mostrare commistioni se non entro determinati limiti, tuttavia qui si è

scelto di evitare ogni comparazione in base alle specificità del fenomeno delle schiere

notturne, qui intese nella loro accezione fenomenologica come troops (questo il termine

nel titolo inglese di Lecouteux) o chasses (sempre Lecouteux, francese), prevalentemente

caratterizzate, come vedremo, da figure maschili e appartenenti per lo più ad uno specifico

tipo sociale feudale, quello guerriero e contestualmente della nobiltà, cui spetta il privilegio

della caccia: le dame, quando presenti, appartengono alla nobiltà; i chierici sono presenti in

modo sporadico e in un ambito simbolico legato ai fini moralistici di cronache ed exempla,

mentre in prevalenza i facenti parte delle schiere sono sempre figure mutuate dal tipo

sociale medievale di cui sopra, tant’è che Schmitt ha potuto istituire un abile paragone tra i

31
membri delle masnade e quelli della militia secolare, negativamente dipinta da S.Bernardo

nel suo De Laude novae militiae63.

Di carattere più generale è la questione di una definizione della natura intrinseca dei

racconti – ed ipoteticamente dei riti – connessi con le schiere notturne. Dove può arrivare

in tal senso una lettura storico-religiosa, rispetto ad una antropologia storica sulla scia

dell’esempio di Bloch? Due paragoni vengono certamente alla mente, per un simile

soggetto: quello appunto di Bloch, con i Re Taumaturghi, e il già citato Ginzburg, con

Storie notturne e i Benandanti. Tuttavia questi due esempi, pur presentando spunti

metodologici notevoli, mostrano anche una differenza fondamentale: nel primo caso

trattiamo di un tema perfettamente inserito nella cultura religiosa medievale e quindi nella

struttura ecclesiastica, che lo ha rappresentato anche come realtà normativa in positivo (la

Chiesa ha integrato gli episodi taumaturgici nella propria letteratura canonica); nel secondo

caso succede l’opposto: si tratta cioè di un fenomeno che è stato per lo più bandito dalla

cultura ufficiale, che ne ha data una normativa esclusivamente in negativo. Nel caso delle

schiere notturne, invece, ci si ritrova di fronte ad un’ambiguità di atteggiamenti, nonché

nel mezzo di un rapporto fin troppo dinamico tra cultura ufficiale e cultura, mi si passi il

termine, popolare, che può determinare dei comportamenti religiosi al di fuori

dell’establishment religioso cristiano, che a sua volta risponde in positivo o in negativo,

con gli strumenti del bando e della demonizzazione o con quelli dell’assimilazione. Tale

rapporto dinamico è ulteriormente complicato dalla non totale aderenza tra cultura

ecclesiastica e cultura d’élite, nonché dal fatto che la stessa cultura ecclesiastica, non è

affatto sempre e ovunque uguale e, per esempio, poteva risentire delle divisioni e delle

tensioni interne alla Chiesa (d’altronde, va ricordato, il milieu culturale di Orderico Vitale

63
J.C. Schmitt, op.cit. pp. 127 – 165.
32
era il medesimo dell’Anonimo Normanno, piuttosto refrattario al predominio romano 64).

Di tale dinamico rapporto si sono occupati già tre dei maggiori storici medievali

contemporanei francesi, vale quindi la pena ricordarne le posizioni. Jacques Le Goff tratta

l’argomento due volte, prima per quanto concerne l’età merovingia, definendo la cultura

clericale tendenzialmente diffidente nei confronti della cultura popolare, pur essendovi

sporadici incontri65; in seconda battuta parla di un rapporto maggiormente compromissivo

e di scambio per quanto concerne specifici soggetti, in particolar modo le narrative

fantastiche nell’aldilà66. Anche Georges Duby parla di un rapporto di scambio dinamico,

tuttavia maggiormente influenzato dall’appeal che la cultura d’élite poteva avere sul

popolo67. Il citato Schmitt, per altro chiamato in causa dalla stessa Barillari, parla di una

circolarità culturale, quindi non solo di scambio, ma di un continuo rimbalzare di temi e

figure tra la cultura d’élite (prevalentemente ecclesiastica) e quella popolare68.

Si può quindi parlare di un fenomeno liminale, che si muove in una zona d’ombra: le

schiere notturne sono vissute in una dimensione non completamente accettata dalla cultura

religiosa ufficiale o canonica che dir si voglia, ma neanche costantemente demonizzata e

successivamente estromessa dalla cultura popolare. Una zona liminale che può ricordare le

tradizioni legate ad alcune festività patronali e le querelles intorno alle loro origini pre-

cristiane. Una somiglianza, questa, che si riempirà d’attualità quando parleremo dei riti

connessi alle schiere, ma che in questo frangente fa anche sorgere una questione

fondamentale inerente ai limiti (ipotetici) di una ricerca sul tema: quanto è lecito parlare di

64
Cfr. P.F. Terlizzi, La regalità sacra nel medioevo? L’anonimo normanno e la riforma romana (sec. XII-
XIII), CISAM, Spoleto 2007. Lo scritto si inserisce nella polemica sull’indipendenza normativa e politica
delle strutture ecclesiastiche maggiormente vicine alle corone.
65
J. Le Goff, Tempo della Chiesa, tempo del mercante, Einaudi, Torino 1977, pp. 199-202.
66
J. Le Goff, L’immaginario medievale, Laterza, Bari 1988, pp. 75-90.
67
G.Duby, The chivalrous society, University of California Press, Los Angeles, 1981.
68
J.C.Schmitt, Religione, folklore e società nell’occidente medievale, Laterza, Bari 1988.
33
temi antecedenti il cristianesimo o eventualmente di sopravvivenze pre-cristiane?

Ginzburg, nel trattare il sabba e anche dei temi qui presenti, ha parlato di eredità

sciamaniche, mentre la Chiavarelli di Grande Dea e di religione primordiale.

Sopravvivenza è termine antropologico mutuato dall’ambito evoluzionista e generalmente

riferito a quelle che erano chiamate culture primitive, mantenutesi in uno stato tale perché

sostanzialmente isolate dall’affermarsi di altre culture egemoniche. Credo che in questo

ambito sia necessario invece sottolineare una continuità di credenze, miti e riti nella cultura

popolare le cui radici possono probabilmente arrivare all’antichità classica, come già

notato dagli studiosi citati, cui si aggiunge Leucoteux che parla addirittura di antichità

indoeuropee. Una tale continuità può assumere varie forme, ma è probabilmente

riscontrabile anche in campi attigui, come nota ad esempio Schmitt a proposito della

superstizione:

«Ma i quindici secoli che saranno più in particolare oggetto della nostra trattazione

non costituiscono un blocco uniforme: strada facendo la nozione di superstizione ha subito

trasformazioni importanti, e così pure è stato dei luoghi e delle forme della sua

applicazione»69.

Quindi una continuità storica nell’evoluzione del concetto di superstitio, pur con le

modulazioni sia nell’essenza del concetto (in base al contesto) che nella forma. Medesima

cosa si può dire del nostro soggetto, inteso come oggetto simbolico: pur avendo cambiato

forma o significato rispetto al contesto (essendo ad esempio stato invece assimilato o

demonizzato), se ne può postulare una continuità storica con i suoi antecedenti precristiani.

In tal senso il testo citato, nel capitolo sulle fonti, di Guglielmo d’Alvernia ci viene in aiuto

per confermare storicamente tale continuità: il fatto che annoti il suo timore che il volgo

69
J.C.Schmitt, Medioevo superstizioso, Laterza, Bari 1988, pag. 6.
34
idolatra possa credere alla protezione di Cerere sembra suggerire, ancora tra il 1231 e il

1236 (anni in cui Guglielmo componeva la sua opera), che nella cultura d’élite fosse

ancora ampiamente presente la conoscenza delle antiche divinità - conoscenza antecedente

all’umanesimo rinascimentale -, mentre in ambito popolare erano probabilmente ancora

vive credenze che avrebbero dovuto essere estinte già dai decreti teodosiani del 391-392, e

che invece poteva riversarsi perfino nel culto dei santi70, se non addirittura mostrando

ancora palesi caratteristiche estatiche piuttosto aliene al cristianesimo ma non a ciò che lo

precedette71.

Ulteriore questione è rappresentata dal quadro delle variabili tra tradizione scritta e

tradizione orale. Come si è già notato, l’antologia del Meisen copre uno spettro temporale

che va dall’antichità greca e per l’ambito europeo successivo copre oltre otto secoli, da

Orderico Vitale agli albori del XX secolo. Ad oggi è ancora possibile in molte parti

d’Europa reperire racconti sulle schiere notturne, con diverse variabili e sempre tramandati

per tradizione orale. Tre esempi che è stato possibile ottenere saranno utili a definire una

delle maggiori differenze con le tradizioni scritte. Il primo è stato raccolto presso degli

anziani vicino Chieti, i quali hanno raccontato che la tradizione vuole che nelle sere vicino

al 1 novembre, appoggiando il mento sulla punta di un forcone e guardando i crocicchi di

campagna, sia possibile veder passare le anime dei morti. Nella zona di Santa Maria del

Tempio di Casale Monferrato, in Piemonte, che fu sede di una commenda templare, si

70
Cfr. M.Niola, I Santi patroni, Il Mulino, Bologna 2007.
71
È il caso del tarantismo come descritto da De Martino certamente, ma ancor di più del culto di Costantino
ed Elena tra gli Anastenarides una minoranza religiosa tracia stabilitasi nel secondo dopoguerra a Salonicco,
che prevede rituali estatici, teatrali, fire walking a cura di una confraternita (Ταγμα) composta di 12 iniziati
(Δωδεχαδα). Cfr. K.I.Kakouri, Dionisiaka, Ideotheatron, Athens, 1999; anche G.Villa, Estasi e sacrificio nel
culto degli Anastenarides, in La Critica sociologica, 85, 1988. Questi esempi a voler indicare come in ambiti
tendenzialmente isolati dalla cultura egemonica possano conservarsi sopravvivenze per lunghi periodi,
financo secoli.
35
racconta che in alcune notti burrascose sia ancora possibile vedere gli spettri dei Templari

battagliare. Cambiando area geografica e spostandosi in Scandinavia, nella fattispecie in

Gotland, Svezia, una tradizione vuole che sin dal XVII secolo sia possibile vedere

l’esercito dei morti, visione tramandata dal parroco di allora che al tramonto muoveva dalla

parrocchia di Stånga a quella di Burs, passando per il bosco e per i campi (entrambe le

chiese sono ristrutturate su originali del 1400 circa); a quest’ultimo esempio giova per altro

aggiungere un’ulteriore curiosità: ancora oggi, durante la locale e tradizionale festa

folclorica detta settimana medievale (Medeltidsveckan), si tiene il rituale che “celebra” la

conquista danese della città di Visby (del 1361), attraverso un corteo in costume,

rappresentante la corte danese, che entra in città per essere deriso e insultato (il modello è

molto simile allo charivari, un rituale carnevalesco con tratti buffoneschi e popolari).

Questi tre esempi contemporanei rendono l’idea di una differenza fondamentale che

probabilmente poteva essere vera già ai tempi di Orderico Vitale: mentre nelle fonti scritte

abbiamo episodi raccontati da uno specifico soggetto, il quale riconosce anche specifici

spettri, nel caso della tradizione orale si tratta invece di narrazioni su canovaccio, cioè con

un copione di base con sfumature variabili, di accadimenti impersonali: la tradizione dice

che. Questo ci porta ad un’ulteriore questione, che tratteremo successivamente, ovvero se

le schiere siano inquadrabili concettualmente nella categoria del mito.

36
2.2 INTERPRETAZIONI STORICHE

Contestualizzare le fonti è imprescindibile, in un’ottica di metodo storico, per capire

l’evoluzione o meglio le sfumature evolutive delle schiere. Le fonti che abbiamo analizzato

nel capitolo precedente sono per lo più di provenienza ecclesiastica, il che però non le dota

di alcuna uniformità formale o semiotica. I primi tre brani medievali (Orderico Vitale,

Guglielmo di Malmesbury, Ekkehard von Aura) che abbiamo trattato coprono un arco di

tempo che va dall’XI al XII secolo e mostrano una struttura comune in quanto illustrano

una processione di morti, tra i quali è possibile riconoscere persone note in vita. In tutte e

tre i casi gli autori sono benedettini e l’area geografica cui si riferiscono va dall’Inghilterra

(Guglielmo) alla Germania (Ekkehard) passando per la Francia normanna (Orderico).

Questo potrebbe lasciar intendere che nella frangia temporale di cui sopra il tema della

schiera armata fosse ampiamente conosciuto almeno nell’ambito benedettino,

presumibilmente a livello paneuropeo. Comune sembra essere anche l’intento dietro il

racconto: in tutti e tre i casi il tema portante è la penitenza e secondariamente, nel caso di

Orderico e Guglielmo, la possibilità da parte dei morti di accedere allo sconto della pena

grazie alle preghiere di suffragio dei vivi. Il De fundatione monasterii S. Fidis Sletstatensis

si pone nello stesso filone: scritto presumibilmente da un anonimo monaco benedettino per

celebrare il Monastero di Santa Fede presso Sélestat (odierna Francia, precedentemente

territorio tedesco), tratta sempre del tema della penitenza e del riconoscimento di un morto

noto, pur con la variazione del pellegrinaggio e la giustificazione a suo modo “mitologica”

della fondazione in oggetto.

Con Walter Map, alla fine del XII secolo, comincia il tema “politico” ovvero

l’intreccio semiotico delle schiere notturne con la regalità e il tema dinastico. In questo

caso la scomparsa della schiera, che avviene contemporaneamente all’ascesa al trono di

37
Enrico II, sottolinea come la legittimità del regnante redima la regalità dei predecessori,

fino ai bretoni di Herla. Il passaggio dal tema della penitenza a quello della “penitenza

regale”, se così si può definire, di Herla e successivamente alla caccia di Artù come

descritta da Gervaso di Tilbury non è semplice da comprendere, anche perché si fonde con

un mitologema ulteriormente complesso quale è il cosiddetto ritorno del re. Si può

certamente dire che parte dell’alterazione “laicizzante” del tema, o se vogliamo appunto

“politicizzante”, è dovuta alla nuova inclinazione della cultura a cavallo del XII/XIII

secolo verso il tipo cortese, cosa che poteva avere sicuramente influenza sia su un laico,

poi arcidiacono, come Walter Map, sia su un cistercense come Gervaso che aveva

all’attivo permanenze piuttosto lunghe presso varie corti, non ultima quella imperiale di

Ottone di Brunswick.

È con Guglielmo d’Alvernia, quindi già in pieno XIII secolo, che comincia

l’interpretazione che potremmo definire “dottrinale”: le schiere non sono più morti e

penitenti, ma demoni che illudono la plebe, siamo cioè entrati nella fase di

demonizzazione. Sulla stessa linea si pone Cesario di Heisterback con il torneo di

Montenake, nonché il Les Miracles de Saint Eloi in cui Hellequin è identificato col

demonio.

Sembrerebbe quindi che ci siano tre interpretazioni principali per le schiere notturne:

la versione penitenziale (XI-XII secolo), in cui il corteo è l’exercitus mortuorum o Mesnie

Hellequin, composto da morti penitenti e antesignano del Purgatorio; la versione politico-

regale (XII secolo), in cui il corteo rappresenta l’eterno ritorno della casata regnante o il

ritorno di un re mitologico o è motivo che sottolinea la bontà della causa del re: in questa

versione il tema è più strettamente connesso al corteo in forma di caccia selvaggia; la

versione dottrinale – demonizzante (XIII secolo), in cui tutti i cortei, siano essi composti da

38
cacciatori furiosi, cavalieri o torme di revenants sono in realtà manifestazioni del

demonio. Le fonti successive al XIII secolo si innestano ognuna in una o più di queste

interpretazioni, mostrando per così dire una sorta di variatio in imitando che non ha

inficiato, fino alle ultime fonti considerate, la sopravvivenza di tutte e tre le interpretazioni.

39
2.3 FIGURE, TEMI E MORFEMI RICORRENTI

Tanto la Barillari quanto Lecouteux si soffermano sull’importanza di figure animali

ricorrenti, in particolar modo quelle del cane e del cavallo. Nello specifico entrambi fanno

riaffiorare il significato simbolico precristiano dei due animali, ricorrendo al legame con la

figura di Ecate nel primo caso e al sostrato indoeuropeo nel secondo (in particolar modo

Lecouteux ne tratta nello specifico capitolo sulle radici indoeuropee della Caccia

Selvaggia). Come da quest’ultimo notato, in entrambi i casi ci sono forti richiami alla

natura di psicopompi di questi animani, che appaiono sia nell’episodio del Re Herla, che

non può scendere da cavallo finché non lo fa anche il bulldog, sia nel caso di Orderico

Vitale, in cui il prete Walchelin, nel momento in cui tenta di sottrarre al corteo un cavallo,

rimane ustionato dalla evidente natura sovrannaturale, diremmo infera, della creatura. Pur

ammettendo come pertinenti queste analisi, andrebbero aggiunte come egualmente

pertinenti due ulteriori considerazioni che non escludono necessariamente le precedenti. La

prima è che il cane e il cavallo, al di là di simbologie profonde e mitiche, sono di per sé

attributi specifici delle figure a loro attigue, vale a dire che esse sono attributi descrittivi

imprescindibili per le figure sia del cavaliere che del cacciatore, e in un’ottica quasi

evemeristica la loro presenza è quasi ovvia. La seconda considerazione è il valore

simbolico che i due animali possono avere, indipendentemente dai precedenti classici o

indoeuropei, nell’ambito cristiano. Maria Pia Ciccarese nel suo studio sugli animali

simbolici ha reso ampiamente la capacità della letteratura cristiana antica di utilizzare

entrambi gli animali, come simboli – tra l’altro - dei peccatori:

«Troviamo denominati cani i pagani, per la rabbia del loro latrare contro Dio, ma

anche i Giudei, sinagoga dei malvagi, che a guisa di cani affamati vagano tra i popoli in

cerca di nutrimento spirituale; oppure gli eretici, che si precipitano a mordere e dilaniare la

40
Chiesa di Dio e in generale i peccatori recidivi, gli uomini dissoluti, quelli che adulano e

diffamano il prossimo, talvolta perfino il demonio»72,

mentre per il cavallo:

«I demoni sono seduti su cavalli e muli, che non hanno intelligenza, costringendoli a

fare le cose degli animali irrazionali. Cavalli e muli sono gli uomini passionali, trasportati

irrazionalmente verso ciò che non si deve, che nitriscono verso le mogli del prossimo. Il

cavallo è citato per lo più per indicare la superbia: infatti questo animale è audace, morde il

freno e si precipita schiumando in rapida corsa. A lui si paragona l’uomo superbo e

orgoglioso, verso il quale Dio non può essere indulgente, perché sceglie i mansueti e i

devoti. […] Sono chiamati cavalli quelli che vanno pazzi per le donne, dediti a promiscue

relazioni sessuali»73.

Tali simbologie ben si inquadrano nell’interpretazione che abbiamo detto

penitenziale, soprattutto se ad essa affianchiamo le critiche che alla cavalleria secolare

muoveva San Bernardo da Chiaravalle, che nel De laude novae militiae, II – De militia

saeculari, la accusava appunto di peccare in maniera recidiva in superbia e lussuria 74,

critica che è contemporanea ad Orderico Vitale. In tal senso l’interpretazione in oggetto

acquisisce un tratto di critica sociale da parte di ecclesiastici come Orderico Vitale al tipo

medievale che andava costituendosi come bellatores, successivamente inquadrato quasi

completamente nella Cavalleria.

72
M.P. Ciccarese, Animali simbolici, EDB, Bologna 2002, pag. 241. Il testo citato integra passi di Agostino,
Gregorio, Ilario, Eusebio di Cesarea, Giustino e Cassiodoro.
73
Ivi, pag. 289, integra citazioni di Origene, Cassiodoro e Didimo.
74
«irrationalbilis iracundiae motus, aut inanis gloriae appetitus, aut terrenae qualiscumque possessionis
cupiditas» testualmente asserisce S.Bernardo, cioè irragionevole atto di collera (provoca le guerre), desiderio
di vana gloria, bramosia di qualsivoglia bene terreno, in S. Bernardo di Chiaravalle, Ai Cavalieri del Tempio,
Il Cerchio, Rimini 2003.
41
Questo tratto può risultare importante poiché gli studi precedenti tendono invece a

non accentuare questa forte ricorrenza che non può essere insignificante: le figure

maggiormente ricorrenti in tutte le fonti non sono popolani, ecclesiastici, dame, o morti

comuni: il focus delle diverse versioni è sempre incentrato sulle figure di cavalieri o di

cacciatori. Due tipologie apparentemente distinte, ma in realtà coincidenti: si tratta sempre

della medesima classe sociale feudale. Le modalità in cui le schiere appaiono sono

ulteriore conferma di questo monopolio dei bellatores sui portenta di cui stiamo parlando:

o appaiono in forma di corteo, che in ambito feudale può essere per lo più assimilato

all’exercitus in marcia, o in forma di caccia, o di torneo o di battaglia.

Sia la Barillari che il Lecouteux individuano ulteriori ricorrenze: la dimensione

sonora, la ricchezza e la contestualizzazione temporale. Per quanto concerne la dimensione

sonora, è innegabile che quasi tutte le fonti aprano la descrizione delle schiere notando la

dicotomia tra il silenzio del contesto notturno generalmente legato all’ambiente al di fuori

delle cinte murarie o dell’ambiente urbano, e il frastuono dell’esercito in armi che muove

verso il soggetto narrante. La ricorrenza della ricchezza e della fecondità, intesa anche

come legame oltremondano inerente una custodia della reiterazione della prosperità

terrena, sembra più difficile da dimostrare. La Barillari si rifà ai soli episodi di Walchelin

bruciato durante il tentativo di furto del cavallo e alla razzia della falange di bretoni

descritta da Map, mentre Lecouteux accenna sempre alla terza funzione indoeuropea per la

coincidenza temporale delle apparizioni con il calendario agrario. Come detto, la

dimostrazione di tale ricorrenza o simbologia appare piuttosto labile. Meno labile è invece

la ricorrenza dei contesti temporali: quasi tutte le fonti fanno coincidere le apparizioni con

specifiche festività quali Ognissanti, Natale e i Dodici Giorni, Candelora, Carnevale,

Venerdì Santo, San Giovanni, Walpurgisnacht, facendo quindi ricadere le schiere in quelle

tradizioni popolari che vedono le festività a cadenza annuale portatrici di portenta, la cui
42
origine, in realtà difficilmente tracciabile, sembra sempre ricadere in credenze popolari

precristiane.

Ultimo morfema ricorrente, di tipo formale ma non per questo meno importante, è il

punto di vista del narratore del portenta o dell’apparizione delle schiere. Diversamente da

fenomeni simili, uno su tutti il Sabba, le schiere non sono mai “raccontate” da chi vi

partecipa, ma sempre impersonalmente (si narra che, soprattutto nelle fonti cronachistiche)

o dal punto di vista di chi “subisce” l’apparizione: questa seconda versione sembra per lo

più un espediente letterario per introdurre la leggenda che si configura quindi (pienamente

nell’ambito cronachistico) come raccontata, ma de facto di dominio popolare/pubblico

(come in Elinando): è appunto leggenda conosciuta e non necessita di un soggetto narrante

di per sé, dotato di qualsivoglia auctoritas, se non in quegli ambiti in cui è rielaborata

letteralmente e ne vengono evidentemente alterati i fini in senso penitenziale o politico.

43
2.4 I SIGNORI DELLE SCHIERE

Molte delle fonti analizzate dal Meisen parlano di figure prominenti nel corteo, se

non addirittura esclusivamente del singolo cacciatore furioso. Spicca al di fuori di quanto

raccolto dal Meisen la leggenda popolare sulla morte di Teoderico il Grande, nell’ambito

tedesco Dietrich Von Bern, e anche dal Carducci nelle Rime nuove e rappresentata anche

sulla facciata della basilica di San Zeno presso Verona75. Qui Teoderico è il protagonista

(unico) della Caccia Infernale e viene trascinato dal suo destriero negli inferi attraverso

l’Etna. Della figura del cacciatore più in generale o del capo del corteo sappiamo quindi

che è talvolta associata alla regalità, come nel caso di Teoderico, di Artù e di Herla. A

quest’ultimo fatto si sovrappone la ridondante assonanza dei nomi con cui viene citato il

signore di molti dei cortei, successivamente associato al diavolo: dalla familia Herlechini

di Orderico Vitale il nome nelle varie fonti si “evolverà” in Herlequin, Hellequin,

Herlethingus, Herlewinus, Herlechinus, Hellequinus, Herlekin, Hennequin, Mannequin.

L’assonanza arriva ovviamente ad estendersi al dantesco Alichino e all’Arlecchino della

Commedia dell’Arte, rivelando una estensione temporale che va quindi dal secolo XI

(Orderico Vitale) fino alla fine del secolo XVI 76 per quanto concerne le fonti che

potremmo dire “dirette” (cioè che descrivono iconograficamente o letterariamente la

figura), mentre per quanto concerne le fonti indirette (cioè che raccolgono racconti di terzi

sulla figura, con un procedimento quasi “etnologico”) si scende ancora di più nel tempo,

75
Nel suo testo, Lecouteux si rifà alla versione presente nell’Eckenlied, non specificando in quale recensione.
76
1580 ca., tenendo in considerazione la seconda metà del XVI secolo per quanto concerne la creazione del
personaggio di Arlecchino come evoluzione del Secondo Zanni di origine bergamasca, ma soprattutto
considerando la prima iconografia attestata in Francia, la Recoueil Fossard, che mostra incisioni con
protagonista in questione.
44
con due brani francesi raccolti sempre dal Meisen, che trattano la Chasse Hennequin come

leggenda popolare, uno della metà del XIX77 secolo e uno degli inizi del XX 78.

La questione sul significato del nome e la sua origine, da un punto di vista linguistico

e filologico, rimane ad oggi ancora aperta ed è ben lungi dal portare ad un risultato

definitivo. La sintetizza così la Barillari:

«Il nome, di origine germanica, rinvia a Hölle, “inferno”, “dimora dei morti” (per

altri a Heer, “esercito”), e thing, “assemblea degli uomini liberi” (per altri king, “re”,

“sovrano”). In verità il dibattito su tale etimologia resta aperto, rinnovandosi di tanto in

tanto con nuove proposte interpretative, talvolta piuttosto fantasiose, valga ad esempio

quella, recentissima, avanzata da Philippe Walter […]. Senz’altro più convincente è, a mio

avviso, l’ipotesi avanzata da Marcello Meli nel saggio L’Arlecchino Boreale, L’immagine

riflessa n.s. IX (2000) dove si attribuisce ad herlechinus il significato di “membro del

gioco della schiera”»79.

Sia Lecouteux (più blandamente) che Chiavarelli notano alcune similarità tra il

personaggio e figure archetipiche quali il Signore degli Animali e l’uomo selvatico, quindi

Hellequin sarebbe una sopravvivenza di un cacciatore primordiale. Qualche che sia il

significato del nome e la sua forma originale, oggi sembrerebbe perduto e ciò che ne

rimane è l’iconografia e i tratti letterari, che probabilmente sono più utili al fine di

rintracciare un eventuale nesso tra le fonti medievali e le rappresentazioni

rituali/carnevalesche di cui si tratterà al successivo capitolo.

77
L. du Bois, Préjugés et Superstitions en Normandie, in Recherces archéologiques, historiques,
biographiques et littéraires sur la Normandie, Parigi 1843, pp. 309-310.
78
Fraysse, Le Chasse Hennequin au Pays de Baugé, in Revue des Traditions populaires, XX, Parigi 1905,
p.163.
79
S.M. Barillari, Introduzione, in op.cit., pag. 14-15.
45
Sintetizzando le fonti messe a disposizione dal Meisen e quelle ulteriormente citate

nei paragrafi precedenti, si può dire che ci si trova di fronte a 5 figure apparentemente

distinte:

 Il leader dell’exercitus mortuorum o familia herlechini, chiamato Hellequin o

con altre varianti (secoli XI-XIII), che persiste probabilmente in forma

popolare fino ai secoli XIX-XX, almeno in Francia: lo chiameremo figura A.

 Il leader della Caccia Selvaggia, come si è visto identificato talvolta con

Wotan negli studi del secolo XIX (Grimm et alii), associato anche alle figure

di Artù, Herla, Teoderico: figura B.

 Il leader della cosiddetta Caccia Infernale, talvolta associato ad Hellequin,

ma nella maggior parte dei casi privo di nome: figura C.

 L’Alichino dantesco (Inf., XXI – XXIII): figura D.

 L’Arlecchino della Commedia dell’Arte: figura E.

La figura A è generalmente alla testa di un esercito in armi composto da revenants

o spiriti dei morti, successivamente interpretati come illusioni ad opera dei demoni. È

descritto come un gigante armato di clava e a cavallo di un destriero talvolta descritto (o

sottinteso, come tutti i destrieri del corteo relativo) con manto nero, mentre nella

rappresentazione iconografica presentata da Schmitt nel suo testo e conservata presso la

Bibliothèque Nationale di Parigi, mostra anche delle corna 80.

La figura B è generalmente un sovrano condannato ad espiare dei peccati o una

colpa o comunque una condanna ed appare alla testa di un esercito o di una caccia, sempre

a cavallo.

80
Roman de Fauvel, ms. fr. 146, Bibliothèque Nationale, Paris.
46
La figura C si distingue solo parzialmente dalle precedenti: essa è infatti alla testa

di un esercito o di una caccia di demoni, la cui descrizione si basa come abbiamo visto

sulla demonizzazione delle precedenti figure/cortei.

La figura D è un demonio che fa parte di un gruppo di demoni, i Malebranche, non

ne è il leader, presenta tratti palesemente buffoneschi.

La figura E si contraddistingue dalle precedenti per il vestito multicolore, ma

presenta la maschera nera dotata di due protuberanze che ricordano delle corna ed è sempre

“armato” del suo “batoccio”, vale a dire una piccola clava o bastone, caratteristiche che

invece lo rendono simile alle figure A, B, C e D.

Le figure A, B e C sono accomunate da tratti di leadership, regali in alcuni casi (la

clava può ricordare anche alcune raffigurazioni di Ercole), tanto che la Chiavarelli ipotizza

un’associazione tra Hellequin e il Signore degli animali o un archetipico re dei morti

(curiosa in tal senso è anche l’assonanza con il centro asiatico e sud siberiano Erlik Qan,

divinità infera dai tratti regali, a cominciare appunto dal titolo di Qan/Khan). Tutte e tre le

figure sono a capo di un’associazione maschile in armi, sia essa per caccia o per guerra

(anche i demoni vengono descritti come in stato di belligeranza). La figura E ha in comune

con queste l’attributo della clava, l’accenno delle corna e la maschera nera che ne

tratteggia la natura infera. Ha in comune il contesto buffonesco con la figura D, che non ha

tratti in comune con le figure A, B e C, fatta eccezione per l’assonanza del nome Alichino

con i precedenti. Ciò che si può ipotizzare è che A rappresenti una figura originaria,

archetipica, di leader della schiera, cui successivamente si è associata una variante più

strettamente legata alla regalità terrena e alle leggende connesse. C può rappresentare la

variante dottrinale e demonizzata delle precedenti (forse anche vicina al contesto degli

specula principis e la condanna della tirannia, nonché, come abbiamo visto, la critica
47
sociale e morale verso i bellatores). Resta da chiarire, nel prossimo capitolo, se e come si

sia arrivati alle varianti buffonesche e teatrali D ed E, processo che potrebbe anche

contribuire a spiegare come si possa arrivare dalla leggenda ai cortei carnevaleschi e riti

similari.

48
3. DAL MITO AL FOLKLORE

3.1 PREMESSA ETNOANTROPOLOGICA

Il patrimonio folclorico europeo in generale, e italiano in particolare, è messo a dura

prova sin dai primi anni del secondo dopo guerra. Se già negli anni cinquanta il materiale

raccolto da De Martino nelle sue ricerche nel sud Italia era, per così dire, in via

d’estinzione, la globalizzazione di certo non ha giovato a quel poco che rimaneva nel

cinquantennio successivo. Se da una parte le reazioni glocal unite ad un rafforzamento

delle spinte economiche del turismo e dell’agriturismo econosostenibili hanno dettato delle

politiche di difesa del patrimonio delle tradizioni popolari, dall’altro la crescente crisi

economica ha determinato l’allargarsi in maniera spropositata la frattura tra generazioni,

per cui tale patrimonio, che è e rimane prevalentemente orale per quanto attiene il

tramandare miti e leggende locali, si sta perdendo per il mancato confluire nella cultura

delle nuove generazioni. L’istituzione di molte cattedre di Storia delle tradizioni popolari

non ha giovato in maniera determinante al porre un freno a questo cammino verso

l’estinzione, probabilmente per via di quell’esterofilia che è da sempre connaturata alle

discipline demoetnoantropologiche.

È bene chiarire che questa frattura nel processo di trasmissione non corrisponde

necessariamente ad una perdita di funzione dei riti e dei miti popolari: accade infatti

sempre più spesso che le generazioni giovani, pur perdendo razionalmente il senso e la

conoscenza della singola leggenda o rito, e pur non vivendo più nel borgo d’origine,

tornino annualmente per celebrare il rito o assistano ancora al racconto del mito da parte

degli anziani, reiterando quindi – se non altro – la funzione di identificazione (con il luogo,

con la cultura, con la famiglia) della leggenda, del mito o del rito stessi.

49
Raccogliere queste leggende è oggi possibile in tre modi: attraverso l’intervista orale,

attraverso le versioni scritte su carta e attraverso le versioni digitali rintracciabili via

internet. In tutti e tre i casi, le leggende non hanno fonti, il che è normale per un etnologo,

ma non molto per uno storico. Queste infatti si raccontano, nella maggior parte dei casi,

anche quando si agganciano, letteralmente, ad un evento storico, non ricercano mai una

sorta di auctoritas che ne sancisca l’originalità e l’importanza: sono patrimonio comune,

non hanno bisogno di altra autenticazione. Accade così che l’accademico che voglia

studiarle, come per il mito, non solo non può rintracciarne una sorta di versione originaria,

ma difficilmente può rintracciarne anche una versione scritta codificata: le versioni

disponibili su carta (o online) sono infatti generalmente raccolte da amatori e non da

specialisti. Questi amatori, nella maggior parte dei casi, sono autori che hanno oltre i 60

anni, spesso originari del luogo e, coincidenza tutt’altro che inaspettata, hanno ricoperto

specifici ruoli culturali nella comunità (maestri di scuola o assessori ai beni culturali,

spesso entrambe le cose).

Per quanto concerne il folclore sotto forma di rito, il discorso si fa analogo: se oggi,

attraverso la multimedialità, è possibile rintracciare maggiore materiale audio, video e

fotografico, per quanto concerne la trasmissione dei significati, delle origini, delle

specificità dei riti stessi, bisogna affidarsi ad interviste e fonti scritte o online che

presentano i medesimi problemi sopra esposti.

Tali problematiche costringono a considerare il materiale originale e non manomesso

nella misura in cui un’alterazione dello stesso non avrebbe senso da parte di chi racconta o

raccoglie le leggende e i riti, non costituendo nella maggior parte dei casi un caso di

prodotto ad alto valore di marketing: siamo ben lontani, per quanto riguarda il folclore

italiano, da fenomeni quale l’anglosassone Halloween.

50
3.2 SCHIERE NOTTURNE DEL FOLCLORE ITALIANO

L’Italia, per conformazione e storia, presenta da sempre dei fortissimi localismi o

meglio delle culture subalterne geolocalizzate e stratificate: si va dalle culture

interregionali (ad esempio, quelle dell’arco alpino) a quelle regionali, da quelle

interprovinciali (il caso ad esempio del folclore dei Monti Sibillini, tra Macerata, Ascoli

Piceno e Perugia) a quelle comunali, passando per microsfumature differenziali da valle a

valle e da borgo a borgo. Un lavoro certosino di classificazione delle leggende che ancora

oggi – nonostante quanto detto al paragrafo precedente – sarebbe impossibile al singolo

studioso. Quello che quindi qui viene sinteticamente raccolto è da ritenersi solo un

campione parziale e quindi non ha alcuna pretesa di esaustività.

Una leggenda tutt’oggi raccontata localmente ed inerente il tema della caccia

selvaggia, curiosamente simile a quanto già detto per Teoderico, è la Leggenda del

cinghiale bianco di Civate. Siamo in provincia di Lecco, vicino il Borgo di Civate. La

leggenda oggi ancora raccontata si origina dal manoscritto Traslatio reliquiarum beatorum

apostolorum Petri et Pauli81, in cui si racconta che il principe Adelchi, figlio del Re

longobardo Desiderio, giunse in questo luogo e, notato un cinghiale dalla mole

impressionante, decise di dargli la caccia. Questo, particolarmente forte e feroce, si rifugiò,

ferito dai cani, presso il piccolo oratorio dedicato a S.Pietro, quasi cercando la protezione

dell’apostolo, finché Adelchi, furioso, non entrò in chiesa per ucciderlo: qui fu punito con

la cecità, e misericordiosamente perdonato e curato solo dopo la promessa di costruire qui

un santuario. Questo episodio è particolarmente importante non solo perché è uno dei

pochi attestato in fonte medievale e ancora raccontato oralmente, ma anche perché nella

81
Edizione critica (BHL 6687b) a cura di Riccardo Macchioro, orig. cod. Ambr. T. 175 sup. ff. 16-17. sec
XIV, disponibile su <http://ecodicibus.sismelfirenze.it/uploads/4/4/448/Translatio_Macchioro_nuovo.pdf>
Cfr. anche Un monastero sulla montagna, <http://xoomer.virgilio.it/carlo315/guida.htm#_ftnref48>
51
versione orale presenta delle variabili, due in particolare: il cinghiale è bianco, particolare

non menzionato nella fonte, e i tratti “furiosi” di Adelchi, benché presenti nel testo, sono

particolarmente enfatizzati.

Due leggende interessanti di provenienza abruzzese trattano del corteo dei morti la

notte di ognissanti. Si racconta nelle zone rurali intorno a Pescara:

«Una fornaia, alzatasi di buon’ora, andava ad accendere il forno. Nel passare davanti

ad una chiesa, che vide illuminata, pensò che si stesse celebrando la messa e vi entrò. La

chiesa era illuminata e piena di gente. Inginocchiatasi, una sua comare, già morta, le si

avvicinò dicendo: “Comare, qui non stai bene, va’ via. Siamo tutti morti e questa è la

messa che si dice per noi. Spenti i lumi, moriresti dalla paura a trovarti in mezzo a tanti

morti”. La comare ringraziò e andò via subito, ma per lo spavento perse la voce».

Mentre, in provincia di L’Aquila, presso Introdacqua, si narra:

«La notte tra il primo e il due novembre i morti escono dalle tombe e sfilano in

processione. Il corteo ha un ordine preciso: davanti vanno i nati morti i quali non

camminano, seguono i nati battezzati, poi i giovani e le giovani donne e, infine, gli adulti;

tutti hanno in mano una candela. Nella stessa notte la porta della chiesa deve restare aperta

in modo che la processione dei morti possa entrare. Pare che i morti battessero forte la

porta della chiesa per farsi sentire da tutto il paese. La tradizione vuole che a ogni finestra

o balcone la notte del 2 novembre debba esserci un lume acceso. Nella stessa notte la gente

del paese non deve uscire di casa né affacciarsi alla finestra. La processione dei morti a

Introdacqua viene chiamata la Scornacchiera e per l’occasione viene ripetuta questa

filastrocca: teri teri tera e mo’ passa la scornacchiera» 82.

82
Cfr. R. Cerimele, Non è Halloween, su Altosannio Magazine, <http://www.altosannio.it/halloween-2/>.
52
Più a nord, nelle valli bergamasche, si trovano invece i confinati, le anime dannate

confinate in specifici luoghi non abitati. Presso la Valle Brembana si hanno tracce di anime

confinate tramutate in cacciamorta:

«Una leggenda assai popolare in varie località della Bergamasca è quella della

caccia selvatica detta anche cacciamorta. In certe ore della notte si potevano sentire su per

le montagne delle mute di cani che scorrazzavano, abbaiando rabbiosamente di qua e di là,

come se stessero inseguendo la selvaggina. Nessuno li aveva mai visti, si potevano solo

sentire i loro latrati, ma si assicura che chi si trovava a passare da quelle parti poteva anche

imbattersi sul loro percorso e doveva scansarsi precipitosamente se non voleva essere

travolto dalla furia famelica di quei segugi indiavolati. Per la verità non si trattava di cani,

ma di anime confinate. Precisamente erano le anime dannate di quei cacciatori del paese

che per coltivare la loro passione trascuravano di andare a messa la domenica e così, dopo

la morte, erano condannati a vagare su per i monti, dando vita a un'incessante quanto

sterile caccia. Un efficace esempio di pena del contrappasso, degna di figurare in qualche

infernale girone dantesco, tanto più che da qualche parte si sussurrava addirittura che alla

guida di quella canaglia scatenata ci fosse nientemeno che il Demonio in persona. I

racconti sulla caccia selvatica erano abituali a Ornica, Valtorta, Cusio, Santa Brigida,

ambientati sulle impervie pendici della Val d'Inferno o del Salmurano, ma non mancavano

in altre località, ad esempio a Spino al Brembo, dove la tradizione descriveva i segugi

guidati dal Demonio sui dossi della squallida altura della Mughera, alle prese con una

cagna nera, orribile, con gli occhi fiammeggianti, in un contesto di urla infernali e strider di

catene Con una leggera variante analoghi episodi venivano raccontati a San Pietro d'Orzio,

dove la muta di cani, anziché correre per la montagna, girovagava qua e là per aria,

riempiendola di impetuose folate e dei consueti latrati.

53
Altrove si sussurra di brutte avventure capitate a chi osava intromettersi nella

caccia. E' il caso di Costa Serina dove pare che un viandante, imbattutosi in una di queste

orde urlanti, avesse osato richiamare i segugi perché si quietassero. Non l'avesse mai fatto:

rientrando a casa aveva trovato appesa alla porta una gamba umana, una sinistra

premonizione di tragedia, dalla quale l'aveva scampato il suo parroco, consigliandogli di

riportare nottetempo l'ingombrante reperto anatomico sul luogo dell'incontro con la caccia

selvatica, affinché i cani potessero riprendersela. Cosa che egli fece, benché in preda ad un

indicibile senso di terrore, riuscendo a cavarsi d'impaccio, ma giurando a se stesso che non

si sarebbe mai più intromesso in affari di tal genere. Pressoché analogo è il racconto della

caccia morta a Valgoglio, dove si dice che una donna, abitante in località Dödömal,

osservando quei dannati in corsa sfrenata formulò una bizzarra richiesta: "Portatemi un po'

della vostra selvaggina con cui potrei sfamare i miei bambini". Fu subito accontentata: il

mattino dopo trovò appesa fuori della sua baita una gamba umana. Atterrita, la donna corse

a raccontare l'accaduto al suo parroco il quale la consigliò di stare in guardia e le suggerì

per la notte seguente di chiudersi bene in casa e di coricarsi assieme ai suoi bambini. Così

fece, e fu la sua salvezza, infatti, nel colmo della notte la cacciamorta tornò e dalla canea

vociante si alzò un grido d'oltretomba, rivolto proprio a lei: "Buon per te che sei in mezzo

all'innocenza, altrimenti l'avresti pagata cara per aver osato parlare alla cacciamorta!"

[…]

Un tempo si credeva che sotto il ponte della Valle Stabina, al bivio tra Ornica e

Valtorta, fossero confinate le anime di coloro che da vivi non avevano rispettato il precetto

della messa domenicale, ma avevano disertato la dottrina e le pratiche religiose, preferendo

dedicarsi al lavoro o ai divertimenti. E così, dopo la morte erano andati diritti all'Inferno.

Questi dannati erano in gran numero e ogni tanto si facevano vedere dai passanti, oppure si

54
facevano sentire con urla e strepiti che incutevano terrore. Chi passava da quelle parti di

notte, con muli o asini, si trovava in difficoltà perché, giunti all'altezza del ponte, gli

animali si fermavano terrorizzati, giravano su se stessi come impazziti e si scrollavano di

dosso la soma, rifiutandosi di avanzare anche solo di un passo. Nessuno era più in grado di

farli proseguire fino all'alba, quando, ai primi chiarori del nuovo giorno, si udiva un

frastuono, un precipitare di sassi che si fermava con un tonfo sordo sul fondo della valle.

Solo allora gli animali tornavano tranquilli e riprendevano il cammino. Finalmente nel

1909 venne trovato un sicuro rimedio contro queste manifestazioni d'oltretomba: il parroco

di Valtorta, don Stefano Gervasoni, che godeva fama di santità e possedeva doti di

esorcista, dopo aver indetto un periodo di preghiere collettive, portò i suoi parrocchiani e

quelli di Ornica in processione verso la zona degli spiriti e, dopo averla benedetta, collocò

un crocifisso sulla parete rocciosa che strapiomba sulla valle. Il crocifisso è ancora là e da

allora, sostengono gli anziani del paese, gli spiriti dannati non si sono più fatti sentire» 83.

Quest’ultimo particolare che mostra una processione volta a “limitare” l’influenza e

la presenza dei confinati risulta particolarmente interessante se letto come indizio di una

corrispondenza tra cortei dei vivi e cortei dei morti.

Rimanendo sempre nell’area alpina, sempre a proposito di confinati e relative

contromisure, c’è un’ulteriore interessante testimonianza, questa volta raccolta da

specialisti:

«Prima del Concilio di Trento, la gente vedeva girare gli spiriti, li vedeva andare in

processione, portando, invece delle candele, chi un braccio da morto chi una gamba. In

Sorlina li vedeva anche andare a caccia. Una volta videro anche uno spirito che portava

83
W. Taufer, T. Bottani, Storie e leggende della bergamasca, Ferrari editore, Clausone 2001.
55
sulle spalle un “termen” (pietra confinaria, spesso incisa, n.d.a.); si vede che, durante la

vita per ingrandire il suo campo aveva spostato le pietre che segnano il confine tra un

proprietario e l’altro. Il Papa, constatato che una cosa del genere non doveva continuare,

decise di tenere il grande Concilio di Trento per impedire alle anime confinate di farsi

vedere ai vivi e alle streghe di far del male. Da allora non si videro più né spiriti né

streghe… credono che il concilio di Trento si sia tenuto per impedire alle anime dei

trapassati di tornare su questa terra per scontare la pena sul luogo dove hanno peccato»84.

In Piemonte, nel cuneense, nel borgo di Villar S.Costanzo, si narra dei canett, un

branco di cani, in realtà anime dei peccatori, che nella notte dei morti «corrono provocando

una canea infernale. Sono di tre specie: alcuni lanciano note più profonde e sono grosse

bestie nere come la notte, altri sono di media taglia e di colore grigio come le nuvole

cariche di pioggia e gli ultimi, infiene, sono piccoli e bianchi, simili a cuccioli. Ma tutti

procedono insieme, mischiati gli uni agli altri, e lanciano di continuo i loro richiami che

somigliano a lamenti e non si placano mai» 85.

Tra Trentino e Friuli, intorno al Monte Grappa, si narrano le leggende sulla Caza

Beatrich o Cazza de Prenot: «In piena notte un forte rumore proveniente dall'esterno destò

l'attenzione di un contadino. L'uomo, uscito per capire quale fosse la causa di quel gran

baccano, vide passare un branco di cani dal corpo allungato, con grandi occhi rossi e sei

zampe. Gli animali passarono abbaiando furiosamente, inseguiti da un cacciatore che

trascinava con sé enormi catene. Il contadino, ignaro di essere al cospetto del Beatrich,

assistì stupito e spaventato alla scena e prima che cani e cacciatore sparissero nell'oscurità
84
Cfr. C. Cominelli, S. Lentini, P.P. Merlin, Tradizioni popolari e istoriazioni rupestri: una prospettiva etno-
“archeologica”, Centro Ricerche Antropologiche Alpi Centrali, <http://siti.voli.bs.it/craac/letture/01-
let.html#_ftnref12>.
85
D. Spada, La caccia selvaggia, Società editrice Barbarossa, Milano 1994, pag. 30. La leggenda è riportata
anche in L. Castellani, A caccia di fantasmi, Meligrana Giuseppe Editore, 2011.
56
disse “buona caccia e portatemi qualcosa”. Tornato a casa, egli si accorse che appeso

sull'uscio dell'abitazione vi era un pezzo di carne umana». 86

In provincia di Brescia, a Saviore dell'Adamello si narra che «durante le notti

invernali, le strade del borgo siano percorse da una processione di fantasmi. Secondo la

leggenda si tratterebbe delle ombre dei morti, dannati per aver rubato durante la loro vita.

Tra gli abitanti di Saviore c'è anche chi giura di aver assistito a tale macabro spettacolo: le

anime avanzano lente, in processione, facendosi luce con fiammelle che bruciano sulla

punta delle loro colpevoli dita»87.

In Lunigiana, tra Liguria e Toscana, ritornano molti elementi già visti:

«La leggenda racconta che sempre a Barbarasco, un prete diede ordine ad un

cittadino, di portare a Tresana un grande libro, raccomandandogli di non aprirlo. L'uomo

che era molto curioso, ma era anche uno dei pochi che in paese sapeva leggere, non riuscì a

resistere alla tentazione, e così si mise a sfogliare il libro e cominciò a leggerlo. Ma subito,

non appena l'ebbe aperto, si scatenò una grande tempesta e da ogni punto cardinale, si vide

arrivare una schiera di spiriti di ogni dimensione: alcuni erano piccoli, altri giganteschi, ma

tutti avevano il solito colore biancastro ed evanescente. Essi diedero inizio ad un'orribile

danza attorno al pover'uomo impaurito, facce deformi gli si avvicinavano emettendo risate

agghiaccianti, altre gli si precipitavano addosso piangendo in modo lugubre con urla

strazianti. All'improvviso uno degli spiriti, si avvicinò all'uomo, si staccò la testa e gliela

mostrò, un altro gigantesco si allungava ed allargava fin quasi a toccare il cielo. Uno

spirito altissimo, staccò un masso dalla montagna e fece l'atto di gettarglielo contro ma poi

cambiò idea e lo gettò nel torrente mandando in pezzi una barca che si trovava legata alla

86
Resoconto su: < http://www.unionealtoprimiero.eu/leggende.html>, presente anche in D. Spada, op. cit.
87
Cfr. Brescia in Vetrina, Leggende < http://www.bresciainvetrina.it/processionedeiladrimorti.htm>.
57
riva. Sradicarono alberi facendoli poi cadere sui tetti delle case, altri arrivarono fin sulle

nuvole, per poi farle abbassare fino a terra, da non far vedere più nulla alla gente che stava

fuggendo dalla proprie case. Quando il prete vide tutto ciò, si mise le mani nei capelli,

perché capì che l'uomo aveva aperto il libro magico che doveva portare fino a Tresana. Gli

spiriti, apparsi al cospetto dell'uomo in attesa di ordini, non avendone ricevuti, s'erano

scatenati terrorizzando tutto il paese. Il prete a quel punto accorse in soccorso dell'uomo e

gli suggerì di ordinare agli spiriti di andare a prendere la sabbia del fiume Magra. Così

l'uomo ordinò agli spiriti di prendere la sabbia e subito tutta la schiera si diresse verso il

fiume, tracciando un enorme solco nel terreno, che si formò allora e fu chiamato Fosson,

un torrente profondo e impraticabile che va a gettarsi nell'Osca.

Un'altra leggenda, la ritroviamo a Filattiera, antico borgo fortificato munito di mura

e grosse porte. Fino al secolo scorso, correva voce, che si tenessero misteriose processioni,

dopo una certa ora della sera, da parte di strani personaggi, che camminavano silenziosi e

con i ceri accesi in mano, passavano fuori dal paese e si dirigevano verso il cimitero. Gli

abitanti erano spaventati da tutto ciò e così quando si avvicinava la notte, si chiudevano in

casa, per paura di incontrarli. Pare che una fornaia di nome Cabrera, non avesse paura di

loro e così una sera decise di stare fuori dalle porte del paese, per vedere passare la

menada. Si mise ad aspettare e verso la mezzanotte vide arrivare una fila di persone,

uomini e donne con un cero in mano e l'ultima donna della fila le porse un cero acceso. La

donna lo prese, lo spense e lo portò in una casa. Quando lo andò a riprendere, terrorizzata

si accorse di avere tra le mani un braccio umano! Si recò dal parroco e gli raccontò tutto,

questi dopo aver riflettuto le consigliò di tornare alla processione, di ridare alla donna il

braccio, ma di stare molto attenta, dovrà infatti tenere in braccio un gatto ed un bambino,

altrimenti le capiterà qualcosa di brutto. La Cabrera, diede ascolto al parroco, si recò alla

processione e quando vide la donna le porse il braccio. La donna lo prese e con fare
58
minaccioso, le disse che aveva fatto bene a presentarsi con un bimbo ed un gatto, altrimenti

per lei sarebbe finita molto male...»88.

Impressionante la quantità di leggende dell’area di Bormio, in provincia di Sondrio;

tra le più interessanti sul tema qui trattato:

«Un cavaliere selvaggio errava sulla Cima degli Spiriti e per i nevai dell'Ortles. Era

un cavaliere armato che invitava chiunque incontrasse a seguirlo per i precipizi e per i

crepacci, nei quali egli coll'ospite precipitava nella notte fonda. Non si conosce il motivo

che spingeva il cavaliere nel suo tragico andare. I valtellinesi posero croci e cappellette ai

bivi montani, quasi a soccorso dei viandanti in caso di eventuali sinistri incontri ed inviti».

«Nel 1635 a Livigno, in particolar modo attorno al camposanto, si affrontarono

l'esercito imperiale condotto dal Ferramonte e le truppe francesi del duca di Rohan,

condotte da Frezeliere ed aiutate dai livignaschi. Quest'ultimi, in numero molto minore,

ricorsero ad uno stratagemma. Travestiti coi camici bianchi dei confratelli occuparono il

sagrato della chiesa. I tedeschi, appena li videro, in preda al più superstizioso terrore si

diedero alla fuga ed i furbi francesi rimasero padroni del campo. Questo episodio viene

raccontato spesso dai vecchi di Livigno, convinti come gli imperiali, che coloro che

combatterono vestiti di bianco attorno al cimitero, fossero proprio i "mort". Ci fu, quindi,

una collaborazione di lotta dei morti di Livigno con i francesi».

Quest’ultima presenta anche una variante:

«La tradizione popolare racconta una versione più religiosa e patriottica: contro gli

invasori franco-svizzeri ed imperiali, sempre stranieri predatori della valle, insorsero i

morti livignaschi, tanto più sdegnati dalla profanazione e dall'oltraggio recato ai luoghi

88
A. Valle, F. Musante, Storie e leggende della Lunigiana, Edizioni Giacché, 2003, pagg. 40-41.
59
sacri. Gli stranieri si ritirarono e la valle di Livigno fu libera. Questa versione segnerebbe,

dunque, il ridestarsi dello spirito nazionale di indipendenza».

E poi:

«La tradizione racconta che presso la chiesa di San Gallo, in tempi antichissimi,

esisteva un convento e che, di notte, si vedeva una strana processione di morti passare,

salmodiando, dalla chiesa sino alla gran croce allora esistente in quel di Molina. Erano

vestiti di bianco: segno di salvezza. Infatti, i dannati vestono coloro rosso cupo»;

«Irene era una vecchietta piccina e magra che viveva sempre sola, ché i suoi cari

erano tutti morti, al limite della vegetazione a Madonna dei Monti, lassù dove i larici sono

contorti e nani. Indosso aveva sempre una lunga gonna di panno nero a pieghe, sulle spalle

una corta mantellina di lana lavorata ad uncinetto, in capo un fazzoletto nero a frange e la

si vedeva sempre con un libro di preghiere in mano ed un ramoscello di ginepro. Una

domenica la vecchina tornava dalla chiesa. Le parole del parroco sulla morte e sull'inferno

l'avevano turbata e ricordò di aver udito narrare, quand'era bambina, che molte anime del

Purgatorio soffrivano il loro supplizio sui ghiacciai eterni delle vette sopra di lei, vicine

alla sua dimora. Rammentò, pure, vecchie storie di konfinà, di povere ombre sospinte e

torturate per lunghi anni su per il vallone di Uzza, su per il Confinale, torturate dal vento

glaciale. Irene rivide le immagini delle cappellette sacre e provò paura: la sua baita le parve

mal situata, così alta e lontana dai vivi. Non avrebbero potuto forse quelle anime

tormentate scendere da quelle altissime balze livide di ghiaccio? Nel frattempo la donna

pensava anche che non vi era nessuna creatura viva che avrebbe sentito la sua mancanza

dopo la propria morte. In quel momento uno strano viandante dalla statura ben fatta e dallo

sguardo grave la raggiunse sul sentiero. Irene pensò che l'uomo non poteva essere altri che

l'eremita Zebrusius e gli confidò la sua pena. Costui disse alla vecchina che non era sola,
60
ma che viveva fra molti compagni e, sollevandole il viso verso l'alto, Zebrusius le ordinò di

fissare la montagna sopra di lei. Irene fissò i nevai dalla Cima degli Spiriti alla vetta del

Tresero.

Dapprima ella non vide nulla, poi le parve di scorgere un movimento nelle parti più

alte e scoscese: del bianco si muoveva sul bianco. Quello che aveva scambiato per nebbie,

per riflessi azzurrini di ghiaccio, erano folle di anime purganti che scontavano la loro pena

nel gelo eterno. Dunque gli antenati avevano ragione, pensò Irene: lassù i morti soffrivano

angosce e pene per purgare le loro anime da ogni macchia di peccato. Molti di essi erano

avvolti in lunghe tuniche bianche, ma tutti avevano i piedi nudi ed il capo scoperto, ed

erano innumerevoli, quasi danzanti, e tutti però avevano i piedi feriti e sanguinanti per le

punte aguzze del ghiaccio e delle rocce. Si stringevano gli uni agli altri in cerca di calore e

subito si separavano atterriti dal reciproco freddo mortale dei loro corpi, da cui parevano

emanare le nebbie gelide ed i venti che impedivano alle nevi di sciogliersi. Non tutti si

muovevano, alcuni restavano immobili; assiderati e tremanti o curvi sotto grevi e

trasparenti pesi e così dovevano essere da anni e anni, perché solo il loro busto emergeva

dal ghiaccio e dalla neve accumulati intorno a loro. Irene vide anche donzelle e garzoni che

non serbavano nei volti traccia di gioventù e gaiezza, tuttavia pareva che si trastullassero

ancora, ma i loro piedi cercavano, contro il loro volere, le punte più aguzze di ghiaccio e di

roccia. Quando la mano dello strano viandante ricadde dal suo mento, la vecchia non vide

che sterminati campi di neve candidi e luminosi: gli sprazzi azzurrini non provenivano da

corpi gelati, ed erano fiocchi di neve che turbinavano più in alto ancora e non anime

sospinte dal vento. Dopo quell'inverno, tutte le sere la donna non fece altro che pensare al

soccorso delle anime erranti sui ghiacci: ogni mattina ridiscendeva alla chiesa del villaggio

e niente e nessuno le impedivano di correre all'altare e pregare con calore, mentre alla sera

nella sua baita recitava le preghiere e cantava i salmi. Lasciava la porta aperta e,
61
inginocchiata nella penombra alla luce di due candele, tendeva l'orecchio e pregava. La

vecchietta non tardava a sentir camminare. Sul ghiaccio udiva dei gemiti e dei passi

striscianti, li udiva avvicinarsi adagio, adagio fino a fermarsi tremando presso i legni della

baita, come se non osassero entrare. Irene continuava a pregare, finché non udiva più né

passi, né sospiri, e allora le pareva che tutta la sua piccola stanza fosse stipata di quelle

creature che avrebbero voluto abbattere i muri e sollevare il tetto per aver più posto intorno

alle preghiere della vecchietta. E così, finché Irene visse, ella continuò ad occuparsi dei

morti. All'antivigilia di Natale di quell'inverno, la vecchina fu trovata morta e venne

seppellita la mattina presto di Natale. Pochi assistettero alla cerimonia e senza particolari

manifestazioni di dolore dei presenti. Ma mentre le prime palate di terra scendevano sulla

cassa entrò nel cimitero lo strano forestiero ed ai presenti indicò con la mano le cime

nevose. Il Sindaco ed i rari presenti videro il Tresero, il Zebrù, il Sobretta tingersi

all'improvviso di color rosa come per un fuoco di felicità. Videro per l'arco del cielo

passare una processione di fiammelle gialle simili alle innumeri candele accese dalla

vecchietta. Poi lo strano forestiero scomparve e con esso svanì la visione indescrivibile del

corteo d'anime luminose aleggianti sulle vette»89.

Un’altra variante si trova invece molto più a sud, sul Gargano, ed è la storiella del

Compare Michele:

«La notte di Pasqua-Epifania, racconta Zje Jangeluzze (zio Angelo, un anziano del

paese), il nostro malcapitato aveva ricevuto il compito di portare in dono al padrone don

Antonio (un ricco proprietario terriero di Rignano) un tenero capretto, perché il fortunato

89
Tutte le leggende dell’area di Bormio sono consultabili su
<https://sites.google.com/site/bormioleggende/home>, sito che utilizza come fonte prevalente M. Pantano,
...e al strü li veran fö cura l'é nocc - Ricerca sulle leggende di Valtellina e Valchiavenna, Biblioteca della
Valchiavenna, Chiavenna, febbraio 1980
62
potesse gustarlo la domenica successiva. Prima di partire per la sua missione, ’mpa

Micheline decise di prendersi un boccone e guarire la sua arsura alla gola con un po’ di

vino di ’mpa Neculine (compare Nicola). L’arsura, a quanto pare, era come al solito

esagerata e bevi bevi finì un fiasco intero di "sangue di Cristo", come amava chiamare quel

dolce vinello. Avvinazzato come non mai, ’mpa Micheline decise di avviarsi verso il

paese. Tra contorte "revote" (sentieri), la nebbia accecante, il freddo pungente e qualche

altro sorsetto di vino, il nostro arrivò a Rignano in preda all’abbiocco più totale. Stanco e

sfinito dall’alcool, preferì riposarsi per qualche ora su un mugnale, per poi consegnare il

capretto al signorotto di turno. Era ormai sera. La campana comunale aveva rintonato,

infatti, già le sei note pomeridiane. All’epoca orologi non ce n’erano e per sapere l’ora cisi

affidava al sole o alla campana del paese. Passarono sei lunghe ore. A ’mpa Micheline

pareva di aver dormito solo qualche minuto. Era stanchissimo. Gli occhi lacrimavano

sangue e sudore di una vita passata a pascolare pecore e capre e a fare formaggi e ad

accudire i nove figli e la moglie e poi le due mucche e le sette galline. Crollò di nuovo per

il sonno. Passarono diverse ore dall’arrivo inpaese. Nella mente di Micheline, o dovremmo

dire nei sogni, passarono tutti gli anni della sua vita. Il primo figlio, il matrimonio

combinato dalla madre, una moglie rompiscatole e grassa come due vacche, i formaggi

sequestrati dal signorotto don Antonio, il pancotto di nonna Miuccia (Filomena) e il vino

fantastico di Zje Neculine. Rintonò la campana ben dodici volte. Micheline si alzò discatto,

ci ricorda Zje Jangeluzze, e gridò: "Madonna è già mezzogiorno, devo sbrigarmi, non ho

dormito qualche minuto, ma quasi un giorno intero, don Antonio sarà furibondo e poi mia

moglie...".

Non finì di pronunciare il nome di Chiarine (Chiara, la consorte) che venne distolto

da un luccichio in lontananza. "Chi è?", intimò con voce minacciosa, ma in realtà affranta

dal terrore. "Chi è? Guarda che prendo il fucile, mi dici chi sei?". All’improvviso vide
63
moltiplicare all’infinito quelle lucine. Erano candele e degli uomini incappucciati le

portavano in mano emettendo lamenti ebestemmiando come pazzi. La folla di strani figuri

proseguiva inesorabile verso di lui. "Chi siete? Chi siete?". Continuò invano a ripetere ad

alta voce. Il cuore batteva a mille, la voce eradiventata rauca come non mai. E continuò a

pensare alla moglie e ai nove figli e alle galline e alle pezzotte di cacio e al pancotto di

nonna Miuccia. "Non preoccuparti ’mpa Micheline, siamo amici tuoi, non ci riconosci?", si

sentì dire dal capo-processione. Era mastre Peppine (mastro Peppino, il falegname), grande

amico di famiglia e lavoratore intascabile. Udendo quella voce amica il nostro siriprese di

colpo. "Vieni con noi, ti divertirai un mondo dove stiamo andando", gli disse Peppine.

"Non ho voglia di divertirmi, anche perché devo consegnare questo capretto a don

Antonio, sennò lo sai che frustate!", ribatté Micheline. "Fai come credi, arrivederci a presto

caro Micheline". La processione proseguì lungo il suo cammino. Micheline riusciva a

scorgere ogni tanto quà e là, tra lapenombra dei cappucci, il volto di qualche conoscente,

ma non si ricordava chi fossero. Non ci pensò più di tanto, proseguì verso il palazzo di don

Antonio e consegnò al guardiano il capretto dovuto. Si scusò e riprese il cammino del

ritorno. Giunto a casa trovò la moglie inferocita come non mai: "dove sei stato tutta la sera,

è da stamattina all’alba che manchi di casa. Le pecore e le capre le ha portate Mariettina (la

figlia più grande) a pascolare, lo sai che Giggino ha preso la puntura (la broncopolmonite).

Sciagurato!". "Senti, ero sfinito e mi sono riposato un pochino sul mugnale di cummara

Terèse (comare Teresa), e che ho fatto di male, il capretto l’ho consegnato. Senti, ho

incontrato mastre Peppine, era in processione con tanta altra gente, mi sembrava un po’

pallidoperò, non è che è malato?". "Madonna mia! - esclamò Chiarine – Hai visto i morti!

Che disgrazia...". Come andò a finire? Zje Jangeluzze ci ricorda che di lì a poche ore

64
Micheline "morì d’infarto a testimoniare che la leggenda di paese è veritiera e che chi vede

i defunti la notte di Pasqua-Epifania è destinato a morire pure lui"»90.

Corteo simile si attestava in Friuli e in particolare nel goriziano:

«Nel Friuli di una volta e in tutto il Goriziano era credenza diffusa che la sera di

Ognissanti (1 novembre) e la notte dei Morti (2 novembre) le anime andavano a visitare le

case, vagando per i corridoi, intrufolandosi negli angoli, soggiornando in quei luoghi che

erano stati più cari in vita. Dopo la visita le anime si raccoglievano nel corteo dei morti

anche detto la danza dei muarz e insieme raggiungevano mestamente il camposanto,

scomparendo nei tumuli»91.

Estremamente interessante anche la leggenda del Boscaiolo che visse una storia da

tregenda nella notte dei morti, che nella sua più recente narrazione, recita:

«Verso mezzanotte, sopraffatto dalla stanchezza e dal sonno, stava per sdraiarsi

sopra uno strato di foglie morte per fare una dormita, quando scorse in lontananza un tenue

chiarore. Pensando di avere le travvegole, si stropicciò gli occhi e guardò attentamente.

No, quella che vedeva era vera luce, anche se tenue. Non poteva sbagliare. Si alzò da terra

e, afferrato a tasto il tascapane e quant’altro aveva con sé, si diresse nella direzione da cui

il provvidenziale chiarore proveniva. Allorché, scendendo dalla parte ripida del bosco in

cui si trovava, incrociò un viottolo aperto nel folto della macchi dall’andirivieni delle

bestie brade e dei cinghiali, dovette fermarsi per far passare una processione di figure

senza volto, vestite di bianco – fantasmi – ciascuna con un lumino in mano, che

stranamente uscivano da un vecchio cimitero. Si domandò com’era possibile che un

90
Cfr. A. Del Vecchio, 5 Gennaio notte dei morti viventi, su
<http://www.angelodelvecchio.eu/presepeviventerignano/notizie-e-leggende/la-notte-dei-morti-viventi>
91
C. Burcheri, Le usanze legate al giorno dei defunti, in Corriere Veneto, 26 Ottobre 2009.
65
cimitero si trovasse in quei paraggi, fra un mare di macchia. A quel punto, le travvegole,

gli parvero possibili. Si stropicciò gli occhi di nuovo. Guardò meglio. Tutto quello che

vedeva era assolutamente vero. Bloccò allora con una mano un partecipante al macabro

corteo e gli domandò chi fossero, da dove venissero, dove fossero diretti. “La nostra è una

processione di penitenza e di preghiera, che abitualmente, chi ci segue, organizza

dall’aldilà nella notte dei Morti, come puoi vedere dal nostro abbigliamento, siamo anime

del Purgatorio”».92

92
A. Cavoli, Storie e leggende della Toscana, Laurum Editrice, Pitigliano 2008, pagg. 61-62.
66
3.3 DAL MITO AL RITO: CORTEI E ISOMORFISMI

«Al principio del ‘300 i partecipanti ai cortei fragorosi dello charivari

impersonavano, agli occhi degli spettatori, le schiere dei morti vaganti condotte da

Herlechinus. È un esempio dell’isomorfismo, talvolta esplicito talvolta latente, che legava i

miti e i riti che abbiamo analizzato»93.

L’opinione di Ginzburg, cioè che leggende e rituali folclorici convergessero, è

condivisibile? Egli si basa su due sostanziali prove. La prima è senz’altro il caso dello

charivari presente nel Roman de Fauvel, presentato ampiamente nel suo Charivari,

associations juvéniles, chasse sauvage, e confermato in Storia notturna:

«La presenza di una dimensione iniziatica spiega probabilmente l’aura mortuaria

che circonda, in società disparate, i comportamenti di gruppi di giovani, talvolta associati

in forme di violenza rituale, talvolta stretti in organizzazioni guerriere. Le più antiche

testimonianze su un rito come lo charivari, volto a controllare i costumi (soprattutto

sessuali) del villaggio, identificavano la schiera tumultuante dei giovani mascherati con la

schiera dei morti, guidata da esseri mitici come Hellequin. Agli occhi di attori e spettatori,

gli eccessi delle bande giovanili dovettero serbare a lungo queste connotazioni

simboliche»94.

A questo, aggiunge una seconda prova, peraltro presente anche nell’antologia del

Meisen: «Alla fine della sua dissertazione De exercitu furioso (1688) il pastore luterano P.

C. Hilscher osservò che le testimonianze più antiche sulla processione delle anime

risalivano al periodo in cui il cristianesimo, ormai diffuso in Turingia, Franconia e Svevia,

aveva cominciato a corrompersi per effetto degli errori introdotti dalla chiesa romana. La

93
C. Ginzburg, op.cit., pag. 283.
94
Ibid. pag. 171.
67
superstizione era continuata fino a tutto il secolo sedicesimo; secondo un anonimo

informatore di Hilscher – probabilmente il pastore di Erfurt – le apparizioni erano

diventate, da qualche tempo, molto più rare. A questo punto Hilscher accennò a una

consuetudine valsa a Francoforte, non sappiamo da quando. Ogni anno alcuni giovani

venivano pagati perché conducessero la sera, di porta in porta, un grosso carro ricoperto di

fronde, con l’accompagnamento di canzoni e vaticini che, per non commettere errori, si

erano fatti insegnare da persone esperte. Il volgo (concludeva Hilscher) dice che in questo

modo viene celebrata la memoria dell’esercito di Eckart. Dunque, gli spettatori

riconoscevano nella cerimonia di Francoforte una rappresentazione dell’esercito furioso –

le schiere dei morti alla cui guida si alternavano svariate figure mitiche» 95.

Anche il Lecouteux menziona il contributo di Ginzburg inerente il Fauvel e lo

charivari, nonché lo stesso brano su Francoforte. A questi aggiunge tuttavia il parallelismo

tra la Processione delle Anime, corteo leggendario spagnolo, e la Società de Oso, una sorta

di società iberica che avrebbe condotto cortei mascherati similari a quelli visti per

l’esercito di Eckart.

Sempre sulla presenza della Mesnie Hellequin nel Fauvel, con una interessante

indagine sull’importanza della maschera di Hellequin e un’ampia disamina dei versi in

questione, si sofferma Philippe Walter nel suo Hellequin et le masque de fange96.

A questi si può senz’altro aggiungere un episodio fiorentino:

«I Palleschi continuavano la loro lotta contro i Piagnoni e viceversa, questi ultimi

inscenando manifestazioni grottesche e inquietanti, come quella del carro della morte, con

95
Ibid., pag. 161.
96
P. Walter, Hellequin et le masque de fange: sur que loques vers du Roman de Fauvel, in Charivari,
Mascherate di vivi e di morti, Edizioni Dell’Orso, Alessandria 2004.
68
cui si esibirono per le vie di Firenze nel 1512. Attaccarono un pesante carro nero come la

pece ad alcune pariglie di bufali, e si mossero con lenta andatura a turbare la quiete e la

serenità della gente. Eh, sì, perché soltanto questo poteva provocare, nei Fiorentini, quel

cupo veicolo, sulle cui pareti laterali erano state dipinte con vernice bianca grosse croci e

ossa umane, e sul cui cassone si ergeva, imponente, una morte con la falce in mano, ai lati

della quale erano due feretri coi coperchi abbassati. Ad ogni sosta del funebre carro, si

alzavano dalle due bare altrettante persone camuffate da scheletri che seminavano, fra i

presenti e fra i passanti, un tale terrore da farli fuggire a gambe levate, urlando e inveendo

contro gli organizzatori di quell’itinerante, spaventevole spettacolo. Le due maschere

mortuarie riversavano i simulati umori di un’angosciosa tristezza nei folli versi di una

canzone che diceva: morti siam come vedete / così morti vedrem voi. / Fummo già come

voi siete, / voi sarete come noi. Ma non bastava: davanti e dietro al carro, cantando la

medesima canzone, si muoveva un gran numero di scheletri a cavallo e di staffieri con lo

stesso travestimento, mentre altri scheletri cantavano lamentosamente il Miserere, chi

munito di un nero stendardo, chi di una torcia accesa. Era una scena allucinante, che

dovunque passasse o si fermasse, faceva il vuoto per lo spavento che incuteva» 97. Lo stesso

episodio è riportato in un romanzo di Agostino Ademollo 98 e da uno studio di Vittore

Ottolini99, presentandosi come memoria viva ancora nella seconda metà del XIX secolo.

Le tre testimonianze di cui sopra fanno pensare ad una sorta di codifica o usanza

rituale che può avere molteplici applicazioni: il Fauvel, per dire, mostra una sub unità

rituale, il corteo dei morti o mesnie Hellequin, integrata in una più ampia manifestazione

carnevalesca. La domanda da porre è quindi se tale sub-unità, presente anche nell’episodio

97
A. Cavoli, op. cit., pag. 245.
98
A. Ademollo, Marietta de’ Ricci, ovvero Firenze al tempo dell’Assedio, 1840.
99
V. Ottolini, Il Teatro in Italia: Storia Dedicata Agli Artisti Teatrali e Agli Allievi dei Conservatori, 1876.
69
di Francoforte e in quello fiorentino, non risponda ad una realtà ampiamente diffusa

nell’Europa medievale con una datazione eventualmente contemporanea alle forme

leggendarie riportate al primo capitolo. Si potrebbe superficialmente rispondere che non

esistono prove in tal senso se non quelle sopra elencate, comunque databili dal XIV secolo,

quindi di tre secoli più tarde. Va detto tuttavia, in prima battuta, che l’assenza di prove non

è prova di assenza. A tale principio (c.d. cautelativo) si possono aggiungere ulteriori

considerazioni provenienti da una sommaria panoramica dell’opinione degli storici del

teatro, tra i quali spicca quella di Delia Gambelli, che sostiene ampiamente una diretta

filiazione dell’Arlecchino bergamasco e della Commedia dell’Arte direttamente dalle

figure medievali ad esso assonanti, non solo per quanto concerne nome, maschera e

batoccio, ma anche per quanto attiene il costume e l’attitudine buffonesca, prevalentemente

derivanti dalle diablerise e rappresentazioni dei diavoli nel teatro popolare medievale 100.

Ancora più interessante è una disamina di Johan Drumbl su una cerimonia

dell’Ascensione di Moosburg in Germania, per quanto attiene alle parti “non scritte” del

teatro medievale:

«Alla trascrizione di questa cerimonia, che non si discosta in nulla dalle forme

tradizionali dell’epoca, fa seguito una nota che mette in risalto due aspetti della teatralità

“sommersa”, coesistente a quella ufficialmente descritta nel libro liturgico e, con ogni

probabilità, assai più vitale della prima: “e bisogna badare che lo strepito (dei piedi) e la

turpitudine dell’immagine del diavolo, con gli abominii dei fuochi di zolfo e di pece e le

acque colorate o con altre sconvenienze o discorsi di qualsiasi tipo proibiti dalla santa

madre Chiesa, non si mescolino a questa devozione; da queste cose non solo sono profanati

i luoghi sacri consacrati al culto divino e la casa di Dio che la santità ha onorato nel corso

100
Cfr. D. Gambelli, Dall’inferno alla corte del Re Sole, in Arlecchino a Parigi, Bulzoni, Roma 1993.
70
dei giorni, ma per di più la devozione del popolo è spinta alla lascivia e al ridicolo, e a

volte persino alla sedizione. Ma dopo che l’immagine del Salvatore è sparita in alto, allora

grandi ostie, così come è uso distribuirle in alcune chiese secondo la volontà del Signore,

se se ne sono potute avere, siano portate fuori con rose, gigli e fiori diversi. E bambini che

vengono dalla scuola, gettate le vesti, uniscano secondo il nostro uso le ostie ai fiori,

levando le mani al cielo e cantando Sanctus, Sanctus oppure Veni sancte. Con i bambini

che gettano le vesti si vuole significare gli umili che non cercano le cose terrene […]”. Alla

teatralità della cerimonia celebrata dai parvuli pueri, interpretata secondo l’allegoresi del

tempo, si oppone, secondo questa testimonianza, uno strato di presenza teatrale - del tutto

assente dal resoconto ufficiale – che emerge solo nel momento del divieto. Nessun indizio

permette di collegare la presenza del diavolo alla cerimonia dell’Ascensione, eppure ne fa

parte una schiera di demoni che percorrono la chiesa con fuochi terrificanti portando

“sgomento e profanazione”. Si tratta di “disordini”, come vuole il primo editore moderno

del testo, oppure la presenza demoniaca, esagerata e turbante, è il fondo di una

celebrazione alla quale viene a sovrapporsi lo strato più recente, riformatore, della

cerimonia “ufficiale”?»101.

Sulla stessa linea, ovvero assenza di fonti scritte complete per il teatro popolare e

innesto dei temi di questo nel teatro ecclesiastico, si pone Richard Axton:

«È chiaro, quindi, che gli aspetti secolari degli antichi drammi religiosi sono stati

spesso messi in ombra nell’interesse di un quadro evolutivo più ampio. Al dramma

“secolare” è toccato di peggio. L’interludium de clerico et puella, farsa di corteggiamento

del tardo ‘200, fu giudicato, da uno studioso autorevole, “non promettente” come miracle

play e di conseguenza gli fu negata addirittura la qualifica di dramma. È abbastanza facile

101
J. Drumbl, Introduzione, in Il teatro medievale, Il Mulino, Bologna 1989, pagg. 41-43.
71
criticare chi ha avuto tanto coraggio da tentare di tracciare le grandi linee della continuità e

del cambiamento nel dramma, ma rimane il fatto che il rapporto tra i drammi che ci sono

pervenuti dai secoli XII e XIII e il più tardo del Corpus Christi è vario e discontinuo. Il

mio scopo, nel riesaminare alcuni aspetti di questi testi sparsi e documenti, è di accertare

l’elemento “popolare” di quell’antico dramma.

In questo contesto, il termine “popolare” è usato in due sensi: fatto “dal popolo” e

“per il popolo”. Teatro inventato dal popolo o teatro folclorico si pensa che sia la

tradizione orale (in contrapposizione alla tradizione scritta dei copioni dei monasteri o

delle corporazioni delle arti). Di solito il teatro folclorico viene trasposto in forma scritta

soltanto da qualche collezionista. Quest’è vero per l’antico pleugh play scozzese (c. 1500?)

sopravvissuto come canzone in tre parti in una raccolta a stampa del XVII secolo, e per i

primi testi del vero teatro dei Mummers, raccolti e trascritti da antiquari del XVIII e del

XIX secolo. La persistenza notevole di tipi fissi e di elementi formali nei drammi folclorici

(il buffone, i campioni, il dottore ciarlatano, l’uomo-donna, il diavolo comico; la

presentazione, il vanto, il combattimento, la morte, la “resurrezione” e la cerca o colletta)

dimostra l’antichità di tali drammi. Motivi strutturali dei drammi folclorici del Medioevo si

sono spesso conservati grazie all’innesto in drammi “clericali”, scritti, con un certo

distacco, “per il popolo”»102.

È possibile quindi pensare ad una tradizione di rappresentazione teatrale che è solo

accennata nelle fonti scritte di segno “opposto” (quelle specificamente clericali), che fa da

contraltare ad una tradizione narrativa orale “riportata” sempre in ambito clericale da

Orderico Vitale in poi, quasi a descrivere un parallelo, come abbiamo già avuto modo di

102
R. Axtone, Dramma religioso e tradizione popolare, in Il teatro medievale, Il Mulino, Bologna 1989,
pagg. 144–145.
72
introdurre, non solo con il mito greco (ed in particolare quello eroico), ma anche con il

teatro antico, ove il dramma diventa ritualizzazione del mito e presenta sostanziali motivi

religiosi connessi con la strutturazione della società civile, in una sorta di rituale volto a

rafforzare l’identificazione e le strutture funzionali sociali.

73
3.4 LA KRAMPUSLAUF : ULTIMA SCHIERA NOTTURNA?

Se, come abbiamo visto, è possibile rintracciare delle sopravvivenze

contemporanee connesse con le leggende medievali sulle schiere notturne, è anche lecito

chiedersi quante sopravvivenze di precedenti medievali o antichi è invece possibile

rintracciare nel folclore rituale o meglio nelle forme di rappresentazione teatrale, al di là di

quella specificatamente dislocata nella storia della maschera teatrale di Arlecchino.

Le manifestazioni carnevalesche centro europee, ma anche italiane, comportano

ancora evidenti lasciti di tradizioni talvolta dimenticate, talvolta definibili addirittura come

ataviche, che vanno dalla danza delle spade, presente dall’arco alpino fino alle Marche,

fino a forme specifiche che esulano dal periodo carnevalesco e si attestano in periodi

coincidenti con lo spettro temporale più ampio delle schiere notturne, coincidente con feste

agrarie o solstiziali o comunque legate al calendario sacro.

La Brigata de’ Matti, presente ancora oggi al Carnevale di Bormio, in Lombardia,

si presta a somiglianze coi cortei armati tipici delle schiere e di alcuni suoi epigoni:

«Dalla casa del Monarca partiva il corteo carnevalesco. Innanzi a tutti stavano i

lacchè che aprivano il corteo danzando e saltellando, rivolgendosi agli spettatori con lazzi e

burle. Seguivano i musici; dietro, la brigata dei Matti a cavallo vestiti alla moresca e armati

di lance; indi, preceduto dal Dottore e dall’Arlecchino a cavallo e da due maschere che

portavano sopra bacili d’argento la corona e lo scettro, servito dal Capitano della Gioventù,

stava il Podestà dei Matti. Questi era vestito con un sottabito bianco strettogli ai fianchi da

una sciarpa di broccato d’oro e aveva le spalle ricoperte da un ampio mantello di color

rosso purpureo. […] Quivi l’Arlecchino seguito a distanza dal Dottore, entrava nella stanza

del Podestà e dopo avergli fatto una profonda riverenza, si rivolgeva a tutti i procuratori di

comunità utilizzando un linguaggio aulico intercalato a strafalcioni. Cominciava a inveire


74
contro di loro rimproverandoli che quello non era il periodo di occuparsi di leggi, né

tantomeno il tempo di affliggere i debitori con le loro cause»103.

In questo caso sembrerebbe ripetersi il caso del Fauvel, in cui Hellequin e il corteo

dei morti sono una sub-unità (una sorta di “maschera di gruppo”): allo stesso modo

abbiamo Arlecchino e il corteo dei Matti armati, i quali sono a tutti gli effetti, presso

Bormio, una sorta di associazione giovanile che molto richiama quanto detto da Höfler e

Ginzburg.

Tuttavia il fenomeno più interessante resta quello delle Krampuslauf, o corsa dei

Krampus, rituale carnevalesco rintracciabile lungo tutto l’arco alpino orientale e che

incrocia quindi tradizioni italiane, svizzere, austriache e tedesche, lambendo anche

manifestazioni analoghe slovene e croate, dove la corsa è detta Kurentovajne, e presenta

una sostanziale differenza: si tiene infatti nel periodo di carnevale, precisamente nella

domenica di Quinquagesima (domenica prima del mercoledì delle ceneri), mentre nei casi

italiani, austriaci e tedeschi si parla per lo più di periodi dicembrini, che vanno quindi

dall’ultima domenica di novembre (il festival dei Perchten, “cugini” dei Krampus, a

Kirchseeon in Bavaria, Germania) alla festa di San Nicolò, che copre quasi tutti i maggiori

comuni alpini (Tarvisio e Vipiteno per quanto concerne l’areale italiano).

Non è certo un caso che la Krampuslauf avvenga là dove tradizionalmente si

tenevano i Nikolausspiel, rappresentazioni sacre tipiche della cultura popolare alpina

«incentrate sulla vita di San Nicolò e sulla lotta tra il bene ed il male. L’intento di questa

rappresentazione ancora oggi messa in scena in molti luoghi del Tirolo, non era solo quello

puramente didattico-religioso: forte era anche l’intenzione di porre in evidenza gli eventi

quotidiani e le credenze popolari tradizionali, tutto accentuato grazie ad un forte utilizzo

103
M. Canclini, Bormio e il Podestà dei Matti, in Carnevali e folclore delle Alpi, Youcanprint, Tricase 2012.
75
della lingua dialettale. I luoghi di queste rappresentazioni erano in origine le Stube delle

case, sostituite nel tempo dai teatri»104.

Per quanto concerne le manifestazioni italiane, «a Vipiteno la sera del 5 dicembre

alle 18 ha luogo la sfilata di San Nicolò e i Krampus. Il santo si affaccia da una finestra di

una casa situata nei pressi della Torre delle Dodici, simbolo storico della cittadina,

augurando il benvenuto ai presenti. Dopo la prima apparizione del santo, vestito con i

tradizionali paramenti vescovili (la mitra, il pastorale e il libro), inizia la vera e propria

sfilata in cui San Nicolò, accompagnato da un gruppo di servitori mori, dal suo fedele

servo Ruprecht e da un gruppo di Krampus, attraversa la città vecchia lungo la strada

principale.

Mentre il vescovo, i mori ed il servitore salutano la folla distribuendo caramelle ai

bambini, il gruppo dei Krampus, formato da una trentina di elementi, urla, strepita e si

scaglia sulla gente colpendo con delle verghe i malcapitati, per la maggior parte giovani

del paese, e sporcando di nero il volto di chi capita sotto le loro mani. […] Il corteo è

chiuso da un carro (il cosiddetto “carro di Satana”) su cui si staglia un diavolo, l’unico

dotato di ali, impegnato a forgiare con incudine e martello le verghe usate dagli altri

diavoli per colpire la gente. La vera e propria sfilata di san Nicolò inizia la sera, ma già

dalle prime ore del pomeriggio la cittadina è invasa dal gruppo dei Krampus i quali, mentre

san Nicolò è impegnato a passare di casa in casa per donare caramelle ai bambini, si

aggirano per le strade spaventando e colpendo con le loro verghe i giovani del paese» 105.

104
M. Cossetto, Krampus, in StoriaE (Dossier), suppl. n. 1-2, Bolzano 2010.
105
L. Benedotti – M. Giurardelli, San Nicolò e i Krampus: la sfilata dei diavoli a Vipiteno, in Carnevali e
folclore delle Alpi, Youcanprint, Tricase 2012, pagg. 172-173.
76
Ma cosa sono i Krampus? Nella loro versione più tradizionale sono delle maschere

dotate di corna, completate da costumi fatti di campane, pelli di capra, piume o peli, che

presentano zanne e sempre una lingua rossa penzolante o comunque bene in mostra.

Identificati con comuni demoni, mostrano palesemente una natura ferina che ricorda a

giusta ragione le divinità di derivazione faunesca. «In realtà i Krampus sono forse gli

ultimi residui delle credenze in quegli spiriti della natura frequentatori dei boschi che

hanno abitato l’immaginario popolare alpino fino a pochissimo tempo fa. I Krampus sono

esseri che appartengono alla natura più selvaggia, non si sa da dove vengano, ma la

maggior parte delle testimonianze è concorde sul fatto di collocarne la dimora da qualche

parte nel profondo dei boschi. Appartenendo alla natura, i Krampus non sanno parlare.

Quasi per sottolinearne l’aspetto selvaggio e animalesco, possono emettere solo urla e

grida, cosa che peraltro non impedisce loro di comunicare efficacemente. Per le strade o

nelle case, i Krampus minacciano di portar via i bambini cattivi mettendoli nei loro sacchi

neri»106.

Ma quali sono le possibili origini del rituale?

«Le origini della figura dei Krampus vengono tradizionalmente spiegate ricorrendo

ad una leggenda molto diffusa nell’arco alpino. Questa leggenda racconta come nei

momenti di carestia, tipici dei rigidi inverni della zona, alcuni ragazzi per procurarsi il cibo

decisero di saccheggiare i villaggi della zona, alcuni ragazzi per procurarsi il cibo decisero

di saccheggiare i villaggi vicini travestendosi con pellicce di animali e corna per non farsi

riconoscere ed annunciando il loro arrivo con il suono di campanacci. Un inverno accadde

però che tra i giovani si presentò un intruso: era il diavolo in persona che i ragazzi

106
Ibid., pag. 175.
77
riuscirono a smascherare perché al posto dei piedi aveva degli zoccoli caprini. Terrorizzati

i giovani chiesero l’aiuto di san Nicolò che intervenne»107.

Interessanti sono anche le varianti del corteo:

«Molti altri personaggi compongono il seguito di san Nicolò: in Olanda il servo

fedele viene chiamato Zwarte Pief, in centro Europa troviamo invece il Klaubauf, il Goggl,

il Malàng, la Dunacia, la Peaschtl. In generale comunque questo gruppo di

aiutanti/accompagnatori è oggi decisamente variegato: ritroviamo infatti chi salta e chi

danza, chi suona, chi mette i bambini nel sacco e li porta via, chi chiede l’elemosina; c’è il

diavolo vestito da cacciatore, la coppia di fidanzati, il pastore buono, l’angelo custode, i

suonatori di cornamusa e fisarmonica, Belzebù, i Toifl (diavoli), la morte con ali da

pipistrello, la coppia di contadini, i vizi e le virtù, il pellegrino ubriaco, Lucifero e i “suoi”

diavoli»108.

La manifestazione di Tarvisio è molto simile a quella di Vipiteno: si tiene il 5

dicembre con modalità quasi identiche, carro incluso, ma la processione comincia sulle

montagne, in piena oscurità, con i Krampus che calano portando torce con cui

accenderanno un gigantesco falò, per poi procedere tra le strade di Tarvisio centrale.

Tradizionalmente al gruppo dei Krampus potevano accedere solo i giovani maschi non

sposati109.

La Krampuslauf mostra senz’altro punti in comune con molte leggende viste nel

primo capitolo e nel primo paragrafo del presente: dalle torme di demoni della caccia

infernale alle bestie della variante friulana detta Caza Beatrich, passando per quella

107
Ibid., pag. 176.
108
Ibid., pag. 177.
109
Cfr. Gruppo Krampus Tarvisio Centrale, <www.krampus.it> e <www.gruppokrampus.altervista.org>.
78
trasmutazione medievale che vuole gli spiriti dei morti essere in realtà demoni travestiti.

Ricordano senz’altro rituali pre cristiani, non ultimo presentano somiglianze con gli Hirpi

Sorani di cui all’XI libro dell’Eneide, confraternita che secondo Servio, nel suo commento,

rapto viverent, cioè vivevano di rapina proprio come gli originari Krampus, ma anche con i

Luperci, come descritti da Plutarco e altri nei Lupercalia, che vestivano pelli di capra e

l’usanza di fustigare la cittadinanza.

In ultima istanza, essa è da inserire in quelle rappresentazioni carnevalesche (nel

senso di tipologia, non necessariamente legata al periodo del Carnevale) le cui origini

possono certamente risalire ai drammi medievali cui abbiamo accennato al paragrafo

precedente (e forse anche a tempi più antichi), specialmente tenendo conto delle figure

demoniache in esso presenti e, perché no, degli stessi Malebranche danteschi.

79
CONCLUSIONI
Che cos’è una schiera notturna era la domanda posta in introduzione. In una ricerca

che non può essere esaustiva, la risposta non può essere definitiva e ben limitata, in

particolar modo visto che la materia di cui tratta questo studio comincia con la storia

medievale (se non addirittura antica, come già capito dal Meisen) e termina (si fa per dire)

con il folclore moderno e contemporaneo.

Lecouteux tenta di tracciare alcune conclusioni ed ipotesi, tra le quali una sorta di

timeline di quello che potremmo definire – a grandi linee – un archetipo mitologico:

«1. Secondo una credenza ancestrale, i morti vagavano per la terra in specifiche

date e giocavano un ruolo importante per la felicità dei vivi, poiché governavano la fertilità

e la prosperità.

2. Per onorarli e propiziarli, o per proteggerci da essi, abbiamo formato società

(confraternite e similari) che li mimano o imitano attraverso maschere e travestimenti.

Quest’azione derivava dal culto degli antenati ed aveva un’importante funzione sociale.

3. Entità distinte – originariamente due truppe, una dei morti ed una dei vivi

travestiti – si sono poi confuse, e la popolazione ha cominciato a confonderle senza più

distinguerle.

4. La società dei vivi era quindi cultuale originariamente, e i suoi membri, almeno

per quanto possiamo dedurre dalle tradizioni esaminate, erano una specie di eletti che

possedevano il dono di avere dei Doppi, cosa che permetteva ad essi, tra le altre cose, ti

predire la morte e muoversi molto velocemente.

80
5. Questa compagnia, più o meno cristianizzata nella sua evoluzione storica, ha

perso i suoi collegamenti con la terza funzione di Dumézil ed è divenuta prettamente

funeraria»110.

Non credo sia possibile concordare con tutte le conclusioni di Leucoteux. Come

abbiamo visto in precedenza, è sicuramente palese il collegamento tra la leggenda e le

manifestazioni mascherate e carnevalesche, come è dimostrato tanto dallo stesso studioso

francese quanto da Ginzburg e come abbiamo visto anche nel caso fiorentino, fino ad

arrivare alla Krampuslauf. È anche possibile ipotizzare che le radici di queste schiere

notturne, di cui la caccia selvaggia è un tipo, siano da ricercare in un’antichità antecedente

la cristianizzazione e forse anche in una protostoria indoeuropea. Tuttavia non è certo il

collegamento con la prosperità intesa come terza funzione indoeuropea.

Le trame sono sicuramente varie e potenzialmente inestricabili, quindi è necessario

tentare di individuare dei minimi comun denominatori che definiscano un ipotetico nucleo

centrale e non variabile delle schiere nella loro forma leggendaria: parliamo certamente di

cortei, intesi come insieme di individui che in gruppo si muovono lungo un percorso. Sono

originariamente cortei definibili come violenti, nel senso di identificazione o con degli

armati o con dei cacciatori. Sono ovviamente cortei esclusivamente notturni e

oltremondani, sono composti da esseri non più umani (che siano morti, demoni o spiriti

della natura), sono visibili solo di notte e non è possibile prendervi parte - sono infatti

sempre raccontati da testimoni esterni (diversamente dai sabba, ad esempio); sono infine

“capitanati” da una figura prominente che ha tratti regali e/o demoniaci.

110
C.Lecouteux, op. cit., pag. 231, trad. nostra.
81
Questi cortei hanno ipoteticamente subito delle evoluzioni, dovute al mutare del

contesto sia religioso che sociale: da cortei armati a cortei di anime penitenti non meglio

specificate, da cacciatori con intere mute di cani da caccia, a ravenants o démoni.

Alle schiere leggendarie fanno di certo da contraltare le schiere carnevalesche, o

meglio le schiere riprodotte attraverso maschere e travestimenti. La motivazione di queste

ultime ed il loro rapporto con le precedenti, tuttavia, non credo debbano essere cercate in

una funzione apotropaica o di reiterazione della fertilità, né tanto meno nella presunta

confusione tra due temi abbozzata da Lecoteux. Al contrario, credo che le due

manifestazioni siano intrinsecamente legate sin dalle origini, in una struttura funzionale del

tutto simile a quella che può essere definita la lettura storico-religiosa del teatro greco (e

non solo greco): la reiterazione di un mito al fine di rifondare ciclicamente delle istituzioni

umane e sociali comunitarie111.

Quali siano queste istituzioni è ancora da vedere, ma è forse possibile ipotizzare a

grandi linee che queste si legassero al comune sentire della società, fosse questa quella

germanica pre-cristiana, fortemente orientata verso un aldilà legato alla guerra (il

Valhalla), quella alto medievale in cui sorgeva, come abbiamo visto anche attraverso

Bernardo, il bisogno di arginare gli eccessi di una nobiltà guerriera fin troppo attiva e

superba, o quella dell’Europa moderna in cui, dopo il Concilio di Trento, vi era la volontà

di imbrigliare gli eccessi popolari, come abbiamo visto nel paragrafo sulle leggende

italiane. In tal senso, tanto attraverso la leggenda quanto le manifestazioni carnevalesche, il

senso dell’archetipo mitologico delle schiere notturne sembra quello di reiterare

111
In merito, cfr. A. Brelich, Gli eroi greci, Adelphi, Milano 2010, A. Brelich, Aspetti religiosi del teatro
greco, in Congresso internazionale di studi sul dramma antico, Siracusa 1965, N. Spineto, Dyonisos sulla
scena: la struttura festiva del teatro classico, L’Erma di Bretschneider, Roma 2005.
82
ciclicamente le regole della comunità, i valori verso i quali questa è orientata, nonché il

rafforzare costantemente il legame tra il singolo e la comunità stessa.

83
TAVOLE

Caza Beatrich, opera in legno di Jarka Prasek, esposta nel 2007 a Siror (Trento) per il
concorso Leggende in bassorilievo.

84
Arlecchino, dalla Raccolta Fossard, 1580 ca.

85
La Krampuslauf presso Tarvisio, immagini tratte da www.krampus.it

86
87
88
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