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Candidato
Alessandro Vivaldi
Matricola 1180807
Relatore Correlatore
Sergio Botta Lidia Capo
CONCLUSIONI ................................................................................................................... 80
TAVOLE............................................................................................................................ 84
BIBLIOGRAFIA .................................................................................................................. 91
1
INTRODUZIONE
Che cos’è una Schiera Notturna? Nel 1820 lo statunitense Washington Irving
pubblicò il suo racconto La leggenda della valle addormentata, più famoso con il titolo
cavaliere senza testa che resuscita per cacciare agli ordini di una megera, e che era
soggiorno in Inghilterra, a Birmingham, una tematica cara al folklore europeo, quella del
cacciatore furioso che torna dagl’inferi, imparentato con quelle schiere notturne che qui
anche Imperatori che tornano a capo delle proprie armate. Temi che hanno molto in
comune e che dagli albori dell’Europa vengono raccontati, dalla Galizia all’Ucraina, dalla
Scandinavia alla Sicilia. Si potrebbe dire che rintracciarne un’unica o primeva origine è
impossibile. Questo toglie significato allo studio di una sorta di morfologia di un mito
“europeo”?
“Horizon 2020: Reflective society, cultural heritage and European Identity”, che metteva a
disposizione 17.8 milioni di Euro per la ricerca umanistica 1. Non è un caso che la
“identità europea”, tenendo conto che esso è seguito dalle medesime istituzioni e
dibattutissimo dall’opinione pubblica di tutti i paesi membri 2. Dibattito che non di meno
1
Cfr: <https://ec.europa.eu/programmes/horizon2020/en/h2020-section/europe-changing-world-inclusive-
innovative-and-reflective-societies>, bando codificato H2020-REFLECTIVE-SOCIETY-2015.
2
Alcuni esempi: S.D. Meyer, Identità europea, ma che cos’è?,
<http://www.cafebabel.it/politica/articolo/identita-europea-ma-che-cose.html>; P. Di Stefano, Scoprire nei
2
rientra in vasti ambiti accademici, che includono, tra i tanti, la produzione di Franco
Cardini sul tema delle radici cristiane europee e le giornate di approfondimento tenute
presso la Facoltà di Filosofia della Sapienza sul tema “Le radici ebraiche dell’Europa” nel
2010; a questi si aggiungono gli infiniti dibattiti multidisciplinari sul concetto stesso di
quando si arriva alle tendenze denominate glocal, ovvero quella presa di coscienza di una
reazione delle piccole comunità si è spinta alla riscoperta delle proprie radici, anche e
Queste reazioni glocal sono ulteriormente definite da Alma Bianchetti, che commenta le
tesi di Samuel Huntington nel suo Scontro di Civiltà5: «aveva dato conto nel suo discusso
dagli Stati Uniti da parte di ciò che definiva the rest, al cui interno evidenziava tra l’altro,
delle culture. Rilevava cioè il ritorno alle tradizioni locali da parte delle nuove elites al
potere, per il quasi generale fallimento dei modelli esogeni importati dalle potenze
Europa, il nuovo successo dei micro nazionalismi delle piccole patrie. […] Se la
osservare che essa stessa offre al suo interno qualche anticorpo a contrastare i processi
esplica la natura duale: il globale esiste solo in funzione del locale, la sua nascita, la sua
sua dipendenza dai luoghi e dalle loro risorse. In breve, il globale incorpora in sé anche i
saputo divenire potenze mondiali di prima grandezza, riprendendo in mano il timone della
loro economia e assumendo nuovi e rilevanti ruoli nel quadro geopolitico internazionale
(paesi BRIC e CIVETS)»6. È in questo dibattito, che era imprescindibile introdurre, che
caratteristiche di una morfologia culturale europea o meglio della morfologia di una cultura
europea (e necessariamente la sua storia come unicum), che, se da una parte è composta da
unità a sé stanti (i temi delle culture nazionali), dall’altra mostra una condivisione di temi
riscontrabili anche e soprattutto a livello locale, tra i quali, sul piano dell’Antropologia e
della Storia delle religioni, è possibile rintracciare miti, leggende e festività condivisi,
6
A. Bianchetti, Conoscersi, riconoscersi, rappresentarsi, in Identità territoriali, a cura di T. Banini, Franco
Angeli, Milano 2013. Cfr. anche A. Vivaldi, Cultural Intelligence, Geopolitica e Scienze Umane, in Il Mondo
dell’Intelligence, Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica, 2014,
https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/approfondimenti/cultural-intelligence.html
4
Da questo milieu di riflessioni nasce l’idea di indagare il rapporto tra un mito o
leggenda definibile – come vedremo – paneuropeo, quali le Schiere notturne nelle loro
molteplici declinazioni, e gli eventuali rapporti con festività e temi folklorici ancora
convoglia tematiche che muovono da una triplice matrice accademica, quale quella storica
(ed in particolare storica medievale), quella antropologica e non meno importante quella
l’esito.
È necessario partire da un pilastro degli studi folklorici del secolo scorso, uno
studioso formatosi a Berlino, che ha dedicato al tema qui trattato forse la più completa
antologia di fonti ad oggi nota, Karl Meisen, di cui utilizzeremo la recente edizione italiana
curata da Sonia Maura Barillari7. A tale antologia si può aggiungere oggi poco, per quanto
concerne le fonti, se non qualche dettaglio rintracciabile negli importanti contributi alla
ricerca sul tema dati da noti medievisti quali Claude Lecouteux, Jean Claude Schmitt e
fondamentale l’apporto degli studi di Carlo Ginzburg, sul cui metodo e sul concetto di
basa l’idea del presente elaborato. Per l’apparato concettuale storico religioso, va
dichiarato il debito verso gli studi di Angelo Brelich: se infatti i concetti sviluppati da
quest’ultimo valgono per lo più per l’ambito degli studi storico – religiosi di tipo classico,
7
K. Meisen, La leggenda del cacciatore furioso e della caccia selvaggia, Edizioni dell’Orso, Alessandria
2001, a cura di S.M. Barillari. Originale Die Sagen vom Wütenden Heer und Wilden Jäger, Müster i. W.,
Aschendorffsche Verlagsbuchhandlung, 1935.
5
tuttavia credo sia importante sottolineare come alcuni concetti sviluppati da questi siano a
grandi linee pertinenti anche per lo studio del materiale medievale e moderno che qui ci
interessa. Certo, si può, e si deve, dire quanto differisca il mito greco su cui si focalizza il
quantificare quante di quelle leggende vadano poi a comporre, in vari modi, una sorta di
mitologia medievale (ed europea) non necessariamente integrata nello schema dottrinale
del cristianesimo cattolico, e che non può di certo essere ridotta ad un rango inferiore
elaborato più e più volte da Brelich, è indubbiamente applicabile al nostro contesto: «Nelle
eminente. Studiata attentamente nelle sue peculiarità formali, nel suo funzionamento
piano delle altre forme fondamentali della religione, se non addirittura come fonte ultima
di queste altre forme»8. Certo, a differenza del mito come descritto da Brelich, le leggende
che qui trattiamo non sono apparentemente “fondanti” la realtà (con alcune eccezioni
esclusivamente esseri extraumani. Ciò non di meno, quando mostrano gli isomorfismi di
cui abbiamo già parlato, quando cioè tendono ad intersecarsi o sovrapporsi con riti
folclorici, esse de facto fondano l’identità di una comunità e i suoi valori, allo stesso modo
in cui lo fanno certi temi agiografici relativi ai Santi patroni, che fondano l’identità
urbana/cittadina ed ereditano molto della natura del patronato romano. Ancora più
medievali, relativa alla narrazione: «Dal punto di vista formale, la narrazione del mito ha,
8
A. Brelich, Gli eroi greci, Adelphi, Milano 2010, pag. 33.
6
anzitutto, due caratteri opposti e complementari. È essenziale che essa si adegui alla
tradizione; i miti non s’inventano, non s’improvvisano; essi fanno parte di un patrimonio
miti traggono, anzi, la propria giustificazione dal fatto di esser tramandati di generazione in
generazione. D’altra parte, però, ogni volta che un mito viene raccontato, esso è diverso e
nuovo: e ciò non tanto per un involontario processo di alterazione che la trasmissione
arginato dai metodi e tecniche della trasmissione dei miti presso i primitivi), quanto per
ragioni inerenti alla natura stessa della narrazione mitica. Il mito come tale non ha, infatti,
un’esistenza propria, indipendente dalla sua narrazione; esso è mito solo in quanto è
narrato, si attua cioè mediante le parole del narratore. Ri-narrare il mito tradizionale –
mentre con l’andar del tempo cambiano le occasioni, gli ascoltatori, cambia il narratore
stesso – significa ri-crearlo di volta in volta, realizzarlo sempre con nuovi mezzi, ciò che
già esclude una ripetizione meccanica, richiedendo un contributo creativo da parte del
narratore. In secondo luogo ogni mito è complesso e consiste nell’organizzazione, ora più
stabile ora più labile, di più temi, di più riferimenti; è una sequenza o un gruppo di
sequenze di temi particolari di una mitologia. Non è quindi affatto necessario che ogni
volta esso riunisca esattamente nello stesso ordine esattamente gli stessi elementi o che dia
natura, inscindibile tanto dalla tradizione quanto dalla narrazione dalla forma variabile,
rende l’interpretazione delle fonti medievali circa il materiale leggendario e folklorico così
come è per il mito greco che interessa Brelich sostanzialmente avulsa da schemi rigidi:
come a dire che il cambiare forma e particolari non altera l’essenza stessa del
9
Ivi, pag. 34-35.
7
l’analisi di manifestazioni simili ancora oggi vive dimostra come, ancorché si sia spesso
regione, ricordando per altro una funzione della religione che è stata ampiamente
capitolo e il secondo sono dedicati all’ambito più specificatamente storico e alle fonti
scritte, mutuate soprattutto dall’antologia del Meisen, con un’analisi morfologica dei temi
e una contestualizzazione storica delle fonti, preceduta da una sintetica rivista degli studi
sul tema realizzati fino ad oggi. La seconda parte è quella più specificatamente
Caccia Selvaggia, il significato della sua diffusione e della sua lunga persistenza.
8
1. FONTI E STORIA DEGLI STUDI
Uno studio sulle schiere notturne nelle loro molteplici articolazioni non può
prescindere dall’antologia del Meisen10. Se da una parte Lecouteux ne rileva una presunta
l’antichità, la tardo antichità, il medioevo e la prima età moderna, per altro in maniera
medievale12. La “confusione” nel Meisen delineata dal Lecouteux non può non essere
Tra le fonti antiche e tardo antiche citate dal Meisen, sotto il titolo Gli eserciti
spettrali, si trova Erodoto con il libro VIII delle Storie, nella fattispecie l’episodio in cui i
Focesi, dipinti di bianco con del gesso, attaccarono di notte i Tessali: tale passo è integrato
10
K. Meisen, op. cit..
11
«Molte delle fonti medievali collezionate dal Meisen nella sua utile antologia sono piuttosto dubbie: alcune
confondono la Caccia Selvaggia con cacciatori di ogni tipo, mentre altre, di difficile identificazione, offrono
poche informazioni utili», in C. Lecoteux, Phantom Armies of the Night, Inner Traditions International,
Rochester 2011, pag. 206, traduzione nostra.
12
Trattando delle superstizioni medievali, Schmitt traccia una continuità di 15 secoli, pur ammettendo la
dinamicità della nozione stessa di superstitio. Cfr. J.C. Schmitt, Medioevo superstizioso, Laterza, Bari 2004.
9
«convenuto fra di loro di risparmiare chi si presentava così imbiancato (tra i Focesi, già
dipinti di bianco – NdA), in una notte di luna piena scesero in campo ad assalire i nemici.
Questi, spaventati come di fronte a un fantasma strano e diverso […] vennero sconfitti».
Segue il Libro II (148) della Storia Naturale di Plinio il Vecchio, con l’episodio della
battaglia in cielo tra due eserciti, durante il terzo consolato di Mario (103 a.C.); Pausania è
presente con il Libro I del Viaggio in Grecia, ove riporta come presso Maratona, di notte,
si senta ancora il nitrire dei cavalli e il combattere dei soldati; sempre di anime di soldati
Alessandrino, sia per quanto riguarda una battaglia alle porte di Roma, sia per quanto
concerne fenomeni simili presso Kurba, località della Caria, e in Sicilia; con Paolo
Diacono (Storia dei Longobardi, II, 4) che tratta del fragore di un esercito invisibile in
Liguria, il Meisen chiude la sezione riguardo gli eserciti spettrali nelle fonti antiche.
La successiva sezione copre i cortei delle divinità ctonie ed è introdotto con un brano
di Ippocrate (De morbo sacro), che trattando la sintomatologia degli incubi introduce la
definizione di assalto degli eroi, intesi come i trapassati che accompagnano Ecate; segue il
sec. a.C. che menziona la schiera infera di Ecate, di cui tratta anche lo Scoliasta ad
Apollonio Rodio in Argonautica, III, 861; segue Tacito (De origine et situ germanorum,
43, 6) che tratta dell’uso degli Arii di dipingersi i corpi e di scegliere per le battaglie le
notti più scure, assomigliando così ad un esercito spettrale 13. I passi successivi
(Tertulliano, De anima, 56; Eusebio di Cesarea, Praeparatio evangelica, IV, 22,15; Inni
credenza sia antica che tardo imperiale nel ritorno delle anime, anche e soprattutto sotto
13
Non è chiaro – ed è quanto meno peculiare – perché Meisen abbia messo qui questo brano piuttosto che
ricollegarlo a Erodoto e Polieno.
10
forma di corteo guidato da Ecate, contesto che permarrà nel medioevo in maniera tangente
l’exercitus mortuorum.
che possiamo considerare se non la prima (per un mero dubbio circa l’esaustività dei testi
brano dalla Historia Ecclesiastica (VIII, 17) di Orderico Vitale 14, che descrive con minuzia
di particolari quanto accade al prete Walchelin, che incontra lungo la sua strada una
tenebrosa processione. Questa viene aperta da un gigante armato di clava, cui seguono
fanti con bestie da soma e bagagli, poi beccamorti che portano bare da cui fuoriescono
nani, delle dame a cavallo tormentate da selle chiodate, sacerdoti, monaci, abati ed infine
un drappello di cavalieri neri tra i quali Walchelin riconosce alcuni morti recenti.
Fondamentale è notare tra questi il fratello del prete, che dichiara essere quel vagare
tormentato (da armi infuocate) il suo modo di scontare i peccati. Il brano successivo è di
Guglielmo di Malmesbury15 (De gestis regum Anglorum libri quinque, 205), che
nell’ambito di una più ampia vicenda negromantica descrive un corteo piuttosto simile al
precedente, con la sola variante del gigante con la clava, qui posto a chiusura del corteo,
Ekkehard Von Aura16, che riporta all’anno 1123 l’apparizione presso Worms dell’esercito
abitante protagonista dell’episodio riconosce Emicho, nobile ucciso pochi anni prima
14
Monaco del monastero di S.Evroult a Ouche, in Francia. Nato nel 1075 a Attingesham in Inghilterra, visse
nel monastero citato dall’età di dieci anni fino alla sua morte, nel 1150. Questa e le note successive relative
agli autori dei brani sono mutuate da K. Meisen, op. cit.., al quale rimando anche per le edizioni consultate.
15
Benedettino e storico. Nato nel 1096 forse nel Somersetshire, entrò giovane nel monastero di Malmesbury
dove morì nel 1143.
16
Primo abate del monastero benedettino di Aura sulla Saale di Franconia, fondato nel 1108. Autore di una
Cronaca Universale, morì dopo il 1125.
11
(1117, ivi). Nel Chronicon Saxonicum, all’anno 1127, si parla invece dell’attività venatoria
di cacciatori su destrieri e capre neri, guidati da cani anch’essi neri, che generavano con dei
Sletstatensis, testo anonimo che copre gli avvenimenti inerenti il monastero tra il 1108 e il
1138, si evince invece che il cavaliere Walter, facendo penitenza notturna presso il
medesimo luogo, vide una processione di pellegrini, tra i quali si fece avanti il suo
compagno d’arme precedentemente morto, Corrado, che gli mostrò i tormenti che quelle
anime affrontavano per i propri peccati. Il brano successivo è tratto dal De Nugis
Curialium (I, 11; IV, 13) di Walter Map e costituisce la prima connessione, nell’antologia
del Meisen, del motivo dell’esercito furioso o caccia selvaggia col tema della regalità e
l’identificazione del leader dell’esercito con un re, tema che come vedremo tornerà
ciclicamente, non ultimo col cosiddetto Teoderico cacciatore presente nella Basilica di San
Zeno a Verona, attestazione di una variante del cacciatore furioso con protagonista il re
goto. Nell’excursus di Map si parla del Re Herla il Bretone e delle sue nozze con la figlia
del re dei Franchi, che sono precedute da un patto che Herla sigla con un re misterioso, e
che porta sul bretone una maledizione rappresentata da un piccolo bulldog donatogli dallo
sconosciuto re. La maledizione vuole che la corte di Herla vaghi per l’Inghilterra finché il
cane non scenderà dal cavallo del re. Map sembra anche identificare questa corte vagante
Enrico II. Interessante è la trattazione di Elinando de Froidmont 17, nel suo De cognitione
sui (X – XIII), che rispetto alle fonti precedenti non solo tratta delle leggende, per così dire
17
Cistercense nato attorno al 1150 a Pron le Roi presso Beauvais, entrò nell’ordine cistercense a Froidmont
dove morì tra il 1221 e il 1229.
12
“raccolte sul campo” quasi con metodo etnologico, ma per la prima volta le contestualizza
all’interno della cultura classica citando Platone, Aristotele, Macrobio e Virgilio: «Nel
medesimo conto si deve tenere l’opinione di Virgilio a proposito degli eroi che confinò
negli inferi, dei quali dice che conoscono un loro sole e loro stelle; e con queste parole
attesta come essi dopo la morte continuino a fare quelle cose, anche le più insignificanti,
che avevano fatto in vita [...]. E tale fallacia di opinione, o opinione di fallacia, se non erro,
ebbe inizio da qui, dal fatto che le anime dei defunti che scontano le pene dei propri peccati
sono solite apparire a molti con quelle vesti che avevano portato in vita: cioè i contadini in
abiti contadineschi e i cavalieri in abiti militari, come la gente comune è solita affermare a
proposito della masnada di Hellequinus». La già citata intersezione con l’ambito regale
appare anche negli Otia Imperialia (II, 12; III, 58) di Gervasio di Tilbury18, che parla di
apparizioni della caccia selvaggia legate alla figura di Artù sia in Sicilia che in Bretagna e
taglio quasi antropologico, di Guglielmo d’Alvernia 19, che nel suo De universo (III, 12 –
25) narra della natura di quello che chiama esercito di Hellequin (per quanto concerne il
volgare francese o esercito antico per lo spagnolo). L’importanza è data dalle ipotesi
dell’autore, che contestualizza anche qui attraverso dei precedenti pagani: «Tuttavia, se il
volgo idolatra credesse a tale protezione e difesa (dall’esercito, NdA), oppure ne sentisse
parlare, la attribuirebbe alla divinità dei campi. E se qualcuno di loro, spinto da un simile
timore, fuggisse nei campi non si penserebbe semplicemente che cerca scampo nei campi,
ma piuttosto che corre a mettersi sotto la protezione e la difesa dei suddetti numi. Ritengo
18
Nato a Tilbury, in Inghilterra, attorno al 1155, compì i suoi studi a Reims e a Bologna. Dopo la morte del
re Giovane soggiornò dapprima presso la corte normanna in Sicilia, quindi ad Arles, dove ricoprì la carica di
maresciallo imperiale. Per Ottone IV di Brunswick compose, tra il 1209 e il 1214, gli Otia Imperialia.
19
Nato ad Aurillac in Alvernia, studiò a Parigi dove fu poi docente di filosofia e telogia all’Università; fu
nominato vescovo di Parigi da Papa Gregorio IX nel 1228. Redasse il De universo tra il 1231 e il 1236. Morì
nel 1249.
13
anche che crederebbero che la dea Cerere, patrona dei campi, abbia protetto quest’uomo, e
che quell’esercito non possa arrecare danno a nessuno all’interno dei domini e del regno di
Cerere. Inoltre, riguardo al fatto che appaiono in sembianze di uomini, intendo di uomini
morti, e soprattutto morti di morte violenta, ad alcuni ciò potrebbe forse sembrare
conforme al parere di Platone secondo cui le anime di simili morti erano viste vagare per il
numero di giorni o per il lasso di tempo loro destinato, lasso di tempo, intendo, durante il
quale sarebbero vissuti nei corpi se la violenza di tale morte non li avesse strappati da
essi». Come vedremo, le note di Guglielmo costituiscono un buon supporto alla teoria già
adombrata da Schmitt circa la continuità temporale del mitologema che qui trattiamo tra
tardo antico, medioevo ed età moderna: pur bollando come eretiche e pagane tali credenze
tornei dei morti nel suo Dialogus miraculorum (XII, 16 – 20), specificando tuttavia che in
un caso, quello inerente il torneo di Montenake (Belgio), si trattava di demoni piuttosto che
spiriti, mentre nel successivo, definito di Walter di Millen (nome acclamato dagli spiriti
partecipanti al torneo) si trattava per lo più di veri e propri ravenant, ovvero spiriti dei mori
(ritornanti). L’ultimo caso, registrato presso Magonza, riguarda un cavaliere che incontra
una donna morta in precedenza e che tenta di proteggerla da un cacciatore furioso, definito
in questo caso demone, che alla fine però la strappa al suo protettore e la porta con sé. Con
riferimenti ad una possibile identità tra Allequinus ed Artù, quest’ultimo avvistato con la
20
Monaco cistercense, fu autore di scritti edificanti assai ricchi di racconti esemplari. Nato attorno al 1180 a
Colonia, si fece monaco nel 1199, poi fu maestro dei novizi nel monastero di Heisterbach ppresso Bonn.
Morì attorno al 1240.
21
Domenicano, predicatore e inquisitore, era originario di Belleville-sur-Saone e compì i suoi studi a Parigi;
svolse la sua attività prevalentemente nella Francia orientale e meridionale. Morì a Lione nel 1261. Il
Tractatus fu composto tra il 1250 e il 1260.
14
corte vicino al Mont du Chat 22. Stefano segnala tuttavia che gli spiriti componenti le
masnade che descrive sono in realtà demoni travestiti. Segue il capitolo CXXXVI del
Codex Runensis23, che raccoglie la testimonianza di un monaco cui viene riferita, da parte
di una donna, la visione della masnada di Herlequino; in questo caso si parla di una
penitenza di quest’ultimo.
Di altro tenore cominciano ad essere i testi della seconda metà del XIII secolo. Il
definitivamente Hellequin con il demonio, fino a farlo maritare in quest’ultimo testo con la
strega Luque, mentre nel poco più tardo (fine del medesimo secolo) Das Väterbuch Paolo
l’Eremita, uno dei personaggi utilizzati come exemplum per la comunità, incontra l’esercito
(Nachtsegen) del XIV secolo, proveniente dalla Germania centrale, risulta ulteriormente
interessante sia per la forma in versi di benedizione notturna, che si presenta come poesia
dell’esercito furioso con l’esercito di Odino e l’inserimento di elfi ed altre creature tipiche
22
Non è dato sapere di quale specifica località si tratti, essendoci molteplici toponimi simili. Tuttavia la
località più famosa è nei pressi del Lago Bourget in Savoia.
23
Dell’Abbazia cistercense di Reun presso Gratwein in Stiria, metà XIII secolo.
24
Testo sui miracoli attribuiti a Sant’Eligio, seconda metà del XIII secolo, proveniente dalla Piccardia.
25
Pubblicato sulla base di un manoscritto della seconda metà del XIII secolo da Gaston Raynaud in Romania
XII (1883): 224-26.
15
Fonte italiana è invece Giovanni Villani26 con le sue Istorie fiorentine fino all’anno
1348, dove si narra del Marchese Ugo di Brandeburgo, vicario dell’Imperatore Ottone III
che, smarritosi durante una caccia, incontrò una processione di anime dannate torturate da
uomini neri e deformi; quando Ugo chiese chi fossero, risposero che quelle torture
l’avrebbero atteso se non avesse deviato dal suo personale cammino di perdizione.
Del XIV secolo è anche il poema anonimo Roman de Richart filz de Robert le
Diable, qui fut Duc de Normendie, in cui il protagonista Richard incontra la masnada di
spiegata con la già citata identità – diciamo “politica” – con il re francese Carlo V. Per il
XV secolo si hanno innanzitutto due episodi dal Myrmecia Bonorum sive Formicarius (V,
1) di Johannes Nider(ius) 27: nel primo, due cavalieri vanno incontro ad un’adunanza
notturna di cavalieri in Boemia, ed uno, fattosi più vicino, ne esce decapitato; nel secondo,
un nobile si imbatte nell’esercito notturno e riconosciuto un suo servo, cavalca con questi,
in una sola notte, in Terra Santa e ritorno. Si arriva poi in Spagna, con il Fortatitium fidei
contra iudeos, saracenos aliosque christianae fidei inimicos (V, 10) del 1496, in cui al
26
Cronista, nato a Firenze alla fine del XIII secolo, viaggiò a lungo in Francia e Fiandra fra 1302 e 1308.
Partecipò attivamente alla vita politica della sua città ricoprendo, fra le altre, le cariche di uffiziale della
moneta, camarlingo del Comune ai lavori della nuova cinta muraria, ufficiale preposto al sostentamento del
popolo e priore. Morì di peste nell’estete del 1348.
27
Domenicano, scrittore, riformatore e diplomatico, nato attorno al 1380 a Isny in Svevia, entrò giovane
nell’ordine domenicano a Colmar; viaggiò a lungo in tutta la Germania, fu professore a Vienna, poi priore a
Norimberga. Morì a Colmar nel 1438.
16
capitolo intitolato in che modo i demoni sono visti ingaggiare battaglie torna la già citata
espressione ispanica di esercito antico riferita a torme di guerrieri, visti passare per le
Del 1474 è il poemetto Von dem edeln hern von Bruneczwigk, als er über mer fure di
perso tutto il suo seguito, incontra il wöden here o esercito furioso, col cui capo – descritto
come un gigante – stipula un patto, al fine di essere riportato salvo al suo castello. Giunto
qui, con l’aiuto di Dio evita di tener fede al patto che lo avrebbe reso schiavo e parte
ancora una volta – con la corte armata di Carlo V, che gli illustra come, per penitenza, sia
tenuto con il suo seguito a scontare i propri peccati combattendo contro i saraceni ed altri
Heinrich Bebelius30, che pur non menzionando come i precedenti una visione o un incontro
per così dire “diretto”, è estremamente valido per la ricerca in quanto per primo cita il
28
Poeta della Germania centrale, forse renano meridionale, giullare del XV secolo di cui è tramandata in un
manoscritto del 1474 la poesia.
29
Abate benedettino, poligrafo, nato nel 1462 a Trittenheim, dopo gli anni di studio trascorsi a Heidelberg
entrò nel 1482 nel monastero di Sponheim dove ricoprìla carica di abate fino al 1505; da questa data fino alla
morte nel 1516 fu abate del monatero di S.Giacomo presso Würzburg.
30
Umanista e giurista, nato nel 1472 a Justingen in Svevia.
17
«Per cui non molto tempo fa quando un prete, succube in tutto e per tutto della sua
di portarli sulla neve in carrozza per divertirsi (come si usa dalle nostre parti d’inverno e
nei giorni folli del carnevale), e venne accontentato, saltò su una donna e disse: “un tempo
erano i demoni a portare nell’aria le puttane dei preti, oggi lo fanno i prefetti e i potenti di
Il XVI secolo inizia con le prediche del 1508 di Johann Geiler detto von
Kaisersberg31, stampate nel 1516 a Strasburgo (Die emeis von Unholden, Hexen,
Gespenstern, etc.). Tra queste la XVIII tratta dell’esercito furioso, che viene innanzitutto
giorni preparatori al Natale. Sempre del 1516 è quanto annotato da Jakob Trausch 32
(Straßburger Cronik, II, 2), ovvero che nell’anno stesso dell’annotazione l’esercito furioso
fu avvistato in Alsazia, Brisgovia, Francia e Italia. Avvistamento che si ripete ogni anno
A cura di Hans Sachs34 (Das wütend heer der Kleynen dieb) è invece l’episodio registrato
in Vestfalia, dove però l’esercito furioso è composto letteralmente da poveretti che cercano
Giustizia senza trovarla, in un evidente espediente volto alla critica della società tipico
31
Predicatore, insegnò alle università di Basilea e Friburgo; dal 1478 fu predicatore del duomo di Strasburgo,
città dove morì nel 1510.
32
Cronista e avvocato del Consiglio cittadino di Strasburgo, morto nel 1610.
33
Teologo protestante, fu insegnante e pastore a Eislebem, nel 1536 professore a Wittenberg e dal 1538
predicatore di corte e Sovrintendente Generale a Berlino, dove morì nel 1566.
34
Maestro cantore di Norimberga dal 1516, Morì nel 1576. Considerato il più importante meistersinger e
simbolo del ceto popolare e borghese delle città imperiali tedesche del suo secolo.
18
Queste, come detto, le principali fonti dell’antologia, che tuttavia è tanto ampia da
permettere di delineare a livello spaziale la sussistenza dei medesimi temi dalla Sicilia alla
Scandinavia e dalla Spagna alla Germania (se non oltre, verso est, in Russia).
Temporalmente, Meisen arriva a coprire gli inizi del secolo XX, con due testimonianze
provenienti da Francia e Inghilterra, rispettivamente del 1905 e del 1908, che si iscrivono
oramai nella letteratura di stampo antropologico e nell’ambito dello studio delle tradizioni
popolari.
19
1.2 ALTRE FONTI
La versione italiana dell’antologia del Meisen, che qui uso, è integrata dalla curatrice
con ulteriori fonti per un maggiore supporto filologico e a dimostrazione della persistenza
temporale e diffusione geografica del mitologema. La prima è del secolo XI, un passo
Rodolfo il Glabro 35 (Historia, V, 6) che parla di un esercito in armi che nel cielo si muove
verso occidente. Segue Othlone di Sant’Emmeram36 (Liber visionum, VII), che tratta
XII secolo, è piuttosto interessante per la citazione diretta dell’esercito di Hellequin. Molto
Cappellano 37, De Amore, I, che ritrae una processione molto lunga, estremamente
articolata alla cui testa il protagonista, scudiero del nobile Robero, interloquisce con una
dama, che asserisce la processione di cui fa parte essere l’esercito dei morti. Ulteriormente
anni più tardi circa (1289) nel Renart le Nouvel di Jacquemart Gielée. Nel Les Merveilles
de Rigomer di Jehan (metà del XIII secolo) è Lancillotto, nella foresta, a incontrare la
Caccia Selvaggia. Nel La pergola ovvero il gioco della follia di Adam de la Halle, infine, il
35
Nato attorno al 945 presumibilmente in Borgogna, muore presso Cluny nel 1047.
36
Nato attorno al 1010nella diocesi di Frisinga, di famiglia nobile, entra nella scuola del monastero di
Tergensee. Prende i voti nell’abbazia di Sant’Emmeram, a Ratisbona, dove muore nel 1070.
37
Nato attorno alla metà del XII secolo, visse prima alla corte di Maria di Champagne, poi a quella parigina
di Filippo Augusto dove presumibilmente ricoprì il ruolo di cappellano e/o ciambellano.
38
Nell’antologia del Meisen citata ed integrata dalla Barillari, il testo della Pergola è presentato nella
traduzione di R. Brusegan, Marsilio, Venezia 1986, p.90. Da notare è che la Brusegan traduce con Alichino
l’originale Hielekin.
20
A sua volta Claude Lecouteux integra giustamente il Meisen con i confronti
comparativi delle cosiddette falangi e legioni di demoni presenti nella Confessio Cypriani
dell’Imperatrice Eudocia, nella Vita di San Martino (23,6) di Sulpicio Severo e nella Scala
Coeli (95) di Jean Gobi39 – nella forma di cavalieri neri. Di particolare interesse è poi la
galopparono come se fossero uomini. Chi voleva vedere meglio, uscendo di casa, venne
non osò più uscire. Poi, questi demoni cominciarono ad apparire a cavallo di giorno, ma
non c’era modo di vederli. Ma la gente poteva vedere gli zoccoli dei cavalli. Mangiarono
anche alcuni degli abitanti, cosicché i vicino cominciarono a mormorare che gli abitanti di
39
Libro di exempla del 1330 ca.
40
Leucoteux non riferisce meglio nel tuo testo (capitolo II, nota 17) la provenienza della citazione, se non
che gli è stata fornita e tradotta da J.P. Sémon della Sorbona. Pur avendo mantenuto il titolo del testo come
citato da Leucoteux (traduzione nostra dal testo inglese), si tratta in realtà del Se povesti vremyanykh let,
generalmente reso in inglese con The tale of bygone years, russo antico Повѣсти времѧньных лѣт, Pověsti
vremęnĭnykh lět, in russo moderno: Повесть временных лет, Povest' vremennych let, ossia Racconti degli
anni passati, testo del 1113 circa del monaco Nestore del Monastero di Kiev, ed è generalmente considerata
la prima cronaca annalistica attestabile nella letteratura russa. Conosciuta anche come Russian primary
chronicles è oggi consultabile digitalmente su http://www.mgh-bibliothek.de/dokumente/a/a011458.pdf, in
cartaceo su Einaudi, Tornino 1975.
21
1.3 STORIA DEGLI STUDI
Il tema delle truppe o schiere notturne, in particolar modo della Caccia selvaggia e
temi attigui, è oggetto di studio per così dire folklorico dal XIX secolo. Jacob Grimm è
conclusione che il tema sia da rintracciare nella suddetta mitologia ed in particolar modo
Possiamo dire che Grimm inaugura la scuola interpretativa cosiddetta mitologica, che
continua con J.W. Wolf, che sostituisce la figura di Odino con quella di Thor 42, e che
arriva fino agli inizi del XX secolo con le ricerche di L. Weniger del 190643.
monte: le schiere notturne trovano innanzi tutto fondamento nella credenza nella
di molte schiere, formate appunto dai ravenants. La medesima idea è stata ripresa da W.
Golther, che tuttavia si allontana maggiormente dall’ipotesi di un legame con la teoria della
scuola mitologica di una derivazione prettamente germanica del tema 45. H. Plischke è il
primo a cercare di creare una sintesi tra le due posizioni, cercando una concatenazione di
cause (credenza nella vita dopo la morte, necessità di spiegare condizioni metereologiche
particolari, ciclicità annuali di tipo agricolo) alla base delle leggende46. Nel 1937 E.
Mudrak mise insieme uno studio che includeva anche fonti recenti, pur non pervenendo a
41
J. Grimm, Deutsche Mythologie, vol. 2, 766-93; vol. 3, 280-84, Darmstadt, WBG 1835.
42
J.W. Wolf, Beiträge zur deutschen Mythologie II, Göttingen, 1857.
43
L. Weniger, Feralis exercitus,in Archiv für Religionswissenschaft 9,
44
J. Lippert, Die religionen der europäische Kulturvölker, Berlin, 1881.
45
W. Golther, Handbüch der germanischen Mythologie, 283-95, Leipzig 1895.
46
H. Plischke, Die sage vom Wilden Heere im deutschn Volke, dissertazione, Leipzig 1914.
22
conclusioni definite47, mentre G. Roheim fu il primo a tentare delle interpretazioni
psicoanalitiche, finendo però per maneggiare in malo modo fonti e materiale mitologico,
Nell’introduzione alla sua antologia, Karl Meisen si pone invece su una posizione
completamente diversa rispetto a tutti i predecessori, ammettendo si che l’origine del tema
possa trovarsi nelle credenze circa la sopravvivenza dell’anima nella tarda antichità, ma
vedendo l’essenza della leggenda nel suo essere diretta espressione del dogma cristiano
della punizione per le colpe commesse in vita. All’interno del sistema colpa-punizione
Caccia, sia nella sua versione – per così dire – di purgatorio per i ravenants, sia nella sua
Una menzione a parte va fatta per la questione linquistica presente in quasi tutti gli
quei leader delle schiere che presentano nel nome un’assonanza con questo, quali
nell’assonanza significati/temi originari quali il re degli inferi (hell king), il figlio degli
una parte gli studi di H.M. Flasdieck avevano già dimostrato come molte delle tentate
discute, come ben riassunto dalla Barillari nell’introduzione alla citata antologia del
Meisen.
47
E. Mudrak, Das wütende Heer und der wilde Jäger, in Bausteine zur Geschichte, Völkerkunde un
Mythenkunde, 6, Walter de Gruyter, Berlin 1937.
48
G. Roheim, Les Portes du reve, 521-33, Payot, Paris 1973.
49
H.M. Flasdieck, Harlekin, germanischer mythos in romanischer Wandlung, in Anglia 61, 1937.
23
È Otto Höfler nel 1934 ad aggiungere una nuova interessante tematica nell’ambito
dello studio delle schiere notturne, postulando la priorità del culto estatico sulla leggenda
mitica50. Quello che tenta di dimostrare, partendo dal passaggio di Tacito sugli Arii
(Germania, 43), è che la leggenda non è altro che l’espressione di riti di passaggio volti ad
iniziare i guerrieri germanici in una fratellanza riconoscibile dai segni sul volto o
guerriera germanica, i cui doveri sociali erano legati anche al culto dei morti attraverso
guerriere si sarebbero poi trasmesse alla tradizione orale sotto forma di schiere di morti. Lo
mascherate che si tengono ancora in Europa centrale (e non solo, come vedremo nel terzo
capitolo) per l’equinozio d’inverno. Dalla tesi di Höfler all’ambito di pertinenza più
Hasenfratz nel 1982, che assegna il passaggio delle schiere ai rituali e miti connessi con la
Lecouteux ma che rimane tutt’altro che chiaro. L’allieva di Höfler C.N.F. Eike fonda
leggenda dalla formazione di doppi che viaggiano, sulla base di similarità con altre
50
O. Höfler, Kultische Geheimbünde der germanen, vol. I, Frankfurt 1934.
51
Si tratta degli Úlfhéðnar, i guerrieri lupo, e dei Berserkir, i guerrieri orso, che combattevano in evidente
stato di coscienza alterata.
52
H.P. Hasenfratz, Der indogermanische Männerbund. Ammerkungen zur religiösen und sozialen Bedeutung
de Jugendalters, in Zetischrift für Religionsund Geistesgeschichte 34, 1982.
24
tradizioni sciamaniche nonché con alcune letture del sabba 53. In completa antitesi con
Höfler si pone invece Ranke, che ne criticò puntualmente le teorie soprattutto in base alla
mancanza di fonti attestanti l’esistenza storica delle associazioni guerriere tanto care al suo
collega.
Alle teorie di Höfler si rifà per sua stessa ammissione Carlo Ginzburg sia in Storia
fusioni tra temi, miti e riti sono alla base dell’interpretazione di Ginzburg, che vede un
Selvaggia, in parallelo, o meglio nel contesto più ampio di una morfologia decifrativa di
temi similari al sabba56 (da cui invece vedremo come e quanto differisce). Sulla stessa
linea si muove il più recente Diana, Arlecchino e gli spiriti volanti di Emanuela
Chiavarelli, che anche rispetto a Ginzburg tende maggiormente a confondere gli ambiti
della Caccia selvaggia e del Buon Zogo57, fino a ricollegare Hellequin ad un dio cornuto e
ad un culto primevo materno confondendo il tutto con temi come quello della grande
Su una linea diversa si pone J.C. Schmitt, che mettendo da parte le possibili origini
53
C.N.F. Eike, Oskoreia og ekstaseriter, in Norveg 23, 1980.
54
«Nel criticare la mia interpretazione, Bausinger ha osservato che essa ricalca in sostanza quella di Höfler.
Avrei dovuto sottolinearlo – inseme al fatto che era stato a sua volta proceduto da Meuli.», in C. Ginzburg,
Storia Notturna, pag. 171, nota 47, Einaudi, Milano 1989.
55
C. Ginzburg, Charivari, associations juvéniles, chasse sauvage, in Le Charivari, a cura di J. Le Goff e J.C.
Schmitt, Paris et La Haye, 1981, pp. 131-140.
56
Cfr. C. Ginzpurg, Storia notturna, pp. 79, 171-172, 283.
57
E. Chiavarelli, Diana, Arlecchino e gli spiriti volanti, Bulzoni, Roma 2007.
25
«Hellequin, Herla, Artù sono i nomi di uno stesso personaggio mitico, il re dei morti, che,
ora di notte nelle foreste o sulla strada maestra cavalca alla testa della sua schiera furiosa,
ora è assiso sul trono nel suo palazzo sotterraneo alla frontiera del paese del Galles,
nell’Etna o nel Mont-Chat, intento ad attirare i vivi in una pratica di dono e di scambio, la
cui posta in gioco sono la vita e la morte. Ora, in mezzo secolo, i predicatori formati dalla
teologia scolastica succedono agli ecclesiastici di corte avidi di mirabilia. Al re dei morti
finiscono con il sostituire il diavolo. Anche se non escludono totalmente che la schiera
furiosa possa avere un aspetto penitenziale (e offrire ad alcuni dei suoi membri una
speranza di salvezza), la masnada di Hellequin si allontana sempre più dal mondo insieme
materiale e immaginario che governa l’economia dei suffragi per le anime in pena. […]
Così nel XIII secolo trionfa un’interpretazione religiosa e morale del tema della masnada
secolari del potere e l’ideologia monarchica. A Sainte-Foy di Sélestat si trattava non solo
una profezia politica a vantaggio degli Hohenstaufen. […] Il potere mitico del re dei morti
non doveva forse rafforzare la legittimità e l’efficacia del potere del re dei vivi sullo spazio
gelosamente custodito della foresta? Per proteggere le proprie foreste e il proprio esclusivo
diritto di caccia, il re poteva trar partito dai terrori che la masnada di Hellequin incuteva
nei suoi sudditi. Negli exempla, al contrario, il solo re al quale Hellequin-Artù è associato è
ma la teologia morale, gli atteggiamenti penitenziali e l’angoscia della morte di sé, che
predicatori e confessori, nella linea del concilio Laterano IV (1215) si sforzano d’inculcare
nel popolo cristiano. Infine a Parigi, al principio del XIV secolo, sotto la forma letteraria
del Roman de Fauvel, negli anni torbidi della fine del regno di Filippo il Bello, la satira
26
morale, l’ideologia politica e il rito folclorico dello charivari58 si uniranno nell’evocazione
probabilmente nella sua considerazione del dato puramente storico, legato alle sole fonti
letterarie (in particolar modo, delle cronache), rispetto ad una concezione metodologica più
ampia come quella di Ginzburg (e, come vedremo, della Barillari e del Lecouteux), che
utilizza anche gli strumenti mutuati dall’Antropologia Culturale e dalla Storia delle
Religioni.
studioso francese parte dalle fonti già acquisite dai suoi predecessori per un’analisi
agli elementi, che tuttavia ha il grande pregio di non cristallizzare categorie in cui una
materia estremamente fluida come quella presa in esame, costituita da fonti di ambiti
letterario-cronachistici da una parte e folclorici dall’altra, non può essere chiusa. Lungi
«Quello che colpisce di più nella storia della Caccia Selvaggia è la sua variabilità, la sua
abilità di confondersi con altre credenze, di prendere da queste degli elementi ed assorbirli.
58
Parleremo del rituale dello charivari e della presenza di Hellequin nel terzo capitolo.
59
J.C.Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale, pp. 127-165, Laterza, Bari 1995.
60
C.Lecouteux, Chasses fantastiques et cohortes de la nuit au Moyen Age, Editions Imago, Paris 1999; per
l’elaborato presente, è stata utilizzata la traduzione inglese Phantom Armies of the Night: the wild hunt and
the ghostly procession of the undead, Inner Traditions Int., Rochester, Vermont 2011.
27
culto degli antenati che incoraggia la commistione del tema portante con il sabba […]. In
Innestati su questo fusto vi sono motivi presi dalla leggenda del Cacciatore Furioso e,
tramite l’assimilazione da parte del clero del tema, in accordo con il dogma cristiano e altri
«Questo, in breve, il nucleo di una leggenda la cui eco rimbalza e riecheggia in un’ampia
messe di testimonianze diverse per natura, intento e tenore, rifratta in una molteplicità di
geografico (di per sé già abbastanza complesso) delle numerose registrazioni – e relative
interpretazioni – di tale credenza. Perché, come sempre accade quando si ha a che fare con
la cultura folclorica, i dati in nostro possesso ci giungono “filtrati” dal medium della
tradizione colta che, se ha il merito di emanciparli dal dominio fluttuante dell’oralità per
affidarli alla memoria più stabile e duratura della pagina scritta, lo fa a prezzo di una
radicale»62.
61
C.Lecouteux, op. cit., pag. 237, trad. nostra.
62
S.M.Barillari, Introduzione a K.Meisen, op. cit., pp. 6-28.
28
La Barillari rileva, insieme a Lecouteux e ai precedenti, il collegamento non troppo
esplicito, non di meno esistente, tra il tema mitico e le processioni carnevalesche, pur
rimanendo il suo rilevamento sul piano della “somiglianza” piuttosto che sul piano di una
questa terra, sollecitano e autorizzano anche l’istituzione di un’analogia con i rituali che
travestimenti. Nelle feste calendariali che scandiscono i momenti cruciali del ciclo
stagionale - e che registrano, come si vedrà, singolari coincidenze temporali con le date
stati differenti: fra maschio e femmina, fra uomo e bestia, fra uomo e pianta, fra vita e
morte. In questa prospettiva è facile comprendere, per un verso, come l’esercito spettrale e
le turbe carnevalesche (il mito e il rito) abbiano potuto fornirsi reciprocamente modelli
descrittivi di sicuro impatto emotivo sulla mentalità comune, per l’altro, le ragioni
dell’imbarazzante omonimia che lega l’ambigua figura che guida la turbolenta masnada
Alichino».
spettrale, per altro entrambi sovrapposti nella mesnie hellequin, concludendo che «risulta
29
spettrale siano caratterizzate, al di là del referente mitico comune, da una sostanziale
30
2. MORFOLOGIA E TEMI
misura, da Lecouteux, ovvero quello dei fenomeni simili legati al sabba, al Bon Zogo e
simili temi più specificatamente femminili (con la sola eccezione forse dei Benandanti, che
si differenziano dalle schiere in quanto non armati). Nel caso del Bon Zogo e dei sabba
(chi narra ha partecipato), rispetto alle schiere notturne, a cui si assiste ma non si partecipa.
Già il citato Ginzburg aveva ovviamente premesso un parallelo basato sul genere che
quindi non poteva mostrare commistioni se non entro determinati limiti, tuttavia qui si è
scelto di evitare ogni comparazione in base alle specificità del fenomeno delle schiere
notturne, qui intese nella loro accezione fenomenologica come troops (questo il termine
caratterizzate, come vedremo, da figure maschili e appartenenti per lo più ad uno specifico
tipo sociale feudale, quello guerriero e contestualmente della nobiltà, cui spetta il privilegio
della caccia: le dame, quando presenti, appartengono alla nobiltà; i chierici sono presenti in
mentre in prevalenza i facenti parte delle schiere sono sempre figure mutuate dal tipo
sociale medievale di cui sopra, tant’è che Schmitt ha potuto istituire un abile paragone tra i
31
membri delle masnade e quelli della militia secolare, negativamente dipinta da S.Bernardo
Di carattere più generale è la questione di una definizione della natura intrinseca dei
racconti – ed ipoteticamente dei riti – connessi con le schiere notturne. Dove può arrivare
in tal senso una lettura storico-religiosa, rispetto ad una antropologia storica sulla scia
dell’esempio di Bloch? Due paragoni vengono certamente alla mente, per un simile
soggetto: quello appunto di Bloch, con i Re Taumaturghi, e il già citato Ginzburg, con
Storie notturne e i Benandanti. Tuttavia questi due esempi, pur presentando spunti
metodologici notevoli, mostrano anche una differenza fondamentale: nel primo caso
trattiamo di un tema perfettamente inserito nella cultura religiosa medievale e quindi nella
struttura ecclesiastica, che lo ha rappresentato anche come realtà normativa in positivo (la
Chiesa ha integrato gli episodi taumaturgici nella propria letteratura canonica); nel secondo
caso succede l’opposto: si tratta cioè di un fenomeno che è stato per lo più bandito dalla
cultura ufficiale, che ne ha data una normativa esclusivamente in negativo. Nel caso delle
nel mezzo di un rapporto fin troppo dinamico tra cultura ufficiale e cultura, mi si passi il
con gli strumenti del bando e della demonizzazione o con quelli dell’assimilazione. Tale
rapporto dinamico è ulteriormente complicato dalla non totale aderenza tra cultura
ecclesiastica e cultura d’élite, nonché dal fatto che la stessa cultura ecclesiastica, non è
affatto sempre e ovunque uguale e, per esempio, poteva risentire delle divisioni e delle
tensioni interne alla Chiesa (d’altronde, va ricordato, il milieu culturale di Orderico Vitale
63
J.C. Schmitt, op.cit. pp. 127 – 165.
32
era il medesimo dell’Anonimo Normanno, piuttosto refrattario al predominio romano 64).
Di tale dinamico rapporto si sono occupati già tre dei maggiori storici medievali
contemporanei francesi, vale quindi la pena ricordarne le posizioni. Jacques Le Goff tratta
l’argomento due volte, prima per quanto concerne l’età merovingia, definendo la cultura
clericale tendenzialmente diffidente nei confronti della cultura popolare, pur essendovi
tuttavia maggiormente influenzato dall’appeal che la cultura d’élite poteva avere sul
popolo67. Il citato Schmitt, per altro chiamato in causa dalla stessa Barillari, parla di una
Si può quindi parlare di un fenomeno liminale, che si muove in una zona d’ombra: le
schiere notturne sono vissute in una dimensione non completamente accettata dalla cultura
successivamente estromessa dalla cultura popolare. Una zona liminale che può ricordare le
tradizioni legate ad alcune festività patronali e le querelles intorno alle loro origini pre-
cristiane. Una somiglianza, questa, che si riempirà d’attualità quando parleremo dei riti
connessi alle schiere, ma che in questo frangente fa anche sorgere una questione
fondamentale inerente ai limiti (ipotetici) di una ricerca sul tema: quanto è lecito parlare di
64
Cfr. P.F. Terlizzi, La regalità sacra nel medioevo? L’anonimo normanno e la riforma romana (sec. XII-
XIII), CISAM, Spoleto 2007. Lo scritto si inserisce nella polemica sull’indipendenza normativa e politica
delle strutture ecclesiastiche maggiormente vicine alle corone.
65
J. Le Goff, Tempo della Chiesa, tempo del mercante, Einaudi, Torino 1977, pp. 199-202.
66
J. Le Goff, L’immaginario medievale, Laterza, Bari 1988, pp. 75-90.
67
G.Duby, The chivalrous society, University of California Press, Los Angeles, 1981.
68
J.C.Schmitt, Religione, folklore e società nell’occidente medievale, Laterza, Bari 1988.
33
temi antecedenti il cristianesimo o eventualmente di sopravvivenze pre-cristiane?
Ginzburg, nel trattare il sabba e anche dei temi qui presenti, ha parlato di eredità
riferito a quelle che erano chiamate culture primitive, mantenutesi in uno stato tale perché
ambito sia necessario invece sottolineare una continuità di credenze, miti e riti nella cultura
popolare le cui radici possono probabilmente arrivare all’antichità classica, come già
notato dagli studiosi citati, cui si aggiunge Leucoteux che parla addirittura di antichità
riscontrabile anche in campi attigui, come nota ad esempio Schmitt a proposito della
superstizione:
«Ma i quindici secoli che saranno più in particolare oggetto della nostra trattazione
trasformazioni importanti, e così pure è stato dei luoghi e delle forme della sua
applicazione»69.
Quindi una continuità storica nell’evoluzione del concetto di superstitio, pur con le
modulazioni sia nell’essenza del concetto (in base al contesto) che nella forma. Medesima
cosa si può dire del nostro soggetto, inteso come oggetto simbolico: pur avendo cambiato
demonizzato), se ne può postulare una continuità storica con i suoi antecedenti precristiani.
In tal senso il testo citato, nel capitolo sulle fonti, di Guglielmo d’Alvernia ci viene in aiuto
per confermare storicamente tale continuità: il fatto che annoti il suo timore che il volgo
69
J.C.Schmitt, Medioevo superstizioso, Laterza, Bari 1988, pag. 6.
34
idolatra possa credere alla protezione di Cerere sembra suggerire, ancora tra il 1231 e il
1236 (anni in cui Guglielmo componeva la sua opera), che nella cultura d’élite fosse
vive credenze che avrebbero dovuto essere estinte già dai decreti teodosiani del 391-392, e
che invece poteva riversarsi perfino nel culto dei santi70, se non addirittura mostrando
ancora palesi caratteristiche estatiche piuttosto aliene al cristianesimo ma non a ciò che lo
precedette71.
Ulteriore questione è rappresentata dal quadro delle variabili tra tradizione scritta e
tradizione orale. Come si è già notato, l’antologia del Meisen copre uno spettro temporale
che va dall’antichità greca e per l’ambito europeo successivo copre oltre otto secoli, da
Orderico Vitale agli albori del XX secolo. Ad oggi è ancora possibile in molte parti
d’Europa reperire racconti sulle schiere notturne, con diverse variabili e sempre tramandati
per tradizione orale. Tre esempi che è stato possibile ottenere saranno utili a definire una
delle maggiori differenze con le tradizioni scritte. Il primo è stato raccolto presso degli
anziani vicino Chieti, i quali hanno raccontato che la tradizione vuole che nelle sere vicino
campagna, sia possibile veder passare le anime dei morti. Nella zona di Santa Maria del
70
Cfr. M.Niola, I Santi patroni, Il Mulino, Bologna 2007.
71
È il caso del tarantismo come descritto da De Martino certamente, ma ancor di più del culto di Costantino
ed Elena tra gli Anastenarides una minoranza religiosa tracia stabilitasi nel secondo dopoguerra a Salonicco,
che prevede rituali estatici, teatrali, fire walking a cura di una confraternita (Ταγμα) composta di 12 iniziati
(Δωδεχαδα). Cfr. K.I.Kakouri, Dionisiaka, Ideotheatron, Athens, 1999; anche G.Villa, Estasi e sacrificio nel
culto degli Anastenarides, in La Critica sociologica, 85, 1988. Questi esempi a voler indicare come in ambiti
tendenzialmente isolati dalla cultura egemonica possano conservarsi sopravvivenze per lunghi periodi,
financo secoli.
35
racconta che in alcune notti burrascose sia ancora possibile vedere gli spettri dei Templari
Gotland, Svezia, una tradizione vuole che sin dal XVII secolo sia possibile vedere
l’esercito dei morti, visione tramandata dal parroco di allora che al tramonto muoveva dalla
parrocchia di Stånga a quella di Burs, passando per il bosco e per i campi (entrambe le
chiese sono ristrutturate su originali del 1400 circa); a quest’ultimo esempio giova per altro
conquista danese della città di Visby (del 1361), attraverso un corteo in costume,
rappresentante la corte danese, che entra in città per essere deriso e insultato (il modello è
molto simile allo charivari, un rituale carnevalesco con tratti buffoneschi e popolari).
Questi tre esempi contemporanei rendono l’idea di una differenza fondamentale che
probabilmente poteva essere vera già ai tempi di Orderico Vitale: mentre nelle fonti scritte
abbiamo episodi raccontati da uno specifico soggetto, il quale riconosce anche specifici
spettri, nel caso della tradizione orale si tratta invece di narrazioni su canovaccio, cioè con
36
2.2 INTERPRETAZIONI STORICHE
l’evoluzione o meglio le sfumature evolutive delle schiere. Le fonti che abbiamo analizzato
nel capitolo precedente sono per lo più di provenienza ecclesiastica, il che però non le dota
di alcuna uniformità formale o semiotica. I primi tre brani medievali (Orderico Vitale,
Guglielmo di Malmesbury, Ekkehard von Aura) che abbiamo trattato coprono un arco di
tempo che va dall’XI al XII secolo e mostrano una struttura comune in quanto illustrano
una processione di morti, tra i quali è possibile riconoscere persone note in vita. In tutte e
tre i casi gli autori sono benedettini e l’area geografica cui si riferiscono va dall’Inghilterra
Questo potrebbe lasciar intendere che nella frangia temporale di cui sopra il tema della
racconto: in tutti e tre i casi il tema portante è la penitenza e secondariamente, nel caso di
Orderico e Guglielmo, la possibilità da parte dei morti di accedere allo sconto della pena
grazie alle preghiere di suffragio dei vivi. Il De fundatione monasterii S. Fidis Sletstatensis
si pone nello stesso filone: scritto presumibilmente da un anonimo monaco benedettino per
territorio tedesco), tratta sempre del tema della penitenza e del riconoscimento di un morto
noto, pur con la variazione del pellegrinaggio e la giustificazione a suo modo “mitologica”
Con Walter Map, alla fine del XII secolo, comincia il tema “politico” ovvero
l’intreccio semiotico delle schiere notturne con la regalità e il tema dinastico. In questo
37
Enrico II, sottolinea come la legittimità del regnante redima la regalità dei predecessori,
fino ai bretoni di Herla. Il passaggio dal tema della penitenza a quello della “penitenza
regale”, se così si può definire, di Herla e successivamente alla caccia di Artù come
descritta da Gervaso di Tilbury non è semplice da comprendere, anche perché si fonde con
certamente dire che parte dell’alterazione “laicizzante” del tema, o se vogliamo appunto
“politicizzante”, è dovuta alla nuova inclinazione della cultura a cavallo del XII/XIII
secolo verso il tipo cortese, cosa che poteva avere sicuramente influenza sia su un laico,
poi arcidiacono, come Walter Map, sia su un cistercense come Gervaso che aveva
all’attivo permanenze piuttosto lunghe presso varie corti, non ultima quella imperiale di
Ottone di Brunswick.
È con Guglielmo d’Alvernia, quindi già in pieno XIII secolo, che comincia
l’interpretazione che potremmo definire “dottrinale”: le schiere non sono più morti e
penitenti, ma demoni che illudono la plebe, siamo cioè entrati nella fase di
Montenake, nonché il Les Miracles de Saint Eloi in cui Hellequin è identificato col
demonio.
Sembrerebbe quindi che ci siano tre interpretazioni principali per le schiere notturne:
regale (XII secolo), in cui il corteo rappresenta l’eterno ritorno della casata regnante o il
ritorno di un re mitologico o è motivo che sottolinea la bontà della causa del re: in questa
versione dottrinale – demonizzante (XIII secolo), in cui tutti i cortei, siano essi composti da
38
cacciatori furiosi, cavalieri o torme di revenants sono in realtà manifestazioni del
demonio. Le fonti successive al XIII secolo si innestano ognuna in una o più di queste
interpretazioni, mostrando per così dire una sorta di variatio in imitando che non ha
inficiato, fino alle ultime fonti considerate, la sopravvivenza di tutte e tre le interpretazioni.
39
2.3 FIGURE, TEMI E MORFEMI RICORRENTI
ricorrenti, in particolar modo quelle del cane e del cavallo. Nello specifico entrambi fanno
riaffiorare il significato simbolico precristiano dei due animali, ricorrendo al legame con la
figura di Ecate nel primo caso e al sostrato indoeuropeo nel secondo (in particolar modo
Lecouteux ne tratta nello specifico capitolo sulle radici indoeuropee della Caccia
Selvaggia). Come da quest’ultimo notato, in entrambi i casi ci sono forti richiami alla
natura di psicopompi di questi animani, che appaiono sia nell’episodio del Re Herla, che
non può scendere da cavallo finché non lo fa anche il bulldog, sia nel caso di Orderico
Vitale, in cui il prete Walchelin, nel momento in cui tenta di sottrarre al corteo un cavallo,
rimane ustionato dalla evidente natura sovrannaturale, diremmo infera, della creatura. Pur
attributi specifici delle figure a loro attigue, vale a dire che esse sono attributi descrittivi
imprescindibili per le figure sia del cavaliere che del cacciatore, e in un’ottica quasi
simbolico che i due animali possono avere, indipendentemente dai precedenti classici o
indoeuropei, nell’ambito cristiano. Maria Pia Ciccarese nel suo studio sugli animali
«Troviamo denominati cani i pagani, per la rabbia del loro latrare contro Dio, ma
anche i Giudei, sinagoga dei malvagi, che a guisa di cani affamati vagano tra i popoli in
cerca di nutrimento spirituale; oppure gli eretici, che si precipitano a mordere e dilaniare la
40
Chiesa di Dio e in generale i peccatori recidivi, gli uomini dissoluti, quelli che adulano e
«I demoni sono seduti su cavalli e muli, che non hanno intelligenza, costringendoli a
fare le cose degli animali irrazionali. Cavalli e muli sono gli uomini passionali, trasportati
irrazionalmente verso ciò che non si deve, che nitriscono verso le mogli del prossimo. Il
cavallo è citato per lo più per indicare la superbia: infatti questo animale è audace, morde il
orgoglioso, verso il quale Dio non può essere indulgente, perché sceglie i mansueti e i
devoti. […] Sono chiamati cavalli quelli che vanno pazzi per le donne, dediti a promiscue
relazioni sessuali»73.
muoveva San Bernardo da Chiaravalle, che nel De laude novae militiae, II – De militia
acquisisce un tratto di critica sociale da parte di ecclesiastici come Orderico Vitale al tipo
72
M.P. Ciccarese, Animali simbolici, EDB, Bologna 2002, pag. 241. Il testo citato integra passi di Agostino,
Gregorio, Ilario, Eusebio di Cesarea, Giustino e Cassiodoro.
73
Ivi, pag. 289, integra citazioni di Origene, Cassiodoro e Didimo.
74
«irrationalbilis iracundiae motus, aut inanis gloriae appetitus, aut terrenae qualiscumque possessionis
cupiditas» testualmente asserisce S.Bernardo, cioè irragionevole atto di collera (provoca le guerre), desiderio
di vana gloria, bramosia di qualsivoglia bene terreno, in S. Bernardo di Chiaravalle, Ai Cavalieri del Tempio,
Il Cerchio, Rimini 2003.
41
Questo tratto può risultare importante poiché gli studi precedenti tendono invece a
non accentuare questa forte ricorrenza che non può essere insignificante: le figure
maggiormente ricorrenti in tutte le fonti non sono popolani, ecclesiastici, dame, o morti
comuni: il focus delle diverse versioni è sempre incentrato sulle figure di cavalieri o di
della medesima classe sociale feudale. Le modalità in cui le schiere appaiono sono
ulteriore conferma di questo monopolio dei bellatores sui portenta di cui stiamo parlando:
o appaiono in forma di corteo, che in ambito feudale può essere per lo più assimilato
sonora, è innegabile che quasi tutte le fonti aprano la descrizione delle schiere notando la
dicotomia tra il silenzio del contesto notturno generalmente legato all’ambiente al di fuori
delle cinte murarie o dell’ambiente urbano, e il frastuono dell’esercito in armi che muove
verso il soggetto narrante. La ricorrenza della ricchezza e della fecondità, intesa anche
come legame oltremondano inerente una custodia della reiterazione della prosperità
terrena, sembra più difficile da dimostrare. La Barillari si rifà ai soli episodi di Walchelin
bruciato durante il tentativo di furto del cavallo e alla razzia della falange di bretoni
descritta da Map, mentre Lecouteux accenna sempre alla terza funzione indoeuropea per la
dimostrazione di tale ricorrenza o simbologia appare piuttosto labile. Meno labile è invece
la ricorrenza dei contesti temporali: quasi tutte le fonti fanno coincidere le apparizioni con
Venerdì Santo, San Giovanni, Walpurgisnacht, facendo quindi ricadere le schiere in quelle
tradizioni popolari che vedono le festività a cadenza annuale portatrici di portenta, la cui
42
origine, in realtà difficilmente tracciabile, sembra sempre ricadere in credenze popolari
precristiane.
Ultimo morfema ricorrente, di tipo formale ma non per questo meno importante, è il
punto di vista del narratore del portenta o dell’apparizione delle schiere. Diversamente da
fenomeni simili, uno su tutti il Sabba, le schiere non sono mai “raccontate” da chi vi
partecipa, ma sempre impersonalmente (si narra che, soprattutto nelle fonti cronachistiche)
o dal punto di vista di chi “subisce” l’apparizione: questa seconda versione sembra per lo
più un espediente letterario per introdurre la leggenda che si configura quindi (pienamente
di per sé, dotato di qualsivoglia auctoritas, se non in quegli ambiti in cui è rielaborata
43
2.4 I SIGNORI DELLE SCHIERE
Molte delle fonti analizzate dal Meisen parlano di figure prominenti nel corteo, se
non addirittura esclusivamente del singolo cacciatore furioso. Spicca al di fuori di quanto
raccolto dal Meisen la leggenda popolare sulla morte di Teoderico il Grande, nell’ambito
tedesco Dietrich Von Bern, e anche dal Carducci nelle Rime nuove e rappresentata anche
sulla facciata della basilica di San Zeno presso Verona75. Qui Teoderico è il protagonista
(unico) della Caccia Infernale e viene trascinato dal suo destriero negli inferi attraverso
l’Etna. Della figura del cacciatore più in generale o del capo del corteo sappiamo quindi
che è talvolta associata alla regalità, come nel caso di Teoderico, di Artù e di Herla. A
quest’ultimo fatto si sovrappone la ridondante assonanza dei nomi con cui viene citato il
signore di molti dei cortei, successivamente associato al diavolo: dalla familia Herlechini
Commedia dell’Arte, rivelando una estensione temporale che va quindi dal secolo XI
(Orderico Vitale) fino alla fine del secolo XVI 76 per quanto concerne le fonti che
figura), mentre per quanto concerne le fonti indirette (cioè che raccolgono racconti di terzi
sulla figura, con un procedimento quasi “etnologico”) si scende ancora di più nel tempo,
75
Nel suo testo, Lecouteux si rifà alla versione presente nell’Eckenlied, non specificando in quale recensione.
76
1580 ca., tenendo in considerazione la seconda metà del XVI secolo per quanto concerne la creazione del
personaggio di Arlecchino come evoluzione del Secondo Zanni di origine bergamasca, ma soprattutto
considerando la prima iconografia attestata in Francia, la Recoueil Fossard, che mostra incisioni con
protagonista in questione.
44
con due brani francesi raccolti sempre dal Meisen, che trattano la Chasse Hennequin come
leggenda popolare, uno della metà del XIX77 secolo e uno degli inizi del XX 78.
La questione sul significato del nome e la sua origine, da un punto di vista linguistico
e filologico, rimane ad oggi ancora aperta ed è ben lungi dal portare ad un risultato
«Il nome, di origine germanica, rinvia a Hölle, “inferno”, “dimora dei morti” (per
altri a Heer, “esercito”), e thing, “assemblea degli uomini liberi” (per altri king, “re”,
tanto con nuove proposte interpretative, talvolta piuttosto fantasiose, valga ad esempio
quella, recentissima, avanzata da Philippe Walter […]. Senz’altro più convincente è, a mio
avviso, l’ipotesi avanzata da Marcello Meli nel saggio L’Arlecchino Boreale, L’immagine
Sia Lecouteux (più blandamente) che Chiavarelli notano alcune similarità tra il
personaggio e figure archetipiche quali il Signore degli Animali e l’uomo selvatico, quindi
significato del nome e la sua forma originale, oggi sembrerebbe perduto e ciò che ne
rimane è l’iconografia e i tratti letterari, che probabilmente sono più utili al fine di
77
L. du Bois, Préjugés et Superstitions en Normandie, in Recherces archéologiques, historiques,
biographiques et littéraires sur la Normandie, Parigi 1843, pp. 309-310.
78
Fraysse, Le Chasse Hennequin au Pays de Baugé, in Revue des Traditions populaires, XX, Parigi 1905,
p.163.
79
S.M. Barillari, Introduzione, in op.cit., pag. 14-15.
45
Sintetizzando le fonti messe a disposizione dal Meisen e quelle ulteriormente citate
nei paragrafi precedenti, si può dire che ci si trova di fronte a 5 figure apparentemente
distinte:
Wotan negli studi del secolo XIX (Grimm et alii), associato anche alle figure
o spiriti dei morti, successivamente interpretati come illusioni ad opera dei demoni. È
sottinteso, come tutti i destrieri del corteo relativo) con manto nero, mentre nella
colpa o comunque una condanna ed appare alla testa di un esercito o di una caccia, sempre
a cavallo.
80
Roman de Fauvel, ms. fr. 146, Bibliothèque Nationale, Paris.
46
La figura C si distingue solo parzialmente dalle precedenti: essa è infatti alla testa
di un esercito o di una caccia di demoni, la cui descrizione si basa come abbiamo visto
presenta la maschera nera dotata di due protuberanze che ricordano delle corna ed è sempre
“armato” del suo “batoccio”, vale a dire una piccola clava o bastone, caratteristiche che
clava può ricordare anche alcune raffigurazioni di Ercole), tanto che la Chiavarelli ipotizza
(curiosa in tal senso è anche l’assonanza con il centro asiatico e sud siberiano Erlik Qan,
divinità infera dai tratti regali, a cominciare appunto dal titolo di Qan/Khan). Tutte e tre le
figure sono a capo di un’associazione maschile in armi, sia essa per caccia o per guerra
con queste l’attributo della clava, l’accenno delle corna e la maschera nera che ne
tratteggia la natura infera. Ha in comune il contesto buffonesco con la figura D, che non ha
tratti in comune con le figure A, B e C, fatta eccezione per l’assonanza del nome Alichino
con i precedenti. Ciò che si può ipotizzare è che A rappresenti una figura originaria,
archetipica, di leader della schiera, cui successivamente si è associata una variante più
strettamente legata alla regalità terrena e alle leggende connesse. C può rappresentare la
variante dottrinale e demonizzata delle precedenti (forse anche vicina al contesto degli
specula principis e la condanna della tirannia, nonché, come abbiamo visto, la critica
47
sociale e morale verso i bellatores). Resta da chiarire, nel prossimo capitolo, se e come si
sia arrivati alle varianti buffonesche e teatrali D ed E, processo che potrebbe anche
contribuire a spiegare come si possa arrivare dalla leggenda ai cortei carnevaleschi e riti
similari.
48
3. DAL MITO AL FOLKLORE
prova sin dai primi anni del secondo dopo guerra. Se già negli anni cinquanta il materiale
raccolto da De Martino nelle sue ricerche nel sud Italia era, per così dire, in via
d’estinzione, la globalizzazione di certo non ha giovato a quel poco che rimaneva nel
delle spinte economiche del turismo e dell’agriturismo econosostenibili hanno dettato delle
politiche di difesa del patrimonio delle tradizioni popolari, dall’altro la crescente crisi
per cui tale patrimonio, che è e rimane prevalentemente orale per quanto attiene il
tramandare miti e leggende locali, si sta perdendo per il mancato confluire nella cultura
delle nuove generazioni. L’istituzione di molte cattedre di Storia delle tradizioni popolari
discipline demoetnoantropologiche.
È bene chiarire che questa frattura nel processo di trasmissione non corrisponde
necessariamente ad una perdita di funzione dei riti e dei miti popolari: accade infatti
sempre più spesso che le generazioni giovani, pur perdendo razionalmente il senso e la
conoscenza della singola leggenda o rito, e pur non vivendo più nel borgo d’origine,
tornino annualmente per celebrare il rito o assistano ancora al racconto del mito da parte
degli anziani, reiterando quindi – se non altro – la funzione di identificazione (con il luogo,
con la cultura, con la famiglia) della leggenda, del mito o del rito stessi.
49
Raccogliere queste leggende è oggi possibile in tre modi: attraverso l’intervista orale,
internet. In tutti e tre i casi, le leggende non hanno fonti, il che è normale per un etnologo,
ma non molto per uno storico. Queste infatti si raccontano, nella maggior parte dei casi,
anche quando si agganciano, letteralmente, ad un evento storico, non ricercano mai una
non hanno bisogno di altra autenticazione. Accade così che l’accademico che voglia
studiarle, come per il mito, non solo non può rintracciarne una sorta di versione originaria,
specialisti. Questi amatori, nella maggior parte dei casi, sono autori che hanno oltre i 60
anni, spesso originari del luogo e, coincidenza tutt’altro che inaspettata, hanno ricoperto
specifici ruoli culturali nella comunità (maestri di scuola o assessori ai beni culturali,
Per quanto concerne il folclore sotto forma di rito, il discorso si fa analogo: se oggi,
fotografico, per quanto concerne la trasmissione dei significati, delle origini, delle
specificità dei riti stessi, bisogna affidarsi ad interviste e fonti scritte o online che
nella misura in cui un’alterazione dello stesso non avrebbe senso da parte di chi racconta o
raccoglie le leggende e i riti, non costituendo nella maggior parte dei casi un caso di
prodotto ad alto valore di marketing: siamo ben lontani, per quanto riguarda il folclore
50
3.2 SCHIERE NOTTURNE DEL FOLCLORE ITALIANO
interprovinciali (il caso ad esempio del folclore dei Monti Sibillini, tra Macerata, Ascoli
valle e da borgo a borgo. Un lavoro certosino di classificazione delle leggende che ancora
studioso. Quello che quindi qui viene sinteticamente raccolto è da ritenersi solo un
selvaggia, curiosamente simile a quanto già detto per Teoderico, è la Leggenda del
leggenda oggi ancora raccontata si origina dal manoscritto Traslatio reliquiarum beatorum
apostolorum Petri et Pauli81, in cui si racconta che il principe Adelchi, figlio del Re
ferito dai cani, presso il piccolo oratorio dedicato a S.Pietro, quasi cercando la protezione
dell’apostolo, finché Adelchi, furioso, non entrò in chiesa per ucciderlo: qui fu punito con
un santuario. Questo episodio è particolarmente importante non solo perché è uno dei
pochi attestato in fonte medievale e ancora raccontato oralmente, ma anche perché nella
81
Edizione critica (BHL 6687b) a cura di Riccardo Macchioro, orig. cod. Ambr. T. 175 sup. ff. 16-17. sec
XIV, disponibile su <http://ecodicibus.sismelfirenze.it/uploads/4/4/448/Translatio_Macchioro_nuovo.pdf>
Cfr. anche Un monastero sulla montagna, <http://xoomer.virgilio.it/carlo315/guida.htm#_ftnref48>
51
versione orale presenta delle variabili, due in particolare: il cinghiale è bianco, particolare
non menzionato nella fonte, e i tratti “furiosi” di Adelchi, benché presenti nel testo, sono
particolarmente enfatizzati.
Due leggende interessanti di provenienza abruzzese trattano del corteo dei morti la
«Una fornaia, alzatasi di buon’ora, andava ad accendere il forno. Nel passare davanti
ad una chiesa, che vide illuminata, pensò che si stesse celebrando la messa e vi entrò. La
chiesa era illuminata e piena di gente. Inginocchiatasi, una sua comare, già morta, le si
avvicinò dicendo: “Comare, qui non stai bene, va’ via. Siamo tutti morti e questa è la
messa che si dice per noi. Spenti i lumi, moriresti dalla paura a trovarti in mezzo a tanti
morti”. La comare ringraziò e andò via subito, ma per lo spavento perse la voce».
«La notte tra il primo e il due novembre i morti escono dalle tombe e sfilano in
processione. Il corteo ha un ordine preciso: davanti vanno i nati morti i quali non
camminano, seguono i nati battezzati, poi i giovani e le giovani donne e, infine, gli adulti;
tutti hanno in mano una candela. Nella stessa notte la porta della chiesa deve restare aperta
in modo che la processione dei morti possa entrare. Pare che i morti battessero forte la
porta della chiesa per farsi sentire da tutto il paese. La tradizione vuole che a ogni finestra
o balcone la notte del 2 novembre debba esserci un lume acceso. Nella stessa notte la gente
del paese non deve uscire di casa né affacciarsi alla finestra. La processione dei morti a
82
Cfr. R. Cerimele, Non è Halloween, su Altosannio Magazine, <http://www.altosannio.it/halloween-2/>.
52
Più a nord, nelle valli bergamasche, si trovano invece i confinati, le anime dannate
confinate in specifici luoghi non abitati. Presso la Valle Brembana si hanno tracce di anime
«Una leggenda assai popolare in varie località della Bergamasca è quella della
caccia selvatica detta anche cacciamorta. In certe ore della notte si potevano sentire su per
le montagne delle mute di cani che scorrazzavano, abbaiando rabbiosamente di qua e di là,
come se stessero inseguendo la selvaggina. Nessuno li aveva mai visti, si potevano solo
sentire i loro latrati, ma si assicura che chi si trovava a passare da quelle parti poteva anche
imbattersi sul loro percorso e doveva scansarsi precipitosamente se non voleva essere
travolto dalla furia famelica di quei segugi indiavolati. Per la verità non si trattava di cani,
ma di anime confinate. Precisamente erano le anime dannate di quei cacciatori del paese
che per coltivare la loro passione trascuravano di andare a messa la domenica e così, dopo
la morte, erano condannati a vagare su per i monti, dando vita a un'incessante quanto
sterile caccia. Un efficace esempio di pena del contrappasso, degna di figurare in qualche
infernale girone dantesco, tanto più che da qualche parte si sussurrava addirittura che alla
racconti sulla caccia selvatica erano abituali a Ornica, Valtorta, Cusio, Santa Brigida,
ambientati sulle impervie pendici della Val d'Inferno o del Salmurano, ma non mancavano
guidati dal Demonio sui dossi della squallida altura della Mughera, alle prese con una
cagna nera, orribile, con gli occhi fiammeggianti, in un contesto di urla infernali e strider di
catene Con una leggera variante analoghi episodi venivano raccontati a San Pietro d'Orzio,
dove la muta di cani, anziché correre per la montagna, girovagava qua e là per aria,
53
Altrove si sussurra di brutte avventure capitate a chi osava intromettersi nella
caccia. E' il caso di Costa Serina dove pare che un viandante, imbattutosi in una di queste
orde urlanti, avesse osato richiamare i segugi perché si quietassero. Non l'avesse mai fatto:
rientrando a casa aveva trovato appesa alla porta una gamba umana, una sinistra
riportare nottetempo l'ingombrante reperto anatomico sul luogo dell'incontro con la caccia
selvatica, affinché i cani potessero riprendersela. Cosa che egli fece, benché in preda ad un
indicibile senso di terrore, riuscendo a cavarsi d'impaccio, ma giurando a se stesso che non
si sarebbe mai più intromesso in affari di tal genere. Pressoché analogo è il racconto della
caccia morta a Valgoglio, dove si dice che una donna, abitante in località Dödömal,
osservando quei dannati in corsa sfrenata formulò una bizzarra richiesta: "Portatemi un po'
della vostra selvaggina con cui potrei sfamare i miei bambini". Fu subito accontentata: il
mattino dopo trovò appesa fuori della sua baita una gamba umana. Atterrita, la donna corse
per la notte seguente di chiudersi bene in casa e di coricarsi assieme ai suoi bambini. Così
fece, e fu la sua salvezza, infatti, nel colmo della notte la cacciamorta tornò e dalla canea
vociante si alzò un grido d'oltretomba, rivolto proprio a lei: "Buon per te che sei in mezzo
all'innocenza, altrimenti l'avresti pagata cara per aver osato parlare alla cacciamorta!"
[…]
Un tempo si credeva che sotto il ponte della Valle Stabina, al bivio tra Ornica e
Valtorta, fossero confinate le anime di coloro che da vivi non avevano rispettato il precetto
dedicarsi al lavoro o ai divertimenti. E così, dopo la morte erano andati diritti all'Inferno.
Questi dannati erano in gran numero e ogni tanto si facevano vedere dai passanti, oppure si
54
facevano sentire con urla e strepiti che incutevano terrore. Chi passava da quelle parti di
notte, con muli o asini, si trovava in difficoltà perché, giunti all'altezza del ponte, gli
dosso la soma, rifiutandosi di avanzare anche solo di un passo. Nessuno era più in grado di
farli proseguire fino all'alba, quando, ai primi chiarori del nuovo giorno, si udiva un
frastuono, un precipitare di sassi che si fermava con un tonfo sordo sul fondo della valle.
Solo allora gli animali tornavano tranquilli e riprendevano il cammino. Finalmente nel
1909 venne trovato un sicuro rimedio contro queste manifestazioni d'oltretomba: il parroco
di Valtorta, don Stefano Gervasoni, che godeva fama di santità e possedeva doti di
esorcista, dopo aver indetto un periodo di preghiere collettive, portò i suoi parrocchiani e
quelli di Ornica in processione verso la zona degli spiriti e, dopo averla benedetta, collocò
un crocifisso sulla parete rocciosa che strapiomba sulla valle. Il crocifisso è ancora là e da
allora, sostengono gli anziani del paese, gli spiriti dannati non si sono più fatti sentire» 83.
la presenza dei confinati risulta particolarmente interessante se letto come indizio di una
specialisti:
«Prima del Concilio di Trento, la gente vedeva girare gli spiriti, li vedeva andare in
processione, portando, invece delle candele, chi un braccio da morto chi una gamba. In
Sorlina li vedeva anche andare a caccia. Una volta videro anche uno spirito che portava
83
W. Taufer, T. Bottani, Storie e leggende della bergamasca, Ferrari editore, Clausone 2001.
55
sulle spalle un “termen” (pietra confinaria, spesso incisa, n.d.a.); si vede che, durante la
vita per ingrandire il suo campo aveva spostato le pietre che segnano il confine tra un
proprietario e l’altro. Il Papa, constatato che una cosa del genere non doveva continuare,
decise di tenere il grande Concilio di Trento per impedire alle anime confinate di farsi
vedere ai vivi e alle streghe di far del male. Da allora non si videro più né spiriti né
streghe… credono che il concilio di Trento si sia tenuto per impedire alle anime dei
trapassati di tornare su questa terra per scontare la pena sul luogo dove hanno peccato»84.
In Piemonte, nel cuneense, nel borgo di Villar S.Costanzo, si narra dei canett, un
branco di cani, in realtà anime dei peccatori, che nella notte dei morti «corrono provocando
una canea infernale. Sono di tre specie: alcuni lanciano note più profonde e sono grosse
bestie nere come la notte, altri sono di media taglia e di colore grigio come le nuvole
cariche di pioggia e gli ultimi, infiene, sono piccoli e bianchi, simili a cuccioli. Ma tutti
procedono insieme, mischiati gli uni agli altri, e lanciano di continuo i loro richiami che
Tra Trentino e Friuli, intorno al Monte Grappa, si narrano le leggende sulla Caza
Beatrich o Cazza de Prenot: «In piena notte un forte rumore proveniente dall'esterno destò
l'attenzione di un contadino. L'uomo, uscito per capire quale fosse la causa di quel gran
baccano, vide passare un branco di cani dal corpo allungato, con grandi occhi rossi e sei
trascinava con sé enormi catene. Il contadino, ignaro di essere al cospetto del Beatrich,
assistì stupito e spaventato alla scena e prima che cani e cacciatore sparissero nell'oscurità
84
Cfr. C. Cominelli, S. Lentini, P.P. Merlin, Tradizioni popolari e istoriazioni rupestri: una prospettiva etno-
“archeologica”, Centro Ricerche Antropologiche Alpi Centrali, <http://siti.voli.bs.it/craac/letture/01-
let.html#_ftnref12>.
85
D. Spada, La caccia selvaggia, Società editrice Barbarossa, Milano 1994, pag. 30. La leggenda è riportata
anche in L. Castellani, A caccia di fantasmi, Meligrana Giuseppe Editore, 2011.
56
disse “buona caccia e portatemi qualcosa”. Tornato a casa, egli si accorse che appeso
invernali, le strade del borgo siano percorse da una processione di fantasmi. Secondo la
leggenda si tratterebbe delle ombre dei morti, dannati per aver rubato durante la loro vita.
Tra gli abitanti di Saviore c'è anche chi giura di aver assistito a tale macabro spettacolo: le
anime avanzano lente, in processione, facendosi luce con fiammelle che bruciano sulla
che era molto curioso, ma era anche uno dei pochi che in paese sapeva leggere, non riuscì a
resistere alla tentazione, e così si mise a sfogliare il libro e cominciò a leggerlo. Ma subito,
non appena l'ebbe aperto, si scatenò una grande tempesta e da ogni punto cardinale, si vide
arrivare una schiera di spiriti di ogni dimensione: alcuni erano piccoli, altri giganteschi, ma
tutti avevano il solito colore biancastro ed evanescente. Essi diedero inizio ad un'orribile
danza attorno al pover'uomo impaurito, facce deformi gli si avvicinavano emettendo risate
agghiaccianti, altre gli si precipitavano addosso piangendo in modo lugubre con urla
strazianti. All'improvviso uno degli spiriti, si avvicinò all'uomo, si staccò la testa e gliela
mostrò, un altro gigantesco si allungava ed allargava fin quasi a toccare il cielo. Uno
spirito altissimo, staccò un masso dalla montagna e fece l'atto di gettarglielo contro ma poi
cambiò idea e lo gettò nel torrente mandando in pezzi una barca che si trovava legata alla
86
Resoconto su: < http://www.unionealtoprimiero.eu/leggende.html>, presente anche in D. Spada, op. cit.
87
Cfr. Brescia in Vetrina, Leggende < http://www.bresciainvetrina.it/processionedeiladrimorti.htm>.
57
riva. Sradicarono alberi facendoli poi cadere sui tetti delle case, altri arrivarono fin sulle
nuvole, per poi farle abbassare fino a terra, da non far vedere più nulla alla gente che stava
fuggendo dalla proprie case. Quando il prete vide tutto ciò, si mise le mani nei capelli,
perché capì che l'uomo aveva aperto il libro magico che doveva portare fino a Tresana. Gli
spiriti, apparsi al cospetto dell'uomo in attesa di ordini, non avendone ricevuti, s'erano
scatenati terrorizzando tutto il paese. Il prete a quel punto accorse in soccorso dell'uomo e
gli suggerì di ordinare agli spiriti di andare a prendere la sabbia del fiume Magra. Così
l'uomo ordinò agli spiriti di prendere la sabbia e subito tutta la schiera si diresse verso il
fiume, tracciando un enorme solco nel terreno, che si formò allora e fu chiamato Fosson,
e grosse porte. Fino al secolo scorso, correva voce, che si tenessero misteriose processioni,
dopo una certa ora della sera, da parte di strani personaggi, che camminavano silenziosi e
con i ceri accesi in mano, passavano fuori dal paese e si dirigevano verso il cimitero. Gli
abitanti erano spaventati da tutto ciò e così quando si avvicinava la notte, si chiudevano in
casa, per paura di incontrarli. Pare che una fornaia di nome Cabrera, non avesse paura di
loro e così una sera decise di stare fuori dalle porte del paese, per vedere passare la
menada. Si mise ad aspettare e verso la mezzanotte vide arrivare una fila di persone,
uomini e donne con un cero in mano e l'ultima donna della fila le porse un cero acceso. La
donna lo prese, lo spense e lo portò in una casa. Quando lo andò a riprendere, terrorizzata
si accorse di avere tra le mani un braccio umano! Si recò dal parroco e gli raccontò tutto,
questi dopo aver riflettuto le consigliò di tornare alla processione, di ridare alla donna il
braccio, ma di stare molto attenta, dovrà infatti tenere in braccio un gatto ed un bambino,
altrimenti le capiterà qualcosa di brutto. La Cabrera, diede ascolto al parroco, si recò alla
processione e quando vide la donna le porse il braccio. La donna lo prese e con fare
58
minaccioso, le disse che aveva fatto bene a presentarsi con un bimbo ed un gatto, altrimenti
«Un cavaliere selvaggio errava sulla Cima degli Spiriti e per i nevai dell'Ortles. Era
un cavaliere armato che invitava chiunque incontrasse a seguirlo per i precipizi e per i
crepacci, nei quali egli coll'ospite precipitava nella notte fonda. Non si conosce il motivo
che spingeva il cavaliere nel suo tragico andare. I valtellinesi posero croci e cappellette ai
bivi montani, quasi a soccorso dei viandanti in caso di eventuali sinistri incontri ed inviti».
l'esercito imperiale condotto dal Ferramonte e le truppe francesi del duca di Rohan,
ricorsero ad uno stratagemma. Travestiti coi camici bianchi dei confratelli occuparono il
sagrato della chiesa. I tedeschi, appena li videro, in preda al più superstizioso terrore si
diedero alla fuga ed i furbi francesi rimasero padroni del campo. Questo episodio viene
raccontato spesso dai vecchi di Livigno, convinti come gli imperiali, che coloro che
combatterono vestiti di bianco attorno al cimitero, fossero proprio i "mort". Ci fu, quindi,
«La tradizione popolare racconta una versione più religiosa e patriottica: contro gli
morti livignaschi, tanto più sdegnati dalla profanazione e dall'oltraggio recato ai luoghi
88
A. Valle, F. Musante, Storie e leggende della Lunigiana, Edizioni Giacché, 2003, pagg. 40-41.
59
sacri. Gli stranieri si ritirarono e la valle di Livigno fu libera. Questa versione segnerebbe,
E poi:
«La tradizione racconta che presso la chiesa di San Gallo, in tempi antichissimi,
esisteva un convento e che, di notte, si vedeva una strana processione di morti passare,
salmodiando, dalla chiesa sino alla gran croce allora esistente in quel di Molina. Erano
vestiti di bianco: segno di salvezza. Infatti, i dannati vestono coloro rosso cupo»;
«Irene era una vecchietta piccina e magra che viveva sempre sola, ché i suoi cari
erano tutti morti, al limite della vegetazione a Madonna dei Monti, lassù dove i larici sono
contorti e nani. Indosso aveva sempre una lunga gonna di panno nero a pieghe, sulle spalle
una corta mantellina di lana lavorata ad uncinetto, in capo un fazzoletto nero a frange e la
domenica la vecchina tornava dalla chiesa. Le parole del parroco sulla morte e sull'inferno
l'avevano turbata e ricordò di aver udito narrare, quand'era bambina, che molte anime del
Purgatorio soffrivano il loro supplizio sui ghiacciai eterni delle vette sopra di lei, vicine
alla sua dimora. Rammentò, pure, vecchie storie di konfinà, di povere ombre sospinte e
torturate per lunghi anni su per il vallone di Uzza, su per il Confinale, torturate dal vento
glaciale. Irene rivide le immagini delle cappellette sacre e provò paura: la sua baita le parve
mal situata, così alta e lontana dai vivi. Non avrebbero potuto forse quelle anime
tormentate scendere da quelle altissime balze livide di ghiaccio? Nel frattempo la donna
pensava anche che non vi era nessuna creatura viva che avrebbe sentito la sua mancanza
dopo la propria morte. In quel momento uno strano viandante dalla statura ben fatta e dallo
sguardo grave la raggiunse sul sentiero. Irene pensò che l'uomo non poteva essere altri che
l'eremita Zebrusius e gli confidò la sua pena. Costui disse alla vecchina che non era sola,
60
ma che viveva fra molti compagni e, sollevandole il viso verso l'alto, Zebrusius le ordinò di
fissare la montagna sopra di lei. Irene fissò i nevai dalla Cima degli Spiriti alla vetta del
Tresero.
Dapprima ella non vide nulla, poi le parve di scorgere un movimento nelle parti più
alte e scoscese: del bianco si muoveva sul bianco. Quello che aveva scambiato per nebbie,
per riflessi azzurrini di ghiaccio, erano folle di anime purganti che scontavano la loro pena
nel gelo eterno. Dunque gli antenati avevano ragione, pensò Irene: lassù i morti soffrivano
angosce e pene per purgare le loro anime da ogni macchia di peccato. Molti di essi erano
avvolti in lunghe tuniche bianche, ma tutti avevano i piedi nudi ed il capo scoperto, ed
erano innumerevoli, quasi danzanti, e tutti però avevano i piedi feriti e sanguinanti per le
punte aguzze del ghiaccio e delle rocce. Si stringevano gli uni agli altri in cerca di calore e
subito si separavano atterriti dal reciproco freddo mortale dei loro corpi, da cui parevano
emanare le nebbie gelide ed i venti che impedivano alle nevi di sciogliersi. Non tutti si
trasparenti pesi e così dovevano essere da anni e anni, perché solo il loro busto emergeva
dal ghiaccio e dalla neve accumulati intorno a loro. Irene vide anche donzelle e garzoni che
non serbavano nei volti traccia di gioventù e gaiezza, tuttavia pareva che si trastullassero
ancora, ma i loro piedi cercavano, contro il loro volere, le punte più aguzze di ghiaccio e di
roccia. Quando la mano dello strano viandante ricadde dal suo mento, la vecchia non vide
che sterminati campi di neve candidi e luminosi: gli sprazzi azzurrini non provenivano da
corpi gelati, ed erano fiocchi di neve che turbinavano più in alto ancora e non anime
sospinte dal vento. Dopo quell'inverno, tutte le sere la donna non fece altro che pensare al
soccorso delle anime erranti sui ghiacci: ogni mattina ridiscendeva alla chiesa del villaggio
e niente e nessuno le impedivano di correre all'altare e pregare con calore, mentre alla sera
nella sua baita recitava le preghiere e cantava i salmi. Lasciava la porta aperta e,
61
inginocchiata nella penombra alla luce di due candele, tendeva l'orecchio e pregava. La
vecchietta non tardava a sentir camminare. Sul ghiaccio udiva dei gemiti e dei passi
striscianti, li udiva avvicinarsi adagio, adagio fino a fermarsi tremando presso i legni della
baita, come se non osassero entrare. Irene continuava a pregare, finché non udiva più né
passi, né sospiri, e allora le pareva che tutta la sua piccola stanza fosse stipata di quelle
creature che avrebbero voluto abbattere i muri e sollevare il tetto per aver più posto intorno
alle preghiere della vecchietta. E così, finché Irene visse, ella continuò ad occuparsi dei
seppellita la mattina presto di Natale. Pochi assistettero alla cerimonia e senza particolari
manifestazioni di dolore dei presenti. Ma mentre le prime palate di terra scendevano sulla
cassa entrò nel cimitero lo strano forestiero ed ai presenti indicò con la mano le cime
all'improvviso di color rosa come per un fuoco di felicità. Videro per l'arco del cielo
passare una processione di fiammelle gialle simili alle innumeri candele accese dalla
vecchietta. Poi lo strano forestiero scomparve e con esso svanì la visione indescrivibile del
Un’altra variante si trova invece molto più a sud, sul Gargano, ed è la storiella del
Compare Michele:
«La notte di Pasqua-Epifania, racconta Zje Jangeluzze (zio Angelo, un anziano del
paese), il nostro malcapitato aveva ricevuto il compito di portare in dono al padrone don
Antonio (un ricco proprietario terriero di Rignano) un tenero capretto, perché il fortunato
89
Tutte le leggende dell’area di Bormio sono consultabili su
<https://sites.google.com/site/bormioleggende/home>, sito che utilizza come fonte prevalente M. Pantano,
...e al strü li veran fö cura l'é nocc - Ricerca sulle leggende di Valtellina e Valchiavenna, Biblioteca della
Valchiavenna, Chiavenna, febbraio 1980
62
potesse gustarlo la domenica successiva. Prima di partire per la sua missione, ’mpa
Micheline decise di prendersi un boccone e guarire la sua arsura alla gola con un po’ di
vino di ’mpa Neculine (compare Nicola). L’arsura, a quanto pare, era come al solito
esagerata e bevi bevi finì un fiasco intero di "sangue di Cristo", come amava chiamare quel
dolce vinello. Avvinazzato come non mai, ’mpa Micheline decise di avviarsi verso il
paese. Tra contorte "revote" (sentieri), la nebbia accecante, il freddo pungente e qualche
altro sorsetto di vino, il nostro arrivò a Rignano in preda all’abbiocco più totale. Stanco e
sfinito dall’alcool, preferì riposarsi per qualche ora su un mugnale, per poi consegnare il
capretto al signorotto di turno. Era ormai sera. La campana comunale aveva rintonato,
infatti, già le sei note pomeridiane. All’epoca orologi non ce n’erano e per sapere l’ora cisi
affidava al sole o alla campana del paese. Passarono sei lunghe ore. A ’mpa Micheline
pareva di aver dormito solo qualche minuto. Era stanchissimo. Gli occhi lacrimavano
sangue e sudore di una vita passata a pascolare pecore e capre e a fare formaggi e ad
accudire i nove figli e la moglie e poi le due mucche e le sette galline. Crollò di nuovo per
il sonno. Passarono diverse ore dall’arrivo inpaese. Nella mente di Micheline, o dovremmo
dire nei sogni, passarono tutti gli anni della sua vita. Il primo figlio, il matrimonio
combinato dalla madre, una moglie rompiscatole e grassa come due vacche, i formaggi
sequestrati dal signorotto don Antonio, il pancotto di nonna Miuccia (Filomena) e il vino
fantastico di Zje Neculine. Rintonò la campana ben dodici volte. Micheline si alzò discatto,
ci ricorda Zje Jangeluzze, e gridò: "Madonna è già mezzogiorno, devo sbrigarmi, non ho
dormito qualche minuto, ma quasi un giorno intero, don Antonio sarà furibondo e poi mia
moglie...".
Non finì di pronunciare il nome di Chiarine (Chiara, la consorte) che venne distolto
da un luccichio in lontananza. "Chi è?", intimò con voce minacciosa, ma in realtà affranta
dal terrore. "Chi è? Guarda che prendo il fucile, mi dici chi sei?". All’improvviso vide
63
moltiplicare all’infinito quelle lucine. Erano candele e degli uomini incappucciati le
portavano in mano emettendo lamenti ebestemmiando come pazzi. La folla di strani figuri
proseguiva inesorabile verso di lui. "Chi siete? Chi siete?". Continuò invano a ripetere ad
alta voce. Il cuore batteva a mille, la voce eradiventata rauca come non mai. E continuò a
pensare alla moglie e ai nove figli e alle galline e alle pezzotte di cacio e al pancotto di
nonna Miuccia. "Non preoccuparti ’mpa Micheline, siamo amici tuoi, non ci riconosci?", si
sentì dire dal capo-processione. Era mastre Peppine (mastro Peppino, il falegname), grande
amico di famiglia e lavoratore intascabile. Udendo quella voce amica il nostro siriprese di
colpo. "Vieni con noi, ti divertirai un mondo dove stiamo andando", gli disse Peppine.
"Non ho voglia di divertirmi, anche perché devo consegnare questo capretto a don
Antonio, sennò lo sai che frustate!", ribatté Micheline. "Fai come credi, arrivederci a presto
scorgere ogni tanto quà e là, tra lapenombra dei cappucci, il volto di qualche conoscente,
ma non si ricordava chi fossero. Non ci pensò più di tanto, proseguì verso il palazzo di don
ritorno. Giunto a casa trovò la moglie inferocita come non mai: "dove sei stato tutta la sera,
è da stamattina all’alba che manchi di casa. Le pecore e le capre le ha portate Mariettina (la
figlia più grande) a pascolare, lo sai che Giggino ha preso la puntura (la broncopolmonite).
Sciagurato!". "Senti, ero sfinito e mi sono riposato un pochino sul mugnale di cummara
Terèse (comare Teresa), e che ho fatto di male, il capretto l’ho consegnato. Senti, ho
incontrato mastre Peppine, era in processione con tanta altra gente, mi sembrava un po’
pallidoperò, non è che è malato?". "Madonna mia! - esclamò Chiarine – Hai visto i morti!
Che disgrazia...". Come andò a finire? Zje Jangeluzze ci ricorda che di lì a poche ore
64
Micheline "morì d’infarto a testimoniare che la leggenda di paese è veritiera e che chi vede
«Nel Friuli di una volta e in tutto il Goriziano era credenza diffusa che la sera di
case, vagando per i corridoi, intrufolandosi negli angoli, soggiornando in quei luoghi che
erano stati più cari in vita. Dopo la visita le anime si raccoglievano nel corteo dei morti
Estremamente interessante anche la leggenda del Boscaiolo che visse una storia da
tregenda nella notte dei morti, che nella sua più recente narrazione, recita:
«Verso mezzanotte, sopraffatto dalla stanchezza e dal sonno, stava per sdraiarsi
sopra uno strato di foglie morte per fare una dormita, quando scorse in lontananza un tenue
No, quella che vedeva era vera luce, anche se tenue. Non poteva sbagliare. Si alzò da terra
e, afferrato a tasto il tascapane e quant’altro aveva con sé, si diresse nella direzione da cui
il provvidenziale chiarore proveniva. Allorché, scendendo dalla parte ripida del bosco in
cui si trovava, incrociò un viottolo aperto nel folto della macchi dall’andirivieni delle
bestie brade e dei cinghiali, dovette fermarsi per far passare una processione di figure
senza volto, vestite di bianco – fantasmi – ciascuna con un lumino in mano, che
90
Cfr. A. Del Vecchio, 5 Gennaio notte dei morti viventi, su
<http://www.angelodelvecchio.eu/presepeviventerignano/notizie-e-leggende/la-notte-dei-morti-viventi>
91
C. Burcheri, Le usanze legate al giorno dei defunti, in Corriere Veneto, 26 Ottobre 2009.
65
cimitero si trovasse in quei paraggi, fra un mare di macchia. A quel punto, le travvegole,
gli parvero possibili. Si stropicciò gli occhi di nuovo. Guardò meglio. Tutto quello che
vedeva era assolutamente vero. Bloccò allora con una mano un partecipante al macabro
corteo e gli domandò chi fossero, da dove venissero, dove fossero diretti. “La nostra è una
dall’aldilà nella notte dei Morti, come puoi vedere dal nostro abbigliamento, siamo anime
del Purgatorio”».92
92
A. Cavoli, Storie e leggende della Toscana, Laurum Editrice, Pitigliano 2008, pagg. 61-62.
66
3.3 DAL MITO AL RITO: CORTEI E ISOMORFISMI
impersonavano, agli occhi degli spettatori, le schiere dei morti vaganti condotte da
condivisibile? Egli si basa su due sostanziali prove. La prima è senz’altro il caso dello
charivari presente nel Roman de Fauvel, presentato ampiamente nel suo Charivari,
sessuali) del villaggio, identificavano la schiera tumultuante dei giovani mascherati con la
schiera dei morti, guidata da esseri mitici come Hellequin. Agli occhi di attori e spettatori,
gli eccessi delle bande giovanili dovettero serbare a lungo queste connotazioni
simboliche»94.
A questo, aggiunge una seconda prova, peraltro presente anche nell’antologia del
Meisen: «Alla fine della sua dissertazione De exercitu furioso (1688) il pastore luterano P.
C. Hilscher osservò che le testimonianze più antiche sulla processione delle anime
aveva cominciato a corrompersi per effetto degli errori introdotti dalla chiesa romana. La
93
C. Ginzburg, op.cit., pag. 283.
94
Ibid. pag. 171.
67
superstizione era continuata fino a tutto il secolo sedicesimo; secondo un anonimo
diventate, da qualche tempo, molto più rare. A questo punto Hilscher accennò a una
consuetudine valsa a Francoforte, non sappiamo da quando. Ogni anno alcuni giovani
venivano pagati perché conducessero la sera, di porta in porta, un grosso carro ricoperto di
fronde, con l’accompagnamento di canzoni e vaticini che, per non commettere errori, si
erano fatti insegnare da persone esperte. Il volgo (concludeva Hilscher) dice che in questo
le schiere dei morti alla cui guida si alternavano svariate figure mitiche» 95.
tra la Processione delle Anime, corteo leggendario spagnolo, e la Società de Oso, una sorta
di società iberica che avrebbe condotto cortei mascherati similari a quelli visti per
l’esercito di Eckart.
Sempre sulla presenza della Mesnie Hellequin nel Fauvel, con una interessante
inscenando manifestazioni grottesche e inquietanti, come quella del carro della morte, con
95
Ibid., pag. 161.
96
P. Walter, Hellequin et le masque de fange: sur que loques vers du Roman de Fauvel, in Charivari,
Mascherate di vivi e di morti, Edizioni Dell’Orso, Alessandria 2004.
68
cui si esibirono per le vie di Firenze nel 1512. Attaccarono un pesante carro nero come la
pece ad alcune pariglie di bufali, e si mossero con lenta andatura a turbare la quiete e la
serenità della gente. Eh, sì, perché soltanto questo poteva provocare, nei Fiorentini, quel
cupo veicolo, sulle cui pareti laterali erano state dipinte con vernice bianca grosse croci e
ossa umane, e sul cui cassone si ergeva, imponente, una morte con la falce in mano, ai lati
della quale erano due feretri coi coperchi abbassati. Ad ogni sosta del funebre carro, si
alzavano dalle due bare altrettante persone camuffate da scheletri che seminavano, fra i
presenti e fra i passanti, un tale terrore da farli fuggire a gambe levate, urlando e inveendo
mortuarie riversavano i simulati umori di un’angosciosa tristezza nei folli versi di una
canzone che diceva: morti siam come vedete / così morti vedrem voi. / Fummo già come
voi siete, / voi sarete come noi. Ma non bastava: davanti e dietro al carro, cantando la
munito di un nero stendardo, chi di una torcia accesa. Era una scena allucinante, che
dovunque passasse o si fermasse, faceva il vuoto per lo spavento che incuteva» 97. Lo stesso
Ottolini99, presentandosi come memoria viva ancora nella seconda metà del XIX secolo.
Le tre testimonianze di cui sopra fanno pensare ad una sorta di codifica o usanza
rituale che può avere molteplici applicazioni: il Fauvel, per dire, mostra una sub unità
rituale, il corteo dei morti o mesnie Hellequin, integrata in una più ampia manifestazione
97
A. Cavoli, op. cit., pag. 245.
98
A. Ademollo, Marietta de’ Ricci, ovvero Firenze al tempo dell’Assedio, 1840.
99
V. Ottolini, Il Teatro in Italia: Storia Dedicata Agli Artisti Teatrali e Agli Allievi dei Conservatori, 1876.
69
di Francoforte e in quello fiorentino, non risponda ad una realtà ampiamente diffusa
esistono prove in tal senso se non quelle sopra elencate, comunque databili dal XIV secolo,
quindi di tre secoli più tarde. Va detto tuttavia, in prima battuta, che l’assenza di prove non
teatro, tra i quali spicca quella di Delia Gambelli, che sostiene ampiamente una diretta
figure medievali ad esso assonanti, non solo per quanto concerne nome, maschera e
derivanti dalle diablerise e rappresentazioni dei diavoli nel teatro popolare medievale 100.
dell’Ascensione di Moosburg in Germania, per quanto attiene alle parti “non scritte” del
teatro medievale:
«Alla trascrizione di questa cerimonia, che non si discosta in nulla dalle forme
tradizionali dell’epoca, fa seguito una nota che mette in risalto due aspetti della teatralità
“sommersa”, coesistente a quella ufficialmente descritta nel libro liturgico e, con ogni
probabilità, assai più vitale della prima: “e bisogna badare che lo strepito (dei piedi) e la
turpitudine dell’immagine del diavolo, con gli abominii dei fuochi di zolfo e di pece e le
acque colorate o con altre sconvenienze o discorsi di qualsiasi tipo proibiti dalla santa
madre Chiesa, non si mescolino a questa devozione; da queste cose non solo sono profanati
i luoghi sacri consacrati al culto divino e la casa di Dio che la santità ha onorato nel corso
100
Cfr. D. Gambelli, Dall’inferno alla corte del Re Sole, in Arlecchino a Parigi, Bulzoni, Roma 1993.
70
dei giorni, ma per di più la devozione del popolo è spinta alla lascivia e al ridicolo, e a
volte persino alla sedizione. Ma dopo che l’immagine del Salvatore è sparita in alto, allora
grandi ostie, così come è uso distribuirle in alcune chiese secondo la volontà del Signore,
se se ne sono potute avere, siano portate fuori con rose, gigli e fiori diversi. E bambini che
vengono dalla scuola, gettate le vesti, uniscano secondo il nostro uso le ostie ai fiori,
levando le mani al cielo e cantando Sanctus, Sanctus oppure Veni sancte. Con i bambini
che gettano le vesti si vuole significare gli umili che non cercano le cose terrene […]”. Alla
teatralità della cerimonia celebrata dai parvuli pueri, interpretata secondo l’allegoresi del
tempo, si oppone, secondo questa testimonianza, uno strato di presenza teatrale - del tutto
assente dal resoconto ufficiale – che emerge solo nel momento del divieto. Nessun indizio
parte una schiera di demoni che percorrono la chiesa con fuochi terrificanti portando
celebrazione alla quale viene a sovrapporsi lo strato più recente, riformatore, della
cerimonia “ufficiale”?»101.
Sulla stessa linea, ovvero assenza di fonti scritte complete per il teatro popolare e
innesto dei temi di questo nel teatro ecclesiastico, si pone Richard Axton:
«È chiaro, quindi, che gli aspetti secolari degli antichi drammi religiosi sono stati
del tardo ‘200, fu giudicato, da uno studioso autorevole, “non promettente” come miracle
101
J. Drumbl, Introduzione, in Il teatro medievale, Il Mulino, Bologna 1989, pagg. 41-43.
71
criticare chi ha avuto tanto coraggio da tentare di tracciare le grandi linee della continuità e
del cambiamento nel dramma, ma rimane il fatto che il rapporto tra i drammi che ci sono
pervenuti dai secoli XII e XIII e il più tardo del Corpus Christi è vario e discontinuo. Il
mio scopo, nel riesaminare alcuni aspetti di questi testi sparsi e documenti, è di accertare
In questo contesto, il termine “popolare” è usato in due sensi: fatto “dal popolo” e
“per il popolo”. Teatro inventato dal popolo o teatro folclorico si pensa che sia la
tradizione orale (in contrapposizione alla tradizione scritta dei copioni dei monasteri o
delle corporazioni delle arti). Di solito il teatro folclorico viene trasposto in forma scritta
soltanto da qualche collezionista. Quest’è vero per l’antico pleugh play scozzese (c. 1500?)
sopravvissuto come canzone in tre parti in una raccolta a stampa del XVII secolo, e per i
primi testi del vero teatro dei Mummers, raccolti e trascritti da antiquari del XVIII e del
XIX secolo. La persistenza notevole di tipi fissi e di elementi formali nei drammi folclorici
dimostra l’antichità di tali drammi. Motivi strutturali dei drammi folclorici del Medioevo si
sono spesso conservati grazie all’innesto in drammi “clericali”, scritti, con un certo
accennata nelle fonti scritte di segno “opposto” (quelle specificamente clericali), che fa da
Orderico Vitale in poi, quasi a descrivere un parallelo, come abbiamo già avuto modo di
102
R. Axtone, Dramma religioso e tradizione popolare, in Il teatro medievale, Il Mulino, Bologna 1989,
pagg. 144–145.
72
introdurre, non solo con il mito greco (ed in particolare quello eroico), ma anche con il
teatro antico, ove il dramma diventa ritualizzazione del mito e presenta sostanziali motivi
religiosi connessi con la strutturazione della società civile, in una sorta di rituale volto a
73
3.4 LA KRAMPUSLAUF : ULTIMA SCHIERA NOTTURNA?
contemporanee connesse con le leggende medievali sulle schiere notturne, è anche lecito
ancora evidenti lasciti di tradizioni talvolta dimenticate, talvolta definibili addirittura come
ataviche, che vanno dalla danza delle spade, presente dall’arco alpino fino alle Marche,
fino a forme specifiche che esulano dal periodo carnevalesco e si attestano in periodi
coincidenti con lo spettro temporale più ampio delle schiere notturne, coincidente con feste
si presta a somiglianze coi cortei armati tipici delle schiere e di alcuni suoi epigoni:
«Dalla casa del Monarca partiva il corteo carnevalesco. Innanzi a tutti stavano i
lacchè che aprivano il corteo danzando e saltellando, rivolgendosi agli spettatori con lazzi e
burle. Seguivano i musici; dietro, la brigata dei Matti a cavallo vestiti alla moresca e armati
di lance; indi, preceduto dal Dottore e dall’Arlecchino a cavallo e da due maschere che
portavano sopra bacili d’argento la corona e lo scettro, servito dal Capitano della Gioventù,
stava il Podestà dei Matti. Questi era vestito con un sottabito bianco strettogli ai fianchi da
una sciarpa di broccato d’oro e aveva le spalle ricoperte da un ampio mantello di color
rosso purpureo. […] Quivi l’Arlecchino seguito a distanza dal Dottore, entrava nella stanza
del Podestà e dopo avergli fatto una profonda riverenza, si rivolgeva a tutti i procuratori di
In questo caso sembrerebbe ripetersi il caso del Fauvel, in cui Hellequin e il corteo
dei morti sono una sub-unità (una sorta di “maschera di gruppo”): allo stesso modo
abbiamo Arlecchino e il corteo dei Matti armati, i quali sono a tutti gli effetti, presso
Bormio, una sorta di associazione giovanile che molto richiama quanto detto da Höfler e
Ginzburg.
Tuttavia il fenomeno più interessante resta quello delle Krampuslauf, o corsa dei
Krampus, rituale carnevalesco rintracciabile lungo tutto l’arco alpino orientale e che
una sostanziale differenza: si tiene infatti nel periodo di carnevale, precisamente nella
domenica di Quinquagesima (domenica prima del mercoledì delle ceneri), mentre nei casi
italiani, austriaci e tedeschi si parla per lo più di periodi dicembrini, che vanno quindi
dall’ultima domenica di novembre (il festival dei Perchten, “cugini” dei Krampus, a
Kirchseeon in Bavaria, Germania) alla festa di San Nicolò, che copre quasi tutti i maggiori
«incentrate sulla vita di San Nicolò e sulla lotta tra il bene ed il male. L’intento di questa
rappresentazione ancora oggi messa in scena in molti luoghi del Tirolo, non era solo quello
puramente didattico-religioso: forte era anche l’intenzione di porre in evidenza gli eventi
103
M. Canclini, Bormio e il Podestà dei Matti, in Carnevali e folclore delle Alpi, Youcanprint, Tricase 2012.
75
della lingua dialettale. I luoghi di queste rappresentazioni erano in origine le Stube delle
alle 18 ha luogo la sfilata di San Nicolò e i Krampus. Il santo si affaccia da una finestra di
una casa situata nei pressi della Torre delle Dodici, simbolo storico della cittadina,
augurando il benvenuto ai presenti. Dopo la prima apparizione del santo, vestito con i
tradizionali paramenti vescovili (la mitra, il pastorale e il libro), inizia la vera e propria
sfilata in cui San Nicolò, accompagnato da un gruppo di servitori mori, dal suo fedele
principale.
bambini, il gruppo dei Krampus, formato da una trentina di elementi, urla, strepita e si
scaglia sulla gente colpendo con delle verghe i malcapitati, per la maggior parte giovani
del paese, e sporcando di nero il volto di chi capita sotto le loro mani. […] Il corteo è
chiuso da un carro (il cosiddetto “carro di Satana”) su cui si staglia un diavolo, l’unico
dotato di ali, impegnato a forgiare con incudine e martello le verghe usate dagli altri
diavoli per colpire la gente. La vera e propria sfilata di san Nicolò inizia la sera, ma già
dalle prime ore del pomeriggio la cittadina è invasa dal gruppo dei Krampus i quali, mentre
san Nicolò è impegnato a passare di casa in casa per donare caramelle ai bambini, si
aggirano per le strade spaventando e colpendo con le loro verghe i giovani del paese» 105.
104
M. Cossetto, Krampus, in StoriaE (Dossier), suppl. n. 1-2, Bolzano 2010.
105
L. Benedotti – M. Giurardelli, San Nicolò e i Krampus: la sfilata dei diavoli a Vipiteno, in Carnevali e
folclore delle Alpi, Youcanprint, Tricase 2012, pagg. 172-173.
76
Ma cosa sono i Krampus? Nella loro versione più tradizionale sono delle maschere
dotate di corna, completate da costumi fatti di campane, pelli di capra, piume o peli, che
presentano zanne e sempre una lingua rossa penzolante o comunque bene in mostra.
Identificati con comuni demoni, mostrano palesemente una natura ferina che ricorda a
giusta ragione le divinità di derivazione faunesca. «In realtà i Krampus sono forse gli
ultimi residui delle credenze in quegli spiriti della natura frequentatori dei boschi che
hanno abitato l’immaginario popolare alpino fino a pochissimo tempo fa. I Krampus sono
esseri che appartengono alla natura più selvaggia, non si sa da dove vengano, ma la
maggior parte delle testimonianze è concorde sul fatto di collocarne la dimora da qualche
parte nel profondo dei boschi. Appartenendo alla natura, i Krampus non sanno parlare.
Quasi per sottolinearne l’aspetto selvaggio e animalesco, possono emettere solo urla e
grida, cosa che peraltro non impedisce loro di comunicare efficacemente. Per le strade o
nelle case, i Krampus minacciano di portar via i bambini cattivi mettendoli nei loro sacchi
neri»106.
«Le origini della figura dei Krampus vengono tradizionalmente spiegate ricorrendo
ad una leggenda molto diffusa nell’arco alpino. Questa leggenda racconta come nei
momenti di carestia, tipici dei rigidi inverni della zona, alcuni ragazzi per procurarsi il cibo
decisero di saccheggiare i villaggi della zona, alcuni ragazzi per procurarsi il cibo decisero
di saccheggiare i villaggi vicini travestendosi con pellicce di animali e corna per non farsi
però che tra i giovani si presentò un intruso: era il diavolo in persona che i ragazzi
106
Ibid., pag. 175.
77
riuscirono a smascherare perché al posto dei piedi aveva degli zoccoli caprini. Terrorizzati
fedele viene chiamato Zwarte Pief, in centro Europa troviamo invece il Klaubauf, il Goggl,
danza, chi suona, chi mette i bambini nel sacco e li porta via, chi chiede l’elemosina; c’è il
diavoli»108.
dicembre con modalità quasi identiche, carro incluso, ma la processione comincia sulle
montagne, in piena oscurità, con i Krampus che calano portando torce con cui
accenderanno un gigantesco falò, per poi procedere tra le strade di Tarvisio centrale.
Tradizionalmente al gruppo dei Krampus potevano accedere solo i giovani maschi non
sposati109.
La Krampuslauf mostra senz’altro punti in comune con molte leggende viste nel
primo capitolo e nel primo paragrafo del presente: dalle torme di demoni della caccia
infernale alle bestie della variante friulana detta Caza Beatrich, passando per quella
107
Ibid., pag. 176.
108
Ibid., pag. 177.
109
Cfr. Gruppo Krampus Tarvisio Centrale, <www.krampus.it> e <www.gruppokrampus.altervista.org>.
78
trasmutazione medievale che vuole gli spiriti dei morti essere in realtà demoni travestiti.
Ricordano senz’altro rituali pre cristiani, non ultimo presentano somiglianze con gli Hirpi
Sorani di cui all’XI libro dell’Eneide, confraternita che secondo Servio, nel suo commento,
rapto viverent, cioè vivevano di rapina proprio come gli originari Krampus, ma anche con i
Luperci, come descritti da Plutarco e altri nei Lupercalia, che vestivano pelli di capra e
senso di tipologia, non necessariamente legata al periodo del Carnevale) le cui origini
precedente (e forse anche a tempi più antichi), specialmente tenendo conto delle figure
79
CONCLUSIONI
Che cos’è una schiera notturna era la domanda posta in introduzione. In una ricerca
che non può essere esaustiva, la risposta non può essere definitiva e ben limitata, in
particolar modo visto che la materia di cui tratta questo studio comincia con la storia
medievale (se non addirittura antica, come già capito dal Meisen) e termina (si fa per dire)
Lecouteux tenta di tracciare alcune conclusioni ed ipotesi, tra le quali una sorta di
«1. Secondo una credenza ancestrale, i morti vagavano per la terra in specifiche
date e giocavano un ruolo importante per la felicità dei vivi, poiché governavano la fertilità
e la prosperità.
Quest’azione derivava dal culto degli antenati ed aveva un’importante funzione sociale.
3. Entità distinte – originariamente due truppe, una dei morti ed una dei vivi
distinguerle.
4. La società dei vivi era quindi cultuale originariamente, e i suoi membri, almeno
per quanto possiamo dedurre dalle tradizioni esaminate, erano una specie di eletti che
possedevano il dono di avere dei Doppi, cosa che permetteva ad essi, tra le altre cose, ti
80
5. Questa compagnia, più o meno cristianizzata nella sua evoluzione storica, ha
funeraria»110.
Non credo sia possibile concordare con tutte le conclusioni di Leucoteux. Come
francese quanto da Ginzburg e come abbiamo visto anche nel caso fiorentino, fino ad
arrivare alla Krampuslauf. È anche possibile ipotizzare che le radici di queste schiere
tentare di individuare dei minimi comun denominatori che definiscano un ipotetico nucleo
centrale e non variabile delle schiere nella loro forma leggendaria: parliamo certamente di
cortei, intesi come insieme di individui che in gruppo si muovono lungo un percorso. Sono
originariamente cortei definibili come violenti, nel senso di identificazione o con degli
oltremondani, sono composti da esseri non più umani (che siano morti, demoni o spiriti
della natura), sono visibili solo di notte e non è possibile prendervi parte - sono infatti
sempre raccontati da testimoni esterni (diversamente dai sabba, ad esempio); sono infine
110
C.Lecouteux, op. cit., pag. 231, trad. nostra.
81
Questi cortei hanno ipoteticamente subito delle evoluzioni, dovute al mutare del
contesto sia religioso che sociale: da cortei armati a cortei di anime penitenti non meglio
ultime ed il loro rapporto con le precedenti, tuttavia, non credo debbano essere cercate in
una funzione apotropaica o di reiterazione della fertilità, né tanto meno nella presunta
confusione tra due temi abbozzata da Lecoteux. Al contrario, credo che le due
manifestazioni siano intrinsecamente legate sin dalle origini, in una struttura funzionale del
tutto simile a quella che può essere definita la lettura storico-religiosa del teatro greco (e
non solo greco): la reiterazione di un mito al fine di rifondare ciclicamente delle istituzioni
grandi linee che queste si legassero al comune sentire della società, fosse questa quella
germanica pre-cristiana, fortemente orientata verso un aldilà legato alla guerra (il
Valhalla), quella alto medievale in cui sorgeva, come abbiamo visto anche attraverso
Bernardo, il bisogno di arginare gli eccessi di una nobiltà guerriera fin troppo attiva e
superba, o quella dell’Europa moderna in cui, dopo il Concilio di Trento, vi era la volontà
di imbrigliare gli eccessi popolari, come abbiamo visto nel paragrafo sulle leggende
111
In merito, cfr. A. Brelich, Gli eroi greci, Adelphi, Milano 2010, A. Brelich, Aspetti religiosi del teatro
greco, in Congresso internazionale di studi sul dramma antico, Siracusa 1965, N. Spineto, Dyonisos sulla
scena: la struttura festiva del teatro classico, L’Erma di Bretschneider, Roma 2005.
82
ciclicamente le regole della comunità, i valori verso i quali questa è orientata, nonché il
83
TAVOLE
Caza Beatrich, opera in legno di Jarka Prasek, esposta nel 2007 a Siror (Trento) per il
concorso Leggende in bassorilievo.
84
Arlecchino, dalla Raccolta Fossard, 1580 ca.
85
La Krampuslauf presso Tarvisio, immagini tratte da www.krampus.it
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