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Università Telematica Internazionale Uninettuno

Facoltà di Beni Culturali

Corso di Antropologia dei patrimoni culturali

Prof. Alessandro Simonicca

Tutor Dott. Adriano Cirulli

RACCOLTA DI LETTURE PER LA PARTE MONOGRAFICA DEL PROGRAMMA DEL CORSO PER L’ANNO
ACCADEMICO 2020-2021
LETTURE CONTENUTE NELLA RACCOLTA

Tratto da C. Bortolotto (a cura di), Il patrimonio immateriale secondo l’UNESCO: analisi e prospettive, Roma,
Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2008:

• C. Bortolotto, “Introduzione. Il processo di definizione del concetto di “patrimonio culturale


immateriale”. Elementi per una riflessione”, pp. 7-48.

Tratto da A. Simonicca, Sull’estetico etnografico, Roma, Cisu, 2019:

• “Il peso dell’immateriale”, pp. 131-144

Tratti da A. Simonicca, Cultura Patrimonio Turismo, Roma, Cisu, 2016:

• Capitolo 2 “Turismo, ambiente e culture locali”, pp. 85-102


• Capitolo 10 “Teoria e prassi dello heritage tourism”, pp. 331-358

Tratti dal numero 28-29, 2011, della rivista «Antropologia Museale»

• B. Palumbo, “le alterne fortune di un immaginario patrimoniale”, pp. 8-23


• C. Bortolotto e M. Severo, “Inventari del patrimonio immateriale: top-down o bottom-up?”., pp. 24-32
• A. Broccolini, “L’UNESCO e gli inventari del patrimonio immateriale in Italia”, pp. 41-51

Tratti da R. Bonetti e A. Simonicca (a cura di), Etnografia e patrimonializzazione, Roma, Cisu, 2016

• A. Broccolini, “Per una etnografia engaged del patrimonio culturale immateriale. L’inventario
partecipativo della festa della Madonna del Monte di Marta”, pp. 45-62
• K. Ballacchino, “Antropologi attorno al tavolo della comunità patrimoniale. Riflessioni etnografiche su
un esperimento di inventario partecipativo”, pp. 63-80
• P. Nardini, “Alleati nella resistenza: antropologi e comunità locali nella valorizzazione delle culture
nell’oralità”, pp. 219-239
Introduzione

Il processo di definizione del concetto di “patrimonio


culturale immateriale”. Elementi per una riflessione
Chiara Bortolotto

Con la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale


l’UNESCO sancisce, su scala mondiale, l’istituzionalizzazione di una nuova ca-
tegoria patrimoniale e propone importanti innovazioni nel modo di pensare i beni
culturali. Espandendo la definizione di patrimonio fino ad includere espressioni
culturali tradizionali popolari ordinarie, l’UNESCO adotta un approccio basato
sulla definizione antropologica di cultura, più ampia rispetto a quella umanistica e
incentrata sull’eccellenza che aveva plasmato i suoi programmi iniziali.
Nella definizione dell’UNESCO, questa tipologia di beni culturali “immate-
riali” è da intendersi come:
le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come
pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stes-
si – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto
parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale,
trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comu-
nità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura
e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in
tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana1.

Ratificando la convenzione, gli Stati sono tenuti a prendere le misure neces-


sarie per assicurare la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale. Questo
impegno li invita innanzitutto a riconsiderare, con la definizione di patrimonio,
anche l’estensione dell’ambito di pertinenza dei beni culturali per riformulare su
questa base i loro programmi e le loro politiche culturali. Questa categoria pa-
trimoniale di origine orientale dovrà progressivamente integrarsi alle legislazioni
degli Stati parte di questa convenzione che sono chiamati ad appropriarsi di questa
idea adattandola alle proprie categorie patrimoniali e giuridiche, al proprio conte-
sto istituzionale e alla propria storia culturale.

  UNESCO 2003 art. 2, par. 1. La traduzione italiana della convenzione utilizzata in questo testo è a cura della
1

Commissione nazionale italiana per l’UNESCO.

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La creazione di una Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateria-
le prevista dalla convenzione ha, nei propositi dell’UNESCO, lo scopo di assicu-
rare la visibilità di queste espressioni culturali e di aumentare la consapevolezza
della loro importanza incoraggiando i governi, le amministrazioni, le ONG e le
comunità locali a identificare, salvaguardare e soprattutto praticare le forme della
cultura tradizionale.
Le leggi in materia di beni culturali, quantomeno nella maggioranza dei
Paesi occidentali, si sono fino ad ora essenzialmente rivolte alla tutela delle tracce
materiali al fine di assicurare l’integrità dei beni culturali mobili e immobili la cui
conservazione sia considerata di interesse pubblico dal punto di vista artistico o
storico. In effetti, questa protezione della materialità del patrimonio consente, in
una certa misura, di preservarne indirettamente la dimensione immateriale, come
nel caso dei cosiddetti “luoghi di memoria”2. Secondo l’UNESCO, queste soluzio-
ni si rivelano tuttavia insufficienti sia in considerazione del fatto che le espressioni
culturali tradizionali comprese nella definizione di “patrimonio immateriale” non
ricorrono necessariamente a supporti materiali sia perché la nuova categoria pa-
trimoniale, che, al contrario del patrimonio materiale, è in continua evoluzione,
richiede concetti operativi adeguati alla sua specificità.
Questa nuova concezione di patrimonio viene infatti proposta come un con-
densato di memoria “attiva” e prende le distanze dal patrimonio tradizionalmente e
ancora recentemente definito in relazione al passato. Il carattere tradizionale delle
pratiche ed espressioni culturali che l’UNESCO comprende nella definizione di
“patrimonio immateriale” non dipende dalla loro antichità ma dai modi nei quali
questi saperi sono acquisiti e messi in pratica3.
Se la categoria dell’“immateriale” dà molta visibilità ad una concezione di pa-
trimonio esplicitamente ispirata all’accezione antropologica del concetto di cultura,
le innovazioni proposte dalla convenzione non vanno tuttavia cercate in una labile
e troppo semplicistica opposizione tra la dimensione materiale e quella immate-
riale delle espressioni culturali considerate. I cambiamenti veicolati da quest’idea
emergono più chiaramente da un’analisi comparativa del testo della convenzione
e di quello dei due strumenti giuridici ad essa più prossimi: la Convenzione per
la protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale4 e la Raccomandazio-
ne sulla salvaguardia della cultura tradizionale e popolare5. Coronamento di uno
scivolamento da un paradigma monumentale verso quello di un patrimonio detto
“immateriale” o “vivente”, l’introduzione di questa nuova categoria patrimonia-
le propone, come principali innovazioni, il passaggio dall’idea di “protezione” a
quella di “salvaguardia” e l’eliminazione dalle direttive per la sua selezione tanto
del criterio di autenticità che dell’idea di valore universale eccezionale.
2
  Cornu 2004.
3
  Blake 2001.
4
  UNESCO 1972.
5
  UNESCO 1989.

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Se l’introduzione dell’idea di patrimonio culturale immateriale si può leggere
storicamente come il coronamento di un processo di revisione della definizione
di patrimonio che l’UNESCO ha messo in atto fin dagli anni ’90 sia nell’ambito
della protezione del patrimonio materiale che in quello della riflessione sulla pro-
tezione del folklore, l’istituzionalizzazione della nozione normativa di patrimonio
culturale immateriale prevede tuttavia l’introduzione di importanti differenze nella
definizione delle sue basi concettuali e teoriche. Vere e proprie spaccature rispetto
agli schemi tutt’ora attuali nell’approccio al patrimonio materiale, questi scarti,
non privi di criticità, propongono delle sostanziali novità che potrebbero lasciare
un segno profondo nella teoria e nella pratica patrimoniali.

Le tappe storiche della definizione del concetto di “patrimonio culturale


immateriale”
La storia del concetto normativo di patrimonio immateriale è assai recente. Il
processo di preparazione e accettazione della convenzione si è concentrato in due
anni: dalla decisione della XXXI Conferenza Generale di studiare un nuovo stru-
mento normativo internazionale per la salvaguardia del patrimonio immateriale,
nel 2001, alla sua adozione all’unanimità dalla successiva Conferenza Generale il
17 ottobre 2003. La velocità di questo processo ha permesso all’UNESCO di pas-
sare rapidamente alla preparazione della Convenzione per la protezione e promo-
zione della diversità delle espressioni culturali6 strettamente legata alla precedente
ma incentrata sugli aspetti economici della protezione delle espressioni culturali e
prioritaria nell’agenda di molti Paesi per le sue implicazioni nelle politiche econo-
miche legate alle industrie culturali7.
La Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale è
entrata in vigore il 20 aprile 2006, tre mesi dopo la ratifica del trentesimo Stato. Per
capire qual è la posta in gioco nell’attuazione di questa convenzione è interessante
considerare la ripartizione geografica di questi primi trenta Paesi: otto sono asia-
tici, sei arabi, sei africani, quattro dell’America latina e sei europei (in ordine di
ratifica: Lettonia, Lituania, Bielorussia, Croazia, Islanda, Romania). L’Europa non
è, almeno inizialmente, rappresentata dai Paesi con il maggiore peso economico
e politico, ma principalmente da Paesi dell’Est che hanno storicamente riservato
un’attenzione particolare alle espressioni culturali tradizionali. L’idea di “patrimo-
6
  UNESCO 2005a.
7
  Approvata nel 2005 e entrata in vigore nel marzo del 2007, questa convenzione fu da subito strettamente asso-
ciata a quella per la salvaguardia del patrimonio immateriale che invece non affronta le questioni legate alla prote-
zione economica delle espressioni culturali tradizionali. Essendo il patrimonio immateriale inteso dall’UNESCO
come supporto della diversità culturale (UNESCO 2003: 1; Art. 2(1)), la convenzione del 2005 è stata interpretata
come un completamento della precedente. Lo strumento conosciuto come “Convenzione sulla diversità culturale”
è in realtà la risposta agli interessi nazionali degli stati membri per la protezione delle loro industrie culturali, in
particolare i mass media, dalla concorrenza del mercato globale dell’audiovisivo. Limitando le politiche commer-
ciali neo-liberistiche, questo strumento assicura l’origine locale o nazionale dei contenuti culturali dei prodotti
audiovisivi e multimediali come delle risorse umane impiegate per la loro produzione. Per un’analisi delle impli-
cazioni di questa convenzione si veda Albro 2005a.

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nio immateriale” risulta di fatto relativamente estranea alle logiche patrimoniali
europee e occidentali che, sotto l’influenza delle politiche culturali elaborate in un
più vasto ambito internazionale, si trovano oggi di fronte alla necessità di accultu-
rarsi a questo concetto.
Sebbene la creazione di questo strumento normativo sia così recente e la sua
redazione sia stata così rapida, l’idea di “patrimonio immateriale” è il frutto di un
lungo processo di riflessione e di rinnovamento dei concetti di “patrimonio” e di
“cultura” che ha attraversato l’UNESCO nel corso degli ultimi due decenni e che
ha raggiunto attorno alla metà degli anni ’90 la sua massima intensità. È possibile
ripercorrere le tappe di questa evoluzione in seno all’UNESCO considerando da
un lato l’evoluzione dei criteri che definiscono la natura del patrimonio materiale
e, dall’altro, la riflessione sulle problematiche legate al folklore. La genesi di tale
strumento normativo va letta infatti alla luce di due scontenti: quello prodotto dalla
convenzione del 1972, segnata da un’impostazione eurocentrica e monumentalista
oggi non più accettabile e soggetta a sostanziali revisioni già dall’inizio degli anni
’90, e quello per l’insuccesso riportato dalla Raccomandazione sulla salvaguardia
della cultura tradizionale e popolare del 1989.

Dal patrimonio monumentale al patrimonio vivente:


l’UNESCO e l’evoluzione delle categorie patrimoniali
L’apertura ad una prospettiva più ampia sul senso e l’estensione del concet-
to di “cultura” e quindi su quello di “patrimonio”, inteso come una selezione di
espressioni culturali considerate degne di essere tramandare nelle generazioni, non
è una semplice conseguenza della recente introduzione della categoria di patrimo-
nio immateriale. Questo rinnovamento è stato rivendicato a lungo e infine gradual-
mente introdotto, già nel corso degli anni ’90, nell’approccio dell’UNESCO al
patrimonio culturale materiale.
La classica prospettiva monumentalista che aveva indirizzato le scelte per la
selezione dei siti da inserire nella Lista del patrimonio mondiale era stata infatti
severamente criticata dai Paesi non occidentali. Essi avrebbero voluto vedere ri-
conosciuto a livello internazionale il valore delle proprie espressioni culturali ben
lontane dal modello eurocentrico soggiacente all’idea di patrimonio veicolata dalla
convenzione del 1972.
Sebbene la Lista del patrimonio mondiale fosse il più noto e riuscito dei pro-
grammi promossi dall’UNESCO, essa era caratterizzata da uno squilibrio evidente
nella distribuzione geografica dei siti. Con una maggioranza di siti europei, rap-
presentativi della cultura cristiana e di un’architettura monumentale, la lista non
era di fatto rappresentativa di ciò che l’UNESCO proponeva di intendere come un
“patrimonio mondiale”8.
8
  Si vedano UNESCO 1994a; Lévi-Strauss; Hirsch; Saouma-Forero (edited by) 1997.

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Nel definire i criteri per l’identificazione di un sito da inserire nella Lista
del patrimonio mondiale, l’UNESCO si era dotata infatti di categorie concettuali
che non potevano essere condivise dalle culture non europee, se non a prezzo di
forzature e adattamenti. Ispirata alle conclusioni della conferenza di Atene (1931),
già vecchie di 40 anni, la Convenzione per la protezione del patrimonio mondiale
culturale e naturale si basava su criteri che penalizzavano inevitabilmente la mag-
gioranza dei Paesi membri dell’Organizzazione.
Sottolineando per la prima volta l’importanza della collaborazione interna-
zionale nella protezione del patrimonio con l’introduzione dell’idea di “patrimo-
nio artistico e archeologico dell’umanità” di interesse della “comunità degli Stati,
guardiani della civilizzazione” (corsivo mio), la conferenza di Atene introdusse
delle innovazioni importanti e destinate a rilevanti ripercussioni nelle politiche
culturali dei decenni successivi. Tuttavia, riflesso del tradizionale approccio delle
teorie del restauro applicate al patrimonio storico-artistico europeo, gli interventi
alla conferenza di Atene facevano riferimento alla nozione classicamente intesa
di “capolavoro” modellata su una definizione di patrimonio culturale altamente
parziale e limitata9. Questa prospettiva d’altri tempi, facendo riferimento alle ca-
tegorie tradizionali della storia dell’arte e dell’archeologia che si sono modellate
sullo studio dei “grandi” monumenti delle “grandi” culture, era inevitabilmente
limitante e faceva riferimento ad una categoria molto ristretta di patrimonio (quel-
lo europeo e monumentale) espressione di quell’unica civilizzazione menzionata
nelle conclusioni della conferenza di Atene.
Nella convinzione che questo approccio fosse superato e limitato ad una
visione provinciale e ristretta del patrimonio, nel 1992, in occasione del ventesi-
mo anno dall’approvazione della Convenzione per la protezione del patrimonio
mondiale culturale e naturale, il neonato Centro per il patrimonio mondiale pro-
mosse un programma conosciuto come “strategia globale” (The Global Strategy
for a Balanced, Representative and Credible World Heritage List) che stimolò e
accompagnò la revisione dei criteri definitori dei beni iscrivibili nella Lista del
patrimonio mondiale10.
L’UNESCO ospitò quindi un dibattito che rimise in questione le basi con-
cettuali della convenzione del 1972 nel tentativo di venire incontro alle critiche
mosse dai Paesi di più recente indipendenza scarsamente rappresentati all’interno
della lista. I Paesi africani e asiatici organizzarono a loro volta incontri e seminari
per contribuire al rinnovamento radicale della nozione di patrimonio culturale e
per la revisione dei criteri finalizzati all’iscrizione nella Lista del patrimonio mon-
diale. Le critiche provenienti dal cuore e dalle membra periferiche dell’UNESCO
9
  Alla conferenza internazionale di Atene parteciparono 118 fra archeologi, architetti, e storici dell’arte. Con
l’eccezione di un archeologo americano i partecipanti rappresentavano unicamente i paesi europei. Dei 56 testi
pubblicati negli atti della conferenza, 21 sono stati scritti da rappresentanti italiani (Choay [sous la direction de]
2002).
10
  UNESCO 1994a.

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consentirono la realizzazione di una serie di adattamenti nell’approccio dell’UNE-
SCO al patrimonio culturale11.
Questo rinnovamento condusse l’UNESCO a ripensare i suoi principi di fon-
do, di matrice occidentale e museologica, e ad adottare un approccio più attento
all’integrazione delle componenti naturali e culturali dei siti considerati ora nel
loro contesto, anche sociale12. Se nella distribuzione dei siti iscritti nella lista conti-
nuò di fatto a perpetuarsi quel disequilibrio che la “strategia globale” aveva tentato
di eliminare, questi cambiamenti andarono tuttavia nella direzione di una conce-
zione più aperta e globale del patrimonio che avrebbe condotto, in ultima analisi,
all’“invenzione” del patrimonio immateriale13.
Per assicurare una più equilibrata distribuzione dei siti iscritti nella Lista del
patrimonio mondiale, la “strategia globale” propose l’introduzione di nuove ca-
tegorie patrimoniali come i paesaggi e gli itinerari culturali. Se gli itinerari inter-
pretano il carattere transculturale dei sistemi culturali, i paesaggi sottolineano le
interazioni tra la dimensione naturale e quella culturale e, basandosi sul valore
dell’impatto socio-culturale ed ecologico degli usi tradizionali del territorio, si av-
vicinano all’idea di patrimonio immateriale14. Concepite come spazi culturali sog-
getti a continua evoluzione o intese come movimenti di scambio e di interazione
culturale, queste nuove tipologie di beni, interpretando soprattutto un’accezione di
patrimonio che si vuole incentrata sulla natura evolutiva della cultura, sono prope-
deutiche a quella di patrimonio immateriale.
Un’analisi delle revisioni delle direttive operazionali periodicamente aggior-
nate dal Comitato intergovernativo per la protezione del patrimonio mondiale mette
in evidenza gli aggiustamenti proposti dalla “strategia globale”. Sebbene l’UNE-
SCO non abbia rinunciato al criterio dell’eccellenza, che resta imprescindibile per
accedere alla lista e che trova la sua estrinsecazione nelle idee di “capolavoro” e
“valore universale eccezionale”15, i valori estetici ed artistici – impliciti nell’idea
di capolavoro artistico – sono stati soppiantati da altri a carattere maggiormnte
storico e antropologico. In particolare, sottolineando l’importanza degli “eventi o
tradizioni viventi” l’UNESCO introduce i significati e le pratiche immateriali tra
i criteri che determinano il valore universale eccezionale dei siti da iscrivere nella
Lista del patrimonio mondiale16. Con questo cambiamento, l’attenzione viene infi-
ne rivolta al significato complessivo del sito. La graduale scomparsa di riferimen-
ti estetici e artistici, originariamente considerati imprescindibili, ha avuto come
11
  Lévi-Strauss; Hirsch; Saouma-Forero (edited by) 1997.
12
  Questo cambiamento fu anche una conseguenza della creazione, nel 1992, del Centro per il patrimonio mon-
diale che eliminò la separazione amministrativa nella gestione dei siti della Lista del patrimonio mondiale prece-
dentemente ripartita tra le sezioni addette alle scienze naturali e alla cultura.
13
  Lévi-Strauss 1997; 2000.
14
  Plachter; Rössler 1995.
15
  Titchen 1995.
16
  UNESCO 1994 b: 10 (criterio vi); Luxen 2001.

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conseguenza la valorizzazione dei valori simbolici e non-materiali soggiacenti al
patrimonio tangibile17.
Inoltre, l’UNESCO è passata da una visione centralista e “quasi-colonialista”18
delle relazioni interculturali che favoriva solo i prototipi e i modelli ad una defi-
nizione onnicomprensiva dei processi transculturali. Il riconoscimento del “valore
culturale” non è più riservato alle culture dominanti che hanno esercitato la loro
influenza e imposto i loro modelli nelle situazioni di contatto culturale ma è rico-
nosciuto anche alle culture ricettive sottolineando in questo modo il valore delle
espressioni culturali (materiali) sincretiche che hanno preso forma nei processi di
transculturazione19.
L’introduzione dei concetti di “tradizione culturale” e “cultura vivente”20 as-
sieme all’allargamento della sfera patrimoniale fino ad includere l’idea di “uso
del territorio”21 hanno aperto la strada alla considerazione del valore patrimoniale
delle culture viventi. L’imporsi sempre più prepotentemente di un approccio antro-
pologico al patrimonio che ha le sue radici nella “strategia globale” conduce oggi
l’UNESCO a considerarlo come un insieme complesso di aspetti diversi per i quali
una distinzione netta tra le due dimensioni (materiale e immateriale) non può che
rivelarsi posticcia ed artificiale. La dimensione immateriale delle espressioni cul-
turali tangibili sembra infatti guadagnare sempre più interesse e attenzione tanto
che un approccio integrato alla salvaguardia di patrimonio materiale e immateriale
è oggi espressamente auspicato22.
In ultima analisi, l’essenziale delle innovazioni introdotte dalla “strategia
globale” coincide con l’ambizione di riflettere la natura evolutiva della cultura
nel nuovo modo di concepire i beni culturali. Pensato un tempo come fisso, stati-
co e monumentale, come qualcosa da conservare, il patrimonio è ora considerato
dall’UNESCO come un’espressione culturale vivente che va salvaguardata nella
sua evoluzione. Questo approccio dinamico implica un allontanamento dal para-
digma archivistico incentrato sulla documentazione per andare verso un approccio
che sottolinea l’importanza della riproduzione e della trasmissione delle pratiche
culturali.
17
  Revisione del criterio I: da “unique artistic or aesthetic achievement” (giugno 1977) attraverso “unique ar-
tistic achievement, a masterpiece of creative genius” (ottobre 1977) fino a “masterpiece of human creative ge-
nius” (1996). Alla soppressione dei riferimenti all’estetica si aggiungono quelli all’arte lasciando spazio a tutte le
espressioni della creatività umana.
18
  Pressouyre 1993.
19
  Revisione del criterio II: da “have exerted great influence, over a span of time or within a cultural area of
the world, on development on architecture, monumental arts or town planning and landscape design” (1977) a
“exhibit an important interchange of human values, over a span of time or within a cultural area of the world, on
developments in architecture or technology, monumental arts, town-planning or landscape design” (1996).
20
  Revisione del criterio iii (1996).
21
  Revisione del criterio v (1996).
22
  Luxen 2001 e UNESCO 2004. La Dichiarazione di Yamato è stata elaborata da una conferenza organizzata
dal Giappone a Nara nel 2004, in occasione del quarantesimo anniversario della Carta di Venezia e del decimo
anniversario della conferenza di Nara sull’autenticità.

13

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Dal “folklore” al “patrimonio immateriale”
Seppure marginale in confronto a quella sulla cultura erudita, la riflessione
sul folklore è stata oggetto, all’interno dell’UNESCO, di una lunga elaborazione
che ha successivamente contribuito alla definizione dei programmi consacrati al
patrimonio immateriale.
L’approccio dell’UNESCO al folklore può essere distinto in due fasi separate
da un momento di rottura delineatosi nel corso degli anni ’90. A partire dal tale
momento è stato infatti progressivamente abbandonato l’approccio museografico
e archivistico radicato in una prospettiva occidentale e accademica che prevedeva
di limitarsi allo studio e alla catalogazione di oggetti culturali materiali o imma-
teriali destinati rispettivamente ai musei e agli archivi. A questo paradigma se ne
sostituisce uno che privilegia il momento della trasmissione rispetto a quello della
documentazione e che ha condotto alla creazione delle iniziative rivolte alla sal-
vaguardia del patrimonio immateriale: il programma dei tesori umani viventi nel
1993, la proclamazione dei capolavori del patrimonio orale e immateriale nel 1997
e, per ultima, la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale imma-
teriale nel 2003.
Fondamentale per la definizione dell’attuale approccio dell’UNESCO nei
confronti della salvaguardia della “cultura tradizionale” è stata una conferenza,
tenutasi a Washington nel 1999 e organizzata congiuntamente dalla sezione per
il patrimonio immateriale dell’UNESCO e dal Center for Folklife and Cultural
Heritage della Smithsonian Institution. Il dibattito sollevato da questa conferenza,
incentrato sulla necessità di superare la precedente prospettiva, giudicata folklorica
ed elitista, fu un momento chiave nel percorso verso la convenzione del 200323.
Per capire le linee delle politiche culturali adottate dall’UNESCO rispetto
alle culture tradizionali negli ultimi tre decenni è quindi necessario situarle sullo
sfondo di questi due distinti approcci teorici.

Verso la Raccomandazione per la salvaguardia della cultura tradizionale e del


folklore
In una prima fase, l’interesse dell’UNESCO per la cultura tradizionale si defi-
nisce come una risposta alle critiche mosse alla definizione di patrimonio veicolata
dalla convenzione del 1972.
Lo scontento di molti Paesi fu manifesto ancor prima dell’adozione della con-
venzione del 1972. Quando, nel 1963, fu proposta l’idea di creare un fondo inter-
nazionale per la protezione dei monumenti24, l’Australian Institute for Aboriginal
Studies criticò l’inadeguatezza della definizione monumentalista di patrimonio
23
  Si veda Seitel (edited by) 2001.
24
  UNESCO 1963: 9-10.

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sulla quale si basava tale programma, obiettando che questa definizione non poteva
essere applicata alle espressioni culturali aborigene.
Questo paese ha degli insiemi di pitture e incisioni rupestri aborigene che
presentano un interesse eccezionale e, in alcuni casi, mondiale, ma non ci
sono complessi di monumenti del tipo apparentemente considerato nel docu-
mento dell’UNESCO. La preservazione delle reliquie australiane non implica
l’investimento di grandi somme di denaro ma richiede piuttosto leggi adatte
con pene severe per chi danneggia queste reliquie, la possibilità di impiego di
rangers, la costruzione di dispositivi di protezione e altre azioni poco costose
di questo tipo25.

Successivamente, nel 1973, la Bolivia richiamò l’attenzione sulla necessità


di proteggere le espressioni culturali popolari, escluse dalla convenzione del 1972
e propose di aggiungere alla Convenzione universale sul diritto d’autore del 1952
un protocollo per la protezione del folklore che attribuisse il diritto di proprietà di
espressioni culturali di origine anonima o collettiva agli Stati sul territorio dei quali
tali espressioni culturali fossero state elaborate26.
Le questioni legate alle culture tradizionali presero progressivamente impor-
tanza e ricevettero sempre più attenzione all’interno dell’UNESCO, cosicché, nel
1982, fu creata una sezione per il “patrimonio non fisico” (non-physical herita-
ge) che, dal 1984, sviluppò un programma di studio e documentazione. Sempre
nel 1982, la Conferenza mondiale sulle politiche culturali (Mondiacult) tenutasi a
Città del Messico estese la definizione di patrimonio all’insieme della tradizione
culturale:
Il patrimonio culturale di un popolo comprende le opere dei suoi artisti, archi-
tetti, musicisti, scrittori e scienziati e anche i lavori degli artisti anonimi, espres-
sioni della spiritualità della gente, e l’insieme di valori che danno significato
alla vita. Comprende sia le opere materiali che quelle immateriali nelle quali
trova espressione la creatività di quel popolo: lingue, riti, credenze, monumenti
e luoghi storici, letteratura, opere d’arte, archivi, biblioteche27.

Per la prima volta, constatando la necessità di un aggiornamento delle catego-


rie patrimoniali, fu utilizzata la definizione di “patrimonio immateriale”(intangible
heritage):
Il concetto di patrimonio ha subito un’evoluzione considerevole. Adesso com-
prende anche tutti i valori della cultura che trovano espressione nella vita quoti-
diana e un’importanza crescente viene attribuita alle attività adatte a supportare

25
  UNESCO 1964, citato in Titchen 1995: 48 (trad. aut.).
26
  Il ministro degli esteri boliviano scrisse al direttore generale dell’UNESCO lamentandosi della miopia della
convenzione del 1972 che escludeva la musica, la danza e le culture tradizionali (Ref. No. DG 01/1006-79). Si
vedano Sherkin 2001; Hafstein 2004.
27
  UNESCO 1982: 43 (trad. aut.).

15

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i modi di vita e le forme di espressione nelle quali questi valori sono trasmessi.
L’attenzione che è oggi riservata alla preservazione del patrimonio “immate-
riale” può considerarsi come uno degli sviluppi più costruttivi dell’ultimo de-
cennio28.

Dal 1985, poi, l’UNESCO cominciò a lavorare in vista della creazione di uno
strumento giuridico per la protezione del folklore e produsse una Raccomanda-
zione sulla salvaguardia della cultura tradizionale e popolare che fu adottata dalla
XXV sessione della Conferenza Generale nel 1989. Lo scarso interesse degli Stati
membri nei confronti di questa raccomandazione trova conferma nella valutazio-
ne delle risposte ai questionari sulla sua applicazione inviati dall’UNESCO nel
1994. Le risposte fornite rivelarono un’importante mancanza di elaborazione di
definizioni e strumenti in questo settore sia tra i Paesi in via di sviluppo che tra i
più ricchi29. L’insuccesso della raccomandazione fu attribuito sia alla natura non
vincolante di uno strumento legislativo “soffice”30 che alla scelta di una distinzione
categorica che escludeva da questo strumento di protezione della cultura tradizio-
nale i riferimenti alle leggi sulla proprietà intellettuale31.
Dopo la fine della guerra fredda, tuttavia, i Paesi dell’Europa centrale e orien-
tale che avevano importanti ragioni ideologiche per preservare e accentuare l’im-
portanza della cultura popolare spesso definita anche “etnica”, così come anche i
Paesi da tempo preoccupati per l’erosione e lo sfruttamento delle proprie risorse
culturali tradizionali (in Africa o in America Latina e i Paesi dell’area Pacifica),
hanno dimostrato un grande interesse nello sviluppo di programmi internazio-
nali che legittimassero la conversione patrimoniale di espressioni culturali non-
materiali. A questo punto l’UNESCO ha cominciato quindi a riconsiderare i suoi
progetti sul patrimonio culturale non-fisico collocandoli all’intersezione di altri
due programmi: quello dedicato al potenziamento delle identità culturali e quello
dedicato al patrimonio culturale materiale32.

Gli anni ’90: la definizione di un nuovo paradigma


Nel 1993 si aprì una fase di rinnovato interesse dell’UNESCO per le espres-
sioni culturali tradizionali accompagnata da un nuovo approccio e dall’introduzio-
ne di una nuova terminologia influenzati dalle esperienze maturate nelle politiche
culturali di Giappone e Corea. Solo un anno dopo la ratifica giapponese della con-
venzione del 1972, la sezione del patrimonio non-fisico (Non-Physical Heritage
Section) creata nel 1982, fu rinominata “sezione per il patrimonio immateriale”
28
  UNESCO 1982: 14 (trad. aut.).
29
  Kurin 2001a.
30
  Una raccomandazione, al contrario di una convenzione o di una dichiarazione, è uno strumento normativo in-
ternazionale flessibile o “soffice” attraverso il quale la Conferenza Generale formula dei principi e invita gli stati
membri ad adottare tutte le misure necessarie (legislative o altre) per applicarla.
31
  Sherkin 2001.
32
  Aikawa 2001.

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(Intangible Heritage Section) introducendo così ufficialmente una nuova espres-
sione per definire la cultura tradizionale, sebbene l’UNESCO utilizzasse ancora,
in alcuni casi, il termine “folklore”. Nello stesso tempo, fu creato, con il supporto
finanziario del Giappone, un programma chiamato “Safeguarding and Promotion
of the Intangible Cultural Heritage”. Sempre nel 1993, la Repubblica di Corea pro-
pose di mettere in atto la raccomandazione del 1989 introducendo un programma
per la salvaguardia dei tesori umani viventi che prevedeva la creazione di una lista
di eccellenza modellata su quella dei siti del patrimonio mondiale.
I riferimenti al valore patrimoniale delle culture orali e tradizionali diventa
progressivamente sempre più presente nel discorso dell’UNESCO. All’interno del
rapporto Our creative diversity redatto nel 1995 dalla Commissione mondiale sulla
cultura e lo sviluppo, il capitolo dedicato al “patrimonio come strumento di svilup-
po” fu pubblicato sotto l’esergo della frase proverbiale di Hamadou Ampâté Bâ:
“Quando in Africa muore un vecchio, è una biblioteca che brucia”33. Venne quindi
ulteriormente sottolineata la necessità di “riconsiderare ciò che viene attualmente
considerato ‘patrimonio’ nei diversi Paesi, e ridefinirlo in termini di uso, cura e
manutenzione”34. La commissione lamentò la persistenza nel discorso internazio-
nale del paradigma patrimoniale tradizionale ed elitista ancora ristretto alla sua na-
tura materiale e dominato da criteri estetici e storici. I membri della commissione
auspicarono inoltre una riconsiderazione profonda dell’approccio al patrimonio
che valorizzasse la dimensione vernacolare, orale e profana piuttosto che quella
monumentale, letteraria e sacra, affermando in conclusione che “il [patrimonio]
materiale può essere interpretato solo attraverso l’immateriale”35.
Cinque anni più tardi, nel 2000, il rapporto mondiale sulla cultura Cultural
diversity, conflict and pluralism sarebbe tornato ad insistere sull’importanza del
patrimonio immateriale e avrebbe rivolto la sua attenzione all’analisi delle im-
plicazioni teoriche e applicative di questa nuova categoria36. Nel frattempo, fu-
rono organizzati otto seminari regionali (1995-1999)37 per riflettere sul concetto
di patrimonio immateriale e sulle sue implicazioni nelle politiche culturali. Un
gruppo di intellettuali spagnoli e marocchini sollevò un dibattito sull’urgenza di un
intervento per preservare la piazza Jemaa-el-Fna di Marrakech che essi definirono
33
  L’uso di metafore che associano detentori e praticanti delle tradizioni a “librerie” ed “archivi viventi” e che
hanno, nell’ottica dell’UNESCO, la funzione di sottolineare la dignità del loro ruolo di trasmettitori della cultura,
sono stati criticati perché implicherebbero l’assunto che la cultura sia sempre uguale a se stessa e che possa essere
passata come un testimone da una generazione all’altra negando quindi ai detentori della tradizione la loro perso-
nalità di interpreti. Queste metafore confonderebbero “archivio” e “repertorio” e proporrebbero un’assimilazione
della protezione della cultura con la trasmissione dei suoi resti fossili. Questa prospettiva è stata accusata di non
tener conto della natura dinamica della cultura, immaginata attraverso queste metafore tipiche della classica re-
torica patrimoniale come un insieme di elementi fissi e “surgelati”. Al contrario, un repertorio si trasmetterebbe
solo nella performance possibile unicamente in un contesto nel quale le pratiche sono incorporate nelle relazioni
sociali che condizionano creazione, trasmissione e riproduzione della cultura (Kirshenblatt-Gimblett 2004a).
34
  UNESCO 1995 : 175, 193 (trad. aut.).
35
  UNESCO 1995: 194 (trad. aut.).
36
  UNESCO 2000.
37
  Per cui si veda Seeger 2001.

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uno “spazio culturale”. Nel giugno 1997 fu organizzata a Marrakech una confe-
renza internazionale sulla preservazione degli spazi culturali popolari. Pochi mesi
dopo, la Conferenza Generale dell’UNESCO adottò la risoluzione presentata dal
Marocco e supportata da altri Stati di porre il programma del patrimonio culturale
immateriale tra le priorità assolute nel campo culturale38.
Concepito inizialmente come strumento per raggiungere una più equili-
brata distribuzione geografica dei beni iscritti nella Lista del patrimonio mon-
diale e per “onorare i capolavori eccezionali del patrimonio orale e immateriale
dell’umanità”39, un nuovo programma, la proclamazione dei capolavori del pa-
trimonio orale e immateriale dell’umanità, fu quindi approvato dalla Conferenza
Generale nel 199740. La prima proclamazione si svolse nel 2001. In quell’occa-
sione, la piazza di Marrakech assieme ad altre 18 espressioni culturali – tra cui
il teatro dei pupi siciliani – furono dichiarate “capolavori del patrimonio orale e
immateriale”41. Questo programma tuttavia, diversamente dalla Lista del patrimo-
nio mondiale, non poggiava su una convenzione internazionale ma su uno stru-
mento normativo più debole e poco fortunato.
La necessità di riconsiderare la raccomandazione del 1989 era chiara fino
dalla conferenza tenutasi a Washington nel 1999 (A global assessment of the 1989
Recommendation on the safeguarding of traditional culture and folklore: local em-
powerment and international cooperation). Facendo un’analisi complessiva della
raccomandazione, delle sue basi storiche e delle sue prospettive concettuali, le
proposte formulate dai partecipanti a questa conferenza incoraggiarono l’UNE-
SCO ad espandere la definizione di folklore per renderla più inclusiva e compren-
siva non solo delle espressioni concrete della cultura (come musica, danza, giochi,
mitologia, artigianato costumi, riti ecc.)42 ma anche delle conoscenze, dei valori
e delle relazioni sociali che rendono possibile la loro ricreazione e la loro pratica
all’interno di una comunità43.
La raccomandazione era essenzialmente destinata agli studiosi e agli ope-
ratori culturali mentre, nell’ottica dei partecipanti alla conferenza, sarebbe stato
necessario ampliare la sua destinazione soprattutto ai detentori della cultura tra-
dizionale. Con lo slogan “no folklore without the folk”44, la conferenza rivendicò
come imprescindibile la centralità delle comunità dei detentori e la necessità di
salvaguardare le tradizioni sostenendo chi le pratica piuttosto che le istituzioni
scientifiche che le studiano o le documentano. Anche negli ambiti dell’educazione
e della comunicazione, la conferenza di Washington reclamò una ripartizione più
38
  UNESCO 1998.
39
  Aikawa 2001: 16.
40
  UNESCO 1998.
41
  Altri 28 “capolavori” furono proclamati nel 2003 e gli ultimi 43 in occasione dell’ultima edizione del program-
ma nel novembre 2005.
42
  Secondo la definizione adottata nella raccomandazione del 1989 (UNESCO 1989, par. A)
43
  McCann 2001.
44
  McCann 2001: 58.

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democratica dei ruoli auspicando che queste mansioni fossero assolte anche dai
detentori e praticanti delle tradizioni e non fossero appannaggio esclusivo degli
studiosi. La conferenza propose inoltre di introdurre una nuova definizione che
riconsiderasse il concetto di “comunità tradizionale” mostrando la complessità
culturale della modernità e il suo legame –non necessariamente territoriale- con la
cultura tradizionale. Infatti, benché il testo della raccomandazione non specifichi
espressamente il presupposto dell’identità delle componenti etnica e nazionale,
qualora l’essenzialismo implicito di questo strumento fosse stato ideologizzato,
avrebbe potuto trasmettesse un pericoloso messaggio etnonazionalista di ispirazio-
ne romantica e ottocentesca45.
Venne inoltre auspicato un importante rinnovamento terminologico con l’eli-
minazione del termine “folklore” che, secondo i partecipanti ai seminari regionali
tenutisi tra il 1995 e il 1999, poteva assumere connotazioni peggiorative e al quale
si preferiscono oggi, anche in ambito accademico, definizioni meno rivolte al pas-
sato (cultura popolare, vivente, orale, tradizionale ecc.). La definizione di “folklo-
re” che emergeva dalla raccomandazione era inoltre limitata ai prodotti culturali
tradizionali. Così definite, queste espressioni culturali tradizionali sarebbero state,
secondo i partecipanti alla conferenza, mercificabili e quindi alienabili dalle comu-
nità dei loro detentori. La conferenza di Washington stabilì la necessità di ampliare
questa definizione per includere anche l’atto sociale della creazione e ri-creazione
della cultura tradizionale, passando quindi dalla protezione dell’oggetto a quella
del processo che permette la sua creazione 46.
Le proposte elaborate dalla conferenza di Washington gettarono le basi
intellettuali del rinnovamento nell’approccio delle politiche culturali nei confronti
del “patrimonio immateriale” che l’UNESCO si prefigge oggi di esportare negli
Stati membri. Fondandosi su queste premesse teoriche, l’innovazione principale
che l’UNESCO propone con la nuova definizione di “patrimonio immateriale” non
si definisce quindi semplicemente con un passaggio dalla dimensione materiale a
quella immateriale ma ambisce piuttosto, quantomeno nel suo modello intellettua-
le, a rifiutare di considerare le espressioni culturali come oggetti e ad apprezzarle
come processi culturali nella loro interezza e complessità, da pensare ormai in ter-
mini dinamici di tempo e di uso. È quindi sulla base di queste proposte, alle quali,
seppur limitatamente all’idea di patrimonio materiale, la “strategia globale” aveva
aperto la strada negli anni ’90, che, nel 2002, si intrapresero i lavori di preparazio-
ne di una convenzione sul patrimonio immateriale. Alla necessità di produrre uno
strumento giuridico più aggiornato ed efficacemente e convenientemente applica-
bile anche in contesti non europei si aggiungeva inoltre la sensazione di urgenza
dovuta alla globalizzazione che l’UNESCO definisce come una “minaccia” per la
diversità culturale.
45
  McCann 2001, Clemente 1992.
46
  Final Conference Report, in Seitel (edited by) 2001: 263-301.

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La Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale:
innovazioni e problematiche
Ancor prima che il testo della convenzione fosse approvato nel 2003, il pro-
gramma della proclamazione dei capolavori del patrimonio orale e immateriale
dell’umanità aveva divulgato il concetto, ancora non normativo, di “patrimonio
immateriale” all’interno delle amministrazioni locali e sollevato un vivace dibatti-
to nell’ambiente accademico. Le reazioni degli studiosi più direttamente chiamati
in causa dall’introduzione di questa nuova categoria patrimoniale, gli antropologi,
sono state quasi unanimemente di perplessità se non di vera e propria ostilità nei
confronti dell’eventualità dell’istituzionalizzazione di questa nuova tipologia di
patrimonio.
L’obiezione più frequentemente sollevata denuncia il rischio di fossilizza-
zione o museificazione che un’azione istituzionale di questo tipo potrebbe avere
nei confronti della cultura tradizionale che finirebbe, secondo questa prospettiva,
per venire etichettata, estetizzata, mercificata, spettacolarizzata e turisticizzata.
Il tentativo di intervenire sulle dinamiche culturali è stato considerato una forzatu-
ra associata al riemergere di nostalgiche poetiche del passato che avrebbero come
esito la celebrazione di un’“archeologia vivente”47. Più concretamente, l’idea di
“patrimonio immateriale” è stata criticata anche come uno strumento di selezione
delle espressioni culturali tradizionali che privilegerebbe, in termini di attenzione e
quindi di vantaggi economici, le più spettacolari e pittoresche lasciando da parte le
pratiche ordinarie meno appetibili per un pubblico di spettatori estranei ai contesti
locali e indifferenti al loro significato sociale48.
Le investiture patrimoniali cambiano indubbiamente il modo in cui le persone
percepiscono se stesse e la propria comunità, la relazione con quello che fanno e le
condizioni di produzione e riproduzione della cultura. Il sospetto di molti antropo-
logi è che questi cambiamenti di statuto possano finire per trasformare le pratiche
comunitarie in istituzioni burocratizzate facilitando l’ottenimento di finanziamenti
ma anche oggettivandole e privandole della loro funzione sociale. Ogni azione
di “protezione” della cultura incide infatti inevitabilmente sull’oggetto della sua
attenzione. La comunità degli studiosi si è quindi interrogata sugli effetti che tali
operazioni internazionali potrebbero avere sulla dimensione locale chiedendosi
con preoccupazione se siano opportuni o auspicabili, se siano dei gioghi o degli
strumenti di emancipazione, se agire sul locale attraverso la mediazione del globa-
le sia una soluzione efficace o una contraddizione in termini, se la politicizzazione
conseguente ai processi di patrimonializzazione non finisca per strumentalizzare le
culture delle comunità che l’UNESCO afferma di volere proteggere. In particolare,
la mediazione di un’organizzazione internazionale come l’UNESCO è stata consi-
derata come un possibile strumento di politicizzazione e strumentalizzazione delle
47
  Padiglione 2007; Nas 2002.
48
  Kurin 2004.

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espressioni culturali di cui viene auspicata la conversione in “patrimonio immate-
riale” con la conseguente aggiunta di un potenziale plusvalore in termini turistici,
economici e identitari. Più in generale, l’idea stessa di “patrimonio immateriale”
ha suscitato lo scetticismo che accompagna ogni operazione di “glorificazione del
tradizionale” considerata una soluzione eminentemente simbolica e politica che,
proponendosi di assicurare la preservazione delle tradizioni, rischia di alienarle dal
loro contesto socioculturale.
Continuando ad alimentare un dibattito critico e vivace, l’introduzione di
questa nuova categoria patrimoniale si configura come un esperimento interessan-
te nelle politiche culturali internazionali che apre la strada a interventi innovativi,
seppur problematici, su scala nazionale o locale49. Con l’introduzione di questo
concetto, l’UNESCO propone infatti innovazioni essenziali nella teoria del patri-
monio. La portata di questo rinnovamento va ben aldilà della semplice introdu-
zione di una nuova categoria patrimoniale: le idee di autenticità, eccezionalità e
il legame privilegiato con il territorio vengono espunte dalla lista delle condizioni
inderogabili che, fino ad ora, avevano decretato la natura patrimoniale di un bene.
Nei fatti, l’eliminazione di questi criteri, radicati e consustanziali all’idea stessa
di “patrimonio mondiale”, sarà un risultato difficile da ottenere. Tuttavia, questa
riformulazione dei criteri di definizione del patrimonio immateriale ha, relativiz-
zandoli, il merito di proporre autorevolmente innovazioni che vanno nel senso di
una demistificazione della retorica essenzialista del patrimonio.

Salvaguardia
Il progressivo decentramento della definizione di patrimonio operato dalla
transizione dall’idea statica di “oggetti culturali” a quella dinamica di “processi cul-
turali” ha comportato necessariamente un rinnovamento degli obbiettivi dell’azio-
ne istituzionale. Diversamente dalle finalità protettive previste dalla convenzione
del 1972, l’azione di salvaguardia contemplata dalla convenzione del 2003 non si
rivolge infatti soltanto alle espressioni culturali (materiali o immateriali) ma all’at-
to sociale di creazione e rielaborazione che ne permette la produzione e la pratica,
sottolineando quindi la natura dinamica della cultura.
L’istituzionalizzazione dell’immateriale va quindi di pari passo con l’ab-
bandono progressivo del modello della “protezione attraverso la documentazio-
ne” che è alla base dell’approccio adottato nella raccomandazione del 1989. Una
delle innovazioni più concrete e cariche di conseguenze che l’UNESCO propone
con la convenzione sull’immateriale è infatti una riconsiderazione della centralità
dell’approccio documentaristico sul quale si è focalizzata fino ad ora l’attenzione e

  Sulle linee principali di questo dibattito si veda il volume 56 della rivista Museum International; Duvignaud;
49

Pérez de Cuéllar; Le Scouarnec (edited by) 2004; Nas 2002; Albro 2005b; Hafstein 2004; Brown 2003b; Kurin
2003; Noyes 2006.

21

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l’azione delle istituzioni preposte alla conservazione (in archivio o in museo) delle
tracce delle espressioni culturali tradizionali.
Se la Raccomandazione del 1989 si rivolgeva essenzialmente a ricercatori e
professionisti del patrimonio ai quali veniva richiesto di inventariare e studiare il
“folklore”, la nuova convenzione si rivolge alle istituzioni perché siano soprattutto
un sostegno alla creatività degli attori locali. L’oggetto patrimoniale è ormai diven-
tato la produzione “vivente” della cultura nel suo divenire e, in questa prospettiva,
gli inventari hanno solo un valore propedeutico, quello cioè di “assicurare l’identi-
ficazione in vista della salvaguardia”50 (corsivo dell’autore).
Sebbene, scegliendo l’indirizzo della salvaguardia, l’UNESCO insista, alme-
no teoricamente, sull’importanza delle azioni di intervento finalizzate a suppor-
tare la produzione della cultura, mappature ed inventari continuano ad essere un
supporto irrinunciabile per ogni azione che conduca all’istituzionalizzazione della
cultura51. L’ intervento richiesto nel modo più esplicito agli Stati parte della con-
venzione è proprio la creazione di inventari delle espressioni culturali che corri-
spondono alla definizione di patrimonio immateriale. Se, come vorrebbe proporre
l’UNESCO, tali inventari saranno solo preliminari all’azione di salvaguardia dei
processi culturali, i metodi e le categorie tradizionalmente utilizzati nelle opera-
zioni di identificazione finalizzate alla protezione di oggetti culturali, rischiano di
non essere adeguati.
Il fine ultimo della “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale
immateriale” associa infatti l’imperativo della protezione con la necessità della
trasmissione. Nel testo giuridico questo concetto è così precisato:
Per “salvaguardia” s’intendono le misure volte a garantire la vitalità del patri-
monio culturale immateriale, ivi compresa l’identificazione, la documentazio-
ne, la ricerca, la preservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione,
la trasmissione, in particolare attraverso un’educazione formale e informale,
come pure il ravvivamento dei vari aspetti di tale patrimonio culturale52.

L’innovazione che contraddistingue questo approccio dipende dal fatto che la


salvaguardia passa attraverso il sostegno della creatività dei detentori e privilegia
quindi, rispetto alla conservazione strictu sensu, la rielaborazione della cultura.
Secondo l’UNESCO, questo approccio dovrebbe consentire al patrimonio di resta-
re vivente, aperto a ulteriori sviluppi e matrice di rinnovamento.
L’idea della salvaguardia si presenta quindi come una delle proposte più inte-
ressanti per superare il classico approccio della protezione conservativa fino ad ora
adottato per i monumenti storico-artistici. I presupposti di questo nuovo approccio
stridono tuttavia con il concetto, finora irrinunciabile, dell’autenticità. Le azioni
finalizzate alla difesa di un patrimonio “autentico”, costruito sull’idea statica di
50
  UNESCO 2003 Art. 12.
51
  Anderson 1991.
52
  UNESCO 2003 Art. 2 par. 3.

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perennità e identità originarie radicate in luoghi e tempi immutabili, si basano
sull’idea della conservazione intesa come una lotta contro la degradazione, la spa-
rizione o la distruzione. In questa prospettiva, l’azione delle istituzioni è rivolta al
recupero, allo studio e alla conservazione delle reliquie del passato ma concerne
soltanto ciò che scompare e resta estranea alla creazione. Se il modello della pro-
tezione e conservazione di autorevoli reliquie del passato scelte e classificate sulla
base di una selezione filologicamente corretta non poteva tralasciare il principio
dell’autenticità, per il nuovo paradigma della salvaguardia, che non riguarda più
gli oggetti ma la riproduzione e la trasmissione – e quindi l’aggiornamento – delle
pratiche culturali alle generazioni future, la nozione di autenticità si trasforma in
uno strumento difficile da manovrare.

Autenticità
Storico e filologico, il primo approccio dell’UNESCO al patrimonio, veico-
lato dalla convenzione del 1972, è erede di un canone accademico incentrato sul
valore scientificamente stabilito dell’autenticità dei beni culturali. Tale approccio
riflette la moderna sensibilità occidentale che, per reagire all’erosione radicale del
sentimento vivo di continuità con il passato, stabilisce con esso una nuova rela-
zione trasformando alcune delle sue tracce fenomeniche in oggetti patrimoniali.
In questo processo di conversione patrimoniale la relazione tra passato e presente
è certificata e legittimata dall’applicazione di metodi scientifici filologicamente
corretti (storici, archeologici, etnologici ecc.). Questa condotta conferisce uno
“statuto di autenticità” che legittima la condizione riconosciuta di patrimonio. Alla
base della costruzione di questa idea di patrimonio, l’autenticità è quindi utilizzata
come un concetto essenziale per perpetuare il senso di continuità storica e di di-
scendenza culturale.
Condizione imprescindibile e assoluta per l’iscrizione nella Lista del patrimo-
nio mondiale è proprio quella di provare l’autenticità dei beni culturali e l’integrità
di quelli naturali. Questo criterio ha creato tuttavia controversie importanti in seno
allo stesso comitato del patrimonio mondiale. Il criterio dell’autenticità si è infatti
rivelato un valore problematico anche nell’iscrizione di alcuni siti europei ma par-
ticolarmente inadatto per la valutazione delle candidature non occidentali53.
La Carta di Venezia stabiliva che i monumenti fossero trasmessi alle gene-
razioni successive “nella loro completa autenticità” “in the full richness of their
authenticity”54. Ispirandosi a questo documento, che ebbe una profonda influenza
sulla convenzione del 1972, le direttive elaborate dal comitato per la protezione del
53
  Escludendo ogni tipo di intervento umano o forma di antropizzazione nel paesaggio, il “test dell’integrità”
promuove la natura incontaminata dei grandi parchi naturali ma esclude la maggioranza degli altri paesaggi.
(Pressouyre 1993).
54
  Icomos 1964. Sull’impostazione modernista della Carta di Venezia e sull’influenza esercitata su di essa delle
categorie proprie del mercato dell’arte e degli storici dell’arte italiani e in particolare di Cesare Brandi si veda
Marconi; D’Amato 2006.

23

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patrimonio mondiale hanno quindi adottato l’autenticità come criterio fondamen-
tale per l’iscrizione dei siti nella lista. Limitandosi a proporre delle direttive per
le operazioni di conservazione dell’autenticità dei monumenti, la Carta di Venezia
non offriva tuttavia nessuna definizione di questo concetto. Il comitato stabilì dun-
que di definire il concetto di “autenticità” associandolo a quattro elementi princi-
pali: i materiali, la lavorazione, la concezione, il contesto55.
Questa definizione di autenticità è stata di fatto un ostacolo spesso insor-
montabile per le candidature dei Paesi non occidentali, in particolare asiatici e
africani56. Il dibattito sollevato dalla “strategia globale” aveva ribadito questo pro-
blema che fu quindi posto al centro del rinnovamento complessivo della nozione
di patrimonio proposto negli anni ’90. A mettere in primo piano l’urgenza di una
revisione di questa nozione fu soprattutto la ratifica giapponese della Convenzione
per la protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale nel 1992. Le can-
didature di siti giapponesi creavano infatti un grosso imbarazzo al comitato per
il quale era difficile considerare autentici i materiali delle architetture lignee ed
effimere che il Giappone avrebbe voluto iscrivere nella lista. Il dibattito sollevato
dalle rivendicazioni giapponesi si concluse con l’acquisizione della consapevolez-
za da parte dell’UNESCO dell’etnocentrismo del concetto di autenticità formulato
nella Carta di Venezia e successivamente adottato nelle direttive per l’iscrizione
nella Lista del patrimonio mondiale. Il Documento di Nara sull’autenticità57 sancì
il ridimensionamento del valore di questo concetto, ormai riconosciuto come una
costruzione socioculturale, e convenne sulla sua relatività culturale proponendo di
declinare la nozione di autenticità sulle singole specificità nazionali. L’innegabile
rigidità istituzionale di questa innovazione che presuppone una omogeneità interna
all’insieme di ogni ambito nazionale dipende dal fatto che i governi nazionali sono
considerati da un’organizzazione governativa come l’UNESCO gli unici possibili
interlocutori politici.
Problematico e contestato anche nel campo del “patrimonio materiale”, questo
concetto viene rifiutato in partenza in quello dell’“immateriale”. La Convenzione
per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale non menziona infatti l’au-
tenticità come criterio per la selezione dei beni da iscrivere sulla liste previste dalla
convenzione e la Dichiarazione di Yamato, constatando il fatto che il patrimonio
culturale immateriale è sottoposto ad una ricreazione continua, ha esplicitamente
proposto di eliminare il concetto di “autenticità” tra quelli utili all’identificazione
e salvaguardia di questa categoria di patrimonio58.
Se l’attenzione dell’UNESCO fu richiamata sui problemi posti dall’idea di
autenticità da circostanze concrete con ricadute pratiche sul piano politico come
55
  UNESCO 1994b. Per una definizione più recente si veda l’ultima revisione delle direttive si veda UNESCO
2005b.
56
  Lévi-Strauss 2001, Munjeri 2001; Von Droste; Bertlisson 1995.
57
  Larsen (edited by) 1995.
58
  UNESCO 2004.

24

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quelle sopra considerate, la spinta verso un tentativo di superamento del valore
attribuito a una supposta “autenticità originaria” è anche una risposta alle solleci-
tazioni teoriche dell’antropologia e delle teorie della cultura59 e può considerarsi,
in ultima analisi, anche la conseguenza di un ripensamento nel modo di pensare la
cultura, indirizzato verso un approccio meno culturalista60. Il concetto e il voca-
bolario dell’autenticità sono infatti associati ad una concezione essenzialista della
cultura modellata dalla visione romantica dell’identità come entità definita e fissa,
profondamente radicata nel passato e pensata come una struttura coerente e orga-
nica i cui valori sono condivisi da gruppi internamente omogenei. Nel corso degli
anni ’80 è progressivamente emerso un forte scetticismo nei confronti degli studi
che presupponevano o si sforzavano di provare l’esistenza di tradizioni autentiche61.
La revisione della nozione di autenticità vis à vis il concetto di patrimonio imma-
teriale è quindi la conseguenza di una riformulazione teorica post-strutturalista
che ha finito per esercitare una certa influenza sull’UNESCO. Questa prospettiva
si è rivelata particolarmente adatta per concettualizzare un approccio alla cultura
conveniente al contesto storico contemporaneo nel quale la natura transculturale
dei sistemi culturali è sempre più esplicita ed evidente. In questa nuova prospettiva,
l’UNESCO ambisce quindi a pensare la cultura come un processo sempre rinego-
ziato nel quale non c’è spazio per “origini pure” e “identità autentiche”.
Affermare che la cultura è un processo di negoziazioni e di connessioni si-
gnifica tuttavia privare di significato la dicotomia autentico/spurio che, fino ad ora,
è stata la principale categoria di identificazione e selezione delle classificazioni
patrimoniali. È quindi proprio affrontando il problema dell’autenticità soggiacen-
te all’introduzione della categoria dell’“immateriale” che l’UNESCO si confron-
ta con il compito di rigettare le fondamenta dell’idea di patrimonio. Proponendo
l’eliminazione del criterio di autenticità, l’idea di patrimonio immateriale veicola
infatti implicazioni ben più significative e teoricamente ricche in conseguenze di
quanto non faccia l’accento sull’immaterialità che ha suscitato le prime reazioni
all’introduzione di questo concetto62.
Sebbene sia gli studiosi che l’UNESCO propongano oggi di pensare il
patrimonio come plurale e meticcio63 e l’UNESCO abbia ufficialmente abban-
donato la posizione culturalista, l’Organizzazione ricorre, nella pratica, ora
59
  Amselle 2001; Bendix 1997; Dundes 1969; Goody 2004; Griffiths 1995; Handler 1986.
60
  Questo rinnovamento era già in atto almeno a partire dalla pubblicazione del rapporto Our Creative Diversity
della Commissione mondiale sulla cultura e lo sviluppo: “l’idea semplice offerta da un’ipotetica origine culturale
primordiale è chiaramente inadeguata in questo caso: il tappeto Navajo, per esempio, contiene influenze che
possono essere fatte risalire attraverso il Messico e la Spagna, al nord Africa” (UNESCO 1995:196 trad. aut.).
Questa nuova visione non fu tuttavia completamente assorbita e rimase posticcia, semplicemente giustapposta a
quella culturalista che aveva plasmato le concezioni teoriche e le linee programmatiche dell’UNESCO. (Eriksen
2001: 132). Per un confronto tra il “vecchio” e il “nuovo” approccio al concetto di “cultura” nelle scienze sociali
si veda Wright 1998.
61
  Hobsbawm e Ranger (a cura di) 1983 ; Handler Linnekin 1984; Bausinger 1966.
62
  Cirese 2002.
63
  Turgeon 2003; UNESCO 1995.

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all’uno ora all’altro di questi modelli teorici glissando sulle contraddizioni
di questa confusa concettualizzazione64. Date le finalità e la storia intellet-
tuale dell’UNESCO, profondamente influenzata dal pensiero di Claude Lévi-
Strauss65, questa ambiguità appare come strutturale e inevitabile. Secondo
l’UNESCO, la funzione essenziale del patrimonio è infatti quella di legitti-
mare un sentimento di appartenenza identitaria. Questo approccio presuppone
una visione della cultura intesa come un’essenza “naturale” ed implicitamente
autentica. Di conseguenza, la visione culturalista è alla base dell’idea stessa di
patrimonio e l’essenzialismo che ancora pervade il discorso dell’UNESCO è
strutturale e strategico.
Restando inevitabilmente giustapposte, queste due visioni provocano un’am-
bivalenza di approcci anche nei confronti della questione dell’autenticità il cui
vocabolario è duro a morire nella retorica delle politiche culturali. “Urgenza” e
“origini” – a volte qualificate come “etniche” – sono concetti ai quali viene fatto
sistematicamente appello nei programmi di protezione del patrimonio. Come no-
tato da Valdimar Hafstein66, il vocabolario dell’autenticità è ampliamente utiliz-
zato anche in relazione al patrimonio immateriale. Sebbene la convenzione non
menzioni il concetto di autenticità, il discorso dell’UNESCO si propone di fatto di
preservare il patrimonio immateriale dai rischi di folklorizzazione presupponendo
in questo modo l’esistenza di una cultura tradizionale “originale” e di sue degene-
razioni “inautentiche”67. Inoltre una “cultura in pericolo” è implicitamente consi-
derata come un’essenza pre-esistente che va difesa, piuttosto che come qualcosa
che viene costantemente riprodotto e rielaborato creativamente secondo l’idea di-
namica di cultura che aspira ad imporsi, con evidenti difficoltà, nella prospettiva
dell’UNESCO sul patrimonio68.
Sbarazzarsi della “vecchia” idea di cultura sembra contemporaneamente la
sfida più stimolante e il compito più contraddittorio per l’UNESCO. Sicuramen-
te, l’abolizione dell’autenticità e del corredo di concetti ad essa associati, è lun-
gi dall’essere una missione di facile realizzazione. Anche qualora questa inno-
vazione, abbinata alla nuova definizione di patrimonio proposta dall’UNESCO,
riuscisse astrattamente ad integrarsi nelle teorie della cultura di un’organizzazione
64
  Eriksen 2001; Wright 1998 e la replica di Lourdes Arizpe (Arizpe 1998).
65
  Per un’analisi dell’influenza del pensiero di Lévi-Strauss sull’UNESCO si vedano Dei 1992, Eriksen 2001.
66
  Hafstein 2004.
67
  Tale sensazione di urgenza e di emergenza è consustanziale al folklore definitosi come disciplina proprio in
reazione alle preoccupazioni destate all’inizio del XIX secolo dal mutare delle culture tradizionali con l’avan-
zare della modernizzazione nei paesi occidentali più industrializzati. È infatti attorno al concetto di “urgenza”,
assieme a quello di “autenticità”, che il folklore trova la sua ragione d’essere disciplinare. Entrambi questi
“valori” sono tuttavia andati incontro a importanti revisioni. La storia degli studi sul folklore ha infatti messo
in luce i limiti e le potenzialità di strumentalizzazione politica della nozione di autenticità e dei concetti – come
quello di urgenza – che rientrano nel suo vocabolario, in relazione alla cultura e alla definizione dell’identità
culturale. (Bendix 1997).
68
  Cowan; Dembour; Wilson 2001: 19.

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internazionale, l’idea di autenticità sembra, nel concreto, restare una necessità im-
prescindibile per gli attori locali.
Aldilà delle contraddizioni concettuali e teoriche che rendono difficile un
rifiuto reale di questa nozione, gli usi concreti dell’idea di autenticità dimo-
strano come su di essa si articoli gran parte della posta in gioco nei processi
di conversione patrimoniale. L’osservazione etnografica dimostra infatti come
il bisogno di rivendicare l’autenticità della propria cultura sia un valore irri-
nunciabile per gli attori coinvolti nel processo di certificazione patrimoniale. Il
discorso degli attori locali, soprattutto nell’ambito dell’attivismo associazioni-
sta, testimonia dell’importanza che è ancora attribuita a questo concetto, spesso
associato ai “valori immateriali”, al turismo e alla mercificazione delle culture
tradizionali. Commentando la creazione della Lista [rappresentativa] del patri-
monio immateriale, dinanzi a un articolo pubblicato sulla rivista dell’Associa-
zione Città Italiane Patrimonio Mondiale UNESCO, associa proprio il concetto
di “autenticità” ai “valori immateriali”, al turismo e alla mercificazione delle
culture tradizionali:
Certamente le candidature molto particolari, “autentiche” e legate strettamente
alla tradizione locale potrebbero avere le maggiori possibilità di inserimento
(…) Il tema [n.d.a. del patrimonio immateriale] è molto interessante, anche
sul piano delle ricadute turistiche. Infatti secondo l’Organizzazione Mondiale
del Turismo (OMT), il turismo culturale e ambientale sarà sempre più attratto
da “prodotti veri e poco costruiti” e quindi, nella sostanza, oltre che visitare
beni culturali o ambientali l’ospite chiederà di vivere, sempre più, “atmosfe-
re”, “sensazioni” ed “esperienze” legate, appunto, ai valori immateriali (come
assistere ad una festa storica, vivere una tradizione, vedere come si produce un
prodotto tipico, essere coinvolti in un rito tradizionale, ecc.)69.

Indubbiamente, gli usi che gli attori della patrimonializzazione fanno del
concetto di autenticità si rivela spesso delicato. Accompagnando e favoren-
do la legittimazione dei gruppi più diversi, la retorica dell’autenticità assume
inoltre un ruolo fondamentale sul piano identitario. Se, da un lato, i processi di
conversione patrimoniale e il riferimento all’autenticità della cultura che ne è
l’oggetto possono contribuire a corroborare l’identità di un gruppo e sono per
questo un bisogno diffuso della nostra società, dall’altro, l’abuso della retorica
dell’autenticità può degenerare nella strumentalizzazione della cultura e delle
tradizioni nelle rivendicazioni – politiche – di tali gruppi (etnici, regionali o
nazionali) e finire per andare in direzione opposta alla missione che l’UNE-
SCO si è proposta nel suo atto fondativo: costruire la pace nell’animo degli
uomini70.
69
  Ricci 2005: 39.
70
  UNESCO 1945.

27

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Eccellenza, rappresentatività, liste
Assieme all’eliminazione del criterio dell’autenticità, la rinuncia all’idea di ec-
cezionalità è la fondamentale innovazione che distinguerà i principi di selezione del
patrimonio culturale immateriale da quelli utilizzati per il patrimonio materiale.
L’idea di “valore universale eccezionale” è infatti intimamente legata alla
Lista del patrimonio mondiale, costruita in base a criteri di eccellenza. Il “valo-
re universale eccezionale” non è tuttavia definito nella convenzione del 1972 e,
pur essendo un concetto cardine per la selezione dei beni iscritti nella Lista del
patrimonio mondiale, è contemporaneamente uno degli aspetti che ne sono sta-
ti più fortemente contestati. La questione dell’eccezionalità in relazione al patri-
monio materiale è stata recentemente discussa da un gruppo di esperti convocati
dall’UNESCO71. Pur avendo riconosciuto alcuni punti critici di questa nozione,
le raccomandazioni formulate dagli esperti ribadiscono tuttavia l’importanza del
concetto di “valore universale eccezionale” come criterio essenziale per l’iscrizio-
ne nella Lista del patrimonio mondiale e rimandano alla definizione delle direttive
preparate dal Comitato:
Il valore universale eccezionale significa un rilevanza culturale e/o naturale
così eccezionale da trascendere i confini nazionali e da essere una questione
di importanza comune per le generazioni presenti e future di tutta l’umanità.
In quanto tale, la protezione permanente di questo patrimonio è della massima
importanza per la comunità internazionale nel suo complesso72.

Ben radicata nell’immaginario comune e associata all’idea di patrimonio


veicolata dall’UNESCO negli ultimi trent’anni, l’idea dei “capolavori” o “tesori
culturali” è funzionale alla retorica del discorso politico sia locale che naziona-
le. “Tesoro” e “capolavoro” sono inoltre termini che fanno presa sul linguaggio
giornalistico divulgatore dell’idea, ormai consolidata nell’opinione pubblica, che
l’emblema del patrimonio mondiale sia un marchio che contraddistingue le “me-
raviglie del mondo”. Il tentativo di dissociare dalla nuova categoria patrimoniale
un’idea così ben radicata sia tra gli addetti ai lavori che nell’opinione comune è
destinata ad incontrare resistenze analoghe a quelle sopra considerate in relazione
all’eliminazione del concetto di autenticità73.
In effetti, nelle prime fasi della definizione dei programmi sul patrimonio
immateriale, l’UNESCO non aveva messo in discussione il principio dell’eccel-
lenza. L’idea occidentale di “capolavoro”, propria del vocabolario delle “belle
arti” e fondata sulla valorizzazione della creatività del genio di una personali-
tà artistica individuale, è infatti altrettanto radicata nella filosofia patrimoniale
giapponese, principale ispiratrice dei programmi dell’UNESCO nell’ambito del
71
  UNESCO 2005c.
72
  UNESCO, 2005b: 14 (trad. aut.).
73
  Ne è un esempio il titolo di un articolo recentemente pubblicato su Repubblica: UNESCO, è un tesoro il folk-
lore d’Italia (De Luca 2006).

28

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patrimonio immateriale. L’elitismo giapponese in materia di beni culturali ha
finito per penetrare nei programmi elaborati dall’UNESCO esportando anche
nell’ambito del patrimonio immateriale il sistema estetizzante dell’eccellenza e
l’idea del genio creativo. Questa idea, che in Giappone regge tuttora la logica di
selezione dei “tesori nazionali viventi”, è filtrata nel programma della proclama-
zione dei capolavori del patrimonio orale e immateriale dell’umanità.
Sebbene l’idea dell’eccellenza e della sua esposizione su liste di merito siano
un punto sul quale l’azione diplomatica giapponese in seno all’UNESCO ha molto
insistito, l’Organizzazione ha cercato di sfumare progressivamente questo tratto,
ritenendolo inadatto alla comprensione di espressioni culturali che sono il prodotto
di pratiche collettive considerate “minacciate” proprio perché “ordinarie” e di scar-
so impatto mediatico o spettacolare. Con l’introduzione del concetto normativo di
patrimonio culturale immateriale proposto dalla convenzione, è stato quindi abo-
lito il riferimento all’idea di valore universale eccezionale. Passando ad una Lista
rappresentativa del patrimonio culturale immateriale, come richiesto dalla conven-
zione, l’UNESCO si propone quindi di eliminare l’idea di eccellenza che era alla
base del programma della proclamazione dei capolavori del patrimonio orale e
immateriale dell’umanità. Tuttavia il fatto stesso di selezionare degli elementi per
inserirli su una lista, seppur rappresentativa, implica necessariamente l’elezione di
alcuni elementi e l’esclusione di altri.
Nel corso dei lavori per la preparazione del testo della convenzione l’idea
stessa di creare una lista fu molto osteggiata. Valdimar Hafstein descrive con preci-
sione come, nel corso della preparazione della convenzione, una lunga discussione
sia stata riservata all’opportunità di eliminare il termine “lista” che avrebbe imme-
diatamente richiamato la Lista del patrimonio mondiale selezionata su criteri di
eccezionalità. Questo dispositivo, strutturato sulla selezione esclusiva di “capola-
vori”, è accusato di essere alimentato da uno spirito di competitività e di stimolare
forme di “rivalità patrimoniale” piuttosto che di collaborazione74.
L’idea della lista rappresentativa ha finito per essere accettata come un com-
promesso diplomatico: essa mantiene il meccanismo della selezione ma, rifiutando
il criterio dell’eccezionalità, elimina il concetto di “tesoro” o “capolavoro”. Se da
un lato questa soluzione dovrebbe prevenire, almeno teoricamente, ogni forma di
gerarchizzazione e competizione internazionale, dall’altro la rappresentatività rima-
ne tuttavia un criterio vago e indeterminato, forse non meno problematico di quello
dell’eccezionalità. La sostituzione dell’eccezionalità con la rappresentatività è stata
proposta anche come un tentativo per smorzare le premesse competitive proprie del-
la Lista del patrimonio mondiale. L’idea avanzata dal segretariato dell’UNESCO
74
  Hafstein, in questo volume. Si veda ad esempio la pagina dedicata all’UNESCO del sito www.italia.it nel quale
la ricchezza di siti iscritti nella Lista del Patrimonio mondiale è presentata come se si trattasse di un primato in
una classifica: “L’Italia è al primo posto per il numero di siti protetti dal programma internazionale dei patrimoni
dell’umanità [...] È proprio per la sua eccezionale ricchezza artistica e culturale e per la bellezza e diversità del suo
ambiente naturale che l’Italia risulta essere al primo posto nella lista dei siti da proteggere stilata dall’UNESCO”.

29

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di introdurre un principio di limitazione temporale (sunset clause) che consenta di
limitare a un certo numero di anni il privilegio e il vanto di comparire nella lista
rappresentativa conferma l’intenzione di rendere questa lista qualcosa di diverso da
un’esibizione simbolica di trofei nazionali ma di trasformarla, almeno in teoria, in
uno strumento funzionale alla creazione di politiche di salvaguardia75.
Il dibattito accesosi sulla questione della lista e analizzato in questo volu-
me da Valdimar Hafstein è stato alimentato anche dalle riflessioni degli specialisti
chiamati ad esprimersi sulla forma e la sostanza della convezione. La discussione
si è strutturata sulla base di una divisione disciplinare che ha contrapposto la diver-
sità di approcci e sensibilità vis-à-vis le implicazioni concettuali veicolate dall’idea
della lista. Da un lato, l’approccio legale e manageriale ha fondato il suo ragiona-
mento sulla necessità di una recensione preliminare ad ogni forma di intervento, e
quindi sulla necessità della creazione di liste e inventari. Dall’altro, memori degli
effetti provocati della selezione più o meno arbitraria di tratti culturali attraverso
la creazione di liste e di inventari nei contesti coloniali, gli antropologi coinvolti in
questo progetto hanno tendenzialmente osteggiato questa soluzione considerando-
la una pratica ottocentesca dannosa e screditata76.
L’analisi dell’applicazione di analoghi sistemi ha dimostrato che la compi-
lazione di liste oggettiva le espressioni culturali privandole della loro complessità
e multivocalità e della loro natura conflittuale. Questa visione razionalizzata dei
processi culturali costruita da burocrati, diplomatici, operatori culturali e studiosi
accademici è stata criticata come un’operazione artificiale e tecnocratica di defini-
zione di “sopravvivenze culturali” funzionale agli interessi delle istituzioni e delle
amministrazioni pubbliche77.
Secondo i suoi detrattori, questo approccio non rischia solo di rimanere estra-
neo al contesto del suo intervento e di rivelarsi inefficace di fronte alle complessità
delle situazioni socio-culturali nel loro insieme ma potrebbe condurre anche ad una
rapida museificazione delle pratiche culturali. La compilazione di liste e inventari
è stata inoltre accusata di essere il mezzo più economico, visibile e convenzionale
di fare un gesto simbolico in favore di comunità e tradizioni neglette. Distogliendo
attenzione e risorse dalla concretezza della salvaguardia e dalle azioni di supporto
concreto alla produzione culturale a livello locale, la lista non sarebbe altro che
un’operazione metaculturale78.
Facilmente strumentalizzabile nella rivendicazione di diritti culturali, alla li-
sta è stato anche imputato il fatto di non essere altro che un occhio di bue acceso
su elementi individuali contemporaneamente messi in evidenza e decontestualiz-
zati attraverso un meccanismo di selezione-esclusione. Come sottolinea Valdimar
75
  UNESCO 2006; UNESCO – ACCU, 2006. Questa proposta non è tuttavia stata accettata dal Comitato intergo-
vernativo per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, riunitosi a Tokio nel settembre 2007.
76
  Kurin 2003.
77
  Brown 2003b.
78
  Kirshenblatt-Gimblett 2004b.

30

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Hafstein nel suo contributo, questo dispositivo esclusivo, elemento strutturale del
sistema-patrimonio, è uno degli aspetti più problematici di ogni processo di patri-
monializzazione. Alienando le espressioni culturali selezionate dai contesti cultu-
rali nei quali svolgono una funzione sociale, la lista le giustappone arbitrariamente
nello spazio simbolico e virtuale di una vetrina internazionale79.
Le liste dell’UNESCO, infine, non sarebbero soltanto caratterizzate da una
dimensione globale ma anche promotrici di un effetto globalizzante. Intensifi-
cando una consapevolezza del mondo inteso come insieme unico accessibile da
un elenco selezionato, esse esibiscono su un palcoscenico globale delle tradizio-
ni presentate come locali. Per essere trasportate in questa nuova dimensione, le
espressioni culturali candidate alla lista devono adattarsi ad un formato comune.
L’omogeneità formale e metodologica, che i criteri di selezione definiscono ed
impongono “impacchettando” le candidature, implica una inevitabile standardiz-
zazione delle categorie usate per pensare queste espressioni culturali. Una volta
superata la soglia che le ammette nella sfera del patrimonio esse sono ormai
necessariamente coniugate secondo una grammatica globale80. Paradossalmente,
l’UNESCO metterebbe quindi in atto delle azioni globalizzanti proprio per con-
trastare le stesse forze che considera come una minaccia per la complessità e la
diversità delle culture.

Comunità
Diversamente dal patrimonio materiale, fisicamente radicato nei luoghi e, in
quanto tale, strumento privilegiato delle strategie di pianificazione e di sviluppo
territoriale, il patrimonio immateriale, sia nella sua definizione che nel suo rappor-
to con le strategie di valorizzazione e sviluppo proposte dall’UNESCO, è associato
all’idea di comunità81.
Già nelle prime fasi della definizione di questo concetto, l’importanza del
ruolo dei praticanti e dei detentori della cultura considerata “patrimonio immate-
riale” fu messo esplicitamente in primo piano. Il concetto di “patrimonio immate-
riale” fu inizialmente definito come:
I processi sociali che la gente apprende con l’esperienza unitamente alle cono-
scenze, abilità e creatività che sviluppa, i prodotti che crea e le risorse, spazi
e altri aspetti del contesto sociale e naturale necessari alla loro sostenibilità.
Questi processi forniscono alle comunità viventi un senso di continuità con le

  Early; Seitel 2002: 13.


79

  Nas 2002; Turtinen 2000.


80

  Le comunità possano essere residenti in un territorio determinato ma anche migranti, nomadi o diasporiche. La
81

convenzione non prevede quindi che il patrimonio immateriale sia necessariamente situato o praticato all’interno
del territorio di un singolo stato. Al contrario, essa protegge anche il patrimonio immateriale caratterizzato da
manifestazioni comuni a comunità transfrontaliere o transcontinentali che possono anche non essere caratterizzate
da nessuna continuità territoriale (Scovazzi 2007).

31

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generazioni precedenti e sono importanti per l’identità culturale, come anche
per la salvaguardia della diversità culturale e della creatività dell’umanità82
(corsivo dell’autore).

Fortemente auspicata dalle proposte avanzate nel corso della conferenza di


Washington83, la partecipazione delle comunità di base alle attività di salvaguardia
è ora esplicitamente richiesta dalla convenzione. Sebbene la definizione adottata
dall’UNESCO non sia identica a quella proposta nel 2001 dagli organizzatori del-
la Conferenza di Washington, diversi punti della convenzione richiamano questa
necessità:
- l’articolo 2.1 definisce il patrimonio culturale immateriale in relazione alla
sua valenza identitaria per le comunità, i gruppi ed, eventualmente, gli indi-
vidui che lo riconoscono come tale;
- l’articolo 11 b stabilisce la partecipazione delle comunità nei processi di
identificazione e definizione del loro patrimonio immateriale;
- l’articolo 13 richiede agli Stati parte della convenzione di assicurare la fru-
izione del patrimonio culturale immateriale nel rispetto dei costumi e degli
usi che regolano l’accesso ad aspetti particolari di tale patrimonio;
- l’articolo 15 fa appello agli Stati parte perché assicurino la più ampia parteci-
pazione possibile delle comunità, gruppi, ed eventualmente degli individui,
alla salvaguardia e alla gestione del loro patrimonio culturale immateriale.
Assente nel testo della convenzione, ma indispensabile per identificare i sog-
getti da coinvolgere nelle azioni di salvaguardia, una definizione di “comunità”
proposta come valida per l’interpretazione della convenzione è stata elaborata da
un gruppo di esperti riuniti dall’UNESCO a Tokyo nel maggio del 2006. Questa
definizione è formulata sulla base dell’esistenza di un sentimento di appartenenza
e di identità dipendente dalla pratica condivisa, dalla trasmissione o dall’attacca-
mento ad una forma di patrimonio immateriale:
Le comunità sono delle reti di persone che condividono un legame o un senti-
mento di identità prodotto dalla condivisione di una relazione storica radicata
nella pratica e nella trasmissione del, o nell’attaccamento al, loro patrimonio
culturale immateriale84.

Come specificato nella convenzione, l’identificazione con una comunità è


una condizione imprescindibile per definire il patrimonio culturale immateriale
che può essere considerato tale solo qualora sia riconosciuto dalle comunità
(Art. 2.1). Viceversa, secondo questa definizione di comunità, è il patrimo-
nio culturale immateriale a definire e attestare l’esistenza di una comunità.
82
  Definizione proposta dai partecipanti della tavola rotonda sulle definizioni organizzata nel marzo 2001 a Grin-
zane Cavour (UNESCO 2001, raccomandazione n° 7) (trad. aut.).
83
  McCann 2001.
84
  UNESCO-Accu 2006: 9 (trad. aut.).

32

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Il patrimonio immateriale è quindi esplicitamente inteso come uno strumento
per immaginare le comunità85: rivendicare un patrimonio comune è essenziale
per la costruzione della comunità intesa contemporaneamente come un legame
preesistente e come un presupposto per il riconoscimento e la pratica del “pa-
trimonio culturale immateriale”.
Rappresentazione semplificata e iconica del territorio e della sua unità, il
patrimonio materiale è centrale per pensare uno spazio politico come supporto
di identità individuali e collettive e per legare le rivendicazioni contemporanee
all’autorità del passato. Sebbene il legame tra il patrimonio immateriale e il
territorio non sia esplicitato e la relazione del patrimonio immateriale con i
suoi detentori non sia mediata da questo, ma dall’appartenenza ad una comu-
nità, questa categoria patrimoniale è ugualmente soggetta ad investiture sim-
boliche.
Comunemente intesa come fondamento dell’identità personale e antidoto alla
competitività dell’individualismo moderno, la “comunità” è un’entità collettiva
difficilmente definibile oggettivamente e solo apparentemente naturale. Tuttavia,
l’idea di “comunità”, funziona come un’etichetta conveniente per sostenere l’im-
magine e l’azione collettiva di un sistema sociale multivocale e inevitabilmente di-
somogeneo ma che, per raggiungere i suoi obbiettivi, ha tutto l’interesse a presen-
tarsi come compatto86. Le analisi etnografiche dei processi di patrimonializzazione
dimostrano come nella realtà anche le comunità più piccole non siano dei contesti
sociali garantiti e stabili ma, attraversate da tensioni e conflittualità frequentemen-
te determinate da disequilibri di potere, siano proiezioni sempre provvisorie di
un processo di negoziazione e ridefinizione di ruoli87. Specialmente nei contesti
caratterizzati da scarsità di risorse, i membri della comunità intrattengono spesso
relazioni fortemente competitive per assicurarsi profitti simbolici e concreti. Que-
ste “competizioni culturali” si combattono con l’arma essenzialista dell’autentici-
tà che determina la legittimità delle rivendicazioni e l’accesso ai benefici sociali,
politici ed economici che queste rivendicazioni si propongono di ottenere. In que-
sti contesti, il patrimonio immateriale potrebbe finire per essere strumentalizzato
come un “folklore delle differenze culturali” e come fondamento dell’esibizione
del locale.
Inoltre, le comunità sono spesso informali e non hanno necessariamente un
portavoce o un capo designato necessari per essere concretamente coinvolte nella
pratica amministrativa della salvaguardia. In simili situazioni di vuoto istituzionale,
gli attori locali economicamente o politicamente più influenti saranno verosimil-
mente i meglio posizionati per farsi garanti della salvaguardia e della gestione del
“patrimonio immateriale”. La rappresentatività di queste astrazioni amministrative
della comunità (fondazioni, commissioni, ecc.) potrebbe infatti non essere facil-
85
  Anderson 1991.
86
  Noyes 2006.
87
  Noyes 2006; Ciarcia 2003; Palumbo 2003.

33

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mente valutabile da organismi sovralocali. La necessità – della burocrazia interna-
zionale – di identificare e di istituzionalizzare dei referenti locali con il compito di
gestire la tradizione che si costruisce discorsivamente e conflittualmente all’interno
di un sistema sociale complesso ma non istituzionale è stata poi considerata come
un prevedibile incentivo alla mercificazione (specialmente in assenza o carenza di
finanziamenti pubblici), alla corruzione e alla strumentalizzazione ideologica delle
espressioni culturali tradizionali88.
Infine, uno degli elementi di incompiutezza della convenzione è stato attribuito
all’assenza di una presa di posizione sulla spinosa questione dei diritti delle popo-
lazioni autoctone89. Se nei Paesi europei l’idea di “comunità” rinvia soprattutto a
collettività locali, spesso rurali, in altri contesti coincide più particolarmente con
gruppi indigeni o altre minoranze. Pur avendo modellato la definizione di patri-
monio immateriale sull’idea di “comunità”, il testo della Convenzione per la sal-
vaguardia del patrimonio culturale immateriale trascura di fatto queste tipologie
specifiche di collettività.
Organizzazione governativa, l’UNESCO interagisce con i governi degli Stati
membri e riconosce la diversità culturale solo su scala nazionale. Questa media-
zione governativa fa apparire lo Stato nazionale come un contenitore omogeneo e
non problematico di cultura di cui il “patrimonio” sarebbe l’incarnazione incon-
testata e diretta90. Senza soffermarsi sulla complessità culturale che può sussistere
all’interno di uno stesso stato nazionale, la convenzione non attribuisce di fatto
diritti collettivi alle minoranze o alle comunità autoctone. Questo principio avreb-
be infatti rappresentato un problema politico molto delicato per alcuni degli Stati
membri dell’UNESCO che temevano che il riconoscimento di tali diritti avrebbe
potuto avvallare e alimentare forme di autodeterminazione.
Per evitare che alcune comunità utilizzino gli strumenti di legittimazione e
affermazione culturale per supportare rivendicazioni territoriali ed affermare così
la propria autonomia politica, la convenzione prevede quindi che l’inserimento
nelle liste dell’UNESCO dipenda esclusivamente dalle proposte degli Stati inte-
ressati (Art. 16.1). Sebbene alcune manifestazioni culturali tradizionali possano
essere proprio espressione della resistenza al governo nazionale, è proprio la
sovranità nazionale ad avere la facoltà di proporre delle candidature per la lista
rappresentativa. Queste candidature sono evidentemente passibili di riflettere gli
interessi del gruppo al potere che sarà quindi libero di ignorare o censurare le
espressioni culturali delle minoranze prive di rappresentanza politica91. Solo nel
caso di beni “necessitanti salvaguardia urgente” la convenzione prevede che il
comitato, “previa consultazione” con lo stato, possa iscrivere une bene nella lista
del patrimonio immateriale che necessiti di una salvaguardia urgente (art. 17.3).
88
  Noyes 2006.
89
  Scovazzi 2007.
90
  Eriksen 2001; Albro 2005b.
91
  Kurin 2001b.

34

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Creazione collettiva, salvaguardia del valore patrimoniale e protezione dei
diritti di proprietà intellettuale
Sul piano giuridico, l’elemento più problematico della convenzione è stato at-
tribuito all’isolamento degli aspetti legati alla sfera della proprietà intellettuale, già
presente nella raccomandazione del 1989 e considerato come una della cause del suo
insuccesso92. L’articolo 3 della convenzione esplicita e conferma questa separazione:
Nulla nella presente Convenzione può essere interpretato nel senso di: [...] (b)
pregiudicare i diritti e gli obblighi degli Stati contraenti derivanti da qualsiasi
strumento internazionale correlato ai diritti della proprietà intellettuale o all’uso
di risorse biologiche ed ecologiche di cui sono parte.

Il testo adottato dall’UNESCO privilegia infatti un approccio eminentemente


patrimoniale. Il modello giuridico a cui viene esplicitamente fatto riferimento è la
Convenzione per la protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale del
1972 di cui la nuova convezione eredita di fatto i meccanismi di base (liste, comi-
tato, fondo)93.
Questo riferimento esclusivo al diritto del patrimonio culturale non è, secon-
do alcuni giuristi, privo di limiti e difficoltà. Le potenzialità insite nello sfruttamen-
to delle conoscenze tradizionali – soprattutto botaniche – delle comunità autoctone
sono oggetto di interessi economici e scientifici sempre più importanti. Per evitare
i rischi di biopirateria gli attori locali rivendicano quindi per le loro espressioni
culturali e conoscenze tradizionali forme di protezione in base al regime per la
proprietà intellettuale94.
Le modalità di creazione di espressioni culturali tradizionali o quelle di pro-
duzione di conoscenze e savoir-faire dei gruppi autoctoni sono tuttavia specifiche a
contesti molto diversi da quelli per i quali sono state pensate le leggi sulla proprietà
intellettuale. I valori socio-culturali di queste conoscenze derivano dal loro caratte-
re collettivo e condiviso e sono quindi in contraddizione con l’idea di un autore o
con quella dell’originalità del contributo intellettuale che è oggetto di protezione.
Il regime della proprietà intellettuale, nato nel XIX secolo in risposta alle esi-
genze dello sviluppo industriale dei Paesi europei, si fonda invece su regole indivi-
dualistiche che privilegiano l’idea della creazione e dell’innovazione attribuibili ad
un autore ed estranee ai sistemi di valore propri delle comunità autoctone.
Rinviando all’idea di “proprietà” il termine “patrimonio” nasconde una pro-
fonda ambiguità qualora sia associato alle espressioni culturali tradizionali. Men-
tre i beni materiali sono generalmente proprietà pubbliche o private, nel caso del
patrimonio immateriale si tratta di elementi inappropriabili o inappropriati (come
92
  Sherkin 2001.
93
  Blake 2001.
94
  Martinez 2004; Cornu 2004. Sulle difficoltà e contraddizioni associate all’applicazione di sistemi di protezione
giuridica di idee per i gruppi indigeni si veda Brown 1998 e Brown 2003a.

35

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nel caso delle lingue o delle tradizioni orali). Anche qualora un individuo o una
collettività esercitino un controllo su questi elementi non si tratta propriamente di
diritti di proprietà95. Il concetto giuridico di proprietà intellettuale si basa invece
sulla persona dell’autore e sull’oggetto da esso creato e presuppone quindi la cor-
poralità delle cose e degli esseri come elementi di dimostrazione e di prova. Esclu-
dendo il contesto socio-culturale di produzione, questo tipo di protezione si applica
al risultato finale e non alle dinamiche soggiacenti di rielaborazione, ai processi, ai
metodi e ai savoir-faire che ne hanno consentito la realizzazione96.
Basato su imperativi utilitaristici e incentivi finanziari di incoraggiamento alla cre-
azione attraverso la protezione di diritti economici, l’applicazione esclusiva di questo
sistema di protezione si rivela inadatto ad una reale protezione delle conoscenze intese
globalmente come elementi culturali nel loro complesso. Una soluzione basata esclu-
sivamente sulla protezione dei diritti di proprietà intellettuale non risponde quindi in
modo soddisfacente e pertinente alla specificità del “capitale immateriale” e andrebbe
a discapito della particolarità dei saperi che sono il frutto di conoscenze tradizionali.
Sulla base della constatazione del fatto che la protezione del patrimonio im-
materiale passa sia attraverso la protezione dei saperi e dei contesti socio-culturali
nei quali viene elaborato che attraverso quella della produzione intellettuale da essi
generata, alcuni giuristi avrebbero considerato auspicabile la creazione di uno stru-
mento che non si limitasse in modo esclusivo ad una delle due prospettive ma che
si basasse sul riconoscimento del carattere olistico di queste espressioni culturali.
Sebbene, introducendo l’idea di patrimonio immateriale, l’UNESCO abbia
realizzato l’ambizione di consolidare la consapevolezza del valore patrimoniale
di espressioni culturali generalmente considerate marginali, la convenzione non
affronta tuttavia le delicate questioni legate alla proprietà intellettuale. Questa di-
cotomia è stata attribuita sia alla difficoltà di realizzare una valida sintesi tra le
sfere giuridiche della protezione della creazione e del patrimonio sia, soprattutto,
a ragioni di ordine istituzionale. Nel tentativo di distribuirsi i ruoli in relazione a
quest’ambito che è, di fatto, sia di competenza dell’UNESCO che dell’Ompi, le
due organizzazioni si sono finora divise il lavoro sulla base dei rispettivi mandati
e prerogative istituzionali. L’UNESCO si è quindi assunta il compito di assicurare
la protezione del patrimonio culturale immateriale inteso in una prospettiva vasta
e interdisciplinare (la salvaguardia). All’Ompi rimangono invece i compiti di pro-
tezione degli aspetti legati alla proprietà intellettuale più problematici perché di-
rettamente ed esplicitamente legati agli aspetti economici97. Insistendo su concetti
consolidati, propri dell’attuale regime di proprietà intellettuale, in particolare nel
campo delle biotecnologie e dell’uso medicinale delle piante – molto redditizio per
alcuni gruppi farmaceutici – alcuni Paesi, per i quali la cultura tradizionale ha una
scarsa importanza, tendono infatti ad opporre una tacita resistenza all’elaborazio-
95
  Cornu 2004.
96
  Martinez 2004; Cornu 2004.
97
  Rougeron 2004.

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ne di uno strumento più completo98. L’elaborazione di uno strumento specifico di
protezione internazionale è quindi ancora incompiuta sebbene l’OMPI si impegni
ufficialmente ormai da diversi anni sul fronte della protezione di quelle espres-
sioni culturali che l’UNESCO ha definito “patrimonio immateriale” e abbia creato
un comitato ad hoc (Comité intergouvernemental sur la propriété intellectuelle, les
ressources génétiques, la connaissance traditionnelle et le folklore). Questa cesura
istituzionale influisce, secondo alcuni giuristi, sul trattamento giuridico della que-
stione che avrebbe invece tratto giovamento da una riflessione globale e da una più
stretta collaborazione delle due organizzazioni soprattutto in considerazione del
fatto che il concetto di salvaguardia non è isolabile dalle problematiche legate alla
proprietà intellettuale.

L’esperienza giapponese
Se, come si è visto, la maggioranza dei Paesi non europei auspicava un ra-
dicale rinnovamento delle categorie patrimoniali tradizionali, realizzatosi in parte
nel corso degli anni ’90, il modello adottato dall’UNESCO per ripensare la sua
filosofia patrimoniale ed introdurre infine l’idea di patrimonio immateriale è es-
senzialmente di ispirazione giapponese. Il Giappone dispone infatti di un sistema
legislativo in materia di beni culturali che, dalla metà del XX secolo, include e va-
lorizza le espressioni culturali immateriali sia in se stesse che in relazione agli ele-
menti del patrimonio architettonico dei quali, nella prospettiva giapponese, sono di
fatto una componente inscindibile.
Il cambiamento di prospettiva impostosi all’interno dell’UNESCO nel corso
degli anni ’90 aveva dunque già trovato nel Giappone un importante sostegno. Nel
1994 infatti, solo un anno dopo avere ratificato la convenzione del 1972, il Giappo-
ne ospitò una conferenza a Nara con l’intento di rimettere in discussione il criterio
dell’autenticità, fondamentale per l’iscrizione nella Lista del patrimonio mondiale.
Introducendo, come si è visto, un’interpretazione relativista e meno rigida di que-
sto concetto, il dibattito di Nara ebbe un’importanza fondamentale per gli sviluppi
successivi della “strategia globale”99.
A disagio nell’adattarsi alle categorie statiche e monumentali proposte
dall’UNESCO fino ad allora, nel corso del decennio 1993-2003, il Giappone si
è efficacemente adoperato per esportare il proprio paradigma patrimoniale. Sfor-
zi importanti sono stati fatti sia dal punto di vista economico che diplomatico.
Nel corso della lunga parentesi di assenza degli Stati Uniti dall’Organizzazione, il
Giappone ne è stato infatti il principale finanziatore. Stabilito nel 1993, il fondo di
deposito giapponese per la salvaguardia e la promozione del patrimonio culturale
immateriale ha fornito il supporto economico che ha consentito un significativo
avanzamento di questo programma accentrando così l’attenzione dell’Organizza-
98
  Scovazzi 2007.
99
  Larsen (edited by) 1995.

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zione su quest’ idea ancora poco conosciuta100. Come si deduce dai ringraziamenti
al governo giapponese che aprono spesso le relazioni di gran parte delle attività re-
alizzate nell’ultimo decennio per promuovere l’idea di “patrimonio immateriale”, i
fondi extrabudgettari messi a disposizione dal Giappone hanno fornito un supporto
essenziale alla diffusione di questa nuova categoria patrimoniale. Tra 1993 e 2003,
inoltre, alti funzionari giapponesi hanno ricoperto posizioni chiave all’interno
dell’UNESCO collocando il patrimonio culturale immateriale tra le priorità asso-
lute dell’Organizzazione nel campo della cultura. Scontenti e preoccupati per la
loro scarsa rappresentatività nella Lista del patrimonio mondiale, attribuita all’ina-
deguatezza e alla ristrettezza della definizione di patrimonio implicita nell’idea di
“patrimonio materiale”, i Paesi africani sono stati i più importanti alleati diploma-
tici del Giappone in questa impresa.
L’interesse e l’influenza giapponesi nella creazione della Convenzione per la
salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, paragonabili a quelli americani
per la convenzione del 1972101, risultano chiari qualora si consideri che, ratificando
la convenzione del 2003, gli Stati parte dovranno guardare verso oriente per cercare
modelli consolidati da una salda tradizione nella salvaguardia del patrimonio im-
materiale. Il Giappone si trova quindi in una situazione analoga a quella dell’Italia
all’indomani dell’entrata in vigore della convenzione del 1972: potrà esportare le
sue competenze e i suoi modelli e proporsi come “riferimento” imprescindibile nel
campo della salvaguardia di un patrimonio vivente, proprio come l’Italia ha potuto
fare in quello del restauro dei beni storico-artistici.
Nel 1993, solo un anno dopo la ratifica giapponese della convenzione del
1972, Marc Bourdier si chiedeva:
I dibattiti sul futuro del patrimonio mondiale all’interno degli organismi inter-
nazionali che sono incaricati della sua conservazione diventeranno particolar-
mente interessanti da seguire nel prossimo futuro, se le poltrone dei responsabili
amministrativi con le posizioni più elevate saranno occupate da rappresentanti
dell’arcipelago nipponico.
Saremo, a breve, i testimoni di un trasferimento inverso di competenze, di cui
avremmo appena potuto immaginare la realizzazione in un campo così speci-
fico ad ogni paese come quello della protezione delle tracce del suo passato?
Questa è la domanda che abbiamo il diritto di farci nel momento in cui, sulla
scena internazionale, il Giappone non aspira più soltanto al dominio economico
ma al riconoscimento in altri campi più carichi di significato102.

Una qualche forma di prevaricazione è implicita nei processi nei quali il lin-
guaggio e le categorie del gruppo che propone di esportare i suoi modelli come
canonici sono imposti ai gruppi ricettivi. Tuttavia, il caso giapponese dimostra

  Aikawa 2001.
100

  Kono 2004; Titchen 1995.


101

  Bourdier 1993: 108 (trad. aut.).


102

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come lungi dall’essere oggetto di una ricezione passiva, l’importazione, alla fine
del XIX secolo, dell’idea occidentale di patrimonio sia passata attraverso un ca-
pillare processo di interpretazione e adattamento alle categorie giapponesi per le
quali gli elementi naturali e i processi – immateriali – di produzione degli oggetti
sono considerati altrettanto importanti delle espressioni culturali tangibili103.
L’appropriazione giapponese di questa invenzione occidentale è stata oggetto
di una rielaborazione e di una “personalizzazione” talmente profonde da consentire
al Giappone di riproporre all’occidente una versione aggiornata e rivista del concetto
di patrimonio. La sfida per i Paesi occidentali pare quindi delinearsi specularmente a
quella che, in un contesto storico e politico molto diverso, il Giappone sembra avere
brillantemente risolto.
Come reagiranno a questa prova i Paesi occidentali, in particolare quelli che,
come l’Italia, sono conosciuti nel mondo per la loro ricchezza di beni culturali e
vantano una tradizione particolarmente prestigiosa e radicata nell’ambito della loro
protezione? Sapranno questi Paesi raccogliere la sfida di elaborare dei programmi
di salvaguardia senza fermarsi alle pratiche già ben consolidate fino ad ora adottate
per la conservazione dei beni culturali materiali? Avranno la modestia di passare
dal ruolo di maestri a quello di apprendisti? Sapranno dimostrare l’autonomia e
l’indipendenza intellettuale necessarie per fare proprie le esperienze maturate nei
Paesi asiatici traducendole in una versione che sentano come propria?
Un’acculturazione pedissequa al dinamismo dei modelli giapponesi che, di-
versamente dagli approcci europei alla cultura tradizionale, incentrati su documen-
tazione, archivi e musei, si focalizzano sulla pratica e la trasmissione, non sarebbe
solo frustrante ma anche irrealizzabile. L’esperienza nel campo linguistico dimo-
stra come ogni traduzione sia necessariamente culturalmente connotata. Come
nota James Clifford, quando i concetti da tradurre sono cardinali nella definizione
di sistemi culturali essi sono praticamente intraducibili:
tutti i termini di traduzione impiegati nelle comparazioni globali – termini come
“cultura”, “arte”, “società”, “contadino”, “modo di produzione”, “uomo”, “don-
na”, “modernità”, “etnografia” – ci fanno fare un pezzo di strada ma a un certo
punto vengono meno. Traduttore traditore. Nel tipo di traduzione che è per me
il più interessante, impariamo un mucchio di cose su persone, culture e storie
diverse dalle nostre: abbastanza per cominciare a capire che cosa ci sfugge104.

Tuttavia, una delle opportunità offerte dalle situazioni nelle quali è necessario
fare delle traduzioni è quella di “espandere” il potere significante della propria lin-
gua105. Questo arricchimento linguistico corrisponde necessariamente una espan-
sione delle categorie culturali alla quali il linguaggio fa riferimento.

  Bourdier 1993.
103

  Clifford 1997: 56.


104

  Si veda Fabietti 1999: 260.


105

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Analogamente, appropriarsi di un paradigma patrimoniale diverso, seppure
condizionato dai limiti e dalle contraddizioni di cui si è detto, è una sfida impor-
tante per un paese dalla mentalità patrimoniale fortemente radicata nel materiale e
ancora saldamente legata a categorie estetico-artistiche. L’Italia ha avuto un ruo-
lo importante nel corso della preparazione della Convenzione per la salvaguardia
del patrimonio culturale immateriale sostenendo questo progetto, anche in termini
economici, con la creazione di un fondo di deposito per il patrimonio immateria-
le. Adattando il proprio sistema di protezione dei beni culturali alla categoria di
“patrimonio immateriale”, l’Italia, come la maggioranza dei Paesi che hanno fino
ad ora concentrato la loro attenzione sul patrimonio materiale, si vedrà inevitabil-
mente costretta a gestire nuovi problemi e ad affrontare i rischi che tale idea porta
con sé. Sembra auspicabile che lo sforzo necessario per espandere le categorie
patrimoniali tradizionali considerate, in Italia più che altrove, indiscutibili e ovvie
stimoli una riflessione comune ai contesti locali, istituzionali e scientifici e condu-
ca a ripensare il patrimonio e i suoi usi tenendo conto della sua natura dinamica e
della complessità dei processi di patrimonializzazione.

Struttura del volume


Ripercorrere, seppure a grandi linee, le tappe storiche dell’evoluzione del
concetto di patrimonio elaborato dall’UNESCO dimostra come si tratti un valore
convenzionale “costruito” in determinati contesti come risposta a bisogni, sem-
pre diversi ed evolutivi, formulati in circostanze storicamente, politicamente, ed
economicamente contingenti e come la definizione e l’estensione del concetto
di patrimonio non siano di conseguenza mai scontati. Il “patrimonio” non esiste
quindi di per sé come un valore puro e ideale ma è il risultato di un processo di
selezione operato sulla base di criteri stabiliti da necessità e sensibilità congiun-
turali e relative. Questi criteri sono cambiati nel corso del tempo e con essi la
nostra idea e la nostra percezione di cosa sia patrimonio.
Come si è cercato di dimostrare, l’interesse dell’UNESCO per il concetto
di “patrimonio immateriale” che ha condotto alla creazione della Convenzione
per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, riflesso della preoccu-
pazione internazionale per la “minaccia” della globalizzazione e il bisogno di
rivendicare identità locali specifiche, non è né improvviso né astratto da precise
circostanze geopolitiche.
Questo libro propone un’analisi del percorso che ha portato alla definizio-
ne normativa di questa nozione all’interno dell’UNESCO e di alcune delle sue
più importanti innovazioni, sia sul piano teorico che su quello delle sue concre-
tizzazioni pratiche. La struttura di questo volume collettivo mette in evidenza
le sfaccettature di questa idea presentando le riflessioni maturate recentemente
sia nell’ambito delle istituzioni (contributi di Sylvie Grenet e Luciana Mariotti)
che in quello scientifico (contributi di Valdimar Hafstein, Janet Blake e Lorenzo

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Brutti). A titolo esemplificativo, vengono inoltre proposte delle analisi di casi
specifici (il contributo di Hélène Giguère e il mio) e le testimonianze di coloro
che fino ad ora, e limitatamente all’esperienza italiana, sono stati identificati
dall’UNESCO come detentori di questa forma di patrimonio (contributo di Janne
Vibaek, interviste a Italia Chiesa e Salvatore Napoli, Mimmo Cuticchio, Alfredo
Maceri, Antonello Bardeglinu, Giovanni Cossu, Daniele Cossellu e Sebastiano
Pilosu).
Janet Blake ripercorre le tappe che hanno condotto alla Convenzione per la
salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e le prime azioni finalizzate
alla sua attuazione. Il suo contributo commenta i meccanismi e i punti salienti
della convenzione mettendone in luce, in una prospettiva giuridica, le innova-
zioni e le problematiche. Soffermandosi sulle scelte terminologiche, analizza
il processo che ha condotto l’UNESCO ad adottare la dicitura “patrimonio cul-
turale immateriale” per indicare l’oggetto della nuova convenzione e spiega le
implicazioni sottese alla scelta del termine “salvaguardia”.
Luciana Mariotti presenta le problematiche terminologiche e concettuali le-
gate alla traduzione e all’adattamento della convenzione alla legislazione italiana
e analizza le difficoltà derivate dal tentativo di integrare il concetto proposto
dall’UNESCO nelle categorie concettuali veicolate dal Codice dei Beni Culturali
e del Paesaggio del 2004.
Il contributo di Sylvie Grenet introduce il mandato storico della “mission
ethnologie”, la sezione del Ministero francese della cultura e comunicazione oggi
responsabile dell’attuazione della convenzione, e descrive le difficoltà e le resi-
stenze incontrate di fronte alla necessità di adattare al nuovo concetto proposto
dall’UNESCO l’approccio al patrimonio fino ad ora utilizzato nelle istituzioni
francesi. Il contributo presenta le azioni intraprese dal Ministero – in questa pri-
ma fase sostanzialmente indirizzate verso la creazione di inventari – e il tentativo
di rimettere in discussione i metodi di identificazione fino ad ora utilizzati per
integrare le comunità in una pratica tradizionalmente riservata dalle istituzioni
francesi agli specialisti del settore.
Valdimar Hafstein analizza la questione delle liste del patrimonio imma-
teriale. Partendo dall’osservazione etnografica della costruzione diplomatica e
politica della convenzione all’interno dell’UNESCO ne mette in luce i dibattiti
che hanno visto contrapporsi i sostenitori e i detrattori della creazione di una lista
modellata su quella, ben nota, del patrimonio mondiale. Analizzando da un punto
di vista teorico il processo di selezione che è alla base della creazione di ogni
lista, il contributo sottolinea i rischi di decontestualizzazione delle espressioni
culturali selezionate. Nella conclusione del suo ragionamento, Valdimar Hafstein
sottolinea inoltre come le liste, di fatto alla base del “sistema patrimonio”, possa-
no, oggettivando i loro elementi, esporli alla strumentalizzazione e ad usi diversi
da quelli per i quali erano state inizialmente create.

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Prendendo spunto da un progetto di archivio multimediale dei capolavori del
patrimonio orale e immateriale dell’umanità realizzato per conto dell’UNESCO
all’indomani della prima proclamazione, Lorenzo Brutti analizza alcune delle pro-
blematiche legate alla documentazione del patrimonio immateriale. Confrontando
il modello di una banca dati multimediale, come quella proposta nel progetto realiz-
zato per l’UNESCO, con quello, più agile e dinamico, del sistema di informazione,
il contributo di Lorenzo Brutti mette in luce i vantaggi del secondo. Multivocale e
facilmente accessibile attraverso un’autorizzazione, il sistema di informazione vie-
ne presentato come un ausilio appropriato alla creazione di inventari “democratici”
finalizzati alla salvaguardia del patrimonio immateriale.
Proponendo un approccio incentrato sui valori legati all’ambito della fa-
miglia e della creatività, Hélène Giguère descrive la battaglia di appropriazione
di cui è oggetto il flamenco nella città andalusa di Jerez de la Frontera che vede
coinvolte sia le amministrazione pubbliche che i Gitani e i non Gitani. Analiz-
zando i ritmi e i loro usi, Hélène Giguère sottolinea la progressiva riduzione
della diversità locale parallelamente alla diffusione di una notorietà nazionale e
internazionale e la scarsa attenzione rivolta al processo di “conservazione dina-
mica” che ha consentito la trasmissione degli stili e delle voci all’interno delle
famiglie gitane rinnovando, lungo le generazioni, questa pratica sulla base del
suo fondamento rituale.
Il mio contributo analizza la creazione del programma dei tesori umani vi-
venti mettendolo in relazione con i modelli asiatici che lo hanno ispirato. In-
terrogandosi sugli esiti di una “traduzione” nei contesti occidentali di questo
programma considera il caso italiano di un fabbricante di fischietti oggetto di
una promozione assimilabile a quella dei tesori umani viventi giapponesi. Que-
sto caso conferma la tendenza, comune anche alla cultura patrimoniale di altri
Paesi europei, ad attirare nella sfera dell’arte le espressioni culturali destinate
alla promozione patrimoniale. Valorizzando l’originalità del creatore anziché
la manualità dell’artigiano questa prospettiva rischia di svuotare di significato
l’attuazione del programma proposto dall’UNESCO proprio per incoraggiare la
trasmissione di un savoir-faire tecnico.
Le interviste dei praticanti delle tradizioni mettono in luce la multivocalità
delle comunità che si presentano come delle entità molto più complesse ed etero-
genee di quanto non sembri presupporre il testo della convenzione. All’interno di
queste comunità esistono strutture organizzate (Associazione Tenores Sardegna di
cui parlano Danielle Cossellu e Sebastiano Pilosu) e istituzioni locali (il Museo
internazionale delle marionette Antonio Pasqualino descritto da Janne Vibaek). Ri-
conosciute dalle istituzioni nazionali per la loro dimensione ufficiale, queste strut-
ture fungono spesso da mediatori e da portavoce delle comunità che rappresentano.
All’interno della realtà locale tuttavia, emergono anche le voci di singoli individui
o di gruppi di individui che compongono queste comunità e che non si identificano
in tutti i casi nella loro “voce ufficiale”.

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IL PESO DELL’IMMATERIALE1

Patrimonio e patrimonializzazione

V’è una grande varietà di strategie etnografiche e di implicati con-


nessi, tramite cui un “patrimonio” diventa tale (o ‘patrimonializzazio-
ne’), appalesandosi in casi e oggetti, ma anche attraversando costella-
zioni politiche e questioni di teoria. Ora, è importante capire la natura
di tale “movimento”: si tratta di una sorta di passaggio dalla potenza
all’atto? E, in ogni caso, qual è la differenza fra patrimonio e patrimo-
nializzazione? Qual è la natura del “patrimonio” e in che modo qual-
cosa diviene tale? La distinzione presenta una sua previa intuitività, che
nello svolgersi dei processi si rivela piuttosto illusoria.
Iniziamo dal “patrimonio”, su cui nell’ultimo ventennio si sta gio-
cando una grossa partita istituzionale, politica nonché teorico-cono-
scitiva. Per entrare subito al centro delle cose, è stato senz’altro l’Une-
sco con le sue plurime Convenzioni (sul “Patrimonio materiale” del
1972, sulla “Salvaguardia del patrimonio immateriale” del 2003, sulle
“Diversità culturali” del 2005, nonché sulle “Comunità patrimoniali”
del Consiglio Europeo del 2005, per citare solo gli indirizzi politico-
culturali che l’Unesco ha più di recente varato) a indurre una decisa
accelerazione e un forte mutamento di prospettive sulla considerazio-
ne, sulla natura e sulla funzione del patrimonio. Il mutamento di rotta
coincide fondamentalmente nel passaggio da una accezione “proprie-
tario-giuridica” a una accezione “culturale-politica” e “politico-cultu-
rale”, causando lo slittamento del terreno del patrimonio dal dominio
del singolo proprietario privato (ove si intenda per “proprietario” il
soggetto formalmente capace di disporre di un bene, e non tanto il
mero individuo concreto), alla dimensione collettiva, pubblica e cultu-
rale della “ap-propriazione” di un bene.
In molti hanno evocato la nascita di una nuova epistemologia (det-
ta, appunto, ‘patrimonialista’) e dell’ennesimo paradigm shift del nuo-
1
Una prima versione del saggio è in R. Bonetti, A. Simonicca (a cura di), Processi
di patrimonializzazione, Roma, CISU, 2016, p. 9-25.
132 Alessandro Simonicca

vo Millennio. La proliferazione dei cambiamenti di paradigmi registra


senz’altro un dato reale, anche se il ripetuto ricorso alle tesi kuhniane
sembra orientarsi non tanto (e pur lo fa) sulla necessità di adopera-
re nuovi manuali di traduzione per fronteggiare bizzosi oggetti che
generano grattacapi, anomalie o problemi teorici, irrisolvibili con le
pregresse concettualità; quanto a rincorrere la miriade delle novità (so-
ciali e culturali) che il provvido presente continua a generare. E, perciò,
all’apparire di ogni nuovo evento, sembra doversi attivare un nuovo
schema, un nesso esplicativo o un quadro interpretativo, nella con-
vinzione che non si possano ridurre e ricondurre i significati odierni
alle teorie e ai concetti già a disposizione. Tale mancata (impossibile?)
riconducibilità non può che essere destinata a generare una moltiplica-
zione emergenziale di schemi, e quindi la nascita di progressivi innu-
meri conflitti interpretativi.
Se appare sempre più evidente che nelle società attuali sono mol-
to più numerosi gli oggetti socioculturali che non i fenomeni socio/
spazio-temporali,2 non sussiste il minimo dubbio che il patrimonio
rientra tra i primi. Essi risultano spesso strani, perché sono concrezio-
ni di senso (e quindi referenze effettuali) e insieme anche categorie di
definizione e interpretazione del mondo, non di rado sovraesposti on-
tologicamente dal premere di processi che li riguardano direttamente,
canalizzando attrattive e focus peculiari.
La messa in progettualità del patrimonio è stata altresì accelerata
dalla prospettiva di riuscire a trasformare un bene particolare in un
bene universale, in maniera ubiqua riconosciuto per forma di “patri-
monio Unesco”.3
È indubbio che l’appeal di tale candidatura, che emerge sempre
più prepotentemente nell’odierno campo politico e scorre in forma di
leit motiv nella saggistica di settore, gioca un ruolo rilevante in tutto il
movimento patrimonialistico, andando a promuovere e insieme a co-
agulare le direzioni conoscitive e le tendenze di azione che riguardano
il formarsi e l’affermarsi di eccellenze culturali, in strettissima connes-
sione con le logiche di rafforzamento dei poteri contestuali, se non, a
volte, meramente locali.

2
Sul tema, cfr., sia pure in diverso contesto, Ferraris, 2014.
3
Come ha dimostrato Dino Palumbo (2003) per il distretto culturale di Val di
Noto (poi, Palumbo, 2009, per successive puntualizzazioni).
Il peso dell’immateriale 133

Si tratta spesso di una “causalità circolare”, che investe motivazioni


culturali e ragioni politiche, creando una sorta di automovimento che
ha fine o – più semplicemente – ristà solo quando l’esterno (e qui si
intendano istituzioni, schieramenti politici, penurie economiche, gap
finanziari, ma anche – perché no? – crisi di gestione territoriale, deri-
ve di ceti politici, cortocircuiti di scambi politici, fine corsa di ideolo-
gie…) produce ostacoli al pieno dispiegarsi delle strategie intenzionate
a valorizzare risorse culturali circoscritte.
Due motivi, probabilmente, stanno alla base di questo intenso
attuale rigoglio patrimonialistico. Da un lato, è visibile una tendenza
generale a leggere politicamente il patrimonio nel significato di bene
esclusivo di una comunità/località che tragga forza, distinzione e iden-
tità da tale riconoscimento, con ricadute rafforzative sul rango e sulla
gestione dei gruppi politicamente dominanti; dall’altro, nascono e si
costruiscono impianti concettuali e organizzativi che legano il destino
di una risorsa culturale alla sua valorizzazione economica, finanziaria,
reddituale, e quindi a una risorsa economica che si dimostri capace di
divenire il valore aggiunto che saldi positivamente il bilancio economi-
co locale.
Le due motivazioni, la politica e l’economica, non sono peraltro da
considerare alla stregua di meri eventi del presente, semplici variabili
contestuali o prodotti di fattori imprevedibili. Si tratta piuttosto di un
mutamento radicale e strutturale del nostro tempo, in cui la dimensio-
ne del valore economico e la dimensione del valore culturale cessano di
costituire domini distinti (salvo loro coniugazione in settori specifici
di mercato, come a esempio nel mercato dell’arte ecc.), per entrare in
connessione reciproca a livello della stessa “produzione di valore”, e
non solo di consumo.
Che la risorsa culturale costituisca una risorsa economica è un ro-
busto attestamento della società post-fordista che concerne ambiti tan-
to istituzionali e pubblici quanto privatistici, sia pure con diversità di
tono o estensione. Si può discutere se la cultura sia risorsa economica
in quanto tale oppure unicamente in particolari contesti e condizioni;
oppure quale e quanto sia il tasso ideologico da detrarre dall’asserzione
post-moderna per la quale la testualità sarebbe connaturata alla natura
sociale dell’oggi. Sta di fatto che si tratta di un processo reale, rispetto
cui la sinergia (o il dissidio) dei mercati mondializzati porta acqua e
linfa costanti.
134 Alessandro Simonicca

Esiste però un altro movimento, che riguarda la trasformazione


delle risorse economico-tecnologiche in risorse culturali, e concerne
gli oggetti (tecnologici e non) del passato e, in misura non secondaria,
del presente, nel loro passaggio da sostrati per l’uso o per il consumo
produttivo a funzioni di gusto estetico.
Al fondo, quindi, per la patrimonializzazione si prospettano due
vie. L’una fuoriesce dalla risorsa culturale (moderna e tradizionale) e
la trasforma in risorsa economica. La chiameremo la via del “capitale
culturale”. Essa ha la sua massima espansione nel patrimonio culturale
post-rinascimentale e nella “biografia” dei vari patrimoni della cultura
popolare. Qui il rapporto fra la produzione e il consumo di valore è
sempre in divenire e mai del tutto compiuto, e il relativo ciclo non è
sempre necessitato a concludersi nella forma-denaro. Ad esempio, un
caso particolare di patrimonio di cultura popolare è il petit patrimoine,4
che riguarda la dimensione della cerchia sociale immediata degli indivi-
dui (famigliare o lavorativa che sia), è prevalentemente teso a costruire
storie di individui (o di ristretti soggetti collettivi) a fini autorappresen-
tativi o autocelebrativi, e la cui finalità economica è solo secondaria o
per lo meno indiretta rispetto all’intenzione primaria ego-centrata. Un
album di famiglia, un insieme di “oggetti di affezione”, una collezione
privata possono divenire risorsa economica solo successivamente all’ini-
ziale intenzione dell’attore sociale collezionante, e, in genere, attraverso
circuiti di scambio peculiari (fiere, esposizioni, installazioni, musei ecc.).
La seconda via diparte dalla risorsa tecnologica (sia ‘moderna’, sia
‘tradizionale’) e la riformula in risorsa culturale. La chiameremo la via
del “capitale sociale”. Questa ultima è bene rappresentata nella fatti-
specie della “via inglese al patrimonio”, in ragione di una doppia filiera
storica: la spettacolare trasformazione nell’ultimo quarto del secolo
scorso delle strutture industriali britanniche in spazi di leisure; la tra-
sformazione della ruralità in valore di vita e la costituzione del territo-
rio come ‘paesaggio culturale’, che collega i nuovi modi di fare agricol-
tura a un nuovo sguardo sulla natura. Che, poi, gli assetti del passato
vengano trasformati in risorsa economica e seguano pertanto la prima
via, rafforzando i cicli continui di produzione-consumo, va da sé.

4 Cfr. in maniera succinta, i riferimenti in Gallo, Simonicca, 2016; Bernardi, Dei,

Meloni, 2011; Carrier, 1995; Fabre, 2013; Gell, 1998; Kopytoff, 1986; Mora, 2005; Mil-
ler, 1998, 2009; Miller (a cura di), 2005.
Il peso dell’immateriale 135

Il patrimonio, nella sua duplice accezione di materiale e immateria-


le, trova il proprio cominciamento in questo complesso chiasmo stori-
co, in cui la seconda accezione presenta le maggiori novità.

Il patrimonio tra il materiale e l’immateriale

Una definizione minima di patrimonio ‘immateriale’ rimanda spes-


so a una peculiare natura di “riproducibilità” (locale ed extra-locale) di
un oggetto, senza che ciò implichi alcuna deriva nella sfera del falso
o dell’inautentico; anzi la riproducibilità dell’immateriale apparirebbe
come la sua più intima caratteristica di autenticità.
Pur comprendendone il senso, tale definizione, a una più attenta
analisi, risulta povera e affatto residuale rispetto al significato di patri-
monio ‘materiale’, inteso quale mondo specifico cui dovere attribuire
particolare rilievo pubblico (storico, culturale, estetico). Entrambe le
accezioni convergono sulla nozione di “tradizione” e insieme vi riman-
dano secondo duplici direttive: in un caso si sottolinea la trasmissibilità
in forma di varianti dei ‘testi’ connotati da media diversi (oralità, coreu-
tica, immagini, suono…), nell’altro la trasmissione di assetti del mondo
stabili e invariati. In realtà anche il patrimonio materiale (o, come dico-
no alcuni, ‘tangibile’) è (stato) soggetto a cambiamenti nel tempo e lo
potrà essere ancora, senza perdere il suo carattere; e anche il patrimonio
immateriale (o, come altri si esprimono, ‘intangibile’) può essere mol-
to più stabile di quanto una interpretazione meramente drammaturgica
(performances) della vita umana associata vorrebbe indurci a credere.
Una prospettiva rigorosamente antropologica dovrebbe avere il
coraggio di rovesciare la serie degli elementi e partire dalla conside-
razione che il “patrimonio immateriale” rappresenta la condizione di
intellegibilità logica (e storica) dello stesso “patrimonio materiale”, in
termini di pensabilità e legittimità di ciò che ha ‘valore’ nel mondo,
nonostante il tempo in cui è stato prodotto o ideato.5
Si può, in generale, sostenere che il “patrimonio immateriale” coin-
cide con l’universo ontologico degli oggetti e dei contesti che abitano

5 Vale la pena di precisare che i due termini afferiscono a realtà spazio-temporali

che abbisognano di competenze tecniche e scientifiche diverse, e quindi di interventi


differenziati; qui si tratta solo di indicare come pensarli.
136 Alessandro Simonicca

una cultura connotata da una forte accentuazione del rapporto pas-


sato-presente, ove il passato, interpretato alla stregua di elemento del
presente, diviene una risorsa sia culturale sia economica, e l’interpreta-
zione del passato come parte del presente garantisce la continuità e la
dignità dei cambiamenti nella vita attuale.
Il patrimonio culturale immateriale è, quindi, una categoria stori-
ca e sintetica: storica, perché interpreta il significato attuale del nesso
presente-passato; sintetica, perché si riferisce a oggetti e contesti che
hanno tanto consistenza extramentale quanto valenza oggettuale (isti-
tuzionale: storica, sociale, culturale, politica). Alcuni lo equiparano ve-
locemente a “comunità di patrimonio” o a “comunità di eredità”. Non
è una grande bella idea, perché questa ultima categoria ha valore ana-
litico, ossia permette di definire le condizioni entro le quali un valore
può essere adeguatamente trasmesso, nonché politico, perché concorre
a ridefinire l’equilibrio fra uno o più valori e l’ambiente.6 Ambedue
sono ovviamente categorie storiche e quindi transitorie, tanto che si
può sicuramente immaginare una loro ri-lettura in un prossimo futuro
in cui la trasmissione/tradizione sia destinata a mutare per tratti di con-
nessione; eppure, obbediscono a finalità diverse.
Puntare l’accento sulla trasmissione nel tempo dei valori di inte-
resse pubblico significa senza dubbio individuare anche dentro il pa-
trimonio immateriale ciò che la storia europea definisce “tradizioni
popolari”; e con ciò intendasi la serie degli studi disciplinari (folclo-
re, folklore, volkskunde, etnologia europea…), nonché la filiera delle
manifestazioni dell’oralità, delle feste, dei riti e delle cerimonie, delle
performance drammaturgiche, coreutiche e musicali, che per essere
tali debbono essere riprodotte in tempi e spazi appositamente pensa-
ti, incluse le manifestazioni collettive connesse alla odierna ‘cultura di
massa’. Non solo. Significa anche includere nella classe degli ‘oggetti
di valore’ tanto produzioni artistiche popolari quanto le forme del-
la cultura materiale (tecnologia): con le prime si intendono gli insiemi
di oggetti che fanno da sostrato o supporto al fare artistico popolare
(artefatti e spazi delle performance compresi); con la seconda gli insie-
mi degli oggetti un tempo funzionali alla riproduzione materiale della
vita e che ora valgono – decontestualizzati a fini di fruizione estetica
o collettiva – quali “segni” interpretativi di un mondo passato (oggetti
ergologici compresi).
6
Cfr. Simonicca, 2015-2016.
Il peso dell’immateriale 137

Si è soliti distinguere la cultura tradizionale dalla cultura moderna


per l’allontanamento dell’ultima dalla magia, e in ogni caso per l’allon-
tanamento dall’idea che gli eventi del mondo siano tutti riducibili ad
azioni umane (e/o sovrumane). La distinzione appare oggi poco inte-
ressante, giacché fra le tecnologie moderne e le tecnologie tradizionali
esistono sistemi di reciproca inter-penetrazione e osmosi, tutte da de-
finire negli specifici contesti di vita.7 Lungi dal sostenere tesi arcaiciz-
zanti o primitivistiche, tuttavia, si tratta qui di sottolineare come molti
schemi concettuali di diverse epoche storiche perdurino nel tempo e
siano compresenti e co-occorrenti in varia distribuzione di funzioni
e fini. La natura della tecnologia razionalizzata è un tratto che attual-
mente non sembra rafforzare affatto la differenza fra tradizionale e
moderno, in ragione del permanere e del trasmettersi di idee e conce-
zioni del mondo di tipo antropomorfo sino dentro alle costellazioni
delle performance (scientifiche o meno che siano). La nuova esistenza
a cui assurgono la cultura e la tecnologia tradizionale, certo, non so-
stituisce (salvo casi estremi, anti-moderni) la connessione dei nessi di
razionalità strumentale, quanto ridefinisce il loro significato e la loro
funzione nelle attuali coordinate, risignificando, risemantizzando, ri-
donando senso a oggetti relazioni contesti date eventi del passato.
Lasciando per il momento la questione ben complessa della “cul-
tura massa”, e soffermandoci qui solo sul coté del ‘tradizionale’, è facile
intravvedere il forte interesse antropologico per il campo definito dal
“patrimonio culturale”. La sua centralità è sinonimo della fine dell’e-
quazione fra ‘tradizionale’ e ‘sopravvivenza’ o ‘arcaismo’, ed è quanto
mai centrale giacché, in Europa e altrove, contribuisce ad abbattere la
vetusta differenza fra ‘folklore’ (alias, la tradizione di ‘casa nostra’) ed
‘etnologico’ (la tradizione dell’“altrove”). Ciò lo sappiamo da diverso
tempo (o almeno dovremmo saperlo); l’acquisizione ulteriore invece è
che il ‘tradizionale’ tout court diviene sempre di più una coordinata tra-
sversale che accomuna tutte le culture, attraversandole senza produrre
attribuzione di ranghi assiologici o valutativi.8
Il concetto di patrimonio immateriale cessa perciò di essere un in-
dice preparatorio per le (pur necessarie) azioni di catalogazione e di

7
Bausinger, 2005, 2014.
8
Ricordiamo, esemplarmente, l’odierno uso sempre più frequente della denomi-
nazione “folklore etnologico”.
138 Alessandro Simonicca

salvaguardia, e si presenta nella forma di un processo di costruzione,


che categorizza l’esistente non in termini di sostanza predefinita bensì
quale conclusione (per altro suscettibile di continua innovazione) di
diversificati percorsi istituzionali e sociali.
La caratteristica del divenire patrimonio è propria della nozione an-
tropologica di patrimonio culturale.9 La processualità storica del patri-
monio culturale dischiude una storia diversa a seconda che si ponga lo
sguardo sulla storia dell’Europa moderna, oppure ci si riferisca ai muta-
menti delle ‘altre’ culture e delle ‘altre’ compagini nazionali. Il patrimo-
nio europeo è in realtà il prodotto del processo delle formazioni statuali
occidentali che nel loro sviluppo hanno incamerato i valori patrimoniali
dei propri territori, appropriandosene come caratteristica propria, iden-
titaria e proprietaria.10 I patrimoni demologici e i patrimoni etnologici
presentano, ovviamente, passati diversi, per profondità e varietà, se non
altro per questioni di previetà storico-cronologica. In ogni caso, nessu-
no di essi è mai astrattamente distinguibile dal campo della politica; né,
oggi, alcuno di essi è mai disgiungibile dal campo dello “Stato”, che in
qualche modo, sia pure fra le mille contraddizioni che pervadono un
‘tradizionale’ innervato nella modernità, sembra divenuto la forma strut-
turale centrale della donazione dell’ordine, dell’orientamento sociale e
della decisionalità.

Etnografia e patrimonio

Che ruolo ha l’etnografia in questo ampio panorama che vede


all’opera tanti soggetti collettivi? E, di concerto, qual è il ruolo dell’an-
tropologo/etnografo?
Chiariamo subito un primo punto, relativo all’assunto che anche
nel campo patrimoniale possono entrare in gioco etnografi ed etnogra-
fie esplicitamente organizzati per un lavoro di campo specifico.11 Solo
di recente sulla scena italiana sta infatti nascendo la consapevolezza che
9 Sarebbe interessante pensare con maggiore intensità il rapporto fra “divenire pa-

trimonio” e la categoria (diffusa fra gli studi etnografici) del “divenire uomini”, quale
banco di prova delle nuove antropologie, ma non v’è qui tempo.
10 Cfr. Poulot, 2006.
11 Il patrimonio, accanto a salute e ad education, sono forse i campi delle società

complesse in cui l’antropologia interviene oggi con maggiore solidità di impianto.


Il peso dell’immateriale 139

a questo ambito pertenga anche il sapere antropologico, oltre alla già


rodata presenza dell’archeologo, dello storico dell’arte e dell’architetto
(per citare i maggiori ‘interpreti’ storici del patrimonio). Ciò è chia-
ro segno di un processo variegato: da un lato, esprime la maturazione
della disciplina e la capacità che essa dimostra nel sapere affrontare i
compiti dell’oggi, riarticolando severamente le proprie competenze;
dall’altro, rende evidente il (peraltro lento ma visibile) processo di
istituzionalizzazione dell’antropologia sociale e culturale – fatta astra-
zione, ovviamente, per la sua presenza in ambito accademico – nelle
coordinate conoscitive e sociale della vita pubblica, della società civile
nonché degli organismi statuali.
A prima vista può sembrare che il ruolo – come dire? – si pos-
sa concretare in maniera geertziana; ossia che esso debba coincidere
con l’analisi e l’interpretazione di un mondo culturale, dispiegando
un commento che dia voce e connessione ai comuni sensi condivisi da
gruppi sociali o popolazioni.
L’assunto così inteso è irenico, in quanto presuppone una speciale
situazione di equilibrio etnografico fra i vari conflitti, sempre presenti
all’interno di un campo; tale ideale è purtroppo impensabile se non –
forse – in quello della pura conoscenza. L’inserimento dell’etnografia
come esperienza che parte dalla soggettività per arrivare a condensa-
zioni oggettuali di senso risulta senz’altro un formidabile strumento
conoscitivo anche nel campo patrimoniale. E però, essendo l’esperien-
za mai pura ma sempre implicata in posizioni e schieramenti, l’apporto
conoscitivo che l’etnografia può dare in un processo di patrimonializ-
zazione è sempre relativo alle forze entro cui essa si trova a situarsi,
ove non sempre vale la clausola (estremistica) che il dare la voce all’‘op-
presso’ sia il salvacondotto per uscire dalle anomalie di un campo e di
una conoscenza che sorgono dall’esperienza, o che ciò aiuti a salvare
l’anima dalle contraddizioni.

Il peso della piuma e il valore dell’immateriale

Era solito asserire Émile Durkheim che il ‘sacro’ non ha a che fare
con un fenomeno spazio-temporale, quanto con un evento che emerge,
manifestandosi con una potente natura che si fa corpo in un qualsiasi
possibile oggetto del mondo empirico connotato come extra-ordinario.
140 Alessandro Simonicca

Il ‘patrimonio’, inteso nel senso moderno, ha analoga durkheimiana fe-


nomenica ubiquità di ‘valore culturale’. Esso può divenire se stesso en-
tro e a partire da concreta o da realia sufficientemente densi o percepiti
così da chi lo (ri)tiene rilevante o lo (ri)significa: da qui sorge la matrice
della odierna moltiplicazione dei patrimoni e dei processi di patrimo-
nializzazione a essi collegati. Astrazione fatta, però, dal nesso specifico
con cui i valori culturali sono collegati alla vita e alla realtà del presen-
te (antropologia compresa), rimane considerazione fondamentale che
capire il patrimonio, in ogni caso, non è separabile dal comprendere il
modo in cui esso è divenuto tale. L’attenzione e l’interesse antropologici
per tale ambito non sono, pertanto, né fugaci né evenemenziali, sono da
considerare piuttosto un filone di ricerca già interno alle varie scuole di
pensiero che hanno caratterizzato, in forma sostantiva e procedurale,
gli studi disciplinari dell’Ottocento e del Novecento, e che oggi vedono
l’acme cognitivo. Ciò significa attivare strategie di ricerca etnografica
capaci di affrontare i temi maggiormente significativi che si incontrano
sul terreno, entro le specifiche dimensioni dell’antropologia applicata
più in generale, e che valgono anche per il campo patrimoniale.
L’etnografia di campo che risulta da tali ricerche presenta una varie-
gata molteplicità di funzioni conoscitive, che vanno dalla osservazione
partecipante, alla partecipazione osservativa, alla compartecipazione
conoscitiva, al consenso pratico, impegnandosi in altrettante variegate
operazioni, quali l’analisi dei processi, delle situazioni e dei conflitti,
ma anche la mediazione fra concezioni diverse del mondo, fra diverse
pratiche di gestione e fra diverse posizioni politiche, ma anche la rifles-
sione critica sui processi, ma anche l’impegno diretto nelle strategie di
azione. Sono competenze tutte scorporabili fra diversi individui e in-
sieme tutte parti di un unico corpo pratico. E però tutte riconducibili a
possibili ruoli autonomi diversi (se non proprio: professioni), definibili
in ragione delle diverse tipologiche strumentalità annesse alle procedu-
re conoscitive e operative intenzionate. Si citano qui solo le principa-
li: lo sviluppatore, il progettista, l’assemblatore, il presentificatore, il
riproduttore, il mediatore, il facilitatore, l’analista, il patrocinatore, il
critico-critico, il militante, il nativizzato.
La matrice plurima dei ruoli e della distribuzione delle competenze
etnografiche e antropologiche probabilmente trovano sensata alloca-
zione fra le quattro principali assi di orientamento nella ricerca e nell’a-
zione: l’asse dell’analisi, l’asse della sintesi, l’asse della partecipazione,
Il peso dell’immateriale 141

l’asse della gestione. Non si tratta di un vero e proprio carré sémioti-


que, giacché i quattro valori guida, per mancanza di unicità di unità di
misura, non saturano a pieno tutte le situazioni possibili. Costituisce,
piuttosto, una matrice quali-quantitativa genetica dei punti di orienta-
mento scalare con cui l’antropologo si atteggia nella progressiva rotta
di avvicinamento/allontanamento e di comprensione/scomposizione
rispetto all’“oggetto”, fondando o istituendo specifici stili etnografici
volti a comprendere e ad agire (volutamente o meno) il mondo.
Non v’è nessuna esclusione a priori attribuibile ad alcuno di essi
nei rispetti di un contesto dato, eppure difficilmente possono essere
portati avanti tutti nello stesso modo, allo stesso livello, nello stesso
tempo, con la stessa intensità; e, insieme, tali ruoli vanno svolti in qual-
che modo da qualcuno; e insieme, di fatto, nessuno vale da solo a per-
fezionare una etnografia. Né esiste alcuno che conosca un algoritmo
così potente da mostrare quanti e quanti ruoli, fra la dozzina indicata,
è necessario rivestire per una etnografia passabile.
Questa è, probabilmente, la maggiore delle antinomie del campo
patrimoniale, che a cascata perviene poi a predeterminare (o per lo
meno a vincolare con perduranti clausole selettive) il nucleo forte del
processo di patrimonializzazione: quanto aggiungere, quanto togliere
del passato per aggiungerlo o saldarlo al presente. Ovvero come e in
che intensità attuare o bloccare l’operazione chirurgica della continua
escissione della parte del vivo dalla parte del morto?
Se volessimo mettere mano a una analogia meramente formale, po-
tremmo sostenere – sia pure con la dovuta cautela – che il patrimonio è
sottoposto all’incrocio di forze psicoculturali e politiche che rimanda-
no a processi di “mummificazione” infinitamente sottoponibili a con-
tinue significazioni di “pesatura”. Passo a svolgere l’analogia.
Chi ha la ventura di entrare nel Museo Egizio torinese non può
non stupirsi al momento del suo incontro con le mummie. Il procedi-
mento della loro costituzione è così complesso che ad oggi forse anco-
ra nemmeno lo comprendiamo appieno; in ogni modo, sappiamo che
la prima operazione necessaria, che permette alla parte più durevole del
corpo di sopravvivere alla perenzione materica, consiste nell’estrarre la
parte deperibile (nel nostro caso, gli organi molli) dalla parte perma-
nente (nel nostro caso, il corpo-soma), la quale ultima, opportunamen-
te trattata, può ed è destinata a permanere. Il punto che qui interessa
è “quanto deve valere” ciò che può o ha il diritto di sopravvivere. Sto
142 Alessandro Simonicca

qui, ovviamente, pensando al rituale garante dell’atemporalità, la “psi-


costasia”. Qui il passaggio dal corpo tra-passato al corpo trans-figurato
è direttamente proporzionale al verdetto della “piuma” della giustizia
in base alla quale un corpo può raggiungere l’aldilà, come è raffigurato
nel papiro del “Libro dei morti”, come da figura a seguire.

Figura 1. Papiro del Libro dei morti, Museo Egizio di Torino.

Nelle effigi del papiro vediamo slungarsi le scene del giudizio


dell’anima del morto. Osiride, attorniato da una lunga teoria di giudici,
presiede. Assistono Thot, scriba, e Anmut, creatura infernale. Anubi,
il dio dalla testa di sciacallo, per mano conduce alla bilancia l’anima da
pesare; Maat, il dio dell’ordine e della giustizia, controlla l’operazione
dall’asse centrale della bilancia. Su uno dei piatti è deposta la piuma di
struzzo, sull’altro il vaso raffigurante il cuore del morto. Se la bilancia
resta in equilibrio, l’anima si salva; se pende alla parte del corpo-vaso,
è divorata da Anmut.
Il tratto del ‘pesare’ il valore dello ‘spirituale’ è un tema quali-quan-
titativo che diversifica le culture e al tempo stesso rimanda a un pro-
fondo motivo umano di invarianza, centrato sull’ubiquo regime rap-
presentativo su chi o che cosa ha diritto di sopravvivere nell’incontro
della vita con la morte.
Pesare l’anima rappresenta una sorta di viaggio iniziatico che de-
pura dalle scorie del mondo del passato e rinvia a un eterno presente,
Il peso dell’immateriale 143

ovvero (in termini di teologia politica) all’eternizzazione della società


di appartenenza. L’equivalente del peso della piuma, a priori a nessuno
noto, ogni volta mette in moto un gioco che coniuga una irta relazione
fra la valorizzazione e il riconoscimento della potenza spirituale, bene
accetta alle forze supreme, se positiva. Gli antichi Egizi sapevano cosa
fare per rendere leggero il cuore quanto la piuma. Vi erano propedeuti-
che e regole di emendazione che chiarivano le modalità e le operazioni
utili a decidere quale parte molle togliere, quale parte dura fare perma-
nere, cosa fare insomma per diventare “leggeri”. Il nostro mondo ha
una identica consapevolezza?
Non v’è risposta univoca.
Si può accusare il patrimonio di essere una promessa inevitabile di
mercimonio o di fare da rappresentanza dell’antico castello del dispo-
tismo. Di essere nuova cattiva moneta, denaro diabolico che contamina
l’atemporale; oppure di realizzare l’ennesimo monumento autarchico
che onora il Leviatano che è in noi. Nulla di strano a sostenere l’una o
l’altra tesi; nulla di cui scandalizzarsi, giacché sono risposte che corri-
spondono a diversi stati del mondo, distinti e reali. Patrimonio, ossia
la crisi della agency. Tutto ciò però non basta. Sta di fatto, in ogni caso,
che il patrimonio continua essere ogni volta un oggetto sempre nuovo
e diverso, una macchina performativa che ricorsivamente squaderna
processi genetici di valore e rilancia processi sociali, politici e culturali,
di nuovo conio o di nuova cifra. E che quindi è con questa realtà mul-
tifocale che è da fare i conti.
Tale processo oscilla fra l’agire “per via di levare” e l’agire “per via
di porre”, per riprendere la nota differenza che distingue l’arte del-
la scultura dall’arte della pittura, e con cui la cinquecentesca memo-
ria definisce il ‘classico’. Si tratta della dinamica del togliere materia o
dell’aggiungere materia, al fine di giungere alla creazione di una realtà
sui generis.
Nel patrimonio l’opposizione complementare fra apporre e leva-
re entra in severo cortocircuito, e diviene l’esercizio di un complesso
gioco che smembra il passato in parti, le seleziona e ne inserisce alcune
nella profondità delle nervature del presente. In idioletto contrastivo,
e paradossalmente, si potrebbe affermare che si toglie per aggiungere,
e quindi esaltare la potenza del pregresso inserendola nel permanente,
producendo così un aumento ontologico (più che epistemologico) di
realtà. Ed è un anti-classico aumento di realtà.
144 Alessandro Simonicca

In questa asimmetria si gioca la duplicità della natura del patrimo-


nio. V’è quella che potremmo chiamare la tensione ‘antiumanistica’, in
quanto comprime il valore nella sfera della monumentalità, nella su-
premazia delle istituzioni, nella egemonizzazione culturale delle azio-
ni, nella ‘soggettivizzazione’ ideologica delle formazioni identitarie.
E v’è quella che potremmo definire la sorgiva ‘umanistica’, in quanto
ridona accessibilità della pluralità dell’umano sentire al rapporto fra
presente e passato, e fornisce sostanza alla funzione che il patrimonio
svolge nel ripristinare le competenze sociali, i processi aggregativi, la
risignificazione dei territori, il raffinamento soggettivo, il protagoni-
smo dei partecipanti delle vecchie e nuove comunità. Grazie, dentro,
contro e nonostante i dissidi e i conflitti.
Le due uscite, però, sono solo idealtipiche, e appaiono identifica-
bili e raffigurabili solo a piè fermo, per poi svanire quando si osserva
e si opera nei variegati processi sociali del vivere e del decidere, ove le
varie forme dell’etnografia costituiscono l’orizzonte di possibili diver-
sificanti interpretazioni.
CAPITOLO II
Turismo, ambiente e culture locali

1. Il punto di vista antropologico

Se vi è un punto di vista preminentemente antropologico sull’uni-


verso del turismo, esso concerne l’analisi dei mutamenti sociali e cul-
turali che si manifestano nelle aree in cui soggiornano o con maggiore
insistenza premono i viaggiatori.
Tale assunto iniziale non è neutro, perché rimanda a due cruciali
momenti di orientamento concettuale: in primo luogo si tratta della
curvatura specifica che l’interesse antropologico produce sulla cono-
scenza del turismo; in secondo luogo, la questione verte sulla durata e
sulla consistenza dei luoghi attraversati dai flussi dei viaggi.
Iniziamo dal primo aspetto, di natura squisitamente formale, ossia
l’importanza della prospettiva analitica. Tale prospettiva è centrale per-
ché collegata ad alcune priorità conoscitive nelle enunciazioni teoriche
nonché nelle pratiche di ricerca: la prospettiva non-verificazionista, la
centralità dell’osservazione partecipante, la preminenza attribuita alla
ricerca delle forme che assumono i legami sociali rispetto ai contenuti
individuali. A tali caratteristiche corrisponde − in genere − un atteggia-
mento mentale teso a studiare lo spazio umano secondo il punto di vista
della comprensione intellettuale, che solo in un secondo tempo, e con
una serie di cautele derivanti dal codice etico del rispetto per le culture
altre e per le azioni umani in genere, cede il passo alla possibile azione.
Se si vuole, per semplificare il nodo della contesa, il punto di vista an-
tropologico non si vuole sottrarre all’impegno concreto, ma a ciò giun-
ge (e non necessariamente) solo dopo l’immersione nell’ambito sociale
studiato e all’interno del privilegio concesso al “punto di vista nativo”.
A conclusione di questo primo accenno, quindi, possiamo ribadire
la centralità dell’analisi (e non dell’azione) nello studio antropologico
dei fatti sociali del turismo.
Il secondo aspetto attiene invece alla “consistenza” dei luoghi stu-
diati, vale a dire la sostanza dell’indagine. Anche qui una salutare cau-
tela salva da veloci e pericolosi fraintendimenti di tipo essenzialistico.
86 Alessandro Simonicca

Affrontare i mutamenti nelle aree, e non delle aree, significa partire


dalla prospettiva che tali mutamenti siano tutt’altro che normati o
normabili, e che non basti la presenza di caratteristiche di effetti da
mutamento per inferire tout court l’estensione o i confini di un feno-
meno nel suo complesso. In altri termini, il turismo sagoma in maniera
imprevedibile confini culturali e pratiche sociali, ma non sempre gli
eventi che in maniera eclatante si presentano quali innovativi o di rot-
tura confermano poi costanza e diffusività pari alle aspettative generate
o ai timori sollevati.
Tali determinazioni distinguono l’approccio antropologico dall’a-
nalisi di marketing e dalla semiotica pura e semplice. Le ultime due
hanno a cuore la capacità che le attrattive (o il sistema delle attrattive)
di un sito hanno (o sembrano avere) nell’ordinare in maniera simboli-
ca e discorsiva i luoghi dell’incontro turistico (frontstage) e, di conse-
guenza, la rete garante delle infrastrutture necessarie all’ospitalità. Nel
primo approccio invece il cuore della ricerca sta nell’intendimento di
capire ciò che sembra dato, ossia il rapporto fra il nuovo frame e la
località storica; in specie diviene oggetto di indagine il rapporto fra le
icone/attrattive turistiche e l’insieme delle condizioni umane e sociali
che fanno da sfondo; la massima attenzione si rivolge quindi sul modo
di misurare il livello di profondità raggiunto dalla “novità” turistica.
Da qui discende la conseguenza, tipica per ogni analisi antropologica, e
per la stessa natura delle logiche situazionali, di porsi nella prospettiva
di uso di tecniche di confronto: comparazione fra il prima e il dopo,
fra il sito indagato e altri siti (simili o differenti), fra le novità e le per-
manenze, e così via. La bontà del risultato si correla alla possibilità di
individuare la maniera in cui assume forma di intelligibilità il processo
reale, e in particolare il processo tramite cui avviene che uno “spazio
umano” (space) si trasforma in “località” (place).

2. Il processo di produzione del sito

In rapporto alla lettura di tale processo, l’aspetto centrale sta nel


fatto che gli approcci semiotici o di marketing presuppongono come
già esistente il campo di attuazione dei flussi e delle esperienze turisti-
che, o per lo meno la loro potenzialità. L’analisi antropologica invece
ha proprio il fine di dimostrare quanto “spazio” il sistema turistico
Turismo, ambiente e culture locali 87

abbia di fatto guadagnato a sé,1 inverando la tesi più generale che lo


“spazio turistico” non è spazio previo, ma campo da delimitare, defi-
nire, contrassegnare.
Bisogna precisare la natura di tale spazio. A connotarlo concorro-
no vari “sguardi”: lo sguardo del viaggiatore attratto da qualcosa, lo
sguardo della comunità locale verso se stessa e verso i viaggiatori, lo
sguardo dei soggetti economici verso le risorse del sito, lo sguardo dei
costruttori dei siti turistici stessi, lo sguardo della classe politica locale,
e così via. E naturalmente si dice qui “sguardo” non solo in nome di
una letteratura critica oramai impegnata ad analizzare i fenomeni nei
termini di tale paradigma (Urry, 2001), ma anche perché i fatti che qui
ci riguardano dipendono da quel complesso di idee e concezioni del
mondo che nell’“incontro turistico” trovano una propria quasi-natu-
rale confluenza. Quindi, “sguardo” come modo di vedere e compren-
dere ma, insieme, di agire in coerenza secondo strategie di “costruzio-
ne” tanto del self quanto del “luogo” stesso. Non casualmente gran
parte della attuale letteratura critica dedica la massima attenzione al
ruolo che svolge il fattore della “costruzione” nella genesi dei siti, su-
perando le manifeste staticità del vecchio approccio (già di R. Barthes
e poi di J. Urry) centrato sulla essenzialità del “vedere” (touristic gaze),
quale ci restituisce ancora oggi l’esemplare studio di Edensor (1998).
Le caratteristiche della performance discendono da un distintivo
processo di produzione del sito e da un insieme di mezzi e tecnolo-
gie che stringono su tre costanti fondamentali: le attrattive, i servizi, le
risorse. In particolare sono da citare: la capacità di selezionare, iden-
tificare ed esporre oggetti segnici quali potenziali attrazioni; la capa-
cità di offrire servizi e ricezione complessiva (trasporti, ristorazione,
albergazione, guide e così via) per i visitatori; la capacità di rinnovare
le proprie risorse.
Di contro alle logore letture del turismo quale fenomeno di mero
consumo o di dissipazione di tempo libero, è tempo di riscoprire l’im-
portanza della dimensione del “fare” e del “costruire”, intesi nella loro
più ampia semantica: costruzione simbolica, istituzionale, di gender −
in una parola, di vita. Un momento centrale di tale processo produt-
tivo consiste proprio nella (re)interpretazione che un luogo compie di

1 Ciò coincide con il problema della determinazione delle “unità di analisi” del
ricercatore.
88 Alessandro Simonicca

sé, in quanto è da questa “testa di ponte” che provengono (con varia


intensità e consapevolezza) le strategie idonee ad accogliere i turisti e a
sviluppare reddito.
Per “interpretazione” si vuole qui indicare che ogni luogo aspiran-
te al rango di “sito di destinazione” non può non divenire specchio di se
stesso e assumere coscienza del suo esistere. Meglio, di esistere secondo
determinati modi di coniugare i tre ambiti fondamentali attorno a cui
si giocano i destini narrativi di un luogo: la natura, la storia, la cultura.
Questa è una operazione cui difficilmente il sito può sottrarsi, se si
ha a cuore il perseguimento di un’azione efficace; ed è una intrapresa
solidale al lavorio di autorappresentazione che ogni “località” introiet-
ta entro se medesima. Non tutte le operazioni di tale natura, natural-
mente, incontrano il successo atteso; anzi spesso le maggiori asperità si
annidano sulle possibili ambivalenze che il turismo contribuisce ad at-
tivare nel rapporto che si instaura fra lettura dei segni del passato e loro
messa a disposizione per un circuito comunicativo più ampio rispetto
al tradizionale. Si tratta di letture, rievocazioni e reinterpretazioni di
oggetti trascorsi e usati in funzione del presente, ma efficaci e funzio-
nali ad attivare flussi turistici la cui permanenza e durata si commisura
alla profondità, all’estensione e al radicamento dell’incontro turistico
entro le coordinate di vita di una popolazione o di un gruppo socia-
le. L’indagine sul campo ci mostra infatti siti che presentano sistemi
di attrattive più o meno condivise dai residenti (in specie in relazione
ad aspettative o a timori per il loro consumo) e conseguenti diversi
“tempi” di esistenza. Stiamo qui pensando al “ciclo di vita” di un sito
turistico, quale teorizzato da R. Butler; ma per la sua corretta interpre-
tazione è d’uopo essere avvertiti che la più ampia attenzione deve esse-
re rivolta all’insieme delle condizioni sociali e umane, più che al tempo
di “consumo” delle attrattive. L’ampliamento di tale teoria e il suo uso
in ambiti diversi da quello originario (il turismo di massa) apre scenari
nuovi e dà vita a riflessioni più minute sulle trasformazioni culturali del
nostro mondo attuale.
La domanda centrale è: chi opera tale lettura?
La risposta immediata è (dovrebbe essere): la “comunità che acco-
glie”. E ciò ha senso solo nell’assunzione che il turismo giochi le sue
carte unicamente negli spazi e nei tempi che gli “ospitanti” riservano
agli “ospitati”. In realtà, solo nella modellistica più astratta esiste una
“comunità” come “soggetto”; nei fatti, tanto l’articolazione della so-
Turismo, ambiente e culture locali 89

cietà civile entro le società moderne, quanto la stratificazione sociale


nei paesi in via di “sviluppo” ci mostrano un vasto spettro di classi
sociali, gruppi, raggruppamenti, associazioni che a titolo e a intensità
varî avanzano motivi e/o diritti a intervenire.
Ci sono innanzitutto gli attori economici con interessi non rara-
mente divergenti, poi i ceti politici alle prese con i piani locali di svilup-
po o affannati dal consenso, poi ancora la cosiddetta “opinione pubbli-
ca” che si distribuisce (oltre alla rappresentanza partitica) lungo canali
istituzionali o informali quali le associazioni culturali, locali e così via;
e non dimentichiamo altri soggetti (ben “forti”), quali gli enti istitu-
zionali a rappresentanza nazionale e/o regionale e il governo centrale,
con i quali il dialogo da parte della periferia è o può essere molteplice.2
Il concetto di comunità, preso nella sua accezione di “aggregazione
omogenea”, è, quindi, sostantivo ed essenzialistico, se non ideologico,
e non risulta in grado di indicare i concreti referenti sociali dell’incon-
tro turistico stesso. Rischia viceversa di essere mistificante, perché pre-
suppone una condivisione di idee e azioni che invece sono, molto spes-
so, patrimonio dei gruppi più forti. Il termine è tuttavia indispensabile
per potere indicare e comprendere il polo dell’host, e il suo destino è
di essere scomposto, con pazienza, per portare alla luce i differenziati
soggetti, plurali e dissonanti, che lo compongono.

3. Il consumo

Nei discorsi sul turismo grande rilevanza assume il tema del “con-
sumo” rispetto a moltissimi ambiti, dalle condizioni di transito, vi-
sibilità, accessibilità, a quelle della vita delle attrattive, finanche della
cultura. Uno dei maggiori pericoli deriverebbe, secondo alcuni, dalla
commercializzazione e dalla falsificazione di questa ultima.
L’idea che il turismo costituisca un forte rischio per la sopravvi-
venza delle tradizioni locali è timore tutt’altro che infondato, viste le
2 Nel contesto italiano la costituzione politica non prevede una totale autonomia

regionale, o per lo meno la questione è tutt’ora da definire. Anche nel caso dell’auto-
nomia regionale, però, non mancherebbero di sorgere problemi rilevanti fra questa
ultima e le “autonomie” locali e/o municipali, nonché altre complesse questioni si-
stemiche, quali i prevedibili nessi che il turismo inevitabilmente induce fra le singole
regioni autonome.
90 Alessandro Simonicca

molte esperienze che non pochi siti hanno esperito per saturazione, so-
vraffollamento o perdita di “autenticità” dei luoghi (Simonicca, 1997).
È da precisare però che il turismo è un responsabile della cosiddetta
“commercializzazione” ben minore di quanto invece non lo siano di-
rettamente i trend generali della modernizzazione, anzi spesso esso as-
sume più la species dell’effetto che della causa generativa. Ne consegue
che, se ci poniamo in un più ampio quadro di riferimenti, non possia-
mo non ridimensionare le lamentele generiche sul turismo, per intra-
prendere invece una più attenta indagine analitica, e − più saggiamente
− mettere in luce le scelte e le priorità proprie delle politiche locali (per
lo meno), osservando il decorso dei fenomeni, più correttamente, nella
loro direzione, da monte a valle.
In ogni caso, anche in questa ipotesi, l’accusa di “commercializza-
zione” va commisurata al contesto e al periodo storico di riferimento:
essa si collega a un modo di intendere la realtà economica quale campo
che connette insieme lo sviluppo dell’industria, la conquista progressiva
dei mercati e una forte presenza di rappresentanze politiche e sociali.
Ora, senza voler entrare maggiormente nel contenzioso teorico che tale
nesso solleva, si può affermare che l’ideologia della commercializzazione
rimanda a una concezione “fordista” dello sviluppo economico, e inten-
de il rapporto fra produzione economica e cultura in termini oppositivi
e negativistici. Lo sforzo attuale è, invece, proprio di superare tale con-
cezione e pensare che il turismo non attiene solo e unicamente agli eventi
economici e alle politiche di sviluppo; è un fenomeno, piuttosto, che ri-
guarda la mobilità mondiale delle persone, la moltiplicazione delle “pa-
trie” dei soggetti, la globalizzazione delle esperienze e, al tempo stesso, la
loro coniugazione in nuovi termini di “località” irripetibili ed esclusive.
Il punto distintivo di tale processo rimane il ruolo che svolge la
cultura. La vera novità sta nel fatto che la cultura è divenuta parte della
produzione economica;3 è divenuta risorsa, oltre che linfa che plasma e
riproduce un luogo. Il modello balinese della “cultura turistica”, con la
sua identificazione di economia di valori economici nella produzione
culturale, non può indubbiamente costituire un modello generalizza-
bile di teoria del turismo, eppure rappresenta un ineludibile termine di
confronto rispetto cui misurare i destini degli altri siti.

3
Non casualmente è in forte ascesa un tema quale l’economia della cultura, da
tempo anche di dominio accademico.
Turismo, ambiente e culture locali 91

La nuova posizione della cultura riveste inaudita importanza, giac-


ché anticipa, di gran lunga, uno dei tempi principali su cui ruota la di-
scussione attuale: si tratta di pensare al turismo non più in termini di
dissipazione energetica, ma di processo di produzione di località e di
risorse. L’assunto è impegnativo e incontra un altro tema centrale su cui
si stanno confrontando gli analisti, ossia il tema della “sostenibilità”.
Anche il turismo può e deve essere “sostenibile” – viene asserito. La
direzione è assai impegnativa, oltre che interessante. Di fatto non man-
cano punti critici: cosa vuole dire “sostenibilità turistica”? Da un punto
di vista antropologico la vera matrice della sostenibilità può riposare
solo sulla dimensione culturale e sociale, prima che economica o istitu-
zionale. Tale assunto, nonostante la relatività delle conoscenze attuali
su processi tutt’altro che lineari, può valere anche per l’esplicazione in
ambito rurale e naturalistico delle attività umane, compreso il turismo e
il tempo libero. A fronte di tale prospettiva v’è, quindi, l’urgenza di en-
trare nello studio etnografico e comparativo delle specifiche dinamiche
dei siti, in particolare per discernere le varie modalità con le quali la tra-
iettoria del consumo si interna nella produzione di sviluppo di località.
A caposaldo dell’analisi, va ricordata la dimensione plurima di uno
spazio turistico. Tale connotazione appare prioritaria appena andiamo
a indagare in che modo i singoli siti si impegnano in progetti di turismo
sostenibile. Per la loro comprensione si ricorre, in genere, a tre pro-
spettive strutturali (Botrill, Pearce, 1995):
– la prospettiva dei partecipanti (i turisti);
– la prospettiva dell’operatore (la sostenibilità economica e ambientale);
– la prospettiva del gestore delle risorse (la pianificazione degli inter-
venti e la protezione delle zone).
Per prospettiva “strutturale” si intende, qui, la componente reale di
un sistema di azione culturale e istituzionale, cui corrisponde uno spe-
cifico oggetto dell’analisi teorica: non siamo cioè di fronte a concetti
analitici o ad astrazioni concettuali con cui operare la ricostruzione di
un intero, ma a vere e proprie “astrazioni reali”.
La pluridimensionalità rappresenta la corretta reimpostazione del
problema nei confronti di chi continua a sostenere la bontà dell’uso
esclusivo del paradigma del “consumo”. E tali caratteristiche si evi-
denziano nei settori attuali più avanzati della sostenibilità nel turismo,
l’ecotourism e lo heritage tourism.
92 Alessandro Simonicca

4. Heritage ed ecoturismo

Lo heritage è la novità dell’ultimo decennio del Novecento. Ad


esso si sta sostituendo l’“ecoturismo” quale nostra ultima mitologia.
Perché questo passaggio?
Lo heritage ha dato vita, come è noto, a quel heritage tourism che si
è caratterizzato per un complesso di attività finalizzate alla valorizza-
zione delle tradizioni culturali e del passato, mediante la riproposizione
e l’esposizione allo sguardo turistico di uno stock di “patrimonio”, cui
ha corrisposto spesso un rinforzo dell’identità locale. Lo heritage dipar-
te, per così dire, dalle “periferie”, dalle località più periferiche, spesso in
antagonismo con i centri politici e con i grandi centri storico-artistici.
L’“ecoturismo” è invece maggiormente riconducibile a una filoso-
fia della vita e a un modo di vivere. È una ideologia che propugna uno
stile di vita e rimanda per lo meno a due tronconi storici del turismo
esperienziale ed esistenziale (Smith (a cura di), 1978; Cohen, 1979a): il
turismo dei drifters e il mondo della controcultura da un lato, il turi-
smo di natura dall’altro. Ambedue le correnti compartecipano di alcu-
ne profonde credenze, quali il disprezzo per il falso o l’innaturale e la
ricerca dell’autentico o dell’originale;4 in ogni caso condividono etica-
mente una robusta svalutazione della modernità e non si stancano mai
di sostenere l’importanza del ritorno alla natura e all’autenticità dell’e-
sistenza umana. Esiste però un nucleo di senso quanto mai specifico
e distintivo rispetto ad altri settori e altre ideologie dell’universo dei
viaggi. Tale senso si radica nella professione di fede per un’attenzione
particolare verso la natura, da conservare e da curare da parte dell’uo-
mo. La natura, complessivamente, viene letta attraverso un’immagine
mentale distintiva: il mito della “natura fragile”.5
4 Per “innaturale” si intende qui la posizione ideologica che oppone “autentico”

a “contraffatto” come “natura” a “cultura”. Nonostante le buone intenzioni, la storia


del turismo ci dimostra che 1) l’opposizione autentico/inautentico è una distorsione di
derivazione ideologica, e 2) a ogni gruppo sociale che manifesta una propria posizione
sul turismo corrisponde uno speculare target di mercato turistico. Il che la dice lunga
sul carattere autoinclusivo e autoriflessivo di ogni discorso sul turismo.
5 Per i “miti” sulla natura sono importanti le classificazioni esposte in Douglas,

1985. La posizione estrema, l’ecologismo di Gaia, inverte la debolezza attuale della


Natura nella sua forza ultima: i grandi mali attuali (dall’“effetto serra” al morbo della
“mucca pazza”) sono le pene che la Natura infligge all’Uomo per averla minacciata,
e insieme un ammonimento circa l’inevitabile ri-naturalizzazione di questo ultimo.
Turismo, ambiente e culture locali 93

Quali sono le motivazioni dell’ecoturismo? È un turismo alterna-


tivo6 che diparte da una concezione personalistica dell’individuo, se-
condo due versioni di fondo: la comunitaristica e l’individualistica. Nel
primo caso si vengono a sottolineare le caratteristiche di bontà dell’a-
zione collettiva del fare umano nel tempo libero; nel secondo si esalta
la capacità umana di realizzare un fine. In questi suoi aspetti generali, è
un insieme di attività che si avvalgono di uno stile discorsivo e di pro-
spettive che lo oppongono al “turismo di massa”.
Quasi ogni turismo innovativo è stato ideato e praticato in diretta
contrapposizione con il “turismo di massa”; e in qualche maniera fini-
sce per essere pensato quale non-turismo tout court. In termini rove-
sciati, si può dire che il turismo alternativo e/o l’ecoturismo svolgono
un particolare ruolo nella considerazione attuale proprio perché sono
largamente considerati (sit venia verbis) i “turismi” meno “turistici”,
relegando la connotazione (negativa) di turismo unicamente a quello
di “massa”. Gli aspetti contestati sono molti: l’anomizzazione del tem-
po libero, la commercializzazione dei valori, la massificazione dei siti,
l’azzeramento delle differenze “culturali”, la perdita progressiva del sé.
Se volessimo spingere a fondo la chiarificazione concettuale, ci tro-
veremmo però di fronte a gravi difficoltà analitiche. È infatti assai dif-
ficile definire tale turismo, come dimostra la varietà di versioni che la
letteratura critica continuamente offre. Alcuni fanno coincidere l’eco-
turismo con il turismo legato a motivazioni naturalistiche (Boo, 1990,
1994); altri ancora lo definiscono in termini di outdoor recreation quale
“viaggio per fruire della mondiale e amena diversità della vita naturale e
della cultura umana, senza causare danni né all’una né all’altra” (Cater,
Lowman, 1994); l’Ecotourism Society lo concettualizza invece come
“viaggio etico-sociale” (Lindberg, Hawking (a cura di), 1993).
Storicamente, la definizione di “turismo alternativo” risale negli anni
Ottanta, e uno dei primi ad averlo teorizzato, H. Ceballos-Lascurain
(1987), ha focalizzato l’attenzione soprattutto sui fattori educazionali
ed esperienziali, definendolo quale “attività di viaggio in aree naturali
relativamente indisturbate o incontaminate al fine specifico di studiare,
ammirare e fruire il paesaggio, le piante e gli animali, ma anche ogni ma-
nifestazione culturale (del passato e del presente) propria di una determi-

6 Per i limiti ideologici della nozione di “turismo alternativo” cfr. Smith, Eading-
ton, 1995.
94 Alessandro Simonicca

nata area”. A questa connotazione etico-educativa sono collegabili altre


posizioni. Già in anni precedenti, nel 1976, il Canadian Forestry Service
programmava servizi di ecotours finalizzati al rafforzamento dell’iden-
tità nazionale attraverso l’interpretazione dell’ambiente naturale e delle
risorse canadesi; non sono da dimenticare i tours naturistici in terra di
Israele in tema di strategie atte a rafforzare l’identità nazionale tramite
l’attività escursionistica; né va sottovalutata l’importanza della Natio-
nal Ecotourism Strategy dell’Australian Commonwealth Department of
Tourism, per la quale l’ecoturismo è quel “turismo a motivazione na-
turalistica che comprende educazione e interpretazione dell’ambiente
naturale, ed è gestito in modo tale da essere ecologicamente sostenibile”.7
Insistere sul versante etico-educativo centrato sull’attività escur-
sionistica e sulle norme etiche del viaggio, rischia di risultare unila-
terale, perché focalizza solo il ruolo svolto dal visitatore e/o dal turi-
sta (guest). Esiste infatti anche l’altro aspetto del turismo in generale e
quindi dell’ecoturismo, che insiste sull’importanza della località e della
comunità “ospitante”. In linea con questa posizione, Werstern lo defi-
nisce come “viaggio responsabile in aree naturali che conservano l’am-
biente e rafforzano il benessere della popolazione locale” (Werstern,
1993), e similmente si esprimono l’Ecotourism Society e tutti i progetti
di sviluppo di comunità etnologiche nei progetti di ricerca-azione in-
ternazionale attuati tramite finalità ecoturistiche.8
Le definizioni sono molteplici, e non esiste a tutt’oggi una defini-
zione standard di ecoturismo (Fennell, 1999; Ziffer, 1989), e non v’è
dubbio che ciò deriva dal fatto che la sua origine e la sua valenza stia,
ambiguamente, a cavallo fra il designare un’attività, rimandare a una
filosofia, prospettare un modello di sviluppo.
La soluzione più semplice sta nell’operazionalizzare l’“ecoturi-
smo”, andando a stimare la proporzione di tutti i viaggiatori deno-
minabili “ecoturisti”. La ricerca sulla tipologia dell’ecoturista è agli
inizi, ma già conta i primi studi interessanti, basti pensare al profilo
dell’ecoturista nordamericano (Wight, 1996), al caso del Doi Intha-
non National Park, Thailandia (Hvenegaard, Dearden, 1998) o al caso
del Belize (Lindberg, Enriquez, Sproule, 1996).

7
Cfr., sulla questione, Kusler, 1991 e MacCool, 1994.
8 Per alcuni appunti sui progetti internazionali, cfr. Wallace, 1995; in ogni caso, cfr.

la complessa esperienza vietnamita in Koeman, 1999.


Turismo, ambiente e culture locali 95

A costituire il contenuto semantico della nozione concorrono tre


tratti necessari (Blamey, 1997):
– la componente della motivazione naturalistica,
– la componente educazionale,
– la componente della sostenibilità.
Tale operazione, purtroppo, non risulta sufficiente a chiarificare il
termine, in quanto tali contenuti sfuggono a criteri di specificità o di
univocità. Ad esempio, circa la componente naturalistica, resta indeci-
so se il termine debba riferirsi più ampiamente alle zone rurali oppure,
più limitatamente, alle zone “protette” (parchi o altro); circa la com-
ponente educazionale, rimane incerto se debba trattarsi di programmi
di azione didattica consapevole e mirata ovvero si abbia a che fare, più
genericamente, con esperienze di interpretazione; circa la componente
della sostenibilità, è incerto se si tratti di motivazione primaria oppure
di motivazione dipendente da quella naturalistica. E anche in questo
ultimo caso, v’è differenza fra la motivazione al birdwatching, il fare
esperienze più attive nell’ambiente naturale (motivazione secondaria),
oppure (situazione ancora più complessa) l’agire per il miglioramento
economico-sociale di un ambiente.
Se si abbandona la strategia della operazionalizzazione, si può
ricorrere alla attribuzione dell’ecoturismo a un distinto “segmento
di mercato”, tramite la classificazione degli utenti in gruppi con dif-
ferenti bisogni, caratteristiche o comportamenti, quali consumato-
ri che rispondono in maniera simile a un dato insieme di stimoli di
mercato.9
Purtroppo nemmeno questa linea riesce a risolvere i nostri proble-
mi, per l’avanzare di nuovi gap. Gli studi di casi infatti dimostrano in
maniera costante che non sussiste simmetria fra la motivazione a im-
parare dalla natura e la motivazione a minimizzare gli impatti negativi
dell’azione umana (anche la propria) sull’ambiente. Nella discussione
internazionale si parla ormai della figura dell’“ecoturista elusivo”, os-
sia chi tende ad essere ecoturisti verso se stesso, ma non verso la natura.
Non deve quindi stupirci se la ricerca sul significato del termine si
conclude spesso con una “definizione minimale”. Sono detti ecoturisti
quei free indipendent travellers (FITs) che partecipano individualmen-

9 Per l’idea di un segmento di mercato sensibile alla sostenibilità ambientale, cfr.


Eagles, 1995; Wight, 1994 e 1996.
96 Alessandro Simonicca

te a un ecotour qualificato in ambiti naturalistici;10 la quale conclusione


è pur sempre un raggiungimento (in specie nel marketing), anche se la
conquista non è poi così brillante, se il risultato continua a oscillare fra
una accezione descrittivistica e una accezione normativistica del termine.
Rimangono irrisolti i dubbi iniziali. L’ecoturismo è una categoria
del turismo o del viaggiatore? È una categoria che riguarda gli “ospita-
ti” o le comunità ospitanti? Oppure categoria etica, del tempo libero,
dell’economia o del marketing?
Allo stato attuale non v’è affatto convergenza fra l’analisi tipologica
sugli “ecoturisti” e le dinamiche dell’“ecoturismo”, e ciò si evidenzia
proprio nella discussione che stringe sul rapporto fra “sostenibilità” e
“ambiente”, cioè sul quel tratto da cui maggiormente sorgono problemi.

5. L’ecoturismo è sostenibile?

Non v’è dubbio che il turismo legato alle aree naturali sia enorme-
mente cresciuto nell’ultimo decennio (si parla di un aumento del 30%
annuale). Tale turismo insiste direttamente sulle risorse naturali ed è
motivato da un forte interesse per l’ambiente. Le ragioni sono note:
il cambiamento di stile di vita nelle società odierne, lo sviluppo delle
tecnologie, la fuga dalla saturazione metropolitana, la ricerca di luo-
ghi a misura d’uomo. Purtroppo esiste una larga e irriflessa tendenza
a rendere equivalenti il “turismo di natura” (nature based tourism) e
l’ecoturismo.
Il punto centrale è che l’interesse per la natura è mosso da due
disposizioni importanti ma non necessariamente concomitanti: la
consapevolezza dei temi ambientali e l’azione a favore dell’ambiente
stesso. Bisogna, in altri termini, tentare di distinguere fra la motiva-
zione al turismo basato sulla natura e l’ecoturismo. Con il primo si
intende quell’attività di tempo libero che si fruisce in un’area natura-
le per cercare moti di piacevolezza o attivare una partecipazione con-
templativa, finalizzata all’apprendimento e a esperienze di interpre-
tazione. Vi manca però quell’interesse attivo, tipico dell’ecoturismo,
10 L’indagine riguardo al comportamento turistico si basa sulle ricerche empiriche

sui visitatori e sulle guide dei parchi. Fra i resoconti più interessanti − va osservato
però che spesso la letteratura di settore rischia di essere piuttosto scadente − cfr. Epler
Wood, 1993 e Giongo et al., 1999.
Turismo, ambiente e culture locali 97

a intervenire, singolarmente o in gruppo, per imparare dalla natura


o a sviluppare capacità idonee a minimizzare l’impatto umano sulla
natura. Tra le finalità dell’ecoturismo si annoverano infatti la crescita
dell’acume percettivo e la maturazione di idee sull’esperienza, irridu-
cibili a motivazioni da pic-nic. Le attività ecoturistiche sono sempre
legate a programmi formativi e interpretativi, tendono a influenzare
l’esistenza dei partecipanti di ritorno dalle loro esperienze e aprono
nuove prospettive di vita. Si tratta quindi di una serie di disposizioni
esistenziali che si misurano con visibili aspetti comportamentali dei
soggetti, nei quali la partecipazione attiva diviene un insieme quo-
tidiano di pratiche che si estendono sino all’impegno di contributi
finanziari o all’uso del proprio tempo per il miglioramento degli am-
bienti naturali.
L’ecoturismo si distingue quindi dal più generico “turismo di na-
tura”: pur condividendo con questo ultimo l’interesse verso l’ambien-
te, si pone in ideale collegamento con il turismo rurale per quanto
riguarda le modalità attive dell’uso del tempo libero, con il turismo
culturale per l’interesse per la storia umana, con il turismo etnico per
l’interesse rivolto alle comunità locali. E sono proprio queste due ul-
time caratteristiche (l’interesse per la produzione della cultura umana
e l’interesse per le comunità) a marcare più seriamente la difficoltà a
definire l’ecoturismo a partire dall’attività dei singoli viaggiatori che
in maniera più o meno esplicita sono definiti ecoturisti (Orams, 1995
e 1996).
La questione relativa alla sua definizione è sostantiva e rimanda
alla dibattuta contrapposizione fra turismo di massa e turismo “al-
ternativo” e/o sostenibile. Negli ultimi due decenni la storia della
querelle registra una serie di quattro posizioni teoriche, così indivi-
duabili (Buckley, 1995; Clarke, 1997):
1. v’è opposizione polare fra turismo di massa e turismo sostenibile,
2. v’è continuità scalare fra turismo di massa e turismo sostenibile,
3. è in atto un trend di nuovi turismi capaci di superare le vecchie for-
me di consumo,
4. il turismo sostenibile è una strategia di azione finalistica su cui ten-
de a convergere il turismo, tanto su larga scala quanto su piccola
scala.
Nel passaggio dal primo al secondo momento registriamo il su-
peramento della concezione dicotomica e demonizzante il turismo
98 Alessandro Simonicca

di massa, a favore di un’idea più flessibile di turismo quale fenomeno


contrassegnato da movimenti storici, mutevolezza di fronti e plu-
rime situazioni intermedie. In particolare si insiste sulla possibilità
che si possa giungere a una definizione di turismo quale fenomeno
osservabile dall’esterno e circoscrivibile entro complessive linee di
sviluppo. Le ultime due posizioni, invece, abbandonano l’idea di una
definizione univoca del turismo secondo tratti esterni, e introduco-
no l’aspetto dell’azione sociale e del fine quali momenti significativi,
destinati a porre fine a ogni opposizione fra le forme del turismo.
Dell’ultima posizione, in particolare, citiamo due importanti va-
rianti:
– la convergenza avviene su larga scala, grazie al mercato globale e alla
attivazione di programmi educativi;
– la convergenza avviene su piccola scala, grazie alla presenza e al pro-
tagonismo delle località.
Inserita in questo orizzonte, la discussione assume uno scenario
più ampio, in cui il focus maggiore ruota attorno a quattro principi cui
l’ecoturismo dovrebbe rispondere:
1. il minimo impatto ambientale,
2. il massimo rispetto per le culture ospitanti,
3. il massimo beneficio per la popolazione locale,
4. il massimo di soddisfazione nel tempo libero per i partecipanti.
Sono principi antropologicamente assai importanti: sostenibile è
solo quel turismo che non mette a repentaglio la vita e la cultura degli
hosts; che anzi tende a salvaguardarle. Quindi è un concetto prima di
tutto etico, perché impegna a lasciare il mondo quale è attualmente per
le future generazioni; è però anche una concezione sociale e politica,
perché riguarda le condizioni di una vita di comunità. La vicinanza con
la nota definizione di “sostenibilità” data dalla Commissione Brundt-
land è talmente evidente che qui basta solo farne accenno. E soprat-
tutto si tratta di una “sostenibilità” riferita e riferibile alle comunità, e
quindi alla sostenibilità delle culture, in termini di azioni e di ricono-
scimento dell’Altro.11
Il nodo più corposo purtuttavia verte sulla possibilità che si istitui-
sca un nesso economico fra aree protette (parchi e altro) ed ecoturismo:

11
Per la complessità della determinazione della nozione di “comunità” a partire
dai suoi componenti e nella prospettiva di un sistema di azione, cfr. Sproule, 1996.
Turismo, ambiente e culture locali 99

la scommessa insomma sta tutta sulla possibilità che un turismo “di-


verso” possa apportare vantaggi finanziari ed economici.
Gli autori di un importante studio sul Belize (Lindberg, Enriquez,
Sproule, 1996) sostengono che tre sono i fini dell’ecoturismo:
1. generare un apporto finanziario per le aree protette,
2. generare benefici ecologici,
3. generare supporto locale alla conservazione.
Delle tre finalità solo la seconda e la terza sono risultate positive,
non la prima. Il nodo è sostanziale; l’abbiamo già anticipato; v’è neces-
sità di discuterlo e approfondirlo.
Prima di tutto bisogna partire dal punto su cui si innestano le forme
di turismo legato alla natura, quali qui stiamo trattando. Tale fonda-
mento risponde a un generale assunto di base: la motivazione e/o il me-
dium su cui si sviluppa l’esperienza è il “viaggio responsabile” e questo
ultimo riguarda i viaggiatori, gli ospitanti e i residenti. Su tale piattafor-
ma nascono e si sviluppano le idee e le pratiche finalizzate alla conser-
vazione e al miglioramento del benessere della popolazione locale.
Ciò che connota fondamentalmente l’ecoturismo è quindi il bi-
nomio conservare e insieme migliorare; come tutte le stralunate figure
della vecchia dialettica, però, tale binomio assume strane fattezze e sen-
si ben lontani dall’univocità.
Per taluni critici, infatti, sono da privilegiare i vincoli precauzionali
per le risorse e va data priorità ai bisogni della popolazione locale; per
altri una gestione schiettamente ecoturistica è operativa solo se appli-
cata entro le aree dei parchi; alcuni non mancano di ammonire sulla
necessità di coniugare ecoturismo e gestione ecologica; altri specificano
la condizione che nella gestione delle aree protette vi sia una ricaduta
economica a favore dei locali e avvenga un utilizzo esclusivo delle ri-
sorse locali; i più radicali, infine, richiedono che l’ecoturismo debba
prevedere attività, e norme di comportamento tali da dare vita a un (sia
pur differenziabile) sviluppo comunitario.12
Vi sono quindi molteplicità di letture e diversità di impegni. Se
però guardiamo alla questione dell’ecoturismo dalla parte dei residen-
12 Per una ampia discussione in specie sul rapporto, nei parchi, fra conservazione e

sviluppo, cfr. Kusler, 1991; McCool, 1994; per la posizione estrema, ed antitecnologica,
invece cfr. Stewart, Sekartjakrarini, 1994. Sull’estesa trattazione riguardo all’escursio-
nismo ambientale, cfr., fra gli altri, Epler Wood, 1993; Norman et al., 1997; Roe et al.,
1997; Wight et al., 1999.
100 Alessandro Simonicca

ti, e non dei visitatori, scopriamo che tra i tre momenti indispensabili
al successo dei progetti, è proprio il “migliorare” a risultare assai poco
garantito, o per lo meno problematico. In una indagine dedicata allo
sviluppo di parchi e aree protette, Buckley (1994) concentra l’atten-
zione sul momento particolare del “generare un supporto finanziario
per la gestione delle aree”; e conclude, sulla base di rilevamenti docu-
mentarî, che è proprio tale obiettivo a registrare più frequentemente
un netto fallimento. Al fine di superare tale empasse, Clarke (1997)
oppone una nuova formulazione di ecoturismo inteso quale processo
complesso a quattro fasi e suggerisce un sistema di azioni combinate
in cui avvenga l’integrazione fra la dimensione micro e la dimensione
macro, invitando le grandi imprese a pensare in grande ma ad agire su
piccola scala (think global, act local).
Nonostante la sollecitazione di E.W. Manning a puntare su una go-
vernance for tourism, bisogna riconoscere, con tutta onestà, che siamo
ancora ben lontani dal riuscire a indicare procedure o azioni standard
idonee all’implementazione del turismo sostenibile; pur tuttavia, i reso-
conti degli studi condotti su casi specifici e la letteratura critica attuale
(vivace ma non ancora capace di produrre paradigmi lungimiranti) ci
inducono a ribadire l’essenziale nuovo ruolo che assumono le località,
nel complesso dei legami che collegano le risorse culturali alle nicchie
di mercato e alle strategie connesse alle economie di scopo. Si potrebbe
andare anche oltre, e aprire il ben più complesso rapporto delle località
con le costruzioni culturali del globalismo; non è qui possibile, basti solo
notare però che anche in questo ambito il turismo è attraversato per in-
tero dai trend attuali, a dimostrazione − se ancora ce ne fosse bisogno −
della sua profonda innervazione entro le coordinate del mondo attuale.

6. Alcune considerazioni finali

Ai fini del nostro discorso importa trarre qualche conclusione. La


più importante riguarda il rapporto fra “ecoturista” ed “ecoturismo”. I
due termini non intrattengono relazioni di reciprocità, e le realtà cui ri-
mandano sono il frutto di prospettive spesso diverse, se non asimmetri-
che, di “sostenibilità”. La differenza più notevole si gioca in particolare
sul modo di intendere l’idea di azione etica: nel caso dell’ecoturista il
modello di azione obbedisce pur sempre alla logica dell’attore razionale
Turismo, ambiente e culture locali 101

individuale, mentre nel secondo prevale il modello “comunitaristico”.


E che tale differenza produca effetti rilevanti, lo dimostra la presenza,
concreta e diffusa, di organizzazioni private, istituzionali e nazionali
che pongono in luce la necessità “associativa” nell’attuale ecoturismo
(Ecotourism Society (The), 1995a e 1995b; Wight et al., 1999).
Affermava Valene Smith che l’antropologo ha il dovere di analizza-
re un sito dal punto di vista delle capacità culturali che hanno i residenti
di diventare hosts, ed eventualmente capire le condizioni a ciò ostative,
costruire percorsi di educazione al rispetto delle differenze culturali
e al viaggio etico. La convinzione era fondamentalmente legata all’i-
dea che si potesse giungere a definire una sorta di “mentalità locale”, o
genius loci, da conoscere e con cui fare i conti. Ripensando oggi a tale
impostazione, forse l’idea può apparire un po’ riduttiva, se non altro
perché non v’è più abitudine attuale a pensare in termini di “culture
omogenee”, quanto di “culture plurali”, ossia di gruppi con diverse
condivisioni di azioni, valori e significati: siamo invece più allenati a
cogliere le differenze intra-comunitarie piuttosto che una presunta
uguaglianza di modo di sentire e vivere la vita.
Eppure, nonostante qualche tratto di ingenuità, la prospettiva di
una previa analisi delle condizioni culturali di una località al cui inter-
no attori economici, sociali e politici ritengano utile o necessario fare
partire processi turistici o azioni collegate più latamente al turismo,
non dovrebbe apparire mera prospettiva intellettualistica, se non altro
a ragione dei profondi mutamenti che il turismo opera o concorre a
produrre su uno spazio umano.
Si può andare oltre e constatare che purtroppo questa attenzione è
stata per lo più sinora assente, o per lo meno assai tiepida, in ambito sia
metropolitano sia periferico; e ciò induce a optare per un modo di pen-
sare che privilegi prospettive “integrate” che leggano l’organizzazione
sociale anche in termini culturali.
La nuova stagione dell’ecoturismo ripropone dunque un’anti-
ca discussione, con qualche freccia in più a favore di una più stretta
congiunzione fra “analisi” e “interpretazione”. Tale nesso esprime la
difficoltà di un nodo da affrontare, ma è destinato anche ad accrescere
l’irriducibilità e la responsabilità di una analisi culturale: irriducibili-
tà, perché le letture meramente economicistiche hanno mostrato i loro
ampi limiti; responsabilità, perché ogni discorso sul turismo, anche il
più teorico, diviene azione sociale.
102 Alessandro Simonicca

L’analisi dispiegata, infatti, non tarda mai a diventare interpreta-


zione. Essa non può esimersi dal divenire, consapevolmente o meno,
voce distinta del pubblico dibattito e quindi potenziale agente di cam-
biamento. Certamente qui la partita per l’antropologo si complica, e
si aprono diverse possibilità di impegno; ma su ciò non conviene qui
soffermarsi.
Nel caso dell’ecoturismo abbiamo, in ogni caso, la presenza di due
aspetti importanti: la varietà e la dinamicità. Con il primo aspetto si
vuole intendere lo spettro e l’amplissima gradazione di forme che lo
costituiscono nell’interpretazione e nella realtà, dall’ecologismo puro
al mero consumismo. Con il secondo, viene posta in rilievo la prospet-
tiva della processualità, in quanto la produzione di un sito non corri-
sponde mai all’applicazione di uno schema o di una teoria, ma a una
continua interpretazione e azione culturale. La varietà e la dinamicità
confermano, così, la densa circolarità che connette comunità locali, tu-
rismo e ambiente per il tramite della “interpretazione”.
CAPITOLO X
Teoria e prassi dello heritage tourism

1. Questioni di reti concettuali

1.1 Da dove partire

Se dovessimo esprimere una sintetica indicazione sulle idee-guida


del trascorso secondo Novecento, potremmo dire che è stato il secolo
della “memoria” per gli storici e gli antropologi, dello heritage per gli
urbanisti e i teorici della vita sociale. I due termini intrattengono strette
relazioni di solidarietà, e assieme istituiscono i termini entro cui ridefi-
nire la dimensione della “tradizione”, cui gli attuali studi antropologici
dedicano grande attenzione, ai fini della analisi e della ricostruzione
della cultura intesa come “patrimonio”.
L’approccio, latamente ermeneutico, assume a volte connotati di
alta pervasività, sino a volere abbracciare nel pensiero e nella concet-
tualizzazione l’intero rapporto fra passato e presente. È una tendenza
che va combattuta e il turismo serve allo scopo: in questo quadro com-
plessivo esso rappresenta tanto una visuale da cui osservare il mondo,
quanto un momento assiale nel regime delle rappresentazioni e delle
pratiche connesse, in quanto si inserisce nel sostrato – per così dire –
“materialistico” della dialettica fra tempo di lavoro e tempo libero.
È per questi motivi che si è soliti, introducendo le tematiche rela-
tive a quella sorta di nebulosa che è denominata “turismo”, operare
con la strategia scacchistica del posizionamento iniziale dei pezzi: si
tenta di combinare alcuni pezzi in modo da guadagnare il “centro” e
impedire all’avversario di entrare nelle maglie della propria strategia di
attacco o di successo. Così, nel caso specifico, si usa aggiungere “tu-
rismo” e “sostenibilità” accanto ad “antropologia” e “beni culturali e
ambientali”, per soddisfare per lo meno due condizioni: da un lato, una
esigenza etica, sempre più diffusa, sensibile ai destini delle sorti umane;
dall’altro, la volontà di coniugare la prospettiva antropologica con la
dimensione dell’attualità documentata (e qui, la centralità del “bene”,
affine solidale a “cultura”, è palmare).
332 Alessandro Simonicca

Nulla da obiettare circa la necessità di pensare all’insieme dei ter-


mini in questione. Tanto più, in quanto al centro della questione stan-
no cruciali e spinosi problemi per l’antropologo, quali la validità del
concetto di “cultura” e il suo uso efficace nelle coordinate metropo-
litane, oppure la legittimità e gli effetti del dispiegare entro le maglie
delle connessioni organizzative delle istituzioni l’azione conoscitiva e
pratico-effettuale della disciplina. Ché di questo proprio trattasi, di uso
dell’antropologia e di impegno degli antropologi. Uso di concetti di
metodi e di teorie, ma anche di professioni storicamente nate entro altri
contesti e intese ad altri fini; uso di idee, di donne e di uomini.
Ovviamente, non si deve qui riprendere l’annosa questione relativa ai
controversi punti della genesi disciplinare, o di negare la “normale” sto-
ricità dei paradigmi delle scienze dell’uomo o delle società. Il centro della
contesa non riguarda il normale avvicendarsi storico di nuovi problemi
da puntualizzare e risolvere (e chi può mai essere contro l’asserzione che
dentro la storia c’è tutto?), quanto, e più profondamente, la costitutiva
emergenza di domande generate dall’attualità, che riattualizzano la veri-
fica di validità dei classici impianti logico-metodologici dell’antropolo-
gia, distinguendo fra scarti di senso e scenari di nuovi “orizzonti”.1
Nonostante le accanite contese e i furiosi anatemi che negli ulti-
mi decenni si sono susseguiti a favore e contro la necessità di pensare
e presupporre una realtà contro cui o su cui basare teorie, critiche e
progetti di vita (falsificazionista o verificazionista che sia l’impianto),
la nozione di “realtà” continua a svolgere una sua utilità. Aprire tale
questione è sempre utile, aggiungendo l’ovvia precisazione che è neces-
sario stringere sulle definizioni minimali necessarie per andare avanti,
per non cadere cadere nell’indistinto.
Accenno per lo meno a tre accezioni, ognuna distintiva di uno stile in-
tellettuale di pensiero e di rispettive strategie di ricerca: il concetto di realtà
come referenza esterna al soggetto, realtà come mondo delle istituzioni
umane, realtà come prodotto delle operazioni concettuali della mente.

1 Anche questo enunciato che appare in forma quasi-universale non regge nel caso

particolare che l’interlocutore professi o teorizzi una concezione ontologica del pensie-
ro o della storia; credo però che la critica heideggeriana e post-heideggeriana al carattere
sospetto della subordinazione del linguaggio al pensiero debba essere considerata come
saggio antidoto contro ogni assunzione universalista, perché individua la singolarità
storica di una episteme. Qui la sintonia con l’anti-etnocentrismo e la costituzione cul-
turalmente mediata delle teorie attiva un buon campo di connessioni problematiche.
Teoria e prassi dello heritage tourism 333

La prospettiva di pensare a questi tre stili come momenti non esclu-


sivi ma compartecipati offre la possibilità di ragionare di “realtà” in
termini di “orizzonte”, senza eccessivi timori di essere accusati di con-
traddittorietà rispetto ad assunti interpretativi che reputo irrinunciabili.

1.2 L’orizzonte
L’orizzonte è il luogo in-between. La sua ampiezza consiste nel-
la gamma sincronica dello spazio esistente fra i presupposti delle do-
mande e le conclusioni. È però anche lo spazio che si estende nella
diacronia che correla le risposte, che un’epoca ha fornito ai dubbi dei
contemporanei, alle domande che si pongono i successori di un’epoca a
venire. È un luogo senz’altro conoscitivo, in cui è sempre impressa una
torsione di direzione e una curvatura di ambito, lungo le quali sono
modellati e direzionati gli atti dell’interrogarsi sul mondo. Tale spazio
non è una linea che piega in due parti simmetriche il campo dei proble-
mi o della visibilità del mondo, né un confine prevedibile. Non è una
linea retta, ma una curva, e ogni punto di essa rimanda a una distanza
dal centro, che varia al mutare dell’angolo. In altri termini, v’è un cen-
tro epistemico che stringe e calamita i vari punti esterni (risposte), che
sono tanto più forti, quanto maggiore è la loro vicinanza dal centro
della curva/circonferenza. Il fatto che vi sia un punto di attrazione,
però, non garantisce per ciò stesso che si possano costruire algoritmi
peculiari capaci di prevedere in anticipo quanto sarà lontana la risposta
dal centro stesso. La vicinanza e la prevedibilità degli assunti sul mon-
do dipendono quindi da ipotesi centrali, da idee-guida che illuminano
di senso i vari luoghi dello spazio conoscitivo e della visuale prospetti-
ca, costruendo una griglia di classificazione e di anticipo di realtà, in cui
le diverse parti dello spazio mentale sono destinate a corrispondere in
vario modo agli stati del mondo e alle posizioni degli uomini.
Solo quando cambia, il centro potrà essere compreso come il centro
precedente; e solo allora gli assunti e le finestre sul mondo assumeranno
la loro piena distinzione; ma ciò accade solo quando giunge il momento
cruciale in cui il testimone della memoria sta passando ai successori.
Le risposte del presente sono una reinterpretazione delle domande
e delle risposte del passato alla luce delle domande del presente. Una
reinterpretazione del passato è ineliminabile, necessaria: i problemi di
ieri sono riletti, rivisti, reinterpretati, riformulati e forniti di nuovi si-
334 Alessandro Simonicca

gnificati e fini. Non solo. Vengono a essere identificati in diversa ma-


niera i problemi di ieri nelle forme interrogative dell’oggi, il loro senso
viene a essere compreso sotto nuova luce, grazie a ulteriori sondaggi
che rimandano a prospettive diverse per spessore e gittata. Comprese
le amnesie e le connotazioni di potere, su cui più in là ci soffermeremo,
ma che vanno qui anticipate perché sono gli elementi fondamentali che
ci indicano la pluralità dei punti della rete conoscitiva in atto.
Torniamo, però, al contenuto della nozione di heritage, su cui dob-
biamo stringere, perché è l’orizzonte attuale da sondare.

2. Heritage, turismo, sostenibilità


2.1 Heritage
Definiamo stringatamente la nozione di heritage e poi passiamo ad
alcune precisazioni.
Lo heritage descrive tutto ciò – le tradizioni culturali e i manufatti
– che ereditiamo dal passato.2 Tale descrizione deve il suo ruolo all’atto
continuo di interpretazione che ogni gruppo sociale o comunità pro-
duce senza sosta. Identificare questa azione significa comprendere il
senso di un luogo. I suoi temi principali sono il landscape, le abitazio-
ni storiche, i siti del patrimonio archeologico, architettonico, artisti-
co e naturale, lo sviluppo regionale, il turismo a interessi speciali, le
escursioni formative, le arti drammatiche, i tour culturali, i viaggi per
partecipare a festival o eventi culturali, le visite ai monumenti, i viaggi
naturalistici, il folklore, l’arte, i pellegrinaggi.

2.2 Heritage tourism


L’interesse per il patrimonio culturale come attrazione turistica
emerge in particolare modo negli anni Novanta, e conosce un subita-
neo successo in quanto la sua assunzione come strategia di conserva-
zione e uso del territorio si coniuga subitaneamente con l’idea di trarre
importanti vantaggi economici, nonché di innestare meccanismi atti
a preservare l’etnicità.3 Ciò contrasta con una situazione largamente
2
Per un ampio regesto comparativo delle accezioni di patrimonio cfr. Testa, 2002,
prima e seconda parte.
3
Cfr. la nuova edizione di Hosts and Guests (Smith, Brent (a cura di), 2001), che
ricapitola, aggiornandolo, lo stato dell’arte.
Teoria e prassi dello heritage tourism 335

diffusa nella mentalità e nelle pratiche di gestione degli spazi urbani e


rurali. È stata esperienza diffusa nel Novecento, infatti, reagire di fron-
te alla storia premoderna in termini di sufficienza emotiva e valutati-
va. I manufatti, gli stili abitativi, gli oggetti d’suo, oltre che le pratiche
espressive (musica, letteratura ecc.), sono stati denigrati come arretrati
o fuori moda, in quanto non coincidenti con i processi di modernizza-
zione in atto o auspicati. Se ciò vale come connotazione generale per
le aree storico-sociali dei paesi industrializzati o a economia di servi-
zi, non è però ipso facto generalizzabile. Le storie interne, infatti, dei
singoli paesi (o stati nazionali) sono state tutt’altro che ineffettuali nel
passaggio di fine ventesimo secolo. Pur appartenendo a un comune
trend economico, le varie tradizioni nazionali hanno infatti molto pe-
sato su tale passaggio, che potremmo sociologicamente definire come
un passaggio dal capitalismo organizzato alla società dei servizi, o, e si
vuole, dal moderno al postmoderno.
Si tende in genere a individuare nella seconda metà degli anni Set-
tanta del Novecento la cesura critica, anche se inizialmente non appresa
affatto nella sua intera lezione, che si instaura fra capitalismo fordista di
massa e capitalismo flessibile. La crisi energetica e l’inizio di un mono-
polio internazionale delle risorse energetiche si accompagna a una serie
di fenomeni e tendenze compresenti o parallele che videro l’occidente
metropolitano attraversare i momenti di maggiore novità nella trasfor-
mazione della industria pesante nell’industria soft delle comunicazione e
dei servizi, nella flessibilizzazione del lavoro industriale e commerciale,
nella compressione dello spazio-tempo che produce una riarticolazione
non disgiuntiva fra locale e globale, nella delocalizzazione della produ-
zione fuori dai centri metropolitani e nella crescita continua della sfera
del consumo e delle classi occupazionali a esso più strettamente legate.
Pur se in rapidissimi tratteggi, si può dire che è in queste connessioni che
vada individuata la genesi dello heritage, ove vale la specificazione che
con ciò si intende il livello più propriamente sistemico della emergenza
del nuovo, più che la datazione di inizi cronologici compiuti, giacché è
proprio in questi anni che dobbiamo registrare anche le diverse direzio-
ni di marcia che intraprendono Europa e Stati Uniti.
L’Europa, ad esempio, ha una grande ricchezza di storia compiuta
ed esibita, come del resto possono vantare anche molte parti dell’Asia,
ma lo spostamento verso lo heritage è stato particolarmente forte negli
USA, e il preannuncio di esso data sin dall’inizio del secolo.
336 Alessandro Simonicca

Se prendiamo l’esempio statunitense, vediamo infatti che in questo


particolare contesto sono molti i luoghi forti, i “centri” irradiatori di
forze attrattive che danno vita a retoriche di immagini e sistemi di di-
scorsività distintive. Possiamo citare molti fronti: la grande narrazione
e l’esposizione della storia e degli usi dei popoli “nativi”, le tradizioni
della “frontiera”, la deep ecology, le foreste, la parchistica, la door re-
creation, ma anche le “colonie interne”, ossia i gruppi sociali o le tra-
dizioni di ascendenza europea che maggiormente si sono radicati sul
suolo americano e hanno costituito gruppo culturale a sé. I due nodi
forti sono, in ogni caso, un vastissimo landscape che permea la vita e
l’immaginario del presente e del passato da una parte, e la profonda
compresenza di immigrati che pur provenendo da molti e diversi paesi
si trovano a cavallo fra l’adesione alla patria di origine e la ricerca spa-
smodica di naturalizzarsi dall’altra. La società plurale e il multiculturali-
smo sono, al fondo, i nuovi concetti che tentano di fermare nella mente
le tendenze e le forme associative che scaturiscono da una situazione
che oscilla continuamente fra “miscuglio etnico” e “insalata culturale”.
Se inizialmente, parlare di un radicamento idiosincratico non era né
alla moda né popolare, poi quando i musei e i tour operator scoprono
che l’etnicità da pacchetto commerciale possiede un formidabile valore
turistico ed economico e quindi di vendita, le fondazioni pubbliche e
private non tardano ad attivarsi per aggiornare e potenziare musei e siti
storici. Analoghe considerazioni potremmo svolgere per casi a questo
primo paralleli e somiglianti, quali il Canada o l’Australia, ma basti qui
il nesso individuato in maniera solo al singolare.
Il versante europeo registra invece un diverso passo, pur se con
caratteristiche nazionali diversificate. Il punto di partenza è la gene-
si dello heritage a partire dal contesto di stati nazionali storicamente
organizzati. Iniziamo però dai mutamenti strutturali, e con ciò in-
tendiamo la crisi dell’industria pesante successiva alla crisi petrolifera
del 1975, cui segue quasi subito in Gran Bretagna l’inizio della dein-
dustrializzazione e il riciclo delle grandi aree urbane già a prevalenza
operaia o industrialista. Emblematiche sono le chiusure delle industrie
minerarie gallesi e delle industrie siderurgiche scozzesi cui succede una
forte politica di riutilizzo a fini museali, espostivi o più generalmente
di fruizione culturale. Collegato a questo trend si colloca, in parallelo,
il crescente aumento di nuovi immaginari che fanno perno su passati
“celtici” o più generalmente “pre-normanni”, per condensare passio-
Teoria e prassi dello heritage tourism 337

ni etiche e sociali a favore di autonomismi nazionali di intere regioni


storiche della Gran Bretagna stessa (Scozia, Galles, Irlanda del Nord),
il cui differente esito sta a dimostrare l’intricato nodo delle questioni.
Anche in Spagna possiamo individuare tendenze autonomistiche
locali di profonda radice storica (ad esempio i Paesi Baschi o la Cata-
logna), accanto alla riformulazione di fenomeni di religiosità popolare.
Diverse ancora le esperienze dei paesi di tradizione tedesca, ove rie-
mergono diversi momenti di recupero delle “tradizioni”. Ci si riferisce
qui alla ripresa delle vecchie tradizioni dell’amore verso la natura dei
Wandervögel, associabili all’interesse verso la campagna e il Bauern-
tum, destinati a confluire prosasticamente nel turismo alpino e nel
turismo rurale, ma anche nella ripresa dei pellegrinaggi continentali.
Diverse connotazioni assume la ripresa delle tradizioni in Francia, in
ragione del primato centralistico della capitale, ma anche grazie alla
forte considerazione che ottiene la concezione del “patrimonio” come
territorio nella sua integralità fisico-culturale, da cui discende la ripre-
sa dei cicli del “nuovo festivo” e la nuova attivazione del calendario
agrario che, pur partendo dai tempi rurali, si estende costantemente ai
periodi degli incontri cittadini.
Non possiamo soffermarci sulle coordinate italiane, ma possiamo
bene vedere in essa la compresenza di tratti già delle esperienze gene-
ralmente europee: la regionalità, il nuovo festivo, la nuova religiosità,
le questioni urbane.4
Solo da questi brevi accenni si comprende che heritage non è solo
storia o ricostruzione di eventi del passato. Se la storia infatti ha a che
fare con i fatti (e spesso fatti anche falsamente assunti per veri), lo he-
ritage aumenta l’informazione e fornisce interpretazioni seguendo una
logica di surplus di senso che crea virtualità ed “eredità”. Lo heritage fa
vivere la storia, come ben si vede nei living museums scandinavi, inglesi
o statunitensi. Un giorno trascorso in uno di questi siti storici rappre-
senta una esperienza formativa per il turista e una risorsa di reddito per
la comunità; da cui si può dedurre che il fine dei musei moderni diparte
dall’intento di designare con scrupolo le proprie esposizioni (il lato of-
ferta del turismo) per generare domanda, sì da produrre successo nel-
la congiunzione crescente, come indicano le statistiche, di popolarità,
esperienza piena e affari.
4 Il tema è ampio e abbisognerebbe di apparati di note minute; mi limito a rinviare
ai tratti più generali del quadro complessivo in Simonicca, 2004.
338 Alessandro Simonicca

Lo heritage non è solo storia perché costituisce un atto interpre-


tativo sulla realtà del presente, ma anche in quanto amplia il ventaglio
dei suoi interessi e del suo dominio sino a estendersi al milieu naturale
e storico totale. E quindi dobbiamo registrare la compresenza degli
ambiti dei patrimoni minerari, boschivi, zoologici, fluviali, orografici,
insomma l’intero ambito dei fenomeni naturali, come ci viene trasmes-
so dal concetto di “territorio” fisico nelle discipline geografiche.

2.3 I due heritage


Vi sono in realtà due modi per intendere lo heritage in generale: a
livello meta-concettuale e a livello concettuale.
Il livello concettuale è il caso più avvertibile e trova ampio confor-
to nella vita quotidiana, oltre che divenire sostanza importante delle
relazioni lavorative. Si tratta dello heritage tourism considerato come
spazio di correlazione fra due poli di reciprocità, rispondenti a logiche
sociali assai differenziate. Si tratta della relazione fra il polo che in-
corpora la vita e le considerazioni dei soggetti che transitano nel loro
tempo libero e fruiscono soggettivamente di risorse attuali da un lato,
e il polo costituto dallo spazio e dal sistema delle azioni delle comu-
nità locali che soddisfano i bisogni dei primi dall’altro. Si dice, a volte,
scambio fra beni e servizi. È un po’ poco, perché si tratta anche ed
essenzialmente di relazioni umane, modelli di comportamento, mani-
polazione di immagini e risorse: in un caso si tratta di una rivoluzione
schiettamente novecentesca negli stili di vita; nell’altro, delle politiche
sociali di una classe politica locale e della sua capacità di rispondere alle
aspettative dei suoi elettori.
Il livello meta-concettuale (o antropologico) teorizza invece la pos-
sibilità di costruire il regime specifico delle rappresentazioni mentali
di un mondo o di una realtà, e si fonda sull’assunto generale di poter
ordinare gli eventi e le immagini della vita secondo una procedura in-
tellettuale che veda il presente quale dimensione capace di dare forma
a ogni aspetto del passato, ripresentandolo distintamente in termini di
utilità conoscitiva o pratica attuale. È, per così dire, l’inveramento della
nozione di “orizzonte” in una epoca in cui il rapporto fra linguaggio,
rappresentazione e azione non è solo segno ma anche discorso e stra-
tegia di effetti.
Teoria e prassi dello heritage tourism 339

2.4 Heritage e turismo sostenibile

Turismo sostenibile è un costrutto culturale o un insieme di idee


ispirate al concetto di turismo ambientale (ecoturismo) o turismo “ver-
de”, formulato per l’ambito sudamericano da Elizabeth Boo (1990), e
si determina per molti fini: creare e mantenere attività economiche ef-
ficaci compreso il turismo; conservare livelli appropriati dell’ambiente
culturale e ambientale; rispettare la dimensione del tempo e dello spa-
zio in base al principio della “durevolezza” delle cose, sia esso un fare
economico, ecosistemico o culturale.
Un ulteriore concetto è stato coniato per assicurare che la conser-
vazione dell’ambiente si accompagni a crescita o cambiamento. Ed è
quello di sviluppo del turismo sostenibile. Il tema è multidimensionale
e difficile a definirsi, perché sostenibilità e turismo non sono nozioni di
necessità compatibili. Spesso infatti si possono dare solo affermazioni
molto generali, quali ad esempio che lo sviluppo del turismo sosteni-
bile debba portare alla gestione di tutte le risorse in modo tale che si
possano soddisfare bisogni economici, sociali ed estetici, quali sistemi
di supporto per la vita sociale. Sono definizioni di larga gittata, non di
rado internamente contraddittorie; in ogni caso, se si vuole offrirne
una sintesi, si può mediamente sostenere che esso dovrebbe riguardare
i seguenti temi, a valenza pluridisciplinare:
– il bisogno di risorse di management,
– l’offerta di opportunità economiche per le comunità interessate,
– la soddisfazione di obblighi sociali,
– il mantenimento della biodiversità,
– la riaffermazione delle attività economiche legate al turismo.
Il turismo sostenibile, in realtà, ha una storia complessa, che ori-
gina per lo meno dal romanticismo e dall’interesse ottocentesco per
la natura, per passare all’ecologismo radicale, all’idea della istituzione
e conservazione dei “parchi” sino all’innesto con le correnti under-
ground americane prima ed europee poi, relative alla contestazione
della forma di vita wasp e alla nascita dei movimenti alternativi di vario
stampo (Smith, Eadington (a cura di), 1995).
Come è noto, “sostenibilità” è un concetto che ci proviene dalla ri-
flessione del Summit di Rio del 1992, ma ancora prima era presente nella
nozione di “sviluppo sostenibile”, nella falsamente limpida formulazio-
ne dei principi della Commissione Brundtland. Tali principi includo-
340 Alessandro Simonicca

no: il rispetto per l’interesse della comunità locale, la valutazione della


capacità delle risorse naturali o prodotte dall’uomo, l’incorporazione
del turismo nei programmi integrati dello sviluppo regionale e rurale, la
cooperazione fra i molti differenti attori nello sviluppo turistico e nella
gestione di una area, l’adozione del principio della “precauzione”.
Si è detto che l’enunciazione non è limpida, perché, apparentemente
chiaro nella sua recitazione astratta, il principio della sostenibilità contie-
ne un intrico di dilemmi cui ancora è difficile dare risposte unitarie. Ad
esempio, non si comprende sino in fondo cosa vuol dire “generazione”,
né “bisogni”, né tanto meno “diritti”: non sappiamo cioè come leggere
le eventuali richieste dei nostri successori, se non a partire dalle nostre
attuali preferenze, il che è una vera contradictio in adjecto, se non una for-
ma di nuovo etnocentrismo. In ogni caso è proprio la difficile interpre-
tabilità di cosa “sia” davvero il “nostro futuro” a far sì che debba sorgere
un forte disorientamento a immaginare un futuro possibile se non entro
le modellazioni e le anticipazioni partorite dal nostro sapere attuale.
La relazione fra passato e presente si disvela perciò negoziata e
insieme aporetica: non è solo imprevedibile nei suoi effetti, ma non
può vivere senza una continua e necessaria rielaborazione del materiale
mnestico e documentario che il presente conosce o produce. Da questo
intrinseco squilibrio nasce la attuale forte presenza dello heritage.
È in questa intersezione che si inserisce il rapporto fra heritage,
turismo e cultura, su cui vale la pena di indicare qualche problematica
connessione strutturale.

3. Cultura/culture
Un momento importante della discussione attuale è sul concetto
di “cultura” e sui limiti della sua applicabilità al mondo attuale. È nota
la posizione della critica interpretativa verso una concezione oggetti-
vistica e in ultima istanza etnocentrica dell’analisi culturale cui con-
trapporre una concezione dialogica e negoziabile: la scoperta di mon-
di plurali entro una “cultura” e l’affermazione del carattere costruito
delle rappresentazioni e credenze che legano un gruppo, fanno parte
costante del laboratorio di ricerca dello specialista. Ed è altrettanto
presente negli studi il riconoscimento per l’importanza del carattere
“connessionistico” della “cultura”: a partire dalla necessaria conside-
razione delle strategie degli attori sociali, si individuano gli spazi della
Teoria e prassi dello heritage tourism 341

diffusione accentrata e decentrata del flusso di significati e significan-


ti che attraversano l’ecumene globale, in un movimento complesso di
omologazione e insieme di differenziazione dei complessi segni che
segnalano l’attribuzione di appartenenza di singoli e gruppi sociali. Se
si vuole, l’idea di cultura come “ragnatela di significati” alla Clifford
Geertz, e di cultura come connessione di significati fra “globale e lo-
cale” alla Ulf Hannerz rimangono due stili di pensiero e due forme di
analisi etnografica che stimolano nel primo caso all’attenzione verso
i “vincoli” culturali dei legami sociali che stringono in reciprocità gli
uomini associati, e nel secondo obbligano a rendere conto della agency
individuale e delle commistioni che possiedono le forme di vita, certo
singolarmente diverse, ma sempre in qualche modo collegate.
Ciò significa che esistono effettive differenze di lettura del mondo
odierno, ma esse tutte in ogni caso esprimono diffusi sentimenti di di-
sagio: disagio verso una concezione “essenzialistica” di cultura; disagio
verso un modo di intendere la convivenza umana come complesso rigi-
do di regole di pensiero e di condotte riconducibile a schemi uniformi
e statici; disagio verso una tendenza generale a fissare ed eternizzare
modelli di aspettativa sociale e valorifica; disagio verso l’idea che debba
sussistere un nucleo di condivisione omogeneo in cui gli individui a
diversi livelli di complessità si riconoscerebbero. Ora, la critica a questa
accezione della teoria come “pacchetto di tratti” è convincente, sia per-
ché porta a evidenziare una pluralità di punti di vista e di sguardi interni
a un mondo simbolico, sia perché tende a ricondurre l’attenzione sulle
strategie proprie della sfera delle scelte e delle decisioni individuali.
La tendenza a criticare l’essenzialismo della “cultura” nel senso so-
stantivo del termine a favore di una ricostruzione più attenta e perspi-
cua (e/o “critica”) della realtà ha come effetto una riconsiderazione del
“contesto” quale luogo logico e genetico delle differenze. Tale emer-
genza del “contesto” non si misura, ovviamente, sulla base di semplici
indici empirici: essi da soli non bastano a rendere conto della istituzio-
ne di costanze o della messa in atto di trend di azioni, né a esplicitare il
rapporto con usanze e pratiche simili, né tanto meno a convincere dei
criteri relativi ai regimi della distinzione fra sé e altro che in ogni caso
l’analisi antropologica è per vocazione destinata a produrre.
Non basta il ricorso alla osservazione (sistematica o partecipante
che sia), cioè, ad attivare operazioni di creazione, formulazione e scrit-
tura di “differenze”. Né basta la critica al concetto di “cultura” quale
342 Alessandro Simonicca

meccanismo concettuale “malato” di individualismo essenzialistico e


particolaristico a farci progredire. È il rapporto fra soggetto indagante
e contesto di riferimento a divenire il centro della disputa.
Nella analisi interpretativa, il rapporto fra soggetto e oggetto è rap-
porto di relazione fra “persone” che confrontano i rispettivi sistemi di
vita e di pensiero, costruendo percorsi di senso, incontro e, quindi, dif-
ferenze. Di più, la possibilità che avvenga la “comprensione” prevede
che le categorie di chi indaga debbano momentaneamente “naufragare”,
divenire prima mute di fronte all’altro, poi, secondo momenti impredi-
cibili, ricomporre la previa decostruzione in nuove modalità di apper-
cezione e sintesi delle esperienze avvenute. Se volessimo continuare a
seguire le metafore di poco prima, potremmo dire che l’orizzonte di chi
indaga a poco a poco perde il suo focus centrale, si allontana dal centro di
gravitazione del suo orientamento nel mondo, grazie all’avvicinamen-
to o all’allontanamento dal centro di gravità dell’altro, in un complessa
configurazione di momenti che vedono le due linee curve dell’orizzonte
piegarsi in maniera discorde al precedente equilibrio per assumere nuove
posizioni interne ed esterne. A modificarsi sono perciò sempre, e anche,
pur secondo dinamiche affatto non anticipabili, i reciproci orizzonti, e
dunque anche i sistemi di aspettative sociali, di senso e di interazione che
i soggetti della relazione etnografica mettono in gioco.
Fin qui, si dirà, nulla di nuovo rispetto alle note riflessioni che pro-
vengono dalla ermeneutica gadameriana. Fin qui, si continuerà, niente
di nuovo rispetto alla riconduzione della relazione etnografica alla re-
lazione discorsiva. Fin qui, si concluderà, però anche niente di nuovo
da aggiungere alla obiezione sulla non riconducibilità diretta e assoluta
dell’analisi antropologica di una realtà concreta alla relazione etica fra
coscienza e autocoscienza. Non credo che le obiezioni siano oggi (se
mai anche in passato) valide. Prima di tutto, non sono valide perché
gli orizzonti ermeneutici e il loro reciproco movimento di fusione ob-
bedisce a campi di forza cui il centro si incarica di stabilire pesi tem-
poralità direzioni, ogni volta differenziati ma non scoordinati. Questa
precisazione è importante perché apre al concetto di potere. Ancora a
maggiore ragione, però, in seconda istanza, bisogna seguire tale pista,
perché all’immagine di un soggetto “indagante” che rischia di slittare
nel campo degli universali etici, e di un “indagato” che tende a dive-
nire il veicolo salvifico della presunta vera umanità del sé occidentale,
si deve invece opporre una nuova configurazione, nella attualità, sia
Teoria e prassi dello heritage tourism 343

della relazione etnografica, sia della costituzione degli spazi conoscitivi


dell’antropologia.
Mi riferisco ai processi sempre più frequenti, anzi oramai divenu-
ti egemoni, della formazione di identità ricostruite da parte degli stessi
“soggetti indagati”, in direzione sia politica sia economica. Alcuni par-
lano di essi come “antropologie spontanee”, o “antropologie native”. Il
termine ha i suoi validi motivi per essere avanzato o sostenuto. Basti solo
sviluppare la consapevolezza però che tale “identità ricostruita” non è
un mero momento di complessità della realtà, dovuta al fatto che il pun-
to di vista “emico” di un gruppo sarebbe divenuto più forte. Nemmeno
chiarisce il problema l’atteggiamento di chi voglia fermarsi alla semplice
constatazione che si è in presenza della moltiplicazione dei “commenti”
che i nativi fanno su se stessi, con la conclusione autoriflessiva che anche
lo studioso che ricerca sul terreno dovrebbe attivare processi di autoco-
scienza. Tutto ciò peraltro non è sottovalutare affatto, e si può tranquil-
lamente concordare sul fatto che ogni volta che si dà ricerca, si produce
feedback conoscitivo, emotivo e di prassi da parte del gruppo sociale
interessato; ed è infatti pratica corrente osservare l’aumento di tono ri-
flessivo o di autoconsapevolezza “emica”, tanto quanto sottoporre a og-
getto di ricerca anche gli effetti di cambiamento indotti dal ricercatore.
Non è però solo questo. Ciò che qui si intende è piuttosto il mutamento
del rapporto fra una organizzazione istituzionale e la sua autoimmagi-
ne. È il fatto che le “località” – quale prodotto del rapporto fra locale e
globale – conoscono nuove formulazioni identitarie a ragione di nuovi
processi di identificazione delle proprie risorse. Tale è lo heritage.
Conosciamo un leitmotiv su tale nesso. Non è raro trovare aspre
critiche sul fatto che se l’analisi antropologica si fermasse assumendo
per esplicative le forme tramite cui i soggetti si ri-rappresentano la vita,
cadrebbe nel rischio di dare per scontato che le forme di coscienza si-
ano corrispettive delle forme di realtà. In altri termini, la critica è di
confondere le aspettative o le forme di riflessione soggettiva (sia pur
collettiva) per la “cruda” realtà. Antropologia, quindi, “irriflessiva”
sarebbe quella che si ferma alla constatazione dei movimenti di idee e
opinioni dei “nativi”. Durkheim è ancora il grande mentore di questo
atteggiamento: laddove – diceva il fondatore delle Anneé sociologique
– il ricercatore rilevi fenomeni sociali che, sia pur collettivi e ad ampia
diffusione, non assumano il carattere di “fatti”; qualora tali fenomeni
non siano né generali né “esterni” alle coscienze e a queste ultime “co-
344 Alessandro Simonicca

ercitive”, bene, egli deve concludere che sono solo ideologie, e quindi
prive di oggettività socio-antropologica. Sono ideologie, nel senso di
rappresentazioni collettive che obbediscono a determinate forze pre-
senti nel campo sociale in lotta per l’egemonia politica o economica, e
quindi da derubricare e da attribuire per pertinenza ad altre discipline
(psicologia, politica ecc.). Ora il problema, invece, è che proprio questa
(presunta) mancanza di requisiti durkheimiani a essere contestabile. In
altri termini, è proprio la costituzione “istituzionale” dello heritage a
essere il nuovo necessario punto di partenza dell’analisi antropologica.
Lo heritage è senz’altro una “costruzione” e non mera “invenzio-
ne”. Dovremmo in verità esercitare un severo controllo e cercare di non
usare più il termine di “invenzione”. Gli ultimi anni, effettivamente,
sono stati piuttosto prodighi col suo utilizzo: “invenzione” della cul-
tura, della tradizione, della etnia, della identità e così via. Dovremmo
cercare di non usarlo oltre, perché quando è stato introdotto risponde-
va ad una sorta di contro-manifesto all’empiricismo, all’oggettivismo,
al passatismo, alla sordità rispetto al nuovo e non di rado alla ostilità
ad affrontare il confronto con gli studi internazionali sul tema. Tale
funzione polemica oggi sembra essere superata (o, per lo meno, tale è
l’auspicio) e il rischio a continuarne l’uso è una sorta di compiacimento
a cavalcare ambiguità concettuali utili solo per chi voglia giocare senza
rigore su troppi fronti.
L’idea di una “costruttività” tanto delle immagini di coscienza
quanto delle istituzioni è invece una prospettiva di analisi che può
essere ben feconda, se solo si supera una concezione eccessivamente
realistica del mondo sociale, e si individua in tale congegno un mecca-
nismo importante della motricità della “coercizione sociale”, anche alla
Durkheim, in quanto performazione dell’ordine sociale e sull’ordine
sociale. Qui il paradigma linguistico è un utile strumento concettuale
per precisare i confini e le valenze di fatti sociali il cui carattere diversi-
ficato rispetto allo ieri va riconosciuto e rilevato.
Se, quindi, il concetto di heritage è accettabile in questo senso, oc-
corre anche bene corazzarsi per comprendere dinamiche e caratteristi-
che di riconoscimento; e il punto più importante su cui riflettere è che
anche lo heritage è una produzione di contestualità.
Il problema dello heritage è che, nonostante l’accettazione della le-
zione interpretativa, esso stesso è una produzione identitaria commista
a tratti reificativi, solo che qui ciò che si (ri)costruisce è il contesto. Se
Teoria e prassi dello heritage tourism 345

la concezione americana di cultura conduceva alla essenzializzazione


di un insieme noto di tratti in termini di identità, lo heritage ci porta
oltre tale piano, ma rischia di farci riprecipitare in una nuova forma
di essenzialismo, che non riguarda più le idee-guida o l’individualità
collettiva, quanto la relazione presente-passato e quindi la produzione
essenzialistica di contesto e contesti.

4. Fra essenzializzazione e dissonanza


Definiamo “essenzializzazione” il processo di destorificazione e
naturalizzazione di tratti auto- e etero-attribuiti di appartenenza e di
oggetti che veicolano senso; per “dissonanza”, intendiamo invece l’i-
stituirsi di conflitti interpretativi fra gli attori di un problem domain.
Entro questi due estremi si organizza lo heritage come istituzione.

4.1 Ricordare, ripetere e rielaborare…


Se l’atto dell’identificazione di una località si basa sul recupero di
caratteristiche “proprie”, di ciò vanno indicati anche i processi costitu-
tivi. Direi che sono tre i meccanismi tramite cui si svolgono i processi
di attualizzazione delle eredità del passato e in sintesi li indicherei nella
maniera che segue:
1. la formazione di particolari memorie condivise,
2. la formazione di segni e oggetti di valore sociale riconosciuto,
3. la formazione di peculiari processi di selezione, ricordo o oblitera-
zione di cose persone istituzioni.
Se volessimo concettualizzare ulteriormente i tre momenti, po-
tremmo dire che si tratta dei processi relativi alla formazione della
classe cui i soggetti dichiarano di appartenere, alla designazione o alla
produzione di simboli specifici, alla formulazione delle strategie isti-
tutive della distinzione simbolica; per cui sulla scena dello spazio in-
terattivo fra soggetti e azioni avrà vita la modalità in orizzontale della
“appartenenza”, la modalità puntiforme degli “oggetti” intenzionati,
la modalità verticale delle “strategie” che riconnettono livelli diversi di
discorsività e scopi.
Circa la memoria dobbiamo distinguere fra una memoria “spon-
tanea” di una “comunità”, una memoria della élite detentrice di pote-
re imposto su individui e gruppi secondo forme varie di persuasione/
346 Alessandro Simonicca

controllo/oppressione, e memorie di gruppi o sottogruppi più o meno


organizzati o in conflitto con i gruppi egemoni.
Sono tutte memorie collettive, ove con il termine memoria valga
ciò che negli studi antropologici si intende oramai da diverso tempo
(Connerton, 1999), ossia quadri interpretativi istituzionali entro cui si
situano i movimenti degli attori e da cui si attingono risorse di senso,
entro connotazioni di politica cosciente e riconoscimento reciproco fra
destinatari sociali e “squadre” politiche in opera.
Se si vuole, potremmo aggiungere che si tratta di memorie pur sem-
pre ufficiali – e non tanto di insondabili atti individuali – che esprimo-
no un contenuto consolidato e un processo. Il contenuto si riferisce
all’attualità del pensiero e della prassi intenzionata, per cui, in genere,
ciò che motiva l’azione o la finalità di essa risulta intersoggettivamente
noto. Il processo attiene invece a un lavoro particolare che avvicine-
rei al lavoro dell’analista freudiano per il quale lo strumento principe
dell’analisi è il “ricordare ripetere rielaborare”: in maniera simile, entro
un aggregato umano sufficientemente autonomo si sviluppa un pro-
cesso di costituzione ideativa dai forti connotati. Tale processo consta
di fasi e momenti vari, tra i quali i principali sono la selezione, l’oblio,
il rimaneggiamento, l’interessamento parziale o totale.
Le varie operazioni sono atti della mente collettiva con le quali si
produce una mappa della realtà e si sottopongono a selezione gli og-
getti dichiarati (o sentiti) pertinenti o riconosciuti per appartenenza.
La messa in ordine di tali oggetti dipende a sua volta dal tipo di con-
nessione fra passato e presente che le strategie complessive dei gruppi
operanti su un territorio enucleano in termini narrativi e discorsivi.
Grazie alla memoria in statu nascente o in atto, tali operazioni hanno il
fine di ridonare senso all’altrimenti opaco carattere degli oggetti stessi,
rispetto cui la simbologia, la ritualità, e, in genere, la produzione di as-
sociatività fra gli elementi del tutto garantiscono integrazione solidale
a livello corporeo, ideativo, prassico.
In questa costruzione gli oggetti incarnano le rappresentazioni col-
lettive degli attori – contenute e classificate; esprimono sia i rapporti
politici e culturali che uniscono e subordinano gli uomini, sia le obie-
zioni di coloro che vi resistono, spesso però non riuscendo a fuoriusci-
re dal medesimo linguaggio in uso delle autorità contestate.
Ogni messa in ordine degli oggetti nelle relazioni simboliche fa sì
che avvenga una traslazione di uso e uno slittamento di significato del-
Teoria e prassi dello heritage tourism 347

le “cose” (sia le più quotidiane, sia le più connotate) da tempi e spazi


ordinari a tempi e spazi straordinari. Gli oggetti del passato incarnano
le rappresentazioni storiche che gli attori implicati danno di sé e della
loro genealogia, divengono oggetto di patrimonio.
Ogni volta che avviene ciò, abbiamo ovviamente solo una delle
narrazioni possibili, ma pur sempre una memoria “dura”, dotata di
dominio simbolico e di connotati politici riconoscibili.
I vari interpreti della connessione o dell’uso fra tali oggetti espri-
mono un modo particolare di recitare la propria narrativa, la cui pro-
duzione di legami simbolici istituisce confini e distinzioni fra differen-
ziate versioni di un identico co-interessato mondo, creando così quella
produzione di “confini culturali” che garantiscono l’autonomia e la
separatezza del sé rispetto all’altro. Tali confini possono essere, nella
loro oggettualità, momenti ideativi, edifici storici, luoghi particolari,
date, oggetti d’uso, e divengono un vero e proprio dispositivo rituale
di identità, cioè di conoscenza e di azione intenzionata.
Entro questi termini, la forza stessa del legame che stringe assieme
segni ritenuti importanti di un mondo locale, tende poi ad astrarsi dal
suo specifico processo storico di formazione, per internarsi nelle co-
scienze, nei corpi e nelle istituzioni, e a dare vita a una “autentica” ela-
borazione di selezione e compendio unitario di pertinenze condivise,
sino alla loro finale essenzializzazione.

4.2 L’essenzializzazione statuale


Il modellino epistemico sin qui sviluppato non pretende, a questo
semplice livello, di offrire uno schema di esplicazione concettuale gene-
ralizzabile. Tutt’altro. Anzi, esso deve la sua vita all’astrazione delle ca-
ratteristiche che storicamente sono appartenute e tuttora appartengono
al modo in cui lo Stato opera a livello di legame societario e di produ-
zione culturale della identità. La suddivisione in memorie collettive, di
gruppo e ufficiali non tragga in inganno (e in ciò spesso gli etnometo-
dologi inaccortamente incorrono) e non appaia quale tributo a una con-
cezione dialogica e non autoritaria della conoscenza, né faccia ritenere
di avere reperito la buona via per superare gli aspetti più ingombranti
dell’idea di nazione e di nazionalismo quali giunti a noi dall’Ottocento.
È invece proprio lo Stato a presentarsi quale garante massimo
del rapporto passato-presente, puntuale nell’ossequio verso il passa-
348 Alessandro Simonicca

to, sistematico nella elaborazione del lutto dei defunti e dei “martiri”.
È questa caratteristica in particolare a fornire a esso la possibilità di
estendere la sua delega rappresentativa sino a stare per una sorta di vita
trans-individuale rispetto a soggetti (sudditi e o cittadini, che siano),
che seppur separati da distanze spaziali e differenze temporali, trovano
momenti di raccordo, condivisione e unificazione. E qui mi sembra
che le riflessioni sia di Ernst Gellner sia di Benedict Anderson, pur da
angolature diverse, abbiano sufficientemente dimostrato la necessità
della presenza di una profonda struttura di “immaginazione morale”,
capace di costringere le aspettative fra ego e alter entro quadri nor-
mativi comuni. Tale immaginazione morale si oggettiva e si incarna in
uomini, istituzioni, opere, che divengono materia mnestica corporaliz-
zata dell’esser-nel-mondo dei contemporanei rispetto ai predecessori.
In questo quadro particolare sono l’assenza, l’elaborazione dell’as-
senza, e, ancora di più l’oblio della assenza – per così dire – a colpire
maggiormente nel segno. Per “oblio della assenza” intendo quell’atteg-
giamento particolare in base al quale eventi del passato non solo sono
obliterati ma anche sistematicamente sottoposti a processi di damnatio
memoriae, perché in distonia con altri oggetti di pertinenza selezionati
come valori sociali da condividere.
Le operazioni del selezionare e del ricordare, in realtà, sono possi-
bili solo quando vi sia qualcosa da dimenticare, rimuovere, dislocare,
sottodeterminare o sminuire sino a fare perdere di essa traccia (Middle-
ton, Edwards, 1997; Forty, Kühler, 1999). La selezione è una scelta e in
quanto tale affonda su un humus etico, che ha come finalità la costru-
zione di una identità collettiva, su cui si basa uno specifico paradigma
di attore collettivo di senso. Tale soggetto è lo Stato quale principa-
le attore del processo di patrimonializzazione e quale costruttore di
memorie e quindi di confini culturali finalizzati alla costruzione della
“moderna” identità di Nazione.

4.3 La dissonanza
Dicevamo che per dissonanza si intende quel processo tramite cui
gli attori di un processo giungono a fronteggiarsi e a distinguersi in base
a differenti schemi di interpretazione del mondo. Ciò discende innanzi
tutto dal principio insito nella stessa selezione dei tratti pertinenti di un
oggetto di interesse (Tunbridge, Asworth, 1996). Se si guarda all’intero
Teoria e prassi dello heritage tourism 349

range delle caratteristiche storiche, culturali e naturali che costituiscono


un milieu complessivo, non possiamo non notare una asimmetria tra
segni storico-territoriali di una località posti come confini culturali, e
innumerabilità di altri segni che nella attualità dell’interpretare risultano
estrinsechi, sottovalutati o incompresi. In questo scenario, quindi, viene
a sussistere sempre una asimmetria fra l’attualità del cognito e l’irrile-
vanza del “rimosso”. Ora, in situazioni simili, è raro che i segni non
selezionati siano rivendicati da gruppi sociali come risorse alternative: in
genere, laddove vi è conflitto politico o sociale su risorse, queste ultime
sono uguali per tutti i contendenti e appetite dagli uni e dagli altri. Non
v’è qui spazio per la dissonanza, quanto competizione (nel migliore dei
casi) per una posta in gioco. Dissonanza invece sussiste quando la posta
in gioco è il vantaggio economico o l’accesso alla disponibilità su risor-
se, però diversi sono i diritti di rappresentanza su cui si esercitano tali
richieste. Si tratta in particolare delle situazioni in cui gli attori sociali
posseggono (o sono loro attribuiti) diritti a parlare come soggetti che
avanzano richieste a decidere dei destini del luogo, in ragione di criteri
vari di appartenenza. Può trattarsi di avanzare richieste in qualità di sog-
getti con interessi economici possessori di fonti di reddito; può darsi il
caso che ad avanzare pretese decisionali siano soggetti politici legittima-
ti a parlare sulla base della formazione pubblicamente riconosciuta del
consenso; può succedere che siano gruppi o associazioni a fini morali
che avanzano pretese di rappresentanza sociale; possono infine interve-
nire ceti intellettuali legati alla sorte dei luoghi e delle località.
Tutti questi soggetti sono in genere denominati stakeholders,5 ossia
soggetti a vario titolo legittimati a esprimere la propria opinione o a
esercitare (in parte) forme di scelta relativamente ai destini di un luogo.
Non sono solo attori economici ma attori locali complessivi, cui sta a
cuore il modo in cui la località intraprenderà un proprio percorso di
vita. È il tutto della località a entrare in gioco, non una parte di essa; e il
gioco complessivo comprende l’intera gamma dei soggetti interessati,
dai rappresentanti più forti (politici ed economici) a quelli più deboli
(soggetti non garantiti o deboli).
È questo il caso tipico dello heritage che intraprende un percorso
finalizzato allo sviluppo del turismo sostenibile. La situazione che si

5
Tali aspetti sono centrali, perché attraversano l’economia della cultura, l’antro-
pologia delle organizzazioni e l’approccio interpretativo alle narrative degli attori so-
ciali: cfr. Bramwell, Lane, 2000; Simonicca, 2004.
350 Alessandro Simonicca

viene a creare prevede uno scenario entro il quale si sviluppa un proces-


so complessivo di monitoraggio e identificazione delle risorse disponi-
bili. Pur teoricamente finite, le risorse su cui una località può fare conto
sono innumerabili, in quanto qualsiasi parte del territorio può divenire
contenuto di scelte decisionali. Ciò significa che ogni oggetto del mon-
do locale, storico naturale umano può divenire segno particolare, og-
getto di valore sociale particolare. Può divenire segno di “attrazione”,
marker semiotico che calamita l’attenzione e la volontà di fruizione dei
viaggiatori, sino a costituire la meta preferita dei flussi di visitatori.6
All’interno di questa dinamica complessiva, non risulta agile di-
stinguere a priori le logiche aggregative che caratterizzano un “sito”.
In ogni caso, identificare le unità sociali di analisi in termini di “comu-
nità” è operazione discutibile. Si suole, infatti, in genere, distinguere fra
“comunità di accoglienza” e “comunità di viaggiatori”, intendendo con
il secondo termine il tipo di visitatori che sono soliti frequentare uno
specifico sito; con il primo, invece, è in uso designare lo spazio sociale
deputato a ricevere i visitatori e fornire loro il necessario per il compi-
mento della esperienza e della fruizione di attrattive e risorse territoriali.
Con il termine di “comunità di accoglienza”, perciò, in genere indi-
chiamo le strutture e i gruppi sociali afferenti alla combinazione di hou-
sing/catering/transporting, quali condizioni necessarie per la costruzio-
ne degli spazi destinati alla fruizione delle stesse “attrattive”. Tale uso
terminologico, per la verità, è assai improprio, in quanto non si tratta
mai, nello studio degli spazi di transizione turistica, di nuclei di popo-
lazione o di gruppi sociali caratterizzati da condivisione di concezio-
ni comuni della vita, uguaglianza di status o integrazione armonica di
funzione (e questo avviene anche nelle cosiddette “monoculture turisti-
che”). Al contrario, i gruppi che premono per uno sviluppo economico
sostenibile manifestano schiette posizioni contrastive su identificazione
delle risorse, modalità di uso di esse, interessi per il futuro. Più che una
comunità di accoglienza, si tratta spesso di una combinazione conflit-
tuale di attori, la cui principale finalità sembra essere quella di perseguire
il proprio interesse di parte e assai raramente di impegnarsi per la defini-
zione o il perseguimento di un bene comune.
Continuiamo a usare il concetto di “comunità” più per ragioni
operative che sostantive. Il concetto ci serve cioè per poter pensare in
termini mentali di totalità, e non per presupporre inesistenti omoge-
6
Per il rapporto fra iconicità e attrazione, cfr. Crouch, Lübbren, 2003.
Teoria e prassi dello heritage tourism 351

neità mentali corrispettive a gruppi sociali o sistemi di azione. Anzi,


la competizione per rappresentare il proprio diritto e la richiesta di
ottimizzare la propria risorsa, anche a costo di sopravanzare sulle altre,
è la tendenza generale; ciò che permane è, caso mai, un atteggiamento
che definirei di “aspettativa di comunità”.
Se, comunque, guardiamo alla messa in ordine degli oggetti da valo-
rizzare da parte dei vari gruppi sociali di un sito, vediamo che l’effetto è
quello di generare una produzione di senso del territorio che si incarna
e si oggettiva in narrative differenziate quali modalità di esposizione dei
sé locali entro le biografie delle cose e degli oggetti divenuti valore socia-
le. Ora è proprio la molteplicità degli attori sociali, attuali e potenziali,
a costituire la relazione sociologicamente rilevante per leggere critica-
mente il sé e per identificare il sostrato su cui si basano le memorie, qua-
li sistemi di autorappresentazione, talora anche idiosincratiche, spesso
non condivise, direi anzi necessariamente discrasiche e conflittuali.

5. Sostenibilità come nuovo discorso pubblico


Entro queste coordinate complessive e nonostante talune fragilità
concettuali già accennate in precedenza, possiamo meglio comprende-
re la bontà concettuale della prospettiva della “sostenibilità” (Priestley,
Edwards, Coccossis, 1996), quale forte tema della discussione pubbli-
ca, e quale tavolo di confronto per la costruzione di un non effimero
ponte fra etica della convinzione dei soggetti tesi a garantirsi una equa
riproduzione della vita umana nel presente ed etica della responsabilità
finalizzata a progetti per un futuro associato a livelli di vita e fruizione
per lo meno non inferiori al passato.
Se questo è il quadro complessivo delle emergenze etico-politiche, il
tema dello heritage si inserisce in maniera decisa e pertinente, come indivi-
duazione dell’ampio spazio compreso fra dissonanza e reificazione, ma il
cui atomo costitutivo è l’atto della interpretazione (Uzzell, 1989a, 1989b).
Il suo ambito di esercizio è effettivo, ossia è performato dagli attori sociali
stessi, entro una molteplicità di significati e di ambiti assai ricca.
Abbiamo innanzi tutto lo heritage come interpretazione della sto-
ria urbana, e re-interpretazione degli spazi storici degenerati o di cessata
funzione sociale (inner city, docks ecc.).7 Segue la questione della rivi-
7 Per l’importante tema cfr., in particolare, Zukin, 1991; circa l’ambito della “città”

europea cfr. Ashworth, Larkham, 1994; Ashworth, Turnbridge, 2000.


352 Alessandro Simonicca

talizzazione delle “tradizioni popolari” quali nuovi forme esibitive del


passato entro standard attuali di esibizione e fruizione sia di oggetti (ca-
lendari annuali, risorse agricole, prodotti alimentari) che di rappresenta-
zione (folklore e arti). Ricordiamo, poi, il recupero, spesso a fini museali,
di luoghi deputati una volta alla produzione (industrie minerarie, side-
rurgiche ecc…). Non dimentichiamo l’intero pacchetto, infinitamente
vario o conflittuale, delle tradizioni storico-culturali del Novecento,
ovvero tutti quegli eventi, date, monumenti, istituzioni che ritmano la
vita di una popolazione, ed è questo forse uno dei terreni maggiormen-
te problematici riguardo alla donazione di senso al passato/presente. Si
pensi, ad esempio, ai monumenti relativi all’Olocausto, alla casa di Anna
Frank, ai memorials, alle attuali guerre “etniche” ecc. Infine abbiamo le
questioni relative al nuovo rapporto con l’ambiente “fisico naturale”, e
ai nuovi stili di vita e di benessere, ma anche ai parchi e ai nuovi modi di
identificazione e di appartenenza che costituiscono le risorse naturali per
gruppi sociali e classi politiche in ricerca di legittimazione.8
Entro questo processo di totalizzazione delle risorse di un ambien-
te o di una località, i processi di patrimonializzazione sono un mo-
mento importante con cui una località o una istituzione trova proprie
legittimazioni in termini di memoria condivisa e ripetuta, dal livello
più alto della definizione delle “frontiere” politico-nazionali a quello
più minuto delle relazioni quotidiane fra istituzione e pubblico o delle
dimensioni associative.9
Lo heritage, in fondo, è un atto interpretativo che lega persone a
cose tramite la definizione di una memoria topica e quindi si dissemina
tanto negli interstizi della quotidianità, quanto nelle procedure forma-
lizzate dei sistemi di azioni. Ciò che produce è una serie di narrative
le cui trame si sviluppano fondamentalmente attorno al racconto del
rapporto fra persone e cose. È quindi compito dell’analista indicare i
punti di frizione attorno a cui si manifesta e si concreta un desiderio di
investimento di interesse particolare su luoghi, cose, persone.
È invece importante sottolineare che nella nuova modellazione de-
gli oggetti che lo heritage promuove v’è un momento particolare che di-
viene significativo, sia perché definisce la qualità dell’atto, sia perché im-
prime al contesto una particolare direzione. Si tratta del fatto che in ogni
8
Per due visuali diverse, rispettivamente critico-sociale e neo-ecologica, cfr. Mac-
naghten, Urry, 1998 e “Naturalia” 2002.
9 Cfr., per l’esemplare caso australiano, Kapferer, 1996.
Teoria e prassi dello heritage tourism 353

atto interpretativo con cui un oggetto viene memorializzato, le finalità


essenzialmente sociali cui è sottoposto e destinato fanno sì esso debba
divenire visibile e assumere una forma sostantiva, con un suo proprio
sostrato e struttura di veicolazione di senso. Tale momento è quello del-
la representation (Hall (a cura di), 1997), o il momento in cui l’oggetto
diviene “segno per” qualcosa d’altro da sé. Tale livello può essere di due
tipologie. Può essere una rappresentazione cold, con cui si intende la ge-
nesi della messa in memoria espositiva degli oggetti perché sviluppate da
attori istituzionali verticali ed “esterni” (ad esempio, curator di musei o
istituzioni culturali), oppure una rappresentazione hot, perché agita da
rappresentanti orizzontali, “interni”, delle “comunità” locali (nel senso
appunto di “aspettative di comunità”). Nel primo caso entrano in cam-
po gli standard nazionali o per lo meno le norme attinenti a procedure
largamente condivise dagli studiosi, nel secondo caso invece agiscono
gruppi di persone delle stesse località interessate intente a promuovere,
selezionare, esporre e commentare oggetti e situazioni ritenute “perti-
nentemente” segniche per appartenenza o per identificazione.
Fornisco due esempi di come un patrimonio possa essere com-
mentato ed esposto in due modi diversi. Nel caso che espone Dino
Palumbo (2004) abbiamo la ricostruzione etnografica di un paese della
Sicilia orientale in cui due gruppi locali contrapposti si appropriano e
modellano con categorie proprie documenti culturali, storici e religio-
si del luogo a fini di legittimazione politica. Nel caso di Irene Maffi
(2003), invece, vediamo come l’analisi antropologica individua i vari
momenti di rappresentazione dello heritage locale in termini di luoghi
di memorie nazionale, musei domestici e collezioni private, rispetto
cui la monarchia hachemita opera una forte sintesi fra museo, nazione
e patrimonio per integrare le tre anime del territorio (beduini, palesti-
nesi, contadini) nella identità statuale della odierna Giordana.
Vi sono qui due livelli di interpretazione diversi, l’uno avanzato
dagli attori locali e l’altro dall’antropologo/etnografo, i quali si impos-
sessano dei dati a loro disposizione per offrire una versione del luo-
go vissuto, un commento del loro dare senso al mondo. Ciò provoca
non pochi problemi etici, in ogni caso la conclusione primaria è che
le modalità di restituzione etnografica degli eventi sono diverse. Non
si tratta tanto della differenza fra aspetto “emico” e aspetto “etico” di
comportamenti e valori: cosa può oggi dichiararsi risolutamente “emi-
co” quando i luoghi del vivere sono teatro di un continuo scontro di
interpretazioni? Con ciò non si vuole certo abbattere le distinzioni e
354 Alessandro Simonicca

le differenze fra gruppi e concezioni diverse (sarebbe cadere di nuovo


nell’indistinta categoria di “invenzione”), quanto sottolineare la nuova
forte dimensione della molteplicità degli sguardi, da intendere non solo
quali occhi sensibili a percepire Gestalten diverse, ma anche diversi atti
interpretativi che agiscono sul mondo e su di esso imprimono accele-
razione o direzione.
Entro questo quadro, è opportuno porre adeguata attenzione,
dunque, al rapporto fra analisi antropologica, processi di selezione di
memorie e processi di patrimonializzazione, evitando la scorciatoia di
ridurre lo heritage a centrale contenuto dell’antropologia o la ricostru-
zione dei processi di patrimonializzazione al cuore della antropologia
delle società complesse odierne. Ed è la duplicità delle analisi etnogra-
fiche delle modalità espositive a costituire l’invito a rivolgere maggiore
attenzione ai diversi livelli su cui si collocano azioni, attori, immagini e
motivi dell’agire, compreso il ruolo dell’antropologo.10

6. Sul ruolo dell’antropologo

Diceva Clifford Geertz che spesso capita, da antropologi, di nutrire


atteggiamenti “conservatori” quando si è presso le culture altre, di mili-
tare invece in movimenti progressisti “a casa”, in una sorta di inversio-
ne del rapporto classico fra il “lì” del fieldwork e il “qui” della scrittura.
Forse allo snodo del dilemma v’è una “arcaica” compresenza di due
sé; e forse non bisogna nemmeno tentare di risolverlo, tanto è costitu-
tivo della stessa genesi della modernità cui l’antropologia deve i suoi
natali, a cavallo fra la funzione di “dare voce” alle plebi e agli indigeni
da un lato, di oggettivare conoscitivamente l’alterità per comprenderla
nelle categorie occidentali dall’altro.
10 Sulla questione si è accesa una polemica (abbastanza irrituale per gli standard

bassamente discussivi in Italia sulle questioni antropologiche) fra D. Palumbo (2002,


2002-2003, 2004) e F. Dei (2002a, 2002b), con ricco seguito, tra cui P. Clemente, V. Pa-
diglione, V. Lattanzi, G. Pizza sulla rivista Antropologia Museale (n. 1-3, 8). È un caso
classico di incomunicabilità in antropologia; il che è abbastanza singolare per alcuni
assunti interpretativi che gli due autori sembrano condividere, però fa parte dei com-
plicati percorsi che compiono gli atti interpretativi quando incorporano testi diversi
fra loro. Non mi posso soffermare sulla ricca questione, il nodo della contesa però mi
sembra leggibile alla luce di due diversi contesti di heritage cui gli autori si riferiscono;
e tale differenza meriterebbe più attenzione, appunto etnografica, in quanto appare per
certi aspetti vicina alla differenza fra i due modi di esporre sovra indicati.
Teoria e prassi dello heritage tourism 355

Quale ruolo, allora, può o deve assumere un antropologo all’inter-


no delle coordinate dello heritage?
La posizione dello studioso è in questo caso tutt’altro che pacifica.
Egli si trova infatti a navigare in un tumultuoso tratto di mare, in quanto
è a contatto e a confronto con le molte interpretazioni che i vari gruppi
sociali danno di sé e degli altri. Il conflitto delle interpretazioni, qui,
non avviene fra diverse letture del mondo; non si incarna nel dialogo/
dibattito fra studiosi; il conflitto si forma e si estende fra gli attori sociali
stessi. Rispetto a essi lo studioso deve garantire una corretta restituzio-
ne, anche se in tale resa concettuale non viene certo meno l’asimmetria
originaria della relazione etnografica che lo distingue dalla popolazione
locale. Asimmetria non tanto conoscitiva, quanto etica, in quanto sullo
scenario si presentano portatori di diverse visioni del mondo.
Il tema è noto, e vale la pena di riprendere alcune formule che spes-
so specificano le varie tipologie antropologiche dei progetti di coo-
perazione e di sviluppo in paesi etnologici. V’è una antropologia che
analizza le condizioni iniziali a partire dalla quali un paese o un gruppo
istituzionale intraprende un progetto di sviluppo su un sito, un’area,
una regione. V’è l’antropologia che studia il modo in cui si stabiliscono
e si elaborano le varie fasi decisionali con cui un progetto di sviluppo
entra a regime. V’è l’antropologia che studia gli effetti dei processi di
sviluppo sui siti e sulle località interessate. Ognuna di queste forme di
analisi condivide con le altre uno stesso interesse al mutamento sociale
ai fini di analizzarlo conoscitivamente; essa può anche divenire disci-
plina che accetta il ruolo della consultazione, ma solo rispetto a proce-
dure già attivate. L’altra ala dell’antropologia è invece quella interessata
a collaborare a progetti di sviluppo in senso pieno e con azione effetti-
va, o addirittura con assunzione primaria di responsabilità gestionale.
Le differenze fra il lavoro degli antropologici accademici (con fi-
nalità prevalentemente conoscitive) e degli antropologi applicati (con
accettazione di commissioni per studi di impatti e di implementazione
di progetti) oggi forse è meno netta di quella di ieri, più sottile la linea fra
i due fronti, un tempo fieramente e ideologicamente avversi; e ciò è av-
venuto perché le novità sistemiche dei mercati mondiali e delle ideologie
che a essi si inspirano hanno prodotto irrimediabili cambiamenti e al
contempo le relazioni fra centro e periferia sono divenute tali che le ri-
spettive differenze più che di natura, sono divenute differenze di grado.
Robusti fenomeni quali il crescere dell’economia della cultura e
lo sviluppo dello heritage inducono a pensare in maniera discontinua
356 Alessandro Simonicca

rispetto al passato. È in particolare la dimensione dello sviluppo a ri-


sultare centrale, ferme restando le cautele sul carattere ideologico della
nozione, sulle contraddittorietà in essa implicate o sulle contestazioni
che essa ha subito o subisce. È tale sostrato “materialistico” cui ricolle-
garsi per comprendere il nuovo assetto del rapporto fra produzione e
consumo, fra azione e autorappresentazione.
In questo senso la nozione di heritage è diversa rispetto alla nozione
di “tradizione” di ieri, rispetto alla accezione di “cultura” come insieme
di tratti, ma anche rispetto alla accezione di “patrimonio culturale”.
Niente di più facile che avvicinare i due termini (heritage e patrimo-
nio culturale), ma anche niente di più difficile da sostenere. Tra i due ter-
mini corre una forte differenza che tenterei di sciogliere nella afferma-
zione, sia pure semplificata e volutamente antinomia, che il patrimonio
si consuma, lo heritage si riproduce. E, a parziale analogica associazione,
inviterei a vedere scorrere tale differenza anche fra il turismo di heritage
e il turismo culturale: tra una “località” che si ristruttura continuamente
e una “località” che consuma le sue risorse per trarre reddito.
L’opposizione è volutamente rigida, per impedire facili scorciatoie
o per pensare che il “semplice” atto della conservazione e della resti-
tuzione commentata di documenti, istituzioni, monumenti, luoghi e
memorie da parte dell’analisi etnografica significhi solo un bel momen-
to di ricostruzione conoscitiva e non anche una reale azione, a vario
titolo, di efficacia simbolica e politica che non può non incidere sul
sostrato sociale di uno spazio abitato che stiamo studiando.
Se si vuole, è l’aspetto della “pratica” interna alla “teoria” a fuoriu-
scire con forza. Insisto sul rapporto fra “prassi” e “teoria”, ben con-
sapevole della filiazione di tale coppia dal paradigma novecentesco del
marxismo, che vorrei esemplificare sulla scia di un “arcaico” articolo di
Gyorgy Lukàcs degli anni Venti del Novecento, dedicato al problema
del “mutamento di funzione del materialismo storico”. In quell’arti-
colo, il filosofo ungherese sollecitava a riflettere su un punto caldo del
concetto di “critica” proprio del materialismo storico. Se il marxismo è
critica della economia politica e della società capitalistica e il suo com-
pito è quello di attrezzarsi per la rivoluzione sociale, una volta che que-
sta ultima è avvenuta, qual è il suo esito? Che ne è della teoria marxista?
Che ne è delle sue categorie critiche? Quali categorie sono da utilizzare
per “costruire” una società nuova?
Come è noto, Lukàcs abbracciò il leninismo e il materialismo dia-
lettico, additandoli quale nuova filosofia positiva necessaria alla costru-
Teoria e prassi dello heritage tourism 357

zione del socialismo. Le sue riflessioni giovanili sono più interessanti


della sua svolta sovietica. Se una teoria si dichiara capace di autorappre-
sentarsi nel suo stesso porsi, cosa ne è del suo tasso di “decostruzione”
dell’esistente una volta che si accorge che la sua analisi di “linguaggio
di secondo grado” viene a competere (quasi) allo stesso livello delle
“interpretazioni” del linguaggio oggetto di studio?
Non si tratta più del rinvio alla semplice dimensione della “riflessi-
vità” che la corrente interpretativa ci invita a esercitare, quale medium
ineliminabile della relazione etnografica e dimensione necessariamente
auto-ispettiva dell’antropologo sui propri passi, sulle proprie preno-
zioni e sui propri pregiudizi. Il problema è qui l’efficacia politica del
fare conoscitivo.
Non si può certo in poche note cercare di affrontare il nodoso
tema, quanto solo offrire qualche riflessione a partire dal rapporto fra
“sviluppo” e heritage. E, in questa direzione, ci sono innanzi tutto al-
cune asserzioni da evitare o rifiutare, perché unilaterali: l’idea che il
conflitto interpretativo provenga solo dall’analisi intellettuale dei temi
del mondo, l’idea che i ceti sociali si contrappongano secondo linee di
forza esattamente prevedibili, l’idea che il potere sia una dimensione
che dilaghi nelle più intime fibre dell’animo umano.
L’errore dell’ermeneutica classica (con il suo irenismo cosmopo-
lita) è di non comprendere che il potere non si organizza a ridosso
dell’episteme, ma esiste e si manifesta perché i conflitti interpretativi
sono costitutivi delle relazioni fra gli attori sociali. Tali relazioni sono
disegnabili come le linee di forza che rispecchiano le posizioni sociali e
i modi simbolici di agire, però ciò non deve impedire loro di possedere
istanze o clausole interne capaci di attivare disarticolazioni o muta-
menti interni (e questo è il lato debole di Pierre Bourdieu). E, infine, è
pur vero che il potere non è una semplice rappresentazione o un eser-
cizio di repressione sul sociale, ma una pratica che modella i corpi dei
soggetti e le loro disposizioni; ciò che però va verificato è il rapporto
fra la pluralità delle pratiche di potere e le forme delle soggettività (e
ciò significa il superamento delle aporie di Michel Foucault). Un ri-
pensamento complessivo in questa direzione spingerebbe a pensare ad
analisi più fini circa la stratificazione della “società civile” nel reciproco
relazionarsi di livelli sociali, concezioni del mondo e accezioni del sé.
È a questo livello problematico che si colloca la questione del rap-
porto fra memoria e identità culturale. Si è detto che è spesso falso trarre
358 Alessandro Simonicca

la conclusione che solo laddove sussista una memoria condivisa e com-


partecipata, esiste anche identità vera e propria. L’obiezione è che tale
assunto si basa su un modello eticistico che è fondamentale allo Stato
per imporre una dimensione unitaria di appartenenza a sudditi/cittadi-
ni. Non è cioè un modello astratto generalizzabile. Ma possiamo fare a
meno della “forma Stato” per pensare al patrimonio/heritage? La rispo-
sta è no, se ci fermiamo al modello epistemico della identità patrimo-
niale di un soggetto trans-individuale, che celebra i riti della vita e della
nascita di una popolazione. Ma bisogna uscire da tale forma di pensiero.
Se valgono le argomentazioni sino a qui sviluppate, e si attribuisce
valore alla pluralità delle “narrative” come intreccio complesso di di-
spositivi di pretese e percezioni di riconoscimento di persone e cose,
allora possiamo pensare ad altri modelli di lettura della realtà e ad al-
tre modalità di vedere i processi di identità, cogliendoli nel loro essere
processi di “identità relazionale” e non semplicemente “collettiva”.
Forse, i dispositivi che attiviamo in situazioni conoscitive di tale
fatta sono di due tipi, definibili secondo la tendenza di un “doppio
movimento”, tra il movimento agonistico e il movimento identitario,
tra l’autonomia e il ricompattamento. Per svolgere tale nesso, dovrem-
mo passare ad altri momenti del lavoro antropologico; qui non lo
possiamo; possiamo però precisare che la preminenza delle “identità
relazionali” sono tipiche anche del patrimonio/heritage, solo qualora
le si derubrichi dal registro sostanzialistico, per ricollocarle su un più
realistico e sobrio giaciglio, quello delle pratiche di “autentificazione”.
Rimane sempre la differenza fra cold e hot authenticity: se si vuole, fra
expertise istituzionale nazionale e promozione nativa o locale. Si tratta
però sempre, in ogni caso, della presa d’atto che sono processi in cui le
rappresentazioni e gli oggetti intenzionati valgono entro frames di in-
clusione, ove i vari passi e commenti a giustificazione del loro esser-là
debbono il loro svolgimento e la loro negoziazione ad attori consape-
voli per destinatari altrettanto consapevoli.
8

MANIFESTAZIONE ANTITRIVELLAZIONE NEL “VAL DI NOTO”.


Berardino Palumbo - Università di Messina

produrre culture le alterne fortune


di un immaginario patrimoniale
Premessa
Nel corso del 1996, mentre conducevo una ricerca etnografica in un centro della Sicilia
sud-orientale, interessato ad indagare i rapporti tra politica e rituale, ho avuto la pos-
sibilità di cogliere il momento iniziale del processo che, in seguito al crollo della cupola
della Cattedrale di Noto (marzo 1996), avrebbe portato nel giro di nove anni all’iscri-
zione di 10 siti dell’area (9 centri urbani e una necropoli) nella WHL dell’UNESCO, alla
costruzione di uno dei primi Distretti Culturali presenti nel territorio nazionale e al di-
1 - Nel 2002 sono stati spiegarsi di complesse politiche della cultura e del turismo1. All’epoca l’interesse antro-
inseriti nella WHL i centri pologico ed etnografico per le dinamiche connesse con le politiche dei beni culturali,
storici (o meglio parti di essi) per quanto presente nella letteratura anglofona e francofona, era in Italia praticamente
di Caltagirone, Catania, inesistente2. Al di là di alcune importanti tradizioni di museografia etnografica e/o de-
Militello in Val di Catania, mologica, e di alcune connesse elaborazioni teoriche, gli antropologi nel nostro paese
Modica, Noto, Palazzolo occupavano una posizione disciplinatamente e disciplinarmente marginale nel com-
Acreide, Ragusa Ibla e Scicli. plesso campo degli studi sui beni culturali e sul patrimonio culturale3. Diversamente da
L’isola di Ortigia (parte del quanto si era già da tempo delineato nella letteratura anglofona, attenta ai processi di
centro storico di Siracusa) e “oggettivazione culturale” (Handler 1988; Herzfeld 1982; Herzfeld 1987; Holmes
la necropoli rupestre di 1989) e ai più generali significati socio-culturali che le pratiche di costruzione / rappre-
Pantalica sono invece state sentazione / fruizione – consumo dell’“heritage” assumevano nelle società della tarda
inserite nella stessa lista nel modernità (Connerton 1989; Lowenthal 1985), ma in linea, sia pure con sistematicità
2005. di gran lunga minore, con quanto elaborato nelle prospettive di ricerca seguite in
2 - In area anglofona Francia, gli antropologi che nel nostro Paese si occupavano di questioni legate al “pa-
possiamo ricordare Handler trimonio” assumevano senza alcuna esigenza critica l’idea di dover limitare la propria
1985, 1988, Jackson 1989, attenzione conoscitiva ai soli beni culturali “demo-etno-antropologici” (o etnologici,
Connerton 1989, Herzfeld nel caso francese). In questo modo si lasciava ad altri (di solito storici dell’arte, archeo-
1991, Faubion 1993, Boyarin logi, architetti, talvolta sociologi) lo studio di quelli che, di lì a poco, avremmo impa-
1994, Dietler 1994, Briggs rato a chiamare processi di patrimonializzazione. Quindi, nell’autoescludersi dal cuore
1996, MacDonald 1997. socio-politico dei problemi, gli antropologi italiani si accontentavano di rivendicare
Nell’antropologia francese, esattamente quella micro porzione della torta patrimoniale che era loro lasciata da al-
connotata da un taglio tri, più potenti saperi; soprattutto non ci si poneva il problema del carattere cultural-
diverso da quello degli mente e socialmente costruito delle stesse tassonomie patrimoniali e si finiva per non
studiosi statunitensi o riuscire nemmeno a cogliere il rilievo conoscitivo di un’etnografia critica (e/o di un’an-
britannici, Jeudy 1990, 1995, tropologia politica) del patrimonio. Spinto dalla particolare iridescenza del caso etno-
Chiva 1990, 1996, grafico e dalla evidente densità dei rapporti, che vedevo costruirsi sotto i miei occhi,
Bromberger 1996, tra processi legati al patrimonio e dinamiche socio-politiche locali, in un saggio pubbli-
Rautemberg 1997, 1998; in cato nel 1998, e scritto mentre ero sul campo nel corso del 1997, proponevo l’esigenza
parallelo con la riflessione di un cambio di postura analitica e, dunque, l’importanza di una prospettiva etnogra-
etnologica sul patrimoine, fica e antropologico politica nello studio di quelli che – credo per la prima volta in Italia
9

– venivano chiamati processi di patrimonializzazione4. Nel 2003 ho ripreso quegli cfr. Babelon e Chastel 1994,
spunti in una monografia all’interno della quale l’analisi delle politiche del patrimonio Chastel 1986, Audrerie,
finiva per occupare un posto decisivo. I rapporti tra dinamiche socio-politiche locali (“il Soucher e Vilar 1998, Poulot
campanile”) e procedure transnazionali (“l’UNESCO”) della patrimonializzazione, 1997. Posizioni critiche,
quelli tra poetiche dello spazio/tempo messe in atto dagli attori sociali e vincoli che l’a- comparabili a quelle
zione istituzionale poneva all’agency individuale, il peso dei conflitti nell’elaborazione statunitensi, iniziano a farsi
di un immaginario patrimoniale, la capacità creativa delle pratiche e delle istituzioni pa- strada, anche in Francia,
trimoniali, erano nodi che la ricerca etnografica mostrava essere ineludibili per la com- qualche anno più tardi. Cfr.,
prensione dei processi in atto nella Sicilia sud-orientale sul finire dello scorso millennio. ad esempio, Jeudy 2001,
In quel volume provavo ad individuare alcuni tratti generali del processo di patrimonia- alcuni dei saggi contenuti in
lizzazione innescato da un’agenzia transnazionale come l’UNESCO: la strutturazione Fabre 2000, Fabre e Iuso
gerarchica delle procedure tassonomiche UNESCO e il loro fondarsi, comunque, sull’o- 2009, Tornatore 2004a, b,
perare dello Stato nazionale; la produzione di identità-merci localizzate, stereotipiche 2007, 2010, Berliner 2010.
ed essenziali da vendere su un mercato globale; la rarefazione dei sistemi simbolici che 3 - Cirese 1977, Buttitta
danno forma a tali appartenenze patrimonializzate che, dunque, assumono un carat- 2002. Per il precoce
tere iconico; l’occultamento delle tensioni socio-politiche (sia di quelle che si attivano, emergere di una prospettiva
o riattivano, nei contesti locali in seguito a processi di oggettivazione culturale, sia di critica nel campo della
quelle derivate dal funzionamento delle istituzioni che operano tali processi); la capa- museologia antropologica
cità delle tassonomie patrimoniali di produrre comunque nuovi orizzonti di senso e italiana, cfr. Lattanzi 1993,
nuovi spazi di immaginazione istituzionale5. In effetti, l’aspetto sul quale concludevo la 1999, Padiglione 1994,
monografia dedicata al sud est siciliano, era proprio la capacità creativa mostrata dallo 1996, Clemente 1996,
scenario patrimoniale, capace nel contempo di riattivare antiche e sedimentate linee di Clemente e Rossi 1999. In
tensione “campanilistica”, sia di riconfigurare gli spazi istituzionali di un’area piuttosto una simile direzione, se il
vasta e di ridefinirne sentimenti di appartenenza, logiche politiche e dinamiche econo- volume de La Ricerca
miche. In un saggio successivo (Palumbo 2006) ho provato a seguire le vicende poli- Folklorica dedicato
tico patrimoniali sviluppatesi nell’area dopo il 2002 (l’elaborazione di un Piano di all’Antropologia Museale
Gestione, la costituzione del Distretto Culturale del Sud-Est, la nascita di un Movimento (1999) ha rappresentato un
politico di ispirazione autonomista, l’esplosione di conflitti politici legati, direttamente decisivo punto di svolta, la
o indirettamente, alle dinamiche della patrimonializzazione) connettendole, da un lato, nascita e l’attività di una
con il più ampio scenario politico regionale e nazionale, e dall’altro con gli effetti di go- rivista come AM –
vernance, insieme locale, regionale, nazionale e transnazionale) giocato dalla machine- Antropologia Museale
rie patrimoniale (Jeudy 2001). costituiscono altrettanti indici
In questo scritto riprenderò alcuni dei temi sviluppati negli anni precedenti, avendo dell’oramai avvenuto
in mente, però, due diversi obiettivi conoscitivi. Da un lato, infatti, intendo mettere radicamento di prospettive
a confronto le traiettorie divergenti che due luoghi del sud-est siciliano, Noto e critiche nell’antropologia dei
Militello, hanno seguito dopo il loro contemporaneo (2002) inserimento nella WHL patrimoni italiana.
dell’UNESCO. Vorrei, dall’altro, riflettere sulle opposte reazioni, anche emotive, che 4 - A quanto mi è dato
gli abitanti dei due centri sembrano aver avuto nei confronti del processo di patrimo- conoscere, almeno nella
nializzazione. A partire da tale confronto proverò, quindi, ad avanzare alcune consi- letteratura di carattere
derazioni generali sulle pratiche patrimoniali, su alcuni tratti che sembrano conno- antropologico in lingua
tarle, sulle più vaste economie morali e politiche delle quali sono espressione. italiana, non vi sono lavori
che, al 1998, adoperassero
Traiettorie divergenti l’espressione
Denise Bell Hyland e suo marito hanno lasciato oramai dieci anni fa la Virginia dopo un “patrimonializzazione” per
contenzioso con un’azienda petrolifera. Venduta la casa e la terra, si sono spostati nella indicare, in maniera esplicita
campagna di Noto, cittadina della Sicilia del Sud-Est che nel 2002, insieme ad altri 7 o implicita, il processo di
centri dell’area, è stata inserita nella WHL dell’UNESCO. Qui hanno comprato una costruzione del patrimonio
nuova casa, diversa dalla precedente, ma come quella circondata da un po’ di terra. culturale. L’espressione
Proprio nella veste di imprenditori agricoli i due partecipano ad un film-documentario patrimonialization, intesa
dal titolo “13 Variazioni su un tema barocco. Ballata ai petrolieri del Val di Noto”, rea- come processo di
lizzato nel 2006 da tre giovani registi indipendenti siciliani per l’etichetta “641 produt- costruzione / produzione del
tori dal basso”. Il film dà voce a quanti, nell’area indicata come “Val di Noto”, tra 2005 patrimoine e dei suoi
e 2007 hanno dato vita ad un vivace movimento di opposizione “dal basso” agli scavi oggetti, compare invece in
petroliferi che la Regione Siciliana, nel 2000 e, ancora, nel 2005 aveva reso possibile in francese fin dal 1992 in
questa, come in altre aree del Sud-Est dell’Isola, attraverso una concessione ad una scritti di carattere sociologico
multinazionale statunitense, la Panther Oil. Nel film, Denise, rievocando il suo fuggire (Bourdin 1992, Warnier
ed essere inseguita da petrolieri, spiega il proprio amore per gli uliveti plurisecolari della 1994, Warnier e Rosselin
sua nuova terra, uliveti dai quali si può ricavare un olio unico al mondo, mentre suo 1996), ma sembra trovare
marito ricorda all’intervistatore e agli spettatori le difficoltà di una lotta appena iniziata una prima diffusione in
che non potrà che essere collettiva e che dovrà dimostrarsi capace di mantenere vivo antropologia solo a partire
nel tempo lo stato di effervescenza emotiva di cittadini e amministratori pubblici. La te- dal 1998 (Faure 1999,
10

Rautemberg 1998, Bérard e lecamera li lascia, poi, abbracciati mentre guardano il sole tramontare sull’incantevole
Marchenay 1998). In Les paesaggio ibleo.
lieux de la mémoire (1984), Negli ultimi dieci anni a Noto (e in maniera comparabile a Modica, Caltagirone, Ragusa
opera curata da Pierre Nora, Ibla e Ortigia – inserita quest’ultima nella WHL nel 2005, insieme alla necropoli di
come del resto in una Pantalica), l’essere divenuti parte della classificazione UNESCO ha dato il via a com-
classica raccolta del 1990, plessi processi socio-economici e politici: l’incremento significativo dei flussi turistici,
curata da Henry Pierre Jeudy, una incipiente “gentrificazione” di alcune parti del centro storico e del territorio rurale,
non si parla di la produzione di (nuovi) sentimenti di appartenenza territoriale, la nascita di nuove
patrimonialization, ma solo emozioni patrimoniali, la ridefinizione delle politiche di sviluppo economico. Come
di patrimoine. Qualche anno Noto e altri sei comuni della Sicilia sud-orientale, anche Militello è stato inserito nella
più tardi Jeudy (2001) WHL dell’UNESCO. A Militello (come a Palazzolo Acreide, Scicli e, in parte Catania)
avrebbe imputato ad quella UNESCO sembra essere stata una semplice etichettatura, incapace di produrre
un’esigenza di impegno per effetti sociali, politici ed emotivi di un qualche rilievo. Nel territorio rurale di Militello,
la salvaguardia di forme di ad esempio, non sono venuti a vivere, dopo il 2002, cittadini americani, tedeschi, in-
vita in via di scomparsa il glesi, toscani o romani, né alcun forestiero ha comprato le pur altrettanto belle case
ritardo teorico rurali (e urbane) presenti nelle sue campagne. La sola americana ad esser divenuta mi-
dell’antropologia del litellese è Jennifer Lynne Gareis, attrice statunitense di lontane ascendenze locali, nota
patrimonio in Francia. per interpretare “Donna Logan” nella soap opera Beautiful, cui nel dicembre del 2009
5 - Negli anni successivi alla è stata conferita la cittadinanza onoraria. Il numero di residenti è in continuo, inarre-
pubblicazione del volume un stabile, declino; i flussi turistici sono rimasti marginali, al punto che in paese, ancora
approccio etnografico e oggi, non esiste alcuna struttura che possa garantire l’ospitalità ad un numero, anche
antropologico critico vicino a esiguo, di visitatori; i dibattiti e gli scontri che hanno agitato la “società politica” e la
quello da me tentato si è “vita civica” (Chatterjee 2006; Herzfeld 2009) del neo-immaginato Sud-Est siciliano (o
gradualmente imposto nella Val di Noto) – sui quali mi soffermerò nelle pagine che seguono – non hanno interes-
letteratura sul patrimonio sato che marginalmente la politica locale; il patrimonio (o almeno il patrimonio defi-
(cfr. ad esempio Tornatore nito dal sistema tassonomico UNESCO) non provoca alcuna emozione ed anzi il riferi-
2004 a, b, 2007, 2010, mento alla vicenda dell’iscrizione nella WHL sembra suscitare in molti cittadini militel-
Maffi 2004, Breglia 2006, Di lesi una reazione indifferente e ironica. Hanno forse buone ragioni, per reagire con iro-
Giovine 2009, Collins 2008, nia, se la presenza dell’UNESCO, al di là del logo nel sito ufficiale del Comune, sembra
Brumann 2009, Herzfeld attestata da una lapide in marmo, fatta incidere dal Sindaco nel gennaio del 2004 –
2009, De Cesari 2010, ma redatta con tono e lessici ottocenteschi, sulla quale ritorneremo – e da una sbia-
Berliner 2010). Pur riuscendo dita targa apposta su un palazzo settecentesco, molto bello e in totale abbandono,
in alcuni casi a penetrare la sede del locale Club Unesco, associazione cui nel luglio 2007 – in contemporanea con
barriera ideologica che rende le proteste antitrivellazioni di Noto – l’Amministrazione Comunale, in maniera forse
invisibile la produzione emblematica, ha affidato l’apertura e la chiusura del cimitero comunale.
antropologica italiana a
quella anglofona e La rinascita del “Val di Noto”
francofona, anche quando Il 18 giugno del 2007, alla presenza delle massime autorità nazionali (tra cui l’allora
capita che ne anticipi temi e Presidente del Consiglio Romano Prodi) e regionali, la cattedrale di Noto è stata ria-
prospettive (cfr. Breglia perta al pubblico dopo il crollo del 13 marzo 1996. Se, come notavo alcuni anni fa
2006, Di Giovine 2009, De (Palumbo 1998, 2003), proprio il crollo del 1996 aveva dato inizio al travagliato pro-
Cesari 2010), L’Unesco e il cesso che avrebbe portato all’iscrizione di otto città della Sicilia sud-orientale nella WHL
campanile ha suscitato dell’Unesco (il centro storico di Ortigia e la necropoli di Pantalica sarebbero stati inse-
reazioni quantomeno nel riti tre anni più tardi), la riapertura solenne del Duomo di san Niccolò sembra sancire
dibattito antropologico la fine della fase di costruzione / istituzionalizzazione su base patrimoniale di un nuovo
italiano. Qui, tra amnesie scenario politico-culturale. L’evento del 2007, infatti, si svolge in, e consente la messa
strutturali (Bravo e Tucci in forma di, uno spazio pubblico oramai molto diverso da quello di undici anni prima.
2006), evocazioni rituali Non si tratta tanto, o soltanto, del fatto che, nel 2007, 9 città ed un sito rupestre dell’a-
(Bindi 2005, 2009, Copertino rea sono oramai inscritte nella WHL, né soltanto del fatto che, in seguito a questa iscri-
2010), non dichiarati zione, i flussi turistici della Sicilia sud-orientale siano significativamente aumentati. Per
tentativi di emulazione e comprenderne il senso e la portata possiamo (ri)partire proprio dal movimento di pro-
qualche momento di testa contro le trivellazioni petrolifere che ha preso corpo, nell’area del “Val di Noto”,
effettiva discussione (Dei tra il 2005 e il 2008. La riapertura del Duomo di Noto offre al movimento anti-trivella-
2002, 2007, Pizza 2004a), zioni la possibilità di portare la propria voce su uno scenario mediatico nazionale. Il 18
sembra comunque aver giugno, infatti, un folto gruppo di manifestanti occupa uno spazio centrale nella sce-
aperto una stagione di nografica piazza della Cattedrale: immediatamente a destra della porta del palazzo co-
ricerche, di maggiore o munale, di fronte la scalinata che conduce al Duomo. Tutte le autorità che dal Comune
minore densità etnografica, salgono alla Cattedrale sono obbligate a vederli e ad ascoltare le loro (più che civili)
interessate ad indagare i proteste.
processi di La possibilità di manifestare nel corso di un importante evento pubblico e di farlo in
patrimonializzazione (cfr., ad una posizione scenograficamente e mediaticamente centrale è concessa ai manife-
11

stanti dalle autorità comunali netine che, insieme a quelle di altri centri coinvolti nella esempio, Pizza 2004b, alcuni
patrimonializzazione UNESCO, fin dall’inizio (i primi mesi del 2005) hanno sostenuto la dei saggi contenuti nel
protesta, facendosene più volte portatrici nei diversi scenari istituzionali. Un tale soste- volume curato da Maffi
gno evidenzia la centralità della dimensione più specificamente politica nella produ- 2006, Bindi 2005, 2009,
zione del movimento “popolare” in difesa del barocco, del territorio, del “Val di Noto” Scarpelli 2007, Siniscalchi
e del “Sud-Est”. Altrove ho analizzato a fondo questa dimensione, mostrando come 2007, Broccolini 2008,
sia impossibile comprendere l’emergere di sentimenti di appartenenza e di emozioni Bortolotto 2008, Trupiano
patrimonial-identitarie senza aver ben presenti le articolazioni e le scissioni dello scena- 2009, Copertino 2010).
rio politico regionale e nazionale (Palumbo 2006). Qui posso solo fornire alcune coor-
dinate, necessarie per comprendere i contesti più ampi all’interno dei quali le emozioni
patrimoniali e le passioni politiche dei contestatori hanno potuto prendere corpo.
L’inserimento degli otto comuni del “Val di Noto” nella WHL è avvenuto al termine di
un processo politico piuttosto travagliato che aveva visto, al di là dei conflitti interni alle
istituzioni dell’area, uno stop imposto dall’UNESCO nel 2000. Motivo di questo tem-
poraneo rifiuto l’assenza, nella documentazione presentata, di un Piano di gestione ca-
pace di fissare e garantire linee di sviluppo dell’intero territorio che fossero coerenti con
la logica della classificazione patrimoniale. Proprio intorno all’elaborazione di un simile
Piano si attivano, nel corso del 2001, complesse dinamiche politiche che vedono pro-
tagonisti, sul versante regionale, Fabio Granata, all’epoca Assessore ai Beni Culturali
della Regione Siciliana, su quello nazionale personaggi di rilievo dello schieramento po-
litico di centro-destra (dal 2001 al governo) con forti legami nell’area del sud-est sici-
liano, all’interno dell’UNESCO alcuni funzionari che avevano seguito la pratica e che
conservano un’attitudine fortemente benevola nei confronti della proposta siciliana. Al
termine del 2001, pur tra molti contrasti e grazie all’“ausilio” prestato da un’impor-
tante società di servizi della capitale, viene messo a punto un documento preparatorio
del piano di gestione che, presentato all’UNESCO, viene ritenuto sufficiente per otte-
nere l’iscrizione. In questa fase, su spinta di Fabio Granata, inizia a prendere forma l’i-
dea della costruzione di un Distretto Culturale del Sud-Est: si tratta di un’istituzione ter-
ritoriale pensata sulla scia dell’idea di Distretto industriale elaborata da alcuni econo-
misti nel decennio precedente, immaginata in grado di coordinare le azioni politiche
delle Amministrazioni comunali direttamente, o indirettamente, coinvolte nel processo
di patrimonializzazione, spingendole verso forme di pianificazione territoriali coerenti
con l’iscrizione nella WHL. Intorno all’idea del Sud-Est viene costruita un’efficace cam-
pagna promozionale (si creano siti, festival, si elaborano un logo e delle campagne
pubblicitarie) che riesce a produrre, in alcune fasce almeno delle popolazioni dell’area,
un certo consenso. I problemi sorgono, però, quando la pianificazione territoriale im-
maginata dal Distretto deve tradursi in concreti atti amministrativi da parte dei governi
locali. Qui le logiche che prevalgono sono quelle politiche. Il Piano di gestione, stru-
mento operativo vincolante le amministrazioni comunali, infatti, non viene mai appro-
vato dalla totalità dei comuni coinvolti. Si delinea così uno scontro, tutto interno al
Centro destra siciliano e nazionale, che vede da un lato Granata, e con lui una parte
di Alleanza Nazionale, e dall’altro uno schieramento complesso, composto da perso-
naggi di spicco della scena politica nazionale, schierati in Forza Italia o in altri settori di
AN, tutti con forti legami ed interessi, anche personali, nel siracusano. Lo scontro ap-
pare evidente nel 2004 quando a Granata viene tolto l’assessorato ai Beni Culturali, as-
segnato invece ad un esponente di Forza Italia (l’On. Pagano), e viene conferito il meno
impegnativo assessorato al Turismo. Il neo assessore ai Beni Culturali attacca il suo pre-
decessore proprio sulla mancata approvazione del Piano di Gestione da consegnare
all’UNESCO e preannuncia l’elaborazione di un proprio piano, nel quale le esigenze di
protezione del territorio avrebbero potuto dialogare con quelle del suo sviluppo eco-
nomico. Quella che prende corpo in questi anni è una linea di frattura destinata a du-
rare e ad allargarsi all’interno del centro-destra siciliano e nazionale. Nella fattispecie
lo scontro contrappone la visione “protezionista” e sostenibile di Granata e quella,
aperta a forme di sviluppo industriale, di Pagano e del gruppo di interessi del quale
sembra essere portatore. È in questo scenario che emerge con clamore la vicenda delle
concessioni petrolifere che la regione Siciliana, al termine di un complesso iter, aveva
alla fine (2004) concesso ai petrolieri texani con un atto di un assessore con forti inte-
ressi personali nell’area petrolifera di Siracusa. Granata, e quanti con lui avevano inve-
stito, e stavano ancora seriamente investendo, nelle politiche del patrimonio (l’iscri-
zione di Siracusa-Pantalica, fortemente voluta da Granata è del 2005) si fanno i pro-
motori di una lotta serrata contro le trivellazioni, appoggiati in questo da una nuova
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leva di amministratori comunali che in questa direzione avevano impostato la propria


azione politica. Sul versante opposto, una parte significativa e potente della destra re-
gionale e nazionale (legata alla figura dell’attuale Ministro dell’Ambiente, già Ministro
alle Pari Opportunità, la siracusana Stefania Prestigiacomo) per ragioni ideologiche e
per storie personali di molti suoi protagonisti, favorevole alle trivellazioni.
In un simile quadro politico prendono forma le proteste di quanti, dal “basso”, si op-
pongono allo sfruttamento petrolifero dell’area e a tutte quelle ipotesi di sviluppo che
minaccino l’ambiente, il territorio del “Val di Noto” e il suo barocco. La protesta riceve,
in effetti, l’appoggio di quelle amministrazioni i cui vertici si collocano in aree politiche
vicine a Granata, ma anche di quelle (poche) amministrazioni comunali di Centro sini-
stra che considerano quella contro le trivellazioni anche una loro battaglia. Grazie a
questi sostegni politici e al fatto di inserirsi in uno scenario politico-culturale che aveva
iniziato un processo di ripensamento dell’immaginazione identitaria del territorio, il
movimento di opposizione alle trivellazioni riesce ad avere una qualche visibilità negli
spazi pubblici dell’area e una qualche eco nelle pagine dei quotidiani locali, a stampa
e televisivi. Nonostante questo, però, il movimento anti-trivellazioni non riesce ad es-
sere pienamente visibile nello scenario mediatico regionale (i principali quotidiani sici-
liani relegano le notizie che lo riguardano nelle pagine di cronaca locale, evitando di
porre le questioni politiche reali che il movimento suscitava) ed è di fatto assente da
quello nazionale. Il quadro cambia, però, con l’approssimarsi della riapertura della cat-
tedrale. Il 7 giugno 2007, infatti, su uno dei più importanti quotidiani nazionali, la
Repubblica, esce un appello in difesa del Val di Noto a firma di Andrea Camilleri, ap-
pello, rilanciato subito dalla stampa nazionale ed estera, che nel giro di pochi giorni ri-
ceve 80.000 adesioni. Sul piano politico il quadro è in realtà molto complesso. Si è alle
soglie di nuove elezioni (il governo Prodi cadrà, infatti, solo 8 mesi dopo) e non è forse
un caso che siano Camilleri e la Repubblica, schierati a Sinistra, a lanciare nella Sicilia,
tutta schierata a Destra, la questione del Val di Noto. D’altro canto, Fabio Granata, nel
suo sito, commenta subito in maniera assai positiva l’intervento dello scrittore siciliano.
Sul versante opposto l’allora presidente della Regione, Totò Cuffaro, comunica in con-
temporanea che la Panther Oil avrebbe rinunciato agli scavi nella città di Noto, proba-
bilmente cercando di smarcarsi dalle iniziative di Camilleri e Granata e comunque na-
scondendo l’intenzione della multinazionale di continuare gli scavi in altre aree del ter-
ritorio del sud-est siciliano.
La “rinascita del Val di Noto”, come si vede, è un processo politico complesso, all’in-
terno del quale si agitano conflitti e tensioni profonde, delle quali le proteste e le pas-
sioni patrimoniali e ambientali dei manifestanti contro le trivellazioni non sono che una
delle espressioni. Eppure, quelle persone scendono in piazza più volte, manifestano,
producono un film, scrivono petizioni, perché animati dalla volontà di difendere “il Val
di Noto”, con le sue bellezze barocche e il suo paesaggio naturale. Se sarebbe del tutto
ingenuo immaginare che tali emozioni siano svincolate dallo scenario politico appena
descritto, altrettanto fuorviante sarebbe, però, ritenerle delle meccaniche e strumentali
conseguenze di dinamiche ed interessi politici. Occorre, insomma, prendere sul serio
queste nuove emozioni che, nello spingere all’azione pubblica, oltre ai rappresentanti
del ceto politico dell’area, anche centinaia di persone comuni, sembrerebbero rivelare
lo stratificarsi di sentimenti di adesione affettiva della “gente” a cose, spazi e ambienti
sottoposti al processo di classificazione UNESCO.

La Sicilia di Montalbano
Nel concludere L’Unesco e il campanile (Palumbo 2003: 358) ipotizzavo che, grazie
proprio all’azione istituzionale UNESCO e al processo messosi in atto con l’iter d’iscri-
zione degli otto comuni siciliani nella WHL, l’espressione “Val di Noto”, che ancora nel
1996 non aveva alcun senso per la quasi totalità degli abitanti dei centri della Sicilia
sud-orientale (esclusi storici locali, specialisti di urbanistica e di storia), come anche il
sentimento di ammirazione per il barocco, sarebbero potuti divenire, dopo l’iscrizione,
elementi abitudinari delle coscienze degli attori sociali dell’area. Alla luce di quanto ac-
caduto negli ultimi dieci anni, quell’ipotesi sembra essersi rivelata esatta, anche se, oc-
corre dire, non avrei mai immaginato di vedere, nel giro di pochi anni, delle persone
scendere in piazza per la difesa del “Val di Noto”, del suo barocco e delle sue bellezze
naturali. Noto, nel 1996, era una città in stato di semi abbandono, con la maggior
parte dei palazzi storici ingabbiati da impalcature cadenti: così la ricorda, ancora nel
2001, Corrado Stajano:
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“Noto ‘l’ingegnosa’ (o la bella dormiente), sembra sia rimasta un vallo dagli stilemi im-
modificabili, chiuso, coi suoi beni mediocri e arcaici, tra i monasteri che sembrano for-
tezze, ma anche prigioni (2001, p. 36) (…). Il palazzo è quello del Comune, ricoperto
di palizzate e di teloni di plastica. Quando passo nelle vicinanze do sempre un’occhiata
al cortile del palazzo Rau della Ferla, slabbrato, con il fascino del decadimento, con
grandi arbusti di gelsomino rampanti fino alle finestre del primo piano, un ombrello di
profumo che intenerisce il cuore (ibid., p. 75)”.
Nonostante alcune interessanti vicende avessero percorso gli anni Ottanta del
Novecento, quando, come ricorda Stajano (2001: 92-94) un gruppo di giovani locali si
era opposto a forme di speculazione edilizia presentate sotto forma di “recupero” del
patrimonio barocco della città di Noto, niente, negli anni nei quali sono vissuto stabil-
mente nell’area (1994-1998), lasciava presagire l’emergere (o il riemergere) di passioni
civiche e patrimoniali. Come è allora stato possibile tutto ciò e in un arco di tempo così
breve?
Lasciata nel 1998 la casa a Catalfàro / Militello, avevo continuato a seguire le vicende
politico-culturali dell’area. In particolare mi ero interessato alla trasformazione subita,
tra il 2004 e il 2005, della Settimana del barocco militellese, evento che avevo studiato
tra 1996 e 1998. Legata alla volontà e all’azione politica del Presidente della Provincia
di Catania, militellese, la Settimana aveva perso di forza e di interesse con il venir meno
del suo peso politico. Proprio nel 2005, quando Musumeci lascia AN per schierarsi con
la Destra, la Settimana del Barocco si trasforma nel “Festival Internazionale del Val di
Noto - Magie barocche”, un festival di musica barocca che si svolge in tutti gli otto co-
muni interessati dal riconoscimento UNESCO. L’evento pubblico (metà evento specchio
e metà evento modello, per dirla con Handelman 1990; cfr. Palumbo 2003: 297-300)
lascia quindi la scena locale militellese, per trasformarsi in puro evento-specchio che
esprime, da un lato, l’esistenza di un istituendo spazio pubblico (le città del Val di
Noto), e dà forma, dall’altro, ad uno dei gruppi di potere che giocano la partita poli-
tica del Sud-Est siciliano (il festival è una creazione di Nicola Bono, parlamentare nazio-
nale per AN e Sottosegretario ai beni Culturali, ora Presidente della provincia di
Siracusa). Al di là di tutto questo, però, il Festival mi interessava per la capacità di dif-
fondere una retorica identitaria e patrimoniale, fino ad allora ristretta ai discorsi uffi-
ciali della politica e a quelli, strettamente connessi, della stampa locale, in aree della
“società civile” non ancora direttamente coinvolte dal processo di patrimonializza-
zione. Avevo seguito, inoltre, il temporaneo affievolirsi, tra 2005 e 2008, della retorica
del Sud-Est e del peso politico di Fabio Granata, a vantaggio dell’emergere, nella stessa
area siciliana, del Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo, capace di tra-
durre in termini (anche) strumentalmente politici le venature autonomiste della reto-
rica identitaria di Granata e di costruire una ben più efficace macchina elettorale e am-
ministrativa che avrebbe portato quel partito al controllo della regione Siciliana6. 6 - Recentemente Granata
La penetrazione tra la “gente comune” di passioni culturali legate all’idea di Val di Noto ha assunto un ruolo politico
e, quindi, la capacità del discorso patrimoniale, prodotto in quell’area della Sicilia nei di rilievo mediatico e
dieci anni che separano il crollo e la riapertura della cattedrale di Noto, di dare vita ad nazionale in quanto
adesioni identitarie forti, mi divennero evidenti, però, grazie a due giovani studenti uni- protagonista, con Gianfranco
versitari. Fin dal 2001, infatti, l’Università di Messina e la Facoltà dove insegno hanno Fini ed altri parlamentari ex
aperto un Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione (e qualche anno dopo anche uno AN della uscita di Futuro e
in Scienze della Comunicazione) proprio a Noto. Non posso qui analizzare le vicende di libertà dal PDL.
tale apertura, certamente connesse con la fase iniziale del progetto di iscrizione degli
otto comuni nella WHL UNESCO; né fare altro che ricordare come negli ultimi anni la
presenza delle Università (quella di Messina a Noto, Priolo, Modica e Caltagirone; quella
di Catania a Siracusa, Ragusa e Caltagirone) abbia rappresentato un elemento forte, e
spesso conflittuale, dell’investimento delle istituzioni dell’area verso le politiche della
cultura. Nell’inverno del 2006, durante una lezione dedicata proprio alle vicende politi-
che e patrimoniali del Sud-Est siciliano, due studenti, tra i più attivi del corso, mi chie-
dono cosa ne pensassi del movimento contro le trivellazioni. Alla mia risposta, che ten-
deva a contestualizzare il movimento nello scenario politico di media durata, loro oppo-
sero il proprio punto di vista di attivisti in prima persona e il proprio essere convinti, no-
nostante il percorso critico-analitico seguito a lezione, dell’importanza di lottare per la
difesa di monumenti, luoghi e paesaggi “universalmente” definiti come eccezionali.
Soprattutto, insistevano sull’importanza di progettare stili di vita coerenti con gli scenari
culturali e naturali divenuti con tutta evidenza beni culturali, patrimonio collettivo delle
comunità dell’area. I due studenti, diversi, nell’abbigliamento, nelle idee politiche e
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nell’attitudine al dialogo, dalla media della classe, erano di evidente estrazione di sini-
stra: uno di loro era tornato in Sicilia dopo una lunga esperienza di vita e di studio al
Nord, l’altro impegnato in varie attività sociali, era tra gli animatori del ristretto gruppo
di giovani “alternativi” e impegnata presenti in città. Terminata la discussione in classe,
mi invitarono ad una riunione del gruppo No-Triv. di Noto. L’incontro si tenne in un sa-
lone del palazzo comunale, preventivamente concesso dal Sindaco e terminò proprio
nel momento in cui dovette riunirsi la Giunta. Ad esso parteciparono, oltre ai miei due
studenti, un’altra studentessa iscritta nello stesso Corso di Laurea, un imprenditore agri-
colo che aveva investito nell’agriturismo, un funzionario comunale e due signore stra-
niere (una svizzera, l’altra austriaca), che avevano comprato casa e terre nel territorio
comunale. Loro erano interessati ad acquisire notizie sullo scenario politico all’interno
del quale si stavano muovendo, io a comprendere le ragioni del loro impegno e della
loro passione. Per nulla ingenui sul contesto politico, le sue scissioni e i suoi interessi, mi
parvero in genere poco ideologizzati (con l’eccezione di una o due persone, diffidenti
nei confronti della matrice “fascista” di alcuni sponsors politici), ma estremamente at-
tenti alla difesa del territorio, dello stile di vita scelto e degli investimenti fatti per ren-
derlo sostenibile e produttivo. Per quanto consapevoli dell’importanza dell’appoggio
politico, non mi sono sembrati degli strumenti inconsapevoli nelle mani di questo o
quello schieramento, ma persone convinte, per ragioni diverse, della giustezza della pro-
pria battaglia e pronti a difendere “il Val di Noto” e/o il “Sud-Est”. Dei loro discorsi mi
colpivano, però, alcuni aspetti. Innanzitutto il considerare come dati ovvi e scontati pro-
prio quelle entità (“il Val di Noto”, “il Sud-Est”) il cui costruirsi (quasi) dal nulla a par-
tire dall’interazione tra le classificazioni UNESCO, le sue procedure e le istituzioni “tra-
dizionali” di un’area vasta e differenziata (L’Unesco e il campanile, appunto) avevo pro-
vato a seguire lungo tutto il decennio precedente. Quindi l’intima convinzione, al di là
dei pur evidenti e dichiarati interessi strumentali, della peculiare bellezza naturalistica e
artistico-architettonica dei “propri” luoghi. Un sentimento, questo, piuttosto nuovo,
che, solo pochi anni prima, era assente in quella fascia di popolazione, o comunque ap-
pariva declinato nei termini, molto diversi, del discorso campanilistico di storici e intel-
lettuali locali. Infine la capacità che simili passioni identitarie e patrimoniali avevano di
coinvolgere persone provenienti da diverse parti del mondo che, anche per tali senti-
menti, avevano scelto di vivere nel “Val di Noto”.
Il film-documentario dal quale siamo partiti esprime in maniera emblematica l’insieme
di questi tratti. Se uno dei due studenti, iscritto all’ARCI glocal action, nel film dice di
considerare la lotta contro i petrolieri un momento in cui “Il Val di Noto prende co-
scienza del suo valore”, Denise Bell Hyland, la cittadina statunitense perseguitata dai
petrolieri, descrive con tono appassionato la bellezza dei propri ulivi e l’unicità dell’o-
lio prodotto da quella terra. A sua volta un giovane neo rurale, il cui accento indica una
chiara provenienza romana e metropolitana, camminando a torso nudo tra campi di
grano e muri a secco, spiega la sua scelta di vivere con la moglie e un figlio in una casa
semi diroccata, tirata su da solo, senza luce ed acqua corrente, con la necessità di ri-
trovare in questo suo nuovo mondo, insieme forse al sociologo Franco Cassano, i ritmi
7 - Per una critica del lenti della terra madre7. Un agricoltore locale, con moglie e figli, che ha investito nel
meridionalismo identitario di biologico, a sua volta si vanta di coltivare “vero grano antico siciliano”, mentre un’im-
Cassano, cfr. Palumbo 2001. prenditrice piemontese che ha lasciato il suo lavoro cittadino per comprare terra e casa
nel “Sud-Est”, parla della sua nuova terra come un “luogo vergine”, non ancora con-
taminato dagli errori e dagli orrori della modernità. Atteggiamenti comuni, questi, a
quanti hanno dato vita al movimento di difesa del “Val di Noto” dall’aggressione delle
lobbies petrolifere; attitudini, che avevo trovato declinate per la prima volta nelle reto-
riche di quei politici che avevano investito nel processo di patrimonializzazione, che
erano state poi riprese lungo il decennio successivo nelle pagine della stampa locale e
che avevano trovato una certificazione ufficiale nelle classificazioni UNESCO. Del resto,
nel film, come anche nelle TV regionali che hanno seguito la cerimonia di riapertura
del Duomo di Noto e nella carta stampata, una voce ricorrente è quella di Roy Bondin,
delegato permanente di Malta presso l’UNESCO, incaricato di seguire la proposta di
iscrizione siciliana, cui si deve in gran parte l’attitudine positiva dell’istituzione transna-
zionale: l’UNESCO, dice, privilegia “la Cultura” e tutte quelle politiche che favoriscono
“la Cultura”: tocca ai Siciliani difendere, ora, la propria Cultura. In realtà la difesa della
Cultura del “Val di Noto” è potuta diventare una passione condivisa per una parte,
certo ancora minima e marginale, delle popolazioni dell’area proprio perché tale
Cultura, inserita nel sistema classificatorio UNESCO e dunque oggettivata, patrimonia-
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lizzata, tipicizzata e stereotipizzata, ha iniziato ad essere un bene disponibile per molte


persone, siciliane e non, che intorno ad essa hanno incominciato a produrre pratiche
e sentimenti diversi: strategie politiche, progetti economici, scelte di vita, opzioni este-
tiche ed etiche, affetti ed emozioni. L’intervento pubblico di Andrea Camilleri oltre ad
essersi rivelato, non a caso, efficace è, in questo senso, emblematico. Camilleri, scrit-
tore siciliano ha costruito il suo grande successo attraverso l’invenzione di una lingua
narrativa ibrida (un italiano colto, con interventi lessicali siciliani e strutture narrative
che riprendono alcuni stilemi della narrazione popolare) e di una moltitudine di perso-
naggi-tipi stereotipicamente “siciliani”. In questo modo, pur mantenendo fermo un
proprio impegno politico contro le violenze e le storture della Sicilia reale, ha contri-
buito alla costruzione di un’ennesima, elegante e divertente immagine letteraria e ste-
reotipica della Sicilia. Ancor più marcata tale tendenza è apparsa in una fortunatissima
serie televisiva, il Commissario Montalbano, direttamente tratta dai racconti di
Camilleri ed interpretata da Luca Zingaretti. L’intera serie, girata proprio nei luoghi del
Sud-Est (Ibla, Modica, le spiagge di Samperi), ha contribuito a modellare nel senso co-
mune nazionale un’“immagine al sole della Sicilia” (per ripetere la frase di una fortu-
nata campagna pubblicitaria voluta dall’allora Assessore ai beni Culturali della Regione
Siciliana, Fabio Granata), lontana dalle violenze mafiose della cronaca e di numerosis-
simi altri serial televisivi. Per quanto la Vigata di Camilleri / Montalbano sia letteraria-
mente ambientata nella Sicilia Occidentale (Porto Empedocle), quella televisiva di
Montalbano / Zingaretti è, agli occhi degli spettatori, la Sicilia luminosa e “pulita” del
Sud-Est. Non è certo un caso, dunque, che nel sito personale di Fabio Granata, tra le
immagini che compaiono nella galleria fotografica, insieme a quelle che lo ritraggono
con Paolo Borsellino, ve ne sia una in cui l’Assessore siede al fianco proprio di Luca
Zingaretti; e che, nel suo tempestivo appello, Camilleri, da sempre legato alla Sinistra,
riconosca i meriti politici dell’uomo politico di Destra.

Il lato in ombra della patrimonializzazione


Diversamente da Noto, nella cui scenografia barocca hanno ambientato i propri film re-
gisti come Rossellini, Antonioni, De Sica, Amelio, Tornatore, Zeffirelli – per non citare
che i più noti tra coloro che hanno fatto di Noto un luogo dell’immaginario visuale na-
zionale – le non meno affascinanti architetture manieristiche e barocche di Militello non
hanno mai attirato un’attenzione più che episodica di registi e intellettuali. Il solo mo-
mento di protagonismo mediatico del luogo nel quale ho concentrato le mie ricerche è
stato quello della celebrazione delle nozze tra Pippo Baudo, che in paese è nato, e Katia
Ricciarelli, svoltesi in paese nel gennaio del 1986 (cfr. Palumbo 2003). Nonostante a
Militello sia stata sperimentata per la prima volta nell’area quell’idea della “Settimana
del barocco che avrebbe poi contribuito a rappresentare, sul piano del cerimoniale pub-
blico, l’insieme dei centri del “Val di Noto”, questo paese, dopo l’iscrizione nella WHL
sembra essere rimasto fuori dai processi che altrove – a Noto, come a Modica, a Scicli
e a Caltagirone – si sono attivati in seguito alla patrimonializzazione UNESCO. Se a
Modica, a partire dalla costruzione di una tradizione dolciaria legata alla produzione del
cioccolato – che si ritiene in loco derivata direttamente dal mondo azteco – si è avviato
un complesso processo di tipicizzazione alimentare che ha portato la città iblea ad es-
sere inserita nel circuito delle manifestazioni di Eurochocolate, a Militello, la Sagra della
Mostarda e del Ficodindia, nata nel 1987, è restata una sagra (molto frequentata, ma)
di paese e, soprattutto, nessuna azione politica coordinata è mai riuscita a fare di essa
il volano per processi anche ristretti, di tipicizzazione alimentare, né in presenza del pro-
cesso di patrimonializzazione UNESCO si è mai tentato seriamente di sviluppare forme
di connessione con circuiti agro-alimentari nazionali quali, ad esempio, Slow Food. Sul
piano politico, infine, Militello, che pure aveva giocato un ruolo decisivo nella ridefini-
zione dell’iniziale progetto di patrimonializzazione (Palumbo 2003), è decisamente ri-
masta al palo rispetto alle dinamiche che abbiamo visto prodursi a Noto e nell’intera
area iblea. La possibilità di far includere Militello nel novero dei Comuni candidati all’i-
scrizione era stata costruita con abilità dall’Assessore alla Cultura della Giunta di centro
sinistra che ha amministrato il paese dal 1994 al 2002. A partire dal 1996, l’Assessore
aveva tessuto contatti con amministratori degli altri comuni, con i rappresentanti
UNESCO, con l’assessorato ai Beni Culturali della Regione, con le Sovrintendenze ed era
così riuscito a far rientrare il proprio paese nell’elenco dei centri che, nel 2002, sareb-
bero poi stati inclusi nella WHL. Il riconoscimento UNESCO giunse a pochi mesi dalle
elezioni amministrative che, nel 2003, sancirono a Militello la vittoria del Centro destra
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e l’elezione di una nuova Giunta. I nuovi amministratori pubblici, con in testa l’assessore
ai Beni Culturali, si sono trovati a gestire l’etichettatura UNESCO – che non avevano vo-
luto o comunque non avevano mai appoggiato in maniera chiara quando erano oppo-
sizione – senza un preciso interesse politico e, senza, quindi una qualche strategia glo-
bale. Piuttosto, sia per ragioni legate alla collocazione politica della Giunta, più vicina a
Forza Italia e ad aree “tradizionali” di AN che non alle idee identitario-patrimonialiste di
Granata, sia per motivazioni personali, tra il 2003 e il 2008 l’Assessore alla Cultura ha
seguito, almeno sul piano delle rappresentazioni, retoriche che tendevano a sminuire il
carattere “barocco”di Militello, a vantaggio di una sua supposta classicità rinascimen-
tale (Militello come “la Firenze degli Iblei”). Una simile scelta isolazionista (rispetto alle
dinamiche che si attivavano nell’istituendo “Val di Noto”) ritorna nella decisione di ade-
rire al Consorzio Ducezio (un “consorzio turistico e delle attività produttive”), una sorta
di altro Distretto Culturale che comprende, insieme a Militello, altri cinque comuni, nes-
suno dei quali iscritti nella WHL (Licodie Eubea, Mineo, Vizzini, Castel di Ludica e
Grammichele), e tutti legati ad un’area interna, parte certamente nell’antico Val di
Noto, ma lontana dall’area più iridescente del nuovo, (ri)nascente “Val di Noto”. In que-
sto modo l’amministrazione militellese, tra 2003 e 2008, rinuncia di fatto a costruire un
ponte con quei comuni che stavano giocando un ruolo nella ristrutturazione politico-
patrimoniale di un’area e fa del riconoscimento UNESCO una sorta di faticoso e fasti-
dioso marchio formale. Non che, come a Noto o a Modica, anche a Militello non si ri-
strutturino molti palazzi e chiese monumentali, al punto che il paesaggio urbano appare
oggi di qualità di gran lunga migliore rispetto al 1996. Il problema è che questi lavori
non vengono considerati (e di fatto non sono) connessi con l’iscrizione nella WHL e non
si iscrivono mai in una politica culturale che faccia di questa iscrizione un volano della
pianificazione economica e/o identitaria. Il restauro del monastero di San Domenico e il
suo riutilizzo come auditorium, gli scavi e il restauro nella chiesa di Santa Maria la
Vetere, ad esempio, sono considerati esiti di dinamiche politiche “tradizionali” e speci-
fiche (quel politico che fa finanziare quel progetto, la bravura di quell’amministratore a
reperire i fondi europei).
Al disinteresse, se non proprio ostracismo, della classe politica che avrebbe invece do-
vuto costruire quella trama di connessioni, legami e iniziative necessarie a dare il via ad
un processo di feedback positivo tra retoriche patrimoniali, azioni istituzionali e senti-
menti soggettivi, corrisponde, nella comunità locale, un diffuso sentimento di indiffe-
renza, se non proprio di fastidio, nei confronti di tutto quanto abbia a che vedere con
l’UNESCO. Nelle corrispondenze dei quotidiani locali, nei dibattiti pubblici, nel senso co-
mune, l’UNESCO resta una realtà distante, da guardare con freddezza e ironia; le mo-
tivazioni alla base del riconoscimento ottenuto (anche) da Militello, qui non entrano a
far parte del vissuto degli attori sociali che, anzi, nel guardare con occhi critici l’assenza
di effetti concreti derivanti dall’iscrizione del paese nella WHL (nessun incremento del
flusso turistico, peggioramento delle condizioni economiche globali, assenza di inizia-
tive imprenditoriali legate all’ospitalità turistica), tendono a considerare con amara iro-
nia la distanza tra le dichiarazioni ufficiali e la concreta, quotidiana, realtà. Il riconosci-
mento UNESCO diviene così l’esito, della virtuosa, intelligente, ma donchisciottesca-
mente inutile iniziativa del vecchio Assessore, o un tratto della retorica ufficiale adope-
rata, in circostanze e contesti cerimoniali, da parte delle autorità. Non è quindi un caso
che le vicende politiche e le lotte che hanno connotato lo spazio del Sud-Est tra il 2002
e il 2007, non abbiano coinvolto lo scenario militellese. Nessuno si è mai infiammato
per il “Sud-Est”, nessuno è mai sceso in piazza per manifestare contro le trivellazioni e
nessun Militellese, a quanto mi è dato conoscere, ha partecipato alle manifestazioni ne-
tine. Il nuovo spazio del “Val di Noto” (o del Sud-Est) semplicemente, a Militello, non
esiste e, dunque, non suscita né emozioni patrimoniali, né passioni politiche. Il mondo
sociale vissuto e praticato dai suoi abitanti, per quanto profondamente legato a tratti di
lunga durata della storia dell’area iblea e, come vedremo, profondamente connessi con
la rinascita barocca di quel territorio dopo il 1693 (ossia il motivo specifico dell’iscrizione
nella WHL), è molto lontano dal Sud-Est stereotipato, televisivizzato, idealizzato di
Granata, Camilleri, Montalbano e dal Val di Noto essenzializzato dell’UNESCO. Le pas-
sioni politiche e quelle pubbliche non mancano certo a Militello, anzi ne costituiscono il
fondo polemologicamente e corrosivamente irriducibile, ma agiscono, o meglio conti-
nuano ad agire, su piani e scenari diversi da quelli all’interno dei quali prendono corpo
le emozioni patrimoniali legate al costituirsi istituzionale e soggettivo del (nuovo) “Val
di Noto”. Le inquietudini politiche che muovono le azioni delle persone (maschi adulti)
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L’ATTRICE STATUNITENSE JENNIFER GAREIS TRA I SUOI CONCITTADINI MILITELLESI NEI GIORNI DEL CONFERIMENTO DELLA CITTADI-
NANZA ONORARIA.
a Militello sono prodotte da, e a loro volta producono, poetiche sociali (Herzfeld 1997)
differenti da quelle che abbiamo visto guidare l’agire dei neo-rurali del “Val di Noto”,
dei neo-localisti del “Sud-Est” e dei neo-patrimonialisti netini. Esse, inoltre, sembrano
richiedere soggettività che si iscrivono in economie morali (Asad 2003) lontane da quelle
in cui si muovono coloro che, più o meno inconsapevolmente, operano negli scenari di
una post-modernità sottoposta alle classificazioni iconiche di agenzie transnazionali
(Palumbo 2009a) (Palumbo 2010 in stampa).
Il caso del Palazzo Jatrini, sede del fantasmatico Club UNESCO locale, e quello della la-
pide posta nel palazzo comunale di Militello a commemorazione dell’iscrizione nella
WHL possono farci meglio comprendere questo scarto. Il palazzo Jatrini che oggi ap-
pare abbandonato è stato oggetto di contese, lotte e fonte di scissioni profonde. Nel
1996 l’ultima erede della famiglia Jatrini era morta senza discendenti diretti al termine
di una lunga malattia. Durante la sua degenza era stata accudita da due anziani fedeli,
profondamente legati alla famiglia, alla figura del fratello della donna, parroco di Santa
Maria per oltre quarant’anni e, in ultima istanza, totalmente dediti alla loro parrocchia.
I due uomini conoscevano l’intenzione della donna di lasciare i cospicui beni di famiglia
alla parrocchia e certamente approvarono e sostennero quella scelta. Nello stesso
tempo, quando era oramai evidente l’imminente scomparsa della donna, più volte chie-
sero al parroco di iniziare a pianificare l’utilizzo del lascito a fini che potessero essere utili
per il prestigio della comunità / partito marianese. Il parroco, probabilmente reso cauto
dalle direttive diocesane, non si pronunciò mai a riguardo e, quando il testamento
venne aperto, si limitò a prendere atto delle volontà della defunta. I due uomini, e con
loro una parte significativa della comunità marianese, continuarono a pressare parroco
e Vescovo affinché quei beni (il palazzo di città, due splendide case di campagna con
annessi terreni, altre case e terreni) potessero essere gestiti direttamente dai fedeli – con
ovviamente la supervisione ecclesiastica. Sperando evidentemente in un ruolo di inter-
mediari, i due anziani fedeli, e con loro molti altri parrocchiani, erano comunque since-
ramente preoccupati che il patrimonio Jatrini, costituitosi all’interno della chiesa di
Santa Maria, potesse alla fine essere gestito per fini diversi da quelli legati al lascito, da
un parroco pro-tempore ed estraneo alla comunità e un vescovo immaginato non amico
della stessa. Contro queste aspettative, parroco e Curia vescovile, intendevano ribadire
il diritto della Chiesa di disporre pienamente dei beni ereditati, senza vincoli di alcun ge-
nere. La questione, come si intuisce, non era tanto o soltanto economica, ma giurisdi-
zionale: chi aveva il diritto di gestire e guidare l’utilizzo di quei beni, la Chiesa, oramai
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legale proprietaria, o i marianesi, che ritenevano quegli stessi beni parte della vicenda
storica della parrocchia e lascito di propri antenati? Di fronte ad un parroco e ad una
curia evidentemente interessati solo ad una gestione spicciola dell’eredità, da parte ma-
rianese emersero, tra 1996 e 1998, diverse proposte di utilizzo della stessa. Alcuni gio-
vani intendevano trasformare una delle case di campagna in una struttura agrituristica,
da gestire attraverso una cooperativa marianese, altri volevano che il palazzo di città di-
ventasse sede del Museo parrocchiale, altri ancora chiedevano che esso si trasformasse
in centro culturale. Queste proposte crearono aggregazioni e scissioni, consensi e con-
flitti, all’interno della comunità marianese, tra questa e il contrapposto partito nicolese,
tra tutti e l’amministrazione comunale. Conflitti nuovi e vecchi che si attivarono, riatti-
varono e disattivarono, innestandosi con numerose altre ragioni e modalità del conten-
dere. L’eredità Jetrini e i suoi palazzi divennero quindi gli ennesimi concreta (Faubion
1993) attraverso i quali individui, gruppi, fazioni, partiti e contrapartiti, danno vita al pe-
culiare spazio pubblico locale. Preso all’interno di simili tensioni il palazzo Jatrini venne
per due volte visitato da ladri che, sapendo bene cosa cercare, lo spogliarono di mobili,
oggetti, libri, per essere alla fine dato in concessione ad un singolo privato, anch’esso
legato al mondo parrocchiale marianese, ma inviso a molti, che fece di questo tempo-
raneo successo un punto a suo favore nelle proprie strategie all’interno del campo po-
litico-giurisdizionale. Il Palazzo, preso da queste trame polemologiche che sembrano
quasi corroderlo e consumarlo, viene lasciato decadere, inerte, senza che nulla possa
salvarlo. La localizzazione del Club UNESCO al suo interno, dunque, piuttosto che es-
sere indice di una volontà di riqualificazione attraverso una politica di (ri)valorizzazione
più generale del centro storico connessa con i processi in atto nell’area, è un ennesimo,
ultimo momento della competizione che gruppi e individui del posto, da secoli, portano
avanti attraverso il controllo e la gestione di quelli che, oggi, dall’esterno, siamo soliti
chiamare “beni culturali”. Il Palazzo sede del Club UNESCO entra, per così dire, nella
giurisdizione del suo Direttore, che è anche Direttore del Coro di Santa Maria, che è poi
uomo fidato del parroco e ritenuto, in una certa fase, vicino alla Giunta di sinistra. Preso
in questa trama di rapporti schismogenetici e regressivi, esso, con la targa UNESCO,
giace in condizione di assoluto degrado.
Il 31 gennaio 2004 l’amministrazione comunale di centro destra, da poco eletta e de-
stinata a disinteressarsi dell’opportunità offerta dal riconoscimento UNESCO, fa ap-
porre nell’ingresso del Palazzo comunale la seguente lapide (balàta, in dialetto):

“LE OTTO CITTÀ DELLA SICILIA SUD-ORIENTALE / CALTAGIRONE, CATANIA, /


MILITELLO NEL VAL DI CATANIA, MODICA / NOTO, PALAZZOLO ACREIDE,
RAGUSA E SCICLI / SONO STATE RICOSTRUITE / DOPO IL TERREMOTO DEL 1693 /
NELLO STESSO LUOGO / O NELLE VICINANZE DEI SITI DISTRUTTI. / ESSE
RAPPRESENTANO UN’IMPORTANTE INIZIATIVA / COLLETTIVA, PORTATA A TERMINE
OTTENENDO UN / LODEVOLE LIVELLO, ARTISTICO ED ARCHITETTONICO. /
COMPLETAMENTE CONFORMI ALLO STILE DELL’EPOCA, / LE CITTÀ HANNO
APPORTATO / DELLE INTERESSANTI INNOVAZIONI NEL CAMPO / DELL’URBANISTICA
E DELL’ARCHITETTURA. / 31-01-2004 / VITTORIO MUSUMECI - SINDACO”.

Non mi soffermo sul particolare stile retorico dell’iscrizione (che pure meriterebbe atten-
zione), ma solo su alcuni aspetti della sua ricezione nel mondo locale. La balàta, in fondo,
non fa che celebrare e monumentalizzare un evento – quello dell’ingresso del paese nella
WHL – certamente degno di nota. Eppure, appena apposta, essa inizia a suscitare com-
menti aspri, feroci, ironici: perché mettere una lapide quando c’è già la targa ufficiale con
il logo UNESCO? Perché dare delle motivazioni, quando esistono già quelle ufficiali det-
tate dall’UNESCO? Perché quel firmarsi del Sindaco, che nessun merito aveva avuto
nell’ottenimento dell’iscrizione? E ancora, perché non nominare mai la parola “barocco”
(si allude genericamente ad “uno stile dell’epoca”) che pure era alla base del riconosci-
mento UNESCO? E poi, come nota con ironia un attento osservatore locale, perché, a
fronte della rimozione del “Val di Noto”, anacronisticamente chiamare Militello “nel Val
8 - Salvatore Pio Basso, di Catania”8? Tutte queste osservazioni fatte dai Militellesi crearono discussioni, aprirono
“Lapidum Assessores. conflitti, produssero, ancora una volta, partiti e contrapartiti. La balàta del 2004, come
Appunti di viaggio. Addì quella del 1954 (Palumbo 2001), cui nella coscienza di alcuni questa rinvia, si trasformò
Mercoledì 4 febbraio 2004”, in concretum attraverso il quale dare vita ed operare la lotta. E del resto per motivi chia-
in Militello. Info. ramente – a saper leggere tra le righe, come sanno fare i Militellesi – polemici essa era
stata scolpita e apposta. Se il “Val di Noto” si identifica con il Barocco, allora occorre ri-
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muovere entrambe le espressioni, preannunciando, così, una linea “politico-culturale”


che autarchicamente punta a valorizzare altre epoche, altri stili artistici (il Rinascimento,
la Firenze degli Iblei). Scomparso il “Val di Noto”, compare un inatteso “Val di Catania”,
invenzione troppo ardita e priva di ogni supporto burocratico istituzionale per poter es-
sere realisticamente pensata come base di una nuova immaginazione identitaria. La
balàta del 2004, dunque, nel rilanciare una poetica del pòlemos e della manipolazione,
della sfida e dell’allusione, fagocita l’evento “iscrizione nella WHL” all’interno di quelle
logiche giurisdizionali che hanno governato per secoli lo spazio pubblico di Militello, nel
momento stesso in cui si fa simbolo di una politica di rifiuto delle profonde conseguenze
che quell’evento avrebbe potuto avere – e che di fatto negli altri centri iscritti avrà – sulla
realtà locale. Le passioni e le inquietudini politiche, veicolate dalla nuova balàta, pongono
vincoli precisi e apparentemente insormontabili all’emergere di forme nuove di immagi-
nare ed esperire il mondo sociale.

Classificazioni globali, passioni patrimoniali, inquietudini politiche


Possiamo ora provare a trarre le fila di questa nostra comparazione partendo dalla con-
statazione di un paradosso. L’iscrizione nella WHL degli otto comuni della Sicilia orien-
tale si fonda sul riconoscimento del carattere omogeneo ed eccezionale della ricostru-
zione dell’intera area dopo il terremoto del 1693. Il tardo barocco è, da questo punto
di vista, lo stile artistico-architettonico che connotò, all’epoca, l’intera impresa. Le di-
mensioni economiche, quelle politiche, sociali e, più specificamente giurisdizionali,
della ricostruzione, che alcuni studiosi di quel processo hanno messo in luce (Dufour
1985; Scalisi 2001) sono state invece ignorate dalla classificazione UNESCO, tutta cen-
trata sulla dimensione urbanistica e storico-artistica. Essa, infatti, espunge dal processo
di oggettivazione patrimoniale proprio quelle dinamiche socio-politiche che erano state
alla base della ricostruzione settecentesca del “Val di Noto” e che hanno continuato a
rendere inquiete le scene coinvolte sia durante tutta la fase di istruzione delle candida-
ture, sia negli anni immediatamente successivi. A Militello, come in alcuni altri centri
implicati in tale processo (Palazzolo Acreide e, almeno in parte, Scicli) quelle dinamiche
fazionali e giurisdizionali che erano state tra i motori più potenti della ricostruzione set-
tecentesca e che sono state rimosse dal processo ufficiale di costruzione patrimoniale,
sono invece ancora oggi ben visibili e particolarmente forti. Esse agitano le passioni po-
litiche degli attori sociali, avvolgendo edifici e siti interessati dalle classificazioni
UNESCO in una trama di pratiche sociali e di emozioni che, pur fissandosi su oggetti
divenuti “patrimonio”, facciamo fatica a definire patrimoniali9. Sono “inquietudini po- 9 - Cfr. Palumbo 1997,
litiche”, emozioni fazionali e aggressive, quelle che continuano a muovere gran parte 1998, 2003, 2006.
delle azioni che a Militello sono messe in atto intorno a, e attraverso le “cose del pa- 10 - Cfr., ad esempio,
trimonio”. In una certa fase storica (quella appena descritta), la patrimonializzazione Palumbo 1998, 2003, 2006,
stessa, in termini metonimici (con il Palazzo sede del Club UNESCO) e analogici (attra- 2007, Bunten 2008, Collins
verso la balàta commemorativa) diviene nient’altro che un elemento, un concretum, 2008, Di Giovine 2010.
uno tra i tanti disponibili, attraverso il quale continuare a giocare il proprio gioco po-
lemologico. Questa “poetica sociale” (Herzfeld 1997), che può continuare ad avere un
senso (sempre più autarchico e ristretto, però) nello scenario locale, e che ha giocato
un ruolo importante nella fase di forte conflittualità prodotta, nell’area, dall’emergere
della proposta di iscrizione nella WHL, provoca invece effetti negativi quando ci si trova
ad operare in uno scenario inedito, come quello del “Val di Noto” tra il 2005 e il 2009.
Le vicende della nascita del “Sud-Est” e della rinascita del “Val di Noto” ci hanno con-
dotto proprio all’interno di un simile, nuovo, scenario socio-politico, che appare domi-
nato dall’immaginario patrimoniale e costruito in accordo alle logiche essenzializzanti e
iconicizzanti della classificazione transnazionale UNESCO10. Alcuni anni fa ho provato ad
indicare alcuni tratti costitutivi del processo di oggettivazione patrimoniale (Palumbo
1998) (Palumbo 2003). In primo luogo era evidente come l’azione burocratica e politica
dell’UNESCO non annullasse l’esistenza di sentimenti localistici e di tensioni campanilisti-
che, ma al contrario li eccitasse e in qualche modo li riattivasse, anche dopo decenni, se
non addirittura secoli di quiescenza. Notavo, però, come quelle stesse dinamiche conflit-
tuali, eccitate dall’intervento dell’istituzione transnazionale, dovessero essere rimosse
dalla rappresentazione ufficiale. Il “patrimonio universale”, che per essere riconosciuto
tale aveva rimesso in moto antichi rancori campanilistici, doveva essere epurato da qual-
siasi riferimento a conflitti interni agli scenari sociali che la classificazione ufficiale andava
ridefinendo. Questo aveva a che vedere, pensavo, con la necessità di quel sistema tasso-
nomico di produrre “cose culturali”, oggetti patrimoniali essenziali, immagini iconiche e
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immutabili di “realtà” sociali stereotipate: identità-merci, dicevo, da vendere nel mercato


della differenza culturale. Notavo, infine, che in ogni caso il processo di merci-patrimo-
nializzazione portava alla costruzione di nuove entità socio-politiche immaginarie che già
allora (2002-2003) sembravano candidate a divenire spazi sociali e politici “reali” a di-
sposizione di pratiche ed emozioni di persone concrete. In seguito (Palumbo 2006), con-
tinuando a lavorare su quanto accadeva nella Sicilia del sud-est, ho potuto vedere come
alla base del graduale strutturarsi, nella scena politica, di queste nuove forme di imma-
ginazione dell’appartenenza (il Sud-Est, appunto, e il “Val di Noto”, ma anche il neo-au-
tonomismo siciliano), continuassero ad agitarsi scontri, conflitti, tensioni e interessi di di-
versa natura e come, dunque, il processo di produzione di nuove forme di località inne-
scatosi con l’intervento UNESCO, fosse ancora ben vivo e incandescente. Solo in seguito
(Palumbo 2010, in stampa) ho iniziato a comprendere come l’insieme di questi processi
avesse a che vedere con questioni più generali. Si riferisse, cioè, all’operare di sistemi tas-
sonomici (il patrimonio, appunto, ma anche la tipicizzazione alimentare, lo sport, la
moda, il turismo) capaci di organizzare su scala globale la produzione di nuove forme
dell’immaginario sociale e di inserirle in un sistema gerarchizzato e asimmetrico di gover-
nance mondiale. I processi di iconicizzazione, stereotipizzazione, mercificazione e “og-
11 - Cfr. Appadurai 1986, gettivazione culturale”11, colti osservando le interazioni tra l’UNESCO e i campanili sici-
1996, Handler 1988, Holmes liani, erano espressione di un processo più vasto che, con Appadurai (1996), spostava il
2000, Palumbo 1998, 2003, focus della governance politica dall’immaginazione nazionale – plasmata, in forme rare-
Jeudy 2001, Herzfeld 2004, fatte (Herzfeld 1992), su quella delle comunità “naturali – a quella, ancor più astratta e
Bunten 2008, Collins 2008. rarefatta, ma non per questo meno vincolante e pesante, di nuovi e dinamici scenari glo-
12 - Arhetti 1999, Ben Porat bali. Come le stereotipizzazioni degli stili calcistici nazionali12 o quelle delle produzioni ali-
e Ben Porat 2004, mentari tipiche13, anche le essenzializzazioni patrimoniali, nel momento in cui semplifi-
Giulianotti, R., Robertson, R. cano e immobilizzano contesti, oggetti, pratiche, sottraendole, almeno idealmente, agli
2004, 2007a, b, Lechner, spazi vicinali (i vicinati di Appadurai 1996) di interazione, producono nuovi scenari, nuovi
2007. spazi dell’/per l’immaginazione identitaria, che sembrano organizzarsi all’interno di un
13 - Cfr., ad esempio, gioco oramai diverso da quelli che modulavano gli scenari precedenti e che, pure, pos-
Watson 1997, Bérard e sono produrre, se efficaci, emozioni e passioni capaci di muovere animi ed azioni.
Marchenay 2004, Siniscalchi L’essere potuto ritornare nel Sud-Est siciliano di questi ultimi anni con uno sguardo ar-
2007, 2009, 2010a, b, Wilk ricchito da simili riflessioni, mi ha messo nella condizione di osservare da vicino proprio
2006. lo strutturarsi di tali, nuovi, scenari e il prodursi di nuove forme di rappresentazione /co-
struzione dei sentimenti di appartenenza. Certo, il “Val di Noto” e il “Sud-Est” sono
delle costruzioni immaginarie recenti, prodotte dall’interazione tra l’azione di gover-
nance burocratica dell’UNESCO, le dinamiche politiche locali, regionali e nazionali, le re-
toriche identitarie messe in campo da precisi gruppi d’interesse e, ancora, dalle stereo-
tipizzazioni cinematografiche, narrative e televisive (Rossellini, Antonioni, Amelio,
Tornatore, Camilleri e Montalbano, ma anche le decine di televisioni locali che, nel corso
di dieci anni, hanno adeguato ai nuovi contesti la propria programmazione culturale),
da campagne pubblicitarie, nazionali e internazionali, dai primi effetti della patrimonia-
lizzazione UNESCO sui flussi turistici, dall’azione di tour operators e intermediari immo-
biliari (che hanno di fatto venduto una parte rilevante del territorio rurale di pregio a
persone facoltose, provenienti dal Nord Italia e dal Nord Europa). Nello stesso tempo,
però, l’esistenza di queste nuove entità iconico-patrimoniali, ha iniziato a rimodulare
l’immaginario di fasce sempre più significative della popolazione dell’area. Guide turi-
stiche, spesso aggregate in cooperative di servizi, giovani che si formano in corsi, uni-
versitari e/o regionali dedicati al patrimonio culturale e al turismo, insegnanti di scuole
primarie e secondarie, alcuni convinti docenti universitari, neo-rurali che, provenendo
da diverse parti del mondo divengono tra i più strenui sostenitori di queste (loro) nuove
località. E ovviamente uomini politici – sia quelli che in questo percorso di re-immagina-
zione del proprio mondo e del suo sviluppo hanno, con intima convinzione, speso gran
parte del proprio impegno e prestigio, sia quanti hanno invece adoperato strumental-
mente una retorica che, oggi, sembra funzionare –; e persone comuni – imprenditori,
agricoltori, albergatori – che hanno investito, economicamente ed esistenzialmente nel
processo in atto. Tutte le persone, insomma, che abbiamo visto aggregarsi intorno al
movimento antitrivellazioni e che iniziano a sviluppare emozioni patrimoniali per una
“località” (immaginata, stereotipata, essenziale) che pure cominciano a sentire propria.
Si tratta, al momento, di fasce ristrette, ma economicamente e politicamente significa-
tive, delle popolazioni dell’area che, possiamo però immaginare, avranno un peso sem-
pre maggiore nel determinarne le future configurazioni istituzionali e culturali di quel
territorio. È alle loro passioni e alle loro azioni che riserverei l’espressione “emozioni pa-
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trimoniali”, intendendole come i primi semi che il processo di riconfigurazione dell’immaginazione politico-culturale
innescatosi con l’intervento UNESCO sembra aver lasciato nelle loro economie morali e nelle loro (ri)configurazioni del
sé, privato e pubblico (Bunten 2008). Le altre, quelle dei miei amici militellesi, che si ostinano a voler giocare il loro an-
tico gioco fondato sul pòlemos e la sfida, sono passioni politiche di chi continua a non ritenere possibili nuove forme
di immaginazione culturale e sociale e a non vedere nemmeno l’interesse di iscrivere in nuovi regimi (patrimoniali) di
significazione (e dunque di vita, sia pure post-moderna) le proprie “politiche dell’inquietudine”.

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THE BURRYMAN, SOUTH QUEENSFERRY.


Chiara Bortolotto* e Marta Severo**
* Université Libre de Bruxelles (Laboratoire d’Anthropologie des Mondes Contemporains)
** Université de Paris 1 Panthéon-Sorbonne (Collège International des Sciences du territoire)

produrre culture
inventari del patrimonio immateriale:
top-down o bottom-up?1
1 - Questo articolo si basa su Compilare degli inventari, delle liste o dei cataloghi redigendo delle schede descrit-
una ricerca realizzata tive di pratiche culturali e documentandole con supporti fotografici, sonori e, in se-
dall’Associazione per la guito, video è una pratica che ha accompagnato i primi sviluppi dell’antropologia.
salvaguardia del patrimonio Le inchieste etnografiche del XIX secolo, basate sulla percezione di un’imminente
culturale immateriale e estinzione delle «culture primitive» di fronte al progresso tecnico nelle culture occi-
promossa dalla Regione dentali o al contatto con esploratori e colonizzatori in quelle extraeuropee, si sono
Lombardia/Archivio di basate su questionari formalizzati e precostituiti utilizzati sul campo da missionari e
etnografia e storia sociale amministratori coloniali. I metodi di questa “etnografia di urgenza”, finalizzata alla
come supporto scientifico al conservazione delle tracce documentarie di queste culture in vista della loro trasmis-
Progetto E.CH.I. Etnografie sione alle generazioni future, sono stati denunciati in seguito come il prodotto di
italo-svizzere per la un’illusione positivista, che cattura le culture in un’essenza statica e atemporale.
valorizzazione del patrimonio Sebbene la documentazione sistematica di tratti culturali attraverso strumenti for-
immateriale. malizzati non sia più il fondamento della disciplina, essa costituisce, da un punto di
2 - Su richiesta degli Stati vista operativo, uno strumento di gestione indispensabile per gli interventi promossi
interessati, l’iscrizione degli dalle istituzioni delegate alla protezione dei beni culturali che oggi vengono chia-
elementi spetta a un mati ‘immateriali’. Nella maggior parte dei casi, questo ambito rimane appannaggio
comitato intergovernativo di specialisti delle discipline etnoantropologiche e oggetto delle loro competenze
composto da ventiquattro tecnico-scientifiche.
Stati contraenti eletti a tale Anche l’implementazione delle politiche di salvaguardia del patrimonio culturale im-
scopo, per un periodo di materiale (PCI) promosse dall’Unesco si fonda su un insieme di liste destinate a iden-
quatto anni, seguendo il tificare, valorizzare e salvaguardare il PCI. Questa Convenzione prevede la creazione,
criterio di una equilibrata a livello nazionale, di “uno o più inventari” del patrimonio immateriale presente sul
distribuzione geografica. territorio di ogni Stato e di due liste internazionali: una Lista rappresentativa del pa-
trimonio culturale immateriale dell’Umanità e una Lista del patrimonio culturale im-
materiale che necessita di essere urgentemente salvaguardato2. Anche se il testo
della Convenzione del 2003 non stabilisce esplicitamente un legame tra inventari na-
zionali e liste internazionali, i criteri per l’iscrizione su queste ultime prevedono che
l’elemento candidato sia già presente negli inventari nazionali. La creazione di inven-
tari è inoltre un dovere al quale gli Stati non possono sottrarsi perché, nel richiederne
la creazione, la Convenzione utilizza un linguaggio prescrittivo, mentre sembra sem-
plicemente incoraggiare le «altre misure di salvaguardia». La creazione e l’aggiorna-
mento di inventari del patrimonio culturale immateriale sono quindi considerati da-
gli Stati parte alla Convenzione come gli interventi da realizzare con maggiore ur-
genza.
La priorità data alla creazione di liste, dibattuta già nel corso dei negoziati della
Convenzione (Aikawa 2009) e fondata su una visione razionalistica del patrimonio, è
stata da subito al centro di un vivace dibattito tra antropologi. Questa soluzione è stata
25

giudicata arbitraria e artificiale perché impone una dicotomia cartesiana di separazione


tra patrimonio materiale e immateriale (Herzfeld, in corso di pubblicazione), semplifi-
catrice e tecnocratica (Brown 2005) e, ancora, anacronistica perché fondata su principi
dell’etnografia positivista ottocentesca (Noyes 2006; Brown 2005).
L’analisi delle conseguenze politiche, cognitive e sociali della creazione di liste di ele-
menti culturali ha sottolineato come tale meccanismo di identificazione suddivida di
fatto la cultura in campi descrittivi standardizzati, per poi ricombinarla e ordinarla se-
condo una classificazione d’ispirazione naturalista. Quest’astrazione prescrittiva del
reale può avere conseguenze sulle rappresentazioni cognitive e, una volta legittimata
da un potere (politico o religioso, per esempio), alimentare forme di manipolazione
(Goody 1977). Una volta identificate e ordinate come elementi di una lista, le pratiche
rischiano infatti di essere esposte alla variabilità delle circostanze e agli interessi dei de-
stinatari potenziali di questi elenchi, interessi che non possono essere previsti in anti-
cipo (Schuster 2002).
Lontane dalle peculiarità locali ed esempio eminente di quell’universalismo burocratico
spesso rimproverato alle organizzazioni internazionali (Barnett - Finnemore 1999), le li-
ste sembrano semplicemente organizzate dalle pratiche culturali all’interno di logiche
e categorie di intervento istituzionale. Le derive folklorizzanti di tali interventi ne fareb-
bero insomma degli strumenti focalizzati sulle rappresentazioni metaculturali piuttosto
che sulla cultura stessa e sui suoi portatori (Kurin 2007; Kirshenblatt-Gimblett 2004;
Nas 2002).
Il sistema di inventari previsto dalla Convenzione non riflette soltanto le problematiche
teoriche sopra descritte ma solleva anche una serie di difficoltà istituzionali e pratiche
per gli enti responsabili della loro creazione. Il discorso dell’Unesco insiste infatti sulla
funzione essenzialmente sociale del patrimonio e sull’importanza della “partecipa-
zione” delle “comunità” in tutte le fasi del processo di salvaguardia del PCI (Blake
2009). Questo approccio tende a mettere in discussione la classica metodologia di ri-
cerca e di intervento sul patrimonio. Fino ad ora, infatti, gli attori che esprimono e ri-
producono le pratiche culturali oggetto di tali inventari hanno partecipato agli inter-
venti di protezione del loro patrimonio nella veste, relativamente passiva, di «informa-
tori» dei ricercatori. La Convenzione del 2003 propone invece di attribuire loro un
nuovo ruolo più attivo anche nei processi precedentemente riservati all’intervento di
specialisti e professionisti del patrimonio. L’articolo 15 della Convenzione stabilisce i
termini della partecipazione delle comunità, dei gruppi e degli individui alle attività di
salvaguardia:

Nell’ambito delle sue attività di salvaguardia del patrimonio culturale immateriale,


ciascuno Stato contraente farà ogni sforzo per garantire la più ampia partecipa-
zione di comunità, gruppi e, ove appropriato, individui che creano, mantengono e
trasmettono tale patrimonio culturale, al fine di coinvolgerli attivamente nella sua
gestione.

Più specificamente, la Convenzione stabilisce che l’identificazione degli elementi del


patrimonio immateriale si avvalga della «partecipazione di comunità, gruppi e organiz-
zazioni non governative rilevanti» (art. 11 b). Il testo della Convenzione attribuisce
quindi agli Stati la responsabilità principale dell’identificazione e chiede loro di coinvol-
gere i portatori del PCI in termini di «partecipazione».
La Convenzione lascia tuttavia un ampio margine di manovra agli Stati contraenti
(«conformemente alla sua situazione», art. 12), al punto che il numero dei possibili in-
ventari nazionali rimane indeterminato («uno o più inventari», art. 12). Un’analisi com- 3 - Si veda il rapporto di
parativa di una selezione di inventari del PCI realizzati in diverse aree geografiche, di- ricerca per Regione
mostra come il concetto di «partecipazione» risulti declinato in modi molto diversi nelle Lombardia/Archivio di
esperienze di identificazione del patrimonio immateriale: dalla semplice informazione etnografia e storia sociale,
degli attori sociali al loro coinvolgimento diretto nel riconoscimento del patrimonio in Identificazione partecipativa
base ai valori che esso riveste per una «comunità»3. In molti casi, l’adozione di un ap- del patrimonio culturale
proccio partecipativo perturba i criteri e le prassi delle istituzioni del patrimonio, con- immateriale transfrontaliero.
solidati soprattutto nei paesi che hanno una più lunga tradizione scientifica e una strut- Supporto scientifico ai punti
tura istituzionale rafforzata dall’esperienza e irrigiditasi nel tempo. Alcuni progetti di WP1 e WP2 del Progetto
inventario hanno tuttavia scelto di sperimentare delle soluzioni ad hoc per facilitare E.CH.I. P.O. di Cooperazione
l’intervento di nuovi attori sociali. Questo articolo ne presenta due esempi, concepiti in Transfrontaliera Italia
Scozia e in Venezuela, e ne discute i metodi e i risultati. Svizzera 2007-2013.
26

L’inventario del Venezuela


4 - Il piano di inventario L’Unesco non propone esplicitamente alcun modello di inventario4. Tuttavia l’osserva-
pubblicato sul sito zione partecipante alle riunioni nelle quali sono stati discussi i metodi di identificazione
dell’Unesco (http://www. del PCI e l’analisi dei documenti prodotti su questo tema dal segretariato della
unesco.org/culture/ich/index. Convenzione permettono di isolare alcune esperienze come ‘inventari modello’.
php?lg=fr&pg=00080) è Un’analisi del sistema inventariale in corso di realizzazione in Venezuela è particolar-
presentato come un esempio mente interessante in questo contesto perché tale sistema è portato ad esempio dai
al quale gli Stati possono funzionari della sezione patrimonio culturale immateriale dell’Unesco come un pro-
scegliere di ispirarsi ma non getto che riflette pienamente lo «spirito della Convenzione».
è inteso come un modello Il numero di aprile 2006 del Messager du patrimoine immatériel, una brochure pubbli-
vincolante. cata dalla sezione patrimonio culturale immateriale dell’Unesco, ha dedicato agli inven-
5 - Traduzione dell’autore. tari del Venezuela un articolo intitolato «Il Venezuela apre la strada» e presenta que-
6 - Oltre alle forme più sto progetto come un’«esperienza entusiasmante». La sua sintonia con lo spirito della
classiche di patrimonio (beni Convenzione è spiegata in questi termini:
mobili e immobili concepito prima dell’adozione della Convenzione del PCI, l’inventario venezuelano è
architettonici, artistici, storici, nel suo insieme in accordo con lo “spirito” della Convenzione perché riunisce elementi
documentari, paesaggistici e del patrimonio considerati rappresentativi dalle comunità stesse5.
naturali), la legge include L’esempio dell’inventario del Venezuela è citato dai funzionari e dagli esperti del-
nell’ambito di definizione del l’Unesco quando sono invitati ad evocare i principi di base dei nuovi inventari (in occa-
patrimonio anche «il sioni di riunioni, seminari, convegni o nel corso di conversazioni informali con i funzio-
patrimonio vivente del paese, nari delle istituzioni nazionali responsabili dell’applicazione della Convenzione). Anche
i suoi costumi, le sue nella pubblicazione più recentemente prodotta dalla sezione sulla questione degli in-
tradizioni culturali, i suoi ventari (Identifying and Inventorying Intangible Cultural Heritage) diffusa nel 2010, una
modi di vivere, le sue scheda di approfondimento è dedicata agli inventari del Venezuela. L’approccio parte-
manifestazioni musicali, il cipativo di questo inventario è l’aspetto che l’Unesco dimostra di considerare come
suo folklore, la sua lingua, i particolarmente adatto alla realizzazione degli inventari del PCI. La descrizione che la
suoi riti, le sue credenze e il brochure dell’Unesco fa dell’esperienza venezuelana in materia d’inventari sottolinea
suo carattere nazionale (“ser in particolare come, identificando gli elementi in base ai criteri emici di ogni singola co-
nacional”)» (art. 6.7). munità, questo approccio «rigetta i principi applicati fino ad allora, in base ai quali il
7 - Questa e le seguenti valore eccezionale di una manifestazione viene definito da uno specialista e il patrimo-
citazioni sono tratte dal sito nio diventa oggetto dell’appropriazione dell’insieme della società attraverso le politiche
http://www.ipc.gob.ve/ e pubbliche» (Unesco s.d.).
tradotte dall’autore. Per capire quali caratteristiche definiscono un inventario in linea con “lo spirito della
convenzione” vale quindi la pena considerare più da vicino il programma venezuelano.

Struttura, metodologia e principi dell’inventario del Venezuela


In Venezuela l’organo istituzionale competente per le politiche patrimoniali è l’Instituto
del Patrimonio Cultural. Creato nel 1993 dalla Legge per la protezione del patrimonio
culturale (Ley de Protección y Defensa del Patrimonio Cultural)6, questo istituto lavora
in base alle linee dettate dal Ministerio del Poder Popular para la Cultura «con l’obbiet-
tivo di democratizzare, diffondere massivamente e deconcentrare la cultura»7.
Le sue finalità sono l’inventariazione, la protezione e la «puesta en uso social» di
opere, tradizioni e siti culturali o naturali che rappresentano elementi fondamentali
dell’identità culturale venezuelana garantendo la loro trasmissione «attraverso l’uso e
il beneficio delle generazioni presenti e future mediante la partecipazione, coordina-
zione e concertazione sociale e istituzionale».
L’inventario del Venezuela consta di una serie di libri, ognuno corrispondente ad una di-
visione amministrativa. I dati sono divisi in cinque macrocategorie, ognuna delle quali
corrisponde ad un volume: oggetti, costruzioni, creazioni individuali, tradizioni orali, ma-
nifestazioni collettive. Le schede descrittive degli elementi prevedono dei campi fissi (di-
versi per ogni categoria di bene), una fotografia e una breve descrizione. Queste schede
sono raccolte in volumi divulgati gratuitamente dalle istituzioni pubbliche (educative, cul-
turali e sociali). L’inventario è inoltre accessibile dal sito internet dell’Instituto del
Patrimonio Cultural (http://www.ipc.gob.ve/) dalla sezione «Catálogos Patrimoniales». La
navigazione nell’inventario è principalmente di tipo geografico. Cliccando su una mappa
semplificata delle Regioni del Venezuela, in cui ad ogni regione corrisponde una fotogra-
fia, è possibile scaricare i file pdf, con lo stesso formato della pubblicazione cartacea dei
volumi relativi alle diverse regioni amministrative.
Secondo la brochure istituzionale di presentazione del progetto, a partire dal 2004, più
di mille partecipanti, formati grazie a seminari organizzati a livello dipartimentale,
hanno percorso il Paese affiancati da professionisti creando, già nel 2006, schede per
27

più di 68.000 beni. Una caratteristica rilevante di questo progetto è che i responsabili
dell’identificazione degli elementi da iscrivere nell’inventario non sono degli specialisti
dei settori corrispondenti alle cinque macrocategorie sopra indicate. La raccolta dei dati
è infatti organizzata da funzionari delle amministrazioni culturali, studenti, volontari e,
soprattutto, dalla rete degli insegnanti. La presentazione del programma spiega come
il principio che ha guidato la selezione dei collaboratori fosse di fare in modo che il pro-
cesso di identificazione restasse un «prodotto locale» e presenta come una scelta de-
liberata il coinvolgimento di collaboratori locali sensibili ai temi culturali ma privi di «al-
cuna formazione in materia di patrimonio» (Instituto del Patrimonio Cultural 2006).
La composizione delle équipe responsabili dell’identificazione degli elementi in situ ga-
rantirebbe insomma un approccio bottom up, indipendente dalle mediazioni degli spe-
cialisti. In questa fase di raccolta dei dati, l’identificazione del bene è semplicemente
completata da una fotografia o da un video, a seconda del tipo di registro. Le schede
subiscono poi un processo di revisione da parte dei coordinatori dei dipartimenti e delle
regioni per essere infine inviate alla sede centrale dell’Istituto a Caracas. A questo
punto interviene un’équipe di professionisti (architetti, museologi, antropologi e
archeologi), in contatto con i coordinatori regionali e i collaboratori locali. I professio-
nisti fanno una revisione tecnica dei dati raccolti sul campo, identificano «gli errori
nell’attribuzione delle categorie e ogni altro tipo di errore» e chiedono eventualmente
delle informazioni complementari. Successivamente, un’équipe di specialisti completa
le schede basandosi su un’analisi delle fonti archivistiche e delle banche dati delle isti-
tuzioni culturali e redige un breve testo descrittivo per ognuno degli elementi identifi-
cati (Sesto Novas 2004).
Le espressioni culturali inserite nell’inventario sono dichiarate Bien de Interés Cultural
e sono tutelate in base alla Legge sulla protezione e difesa del patrimonio culturale. In
tal modo vengono prese delle misure di protezione e vengono determinate concreta-
mente le responsabilità sia dei cittadini che delle autorità in base al tipo di bene.
Le diverse fasi del processo di inventario prevedono quindi l’intervento di una grande
diversità di attori che rielaborano e adattano i dati raccolti localmente. Questi interventi
«selezionano, interpretano e presentano in modo armonioso la diversità dei beni»
(Instituto del Patrimonio Cultural 2006). Lungi dall’essere unicamente affidato alle co-
munità locali, l’inventario è quindi il risultato di revisioni apportate dai coordinatori di-
partimentali e regionali e di aggiustamenti tecnici e formali operati dai trascrittori, che
riscrivono le schede manoscritte in formati elettronici, dai redattori che rielaborano la
descrizione per renderne più piacevole la lettura, dai tecnici dell’immagine che ritoc-
cano le fotografie, dei grafici che assemblano testi e immagini, dai produttori che
coordinano l’insieme di queste operazioni e dai correttori che intervengono sul testo
prima della sua pubblicazione. La composizione delle équipe di collaboratori locali ga-
rantirebbe tuttavia che solo le informazioni che le comunità, messe a conoscenza de-
gli obbiettivi e del funzionamento del progetto, hanno deciso di rendere pubbliche
sono state inserite nell’inventario.
Secondo i suoi ideatori, lo scopo dell’inventario è infatti quello di rafforzare l’autostima
e il senso di appartenenza e di favorire la creazione di una struttura culturale che ga-
rantisca la permanenza di questi valori (Sesto Novas 2004). In una brochure istituzio-
nale di presentazione dell’inventario viene esplicitato l’approccio ideologico di questo
progetto presentandolo come uno strumento concepito per valorizzare la «venezua-
lità» in base alla prospettiva delle comunità e opponendosi quindi al carattere definito
«elitista» e «classicista» del patrimonio monumentale: la logica che sta alla base
dell’inventario, infatti, prevede che le istituzioni siano un semplice strumento in grado
di facilitare la valorizzazione, realizzata direttamente dalle comunità, di quegli elementi
che la comunità stessa considera significativi. Per questi motivi, il concetto di «appro-
priazione», spesso utilizzato nelle politiche di protezione e di valorizzazione del patri-
monio è considerato aberrante rispetto alla filosofia di questo progetto. Il processo at-
traverso il quale i cittadini si approprierebbero del patrimonio, processo al quale si fa
spesso riferimento anche con i termini di «riappropriazione» o «restituzione», presup-
pone che tra essi e questo patrimonio esista una distanza o, nel caso della «riappro-
priazione» e «restituzione», che questa distanza sia stata creata dal processo stesso di
patrimonializzazione. L’intento dell’inventario venezuelano è, al contrario, quello di
non creare questa separazione tra patrimonio e comunità in nessuna fase del processo
di patrimonializzazione, a partire dalla sua stessa identificazione (Instituto del
Patrimonio Cultural 2006).
28

Nella presentazione del progetto le comunità sono chiamate in causa come la catego-
ria sociale che con maggiore legittimità potrà correggere gli errori e compensare le ca-
renze dell’inventario. In tale presentazione, fatta dal Ministro del Potere popolare per
la cultura, si sottolinea come la prospettiva partecipativa sia alla base dell’inventario e
si spiega che il fatto di accedere al patrimonio attraverso la mediazione delle comunità,
comporta necessariamente un approccio olistico. I beni sono identificati in base al va-
lore che essi hanno per le comunità indipendentemente dalla loro natura. Per questo
motivo, l’inventario associa quindi beni materiali (siti architettonici e paesaggistici, og-
getti e opere d’arte) e immateriali (riti, costumi, tradizioni orali, musiche, danze, cre-
denze, tecniche artigianali o alimentari).
Un aspetto particolarmente interessante di questo programma è il fatto che la prova
documentata di qualche forma di valorizzazione collettiva degli elementi in questione
è stata considerata il criterio indispensabile per valutare la rappresentatività di questo
bene per la comunità e per stabilire quindi il suo inserimento nell’inventario. Qualora
non sia possibile dimostrare che i beni per i quali si propone l’iscrizione sono oggetto
di qualche forma di valorizzazione collettiva su iniziativa della comunità, essi non sono
iscritti nell’inventario. Detto altrimenti, per procedere all’attribuzione di uno status pa-
trimoniale, la comunità deve avere già esplicitato la portata culturale della pratica men-
tre le espressioni culturali vissute implicitamente come habitus dalla popolazione non
sono considerate come potenziali elementi del patrimonio culturale immateriale del
Venezuela.
Secondo l’interpretazione che ne fa il Venezuela, il patrimonio immateriale corrisponde
quindi all’ambito della “Cultura” che, nella distinzione fatta da Manuela Carneiro da
Cunha (2006), si differenzia dalla cultura. La prima, con la C maiuscola e tra virgolette
è una rappresentazione di se stessa, o come la definisce Barbara Kirshenblatt-Gimblett
(2004) una categoria meta-culturale. Gli elementi selezionati in base a questo criterio
non sono quindi un folklore autentico e nascosto, del cui interesse culturale i suoi stessi
attori non avrebbero coscienza ma degli oggetti il cui valore culturale è già esplicitato,
che si presentano “al secondo grado” già agli occhi dei loro stessi “detentori”. In
quest’ottica, l’inserimento nell’inventario serve a “potenziare l’autostima culturale” del
popolo venezuelano (Sesto Novas 2004) attraverso i suoi stessi criteri riflessivi di sele-
zione e di oggettivazione culturale.

L’inventario della Scozia


8 - L’analisi si basa sul L’esempio dell’inventario scozzese8 costituisce un caso ugualmente interessante, seb-
rapporto di studio preparato bene si differenzi per alcuni aspetti da quello del Venezuela. Innanzitutto, questo in-
in vista della definizione del ventario non è quello di uno Stato parte della Convenzione UNESCO del 2003. La Gran
progetto nel 2008 (McCleery Bretagna non ha infatti ratificato la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio
et al. 2008), sull’analisi culturale immateriale, ma la Scozia (come anche il Galles) ha manifestato la volontà di
tecnologica dello strumento promuovere la sua salvaguardia. Per questo motivo il Museums Galleries Scotland, or-
web con cui è gestito ganismo che raggruppa più di 340 musei e gallerie in Scozia, con il concorso dello
l’inventario (www. Scottish Arts Council, organismo pubblico di finanziamento, sviluppo e protezione
ichscotlandwiki.org) e su delle arti in Scozia, ha commissionato la realizzazione dell’inventario del PCI scozzese
un’intervista ad uno dei a un’équipe di ricercatori della Napier University. Il risultato è quindi un inventario sui
responsabili del progetto generis che si rifà ai principi della Convenzione Unesco senza aderirvi ufficialmente e
(Linda Gunn). che mira a essere rappresentativo senza tuttavia essere un progetto nazionale e istitu-
9 - Delle nove categorie, zionale.
alcune corrispondono a L’inventario del patrimonio culturale immateriale della Scozia è accessibile on line
quelle dell’Unesco: “oral (http://ichscotland.org/wiki/) e include, ad oggi, circa 160 elementi relativi sia a prati-
traditions and expressions” che di origine scozzese (Scottish ICH) che a quelle delle comunità immigrate (ICH in
(7 elementi), “knowledge Scotland). Tali elementi sono suddivisi in nove categorie (contro le cinque categorie uf-
about nature and the ficiali della Convenzione) che includono anche pratiche come i giochi e le tradizioni cu-
universe” (7 elementi), linarie9.
“social practices and rituals” L’aspetto più interessante e innovativo di questo inventario concerne le scelte tecniche
(44 elementi), “traditional e tecnologiche che ne sono alla base. Come nel caso del Venezuela, i metodi e stru-
craftsmanship” (11 menti tradizionali sono stati considerati inadeguati e si è scelto di costruire un inventa-
elementi). Le due categorie rio ex novo utilizzando degli strumenti adatti al nuovo paradigma partecipativo.
“traditional theatre & L’équipe scozzese ha infatti scelto di sfruttare le potenzialità delle nuove tecnologie te-
dance” (2 elementi) e lematiche.
“music” (5 elementi) L’inventario scozzese è un wiki10 disponibile sul Web. La caratteristica principale che di-
corrispondono alla categoria stingue il wiki da altri sistemi di pubblicazione del contenuto su Internet è il fatto di es-
29

SCOTTISH HIGHLANDS TUG OF WAR HIGHLAND GAMES.


sere aperto all’edizione. I contenuti possono essere modificati non solo dai responsa- Unesco “performing arts”.
bili del sito, ma anche e soprattutto dagli utenti11. Questa soluzione è stata scelta in- La categoria “festivals” (35
nanzitutto perché il wiki sembrava offrire un’ottima soluzione al problema della parte- elementi) è assimilabile a
cipazione delle comunità nei processi di inventario: non solo la sua natura aperta e col- “festive events”. In questo
laborativa permetteva di coinvolgere facilmente i detentori del PCI nelle operazioni di caso tuttavia la categoria è
identificazione dei diversi oggetti culturali, ma la sua disponibilità sulla rete e facilità di isolata mentre nella
utilizzo risolvevano anche i problemi di accesso e trasparenza verso tutti gli utenti. Convenzione è raggruppata
Inoltre, il wiki sembrava molto vantaggioso dal punto di vista dello sviluppo tecnolo- in un unico ambito assieme a
gico grazie alla sua flessibilità e facilità di gestione. Infine, si trattava della soluzione più “social practices and rituals”.
economica. Inoltre nella classificazione
L’équipe scozzese ha scelto di avvalersi del software gratuito MediaWiki (http://www. scozzese sono state
mediawiki.org) che, rispetto ad altri software wiki, offre interessanti potenzialità come introdotte le due categorie
la creazione di un accesso ristretto sia in scrittura che in lettura, oltre che la persona- “games” (9 elementi) e
lizzazione della struttura del database. Grazie a tale software, è stato possibile costruire “culinary traditions” (23
un customised wiki (McCleery et al. 2008), vale a dire una piattaforma personalizzata elementi).
rispetto a un wiki standard. Pur mantenendo la flessibilità propria di un wiki, l’inventa- 10 - Con wiki si intende: «un
rio scozzese permette di organizzare i contenuti in modo più strutturato grazie alla pre- sito web (o comunque una
senza di voci fisse che devono essere compilate per ogni elemento (come per esem- collezione di documenti
pio categoria e luogo) e a tag che possono essere aggiunti dagli utenti per facilitare la ipertestuali) che viene
ricerca dei contenuti. Chiunque, attraverso un modulo online, può creare una nuova aggiornato dai suoi
pagina che corrisponde a un elemento considerato dall’utente che lo inserisce come utilizzatori e i cui contenuti
parte del patrimonio culturale immateriale del Paese. La descrizione di ogni elemento sono sviluppati in
è composta da due parti. La prima, più strutturata, fornisce delle informazioni essen- collaborazione da tutti coloro
ziali (categoria, luogo e mese di svolgimento) ed è necessaria per organizzare i conte- che vi hanno accesso. La
nuti (in modo simile a un catalogo tradizionale). La seconda parte è costituita da una modifica dei contenuti è
descrizione libera, ovvero una guida di base della pratica, dove l’utente dovrebbe in- aperta, nel senso che il testo
serire, in non più di 300 parole, una descrizione storica (le origini storiche e geografi- può essere modificato da
che e le eventuali trasformazioni dell’elemento); le modalità di valorizzazione contem- tutti gli utenti (a volte
poranee e l’eventuale rischio di estinzione (se, secondo il contributore, la pratica sarà soltanto se registrati, altre
ancora vivente a distanza di cinque anni e perché)12. volte anche anonimi)
La sinteticità della descrizione non permette di mettere in luce molti degli elementi che procedendo non solo per
sono considerati importanti in un approccio antropologico (ad esempio, il nome verna- aggiunte come accade
colare della pratica, che può tuttavia essere indicato nel testo libero). La struttura di solitamente nei forum, ma
questo inventario non permette inoltre nessuna descrizione qualitativa della “comu- anche cambiando e
nità” dei “detentori” della pratica. Le informazioni richieste a questo proposito nella cancellando ciò che hanno
prima sezione sono unicamente di tipo quantitativo (numero degli attori coinvolti ed scritto gli autori precedenti»
eventuali limitazioni della partecipazione a categorie particolari di attori). Come risul- (Wikipedia, definizione
tato, le pagine di presentazione degli elementi dell’inventario forniscono una descri- italiana).
zione discorsiva delle pratiche, che generalmente non supera le dieci righe, accompa- 11 - Il recente successo dei
gnata da un’immagine, da una scheda di presentazione con alcuni dati essenziali ed sistemi wiki è dovuto ai
eventualmente da un video. A differenza di un progetto di inventario tradizionale, la vantaggi che una
produzione di un’abbondante documentazione sugli elementi identificati non è una piattaforma di scrittura
priorità del progetto scozzese e le fasi di raccolta e gestione dei dati non presuppon- collaborativa può portare per
30

la costruzione di un sistema gono nessuna forma di validazione scientifica. Benché sia stato ideato in ambito acca-
di conoscenza condivisa demico, questo inventario è quindi concepito in una prospettiva sociale, finalizzato alla
(Aguiton - Cardon, 2007). partecipazione degli attori interessati dagli ambiti del PCI e non rivendica nessuno
12 - http://www. scopo scientifico.
ichscotlandwiki.org/index.
php?title=Guidelines_for_ La partecipazione nel progetto scozzese
Contributors. La costruzione di un inventario del PCI solleva il problema della partecipazione delle co-
13 - Tale scelta di solito è munità e della definizione del ruolo dei professionisti nel processo di documentazione
giustificata dal timore che e identificazione del patrimonio. In maniera analoga al Venezuela, il progetto scozzese
siano inseriti dei contenuti sperimenta una raccolta dei dati che utilizza fonti diverse da quelle utilizzate dai pro-
non appropriati nell’inventario. fessionisti della documentazione (archivi, fonti bibliografiche) e cerca di coinvolgere in
Tale rischio è insito nella questo processo una più ampia tipologia di attori sociali.
scelta stessa di questo tipo di Nelle intenzioni originarie del progetto, il processo di raccolta dei dati sarebbe stato
strumento ed esistono studi coordinato a livello centrale ma gestito dalle amministrazioni comunali che avrebbero
che dimostrano (nel caso di dovuto identificare delle “persone risorsa” e stabilire un legame tra i responsabili del
Wikipedia) che esso è più progetto e un gruppo di attori locali (specialisti locali del patrimonio, responsabili di at-
basso di quello che si tività culturali a livello locale). Questo gruppo di mediatori si sarebbe occupato anche
potrebbe pensare. Gli autori del coinvolgimento dei portatori del patrimonio. La raccolta dei dati sarebbe avvenuta
che contribuiscono a un wiki, solo alla fine di questo processo attraverso dei gruppi di discussione organizzati con la
di solito, sono molto attivi partecipazione delle amministrazioni locali (per esempio, associazioni o musei). Il coin-
tanto nella creazione di nuovi volgimento dei portatori del patrimonio non sarebbe quindi stato stabilito dai profes-
contenuti quanto nella sionisti della ricerca etnografica ma dalle amministrazioni o associazioni locali e dagli
correzione di quelli esistenti animatori culturali locali da loro identificati.
(Aguiton - Cardon 2007). Per quel che concerne la partecipazione all’inventario su Internet, il progetto prevedeva
14 - Per un’analisi delle che l’inserimento dei contenuti nel Wiki fosse limitato a contributori autorizzati (fun-
problematiche legate alla zionari delle amministrazioni o delle comunità locali) individuati e formati dai respon-
promozione di un wiki si sabili del progetto (McCleery et al. 2008: 29). I criteri di selezione di questi contribu-
veda Grudin - Poole 2010. tori autorizzati avrebbero privilegiato il radicamento di questi attori nei contesti consi-
derati piuttosto che le loro competenze specifiche in relazione agli ambiti del PCI13.
Rispetto agli intenti originari, oggi il wiki scozzese adotta un approccio molto più
aperto, permettendo la modifica dei contenuti anche in modo anonimo. Infatti, il wiki
può essere modificato in due modi: (i) in modo anonimo, vale a dire chiunque può mo-
dificare il contenuto di una pagina senza nessun controllo del contenuto prima della
pubblicazione né nessuna traccia esplicita dell’autore (firma, nome, email); (ii) in modo
autenticato con login e password, vale a dire prima di procedere alla modifica di una
pagina l’utente si fa riconoscere dal sistema inserendo un nome utente e una password
personali in un apposito modulo. La modifica dei contenuti in modo anonimo rende le
operazioni di modifica più facili e veloci (senza bisogno di autenticazione) e carica l’u-
tente di minori responsabilità sulla qualità dei propri contenuti (attraverso l’anoni-
mato).
Il passaggio da wiki ad accesso ristretto a wiki ad accesso libero, è avvenuto in un mo-
mento successivo al lancio del progetto ed è stato voluto dal Museums Galleries
Scotland per facilitare la partecipazione degli utenti. I responsabili dell’inventario
hanno notato che le informazioni direttamente inserite da utenti anonimi o registrati,
ma non appartenenti all’équipe del progetto, restano tuttavia piuttosto scarse. Anche
gli interventi di modifica di voci esistenti sono piuttosto rari e l’utilizzo della pagina di
discussione, che dovrebbe permettere agli utenti di costruire in modo più collaborativo
e partecipato le singole pagine, è praticamente inesistente.
La costruzione collaborativa di un inventario non è quindi determinata esclusivamente
dallo strumento tecnico che viene fornito, come un wiki, ma soprattutto dalle moda-
lità con cui lo strumento viene promosso e con cui viene promossa la partecipazione14.
In generale, quindi, la scelta di uno strumento wiki non sembra fino ad oggi avere
avuto un’influenza determinante sulla partecipazione delle comunità all’inventario
scozzese rispetto ad altri inventari. È comunque interessante osservare gli enormi sforzi
fatti dall’équipe del progetto per promuovere la partecipazione. Tale azione di promo-
zione si è basata principalmente sull’uso dei social networks attraverso tre canali prin-
cipali: i blogs (l’équipe è intervenuta su diversi siti e blog per segnalare l’esistenza del
wiki); Twitter, che viene usato per raccogliere segnalazioni degli utenti su eventi e ma-
nifestazioni; Facebook (attraverso una pagina il progetto promuove le sue attività).
Attraverso tali strategie, il progetto ha favorito la nascita e il rafforzamento di una rete
tra gli attori del patrimonio culturale immateriale in Scozia. Anche se il wiki non mo-
31

stra una partecipazione attiva di utenti esterni al progetto, è innegabile che l’iniziativa
ha favorito le interazioni tra gli attori del PCI. La costruzione del progetto d’inventario
ha portato all’identificazione degli attori attivi sui temi del PCI e ha favorito la crea-
zione di legami tra alcuni di questi attori, che hanno scoperto la loro reciproca esi-
stenza attraverso il progetto stesso.

Conclusioni
I due progetti sopra descritti sono stati concepiti ex novo in applicazione della
Convenzione del 2003 (Scozia) oppure si sono definiti in parallelo ad essa e in stretto
dialogo con la definizione dello “spirito” della Convenzione (Venezuela). L’analisi dei
due inventari dimostra come le istituzioni coinvolte si siano concretamente confrontate
con la questione della “partecipazione” delle “comunità” nel processo di identifica-
zione del PCI. In entrambi i casi, il concetto di “partecipazione” non è inteso come la
semplice informazione degli attori sociali rispetto allo svolgimento e alle finalità dell’in-
ventario ma come coinvolgimento diretto della “comunità” nel riconoscimento del pa-
trimonio in base ai valori soggettivi di quest’ultima. L’identificazione degli elementi pa-
trimoniali è affidata agli attori sociali che hanno un’esperienza diretta delle pratiche in
questione senza tuttavia essere dei professionisti della tutela o della valorizzazione del
patrimonio. Questi inventari sono quindi caratterizzati da un basso livello di specializ-
zazione tecnico-scientifica negli ambiti di competenza del PCI e dall’adozione di sistemi
non rigidi di identificazione e di raccolta dei dati.
La scelta di un approccio partecipativo impone necessariamente sia una riflessione teo-
rica sul concetto di “comunità” sia l’identificazione concreta dei suoi membri. L’uso
astratto e semplificato che la Convenzione del 2003 fa del concetto di “comunità” la-
scia invece perplessi non solo gli antropologi ma anche tutti i professionisti che, nella
loro esperienza di lavoro sul terreno, si sono confrontati praticamente con la comples-
sità e la conflittualità dei gruppi ai quali l’Unesco fa riferimento con questo termine.
Per essere operativi, gli inventari di Venezuela e Scozia considerano le amministrazioni
locali come portavoce delle comunità. Questa scelta intende generalmente facilitare la
partecipazione della società civile organizzata in associazioni o gruppi folklorici e il
coinvolgimento di queste amministrazioni permette di assicurare un supporto tecnico
e di coordinamento al processo di identificazione. La necessità di identificarsi con una
amministrazione locale impedisce tuttavia ad alcuni gruppi che si riconoscono come
comunità di essere rappresentati nell’inventario. La mediazione di questi enti implica
infatti che un ruolo fondamentale sia assegnato al territorio che rimane un riferimento
essenziale per immaginare le comunità escludendo in questo modo i gruppi non terri-
toriali come le comunità di interesse o le comunità itineranti. Questo approccio si ri-
flette nelle scelte tecnologiche come la navigazione geografica dell’inventario del
Venezuela. Anche nel caso dell’inventario scozzese, che utilizza invece un sistema wiki
potenzialmente adatto per relazionarsi con comunità non necessariamente territoriali,
l’approccio territoriale alla base del sistema di identificazione rimane predominante.
Inoltre, se in entrambi gli inventari analizzati l’identificazione degli elementi del PCI è
compito delle comunità e i professionisti rimangono semplici osservatori del processo,
le competenze tecnico-scientifiche intervengono nelle fasi di gestione e validazione dei
dati. Nel caso del Venezuela è previsto l’intervento dei professionisti per verificare la
validità delle classificazioni fatte dalle comunità in rapporto alle categorie definite dalla
Convenzione Unesco e per completare la descrizione dell’elemento con documenta-
zione d’archivio. Anche nel caso della Scozia, sebbene il progetto d’inventario preveda
un processo bottom-up affidato alle dinamiche informali della comunità, le pratiche
che sono presenti nell’inventario online sono state inserite per lo più dall’équipe dei ri-
cercatori della Napier University e quindi sono state sottoposte al filtro tecnico-scienti-
fico. In conclusione, l’analisi dei progetti di Scozia e Venezuela ha mostrato dei tenta-
tivi di creazione di inventari e liste che, abbandonando le strutture rigide e standardiz-
zate, sperimentano una forma di “partecipazione” degli attori sociali che si distingue
da quella della pratica etnografica tradizionale. Tali interventi rivelano tuttavia le diffi-
coltà delle istituzioni nella gestione di dinamiche partecipative. Al di là degli intenti teo-
rici di tali progetti, rimane infatti la necessità di trovare strumenti adeguati ed efficaci
per attirare l’interesse dei detentori del patrimonio. La risposta a tali problematiche è
spesso l’identificazione di soluzioni ad hoc, come quelle analizzate, in cui la volontà di
un approccio bottom-up deve convivere con la necessità di interventi top-down per ga-
rantire la fattibilità dei progetti.
32

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41

Alessandra Broccolini - Sapienza Università di Roma

produrre culture
IL PALIO DI SIENA.

l’UNESCO e gli inventari del


patrimonio immateriale in Italia
Inventari, catalogazione e comunità
Il campo degli “inventari” del patrimonio culturale, termine al quale in Italia in ambito
istituzionale si preferisce quello di “catalogazione”, sta avendo negli ultimi anni un
nuovo impulso di interesse in campo internazionale per quanto attiene il patrimonio
immateriale in relazione alle politiche UNESCO. Per le problematiche che introduce nei
rapporti tra conoscenza, politiche del patrimonio e comunità, tale campo di dibattiti
non è in realtà recente; già dieci anni fa il museologo De Varine aveva discusso la pra-
tica del censimento in relazione ad un diverso modo di intendere il rapporto tra patri-
monio culturale e comunità, indicando la strada per un catalogo condiviso e parteci-
pato da contrapporre a censimenti tecnocratici o scientifici distanti dalla partecipazione
e non utili – a suo avviso – allo sviluppo locale e alla partecipazione di singoli e delle
comunità1. 1 - De Varine (2002 [2005:
La posizione di De Varine e le pratiche di inventari partecipati sperimentate da alcuni 31]).
stati e legate ad esperienze ecomuseali2 esprimono un modo di intendere le politiche 2 - Le esperienze di alcuni
del patrimonio che si è imposto di recente anche nelle politiche unescane che hanno paesi latinoamericani come
prodotto la Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Immateriale del 2003. ad esempio il Brasile indicano
Tuttavia, anche se l’articolo 12 della Convenzione fa esplicito riferimento alla stesura una consapevolezza nei
di inventari, che sono indicati come unica azione realmente prescrittiva per l’implemen- confronti della
tazione della Convenzione da parte dei singoli stati, l’UNESCO non definisce le moda- partecipazione comunitaria
lità di stesura di questi inventari, lasciando agli Stati la scelta se coinvolgere o meno, e alla stesura dei censimenti
a che livello, i portatori di tale patrimonio, anche se in diversi punti della Convenzione del patrimonio culturale già
(art. 11, art. 15 ecc.) si fa riferimento esplicito alla questione della partecipazione3. dagli anni ’80, in relazione
Cataloghi ed inventari del patrimonio culturale immateriale in diversi stati esistono da ad alcune esperienze
tempo e seguono modalità diverse legate alle politiche patrimoniali nazionali. In alcuni ecomuseali (cfr. De Varine,
paesi con un rapporto storico con tipologie di beni tradizionali legati a categorie occi- 2005: 39). Cfr. saggio
dentali (patrimonio storico-artistico, archeologico, ecc.) anche le politiche patrimoniali Bortolotto in questo numero.
relative al patrimonio immateriale sono state modellate su competenze professionali, 3 - Dall’art. 12 della
piuttosto che sulla partecipazione delle comunità e dei portatori, ed hanno prodotto Convenzione per la
quelli che Chiara Bortolotto ha chiamato “inventari civilizzati”4, cioè cataloghi compi- Salvaguardia del Patrimonio
lati da professionisti antropologi. È il caso di Francia, Cina, Portogallo e dell’Italia. Altri Culturale Immateriale si
paesi, come il Brasile, e più di recente Scozia e Venezuela, hanno sperimentato invece legge: “Al fine di provvedere
cataloghi partecipati che seguono modalità tra loro molto diverse5. all’individuazione in vista
In molti paesi occidentali le problematiche insite nel processo di inventariazione, che della salvaguardia, ciascuno
queste pratiche classificatorie e istituzionali di impianto positivista aprono, sono state Stato contraente compilerà,
troppo spesso a margine dei dibattiti antropologici dentro le politiche nazionali6, così conformemente alla sua
come marginale è stata la delicata questione della partecipazione, o della restituzione situazione, uno o più
(intesi come pratiche distinte tra loro), questione che, almeno in area occidentale è inventari del patrimonio
42

culturale immateriale stata poco affrontata dagli stati e dagli antropologi che sono stati impiegati nella com-
presente sul suo territorio”. pilazione di questi inventari.
4 - Comunicazione Simbdea
18 ottobre 2010. Catalogazione, partecipazione e “comunità” in Italia
5 - Vedi il saggio di Chiara In Italia la catalogazione del Patrimonio DEA, materiale e immateriale, ha una sua sto-
Bortolotto e Marta Severo in ria nelle politiche dei beni culturali, anzi più storie a volte regionali7. A livello nazionale
questo numero. essa è legata a diversi formati di schede di catalogo, prima le schede FK elaborate alla
6 - A parte la letteratura fine degli anni Settanta e in seguito le schede BDM e BDI (Beni Demoetnoantropologici
specifica sulla normativa e le Materiali e Immateriali), che a partire dal 2000 e dal 2002 sono state introdotte dall’at-
schede, prima FK e poi BDM tuale Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD) del Mibac, alcuni
e BDI (sulle schede FK per es. anni dopo il riconoscimento da parte dello Stato dei Beni demoetnoantropologici en-
Biagiola et alii, 1978), si veda tro i Beni Culturali8.
ad es. Cirese (1988). Il percorso che in Italia ha visto l’affermarsi di queste schede, che sono state elaborate
7 - Sulle esperienze regionali secondo una concezione classificatoria dei beni culturali, se da un lato ha seguito i mo-
(e provinciali) di delli di schede che riguardavano altre tipologie più consolidate di beni per venire in-
catalogazione che hanno contro agli standard catalografici dell’ICCD9, dall’altro ha segnato l’inizio di una sta-
seguito percorsi autonomi gione che ha visto il riconoscimento lento ma progressivo dentro le istituzioni di com-
rispetto ai modelli nazionali, petenze antropologiche. Tali inventari “civilizzati” hanno infatti visto sviluppare impor-
si veda il caso della Regione tanti campagne di catalogazione del Patrimonio Materiale e Immateriale, da parte sia
Piemonte e della Provincia di dell’ICCD che di alcune regioni pioniere, come la Regione Lazio e del suo Centro
Torino; cfr. Grimaldi 1988. Regionale di Documentazione, regione che, in virtù del Decreto Legislativo 112/1998
8 - Decreto Legislativo 31 che assegna alle regioni il compito di collaborare con lo Stato nel campo della catalo-
marzo 1998, n. 112, art. gazione, si è fatta proponente all’inizio del 2000 della scheda stessa10.
148; Bravo & Tucci (2006: Fortemente voluti da antropologi interni alle istituzioni, molto elaborate e articolate sul
89ss.) piano concettuale, della normativa11 e della produzione sul terreno della documenta-
9 - Vasco Rocca (2002). zione, ma anche contestate da una parte della comunità antropologica, questi modelli di
10 - Vedi Tucci (2002; 2005; schede ministeriali per diversi anni hanno vissuto dentro le istituzioni una vita laboriosa,
2006) ma anche opaca. Dal punto di vista dei beni DEA, quello degli inventari, infatti, in Italia
11 - ICCD (2000; 2002; è sempre stato un campo che ha goduto fino a tempi molto recenti di una collocazione
2006). che possiamo definire nello stesso tempo “di nicchia” e marginale. Decisamente bistrat-
12 - De Varine (2002 [2005: tata da una parte della comunità antropologica italiana come pratica conoscitiva, la ca-
31]). talogazione del Patrimonio Immateriale fatta secondo gli standard catalografici ministe-
riali, ovvero con le schede BDI, si è conquistata negli anni un suo statuto di sapere tec-
nico ma dalla natura alquanto opaca.
Facendo riferimento ai molti anni di catalogazione che ho svolto per conto della
Regione Lazio, ricordo la perplessità e le manifestazioni di stupore che con altri colle-
ghi ci scambiavamo nei corridoi della Regione quando ci incontravamo perché chiamati
ad accettare o a rendicontare su questi lavori di catalogazione. Pur essendo una occa-
sione di lavoro per sperimentare in un campo applicativo un sapere appreso nelle uni-
versità, questa pratica classificatoria – che lentamente ci stava fornendo una compe-
tenza tecnica specifica – sembrava in quegli anni non soddisfare i requisiti giusti per
mettere in pratica tale sapere. La scheda ci appariva uno strumento distante, burocra-
tico, che ricordava più il tipo di “censimento bancario” del quale parla De Varine12 che
una pratica di ricerca antropologica articolata, con finalità conoscitive, critiche o rifles-
sive. Per come è concepita, infatti, la scheda BDI, costringe a frammentare beni com-
plessi, come ad esempio gli eventi festivi, in più unità separate, li riduce entro gli stan-
dard catalografici omologhi al linguaggio di altre tipologie di beni e li oggettiva – tra-
ducendoli nel linguaggio della scheda e fissandoli negli allegati audiovisivi – fino ad una
loro “riduzione” in una forma di linguaggio etnografico fortemente sintetico. La
scheda costringe quindi a selezionare a monte ciò che per lo specialista costituisce il
bene, o i beni DEA, dentro un continuum di eventi e di pratiche, e a non considerare
processi, dinamiche e relazioni complesse, o i molti elementi della contemporaneità
che spesso rappresentano le condizioni stesse affinché tali beni vengano riprodotti,
agiti e vissuti dai loro portatori e dalle comunità.
Oltre a ciò, sia la scheda con il suo apparato di documentazione, intesa come esito fi-
nale del lavoro, sia la ricerca sul campo che questa richiede a monte, fino a tempi
molto recenti hanno intrattenuto un rapporto del tutto marginale con le comunità por-
tatrici di tali beni, che pure sono fondamentali “bacini di prelievo” per le campagne di
catalogazione. Non solo i soggetti portatori dei beni per lo più non conoscono e forse
non sono interessati alla scheda, che appunto è strumento tecnico, ma in tutte le fasi
della ricerca l’antropologo catalogatore è solito intrattenere con le comunità solo un
43

rapporto “di prelievo”, ritenendo sufficiente il semplice consenso da parte dei soggetti
o delle comunità a rilasciare interviste o lasciare documentare le proprie cerimonie o
altro. Tali inventari non prevedono infatti una partecipazione delle comunità nella de-
finizione dei beni (se non come “informatori”), nella gestione degli inventari e non
hanno prodotto fino ad oggi una forma di “restituzione” diretta, se non di recente in
forma di banche dati on line che si stanno sperimentando e che tuttavia – va sottoli-
neato – non rappresentano una forma di restituzione o di inventariazione condivisa o
partecipata13. 13 - Pur essendo prevista
Tale “assenza” delle comunità nel processo di selezione, di ricerca (se non come infor- infatti – riporto il caso della
matori passivi) e di gestione di tali inventari è legata a quelli che sono i presupposti teo- Regione Lazio – la
rici che danno forma alle politiche dei beni DEA dentro le istituzioni: la scheda ministe- restituzione di copie di ogni
riale BDI è concepita come uno strumento conoscitivo che parte da una concezione og- scheda presso i comuni
gettivista del “bene” (il bene “esiste” nel bagaglio culturale dei suoi portatori indipen- interessati dalla
dentemente dalle cornici teoriche che adottiamo per guardarlo, selezionarlo, cono- catalogazione, di fatto per
scerlo e documentarlo). In tal senso la scheda, che sul piano concettuale risente di una una serie di ragioni questa
certa dipendenza dalla “materialità” di beni di altra natura come i beni storico-artistici restituzione non si è mai
o archeologici, ha finalità conoscitive oggettiviste che, seppure nella forma di un lin- prodotta e tali inventari, sia
guaggio sintetico, non dialogano né con paradigmi di tipo riflessivo né con pratiche quelli redatti su base
condivise e partecipate nella definizione di questi beni. Si tratta infatti di uno stru- regionale che quelli
mento molto articolato sul piano dell’organizzazione di paragrafi, campi e sottocampi nazionali, sono rimasti per lo
che la compongono, che prevede una “tracciabilità” totale del bene su più piani (in- più negli archivi cartacei o
formatori, documentazione); che richiede procedure rigorose nella produzione e nel informatizzati delle
trattamento della descrizione, localizzazione, collocazione, compilazione, ecc., ma che istituzioni, in attesa di essere
una volta prodotta interrompe qualsiasi relazione con le comunità “di prelievo”. messi in rete con tutti i
Oggi, ad almeno dieci anni dalla sua introduzione, le problematiche insite in questo problemi che ciò comporta
tipo di inventari nazionali del Patrimonio Immateriale devono ancora essere oggetto di per quanto attiene ad
un reale confronto e discussione nella comunità antropologica. Tuttavia, nonostante esempio alla privacy e al
queste criticità c’è da dire che l’esperienza della catalogazione in Italia, nello specifico consenso delle comunità.
della Regione Lazio, ha rappresentato e rappresenta in ambito nazionale un raro esem-
pio di trasparenza amministrativa e di applicazione istituzionale del sapere antropolo-
gico alla questione degli inventari, che ha “formato” più generazioni di antropologi.
La scelta dei catalogatori infatti veniva – e viene ancora – effettuata nel caso della
Regione Lazio attingendo ad una graduatoria realizzata tramite un bando pubblico al
quale hanno aderito decine di antropologi che sono stati scelti sulla base di un curri-
culum specifico.
Oltre a ciò, dopo molti anni di pratica di inventari e dopo anni di dubbi, mi rendo conto
che la scheda, pur non essendo ancora chiara per me la sua collocazione sul piano co-
noscitivo e applicativo (che uso fanno le amministrazioni di questi inventari una volta
realizzati? Come si può conoscere il bene a partire solo dalla scheda?) ha una impor-
tante finalità “didattica” perché produce un tipo di esperienza utile nella formazione
antropologica, aiutando ad esercitare lo sguardo, la ricerca e la pratica della documen-
tazione. Per poter catalogare secondo gli standard della BDI è necessaria una compe-
tenza antropologica perché la scheda richiede di essere capaci di guardare fenomeni e
pratiche culturali disarticolandoli dal continuum nel quale sono calati. In questo senso
possiamo dire che la scheda richiede e produce un esercizio classificatorio (discernere
e separare da un continuum di esperienze, degli elementi discreti e collocarli in cate-
gorie). Ma come tale induce – a mio avviso – ad un esercizio cognitivo e dello sguardo
che, una volta ricomposto entro cornici epistemologicamente più complesse (analisi dei
processi, decostruzione, politiche del patrimonio, articolazioni di livelli nella contempo-
raneità, comparazione, ecc.). possiede una potenzialità formativa che prescinde dalla
sua finalità meramente classificatoria. Si potrebbe dire – paradossalmente – che nono-
stante non riesca, forse, a produrre una educazione al patrimonio nei portatori del
bene (i quali portatori probabilmente seguono altre modalità di fruizione e di patrimo-
nializzazione), la pratica della scheda ha una sua ricaduta nella formazione degli antro-
pologi ed è quindi uno strumento “situato” che si colloca nelle pratiche di riproduzione
del sapere.
Tale potenzialità della scheda molto spesso è stata trascurata, a causa della scarsa pre-
senza della catalogazione nei moduli universitari specifici dedicati al patrimonio, solo
negli ultimi anni presente nei corsi universitari o nelle Scuole di Specializzazione.
Al di là di ciò che l’UNESCO prescrive agli Stati nell’articolo 12 della Convenzione, il
campo degli inventari è quindi importante per diversi motivi. Non solo perché è un
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campo legato al riconoscimento nel nostro paese della professionalità del profilo
dell’antropologo, ma anche perché fa emergere politiche patrimoniali nazionali, per-
ché pone il problema delle ricadute sulle comunità e perché ha un ruolo non del tutto
trascurabile nella formazione antropologica.

Candidature UNESCO, committenza, engagement antropologico


Nel campo della catalogazione, la storia più recente degli ultimi anni ci vede testimoni
di una fase di mutamento che apre scenari ancora più interessanti nei rapporti tra in-
ventari, istituzioni, comunità e competenze antropologiche. Con l’aumentare delle
candidature UNESCO per l’iscrizione alla Lista Rappresentativa del Patrimonio
Immateriale dell’Umanità e per ottemperare all’obbligo della compilazione di inventari
prescritto dalla Convenzione agli Stati contraenti, è accaduto infatti che il Ministero per
i Beni Culturali e Ambientali, come si è detto in apertura, ha sancito l’obbligo, per le
“comunità” proponenti i dossier di candidatura, di compilare degli inventari del pro-
prio bene candidato. Tali inventari, tuttavia, non sono scelti dalle comunità proponenti
i dossier, ma devono essere realizzati secondo gli standard ICCD e con la scheda BDI.
L’UNESCO non indica infatti il tipo di inventari da produrre e lascia agli stati la libertà
di decidere se questi debbano essere o meno partecipati o condivisi con le comunità,
anche se la pratica di inventari gestiti direttamente “dal basso” è dall’UNESCO forte-
14 - Vedi il saggio di Chiara mente incoraggiata14. Ciò ha significato che nel corso dell’ultimo anno (2010-2011) i
Bortolotto su questo numero dossier di candidatura per l’iscrizione alla Lista hanno dovuto essere obbligatoriamente
relativo ai casi di Scozia e preceduti da campagne di catalogazione fatte secondo gli standard ministeriali ICCD.
Venezuela. Tutti i paesi che hanno presentato la candidatura (ci sono state in Italia 11 candidature
15 - Nel campo degli studi nel 2010) hanno dovuto così farsi carico a loro spese – elemento fondamentale perché
antropologici sulle politiche le comunità sono diventate per la prima volta committenti e proprietarie degli inven-
dei beni culturali, nello tari – di effettuare una campagna di catalogazione con schede BDI. Ciò ha portato
specifico sui temi UNESCO, si molte comunità (amministrazioni comunali, ma anche singole associazioni proponenti)
deve soprattutto alle ricerche nell’urgenza di produrre – entro i tempi imposti – un tipo di inventariazione che per
seminali di Berardino molti era misteriosa e sconosciuta, commissionando il lavoro ad antropologi cataloga-
Palumbo il merito di aver tori specializzati in buona parte estranei alle comunità stesse.
introdotto in Italia un Questa diversa angolazione con la quale a partire da quest’anno si è iniziato a produrre
approccio critico all’analisi inventari del patrimonio Immateriale DEA ha portato diverse ricadute. Ha fatto diven-
delle dinamiche legate alle tare gli antropologi catalogatori piuttosto ricercati sul “mercato”, fatto questo raris-
politiche del patrimonio (per simo nel nostro campo, dando un ulteriore riconoscimento a competenze professionali
es. Palumbo 1998; 2003; specifiche. Ha fatto aumentare molto il campo di osservazione delle articolazioni locali
2006). Cfr. il saggio di con le quali si vanno sviluppando le diverse politiche patrimoniali e le “comunità” in-
Palumbo su questo numero. teressate, dando ai catalogatori un’opportunità rara di entrare in dinamiche di patri-
monializzazione, spesso conflittuali a vari livelli15. Ma ha anche portato ad un cambia-
mento nel modo in cui viene effettuata la catalogazione, pratica che fino ad oggi a li-
vello nazionale è stata svolta con la logica del “censimento bancario” (“rilevare” un
“patrimonio” e collocarlo in un archivio), con le comunità intese più come “bacini di
prelievo” del patrimonio che come committenti.
Con una committenza specifica da parte delle “comunità” e con un interesse diretto
da parte di queste (la validazione della candidatura e il riconoscimento UNESCO del
bene), la catalogazione, credo per la prima volta nella storia nazionale, ha iniziato ad
intraprendere un percorso di “discesa”: dal Ministero e dalle Regioni si è mossa verso
i Comuni e verso i singoli soggetti proponenti, che per la prima volta sono diventati
committenti e proprietari, sia degli inventari che dei supporti audiovisivi di documen-
tazione delle schede.
Questo passaggio – seppure importante – non deve tuttavia farci illudere sul processo
di partecipazione delle comunità o dei committenti all’inventario, perché continua a ri-
manere predominante in questa pratica sia il filtro dello stato sul piano amministrativo
che la competenza tecnica (antropologica), in quanto le comunità sono in qualche
modo “forzate” dal Ministero a scegliere uno standard, che omologa tutti gli inventari
prodotti su scala nazionale e a commissionare la loro redazione ad antropologi specia-
listi.
Dal punto di vista della ricerca, per l’antropologo questo cambiamento ha portato il
terreno di ricerca a cessare di rappresentare un mero luogo di prelievo, ma a produrre
esperienze più vicine all’engagement antropologico dell’etnografia, con tutte le pro-
blematiche che ciò comporta sul piano della vicinanza/distanza, dell’impegno, del con-
flitto, ecc. ecc., un terreno dove si deve negoziare (e a volte imporre) una competenza,
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dove ci si sente engaged rispetto alla natura stessa del bene in questione e rispetto al
filtro dello Stato sulle candidature, ma dove ci si può anche trovare in disaccordo con
i committenti sulla natura e sulle finalità del bene da catalogare.
Oltre a ciò, una volta prodotte, le schede devono essere corrette e “vistate” da funzio-
nari dello Stato (della locale Soprintendenza), il quale mantiene l’autorità ultima sul
processo di inventariazione. Ciò vuol dire che se l’inventario viene compilato da locali,
i funzionari dello stato possono non validare le schede non ritenendole corrette sul
piano antropologico e tecnico e quindi non mandare avanti la candidatura. Come è fa-
cile immaginare tutta questa procedura, che si muove tra un centralismo burocratico
statale e l’avvio di un processo di partecipazione dal basso, pone l’antropologo in un
ruolo nello stesso tempo ambiguo e strategico, perché oltre a collocarlo in una posi-
zione di osservazione privilegiata tra istituzioni e comunità, lo costringe a stare in una
posizione di mezzo, tra la difesa di un profilo professionale che va a scapito della par-
tecipazione e la difesa di una partecipazione che va a scapito di un profilo professio-
nale.

Inventari “alti”: la Dieta Mediterranea


Fermo restando che è a mio avviso di fondamentale importanza iniziare ad avviare un
monitoraggio etnografico delle realtà locali impegnate nelle candidature UNESCO per
restituire una panoramica delle diverse dinamiche – spesso conflittuali – e delle diverse
“comunità” implicate nelle candidature, può essere utile presentare due esempi tra
loro estremi di inventari “ai tempi dell’UNESCO” per vedere meglio “al lavoro” le pro-
blematiche fin qui illustrate. Due casi estremi che rappresentano, da un lato un tipo di
inventario totalmente prodotto “dall’alto” di una candidatura nazionale (e transnazio-
nale) – la Dieta Mediterranea – nella quale nessun ruolo ha avuto la “comunità”, né
nella proposizione della candidatura e neppure nella produzione dell’inventario; il se-
condo rappresenta invece un caso molto significativo di inventario commissionato “dal
basso” – il Palio di Siena – che ha avuto com’è noto una storia ed un esito molto com-
plesso entro le politiche nazionali.
Partendo da una interpretazione ampia – e a mio avviso non del tutto corretta – della
idea di comunità contenuta nella Convenzione del 2003 (che a ben vedere distingue
le comunità e i gruppi dagli Stati e dalle loro politiche interne) la candidatura della
Dieta Mediterranea ha avuto una caratterizzazione totalmente nazionale (ministeriale),
transnazionale e non partecipata a livello locale. La candidatura della Dieta fatta nel
200916 è partita infatti per l’Italia dal Ministero per le Politiche Agricole; è stata propo- 16 - L’iscrizione è stata
sta congiuntamente da 4 stati (Italia, Grecia, Spagna e Marocco) e nel 2009 ha pro- ottenuta nel 2010.
dotto da parte del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali con il Progetto PACI, una 17 - La scrivente ha
grande campagna di catalogazione del Patrimonio Immateriale alimentare che ha coin- partecipato in qualità di
volto tre regioni italiane (Lazio, Basilicata e Puglia)17. In questo caso la catalogazione antropologa catalogatrice
che è stata finanziata dal Mibac, è stata sviluppata da un Consorzio vincitore di un alla campagna di
bando pubblico, tramite la supervisione scientifica e istituzionale dell’ICCD. inventariazione per il Lazio
Pur trattandosi di una candidatura ministeriale, una “comunità” territoriale è stata nel progetto PACI.
“scelta”, il comune di Pollica nel Cilento in provincia di Salerno, un paese noto per le Responsabile scientifico del
ricerche sulla Dieta Mediterranea condotte negli anni Cinquanta del medico fisiologo progetto per il Lazio è stata
americano Ancel Keys. Mettendo da parte per un momento il ruolo decisamente poco Roberta Tucci; responsabile
chiaro che ha avuto questo comune nella candidatura vera e propria rispetto agli inte- amministrativo è stata
ressi nazionali rappresentati dal Ministero per le Politiche Agricole, c’è da dire che pa- Elisabetta Simeoni, che è
radossalmente questo comune, a quanto risulta, non è stato coinvolto minimamente stata la responsabile
nella compilazione dell’inventario, né come soggetto proponente né come oggetto di dell’intero progetto PACI per
catalogazione. Non solo quindi il comune di Pollica, che era stato indicato come la “co- le tre regioni italiane.
munità” di riferimento della candidatura entro un’area culturale (il Cilento), non ha 18 - Al Progetto PACI nel
partecipato alla campagna di catalogazione, ma l’inventario stesso è stato fatto sul pa- Lazio ha collaborato per la
trimonio immateriale di tre regioni – Lazio, Puglia e Basilicata – che non hanno alcun documentazione audiovisiva
riferimento con il territorio di riferimento della comunità, che si trova nel Cilento in l’antropologa Katia
Campania. Ballacchino.
Riguardo all’inventario vero e proprio, riporto come esempio il caso dell’inventario pro-
dotto nel Lazio, al quale ho lavorato direttamente per la ricerca e la compilazione delle
schede di catalogo18.
Nel modo di procedere all’inventariazione del patrimonio alimentare del Lazio – lavoro di
enorme complessità per un territorio così vasto – gli antropologi responsabili del progetto
hanno deciso, molto opportunamente, di procedere secondo un criterio territoriale cioè
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definendo, tra le numerose possibilità, un’area geografico-culturale ristretta entro la


quale individuare le pratiche alimentari legate al territorio. In questo senso è stato fon-
damentale circoscrivere un’area ristretta per tentare di restituire il legame tra cibo e ter-
ritorio negli ambiti dove questo si manifesta, quindi le preparazioni o gli usi alimentari le-
gati ad ambiti festivi e rituali, le preparazioni legate a prodotti rappresentativi della bio-
diversità territoriale, l’alimentazione tradizionale legata a particolari economie.
È stata quindi scelta l’area dell’alto viterbese, in particolare il territorio del lago di
Bolsena. Cinque comuni (Marta, Bolsena, Valentano, Onano e Farnese) sui quali sono
state prodotte 80 schede BDI con una documentazione di 50 audiovisivi di terreno e
circa 3000 fotografie. La scelta dell’area è stata motivata dalla diversificazione e dalla
compresenza ravvicinata di forme di produzione e di alimentazione legata a diversi si-
stemi di sussistenza: agricolo, pastorale e lacuale. In particolare l’alimentazione legata
al pesce di lago rappresenta un ambito non secondario nella caratterizzazione antro-
pologica del territorio. In secondo luogo, la scelta dell’area è stata anche motivata dal
ruolo preminente sul piano antropologico giocato da uno dei cinque paesi scelti, cioè
il paese di Marta, dove troviamo, più che in altri paesi vicini, relazioni e nessi interes-
santi sul piano antropologico tra produzione agricola, pastorale e lacuale tradizionale
e la cultura del territorio. Qui è infatti concentrata la maggior parte delle attività di pe-
sca rispetto agli altri paesi della zona e qui si svolge annualmente una festa mariana
molto nota nell’area – la “Festa delle Passate”, o “Barabbata” in onore della Madonna
del Monte, che vede la compresenza sul piano cerimoniale di rappresentanti delle tre
categorie della produzione alimentare (villani, pastori, pescatori, oltre ai “casenghi”),
con offerte rituali di cibo alla Madonna e realizzazione di “fontane”, cioè carri addob-
bati con prodotti della terra, del lago e dell’allevamento.
Complessivamente il lavoro di catalogazione ha individuato le relazioni che legano l’a-
limentazione ai diversi aspetti della cultura del territorio nelle diverse articolazioni tra
mondo agricolo, pastorale e lacuale: in particolare nella sfera cerimoniale, in quella dei
saperi, della socialità e della biodiversità, aspetto quest’ultimo non secondario, essendo
la zona nota per la produzione di vecchie cultivar locali, come il “Fagiolo del
Purgatorio” di Gradoli, il pomodoro “scatolone” di Bolsena, la lenticchia di Onano e il
vino Cannaiola di Marta, non ultime alcune specie di pesci di lago autoctone.
La documentazione è stata condotta privilegiando, laddove possibile, produzioni ali-
mentari o comportamenti cerimoniali legati al contesto e al calendario, quindi non de-
contestualizzate. È il caso della già citata festa di Marta, che dà luogo a numerose
forme cerimoniali, saperi e produzioni legate al cibo, o anche il rito della “Tiratura del
solco dritto” a Valentano, che vede la produzione di diversi tipi di biscotti (il “Biscotto
al cu’” e il “biscotto intrecciato”) entro forme complesse di cerimonialità, o la proces-
sione dell’Assunta di Onano, dove vengono prodotti anche qui due tipi di biscotti ri-
tuali (“Le cavalle” e “Le pupe”) portati in processione dai bambini e consumati ritual-
mente. Laddove la produzione alimentare non era legata ad alcuna espressione ceri-
moniale o processionale, la documentazione è stata realizzata su richiesta (esecuzioni
vere e proprie o sollecitazione di saperi/memorie) privilegiando però gli ambiti familiari
e distinguendo tra forme di alimentazione quotidiana (ad esempio l’acquacotta nelle
sue numerose varianti) e l’alimentazione legata alle festività calendariali (ad esempio la
“Collazione di Pasqua”, i “maccheroni co’ le noci” di Natale, ecc.). Nel corso della do-
cumentazione particolare attenzione è stata data anche ai mutamenti di senso cui de-
terminati piatti sono andati incontro. L’”acquacotta” ad esempio, da piatto povero
quotidiano di contadini e pastori, è diventato un piatto di senso identitario, arricchito
di carni. Anche l’acquacotta di pesci di lago (la bolsenese “sbroscia”) da piatto povero
19 - Broccolini & Ballacchino dei pescatori è diventato piatto identitario amicale e festivo19. È stato escluso invece
(2009). dalla documentazione l’ambito dei ristoranti, ma non quello delle sagre, che al contra-
rio producono interessanti forme di socialità e di innovatività. Ad ogni documentazione
di preparazioni alimentari è stata affiancata la documentazione di saperi relativi a
quella preparazione. Ad esempio, l’”acquacotta” è stata documentata sia nelle diverse
varianti (con verdure, con pesci di lago, ecc.), ma anche all’interno dei diversi universi:
pastorale, contadino o lacuale nei quali si iscrive, e nelle forme di comunicazione (in-
teressanti, ad esempio sono i detti sull’acquacotta – “acquacotta, sciuppate pane e
panza votta”; oppure “l’acquacotta del villano va magnata co’ le mani”; oppure
nell’acquacotta di pesci di lago: “disse la tenca al luccio: vale più la mia testa che tutto
il tuo fusto”, ad indicare l’importanza che ha la testa della tinca nella preparazione di
questo piatto, ecc.).
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Tra gli aspetti più interessanti dell’alimentazione del territorio da sottolineare la com-
plessa e inventiva cerimonialità religiosa che caratterizza il territorio, al cui interno tro-
viamo preparazioni alimentari che sono oggetto di interessanti dinamiche. Uno di que-
sti è il “biscotto di Ferragosto” di Valentano, prodotto per la “Tiratura del solco dritto”
e la Madonna Assunta. Si tratta di un biscotto che viene preparato in due diverse ver-
sioni, una – non benedetta – che viene consumata in diversi rinfreschi rituali organiz-
zati dai “signori della festa”, l’altro – benedetto – viene invece usato per decorare i ceri
processionali, “maschili” e “femminili”, viene portato in processione più volte in posi-
zioni diverse nelle sequenze rituali, consumato ritualmente dai “signori della festa” in
momenti particolari e infine dato da mangiare con funzione terapeutica ai malati del
paese, un percorso complesso e articolato entro la sfera cerimoniale della comunità.
Nonostante la scelta di contesto per questo inventario fosse antropologicamente cor-
retta, il lavoro non ha tuttavia previsto sul piano istituzionale una condivisione concreta
o una partecipazione dei soggetti (se non come informatori passivi) e neppure una “re-
stituzione” diretta dell’inventario (se non su base amicale tra noi e i singoli), o una fa-
miliarizzazione con i modelli di schede. Benché nessuno di essi abbia mostrato, come
era prevedibile, alcun interesse nei confronti della scheda, tutti hanno invece mostrato
interesse e stupore a “scoprire” di essere stati “scelti” a rappresentare la Dieta
Mediterranea nel mondo. La reazione alla nostra presenza sul campo è stata infatti
quella di uno stupore, che presumeva una visione burocratica della nostra presenza ca-
lata dall’alto, come rappresentanti di uno stato lontano che per ragioni quasi miste-
riose “sceglie” le sue eccellenze. In fondo in quel momento eravamo dei rappresen-
tanti dello stato che non andavano solo a documentare e a “prelevare” dei “campioni
di patrimonio”, ma anche a comunicare ufficialmente a queste persone che lo stato li
aveva “scelti” per rappresentare un’eccellenza italiana. Paradosso dell’antropologo che
nel lavoro sul campo si trova a rivestire più panni, dal funzionario che cala dall’alto,
all’antropologo engaged, al critico decostruttore di processi di patrimonializzazione.
La stessa dinamica dello stupore e la stessa sensazione di spaesamento nel sentirsi
“eletti” dallo Stato a rappresentare un’identità nazionale presso l’UNESCO c’è stata da
parte dei media locali. Nonostante uno dei sindaci da noi incontrato casualmente in
una festa, alla magica parola “UNESCO” da noi pronunciata, si fosse presentato dicen-
doci che la “sua” festa sarebbe stata presto candidata all’UNESCO e che il riconosci-
mento lo avrebbero “vinto” sicuramente (candidatura poi mai avviata), anche i giornali
locali erano del tutto ignari che l’alto viterbese aveva avuto il privilegio di entrare
nell’inventario della Dieta Mediterranea.
Racconto un aneddoto. Nell’estate 2010, periodo in cui la Dieta Mediterranea era in
procinto di ottenere il riconoscimento UNESCO (ottenuto a novembre dello stesso
anno), mi trovavo casualmente a Bolsena, uno dei paesi coinvolti dal progetto PACI.
Ero lì per partecipare ad un pranzo a base di pesce di lago preparato da un pescatore
che avevo conosciuto in occasione della campagna di catalogazione. Il pranzo sul lago
era stato organizzato da un amico del pescatore per fare assaggiare ad alcuni giorna-
listi del Nuovo Corriere Viterbese la famosa “sbroscia”, la zuppa tradizionale di pesci
di lago che era stata uno dei fulcri della catalogazione di quell’area. Durante il pranzo
i giornalisti con grande stupore appresero da me (che ero lì in virtù di miei rapporti per-
sonali che avevo con i pescatori) che quel piatto era parte della catalogazione sulla
Dieta Mediterranea che stava per ottenere il riconoscimento UNESCO. Molto pronta-
mente il giorno dopo il giornale pubblicò un altisonante articolo che celebrava la “sbro-
scia” come Patrimonio UNESCO dell’Umanità20, un articolo che nel titolo, a parte i ri- 20 - S. Cortigiani, “La
svolti leggermente comici (“la sbroscia patrimonio UNESCO”), faceva riferimento al ‘sbroscia’ patrimonio
ruolo decisivo che appunto la “sbroscia” e il lago di Bolsena avrebbero avuto nella UNESCO. La dieta
“promozione” (ritorna il ruolo di uno Stato che “elegge” in modo sacrale le sue eccel- mediterranea promossa
lenze) della dieta mediterranea all’UNESCO. grazie al binomio cibo-
Andando contro lo spirito della Convenzione del 2003, che mette al centro le comu- cultura del lago di Bolsena”,
nità detentrici del bene e la loro consapevolezza patrimoniale, con la candidatura “mi- Il Nuovo Corriere Viterbese,
nisteriale” della Dieta Mediterranea una “comunità immaginata” di lettori viterbesi ha 27 agosto 2010.
appreso, solo a candidatura presentata e per ragioni del tutto casuali, di essere parte
di un progetto nazionale di questa portata e di “possedere” – venendone a cono-
scenza solo dopo la compilazione di un inventario “tecnocratico” – un patrimonio ali-
mentare” che si candidava ufficialmente come rappresentante dell’intera nazione per
essere iscritto nella Lista Rappresentativa del patrimonio Immateriale UNESCO. È facile
prevedere quali saranno le ricadute reificatorie (o di altro tipo, resistenze, manipola-
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zioni, ecc. ecc.) che tale politica culturale – globale e nazionale – potrà avere sulle ri-
definizioni identitarie nell’area viterbese. Appare evidente ancora una volta il tipo di
arena del tutto nuova che l’UNESCO (e le politiche culturali nazionali) hanno prodotto
a livello locale nella dinamica definizione (e reificazione) identitaria.

Inventari “bassi”: Il Palio di Siena


Se questi sono gli scenari che l’antropologo si trova a fronteggiare “ai tempi del-
l’UNESCO”, quando lo Stato interpreta la Convenzione secondo presupposti ed inte-
ressi non sempre chiari, altri casi vanno in direzione opposta, come quello del Palio di
Siena. La candidatura del Palio di Siena, preparata nel corso del 2010, ha infatti seguito
un percorso che possiamo definire bottom-up, essendo partita dalla “comunità”, anzi
dalla molteplicità delle “comunità patrimoniali” del territorio urbano. Da questo punto
di vista Siena rappresenta forse un caso da manuale per quanto riguarda la partecipa-
zione della comunità e la consapevolezza patrimoniale nei confronti delle sue espres-
sioni collettive. Com’è noto infatti la candidatura è partita dal Comune di Siena (in par-
ticolare dall’allora Sindaco), che è l’organizzatore ufficiale del Palio, ma con la condivi-
sione formale del Magistrato delle Contrade, massima espressione della partecipazione
delle 17 contrade e del Consorzio per la Tutela del Palio di Siena, quest’ultimo una vera
e propria “comunità patrimoniale” antica, nata nel 1981 per tutelare e valorizzare il
Palio, prima che il concetto di “patrimonio immateriale” entrasse nell’uso comune. Si
è trattato quindi di una candidatura che – nello spirito della Convenzione – ha avuto
una partecipazione ampia nella comunità, nonostante i conflitti interni che l’hanno ca-
ratterizzata sul piano politico-culturale e le interpretazioni che si possono produrre
sulla decisione della città di voler misurare il celebre Palio – per la prima volta nella sua
storia – con platee di giudizio e vetrine internazionali così complesse e burocraticizzate.
Rispetto agli inventari, visto il carattere locale di questa candidatura non stupisce se ini-
zialmente l’obbligo imposto dal Mibac di produrre un inventario del Palio con schede
BDI da commissionare ad un antropologo catalogatore, sia stata accolto con qualche
perplessità e preoccupazione da parte dei proponenti la candidatura, tanto più che sul
Palio esiste una sterminata produzione sia audiovisiva che bibliografica. A Siena l’an-
tropologo-catalogatore rappresentava, almeno inizialmente, una presenza estranea,
che si inseriva in un contesto denso e già fortemente consapevole del valore patrimo-
niale dell’evento che si andava a candidare. Questo aspetto, unito alla forte articola-
zione partecipativa sulla quale ruota il Palio di Siena, ha fatto sì che l‘esperienza di ri-
cerca fatta per l’inventario del Palio si avvicinasse ad una vera e propria esperienza et-
nografica classica, dove da una parte c’è uno “straniero” che vive lo spaesamento della
“prima volta” e dall’altra una “comunità” che deve fronteggiare una presenza estra-
nea, con tutto quello che ciò comporta in termini di articolazione dei rapporti tra ospi-
talità formale, timori e forme di controllo. Non solo come antropologa calata dall’alto
non sono stata accolta con lo stupore fanciullesco di chi – vedi la Dieta Mediterranea
– viene prescelto dallo Stato, ma ho vissuto in pieno, come nella più classica delle espe-
rienze etnografiche, lo spaesamento derivato dalla consapevolezza di non possedere
nei confronti di questo evento, alcun sapere accademico da poter rivendicare, essendo
alcuni dei miei interlocutori essi stessi antropologi e io del tutto bisognosa di essere
educata e guidata verso gli eventi che andavo a documentare.
Diversamente da quanto era accaduto nella mia esperienza passata, quando documen-
tavo e catalogavo senza pormi troppo il problema di dover condividere le scelte con i
miei interlocutori, nel caso di Siena tutto il lavoro dell’inventario si è svolto quindi nella
totale condivisione con una comunità “patrimoniale” forte: nella scelta del responsa-
bile scientifico, nella definizione degli eventi da “patrimonializzare” nella scheda, nella
quantificazione del numero delle schede e in tutti quei passaggi delicati che hanno ca-
ratterizzato i miei rapporti con gli interlocutori. Non semplici informatori passivi dun-
que, che scoprono di essere stati scelti, ma attivi agenti patrimoniali. Ciò da un lato ha
facilitato il lavoro, che ha seguito la linea di un “inventario condiviso” (io ero un “tec-
nico” che si è messo al servizio di una comunità che lo aveva chiamato), dall’altro ha
in qualche modo prodotto una forma di engagement, una solidarietà, un vincolo di re-
ciprocità che ha impedito all’antropologo di sentirsi totalmente “libero” di definire, nei
suoi stessi termini, cosa fosse e cosa non fosse nel Palio il patrimonio immateriale da
fare rientrare nelle schede.
Ad articolare ulteriormente il lavoro dell’inventario è stato il particolare momento po-
litico nel quale come antropologa mi sono trovata ad operare sul Palio, esattamente
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nel momento delle maggiori polemiche che a livello nazionale hanno riguardato le cri-
tiche degli animalisti sul Palio, polemiche che come è noto sono state riprese dal
Ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla, provocando l’esclusione del Palio dalla
candidatura da parte dello stesso Mibac21. 21 - Le vicende politiche e
Nell’agosto 2010 un deputato PD senese rispondeva alla ministra annunciando una mediatiche che hanno
proposta di legge che riconoscesse il palio come “patrimonio culturale della nazione”. segnato la candidatura del
Non posso entrare ulteriormente nel merito delle vicende e anche delle reali motiva- Palio di Siena nel corso del
zioni che hanno determinato tale esclusione, che appartengono più alla sfera politica 2010-2011 e che si sono
che animalista. Ciò che è importante sottolineare è invece la particolare caratterizza- concluse con l’esclusione
zione che ha assunto in questo caso l’inventario in relazione al lavoro dell’antropologo. della candidatura da parte
Tra i numerosi esempi che si potrebbero riportare, quello forse più pregnante riguarda del Mibac, sono
proprio il modo in cui fare emergere nell’inventario tutto il mondo che ruota intorno estremamente interessanti
ai cavalli, da intendersi sia come saperi che come pratiche rituali; un campo delicato, per l’antropologo ed
sul quale in quei mesi molte polemiche erano nate da parte dell’ENPA (Ente Nazionale evidenziano bene le
Protezione Animali), nella convinzione che ci fosse un presunto maltrattamento di que- articolazioni di senso (e le
sti animali durante il Palio. Portata ad esplorare dinamiche e pieghe anche conflittuali manipolazioni) identitarie
dei processi culturali e di patrimonializzazione, l’abito dei cavali nel Palio era quindi par- che a livello locale e
ticolarmente interessante perché si trattava di un ambito conflittuale sul quale conver- nazionale sono state
gevano, da un lato istanze nazionali – politiche ed etiche – che si richiamavano a va- prodotte sul Palio stesso.
lori globali e dall’altro istanze patrimoniali locali – culturali e affettive – che si richiama- Molto ampia è la rassegna
vano ai valori, altrettanto globali, del patrimonio e della partecipazione alle pratiche stampa sul Palio, che
culturali. presenta toni conflittuali già
In tema di cavalli presto mi accorsi che esisteva un mondo estremamente denso, che diversi anni prima che
rientrava in un ambito vicino alle tradizioni popolari, un mondo contradaiolo che venisse presentata la
amava, curava, coccolava, gestiva e quindi patrimonializzava con saperi, tecniche e candidatura e che hanno
pratiche rituali i cavalli scelti per correre la “Carriera”; un mondo che affondava le sue preparato il terreno della
radici in pratiche consolidate di lunga durata. Tuttavia, oltre a questo esisteva anche candidatura stessa (vedi ad
un mondo “nuovo” fatto di istanze diverse, fatto di équipe di veterinari, di controlli es. le condanne da parte
medici rigorosi, di tecnologie mediche messe al servizio dell’animale e di apparati or- dell’ENPA e dell’ANPANA [es.
ganizzativi estremamente attuali, attivati in anni recenti dal comune (protocolli adde- Bollettino ottobre 2007:
strativi, ecc. ecc.), al fine di garantire la sicurezza di questi animali. Come comportarsi www.anpana.tutelaequini.
nei confronti di questo tema, tenendo conto sia della mia esigenza di indicare nell’in- org/2007/10/24/bollettino-
ventario gli aspetti più “tradizionali” di queste pratiche, sia della volontà espressa dai ottobre/]). Una dinamica che
miei interlocutori di fare emergere la “modernità” del patrimonio immateriale che in merita un’analisi specifica.
quel particolare momento storico-politico riguardava i cavalli?
Più mi avvicinavo al Palio (pur nella breve esperienza fatta) più mi rendevo conto che i
cavalli, al di là dei costumi, delle “comparse” e delle coreografie, erano il vero patri-
monio immateriale dell’evento. Ma solidarizzavo anche con i miei interlocutori e con la
loro esigenza che nelle schede emergesse il Palio moderno, quello organizzato nel ri-
spetto dell’Ordinanza del 2009 del sottosegretario alla Salute Francesca Martini per la
tutela degli animali, che ha fatto di Siena un modello di riferimento; che si potesse ve-
dere la cura con la quale sono trattati i cavalli, l’affetto, il legame che contradaioli e
amministrazione comunale avevano ed hanno nei confronti di questi animali. Più en-
travo nel campo più il mio engagement e la mia solidarietà diventavano forti nei con-
fronti dei miei committenti, i quali mi chiedevano di fare emergere nell’inventario
quanto articolata e “moderna” fosse tale realtà, ben più di quanto non apparisse dalle
parole approssimative di condanna pronunciate dalla Ministra del Turismo. La scelta è
caduta infine su un compromesso tra saperi e pratiche rituali, laddove i saperi hanno
privilegiato gli aspetti moderni relativi alla attuale gestione dei cavalli, mentre le prati-
che hanno riguardato quegli aspetti rituali consolidati, come ad esempio la benedi-
zione del cavallo, le entrate e le uscite rituali dei cavalli dalla piazza, ecc.
Il caso di Siena ha rappresentato nella mia esperienza un esempio di come la pratica
degli inventari “ai tempi dell’UNESCO” evidenzi processi interpretativi nei quali è evi-
dente l’influenza di istanze patrimoniali delle comunità, ma ha mostrato anche in che
misura queste istanze locali possano essere influenzate a loro volta da valori globali e
da dibattiti politici nazionali che possono influenzare negativamente le stesse candida-
ture e nei cui confronti le comunità tentano di difendersi come possono.
Nel caso delle due candidature e dei relativi inventari che abbiamo visto – Dieta
Mediterranea e Palio – è evidente l’azione di filtro forte e ambivalente esercitata dallo
Stato nei confronti delle comunità; nel primo caso come organo che sceglie dall’alto le
sue eccellenze, eleggendo però quasi casualmente un’area a sua stessa insaputa,
50

nell’altro bocciando una candidatura e provocando in seno alla società senese forti po-
lemiche sull’UNESCO, sul senso della Convenzione e della partecipazione delle comu-
nità nella definizione del patrimonio immateriale.

Arene patrimoniali ai tempi dell’UNESCO e omologazione catalografica


Non so se sia una coincidenza il fatto che ad ottenere il riconoscimento UNESCO nel
2010 è stata una candidatura che ha prodotto un inventario estraneo dalla partecipa-
zione di una o più comunità – la Dieta – mentre la candidatura che ha prodotto un in-
ventario realmente partecipato – Il Palio – non è neanche arrivata a Parigi ma si è fer-
mata prima per questioni conflittuali interne alle vicende nazionali. Se non fosse un
caso, questa coincidenza getterebbe una luce sinistra sulla reale partecipazione delle
comunità nelle candidature rispetto al filtro degli Stati.
Ma al di là di ciò, il campo degli inventari “ai tempi dell’UNESCO” si rivela strategico
per l’antropologo perché, come ho tentato di mostrare, evidenzia un fitto articolarsi di
mondi patrimoniali, arene del contemporaneo che nascono e si sviluppano tra ambiti
locali e nazionali, ma entro cornici globali che costringono a farsi largo e a trovare una
collocazione tra il linguaggio burocratico e omologante dell’UNESCO, necessario per
poter effettuare la candidatura, e quello altrettanto omologante della catalogazione
nazionale. Una varietà di articolazioni delle diverse comunità, patrimoniali e non, sul
territorio che richiede un monitoraggio più profondo perché è su queste dinamiche del
contemporaneo che si articolano oggi molte dinamiche identitarie e nuove forme di
messa in valore dei fenomeni culturali collettivi.
Più in generale si è visto come la catalogazione, quando è commissionata, seppure for-
zatamente, dagli stessi proponenti della candidatura, costringa in qualche modo i rap-
presentanti delle comunità a riflettere su cosa inserire nel novero del proprio bene da
candidare. L’inventario nazionale, come ho già mostrato, costringe a distinguere
nell’ambito di quel determinato bene, i diversi aspetti del bene che si ritiene conten-
gano un valore di patrimonio immateriale (un particolare rito dentro il bene stesso, un
canto, una tecnica specifica, un sapere, ecc.). Anche se si tratta sempre di un inventa-
rio “civilizzato”, ciò costringe i soggetti collettivi ad una riflessione sul senso tutto con-
temporaneo da attribuire al proprio bene in un particolare momento storico, entro
arene e stili che si muovono su più livelli tra dinamiche politiche e processi culturali. Se
si deve decidere cosa inserire, tra le tante possibilità, in un inventario nazionale relativo
al “proprio” bene che va a candidarsi, è facile che si inizi a riflettere sia sul valore pa-
trimoniale che si attribuisce a quell’evento, ma anche alle circostanze contingenti en-
tro le quali si va a produrre quell’inventario (opportunità politiche del momento, ef-
fetto vetrina-eccellenza, ecc.).
Nello specifico le criticità e i punti salienti del rapporto tra inventari, comunità e com-
petenze antropologiche possono essere così riassunti:
1. Innanzitutto, al di là di alcuni casi specifici, la catalogazione del patrimonio imma-
teriale prodotta in Italia a supporto delle candidature UNESCO continua a non
avere un rapporto realmente partecipato con le comunità proponenti perché, an-
che nei casi in cui l’inventario è stato prodotto in modo più condiviso, di fatto le
schede sono percepite come corpi estranei imposti dall’alto, che vengono accettate
solo per poter mandare avanti la candidatura, ma senza che se ne comprenda la
natura o che ne venga in qualche modo spiegata l’articolazione.
2. In secondo luogo, anche a posteriori le schede continuano ad avere una gestione
centralizzata. Benché commissionate e pagate dai proponenti delle candidature,
queste, oltre a fare parte di un catalogo nazionale (ciascuna scheda possiede un
Numero di Catalogo Generale che è nazionale), vengono controllate e corrette da
funzionari dello Stato non appartenenti a quelle comunità, i quali verificano che le
schede siano corrette, sia sul piano della scelta dei beni da documentare, sia nella
compilazione formale dei campi, secondo la normativa. In realtà il visto obbligato-
rio sulle schede viene messo dalla soprintendenza competente, ma come sappiamo
non ci sono funzionari antropologi nelle soprintendenze nazionali.
3. La stessa ambiguità riguarda la proprietà dei supporti e delle schede, proprietà che
in questo caso è dei committenti, i quali tuttavia, non avendo scelto loro stessi di
commissionare il lavoro, di questi supporti e delle stesse schede non sanno bene
cosa farne, anche perché la scheda nasce già informatizzata e per essere letta ha
bisogno di un Sistema Informativo (Sigec) che è in dotazione solo alle soprinten-
denze e all’ICCD. Chi commissiona l’inventario non può quindi fruire delle schede,
51

che rimangono in gestione alle soprintendenze. I committenti hanno infatti l’ob-


bligo di depositare le schede prodotte dagli antropologi presso la competente
Soprintendenza, la quale tuttavia spesso non sa come gestire o valorizzare questo
materiale catalografico demoetnoantropologico perché mancano nelle soprinten-
denze i profili antropologici adeguati.

Da questo breve riassunto e dagli esempi che ho riportato che derivano da esperienze
dirette, è evidente come nell’epoca attuale ci troviamo in una fase di compresenza di
diverse visioni e pratiche patrimoniali in ambito UNESCO, che oscillano dal centralismo
ministeriale (le candidature nazionali con i loro inventari up-bottom che ricadono con
modalità quasi sacrali sulle comunità “elette”) alle candidature locali con i loro inven-
tari contingenti, riflessivi e condivisi, visioni e pratiche nelle quali l’antropologo, come
sempre accade, si trova in una posizione di mediazione.

Riferimenti bibliografici
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Per una etnografia engaged del patrimonio culturale immateriale
L’‘inventario partecipativo’
della festa della Madonna del Monte di Marta

Alessandra Broccolini

1. Partecipazione e patrimonio culturale immateriale tra valori glo-


bali e società civile

Questo saggio illustra le prime fasi di un progetto di ‘inventario


partecipativo’ del patrimonio culturale immateriale relativo ad un
evento festivo dell’alto viterbese1 – la festa della Madonna del Monte
di Marta in provincia di Viterbo – ed ha come obiettivo, a partire da
un’esperienza etnografica, quello di sollevare alcune domande che il
tema della partecipazione pone nel ‘paradigma patrimoniale’ immate-
riale, sia per l’antropologo che per i soggetti e le comunità coinvolte.
Pur collocandosi nell’ampio scenario di dibattiti e di esperienze
scaturiti dalla Convenzione UNESCO del 2003 (Convenzione per la
Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale), nei quali è cen-
trale il tema della partecipazione nella identificazione e salvaguardia del
patrimonio immateriale, si tratta di un progetto di inventario che per
l’Italia non può avvalersi di molte esperienze di terreno simili utili per
la comparazione,2 benché la riflessione sulla dimensione partecipativa
del patrimonio culturale immateriale sia avviata. Rappresenta, quindi,
un processo che andrà monitorato nel tempo-lungo delle dinamiche
partecipative e particolarmente complesso da restituire nella scrittura.
1 La ricerca, alla quale partecipano, oltre a chi scrive, Katia Ballacchino e più di

recente Francesca Castano, è parte di un progetto più ampio sviluppato da Alessan-


dra Broccolini e Vincenzo Padiglione, con la partecipazione di Tommaso Rotundo,
parzialmente finanziato da “Sapienza Università di Roma”, il cui obiettivo generale è
quello di esplorare localmente gli effetti della Convenzione UNESCO del 2003.
2 La riflessione antropologica sugli “inventari partecipativi” si innesta sul dibattito

intorno al patrimonio immateriale e alla Convenzione UNESCO del 2003. In Italia tale
dibattito verte principalmente sui lavori di Chiara Bortolotto (2011; 2013a), di Bor-
tolotto, Severo (2011), dell’Associazione ASPACI (2010; 2011; 2013) e sulle riflessioni
scaturite nell’ambito dell’attività di Simbdea ICH; cfr. Broccolini, 2011; 2012; 2015a.
Sul dibattito italiano intorno al patrimonio culturale immateriale e ai temi della parte-
cipazione, si vedano: Clemente, 2015; Broccolini, 2015b e Zingari, 2015.
46 Alessandra Broccolini

L’antropologo è storicamente familiare con la pratica della parteci-


pazione (la parabola della ‘osservazione partecipante’), la quale tuttavia
lo ha riguardato principalmente in passato come soggetto che ‘parte-
cipa’ (osservandole) alle vite degli altri. Com’è noto, a questa postu-
ra epistemologica, in connessione con approcci etnografici riflessivi,
si sono affiancati nel tempo orientamenti più collaborativi che hanno
riconosciuto ai cosiddetti ‘informatori’ un ruolo via via sempre mag-
giore nel processo conoscitivo, in veste di collaboratori o co-autori che
“partecipano” al lavoro e alla scrittura dell’antropologo (le ‘etnografie
collaborative’). È tuttavia nell’ampio dibattito sull’advocacy antro-
pologica3 che si colloca il passaggio da un’antropologia intesa come
conoscenza pura ad un’antropologia prima ‘applicata’ e in seguito mi-
litante engaged, activist, o public.4 Una antropologia che subordina il
fine conoscitivo al fine ‘etico’ dell’impegno con le comunità e con i
soggetti che studia, dove la partecipazione viene discussa e attuata sia
come impegno per l’antropologo a sostenere obiettivi e finalità sociali
che come ruolo attivo di soggetti e comunità.5
In ambito politico e sociale il tema della ‘partecipazione comunita-
ria’ (community participation, community work, ecc) appartiene ad un
ampio orizzonte di azione risalente almeno agli anni ’60, che ha interes-
sato soprattutto il campo delle politiche locali, della progettazione, della
salute e dei servizi sociali.6 Mentre sul terreno antropologico la vediamo
nell’ambito dello sviluppo, dove è stata teorizzata a partire dagli anni
’80 con la crisi degli approcci top-down o expert-oriented, diventando
quasi un dogma dei progetti di sviluppo.7 In entrambi i campi la parteci-
pazione è stata teorizzata e messa in pratica allo scopo di mettere la gen-
te comune al centro dei processi decisionali e delle politiche di sviluppo
e di operare un loro coinvolgimento nell’azione, laddove in precedenza
avevano un’influenza limitata, al fine di migliorare la sostenibilità degli
interventi, la rilevanza e l’empowerment. Nel campo dello sviluppo, tut-
tavia, almeno a partire dagli anni ’90 sulla base delle numerose esperien-
3Hastrup, Elsass, 1990.
4Lassiter, 2005a; Lassiter, 2005b.
5
Su questo campo: Low, Engle Merry, 2010; Unterberger, 2009; Stanford, Angel-
Ajani, 2006; Beck, Maida, 2013; Sillitoe, 2015.
6 Arnstein, 1969; Wilcox, 1994 (cfr. ad esempio http://cec.vcn.bc.ca/gcad/mod-

ules/stratski.htm).
7 Cfr. Craig, Mayo, 1995; Tommasoli, 2001.
Per una etnografia engaged del patrimonio culturale immateriale 47

ze raccolte, l’approccio partecipativo è stato sottoposto ad una serie di


critiche che hanno fatto parlare della partecipazione come di una nuova
forma di ‘tirannia’, che nasconderebbe una diversa forma di egemonia,
ugualmente dannosa per le comunità.8
Nel campo del patrimonio culturale il tema della partecipazione è
stato teorizzato nel dibattito internazionale fin dagli anni Settanta so-
prattutto nell’ambito della ‘Nuova Museografia’ da Hugues De Varine
e da altri;9 ha avuto diversi campi di applicazione in paesi che guardava-
no ad una finalità sociale del patrimonio culturale, in modo particolare
in paesi latinoamericani come il Brasile,10 ed è andato incontro ad un
progressivo riconoscimento in diversi strumenti normativi interna-
zionali anche in Europa, tra i quali, riguardo agli aspetti immateria-
li, la citata Convenzione UNESCO del 2003 sul patrimonio culturale
immateriale e la Convenzione di Faro del 2005,11 che enfatizzano la
centralità dei portatori (o ‘comunità di eredità’) – protagonisti e non
più subalterni – nell’identificazione e nella trasmissione di determinate
espressioni culturali. Nel nostro paese, per quanto riguarda i cosiddetti
beni demoetnoantropologici, il riconoscimento del ruolo delle comu-
nità e dei soggetti nella vitalità e nei processi di trasmissione culturale
ha seguito a partire dagli anni ’60 un percorso articolato e interno allo
scenario politico e culturale italiano del secondo dopoguerra.12 Si tratta
di un processo che appare sconnesso dalle istituzioni centrali e dal-
la legislazione,13 ma è visibile a livello locale, sebbene con andamenti
‘carsici’, nel campo dei musei, degli eventi festivi e delle fonti orali.
Qui la domanda partecipativa nei confronti della cultura popolare e
dei suoi protagonisti è scaturita da istanze politiche e da una visione
di classe legata ai movimenti sociali e al mondo dell’associazionismo
culturale prodotti dal fenomeno del folk revival,14 che volevano dare
visibilità storica ai ceti subalterni, secondo una visione tuttavia che era
8 Cooke, Kothar, 2001.
9 De Varine, 2005 [2002].
10 Bortolotto, 2011; Arantes, 2009.
11 Convenzione Quadro del Consiglio d’Europa sul Valore dell’Eredità culturale

per la società (2005); cfr. Ferracuti, 2009 e 2011; Zagato, 2013.


12 Clemente, 2015; Fanelli, 2015; Ballacchino, 2014; Broccolini, 2015.
13 L’attuale Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, del 2004, infatti, pur ricono-

scendo i beni etnoantropologici, non è concepito in termini di finalità sociale, quanto


con intenti prettamente scientifico-conservativi di tutela e valorizzazione.
14 Dei, 2002.
48 Alessandra Broccolini

di classe piuttosto che territoriale-di comunità.15 Nelle istituzioni cen-


trali il modello che ha prevalso è stato invece di tipo documentale e ha
prodotto, archivi, catalogazione e conservazione museale, dove i pro-
tagonisti o la comunità più ampia sono divenuti oggetti di conoscenza
scientifica e conservazione.
Oggi, nell’attuale participatory turn che caratterizza l’ambito
dell’intangible heritage, la modalità partecipativa, da un lato, ci appa-
re una conseguenza dei processi di democratizzazione che dal basso
si stanno attuando attraverso un sempre maggiore accesso alle nuove
tecnologie e ai media (l’esserci nella Rete globale, il prendere ‘voce’ dei
territori; la proliferazione di reti tra soggetti portatori di espressioni
del patrimonio immateriale). Ma è diventata, dall’altro, anche un valore
globale, obiettivo da raggiungere in connessione con una idea di svi-
luppo che vede attivare processi di democratizzazione. I citati recenti
strumenti della legislazione internazionale sui beni culturali sempre
più enfatizzano infatti il ruolo delle comunità e l’attivazione di proces-
si dal basso come obiettivi da perseguire e la Convenzione UNESCO
del 2003 contiene espliciti riferimenti alla partecipazione comunitaria
in relazione ad una idea di sviluppo sostenibile.16
In questo scenario il campo degli inventari del patrimonio cultu-
rale è diventato centrale nei dibattiti sulla partecipazione, perché l’atto
stesso da parte di una collettività (di suoi determinati rappresentanti)
di identificare e “de-scrivere” (oggettivizzandolo) un determinato ele-
mento culturale è visto come il primo passo per attuare una consape-
volezza volta alla salvaguardia. L’enfasi attuale sui cosiddetti commu-
nity-based inventories (“inventari partecipativi”),17 che l’UNESCO ha
promosso nell’arena di discussione a ridosso della Convenzione, va in
questa direzione. Tuttavia, gli esempi e le pratiche di partecipazione
delle comunità e dei territori che abbiamo a disposizione nella lettera-
tura di ambito internazionale lasciano a volte perplessi sui modi diversi
di intendere l’atto della partecipazione; e la stessa idea di comunità che
le è sottesa spesso varia molto, a volte mascherando politiche nazionali,
in cui il ruolo dei territori finisce per essere poco chiaro o fortemente
marginale.
15
Fanelli, 2013.
16
Broccolini, 2015.
17 Arantes, 2009; UNESCO, 2010; ASPACI, 2011, 2013; cfr. Broccolini, 2015.
Per una etnografia engaged del patrimonio culturale immateriale 49

Tutto ciò sta portando alla nascita di uno spazio di dibattito nel cam-
po dell’immateriale (o in Italia dei “beni demoetnoantropologici”) che
vuole rileggere il ruolo di un’antropologia che sempre più è chiamata a
lavorare non solo SUL patrimonio, ma PER il patrimonio, che guardi
anche all’engagement con le comunità e all’attivazione di processi dal
basso di patrimonializzazione, oltre all’acquisizione di documentazio-
ne, o ad un approccio critico attento agli aspetti processuali nei processi
di “mediazione del patrimonio”.18 Non, dunque, solo la costruzione di
un discorso scientifico, documentale o critico (che permane come am-
bito di competenze prettamente antropologiche), ma anche un ruolo di
mediazione attivo che metta le proprie competenze e il proprio sapere
al servizio della riconoscibilità e della salvaguardia della diversità cultu-
rale. Questo diverso ruolo dell’antropologo è ancora tutto da esplorare
e da mettere alla prova, anche e soprattutto criticamente.19
Per questo motivo è più che mai necessario che l’antropologia ri-
fletta su questi temi a partire da casi e da esperienze etnografiche spe-
cifiche e il campo degli inventari si presta all’osservazione, sia perché
in Italia la catalogazione scientifica dei beni demoetnoantropologici ha
una lunga tradizione istituzionale di pratiche e di sperimentazione, ma
anche perché, come si è detto, è sugli ‘inventari partecipativi’ che si
gioca una parte importante del dibattito UNESCO relativo ai valori
globali della partecipazione.
Numerose sono le questioni che devono entrare nell’agenda di un
progetto che voglia costruire e monitorare un processo partecipativo
locale intorno alla identificazione e oggettivazione di una espressione
culturale complessa come è una festa tradizionale. Prima fra tutte, la ne-
cessità di considerare le dimensioni locali della partecipazione, in quegli
ambiti che collochiamo nella sfera dell’immateriale, che ne accompa-
gnano anche i mutamenti; quelle ‘tradizioni dell’invenzione’ che per
esempio nelle feste hanno fatto sì che molte cerimonie festive arrivasse-
ro fino a noi. Spesso si tratta di micro- o anche di macro-mutamenti che
18 Padiglione, 2008, p. 210.
19 A questo proposito per meglio immaginare il nuovo scenario di mediazione che
l’antropologia si appresta ad attraversare nel campo del patrimonio, Pietro Clemente
ha di recente proposto l’immagine di un’antropologia ‘giardiniera’, attenta a ‘coltivare’
la diversità culturale, piuttosto che a studiarla scientificamente prelevandone delle parti
(Clemente, 2013-2014, p. 23), secondo quello che è stato definito un approccio ‘mine-
rario’ o di prelievo nello studio delle culture (Olivier de Sardan, 2009, p. 37).
50 Alessandra Broccolini

si sono verificati a partire da conflitti, azioni di forza, o negoziazioni


dentro confraternite, associazioni religiose, culturali, comitati, pro loco
o giunte comunali, che hanno alla base processi partecipativi di lunga
durata, che si presentano oggi nel tempo lungo della loro pratica come
esercizi locali di democrazia, nonché momenti legati alla formazione di
leadership e di consenso dentro lo scenario politico.20 Ogni territorio
esprime delle modalità proprie, che vivono dentro le storie locali e che
hanno a che fare con fattori di continuità e di creatività. Su questi pro-
cessi dobbiamo rimanere vigili se vogliamo mantenere una competenza
nella capacità di ascolto dei territori, nella quale la finalità ‘educativa’
alla salvaguardia non prevalga sul contesto locale (che è la vera espres-
sione della diversità culturale) e non si renda egemone.
Un inventario che sia partecipato dai protagonisti e mediato
dall’antropologo apre poi altre questioni, che riguardano ad esempio
il ruolo dell’antropologo engaged dentro le comunità, ruolo faticoso
e in bilico tra negoziazione di valori o significati e rivendicazione di
competenza, voce tra le voci, o voce che rivendica una competenza
(egemonica?) sulle altre. La pratica dell’inventario chiama poi in cau-
sa processi di oggettivazione culturale (la catalogazione consiste in un
processo di oggettivazione) che sono radicati nelle politiche culturali e
nei cui confronti ci si deve aspettare una reazione locale che può essere
di sorpresa, di indifferenza o anche di passiva subordinazione (dunque
volontariamente disinteressata alla partecipazione); ma è un processo
che va anche ad incontrarsi (o scontrarsi) con pratiche oggettivizzanti
preesistenti (su ‘cultura” e “tradizioni’) e con forme di essenzializza-
zione culturale che sono sedimentate nelle retoriche locali, le quali ren-
dono necessario un monitoraggio costante di questi processi di ogget-
tivazione, sia di quelli preesistenti l’avvio dell’inventario, sia di quelli
successivi prodotti da esso. Come osserva Paul Rabinow:
Quando un antropologo entra in un determinato contesto cul-
turale, spinge la gente a oggettivizzare il loro mondo per lui. In tutte
le culture sono già presenti processi di oggettivizzazione. Ma que-
sta esplicita traduzione consapevole in un linguaggio esterno è rara.
L’antropologo produce uno sdoppiamento nella consapevolezza […]
i dati che raccogliamo sono doppiamente mediati, innanzitutto dalla

20
Su questi temi il riferimento è alla lettura critica degli studi demoantropologici
sulla festa che ha proposto Berardino Palumbo (2009).
Per una etnografia engaged del patrimonio culturale immateriale 51
nostra stessa presenza e in secondo luogo dall’autoriflessione secon-
daria che noi chiediamo ai nostri informatori.21
In che modo, infine, dobbiamo declinare la nozione di ‘comunità’
che così poco è definita dall’UNESCO e che localmente si articola in
modi complessi e spesso conflittuali tra istituzioni, mondo associa-
tivo, pro loco, comitati, rappresentanze politiche e gruppi religiosi?

2. Il lavoro sull’‘inventario partecipativo’ della festa della Madonna


del Monte di Marta

Il Comitato che organizza la festa22 è molto attento a gestire la sua


immagine nella stampa e sui social network e negli anni ha traghettato
la festa nella modernità, operando dei cambiamenti di tipo estetico-
formale, anche nell’adozione di un abbigliamento festivo ‘di categoria’,
secondo linee che vanno verso una idea di ‘autenticità’; un processo
rilevante ai fini del lavoro sull’inventario. Interessante anche il rappor-
to con la storia e le fonti storiche, in quanto nelle forme attuali delle
‘Passate’, l’origine della festa viene indicata all’inizio del secolo XVIII
a partire da un conflitto tra la Curia Vescovile e i frati Minimi che abi-
tavano nel convento,23 un evento al quale sono collegate molte altre
vicende ancora oggi fortemente discusse localmente. La festa esprime,
quindi, un humus molto denso di vicende storiche e di fonti, che sono
ancora oggi molto vive localmente nel processo interpretativo. A que-
sta attualizzazione delle fonti storiche si aggiunge una vivace parteci-
pazione trasversale alla festa da parte di singoli e di gruppi, di differenti
generazioni, che continuamente negoziano, trasformano o si oppon-
gono ad alcune sue direttive, determinando la dinamica festiva nella
sua complessità e nella sua oscillazione tra norme, valori e creatività.

21 Rabinow, cit. in Unterberger, 2009, p. 1. Traduzione dell’autrice.


22
Il Comitato festeggiamenti Madonna SS.ma del Monte, è nato nel secondo
dopoguerra per organizzare la festa, ma dal 2010 si è trasformato in associazione no
profit. Come si può leggere dal sito: “(Esso) conserva ancora oggi il suo obiettivo
primario, ma si prefigge anche l’intento di recuperare le tradizioni storiche e gli aspetti
antropologici legati alla festa, promuovendo ricerche di archivio, studi specialistici e
pubblicazioni che facciano conoscere e apprezzare quella che a Marta è ‘la nostra fe-
sta’” (http://www.madonnadelmonte.it/il-comitato-festeggiamenti/il-comitato.html).
23 Bernardinetti et al., op. cit., p. 47 e sg.; Prugnoli, 1998.
52 Alessandra Broccolini

Il lavoro sull’inventario si inserisce entro la cornice di un’etnogra-


fia collaborativa che guarda alla condivisione con soggetti e comunità
collocate nel dibattito pubblico e che nel campo del patrimonio imma-
teriale si innesta sui dibattiti scaturiti, come abbiamo visto, dalla Con-
venzione UNESCO del 2003. Esso è stato impostato fin dalle prime fasi
coinvolgendo un gruppo di soggetti interessati interni al contesto, che
abbiamo chiamato ‘gruppo di lavoro’, un soggetto autonomo ed indi-
pendente sia dal Comitato che dal Comune e composto da un numero
di persone che attualmente oscillano tra cinque e otto,24 nei cui con-
fronti abbiamo cercato di assumere una posizione di mediazione tra le
diverse posizioni ed interpretazioni che di volta in volta sono state for-
nite della festa e dell’inventario stesso. La costituzione del ‘gruppo di
lavoro’ è stato un processo lento non ancora formalizzato, segnato da
diversi incontri, il cui esito è passato attraverso il confronto con diversi
soggetti locali, i quali hanno reagito in modi differenti (indifferenza,
interesse, critica, ecc.) nei confronti della proposta di un inventario del-
la festa che scaturisse direttamente dai loro partecipanti e che ora – in
virtù del lavoro di oggettivazione che esso comporta – sta contribuen-
do ad evidenziare frizioni patrimoniali, interpretazioni e valori intorno
alla festa che ne sostanziano la vivacità e la forte carica identitaria.
È stata, quindi, avviata una fase di autodocumentazione della fe-
sta che ha prodotto un materiale documentario consistente, diversi
incontri con parti più ampie delle differenti comunità festive, inclu-
so il Comune, ed è stata avviata una riflessione intorno al modello di
scheda da utilizzare.25 Per queste si è deciso di sperimentare il modulo
MODI, di recente elaborato dall’ICCD come scheda sostitutiva delle

24 Il Gruppo di lavoro è composto da Katia Ballacchino, Alessandra Broccolini,

Francesca Castano e da Angelo Prugnoli, Maria Irene Fedeli, Laura Rocchi, Mauro
Chiatti, Davide Peroni, Angela Nanni e Francesco Tarquini, ma è in procinto di allar-
garsi ad altri protagonisti della festa appartenenti a diverse generazioni. Inizialmente
sono stati organizzati degli incontri informali di presentazione del progetto con alcuni
membri del Comitato e un incontro di fondazione del “gruppo di lavoro”. Da quel
momento sono stati effettuati con il gruppo incontri periodici a cadenza mensile o
bimestrale.
25 Dopo la costituzione del gruppo di lavoro e la fase di autodocumentazione

della festa, è stato organizzato un incontro pubblico per informare la comunità più
ampia (La festa della Madonna del Monte come Patrimonio Culturale Immateriale,
17 maggio 2014).
Per una etnografia engaged del patrimonio culturale immateriale 53

BDI inventariali,26 il quale, tuttavia, non è stato assunto come model-


lo rigido, ma messo alla prova nella comune volontà di individuarne
eventuali limiti e accogliere proposte di modifica da parte del gruppo
di lavoro. Infine, è stata avviata una riflessione intorno ad una futura
possibile candidatura UNESCO che si sta orientando intorno ad una
proposta di candidatura d’area intorno allo ‘spazio culturale del lago
di Bolsena’, che includerebbe in questo caso diverse altre espressioni
culturali d’area, non solo festive, come la pesca tradizionale, i saperi
relativi alla biodiversità, ecc.
La strutturazione dell’inventario non sta procedendo per schede
‘omologhe’ (più schede fra loro ‘orizzontali’) dedicate ad elementi
diversi della festa, ma per ‘mappe’. Sono state sviluppate due schede
generali chiuse, una dedicata alla festa-svolgimento e l’altra alla festa-
storia e sette mappe aperte, costituite ciascuna da un modello di scheda
da implementare con più schede specifiche.27
Tra le numerose questioni che iniziano ad emergere in itinere, pos-
siamo riassumerne alcune come segue:
1) Innanzitutto, quale ‘comunità’ è stata (e può essere) investita di un
processo partecipativo e che senso dobbiamo attribuire a questo
termine cui così spesso si fa riferimento. Anche se la Convenzio-
ne UNESCO lascia molto aperta, se non astratta, la definizione di
questo termine,28 l’antropologo spesso incontra (o a volte favori-
sce) la costituzione di specifici gruppi; nel nostro caso stimolando
la costituzione di un gruppo nuovo (‘il gruppo di lavoro’), che non
26 La scheda MODI è un modulo di scheda semplificata introdotta di recente

dall’ICCD, che per la parte riguardante le entità immateriali è stata pensata per facilitare
gli inventari finalizzati alle candidature UNESCO (www.iccd.beniculturali.it).
27 MST (Mappa Saperi e Tecniche), ML (Mappa Luoghi), MCI (Mappa Canti e

Inni), MAP (Mappa Azioni rituali e Performative), MM (Mappa Memorie), MPR (Map-
pa Persone Risorsa), MO (Mappa Oggetti).
28 Senza alcuna pretesa di introduzione al concetto, in antropologia la nozione

di ‘comunità’ è stata fondante di una disciplina che guardava con approccio sistemico
ed essenzialista a società di piccole dimensioni, considerate omogenee e dai confini
culturali e territoriali definiti (nella prospettiva dei community studies) e successiva-
mente dibattuta e decostruita negli approcci simbolici anglosassoni (vedi, ad esempio,
la comunità come ‘costrutto simbolico’ di Cohen, 1985) e nella nozione successiva
di ‘comunità di pratica’ sviluppata in ambito educativo (Lave, Wenger, 1991). Oggi
tale nozione, nell’ambito del dibattito antropologico sull’immateriale, si colloca entro
approcci processuali che guardano alla pluralità delle relazioni tra le diverse comunità
che caratterizzano i processi identitari locali.
54 Alessandra Broccolini

si identifica con nessuno dei soggetti preesistenti, ma che vuole rap-


presentarne i punti di vista e le istanze attraverso confronti con parti
più ampie. La nascita di un soggetto nuovo dà la misura della natura
dialogica del processo di mediazione attivato da un inventario che
sia partecipativo. Un processo di oggettivazione che procede per
scambi dialogici.
2) In secondo luogo, emerge la necessità di una riflessione sulle moda-
lità della partecipazione all’inventario, che nel nostro caso sembra
procedere per frictions, inglobando o facendo emergere interpreta-
zioni, valori, significati e conflittualità preesistenti, che sono quelli
che caratterizzano la stessa dinamica festiva. I diversi modi di rita-
gliarsi un ruolo, la divergenza soggettiva nelle opinioni, le leadership
condivise e contestate, tutto sembra emergere nella partecipazione a
questo progetto di inventario.
3) Con la terza riflessione arriviamo all’aspetto più rilevante del lavoro,
che può riassumersi nella domanda, sulla cui base si è iniziato ad im-
postare il lavoro: quale inventario realizzare? Domanda dalla quale
si sono immediatamente aperte una serie di domande conseguenti,
non meno importanti: qual è il fine dell’inventario per i nostri inter-
locutori? E tale fine corrisponde alle finalità indicate dall’UNESCO?
Per fare fronte a queste domande abbiamo prodotto un documen-
to interno che aveva lo scopo di stimolare nel gruppo di lavoro delle
reazioni e una riflessione intorno alla strutturazione stessa dell’inven-
tario.29 Tra i vari punti, abbiamo cercato di individuare le potenziali
finalità di un inventario partecipativo per la comunità stessa:
1) Innanzitutto esso può rappresentare una sistematizzazione della
festa, più o meno condivisa, che può rappresentare una buona
base di documentazione da utilizzare a scopi interni (‘l’anno in
cui abbiamo fatto l’inventario…’), per un eventuale sito, per rea-
lizzare documentari ad uso locale, per le scuole, per organizzare
mostre, ecc.
2) In secondo luogo l’inventario partecipativo, proprio perché
negoziato tra i membri della comunità, può far emergere nodi
e conflittualità legate alla festa che costringono a discussioni
e chiarimenti interni, portando ad esplicitare punti di vista e a
fare emergere convergenze di opinioni o divergenze latenti o mai
Note per la realizzazione di un inventario partecipato della festa della Madonna
29

del Monte di Marta (VT) come Patrimonio Culturale Immateriale (Broccolini).


Per una etnografia engaged del patrimonio culturale immateriale 55
esplicitate, al fine di individuare punti di incontro o di accordo,
non solo su cosa sia rilevante della festa e come descrivere o rap-
presentarne gli elementi fondamentali, ma anche sulle modalità
di svolgimento e sulle scelte nell’organizzazione festiva. Da que-
sto punto di vista la documentazione prodotta può rappresentare
uno strumento utile, da utilizzare a scopi interni, da rivedere col-
lettivamente per discutere a seguito dello svolgimento della festa.
3) Un altro aspetto importante dell’inventario partecipativo è che
esso, perché emerge dal basso della comunità, permette di cono-
scere della festa aspetti, elementi, significati, o pratiche in pre-
cedenza nascosti, mai esplicitati o non chiaramente definiti, che
possono portare conoscenza anche al di fuori della comunità. In
questo senso l’inventario partecipativo può funzionare come una
‘autorappresentazione’ della festa da parte della comunità (attra-
verso il gruppo di lavoro che se ne occupa) che veicola una imma-
gine della festa considerata giusta, fedele, meritevole o comunque
appropriata, rispetto alle rappresentazioni che di quel bene ven-
gono date dall’esterno (prodotte da giornalisti, registi, antropolo-
gi, ecc.) e che a volte non sono condivise dalla comunità.
4) Infine l’inventario partecipativo può avvicinare la comunità fe-
stiva allo scenario internazionale prodotto dalla Convenzione
UNESCO 2003 rendendo la comunità consapevole delle politiche
promosse dall’UNESCO sul Patrimonio Culturale Immateriale,
favorire un avvio di dialogo con le istituzioni centrali e rappre-
sentare un primo passo per l’avvio di un processo di candidatura
per l’iscrizione alla Lista Rappresentativa UNESCO.30
Al di là delle reazioni iniziali di indifferenza, ostilità o di adesione,
attualmente il dibattito in corso nel gruppo di lavoro martano sulla
scelta dei contenuti, sull’identificazione degli elementi immateriali e
sulla strutturazione stessa della scheda sta facendo emergere una rifles-
sione sul senso stesso dell’inventario che sembra andare in una direzio-
ne diversa da quella che traspare dai documenti UNESCO. Qui venia-
mo forse ad uno degli aspetti più rilevanti del lavoro. Nei documenti
UNESCO che parlano di inventari community-based,31 la partecipazio-
ne all’inventario da parte delle comunità viene, infatti, indicata come
passo fondamentale (nonché obbligatorio nel processo di candidatura)

30
Ibidem.
31
Ad esempio UNESCO, 2010.
56 Alessandra Broccolini

perché connessa alla formulazione di misure di salvaguardia. Questi


inventari secondo i documenti ufficiali UNESCO:
“peuvent sensibiliser a ce dernier [al patrimonio immateriale] et a
l’importance qu’il revet pour les identites individuelles et collectives
[…]. Les inventaires peuvent egalement fournir une base pour la for-
mulation de plans concrets de sauvegarde du patrimoine culturel im-
materiel concerné”.32
Ma quello della sensibilizzazione è proprio il fine che i nostri in-
terlocutori attribuiscono all’inventario partecipativo? E sono queste le
ricadute che il lavoro avrà sulla comunità? Il monitoraggio etnografico
che stiamo portando avanti sembra indicare una diversa strada. Piutto-
sto che produrre semplicemente una consapevolezza locale del proprio
patrimonio immateriale e dunque una maggiore attenzione ai fini del-
la salvaguardia (fine che potremmo definire ‘interno’ alla comunità),
l’inventario nel nostro caso viene percepito entro un campo negoziale
più ampio, come la possibilità di fornire all’esterno una autorappresen-
tazione veritiera e necessaria (una sorta di ‘voce della verità’), rispetto
alle numerose rappresentazioni che la stampa e il campo intellettuale
(inclusi gli antropologi) producono ed hanno prodotto sulla festa. In
un contesto che è già fortemente consapevole – in forme essenzializ-
zate e puriste – del valore patrimoniale della festa, questo inventario,
piuttosto che risolversi dentro la ‘comunità’ e sensibilizzare al valore
della festa, sembra essere percepito dai nostri interlocutori come una
possibilità di ‘prendere la voce’ in un campo politico più ampio di rap-
presentazioni, nel quale essi sembrano percepirsi come subalterni. Più
che un processo di ‘educazione’ al patrimonio che dall’esterno proce-
de verso l’interno, l’inventario sembra così evidenziare una urgenza
politica – fino ad oggi rimasta latente nella comunità martana e affio-
rata solo di recente sui social network – di rivendicazione identitaria
(un processo dall’interno verso l’esterno), nella quale l’inventario può
rappresentare una ‘voce’ che può ricollocare verso l’esterno la giusta
immagine della festa, contro le interpretazioni distorte e inesatte che la
stampa e il campo intellettuale hanno prodotto. Ampiamente studiati
e osservati da altri, ma mai – salvo qualche eccezione locale – protago-
nisti delle forme di rappresentazione e della scrittura scientifica, l’in-
ventario, strumento per eccellenza egemonico nelle politiche culturali
32
UNESCO, op. cit., p. 4.
Per una etnografia engaged del patrimonio culturale immateriale 57

istituzionali, mostra qui una sua potenzialità inversa di riscatto locale,


un aspetto che sicuramente andrà approfondito nel tempo.
Da qui l’interrogativo centrale, se l’inventario debba rappresentare
ciò che la festa è oggi (una sorta di oggettivazione ‘fotografica’, come
la scheda stessa ci induce a fare), o se invece debba rappresentare ciò
che la festa ‘dovrebbe’ essere per i suoi portatori. In pratica, viste le
trasformazioni cui la festa è andata incontro con la presenza turistica
e con il mutamento radicale del mondo contadino, l’inventario deve
fotografare la festa reale o deve rappresentare la festa ‘immaginata’, che
si desidera diventi o che torni ad essere nei suoi valori “originali” per-
cepiti, anche nella prospettiva di una sua salvaguardia? Questo pun-
to mostra quanto sia importante che l’inventario “partecipativo” non
proceda per modelli di schede già precostituiti ai quali aggiungere solo
un contenuto (come è la maggior parte dei progetti di inventario par-
tecipativo realizzati da alcuni paesi),33 ma che si ponga come momento
di dibattito e di concertazione interna.
Un esempio può chiarire l’importanza di questo punto. Nello svol-
gimento della festa, dopo l’arrivo delle diverse categorie al Santuario
della Madonna del Monte e prima delle ‘Passate’, gli uomini che sfilano
in processione (i ‘Passanti’), si fermano dietro la chiesa per riposarsi e
mangiare tra loro del cibo portato da casa. Nato originariamente come
banchetto offerto ai partecipanti dalla comunità,34 questo momento
privato di consumo di cibo nel corso degli anni (soprattutto da quando
la festa ha iniziato ad attrarre la presenza di un pubblico esterno alla
comunità martana) è divenuto un momento pubblico, nel quale alcuni
gruppi di partecipanti, di loro iniziativa, hanno iniziato ad offrire ai
presenti ed ai turisti del cibo anche cucinato sul posto. Ciò ha rischiato
e rischia ogni anno di trasformare un momento di ristoro privato in una
sorta di sagra gratuita, composta da un folla di visitatori in fila vicino ai
diversi gruppi di ‘passanti’ per poter mangiare. Questo rischio, secon-
do alcuni componenti del gruppo di lavoro (e secondo molti membri
dello stesso Comitato), va arginato perché si tratta di una deriva che
non rappresenta un momento tradizionale della festa da identificare
come valore e pertanto esso non deve essere incluso nell’inventario.

33
Broccolini, 2015; ASPACI, 2011; Bortolotto, 2011.
34
Prugnoli, 1998.
58 Alessandra Broccolini

Nella precedente campagna di catalogazione della festa, promossa


dall’ICCD nell’ambito del già menzionato Progetto PACI (2009), que-
sto momento era stato identificato dal catalogatore (chi scrive) come
momento rituale dentro la festa ed era stato oggetto di una BDI de-
dicata, la cui denominazione (campo DBD) era stata ‘Pranzo rituale
della Festa della Madonna SS. del Monte #Festa delle Passate#’, indi-
cando come Denominazione locale (campo DBL) ‘La collazione’, una
denominazione locale che ci era stata fornita da uno degli interlocutori
incontrati, che così l’aveva definita. Tale scelta, tuttavia, ha trovato di-
scordi alcuni componenti del gruppo di lavoro, secondo i quali la scelta
di dedicare una scheda a questo momento non era opportuna poiché
non si trattava di un momento tradizionale di valore della festa.
La domanda che si pone allora è: come fare entrare nell’inventa-
rio questo momento contestato, che secondo i nostri interlocutori non
appartiene alla ‘vera’ festa e, dunque, non va incluso nell’inventario ?
Come coniugare la ‘fotografia’ (che la scheda impone) con le interpre-
tazioni e con l’idea di ‘autenticità’ che si intende restituire nell’inven-
tario? Chi ha l’autorità di decidere l’identificazione degli elementi da
inserire e di quelli da eliminare? In questo senso, rispetto al precedente
inventario scientifico, questo ‘inventario partecipativo’ può servire per
discutere i momenti contestati della festa, anche facendo della scheda
stessa un luogo di espressione di osservazioni e considerazioni critiche,
ad esempio prevedendo un campo destinato proprio alla discussione
degli aspetti contestati.35
Un secondo esempio che sostanzia queste problematiche riguar-
da il dibattito sul ruolo che la storia deve avere nell’inventario. Come
si è detto, la riflessione sulla struttura della scheda ha preso avvio dal
modello di scheda MODI, di recente elaborata dall’ICCD. La quale tut-
tavia, essendo strutturata – per ciò che riguarda gli aspetti immateriali
35Si è discusso, infatti, nel gruppo di lavoro circa l’opportunità di prevedere nella
scheda MODI uno spazio destinato alle ‘riflessioni critiche’ dove far confluire que-
ste problematiche. Considerazioni analoghe si possono fare per gli elementi vegetali
(frutta e verdura) posti sulle ‘fontane’, che sempre meno provengono dal territorio e
che hanno cessato da tempo di rappresentare primizie o prodotti della terra sapiente-
mente conservati fuori stagione dai contadini, con tecniche sviluppate localmente (ad
esempio l’uva conservata sulla pianta fino al mese di maggio nelle bottiglie di vetro
poste sotto terra). Inoltre è sempre forte la tendenza da parte dei gruppi di più giovani
a sostituire gli elementi vegetali delle fontane con materiali industriali (plastica, resina,
polistirolo), che vengono vietati dal Comitato.
Per una etnografia engaged del patrimonio culturale immateriale 59

– sul modello della BDI, identifica specifiche performance (musicali,


orali, tecniche, festive, ecc.) e non prevede l’identificazione degli aspetti
storici, in quanto questi non ricadono nella categoria delle ‘esecuzioni’.
Al contrario, per i nostri interlocutori non ci può essere un inventario
se non si prevede anche una scheda che illustri la storia della festa, chia-
rendone una volta per tutte gli aspetti ancora oggi contestati e discussi.
Con ciò, in pratica, il gruppo, ha contestato implicitamente la struttura
stessa della scheda MODI.

Tutto ciò pone la questione del ruolo dell’antropologo in questo


processo di oggettivazione ‘partecipata’ prodotto dalla costituzione di
un inventario, ruolo che è di monitoraggio di processi, ma anche di
mediazione e di intervento. Un ruolo ibrido, spurio, di mediazione,
non più orientato alla pratica della ‘raccolta della documentazione’, ti-
pico della catalogazione tradizionale, ma imbricato nei processi, che
presume un posizionamento, sia nei termini di un engagement che nel-
le politiche locali.

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una società globale?, in Ruggenini, M. Dreon, R., Paltrinieri, G.L. (a cura
di), Verità in una società plurale, Milano, Udine, Mimesis, p. 103-124.
Zingari, V. (2015), “Il paradigma dell’intangible cultural heritage”, in Salvati,
M., Sciolla, L. (a cura di), L’Italia e le sue regioni, vol. III, Culture, Roma,
Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, p. 189-201.
Antropologi ‘attorno al tavolo della comunità patrimoniale’
Riflessioni etnografiche su un esperimento di inventario partecipativo1

Katia Ballacchino

Una riunione del gruppo di lavoro sull’inventario partecipativo,


Marta (VT), Foto di Katia Ballacchino (2015)

1. Comparare per sperimentare un “inventario partecipativo”. Pri-


me note metodologiche

Questo contributo sintetizza le riflessioni metodologiche relative


a una prima fase di un progetto di “inventario partecipativo” della fe-
sta della Madonna del Monte di Marta (Viterbo) – e si interroga sul

1
Questo contributo nasce all’interno dell’attività di Simbdea (Società Italiana per
la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici) intorno al patrimonio culturale im-
materiale e alla Convenzione UNESCO 2003. Trattandosi di un saggio scaturito da un
lavoro di terreno svolto con Alessandra Broccolini che si basa su un approccio di con-
divisione con la comunità coinvolta nell’inventario della festa, una versione in bozza di
questo testo è stato sottoposto per una lettura agli interlocutori martani che condivi-
dono con noi questo lavoro, per commenti ed eventuali inesattezze da correggere, pur
nel rispetto della reciproca libertà intellettuale. Questo scritto è da considerarsi, infatti,
collegato all’articolo di Alessandra Broccolini contenuto in questo stesso volume. Una
versione differente e unita di questi nostri due saggi è in corso di pubblicazione con
il titolo “L’antropologo PER il patrimonio tra partecipazione, mediazione ed engage-
ment. Un esperimento di ‘inventario partecipativo’ del patrimonio culturale immate-
riale nell’alto viterbese”, in Del Gobbo, Zingari (in stampa)
64 Katia Ballacchino

concetto di partecipazione delle comunità locali all’interno del “para-


digma patrimoniale” immateriale, che occupa un ruolo centrale nella
Convenzione UNESCO del 2003 (Convenzione per la Salvaguardia
del Patrimonio Culturale Immateriale) nella identificazione e salva-
guardia del patrimonio immateriale.2 Il progetto è ancora in divenire
e in quanto tale ha bisogno di tempo per giungere a riflessioni strut-
turate, ma in questa sede si tenta di offrire i primi spunti di riflessione
metodologica che la ricerca ha stimolato fino ad ora.
Progettare un inventario partecipativo significa intendersi sul con-
cetto critico di partecipazione e quindi, ancor prima, considerare la ca-
talogazione come un processo aperto, dinamico – che non abbia come
condizione esclusiva l’autorità intellettuale del ricercatore che decide se
e come strutturare l’inventario, individuando e descrivendo in autono-
mia il bene stesso – e, infine, significa pensare ad un inventario che sia
anche contenitore costruttivo di semi per far germogliare un piano di
salvaguardia dello stesso bene. Come si può intuire sono tali le impli-
cazioni politiche di questo processo e necessarie le riflessioni sul po-
sizionamento del ricercatore, che l’occasione di creare un “inventario
partecipativo” diviene di per sé, e deve essere inteso come, un percorso
fondativo e cruciale per l’opportunità stessa che offre, cioè per i processi
che genera, prima ancora che per la sua ultima finalità. La stessa costru-
zione dell’inventario, secondo questa visione, può diventare un’oppor-
tunità di collaborazione dialogica con le comunità, un percorso che può
rappresentare una risorsa già per se stessa, al di là della realizzazione di
un inventario inserito nel sistema catalografico nazionale o della stessa
candidatura nelle liste rappresentative dell’UNESCO.
Progettare un inventario partecipativo significa quindi, innanzitut-
to, porsi delle domande sulla condizione riflessiva del lavoro sul campo
dell’antropologo ma significa anche prendersi e spartirsi responsabilità,
avere intenti collaborativi, operativi e applicativi che possano stimola-
re feedback sul terreno indagato e produrre, forse, anche dei riscontri
applicativi di tipo sociale. Sembrerebbe trattarsi di un processo ossimo-
rico e irrealizzabile perché la riflessività vincolata e piegata alla stessa
disciplina, da una parte, e il processo di mobilitazione e riflessività della
2 Per i riferimenti al quadro generale del progetto in cui si colloca questa

ricerca ancora in corso, così come per le riflessioni italiane attorno al tema
degli inventari partecipativi, si rimanda al contributo di Broccolini in questo
volume.
Antropologi ‘attorno al tavolo della comunità patrimoniale’ 65

comunità “nativa”, dall’altra, non sembrano azioni che vanno sempre di


pari passo e, anzi, in certi casi potrebbero anche apparire in contrasto fra
loro. Tuttavia, se si intende il cambiamento proprio come un processo
che passa per il mutamento operativo dello stesso sguardo etnografico,
prima ancora di quello del protagonista del patrimonio, forse questo
esperimento potrebbe offrire nel tempo qualche interessante riflessione.
Per affinare lo sguardo sulla torsione della postura metodologica
che si sta cercando di compiere a Marta può forse essere utile la com-
parazione con un altro precedente progetto di catalogazione. Il con-
fronto deriva da un’esperienza di lavoro di inventariazione compiuto
nel 2010 sulla festa dei Gigli di Nola (NA), che chi scrive ha svolto
per conto del Comune di Nola in occasione di una candidatura di rete
della stessa festa alla Lista Rappresentativa UNESCO del Patrimonio
Culturale Immateriale, iscrizione poi ottenuta il 4 dicembre del 2013.
Come è noto, infatti, la Convenzione UNESCO del 2003 raccoman-
da che le comunità partecipino al processo di patrimonializzazione fin
dalla stessa identificazione del bene da catalogare.
L’aspetto inedito delle innovazioni partecipative dell’Unesco è
che la partecipazione dei non professionisti ai processi di patrimo-
nializzazione è trasformata in una preoccupazione delle istituzioni
culturali, oramai chiamate ad associarli nella fabbrica autorizzata del
patrimonio.3
Il tipo di lavoro che si è svolto sulla festa dei Gigli si potrebbe in un
certo senso definire una “catalogazione condivisa” che qui si prova a
confrontare con il differente processo di “inventariazione partecipati-
va” che oggi con Alessandra Broccolini si tenta di perseguire sulla festa
della Madonna del Monte. In entrambi i casi l’etnografia risulta essere
indispensabile per l’apertura dell’inventario, ma cambiano necessaria-
mente le modalità di svolgerla e per certi versi anche il livello di analisi,
che nel caso di Marta si concentra sul bene, ma con particolare atten-
zione per lo stesso processo di inventariazione e patrimonializzazione.
Cerchiamo di tracciare per punti salienti le principali differenze ri-
scontrabili fin d’ora tra il progetto nolano e quello martano. Una prima
sostanziale differenza tra i due progetti la si può individuare innanzitut-
to in relazione alla committenza. Per quanto riguarda l’inventario della
festa dei Gigli di Nola, si è trattato di un lavoro attivato dall’“alto”,
3
Bortolotto, 2013b, p. 9.
66 Katia Ballacchino

commissionato all’antropologa catalogatrice dall’amministrazione co-


munale su richiesta del Coordinamento della candidatura della Rete
delle grandi macchine a spalla (Gigli di Nola, Santa Rosa di Viterbo,
Candelieri di Sassari e Varia di Palmi Calabro).4 L’antropologa in questo
caso stava svolgendo un’etnografia sulla festa da più di 5 anni e, dunque,
la conoscenza del bene e il rapporto con la “comunità patrimoniale” o
di “eredità”,5 intesa in senso ampio, erano già molto approfonditi. La
committenza istituzionale aveva posto un limite di budget per il pro-
cesso di candidatura che ha fatto sì che l’attività di catalogazione della
festa dei Gigli prevedesse un numero limitato di schede. Si è comunque
tentato di ritagliare un’ampiezza di contenuti tale da restituire la ben
nota complessità della festa e rappresentare la presenza della variegata e
numerosa comunità dei protagonisti del rito nella maniera più esaustiva
possibile, attraverso la compilazione finale di 24 schede BDI ridotte.
Nel contesto martano, invece, non esiste una vera e propria com-
mittenza ma l’idea dell’inventario partecipativo proviene da un pre-
gresso rapporto con il territorio e con la festa che entrambe avevamo
instaurato per via di una precedente catalogazione all’interno del pro-
getto “PACI”,6 promosso dall’ICCD, legato alla candidatura della Die-
ta Mediterranea. In quel caso, come spesso avviene per le campagne di
catalogazione, i tempi relativamente brevi della ricerca sul campo fu-
rono dettati dalla necessità dell’allora committenza e l’esito si concre-
tizzò in 40 schede BDI. A distanza di anni si è pensato di tornare su un
terreno, sul quale in realtà si era sempre mantenuto un monitoraggio,
per tentare una progettazione e un dialogo con quello che poi sarebbe
diventato un vero e proprio “gruppo di lavoro” formato da alcuni pro-
tagonisti locali e l’Università Sapienza, che ha fornito un fondo di Ate-
neo per iniziare il progetto sperimentale. Si è trattato dunque, in questo
caso, di una committenza terza, che non proveniva né da un’istituzione
locale né da una parte della comunità (il Comitato festeggiamenti), ma
è stata promossa da una istituzione esterna, l’Università, a partire da un
progetto proposto localmente dalle antropologhe che erano già note
4Ballacchino, 2012, 2015.
5
Per questa definizione si veda la Convenzione Quadro del Consiglio d’Europa
sul Valore dell’Eredità culturale per la società (2005), chiamata anche Convenzione di
Faro.
6 Per specificare dati e contenuti del progetto cfr. il saggio di Alessandra Broccoli-

ni contenuto in questo volume.


Antropologi ‘attorno al tavolo della comunità patrimoniale’ 67

sul territorio. Questo dato indubbiamente restituisce maggiore libertà


di decisione e azione, almeno in relazione alle eventuali ingerenze o
limitazioni poste da istituzionali locali o sovralocali, permettendo di
prendere in carico, invece, sia le esigenze locali che quelle scientifiche.
L’individuazione della “comunità patrimoniale” e dei valori locali
trasmessi attraverso la festa nel contesto nolano era stata opera dell’an-
tropologa che, rassicurata da una lunga etnografia sul terreno – no-
nostante i limiti di tempo che il progetto imponeva – aveva potuto
condividere con i protagonisti le sue scelte di individuazione dei beni
da catalogare concentrandosi su alcuni dei principali protagonisti del
rito, consapevoli e informati sul progetto. Si era quindi trattato di una
scelta orientata grazie ad una conoscenza di lungo corso del terreno,
effettuata autonomamente dalla studiosa e man mano condivisa con la
comunità, in un processo continuo di interpretazioni delle conoscenze
negoziate reciprocamente.7
A Marta, invece, si è svolto un procedimento per certi versi ribal-
tato. Si è impostato l’inventario a partire da uno sguardo interno pren-
dendo in considerazione le eterogenee esigenze delle voci espresse di
un “gruppo di lavoro” che man mano si andava strutturando e am-
pliando. Qui, in un certo senso, la comunità patrimoniale è stata indi-
viduata e maggiormente interpellata nella sua complessità variegata (at-
tori del processo di patrimonializzazione, comitato dei festeggiamenti,
protagonisti del rito, esperti della storia della festa, pubblico che assiste
alle “passate”, istituzioni locali, ecc.), considerando che il lavoro stesso
doveva vertere sul processo di costituzione di un inventario e sui suoi
protagonisti e diventare esso stesso una prima buona pratica di lavoro
collaborativo sul e per il patrimonio.
Se l’obiettivo della ricerca nolana è stato, quindi, l’apertura di un in-
ventario “classico” finalizzato alla candidatura UNESCO, socializzato e

7 Per esempio una delle 24 ridotte schede BDI realizzate rendeva conto di un

momento informale della festa dei Gigli, che era la ballata spontanea di un Giglio in
miniatura trasportato da un gruppo di adolescenti e giovani in un quartiere periferico e
in un momento dell’anno al di fuori della settimana di festa ufficiale. La scheda voleva
servire a mostrare uno dei tanti esempi di creatività e partecipazione anche informale al
trasporto del Giglio che le generazioni più giovani traducono in momenti cerimoniali
più intimi, diversi di anno in anno. Probabilmente, se a realizzare l’inventario fosse
stato un protagonista locale, non avrebbe scelto di dedicare una scheda a un momento
che non rientra nel rituale “classico” o “ufficiale” del sistema festivo locale.
68 Katia Ballacchino

condiviso con i protagonisti in alcuni momenti di dibattito pubblici, a


Marta, invece, il processo di identificazione e l’eventuale progettazione
di un piano di salvaguardia della festa passano attraverso periodiche riu-
nioni del gruppo di lavoro che si trasformano in veri e propri momenti
di dibattito (a volte anche pubblici) e di confronto tra generazioni e par-
ti chiamate a riflettere sui valori patrimoniali locali, sulla loro rappre-
sentazione all’esterno e così via. L’inventario sperimentale prevede una
sorta di laboratorio e rielaborazione del modulo catalografico MODI,
dall’individuazione della proprietà e della responsabilità della scheda
fino al concepimento della stessa e dei suoi contenuti. Nel caso in cui il
progetto dovesse andare a buon fine si potrebbe prevedere come conte-
nitore finale la creazione di un portale di catalogo on line autonomo o
eventualmente collegato al sito nazionale dell’ICCD. Accanto a ciò, na-
sce l’ipotesi di mettere in cantiere un archivio audiovisivo e documenta-
le della festa, che preveda il recupero di materiali storici e l’acquisizione
di quelli contemporanei, sia locali che esterni.
Volendo sintetizzare, si potrebbe dire che le scelte di catalogazio-
ne a Nola sono state eseguite secondo criteri standard, sulle ragioni
di una etnografia di lungo periodo, il che ha indubbiamente facilitato
la condivisione con la comunità, fatto salvo il carattere squisitamente
scientifico del lavoro. A Marta, invece, le scelte sono state pensate – per
così dire – giorno dopo giorno “attorno ad un tavolo”, quindi mediate
e negoziate localmente col gruppo di lavoro che “pensa” la festa e che
soprattutto ne vuole curare e tutelare la rappresentazione verso l’ester-
no. Questo aspetto è cruciale e stimola l’esigenza stessa di catalogare
la festa in un dato orizzonte di senso, che sia legittimato dall’interno.
Dato quest’ultimo preponderante, che sta molto a cuore ai protagoni-
sti del progetto, tanto da influire considerevolmente sulla progettazio-
ne, sui tempi e sull’andamento del lavoro.
Per quanto riguarda la documentazione prodotta, a Nola sono state
realizzate interviste e rilevazioni etnografiche tramite strumenti audio-
visivi utilizzati in stretta collaborazione con alcuni protagonisti locali.
Appurata la centralità che le immagini occupano nel sistema patrimo-
niale nolano,8 come spesso accade in territori festivi così complessi, si
sono fornite decine e decine di ore di video e foto, ove necessario imple-
mentate da ulteriore documentazione prodotta localmente. In particola-

8
Ballacchino, 2013b.
Antropologi ‘attorno al tavolo della comunità patrimoniale’ 69

re, parte della produzione fotografica necessaria alle schede BDI è stata
realizzata da alcuni protagonisti locali appassionati e consapevoli degli
obiettivi della ricerca. A tal proposito si è creata una collaborazione che
somiglia alla “fotografia partecipativa” richiamata da Bortolotto:
La documentazione visuale di elementi del patrimonio culturale
immateriale (PCI) è un processo essenziale sia in vista della creazione
di inventari che della preparazione dei formulari per le candidature
alle due liste internazionali del PCI. L’Unesco sottolinea come nel
processo di inventario le competenze etnografiche tradizionali deb-
bano essere affiancate da metodologie di ricerca capaci di coinvolgere
le comunità patrimoniali e come questo coinvolgimento sia più im-
portante della qualità tecnica delle immagini, fisse o in movimento.9
A Marta il processo principale messo in moto concerne l’auto-do-
cumentazione visiva da parte di alcuni referenti del “gruppo di lavo-
ro”, avvenuta in larga parte in forma spontanea. In questa prima fase
del progetto si è dato spazio a un’auto-documentazione autonoma e
libera da condizionamenti teorici o tecnici, proprio per rispettare la
priorità del coinvolgimento.
In parallelo, da parte nostra, si è avviata una costante registrazione
visiva delle riunioni organizzate col “gruppo di lavoro” e in alcuni casi
della stessa autodocumentazione della festa quando, per esempio, ab-
biamo assistito ad alcune interviste degli interlocutori ai loro concitta-
dini protagonisti dell’evento. Quest’ultimo aspetto potrebbe rivelarsi in
futuro un’interessante opportunità per ragionare su una modalità nuova
di produrre documenti audiovisivi, che non prevede più solo l’atten-
zione documentale al particolare del rito quanto, piuttosto, la minuta
restituzione del lavoro di indagine comune e della successiva riflessione
su di esso. Cosa guardare o chi interrogare viene selezionato e deciso so-
prattutto dai nostri interlocutori e in alcuni casi, in effetti, i risultati pro-
dotti evidenziano interessanti differenze con ciò che nel breve periodo e
autonomamente avevamo scelto di considerare nel precedente lavoro di
catalogazione. Tutto ciò ci ha spesso portate a lasciare la videocamera fis-
sa durante le riunioni del gruppo di lavoro nelle quali noi stesse eravamo
presenti. La modalità si è rivelata nuova per entrambe le ricercatrici e ha
implicato un ribaltamento dell’uso dello strumento audiovisivo rispetto
alle nostre pratiche precedenti. Quindi, le interviste sono state svolte
9
Bortolotto, 2013b, p. 24.
70 Katia Ballacchino

quasi esclusivamente dai locali – o al massimo con la nostra presenza e


collaborazione – mentre più in generale i prodotti audiovisivi riguarda-
no l’autodocumentazione del momento festivo e del gruppo di lavoro
che riprende le antropologhe o mentre dibatte con loro. Le tipologie di
prodotti audiovisivi sono state principalmente fotografie e video, effet-
tuate con strumentazione di varia qualità.
Per quanto riguarda, infine, le tecniche di autodocumentazione, a
Nola la produzione di fotografie e video sulla festa è stata effettuata
dall’antropologa e da alcuni protagonisti locali esperti o appassiona-
ti, in un rapporto pienamente fiduciario di collaborazione nel lavoro
di inventariazione. A Marta, invece, la autodocumentazione, almeno
per la prima edizione della festa, è stata stimolata dalle antropologhe
e condotta dai componenti del gruppo di lavoro in maniera spontanea
e plurale, costituendo così un archivio non ancora sistematizzato che
ad oggi contiene poco meno di 4.000 fotografie, un centinaio di video,
più altri materiali ancora da acquisire e circa 2.000 fotografie e 30 ore
di video realizzati, invece, da noi stesse.
Una riflessione, che meriterebbe un approfondimento futuro, ver-
te sull’eventualità di un intervento da parte nostra sulle metodologie
di ripresa video e fotografica dei nostri interlocutori. In questo caso,
però, si porrà il problema dell’indirizzo scientifico che una simile ope-
razione dovrebbe prevedere, o almeno suggerire, ai soggetti con cui si
lavora, con il rischio di ristabilire la disparità tra l’autorità dello sguar-
do esterno scientifico e quello interno esperto ma non educato alla
formalizzazione del prodotto, tranne per i professionisti locali delle
tecniche audiovisive.
Dunque per il primo anno si è pensato di raccogliere quanto più
materiale possibile da parte dei collaboratori locali, lasciando spazio
a quanto loro volessero produrre, mantenendo libertà di azione e au-
tonome priorità nelle scelte. Per il secondo anno, invece, ci è maggior-
mente concentrate sulla ideazione delle schede. Nell’ottica di identifi-
care i beni rilevanti che costituiscono il patrimonio festivo dal punto di
vista dei protagonisti, questa operazione è sembrata essere la più ido-
nea nella prima fase del lavoro. Tuttavia, in futuro, l’azione di identifi-
cazione richiederà certamente una riflessione condivisa con i soggetti,
soprattutto se si convergerà verso la creazione di un archivio della festa
fruibile anche all’esterno e, dunque, necessariamente traducibile in ter-
mini di qualità sia per un pubblico di studiosi che di semplici curiosi. Il
Antropologi ‘attorno al tavolo della comunità patrimoniale’ 71

rischio di una possibile ingerenza sulla festa, in ragione della partecipa-


zione delle ricercatrici, diviene un nodo cruciale, su cui si dovrà ragio-
nare nel corso del progetto, proprio per evitare la nascita di una nuova
egemonia – in questo caso intellettuale più che istituzionale – prodotta
dall’uso strumentale, criticato da molta letteratura, che le istituzioni
fanno della partecipazione.10
In conclusione, la catalogazione nolana, seppur nata in seno al
percorso istituzionale di patrimonializzazione della festa, rende ma-
nifesto come l’etnografia di lungo periodo sia una risorsa fondamen-
tale nell’operazione di identificazione dei beni da catalogare, che non
solo facilita il processo di riconoscibilità del valore locale dei beni e
di individuazione dei protagonisti da interrogare, ma permette anche
di sviluppare una condivisione del processo di inventariazione detta-
ta dalla comprensione e dalla fiducia nei confronti di una ricercatrice
ormai divenuta familiare. Tuttavia, il processo di catalogazione in sé,
pur particolarmente attento alla comunità e ai molteplici punti di vista
locali, non ha portato cambiamenti operativi nel territorio nolano né
ha determinato, a mio parere, una concreta torsione qualitativa nella
direzione della candidatura del bene o nella concreta realizzazione di
indirizzo di un possibile futuro piano di salvaguardia dello stesso. Pro-
babilmente la ragione di ciò può ricercarsi nella stessa impostazione
della Lista Rappresentativa UNESCO, che infatti nei lavori preparatori
alla stesura della Convenzione ricevette diverse critiche perché rischia-
va di produrre un’enfasi locale sull’iscrizione piuttosto che una atten-
zione costruttiva al processo attivato dalla e nella comunità.
In questo senso il lavoro attuale sulla festa martana fa spostare le
riflessioni dal concetto di condivisione a quello di partecipazione e fa
ipotizzare ad oggi una possibile torsione qualitativa prodotta dallo
stesso processo di catalogazione declinato in un’ottica di antropologia
applicata per il patrimonio immateriale. Un processo in cui gli antro-
pologi possono indossare i panni dei “giardinieri” dediti alla cura e alla
crescita del patrimonio11 e lavorare alacremente sui e con i territori ri-
definendo di volta in volta il loro ruolo collaborativo e di mediazione,12
grazie alla ricerca sul campo che si delinea ancora come una preziosa
10 Per esempio, si veda, per, un approccio sociologico critico in relazione alle poli-

tiche neoliberiste, Moini, 2011 e 2012.


11 Clemente, 2013-2014.
12 Padiglione, 2008.
72 Katia Ballacchino

attività di compartecipazione. Anche nel caso martano l’approccio et-


nografico diviene elemento indispensabile per lavorare sul patrimonio
festivo, ipotizzando una possibile candidatura che localmente si auspi-
ca sin dai tempi della catalogazione standard, ma che concretamente
non si è ancora tentata.
In questo senso è interessante il passaggio da una catalogazione pen-
sata solo come conditio sine qua non per la candidatura, che nel senso
più sterile non produce concretamente cambiamenti né ha ricadute ope-
rative sulla comunità, a quella più complessa partecipativa in cui sia gli
antropologi che le comunità si mettono in gioco scegliendo la sfida del
processo stesso, lineare o conflittuale che sia, come opportunità riflessi-
va e come strada reale di costruzione della negoziazione tra i valori loca-
li e quelli più universali di agenzie internazionali come l’UNESCO. Per
fare ciò, però, non esistono manuali né professori e sia gli interlocutori
portatori del patrimonio immateriale locale, sia gli antropologi, devono
imparare a lavorare insieme, seduti allo stesso tavolo, con tutte le insidie
e le opportunità che questa condizione inevitabilmente comporta.

2. Sfide e insidie del mantenere un equilibrio attorno allo stesso tavolo


Il terreno complesso e variegato del patrimonio culturale immate-
riale offre l’opportunità, in casi come quello qui delineato, di far dia-
logare il classico approccio tecnico-scientifico con la soggettività dei
valori degli individui protagonisti del patrimonio; un approccio che,
secondo Bortolotto,13 collega la produzione della conoscenza e il suo
utilizzo e che emancipandosi da un modello di relazione gerarchica
tra i ricercatori e gli interlocutori, determina un reale coinvolgimento
attivo di questi ultimi. Tuttavia, di esempi concreti di avvio di questi
processi si ha traccia molto limitata in Italia, soprattutto in relazione
alla specifica produzione di inventari di catalogo da parte delle istitu-
zioni.14 Alcuni recenti momenti di dibattito – nello specifico un semi-
nario sull’“inventario partecipativo” è stato svolto a Gemona del Friuli
il 10-11 giugno 2013 da un “gruppo di lavoro Catalogazione”15 – si
13
Bortolotto, 2013b.
14Bortolotto, 2013a, p. 27-41; Broccolini, 2011, in corso di stampa.
15 Cfr. https://inventariopartecipativo.wordpress.com/download/. Un altro mo-

mento importante di dibattito è avvenuto durante il convegno internazionale di Mila-


no, su cui cfr. l’articolo di Broccolini in questo volume.
Antropologi ‘attorno al tavolo della comunità patrimoniale’ 73

sono concentrati sulla riflessione relativa alle “mappe di comunità” e


agli “ecomusei” come forme di partecipazione, dove si ipotizza di uti-
lizzare forme di inventariazione partecipativa, basate soprattutto sulla
condivisione delle normative dell’ICCD e sulla creazione di sistemi in-
formativi per lo scambio dei dati, in cui si registra proprio la necessità
di lavorare in futuro a progetti concreti relativi specificatamente agli
inventari partecipativi. Di seguito riportiamo le sintetiche conclusioni
del gruppo che si è occupato della questione:
1. Il Catalogo nazionale dei beni culturali gestito dall’ICCD non è lo
strumento adatto per gli inventari partecipativi, anche se non è da
escludere una catalogazione selezionata di beni culturali mediante
schede dell’ICCD anche da parte degli ecomusei.
2. Gli ecomusei si trovano dunque a dover progettare e realizzare i
propri inventari partecipativi sulla base delle loro esigenze e dei loro
scopi, curandone anche la relativa informatizzazione: un impegno
progettuale ed economico di non poco conto.
3. Un’alternativa al punto 2 potrebbe essere – previ accordi – l’utilizzo
del modulo MODI dell’ICCD: un tracciato unico per tutti i setto-
ri disciplinari, condiviso e informatizzato nel Sistema informativo
generale del Catalogo (SIGECweb), compilabile secondo modalità
svincolate dalla prassi catalografica consueta.
4. Qualsiasi strumento gli ecomusei decidano di utilizzare per i loro
inventari partecipativi, non sembra sensato prescindere dall’espe-
rienza metodologica maturata in ambito catalografico nazionale, so-
prattutto per ciò che riguarda l’approccio agli elementi immateriali
(rilevamento, documentazione, trattamento dei dati, interviste ecc.).
5. Sia nel caso in cui si opti per la costruzione ex novo di inventari par-
tecipativi, sia nel caso in cui si valuti un possibile utilizzo di MODI,
è necessario avvalersi della mediazione degli specialisti, che parteci-
pando al processo di costruzione del patrimonio con le loro specifi-
che competenze, garantiscono pertinenza e complessità.
6. Le mappe di comunità, che differiscono da luogo a luogo e hanno
tempi lunghi di realizzazione, si possono considerare delle forme
non normalizzate di inventari partecipativi, declinati secondo mo-
dalità differenziate, ma per la loro stessa natura non dovrebbero
sostituire gli inventari normalizzati, quanto invece affiancarli e ap-
profondirli.16

16
Ibidem.
74 Katia Ballacchino

In questo terreno ancora abbastanza vergine, Marta potrebbe rac-


cogliere questa sfida e, qualora i protagonisti continuassero a investire
in questo progetto, potrebbe diventare un luogo di grande interesse in
cui sperimentare concretamente forme di antropologia delle mediazio-
ni dei patrimoni all’interno del “gruppo di lavoro” che si va man mano
ampliando, attivare pratiche di negoziazione tra lo stesso gruppo, i pro-
tagonisti della festa e le istituzioni locali, nonché dare vita a processi di
dialogo con istituzioni sovralocali e internazionali. E tutto ciò potrebbe
avvenire, rivendicando come risorsa principale e imprescindibile la speri-
mentazione e l’implementazione della ricerca etnografica collaborativa.17
L’originalità dell’ipotesi partecipativa nella ricerca è qui data dalla
postura riflessiva dello sguardo analitico delle antropologhe e dei pro-
tagonisti locali, rivolto non solo alla pratica patrimoniale ma soprattut-
to al “processo” condiviso di individuazione e attribuzione di signi-
ficato dei beni etnografici e, successivamente, alla progettazione della
salvaguardia degli stessi, processo che responsabilizza formalmente sia
gli studiosi che i locali. Il mantenimento della libertà e della autorialità
scientifica potrebbe entrare in crisi, qualora si lasciasse decidere e per-
seguire autonomamente agli attori locali i propri punti di vista – spesso
essenzialistici – concernenti il patrimonio immateriale e più in generale
i suoi più generali valori di riferimento. Tuttavia, la sfida sta proprio in
questo potenziale iato che, invece, potrebbe offrire l’opportunità di su-
perare quella “nuova tirannia”18 di cui vengono accusati molti processi
che prevedono retoricamente l’imperativo partecipativo come eserci-
zio di democrazia da parte delle istituzioni.
Forse per evitare che l’approccio partecipativo si traduca in una
“nuova tirannia” delle istituzioni egemoni su quella parte di cittadini
che comunque non sarebbero rappresentativi della diversità culturale
delle comunità locali, si dovrebbe pensare ai ricercatori come a degli
attori non sempre o non solo istituzionali. Cioè tra le istituzioni e le
comunità vi è la figura dell’antropologo che fa da mediatore, con tutti
i rischi che questa nuova veste comporta. Rischi di perdita di autorità
da una parte o rischi di assorbimento di essenzializzazione delle cul-
ture indagate, dall’altra.19
17
Lassiter, 2005a e 2005b.
18
Cooke, Kothar, 2001.
19 Bortolotto, 2013b (Introduzione).
Antropologi ‘attorno al tavolo della comunità patrimoniale’ 75

L’antropologia ha da sempre una vocazione all’ascolto e al coinvol-


gimento attivo nelle pratiche locali di cui si occupa, implicando spes-
so diversi rischi. Uno di questi è, ad esempio, l’“incliccaggio”,20 ossia
la scelta da una parte coraggiosa e dall’altra responsabile – se si vuole
comprendere il punto di vista più interno e intimo – di prendere parte
a ciò che si studia, muovendosi con preferenze e selezioni all’interno
della comunità locale, che attivano inevitabili conseguenze nella ricerca.
L’antropologia può essere, quindi, per sua natura una scienza schierata,
partecipativa; e per questa sua stessa cifra essa accumula fascino ma paga
anche pegno in termini di critica dell’esattezza dei risultati. Ma è soprat-
tutto nella pratica empirica che la sua fisiologica postura collaborativa e
di mediazione21 nel nostro discorso può divenire una risorsa.
Il community-based inventory pensato dal segretariato dell’UNE-
SCO prevede tecnicamente che almeno un terzo dei partecipanti al
progetto siano membri della comunità e il “gruppo di lavoro” martano
ha rispettato tale criterio sin dall’inizio. La sfida principale qui risiede
proprio nel tentare di mantenere un equilibrio “attorno ad un tavolo”
tra l’autorità antropologica e la legittimità del “gruppo di lavoro” – che
non è composto da semplici sporadici partecipanti ad un focus group
intorno ad alcuni temi, ma diviene esso stesso un vero e proprio sog-
getto autorevole e attivo nel progetto. E ciò, pur indebolendo l’autorità
etnografica riconosciuta comunemente agli antropologi, rafforza an-
che il rapporto collaborativo nella ricerca.
Proprio l’ascolto e il rispetto verso l’intenzionalità fisiologica del
gruppo, che durante il primo anno di lavoro ha mostrato non poche
difficoltà a produrre anche solo una prima scheda di catalogo della fe-
sta, stanno producendo i primi dati interessanti sulla festa stessa. Far
dialogare il significato di alcune questioni che agli antropologi sem-
brano ovvie con le esigenze e i punti di vista diversi del “gruppo di
lavoro” – che spesso vive in modo complesso e conflittuale anche solo
l’identificazione di alcuni suoi aspetti – è una pratica certo faticosa ma
che attiva una presa di coscienza del valore del bene, che altrimenti
forse non avrebbe opportunità di manifestarsi compiutamente.
Per comprendere le frizioni che hanno rallentato e che rallentano
tuttora il lavoro di catalogazione diventa cruciale l’esempio della “co-
20
Olivier De Sardan, 2009.
21
Ballacchino, 2013a.
76 Katia Ballacchino

lazione” (collazione). I locali, infatti, si rifiutano di narrare il momento


festivo del consumo del cibo in termini di antica pratica rituale vin-
colata a una storia e a una tradizione locale, proprio perché vogliono
evitare che si veicoli l’idea di una sagra alla cui partecipazione assista un
pubblico esclusivamente interessato all’aspetto della dispensazione del
cibo locale. Il rinnovato sentimento di orgoglio locale e la volontà di
restituire “autenticità” e regolamentazione “secondo tradizione” agli
aspetti cruciali della festa da parte di alcuni componenti del “gruppo
di lavoro” – che rappresentano i principali conoscitori delle fonti lo-
cali sul rituale – spesso diventa l’aspetto preminente di ogni riunione
operativa. Come si è già detto, infatti, si registra un rallentamento della
programmazione del lavoro per via della costante urgenza di discutere
delle criticità della festa contemporanea in relazione alle origini della
tradizione, prima ancora di avanzare qualunque dibattito intorno alla
catalogazione della stessa.
Ma i tempi di riflessione e lavoro, quando si condivide un tavolo
i cui componenti non hanno la stessa formazione né comuni inten-
ti di ricerca, potrebbero essere uno dei primi elementi di criticità del
gruppo, imponendo un più lento atteggiamento all’ascolto e al rispetto
delle diverse esigenze dei soggetti con cui si lavora. La velocità con
cui spesso si fa ricerca orientata alla catalogazione non può coincidere
coi tempi locali di un processo di critica e salvaguardia, soprattutto se,
come nel nostro caso, gli incontri del gruppo di lavoro possono assu-
mere anche la funzione di denuncia dei problemi di controllo e gestio-
ne della stessa festa. Inoltre, il rallentamento delle prime formalizza-
zioni delle schede cela probabilmente una generale subordinazione nei
confronti delle ricercatrici e della loro formazione accademica, rispetto
ad un sapere locale che magari evita di mettersi in evidenza senza il
supporto tecnico-scientifico. In realtà, ciò potrebbe anche volere dire,
come sembra già accadere in qualche caso, che sono gli stessi membri
del gruppo a riconoscere piano piano l’autorità antropologica e a chie-
derne la guida, nonostante l’appello iniziale a volersi considerare tutti
membri paritetici del gruppo. Oppure, un’altra ipotesi potrebbe essere
che sia lo stesso gruppo di lavoro, o parte di esso, a rivendicare con for-
za la propria autorialità sulle questioni del patrimonio, proprio grazie
al ruolo che sta rivestendo nel progetto. Come si è anticipato, quest’ul-
tima ipotesi sta portando le antropologhe a tentare un’apertura ulte-
riore del gruppo per fare diventare attivi protagonisti della festa altri
Antropologi ‘attorno al tavolo della comunità patrimoniale’ 77

componenti, diversi per ruolo ed estrazione, persone di diverse gene-


razioni, oppure membri dello stesso comitato festa. Ma non abbiamo
ancora dati registrati in questo senso. La ragione dell’opportunità di un
ampliamento del gruppo sta nel cercare di mantenere insieme persone
diverse che sappiano trovare un saggio equilibrio tra, da una parte, le
voci che si sentono in “diritto” di spiegare ed educare alla festa, spesso
con un approccio legato alla storia e al passato, e dall’altra le voci più
giovani che possono risultare “fuori dal coro” ma che rappresentano
reali istanze contemporanee, sottolineando tutte le contraddizioni tra
ciò che localmente è considerato “autentico” e ciò che è visto come
“spurio” o “inventato” rispetto alla tradizione.
Una sfida per gli antropologi potrebbe diventare proprio l’apertu-
ra del dibattito, seppur conflittuale, tra l’élite che è titolata a detenere
l’idea della tradizione “autentica” e “normata” e le generazioni più gio-
vani che mostrano altre esigenze. In ogni caso l’inventario, così come
si sta pensando nel progetto, dovrebbe prevedere uno spazio dedicato
proprio alla “spiegazione” di alcuni aspetti che il gruppo ritiene di do-
ver “giustificare” o spiegare in relazione alla storia locale e alle fonti. In
questo senso, lo stesso processo di dibattito e “fissazione” di tutti gli
elementi, anche di quelli moderni della festa, offrirebbe l’opportunità
preziosa e costruttiva di rendere fruibili all’esterno le variegate e non
sempre concordi voci patrimoniali.
L’idea, quindi, di condividere un tavolo in cui si dibatte a lungo
su ciò che la festa “sembra essere” e su ciò che oggi “è” o “dovrebbe
essere”, cristallizza e rallenta per certi versi gli incontri, ma dice molto
delle istanze identitarie locali e del valore del patrimonio nel territorio.
Questo al di là della futura riuscita o meno del progetto. Manifesta,
inoltre, una volontà di resistenza da parte delle comunità patrimo-
niali all’omogeneizzazione della rappresentazione locale da parte dei
media. La condivisione trasversale dei contenuti del progetto con le
diverse comunità patrimoniali (esperti locali, protagonisti, comitato,
comune, etc.) implica necessarie azioni da parte antropologica a gestire
il conflitto tra parti dello stesso territorio, ma offre anche una nuova
opportunità di riflessione sul ruolo concreto dell’antropologia come
scienza utile, “giardiniera”, di mediazione, ma autorevole nella sua ca-
pacità metodologica di ascolto, traduzione e negoziazione, posizionata
a fianco dei suoi stessi interlocutori. Il posizionamento attorno a un
78 Katia Ballacchino

tavolo rende ancora più prossima la vicinanza22 e apparentemente più


distante l’idea accademica del rigore e della oggettività della ricerca,
ma è anche un posizionamento che con ciò stesso sovverte il ruolo dei
soggetti indagati ponendoli come reali protagonisti di una retorica del-
la partecipazione troppo spesso dibattuta solo in tavoli tecnici esterni.
Come ribadisce Bortolotto,23 la partecipazione come imperativo
centrale della governance mondiale fa sì che le organizzazioni inter-
nazionali possano invitare i cittadini a partecipare come “esperti re-
sponsabili” alla definizione delle attività e a condividere con loro le
responsabilità delle loro scelte;24 ed è forse questo un aspetto tra i più
interessanti in questo processo. Se da una parte l’autorialità scientifica
rischia di essere messa in crisi indebolendo il ruolo dei ricercatori com-
petenti, dall’altra la condivisione delle responsabilità delle scelte con i
protagonisti è parte integrante del processo e determina probabilmente
sia i principali limiti che i punti di forza. In conclusione, l’introduzione
dell’istanza partecipativa patrimoniale potrebbe produrre dei risultati
rilevanti nell’antropologia applicata alla “produzione” di beni culturali
immateriali attraverso la catalogazione o la preparazione di doman-
de di candidatura alle Liste Rappresentative UNESCO del Patrimonio
Culturale Immateriale. E la produzione delle rappresentazioni cultu-
rali potrebbe diventare un nuovo campo di negoziazione tra l’antropo-
logo e i suoi interlocutori, sulla scia dell’antropologia collaborativa ed
engaged che in certi casi già offre rappresentazioni più dialogiche delle
interazioni del lavoro etnografico.25
Lungi dal poter giungere in questa fase della ricerca a vere e proprie
conclusioni – e ancor più a prevedere l’esito che un esperimento del ge-
nere avrà – ci limitiamo ad auspicare l’attivazione di buone pratiche di
partecipazione che potremmo definire consapevoli e bidirezionali, con
una rinnovata utilità dell’antropologia in termini sociali e applicativi,
agevolata dall’uso di “media partecipativi”. Negli inventari l’uso di vi-
deo e fotografia partecipati può facilitare l’empowerment dei gruppi con
cui il ricercatore collabora.26 Secondo l’UNESCO i mezzi audiovisivi,
22Tornatore, 2011.
23
Bortolotto, 2013b.
24 Müller, 2012.
25 Cfr., tra gli altri, i lavori di Lassiter, 2005a, 2005b; Marcus, 2001; la produzione

della rivista Collaborative anthropology; Macchiarella, 2009.


26 Fultz, 2010.
Antropologi ‘attorno al tavolo della comunità patrimoniale’ 79

infatti, sono i dispositivi migliori per l’identificazione partecipativa del


patrimonio per far emergere problemi, bisogni, interessi degli attori so-
ciali nella programmazione di eventuali piani di salvaguardia condivisi,
prescindendo dal ruolo, dal livello di istruzione, maturità o consapevo-
lezza dei soggetti coinvolti e, dunque, attivando un processo concreta-
mente più democratico e aperto al riconoscimento delle differenze.

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Alleati nella resistenza: antropologi e comunità locali
nella valorizzazione delle culture dell’oralità

Paolo Nardini

L’associazionismo culturale sviluppatosi in Toscana negli ultimi


decenni del secolo scorso, e particolarmente nella sua parte più a sud,
mostra, in alcuni casi, il frutto di un’alleanza fra competenze antropo-
logiche e riscoperta delle proprie tradizioni da parte delle popolazioni
locali. Molte delle organizzazioni spontanee impegnate nella ricerca e
nella diffusione della conoscenza della cultura locale che si sono formate
in Toscana a cominciare dagli anni Settanta del Novecento, hanno fa-
vorito le attività di aggregazione, e talvolta hanno reso possibile, anche
in maniera intensa e continuativa, la promozione e la valorizzazione di
attività tradizionali, avviando in alcuni casi un processo di condivisione
dell’eredità culturale. Queste attività s’inseriscono nell’ambito più am-
pio degli studi sulla cultura popolare in Italia, svolti anche attraverso la
realizzazione di attività culturali e di promozione sociale, spesso basate
sul volontariato.1 Nel tempo sono cambiate le dinamiche messe in atto
dagli attori sociali: promotori e organizzatori di eventi culturali, politici
e antropologi hanno dato un contributo fattivo nella realizzazione degli
eventi culturali e nella valorizzazione del patrimonio demologico.
Fra i principali artefici della politica culturale legata agli aspetti tra-
dizionali, nel territorio grossetano l’Archivio delle tradizioni popolari,
attivo già dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso;2 ha costituito
con il contributo degli antropologi un fondo documentario di rilievo
(frutto di una vasta campagna di indagine in vari aspetti della cultura
tradizionale e della socialità), associato a una attività di riproposizione
e rivitalizzazione di forme tradizionali, connesse alla realizzazione di
eventi legati principalmente al teatro popolare. Nello stesso territorio
dal 1992 opera l’associazione culturale “Sergio Lampis” di Ribolla, che
si differenzia per la sua vocazione specialistica indirizzata alla poesia
1
Fanelli, 2014.
2 Nato come un’articolazione dell’Assessorato alla cultura del Comune di Grosse-

to, nei primi anni Novanta l’Archivio si è configurato come una sezione specializzata
della Biblioteca comunale Chelliana. Recentemente, all’inizio del 2016, ha rinnovato il
proprio statuto trasformandosi in associazione culturale.
220 Paolo Nardini

estemporanea, e particolarmente all’ottava rima diffusa nell’Italia cen-


trale. Il principale obiettivo dell’associazione è infatti quello di orga-
nizzare eventi e spettacoli che vedano protagonisti i poeti improvvi-
satori della Toscana, del Lazio e dell’Abruzzo, grazie alla sua rete di
relazioni con i poeti stessi e con gli studiosi di poesia estemporanea.

Il viaggio del Maggio: dalle case dei contadini alla piazza e ritorno
(agli agriturismi)

Una delle attività che l’Archivio delle tradizioni popolari ha svolto,


ancor prima della sua istituzione formale, avvenuta alla fine del 1979,
fu quella di “portare il Maggio in piazza”. Il 30 aprile dello stesso anno,
infatti, il Comune di Grosseto aveva organizzato, grazie alla presenza
di Roberto Ferretti3 in qualità di antropologo impegnato nello studio
delle tradizioni popolari e dipendente del Comune stesso, impiegato
presso l’Ufficio cultura, e con la collaborazione dei sindacati CGIL,
CISL e UIL e delle organizzazioni ARCI, ACLI e ENDAS, la prima
rassegna cittadina di gruppi di maggerini.
La “maggiolata” (o “canto del maggio”, o ancora “maggio liri-
co”) può essere definita come un’azione cerimoniale proposta da un
gruppo specializzato, realizzata al domicilio dei beneficiari, secondo
una cadenza calendariale (la notte fra il trenta aprile e il primo mag-
gio), durante la quale vengono scambiati dei doni di natura simboli-
ca (il canto augurale proposto dal gruppo) e, dietro esplicita richiesta
ritualizzata, di natura materiale (cibi e denaro che le famiglie visitate
donano ai maggerini); i cibi raccolti sono consumati, durante una se-
conda cerimonia, dal gruppo allargato ad alcuni dei componenti della
comunità più ampia. Nel grossetano, per maggio lirico, maggio allegro,
canto del maggio, anda’ a cantà ’l maggio e altre espressioni simili, si

3
Roberto Ferretti (1948-1984) è stato un antropologo e studioso di tradizioni
popolari locali. Laureato all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” con Diego
Carpitella, si è occupato si storia e cultura locale, svolgendo rilevamenti soprattutto nel
campo della narrativa di tradizione orale, del teatro popolare e della cultura materiale.
Ha fondato, come esponente dell’Ufficio Cultura del Comune di Grosseto, l’Archivio
delle tradizioni popolari della Maremma grossetana. Per ulteriori dettagli si può con-
sultare https://it.wikipedia.org/wiki/Archivio_delle_tradizioni_popolari_della_Ma-
remma_grossetana.
Alleati nella resistenza 221

intende un fenomeno assai complesso, da vedere soprattutto in relazio-


ne alle condizioni esistenziali delle comunità presso le quali insiste. La
tradizione, diffusa nel grossetano, nella Maremma livornese e pisana
e in alcune aree nell’interno collinare in provincia di Siena, presenta
una serie di varianti territoriali. Nella forma del canto itinerante con
questua è diffusa prevalentemente nell’area delle colline metallifere e
nella pianura grossetana, oltre che in alcune località della collina. Nella
collina meridionale della provincia e in alcune località dell’Amiata, si
rileva un fenomeno ugualmente indicato come “maggio”, che si dif-
ferenzia dal primo per essere una forma di celebrazione meno spetta-
colare: nella piazza del paese viene piantato il tronco di un albero, più
o meno ripulito dai rami e rivestito di nastri decorativi, e vegliato per
l’intera nottata del trenta aprile; le azioni cerimoniali sono limitate: si
attende l’alba di maggio. Una variante del “maggio cantato” è costitui-
ta dal cosiddetto maggio bianco o maggio appassionato per le anime del
purgatorio rilevato negli anni Settanta e primi anni Ottanta, poi caduto
in disuso, in una zona circoscritta della collina a est del capoluogo in-
teressata da una migrazione tardo-ottocentesca di pastori provenienti
dall’Appennino Tosco-Emiliano. Questa forma cerimoniale presenta
alcuni aspetti che lo assimilano al maggio allegro, ma per gli elementi
che ne costituiscono la struttura cerimoniale è da inserire in un conte-
sto di appropriazione delle tradizioni profane da parte della chiesa. Il
canto ha un tono sommesso e presenta caratteri liturgici, i beni raccolti
sono destinati ad “acquistare” funzioni religiose dedicate ai defunti che
scontano le proprie pene in purgatorio. Al di là dall’aspetto religioso,
che nell’ambito della manifestazione folklorica ha una rilevanza non
secondaria, in questo maggio bianco, secondo Roberto Ferretti,4 può
essere individuata la stessa funzione svolta dal maggio allegro e dal
maggio albero: quella di consentire alla comunità di riunirsi intorno a
una motivazione forte. L’elargizione del dono richiesta dal gruppo ai
contadini e pastori dei poderi visitati, costituiva un modo per contri-
buire attivamente all’ordine sociale.
Le varianti nella rappresentazione del Maggio cantato in Maremma
sono molte, e si riferiscono a diversi aspetti. Si distingue un’area più
conservativa, quella della collina interna, rispetto alla zona litoranea,
più aperta al cambiamento e agli influssi esterni sulla tradizione. Nella

4
Ferretti, 1980b, 1981 e 1982.
222 Paolo Nardini

maggior parte delle versioni del maggio cantato uno degli elementi ce-
rimoniali è costituito dall’albero, rappresentato da un bastone adorno
di fiori e nastri colorati, di un ramoscello fiorito, di un mazzolino di
fiori, a seconda dei casi. L’elemento costante è il contesto sociale, costi-
tuito dalla maglia poderale. Si tratta infatti della vasta area maremmana
litoranea e collinare caratterizzata dalla presenza della mezzadria come
il più diffuso rapporto di produzione. Con l’avvento della riforma
agraria, la maglia poderale si è infittita ed estesa. I poderi più grandi
sono stati suddivisi, mentre di nuovi sono stati ricavati da una parte dei
terreni che le grandi fattorie conducevano a conto diretto. Con la rifor-
ma dell’agricoltura nell’arco di poco più di un decennio molte famiglie
di contadini sono giunte nelle campagne grossetane dall’Amiata, dalla
Val di Chiana, dall’Appennino e da altre parti. Ma pochi anni più tardi,
per effetto della meccanizzazione dell’agricoltura da una parte e con
la richiesta di manodopera nelle città e soprattutto nell’Italia setten-
trionale, molti giovani sono usciti dai poderi per trovare lavoro nelle
fabbriche o nel settore terziario.
Tutto ciò ha contribuito a provocare un senso di disorientamento e
di perdita dell’identità in chi è rimasto. La stessa tradizione del maggio
ha perso la sua funzione originaria, perché il tessuto sociale in quel
breve periodo si è sfilacciato. Tuttavia i gruppi e il loro pubblico (di-
scendenti delle famiglie dei mezzadri) hanno continuato a riprodurre
e ascoltare il canto del maggio, come elemento di legame con le loro
origini contadine.
Il canto del maggio della campagna grossetana nelle sue forme ori-
ginali costituiva una pratica attraverso la quale, in un tessuto sociale e
insediativo caratterizzato dalle distanze della maglia poderale, dal dis-
sesto della rete viaria e dalle difficoltà negli incontri e nelle comunica-
zioni, le famiglie contadine confermavano i propri legami, funzionali
alla conduzione stessa dei poderi, e fra le quali agivano meccanismi di
scambio reciproco di lavoro, di alleanze parentali e matrimoniali. Que-
sta pratica, che nei primi anni Settanta cominciava ad accusare segni di
crisi, dovuti essenzialmente all’esodo dalle campagne, era circoscritta
agli ambienti rurali, e anche nelle sue varianti urbanizzate, dove il per-
corso si svolgeva fra le case del paese, era comunque estranea all’am-
biente della piazza cittadina.
L’iniziativa che il Comune di Grosseto, attraverso Roberto Fer-
retti, prendeva nel 1979 in collaborazione con le organizzazioni di
Alleati nella resistenza 223

categoria e con i gruppi di maggerini ancora attivi, in qualche modo


andava a trasformare una pratica rurale in un avvenimento urbano e di
piazza, e conseguentemente a decontestualizzare un rito. Benché l’esi-
to di un intervento così invasivo nelle pratiche sociali locali non fosse
scontato, in realtà si rivelò positivo: la cittadinanza accolse nel proprio
ambito una tradizione rurale che continuava a riconoscere come pro-
pria, data anche la recente ascendenza contadina di buona parte della
popolazione grossetana, e i gruppi si incontrarono incoraggiandosi a
vicenda. Tuttavia, come Ferretti ebbe a considerare nel corso dell’anno
successivo insieme ai componenti dei gruppi che avevano partecipato
all’iniziativa, l’itinerario e i tempi consueti di questa ritualità rurale ve-
nivano completamente stravolti. All’iniziativa del “Maggio in piazza”,
seguì infatti una riflessione che portò negli anni successivi a scegliere,
per le rassegne, date diverse da quella canonica5. Il Maggio, nella sua
forma tradizionale, si sviluppava in un contesto costituito da case co-
loniche e famiglie contadine che si conoscevano da generazioni, spesso
imparentate fra loro, in un mondo che era fatto di relazioni dirette.
Perciò, in accordo con i gruppi, a cominciare dall’anno successivo, e
fino alla fine degli anni Ottanta, l’Archivio (attraverso l’opera di Ro-
berto Ferretti e dei collaboratori che lo hanno affiancato, prima, e suoi
successori, dopo) insieme alle altre organizzazioni locali, ha continua-
to a programmare rassegne differite. Si trattava di invitare i gruppi dei
maggerini a esibirsi su un palco (nella piazza principale di Grosseto
o in un’area attrezzata delle mura cittadine) uno dei giorni successivi
alla scadenza tradizionale. Le rassegne hanno poi continuato a realiz-
zarsi nei luoghi vicini ai paesi e nelle piazze urbane: alla fattoria della
Grancia, a Braccagni, a Rispescia, ad Alberese, a Marina di Grosseto.
Con il fenomeno della rassegna negli anni è aumentato il numero dei
gruppi di maggerini, che si sono trasformati da esclusivamente maschili
in gruppi misti, formati anche da persone che abitano in città.
Quale è stata quindi la portata di un intervento culturale come
questo? Se questa tradizione ha trovato una nuova vitalità, anche tra-
sformandosi, assumendo elementi nuovi, modificando alcune caratte-
ristiche di quelli esistenti, cambiando tempi, itinerari, audience; se il
dibattito e le considerazioni sul Maggio oggi sono patrimonio comune

5
Ferretti, 1980a.
224 Paolo Nardini

e oggetto di riflessione anche nelle scuole, lo dobbiamo soprattutto alle


iniziative prese da Roberto Ferretti.
Ciò che emerge, da questa esperienza, è che di fronte all’incedere
della modernità, che portava all’esodo dalle campagne, alla perdita di
un precedente status sociale, all’abbandono di pratiche che facevano
parte della quotidianità e della ritualità contadina, si metteva in atto
una resistenza, da parte delle popolazioni locali con la “complicità”
degli antropologi, che ha portato a un ritorno verso quelle che veniva-
no identificate come le proprie radici culturali e sociali. Come è stato
rilevato a scala più ampia, le società tribali, che sembravano destinate a
sparire nella violenza progressiva della civiltà e dello sviluppo economi-
co occidentale, alla fine del ventesimo secolo hanno mostrato qualcosa
di diverso: si sono riallacciate alle proprie radici profonde, adattando e
ricombinando un modo di vita interrotto, risalendo selettivamente alle
proprie radici tradizionali, creando un nuovo percorso nella modernità
complessa: «La resistenza culturale, afferma Clifford, è un processo
in divenire».6 Il recupero della propria identità, affermata attraverso
esperienze di performance, fa parte dello specifico momento storico, in
cui il cambiamento sistemico globale si porta dietro una rinnovata fles-
sibilità e una ristrutturazione dei mondi locali. In questa prospettiva
l’invenzione, o la reinvenzione, delle identità, diviene parte del nuovo
regime di produzione culturale che ha fatto seguito alla crisi economica
degli anni Settanta e all’affermazione del neoliberismo degli anni Ot-
tanta. La globalizzazione capitalista consente, e talvolta incoraggia, le
differenze, a condizione che esse non costituiscano una minaccia verso
l’ordine politico economico. Le tradizioni culturali che distinguono
le comunità sono sostenute, ricreate, mostrate e mercificate nel teatro
delle identità. In questo periodo, la post-modernità, le comunità locali
sono spinte e allo stesso tempo attratte dalla ricostruzione di se stesse,
dentro a un sistema globale di negoziazione di identità.7
Una periodizzazione delle fasi del Canto del maggio in Maremma
meriterebbe una trattazione a sé. Qui basti rammentare che, pratica
attiva fino agli anni venti del Novecento, fu fortemente avversata da-
gli esponenti locali dei governi che si succedettero durante il periodo
fascista, che pretendevano addirittura di spostarla al 21 aprile, data in
6
Clifford, 2013, p. 7.
7
Ivi, p. 29-30.
Alleati nella resistenza 225

cui all’epoca si celebravano i “Natali di Roma”.8 In quel periodo la


celebrazione tradizionale era contrastata dalle forze dell’ordine, che
vi vedevano un legame stretto con la “Festa dei lavoratori” del primo
maggio (anche se non è attestato che in ogni caso ci fosse una relazione
diretta, e sembra che in molti casi la tematica della festa del lavoro sia
una acquisizione tardiva). La tradizione fu ripresa nel secondo dopo-
guerra, ma nei decenni successivi l’esodo dalle campagne e l’acquisi-
zione di elementi della modernità, fecero il loro effetto, con molti casi
di abbandono della tradizione. È negli anni Settanta che alcuni gruppi,
ai quali spesso partecipavano giovani e meno giovani intellettuali lo-
cali, si muovevano alla ricerca delle “tradizioni perdute” e fra queste il
Canto del maggio ha giocato un ruolo importante. Questa riscoperta
delle tradizioni avveniva però spesso in forma acritica, senza indaga-
re sulla relazione fra la tradizione e le condizioni di vita e di lavoro
della popolazione. È con un’impostazione di ricerca universitaria che,
nella seconda metà degli anni Settanta, si riesce a stabilire un collega-
mento fra il Canto del maggio e l’ambiente sociale ed economico della
Maremma appoderata, a mettere in relazione questa istituzione con
la necessità di consolidare i legami fra le famiglie dei contadini in un
ambiente sociale disperso e infine a considerare l’intero insieme degli
attori che intervengono, comprese le famiglie visitate come parte attiva
nella celebrazione.9
Con il recupero dell’identità culturale a partire da una pratica del
tutto rivolta verso l’interno della comunità, attraverso il fenomeno
della spettacolarizzazione sul palco, il Canto del maggio ha assunto
anche un altro aspetto, quello di essere rivolto verso l’esterno. Nel-
lo svolgere il consueto itinerario per le case dei contadini della stessa
zona abitata dal gruppo dei maggerini, questi, fino agli anni Sessanta,
incontravano individui con i quali erano uniti da legami di solidarietà:
famiglie contadine con le quali intrattenevano da generazioni relazioni
di scambio di lavoro, spesso anche di parentela e in ogni caso apparte-
nenti sempre allo stesso ambiente sociale e culturale. Più tardi il Canto
del maggio diviene spettacolo, per un verso rivolto alla piazza, come si
diceva, e per l’altro rivolto, sempre all’interno delle case dei contadini,
agli ospiti di quelle che si sono trasformate in agriturismi. L’itinerario
8
Fidanzi, 1997, p. 6-7.
9
Fresta, 1983, p. 146-147.
226 Paolo Nardini

del gruppo, infatti, negli ultimi anni tende a includere le strutture agri-
turistiche e anzi a dare a queste la precedenza rispetto alle altre case
poderali, proprio per avvantaggiare gli ospiti. In questo senso, la tra-
dizione è (rispetto allo spettacolo del palco) ancor di più rivolta verso
l’esterno, e pur svolgendosi nella stessa zona rurale e dentro alla casa
contadina (ammodernata e trasformata in struttura ricettiva per turisti)
il suo uditorio in questo caso è costituito da individui del tutto estranei
alla comunità, ed è in particolare in questo contesto che si verifica il
fenomeno della negoziazione dell’identità. Si individuano, in questo
modo, tre cerchi concentrici di azione della tradizione: quello endo-
geno dei tempi passati, in cui lo scambio avveniva fra uguali, nel senso
può stretto del termine; quello urbano con forti radici contadine, in cui
lo scambio avveniva fra individui che condividevano la stessa origine
sociale, ma non il percorso di vita, o almeno non più; e quello più ester-
no, in cui i gruppi locali incontrano i fruitori provenienti da lontano
che si trovano occasionalmente, come turisti, a godere lo spettacolo
tradizionale. La rappresentazione della tradizione attraverso i tre cer-
chi concentrici funziona anche in relazione alle formazioni sociali che
ne sono interessate: nel primo caso, tutti gli individui, datori o fruito-
ri, appartengono alla stessa formazione sociale, nel secondo abbiamo
l’intervento degli studiosi che operano all’interno dell’ente pubblico,
delle organizzazioni di categoria, delle associazioni, che organizzano
e coordinano le attività, per tornare in ultimo all’ambiente rurale in
cui però sono intervenute le modificazioni organizzative recenti con
l’apertura all’accoglienza turistica.10
Da uno spostamento nello spazio (inclusione della città nel circuito
dei maggerini) si è passati a uno spostamento nel tempo, anzi ad una
10 Quello del Canto del maggio è solo un esempio di questo fenomeno di recupero

delle proprie tradizioni da parte delle popolazioni contadine o recentemente urbaniz-


zate del grossetano: nello stesso periodo (la pratica è ancora attiva) inizialmente nelle
grandi fattorie che praticavano l’allevamento bovino all’aperto, e successivamente an-
che presso aziende di allevatori di dimensioni ridotte, si è ripreso a rappresentare “lo
spettacolo dei butteri”, mandriani a cavallo che controllano e dirigono piccole e grandi
quantità di bovini, e la cui abilità sta sia nella movimentazione delle mandrie che nello
svolgimento di una serie di operazioni come apertura e chiusura dei cancelli, cattura
dei vitelli, conta dei capi, recupero di quelli che si sono allontanati dal branco, senza
mai scendere da cavallo. Queste abilità, anch’esse in declino nei primi decenni del se-
condo dopoguerra, sono state recuperate, soprattutto nella forma dello spettacolo, e
tutt’oggi rappresentate.
Alleati nella resistenza 227

duplicazione del fenomeno o, per essere più esatti, alla creazione di


un fenomeno nuovo. Il maggio cantato, che nel periodo precedente
le grandi trasformazioni fondiarie che hanno interessato, come altre
zone d’Italia, anche la Maremma, aveva la funzione di raccogliere una
comunità, si decontestualizzava e si trasformava. Il maggio lirico co-
stituiva una modalità dinamica di raggruppare una comunità intorno a
un fenomeno sociale rilevante. Si comprende facilmente il ruolo svolto
dal contesto: si riconosce la continuità storica di un ambiente sociale
rarefatto rappresentato dalle case sparse dei contadini, divenuti pro-
prietari ma con un forte riconoscimento delle proprie radici nell’as-
setto mezzadrile. Con la fine della mezzadria, per effetto della rifor-
ma agraria degli anni Cinquanta, molti fenomeni culturali andavano
trasformandosi o affievolendosi, ma la resistenza opposta dai gruppi
tradizionali e il favore riscosso presso le popolazioni locali, insieme
alle attenzioni degli studiosi – antropologi in primis, ma non solo – per
fenomeni folklorici come le forme del teatro popolare quali appunto
il maggio, la befanata, alcuni rarissimi bruscelli, hanno contribuito alla
loro rivitalizzazione.
Nella rassegna gli elementi costitutivi del maggio lirico sono stra-
volti: il rapporto interattivo cantori-fruitori diventa, mediato dal palco,
un rapporto fra un gruppo di attori e un pubblico. Il gruppo dei frui-
tori, che nel contesto è costituito dai gruppi familiari di amici e talvolta
di parenti dei maggerini, e perciò anche investiti da un certo grado di
coinvolgimento emotivo, alla rassegna diventa un pubblico eteroge-
neo, distaccato e in alcuni casi critico. La rassegna prevede una sequela
di gruppi che si susseguono nell’esibizione. Fra i gruppi si viene a for-
mare un certo spirito di competizione, che non escludo possa avere un
effetto positivo, che sia di stimolo a migliorare l’aspetto performativo
del gruppo, ma che comunque è completamente assente in una situa-
zione contestuale, dove i gruppi non si incontrano e non si confron-
tano, per il semplice fatto di non condividere mai lo stesso territorio.
Il canto e l’intera rappresentazione nel suo complesso sono solidali
al proprio ambiente contestuale, dal permesso (la richiesta formulata
in ottava rima dal poeta del gruppo, rivolta solitamente al padron di
casa), alle formule di saluto, alla richiesta dei doni, al commiato e rin-
graziamento, anch’essi formulati in ottava rima improvvisata. Questi
elementi su un palco e di fronte a un pubblico eterogeneo, perdono di
significato. Insomma si potrebbe parlare del maggio e del suo doppio,
228 Paolo Nardini

un doppio che si configura come fenomeno nuovo e diverso da quello


dal quale ha preso origine.
Eppure è innegabile che la rassegna, frutto della collaborazione di
figure sociali diverse, ma fra le quali la presenza degli antropologi ha
giocato un ruolo determinante, abbia fornito alla tradizione del maggio
cantato per i poderi nella notte del trenta aprile una vitalità provviden-
ziale per la sua sopravvivenza. Probabilmente se non fossero interve-
nute le rassegne, quindi se il maggio, che alla fine degli anni Settanta
era un fenomeno fragile e dalla sopravvivenza non del tutto scontata,
non avesse assunto questa forma decontestualizzata, di essere portato
in città, in piazza, per migrare di nuovo verso la campagna, dove le vec-
chie case dei contadini hanno assunto la forma degli agriturismi, dove
la tradizione acquisisce un tono spettacolarizzante, pur nella sempli-
cità e spontaneità della performance, probabilmente oggi non sarebbe
quello che è e non avrebbe la forza e la vitalità che dimostra di avere,
con le innegabili trasformazioni sia nella forma che nella funzione. Ma
del resto non è tradizione se non si trasforma e non si rinnova.

La poesia estemporanea fra poeti e professori

La tradizione del canto estemporaneo in ottava rima e quella del


canto del maggio sono legate. Quest’ultima è una rappresentazione ce-
rimoniale complessa, composta di diversi momenti, ciascuno con un
proprio significato specifico: l’avvicinamento alla casa dei contadini, la
richiesta di poter cantare, la risposta del “padron di casa”, l’esibizione
vera e propria, cioè il canto di una canzone augurale spesso in quartine
di settenari, all’interno dell’abitazione, la richiesta di doni e l’offerta di
beni da parte della famiglia visitata, il ringraziamento e il commiato. Di
questa sequenza, la richiesta di poter cantare, dei doni, il ringraziamen-
to e il commiato sono composizioni estemporanee in ottava rima nelle
quali il poeta del gruppo non manca di inserire alcuni riferimenti alla
famiglia visitata, a fatti e avvenimenti occorsi nell’ultimo periodo. Non
era raro, almeno in passato, che il padrone di casa non apriva la porta di
casa consentendo al gruppo esibirsi, finché il poeta non avesse “trovato
la chiave”, vale a dire non avesse fatto, attraverso la poesia improvvi-
sata in ottava rima, quei riferimenti che il padron di casa voleva sentir
Alleati nella resistenza 229

pronunciare.11 Poteva trattarsi di una recente nascita o del matrimonio


di una figlia o di un figlio, oppure di una attività svolta, di un raccolto
fortunoso, eccetera. Questo stimolava lo sviluppo dell’abilità nell’im-
provvisare, al punto che molti dei poeti estemporanei toscani, sia quelli
attualmente attivi che quelli del passato, hanno consolidato la propria
abilità nel ruolo di poeta del maggio.12
I poeti estemporanei del grossetano, fra la fine degli anni Ottanta
e i primi anni Novanta, si sono riuniti più volte formulando l’ipote-
si di un festival della poesia estemporanea e cercando di incoraggiare
e stimolare la partecipazione. Nel febbraio del 1992, nella sala ARCI
di Ribolla si riunivano per la prima volta cinque poeti estemporanei
toscani,13 che di fronte a un pubblico di interessati e di appassionati si
esibirono in ottave di saluto e in contrasti. Da allora gli incontri di po-
esia estemporanea si sono susseguiti ininterrottamente con cadenza an-
nuale fino all’aprile 2016, con un numero di esecutori sempre crescen-
te. Qualche anno più tardi, nel 1997, un’altra organizzazione (la Lega
Italiana di Poesia Estemporanea) ha iniziato a realizzare una serie di
incontri annuali a Pomonte, una località vicino a Scansano (GR). Que-
sta organizzazione è guidata da un poeta estemporaneo, Elino Rossi,
e da Mauro Chechi, che è anche poeta improvvisatore, ma soprattutto
è un artista, cantautore e organizzatore di eventi culturali. Al festival
di Pomonte partecipano, di anno in anno, oltre ai poeti della Toscana
e del Lazio, grazie anche alla collaborazione di Davide Riondino, arti-
sti latinoamericani, musicisti o poeti estemporanei. Questo conferisce
al festival un carattere di internazionalità e di confronto fra tradizioni
diverse, e non manca, a margine dell’aspetto più propriamente spetta-
colare, un momento di riflessione e di dibattito fra poeti, studiosi del
canto improvvisato e docenti universitari.
Queste manifestazioni, che riscuotono una grande attenzione da
parte del pubblico, dei poeti, delle istituzioni, a sua volta hanno favori-
to l’accrescersi dell’interesse per la poesia a braccio da parte di studiosi
e di professori universitari.14 È da segnalare peraltro che la ripresa delle
11 Barontini, Bencistà, 2002, p. 15.
12
Fidanzi, 1997, p. 10.
13 I poeti che parteciparono alla prima edizione del festival di Ribolla sono Lio

Banchi, Niccolino Grassi, Benito Mastacchini, Altamante Logli e Libero Vietti.


14 Si possono rammentare, senza pretendere l’esaustività, le iniziative periodiche,

di solito a cadenza annuale, di Buti (PI), di Terranuova Bracciolini (AR), di Valpiana


230 Paolo Nardini

attenzioni riguardo alla poesia estemporanea aveva già avuto luogo nel
Lazio, dove ad Amatrice nel 1987 si era tenuta la Prima rassegna na-
zionale del canto a braccio, seguita dal convegno Ottava rima, canto
a braccio e sapere contadino di Allumiere del 1988.15 A Pianizzoli, un
podere con agriturismo nel comune di Massa Marittima (GR), di cui è
stato proprietario Lio Banchi,16 dopo un primo tentativo, durato qual-
che anno, di istituire una Scuola di poesia estemporanea, da una decina
d’anni viene organizzata una “Serata conviviale con i poeti”, in cui i
convenuti si incontrano per condividere la mensa con i poeti stessi, in
una situazione di maggiore vicinanza rispetto a quella del palco e della
platea di un teatro.
Il festival annuale di Ribolla ha favorito la realizzazione di due
convegni di studio sulla poesia improvvisata: uno, organizzato dall’Ar-
chivio delle tradizioni popolari, ha avuto luogo nel 1997, a un decennio
di distanza dalla precedente rassegna di Amatrice e del convegno di
Allumiere, in cui si registrava ancora una distanza fra i poeti, che can-
tavano in un luogo, e gli studiosi, che si riunivano in un altro. Invece
il convegno grossetano del 1997 sull’improvvisazione poetica in ottava
rima, intitolato L’arte del dire,17 vedeva per la prima volta al tavolo del-
la discussione poeti e studiosi insieme. I poeti nel corso del convegno

nel comune di Massa Marittima (GR), di Suvereto (LI), di Scandicci (FI), di Agliana
(PT), di Latera in provincia di Viterbo, secondo una geografia di presenza dei poeti nel
territorio.
15 Kezich, Sarego, 1990.
16 Lio Banchi (1929-2003) oltre che uno dei più apprezzati poeti estemporanei

del grossetano, è stato anche l’ideatore e realizzatore della prima “Scuola di poesia
estemporanea”, che aveva sede proprio a Pianizzoli, presso il suo podere. Lio Banchi
si differenziava, in questo, rispetto ad altri poeti estemporanei, che invece tendevano a
escludere i giovani dall’apprendimento della composizione in ottava rima.
17 L’espressione è ripresa da un verso di Vasco Cai (1905-1982) di Bientina (PI),

uno dei più noti poeti estemporanei toscani, in un contrasto con Nello Landi del 1972.
Vasco Cai concludeva la prima ottava con il distico: «Però qualcosa gli dobbiamo of-
frire / e del tutto adoprar l’arte del dire». Lo stesso Cai, tuttavia, sembra aver ripreso
l’espressione da un brano della Vita Nuova di Dante Alighieri: «[…] Pensando io a ciò
che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti, li quali erano famosi trovatori in
quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del
dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli
l’Amore; e pregandoli che giudicassero la mia versione, scrissi a loro ciò che io avea nel
mio sonno veduto […]». (Dante Alighieri, Vita Nuova, III). Gli atti del convegno sono
raccolti in Nardini (1999).
Alleati nella resistenza 231

mostravano di non riconoscersi nella rappresentazione che ne davano


gli studiosi. In particolare i “fuochi d’artificio” come li chiamò Pietro
Clemente, con una felice battuta che voleva rappresentare lo “scop-
piettio” di interlocuzioni fra poeti e professori, si accesero (è giusto il
caso di dirlo) e si intensificarono in particolare dopo la visione del fil-
mato di Maurizio Ricci girato a Tolfa in collaborazione con Giovanni
Kezich:18 i poeti presenti nell’occasione non riconoscevano in quella
rappresentazione televisiva la complessità degli incontri poetici, il loro
modo di essere e di comportarsi, gli orizzonti di riferimento. L’equivo-
co (almeno per quanto riguarda il film) può essere sciolto in parte con
la considerazione che si trattava di due realtà diverse, quella toscana
alla quale appartenevano i poeti presenti, e quella laziale, rappresentata
nel filmato. Inoltre si deve considerare che il linguaggio televisivo non
sempre riesce a rappresentare nel breve tempo consentito dalla televi-
sione (il filmato era commissionato da RaiUno) la complessità della
realtà nella scena. La vena polemica che caratterizza i poeti toscani,
almeno alcuni, non permise loro di tacere anche su altri aspetti, come
ad esempio sul fatto che gli studiosi, con i loro sofisticati strumenti
di analisi (registrazione audio, rappresentazione grafica del “cantato”,
misurazione del tempo di durata dei brani e dei singoli versi, ricerca
minuziosa della metrica e delle rime) operavano quella che loro senti-
vano come una “vivisezione” (è l’espressione usata dagli stessi poeti)
delle loro ottave. Nel cantare, dicevano, può capitare di accorciare un
verso, o di allungarlo, rispetto alla sua rappresentazione scritta, grazie
all’uso sapiente dei melismi e alle contrazioni di sillabe, cosa che non
può avvenire nel verso scritto, nel senso che non è ugualmente rappre-
sentabile nel verso trascritto. I poeti fecero riferimento anche al fatto
che gli studiosi, in fondo, utilizzavano, senza chiederne il permesso,
la loro opera per i propri studi. Infine, e questo decretò la “maggiore
forza” dei poeti sugli studiosi, affermarono che “anche i poeti sanno
parlare, ma i professori non sanno cantare”. Nel 2002, per celebrare il
primo decennio di Incontri dei poeti a Ribolla, è stato pubblicato un
libro che riproduce in estratto i “Fogli volanti”19 stampati anno per
18
Ricci, 1988.
19 Barontini, Bencistà, 2002. L’idea di realizzare i “Fogli volanti” è di Corrado Ba-
rontini che afferma: “L’organizzazione di un evento ha bisogno essere accompagnata
da una pubblicazione che ne spieghi il senso o che di volta in volta ne metta in evidenza
le problematiche”. Il libro costituisce una raccolta ragionata dei “Fogli volanti”, cia-
232 Paolo Nardini

anno in occasione del festival e messi in distribuzione gratuita nella


grande Sala ARCI di Ribolla.
Il convegno successivo sulla poesia improvvisata ha rispettato la
cadenza decennale: nel 2007, il giorno che precedeva l’incontro annua-
le di Ribolla, studiosi e poeti si sono riuniti per un nuovo aggiorna-
mento sulla poesia improvvisata. Nel frattempo erano stati fatti molti
passi avanti: alcuni studiosi già presenti ad Allumiere nel 1988 aveva-
no approfondito diverse tematiche e i rapporti con i poeti apparivano,
sebbene in maniera non uniforme, più distesi.20
Gli interessi generati dalla poesia a braccio negli ultimi tempi han-
no dato luogo a dibattiti accesi, a veri e propri “contrasti” riconducibili
a due filoni: l’uso dell’ottava rima improvvisata come mera forma di
spettacolo da una parte, e la salvaguardia di un rigore che conservi i
caratteri della tradizione più antica, dall’altra. Con gli incontri annuali
dei poeti estemporanei si sono determinate condizioni assolutamente
nuove per diffondere la conoscenza della storia del cantare improv-
visato, delle regole, dell’uso dell’ottava rima come genere legato al
mondo tradizionale. Tutto ciò ha favorito anche la conoscenza di altre
forme metrico-ritmiche, delle pratiche di composizione in rima estem-
poranea diffusa in un’ampia area che oltre alla Sardegna (che è forse la
regione più ricca di forme di improvvisazione poetica)21 e la Corsica,
comprende l’intera penisola iberica, le isole Canarie, copre tutto il ba-
cino del Mediterraneo, il Maghreb e gli altri territori nordafricani fino
al Medio Oriente, si estende ai paesi dell’Europa dell’est, ha un discreto
sviluppo ai Caraibi e sono presenti forme analoghe in Sudamerica.
Gli aspetti che l’esperienza degli incontri fra poeti estemporanei è
riuscita a mettere in evidenza sono molteplici. Fra questi, ad esempio,
un nuovo interesse da parte degli studiosi, soprattutto dei professori
universitari, alcuni dei quali fino a una trentina di anni fa sembravano
poco interessati a questo fenomeno sociale e culturale, reminescenze,
forse, dell’anatema carducciano. Nell’ultimo mezzo secolo la poe-
sia estemporanea è stata considerata di più come fenomeno sociale, e
non soltanto dal punto di vista letterario: come elemento di un siste-
ma complesso di relazioni, di saperi, di abilità, di comunicazione e di
scuno dei quali è composto di brevi commenti sugli aspetti storici e sociali della poesia
improvvisata o sulle tematiche affrontate dai poeti stessi.
20 Barontini, Nardini, 2009, p. 10-12.
21 Cfr. Zedda, 2005 e 2009.
Alleati nella resistenza 233

trasmissione del sapere, di ambiente social e rapporti di produzione.


Anche il fenomeno in se stesso si è andato modificando nel tempo,
assumendo differenziazioni locali. In certe zone, come si è rilevato ad
esempio nelle Colline metallifere, ancora nella prima metà del secolo
scorso i poeti estemporanei mostravano la propria abilità soprattutto
nelle osterie e in occasione dei banchetti. In quel periodo, sia nel Lazio
che in Toscana, venivano inoltre organizzati veri e propri concorsi a
eliminazione, dove una giuria, più o meno popolare, decretava chi fos-
se il vincitore del duello poetico. Questa pratica in Toscana è stata ab-
bandonata già negli anni del dopoguerra, salvo rare sacche di resistenza
o di ripresa, come avviene recentemente a Terranova Bracciolini (AR),
mentre nel Lazio risulta ancora viva. Uno dei più noti poeti estempo-
ranei del passato, Tribuno Tonini di Rocchette di Fazio (GR) riusci-
va a vincere molte gare poetiche grazie alla sua capacità di mettere in
difficoltà l’avversario con “chiuse” particolarmente difficili.22 Il poeta,
infatti, doveva avere la capacità di trattare l’argomento nel ruolo che gli
era assegnato, in ottava rima, cercando di far prevalere la propria po-
sizione, e contemporaneamente di mettere l’avversario in difficoltà sia
dal punto di vista tecnico, ad esempio lasciando le chiuse più difficili,
sia argomentativo. È nei decenni del secondo dopoguerra che, dopo il
sostegno che durante il ventennio fascista il regime aveva riconosciuto
ai poeti estemporanei soprattutto del Lazio, la poesia estemporanea
vive una battuta di arresto. Anche altre forme della tradizione popo-
lare e contadina venivano abbandonate. La rivitalizzazione delle for-
me musicali spontanee degli anni Settanta ha quasi trascurato la poesia
estemporanea, finché se ne riscopre l’importanza negli anni Ottanta.
Un tempo la formazione di un giovane poeta era curata dal suo men-
tore, un poeta esperto, che non permetteva al giovane allievo (solita-
mente un parente) di cantare in pubblico finché non avesse mostrato
una buona capacità. Con il passaggio al festival, si assiste a un ulteriore
cambiamento: si allenta la tensione della gara, si allarga la partecipazio-
ne anche ai neofiti, meno esperti, anche se non hanno acquisito ancora
una buona capacità di improvvisare, allo scopo di incoraggiarli a con-
tinuare e a migliorarsi.

22 Con “chiusa” si indica il distico finale degli otto versi che compongono l’ottava,

al quale si deve legare la rima del primo verso dell’ottava che segue. Lo schema è AB-
AB-AB-CC; CD-CD-CD-EE, e via di seguito.
234 Paolo Nardini

Un altro aspetto della poesia estemporanea che è stato messo in


evidenza da Elisabeth Rosse al convegno di Ribolla del 2007,23 riguar-
da il rapporto dei poeti con la propria storia, e come questo emerga o
no a seconda delle situazioni. Distinguendo le due principali modali-
tà di performance, quella conviviale e quella spettacolare, Rosse rileva
come nella poesia di scena i poeti facciano spesso riferimento al pas-
sato, alla mitologia classica e agli eroi, ai poeti che li hanno preceduti,
alle occasioni in cui qualcuno di loro ha affrontato lo stesso argomento
o lo stesso contrasto. Questi comportamenti, osservati e fissati nella
memoria, vanno a costituire dei paradigmi ai quali i poeti si attengono,
rispettando cioè una certa drammatizzazione scenica, la scelta di un
linguaggio, di singole parole che hanno in sé una forza evocativa, una
particolare pronuncia, una gestualità che nell’insieme contribuiscono a
provocare una tensione che si accumula e che poi si scioglie improvvi-
samente al termine del contrasto. Come se, suggerisce Rosse, l’ottava
rima costituisse la metafora di una lotta che infine si risolve in una paci-
ficazione. La poesia di tavola, invece, conviviale, mette in evidenza altri
aspetti, la ricerca di aggregazione, di comunità, di concordia, e gli stessi
argomenti sono diversi, non a contrasto ma concordanti, e possono
riguardare una più ampia gamma di soggetti, materiali come il cibo, il
vino, le persone, o immateriali, come la poesia stessa o un sentimento
di amore. La stessa gestualità, la drammaturgia, la ricerca di termini
paradigmatici è meno presente.
Questo è solo un esempio delle variazioni storiche e geografiche
che si sono potute riscontrare. Nel passato, ad esempio, era raro che un
poeta cominciasse a cantare senza invocare la musa, mentre di recente
l’invocazione è caduta quasi completamente in disuso; i poeti laziali
erano, e alcuni di loro sono ancor oggi, più inclini a narrare episodi
della letteratura epica classica, quasi in dialogo immaginario con dei ed
eroi, mentre in Toscana quest’aspetto sembra meno presente. Il senso
di tutto questo viene attenuato dal fatto che nella poesia estemporanea
influisce fortemente la personalità del poeta stesso, e quindi lo schema
proposto non costituisce una tipologia rigida. Ogni poeta, con la sua
personalità, la sua psicologia, le sue inclinazioni, può mettere sulla sce-
na modalità differenti, che solo a grandi linee si accordano con quelle
condivise dagli altri poeti della stessa area.
23
Barontini, Nardini, 2009.
Alleati nella resistenza 235

Lo stornello, composizione poetica minima, può contribuire a chia-


rire meglio questo concetto. La forma più diffusa in Toscana è lo “stor-
nello a fiore”, che inizia citando un fiore e prosegue con due versi che
possono fare rima o assonanza con il primo; di questi uno è ripetuto. Il
primo verso è di cinque sillabe, mentre i successivi sono endecasillabi.
Ha spesso un contenuto di scherno nei confronti di un immaginario
amante o pretendente, e qualche volta è autoironico, sempre sul tema
dell’amore. La terzina laziale-abruzzese, detta anche terzina dantesca,
ha la struttura ABA–BCB. Viene cantata con l’accompagnamento del-
la zampogna, dalla ciaramella oppure dell’organetto a otto bassi. Nella
stessa zona insiste anche la quartina, con struttura a rima alternata o
a rima baciata nel distico finale. Lo stornello romanesco a dispetto ha
una struttura del tutto simile a quello toscano, ma differisce soprattutto
nel contenuto, per essere, appunto, a dispetto, cioè propone un’oppo-
sizione forte fra i due cantori che si scherniscono a suon di stornelli. In
questa forma poetica però anche il primo verso è un endecasillabo.
Abbiamo quindi forme strutturali differenti che si associano a con-
tenuti specifici: lo stornello toscano prevede più di frequente un can-
tore singolo con tema l’amore, nella forma dello scherno o dell’autoi-
ronia; la terzina e la quartina laziale-abruzzese entrambe a più cantori
(due o tre), con tema la natura, oggetti materiali come cibo e vino o
immateriali (un sentimento, ad esempio), ma sempre a concordia; lo
stornello a dispetto romanesco è eseguito da due cantori, un uomo e
una donna, che si scherniscono l’un l’altra, quindi il tema è il rapporto
di coppia, e l’esecuzione è a contrasto. Tuttavia non si può escludere
che questi elementi si possano incrociare, e cioè che, ad esempio, attra-
verso lo stornello toscano si metta sulla scena lo scherno fra un uomo e
una donna, oppure che attraverso la forma dello stornello romanesco si
possa cantare la bellezza della natura. Questo dipende dal contatto fra
poeti appartenenti a aree culturali differenti, ma anche dall’estro e dalla
capacità-volontà di ciascuno di cimentarsi nella forma altra mantenen-
do magari i contenuti che caratterizzano la propria area.

Nel nome dell’UNESCO

Il recupero e la rielaborazione di tradizioni legate all’oralità da par-


te delle popolazioni locali, quali alcune forme di teatro popolare (come
236 Paolo Nardini

il canto del maggio di cui si è parlato) e la poesia estemporanea, l’atten-


zione degli studiosi verso queste attività e la loro partecipazione nell’or-
ganizzazione degli eventi, da una parte, e l’apertura dell’UNESCO alla
redazione delle liste del patrimonio culturale immateriale, dall’altra,24
nel corso della realizzazione di un progetto di intervento culturale co-
finanziato dall’Unione europea con fondi FESR (Fondi Europei per lo
Sviluppo Regionale) dal titolo INCONTRO,25 hanno dato l’idea della
realizzazione di un dossier internazionale di candidatura delle culture
dell’oralità alle liste del patrimonio culturale immateriale (Intangibile
Cultural Heritage, ICH). Tuttavia l’impegno mostrato dagli studiosi
nel proporre la candidatura UNESCO alle comunità locali non pare
aver riscosso il favore sperato, sia da parte delle comunità dei poeti che
da parte delle amministrazioni locali. Nondimeno l’attività svolta ha
sicuramente influenzato la percezione che i portatori della tradizione
hanno di se stessi.
Il primo passaggio è stato quello di raccogliere le comunità, le asso-
ciazioni dei poeti estemporanei dell’Italia centrale, della Corsica e della
Sardegna, per passare poi a coinvolgere poi gli altri paesi del bacino del
Mediterraneo e dell’America Latina. Il primo incontro per discutere
questo tema è stato alla metà di gennaio 2011 a Ribolla. Qui per iniziati-
va di un gruppo di antropologi guidati da Pietro Clemente, questi stessi
e altri studiosi, poeti e amministratori hanno dichiarato l’intento comu-
ne di promuovere la poesia estemporanea e le culture dell’oralità a livel-
lo internazionale, nel confronto paritario e nel rispetto delle varie for-
me. A breve distanza di tempo c’è stato un nuovo incontro a Pianizzoli
(nel comune di Massa Marittima), per allargare ulteriormente la base di
partecipazione e mettere a punto una strategia d’azione, proponendo
la costituzione di un comitato esecutivo. La terza tappa è stata quel-
la del coinvolgimento degli altri paesi, a Nuoro, nell’ambito di ETNU,
24 La Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, con-
clusasi a Parigi il 17 ottobre 2003, è stata ratificata dal Parlamento italiano con la legge
n. 167 del 27 settembre 2007.
25 Il Progetto INCONTRO (Interventi Condivisi Transfrontalieri di Ricerca

sull’Oralità), diretto da Pietro Clemente, si è svolto fra il 2009 e il 2011 fra le provin-
ce toscane di Grosseto, Lucca, Massa Carrara, e Pisa, l’università di Firenze e quella
di Cagliari, l’ISRE (Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna) e infine
l’associazione corsa “E Voce”. Il principale scopo del progetto è stato quello di va-
lorizzare le tradizioni orali, quali l’improvvisazione poetica e il teatro popolare, e di
diffonderne la conoscenza.
Alleati nella resistenza 237

il festival internazionale dell’etnografia, il cui programma prevedeva la


partecipazione di delegazioni provenienti dalla Corsica, dalla Tunisia,
dal Marocco, dalla Catalogna, dalle isole Baleari, dall’America Latina
(Argentina e Brasile), oltre che dall’Italia (Toscana, Lazio e Sardegna).
In quell’occasione i convenuti hanno sottoscritto una dichiarazione
d’impegno fra studiosi, esecutori, istituzioni e associazioni culturali, che
costituisce una traccia di lavoro che testimonia la volontà dell’incon-
tro, della conoscenza delle forme diverse d’improvvisazione e di perfor-
mance, di studiarle e confrontarle e di avviare una strada da percorrere
insieme. È importante ribadire che il programma di composizione del
dossier di candidatura UNESCO si configurava come “plurilocale”, e
riguardava in primo luogo le comunità. Dalla vita dei poeti, dalle storie
delle associazioni di cui fanno parte poeti e studiosi, nasceva un messag-
gio di pace che intendeva superare le relazioni internazionali fra gli Stati.
La promozione di alcuni aspetti della cultura popolare ha avuto
luogo, nella maggior parte dei casi, grazie all’intervento, talvolta più
esplicito o più velato, ma lo stesso significativo, degli antropologi. Un
altro aspetto di queste attività riguarda la negoziazione messa in atto
nella realizzazione della ricerca da una parte e – soprattutto – nell’or-
ganizzazione degli eventi che vedevano protagonisti i gruppi locali. In
queste attività gli antropologi hanno svolto maggiormente una funzio-
ne organizzativa e di interlocuzione con i soggetti, attuando una sorta
di mediazione fra due livelli, quello delle comunità dei poeti e quel-
lo delle istituzioni. In ciascuno dei casi l’antropologo si è comunque
trovato a negoziare fra le necessità dei poeti e le condizioni richieste
dalla politica delle amministrazioni locali. Si è già visto come, nel caso
del “Maggio in piazza” dopo una prima realizzazione alla scadenza
canonica della tradizione, si sia discusso, ascoltando le difficoltà in-
contrate dai gruppi, rappresentandole in sede istituzionale e favorendo
la decisione di spostare l’evento in avanti, in modo da non interferire
con il consueto itinerario. Anche nel caso del festival dell’ottava rima
di Ribolla si è manifestata una necessità di aggiustamento: dopo la re-
alizzazione del primo incontro di poeti, che è avvenuto nel mese di
febbraio, i successivi sono stati spostati alla metà di aprile, quando le
attività della campagna (gran parte dei poeti estemporanei sono legati
alla coltivazione dei campi o all’allevamento delle greggi) risultavano
meno impegnative. E benché il programma di candidatura delle culture
dell’oralità per l’inserimento nelle liste del Patrimonio Culturale Im-
238 Paolo Nardini

materiale si sia arrestato anche a causa del protrarsi della crisi economi-
ca che rende difficile destinare risorse a questa attività, gli antropologi
hanno comunque svolto un ruolo di mediazione fra i gruppi da una
parte e i politici e gli amministratori pubblici dall’altra.
È stata messa in atto, insomma, una particolare forma di engaged
anthropology su base locale, che non è solo una ricerca collaborativa,
e quindi moralmente preferibile ai modelli storici di ricerca, in cui gli
antropologi affermavano la propria expertise, talvolta anche in contra-
sto con i soggetti, ma una ricerca di soluzioni condivise vantaggiose
per tutte le parti in causa. Un’attività estenuante, questa, specialmente
in quelle occasioni, che sono le più numerose, in cui si ha a che fare
con politici poco disposti all’ascolto della voce dell’“altro”. Una delle
prospettive attuali dell’antropologia è quella di intendere il lavoro non
più “sul campo”, ma “con il campo”, in rapporto di alleanza e collabo-
razione con i “nativi”.
Se i vari incontri con i poeti e gli amministratori locali hanno con-
tribuito a consolidare una percezione del proprio portato culturale da
parte della comunità patrimoniale, come qualcosa che va al di là dei
confini della propria appartenenza sociale, comunità dei poeti e comu-
nità accademica non sempre si sono trovati a condividere la scelta degli
strumenti, delle strategie, degli obiettivi. Già nel corso di un incontro
nel 2012 alcuni poeti hanno avanzato le loro perplessità riguardo alla
candidatura internazionale, manifestando la preferenza per un singolo
elemento del patrimonio immateriale, ad esempio la poesia estempora-
nea in ottava rima. Nonostante l’ormai consolidato processo di scam-
bio culturale fra forme diverse, in quell’occasione sembrò prevalere
l’idea della patrimonializzazione del proprio orticello. Una visione più
ampia e generale talvolta mal si concilia con la percezione che hanno
le comunità patrimoniali, benché proprio quell’impostazione di con-
fronto culturale abbia influito nella formazione della coscienza di sé
di quelle comunità, che hanno mostrato talvolta di percepire l’operato
degli accademici come una invasione di campo.

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