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Breve e inesaustiva historia de lo dolce magnare

napolitano, ovvero, come deliziarsi lo core e la


panza passiando pe’ Toledo

Innamoràtevi di Napoli – Evento promosso dal Comune di Napoli – Assessorato al


Turismo e alla Cultura del 12 Febbraio 2017 – Percorso guidato da Raffaele Moccia
in Via Toledo sulla Pasticceria napoletana

Un racconto di amore e di dolcezze

a cura di Raffaele Moccia


Per innamorarvi di Napoli, avete una sola strada: innamoratevi di un napoletano, o
una napoletana, secondo gusto attitudine e convenienza.

Una volta che sarete innamorati però, prima o poi, se siete maschio, dovrete andare
a fare visita ai futuri suoceri o come si dice “presentarsi in casa” e, in questa
occasione, non potrete fare altro che presentarvi con la “guantiera di paste”,
omaggio che ripeterete a ogni visita comandata e non smetterete nemmeno quando
vi sposerete, perché la napoletana che avrete scelto di sposare aspetterà sempre, di
domenica, il vostro rientro con la guantiera, appendice di ogni napoletano sposato o
meno, di ritorno dalla passeggiata domenicale.

Tipica “guantiera” o “cartoccio” domenicale

Se invece siete una donna e vi innamorate di un napoletano, sarete fatta omaggio


continuo e obbligatorio della succitata guantiera, finché età e valori glicemici non
avranno il sopravvento, lasciandovi nel ricordo dell’amore che fu e dei piaceri ai
quali non potrete più abbandonarvi.
È contemplata anche la possibilità che nessun napoletano o napoletana ricambi il
vostro amore e in questo caso quale migliore consolazione che farsi compagnia da
soli e abbandonarsi al piacere dello svuotamento della guantiera, dialogando con
ognuna delle paste in essa contenute?

Perché a Napoli, le paste non sono anonime paste, hanno nome e cognome e
spesso se ne rintracciano anche i genitori. Quindi abbiamo “deliziose” di chiara
origine austro-ungarica con i due biscotti sovrapposti che racchiudono una crema
che trattiene all’esterno scaglie minuscole di nocciolato, anche nella variante con
cioccolato, le “teste di moro”, una sorta di semi-sfere di pandispagna ricoperte di
diavulilli di cioccolata e poi, gli choux che nel resto del mondo si chiamano bignè, ce
ne sono di rotondi e di oblunghi con i più vari ripieni, dalle crema alla banana al caffè
fino alla cioccolata e alla crema nocciola e quant’altro viene suggerito dalla fantasia
del pasticciere.

Deliziose, teste di Moro e Choux assortiti

Guardando una vetrina di pasticciere a Napoli, scoprite il senso dell’affermazione del


grande scrittore Don De Lillo quando dice che “se non conosci il nome delle cose, le
cose ti saranno sempre invisibili e non le possiederai mai”
La pasticceria a Napoli, quindi, è una storia che è
anche storia di amori.

Ed è l’amore che costrinse il giovane pasticciere Francesco Scaturchio ad inventarsi


“il ministeriale”.

Le vetrine e l’ingresso della Pasticceria Scaturchio in P.zza S.Domenico Maggiore

Giunti da Dasà in provincia di Vibo Valentia, i fratelli Scaturchio alla fine dell’800 si
stabiliscono a Napoli e con la loro arte pasticcera deliziano le tavole dei napoletani.
Napoli fine ‘800

Allo scoppio della prima guerra mondiale il terzo dei fratelli, Giovanni, viene inviato
al fronte e da lì torna sano e salvo, con una moglie, Katharina Persolija (Caterina
Persolia) conoscitrice della tradizione pasticcera austro-ungarica che trasferisce a
Napoli.

Nel suo negozio di Piazza San Domenico, Giovanni Scaturchio sforna oltre ai dolci di
tradizione napoletana, anche torte Sacher, strudel di mele e i “buchteln” che ogni
napoletano conosce come torta Danubio.

Buchteln viennese Torta Danubio napoletana


Un’altra storia d’amore, riguarda il secondo degli Scaturchio, Francesco, viveur e
frequentatore di cafè chantant oltre che titolare della fabbrica di cioccolato annessa
al negozio di pasticceria

Innamoratosi della “chanteuse” Anna Fougez, al secolo Maria Annina Laganà


Pappacena, ne riceve in cambio una strana richiesta di prova d’amore. Se davvero
mi vuoi bene, inventa e dedicami un dolce.

Anna Fougez

Di sicuro anche con l’aiuto della cognata Caterina, depositaria dell’arte pasticciera
austriaca, inventa un medaglione di cioccolato ripieno di elementi molto deperibili
come cioccolato, ricotta e nocciola, ma resi conservabili e duraturi da un melange di
liquori la cui ricetta è ancora segreta e che permette al dolce di conservarsi per
molto tempo anche in assenza di frigo e condizioni di freddo costante.

La certezza di aver inventato un dolce di qualità sopraffina, spinge il giovane a


ottenere il brevetto per potersi fregiare del titolo di “fornitore della Real Casa”, ma
le pratiche burocratiche sono interminabili. “Questo è un affare ministeriale!”, pare
abbia esclamato Francesco, di qui il nome del dolce, il Ministeriale, che risulta
brevettato nel 1923.
Il “Ministeriale”

Altra e differente storia d’amore sta dietro ad un’altra eccellenza napoletana, la


cioccolateria Gay-Odin.

È una storia di emigrazione e d’amore, quella che porta il giovane di origini svizzere
Isidoro Odin a partire da Alba con un piccolo capitale e una valigia, per stabilirsi a
Napoli e tentare la fortuna con la sua arte cioccolatiera.

Napoli nel 1894 è nel pieno della Belle Epoque e i cafè chantant sono pieni ogni sera,
allora come oggi è possibile andare a teatro ogni sera e ogni sera trovare uno
spettacolo diverso.

In questa Capitale spodestata, l’arte di Isidoro trova il suo pubblico ideale. Il primo
negozio sito in Via Chiaia, in prossimità di Piazza Carolina, con vista sul Largo di
Palazzo (oggi Piazza del Plebiscito) è ancora là, anche se ha cambiato proprietario,
ed esibisce ancora l’insegna di “Antica Cioccolateria”.
la prima sede della cioccolateria Gay Odin in Largo Carolina/Via Chiaia 237

Il successo clamoroso del negozio è immediato tanto da indurre Isidoro a rilevare il


palazzo in Via Vetriera in prossimità del Palazzo d’Avalos e impiantarvi ai primi piani
i laboratori, che sono tuttora lì. Dal terzo piano in poi insistono gli appartamenti e
ancora oggi è così. L’edificio nel 1993 è stato dichiarato Monumento Nazionale.

Una volta stabilizzatosi successo commerciale e industriale, venne anche per Isidoro
Odin il momento di coronare il suo sogno d’amore, si sposò quindi con la
conterranea di medesime origini albesi Onorina Gay e da allora cambiò anche la
ragione sociale della ditta, per diventare quella che dagli anni ’20 ammiriamo tutti
sul frontale dei numerosi negozi a Napoli, la bella scritta in stile “liberty” che recita
“Fabbrica Cioccolato Gay-Odin Napoli”.
Non avendo avuto figli, Isidoro e Onorina trasferirono competenze e segreti alla
famiglia Castaldi-Maglietta e poi dagli anni ’80 al nipote del Castaldi che continua la
tradizione cioccolatiera di Isidoro Odin.

L’attuale ubicazione del negozio Gay-Odin, a lato dell’ingresso della Galleria


Umberto, ci dà lo spunto per parlare di due fatti poco conosciuti nella storia di
Napoli e di qualche curiosità pasticciera.

Di fronte all’ingresso della Galleria Umberto, quello che dà su Via Toledo, si trovava,
fino ai primi anni ’80 uno dei caffè più particolari di Napoli, sia per struttura che per
origine dei proprietari.
I Caflish di origini svizzere, giunsero a Napoli, dopo aver inutilmente cercato fortuna
in Toscana, in quel di Livorno. Appartenevano a quella ondata di emigrazione
svizzera proveniente dal Cantone dei Grigioni, che nel ‘600 erano prima emigrati a
Venezia dove avevano appreso l’arte della pasticceria e del caffè e poi si erano
sparsi nella penisola.

L’emigrazione svizzera verso il Regno di Napoli è di lunga data, risalendo prima alle
armate mercenarie che assoldate dai regnanti si erano poi stabilite nel regno, poi nel
‘700/’800 con banchieri, industriali tessili e maestranze.

Vale la pena ricordare come per l’avvio delle Industrie Manifatturiere di Piedimonte
Matese, il Conte Egg portasse con sé oltre ai macchinari anche 180 operai
direttamente dalla Svizzera e sarebbe interessante seguire le discendenze di queste
180 persone che lasciarono sicuramente traccia nel territorio.

Dobbiamo all’emigrazione svizzera la presenza di Pietro Bianchi architetto e


progettista della Chiesa di San Francesco di Paola nell’attuale Piazza del Plebiscito.

Piazza del Plebiscito marchio del Pastificio Voiello

Dobbiamo agli svizzeri anche il marchio Voiello. Il signor August Von Wittel, venuto a
Napoli come operaio e ingaggiato nella costruzione della Napoli - Portici, si
innamora e sposa Rosa Inzerillo, figlia di un pastaio di Torre Annunziata dalla quale
avrà sette figli. Nel 1862 già non si chiamava Von Wittel, ma Vojello e con questo
cognome fonda il pastificio che ancora adesso esibisce il suo nome come marchio.
Insomma le parentele e i legami con la Svizzera sono più numerosi e proficui di
quello che siamo portati a pensare, non solo, i meridionali, ex sudditi di quello che
fu il Regno di Napoli, ad un certo punto hanno cominciato a emigrare verso la
Svizzera in cerca di lavoro e di pane.

Tornaniamo a Caflish, un bar unico nel panorama napoletano essendo costituito di


ampie sale con tavolini e possibilità di lettura e incontro. Da quel Bar sono transitati
tutti gli uomini e le donne illustri della città, dalla giornalista Matilde Serao alle
chanteuse del Teatro Margherita che nella Galleria Umberto ha la sua sede. La
vicinanza poi del Regio Teatro di San Carlo, ne faceva luogo ideale per il dopo teatro,
insieme al vicino caffè Gambrinus.

Il motivo per cui ne parliamo in questa “passeggiata” per pasticcerie è dato dal fatto
che in quei laboratori di pasticceria è nata la “piccola pasticceria” o “pasticceria
mignon”, atteso che a Napoli è possibile acquistare le paste sia nel formato normale
che in formato mignon.

Espositore di pasticceria mignon o piccola pasticceria

Dai primi anni ’80 il Caffè Caflish non esiste più e non so dire se anche la sede di
Palermo sia chiusa, di certo i bambini e i ragazzi napoletani rimpiangeranno le
passeggiate quando era quasi d’obbligo fare una sosta da Caflish per gustare le
meravigliose meringhe esposte nei banconi da esposizione.

La prossima tappa ci porta nel punto dove per la prima volta un segreto di
monastero fa la sua comparsa per le strade.

BREVE STORIA DELLA SFOGLIATELLA, DOVE SI


SMENTISCONO LUOGHI COMUNI SI SFATANO
LEGGENDE E SI RINTRACCIANO AVI E PARENTI DELLA
RICCIA E PURE DELLA FROLLA.
Sfogliatelle riccia Sfogliatella frolla

Secondo alcune fonti, la sfogliatella nasce per l’attitudine al risparmio di una


anonima monaca del Convento di Santa Rosa in quel di Conca de’ Marini. L’oscura
protagonista, per non sciupare del semolino avanzato lo mescolò con canditi, ricotta
limoncello e frutta secca e con questo ci farcì delle sfoglie triangolari, non senza aver
alzato un lembo infilandoci una amarena a guarnire il dolce.

Secondo questa fonte, quindi, la sfogliatella come la conosciamo oggi sarebbe una
variazione della Santarosa e non invece l’originale.

Sfogliatella Santarosa
Convento di Santa Rosa a Conca dei Marini oggi Resort di lusso
In ogni caso, la ricetta di questo dolce restò segreto di Monastero e solo per vie
sconosciute ai primi dell’800 arrivò in possesso del taverniere Pasquale Pintauro che
prima cominciò a venderle nella sua taverna in Via Toledo e poi di fronte al successo
ottenuto, si convertì alla produzione esclusiva del dolce. Il successo fu clamoroso,
tanto da generare un detto entrato nel linguaggio comune “tene ‘a folla e Pintauro”
è da allora il modo di dire per sottolineare il successo di un’idea, un esercizio
commerciale e in genere di un favorevole riscontro di pubblico. L’esercizio
commerciale Pintauro esibisce ancora la sua insegna in Via Toledo ed è ancora
possibile gustarvi la sfogliatella sia riccia che frolla.

Pasticceria Pintauro Chiesa e Monastero della Santa Croce di Lucca

Ma dicevamo dell’incertezza delle origini, poiché rispetto alla fonte che ne situa la
nascita a Conca de’ Marini, ce ne sta un’altra, invece, che la fa nascere nel Convento
Carmelitano della Santa Croce di Lucca, in via dei Tribunali, dove le monache
producevano questo dolce per le tavole dei nobili e dei regnanti, custodendone
gelosamente la ricetta e la fattura. Questo dolce per composizione ed ingredienti,
somiglia molto di più della Santarosa, alla sfogliatella per come la conosciamo oggi e
fino al ‘600 la sua ricetta non varcò le mura del Monastero di Via dei Tribunali.

Ci volle l’ardire di tre sorelle, figlie di Nicola Giudice Principe di Cellamare, Aurelia,
Maria ed Eleonora, che mal sopportando la vita monacale si diedero da fare per
carpire il segreto del dolce e, una volta venutene in possesso, lo comunicarono al
cuoco di palazzo, che lo diffuse per le case nobili e da qui alla città.

Questa versione della nascita della sfogliatella sembra più aderente al prodotto che
ancora vediamo produrre ed è diventato un po’ il simbolo, uno dei simboli della
città. Non fosse che…
Non fosse che già nel ‘500 il cuoco Bartolomeo Scappi, cuoco di porporati e Papi tra
cui Pio V descriveva in un suo trattato, un dolce che per fattura, forma e ripieno è
del tutto simile alla sfogliatella, così come la conosciamo.

Bartolomeo Scappi Trattato di culinaria ad opera di Bartolomeo Scappi

Ed ecco la ricetta della sfogliatella o qualcosa che gli somiglia molto, trascritta da
Bartolomeo Scappi nel ‘500:

«Per fare orecchine e sfogliatelle piene di bianco mangiare.

Fatto che sarà il pastone sfogliato, facciasene uno sfoglio sottile… e ungasi per tutto
di strutto liquefatto… rivolgasi, e si faccia un ruotolo tondo, di grossezza di più di un
braccio d'huomo …poi si tagli il ruotolo d'altezza di due dita, e con destrezza ungasi
la mano di strutto liquefatto, e slarghi esso ruotolo a foggia d'una focaccina ovata, e
nel mezzo d'essa pongasi un pezzo di biancomangiare, mescolato con ricotta fresca,
e chiare d'uova battute, e pignoli ammogliati…cuocesi al forno, e servasi calda con
zuccaro sopra».

Ora lo so che è comodo e rassicurante avere la sensazione di essere arrivati alla


fonte originaria di questo dolce, non fosse che, tracce di dolci triangolari, evocativi
del sesso femminile e quindi simbolo di fertilità, ripieni di crema dolce si ritrovano
già in Turchia offerti alla Dea Cibele, il cui culto approderà a Napoli nel 200 a.C. e
nella Crypta Neapolitana venerata.

Le colonne del tempio di Cibele, Sardes (Sardi), Turchia Cibele Dea della fertilità

La storia della pasticceria napoletana non è solo


storia di amori profani, è anche storia di amore
mistico che si esaltava nei suoi Monasteri.

Nel XVII secolo erano censiti sul territorio della capitale del Regno, un centinaio tra
Conventi e Monasteri. La maggior parte ubicati nel territorio compreso tra le mura e
molti altri nei paesi del circondario.
Di diversa regola e ordinamento, ognuno però, e parliamo dei Monasteri femminili,
in occasione di feste e ricorrenze, omaggiava la casa regnante e i benefattori
distintisi in opere di beneficenza, con dolci prodotti e confezionati dalle monache.

Ha qui origine la varietà e complessità dei dolci cerimoniali delle feste e delle
ricorrenze religiose. Varietà e complessità che uscita dai monasteri si è poi riversata
con proficui risultai sulla tradizione popolare.

La tavola natalizia napoletana non può fare a meno della presenza del “rococò” dei
“susamielli”, “mostacciuoli” e “raffiuoli” e infine la “ pasta reale” per tacere del Re
del Natale, gli “struffoli”.

Ognuno di questi dolci usciva dalle cucine di un Monastero e finiva sulle tavole del
Re e dei Nobili e man mano hanno occupato il posto che occupano sulle tavole dei
napoletani.

Della “pasta reale” narra la leggenda che un giorno Ferdinando IV di Napoli, il “re
Lazzarone” (che amava mescolarsi al popolo per serate assai meno “pie” di questa),
un giorno si recò nel Convento di San Gregorio Armeno. Qui le monache gli
prepararono un ricco buffet di aragoste, pesci e polli arrosto. Ma il sovrano – che era
una grande forchetta – declinò perché aveva già mangiato. Ma le suorine
insistettero fino a quando il re, assaggiata la prima pietanza, si accorse che tutto
quel ben di Dio erano in realtà dei dolci!

Pasta reale in forma di frutta


Dei “rococò” l’origine viene fatta risalire al 1320 per merito delle monache del Real
Convento della Maddalena: il nome deriva dal francese “rocaille”, elemento
decorativo a forma di roccia o conchiglia da cui, nel Settecento, trarrà origine anche
il termine artistico-architetonico “rococò”.

Roccocò natalizi

Per i “mostacciuoli” ci affidamo a una ricetta, ancora una volta di Bartolomeo


Scappi, cuoco di Pio V e registrare come il loro nome non facesse riferimento
all’ingrediente del mosto, assente nella ricetta, quanto al fatto che essendo
ricoperto di cioccolato, producesse nei golosi che lo mangiavano caratteristici baffi
(moustache) dovuti all’ingordigia.

Mostacciuoli
Sempre dalle benedettine di San Gregorio Armeno dobbiamo l’invenzione dei
“raffiuoli” dolci di pandispagna ricoperti di una glassa bianca e il cui nome non è
altro che una translitterazione di “ravioli”.

Raffiuoli

E’ dal monastero delle Trentatre di Via Pisanelli, che escono le “monachine”, una
specie di sfogliatelle, ma fatte di pasta sfoglia e ripiene di crema. È da Santa Maria
della Sapienza in via Costantinopoli e da Sorrento che escono le “ sapienze”, dolci
molto antichi prodotti con miele e mandorle.

Monachine Sapienze

È dal Convento di Donnaregina in Largo Donnaregina, che escono i “susamielli” con


la loro tipica forma ad S, che prendono il nome dai semi di sesamo e dal miele con
cui in passato venivano confezionati; è dal Convento di Santa Patrizia che escono le
zeppole; è dal convento di San Gregorio Armeno, infine, che esce la pastiera, regina
della Pasqua, ad opera di una suora che mescolò ricotta, grano, uova, acqua di
millefiori, cedro e erbe aromatiche venute dall’Asia, per dar vita alla succulenta
pastiera.
Susamielli Zeppole Pastiera

Altre storie sono quelle che fanno arrivare sulle


tavole napoletane struffoli e babà.

Gli struffoli arrivano, sia nel nome che nella fattura, dalla profondità del tempo. E
sono in varia forma e fattura, diffusi dal centro alla Sicilia.

Due famosi trattati di cucina del 1600, il Latini e il Nascia, citano come “strufoli” o
anche “struffoli alla romana” dei dolci preparati alla stessa maniera degli struffoli
napoletani.
Struffoli

Gli struffoli migliorano la qualità della vita!

Lo fanno adesso, figuriamoci prima: fino a pochi anni fa la vita media era molto più
breve e, di solito, molto più grama. Si mangiava poco e male, fuorché a Natale e alle
feste comandate. I bambini, poi, di merendine nemmeno l’ombra! L’unica
consolazione, per loro e per tutti gli altri, erano i dolci come gli struffoli, che non
fanno male, e non vanno a male, in quanto si conservano a lungo. Gli struffoli, come
tutti gli evergreen, nella loro sostanziale immutabilità, presentano molte varianti
sono un po’ come le polpette, anche se gli ingredienti sono esattamente gli stessi,
mangerete tanti struffoli diversi quanti sono le case in cui vi verranno offerti (o le
pasticcerie in cui li acquisterete).

Vi accorgerete che ciascuno ritiene che i “propri” struffoli siano quelli autentici:
quelli della tradizione, tramandati da una nonna, una mamma o – ancora meglio! –
da una zia monaca. Quest’ultima, quando c’è, è una garanzia: a Napoli un tempo gli
struffoli venivano preparati nei conventi, dalle suore dei vari ordini e recati in dono a
Natale alle famiglie nobili che si erano distinte per atti di carità.

Come accade a tutte le ricette ormai abbondantemente codificate, che sembrano


non presentare punti oscuri, gli struffoli sono insidiosi: nascondono infatti molti
segreti, spesso custoditi gelosamente.
Uno di questi sta nel miele: che dev’essere abbondante. Senza di lui, un dolce non
può definirsi veramente tale. Come simbolo della Dolcezza, il miele è un Mito: i
Gemelli Indiani Ashvin, messaggeri degli Dei, mangiano miele nel cielo mattutino, e
la Bibbia racconta come Sansone estraesse dall’interno del leone da lui ucciso un
favo d’api e di miele. La cosa lo mise di buon umore, tanto da spingerlo a formulare
un indovinello: “dal divoratore è uscito il cibo, dal forte è uscito il dolce” (Giudici, 14.

I gemelli Ashvin messaggeri degli Dei Sansone uccide il leone (Rubens)

E a proposito di nascita, il corpicino del Bambino Gesù viene definito “roccia che dà
miele”. Non è quindi un caso che gli struffoli siano un dolce tipicamente natalizio.

Contrariamente a quanto si immagini, non è a Napoli che nasce il babà, che invece ci
arriva dalla lontana Polonia e precisamente dalla corte del Re Stanislao Leszczyński,
suocero di Luigi XV di Francia.

Al sovrano polacco è attribuita l’invenzione del babà: fu grazie a lui che il gugelhupf,
un dolce originario dell’Alsazia ritenuto troppo asciutto dal re, fu bagnato, più o
meno volontariamente, con del Tokaj e dello sciroppo.
Successivamente il dolce fu portato in Francia dalla figlia di Stanislao, Maria e,
quando i cuochi francesi lo prepararono per la prima volta, il suo nome iniziò a
modificarsi e passò dal polacco babka a “babà” con l’accentazione tipica del francese
sull’ultima sillaba.

Le prime fonti che raccontano di un babà partenopeo invece, anch’esso accentato


sull’ultima vocale, sono del 1836 quando il cuoco Angeletti ne descrive la
preparazione in un suo manuale di cucina.

Gugelhupf Babà Napoletano

Babà
Giunti alla fine di questo viaggio nel tempo, che è anche un viaggio d’amore, un
percorso alla ricerca della storia e delle curiosità circa le origini e le evoluzioni dei
più noti e gustosi dolci napoletani, avrete sicuramente appreso che se vi innamorate
di un napoletano o di una napoletana, per voi sarà sempre difficilissimo escludere i
dolci dalla vostra dieta.

Perché l’amore e la passione sono un tutt’uno con queste armate di dolcezza

Raffaele Moccia

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