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Una volta che sarete innamorati però, prima o poi, se siete maschio, dovrete andare
a fare visita ai futuri suoceri o come si dice “presentarsi in casa” e, in questa
occasione, non potrete fare altro che presentarvi con la “guantiera di paste”,
omaggio che ripeterete a ogni visita comandata e non smetterete nemmeno quando
vi sposerete, perché la napoletana che avrete scelto di sposare aspetterà sempre, di
domenica, il vostro rientro con la guantiera, appendice di ogni napoletano sposato o
meno, di ritorno dalla passeggiata domenicale.
Perché a Napoli, le paste non sono anonime paste, hanno nome e cognome e
spesso se ne rintracciano anche i genitori. Quindi abbiamo “deliziose” di chiara
origine austro-ungarica con i due biscotti sovrapposti che racchiudono una crema
che trattiene all’esterno scaglie minuscole di nocciolato, anche nella variante con
cioccolato, le “teste di moro”, una sorta di semi-sfere di pandispagna ricoperte di
diavulilli di cioccolata e poi, gli choux che nel resto del mondo si chiamano bignè, ce
ne sono di rotondi e di oblunghi con i più vari ripieni, dalle crema alla banana al caffè
fino alla cioccolata e alla crema nocciola e quant’altro viene suggerito dalla fantasia
del pasticciere.
Giunti da Dasà in provincia di Vibo Valentia, i fratelli Scaturchio alla fine dell’800 si
stabiliscono a Napoli e con la loro arte pasticcera deliziano le tavole dei napoletani.
Napoli fine ‘800
Allo scoppio della prima guerra mondiale il terzo dei fratelli, Giovanni, viene inviato
al fronte e da lì torna sano e salvo, con una moglie, Katharina Persolija (Caterina
Persolia) conoscitrice della tradizione pasticcera austro-ungarica che trasferisce a
Napoli.
Nel suo negozio di Piazza San Domenico, Giovanni Scaturchio sforna oltre ai dolci di
tradizione napoletana, anche torte Sacher, strudel di mele e i “buchteln” che ogni
napoletano conosce come torta Danubio.
Anna Fougez
Di sicuro anche con l’aiuto della cognata Caterina, depositaria dell’arte pasticciera
austriaca, inventa un medaglione di cioccolato ripieno di elementi molto deperibili
come cioccolato, ricotta e nocciola, ma resi conservabili e duraturi da un melange di
liquori la cui ricetta è ancora segreta e che permette al dolce di conservarsi per
molto tempo anche in assenza di frigo e condizioni di freddo costante.
È una storia di emigrazione e d’amore, quella che porta il giovane di origini svizzere
Isidoro Odin a partire da Alba con un piccolo capitale e una valigia, per stabilirsi a
Napoli e tentare la fortuna con la sua arte cioccolatiera.
Napoli nel 1894 è nel pieno della Belle Epoque e i cafè chantant sono pieni ogni sera,
allora come oggi è possibile andare a teatro ogni sera e ogni sera trovare uno
spettacolo diverso.
In questa Capitale spodestata, l’arte di Isidoro trova il suo pubblico ideale. Il primo
negozio sito in Via Chiaia, in prossimità di Piazza Carolina, con vista sul Largo di
Palazzo (oggi Piazza del Plebiscito) è ancora là, anche se ha cambiato proprietario,
ed esibisce ancora l’insegna di “Antica Cioccolateria”.
la prima sede della cioccolateria Gay Odin in Largo Carolina/Via Chiaia 237
Una volta stabilizzatosi successo commerciale e industriale, venne anche per Isidoro
Odin il momento di coronare il suo sogno d’amore, si sposò quindi con la
conterranea di medesime origini albesi Onorina Gay e da allora cambiò anche la
ragione sociale della ditta, per diventare quella che dagli anni ’20 ammiriamo tutti
sul frontale dei numerosi negozi a Napoli, la bella scritta in stile “liberty” che recita
“Fabbrica Cioccolato Gay-Odin Napoli”.
Non avendo avuto figli, Isidoro e Onorina trasferirono competenze e segreti alla
famiglia Castaldi-Maglietta e poi dagli anni ’80 al nipote del Castaldi che continua la
tradizione cioccolatiera di Isidoro Odin.
Di fronte all’ingresso della Galleria Umberto, quello che dà su Via Toledo, si trovava,
fino ai primi anni ’80 uno dei caffè più particolari di Napoli, sia per struttura che per
origine dei proprietari.
I Caflish di origini svizzere, giunsero a Napoli, dopo aver inutilmente cercato fortuna
in Toscana, in quel di Livorno. Appartenevano a quella ondata di emigrazione
svizzera proveniente dal Cantone dei Grigioni, che nel ‘600 erano prima emigrati a
Venezia dove avevano appreso l’arte della pasticceria e del caffè e poi si erano
sparsi nella penisola.
L’emigrazione svizzera verso il Regno di Napoli è di lunga data, risalendo prima alle
armate mercenarie che assoldate dai regnanti si erano poi stabilite nel regno, poi nel
‘700/’800 con banchieri, industriali tessili e maestranze.
Vale la pena ricordare come per l’avvio delle Industrie Manifatturiere di Piedimonte
Matese, il Conte Egg portasse con sé oltre ai macchinari anche 180 operai
direttamente dalla Svizzera e sarebbe interessante seguire le discendenze di queste
180 persone che lasciarono sicuramente traccia nel territorio.
Dobbiamo agli svizzeri anche il marchio Voiello. Il signor August Von Wittel, venuto a
Napoli come operaio e ingaggiato nella costruzione della Napoli - Portici, si
innamora e sposa Rosa Inzerillo, figlia di un pastaio di Torre Annunziata dalla quale
avrà sette figli. Nel 1862 già non si chiamava Von Wittel, ma Vojello e con questo
cognome fonda il pastificio che ancora adesso esibisce il suo nome come marchio.
Insomma le parentele e i legami con la Svizzera sono più numerosi e proficui di
quello che siamo portati a pensare, non solo, i meridionali, ex sudditi di quello che
fu il Regno di Napoli, ad un certo punto hanno cominciato a emigrare verso la
Svizzera in cerca di lavoro e di pane.
Il motivo per cui ne parliamo in questa “passeggiata” per pasticcerie è dato dal fatto
che in quei laboratori di pasticceria è nata la “piccola pasticceria” o “pasticceria
mignon”, atteso che a Napoli è possibile acquistare le paste sia nel formato normale
che in formato mignon.
Dai primi anni ’80 il Caffè Caflish non esiste più e non so dire se anche la sede di
Palermo sia chiusa, di certo i bambini e i ragazzi napoletani rimpiangeranno le
passeggiate quando era quasi d’obbligo fare una sosta da Caflish per gustare le
meravigliose meringhe esposte nei banconi da esposizione.
La prossima tappa ci porta nel punto dove per la prima volta un segreto di
monastero fa la sua comparsa per le strade.
Secondo questa fonte, quindi, la sfogliatella come la conosciamo oggi sarebbe una
variazione della Santarosa e non invece l’originale.
Sfogliatella Santarosa
Convento di Santa Rosa a Conca dei Marini oggi Resort di lusso
In ogni caso, la ricetta di questo dolce restò segreto di Monastero e solo per vie
sconosciute ai primi dell’800 arrivò in possesso del taverniere Pasquale Pintauro che
prima cominciò a venderle nella sua taverna in Via Toledo e poi di fronte al successo
ottenuto, si convertì alla produzione esclusiva del dolce. Il successo fu clamoroso,
tanto da generare un detto entrato nel linguaggio comune “tene ‘a folla e Pintauro”
è da allora il modo di dire per sottolineare il successo di un’idea, un esercizio
commerciale e in genere di un favorevole riscontro di pubblico. L’esercizio
commerciale Pintauro esibisce ancora la sua insegna in Via Toledo ed è ancora
possibile gustarvi la sfogliatella sia riccia che frolla.
Ma dicevamo dell’incertezza delle origini, poiché rispetto alla fonte che ne situa la
nascita a Conca de’ Marini, ce ne sta un’altra, invece, che la fa nascere nel Convento
Carmelitano della Santa Croce di Lucca, in via dei Tribunali, dove le monache
producevano questo dolce per le tavole dei nobili e dei regnanti, custodendone
gelosamente la ricetta e la fattura. Questo dolce per composizione ed ingredienti,
somiglia molto di più della Santarosa, alla sfogliatella per come la conosciamo oggi e
fino al ‘600 la sua ricetta non varcò le mura del Monastero di Via dei Tribunali.
Ci volle l’ardire di tre sorelle, figlie di Nicola Giudice Principe di Cellamare, Aurelia,
Maria ed Eleonora, che mal sopportando la vita monacale si diedero da fare per
carpire il segreto del dolce e, una volta venutene in possesso, lo comunicarono al
cuoco di palazzo, che lo diffuse per le case nobili e da qui alla città.
Questa versione della nascita della sfogliatella sembra più aderente al prodotto che
ancora vediamo produrre ed è diventato un po’ il simbolo, uno dei simboli della
città. Non fosse che…
Non fosse che già nel ‘500 il cuoco Bartolomeo Scappi, cuoco di porporati e Papi tra
cui Pio V descriveva in un suo trattato, un dolce che per fattura, forma e ripieno è
del tutto simile alla sfogliatella, così come la conosciamo.
Ed ecco la ricetta della sfogliatella o qualcosa che gli somiglia molto, trascritta da
Bartolomeo Scappi nel ‘500:
Fatto che sarà il pastone sfogliato, facciasene uno sfoglio sottile… e ungasi per tutto
di strutto liquefatto… rivolgasi, e si faccia un ruotolo tondo, di grossezza di più di un
braccio d'huomo …poi si tagli il ruotolo d'altezza di due dita, e con destrezza ungasi
la mano di strutto liquefatto, e slarghi esso ruotolo a foggia d'una focaccina ovata, e
nel mezzo d'essa pongasi un pezzo di biancomangiare, mescolato con ricotta fresca,
e chiare d'uova battute, e pignoli ammogliati…cuocesi al forno, e servasi calda con
zuccaro sopra».
Le colonne del tempio di Cibele, Sardes (Sardi), Turchia Cibele Dea della fertilità
Nel XVII secolo erano censiti sul territorio della capitale del Regno, un centinaio tra
Conventi e Monasteri. La maggior parte ubicati nel territorio compreso tra le mura e
molti altri nei paesi del circondario.
Di diversa regola e ordinamento, ognuno però, e parliamo dei Monasteri femminili,
in occasione di feste e ricorrenze, omaggiava la casa regnante e i benefattori
distintisi in opere di beneficenza, con dolci prodotti e confezionati dalle monache.
Ha qui origine la varietà e complessità dei dolci cerimoniali delle feste e delle
ricorrenze religiose. Varietà e complessità che uscita dai monasteri si è poi riversata
con proficui risultai sulla tradizione popolare.
La tavola natalizia napoletana non può fare a meno della presenza del “rococò” dei
“susamielli”, “mostacciuoli” e “raffiuoli” e infine la “ pasta reale” per tacere del Re
del Natale, gli “struffoli”.
Ognuno di questi dolci usciva dalle cucine di un Monastero e finiva sulle tavole del
Re e dei Nobili e man mano hanno occupato il posto che occupano sulle tavole dei
napoletani.
Della “pasta reale” narra la leggenda che un giorno Ferdinando IV di Napoli, il “re
Lazzarone” (che amava mescolarsi al popolo per serate assai meno “pie” di questa),
un giorno si recò nel Convento di San Gregorio Armeno. Qui le monache gli
prepararono un ricco buffet di aragoste, pesci e polli arrosto. Ma il sovrano – che era
una grande forchetta – declinò perché aveva già mangiato. Ma le suorine
insistettero fino a quando il re, assaggiata la prima pietanza, si accorse che tutto
quel ben di Dio erano in realtà dei dolci!
Roccocò natalizi
Mostacciuoli
Sempre dalle benedettine di San Gregorio Armeno dobbiamo l’invenzione dei
“raffiuoli” dolci di pandispagna ricoperti di una glassa bianca e il cui nome non è
altro che una translitterazione di “ravioli”.
Raffiuoli
E’ dal monastero delle Trentatre di Via Pisanelli, che escono le “monachine”, una
specie di sfogliatelle, ma fatte di pasta sfoglia e ripiene di crema. È da Santa Maria
della Sapienza in via Costantinopoli e da Sorrento che escono le “ sapienze”, dolci
molto antichi prodotti con miele e mandorle.
Monachine Sapienze
Gli struffoli arrivano, sia nel nome che nella fattura, dalla profondità del tempo. E
sono in varia forma e fattura, diffusi dal centro alla Sicilia.
Due famosi trattati di cucina del 1600, il Latini e il Nascia, citano come “strufoli” o
anche “struffoli alla romana” dei dolci preparati alla stessa maniera degli struffoli
napoletani.
Struffoli
Lo fanno adesso, figuriamoci prima: fino a pochi anni fa la vita media era molto più
breve e, di solito, molto più grama. Si mangiava poco e male, fuorché a Natale e alle
feste comandate. I bambini, poi, di merendine nemmeno l’ombra! L’unica
consolazione, per loro e per tutti gli altri, erano i dolci come gli struffoli, che non
fanno male, e non vanno a male, in quanto si conservano a lungo. Gli struffoli, come
tutti gli evergreen, nella loro sostanziale immutabilità, presentano molte varianti
sono un po’ come le polpette, anche se gli ingredienti sono esattamente gli stessi,
mangerete tanti struffoli diversi quanti sono le case in cui vi verranno offerti (o le
pasticcerie in cui li acquisterete).
Vi accorgerete che ciascuno ritiene che i “propri” struffoli siano quelli autentici:
quelli della tradizione, tramandati da una nonna, una mamma o – ancora meglio! –
da una zia monaca. Quest’ultima, quando c’è, è una garanzia: a Napoli un tempo gli
struffoli venivano preparati nei conventi, dalle suore dei vari ordini e recati in dono a
Natale alle famiglie nobili che si erano distinte per atti di carità.
E a proposito di nascita, il corpicino del Bambino Gesù viene definito “roccia che dà
miele”. Non è quindi un caso che gli struffoli siano un dolce tipicamente natalizio.
Contrariamente a quanto si immagini, non è a Napoli che nasce il babà, che invece ci
arriva dalla lontana Polonia e precisamente dalla corte del Re Stanislao Leszczyński,
suocero di Luigi XV di Francia.
Al sovrano polacco è attribuita l’invenzione del babà: fu grazie a lui che il gugelhupf,
un dolce originario dell’Alsazia ritenuto troppo asciutto dal re, fu bagnato, più o
meno volontariamente, con del Tokaj e dello sciroppo.
Successivamente il dolce fu portato in Francia dalla figlia di Stanislao, Maria e,
quando i cuochi francesi lo prepararono per la prima volta, il suo nome iniziò a
modificarsi e passò dal polacco babka a “babà” con l’accentazione tipica del francese
sull’ultima sillaba.
Babà
Giunti alla fine di questo viaggio nel tempo, che è anche un viaggio d’amore, un
percorso alla ricerca della storia e delle curiosità circa le origini e le evoluzioni dei
più noti e gustosi dolci napoletani, avrete sicuramente appreso che se vi innamorate
di un napoletano o di una napoletana, per voi sarà sempre difficilissimo escludere i
dolci dalla vostra dieta.
Raffaele Moccia