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di Vincenzo Porpiglia
Ben presto, però, Napoli vanterà una sua autonoma invenzione: il “Caffè
concerto” con un numero che sarà il prototipo del moderno spogliarello!
Entrambe le invenzioni hanno lo stesso padre, Luigi Stellato, che in
collaborazione col musicista Francesco Melber fu autore della celebre canzone
’A cammesella’, un duetto tra una coppia di sposini, in cui lui invita lei a
denudarsi per mostrare le sue grazie. In poco tempo i “Caffè concerto”, tra i
quali gli eleganti “Strasburgo”, “Birreria Monaco”, “Vermouth di Torino”, il
“Gambrinus” e il “Caffè Turco”, spuntano come i funghi. In una decina d’anni
Napoli poteva vantare locali come il “Circo del Varietà”, il “Salone
Margherita”, l’“Eden”, l’“Eldorado”, teatri che ospitarono le maggiori
“chantose” della Belle Époque, divenendo luogo preferito per il lancio delle
nuove canzoni. Ma il Caffè storico più famoso di Napoli doveva diventare il
“Gambrinus” che aprì i battenti nel 1890 e col tempo arrivò a rappresentare il
principale luogo di convegno di Napoli. Le sue sale, impreziosite da dipinti,
marmi, stucchi, divennero una piccola galleria d’arte illuminata ben presto
dall’energia elettrica. Le sale del “Gambrinus” hanno visto passare tutti gli
intellettuali e gli artisti della Napoli otto-novecentesca tra cui Salvatore Di
Giacomo, Libero Bovio, Benedetto Croce, Eduardo De Filippo ed Enrico De
Nicola. Diretto concorrente del “Gambrinus” fu il “Caffè Turco”, aperto nel
1885, in cui si organizzavano intrattenimenti musicali durante i quali il
proprietario, vestito alla turca con un fez rosso in testa, era solito sorvegliare
che tutto procedesse per il meglio. Non ci volle molto perché il caffè
diventasse la bevanda cittadina. Anzi quello napoletano divenne presto il caffè
per antonomasia! Esso incarnò così bene lo spirito napoletano che fu anche
oggetto di celebri canzoni popolari: da A tazz è cafè, in cui la tazzina di caffè
– sotto dolce (per lo zucchero che vi si deposita) e sopra amara (prima di
girare col cucchiaino) – viene paragonata, in un confronto volutamente a
doppio senso, alla donna da conquistare. A Napoli il caffè diventerà un vero e
proprio rito, una cerimonia come quella del tè in Giappone; una cerimonia con
i suoi tempi, i suoi ritmi, il suo officiante, i suoi strumenti “liturgici” e –
perché no? – i suoi trucchi per riuscire meglio. Insomma la manifestazione di
una vera e propria scuola di pensiero. Chi nell’immaginario comune sintetizza
al meglio la filosofia partenopea del caffè è senz’altro Eduardo De Filippo,
che nel suo Questi fantasmi la immortalò in un memorabile monologo. Ma il
più celebre contributo partenopeo alla cultura del caffè in Italia è senza dubbio
la “napoletana”, che fu la caffettiera più diffusa fin quando, nel 1933, la mente
creativa dell’ingegnere milanese Alfonso Bialetti non partorì la prima Moka
Express dai chiari tratti Art Decò. Il proverbiale senso di umanità e l’ospitale
cordialità dei napoletani hanno lasciato tracce nella loro cultura del caffè.
Fu infatti nei bar di Napoli che vide la luce quello che può essere ritenuto il
tipo più “buono” di caffè: il “sospeso”, ossia un espresso non consumato da
chi lo paga (consumazione “sospesa”, appunto) ma destinato a qualche
avventore meno abbiente di passaggio, un piccolo-grande segno di solidarietà
sociale.
Il termine “Sciantosa” deriva dal francese chanteuse che vuol dire cantante,
ma anche primadonna, attrazione, fantasia: quella che oggi si definirebbe una
star. Sull’esempio del cafè-chantant di Parigi, negli anni che precedettero la
prima guerra mondiale, a Napoli furoreggiò il caffè-concerto, con
protagonista, appunto, la sciantosa. Per essere il più possibile simili alle
colleghe d’oltralpe, le indigene adottavano nomi d’arte francesizzanti e gli
autori di canzoni ironizzavano volentieri su questa moda. Nacquero così “A
frangesa” di Mario Costa nel 1894, “Lily Kangy” del 1905 (la macchietta di
successo di Nicola Maldacea) e infine la famosa “Ninì Tirabusciò”, un nome
ed un cognome certo più eleganti di Nina Cavatappi. Questa leggendaria
figura fu creata nel 1911 da Califano e Gambardella e negli anni Sessanta il
ritornello, che fu il cavallo di battaglia di Gennaro Pasquariello, venne
rilanciato in televisione e al cinema da Monica Vitti in veste di sciantosa. In
epoca più vicina a noi le gustose tiritere di Ninì Tirabusciò sono state rivisitate
da Mirna Doris, autentica vedette dell’avanspettacolo, dalla dosata ironia e dal
gustoso piglio popolaresco. Il successo del cinema fu tale che anche il mitico
Salone Margherita fu costretto ad inserire, all’interno della programmazione
serale, alcuni minuti di proiezione di un film.
Il caffè Calzona
Lina Cavalieri
Il suo vero nome era Natalina Cavalieri (Viterbo, 25 dicembre 1874 – Firenze,
8 febbraio 1944). Cavalieri è stata soprano e attrice cinematografica italiana.
Figlia di un architetto marchigiano e di una sarta di Onano di nome Teonilla
Peconi, si trasferì fin dalla nascita a Roma con tutta la famiglia. Il padre,
licenziato a causa delle molestie rivolte alla moglie del suo principale, era
caduto in cattive condizioni economiche e Lina, così, fu costretta a dare un
aiuto impiegandosi nei più diversi mestieri: fioraia, piegatrice di giornali
presso una tipografia ed infine apprendista sarta. L’abitudine della ragazza a
cantare durante il lavoro con una notevole voce spinge la madre a ricorrere ad
Arrigo Molfetta, che si offre gratuitamente di insegnare qualche canzonetta
alla oramai adolescente Lina.
Ersilia Sampieri
Al secolo Ersilia Amorosi, fu la
prima diva del cafè-chantant.
Torinese di nascita (1877) e
napoletana di adozione, usò la
sua fama e la sua ricchezza per
aiutare i bisognosi. Era orfana
dei genitori, che le lasciarono un
solo capitale: una prorompente
bellezza ed una bella voce. Dopo aver lavorato in una compagnia di bambini,
la Lillipuziana, in breve si trovò ad esibire nei locali del lungomare di
Marsiglia. A Napoli si trasferì a 17 anni e, con il nome di Piccola Andalusa, si
esibiva alla Birreria dell’Incoronata, cantando in napoletano, francese e
spagnolo. Divideva il palco con giovani di grande talento come Elvira
Donnarumma ed il macchiettista Davide Tatangelo. Alla fine girava col
piattino per le offerte, facendo intravedere il seno. Passò poi al Caffè Scotto-
Jonno e da lì spiccò il volo per esibirsi nei locali italiani con puntate anche
all’estero. Nel 1901, quando i fratelli Marino la scritturarono al Salone
Margherita, era già una diva. Vi rimase sei anni, alternando esibizioni a Parigi
e Londra, dove venne definita la “Sarah Bernhard del caffè-concerto”, mentre
Edoardo Scarfoglio preferiva l’epiteto di “la Fenice della Fenice”.
Elvira Donnarumma
Elvira Donnarumma è la regina indiscussa dei primi vent’anni del ‘900. I suoi
dischi vanno a ruba e solo verso la metà degli anni ’20, quando la sua malattia
ne fa rallentare l’attività artistica, è sorpassata dalle nuove promesse (future
star internazionali) canore napoletane come Gilda Mignonette, Ria Rosa, Lina
Resal, Teresa De Matienzo e Ada Bruges.
Gilda Mignonette
Ester Bijou
Ria Rosa
Nel 1922 sbarca a New York con la compagnia di Nicola Maldacea; qui dato il
successo, fonda una sua Compagnia. Maria Rosa successivamente si dedica
alla rappresentazione di particolarissime sceneggiate, quali “E’ Pentite”, storia
e sorte delle ragazze madri napoletane. Suscita scalpore anche per altre sue
esibizioni; non si risparmia il travestimento da Guappo per cantare canzoni al
“maschile” come “Guapparia”. E neppure ha timore di sfidare le autorità
americane nel 1927, denunciando con “Mamma Sfortunata” (primo titolo A’
Seggia Elettrica) l’errore giudiziario per la condanna a morte di Sacco e
Vanzetti, subendo minacce e rischiando l’espulsione dagli States. La sua vita
fu un continuo viaggio Napoli – New York, dove si stabilì definitivamente nel
1937, anno in cui tornò per l’ultima volta in Italia in occasione della morte del
grande compositore suo amico E. Tagliaferri, per il quale cantò per l’ultima
volta in pubblico “Chitarra Nera” a lei dedicata e lasciata incompiuta. Ria
Rosa torna così a New York, lascia le scene da quel fatidico 1937, muore in
America nel 1988.
Elio Ria dopo la morte della grande diva scrive: “Ora che non c’è più è come
se il paese fosse stato privato di qualcosa. Un paese del sud, come tanti, con
tanta gente di fatica, con i colori del sole e il grigio perla della luna. Rosa era
una donna del sud, tutti in paese la conoscevano. Aveva i capelli neri ondulati,
abbandonati alla bizzarria del vento. Il rossetto sulle labbra carnose ne
risaltava l’indole trasgressiva. Amava passeggiare con il ventaglio nero con
sottili righe di color rosso. I suoi abiti rigorosamente neri con il profilo di
merletto, come a significare l’eleganza di altri tempi. I suoi occhi erano accesi
di simpatia e fermezza. La sua bellezza di gioventù, consumata troppo in fretta
per miseria, viveva nel suo cuore e amava parlarne con discrezione come
solitamente sapevano fare le nobildonne. Il paese non badava alle sue
stravaganze, ai suoi giochi di parole, alle continue burla e risate: preferiva
tenerla a debita distanza, non godeva della stima degli altri, di coloro che in
fondo erano sì brave persone ma non potevano accettare il suo modo di essere
donna diversa. Il suo viso beffardo congelava le maldicenze e all’occasione
sapeva imporre la sua autorità di donna. Abitava in via XXIV maggio, nel
centro storico del paese, in una corte bianca, in una casa senz’acqua né luce.
Eppure era felice, cantava le melodie dell’amore durante le notti d’estate,
quando nella piazza principale ancora la gente sostava a chiacchierare e a
spettegolare. E la vita scorreva tra un andirivieni continuo per
l’approvvigionamento di acqua dalla fontana della piazza e le lacrime
sapientemente celate sul volto rugoso per la sua bellezza di donna svanita
troppo in fretta. La sua voglia di amare era acciaio che dava prova di durezza
e indistruttibilità. Conosceva gli incantesimi, sì un po’ era fattucchiera, maga,
strega e degli uomini conosceva vizi e virtù. Avrebbe voluto avere, fare
qualcosa d’importante: non gli fu mai data l’occasione e ingenuamente seppe
perdersi nel labirinto dell’amore. Fu per lei una pena ingiusta, un lutto eterno.
Un destino irrevocabile per interpretare il senso della vita che sfugge ad ogni
considerevole ragionamento, ma che esprime quella gioia incontenibile in ciò
che si oppone: nel dolore e nel lutto. La sofferenza di non avere avuto amore
nella giusta misura, nell’inesprimibile desiderio d’essere amata, fu per lei una
prova da superare ad ogni costo, con la sapienza del riso e della capacità di
dare conforto al dolore che torturava il suo cuore attraverso l’ironia e il
sarcasmo. Era colpa e innocenza. Buio e luce. Ora non c’è più, ma è come se
esistesse ancora. E la gente del paese faccia in modo di non dimenticarla, ora”.
Anna Fougez
Margaretha Gregory
Isa Landi
La Bella Otero