Sei sulla pagina 1di 20

La storia del “Cafè – Chantant”

di Vincenzo Porpiglia

Le origini del Café-Chantant si


perdono nella notte dei tempi,
poiché fatti, misfatti e tradizioni
provengono da una serie di
aneddoti e notizie che danno la
giusta misura della storia, a volte misteriosa e leggendaria, che avvolge questa
parte dello spettacolo. Il termine “caffè” si udì per la prima volta a Marsiglia
nel 1650, per indicare una bevanda importata dall’Oriente e che ben presto
entrò in uso nelle abitudini dell’alta società. Non passò molto tempo che a
qualcuno venne l’idea di sfruttare commercialmente il successo del caffè, e
così l’armeno Pascal, nel suo ristorante a Foire Saint-Germain, offrì alla fine
del pasto la degustazione della nuova bevanda. Il successo di questa iniziativa
fu tale che ne seguirono molte altre in Francia, ma soprattutto a Parigi; ed è
qui, in Rue des Fossés Saint-Germain, che il signor Procope aprì il primo
“bar” d’Europa. La sua trasformazione in Café Chantant prima e Caffè
Concerto poi, fu un caso. Infatti, nel 1729, a Parigi nacque la prima Società
Letteraria, con la finalità di sviluppare la canzone come espressione culturale
e il destino volle che la sede scelta fosse un Caffè, il “Caveau”, situato vicino
a Palazzo reale.

Nel 1806 il nome venne modificato in “Le Caveau Moderne”, ed il locale fu


ampliato per poter così ospitare un maggior numero di spettacoli e attrazioni,
sempre accompagnati dalla degustazione dell’ottima bevanda. In uno stesso
luogo, venivano riuniti militari, impiegati, nobili, banchieri, tutti convenuti
allo scopo di distrarsi e di ascoltare, ma soprattutto di vedere, la “sciantosa”,
sempre disponibile al sorriso ed alla strizzatina d’occhio. Così, Parigi diventò
il centro europeo della “belle-époque”, ma i locali adibiti a Caffè-Concerto
diventarono numerosissimi anche in altre nazioni come in Austria, in
Germania, in Inghilterra, in Spagna ed in Russia. In realtà i gestori dei Caffè
usavano le attrazioni musicali solo come “specchietto per le allodole”, cioè
per gli avventori, che gustavano bevande e gustosi cibi speciali in grande
quantità. La poca attenzione per la scenografia era evidente: l’attrezzatura si
limitava ad una semplice pedana su cui suonava un’orchestrina (Caffè-
Concerto) o accompagnata da una cantante (Café-Chantant). Visto il successo
ottenuto e la concorrenza che si facevano i proprietari, ciascuno decise di
arricchire lo spettacolo, offrendo al pubblico anche numeri con giocolieri,
illusionisti e comici. Questa mutazione del Caffè da “bar” a luogo di
spettacolo avvenne nella seconda metà del XIX secolo, in tutta Europa e
principalmente a Parigi, dove il Café Chantant raggiunse il suo massimo
splendore in locali quali il mitico “Moulin Rouge”, “Le Chat Noire”, “Les
Folies Bergère”. Con la Belle Epoque, il Caffè si fa spettacolo: nascono i
“Caffè Chantant”. Il primo si inaugura a Parigi nel 1750, vi si avvicendano
cantanti e attori, specializzati in un genere ora comico, ora grottesco, satirico e
sentimentale. Trionfano le folies, tra tavoli e tazzine si ballano il can can e il
tango. Artisti di grande fama, del calibro di Vincent Van Gogh, George
Braques, Cezanne e Modigliani, prendono a decorare tali locali. I maggiori
caffè-Concerto in Italia, che nulla avevano da invidiare a quelli parigini,
furono il Caffè “Florio” a Torino, il “Greco” a Roma, il “Caffè della Scienza”
a Bologna.

A Napoli poi aveva il primato: il “Flora”, il “Diodato”, il “Veneziano”, “I


Cavalieri”, tutti caffè frequentati da artisti, letterati e ricchi borghesi. Le figure
tipiche rimasero sempre le “sciantose” e le “macchiette” . Quello della vita
della sciantosa è un quadro tutto ombre e luci: “è una creatura giunta dai
bassifondi, decisa a crearsi un proprio spazio nel mondo, attraverso lo
spettacolo, gettandosi alle spalle tradizioni, luoghi comuni e tabù”.
Probabilmente, uno dei fattori più importanti che spingevano le ragazze del
popolo a questa scelta piena di pericoli e delusioni, era la necessità di
sopravvivere a qualunque costo, in un mondo dove la miseria e la
disoccupazione erano una piaga inguaribile, specie per le donne. Ma proprio
queste donne avevano dentro di loro anche quell’istinto teatrale che le ha rese
protagoniste della storia del Café Chantant. I nomi dei personaggi femminili
sono numerosissimi, anche se la maggior parte poi spariva nel nulla. Quasi
tutte le sciantose italiane usavano nomi francesi allo scopo di nobilitarsi, ed
imbottiture nei punti giusti per accontentare gli sguardi indiscreti del pubblico.
Con il passar del tempo il loro ruolo divenne più prestigioso e professionale,
tanto da attrarre uomini di cultura e di spettacolo. Questa trasformazione di
ruolo si avvertì anche nel vestire e nel comportamento. Così le signore,
divenute anch’esse frequentatrici dei Caffè, imitavano i gesti e l’abbigliamenti
di quelle donne che facevano impazzire qualsiasi uomo. Ecco trasformarsi
perciò un elemento di spettacolo in un fatto di costume, inserendosi così nella
storia della fine dell’Ottocento. Per citare solo alcuni personaggi possiamo
ricordare Amalia Faraone, Olimpia Davigny, Rosa de Saxe, Ersilia Sampieri,
Joly Fleur, Leda del Cigno, Lucy Charmante, anticipatrici del divismo
cinematografico primo Novecento e delle celeberrime prime donne, quali:
Anna Fougez, Lina Cavalieri, Elvira Donnaruma, Carolina Otero (la bella
Otero), Cleo de Merode. Dopo il lungo elenco femminile, ricco di immagini
tristi, patetiche, ma anche romantiche e intense, possiamo parlare dei
personaggi maschili, che tanta parte hanno avuto nello sviluppo di questa
forma di spettacolo. Vista al maschile, la vita del “macchiettista” assomiglia a
quella della chanteuse; stessi desideri, sacrifici e lotte. Furono molto amati dal
pubblico perché mettevano in scena le abitudini e i difetti di ognuno, con
quell’autoironia e parodia che trascinavano l’uomo a ridere di sé. Nomi quali
Petrolini, Fregoli, Viviani sono rimasti nella storia dello spettacolo……..

Napoli, la più parigina delle città italiane

In Italia quest’eredità viene raccolta prima di tutto da Napoli, la più parigina


delle città italiane, dove per prima arriverà d’Oltralpe la moda del Caffè
chantant, presto assurta a simbolo della Belle Époque.

Ben presto, però, Napoli vanterà una sua autonoma invenzione: il “Caffè
concerto” con un numero che sarà il prototipo del moderno spogliarello!
Entrambe le invenzioni hanno lo stesso padre, Luigi Stellato, che in
collaborazione col musicista Francesco Melber fu autore della celebre canzone
’A cammesella’, un duetto tra una coppia di sposini, in cui lui invita lei a
denudarsi per mostrare le sue grazie. In poco tempo i “Caffè concerto”, tra i
quali gli eleganti “Strasburgo”, “Birreria Monaco”, “Vermouth di Torino”, il
“Gambrinus” e il “Caffè Turco”, spuntano come i funghi. In una decina d’anni
Napoli poteva vantare locali come il “Circo del Varietà”, il “Salone
Margherita”, l’“Eden”, l’“Eldorado”, teatri che ospitarono le maggiori
“chantose” della Belle Époque, divenendo luogo preferito per il lancio delle
nuove canzoni. Ma il Caffè storico più famoso di Napoli doveva diventare il
“Gambrinus” che aprì i battenti nel 1890 e col tempo arrivò a rappresentare il
principale luogo di convegno di Napoli. Le sue sale, impreziosite da dipinti,
marmi, stucchi, divennero una piccola galleria d’arte illuminata ben presto
dall’energia elettrica. Le sale del “Gambrinus” hanno visto passare tutti gli
intellettuali e gli artisti della Napoli otto-novecentesca tra cui Salvatore Di
Giacomo, Libero Bovio, Benedetto Croce, Eduardo De Filippo ed Enrico De
Nicola. Diretto concorrente del “Gambrinus” fu il “Caffè Turco”, aperto nel
1885, in cui si organizzavano intrattenimenti musicali durante i quali il
proprietario, vestito alla turca con un fez rosso in testa, era solito sorvegliare
che tutto procedesse per il meglio. Non ci volle molto perché il caffè
diventasse la bevanda cittadina. Anzi quello napoletano divenne presto il caffè
per antonomasia! Esso incarnò così bene lo spirito napoletano che fu anche
oggetto di celebri canzoni popolari: da A tazz è cafè, in cui la tazzina di caffè
– sotto dolce (per lo zucchero che vi si deposita) e sopra amara (prima di
girare col cucchiaino) – viene paragonata, in un confronto volutamente a
doppio senso, alla donna da conquistare. A Napoli il caffè diventerà un vero e
proprio rito, una cerimonia come quella del tè in Giappone; una cerimonia con
i suoi tempi, i suoi ritmi, il suo officiante, i suoi strumenti “liturgici” e –
perché no? – i suoi trucchi per riuscire meglio. Insomma la manifestazione di
una vera e propria scuola di pensiero. Chi nell’immaginario comune sintetizza
al meglio la filosofia partenopea del caffè è senz’altro Eduardo De Filippo,
che nel suo Questi fantasmi la immortalò in un memorabile monologo. Ma il
più celebre contributo partenopeo alla cultura del caffè in Italia è senza dubbio
la “napoletana”, che fu la caffettiera più diffusa fin quando, nel 1933, la mente
creativa dell’ingegnere milanese Alfonso Bialetti non partorì la prima Moka
Express dai chiari tratti Art Decò. Il proverbiale senso di umanità e l’ospitale
cordialità dei napoletani hanno lasciato tracce nella loro cultura del caffè.

Fu infatti nei bar di Napoli che vide la luce quello che può essere ritenuto il
tipo più “buono” di caffè: il “sospeso”, ossia un espresso non consumato da
chi lo paga (consumazione “sospesa”, appunto) ma destinato a qualche
avventore meno abbiente di passaggio, un piccolo-grande segno di solidarietà
sociale.

La Galleria Umberto I e più celebri Cafè-Chantant di Napoli

La passeggiata per Via Toledo,


magistralmente descritta dagli
scrittori stranieri innamorati di
Napoli, costituiva l’antipasto
prima del divertimento, che
aveva il suo tempio nella
Galleria Umberto I dove si
trovavano i più celebri Cafè-
Chantant della città. Alla fine del percorso possiamo immaginare che stia
scendendo la sera, la luce dei lampioni a gas, le insegne dei negozi: si illumina
la scena. E possiamo “vedere” la duchessa Caffarelli che passeggia con due
gentiluomini, il conte Perrone che esce dalla pasticceria Pintauro, alcune
donne che conversano allegramente concedendosi prolungate risate: sono le
demi-mondaines, giovani donne che si concedono solo agli uomini facoltosi.
Con le loro toilettes, ma più ancora con la loro bellezza, gareggiano con dame
aristocratiche. Dai negozi si entra e si esce sorridenti, coppie di innamorati
passeggiano scambiandosi sguardi languidi, schiocchi di frusta sollecitano i
cavalli. E’ l’ora della vita, è l’ora del cicaleccio, è l’ora dell’amore, è l’ora in
cui Toledo offre il gran finale del suo meraviglioso spettacolo. Sul finire del
XIX secolo, quando Parigi divenne il simbolo del divertimento e della vita
spensierata, i cafè-chantant valicarono le Alpi per essere importati anche in
Italia. La novità esplose a Napoli, dove l’epoca d’oro del caffè-concerto
coincise con quella della canzone napoletana. Nel 1890 per merito dei fratelli
Marino, che capirono l’importanza di un’attività commerciale redditizia da
unire al fascino della rappresentazione dal vivo, venne infatti inaugurato
l’elegante Salone Margherita, incastonato nella pittoresca Galleria Umberto I.
L’idea fu vincente e ricalcò totalmente il modello francese, persino nella
lingua utilizzata: non solo i cartelloni erano scritti in francese, ma anche i
contratti degli artisti e il menu. I camerieri in livrea parlavano sempre in
francese, così come gli spettatori: gli artisti, poi, fintamente d’oltralpe,
ricalcavano i nomi d’arte in onore ai divi e alle vedettes parigine.

In breve oltre al Salone Margherita sorsero altri cafè-concert come l’elegante


Gambrinus, l’Eden, il Rossini, l’Alambra, l’Eldorado, il Partenope, la Sala
Napoli ed altri ancora. Perfino i bar di Napoli, che in passato non
presentavano spettacoli, si adattarono al gusto del momento presentando
numeri di varietà misti a canzoni. Solitamente gli spettacoli proposti erano
presentati in successione, con un intervallo tra primo e secondo tempo del
susseguirsi di rappresentazioni. Solo verso la fine del primo tempo qualche
personaggio noto appariva in scena ma il clou veniva raggiunto al termine,
quando il divo eseguiva il suo numero. Importanti e famosi artisti che
iniziarono la loro carriera proprio nei caffè-concerto furono Anna Fougez,
Lina Cavalieri, Lydia Johnson, Leopoldo Fregoli, Ettore Petrolini, Raffaele
Viviani. Il cafè-chantant divenne in Italia non solo un luogo ed un genere
teatrale, ma anche qui, come in Francia, il simbolo della bella vita e della
spensieratezza.

Al successo della canzone


napoletana si accompagna la
nascita del cafè-chantant con
l’inaugurazione del Salone
Margherita, una settimana dopo
l’apertura della Galleria Umberto
I, che in breve diverrà il cuore pulsante della cultura e della mondanità
cittadina. Il nuovo locale occuperà gli spazi sotterranei ed ottenne in breve
lasso di tempo un successo internazionale, grazie al coraggio imprenditoriale
dei fratelli Marino, che sul loro palcoscenico fecero sfilare le più celebri
vedettes internazionali, come la Bella Otero o Cleo de Mérode, alle quali si
affiancarono non meno brave ed affascinanti prime donne indigene, che, pur
sfoggiando modelli e pseudonimi francesi, in onore del paese dove era nato
quel tipo di spettacolo, erano originarie del Vasto o del Pallonetto. Assursero a
grande notorietà anche molti comici come Pasquariello e Maldacea o
magnifiche cantanti, tra le quali spiccava il nome di Elvira Donnarumma, la
prediletta di Libero Bovio.

Il termine “Sciantosa” deriva dal francese chanteuse che vuol dire cantante,
ma anche primadonna, attrazione, fantasia: quella che oggi si definirebbe una
star. Sull’esempio del cafè-chantant di Parigi, negli anni che precedettero la
prima guerra mondiale, a Napoli furoreggiò il caffè-concerto, con
protagonista, appunto, la sciantosa. Per essere il più possibile simili alle
colleghe d’oltralpe, le indigene adottavano nomi d’arte francesizzanti e gli
autori di canzoni ironizzavano volentieri su questa moda. Nacquero così “A
frangesa” di Mario Costa nel 1894, “Lily Kangy” del 1905 (la macchietta di
successo di Nicola Maldacea) e infine la famosa “Ninì Tirabusciò”, un nome
ed un cognome certo più eleganti di Nina Cavatappi. Questa leggendaria
figura fu creata nel 1911 da Califano e Gambardella e negli anni Sessanta il
ritornello, che fu il cavallo di battaglia di Gennaro Pasquariello, venne
rilanciato in televisione e al cinema da Monica Vitti in veste di sciantosa. In
epoca più vicina a noi le gustose tiritere di Ninì Tirabusciò sono state rivisitate
da Mirna Doris, autentica vedette dell’avanspettacolo, dalla dosata ironia e dal
gustoso piglio popolaresco. Il successo del cinema fu tale che anche il mitico
Salone Margherita fu costretto ad inserire, all’interno della programmazione
serale, alcuni minuti di proiezione di un film.

Il caffè Calzona

Poco tempo dopo l’inaugurazione della Galleria Umberto I, al suo interno fu


aperto, con una grande cerimonia, il Caffè Calzona. Ben presto i napoletani
impararono a conoscerlo per le serate di gala e i luculliani banchetti ufficiali
che vi si tenevano. Fu qui che, al ritorno da Parigi, fu festeggiata Matilde
Serao per il successo raccolto in terra francese e fu al Calzona che, per la
prima volta sul palcoscenico di un Cafè-chantant napoletano, ancor prima che
al Salone Margherita, si esibirono le girls. Era la mezzanotte del 31 dicembre
1899, quando 12 bellissime ragazze, con il loro balletto, un po’ osé per quei
tempi, salutarono l’Ottocento come il secolo d’oro appena concluso e diedero
il benvenuto al neonato Novecento. Ma gli spettacoli di varietà nel Caffè della
Galleria non costituivano un avvenimento eccezionale: erano in programma
ogni sera.
Il piccolo palcoscenico, posto proprio al centro e rivolto verso Via Santa
Brigida, fu calcato da personaggi dello spettacolo rimasti famosi, in
particolare dalla coppia Scarano-Moretti, cioè il padre e la madre di Tecla
Scarano. Gli spettacoli del Calzona avevano tale successo di pubblico che
anche i giornali dell’epoca, spesso, ne pubblicavano le recensioni. Di solito, i
critici dei quotidiani seguivano solo le prime dei lavori in scena nei
numerosissimi teatri napoletani. Anche il Caffè della Galleria, per i prezzi
particolarmente bassi che praticava e per gli spettacoli gratuiti e di buon
livello, era divenuto un punto d’incontro tra le classi ricche e quelle meno
abbienti. Con la spesa di soli tre soldini si prendeva il caffè seduto al tavolino
e si poteva trascorrere l’intera serata a godersi lo spettacolo. C’era chi, più
fortunato, poteva assistere dalle finestre del suo ufficio al primo piano. Era il
caso di Matilde Serao che, dalla redazione del Il Giorno, tra uno scritto e
l’altro, volgeva volentieri lo sguardo verso il piccolo palcoscenico del
Calzona. Il Caffè, con la sua attività di spettacoli e con il suo pubblico
eterogeneo, fornì lo spunto ad una macchietta, inventata dal cronista mondano
del Mattino Ugo Ricci. La interpretò l’attore Nicola Maldacea nel vicinissimo
Salone Margherita. Nel dialogo si magnificavano le caratteristiche del locale:
“In fatto di cafè, presentemente, non v’è di meglio d’ ‘o Cafè-Calzona …” Col
passare del tempo il Calzona perse la parte più consistente della sua clientela
in favore di altri locali, in particolare, a beneficio dei soliti Gambrinus e
Salone Margherita. In questi anni, dopo Ninì Tirabusciò, nata dalla penna
prolifica di Aniello Califano, Ferdinando Russo firma il primo fascicolo della
Piedigrotta e, grazie alla casa discografica Polyphon, annunzia l’ambizioso
progetto di esportare la canzone napoletana in tutto il mondo. Giungeranno
così per i siti più lontani la poetica del nostro animo sognante, l’idea di un
mare divino, di un sole ammaliante, della nostre armonie gentili ed
accattivanti. Il fenomeno dei cafè-chantant napoletani fu tale che in breve
tempo cominciò ad espandersi nelle altre grandi città italiane. La prima città
ad introdurli a sua volta fu Roma. Il perché di tale diffusione non deve stupire:
così come a Napoli, anche a Roma, a Catania, a Milano, a Torino ed in molte
altre città letterate d’Italia si riunivano spesso, nei bar e nelle trattorie, cantanti
e poeti che, nel corso di riunioni semiprivate, si dedicavano al canto ed alla
declamazione di poesie.

Questa forma artigianale di spettacolo fu il fertile terreno su cui si basò il


successo dei caffè-concerto, che negli ultimi anni del 1800 aprirono anche
nella Capitale. Sempre i fratelli Marino, già proprietari del Salone Margherita
di Napoli, inaugurarono nella Capitale due nuovi locali: un altro Salone
Margherita e, successivamente, il Teatro Sala Umberto. A questi seguirono
numerosi altri cafè-chantant dai nomi altisonanti ed esotici: uno di questi
portava il poco allegro nome di “Cassa da morto”.

Lina Cavalieri

Il suo vero nome era Natalina Cavalieri (Viterbo, 25 dicembre 1874 – Firenze,
8 febbraio 1944). Cavalieri è stata soprano e attrice cinematografica italiana.
Figlia di un architetto marchigiano e di una sarta di Onano di nome Teonilla
Peconi, si trasferì fin dalla nascita a Roma con tutta la famiglia. Il padre,
licenziato a causa delle molestie rivolte alla moglie del suo principale, era
caduto in cattive condizioni economiche e Lina, così, fu costretta a dare un
aiuto impiegandosi nei più diversi mestieri: fioraia, piegatrice di giornali
presso una tipografia ed infine apprendista sarta. L’abitudine della ragazza a
cantare durante il lavoro con una notevole voce spinge la madre a ricorrere ad
Arrigo Molfetta, che si offre gratuitamente di insegnare qualche canzonetta
alla oramai adolescente Lina.

A quindici anni debuttò in un teatro di Piazza Navona e, di questo


avvenimento, vi è un ricordo scritto di suo pugno nel memoriale “Le Mie
Verità”. La popolarità di canzonettista della Cavalieri fu in continua ascesa
grazie alla sua bellissima voce, ma anche grazie alla sua notevole bellezza e
ad un temperamento focoso. Passò ad esibirsi al teatro Orfeo, per dieci lire al
giorno, poi al teatro Diocleziano per quindici lire. Era arrivato il momento di
approdare nel regno italiano dei cafè-chantant: Napoli. A ventun anni, al
Salone Margherita, sicuramente il traguardo più prestigioso per una
canzonettista del tempo, la Cavalieri raggiunse il primo successo di ampio
respiro, ottenendo così il trampolino di lancio per l’Europa. A Parigi, trionfò
alle Folies Bérgères cantando un programma di canzoni napoletane
accompagnata da un’orchestra completamente femminile, tutte chitarre e
mandolini. La Belle époque fu affascinata dalla sua bellezza e dalla sua grazia.
Nonostante le sue origini modeste, aveva il portamento ed i modi della gran
dama. Gabriele d’Annunzio le dedicò una copia del romanzo “Il piacere”
(1899) definendola la vera testimonianza di Venere in Terra. È difficile
distinguere tra verità e leggende il numero di proposte di matrimonio ricevute,
ben ottocentoquaranta secondo alcuni. I matrimoni effettivi raggiunsero il
numero di cinque, senza durare a lungo. Il primo celebrato a Pietroburgo nel
1899 con il Granduca Eugenio di Luchtenberg, dal quale divorziò in fretta
dopo la richiesta di lasciare la vita teatrale. Anche il secondo matrimonio, a
Lisbona nel 1900 con il re del Kazan, finì in un divorzio in seguito all’identico
rifiuto di Lina di rinunciare al canto e al teatro. Pare che il sovrano fosse
disperato a tal punto che, sposata una sosia della Cavalieri, si diede all’alcool
e morì a soli quarant’anni, dopo aver espresso la volontà di essere sepolto a
Firenze, la città preferita dalla «sua» Lina. Il terzo marito fu Robert E.
Chanler, un ricchissimo americano conosciuto nel 1907 durante le
rappresentazioni di Fedora al Metropolitan. Chanler era convinto di tenere a sé
l’artista per tutta la vita grazie alle sue ricchezze, ma anche lui venne liquidato
in una settimana per aver pensato di trasformare la cantante in una moglie.
Un’immensa quantità di beni, comprendente addirittura tre palazzi, trasmigrò
prima del divorzio dal patrimonio dell’americano nelle mani della Cavalieri.
Solo il compagno d’arte Pietro Muratore, sposato nel 1914, riuscì là dove altri
avevano fallito, farle cioè abbandonare il teatro. Il 26 luglio del 1927 divorziò
però anche da quest’ultimo per sposare Giuseppe Campari, che le fu accanto
al momento del ritorno in Italia e nella vecchiaia.

Ersilia Sampieri
Al secolo Ersilia Amorosi, fu la
prima diva del cafè-chantant.
Torinese di nascita (1877) e
napoletana di adozione, usò la
sua fama e la sua ricchezza per
aiutare i bisognosi. Era orfana
dei genitori, che le lasciarono un
solo capitale: una prorompente
bellezza ed una bella voce. Dopo aver lavorato in una compagnia di bambini,
la Lillipuziana, in breve si trovò ad esibire nei locali del lungomare di
Marsiglia. A Napoli si trasferì a 17 anni e, con il nome di Piccola Andalusa, si
esibiva alla Birreria dell’Incoronata, cantando in napoletano, francese e
spagnolo. Divideva il palco con giovani di grande talento come Elvira
Donnarumma ed il macchiettista Davide Tatangelo. Alla fine girava col
piattino per le offerte, facendo intravedere il seno. Passò poi al Caffè Scotto-
Jonno e da lì spiccò il volo per esibirsi nei locali italiani con puntate anche
all’estero. Nel 1901, quando i fratelli Marino la scritturarono al Salone
Margherita, era già una diva. Vi rimase sei anni, alternando esibizioni a Parigi
e Londra, dove venne definita la “Sarah Bernhard del caffè-concerto”, mentre
Edoardo Scarfoglio preferiva l’epiteto di “la Fenice della Fenice”.

Gli impresari le misero a disposizione un secondo camerino, dove procurava


lavoro, trovava un letto in ospedale, facilitava permessi ed esoneri ai militari:
tutto solo per umanità. Su di lei circolavano svariate leggende: amante di un
rampollo di casa Savoia o membro della massoneria. Di lei si innamorò
perdutamente Libero Bovio, che le dedicò una struggente poesia. Nel 1907
sposò Mister Muscolo, un lottatore acrobata gelosissimo, che le vietò le
attività benefiche e la portò in breve alla separazione ed alla solitudine. A
Parigi fece innamorare un petroliere e durante una tournée in Medio Oriente,
conquistò un pascià disposto a follie pur di averla nel suo harem. Resse la
scena fino ai 45 anni e piano piano, finiti i risparmi, per sopravvivere si
improvvisò chiromante con studio a Roma. Resistette 12 anni, poi finì
all’ospizio dove si spense a 78 anni nel 1955. La sua voce è giunta fino a noi
grazie ai dischi della Phonotype, che ci permettono di riascoltare i suoi cavalli
di battaglia: “ I te vurrìa vasà”, “Voglio siscà” e “Donna Fifì”.

Elvira Donnarumma

Nacque a Napoli nel 1883.

……”La chiamavano “Capinera”


pe’ i suoi ricci neri e belli: stava sempre fra i monelli, per le strade tutto il dì.
Scalza, lacera, una sera, m’apprestavo a rincasar col visino suo di cera, me la
vidi avvicinar. “Dammi un soldo… ho tanta fame”, “Ci hai la mamma?”,
“Non ce l’ho!” “Ed il tuo babbo? La tua casa?” e lei triste… “non lo so!” …
Provai una stretta al cuore e quella sera la mia casetta accolse
“Capinera”………

Elvira Donnarumma è la regina indiscussa dei primi vent’anni del ‘900. I suoi
dischi vanno a ruba e solo verso la metà degli anni ’20, quando la sua malattia
ne fa rallentare l’attività artistica, è sorpassata dalle nuove promesse (future
star internazionali) canore napoletane come Gilda Mignonette, Ria Rosa, Lina
Resal, Teresa De Matienzo e Ada Bruges.

Un manifesto del 1919 della “capinera napulitana” la presentava così:

“……….Il cielo cristallino, il sole d’oro, la cerulea collina di Posillipo, il


Vesuvio… Sono le glorie di Napoli; ma una delle glorie più fulgide di questa
sognante città è Elvira Donnarumma, che ne canta così meravigliosamente le
divine bellezze. Anima aristocratica, vibrante di alta e genuina poesia, ella non
esercita la professione del canto, ella invece assolve una missione
profondamente spirituale, e cioè rende visione (dolcissima per ogni cuore di
napoletano) ciò che, nell’ardente vita di questo popolo, il sentimento. Nella
sua nobile arte, che è insieme sintesi e analisi, ognuno trova rivelato se stesso,
nelle passioni, nei palpiti più intensi che ne agitano e ne commuovono
l’esistenza. E amore e spasimo e giocondità riproducono i suoi occhi, vividi
d’intelligenza, quand’ella, attraverso le melodie dei nostri squisiti autori, ci
ridà la melanconia del passato e l’ansia indefinibile del presente………”

……”Elvira Donnarumma è una grande e pura gloria nostra. Lo afferma tutto


il popolo di Napoli, che ripete pei vicoli, per le piazze, nei dorati tramonti o
nelle albe raggianti, le sue canzoni: quelle da lei battezzate con la fiamma
splendidissima del genio.”

Gilda Mignonette

Gilda Mignonette, nome d’arte di


Griselda Andreatini nasce a
Napoli il 28 ottobre 1886 e
muore l’8 giugno 1953 durante la
traversata da New York a Napoli
dopo aver espresso il desiderio di
morire nella propria città natale.
Non ci riuscì, morì a ventiquattro ore da Napoli sulla transoceanica
“Homeland”. Sul certificato di morte vennero riportate le coordinate del punto
in cui si spense: latitudine 37′ Nord, Longitudine 4′ Est. E’ stata una grande
“sciantosa” nel teatro di varietà italiana. Le incisioni dei più bei Canti degli
Emigranti interpretate da Gilda Mignonette sono state, negli anni ’20 e ’30 del
‘900, delle vere e proprie hits internazionali. La Mignonette è dotata di un
talento formidabile che la pone ad un livello talmente alto da poter competere
senza sfigurare sul piano internazionale. Spesso la “regina degli emigranti”
(come fu battezzata dai suoi fans) è paragonata alla cantante di blues Bessie
Smith, a dimostrazione di una statura artistica ancora tutt’oggi da definire.

Gilda di stupefacenti qualità, si dimostra insuperabile specialista del genere


drammatico. Nella canzone “Santa Lucia luntana” la Mignonette trova, come
sempre, toni fortemente espressivi con accento meravigliosamente centrato,
sfoggiando, oltre tutto, una dizione netta e chiara. Il brano, inoltre, si avvale
delle sirene dei bastimenti che partono e del vocio degli emigranti, usato come
atto di dolore e di nostalgia: “Partono ‘e bastimente pe’ terre assaje luntane,
cantano a buordo: so’ napulitane. Cantano pe’ tramente, ‘o golfo già scumpare,
e ‘a luna a mmiez’o mare ‘nu poco ‘e Napule le fa vedè.” (Partono le navi per
terre assai lontane, cantano e a bordo sono napoletani. Cantano mentre il golfo
di Napoli scompare dall’orizzonte e la luna, in mezzo al mare lascia con la sua
luce intravedere un po’ di Napoli).

La canzone “Mandulinata” e “l’emigrante” sono veri capolavori


d’interpretazione. La Mignonette canta con enorme intensità emotiva e grande
fraseggio drammatico.

Ester Bijou

Ester Bijou è il nome d’arte di


Giovanna Santagata. Nasce a
Capua (Napoli) il 19 luglio 1883
e muore a Napoli il 4 luglio
1912, all’età di 29 anni non
ancora compiuti. Biondissima e
con due occhi di colore azzurro,
la sciantosa napoletana è
definita, fin dall’inizio della sua carriera, il “Diavoletto biondo” per la sua
capacità di scatenarsi sul palcoscenico e di coinvolgere e far scatenare il
pubblico in sala. Ester debutta giovanissima nel varietà, insieme con i duettisti
Trombetta e Mimì Albin, riesce in breve tempo a staccarsi da questi artisti per
volare verso una gloriosa quanto breve carriera. La grande occasione arriva
nel 1904, quando è invitata a partecipare alla sua prima audizione di
Piedigrotta dall’editore Capolongo. La giovane sciantosa raggiunge, grazie a
questa partecipazione, tanta di quella popolarità, che, oltre a ricevere
un’immediata scrittura per il prestigioso Salone Margherita, il giornale più
importante dell’epoca, “l’Eldorado” (un mensile di teatro e musica), le dedica
addirittura la copertina, con un ricco quanto interessante articolo: “Quando
abbiamo notato, due o tre anni fa, quest’artista, ne abbiamo immediatamente
intuito la prontezza di spirito che l’avrebbe portata ad un rapido successo che
in poco tempo la rende, ora, una tra le “ètoiles” più famose del nostro campo
artistico. Esterina Bijou di Capua presenta un repertorio piacevole con voce
suggestiva (se non forte e bella) e con verve che sa tutto dello schioppettio
parigino. Al nostro Salone Margherita è da più di un mese il numero che
interessa a preferenza degli altri, e che riceve gli applausi sinceri e compatti,
forse come nessun altro numero del programma. Il diavoletto biondo riesce a
passare dal pur prestigioso palcoscenico del Teatro Eden a quello del Salone
Margherita, eseguendo addirittura il cosiddetto numero di centro, prerogativa,
fina a quel momento, soltanto delle sciantose straniere. Nel 1906, Ester lascia
il Salone per approdare nei più prestigiosi salotti e Café Chantant di Parigi e di
Malta (è stata la prima donna italiana a raggiungere questi luoghi, domìni di
sole sciantose francesi, ungheresi e spagnole). Donna molto vanitosa, ha
sempre amato circondarsi di gioielli, corteggiatori e del lusso in generale,
spendendo la maggior parte dei suoi guadagni in preziosi, abiti, costumi di
scena, quadri di valore e arredamenti d’epoca. Amatissima e nello stesso
tempo molto odiata da uomini e donne, Ester, nonostante il suo temperamento
vivace e la sua corazza indifferente ai continui attacchi di colleghe invidiose e
giornalisti respinti, è stata una donna molto sensibile, soffrendo in silenzio per
la sua promiscua vita privata, mai serena e sempre travagliata da dolorose
relazioni d’amore e false amicizie. Nonostante il disagio nella sua vita privata,
Ester continua a mietere successi teatrali e musicali, riuscendo ad arrivare là
dove solo poche elette sono riuscite. Le richieste concertistiche, negli anni tra
il 1905 ed il 1910, sono così numerose, che spesso la sciantosa partenopea le
rimanda o, addirittura, non tiene parola ai suoi impegni, facendo impazzire gli
impresari che continuamente annunciano un suo concerto o spettacolo teatrale,
e che poi devono annullare per il disimpegno. La bella napoletana ha sempre
amato esibirsi, trovando il suo vero orgasmo sul palcoscenico, ma ha saputo
anche conciliare e coltivare i suoi spazi privati, fatti, comunque, sempre di vita
mondana e di lusso in generale. Questa parte del suo carattere è confermata da
una lettera che la stessa invia a Bel Amì, e nella quale si legge: “Caro Bel
Amì, sono compiacente dell’autunno parigino. Credo che nulla val meglio
della Villa Lumière per una donna chic, soprattutto quando si possono fare
ingenti acquisti negli ateliers de mode della Rue de Rivoli, nei grandi
bijoutiers di Rue de la Pais e sfidare il vento a bordo di una Darracq 60 HP.
Caro Bel Amì, così la vita è proprio bella! Tua affezionata Bijou”. Nel 1908, il
diavoletto biondo svolge la sua attività in particolar modo all’estero: pagata
profumatamente, Ester gestisce i suoi impegni soprattutto tra la Francia e
l’isola di Malta, e solo raramente si esibisce in Italia e solo al Salone
Margherita di Roma e di Napoli. La popolarità della sciantosa è tale che, in
occasione di un suo concerto all’isola di Malta nell’agosto del 1907 (al Café
du Commerce), il gestore del Salone, un certo Cav. Vincenzi, per contenere le
prenotazioni, decide di aumentare il biglietto d’ingresso, e a grande sorpresa,
nonostante ciò, trova il suo locale zeppo di pubblico brillante e rumoroso che
quasi danneggia il suo ritrovo.

Il grande afflusso di gente attira inevitabilmente la Stampa del luogo, la quale


puntualizzerà, il giorno successivo al concerto, che la bella figura della Bijou,
accompagnata dalla sua travolgente simpatia e dalle sue qualità interpretative,
non sono pari alla sua voce, senz’altro gradevole, ma non sufficientemente
estesa, come quella di altre sciantose. Ester Bijou canta fino a che, il 4 luglio
del 1912, dopo uno spettacolo teatrale al Salone Margherita, è ritrovata morta
in un albergo di Napoli, suicidatasi con un colpo di rivoltella al cuore. Ma è
stato veramente un suicidio? La cronaca racconta che la tragedia nasce dal
dolore per l’abbandono del suo amante, il Principe di Fondi, un elegante e
aristocratico giovane napoletano, nel quale la cantante aveva riposto le sue
illusioni.

Ria Rosa

Vero nome Maria Rosa Liberti,


nasce a Napoli il 2 settembre
1899. Esordisce giovanissima
alla sala Umberto, mostrando
una notevole voce calda e decisa.
Si esibisce anche a New York
dove viene proclamata “Cantante
degli Emigranti” ed ironicamente
“Nonna delle Femministe”.

Nel 1922 sbarca a New York con la compagnia di Nicola Maldacea; qui dato il
successo, fonda una sua Compagnia. Maria Rosa successivamente si dedica
alla rappresentazione di particolarissime sceneggiate, quali “E’ Pentite”, storia
e sorte delle ragazze madri napoletane. Suscita scalpore anche per altre sue
esibizioni; non si risparmia il travestimento da Guappo per cantare canzoni al
“maschile” come “Guapparia”. E neppure ha timore di sfidare le autorità
americane nel 1927, denunciando con “Mamma Sfortunata” (primo titolo A’
Seggia Elettrica) l’errore giudiziario per la condanna a morte di Sacco e
Vanzetti, subendo minacce e rischiando l’espulsione dagli States. La sua vita
fu un continuo viaggio Napoli – New York, dove si stabilì definitivamente nel
1937, anno in cui tornò per l’ultima volta in Italia in occasione della morte del
grande compositore suo amico E. Tagliaferri, per il quale cantò per l’ultima
volta in pubblico “Chitarra Nera” a lei dedicata e lasciata incompiuta. Ria
Rosa torna così a New York, lascia le scene da quel fatidico 1937, muore in
America nel 1988.

Elio Ria dopo la morte della grande diva scrive: “Ora che non c’è più è come
se il paese fosse stato privato di qualcosa. Un paese del sud, come tanti, con
tanta gente di fatica, con i colori del sole e il grigio perla della luna. Rosa era
una donna del sud, tutti in paese la conoscevano. Aveva i capelli neri ondulati,
abbandonati alla bizzarria del vento. Il rossetto sulle labbra carnose ne
risaltava l’indole trasgressiva. Amava passeggiare con il ventaglio nero con
sottili righe di color rosso. I suoi abiti rigorosamente neri con il profilo di
merletto, come a significare l’eleganza di altri tempi. I suoi occhi erano accesi
di simpatia e fermezza. La sua bellezza di gioventù, consumata troppo in fretta
per miseria, viveva nel suo cuore e amava parlarne con discrezione come
solitamente sapevano fare le nobildonne. Il paese non badava alle sue
stravaganze, ai suoi giochi di parole, alle continue burla e risate: preferiva
tenerla a debita distanza, non godeva della stima degli altri, di coloro che in
fondo erano sì brave persone ma non potevano accettare il suo modo di essere
donna diversa. Il suo viso beffardo congelava le maldicenze e all’occasione
sapeva imporre la sua autorità di donna. Abitava in via XXIV maggio, nel
centro storico del paese, in una corte bianca, in una casa senz’acqua né luce.
Eppure era felice, cantava le melodie dell’amore durante le notti d’estate,
quando nella piazza principale ancora la gente sostava a chiacchierare e a
spettegolare. E la vita scorreva tra un andirivieni continuo per
l’approvvigionamento di acqua dalla fontana della piazza e le lacrime
sapientemente celate sul volto rugoso per la sua bellezza di donna svanita
troppo in fretta. La sua voglia di amare era acciaio che dava prova di durezza
e indistruttibilità. Conosceva gli incantesimi, sì un po’ era fattucchiera, maga,
strega e degli uomini conosceva vizi e virtù. Avrebbe voluto avere, fare
qualcosa d’importante: non gli fu mai data l’occasione e ingenuamente seppe
perdersi nel labirinto dell’amore. Fu per lei una pena ingiusta, un lutto eterno.
Un destino irrevocabile per interpretare il senso della vita che sfugge ad ogni
considerevole ragionamento, ma che esprime quella gioia incontenibile in ciò
che si oppone: nel dolore e nel lutto. La sofferenza di non avere avuto amore
nella giusta misura, nell’inesprimibile desiderio d’essere amata, fu per lei una
prova da superare ad ogni costo, con la sapienza del riso e della capacità di
dare conforto al dolore che torturava il suo cuore attraverso l’ironia e il
sarcasmo. Era colpa e innocenza. Buio e luce. Ora non c’è più, ma è come se
esistesse ancora. E la gente del paese faccia in modo di non dimenticarla, ora”.

Anna Fougez

Anna Fougez, pseudonimo di Maria


Annina Laganà Pappacena (Taranto, 9
luglio 1894 – Santa Marinella, 11
settembre 1966), è stata una cantante e
attrice italiana.

Nata a Taranto, figlia di Angelo Pappacena e di Teresa Catalano e rimasta


prestissimo orfana di entrambi i genitori, fu adottata da Giuseppe Laganà e
Giovannina Catalano, sua zia. Fu una stella del varietà che furoreggiò sui
palcoscenici italiani fra la prima guerra mondiale e la marcia su Roma.
Debuttò sul palcoscenico all’età di 8 anni, incoraggiata dagli zii. All’età di 15
anni si esibì in coppia con Petrolini, a 16 anni si cucì sui rammendi delle calze
decine di strass, comprò per due lire due ventri di lepre, se li drappeggiò al
collo come se fossero state volpi e cantò Bambola al Teatro Mastroieni di
Messina. Fra il 1919 ed il 1925, la Fougez raggiunse il massimo del suo
successo: guadagnava 500 lire a sera e, in alcuni casi, 2.000 lire a sera. Era il
momento del varietà, che vide in lei e nelle sue rivali delle vere e proprie
regine. La Fougez era la più elegante di tutte: le prime piume di struzzo, le
prime scale in palcoscenico, le prime fontane d’argento furono per lei. Fu
qualche cosa di più di una cantante di successo: era l’espressione
dell’eleganza, della ricchezza e del lusso, la sciantosa per antonomasia. Il suo
nome d’arte si ispirò a quello della celebre vedette internazionale delle Folies
Bergère Eugénie Fougère. Era un’artista dotata di notevole talento. Legò il suo
nome ai più bei motivi dell’epoca: Vipera, Abat-jour, Addio mia bella signora,
Chi siete?, Passa la ronda, A tazza ‘e cafè. Nel 1940 si ritirò dalle scene e si
chiuse in una villa piena di cimeli, a Santa Marinella, in provincia di Roma,
dove continuò a vivere da grande Diva, assieme al secondo marito, il ballerino
René Thano e alle amiche di sempre: Amelia De Fazi e Annamaria De Fazi.
Morì nel 1966 all’età di 72 anni.

Margaretha Gregory

Margaretha, al secolo Margherita De Gregorio, nasce nella centralissima


piazza Dante di Napoli il 3 settembre del 1923. La madre Rosa è una dama di
compagnia della nobildonna Maria de las Mercedes di Borbone, Infanta di
Spagna, che soggiorna a Napoli per lungo tempo. Per tale motivo, la piccola
Margaretha, già dalla più tenera età, si trova a frequentare l’alta aristocrazia
partenopea. Sovente è ospite della famiglia Ranieri e trascorre gli anni della
sua gioventù con i figli di Alfonso e Maria Antonietta di Borbone. La giovane
Margaretha ama il canto e la danza e, sollecitata dai parenti durante le feste
familiari, si esibisce nel repertorio più famoso delle canzoni napoletane; lo fa
anche in francese e spagnolo. Non calcherà mai per sua scelta le scene del
teatro.

Isa Landi

Isa Landi è il nome d’arte di


Concetta Polidoro. Nasce a
Napoli il 28 Ottobre del 1925,
figlia di Pasquale Polidoro
(operaio di un calzaturificio
militare) e di Nunzia Fiorenti
(orlatrice di una ditta
d’abbigliamento). Isa coltiva la passione per il canto fin da piccola, quando,
insieme con sua sorella minore Giustina (in arte Nina Landi) si esibisce in
casa, per richiesta del nonno Edoardo, contro il pagamento di una lira. Dopo
alcune frequentazioni nei teatri dell’epoca, Isa, nel 1942 riesce ad ottenere un
provino di audizione con il Maestro Giuseppe Cioffi. La prova canora è
superata brillantemente e la cantante debutta ufficialmente come nuova
promessa napoletana all’audizione di Piedigrotta Cioffi del 1942 con il motivo
“E stessi rrose” firmato da Gigi Pisano e lo stesso Cioffi. Nonostante la
presenza di numerosi big della canzone (Nino Taranto, Mario Pasqualillo, Eva
Nova, Enzo Romagnoli, Carlo Buti e altri) la cantante riesce ad accaparrarsi
l’attenzione del pubblico. Ella stessa tiene a ricordare che all’audizione si
presentò con un abito lungo azzurro da alta moda acquistato e donato a lei dal
Maestro Cioffi. La Landi, soprannominata “a guagliona”, inizia una brillante
carriera, spesso ostacolata dalla sua giovane età (da qui il nomignolo “a
guagliona”). In occasione dell’audizione di Piedigrotta Barbella, infatti, la
cantante non riesce ad esibirsi perché i fascisti in tutte e tre le serate,
controllarono il Teatro Trianon. Sposatasi a 18 anni con Mario D’Auria, suo
futuro impresario, la Landi nel decennio 1945/1955 diventa la regina delle più
importanti audizioni di Piedigrotta dell’epoca (La Canzonetta, Cioffi, Di
Gianni, E.A.Mario e altre) lanciando al successo i motivi: “Speranza perduta”,
“Suonno suonno”, “L’ultima chitarrata”, “Ddoje parole”, “Dille a Maria”,
“Tutta colpa è d”a famiglia”, “O carusiello”, “Serenata capricciosa”, “Pecchè
so malafemmena”, “Malombra mia”, “Famiglie ‘e marenare”, “Passiona
luntana” e altre. In questi anni, inoltre, è tra le protagoniste della commedia
musicale di E.A.Mario “A taverna d”o Cerrillo”. Dopo la vittoria della
Medaglia d’oro con il motivo “Nuie nun ce amammo” in occasione
dell’audizione di Piedigrotta Zanibon, nel 1957, un avvenimento stravolge la
carriera di Isa. La sua popolarità, cresciuta a dismisura, arriva fino a New York
dove il noto editore Edward Rossi, consigliato da Alfredo Bascetta (popolare
cantante napoletano emigrato in America, autore d’altronde della celeberrima
“Lacreme ‘e cundannate” dedicata a Sacco e Vanzetti), chiude con la Landi un
contratto di tre mesi. Così la cantante, che affronta la sua prima tournee
oltreoceano, ha modo di esibirsi già sulla nave Augustus.

Succede che l’Ispettore d’Immigrazione, il Cav. Ferro, affronta la sua ultima


fatica dopo 37 anni di navigazione. Per l’occasione chiede, dietro un congruo
compenso, alla cantante napoletana di allietare, per tutti i nove giorni di
navigazione, le sue serate. La notizia, riportata sui giornali dell’epoca,
provoca tanta pubblicità che la Landi sbarca a New York già famosa. Così i tre
mesi di contratto diventano due anni, durante i quali Isa si esibisce, con un
repertorio melodico e di Café Chantant, a Brooklyn, Philadelphia, Chicago,
New York, Boston, Montreal, Toronto, Niagara, ecc. Durante questi due anni,
la Landi, che inserisce nel suo repertorio diversi canti di emigranti (“Napoli e
Gennarino”, “Te manche Napule”, “Doppo vint’anne”, “Ll’America vene
ccà”, “Nustalgia ‘e Napule”, ecc.) è soprannominata l’erede naturale di Gilda
Mignonette, appellativo di cui la Landi è fierissima. Eppure “a guagliona” non
ha mai conosciuto la Mignonette. Una volta, a Napoli, ed esattamente alla Sala
Roma, la Landi corse ad ammirare il concerto della Mignonette con l’intento,
dopo la serata, di presentarsi al mito vivente. Succede, invece, che nonostante
si presenti alla serata in incognito, numerose persone del pubblico riconoscono
la Landi, causando disturbo al concerto della Mignonette. Alla fine della
serata, per evitare un probabile rimprovero della regina degli emigranti, Isa
scappa dalla Sala Roma con il rammarico di non aver potuto conoscere il mito
vivente. Rammarico dovuto al fatto che questo concerto è anche l’ultimo della
Mignonette a Napoli.

La Bella Otero

Next articlePrevious article


Depuratori : Indagati
Carnevale:
i Sindaci
festa di
diAmalfi
maschere
e Praiano
prima della Quaresima

Nacque a Ponte de Valga (GALIZIA), Spagna, il 4 novembre 1868. Il suo


nome completo era Agustina Carolina Otero Iglesias (entrambi gli appellativi
vennero a lei attraverso la madre, dal momento che mai il padre volle
riconoscerla come figlia). Amata da principi e uomini comuni, fu la vera
grande cortigiana della Belle Epoque parigina. Di carattere allegro e solare,
pur avendo vissuto un’infanzia piena di disagi, ben presto mostrò il suo innato
talento artistico ogni volta che ne aveva la possibilità. Dotata di una forte
volontà, ribelle e ambiziosa, si innamorò a quattordici anni di un giovane di
nome Paco, col quale fuggì una notte per andare a ballare in un locale
notturno. Il proprietario di quel salone rimase affascinato, all’ istante, dalle
movenze della giovane Carolina, fino al punto di offrirle un contratto e
pagarla per le sue prestazioni danzatorie ben due pesetas (un sacco di soldi,
allora). La coppia, incoraggiata da questo successo inaspettato, decise di
cogliere l’occasione per fuggire a Lisbona, in cerca di miglior fortuna, e lì la
Otero lavorò, per un breve periodo, come ballerina. Improvvisamente, però, il
suo cuore venne spezzato dal tradimento di Paco con una collega ballerina.
Carolina, non avendo alcuna intenzione di accettare la cosa, li inseguì fino a
Barcellona, dove si erano trasferiti. Non ci fu niente da fare Paco non tornò
mai fra le sue braccia Ormai del luogo, la danzatrice, iniziò a lavorare al
Crystal Palace, prima di andare a Marsiglia e poi a Parigi. Carolina Otero
arrivò a Parigi con il sogno di studiare danza e rappresentare i suoi primi
spettacoli. La sua bellezza e il suo carattere aperto e solare però la portarono
ad essere ammirata immediatamente dal pubblico parigino. Nonostante fosse
di origine galiziana, divenne la regina danzatrice della capitale culturale
d’Occidente, com’era definita allora Parigi. Così, nel 1900, da tutti era stata
eletta a sex symbol della “Belle Epoque”, trionfatrice sia sul palco che
nell’amore, proprietaria di una immensa fortuna finanziaria, che spesso
spendeva nel Casinò di Monte Carlo. Preziosissimi gioielli, quali il collier
dell’ex imperatrice Eugenia e spettacolari orecchini dell’imperatrice d’Austria
e una collana di diamanti proprietà, in precedenza, di Maria Antonietta le
vennero regalati da ammiratori estasiati dal suo fascino. La sua ricchezza fu
stimata, in quel periodo, essere oltre i 16 milioni di dollari. La passione che
nutrivano gli uomini per lei, era indecifrabile. Il Granduca Nicola si innamorò
pazzamente della ballerina. La caduta sul suolo innevato a schiena nuda, ad
una temperatura di 20 gradi sotto zero, le causò una polmonite che la tenne a
letto tre mesi, nel palazzo del principe Pedro. Molti altri candidati amanti si
suicidarono per il grande amore, o dilapidarono intere fortune per attrarla a
loro. Alcuni di essi furono l’ imperatore Guglielmo II, il barone de Ollstreder,
il politico Aristide Briand e Edoardo VII d’Inghilterra. Morì a Nizza il 10
aprile 1965.à della navigazione tu

Potrebbero piacerti anche