esplorazioni e scoperte — alla ricerca del ‘pensiero selvaggio’ fra le tribù primitive e meste nel più profondo Brasile. Contrapposte ai beati lussi nelle ricche metropoli del dopoguerra, Buenos Aires e Rio de Janeiro, meta agognatissima per generazioni di emigranti nostrani: «Dagli Appennini e dalle Alpi alle Ande». I fasti argentini e brasiliani abbagliarono la povera Italia affamata e distrutta, fino al trionfo nella tournée europea della ‘presidenta’ Evita Perón, bella giovane e brava attrice, con una memorabile visita elegante e populista in Vaticano, e sostanziosi doni a Pio XII. Ne derivò poi il successo planetario del musical Evita. Frattanto, i libri di Lévi–Strauss diventavano classici fondamentali nella voga strutturalista. Si tradussero le opere di jorge Luis Borges, e anche lui venne a Roma, al culmine della popolarità. E poi, tutta un’ondata di eccellente narrativa latino–americana. Ma l’economia di quei paesi andò incontro a crisi gravissime; e le racconta appunto questo viaggio di rivisitazioni in Argentina, Brasile, Uruguay, Perù. Dove tuttavia non mancheranno sorprese: il complesso di Santa Rosa da Lima, ad esempio, si rivela «un caro nido di memorie per gli antichi cultori delle più mitiche Sante secondo quella leggendaria Compagnia D’Origlia–Palmi, o Paolo Poli. Qui tutto par rivivere, intatto. Ah, quegli indimenticati “Scignore scialvami, la carne è debbole!” di Santa Rita, mentre Satana la tentava sotto forma di fantasma dell'Amleto, ringhiando…». Pensieri selvaggi a Buenos Aires
… Buenos Aires!… Montevideo!… Rio de Janeiro!… Sào
Paulo!… Lima!… Perù!… Iguazul!. Giacché antico lettore e fan di Tristes Tropiques, il centenario nel 2008 del “nacimiento” di Claude Lévi– Strauss, “voyageur nostalgique”, mi sospinse a un vasto giro estivo (e dunque là invernale, full season) nelle metropoli dell’America Latina. Spesso, dunque, una rivisitazione. E non già fra quelle tribù tropicali interne, che si possono immaginare tuttora assai meste. (Altro che “malinconiosa carne — dove una volta pullulò la gioia"). Ma proprio nelle stesse grandi capitali che traboccavano di joie de vivre e di ricchezza, una volta. Ed esportavano tutto un tripudio di luci e suoni e colori, lusso e voluttà, antropologia culturale festosa e fastosa ed assai pittoresca, basata sulle fortune svelte degli emigranti oltre che sugli sfruttamenti amazzonici e andini. Per noi bambini bastava anche poco, una volta. Bueno, fuego, fuente, fuerte, puente, pueblo, puerto, puerta, la vuelta buena. Pochissimo o nada, bastava, per i piccini. Pablo, Pablito, Pedro, Pedrito, Paco, Paquito e Paquita, Benito, Rosita, Conchita, Carmencita, Pancho, Sancho, Rio Rita. Caminito, pobrecito, cielito lindo… Evita! E si era beati, da piccoli. Nomi come caramelle Novecento: Arenal, Arsenal, Alcázar, Alcatraz, Amapola, Pensacola, Capataz. Diablo. Retablo. Olé. Saludos amigos, adiós muchachos, vamos a la playa, compañeros, descamisados, descalzas, desnudas, barbudos, guapas, gringos, niños, niñas, Mercedes, Dolores, Milagros, Borges, Paraguayos, zarzuela, Consuelo, Piazzolla, Pilar, Gardel, Trinidad, Soledad, Asunción, Concepción, corazón, revolución, reacción, rebelión, represión, extenuación, exteriorización, bodegón, salchichón, maricón, cospetón siór parón… tan solo una canción… … Hombre! Sangre! Dinero! Sombrero! Limón Limonero! Bombero! Me muero! Te quiero! Todos caballeros! Toreador! Mirador! Fundador! Parador! Guantanamera! Violetera! Santander! Mercader! Escobar! Bolívar! Alvear! Miramar! Minibar! Quanti tanghi e fandanghi e consumazioni di sangria e carioca e tequila con Django e Durango nei decenni adolescenti, colmi di balere e boleri e bandoneón da caballero stanco su un suo caballo bianco o bronco — soprattutto in avanspettacoli “da bassa forza» di comiciattoli sub–Macario o vice–Rascel con lazzi e scacazzi su patonze e pecheronze e addante creola dalla bruna o turpe aureola… Socchiudendo gli occhioni o gli occhietti, ai bei dì, fra tico– tico e tuca–tuca e chupa–chupa e pago–pago in romantiche rotonde sul mare con luna piena e ciff–ciaff d’ondate sulla calda sabbia, e tutto un accompagnamento di maracas e maracujas… Bésame mucho? …La pensée sauvage! Tranquilli. Mantilla e cedilla. Eventualmente, seguidilla. Hasta la vista, cuanto me gusta, mañana por la mañana, Inti–Illimani, come coca boliviana son le donne dell’Avana, ma a Copacabana la donna è regina, la donna è sovrana… Come d’altronde a Ipanema… starring (ovviamente) Irasema… Calma. Arriba y abajo. A las cinco de la tarde, la vida es sueño, flores para los muertos, convidados de piedra, amado mió, igualdad… No se puede, sin embargo, tampoco, también, duende, llanto, cante hondo, corrida, movida, batucada, calienta, pimienta, cabeza, fortaleza, fortín… Conga, milonga, marimba, macumba, samba, caramba, carambola… Alborada nueva? Adelante, adelante. El Relicario? Qué garbo, qué rapto, qué éxtasis, qué écfrasis! Un po’ per celia e un bel po’ sul serio, tra la raspa o la salsa del Paraná, e qualche finca più o meno antigua piena di popolari vecchietti non più “toreador en garde” e men che meno “dragón d’Alcalá”, bensì alfine indignados di neoavanguardia e neomutanderos postmoderni d’attualità… Nella terza età! Todos escandalizados y resentidos! Malcriados y malhablados! Irriverentes, provocadores, transgresores y provocantes! Claro? Maldonados? Malparados? Malmandados? El Delicado… El Desdichado… El Remendado…“Conga!”. (Rosalind Russell, Broadway, 1953).
Tutto un dopoguerra di sfrenati e spropositati gran lussi
rasserenanti e consolatori, sudamericani e coloratissimi: Carmen Miranda, Katherine Dunham, Yma Sumac, Dolores Del Rio, Dorothy Lamour, i leggendari “changement de décor!” di Joséphine Baker, innumerevoli caratteristici Peruviani e Uruguayani protagonisti sempre milionari e vistosissimi e scatenati di operette e balletti e can–can da Offenbach a Milhaud e Massine, Flying Down to Rio e Down Argentine Way, con vistosi feticci d’ananas e banane da Carnival in Costa Rica, tacchi e turbanti e baffetti nerissimi e sarong e piumaggi sui sederi ‘en folie’ tra La Vie Parisienne, Gaîté Parisienne, Ziegfeld Follies, Tropicana Follies, le Folies Bergère, “Thank You South America”, “Bahiana”, “Bandana Days”, “Minnie From Trinidad”, l’epocale epopea di Evita Perón… Ah, come facevano sognare le attualità cinematografiche dei tardi anni Quaranta, col solenne e sontuoso ricevimento in Vaticano della allora prestigiosissima Evita Perón in perfetta toilette nera e soltanto l’Ordine di Isabella la Cattolica (il più alto in Spagna) accanto alla figura impeccabilmente ieratica di Pio XII con la nobiltà pontificia in costumi di gran gala e nugoli di flabelli, e quella indimenticabile benda nera all’occhio del principe cerimoniere, giacché la presidenta argentina portava doni alimentari cospicui dalle pampas e haciendas ai poveri italiani affamati come in Sciuscià, Paisà, Ladri di biciclette. E poco prima, con ampio gesto e gran signorilità panama bianco, pizzetto berensoniano, abiti chiari da mezza stagione — il Conte Sforza le additava il tramonto romano dorato dalla Fiat scoperta, fatta opportunamente passare da Ciampino per le magie e i sassi dell’Appia Antica, non certo Nuova… E ancora prima, a Parigi, il Nunzio Roncalli la accompagnava a Notre–Dame… Guantini perfetti. Scarpine impeccabili. Signorilità a tutto spiano. Quando non era ancora necessario citare un calciatore o cantante locale per ingraziarsi le cronache… Evita! Già le brevi attualità filmiche sulla sua celebrata visita in Vaticano facevano sognare un grande musical sul Duodecimo, con mirabili costumi bianchi e tanti flabelli di piume e passerelle in sedia gestatoria e meravigliosi gesti enigmatici in cima alle scale e sorrisi psichedelici durante le visioni ultraterrene su “Oggi” fra gli agnellini nei giardinetti… E finalmente, la colossale processione funebre culminante con la spettacolare esplosione notturna della salma appena imbalsamata che sfonda tutti gli strati di cellophane fra ecatombi di guardie svizzere che franano nel tremendo odore invasivo per tutto San Pietro! Tutto quel modestissimo dopoguerra — allora, invero — albeggiava di esuberanti dovizie fra i grandi alberghi romani. Quanta opulenza e allure nelle coppie miliardarie argentine e brasiliane in lini bianchi e vaporosi volants magnificamente stirati. Favolosi gioielli ostentati con nonchalance anche in trattoria su puntarelle e rucole. Sontuose cotonature a volute e cupole di vertiginose madame. Bei signori alti e bruni con smisurate haciendas, l’occhione accorato sotto le folte ciglia, i baffetti da ambasciatore, e i ricciolini lucidissimi in fondo alla nuca, al termine di ciocche nerissime cementate da gomine trendy per gentlemen d’epoca… Altro che quegli emiri e sceicchi molto più tardivi, povere signore mie. O quei ‘codoni’ fluenti e sciolti sopra gli arancioni fosforescenti dei successivi operatori stradali “mondezzari chic”. Dopo i benesseri, poi, «Hasta la vista siempre?». Why not? Nuove lotte e marce praticamente continue e generalmente di tendenza con tute e passamontagne e giubbotti e jeans più o meno griffati e cartucciere e mimetiche e desert boots di confine e frontiera e margine su interminabili inesauribili sentieri di Ho Chi Minh, Phnom Penh, Yucatán, Tucumán, Turkestan, Kurdistan, Kazakistan, Astrakhan, Azerbaigian, Afghanistan, Pakistan, Iran, Abadan, Abakan, Abidjan… App… Sempiterna, scoraggiata, sempre più sconsolata “tristeza tropical” (o addirittura “Continental”) non solo fra quei primitivi Bororo e Nambikwara e Tupi–Kawahib così deprimenti nei Tristes Tropiques di Lévi–Strauss?… Anche nelle metropoli già mete agognatissime di tanti poveri emigranti ai tempi ormai remoti di “Partono i bastimenti” e «Santa Lucia luntana», con tanti bagagli di nostalgie per casamenti casarecci… … Mentre le più assortite e assordanti variabili ideologiche spingevano i moderni migranti non troppo nostalgici e famelici verso frontiere e provocazioni sempre più impietose e scomode, lungo confini e margini estremamente trasgressivi: un interminabile long drink di trasgressioni conformisticamente corrette… Non più alla moda giovane, però… Ormai, nemmeno quei bei passamontagne e cappucci e sciarponi e guantoni strapazzati e nostalgici, così comodi e pratici per gli agguati e le guerriglie fra le viuzze e i vicoli delle città europee invernali, con le relative foto, ma impensabili nei vasti spazi e ‘campus’ dell’eterna estate californiana, tra le chitarre hippie e le gonne spampanate dei Flower Children che lungo le Prese di Coscienza nella Liberazione Sessuale finirono per etichettare in ‘gender’ e specie i gai giovanotti che specialmente in divisa facevano i ragazzotti senza badar tanto alle identificazioni in qualche gruppo schedato e archiviato nei cataloghi delle minoranze. Come quei Nambikwara che spiegano a Lévi–Strauss: “Sono cugini e cognati che fanno l’amore tra loro”. Nidiate di vecchietti felici e fallici e «forever fuck you» alle sfilate e alle manifestazioni e alle commemorazioni coi loro antichi cuoi e anelli e catene dappertutto, così controcorrente e irriverenti ai bei tempi… Vecchi e giovani orsi truccati e abbigliati da Marilyn o Marlene con bistri e parrucche o crestine verdi e viola… … Scaricando marimbe e macumbe e tarante di ogni tendenza e limite tra fiestas, mercados, bodegas, fazendas, tende e brande interattive ‘in’ house, o lounge, o garage, o rave, o rêve sostenibile… Contaminando e ibridando e meticciando (o magari meriggiando?) matrix e remix e rewind e replay e display con dj’s ethnic o multi–culti, post– punk, hard–glam, metal, fusion, slogan, blog, must, cult, cool… Tristes Tropiques tempestivamente apparve come una romantica avventura autobiografica, piena di scoperte esotiche e indicazioni utilissime (quei Tropici sono effettivamente tristissimi) soprattutto nell’euforica «Vie Parisienne» strutturalista e semiotica degli anni fra Cinquanta e Sessanta. Fasi di ghiotti entusiasmi dotti o guitti, nella transizione post–esistenziale fra Bretón, Bataille, Bérard, Buffet, Barthes, Brecht, il vecchio Picasso, i nuovi ‘op’ e ‘pop’, Lola Montez di Ophùls e A bout de soufflé di Godard, Saussure e Clouzot e Brigitte Bardot e Juliette Gréco e appunto Lévi—Strauss… Eccitazioni generali smaccate o sorgive per qualunque sistema di segni, icone, simboli, indici, totem, tabù, testi, campi, codici, semiosi, segreti, marche, griffe, misteri, tatuaggi preferibilmente occulti e iniziatici… «Kill that metaphor!» ingiungeva inutilmente una rubrichetta apposita sul «New Yorker». E H.M. Enzensberger storicizzò, in Mausoleum: “La sua prima sortita, la sua prima fuga nella realtà: Tristi Tropici. Ma i lebbrosi sotto la decrepita veranda lungo il Rio delle Amazzoni non capivano ciò che diceva, e continuavano a morire”. (A proposito del ‘Che’ Guevara, 1975). In giro, tutto un tralalà o vol–au–vent metropolitano di ceramiche e porcellane e maioliche misteriosofiche, vasi e vasetti con beccucci criptici, sculture lignee parapsicologiche, fibrille sciamaniche, gioiellini esoterici, archi e dardi e astucci penici finemente zoomorfi e volentieri ermetici da appendere sulle pareti di ogni studio surrealistico e primitivistico sulle pendici di Montmartre, fra maschere enigmatiche ed ermetiche acconciature con onerosi graffiti facciali e corporali da fissare on thè spot prima di ogni potlatch di chincaglierie e piume in testa e penne e pennarelli e modelli di piercing in ogni area del volto e dello scroto… Disseminazioni e decostruzioni con tensioni e fermenti di culto locale e tribale, ostentatamente ‘vanitas’ e ‘dépense’ da sfoggiare al Casino de Paris o al Palais de Chaillot o nelle più esclusive toilettes delle Grandi Scuole di élite e di griffe. “Mythèmes”, si sorrideva volentieri, durante la moda strutturalistica, quando ci si compiaceva di ridurre a un solo organismo di soddisfazione o alienazione convenzionale sistemica tanti o tutti i miti e riti e vestiti e bolliti e canditi e pantriti anche se un po’ troppo triti o sdati, coi loro prototipi, archetipi, stereotipi, fra codici e termini e gerghi e lessici… Burlador, campeador, goleador, defensor, redentor, soñador, rubacuor, ora fra i ninnoli e i balocchi e i nuovi culti delle nuove culture e della nouvelle critique: rotture formali, transazioni verbali, densità grammaticali, concisioni e contrazioni, ideologismi e sillogismi anche eversivi, suggestive parafrasi e metastasi tra il Dono selvatico dei nativi e il Tombeau poetico per lirici simbolisti… E le favorite opposizioni tra Natura e Cultura, caldo e freddo, crudo e cotto, duro e molle, grande e piccolo, frigo e forno, zucchero e caffè, macchiato o no, e anche contrasti e incongruenze fra parentadi tradizionali, unioni libere e belle, sessi più o meno riscaldati o tiepidi, tabù costanti o variabili circa il “si fa ma non si dice” nelle società più aperte o chiuse, disciplinate da forme, pregiudizi, spontaneità, consuetudini, regole, segreti delle alcove (o dei guanciali, dei lenzuoli, delle trapunte, delle federe, delle fodere) lungo le sempre meno ‘sfiziose’ vie della Seta, delle Spezie, della Mirra… Ah, pensare per ossimori paradossali, frammenti dissacranti di performance tragica, densità spontanee, smarrimenti ontologici, incertezze e balbuzie apodittiche, ierofantiche… … Esprimersi mediante paratassi disarmoniche, aforismi di contro–retorica, filosofia in T–shirt sull’invenzione della melodia quale supremo mistero dell’uomo e sulle significanze della linea retta in contesti storicamente barocchi… … Livelli… Alto? Di élite, ovviamente. Basso? Di massa, claro. Midcult? Di consumo borghese e piccolo–borghese, ga va sans dire, of course. Ma fino a quando? Insomma, ci si era abbastanza preparati, in teoria, prima di sbarcare o approdare nella Buenos Aires di Borges e di Evita, nella Montevideo di Lautréamont, nel Brasile più o meno ‘magato’ e cioè fatato o stregato, nel Perù dei viceré e di Santa Rosa da Lima, da non confondere con l’omonima di Viterbo, e coi suoi cento ‘facchini’ che ogni 3 settembre portano in processione una ‘macchina’ di 50 quintali e 28 metri d’altezza. Palme tropicali e palme accademiche, feluche e peluches, potiches, babbucce, fettucce, feticci, fornelli a legna sotto i baobab creativi. O «chez Salvatore’s». Pizze, tortillas. Zattere e zatteroni e jeep, infradito e amuleti di modernariato improvvisamente costosissimi, anelli al naso e all’uccello come emblemi di status e sprezzatura portatile. E pregiate decorazioni: un ‘ruban’ pour le chevalier, une ‘rosette’ pour Vofficier… Et pour le commandeur? Une ‘rosette sur canapé’! (Anche ai Tristi Tropici vige la rosette e sono Immortels, les Académiciens?). Volentieri, in quelle ormai remote beate epoche, si assisteva a tutto un eccitante sbocciare e sgorgare e scaturire di alternative e opposizioni e contraddizioni per lo più tremendissime, in seno a chissà quante convergenze o connivenze o divergenze della peggiore specie, tra complicità e correità, contaminazioni controverse, false o simulate analogie… Connotazioni e denotazioni croniche, sincronie e sinergie o diacronie e discronie cicliche… Soggetti/oggetti fra natura e cultura in esterni/interni crudi o bolliti o arrostiti secondo la stagione, al dente o al sale o à la coque nelle società primitive come negli alti studi e anche al restaurant… Tutto un in–and–out di crudités e stracotti, sul menu, quindi, con gelatine e galantine, sformati e stufati, salamini e salatini, surgelati e soufflés, nonché tipiche vivande amazzoniche: coda di caimano alla griglia, colibrì e pappagallo arrostiti e flambés al whisky, salmi e arrosti di uccello–cane con frutti di palma, ragù di tacchino con salsa untuosa di noci tritate; e una sostanza biancastra e grassoccia, delicata come un burro profumato di latte di cocco, forse un’escrescenza di larve dai tronchi putrescenti, in un diffuso odore di tisana calda al cioccolato… Ah, laggiù nell’Amazzonia… Terra di sogni e di chimere… Rammento — oh, se rammento — quei primi anni Sessanta… Con vero interesse, nelle varie città, il pubblico non solo torinese dell’Associazione Culturale Italiana delle sorelle Antonetto commentava i grafici di Lévi–Strauss sulla struttura sociale apparente e quella reale nei villaggi Bororo, che mostravo in ogni ‘lectio’. Istituzioni tribali fallaci per sudditi–vittime inconsapevoli: apparentemente, una comunità paritaria giacché circolare e assembleare. Ma in realtà, tre gruppi sociali (superiore, medio, inferiore) ove le relazioni sociali si riproducono all’interno di ogni clan. Mi parevano tavole utili per illustrare le strutture della nostra società letteraria: si era appena entrati nel postneorealismo. Ma già gli abbonati dell’A.C.I. osservavano che quei grafici ricavati nel più primordiale Mato Grosso si potevano bene applicare alla società italiana nel suo complesso. Non pareva una singolare scoperta. Intanto, oltre ad Artaud e ai suoi primitivi, stava arrivando Borges con fior di labirinti fantastici; e poi tutta la grande ondata sudamericana. Dunque, tutti: Porto Alegre! Belo Horizonte! Meticciati anche assai trasgressivi, e digressivi, invero, con tanti migranti multi–culti tra confini e frontiere da abbattere. Mitemi e rituali sempre più impietosi e più scomodi. Mancanze di rispetto sistematiche. Irriverenze arrampicatrici e carrieristiche, provocazioni teppistiche e dissacrazioni vandaliche, anarchie e anamorfosi metropolitane, libere associazioni creative soprattutto nei rackets… In jeans Levi Strauss, oltre tutto: quel ‘501’ con vita alta e culetti strettissimi, alla moda quando si era tutti più magri e più snelli. (Anche avendo mangiato poco, durante la guerra e in seguito). Modellavano chiappe ‘giuste’, col taglio calzante, anche a chi non le possedeva per natura o cultura. E un lusinghiero ‘pacco’ sul davanti, sotto addominali ancora piatti, come le calzemaglie nelle pitture rinascimentali: mentre la più occhiuta Antropologia Strutturale e una Pensée Sauvage anche più occhialuta servivano a fornire bagagli intellettuali in più, a livelli di borghesie di massa sempre più su, o più giù. Mode giovani, intanto, variabili ideologiche sempre più assortite e assordanti, aggiornate migrazioni verso confini e margini sempre più trasgressivi ed esclusivi: un bel frullato omologato di provocazioni controcorrente ma conformisticamente ok… Tutto a posto! Musiche e canti di rivolta, sommossa, ammutinamento, insurrezione, contestazione consensuale… E i piccoli fans ideologici, gettandosi a frotte su qualunque pretesto di fil rouge con tavole rotonde e convegni e dibattiti: ah, ipotizzare un qualche progetto o prospetto di struttura teorica secondo un’ottica non già asfittica e labirintica e magari eclettica, giacché pluralistica. Ma sempre e ovunque progressista: non meramente globale, benché assai multiculturale. Con particolare riguardo alle varie etnie, genie, allogenie, allopatie, allergie. Naturalmente, politically correct. Gente che va, gente che viene, come in ogni Grand o Piccolo Hotel? 'Fashion' e 'fusion' già notevolmente contaminate e meticciate fra i Nambikwara di Lévi–Strauss e i Tarahumara di Antonin Artaud. Gaie epifanie mistiche e multimediali meditazioni erotiche di antiche 'divine' effervescenti uso Tropicana Follies anche indoorientali e occiduo– sciamaniche, fra Bataille, Balthus, la dea Kalì, qualche Kamasutra a Katmandu. Vasti 'chàteaux' in Spagna o Baviera, 'peyotl', allucinazioni, abbagli, miraggi accademici o 'live' di frontiere e confini volanti da contaminare su balconi come trampolini a un terzo o quarto piano… Dopo ricette di funghi e funghetti, radici e tuberi inediti, e magari un dash di rizomi populistici, alla portata di tutti… Giù sul territorio, fra i leggendari festival in New Mexico, a Santa Fe e dintorni ci si andava chiedendo quale drink all'Artaud avesse mai sorseggiato la baronessa vedova germanica di D.H. Lawrence, quando obliò sul trenino l'urna con le ceneri del consorte, portata dalla Francia meridionale col nuovo compagno bersagliere Angiolino appositamente per inumarla in un cimiterino naif e non ancora turistico a Taos fra i pueblos. «E Lawrence d'Arabia, con quel notorio accidente a Deraa?». «Ignoranti. Finitela». Però, tuttora, quella perenne melanconia gravante non solo tra i primordiali Nambikwara e Tupi–Kawahib già depressivi nei Tristes Tropiques, con tutti quei loro sistemi di segni e segreti, fenomeni fisici o simbolici, emblemi o blasoni poco leggibili e non molto piacevoli… Scarsi buonumori, e probabilmente troppa fatica, anche al favoloso paese dei Tarahumara secondo Artaud, quando le stesse sostanze iniziatiche ormai si spacciano senza cerimonie e birignao in ogni crocicchio. Basta pagare cash. E quella sua favoleggiata Bali, in pochi decenni, eccola diventata un ricovero per vecchi hippies; e poi, tutta un autonoleggio con lavaggio. In quanto all’erotismo, del resto, eccolo ridotto a non molte migliaia di pagine di Georges Bataille su zombi e vudu e tatuaggi e Sante Terese e graffiti rupestri, senza neanche un backroom teorico nrf. Che tristezze? Di massa? Purtroppo, anche nelle megalopoli già meta agognata (e qui Rascel interrompeva: “la cognata”) di tanti emigranti, e poi di mondanucci attratti da mojito e merengue a basso prezzo. Cheap (una volta), ogni dono e baratto o acquisto di ‘coloniali’… E non solo fra le ottocentesche signore droghiere che in cattedra o pulpito e nero lungo e brillanti e perle ripetono con trillo argentino alla cassa le pesature dei vari commessi in camice chiaro, “mezz’etto di spezie, un etto di aromi, una presa–omaggio d’oppio e dragoncello”… E le mentalità primitive degli indigeni più o meno ‘decolonizzati’ e ‘civilizzati’ o ‘selvaggi’ nei rapporti più o meno storici o moderni o eccentrici fra l’uomo e la natura e la cultura e la società e l’ambiente sostenibile… E ancora il fardello esotico dei vari eccitanti o antipatici interdetti circa la masturbazione single o l’omosessualità collegiale o il sacrilegio intellettuale o l’incesto spirituale o l’ateismo confidenziale, esistenziale, professionale, o recondito, o più o meno in estrinseco… … Mentre già l’esistenzialismo svoltava nello strutturalismo, lasciandosi indietro le infinite formichine della ‘longue durée’… “Comprendre” coloniali, artifizi, analisi, linguistica generale, semiotica, peyotl. Geometrie e strutture storiche e descrittive, con incensi e dosi e chiodini di garofano e voli dal balcone come offerte e simboli, fra interdetti e intermezzi di sviluppo o decrescita, violenze e voluttà statiche o effimere. Sincronie e/o diacronie ove si agitano e sbattono memorie lontane di donazioni infantili di stagnole e francobolli gelosamente accumulati da anni per missionari che invece di redimere i morettini poi finivano cucinati in pentoloni da allegri indigeni tipo Douanier Rousseau, per la gioia dei bimbi cresciuti coi programmi radio di Nizza and Morbelli. E macché hully gully, hula hula, hula hoop per farsi benvolere dai colonizzati o colonizzandi… Anche con Artaud e la Crudeltà, nel Duemila, non si può né si deve esagerare tra le fiere o esposizioni coloniali che nemmeno esistono più? Ma in quei tristissimi Tropici di Lévi–Strauss soprattutto impressionano certe analogie underground con la suggestiva prosa onirica di Freud. Affine perizia nell’attrarre il lettore anche accidentale entro i melanconici recessi dell’Inconscio, primordiale o no. Poi, lì, a seconda degli Istituti, mesti e mogi tabù istintuali di passaggio fra una Natura di meno o più nobili selvaggi primitivisti e una sofisticata Cultura accademica di cattedratici logocentrici magari omologhi circa le strutture e i funzionamenti di un Immaginario forse ereditario. Tra infrazioni e immagini indubbiamente impresse, non senza lasciti, e non sempre alla portata dei più qualificati esperti ed interpreti. Ḉa arrive….» In quei Tropici, forse una ineguaglianza fra i sessi come nelle rivoluzioni arabe e nei campionati di calcio? Miti e modi e mode e anche parecchio McLuhan, nelle culture à la belle étoile o alla brace, come nelle poco puntuali relative dialettiche fra ‘media’ d’arte più o meno varia? Diversità screanzate o affinità impertinenti, per colpa di qualche psicanalisi selvaggia analoga a volgari esorcismi di sciamani cafoni? Disseminazioni diligenti e decostruzioni intelligenti del cool e del cult — nonché dei vaffancool e vaffancult — secondo il deplorevole linguaggio dei giovani con belle e garbate maniere nel porgere in chimono da Butterfly un pacchetto economico agghindato e vuoto come la cerimonia del tè? O del caffè? In tazza grande? O — meglio — un revival del cocktail bar, con barman e file di bottiglie dietro il bancone. E Martini, Negroni, Americano, Alexander, Manhattan, un dash d’Angostura qui, e Tabasco là, non solo birre, e meno che meno tè, fra le coppette di mandorline e pistacchi forse più graditi agli habitués dei trips? Totò: “Bada che ti mangio, dice l’Uomo alla Natura, con la faccia scura, e un pranzo al restaurant!”. «Pensée Sauvage»… In un fascicolo speciale di «Sciences Humaines», «en partenariat avec le Courrier de l’Unesco», tre bimbi Cashinauas analfabeti del Perù appaiono “immersi nella lettura di Tristes Tropiques”, nella foto ridicola di un professore antropologo americano. E poche pagine prima, Lévi–Strauss medesimo indica “l’algèbre ensembliste” come principale strumento della sua analisi strutturale. Nonché Wagner quale “innegabile iniziatore dell’analisi strutturale del Mito”. Mito e Musica, del resto, quali “macchine per la soppressione del Tempo”. Dotate, dunque, di un potere praticamente occulto. (Chissà i piccini?). Ci si era preparati anche troppo, in tutt’altre epoche. Fin dall’”Adelante Pedro” scolastico, e dalle ataviche leggende familiari sulle prosapie iberiche, a causa di ufficiali ispanici localmente attardati nell’Oltrepò. Una prozia ottocentesca “aveva bellissimi mobili e suonava il piano senza toccare i tasti”. “E si sentiva?”. “No, ma le signore applaudivano”. (Un anticipo dijohn Cage?). Un’altra, più recente, «ogni mattina alle undici prendeva il suo zabaglioncino, fatto con un uovo d’oca». “In amaca?”. “Certo, fra le sue ortensie. Sul lato in ombra della villa”. Muri molto bianchi e vesti molto nere, da foto neorealiste di culto, si riportavano con meste sensazioni ed eccelse citazioni dai primi caratteristici giri giovanili nella tipica Spagna pienamente franchista ai tetri inizi degli anni Cinquanta. Taverne evidentemente intatte da secoli, con bevitori ‘a garganella’ da tradizionali zucche piene di vino rosso poco turistico. Lustri copricapi da Guardia Civil, pittoreschi e costanti come nelle messinscene di routine. Rifornimenti poetici — oltre ai Lorca, Jiménez, Machado, già editi da Guanda — più à la page che i Blasco Ibáñez o Pérez Galdós nelle librerie degli zii, il paso doble ai circoli, o Sangue e arena al cinema. Sotto sotto, ovviamente, covavano e stagionavano transizioni più o meno occulte di fermenti tra Buñuel e Dalí, con gli sputtanamenti delle non più giovani Rosite nubili, già nervosissime alla fine della dittatura moralistica. E si pregustavano chissà quali nuovi “conigli dal cilindro”, alla cessazione dei conformismi imperanti: poeti andalusi, stilisti catalani, chefs baschi, letterati e registi dissacranti e trasgressivi… Però, ancora, sotto i peggiori bastión di Siviglia e in pieno orrido regime del Caudillo, tra miserabili focherelli e ammantellati affamati in grotte pezzenti (“tutto un Goya, happy now?”, “macché, María Candelaria con Dolores Del Rio, Mexico 1944!”), cupi ceffi proponevano una racchia anziana e nana che faceva numeri con un cagnolino triste davanti a una coperta stesa per riparare una numerosa famiglia di vecchi digiuni immobili intorno a un braciere spento, nella loro spelonca; «El perrito, trabajando, trabajando…». “Madre mia, qué horror! Madre mia, qué horror!” ripetevano invece insieme, in una tabaccheria–chincaglieria a Malaga, una vecchia altera dama in veletta fatta accomodare in poltrona, con una sua duena arcigna dietro in piedi, ad ogni prezzo decrescente per una medaglietta in regalo a una nipotina lì sempre più tetra. (Come certe antiche cuoche nostrane inorridite davanti alle prime pizze. “A’ sarì mia matt! Uma mai fatt inscì!”. “Mira mira que picho que el tien”, era piuttosto un refrain a mezza voce su e giù per i turbolenti e succulenti oscuri cammini sotto burberi alcázar da Toledo a Segovia, poi finalmente esternandosi come ‘low camp’ in qualche festivalino off–off. Del resto, i già leggendari Dirty Dicks Bar a Gibilterra come a Malta e a Hong Kong erano diventati noiosi e inutili before our time. E perfino a Macao, antica colonia d’oltremare, un piccolissimo parà in mimetica da sierra o savana, solleticato con un sommario gratta–e–vinci fieramente proclama “No tengo voluntad de orinar” con le manine sui fianchi come le Mirandoline delle vecchie compagnie venete. E come replicava un cuochino a un grosso regista che gli gemeva addosso “vero che ti aiuto tanto in cucina?”. Dispettosetto: “sì, a fare confusión!”. Così, col classico “madre mía qué horror”, “voluntad” e “confusión” divennero signorili répliques alle più sfacciatelle avances nei locali ancora guardinghi, prima di qualunque movida. Ma nei posti madrileni migliori si ritrovava sempre affabile e prodigo di sé “l’uomo più bello del mondo” (secondo Tennessee Williams e altri) che lavorava per Samuel Bronston nella produzione di kolossal come Il Re dei Re o El Cid con la coppia Heston–Loren. Ex–stuntman, ospitava in un magnifico attico «l’unico autentico Mr Norris di Christopher Isherwood», vecchissimo e tremendissimo e lasciato a casa la sera, intento (mentiva lui) a una sua folly intitolata Braganza–Extravaganza. Le prime volte a Rio, tanti Capodanni fa (con voli ancora a tappe), si andavano ricercando le sopravvivenze originarie di un Kitsch o camp nativo e storico, detto ‘cursi’. Chicche per chi ‘sapeva’ (Chichita Calvino, Severo Sarduy, Manuel Puig…), e non ancora in preda a sfruttamenti mediatici o accademici. Ecco allora memorabile il museo delle reliquie di Carmen Miranda: icone e cimeli e lasciti tutti–frutti di un iper– arcimboldismo autoctono e fantastico, dai turbanti sfrenati alle scarpette con tacchi deliranti. Orecchini e borsette in colori esaltati, spropositati, fanatici. Ananas parossistici… Forse più anacronistico, si visitava allora anche il Museu de Imagens do Inconsciente (cioè dell’Inconscio, magari non esiste più?), poveramente e pulitamente allestito all’interno del manicomio principale. Molti lavori di ricoverati in terapia evidentemente coloristica: trasfigurare il disturbo mentale in un’opera eventualmente d’arte. E risultati mediamente più fantasmagorici delle più celebrate produzioni cliniche austriache e svizzere. Come sensazione indimenticabile, il greve scorrere e richiudersi di cancelli massicci terribili davanti e alle spalle del visitatore. Perseguendo quel medesimo filone ‘cursi’, ecco il leggendario Cinema Iris, mitico relitto franante e sfavillante del più spropositato ‘camp’ nel primo Novecento. E non più sede usuale di spettacoli svenevoli e frivoli sul palcoscenico, bensì abituale dimora di ininterrotte strabilianti discese dalle slabbrate scalee Art Déco di agghindatissime e numerose “divine” o “povere pazze” vecchie e giovani e assai casarecce e generalmente miserrime. Fuori, sbaraccata e smandrappata da molti anni, l’ormai desolata Praga Tiradentes, praticamente periferia interna derelitta, ma un tempo centro di vita mondana, con eccellenti teatri musicali ed eleganti confetterie liberty. Infine, mentre le ‘fatalone’ scendevano e ‘incedevano’, in toilettes da avanspettacolo poveristico, tra le gallerie e i palchi e gli spettacolari cessi tanti giovanotti ‘si sfogavano’ con prestanze multiple (per il Vecchio Continente) inaudite. Movide di tendenza? Poco più in là, nei monumentali cessi della enorme stazione per le cittadine coloniali di Minas Gerais Belo Horizonte, Ouro Prèto, Lavras Novas, Diamantina, Caratinga, Caxambu, Caparaó… — decine di indios mineiros anche anziani e corpulenti se lo menavano furiosamente e reciprocamente con energia (per noi antichi decadenti) forse spropositata. Il momento migliore era quando periodicamente irrompevano squadracce di poliziotti prepotenti intimando “In alto le mani!”. E allora il turista poteva scorgere uccelloni eretti di inusitata grossezza. Ma neanche una risata o un sorriso. «Tristezze» andine o cariocas, se non del Mato Grosso? Bororo minerarie, magari? Mah. In seguito, «per meglio osservare gli uccelli da vicino» le guide per giovani suggeriscono piuttosto i percorsi ecologici nei parchi nazionali dove la flora e la fauna sono protette nel loro habitat sostenibile. Si sono poi visti crescere, nei principali capoluoghi di regione, i vari musei obbedienti alla voga effimera dei brutalismi architettonici rozzi: parafrasi degli scheletri cementizi incompiuti dei condomini e viadotti interrotti per mancanza di soldi e calcestruzzi in paesi poco emergenti. O ecomostri abusivi in attesa di tritoli e dinamiti civiche per l’entusiasmo dei paesaggisti ecocompatibili. I prototipi risalgono per tutti alla trista South Bank londinese negli anni Sessanta: la lungaggine costruttiva del National Theatre e della sinistra Hayward Gallery con dislivelli e scalette e cenciose moquettes a ‘wishful’ prova di angry young men e teddy boys e altre figurette di teppistelli urbani non ancora giunti allo spaccio e allo spray segnalante smercio ma tutto sommato fermi, anche per i vandalismi, ai tirasassi o estintori dei troppo proverbiali ragazzi di Portoria, quegli intrepidi Balilla già giganti nella Storia con fez e fiocco e foulard con medaglione del Duce, e giberne di cartone. Magari fissati (una volta) sui “W la f…” e “Lazio merda” tracciati con gessi e carboni infantili, per le ispirazioni dei giovani Twombly. E quivi, l’industre scuola de «L’ornamento è delitto» aveva già imboccato le due viacce sudamericane dei sottoprodotti semplificati con materiali scadenti. La disadorna superficie fascista di soli mattoni o solo travertino, in ignara attesa della disgrazia ambientale futura: i graffiti–delitto anche sui casolari più remoti. O le facciate razionali di vetro verdino o fumé, con ingenti ma prevedibili spese di pulizie frequenti, a causa dell’aspetto spesso laido. Vetrate spesso infangate dagli acquazzoni. Per i post–neorealisti più cinici, ottimo il cementaccio da sottopassaggio, reso presto lurido dalla pollution e dai focherelli degli homeless. Non si può peggiorare. Non richiede manutenzione. E i più bruti benevoli: con gli allestimenti di detriti e rifiuti si viene incontro ai giovani che amano e cantano il degrado come protesta verso il sistema in cui vivono, e beati nel disagio adorano idoli miliardari sempre più stracciati e zozzi e pieni di ‘fuck’ e ‘shit’ di successo. (Ritorno aggiornato del gusto delle rovine per i milordi del Grand Tour?). Grandi provocazioni e trasgressioni: tracciare ovunque cazzi e vaffa ripetendo interminabilmente vaffa e maccheccazzo. Prediligendo le devastazioni, con eventuali abiezioni. Quindi, mai offrire o imporre treni o cessi o cieli o culi o mondezzai o giardinetti risciacquati e puliti, disagi smacchiati o detersi, mosaici e stucchi Art Nouveau o Art Déco, discariche spic & span. Invece, piuttosto, si vada incontro ai gradimenti, secondo gli indizi e gli indici. “Ancora un po’ di degrado, per gradire?”. “E il disagio, bruttezza”. E si risparmia, oltre tutto. Anche negli allestimenti dei melodrammi più tradizionali, all’Opera. A Copacabana e Ipanema, nelle ferie natalizie fini d’altri tempi ormai lontani, di Capodanno in Capodanno si constatava il ere scere e infittirsi di inferriate robuste e vigilantes armatissimi sugli ingressi marmorei delle abitazioni panoramiche. E si sconsigliavano ormai le discese dalle sofisticate e sempre più fortificate coberturas per attraversare la via lì davanti nei tradizionali abiti bianchi e bagnarsi ritualmente mani e piedi nel mare fra le innumerevoli macumbere candelarie accovacciate in spiaggia. Ivi solevano, di giorno e di notte, i pittoreschi monelli di strada e favela, a frotte, siringare getti di cacca sulle scarpe, bianche o no. E subito poi, approfittando dell’attimo di schifo per saltare addosso in parecchi alla ricerca di soldi ovviamente inesistenti. Anche perquisendo un eventuale cadavere. “Rubòòò?” allibivano ancora certe signore pomeridiane, all’ora del tè, davanti ai grandi alberghi. Sempre lì a Rio, sopra Lapa o Glòria, in un più che decoroso pianterreno, la caratteristica possessiva mammona di Manuel Puig, forse emigrata dal Piemonte da piccola e ora esule dall’Argentina, perseguitata ma fan di film cursi e trash (come lui), con le manone sui fianchi esortava i visitatori del figlio convivente in ciabattine a biasimarlo perché vivevano “en està ratonera”. (Mentre il vecchio babbo in canottiera bofonchiava tacendo). E se l’ornamento fosse un diritto? Ma poi, così per gioco, sarebbe più di tendenza una movida in Patagonia? O in Amazzonia, invece che ad Ansedonia? E quali cascate? Victoria, Niagara, o Iguazu così raggiungibile dall’Argentina come dal Brasile? («I’ve never sailed the Amazon, — I’ve never reached Brazil — I’ve never seen a Jaguar, — Nor yet an Armadil» verseggiava Rudyard Kipling). «El poniente implacable en esplendores… El poniente de pie como un Arcángel… La clara muchedumbre de un poniente… Siempre es conmovedor el ocaso… Penumbra de la paloma.,. En busca de la tarde… La tarde calla o canta… Afuera hay un ocaso, alhaja oscura… Enternecidas de penumbra y de ocaso… Desde el banco de sombra…». Così cantava ai suoi bei dì Borges nella «numerosa Buenos Aires», benché taluno sostenesse che i tramonti sono migliori a Montevideo. Comunque, dopo tante albe in India — a causa degli orari disumani dei voli aerei —, a sorpresa, l’aurora più bella venne osservata davanti al Palatino, nel taxi dall’aeroporto. Il primo convito post–Borges a Baires venne organizzato dal Grinzane–Cavour piemontese, ospitando Giulio Einaudi in fase allora periclitante. In nome del «criollismo urbano», si costituiva una specie di “tertulia ultraista” in giro fra il brutalismo cementizio di una nuova Biblioteca Nazionale intitolata appunto a Borges ma piena di targhe memoriali per Evita, e la vecchia biblioteca smessa dove lui fu direttore cieco. E simile, questa, a storici istituti tecnici per elettricisti milanesi d’antan: Ettore Conti, Feltrinelli. (Ci sarà venuto, Gadda?). Nei pressi, un Senato a cupola fra la Grand Central Station a New York e il Kunsthistorisches Museum a Vienna. Un grattacielo vetrato del potere militare uso Cortemaggiore, Alitalia, Snam. Una apparente Chase Manhattan Bank, che è una anagrafe. E la celebrata Casa Rosada sembrava evocare “Arrivi” e “Partenze” e «Partire è come un po’ morire», piuttosto che Evita e Perón. Ma anche inalazioni, irrigazioni, talassoterapie. Giù giù, lungofiumi e lungomari davanti a docks e ferrovie, condomini residenziali e ministeriali con balconate analoghe e piante verdi identiche, sobborghi abitativi di speculazioni con trame e televisori e misteri forse affini a enigmi immobiliari e fiscali dietro le facciate dei viali Paridi e Buozzi a Roma..: Disordinati partenoni di cupolette pre– peronistiche doriche e ioniche sopra grandiose strutture da grands boulevards e grandes brasseries fine–secolo, con viveurs e golfini da ville d’eau… Mito di Parigi nelle vetrine fini, tra marciapiedi rotti e autobus vuoti a prezzi bassissimi, e ambulanti meramente locali… Ma grinte oligarchiche ineluttabilmente accigliate e arcigne: DNA della cupaggine, fra la megera bien e i nobili di più o meno antico stampo, nemicissimi vitalizi di “quella zoccola” (Evita)… “La imaginada urbe”… Il quartiere tanto signorile e fine della Recoleta pareva ancora la nostra via Condotti d’altri tempi, quando (secondo i vecchi gentiluomini) «ci si faceva lucidare le scarpe prima di entrare»: fra baretti d’aperitivi, camicerie e calzolerie su misura, librerie d’arte e cioccolaterie e cravatterie e gioiellerie con una sede unica e storica, non ancora le merci del lusso di massa identiche in ogni aeroporto e outlet e center. O file e comitive di mutande e zainetti fra marciapiedi a pezzi e ambulanze con moribondi e accattoni mutilati dei racket, davanti alle liquidazioni di borse e ciabatte griffate dalla pubblicità globale. Si può ricordare, nelle vie più parigine d’Argentina, un passeggio orgogliosamente anacronistico di anziane signore in tailleur e cappellino e borsina da rue de la Paix, e anziani signori in finissimi “prince de Galles” ormai cessati e storici da noi, cravatte e pochettes da Place Vendóme, e scarpette ovviamente fulgide, fra le vetrine (non ancora da discount) nei pressi del fastoso e tradizionalmente ‘mitico’ Hotel Alvear. E lì subito accanto, uno sfavillante Harry’s Bar (Cipriani autentico) che quanto prima avrebbe chiuso. Né arriveranno più i giornali italiani, neanche sportivi, e malgrado i milioni di nostri emigrati? Dove saranno finiti i proverbiali galanti giovani che offrivano il braccio alle eleganti ereditiere anche nane per attraversare la strada lì davanti? Forse qualche marginale antica dama qui risale o ridiscende dai mitici tempi facoltosi e mecenateschi delle Ocampo ed altre patrone celebri della modernità “entre deux guerres», in saloni e Trianon con high teas molto highbrow (altro che i populismi di Evita) e riviste di lusso e probabili emolumenti per Eliot e Valéry e Tagore e Saint–John Perse, con Bioy Casares e Borges ‘di casa’ e assolutamente anti–Evita fra i canapés e i pasticcini e le Rebecche o Maddalene pentite e al pozzo sui pianerottoli, e i tanti Santi cogitabondi in vari stili per defunti magnati anche cileni collezionisti di impressionisti e rococò in navate gotiche entro villone Liberty gremite di pale d’altare e ninnoli di Rodin. Quando le ricchissime doti nuziali americane ‘indoravano’ blasoni europei e romani ormai parecchio impoveriti. E correntemente, magari, le più facoltose ereditiere usavano festeggiare il proprio compleanno contemporaneamente nelle parecchie residenze intorno al mondo, dalle Hawaii a Marrakech. Soli soli al Teatro Colón, spettacoloso e gigantesco antro degradato e fatiscente che una volta rivaleggiava col Metropolitan di New York nel remunerare Toscanini e Caruso e la Callas e quant’ altri, che così viaggiando per mare univano al guadagno coloniale il riposo dell’ugola. In questo leggendario Kitsch moribondo, si aggirano come nella Classe morta di Kantor e nelle allucinazioni surrealistiche alla Magritte decine di simil–Borges molto distinti e in ordine: capelli bianchi a posto, completo chiaro, occhiali scuri, bastoncini d’appoggio, accompagnatrici di sostegno. Un evento per anziani. Si celebra il defunto compositore Alberto Ginastera, antica gloria locale e autore di Bomarzo, opera decadente e diligente sui drammi alchemici e magici degli Orsini in quel Parco dei Mostri presso Viterbo. (Ebbi in sorte di vederlo al Coliseum londinese, da giovane, verso il 1976, e non è vero che fosse “Porno in Belcanto”, come fu scritto. «Una concentrazione di violenze, come in Verdi», piuttosto. E naturalmente «un incubo erotico forse disceso dagli Etruschi, con statue di satiri e ninfe rimescolate fra Vicino Orsini e Giulia Farnese e i mostri del parco»…). Sulla scena, biondissima e disinvoltissima, la violoncellista vedova di Ginastera suona Schumann come a un cocktail con l’orchestra. E una Fata Confetto ricoperta di paillettes turchine, molto festeggiata dai finti Borges. Ma qui le strutture già opulente non paiono più in grado di produrre la solita routine operistica. Da anni e anni. Come solo godimento, ecco esposti ai vari livelli dei costumi storici particolarmente sfarzosi: decenni e decine di Leonore e Traviate e Tosche e Gilde più provocanti delle Carmen e Preziosille, in velluti da poltrone e broccati da tendaggi. Parsifal e Lohengrin e Radamès scollati, con corsetti ortopedici color carne per fingere muscoloso addome. Qui fu impresaria di successo la famosa Adelina Agostinelli, bergamasca e debuttante a Treviglio, vedova dei tenori Quiroli e Tabanelli, nonché originaria Marschallin alla ‘prima’ del Rosenkavalier alla Scala, contristata da manifestini futuristi, in presenza dell’Autore, 1911. Sarà mai stato qui il Gadda delle Adalgise faraònidi al Fossati, “con lodoleschi trilli e occhi da ex–vipera”? Violette nei capelli!… Maddalena zero in condotta!… Ore nove lezione di chimica! … Bei musini di ragazze e ragazzi, bei gestini d’altri tempi, camicette candide impeccabili… Tutta una grazia italiana démodée, una carineria spontanea nell’atteggiarsi, uno schietto garbo da telefoni bianchi (né cazzeggi né paraculaggini, natura e cultura ovviamente anacronistiche?) a un liceo italiano, benché gli ospiti del Grinzane–Cavour non fossero propriamente bocconcini? Tristissimi Tropici?… Ancora? Tristezas Tropicales ormai metropolitane inevitabilmente affliggono e contristano gran parte delle emozioni umane e civili, e gli sconfortati sentimenti, soprattutto nei quartieri più centrali e storici di Montevideo… Tutt’attorno, le casette basse costruite dai vecchi emigranti, evidentemente a mano con mezzi poverissimi; poi crollate e implose dentro, per mancanza d’ogni manutenzione sul tetto–soffitto; e quindi neanche occupabili da squatters ancora più miseri. Vi cresce molta vegetazione tropicale, dentro. A Montevideo, dall’unico roof garden alberghiero, tutto un Mondrian monocromo di tetti piatti in sfacelo. Neanche un quadratino verde. Giù in strada, appaiono impressionanti le facciatefantasma già assai facoltose e pretenziose con due o tre piani di colonne e balconi ottocenteschi, portoni e cornicioni elaborati, grate di pretesa. Già, evidentemente, casse di risparmio e compagnie commerciali e dimore nobili: come gli analoghi e coetanei palazzetti di Voghera coi vecchi saloni degli sportelli delle ‘banchette’ agricole, vecchi uffici ereditari d’avvocati della Curia, antichi letti ove dormirono a turno Pio VI e Pio VII e Napoleone. Decrepiti salotti con «bei mobili», non ancora modernizzati: mogani, palissandri, noce, bois de rose, broccati e damaschi spenti, intarsi, bronzi dorati, ritratti di vecchi… Buon business nel lungo periodo, forse, per i nostrani mediatori e costruttori locali, con edificazione di ‘casermoni’ condominiali al posto dei distrutti giardini atavici, in centro, o intorno a ville con torrette estive e camere da letto al primo piano? Qua, invece, dagli scatafasci e tracolli nell’antico centro benestante e franante stanno erompendo radici violente come in Cambogia. Ed Era una destinazione così sospirata dagli emigranti, dagli Appennini o dalle Alpi alle Ande. In queste capitali già fiorenti e ora misere, l’ambiente e i contesti si presentano come disgrazie urbane e tristezze civili. Non solo a Buenos Aires si sono costruite per decenni le irrimediabili fette di decine di piani per tre porte–finestre, e un loro ballatoio spesso diviso in due con filo spinato e piantine secche, sopra avenidas spropositatamente larghissime. E fianchi non molto profondi (come ci staranno le scale?) sopra sfasci e baracche. Con effetti da «articolo il», come dicevano certi nostri vecchi per le coppie nano– gigantessa. (Tema o mito d’altronde trattato anche chez Lévi–Strauss). Ancora si possono leggere, a fianco dei portoncini bullonati, le firme e sigle degli architetti ormai remoti che negli anni della prosperità incoraggiata hanno edificato «Eclecticismo historicista» e «Neoclasicismo italo– hispánico» e «Arquitectura moderna heterodoxa» e “Inspirado en el Plateresco» o «Neoclasicismo y Modernismo español y francés» o «Expresionismo holandés». E le facciate razionaliste in tutto vetro verdastro o marroncino, che agli inizi impressionavano per i fanghi spessi lasciati dai temporali tropicali come sulle automobili, e per le coperte miserrime portate da casa e stese dagli impiegati contro il sole battente a 40°. Oggi, invece, parecchi enormi sottoprodotti del Bauhaus si sono rivestiti di innumerevoli condizionatori esterni asimmetrici non certo previsti da un’estetica di Mies van der Rohe. Fanno questo insolente Mondrian in rilievo, piuttosto, o smisurato caravanserraglio alla Mecca, fra una Casa del Vino o de Garibaldi e poi una del Virrey e l’Arzobispado e il Cine Rex e il Banco Inglés e la Catedral Metropolitana vuota a tutte le ore. E deserta non solo a Montevideo, malgrado le folle che passano. Ma continuando a guardar giù dai torracchioni più eclettici, mai un solo vasetto o qualche tentativo di aiuola, sulla distesa sconfinata dei tetti: così come neanche una cassetta di gerani sui balconi guardati dalla strada. E se a Sào Paulo si va ad ammirare il più mitico palazzone ondulato di Oscar Niemeyer, lo si trova scrostato peggio di Cecilia Metella. Trattandosi di abitazioni vissute e trafficate, verrà spontaneo domandarsi: come ripartire le più urgenti spese extra? La vita uruguayana abbiente sembra piuttosto vistosamente spostata altrove, lasciando perdere queste piazze che un secolo fa sontuosamente rimescolavano il più turrito Medio Evo col Secondo Impero e la Terza Repubblica alberghiera di Parigi e Cannes. Fra neoclassicismi e storicismi poliedrici e versatili, e larghe avenidas intitolate a date storiche, per lo più in maggio e luglio, fino alle nuove sfilate dei condomini di lusso più aggiornati e recenti. Ma senza più un vero centro, neppure quale shopping center: i multimercati sono molto economici. Clientela senza loghi o griffe, da inflazione al 25%. Tipiche "Torri Littorie" come a Genova, con fianchi curvilinei. Banche perfettamente palladiane del Trenta. Cupole e cupolette assolutamente eclettiche, torrette, pinnacoletti, altane, loggiati, bovindi. Beaux Arts e Torri Velasche, Cordusi e Coppedè e Càriplo, stucchi e rilievi e festoni e telamoni e cariatidi ove ogni ornamento è volutamente delittuoso, nonché voluttuario e quindi voluttuoso, ma se non ci fosse sarebbe comunque peggio. Abolire qualche ornato nelle acconciature amazzoniche, nei folklori andini con ori e penne, fra i barococò inca o benedettini o gesuitici? Introdurre o imporre minimalismi da sushi e geishe fra gli indios e i peones? Questi Tropici giustamente giudicati tristi da Lévi–Strauss diventerebbero magari più allegri, con un po’ di Bauhaus nel Mato Grosso e in città? Ecco qui improbabili réclames di fragranze maschili ‘sauvages’ per barbudos hirsutos nei vari pubblicizzati e prestigiosi Chiapas, e per i popolari chicos di strada nelle giungle metropolitane in mimetiche global o no–global, e le caratteristiche magliette d’altrettanto prestigiose università americane (Harvard, Yale, ecc.), come già i lustrascarpe in India. Con qualche refuso nel lettering. Tipo descamisados peludos brianzoli e ciociari, eredi populisti di Evita e del Che in chissà quali favolose favelas fra Novara e Matera. Falchetti e yuppetti con pizzetti alla Italo Balbo o Conte Sforza e magliette di «Renegados», «Revoltosos», «Subversivos», «Turbulentos», «Transgresores», «Irreverentes», «Irritantes», sacri cuori di Gesù come sulle T–shirts di «I Love NY», in viacce slabbrate che si chiamano ancora “Misiones” o “Mercedes” o (dietro il cimitero) “Petrarca”. Ma loro diventeranno almeno «Atractivos» o «Atrayentes» (come asseriscono le canottiere «cómplices») nelle discoteche o discariche di bocca buona? “Fascistissimo” sarebbe naturalmente per noi questo Palacio Municipal di Montevideo, fratellone coetaneo di Littoria e Sabaudia, classificato quale esemplare di “Arquitectura moderna heterodoxa” sulle guide, e con un gran David di Michelangelo in bronzo (del 1931) sull’ingresso. Subito davanti, come alla famosa Plaza de Mayo con tante celebri Madri e Nonne, bivacchi e tendaggi di manifestanti, molto di tendenza, con parecchi striscioni e molte rivendicazioni. «Tras la derogación!». «Movilidad de jubilaciones!». «Firma aca contra la impunidad!». «Todo cambia, y el poder judicial que?». «Escala salarial!» per tutti gli impiegati. Si oppure no alle municipalizzazioni, fra tanghi atavici a tutto volume, fasce e frange etniche, gualdrappe e sombreros di innumerevoli tribù sistematicamente vittime di tradizionali soprusi e rivoltanti violenze. Appena sotto, nel deserto Museo de Historia del Arte, fra varie riproduzioni in gesso di celebri sculture classiche, «Tradiciones en tránsito»: un allestimento di bottigliette vuote di bibite, su un tappetino. Poco dopo, all’aeroporto, una installazione molto più bella: un contenitore di vetro pieno di accendini multicolori che vengono gettati prima dell’imbarco. E poi, come da noi, di tre voli ne fanno uno. Dopo pratiche e moduli e timbri e sportelli e tasse più complesse tra Uruguay e Argentina che tra le due Berlino nella Guerra fredda. Comunque, soprattutto nei telegiornali della nomenklatura sovietica e a certi funerali nel più profondo Sud si potevano vedere altrettanti bacioni e baciozzi così obesi e osceni tra anziani baffuti e ‘distinti’, qui al check–in. E così, nel triste Ferragosto invernale di questo tristissimo emisfero australe, al colmo della cosiddetta ‘season’ il turista sempre più mogio e mesto finirà per giungere di cult in cult tipo Lourdes o Caravaggio o Fatima o altre sedi miracolose di Madonne residenziali celebri finalmente alla famigerata o addolorata Plaza de Mayo. Tumultuante e debordante come la Plaza Independencia a Montevideo, però priva di Madri o Nonne abituali, stavolta. E neanche Babbi o Nonni o Vedove in giro, se mai ve ne furono. Qui davanti alla malandata Casa Rosada, icona malfamata del Potere e dei Bonds argentini, in zona vietata al traffico si accampano e ‘spalmano’ sul territorio pedonale parecchi ormai incalcolabili bivacchi rivendicativi di protesta e denuncia con tende e ombrelli e innumerevoli bambini etnici e bancarelle di collane e cartelloni con illimitati ritratti di vittime fra altoparlanti al massimo dei decibel con violenti dissensi circa massacri e stragi in epoche e località praticamente incontrollabili. Quante carneficine! Troppe! Che casino e che macello! Tutto intorno, infinite proposte di tanghi indimenticabili in romantici localini abbastanza prevedibili. Trionfi del Pop Camp! Ah, poter avere ancora qui Manuel o Saverio, mentre fra samba e caramba e tatatà– tatango in competizione fragorosa coi classici alla Carlos Gardel passano e ripassano camioncini con scritte uso “Pettoruti & Bigotti” o «Dándolo y Primi», slogan di «El Bianco està de Moda» sui fianchi degli autobus, la pubblicità elegante dei prodotti contro l’unghia incarnata e le ascelle che puzzano. Sulle bustine dello zucchero, come marca, «La Pasiva». E una popolare bodega si chiama «La Graffigna». Le guidine per giovani, oltre a consigliare qualche «Giramondo» e «Como en Casa», segnalano un barrio particolarmente franante abitato da artisti molto bohémiens e un museo carcerario per anarchici impenitenti con ricostruzione di una cella peculiarmente mefitica. Sulle luminose insegne dei multicinema, soprattutto Horror e Terror. Sulle porte della Catedral Metropolitana, foglietti e manifestini di tutto un sincretismo panamericano di chiese e comunità e missioni cristiane, evangeliche, variamente bibliche e carismatiche. Dentro, una eccellente Via Crucis dell’artista Domenighini, molto affine al G.A. Sartorio del fregio di Montecitorio. Con qualche ammicco anche al F.P. Michetti della Figlia di lorio. Lì davanti, sui banchetti, tutta una smisurata campionatura dell’etno–cheap che si ritroverà nei chioschi delle capitali e stazioni del Subcontinente. “No al paro”. “No al terror”. «El Sur reclama comunidades y pueblos». «Organizar su movimiento autònomo». «Complotar contra el monstruo». «Dirigentes nativos romper diálogo con el Gobierno». «No, sr Alcalde!». «Protesteremos!». E nelle strade vicine, graffiti con gli stessi slogan, tutti politici e in vernice nera. Mentre dalle edicole sventolano giornali con “Caos vehicular”, «Atentado con muertos», «Bomberos marcharán desnudos». (E appaiono anche in TV i pompieri e le pompiere scioperanti che minacciano di sfilar desnudos in Plaza de Mayo: ma sono panzoni e ciccione metropolitane di mezza età, altro che descamisados bonazos da boscaglia o guerriglia). E gli altoparlanti dei bivacchi sparano tanghi ossessivi a pieno volume, mentre sui taxi “Don’t Cry For Me Argentina” pare più frequente che «Roma nun fa’ la stupida stasera» a Trastevere. «Triste, solitario y final» ripetono i quotidiani. Mentre i soliti crocchi di venditori etnici accoccolati ai margini espongono i ninnoli andini sui tappetini, e magliette con icone sempreverdi quali Che Guevara, Evita Perón, Carmen Miranda, Cristo incoronato di spine, Village Eat, La Bestia Pop, Los Brutos, Los Fabulosos Cadillacs, e perfino ancora Dorothy Lamour. “Expiación y pecado”. “La dulzura puede cambiar el mundo”. “El libro de las simpatías”. “Terapia espiritual del Amor”. “Casos imposibles”. «La banda de los pedófilos». «Reunión de la Prosperidad». «American gangsters», «Combustible espiritual». Trattati di logica referenziale per qualunque esame breve. Filosofia cerebrale e teosofia occultistica e spiritualismo spiritistico ad ogni livello. Società segrete. «Libera lotta in libero Stato». Corsi accelerati e biennali di “aritmetica e fisica e ragionamento” nei parcheggi presso i Palazzi di Giustizia. (Anche molto a Rio). Manualetti e DVD su outing, footing, preparare dolci portentosi, sistemare il bagno, maturare la mente, partecipare a concorsi e prodigi e miracoli. Altro che gli estri dei narratori fantastici. E Borges, e i suoi colleghi chimerici, surreali, fiabeschi, fantasmatici?… Ma come gestire sin embargo una decadencia che si prolunga e protrae sine die, se non c’è un minimo sentore di “gaia apocalisse” e i bonds risultano truffaldini? Arrivederci a Key West o a Miami, South Beach? Paragonabile forse ai migliori santuari ellenistici e indù, il Museo Evita a Buenos Aires probabilmente condensa più magie e venerazioni sudamericane che i siti inca a tremila metri o le reliquie di Santa Rosa a Lima. Questo Mito carismatico e mediatico e Kitsch lascia opportunamente perdere l'insulso partner Perón (marginale come un San Giuseppe nei culti della Madonna), e risiede in un bel villino o castelletto medioeval–plateresco del primo Novecento: tipo un Coppedè coloniale con ricchi ornamenti, in un agiato quartiere alto–borghese oggi interamente moderno, con balconate e verande sui dodici–quindici piani accanto al Giardino Botanico e a quello Zoologico. Era, al tempo di Evita, un suo centro di accoglienza e assistenza per i poveri; e attualmente, al pianterreno, una caffetteria e ristorante di successo, con gran frequenza di donne. Dopo una cassiera quasi impressionante — perché forse volutamente identica a un'Evita invecchiata — si dispiega la leggenda per due piani curati e accuditi con grande attenzione anche tecnologica al mito. Evidentemente si è conservata o ricostruita gran parte del guardaroba, perché le foto sono molte, e accanto a ciascuna c’è una teca col medesimo abito, da mattina o da sera. E complessivamente, uno spaccato storico esemplare sugli aspetti grandi e piccoli di un’intera fase argentina. Storia politica, sociale, del costume, del gusto… Con corsi e ricorsi, fra populismi e oligarchie. “Una niña inquieta”, naturalmente di umile famiglia: ecco la macchina da cucire e gli occhiali della mamma sartina. Eva Duarte negli anni Trenta diventa una Carla Del Poggio o Irasema Dilian dei “telefoni bianchi” argentini: in teatro, nel cinema, alla radio. Con cappelli di paglia, mazzolin di fiori e titoli paragonabili ai nostri La moglie in castigo, o Due cuori sotto sequestro o Catene invisibili: “Una sposa nei guai”, “La cavalcata del circo”, “La carica dei valorosi”. E programmi radiofonici su Elisabetta I e Caterina II e Madame Chiang Kai–shek. Tante popolari copertine a colori su “Cine Argentino”, “Antena”, “Damas y Damitas”, “Sintonia”, “Radiolandia” (quando era ancora bruna, e coi capelli talora sciolti). Presto, definitivamente bionda e con le caratteristiche acconciature a doppia banana, appare soltanto su «Mundo Peronista» e nelle foto ufficiali sulle prime pagine dei quotidiani: sia nei modesti vestitucci a pois per le continue attività benefiche tra i poveri, sia nelle fastose toilettes da gran gala concepite come realizzazioni del più bel sogno per qualsiasi donna e ‘fan’. Quindi, nessuna via di mezzo (tipo ‘tailleurini’ borghesi di Chanel), evidentemente fuori da ogni immaginario o entusiasmo di massa e dell’epoca. Ecco allora qui subito i pezzetti di cinegiornali che tanto impressionarono tutta quell’Italia affamata nel 1947 in occasione della trionfale tournée europea di Evita senza il marito, per portare i lauti aiuti economici dell’allora ricca Argentina al povero Vecchio Continente disastrato dalla guerra. E quelle indimenticabili immagini in Vaticano, in mirabile abito nero accanto alla sensazionale benda nera sull’occhio del Principe Ruspoli, fra innumerevoli porpore di eminentissimi, porgendo le sovvenzioni delle pampas a Papa Pacelli, dopo le riprese parigine col futuro Papa Buono a Notre–Dame… Magnificenza e ‘allure’ impeccabile in ogni capitale e cerimonia e celebrazione e circostanza e convenevolo, con la ‘pietas’ giusta fra i baraccati europei bisognosi di cibo argentino. Performer completa, come poi forse soltanto Reagan, in tutt’altri contesti più informali e bonari. E magari Kennedy, figlio di un importante produttore cinematografico. («Joseph Kennedy presents Gloria Swanson» si leggeva nei titoli di testa, quando ancora i film muti venivano ripescati nei cavernosi teatri provvisti di un gigantesco organo Hammond. E magari con la Swanson stessa come sfavillante presentatrice per cause benefiche). Dietro il grand chic — che diventa presto un high camp di massa, senza molti paragoni democratici e laici — l’attivismo dittatoriale e sociale appare assillante e quotidiano come il non–stop cineteatrale e radiofonico di Evita inappuntabile attrice full time. Muore di cancro a 33 anni, nel 1952, fra le esultanze (“Evviva i tumori!”) di varie élites oligarchiche e con un annuncio documentato raccapricciante, perché la si vede ‘live’ moribonda: “Rinuncio a tutti gli onori, non rinuncio al lavoro e alla lotta”. E poi, variamente esecrata o madonnificata, benché sui telegiornali il presidente della Bolivia d’oggi si rivolga alle sue masse con identici archetipi oratori, o forse praxis sudamericana di routine. Come già per i nostri piccoli balilla e avanguardisti e piccole italiane e giovani fasciste e aspiranti–sotto–capi–manipolo (A.S.C.M.) e ciechi o vedove di guerra con veli neri sventolanti (tutto un ‘garrire’) nella casareccia Piazza Venezia: ben più piccina picciò rispetto a qualunque Avenida o Prospettiva de Mayo o Julio o Nevskij strapiena di testoline e fiaccole ‘oceaniche’ a milioni e milioni osannanti nelle inquadrature e campi lunghi epici e costruttivisti dei cloni argentini di Ejzenstejn o Leni Riefenstahl. Donde, per associazioni più o meno libere, si può addivenire ai ninnoli e retaggi tipici nel familiare design del Regime nostrano. Anni e anni dopo, non più affamati e laceri sotto le bombe, ancorché “da secoli, calpesti e derisi”, secondo lo ‘scalognato’ Inno Nazionale (e il Divino Poeta Nazionale: “ahi, serva Italia, di dolore ostello, non donna di province ma bordello!”, altro che «suoni la tromba, e intrepido, io pugnerò da forte!”), qui al Museo Evita si possono riconoscere parecchi analoghi ruralismi razionalistici «verso il popolo» nel nostro Agro Pontino e nella Cirenaica. Nell’Argentina allora ricchissima — piena di carne bovina a buon mercato e di miliardari assai chic, e con una popolazione poco numerosa — provvedimenti imponenti e un attivismo addirittura folle. ‘Populismo’ di destra o sinistra, contro i salotti e le cricche o i clan che non perdonano? Installazioni per l’assistenza medica gratuita. Soccorso ai vecchi indigenti. Il turismo delle vacanze infantili. I cessi moderni e i letti puliti nei dormitori. Le ricette per le pappe infantili rustiche. I tavoli agresti su cui pasticciare le ricette della nonna. I giocattoli educativi con legnetti colorati combinabili. Le cucine regolate con le etichette per i risi e le paste su ogni cassetto e sportello. Adunate e fiaccolate assolutamente spontanee. Funerali e commozioni di massa. Infiniti busti e bustini in vari materiali post mortem. Innumerevoli graffiti e lapidi da tifo e da stadio con “Evita vive”, e invece è morta. Sempre più malata, con la voce rotta, morente giovane senza ovviamente qualche ‘vanitas’ circa un futuro così ‘camp’, al di là delle serate di gala e rappresentanza da ‘icona cult’ tutta Rochas e Lanvin e volants impeccabili nelle grandiose apparizioni al Teatro Colón (ormai malandato, anche lui), dalla gran documentazione giornalistica e filmica risulta impazzare tutto un assistenzialismo altamente compulsivo, animato e spinto da quelle vaste masse incrollabili ma storicamente volubili che anche a Roma imperversano, compatte ed eterodirette, in Piazza Venezia e a San Giovanni e a San Pietro o al Circo Massimo, e per ogni ‘derby cittadino’ o concerto cult di icone rock. Documenti strazianti, disperati, avendo tempi e voglie di riflettere sulle Teorie delle Masse, i corsi & ricorsi storici e i caratteri antropologici magari demagogici che le accompagnano e seguono, strutturali ed etnici. Forse anche di élite? Enormi campagne, epocali battaglie per la parità femminile e il conseguente voto alle donne. Però, non in linea con le suffragette signorili all’inglese che lo esigevano come diritto istituzionale accordato da un governo democraticamente eletto, e non militare e quindi maschilista. Dunque, rifiuto di un Partito Peronista Femminista, creato da Evita, da parte delle élites e dei salotti. E d’altronde, da parte di Evita, una repulsione totale e sincera (e molto reciprocata) per qualunque specie di intellettuali salottieri. Nemmeno “ex–fascistoidi” come nella solita “serva Italia” del tribolato dopoguerra, con stuoli e caterve di zeli e solerzie e prontezze e instant–tessere di voltafaccia tra fame e macerie e Sciuscià e Paisà subito dopo l’impegno littoriale. Fra gli amorosi cimeli, le immense foto del “Dia de la Lealtad” e le biciclettine per i bambini poveri, le cinque impronte digitali per la Presidenza, un ricostruito “Patio Andaluz” con certe caratteristiche mattonelle, e le pentole per le suore dell’Ayuda Social, qualche Don Chisciotte dipinto o graffito dai bimbi, la Dichiarazione dei Diritti dei Lavoratori con la Riforma della Costituzione, il treno elettorale “E1 Descamisado”, il libro di Evita La razón de mi vida, le immagini della sua tomba al Cimitero Maggiore di Milano, a lungo anonima per evitare altre empietà dopo una profanazione del cadavere. (E dopo i casi del corpo del Duce). Una quantità di cappellini, tipo apparizioni di Mina in TV. ‘Chanellini’ da passeggio o shopping parigino, però, mai. Rieccoci insomma così nel viejo y ilimitado Palermo, tradizionale territorio di Borges, attualmente in gran parte cadente e morto, poiché anche qui si sono sfasciate dentro — per mancanza di manutenzione sui materiali andanti — le già pittoresche casette degli emigrati con pianterreno solo e tutt’al più un pianetto, e un loro giardinetto. Fino a non troppo fa, ripittate e accudite. Ma dopo le frane di tetti e pareti senza speranze, come nelle cascine che cascano da noi presso le autostrade, evidentemente è diventato antieconomico alzare edifici su lotti così piccoli. Anche sulle prestigiose avenidas intristiscono irriducibili i soliti moderni e malconci casamenti di molti piani sull’immutabile fronte delle tre finestre in proprietà suddivise, senza lati profondi sugli ex–ortini ora depositi e scarichi. E la solita pena logistica: dove potrebbero stare gli eventuali ascensori, e gli attuali cessi? Anni fa se ne ricavavano impressioni complessivamente tristi, ma prive di miti o misteri. Casette a un piano, scrostate, da vecchi ferrovieri. Cortiletti e angolini dove non ci sta neanche una piccola cilindrata, né un’aiuola di verdure. Giardinetti pubblici con panchine e alberelli piuttosto squallidi. Un vetusto garage disoccupato. Uno scivolo arrugginito per bimbi poveri con la nonna. Addirittura una nonna gobba (ma lo fanno apposta?) fra le vecchine e donnette da borghi nelle bonifiche pontine: forse vengono dalle stesse emigrazioni romagnole e venete, come a Ostia Antica. Affacciandosi sul Moderno, “Café IN”, “Pizza IN”, “El fútbol cinco”, «El cine seiscientos». Ora, qui, in un Palermo non siciliano e non bombardato, ma pieno di cavi annodati fra macerie e voragini, fanno evidentemente impressione soprattutto gli scheletri di cemento male armato e abbandonato, già luridi: come nei sottosviluppi dei Terzi e Quarti Mondi indebitati, e nei male invecchiati brutalismi architettonici imposti nei decenni scorsi ai trucidi musei e svaghi progressivi da cui nei Tristi Tropici i probabili utenti rifuggono. Mentre nei multipiani razionalisti vetrosi gli infelici e impotenti indigeni tentano di ripararsi dal sole tropicale con le coperte e ‘mantas’ andine e illimane, non disponendo più di frasche e palme affastellate come nelle classiche foto antropologiche delle tribù primordiali depresse. «Palermo Hollywood», «Palermo Soho», indicano le mappe. Ma su tante ‘incompiute’ cementizie e scheletriche, ad ogni piano spiccano adesso grandi cartelli di VENDESI, forse ormai inutili per tirare avanti, però ineliminabili: ogni quartiere ricco o povero inalbera da anni una quantità di avvisi identici. E di sera, veramente “una prece”, nella vastità desolata e defunta, fra crolli e VENDESI e arbusti e macerie e gatti. Un isolotto di tendenze? Ecco improvvise vetrine, come citazioni familiari di moda europea, italiana. Tutto un logo, un brand, un cult nostrano. Icone di rappresentanza, abituali nelle vie di shopping e negli aeroporti, non nella cimiterialità sterminata di questo ‘Palermo’. Due o tre incroci, in tutto: Armenia, Malabia, Salvador… Tra i negozi di lusso internazionale, aggiornatissimi, soprattutto parecchi ristoranti molto ‘in’, molto più ben messi e buoni che i nostri analoghi. Non affollatissimi, però squisiti. E non certo indicati per “dare una sbirciata” fra gossipisti mutanderos e indignati infraditos in cerca di lofts alternativos y centros transgresivos. O fra rimembranze di lini bianchi, doppipetti, gessati, smeraldi, Saint–Laurent d’alta moda e altre anacronistiche epoche. Macché «oggi il mio cuore è pieno di nostalgia». Sembrano un nuovo dominio delle giovani donne in business, in gruppi o famiglie o coppie manageriali, chiaramente abituate a lavorare e dirigere in grandi uffici, ma con innate eleganze di basso profilo e bon ton manageriale, gestionale e chic. Donne e ragazze ‘in carriera’, allegre e abbienti, in un’economia così preoccupante. Che differenza col vecchio ‘machismo’ sudamericano, tutto baffoni e doppipetti d’antan accanto alle pettinature architettoniche, oppure tutine mimetiche da ‘full attack’ urbano e grottesco in selve ecologicamente minacciate e protette. E che oltranza taciturna in quegli occhioni profondi, come afflitti da inguaribili melanconie australi vitalizie, fra ciglia abbondanti, anche mentre mangiano spiedoni di carne al sangue o ‘pomiciano’ con la loro muchacha. Contraddizioni, parecchie. Ai margini del classico territorio borgesiano, più o meno smunto, ora ‘Alto Palermo’ è un immenso shopping center su molti piani e parecchie scale mobili. Ascensori panoramici sulle ‘Torri Portofino’ di trenta o quaranta piani residenziali sopra file di condomini e impianti ginnastici a schiera, succursali colossali di Mickey Mouse, palloncini colorati, scolaresche smisurate, pletore di frugolini rock che si specchiano e bitriforcano tra le infinite scaffalature dei Musimundo Megastore… Labirinti di compact, paninoteche di computers, sconfinate babeli di videogames… Altro che quelle care vecchie Biblioteche di Babele ‘cartacee’… Forse (chissà), qua o là, in qualche antico localino proprio sin empacho, sopravvivono tradizioni popolari di abominevoli lazzi cursi e camp magari lascivi o lavativi su conghe e milonghe, donde poi bande di scatenati Argentins de Paris travestiti e frocissimi trionfarono sin embarazo tra Montparnasse e Montmartre dagli anni Cinquanta in poi, mentre i neo Lévi–Strauss emergenti passavano piuttosto a osservare le «coppie maschili sterili» di newyorkesi metropolitani che ai tempi di Auden–Kallman e poi Capote e tanti grandi sarti e coreografi di Broadway si rilassavano e rimbambivano a Fire Island portandosi a casa le provviste e i fiori e il ghiaccio coi trolleys (allora mai visti) dal supermarket a Cherry Grove, ancora senza elettricità. E nella notte, dopo le bibite, tutti al Meat Rack. Su passerelle lignee etnologicamente (e poi anche ecologicamente) ‘rimarcabili’, giacché forse ataviche sulle tante selvagge dune del New England. Ove d’altronde ‘Nantucket’, già scalo di baleniere per Moby Dick, presto divenne brand commerciale per quei pantaloni maschili già definiti ‘couleur puce’. E saranno definitivamente trapassati anche i più illustri classici moderni, qua dove una rua J.L. Borges sbuca in una Plaza Cortázar, tra Palermo Hollywood e Palermo Soho?… Un momento o memento di libere associazioni (o «recuerdo encubridor», qui) rinvia a taluni messaggi “sono lì che aspettano all’angolo Vittorini–Quasimodo!” sui radiotaxi nostrani. Nella nostra antica Roma Capitale, sin embargo dopo l’espantoso Spinaceto e fin verso la olvidada Cecchignola, un triplice cartello espectral di «colle parnaso» e “strada senza uscita” e «via camus» davanti a una rebosante perenne montagnetta di detriti dirige direttamente alle viette gide e proust e mauriac, generalmente con iniziale minuscola, senza nomi o iniziali di anagrafe o indicazioni di nazionalità. E tutte strette, cieche, a cul–de–sac, senza comunicazioni reciproche, come le attigue viuzze gatto, guareschi, gogol, melville, kafka, lorca, saponaro, provenzal, lanza, fenoglio, drigo, giuliotti, marotta, buzzi, lisi, woolf, joyce, vergani, folgore, balzac. (Certuni, però, come a. moravia, fruiscono dell’iniziale del nome). Lì addosso, immensi immobili come caricature di aeroporti. Asiatici? Pronti per qualche film noir molto cult? Nomadismi underground tutti horror e squallor e rave di sovrappassi arrugginiti e cadenti dopo napalm e missili metropolitani? Spray per la droga eseguiti evidentemente da acrobati sopra budelli e crepacci fra enormi triangoli di mattoncini–giocattolo molto più alti e fitti che negli agglomerati adiacenti sulle attigue vie dei fucilieri, avieri, autieri, genieri, bersaglieri, carristi, pelosi, acqua acetosa ostiense, tor pagnotta. Un campetto di calcetti teppistelli dopo un trucido vicolo baudelaire. Allucinanti moltiplicazioni e contaminazioni di ziggurat piramidali a gradoni ove tutto appare sfalsato negli assi orizzontali e verticali e asimmetrici: ecco la via carlo emilio gadda. Con gli effetti ambientali e acustici già contemplati da quel sommo ingegnere, quando sugli spurghi degli sciacquoni ancora non si aggravavano gli scarichi degli stereo nei cartongessi. Altro cul–de–sac, con accesso in comune al piazzale e. morante (tipo vasto e deserto parcheggio camion) dalla rotatoria e. montale recintata e diffidata archeologicamente da una sovrintendenza come l’attigua piazza g. piovene, fra i viali c. levi e f.t. marinetti con «opere di urbanizzazione primaria» abbandonate. Sotto il parallelo e civettuolo vialetto guido da verona improvvisamente sovrastante al vasto e ramificato viale i. silone che fra pratolini e pea si spinge fra molte empietà paesistiche fin quasi alla città militare. Zona uffici, in largo ungaretti. Deposito di cassonetti in larghetto Buzzati. Palazzoni su c. linati e c. sbarbaro ostendono targhe aziendali con “pericolo di morte”. Dequalificati appaiono campana e brancati e bontempelli, accomunati nei vicoletti a j.keats, e risicati spazi tra le facciate e fiancate e i ponteggi per ogni manovrina d’auto come nei litigiosi garages condominiali. Ma cessati i casermoni da incubo, ecco lunghi tortuosi serpentoni tagliati da doppie corsie attraverso le coltivazioni dirette e le cascine frananti, nella solita campagna laziale, tra vastità inopinate nel vialone di pavese, nelle curve di quasimodo e tomasi di lampedusa, nel rettilineo ancora di c. levi per cui si rientra finalmente nella c. colombo. Tuttora qui a Buenos Aires, nella stagione dei famigerati bonds argentini, l’emblematico Teatro Colón è sempre chiuso per degrado e restauri. (E ancora, chissà se Gadda ci sarà mai venuto, nei suoi anni qui per la Compañía General de Fósforos?). Ma le stesse disgrazie attualmente si verificano in queste varie excapitali della lirica oltreoceanica, già leggendarie per le stagioni sfarzose, i cantanti illustri, i compensi da favola, il relax e la durata delle voci prima dei cambi veloci fra climi e aeroporti. A Rio de Janeiro, al magnifico Teatro Municipal con facciata che compete con l’Opéra Garnier a Parigi, e un insigne passato, la season offre solo una Giselle con il proprio balletto. A Montevideo, un Trovatore e una Butterfly con artisti locali al Teatro Solis, tutto un lindo colonnato in stile termale Salsomaggiore/Montecatini. Foto dei nonni col bicchierone purgativo al Tettuccio… Alle spalle, in un tristo slargo Ciudadela/Reconquista, una cupa fontanella dedicata a Lautréamont e Laforgue glorie locali affonda come le facciate ‘parigine’ intorno, appena ottocentesche e già frananti. (Ma non era nato a Montevideo anche il poeta surrealista Supervielle?). A Lima, già fastoso vicereame con ori e tesori degli Inca nonché la Carrozza d’Oro, o del SS. Sacramento, della celebrata sciantosa Périchole, animatrice di romanzetti e operette e commedie e film, da Mérimée a Offenbach a Thornton Wilder a Lord Berners… Fino ajean Renoir con Anna Magnani in un technicolor da dopoguerra, e non già in questo Barrio Palermo di Borges, bensì in una nostrana Palermo sicula e barocca ricostruita stralunata a Cinecittà a causa dei pali e fili elettrici spuntati nella sicilianità più autentica dopo i sopraluoghi della Panaria o Trinacria Film degli Alliata e Avanzo… Ma sarà stato veramente vicereale, questo modestissimo teatro di Lima, in un degrado e crollo di viuzze e viottoli senza possibilità neanche di carrozzelle o carrettini, e in programma soltanto una Bayadère? Però, con un Ballet Folclòrico addirittura Nacional? E allora, sarà stato proprio questo? Solo a Sào Paulo, invece, almeno una parvenza di stagione lirica: con Arianna a Nasso, Sansone e Dalila, e un ‘doppio’ Puccini–Menotti, Le Villi e Amelia al ballo. Ma senza un movimento visibile accanto, nelle sere di botteghino e spettacolo. «Per stasera, abbiamo ogni ordine di prezzi». Prima di ogni Internet e delle semantiche descrittive o comparative, i chioschi argentini erano pieni di giornaletti con annunci gremiti di espressività linguistica. «Boca golosa y culo vicioso buscan chicos copados y muy cariñosos para realizar nuestras fantasías con mucha onda y mucho morbo. Si son más de uno, mejor, para hacer cosas de hombres y destrozar camas sin histeria ni traumas. Bienvenidos los gordos y los monstruos». E da Córdoba, da Rosario, da Tucumán, luoghi indimenticabili “dagli Appennini alle Ande” (e forse con emigrazione di Votini o di Franti?), “Busco culito caliente y delgadito… Busco macho hasta 40 que le guste que le rompen el orto… Busco seriamente verdadero esclavo, serás entrenado, castigado y ingeniosamente torturado… Busco màster muy dominante y immoral que me esclavice y humilie a su antojo, y si es preciso utilice las manos…” Me gustaría tenerte ya entre mis manos para darle un toque personal a tu entrenamiento y enseñarte cual es la mejor manera…”. Buscaría, gustaría, me encanta, el erótico fruncir de cada orificio… Altro che le coppie in crisi e gli intellettuali in crisi e le affettuose nostalgie da bestseller nostrano per gli antichi sapori della nonna e gli odori della zia?… Ecco insomma perché le varie letterature sudamericane partono così avvantaggiate nella resa espressiva? Pôle position e degré zéro in qualunque object lesson di stilistica minimale, le variabili più basiche del Desiderio popolare e naïf: fierrero, fiestrero, franelero, fachero, mimoso, temeroso, velloso, cosquilloso, enamoradizo, limpio, arisco, altivo, lampiño, libriano, gordito, morchito, morocho, morrudo, malenito, tiernito, grandote, divertido, delgado, candado, calentón, recalentón, pintón, varonil… Quanti istintivi realismi più o meno magici. E chissà quanti refusi di stampa spinti verso Espressionismi o Scapigliature di micro– violenze gergali e corporee, con le relative rendite di posizione, allora. Ma adesso, chissà quanti siti di «culitos calientes», per gli internettisti impenitenti. “La Nación” spiega che il governo venezuelano e petroliero di Chàvez compra i bonds argentini «a mille milioni di dollari per volta» per accrescere la vulnerabilità di uno Stato che non riuscirà mai a ripagarli. «Riesgosa deuda»: debito pericoloso. Ma i vari media non spiegano come fa il Venezuela, con undici milioni d’abitanti di cui due milioni a Caracas, ad acquistare strumenti musicali e insegnanti e locali per duecento o trecentomila ragazzi di strada senza dar fastidio ai vicini con le finestre aperte. E poi, chi compra i biglietti per ascoltarli in moltitudini di concerti? Le agenzie? E piove. Tristes Tropiques più Pensée Sauvage. Afflizioni anche generalistiche contristano gran parte delle emozioni metropolitane, soprattutto nei quartieri principali e storici di tutta questa Capitale: benché destinazione marittima tanto vagheggiata, evidentemente Buenos Aires ha sempre voltato le spalle all’Oceano, come per rimirare soltanto il proprio Centro. Triste e solitario e forse anacronistico, il magnifico albergo Alvear si conserva emblematico praticamente nel nulla, in questa demoralizzata season 2008, col suo stupendo irreale breakfast che riunisce adesso due diversi pubblici. Tavole di businessmen in completi neri e camicie bianchissime a spese di una Borsa che va malissimo. Famigliacce abbienti e ordinarie con bambini che trafficano fra computer e pennarelli e rifiutano i cibi ottimi. Sui margini, più o meno spaesata e imbarazzata, qualche caratteristica dama démodée evidentemente superstite dei mitici fasti di una modernità finanziera e facoltosa. Ivi appunto si alloggia. Ma ripercorrendo queste superbe vie già residenziali della Recoleta, che facevano tanto Ville Lumière, quante finestre spente con cartelli di vendite e svendite. Marciapiedi già malridotti come a Roma. Negozi deserti malgrado le liquidazioni pazzesche. Molti, addirittura già chiusi. E i caratteristici mercatini delle tazzine rotte mostrano delle miserie da piangere. Una vastissima piccolissima borghesia evidentemente poverrima. Forse addirittura un Walter Benjamin si scoraggerebbe in questi passages dove non si vendono merci, neanche piccole, e c’è ben poco da flanare, lungo i viali ‘de Mayo’ dove miserande vecchiette protendono le mani sotto la pioggia «para corner»… Altro che (sempre con Walter Benjamin) «Passeggiando per Milano — camminando piano piano — quante cose puoi vedere — quante cose puoi sapere. — Molta gente per la via — molta gente in Galleria»… “Oh, bella piscinina — che passi ogni mattina” rimpiangerà poi Saul Steinberg. In nuovi decenni e diverse sponsorizzazioni di tendenza, prevarranno i pennarelli o le tastierine dei frugolini spontanei? Anatomie del pensiero mitologico più complesso in semplificazioni parlate e non scritte, paradisi involontari di oralità schiettissima, bontà naturale umanamente ovvia, soluzioni anche provvisorie di contraddizioni altrimenti intrattabili entro le strettoie logiche e cartacee ormai anche professionalmente sostituibili? Sostenibili? Passano tanti autobus con “Destino Palermo”. Praticamente, poi, cosa e come post–decostruire negli eventuali riciclaggi dell’habitat, dopo i franamenti delle costruzioni sul territorio a causa dei materiali eco–scadenti e della mancanza di eco–manutenzione, in assiemi e complessi dove ogni modo o mood di facciata e struttura e progetto fa a pugni col look di vicini e contesti più o meno pacchiani o cool… Tutte colpe delle gran crisi attuali? Fanno davvero una grave impressione, queste metropoli tropicali già leggendarie, e ora così deprimenti e depresse, ricordando quel loro vistoso dopoguerra di eccedenze e dovizie… Tristi come quelle sventurate tribù primitive dell’Amazzonia, si ripete guardandosi in giro. “Destino Palermo”? “Destino Retiro”? Giù per l’Avenida de Mayo, la gente fa ancora la fila sul marciapiede accanto allo storico e sbrigativo Café Tortoni, anche per poi dire “ci siamo stati”, come i gruppi di turisti alla sala da tè Angelina, in rue de Rivoli. E sono ottime, le frittatine e tartine di Tortoni, in un tremendo bric–à–brac di mensole, ceramiche, vetrerie, cimeli, elisir antichi, ciaffi e carabattole di tanghi Art Déco, volute serpentine e turistiche di tavolini e abat–jour tipo aspidi o cobra di ghisa. Leggere o rileggere Le cru et le cuit o L’origine des manières de table, qui? Lungo questi viali ‘de Mayo’, le povere vecchiette continuano a tendere le mani sotto la pioggia. Ripassano i soliti autobus «Palermo Lugano», «Palermo Toscanini», «Palermo Wilson», fra i marciapiedi piovosi e i taxi vuoti. Con questo brutto tempo, per utenti di culto, sarebbe più in «Destino Palermo» o “Destino Evita”? Lì accanto, un’immensa libreria dell’usato espone un (mai visto) Tam–Tam del cugino Tillo: cioè Attilio Gatti, figlio della zia Virginia detta Gina (sorella di mio nonno materno Alfredo) e del generale Annibale Gatti, nonché fratello di Mario, maggiore di cavalleria caduto nell'ultima guerra e cugino e sposo (con le dovute dispense) della zia Giulia, sorella della mia mamma, altra Gina. Era un avventuroso esploratore incontentabile dell’Africa allora più esoterica, con spedizioni tutte sue e probabilmente rovinose ai tempi del suo collega Duca degli Abruzzi. Tillo scriveva per il “National Geographic” e il mercato americano, da bambini ci regalavano il suo Saranga il Pigmeo, una fiaba in grande formato edita da Garzanti. (Che pubblicava anche Vita di chirurgo e Nostalgie fra le rovine del primario ospedaliero Andrea Majocchi, cugino della nonna paterna e forse ispirato da Axel Munthe). Tam–Tam è la vecchia traduzione spagnola (Editorial Labor) di un Tom–Tom originale inglese, rivista da un direttore del Museo Etnològico di Barcellona. Tante foto di cercopitechi, gnu, pigmei, zulù, cobra, antilopi, ippopotami, gorilla, capanne e baracche con miti e riti esotericissimi in arcani sacrari pieni di stregoni e santoni fantasiosi fra animali eccentrici e aggeggi iniziatici. Sempre lì in attesa di sbandati viaggiatori a cui minacciare enigmi, rivelare misteri, incutere incognite in tempi lunghissimi. Ma nonostante qualche elefante e dromedario, per noi incompetenti, questi scatti fotografici nell’Africa più misteriosa e profonda sembrano piuttosto simili ai successivi di Lévi–Strauss nel suo altrettanto profondo Mato Grosso. Sottotitolo “La llamada de la selva», comunque. E certo, leggere Tillo a Buenos Aires… Si inizia il 27 gennaio del 1920, ma la narrazione sembra spesso pendere verso il più paranormale e imminente Artaud. Già nella prima pagina, alle dieci della mattina ma a due o tre mesi di cammino da Addis Abeba, Tillo ammazza un leopardo che sta assalendo «una corpulenta dama con holgada capa de seda negra» su una mula imbizzarrita, e con «improperios a los cobardes leprosos de su escolta», che «se hallaba recogiendo frutos silvestres para aplacar la sed de su señora». Una Regina! Così il consorte, il Ras di Amhara, gli offre una gran festa con cibi atroci e il dono di un pugnale appartenuto a un Negus di almeno mezzo millennio prima. Nella camera mortuaria di un’altra enigmatica regina (Candace, conquistatrice di pezzi d’Egitto, ma nel 700 a.C. circa), dopo «la sucesión de corredores, rampas, cámaras, hornacinas, maravillas de ladrillos esmaltados, frescos, estatuas y esculturas» per cui occorrerebbe una iconologia “de que no dispongo en absoluto”, un raggio di sole al tramonto penetra esattamente in un cubo di 6 metri di lato scavato nella roccia viva, e fa danzare come grandi vipere sei lampade di bronzo identiche. Mentre il sapiente e misterioso Ali el– Bahuri accresce i misteri, come in aspettativa di qualche Indiana Jones. E Tillo, che ha interpellato dei vecchi saggi (taluni conosciuti e rispettati, lì, altri meno), preferisce intrattenersi sul problema se ‘Candace’ sia un nome proprio, o un aggettivo che significava «regina», e dunque applicabile a qualunque sovrana. E inoltre, quale opinione risulta scientificamente corroborata? Ma intanto, «lo struzzo a sei zampe» appare formato da tre boscimani coperti di piume che si appostano agitando un falso collo per cacciare le struzze. Poi, misteriosi segnali di fuochi fra «torres y crestas de montaña monolíticas con forma de gigantescos monstruos prehistóricos, perdidos en un mundo ciclópeo». Qui, chi si avvicina viene bombardato con «gran cantidad de enormes piedras» dai terribili uomini bianchi primordiali che «ningún ojo puede ver»; e le tribù terrorizzate della pianura mostrano infatti una «espantosa criatura», già gran capo dei «tarotes» che si era avventurato fra quelle piramidi granitiche, ma catturato da quei tremendi «blancos» era stato condannato da una loro spietata regina tirannica al taglio di mani e lingua e orecchie, e allo strappo degli occhi, come orribile esempio vivente delle sevizie per chi violava il ‘Musungo’. Ecco dunque le foto delle rocce ciclopiche, e della «roca protectora bajo la cual Gatti y el profesor buscaron refugio de las piedras que contra ellos hacían rodar los hombres blancos de las montanas». E accanto, foto affascinanti di una «danza secreta de la pitón» iniziatica (nessun maschio zulù può contemplarla) per stupende vergini cariche di collanine e treccioline impregnate di grasso animale. Sennò, i soliti accampamenti e canneti e camion insabbiati fra giungle e savane molto selvagge e tribù estremamente primitive. Pitoni, gorilla, curiosi coccodrilli nei fiumi da attraversare immersi fino al collo, benché completamente vestiti con sahariane ed elmetti e tutto. Queste foto di Tillo e Lévi–Strauss mostrano formali e sostanziali analogie nell’Africa profonda come nell’altrettanto profondo Brasile, fra le capanne e baracche, i ranghi tribali, le danze di guerra e di pace, i riti ovviamente esotericissimi, i sacrari sempre arcani e pieni di stregoni e santoni carichi di pelli d’animali bizzarri e aggeggi esoterici e piume in testa come alle Folies Bergère d’una volta, su facce inceronate e pitturate come i soliti Kandinskij o Klee seriali, piercing di labbra e nasi e orecchie e sopracciglia tipo logo–Artaud di massa… Certi torinesi di una volta consigliavano piuttosto le ricerche scientifiche sui Bororo di un loro Padre Colbacchini, ai primi del Novecento. Arenili molto desolati, leoni appostati, foreste bruttissime, indigeni più o meno inospitali, barche con rematori generalmente noiosi, chiappe con scadenti maquillages astrattisti… Fotografandosi volentieri durante gli incendi delle barriere circolari di sterpi intorno ai villaggi degli zulù ostili, e nei trasbordi sotto Mogadiscio o sul Mar Rosso in vecchie “carrette del mare” con strampalati compagni affetti dal medesimo «mal d’Africa». Un dottor De Croci conoscitore dei dialetti nativi; un Trubetzky polacco sempre ubriaco e bestemmiatore antimaomettano; un saturnino Conte Vitaloni diretto a Yedda per sposare in un inenarrabile labirinto dopo una coincidenza di sogni telepatici una principessa locale Delia Matahouie in toilettes parigine ma troppo somigliante a una Miss Biologia Marina già incontrata su un fetido cargo in avaria e specialista in protoplasmi di profondità… Ma quando Tillo fotografa Vitaloni su una chaise–longue entro un volo d’uccelli verdazzurri, a bordo, la lastra poi sviluppata (e qui pubblicata) mostrerà «il sogno del Conte» circondato e infastidito da una danza di arabi mediocrissimi. (E i narratori fantastici, giungeranno dopo?). A Sào Paulo, sull’incasinatissima Avenida Paulista, il centenario Manoel de Oliveira, festeggiato coetaneo ‘cult’ di Lévi–Strauss, ha testé girato uno spottino subito applaudito a Venezia, con due imbranati da barzelletta che insistono a parlarsi coi telefonini, tipici coglioni metropolitani fianco a fianco in mezzo al traffico, senza potersi sentire, invece di far qualche passo giù nelle calme vie del lusso, ove si inanellano e spalmano le più celebri griffe, gomito a gomito. E i più eleganti alberghi minimalisti, con «caviar and champagne bar» e poltrone di cordami annodati (design) per costose birrette fra siciliani giovani e vecchi con mazzette di banconote da spartirsi, tipo Caraibi. Ecco qui i quartieri esclusivi e alternativi di tendenza, ormai in ogni città, dove le mappe zainettistiche spingono i cloni e zombi cool a bocca aperta e bottiglietta in mano per «sbirciare lo shopping dei ricchi, esplorare i ritrovi di artisti bohémiens, sorseggiare una consumazione in locali di movida fuori dal coro, con intellettuali e comici irriverenti, stilisti appartati e schivi, rockstars di passaggio e impietosi complessini scomodi e trendy». Davanti all’étalage delle liquidazioni e svendite, nei meno opulenti passages, fra titoli con “Rebelión” e “Represión” strillati dai giornalai, torna in mente il “Bombardieri” di Voghera, così chiamato perché urlava appunto «Bombe! Bombe! Bombardieri!» per vendere i giornali della sera, verso il 1942. Magari istintivamente si ricercheranno boutiques di «Rebelión & Represión» o «Represión & Rebelión». Ma “Decadencia y resistencia, ciau ciau” pare el saludo più cool, tra i flâneurs davvero in. Così i più depressi o perplessi alunni melanconici e saturnini dei Panofsky e Klibansky, forse devoti australi peripatetici o solo patetici e periferici, intorno alle mode tipo Derrida e Foucault, magari erratici flemmatici o lunatici tra caipirinha fusion e bling–bling mojito e batidas multi–etno, forse qui andranno chiedendosi se in tutta esta fatal tristeza tropical bisognerà ordinare qualche rap o reggae Paraguayo, rave Uruguayo, fusion Nabunimbwa o Nambikwara, progressive Guanabara, hardcore Tarahumara, dancefloor Mundunku, heavy metal Musungo, Puerto Deseado blues o punk o funk o blog o lounge o garage o brut? Su per questa trafficata avenida può anche far paura il terribile e irreparabile ma importante Museu de Arte (MASP), che vuole adattare la brutalità cementizia della costruzione al gusto civettuolo delle opere donate da collezionisti molto convenzionali e soft. Tanti salotti adatti per un Settecento francese da nèi e cicisbei, con arredi fra le boutiques e senior suites «ovattate e felpate» e gli stand domenicali dei «rigattieri per gioco». Quindi, un frequente riciclo delle collezioni permanenti con titolazioni «intriganti» suggerite dagli accostamenti tematici. Dunque, per lo più, mitologici e galanti. Così, lungo tramezze e transenne ondulate e sbieche in vari vivaci verdi e rossi e blu, tra fili e cavi e tubi sospesi, come nei primi ristoranti milanesi di design snob che ‘evidenziavano’ le condutture dell’aria condizionata e dei cessi, la “superficie delle cose esistenti” evoca soprattutto lusso e calma e voluttà e ‘Setteciuento’ per madame, con qualche dormeuse e abatjour. Mitologie, mitomanie, impressionismi, rococò. Arianne più o meno abbandonate, Maddalene pentite (o impenitenti), Pompadour pastorali e citeree, Cupidi trionfanti o castigati anche in porcellane e ricami, paesaggi e nature morte o fioritissime in esterni/interni di tendaggi e arazzetti e cuscini, fra schiere di Santi puniti (Gerolamo, Sebastiano, Rocco, Antonio, ecc.) e Madonne botticelliane noncuranti e festini di Priapo e Poussin e culone di Renoir. Gran frullati o pannoloni extra–morbidi per grandi e piccini d’ogni età. Euridici e Lucrezie più o meno addolorate, Mosè e Adamo e Atteone abbastanza rincresciuti, fra Mantegna e Modigliani e bronzetti, Cézanne e Magnasco e Picasso, un ottimo Giampietrino, un ambiguissimo Perugino, un’elaborata macchinosa “Resurrezione” di Raffaello, un Rembrandt con collana d’oro,‘poteries’ e Boldini e Van Gogh. E vari eccellenti veneti con opere anche «di seconda». Nonché un ritratto poco somigliante di Gianfranco Contini (1928) di De Pisis. Chissà se è conosciuto, da noi. Mi torna in mente una involontaria ‘scoperta’. A Bombay, dopo aver rivisto le sculture al pianterreno e le miniature al primo piano, una volta si sale al secondo ove tra molti ordinari Canal Grandi e Piazze Navone cheap della Collezione Tata ci sono evidentemente sempre stati un Bonifacio Veronese vero e un autentico Dosso Dossi («Arrivo di Bacco a Nasso») già creduto scomparso. E può tornare in mente che davanti al guardaroba del Palace di Sankt Moritz tanti anni fa pendeva una copia forse ottocentesca del «Bacco e Arianna» di Tiziano, analogo perché proveniente dal medesimo «camerino d’alabastro» di Alfonso I d’Este. Nella grande e naturale prevalenza degli italiani, qui a Sào Paulo, molti moderni inviati dalla Farnesina: egregi Melotti, Pomodoro, Consagra. Ah, poter tornar bambini, con lo sguardo dell’infanzia privo di pregiudizi cronologici o metaforici; e ammirare con sincronia cool priva di déjà vu le variazioni locali sul cubismo e «Guernica», il surrealismo naif, gli impegni di lotta, i muralismi da campesinos messicani. E se un eventuale frugolino in passeggino rompe fragorosamente le palle e protesta perché forse non gli piacciono un Candido Portinari o un Piero di Cosimo, quale paparino o mammina si permetterebbe di redarguirlo — “ma sono bambiiini!” — lì davanti ai mini–Goya degli ambasciatori e ai commessi degli ascensori in costume? Soprattutto a Sào Paulo e a Rio, ormai abbondano i monumenti esterni voluminosi e vistosi, ma estremamente economici e praticamente indistruttibili. Infatti, ammiccando furbamente e saggiamente agli ‘allestimenti’ e ‘installazioni’ nelle grandi mostre e fiere internazionali e aste ‘da capogiro’, basta evidentemente scaricare una quantità di lastroni, pietroni, roccioni grezzi o semilavorati, magari griffati con un «by» come jeans o profumi di moda, in mezzo ad aiuole morte o morenti, davanti a siti di performance e loft controcorrente. Molti quadratoni di ciottoloni levigati, sempre sostituibili come i sampietrini. Avanzi e rifiuti siderurgici tinteggiati. Tuguri graffittati e dichiarati artistici con expertise dei galleristi che li hanno prodotti. Cementi armati con gli scoli da sottopassaggio–latrina e le branchie rugginose che sporgono come per impiccagioni senza complimenti. Definitivi e démodés, inattuali e irreparabili come cantieri lasciati a metà su territori mafiosi, i grossi musei edificati nel dopoguerra danaroso oggidì somigliano alle tante impalcature di cemento disarmato e deteriorato con gli ossessivi VENDESI SU ogni piano fra le putrelle sporgenti. E davanti al Museo d’Arte Moderna di Rio, così cementizio e metallurgico, ci si domanda come diavolo andò a fuoco anni fa, distruggendo il 90% delle collezioni. Peggio che un coro ligneo? Lo si ricorda appunto costruito (com’è tuttora) in materiali da ponti e strade o stazioni, solitamente ininfiammabili. E con un ristorante sotterraneo, benché davanti a una vista mirabile: dunque detto «il bunker di Hitler». Ai vari piani, invece, tuttora, per dare aria, sempre più d’una vetrata aperta, con rischi atmosferici per certi surrealisti e cubisti. Ma del resto, neanche tanti anni fa, in una prestigiosa mostra dei tesori dell’Ermitage a New Delhi, i migliori Botticelli e Raffaello e Correggio e Tiziano e Pontormo e Lotto e Domenichino e Guercino e Reni di San Pietroburgo, anche su tavola, erano esposti ai monsoni da tutte le finestre spalancate. Altro che microteche e climatizzazioni individuali. Ora il vecchio scheletro disastrato ospita la grafica di Mimmo Paladino, la retrospettiva di una vecchia paesaggista locale, la collezione fotografica di un anziano diplomatico. Ma gli spazi cavernosi non sembrano attirare la stessa utenza giovanile che fa le code per gli hangar e capannoni dismessi nell’archeologia industriale europea. E i giardinetti lì davanti, del rinomato Roberto Burle Marx, consistono adesso in alcuni riquadri di vecchio cemento con acqua ferma e sporca, tuttora pieni di ciottoli tondi. La classica “minestra di sassi” nelle isole greche: ben muschiosi. Ivi pochi antichi barboni dormono o muoiono fra i cartoni. Neanche un saccopelista. Le guide informano che la “bohemia carioca” si è spostata altrove. Ma anche al grandioso e tradizionale Museo Nazionale delle Belle Arti, accanto al pomposo teatro dell’Opera che quest’anno dà solo Giselle, sulla fondamentale Avenida Rio Branco, alle spalle della popolare Cinelàndia, sono aperte soltanto le stanze delle avanguardie brasiliane ormai storiche, a metà del Novecento. Almeno, l’analogo Museo Nazionale di Buenos Aires (MNBA) tiene aperte benissimo le sale delle collezioni epocali, con opere illustri, e un ottimo catalogo storico e pedagogico. Fior di barocchi, fiamminghi, impressionisti e avanguardisti popolari o pompiers, con paesaggi sconfinati, scoperte della luce e dell’ombra, aggiornamenti sulle tendenze, idilli creoli, pescatori al tramonto, polluzioni dilaganti, precolombiani andini, intimismi cinetici, arti povere o disagiate, sogni e fantasie di gauchos e salons. Rubens, Rembrandt, Tintoretto, El Greco, Goya, Manet, Courbet, Redon, Guardi, Pettoruti, Bugiardini, Brughetti, Bigatti, Grippo, Guttero, Sivori, accanto agli sviluppi realistici e astratti e neofigurativi e concettuali e pop e op e tradizionali e geometrici di Córdoba e Tucumàn e Mendoza e La Piata e ballerine di Degas eccellenti per qualunque scolaresca, dopo tante secessioni e trasgressioni omologate o irriferibili. Appena lì fuori, però, una terribile Facoltà di Legge più nazi di qualunque Haus der Kunst. Benché identici a sé medesimi in tutt’Europa, dalla Pomerania al Cilento, i graffiti sono qui generalmente politici e leggibili, con risentimenti etnici e rivendicazioni corporative e livori estremi, in vernici per lo più nerissime ma non emblematiche, e senza sperdersi a marcare i territori di bande o di stronzi, o a segnalare in linee curve lo spaccio più prossimo. E specialmente a Rio, nel centro, intorno ai tribunali trafficatissimi, ogni obelisco liscio o grezzo già carico di sbaffi porta slogan strafatti uso “Basta con la repressione!” o “Abbasso la dittatura delle toghe!”, con qualche colore in più. Striscioni consueti fra i gazebi di protesta. Attendamenti abituali per commemorazioni di genocidi. Mambi e sambe che strillano “pobrecitos y pobrecitas” fra esposizioni di frequenti «Tendencia e Discrepancia», «Aspirafòes e Sonhos», «Movimento Arte», «Novembro Arte Contemporanea”, “Novissimos 2008”, “Amarelonegro Arte”, lofts, sprays, performances, siti alternativi esclusivi. Fra slarghi e spiazzi e viadotti e vialoni centripeti e popolosissimi, intitolati con lapidi sfregiate a innumerevoli e fondamentali date patriottiche, santi e statisti e navigatori e generali ‘carioca’, sopra smisurati banchetti di chincaglie e manicaretti con ingredienti orecchiabili, fin troppo: carapulca, chiclayana, peclunga, mondongo, culandro, choclo, huacacacatay. Conghe e milonghe itineranti e intriganti come bossenove e macumbe e fiaccolate mozzafiato, outlets di sambe e carambe e sambodromi multi–brand, tanghi e manghi tra disagi d’élite e garbagi radical–chic… «Allacciamoci nel fango — belle pupe cuor d’orango» canticchiavano i gagà d’epoca nelle rotonde sul mare, o in qualche chalet di mezza montagna, mentre gli alunni nostrani di Cole Porter pasticciavano con “tropic” ed “exotic” e “neurotic” fra un “In Love For Love” e un “I’m an Indian Too”. «Està samba brasileira», par di rammentare che cantasse la bella Katherine Dunham, ammiccando fra amache e ventagli. Memorie involontarie? «Cachaga», che sarà mai? E una «Cidade Eclética»? Ma dove saranno i ‘crooners’ d’antan? “Dalle da bere dell’acqua ossigenata, “poiché l’ingrata — spietata fu con me!”. Fra navate e sambodromi, forse qui si potrebbe far sorridere, un pochino, con qualche sofisma o arzigogolo molto teoretico circa il corpo, il dono, i valori e lavori e plusvalori dei sottoprodotti di sfruttamenti anche epidermici e casual, fra scambi e rendite, capitali e interessi… … Nell’afa provinciale degli Stati Uniti sudisti, sarà stato regolare (prima dell’Aids) che il sabato sera i camion dell’esercito portassero le accaldate reclute in qualche ranch molto sportivo for men and boys nel deserto, dove nei cortili dietro o nei backrooms i sottufficiali si limitavano a osservare l’andazzo, finché veniva l’ora mattutina di ricaricarli spossati sui camion e ricacciarli sulle brande nelle barracks… … E in seguito, smaltita la routine militare, nelle comunità delle industrie spaziali che in Texas (presso Houston) ingaggiavano migliaia di giovanotti lavoratori ancora single, ogni settimana i più avvenenti “nuovi arrivi in città” si presentano ai già integrati in gigantesche discoteche ben provviste dei più tecnologici proiettori e sound systems dove le più tradizionali e matronali glam–trans sovraccariche di piume e lamé e paillettes e cicce impongono alle polpose matricole uno strip–tease il più ruffiano possibile. Concretamente valutato in base alla quantità di dollari imbucati nelle mutande e nei calzettoni dai pretendenti apprendisti. E alla fine, via coi camioncini dei nuovi amici, per lo più trucks di teams di gay carpenters, electricians, bricklayers, reclute in analoghi laboratori spaziali… Nella più antica Ferrara mitica e tipica, intanto, proverbiale territorio di ‘busoni’ padani e segnacoli metafisici, un’alta ciminiera dechirichiana si ergeva fra gli arbusti e cespugli (‘broussaille’, ‘maquis’) sulle macerie bombardate presso la stazione. E segnalava anche ai viaggiatori dopo il crepuscolo i vasti spazi per gli sfoghi reciproci, senza problemi tecnici e senza ricorrere a parchi, giardini, bastioni, mura merlate, prode complici o cinema galeotti, a Ferrara. Altro che “camerini”. D’alabastro, o meno. Alle cascate di Iguazu (o Iguagu) scattano subito i paragoni con quelle africane di Victoria, meno molteplici ma forse più impressionanti per la caduta possente e massiccia. Un albergo di lusso coloniale inglese là, sullo Zambesi, fra Zimbabwe e Zambia. Qui invece tipicamente americano, dalla parte argentina. Scenari spettacolari di cataratte e rapide e vortici sfrangiati e multipli, tra i vari fianchi e versanti. Fragori acquatici ovviamente “del Diablo”. Giammai “de la Virgen” o “de la Cultura” o “de la Cruz”. Forse meglio che sul Niagara? Qui, “Aventuras” organizzatissime, con tempi e partenze e prezzi di gran tassatività: nella giungla, fra le rapide, intorno e sotto le cataratte, nell’ecologia ogni 15 minuti, ‘nautical’ ogni 20. Circuiti superiori e inferiori, trenini. E si arriva dopo colazione, per ammirare il tramonto e le sue fasi. A letto presto, naturalmente. Levata mattutina per l’alba e poi le ‘avventure’. Viste splendide. Nel pomeriggio, ritorno a Buenos Aires o a Rio. Fine della vacanza? Macché. Forse paradossalmente il più sgangherato Barocco religioso si ritrova nella terribile Cattedrale modernissima di Rio, simile a una piramide sacrificale o a una centrale nucleare — Yucatán, Chernobyl — in cemento recintato e deserto entro e sotto un pesantissimo traffico di viadotti, tangenziali, code, bretelle, svincoli. E chissà quali imprecazioni motoristiche. Sull’entrata, né Madonne né Santi, ma un gran cartello: «Energia eficiente, Iluminagao inteligente». Dentro, un buio sinistro di vetrate cupe. Minacciose. Macché trasparenze solari gotiche tipo cinema favolistico e didascalico per illuminare le anime medioevali più semplici in tutta chiarezza e letizia. Come le miniature sui codici, o il bianco–e–oro e i cieli squillanti delle vecchie magnificenze ripulite. “Culi di bicchieri colorati”, piuttosto: come avanzi di quei servizi da tavola al mare cheap e autarchici ma non volgari nei supermercati dell’altroieri. Poi riusati in vari cancelletti molto artistici, a Venezia e a Roma. E pomeriggio, i credenti non si fanno vivi, e noi fedeli turisti ci avviamo all’unico taxi in attesa. «Tranquilli. Potete chiudere». In Brasile, come del resto anche a monte, nell’atavica e melanconica “Lisboa antigua” (e non solo fra i mesti aborigeni Nambikwara e Bororo), ovviamente echeggia tutta una saudade generalista e tristeza full time in concert e tour. Lutti continui e rituali 24—ore anche dispendiosi, con tutto quel caduveo e candomblé fra “La casa portuguesa” e il Mato Grosso e le favelas e il sertào. “Bachianas Brasileiras” e «Suadades do Brasil». Magari il fado funebre della perenne Amalia Rodrigues, e l’altrettanto imperitura Juliette Gréco, con «Je suis seule (o seul) ce soir, avec ma peine» e parecchi “jadis” e “c’est fini” assai lamentosi sui walkie–talkie di poco allegri accampamenti… E naturalmente, «depressào anaclitica» e “posigào depressiva”, secondo le autorevoli diagnosi delle scuole freudiane poliglotte e dei fondi monetari internazionali, a proposito dei bonds–spazzatura. Su un colle o cocuzzolo, nell’impervio monastero di Sào Bento, tutto racchiuso in una sua tenebrosità molto legnosa e un po’ navale, iperdorata benché benedettina e non gesuitica, e contraria ad ogni ‘vista’ a dispetto della stupenda posizione panoramica da “petit hotel de charme” su una delle baie più belle. Nessun credente, malgrado gli ascensori che perforano la salita. Tre coppie di turisti, con tre taxi fuori. Ma almeno un grazioso numero: un pretino o fraticello che insegna a un altro fraticello o pretino innumerevoli evoluzioni e inchinetti davanti a un gran numero di altari, altarini, Vergini e monache sante, con reverenzine e turiboli e pissidi. Come si ammiravano a Salisburgo, tanti anni fa, le concordate cerimonie dei camerierini austriaci perfetti che levavano contemporaneamente i coperchi argentei dai pesci o bolliti d’ogni commensale a tavola. Si ritrova lo stesso addestramento sullo scomodo volo antelucano da Rio a Lima: una hostess insegna a versare il caffè a una novizia spaesata e peciona. A Lima, altro che Immaginazione al Potere, nei giardini del Palacio de Gobierno. Un vastissimo ‘pavillon’ di fattura quasi squisita, nel gusto parigino della Gare d’Orsay e delle cancellate del Pare Monceau, benché assai più moderno. Come d’altronde il vicino Arcivescovado, tutto un merletto di stucchi e trafori post–coloniali nuovi e post–Liberty recentissimi. E a fianco, la Cattedrale tutta linda e ‘neo’ dopo tanti terremoti e restauri. E la “Fiesta de la Juventud”: lo si legge su tante magliette. Dunque, tra le inferriate del Gobierno spalancate sulla vecchia Plaza de Armas, un gran palco di rock in concert con giganteschi amplificatori. E migliaia di alunni, nelle divise delle scuole evidentemente meritocratiche, per élites vastissime. Ragazze in giubbotti rossi e bianchi come la bandiera nazionale. Scolaresche miste in abiti verdi e blu. Maschietti in nero e camicia bianca, tutti orgogliosi in cravatta. Altri in costumi ricchissimi di velluto azzurro con ricami dorati e sonagli ai polpacci. Truppe e cadetti inca e tupamaros molto folk. Ma senza turisti. Tutto per uso interno. Jeeps, caschi, elmetti, camionette di «Emergencia», «Asalto», pronti soccorsi di «Ambulancias Roma” e “Bombeiros Sanitarios” abbondanti e attendenti, sotto i dum–dum–dum del rock. Aiuole di fiori perfetti, su tutta la Plaza de Armas. E in tutta la città, sfasciata e smisurata, neanche una cicca per terra, giardinetti accuditi, poliziotti armati ad ogni incrocio. Sarà una dittatura autoritaria? Un patriottismo o nazionalismo inca, andino, illimano, amazzonico, meticcio, mulatto, creolo? Gli animatori sembrano piuttosto agitatori. Ma le piccole fans appaiono irreggimentate, disciplinatissime, e soddisfatte. Anche i piccini. Un populismo autentico, verace? E1 Presidente e i ministri e le ministre fanno discorsi di «Viva la Gioventù» con appelli e auspici molto facinorosi e tumultuosi al Cambiamento e contro lo Sfruttamento. Tutto un sindacalismo governativo in forma di opposizione e provocazione populista e aggressiva, per le varie categorie: neo–avvocati spremuti negli studi legali, neo–dottori spompati con turni impossibili fra ospedali e cliniche. (Par di riascoltare Marcuse, che ai suoi bei tempi venne tanto applaudito all’Eliseo romano, per l’Associazione Culturale Italiana delle sorelle Antonetto, perché non appena sul palco si tolse la giacca con un gesto plateale senza precedenti fra i docenti nostrani, generalmente privi anche di una camicia bianca tanto impeccabile. Ma poi dovette uscire tra i fischi e i buuu, perché scaduto il tempo una vociaccia urlò “er professò deve annà a pranzo da Luisa Spagnoli!”, e scattò una contestazione goliardica tipicamente di massa pecoreccia). Scoppiano invece qui le rivendicazioni nazionali e governative sul Rinnovamento, per un orgoglio peruviano anche ministeriale che andrà a decidere le riforme e magari il riarmo con gran fede nei destini e talenti del suo Paese amazzonico e andino. Con un suo evidente ‘Pride’ patriottico: né vendite né immondizie, sui marciapiedi in strada. E tanti immancabili ‘sbirri’ anche nelle periferie più disastrate e deserte. Il complesso di Santa Rosa da Lima, a Lima, appare molto più trafficato del popolare Corso Buenos Aires a Milano al culmine delle liquidazioni. E anche un caro nido di memorie per gli antichi cultori delle più mitiche Sante secondo quella leggendaria Compagnia D’Origlia–Palmi, o Paolo Poli. Qui tutto par rivivere, intatto. Ah, quegli indimenticati «Scignore scialvami, la carne è debbole!» di Santa Rita, mentre Satana la tentava sotto forma di fantasma dell'Amleto, ringhiando, a Cascia e a Cortona e a Viterbo. E la sera dopo, untuoso, con lo stesso copriletto, Polonio alla Regina: «Madamigella Ofelia vuol vedervi». E Sua Maestà: “Uffa, quella noiosa, ditele che non ci sono”. E lui: “Ma è pazza”. E lei: “Quand’è così…”, allargando le braccia. Allora entrava la figlia, squittendo: «Rosmarino rosmarino!». Dopo quel “rosemary, that’s for remembrance”, qualche Ofelia preraffaellita offre «pansies, that’s for thoughts», come si ritrova anche nel risvoltino inglese della Pensée Sauvage di Lévi–Strauss, mantenendo il civettuolo doppio senso di “viola del pensiero” e «pensiero». Come d’altronde certe nostre canzoni della Belle Epoque declamavano appunto “Pansé pansé, vuol dir pensate a me”. Mentre ai tempi d’Oscar Wilde “pansies” erano certi vistosetti nella buona società britannica. E magari “davano da pensare” alle famiglie. Sempre per gioco, Marlene Dietrich in calze a rete nel saloon di Destry Rides Again canticchiava ammiccante ironica «See What the Boys in the Backroom Will Have». (Secondo Lord Beaverbrook, opera d’arte più grande di ogni Venere di Milo). E più tardi Frank Sinatra, dopo “Star Dust” come réclame per la coca, con “Strangers in the Night” portava alle stelle i bar del racket dove nella più tarda notte sconosciuti fino allora estranei si scambiano «glances and advances, until the night is through». Occhiate anche al buio, in backrooms? “Ma questo è il nostro inno!” si esultava nei locali. Presto, però, i ‘movimenti’ avrebbero classificato e sputtanato con etichette derogatorie i boys e i backrooms e la cosa in sé. Ancora qua a Lima, nello storico e affollatissimo habitat di Santa Rosa — ovvero Tacna, atroce rione di botteghine per credenti e chiese commerciali e mucho tráfico — “nel pozzo del giardino, va, Spoletta!”, intimerebbe l’abominevole Scarpia della Tosca. Nel pozzo del giardino, infatti, la Santa gettò le chiavi del suo cilicio. Altro che «Mutande pazze!». Trionfi di pre–camp tropicale già un po’ ‘cursi’? Ma nel giardino, ecco bassissima e pendente anche la celletta in muratura uso nanetti da giardinetto ove la Santa amava rinchiudersi piegata in due o tre per giorni e notti di meditazione o fantasy. Così, qui riappaiono le storiche leggende macabre di un genere altrettanto ‘maudit’ sulle atroci ‘segrete’ piene di cacche e scarafaggi dove i tiranni tipo Ezzelino da Romano o Bernabò Visconti sopprimevano tanti poveracci fra innumerevoli tormenti e cachinni. Ed ivi ovviamente ritornano gli incubi infantili causati dai film horror dei “telefoni bianchi”, tipo Il Leone di Damasco o Pia de’ Tolomei ove Ghino di Tacco e Osvaldo Valenti o Carlo Ninchi rinchiudevano Carla Candiani o Germana Paolieri e altre infelici vittime legate come salami a un palo mentre l’acqua sporca saliva fino al naso e i carcerieri ghignanti si divertivano intanto a infilzare i detenuti urlanti come polli nelle stie. Mentre gli attori alzavano il viso e si preoccupavano sul serio, e secondo il Divino Poeta il popolaccio gridava come alla partita: “Pisa! Vituperio delle genti!”, “Lucca, pilucca, gentucca!”, “Siena mi fé, disfecemi Maremma!”, “Pistoia degna tana di bestie!”. E il supremo Totò, dopo vari «Ahi Pipì, ahi Pipì, ahi Pipìsa», a una soubrettina che gli si presentava con “Certo non sono Francesca! Sono più bella e più fresca! Sono più esotica e strana!”, subito ribatteva: «Ho capito! Sei Taide, la mondana!». Mentre la divina Wanda Osiris, da parte sua: «Renzo intanto piano piano, s’incammina per Milano, cià la testa che gli ronza, ma s’attacca al tram per Monza, onza–onzaonzazzà». Nonché: “Quale è il nome della suora? Chi non l’ha capito ancora? E la Monaca di Monza, onzaonza–onzazzà!”. Ma intanto, “I fratelli hanno ucciso i fratelli!”, «A lancia e spada, il Barbarossa in campo!», «I fuochi della Lega rispondon da Tortona!», «Il popol grida: l’esterminio a Como!»… E non solo per vezzo e metafora, in campo o in lizza, come quando sbadatamente si menzionano Oltreoceano il guanto di sfida o spezzare una lancia levando gli scudi ai ferri corti… E un fiume carsico, Oltreconfine?… Altro che le galanti ‘stufette’ cardinalizie con Veneri e Diane e Grazie in toilette da bagno a gamba tesa. Ma almeno allora ci si poteva divertire a buttar via il bambino con l’acqua sporca, dalle finestre sulla via… Forse potrebbe riuscire interessante e curiosa, per qualche specialista di mythologiques, una ricerca teorica e magari sul campo circa le ripetitive ricorrenze di fantasmi Cines nell’Immaginazione religiosa e tirannica al potere fra il Perù vicereale e quel Medioevo cattivissimo non solo fra guelfi e ghibellini o Bianchi e Neri e leggendari Capuleti o Montecchi, ma anche in centri piccoli come Parabiago: non ancora calzaturiero ma in lotte fratricide tra un Lodrisio e un Luchino Visconti. Con vari sottoprodotti di Generalcine e Fonoroma e Manderfilm, a proposito di cene delle beffe, disfide, corsari rossi e verdi, Fanfulla da Lodi, Lorenzino de’ Medici, Ettore Fieramosca, «Nel castello c’è un fantasma originale! quando suona mezzanotte lui compare!», ma sarà una macchinazione di nipoti ereditieri anni Trenta per far venire un colpo a un cardiaco… Più popolarmente, qui la Santa provoca abietti cumuli di bondieuseries in vendita presso questi incessanti botteghini tra gli infiniti cinema su Tacna. Strapieni anche di candele in vari calibri (palesemente pornofallici) di consumo per le continue fiaccolate di culto pop sotto le icone locali da album DVD con zazzere zozze invariabili, cappellucci o cernecchi immutabili, inalterabili smandrappate canottiere fra palme e grattacieli da fiction, format, fantasy. Nemmeno un accenno, invece, qui, all’omonima e possibile ‘concorrente’ Santa Rosa da Viterbo, più popolare certo fra noi e tuttora festeggiatissima con quell’immensa e gravosissima ‘macchina’, nella sua ricorrenza e nella sua città, e fragorose acclamazioni dei credenti locali. Carissima (ancora!) nelle attempate memorie dei più devoti a quelle solite pie rappresentazioni sotterranee vaticane, ove appunto la religiosissima Rosa viterbese veniva continuamente insidiata dalla pessima Strega di Vi torchiano. Quando ancora la sua emula o antagonista Margherita da Cortona andava menando vita purtroppo galante, a Cortona. In questi assembramenti di religiosità smisurata, ad ogni passo, rieccole! Contìnuamente ritornano dal Rimosso, e attualmente rivivono! Qui a Lima, anche una tradizione di Santi locali molto tìpici: abbigliati e addobbati come i manichini in costume di scena ai musei operistici. Talvolta con quegli occhioni sbarrati delle volpi argentate in auge fra le signore negli anni Trenta. San Martin de Porres, patrono dei parrucchieri dal Seicento a tutt’oggi, però, è stato canonizzato da Giovanni XXIII soltanto nel 1962, dopo aver sanato un paio di cancrene e occlusioni intestinali nei passati anni Quaranta e Cinquanta, con illustrazioni tipo “Domenica del Corriere” dell’epoca. Altro che “Fiesta de lajuventud”. Questi monasteri smisurati e intriganti almeno dal Settecento si presentano adesso come principali curiosità metropolitane, con tutto un tango o fandango di attrazioni, chiostri e refettori e necropoli e cappelle e biblioteche e catacombe e retablos che sommano Kitsch barocco spagnolo con nativo Kitsch inca, mulatto, metìccio, creolo, anche già camp e punk. E lì, fra Santo Domingo e San Agustín e San Francisco e San Pedro e Santa Rosa e Las Nazarenas e Los Descalzos e La Merced e i ritratti dei vescovi e le pitture sacre dei naïfs di Cuzco e le reliquie imbarazzanti e le donazioni ragguardevoli e i tesoretti in metalli molto massicci, le teche e bacheche con reliquie strapiene di suppliche si affiancano ai cartelli che ammoniscono di non scrivere sui muri perché «è mancanza di educazione». Nei sotterranei di San Francisco, con una quantità di crani e femori sono stati composti degli artìstici rosoni pavimentali, secondo le consuetudini cappuccine mortuarie. Nel sottosuolo dell’Inquisizione, poi, sono ricostruite con manichini e strumenti veristici le più efferate torture, con soddisfazioni evidentemente malsane dei visitatori che si fotografano con gesti allusivi accanto ai corpi incatenati e fustigati sconciamente divaricati come in quegli effimeri backrooms fin troppo esagerati negli anni Sessanta. Memorie sanfranciscane e newyorkesi d’epoca, per anziani sopravvissuti alle epidemie: ah, the waterfront area, ah that meatpacking district… E i pentolini che bollivano per la cera sui corpi, tra le flagellazioni e fustigazioni e le sculacciate e le cinture chiodate, e le vasche delle deiezioni per le mortificazioni, fra violentazioni e altre punizioni che evidentemente sopravvivono solo nella pittura sacra, in qualche parrocchia fuorimano, su Internet… Nessuno tuttavia pare voglioso di spingersi fino al dimenticato convento dei Descalzos, olim fiorente in fondo a un quartiere di giardinetti già pomposetti e ora abbandonati. Ma i rustici strumenti in mostra accanto ai dipinti sacri servivano solo a curare i malati e a fare il vino. Nella loro rozzezza, niente di utilizzabile per assaporare il retrogusto di qualche Tropicana o Trinidad o South American Way, o approfondire lo stile e le opere di Carmen Miranda. A Voghera, prima della guerra, quando le signore portavano ancora i cappellini, la modista più pregiata era la Descalzo, al pianterreno di casa nostra, sulla via Emilia. Siccome era sempre spettinata, veniva soprannominata “la Scavión”. Déjà vu, qua Tutte queste arti sacre vengono prodigalmente incontro ai pii entusiasmi anti–igienici (e prediletti dalle devote nubili) davanti ai ‘fioretti’ e ‘sacrifizi’ delle sante e beate che per far piacere al Signore e alla Madonna o anyway avevano fatto voto di mai detergersi gli orifizi dopo i bisogni e mai cambiar biancheria per decenni. Suscitando interrogativi soprattutto clinici per le mancate puliture dopo le escrezioni fisiologiche e patologiche ovviamente presso Santa Rosa ma soprattutto negli ospedali e lazzaretti con degenti infettivi in cura presso buone sorelle così zozze e luride. Altro che cacce agli untori e Colonne Infami per i manzoniani in erba. O i lavacri igienici del Dottor Semmelweis almeno per le mani di medici e infermiere e pazienti, secondo i più diligenti lettori del Dottor Céline. Quante tradizionali canzonacce goliardiche e ataviche, piuttosto, tra i futuri professionisti e primari ospedalieri nelle medesime famiglie e culture delle anziane credenti puzzolenti. E quali cheap e deplorevoli distici, ancora con le ditate, nelle ritirate studentesche, a proposito di “pezze” di Sant’Agnese, o prodezze falloidi con binari e spilli dei Santi Ilario o Cirillo. Magari, secondo pulsioni di una sudicioneria originariamente innata e devota, benché negli idiomi e ambienti più dabbene «una sporcacciona» emani giudizi e fetori tutt’altro che educativi, in fondo. Ai bravi bambini d’una volta, le care ziette raccomandavano: per fare un piacerino a Gesù e alla Madonna (che chissà come saranno contenti) fai il fioretto di rinunciare alle primizie che preferisci. Però il fioretto o voto non valeva se il piccino rinunciava agli odiati cavolfiori. Oggi, poi, le primizie non esistono più perché la macedonia e la vignarola si trovano identiche e pronte ai supermarket per tutto l’anno. Ma allora (chiedeva lo sciocco bimbo), perché voi non andate in giro col brutto tempo senza scarpe tipo Scalzi e Scalze? A me d’estate piacerebbe, con i contadinelli e i tirasassi, ma se poi mi sgridano perché sporco il vestitino? Così, per i cattivi bambini d’una volta, il colmo veniva raggiunto con la barzelletta dell’ingordo maso che chiede al tremendo sado: “bacchettami! sferzami! flagellami!”. E il vero sado, con un ghigno malefico: “NO”. Ma intanto, mai un Santo Padre celebrato perché (come le più venerate monache sante) non si cambiava la biancheria sotto la bianca veste. O un bimbo lodato dalla sua mamma come esempio perché non si pulisce il culito e non mette a lavare le mutande sporche. (A Voghera, le vecchie cameriere spiavano verso mezzogiorno la Marchesa Cacca, detta così perché venendo dalla sua campagna a far mercato in città, alla sua ora allargando le gambe in piedi presso la fontanella di San Sebastiano faceva pipì simulando una distrazione, poco importandole di venir sogguardata da classi inferiori). Pensierini devotissimi in una cattedrale deserta: se un credente o un laico o un fedele musulmano o luterano o confuciano o israelita o indù insiste nel maltrattarsi e malmenarsi — o se giornalisti e politici giornalmente si bacchettano e sferzano sui media, sibilando e ringhiando spesso — a chi farebbe piacere soprattutto? A Giove e Giunone, ad Abramo o Isacco, a Bacco, a Brahma, a Buddha, a Gambrinus, a Cranach, a Dùrer, a qualche Papa o Santo o Martire? Alle Tre Grazie? Alle Nove Muse? A Mosè, o ad Aronne? Alle Tre Madonne? E se un frugolino più o meno grandicello prova un normale dolore prima e un normale piacere poi (dovendolo accidentalmente prendere dietro), a chi dovrebbe offrire senza alcun secondo fine l’uno o l’altro o ambedue? Sarebbe più contenta Giuditta o Salome o Dalila, fra le solite? O qualsiasi Santa generalista? O qualche specifica Beata locale? Talvolta, in qualche cattedrale spopolata, a fianco dell’altar maggiore si vede un Gesù di cartongesso o legno dipinto nella tradizionale posa della Melanconia, di Dùrer e tanti altri. Trauermusik o Trauerspiel boreale, nel più profondo e triste Nord. Come si vide in una celebrata mostra di Malinconie al Grand Palais, piena di Böcklin e Fùssli e Sergel e Hopper, col sottotitolo di «Génie et Folie en Occident». Senza ricorrere ai Tropici, tristi o allegri, o così così. Con guance perplesse poggiate sull’avambraccio stanco. Sovente, qua, in grandezza naturale e intenti veristici: come nei migliori iperrealismi degli anni Sessanta (D. Hanson, J. De Andrea…) cui taluni Italians rivolgevano garbati “how do you do” nelle magioni di Park Avenue. Altri Gesù postmoderni siedono in cheap T–shirts e posa buddhista a palme aperte con o senza piaghe, come prendendo il sole sul Machu Picchu, e lo stesso Sacro Cuore delle solite magliette con “I love Jesus” (da discoteca devota?). Immagini dolenti in vendita con la loro candelina elettrica e ostensori raggianti sopra plaids scozzesi, all’insegna di “Santa Maria de Cervellón”. Ah, la Scavión? “Che macello!” e “che casino!” ridacchiano i ragazzini che non hanno mai visto animali squartati o giovanotti in camera, con le pensionanti della quindicina, in qualche casino o macello ‘live’. «Che via crucis e che calvario!» si arrabbiano i turisti del weekend. E mezza giornata in un paio d’uffici sarà ovviamente un’odissea. Ma non solo nella Turandot pucciniana, i gran dignitari Ping e Pang e Pong: “Ha inizio la cerimonia! Andiamo a goderci l’ennesimo supplizio!”, su libretto di G. Adami e R. Simoni. Durante le guerre, e soprattutto l’ultima, in ogni città e paese ordinari e amorfi burocrati si sono trasformati in capibanda di torturatori inventivi. Come piacciono sempre ohimè i tormenti, le sevizie, gli strazi, evidentemente. I patimenti attraggono, anche fine a se stessi. Quali elevazioni, ed erezioni, e magari deiezioni, davanti a qualunque disgrazia e macello, o anche a una sua buona rappresentazione. Palesemente, insegnano la Carne e la Morte e il Diavolo (anche fuori dai migliori testi), ecco una forte e diffusa costante caratteriale dell’animo umano? Fin troppo umano. Già con transfert delle proprie pulsioni a qualche supposto ente sovrumano che nelle sue chiese dovrebbe provare e mostrare lo stesso piacere degli spettatori malvagi amanti delle rappresentazioni di sciagure e massacri, fans anche a pagamento di stragi grandi e piccole, antiche e moderne, etniche o sstoriche o geografiche o geologiche o ideologiche o politiche. Crolli, naufragi, incendi, eruzioni, inondazioni, polluzioni, eccidi e carneficine abbondanti, al sangue. «Fanno un po’ senso», allora, tutti questi immensi duomi, spesso lindi e rifatti a causa dei terremoti, con tutta una popolazione molteplice che passa davanti e non entra. E anche il turismo credente difetta. Magari i fedeli nuovi preferiscono le stragi vere in diretta, e i presentatori televisivi ai predicatori che cercano di emularli con lazzi dal pulpito nei dialetti locali? A lungo ci si può aggirare, in queste capitali barocche, fra navate lignee e nere altissime, cavernose, piene di Cristi martoriati e morenti o già deceduti senza secondi fini artistici o turistici. Molteplici Madonne in varie dimensioni e altezze sopra altari multipli, orazioni e oblazioni richieste per la beatificazione di frati del Settecento poco riconosciuti. Innumerevoli cappelle e santuarietti laterali di un “baroccoccodè” scrupolosamente sovraccarico. Già da Carnevale al sambodromo? Sempre San Sebastiano in gara camp con le Divine del Varietà? E ancora Longhi: “I manichini ancheggianti del Perugino”. Chissà se riferendosi a quel San Sebastiano ‘morbinoso’ del Museo di Sào Paulo, già da gran carro per sfilata di Gay Pride. Come se la copiosità dell’ornamento accrescesse la devozione, ai Gai Tropici? Ma quali ancestrali imbarazzi e impacci, nel rappresentare le Tentazioni. Mostriciattoli bruttissimi che ‘tentano’ poveri vecchietti scarni nelle peggiori solitudini, e non sono neanche interessanti… Mai una gioventù carina con tentazioni reciproche. “Che schifo” borbotterebbe una necessaria Tina Pica. D’altronde, in quelle memorande sacre rappresentazioni nelle Caves du Vatican, qui rammentate e commemorate con gusto praticamente a ogni passo, fra analogie e coincidenze… Quel povero vecchietto a quattro zampe, con una sconcia trapunta sulle spalle, faceva solo “grrr grrr” alle anime belle di Cascia e Cortona che eroicamente gli resistono. E poi diventano Sante del calendario, con cappelle e venerazioni anche in Perù. Bella forza. Peraltro, anche l’accattonaggio molesto suscita rifiuti automatici magari per le vecchie mendicanti musulmane piazzate dai rackets sui gradini delle chiese cattoliche, in Italia. E lì, con loro, invocare un’Ave Maria? Dentro, poi, soprattutto qui, si ritrovano gli esempi nelle venerande pale d’altare: pani e pesci una tantum, mica spesso. Ma dove sono finiti, intanto, quei Miracoli rustici — delle Forbici, dell’Imbuto, del Secchiello, del Setaccio, del Lettuccio con le Piccine — già tanto frequenti negli affreschi di tutti i nostri chiostri di conventi e monasteri, prima del Barocco? E magari poco felici, nel messaggio e nel look, a causa di bubboni e pustole gotiche. San Rocco sarà stato contagioso? Nel Lazzaretto? Ah, la Flagellazione. Che fissazione. Come piace sempre a tutti, ai ricchi epuloni nonché ai poveri disgraziati, sia alle massime divinità sia al grosso pubblico di massa. Che successo costante, ad ogni livello, se non soltanto col solito cliché mediático si fustigano i costumi pessimi e gli avversari politici e sportivi, ma proprio fisicamente si staffilano senza ironia i corpi soprattutto sul dietro con autentico sangue e quei tremendi dolori che dànno sempre un gran piacere a tanti sommi numi e devoti fedeli credenti coinvolti a loro agio nelle varie belle arti e negli spettacoli malvagi e in ogni sorta di fiction o Internet. Perfino nelle fattispecie più intimistiche di “do–it–yourself ” come il cilicio, gli aghi, gli spilli, le spine, i chiodi spietati. Meglio che niente, sostengono le anime più belle. Pazienza? «Tétlathi dé, kradie…Frenati cuore mio, ben altro di più cane hai già dovuto sopportare», ci si insegnava, traducendo Omero). Sempre trovarobati sferzanti, bellissima roba, per l’intrigante connaisseur come per il dilettante voyeur o per l’eventuale “mascalzón latino” in preda a istinti pessimi. Eternamente, evidentemente, sia per la religiosità spinta come per la porcata spintissima, la solita turpe e copiosa attrezzeria di fruste, sferze, staffili, scudisci, nerbi, verghe, bacchette, ‘ferulae’ latine, ‘knut’ russi, gatti medioevali a nove e più code, flagelli anche di Dio, da ringraziare o aborrire in preghiera… Ed evidenti soddisfazioni, ‘live’ o in differita o nelle arti anche minori: schiene e cosce e natiche già striate in partenza da perfidi cilici, abbondanti cicatrici da calvari, martiri, tormenti, strazi!… Carnefici impietosi e soddisfatti di sbieco su corpi sanguinolenti e purulenti! E chissà che parolacce! Castighi e spasimi orrendissimi in affreschi, dipinti, polaroid, sculture, filmini da pornoshop, autopunizioni tipo happening davanti al grande pubblico o nella più stretta privacy con o senza specchi o sound o rebound o replay o display… Anche fra vecchietti purtroppo repellenti, in siti e portali ahimè deplorevoli. Vergogna? Uffa? Che imbarazzi, piuttosto. Non dovrebbero stare in un Paradiso succulento, secondo tutta l’iconografia chiesastica educativa e didattica, i vari castigati e puniti che Dante colloca nell’Inferno?… «A la man destra vidi nova pietà, — novo tormento e novi frustatori, — di che la prima bolgia era repleta. — Nel fondo erano ignudi i peccatori… — Di qua, di là, su per lo sasso tetro — vidi demon cornuti con gran ferze, — che li battien crudelmente di retro…». Ma i “cornuti” non erano oggetto di barzellette salaci e cheap, una volta? E non dovrebbero essere tutti santi e beati martiri, questi disgraziati vittime di pene fisiche identiche ai tormenti e tormentoni impartiti con le stesse sferze e ferule fornite ad analoghi frustatori della solita attrezzeria di nerbi e flagelli d’uso e consumo religioso e pittorico?… «E io, che posto son con loro in croce, — Iacopo Rusticucci fui, e certo – la fiera moglie più ch’altro mi nuoce». Questa, poi! (Inferno, XVI, 43—45). Infatti, in tanti nostri dipinti rinascimentali, per lo più i frustatori ostendono muscolose chiappe piuttosto pastose, in faccia al pubblico. Ed Elena Giusti cantava, in rivista: “Risparmia i tuoi colpi — o mio bel tirator — come piccole volpi — son le donne e l’amooor!”. Avanti, Grùnewald? Indimenticabile! La Passion selon Sade, di Sylvano Bussotti, con la suprema Cathy Berberian a un Festival musicale palermitano negli anni Sessanta, consisteva in fulgidi vocalizzi su un bric–à–brac di fruste e flagelli e cerchi uncinati alle tempia di tenori vari, usando come strumenti musicali quei vari arnesi di tortura, provenienti dal regolare trovarobato operistico del locale Teatro Massimo. E nulla più. Quante spiacevoli e cheap memorie infantili adesso involontariamente recuperate dalla Terza Età più fisiologica, davanti alle immagini più o meno visionarie di codesto Inconscio cattolico latino–americano… Brrr. Quelle vecchiette immancabili a ogni Prima Messa, che facevano la Comunione ogni mattina, dopo aver proclamato ad alta voce di aver grandemente peccato per loro massima colpa… E prima della televisione, ci si domandava quali peccati commettessero nei loro abbaini, fra il latte e il gatto. Vanterie? Megalomanie? Antiche assatanate nubili piamente entusiaste circa i fioretti e sacrifizi delle migliori Sante e Beate, per far piacere a loro e al Signore e alla Madonna facevano voto di cambiarsi poco e mangiare pochissimo… Così intanto risparmiavano. Bingo? Si soffre molto e volentieri, facendo economia, intanto. Provocanti o imbarazzanti Ritorni di tanti Rimossi, per pochi soldi nelle apposite fessure sacre e profane sulle torture più innominabili, anche di anziani, e talvolta gratis… Godimenti psicosomatici stuzzicanti e magari seducenti per artisti religiosi e pie devote con ormoni analogamente in subbuglio, a queste latitudini, davanti alle flagellazioni e ai supplizi così graditi agli Onnipotenti ispano–obsoleti molto più tropicalsplatter ai Tropici che in Lituania o Lapponia… Tantissimi artisti anonimi, in questo vicereame peruviano, erano evidentemente «nati sotto Saturno», più che altrove. Cioè, secondo Rudolf e Margot Wittkower, solitari, tribolati, complessati, introversi, problematici, ossessivi, stravaganti, eccessivi, evasivi, compulsivi, eccentrici… E dunque propensi alla posizione classica della Melanconia: un look molto desolato. Né Juventud né Fiesta. Sarà allora curioso o scomodo contemplarne gli indiscreti eccessi o esiti, in mancanza di meglio o di ecstasy? Ecco insomma una quantità di Santi e Martiri più o meno esotici e naïfs mentre si fanno più o meno grossolanamente o scientemente turlupinare da qualche ovvio e scontato Maligno che gli promette chissà quale Paradiso di monsignori e cardinali e arcivescovi e arpe e angelotti culotti se si fanno frustare e torturare da aguzzini bellocci e cattivissimi per la gioia di un pessimo pubblico sadomaso che ovviamente adora sempre le stragi e piaghe con tanto sangue, ed esige fiaccolate notturne da tregenda circa gli eccidi più eccitanti, ove non bastino gli accidenti stradali anche diurni per saziare le foto degli astanti coi telefonini. Mah, rieccoci infine qui davanti a televisori gremiti di gruppi turistici anelanti e ansanti al Machu Picchu, peggio che al Colosseo o a Pompei. Ma i viaggi più o meno affascinanti fra le bellezze nell’antropologia culturale di questi tropici peruviani tristissimi sembrano per lo più diramarsi attraverso qualche ricco museo o luogo storico e archeologico. Già residenze signorili importanti: quindi con eccellente savoir faire nella distribuzione e nel taglio degli spazi. Sale e saloni bene esposti e accoglienti, con vegetazione confortevole in giro. E ricostruzioni con plastici intorno ai relitti dei siti migliori. Per il gusto delle rovine, v’è un’ottima Ciudad Sagrada, dopo le periferie di Lima, a Pachakamaq o Pachacamac. Fornisce ‘thè best’ in materia di mura e rampe e fondamenta e rimanenze ed ex–opulenze di templi del Sole e almeno quindici piramidi provviste di idoli e palacios e tutto — culture Wari e Ishmay e Inca e Lima, con Oráculo, Adobitos, Caminos Epimurales, Plazas de los Peregrinos, eccetera — senza le folle e le foto e gli spintoni e i disturbi a tremila metri. Allestimenti piacevoli di collezioni ricchissime soprattutto di ceramiche e terraglie e maioliche, e tutto un mondo di morti animatissimi in aldilà fantastici, sulle scaffalature ordinate e abbondanti al prospero Museo Larco Herrera, nel distretto Pueblo Libre. Oltretomba didascalici come nei nostri migliori schemi scolastici per i cerchi e i gironi della Divina Commedia. Intriganti vasi antropomorfi bruni con doppie cannelle o triple vaselle come inquietanti incroci fra teiere cinesi e nanetti da giardino. Che cazzoni, però. Quanti stili squisiti. Epoche Formative, Imperiali, Transitorie, Fluorescenti, Fusionali. Culture e necropoli Chimú—Inca, Chancay–Inca, Chincha–Inca, Pukina–Inca, Huarpa–Huari, Pukara, Paracas, Cupisnique, Pacopampa, Chanapata, Chirica, Curayacu, e tante altre, fra il periodo pre–ceramico e quello coloniale… E tutti questi cazzi enormi, di gnomi senza collo, nelle bolge molto festive dei lussuriosi Inca, in una sezione per adulti con fellatio naturalistica, muertos mas turbándose, tocando vulvas desmeduradas, coito anal frequente e insistente, fra nanetti bassissimi con gambotte assai brevi. Gli ori e gli argenti sono invece soltanto cerimoniali, come le acconciature di piume di gala. Per la quotidianità, piercing in tutta la faccia, con ossetti evidentemente cheap; e tessuti elaboratissimi, pazientissimi, quando il lavoro sarà costato poco o niente. La sera, crostacei turistici in rotonde sui moli del tenebroso Oceano Pacifico. O manicaretti andini tipici «a la parmesana» con tante patate, fra Strutture e Decostruzioni che magari fanno confusión. Piuttosto triste e solitario, nonché praticamente ‘final’, nelle sterminate periferie di Lima, fra highways e demolizioni e baracche più interminabili e selvagge che in California o in Florida, lo spropositato Museo de la Nación appare come un gigantesco meticciamento fra cubismi e brutalismi tropicali in scatoloni cementizi scorticati. Più kolossal e greve di Bilbao, ma con lo stesso protagonismo della Struttura padronale verso i ‘segni’ ivi contenuti, trattati come ninnoli ceramici e tessili secondo le mode etniche di turno. Così, in arredi tipo Banche di Stato saccheggiate e Palazzi del Governo dopo i bombardamenti, ecco foto e testimonianze e ritagli e volantini e video e trafiletti di lotte armate con stragi e violenze e vittime, Inca e Túpac Amaros antichi e moderni, Senderos Luminosos contro la Modernidad Global, comunità e università in armi, depositi e necropoli di kalashnikov e martiri, controffensive autoritarie, eccidi ed eccessi delle truppe, traffico di droga e corruzioni dilaganti, guerriglie maoiste con atentados y muertos, università e lauree letteralmente sotto il tallone di vari oppressori, crisi estreme su un sì o un no al terrorismo, responsabilità comprovate dei poteri su conflitti con massacri, lutti e commemorazioni sempre. Come nei peggiori dopoguerra europei, con guerriglie e stragi sistematiche. Quante strategie e tattiche della tensione. E visitatori tra il coinvolgimento e l’allestimento: bandane e cuffie e calzerotti da evento, shatush di lana di lama che sarebbero altrove regali di Natale. A un altro piano, una mostra sulla patata nazionale quale fonte di ispirazione per gli artisti: sale e sale di ceramiche, installazioni, pitture, arazzi, video, marmi e bronzi e presepi e poster con poesie e canzoni di cosmovisione andina sullo spirito antico e moderno e naïf e pop nelle varie caratteristiche specie e sottospecie del popolare e alimentare tubero, dei suoi fiori e foglie e bacche e corimbi e fecole e simboli. E tutta una iconologia non solo profana ma perfino sacra, allegorica anche per l’Oltretomba, con addirittura un Cristo Crocefisso sopra una patata. Fra teatrini, proiezioni, sceneggiate, mitologie, significanti e significati e metafore ed epistemi ed ermeneutiche, con ascensori titanici, e addetti a questi lavori in tuniche di design. Però, senza cenni alle conseguenze dell’arrivo e ricezione delle Kartoffeln nella Germania affamata di Madre Coraggio. O della casalinga “crème Parmentier” nel vitto padano, magari “a la parmesana”, prima dell’associazione automatica dei ‘chips’ con la televisione e il cinema. (Mentre visitando i murales di Rivera nei palazzi del potere messicano, ci si domanda come tiravano avanti nel Napoletano prima del pomodoro, nel Veneto prima della polenta, a Torino e in Svizzera prima del cacao. Né si trascuri il tacchino. O lo spirito di patata, egualmente ignoto agli avi Latini). Dialogo con Borges
A. Borges è forse l’ultimo dei grandi scrittori…
B. No, no, non sono d’accordo… A. Ma il nostro è stato un secolo di grandi scrittori, e lei è davvero uno degli ultimi, e come se non bastasse anche il più illustre rappresentante della Letteratura Fantastica… Del resto, secondo lei che cosa possiamo intendere come Letteratura Fantastica? B. Direi soltanto che la letteratura è sempre stata fantastica, è cominciata con le cosmogonie, con le mitologie, con i racconti di dèi e di mostri… Nessuno scrittore ha mai sognato di essere un proprio contemporaneo: questo forse è cominciato soltanto nel diciannovesimo secolo… Prima si parlava sempre di altri secoli e di altri paesi, ed era la cosa più naturale… A. Già; ma nei nostri tempi? B. Bisogna ritornare a questa tradizione fantastica che è la vera grande tradizione, la tradizione principale della letteratura; il resto è piuttosto giornalismo, sarà anche storia, ma non è letteratura. A. E il Realismo? B. Il Realismo è un episodio, solo un momento nella storia della letteratura. La grande letteratura non è mai stata realista. Anche in un libro che si crede realista, il Don Chisciotte, libro che mi piace molto, ci sono sempre i due elementi, il realistico e il fantastico, ma quello che domina è l’elemento fantastico perché Cervantes è dalla parte di Don Chisciotte e non dalla parte dei contadini o degli altri di buon senso. Anche il lettore è sempre dalla parte di Don Chisciotte: così il libro è in equilibrio fra i due elementi, però il più importante è il fantastico, e prevale sempre. La follia dell’ hidalgo è molto più importante dello squallore della realtà spagnola contemporanea che lo circonda, e che è evidentemente disprezzata da Cervantes. Egli ama piuttosto il mondo fantastico della Bretagna, della Francia cavalleresca e di Roma. Questo c’è anche in Ariosto: cioè l’amare un qualcosa e prenderlo un po’ in giro. E ciò che si sente continuamente nell’ Orlando Furioso, dove si tratta di questo cavaliere, e intanto lo si canzona, però delicatamente, non troppo. E questo si ritrova in Cervantes, che certamente aveva letto l’Ariosto, gli piaceva molto e ne parla a più riprese… Quando faccio della letteratura fantastica, non faccio un qualcosa di nuovo, ma una cosa che si è sempre fatta, tranne che per un brevissimo periodo di tempo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, e continua ancora nell’America del Nord, e anche nell’America del Sud… A. Ma continua anche in Europa. B. Sì, sì. Io non sono davvero un innovatore, e quando ho fatto della letteratura fantastica non ho fatto altro che continuare quello che facevano gli arabi, che hanno inventato le Mille e una notte, quello che faceva Shakespeare, e d’altra parte quello che faceva anche Dante. A. Già, ma nel Dugento. B. Letteratura tutta fantastica, comunque. Mai realismo. La Divina Commedia non è certo un libro realistico. A. Certamente. B. E un’allucinazione… E… E… Una contraddizione di tutte le letterature dell’oggettività… A. Già. Ma intanto da molte parti si privilegia oggi nella letteratura quella specie di realismo che «rispecchia le cose, riflette la realtà». Sono slogan correnti: mentre l’immaginazione, compresa l’immaginazione al potere, non sembra ben vista nella letteratura. B. No. Lo scrittore deve sapere essere fedele alla propria immaginazione: e se è fedele a ciò che immagina, se sogna sinceramente, ecco, è questa la sua sincerità. E io cerco di sognare sinceramente. Credo cioè che sia un errore il pensare che la letteratura sia fatta di parole. No, non è fatta di parole; cioè, è fatta anche di parole, ma è fatta soprattutto di immagini, di sogni. A. E di libri, di citazioni… B. E di citazioni di libri. Ma i libri sono poi la memoria dell’umanità, sono il passato… e il passato è anche un sogno… A. E allora, la letteratura non ha a che fare con le cose ma con la letteratura medesima… B. Ma certamente! A. La Letteratura come Biblioteca, grande metafora della sua opera… B. Qui ha ragione, però credo che sia stato Henry James uno dei primi a scrivere sulla letteratura come vita letteraria, ed è molto interessante, perché era proprio James… A. Ma secondo lei, nella letteratura «creativa», quale è l’importanza del sogno, e quanta invece è la rilevanza degli aspetti “tecnici”? Forse che il sogno coincide con l’Ispirazione, quella tale Musa che visita il Poeta?… O non sarà qualche altra cosa? B. Sì. Io credo che si incominci sempre con il Sogno, si incomincia con la Musa, si incomincia con lo Spirito Santo, con il Re, con Dio, per gli Ebrei della Bibbia, e poi si lavorano questi materiali. Mi ricordo di un caso famoso: Stevenson ha sognato la scena centrale in cui il Dr Jekyll diventa Mr Hyde; e poi ha dovuto inventare tutto il resto. Ed è la sua ragione, evidentemente, che ha fatto tutto. Ma… la scena centrale è stata un regalo del sogno. Anch’io parecchie volte ho sognato delle storie in modo un po’ vago, e successivamente ho dovuto inventare i dettagli, le “circostanze” che la nostra epoca esige. A. Ma per esempio, come… B. Si incomincia sempre dal sogno e dall’immaginazione, che è la stessa cosa. Sognare: e non è importante che uno sia sveglio o addormentato, no! A. Ecco… ci sono, per esempio, degli scrittori come Julien Green… B. Ah,Julien Green?… A. Lui dice che incomincia sempre un romanzo con un sogno; e il suo principio, m’ha raccontato, è così: “Quando scrivo la prima pagina di un nuovo romanzo, ho un’immagine, per esempio, un ragazzo dai capelli rossi, che forse è un assassino, e a un certo momento esce di casa, e io non so assolutamente che cosa succederà alla pagina due, alla pagina tre… e allora mi lascio andare seguendo questa immagine…”. B. E molto coraggioso… Io no. Io conosco sempre l’inizio e la fine dei miei racconti e delle mie poesie, e di qualunque cosa io scriva. Non so quello che succede “in mezzo”, tra le due parti, e allora devo scoprirlo. Come se fosse un’isola, e io vedessi, diciamo, quello che c’è su un capo dell’isola, poi c’è tutta questa lunga isola in mezzo, e poi vedo l’altro capo; ma bisogna che io trovi o che inventi quello che c’è fra i due. A. Ma quali sono il peso e l’importanza della tecnica letteraria nella realizzazione dell’opera… quello che possiamo chiamare l’assemblaggio delle strutture formali? B. Evidentemente non ci si deve pensare… Non credo che Poe credesse che la poesia è un’operazione dell’intelligenza… rovesciare l’intelligenza sull’immaginazione, sul sogno… Chiaramente, io cerco di essere il più semplice possibile; cerco di evitare di essere oscuro; molte volte mi hanno accusato di essere oscuro, ma io cerco di non esserlo. Bisogna sempre che ci siano i due elementi: c’è prima l’immaginazione, il sogno, l’immagine — quell’immagine di cui parlava Julien Green — e poi bisogna che la ragione lavori. Bisogna che collaborino, non sono dei nemici. A. Lei accetta la frequente definizione di Arte Barocca per la letteratura fantastica? Non c’è, secondo lei, nell’arte fantastica e nella letteratura fantastica un forte elemento barocco? B. Ma il Barocco è molto artificiale, è molto self– conscious, diciamo autocosciente; e la letteratura fantastica non lo è affatto. A. Non è molto artificiale? B. No, non credo proprio che sia artificiale: è molto naturale… E il Barocco che è artificiale… Il Barocco è l’arte… A. E lei crede che la letteratura fantastica sia così naturale? B. Senza dubbio. A. E non ha a che fare con artifici, menzogne, sogni, illusioni, parvenze, chimere… B. Sì, ma i sogni sono reali, come lo stato di veglia; i sogni sono reali, e le fantasticherie sono reali; il mio passato è reale, il mio passato e la memoria, la storia è reale, e la storia è un sogno per noi, proprio come diceva Joyce: “La storia è un incubo da cui cerco di svegliarmi”. La storia è un incubo, un sogno, tutto è un sogno. O, come diceva bene Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, il Mondo come Volontà e Rappresentazione: la nostra volontà e il sogno sono la stessa cosa. Vorstellung si può tradurre con sogno, con immagine: il mondo come volontà e come immagine. Si può tradurre in tanti modi, Vorstellung… A. Allora, sogno. Però, anche Biblioteca: cioè questa sua grande metafora del mondo come biblioteca sconfinata, indefinita, infinita, piena di libri che rimandano ad altri libri, forse reali, o forse immaginari e illusori come in quell’altra sua grande metafora del labirinto di specchi… B. La Biblioteca è una specie di sogno; e anche uno spazio di sogno; ma non ho più scritto altre storie di biblioteche e di specchi. Più recentemente ho scritto storie più semplici. Ne ho un po’ abbastanza, di labirinti e di specchi. A. Ne ha abbastanza ora? B. Sì, assomigliano un po’ troppo a Borges, non mi piace Borges… A. Non le piace Borges? B. No, non mi piace, è uno scrittore mediocre… ma devo convivere con lui ed è una cosa un po’ noiosa, soprattutto quando si hanno settantasette anni e si vorrebbe avere altri interlocutori, per esempio lei. E molto più piacevole parlare con lei che con Borges. A. Ah sì? Grazie, ma vorrei farle altre domande: lei preferisce il racconto molto breve, evidentemente non le piace il romanzo. Ma perché? B. Non mi piace il romanzo perché è troppo artificiale! A. Lo trova molto artificiale? B. I racconti invece sono sempre delle vere storie, e gli uomini hanno sempre amato raccontare e ascoltare storie: per questo amo tanto Kipling, uno dei più grandi scrittori del suo tempo, e non solo per le sue poesie, anche per i suoi racconti dove ha messo tante cose… Giacché siamo a Roma, ricordo che ci sono tanti racconti di Kipling nei quali parla dell’Impero Britannico, ma lo fa con la metafora di Roma… E molto strano… Credeva che la Storia non fosse che una sola, che tutta la Storia fosse una Storia dell’Impero Romano, e che questa cambiasse di nome, di razza, di indirizzo, ma… A. … che fosse sempre la stessa?… B. … sempre lo stesso impero. Lo stesso impero anche per Stevenson, questo grande scrittore che mi piace tanto, questo grande scozzese arrivato nel Far West, in California… e lì diceva: «Sono alla frontiera della cultura occidentale, o se preferite dell’Impero Romano». A. Ma allora, quelle decadenze e cadute di imperi, e anche dell’Impero Romano… B. E la decadenza e caduta per noi dell’Occidente. A. E non è una storia di affondamento o di crollo? B. Sì, è vero. Ma allora vorrà dire che non c’è stato altro che l’Impero Romano, e la prova è che noi stiamo parlando ora in francese che è un dialetto del latino, lei parla italiano che è un altro dialetto del latino… e io naturalmente parlo e scrivo in spagnolo… A. Ma io volevo chiederle ancora: nella ricchezza del romanzo, anzi di certe grandi costruzioni romanzesche, come quelle di Proust e di Musil, ci sono delle tali feste dell’immaginazione, tali trionfi delle possibilità della letteratura… B. Sì, sì, e anche in Joyce. A. Sì, ma io preferisco Proust e Musil a Joyce… Perché le piace poco questa grande costruzione che è possibile nel romanzo? B. Perché è una costruzione; so che io non posso farla; posso fare soltanto dei racconti. E poi, dato che io non sono un lettore di romanzi, perché dovrei scriverne? Io non li leggo, all’infuori di Conrad… Conrad mi piace molto… A. E le piace più degli altri? B. Sì, ma tutti l’hanno dimenticato. Eppure Conrad ha salvato quello che c’è di epico nel romanzo, e gli altri non l’hanno fatto. A. E il più grande romanziere, per lei? B. Per me sì. A. Più grande di Henryjames? B. Come romanziere, sì, forse. Come narratore, no. Ma io preferisco sempre Conrad. Ha delle cose così… così dirette, così semplici, così perentorie, così coraggiose, Conrad! E il coraggio mi piace molto. Forse perché non ne ho. Sono piuttosto un tranquillo… Tutta la mia famiglia era di militari, sono persone che hanno combattuto, che si sono fatte uccidere, che sono andate in esilio… La nostra storia è molto violenta: la storia argentina, uruguayana, piena di peripezie… Mi piace molto Conrad; e poi non capisco perché lo hanno dimenticato. Forse perché in Inghilterra è considerato un po’ come uno straniero, era un polacco e non si può concepire che il più grande romanziere inglese sia nato in Polonia. Queste cose però capitano, è un regalo che la Polonia ha fatto all’Inghilterra. A. Ma per esempio, tra i grandi narratori inglesi dell’Ottocento, come Dickens?… B. Ah, mi interessa molto, Dickens, ma fa parte della letteratura fantastica… A. Sì, infatti… B. Quando si legge Dickens non si ha affatto una impressione di realtà; e se lei prendesse le vecchie edizioni di Dickens, vedrebbe che le illustrazioni sono delle caricature… A. Letteratura onirica?… B. Sì, sì, Oliver Twist, la notte, i ladri che si confondono con i sogni della notte, sono letteratura onirica… Poi c’è l’aspetto del meraviglioso: Alice nel Paese delle Meraviglie, Attraverso lo Specchio, di Lewis Carroll, sono perfettamente onirici… A. Ma per esempio, tra i grandi russi, nella vecchia disputa fra i partigiani di Tolstoj e di Dostoevskij, lei da che parte si sente? da quella di Dostoevskij? B. No, no, assolutamente, io sono per Tolstoj. A. Ma Tolstoj è un realista, non è un visionario! E allora lei perché sta per Tolstoj? Lo trova forse un fantastico? O non è Dostoevskij, il vero fantastico? B. Se fosse mai vero, noi dovremmo rispondere con un’altra domanda: noi non sappiamo se l’universo è realistico oppure onirico; se l’universo è onirico, allora anche Tolstoj è onirico, però non ne sappiamo nulla. Forse il mondo è un sogno, l’abbiamo detto anche poco fa — Die Welt als Vorstellung — il mondo come rappresentazione, il mondo come sogno. Ma no, mentre rispondevo alla sua domanda ho pensato a un tratto che provo molto più piacere a leggere Tolstoj, un’emozione più forte che a leggere Dostoevskij. È tutto qua. Io non sono un teorico, non ho idee astratte, sono incapace di pensare, posso immaginare, sognare… posso, a rigore, scrivere… ma non so se posso o no ragionare… A. Ah no? Ma come?… Per esempio… B. Non sono un intellettuale. Sono un naif. A. Ma allora, in questo vecchio gioco della torre o jeu de massacre che si può sempre fare, chi le piace di più tra Balzac e Flaubert, per esempio? B. Non mi piace affatto Balzac, e mi piace Flaubert. Ma mi piace soprattutto La tentazione di Sant’Antonio. A. Non Madame Bovary? B. No, Madame Bovary non ho mai potuto leggerla, non è mai riuscita a interessarmi; e i Tre racconti sono assai fiacchi. A. E Bouvard e Pécuchet, allora? B. Bouvard e Pécuchet sì: è un gran libro del diciannovesimo secolo e non soltanto di quel secolo. A. Noi discorriamo abbastanza di letteratura e fantasia, letteratura e ispirazione, letteratura e tecnica letteraria, ma nel nostro tempo continua sempre quel gran discorso di letteratura e ideologia, e una gran parte dei letterati subordina la letteratura appunto all’ideologia… B. Io credo che sia un errore. Le opinioni sono quello che c’è di più superficiale; e le opinioni di uno scrittore non contano. Mi ricordo di un testo di Kipling, che mi piace molto, e dove si dice che “è permesso a uno scrittore di inventare una favola, ma non di sapere se è vera”… Dunque, la moralità della favola… A. La moralità, perché? B. Ma questa non si sa. Ed è molto curioso, perché Kipling parla prevalentemente dell’uomo bianco e del suo impero… A. Il famoso “fardello dell’uomo bianco”… B. Sì, proprio il fardello… Eppure sono sempre quelli dove l’uomo bianco non è davvero il più simpatico. Per esempio, Kim è un grande libro, ma lì si pensa più all’anima che non a Kim. L’anima mi sembra molto più reale di Kim, ed è molto più importante di Kim; e anche per Kipling è così. Insomma, aveva le sue opinioni; ma se era fedele alla sua immaginazione, allora, quando si legge il libro, non si è affatto convinti delle sue opinioni, anche perché non contano poi troppo… Insomma, io credo che sia molto pericoloso giudicare uno scrittore dalle sue opinioni; ed è per questo che io, che non sono cattolico ma non sono nemmeno pazzo, dico che la più grande opera di tutta la letteratura è la Divina Commedia. Questo non vuole affatto dire che io sia credente, o che creda all’Inferno e al Purgatorio e al Paradiso. Questo non c’entra niente. Sono delle opinioni di Dante, queste, o forse delle metafore, immagini che ha preso chissà dove, e dove le ha prese non m’interessa. Quello che mi interessa sono i sogni di Dante, e i personaggi che ha inventato, che ha creato e ricreato… In generale si giudica uno scrittore dalle sue opinioni. Io, per esempio, ammiro molto Whitman ma non ammiro la democrazia che era necessaria a Whitman per scrivere poesia. Però questo è affar suo, non mio. A me importa soltanto la poesia di Whitman, quello che ha scritto con le sue idee sulla democrazia, che non mi interessano affatto. A. Ma lei è davvero un vecchio anarchico, o è altre cose? B. Sì, un vecchio anarchico. Anzi, un vecchio spenceriano individualista. Cioè non sono fascista, non sono comunista, non sono nazionalista, detesto il nazionalismo. Non sono mai stato peronista o nazista, detesto tutto questo. Sono un vecchio anarchico, un vecchio anarchico pacifico, un vecchio signore anarchico individualista, un vecchio lettore di quell’Herbert Spencer che ha scritto L’uomo contro lo Stato, ma intanto abbiamo lo Stato dappertutto, il nazionalismo dappertutto. A. Si osserva spesso nei più importanti scrittori del nostro secolo che quanto più sono stati rivoluzionari e sperimentali nella loro opera, tanto più hanno avuto opinioni politiche conservatrici; e non parliamo solo dei soliti Céline o Pound, e nemmeno di Marinetti o D’Annunzio… B. Non credo che Marinetti sia uno scrittore importante, no? A. Ne parliamo perché siamo in Italia. Tutti quei loro entusiasmi per la guerra… Marinetti cantava la modernità e la guerra, e poi è diventato fascista; e D’Annunzio cantava il grande passato italiano e la guerra, ed è diventato abbastanza fascista anche lui… B. Vorrei dire una cosa: c’è un libro che mi piace molto, ed è la storia della letteratura italiana di Momigliano. Ma lì non si parla affatto di Marinetti. A. Non se ne parla? B. No. Lo si omette, e basta. A. Eppure il futurismo ha avuto una grande notorietà e una grande influenza, no?… Ma io volevo parlare di scrittori come Valéry, Mann, Benn, Eliot, Pirandello, Montale, Svevo, Rilke, e tanti austriaci: i grandi poeti e i grandi narratori del nostro secolo avevano idee politiche praticamente reazionarie ed erano invece dei rivoluzionari autentici nella loro opera… no? B. Non lo so, nel mio caso non mi intendo molto di politica e non ne parlo mai; sono un uomo etico, io. Io ero contro il peronismo per un motivo etico, soprattutto; e per ragioni intellettuali. A. Anche estetiche? B. Sì, anche estetiche. Perón era una grande canaglia, era una figura sporca e poco intelligente, e le persone perbene gli credevano ben poco. A. Lei ha sofferto molto sotto il peronismo? B. È una faccenda privata… A. E privata? B. Mia madre è stata messa in prigione, e anche mia sorella e mia nipote. Mi attaccavano attraverso le persone che amavo. A. Sono cose tipiche delle dittature. B. Sì, era tutto così abominevole… Non voglio più ricordarmi di quel periodo. A. No. B. Finché sono a Roma non voglio più pensare a quei fatti passati. A. D’accordo: mai nessun rapporto fra vita vissuta e creazione letteraria. Ma allora, per esempio, nel lavoro di uno scrittore, di un poeta… escludendo naturalmente la vita e l’esperienza, che cosa crede sia necessario per compiere la sua opera? Insomma, che cosa è veramente necessario per uno scrittore? B. Bene, vorrei ricordare ciò che mi disse mio padre più di un mezzo secolo fa. Mi disse: «Bisogna leggere molto, bisogna scrivere molto, ma non bisogna pubblicare, oppure bisogna pubblicare molto tardi». Mi ha dato questo consiglio: leggere, scrivere, e poi stracciare ciò che si è scritto. Pubblicare solo quando si è maturi, ma comunque non è questa la cosa importante. A. Molto tardi, allora? B. Sì, molto tardi; ma questo non è stato possibile, per me. Io ho cominciato troppo giovane; avevo ventiquattro anni quando ho fatto pubblicare, nel ’23, a Buenos Aires, il mio primo libro. Non ho inviato esemplari ai giornali, alle librerie, agli scrittori, niente. Ho regalato solo agli amici il mio libro. Erano trecento copie. A. Ma allora quali crede che possano essere oggi i maggiori pericoli per la letteratura? I veri nemici dell’esercizio della letteratura, voglio dire. B. Credo che attualmente il grande pericolo sia la politica, di qualunque segno. Io appartenevo a un partito conservatore, ma poi mi sono ritirato perché spesso ero già d’accordo in anticipo con opinioni diverse altrui. Credo che sia ridicolo appartenere a un partito politico. Per me è molto singolare: i comunisti mi considerano un fascista, i fascisti mi considerano un comunista, dunque non sono da nessuna parte, sono un vecchio individualista. A. Non le piace fare dichiarazioni politiche, vero? B. No; però, a parte questo, credo che noi abbiamo ora il miglior governo possibile per il nostro paese; ma questo non è importante in Italia. A. E non sente pericoli, disagi, minacce? Per l’Italia, ad esempio, questo è un momento di crisi. Lei non crede che in Argentina ci siano delle ombre nell’awenire del paese, come del resto ce ne sono nei paesi vostri vicini? B. Abbiamo passato un periodo anarchico in cui si era governati dalla canaglia. Poi sono venuti soprattutto uomini di amministrazione, che non sono certo gran cosa, ma almeno non sono dei gangster. A. Chi sono o chi erano i gangster? B. Perón, naturalmente; e sua moglie; e la sua vedova. Tutte queste persone erano veramente delle canaglie, vere canaglie al potere. A. Vorrei domandarle un’altra cosa, sulla sua formazione intellettuale. Quando lei ha incominciato a scrivere, ed era molto giovane, nel suo ambiente culturale si era già nell’epoca di Pound, nell’epoca di Eliot, oppure era prima? B. No, no, io non li conoscevo affatto, a quell’epoca. Leggevo soltanto i classici. A. Ma quando era ragazzo, e cominciava a scrivere, a quali autori della sua epoca faceva riferimento? Insomma, per lei, quella era l’epoca di chi? Di quale scrittore? B. Era l’epoca di Shaw, l’epoca di Wells. A. Ma erano importanti per lei? B. Molto importanti. È l’epoca in Spagna di Unamuno, l’epoca di Paul Groussac a Buenos Aires. Quanto a Ezra Pound, l’ho conosciuto più tardi e come scrittore non mi piace affatto. Eliot è diverso. Eliot è molto più fine di Pound. Ma non è un poeta che mi piaccia, scrive cose molto fredde. A. Eliot? B. Eliot, sì. A. E come critico? B. Come critico non me ne importa niente. Vorrei che un critico fosse anche un po’ creatore, come De Sanctis o Coleridge, tipi che sanno anche riscrivere i propri testi, mentre in Eliot non c’è critica, c’è una discussione assai meschina, e sempre una certa pedanteria… Non mi piace la prosa di Eliot; ma ciò non toglie che ci siano alcune sue poesie molto belle… Eppure per me Eliot non è un grande poeta inglese. Potrei citare una cinquantina di nomi prima di arrivare a Eliot. A. E quali sono i primi? B. Per esempio Frost, e Yeats. Prendiamo il caso di Yeats. Yeats era un nazionalista. A. Ah, me l’ero dimenticato, nella lista dei rivoluzionari reazionari. B. Eppure Yeats era un grande poeta malgrado le sue opinioni, malgrado quel suo sistema mistico che è una ridicolaggine… Yeats, sì, è un grandissimo poeta che ha fatto della lingua inglese uno strumento espressivo straordinario. Certi versi non si possono né spiegare né tradurre, ma sono bellissimi al di là di ogni loro significato. A. Ma come persona, come idee?… B. Come persona, no, era nazionalista, era un irlandese professionale. Non come Shaw, che era anche irlandese, ma non sempre se ne ricordava. Però questo non c’entra niente… Poteva essere esecrabile come amico, e amabile e ammirabile come poeta. Il poeta resta e l’uomo sparisce, del resto; ed è molto più importante essere ammirabile come amico dell’anima. E più o meno il caso di Croce, forse io non sono d’accordo con Croce, ma io lo amo, lo sento come un amico. A. Ma per esempio, la posizione di Croce sulla poesia francese del diciannovesimo secolo… Non gli piaceva Baudelaire… B. E aveva ragione. A. Non gli piaceva Mallarmé… B. E aveva ragione. A. Aveva ragione? Anche a lei non piacciono né Mallarmé né Baudelaire? B. No, non mi piacciono; ma mi piace per esempio Verlaine, anche se non è un grande poeta, un poeta per sempre, direi. Mi piace molto Hugo, si trovano delle cose splendide in Hugo, per esempio quando dice «L’hydre Univers tordantson corps écaillé d’astres…», è pura bellezza. A. Baudelaire allora no. Ma Apollinaire almeno sì? B. Apollinaire era un poeta, mentre Baudelaire era piuttosto qualcuno di costruito, uno che costruiva poesia con fatica. E molto maldestro… almeno secondo me. Trovo che ha sempre delle… Come dire… E poi non mi piace il suo gusto, non mi piacciono i pipistrelli, non mi piacciono i mobili, non mi piacciono i divani… A. Ma non le piace questa specie di Grand Mauvais Goût, questa specie di Kitsch che c’è in parecchi poeti dell’Ottocento, soprattutto francesi? B. Sì, ma in loro lo detesto. Nel caso di Verlaine, non c’è questo senso del Kitsch; e c’è invece in Oscar Wilde, che chiaramente non è un grande poeta, c’è questo Kitsch, ma con un sorriso, lo prende un po’ in giro… mentre Baudelaire prendeva i suoi demoni e i suoi pipistrelli e le sue prostitute e le sue mulatte, tutto, fin troppo seriamente… A. Ma in quell’enorme magazzino, in quell’immenso deposito centrale del Kitsch intellettuale che è il Bouvard e Pécuchet… lì si tratta di un vero monumento… e non è il trionfo del Kitsch? B. Già; ma Flaubert faceva dell’ironia; e invece Baudelaire lo prendeva sul serio, lo amava! A. È vero? B. Sì, c’è questa sola differenza, ma è una differenza grandissima. A. Ma volevo domandarle ancora, quando lei era molto giovane a Buenos Aires… B. Da giovane a Buenos Aires leggevo solo libri inglesi, mi pare; o delle traduzioni in inglese. A. Ma della letteratura francese, tedesca, italiana?… C’erano nella sua biblioteca giovanile dei nomi, dei titoli, dei libri… c’era qualcosa che l’ha colpita più fortemente in quella fase?… B. Sono stato avviato alla letteratura tedesca da Carlyle che mi ha mostrato cos’è la Germania. Poi ho studiato il tedesco da solo per poter leggere Schopenhauer in lingua originale. Ho incominciato con le poesie di Heine, che sono molto belle e molto semplici… A. … e che lei preferisce a Goethe? B. Oh, certamente: Heine era ebreo e quindi molto più intelligente di Goethe. Naturalmente questa è una battuta di spirito. Mi piace molto la lingua tedesca, che è anche più bella di ciò che si scrive in tedesco. Mentre nel caso del francese, la lingua è brutta ma la letteratura è bella. A. E nel caso dell’inglese? B. Mi piace sia la lingua sia la letteratura. Invece in spagnolo non si è scritto quasi niente. A. Quasi niente? B. Sì, c’è il Don Chisciotte. A. E la poesia? B. La poesia, sì: Góngora, San Juan de la Cruz. Poi c’è il diciottesimo secolo che è povero come il diciannovesimo. E dopo questi non c’è molto. A. E il Novecento? B. Il Novecento è un po’ il riflusso dell’America Latina… A. Con tutti i romanzi sudamericani di questi anni?… B. Ah, quelli? Veramente non li conosco molto. A. E non è curioso di conoscerli? B. Ho letto García Márquez e lo trovo buono. Gli altri che ho letto non mi sono piaciuti. Si tratta di esperienze che appartengono al genere Faulkner: si gioca col tempo. Nemmeno Faulkner mi piace poi molto. A. Non le piace come Faulkner gioca col tempo? B. Sì, talvolta lo faccio anch’io e lo fanno molti. E stato Conrad l’iniziatore di questo genere. A. E naturalmente resta il più grande… B. Certo che resta il più grande! E proprio Conrad che ha iniziato uno dei suoi romanzi, non ricordo il titolo, con una scena dove ci sono due amici che si incontrano e parlano di un terzo amico, e attraverso la loro conversazione si ricostruisce tutta la realtà di questo terzo amico… Uno dei due dice di aver visto una scena, l’altro afferma di essere arrivato prima e tutto diventa estremamente complicato… Solo verso la fine si capisce di chi parlavano. A. Ma Faulkner, per esempio… B. Sì, la medesima cosa, Faulkner l’ha fatta circa vent’anni dopo Conrad, che è stato il primo. A. (alpubblico televisivo) Vorrei adesso ringraziare tanto Borges per essere venuto qui, per essersi trattenuto con noi venendo poi così da lontano, venendo dall’Ottocento. Come dice lui: “Io sono un uomo dell’Ottocento”. Venendo non soltanto da luoghi così lontani nella geografia, come Buenos Aires, ma così lontani nella immaginazione e nell’invenzione come le sue biblioteche sconfinate e immaginarie. Vorrei ringraziarlo di essere venuto. Grazie. B. Tocca a me ringraziare e poi sono a Roma… A. E contento di essere a Roma? B. Molto contento. E il centro, è l’Europa, è l’Italia, è Roma. Roma è sempre l’Impero Romano, che continua sotto altri nomi. A. Ma lei si aspetta qualche cosa dall’Europa? B. Mi aspetto tutto dall’Europa. Cosa ci si può aspettare dalla periferia? Periferia sono anche America e Russia. E dalle periferie, cosa ci si aspetta? A. Lei non si aspetta niente? B. No, no; tocca a voi salvarci. A. E lei crede proprio… B. Io spero che alla fine tutto l’Occidente abbia qualche cosa da voi. Noi facciamo del nostro meglio per aiutarvi. Spero che tutto l’Occidente sia un po’ uno specchio, uno specchio eterno dell’Europa: uno specchio fedele; o che cerca di essere fedele. E noi faremo del nostro meglio. Tocca a voi salvarvi, e salvarci anche. Ve lo dice un buon argentino. Io adoro la vostra patria.
Roma, San Gregorio al Celio, maggio 1977
Evita in musical
Altro che il greve Vicario di Rolf Hochhuth nel retro della
Libreria Feltrinelli, o l’arguta Evita Perón di Copi sotto un tendoncino da circo. Si sa — e si ripete — che molti desidererebbero soprattutto un grande musical su Pio XII, con coreografie di flabelli e passerelle in sedia gestatoria. Broadway! Mirabili gesti in cima alle scale, sorrisetti misterici durante le sacre visioni con gli agnellini nei migliori giardini vaticani, e nel finalissimo le smisurate esequie con la sensazionale esplosione della salma tra gli Svizzeri che stramazzano… Al Vicario avevo invitato alcune pronipoti di recenti Pontefici: una venne con entusiasmo, pregustando la sorpresa della Polizia davanti all’ostensione del passaporto; un’altra osservò soltanto «non mi pare il caso». Particolarmente ‘electrifying’ risulta invece il mirabolante debutto di Evita, di Andrew Lloyd Webber, nell’immenso Prince Edward Theatre londinese già Cinerama, e a cura del mirifico regista Harold Prince. Già artefice di Follies, trionfale evocazione cadaverica della Broadway perenta nella fatiscente basilica Del Winter Garden, e riproposta ancora a Broadway quarant’anni dopo, nel 2011. Non più con Alexis Smith e Yvonne De Carlo e Dorothy Collins ma con Bernadette Peters e l’ottantaduenne Rosalind Elias. Sempre fantasmi di se stesse celebri antiche star tanti anni fa. Tipo Sunset Boulevard: una ruggente cascata di vecchie strappate agli ospizi e aggrappate agli stucchi ragnatelosi, fra paillettes e claquettes, traboccanti di vitalità e vivacità da terza età davanti a spettatori fra l’inorridito e l’imbarazzatissimo. Per questa Evita, la scena appare circonfusa da quei murales che specialmente in Messico rappresentano e significano lavoro nazional–popolare fra Rivoluzione e Governo e Università e grandi alberghi per comitive ‘inclusive’ e oscure storie di delitti politici d’altri tempi con vittima (ovviamente) Trotzkij. Pubblico, qui, di un’effervescenza, una turbolenza, una stravaganza, una volgarità, piuttosto straordinarie. Tute d’oro e torsi nudi e scarpe fluorescenti come in quelle migliaia di monumenti ai caduti che scorrazzano per tutta Roma dopo le partite di tipo sudamericano, con una minuscola base formata da una Cinquecento rossa che si espande in numerosi combattenti e reduci sudati e sormontati da tricolori sventolanti nelle dimensioni della facciata di Montecitorio. Ecco lì un enorme schermo con un orrendo western sentimentale molto argentino, e lei eroina di mèlo per una platea di stravaccati subitamente sbigottiti per un annuncio radio molto ufficiale: “Evita Perón è entrata or ora nell’immortalità”. Qui si sviluppa un doppio funerale sublime: sul megaschermo, le vere esequie di Evita, cine–documentate e assolutamente sensazionali; e sulla scena, un corteo funebre quasi altrettanto grandioso e interamente coreografato, danzante. Con gran pianto di popolo, e kolossal glorificazione corale, cimiteriale e celestiale, da Mahagonny sudamericana di massa, nella patria del tango. Un gran Requiem per Evita, con doppia bara, una su e una giù, per offrire la salma agli idolatri in tumulto. Fra quegli adoranti lacrimanti si staglia sempre più vistosamente soprattutto un popolarissimo divo rock, David Essex, ovviamente identico all’iconografia dei posters del ’68, ma già applauditissimo Gesù Cristo in Godspell, ai tempi di Jesus Christ Superstar. Ed è lui, il mitico Che Guevara nato argentino a Rosario, commosso nell’esaltare con una beguine molto ballabile tutte le gran doti teatrali e le magnifiche interpretazioni della defunta. Che per di più era di sinistra, espressa dal proletariato e amicissima delle masse, che ora sfilano desolate singhiozzando e cantando un Salve Regina in latino– argentino sacro e pecoreccio. Fra le masse, la più singhiozzante è proprio lei, Evita (l’eccellente ma un po’ fiacca Eiaine Paige) che segue inconsolabile il proprio funerale col feretro e il cantico. Tenta invano di consolare il Che lacrimante. E quindi in uno sfacciato flashback da vecchia Hollywood in bianco–e–nero stabilisce di piangersi un po’ addosso rievocando la propria vita e carriera. Sempre accompagnata dal Che talmente storico e presentatore da risultare vero protagonista: ‘agisce’ tutti come marionette, con l’evidente presupposto che Evita fu soprattutto una fantasia masturbatoria e consolatoria in favore dei meno abbienti. Eccola, ambiziosa ragazza provinciale, in uno spettrale night–club con dietro una famigliaccia che sogna la gran città attraverso proiezioni di fotografie stupende che si riflettono su enormi specchi; e anche rifrazioni musicali tra Weill e Bernstein (Candide), e costumi bellissimi. La scoperta o conquista di Buenos Aires è Balzac, è Rastignac, su tanti schermi come ai tempi di Abel Gance. Si risolve presto in un girotondo di amanti — tutto un allacciarsi di braghette in flanella o in divisa attraverso una porta girevole, con commenti del Che — mentre un coretto di generali giocherella su sedie a dondolo, e sullo sfondo le prigioni e le esecuzioni si fanno tremende. Non nuovissime solfe del «mostrare la vera faccia». In Cambogia o nel Cile, chi muove un dito o fa una piega di fronte alle vessazioni? Ma nelle nostre democrazie un po’ malandate, tutto un daffare perché il Potere butti la maschera, mostri il ghigno e il regime e il fascio. Così quando si sta malissimo, tranquilli: finalmente si è capito dove si sta. Intanto, coreografie magnifiche: balli e tornei di polo della vecchia oligarchia miliardaria tutta marsine e cilindri e diamanti e piume e bianco–e–nero edoardiano da My Fair Lady. E marce preoccupanti di plotoncini militari in vivaci uniformi bianche–giallerosse–blu da Walt Disney. Ma con un affiatamento terribile, e minacciosi occhiali da sole, modello Gheddafi o Pinochet. Ed ecco l’incontro indimenticabile! Perón ha appena finito un comizio, che vediamo di sguincio, come dalle quinte di un palcoscenico; e lei, attrice di successo, carica in questa fase di pellicce e colbacchi e stole strabilianti, lo conquista col suo chic e la sua manina, gli getta fuori dal letto capitonné una brava ragazza “fatta in casa” che in fondo gli andava benissimo, e sopraffa le sue inclinazioni casarecce. Con un po’ di soldi all’estero, colazione tardi a letto, cocktails in piscina, qualche piccina da accarezzare sulle ginocchia… Qui gli autori di Evita, tutti (fra cui Tom O’Horgan di Hair) mostrano una certa simpatia per il poveruomo Perón e i suoi mediocri modesti limiti. Invece il Che, in scena, continua a esaltare Evita perché ha portato avanti la sua rivoluzione. Così la camera nuziale della coppiaccia diventa un trionfale comizio nella gran tradizione di Arturo Ui, man mano invaso da tutti i sindacati possibili, con posters e striscioni sempre più enormi e impressionanti, in una grafica costruttivista rossa e nera molto più a sinistra di “Rinascita” o “Lotta Continua”. Acclamazioni e invocazioni talmente insistenti dei compagni della metalmeccanica e della zolla, dei tessili e del petrolchimico, dei policlinici e dei telefoni, che la coppiaccia soccombe all’entusiasmo superproletario nel finale di primo tempo più costruttivista ed engelomarxista che si sia mai visto dai funerali di Lenin o Stalin. Anche un Ballo Excelsior contadino e operaio, nelle gigantografie della vera Evita ricoperta di ermellini e diamanti fra i descamisados in adorazione. (E il Che: giusto! vedete? è così che bisogna fare!). L’inizio del secondo tempo è altrettanto sensazionale. Sulla balconata della Casa Rosada, Perón e tutta la sua oligarchia si spogliano delle alte uniformi e degli abiti da cerimonia davanti ai descamisados contenti, per restare in camicia come loro. E via le cravatte, via le marsine e i plastrons, via le giacche da generali cariche di decorazioni da chissà quali guerre — finché arriva lei, in una nube di tulle e costellata di perle, dichiarando (approvata dal Che) che le masse vogliono applaudire soprattutto un gran lusso di sinistra, e non di destra. E infatti la osannano, deliranti, come se fosse una Madonna del Pilar o Belén o Medjugorje. Passano sugli schermi multipli le immagini autentiche e storiche di un’Argentina popolare e povera che invece di tirarle il collo le si butta ai piedi come se fosse una Wanda Osiris di Guadalupe. E lei, sempre fin troppo avallata dal Che in tanghi struggenti con plettri proclama “sono Christian Dior dalla testa ai piedi, soltanto per le masse dalle quali sono uscita e che continuo a rappresentare in tutto!”. Assisa su un trono fatto di poveri esegue donazioni e promuove fondazioni in contanti coi soldi portati via ai ricchi, mentre molti altri soldi partono per la Svizzera e la dittatura chiude giornali e sequestra libri e il musical sfoggia ottimi sentimenti democratici. E in pigiami di raso bianco su letti di velluto rosso, sempre con molta polizia segreta fin dentro i comodini, ecco qualche lezione di praxis peronista: “Gli esuli sono più divertenti dei morti”, riflette il perplesso generale, tastando sederi di piccine. Ma qui la documentazione fotografica e cinematografica diventa impressionante, oltre qualunque immaginazione felliniana di Harold Prince. Quando Evita incomincia il grand tour di ospedali e orfanotrofi, i cappellini e le stole si lasciano indietro sia Elsa Schiaparelli sia Salvador Dali, o Bunuel. Incontri dementi con Franco a Madrid. Ma la visita a Roma è ancora meglio. Ecco il Conte Sforza con una ‘magiostrina’ di paglia da suonatore di banjo anni Venti che strappa urli di felicità al pubblico: è la stessa di Nino Taranto quando fa Ciccio Formaggio, ah se lo sapessero. Ma soprattutto la benda nera da pirata in Vaticano del vecchio Maestro dei Sacri Palazzi strappa ovazioni punk, perché saltella nervosissimo su un piede solo davanti a questa diva superstar: momento supremo per gli smodati fans di Mick Jagger abituati a trafiggersi di tutto, ma all’occhio non si era ancora pensato. Una platea sempre più eccitata e scostumata, mentre la musica si fa piuttosto banale: vecchi valzer e vecchie solfe spagnoleggianti, durante quadri sempre più prevedibili. L’oligarchia viene dunque spogliata, Evita cade malata, rientrano i plotoncini che fanno delle marcette prepotenti, di tipo cinese, e così intanto la poverina muore nel suo letto, in un accesso di signorilità finale dello spettacolo, che vorrebbe chiudersi accorato e sommesso. Con l’inferma in clinica che noiosamente entra nella bara già vista all’inizio. (Anni e anni dopo, al Theater an der Wien, la formula di Evita riapparirà utilizzata nel musical austriaco Elisabeth, a proposito della sfortunata imperatrice Sissi e del suo uccisore, l’anarchico Luccheni).
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