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UGUALI, MA A TESTA IN GIU’.

Cisco, del Clarìn, legge solo le pagine sportive.


Una volta divorava gli elzeviri di Félix Luna, gli editoriali e i reportaggi europeici, una volta.
Scuoteva la testa, quando vedeva immoratalare Napoli, la sua Napoli, come una Partenope ebbra,
stuprata, scapigliata, ammonnezzata.
“Che pena”, commentava con la pava sul fuoco, “che pena”.
Poi, da quando, nella cronaca internazionale s’era imbattuto in un delirante assolo d’Algañaraz ,
“…referencias al sexo oral, que los italianos llaman il pompino”, aveva desistito nell’andare oltre,
poi, nella lettura del Clarìn.
‘Ccammoffa, và. Zannemo e nipìpom.
Eccola là, l’italietta boreale, quella a testa in su.

Mai una notizia esaltante dai risultati del Clausura, poi. La storia si ripeteva incessante, alla
fine anche quest'anno il Ferrocarrill Oeste sarebbe rimasto lì dov'era, e a lui sarebbe toccato
dismettere i sogni, riporre la maschera, deturpare l’espressione di cordiale soddisfazione à la Amaro
Fuentes . Non ci sarebbero stati giri in taxi con la bandiera al vento, la comitiva del bar non
avrebbe urlato Forza Ferro, cazzo e a far festa sarebbero stati sempre quei sineze d'irdame del
Boca. A lui non sarebbe rimasto che imprecare rabbioso contro il giocattolo© menomato, quel

cavallino zoppicante che non ne riusciva a buttar dentro una che fosse una, possano passà
n'guaio.
Ah, le imprecazioni criptiche di Cisco… Mozziconi di una lingua d’altri tempi. Parole
intrise di aguardiente raffermo, muffa, sangue, asfalto dei marciapiedi. Che poi i ragazzotti del
barrio, quando lo vedevano inforcare la porta del Café Caballito, sgomitavano per tallonarlo.
“Mosva, sombre!”, s’incitava, e che gare per sedersi al tavolo in fondo, dove tra una Quilmes e una

 Giornalista del Clarìn bonaerense che s’è preso la briga di raccontare, nel luglio 2008, l’epopea BerlusCarfàgnica.
 Nota affermativa: sì, in Argentina è lecito utilizzare senza virgolettato la parola pompino.
 Protagonista di El Hincha di Mempo Giardinelli.
© © Roberto Arlt.
 Il Ferrocarrill Oeste ha sede nel barrio bairense di Caballito.
manciata di cacahuetes si stilavano liste gloriose di lunfardicità da mandare a memoria, fare
proprie, pidocchi da gettare sulla zabeca imbrillantinata della lingua sintetica che non sentivano
loro, non dei Klimowicz, non degl’Higgins, non dei Campagnuolo. Non di Cisco.

C’era stato, per Cisco, un tempo in cui, prima di macchiarsi le dita con l’inchiostro del Clarìn a
Parque Centenario, si perdeva nei tramonti del golfo di Napoli. Il sole calava, il sole sorgeva, raggi
radiosi dietro al Vesuvio e in faccia all’avvenire. Sfogliava L’Avanti! e guardava avanti. Tanto.
Troppo, forse.
Sicuro che prima o poi gli sarebbe arrivata la lettera del Podestà, di quel passo, e chi lo sa, mamma
mia benedetta, dove gli sarebbe toccato marcire, a dipingere quadri e ristrutturare case, far punture
e legger libri, vitanaturaldurante e forse più, nell’attesa d’una processione in cui il crocefisso,
impigliandosi nei rami, gl’avrebbe fatto comprendere l’essenza più profonda dell’esistenza, epifania
rivelatrice .
Quando gli avevano suggerito di sparire per un po’, aveva preso iniziativa e s’era fatto ingoiare nel
ventre metallico dell’ennesima balena transatlantica, destinazione Puerto Antipode.
Ché là, da Bolìvar in poi, erano tutti uguali, eppure tutti diversi.
Circolava una storiella, a Baires, si diceva “i messicani discendono dagli Aztechi, i peruviani dagli
Incas, gli argentini dalle navi”. Nella messe di razze, i polacchi si confondevano coi
gallegos che si univano ai tedeschi, e così via. E poi gli italiani, papolitani. Milanesi,
papolitani. Napoletani, papolitani. Zenesi, papolitani.
Da Palermo a La Boca, non c’erano bianchi, neri, rossi. Tutti erano blu.
Essenzialmente, profondamente blu.
Che c’entra, alcuni blu oltremare, altri azzurri; cert’altri celestini.
I celestini soprattutto, quelli sì che erano teste di zoca, tipo quel Celestino Petray là,
gallego d’irdame, che aveva avuto vita facile a scroccare applausi e simpatie

 Sarebbe semplice, fin troppo, rivelare fin d’ora la chiave di lettura con la quale scardinare la serratura espressiva di
Cisco. Ci si arriverà, gradualmente. Per gli impazienti, i codardi, i seriosi, e chi odia il potere mistico della laròpa, segue
una spiegazione esaustiva, anticipata e spicciola. Qua, ma a testa in giù.
Semicerta è invece la derivazione da "Lumbardo".]
Cabeza è zabeca. Testa sarebbe state. E così via. [Niente a che vedere, o forse sì, col Lonfo, che non vaterca né gluisce.
che è un vesre, ovvero un revers. Un linguaggio che ha il suo motore genetico nell'inversione delle sillabe. Esempio?
L'unico senso d'appartenenza rafforzato da Cisco è a sé stesso. Ed infatti il suo Lunfardo è sui generis. Di classico ha
serve a rendere un messaggio criptico e a rafforzare il senso d'appartenenza.
Il Lunfardo è un argot, e questo spiegherà poco. Un argot è uno slang, insomma, un linguaggio gergale. Tecnicamente,
 Stop. Se si è scorso un vile riferimento a Levi, si è nel giusto, ma per metà. L’altra metà la devo ad un racconto di mia
nonna secondo il quale, in un paese dell’entroterra, il crocifero della processione, rivolto all’effige impigliata tra i rami
di un pesco in fiore, avrebbe intimato “ah, qui te voi fermà?”.
scimmiottando quel poveraccio di Cocoliccio.
Cocoliccio, come Cisco, era nato Francesco e da Francesco s’era trovato con le spalle al muro, in
quel profondo Sud italico dimenticato da Dio e dalle genti. Vomitando bile era finito a dare di
zamàrra nel circo itinerante dei fratelli Podestà, lontano anni luce dalle epopee gloriose dei Frank
Brown e dei Pepino 88. Guardava i trapezisti sfidare il fato con “el vuelo del condor”, i lanciatori
di coltelli denudare vallette e suscitare clamore, e lui sempre a dar di zamarra e mugugnare prima o
poi glielo faccio vedere io, all’anima di chi t’è stramuort, di che pasta songo fatt’.
Poi, una sera, mentre s’inscena il Juan Moreira, il Cocoliccio aveva avuto la sfortuna – mamma mia
santissima – di trovarsi catapultato sotto le luci della ribalta, e l’ancor più menagrama sventura
d’improvvisare uno squinternato “me quiamo Franchisque Cocoliche e songo cregollo gasta lo
güese de la taba e la canilla de lo caracuse, amique”, che chi gliel’aveva chiesto di sottolineare
un’argentinità che non era sua, a Francesco, chi?
E il Petray, avvoltoio fagocitante carcasse d’umana varietà, mercenario del
Sainete, ne aveva ritratto a tinte fosche il disadattamento, la sgargiante
policromia degli abiti, il passo dinoccolato, l’ingarbugliata espressività, “me
quiamo Franchisque…”, in monologhi dal crescente successo. Nel bailame
delle arene rioplatensi, dàgli con le risate, i puah!, i buh!, gli eh? quando
sbucava dalle pieghe rossovellutate del sipario la siluetta maldestra del tano
cabròn.

Sputare sulle foto del Petray immortalato in certe scene di Nobleza Gaucha col volto fiero e
ceronato non era abbastanza, e certe volte c’erano da menare le mani, da sfoderare il grugno più
minaccioso, da farsi cuchilleros al ritmo del bandeòn. Così si finiva per passare nottate e giornate
intere in gabbia, giù al commissariato, dove la zialipo d’irdame apostrofava tano chiunque
sventolasse sul documento un nome italiota, un cognome italiota, chiunque portasse sul collo ben
salda una testa italiota.
Non solo. Ogni tano, in cella, era un lumbardo, un lumbardo perro, cane d’un tano, anche se non
aveva mai fatto l'usuraio, anche se di cognome non faceva Cepparello.
La geografia dell’odio aveva i confini sfocati, indefiniti, capovolti.

 Frank Brown (1858-1943), fu un celebre pagliaccio del circo Podestà, uomo di grande cultura, ammirato dagli
intellettuali argentini del tempo. Se capitate per il Cimitero Britannico de la Chacarita, dovreste trovarlo là.
Pepino 88, invece, è un personaggio classico del teatro rioplatense, definito el payaso criollo.
Anche quella del buzzo, sia chiaro, ché c’era chi aveva lasciato nelle mani imperite dei filippini e
dei polacchi le ricette della cotoletta alla milanese e della pizza napoletana, e non aveva nemmeno
fatto in tempo a dargli le spalle che questi già gli avevano piantato sulla schiena la pugnalata
cuciniera della milanesa papolitana.
I filamenti appiccicosi di una diversità forzatamente omogeneizzata t’avviluppavano impietosi.
E in quella tela di ragno, c’erano meno donne disposte a baciarti che polacchi alcolizzati pronti a
sfregiarti il viso al minimo sgarro .

Oggi Cisco non bada più a certe frivolezze.


Passa i pomeriggi in casa a curare il mate, a preparare il mate, a sorbire il mate. A
sperimentare infinite variazioni sul tema del mate. A volte Fernanda, drematàpude, si
confonde ed acquista, invece de La Merced, la yerba Nobleza Gaucha, come la
pellicola del cinematografo. Sorride, Cisco, quando si sorprende a rispolverare le
immagini degli sputacchi spalmati sul faccione accigliato del Petray. A la mierda, Celestino!
Suggere mate dalla bombilla d’argento e ballare con un pensiero triste sguinzagliato dalla
fisarmonica di Anibal “Pichuco” Troilo, nulla più, nelle giornate di Cisco.
I giovani, che tessono con le parole tele fitte d’inglesità, hanno smesso di lunfardare da un bel
pezzo, ormai.

A Cisco, certe volte, viene da immaginare come sarebbe stata, la sua vita, se fosse rimasto a Napoli.
Se fosse Còrdoba, o Rosario, ad affogare nella monnezza.
Forse avrebbe tifato Savoia, calcisticamente parlando, sognando il
giorno in cui, campione d’Italia, avrebbe finalmente potuto girare a
testa alta, fiero, orgoglioso.
E se un Algagnetti qualsiasi si fosse permesso, sul Mattino, di
raccontare le intercettazioni tra il premier argentino e Pampita fresca
Ministro delle Opportunità Dispari, da quel giorno avrebbe smesso di
leggere le pagine della politica, della cronaca, dello spettacolo, Cisco.
Solo Savoia e Mario Merola.
Il Cisco porteño e quello partenopeo, Jekyll ed Hyde, sarebbero stati uguali, ma diversi.

Questa la devo a Santos Discépolo: “Il tango, quel pensiero triste che si balla”.
Come in quel quadro di Cassell, in cui scorgere la somiglianza tra i due io scissi e resi speculari
dalle ineffabili trame del destino è tanto immediato quanto notare, a primo acchito, quel non so che
di diverso.
Anzi, di differentemente uguale.
Un’uguaglianza a testa in giù.

The influence of Morality or Immorality on the Countenance, 1852.

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