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Matematica fra Guerra e Pace*

Giorgio Gallo

La matematica e la guerra
Il rapporto fra matematica e guerra è stato sempre molto forte. Già Platone, nel settimo capitolo
della Repubblica, afferma come “la conoscenza del calcolo e dei numeri” sia necessaria al guerriero
“se egli vuole capire qualcosa di tattica, o piuttosto se vuole essere un uomo”. E poco dopo sostiene
che “sarebbe conveniente imporre questa disciplina per legge e persuadere coloro che devono
esercitare nella città le più alte cariche a indirizzarsi verso la scienza del calcolo e a studiarla non
superficialmente, ma fino a raggiungere col puro intelletto la contemplazione della natura dei
numeri, senza usarla per vendere e comprare, come fanno i mercanti e i bottegai, ma per la guerra e
per facilitare la conversione dell'anima stessa dal divenire alla verità e all'essere.”1
Il rapporto fra guerra e matematica è stato però abbastanza limitato, almeno fino al secolo XIX. È
in questo secolo che le esigenze dei calcoli balistici si incontrano con il nascente Calcolo
Numerico,2 ed è proprio la balistica una delle aree applicative che contribuiranno allo sviluppo del
Calcolo Numerico in Italia, soprattutto con l'Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo
(INAC) del CNR, fondato da Mauro Picone nel 1932. Come scriverà in seguito Mauro Picone, “La
collaborazione coi Ministeri dell'Aeronautica, dell'Esercito e della Marina, divenne un sistema,
governata da una speciale convenzione. Si deve all'INAC, per esempio, la compilazione degli
abachi per il tiro di bombardamento da aereo, che dettero, dal 1935 in poi, alla nostra Arma aerea
una ragguardevole potenza offensiva.”3 La data non è casuale: nell'ottobre 1935 inizia l'invasione
italiana dell'Etiopia, dove l'aviazione italiana ebbe un ruolo significativo, con l'utilizzo anche di
bombe a iprite (Rochat 2005), uno dei primi esempi di utilizzo da parte dell'aviazione di armi
chimiche.
La seconda guerra mondiale segnerà un punto di svolta nei rapporti fra la matematica e, più in
generale la scienza, e la guerra con la nascita della Ricerca Operativa (RO). Disciplina che si
caratterizza per l'uso di strumenti e modelli matematici per la soluzione di problemi decisionali
complessi,4 la Ricerca Operativa nasce dalle esigenze belliche, prima in Gran Bretagna e
successivamente negli USA. Un particolare ruolo ebbe il cosiddetto “Blackett's Circus”,5 un gruppo
di scienziati che, costituitosi nel 1940 sotto la guida del fisico Patrick Blackett6 con il nome di
“Anti-Aircraft Command Research Group”, aveva inizialmente come obiettivo quello di ottimizzare
il dispiegamento dei radar e delle batterie per migliorare la difesa aerea, e che successivamente ebbe
un ruolo cruciale nella lotta contro i sottomarini tedeschi nell'Atlantico. I risultati furono così
positivi che molto presto dalla Gran Bretagna la Ricerca Operativa venne importata anche negli
USA, dove coinvolse personalità scientifiche quali Kimball, Morse e von Neumann. Negli USA la
RO cambia anche caratteristiche rispetto alla sua origine inglese. “Quella che era iniziata in Gran
* Lavoro presentato al convegno “Matematica e democrazia”, Orvieto, 4- 6 aprile 2014, e in corso di pubblicazione
sugli atti del convegno.
1 Sull'importanza della matematica per Platone rimandiamo a (Toffalori e Leonesi, 2013).
2 Già nel settecento Eulero si era occupato di balistica (Ronald Calinger,
http://matematica.unibocconi.it/articoli/leonhard-euler-vita-e-pensiero, visitato il 20/05/2014).
3 M. Picone, La Mia Vita, 1972 (http://media.accademiaxl.it/pubblicazioni/Matematica/link/PICONE_vita.pdf,
visitato il 23/05/2014).
4 “La Ricerca Operativa studia, progetta ed impiega modelli matematici, metodi quantitativi, strumenti software
avanzati, simulazione ed altre tecniche analitiche per affrontare e risolvere problemi complessi ed identificarne le
soluzioni”. Questa è la definizione di Ricerca Operativa (RO) che troviamo nel sito dell'AIRO (Associazione
Italiana di ricerca Operativa). Simile è ciò che si può leggere nel sito di IMFORMS, l'associazione americana di RO:
“Employing techniques from other mathematical sciences, such as mathematical modeling, statistical analysis, and
mathematical optimization, operations research arrives at optimal or near-optimal solutions to complex decision-
making problems.” Nel mondo accademico italiano, la RO è inclusa fra i settori disciplinari in cui è suddivisa la
matematica, con la sigla MAT/09.
5 Si trattò di un gruppo interdisciplinare contenente, fra gli altri, due matematici e due fisici matematici.
6 Blackett nel 1948 fu insignito del Nobel per la fisica.
Bretagna come una attività empirica che metteva al centro il lavoro sul campo e la conoscenza
implicita ottenuta attraverso l'osservazione in tempo di guerra, presto si venne trasformando in una
disciplina più astratta, distante e teorica” (Mirowski 1999). Questa differenza di approccio è
evidente ancora oggi: mentre la Ricerca Operativa inglese tende a dare grande spazio a
considerazioni e valutazioni qualitative, quella americana è molto più quantitativa e formalizzata.
Il fatto interessante è che non abbiamo qui uno dei tanti casi di tecniche matematiche esistenti che
vengono utilizzate per la guerra, o anche di nuove tecniche sviluppate per rispondere a domande
specifiche che nascono da esigenze belliche. È una nuova disciplina, che Mirowski (1999) chiama
“una Scienza della Guerra”, quella che viene sviluppata.7 È certamente vero che “Il sistema di
interazioni che fu sviluppato dai gruppi di RO fra scienziati e militari negli Stati Uniti divenne il
modello per le commissioni che nel dopo guerra svolsero funzioni di consulenza per le forze armate
sullo sviluppo di armi e su questioni tattiche e strategiche” (Fortun & Schweber 1993), e da questo
sistema di interazioni ebbe origine la RAND Corporation, una importante società di consulenza che
operava in stretta collaborazione con l'aviazione militare USA, e dalla quale era generosamente
finanziata. Alla RAND hanno lavorato fra gli altri i premi nobel Kenneth Arrow e John Nash.8
Come scrive Chalmers Johnson (2008), “La RAND divenne una componente istituzionale chiave
nella costruzione dell'impero americano della Guerra Fredda. [… ed] ebbe un ruolo fondamentale
nel dare a questo impero la struttura militaristica che ha ancora oggi e nell'ampliare enormemente le
richieste ufficiali per bombe atomiche, sottomarini nucleari, missili balistici intercontinentali e
bombardieri di lungo raggio. […] Molto del lavoro della RAND era ideologico, mirato a sostenere i
valori americani dell'individualismo e della gratificazione personale e a contrastare il marxismo, ma
il suo orientamento ideologico era nascosto sotto statistiche ed equazioni, che facevano apparire le
sue analisi “razionali” e “scientifiche”.”

Dalla guerra alla pace


Parlare di pace è sempre critico. Da un lato c’è una certa ambiguità della parola pace, parola spesso
abusata. Già se ne era accorto, nel primo secolo, Tacito che nel capitolo 30 dell’Agricola mette in
bocca a un capo dei britanni, Calgaco, queste parole con riferimento ai romani: “infine, dove fanno
il deserto, dicono che è la pace”. Oggi le guerre vengono spesso presentate come operazioni di pace
oppure interventi umanitari. Dall’altro c’è il fatto oggettivo che il termine pace ha una molteplicità
di significati. Nell’ambito degli studi sulla pace, ormai presenti a livello internazionale nel mondo
accademico da oltre 50 anni, si è progressivamente spostata l’attenzione da un’idea di pace
negativa, come assenza di guerra o di conflitto violento, alla più ampia idea di pace positiva. Pace
in quest’ultimo senso significa una situazione in cui a ciascuno e a ciascuna è assicurato “il pieno
godimento di tutti i diritti e dei mezzi per partecipare pienamente allo sviluppo endogeno della
società” (Mayor 2001, p.451).
Una distinzione importante che viene fatta nell’ambito degli studi sulla pace è quella fra violenza
diretta, con le sue diverse forme, da quella fisica a quella psichica, e violenza strutturale (Galtung
1969). Mentre per la prima è usualmente ben individuabile chi la compie, oltre che, naturalmente,
chi la subisce, la cosa è molto meno chiara per quel che riguarda la seconda. Qui non c’è un attore
preciso a cui attribuire la responsabilità della violenza, ma la violenza ha origine piuttosto nelle
strutture sociali, politiche, economiche o anche culturali della società. Non che non ci siano
7 Mirowski coglie bene alcuni aspetti della RO, soprattutto nella sua fase iniziale. Va però detto che poi la RO si
sarebbe sviluppata notevolmente nel civile, svolgendo un ruolo fondamentale di supporto all'analisi e alla soluzione
di problemi complessi in tutti i settori della società. Non è mancata all'interno del mondo della RO una, sia pure
minoritaria, attenzione anche ai problemi etici e a quelli dello sviluppo umano. Ad, esempio nell'associazione
europea di ricerca operativa (EURO) esistono un gruppo di lavoro sull'etica e uno sulla RO nei paesi in via di
sviluppo, in quella americana è stata costituita una commissione (Doing Good with Good OR) per affrontare le
principali sfide che l'umanità si trova oggi di fronte, e in quella inglese si è sviluppata la cosiddetta Community-
Based Operational Research con lo scopo di aiutare, con gli strumenti della RO, le fasce più svantaggiate della
società.
8 Uno dei membri della divisione di fisica della RAND è stato Herman Kahn, teorico della guerra termonucleare, che
ha analizzato usando anche la teoria dei giochi, e ispiratore della figura del Dott. Stranamore nell'omonimo film di
Stanley Kubrick.
responsabilità, ma si tratta di responsabilità collettive più che individuali. Ad esempio, l'essere
espulsi dal lavoro a causa di una crisi economica che costringe una azienda a chiudere, in una
situazione economica in cui trovare un nuovo lavoro risulta molto difficile, è certamente una forma
di violenza, la cui responsabilità non è in genere attribuibile a un singolo attore facilmente
individuabile. Avendo così caratterizzato i diversi tipi di violenza, potremmo dire che la pace
negativa si contrappone alla violenza diretta, mentre la pace positiva si contrappone piuttosto a
quella strutturale.
Il ruolo della matematica di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo fa riferimento
direttamente alla guerra e quindi alla violenza diretta. Più recentemente la matematica ha trovato un
suo ruolo anche all'interno dei meccanismi che portano alla violenza strutturale. Un tipico caso è
quello della finanza creativa che ha caratterizzato gli ultimi decenni. La crisi del sistema finanziario
iniziata nel 2007 ha evidenziato i problemi connessi alla progressiva finanziarizzazione del sistema
economico mondiale. Il valore degli attivi finanziari globali è passato dal 1980 al 2007 da 27 a 241
trilioni di dollari (in moneta costante), mentre il PIL globale, sempre in termini reali, è passato da
27 trilioni a 54. Quindi mentre nel 1980 l'ammontare degli attivi finanziari era approssimativamente
equivalente al PIL, nel 2007 era diventato 4,4 volte il PIL. Nello stesso periodo, l'ammontare dei
derivati trattati , cioè scambiati fra privati al di fuori dei mercati borsistici, è passato da 92 a 683
trilioni di dollari.9 Come osserva Rogalski (2010), questo processo ha portato nell'Europa
occidentale a una redistribuzione della ricchezza a scapito del lavoro salariato: “I 30 “anni di gloria”
1945-1975, nei quali l'economia […] ha permesso un qualche sviluppo sociale a vantaggio dei
lavoratori salariati e la restrizione dei margini di profitto dei capitalisti, sono stati seguiti da 25 anni
in cui la lotta di classe per la ripartizione del plusvalore ha avuto una brusca svolta a svantaggio dei
lavoratori salariati: in Francia circa 10 punti di valore aggiunto sono stati trasferiti dai salari ai
profitti”. Il processo di redistribuzione a favore dei percettori di profitti e di redditi di natura
finanziaria si è accentuato negli ultimi anni, con l'effetto di un forte aumento della disoccupazione,
e in generale di una peggioramento delle condizioni di vita di gran parte della popolazione.10 Questo
è proprio un esempio di ciò che abbiamo chiamato violenza strutturale. In tutto ciò troviamo
presente la matematica, diventata ormai una componente essenziale nelle speculazioni finanziarie e
quindi uno strumento importante nel processo di finanziarizzazione dell'economia. Non è un caso
che negli ultimi decenni il dottorato in matematica o in fisica sia sempre di più considerato un titolo
preferenziale per essere assunti nel settore della finanza, a Londra o a New York. Al contrario di ciò
che avveniva negli anni '80, oggi “solo i possessori di dottorati in matematica e in fisica sono
considerati adatti a padroneggiare le complessità dei mercati finanziari.” (Korman 2011). Tutto ciò
purtroppo avviene nell'assenza di un significativo dibattito sulle responsabilità morali dei
matematici: come osserva Korman, “il discorso sul ruolo della matematica nella società non è parte
della consapevolezza generale e non è incoraggiato dai dipartimenti universitari”.
Da quanto abbiamo detto finora segue che la costruzione della pace è un impegno tutt’altro che
banale, che va ben al di là delle azioni di mediazione fra parti in conflitto e di interposizione fra
belligeranti. Si tratta di un impegno che comporta la necessità di operare nella società per
trasformarla profondamente, per cambiare quelle strutture da cui derivano ingiustizia e oppressione.
Accettando un certo grado di schematicità, le caratteristiche di chi intende impegnarsi in questa
direzione possono essere così individuate:
◦un forte senso etico, un’etica che abbia l’Altro come criterio fondante;
◦strumenti critici per comprendere/decifrare la realtà in cui viviamo;
◦un approccio nonviolento nell’agire per cambiare questa realtà.
Il punto qui è cosa c’entri in tutto ciò la matematica. In effetti per quel che riguarda il primo punto
la matematica in quanto disciplina c’entra poco. C’entra piuttosto il matematico in quanto persona
che vive in una data società e che con il suo comportamento può su essa influire. E può influire
usando le sue specifiche competenze e conoscenze. Di questo tratteremo nei prossimo paragrafo nel
9 Questi dati sono presi dal libro di Luciano Gallino (2011), al quale rimandiamo per una approfondita analisi
dell'argomento.
10 Su questo punto rimandiamo, oltre al già citato Gallino, anche a Piketty (2014).
quale presenteremo molto brevemente alcuni ricercatori che, proprio a partire da precise scelte
etiche, hanno ripensato il proprio lavoro scientifico orientandolo verso un impegno contro la guerra
e a favore della pace. Per gli altri due punti è invece la matematica in quanto tale che può avere un
ruolo molto significativo, anche a livello epistemologico, e questo sarà l'argomento dell'ultimo
paragrafo.

Una ricerca per la pace


Accanto ai matematici che, con maggiore o minore avvertenza, si sono nei fatti posti al servizio
della tecnologia bellica o più in generale di un sistema che produce ingiustizia e violenza, ce ne
sono stati altri che, guidati da un forte senso etico, hanno cercato di ripensare la propria attività di
ricerca in modo da renderla funzionale alla costruzione della pace, intesa in senso ampio.11 Si tratta
di ricercatori che spesso si sono mossi lungo percorsi scientifici innovativi e inesplorati, dando così
origine a quella che possiamo definire una “ricerca per la pace”.
Un primo esempio, anche in termini temporali, è quello di Lewis Fry Richardson, un fisico
matematico inglese che allo scoppio della prima guerra mondiale si trovava a lavorare presso il
servizio meteorologico nazionale della Gran Bretagna. In questo settore ha dato rilevanti contributi
proponendo uno schema di previsioni atmosferiche per mezzo di equazioni differenziali, il metodo
usato oggi. Fra i suoi contributi va ricordato anche un metodo per risolvere sistemi di equazioni
lineari noto come “modified Richardson iteration”, metodo che ancora oggi viene insegnato. Si è
anche occupato di turbolenza atmosferica, e da lui prende il nome il “numero di Richardson”, un
parametro adimensionale della teoria della turbolenza.
Quacchero e come tale pacifista radicale, rifiutò di arruolarsi, così perdendo la possibilità di fare
una carriera accademica dopo la guerra. Andò tuttavia lo stesso al fronte lavorando presso il
servizio di ambulanze organizzato dai quaccheri. Dopo la guerra, quando il servizio meteorologico
fu preso in carico dai militari lo lasciò per motivi di coscienza. Da quel momento si dedicò allo
studio delle condizioni che portano alle guerre usando modelli matematici12, e si mise a studiare
psicologia ritenendo la dimensione psicologica essenziale per comprendere il fenomeno 'guerra'.
Propose un modello basato su equazioni differenziali per analizzare le dinamiche della corsa agli
armamenti (Richardson 1935), e cercò, utilizzando anche strumenti statistici, di comprendere le
condizioni che rendono più probabile un conflitto. In questa sua ricerca arrivò a ipotizzare una
qualche correlazione fra la lunghezza dei confini comuni tra due nazioni e la probabilità di un
conflitto fra esse. Questo lo portò a porsi il problema della misura dei confini che affrontò con una
tecnica che ricorda i frattali. I suoi risultati servirono da spunto per uno dei primi lavori di
Mandelbrot (1967) sui frattali.
Richardson fu un pioniere abbastanza isolato nel suo tempo. Infatti, fu solo dopo la seconda guerra
mondiale che cominciarono a prendere forma quelli che vennero poi chiamati Peace Studies. Fra i
fondatori di questa area di ricerca troviamo un altro matematico, Anatol Rapoport, anche lui come
Richardson un convinto pacifista, anche se partendo da presupposti completamente diversi.
Originario della Russia, Rapoport si trasferì con i genitori negli Stati Uniti nel 1922, all'età di 11
11 Qui parliamo di matematici in senso ampio, facendo riferimento a coloro che nella loro attività di ricerca usano in
modo fondamentale e sofisticato gli strumenti matematici e i cui contributi originali, anche se in settori diversi dalla
matematica, hanno tuttavia una significativa componente matematica.
12 Interessante la sua giustificazione dell'uso della modellistica matematica. “Il dovere tradurre i nostri ragionamenti
verbali in formule matematiche ci costringe ad analizzare con cura le idea espresse. Successivamente, la
disponibilità delle formule rende molto più facile dedurre conseguenze. In questo modo implicazioni assurde, che
sarebbero passate inosservate in espressioni verbali, sono evidenziate in modo chiaro e ci portano a correggere le
formule. Un vantaggio addizionale delle espressioni matematiche è la loro brevità, che riduce grandemente il lavoro
necessario per memorizzare le idee espresse. Se un'affermazione diventa l'oggetto di una controversia, il rigore e la
brevità permettono di accelerare la discussione in modo che le oscurità siano chiarite, gli errori riconosciuti e la
verità trovata ed espressa più velocemente di quanto non accada quando si seguono metodi di discussione più
complessi e pesanti. Le espressioni matematiche hanno tuttavia una loro speciale tendenza a pervertire il pensiero: il
rigore può essere spurio, esistente nelle equazioni ma non nei fenomeni da descrivere; e la brevità può essere dovuta
all'omissione di elementi importanti, semplicemente perché non possono essere matematizzati. Contro questi difetti
dobbiamo essere costantemente in guardia. Sarà probabilmente impossibile evitarli del tutto, e dobbiamo pertanto
riconoscerli e ammetterli” (Richardson 1993, p.67).
anni. Dopo avere studiato musica, nel 1941 ottenne un PhD in matematica presso l'Università di
Chicago. Durante gli studi fece per alcuni anni parte del partito comunista e fu sempre un forte
critico della politica estera militarista degli USA. Nel 1954 lasciò l'università di Chicago a causa del
pesante clima che si era creato con i lavori della commissione McCarthy. In quegli anni viene
introdotto al lavoro di Lewis Richardson, che costituì la base teorica del Center for Peace Studies
and Conflict Resolution dell'Università del Michigan, che fondò nel 1956 insieme a Kenneth
Boulding, un economista. Nel 1965, contribuì a organizzare nell'Università del Michigan il primo
teach-in contro la guerra del Vietnam. Nel 1970, proprio per la sua opposizione alla guerra, lasciò
gli Stati Uniti per trasferirsi in Canada, dove all'Università di Toronto ottenne una posizione di
Professore di Matematica e Psicologia. Nella stessa università successivamente, ormai in pensione,
tenne dei corsi di Peace Studies.
Come per Richardson, anche in questo caso abbiamo un matematico che non si limita a rispondere a
domande che vengono dall'esterno utilizzando gli strumenti matematici in proprio possesso o
eventualmente sviluppandone di nuovi. Ci troviamo invece di fronte a un matematico che dà forma
a una attività di ricerca originale e innovativa a partire da forti scelte di natura etica, politica e
sociale: “La più fondamentale delle passioni intellettuali di Rapoport fu l'applicazione di modelli
matematici astratti ai fenomeni biologici e sociali, da cui presero forma i suoi interessi per la
psicologia, il linguaggio, la Teoria Generale dei Sistemi, la teoria dei giochi e la soluzione dei
conflitti” (Hammond 2003).
La terza personalità che vogliamo qui menzionare è quella di C. West Churchman. Filosofo di
formazione, Churchman si trovò coinvolto durante la seconda guerra mondiale nello sviluppo della
Ricerca Operativa, in particolare mettendo a punto metodi statistici per il controllo di qualità delle
munizioni. Considerato uno dei fondatori della Ricerca Operativa, è autore, insieme a Ackoff e
Arnoff, del primo testo in cui questa disciplina viene presentata in modo sistematico (Churchman,
Ackoff, & Arnoff, 1957), ed ha anche avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo del pensiero
sistemico applicato ai problemi gestionali. Ha passato la maggior parte della sua carriera
accademica all'Università della California a Berkeley, insegnando nella School of Business. Dopo il
suo pensionamento, nella stessa università, ha insegnato corsi di etica in un programma di Peace
and Conflict Studies.
In una intervista in occasione del suo ottantesimo compleanno dirà di sé: “Ho frequentato una
scuola quacchera a Philadelphia. Ciò che mi hanno dato i quaccheri è stata la coscienza che è
possibile condurre una vita dedicata all'umanità” (van Gigch, Koenigsberg, & Dean, 1997). E in
effetti, mentre Richardson e Rapoport hanno concentrato il loro impegno su come usare la
modellistica matematica per studiare il conflitto nelle sue diverse forme, muovendosi quindi
prevalentemente nell'ottica di una pace negativa intesa come assenza di guerra, Churchman è
interessato piuttosto a quella che abbiamo chiamato pace positiva. Nella sua visione non è possibile
separare nella ricerca scientifica gli aspetti tecnici dalle conseguenze etiche dei risultati ottenuti
(Mitroff 1994). Particolarmente interessante il suo approccio ai sistemi basato sulla “disponibilità e
capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi dell'altro, cioè il riconoscimeto che ciascuna visione
del mondo è terribilmente ristretta” (Hammond 2005). Questo è l'atteggiamento che sta alla base
dell'empatia, componente essenziale di un atteggiamento nonviolento, punto questo su cui
ritorneremo nel prossimo paragrafo.

Matematica, pace e nonviolenza13


Abbiamo precedentemente indicato come componenti essenziali per la costruzione della pace la
capacità di analizzare criticamente e decifrare la complessa realtà in cui viviamo, e l'utilizzo di un
approccio nonviolento nell’agire per cambiare questa realtà. Analizzare e comprendere la realtà in
cui viviamo comporta la necessità di costruire modelli mentali della realtà stessa, modelli intesi
come strumenti di apprendimento e come strumenti che guidino nell’agire per modificare questa
realtà. Questo richiede capacità di analisi e di sintesi, di astrazione e di induzione. Sono proprio
alcune delle capacità che la cultura matematica fornisce.
13 Questo paragrafo è ripreso, con modifiche marginali, da Gallo (2012).
Anche per quel che riguarda la nonviolenza la matematica può dare un contributo, non tanto in
termini strumentali quanto piuttosto in termini epistemologici. La matematica può suggerire un
approccio alla conoscenza che aiuta lo svilupparsi di un atteggiamento nonviolento. La nonviolenza
è certamente uno degli ingredienti fondamentali in un processo di costruzione della pace. La
nonviolenza è spesso mal compresa e confusa con un atteggiamento di passività. Essa è invece una
modalità di lotta attiva, anche molto decisa, ma che rifugge dall’uso della violenza e che è sempre
costruttiva. Già nella lotta si cerca di realizzare, sia pure in modo parziale e graduale, quella realtà
di pace e di giustizia che è l’obiettivo della lotta stessa. In questo senso nella nonviolenza non si
distingue fra mezzi e fine: i mezzi devono essere improntati a quegli stessi valori che sostanziano il
fine. Alla base di un impegno nonviolento c’è una concezione etica dell’essere umano e della
società caratterizzata da:
a)massimo accesso a potere e benessere per tutti14;
b)uguaglianza e autonomia delle persone all'interno di una società;
c)empatia nelle relazioni interpersonali.
I tre punti elencati ruotano tutti intorno al tema del rapporto tra noi e gli altri, rapporto che sembra
importante vedere qui piuttosto dal punto di vista cognitivo che da quello affettivo (senza
naturalmente escludere l’importanza di quest’ultimo). Essi richiedono la capacità di riconoscere
l’altro come soggetto di diritti, portatore di valori e anche di verità. E forse questa è la cosa più
difficile: a volte è più facile provare compassione per l’altro, cercare di capire i suoi sentimenti,
piuttosto che riconoscere la possibilità che nelle sue posizioni ci sia del vero, che abbia almeno in
parte ragione, il che comporta la sempre difficile ammissione che anche noi possiamo essere in
errore. È questo il senso con cui usiamo qui il termine empatia: un atteggiamento verso gli altri
caratterizzato da uno sforzo di comprensione intellettuale, al di là di ogni attitudine affettiva
personale (simpatia, antipatia) e di ogni giudizio morale.
Riconoscere l’altro come portatore di verità significa comprendere come la verità non sia qualcosa
che si possa possedere una volta per tutte, ma piuttosto un processo di scoperta continua tutt’altro
che lineare. Passa attraverso tentativi ed errori, attraverso passi in avanti, ma anche ritorni
all’indietro per seguire nuove vie. Passa attraverso la coscienza che molta della nostra conoscenza, e
certamente la parte più rilevante di essa, è congetturale e quindi in qualche modo incerta e sempre
suscettibile di essere messa in discussione, modificata.15
La nostra razionalità, quel sistema di conoscenze e di procedure che ci consente di comprendere la
realtà, di formulare giudizi di valore e di fare scelte informate, è necessariamente incompleta. A
capire il senso di questa affermazione ci aiuta in qualche modo ciò che dice il teorema di Gödel16:
“se in un sistema matematico ogni verità esprimibile con i mezzi del sistema può essere anche, in
qualche modo, dimostrata all’interno del sistema, il sistema è necessariamente contraddittorio. In
altre parole: se un sistema formale non contiene contraddizioni è sempre possibile formulare
un’asserzione che non può essere né dimostrata né contraddetta. [...] A prescindere da cosa sia vero,
l’affermazione o il suo contrario, abbiamo una verità che non può essere dimostrata nell’ambito
della logica formale” (Mérő 2001, p.108). In altri termini, non può esistere un sistema logico che sia
allo stesso tempo coerente, che cioè non contenga contraddizioni, e completo, cioè tale che ogni
proposizione vera formulabile al suo interno possa anche essere dimostrata all’interno dello stesso
14 Questo è ciò che Ghandi chiama Sarvodaya e Capitini Ominicrazia (Pontara, 2011, p.109).
15 È qui il caso di precisare che non si sta affermando che la verità non esista né che l’unica cosa davvero esistente
siano le interpretazioni. Non si vuole neppure affermare che l’unica cosa che ha senso dire sia che “qualcosa è vero
in un certo contesto storico, o date certe presupposizioni, o certe convenzioni sociali” (Berto 2008, p.157).
Vogliamo invece affermare che contesto storico, linguaggio, cultura e convenzioni sociali determinano il modo con
cui noi formuliamo i risultati a cui siamo arrivati nel nostro cammino verso la verità, e che tali formulazioni ne
rappresentano comunque solo un’approssimazione sempre suscettibile di essere rimessa in discussione. L’argomento
meriterebbe una discussione ben più ampia, ma questo andrebbe molto al di là degli obiettivi di questa trattazione.
16 Citare il teorema di Gödel è sempre estremamente rischioso. Troppe cose sono state indebitamente da esso ‘dedotte’
(per una trattazione sull’argomento rinviamo a Berto (2008)). Qui lo usiamo solamente in modo analogico. Non
intendiamo affermare che esso dimostri qualcosa nel particolare campo oggetto di cui stiamo parlando, ma piuttosto
che esso ci possa suggerire da un lato un atteggiamento di dubbio rispetto alle conoscenze alle quali siamo arrivati, e
dall’altro l’esistenza di un ‘oltre’ che può essere del tutto imprevedibile.
sistema. Possiamo allora concludere che “se vogliamo rimanere aperti ad ogni verità con la nostra
logica, dobbiamo essere pronti a passare da un sistema di riferimento all’altro” ( Mérő 2001,
p.352).17
Questo “passare da un sistema di riferimento all’altro”, nello spirito del teorema di Gödel, va inteso
come un processo di ampliamento e di arricchimento dei nostri sistemi di riferimento. È in qualche
modo quello che ha permesso nel 1998 la soluzione di un lunghissimo conflitto di frontiera fra
Equador e Perù, un conflitto nato con l’indipendenza dei due paesi e che dal 1941 al 1995 aveva
dato origine a tre guerre. Il paradigma di riferimento per tutti gli anni del conflitto era sempre stato
quello classico: ogni territorio deve necessariamente appartenere ad un solo stato. È una logica
binaria che prevede solamente due possibilità, Mio oppure Tuo. Cambiare riferimento ha
comportato un ampliamento del paradigma con l’aggiunta di una nuova possibilità: Nostro. Ed in
effetti, nell’accordo di pace, venne deciso di realizzare, in uno dei territori contesi, un parco
ambientale binazionale gestito in modo congiunto: una soluzione creativa e nonviolenta.
La necessità di uscire da troppo rigidi paradigmi di tipo binario va ben al di là di casi come quello
appena visto. In effetti, la coscienza del limite e l’idea che il cammino verso la verità sia un
processo nel quale non si può mai affermare di essere arrivati alla meta ci porta alla convinzione
che la realtà nella quale operiamo, e sulla quale non possiamo esimerci dal fare valutazioni e
prendere decisioni, sfugga ad una classificazione basata su due soli valori: Sì/No, Vero/Falso. Ce lo
dice Amartya Sen a proposito delle violenze che scaturiscono da definizioni troppo rigide ed
univoche delle identità, violenze sempre più frequenti in un mondo caratterizzato da un lato da
sanguinosi conflitti inter-etnici e dall’altro da crescenti fenomeni migratori che innescano, anche in
paesi tradizionalmente tolleranti, conflitti identitari. “Molti dei conflitti e delle atrocità del mondo
sono tenuti insieme dall’illusione di un’identità univoca e senza possibilità di scelta. ... l’odio
assume la forma dell’invocazione del potere magico di una determinata identità, spacciata per
dominante, che soffoca le altre affiliazioni” (Sen 2006, p.XIII). Il pensare che si possano definire le
identità in termini di una logica binaria non consente di cogliere la varietà e ricchezza della realtà.
L’elemento identitario o di appartenenza comunitaria non è unico e, soprattutto, non è dato una
volta per tutte.
Proprio da Sen partono Vineis e Satolli (2009) per sostenere la necessità di sostituire a rigide
classificazioni binarie classificazioni basate sui cosiddetti insiemi fuzzy, e quindi classificazioni non
solo a due valori, ma capaci anche di includere zone di incertezza in cui dal Sì al No si passa con
gradualità. Anche qui entra in gioco la matematica.18 “Il vantaggio della classificazione fuzzy non
sta soltanto nel fatto che evita le dicotomie ma anche che consente di spostare il ‘baricentro’ della
classificazione, che è esattamente ciò che avviene con l’evoluzione storica dei concetti. [...] L’uso
dei fuzzy set è un antidoto all’assolutismo morale, che si coniuga con la pretesa di trovare
un’essenza per i concetti e le definizioni”19 (Vineis and Satolli, 2009, p.151). Il comprendere che
concetti e definizioni non possono prescindere né dalla cultura che li ha espressi, né dal linguaggio
in cui sono formulati, e infine neppure dal livello di conoscenze scientifiche proprie del tempo,
aiuterebbe a superare molti conflitti. Vineis e Satolli dedicano un capitolo ai problemi legati alla
definizione di vita e di morte e alla pretesa di definire esattamente e una volta per tutte l’istante
17 Questa idea che ci siano domande alle quali non possiamo rispondere se non uscendo dal nostro sistema di
riferimento ha punti di contatto con il paradosso che evidenzia, a proposito della presunta oggettività e mancanza di
scopi della natura, e di conseguenza della neutralità della scienza, il filosofo (Jonas 1997, pp.61–62): “quella natura
priva di interessi deve però aver fatto scaturire da se stessa il fenomeno dell’interesse in esseri viventi che provano
sentimenti e che hanno delle aspirazioni, l’avere scopi dalla sua mancanza di scopi ... Ci troviamo di fronte al
paradosso per cui la scienza della natura non può collocare se stessa all’interno della propria immagine del mondo,
non può spiegare la propria realtà a partire da essa.”
18 Il concetto di fu introdotto da Zadeh nel 1962. Un insieme è una coppia (S, φ), dove S è un insieme e φ è una
funzione definita su S con valori appartenenti all'intervallo [0, 1]. Essa fornisce una misura dell’intensità con cui gli
elementi appartengono all’insieme. Diciamo che un elemento x di S non appartiene all'insieme (S, φ) se è φ(x) = 0,
mentre c’è piena appartenenza se è φ(x) = 1; nei casi intermedi l’appartenenza è sfumata con diversi gradi di
intensità. Il termine fuzzy è ormai entrato nel linguaggio della matematica, per cui abbiamo preferito non tradurlo.
19 Vale la pena chiarire che con questo non si intende sostenere una sorta di relativismo morale, quanto piuttosto il
fatto che non possiamo esimerci dallo sforzo ermeneutico di comprendere il senso più profondo dei principi etici che
ci guidano nelle nostre azioni, anche a partire dal contesto in cui ci troviamo ad operare.
preciso in cui inizia e termina la vita. Nella loro ottica, ad esempio, la morte piuttosto che essere un
evento puntuale è un processo, e questo processo non può essere compreso a prescindere dalle
conoscenze scientifiche di cui disponiamo.
Fin qui abbiamo presentato particolari concetti e risultati matematici, mostrando come possano
essere di aiuto nella costruzione della pace. Ma forse, più in generale, è la matematica nel suo
insieme che, se ben insegnata, può portare un rilevante contributo a una cultura di pace e di
nonviolenza. “La matematica è primariamente un’attività creativa, e questo richiede
immaginazione, intuizione geometrica, sperimentazione, congetture giudiziose, tentativi ed errori,
l’uso di analogie del tipo più vago, sbagliare e annaspare. Anche quando il matematico è convinto
della correttezza di un risultato, egli deve comunque creare per trovarne la prova” (Kline 1970,
p.271). Tutto ciò richiede necessariamente capacità di vedere la realtà in modi nuovi, di cambiare
prospettiva, di uscire da vecchi paradigmi per accoglierne o inventarne nuovi.
L’uso dei numeri interi e dei razionali, ad esempio, risale a circa 2000 anni prima di Cristo, ma gli
irrazionali, quando in essi incapparono i pitagorici, furono difficili da accettare. Non erano numeri,
almeno nel senso che a questo termine veniva dato. Furono rigettati come numeri, ma non per
questo il loro uso fu abbandonato. Si cambiò prospettiva, paradigma. I greci pensarono i numeri
irrazionali come lunghezze geometriche, lavorarono in termini geometrici con “lunghezze, aree e
volumi che avrebbero dovuto altrimenti essere rappresentati per mezzo di irrazionali, e arrivarono
anche a risolvere geometricamente equazioni quadratiche” (Kline 1970, p.267).
Un altro esempio è il passaggio dalla geometria euclidea alle geometrie non-euclidee. “Newton
lavorava all’interno dei confini dello spazio euclideo . . . Einstein sviluppò una prospettiva più ricca
all’interno di uno spazio non-euclideo, e non c’è ragione di credere che la ricerca sia finita o che
mai lo sarà. Ci vorrebbe ben più della logica perché Newton possa comprendere Einstein; ci vuole
l’accettazione soggettiva di un’altra prospettiva, una prospettiva più ricca che è raggiungibile
solamente se si è aperti e disponibili all’accoglienza” (Marshall 1978, p.261).
Apertura e accoglienza non nascono e si sviluppano nel vuoto, ma trovano origine e alimento anche
nelle nostre esperienze e nel modo con cui sono vissute. Per questo le parole più adatte a concludere
questo breve articolo sono quelle di un matematico e pedagogista proveniente da una regione in cui
la difficoltà del rapporto con l’altro si vive quotidianamente, la Palestina. Così scrive Munir Fasheh
(1997, p.276): “Uno dei principali obiettivi dell’insegnamento della matematica dovrebbe essere di
far capire che ci sono differenti punti di vista e di far rispettare il diritto di ciascun individuo a
scegliere il proprio. In altre parole, la matematica dovrebbe essere usata per insegnare la tolleranza
in un’epoca così piena di intolleranza.”

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