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«Lisbona è distrutta e a Parigi si balla».


Stato d’emergenza tra guerre,
catastrofi ed epidemie
di Massimo Cuono

L’emergenza non è un fatto, ma l’interpretazione di fatti. Così come lo stato


di emergenza è l’effetto politico e giuridico di queste interpretazioni.
Dallo scoppio dell’epidemia di Covid-19 abbiamo assistito al fatto del-
la diffusione a livello globale di una malattia causata da un virus altamente
contagioso e nuovo, sia per gli organismi che colpisce sia per gli scienziati che
lo studiano. Ovviamente, anche questi fatti hanno bisogno di essere conte-
stualizzati e i dati a disposizione – soprattutto se analizzati anche alla luce
delle distorsioni legate agli strumenti della comunicazione di massa – risen-
tono dei limiti delle semplificazioni legate all’organizzazione statistica delle
informazioni (cfr. cap. 2).
Resta però indubbio che ci siamo trovati a gestire un evento imprevi-
sto – per quanto forse prevedibile – al quale i Governi nazionali e locali e le
organizzazioni internazionali hanno subito riconosciuto il rango di “emer-
genza”. Da quando esiste una riflessione sulla legge come sistema stabile di
norme che regolano una data comunità politica, a essa si accompagna il pro-
blema legato a quelle situazioni eccezionali in cui la normalità, con il suo
«moto tardo», deve cedere il passo a quegli ordini che «hanno a rimediare
a una cosa che non aspetti tempo» (Machiavelli, 1984, i, 34, p. 135). L’e-
spressione stessa “necessità e urgenza”, con cui la nostra Costituzione qua-
lifica i decreti-legge, rimanda proprio a quei casi in cui eventi straordinari
richiedono un’azione più rapida, rispetto all’ordinario. Se per le emergenze
direttamente prodotte dall’uomo – soprattutto guerre – la riflessione filo-
sofica e politica è molto vasta e consolidata, più frastagliato è il campo delle
analisi dedicate alla gestione delle catastrofi naturali – dai terremoti alle epi-
demie – che poi hanno spesso, anch’esse, cause umane, sia pure indirette (cfr.
cap. 1). Un discorso a parte andrebbe fatto sulle crisi economiche, così tanto
umane da essere trattate da alcuni come naturali.
8. stato d’emergenza tra guerre, catastrofi ed epidemie 63

8.1
In quella notte in città non si fece che vegliare

Nel caso delle emergenze “umane” si fa molto spesso riferimento all’istitu-


zione straordinaria più nota dell’antichità: la dittatura della Roma repubbli-
cana. Nonostante il dibattito storiografico in materia sia tutt’altro che una-
nime sulle pratiche concrete di governo durante i periodi di crisi, soprattutto
se riferito a un arco temporale così lungo, in termini molto generali si può
sostenere che in caso di guerra – esterna o interna – i consoli nominavano, su
proposta del Senato, un dittatore che assumeva i pieni poteri per un periodo
limitato a sei mesi. Celebre è il racconto, tra il mitico e lo storico, che Livio fa
di Lucio Quinzio Cincinnato, esempio di «virtù romana» già ritiratosi alla
vita di campagna e richiamato a Roma per gestire la guerra contro gli Equi,
nel 458 a.C., risolta in soli 16 giorni. Anche allora, però, non tutti apprez-
zavano i dittatori, sia pure pro tempore, tanto che Livio rileva come, mentre
uno stuolo di amici lo acclamava, «anche la plebe accorse in gran folla; ma
essa non era altrettanto lieta alla vista di Cincinnato, giudicando il potere
dittatoriale eccessivo, e l’uomo più autoritario di quanto il potere già di per
sé comportasse. In quella notte in città non si fece che vegliare» (Livio, 2007,
iii, 26, p. 395).
Sarà Carl Schmitt a definire quella romana una dittatura commissaria
per distinguerla da quella sovrana. Nella Teologia politica, compare la celebre
definizione del sovrano come di colui che «decide sullo stato d’eccezione»,
nel quale viene meno il diritto senza che venga meno il potere (Schmitt,
1972, p. 33). In un saggio di dieci anni più tardi – intitolato Legalità e le-
gittimità – Schmitt sostiene che «“ordine pubblico e sicurezza”, “pericolo”,
“stato di necessità”, “provvedimenti di emergenza”, “reati contro lo Stato e la
costituzione”, “spirito di conciliazione”, “interessi vitali”» sono tutti concetti
«dei quali nessun sistema legale può fare a meno, e hanno la peculiarità di
essere immediatamente legati alla situazione che di volta in volta si presenta,
[...] per cui, in tutte le epoche e situazioni difficili e politicamente rilevanti,
diventa unicamente decisivo il loro impiego ed esercizio concreto» (Sch-
mitt, 1972, p. 239). Di lì a poco, i dibattiti teorici sarebbero stati superati dal
drammatico dispiegarsi della storia segnato da quel Decreto del Presidente
del Reich per la protezione del Popolo e dello Stato che il 28 febbraio del 1933
avrebbe dato inizio al regime nazista, proprio in forza dell’articolo 48 del-
la Costituzione di Weimar, che stabiliva che «Il presidente può prendere
le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica,
quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario,
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intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in


parte la efficacia dei diritti fondamentali»1.
Il dibattito novecentesco sulla dittatura sovrana è sempre inevitabilmen-
te ripartito da quello che sarà poi ricordato come il Decreto dell’incendio del
Reichstag2. Tuttavia, gli esempi di stati di emergenza che preludono e legit-
timano regimi autoritari sono molti, ben prima dei totalitarismi del secolo
scorso. Emblematico il caso della costituzione più democratica della Francia
rivoluzionaria (quella del 1793), che non entrò mai in vigore perché il 10
ottobre del 1793 la Convenzione nazionale, su proposta di Saint-Just, aveva
stabilito che il Governo doveva rimanere “rivoluzionario fino alla pace”3.
Ma anche l’altro modello, quello della dittatura commissaria, per gestire
le emergenze è altrettanto frequentato nella teoria e nella pratica: ricorre tan-
to nella storia del pensiero politico – da Machiavelli nei Discorsi a Rousseau
nel Contratto sociale – quanto nella storia delle istituzioni. Ancora oggi mol-
ti ordinamenti prevedono meccanismi di sospensione di alcune procedure
normali in casi straordinari, variamente qualificati: dallo stato d’assedio allo
stato d’urgenza. Le fonti normative sono diverse, a volte di rango costitu-
zionale, altre di livello ordinario; nella maggior parte dei casi si intersecano
fonti differenti4.
Il dibattito contemporaneo, poi, è andato notevolmente intensifican-
dosi dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti
e in vari paesi europei negli anni successivi. L’approvazione del cosiddetto
Patriot Act, con ampia maggioranza dai due rami del Congresso statuni-
tense, nell’ottobre 2001 e le sue continue estensioni e proroghe – sotto le
presidenze Bush, Obama e Trump – è stato il punto di avvio di una vasta
controversia, con posizioni anche molto distanti, intorno alle conseguenze
sulla limitazione dei diritti e sul rafforzamento dei poteri dell’Esecutivo, del-
la polizia federale e dei servizi segreti. Interessante, ad esempio, è la parabola
del costituzionalista Bruce Ackerman che, dopo una serie di interventi in cui
si mostrava aperto a discutere sulla eventuale costituzionalizzazione di mi-
sure di emergenza (Ackerman, 2005; 2008), è approdato a giudizi durissimi
sull’estensione dei poteri presidenziali come minaccia alla tenuta stessa della
democrazia americana (Ackerman, 2012).

1. Si veda la traduzione dell’Archivio di diritto e storia costituzionali: http://dircost.


di.unito.it/cs/pdf/19190811_germaniaWeimar_ita.pdf.
2. Merita di essere citato, tra gli altri, Fraenkel (1983).
3. Lo ricostruisce Martucci (2007).
4. Per orientarsi Marazzita (2003); Mindus (2007).
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Non sono, poi, mancati interventi di più ampio respiro, che hanno ricol-
legato le leggi speciali scaturite dall’“emergenza-terrorismo” all’estensione
dell’uso della decretazione d’urgenza in buona parte delle democrazie eu-
ropee, e più generalmente con il progressivo slittamento di fatto del potere
legislativo dalle assemblee elettive agli esecutivi (Cardone, 2011). Un discor-
so a parte andrebbe fatto per lo straordinario successo internazionale di Lo
stato di eccezione di Giorgio Agamben (2003) che, in una prospettiva storica
di lunga durata, descrive forme di normalizzazione degli spazi di eccezio-
ne – l’emergenza come argomento per sospendere i diritti – facendone un
filo conduttore fondamentale per comprendere l’evoluzione delle istituzio-
ni politiche moderne. Fin dai primi mesi dallo scoppio della pandemia, di
Agamben si è parlato molto per le sue prese di posizione sulla gestione dell’e-
mergenza trattata come il preludio a uno stato d’eccezione sanitario perma-
nente5; tanto che i toni particolarmente esasperati del filosofo sono sembrati
a molti il tentativo di trovare nella gestione politica della pandemia la prova
finale della validità del proprio paradigma teorico. Non sono mancati però
coloro che hanno criticato la proposta di Agamben – anche al di là delle prese
di posizioni di questi mesi –, mettendone in luce il carattere «aristocratico,
mistico e messianico» di chi, per rifiutare sempre e comunque la limitazione
della libertà in cambio della salvaguardia della «mera» vita – come tanti au-
tori moderni rimproverano all’assolutismo di Thomas Hobbes – finisce per
esaltare modelli assai poco moderni, come quelli della “bella morte” intesa
come gesto eroico (Tedesco, 2020).

8.2
Molti ritenevano che quella notte
dovesse essere l’ultima notte del mondo

Di tutt’altro tenore è la riflessione sulla gestione delle catastrofi naturali,


soprattutto perché – se è pur vero che l’emergenza non è un fatto – il margi-
ne di interpretazione in questi casi è assai più ridotto. Terremoti, alluvioni,
carestie, uragani: è difficili non fare corrispondere la catastrofe all’emergen-
za. Così, ad esempio, Plinio il Giovane descriveva, in una lettera a Tacito,
l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.: «Avresti udito i gemiti delle donne, le
urla dei bambini, le grida dei mariti; gli uni cercavano a gran voce i padri; gli

5. I numerosi scritti di Agamben sulla pandemia sono ora confluiti in un volume pub-
blicato dall’editore Quodlibet (Agamben, 2020).
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altri i figlioli; gli altri i consorti; chi commiserava la propria sorte; chi quella
dei suoi. Vi erano coloro che, per timore della morte, la invocavano. Molti
supplicavano gli dei; molti ritenevano che non ve ne fossero più e che quella
notte dovesse essere l’ultima notte del mondo» (Plinio, 1973, vi, 20, p. 641).
Semmai, il dibattito si sposta dal piano politico a quello più strettamente
filosofico; si pensi alla celebre controversia sul terribile terremoto di Lisbona
del 1755. Per Voltaire, ad esempio, fu la drammatica occasione per criticare fe-
rocemente sia l’idea di un piano divino nascosto negli eventi della natura – la
teodicea dei filosofi – sia il cinismo di chi assiste da lontano alle tragedie
altrui: «Lisbona è distrutta e a Parigi si balla. Tranquilli spettatori, spiri-
ti intrepidi, dei fratelli morenti assistendo al naufragio, voi cercate in pace
le cause dei disastri, ma se avvertite i colpi avversi del destino, divenite più
umani, e come noi piangete» (Voltaire, 2004, p. 4). Jean-Jacques Rousseau,
invece, risponde accusando l’azione dell’uomo sulla natura con parole che
oggi suonano attuali:

Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura
non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli
abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio
e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento
o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e
si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse
accaduto» (Rousseau, 1972, p. 126).

Entrambi i pensatori ovviamente non nascondono il carattere straordinario


dell’evento, eppure tale constatazione non fa che aprire nuovi interrogati-
vi – questi sì, più propriamente politici e sociali – sui diversi possibili modi
di gestire le differenti situazioni d’emergenza6.
E poi ci sono le epidemie. Impossibile riassumere la vastissima letteratura
sulla gestione politica e sociale delle catastrofi sanitarie (tra gli altri McNeill,
1981; Pigoli, 2009; Spinney, 2018), le cui caratteristiche sono difformi rispet-
to ad altri tipi di emergenze naturali. La gran parte delle cosiddette catastrofi,
infatti, ha un momento culminante relativamente breve – l’eruzione, l’inon-
dazione, la scossa –, mentre il protrarsi nel tempo delle epidemie le rende
più simili a fenomeni come le carestie. Il Codice della Protezione civile del
2018 – che è la fonte normativa principale della dichiarazione dello stato di

6. Revet, Langumier (2013). Si vedano anche i numeri monografici Sylves (2006), sulla
gestione dell’uragano Katrina negli Stati Uniti; aa.vv. (2009b), sul terremoto in Abruzzo
del 2009.
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emergenza sanitaria in Italia – definisce così i propri obiettivi: «Sono attività


di protezione civile quelle volte alla previsione, prevenzione e mitigazione
dei rischi, alla gestione delle emergenze e al loro superamento»; scritto per
un paese sottoposto a continui rischi sismici e legati al dissesto idrogeologi-
co, tali norme poco dicono sul rapporto fra previsione, prevenzione e miti-
gazione dei rischi e gestione concreta delle crisi, lasciando ampio margine
anche sull’estensione temporale delle misure di emergenza. La storia della
gestione delle epidemie ci consente di porre molte questioni sull’adegua-
tezza giuridica dei meccanismi di deroga alle leggi ordinarie (quando non
addirittura costituzionali), sul rapporto fra decisioni politiche e competenze
scientifiche o sulle istituzioni sanitarie nate in tempi di emergenza.
I lavori di Carlo Maria Cipolla sulle conseguenze della pandemia di peste
del 1348, che rese poi endemica la malattia nell’Europa moderna, ci aiutano
a comprendere tanto alcuni meccanismi rudimentali ma inevitabili come le
quarantene, quanto gli effetti sul piano politico e istituzionale di prolungati
periodi di emergenza sanitaria che nelle regioni dell’Italia del Nord porta-
rono alla creazione di un sistema molto avanzato di «speciali magistrature
che combinavano poteri legislativi, giudiziari ed esecutivi (di qui il titolo di
magistrature) in tutte le faccende che riguardavano la sanità pubblica. Nel
corso del tempo i magistrati della Sanità», scrive Cipolla (2012, p. 14), «am-
pliarono progressivamente la propria sfera di controllo a materie come la
registrazione dei decessi, le sepolture, la vendita dei cibi, il sistema delle acque
di scolo, la distribuzione di sottoprodotti di diverse attività economiche, gli
ospedali, le locande, la prostituzione e così via», dando vita a istituzioni
pubbliche molto sofisticate per la gestione della sanità e dell’igiene pubblica.

8.3
Nessuna sciagura risultò più di questa grave per gli Ateniesi

Storicamente, le catastrofi naturali e sanitarie hanno influito, spesso in ma-


niera determinante, sull’esito di guerre, sul corso delle vicende politiche e
sugli assetti delle società umane (Diamond, 2014; Davis, 2002). L’epidemia
di peste che colpì Atene tra il 430 e il 426 a.C. – come pareva chiaro a Tu-
cidide – ebbe un ruolo fondamentale nelle sorti del conflitto con Sparta:
«Nell’inverno successivo ad Atene vi fu una nuova epidemia di peste. Il mor-
bo, a dire il vero, non era mai scomparso del tutto, però aveva dato un po’
di tregua. La fase di recrudescenza del male durò non meno di un anno – la
precedente addirittura due – e nessuna sciagura risultò più di questa grave
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per gli Ateniesi, e tale da fiaccarne la potenza» (Tucidide, 1996, iii, 87, 1-2).
Lo storico non si limita a prendere atto del ruolo imponderabile della natura
nelle vicende umane ma sottolinea anche le influenze reciproche fra catastro-
fi e scelte politiche, criticando Pericle che per ragioni militari aveva costretto
in città parte della popolazione rurale, aggravando l’epidemia che, tra l’altro,
l’avrebbe ucciso (Portinaro, 2020).
Sebbene il progresso tecnico e scientifico contemporaneo abbia alimen-
tato la fiducia nelle capacità di governare i fenomeni naturali, la pandemia
in corso non fa che confermare la rilevanza degli eventi catastrofici nelle vi-
cende storiche. Tanto si è già scritto e tantissimo ancora si scriverà sulla crisi
sanitaria in corso; difficile oggi dire se sia stato fatto quanto possibile per
fermare la pandemia; oppure, all’opposto, se alcune precauzioni non siano
state eccessive, aggravando gli effetti di una crisi sociale altrettanto pesante.
Osservare la storia dall’interno, del resto, non è mai facile. Resta però
impossibile non notare come coloro che, fino a pochi mesi fa, reclamavano
più potere di quanto le garanzie costituzionali dei propri paesi non gliene
concedessero – i molti Trump e Bolsonaro sparsi per il mondo – sembrano
oggi meno inclini di altri a riconoscere i rischi di una pandemia che pare
ancora lontana dall’essere terminata; forse perché preoccupati di non saper
gestire quei poteri di emergenza dovendone poi rendere conto al momento
elettorale o forse perché riconoscere la gravità della situazione significhereb-
be rimettere in questione le politiche di contrazione della spesa sanitaria in
atto da decenni in ampie aree del mondo.
Il ricorso continuo che in questi anni si è fatto all’argomento dell’emer-
genza – migratoria, economica, terroristica, securitaria – per reclamare sem-
pre maggiori margini di arbitrio per gestire l’ordinario appare molto lontano
dalla situazione di chi, oggi come ieri, si è ritrovato improvvisamente a dover
gestire l’inatteso.

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