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8.1
In quella notte in città non si fece che vegliare
Non sono, poi, mancati interventi di più ampio respiro, che hanno ricol-
legato le leggi speciali scaturite dall’“emergenza-terrorismo” all’estensione
dell’uso della decretazione d’urgenza in buona parte delle democrazie eu-
ropee, e più generalmente con il progressivo slittamento di fatto del potere
legislativo dalle assemblee elettive agli esecutivi (Cardone, 2011). Un discor-
so a parte andrebbe fatto per lo straordinario successo internazionale di Lo
stato di eccezione di Giorgio Agamben (2003) che, in una prospettiva storica
di lunga durata, descrive forme di normalizzazione degli spazi di eccezio-
ne – l’emergenza come argomento per sospendere i diritti – facendone un
filo conduttore fondamentale per comprendere l’evoluzione delle istituzio-
ni politiche moderne. Fin dai primi mesi dallo scoppio della pandemia, di
Agamben si è parlato molto per le sue prese di posizione sulla gestione dell’e-
mergenza trattata come il preludio a uno stato d’eccezione sanitario perma-
nente5; tanto che i toni particolarmente esasperati del filosofo sono sembrati
a molti il tentativo di trovare nella gestione politica della pandemia la prova
finale della validità del proprio paradigma teorico. Non sono mancati però
coloro che hanno criticato la proposta di Agamben – anche al di là delle prese
di posizioni di questi mesi –, mettendone in luce il carattere «aristocratico,
mistico e messianico» di chi, per rifiutare sempre e comunque la limitazione
della libertà in cambio della salvaguardia della «mera» vita – come tanti au-
tori moderni rimproverano all’assolutismo di Thomas Hobbes – finisce per
esaltare modelli assai poco moderni, come quelli della “bella morte” intesa
come gesto eroico (Tedesco, 2020).
8.2
Molti ritenevano che quella notte
dovesse essere l’ultima notte del mondo
5. I numerosi scritti di Agamben sulla pandemia sono ora confluiti in un volume pub-
blicato dall’editore Quodlibet (Agamben, 2020).
66 massimo cuono
altri i figlioli; gli altri i consorti; chi commiserava la propria sorte; chi quella
dei suoi. Vi erano coloro che, per timore della morte, la invocavano. Molti
supplicavano gli dei; molti ritenevano che non ve ne fossero più e che quella
notte dovesse essere l’ultima notte del mondo» (Plinio, 1973, vi, 20, p. 641).
Semmai, il dibattito si sposta dal piano politico a quello più strettamente
filosofico; si pensi alla celebre controversia sul terribile terremoto di Lisbona
del 1755. Per Voltaire, ad esempio, fu la drammatica occasione per criticare fe-
rocemente sia l’idea di un piano divino nascosto negli eventi della natura – la
teodicea dei filosofi – sia il cinismo di chi assiste da lontano alle tragedie
altrui: «Lisbona è distrutta e a Parigi si balla. Tranquilli spettatori, spiri-
ti intrepidi, dei fratelli morenti assistendo al naufragio, voi cercate in pace
le cause dei disastri, ma se avvertite i colpi avversi del destino, divenite più
umani, e come noi piangete» (Voltaire, 2004, p. 4). Jean-Jacques Rousseau,
invece, risponde accusando l’azione dell’uomo sulla natura con parole che
oggi suonano attuali:
Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura
non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli
abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio
e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento
o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e
si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse
accaduto» (Rousseau, 1972, p. 126).
6. Revet, Langumier (2013). Si vedano anche i numeri monografici Sylves (2006), sulla
gestione dell’uragano Katrina negli Stati Uniti; aa.vv. (2009b), sul terremoto in Abruzzo
del 2009.
8. stato d’emergenza tra guerre, catastrofi ed epidemie 67
8.3
Nessuna sciagura risultò più di questa grave per gli Ateniesi
per gli Ateniesi, e tale da fiaccarne la potenza» (Tucidide, 1996, iii, 87, 1-2).
Lo storico non si limita a prendere atto del ruolo imponderabile della natura
nelle vicende umane ma sottolinea anche le influenze reciproche fra catastro-
fi e scelte politiche, criticando Pericle che per ragioni militari aveva costretto
in città parte della popolazione rurale, aggravando l’epidemia che, tra l’altro,
l’avrebbe ucciso (Portinaro, 2020).
Sebbene il progresso tecnico e scientifico contemporaneo abbia alimen-
tato la fiducia nelle capacità di governare i fenomeni naturali, la pandemia
in corso non fa che confermare la rilevanza degli eventi catastrofici nelle vi-
cende storiche. Tanto si è già scritto e tantissimo ancora si scriverà sulla crisi
sanitaria in corso; difficile oggi dire se sia stato fatto quanto possibile per
fermare la pandemia; oppure, all’opposto, se alcune precauzioni non siano
state eccessive, aggravando gli effetti di una crisi sociale altrettanto pesante.
Osservare la storia dall’interno, del resto, non è mai facile. Resta però
impossibile non notare come coloro che, fino a pochi mesi fa, reclamavano
più potere di quanto le garanzie costituzionali dei propri paesi non gliene
concedessero – i molti Trump e Bolsonaro sparsi per il mondo – sembrano
oggi meno inclini di altri a riconoscere i rischi di una pandemia che pare
ancora lontana dall’essere terminata; forse perché preoccupati di non saper
gestire quei poteri di emergenza dovendone poi rendere conto al momento
elettorale o forse perché riconoscere la gravità della situazione significhereb-
be rimettere in questione le politiche di contrazione della spesa sanitaria in
atto da decenni in ampie aree del mondo.
Il ricorso continuo che in questi anni si è fatto all’argomento dell’emer-
genza – migratoria, economica, terroristica, securitaria – per reclamare sem-
pre maggiori margini di arbitrio per gestire l’ordinario appare molto lontano
dalla situazione di chi, oggi come ieri, si è ritrovato improvvisamente a dover
gestire l’inatteso.