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Rompere l’identificazione col bambino emozionale

Immaginate che un bambino entri, proprio ora, nella vostra camera e vi chieda di uscire a giocare
con lui. Comincia a fare i capricci. Voi vorreste che capisse che potrete giocare con lui domani, che
oggi non è proprio possibile. Ma “domani” non significa nulla per lui. Si mette a pestare i piedi: “No!
Adesso!” dice. Finché, pieno di rabbia, scoppia a piangere.
Dentro di noi abbiamo una parte che è esattamente come quel bambino: non ha alcuna nozione del
domani, non sopporta di aspettare né di venire contrariata, non sa posporre la gratificazione e il
piacere a un altro momento perché non crede che ci sia un “altro momento”, non ha la possibilità
dentro di sé di contenere il dolore o la frustrazione. Sebbene ciascuno abbia un proprio
comportamento, magari un po’ diverso da quello di altri, la profonda esperienza di quello spazio è
per lo più la stessa per tutti noi. Possiamo chiamarlo “stato mentale del bambino ferito” o spazio
interiore del “bambino emozionale”.
In questo stato di coscienza siamo incapaci di stare con ciò che c’è, di essere presenti e contenere
l’esperienza, siamo spaventati, diffidenti e molto insicuri. E queste paure ci rendono impulsivi,
reattivi e costantemente inquieti.
Quando ci troviamo in questa struttura mentale non siamo di solito consapevoli di nient’altro in noi
se non di questo spazio, ci identifichiamo totalmente col bambino emozionale, incapaci di vedere
che non è ciò che siamo. Molti, a causa di ferite subite nell’infanzia, ferite profonde e non ancora
guarite, sono sempre stati pieni di paura, vergogna e sfiducia, finendo col crearsi un’identità basata
su quel bambino emozionale. Ma quelle qualità non sono parte della nostra natura, ci sono state
instillate come risultato del condizionamento e delle esperienze su cui non avevamo controllo.
La mancanza di comprensione – di “spazio” – per le paure, i bisogni e i comportamenti del bambino
emozionale, crea infelicità nella nostra vita ed è causa di molti dei nostri problemi, soprattutto nelle
relazioni. [Spesso, nei nostri seminari, mostriamo il film Luna di fiele, di Roman Polanski, in cui possiamo vedere ciò
che succede quando entriamo in una relazione vivendo, inconsapevolmente, nello stato mentale del nostro bambino. Il
film è la storia di una relazione amorosa. La prima parte mostra l’inconsapevolezza di due persone che si innamorano
credendo di avere finalmente trovato l’amore che cercavano. Poi, a mano a mano che la loro relazione si approfondisce,
ciascuno dei due scende sempre più a compromessi, riempiendosi di risentimento verso l’altro. Dapprima uno è tiranno
dell’altro, ma poi i ruoli si scambiano. Sebbene la fine sia un po’ troppo drammatica, viene mostrato chiaramente come
l’amore senza la consapevolezza porti solo dolore e distruzione.]

Nella mia ricerca ho scoperto che quando penetro in profondità nello stato del bambino emozionale
ci sono due aspetti.

Il primo, ciò che è manifesto, è costituito dai comportamenti che condizionano la nostra vita quando
siamo catturati dal bambino emozionale:
1) reazione e controllo
2) aspettative e pretese
3) compromesso
4) assuefazione
5) pensiero magico
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Queste sono le cinque facciate che l’altro si trova davanti quando si relaziona con noi. Dietro questi
comportamenti c’è un’altra parte, più profonda, costituita dalle emozioni dello stato mentale del
bambino ferito:
1) paura e shock
2) vergogna e insicurezza
3) bisogno e vuoto
4) angoscia
5) sfiducia e rabbia
Dirò subito qualcosa a proposito di ciascuno dei cinque comportamenti ed emozioni, ma li tratterò
più dettagliatamente nei successivi capitoli.
Quando siamo nello stato mentale del bambino reagiamo in modo automatico agli eventi della
vita. Le reazioni sono determinate dalla paura che se non reagiamo ci accadrà qualcosa di brutto o
non riusciremo a ottenere ciò di cui abbiamo bisogno.
Dallo stimolo passiamo automaticamente alla reazione, senza alcuna consapevolezza di cosa stia
succedendo e perché; lo spazio tra lo stimolo e la reazione è infinitesimale. Reagiamo così
velocemente e automaticamente perché sentiamo che è questione di vita o di morte. Sempre.
Reagiamo tutte le volte che ci sentiamo minacciati, reagiamo per soddisfare i nostri bisogni,
reagiamo quando non ci sentiamo al sicuro, amati e apprezzati.

Quando due persone si incontrano nello stato mentale del bambino, ciascuno vede nell’altro
qualcuno che deve prendersi cura dei suoi bisogni insoddisfatti o qualcuno che, in qualche modo,
potrebbe fargli del male. Ne risulta che ciascuno si sentirà spinto a controllare l’altro in ogni modo
possibile e le conseguenze saranno conflitti, aspettative insoddisfatte, incomunicabilità, giochi di
potere e dolore.
Il bambino interiore ha delle aspettative sugli altri e sulla vita. Si aspetta che i suoi bisogni saranno
soddisfatti e che sarà liberato dalle paure e da ciò che lo affligge. È naturale che un bambino senta
così, perché trovandosi in uno stato di impotenza e insicurezza cos’altro potrebbe sperare per
sentirsi al sicuro? In certi casi sono state vissute talmente tante delusioni che le aspettative sono
state seppellite sotto uno strato di rassegnazione, ma sono ancora lì, nascoste nei desideri del
nostro bambino emozionale. Questo aspetto dello stato mentale del bambino può, per alcuni di
noi, essere piuttosto evidente: abbiamo delle pretese e gli altri ci devono ciò che vogliamo e, quando
le cose non vanno come vorremmo o ci sentiamo privati dell’attenzione, biasimiamo e accusiamo
convinti di essere stati trattati ingiustamente.
È anche naturale che quando siamo nello stato mentale del bambino, basato sulla paura e sulla
vergogna, viviamo una vita di compromessi. La vergogna e la paura portano al compromesso perché
siamo terrorizzati da ciò che gli altri potrebbero pensare e, in questo stato, abbiamo perso il contatto
con la nostra forza e la fiducia in noi stessi, nei nostri pensieri, emozioni e intuizioni. In breve, non
viviamo per noi stessi ma per gli altri.

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Quando siamo dominati dallo stato mentale del nostro bambino siamo anche inclini
all’assuefazione. Questo bambino, proprio come farebbe qualsiasi bambino, vuole un’immediata
gratificazione e se non siamo capaci di osservare e di prendere distanza dalle nostre emozioni e
paure, cercheremo di aggrapparci a qualcosa che possa darci sollievo. Spesso si tratta di
assuefazioni croniche e non siamo nemmeno consapevoli della loro presenza o di cosa le guidi.
Ma se potessimo avere una comprensione di quanto terrorizzato è il bambino emozionale dentro di
noi, avremmo forse più compassione per le nostre assuefazioni, soprattutto considerando che tutti
ne abbiamo.
Infine, quando siamo nello stato mentale del bambino, speriamo magicamente che arrivi la persona
giusta a liberarci da ogni nostra paura e dal nostro dolore, speriamo di venire liberati dalla solitudine
e da tutto ciò che ci affligge. Cerchiamo di cambiare amici e amanti in ciò che vorremmo che fossero,
oppure andiamo da qualcun altro, sperando che questi soddisferà finalmente le nostre aspettative.
In entrambi i casi non dovremo sentire il dolore della solitudine quando ci deluderanno. Il nostro
bambino emozionale non può vedere le cose così come sono perché le idealizza: ha bisogno di
sentire che le persone e la vita sono in un certo modo, per sentirsi al sicuro e mettere ordine nel
proprio mondo interiore. Quello che fa è semplicemente immaginarsi che le cose sono così come
vuole che siano, mette certe persone su un piedistallo e vive nella speranza e nell’illusione.
È facile riconoscere i comportamenti del nostro bambino emozionale.

Per mettere invece a nudo le emozioni che stanno dietro questi comportamenti occorre un ulteriore
passo in profondità.

Le paure sono ben radicate nella nostra mente e si basano su esperienze passate, alcune delle quali
sono state dimenticate; inoltre, siccome il bambino è ferito, quando ne siamo dominati non ci
sentiamo liberi o spontanei, ma pieni di vergogna, inadeguatezza, senso di inferiorità, tristezza,
rabbia e sfiducia. Non ci sentiamo autosufficienti, al contrario ci sentiamo vuoti e aneliamo
disperatamente che qualcuno colmi quel vuoto. Siamo spinti a cercare all’esterno il nostro
benessere interiore.
Normalmente siamo molto identificati con lo stato mentale del bambino.
Quando cattura la nostra coscienza – cosa che può accadere in qualsiasi momento, appena sentiamo
la benché minima frustrazione o disturbo – sembra essere totalmente ciò che siamo. Essendo persi
nelle nostre reazioni, subissati dalle aspettative o sopraffatti dall’insicurezza e dalla paura, ci è
difficile immaginare che ciò accade solo perché il bambino emozionale dentro di noi ha preso il
comando.

Sempre, durante i vent’anni in cui sono stato col mio maestro spirituale, il suo più importante
messaggio è stato di imparare a osservare. Ci ha sempre detto che la meditazione è la sola medicina
che ha da darci, la cura per ogni nostra sofferenza. Ma per far sì che continuassimo ad ascoltare,
che continuassimo a “comprare” la medicina, ha dovuto escogitare molte graziose confezioni.
Possiamo applicare l’osservazione a qualsiasi aspetto della nostra vita, ma ho notato che
comprendere le nostre difficoltà nelle relazioni – la nostra autostima compromessa e molti dei nostri
modelli di comportamento – significa imparare a osservare il nostro bambino emozionale in tutte le

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sue forme. Tutti noi abbiamo questa capacità di osservare, di contenere e comprendere, ma ci vuole
pratica per sviluppare queste qualità.
All’inizio viviamo per lo più nello stato mentale del bambino e l’osservare è raro o del tutto assente.
Passiamo dallo stimolo alla reazione come dei robot, senza capire perché ci sentiamo e ci
comportiamo in un certo modo.
Lo stato del bambino non ha consapevolezza di sé, è meccanico, automatico e ripetitivo, ma quando
cominciamo a osservare e a comprendere di più lo spazio interiore del nostro bambino emozionale,
la capacità di essere un “testimone” si approfondisce e la nostra consapevolezza matura.
Quando incontriamo lo stato del bambino emozionale, possiamo comportarci con esso in modo
simile a come ci comporteremmo con quel bambino che entrò nella nostra camera chiedendoci
attenzione. Non lo reprimiamo, non lo mandiamo via. Ciò creerebbe solo difficoltà, perché lui
andrà altrove a sfogarsi, o potrebbe ripiegarsi su sé stesso, nascondendo il suo entusiasmo e le
sue doti, come molti di noi hanno fatto.
Quello che faremo sarà cercare di capire il suo comportamento e ciò che nasconde: daremo dunque
il nostro amore e la nostra attenzione al bambino emozionale, osservando senza giudizio. Questo
non lo fa scomparire, ma non sarà più quella potente forza nascosta nella nostra vita che, senza che
ne siamo consapevoli, guida i nostri comportamenti e le nostre emozioni.

Forse rimarrà sempre dentro di noi una parte spaventata e reattiva, sfiduciata e insicura, ma col
rafforzarsi del nostro osservatore e col crescere della nostra maturità possiamo riconoscere che è
come un ospite venuto a stare nella nostra casa, possiamo osservare, fare un bel respiro… e lasciar
che sia! Questi comportamenti – reazioni, aspettative, assuefazioni e compensazioni – sono sintomi
di profonde emozioni nascoste, ma praticando pazientemente “l’essere con” queste emozioni
quando sorgono, anziché giudicarle, impariamo a riconoscere e a contenere le sensazioni di sfiducia,
paura, vuoto e insicurezza che stanno dietro i comportamenti.

La comprensione dello stato mentale del nostro bambino emozionale può chiarire gran parte della
nostra vita, come e perché reagiamo in un certo modo, perché abbiamo dentro così tanta paura,
così tanta fame di amore e di attenzione, perché è così difficile lasciare che qualcuno ci si avvicini,
perché siamo così inquieti, perché abbiamo problemi a esprimerci nella sessualità, nella creatività,
nella capacità di autoaffermazione. In breve, ci dà una comprensione di gran parte della nostra vita
di tutti i giorni.
PAURE
Kristin, una mia amica norvegese, è terrorizzata dall’acqua. Non ha alcuna idea dell’origine di questa
paura, ma va in panico al solo pensiero di entrare in mare, il che è davvero poco norvegese. Nathan,
un altro amico, è un musicista di talento ma, a causa di una paralizzante angoscia da palcoscenico,
non si esibisce mai. Andreas, un ingegnere svizzero che ha partecipato a molti dei nostri seminari,
ha un incarico di alta responsabilità presso l’amministrazione della sua città, ma ha il terrore di
essere anche solo minimamente in contrasto con altre posizioni. Queste paure inspiegabili e
irrazionali sono molto comuni. Io ho un sogno ricorrente in cui devo presentarmi a un esame ma
sono impreparato e un altro in cui sono completamente solo e cerco disperatamente Amana (mia
moglie) senza riuscire a trovarla. Quando esploro lo spazio interiore del mio bambino ferito, ciò che
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trovo è una profonda paura… ogni genere di paura. E mi sembra che, col passare degli anni, quella
mia parte spaventata diventi ancora più intensa e, forse, più sensibile. Credo che ci sia sempre stata,
ma l’avevo nascosta talmente bene da non poterla sentire o riconoscere così chiaramente. Per
decenni ho pensato di non avere paure!
La paura è un’altra delle qualità cardinali del bambino emozionale e possiamo meglio valutare
perché questo aspetto sia così potente, se ci rendiamo conto di quanta paura quel bambino ha
costantemente dentro di sé. A un alto livello di consapevolezza, cominciamo a vedere che la paura
è un’illusione e che siamo nel grembo di un’esistenza benevola, ma nello stato mentale del
bambino non siamo connessi a questa realtà. Dobbiamo prima riconoscere le paure che si agitano
nel nostro bambino interiore.
C’è una storia che mio padre mi raccontava quando ero piccolo.
È la storia di un bambino terrorizzato dai Kreplach, dei tipici ravioli ebrei. Un giorno sua madre gli
disse che gli avrebbe mostrato che non c’era niente da temere dai Kreplach. Lo portò con sé in
cucina, lo mise a sedere e, dopo avere steso un impasto di farina, gli chiese se aveva paura. No,
rispose lui. Allora tagliò un quadratino di pasta. C’è qualcosa che ti fa paura? gli chiese. Niente. Allora
prese del trito di carne e lo mise al centro del quadratino. E adesso? chiese. No, certo che no! rispose
lui. Quindi prese un angolo e lo ripiegò. Hai paura? No! Allora ripiegò un altro angolo. Ancora
nessuna paura? Nessuna. Infine, prese l’ultimo angolo e lo piegò. Ahhhhh! Kreplach! urlò il bambino.
La paura del nostro bambino ha diverse origini. In primo luogo, non è possibile per una natura così
sensibile crescere nello stressante, repressivo e competitivo mondo occidentale senza sviluppare
profonde paure. C’è poi il trauma della nascita in un corpo fisico e i diversi modi in cui questa
avviene. Gli innumerevoli traumi subiti durante l’infanzia si sono aggiunti a quel trauma originale.
Ogni durezza o invasione, sia pure in forma sottile, hanno scioccato la nostra naturale sensibilità.
Infine, c’è la pura e semplice insicurezza del vivere in un mondo dove, di fondo, siamo inermi davanti
alle soverchianti forze della vita.
Abbiamo molte paure ma, alla loro base, ce ne sono due essenziali: quella di non sopravvivere e
quella di non ricevere amore, le altre sono dei derivati di queste; se infatti esaminiamo
attentamente i nostri comportamenti e le nostre paure ci accorgiamo di come, in un modo o
nell’altro, gran parte della nostra vita sia condizionata da queste due.

La nostra cultura non insegna un atteggiamento di comprensione verso la paura, impariamo invece
a rinnegarla e ad andare avanti stringendo i denti. Lottiamo per presentare un’immagine che
convinca, sia gli altri che noi stessi, che le nostre paure non esistono, vergognandoci di averle.
Oppure ci affliggiamo e ci giudichiamo a causa loro. Ma se non abbiamo un rapporto di benevola
accettazione con le nostre paure, non lo abbiamo neanche con la nostra sensibilità. E se non c’è
apertura nel modo in cui affrontiamo le nostre paure non svilupperemo mai una sana relazione
con il nostro potere. Consideriamo il potere non come accettazione ma come assenza di paura, e
a causa di questo condizionamento negativo rispetto alla paura impariamo a vergognarci della
nostra sensibilità e della nostra vulnerabilità anziché apprezzarne la bellezza, e il nostro potere
diviene aggressivo anziché centrato.

Avevo compensato così bene le mie paure che quando, durante gli anni universitari, un mio
compagno di stanza abbandonò la scuola e si mise in cura psichiatrica, pensai semplicemente che
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fosse un debole. Fu solo anni più tardi che cominciai a riconoscere la scissione che avevo dentro di
me. In superficie mi ero costruito delle maschere davvero creative per poter continuare a
“funzionare” e tenere in mano la situazione, ma a un livello più profondo stavo nascondendo un
bambino pieno di paura, pronto a emergere in situazioni di stress come relazionarsi a una donna,
dare un esame o partecipare a una competizione sportiva. Una volta, sempre durante l’università,
chiesi a una compagna di corso, molto sexy e attraente, se voleva uscire con me. Con mia grande
sorpresa mi disse di sì, ma quando andai a prenderla ero talmente nervoso che non mi veniva in
mente nulla da dire, nessuna cosa mi sembrava all’altezza. Nel corso della serata divenni sempre
più teso finché, giunti a una festa che dava un amico, mi misi a bere di più di quanto potessi reggere
… che non è molto. Così, una volta fuori, raccolsi tutto il mio coraggio per darle un bacio, ma finii
per vomitare!
Credo che tutti no abbiamo storie orribili come questa. Se la nostra parte sensibile è stata repressa,
riemergerà in modi inaspettati o verrà proiettata sulla persona amata. È successo anche a me. Il
mio primo amore fu una ragazza molto sensibile che, dopo anni di terapia, aveva finalmente trovato
la forza e la fiducia per affrontare, giorno dopo giorno, quella costante sfida che era per lei la vita.
Dato che per me la paura era semplicemente qualcosa da superare sbarazzandomene, non riuscivo
a capire le sue difficoltà: per me stava solo indulgendo nelle sue paure. La nostra parte sensibile si
nasconde o si vendica creando ostacoli, quando viene condannata dalla nostra parte rigida che
compensa le sue paure, e da questo nasce una lotta interiore.

La paura, a parte quando viene causata da un pericolo immediato, si basa sul passato, su esperienze
e condizionamenti che continuano a vivere nella mente del bambino ferito. È una traccia lasciata da
esperienze negative, traumi e forme di pensiero cariche di paura che appartenevamo ai nostri
genitori, ai nostri insegnanti e alla nostra cultura. Dopo aver osservato con attenzione e senza
giudizio le mie paure, ho riconosciuto che non sono basate sulla realtà. Spesso posso vedere come
una paura mi sia arrivata da uno o da entrambi i genitori, insinuandosi subdolamente nei miei
pensieri. Per esempio, quando ero giovane avevo soprattutto paure connesse al denaro e alla
sopravvivenza … e ancora mi sento un po’ in colpa se compro un maglione che costa più di 50 dollari!
Ma poi divento consapevole di me stesso; lentamente, riesco a vedere che quando sorge una paura
è perché il mio bambino emozionale ha preso il sopravvento.

Quando divento irritabile e frenetico (oltre il mio livello normale) è per me un buon segnale che il
mio bambino emozionale ha preso il sopravvento: sta sorgendo una paura provocata dal non riuscire
a ottenere qualcosa da qualcuno o scatenata da un disagio fisico, un rifiuto, una critica o dall’idea di
fallire. Il primo passo è riconoscere la paura, il secondo è riconoscere che il bambino emozionale ha
preso il sopravvento.
VERGOGNA E COLPA
Vergogna e colpa sono un’altra delle esperienze cardinali del bambino emozionale. La vergogna è
una sensazione di inadeguatezza, di non valere abbastanza. Immagino che ognuno di noi abbia un
suo modo di descrivere questa esperienza ma, in ogni caso, non si tratta di un’esperienza piacevole.
Quando siamo dominati dalla vergogna non sentiamo più noi stessi, non solo nel senso di non avere
un’esperienza positiva, ma di un’assenza completa di esperienza di sé. C’è una caduta di energia,
tutto sembra richiedere troppo sforzo e non riusciamo a immaginare di poter essere competenti in
qualche cosa o che gli altri ci possano rispettare e amare. Inoltre, per rendere la cosa peggiore,
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cominciamo a comportarci in un modo che rafforza quella sensazione: diciamo idiozie, facciamo
ogni genere di errori, lasciamo sempre tutto in disordine, non completiamo ciò che stiamo facendo
o lo facciamo sciattamente, o addirittura ce ne andiamo in giro con un aspetto intontito, finendo
poi col sentirci in colpa per essere un tale disastro e affondando nel buco. Da questo spazio vediamo
un mondo dove tutti hanno successo, mentre noi non possiamo che fallire, e non ci è possibile
immaginare niente di diverso, perché siamo convinti che questo è ciò che siamo, questa è la vita e
niente cambierà mai.
Un giorno, proprio nel periodo in cui stavo scrivendo questo capitolo, mentre mi trovavo dal
parrucchiere in attesa del mio turno vidi una donna che, come fu servita, si alzò dalla sedia, pagò e
si avviò verso l’uscita ma, prima di uscire, si diede un’occhiata allo specchio in modo frettoloso,
allontanandosi come se non volesse essere vista. Era davvero una donna attraente, ma il linguaggio
del suo corpo diceva che lei non la pensava così. Se teniamo davanti a noi uno specchio, la prima
impressione è solitamente di vergogna, invariabilmente troviamo qualcosa che non va e che deve
essere migliorata. Vi potete ricordare dell’ultima volta che vi siete sentiti esclusi o che avevate una
sensazione di non appartenenza? O che siete stati rifiutati o avete fallito in qualcosa di importante
per voi? O quando qualcuno che guardavate con ammirazione vi ha detto qualcosa di spiacevole,
oppure eravate con qualcuno verso il quale provavate rispetto e non sentivate voi stessi? Questi
momenti provocano la nostra vergogna, e quando ne siamo dominati sentiamo di non andare bene
così come siamo. Nei momenti che chiamiamo “attacchi di vergogna” lo sentiamo in modo acuto,
ma fondamentalmente è sempre presente e, per alcuni di noi, è paralizzante.
La vergogna è rafforzata da voci interiori che continuamente ci valutano e ci ricordano che non
andiamo bene e dovremmo cambiare per essere migliori, per avere successo, per essere dei
vincitori. Chi parla è quello che chiamiamo l’istigatore-giudice”, che prenderò in considerazione
dettagliatamente nel prossimo capitolo. Questo giudice che continuamente ci incalza non potrebbe
esistere senza la nostra vergogna, perché è lei a dirci che quelle voci sono vere. L’aspetto
paralizzante della vergogna sta soprattutto nel fatto che ci toglie la percezione di noi stessi, ci
allontana dal nostro centro precludendoci l’esperienza di sentirci a casa dentro di noi; per molti la
vergogna è anzi una sensazione così antica che non hanno mai nemmeno conosciuto quell’intima
esperienza. Siamo identificati con la nostra vergogna. Durante una recente visita alla mia famiglia
mi ritrovai, dopo cinque giorni (un tempo record!) a entrare in uno stato di vergogna. Sapevo che
era vergogna e che si trattava di una fase acuta, ma ne ero totalmente posseduto. Solo dopo essere
tornato a casa ed essere rientrato nella mia propria vita ho potuto, grazie anche al supporto degli
amici e della comunità, venirne fuori.

Tutti abbiamo vergogna, ma la affrontiamo in modi diversi. Per alcuni è in superficie e si fa sentire
con un continuo senso di inadeguatezza. In questo caso si è profondamente identificati col
“perdente”. Altri provano periodicamente un senso di mancanza di valore e un sentimento di
inadeguatezza, a seconda delle loro esperienze nel mondo: il successo li porta in alto e il fallimento
li butta giù, in un’altalena tra superiorità e inferiorità, “vincitore” e “perdente”, a seconda delle
risposte che ricevono. Io appartengo a questa tipologia. Ci sono infine altri che hanno compensato
così bene la loro vergogna con il “successo” che vedono gli altri come “perdenti” e si credono dei
“vincenti”. Per costoro è allora necessario un profondo trauma – una perdita, un rifiuto, una
malattia, un incidente, un esaurimento – per guardare in profondità dentro di sé e scoprire la
vergogna al di là delle maschere.
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Ho sempre vissuto con la convinzione che quando sorgono pensieri e sentimenti di inadeguatezza o
fallimento si debba fare di tutto pur di non farsi sopraffare. La mia vergogna era sempre lì, ma non
volevo arrendermi, perché sarebbe stato un segno di debolezza o pigrizia. Inoltre, pensavo che se ci
fossi entrato non ne sarei più venuto fuori, quindi non vedevo alcun valore nel darmi lo spazio per
sentirla. Ho però visto che se non intraprendiamo un viaggio dentro la nostra vergogna non
troveremo mai noi stessi. Sia che collassiamo nella vergogna sia che la compensiamo per superarla,
essa continua comunque a guidare la nostra vita interiore, quindi dobbiamo in qualche modo
connetterci con quella profonda sensazione dentro di noi che dice: “Sono inadeguato, sono un
fallimento. Devo nascondere le mie inadeguatezze, altrimenti gli altri si accorgeranno di come sono
veramente”. Fare questo mi ha reso senz’altro più umano. Quando invece nascondo la mia vergogna
compensandola, mi accorgo che sto fuggendo me stesso. In ogni caso, sotto la superficie c’è sempre
una paura nascosta, che non mi lascia nonostante i miei sforzi per superarla e questo può diventare
una lotta senza fine, perché, finché non affrontiamo la paura e l’insicurezza alla base della vergogna,
ne saremo continuamente ossessionati.
La vergogna è causa di molti comportamenti automatici. Quando siamo identificati con la vergogna
non abbiamo fiducia in noi stessi e dipendiamo dalla stima, dall’amore e dall’attenzione degli altri.
Diventiamo compiacenti, ci diamo da fare freneticamente, portiamo il nostro soccorso: qualunque
ruolo e comportamento che possa darci ciò che disperatamente bramiamo per riempire il vuoto che
nasce dalla vergogna. Ho sempre creduto che il mio valore e il mio nutrimento dipendessero da ciò
che facevo, che senza le mie conquiste non sarei stato nessuno. (In generale, le donne identificano
il proprio valore con la loro capacità di dare e di amare, gli uomini invece si valutano di più in base
alle prestazioni. Entrambi partono comunque da un’autoimmagine piena di vergogna.) La ferita della
vergogna ci mette in una bolla della vergogna, dalla quale vediamo il mondo come una giungla
pericolosa e competitiva, dove non c’è amore ma solo lotta e dove sicuramente non potremo
sopravvivere se non lottando e misurandoci con gli altri. Inoltre, quando siamo in questa bolla,
crediamo che gli altri siano migliori, più degni d’amore e di successo, più competenti, intelligenti,
attraenti, potenti, sensibili, spirituali, generosi, coraggiosi, consapevoli e così via. Ognuno ha
naturalmente la sua propria combinazione di questi “di più” che proiettiamo sugli altri. Oltretutto,
la nostra vergogna influenza profondamente il modo in cui gli altri si relazionano con noi.
Fondamentalmente il messaggio che trasmettiamo è: “Non sono degno di rispetto né di amore,
quindi puoi rifiutarmi, abusare o approfittare di me, come e quando vuoi”.
La vergogna, inoltre, perpetua sé stessa. Andiamo verso gli altri cercando conferma del nostro senso
di sé pieno di vergogna. Viviamo nel compromesso, ci relazioniamo nel compromesso e, abituandoci
a vedere noi stessi come una persona che fa compromessi, nutriamo la nostra autoimmagine piena
di vergogna. Questo comportamento richiama il rifiuto, abbassando ancora di più la nostra
autostima. La tensione, a partire da questa autoimmagine frammentata, continua a crescere e
facilmente possiamo scivolare in forme di assuefazione e di comportamento compulsivo. E tutto
questo va ad aggiungersi alla nostra vergogna.
La vergogna, sebbene sia un fenomeno che ci influenza globalmente, può essere osservata
maggiormente in alcune aree della nostra vita e meno in altre. A causa del nostro passato possiamo
provare una vergogna e un’insicurezza profonde connesse al corpo, alla sessualità, alla creatività, al
coraggio, all’espressione di sé, all’essere genitore, ai sentimenti o alla sensibilità. Questa vergogna
influenza il modo in cui ci relazioniamo, spesso trattenendoci dall’essere aperti. È come se avessimo
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una profonda cicatrice nel nostro essere e non vedessimo alcuna possibilità di guarirla.
Costantemente passiamo dalla vergogna alla colpa, alla sensazione di aver fatto qualcosa di
sbagliato. Mi accorgo che ogni volta che Amana per qualche ragione si sente triste o malinconica mi
sento immediatamente responsabile. Le voci della vergogna dicono: “Non sei abbastanza
amorevole, non stai dando abbastanza sostegno e attenzione”. Dalla vergogna di non essere
abbastanza sensibile sono sempre passato al senso di colpa per aver detto la cosa sbagliata o essere
stato ossessivamente focalizzato su me stesso, dalla vergogna di sentirmi irresponsabile al senso di
colpa per non valere abbastanza. Una lista interminabile!
A un certo livello, molto di ciò che crediamo di noi stessi quando siamo nello stato di vergogna ci
appare come vero, poiché le nostre esperienze sembrano confermare ciò che dicono le voci della
vergogna. Ci sentiamo indegni di amore e veniamo rifiutati, ci sentiamo dei codardi e ci vediamo
timorosi di prendere qualsiasi rischio, ci sentiamo grassi e andiamo in sovrappeso, sentiamo di non
avere niente di valido da dare e ci vediamo continuamente giudicati e criticati. Come venirne fuori,
visto che è l’unico modo per essere nuovamente soddisfatti di sé? Come penetrare la menzogna
della vergogna? Questa era per me una domanda fondamentale e la risposta che trovai fu la
consapevolezza. So che la vergogna è un prodotto della mia mente, condizionata da una cultura
repressiva, moralistica, competitiva, materialistica e nemica della vita, è il risultato di un bambino
cresciuto in un ambiente che non rispettava il suo essere, costringendolo ad adeguarsi a un mondo
strano e insensibile. Il risultato di questo condizionamento è che ci siamo disconnessi dalle nostre
qualità ed energie essenziali, perdendo il nostro centro.
SHOCK

Durante gli anni della scuola media giocavo in posizione di seconda base nella squadra calcistica di
softball. Di fatto ero un buon esterno e un ottimo battitore, ma durante le regolari partite di
campionato sbagliavo ogni battuta e mancavo delle palle che per me non avrebbero dovuto
rappresentare nessun problema. Accadeva la stessa cosa durante partite di tennis in cui giocavamo
contro altre scuole. Più forte era la pressione più facilmente perdevo la testa, come se qualcosa
dentro di me smettesse di funzionare e non potessi farci niente. Era un’esperienza che si sarebbe
ripetuta in altre situazioni in cui mi sentivo messo sotto pressione, come nel caso di dare esami o, e
questo era molto più doloroso, quando facevo l’amore. Fui sorpreso quando, molto più tardi, scoprii
che si trattava di un’esperienza di shock.
Lo shock è un’altra pietra miliare nel territorio interiore del bambino emozionale. Nasce da una
sensazione così profonda di paura che interrompiamo ogni connessione spesso del tutto incapaci di
sentire, pensare, muoverci o parlare (siamo congelati). Può sorgere in qualsiasi situazione, in modo
improvviso e imprevedibile, là dove si manifesta una pressione, un’aggressione o un dolore, sia pure
in una forma apparentemente leggera. In questo caso viene toccato un antico trauma inconscio e
smettiamo di “funzionare”, poiché lo shock ha il potere di paralizzare le nostre normali attività in
qualsiasi area della nostra vita.
Lo shock ha origine da un trauma, solitamente da un trauma ripetitivo. Per comprenderne la natura
possiamo immaginare un piccolo animale intrappolato in un angolo da un predatore, senza nessuna
via di fuga e incapace di contrattaccare perché troppo piccolo. Da bambini eravamo come quel
piccolo animale: in una situazione in cui eravamo intrappolati il nostro sistema nervoso, costruito
per rispondere con l’attacco o la fuga, non aveva a disposizione nessuna di queste due alternative.
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La sua risposta fu allora di congelarsi, bloccando il sistema energetico corporeo. Quando eravamo
bambini, qualsiasi esperienza traumatica era un’esperienza di intrappolamento, un’esperienza che,
in una forma o nell’altra, si è ripetuta, dando origine a un profondo stato di congelamento, nascosto
dentro di noi ma che può essere fatto riaffiorare in ogni momento. Questo è lo shock. Anche se
energeticamente ci distaccavamo da quella situazione di minaccia (è ciò che viene chiamato
“dissociazione”) il nostro sistema fisiologico è rimasto shockato e il ricordo doloroso è rimasto
nell’inconscio.
A volte non siamo nemmeno consapevoli di quei traumi ripetitivi, perché avvenuti in un tempo
lontano o in forme sottili. Un bambino innocente, aperto e meravigliosamente sensibile percepisce
ogni cosa dell’ambiente che lo circonda ed è terrorizzato dalla benché minima energia violenta o
invasiva, nervosa o inconsapevole. Siamo nati in una società i cui valori repressivi e competitivi sono
totalmente shockanti. Se consideriamo il modo in cui siamo nati, il modo in cui la maggior parte dei
genitori si relazionano e il tipo di vita che conducono, come siamo stati toccati e di quali
comportamenti siamo stati testimoni a scuola, allora possiamo cominciare a valutare il peso degli
innumerevoli modi in cui abbiamo subito dei traumi. Se a tutto questo aggiungiamo le pressioni, le
critiche e le intrusioni e gli abusi da molti subiti nella tarda infanzia, possiamo farci un’idea dello
stato di shock.
Lo shock sorge dall’esperienza di qualcosa che assomiglia ai nostri antichi traumi. Una volta un
partecipante a un gruppo condivise un’affascinante storia che ci fornisce un buon esempio di come,
nella vita quotidiana, possa crearsi una situazione di shock. Raccontò di avere una moglie con una
forte tendenza a controllare, per esempio gli vietava di mangiare in macchina perché non voleva
sporcare i rivestimenti interni. Un giorno, lui comprò delle ciliegie e si mise a mangiarle in macchina.
Lei cominciò a brontolare, ma lui rispose che non sarebbe successo niente perché avrebbe tenuto i
noccioli in bocca. A un certo punto si girò verso il finestrino e li sputò… L’unico problema è che si
dimenticò di abbassarlo! Questo è quel che succede nello stato di shock: siamo così spaventati che
finiamo per dire o fare le cose più stupide.
Sono molte le cose che possono mandarci in stato di shock. Le chiamiamo “cause scatenanti dello
shock” (shock triggers) e possono essere di qualsiasi tipo: rabbia, violenza, pressione, critiche e
giudizi, espressi in modo verbale o non verbale. Può essere la sensazione di essere controllati o
manipolati, o che ci si aspetti qualcosa da noi. Può essere una tensione o una negatività nell’aria, o
messaggi confusi. A volte anche solo la minaccia di una di queste cose può bastare. Uno sguardo, il
modo in cui qualcuno ci parla o non ci parla, un’inflessione della voce possono essere sufficienti a
provocare uno shock. I sintomi dello shock sono diversi per ciascuno: sudore freddo, palpitazioni,
estrema agitazione o confusione. Si può essere costantemente in stato di shock, cosa che appare
nelle fobie, negli attacchi di panico, nell’agitazione cronica, nei disturbi dell’apprendimento o nelle
varie forme di malattia cronica. Possiamo tentare di compensarlo estraniandoci e fantasticando, ma
l’esperienza rimane nel corpo. Ho un amico davvero brillante, ma la sua calligrafia sembra quella di
un bambino di cinque anni. Quando cominciò a comprendere lo shock gli fu chiaro perché, durante
la maggior parte dell’infanzia, soffrì di dislessia.

Come per la vergogna, anche lo shock può essere connesso a differenti aree della nostra vita. Sesso,
sentimenti, rabbia, creatività. Ed è difficile dire perché lo shock ci colpisca proprio in certe aree,
perché se per la vergogna possiamo identificare i giudizi che sentiamo provenire da noi stessi e dagli

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altri, per lo shock questo rimane spesso un mistero. Non ho mai chiaramente capito da dove venga
il mio shock. Probabilmente da ricordi traumatici profondamente inconsci. Può succedere che
mentre facciamo l’amore ci accorgiamo improvvisamente di non essere più presenti o che il nostro
corpo non risponde più. Possiamo avere difficoltà a sentire le emozioni e non capirne la ragione. La
rabbia, il confronto o il doverci mostrare in un certo modo possono creare panico.
Principali aree in cui lo shock si manifesta:
1. Problemi sessuali: paure irrazionali, ansie di prestazione
2. Paura del paragone, della rabbia, della punizione, delle critiche
3. Difficoltà nell’esprimere se stessi e nella creatività
4. Congelamento delle emozioni

In passato credevo che shock e disfunzioni fossero il risultato di traumi estremi ed evidenti, ma non
è così. Per il nostro bambino emozionale anche situazioni apparentemente meno forti, come
l’essere controllati o manipolati, sono ugualmente traumatiche e capaci di produrre uno shock
profondo come per i casi più ovvi di abuso sessuale o fisico. La comprensione di questo fatto, che
verifico costantemente nel mio lavoro, è stata importante perché mi ha aperto a una maggiore
compassione verso me stesso. Ho anche visto che, come per la vergogna, quando siamo sotto shock
siamo identificati col nostro bambino in stato di shock e questo è all’origine del sentirci vittime nelle
nostre relazioni con gli altri e col mondo. Inconsciamente vediamo e ci percepiamo come qualcuno
di cui abusare, qualcuno che merita di essere abusato. L’identificazione ci porta ad attrarre persone
che ci maltratteranno così come lo siamo stati in passato. Se comprendiamo questo, diviene chiaro
perché continuiamo a ripetere le stesse esperienze traumatiche. In passato mi succedeva spesso di
ritrovarmi con persone più espressive e passionali di me, e questo andava a toccare il mio shock.
Oppure attiravo persone che provocavano il mio shock perché mi sentivo controllato, manipolato,
messo sotto pressione e criticato e, affinché la cosa non si ripetesse, mettevo in atto strategie
davvero creative. Finché, vedendo che niente funzionava, finivo per ritrovarmi a sbattere la testa
contro il muro, completamente frustrato. Ma non appena l’identificazione cominciò a svanire, lo
stesso accadde per il comportamento.
Quando lo shock viene provocato, non c’è nient’altro da fare che riconoscerlo e sentirlo, mentre
normalmente ci giudichiamo. Paura e paralisi non hanno certo un gran punteggio nella classifica del
“come si vorrebbe essere”. Ci vergogniamo per essere in stato di shock, con il risultato di creare un
insieme di shock e vergogna. Se invece diamo spazio alle nostre paure e al nostro shock, lasciando
semplicemente che siano, facciamo un passo molto importante e coraggioso. Metterci sotto
pressione per venirne fuori rende solo la situazione ancora peggiore. Ho scoperto che, come per la
vergogna, il solo conoscere più profondamente lo shock – come ci fa sentire, cosa lo provoca e da
dove proviene – è sufficiente a creare una certa distanza, rendendoci capaci di osservarlo. Questa
comprensione mi ha gradualmente permesso di “essere con” lo shock, senza troppi giudizi,
ricordando che quando il mio bambino emozionale va in stato di shock, non è ciò che io sono.
Dr. Thomas Trobe – psichiatra e psicoterapeuta. Laureato ad Harvard e all’Università della California, è diventato poi
discepolo del maestro spirituale Osho col nome di Krishnananda. Fa parte ora della Osho Academy e guida gruppi di
crescita. Autore di numerosi libri, ha fondato insieme alla moglie, Gitte Deman Trobe, il “Learning Love Institute” dove
conduce insieme a lei, centinaia di seminari e corsi ogni anno.

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