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IL LINGUAGGIO

ELEMENTI
Suono
Il suono è il mezzo fondamentale attraverso il quale si esprime l’arte della musica. L’introduzione al
suono qui proposta prende in esame gli aspetti più generali di questo fenomeno in relazione alle sue
principali costituenti fisiche, cioè le tre qualità che lo caratterizzano (altezza, intensità e timbro) e al
modo in cui si presenta alla percezione umana. Nella sezione Fenomenologia del suono è invece
approfondito il modo in cui il meccanismo percettivo si relaziona alla teoria e all’estetica musicale.

SUONO

Il suono è un fenomeno prodotto dalle vibrazioni di un corpo elastico che si trasmettono attraverso
l’aria, ma anche l’acqua o un solido. Le vibrazioni così prodotte e trasmesse sotto forma di onde sonore
diventano suono quando raggiungono il nostro orecchio, e, trasformate in impulsi nervosi, vengono
recepite dal cervello come sensazione uditiva. Il fenomeno sonoro è un sistema complesso di
variazioni periodiche di pressione che si propagano in tutte le direzioni per azione e reazione delle
molecole del mezzo di diffusione. Il timpano recepisce tali variazioni riproducendole e trasmettendole
all’orecchio interno, fino al nervo uditivo. Ma i suoni non sono mere riproduzioni mentali degli stimoli
acustici. Sono invece elaborazioni complesse, che prevedono processi psicofisici di riconoscimento,
analisi e risposta emotiva. Allo stimolo acustico esterno corrisponde un oggetto sonoro interno, così
come alla percezione visiva corrisponde l’immagine di un oggetto. Mentre però, ad esempio, la vista
e il tatto trasmettono informazioni sulla realtà che supponiamo materialmente esistente al di fuori di
noi, il suono, come il sapore o l’odore, rimanda ad una proprietà che attribuiamo agli oggetti. Non è
dunque per caso che definiamo suoni, sapori e odori con gli stessi aggettivi (dolce, avvolgente, aspro,
acuto). A differenza degli ultimi, però, il suono è meglio caratterizzato a livello oggettuale: una
struttura sonora ha per noi anche volume, colore, proporzione, tutte caratteristiche abbinate anche
all’oggetto visivo.

L’elaborazione mentale dell’oggetto sonoro e la possibilità di definirlo attraverso una serie di qualità,
alcune delle quali misurabili, permette infine di connotare il suono in senso estetico: suoni e aggregati
sonori possono essere belli o brutti. Ma non solo: i suoni possono esaltare o deprimere, rallegrare o
rendere tristi, rilassare o eccitare. Ciò accade all’ascolto spontaneo dei suoni che ci circondano, ma
anche di quelli che produciamo. Come disse Boezio, il maggiore teorico musicale della tarda antichità,
"nulla è così strettamente umano quanto l’abbandonarsi a dolci armonie e il sentirsi infastiditi da
quelle discordanti, e questo non si limita a gusti individuali, o a specifiche età, ma abbraccia le
tendenze di tutti ... quindi a ragione Platone disse che l’anima del mondo è in stretto rapporto con
l’armonia musicale" (Boezio, De institutione musica, I,1).

ALTEZZA

Essendo prodotto da una vibrazione, cioè da un movimento meccanico e ripetuto di un corpo, il suono
è misurabile. L’unità di misura si chiama HERTZ (in onore del famoso fisico tedesco Heinrich Hertz,
1857-1894 che dimostrò sperimentalmente l’esistenza delle onde elettromagnetiche), ed indica la
frequenza, cioè la quantità delle vibrazioni emesse dal corpo in un secondo.
Le frequenze inferiori a 16-20 Hz e superiori a circa 20.000 Hz non sono udibili dall’uomo e
costituiscono i cosiddetti infrasuoni e ultrasuoni. La sensibilità dell’udito è massima per le frequenze
comprese fra i 2.000 e i 5.000 Hz; nella pratica musicale i suoni generalmente usati sono compresi fra
i 27 e i 5.000 Hz. La più recente misurazione della frequenza è stata data da una delegazione del
Consiglio d’Europa nel 1971.

La2 a 220 Hz

La3 a 440 Hz

La4 a 880 Hz

Nonostante le vibrazioni sonore siano misurabili, la prima possibilità concreta di determinare l’altezza
attraverso un unico paramentro di riferimento risale solo agli inizi dell’età moderna, anzitutto con
l’invenzione del diapason, un piccolo strumento d’acciaio a forma di forcella progettato nel 1711
dall’inglese John Shore. Il diapason produce un suono di altezza fissa, pari ad una vibrazione di 440 Hz
al secondo. Tale frequenza corrisponde, per la convenzione internazionale del 1939, alla nota la3.

Dall’antichità fino all’adozione dell’Hertz, le altezze dei suoni erano misurate solo in base a valori
matematici proporzionali, determinati empiricamente a partire, ad esempio, dall’osservazione delle
vibrazioni nelle corde e dall’ascolto del suono risultante. In particolare, un principio fisico/matematico
comunemente riconosciuto è che il suono fondamentale prodotto da una corda che vibra liberamente
è identico, ma più grave, del suono della stessa corda trattenuta alla metà della lunghezza. La
proporzione doppia è dunque associata a due suoni uguali nell’intonazione ma di diverso registro,
come accade spontaneamente quando una stessa nota è intonata da una voce maschile e da una voce
femminile. In tal modo, fin dall’antichità e in tutte le culture fu possibile elaborare scale musicali, cioè
successioni regolari crescenti o decrescenti di suoni di altezza diversa, utilizzando come estremi
proporzionali due suoni uguali in diverso registro.

INTENSITÀ

Se la frequenza dipende dalla quantità di vibrazioni al secondo, l’intensità di un suono dipende


dall’ampiezza della vibrazione: più l’onda sonora è ampia, più il suono risultante è forte e ben udibile,
mentre una vibrazione della stessa frequenza ma di minore ampiezza produce un suono più debole. Il
campo di udibilità dell’intensità di un suono varia, però, da frequenza a frequenza ed è delimitato da
un parametro minimo, la soglia di udibilità, ad un massimo, la cosiddetta soglia del dolore. L’intensità
varia inoltre anche in base alla distanza dell’organo uditivo dalla fonte sonora. Occorre notare che il
comportamento psicoacustico dell’orecchio cambia a seconda della combinazione di frequenza e
intensità del suono. I fisici, dunque, hanno introdotto altre unità di misura, capaci di esprimere
numericamente i valori della sensazione sonora (fon, son, mel). Anche l’intensità sonora è valutata in
base ad un’unità di misura comunemente conosciuta, il DECIBEL. Un decibel corrisponde a un decimo
di BEL, il valore di riferimento che porta il nome del fisiologo americano (Alexander G. Bell, 1847-1922)
che lo mise a punto.

TIMBRO

La gamma dei suoni generalmente utilizzata in ambito musicale è ben inferiore alla gamma udibile,
ma questa non è la sola specificità del suono musicale. Per essere tale, deve essere anzitutto
determinato, cioè la frequenza delle vibrazioni (l’altezza) deve essere riconoscibile. Il suono musicale,
però, non è composto di vibrazioni di una sola frequenza. Un suono di questo tipo, che si dice puro, è
ad esempio il prodotto dal diapason, o suoni elaborati da particolari strumenti elettronici. Se gli
strumenti musicali producessero suoni puri la loro sonorità risulterebbe povera e vuota, priva di
spessore. Un suono complesso come quello degli strumenti musicali o della voce umana è composto
da vibrazioni di diversa frequenza, cioè da tanti suoni puri che si susseguono e sovrappongono
secondo una precisa progressione, formando la cosiddetta serie di suoni armonici. La natura e
l’intensità degli armonici determinano il timbro di un suono musicale. Il fenomeno degli armonici fu
messo in luce nel 1636 dal filosofo Marino Mersenne(1588-1648), mentre due secoli dopo il fisico
tedesco Hermann von Helmholtz (1821-1894) formulò la legge matematica della serie degli armonici.
Egli scoprì che due suoni musicali diversi sono tanto più consonanti (cioè gradevoli all’orecchio se
suonati insieme) quanto maggiore è il numero di armoniche che essi hanno in comune. Il massimo
della consonanza si ha dunque quando i suoni sono separati da un’ottava: in tal caso le loro armoniche
si sovrappongono esattamente. Inoltre, Helmholtz stabilì che il rinforzo o l’esclusione di determinati
armonici è la caratteristica fondamentale che determina il timbro, sia nelle voci che negli strumenti.
ARMONICI

Il timbro è anche chiamato colore, in quanto caratterizza la ’voce’ peculiare di ogni fonte sonora. La
possibilità di sviluppare gli armonici dipende infatti dal materiale, dalla forma, dalla disposizione delle
parti di ogni fonte sonora. I primi armonici percepibili ad un orecchio attento sono l’intervallo di ottava
(primo armonico), di ottava dell’ottava (secondo armonico), di quinta (terzo armonico). La successione
dei primi armonici è sintetizzata nel seguente schema:

Rapporto con
Rapporto con Nome della
Armonici Frequenza l’armonico
la Fondamentale nota
Precedente
1 100Hz 1:1 Do --
2 200Hz 2:1 Do 2:1
3 300Hz 3:1 Sol 3:2
4 400Hz 4:1 Do 4:3
5 500Hz 5:1 Mi 5:4
6 600Hz 6:1 Sol 6:5
7 700Hz 7:1 Sib 7:6
8 800Hz 8:1 Do 8:7
9 900Hz 9:1 Re 9:8
10 1.000Hz 10:1 Mi 10:9
11 1.100Hz 11:1 Fa# 11:10
12 ...
Ciò che ci permette di distinguere il timbro di due diversi strumenti musicali o voci è appunto la
diversità di intensità con cui vengono avvertiti gli armonici presenti sulle note reali che questi
strumenti producono. Ma il timbro è influenzato anche dal modo in cui il suono evolve nel tempo,
oltre che dal contesto in cui la percezione acustica avviene: fra gli attributi del suono il timbro è
indubbiamente il più complesso e difficile da analizzare. Il suo significato nel contesto musicale è
approfondito separatamente nella voce dedicata al timbro.

A differenza del suono timbricamente determinato, il rumore è formato da suoni di frequenze che
non si susseguono secondo il vincolo armonico. Del rumore è misurabile solo l’intensità, ma ciò non
significa che il rumore non abbia timbro; anzi, ogni oggetto sonoro ha per l’orecchio umano una
specifica identità timbrica che risulta essenziale al riconoscimento della fonte sonora. Così, ad
esempio, è chiaramente avvertibile a parità di intensità e durata la differente percezione acustica
provocata da un oggetto di vetro che cade frantumandosi e da un martello che colpisce un chiodo.
L’analisi spontanea degli stimoli acustici è sviluppata sulla base dell’esperienza quotidiana dei gesti
sonori, la cui categorizzazione si affina gradualmente nel lungo corso dell’apprendimento umano. (CP)

ALTEZZA/NOTA

LA NOTAZIONE DELLE ALTEZZE

COME È STATO EVIDENZIATO NELLA SEZIONE DEDICATA ALLE QUALITÀ DEL SUONO, l’altezza è una caratteristica
che è funzione della frequenza fondamentale di ogni suono. Tale qualità è stata la più studiata nella
teoria acustica della cultura occidentale, a partire dai teorici di scuola pitagorica (V secolo a.C.). La
differenza di altezza fra due suoni, detta intervallo, è infatti percepita come differenza in acutezza o
gravità, e tale fenomeno è a sua volta esprimibile attraverso parametri numerici, dunque
scientificamente determinati. Lo studio dell’acustica musicale, configurandosi nella cultura greca
come disciplina scientifica, comportò la necessità di scrivere i suoni, ovvero di trovare un sistema
simbolico mediante il quale fosse possibile indicare le differenze di altezza, così da poter organizzare
i suoni in un sistema intervallare, ovvero in una scala musicale.

NOTAZIONI ALFABETICHE

La scala musicale pitagorica aveva una funzione teorica, serviva cioè ai filosofi e agli scienziati che si
occupavano di teoria armonica, ma non ai musicisti, perché la musica nell’antichità non veniva scritta.
Il sistema di notazione, cioè il modo ‘scritto’ per individuare l’altezza dei suoni, era utile soprattutto ai
teorici, per la determinazione degli intervalli e delle scale musicali. In tal senso si sfruttava l’alfabeto
greco, poi – grazie al filosofo Severino Boezio, che trasmise nel 500 la cultura musicale greca nel
mondo latino – cominciò ad essere impiegato l’alfabeto latino, sostituendo le lettere greche con le
prime quindici dell’alfabeto latino (da A a P) finché in età alto medievale, attorno al secolo X, le prime
sette lettere dell’alfabeto A, B, C, D, E, F, G, furono adottate per indicare sette gradi della scala, in
ordine crescente (ove alla lettera A corrisponde l’attuale la).

NOTAZIONE NEUMATICA E PENTAGRAMMA

Fu grazie alla cristianizzazione dell’Europa, e dunque alle crescenti esigenze liturgiche, che cominciò a
diffondersi un modo nuovo di segnalare le altezze dei suoni. Monaci ed ecclesiastici avevano bisogno
di fissare l’andamento melodico dei canti liturgici per insegnarli ai novizi e tramandarli ai posteri. Le
parole della liturgia che venivano intonate cominciarono così a coprirsi nei manoscritti di accenti che
indicavano il profilo melodico del brano, ma senza indicazioni di altezza assoluta e durata: si trattava,
piuttosto, di indicazioni di intonazione e flessione della voce per i quali la notazione alfabetica era, in
pratica, inutilizzabile. Probabilmente questo nuovo modo di ’scrivere’ la musica si era sviluppato a
partire dai segni accentuativi della prosodia (accenti, spiriti dolci e aspri ecc.) e originariamente era
forse riferito alla gestualità del maestro che delineava l’andamento del canto con la mano
(chironimia). Da queste premesse si sviluppò la notazione neumatica, i cui segni essenziali erano la
virgola (virga) che indica un suono più acuto e il punto (punctum) che indica un suono più grave,
mentre gruppi di due, tre o più suoni erano indicati da particolari legature. Questo tipo di notazione
ebbe uno sviluppo alquanto differenziato nei vari paesi europei, tanto da dare origine a molte famiglie
neumatiche, fra le quali si impose la notazione quadrata, sviluppata in territorio aquitano.
Gradualmente i copisti, scrivendo nelle pergamene in cui erano tracciati i righi a secco, iniziarono a
scrivere a righi alterni le parole dei testi liturgici da intonare, utilizzando il rigo rimasto vuoto per
organizzarvi intorno i vari accenti e segni notazionali. Tale prassi, trasmessa con crescente precisione
e abilità, portò alla notazione neumatica diastematica, che nella sua graduale evoluzione comportò
al raddoppio, poi la quadruplicazione del rigo, consentendo così di indicare le altezze relative dei suoni
con maggiore dettaglio. Il tetragramma, un insieme di quattro linee e tre spazi, fu universalmente
utilizzato per scrivere la musica gregoriana, secondo la prassi stabilita dal teorico musicale Guido
d’Arezzo (+1050); ma fu solo nel corso del ’500, e soprattutto con l’invenzione della stampa, che si
stabilizzò la prassi di scrivere la musica nel pentagramma, un insieme di cinque linee e quattro spazi,
il sistema utilizzato ancora oggi.

LE CHIAVI MUSICALI

Contestualmente all’aver organizzato i neumi su righi e spazi, emerse la necessità di fissare un’altezza
di riferimento rispetto alla quale ’leggere’ i neumi impiegati: nacque così la chiave musicale. La chiave
altro non è che un simbolo per indicare quale suono deve essere suonato o cantato sul rigo cui la
chiave si riferisce: tutti gli altri suoni sono riferiti in senso ascendente e discendente sui righi e sugli
spazi. Nel medioevo le prime chiavi ad essere utilizzate furono quelle di F=fa e C=do. La chiave di fa,
detta anche chiave di basso, deriva da una F stilizzata, che rappresenta il suono di altezza F indicato
da quel rigo. Stessa cosa per la chiave di do, corrispondente al suono di altezza C. La scelta di questi
due suoni dipese dal fatto che F e C erano preceduti nella scala da un semitono: gli intervalli E-F (mi/fa)
e B-C (si/do) sono entrambi di mezzo tono. Non avendo possibilità di determinare l’altezza assoluta di
una nota, il semitono serviva infatti da orientamento per l’organizzazione melodica, e dunque anche
per la lettura del brano in notazione. Gradualmente fu introdotta anche la chiave di sol (G=sol), detta
oggi anche chiave di violino. Analogamente a quelle di fa e di do, anche la chiave di sol (G) non è altro
che una G, che indica l’altezza che chiamiamo sol. In pratica, l’abbinamento del sistema della chiave a
quello della notazione diastematica consentiva di unire il sistema scalare della notazione alfabetica
latina con quello neumatico.

Nello schema sono indicate le quattro chiavi musicali oggi maggiormente impiegate per la musica
vocale e strumentale: la necessità di utilizzarne più di una deriva dal registro (l’estensione in altezza)
dello strumento o della voce per i quali la musica è pensata. La linea rosa indica la posizione del do3,
il do centrale della tastiera del pianoforte, relativamente a pentagrammi organizzati sulle principali
chiavi.

Oggi si tende a semplificare l’impiego delle chiavi. Per le partiture degli strumenti a tastiera vengono
usati due pentagrammi sovrapposti contrassegnati l’uno dalla chiave di fa, l’altro di sol. Per le voci e
strumenti acuti viene impiegata la chiave di sol, mentre per voci e strumenti gravi quella di fa.
Le note vengono collocate nel pentagramma e la loro altezza si riferisce alla chiave dello stesso
pentagramma: una volta stabilita la chiave, ad esempio quella di sol, ne consegue che ogni nota,
collocata in una determinata posizione, cioè sugli spazi o sui righi superiori o inferiori, indica un grado
specifico della scala.

Per altezze che eccedono in acutezza o gravità rispetto alla collocazione nel pentagramma vengono
impiegati tagli addizionali, o segni che indicano l’ottava inferiore o superiore. Nel seguente grafico è
indicata la posizione in pentragramma delle note che coprono quattro ottave della tastiera, da do1 a
do5:

I NOMI DELLE NOTE


PER COMPLETARE IL QUADRO DELLA RAPPRESENTAZIONE GRAFICA DELLE ALTEZZE DEI SUONI OCCORRE ACCENNARE AL
PROCESSO CHE PERMISE DI DARE UN NOME A CIASCUNA ALTEZZA , IL NOME ANCORA OGGI IN USO NELLE LINGUE
NEOLATINE: do, re, mi, fa, sol, la, si. Il primo sistema adottato per indicare questi gradi consisteva
nell’usare la notazione alfabetica (A, B, C, D, E, F, G), e nella cultura anglosassone, ancora oggi, le prime
sette lettere dell’alfabeto corrispondono ai sette suoni della scala. Ma nel mondo latino, grazie agli
sforzi pedagogici del monaco Guido d’Arezzo, si diffuse un modo diverso di nominare le note. In
effetti, la notazione alfabetica non rifletteva l’organizzazione modale del canto gregoriano, la quale si
basava su strutture intervallari di quattro suoni (tetracordi), caratterizzate dalla posizione del
semitono (secondo l’impostazione tipica della modalità).

Il principio base del metodo guidoniano si basava sull’impiego di una melodia di facile memorizzazione
che permetteva di individuare con la voce e con una sillaba corrispondente le altezze di una gamma
di suoni. Fissare nella mente il suono corrispondente ad una determinata nota, ad esempio il suono di
altezza F era impossibile, dato che non esisteva uno strumento ad intonazione fissa che potesse fare
da punto assoluto di riferimento. Come fare, allora, per leggere o scrivere un brano sul tetragramma
svincolando la musica dalle parole che accompagnavano i canti? Guido si servì delle prime sillabe dei
sei emistichi di un inno largamente conosciuto, l’inno a San Giovanni Ut queant laxis, che aveva una
particolare caratteristica: la nota corrispondente alla prima sillaba di ogni emistichio saliva di un grado
della scala, cominciando dal suono C, corrispondente alla sillaba ut, per finire al suono A,
corrispondente alla sillaba la. In questo modo era possibile determinare una successione di altezze:
bastava intonare la prima sillaba di ogni verso dell’inno per avere una scala di sei suoni ut=C, re=D,
mi=E, fa=F, sol=G, la=A.

Si trattava, in sostanza, di una ‘scala’ di suoni utile ai cantori, che rispecchiava le esigenze di un
repertorio modale monodico, basato sulla centralità di un solo semitono. Essa infatti fissava nelle
sillabe mi-fa l’intervallo di semitono (S) mentre gli altri intervalli dell’esacordo sono intervalli di tono
(T), secondo la successione:

ut -- re -- mi -- fa -- sol -- la
---T----T-----S----T-----T---

L’origine dei nomi dei sette suoni della nostra scala musicale derivò da quest’inno. Nel corso del
rinascimento al nome ut fu sostituito il nome do (ma nella lingua francese è rimasto ut), e infine fu
introdotto il si, prendendo la sillaba dalle iniziali di Sancte Iohanne dalle parole conclusive dell’inno.
La necessità di aggiungere la nota si dipese dall’evoluzione della prassi musicale, che si volgeva verso
la sensibilità armonica tonale, fondata sulla scala diatonica provvista di due semitoni.

Nel corso del Due e Trecento, gli sviluppi della polifonia resero necessario modificare l’aspetto dei
neumi in base al valore ritmico loro attribuito (si veda ritmo). Con questo passaggio, il sistema di
notazione era infine precisato tanto in relazione all’altezza quanto alla durata di ciascun suono. Con
pochi adattamenti è quello tuttora impiegato.

LE ALTERAZIONI O ACCIDENTI

LE NOTE DO, RE, MI, FA, SOL, LA, SI NON ESAURISCONO TUTTE LE POSSIBILI ALTEZZE DELLA GAMMA DEI SUONI
IMPIEGATA NELLA MUSICA DI TRADIZIONE OCCIDENTALE . INFATTI, COME SPECIFICATO SOPRA, SOLO DUE NOTE
CONSECUTIVE DELLA SERIE, CIOÈ MI-FA E SI-DO, SONO A DISTANZA DI UN semitono, mentre le altre sono a
distanza di tono, che nel moderno sistema musicale temperato corrisponde a 2 semitoni (v.
intervallo). Per consentire l’impiego di queste altezze intermedie sia temporaneo (nelle note di
passaggio delle melodie e in funzione ornamentale) sia strutturale (cioè nelle definizioni delle scale e
delle tonalità del sistema tonale) è invalso l’uso di impiegare due simboli specifici: il diesis (#) che
indica l’innalzamento di un semitono e il bemolle (b) che indica l’abbassamento di 1 semitono della
nota che segue in partitura. Infine, il bequadro annulla l’alterazione precedentemente segnalata. La
prassi musicale impiega dunque un totale di sei alterazioni:

Il segno b del bemolle ed il suo nome derivano dalla notazione alfabetica, in cui la lettera B, che indica
il suono si, se abbassata in senso discendente era scritta arrotondata (molle), mentre era squadrata,
da cui il nome bequadro, se era intesa nella sua posizione naturale. Il diesis deriva invece, per quanto
riguarda il nome, da un particolare intervallo di semitono teorizzato e impiegato nella musica greca
antica, mentre per quanto attiene alla funzione deriva dalla prassi di alterare in senso ascendente note
di abbellimento e/o funzionali alle cadenze nella musica tardo medievale e rinascimentale. (CP)

hanno fatto uso della scala ottofonica ricordiamo Igor Stravinsky, ed un esempio eloquente è nel suo
balletto Petroushka, dove l’intero secondo movimento (Chez Petroushka) è basato su una struttura
ottofonica. (CP)

TEMPO

TEMPO ASSOLUTO E TEMPO MUSICALE

Gli eventi sonori accadono nel tempo; essi impiegano del tempo per il loro accadimento ed è soltanto
attraverso il tempo che percepiamo l’evento sonoro. lo percepiamo e - anche senza accorgercene - lo
scomponiamo mentalmente per poi ricomporlo secondo la nostra capacità recettiva e con l’aiuto
attivo della memoria sia nel processo stesso dell’ascolto, per figurarci il suo svolgersi futuro, sia dopo
che l’ascolto è terminato, per inquadrare la sua struttura e per ricordarlo. il tempo musicale sta
dunque nel tempo dell’ascolto; ma il tempo musicale è una dimensione diversa dal tempo che occorre
per ascoltare la musica. i musicologi evidenziano questa differenza sostanziale distinguendo il tempo
assoluto, cioè il tempo cronologico occupato dallo svolgersi della composizione dall’inizio alla fine, ed
il tempo musicale in senso più specifico, cioè il tempo che un brano presenta, o evoca (si veda Kramer,
Il tempo musicale, ma anche Dahlhaus-Eggebrecht, La musica e il tempo). Il tempo musicale, esperito
all’ascolto secondo le sue specifiche modalità, è comunque parte del tempo assoluto, perché la
dimensione cronologica è il presupposto essenziale per fruire dell’esperienza musicale: il tempo della
musica si struttura e si dipana nel tempo assoluto come, potremmo dire, lo spazio della pittura si
sviluppa nella superficie. La superficie è il supporto di una concezione spaziale che, pur inscritta nella
bidimensionalità, la trascende, oppure la nega o la asseconda. Analogamente, nello scandire periodico
del tempo cronologico (secondi, minuti, ore) il tempo musicale organizza la sua dimensionalità e
direzionalità.

Se il tempo cronologico e la sua organizzazione in impulsi regolari e ripetuti è il supporto della musica,
ciò che invece “fonda” il tempo della musica sono i molteplici modi di organizzazione del materiale
musicale, come ha illustrato Michel Imberty. La ripetizione anzitutto, nel suo stretto rapporto con la
variazione e lo sviluppo tematico, “è altamente produttiva e creativa, fondatrice di un tempo e di una
durata organizzati, ritmati, anticipabili” (La musica e l’inconscio, p. 337). Ecco, dunque, che il tempo
musicale si struttura all’interno del tempo dell’ascolto secondo le esigenze espressive della musica (v.
espressione): le forme di organizzazione tematica e ritmica creano il tempo musicale conducendo
l’ascoltatore all’anticipazione di ciò che verrà (a trascendere, potremmo dire, il tempo dell’ascolto) e
all’ingresso nella dimensione creativa e comunicativa della musica: “La ripetizione […] genera il tempo
e, nel tempo, una direzionalità, un presente che va verso qualcosa: ma genera anche un prima e un
dopo, con i quali il compositore invita l’ascoltatore a giocare, ricordare e anticipare, con un margine
sufficiente d’incertezza affinché ogni volta si insinui la sensazione che la ripetizione avrebbe potuto
non realizzarsi, che il futuro può sempre essere sconosciuto, che il medesimo atteso può fondersi in
un altro che, a sua volta, può tuttavia non essere completamente diverso” (ivi).

LA MISURA DEL TEMPO NELLA MUSICA TONALE

L’espressione più evidente della dimensione temporale della musica è, come specificato nella voce ad
esso dedicata, il ritmo. Il ritmo musicale, infatti, è qualcosa che è percepito come strettamente
connesso al tempo e al movimento, cioè all’organizzazione “secondo il prima e il poi” degli eventi
musicali nel tempo cronologico. Il ritmo include tutti gli aspetti del movimento musicale ordinati nel
tempo, e che quindi, essendo strettamente combinato con armonia, melodia, organizzazione
strutturale, risulta un fenomeno assai più complesso e difficile da definire di quanto possa sembrare
quando è smembrato dalle altre componenti del discorso musicale e ridotto a semplice formula.

Potremmo concludere, da quanto appena detto, che il ritmo della musica sia un elemento che si
inscrive spontaneamente nella misurazione del tempo musicale. In realtà non è sempre stato così: il
ritmo in culture musicali diverse da quella occidentale, nella musica pre-tonale, in molte esperienze
della musica del Novecento non è misurato con unità isocrone di tempo. Non è possibile, ad esempio,
“tenere il tempo” in un brano del repertorio gregoriano (il canto liturgico della chiesa), ma questo non
significa che questa musica sia priva di ritmo. Concentrandoci sull’ascolto del canto, intuiamo che
l’andamento ritmico è dato dall’accento tonico di ogni singola parola e dal respiro della frase, o meglio
della preghiera. Il ritmo, nel canto gregoriano, non è basato su un tempo organizzato in figurazioni che
implicano accenti regolarmente ricorrenti, come accade nella musica occidentale, e soprattutto nel
contesto della musica tonale (v. tonalità). L’organizzazione temporale della ritmica è stato un processo
lungo e complesso che ha riguardato gli sviluppi della musica occidentale, e che,in particolare, ha
accompagnato la nascita del canto polifonico liturgico e delle forme artistiche di polifonia sacra e
profana, come specificato alla voce ritmo.

Mettiamo dunque a fuoco le modalità di organizzazione del tempo musicale nella musica di impianto
tonale. Un metronomo o un orologio scandiscono una successione di impulsi uguali. I loro battiti
stabiliscono una successsione indistinta di pulsazioni. Per avere un tempo musicale è necessario
anzitutto definire un metro. Assegnare un metro significa stabilire la periodicità di un numero definito
di pulsazioni attraverso la ricorrenza di un accento. Il metro, individuato dal ricorrere costante degli
accenti, misura lo scorrere del tempo secondo una precisa periodicità, quella delle pulsazioni
accentate. Nel caso di un metro binario, ad esempio, si ha un accento ogni due pulsazioni. Nel caso di
un metro ternario si ha un accento ogni tre pulsazioni, e così via. La battuta è, in musica, la distanza
fra gli accenti, e contiene tante pulsazioni quante sono quelle che intercorrono fra gli accenti stessi.
Facciamo una prova, ascoltando un breve passaggio da brano musicale ben noto, l’Allegretto della VII
Sinfonia di Beethoven. E’ agevole ed intuitivo, in questo brano, tenere il tempo musicale, scandendo
la misura, cioè l’organizzazione del tempo in battiti della stessa durata, e, dentro la misura, avvertire
i movimenti, le organizzazioni delle note attorno ad accenti forti e deboli che si ripetono con cadenze
regolari: questo è ciò che potremmo definire ritmo di quella musica. Possiamo sperimentare,
attraverso questo ascolto, che l’ingresso nel ritmo di una composizione passa attraverso una naturale
inclinazione a misurare il tempo musicale.

Immagine di alcune misure dall’Allegretto e audio delle stesse

L’Allegretto della Settima Sinfonia di Beethoven è una composizione di altissima intensità in forma di
tema e variazioni con l’andamento tanto di una marcia quanto di un corale, basato su una costante
misura a due tempi (2/4), nella semplice alternanza di ritmo dattilico (un suono lungo e due brevi) e
spondeo (due lunghi). L’indicazione “Allegretto” (che che nelle convenzioni dell’epoca intende
stabilire una velocità moderatamente mossa), è manifestamente ironica “per un quadro di immani
proporzioni espressive” (G. Pestelli, L’età di Mozart e Beethoven, in Storia della musica, EDT, p. 253).
L’Allegretto propone un tema con variazioni, che ha l’andamento tanto di una marcia quanto di un
corale. All’interno della misura binaria insiste il ritmo, ossessivo, che scandisce la dinamica, l’armonia
e l’andamento stesso della linea tematica. Modulo ritmico e motivo melodico/armonico sono
sublimamente fusi: è l’orchestrazione, con l’entrata progressiva di diversi gruppi strumentali, e
dunque di diversi timbri, che crea un crescendo di efficacissima intensità espressiva. Solo dopo la terza
variazione entra un nuovo tema, più sereno e disteso, ma che, mantenendo al basso il ritmo dattilico
(lunga-breve-breve), rende l’andamento, pur leggero, quasi affannato e “incompiuto”.

La mera griglia ritmica di questo movimento mancherebbe di trasmettere non soltanto la sua
complessità espressiva (che ovviamente dipende dall’intreccio di relazioni tra il ritmo e gli altri
parametri della composizione) ma anche la qualità intrinseca del tempo vissuto nell’ascolto (che
teoricamente potrebbe dipendere unicamente dalla concezione ritmica). Tanto per dire che il tempo
musicale non può essere costruito senza l’articolazione della dimensione ritmica, ma il ritmo di per sé,
semplice o sofisticato, uniforme o composto che sia, non è sufficiente per creare un tempo musicale
pregnante ed esteticamente autonomo.
Questa generale premessa sul rapporto ritmo/tempo è utile per chiarire che la lettura ritmica alla
quale siamo abituati, il solfeggio, è frutto di una prassi che si è saldamente consolidata nella nostra
cultura musicale, radicata in particolare nella musica tonale che e intuitivamente comprendiamo
poiché la ascoltiamo “cineticamente”, come un movimento, secondo cioè una direzionalità che è
impressa in questa stessa interazione ritmo/tempo. La musica tonale, che ci ha abituati a ritmi con
cadenze regolari, ha una componente di peculiare bellezza proprio nel dialogo fra tempo e ritmo,
nella frattura o nell’intreccio di queste parti costitutive, nel senso di sfasamento o di appagamento
che il ritmo imprime alla misura del tempo, e viceversa dando al singolo movimento e all’intera
composizione la loro particolarità. La realizzazione di tali intrecci è resa possibile dalla stretta
connessione di tutti elementi della musica (armonia, melodia, struttura compositiva) con il ritmo e
con il tempo. Il ritmo e il tempo assieme uniti sono infatti la vita, il carattere della musica, si potrebbe
dire, il suo sistema nervoso; la loro unione e il loro dialogo determina, come efficacemente sintetizza
Károlyi (La grammatica della musica, p. 48), l’umore di una composizione.

IL TEMPO NELLA MUSICA POST-TONALE

La concezione del tempo musicale nella musica colta del Novecento ha subito una profonda
evoluzione, segnata dalla crisi del linguaggio tonale e dalla ricerca di nuovi sistemi di organizzazione
ed espressione dell’arte dei suoni. Nella musica del XX secolo la composizione, emancipandosi dalla
tonalità, si emancipa anche dalla concezione direzionale e teleologica del rapporto tempo/ritmo che
caratterizzavano il linguaggio tonale, e si concentra su altre dimensioni della temporalità: L’istante,
l’irregolarità, la frammentarietà, e all’estremo opposto la stasi, la metamorfosi lenta, l’iterazione
ipnotica: la ricerca delle qualità sonore intrinseche all’istante, segnata dalla grande importanza
attribuita alla timbrica (v. timbro) e dalla dinamica del singolo suono o dell’impasto sonoro, scardina
i legami reciproci fra gli aggregati di suoni e dunque “nega” il tempo. Nel suo studio su Claude Debussy,
il primo fra i grandi compositori che ha gettato le fondamenta della musica del Novecento, Pierre
Boulez parla di una concezione irreversibile del tempo musicale che questi ha inaugurato (in Note di
apprendistato, Einaudi 1968, pp. 287-304): l’organizzazione del materiale musicale nella poetica
debussiana offre l’illusione che il tempo non porti da nessuna parte, mentre è l’attimo che si carica di
tutta la forza espressiva e significativa. Nella musica seriale (v. glossario) il senso di frammentazione e
polverizzazione del tempo è ancora più marcato, perché la serie dodecafonica, rendendo del tutto
imprevedibile la successione di forme sonore, dà all’ascoltatore la sensazione “che la musica si muova
a caso”, come afferma Imberty, “in un tempo che non avanza” (La musica e l’inconscio, p. 356). Uno
sviluppo significativo di questo processo si trova nella musica di Anton Webern: la successione di suoni
concepiti come punti isolati (il puntillismo) si emancipa dal metro, estraniandosi non solo dai principi
della tonalità ma anche dalla fraseologia e da ogni componente del discorso tonale. Olivier Messiaen
ha applicato l’idea della serie, che sta alla base della dodecafonia, anche al ritmo, elaborando ritmi
costituiti da dodici durate differenti. Ne risulta una sorta di cromatismo ritmico, un cromatismo delle
durate: Modes de valeurs et d’intensités per pianoforte è la composizione dove per la prima volta
viene utilizzato questo tipo di iper-organizzazione ritmica. In molte esperienze della musica del secolo
appena trascorso, dunque, ritmo e metro si separano. Il ritmo non è più al servizio del metro ma esiste
indipendentemente, senza una funzione di conferma né di disturbo del metro: diventa una
dimensione autonoma.

La concezione del tempo che alimenta e deriva da questa autonomia della dimensione ritmica può
risolversi in modi diversi. Kramer distingue tra la “non-linearità” diffusa della musica del Novecento e
una “linearità multi-direzionale” (pp. 154-157) che caratterizza pezzi con un forte “tempo gestuale”
(ad esempio il Trio per archi di Schoenberg) che nella sua discontinuità segmenta e riordina il tempo
lineare con chiari punti d’inizio e di chiusura. Egli contrappone a questo il concetto temporale di
“moment time” introdotto da Karlheinz Stockhausen (nel suo saggio Momentform del 1963 e nella
composizione di Momente 1962-64) dove lo svolgimento non ha un reale inizio: “parte come se fosse
già iniziato” (p. 158) e piuttosto che concludersi, si ferma come per caso. Non a caso è proprio di
Stravinsky (Agon) l’esempio esaminato dettagliatamente da Kramer di questa particolare concezione
del tempo musicale novecentesca. Per entrambi il tempo è, e resta, un principio ordinatore
dell’esperienza umana (Kramer, p. 143). Per Stravinsky “Il fenomeno della musica ci è dato al solo fine
di stabilire un ordine nelle cose, ivi compreso, e soprattutto, l’ordine fra l’uomo e il tempo”. E
prosegue: “Per essere realizzato esso (l’ordine) esige pertanto necessariamente e unicamente una
costruzione. Fatta la costruzione, raggiunto l’ordine, tutto è detto. Sarebbe vano cercarvi o aspettarvi
altro. E’ proprio questa costruzione, questo ordine raggiunto che produce in noi un’emozione”
(Cronache della mia vita, 1935-36). Questa posizione di Stravinsky rende manifesto come la sua
poetica si richiami all’autonomia dell’ordine musicale (la costruzione) che prescinde da qualsiasi
sistema e teoria. “Costruire” la musica implica creare una connessione, un ordine, fra l’uomo, soggetto
che crea e fruisce della creazione musicale, e il tempo, la dimensione creativa nella quale il discorso
musicale si dipana. (CP)

RITMO

Questa voce, dedicata al ritmo, è focalizzata sul sistema moderno di notazione delle durate e delle
misure, mentre per un inquadramento d’insieme sulla concezione del tempo e della ritmica nella
musica ci si può riferire alla voce tempo.

LA NASCITA DELLA NOTAZIONE RITMICA

Il ritmo musicale iniziò ad essere misurato in base a definiti valori temporali a partire dalla metà del
secolo XII, e per un genere particolare di musica, nato dallo sviluppo del canto gregoriano: la musica
polifonica liturgica. Gli enormi spazi delle cattedrali gotiche, costruite proprio a partire da quel secolo
nell’Europa occidentale, furono il ricettacolo di una musica che si ampliava in tutte le dimensioni, tra
le quali, specie nelle occasioni solenni, anche la ’dimensione verticale’. La dimensione verticale della
musica è ciò che oggi definiamo polifonia, e consiste nella possibilità di intrecciare linee melodiche
diverse secondo una logica armonica, cioè in modo tale che il risultato non sia un caos di voci, ma un
insieme significativo musicalmente (v. monodia/polifonia). La necessità di organizzare due o più linee
melodiche in contemporanea implicò la necessità di elaborare un sistema che regolasse i ritmi di
ciascuna in modo che potessero essere misurati secondo un parametro comune di riferimento, per
permettere il loro reciproco ed esatto intreccio. Il ritmo, dunque, si svincolò dal suo stretto legame
con la parola cantata per divenire elemento di coesione e organizzazione della costruzione polifonica.

Il nostro attuale sistema di notazione ritmica nacque e si sviluppò a partire da questa necessità, e,
sviluppandosi, arricchì enormemente le possibilità creative della musica. Il primo compositore
occidentale di cui abbiamo notizia fu proprio un maestro della Cattedrale di Notre Dame di Parigi, il
Maestro Leonino, ricordato per la sua perizia nel comporre organa, i primi canti polifonici in notazione,
che impiegavano un sistema particolare di notazione ritmica, chiamata modale e basata sulla
combinazione fra le principali tipologie di metri classici e i valori musicali allora in uso (la longa e la
brevis). Si aprì dunque, in sviluppi successivi e consolidandosi agli inizi del secolo XIV, la vastissima
stagione della musica mensurata, la musica basata su un ritmo costruito a partire da valori multipli e
sottomultipli di una data unità di tempo. Tali valori erano rappresentati dalla forma delle note, dalla
presenza di aste e di code sulle aste. La misura di tempo era invece stabilita all’inizio del pentagramma
attraverso una serie di simboli come il punto, il cerchio, il semicerchio: in sostanza, è il sistema attuale
di rappresentazione ritmico/temporale della musica.

VALORI DI DURATA E NOMI DELLE NOTE E DELLE PAUSE

Il sistema moderno di notazione ritmica prevede l’impiego di valori la cui durata relativa è fissata in
modo univoco secondo sottomultipli di 2 (ma non è stato sempre così: nell’età medievale i valori
perfetti di durata erano ternari, su base 3, in ragione della perfezione trinitaria). I valori sono
organizzati in maniera fissa, che si avvale di simboli chiamati note (discendenti dagli antichi neumi)
alle quali è abbinato un nome ed una durata relativa secondo lo schema seguente:

Questa è l’ossatura che fissa in maniera inequivocabile il rapporto tempo/ritmo. Stabilito infatti un
valore assoluto di durata per una nota, ad esempio una semibreve (4/4) dura quattro secondi, tutte le
altre note, in forza del loro valore relativo, dovranno durare: due secondi la minima (in quanto vale
2/4, la metà del valore della semibreve), un secondo la semiminima (poiché vale 1/4 del valore della
semibreve), mezzo secondo la croma (che vale 1/8 del valore della semibreve) e così via. Lo stesso
principio vale anche per i valori di durata delle pause. La pausa è infatti il silenzio della musica, il
momento in cui il suono si arresta nel fluire del tempo musicale ed esprimendo così un respiro,
un’esitazione, la dinamica ritmica o la naturale conclusione di un brano. Dunque, anche la pausa deve
essere misurata secondo lo stesso principio di misurazione di durata delle note.
Oltre questi valori di durata di base, altri segni sono usati per rappresentare valori diversi. il punto di
valore è un simbolo che, collocato a seguito della nota o della pausa, la aumenta di metà del suo
valore, mentre la legatura di valore è una linea arcuata che lega due o più note della stessa altezza, in
modo che l’unico suono risultante abbia il valore della loro somma. Ulteriore simbolo di valore è la
corona, che permette all’esecutore di aumentare a piacere il suono cui si riferisce la corona. Questo
simbolo in genere si trova alla fine del brano.

INDICAZIONI DI TEMPO

Come è stato segnalato alla voce tempo, il metro misura lo scorrere del tempo secondo una precisa
periodicità. Quindi per avere un metro è necessario che, a intervalli regolari, una delle pulsazioni
possegga un accento che la distingua dalle altre. Nel caso di un metro binario, si ha un accento ogni
due pulsazioni. Nel caso di un metro ternario, un accento ogni tre pulsazioni. La battuta è l’unità
metrica compresa fra due battiti accentati, e nei due casi conterrà rispettivamente due e tre
pulsazioni, la prima delle quali accentata. La battuta è segnalata utilizzando stanghette verticali. Il
brano finisce con una doppia stanghetta.

Nello schema seguente la misura di 4/4, indicata dopo il segno di chiave, determina la somma di valori
da inserire in ciascuna battuta. In questo caso, ogni battuta è riempita con note dello stesso valore,
alle quali corrisponde la rispettiva pausa. La frazione 4/4 indica quattro pulsazioni della durata di 1/4
ciascuna, ma tale valore complessivo si ottiene in musica utilizzando qualsivoglia fra i valori di durata
delle note e delle pause:
Abbiamo osservato al paragrafo precedente che la nota musicale è il luogo che rappresenta
graficamente il ritmo, mentre il pentagramma è il luogo che rappresenta non solo l’altezza della nota,
ma anche il tempo musicale. La frazione posta all’inizio del pentagramma, subito dopo il segno di
chiave, indica infatti i due fondamentali elementi temporali. Il numeratore indica se il battito,
chiamato anche tactus, si presenta in gruppi ternari o binari (2, 3 o multipli dei due numeri). Il principio
è che il primo battito è sempre accentato, ha un accento forte, mentre gli altri battiti hanno accenti
più deboli. Il denominatore della frazione indica invece l’unità di misura, il valore/nota di un battito.
Ad esempio: il tempo di 2/4, binario, è il tempo in cui in ogni battuta vengono scanditi due battiti di
un quarto ciascuno, il primo battito con accento forte, il secondo battito con accento debole; il tempo
di 3/4, ternario, è quello in cui la battuta racchiude tre battiti da un quarto ciascuno, con accenti forte,
debole, debole, il tempo di 4/4 (indicato con il simbolo C), binario, prevede quattro battiti con accenti
forte, debole, mezzo forte, debole:
Lo stesso principio si applica a tutti gli altri tempi, con denominatore in mezzi, ottavi, sedicesimi, etc.
Occorre inoltre considerare che nelle misure ternarie l’unità di misura è suddivisa in gruppi di tre
battiti di uguale valore. Gli esempi fin qui fatti si riferiscono a misure semplici, nelle quali l’unità di
base (nell’esempio precedente il quarto) è suddivisa in modo binario. Nella musica sono però
impiegate anche misure complesse, sia binarie che ternarie. Tali misure implicano che le note siano
raggruppate per suddivisioni ternarie. Ad esempio, prendendo l’ottava come unità di misura, il tempo
3/8 è misura ternaria semplice, mentre 6/8 è una misura binaria composta, perché ogni battito
racchiude tre ottavi. Per ottenere una divisione ternaria è utilizzato il punto, che, come ricordato,
aumenta la nota di metà del suo valore. In sintesi, le misure binarie semplici hanno al numeratore 2 o
4, le ternarie semplici 3, le binarie composte 6 o 12, le ternarie composte 9. Nello schema seguente,
partendo dalla ternaria semplice 3/8, sono indicate la binaria composta 6/8, la ternaria composta 9/8
e la binaria composta 12/8:
La scelta di un tempo binario o ternario, semplice o composto, indirizza la dinamica e la ritmica di un
brano, ma vi sono numerose altre possibilità di variazione offerte dalla notazione musicale per creare
effetti ternari in ritmo binario e viceversa. Le più frequentemente impiegate prevedono l’impiego di
raggruppamenti di note, come ad esempio le terzine o le sestine, che rendono ternaria una divisione
binaria di tempo:

Altri espedienti che sono comunemente usati nella musica per alimentare il dialogo fra ritmo e tempo
consistono nella sincope (v. glossario) che dà rilievo a battiti non accentati privando di accento quelli
forti, e nel contrattempo, prodotto dall’esecuzione di note accentate in tempo debole, mentre il
battere è contraddistinto da pause.

La ricerca espressiva messa in atto nella musica, ed in particolare nella musica colta del Novecento, ha
condotto, come ricordato alla voce tempo, all’elaborazione di costruzioni ritmiche e metriche
enormemente complesse, giocate sulla irregolarità degli accenti e la sovrapposizione o
giustapposizione di metri diversi. Queste particolari elaborazioni sono chiamate poliritmia. Un
esempio magistrale in tal senso è il balletto la Sagra della Primavera, capolavoro del compositore russo
Igor Stravinsky, nel quale il ritmo è elaborato con audacia e con varietà di tecniche inedite su tutti i
piani del discorso musicale. L’assetto ritmico della Sagra è determinante non soltanto come motore,
pulsione interna e scansione esterna del tempo, ma anche come veicolo di elaborazione tematica
attraverso ingegnosi stratagemmi di ripetizione e variazione, sincronizzazione e sfasamenti, regolarità
e irregolarità della battuta, spostamento di accenti ecc., nonché come elemento caratterizzante delle
singole scene e delle loro distinte atmosfere.

INDICAZIONI DI VELOCITÀ

Fra le indicazioni che rientrano nella dinamica dei tempi e delle misure vi sono anche una serie di
elementi segnalati all’inizio del brano. Anzitutto l’indicazione di metronomo. Il metronomo è uno
strumento meccanico che fu brevettato a Parigi nel 1816 dal costruttore tedesco J. N. Mälzel. Esso
permette di scandire il battito impostando un valore temporale assoluto per l’unità di misura del
tempo: ovvero, se la frazione indica 4/4, l’indicazione di metronomo fornirà la durata temporale della
nota da 1/4 (ad esempio 60 o 100 o 40 note del valore di un quarto al minuto). Non tutti i compositori,
però, si servirono e si servono dell’indicazione di metronomo: spesso troviamo in apertura di brano
una didascalia, di solito in italiano, che suggerisce la velocità e insieme il carattere del brano, elemento
che l’indicazione metronomica non può rivelare. E’ molto comune, inoltre, trovare didascalie in
partitura anche nel corso della composizione, ogni volta che il compositore (o in taluni casi l’editore o
revisore della partitura) vuole indicare con maggiore efficacia e puntualità un cambiamento di tempo,
di espressione, di carattere, di ritmo. Questi segni, interpretati dalla personale sensibilità
dell’esecutore, sono costituenti di ciò che generalmente si chiama agogica musicale. (CP)

INTERVALLO

Il primo e fondamentale elemento musicale determinato dalle qualità relative all’altezza dei suoni è
l’intervallo. Gli intervalli sono i costituenti elementari e la materia prima di ogni composizione
musicale, in quanto definiscono la reciproca relazione fra due note della scala o del modo impiegato
in quella composizione.

INTERVALLO

I suoni si differenziano l’un l’altro in altezza, cioè sulla base della differenza di acutezza o gravità, come
specificato alla voce suono. La differenza in altezza fra due suoni si chiama intervallo, e l’intervallo
determina quindi il percorso, ascendente oppure discendente, da compiere per passare dall’uno
all’altro suono. Nella musica occidentale, fin dall’età medievale, ogni modo, scala e accordo (v.
tonalità) sono definiti dagli intervalli che intercorrono fra i loro suoni consecutivi. La definizione
dell’intervallo come distanza fra due note ha un significato assoluto: sul pianoforte, per esempio, la
distanza do-mi è sempre una terza maggiore, in qualunque punto della tastiera si scelga di suonarla.
Gli intervalli fondamentali, punto di riferimento del moderno linguaggio musicale sono due: l’unisono
e l’ottava.

UNISONO

Come dice il nome, unisono è l’uguaglianza in altezza fra due suoni: propriamente parlando, esso non
è un intervallo, poiché le frequenze dei due suoni sono identiche. Supponiamo che due voci femminili
intonino una nota della medesima altezza, ad esempio il suono la3 a 440Hz di frequenza. Le due voci
intonano in unisono, cioè emettono lo stesso suono:

OTTAVA

Anche l’intervallo di ottava è relativo alla distanza fra due suoni uguali, di cui però uno è più grave e
l’altro più acuto, cioè prodotto da vibrazioni di frequenza doppia. Supponiamo che un uomo cerchi di
intonare la stessa nota prima intonata dalle due voci femminili: probabilmente non ci riuscirà,
risultando il suono troppo acuto per una voce maschile, mentre la stessa nota gli risulterà agevole
all’ottava inferiore. Egli intonerà dunque il la2, pari ad una frequenza di 220hz. Ogni suono ha quindi
una frequenza doppia rispetto al medesimo suono all’ottava inferiore (la3=440hz; la2=220hz) mentre
la sua frequenza sarà la metà della frequenza dello stesso suono all’ottava superiore (la4=880hz).

La2 a 220 Hz.....

La3 a 440 Hz.....


La4 a 880 Hz.....

Nella cultura musicale occidentale l’intervallo fra due suoni di cui uno ha frequenza doppia dell’altro
si chiama intervallo di ottava. Questo stesso intervallo nell’antichità veniva chiamato diapason
(naturalmente da non confondere con l’omonimo strumento per l’accordatura (v. suono). Diapason
significa infatti in greco ‘per mezzo di tutte le corde’ (dia-pason, sottinteso chordon), e vuol dire che
gli estremi dell’intervallo, il suono base e quello ‘doppio’, racchiudono tutti gli altri suoni di altezza
intermedia. Potenzialmente vi sono numerosi suoni di altezza intermedia fra un suono e il suo
’doppio’, ma la teoria musicale occidentale e l’evoluzione della prassi compositiva hanno colmato la
distanza con una successione di sette suoni per cui il ’doppio’ rispetto a quello di partenza è l’ottavo
suono della successione. Questa successione di sette suoni è la scala musicale diatonica, che nella
disposizione più conosciuta corrisponde alla sequenza delle note do, re, mi, fa, sol, la, si, do (i tasti
bianchi della tastiera che intercorrono fra un do e il do successivo) .

GLI INTERVALLI NELLA SCALA DIATONICA

QUESTA PANORAMICA DEGLI INTERVALLI MUSICALI IMPIEGATI NEL SISTEMA MUSICALE OCCIDENTALE SI BASA SULLA
INDIVIDUAZIONE DI CIASCUNA TIPOLOGIA DI INTERVALLO ALL’INTERNO DI UN’OTTAVA DI RIFERIMENTO (DO3 - DO4).
COME È MESSO A FUOCO ALLA VOCE SCALA, la successione di sette suoni che copre l’intervallo di ottava (do3
- do4, nel nostro esempio) compone la scala diatonica corrispondente ai tasti bianchi della tastiera
sotto raffigurata. Le note che individuano i sette suoni sono: do - re - mi - fa- sol - la - si - (do4).

IL SEMITONO E IL TONO

Prima di definire le varie tipologie di intervallo è opportuno introdurre l’intervallo di semitono e di


tono, a partire dai quali sono computati gli altri intervalli musicali. La barra colorata nella figura
precedente, riprodotta anche nella figura che segue, indica gli intervalli di semitono compresi
all’interno di una ottava, e corrispondenti ai tasti che intercorrono fra gli estremi della stessa ottava
do3-do4 (ma lo stesso vale per qualsiasi altra ottava). La distanza di ottava è coperta sempre da 12
semitoni (12 tasti), e il semitono è l’intervallo più piccolo che distanzia un suono dal successivo e dal
precedente. La distanza di un semitono è la differenza più piccola in altezza chiaramente avvertibile al
nostro udito. Molte altre culture musicali e repertori di canto popolare impiegano intervalli inferiori
al semitono, che però il sistema temperato (usato per l’accordatura degli strumenti di tradizione
occidentale) non contempla. Questa è la successione di semitoni, con relativa nomenclatura, nella
scala diatonica do-re-mi-fa-sol-la-si-do, ricordando che il simbolo # (diesis) innalza la nota di 1
semitono, mentre il simbolo b (bemolle) la abbassa di 1 semitono, così che do# equivale in altezza a
reb, re# a mib e così via (v. altezza/nota):

Osservando la barra dei semitoni, notiamo che l’intervallo che separa le note contigue della scala
diatonica non è sempre identico. Fra do e re c’è infatti la distanza di 2 semitoni, cioè di un tono (nella
tastiera le due note sono infatti separate dal tasto nero, che corrisponde alla nota do#/reb), mentre
fra mi e fa c’è la distanza di 1 semitono (non essendoci un tasto nero fra i due). La successione di
intervalli nella scala diatonica è dunque: tono, tono, semitono, tono, tono, tono, semitono = 12
semitoni.

Occorre specificare che gli intervalli sono ascendenti se la prima nota è più bassa della seconda,
discendenti se la prima nota è più alta; e che due intervalli sono complementari se sommati insieme
equivalgono all’intervallo di ottava. Inoltre, per dare il nome agli intervalli si immagina di percorrere
la distanza che, all’interno della scala, ne separa gli estremi, e si contano le note che vi sono contenute
più gli estremi stessi. Ad esempio do-sol è intervallo di quinta (infatti contiene le note do-re-mi-fa-sol)
ascendente, mentre do-sol discendente è una quarta (do-si-la-sol); questi due intervalli sono
complementari:

Il prospetto complessivo degli intervalli costruiti sulla scala diatonica nell’ambito di una ottava è
rappresentato nel seguente schema. Gli intervalli sono di seconda, terza, quarta, quinta, sesta e
settima che si dividono in cinque tipologie: giusti, maggiori, minori, aumentati e diminuiti. Gli intervalli
superiori all’ottava si identificano continuando a contare in progressione. Per esempio, poiché: do3 -
re3 è una seconda maggiore, do3 - re4 è una ottava più una seconda maggiore, cioè una nona
maggiore. Analogamente, do3 - mi4 è una decima maggiore, e così via.
INTERVALLI GIUSTI

OTTAVA. La distanza di ottava giusta, come sopra specificato, copre tutta la gamma dei suoni: due suoni
che distano in altezza 12 semitoni l’uno dall’altro sono quindi fra loro in intervallo di ottava. Questa
stessa distanza, riferita alla scala diatonica, è di 5 toni + 2 semitoni. L’intervallo di ottava è un mero
raddoppio della voce, come specificato sopra, in quanto i due suoni sono identici, anche se collocati
ad un diverso registro. Nella musica occidentale l’intervallo di ottava è stato insieme alla quinta e alla
quarta giuste il primo intervallo impiegato in successioni parallele per le prime forme di canto
polifonico (v. monodia/polifonia*). Ottave, quinte e quarte sono considerati intervalli perfetti o, nel
linguaggio musicale corrente, giusti in virtù della loro determinazione matematica, come specificato
più avanti. L’intervallo di ottava è universalmente impiegato nella musica, non solo nel raddoppio del
suono degli strumenti e della voce, ma anche per la sua efficacia espressiva. Nel Trovatore di Verdi,
ad esempio, Leonora e Manrico, innamorati, cantano in ottava intonando testi diversi nel terzetto “Un
istante almen/Del superbo” contrapponendo la loro voce ‘unisona’ alla voce del Conte di Luna, loro
antagonista.

Quarta. L’intervallo di quarta giusta si compone di 2 toni + 1 semitono. Quarta e quinta sono intervalli
complementari, in quanto, sommati, danno l’ottava. La quarta giusta è tra gli intervalli più popolari
della musica. Tante famose melodie iniziano con un intervallo di quarta ascendente nel contesto della
musica tonale, perché evoca in maniera esplicita la cadenza dominante-tonica (v. tonalità), dunque è
uno slancio che approda al suo naturale punto di riposo. Molti inni nazionali e canti di lotta iniziano
con l’incitamento di una quarta. Ma la quarta può anche invitare a procedere col grave passo di una
marcia, come ad esempio nella Marcia funebre della Terza Sinfonia (Eroica) di Beethoven. La quarta
ascendente più famosa della letteratura musicale è quella che dà l’attacco alla Marcia Trionfale
dell’Aida di Verdi.

Quinta: L’intervallo di quinta giusta si compone di 3 toni + 1 semitono. L’intervallo di quinta costituisce
la distanza fra i due estremi degli accordi maggiori e minori (v. tonalità). Suonata simultaneamente
crea un senso di vuoto e incertezza tonale, come ad esempio nell’ultimo, desolato Lied Der Leiermann
(Il suonatore di organetto) della raccolta Winterreise (Viaggio d’inverno) di Schubert: la quinta alla
mano sinistra del pianoforte – le note la e mi suonate in simultanea – fanno da sfondo a tutto il brano
e ricordano l’uso popolare delle quinte di bordone (v. glossario).

INTERVALLI MAGGIORI E MINORI

TERZA. L’intervallo di terza maggiore si compone di 2 toni, mentre quello di terza minore è dato da 1
tono + 1 semitono. La terza maggiore o minore definisce il modo della tonalità. La terza è infatti
l’intervallo fondamentale nella costruzione degli accordi: la terza maggiore e la terza minore, messe
una sopra l’altra in modo da realizzare una quinta giusta, formano l’accordo perfetto maggiore,
mentre la terza minore più la terza maggiore formano l’accordo perfetto minore (v. tonalità).
L’intervallo di terza è il più piccolo salto melodico, ed è un approdo naturale della voce; la sua forza
espressiva può essere colta, ad esempio, ascoltando il secondo tema del secondo movimento della
Sinfonia Incompiuta di Schubert: una stupenda melodia del clarinetto, esempio eloquente, anche per
il corredo armonico che Schubert le fornisce, della dolcezza posseduta dalle terze (quattro in
successione, di cui la prima, minore, dà il modo). I due più famosi intervalli discendenti di terza, la
prima maggiore la seconda minore, sono quelli che aprono la Quinta Sinfonia di Beethoven.

Sesta. L’intervallo di sesta maggiore si compone di 4 toni + 1 semitono, mentre quello di sesta minore
è dato da 4 toni. Terze e seste sono intervalli complementari, perché una terza più una sesta portano
all’intervallo di ottava. L’intervallo di sesta è l’intervallo più ampio che sia privo di un carattere di
tensione. Per la sua cantabilità espansiva la sesta maggiore ascendente si ritrova in molti passi
operistici, anche di impronta espressiva completamente diversa. E’, fra i tanti esempi possibili,
l’intervallo di apertura del celebre coro “Libiam nei lieti calici”, della Traviata di Verdi, mentre Mozart,
nelle Nozze di Figaro, lo impiega abilmente nell’aria “Contessa perdono” per sottolineare la
riconciliazione che riunisce i i personaggi nel finale. Un’apertura melodica con intervallo di sesta
minore è invece nel celeberrimo “Lacrimosa” del Requiem di Mozart.

Seconda. L’intervallo di seconda maggiore è di 1 tono, mentre quello di seconda minore ha l’ampiezza
di 1 semitono. L’intervallo di seconda è il minimo movimento melodico possibile in quanto lega due
note vicine nella scala, e per questo è l’intervallo più frequente nella maggioranza delle melodie. Il
celeberrimo Inno alla gioia della Nona Sinfonia di Beethoven è uno degli esempi più efficaci di impiego
di intervalli di seconda (v. melodia). Di tutt’altro tenore, invece, è lo stillicidio della seconda, minore e
maggiore, che in molti esempi del repertorio musicale barocco offre l’immagine del sospiro e del
singhiozzo, come superbamente espresso nell’Aria “Blute nur” (Sanguina mio cuore) dalla Passione
secondo Matteo di Bach.

Settima. L’intervallo di settima maggiore è di 5 toni + 1 semitono, mentre quello di settima minore
ha l’ampiezza di 5 toni. Settime e seconde sono intervalli complementari. L’intervallo di settima, il più
ampio degli intervalli contenuti entro l’ottava, è carico di tensione: dissonante e difficile da intonare,
nella musica tonale appare raramente al principio di una melodia; è infatti una dissonanza che deve
essere risolta, facendola seguire da una consonanza. Una settima maggiore ascendente, ad esempio,
apre l’aria “O terra addio” con cui si chiude l’Aida. Nel caso della settima maggiore ascendente, poiché
le manca solo un semitono per raggiungere l’ottava, la sua tensione si placa salendo di un semitono.
La settima minore ascendente, invece, ha soltanto un semitono in più della sesta maggiore, e la sua
tensione si risolve più spontaneamente scendendo di un semitono. In molta musica del Novecento la
settima, come gli altri intervalli più dissonanti (seconda minore e tritono) si emancipa, affrancandosi
dall’obbligo della risoluzione.

INTERVALLI AUMENTATI E DIMINUITI

SE AGLI INTERVALLI GIUSTI – QUARTA QUINTA E OTTAVA – E A QUELLI MAGGIORI O MINORI SI AGGIUNGE (O SI TOGLIE)
UN SEMITONO DIVENTANO ECCEDENTI (O DIMINUITI). FRA QUESTI INTERVALLI, DUE RISULTANO PARTICOLARMENTE
SIGNIFICATIVI NEL CONTESTO DELLA MUSICA OCCIDENTALE :

QUARTA ECCEDENTE O TRITONO. Questo intervallo copre 3 toni esatti: per questo è anche chiamato
tritono, e nei trattati musicali “diabolus in musica”. Ha infatti una sonorità aspra e di difficile
intonazione. La sua fama di ’intervallo maledetto’ lo ha reso adatto a suggerire contesti demonici,
soprattutto nella musica dell’Ottocento. Nella musica del Novecento l’intervallo di quarta eccedente
ha perso questa connotazione infernale e ne sono state esaltate alcune sue specifiche proprietà, fra
cui quella di dividere l’ottava in due parti esattamente uguali (è l’unico intervallo che coincide con la
propria inversione). Trattandosi di un intervallo in cui compare un numero intero di toni, il tritono è
comune nella scala esatonale (v. scala): ad esempio nella sequenza do–re–mi–fa#–sol#–la#–do tutte
le quarte sono quarte eccedenti. Nella musica di Debussy il tritono compare con frequenza
straordinaria, fra i tritoni più famosi, quello del celebre attacco del Prélude à l’Après-midi d’un Faune,
riempito dall’arabesco del flauto.

Settima diminuita. Un caso particolare di settima è la settima diminuita, intervallo che contiene 4 toni
+1 semitono, come la sesta maggiore, ma, impiegato nel contesto della musica tonale soprattutto
come intervallo discendente, risulta un fondamentale ingrediente espressivo per segnalare eventi
improvvisi, personaggi sinistri, situazioni di pathos, sorpresa, ansia, terrore. La settima diminuita si
costruisce per sovrapposizione di tre terze minori: considerando la gamma dei 12 suoni, è possibile
costruire solo 3 accordi differenti di settima diminuita. Ciascuno è comune a 4 tonalità (naturalmente
tenendo presente i rivolti e i suoni omologhi). L’accordo di quattro suoni che ne scaturisce è dunque
estremamente versatile, ed è ampiamente utilizzato nella modulazione verso tonalità lontane (v.
tonalità).

RAPPORTI MATEMATICI DEGLI INTERVALLI

Come è stato sopra sottolineato, l’intervallo di ottava implica un rapporto di frequenza doppio fra i
due suoni che compongono l’intervallo. Lo stesso rapporto si verifica facendo vibrare una corda, e poi
facendone vibrare la metà esatta. Se il suono della corda che vibra liberamente ha, per ipotesi, 100
vibrazioni al secondo (100 hz), il suono dell’ottava superiore sarà di 200 vibrazioni al secondo (200 hz),
e corrisponderà al suono della medesima corda trattenuta alla metà. Questo principio matematico
basilare per la determinazione dell’ottava è presente in tutte le culture musicali, ma la prima indagine
sistematica sulle proprietà matematiche dei suoni di cui abbiamo testimonianza si deve a Pitagora di
Samo (VI-V secolo a.C.), al quale è attribuita l’invenzione del monocordo, uno strumento ad una sola
corda con un ponticello regolabile in modo da dividere la corda in parti proporzionali, così da poter
studiare più agevolmente i rapporti matematici intercorrenti fra suoni di altezza diversa.

Nella figura qui riprodotta il principio del monocordo (divisione della corda in parti proporzionali) è
applicato al grado di tensione di più corde di identica lunghezza, tese su una cassa di risonanza.
Secondo i pitagorici, infatti, gli stessi rapporti matematici che si individuano nella determinazione delle
altezze tramite divisione proporzionale della corda si dovrebbero ritrovare anche se corde uguali
vengono tese con pesi differenti che rispettano le stesse proporzioni. Questi ‘esperimenti’ di
matematica musicale furono ripresi e discussi in numerose trattati antichi e e medievali. L’illustrazione
che segue è tratta dal frontespizio del trattato Theorica musice di Franchino Gaffurio (1480). I numeri
che rappresentano i vari pesi definiscono i rapporti matematici semplici che intercorrono fra alcuni
intervalli:

Se i pesi delle corde sono: 4 -- 6 -- 8 -- 9 -- 12 -- 16, avremo (dopo aver ridotto ai minimi termini le
proporzioni) la seguente determinazione matematica degli intervalli ascendenti di:

ottava (diapason) = 1:2 (= 4:8, 6:12, 8:16)


quinta (diapente) = 2:3 (= 4:6, 8:12)
quarta (diatessaron) = 3:4 (= 6:8)
tono (epogdoos) = 8:9 (che è anche la differenza fra 2:3 e 3:4; infatti: (2:3) : (3:4) = 8:9)

I pitagorici determinarono col sistema proporzionale anche il rapporto matematico di altri intervalli
musicali oltre l’ottava (che chiamavano diapason): sono gli intervalli giusti, o perfetti, sopra esaminati,
di quarta e di quinta e la loro differenza, il tono (ricordiamo che il sistema temperato moderno altera
l’intonazione naturale di tutti gli intervalli, ad eccezione di quello di ottava, che resta nel rapporto
doppio). Oggi sappiamo che il suono della quinta coincide col terzo armonico (v. suono): è dunque
anch’esso, come l’ottava, un intervallo naturale. Anche gli intervalli di terza e sesta maggiore e minore
furono determinati attraverso proporzioni matematiche, ma non essendo in rapporto sesquialtero
(cioè tali che il numeratore e il denominatore si differenzino per una unità) non erano computabili fra
le consonanze. Ottava, quinta, quarta, tono sono intervalli che si ritrovano in moltissime culture
musicali. Si potrebbe dire che sono naturali punti di riferimento per la voce umana e per la costruzione
e accordatura degli strumenti musicali. Averne determinato i valori matematici costituì dunque una
scoperta fondamentale per la nascita della scienza acustica, che da allora fino alla rivoluzione
scientifica galileiana, nel 1600, fu considerata una scienza matematica (mentre oggi l’acustica è una
branca della fisica). Una particolarità da segnalare rispetto all’esperimento dei pesi: Vincenzo Galilei,
padre di Galileo, musicista e teorico musicale, lo discusse nel suo Discorso sopra la musica antica et la
moderna (1581), dimostrando che i rapporti fra i pesi dovrebbero essere quadrati rispetto ai rapporti
delle lunghezze delle corde; affinché due corde uguali producano l’ottava è dunque necessario
quadruplicare, e non raddoppiare, il peso di tensione dell’una rispetto all’altra.

CONSONANZE E DISSONANZE

i termini consonanza e dissonanza rimandano alle qualità acustiche suscitate dall’incontro di due suoni
di diversa altezza, siano essi in successione, come negli intervalli, siano essi in simultanea, come negli
accordi (v. tonalità). le sensazioni di gradevolezza e consonanza o sgradevolezza cioè dissonanza fra
suoni in realtà non dipendono dall’altezza in sé dei suoni, ma anche dai timbri, dalle dinamiche e
soprattutto dalla natura della composizione, cioè dal sistema musicale di riferimento, dall’epoca e
dalla circostanza nelle quali si colloca ogni creazione musicale. insomma, consonanza e dissonanza
sono parametri di giudizio storicamente determinatisi e profondamente diversi nelle varie epoche,
culture e generi musicali.

come è stato sopra richiamato, la tradizione teorica pitagorica reputava consonanti solo gli intervalli
giusti, in forza della loro determinazione matematico-proporzionale. questo ha fatto sì che nella
cultura occidentale la prassi nell’impiego delle combinazioni di suoni fosse subordinata (almeno nella
musica colta, trasmessa per iscritto) ad un apparato teorico di riferimento. in età medievale, con lo
sviluppo della polifonia, anche gli intervalli di terza e sesta cominciarono ad essere ritenuti consonanti,
benché in modo ’imperfetto’. fu solo alla metà del cinquecento che l’imperfezione si emancipò, grazie
alle teorie armoniche di gioseffo zarlino, il quale elaborò il principio del senario: tutti gli intervalli
consonanti sono espressi attraverso proporzioni matematiche semplici, determinate dai primi sei
numeri naturali: 1, 2, 3, 4, 5, 6. Fu dunque possibile annoverare fra le consonanze anche la terza
maggiore (4/5), la terza minore (5/6), la sesta maggiore (3/5) e la sesta minore (5/8, il numero 8
sarebbe ’potenzialmente’ contenuto nel senario, secondo Zarlino). Il senario zarliniano è alla base
della costruzione della scala naturale (v. scala), impiegata nella teoria musicale fino all’affermarsi del
sistema del temperamento equabile, ed il suo principio di sovrapposizione delle note per terze,
fondamento delle aggregazioni accordali, fu il principio cardine dell’elaborazione teorica dell’armonia
tonale (v. armonia). Nell’Ottocento lo studio degli armonici ad opera del fisico Helmholtz (v. suono)
portò al superamento della matematica delle consonanze e alla determinazione fisica della
consonanza come fenomeno dovuto al numero di battimenti (le interferenze di onde sonore fra suoni
di frequenza diversa) fra i suoni di un intervallo ed i rispettivi armonici. Questa fu una teoria
ampiamente discussa, soprattutto per la sua incapacità di giustificare la consonanza all’interno del
sistema temperato, dove tutti gli intervalli ad eccezione delle ottave sono alterati rispetto
all’intonazione naturale, ma non per questo risultano sgradevoli. Nel linguaggio dell’armonia tonale
sono consonanti gli intervalli giusti, le terze e le seste, mentre restano dissonanti le seconde e le
settime e tutti gli intervalli alterati e diminuiti (e, di conseguenza, tutti gli accordi che contengono tali
intervalli). Naturalmente, questo principio non è valido nella musica atonale (v. glossario) e nella
musica seriale (v. glossario) nelle quali il concetto di consonanza, così come l’aggregazione per terze
degli accordi, non ha significato strutturale. (CP)

SCALA

La scala musicale è definibile come un sistema di organizzazione dei suoni sviluppato nel contesto
teorico e/o nella pratica da ogni cultura musicale, passata e presente. Inventare una scala significa
scegliere un certo numero di suoni e fissare le distanze tra di essi, cioè gli intervalli che li separano.
L’intervallo fra due suoni è alla base della formazione delle scale musicali, cioè la successione di più
suoni che, partendo da una determinata altezza, ascende fino ad una altezza determinata
(generalmente all’ottava superiore) o discende fino ad una altezza determinata passando da altezze
intermedie, dette gradi. La scala musicale a noi più familiare è quella dei sette suoni do-re-mi-fa-sol-
la-si-do (ottava successiva), detta diatonica, nei suoi due modi maggiore e minore. Altre tradizioni
musicali sono basate su scale pentafoniche, cioè formate da cinque suoni, o esatoniche (di sei suoni)
o formate secondo altre tipologie di scelta di suoni. Con il superamento del sistema tonale nella musica
colta del Novecento sono state ampiamente utilizzate sia queste scale ’difettive’, sia altre tipologie di
scale musicali, appositamente elaborate.

LA SCALA PITAGORICA E LA SCALA NATURALE

L’esistenza delle scale musicali, almeno nella musica occidentale, deriva in larga parte dalla struttura
armonica dei suoni musicali, rispetto ai quali l’intervallo di ottava (v. intervallo) ha giocato un ruolo
di indubbia centralità. La necessità combinata di ricordare le melodie e di ricondurre i suoni intermedi
all’ottava a rapporti matematicamente esprimibili ha fatto sì che fosse individuato un numero
relativamente piccolo di gradi nell’ambito della scala, corrispondenti a intervalli facilmente intonabili
e riconoscibili, in quanto basati sul fenomeno (allora ovviamente sconosciuto) degli armonici (v.
suono). L’intervallo di quinta, pari ad un rapporto di frequenze 2:3 (in senso ascendente) e
corrispondente al terzo armonico fu utilizzato per determinare matematicamente numerose scale
musicali, ad esempio quella pitagorica. I pitagorici, infatti, stabilirono attraverso rapporti proporzionali
basati sulle potenze dell’intervallo di quinta i valori di ogni grado di una scala musicale, detta, appunto,
pitagorica. Elevando infatti a potenze successive il valore di questo intervallo e riportando il valore
ottenuto nell’ambito dell’ottava (in pratica, individuando il quadrato, poi il cubo, poi le potenze
successive di questo rapporto e dividendo ogni valore per 1/2) si ottengono sette suoni diversi, tutti
inclusi nell’ottava e tutti matematicamente definiti.

Se, per esempio, partiamo dalla nota DO e procediamo di quinta in quinta, la progressione matematica
sarà la seguente:
1 = DO
2/3 = SOL, quinta di DO e quinto grado della scala
(2/3)2: 1/2 = 8/9 = RE, quinta di SOL e secondo grado della scala, corrispondente all’intervallo di tono
(2/3)3: 1/2 = 16/27 = LA, quinta di RE e sesto grado della scala, etc. etc

La scala pitagorica fu oggetto d’interesse teorico, ma dal punto di vista della pratica musicale fu di
poca utilità. Altre scale di suoni riuscivano, infatti, ad avvicinarsi meglio alla reale accordatura degli
strumenti e alla prassi musicale. In generale, non erano matematicamente determinate. I problemi
teorici legati all’impiego di questa scala derivano dal fatto che la progressione delle quinte non si
chiude esattamente su l’ottava della nota di partenza. Anche molte scale musicali orientali e arabe
sono basate sulla progressione delle quinte e sempre tale successione è impiegata per la formazione
delle scale diatoniche maggiori e minori nella musica moderna, secondo il procedimento detto circolo
delle quinte, esaminato più avanti. In questo procedimento il circolo ’si chiude’ poiché il sistema
musicale di riferimento è quello della scala temperata.

La scala pitagorica non fu la sola scala musicale utilizzata in occidente. Fra quelle impiegate dai teorici
occorre ricordare la scala naturale, o dei rapporti semplici, elaborata dal pitagorico Archita (+348 a.C.),
ripresa dall’astronomo Tolomeo (+161 d.C.), ma perfezionata dal teorico musicale Gioseffo Zarlino nel
1558. Si basa anch’essa su un procedimento matematico e individua i valori di sette intervalli
attraverso rapporti proporzionali semplici, molti dei quali in comune con la scala pitagorica: 1/2
(ottava), 2/3 (quinta), 3/4 (quarta), 4/5 (terza maggiore), 5/6 (terza minore), 3/5 (sesta maggiore), 5/8
(sesta minore), 8/9 (tono). Questa scala rispondeva meglio alle esigenze della pratica musicale, per
una migliore determinazione delle terze e delle seste, ma risultava pur sempre disagevole
nell’accordatura degli strumenti a tastiera, poiché limitava le possibilità di modulazione e
trasposizione delle composizioni.

LA SCALA TEMPERATA

La scala musicale che oggi conosciamo e utilizziamo fu elaborata da Andrea Werckmeister alla fine del
1600 e fu utilizzata dai compositori a partire dal secolo successivo. J. Sebastian Bach impiegò
sistematicamente la scala temperata nelle due raccolte Das wohltemperierte Klavier (Il clavicembalo
ben temperato), composte la prima nel 1722 e la seconda nel 1744. Ciascuna raccolta contiene 24
preludi ed altrettante fughe in ognuna delle 24 tonalità nelle quali modula la scala temperata (v.
tonalità). Questa scala musicale si basa su un principio di determinazione dei suoni completamente
diverso da quello matematico sopra esaminato. La scala si suddivide infatti in 12 gradi progressivi,
calcolati ripartendo l’ottava in dodici parti uguali, sulla base della radice dodicesima di 2. Ogni parte,
o grado, si chiama semitono. Ogni semitono corrisponde a un aumento del 5,9% della frequenza del
suono (radice dodicesima di due = 1.0594...). Dopo dodici semitoni si ha un raddoppio della frequenza:
si è cioè saliti di un’ottava. La necessità di sviluppare questa scala derivò dai problemi tecnici legati
alla possibilità di accordare gli strumenti musicali (in particolare gli strumenti a tastiera) coi parametri
della scala naturale. Il problema fondamentale sulla possibilità pratica di utilizzare i valori della scala
naturale per l’accordatura, infatti, verteva sulla possibilità di comporre ed eseguire la stessa musica
su scale che partono da altezze differenti.
Il sistema della scala temperata si basa sulla divisione dell’ottava in 12 suoni; essa è dunque un
esempio di scala temperata cromatica. Suonando in successione tutte e dodici le note della scala
cromatica, notiamo che la differenza in altezza fra ogni suono e il successivo è sempre identica, e
corrisponde sempre ad un semitono. Suonando invece i soli tasti bianchi della tastiera eseguiamo una
scala eptatonica, cioè una successione di sette note (che chiamiamo do re mi fa sol la si, più il do
successivo, che è la nota ottava), la quale è definita scala temperata diatonica. I semitoni non
compresi nella scala diatonica prendono il nome diesis (simbolo #) se riferiti all’innalzamento di 1
semitono del grado precedente, mentre assumono il nome bemolle (simbolo b) se riferiti
all’abbassamento di 1 semitono della nota seguente.

Nessuno degli intervalli della scala temperata cromatica e diatonica è ’perfetto’, cioè segue il rapporto
matematico della scala naturale o di quella pitagorica, ad eccezione dell’ottava, che resta nel rapporto
doppio. Tutti gli intervalli intermedi sono aggiustati - ’temperamento’ significa adattamento - in modo
tale che l’incremento in altezza sia sempre costante (come già detto, equivale alla radice dodicesima
di 2). In tal modo, mentre i 12 gradi della scala cromatica temperata sono tutti ad intervallo di
semitono coi gradi contigui inferiore e superiore, nella scala diatonica temperata si determina una
successione di toni (1 tono è pari a 2 semitoni) e semitoni. Osservando la successione dei tasti bianchi
della tastiera, notiamo infatti che un intervallo di semitono è sempre nel mezzo ad ogni intervallo di
tono, ed è il tasto nero che si interpone fra essi. Nelle due occorrenze in cui il tasto nero è assente,
l’intervallo è già di semitono (mi/fa e si/do).

Grazie al sistema del temperamento la scala diatonica è riproducibile a qualsiasi altezza vogliamo,
partendo cioè da qualsiasi grado della scala cromatica temperata. Tale struttura risulta quindi
perfettamente versatile nel consentire di trasporre la musica a qualsiasi altezza desiderata, purché
compresa nella scala cromatica dei suoni. La messa a punto della scala temperata consentì dunque di
arricchire enormemente il linguaggio musicale, che poté contare su una vasta gamma di possibilità di
modulazione e di trasposizione. La trasformazione operata nel linguaggio, nella composizione, nella
cultura musicali dall’adozione del sistema di temperamento fu di portata enorme.

LA SCALA DIATONICA DI MODO MAGGIORE

Con il sistema del temperamento equabile, come è stato osservato sopra, la scala diatonica eptafonica
(di sette suoni) è esprimibile attraverso una successione stabilita di toni e semitoni. Guardando infatti
la progressione nella tastiera sopra riprodotta, notiamo che fra do-re, re-mi, fa-sol, sol-la e la-si c’è la
distanza di un tono (2 semitoni), mentre fra mi-fa e si-do c’è la distanza di un semitono. Questa
successione, che può essere agevolmente riprodotta a qualsiasi altezza nella gamma dei 12 suoni,
definisce la scala diatonica maggiore: tono, tono, semitono, tono, tono, tono, semitono.
Nell’esempio che segue sono costruite la scala diatonica di do maggiore (la prima partendo dal basso)
e le scale diatoniche successive che si compongono per aggiunta progressiva di una nota diesizzata,
affinché sia rispettata la corretta successione di toni e semitoni. Guardando lo schema, risulta evidente
che la progressione delle scale procede secondo intervalli di quinta ascendente: la scala di sol
maggiore (do-sol è un intervallo di quinta, v. intervallo) prevede un diesis, la scala di re maggiore (sol-
re è un intervallo di quinta) prevede due diesis, la scala di la maggiore (re-la è intervallo di quinta)
prevede tre diesis e così via (per facilità di scrittura su pentagramma, le note re della quinta sol-re, si
della quinta mi-si, e do# della quinta fa-do# sono state abbassate all’ottava inferiore):

successione dei gradi della scala -T-----T------S------T------T------T-----S-

successione dei gradi della scala ---T-----T------S------T------T------T-----S-

La sequenza di scale che è stata così costruita è un procedimento che permette, per aggiunta
progressiva di un diesis, di definire 12 scale diatoniche seguendo la successione di quinta in quinta in
senso ascendente (ricordo che solo per facilità di scrittura nello schema sono state abbassate alcune
quinte ascendenti); lo stesso procedimento vale con l’aggiunta progressiva di un bemolle, ed in questo
caso la stessa sequenza delle 12 scale è costruita secondo una successione di quinta in quinta
discendente, secondo il seguente schema, noto come circolo delle quinte. Le 12 scale con i bemolli
corrispondono per omofonia (nomi diversi delle note, ma identico suono) a quelle con i diesis:

Il circolo delle quinte chiarisce come sia possibile costruire 12 scale diatoniche maggiori, che cioè
rispettano la successione T-T-S-T-T-T-S, partendo da ciascuno dei 12 suoni della scala cromatica.

LA SCALA DIATONICA DI MODO MINORE

La scala diatonica sopra definita nella successione graduale tono-tono-semitono-tono-tono-tono-


semitono non è l’unica tipologia di scala diatonica impiegata nel contesto della musica occidentale.
Un’altra tipologia di scala, detta minore, prevede la successione tono-semitono-tono-tono-semitono-
tono-tono e fornisce nel contesto del sistema tonale specifici e distintivi caratteri funzionali alle
composizioni. Storicamente, i due sistemi maggiore e minore derivano dal contesto della modalità.
Con l’affermarsi della nuova sensibilità armonica, nel corso del Cinquecento, furono infatti integrati
altri quattro modi agli otto modi gregoriani: due di questi, lo ionico e l’eolio, corrispondono alla
successione di gradi dell’attuale modo maggiore e modo minore. Le due scale, nello specifico, erano
riferite a due diversi contesti espressivi, essendo la maggiore reputata più adatta a imprimere un
carattere positivo e ’ottimista’ alla melodia, mentre la minore avrebbe la ’qualità’ di imprimere
sentimenti di mestizia, dolore, struggimento, secondo un principio teorico emerso contestualmente
agli sviluppi del sistema tonale (v. melodia).

Ogni scala diatonica maggiore ha una relativa minore che si costruisce a partire da una terza minore
(1T+1S) sotto la tonica della maggiore. La successione dei gradi della scala minore rispetta la sequenza:
tono, semitono, tono, tono, semitono, tono, tono. Prendiamo come esempio la scala di la minore,
relativa di do maggiore:
In conseguenza, la successione degli intervalli nella minore presenta una difformità rispetto alla scala
maggiore nei gradi terzo (1T+1S=terza minore), sesto (4T=sesta minore) e settimo (5T=settima
minore), mentre il secondo (1T), il quarto (2T+1S), il quinto (3T+1S) e naturalmente l’ottavo grado (6T)
restano invariati:

Come si vede nella successione dei gradi della scala minore, che nella disposizione sopra definita si
chiama naturale, il settimo grado si colloca ad un tono di distanza dalla tonica. Ciò rende inefficace la
funzione di sensibile associata a quel grado, funzione necessaria affinché sia realizzato il procedimento
della cadenza nella musica tonale (v. tonalità). Per ottemperare a tale scopo, è quindi impiegata la
scala minore armonica, che innalza di 1 semitono il settimo grado. Questa scala è usata, come
sottolinea il suo nome, in funzione armonica, cioè per costruire gli accordi ed in particolare quelli nei
quali è presente la sensibile, mentre in funzione melodica ascendente è usata nelle tonalità minori
soprattutto la scala minore melodica, nella quale anche il sesto grado è alterato: tale scala mantiene
la funzione della sensibile, ma evita l’intervallo di 1 tono e mezzo dell’armonica, di effetto vagamente
’orientaleggiante’. Dalla scala minore armonica deriva la cosiddetta scala minore zingaresca, molto
usata da Liszt, che prevede anche un innalzamento di semitono del quarto grado (nell’esempio che
segue, riferito alla scala di la minore, è il re, che diviene re#). Nelle strutture melodiche discendenti la
scala minore più frequentemente impiegata è però la scala naturale.
naturale melodica armonica

I GRADI DELLA SCALA DIATONICA E LE LORO FUNZIONI

La successione di toni e semitoni che definisce la scala diatonica, maggiore e minore, attribuisce una
specifica funzione a ciascun suono della scala stessa. Tali funzioni, nel contesto della musica tonale,
determinano la cosiddetta tensione lineare, cioè la capacità di conferire direzione e senso alla linea
melodica e all’intreccio delle linee melodiche (tensione interlineare) nel contrappunto (v. glossario),
mentre gli stessi gradi, impiegati nella formazione degli accordi (v. tonalità) convergono nella
determinazione della cosiddetta tensione gravitazionale, cioè la direzionalità logica e dinamica della
musica tonale nelle sue componenti melodiche e armoniche insieme. La giustificazione teorica di tali
caratteristiche e la loro corrispondenza alla fattualità della musica e alla sua evoluzione storica è
materia che qui non può essere presa in esame. Ai fini della presente introduzione, è opportuno però
specificare almeno il nome di ciascun grado e la funzione dei gradi principali:

tonica (I GRADO): dà il nome alla scala e alla tonalità che su essa si costruisce. E’ il punto di riferimento
e di arrivo dell’organizzazione melodica e armonica del brano;
sopratonica (II GRADO): è a distanza di tono dalla tonica in entrambe le scale. La sua dissonanza con la
tonica e consonanza con la dominante (di cui costituisce il V grado) rende questo grado fortemente
dinamico in entrambe le modalità;
modale (III grado): essendo impiegato nell’accordo di tonica ed essendo differente nei due modi
maggiore e minore, è il grado che definisce il modo della scala (da cui il nome);
sottodominante (IV GRADO): è invariata nelle due modalità e l’accordo costruito su di essa è
determinante ai fini dell’affermazione della tonalità, in quanto generalmente anticipa la cadenza;
dominante (V GRADO): è la nota che caratterizza la scala al pari della tonica, essendo sommamente
consonante con essa ad (intervallo di quinta giusta) sia nelle scale minori che maggiori. L’accordo che
si costruisce sulla dominante convalida la tonalità, in quanto implica il meccanismo della cadenza (v.
tonalità);
sopradominante (VI GRADO): essendo differente nella scala di modo maggiore e minore, indica il modo
nella melodia e negli accordi che la contengono
sensibile (VII GRADO): la sua funzione è legata all’affermazione della tonalità, in quanto, essendo
collocata a distanza di semitono dalla tonica superiore, tende a risolvere su di essa. Il suo impiego è
essenziale nella cadenza in congiunzione con la dominante (nell’accordo di dominante) e con la
sottodominante (nell’accordo di settima). Tale funzione è specifica della scala maggiore, mentre nella
scala minore il settimo grado assume funzione di sensibile solo grazie all’innalzamento di 1 semitono,
come sopra spiegato.

Scala esatonale, pentatonica e scale difettive


A differenza delle scale maggiori-minori che conferiscono pesi e funzioni diverse ai diversi gradi della
scala, altre tipologie scalari tendono a dare alle note la stessa importanza funzionale; per questo
furono elaborate (sia per invenzione, sia per adattamento da modelli di altre culture) e largamente
impiegate nella musica colta del Novecento. Una tipologia di scala musicale costruita a partire dal
sistema temperato è la scala esatonale, basata sulla divisione dell’ottava in 6 toni interi. Molto usata,
in particolare da Claude Debussy - “Voiles”, ad esempio, dal Primo libro dei Preludes, ad eccezione di
una breve sezione pentatonica è interamente esatonale - e da Puccini, essa offre solo due possibili
combinazioni di suoni all’interno dell’ottava. Poiché l’ottava, come ricordato, è di 12 semitoni, è
possibile infatti costruire solo due scale di 6 toni al suo interno:

do-re-mi-fa#-sol#la#-(do)
do#-re#-fa-sol-la-si-(do#)

Altra tipologia di scala è quella pentatonica (o pentafonica), tipica di molte culture extraeuropee, ed
impiegata nella musica occidentale soprattutto per la sua sonorità ’esotica’. La impiega ad esempio
Puccini nella Turandot. La scala pentatonica si costruisce rispettando la sequenza tono-tono-terza
minore (1T+1S)-tono-terza minore. Sulla tastiera del pianoforte, due esempi di scala pentatonica sono
la successione dei tasti neri partendo da fa# ed arrivando a re# e la successione dei tasti bianchi da do
a la escludendo il fa. Mancando di alcuni gradi della scala diatonica, essa è un esempio di scala
difettiva:

Un altro esempio di scala musicale, anch’essa largamente impiegata nella musica del Novecento,
soprattutto dai compositori russi, è quella ottatonica o ottofonica. Caratteristica della scala ottofonica
è di essere costruita per alternanza di tono e semitono. Vi sono dunque due combinazioni possibili di
scala ottofonica nel contesto di una ottava. La particolare successione alternata di toni e semitoni
rende questa scala molto particolare per la presenza del tritono e delle terze minori. Ogni cinque note,
da qualsiasi punto si parta, l’intervallo che si forma è infatti il tritono (la quarta eccedente), mentre
ogni tre note l’intervallo che si forma è la terza minore (v. intervallo):

Fra i compositori più noti che hanno fatto uso della scala ottofonica ricordiamo Igor Stravinsky, ed un
esempio eloquente è nel suo balletto Petroushka, dove l’intero secondo movimento (Chez
Petroushka) è basato su una struttura ottofonica. (CP)
MELODIA

L’origine del termine melodia, e dei suoi affini in altre lingue europee (melody, melodie etc.), deriva
dal greco antico e riunisce insieme i due termini ‘musica’ (melos) e ‘canto’ (oide). In senso fisico-
acustico la melodia altro non è che la successione di più suoni i cui rapporti di altezza (intervalli) e i cui
valori di durata (ritmica) permettono una percezione globale dell’insieme. La melodia potrebbe
dunque essere definita una connessione coerente e significante di suoni, ove tali qualità rimandano
alla ‘logica’ della sua costruzione, al modo in cui la successione di note si incontra con la ritmica, con
l’organizzazione generale e la finalità del brano, con la scala o, più in generale, con il sistema di suoni
nella quale essa è composta e, almeno nel caso del linguaggio tonale, con la struttura armonica di
riferimento. In quest’ultimo caso, la melodia rimanda ad un’organizzazione lineare, cioè successiva,
di suoni, mentre l’armonia è concepita come organizzazione verticale, o simultanea, degli stessi.

MELODIA E FATTORE EMOTIVO

Il compositore Aaron Copland, nel suo libro Come ascoltare la musica, in relazione all’invenzione
melodica afferma che “in nessun altro ramo della composizione [un musicista] è obbligato a fare
affidamento al suo istinto musicale in tutta la sua pienezza per avere una guida [nel comporre] quanto
in questo”. L’invenzione melodica, in altre parole, sembra essere una prerogativa istintiva dell’atto
creativo. Tuttavia Copland, da compositore, non può evitare di offrire suggerimenti di tipo
classificatorio per cercare di mettere a fuoco come e perché una determinata melodia risulta ben
strutturata ed un’altra no. Premesso che il suo discorso si orienta su presupposti estetici relativi alla
musica tonale, o comunque ben applicabili ad essa, egli sottolinea che la bellezza di molte melodie
risiede in lievi mutamenti della ritmica, nella giusta calibratura dei punti di slancio e dei punti di riposo,
o cadenze, ma soprattutto nella sua qualità espressiva, cioè nella capacità di far sorgere una risposta
emotiva nell’ascoltatore. Creare una melodia significa dunque organizzare suoni, pause e ritmi in
modo significativo, espressivo, poetico. Questo principio sembra estensibile a tutte le culture e
società, tanto che un importante settore della etnomusicologia ha posto la comunicazione
(individuale, interpersonale, sociale) come una delle fondamentali funzioni della musica: poiché la
maggior parte delle culture musicali è strutturalmente monodica, la melodia è fra gli elementi musicali
quello che maggiormente ne caratterizza la funzione espressivo-comunicativa.

TIPOLOGIE MELODICHE

IL TEMA DEL PROCESSO EMOTIVO INNESCATO DALL’ASCOLTO DELLA MUSICA È TRATTATO ALLA VOCE ESPRESSIONE; qui
basterà ricordare che la capacità delle melodie di suscitare particolari risposte emotive fu impiegata
fin dall’antichità anche per distinguerne diverse tipologie. La distinzione, cioè, risultava strettamente
connessa al particolare stato d’animo (ethos) sollevato. Come è ben noto, Platone nella Repubblica
afferma che nello Stato ideale determinate armonie (che generalizzando potremmo definire ‘tipi
melodici’) dovrebbero essere bandite, in quanto inducono chi ascolta alla lascivia e alla debolezza
d’animo, mentre altre dovrebbero essere accolte perché rinvigoriscono lo spirito virile e inducono
all’amor di patria. Gli elementi che concorrevano alla determinazione di tali effetti erano connessi
all’assetto melodico-intervallare (harmonia), al ritmo (rhythmos), allo strumento utilizzato (giacché
anche ogni strumento musicale vantava peculiarità etiche e psicagogiche).

Questo tema avrà una larga ed ininterrotta risonanza e sarà ripreso in particolare in età medievale
quando la trasmissione delle melodie liturgiche si affrancò dal contesto orale e si affidò alla scrittura.
Gli archetipi melodici appresi oralmente furono infatti codificati in tipi melodico-modali (gli otto modi
ecclesiastici), raggruppati in base a più contesti di determinazione melodico-verbale, fra i quali
ricordiamo: l’accento fonico delle parole per la determinazione dei punti di slancio melodico, la
centralità delle note finalis (che ha la funzione di ‘tonica’) e repercussio (o ‘corda di recita’, suono
predominante in ogni ambito modale), come meglio specificato alla scheda modalità. Inoltre, processi
musicali quali le cadenze (intese come ritorno sulla finalis), la stroficità e la ripetizione melodica
fungevano da elementi di connessione del testo, e il riferimento alle antiche ‘armonie’ platoniche era
impiegato per inquadrare il carattere emotivo del brano. Con lo sviluppo della polifonia, dal secolo XII
in avanti, non fu più applicabile la modalità come struttura che organizza il discorso melodico, ora
plasmato dalle necessità di combinazione ritmico-armonica con le altre voci della composizione
(contrappunto). Contestualmente, il passaggio definitivo della scrittura da luogo di memoria di un
repertorio interiorizzato oralmente a luogo di sperimentazione permise che si sviluppasse il concetto
del comporre quale atto creativo: l’elaborazione (e la rielaborazione) melodica divenne perciò
invenzione artistica. Il genere musicale che maggiormente mise a fuoco la portata enorme di tale
trasformazione fu il madrigale rinascimentale, che abolì la ripetizione melodica e strofica, potenziò il
cromatismo e la parificazione tra le voci, nel tentativo di creare un nesso percepibile fra testo poetico
e musica. Al volgere del Rinascimento, la creazione musicale si accompagnò ad una tendenza culturale
e artistica che sviluppava una vera e propria semantica del linguaggio musicale con relativo apparato
retorico, concretizzato musicalmente con l’impiego degli affetti, piccole fioriture o inflessioni
melodiche con funzione di rappresentare specifici stati d’animo. Fu questo lo sfondo concettuale
dell’emergente monodia accompagnata, ove la melodia era di nuovo elemento privilegiato dal punto
di vista espressivo, anche se ad essa sottendeva ormai il nuovo linguaggio armonico tonale.

Nell’età dell’Illuminismo, filosofi come Diderot e Rousseau ritenevano che solamente la melodia e non
l’armonia (cioè il linguaggio della polifonia tonale) fosse da considerarsi musica ‘pura’, proprio perché
la modulazione lineare della voce era ciò che meglio poteva esprimere la potenza della parola
intonata: “La melodia è linguaggio non meno della parola: ogni canto che non dice nulla non è nulla”,
afferma Rousseau. Gli ‘affetti’ divennero dunque vere e proprie formule e stereotipi (teoria degli
affetti), tanto da trasferirsi, nel cosiddetto ‘stile galante’, anche all’ambito della musica strumentale,
sviluppando la cosiddetta melodia accompagnata, lo stile compositivo settecentesco caratterizzato
da un flusso melodico leggero, simmetrico, elegante, e ben sorretto da una semplice struttura
armonica (potremmo ricordare la poetica di Carl Philipp Emanuel Bach, secondogenito di Johann
Sebastian). Come afferma Harold Powers: “nella musica tonale del Sette e Ottocento la melodia fu
percepita sempre più come risultante da una successione di armonie governate da propri principi
costruttivi e tassonomici”. Ciò significa che i motivi melodici risultano raramente indipendenti dalle
relazioni ‘verticali’ dei suoni, la loro coerenza è infatti determinata da note strutturali a livello
armonico e l’analisi armonica è perciò un presupposto per la classificazione dei tipi-melodici. Tale
principio, cardine della ormai affermata musica tonale, fu scientificamente analizzato da Jean-Philippe
Rameau nel suo Trattato dell’armonia ridotta ai suoi principi naturali (1722): la melodia è conseguenza
dell’armonia, e non il suo presupposto, come invece ribadiva Rousseau, in aperta polemica con
Rameau.

Con il superamento del sistema tonale nella nuova musica del Novecento, altri principi e generi
d’esperienze consentirono di riformulare il concetto di melodia. Nel sistema dodecafonico, ad
esempio, la serialità (v. glossario) divenne elemento strutturante del brano sia dal punto di vista
melodico (se impiegata in senso lineare), sia quale fondamento armonico (impiegata in senso
verticale). Diversamente, altre avanguardie musicali come la musica aleatoria (v. glossario), la musica
di improvvisazione, l’happening impiegando contesti sonori fondati sul principio artistico della non-
ripetitività e della casualità, misero in discussione la stessa distinzione fra linearità melodica e
verticalità armonica. Infine, l’impiego dei suoni elettronici, dei rumori, dei nastri registrati nelle
molteplici sperimentazioni delle avanguardie musicali ha reso estremamente elastico e controverso il
concetto di melodia in età contemporanea.

MELODIE, MOTIVI, FRASI E PERIODI

Come sopra accennato, pur riconoscendo la naturale qualità istintiva della creazione melodica, sono
stati fatti vari tentativi di raggruppare in tipologie differenti – ovviamente non secondo principi
scientifici e tassonomie chiuse – le varie melodie che la letteratura musicale occidentale ci ha
trasmesso. Benché dunque la composizione melodica si presti ad infinite variazioni ed il risultato finale
rimandi sempre alle capacità espressive che il compositore riesce ad imprimervi, si possono ad
esempio distinguere nella musica tonale vari tipi melodici che si riconducono agli intervalli impiegati
in quel particolare contesto sonoro. Vi sono infatti melodie per gradi congiunti, quando gli intervalli
fra le note della melodia sono di tono e semitono, melodie per gradi disgiunti, quando gli intervalli
impiegati sono più ampi (come terze, quarte e quinte), e un tipo melodico risultante dalla
combinazione dei due precedenti, ove intervalli congiunti e disgiunti si equilibrano. Ma affinché una
melodia possa essere percepita distintamente, non è sufficiente determinarne la sola successione
intervallare, ma anche la ritmica. Una successione di almeno due note e una struttura ritmica che li
definisce è il motivo, la più piccola unità di una composizione musicale. I motivi, a loro volta, sono i
nuclei generatori della frase musicale, dove uno o più motivi si concludono con una cadenza, cioè un
punto di riposo, che per lo più è la nota principale (tonica) della scala musicale, e/o una pausa (sulla
cadenza rimandiamo a tonalità). Più frasi costituiscono infine il periodo, o tema, che spesso nella
letteratura musicale tonale si compone di otto battute. La melodia è in rapporto stretto con tutti
questi elementi, di cui costituisce una sorta di summa. Motivo, frase, periodo, tema rientrano dunque
nel campo semantico di melodia, come meglio specificato alla scheda elementi di sintassi musicale.

Il seguente schema offre una visione d’insieme di questi concetti applicati ad una delle melodie più
famose (ed analizzate) della letteratura musicale, l’Inno alla gioia che chiude l’ultimo tempo della
Nona sinfonia di Beethoven. Ovviamente, la riduzione del brano alla sola linea melodica non è intesa,
qui, in senso analitico, ma solo quale esemplificazione di termini e concetti comunemente impiegati
nel contesto della musica tonale per inquadrare la struttura melodica di una composizione. Tuttavia,
anche ad un livello di mera superficie, sono assai ben evidenti alcune peculiarità che rendono questa
‘semplicissima’ melodia un concentrato inestricabile di spontaneità e invenzione, logica e naturalezza,
equilibrio e fascino.
Ecco alcune delle caratteristiche che la distinguono: un andamento sonoro per gradi congiunti che
caratterizza il primo periodo (segnalati in rosso), di otto battute; la ricerca di maggiore movimento
intervallare nel secondo periodo, anch’esso di otto battute; l’assenza di pause; la concentrazione dei
punti di riposo e di slancio alla fine delle frasi (segnalate in blu), ciascuna della durata di quattro
battute; pochi motivi (in grigio), ripetuti o leggermente variati (tratteggiato), racchiusi in due battute
o in una soltanto. La melodia dell’Inno alla gioia ha la naturalezza con cui ci si sposta con passo regolare
lungo le note di una scala. Semplice da ricordare, e adatta a ogni voce, fu forse suggerita a Beethoven
da una poco nota composizione religiosa giovanile da Mozart. Qui l’ascoltiamo nella sua forma più
spoglia, priva di testo e armonizzazione (CP).

TONALITÀ

Nella musica popolare (popular music) e “di consumo”, e in quella che usiamo chiamare musica
classica (includendovi una fetta sostanziale della musica barocca e romantica), ogni brano è composto
in base al sistema tonale, cioè a partire da un sistema di regole compositive centrate sulla relazione
gerarchica fra le altezze delle note di una scala musicale diatonica rispetto alla tonica della scala stessa,
che funge da nota fondamentale e centro di convergenza di quel particolare brano. In questo senso,
in realtà, dovremmo dire che è “tonale” non solo la musica propriamente tonale, ma ogni
composizione che ruota intorno ad un suono principale di riferimento, da cui si origina una scala o un
sistema organizzato di suoni, quali i modi ecclesiastici e medievali, i raga indiani o i maqam arabi
(Modalità). D’altro canto, nella tradizione musicale occidentale, l’aggettivo “tonale” è spesso utilizzato
in contrapposizione con “modale” e “atonale” stabilendo così una netta (e fin troppo schematica)
divisione storica tra la musica pre-tonale (fino al 1600), tonale (dal 1600 al 1900) e post-tonale. Tale
distinzione concepisce il sistema tonale come un tronco principale nell’evoluzione del linguaggio
musicale e gli attribuisce un valore normativo rispetto a quanto lo precede e gli succede.

Il sistema tonale è basato su due modi (o generi di scale), maggiore e minore che, con le rispettive
caratteristiche musicali ed espressive e la valorizzazione dei molteplici rapporti armonici tra le note
della scala, mettono in atto una complessa rete di relazioni lineari e polifoniche in cui la melodia sfrutta
il potenziale di tensione o di appagamento offerto da ogni singola nota, ma in contemporanea
interagisce con il potenziale di tensione o di appagamento offerto dal contesto armonico, ossia dalla
successione di accordi che la sottende. Lo sviluppo storico dell’armonia tonale nel suo rapporto con
l’evoluzione della prassi compositiva è sinteticamente inquadrato alla voce armonia, mentre qui sono
delineati il concetto di tonalità nelle sue basilari strutture (l’accordo, la distinzione fra tonalità di modo
maggiore e minore, la costruzione delle tonalità) e le tecniche fondamentali per la conduzione
dell’armonia tonale (relazione funzionale fra gli accordi, cadenza e modulazione).

ACCORDI E TRIADI

L’ACCORDO È UN INSIEME DI ALMENO TRE NOTE SUONATE CONTEMPORANEAMENTE . L’ACCORDO DI TRE NOTE, O
triade, è il primo fondamento della musica tonale poiché assume un significato specifico e individuale
all’interno della scala diatonica di riferimento. Come ricordato alla voce intervallo, l’intervallo di quinta
giusta è un intervallo ’perfetto’ e naturale. Se i due suoni che lo formano sono eseguiti in
contemporanea, però, la sonorità risultante risulta ‘vuota’ per la nostra sensibilità musicale, come
potremmo facilmente sperimentare suonando al pianoforte una successione di quinte parallele, così
estranea al gusto tonale che è tassativamente vietata dalle regole dell’armonia (naturalmente ciò vale
come principio, la cui validità è garantita dalla possibilità dell’eccezione). La diade (due suoni
simultanei) di quinta manca infatti di un costituente essenziale della musica tonale: l’intervallo di
terza. L’introduzione di una nota intermedia collocata ad intervallo di terza da entrambi i suoni della
diade, rende completa armonicamente la sonorità risultante: nel caso dell’esempio seguente la triade
do-mi-sol è formata da una terza maggiore (do-mi) ed una terza minore (mi-sol); mentre gli estremi
della triade (do-sol) sono ad intervallo di quinta giusta, come specificato alla voce intervallo. L’accordo
fondamentale in un contesto musicale tonale è la triade che si costruisce sulla nota generatrice della
scala. Per semplicità ci riferiamo alla scala di do maggiore, per cui la triade maggiore costruita sulla
fondamentale è l’esempio canonico dell’accordo perfetto maggiore. Nella tonalità minore la triade di
tonica è invece una triade minore, cioè formata da una terza minore più una terza maggiore; nella
tonalità di do minore, ad esempio, la triade minore di tonica è do-mib-sol, che è un accordo perfetto
minore:

Le due triadi sono composte dalla tonica della scala (do), dalla modale della scala (mi per la scala
maggiore, mib per la scala minore) e dalla nota detta dominante (sol). L’accordo si legge partendo
dalla nota più bassa alla più alta: do-mi-sol. Procedendo di grado in grado lungo la scala diatonica, è
possibile costruire una successione di triadi: tale successione definisce sette diversi accordi, uno per
ciascun grado della scala (nell’immagine che segue si è aggiunto l’accordo di tonica all’ottava
superiore), che, impiegati secondo le regole dell’armonia, costituiscono la dimensione ‘verticale’ della
musica tonale. Comporre un brano nella tonalità di do maggiore significa impiegare le note della scala
di do maggiore e gli accordi costruibili su di esse in modo coerente.
triadi di:
--tonica--sopratonica--modale--sottodominante--dominante--sopradominante--sensibile--tonica--

La successione di triadi che definisce la tonalità di do maggiore può essere trasportata su qualsiasi
altro grado della scala cromatica, cioè della gamma dei suoni. Ad esempio, le triadi rappresentate nella
figura seguente riproducono la stessa successione di triadi della scala di do maggiore, partendo però
dalla nota sol, ma affinché ciò avvenga è stato necessario alterare, in questo caso diesizzare, il fa. La
successione è relativa alla tonalità di sol maggiore:

Tonalità di modo maggiore e minore

Dal punto di vista dell’armonia musicale tonale si distinguono due modalità, cioè due tipologie di scale
diatoniche: maggiore e minore. Ogni scala maggiore ha una relativa minore collocata ad un intervallo
di terza minore discendente dalla tonica; cioè: gli stessi suoni usati per la scala maggiore costruiscono
anche una scala minore che inizia 2 toni + 1 semitono sotto la tonica (v. intervallo). La scala maggiore
si differenzia dalla minore solo per la posizione di tre gradi, il terzo, il sesto e il settimo, rispetto alla
tonica della scala, come specificato alla voce scala. La relativa minore della tonalità di do maggiore è
dunque la tonalità di la minore (la nota la è a distanza di una terza minore nella successione
discendente do-si-la), anch’essa, come la tonalità di do maggiore, non prevede alterazioni (diesis o
bemolli). Il seguente schema indica la successione di triadi nella tonalità di la minore:

Poiché i suoni del sistema temperato sono 12, altrettante sono le scale maggiori e altrettante le minori.
Conseguentemente, il panorama delle tonalità risulta essere di 24: 12 maggiori e 12 minori, la cui
determinazione è data da un numero crescente di note alterate (cioè diesizzate o bemollizzate) da
introdurre per generare la scala, secondo una successione chiamata circolo delle quinte, come
specificato più avanti). Le alterazioni corrispondono ovviamente alle note diesis o bemolle della scala
musicale impiegata, e poiché gli stessi suoni entrano a far parte tanto di una scala maggiore che della
relativa minore, solo l’andamento del brano permetterà di capire quale delle due tonalità è impiegata.
In relazione all’impiego delle tonalità minori, occorre specificare che per creare l’effetto di risoluzione
nella cadenza dominante-tonica (come più avanti specificato) è necessario alterare di un semitono la
sensibile della scala. Infatti, nella scala minore naturale (v. scala) la distanza sensibile-tonica è di un
tono intero, cosa che annulla l’effetto di tensione nell’impiego dell’accordo di dominante.

LA DEFINIZIONE DELLE 24 TONALITÀ


Come è stato sopra specificato, le scale musicali diatoniche sono all’origine del sistema di accordi che
definisce il contesto tonale, in quanto su ogni grado della scala è costruita una triade che si pone in
specifica relazione con le altri triadi della scala, e la sequenza risultante di accordi è trasportabile su
qualsiasi grado della gamma dei suoni: scegliendo infatti una nuova scala diatonica, è possibile
costruire la stessa sequenza di triadi a partire dalla tonica della nuova scala. Le triadi così organizzate
assumeranno nella nuova scala le stesse denominazioni; in tal modo, ad esempio, l’accordo sol-si-re
che nella tonalità di do maggiore è triade di dominante (V grado), nella tonalità di sol maggiore è triade
di tonica (I grado), mentre nella tonalità di re maggiore è triade di sottodominante (IV grado), come
possiamo vedere nell’esempio (si tenga presente lo stesso accordo nelle scale di do maggiore e sol
maggiore sopra schematizzate):

Il principio per cui tonalità diverse condividono alcuni accordi è alla base del meccanismo della
modulazione, come specificato più avanti. Gli esempi sopra proposti di successioni di triadi in tonalità
di do, di sol e di re possono essere utili per evidenziare come le tre tonalità di differiscano per l’impiego
di alcuni suoni della gamma. Ad esempio, la tonalità di do presenta tutti i suoni allo stato naturale,
senza alterazioni, mentre la tonalità di sol maggiore, basata sulla scala di sol maggiore, necessita della
presenza del fa# come grado sensibile e come suono di ogni accordo che contiene tale grado. La
tonalità di re maggiore, a sua volta, differisce dalla tonalità di sol maggiore per l’aggiunta di
un’ulteriore nota alterata nella scala (il do#). Poiché fra do (tonica della tonalità di do maggiore) e sol
(tonica della tonalità di sol maggiore), e tra sol e re (tonica della tonalità di re maggiore) c’è la distanza
di un intervallo di quinta giusta ascendente (v. intervallo), il passaggio fra le tonalità costruite su
intervalli di quinta ascendente si caratterizza per l’aggiunta progressiva di un’alterazione nella scala.
Questo meccanismo si chiama CIRCOLO DELLE QUINTE, ed è così schematizzabile:

Come possiamo notare, la progressione per quinte ascendenti (partendo da do: sol, re, la, mi, si, fa#,
do#, re#, la#, mi#, si#=do) determina la successione di 12 tonalità differenti: do, sol, re, la, mi, si, fa#,
... ciascuna posta una quinta sopra la precedente e caratterizzate dall’aggiunta progressiva di un #,
fino a si#, che è tonalità omologa di do (cioè composta dagli stessi suoni, ma chiamati in modo
differente). Guardando il circolo delle quinte, si noterà inoltre che la concatenazione di 12 tonalità si
realizza anche attraverso l’inserimento progressivo di bemolli. In questo caso, però, si procede da do
per quinte discendenti (partendo da do: fa, sib, mib, lab, reb, solb, dob, fab, sibb, mibb, labb, rebb=do).
L’aggiunta di b nella progressione di tonalità si arresta ugualmente a 12, e tutte le tonalità costruite
sono omologhe rispetto a quelle costruite aggiungendo diesis. L’insieme delle tonalità così delineate
costituisce le 12 tonalità di modo maggiore del sistema tonale. Allo stesso modo è possibile costruire
attraverso il circolo delle quinte la successione delle 12 tonalità di modo minore, ricordando che ogni
tonalità maggiore ha una relativa minore che ha per tonica la nota posta una terza minore sotto la
tonica della tonalità maggiore.

Nella scrittura musicale la tonalità è indicata graficamente in partitura dal numero di alterazioni (diesis
o bemolli) segnalate all’inizio del pentagramma, dopo la chiave musicale. La prassi prevede che si
impieghino le tonalità che hanno un massimo di sette diesis e sette bemolle, questo per facilità di
scrittura musicale (cioè per evitare le doppie alterazioni). Le tonalità minori hanno la stessa gamma di
suoni in comune con le tonalità maggiori, dunque sono indicate in armatura di chiave con le stesse
alterazioni. Ad esempio, come nessuna alterazione in armatura di chiave segnala tanto la tonalità di
do maggiore che di la minore, così un fa diesis in armatura di chiave segnala tanto la tonalità di sol
maggiore che di mi minore, e così via, secondo il seguente schema:

GERARCHIA DI FUNZIONI DELLE TRIADI

All’interno di ciascuna tonalità si individuano quattro tipologie di triadi:

triade maggiore: una terza maggiore e una terza minore


triade minore: una terza minore e una terza maggiore
triade diminuita: due terze minori
triade eccedente: due terze maggiori

La tipologia di triade su ogni grado della scala presenta gradi di maggiore o minore affinità con le altre
triadi. Nella scala maggiore, in particolare, sono dette principali le triadi maggiori di: tonica (I grado)
dominante (V grado) e sottodominante (IV grado), mentre sono secondarie le triadi minori di
sopratonica (II grado), di mediante (III grado) e di sopradominante (VI grado). Infine è diminuita la
triade sulla sensibile della scala (VII grado). I rapporti fra le triadi si configurano come rapporti di
tensione-distensione armonica, che si inquadrano nel meccanismo della cadenza e della sua
preparazione, come specificato più avanti. Nelle tonalità minori, però, c’è maggiore difficoltà ad
assegnare alle triadi un’univoca funzione tonale. Ciò dipende dalla mancanza nella scala minore
naturale della funzione di sensibile sul VII grado e dunque dalla mancata attribuzione di tensione
cadenzale. Per ovviare a questo inconveniente, sono introdotte alterazioni sul VII grado (scala minore
armonica) o sul VI e VII grado ascendente (scala minore melodica), come specificato alla voce scala.

LA CADENZA

LA CADENZA È UNA SUCCESSIONE ARMONICA CHE DÀ UN SENSO DI ‘RISOLUZIONE’ ALLA FRASE MUSICALE. Nella sua
forma detta ‘perfetta’ consiste nel passaggio dall’accordo di dominante, l’accordo costruito sul V
grado della scala, all’accordo di tonica. L’accordo di dominante è indispensabile per la determinazione
della tonalità di una composizione, perché la sua sonorità prefigura appunto un ritorno sull’accordo
di tonica, cioè ‘tende’ alla tonica. Ciò accade in quanto l’accordo di dominante contiene due suoni
essenziali all’identificazione della struttura tonale: la dominante e la sensibile della scala. Nel caso
della tonalità di do maggiore l’accordo sul V grado è la triade sol-si-re. La nota dominante (il sol, quinto
grado della scala di do), essendo ad intervallo di quinta dalla tonica è sommamente consonante con
essa, dunque si ‘armonizza’ con la tonica, mentre la sensibile (il si, settimo grado della scala di do),
essendo ad intervallo di semitono dalla tonica tende fortemente a ‘risolvere’ sulla tonica. La triade
costruita sul quinto grado della scala risolve, si ‘chiarisce’, al momento in cui ad essa segue l’accordo
di tonica. Tale risoluzione è la cadenza perfetta (V-I):

Questo basilare passaggio accordale (tonica-dominante-tonica) costituisce il percorso essenziale e


minimo dell’armonia tonale, che garantisce acusticamente una successione di riposo-tensione-riposo.

Attorno a questo nucleo ruotano altri accordi e altre note, che arricchiscono il potenziale espressivo
della musica. In particolare, il quarto grado della scala (il fa, nella scala di do) costruisce l’accordo di
sottodominante (fa-la-do). Questo accordo spesso precede l’accordo di dominante, e dunque la
cadenza. Anch’esso è formato da note estremamente significative: contiene la tonica della scala (do),
la sottodominante (fa) e la sopra-dominante (la) che, come la nota modale (terzo grado), individua il
modo della scala.

Altre tipologie di cadenze oltre quella perfetta sono comunemente impiegate nella musica tonale. La
cadenza plagale è il passaggio accordale sottodominante-tonica (IV-I), molto impiegato nella musica
liturgica, specialmente nel modo minore.

La cadenza evitata è il passaggio dominante-sopradominante (V-VI), che, come ben avvertibile


all’udito, non ‘risolve’, ma lascia il discorso armonico sospeso:

il massimo effetto di sospensione e brusca interruzione si ha tuttavia con la cadenza interrotta, cioè
con un arresto armonico sull’accordo di dominante.

ACCORDI DI PIÙ SUONI, ACCORDI ALTERATI E DISSONANZE

Mentre la triade è data dalla sovrapposizione di due terze, gli accordi con quattro note (tetriadi) sono
dati dalla sovrapposizione di tre terze, e prendono il nome di accordo di settima, perché la quarta
nota è ad intervallo di settima dalla fondamentale; analogamente, gli accordi di cinque note (pentiadi)
sono accordi di nona , poiché il rapporto intervallare fra fondamentale e quinta nota dell’accordo è di
nona. La particolarità di tali accordi sta nell’implicare una dissonanza fra la nota fondamentale
dell’accordo e la quarta o quinta nota. Fra questi accordi il più frequentemente impiegato è l’accordo
di settima di dominante. Nella tonalità di do maggiore: sol-si-re-fa.

Altre tipologie di accordo prevedono l’alterazione cromatica di suoni, che, provocando una
dissonanza, deve essere risolta sull’accordo successivo innalzando o abbassando di mezzo tono
(risoluzione per grado congiunto). Fra queste tipologie di accordo, che nella musica tonale hanno per
lo più funzione coloristica e dinamica, risulta assai usata la sesta napoletana (v. glossario), che si forma
sulla sottodominante (IV grado) del modo minore usando la sesta minore invece che la quinta come
terza nota dell’accordo. La sesta napoletana ‘risolve’ sulla dominante della tonalità (e dunque spesso
prepara la cadenza perfetta).

LA MODULAZIONE
L’accorgimento tecnico più interessante della musica tonale che garantisce varietà al discorso
musicale è la modulazione, cioè il passaggio all’interno di uno stesso brano da una tonalità all’altra.
Questo espediente consente infatti al compositore di muoversi nella gamma dei suoni con estrema
libertà, arricchendo la sua ‘tavolozza’ armonica e melodica di infinite sfumature, e tuttavia rimanendo
ancorato al principio unitario del ‘ritorno’ alla tonalità di riferimento. Il principio della modulazione si
basa sull’affinità fra due tonalità, quella di partenza e quella di arrivo, affinità determinata dal numero
di accordi che esse hanno in comune. Ad esempio, la tonalità di do maggiore ha numerosi accordi in
comune con la tonalità di sol maggiore, come sopra specificato. Le due tonalità si chiamano vicine e,
sfruttando uno di questi accordi come ‘ponte’, è possibile modulare dall’una all’altra, e l’avvenuta
modulazione sarà affermata da una cadenza nella nuova tonalità. Questo procedimento si dice
modulazione diatonica.

Un esempio di modulazione a tonalità vicine si può facilmente individuare nelle concatenazioni


armoniche degli accordi arpeggiati (in cui le note sono suonate in successione) che attraversano tutto
il Primo Preludio, in do maggiore, del primo volume del Clavicembalo ben temperato di Bach. Qui ogni
accordo è ripetuto due volte all’interno di ciascuna battuta; alla successione di 15 battute corrisponde
quindi una successione di 15 diversi accordi arpeggiati i quali delineano tre modulazioni: da do a sol,
da sol a re (in realtà un passaggio modulante) e infine da re a do (tonalità che resta affermata fino alla
battuta 19). Nello schema qui proposto è segnalato il numero della battuta e il grado dell’accordo nella
rispettiva tonalità, senza tenere conto dei rivolti (cioè della disposizione delle note) nei quali gli accordi
si presentano. La prima modulazione avviene alla battuta 5, (nella quale l’accordo la-do-mi, sesto
grado di do maggiore, è considerato anche II grado di sol maggiore), la seconda alla batt. 11 (dove
l’accordo sol-si-re, primo grado di sol è considerato IV grado di re minore) e la terza alla batt. 13 (dove
l’accordo re-fa-la, I grado di re minore è considerato II grado di do maggiore).

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15
d
do VI
o II V I VI I
II I
I
so I
V I II V I
l II V
re VI
I
IV I
Come si può osservare dalla partitura, l’avvenuta modulazione è confermata dalla presenza delle note
alterate specifiche delle tonalità di approdo: alla battuta 6 il fa# (sensibile di sol maggiore), alla battuta
12 il do#, sensibile di re minore. L’accordo della batt. 12, formato dalle note do#-mi-sol-sib, è una
settima diminuita (v. intervallo) che tiene alta la tensione modulante: il passaggio repentino al do
maggiore, dove è subito posto un altro accordo di settima diminuita (batt. 14), placa la tensione solo
dopo che sarà avvenuta una cadenza perfetta, poche battute più avanti (qui non riprodotte).

Altri tipi di modulazione prevedono salti improvvisi da un accordo in una tonalità ad un altro in una
nuova tonalità (tali modulazioni implicano che almeno una nota dell’accordo modulante sia comune
alle due tonalità, e sono spesso accompagnate da una alterazione cromatica); un’altra tipologia di
modulazione sfrutta le note enarmoniche (che hanno nome diverso ma identica altezza, come fa diesis
e sol bemolle) per introdurre la nuova tonalità. Un ulteriore metodo per passare a tonalità lontane è
l’impiego della progressione modulante, cioè un passaggio costruito come successione di cadenze in
tonalità diverse, fino a raggiungere la tonalità desiderata.

Il basso continuo o numerato

Un metodo di notazione sviluppato in età barocca per indicare l’armonia base di una linea melodica è
il basso continuo, o numerato. Questo sistema è abbastanza simile a quello oggi impiegato per indicare
il ‘giro’ di accordi nelle partiture della musica leggera che riportano la sola linea del canto. Si tratta
dell’indicazione di un numero posto sopra la nota segnalata in chiave (generalmente in chiave di
basso) che indica l’intervallo formato dalla nota stessa con quella da inserire nell’accordo (3=terza;
4=quarta; 7=settima), evitando di cifrare le note complementari dell’accordo stesso. Questo sistema
consente all’accompagnatore di improvvisare negli abbellimenti e nelle ornamentazioni, pur
mantenendosi ligio all’ossatura armonica indicata dal basso e dalla cifratura. (CP)

ARMONIA

EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI ARMONIA MUSICALE

L’originario significato del grecismo harmonía è legame, congiunzione e connessione. Il termine


“armonia” si affermò in occidente come termine filosofico, in rapporto con le speculazioni
cosmologiche, epistemologiche e psicologiche della scuola pitagorica e platonica; se ne veda, ad
esempio, l’impiego nella Repubblica, ma soprattutto nel Timeo di Platone, dove il mondo e l’anima
sono plasmati a partire da legami armonico-matematici (musica e filosofia). Le prime attestazioni
latine tardo-antiche di “armonia”, riscontrabili ad esempio in Sant’Agostino, ci rendono tuttavia già
chiaro anche il suo significato specificatamente musicale: “la parola armonia è greca, ed è impiegata
in musica per definire la concordia (coaptatio) fra i suoni”. Questo termine ha dunque mantenuto nei
secoli, e mantiene tuttora, l’ambivalenza di termine musicale e filosofico, e, ovviamente, anche
teologico, indicando una nozione ed un valore basilari del pensiero e dell’arte di ogni tempo: armonia
rimanda ad ordine, bellezza, proporzionalità, felicità, bontà, naturalità, semplicità, e ad ogni concetto
positivo e coerente.

In età rinascimentale la parola armonia cominciò ad essere impiegata nell’accezione musicale


moderna, come termine tecnico che indica la struttura accordale di composizioni polifoniche e
l’accesso a questo significato fu un passaggio importante della storia del linguaggio e dell’estetica
musicali. Alcuni presupposti che determinarono tale passaggio furono gettati già nel corso del
Medioevo: in particolare, erano definite “armonie” le combinazioni consonanti di ottava, quarta e
quinta, mentre gli altri intervalli musicali erano ritenuti dissonanti. Ciò era stato matematicamente
giustificato da Boezio (inizio secolo VI) sulla base del principio che i rapporti consonanti sono
individuati da proporzioni semplici (1:2 = ottava; 2:3 = quinta; 3=4 quarta, come meglio specificato alla
voce intervallo). Con lo sviluppo del linguaggio polifonico occidentale, tuttavia, la teoria armonica si
configurò come un più ampio sistema di regole che teorizzava la concatenazione degli accordi
(combinazione di tre suoni in simultanea) e, nella fattispecie, l’uso delle dissonanze in rapporto al
‘ritorno’ sulla consonanza. Nelle Istituzioni armoniche (1558) di Gioseffo Zarlino, il maggiore teorico
musicale rinascimentale, l’armonia in senso proprio è la coesione “che nasce dalle modulationi che
fanno le parti di ciascuna cantilena, per fino a tanto che siano pervenute al fine”: l’armonia è originata
dunque non solo dalle consonanze, ma anche dalle dissonanze, perché solo così la “modulazione”
(cioè la concatenazione degli accordi risultanti) ha “possanza di dispor l’animo a diverse passioni”. Una
novità significativa nella teoria zarliniana dell’armonia fu la distinzione fra l’armonia “imperfetta”,
composta da due sole voci, e “perfetta” quella fondata su tre voci distinte: idea che segna il passaggio
dall’antica concezione bidimensionale del contrappunto alla concezione ‘tridimensionale’
dell’armonia. Le tre voci, infatti, prevedono l’impiego simultaneo di tre suoni: il primo e il terzo stanno
in rapporto intervallare di quinta, al cui interno la seconda nota divide l’intervallo in due terze.
L’inserimento dell’intervallo di terza in funzione armonica - che nella prassi compositiva si era
sviluppato già a partire dal tardo medioevo - si diffuse con rapidità fino ad affermarsi pienamente nel
‘500. L’accordo (triade) così formulato consentì anche un’ulteriore significativa trasformazione nella
prassi compositiva, in quanto la nota più grave dell’accordo (il basso) venne gradualmente a
configurarsi come fondamento armonico della composizione.
ARMONIA TONALE

L’età della rivoluzione scientifica fu determinante per spostare definitivamente la fondazione della
scienza armonica dalla matematica boeziana al contesto della nascente fisica sperimentale. Lo studio
della risonanza, l’analisi delle consonanze come fenomeno vibratorio e il grande peso attribuito al dato
percettivo (con tutto ciò che comportò anche nell’attenzione all’evoluzione del gusto musicale)
portarono, con l’aprirsi del Settecento, alla formulazione della teoria del basso fondamentale (1722)
ad opera del compositore e teorico Jean-Philippe Rameau, principio cardine del sistema tonale, e alla
conseguente teoria per cui le leggi dell’armonia sarebbero fondate sui principi naturali che regolano
la successione dei suoni armonici (suono). L’accordo perfetto maggiore (si veda tonalità) rappresenta
per Rameau la razionalizzazione del fenomeno naturale degli armonici: nella vibrazione di un suono,
ad esempio un do, si trovano infatti contenute le ‘risonanze’ (cioè le frequenze) del mi e del sol, che
corrispondono al terzo e al quinto armonico di do. Gli accordi dissonanti si considerano allora come
risultanti della condotta delle voci, che convergono alla consonanza dell’accordo perfetto. Gli
enciclopedisti, e soprattutto Rousseau, al quale si deve la voce “Harmonie” dell’Enciclopedia e che
pure fu in aperta polemica con Rameau in numerose querelle musicali (fra le quali il ‘primato’ della
melodia sull’armonia), sottolinea come le strutture armoniche esplicitino la relazione logico-
compositiva nella musica perché “in musica ci vuole un senso, un legame, come nel linguaggio”: le
relazioni di dissonanza e consonanza sono dunque il nesso logico del processo compositivo. Da qui,
armonia ha acquisito il senso prescrittivo che ancora oggi la denota nel linguaggio musicale; lo studio
dell’armonia è, nei Conservatori di musica, essenzialmente lo studio dei principi compositivi
dell’armonia tonale.

Un concetto fondamentale di tali regole è che gli accordi consonanti sono le triadi maggiori e minori
ed i loro rivolti (cioè gli accordi formati con le stesse note, poste in un diverso ordine). L’impiego di
tutti gli altri aggregati sonori, cioè le dissonanze, implica perciò una serie di regole di risoluzione,
ovvero di riconduzione alla consonanza. Il principale processo di risoluzione nell’armonia classica e
principio cardine della tonalità è la cadenza, nella quale la tensione armonica introdotta dall’accordo
di dominante si risolve attraverso un ritorno sull’accordo di tonica (v. tonalità). Altra tecnica tipica
dell’armonia tonale è la modulazione, cioè il passaggio da una tonalità all’altra nel contesto di una
stessa composizione (si veda ancora alla voce tonalità); e nel corso del ‘700, con la messa a punto del
sistema del temperamento equabile (v. scala) divenne estremamente agile per gli strumenti a tastiera
consentire modulazioni a partire da qualsiasi suono della gamma musicale, tanto che divennero i
principali strumenti d’accompagnamento della voce.

La struttura armonico-tonale, come già era accaduto nella teorizzazione della modalità, assumeva su
di sé le qualità espressive della musica. Gioseffo Zarlino (che fu il teorico rinascimentale di riferimento
per tutto il ‘700) affermava che la successione di una terza maggiore e una terza minore (che in
simultanea formano un accordo di tonica in tonalità maggiore, come do-mi-sol) “molto diletta
all’udito”, mentre al contrario una successione terza minore - terza maggiore (come nell’accordo di
tonica della tonalità minore, ad esempio la-do-mi) fa percepire “un non so che di mesto e languido,
che rende tutta la cantilena molle”. Queste definizioni rendono palpabile la distinzione espressiva ed
emotiva che ancora oggi accompagna la differenziazione fra i due modi maggiore e minore nella
musica tonale (v. tonalità): mentre il modo maggiore è impiegato per sonorità piene e ‘positive’, il
minore imprime un carattere espressivo malinconico e dolente. Dal punto di vista dell’espressività
musicale, i due modi maggiore e minore sostituirono dunque i ‘caratteri’ emotivi che
contraddistinguevano le varie modalità. In tal modo, il linguaggio armonico stesso era in grado di
arricchire la ‘tavolozza’ creativa della musica, attraverso: 1. la tridimensionalità delle sonorità
accordali; 2. la sensibilità verso la cadenza, intesa dapprima come passaggio da un accordo imperfetto
a uno perfetto, poi come ‘risoluzione’ sull’accordo di tonica; 3. la variazione emotiva determinata dalla
modalità maggiore-minore e dalla possibilità di modulazione.

Se nel corso del Settecento l’elaborazione della teoria degli affetti (affektenlehre) da parte del teorico
Johann Mattheson fu estesa al sistema tonale in modo sistematico, divenendo così un basilare
fondamento del linguaggio compositivo, ma con la chiusura dell’età barocca e del suo sviluppo
settecentesco (rococò), il principio generatore del discorso musicale non sembrò più individuabile
nell’imitazione e negli affetti. Il nuovo stile ‘classico’ fece della stessa struttura armonico-tonale il
fulcro del processo di composizione e della sua logica. Come sottolinea Charles Rosen nel suo The
Classical Style (Lo stile classico, 1971), il linguaggio armonico tonale controllava nel Classicismo tanto
la ‘grande forma’ (la forma sonata, in special modo) quanto la frase musicale (v. motivo, frase,
periodo*), cioè la più piccola unità di senso musicale; ma il dibattito musicologico su tale giudizio è
tuttora aperto.

Con l’Ottocento e l’aprirsi della stagione del Romanticismo, la struttura armonica delle composizioni
si fece più aperta e inquieta. La modulazione verso tonalità lontane, l’uso sempre più massiccio di
cromatismi, di progressioni modulanti, di ‘fughe’ dalla staticità armonica contribuirono a far percepire
le enormi potenzialità espressive che si intravedevano ‘al di là’ della cornice tonale. Il cromatismo di
Wagner, in cui le progressioni armoniche prevedono una tonica perennemente evitata e subito
trasformata in nuova dominante, rese l’armonia “un oceano”, come il compositore stesso affermava,
senza più confini, senza cioè strutture di delimitazione e di orientamento tonale. Insieme ad
esperienze di ritorno alla modalità, o di scoperta di sistemi musicali nuovi e inesplorati (come quelli
delle musiche di tradizione popolare, o delle culture orientali) i compositori del tardo Ottocento
diressero la loro inventiva anche al potenziamento delle qualità timbriche dei suoni.

ARMONIA POST-TONALE

AGLI INIZI DEL NOVECENTO LE AVANGUARDIE MUSICALI FURONO PRONTE PER IL PASSAGGIO ALL’ATONALITÀ, CHE
CONTESTUALMENTE SIGNIFICÒ UN RIPENSAMENTO ANCHE DELLA RITMICA e dei principi formali della
composizione. La direzionalità, tipica della musica tonale, venne perduta in queste nuove
sperimentazioni, poiché l’orecchio non riusciva più ad anticipare lo sviluppo melodico, armonico e
ritmico del brano. Quanto tutto questo abbia pesato nella ‘marginalizzazione’ della musica ‘colta’ del
Novecento dalle tendenze più popolari e di massa della musica occidentale lo si deduce con facilità
dal perdurare del linguaggio tonale nella musica di più largo ascolto. Come controparte, l’esplorazione
dell’atonalità e di nuovi sistemi di composizione, come la dodecafonia, inondarono l’esperienza
musicale di sonorità, silenzi, respiri, sfumature timbriche e soluzioni ritmico/armoniche inedite –
basterà nominare i primi maestri di queste nuove poetiche: Debussy, Schönberg, Stravinsky –
allargando così l’espressività ed emozionalità della musica alla totalità della dimensione percettiva.

La rivoluzione della prassi compositiva fu accompagnata da una significativa elaborazione teorica, che
ebbe un ruolo fondamentale nel ‘ricontestualizzare’ anche il concetto di armonia. La possibilità di una
teoria oggettiva dell’armonia tonale si era infatti affermata in pieno Ottocento anche in prospettiva
storicista, ad esempio con gli studi del teorico Hugo Riemann, e divenne il cardine, con l’aprirsi del
Novecento, della fondamentale teoria analitica musicale di Heinrich Schenker (TEORIA E ANALISI): le
strutture armoniche profonde (Ursatz), riconducibili al passaggio tonica-dominante-tonica,
costituiscono infatti nell’analisi schenkeriana l’ossatura di riferimento dell’intera composizione tonale.
Questo punto di vista fu determinante per operare il passaggio dalle teorie armoniche prescrittive
ottocentesche (per le quali l’armonia tonale è un presupposto del linguaggio musicale) a quelle
descrittive del secolo seguente (che puntano ad esplicitare per via d’analisi le caratteristiche di una
composizione). Il Manuale d’armonia di Schönberg (1911) può essere considerato una sintesi di questo
articolato percorso; se, infatti, il linguaggio armonico tonale è qui esplorato storicamente fino a
Wagner (cioè fino alla sua dissoluzione), vi è parimenti delineata l’apertura alla nuova concezione
dell’armonia che accompagnerà la ‘rivoluzione’ del Novecento musicale. Il materiale sonoro è
ricondotto ad uno stadio pre-organizzato ed il compositore, nell’atto creativo, si assume il compito di
ricostruirne le strutture. Armonia acquisisce dunque nella musica colta del secolo XX un significato
elastico e mutevole, dettato dalle molteplici scelte di linguaggio (ad esempio la dodecafonia, il
politonalismo, la modalità, il calcolo combinatorio), di materiale sonoro e di dinamiche espressive.
(CP)

TIMBRO

IL TIMBRO COME QUALITÀ MULTIDIMENSIONALE

Il timbro è la qualità di un suono che permette di distinguere la sorgente dalla quale esso proviene.
Due differenti sorgenti, ad esempio due diversi strumenti musicali, restituiscono un timbro differente
per un suono della medesima altezza, intensità e durata. Il timbro di un suono riflette anzitutto il suo
contenuto spettrale, cioè l’intensità dei diversi suoni armonici che lo compongono, come esaminato
alla voce suono. Questa caratteristica varia da strumento a strumento e da voce a voce, e per un dato
strumento o per una data voce può cambiare in modo significativo nei diversi registri e nella durata
dell’emissione (per la timbrica nella voce umana ci si può riferire a voce).

Nella teoria acustica classica, in particolare nelle elaborazioni di Hermann von Helmholtz (1821-1894),
si riteneva che il timbro fosse determinato solo dall’ampiezza delle armoniche, mentre
sperimentazioni della più recente scienza acustica hanno messo in evidenza l’apporto essenziale
anche del fattore temporale. In tal senso, vengono distinte tre fasi nella determinazione del timbro:
attacco, tenuta, decadimento. Rispetto a questo parametro le armoniche di frequenza più alta sono
in genere quelle che si smorzano prima, per cui il transitorio d’attacco (cioè il segmento iniziale di
emissione di armoniche) è il più ricco di informazioni, tanto che la sua eliminazione – ad esempio in
registrazioni su nastro magnetico – pregiudica il riconoscimento stesso del timbro. Il timbro è dunque
una qualità multidimensionale; cioè: non esiste un parametro di misurazione e una scala numerica
all’interno della quale sia possibile ordinare e mettere in relazione timbri diversi, come invece accade
con le altre qualità del suono, altezza e intensità, e con la durata. L’impossibilità di ‘misurare’ il timbro
non rende tuttavia meno caratterizzata la sua natura, la cui ‘oggettività’ percettiva è comunemente
tradotta con aggettivi presi a prestito dal mondo dei colori: scuro, chiaro, brillante, cupo, limpido etc.
In effetti, la stessa terminologia inglese (tone-colour) e tedesca (Klangfarbe), richiama le analogie con
il colore, e colore è sinonimo di timbro nel linguaggio della musica.

IL TIMBRO NELLA COMPOSIZIONE MUSICALE

La componente timbrica ha assunto un’importanza crescente nella musica del ‘900. Da semplice
elemento di distinzione dei registri vocali e strumentali nella musica barocca (dove molte partiture
rimandano a composizioni “per ogni tipo di strumenti”) e da mero ‘parametro’ già codificato ed
elaborato nel contesto delle tecniche liuteristiche, il timbro è divenuto elemento decisivo della
composizione musicale a partire dall’evoluzione ottocentesca dell’orchestra sinfonica e delle
tecniche di orchestrazione. Se dunque l’indicazione timbrica nella musica del ‘700 e dell‘800 si riduce
per lo più all’indicazione dello strumento e del modo di suonarlo (come “tromba con sordina”, o
“violino pizzicato”), dalla metà del primo ’800, grazie alla sensibilità di compositori direttori
d’orchestra, come ad esempio Hector Berlioz, la ‘tavolozza timbrica’ orchestrale divenne sempre più
campo sperimentale di invenzione artistica. Lo si desume non solo dall’attenzione che Berlioz dedicò
al parametro coloristico nel suo Trattato d’orchestrazione, ma anche dalla ‘piattezza’ delle riduzioni
pianistiche dei suoi capolavori orchestrali, che non riescono a trasmettere la ricchezza e la
sottigliezza dei colori armonici e strumentali che partecipano direttamente alle vicende espressive
dell’opera (un esempio in tal senso può essere la riduzione lisztiana della Sinfonia fantastica, che
nulla toglie al valore artistico e divulgativo della trascrizione salvo, appunto, l’intraducibile significato
del gioco coloristico degli strumenti). L’ampliamento delle sezioni tradizionali dell’orchestra
settecentesca e l’introduzione del clarinetto basso, del sassofono, delle tube wagneriane e altri
strumenti di recente invenzione o di provenienza popolare o extra-europea (mandolino, chitarra,
varie percussioni) contribuirono all’arricchimento del linguaggio armonico e all’autonomia espressiva
del genere sinfonico tardo-ottocentesco, notoriamente nelle sinfonie di Mahler, nei poemi sinfonici
di Richard Strauss e nelle opere della scuola russa da Glinka a Rimskij-Korsakov.

Agli inizi del XX secolo Debussy, separando gli accordi dalla loro funzione armonico-tonale, condusse
parallelamente una profonda trasformazione anche nell’impiego funzionale della timbrica anche a
prescindere dall’organico strumentale (fenomeno che può essere osservato con particolare
concentrazione nei suoi capolavori pianistici, in particolare i due libri dei Préludes e degli Images).
Questa sensibilità tutta francese giunge ad un ulteriore apice con le opere di Ravel, dove
all’esplorazione timbrica degli agglomerati armonici si unisce uno spettacolare virtuosismo sia
pianistico che orchestrale. Schönberg nel suo Manuale d’armonia (1911) ridurrà l’altezza stessa a
dimensione timbrica del suono: “penso che il suono si manifesta per mezzo del timbro e che l’altezza
è una dimensione del timbro stesso” (citazione tratta da Risset, Il timbro, p. 105). Tale giudizio è alla
base delle relazioni timbriche melodiche (Klangfarbenmelodie, cioè melodia di suono-colori) su cui
insiste la poetica schoenberghiana, e che costituirà un principio di riferimento fondamentale per le
successive generazioni di musicisti. Webern sfrutta le pontezialità timbriche di ogni singola nota nel
suo specifico registro e nel suo insostituibile rapporto con gli altri tasselli del delicato mosaico che
costruisce ex novo in ciascuna delle sue composizioni. Il ‘colore’ strumentale e armonico dei balletti
russi di Stravinsky non è meno inconfondibile di quello delle sue composizioni cosiddette
neoclassiche; Messiaen, nella generazione successiva, adotta nel suo linguaggio armonico gli
“accordi timbro” e li intreccia nel sofisticato apparto di relazioni ritmiche ed espressive che
caratterizzano tutta la sua opera; Boulez attribuisce al parametro del timbro una fondamentale
funzione strutturale nell’esposizione, nell’elaborazione tematica degli elementi costituenti della
composizione e nell’articolazione della forma fin dal suo Marteau sans Maître (1952-54), dove
l’organico di sei strumentisti che si affianca alla voce di contralto comprende una varietà di
strumenti orientali che evocano a tratti l’orchestra gamelan. Anche laddove – nella musica del
secondo Novecento – la dimensione timbrica non risalta come fattore principale di un brano, essa è
ormai parte integrante del pensiero compositivo di autori quali Stockhausen, Berio e Nono, che
hanno assorbito il patrimonio di innovazioni timbriche dei padri, aggiungendovi la propria esperienza
anche nel campo sperimentale della musica elettronica.

Timbro e rumore
Già prima della prima guerra mondiale i compositori futuristi italiani, in particolare Luigi Russolo,
posero nella composizione musicale elementi di colore estranei alle timbriche strumentali. Nei
“concerti di rumori” il vocabolario musicale è arricchito delle sonorità degli oggetti della vita
quotidiana, principio compositivo che in esperienze musicali successive si allarga a comprendere
tutti i suoni producibili, grazie anche alle nuove possibilità offerte dalle tecnologie di riproduzione
musicale. Fra le numerose sperimentazioni possiamo ricordare due esempi: le opere di John Cage
per “pianoforte preparato”, cioè modificato dall’inserimento fra le corde di vari oggetti, che
restituivano nuove soluzioni timbriche alla sonorità dello strumento; e la “musica concreta” di Pierre
Schaeffer, che impiega suoni e rumori registrati, e, facendo a meno della notazione in partitura, li
rende autonomi oggetti sonori potenziandone le qualità timbriche in senso espressivo. Da questi
principi ha preso il via la vasta corrente sperimentale della musica elettroacustica, sviluppata
anzitutto dal Groupe de Recherche Musicale di Parigi, per la quale ogni suono registrato costituisce
un materiale sonoro da manipolare in tutte le sue componenti, superando in particolare la
distinzione stessa fra elementi di altezza, intensità e timbro. Per quanto riguarda, infine, il suono
digitalizzato, nuova frontiera della composizione e della riproduzione musicale, la ricerca timbrica è
oggetto di primo interesse, sia per la sperimentazione di tessiture sonore inedite, sia per la sempre
più raffinata riproducibilità della timbrica strumentale e vocale classica. (CP)

VOCE

“Pare logico pensare che la musica trovi la sua genesi nel corpo, in un impiego particolare (…) del gesto
e della parola, o più precisamente della voce”. Questa affermazione di Jean-Jacques Nattiez, nella sua
Presentazione al volume II dell’Enciclopedia Einaudi della musica, mette in evidenza come tutte le
culture umane impieghino la fonazione per emettere ed organizzare suoni secondo una finalità che
esula dal linguaggio, ma si delinea quale forma simbolica autonoma, e nella fattispecie musicale, sia
che l’emissione vocale si articoli in parola, sia che ricorra al suono non articolato (fischi, mormorii,
lallazioni etc). Il riferimento di Nattiez alla “forma simbolica” risulta di primaria importanza nella
definizione della vocalità musicale umana rispetto alla vocalità complessa degli animali, come ad
esempio quella di numerose specie di uccelli. Anche nella voce animale esistono infatti repertori di
‘canti’, in certi casi distinti per “contenuto affettivo”, come fa notare Marler (La musica degli animali,
p. 472), ma tali emissioni sonore sono del tutto prive di significato simbolico: “Nei canti degli uccelli la
varietà introdotta dalla produzione dei repertori serve non per arricchire un bagaglio di significati
semantici, ma per creare un massimo di diversificazione sensoriale”.

La fonazione musicale prevede in tutte le culture la presenza di alcuni parametri che gli studi
etnomusicologici più recenti hanno tentato di vagliare analiticamente: variazioni controllate
dell’altezza dei suoni emessi all’interno di una struttura scalare, riferimento ad un centro tonale (cioè
ad un singolo suono attorno al quale si organizza la voce), formule d’intonazione, ritmica, etc. Tuttavia,
nonostante l’identità di costruzioni di emissione e conduzione della voce, la produzione del suono
musicale vocale conosce infinite sfumature timbriche e tecniche, anche se non esiste una
classificazione dettagliata delle “differenze” della voce umana, così come invece accade per gli
strumenti musicali. La differenziazione delle voci, nel vocabolario musicale occidentale, si limita alla
naturale distinzione tra voci femminili e maschili, e tra registri alti e gravi di entrambe; e le modalità
vocali note agli ascoltatori della musica occidentale, sia essa “colta” o “popolare”, si limitano per lo
più a questa generale differenziazione. Basta uscire dall’ambiente della società euro-americana per
accorgersene: le musiche dei Balcani e quelle slave, il canto sardo e siciliano e, allontanandosi verso
l’oriente vicino e lontano, i canti dei paesi nordici e dei continenti africano, australiano e dell’America
centrale e del sud, arricchiscono il repertorio vocale con fenomeni poco conosciuti, esplorati quasi
esclusivamente da antropologi ed etnomusicologi.

La vasta ricerca condotta recentemente (1996) da Gilles Léothaud, Bernard Lortat-Jacob e Hugo Zamp
per il Centre National de la Recherche Scientifique e Musée de l’Homme di Parigi che ha prodotto la
significativa raccolta Le voix du monde (Le voci del mondo, in tre CD), ulteriormente approfondita in
sede teorica da Gilles Léothaud, ha messo a fuoco la grande varietà di tecniche di fonazione musicale
nei luoghi e nelle civiltà più disparate. Gli esempi, tutti registrati “sul campo”, catalogano una
determinata tipologia vocale, come un registro, una tecnica d’emissione della voce, un particolare
rapporto tra voce e parola e tra voce e strumento o una concezione ritmica e melodica, ma al tempo
stesso rimandano anche a specifiche funzioni sociali, espressioni di sentimenti individuali e collettivi,
occasioni private e situazioni comunitarie, che inevitabilmente illustrano come le “tecniche” della voce
siano anche sempre connesse alla capacità comunicativa della musica e, dunque, alla “forma
simbolica” che accompagna e forgia l’emissione vocale.

Alcuni degli esempi proposti si avvicinano a certe tecniche compositive della musica occidentale.
Questa vicinanza può essere casuale oppure avere delle ragioni estremamente diverse tra loro: può
riguardare casi d’intenzionale utilizzo da parte di compositori occidentali di tecniche apprese da
culture extraeuropee, ma può riflettere anche modi d’espressione analoghi di “universali” umani che
non conoscono differenze di luogo, di tempo o d’etnia. Nell’ambito delle tradizioni orali raccolte in
questa antologia l’impiego musicale della voce si colloca al di fuori dell’idea di opera che si è sviluppata
in seno alla cultura occidentale. Questa differenza è significativa parlando della voce, giacché la
vocalità della musica d’arte è chiaramente diversa dalla vocalità musicale in senso lato: se questa è
espressione naturale di concetti e sentimenti attraverso un “suono umanamente organizzato” (per
dirla con John Blacking), la vocalità occidentale, nella musica “colta” e “popolare”, è anzitutto mediata
da un apparato teorico, storicamente sviluppatosi, che prevede la figura del “cantante”, interprete e
intermediario di tale patrimonio di conoscenze e abilità.

La classificazione che segue è tratta dall’apparato esplicativo dei tre CD di Les voix du monde e dalla
classificazione universale delle tecniche avanzata da Léothaud per l’Enciclopedia Einaudi della musica.
Le tecniche vocali si possono suddividere in tre grandi gruppi:

1. Tecniche di mescolanza, che prevedono un’estensione del sistema fonatorio tramite uno strumento
2. Tecniche fisiologiche, che non impiegano strumenti
3. Tecniche spettrali, che impiegano principi acustici quali interferenze per creare effetti sonori illusori

1. TECNICHE DI MESCOLANZA

MOLTE TECNICHE MUSICALI ASSOCIANO LA VOCE AL SUONO DI UNO strumento. I sistemi più comuni sono
realizzati attraverso l’applicazione delle mani o di un risuonatore (maschere, tubi, megafoni) sul viso
o nella bocca. La voce può essere deformata al fine di amplificare, attutire o aumentare la vibrazione
e quindi cambiarne il colore e la natura. All’interno di queste tecniche si possono includere anche i
fenomeni di travestimento vocale. In un certo senso ogni tecnica vocale del canto è un travestimento
della voce naturale. Ma in molte tradizioni orali la voce è investita di valori simbolici e spesso viene a
personificare entità sovrannaturali, divine o comunque “altre” dalla persona di chi canta.
Nell’antichissima tradizione dell’opera cinese di Pechino l’attore canta con una voce di testa per
incarnare un personaggio femminile (in questo caso il travestimento è dato dal cambio di registro),
mentre nel teatro No giapponese la voce “travestita” è emessa anche tramite l’impiego di una
maschera. Lo strumento più vicino alla voce è il flauto, e varie tipologie di questo strumento vengono
comunemente impiegate come risuonatori della voce. A volte l’imitazione è tale da rendere difficile la
distinzione quando voce e strumento si alternano; a volte l’imitazione vocale sostituisce tout court lo
strumento. Altri strumenti imitati dalla voce possono essere la tromba o il tamburo e anche la vièle -
il violino primitivo con l’articolazione delle vocali su una nota lunga. Le tecniche di abbinamento voci-
strumenti includono anche i numerosi processi di imitazione di strumenti, con tutte le implicazioni
sociali e rituali che tali tecniche racchiudono.

2. TECNICHE FISIOLOGICHE

Le tecniche vocali dell’emissione sonora ‘pura’ e ‘naturale’ possono essere raggruppate attraverso i
parametri tradizionali di timbro, altezza, intensità (per i quali si veda la voce suono) e ornamentazione.

TIMBRO O COLORE. La ricchezza di “colori vocali” è la cosa che più colpisce l’ascoltatore occidentale
quando viene in contatto con altre tradizioni del mondo. Non è semplice individuare le componenti
che interagiscono nella determinazione del “colore” di una voce intonata. Fra queste vi sono l’altezza,
il registro, gli armonici, le formanti (le vocali), la modalità di emissione (gutturale, nasale) che dipende
dalla posizione della lingua e della laringe, dalla quantità d’aria, e infine le condizioni acustiche in cui
la voce viene emessa (più o meno eco, risonanza, riverbero, assorbimento del suono ecc). Le
caratteristiche timbriche della voce umana implicano comunque due componenti fondamentali: il
colore e il rumore. Il colore è determinato dall’energia spettrale (le voci scure hanno poca energia
all’acuto, viceversa le voci chiare) e da elementi quali la nasalità e i registri (“di testa”, “di petto” etc).
Rispetto alle componenti di rumore espiratorio – che nella vocalità occidentale sono rifiutate in
quanto ‘sporcano’ la purezza della voce – è da ricordare il soffio che costituisce un elemento estetico,
come ricerca di particolare timbro, ma può divenire una componente ritmica del linguaggio musicale,
oppure unire entrambe le funzioni.

Altezza e registro. L’altezza vocale è definita non solo dalla distinzione tra “grave” e “acuto”, comune
pure agli strumenti, ma anche dalla modalità di emissione: può esse voce di petto, voce di testa, voce
di falsetto, voce di gola e numerose altre sfumature come lo strohbass (“basso di paglia” in tedesco)
e il sifflet (fischio in francese, cioè registro d’ottavino). Queste modalità di emissione sono chiamate
“registri”. Il registro vocale, pur legato all’altezza, cioè all’ambito della voce, non sempre coincide con
essa. Il registro di petto, ad esempio, permette anche a una voce “alta” di accedere a suoni
particolarmente gravi, quello di testa consente viceversa l’accesso di una voce “bassa” a suoni alti. In
determinate tradizioni (anche occidentali) l’ambito naturale di una voce viene forzato per ottenere
registri che non le appartengono. Lo yodel, che contrariamente alla credenza comune, non è
patrimonio esclusivo delle Alpi svizzere, è l’esempio più noto ed efficace dell’alternanza di registri con
la stessa voce.

Intensità. Manifestazioni vocali proiettate verso un uditorio più o meno vasto e più o meno definito,
ma comunque con l’intensità necessaria alla trasmissione di un messaggio, definiscono la differenza
di intensità vocale. Anche in questo caso non esiste una ‘scala’ di riferimento, ma una distinzione
fondata sulla risultanza acustica e sulla funzione. Una distinzione comune, ad esempio, distingue
appelli, gridi, clamori: appello alla battaglia e al lavoro, alla preghiera, alla festa, al mercato, ad una
manifestazione; grido individuale di lutto, di stupore, di tristezza o di gioia; clamore (grido collettivo)
di vittoria, culto, sforzo di lavoro, protesta. La vita privata, l’esperienza religiosa e la vita lavorativa
della comunità sono accompagnate da questi segnali ed espressioni dirette e spesso semplici dal punto
di vista dell’articolazione musicale, dove la parola può essere assente, poco intelligibile o costituire
elemento centrale del messaggio complessivo. Un’altra caratterizzazione dell’intensità vocale è
connessa anche alla distinzione fra parlato, declamato e cantato. Le diverse tradizioni orali utilizzano
tutte le sfumature possibili delle modalità di emissione vocale dal semplice parlato scandito a una
declamazione più o meno enfatica, dalla recitazione su un tono al parlato-cantato che senza diventare
canto dispiegato si distingue dalla monotonia non strutturata del discorso quotidiano, fino
all’intonazione vera e propria. L’importanza del messaggio verbale (religioso, poetico, politico ...) resta
comunque fondamentale in questi esempi, e spesso vi si riconoscono le flessioni della lingua in cui si
recita o si canta.

Ornamentazione. L’abbellimento di una linea melodica è un procedimento antico e naturale


dell’espressione vocale. L’ornamento può essere parte inerente della struttura melodica oppure
inserirsi come elemento estemporaneo e improvvisato. Anche l’aumento improvviso della vibrazione
di una singola nota può essere considerato ornamento “minimo”. Trilli, oscillazioni, “frullato” della
lingua, melismi (formule melodico-ritmiche che si ripetono sulla stessa sillaba), vibrato e moltissime
altre tecniche arricchiscono il panorama tassonomico dell’ornamentazione vocale.

3. TECNICHE SPETTRALI

UN SUONO PERIODICO INTONATO (“TONO”) È COSTITUITO DA UN TONO FONDAMENTALE E DI UNA SERIE DI armonici
(v. suono). Alcuni di questi ultimi possono essere utilizzati a fini melodici con una tecnica che consiste
della modifica del volume della bocca giocando sullo spessore e sulla posizione della lingua. Gli
armonici così selezionati vengono percepiti come altezze autonome. La provocazione di questi suoni
può essere generata da un accessorio esterno (una corda o uno scacciapensieri situato all’ingresso
della bocca) che produce vibrazioni periodiche, ma - più raramente - la provocazione è interna. Si
tratta allora del canto difonico, in cui ciò che provoca il suono sono le stesse corde vocali. L’emissione
difonica consiste, in sintesi, nel produrre uno spettro vocale ricco di armonici e nell’accordare la cavità
orale a uno dei componenti dello spettro, che, per il fenomeno della risonanza, aumenta in ampiezza.
Muovendo la lingua, il cantante varia la grandezza della cavità orale, e dunque la frequenza,
selezionando armonici differenti. Va notato che questa tecnica è diffusa soprattutto laddove si usa
produrre gli armonici anche con un accessorio esterno: in Mongolia, Siberia e anche in una regione
dell’Africa del sud piuttosto limitata: presso gli Xhosa.

LA VOCE IMPOSTATA

Nella musica d’arte occidentale le tecniche naturali sono impiegate in modo complesso, finalizzato alla
acquisizione della voce impostata, impiegata dai cantanti in vaste aree di repertorio della MUSICA
VOCALE e vocale-strumentale e della musica scenica (nell’opera) soprattutto in età classico-romantica.
La voce impostata fu il prodotto della scuola vocale italiana, e si orienta alla realizzazione di
un’emissione vocale pura e priva di rumori e soffi, di un’estensione ampia soprattutto in acuto sia
nelle donne che negli uomini, di una intensità potente e di una omogeneità di timbro, che mira a
nascondere i passaggi naturali di registro, in particolare arrotondando le formanti (le vocali) e
sfruttando la ‘maschera’ naturale (la parte superiore del volto) per aumentare l’area di risonanza ed
evitare ‘ingolamento’, o ‘voce di gola’ (che invece è praticata nella musica leggera). I registri principali
della vocalità impostata sono:

Soprano (la voce femminile più alta, ulteriormente distinta in leggero, drammatico, lirico etc.)
Mezzosoprano (la voce intermedia fra soprano e contralto)
Contralto (la voce femminile scura, estesa soprattutto nel settore grave)
Tenore (la voce maschile estesa in acuto, suddiviso in tenore di grazia, lirico, drammatico)
Baritono (la voce intermedia fra tenore e basso)
Basso (la voce maschile più estesa nel grave, articolato in basso cantante, profondo, buffo).

Altre voci sono quella maschile di falsetto naturale (la voce dei castrati, molto impiegata nell’opera
del Sei-Settecento e nella musica da chiesa), di falsetto artificiale (la voce maschile che simula il
falsetto e che è spesso definita controtenore) e la voce bianca, cioè la voce dei fanciulli che
corrisponde all’estensione di soprano, pur restituendo un colore differente, più chiaro e squillante.
Queste diverse tipologie sono strettamente congiunte alla funzione drammaturgica delle voci nel
melodramma, dove “il personaggio è la sua voce” (Beghelli, p. 381), con il conseguente fenomeno
storico e sociale della proiezione erotica e del “culto” della voce, rispetto al quale segnaliamo la più
macroscopica e significativa evoluzione: il ribaltamento dei registri della vocalità maschile nel
melodramma fra Sette e Ottocento. (CP)

STRUMENTI MUSICALI
ORIGINE, SIMBOLOGIA E TECNICHE COSTRUTTIVE

Poiché l’uso di strumenti diversi (bastoni, conchiglie, pietre) per produrre suono risale fin alla
preistoria, si può affermare che lo strumento musicale fu “inventato” prima ancora della musica. Ed
in effetti, una prima evoluzione nella produzione di strumenti musicali viene fatta risalire all’intervento
umano per modulare il suono secondo parametri stabiliti, dunque in base ad una destinazione
specificatamente musicale. Per la moderna organologia (la scienza che classifica gli strumenti e ne
studia le caratteristiche e l’uso) ogni oggetto usato dall’uomo per la riproduzione simbolica del suono
è definibile strumento musicale, a prescindere dalla sua complessità.

Gli elementi fondamentali che caratterizzano gli strumenti sono stati via via rintracciati nel
funzionamento acustico, nel portato simbolico e/o nella tecnica costruttiva. Questi tre parametri non
sono univocamente correlati, perché, ad esempio, strumenti molto semplici nell’assemblaggio delle
componenti possono avere un complesso funzionamento acustico, e viceversa, strumenti complessi
possono funzionare sulla base di principi acustici più elementari. Inoltre, anche il significato simbolico
che uno strumento assume nella cultura che lo produce e impiega può essere elemento altamente
caratterizzante in quella stessa cultura, ma può non aver alcun valore in un’altra. Gli strumenti musicali
sono infatti legati ai miti e credenze delle origini, alle mitologie e al pensiero religioso, ai rituali magici,
alle vicende epiche, alle tradizioni popolari, alla letteratura, ai sistemi filosofici, e alla loro stessa
tradizione ed evoluzione storica. La simbologia e l’utilizzo sociale dello strumento sono dunque
anch’essi per la moderna organologia un criterio di classificazione, affiancati al più comune criterio
tassonomico fondato sul funzionamento acustico e, nella fattispecie, sul modo in cui il corpo
risuonante entra in vibrazione e sul materiale di cui lo strumento è costituito. A partire dagli studi
fondamentali di André Schaeffner (Origine des instruments de musique, 1936), che supera la
tradizionale tassonomia “quadripartita” di Eric von Hornbostel e Curt Sachs (1914), l’organologia ha
quindi aperto la strada ad una “visione contestuale” dello strumento che mira alla comprensione dello
stesso quale documento culturale, “in quanto materializzazione della musica per cui è prodotto, e
sintesi di valori, di simboli, di norme performative e rituali, e di funzioni musicali” (dall’introduzione a:
Baines, Storia degli strumenti musicali, p. XII). Anche gli strumenti elettronici della moderna musica
pop e rock rientrano in questa visione contestuale: anch’essi, tra l’altro, si fanno portatori di significati
simbolici (soprattutto sessuali) marcatamente evidenti (il caso più esaminato è quello della chitarra
elettrica) e che contribuiscono alla trasmissione del “messaggio musicale” nel suo complesso. Come
ha ricordato Luciano Berio nelle sue Lezioni americane (L. Berio, Un ricordo al futuro, Torino 2006, p.
21) “Lo strumento musicale … produce suoni nient’affatto neutri”, esso è infatti depositario concreto
di “continuità storica”: il suo essere utensile di lavoro lo rende “portatore di memoria”, cioè delle
tracce delle vicende musicali e sociali e della cornice concettuale entro la quale si è sviluppato.

Per quanto riguarda la tecnica costruttiva qui basterà ricordare come essa stessa sia in origine legata
a rituali magici e simbolici (ricordiamo, ad esempio, il dio Apollo costruttore della lira) o di antiche
credenze (il biblico Yubal), ma anche al valore sociale e scientifico degli esperimenti e delle tecnologie
impiegate. L’eccellenza dei maestri liutai del ‘600 e ‘700 nel perfezionamento del violino - un
capolavoro di funzionalità musicale, estetica e tecnologia – o i rivoluzionari progressi nella
progettazione dei pianoforti statunitensi Steinway non sono che due esempi di quanto le tecniche
costruttive siano essenziali all’espressività musicale dello strumento, alla sua diffusione, se non
addirittura allo sviluppo della letteratura musicale ad esso dedicata. In tal senso, occorre ricordare
anche la diffusa espansione, dalla metà del ‘900, degli strumenti elettronici e, più recentemente
ancora, digitali, che permette oggi ai musicisti, ma anche a qualsiasi utente dilettante, di
personalizzare in modo flessibile i propri strumenti e sistemi di riproduzione.

CLASSIFICAZIONE

Degli strumenti musicali esiste una classificazione alquanto articolata e tuttora materia di riflessione.
Una soluzione che tenta di sintetizzare la tassonomia “descrittiva” di Schaeffner con quella di
Hornbostel e Sachs delle quattro classi (cordofoni, membranofoni, idiofoni, aerofoni) è stata
ampiamente studiata da Geneviève Dournon. Qui di seguito sono evidenziati i più ampi
raggruppamenti, articolati nello specifico sulla base di tre parametri descrittivi: elemento vibrante
principale; modalità di vibrazione; configurazione e struttura esteriore. Una categoria a se stante è
quella degli strumenti elettronici e dei calcolatori.

IDIOFONI: il suono è prodotto dallo stesso materiale con il quale lo strumento è costruito, e la materia
vibrante è un corpo solido, che può essere percosso attraverso varie tecniche. In questa grande
famiglia rientrano tutte le percussioni senza membrana, come piatti, nacchere, gong, sonagli, bastoni
(con o senza corpuscoli all’interno), scacciapensieri, ecc.

MEMBRANOFONI: il suono è prodotto dalla vibrazione di un corpo elastico, una membrana, tesa su
una cassa di risonanza. A questa grande famiglia appartengono tutti i tamburi, suddivisi in base al
numero di membrane e alle modalità di percussione.

CORDOFONI: in questi strumenti, che costituiscono una enorme famiglia, la materia vibrante è una o
più corde, tese su un supporto che è spesso anche cassa di risonanza. Le tipologie sono suddivise in
base alla disposizione delle corde (parallele o perpendicolari al supporto), alla struttura del supporto
(unico materiale, materiali assemblati), dalle modalità di percussione (pizzico, sfregamenti, martelletti
etc). A questo raggruppamento appartengono i più significativi strumenti musicali della cultura
musicale occidentale, come i pianoforti, i clavicembali, la famiglia degli archi (cioè i cordofoni a
frizione, come il violino, il violoncello etc), le arpe, le chitarre.

AEROFONI: in questi strumenti la messa in vibrazione è data dalla porzione di aria che contengono
nella o nelle loro cavità. Gli aerofoni sono tutti gli strumenti a fiato, quelli che prevedono l’immissione
naturale o artificiale di un “soffio” che comprima e faccia fuoriuscire l’aria contenuta nello strumento.
La distinzione in famiglie dipende dalle modalità di immissione del soffio. In questa vastissima
categoria si distinguono i flauti (il getto d’aria è convogliato sull’imboccatura, e in questa famiglia
rientrano anche i corni, gli zufoli ecc.), gli strumenti ad ancia, dove l’aria vibra grazie
all’intermediazione di linguette e lamelle. Fra questi vengono comunemente distinti gli strumenti ad
ancia libera (come gli organetti a bocca), battente semplice (i clarinetti), ancia doppia battente (oboe,
ma anche cornamuse, zampogne), organo (dove i condotti d’aria hanno ance ma anche meccanismi di
soffiera, tastiere ecc.), trombe e corni (la vibrazione è data dalla pressione dell’aria sull’imboccatura).

ELETTRONICI: si tratta di apparecchiature elettroacustiche capaci di generare suoni a partire dal


cosiddetto “suono bianco”, il suono che contiene uniformemente tutte le frequenze udibili, e che
viene opportunamente modificato, filtrato e modulato. Si distinguono in elettromeccanici (come la
chitarra elettrica), nei quali le vibrazioni sono di origine meccanica e poi trasformate in onde
elettromagnetiche, e elettronici (i sintetizzatori), nei quali i suoni sono realizzati da oscillatori. In
quest’ultima classe è possibile comprendere anche i software informatici, dove l’oscillatore è
numerico.

GLI STRUMENTI DELL’ORCHESTRA CLASSICA

Gli strumenti dell’orchestra classica occidentale sono divisi in quattro sezioni principali: gli archi, i
legni, gli ottoni e le percussioni. Ogni sezione è composta da strumenti di uguale o simile famiglia,
differenziati per ambito di altezza e per timbrica.

La sezione ARCHI è la più familiare, anche perché sono i tradizionali strumenti “melodici”
dell’orchestra. Si compone di violino, viola, violoncello e contrabbasso. Il violino prevede
generalmente una divisione ulteriore in primi e secondi violini (che riflette due linee melodiche
differenti impostate dal compositore) e, unitamente agli altri archi, ricalca l’impostazione strumentale
del quintetto d’archi. Le caratteristiche timbriche degli archi richiamano la differenziazione dei registri
vocali umani di soprano (violino), contralto (viola), baritono (violoncello), basso (contrabbasso), ma le
qualità espressive di ciascuno di essi è molto più ampia e articolata di mere divisioni di registro. Il
carattere lirico del violino è ben noto, ma questo strumento è estremamente versatile anche nel
pizzicato (il pizzicare le corde rende la sonorità simile a quella di una chitarra), nelle tecniche di
sfioramento (che evidenziano gli armonici, rendendo il suono simile a quello di un flauto), nell’uso
della sordina e di corde in simultanea. La viola, collocandosi a registro più basso, produce suoni più
estesi in gravità ed ha una sonorità calda ed espressiva. Il violoncello è uno strumento alquanto
versatile, essendo esteso su tre registri, e particolarmente adatto all’espressività timbrica che spazia
dal commosso e straziante (registro acuto), al pieno e pacato (medio), alla profondità (grave). Il
contrabbasso è strumento oggi molto conosciuto per il suo impiego nel jazz, dove si è definitivamente
svincolato dal ruolo di mero “raddoppio” all’ottava bassa dei bassi del violoncello.

La sezione dei FIATI, o LEGNI (anche se non abbraccia solo strumenti di questo materiale) comprende
quattro strumenti principali: flauto, oboe, clarinetto e fagotto. A questi si è aggiunto più recentemente
il sassofono, protagonista dell’orchestra jazz. Fra questi il flauto traverso, ed i suoi “parenti” come
l’ottavino (di registro ancora più acuto) è il più agile ed è dotato di una sonorità acuta e dolce. L’oboe
è invece lo strumento “nasale” per eccellenza e per il suo carattere “pastorale” è stato spesso
impiegato per enfatizzare i richiami musicali al mondo rurale e contadino. Vicino all’oboe è il suono
del corno inglese (oboe baritono). Il clarinetto ha un suono più aperto e brillante, quasi un
intermediario fra flauto ed oboe e le sue possibilità dinamiche sono le più ampie nell’ambito dei fiati.
Anche il fagotto ha un suono versatile, ed è spesso impiegato per far risaltare i colori scuri degli impasti
sonori, ma è estremamente duttile, come dimostra il notissimo incipit della Sagra della primavera di
Stravinsky.

La sezione degli OTTONI comprende il corno, la tromba, il trombone e la tuba. Il corno ha un timbro
morbido, ma suonato con maggiore intensità produce un suono maestoso. La sua sonorità è spesso
smorzata con l’uso della sordina. La tromba ha un suono familiare, brillante e squillante, ma in
orchestra, suonata anche con sordine, riesce a restituire qualità timbriche dolcissime. Anch’essa è
strumento d’elezione nella musica e nell’orchestra jazz. Il trombone non costituisce solo un
“aggravamento” della tromba. La sua sonorità ha un carattere di grandezza e maestosa solennità. La
tuba è il più imponente degli ottoni, ed è da considerare imparentato coi tromboni. Le due famiglie
strumentali dei fiati e degli ottoni comprendono anche i principali strumenti traspositori, cioè costruiti
(o modificabili manualmente) in modo che ogni suono emesso sia più alto o più basso di quanto scritto
in partitura, fra questi ad esempio i clarinetti in mib, in sib, la tromba in re.

L’ultima sezione orchestrale, le PERCUSSIONI, varia notevolmente nell’orchestra in quanto tali


strumenti sono usati in maniera per lo più coloristica e ritmica. Sono strumenti che non hanno
intonazione definita. Fra questi vi sono i tamburi, fra i quali il timpano è il solo ad intonazione fissa: è
lo strumento ritmico cardine dell’orchestra di musica leggera e jazz, oltre che dello strumentario della
musica rock e pop. Frequentemente impiegati anche nell’orchestra classica sono inoltre il triangolo, il
gong (tam-tam), lo xilofono, le campane.

Questa compagine di famiglie dell’orchestra classica ha subito numerose trasformazioni ed


adattamenti nel tempo ed è opportuno ricordare come la ricerca timbrica che caratterizza la musica
del ‘900 abbia notevolmente ampliato lo strumentario orchestrale, includendovi arpe, celeste, organi,
percussioni di vario tipo, ed impiegando in modo “orchestrale” (cioè non da strumento solista) anche
il pianoforte. Infine, le compagini orchestrali del jazz, che prevedono l’esclusione degli archi e
l’impiego di fiati e ottoni come strumenti melodici, hanno reso l’impasto timbrico orchestrale
completamente nuovo, profondamente diverso dall’orchestra di impianto tradizionale.

GLI STRUMENTI A TASTIERA

FRA GLI strumenti cordofoni a tastiera che meritano almeno una rapida menzione per la rilevanza che
hanno avuto – e continuano ad avere – nello sviluppo della cultura musicale occidentale vi è anzitutto
il pianoforte, la cui grande diffusione iniziò attorno alla metà del ‘700. La caratteristica fondamentale
di questo strumento a corde percosse è che il martelletto ricade dopo aver colpito la corda,
indipendentemente dal ritorno del tasto in posizione di riposo. Questa tecnica di rilascio consente alla
corda di vibrare per tutto il tempo in cui il tasto è tenuto, contrariamente al clavicembalo (strumento
a corde pizzicate) o al suo più vicino parente, il clavicordo, garantendo così una enorme versatilità
espressiva nel volume (piano e forte, e tutte le infinite sfumature di intensità sonora) e nel tocco, oltre
che nel registro, data la vasta estensione della tastiera. L’Ottocento fu il secolo che vide fiorire una
rigogliosa letteratura pianistica, arricchita anche dalle numerose trascrizioni per questo strumento di
opere orchestrali (che contribuirono notevolmente alla diffusione della musica). L’eccellenza della
tecnica esecutiva e il contestuale impiego del pianoforte come strumento solista nelle formazioni
orchestrali (i concerti per pianoforte e orchestra) o come strumento ‘da salotto’ accompagnarono e
fomentarono il fenomeno del virtuosismo (si pensi a Chopin e Liszt), sperimentato anche con l’altro
strumento d’elezione della musica classica e romantica, il violino (Paganini).

Altro strumento a tastiera, ma aerofono, di assoluta rilevanza nella tradizione musicale occidentale è
l’organo, strumento antichissimo funzionante per mezzo della pressione dell’aria che viene indotta
attraverso un mantice dentro canne di metallo (o anche di legno) che producono suoni di differenti
registri in relazione al loro materiale, lunghezza, spessore e all’essere o meno provviste di ancia. Grazie
all’evoluzione della sua complessa tecnica, perfezionata notevolmente nell’Ottocento, e che include
fra l’altro anche la presenza di varie tastiere e pedaliere, l’organo agilmente riproduce tutti i registri
orchestrali. L’organo è lo strumento per eccellenza della musica sacra liturgica, culminata nella prima
metà del Settecento nella grandiosa opera di Johann Sebastian Bach, sintesi dell’esperienza
precedente e modello di riferimento a partire dalla riscoperta ottocentesca dei suoi capolavori. (CP)

- PRINCIPI E ASPETTI DELLA COMPOSIZIONE

INVENZIONE E SCRITTURA
In ogni sua forma, in qualsiasi epoca e a ogni latitudine la composizione musicale si manifesta come
un complesso intreccio di istanze a prima vista contraddittorie: creatività e tecnica, emotività e
raziocinio, espressione e calcolo sono ugualmente implicati nel suo concetto, che sarebbe riduttivo
riportare all’etimologia latina del “porre insieme” (componere, da cum e ponere). Piuttosto la capacità
di comporre musica è sempre stata avvicinata a un mistero. Ciò ha a che fare con le difficoltà che
incontriamo nel definire in generale la creatività artistica, che rimanda al retaggio antropologico e a
processi psicologici in parte inconsci. Per questo l’ispirazione – la musa – è stata gradualmente
relegata sullo sfondo dei discorsi sulla musica, come suo presupposto inesplicabile. D’altra parte il
processo inventivo può essere ricostruito solo nella misura in cui lascia tracce documentabili, fissate
in forma scritta. In tal senso l’invenzione può essere trattata utilmente solo considerando il suo
rapporto necessario con la scrittura musicale. Ciò vale a maggior ragione per la storia della musica
europea, dove la scrittura musicale ha finito per conquistare una posizione di assoluta centralità, che
l’ha legata indissolubilmente e quasi identificata con il concetto di composizione. Per scrittura
musicale si deve intendere la rappresentazione di idee musicali mediante segni grafici convenzionali
fissati su un supporto che ne consente la conservazione. Tale concetto non è identico a quello di
notazione, che si allarga a metodi di fissazione che non prevedono l’uso della scrittura, ma che si
servono di tecniche mnemoniche più o meno collegate con la gestualità. In questo caso si parla di
notazioni orali, in quanto risultano impraticabili al di fuori di una tradizione orale consolidata (v. oralità
e scrittura), collegata a una prassi esecutiva. Se ci riferiamo agli esiti moderni della storia della musica
europea, per scrittura musicale dobbiamo intendere non solo una notazione scritta specializzata, in
grado di fissare con precisione un numero piuttosto elevato di parametri, ma anche una modalità di
rappresentazione delle idee musicali che è giunta a costituire un livello relativamente autonomo di
senso, che si affianca al livello della realizzazione sonora.

EVOLUZIONE DELLA SCRITTURA E RESIDUI DI ORALITÀ TRA MEDIOEVO, RINASCIMENTO ED ETÀ MODERNA

Nella stessa tradizione occidentale la scrittura musicale non ha sempre avuto questo significato, ma
lo ha raggiunto alla fine di un processo storico. Tale risultato ha richiesto l’interiorizzazione di
caratteristiche notazionali che sono emerse molto gradualmente ma che si sono conservate in modo
cumulativo in epoca medioevale e rinascimentale (v. oralità e scrittura). Tra queste la definizione del
sistema delle altezze attraverso l’utilizzo del rigo musicale e delle chiavi (v. altezza); l’organizzazione
delle durate fondata sulla diversa forma delle note; l’introduzione dei segni di mensura e quindi della
suddivisione in battute (v. ritmo); la disposizione spaziale delle voci in partitura, legata in parte
all’introduzione della stampa musicale. In epoche in cui la musica scritta costituiva ancora la punta di
un iceberg di consolidate tradizioni orali, il rapporto tra invenzione e scrittura non aveva quel carattere
di immediatezza che oggi diamo per scontato: per lungo tempo infatti l’ideazione della composizione
e la sua realizzazione sonora hanno mantenuto quel legame diretto – non mediato dalla scrittura –
che è tipico delle culture prevalentemente orali. Lo testimoniano alcuni indicatori. In primo luogo il
fatto che le voci di una composizione contrappuntistica (v. contrappunto) per molti secoli sono state
riportate in successione, da cui evinciamo che le diverse linee melodiche venivano sovrapposte “a
mente”. Questo significa che la necessità di una rappresentazione che ne esplicitasse la simultaneità
attraverso la sovrapposizione spaziale non era ancora sentita. In secondo luogo anche nella ristretta
cerchia di teorici e compositori che si avvalevano metodicamente della scrittura musicale il processo
di alfabetizzazione risulta piuttosto lento e faticoso. Ancora in epoca rinascimentale l’esecuzione
rappresentava il presupposto essenziale della valutazione estetica e tecnica di una composizione,
mentre il giudizio sulla correttezza della notazione era spesso indipendente dal primo. Di fatto la
scrittura era percepita come un’operazione successiva e secondaria rispetto a un’invenzione che non
partiva ancora da elementi scritti ma che piuttosto scaturiva dalla prassi musicale. Inoltre ancora in
epoca rinascimentale la scrittura musicale spesso non assolveva ancora simultaneamente alle diverse
funzioni che oggi appaiono unificate: la notazione assumeva una fisionomia molto diversa a seconda
che fosse finalizzata all’esecuzione oppure alla contemplazione della struttura ideale (teorica) della
composizione.

L’evoluzione che ha portato a una sempre più marcata emancipazione della scrittura musicale da
questi residui di oralità può essere ricollegata almeno in parte agli sviluppi della teoria e della prassi
del contrappunto. Nel corso del XVI secolo l’aumentare progressivo del numero delle linee melodiche
e il complicarsi dei loro rapporti reciproci rese sempre più indispensabile l’utilizzo di rappresentazioni
grafiche capaci di innescare procedure di controllo tanto sulla progettazione della composizione
quanto sulle singole fasi della sua realizzazione.

Con il passaggio da una cultura musicale contrappuntistica a una concezione fondata sul primato della
melodia e delle relazioni armoniche – dunque con la nascita e l’evoluzione del melodramma a partire
dagli ultimi anni del XVI secolo – la scrittura musicale ha continuato a specializzarsi, soprattutto in
relazione agli aspetti più strettamente espressivi (v. espressione); anche se bisogna sottolineare che il
primato della “rappresentazione degli affetti” riconnetteva l’invenzione musicale più alla vitalità della
prassi esecutiva che alla fissità della scrittura. Per questo motivo alla scrittura prescrittiva, stabilita
dal compositore, si affiancava in molti casi una scrittura descrittiva, che intendeva immortalare una
determinata interpretazione. Si dava per scontato che in fase di esecuzione la maestria e il sentimento
dell’interprete avrebbero contribuito a determinare un numero piuttosto alto di parametri musicali.
Più in generale, a queste altezze cronologiche la scrittura musicale non aveva ancora il carattere
vincolante che assumerà in seguito. Ciò continua a valere in parte nei secoli XVII e XVIII, soprattutto
per quanto riguarda gli sviluppi dell’armonia, che raggiunge il suo apice con la diffusione della prassi
compositiva del basso continuo (v. armonia; tonalità). La diffusione del basso cifrato permetteva al
compositore, attraverso una simbologia numerica riconosciuta e diffusa, di affidare direttamente agli
interpreti la realizzazione di ampie sezioni della composizione, e questo valeva anche per molti altri
aspetti. Dal momento che la prassi esecutiva garantiva la corrispondenza tra intenzione del
compositore e realizzazione sonora, la completezza della scrittura musicale e la sua precisione
scrupolosa non erano ancora sentite come una necessità.

NORMATIVITÀ DELLA SCRITTURA MUSICALE IN EPOCA MODERNA


La stabilità notazionale che caratterizza la musica già a partire dal XVII secolo ma poi soprattutto tra il
XVIII e il XIX ha contribuito non poco a consacrare la scrittura musicale quale orizzonte naturale del
comporre. Comporre e scrivere diventano una sola cosa, perché la scrittura accompagna in modo
sempre più assiduo tutte le fasi della composizione. Già in fase di invenzione e definizione dell’idea
musicale il compositore si affida alla notazione scritta: egli si appunta successioni di note o di accordi,
intere melodie, brevi motivi, abbozza singoli passaggi, progetta schemi formali o ritmici; ma solo dopo
una lunga serie di procedure di selezione ed elaborazione passa ad abbozzi più ampi, fino alla stesura
definitiva. La rappresentazione grafica della musica, caratterizzata dalla simultanea presenza spaziale
di elementi che nella effettiva realizzazione sonora si troveranno in successione temporale, permette
un controllo razionale sulle singole parti e sulla loro articolazione complessiva; così tendono a
svilupparsi strategie di organizzazione fondate su criteri di coerenza e di equilibrio formale e su nessi
sintattici e strutturali.

Per quanto riguarda la composizione compiuta, la sua scrittura guadagna una normatività estetica
senza precedenti. Diventa centrale il concetto di opera, che nel corso del XIX secolo verrà inteso in
una connotazione sempre più enfatica, in connessione con il concetto romantico del genio.
L’identificazione della composizione con un testo fissato in forma scritta è essenziale a questa
evoluzione. L’opera è in primo luogo il compimento del processo compositivo, la composizione intesa
nella sua unità e compattezza formale; quando però viene riconosciuta come capolavoro dell’arte e
prodotto del genio artistico, allora diventa opera rappresentativa di un’epoca, fino ad assumere uno
status normativo per le generazioni successive. La forma scritta della composizione, intesa come
l’insieme delle prescrizioni finalizzate alla realizzazione sonora, diventa un punto di riferimento
essenziale anche dal punto di vista dell’esecuzione, contribuendo alla marcata istituzionalizzazione
della prassi concertistica.

Come conseguenza ulteriore di questa intera evoluzione, la scrittura musicale si delinea sempre più
chiaramente come mezzo privilegiato per la comprensione e la conoscenza della musica. Al primato
della scrittura è legata tutta la riflessione sulla musica a partire dalla prima metà del XIX secolo. In
mancanza di un testo che fissi con precisione i diversi parametri della musica difficilmente si sarebbero
sviluppate le diverse branche della musicologia (v. le discipline musicologiche): non solo l’analisi (v.
teoria e analisi) e la critica musicale ma perfino la storiografia (v. storia e storiografia), rifondata nei
primi decenni del XX secolo sulla base del concetto di stile, sarebbe risultata irrealizzabile. Una
valutazione basata sull’ascolto risulterebbe infatti deficitaria rispetto alla possibilità offerta dal
confronto puntuale tra testi.

NUOVE DIREZIONI NEL XX SECOLO

Nel corso del XX secolo la scrittura entra in relazioni nuove e molteplici tanto con l’invenzione quanto
con la realizzazione sonora. La relazione stabile e apparentemente naturale tra invenzione e scrittura
che ha caratterizzato i due secoli precedenti va infatti in crisi, da una parte perché le poetiche dei
compositori insistono sull’artificialità e sulla convenzionalità della scrittura, dall’altra perché si amplia
indefinitamente l’ambito delle sonorità utilizzabili in sede compositiva. Gli esiti di questo processo
sono talora opposti.

In una prima direzione assistiamo alla specializzazione della scrittura musicale e alla sua estrema
complicazione, che va di pari passo con il complicarsi dei procedimenti inventivi e compositivi. Molti
compositori si attengono infatti alla notazione tradizionale, integrandola via via in modo da includere
nuove sonorità, derivanti da sollecitazioni non convenzionali degli strumenti della tradizione, da nuovi
strumenti o da nuove tecniche di produzione sonora. Capita che l’esecutore metta a disposizione del
compositore un repertorio di suoni che egli è in grado di produrre e controllare attraverso una tecnica
innovativa; in seguito si pone il problema della codifica scritta dei nuovi suoni e dunque la scrittura
stessa si apre all’invenzione. In questi casi la legenda diventa parte essenziale della partitura, perché
deve veicolare di volta in volta le informazioni necessarie alla decodifica. In tutti questi casi la scrittura
diventa meno stabile ma più vincolante, perché il compositore non può fondarsi su una prassi
esecutiva già esistente. Nella stessa direzione va la musica elettronica, per la quale tuttavia il
compositore deve rivolgersi a modalità di rappresentazione del tutto peculiari. Egli si trova infatti a
produrre direttamente – senza la mediazione dell’interprete – i suoni, attraverso la manipolazione
delle strumentazioni elettroniche. In questi casi entrano chiaramente in gioco anche le tecniche di
registrazione.

In una seconda direzione, altri compositori ricorrono a nuove forme di notazione scritta in palese
controtendenza rispetto al progressivo perfezionamento della scrittura nella storia della musica
occidentale. La consapevolezza delle restrizioni imposte all’invenzione da una scrittura
eccessivamente specializzata e la ricerca di nuove esperienze compositive induce a un rinnovamento
e a una critica esibita della notazione tradizionale. L’infrazione dei codici della composizione investe
così il piano della scrittura, che si fa evocativa, indeterminata; che rinuncia alla chiarezza razionale
della notazione tradizionale per avvicinarsi all’evocazione pittorica, con uno sguardo alle esperienze
dell’astrattismo.

Il XX secolo è anche l’epoca in cui la tecnologia ha messo a disposizione tecniche di registrazione su


supporti (prima analogici, poi digitali) che consentono di prescindere completamente dalla scrittura
per la fissazione della musica e che per di più la fissano nella forma temporale e nella concretezza
sonora che le è propria (v. tecnologie). La ripetibilità della registrazione permette di introdurre nuove
tipologie di controllo e dunque nuove possibilità compositive. In alcuni repertori di larghissima
diffusione (nell’ambito della popular music) la registrazione in studio e la possibilità tecnica di un suo
graduale perfezionamento può sostituire la scrittura e diventare parte integrante del processo di
invenzione. Il CD musicale diventa l’equivalente del testo, in quanto conserva un originale che il
concerto è chiamato a riprodurre talvolta con estrema fedeltà, altre volte introducendo varianti anche
sostanziali, che mirano a sottolineare la centralità dell’evento e il primato della performance. Il valore
attribuito alla performance e la registrazione in studio sono aspetti che ci riportano a tratti tipici di
oralità; conseguentemente la scrittura musicale si riduce a un ruolo piuttosto marginale. Gli spartiti
musicali offerti per i generi e i repertori popular si riducono quasi sempre a una segnatura
approssimativa delle melodie e a una cifratura degli accordi che ricorda da vicino procedimenti in uso
ad altre altezze cronologiche.

OLTRE L’INVENZIONE E LA SCRITTURA: LA REALIZZAZIONE SONORA

La storia della composizione è lì a dimostrare che il rapporto tra invenzione e scrittura non è mai dato
una volta per tutte, ma si modifica storicamente: l’invenzione influisce sulla scrittura musicale tanto
quanto ne è influenzata. Tuttavia il discorso sulla musica non si esaurisce in questa dialettica. La
scrittura non è ancora (o non è più) musica, ma solo una segnatura grafica; per diventare
compiutamente musica è necessaria l’esecuzione. In una cultura musicale fondata sulla scrittura
eseguire una partitura significa riportarla in vita, restituire esistenza sonora e temporale – cioè
pienamente musicale – a una rappresentazione spaziale che non esaurisce il senso della composizione,
dal momento che non ne permette la percezione sonora effettiva, l’unica in grado di innescare
l’esperienza estetica.

Con l’esecuzione della musica entra in gioco una diversa dialettica. Se è vero che il compositore
consegna all’esecutore – mediante la scrittura – una struttura che dal punto di vista dell’invenzione è
compiuta, è anche vero che tale struttura deve essere interpretata. In questo senso a ogni
interpretazione è consegnata una percentuale di invenzione. Questa percentuale nella seconda metà
del XX secolo – con l’emergere di tecniche compositive meno vincolanti e di notazioni indeterminate
o indefinite – si è allargata talora fino alla richiesta esplicita di coautorialità. Ma anche la scrittura che
si pretende più vincolante è destinata, al momento dell’esecuzione, a incontrare le esigenze
dell’interprete, le quali non permettono una cieca obbedienza alle prescrizioni del testo. Nel momento
dell’estemporanea realizzazione sonora il circolo di invenzione e scrittura – momentaneamente – si
spezza. Nello stesso istante si palesa la doppia vita della composizione e il doppio livello del senso
musicale (scrittura e realizzazione sonora) che è costitutivo della tradizione occidentale. (ACe)

MONODIA E POLIFONIA
Il termine monodia indica in senso proprio un procedimento musicale che consiste nel dispiegarsi di
una singola linea melodica (v. melodia) intonata da una sola voce o suonata da un solo strumento. Si
ha invece polifonia quando più suoni o più linee melodiche risuonano simultaneamente, eseguiti da
voci o strumenti diversi, come avviene in un coro, in un ensemble o in un’orchestra, oppure da un solo
strumento, a tastiera o a corde, che sia in grado di produrre suoni diversi nello stesso istante. Quando
una stessa linea melodica viene eseguita simultaneamente da più voci o strumenti ma su diversi
registri si parla di omofonia. Tra i procedimenti polifonici più semplici, estremamente diffusi nelle più
diverse tradizioni musicali, possono essere elencati il bordone, in cui l’intonazione di una monodia
viene accompagnata dal continuo risuonare di una singola nota (solitamente al basso) o di più note in
rapporto di consonanza; l’ostinato, dove ad accompagnare la melodia principale è la continua
ripetizione di un breve inciso motivico; il parallelismo, in cui una linea melodica secondaria si aggiunge
a quella principale, formando con essa un intervallo consonante; l’eterofonia, che si produce quando
voci o strumenti diversi intonano una struttura melodica pressoché identica, ma caratterizzata
dall’introduzione, da parte di uno o più esecutori, di varianti o diminuzioni che ne arricchiscono il
profilo.

Nella tradizione europea della musica d’arte la polifonia svolge un ruolo di primaria importanza,
legandosi all’evoluzione del contrappunto, una particolare tecnica polifonica caratterizzata
dall’indipendenza e coerenza melodica delle singole voci, alle quali viene data pari importanza in sede
di composizione e di esecuzione. Dal contrappunto deriva storicamente l’armonia, una tecnica
polifonica in cui l’attenzione si sposta dall’indipendenza delle singole voci alla successione di aggregati
di suoni, cioè di accordi. Nasce così una gerarchia tra le voci: la linea del basso viene a offrire il
fondamento armonico, a cui si subordinano le voci intermedie; la linea superiore viene posta nella
massima evidenza, concentrando su di sé i valori melodici ed espressivi. L’armonia rappresenta il
mezzo tecnico fondamentale della monodia armonizzata (v. armonizzazione), che recupera il principio
monodico in un contesto polifonico contraddistinto da un’attenzione preponderante per la
successione degli accordi anziché per l’indipendenza delle singole voci.

Nella storia della musica occidentale si osserva una continua tensione tra principio monodico e
principio polifonico. Nell’impossibilità di offrire un quadro completo, ci limiteremo a illustrare il ruolo
svolto dai due princìpi in alcuni nodi storici significativi.

DALLA MONODIA AL CONTRAPPUNTO ALLA MONODIA ARMONIZZATA

Per quanto riguarda le origini della musica colta occidentale, possiamo ipotizzare una lunga epoca
caratterizzata dalla prevalenza della monodia, ma senza che sia possibile dimostrare su base
documentaria quanto le pratiche monodiche sconfinassero in direzione della polifonia, o
caratterizzarsi come pratiche eterofoniche. La tradizione secolare del Canto Gregoriano dà
testimonianza di un fortissimo ancoramento al testo sacro, la cui intonazione era quasi esclusivamente
monodica e omofonica. Anche più tardi, nel XII secolo, cioè all’epoca delle prime tracce scritte di
polifonia contrappuntistica, le pratiche musicali erano tuttavia in gran parte ancorate alla monodia.
Nello stesso tempo, già intorno alla fine del IX secolo troviamo descrizioni di pratiche polifoniche, che
fanno pensare a forme di eterofonia, caratterizzate dalla introduzione da parte di una delle voci di
ornamentazioni melodiche, oppure da procedure di parallelismo improvvisato. Le pratiche
contrappuntistiche si sviluppano nel contesto indubbiamente eccezionale della scuola di Notre-Dame
a Parigi, dal quale iniziano a diffondersi in tutta Europa nel corso del XIII secolo. Con l’avvento di una
scrittura musicale (v. invenzione e scrittura) sufficientemente rigorosa e organizzata (XIV secolo) si ha
una rapida evoluzione della polifonia contrappuntistica. Bisogna peraltro sottolineare che la tradizione
musicale europea si distingue dalle altre non per la polifonia, che è riscontrabile nella maggior parte
delle culture musicali, bensì per la rilevanza della pratica e della teoria del contrappunto, che regola
la conduzione delle parti a partire dai concetti di consonanza e dissonanza. Nel XV secolo, all’interno
della tradizione musicale scritta, il contrappunto è ormai divenuto il punto di riferimento essenziale
di ogni pratica compositiva. Più in generale possiamo descrivere un’intera epoca della storia della
musica scritta europea (dalla fine del IX alla fine del XVI secolo) quasi esclusivamente in termini di
sviluppo, complicazione e razionalizzazione della polifonia contrappuntistica. La complicazione è
dovuta in primo luogo alla moltiplicazione delle parti reali, da due o tre fino a quattro, cinque, sei o
più voci. La razionalizzazione dipende da istanze di vario tipo: oltre a quelle legate allo sviluppo della
scrittura musicale, possiamo citare le esigenze di carattere liturgico o pastorale, come avvenne con il
Concilio di Trento, che decretò la necessità di una maggiore comprensibilità dei testi sacri.

L’epoca successiva della musica europea è caratterizzata da un ritorno al principio monodico. Non si
tratta però di monodia allo stato puro, bensì di un procedimento che si inserisce in un contesto
polifonico: la monodia armonizzata. Questo passaggio, che si prepara alla fine del XVI secolo, si
consuma intorno all’anno 1600 negli ambienti della Camerata de’ Bardi, nei dintorni di Firenze, e viene
vissuto come una vera e propria rivoluzione della pratica e della teoria musicale. Nasce il “recitar
cantando”, inteso dai sostenitori come un ritorno alla purezza della monodia greca; un ritorno ideale,
dal momento che la musica greca era sconosciuta. Non bisogna però dimenticare che l’opera in musica
propriamente detta (che si diffonde nel corso del XVII secolo principalmente a Roma, Venezia e Napoli)
viene sviluppata dagli stessi compositori che avevano raggiunto la massima padronanza del campo
della polifonia contrappuntistica: basti pensare a Monteverdi, la cui produzione operistica non è
affatto inferiore, qualitativamente e quantitativamente, a quella madrigalistica. Con il ritorno alla
monodia si determina un cambiamento di paradigma destinato a influenzare profondamente la
successiva storia della musica occidentale. Dall’intreccio di voci o parti distinte ma tutte ugualmente
importanti dal punto di vista melodico si passa all’assoluto primato della linea del canto, della melodia
principale, una vera e propria monodia sulla quale si concentrano tutte le potenzialità espressive e
dove il testo non solo ottiene una maggiore comprensibilità, ma viene interpretato in senso
drammaturgico. La nuova pratica non implica la rinuncia alla polifonia, né l’abolizione delle regole del
contrappunto. Piuttosto, le voci secondarie si subordinano alla funzione di sfondo armonico, come
supporto della melodia principale (v. armonizzazione), organizzandosi in blocchi verticali di suoni
simultanei: gli accordi. Solo la linea del basso acquista gradualmente un peso strutturalmente più
rilevante, venendo a svolgere la funzione di fondamento, e ponendosi in una relazione diretta con la
voce principale. Dal contrappunto deriva anche la moderna teoria armonica, che regola la successione
e la concatenazione degli accordi, i quali risultano dalla sovrapposizione di intervalli di terza (v.
tonalità; armonia): la loro successione è ancora implicitamente regolata in termini di conduzione delle
parti, anche se non si tratta più di parti reali. Si ha dunque una trasformazione, una semplificazione
delle regole contrappuntistiche, non il loro completo abbandono.

Il ritorno della monodia non è privo di conseguenze di ampia portata sociale. In primo luogo la
monodia armonizzata è funzionale all’opera in musica: essa rende possibile il dramma musicale grazie
alle sue nuove risorse espressive; la sua semplicità e il suo ancoramento a fattori extra-musicali (il
dramma, la scena) rende la musica più facile all’ascolto rispetto al contrappunto stretto, il cui pieno
apprezzamento richiedeva da una parte la conoscenza dei testi, spesso non comprensibili entro le
complesse trame polifoniche, e dall’altra la conoscenza delle regole della conduzione delle parti, la cui
applicazione decretava il valore del compositore. In questo senso il principio monodico era più incline
alla popolarizzazione: con la nascita dei teatri musicali si amplia infatti considerevolmente lo spazio
delle esecuzioni e conseguentemente il pubblico. In secondo luogo la nuova pratica era destinata a
produrre ripercussioni profonde nell’ambito della musica strumentale: a partire dal XVII secolo la
melodia accompagnata interiorizza l’espressività del canto, diviene espressiva anche in mancanza di
un testo; inoltre la presenza di una melodia principale permette di rilevare temi e motivi, i quali
vengono a strutturare in profondità la trama compositiva nel suo complesso. La composizione si
stratifica, orientandosi su strutture polifoniche a tre o quattro parti, interpretate però liberamente,
con la melodia principale e il basso in notevole rilievo.

IL RAPPORTO MONODIA/POLIFONIA COME PARADIGMA DELLA TRADIZIONE OCCIDENTALE

Nella musica strumentale, a partire dal XVIII secolo si instaura una dialettica consapevole di monodia
accompagnata e polifonia. Lo stesso contrappunto stretto assimila il linguaggio tonale e tende a
obbedire alla logica della successione accordale, come avviene nelle composizioni polifoniche di J. S.
Bach. Tuttavia la differenza tra contrappunto e monodia armonizzata si fa sempre più chiara: si
teorizza con sempre maggiore precisione la differenza tra stile obbligato (o composizione rigida) e
stile libero, libero cioè da una stretta osservanza delle regole della conduzione delle parti; regole che
saranno mantenute ancora per lunghissimo tempo nell’ambito della musica sacra. Nella prassi della
composizione libera la polifonia e la monodia accompagnata diventano due procedure parimenti
utilizzabili, che si inseriscono in un comune orizzonte compositivo determinato dal rapporto tra
articolazione sintattica della melodia (temi, frasi, motivi ecc.), successione dei gradi armonici (tonalità
d’impianto, cadenze, modulazioni ecc.) e strutturazione del disegno formale (successione di
movimenti lenti e veloci, schemi formali e loro reinterpretazioni). In questo ambito compositivo le
opere strumentali di Beethoven sono state viste come un punto di arrivo di un’intera tradizione, e un
momento di particolare rilievo, in cui i teorici della musica delle epoche successive scorgeranno un
paradigma essenziale della composizione presa in generale. L’emancipazione dalla pratica
contrappuntistica non è mai completa: i princìpi del contrappunto continuano a fungere da base per
la formazione dei compositori di ogni epoca, e le opere dei protagonisti della tradizione classico-
romantica spesso rivelano strutture polifoniche latenti, oltre a sezioni chiaramente contrappuntistiche
all’interno di composizioni “libere” dai vincoli dello stile rigoroso del passato. Il primato della monodia
resta naturalmente fuori discussione nell’ambito della tradizione operistica che, almeno partire da
Mozart, riprende alcuni tratti essenziali della tradizione strumentale; tra le due tradizioni si instaura
una relazione di scambio reciproco, determinata dalla condivisione di alcuni aspetti compositivi, che
per altri versi seguono criteri di sviluppo autonomi.

Nell’ambito del teatro musicale del XVIII e XIX secolo le differenze nazionali si coniugano proprio in
termini di valore espressivo della monodia. L’opera italiana resterà fedele alla tradizione del “bel
canto”, che ha inizio intorno alla metà del XVIII secolo in opposizione alla tradizione operistica
francese, più attenta alla qualità letteraria del testo che alla sua espressività. In Germania, con i
drammi per musica di Wagner, si delinea un modo di procedere radicalmente diverso: con
l’esasperazione delle progressioni cromatiche l’armonia si sviluppa fino ai limiti della tonalità,
mettendo talvolta in discussione l’idea stessa di un centro tonale; la continua modulazione verso
tonalità molto lontane porta alla saturazione del campo armonico nel suo complesso, e di
conseguenza rivoluziona anche il concetto di melodia. L’idea di melodia infinita non si riferisce tanto
all’estensione che assume la monodia accompagnata, quanto piuttosto al subentrare di un nuovo
principio: in molti casi le frasi melodiche intonate dai cantanti non costituiscono la sostanza espressiva
della composizione; al contrario, esse introducono l’elemento narrativo e drammatico – ovvero il testo
e la sua espressività – in un contesto sotto molti aspetti pienamente sinfonico; il canto diviene parte
integrante di un insieme polifonico di linee che si piegano a processi armonici complessi, da cui non
possono essere separate poiché non si limitano a fornire un “accompagnamento”. Melodia infinita
significa dunque che tutto è melodia, che il canto, inserito com’è in una complessa trama di linee,
emerge non tanto per la propria “bellezza” (come nel belcanto italiano) quanto grazie alla presenza e
all’azione dei personaggi: questi tuttavia partecipano a un dramma che si svolge innanzitutto nella
musica. Questo principio – al quale il melodramma italiano, pur rimanendo a lungo fedele alla propria
tradizione di bel canto, non resterà indifferente nei suoi sviluppi durante gli ultimi decenni del XIX e i
primi del XX secolo – si pone al di là della distinzione tra monodia accompagnata e polifonia.

LA COMPOSIZIONE NEL XX SECOLO: VERSO UNA CRISI DEI CONCETTI DI MONODIA E POLIFONIA

La distinzione tra monodia accompagnata e polifonia contrappuntistica si carica di significati etici con
la spinta innovativa inferta alla composizione musicale da Schoenberg e dalla sua scuola. Nel
panorama compositivo dei primi decenni del XX secolo, l’idea di monodia accompagnata e di
armonizzazione, su cui si è fondata l’intera tradizione musicale a partire dall’inizio del XVII secolo,
viene sottoposta a una critica severa. La polifonia romantica e tardo-romantica, ancorata al primato
della dimensione verticale dell’armonia tonale, viene concepita da Schoenberg e dai suoi allievi come
una polifonia “apparente”, dunque in un certo senso “falsa”, tanto da proporre un ritorno al principio
contrappuntistico più antico, quello della effettiva indipendenza melodica e della pari importanza di
parti reali. Il contrappunto come lo intende Schoenberg, particolarmente dopo lo sviluppo della
tecnica dodecafonica (v. tecniche compositive) è tuttavia completamente svincolato dall’armonia
tonale e più in generale dalla tonalità intesa come sistema, che veniva percepito come un fardello di
convenzioni e cliché di cui era necessario liberarsi per produrre opere innovative. Questo non significa
che Schoenberg stesso non tendesse a riprodurre entro nuovi contesti compositivi alcune procedure
legate alla tradizione, come la presenza di voci principali e secondarie, l’articolazione sintattica di temi
e motivi, la riproduzione di strutture metriche e formali. Anche al di fuori della cerchia di Schoenberg
il contrappunto viene rivalutato. Un compositore come Hindemith ne fa ampio uso e lo concepisce
come un mezzo di rinnovamento e ampliamento del linguaggio musicale, anziché come pratica
compositiva alternativa. Come molti altri suoi contemporanei che non si riconoscono nella “nuova
musica” della scuola viennese, egli si mantiene in gran parte all’interno del linguaggio tonale,
prevedendo tuttavia momenti di sospensione, o l’emergere di dissonanze alle quali la tecnica
contrappuntistica più antica, fondata sulle regole della conduzione delle parti e ancora estranea alle
esigenze dell’armonia tonale, poteva fornire una giustificazione.

Nella seconda metà del XX secolo i contesti musicali si modificano notevolmente, al punto che le
categorie tradizionali di monodia, polifonia, contrappunto e armonizzazione tendono a divenire
inadeguate a spiegare l’evoluzione della musica d’arte. L’instaurarsi di nuove tecniche compositive, la
sperimentazione radicale delle potenzialità della voce e degli strumenti, la nascita della musica
elettronica, aprono nuove vie alla ricerca musicale. Nello stesso tempo il progresso degli studi
etnomusicologici e il notevole sviluppo della popular music, influenzano episodicamente la stessa
tradizione scritta della musica occidentale, rendendo talora sensato il riferimento a princìpi quali
l’eterofonia, la monodia accompagnata o la polifonia tradizionale. (ACe)

PROCESSI COMPOSITIVI
Per composizione si intende, nel senso più generale, l’attività del “mettere insieme” (lat. componere,
da cum e ponere), indipendentemente dal tipo di elementi utilizzati per l’assemblaggio: si parla così di
composizione architettonica o floreale, della composizione di un testo poetico o in prosa. A differenza
degli altri tipi di composizione, che si riferiscono a elementi da disporre nello spazio, la composizione
musicale ha a che fare con elementi che si svolgono nel tempo e si rivolgono in primo luogo all’udito.
La composizione musicale riguarda dunque l’attività di organizzare suoni udibili quale che sia la loro
fonte: la voce umana, gli strumenti musicali acustici, ma anche suoni prodotti elettronicamente o
riprodotti attraverso la registrazione (v. suono). Lo sfondo dei suoni è il silenzio, cioè l’assenza di suono
(sempre relativa, perché il silenzio assoluto non è mai ottenibile, se non per approssimazione, in spazi
artificiali, come accade nelle sale di registrazione). Anche il silenzio diventa un elemento della
composizione musicale (perché condivide con i suoni l’elemento della temporalità e si caratterizza
come l’assenza di vibrazioni sonore), sotto forma di pause, la cui unica caratteristica distintiva è la
durata. Dunque i suoni e le pause sono gli elementi essenziali della composizione. L’ambito dei suoni
utilizzabili ai fini della composizione musicale è determinato in base a presupposti culturali che variano
tra luoghi ed epoche diverse. Nel corso del XX secolo tale ambito sembra essersi ampliato
indefinitamente, fino a comprendere qualsiasi tipo di vibrazione sonora.

PRINCÌPI GENERALI DELLA COMPOSIZIONE

Tra le molte prospettive possibili sui princìpi generali della composizione musicale può risultare
didatticamente utile l’individuazione di due “coordinate” che sono suggerite dalla disposizione
“cartesiana” della moderna scrittura musicale: giustapposizione (orizzontale) e sovrapposizione
(verticale). Dal punto di vista dell’ascolto, e dunque dell’evento musicale di cui facciamo esperienza
sensoriale ed estetica, tali coordinate spaziali si manifestano come coordinate temporali, individuate
forse più correttamente come successione e simultaneità. La temporalità intrinseca della musica fa sì
che il principio della “successione” sia implicito nella sua stessa esistenza: qualsiasi evento musicale,
a partire dalla più breve emissione di suono, è di per sé una successione, perché si dispiega nel tempo;
ed è chiaro che un brano musicale può benissimo rinunciare completamente a sfruttare il principio
della simultaneità o sovrapposizione, dispiegandosi unicamente in una successione di suoni, come
avviene nella enunciazione di una semplice linea melodica. Il principio della “simultaneità” è
altrettanto semplice e si dà come possibilità immediata non appena siano a disposizione due o più
voci o strumenti, o uno strumento che sia in grado di emettere più suoni contemporaneamente.
Tuttavia questo principio introduce anche a procedimenti compositivi più complessi. Il principio della
sovrapposizione contempla infatti numerose possibilità, che vanno dalle sue applicazioni più semplici
e scontate – come il semplice raddoppio (v. glossario) di una melodia – a tecniche estremamente
complesse, tra le quali nella storia della composizione occidentale rivestono un particolare rilievo il
contrappunto, che regola la conduzione orizzontale o lineare di voci indipendenti tra loro e di pari
importanza, e l’armonizzazione, che invece regola la successione di complessi verticali – gli accordi –
considerati come unità, dove può porsi in primo piano una voce principale (una melodia) e dove quindi
si instaura una gerarchia con uno sfondo che crea un accompagnamento. Si tratta di due procedimenti
compositivi che dal punto di vista della derivazione storica risultano connessi, ma che fanno capo a
princìpi teorici e pratiche compositive ben distinte.

In ogni caso la storia della composizione europea e occidentale non si dà se non nella continua
interazione tra successione e simultaneità, la cui distinzione può valere solo di principio e come criterio
di orientamento generale. Seguendo questo criterio si tratta ora di passare in rassegna una serie di
procedimenti basilari dell’organizzazione e dell’elaborazione delle idee musicali, che hanno lo scopo
di garantire la continuazione nel tempo e l’articolazione di una struttura formale. Volta per volta sarà
fatto riferimento a vari livelli formali.

ORGANIZZAZIONE ED ELABORAZIONE DI IDEE MUSICALI

1. Il principio della ripetizione

Il principio più semplice per l’organizzazione e l’elaborazione di idee musicali e di una struttura
temporale è quello della ripetizione, fondato sulla successione di elementi identici e quindi sul grado
minore di elaborazione. Qualsiasi elemento musicale può essere ripetuto, dalla singola nota e dal più
breve motivo o inciso al periodo più complesso (v. elementi di sintassi musicale) e alla più ampia
sezione unitaria della composizione, fino addirittura all’intera composizione (quando la sezione
ripetuta esattamente è abbastanza ampia, a livello di scrittura si ricorre al segno del ritornello (v.
glossario), che permette di evitare un testo ridondante). Questo principio organizza il tempo dello
svolgimento e dota la composizione di una forma che risulta immediatamente logica e coerente. Un
caso particolare di ripetizione consiste nella ripresa, con cui si indica la ripetizione a una certa distanza
di una sezione della composizione (si chiama così sia la sezione conclusiva della forma sonata, che
riprende l’esposizione riconducendola stabilmente alla tonalità principale, sia la parte iterabile del
rondò, che consiste nel suo tema principale). La ripetizione insistente dello stesso inciso può indurre
la monontonia. Questo fenomeno, considerato un difetto nella musica d’arte occidentale fino a pochi
decenni fa, è stato elevato a principio compositivo ed estetico della musica cosiddetta “minimalista”
degli anni Settanta e Ottanta del Novecento.
La ripetizione stessa non si limita alla giustapposizione di elementi identici, ma può coinvolgere anche
la dimensione della simultaneità. Nel caso più semplice abbiamo il raddoppio di uno stesso elemento
da parte di una seconda voce o strumento. Un caso più evoluto e significativo dal punto di vista
contrappuntistico è quello dell’imitazione, dove un motivo o una melodia compare, subito dopo la
sua completa enunciazione, in una voce diversa dalla prima, che ne offre una ripetizione, una sorta di
risposta. Nell’imitazione la risposta può trovarsi o meno alla stessa altezza dell’enunciazione, ma per
essere riconoscibile deve mantenere in tutto o in buona parte invariata la sua struttura ritmica e
intervallare. Capita che la risposta sia una derivazione contrappuntistica dell’enunciazione, come ad
esempio la sua inversione (v. glossario), o che entrino in gioco procedimenti quali l’aggravamento (v.
glossario) o la diminuzione (v. glossario). Nel caso più completo di imitazione, quando cioè un intero
brano consiste nella sovrapposizione di due o più voci in rapporto di imitazione identica, si parla di
canone (v. glossario); e anche in questo caso si parla di canone diretto o inverso, oppure di canone
all’unisono o all’ottava o alla terza, specificando l’intervallo che separa l’enunciazione dalla risposta).
Un caso particolare di imitazione è lo stretto, che consiste in una imitazione a distanza molto
ravvicinata, per cui si crea una sovrapposizione tra una parte dell’enunciazione e l’ingresso della
risposta, con un procedimento che può anche essere continuato (tale procedimento è tipico
dell’ultima parte della fuga).

2. Il principio della variazione

Il concetto di variazione è strettamente correlato a quello di ripetizione ed è sempre relativo a un


elemento precedente. Per definirlo occorre introdurre il concetto di proprietà. Perché un inciso
formale possa determinarsi come variazione di un inciso precedente, esso deve infatti ripeterne
almeno una delle proprietà più rilevanti (tempo, profilo melodico, struttura armonica, successione di
intervalli, ritmo ecc.) mentre una, alcune o tutte le altre si differenziano; in questo senso quando la
variazione è minima e coinvolge una sola o poche proprietà dell’elemento variato, e quando tale
elemento non è formalmente troppo esteso, si parla di variante, che è il grado più basso di variazione.
La variazione può naturalmente avere un’estensione variabile. La variazione di motivi e incisi brevi è
solitamente costitutiva dell’elaborazione tematica e riguarda unicamente aspetti ritmici e/o melodici
(intervalli, altezze, spostamenti): in tal caso l’unione del motivo e delle sue variazioni o varianti può
costituire una frase, un periodo, o una parte di essi. Anche le variazione di sezioni più ampie
contemplano diversi gradi: si va dalla variazione ornamentale, dove solo il profilo melodico è
lievemente variato (per lo più fiorito o diminuito) ma comunque riconoscibile, a procedimenti molto
più complessi, come quelli a cui ricorre la forma musicale del tema con variazioni. Autori come
Beethoven o Brahms, che hanno lasciato cicli monumentali di variazioni, hanno sondato a fondo
questo principio compositivo, introducendo variazioni estremamente complesse dal punto di vista
melodico, ritmico e armonico, dove la variazione può arrivare a coinvolgere un numero molto alto di
proprietà del tema, fino a renderlo quasi irriconoscibile e tuttavia mantenendo quel minimo ma
necessario legame con la sua forma originaria.

Nel XX secolo la variazione arriva a conoscere tipologie ancora più complesse, come nel caso
dell’anamorfosi (un caso rilevante è costituito da una composizione per pianoforte di Sciarrino che
riprende e distorce gradualmente Jeux d’eau di Ravel). Di difficile definizione, questo tipo di variazione
sembra doversi riportare all’assunzione di un punto di vista o di un principio costruttivo soggettivo e
alla conseguente “distorsione prospettica” di una composizione preesistente, con momenti di identità
quasi completa e momenti di altrettanto completa divergenza, come se l’originale venisse letto
attraverso una sfera di vetro.

3. I princìpi della diversità

Al di là della ripetizione e della variazione si danno molti altri princìpi di elaborazione musicale, non
tutti enumerabili e definibili con chiarezza. Un elemento formale di qualsiasi livello ed estensione può
essere continuato anche semplicemente attraverso la giustapposizione di un altro elemento, che può
essere correlato al precedente per analogia o per differenza. Al di là della giustapposizione di elementi
del tutto eterogenei, dove non è possibile rilevare la minima connessione – il che implica comunque
una volontà di eterogeneità e quindi la scelta accurata di una strategia per evitare qualsiasi tipo di
corrispondenza ritmica, melodica o armonica tra due incisi o strutture – anche la diversità può essere
funzionale a un decorso coerente della composizione. Un inciso o una sezione compositiva può
correlarsi alla precedente attraverso la contrapposizione con ciò che l’ha preceduto: in questi casi è
generalmente possibile trovare la legge di questa contrapposizione, che può assumere un carattere
strutturale (contrapposizione dinamica, di profilo ritmico, di emissione sonora, profilo melodico, di
carattere ecc.) in tutta la composizione.

Ancora diverso è il caso in cui due elementi diversi si completano o si corrispondono senza lasciare
spazio alla ripetizione o alla variazione. Due incisi possono formare infatti un insieme articolato,
organizzato in base a princìpi sintattici o retorici o a diverso titolo strutturali. Si possono citare a questo
proposito la forma del periodo (v. elementi di sintassi musicale) formato da due frasi che pur essendo
molto diverse possono integrarsi e corrispondersi come domanda e risposta o come antecedente e
conseguente. In questi casi può essere rivelatrice la struttura armonica delle due frasi (esempio
classico: movimento dalla tonica alla dominante seguìto dal movimento inverso dalla dominante alla
tonica), oppure il profilo melodico (figura ascendente seguita da una figura discendente) o molto altro
ancora. Generalmente questo tipo di costruzione si fonda su un qualche tipo di simmetria.
4. Tecniche dell’elaborazione musicale

Il concetto di elaborazione risulta tanto vago quanto irrinunciabile. Da un punto di vista storico nasce
dalla riflessione teorica sul repertorio classico e romantico, entro cui si rivela centrale l’idea del “lavoro
motivico-tematico”, a indicare un principio generale che fonda tutta quanta una composizione
musicale sulla continua elaborazione di pochi elementi (temi, ma soprattutto motivi ben delineati e
riconoscibili) allo scopo di creare una struttura unitaria e compatta, che esibisce una forte coerenza e
logica interna. In questo senso tutte le procedure compositive passate in rassegna rientrano in questo
concetto più generale e ne sono casi particolari o procedimenti parziali.

Nella sua versione classico-romantica, l’elaborazione motivico-tematica si avvale di tecniche che


hanno ricevuto un nome da parte di teorici che si sono applicati alla loro distinzione e al chiarimento
delle loro particolarità (soprattutto da Schoenberg e dalla sua cerchia).

Se elaborare significa principalmente scomporre un tema o un inciso formale e utilizzare i suoi


elementi motivici costitutivi sottoponendoli alle più varie sollecitazioni, allora è possibile distinguere
ancora alcuni procedimenti più complessi:
ampliamento: un elemento formale viene ampliato e complicato attraverso ripetizioni, variazioni o
inserzioni motiviche;
intensificazione: una sostanziale ripetizione si unisce a fenomeni di crescita da un punto di vista della
dinamica, della strumentazione, della tensione armonica;
progressione: un determinato inciso sintattico viene ripetuto su diversi livelli diastematici o gradi
armonici procedendo per intervalli regolari (ascendenti o discendenti).
condensazione: un elemento formale viene abbreviato o tagliato mediante procedimenti di riduzione;
liquidazione: scomposizione graduale di un inciso tematico e progressiva eliminazione delle sue parti
fino al mantenimento di un minimo residuo motivico. (ACe)

TECNICHE COMPOSITIVE

Per quanto si siano sviluppate in stretta connessione con l’evoluzione delle forme e dei generi musicali
(v. forme e generi) e con le risorse della creatività individuale, le tecniche della composizione vanno
distinte concettualmente tanto dal momento formale (v. tipologie formali) quanto dal momento
inventivo (v. invenzione e scrittura). Per tecniche compositive si intendono dunque le procedure
utilizzate nella composizione per supportare l’invenzione in modo da soddisfare esigenze formali ed
espressive. Per queste ragioni alcune tecniche sono più vicine al momento inventivo, mirando a
ottenere e far proliferare il materiale musicale, mentre altre hanno un carattere più meccanico o
procedurale, e vengono incontro alla necessità di forgiare il materiale nel dettaglio. Le tecniche
compositive sono a loro volta frutto di invenzione individuale, dunque passibili di evoluzione storica;
si tratta tuttavia di mezzi, di strumenti che il compositore utilizza e applica in funzione dell’ideazione
e della produzione musicale, che resta il fine, lo scopo ultimo della composizione. Per esigenze di
esposizione, introduciamo qui la distinzione tra le tecniche pratiche; – che comprendono le procedure
più ‘artigianali’, poiché connesse all’atto concreto della scrittura musicale e da essa documentate – e
le tecniche creative, che appartengono alla sfera più concettuale della composizione, supportandone
la fase inventiva.

TECNICHE PRATICHE DELLA COMPOSIZIONE


1. Il processo compositivo

Lo stretto legame tra composizione e scrittura (v. invenzione e scrittura), caratteristico della
tradizione occidentale, ha portato all’instaurarsi di una prassi compositiva articolata in fasi ben
definite, che nel loro insieme, in senso tecnico, vanno sotto il nome di processo compositivo;. È
importante tuttavia notare che nessuna delle fasi intermedie elencate di seguito è da considerarsi
normativa o quanto meno obbligata. Il compositore può fare a meno di una o più di esse, e in molti
casi non resta altra traccia che la stesura definitiva. Già durante la fase inventiva il ricorso alla scrittura
può rivelarsi essenziale. Le prime prove in forma di appunti, denominati schizzi, possono prevedere
l’allestimento di schemi formali, piani armonici, indicazioni relativi agli strumenti, l’annotazione di
temi, motivi, cellule ritmiche. Questa fase può essere molto lunga e travagliata, e non
necessariamente approda alla composizione compiuta (e a volte neanche alla piena definizione di una
sua parte). Di abbozzi si parla per le fasi in cui i tratti fondamentali di sezioni più o meno brevi
cominciano a prendere forma; quando si riconosce la stesura continua, anche se non dettagliatissima,
di intere sezioni o di interi brani si parla di abbozzi “continuativi”. Il lavoro di stesura si può avvalere,
per lavori orchestrali o teatrali che richiedono molti strumenti e voci, della particella, un termine che
indica una stesura tendenzialmente completa della composizione su un numero limitato di sistemi
(generalmente tre). In presenza di scrittura vocale, con l’intonazione di un testo, il processo
compositivo prevede naturalmente una specifica lavorazione del rapporto tra testo e musica. Per
quanto riguarda le abitudini soggettive, in generale si può distinguere tra coloro che compongono al
pianoforte, perché sentono la necessità di avvalersi di una rappresentazione acustica dell’idea
musicale già in fase inventiva, e coloro che preferiscono affidarsi alla propria immaginazione sonora e
comporre senza l’ausilio di un particolare strumento.

Con la stesura della partitura completa fin nei minimi dettagli si conclude la parte generalmente più
impegnativa della composizione; tuttavia questa conclusione è spesso solo l’inizio di una lunga fase di
revisione, o da molteplici revisioni del testo. Sono possibili correzioni di ogni tipo ed estensione:
aggiunte, tagli, la riscrittura di intere sezioni, l’eliminazione o l’aggiunta di strumenti, voci, spostamenti
di registro; modifiche nella dinamica ecc. Quando un brano assume fisionomie nettamente
distinguibili sul piano cronologico e compositivo si parla più propriamente di versioni o stesure diverse
di una stessa opera. Per opere corali, d’ensemble o orchestrali, si rende poi necessaria la scrittura
separata delle singole parti, che serviranno per l’esecuzione. Soprattutto in questa fase (ma anche in
quelle immediatamente precedenti) il compositore può avvalersi di un copista, che gli può facilitare il
lavoro da molti punti di vista: a questa figura l’autore può delegare la parte più meccanica del lavoro,
e in cambio ottenere una scrittura più chiara e oggettiva, poiché il copista non è direttamente
coinvolto nella composizione e non ha la responsabilità autoriale del compositore. Con il processo di
stampa la composizione entra in una ulteriore fase: la produzione delle bozze prevede la
partecipazione del compositore, che a più riprese interviene correggendo, fino all’approvazione
definitiva della versione destinata alla pubblicazione: ovvero la stampa di molteplici copie e la loro
distribuzione e vendita attraverso i canali consueti. Con le tecnologie digitali tutto questo processo è
diventato assai più rapido ed efficace, e ciò anche per i compositori che continuano tutt’oggi ad usare
carta (pentagrammata) e penna (o lapis) per la stesura delle proprie opere. La natura della scrittura
musicale rende molto più complessa l’intera catena di produzione rispetto alle opere letterarie. Nel
caso della musica teatrale la presenza del libretto implica un’impresa redazionale a parte. Per una
lunghissima fase della storia dell’opera, il libretto è stato concepito come una versificazione e resa
drammatica di situazioni o storie tratte da romanzi, dalla cronaca o dalla vita quotidiana (la pratica
della versificazione è divenuta obsoleta soltanto nel XX secolo, ma non ha vanificato le altre funzioni
svolte dal libretto). L’edizione separata del libretto – una prassi estremamente diffusa nella storia del
teatro musicale – presenta quasi sempre varianti significative rispetto al testo effettivamente
musicato dal compositore: per questo il confronto tra le diverse edizioni del libretto e le diverse
edizioni o copie d’uso della partitura rappresenta un passaggio importante per l’allestimento di
un’edizione critica.

Con l’avvento della musica elettronica, intorno alla metà degli anni cinquanta del secolo scorso,
l’approccio del compositore subisce una trasformazione profonda. Il lavoro in studio lo pone davanti
a strumentazioni elettroniche la cui caratteristica principale è la produzione diretta del suono, cioè
non mediata da strumentisti, cantanti, orchestra ecc. La composizione in questo ambiente prevede
fasi più pratiche, quali l’acquisizione di suoni (concreti o sintetici), la loro registrazione, il lavoro di
taglio e montaggio sui nastri (prima dell’avvento del digitale). Con la musica elettronica la partitura
può non esistere del tutto ed essere sostituita direttamente dal nastro magnetico, la cui riproduzione
meccanica viene a coincidere a tutti gli effetti con l’esecuzione. In certi casi è il compositore stesso a
ingegnarsi per la creazione di “partiture elettroniche”, che dal punto di vista simbolico non hanno
alcun nesso formale con le partiture tradizionali. Si tratta spesso di schemi ragionati, in cui si
chiariscono le operazioni da compiere sulle strumentazioni effettivamente utilizzate per quella
particolare composizione. Le tecnologie di registrazione, produzione e riproduzione del suono hanno
aperto la strada all’inserimento di suoni elettronici – sia sintetici, cioè prodotti artificialmente dalle
strumentazioni elettroniche, sia concreti, cioè registrati dal vivo (rumori e suoni della natura, della
città, della fabbrica, ecc.) – in composizioni vocali e/o strumentali. In questi casi le modalità di
esecuzione tradizionale si integrano con la riproduzione meccanica del nastro magnetico
(recentemente sostituito da tecnologie digitali), che può intervenire episodicamente o divenire parte
integrante dell’intera composizione.

2. Tecniche di strumentazione

Con strumentazione si intende, in senso lato, l’affidamento dell’idea musicale a un determinato


organico strumentale e/o vocale e, in senso stretto, la tecnica specifica preposta alla realizzazione di
tale aspetto della composizione. La strumentazione riguarda pertanto la scelta dei timbri (v. timbro),
soprattutto nei casi in cui la presenza di un’orchestra mette a disposizione un numero consistente di
possibili combinazioni (in questo caso si parla di orchestrazione). La composizione corale risponde a
criteri analoghi, naturalmente applicati a insiemi vocali, che nel loro complesso risultano
timbricamente più uniformi rispetto agli insiemi strumentali di una grande orchestra.

La concezione secondo cui la strumentazione rappresenta il rivestimento “esteriore” di un’idea


musicale considerata nella sua essenza melodica, intervallare e ritmica – dunque separata dal timbro
particolare che assumerà con la sua effettiva realizzazione musicale – è un luogo comune che non
sempre corrisponde alla realtà, e pertanto non può essere considerato un principio universale del
processo compositivo. Esiste, è vero, una prassi diffusa che prevede la definizione dell’assetto
strumentale come fase finale del processo (ed è questa la ragione per cui in sede didattica lo studio
delle tecniche di orchestrazione generalmente concludeva, anche in tempi molto recenti, il periodo di
apprendistato); tuttavia l’articolazione delle voci e degli strumenti e dell’assetto timbrico dell’opera
sono essenziali e del tutto inerenti all’idea musicale stessa. Se si compone per un organico prestabilito,
ci si affida a convenzioni specifiche che tengono conto delle peculiarità tecniche degli strumenti o delle
voci utilizzate, nonché della tradizione storica di un determinato genere; molto spesso però anche la
scelta dell’organico strumentale e/o vocale dipende da esigenze strettamente compositive, dato che
esso determina il campo di possibilità delle combinazioni timbriche.
La strumentazione ha acquisito una posizione sempre più rilevata con l’avanzare di un tipo di
composizione liberato da generi, stili e convenzioni che, fino a ben oltre la metà del XIX secolo,
sopperivano all’adempimento di un compito che appariva meno legato alla creatività individuale e più
all’applicazione rigorosa di una tecnica che era parte della formazione del compositore. Nel corso del
XIX secolo gli organici orchestrali hanno subito un progressivo ampliamento, determinando il
conseguente mutamento delle tecniche nonché delle scelte timbriche, che diventavano via via più
originali e fantasiose (si pensi a Mahler e a Debussy che negli stessi anni creano mondi sonori
radicalmente distinti). A partire dai primi decenni del XX secolo la composizione ha iniziato a
presupporre una scelta creativa ed estremamente libera, non soltanto delle sfumature timbriche e
delle tecniche di orchestrazione ma anche della definizione stessa dell’organico vocale e/o
strumentale, la cui pianificazione è divenuta un fattore essenziale della composizione. Dalla seconda
metà del secolo le tecniche si sono evolute anche in relazione alle nuove fonti di produzione sonora:
la musica elettronica richiede un approccio compositivo totalmente diverso, dal momento che il
suono viene creato attraverso una manipolazione diretta, che non permette di parlare di una fase di
strumentazione; recentemente sono tuttavia entrate a far parte della orchestrazione vera e propria
anche alcune tecniche di registrazione, riproduzione e manipolazione del suono, soprattutto dopo
l’avvento del live electronics, che offre la possibilità di registrare e restituire in tempo reale i suoni
modificandoli mediante amplificazione, ritardi di fase, distorsione sonora, o con l’aggiunta di
riverbero. Si tratta a tutti gli effetti di un nuovo “strumento” a disposizione del compositore.

3. Le varie forme della trascrizione

La trascrizione è una procedura caratterizzata dalla presenza di un vincolo nei confronti di un testo
musicale preesistente. Essa può essere semplicemente funzionale oppure avere finalità artistiche e
creative. Le trascrizioni “d’uso” possono essere ricondotte a due tipologie: l’adattamento, che
consiste nel riscrivere un brano adeguandolo a un organico strumentale diverso (al solito ridotto),
dunque intervenendo sull’orchestrazione; la riduzione, che consiste nel trascrivere un brano musicale
per uno strumento che, pur conservando i principali contenuti melodici e armonici della composizione
originale, offre una gamma ristretta di possibilità timbriche e dinamiche. Tra le varie tipologie di
riduzione, quella pianistica (spesso effettuata da un apprendista e non dall’autore stesso) è la più
diffusa, poiché la scrittura per pianoforte consente di condensare un buon numero di parti orchestrali;
le riduzioni pianistiche della parte orchestrale sono utilizzate in ambito operistico per la preparazione
dei cantanti. Meno diffuse ma meritevoli di attenzione sono le riduzioni d’autore, quale la versione
per due pianoforti della Sagra della primavera di Stravinsky.

Tra le tipologie di trascrizione “artistica” si contano innanzitutto le diverse forme d’intervento creativo
che solitamente vengono raggruppate sotto l’etichetta arrangiamento, oppure (per evitare le
connotazioni della popular music che l’inglese “arrangement” non evoca) semplicemente trascrizione.
I casi più noti in questo ambito riguardano la musica di J. S. Bach, egli stesso geniale trascrittore delle
opere proprie e altrui (i concerti per due e più violini di Vivaldi trascritti per clavicembalo e lo Stabat
Mater di Pergolesi trasformato in una cantata per la liturgia protestante sono due esempi fra i tanti).
Essa è stata oggetto di un’infinità di elaborazioni da parte dei compositori, da Mozart a Brahms a
Busoni (le cui trascrizioni pianistiche delle opere per organo e della Chaconne per violino solo di Bach
sono dei veri capolavori) ai grandi del jazz del Novecento.

L’orchestrazione di un brano solistico (spesso pianistico, più raramente cameristico) è una procedura
che richiede notevoli doti compositive; il repertorio sinfonico del tardo XIX secolo e dei primi decenni
del XX secolo comprende alcuni capolavori di trascrizione orchestrale, che hanno per oggetto
composizioni originali dello stesso autore oppure di opere altrui (esemplari sono le orchestrazioni di
Ravel della propria La valse e dei Quadri di un’esposizione di Mussorgsky). Più vicino ai nostri giorni si
danno dei casi di trascrizione analitica tesa a sprigionare dalla lettura dell’originale e nello stesso
tempo a commentarne aspetti latenti (la serie dei Chemins di Luciano Berio basati sulle proprie
Sequenze per strumento solo, o il suo Rendering – un “restauro” degli schizzi di Schubert per la sua
ultima incompiuta sinfonia D936A). Il completamento di una composizione incompiuta del passato
rientra tra le possibili estensioni del processo della trascrizione; in questo caso ci si muove sempre al
confine tra la continuazione di un lavoro di composizione impostato e iniziato da altri (come accade
particolarmente per i completamenti finalizzati all’esecuzione) e la vera e propria riscrittura o
ricomposizione di un brano (è quanto avviene in Monumentum pro Gesualdo di Venosa di Stravinsky).
Tra le intenzioni di un progetto di riscrittura vi può essere quella di ricontestualizzare un testo in
un’epoca estranea a quella che aveva dato vita alla composizione originale.

TECNICHE CREATIVE DELLA COMPOSIZIONE

Non è naturalmente possibile dare conto di tutte le procedure tecniche della composizione musicale.
Per quanto riguarda le tecniche tradizionali della storia musica occidentale si rimanda alle altri voci
del portale: sono infatti tecniche a tutti gli effetti il contrappunto, l’armonia, le procedure di
armonizzazione di una linea melodica, i mezzi di elaborazione di un tema e in generale di sviluppo e
derivazione melodica (v. processi compositivi) fondata sulle strutture individuate dalla sintassi
musicale. Prenderemo qui in esame alcune tecniche non tradizionali che hanno assunto particolare
rilevanza storico-compositiva nel corso del XX secolo.

1. Tecnica dodecafonica e pensiero seriale

La tecnica dodecafonica ha guidato per molti decenni la composizione innovativa. Introdotta da Arnold
Schoenberg a partire dagli anni venti del XX secolo e definita propriamente come “metodo per
comporre con dodici suoni che stanno in relazione soltanto l’uno con l’altro”, essa muove da una
tecnica di organizzazione del materiale che talora viene definito pre-compositivo. Schoenberg parte
dalla constatazione che da Wagner in poi il sistema tonale si è saturato, nel senso che la gerarchia tra
le altezze della scala ha gradualmente lasciato il posto al totale cromatico; in altre parole attraverso il
ricorso massiccio alla modulazione e allo sfruttamento dell’ambiguità modale maggiore/minore, le
note effettivamente utilizzabili all’interno di un brano tonale si sono progressivamente ampliate, fino
a comprendere, nelle composizioni del tardo romanticismo, i dodici semitoni della scala cromatica.
Spazzando via qualsiasi residuo di gerarchia tonale tra di essi, Schoenberg inventa un metodo fondato
su una serie fondamentale (una successione di base di dodici altezze) e sulle sue derivazioni
contrappuntistiche (v. contrappunto), per cui la serie (come anticamente il soggetto di una fuga) può
presentarsi in forma diretta, inversa, retrograda o inversa-retrograda. Nello stesso tempo la serie può
essere trasposta, nelle sue quattro forme, su ognuna delle dodici altezze della scala cromatica. In ogni
caso il compositore dovrà ogni volta esaurire la serie impiegando tutte le note a disposizione prima di
utilizzare nuovamente una determinata altezza. Per questa via si giunge all’annullamento di qualsiasi
gerarchia tra le note, o se vogliamo a una completa “democratizzazione” e parificazione della rilevanza
delle singole altezze. Attingendo a questo materiale preparatorio – fatto sostanzialmente di altezze
organizzate in una successione di intervalli – e operando in completa indipendenza dal sistema tonale,
il compositore si garantiva la capacità di creare opere inedite, non riducibili alle vecchie categorie del
linguaggio tonale.
Con Schoenberg non si raggiunge ancora una emancipazione dai retaggi della sintassi musicale
tradizionale, dall’idea di melodia, di polifonia e dalla gerarchia tra linee e temi principali e secondari.
Webern si porterà oltre queste convenzioni, sviluppando il pensiero seriale in direzioni che più tardi
faranno scuola. Negli anni cinquanta del XX secolo diventa predominante l’idea della serializzazione
integrale, dove il principio seriale operante nell’ambito delle altezze e degli intervalli si estende
gradualmente alle durate, all’intensità (o dinamica) e alla scelta dei timbri (dunque alla
strumentazione), in modo che il materiale precompositivo risulti preordinato in relazione a un numero
sempre più ampio di parametri musicali. A questo punto la composizione può prodursi in gran parte
secondo modelli matematici (come avviene in alcune composizioni di Stockhausen, Boulez). In seguito,
a partire dagli anni sessanta, si assiste a una “liberalizzazione” del serialismo, per cui pur partendo da
materiali preparatori preordinati, è il compositore a decidere soggettivamente se e in quale misura
utilizzarli, anche cambiando radicalmente atteggiamento nel corso della composizione. Al pensiero
seriale vanno riportate in gran parte anche le composizioni fondate su aggregati di suoni, non
necessariamente in numero di dodici e non necessariamente senza ripetizioni di una o più note; si può
anche trattare di serie molto ampie, pensate come aggregati di altezze assolute.

2. Alea e casualità

Sezioni compositive più o meno ampie possono essere demandate intenzionalmente dal compositore
al caso. Si parla in questo caso di tecniche aleatorie. Queste possono intervenire già in fase di
composizione, ovvero all’interno del processo compositivo. In questi casi il compositore stabilisce
consapevolmente le regole di un gioco a cui si affida con l’intenzione di sottrarre la composizione –
tutta o in parte – al proprio controllo razionale; in questo modo egli prevede una procedura che si
avvale di espedienti come il lancio dei dadi, il sorteggio, casuali conformazioni dei supporti usati per
la composizione (es. le imperfezioni della carta su cui si compone). Ciò implica comunque la scelta
consapevole di un meccanismo che una volta innescato procede per conto suo. Molte composizioni di
John Cage si avvalgono di queste procedure. Alcune tecniche aleatorie lasciano invece all’interprete
la scelta della successione delle parti di una composizione (composte separatamente e disposte
variamente sul foglio), con la possibilità di ripetizioni e omissioni. In altri casi il compositore demanda
all’esecutore la determinazione di alcuni parametri musicali, ricorrendo a una grafia parzialmente
indeterminata (v. invenzione e scrittura) se non addirittura semplicemente a rappresentazioni
evocative, che affidano completamente all’interprete la determinazione del significato dei segni grafici
ricorrenti e delle loro caratteristiche (posizione, grandezza, forma). Nella tradizione colta occidentale
questo tipo di indeterminazione compositiva viene utilizzata a partire dalla seconda metà del XX
secolo.

3. Improvvisazione

L’improvvisazione è una prassi esecutiva estremamente diffusa, tanto in Occidente quanto in molte
delle tradizioni musicali extra-europee. In generale questa procedura svolge un ruolo di primo piano
nelle tradizioni di tipo orale (v. oralità e scrittura). Per questa ragione le pratiche improvvisative
vengono talora distinte dalla “composizione” intesa come fissazione di una struttura musicale
attraverso la scrittura. In realtà in molti casi queste pratiche devono essere considerate a tutti gli
effetti come forme di composizione estemporanea. L’improvvisazione raramente è del tutto libera e
quasi mai casuale. Molto spesso la pratica improvvisativa è sottomessa a regole piuttosto rigide,
talvolta perfino più rigide di quelle che regolano la composizione; ciò risulta necessario in funzione del
controllo del momento estemporaneo, che raramente ha come scopo finale la completa libertà da
vincoli. L’improvvisazione in quanto prassi si inserisce solitamente all’interno di uno stile, di un genere
musicale o di una struttura di base condivisa a livello sociale: essa può estendersi all’intera
composizione oppure essere relegata a determinati momenti di un brano. Quando è un compositore
in senso stretto a prevedere una fase o una procedura di improvvisazione, ciò significa che egli affida
deliberatamente all’inventiva e all’iniziativa estemporanea dell’interprete la responsabilità di quella
determinata sezione della composizione. In casi particolari, come nel jazz, l’improvvisazione investe
l’esecuzione nel suo complesso: la maestria dell’interprete viene allora in primo piano, lasciando in
ombra la precisa struttura e i contenuti puntuali del brano originale che si trova alla base
dell’improvvisazione, e che quindi deve risultare riconoscibile. In tutti i casi di improvvisazione,
l’evento, la performance, ha la preminenza sulla strutturazione, diventa un unicum, l’esito del gesto
ispirato del momento. Tale gesto è tendenzialmente irripetibile, ma può essere fissato attraverso le
tecniche di registrazione, che ci permettono peraltro uno studio puntuale delle tecniche di
improvvisazione. (ACe)

- FORME E GENERI

PRINCIPI FORMALI
Le locuzioni ‘brano di musica’, ‘pezzo musicale’, universalmente diffuse, sono convenzioni denotative
che stabiliscono un rapporto analogico tra ciò che si intende in senso generale appunto come brano
musicale (un’unità musicale identificabile, avente senso musicale compiuto) e il concetto di oggetto
dotato di estensione (inteso nel senso generalissimo di ‘cosa’). Ha fondamento dunque il chiedersi
quale forma venga ad assumere un determinato ‘brano di musica’ e, prima ancora, quali principi
regolino, nella dimensione spaziotemporale, la disposizione degli elementi che lo costituiscono. Si
prenderanno in esame, in questa sottosezione, i principi-base dell’aggregazione formale, considerati
sia sulla scorta della loro giustificazione ‘ontologica’, sia in raporto alla loro concreta realizzazione nella
pagina di musica. Si rimanda invece alla sezione Tipologie formali per una disamina delle
caratteristiche e degli impieghi di forme di organizzazione del discorso musicale in cui si sono
riconosciuti determinati periodi della civiltà musicale europea (ad esempio, l’aria con da capo, la
forma-sonata ecc.) e che – cristallizzate in schemi ricavati a posteriori - hanno fornito a lungo materia
di confronto dialettico per la composizione. Si rinvia peraltro ad un’apposita scheda sulle prospettive
storico-estetiche del concetto di forma per una trattazione più approfondita di questo specifico
aspetto.

FORMA BINARIA

SE DUNQUE CONCEPIAMO L’IDENTITÀ D UN BRANO DI MUSICA COME QUELLA DI UN oggetto, essa viene a fondarsi
sul principio di non contraddizione: «il brano A non è uguale al brano non-A». Un approccio
elementare alla identificazione dei principi formali in musica assume in effetti la logica binaria, che è
alla base del principio di non contraddizione, per simularvi i processi generativi dei primi elementi
strutturali, ovvero delle due possibilità di estrinsecazione della forma binaria: AA e AB. Così, in base al
principio di identità si configura la forma binaria ottenuta per iterazione: una qualsiasi unità musicale
identificabile, detta A, può essere iterata, dando origine alla forma AA, o – qualora più o meno
modificata - AA’. (In questo contesto si privilegia evidentemente il dato della riconoscibilità, ovvero
della identità, su quello della modificazione, ovvero della variazione e del mutamento. Se si prescinde
dalla riproduzione con mezzi tecnologici, peraltro, anche una ripresa ‘letterale’ di A non dà mai luogo,
nella prassi esecutiva, a due unità assolutamente identiche). Sul principio di contraddizione, invece, si
fonda la forma binaria ottenuta per opposizione: a una qualsiasi unità musicale identificabile, detta A,
segue un’unità musicale identificabile diversa da A, detta B. E’ in tal modo strutturata la forma AB.

Dall’estensione del primo principio derivano la struttura strofica (AAA ecc.), ma anche la struttura
strofica variata o la variazione su tema (AA1A2A3 ecc.). Il secondo origina la struttura binaria
propriamente detta, in cui le due sezioni A e B, distinte in base alla differente connotazione armonica
e tematica, sono in un rapporto tale per cui la prima di esse - concludendosi in modo non definitivo e,
nel contesto tonale complessivo, imperfetto - presuppone la seconda quale integrazione necessaria e
compiuta: l’intero insieme può pertanto essere configurato in un diagramma circolare. Sul piano
esecutivo, è spesso prevista la ripetizione di ciascuna delle due sezioni (v. tema con variazioni).

Nella categoria delle forme binarie è compresa anche la struttura AAB, ove la prima sezione è
costituita dalla ripetizione di A (ad es. la barform). La struttura definita dalla musicologia anglosassone
“simple binary form” (diffusa sino al medio Settecento) possiede caratteri di linearità, continuità,
omogeneità di stile. In essa le sezioni A e B paiono essere sostanzialmente irrelate, eccettuate vaghe
analogie tematiche; la sostanziale equivalenza delle loro estensioni contribuisce a conferire coerenza
ed equilibrio all’insieme. In prospettiva storica, A e B tendono a stabilire gradi di relazione reciproca
progressivamente più intensi. Fenomeni di rima tra le parti iniziali o finali delle sezioni stabiliscono
infatti simmetrie formali. Conseguite sul piano dell’elaborazione contrappuntistica o su quello delle
citazioni motivico-cadenzali, tali corrispondenze si palesano, nel corso del tempo, in rapporti tonali e
tematici definiti e ben organizzati. La relazione tra A e B si esplicita spesso nel modo seguente (per cui
si veda anche lo schema proposto in calce): B inizia esponendo alla dominante la frase d’apertura di A
(talora elaborata contrappuntisticamente) e, dopo episodiche digressioni modulanti, si conclude, sulla
tonica. (Se invece A si conclude nella tonalità relativa minore, B riprende al principio la tonalità
d’impianto per proseguire il proprio, più o meno lineare, itinerario tonale). Su un analogo sistema di
rime è costruita la cosiddetta “balances binary form” che prevede, alla fine di B e dunque in tonica, la
riesposizione del materiale tematico con cui, alla dominante, si era chiuso A. (Esempio preclaro sono
le sono le sonate cembalistiche di Domenico Scarlatti, ma la si rintraccia ancora, ad esempio, nel
Minuetto della Serenata KV 525 , Eine kleine Nachtmusik, di Mozart). Il principio della rispondenza
tematico-tonale è alla base anche dell’ultima delle strutture binarie, definita “rounded binary form”
e talvolta ritenuta erroneamente una forma ternaria: una o entrambe le unità tematiche di A vengono
ripresentate nella parte finale di B, inducendo così nell’ascoltatore l’impressione di percepire una
struttura tripartita (si veda ad esempio il tema della Sonata in Re magg. K 284 di Mozart). La “rounded
binary form” è da ritenersi una sorta di anticipazione della forma-sonata. Comune a tutte le strutture
binarie delle quali si è trattato è infine, sul piano storico, la tendenza all’estensione progressiva della
seconda sezione, nella misura in cui nella stessa trovano realizzazione le esigenze di elaborazione e
sperimentazione dei materiali musicali.
Nello schema: “Balanced binary form” o forma binaria con rime cadenzali: riesposizione del materiale
tematico di A2 in B2; “Rounded binary form”: riesposizione del materiale tematico di A1 o di A1 + A2
in B2 (prefigurazione della forma-sonata)

FORMA TERNARIA

Dalla combinazione delle due forme binarie elementari AA e AB deriva la forma ternaria ABA, nella
quale l’unità B risulta essere interposta tra le due unità A. (Se significativamente modificata, la
ripetizione della sezione A viene indicata più correttamente come A1). Basata sulla combinazione dei
principi di contraddizione e di identità, la forma ternaria rappresenta il percorso simbolico che ha
come meta il ritorno all’identico attraverso l’esplorazione dell’alterità; essa, la più rilevante tra le
forme musicali, riesce a soddisfare al contempo le opposte esigenze estetiche di varietà (per la sezione
centrale contrastante) e di unità (per la cornice costituita dalle due sezioni estreme). Per ciò che
attiene all’aspetto tonale, la prima sezione A si chiude generalmente sulla tonica (v. scala), e in tal
modo risulta essere nettamente separata dalla sezione successiva B. In ciò la forma ternaria si
distingue dalla binaria detta “rounded”, di cui si è parlato poco sopra, nella quale A, concludendosi in
una tonalità relativa, in certo modo presuppone la presenza riequilibratrice di B.

Coerentemente, per ovvia necessità funzionale, la sezione centrale B presenta elementi di forte
discontinuità rispetto ad A, alla quale è strutturalmente opposta (ciò anche nei casi in cui siano
verificabili in B rimandi al materiale presentato in A); allo stesso tempo, B deve possedere una
fisionomia tonale adeguata alla ripresa di A (nel caso in cui B sia in una tonalità lontana da quella di A,
si rende necessario un segmento di transizione tonale, cioè una modulazione (v. tonalità). Basti
pensare, per addurre alcuni esempi, alla strutturazione di taluni movimenti di danza nelle suites di
epoca barocca (data una coppia di movimenti di danza, il primo viene ripetuto letteralmente dopo che
il secondo è terminato) o ancora – evidente retaggio di questa disposizione - alla successione
Minuetto-Trio-Minuetto usata dai compositori di epoca classica come movimento interno nella
‘macrostruttura’ della sonata (ad es., il Minuetto della Sonata in La magg. KV 331 di Mozart).
Ovviamente, il processo creativo spesso sottopone, in vari modi e in diversa misura, la forma ternaria
a modificazioni, che possono riguardare diversi parametri (tematico, tonale, ecc.) e in certi casi
alterare la stessa struttura formale complessiva: talora, il materiale musicale esposto in B può essere
ripreso in fine, a mo’ di coda, dando luogo ad una struttura del tipo ABAB; talaltra, la mutazione
ottenuta per iterazione di B e di A dà origine ad una configurazione ABABA, che pur essendo composta
da cinque sezioni, rimanda inequivocabilmente al proprio nucleo ternario. Un’ulteriore estensione del
principio ternario dà luogo infine alla forma del rondò, rappresentabile con lo schema ABACAD… (ove
A, presente almeno tre volte, è elemento di riproposizione costante, mentre la combinazione delle
‘digressioni’, almeno due, può mutare).

FORME LIBERE

La logica binaria e il principio di non contraddizione sono alla base, come si è visto, dei processi
generativi delle forme binarie e ternarie (e del rondò). Essi sono parimenti a fondamento delle
distinzioni formali per le quali l’unità del brano musicale è progressivamente suddivisibile sino alle
sezioni minime, configurandosi nel suo insieme come una struttura ordinata gerarchicamente e
pertanto rappresentabile mediante schemi piramidali (a ombrello o ad albero). Sui medesimi principi
formali, ma operanti a livelli diversi e relativamente a vari parametri, si incentrano quindi anche tipi
di organizzazione formali non riconducibili a schemi precisati: sono le cosiddette forme libere.

La definizione ‘forma libera’, schematica e intrinsecamente antinomica, comprende dunque categorie


formali ad alto grado di indeterminatezza, la cui instabile identità si fonda sulla persistenza, diacronica
e sincronica, di un numero minimo di qualità peculiari, non ultima la mera denominazione. Tra queste
possono annoverarsi il ricercare, la toccata, la fantasia, la rapsodia, ma anche il preludio, l’improvviso,
l’intermezzo, la ballata ed altri ancora.

ALTRI PRINCIPI FORMALI

Accanto ai principi di organizzazione formale esaminati nei paragrafi precedenti, la storia della
composizione musicale annovera altre possibilità, talvolta caratteristiche di determinate civiltà
musicali, talaltra vagliate da singoli compositori. Vediamone qualcuna più da vicino.

E’ detta FORMA CICLICA quella nella quale il materiale tematico presentato nella sezione iniziale di
una composizione, o di un movimento, viene ripreso nella sezione conclusiva; in senso lato, la
definizione si applica anche alle costruzioni formali nelle quali la riproposizione del materiale tematico
non avviene solo tra le sezioni estreme. Non sono molti, in effetti, gli esempi della forma ciclica intesa
nella sua accezione più stretta: si annoverano tra questi la Sinfonia n. 31 in Re magg. di Haydn, la
Serenata in Re magg. op. 8 di Beethoven, la Sinfonia n. 3 in Fa magg. op. 90 di Brahms e la Sinfonia n.
2 in Mi bem. magg. op. 63 di Elgar. Tutt’altro che rara è invece la forma, del pari definita ciclica, nella
quale uno stesso materiale tematico – non mere analogie – ricorre più volte, anche rielaborato,
creando rimandi tra sezioni o movimenti diversi di una stessa opera: forma molto frequentata nella
produzione strumentale del primo Seicento, utilizzata nel repertorio vocale sacro settecentesco,
conosce grande fortuna nella musica dell’Ottocento, come mezzo col quale ottenere la coesione
strutturale in opere di notevole estensione ed articolate in varie sezioni.
È detta FORMA AD ARCO la strutturazione simmetrica di una composizione secondo la quale alcune
o tutte le sezioni costitutive sono disposte simmetricamente intorno ad un centro, che può essere
rappresentato anche da una delle sezioni, secondo il seguente schema palindromo:

...D, C, B | A | B, C, D...

Le sezioni ripetute possono naturalmente non essere identiche, ma conservare un grado sufficiente
d’identità. Di tale forma, nella quale l’attrazione centripeta induce la memoria dell’ascoltatore ad un
insolito esercizio tra progressione, retrogradazione e variazione, esistono esempi notevoli nella
produzione di Béla Bartók: i quartetti Quarto (1928) e Quinto (1934), il Concerto per pianoforte n. 2
(1930-31) ed il Concerto per violino n. 2 (1937-38). Costruiti su una struttura ad arco sono anche il
celebre Adagio per archi op. 11 (1936) di Samuel Barber e molte composizioni di Luigi Dallapiccola (ad
es. Cinque canti, Ulisse, Commiato).

Diverso è il caso delle forme costruite in base a rapporti numerici complessi come, ad esempio, la
sezione aurea: ampiamente coltivate nell’ambito della civiltà musicale franco-fiamminga, sono state
fruttuosamente riconsiderate, nel Novecento, in particolare ad opera di compositori quali Béla Bartók
e Iannis Xenaxis. (GMa)

TIPOLOGIE FORMALI

“Non si canta semplicemente, ma si canta qualcosa”, ha scritto l’etnomusicologo Bruno Nett (The
Study of Ethnomusicology. Twenty-nine Issues and Concepts, Universiy of Illinois Press, Urbana-
Chicago, 1983, p. 40): il concetto di forma è in effetti vincolato a quello di musica, la quale non sarebbe
altrimenti in grado di distendersi nel tempo come pensiero organizzato, ossia ‘di prender forma’.

Come è stato argomentato in modo più approfondito nella sezione riguardante i Principi formali, la
costruzione musicale si basa su tre principi fondamentali: identità, non-identità/contrasto,
combinazione di identità e non-identità. Vale a dire: chiamata A una determinata unità musicale, si
avranno allora la forma binaria AA (in base al principio dell’identità) e la forma binaria AB (in base al
principio dell’opposizione). Inoltre, dalla combinazione di identità e non-identità deriveranno la forma
tripartita (ABA) e il rondò (ABACADA etc.). Più problematico per la classificazione è il rapporto
identità/non identità schematizzabile come AA’, che è alla base del principio della variazione e che
rappresenta altresì il senso dell’elaborazione motivica come principio compositivo. A e A’ sono infatti
riconducibili ad una medesima identita nella misura in cui in A’ si riconoscono i tratti connotativi di A.
Tuttavia proprio il legame ‘generativo’ tra A e A’ costituisce un importante fattore di moto attraverso
il quale la forma musicale tende ad assumere un carattere dinamico e si manifesta come ‘in
progressivo allontanamento’ da una idea di base.

All’interno di queste macrostrutture fondamentali possiamo beninteso individuare altre suddivisioni,


via via sempre più piccole: sono, secondo l’analisi fraseologica, ciò che indichiamo con i nomi di frase,
periodo, inciso, sino, al limite, alla singola nota. La segmentazione che ne deriva restituisce all’analisi
il senso compiuto del ‘discorso musicale’, articolato in lemmi e sintagmi dotati ognuno di loro forma
e funzione, al pari del discorso verbale, fatta salva l’evidente loro distinzione in termini di ‘contenuti’
(il contenuto del discorso musicale, difficilmente verbalizzabile, sovente non può che essere
identificato nella forma stessa del discorso, e solo in certi casi rinvia a contenuti evidentemente
extramusicali, v. musica e linguaggio).

E’ tuttavia possibile distinguere tra la forma intesa come organizzazione nel tempo del discorso
musicale, intrinseca a ciascun atto compositivo, e forme storicamente identificate come tali. Se da una
parte, infatti, ciascun atto creativo può produrre forme nuove - fino alla sostanziale negazione del
concetto stesso di forma, ad esempio mediante l’improvvisazione o il ricorso all’alea (v. glossario)-, è
vero altresì che i principi di organizzazione formale, assoluti trascendenti universali metastorici, si
sono di fatto incarnati nella pratica compositiva ordinaria in tipologie formali vive, dotate di esistenza
propria, e capaci di offrire alla composizione un materiale di confronto dialettico.

Limitandoci all’epoca moderna, possiamo infatti considerare l’aria con da capo, la fuga, il tema con
variazioni, il rondò, la forma-sonata, etc. forme in possesso di un loro atto di nascita, più o meno
determinato, e che tuttavia si sono diffuse ben oltre la cornice storica di origine, filiando in
innumerevoli prodotti successivi, appartenenti al medesimo o ad altro ‘macrogenere’, o
accomunandosi ad altre situazioni compositive in questo o quel particolare. La forma tripartita (ABA
e simili), intesa nella sua generalità, si individua in ambito drammatico-musicale nell’aria con da capo,
tipologia consolidatasi sullo scorcio del secolo XVIII, ma è divenuta anche il ‘pattern’ di numerose altre
tipologie compositive che, parallelamente o successivamente, si sono diffuse sia nel genere
strumentale o vocale (minuetto settecentesco, scherzo e forma lied romantica, applicata a un gran
numero di generi diversi, vocali – il lied medesimo – o strumentali – molte delle ‘forme brevi’ della
musica romantica da salotto: notturno, improvviso, scherzo, intermezzo etc.). La fuga, caratterizzata
dalla presenza di determinate articolazioni del discorso musicale (esposizione, divertimenti, stretti),
può presentarsi come forma a sé (tutt’al più preceduta da un brano introduttivo di diverso carattere:
preludio, toccata o fantasia) ma anche divenire parte di una composizione più ampia e articolata (ad
esempio come ultimo movimento di sonata), oppure ridursi a ‘principio compositivo’ – il fugato – da
cui si genera una sezione di un brano, o anche un brano intero in ogni caso non riconducibile alla
tipologia della fuga tout court. Il Tema con variazioni – che deriva direttamente da uno specifico
processo compositivo, ovvero dall’elaborazione secondo svariate motodologie di uno schema
armonico o di un motivo dato - origina nel tardo rinascimento sotto forma di serie di variazioni
ornamentali su schema di basso costante, ma, pur con mutata sostanza, si insinua in tutte le forme
strumentali classiche in quanto fondate sul principio dell’elaborazione motivica: e questo sia qualora
esso si riconduca al principio compositivo di base (ad esempio nelle sezioni indicate come sviluppo),
sia quando lo si consideri come forma definita (presente talora nei primi o negli ultimi movimenti delle
forme strumentali classiche, come pure nei movimenti lenti centrali). Il rondò (ABACA) - che affonda
le proprie radici nel medioevo come forma di poesia per musica, caratterizzata dal ripresentarsi di un
ritornello (refrain) inframmezzato da episodi contrastanti - diviene fra l’età del barocco e il classicismo
uno degli schemi più applicati nei movimenti conclusivi di svariati generi strumentali e in tipologie
d’aria d’opera alternative al modello con da capo, sfociando anche in mutevoli soluzioni operistiche
primottocentesche, caratterizzate eminentemente da virtuosismo vocale, prima di tramontare del
tutto. La forma-sonata bipartita d’epoca barocca accomuna le danze delle suites strumentali e le
sonate vere e proprie; quella tripartita d’epoca classica, derivante dagli sviluppi di quella bipartita ma
non del tutto estranea neppure a quelli di certe forme d’aria, si espande ed ingloba pressoché tutti i
generi strumentali classici, oltre alla vera e propria sonata, e condiziona gli orientamenti formali del
secolo successivo e persino, in alcuni casi, di certo Novecento.

Occorre rilevare peraltro come lo sviluppo storico di tali tipologie formali sia stato spesso
compendiato, nella pratica analitica e didattica, in schemi normativo-descrittivi astratti, di fatto
incapaci di restituirne la reale complessità sia sul piano sincronico sia su quello diacronico. Il caso più
caratteristico è quello della forma-sonata, cristallizzatasi a metà Ottocento (sulla base dei trattati di C.
Czerny e A.B. Marx) in schema teorico sintetizzato in laboratorio, certamente mai realmente recepito
in quanto tale dalla prassi compositiva sette-ottocentesca. Si è considerata pertanto la forma-sonata
non come ‘organismo vivente’, dotato di un proprio equilibrio interno, diverso da epoca a epoca, da
autore ad autore, e perfino da opera ad opera (emblematici i casi di Haydn, che ne è considerato il
‘padre’, e di Beethoven), bensì come architettura senza storia. Di qui la necessità di un approccio
analitico ‘dinamico’, che prenda avvio dallo specifico delle diverse opere e ne ricavi casomai i tratti
comuni, e non invece da uno schema compositivo astratto da applicare acriticamente ad ogni
composizione.

Vale infine la pena di considerare l’incidenza, a livello delle diverse tipologie formali, di eventuali
componenti extramusicali, vale a dire il testo poetico o la dimensione latamente ‘visivo-spaziale’ nelle
forme rappresentative. Relativamente al primo caso, si osserva che solo raramente il testo poetico
determina la forma musicale nella sua totalità: è, al limite, il caso della ballata trecentesca, la cui
ripresa poetica va a coincidere con una ripresa musicale, o quello del corale luterano, in cui la
scansione fraseologica del testo verbale coincide con quella della veste musicale. Più spesso le due
componenti – testo e musica – si assestano secondo un equilibrio estremamente dinamico. Talora il
testo prende il sopravvento, mantenendo intatta la sua configurazione metrico-strofica: si tratta di
casi in cui la musica non fa che arricchirne la dimensione fonico-espressiva, come nello stile recitativo,
‘forma aperta’ per eccellenza, dove solo occasionalmente la musica si estende ‘oltre’ la parola. Talora
invece musica e testo mantengono una sorta di equidistanza, riuscendo ad integrarsi senza alterare la
loro propria natura: è il caso, ad esempio, dell’aria con da capo, in cui i due blocchi poetici
corrispondenti alle due strofe A e B mantengono assoluta riconoscibilità, ma in cui il da capo in A’ –
non indotto ‘necessariamente’ dall’assetto poetico - concede alla musica piena libertà di espressione.
Infine non mancano i casi in cui la musica riplasma affatto il testo secondo le proprie modalità di
formalizzazione/espressione: ciò accade fra l’altro nelle forme polifoniche quali il madrigale e il
mottetto – da intendersi in senso ampio, come testo sacro intonato da un coro -, o nel concertato
operistico, in cui il senso e gli affetti del testo vengono fusi in una struttura contrappuntistica che di
fatto ‘si appropria’ della loro dimensione verbale, restituendola adeguatamente (e proficuamente)
alterata dal reticolo polifonico attraverso cui è stata fatta passare.

Riguardo infine alla dimensione visivo-spaziale, si pensi al ruolo della musica nel melologo (in cui agisce
da ‘sottofondo’ al parlato o alla pantomima della recitazione attoriale) o nelle introduzioni delle scene
d’opera, dove sostiene una azione drammatica che va gradualmente profilandosi, prima dell’attacco
del canto o inframezzandosi ad esso (talora sulla base di didascalie che ne denotano il senso e lo
sviluppo complessivo): in tutti questi casi la tipologia formale che ne deriverà dovrà adattarsi ai tempi
e all’azione richiesta. In questa casistica ricade, intuitivamente, la musica per danza e per balletto, la
cui forma è ‘generata’ dall’azione e dai passi ivi richiesti (sia per quanto riguarda il ritmo che l’ampiezza
in termini di numero di battute), e la musica da film, che perlopiù ricava forma e contenuti dall’azione
filmica. (AC e GMo)

MUSICA VOCALE
Questa sottosezione si occupa di forme e generi di musica vocale, sia monodica (che prevede cioè una
sola linea melodica) sia polifonica (che prevede invece la sovrapposizione di due o più linee melodiche
distinte), escludendo gli ambiti di pertinenza della musica scenica e della musica vocale strumentale.
A quest’ultimo proposito è bene produrre qualche precisazione. Il repertorio oggetto delle
osservazioni che seguono è quello tramandatoci da fonti scritte - a partire dalle origini della civiltà
occidentale moderna – che, nel rimandare esplicitamente ad una realizzazione di tipo vocale, non
recano indicazioni di parti strumentali autonome. Occorre tuttavia tenere presente che il documento
notato non rappresenta che una traccia di realtà sonore complesse: riprendendo un felice parallelismo
con le arti figurative, si potrebbe parlare della sinopia rispetto all’affresco compiuto. Fino almeno a
tutto il secolo XVI - come rendono talora evidenti testimonianze fornite da documenti d’archivio,
letterari o iconografici – anche buona parte dei generi vocali di cui si tratterà in questa sede prevedeva,
in sede di prassi esecutiva, l’apporto integrativo o sostitutivo di uno o più strumenti musicali.

D’altra parte, non tutte le occasioni di intonazione di un testo hanno avuto registrazione per iscritto,
o almeno non in tempi ad esse prossimi: soprattutto in ambito profano o devozionale, il fenomeno
della scrittura ha coinvolto eminentemente la polifonia. Fonti tardive, perlopiù
primocinquecentesche, rimandano per esempio all’esistenza di un repertorio di formule melodiche, i
cosiddetti aeri, cui si ricorreva in presenza di determinate strutture metriche: “aeri da cantar ottave”,
“aeri da cantar sonetti”, “aer de capitoli” ecc. Della musica su cui intonava i propri testi il liutista
ferrarese Pietrobono dal Chitarrino, il musico-poeta del Quattrocento più citato dalle fonti coeve, nulla
ci è pervenuto. Comprensibilmente assai arduo è dunque tentare di ricostruire questo tipo di realtà
sonore, affidate per lo più all’improvvisazione.

TEMPO DELLA PAROLA

Dal punto di vista dello stile di canto e dei rapporti che è possibile registrare sotto questo profilo tra
voce cantata e parola, il repertorio della monodia liturgica cristiana presenta un’ampia varietà di
comportamenti ai cui estremi si collocano, da una parte, la semplice recitazione intonata con
prevalente insistenza su un solo suono; dall’altra, l’ampio vocalizzo melismatico. Rientrano nella
prima categoria tutte le formule di declamazione intonata con cui il celebrante e gli altri ministranti
recitano alcune parti della messa e dell’ufficio delle ore (orazioni, Pater noster, letture, epistole,
vangeli). Anche la salmodia (canto dei salmi), pur con un’articolazione e una formularità diverse,
prevede l’intonazione sillabica - e il soffermarsi su una ‘corda di recita’ - dei salmi e dei cantici della
Bibbia da parte del celebrante ed eventualmente della comunità. Sono invece vocalizzi melismatici
quei canti in cui moltissimi suoni si succedono appoggiandosi ad una sola vocale Così avviene ad
esempio nell’acclamazione alleluiatica, utilizzando l’ultima vocale della parola alleluia. Una celebre
descrizione dell’antica usanza dello jubilus è riportata anche da Sant’Agostino (354-430). Qui la musica
si effonde sì a partire da un testo, ma sono le articolate, spesso virtuosistiche volute della voce ad
assumersi il compito di esprimere la gioia della lode a Dio. Il tempo scandito dall’eloquio è dunque
fermo e può crearsi, grazie al canto, uno spazio di meditazione estatica. Tra questi estremi si colloca
la maggior parte dei canti che costituiscono il repertorio destinato all’Ufficio delle ore e alla Messa
(antifone, graduali, tratti, responsori ecc.), che presentano dunque al loro interno soluzioni sillabiche
o semisillabiche (ovvero neumatiche: ogni sillaba si associa rispettivamente ad un suono o a un piccolo
gruppo di suoni, espressi con un solo segno grafico detto neuma), oppure melismatiche.

L’incontro di musica e testo verbale avviene nel segno di un rapporto di dipendenza di quella da
questo: la voce cantata ne amplifica la dimensione fonica (il testo si percepisce più facilmente), rituale
(gli viene conferita maggiore sacralità e autorevolezza), melodica (il latino altomedievale ha ormai
sostituito al sistema delle sillabe brevi e lunghe, proprio dell’epoca classica, un sistema di altezze
corrispondenti all’accentuazione moderna). Inoltre, anche in ragione del fatto che il testo liturgico si
presenta in prosa, non v’è luogo al costituirsi di forme chiuse: l’articolazione di questi canti, in altre
parole, non è segmentabile in strutture periodiche. E’ questa invece una caratteristica dell’innodia
ambrosiana; o, successivamente, di alcuni tropi e soprattutto delle sequenze, forme nuove in cui si
espresse, in ambito liturgico, la spinta creativa e innovativa del dominio carolingio (IX secolo). Solo
grazie alla molteplicità di esperienze poetiche e musicali maturate in ambito sacro e profano dalla
lirica mediolatina sarà possibile spiegare il raffinato fiorire delle civiltà poetico-musicali legate alle
lingue nazionali, di cui ci occuperemo nei successivi paragrafi.

MUSICA E POESIA ALLE ORIGINI DELLE LETTERATURE NAZIONALI

Il binomio musica-poesia ha goduto a lungo di una posizione di privilegio assoluto nella considerazione
dei teorici. Tale privilegio ha più o meno consapevolmente riposato sulla valorizzazione degli elementi
comuni necessari all’estrinsecarsi delle due “arti sorelle” (tempo, ascolto, memoria), sia - in particolare
per quanto concerne proprio le letterature neolatine – dell’originaria condivisione del numerus,
ovvero di una “scansione ritmica nella quale valori quantitativi e accenti si alternano con regolarità e
seguendo determinati principi” (Petrobelli 1986, p. 229). Alle origini della storia della letteratura
europea, la validità di questa simbiosi è confermata dalla prassi seguita dai poeti delle civiltà
trovadorica (dalla fine del secolo IX alla fine del XIII) e trovierica (secoli XI-XIV): il poeta, oltre ad essere
autore del testo, inventava (trovava) anche la melodia sulla quale intonarlo. Basterebbero nomi quali
canso o chanson, utilizzati nelle rispettive lingue per indicare il principale filone di organizzazione
poetico-musicale, a testimoniare questo stretto legame.

Quanto alla letteratura italiana, accreditate teorie la vorrebbero nata invece sotto il segno del
“divorzio” tra poesia e musica (Roncaglia 1978). Senza riaffrontare in questa sede la controversa
questione (nella prospettiva musicologica, a partire da Pirrotta 1980, mancano argomenti per
ipotizzare uno strappo così netto e tale divorzio andrebbe perlomeno posticipato), ci limiteremo a
notare come l’onomastica delle principali forme in cui si espresse la lirica italiana delle origini
(“sonetto”, “canzone”, “ballata”) documenti un rapporto ancora strettissimo con la musica; e come
interi filoni di poesia italiana – pur essendo fruibili anche secondo una modalità di esecuzione recitata
– trovino la loro più completa realizzazione attraverso la veicolazione della musica, monodica (lauda)
o polifonica (caccia, ballata, madrigale antico, frottola), e in taluni casi attraverso il suo concorso
interpretativo ed espressivo (madrigale rinascimentale).

FORME DELLA POESIA, FORME DELLA MUSICA

Pur consapevoli del fatto che non è possibile imbrigliarne la varietà in pochi e rigidi schemi formali,
con questo paragrafo ci proponiamo un brevissimo excursus storico sui principali generi antichi di
musica vocale non liturgica, monodica e polifonica, la cui articolazione formale sia segmentabile in
strutture periodiche (strofi, strofi e ritornello ecc.). Tale articolazione, che si impronta fin dalle origini
ad un principio generale di economia combinato alla necessità di corrispondenza con l’assetto formale
della componente poetica, si basa di solito sulla varia combinazione di due soli episodi musicali. La
CANSO trovadorica prevede ad esempio che ogni strofa (cobla) si serva del primo episodio (A) per le
prime due coppie di versi (pedes) e della seconda (B) per i due o tre versi conclusivi (cauda): ogni cobla
presenta dunque lo schema musicale AAB. Il medesimo principio, passando alle tre forme fisse in cui
venne organizzandosi il genere della CHANSON* in area trovierica, governa la struttura della ballade,
mentre sono più articolati gli schemi del virelai (ABBAA) e del rondeau (AB AA AB AB).

E’ in particolare con l’avvento della polifonia e della musica mensurabilis, ossia con la determinazione
precisa del valore di una nota in rapporto alle altre, che la dimensione temporale della musica può
assumere caratteristiche più incisive, più marcate e relativamente autonome rispetto all’andamento
del testo. Ciò che si riflette anche nella struttura strofica dei generi frequentati dalla trecentesca ars
nova italiana come nel madrigale), la caccia, la ballata) e, oltre un secolo più tardi, dai frottolisti delle
corti padane tardoquattrocerntesche. In tutti questi casi, con parziale eccezione per la caccia, il
rapporto tra testo e musica è di natura squisitamente metrico-ritmica: ai segmenti del testo poetico
(terzine + distico o distici nel madrigale; ripresa + piedi + volta nella ballata) si applicano sempre due
sole sezioni musicali A e B (rispettivamente secondo gli schemi AAB per il madrigale e ABBAA per la
ballata), che a quelle si adattano in quanto ne rispettano il profilo sillabico-accentuativo. Nessuna
particolare collaborazione – se si eccettua la generale atmosfera data dallo stacco ritmico, dall’ambito
modale-scalare ecc. - può scaturire invece con la sfera dei contenuti, giacché un medesimo modulo
musicale deve adattarsi a porzioni di testo diverse. La struttura internamente più libera della strofe
della caccia e, d’altra parte, il suo contenuto vivace e realistico, con corredo di grida e richiami
(descrive infatti scene venatorie, piscatorie, incendi ecc.), consentono un più fruttuoso incontro di
suono e immagine. La concitazione della situazione rappresentata si enfatizza ulteriormente nella
struttura imitativa dell’intonazione musicale: delle tre voci impegnate, le due superiori si “rincorrono”
(di qui il termine “caccia”, o anticamente anche “fuga”), ovvero la seconda intona la medesima
melodia della prima, iniziando però a una determinata distanza di tempo.

Con il titolo collettivo di frottola ci è stato tramandato un ampio repertorio poetico-musicale


polifonico, in voga specificamente negli ambienti delle corti italiane settentrionali (Ferrara, Mantova,
Urbino) e in parte del Veneto nel tardo Quattrocento e nei primi del Cinquecento, caratterizzato da
semplicità e chiarezza strutturale: la stratificazione polifonica vede ovunque la predominanza della
voce superiore e assegna alle altre, che procedono in modo sostanzialmente omoritmico, la funzione
di sostegno armonico. Alla civiltà musicale fiorentina della medesima epoca appartengono i canti
carnacialeschi, canzoni a ballo (ossia ballate di ottonari) a 3 o 4 voci dalla struttura poetico-musicale
analoga a quella appena descritta. Numerosi indizi portano oggi a ritenere che il repertorio
frottolistico, così distante dalle complessità contrappuntistiche proprie della coeva scrittura musicale
delle MESSE* e dei MOTTETTI* dei maestri franco-fiamminghi, ma anche dallo stile imitativo della
CHANSON francese*, si configuri quale possibile esito della prassi dell’intonazione umanistica a voce
sola – pur da quella differenziandosi per la natura di prodotto finito, di vera e propria composizione -
e ne consenta per certi aspetti il parziale recupero.

Peraltro, sono osservabili qui, nell’impiego di generi metrici quali lo strambotto o la canzone a ballo e
nelle relative forme di intonazione musicale, anche tracce di contaminazione con la sfera del popolare.
Anche nel Cinquecento, alla civiltà aulica del madrigale di cui ci apprestiamo a trattare nel prossimo
paragrafo si affianca – ad opera per lo più dei medesimi madrigalisti – una ricca produzione di canzoni
alla villanesca, villotte, villanelle greghesche, giustiniane, mascherate e generi simili, accomunati
dalla struttura strofica, dall’intonazione sillabica del testo, con cesura musicale in fine di verso, dalla
polifonia semplice e destinata ad un numero ristretto di voci, dal frequente ricorso al dialetto o a
“diversi linguaggi” espressionisticamente elaborati in funzione antiaccademica.

UNA LETTURA MUSICALE DELLA POESIA: IL MADRIGALE RINASCIMENTALE

Datano tra il 1520 e il 1540 le prime redazioni manoscritte di un nuovo genere musicale, il MADRIGALE,
che per il resto del secolo XVI e i primissimi decenni del successivo avrebbe egemonizzato la
produzione di musica vocale profana italiana di ambito aulico, conoscendo peraltro una singolare
fortuna anche all’estero. Nel secolo precedente, l’arte polifonica franco-fiamminga aveva messo a
punto, tra le altre, tecniche di descrizione e di potenziamento del senso del testo tramite mezzi
musicali. Queste possibilità venivano adesso a incrociarsi con nuove sollecitazioni provenienti dal
mondo letterario: nelle sue “Prose della volgar lingua” (1525), Pietro Bembo aveva sottolineato
l’importanza imprescindibile dell’effetto sonoro del testo sulla sua significazione complessiva,
individuando in Petrarca il modello per eccellenza di scrittura poetica. Si affermò quindi il madrigale
poetico, derivante probabilmente dall’evoluzione della singola stanza di canzone e dunque diverso
dall’omonimo metro trecentesco perché privo di una struttura predefinita.

Libertà compositiva e gusto del suono trovano piena realizzazione nell’intonazione musicale, tesa ora
a stabilire un rapporto esclusivo con la parola: la componente musicale, non più articolata in strofe
simmetriche, non è più dunque semplice veicolo di trasmissione di un testo verbale ad esso
sostanzialmente indifferente, ma se ne fa interprete. La composizione procede attraverso una lettura
musicale del testo che, tenendo sempre nel conto il ritmo del verso, si preoccupa soprattutto del
significato delle parole. E’ quest’ultimo che la scrittura musicale madrigalistica intende sottolineare e
amplificare con i mezzi di significazione che le sono propri e tramite i quali le è possibile rappresentare
le nette opposizioni di senso (piacere/dolore; vita/morte/; chiaro/scuro ecc.) proprie di quei testi.
Anche all’aspetto iconico della scrittura musicale si affida un compito descrittivo (ad es.: uso di note
bianche in rapporto a situazioni di purezza, candore, chiarore e, per contro, di note nere in riferimento
a oscurità, notte ecc.). Pur priva di un esito fonico pertinente, questa prassi si giustifica
sociologicamente per.la sostanziale coincidenza delle figure dell’interprete e del fruitore: il canto dei
madrigali è pratica cortigiana, laddove il principe è spesso committente e dunque egli stesso artefice
dell’incontro di poesia e musica. Più raramente – come nel caso del “concerto delle dame” presso la
corte di Ferrara - l’intonazione dei madrigali è oggetto di esecuzione per un pubblico di ascoltatori.

PER SOLE VOCI

A partire dalla fine del Cinquecento, con l’avvento del basso continuo (v. tonalità) e l’affinamento
della sensibilità armonica , la musica colta europea continuò a coltivare il canto per sole voci (senza
cioè parti scritte appositamente per organico strumentale), soprattutto nell’ambito delle formazioni
corali. Modello autorevole di conservazione della tradizione del canto polifonico cattolico fu la
Cappella Sistina, fondata da Sisto IV nel 1473 e per la quale, anche in epoca di scrittura concertante,
si continuarono a comporre Messe e Mottetti secondo il cosiddetto stile romano o alla Palestrina:
quattro parti vocali (SATB, cioè soprano, alto (contralto), tenore, basso, v. voce) tessitura
contrappuntistica (v. CONTRAPPUNTO*), struttura armonica consonante. (Ciò che non escludeva,
come si è gia avuto modo di osservare in altri casi, la possibilità di impiego di strumenti in funzione di
raddoppio).

In ambito luterano, i corali (ma nella lingua d’origine il termine corretto è kirchenlieder, ovvero ‘canti
di chiesa’) presuppongono la partecipazione al canto della comunità dei fedeli e si basano su un
repertorio di melodie vocali - in taluni casi composte ex novo, da Lutero o da compositori da questi
incaricati, in altri appartenenti al repertorio folclorico tradizionale – per testi poetici sacri.
Caratterizzate dall’incedere sillabico e da una fraseologia regolare, che evidenzia con cesure la
divisione in versi, tali melodie risultano sottoposte ad un semplice trattamento polifonico, consistente
in una scrittura a quattro voci (di cui esse costituiscono quella superiore) di prevalente andamento
omoritmico. La rilevanza sociale delle società corali nei territori di lingua tedesca, unita all’importanza
attribuita al cantare in coro nell’educazione musicale, fanno sì che la tradizione del canto a sole voci
si perpetui anche in ambito profano, sia pure in misura decisamente minoritaria rispetto a soluzioni
miste di voci e strumenti, testimoniata nell’Ottocento dalla frequentazione di Lieder, canoni,
rielaborazioni di Volkslieder, madrigali, ballate corali e altro.

Il Novecento conosce un nuovo generale interesse nei confronti della compagine polifonica
esclusivamente vocale. In ambito polifonico si è indicato con i termini di ‘neomadrigalismo’ e di
‘neomottettismo’, pur di discutibile pertinenza semantica, il rinnovato ricorso ad una scrittura
polifonica esclusivamente vocale con impiego di tecniche contrappuntistiche, più espressionistica e
vicina ai modi del madrigale dialogico tardocinquecentesco nel primo caso, più composta e severa nel
secondo. (MDS)

MUSICA STRUMENTALE
MEDIOEVO: QUALE MUSICA STRUMENTALE?

La musica strumentale fino all’età moderna (1400-1500) versa in una condizione apparentemente
contraddittoria: attestata da innumerevoli documenti iconografici sin dall’antichità, ci sfugge quasi del
tutto per ciò che riguarda i contenuti strettamente musicali, che nessuna fonte o quasi contribuisce a
documentare in modo specifico. Al contrario di quanto avviene nella musica vocale, trasmessa in gran
copia da fonti manoscritte o a stampa, tramite le quali premeva garantire la sopravvivenza e la
diffusione, innanzitutto, dei repertori poetici ad essa correlati, la musica strumentale ha vissuto a
lungo a fianco del repertorio vocale senza lasciar traccia scritta della propria presenza: sappiamo che
c’era (ed era anzi un requisito indispensabile sin dal MOTTETTO ISORITMICO* e dalle forme dall’ARS
NOVA*, i cui tenores, erano spesso affidati non a voci ma a strumenti) ma le fonti non ce ne danno
notizia diretta, né conosciamo con certezza le modalità con cui, lungo tutto il Medioevo, gli strumenti
sostenevano e/o sostituivano le parti vocali; la prassi esecutiva della musica strumentale del Medioevo
ci è nota insomma solo in parte, e talora per via intuitiva e non documentale. Il repertorio eseguito,
fino all’età moderna, non era quindi altro che il repertorio vocale condiviso tra voci e strumenti
secondo rapporti mutevoli, in relazione alle diverse occasioni e alla disponibilità di strumentisti e
cantori.

PROGRESSIVA DEFINIZIONE DI UN REPERTORIO

Alcuni brani, privi di proprio testo poetico, erano concepiti appositamente per l’esecuzione
strumentale: a parte il caso dell’estampie (costituita da una serie di sezioni accostate, concluse con
formule differenti), da annettersi forse al genere strumentale ‘puro’, si trattava perlopiù di danze
(trotto, saltarello), e ciò contribuì non poco alla definizione di un repertorio ben connotato ove alla
parola veniva a sostituirsi il movimento del corpo – o la semplice idea astratta di tal movimento -: di
qui la sussistenza nel repertorio strumentale dei secoli a venire di brani ‘in tempo’ o ‘col carattere di
danza’ anche laddove il diretto impiego coreutico era decisamente dismesso. Ma anche in questo caso
occorre sottolineare che ben poco è sopravvissuto in forma scritta, trattandosi perlopiù di repertori
affidati alla tradizione e alle usanze locali, tramandate per secoli da generazioni di strumentisti, figure
non certo di primo piano nella scala sociale antica e medievale, e quindi non nella condizione di fissare
autorevolmente, in forma scritta, il loro patrimonio esecutivo.

Nel Rinascimento gli strumenti musicali divennero oggetto di studi specifici, di carattere
prevalentemente scientifico-organologico, che contribuiscono a informarci sulla gamma sonora
effettivamente disponibile e quindi sull’impiego di tali strumenti nel repertorio della musica vocale-
strumentale coevo. Nel Musica getutscht und ausgezogen (Sommario di scienza della musica, 1511) di
Sebastian Virdung e soprattutto nel celebre Syntagma musicum di Michael Praetorius del 1618 si
danno ampie informazioni strutturali sugli strumenti allora in auge, talora supportate da incisioni
esplicative. Oltre ai più noti e affermati strumenti a corda (viola da gamba o da braccio, all’origine
delle moderne famiglie di archi) si ebbe fra Medioevo e Rinascimento una considerevole varietà di
strumenti a fiato (cornetti, tromboni, trombe), disposti in famiglie a seconda del registro di ognuno,
dal grave (basso) all’acuto (soprano) (v. strumenti musicali). La gamma strumentale persegue lo stesso
principio di ‘copertura’ integrale dello spazio sonoro già praticata dal repertorio vocale, per il quale il
compositore già disponeva di voci differenziate per altezza, estensione e timbro.

Sin dal Cinquecento va affermandosi una tecnica di scrittura specifica per la musica strumentale,
l’intavolatura, maturata nel repertorio per liuto, ma talora applicata anche ad altri strumenti (ad es.
organo e clavicembalo, o alcuni strumenti a fiato) in cui vengono annotate non le altezze delle note,
bensì la posizione della mano dell’esecutore sulla cordiera (o sui fori); di qui anche la progressiva
definizione di un repertorio specifico, reso autonomo dalla voce umana.

PRIME FORME STRUMENTALI

Alla definizione di un repertorio specificamente strumentale concorsero soprattutto i due maggiori


strumenti a tastiera, organo e clavicembalo (v. strumenti musicali), cui furono nel Cinquecento
destinate specifiche composizioni strumentali, le prime documentate in gran copia dalle stampe
dell’epoca e nettamente definite nella struttura e nello stile; si tratta del ricercare e della toccata, il
primo di impianto prevalentemente polifonico (il corrispettivo, si direbbe, del mottetto vocale), la
seconda dal carattere liberamente improvvisativo (ma non priva all’occorrenza di sezioni
contrappuntistiche): carattere suggerito sin dal nome, che allude al contatto fisico con lo strumento.
Per la prima volta si fissano in tali composizioni gli elementi ‘idiomatici’ della scrittura per tastiera
attraverso i quali far rifulgere le doti esecutive degli strumentisti: perlopiù, in quest’epoca, scale
ascendenti e discendenti, imitazioni fra le due mani, ‘diminuzioni’ ed altre figurazioni ritmico-
melodiche di matrice propriamente ‘digitale’ non riconducibili a stereotipi già praticati nella musica
vocale. A queste due forme prevalenti si aggiungono altre composizioni di stile improvvisativo, quali
la fantasia e il praeambulum (antenato del successivo PRELUDIO*), la canzona, derivata alla lontana
dalla CHANSON* francese, genere polifonico vocale, e suddivisa in più sezioni, forme di danza quali
pavana, gagliarda e passamezzo, nonché l’allemanda e la corrente, destinate ad un fulgido futuro in
epoca barocca, spesso combinate fra loro (è il criterio della pur successiva suite). Tali forme di danza
vanno ad arricchire il patrimonio già significativo del ballo di corte e talora beneficiano di pubblicazioni
ad esse specificamente riservate (memorabili quelle di Petrucci e di Attaingnant).

In queste tipologie, sia di matrice vocale, che coreutica, che liberamente improvvisativa, inizia a farsi
strada, e talora anche a fissarsi su carta, il principio della variazione (v. tema con variazioni), non di
esclusiva pertinenza strumentale, ma soprattutto in questo repertorio funzionale alla definizione della
struttura e dell’impianto complessivo dei brani anche in epoche successive. Oltre alla tradizione
italiana, spicca tra fine Cinque ed inizio Seicento la scuola tastieristica inglese (dei ‘virginalisti’), il cui
ampio repertorio ci è trasmesso dal celebre Fitzwilliam Virginal Book, stilato attorno al 1620, che dà
conto di una vasta produzione caratterizzata da particolare insistenza proprio sul principio della
variazione e ancor più della ‘collana’ di variazioni poste in stringata successione, tipologia mai più
abbandonata in epoca barocca, classica e romantica.

D’altra parte la ‘concertazione’ fra voci e strumenti assume rilievo sempre maggiore e a fine
Cinquecento si manifesta con particolare brillantezza nella ‘scuola veneziana’, dai Gabrieli a
Monteverdi. In quest’epoca inizia anche a farsi strada, in modo del tutto generico, il termine sonata,
destinato ad ampia diffusione nei secoli a venire, riservato a brani per uno o più strumenti, sul filo
della tradizione che origina dalla canzona. Al primo Seicento risalgono anche l’affermazione del genere
polistrumentale, con strumenti predeterminati o lasciati in tutto o in parte alla libera scelta degli
esecutori, e la diffusione stabile di una nuova pratica di accompagnamento, detta basso continuo (v.
tonalità), consistente nell’indicazione numerica, sul pentagramma più grave, degli accordi da
realizzarsi di momento in momento, debitamente arricchiti da elementi improvvisati, da parte di uno
o più strumenti deputati a quel ruolo (organo, clavicembalo, liuto, chitarrone ed altri), a sostegno dei
restanti strumenti e/o voci.

MUSICA POLISTRUMENTALE E MUSICA IN PIÙ MOVIMENTI

Durante il XVII secolo pure si definiscono altri generi capitali di musica strumentale, soggetti nei secoli
a continue modifiche in relazione al gusto e alla pratica musicale corrente ma sostanzialmente
riconoscibili nelle loro matrici originarie. Oltre alla sonata, per un solo strumento o per più strumenti
(da cui anche la sonata a tre, destinata a due violini e basso continuo, nelle due tipologie ‘da chiesa’ e
‘da camera’), la SINFONIA*, composizione polistrumentale – ossia orchestrale – dapprima relegata al
ruolo di interludio in opere teatrali o sacre, quindi genere indipendente, e infine il concerto, termine
denso di significati e di accezioni ad esso correlate (‘concertare’, ‘concertante’, ‘concertato’) ma
invariabilmente contraddistinto dalla dimensione dialogica di ‘solo’ o ‘soli’ contrapposto/i a ‘tutti’:
relazione identificata a fine Seicento dai termini di ‘concertino’ (i solisti, talora riassumibili
nell’organico della sonata a tre) e ‘concerto grosso’ (l’orchestra nel suo complesso). Il concerto grosso
viene ad essere appunto una tipologia a sé, secondo l’assetto sopra definito, a fianco del concerto
solistico (il ‘concertino’ è lì espresso da un solo strumento) e del concerto di gruppo (affine alla
sinfonia secentesca, polifonico-imitativo senza distinzione preliminare fra ‘solo’ e ‘tutti’).

Al tempo stesso fra Sei ed inizio Sette si amplia il repertorio monostrumentale a carattere di variazione
(nelle accezioni di partita, passacaglia e ciaccona), laddove la ‘variazione’ è costituita dalla
riproposizione perlopiù costante di una sequenza accordale di base (talora tradizionale o di
derivazione popolare) cui vengolo giustapposte strutture melodico-imitative sempre diverse e non
necessariamente correlate fra loro da similitudini motivico-tematiche. La linea che aveva portato dal
mottetto al ricercare (come sopra specificato) perviene nella stessa epoca alla definizione di una nuova
tipologia compositiva monostrumentale di carattere imitativo, la fuga, che manterrà una propria
presenza nel repertorio dei secoli successivi, fino alla modernità, e un preciso assetto formale. Le
sequenze di danze vengono raggruppate in una successione piuttosto standardizzata, per caratteri
contrapposti (dopo un preludio iniziale, l’allemanda, la corrente, la sarabanda, la giga, per citare solo
le danze più note), e prendono il nome di suite o talora di partita.

STILE E FORME CLASSICHE

Attorno alla metà del XVIII secolo una netta svolta nel linguaggio musicale (attenuazione della scrittura
contrappuntistica, maggiore valore conferito alla dimensione melodica e alle sue trasformazioni
secondo i principi della elaborazione motivica) induce una progressiva modifica delle forme e dei
generi acquisiti e in certi casi l’introduzione di nuove tipologie, in direzione di quello che viene
comunemente inteso come classicismo musicale, vale a dire l’era di Haydn, Mozart, Beethoven. Fra
le tipologie compositive più caratteristiche di quest’epoca il quartetto per archi (due violini, viola,
violoncello), derivato dalla scrittura ‘a quattro’ propria della compagine orchestrale standard e
dall’uso di impiegare il ‘concertino a quattro’ nei concerti barocchi; a fianco del quartetto, espressione
musicale complessa e destinata ad un pubblico di intenditori, convivono altri generi di musica da
camera: il brillante trio per pianoforte, violino e violoncello, il quintetto ed altro (fra cui svariati generi
destinati appositamente all’esecuzione all’aria aperta). Parallelamente la diffusione del concerto
solista, già ampiamente praticato in Italia e Germania nella prima metà del Settecento, sopravanza
quella del concerto con più ‘soli’; la SINFONIA* a sua volta beneficia di una orchestra di maggiori
dimensioni e ricchezza timbrica tramite la presenza ormai stabile di strumenti a fiato (dapprima oboe,
flauto e fagotto, quindi corni, trombe e tromboni, infine il più moderno clarinetto).

La suddivisione in più movimenti di ogni tipologia compositiva si stabilisce nel numero di tre (sonata,
concerto e talora sinfonia) o quattro (ancora sonata, quartetto e altre forme cameristiche, sinfonia),
di carattere contrapposto ma seguendo una logica tonale complessiva (i diversi movimenti
tendenzialmente in tonalità vicine). La struttura interna dei singoli movimenti, ma soprattutto quella
dei movimenti estremi, primo ed ultimo, si modella ai canoni della cosiddetta forma sonata (teorizzata
solo nel XIX secolo), di origini complesse e molteplici (la forma bipartita del barocco, ma anche l’aria
col da capo - v. aria - della tradizione operistica seria), caratterizzata da materiale motivico
differenziato collocato ora sulla tonica ora sulla dominante (v. scala) e successivamente trattato
secondo i principi della elaborazione motivica (ossia variato nella sostanza e nel carattere) quindi
riproposto alla sola tonalità della tonica. A fianco dei movimenti in forma sonata continua ad essere
applicata la forma tripartita già dell’aria (ABA) e la forma del rondò, di più recenti origini e fondata
sull’alternanza di un motivo principali e i motivi alternativi (ABACADA etc.).

OTTO E NOVECENTO

Il primo Ottocento veniva quindi a disporre di un patrimonio di forme strumentali assai ampio,
variegato ed idoneo ad esecuzioni in ambienti ristretti, al cospetto di un pubblico selezionato, o in
ambienti appositamente destinati ad una utenza ampia ed indifferenziata, secondo i lineamenti del
moderno concerto pubblico, sviluppatosi nel corso del XVIII secolo: un patrimonio che fu conservato
pressoché intatto nei principali elementi formali (pur nella maggiore complessità del lessico armonico
impiegato). Si accentuano semmai la dimensione virtuosistica della scrittura strumentale, espressa
nella sonata, nel concerto solistico e nei brani solistici in cui specificamente l’aspetto tecnico diviene
oggetto di innovazione e sperimentazione, fra cui i generi dello studio e del capriccio. Si diffonde
anche uno spiccato interesse per il pezzo breve ‘caratteristico’, già tentato nel secolo precedente e
agli albori del nuovo (ad es. nelle Bagattelle di Beethoven) ma dagli anni Trenta-Quaranta assai più
diffuso e dotato di propria autonomia estetica (notturno, romanza senza parole, preludio, intermezzo
etc.). A livello estetico la musica diviene incline a farsi carico anche di contenuti extramusicali (poetici,
storici, filosofici), sia in brani isolati sia in collane di pezzi caratterizzati da un proprio ‘argomento
ideale’ (ad es., in Schumann, Kinderszenen, Waldszenen etc.); a fianco della cosidetta musica assoluta,
fondata su contenuti strettamente musicali, senza ‘rinvii’ apparenti, si diffondono l’idea e la pratica
della musica a programma, rintracciabili con grande evidenza nel poema sinfonico, in cui alla
dimensione sonora-strumentale vengono affidati ruoli narrativi o quantomeno allusivi a contesti altri,
apertamente dichiarati o talora descritti da titoli e da appositi ‘programmi di sala’ (da Liszt a Strauss
ed oltre). A livello formale la tradizionale forma sonata si amplia in alcuni casi sino ad inglobare la
sequenza dei diversi movimenti in un’unica vasta arcata formale articolata al suo interno: si parla
allora di forma sonata ciclica, caratterizzata fra l’altro dal reimpiego del medesimo materiale motivico
in ogni momento della composizione. Nella seconda metà del secolo la SINFONIA* della tradizione va
per suo conto dilatandosi nel decorso temporale, talora accrescendo il numero dei movimenti, e
giunge ad accogliere in sé elementi non strettamente sinfonici (Lied, coro); esperienze peraltro già
tentate nella prima parte dell’Ottocento (Beethoven, Berlioz, Mendelssohn), ma in forma occasionale.
Per suo conto il Novecento storico (ossia il primo Novecento), pur nella sua complessità e nella
estrema varietà dei linguaggi musicali impiegati e relative contaminazioni, erediterà le tipologie
classiche affiancandole a quelle barocche o a modelli compositivi ancora più antichi, riconsiderati alla
luce di nuove esigenze espressive e stilistiche: a livello di definizione e astrattamente tipologico ben
poco di nuovo sarà inventato, ma ogni brano richiederà una analisi appropriata per identificarne
l’esatta matrice, a prescindere dall’intitolazione ad esso assegnata. Pur sotto l’influenza della
tradizione la ricerca formale infatti non cessa e perviene alla delineazione di strutture e processi del
tutto innovativi, quali la forma ad arco, la variazione in sviluppo e molto altro. Finché, più o meno dal
secondo dopoguerra, ogni inquadramento in termini di ‘genere’ e ‘forma’ diverrà problematico in sé
e sarà superato da istanze totalmente rinnovate: la ricerca di nuovi linguaggi, forme e generi mediante
l’ausilio della tecnologia o di altre risorse, motivazioni estetiche perlopiù dissociate dall’estetica
tradizionale, un rapporto dialettico col pubblico fondato non più sull’identificazione e la condivisione
del già noto, ma semmai sulla messa in discussione di ogni retaggio storico nella percezione dell’opera
d’arte e, a sua volta, del mutevole rapporto dialettico fra il pubblico e la medesima. (AC)

MUSICA VOCALE/STRUMENTALE
E' tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento che in manoscritti e stampe di musica vocale
comincia a comparire la notazione per le parti strumentali. Anche nei secoli precedenti il canto veniva
generalmente sorretto da strumenti che in certi casi, mancando per qualche eventualità qualcuno dei
cantori, si sostituivano perfino a una o più voci: solo che questa presenza regolare, a noi nota grazie a
testimonianze documentali, iconografiche, cronachistiche, non lasciava mai traccia scritta. Del resto
non ve n'era necessità, dato che il ruolo degli strumenti si limitava perlopiù a duplicare le linee canore.
A fine Cinquecento, invece, l'accompagnamento si affranca dal ligio vassallaggio al canto, non più
rigorosamente emulato bensì sostenuto da un basamento strumentale che si snoda in percorsi
melodici e armonici via via più autonomi. Tre fattori l'un l'altro correlati determinano tale maggiore
indipendenza: l'affermazione del sistema tonale (v. armonia) e il fissarsi del basso come voce-guida di
ogni composizione, fondamento armonico che segue senza interruzione il discorso delle parti superiori
(di qui, perciò, il nome di basso continuo (v. tonalità) o, semplicemente, continuo) e che, d'uso
corrente fino al XVIII secolo in ambito vocale e strumentale, sacro e profano, viene realizzato
principalmente da strumenti polivoci come organo, cembalo, liuto, arpa, magari rafforzato al grave da
fagotto, violone, violoncello; il successo della MONODIA* recitativa che ha bisogno di poggiare su un
tessuto strumentale (il continuo) la cui flessibilità espressiva sia tale da valorizzare ogni sfumatura del
testo poetico intonato, ogni suo "affetto"; il gusto eminentemente barocco di miscelare e
contrapporre componenti sonore diverse per peso, registro, timbrica (ad esempio gruppi strumentali
vs voci soliste o cori) in quello che viene definito stile concertato. Oggetto di queste righe è appunto
la storia del canto accompagnato da strumenti nel suo delinearsi dal tardo Cinquecento a oggi.

TRA DUE SECOLI

COME AVVENGA IL PROCESSO DI TRANSIZIONE DALLA SCRITTURA POLIFONICA 'A CAPPELLA' (OSSIA PER ENSEMBLE
VOCALE PRIVO, SULLA CARTA, DI SUPPORTO STRUMENTALE) AL CANTO A UNA O PIÙ VOCI ACCOMPAGNATE LO SI
OSSERVA SPECIALMENTE NEL MADRIGALE, genere aulico cinquecentesco di declinazione profana o
devozionale che, al volgere del secolo, e perciò pochi decenni prima della sua sfioritura, si apre ad
accogliere tutte le novità tecniche e strutturali coeve. Soprattutto nella produzione matura di Claudio
Monteverdi, che nel suo Quinto libro de madrigali a cinque voci (1604) adotta un basso continuo per
il clavicembalo, il chitarrone o altro strumento simile, prescritto in particolare per gli ultimi sei pezzi,
lasciando per gli altri al beneplacito degli interpreti l'inserirlo o no. Negli stessi anni, del resto, tutte le
raccolte più innovative di canti profani, devozionali o liturgici presentano il continuo, addirittura nel
caso dei Madrigali per cantare et sonare a uno e doi e tre soprani di Luzzasco Luzzaschi (1601)
sviluppato nota per nota - circostanza più unica che rara, giacché di norma esso si avvaleva di una
notazione stenografica che, combinando assieme note e numeri, era capace di indirizzare
immediatamente l'esecutore agli accordi da suonare (v. tonalità). Ulteriori passi in avanti compie
Monteverdi nelle raccolte successive. Nel Sesto libro (1614), dove stavolta a ogni madrigale è
necessario l'accompagnamento strumentale; nel Settimo (1619), denominato Concerto anche per via
del fitto impiego della concertazione monodica o polivoca su un continuo di strumenti vari; fino al
celeberrimo Combattimento di Tancredi e Clorinda (1624, accolto quattordici anni dopo nell'Ottavo
libro) per soprano, due tenori, clavicembalo, contrabbasso da gamba e quattro viole da braccio cui
vengono richiesti originali effetti timbrici quali il tremolo e il pizzicato: una via di mezzo tra musica da
camera e teatro, descrittivismo madrigalistico e gestualità scenica.

Svaporata insomma, a inizio Seicento, l'originaria fisionomia contrappuntistica del madrigale, che
preferisce indirizzarsi di preferenza verso un canto accompagnato di impronta accordale, di forma
strofica, dalla ritmica ben misurata, dal profilo melodico accattivante e regolare (arioso, per così dire).
Ed è così che L'ARIA, in uso prevalentemente sulle scene, colonizza anche l'intrattenimento di natura
privata, come attesta il numero notevole di volumi di "arie", "ariette" e "canzonette" da camera dati
alle stampe nel XVII secolo. In Italia, certo, ma anche in Francia, con gli airs de court per voce e liuto,
e in Inghilterra dove il madrigale di tradizione italiana si fonde con tratti popolareggianti autoctoni
negli ayres.

CANTO ACCOMPAGNATO

Nel Seicento si assiste alla nascita di tre nuovi generi vocali-strumentali, tutti di lunga durata e tutti
incardinati sulla cellula-base dell'aria: opera (di cui si tratta altrove), oratorio, cantata. Sviluppatosi a
Roma, L'oratorio risponde al disegno controriformistico di fortificare il consenso collettivo attorno al
magistero della Chiesa. Composizione fatta di personaggi e dialoghi al pari del melodramma (v. musica
scenica), con cui sempre condividerà gli stili compositivi, le tipologie di scrittura vocale e strumentale,
l'organizzazione architettonica delle singole pagine e dell'insieme, se ne differenzia però per
l'esclusivo ricorso a soggetti biblici, e per l'assenza di apparato rappresentativo (si valeva tuttavia di
un allestimento scenico il testo capostipite del genere, la Rappresentatione di Anima et di Corpo di
Emilio de' Cavalieri data a Roma l'anno 1600), supplendo a ciò che non si vede attraverso il ricorso alla
figura di un narratore, definito "testo" o "storico". Fine dell'oratorio, in latino o in italiano che sia, è
l'edificazione e l'ammaestramento religioso degli ascoltatori, membri di confraternite e congregazioni,
nei cui luoghi di culto (oratori, appunto) incorniciava la recita di un sermone. Giacomo Carissimi (1605-
74) ne è il primo codificatore; e dopo di lui il genere transiterà, di decennio in decennio, dalle mani di
quasi tutti i maggiori operisti di scuola italiana, nel Settecento soprattutto (quando, conformandosi
all'architettura del melodramma metastasiano, si impernierà sulla concatenazione di recitativi e arie
con il "da capo"), in misura assai minore nell'Ottocento borghese più attratto dal teatro, finché nel
Novecento non sembrerà riprendere un po' il volo, riconquistando diffusa popolarità anche grazie ai
lavori moderatamente modernisti di uno specialista della musica sacra quale don Lorenzo Perosi
(1872-1956).

Ma la storia dell'oratorio non si esaurisce in Italia. Nella Germania protestante, per esempio, i testi
musicati vengono ricavati direttamente (ovverosia senza la mediazione di alcuna riscrittura
librettistica) dai versetti della Bibbia tradotta in tedesco, interpolati con corali luterani e meditazioni
poetiche di carattere spirituale riversate in arie, ariosi e cori. Una particolare tipologia oratoriale,
seppure indirizzata d'ordinario a funzioni eminentemente liturgiche, sono le passioni: autentici
capolavori le due superstiti di Johann Sebastian Bach, la Passione secondo Giovanni (1724) e la
Passione secondo Matteo (1729). Pressappoco negli stessi anni, in Inghilterra, il tedesco Georg
Friedrich Händel riconvertiva la sua carriera di operista italiano al tramonto in quella di autore di
oratori in lingua inglese (a partire dal Messiah, Dublino 1742) concepiti però per una fruizione
concertistica piuttosto che chiesastica: produzione che gli varrà, nella patria d'adozione, un culto
immarcescibile ed emuli in quantità. Mezzo secolo dopo, in pieno trionfo del classicismo viennese, la
riscoperta folgorante di questo Händel da parte di Franz Joseph Haydn spingerà costui a cimentarsi in
due partiture destinate a divenire pietre miliari nella storia dell'oratorio tedesco, la Creazione (1798)
e le Stagioni (1801, su tema profano), che innescano la rinascenza ottocentesca di un genere
frequentato da tutti i grandi compositori romantici e tardo romantici (francesi, oltreché teutonici),
ricorrendo ad argomenti biblici, all'agiografia, a motivi allegorici, a vicende storiche, a materiali
popolari e fiabeschi.

Alla storia dell'opera e dell'oratorio sono intimamente congiunte le vicende della cantata, praticata
dai medesimi compositori, costituita dalla stessa sostanza musicale e in conformità agli stessi profili
formali degli altri due generi, con le varianti però di una durata ben minore e della destinazione
salottiera. A una, due o più voci con accompagnamento del continuo o di gruppi strumentali più
corposi, la cantata si organizza secondo la consueta successione di recitativi e arie legati a un soggetto
comune, sovente di natura implicitamente drammatica, come il Lamento e morte di Maria Stuarda di
Carissimi, sebbene la varietà di temi trattati sia pressoché inesauribile (sacri, spirituali, celebrativi,
amorosi, mitologici, comici, umoristici, arcadico-pastorali, bozzettistici, storici), essendo del resto
innumerevoli e assai disparate anche le occasioni pubbliche o private, laiche o religiose, aristocratiche
o popolari per le quali viene richiesta. A testimoniarcene la fortuna tra Sei e Settecento è una
produzione smisurata, opera di grandi talenti come pure di mediocri dilettanti, e sempre comunque
assoggettata al protagonismo delle ugole. Nei paesi luterani la cantata entra nell'uso liturgico in
qualità di completamento sonoro della predica pastorale, accostando testi di provenienza diversa
(passi biblici, corali, riflessioni liriche) variamente intonati (arie strofiche e con il "da capo" (v. aria),
duetti, terzetti, recitativi secchi e accompagnati, cori omoritmici o fugati, presenza orchestrale robusta
e autonoma), come appare dalle oltre duecento Cantate superstiti di Bach.

Negli ultimi due secoli la cantata si modifica profondamente sul piano musicale e strutturale:
affrancatasi dagli schemi fissi in uso in precedenza (di conseguenza sciolta anche da qualsiasi
demarcazione nomenclatoria), si tramuta in composizione libera per voci e strumenti che si
amalgamano in contesti indifferentemente cameristici o sinfonici sulla base di una multiformità
costruttiva, linguistica, di organici, di inclinazioni stilistiche e ideologiche, scelte poetiche, volontà
comunicativa fortemente individuale. A una contaminazione con il genere cantatistico è ascrivibile
l'introduzione della voce umana nel corpo della sinfonia attuato per la prima volta da Ludwig van
Beethoven con la sua Nona (1822-24): nell'ultimo movimento un coro e quattro solisti intonano l'Ode
alla gioia di Schiller (v. melodia), problematizzando così gli equilibri formali ed espressivi del modello
classico di sinfonia. Un'incrinatura nella norma fonte di lacerante insicurezza estetica per i compositori
delle generazioni a venire, eccetto che per il talento visionario di Hector Berlioz (Roméo et Juliette,
sinfonia in forma di dramma con cantanti, 1839) e per Gustav Mahler (1860-1911), determinato a
voler abbracciare con la sinfonia la pluralità dell'esistente, e dunque anche la vocalità.
IN SALOTTO

Quando i privilegi secolari dell'aristocrazia europea d'antico regime cominciano a scricchiolare, nei
salotti buoni delle classi alte e di quelle mezzane prendono a farsi largo trattenimenti musicali
all'apparenza meno pretenziosi che in passato, poiché deliberatamente concepiti per la pratica
domestica, amatoriale, secondo i gusti della media borghesia in ascesa. Allo stesso tempo nei Paesi
del nord, dove assai radicata è la tradizione del canto religioso collettivo, si diffondono associazioni di
dilettanti che coltivano la musica cantando in coro: un esercizio non privo di risvolti politici, poiché tali
gruppi sono sovente animati da ideali patriottici, e l'applicarsi assieme alla musica (soprattutto a quella
con forti connotazioni nazionalistiche) serve a rinsaldare comuni vincoli culturali, ad affermare la
propria identità di popolo. E' così che, tra salotti borghesi ed esecuzioni corali, arriva a maturazione il
lied austro-tedesco, genere francamente minore improntato all'evocazione di una ingenuità
espressiva vicina allo spirito del canto popolare fintanto che Franz Schubert (1797-1828), negli oltre
mille esemplari da lui dati alla luce, non lo rende capace di recepire ogni piega della sensibilità umana,
innalzandolo a espressione sublime dell'animo romantico. Nella sua fulminante brevità, il Lied sa
accendersi indifferentemente per rime modeste come per versi altissimi di poeti laureati trattati in
forma strofica o durchkomponiert (vale a dire priva di ripetizioni e simmetrie). Il pianoforte ne è il
compagno più opportuno, e dal pieno Ottocento anche l'orchestra. Mahler introduce pagine
liederistiche nella seconda, terza e quarta Sinfonia, in cui il ricorso a testi ricavati dall'antologia poetica
di Arnim e Brentano Des Knaben Wunderhorn ("Il corno magio del fanciullo"), evocanti un mondo
popolare malinconico e dolcissimo, grottesco e luttuoso, infantile e fiabesco, evidenzia quanto
l'urgenza comunicativa del compositore non possa accontentarsi del tragico, titanico soggettivismo
della sola orchestra. Inoltre in Das Lied von der Erde (1907-09, su antichi testi cinesi tradotti in
tedesco), Mahler fonde in maniera totale le forme del Lied e della SINFONIA*.

Omologhi per funzione e fruizione al Lied germanico (ma senza la carica di affermazione identitaria e
nazionalistica che questo possiede) sono la mélodie francese e la romanza italiana. L'una, che affonda
le radici nella cultura illuministica, si fa interprete delle più sottili tensioni psicologiche e sentimentali
di romanticismo e decadentismo, stabilendo un'intima connessione tra metrica poetica, prosodia
musicale, funzioni armoniche e preziosismo timbrico. L'altra invece, ben lontana anche solo dallo
sfiorare le vette d'arte raggiunte da Lied e mélodie, si caratterizza come sottoprodotto teatrale talvolta
leziosamente ammiccante al patrimonio folklorico: a giocare a suo sfavore è soprattutto la qualità
generalmente scadente dei testi intonati, causa di un insanabile dislivello estetico tra elaborazione
musicale e poesia.

IN CHIESA

La fioritura sei-settecentesca di melodramma, oratorio, cantata (nonché, in ambito strumentale, della


SONATA e del concerto) non soffoca, ma anzi favorisce il processo evolutivo di generi di più antico
lignaggio come messa e mottetto. I quali, pur persistendo nelle loro funzioni tradizionali, non restano
affatto sordi a quanto accade loro attorno, prendendone atto e aggiornandovisi di conseguenza.
Pertanto, malgrado il favore per la polifonia a cappella manifestato dalla Chiesa post-tridentina, sulla
maniera continente e regolata, grave e solenne "alla Palestrina" tende a prevalere una scrittura
strumentale e vocale (tanto monodica quanto policorale) piuttosto opulenta, fondata sulla dialettica
concertante. Archi, cornetti, trombe, tromboni, timpani entrano così nella liturgia accanto all'organo,
talvolta perfino come protagonisti assoluti di "sonate", "sinfonie", "concerti" propizi alla
sonorizzazione di particolari momenti della celebrazione eucaristica.

Nel Sette e Ottocento la musica sacra si modella sul gusto e sulle forme teatrali, concedendo ampio
spazio all'esibizionismo vocale: ciascuna delle cinque parti dell'ordinarium missae (Kyrie, Gloria,
Credo, Sanctus-Benedictus, Agnus Dei) viene suddivisa in diverse sezioni musicali, secondo
schematizzazioni del testo alquanto varie, trattate ora come arie per voce solista e orchestra, ora come
pezzi concertati d'assieme (solista-coro-orchestra), ora come puro intervento corale magari in stile
fugato (e ciò accade specialmente nel Kyrie e in corrispondenza della parola "Amen"). Nei paesi di
lingua tedesca tale inclinazione generale si coniuga alla ricerca di una maggior coesione delle parti e a
un'organicità strutturale di stampo sinfonico. Comunque, da quest'epoca in avanti, la messa e le altre
pagine sacre tendono a indirizzarsi verso una fruizione più concertistica che non strettamente
liturgica. Inoltre negli ultimi tempi, e segnatamente a seguito del Concilio Vaticano II, le cui indicazioni
miranti alla partecipazione diretta e consapevole dell'intera assemblea dei fedeli anche alle esecuzioni
musicali durante la messa sono state però recepite dai ministri del culto in maniera alquanto riduttiva,
qualsiasi composizione d'arte antica o moderna si è praticamente eclissata dalla liturgia, sostituita
dall'impiego di un linguaggio pop adeguatamente edulcorato.

MUSICA SCENICA

L’etichetta cumulativa "musica scenica", vale a dire musica per il teatro (teatro in musica e teatro con
musica), abbraccia molti generi e repertori. L’opera, principalmente, e tutti i suoi derivati. Ma anche
le musiche di scena, ossia quelle composizioni pensate come ’colonna sonora’ di drammi recitati. A
rigore anche il balletto, che merita una trattazione a parte.

Prima di delineare storicamente le tappe peculiari dell’evoluzione del teatro musicale, poniamo alcune
considerazioni preliminari sul teatro in musica. A proposito, per esempio, del fatto che chi agisce sul
palco non parli ma canti. Circostanza assolutamente innaturale: tale, in effetti, pareva ai primi fruitori
dell’opera, che tuttavia la tolleravano perché a esprimersi così erano dei, semidei, pastori, creature di
una felice età aurea, mitica e lontanissima; con il tempo, tuttavia, l’inverosimiglianza si convertì in
abitudine, e non stupì troppo neppure sentir cantare personaggi della storia o della contemporaneità.
O a proposito del rapporto dell’opera con lo scorrere del tempo: il testo cantato, difatti, procede molto
più a rilento di un testo recitato, cosicché mentre in genere il dramma di parola ha un andamento
continuo, l’opera in musica è invece discontinua. Ma anche simultanea, giacché è capace di
sovrapporre tante voci senza, per questo, impedire la comprensione degli eventi all’ascoltatore. E ciò
perché la drammaturgia che regola questo teatro poggia su principi essenzialmente musicali:
l’originalità del plot, la pregnanza scenica delle situazioni, il ricorso all’azione, alla gestualità, al
ragionamento, al dialogo, altrove fondamentali, qui stanno invece in posizione subalterna.

L’OPERA PRIMA DELL’OPERA

E’ noto che la tragedia greca non veniva soltanto recitata, o perlomeno non esclusivamente. Attori e
coro, infatti, si esprimevano perlopiù in una sorta di declamazione intonata difficile oggi da
immaginare. Ai personaggi sul palco (tutti interpretati da uomini) erano affidati monodie, duetti,
terzetti. I coreuti dispiegavano il loro canto al momento dell’ingresso in orchestra ("parodo"), tra gli
atti ("stasimi"), all’uscita ("esodo"). Dapprima tali interventi si caratterizzavano per la forte tensione
emotiva, in seguito assunsero tono più lirico, svincolandosi dal resto dell’azione. Di quella musica, di
cui erano autori gli stessi tragediografi, a noi resta soltanto un lacerto papiraceo, di epoca posteriore
nonché di problematica decifrazione, proveniente dall’Oreste di Euripide. Tuttavia, possediamo una
ricca serie di testimonianze letterarie. Alcune di carattere decisamente aneddotico: per esempio
quella che racconta di come il canto delle Furie nelle Eumenidi di Eschilo producesse un effetto così
spaventoso da far cadere in convulsioni per lo spavento i bambini che assistevano allo spettacolo.
Altre ci aiutano a comprendere funzione e specificità della musica nel teatro greco dell’epoca di
Eschilo, Sofocle, Euripide. Del primo (525-456 a. C.) conosciamo la severità dello stile, ottenuta
attraverso la ripetizione di medesimi schemi ritmico-melodici perlopiù accompagnati dalla cetra.
Sofocle (496-405 a. C.), ammirato dai contemporanei per la dolcezza delle sue melodie, portò il
numero dei coreuti da dodici a quindici, introducendo anche più suonatori nell’orchestra tragica. Le
innovazioni maggiori si ebbero però con Euripide (482?-406 a. C.), che inserì nelle sue tragedie vere e
proprie arie virtuosistiche, perfino di tono popolare o esotico, al fine di ottenere il massimo
coinvolgimento emozionale del pubblico. Ciò suscitò il biasimo di molti, tra cui il mordace Aristofane.
Nella commedia, invece, solo di quando in quando agli attori era richiesto di cantare - e al coro
esclusivamente negli intermezzi fra gli atti.

Anche nel teatro romano dialoghi parlati si alternavano a sezioni cantate non sempre di gusto
sorvegliato. Come si ricava da un passo del dialogo di Luciano Sulla danza (ca. 165 d. C.) dove viene
descritto un attore da tragedia: "Urla, si piega avanti e indietro, a volte canta addirittura le sue battute,
rendendo melodiche le sue sventure (il che è certamente il colmo dell’indecenza) [...]. A dire il vero,
fino a che interpreta un’Andromaca o un’Ecuba il suo canto si può anche tollerare; ma quando finge
di essere Ercole in persona, e gorgheggia una canzonetta [...], un uomo equilibrato può veramente
giudicarla una cosa sconveniente". Riguardo al coro, non è ancora chiarito se esso partecipasse o meno
alle tragedie, e che in misura. Di sicuro, comunque, a esibirsi tra gli atti delle commedie era spesso
un’orchestra numerosa e fragorosa. Tibie, cetre, zampogne, strumenti a percussione, e perfino voci,
costituivano l’organico d’accompagnamento a mimo e pantomimo, generi spettacolari affermatisi nel
I secolo a. C., sovente con donne protagoniste.

La polemica cristiana contro il teatro, condannato in quanto luogo del falso istituzionalizzato, trionfo
della corporeità e perciò di libidine e sfrenatezza sessuale (risale a quest’epoca l’equiparazione attrice
= meretrice, dura a morire) conduce, a partire dal V secolo, all’eclissi della teatralità in senso proprio.
Ma non della spettacolarità, intesa come pratica performativa ad ampio raggio geografico, sociale,
culturale, che trova alimento in mille occasioni festive, pubbliche o private. Ciò detto, appare dunque
alquanto singolare che la rinascita medievale del teatro sia ascrivibile proprio alla Chiesa, essendo
infatti avvenuta all’interno dell’ufficio sacro. L’atto di nascita di quel che poi verrà comunemente
chiamato dramma liturgico (denominazione tuttavia molto contestata, giacché queste
rappresentazioni non si svolgevano durante la messa: ecco perché forse sarebbe più opportuno
parlare di "dramma ecclesiastico") è ravvisabile nel Quem quaeritis attribuito al monaco Tutilone e
tramandato da due manoscritti del X secolo: due brevi battute scambiate tra l’angelo e le pie donne
presso il sepolcro di Cristo ormai vuoto. Si tratta di un tropo, ovverosia di un testo cantato aggiunto
alla liturgia tradizionale, da eseguirsi durante la processione introduttiva alla messa di Pasqua. La visita
dei Magi a Gesù, la strage degli innocenti, l’Ascensione, i miracoli dei santi e diversi altri episodi di
storia sacra vennero adattati allo stesso modo. Via via il dramma liturgico ampliò la propria durata,
arrivando ad accogliere diversi personaggi e scene di realismo comico. Finché uscito da monasteri e
chiese, sostituito al latino il volgare, svolgendo soggetti epici e di leggende popolari assieme a quelli
biblici e agiografici, non trovò posto nelle piazze di fronte a folle eterogenee di spettatori. Presero così
a svilupparsi, dalla prima metà del XIII secolo e in certi casi fino a pieno Cinquecento, miracles e
passioni in Francia (terra di origine del troviere Adam de la Halle, autore del primo esempio noto di
teatro profano in musica, lo Jeu de Robin et de Marion, rappresentato alla corte napoletana nel 1283
o 1284, in cui sezioni parlate si alternano a brani cantati le cui melodie popolaresche potrebbero
essere semplici citazione di canzoni preesistenti), autosacramentales in Spagna, miracle plays e
morality plays in Inghilterra, spettacoli a scena multipla con i luoghi deputati sovente rappresentati in
più giornate. In essi vi era molta musica di scena: melodie gregoriane, pezzi polifonici, danze, canzoni
popolari, pagine strumentali, speciali effetti acustici in relazione a determinati personaggi o situazioni.
Pressappoco i medesimi caratteri musicali, benché probabilmente con prevalenza maggiore di
declamazione intonata, possedeva pure la sacra rappresentazione italiana (erede della lauda
drammatica due-trecentesca), la cui massima fioritura poetica e scenotecnica si realizzò nella Firenze
di Lorenzo il Magnifico.

Il recupero del teatro classico a opera degli umanisti tardoquattrocenteschi condusse al riallestimento
scenico di quei testi e, a partire dalla Cassaria di Ludovico Ariosto (Ferrara 1508), alla loro imitazione-
ricreazione in chiave moderna. Larga fortuna godette in specie il genere comico. Tra gli atti, in
sostituzione dei cori antichi, vi vennero collocati intermedi di varia natura, perlopiù di soggetto
mitologico o allegorico. Alcuni mimati o danzati, in genere denominati moresche; altri affidati a voci
soliste oppure, in conseguenza della voga madrigalistica che impazzò per tutto il sedicesimo secolo,
eseguiti da ensembles vocali (spesso sostenuti da strumenti); altri ancora, infine, veri e propri
spettacoli della meraviglia alle cui definizione concorrevano azione, parola, canto, movimenti
coreografici, effetti speciali, costumi lussuosi, persino profumi. Quest’ultima tipologia di intermedi era
prediletta dalle grandi corti rinascimentali italiane, dalle quali veniva approntata in occasione di
festeggiamenti dinastici e diplomatici di particolare rilievo. Ne furono campioni i Medici: memorabili
gli intermedi alla Pellegrina, la commedia di Girolamo Bargagli messa su nel 1589 per il matrimonio di
Ferdinando de’ Medici con Cristina di Lorena. Episodio spettacolare altrettanto ragguardevole, nei
medesimi anni seppure in altro ambito, la messinscena dell’Edipo re di Sofocle a Vicenza per l’apertura
del Teatro Olimpico (1585): i cori della tragedia, in traduzione italiana, portavano la musica di Andrea
Gabrieli che con il suo assetto omoritmico assicurava la piena intelligibilità del testo. Genere
specificamente cinquecentesco fu la favola pastorale, azione di soggetto amoroso ambientata in selve
idilliache e campi ameni che vede protagonisti pastori, ninfe, divinità silvane propense al canto e al
ballo.

TEATRO MUSICALE NEL SEICENTO

PASTORALE E INTERMEDI VENGONO CONSIDERATI PRECURSORI DIRETTI DEL melodramma, ’invenzione’ fiorentina
che nella decisa presa di posizione in favore del valore espressivo della monodia, nella riflessione sulla
musica degli antichi portata avanti negli ultimi decenni del Cinquecento dal circolo intellettuale
("camerata") riunitosi attorno al conte Giovanni Bardi, trova la sua armatura teorica di riferimento.
Atto di nascita ufficiale dell’opera è l’Euridice di Ottavio Rinuccini con la musica di Jacopo Peri - e in
minima parte di Giulio Caccini, che a tempo di record ne preparò pure una versione a stampa tutta
sua per contendere al rivale-collega la paternità del nuovo genere - rappresentata durante i
festeggiamenti nuziali per Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia (Firenze, Palazzo Pitti, 6 ottobre
1600). Vi si impiega, come annota Peri nella prefazione della partitura, una maniera di canto solistico
a mezzo fra il parlare ordinario e il cantare vero e proprio: ciò che appunto veniva detto allora "stile
rappresentativo", recitar cantando, ossia una linea vocale che, con studiata scioltezza d’eloquio e
libertà formale, secondata da un accompagnamento piuttosto discreto (il basso continuo) asseconda
l’andamento naturale della parola, le inflessioni e gli accenti dei versi, accrescendone la naturale
musicalità e facendone vibrare gli "affetti" più riposti. Prevalenti nelle prime opere, queste parti
ritmicamente libere divennero presto fastidiose, spingendo molti a deprecare il "tedio del recitativo".
A metà secolo arie e duetti vaporosi, squadrati nel passo metrico come definiti nel profilo melodico,
avevano tuttavia già preso il sopravvento sulla declamazione delle origini. A condurre a questo esito
aveva contribuito il talento teatrale di Claudio Monteverdi, pervenuto con l’Orfeo (Mantova, 1607) a
una sintesi magistrale tra opulenza scenica e strumentale degli intermedi, stile madrigalistico di fine
Cinquecento, recitar cantando fiorentino. Inoltre un apporto importante alla strutturazione formale e
melica dell’aria (dalla sagoma suadente e riconoscibile, fatta di versi misurati, musicalmente
autosufficiente in quanto costruita su scrupolosi rapporti tonali e perciò pezzo chiuso slegato dai
recitativi che la attorniano) era arrivato dalle opere patrocinate a Roma dalla famiglia Barberini a
partire dal 1632, sovente su testi confezionati dal pistoiese Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente
IX. I romani scrivevano anche commedie musicali, cominciando perdipiù a inserire scenette comiche
in drammi seri - il che sarà poi una costante degli intrecci d’opera barocchi. Proprio in quest’ambito
ha inizio la mutazione del recitar cantando in recitativo secco: ossia un discorrere frenetico, marcato,
sviluppato entro un’estensione limitata, con frequenti note ribattute e pochi accordi di sostegno che
sostituisce la monodia quasi melodica fiorentina. Nel corso del Seicento la distinzione tra recitativi
(momenti di avanzamento dell’azione, nella libera alternanza di endecasillabi e settenari) e arie
(riflessioni introspettive di un personaggio nel corso delle quali il flusso del tempo sulla scena si
interrompe, v. aria) si farà sempre più marcata, giungendo a fine secolo alla definitiva cristallizzazione.
Le arie, cuore musicale delle partiture su cui si catalizzerà l’interesse dell’uditorio, assumeranno tratti
emotivi e tecnico-musicali sempre più stereotipati. Nel Settecento se ne ascolteranno di sentimento,
di carattere, di mezzo carattere, di bravura, di agilità, di portamento, cantabili, parlanti, declamate,
spianate. E ancora, in base alla funzione nel contesto drammatico o alla situazione rappresentata: di
pazzia, di sdegno, infuriate, con catene, del sonno, di sortita di seconda parte o di sorbetto (affidata a
personaggio di minor rilievo, durante la performance dei quali era uso mangiare gelati). Infine le arie
di baule, quelle che i virtuosi si facevano confezionare su misura, portandosele poi sempre appresso,
per sostituirle all’occorrenza, o secondo il proprio capriccio, a quelle previste dal compositore.

Nata come intrattenimento cortigiano d’èlite, nella Venezia del 1637 l’opera in musica approda nei
teatri a pagamento. Divenendo impresa commerciale e dovendo adattarsi a ritmi di produzione
forsennati, rinuncia in pratica ai cori, costosi oltre misura almeno rispetto alla scarsa considerazione
che suscitano nel pubblico, per puntare piuttosto all’accrescimento di tutto quanto può far spettacolo:
dunque scenografia, macchinistica, ma soprattutto virtuosismo canoro, condotto dalle ugole ampie,
atletiche, potenti e assai estese dei castrati a esiti sovrumani nelle loro fantasmagoriche arie solistiche.
Il puntare tutto sulla messinscena e sulla funambolismo delle voci va ovviamente a scapito della qualità
poetica dei libretti, incoerenti e ripetivi sul piano narrativo. Sui palcoscenici veneziani accanto a
soggetti mitologici e pastorali fanno la loro prima comparsa anche temi storici (capostipite
L’incoronazione di Poppea di Monteverdi, 1642), mentre le arie privilegeranno accompagnamenti
strumentali via via più sostanziosi che in passato, pur rimanendo comunque soggetti alle esigenze
della linea melodica.

In gran parte d’Europa l’opera italiana coabita con (o si innesta su) floride tradizioni autoctone di
teatro musicale - spesso pure di drammi parlati, nei quali peraltro non era insolita l’inserzione di
numeri musicali. Come in Shakespeare. E prendiamo difatti l’Inghilterra, dove l’opera attecchì tra fine
Seicento e metà Settecento, riscuotendo attenzione soprattutto dalla nobiltà. Generalmente però il
pubblico più vasto prediligeva forme spettacolari ibride, fatte di dialoghi recitati, danze, musica
strumentale, songs popolareschi quali il masque allegorico-pastorale (che toccò il suo apogeo
all’epoca di Giacomo I e Carlo I, 1603-49), la balad opera settecentesca (che determinerà il declino
dell’astro händeliano), a fine ottocento le savoy operas di Gilbert e Sullivan, fino al musical.

In Germania l’opera fiorentina viene importata nel 1627 da Heinrich Schütz, che aveva studiato in
Italia. Il nuovo genere prospera nelle corti, mentre i teatri a pagamento si appassionano di piéces
dialogate con musica. La sola eccezione è l’Opera di Amburgo, tra il 1678 e il 1738 fucina di uno stile
autenticamente germanico che purtroppo però, sul momento, non avrà modo di maturare a dovere:
i testi, in lingua tedesca, benché non di rado traduzioni dall’italiano, vi venivano musicati per intero;
ampio spazio era lasciato all’elemento comico, che talvolta rasentava la volgarità; semplici le arie di
natura liederistica e di facile assimilazione. Assoluta originalità di lineamenti presenta l’opera francese
coeva - e questa orgogliosa diversità rispetto a ogni altra tradizione musicale rimarrà un tratto
costante della sua storia. Nella Parigi di metà Seicento dal trapianto di moduli drammaturgici e
musicali italiani sulla tradizione nazionale delle mascherate, del ballet de cour, delle comédies-ballets
(celeberrimi i frutti della collaborazione fra Molière e Lully, tra cui Le Bourgeois gentilhomme, "Il
borghese gentiluomo"), nonché della tragedia di Corneille e Racine, prende vita la tragédie en
musique. Artefici, il poeta Philippe Quinault e il compositore di origine fiorentina Jean-Baptiste Lully
(1632-87). Caratteri peculiari di tale genere, che attraverso la Académie Royale de Musique godeva
del patrocinio regio, sono l’assoluta centralità del testo letterario necessariamente in lingua francese,
la nobile imponenza di uno spettacolo assai curato (anche perché se ne produceva uno solo all’anno)
che profonde danze, cori e tableaux vivants in gran copia, il rilievo drammatico e coloristico
dell’orchestra (affidataria di un’introduzione orchestrale, ouverture, nella forma standard adagio-
allegro), un recitativo pervasivo modellato sulla prosodia francese, prendendo a esempio la dizione
degli attori della Comédie-Française, che solo di tanto in tanto si stempera in periodi ariosi o in arie,
le quali però sono affatto diverse dalle italiane per via della brevità, del fraseggio irregolare, del
limitato ricorso a passaggi virtuosistici.

IL SETTECENTO

La tradizione della tragédie-lyrique fu continuata da Jean-Philippe Rameau (1683-1764) e


profondamente rinnovata dal tedesco Christoph Willibald Gluck (1714-87) secondo i principi che
informano anche la sua precedente riforma dell’opera italiana, come diremo più oltre. In Italia, fu
quello veneziano il modello d’opera che si diffuse a macchia d’olio nel resto della penisola (a Napoli
darà vita a una fulgida tradizione di lunga durata: dapprima locale, in seguito di respiro internazionale)
e all’estero, dapprima nelle corti poi nelle sale pubbliche, dove l’idioma italiano (nel senso di lingua
vera e propria, ma pure di codice drammaturgico, di scrittura musicale e di concezione delle vocalità)
resterà in vigore, sia pur di frequente aggredito, contestato, combattuto, fino al Romanticismo. Si
pensi a Georg Friedrich Händel (1685-1759), autore di opere serie tutte in lingua italiana, nonostante
la nascita tedesca e l’impiego inglese; o al salisburghese Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) che
porta a compimento il tragitto dell’opera italiana del Settecento, seria e buffa, integrandone la
peculiare vocalità nel sinfonismo viennese maturo. D’altronde è proprio in quest’epoca che ha inizio
l’uso tuttora in vigore di scrivere le indicazioni di agogica e dinamica musicale nella nostra lingua (a
tempo, allegro, adagio, piano, forte, ecc.).

Si deve ad Alessandro Scarlatti (1660-1725), che va considerato come il vero iniziatore della scuola
napoletana del Settecento, il consolidamento delle tre principali innovazioni stilistico-formali
dell’opera italiana di quell’epoca: lo schema allegro-adagio-allegro della sinfonia introduttiva (di cui si
approprierà poi la musica strumentale), l’adozione dell’aria con il da capo (struttura a-b-a’, dove a’ è
la ripresa variata in termini bravuristici della prima sezione, v. aria), del recitativo accompagnato
(sorretto dall’orchestra, anziché dal solo basso continuo come in quello secco). Da qui in avanti Napoli
assurge, nella penisola, a baricentro produttivo teatrale, al contempo irradiando la sua musica e i suoi
musicisti per ogni dove in Europa: tant’è che "opera napoletana" diviene sinonimo di opera italiana.
Grazie ai libretti di Apostolo Zeno (1668-1750) e Pietro Metastasio (1698-1782), musicati decine e
decine di volte nel corso del secolo, si attua entro i primi decenni del Settecento una effettiva
divaricazione tra intrecci tragici (di soggetto classicheggiante) e comici.

Dopo questa fondamentale regolazione contenutistica e strutturale, l’opera seria settecentesca sarà
fatta oggetto di altre riforme. Tra queste la più notevole fu quella compiuta dal poeta livornese Ranieri
de’ Calzabigi in collaborazione con Gluck a partire da Orfeo ed Euridice (Vienna 1762). Le loro opere
’riformate’ mirano alla creazione di un organismo drammatico unitario dove la musica è funzionale al
clima generale dell’azione: banditi il recitativo secco e le colorature vocali; coro e orchestra rivestono
una funzione emozionale forte; si preferisce l’organizzazione formale per arcate ampie piuttosto che
la frammentazione in pezzi chiusi; la sinfonia iniziale, fino ad allora considerata un brano strumentale
indipendente, viene posta tematicamente in relazione con l’opera, e anzi vi si riversa dentro senza
soluzione di continuità. Riguardo ai soggetti farseschi o quotidiani va ricordato come questi ultimi,
confinati dapprima tra gli atti dell’opera seria in qualità di intermezzi (concepiti per cantanti-attori che
non disdegnavano neppure di esprimersi in dialetto; tra di essi il più noto è La serva padrona di
Giovanni Battista Pergolesi, 1733), acquistata in seguito una propria autonomia, diano origine
all’opera buffa. Nella quale, in virtù delle definizioni realistica dei personaggi, vengono a costituirsi tipi
psicologici ben caratterizzati (i "ruoli") correlati alle voci di tenore, soprano, basso (a quest’ultimo
sovente affidatario di versi da eseguirsi mitragliandone le sillabe a velocità sostenuta); e dalla quale a
fine Settecento il repertorio serio mutuerà i brani d’assieme di fine atto, i cosiddetti concertati. E’
dall’esportazione degli intermezzi napoletani a Parigi tra il 1752 e il 1754, e dalla loro interazione con
la tradizione locale di commedie con musica, che in Francia prende avvio una vera e propria opera
comica nazionale, con dialoghi parlati in luogo dei recitativi secchi italiani: l’opéra-comique, vitale
ancora a fine secolo, seppure molto modificata nello stile e perfino capace di interessarsi a soggetti
tutt’altro che leggeri - tale è, per esempio, Carmen di Georges Bizet (1875). Peraltro nella Parigi del
Secondo Impero (1852-70) crescerà dallo stesso troncone la frizzante satira sociale dell’opéra-bouffe
di Jacques Offenbach (1819-80), che trasferitasi nell’impero asburgico e intingendosi nel
sentimentalismo nostalgico farà nascere l’operetta vienne

L’OTTOCENTO

Nella prima metà del secolo Parigi è la capitale europea dell’opera: in essa convergono diversi
compositori stranieri che vi cercano la consacrazione internazionale; da essa prendono il volo titoli
circolanti ovunque in Europa, non poco influenti sulla tradizione italiana (la quale è comunque
totalmente autosufficiente sul piano produttivo) e sul nascente teatro musicale tedesco. Da fine anni
Venti vi germina il grand-opéra: poderosa congiunzione di intrecci storici di carattere eroico ridotti
allo stile del romanzo d’appendice per palati borghesi, grandiose scene spettacolari e corali, inserti
coreografici, singolare predilezione per il color locale e per la ricchezza della veste strumentale,
brillante atletismo vocale da sfoderare in pezzi solistici e d’assieme, nelle arie di coloratura e di
passionalità drammatica, o magari da tenere a freno nelle ballate di gusto popolare. Tra gli iniziatori
di questo genere, di cui diverrà campione Giacomo Meyerbeer (1791-1864), vi è Gioachino Rossini
(1792-1868), emigrato in Francia al termine della sua carriera italiana, clamorosa sebbene poco più
che decennale. Nelle sue opere non si discosta mai da una concezione classicistica di "bello ideale",
inteso come proporzione armoniosa dell’opera d’arte nel suo insieme e nelle singole parti, dunque
anche nella vocalità fiorita, piena e morbida. Per lui la musica è di per sé asemantica: acquista un
determinato significato soltanto nel momento in cui la si lega a una certa situazione drammatica,
tant’è che un motivo d’effetto comico nel Barbiere di Siviglia (1816) può essere impiegato, con risultati
del tutto opposti, nel momento più tragico del coevo Otello. L’orchestra rossiniana cresce in
esuberanza e in attività: emblematica l’abolizione del recitativo secco nell’opera seria in favore di
quello accompagnato, nonché l’adozione del cosiddetto "crescendo", un procedimento che prevede
il progressivo incremento di strumenti, di dinamica e di agogica nel punto culminante delle sue
sinfonie introduttive e nei finali d’atto. Rossini inoltre è il codificatore delle convenzioni formali che
governeranno l’opera italiana fino a verso il 1870 - la solita forma secondo la definizione che se ne
darà a metà secolo. Quadripartito lo schema dominante nelle arie solistiche: scena - cantabile - tempo
di mezzo - cabaletta; ovverosia, in altre parole: dialogo tra il protagonista e un comprimario -
momento contemplativo, in tempo lento - accadimento imprevisto che richiama il personaggio alla
realtà, all’azione - sezione in tempo veloce, dalla vocalità pirotecnica. Struttura simile ha pure il grande
finale centrale, pagina clou di ogni opera, seria o buffa che sia, nella quale sono il coro e tutti i
personaggi: coro introduttivo - tempo d’attacco (equivalente alla scena dell’aria solistica) - pezzo
concertato (equivalente al cantabile) - tempo di mezzo - stretta (equivalente alla cabaletta).

Nell’Italia del dopo Rossini l’opera seria tende decisamente a prevalere sull’opera buffa, come si
evince dai cataloghi di Vincenzo Bellini (1801-35), Gaetano Donizetti (1797-1848), Giuseppe Verdi
(1813-1901), nei cui libretti penetrano soggetti romantici ricavati da Walter Scott, Byron, Schiller,
Victor Hugo. Ne è tema dominante l’esaltazione del sentimento amoroso: amori perlopiù infelici, che
si concludono in tragedia, impernianti sulle voci di soprano e tenore, per gli amanti, con un baritono
come antagonista. Artefice di melodie eleganti, eteree, affusolate, da delibare nota dopo nota, Bellini
è il primo italiano ad affermare con consapevolezza il suo ruolo di musicista-drammaturgo, anche
attraverso la collaborazione strettissima instaurata con il librettista d’elezione Felice Romani;
Donizetti, poi, importa nelle sue partiture lo strumentalismo viennese e le esperienze più recenti
dell’opera francese. Verdi, grande uomo di teatro, è il dominatore assoluto delle scene italiane per
cinquant’anni. Secondo la sua concezione drammaturgica il compositore è responsabile in tutto della
riuscita dell’opera, sui cui deve vigilare dalla genesi del libretto (ed è noto come letteralmente
torturasse i suoi poeti finché non gli fornivano un testo per lui soddisfacente) alla messinscena. A
partire da Traviata (1853) Verdi comincia a pensare ai propri melodrammi come a insiemi unitari dove
i singoli numeri vengano integrati in ampie campate architettoniche misurata sull’ampiezza di un
intero atto o di gran parte d’esso: un procedimento già in vigore nel grand-opéra da cui anche Wagner
verrà condizionato. I princìpi fondanti del teatro verdiano sono la rappresentazione realistica
dell’uomo (l’"inventare il vero") e la concisione. Conta, cioè, la situazione, l’effetto drammatico
subitaneo prodotto dalla musica; il cuore della scena va raggiunto presto, senza troppo perdersi in
versificazioni lambiccate difficilmente afferrabili dall’uditorio, e tuttavia facendo emergere al
momento opportuno una breve frase, una sola parola (la "parola scenica") che, stagliandosi chiara
dalle ugole dei personaggi sul tappeto strumentale, fornisca immediatamente allo spettatore le
coordinate dell’azione. Dall’amato Shakespeare e da Hugo apprende che il triviale, il grottesco, il
comico possono ben stare accanto al tragico, e anzi farlo risaltare per contrasto, come accade in
Macbeth (1847; revisione 1865) e Rigoletto (1851).

Il fenomeno più eclatante nella musica ottocentesca è certo l’emergere delle scuole nazionali. Il che
determina, in ambito teatrale, la nascita di nuove drammaturgie nelle lingue locali (quella russa la più
ragguardevole, di cui Modest Musorgskij, 1839-81, e Pëtr Il’ic Cajkovskij, 1840-93, incarnano le due
contrapposte tendenze: l’uno, entro una visione di arcaica crudezza e fatalismo, l’attaccamento al
popolo e alla terra; l’altro un’aristocratica eleganza di stampo occidentale), nonché l’emancipazione
di generi fino allora considerati minori e popolari, quali l’opéra-comique e il consanguineo germanico
singspiel, generatosi dall’interazione tra questa e il melologo, una rappresentazione teatrale in cui gli
attori vengono accompagnati dall’orchestra o le si alternano. A favorire la crescita del Singspiel sono
Mozart (Die Entführung aus dem Serail, "Il ratto dal serraglio", 1782; Die Zauberflöte, "Il flauto
magico", 1781) e Fidelio di Beethoven (l’unico suo lavoro teatrale, più volte riveduto: 1805, 1806,
1814). Ma a decretarne la fortuna presso i romantici è soprattutto Der Freischütz ("Il franco
cacciatore", 1821) di Weber, atto di nascita ufficiale dell’opera tedesca, avversa tanto al melodramma
italiano quanto al grand-opèra francese. Peculiare di questo repertorio, che si serve ampiamente della
forma popolareggiante del lied, è il sostanzioso spirito sinfonico che lo informa, l’idea di un’intima
fusione con l’espressione poetica e, nelle trame, il forte legame con la natura, il ricorso a elementi
fantastici, soprannaturali, leggendari. Al di là del teatro musicale, il contributo dei compositori
tedeschi (Beethoven, Weber, Franz Schubert, Felix Mendelssohn-Bartholdy, Robert Schumann) ai
palcoscenici nazionali va pure valutato sulla base del loro catalogo di musiche di scena per drammi
parlati. Diverse ouvertures scritte per tali rappresentazioni godettero di tale fortuna da essere
eseguite come pagine concertistiche autonome cui restava della funzione originaria soltanto il titolo
(per esempio l’ouverture beethoveniana per l’Egmont di Goethe o quella mendelssohniana per il
Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare). Da tale pratica prende origine una produzione di
ouverture con programma letterario sotteso (antesignane di ciò che sarà poi il poema sinfonico) non
legate a specifiche occasioni esterne.

L’opera tedesca raggiunge il suo apogeo con Richard Wagner (1813-1883), colui che più di chiunque
altro ha influenzato la cultura musicale del secondo Ottocento e della prima metà del Novecento. Non
solo. In questo ambito cronologico il wagnerismo si è imposto come tendenza estetico-culturale
dirompente anche in letteratura, nella filosofia, nelle arti figurative, nello spettacolo, perfino nella
politica. Per dire del linguaggio musicale: è fuor di dubbio che il suo dramma musicale Tristano e Isotta
(1865) rappresenti un punto di svolta nella concezione dei rapporti armonici così come erano venuti
configurandosi dall’età barocca in avanti. Quanto questa partitura abbia messo in crisi il sistema tonale
(v. armonia), o meglio sia stata in grado di captare e fissare icasticamente in suoni una crisi già da
tempo latente, lo attestano le numerosi interpretazioni (armoniche-drammaturgiche-psicologiche-
filosofiche-simboliche) scatenate dal primo accordo che si sente nell’opera, il cosiddetto "accordo del
Tristano". Per dire invece degli effetti sul costume e sulla fruizione dell’evento spettacolare, che
diviene quasi rito mistico di natura iniziatica, da seguire in una sala completamente buia - a differenza
che in passato, quando l’opera era svago mondano e a teatro si andava per cenare, giocare, far
pubbliche relazioni, prestando solo di tanto in tanto orecchio alla musica. Con l’edificazione del teatro
di Bayreuth, infatti, Wagner intendeva creare un vero e proprio tempio per la sua musica: dapprima
per Der Ring des Nibelungen ("L’anello del Nibelungo"), il mastodontico ciclo di quattro opere
concepito nell’arco di un trentennio e rappresentato integralmente nel 1876; poi per Parsifal (1882,
che mai nelle intenzioni del compositore avrebbe dovuto esser visto fuori da Bayreuth), nel quale si
giunge alla spregiudicata appropriazione del cristianesimo e del cerimoniale eucaristico a fini di
estetizzante teatralità. Wagner, che persegue l’idea di "opera d’arte totale" (Gesamtkunstwerk), è
teorico di se stesso e librettista dei propri lavori nei quali, vagheggiando l’ideale tragico greco, attua
l’integrazione organica, tra parola, musica, azione (Wort-Ton-Drama). Drammi musicali li definisce:
un’espressione con cui ne vuole rimarcare la diversità costituiva rispetto al melodramma e al grand-
opéra, da lui aborriti sebbene decisivi nella sua formazione. In essi il tradizionale ordinamento
sintattico del periodare strofico e regolare, scandito dalla cadenza (v. tonalità), è abbandonato in
favore di un processo, per così dire, di prosa musicale. Inoltre i pezzi chiusi vengono aboliti e sostituiti
da un sviluppo sinfonico libero, ininterrotto fino al termine di ciascun atto, la cui innervature
architettonica è costituita da motivi conduttori ricorrenti (leitmotive) rivestiti di una fondamentale
funzione drammaturgica: quella di segnale inconscio, di reminiscenza o premonizione legata a
personaggi, oggetti, affetti, situazioni; e sono anche il mezzo che permette al narratore onnisciente
Wagner di commentare l’azione.
IL NOVECENTO

Il teatro musicale del nascente Novecento (secolo che alla fruizione della contemporaneità preferisce
la riproposizione di repertori del passato, caricando così il teatro di una funzione museale) si trova di
fronte a un bivio: aderire al wagnerismo o rigettarlo? A questa domanda i compositori (sempre più
impegnati su tutti i fronti della scrittura musicale, non solo in quella per le scene come perlopiù in
passato) rispondono ovviamente ciascuno a suo modo, avendo comunque ormai ben metabolizzato
sia l’idea di opera come dramma (e spettacolo, in cui dunque l’aspetto della messinscena e della
recitazione non è meno importante della riuscita orchestrale e canora) che si dipana entro un fluire
orchestrale continuo, sia la tecnica del Leitmotiv. Chi, almeno in un primo tempo, sembra abbracciare
senza riserve l’espressione wagneriana è il tedesco Richard Strauss (1864-1949): nella potenza,
varietà, spessore dell’ordito sinfonico, nell’armonia ora sontuosa, nella gestualità grandiosa ed
esaltata, nella facilità a formulare temi evocativi, nel canto nervoso, convulso, caratterizzato da ampi
intervalli che richiedono voci d’acciaio. Tuttavia, in virtù dell’incontro con i sofisticati libretti
confezionatigli dal poeta Hugo von Hofmannstahl, e a partire dal Rosenkavalier ("Il cavaliere delle
rosa", 1911), il teatro di Strauss ricerca sempre più volentieri atmosfere di sapore settecentesco e
mozartiano, fatte di edonistica levità, politezza formale, fine umorismo, sonorità distillate in amalgami
cameristici, rovesciandosi infine in struggente malinconia senile. I paesi di lingua tedesca restano
evidentemente più segnati dall’esempio di Wagner, delle cui istanze di rinnovamento linguistico si
appropriano esasperando in chiave espressionistica il turgore armonico tristaniano (che nella
cosiddetta Scuola di Vienna iniziata da Arnold Schönberg (1874-1951), e condotta a maturazione in
ambito teatrale da Alban Berg (1885-1935), porta alla cancellazione della sintassi tonale in vigore da
almeno quattro secoli, e in ambito canoro ad adottare un’emissione vocale strascicata a mezzo tra il
parlato e il cantato, lo Sprechgesang, mutuata dagli usi del cabaret) per poi recuperare, dopo il primo
conflitto mondiale, il controllo razionale della costruzione sonora: la dodecafonia (v. glossario) per
Schönberg e i suoi sodali, la "nuova oggettività" ricercata da Paul Hindemith (1895-1963). Musica da
cabaret, ritmi ballabili, canzoni triviali con ritmi e armonie deformate sono peraltro alla base delle
partiture confezionate da Kurt Weill per Bertold Brecht, teorizzatore di un teatro anti-illusionistico,
che dichiari in ogni momento la propria artificiosità costringendo lo spettatore allo straniamento, ossia
alla dissociazione critica con quanto accade sulla scena. Come nella Dreigroschenoper ("L’opera da tre
soldi", 1928).

Rifugge Wagner e imbocca una via del tutto personale il francese Claude Debussy in Pelléas et
Melisande (1902). Musica e libretto, tratto senza quasi mutar virgola dall’omonima pièce simbolista
di Maurice Maeterlinck, sono in tutto antiretorici e antidrammatici, improntati alla staticità,
all’indeterminatezza, alla rarefazione di un tessuto sonoro raffinato e armonicamente sfuggente, al
sussurro che rasenta il silenzio. L’orchestra al completo suona di rado: in partitura i "fortissimi" si
contano sulle dita di una mano. I personaggi non agiscono ma sono succubi di un destino
incomprensibile, e il loro canto si risolve in un declamato sillabico studiatamente privo di enfasi, di
partecipazione emotiva. Da qui forse deriva la tendenza della musica francese degli ultimi cent’anni a
negare il dramma musicale (eco wagneriana solo superficiale nell’idea di "fusione delle arti" da
realizzarsi nel balletto predicata e praticata da quella strepitosa fucina di modernismo che tra il 1909
e il 1929 furono i Ballets Russes di Sergej Djaghilev), preferendo piuttosto mettere a nudo i meccanismi
a orologeria del teatro in partiture antiromantiche concise, nervose, ironiche, sarcastiche, cristalline,
eclettiche nello stile, rassicuranti sul piano tonale, spesso di piccolo taglio e in genere sempre molto,
molto blasé. Un neoclassicismo di fondo il cui vero codificatore, nonché l’interprete principale, il più
acuto e demistificante, è stato il russo Igor Stravinskij, esploso come fenomeno scandaloso a Parigi
collaborando con i Ballets Russes. Nelle opere, nei balletti, nel teatro da camera ha professato
sistematicamente la dissociazione tra poesia, musica, scena, azione, tra voce e personaggio, tra
significato della parola e intelaiatura musicale, allo scopo di restituire all’arte il suo carattere originario
di gioco scanzonato e privo di pathos che, attraverso la provocatoria commistione di scritture
differenti per provenienza storica, geografica, culturale, e la riproduzione alterata, deliberatamente
squilibrata, di stili del passato, di convenzioni e luoghi comuni, si fa caricatura irriverente, grottesca,
fissata in fredda rigidità antinaturalistica e atemporale - ciò che accade nell’opera-oratorio Oedipus
rex (1927), plumbeo pannello d’atmosfera mortuaria, cantato in latino e introdotto da un narratore in
frac, nel quale i cantanti, pressoché immobili, entrano ed escono trasportati da pedane; o in The Rake’s
Progress ("La carriera di un libertino", 1951), calco del melodramma italiano a pezzi chiusi con
un’infinità di richiami musicali da Bach a Cajkovskij.

L’Italia agli albori del Novecento sviluppa l’insegnamento dell’ultimo Verdi e non disdegna di volgersi
alla Francia di fine secolo, specie alla dolce sensualità e al lirismo sentimentale di autori quali Jules
Massenet (1842-1912). Nel contempo il wagnerismo, pur avendo scarse ricadute sulle scelte
drammaturgiche, incide sulla scrittura vocale e strumentale (vengono adottati, per esempio, i
Leitmotive) determinando una notevole libertà formale nella costruzione delle scene musicali e
imponendo all’orchestra una maggior presenza sinfonica. Le linee melodiche continuano ad avere
profili pronunciati e rotondeggianti tendenti ora a un sentimentalismo commovente o sensuale, ora
allo sfogo lirico prepotentemente esibito; ma si fa largo anche un cantare lesto e fluido che intende
rispecchiare i modi del conversar quotidiano, benché poi la fortuna dell’estetica verista (cominciata
con Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, 1890) porti con sé una declamazione più spinta, se non
addirittura l’urlo. Ma il verismo, con la sua predilezione per ambientazioni contemporanee e plebee,
non è che una delle inclinazioni del teatro musicale italiano di quest’epoca, che adora l’esotismo
floreale (praticato da Giacomo Puccini, il maggior operista del momento e l’unico davvero sensibile
agli orientamenti dell’avanguardia europea, in Madama Butterfly, 1904, e nell’incompiuta Turandot,
data postuma nel 1926), si fa tentare da D’Annunzio (che la musica di Ildebrando Pizzetti traduce, da
inizio secolo fino agli anni Cinquanta, in un declamato di aulica staticità), guarda con simpatia al
Settecento. Quasi un presagio della corrente neoclassica che, dal primo dopoguerra in poi, si rivolterà
polemicamente contro il "puccinismo" imperante. Nello stesso periodo matura anche lo stile di Luigi
Dallapiccola, il primo italiano ad avvalersi del metodo dodecafonico (v. glossario), che con il
Prigioniero (1950) porta sulla scena uno dei temi a lui più cari, quello della libertà (e della mancanza
di libertà).

Nell’Est europeo la voce più originale è di sicuro quella del ceco Leóš Janácek: non privo di profonde
valenze simboliche, il crudo naturalismo di Jenufa (1904) e Kát’a Kabanová (1921) è reso attraverso la
libera concatenazione di temi ricorrenti con linee vocali che rispecchiano le curvature melodiche della
lingua parlata. Pari violenza tragica, anche fonica ed erotica, non disgiunta però da una robusta vena
satirica, sprigiona la Lady Macbeth del distretto di Mzensk del russo Dmitrij Šostakovic (1934)
condannata dal regime stalinista perché contraria ai valori rivoluzionari, eroico-celebrativi e
nazionalistici, fondativi del teatro musicale sovietico.

Per la Gran Bretagna l’operista di riferimento è Benjamin Britten, abilissimo comunicatore e artigiano
della musica, interessato a indagare gli abissi interiori di personaggi emarginati dalla società o
psicologicamente vulnerabili (come Peter Grimes, 1945). Nei suoi lavori, sempre ancorati alla tonalità,
ricorrono sovente le forme della tradizione, sia nelle parti strumentali che in quelle vocali - le quali,
del resto, hanno un ruolo preminente, aderendo perfettamente al senso e al ritmo della parola.
Comunque nei Paesi anglofoni il genere più popolare è tuttora il musical, che peraltro ultimamente
può perfino rinunciare ai dialoghi per farsi tutto cantato.
Ciò che contraddistingue l’evoluzione della musica scenica nell’ultimo cinquantennio è una pluralità
di tendenze contrastanti, riflesso allo stesso tempo delle inquietudini e dei malesseri sociali, politici,
artistici d’oggi, ma anche segno della sostanziale vitalità dell’opera, genere che dopo gli anni Venti,
dopo Wozzeck di Berg e Turandot, in molti davano per spacciato, e che invece rinnovato soprattutto
in contenuti e meccanismi (per esempio partiture concepite per radio e tv o per contesti multimediali)
continua a parlare alla contemporaneità. Intanto, soprattutto con John Cage (1912-92), Mauricio Kagel
(1931-viv.), Dieter Schnebel (1930-viv.), Luciano Berio (1925-2003), Sylvano Bussotti (1931-viv.), si è
assistito alla teatralizzazione della musica strumentale o del canto da camera, la cui realizzazione
trascende la compostezza del concerto tradizionale mutandosi in performance gestuale che mette in
gioco anche la fisicità dell’esecutore, magari fiancheggiato da oggetti di scena o suoni elettronici. In
ambito specificamente scenico, poi, c’è chi, come Berio, indifferente agli intrecci tradizionali, si è
interessato piuttosto alla divaricazione dei piani prospettici e al rapporto instabile tra musica, testo,
azione; chi come Luigi Nono (1924-90) ha perseguito con pervicacia l’idea di un teatro d’avanguardia
in funzione politica; chi come Karlheinz Stockhausen (1928-viv.) ha voluto inquadrare la sua
propensione alla sperimentazione più ardita entro la monumentalità di un ciclo operistico in progress
intitolato Licht; chi, infine, prosegue nella formulazione di un teatro narrativo, e Hans Werner Henze
(1926-viv.) ne è tuttora il capofila. (GMo)

IL SAPERE

IL PENSIERO
Che cos’è la musica

Le origini della musica sono celate, come quelle del linguaggio, nel passato più remoto della storia
dell’umanità. A prescindere dal punto di partenza della speculazione sulle origini (il ritmo come battito
interiore che si traduce in suono? la coscienza primitiva delle potenzialità imitative ed espressive della
voce umana?), la ricostruzione dell’evoluzione della musica dipende dalla definizione che se ne dà e,
viceversa, la possibilità di definirla è condizionata dalla conoscenza delle sue manifestazioni e dei suoi
sviluppi. Fenomeno e attività, disciplina scientifica e diletto dei sensi, linguaggio simbolico e codice
cultura: da qualsiasi punto di vista la si guarda, la musica offre sempre una prospettiva ulteriore. Come
la vita, il mito, la filosofia e la religione, essa non si presta ad una definizione univoca e assoluta. Ciò
che noi occidentali chiamiamo “musica” si è trasformato e continua a trasformarsi con il mutamento
delle civiltà, assumendo funzioni diverse nelle diverse società e presso i singoli individui che le
compongono. Una risposta esaustiva alla domanda posta dal titolo di questa sezione implicherebbe
pertanto lo studio della fenomenologia del suono e della sua percezione; delle modalità con cui i suoni
diventano veicoli di espressione; delle funzioni della musica nei diversi contesti culturali e dei vari
aspetti della sua prassi.

L’idea che la musica sia un “linguaggio universale” ha radici antiche e attraversa in maniera più o meno
esplicita l’intera storia del pensiero occidentale (musica e linguaggio). La nostra scelta di circoscrivere
gran parte della trattazione alla musica d’arte in occidente è innanzitutto pragmatica: l’impossibilità
di comprendere in un unico iperteso l’intero universo dei linguaggi e delle pratiche musicali, ma in
essa è implicita la convinzione che soltanto la conoscenza degli elementi e dei processi costitutivi di
questa tradizione – nella piena consapevolezza che essa non sia l’unica – può demistificare l’idea
astratta della sua superiorità, e fornire strumenti concreti e concettuali per lo studio di altre tradizioni
musicali. L’individuazione dei tratti specifici di ogni tradizione, e la distinzione tra questi e quelli
comuni a tutte le musiche, possono incrementare la comprensione della scena musicale odierna che
sembra allargare i confini del concetto di musica, evolvendosi verso una visione sempre più aperta e
“universale” dell’arte dei suoni.

DEFINIZIONI ED ETIMOLOGIE

I tentativi moderni di fornire una definizione sintetica e universale della musica rendono manifesta la
complessa generalità del fenomeno e implicano la densità concettuale che contraddistingue la
riflessione sulla musica in occidente.

Ecco qualche esempio, altri possono essere visionati nella scheda AFORISMI E RIFLESSIONI:

“Arte di combinare più suoni in base a regole definite, diverse a seconda dei luoghi e delle epoche”
(Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, da 1967 in poi);

“Suono umanamente organizzato” (John Blacking, 1973);

“Il sonoro costruito e conosciuto da una cultura” (Jean Molino, 1975);

“La musica è tutto quello che ascoltiamo con l’intenzione di ascoltare musica … tutto può diventare
musica” (Luciano Berio, 1993).

Come è stato ripetutamente ribadito dagli etnomusicologi, gran parte delle culture non occidentali
“non hanno mai avuto nelle loro lingue un termine la cui estensione semantica corrispondesse, in
tutto o in parte al concetto eruropeo di musica, ma ciò non ha impedito che producessero e
utilizzassero, nel corso dei secoli, forme e strutture sonore anche estremamente elaborate”
(Francesco Giannattasio). Presso queste culture, la musica non è concepita come “cosa in sé” ma viene
identificata nelle sue manifestazioni concrete (la voce che canta, gli strumenti che producono suoni
diversi) e in rapporto alle sue funzioni nella vita della comunità (riti, celebrazioni, attività lavorative,
ricorrenze familiari ecc.). Anche nell’antichità occidentale la musica non era concepita come arte a sé
bensì come la componente sonora di un insieme di attività intellettive e fisiche, creative ed esecutive
che partecipavano a tutte le manifestazioni rituali e artistiche delle società in questione. Il termine
greco mousikè – da “musa” (etimo di origini oscure e dibattute: potrebbe essere nato da una radice
che indica “montagna” in riferimento alle vette dell’Olimpo, oppure dal verbo “ideare” ) - era
strettamente legato a quello di “techné” (arte) sottolineando la complessa sinergia tra le tre
componenti dell’arte delle muse: la poesia, la danza e la musica.

D’altra parte, l’origine mitologica del concetto di musica traspare senza un’analoga denominazione in
altre civiltà antiche per le quali l’elemento sonoro era considerato il principio fondante dell’universo:
la risata del dio egiziano Thot, le cosmologie e lo studio astrologico dei pianeti in Mesopotamia, la
parola creatrice del Dio della Genesi biblica ne sono gli esempi più noti. L’idea di un’armonia delle
sfere ha attraversato l’oriente e l’occidente lungo i secoli dalla più remota antichità fino alle soglie
dell’età moderna, attribuendo alla musica un potere e un’aura divina e sublime. Oltre alla derivazione
etimologica del termine greco da “musa”, appare nel Medioevo anche l’ipotesi che rimanda al
vocabolo egiziano “moys”, acqua (a sua volta legato a Mosé che pertanto viene indicato, senza
nessuna appoggio nelle scritture, come l’inventore della musica – ruolo che la Bibbia affida a Jubal
figlio di Lamech). Su questo accostamento di musica e sorgenti d’acqua (che trova ampia conferma
nella letteratura mesopotamica – sia nella Bibbia ebraica sia nelle mitologie assiriche e babilonesi) i
trattati medievali edificano teorie sul movimento e sul flusso della voce – canale e veicolo sonoro degli
umori dell’essere umano. Nella voce si incontrano e si fondono le due componenti distinte ed
essenziali della vita, di cui la musica è la più fedele e complessa espressione: la materia e lo spirito;
l’umano e il divino; il corpo e l’anima; i sensi e la ragione.

CENNI STORICI

La storia della musica e del pensiero musicale occidentale è attraversata da una dialettica tra un
approccio razionale, che vede la musica come scienza della combinazione dei suoni secondo regole
oggettive che ne stabiliscono anche le modalità espressive, e un approccio soggettivo che parte dalla
realtà sonora ed esplora le modalità espressive della musica e i suoi effetti sull’ascoltatore. Il primo,
che ha le sue radici nella tradizione pitagorica, ha prevalso nella trasmissione di un sapere musicale
“oggettivo” basato sul numero, sulle proporzioni e su un sistema modale che regola l’universo sonoro
assumendo, nel pensiero scientifico-filosofico della tarda antichità e del Medioevo, una valenza
cosmologica, teologica e quindi religiosa. La distinzione di Severino Boezio tra “musica mundana”
(delle sfere), “musica humana” (della mente e dell’anima) e “musica instrumentalis” (la musica
realmente cantata e suonata) (il testo è riportato negli aforismi e riflessioni) che ha avuto un peso
determinante nelle scuole di pensiero successive, trae l’attenzione ad un’altra opposizione dialettica,
strettamente legata alla prima: quella fra teoria e prassi. Il sapere (“musica scientia”) – riservato nel
Medioevo ai pochi e dotti teorici della musica (“musici”) – era rimasto a lungo distinto e separato dalla
prassi musicale – campo d’azione di chi la musica la “faceva” cantando e suonando (“cantores”).
L’evoluzione della notazione musicale e la codificazione scritta del repertorio liturgico a partire dal VI
secolo hanno incrementato da una parte la l’invenzione compositiva e dall’altra la vocazione teorica
relativa allo statuto scientifico della musica come parte del Quadrivium delle arti liberali (assieme
all’aritmetica, alla geometria e all’astronomia). Il concetto medievale di ars musica riflette questa
evoluzione indicando l’insieme delle conoscenze tecniche e speculative relative ai suoni: la
combinazione di parole e melodia, le tecniche strumentali e la valutazione delle opere prodotte, ma
non cancella la distanza reale tra la sfera della teoria e della tecnica compositiva e quella della pratica
artistica e la sua ricezione effettiva e affettiva.

Il sorgere nel Rinascimento dell’idea di “musica poetica”, che proclama la qualità espressiva del suono
musicale in quanto fenomeno assieme naturale e umano, segna una tappa fondamentale nel lungo
processo di emancipazione della musica, la quale tende a rinnovarsi e a superare sia le griglie della
teoria sia l’appellativo religioso, per affermarsi come arte umana e autonoma, dotata di codici
espressivi e capace di comunicare stati d’animo e idee. La dialettica tra vecchio e nuovo, che si
manifesta puntualmente lungo la storia della musica occidentale, talora con vere e proprie polemiche
tra opposte scuole di pensiero, è un’ulteriore indice della natura intrinsecamente dualistica e
movimentata del fenomeno e dell’esperienza musicali.

Sul piano concreto dell’invenzione e della prassi, uno dei fattori principali nel processo di
emancipazione della creatività musicale, è stata la graduale cristallizzazione della tonalità con il
relativo compendio di principi compositivi che regolavano invenzione e scrittura senza irrigidirne la
libertà creativa. La fioritura della musica strumentale come veicolo espressivo ricco di potenzialità
quanto quello della musica vocale costituiva un importante aspetto di questa nuova libertà. Già a
partire dal XII secolo, con i componimenti lirici dei trovatori e le prime composizioni polifoniche per la
chiesa, le creazioni musicali (successivamente definite come opere) recavano la firma e il marchio
stilistico di un autore, erano dotate di determinate Forme e attribuibili a diversi generi (v. principi
formali). Gli alberi di questa magnifica tradizione hanno nutrito e sono stati nutriti da secoli e
generazioni di compositori il cui statuto mutava dalla sottomissione alle autorità ecclesiastiche e alle
corti ad un’indipendenza artistica e materiale raggiunta pienamente soltanto all’inizio dell’Ottocento.
Con l’emergenza della borghesia anche il pubblico della musica colta cambiava fisionomia allargandosi
rompendo i confini di classe e promuovendo un’interazione sempre maggiore tra vita musicale e realtà
sociale.

Dalla seconda metà dell’Ottocento, la produzione musicale del passato, fino ad allora oggetto di
ispirazione, studio ed esercitazione per gli addetti ai lavori, diventava sempre più oggetto di consumo
passivo e di culto “museale” presso i teatri d’opera e le società di concerti. Gli sconvolgimenti politici
e morali della prima metà del Novecento e la contemporanea rivoluzione tecnologica (v. tecnologie)
con l’introduzione dei mezzi per la riproduzione della musica (v. i mezzi di diffusione), hanno cambiato
radicalmente la scena musicale in Europa e nel mondo. La cosiddetta “crisi della tonalità” agli inizi del
XX secolo, e il superamento del vecchio sistema con la ricerca di nuovi principi compositivi (la
dodecafonia, il serialismo integrale) o nell’esplicita rinuncia ad ogni regola (aleatoria e casualità),
hanno coinciso con un profondo ripensamento del concetto di opera e di musica in generale. La
materia stessa della musica – il suono – è diventata oggetto di indagine e di sperimentazione aprendosi
a fenomeni che prima non erano considerati “musicali” (il rumore, i suoni registrati nella strada e nella
natura, i suoni prodotti sinteticamente) generando nuove visioni dei processi e dei linguaggi
compositivi, nonché del contenuto e della funzione socio-culturale della musica.

Musiche

La cultura musicale occidentale si è sviluppata e trasmessa attraverso la scrittura allontanandosi


sempre più dalle forme spontanee della “musica quotidiana” delle tradizioni orali – quella che
accompagna il lavoro, le ricorrenze, lo svago della gente comune. La musica d’arte europea ha
inglobato in sé gli idiomi popolari delle diverse comunità sublimandoli e inserendoli in un sistema
complesso di tecniche, valori estetici, costumi sociali e dinamiche economiche. Il sapere musicale
accumulatosi nei secoli e istituzionalizzato in un sistema di istruzione sempre più specializzato e
mirato, si è diffuso nei cinque continenti rendendo fruibile il suo splendido “prodotto” (il grande
repertorio della musica occidentale) ma – all’interno del processo di globalizzazione socio-economica
– ha messo a repentaglio un enorme bagaglio di tradizioni locali che, grazie alla sensibilità e alla
lungimiranza di antropologi ed etnologi (v. etnomusicologia), che a volte si trovavano tra i missionari
e altre volte operavano in conflitto con loro, sono state salvate come documenti (v. oralità e scrittura)
ma non più come realtà.

La forza prorompente con la quale sta avanzando, negli ultimi decenni, la musica popolare (c’è chi
preferisce l’inglese “popular music”, per sottolineare la differenza con la “folk music”) in tutte le sue
espressioni e generi, potrebbe essere spiegata, tra l’altro, come una rivendicazione di un diritto
all’espressione musicale spontanea, comprensibile e, volendo, eseguibile da tutti, ovunque, con o
senza appellativi, con o senza istruzione. Musica della gente e per la gente. L’esame di questo
fenomeno fa emergere alcuni punti in comune con altre culture musicali, lontane nel tempo e nello
spazio dal mainstream della tradizione colta europea:

1) la natura essenzialmente orale del fenomeno;


2) lo stretto rapporto tra espressione poetica ed espressione musicale; tra sentimento, parola e canto;
3) l’esigenza di novità;
4) la spinta della musica a farsi veicolo delle tendenze rituali di una società: i miti e i culti individuali e
collettivi hanno bisogno della componente dionisiaca della musica, della sua risposta a e del suo
stimolo di una fusione di corpo e anima, che trova espressione spontanea nel movimento, nel ritmo,
nel canto e nel suono degli strumenti che accompagnano canto e danza.

L’individuo, la comunità e la società che si evolve nell’interazione tra individuo e comunità, rispondono
a questi stimoli con i mezzi che la musica del tempo e del luogo mette a loro disposizione. Non è un
caso che in un’epoca di sconfinata e saturante “comunicazione” come la nostra, in un pianeta sempre
più piccolo (perché sempre più globalizzato) troviamo nell’ambito della musica popolare un po’ di
tutto: dai ritmi autenticamente indigeni ai recuperi nostalgici di melodie dal sapore antico, dalle
semplici canzoni d’amore alle sofisticate costruzioni elettroacustiche, dal rituale di un ballo iberico
all’estasi di un concerto rock, dalla musica “etnica” suonata con alle batterie amplificate con potenti
mezzi tecnologici; dalla musica “classica” resa jazz o rielaborata per tastiere midi a una “world music”
che annega le proprie radici in un idioma uniforme e ibrido. Lo statuto stesso dell’ascolto si è
modificato radicalmente all’interno di questa nuova cultura musicale, ed è emerso il fenomeno di un
ascoltatore/arrangiatore che assembla e manipola musiche altrui rivendicando la competenza e il
diritto di costruirne creativamente un proprio mélange personale da consumare o ascoltare a piacere,
liberamente dalle norme estetiche formate nell’ambito della musica “seria”.

Uno dei compiti più importanti di chi insegna e studia la storia della musica oggi, è quello di analizzare
questa realtà alla luce dell’esperienze del passato e all’interno dei contesti culturali, sociali ed
economici del presente. La prospettiva antropologica nella ricerca etnomusicologica, i nuovi approcci
alla cultura musicale in epoche remote (dall’antichità al Medioevo), la crescente diffusione di studi
sulla musica “leggera” in quanto un fenomeno centrale anche dal punto di vista musicale (e non
soltanto da quello sociologico), e l’apertura sempre maggiore degli studi musicologici ad
un’impostazione interdisciplinare – tutti questi possono favorire una visione più ampia e più realistica
di una realtà musicale in continua e profonda trasformazione. (TPB)

FENOMENOLOGIA DEL SUONO


“Il materiale acustico subisce fin dall’inizio una preparazione, viene cioè selezionato e ordinato, in
modo da costituire un veicolo adatto all’idea [musicale] che vi si esprime” (Ulrich Michels). E’ questo
principio di ordine, di costruzione e di potenzialità espressiva che distingue il materiale della musica
dalla materia sonora in generale. In questa sezione ci interesseranno le dinamiche percettive ed
estetiche tramite cui il fenomeno sonoro diventa fenomeno ed esperienza musicale. Più che della
fenomenologia del suono, parleremo in effetti della fenomenologia dell’ascolto.

Nella sezione Suono è stata evidenziata la natura complessa dell’oggetto sonoro che è un risultato
dell’interazione tra uno stimolo acustico prodotto dalle vibrazioni di un corpo fisico, il canale di
trasmissione di queste vibrazioni e i significati oggettivi (fonte, collocazione nello spazio, volume,
registro) e soggettivi (piacevole, aspro, chiaro, oscuro) attribuiti al fenomeno durante la percezione.
La possibilità di percepire il suono in tutta la sua pregnanza senza vederne (e persino senza
riconoscerne) la fonte, ha conseguenze importanti nella riflessione estetica sull’ascolto in generale e
su quello musicale in particolare. Si racconta che Pitagora tenesse le sue lezioni dietro uno schermo,
così che i suoi discepoli potessero concentrarsi sul contenuto delle sue parole senza essere distratti
dalla vista di chi le emetteva. Da qui la qualifica dei pitagoriani come “akousmatikoi” - quelli che
desiderano sentire (e ascoltare). Il compositore francese Pierre Schaeffer (1910-1995), padre della
“musica concreta”, nel suo famoso “Traité des objets musicaux” (Trattato degli oggetti musicali),
ritiene che quando ascoltiamo, tendiamo a staccare il suono dalle circostanze della sua produzione e
di riferirci ad esso come a una cosa in sé.

La complessità e l’autonomia dei suoni stanno alla base della speculazione e della prassi musicale in
occidente, dove la spinta verso l’astrazione e la spirituralità hanno allontanato l’esperienza musicale
dalle sfere della natura e del rito sciogliendo la fusione delle modalità espressive (verbale, orchestica
e musicale) caratteristica di quelle sfere, per farla evolvere come scienza e arte autonoma (v. Che cos'è
la musica?).

INTENZIONE E INTONAZIONE, SILENZIO E RUMORE

La musica – intesa al livello più elementare come “suono organizzato”– per esistere deve essere
prodotta, o meglio agita dall’uomo in tempo reale: dalla sua voce, da uno strumento da lui suonato,
costruito o programmato. Il principio dell’organizzazione (dei ritmi, delle altezze, della tessitura e delle
combinazioni di voci, strumenti, ecc.), e quello dell’azione nel tempo (l’esecuzione), sono applicati ai
suoni attraverso un processo di intenzione e intonazione. L’intenzione (di chi agisce musicalmente)
trasforma i suoni, e volendo anche i rumori, in “materiali sonori”, la cui selezione e organizzazione
sono mirate alla costruzione di un evento musicale. L’intonazione (intesa come impostazione ed
emissione dei suoni in ordine alle loro altezze) definisce il suono e lo predispone ad entrare in relazione
con altri suoni intonati. L’atto della selezione e l’intenzionalità (come anche il principio generale di
organizzazione di elementi costitutivi), sono comuni a ogni attività artistica e intellettuale;
l’intonazione, invece, è specifica alla musica. Il suono intonato può essere soltanto potenzialmente
musicale (ad esempio: il suono oscillante di una sirena, o quello ritmato di un clacson, di per sé non
sono definibili come “musica”, ma possono essere utilizzati, come del resto qualsiasi rumore, in un
contesto musicale) oppure metaforicamente tale (il canto dell’usignolo di cui ignoriamo le dinamiche
intenzionali e presumiamo le modalità d’intonazione e organizzazione).

Il silenzio circonda il suono e predispone all’ascolto, ma esso svolge anche un ruolo fondamentale
nella strutturazione di qualsiasi “discorso” musicale. (v. ritmo) La rivalutazione del silenzio come
elemento autonomo di espressione e comunicazione di idee musicali coincide con l’introduzione del
rumore come parte integrante del repertorio sonoro delle avanguardie del Novecento (cfr. la
definizione della musica proposta da John Cage (v. Aforismi e riflessioni) che ha modificato lo statuto
estetico di un fenomeno che prima era considerato sgradevole e privo di connotazioni espressive (v-
suono). La possibilità di costruire e di manipolare il suono per mezzo delle tecnologie elettroacustiche
e digitali ha rivoluzionato imetodi e spesso la sostanza della composizione travolgendo i concetti di
scrittura (v. oralità e scrittura) di opera (v. musica e linguaggio) e della sua trasmissione. Permane
comunque il concetto di processo musicale, basato sulla selezione e l’organizzazione del materiale
sonoro, processo che, una volta compiuto, prende vita in un evento musicale.

La musica colloca l’ascoltatore all’interno di un mondo sonoro in cui le leggi, e i processi che le mettono
in atto, si definiscono e si svolgono tra i suoni. Rapporti tra unità, direzionalità, dinamica e staticità,
somiglianze e differenze, attesa, conferma e sorpresa, ripetizione e variazione, tratti stilistici e accenti
distintivi... tutte queste cose e altre ancora diventano gli elementi del “tempo nel tempo” che l’evento
musicale instaura al di là della contingenza di elementi verbali (testo poetico o drammaturgico, traccia
narrativa ecc.) visivi (danza, teatro, cinema) e contestuali (circostanze individuali e sociali, contesti
culturali).

IL SUONO NEL TEMPO

Il suono “scorre attraverso il passato e si imprime nella memoria”, diceva Agostino (De ordine, II 14).
La percezione dell’evento sonoro avviene simultaneamente all’accadimento dell’evento stesso. Esso
si iscrive nella mente, dove può risuonare, ma anche tacere per riaccendersi come ricordo, come
segno, o simbolo, legato ad altri - sonori e no. Il suono è un segnale, un tratto istantaneo e invisibile
che racchiude in sé un processo temporale. LA percezione simultanea di elementi successivi nel tempo
è un fenomeno che non ha paragoni in altre esperienze sensibili. Molti studi filosofici, psicologici,
cognitivi e musicologici sono stati dedicati alle dinamiche percettive dell’ascolto senza tuttavia
risolverne del tutto il mistero. L’intensità delle pagine dedicate da Edmund Husserl alla percezione del
suono, e del suono musicale in particolare, nel suo trattato “Sulla fenomenologia della coscienza
interna del tempo”, dimostrano la centralità del fenomeno nell’indagine del filosofo sull’esperienza
del tempo; la terminologia e le metafore cui egli fa ricorso non riducono la complessità del problema
ma lo rendono decisamente più plastico e tangibile. La metafora husserliana di “Kometenschweif”
(coda o scia di cometa) è particolarmente utile ai nostri fini: la percezione di una melodia
assomiglierebbe secondo questo paragone a quella della traccia visiva lasciata dalla cometa mentre
attraversa lo spazio: il residuo di coda luminosa corrisponderebbe alle note appena udite che la
memoria ritiene mentre l’orecchio percepisce le altezze suonate all’istante, analoghe, queste, alla
punta della cometa ancora visibile nel cielo. L’anticipazione della direzione in cui la cometa procede
una volta sparita dal campo visivo, corrisponderebbe alla nostra coscienza che “protende” con la
melodia verso il suo proseguimento. E’ vero infatti che in ogni istante dell’ascolto il presente si
assomma alla cognizione dei suoni passati e all’anticipazione di quelli a venire nella “direzione”
indicata; ma la traiettoria, nella musica – anche nelle sue manifestazioni strutturalmente più codificate
e teleologiche - è molto più aperta e meno prevedibile di quella di una cometa. Più che di anticipazione
conviene dunque parlare di attesa o di aspettativa: “Un evento musicale (che si tratti di un suono, di
una frase o di tutta una sezione) ha un significato perché indica e crea l’attesa di un altro evento
musicale” (Leonard Meyer).

LO SPAZIO SONORO

La temporalità dei processi sonori e musicali non li astrae dallo spazio in cui essi si formano. Il suono
non esisterebbe senza il riverbero dello spazio nel quale esso viene emesso, e la percezione di un
complesso o di una successione di suoni è condizionata dai rapporti spaziali e acustici tra le loro fonti.
Ma l’incidenza sull’ascolto della componente spaziale della percezione umana va ben oltre la realtà
acustica del fenomeno sonoro. Roger Scruton, nel suo libro “The Aesthetics of Music” trae l’attenzione
alla “non opacità” degli oggetti sonori: la simultaneità del loro accadimento non esclude la
percettibilità di ciascun suono; un evento sonoro può essere percepito nella sua interezza anche
quando è costituito da una moltitudine di suoni. La musica offre all’ascolto una sorta di “visione
panoramica” delle cose udite. I capolavori polifonici del Rinascimento trasmettono all’orecchio
l’architettura degli spazi per i quali furono concepiti. Si pensi alle magnifiche composizioni policorali
di Andrea e Giovanni Gabrielli per la cattedrale di San Marco di Venezia con le sue due cantorie
affrontate e i numerosi organi; o all’introduzione alla Passione secondo Matteo di Bach, composta per
la chiesa di San Tommaso a Lipsia, che impegna due cori di quattro sezioni vocali ciascuno, un
ensemble strumentale con organo, e un coro di bambini (“voci bianche”) che intona la melodia di un
semplice Lied che emerge ogni tanto dall’intreccio polifonico come un’apparizione candida e
trasparente in cima ad un’immensa cattedrale gotica.

La simultaneità della percezione musicale abbraccia tutte le dimensioni del fenomeno sonoro: il
carattere individuale di ciascun suono, la coincidenza “verticale” (v. armonia) di più suoni nello stesso
istante e la successione “lineare” (v. monodia e polifonia*) dei singoli elementi ed eventi. La capacità
di ritenere e proiettare in avanti l’intera informazione udita in un tratto di tempo crea nell’ascoltatore
un’associazione spaziale che prescinde dalla collocazione reale della fonte del suono. Il movimento
della musica nel tempo sembra mimare e rimandare a una configurazione che si muove nello spazio;
esso corrisponde inoltre (in modi e misure che variano secondo la complessità della musica,
l’individualità dell’ascoltatore e il contesto culturale) ai gesti corporei e ai moti interiori di chi la
produce e ascolta. E’ all’interno di questo processo che va cercato il significato dell’evento musicale
(v. musica e linguaggio).

PROSSIMITÀ E ALTERITÀ DEL SUONO

I suoni ci giungono da qualche parte; anche quando li produciamo noi, una volta emessi, non si
possono raggiungere. Eppure, quando ci giungono, essi si offrono alla nostra percezione interamente,
liberamente, senza esclusione o interruzione spontanea. Finché risuona, il suono è udibile. A
differenza dell’immagine – dalla quale si può togliere lo sguardo o barrarlo chiudendo gli occhi – il
suono ci segue; per non udirlo non basta tappare le orecchie… Questa enigmatica combinazione di
alterità e di illimitata percettibilità del mondo sonoro è una delle ragioni della ricchezza dell’esperienza
musicale che dà forma al suono e richiama ad un ascolto attivo e partecipe che non ha limiti di luogo,
lingua, etnia, genere, e che può svilupparsi su molteplici livelli di consapevolezza e di comprensione.
(TPB)

MUSICA E LINGUAGGIO

Interrogarsi sulla somiglianza e sulle divergenze tra musica e linguaggio è sempre stata una necessità
più o meno consapevole del pensiero musicale occidentale. L’antico e sempre rinnovato incontro tra
parola e intonazione nella voce che canta, ha fatto del linguaggio un compagno privilegiato della
musica. La dimensione temporale e gestuale di entrambi i fenomeni, l’aspetto performativo di alcune
forme di esperienza verbale (la recitazione teatrale, ad esempio) e il margine di ambiguità di senso
che esiste in altre (la poesia) sono tra i fattori che contribuiscono all’ampiezza del terreno di scambio
tra linguaggio e musica. Il fatto che in determinati momenti storici le due esperienze sembrino
combaciare non significa tuttavia che la corrispondenza sia permanente e connaturata.

La riflessione sul rapporto linguaggio-musica dipende innanzitutto dalla definizione che si dà del
termine “linguaggio”: se lo si circoscrive alla sfera della comunicazione verbale, la questione si pone
in termini di paragone e analogia (la musica è come il linguaggio? Quali sono le somiglianze tra musica
e linguaggio?); se l’accezione è quella più estesa (un insieme di codici che trasmettono informazione,
un sistema simbolico dotato di capacità espressiva e comunicativa), la questione è più sostanziale e
complessa: la musica è un linguaggio? Semplificando molto si potrebbe dire che, come nei linguaggi
naturali, alla base della musica stanno due fattori: “il materiale acustico da un lato, e l’apporto umano
e culturale dall’altro.” (Ulrich Michels). Ma, come ha osservato il grande linguista Roman Jakobson: “la
particolarità della musica in rapporto alla poesia risiede nel fatto che l’insieme delle sue convenzioni
[…] si limita al sistema fonologico e non comprende ripartizioni etimologiche dei fonemi, dunque
niente vocabolario”. La musica è un sistema simbolico che non rimanda direttamente a oggetti,
esperienze e concetti specifici. Ma è comunque un insieme di codici dotato di regole, convenzioni,
facoltà espressive (v. espressione), funzioni sociali (v. Le funzioni della musica) e libertà creativa che
variano ed evolvono secondo l’epoca e il luogo.

In questa sezione cercheremo di rendere più consapevole e specifico l’impiego di locuzioni quali
“linguaggio musicale” o “linguaggio della musica” attraverso un breve panorama storico delle
principali declinazioni che l’analogia con il linguaggio ha avuto nella riflessione estetica sulla musica,
sulla sua capacità di trasmettere significati, di essere portatrice di senso, e sulle modalità in cui tali
capacità si realizzano.

DALL’ANTICHITÀ AL RINASCIMENTO

Una riflessione sistematica sul fenomeno musicale come linguaggio è assente, di per sé, fino all’età
moderna, prima della quale il concetto di mimesi o "qualità rappresentative" della musica costituisce
l’orizzonte condiviso della significazione musicale. I filosofi-scienziati dell’antichità e del Medioevo
ponevano le basi sia ad una teoria del suono in quanto elemento fondante di un sistema razionale
dotato di regole "sintattiche" sia ad un’indagine sulla percezione, sugli effetti e quindi sul valore
"semantico" delle creazioni generate da quel sistema. Questa duplice prospettiva rimane una
caratteristica fondamentale del dibattito estetico sulla musica a prescindere dall’esistenza di un
riferimento diretto al rapporto musica-linguaggio. La concezione qualitativa del suono elaborata da
Aristosseno di Taranto, discepolo di Aristotele, si fonda sull’idea che il fenomeno acustico consista in
un movimento topico continuo (cioè in un flusso ininterrotto che si propaga nello spazio). Sulla base
di questa concezione, che riduce il suono a immediato dato empirico, Aristosseno delinea una
dinamica soggettiva della produzione e ricezione di senso musicale. La consonanza e la dissonanza
sono dati percettivi immediati; e su di essi egli basa la costruzione di un sistema di regole compositive,
fondate sull’orecchio, la memoria e l’intelletto (inteso come capacità di mettere in relazione
funzionale gli intervalli musicali percepiti e poi memorizzati). La tradizione pitagorica, che elaborò gli
insegnamenti del maestro Pitagora di Samo (circa 560-480 a.C.), con la sua teoria quantitativa del
suono (v. scala) propone, invece, una teoria percettiva di tipo oggettivo, inscrivendo il flusso melodico
nella struttura teorica dei sistemi modali e della loro preordinata significazione. L’aritmetica
pitagorica, infatti, riduce i fenomeni naturali ad espressioni della struttura numerico quantitativa che
è fondamento archetipico di tutta la realtà fisica. Così, la riflessione sulla musica si configura quale
indagine sulla natura matematica dei rapporti consonanti, a loro volta “linguaggio” (cioè espressione
tangibile, evidente e manifesta) dell’armonia che regola l’universo. Quest’ultima concezione,
consolidata, attraverso Boezio, fu determinante per la trasmissione in occidente di una modalità
aprioristica della valutazione estetica, delineata cioè sulle stesse regole della composizione, a loro
volta giustificate sulla base della costruzione scientifica del discorso sonoro, fondato sui rapporti
matematici di consonanza. Nel lungo corso del medioevo occidentale, con contributi via via nuovi e
sensibilità anche molto divergenti, tale prospettiva speculativa si arricchisce dell’apporto della
teologia cristiana. L’età rinascimentale ripropose l’interpretazione aristossenica "qualitativa" della
musica, sviluppando l’idea di naturalità del suono, con la sua enorme ricaduta, da un lato, sul piano
delle capacità espressive della musica vocale e, dall’altro, sul processo di acquisizione di un autonomo
significato dell’universo musicale, desunto dall’affermarsi della tonalità quale, appunto, sistema
naturale dell’organizzazione dei suoni.

IL TARDO RINASCIMENTO E IL SEICENTO: LA RETORICA

L’analogia tra musica e retorica si evolve nel Seicento a partire dalla speculazione tardo-rinascimentale
sulla capacità della musica di “muovere gli affetti”, come ad esempio troviamo formulata negli scritti
del teorico Gioseffo Zarlino (1517-1590). E’ però nel concetto di musaica poetica, ove poiesis è intesa,
aristotelicamente, come capacità e attività creativa, che la musica acquisisce lo status di arte
d’espressione poetica, cioè creazione basata su principi retorici. L’idea di musica poetica (creazione
musicale) affianca dunque e trasforma il contesto dell’antica musica teoretica (la speculazione
matematico musicale) e di musica pratica (la tecnica esecutiva) grazie soprattutto alla riflessione di
teorici e musicisti tedeschi quali Nicolaus Listenius nei suoi Rudimenta musicae (1533) e Gallus
Dressler (1533-1585 circa). Da questo nuovo modo di concepire la natura dell’arte musicale si giunge
infine, nel ‘600, alla formulazione di vere e proprie teorie di rispondenza tra specifici moti dell’animo
esprimibili verbalmente e gesti musicali (note, intervalli, figure motiviche, modi e tonalità) che ne
esaltano il senso al punto di poter sostituire la parola. Questi artifici retorici (Affektenlehre,
Figurenlehre) sono teorizzati ad esempio nella Musica poetica di Joachim Burmeister (1606) e nel
settimo libro della Musurgia Universalis di Athanasius Kircher (1602-1680). E’ quindi nel corso del ‘600
che avviene il graduale affrancamento della musica dal linguaggio verbale, cioè dal ruolo fino ad allora
riconosciutole naturale di “ancella”, o “sorella”, della parola, per diventare linguaggio essa stessa.

SETTECENTO: MUSICA E LINGUAGGIO

Il termine “linguaggio musicale” sorge nel Settecento, in coincidenza da un lato con l’emergere
dell’estetica come campo distinto della filosofia (formalizzato con l’apparizione tra 1750 e 1758 dell’
“Aesthetica” di Alexander Gottlieb Baumgarten), e dall’altro con la massima cristallizzazione del
linguaggio tonale che, forte di un fondamento armonico “naturale” ma altamente codificato, riscopre
la melodia come veicolo di infinite potenzialità espressive (v. espressione). L’interesse (teorico e
pratico) si sposta gradualmente dalla dimensione “architettonica”, identificata finora con la polifonia
e con le regole dell’arte contrappuntistica tardo-rinascimentali, alla funzione strutturale dell’armonia
e alla sua rilevanza per la dimensione temporale e “orizzontale” della composizione. La teoria della
“generazione armonica” articolata dal compositore e teorico francese Jean-Philippe Rameau (1683-
1764) individuava nel suono fondamentale dell’accordo (v. armonia) il fattore centrale in rapporto al
quale andava definita la posizione dei singoli accordi, la logica della loro successione e l’invenzione
melodica che, secondo Rameau, doveva scaturire da un solido impianto armonico (“Trovare la base
fondamentale di un dato canto vuol dire non solo trovare tutta l’armonia di cui questo canto è
suscettibile, ma anche il principio che lo ha suggerito”). Contemporaneamente venivano elaborate
nuove idee sulla natura e sul ruolo della melodia nella costruzione di un discorso sonoro dotato di
autonomia logica e grammaticale. Mentre i trattati di composizione del primo Settecento (tra cui
spicca quello di Johann Mattheson, “Il perfetto maestro di cappella”, 1739) ragionano ancora in
termini derivati dall’arte oratoria (Inventio, Dispositio, Elaboratio, Decoratio), la teoria sull’origine
comune della musica e del linguaggio umano di Jean-Jacques Rousseau, in pubblica polemica con
quella di Rameau, sostiene che la melodia, “semplice, naturale e appassionata […] non trae la sua
espressione dalle progressioni del basso, ma dalle inflessioni che il sentimento dà alla voce” (1755).
Questa espressione (o rappresentazione) del sentimento tramite il canto rinforza e supera il valore
comunicativo della parola: “La melodia non imita solamente, essa parla; e il suo linguaggio inarticolato
ma vivo, ardente, appassionato, possiede cento volte più energia della stessa parola” (1760). La
musica vocale è ancora al centro del dibattito estetico, ma il ruolo della musica strumentale come
emblema dell’autonomia espressiva della musica diventa sempre più centrale sia nei trattati di
composizione in lingua tedesca (di Joseph Riepel tra 1752 e 1768, poi Heinrich Christoph Koch tra 1782
e 1793, che dedicano notevoli spazi a questioni di struttura e di fraseggio melodico con esempi
prevalentemente strumentali) sia nella riflessione filosofica degli enciclopedisti francesi sulla
percezione sensibile in generale, sia nel nascente pensiero romantico che vede “una certa tendenza
alla filosofia di tutta la musica strumentale pura” (Friedrich Schlegel, 1797).

OTTOCENTO: LA MUSICA NEL PENSIERO FILOSOFICO E LE BASI DEL FORMALISMO

Nel Romanticismo la musica è esaltata in quanto linguaggio aconcettuale capace di esprimere tutto
ciò che non può essere espresso nel linguaggio verbale; essa è “misterioso linguaggio di Dio”
(Wackenroder), essenza della poesia, lingua segreta alla quale tutte le arti dovrebbero guardare, e lo
stesso linguaggio verbale è “uno strumento musicale di idee” (Novalis). Si fa strada l’idea di musica
assoluta (formulata da filosofi e scrittori romantici quali Herder, Tieck e E.T.A Hoffmann che la
identifica con la musica sinfonica di Beethoven) – capace di affrancarsi da qualsiasi altra modalità
espressiva (parola, gesto, azione scenica) – come ideale di purezza ed essenzialità dell’espressione
umana e quindi come oggetto e mezzo di riflessione filosofica sulla “quinessenza della vita”
(Schopenhauer). Per Kierkergaard la prevalenza dell’elemento “lirico” della lingua farà cessare il
linguaggio “e tutto diventerà musica”. Per Schopenhauer la musica è capace di rappresentare la natura
in quanto copia del mondo delle idee, e quindi di narrare la volontà. La riflessione sul senso profondo
della musica, che trova nelle opere e negli scritti di Wagner il suo epicentro, soppianta del tutto la
speculazione sul valore semantico di singoli eventi e gesti musicali. L’indagine sulle modalità di
significazione diventa compito della critica (v. La critica musicale) e della teoria musicale (v. Teoria e
analisi): entrambe focalizzate sul testo musicale e la sua realizzazione sonora come l’unico terreno
valido per la comprensione e la valutazione dell’opera. Le basi del formalismo estetico della seconda
metà dell’Ottocento sono poste dal critico e storico della musica Eduard Hanslick nel suo saggio “Il
bello musicale” (1854), dove egli sostiene che “le leggi del bello in ogni arte sono inseparabili dalle
caratteristiche particolari del suo materiale, della sua tecnica”. Il repertorio del passato diventa
oggetto di osservazione e analisi formale, tematica, e “grammaticale” dove abbondano concetti
linguistici come frase, periodo, accento, elisione e segmentazione. L’analogia tra musica e linguaggio
sembra ormai un’acquisizione consolidata sia sul piano semantico sia su quello sintattico, ma non
scompaiono i quesiti e le aporie che la sottendono.

NOVECENTO I: STRUTTURALSIMO; LINGUISTICA; LA MUSICA E LE NUOVE DISCIPLINE

Il graduale venir meno, a partire dai primi anni del XX secolo, delle norme e dei codici grammaticali
legati alla tonalità, ha modificato i termini del dibattito riportandolo alle sue origini: la naturalità del
suono e il sistema tonale che ne consegue sono l’unica base per la formulazione di enunciati musicali
che giustifichino la qualifica di “linguaggio”? La spinta “quantitativa” dell’arte dei suoni riemerge con
la ricerca di nuovi criteri di organizzazione di quello che per assimilazione è ormai riconosciuto
universalmente come il “discorso musicale”. Il dibattito sulle valenze strutturali e linguistiche della
musica seriale e post-seriale stimola nuove riflessioni sull’analogia tra linguaggio e musica tout court,
coinvolgendo in maniera decisiva esponenti di diverse discipline sullo sfondo delle emergenti teorie
linguistiche. La musica come “sistema”, “struttura” e “linguaggio” ha un ruolo centrale nell’intero
opus filosofico di Theodor Adorno, nell’antropologia strutturalista di Claude Lévi-Strauss, nella
nascente semiotica di Umberto Eco, nella linguistica paradigmatica di Nicolas Ruwet, nel pensiero di
Gilles Deleuze e di Roland Barthes, nell’estetica analitica di Nelson Goodman. La linguistica
generativa, la fonologia, la psicologia e le scienze cognitive nutrono la ricerca creativa delle
avanguardie musicali del secondo dopoguerra, nel seno della quale prassi e teoria spesso coincidono
dando luogo a una vera e propria trattatistica sui nuovi linguaggi musicali.

NOVECENTO II: LINGUAGGIO COME MATERIA SONORA

Il ricorso al plurale diventa sempre più frequente nel riferimento alla dimensione linguistica della
musica, mentre la materia prima – il singolo suono – da un “vocabolo” naturale da combinare e porre
in relazione con altri suoni, diventa oggetto autonomo d’indagine analitica per mezzo delle nuove
tecnologie prima elettroniche poi digitali. La composizione del suono entra a far parte del processo
creativo. La parola, i testi poetici, l’intero apparato dell’espressione verbale e dei codici linguistici,
vengono sottoposti a un’analisi sonora intesa come estensione delle potenzialità timbriche ed
espressive dei fonemi (Stockhausen, Berio), come esplorazione dei misteri dell’ascolto (Nono), come
manipolazione parodistica (Kagel), come gestualità drammatica e teatrale (Berio, Ligeti), come
specchio e commento della realtà contemporanea. Si potrebbe dire che la prassi si è impadronita delle
teorie e ha messo in crisi il concetto stesso di linguaggio musicale sia dal punto di vista delle norme e
dei codici sia e soprattutto da quello della comunicazione. (TPB e CP)

ESPRESSIONE
La dottrina aristotelica dell’arte come mimesi, ossia come imitazione della natura, e più
specificatamente della natura intrinseca dell’animo umano, costituisce fino al tardo Settecento la base
della riflessione occidentale sulla capacità della musica di esprimere e di muovere gli affetti. “Nelle
melodie – dice Aristotele – c’è una possibilità naturale d’imitazione dei costumi, dovuta
evidentemente al fatto che la natura delle armonie è varia sicché ascoltandole nelle loro diversità ci si
dispone in modo diverso di fronte a ognuna di esse” (Politica, 1340b). Tale premessa di una
corrispondenza naturale e definibile tra idiomi musicali e passioni e sentimenti umani circoscrive a
lungo il dibattito sulle facoltà espressive della musica alle modalità con cui essa diventa
rappresentazione sonora degli stati d’animo riferiti dalle parole e azioni di un testo cantato o messo
in scena. La graduale emancipazione del compositore dai vincoli della chiesa e della corte, la crescente
autonomia della musica strumentale e la contemporanea cristallizzazione di un linguaggio musicale
regolato dal sistema tonale (v. tonalità) e dotato di un apparato condiviso ma aperto e flessibile di
codici formali e stilistici puramente musicali, spostano l’attenzione dalle modalità di rappresentazione
di un repertorio di effetti e “topoi” predefiniti all’individualità espressiva dell’autore e al contenuto
dell’opera come espressione di una coscienza sensibile e spirituale in continuo movimento ed
evoluzione. La personalizzazione e l’interiorizzazione del concetto di espressione a partire dal
movimento dello Sturm und Drang nel tardo Settecento in Germania non mettono a tacere le voci in
favore di una visione razionale e “universale” del linguaggio musicale. La polemica di Hanslick contro
Wagner e il formalismo tardo ottocentesco come reazione al Romanticismo, la negazione da parte di
Stravinsky della capacità della musica di esprimere qualsiasi cosa come anti-altare dell’espressionismo
viennese del primo Novecento: sono manifestazioni emblematiche della dialettica tra ragione e sensi,
che attraversa la storia del pensiero musicale in occidente riponendo in ogni epoca la questione del
rapporto tra forma e contenuto e tra costruzione, espressione e significato musicale.

Nei paragrafi che seguono affronteremo alcuni dei risvolti estetici di questa dialettica. Per un
inquadramento storico si veda la sezione Musica e linguaggio; per un commento generale sulla
funzione espressiva della musica al di là del contesto occidentale si veda la sezione Funzioni della
musica.

IMITAZIONE E IMMAGINAZIONE

Il mondo è pieno di suono e rumore. Il canto degli uccelli, il fruscio del vento, il respiro del mare, i gridi
delle piazze, il furore delle macchine sono elementi costanti della realtà, e la possibilità di imitarli,
elaborarli e sublimarli in forme simboliche è uno dei stimoli più antichi e universali della creazione
musicale.

Chiede Diderot nella sua “Lettera sui sordi-muti” (1751): “Come mai delle tre arti imitatrici della
natura, quella la cui espressione è più arbitraria e meno precisa tuttavia parla con più forza alla nostra
natura? Forse che la musica mostrando meno direttamente gli oggetti lascia più spazio alla nostra
immaginazione, oppure che avendo noi bisogno come di una scossa per commuoverci, essa è più atta
che non la pittura e la poesia a produrre in noi questo effetto di tumulto?”

La musica, nel pensiero degli enciclopedisti francesi, ha alle sue origini un elemento pre-linguistico
altrettanto istintivo quanto l’impulso della comunicazione verbale. Questa visione pone il mistero
dell’espressione musicale in stretto rapporto alla natura dell’uomo – natura che l’arte dei suoni
trasmette ai sensi e alla mente con una forza ineguagliabile nelle altre arti (Diderot la definisce persino
“la più violenta di tutte le arti”). La musica non riproduce né descrive la realtà, e per questo è “più
arbitraria e meno precisa” della pittura e della poesia, ma proprio questa arbitrarietà e questa
imprecisione sono alla radice della risposta maggiore di due delle principali facoltà umane che
agiscono nella percezione dei fenomeni artistici: immaginazione ed emozione. Il collegamento tra
espressione musicale e immaginazione allarga i confini della trattazione permettendo una libertà
interpretativa che può abbracciare tanto la sfera della mente quanto quella del cuore e delle
emozioni. Come osserva Enrico Fubini, l’imitazione secondo Diderot è operata dalla musica non in
rispetto alla realtà esterna bensì al “rapporto profondo, originario, diretto e non mediato […] con le
strutture più profonde del nostro essere e della natura, e con quella cosmica vitalità che anima l’intero
mondo naturale”.

Si potrebbe compiere un passo ulteriore verso una maggiore astrazione che è sottintesa nel pensiero
dei filosofi dell’Illuminismo. Durante l’ascolto musicale la mente percepisce una rete di relazioni che
si realizzano tra i suoni: si tratta di “immagini sonore” che a loro volta possono essere “tradotte” in
figure, idee, sensazioni e sentimenti. Più complessa è la musica e più livelli di percezione e di
“traduzione” sono percorribili nel processo di assimilazione e comprensione. Dall’eccitazione istintiva
e corporea all’evocazione mentale di cose udite in precedenza, dalla commozione di fronte a uno stato
d’animo sublimato in un canto alla vibrazione di figure geometriche intrecciate nello spazio,
dall’energia vitale di un rito pagano alle vette spirituali di una cattedrale sonora, dal semplice diletto
dei sensi all’esercizio della conoscenza e delle facoltà analitiche: le vie dell’immaginazione musicale
sono infinite ed è nel processo di interazione tra questa e l’evento sonoro nel suo dispiegamento nel
tempo interiore dell’ascolto che l’espressione prende forma perdendo la propria apparente
“arbitrarietà” e dotando di senso le cose udite.

ESPRESSIONE, SIGNIFICATO, ESPRESSIVITÀ


Tra le tante accezioni che il termine “espressione” è venuto ad assumere nel corso dei secoli, quella
originaria, dal latino “expressio”, è strettamente legata all’arte oratoria e ai relativi processi di
enunciazione e significazione (“dar senso a qualcosa tramite un linguaggio” è la definizione che dà del
verbo “esprimere” una cronaca senese del XIII secolo). Infatti, se scorriamo gli enunciati che
all’ipotetica domanda “Che cos’è la musica?” abbiamo portato come esempi di risposta (v. la scheda
Aforismi e riflessioni), ci accorgiamo che il ricorso ai vocaboli “esprimere” ed “espressione”, che da
Rousseau in poi si fa sempre più frequente, è spesso affiancato al riferimento alla musica come
“linguaggio”. Ma mentre quest’ultimo può essere evitato (parlando di “musica” tout court) o sostituito
da altri riferimenti più o meno metaforici (discorso, metalinguaggio), il concetto di espressione si è
rivelato centrale e insostituibile nel dibattito estetico sulla musica, ponendo in primo piano l’aporia
del significato musicale.

Guardiamo da vicino alcuni enunciati. Herder parla della musica come “linguaggio magico dei
sentimenti”: l’utilizzo dell’aggettivo “magico” implica qualcosa di ineffabile e indefinibile, mentre con
“linguaggio” non si intende necessariamente “espressione” dei sentimenti. La musica “non
rappresenta direttamente le cose ma eccita nell’anima gli stessi sentimenti che si prova vedendo le
stesse cose” (Rousseau); essa trae il sentimento, lo “ex-preme” da se stessa senza riferirsi a qualcosa
di esterno (Leopardi). Hegel, contrario alla concezione imitativa della musica, riconosce l’affinità
dell’arte dei suoni con la sfera emotiva, ma insiste sull’autonomia dell’aspetto intellettuale che
permette ai suoni a combinarsi tra loro liberamente da vincoli espressivi. Non sorprende pertanto che
molti esponenti del pensiero musicale occidentale abbiano preferito circoscrivere il dibattito estetico
sulla musica alla sua sostanza - alle regole, alle tecniche e alle specifiche modalità di costruzione e di
svolgimento del discorso musicale - evitando la ricerca di significati al di fuori di essa. Secondo questa
visione, il senso della musica risiede all’interno delle “forme sonore” che ne costituiscono l’unico
contenuto: “i suoni non solo sono ciò con cui la musica si esprime, ma anche sono l’unica cosa
espressa” (Eduard Hanslick). Il formalismo novecentesco aggira il nodo dell’espressione utilizzando
termini derivati dallo strutturalismo linguistico: “nella musica il significato è immanente al significante,
il contenuto alla forma, a un punto tale che rigorosamente parlando la musica non ha un senso ma è
un senso” (Boris de Schloezer); ma neanche nelle affermazioni di Igor Stravinsky, il quale nega alla
musica la capacità “di esprimere alcunché: un sentimento, un’attitudine, uno stato psicologico, un
fenomeno naturale, ecc.”, viene messa in questione la qualità espressiva della musica. Roger Scruton
propone di intendere il concetto di espressione musicale in senso “intransitivo”: la musica esprime, è
espressiva, ma l’espressione che se ne sprigiona non si lascia definire e descrivere in maniera
inequivocabile.

UN ESEMPIO

LA MUSICA VOCALE (che costituisce il nucleo principale del repertorio occidentale fino alla fine del
Seicento) offre infinite possibilità di osservare le potenzialità e le ambiguità dell’espressione musicale.
Esistono casi in cui l’interazione tra i due linguaggi, quello poetico o drammaturgico e quello musicale,
raggiunge un equilibrio tale che permette una comprensione del significato profondo della musica
anche senza conoscere i particolari del testo e dell’azione scenica. Nel Terzo Atto di “Le nozze di
Figaro” di Mozart, la Contessa, tradita dal Conte, rimpiange in un recitativo seguito da una grande aria
i bei momenti della giovinezza (link all’incipit dell’aria “Dove sono i bei momenti” da, Le nozze di Figaro
di Mozart, Atto III, Scena 6) (link a file testo ***). Ascoltando la musica non vi è dubbio che essa
esprime uno stato d’animo di tristezza che si tramuta nel corso dell’aria in moti di rabbia, sgomento,
speranza. Ma non basta osservare questi moti d’animo per riassumere l’espressione del brano; dire
che la musica evoca tristezza non esaurisce la pienezza e la specificità di questa esperienza d’ascolto,
ben distinta da quella provocata da altre musiche vagamente descrivibili come “tristi”. Quello che
succede in questo capolavoro è una completa penetrazione dell’espressione nelle pieghe della
struttura musicale. Quello che noi percepiamo non è la tristezza (lo sgomento, la speranza) come
qualità assoluta, ma un processo musicale che “traduce” lo stato d’animo acquistando una propria
autonomia estetica. La musica mima le “onde” del sentimento offrendone una “metafora sonora”. Il
significato di quanto sentiamo e proviamo sta nelle pieghe del passaggio sottile dalla tristezza in
quanto sentimento, atmosfera, stato d’animo, alla sua trasmissione musicale, che avviene cioè con
mezzi e processi intrinsecamente musicali. Senza ignorare, anzi penetrando la psicologia del
personaggio e le sfumature recondite del suo stato d’animo, Mozart le “libera”, le esprime e al tempo
stesso le trascende attraverso l’autonomia di svolgimento del discorso sonoro. L’espressione è
immanente alla propria manifestazione in musica, anche quando la si può dedurre da e descrivere in
parole.

Mozart - Nozze di Figaro, Aria della Contessa "Dove sono i bei momenti"

ESPRESSIONE E ARTE ESECUTIVA

La concezione della musica come rappresentazione o imitazione degli affetti sottintendeva una
notevole condivisione di codici tra autore, esecutore e ascoltatore. I trattati settecenteschi di prassi
esecutiva (tra cui spiccano quelli di Johann Joachim Quantz per il flauto e di Carl Philipp Emanuel Bach
per il clavicembalo, entrambi gli autori essendo compositori e interpreti di fama) illustrano questa
concezione con indicazioni dettagliate relative al valore espressivo del fraseggio, degli abbellimenti, e
della libera fantasia nelle forme che prevedevano interventi estemporanei dell’esecutore. Il successivo
passaggio a una concezione più astratta dell’espressione musicale poteva avvenire anche grazie a
questa consolidata tradizione di codici comunicativi che hanno predisposto una sensibilità estetica in
un pubblico di fruitori sempre più vasto. Le “forme sonore” di cui parla Hanslick si riferiscono al
concetto occidentale di opera musicale che presuppone un autore, un testo scritto e la sua
realizzazione sonora che comporta diversi livelli e modalità di interpretazione. L’esecuzione fedele e
corretta del testo musicale non è sufficiente per garantire una comunicazione del suo contenuto (v.
prassi esecutiva). L’ individualità dell’opera, il suo carattere e la sua linfa vitale (in quanto agita
dall’uomo) hanno bisogno di qualcosa di più per essere trasmessi all’ascolto. Questo “più” è, per
l’appunto, l’espressione: l“essenza” della musica, che nasce dalla sensibilità di un autore (o di una
tradizione collettiva) e si realizza nell’opera musicale che, nel suo risuonare attraverso l’individualità
dell’interprete, acquista una vita autonoma e si trasmette all’ascoltatore, il quale a sua volta la accoglie
e la interpreta con la propria immaginazione e coscienza.

LA MUSICA E LE IDEE

Hegel riteneva che l’arte – in quanto prodotto della mente umana – derivasse il proprio valore estetico
ed etico dalla sua capacità di esprimere idee e concetti. Le arti sono manifestazioni sensibili dello
spirito, e ogni opera d’arte costituisce una rappresentazione di possibilità mentali percepibili dai sensi.
L’aporia della significazione musicale viene risolta dal grande filosofo tedesco con il primato della
musica vocale che garantisce una pienezza di senso assente secondo lui nella musica puramente
strumentale. Eppure, proprio negli stessi anni delle “Lezioni sull’estetica” hegeliane, la musica
sinfonica di Beethoven stava diventando emblema e manifestazione della capacità della musica di
competere con le altre arti, e per i filosofi del Romanticismo superarle nell’espressione astratta e
“assoluta” di idee e di valori spirituali. In Beethoven l’individualità del genio creativo assume su di sé
un impegno morale che si esprime con mezzi puramente musicali: gli ideali dell’Illuminismo e gli
equilibri dello stile classico vengono sottoposti da lui a una riflessione critica e via via più sovversiva.
Da Fidelio alla Nona Sinfonia, dall’Eroica agli ultimi quartetti, la musica Beethoven interagisce con la
realtà ponendo in primo piano la volontà dell’autore e la sua capacità di agire sulla coscienza degli
individui in una società che riconosce ormai nella propria tradizione musicale un patrimonio di valori
che trascendono l’immediatezza del diletto e della bellezza del prodotto artistico. Da Beethoven in
poi, il concetto di espressione musicale si estende oltre la sfera individuale del musicista il quale, pur
libero a dare forma sonora ai propri sentimenti e pensieri, è investito di una responsabilità sociale e
morale che la musica è in grado di esprimere nonostante, e forse proprio grazie alla molteplicità dei
suoi significati. (TPB)

LE FUNZIONI DELLA MUSICA

“La musica non è mai sola”, diceva il compositore Luciano Berio. Essa nasce e si articola in molteplici
forme e con diverse funzioni ovunque esiste vita e comunicazione umana. Perché la musica, anche
quando non trasmette un messaggio specifico e traducibile in parole, è una forma di comunicazione,
che riflette e interagisce con il contesto sociale nel quale è generata e agita. Alla polisemia del termine
“musica” corrisponde un’analoga pluralità di funzioni che variano da una cultura all’altra e si mutano
in seno a culture la cui evoluzione è segnata dall’idea di progresso. Il sapere e la prassi musicale in
occidente si sono istituzionalizzati nel corso dei secoli in un sistema di istruzione, documentazione e
diffusione, basato sul concetto di musica come arte e scienza (v. Che cos’è la musica?)e regolato
sempre più marcatamente da criteri di mercato. Questa rete, con le sue diramazioni di “musica seria”
(o “classica” come di solito la si denota con una sineddoche che attribuisce a tutta la musica colta
occidentale la nozione di classicismo legata allo stile musicale della seconda metà del Settecento),
“musica leggera” e altre, ha assimilato nel corso della sua evoluzione molteplici idiomi di musica
popolare che, nel processo di modernizzazione e di acculturazione delle masse, ha perso la propria
funzione originaria di accompagnamento delle attività quotidiane (v. Oralità e scrittura) degli individui
e delle comunità. La globalizzazione socio-economica e le tendenze transculturali in atto da alcuni
decenni hanno reso i prodotti della musica occidentale fruibili ovunque nel mondo mettendo in crisi
la funzione e a rischio la sopravvivenza di culture musicali di millenaria tradizione, e ponendo in primo
piano la complessa questione di identità culturale e il ruolo della musica nella sua definizione.

Un tentativo di riassumere in pochi capi le funzioni della musica nei suoi molteplici contesti è destinato
a essere carente ed eccessivamente schematico. È necessario un ragionamento fortemente dialettico
nella definizione delle finalità di un fenomeno che abbraccia la sfera individuale e collettiva e che
implica al tempo stesso un’attività naturale e artificiale, istintiva e disciplinata, fisica e intellettuale.
L’etnomusicologo Francesco Giannattasio, partendo da un elenco di dieci funzioni individuate da Allan
P. Merriam, le articola in tre categorie principali:

1) funzioni di organizzazione e supporto delle attività sociali;


2) funzioni di induzione e coordinamento delle reazioni sensorio-motorie;
3) funzioni espressive.

Alla prima appartengono le attività musicali relative ai riti religiosi e sociali, alle cerimonie,
celebrazioni, ricorrenze, alle occasioni di lavoro e d’intrattenimento collettivo, in cui la musica funge
una funzione di stimolo e di organizzazione. La seconda categoria isola in effetti un aspetto
fondamentale ma non esclusivo di ogni esperienza musicale: la componente cinetica implicata
nell’esecuzione vocale e strumentale nonché nella danza, ma anche nell’ascolto passivo e “nei modi
in cui la musica interagisce con i meccanismi automatici e volontari del corpo umano, concorrendo fra
l’altro a reazioni cinestetiche ed emotive” che possono “contribuire all’induzione di stati di alterazione
della coscienza” (Giannattasio) - stati che si manifestano in molte culture con fenomeni di trans, estasi
e catarsi terapeutica. Alla terza categoria appartiene l’intera sfera dell’espressione individuale, la
comunicazione di idee attraverso forme simboliche codificate all’interno di una cultura musicale, e il
godimento estetico. È in questo ambito che si pone in primo piano e con tutti i suoi risvolti la dialettica
tra l’autonomia della musica in quanto organismo artistico che trae senso dalle proprie strutture
trascendendo le circostanze in cui è realizzato, e la sua eteronomia in quanto prodotto e
rappresentazione di una determinata realtà sociale e storica. Il dibattito sulla capacità della musica di
comunicare e di trasmettere emozioni e concetti (v. musica e linguaggio), e sul rapporto tra evento
musicale, realtà extramusicale e la sfera dell’inconscio sono intrisi di questa dialettica.

La funzione terapeutica della musica, nota fin dall’antichità e vagamente implicita tra le tre categorie
elencate sopra, ha avuto negli ultimi decenni un riconoscimento e un’applicazione di notevole
profondità e diffusione nella musicoterapia come campo specifico di studio e di attività professionale.
L’importanza della musica nell’educazione (v. pedagogia) fin dalle primissime fasi della vita è
riconosciuta universalmente, ma la sua applicazione varia molto tra le diverse culture e da un paese
all’altro. Mentre nelle società di tradizione orale la partecipazione del bambino alle attività musicali è
parte integrante della sua formazione in quanto membro della comunità, nelle culture occidentali il
compito della formazione musicale è delegato a professionisti e a istituzioni specializzate e ciò
comporta spesso una netta carenza nell’introduzione naturale del bambino ai segreti e ai piaceri della
musica.

L’apporto di discipline quali l’antropologia, la psicologia, le scienze cognitive e la semiologia - con le


quali lo studio tradizionale della storia e delle prassi musicali interagisce intensamente negli ultimi
decenni - è stato fondamentale per allargare gli orizzonti e approfondire la comprensione delle
dinamiche universali che accomunano l’esperienza musicale in culture diverse (v. etnomusicologia).

“COM’È MUSICALE L’UOMO?”

Uno dei contributi più originali allo studio della musica come linguaggio universale è stato quello
dell’etnomusicologo irlandese John Blacking, che ha esposto le sue idee nel libro “How musical is
man?” (Com’è musicale l’uomo, 1973). La musica è definita da Blacking suono umanamente
organizzato (con l’accento su “umanamente” che distingue questa definizione da quelle di Varèse e
di Cage, v. Aforismi e riflessioni) e la sua funzione profonda secondo lui è quella di incrementare la
qualità dell’esperienza individuale e delle relazioni umane all’interno della comunità: le strutture della
musica riflettono modi e moti dell’esperienza umana, e il valore di un brano musicale in quanto musica
è inseparabile dal suo valore in quanto espressione di tale esperienza. Blacking fonda la sua analisi
della musicalità dell’uomo sulla natura sociale delle funzioni, delle strutture e del valore della musica.
L’aspetto rivoluzionario di questa idea (al tempo della sua proclamazione molto dibattuta) è la
considerazione che tutta siano come forme d’espressione umana e sociale, e quindi ugualmente
"popolari" e ugualmente comunicative. Secondo Blacking i termini "folk" (o "popular") e "arte"
dovrebbero essere, se non proprio aboliti, riferiti non al prodotto musicale bensì ai processi e ai modi
di articolazione dell’esperienza che l’hanno prodotto. Culture di tradizione orale “popolare” possono
avere musica "d’arte" anche se tecnicamente parlando essa è più semplice della musica prodotta in
una cultura basata sulla scrittura e sul progresso scientifico e materiale.
Nel postulare una relazione tra musica e società Blacking volge l’attenzione non tanto al grado di
sviluppo di una data società quanto al suo ethos e ai processi socio-culturali che l’hanno generato. Egli
ritiene che molti dei processi attivi nelle relazioni umane in una società sono gli stessi che vengono
utilizzati per “organizzare i suoni musicali disponibili” a quella società. La musica, in tutte le sue
manifestazioni, riflette secondo lui l’interazione tra fattori universali legati alla natura musicale
dell’uomo, e fattori sociali e culturali. I prodotti artistici e musicali di una società non sono espressioni
astratte o “rituali” di fenomeni culturali: essi sono dei commenti consapevoli sulla condizione umana,
esprimono i rapporti dinamici tra natura e umanità, e tra le persone nella loro esistenza in diverse
culture in diversi momenti. La creatività collettiva di una comunità nutre la vita interiore dell’individuo
che ne fa parte, la creatività individuale si nutre del patrimonio espressivo della comunità e lo rianima.
Nella musica “popolare” il riferimento al contesto sociale è più esplicito ed essenziale; nella musica
“d’arte” il riferimento diventa più allusivo e astratto e il commento risiede nella musica stessa che
attraverso dei procedimenti più o meno complessi acquisisce vari gradi di emancipazione estetica
rispetto al proprio contesto sociale.

Dagli esempi più complessi ed evoluti di musica di antica tradizione orale (come quella dei Pigmei Aka
dell’Africa Centrale, studiata dall’etnomusicologo Simha Arom, o da quella della tribù dei Venda del
Sudafrica, studiata da Blacking) emerge una straordinaria fusione di schematicità formale e libertà
espressiva; gli eventi musicali che ne risultano sembrano al tempo stesso improvvisati e costruiti,
spontanei ed elaborati, ripetitivi e variati. La musica sembra allora emanciparsi dalla propria
funzionalità che tuttavia ne rimane la fonte imprescindibile.

ASPETTI MORALI DELL’ESPERIENZA MUSICALE

Lo studio delle culture musicali tradizionali e contemporanee rappresenta oggi una corrente
importante delle discipline musicologiche ed etnomusicologiche. La posizione critica nei confronti di
un atteggiamento eurocentrista verso le musiche extraeuropee è oggi largamente condivisa. Il rispetto
della diversità e il riconoscimento del valore intrinseco del patrimonio culturale altrui costituiscono la
base degli studi etnologici e antropologici odierni e in campo musicale rappresentano, almeno
idealmente, una salvaguardia contro gli effetti negativi di una globalizzazione che tende a fondere e
commercializzare idiomi lontani tra loro sotto l’etichetta di una “world music” buona per tutte le
occasioni. Tale rispetto e tale riconoscimento significano anche un’attenzione verso i valori
extramusicali della tradizione musicale occidentale. I principi costruttivi ed estetici della musica d’arte
europea non possono e non devono diventare una pietra di paragone e un criterio di giudizio su altri
modi di “organizzazione del suono” presso altre culture e altri costumi musicali; ma all’interno della
nostra società essa ha un valore che va ben oltre il diletto estetico. Come abbiamo visto nelle sezioni
dedicate al linguaggio e all’espressione, non è possibile esaurire in parole il senso di questo valore, ma
un suo aspetto fondamentale può essere indicato nella funzione morale dell’ascolto – facoltà che la
musica intesa come arte e scienza valorizza ed esplora in tutte le sue potenzialità.

Il mondo di oggi è invaso da suoni la cui funzionalità non è sempre facilmente definibile. I rumori della
civiltà industrializzata sono dei “by products” dei motori e dei prodotti dell’industria stessa e non
hanno alcuna funzione comunicativa. Specularmente, fenomeni come il “muzak” – i sottofondi sonori
diffusi in ambienti pubblici di lavoro, consumo, trasporto o svago – non hanno altra funzione che
quella, presumibile, di attenuare lo stress dell’uomo moderno e di ridurre l’eccitazione nervosa
prodotta da quei rumori. Tali flussi sonori, contraddistinti per lo più da una patina armonica e melodica
dolciastra e indistinta, vanificano l’idea stessa di ascolto e il presupposto che la musica, a prescindere
dal genere e dal grado di complessità e astrattezza, sia sempre, come si è detto, una forma di
comunicazione. Ecco perché, per dirla di nuovo con Blacking, “un madrigale di Gesualdo o una
passione di Bach, una melodia di sitar indiana o un canto africano, il Wozzeck di Berg o il War Requiem
di Britten, un gamelan balinese, un’opera cantonese o una sinfonia di Mozart, Beethoven o Mahler,
possano essere profondamente necessari alla sopravvivenza umana”.

MUSICA E IDENTITÀ

Generata com’è all’interno di contesti sociali e comunitari specifici, l’esperienza musicale svolge un
ruolo importante nella formazione e nell’affermazione di identità individuali e collettive distinte e a
volte contrapposte. Le forme e le modalità di questa funzione della musica sono molteplici e
corrispondono ai molteplici livelli della vita dell’individuo nella comunità. Che si tratti di
appartenenza sociale, politica, etnica, nazionale, religiosa, linguistica, generazionale, di gender e
altre ancora - a ognuno di questi ambiti corrisponde ovunque un patrimonio di musiche
emblematiche che s’investono di un valore simbolico profondo ed efficace. Gli inni nazionali, le
marce militari, le canzoni di protesta e i canti religiosi sono gli esempi più ovvi di un fenomeno assai
più vasto e complesso. La “musica classica” europea, per secoli retaggio della chiesa e privilegio delle
corti aristocratiche, è diventata nell’Ottocento un rito sociale della borghesia. Le canzoni di una
patria lontana mantengono vivi il sentimento di appartenenza degli emigrati. Il grande movimento
del rock statunitense negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento da voce alla rottura di un’intera
generazione con i valori della società dei padri. Le tendenze musicali del mondo giovanile negli ultimi
decenni illustrano il peso che può avere l’adozione simbolica ed effettiva di una corrente musicale
nella definizione d’identità dell’individuo e del gruppo. Ascoltare, ballare e magari eseguire musica
punk piuttosto che techno, metal o trans rappresenta lo stile di vita e i valori del giovane non meno e
forse più del suo abbigliamento, del mezzo di trasporto che usa o delle letture che fa.

Forse è questo il segreto della grande forza dell’arte dei suoni: la musica può unire le anime ovunque
esse siano attraverso un elemento non- o metalinguistico che trascende le singole realtà e si rende
condivisibile senza altre mediazioni, ma al tempo stesso essa è capace di costituirsi come mezzo di
espressione concreto e inconfondibile di impulsi, correnti e gusti specifici dell’individuo e delle
comunità. (TPB)

VALORE E GIUDIZIO ESTETICO

Cos’è il bello in musica? La risposta a questa domanda, così determinante per la qualificazione
dell’esperienza artistica personale e collettiva, ha impegnato tutti coloro che nel corso della storia si
sono occupati a vario titolo di musica, compositori, esecutori, teorici, filosofi e musicologi, dando
luogo a risposte talmente diversificate da diventare uno degli oggetti di studio privilegiati di una
disciplina filosofica autonoma, l’estetica musicale. Prima ancora di interessare gli specialisti del
settore, l’idea che un prodotto musicale possa essere giudicato fa senza dubbio parte di quell’insieme
di convenzioni e assunti pressoché universalmente condivisi che viene talvolta denominato “sensus
communis”, un patrimonio concettuale su cui si fonda il tessuto connettivo della società, spesso
accettato dai suoi membri in modo più o meno acritico e irriflesso. Basta pensare a quanto potrebbe
sembrare assurda, oltre che oltraggiosa, la negazione del diritto di esprimersi su un brano di musica
in termini di “bella” o “brutta” per farsi un’idea di come la capacità di formulare giudizi estetici sulla
musica sia normalmente considerata come una delle componenti fondamentali, se non come il
fondamento stesso, della fruizione e dell’apprezzamento musicale. Tuttavia, qualora ci si interroghi
sulla provenienza di tali giudizi e sulle motivazioni che li sorreggono, ci si accorge che le condizioni che
rendono possibile l’attribuzione di un valore a un’opera musicale e la natura stessa di questo valore
appaiono in effetti tutt’altro che palmari, tanto meno universalmente condivise. Se dunque una
definizione teorica che spieghi cosa siano il valore e il giudizio estetico rapportati alla musica appare
ad oggi sostanzialmente impossibile, è tuttavia lecito e necessario provare a fornire alcune risposte
parziali che tengano conto delle categorie filosofiche e sociologiche che nel corso dei secoli hanno
sorretto e qualificato le principali teorie estetiche musicali. Ci aiuterà in questo la classificazione delle
macrotipologie di giudizio musicale stilata nel 1970 dal musicologo Carl Dahlhaus, la quale, sebbene
possa apparire ormai datata e forse un po’ troppo schematica, ha senza dubbio il pregio di essere
sufficientemente generica da consentirci di ricostruire un quadro approssimativo dell’evoluzione della
nozione di valore estetico della musica.

GIUDIZIO FUNZIONALE

Il concetto del “bello” artistico come qualità intrinseca dell’opera d’arte, nel nostro caso musicale, ha
una storia tutto sommato recente. Ripercorrendo rapidamente la storia della dell’estetica dalle
origini fino al XVIII secolo inoltrato, si evince che l’obiettivo principale della musica (non certo
l’unico) era quello di soddisfare nel modo migliore possibile lo scopo per cui era composta (e, nella
maggior parte dei casi, commissionata). Questo poteva essere l’educazione morale della “poleis”, la
celebrazione della liturgia o di un particolare evento politico, la gratificazione artistica di un potente
o la ratificazione della sua maestà agli occhi dei sottoposti, o ancora la sollecitazione di particolari
corde dello spirito umano mediante l’imitazione, la rappresentazione o l’evocazione degli “affetti” ad
esse collegati. In tutti questi casi, e in moltissimi altri, la musica non era vista come “bella” in sé e per
sé, ma in quanto capace di svolgere una data funzione (v. Le funzioni della musica), variabile a
seconda del periodo storico e del contesto sociale, ma sempre definita in rapporto a determinate
convenzioni, discusse e fissate nella trattatistica musicale. Persino la dottrina d’impronta pitagorica
che riconosceva alla musica la capacità di rispecchiare le proporzioni dei corpi celesti e, per
estensione, di tutte le forme del creato si traduceva di fatto nella possibilità e nella necessità di
riprodurre tali relazioni al fine di adeguare la produzione musicale all’equilibrio cosmico e renderla
immagine riflessa dell’armonia divina. Ad un giudizio funzionale si affiancava dunque un giudizio
tecnico: per risultare adatta al proprio contesto, la musica doveva infatti rispondere a una serie di
requisiti compositivi che potevano riguardare la scelta del modo, l’organizzazione interna della frase,
la disposizione delle consonanze e delle dissonanze nel tessuto polifonico, ma anche
l’amministrazione consapevole del vocabolario retorico-musicale e il corretto dosaggio della
complessità dell’intreccio.

Due le principali conseguenze di questa corrispondenza fra ciò che è “bello” e ciò che è “ben fatto”:
innanzitutto l’elevazione del teorico, il “musicus” depositario di un sapere che si spingeva ben oltre
la mera competenza tecnica, allo status di giudice supremo della qualità musicale e, in secondo
luogo, l’identificazione del compositore con l’artigiano che apprendeva un mestiere, “reservato” in
quanto protetto da un principio di corporativismo, e lo applicava secondo criterio, ponendo la cifra
della propria personalità creativa, almeno in linea di principio, al servizio della funzione che la sua
musica avrebbe assolto nel contesto della vita sociale.

Il soverchiamento di questa concezione della musica e della relativa tipologia di giudizio, che si
vorrebbero sgretolate sotto i colpi inferti prima dall’illuminismo kantiano e poi dalle teorie
romantiche ottocentesche, di fatto non si è mai completamente consumato. Il successo che ricosse
la “Vittoria di Wellington”, una composizione “d’occasion” farcita di rappresentazioni
onomatopeiche dei suoni di battaglia che difficilmente può essere ricondotta alla raffinatezza del
linguaggio del maestro di Bonn, non si spiega se non nel quadro delle celebrazioni per il Congresso di
Vienna in cui fu eseguita, un contesto in cui la musica era chiamata esclusivamente a glorificare e
divertire i rappresentanti delle potenze europee convenuti mediante l’uso di un linguaggio
magniloquente e di una retorica musicale immediatamente decifrabile. Ancora oggi, d’altra parte,
esistono nel sistema complessivo della produzione musicale settori tutt’altro che marginali, come
quello della musica destinata alle discoteche, in cui la diretta rispondenza fra qualità del prodotto e
funzione sociale acquista un peso determinante nell’economia della valutazione artistica tout court.

GIUDIZIO ESTETICO

I criteri di adeguatezza e funzionalità, abbiamo visto, non hanno mai del tutto cessato di giocare un
ruolo all’interno della formulazione dei giudizi estetici musicali. Tuttavia, i principi di valutazione che
provengono dalle speculazioni settecentesche e ottocentesche sui concetti di “bello”, “sublime”,
“artistico”, e “poetico” si allontanano drasticamente da questa concezione finalistica dell’arte,
orientandosi verso un’idea della creazione libera, svincolata dalle contingenze, “disinteressata”. Ne
“La Critica del Giudizio”, Immanuel Kant pone al centro della valutazione estetica la “sensazione del
bello”, le idee estetiche veicolate dalle opere esclusivamente in virtù della loro conformazione e,
soprattutto, l’effetto che queste esercitano sull’intelletto e sullo spirito. Le successive riflessioni
formulate da esponenti variamente collegati alla corrente romantica, pur collocandosi dottrina
kantiana e nonostante dedichino complessivamente un’attenzione minore alla questione del giudizio
per concentrarsi piuttosto sulle problematiche legate alla natura dell’arte, non abbandonano, e anzi
esaltano, la possibilità di riconoscere il bello come componente primaria dell’esperienza estetica.
Persino le posizioni cosiddette “formalistiche” di Eduard Hanslik, l’antiromantico per eccellenza che
si scagliava vigorosamente contro le “visionarie” letture programmatiche tipiche della critica
ottocentesca e, in generale, contro l’idea della musica come espressione del sentimento, non
negano a quest’ultima il diritto di essere autonomamente bella, ma, al contrario, pongono proprio
questo punto come seme originario di tutta la riflessione sull’arte dei suoni. L’arte, dunque, e la
musica, possono essere fruite, apprezzate e valutate considerando esclusivamente le qualità che
riescono a sprigionare, in modo assoluto e libero da ogni vincolo di sorta. Da questo punto di vista è
pertanto stupefacente che, in particolare nel XIX secolo, le grandi critiche e poetiche musicali, spesso
firmate dalle penne di illustri compositori e teorici non meno competenti sul piano tecnico, tendano
visibilmente ad omettere ogni considerazione di carattere pratico. Il “mestiere”, proprio in quanto
artigianato musicale, è sì la “conditio sine qua non” dell’apparizione del bello, ma, come tale, è dato
per scontato e pertanto escluso dalla contemplazione estetica, dal momento che la bella arte parla
allo spirito, e questo non è affatto tenuto a preoccuparsi dei processi che l’hanno generata, ma solo
del risultato che essa è in grado di produrre.

Secondo la suddivisione storica proposta da Dahlhaus, dunque, la partecipazione o non


partecipazione di un’opera all’idea del bello è la forma di giudizio musicale peculiare dei secoli XVIII e
XIX, decaduta all’inizio del Novecento con l’avvento della nuova musica e delle estetiche ad essa
collegate. Anche in questo caso, però, prima ancora della constatazione empirica, l’intuito ci dice che
una perimetrazione così angusta rischia di mutilare arbitrariamente un fenomeno molto più
diramato e complesso. Possiamo infatti immaginare che la pratica di pronunciarsi su un brano di
musica definendolo genericamente “bello” o “brutto” invalesse ben prima della pubblicazione della
Critica del Giudizio. Ne è prova la testimonianza autorevole della profonda commozione provata
Agostino di fronte alla sua “scientia bene modulandi”, la quale, proprio in virtù della sua capacità di
dilettare per mezzo della proporzione e della simmetria, era vista come portatrice di una bellezza
divina e al contempo insidiosamente centrifuga rispetto alla contemplazione del sacro. D’altro canto,
le innumerevoli espressioni valutative che innervano la critica e il giornalismo musicale attuali,
ancorché sorrette talvolta da una consapevolezza del fatto musicale non proprio solida, dimostrano
che “l’idea del bello” è tutt’altro che morta, sia negli ambienti della musica cosiddetta “popular” sia
in quelli “colti”.

GIUDIZIO STORICIZZANTE

L’ultima categoria di giudizio individuata da dahlhaus e da questi assegnata al novecento (o per lo


meno ai primi settant’anni di questo secolo) è quella che valuta la musica secondo la sua capacità di
incarnare lo “zeitgeist”, l’essenza peculiare del tempo in cui essa compare nel mondo. la sua origine
è comprensibilmente collegata con l’intricato reticolo delle poetiche post-romantiche, tutte più o
meno dedite allo smantellamento di un concetto assoluto del bello, e tutte variamente impegnate in
una vigorosa polemica contro l’elitarismo e l’irrazionalità delle concezioni estetico-sociali del xix
secolo. la nuova musica, col suo progressivo abbandono della morfologia e della sintassi tonali, si
libera di uno dei principi che, spesso in modo implicito, aveva fatto da fondamento all’espressione
del giudizio musicale: il piacere. sebbene la storia dell’estetica, in senso lato, non sia priva di
riferimenti al “diletto” o alla “gradevolezza” dell’arte dei suoni, si può infatti affermare che queste
qualità non siano mai state ritenute sufficienti per spiegare il fatto musicale, quanto piuttosto
accessorie ed effimere; è tuttavia innegabile che esse abbiano sempre giocato un ruolo tutt’altro che
secondario nella fruizione della musica e nella sua conseguente valutazione.

l’“emancipazione della dissonanza” promulgata da arnold schönberg, la sempre maggiore attenzione


dedicata all’aspetto progettuale della composizione e il conseguente iato creatosi fra il prodotto
musicale e il fruitore hanno sortito l’effetto pratico di rendere la musica sempre meno “gradevole”.
questo ha sancito nella pratica la morte, già teoricamente postulata nei manifesti estetici degli inizi
del secolo, del bello (sette-ottocentesco) come obiettivo e anelito della “buona musica”. da qui la
rinnovata importanza del giudizio tecnico, sostenuto dalla diffusione di nuove teorie e categorie
analitiche così come dalla proliferazione di scritti programmatici e teorici degli stessi compositori,
considerati da molti come strumenti imprescindibili per la comprensione degli stessi prodotti
musicali. conseguenza non trascurabile del declino della categoria del “piacevole” è la frequente
impossibilità dell’ascoltatore di seguire con un ascolto consapevole il dipanarsi del discorso musicale.
da qui le molte critiche rivolte alla nuova musica colta e il distacco di una grande porzione del
pubblico dal repertorio novecentesco, cui compositori, critici e musicologi hanno variamente
risposto sottolineando l’importanza di una fruizione della musica non più mirata all’espressione di un
giudizio in termini di “bella” o “brutta”, ma che si sforzi di partecipare ad essa condividendone i
presupposti e i contenuti. a riprova di questo sta, fra l’altro, la crescente tendenza maturata ed
espressa dai compositori, in forme e con esiti molto diversi sia prima sia dopo lo spartiacque della
seconda guerra mondiale, verso la definizione di una musica “comunicativa”, in grado cioè di
veicolare un messaggio prettamente musicale esclusivamente in virtù dei mezzi offerti dalla tecnica
compositiva.

Giudizio e valore musicale oggi


Dal profilo estremamente sintetico che abbiamo delineato, si evince che l’atto della valutazione della
musica non può essere definito se non come processo composito in cui intervengono di volta in volta
fattori e circostanze assai differenti. è anche a causa di questa polivalenza, e del rischio di estrema
soggettività ad essa inestricabilmente connesso, che il giudizio estetico è gradualmente uscito dalla
scena del discorso musicale e musicologico relativo al repertorio colto, una scomparsa testimoniata
fra l’altro dalla radicale trasformazione della figura del critico musicale da recensore “post festum” a
presentatore al pubblico, prassi che, oltre ad evitare l’imbarazzo delle eventuali stroncature,
risparmia di fatto l’onere di presenziare fisicamente all’evento musicale. D’altra parte, le recenti
indagini di carattere sociologico e antropologico promosse dall’etnomusicologia e dalla nuova
musicologia popular (disciplina quest’ultima che ha avvertito negli scorsi decenni in modo
certamente più pressante la necessità di sostenere e orientare con un substrato concettuale
profondo ed articolato la valutazione del prodotto musicale) hanno dimostrato che anche il giudizio
estetico soggettivo, forse l’ultimo baluardo del concetto stesso di “bello musicale”, è spesso
fortemente condizionato da contingenze socio-culturali che esercitano sull’individuo, spesso a livello
inconscio, un influsso determinante. (NB)

STORIA E STORIOGRAFIA

IL CONCETTO DI STORIA IN AMBITO MUSICALE

La storia della musica è una disciplina del sapere la cui istituzionalizzazione come campo di studi
autonomo risale alla seconda metà dell’Ottocento, con la creazione delle prime cattedre di
musicologia nelle università della Germania (v. Discipline musicologiche). Questa tardiva
formalizzazione di un ambito di riflessione e di attività che esisteva di fatto fin dal Cinquecento e in
maniera assai sistematica fin dal Settecento, è indicativa della complessità del concetto di storia in
ambito musicale e dei problemi legati alla definizione dei compiti e dei metodi della storiografia
musicale.

Si pone innanzitutto la domanda: “Storia della musica” è storia di che cosa? Qual è il suo soggetto? La
musica, ovviamente, ma quale musica? (v. Che cos’è la musica?) Delimitato il campo al concetto
occidentale di musica che, come abbiamo visto, fonde dialetticamente le nozioni di arte e scienza, di
prassi e teoria, e posta l’attenzione alla storia che per virtù di quella fusione si è documentata lungo i
secoli in forma di trattati pratici e teorici, rimangono aperte altre questioni fondamentali: Quali sono
i “fatti” della musica occidentale e quali possono o devono essere i criteri della loro narrazione
cronologica? Come la storia di tutte le arti, quella della musica condivide con la storia generale aree
tematiche, criteri e strumenti di ricerca (studio e critica delle fonti, periodizzazione, criteri di
evoluzione e causalità, biografia). Ma essendo le opere stesse il principale soggetto d’interesse
dell’indagine, la prospettiva storica nelle arti s’intreccia e a volte contrasta con la prospettiva teorica
ed estetica ponendo in primo piano la questione dell’autonomia dell’opera rispetto alle circostanze
della sua creazione, alle vicende della sua trasmissione e ai contesti della sua ricezione. La storia delle
opere musicali non coincide necessariamente con la storia della composizione, la quale non coincide
con la storia della teoria musicale; le vite dei compositori non coincidono con la storia delle loro opere;
la realtà musicale interagisce con ed è condizionata da fattori sociali, economici e politici che si
riflettono nella prassi esecutiva, nei costumi e nei gusti del pubblico, i quali a loro volta si ripercuotono
sulla stessa creazione musicale. Questo intreccio di prospettive evidenzia la natura complessa e
frammentaria del concetto di storia della musica, concetto pure esso storicizzato in quanto oggetto di
un’indagine storica che documenta le sue trasformazioni sullo sfondo dei mutamenti del pensiero
generale (filosofico, teorico, sociale, antropologico) e musicale.

Qui di seguito scorreremo le principali tappe storiche della storiografia musicale e ci soffermeremo su
alcuni dei suoi nodi ricorrenti.

PENSIERO STORICO PRIMA DELLA “STORIA DELLA MUSICA”

Una sorta di indagine storica sulla musica greca è già presente nel “Peri Mousikes” di Plutarco (123
d.C.) che, senza intenti sistematici e interpretativi e con l’aiuto di citazioni da Aristosseno e altri,
trasmette un’idea della tradizione antica e classica con i suoi principali valori e problemi. L’esegesi
delle sacre scritture ad opera dei padri della chiesa e l’elaborazione del pensiero greco nell’alto
medioevo stabiliscono una narrazione delle origini della musica (Jubal della Genesi biblica, Apollo,
Pitagora), che per quanto mirata ad esplorare e delimitare il ruolo della musica nella fede cristiana,
pone le basi alla consapevolezza storica di un passato dal quale non si può prescindere nella
definizione della tradizione in atto e nella giustificazione delle innovazioni che su quella tradizione
s’innescano. La tensione tra vecchio e nuovo diventa presto l’asse attorno al quale si svolge il dibattito
che, focalizzato su questioni teoriche (relative ai modi ecclesiastici, alla notazione e alla prassi
esecutiva) e teologiche (relative al testo liturgico e alla sua intelligibilità), documenta comunque un
processo di evoluzione e di mutamenti pratici. Hans-Heinrich Eggebrecht porta come esempio precoce
di questa peculiare consapevolezza storica dei teorici medievali il rigetto da parte di Guido d’Arezzo,
attorno al 1030, del sistema di tetracordi teorizzato nel trattato Musica enchiriadis (ca 900) a favore
del sistema di ottave fatto risalire al pensiero autorevole di Boezio. Altri esempi di un ragionamento
che fa derivare il nuovo dal vecchio si ripresentano periodicamente fino all’esplicita proclamazione
all’inizio del XIV secolo di una ars nova (“ars nove musice”- Jehan des Murs, 1321) – conseguenza e
sostituzione dell’ars antiqua (“sicut in veteri arte est, ita in nova” – Anonimo). Tale proclamazione era
seguita da una scia di polemiche – quasi un’anticipazione delle controversie che accompagnavano la
nascita della “seconda pratica” nel primo Seicento e altre querele esplose nell’era moderna attorno
all’avvicendamento degli stili e al valore del nuovo rispetto alle norme del passato. Si introduce così il
problema storiografico della periodizzazione, ovvero l’organizzazione della narrazione storica in
periodi e stili che non sempre coincidono tra loro.

La dichiarazione di Tinctoris (nel prologo al suo “Liber de arte contrapuncti” del 1477) che la musica
scritta prima del 1430 non è degna di ascolto, e la sua indicazione di singoli compositori (Dunstable,
Dufay, Binchois e pochi altri) come responsabili dello sviluppo del linguaggio musicale, sono segnali di
un cambiamento di prospettiva sul rapporto tra teoria, storia e creazione musicale. Nell’Umanesimo
il compositore individuale diventa protagonista del presente rivistando valori classici in forme e stili
attuali che variano da un centro culturale all’altro. Il Rinascimento cinquecentesco si rivolge alle
dottrine musicali dell’antichità come fonte ispiratrice di riflessioni teoriche (Nicola Vicentino che nel
suo “L’antica musica ridotta alla moderna pratica” del 1555 propone il rinnovamento del
contrappunto per mezzo dei generi cromatici ed enarmonici dell’antica Grecia). Verso la fine del XVI
secolo si giunge ad una viva interazione tra discussione teorica e nuova creatività: il “Dialogo della
musica antica et della moderna” di Vincenzo Galilei, pubblicato nel 1581 nell’apice dell’attività
musicale e intellettuale della Camerata Fiorentina, funge da stimolo e punto di riferimento per la
rinascita della monodia, ovvero la “seconda pratica” (che fu giustificata da Monteverdi con riferimenti
alla Repubblica di Platone).
SEI E SETTECENTO

Parallelamente alla prassi e alla teorizzazione dei nuovi stili, permaneva nei trattati il riferimento allo
“stile antico” come modello normativo e didattico che a causa della sua tradizione secolare assumeva
il ruolo di “musica historica”, base imprescindibile per ogni narrazione storica. E’ sotto questo segno
che nascono le prime trattazioni storiche che, specie nel Seicento, adottano spesso una visione
onnicomprensiva in cui sono ancora evidenti le tracce di un pensiero teologico con tentativi, sia in
area cattolica sia in quella protestante, di difendere la legittimità della nascente musica strumentale.
I titoli dei principali trattati elencati di seguito sono indicativi della graduale secolarizzazione della
prospettiva storica e delle differenti impostazioni delle tre culture musicali europee tra l’inizio del XVII
e la metà del XVIII secolo: “Syntagma musicum” (Germania, 1614-18) del tedesco Michael Praetorius
che nel primo capitolo tratta della “musica sacra e liturgica dei tempi passati e anche del presente”;
“Harmonie universelle” di Mersenne (1636-37); “Musurgia universalis” di Athanasius Kircher (1650);
“Descrizione storica [der edelen Sing- und Kling-Kunst] dell’arte del canto e del suono” di W. C. Printz
(Germania 1690); “Historia musica” di Angiolino Bontempi (1695), significatamente ribattezzata da
Mattheson (vedi infra) come “storia della musica”; “Hisotoire de la musique et de ses effets” di
Bonnet-Bourdelot (1715); “Histoire générale, critique et philologique“ di de Blainville (data XXXX);
“Musikalisches Lexicon” di Walther (1732) e il trattato storico “Der volkommene Capellmeister”
[traduzione] di Mattheson (1739).

L’attenzione dei francesi agli “effetti” della musica e all’aspetto critico e filologico dell’indagine storica
riflettono la straordinaria vivacità intellettuale della scena musicale nella Francia settecentesca. La
“Querelle des Anciens set des Modernes” e il dibattito tra i sostenitori della musica francese e quelli
della musica italiana stimolavano un pensiero analitico ed estetico che interagiva direttamente con
l’esperienza musicale dando luogo ad una saggistica illuminata di notevole mole e originalità culminata
nel “Essai sur la musique ancienne et moderne” di de La Borde (1780-81). L’assimilazione tedesca
dell’Illuminismo francese dette luogo ad alcune pubblicazioni storico-critiche (Marpurg 1759, Gerbert
1774), mentre l’unica impresa storiografica dell’epoca in Italia – la voluminosa e incompiuta “Storia
della musica” di Padre Martini (1761-81) – adottava nella trattazione storica una minuziosa
sistematicità critica più vicina allo spirito dei trattati teorici con il risultato di un monumento di rara
erudizione sulla musica antica.

La dialettica tra l’idea del progresso, al centro di una nascente filosofia della storia, e uno storicismo
che attribuisce al passato un valore assoluto prescindendo dalle vie e dagli influssi che lo legano al
presente, alimenta le due opere inglesi considerate le più importanti storie della musica del tardo
Settecento: “A General History of the Science and Practice of Music” di John Hawkins (1776) e “A
General History of Music” di Charles Burney (1776-89). Hawkins abbraccia l’istanza progressista nella
critica a coloro che innalzano gli ideali dell’antichità greca a valori assoluti e normativi, ma si dimostra
assolutista egli stesso nel proclamare, con dovizia di documenti ed esempi, lo stile antico e la musica
ecclesiastica esteticamente superiori alla musica strumentale e all’opera italiana del Sei e Settecento.
Burney, al contrario, rivolge la massima attenzione allo stato attuale della musica europea e adotta un
criterio laico e divulgativo nella narrazione del passato suddividendolo in periodi e scuole e inserendo
i problemi musicali in un contesto culturale.

OTTOCENTO
Con Hawkins e Burney la trattazione storica della musica comincia ad assumere i caratteri di una
storiografia consapevole del proprio compito di offrire un resoconto sistematico delle opere, delle
biografie dei loro autori e delle circostanze della loro esecuzione. E’ soprattutto in Germania che tale
consapevolezza coincide con una presa di coscienza del nuovo statuto estetico e filosofico della musica
come forma di pensiero e come linguaggio espressivo autonomo. Il contributo più significativo viene
da J. N. Forkel, noto come autore di una fondamentale biografia di Bach (1802) inizialmente
programmata come appendice alla sua “Algemeine Geschichte der Musik” (Storia universale della
musica, 1788-1801) i cui due volumi arrivano fino al XVI secolo, mentre il terzo, incompiuto, doveva
presentare una “storia particolare della musica tedesca” dando espressione ad una coscienza
nazionale che svolgerà un ruolo determinante nella storiografia musicale tedesca lungo l’Ottocento e
oltre. Il “Saggio sulla metafisica della composizione” che apre l’opera, esplora l’idea, ancora illuminista,
della bellezza come legge fondamentale da applicare anche alla storia. La narrazione storica di Forkel
segue il criterio di un’evoluzione graduale e organica della musica occidentale dai suoi inizi fino alla
perfezione dei capolavori settecenteschi (di cui Bach è il massimo esempio). Ma l’idea stessa di
“perfezione” individuata in un modello del passato, seppure recente, implicava una scissione con un
presente musicale che andava in direzioni completamente nuove (la scuola viennese e lo stile che più
tardi sarà battezzato “classico”). In linea con la concezione romantica della storia come “la più
universale, generale e alta di tutte le forme del sapere” (Friedrich Schlegel), “perno morale della
cultura umana” (Humboldt), la musica del presente doveva diventare Storia per elevarsi a sua volta a
modello.

Con l’impulso della nascente filologia musicale che dà inizio alle grandi imprese di catalogazione e di
edizioni critiche dell’opera omnia dei grandi musicisti del passato (anche in questo Bach fu il primo),
si crea nel secondo Ottocento in Germania una storiografia musicale che privilegia la prospettiva
storicistica faccendola interagire con un relativismo estetico che, rinunciando a stabilire valori assoluti
di bellezza e di perfezione, promuove un approccio empirico-positivista a stili e forme musicali
divergenti che si avvicendano nel corso della storia. E’ su questa base che si forma la nascente
disciplina musicologica nelle università tedesche del fine Ottocento. Al tempo stesso, l’enorme
impatto dell’idealismo hegeliano ispira studiosi quali Marx e Brendel a perseguire (con scelte estetiche
divergenti) l’ideale di una musica del presente e del passato recente, che più di quella del passato
remoto è capace di trasmettere idee filosofiche e quindi di esercitare un ruolo attivo nella formazione
spirituale. La concezione della musica come organismo e la metafora della sua crescita naturale in
quanto parte integrante dello Zeitgeist (lo spirito del tempo) caratterizza il pensiero di Wilhelm
Ambros, che riflette una forte influenza dell’approccio storico culturale di Jakob Burkhardt. La sua
fondamentale (incompiuta) “Geschichte der Musik” (1862-82) attribuisce un’importanza primaria al
metodo di divisione in epoche, che secondo lui assicura alla narrazione ordine e coerenza senza i quali
non si dà una vera storia della musica.

In area francese lo storico François-Joseph Fétis propone nella sua “Histoire générale de la musique”
(1869-76) una revisione della prospettiva progressista difendendo la ragione e la legge naturale,
retaggio dell’Illuminismo, ed evitando la metafisica dell’idealismo tedesco. Partendo dall’idea di
un’autonomia dell’opera e del linguaggio musicale, la sua trattazione (eccezionale tra l’altro per il
tentativo di estendersi oltre i confini della musica occidentale) mette l’accento sul processo evolutivo
di una musica che “crea, sviluppa e modifica se stessa in virtù di diversi principi che si spiegano […] e
si manifestano periodicamente da uomini di genio.” (Biographie Universelle, 1873). L’autonomia del
divenire musicale è la chiave della narrazione storica di Hubert Parry, la cui opera “The Evolution of
the Art of Music” (1893) riflette il clima intellettuale dell’Inghilterra di Darwin e di Spencer.
NOVECENTO

L’avvento del XX secolo vede lo studio della storia della musica ben inserito nel contesto accademico
europeo come una disciplina scientifica a tutti gli effetti, con un crescente approfondimento dei singoli
campi di ricerca quali lo studio e la critica delle fonti, la biografia documentata, la paleografia,
l’organologia, storia degli stili, delle forme e delle teorie musicali, e altre specializzazioni che assieme
formano il ramo storico, distinto da quello “sistematico” della musicologia (il quale – secondo la
definizione di Guido Adler, fondatore della Musikwissenschaft come campo di studio autonomo –
copre gli aspetti teorici e pratici del sapere musicale: v. Le discipline musicologiche). Non più, dunque,
isolate imprese storiografiche dovute alla passione e alla dedizione di singoli studiosi, bensì una nuova
professione la cui suddivisione in campi di competenza consente la produzione di un sapere
specializzato e la definizione di metodi di ricerca specifici a ciascun campo. La fioritura di cattedre nei
diversi paesi favorisce la nascita di comunità di storici della musica che si distinguono tra loro anche
per identità nazionale e che si sentono investiti della responsabilità di documentare, elaborare e
trasmettere il patrimonio musicale del proprio paese.

Sullo sfondo del rigoroso positivismo scientifico che ha caratterizzato la ricerca musicologica della
prima metà del secolo, altre correnti di pensiero filosofico e sociale hanno avuto un ruolo importante
nello sviluppo della storiografia musicale novecentesca. L’approccio ermeneutico alle scienze dello
spirito, che aveva in Wilhelm Dilthey (XXXX) il maggiore maestro, favoriva nel lavoro di alcuni
musicologi tedeschi del primo Novecento (Arnold Schering, Wilibald Gurlitt) un metodo interpretativo
giustificato dal postulato che “ogni storia è scritta al presente, a partire da un punto di vista particolare
in funzione del quale la realtà studiata acquista la sua coerenza.” (Vendrix, p. 602). La contrapposizione
tra “oggettivisti” e “soggettivisti” continuava a caratterizzare il dibattito storiografico in seno alla
comunità musicologica fino agli anni Sessanta del secolo scorso – periodo in cui nascono i primi
tentativi di autocritica della musicologia mettendo in crisi i parametri fondamentali della disciplina: il
rapporto tra storia e critica, tra storia musicale e storia generale, tra musica e realtà. In questa fase di
revisione sono state determinanti esperienze in altri campi del sapere, tra cui spicca l’insegnamento
dei “nuovi storici” francesi (quali Marc Bloch, Lucien Lefebvre e Jacques Le Goff – tutti legati alla rivista
“Annales d’histoire economique e sociale”) che hanno promosso una ricerca volta a fornire un quadro
decentrato e multi focale della realtà documentando la storia da un punto di vista sincronico e non
più come uno spiegamento diacronico di eventi. Un’altra influenza rilevante è venuta dal campo della
critica e della storia della letteratura, con la teoria della ricezione elaborata da Hans Robert Jauss e la
scuola di Costanza (della quale faceva parte il grande esponente della filosofia ermeneutica Hans
Georg Gadamer), in base alla quale il senso di un’opera d’arte non è assoluto, ovvero dato una volta
per tutte con l’opera stessa, ma dipende dalla rete di relazioni che da essa si estendono per tramite
dell’interprete verso i fruitori che a loro volta la investono di nuovi significati. La catena infinita di
trasmissione e ricezione si rifà al principio (e ai paradossi) del circolo ermeneutico, e al tempo stesso
obbliga a focalizzare l’attenzione sulle circostanze concrete dell’esperienza musicale che, centrata
com’è sull’esecuzione e sull’ascolto collettivo, partecipa più delle altre arti ai mutamenti della realtà
sociale e culturale. Il formalismo e lo strutturalismo linguistico e antropologico hanno interessato
soprattutto i rami “sistematici” della musicologia del secondo dopoguerra (l’etnomusicologia, le teorie
della composizione e la semiotica della musica) che di conseguenza si sono allontanati ulteriormente
dagli orizzonti della ricerca storica.

Un contributo imprescindibile alla concezione e alla metodologia della storiografia musicale è stato il
lavoro di Carl Dahlhaus (1928-1988). In “Fondamenti di storiografia musicale” (1977) egli si interroga
sulla possibilità di riconciliare una storia della musica che tenga conto della realtà sociale e delle
dinamiche della ricezione e al tempo stesso renda giustizia all’autonomia strutturale ed estetica
dell’opera. Con la sua “Storia della musica dell’Ottocento” (1980) Dahlhaus fornisce un’illustrazione
esemplare di questa possibilità facendo coesistere storia e teoria, diacronia e sincronia, uno sguardo
ampio che abbraccia la lunga durata degli eventi musicali nel loro contesto sociale e politico e lo
scrutinio microscopico che penetra l’anima della singola composizione. In altri studi (sulla musica
assoluta, su valore e giudizio estetico, sul realismo musicale) egli estende il campo d’indagine alla
storia dei concetti che hanno segnato il pensiero musicale moderno. “La vera questione che anima la
penna feconda di Dahlhaus è sempre quella della storicità di ogni riflessione e di ogni attività umana.
[…] Ciononostante, Dahlhaus si distingue dai filosofi della storia in quanto attribuisce il primato alla
pratica storiografica. Il pensiero di questo musicologo non si avventura mai nei meandri di una
metastoria, ma resta sempre ancorato all’interpretazione di una ‘realtà’ storica concreta.” (Vendrix,
p. 604).

LA “NUOVA MUSICOLOGIA”

Il pensiero di Dahlhaus rifletteva una consapevolezza sempre più diffusa della necessità di rivedere le
finalità e i metodi delle discipline musicologiche. Un processo di trasformazione profonda iniziato negli
ultimi anni Settanta, e che è tutt’ora in corso, ha avuto un terreno particolarmente fertile nella ricerca
e nell’editoria universitaria statunitense, con la spinta, non priva di spunti polemici, di Joseph Kerman
(“Contemplative Music. Challenges to Musicology”, 1985) e con il fondamentale contributo di Leo
Treitler “Music and the Historical Imagination” (1989). In misure e con esiti diversi tra le due sponde
dell’Atlantico, il superamento delle esperienze del modernismo e delle avanguardie novecentesche
(delle quali abbondano gli studi su autori e temi specifici, mentre manca ancora una prospettiva storica
complessiva) e l’influsso del pensiero postmoderno hanno introdotto nella ricerca musicologica una
nuova libertà interpretativa e una maggiore flessibilità rispetto sia ai concetti fondamentali di forma,
struttura, significato e valore estetico, sia alle norme e ai metodi euristici.

I criteri che ricorrono nei molteplici percorsi della “nuova storiografia” musicale (per ricalcare le
etichette “nouvelle histoire” e “new musicology”) possono essere riassunti nei seguenti punti: 1) il
desiderio di controbilanciare la rigidità del positivismo storico e gli eccessi del formalismo critico
integrando nella ricerca storica nuovi approcci critici ed estetici, e nella critica del testo musicale una
maggiore consapevolezza storica; 2) “valorizzare il discorso storico e dare il giusto risalto al ruolo del
narratore” (Vendrix, p. 605) con le sue istanze estetiche e interpretative; 3) attenuare la rigida
distinzione tra le diverse tradizioni e tipologie musicali (occidentale e extra-occidentale, colta e
popolare, seria e leggera…) e fare tesoro dell’esperienza viva, dei principi antropologici e dei metodi
di verifica maturati nel campo della ricerca etnomusicologica (v. Etnomusicologia); 4) porre il
presente, con tutti i suoi risvolti culturali, sociali e politici, al centro del dibattito storico facendo così
interagire ricerca musicologica e realtà musicale.
I nuovi campi della storiografia musicale che riflettono le due ultime tendenze appena elencate sono
gli studi interculturali (“cultural studies”) e – soprattutto negli Stati Uniti – i “gender studies” che
rivisitano la storia canonica della musica occidentale con gli strumenti della critica femminista. Le
prime due tendenze trovano espressione nella fioritura (anche questa soprattutto oltre l’Atlantico) di
trattazioni “narratologiche” che fondono (e talvolta confondono) principi ermeneutici e ricostruzione
storico-biografica per dar luogo a letture che spesso riflettono più lo spirito e l’originalità di pensiero
dell’autore che non la realtà dell’opera, la sua genesi e il suo tempo.
Le questioni poste all’inizio di questa voce sul soggetto della storia della musica e sul conflitto tra
narrazione cronologica e l’autonomia dell’opera musicale si ripresentano dunque con vesti diverse ad
ogni nuova epoca. Le risposte che ogni epoca dà non sono mai né esaustive né definitive; esse
riflettono lo spirito dei tempi in cui sono formulate e confermano la circolarità del rapporto tra passato
e presente, documentazione e interpretazione, storia e storiografia.

TEORIA E ANALISI

Il bionomio teoria-analisi, così com’è concepito nella riflessione musicologica attuale, è l’espressione
di un’area concettuale e disciplinare ampia ed estremamente articolata che potremmo
genericamente definire “comprensione del fenomeno musicale”. Presi singolarmente, pertanto, i
termini di tale binomio non devono essere considerati come categorie oppositive (si potrebbero con
molte riserve proporre come loro reciproci oppositivi, rispettivamente, “prassi” e “interpretazione”),
quanto piuttosto come macrocategorie che sovrastano lo scibile musicale coinvolgendone ogni
aspetto: talmente forte è il legame di compenetrazione reciproca che molti studiosi non avvertono
nemmeno la necessità di separarli dal punto di vista concettuale, parlando dell’uno o dell’altro quasi
come se si rivolgessero a un solo oggetto. D’altra parte, la stessa natura fisica del suono, o meglio la
consuetudine moderna di scomporlo in quattro parametri fondamentali, è un esempio di come
l’osservazione del fenomeno musicale avvenga attraverso la diffrazione della sua immagine in
moltissime prospettive differenti, che vanno dall’organizzazione ritmica, armonica, contrappuntistica
e formale, alla tecnica compositiva e agli effetti esercitati sui meccanismi di percezione e
interpretazione. In tutti questi casi, e nei moltissimi altri possibili, lo studio della musica si avvarrà
inevitabilmente della formulazione di principi teorici generali e di strumentazioni analitiche che
consentano di passare l’oggetto d’indagine attraverso determinati filtri, al fine di lasciar emergere
dati ritenuti significativi.

Nonostante però questa sovrapposizione delle rispettive aree d’interesse, teoria e analisi sono
innanzitutto discipline autonome, sorrette e animate da metodologie e obiettivi differenti.
Innanzitutto perché l’analisi si interessa di strutture musicali, in senso lato, riscontrabili su un
supporto (partitura, registrazione, ecc.) e osservabili da un punto di vista formale o stilistico,
laddove la teoria, avendo come fine l’osservazione e la formulazione sistematica di principi
costitutivi e concettuali della musica, può invece comprendere, e di fatto comprende questioni che
esulano dalla prassi della produzione musicale. È sufficiente ricordare il profondo interesse
manifestato dai trattatisti dell’antichità e del medioevo per le dimensioni astronomica, teologica ed
etica della musica, per comprendere quanto l’orizzonte teorico si estenda ben oltre quello
dell’analisi. Inoltre, molte delle tecniche analitiche correntemente utilizzate poggiano su presupposti
teorici completamente differenti da quelli che informarono il pensiero dei compositori delle musiche
esaminate: la possibilità di indagare un determinato repertorio del passato con categorie e
strumentazioni attuali è, come vedremo, una delle questioni più dibattute dalla musicologia odierna.

LA TEORIA DELL’ANALISI

Confrontando le grandi teorie tardo ottocentesche e novecentesche con quelle sviluppate dalla
trattatistica delle epoche precedenti, uno degli elementi che colpisce maggiormente è l’attenzione
dedicata dalle formulazioni più recenti alla definizione di metodologie analitiche che supportino gli
enunciati fondamentali della speculazione proposta dimostrandone la validità attraverso la verifica
diretta sulla letteratura musicale. La teoria musicale moderna diventa di fatto una “teoria dell’analisi”,
in cui le strategie messe in campo per avvalorare un’interpretazione del fatto musicale acquistano lo
stesso peso, se non addirittura un peso maggiore dell’interpretazione stessa. È il caso, per esempio,
di molti degli approcci cosiddetti “riduzionisti”, come quelli ideati nei primi decenni del Novecento da
Hugo Riemann, Heinrich Schenker e, più tardi, da Rudolph Réti, che procedono cioè a una progressiva
scomposizione del brano musicale in livelli via via più semplici, al fine di ottenerne una sorta di
immagine “radiografica” che ne lasci emergere gli aspetti strutturalmente significativi. In esse, i
postulati fondamentali sul funzionamento della musica, come la concezione organicistica che sta alla
base del metodo schenckeriano o quella sintattico-fraseologica di Riemann e di Réti, s’intrecciano
inestricabilmente con i processi di riduzione cui fanno riferimento, al punto che risulta spesso difficile
immaginare l’esistenza dei primi senza il sostengo dei secondi. Teorie dell’analisi sono, almeno in
parte, anche quei sistemi cosiddetti eteronomi (insiemistico, informazionale, narratologico,
decostruzionista), i quali si propongono di leggere la musica partendo dall’applicazione di postulati e
strategie operative desunti da campi del sapere ad essa estranei (rispettivamente, dalla matematica
e dalla fisica e dalle scienze letterarie. Anche qui, una volta definiti gli assunti fondamentali di
partenza, l’attenzione si concentra principalmente su “come” tali assunti saranno applicati all’esame
delle partiture (o dei loro sostituti) e sui significati formali e contenutistici che detto esame sarà in
grado di porre in risalto.

Una possibile eccezione a questa tendenza generale, che ci consente peraltro di completare questo
quadro sommario degli approcci teorico-analitici moderni, è rappresentata dal sistema semiologico
di Jean-Jacques Nattiez, all’interno del quale la dimensione analitica si colloca come una delle
componenti discrete che concorrono al riconoscimento del “significato” musicale. In questo caso, il
rapporto fra teoria e analisi non è di corrispondenza diretta ma di inclusione della prima nell’ambito,
più esteso, della seconda.

LA SCELTA DEL METODO: LOGICA INDUTTIVA VS. LOGICA DEDUTTIVA

Volendo procedere a una classificazione generale delle metodologie analitiche in relazione alle relative
teorie, si potrebbe contrapporre quelle che procedono a una raccolta e catalogazione di dati operata
in modo empirico per ottenere una descrizione quasi statistica del fenomeno e ricavare di
conseguenza un principio teorico valido a quelle che cercano di dimostrare un assunto teorico
precedentemente postulato mediante il riscontro dei suoi effetti in un brano o in un frammento di
repertorio. Al metodo induttivo (che nella lingua inglese è denominato in modo molto efficace
“bottom-up”) precedentemente delineato, si oppone pertanto quello deduttivo (“top-down”): entro
lo spettro circoscritto da questi due estremi assoluti è possibile collocare tutte le formulazioni teoriche
e le metodologie analitiche che si sono succedute nel corso dei secoli. Si pensi per esempio al ruolo
implicitamente giocato da un’ottica di tipo induttivo nella formazione delle varie estetiche (v. valore
e giudizio estetico) che pongono i dati tecnico-compositivi che si possono evincere dalla partitura
come fondamento per la formulazione del giudizio sulla musica, rispetto a quelle (più marcatamente
deduttive) che si concentrano maggiormente su dati extramusicali. Il problema fondamentale
sollevato da un approccio che affronti le relazioni fra teoria e analisi nei termini di questa bipolarità
induzione-deduzione è infatti la mancanza di procedimenti che si collochino completamente sull’uno
o sull’altro versante. Per esempio, le analisi che propongono la lettura di una concatenazione armonica
traducendo ogni accordo in un simbolo rappresentante il grado armonico o la funzione che questo
riveste nell’economia del brano, per quanto sorrette da un riscontro diretto sulle partiture,
muoveranno pur sempre dai concetti quali “tonalità”, “accordo” (v. tonalità) e “consonanza” (v.
intervallo), provenienti da una teoria generale della musica e dati in un certo senso per assodati. Allo
stesso modo, i metodi riduzionisti ed eteronomi di cui si è accennato in precedenza, che si basano su
una logica prevalentemente induttiva, dimostrano non di meno di provenire da una profonda
esperienza analitica di partenza. Le segmentazioni degli eventi sonori di un brano che nell’analisi
insiemistica di Allan Forte consentono di individuare gli “insiemi” di note da catalogare e confrontare
fra loro, non sono infatti nemmeno ipotizzabili senza una preparazione adeguata nella lettura della
partitura e nel conseguente riconoscimento degli eventi significativi di un brano.

Metodo induttivo e deduttivo sono di fatto embricati in una catena di scambi reciproci che tanto
ricorda il famoso circolo ermeneutico gadameriano, in cui causa ed effetto s’intrecciano in un circuito
senza soluzione di continuità; questo è, fra l’altro, testimoniato proprio dalla duplice funzione,
prescrittiva e descrittiva, della teoria, che dimostra come norma e applicazione della norma siano
legate da un rapporto bidirezionale. È per questo che la posizione della musicologia più recente si è
orientata verso il superamento di un’ottica oppositiva, tendendo piuttosto alla definizione di un
campo d’azione in cui, pur non rinunciando alla definizione di premesse metodologiche chiare, sia
possibile integrare i percorsi d’indagine “dall’alto verso il basso” e quelli “dal basso verso l’altro”,
sfruttandoli contestualmente come parametri di controllo reciproci.

PROSPETTIVA ‘STORICISTA’ VS. PROSPETTIVA ‘PRESENTISTA’

La possibilità di studiare teoria e analisi musicali nelle rispettive evoluzioni storiche è un dato che la
musicologia ha assorbito fin dai suoi esordi, e che oggi è fra l’altro ratificato dall’insegnamento
universitario della “storia delle teorie musicali”, ove, anche alla luce delle considerazioni di cui sopra,
sono sintomaticamente trattati problemi legati all’una e all’altra disciplina (è d’altra parte vero che,
nelle classi d’analisi musicale, i programmi didattici prevedono spesso la lettura di trattati teorici del
passato). Fino agli anni Novanta del secolo scorso, con alcune eccezioni isolate, lo studio di tali materie
si limitava, appunto, all’esame della trattatistica nelle varie epoche storiche e delle applicazioni (o
mancate applicazioni) che i principi ivi esposti conoscevano nel repertorio coevo. L’indagine storica, è
stato recentemente notato, dovrebbe però occuparsi anche di determinare le cause e le condizioni
(anche extramusicali) che hanno portato alla nascita dei fenomeni esaminati e stabilirne di
conseguenza il significato storico nella prospettiva che gli antropologi definiscono “emica”, ossia
rapportata al contesto. La maggior parte delle teorie sviluppate nei secoli anteriori al Novecento,
infatti, sono quasi sempre intessute di principi estetici, etici e persino teologici che, pur conservando
ai nostri occhi un importantissimo valore storico, vengono il più delle volte considerati come fattori in
qualche modo “esterni” alla vera e propria indagine musicale, laddove invece le ricerche più recenti
hanno ampiamente dimostrato come la comprensione delle stesse tecniche compositive non possa
prescindere da queste costellazioni di significati che, pur non comparendo direttamente nella pagina
musicale, costituiscono un substrato ideologico comune a teorici, compositori e fruitori (un esempio
su tutti potrebbe essere l’importanza della conoscenza dell’occasione politica o religiosa cui si deve la
composizione di un mottetto quattrocentesco per capirne i riferimenti testuali e musicali impliciti).
Uno dei temi scaturiti da questa riflessione, centrale per l’argomento che qui stiamo trattando,
riguarda l’opportunità di avvalersi delle strumentazioni concettuali e analitiche elaborate nel passato
come mezzi per l’indagine attuale sulla musica. In altre parole, ci si chiede se e a quali condizioni una
un trattato d’armonia del XVIII secolo, per esempio, debba essere letto come documento storico o
come testo teorico.
Due le correnti dominanti, le quali, anche in questo caso, vanno intese più come categorie di pensiero
generali che come vere e proprie posizioni assunte in modo apodittico: la prima, “presentista”,
d’impianto sostanzialmente teleologico e d’impostazione positivista, vede la storia delle teorie
musicali (e dell’analisi) come un processo di costante sviluppo che, partendo da una conoscenza del
tutto generica del fenomeno musicale, procede per continue approssimazioni a una focalizzazione
sempre più dettagliata del proprio oggetto. In questo senso, tanto le componenti musicali quanto
quelle extramusicali che informarono le riflessioni del passato possono essere tranquillamente
relegate alle relative discipline storiche, mentre l’approccio moderno non dovrà far altro che avvalersi
della strumentazione di conio più recente, distillato della sedimentazione del pensiero musicale. La
seconda prospettiva, “storicista”, poggia sulla convinzione che si possa comprendere la musica in
modo più approfondito inserendola nel contesto culturale cui appartiene e che, pertanto, le teorie
musicali storicamente connesse ai vari repertori abbiano più possibilità di decodificarne i significati
reconditi. Questo è esemplificato in modo particolarmente calzante dallo studio della musica antica,
ove la conoscenza delle varie teorie della modalità e del contrappunto risulta determinante per la
comprensione delle tecniche compositive. Se la posizione “presentista” sembra difettare di
autocoscienza storica (dopo tutto, anche l’era presente non giace “fuori dalla storia” e, pertanto, le
nostre prospettive hanno la stessa probabilità di essere culturalmente determinate di tutte le altre),
quella “storicista” sembra negare “in toto” la possibilità dell’evoluzione, escludendo dalla vista del
teorico e dell’analista tutto ciò che non risiede di diritto nel contesto peculiare della musica in esame.
In entrambi i casi, quindi, si è notato come non sia possibile determinare quale sia il “modus operandi”
corretto; come per quanto riguardava la scelta del metodo, la musicologia attuale raccomanda dunque
la scelta consapevole di un approccio ermeneuticamente informato, che tenga sufficientemente conto
delle istanze di entrambe le correnti e si avvalga di una consapevolezza storica esercitata in modo
critico. (NB)

LA PRASSI

ORALITÀ E SCRITTURA
UN PERCORSO DI INFLUENZE RECIPROCHE

La notazione musicale nella storia della musica occidentale nasce con la funzione di raccogliere e
conservare delle forme musicali oralmente trasmesse, che continuano comunque in un primo
momento a rimanere tali. Il rapporto tra l’oralità e la scrittura è caratterizzato nei secoli da una
dinamica di scambi e influenze continue, in cui il mondo orale popolare, oltre a lasciare tracce
riconoscibili nella musica scritta, si rimpossessa con facilità dei suoi linguaggi, formalizzati dalla
scrittura musicale in ambito colto. È necessaria anzitutto una precisazione a riguardo delle antinomie
tra colto e popolare e orale e scritto; se infatti è vero che nella storia della musica si può distinguere
una musica colta scritta da una popolare orale, i due mondi non sono mai stati nettamente separati,
ma l’uno si è sempre nutrito dell’altro. Per capire in che modo, è utile prendere ad esempio alcune
pratiche musicali diffuse tra il Cinquecento e il Seicento, epoca in cui la commistione tra oralità e
scrittura era particolarmente marcata. Il genere popolare della canzone alla Villanesca, in voga nei
primi decenni del Cinquecento, essendo diffuso negli ambienti urbani veniva a contatto con viaggiatori
di ogni sorta, e conosceva grazie a ciò una certa circolazione nello spazio e nei ceti sociali: i musicisti
dotti, così, se ne servivano frequentemente per la produzione di generi musicali “colti”.

La figura del musicista professionista del Cinquecento e Seicento rappresentava il tramite ideale fra la
cultura bassa popolare, da cui proveniva, e i ceti alti, in cui prevalentemente lavorava. L’educazione di
base che questi musicisti avevano ricevuto nei conservatori, comprendeva la conoscenza della
scrittura; non solo dunque erano in grado di leggere ed eseguire la musica di tradizione scritta, ma
erano anche in grado di fissare su carta le melodie popolari che ancora facevano parte del loro
patrimonio culturale. Inoltre poteva loro capitare di suonare per il carnevale, le feste paesane e
spettacoli di strada, il cha naturalmente contribuiva ulteriormente a renderli tra i principali artefici
della commistione fra cultura alta e bassa, scritto e orale. La musica scritta si arricchisce dunque di
nuovi linguaggi grazie all’attività (di trascrizione, tra l’altro) di questi musicisti di estrazione artigiana;
la grande diffusione dei repertori di danza, ordinati nella forma della suite, ne sono un esempio. Allo
stesso modo, i repertori popolari tradizionali recano ancora oggi delle tracce dell’influenza dei modelli
musicali seicenteschi.

A partire dalla seconda metà del XVII secolo si verifica un progressivo allontanamento tra oralità e
scrittura; il rapporto tra composizione e scrittura si fa a sua volta più complesso. La commistione tra
musica scritta e tradizione orale avviene in maniera nettamente più consapevole; il cambiamento
principale riguarda la spontaneità con la quale tra il Cinquecento e il Seicento ambienti musicali
differenti entravano in contatto.

LO STUDIO DELL’ORALITÀ TRA FOLKLORE E ETNOMUSICOLOGIA

Maggiormente caratterizzati de una prospettiva storicista, rispetto ALL’ETNOMUSICOLOGIA, gli studi


folklorici si interessano alle fonti della tradizione, alla ricerca delle origini e alla ricostruzione del
percorso di trasformazioni subito nel tempo dal fenomeno osservato. L’interesse per la poesia e la
canzone popolari, concepite come depositarie di una purezza e di una spontaneità estranee alla
musica dotta, è l’impulso principale che, in periodo romantico, determina il progressivo sorgere di
raccolte, e la loro diffusione in tutta Europa. Caratterizzati da un’impronta di tipo romantico, gli studi
folklorici del XIX secolo esasperavano il contrasto tra l’autenticità idealizzata della società arcaica
tradizionale e l’alienazione della società moderna, relegando l’oralità alla prima e distinguendo la
seconda per il suo utilizzo della scrittura. Un dualismo per certi aspetti analogo caratterizzerà altresì
la riflessione sull’oralità nell’ambito delle discipline sociologiche e antropologiche (Durkheim, Lévi-
Strauss).

Tra gli studi più importanti sull’oralità, vi è senza dubbio il lavoro sui poemi omerici di Milman Parry e
Albert Lord, i quali, tra il 1928 e il 1960, elaborano e sviluppano la teoria formulare. Tale teoria,
basandosi sull’idea che i poemi omerici siano stati per molto tempo narrati e tramandati oralmente
da molteplici poeti, si basa sull’utilizzo di formule che permettono di esprimere in maniera concisa e
con una forma metrica costante i tratti distintivi dei personaggi del componimento. In questo modo il
processo di composizione avviene dunque in maniera estemporanea sulla base di alcuni pattern di
riferimento. La teoria formulare pone in ogni caso le basi di un ragionamento sulla questione
dell’oralità, a partire dalle modalità di composizione (e dunque dalla distinzione tra un singolo autore
e un componimento collettivo) alle tecniche di trasmissione. Vi si riscontra inoltre il problema
dell’esatta circoscrizione e definizione dell’opera stessa, o meglio dell’individuazione di una sua
possibile forma ‘originale’ in opposizione all’esecuzione estemporanea del singolo.

Problemi simili sono naturalmente affrontati in ambito etnomusicologico nello studio delle musiche
delle società senza scrittura (o senza scrittura musicale). L’etnomusicologia si interroga sui problemi
della memorizzazione e della trasmissione dell’opera nelle società in cui la musica è tramandata
oralmente; l’assenza del supporto di trasmissione introduce inoltre la questione della composizione
personale in relazione alla tradizione, e delle variazioni dell’interprete su questa. Lo studio dei
meccanismi di produzione e di fruizione della musica diviene dunque, nell’osservazione delle società
senza scrittura, non meno importante dell’analisi dell’opera stessa. Il meccanismo degli ‘aggregati
prestabiliti’ che caratterizza il modello delle formule omeriche è dunque adattabile in generale
all’oralità (questo concetto è infatti ribadito da Walter Ong nel 1962 a proposito di lingua e
letteratura), e in particolare alle musiche oralmente trasmesse; dei moduli fissi, delle combinazioni
predisposte delle unità elementari di base, e non le unità stesse, costituiscono il punto di partenza per
la composizione dell’opera. La musica delle società senza scrittura è spesso caratterizzata da un tale
procedimento di composizione modulare, in cui la variazione personale, ovvero i diversi modi di
disporre i moduli all’interno dell’opera, non influisce sull’identità dell’opera stessa; ciò significa che le
differenti versioni risultanti dalle molteplici variazioni possibili nel processo di ripetizione e
combinazione dei moduli, costituiscono per gli esecutori e per i fruitori appartenenti alla medesima
società, un’unica opera. L’identità dell’opera sta dunque nella stessa ripetizione variata della sequenza
di moduli. Nelle società occidentali, tornando alla contrapposizione tra musica colta scritta e musica
popolare orale, è interessante notare come nel passaggio dall’oralità alla scrittura l’utilizzo di formule
ripetitive abbia continuato a caratterizzare una parte delle musiche dotte, in particolare quelle che
maggiormente risentono dell’influenza delle musiche da ballo popolari.

Simha Arom è uno degli etnomusicologi che maggiormente hanno indagato il concetto di
composizione modulare, sottolineando inoltre il fatto che il modulo melodico-ritmico alla base
dell’opera può rimanere implicito, pur essendo ben presente nella mente dell’esecutore/compositore
e del pubblico. Il processo di apprendimento del musicista prevede comunque in ogni caso come punto
di partenza lo studio e l’interiorizzazione della forma semplice del modulo, fino ad arrivare alla
conoscenza di tutta la gamma di variazioni ammessa dalla tradizione di appartenenza, compresa la
possibilità di lasciare il modulo implicito. In questo modo l’esecutore è allo stesso tempo anche
compositore e interprete, poiché la sua attività è caratterizzata dall’equilibrio costante tra la
proposizione della tradizione, l’aggiunta del nuovo e l’interpretazione della novità secondo i dettami
dello stile tradizionale. In questo senso l’opposizione tra composizione individuale e collettiva
introdotta a proposito della teoria formulare di Parry e Lord trova in realtà un punto d’incontro. Ma la
questione più importante a proposito del rapporto tra l’interprete e l’opera non scritta, è il principio
dell’improvvisazione, che, pur non corrispondendo al modello occidentale di composizione, lo è a tutti
gli effetti nelle società in cui è praticata. È il caso, tra gli altri, della musica dell’India del Nord; si tratta
di un caso di cultura alta priva di scrittura musicale, dove la pratica musicale si svolge secondo un
principio di composizione in tempo reale, giacché la musica così prodotta è riconosciuta nella società
indiana come l’opera originale.

CENNI STORICI SULLA SCRITTURA MUSICALE

Nell’Europa medievale i primi esempi di notazione musicale precisa si situano verso la fine del primo
millennio. La situazione di diglossia data dalla coesistenza del latino e del volgare trova una certa
corrispondenza in musica nell’opposizione tra POLIFONIA E MONODIA, secondo un ennesimo dualismo
tra musica dotta (polifonia) e popolare (monodia). Non si tratta, d’altronde, dell’unica forma di
dualismo presente nell’ambito della musica medievale; non meno importante, è la distinzione tra
musica profana e religiosa, e non necessariamente vi è una precisa simmetria con la distinzione
dotto/scrittura e popolare/oralità. La stessa concezione della polifonia in termini di progresso storico
e di superamento della cultura monodica non è del resto esaustiva, giacché il musicista colto
medievale è ben consapevole dell’importanza della melodia di partenza nel componimento polifonico.
Anche per questo motivo probabilmente l’influenza della musica orale monodica sulla polifonia dotta
è costante nel medioevo, e tracce d’influenza della musica popolare in generale sono riconoscibili in
una parte della produzione polifonica colta. Ugualmente, tra il XIII e XIV secolo molte canzoni, ballate
e ritornelli (tutte forme musicali orali) si sviluppano parallelamente in due versioni, monodica e
polifonica.

Nella storia della musica moderna occidentale i due opposti del rapporto tra l’autore e la scrittura
musicale sono rappresentati da Mozart, che secondo le testimonianze dei contemporanei componeva
molto rapidamente, stendendo versioni praticamente già definitive delle sue opere, e Beethoven, di
cui ci resta un cospicuo corpus di schizzi. Con Beethoven la composizione musicale è più che mai legata
alla sua notazione, anche durante il processo di creazione; eppure una tale conquista del suono da
parte del segno è frutto di un lunghissimo percorso, che comincia probabilmente con l’introduzione
della polifonia e la necessità di scrivere delle forme musicali più complesse.

Delle forme ibride di scrittura erano rappresentate dai segni notazionali della monodia liturgica
cristiana - il cosiddetto “canto gregoriano” - i quali, costituendo in realtà dei meri aiuti mnemonici,
presupponevano la conoscenza orale delle melodie. Le più importanti innovazioni tecniche della
scrittura musicale si situano tra il IX e il XII secolo; in particolare, per quanto riguarda L’ALTEZZA delle
note e l’invenzione, attorno al 1025, del rigo musicale ad opera di Guido d’Arezzo. I primi importanti
sistemi di misurazione del ritmo furono elaborati in seno alla Scuola di Notre-Dame di Parigi a partire
dal 1160 circa; un lungo processo di perfezionamento della definizione delle categorie di durata sfocia
nel 1327 nella pubblicazione del trattato Ars nova di Philippe de Vitry, in cui si trova codificato il
sistema dal quale discende la notazione moderna.

Forme di notazione parziale hanno comunque lungamente prevalso, come la tecnica del basso
continuo o del basso numerato, e la maggior parte delle fioriture e degli abbellimenti, non scritti, sono
stati per molto tempo affidati alle competenze dell’esecutore (in particolare in età barocca). In un
certo senso, anche in questo caso all’esecutore viene lasciato il compito di applicare determinate
formule precedentemente assimilate durante il suo percorso di formazione, ma non scritte sulla
partitura. Tali pratiche traggono origine dal fatto che spesso compositore e interprete coincidono,
come nel caso delle musiche oralmente trasmesse. L’introduzione della scrittura musicale nella musica
occidentale non ha determinato immediatamente la separazione tra le due figure; si tratta piuttosto
di una concezione sviluppatasi in età contemporanea, mentre, così come altre caratteristiche
originarie dell’oralità, la coincidenza fra autore e esecutore ha resistito per diversi secoli. In un certo
senso, l’evoluzione tecnica della scrittura musicale va di pari passo con la specializzazione dei ruoli tra
interprete e compositore, e con un margine di libertà sull’opera sempre minore per il primo, a favore
dell’autorità del secondo. (TM)

PRASSI ESECUTIVA

Nessuna arte, se si eccettua la danza, come la musica ha la necessità così intransigente di avere un
intermediario fra la creazione e la fruizione. Anche il più esperto conoscitore del linguaggio musicale
non trarrebbe dalla lettura a tavolino di una partitura se non limitate informazioni sul brano di cui
essa costituisce la traccia grafica (ovviamente la difficoltà cresce al crescere della complessità del
brano). Peraltro è noto che lo stesso compositore ha bisogno di sentire il suo pezzo eseguito per
avere un’esperienza completa di ciò che ha scritto ed anzi, proprio dopo l’ascolto, può succedere che
egli apporti modifiche anche di una certa entità. Ci si potrebbe addirittura chiedere se l’opera d’arte
musicale esista in se stessa anche senza l’esecuzione e quindi senza l’esecutore che la realizzi
fisicamente. È vero che anche la letteratura teatrale è affidata agli attori e sicuramente un grande
attore, con un’interpretazione efficace, può rendere il testo più penetrante e significativo. Ma chi
eventualmente legga solitariamente lo stesso testo in un libro si può rendere conto da sé del
significato del testo e seguire abbastanza dettagliatamente il pensiero dell’autore e lo sviluppo
dell’azione drammatica. Cosa, appunto, che non accade con la musica.

L’interprete musicale inoltre ha davanti a sé un testo che contiene segni grafici (v. altezza/nota) che
nel corso dei secoli hanno avuto una notevole evoluzione, non tanto nella grafica delle note, che si
stabilizza soprattutto con l’avvento della stampa musicale, quanto nelle indicazione accessorie. Se si
guarda da lunga distanza l’evolversi della scrittura musicale si può notare una sempre maggiore
precisazione di dettagli esecutivi che descrivono parametri sempre più sottili. Si giunge, con le
estreme propaggini del Romanticismo, ad una quasi maniacale cura dei dettagli: quasi ogni nota
possiede un’indicazione, o dinamica, o agogica, o di espressione, quasi che il compositore voglia
suggerire all’interprete ogni minima inflessione del suono (emblematico il caso di Gustav Mahler).

Se invece si guardano le prime testimonianze di musica scritta, ancor prima che entri in uso la
notazione moderna, si osserva la totale assenza di ogni indicazione; i segni servivano nella maggior
parte dei casi ad aiutare la memoria dell’esecutore in determinati frangenti. Questa apparente
libertà di chi esegue è mitigata da una sua forte partecipazione ad una tradizione che permette di
interagire secondo schemi ben conosciuti. La situazione non cambia molto se si pensa alla musica del
Cinquecento o a quella barocca. La prassi esecutiva, ricca di libere varianti, poggia su una conoscenza
della tradizione che da maestro a allievo trascorre senza problematicità, rendendo l’interprete
perfettamente padrone di modelli e stilemi a cui egli si riferisce continuamente e che non si ritiene
necessario scrivere. L’autore del Seicento o del Settecento, insomma, sa che l’esecutore capisce
benissimo ciò che egli ha scritto anche senza specificargli molto.

La stessa enigmaticità della scrittura spinge a far considerare assolutamente necessaria


l’intermediazione di un interprete (nel vero significato della parola) per decodificare il linguaggio
scritto in un messaggio sonoro che tutti possano intendere. Proprio questa “enigmaticità”, questa
possibilità di molteplici interpretazioni, è il fondamento di una delle massime attrattive dell’arte
musicale. Questo è chiaro specialmente al giorno d’oggi, in cui quasi tutti gli enti organizzatori di
eventi musicali (v. Le strutture organizzative) puntano soprattutto – in qualche caso esclusivamente
– sugli interpreti. Basterebbe guardare l’aspetto grafico della pubblicità di quegli enti per constatare
che, con le dovute eccezioni soprattutto in campo operistico, l’esecutore ha la supremazia
tipografica assoluta, mentre l’autore o gli autori e i titoli dei pezzi in programma sono relegati in
piccoli e molto meno leggibili trafiletti. Non è difficile sostenere che questa supremazia
dell’interprete sull’autore, che si consolida sempre più al nostro tempo, dipende dall’affermarsi di un
repertorio basato quasi esclusivamente su autori del passato, sia prossimo che remoto, che viene
riproposto continuamente e che trae interesse proprio dalla varietà degli esecutori che lo
propongono.

Forse oggi stiamo procedendo ancora in quel processo, cominciato alla fine del Romanticismo, che,
in teoria e in pratica, ha sempre più separato l’autore dall’esecutore creando quella nuova figura
specialistica dell’interprete di musiche di altri che per secoli era stata invece concentrata nella sola
persona del compositore. I pianisti Ferruccio Busoni, Sergeij Rachmaninov, Sergeij Prokof’ev sono gli
ultimi esempi del compositore virtuoso di antica tradizione. Soltanto nel campo della direzione
d’orchestra il fenomeno oggi persiste: si pensi a Giuseppe Sinopoli, a Esa Pekka Salonen, a Pierre
Boulez. Questo dualismo dell’interprete, alle prese con l’aspetto tecnico e quello dell’espressione, si
vede anche nella critica musicale di oggi alle prese con l’analisi delle interpretazioni. Fermo restando
il fatto che sempre meno, a partire dagli ultimi dieci-quindici anni, sui giornali si possono trovare
recensioni di concerti (fanno eccezioni gli eventi legati ai soliti celebri nomi e ai soliti celebri teatri) e,
dove si può (maxime nell’opera), ci si sofferma soprattutto sugli aspetti non musicali (regia, scene e
costumi), la critica musicale sembra sottolineare con chiarezza quel dualismo. È un modo
tradizionale – almeno per quanto riguarda l’ultimo secolo - di inquadrare un aspetto
dell’interpretazione che sembra riflettere in maniera speculare quello che accade ai giorni nostri alla
cultura occidentale alle prese con l’apparente inconciliabilità fra scienza ed umanesimo, fra ragione
e sentimento, fra spirito e materia. Infatti non è difficile trovare negli articoli che riportano critiche di
concerti interpreti definiti da frasi del tipo “bravissimo ma freddo”, “tutta tecnica” o simili che
dichiarano esplicitamente questo dualismo. Da qui poi tutta una serie di stereotipate conseguenze
antropologiche che vedono, per esempio, prevalere nella nazione tedesca l’aspetto tecnico mentre
in quella italiana il sentimento (“sì, talvolta sbaglia, ma ha tanto cuore”, si è sentito dire di un
pianista nostrano).

Negli ultimi cinquanta anni un nuovo filone esecutivo si è innestato in un aspetto molto
caratteristico della nostra epoca, quello del RESTAURO delle opere d’arte, con conseguenze dagli
sviluppi imprevedibili. A partire dagli anni 1930-‘40 si è cominciato a riscoprire il repertorio della
musica antica (dei secoli XVII e XVIII), anche italiana, – oggi omnicomprensivamente chiamata
barocca – soffocato all’epoca dalla strapotenza della tradizione del melodramma. Proprio sulla scia
di questo nuovo fenomeno, corroborato anche dalla pubblicazione sempre più frequente di revisioni
moderne di quelle musiche, una volta consolidata e data per scontata la validità di queste musiche,
ha preso vigore la ricerca di un nuovo modo di eseguirle. Con la stessa mentalità dei restauratori di
opere d’arte pittoriche, alcuni interpreti hanno cominciato a ripulire le partiture da incrostazioni e
danni del tempo, da convenzioni e ritocchi successivi quasi esse fossero appunto affreschi o pitture
ad olio. Per far questo, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, alcuni esecutori di area
tedesco-olandese (si citano come padri fondatori Gustav Leonhardt e Nikolaus Harnoncourt) hanno
cominciato a individuare alcuni strumenti atti allo scopo. Primo fra tutti il ricorso a strumenti
musicali originali o copie degli stessi, con relativa fioritura straordinaria di botteghe artigianali
impegnate nella costruzione di questi ultimi. Poi lo spoglio delle fonti documentarie e iconografiche
che potevano illustrare le caratteristiche fisiche delle esecuzioni antiche. Quindi lo studio di metodi
di apprendimento scritti nel periodo barocco e di seguito il controllo del numero degli esecutori
modellato sull’originale e la meticolosa ricognizione di ogni aspetto anche secondario delle
esecuzioni antiche. Tutti elementi che talvolta sono stati spinti fino ad un certo radicalismo da cui è
derivato in alcuni casi l’equivoco che bastava seguire i dettami sopra esposti per avere
un’interpretazione vera.

Proprio la verità sembra essere il fine di questa prassi esecutiva che secondo l’opinione degli stessi
esecutori avrebbe la capacità di ricreare l’esecuzione originale come si sarebbe potuta ascoltare ai
tempi dell’autore, mettendo lo strumentista quasi nel ruolo di collegamento direttore fra il musicista
dell’epoca e l’ascoltatore di oggi. Il raggiungimento di questo fine, che mostra chiaramente aspetti
utopistici, è la causa del fervore che negli ultimi anni ha infiammato il mondo delle esecuzioni
filologiche (ed ha vivificato i relativi cataloghi discografici) e che può essere elogiato non tanto per
averci avvicinato alla verità ma per aver aperto gli orizzonti di uno sterminato panorama fantastico
che ci ha permesso di ascoltare musiche note ammantate di sonorità inaspettate e nuove. C’è stata
addirittura una corsa all’interpretazione “autentica” che, attraverso elementi caratterizzanti quali
una certa velocità di tempi, una costante messa di voce sulle note lunghe, una accentuazione del
ritmo, una certa spigolosità del fraseggio ha portato anche a soluzioni estreme, quasi ad un restauro
eccessivo, magari legato alla novità di un atteggiamento bisognoso all’inizio di gesti quasi
provocatori. L’esempio che segue è molto indicativo della divergenza di idee.

Antonio Vivaldi, Il Cimento dell’Armonia e dell’Inventione op. VIII, Largo dal Concerto n. 4 in fa min.
“L’Inverno” per violino, archi e basso continuo

ES. 1

Mischa Mischakoff, violino, NBC Symphony Orchestra, Guido Cantelli, direttore, (New York, 1951, dal
vivo)

ES. 2
Alice Harnoncourt, violino, Concentus Musicus Wien, Nikolaus Harnoncourt, direttore, Teldec 1977

Quello che comunque è un dato di fatto è che questa prassi esecutiva originale è oramai diffusa in
tutto il mondo e i complessi con strumenti originali pullulano ovunque, anche in Italia. Ed
effettivamente si può constatare ormai anche una certa abitudine a quelle sonorità all’antica che
fanno sì che sempre più le esecuzioni di musica barocca siano appannaggio di complessi specializzati
e sempre meno si ascoltino suonate da grandi orchestre sinfoniche come avveniva fino a non molti
anni fa, almeno nel nostro paese. Ulteriore conseguenza del suddetto atteggiamento restauratore è
stato anche il diramarsi di questa particolare prassi esecutiva in epoche musicali anche successive al
barocco, interessando via via l’epoca classica e romantica con esiti talvolta di grande interesse che ha
finito per vivificare un vastissimo repertorio e per avvicinare alla musica un pubblico giovane
“incuriosito” dalle nuove sonorità.

Tutto questo lascia lo spiraglio a un paradosso. La ricerca dell’esecuzione autentica si basa tutta su
elementi storici e teorici (nessuna diretta testimonianza sonora ci è giunta dall’antichità come invece
giungerà alle orecchie dei nostri posteri, attraverso le attuali registrazioni magnetiche, il nostro modo
di suonare). Tutti coloro che oggi imparano a suonare uno strumento, o a cantare, o a dirigere
l’orchestra, hanno l’insegnamento di un maestro che a sua volta ha appreso la base di ciò che sa da
un precedente maestro e così via. Proseguendo con questo cammino a ritroso, naturalmente anche
con l’ausilio delle vecchie fonti musicali a stampa o manoscritte, ci si ricollega idealmente agli antichi.
Esiste ancora qualcosa dei vecchi insegnamenti che, trasportato sotterraneamente nel susseguirsi
delle generazioni di allievi e insegnanti, traspaia ancora nel modo di eseguire dei giovani maestri? Non
è forse proprio quella prassi esecutiva tradizionale, che la rivoluzione filologica ha voluto soppiantare,
quella che ancora oggi può contenere almeno una piccola parte di quella “autenticità” che a volte così
radicalmente gli interpreti moderni ricercano? Forse si potrebbe affermare che ciò che si cerca non è
poi così lontano. Infatti, dato per scontato che si impara a suonare come si impara a parlare ascoltando
gli insegnanti o i genitori, la linea che congiunge l’antico con il moderno – ovviamente entro certi limiti
– non si è mai interrotta. Insomma si potrebbe affermare, anche se in maniera un po’ rigida, che per
trovare l’autenticità esecutiva di un pezzo del recente passato si dovrebbe non interrompere la
tradizione ma interrogarla meglio.

In un interessantissimo dvd pubblicato dalla NVC Arts nel 1999, nel capitolo dedicato ad Edwin Fischer,
il grande pianista tedesco esegue un frammento del Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian
Bach e spiega che egli lo sta suonando come lo suonava Beethoven. Infatti, sostiene sempre Fischer,
Beethoven aveva insegnato il Clavicembalo ben temperato a Joseph Czerny, Czerny l’aveva insegnato
a Franz Liszt, Liszt ad Eugen D’Albert, D’Albert a Edwin Fischer. Questa tradizione orale diretta ci
permette quindi, se pur con una certa approssimazione, di avvicinarci ad una fonte autorevole con
sufficiente attendibilità. (GB)

PEDAGOGIA DELLA MUSICA

La pratica della trasmissione del sapere musicale, che tradizionalmente si limitava alla
somministrazione di concetti e competenze senza nessun riguardo alle tecniche d’insegnamento, è
diventata nel secolo scorso l’oggetto di uno studio approfondito finalizzato a determinarne
scientificamente tanto le finalità quanto le strategie operative. Rispetto alla dimensione prettamente
bidimensionale, votata cioè esclusivamente all’aspetto teorico speculativo o a quello tecnico, in cui
fino al XIX secolo s’inscriveva l’acculturazione musicale, la pedagogia moderna si distingue per un
approccio marcatamente interdisciplinare inglobando nelle varie teorie dell’insegnamento principi e
metodologie desunte dalla psicologia, dalla sociologia, dalla filosofia e dall’antropologia, corroborati
ovviamente dall’apporto delle diverse discipline musicologiche. Da questo discende, fra l’altro, la
moltitudine degli approcci di cui si compone il panorama pedagogico musicale attuale, all’interno del
quale è possibile tuttavia profilare alcune correnti distinte riconducibili ai cosiddetti “metodi storici”
dell’inizio del secolo scorso. La grande fioritura di studi e teorie che caratterizza il campo
dell’educazione musicale non trova però un adeguato riscontro in quello della formazione, ossia della
trasmissione di conoscenze specifiche a carattere professionalizzante, in cui, proprio a causa della
mole di competenze richieste e alla costante necessità di aggiornamento dei docenti, l’attecchimento
e la diffusione delle scienze pedagogiche incontra una resistenza molto maggiore.

I METODI STORICI DELL’EDUCAZIONE MUSICALE

La nascita di una pedagogia musicale scientifica orientata all’educazione musicale generale dei
bambini e dei ragazzi è una conseguenza dell’ideazione da parte di Adolphe Ferrière, John Dewey e
Ovide Decroly del cosiddetto metodo attivo, una tecnica dell’apprendimento che pone al centro del
processo di acquisizione del sapere la partecipazione consapevole del discente, stimolato sia dal punto
di vista sensoriale sia da quello motorio a porre in gioco le proprie abilità e il proprio vissuto per
diventare protagonista della propria evoluzione. Le origini di tale metodo, il cui atto di nascita può
essere visto nella fondazione della “Ligue internationale pour l’education nouvelle” (1921), sono da
ricercarsi nelle speculazioni filosofiche della corrente sensista e, in particolare, nelle opere di Locke,
Condillac, Diderot e Hume, i cui principi fondanti confluirono nel celebre trattato “Émile ou de
l’éducation” (1762) di J. J. Rousseau, all’interno del quale, peraltro, la musica gioca un ruolo tutt’altro
che secondario.

Il metodo attivo si contrappone a quello tradizionale della somministrazione dei contenuti culturali
delle varie discipline di studio, recepiti in modo passivo dall’allievo che assiste alle classiche lezioni
frontali. La sua traduzione nel campo dell’insegnamento musicale si deve all’opera di alcuni
compositori-teorici che svilupparono, in forma autonoma, ma sulla linea di presupposti comuni, le
metodologie didattiche che stanno ancor oggi alla base dell’educazione musicale: fra essi ricordiamo:
Èmile Jaques-Dalcroze, Zoltán Kodály, Carl Orff e Maurice Martenot. Al di là delle varie caratteristiche
peculiari, le metodologie promosse da questi autori sono accomunate dalla scelta di anteporre la
pratica alla teoria, in modo da porre il discente nella condizione di poter confrontare le regole della
musica con la propria esperienza sensomotoria. Tale esperienza pratica si traduce principalmente
nelle attività di canto corale e di produzione sonora attraverso il corpo (battito delle mani e dei piedi,
schiocco delle dita, ecc…) e nell’esecuzione strumentale. A questo proposito è indispensabile ricordare
lo strumentario Orff, una collezione di semplici strumenti a percussione messa a punto dal
compositore tedesco, che comprende metallofoni intonati e idiofoni ad altezza indeterminata
prelevati dalle tradizioni organologiche di tutto il mondo (preconizzando così l’importante tema
dell’interculturalità nella pedagogia, ampiamente discusso ai giorni nostri). L’apprendimento delle
tecniche esecutive fondamentali di questi strumenti consente alla classe di eseguire semplici brani
musicali in forma “orchestrale”. Fondamentale nel processo di apprendimento è inoltre il rapporto fra
studente e docente, che si configura generalmente nella relazione solo-tutti e che si basa su un
rapporto di imitazione, cooperazione e improvvisazione guidata.

Un altro tratto caratteristico dei metodi attivi della pedagogia musicale è la scelta del repertorio, che
nel pensiero dei teorici citati doveva comprendere brani desunti dalla tradizione folklorica locale,
filastrocche e canzonette per l’infanzia. Le ricerche più recenti hanno però messo in luce
l’inopportunità di una scelta di brani che corrispondono sempre meno all’identità musicale degli
allievi, ossia all’insieme dei valori, dei gusti, delle condotte e delle capacità relative all’esperienza
musicale maturate e spendibili dai discenti all’interno e all’esterno dell’ambiente scolastico. In
particolare, ci si interroga sul ruolo giocato dai mezzi di comunicazione di massa nella costruzione degli
orizzonti musicali dei giovani, riscontrando in questi ultimi la propensione ad appropriarsi dei linguaggi
musicali dominanti sul mercato dell’industria culturale non solo come oggetti di un’esperienza estetica
o ludica, ma anche come punti di riferimento nella definizione del proprio “territorio” sociale e
affettivo. Fra i compiti della pedagogia musicale di oggi si pone pertanto con urgenza quello di fornire
agli insegnanti la preparazione e le tecniche necessarie per entrare in comunicazione con questi
orizzonti musicali giovanili, facendo leva sulle condotte musicali ad essi collegate per il raggiungimento
degli obiettivi didattici stabiliti e promuovendo contemporaneamente un’apertura ad altri universi
musicali.

Quello della scelta dei repertori è solo uno dei problemi su cui si concentrano le scienze della didattica
musicale contemporanee, chiamate anche a misurarsi su tematiche legate all’importanza dello
sviluppo della creatività, alla possibilità di compenetrazione fra pensiero astratto (prevalentemente
formale) e concreto (legato all’esperienza pratica quotidiana) nell’ascolto, nell’interpretazione e nella
produzione di musica.

GLI STUDI SUPERIORI MUSICALI

Uno dei principi fondamentali su cui si fonda la concezione moderna dell’educazione musicale è la
necessità di sviluppare nell’allievo attitudini e competenze relative tanto alla sfera teorica del “sapere”
quanto a quella pratica del “saper fare”. Seguendo percorsi didattici appropriati, il bambino sarà infatti
posto nella condizione di sperimentare in modo creativo e performativo il fatto musicale e di
apprenderne i rudimenti teorici e notazionali, al fine di raggiungere una padronanza generale
sufficientemente sviluppata del linguaggio della musica. Questa compenetrazione delle due forme di
conoscenza musicale è un fenomeno tutto sommato recente e quasi completamente relegato
all’insegnamento primario e secondario, mentre nel quadro degli studi musicali cosiddetti “superiori”,
ossia quelli in cui l’oggetto dell’insegnamento è l’alta formazione musicale, la suddivisione fra teoria
e prassi è di certo più marcata. Tale situazione rispecchia perfettamente la plurisecolare ripartizione
dell’insegnamento musicale fra “scholae cantorum” e conservatori, da un lato, e università, dall’altro,
sopravvissuta anche all’estinzione dell’idea di provenienza classica e medievale dell’assoluta
estraneità della dimensione speculativa da quella pratica-artigianale. Proprio sulla base del grado di
compenetrazione fra insegnamento teorico e pratico è infatti possibile individuare tre modelli della
didattica musicale superiore, i quali, nonostante il clima di riforma attualmente diffuso in molte realtà
europee, mantengono ancor oggi una validità generale.

La prima tipologia, che potremmo definire italiana, ma che è di fatto diffusa in molti altri paesi, è quella
che mantiene più marcata la separazione fra le due aree disciplinari, caratterizzata da una diffusione
generalmente molto più capillare delle scuole d’impostazione pratica (conservatori) rispetto alle
università. A questa si contrappone quella anglosassone, che propone un’integrazione fra le due realtà
e nelle cui istituzioni, di carattere prevalentemente universitario, è possibile articolare piani di studio
integrati. Il terzo modello, in effetti assai raro, è quello francese, che pur mantenendo una
differenziazione fra le istituzioni preposte ai due diversi insegnamenti, promuove la stipulazione di
convenzioni che consentano agli allievi di attingere ad entrambe le offerte didattiche. Una volta
delineati questi modelli è necessario però sottolineare che la tendenza attualmente più diffusa sembra
essere quella che conduce al massimo ampliamento possibile della preparazione dei discenti
attraverso la fusione delle aree didattiche. Ne è un esempio la recente riforma italiana che,
trasformando i tradizionali diplomi di conservatorio in lauree di primo livello, ha promosso
l’ampliamento del ventaglio di discipline proposte mediante l’inserimento di corsi di tipo universitario.
Va notato però che limitazioni di tipo economico e infrastrutturale da cui sono afflitti molti dei
conservatori italiani e i tempi di attuazione piuttosto ristretti della riforma hanno creato in molti casi
situazioni ibride in cui la rimodulazione dei programmi didattici ha ricalcato in gran parte quella dei
vecchi ordinamenti con l’aggiunta di discipline umanistiche generali e teoriche musicali, lasciando
sostanzialmente invariata l’impostazione generale e aggravando il carico di lavoro degli studenti, forse
a discapito della qualità dell’apprendimento. Inoltre, il principio d’integrazione dei saperi
precedentemente esposto, pur conservando la propria validità in linea di principio, si scontra con la
quantità di competenze estremamente specifiche richieste sia al compositore, al direttore e
all’esecutore professionisti sia al musicologo. Si vede infatti che il percorso di formazione dei primi è
divenuto talmente lungo e articolato da imporre agli stessi la frequenza, una volta ottenuto il diploma,
di master-class e corsi di perfezionamento e che, d’altro canto, la sempre crescente parcellizzazione
del sapere musicologico si traduce in un imponente allargamento del bagaglio di conoscenze richieste
allo studioso: in entrambi i casi, la specializzazione “verticale” contrasta con l’estensione “orizzontale”
della cultura, rendendo in ogni caso difficile la definizione di un compromesso accettabile da entrambe
le parti. (NB)

LE DISCIPLINE MUSICOLOGICHE

Una delle costanti più diffuse nella storiografia delle scienze moderne è l’esatta individuazione di un
particolare evento che possa essere visto come atto di nascita di un nuovo campo di studio: nel caso
della musicologia, l’anno è il 1885, il luogo la città di Lipsia e l’evento è la pubblicazione a cura di Guido
Adler e Friedrich Chrysander del primo volume del periodico “Vierteljahrschrift für
Musikwissenschaft” (Rivista Trimestrale di Musicologia) e, in particolare, dell’articolo introduttivo di
Adler, “Umfang, Methode und Ziel der Musikwissenchaft” (Estensione, metodo e finalità della
musicologia). Il grande merito che gli studiosi riconoscono a questo scritto, che certamente riprese
concezioni sviluppate precedentemente, soprattutto nel “Musikalisches Lexicon” di Johann Gottfried
Walther (1732) e nel “Dictionnaire de la musique” di Rousseau (1768), è quello di aver delineato in
modo sistematico il campo d’azione della musicologia e di averlo suddiviso in un numero finito di aree
tematiche che ne esaurissero le possibilità euristiche e metodologiche. Pochissime sono infatti le
definizioni della “scienza della musica” presenti nei dizionari, generici e specifici, e nei lessici di tutto
il mondo che non si rifacciano all’impostazione generale ideata dal musicologo tedesco ed è possibile
affermare che questa sia ancor oggi il fondamento concettuale su cui poggia lo studio della musica. Lo
stesso vale per la distinzione fondamentale fra musicologia storica e musicologia sistematica che sta
alla base del sistema adleriano, la quale, oltre ad aver trovato un immediato riscontro
nell’organizzazione dell’insegnamento universitario fino ai nostri giorni, è il punto da cui la comunità
scientifica generalmente parte per riflettere sullo stato presente della ricerca e sui possibili
orientamenti futuri. Tuttavia, al di là delle singole sottodiscipline, che col tempo sono aumentate, si
sono evolute e diversificate, quella che permane è soprattutto l’idea originale di una scienza che
indaghi ogni aspetto dello scibile musicale, che racchiuda in sé tutte le riflessioni e tutte le ricerche
possibili dedicate all’oggetto “musica”. In questo senso, pertanto, il profilo schematico della
musicologia adleriana non ha solo il valore simbolico di “battesimo” delle scienze musicali, ma
stabilisce, o quanto meno interpreta in modo sintetico e originale, un preciso orientamento filosofico-
scientifico d’ispirazione olistica che si manterrà sostanzialmente invariato per tutto il XX secolo

MUSICOLOGIA STORICA E MUSICOLOGIA SISTEMATICA

La prima macrocategoria identificata da Adler è, come abbiamo detto, quella della musicologia storica,
che comprende discipline quali la paleografia musicale (ossia lo studio e l’interpretazione della
notazione musicale nel passato), l’organologia (la storia degli strumenti musicali) e soprattutto la
storia delle opere, dei compositori, delle forme, e delle teorie: in effetti, la ricerca musicologica ha
mostrato che non esiste nessun aspetto della musica che non possa essere indagato da un punto di
vista storico, inclusi quelli di pertinenza dell’altra grande categoria adleriana, la musicologia
sistematica. Quest’ultima ha per oggetto la “presentazione delle più alte norme all’interno delle
singole branche dell’arte dei suoni” (nelle parole dello stesso Adler) e comprende le scienze
dell’armonia, del ritmo e della melodia, l’estetica, la pedagogia e la didattica musicali e la
“Musicologia”, ossia lo studio musicale di carattere etnografico da cui discesero la musicologia
comparata e, successivamente, L’ETNOMUSICOLOGIA. Come quella storica, anche la musicologia
sistematica ha conosciuto nel corso dei decenni un ampliamento del proprio raggio d’azione: alle
discipline citate se ne sono aggiunte altre, come la sociologia della musica o la psicologia, percettiva e
cognitiva (già peraltro presenti nella definizione del 1885 come scienze generali di supporto), a loro
volta indagabili sotto il profilo diacronico.

La proliferazione pressoché illimitata delle prospettive storiche da cui è possibile osservare un


fenomeno artistico e culturale complesso qual è la musica si è di fatto tradotta in una netta
preponderanza, con buona pace dell’impostazione adleriana, degli studi di carattere storiografico. Tali
studi erano principalmente votati alla ricerca di caratteristiche comuni all’interno dei repertori e delle
istituzioni musicali del passato e alla conseguente definizione di generi, stili e correnti omogenei al
loro interno e reciprocamente contrapposti. Ne è conseguito un relativo disinteresse nei confronti
dell’area sistematica che ha coinvolto, in misura e con effetti variabili, tutti i principali centri
musicologici europei (con la possibile eccezione dell’Ungheria ove, sulla scorta delle ricerche dedicate
al repertorio popolare dei compositori Bartok e Kodály, si è sviluppata una fiorente produzione
etnomusicologica). A questa tendenza europea si contrappose nel secondo dopoguerra una TEORIA
ANALITICA statunitense, la cosiddetta “Music Theory”, coltivata in seno ai principali centri universitari
e sostenuta dall’opera di alcuni fra i più innovativi teorici dell’epoca quali Allan Forte, Milton Babbit e
David Lewin. Essa pose al centro dello studio della musica un approccio prevalentemente analitico
dedicato alla definizione del “funzionamento” dell’oggetto musicale e alla formulazione di principi e
metodologie d’indagine in una prospettiva relativamente astorica e avalutativa.

Tale squilibrio negli orientamenti della ricerca non è certo sfuggito all’attenzione di eminenti
musicologi quali Claude Palisca, Charles Seeger e Friedrich Blume, i quali, per lo meno a partire dalla
metà degli anni Sessanta del secolo scorso, si sono dedicati a una ricognizione dello “stato dell’arte” e
alla definizione di alcune possibili traiettorie di sviluppo. Fra le tendenze musicologiche da questi
biasimate spiccano la predominanza degli interventi dedicati a problemi di pertinenza dell’ambito
umanistico rispetto a quelli dedicati all’indagine scientifica, l’eccessiva tendenza alla generalizzazione
nella definizione di generi e stili e, all’interno tanto della corrente storiografica quanto di quella
teorica-analitica, la mancanza di riferimenti antropologici e sociologici nello studio del dato musicale.
Con il recente crollo del concetto occidentale di “universale” musicale e grazie all’apporto delle nuove
metodologie sistematiche sviluppate nel contesto degli studi sulla musica non occidentale e
contemporanea, l’orientamento della ricerca musicologica ha conosciuto, a partire dagli anni Ottanta,
una progressiva ridefinizione della classica contrapposizione fra approccio storico e sistematico,
orientandosi più verso una convergenza e una parziale sovrapposizione delle due aree d’indagine. Se,
da un lato, l’attenzione si è gradualmente spostata dalla ricerca storica ad ampio raggio verso
l’individuazione delle peculiarità specifiche dei singoli brani o di porzioni ridotte dei repertori,
dall’altro, la musicologia storica si è aperta sia dal punto di vista dei contenuti sia da quello
metodologico alle nuove discipline sistematiche, quali l’etnomusicologia e agli studi di genere. Non fa
eccezione il panorama italiano che, pur mantenendo vivo il tradizionale interesse per gli ambiti
paleografico e filologico, ha sviluppato negli ultimi anni una forte attenzione per l’area sistematica, sia
dal punto di vista tecnico-analitico, sia da quello etnografico e antropologico.

INTERSEZIONI E COMPENETRAZIONI NELLA MUSICOLOGIA CONTEMPORANEA

Il modo migliore per immaginare la composizione interna della musicologia attuale è probabilmente
quello di figurarsi una cartina geografica le cui regioni si sovrappongano l’una all’altra senza soluzione
di continuità. Se infatti non sembra particolarmente difficile dare una definizione sommaria di quale
sia il campo d’interesse, poniamo, dell’estetica musicale (v. valore e giudizio estetico), ben più arduo
è il compito di delimitare i confini che la separano dalla critica e dalla teoria; lo stesso dicasi per la
storia della musica rispetto all’analisi, alla filologia, alla paleografia e all’organologia (v. strumenti
musicali). La situazione, volendo indugiare ancora per un istante sulla nostra metafora geografica, è
anche più complessa passando dal piano “locale” della musicologia a quello “globale” dei suoi rapporti
con le altre aree del sapere. Sempre maggiore è infatti il numero degli interventi che propongono
metodologie d’indagine prelevate dalla critica letteraria (v. musica e linguaggio), dalla storia generale,
dalle diverse correnti filosofiche (v. musica e filosofia*), nonché dalle scienze naturali e sociali (v.
musica e scienze), mentre il processo inverso non sembra riscuotere il benché minimo successo. La
tendenza della musicologia all’“ibridazione”, endogena o esogena, è stata più volte portata
all’attenzione della comunità musicologica da studiosi di volta in volta allarmati, incuriositi, o
entusiasti che si sono variamente interrogati sulle insidie o sulle prospettive aperte da tali
contaminazioni.

La condizione attuale sembrerebbe dunque contrastare apertamente con la segmentazione di cui


abbiamo discusso in precedenza; tuttavia, tale contraddizione è solo apparente, in quanto la filosofia
che sta alla base del pensiero di Adler e della musicologia che da lui idealmente discende non deve
essere necessariamente interpretata come desiderio di una ripartizione netta e perfettamente
equilibrata delle forze in campo fra le diverse discipline. Non si tratta di computare il numero
d’interventi che afferiscono all’uno o all’altro settore di studi, né di profilare una deontologia
professionale che imponga di muoversi necessariamente all’interno del proprio territorio.
L’oscillamento delle tendenze musicologiche verso un approccio sistematico piuttosto che storico e la
compenetrazione di due o più metodologie scientifiche dipendono da una molteplicità di fattori quali
l’orientamento della cultura in generale e della società, la continua ridefinizione del panorama
musicale, gli interessi espressi dai fruitori della produzione musicologica, le traiettorie intraprese dalle
diverse scuole di pensiero e il rapporto che queste intrattengono con le istituzioni (v. le strutture
organizzative) in cui prendono forma e, non meno importante, la capacità dei musicologi stessi di
interpretare l’influsso che tutti questi fattori hanno esercitato sulle generazioni passate ed esercitano
sulla propria. L’esistenza delle diverse discipline musicologiche e la loro definizione, pertanto, non
sono da considerarsi come delimitazioni normative di carattere restrittivo, ma, al contrario, come
incentivo all’approfondimento e all’interscambio di metodologie e concetti, tutti rivolti al fine comune
della comprensione della musica.

ETNOMUSICOLOGIA

L’OGGETTO DI STUDIO DELL’ETNOMUSICOLOGIA:


TRA MUSICOLOGIA E ANTROPOLOGIA

Tra i problemi che una “giovane” disciplina come l’etnomusicologia si trova a dover affrontare vi è
anzitutto la difficoltà nel circoscrivere il proprio oggetto di studi. Le molteplici contrapposizioni che
caratterizzano spesso la concezione dell’alterità musicale (musica occidentale/non occidentale,
musica orale/scritta, colta/popolare) sembrano essere sempre meno adeguate a spiegare perché ci si
interessa a certe musiche e perché lo si fa per mezzo dell’approccio etnomusicologico.
L’etnomusicologo certamente studia la musica, ma ciò che maggiormente distingue il suo approccio
da quello della musicologia pura è l’interesse per le dinamiche sociali all’interno delle quali il
fenomeno musicale osservato si inscrive, interesse che non è minore di quello per l’analisi musicale
del fenomeno puramente sonoro. Il prefisso etno- indica dunque la fusione di due discipline,
musicologia ed etnografia, e di conseguenza l’importanza di una doppia competenza da parte dello
studioso; l’analisi musicale è la prospettiva attraverso la quale l’etnomusicologo intraprende
un’indagine che è essenzialmente di tipo antropologico. L’attenzione verso il fenomeno musicale e la
sua analisi precedono lo studio e la descrizione del contesto sociale, ma non ne sono scisse
nell’etnomusicologia attuale. L’interesse dell’etnomusicologo moderno non è aprioristicamente
proiettato verso fenomeni musicali geograficamente o culturalmente distanti; egli osserva soprattutto
la pratica musicale all’interno di una società, vicina o lontana che sia, per riflettere sulle modalità e
sulle funzioni della musica presso gli individui e le comunità che la compongono. “Humanly organised
sound” (suono umanamente organizzato) è la definizione della musica data dall’etnomusicologo
inglese John Blacking in “How musical is man?” (“Com’è musicale l’uomo?”, 1973). La musica, in
quanto organizzazione di suoni, è il prodotto del pensiero e dell’estetica della società in cui nasce. Al
centro della prospettiva etnomusicologica vi è dunque l’elemento comunitario e sociale, la
condivisione non soltanto del materiale sonoro, ma anche degli aspetti socio-culturali che ne sono
all’origine. Questa concezione prevale allo stato attuale della disciplina; si tratta comunque del punto
di arrivo di un percorso di evoluzione e cambiamenti.

L’etnomusicologia moderna, obbligando a relativizzare la nostra cultura musicale, ha inoltre il merito


di alimentare la riflessione sull’universalità del fenomeno musicale; la produzione musicale
occidentale, tradizionalmente oggetto di studio della musicologia classica, è una modalità specifica del
fare musica che può essere osservata attraverso una prospettiva etnomusicologica. L’idea di una
musicologia generale, della tensione verso un punto d’incontro tra le due discipline, è oggi alla base
di alcune tra le più importanti questioni poste dall’etnomusicologia.

NASCITA E EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA

Gli esploratori coloniali del XVIII secolo furono i primi a fornire sommarie trascrizioni di musiche non
occidentali nelle loro cronache; nello stesso periodo i pionieri dello studio folklorico compilavano
descrizioni di testi della musica popolare europea. L’interesse per le “altre musiche”, seppur lungi dal
concretizzarsi in forme scientifico-accademiche, aveva attraversato l’età dell’Illuminismo prima,
influenzando Jean-Jacques Rousseau, autore del “Dictionaire de Musique” (1768), contenente
trascrizioni di melodie popolari dell’Europa e dei nuovi mondi, e il Romanticismo poi, caratterizzato
da un interesse prevalentemente dilettantistico nei confronti della materia, sulla spinta del mito del
“buon selvaggio” e del fascino per l’esotismo assai in voga in quest’epoca. Sul finire dell’ottocento,
però, alcuni eventi segnano la svolta verso un approccio più scientifico all’etnomusicologia: nel 1884
Alexander John Ellis, filologo e matematico inglese, pubblica un saggio dal titolo “Tonometrical
observations on some existing non-harmonical scales”, (osservazioni tonometriche su alcune scale
non-armoniche esistenti) in cui, proponendo un sistema di calcolo logaritmico degli intervalli musicali,
dimostra che la scala musicale è un modello artificiale, e in base a ciò non esiste un modello universale
al disopra delle differenze culturali. Ellis fornisce così i primi strumenti tecnici per lo studio
transculturale della musica.

In questi anni si sviluppano inoltre due importanti elementi che caratterizzeranno l’etnomusicologia
nel secolo successivo: la ricerca sul campo e la creazione di archivi sonori. Entrambi gli aspetti sono in
un certo senso legati alla stessa innovazione tecnica, il fonografo a cilindri di cera, messo a punto da
Thomas Edison nel 1887, che permette di incidere e conseguentemente catalogare la musica di popoli
e culture eseguita dagli stessi autoctoni. È proprio intorno ad uno dei più importanti archivi sonori, il
Phonogramm-Archiv dell’università di Berlino, istituito nel 1902, che si forma il primo centro operativo
di studi etnomusicologici, la cosiddetta Scuola di Berlino. In quest’ambito si delinea il nuovo campo di
studi della musicologia comparata: in maniera sostanzialmente analoga alla teoria di Darwin per le
specie biologiche (già ripresa dagli evoluzionisti per lo studio delle società), si ipotizzava che i fenomeni
musicali avessero conosciuto uno sviluppo, una evoluzione, da forme più elementari e indifferenziate
a quelle più complesse (o almeno ritenute tali). Dunque la musica delle popolazioni “primitive” e il
folklore europeo, erano studiate come sopravvivenze di uno stadio primigenio attraversato e superato
nella musica occidentale. Questo approccio è stato duramente criticato da John Blacking in “How
musical is man?”. Oltre a dimostrare l’inutilità di teorie che cercano le origini dell’espressione musicale
nell’imitazione da parte dei primitivi dei suoni della natura, in quanto teorie indimostrabili, Blacking
attacca la concezione evoluzionista secondo cui l’uomo avrebbe cominciato ad esprimersi con uno o
due suoni, per arrivare gradualmente all’uso di più suoni e strutture più complesse. L’etnomusicologo
inglese fa riferimento alla sua esperienza con i Venda del Sud Africa: i Venda conoscono e sono in
grado di utilizzare scale esatoniche ed eptatoniche (v. scala), senza che vi siano interferenze da culture
occidentali, ciononostante, analogamente a ciò che è successo nella cultura cinese, hanno optato per
scale di cinque suoni.

Il comparativismo dei primi studi conosce comunque un progressivo declino, fino al suo superamento
alla fine degli anni ’50. Non vanno comunque sottovalutati suoi contributi: oltre alla prima sistematica
classificazione degli strumenti musicali ad opera di Curt Sachs, esponente di spicco della scuola di
Berlino, i continuatori della Scuola affrontano nuovi problemi teorici di trascrizione dei suoni. Mettono
inoltre a punto strumenti elettro-acustici per la trascrizione automatica di melodie e per la
misurazione dei suoni, anche se su questo aspetto emerge un altro dei limiti di questa corrente: la
scarsità della ricerca sul campo. Proprio da qui, a partire dagli anni ‘40-‘50, comincia la reazione al
comparativismo: si verifica in quegli anni un boom di ricerche sul campo, atte a descrivere le società
tradizionali e spinte da una sorta di urgenza nel timore che l’estinzione di alcune società comportasse
la definitiva perdita del loro bagaglio culturale. La nuova spinta è guidata da una visione di tipo
sincronico dei fatti, considerati nelle loro relazioni sistematiche all’interno delle società, che si
contrappone all’impostazione diacronica di evoluzionismo e diffusionismo.

Questa seconda fase può essere definita quella dell’etnomusicologia propriamente detta, se non altro
per il fatto che proprio nel 1950, ad opera dell’olandese Jaap Kunst, viene coniato il termine ethno-
musicology, riconosciuto ufficialmente e universalmente con la costituzione, nel 1955, della Society
for Ethno-musicology. La nuova corrente ha il suo centro operativo negli Stati Uniti, dove si forma una
scuola etnologica anti-evoluzionistica; una delle sue più importanti caratteristiche è quella di
privilegiare un metodo induttivo, in opposizione a quello deduttivo dell’evoluzionismo. Teorie e leggi
vengono dunque formulate sulla base di dati ed esperienze raccolti sul campo, anziché partire da un
presupposto ed orientare successivamente gli studi verso la sua dimostrazione. Tra le personalità di
spicco della scuola americana sono da ricordare Franz Boas e Gorge Herzog che, influenzato da Boas,
delinea importanti nessi tra analisi linguistica e musicale; inoltre, i suoi allievi Gorge List e Bruno Nettl.

Tra gli apporti principali di questa fase della disciplina, vi è la distinzione di due concetti-base per gli
studi etnomusicologici a venire: la nozione di sistema musicale e cultura musicale . Il sistema musicale
è l’insieme di regole e relazioni che connotano un determinato linguaggio musicale; la cultura musicale
è invece l’insieme di tratti che consentono di identificare le forme musicali come specifiche di una
determinata società. Questi due concetti, oltre a creare un interessante parallelismo fra
l’etnomusicologia e la linguistica (si pensi all’opposizione di Ferdinand de Saussure fra “langue”
(lingua), codice individuale, e “parole” (parola in quanto atto individuale di utilizzazione del codice),
sono determinanti nel delinearsi di una terza fase, più recente, dell’etnomusicologia: la divisione degli
studiosi, a partire dagli anni ’60, in due correnti: una formalista, più puramente musicologica, che si
concentra sull’analisi del fenomeno musicale in sé, l’altra antropologico-musicale, che intende
l’etnomusicologia come studio della musica nel contesto sociale in cui è prodotta. Tra le personalità
principali di questa seconda corrente, l’antropologia della musica, vi è Alan P. Merriam, autore di “The
Anthropology of Music” (1964), nonché il già citato John Blacking. Le critiche mosse all’approccio
musicologico-formalista, che delimita lo studio di un sistema musicale alla sola analisi dei materiali
sonori, si basano essenzialmente sull’importanza della dinamica sociale e culturale, vero movente
dell’espressione musicale.

LE METODOLOGIE E LE FASI DELLA RICERCA ETNOMUSICOLOGICA ;


I SETTORI DI INDAGINE, LE TECNICHE, I RISULTATI

Nella scelta dei settori di indagine emerge un importante problema che lo studioso deve porsi: egli
potrà effettuare degli studi di tipo intensivo, ovvero selezionare un’area geografica limitata e prestarle
particolare attenzione, oppure estensivo, viaggiando in aree particolarmente estese senza soggiornare
a lungo e dedicandosi prevalentemente all’accumulo dei dati. Lo studio intensivo può inoltre
effettuarsi su aree geografiche particolarmente vaste, ma dedicarsi ad un solo aspetto della cultura
presa in esame, in maniera settoriale. I principali punti di partenza della ricerca etnomusicologica
sono: lo studio dei repertori musicali, primo passo verso qualsiasi tipo di approfondimento; lo studio
degli strumenti e delle tecniche di produzione del suono; lo studio dei testi verbali, la loro forma e il
loro contenuto; i tratti stilistici.

Per quanto riguarda gli aspetti socio-antropologici dell’indagine, che caratterizzano la fase successiva
della ricerca, un’attenzione particolare sarà riservata allo studio delle occasioni del fare musica , del
ruolo sociale del musicista, dei concetti e delle idee relative alla musica che circolano nella società,
non solo tra i musicisti. L’organizzazione del lavoro di un ricercatore-tipo, è così suddivisa in tre tappe
principali. In un primo momento, l’etnomusicologo si dedicherà alla ricerca sul campo: si tratta di una
fase assolutamente imprescindibile nello studio di musiche di concezione e trasmissione orale (v.
oralità e scrittura). Ogni situazione in questo caso ha le sue particolarità, ma vi sono alcune costanti,
tra cui il ruolo dell’informatore, ovvero la persona o le persone, interne alla società osservata, che
forniscono al ricercatore informazioni di vario genere, tramite interviste o altri contatti più o meno
formali con lui. Altrettanto basilare è l’osservazione delle performances, siano esse puramente
musicali o religiose (come i rituali o le cerimonie tradizionali), spontanee o eseguite appositamente
per il ricercatore; l’etnomusicologo, inoltre, avrà cura di procedere alla registrazione, dei fenomeni
osservati, in forma di notazione scritta o su nastro, di musica o di intervista, su pellicola 16 mm. o in
fotografia. In questo modo si potrà procedere da subito alla creazione di archivi consultabili in seguito.
Una seconda fase della ricerca prevede l’elaborazione dei dati raccolti sul campo. In questa fase
intermedia si procede allo spoglio dei materiali, alla loro schedatura e trascrizione in laboratorio,
eventualmente con l’ausilio di apparecchiature computerizzate per l’analisi del suono. Da un punto di
vista della produzione di testi e della divulgazione, la fase dell’elaborazione dei dati permette di
pubblicare monografie su specifiche culture musicali, antologie e raccolte, riviste specializzate e
raccolte discografiche. Nella terza fase, infine, si giunge solitamente a delle teorizzazioni, o
quantomeno si leggono i dati raccolti in relazione alle principali questioni etnomusicologiche. Lo stadio
finale della ricerca prevede la produzione di una letteratura di carattere più complessivo: manuali,
testi di carattere generale, trattati musicologici o antropologici, che spesso travalicano lo specifico
disciplinare mettendo i dati a disposizione anche di altre scienze umane.

Le metodologie, il luoghi e le fasi della ricerca sono dunque molto differenziati; lo studioso si trova
confrontato a problemi di natura molto diversa per la cui risoluzione necessita di molteplici
competenze. La complessità dell’indagine è però il principale punto di forza de questa disciplina,
l’aspetto che la spinge al dialogo continuo con vaste aree del sapere. Da questo dialogo deriva la
ricchezza della prospettiva etnomusicologica. (TM)

LA CRITICA MUSICALE

L’origine etimologica del verbo criticare è “krino”, termine greco che incorpora in sé sia l’idea del
giudizio sia quella del discernimento e della scelta. Da questo punto di vista, l’esecuzione, lo studio e
l’ascolto di musica, l’acquisto di un disco e, in una parola, tutte le azioni che comprendano una
qualsiasi relazione instaurata fra l’uomo e il fenomeno musicale contemplano anche l’esercizio di
una capacità critica, ossia, la formulazione di un’opinione. Lo stesso studio dei repertori, delle forme
e delle tecniche del passato operato dai compositori passa necessariamente attraverso un atto di
selezione che contribuisce in modo determinante alla formazione dei loro linguaggi e stili personali.
La critica musicale come professione, o comunque come prassi, dovrebbe pertanto almeno
idealmente rifarsi a queste esperienze e tentare di mettere in comunicazione il fatto musicale in
tutte le sue forme con il pubblico dei lettori, orientando adeguatamente l’attenzione di quest’ultimo
e contribuendo a raffinarne il gusto e le competenze. Per Oscar Wilde, il mestiere del critico
pareggiava, e anzi superava per dignità, quello dello stesso artista, dal momento che al primo
spettava l’arduo compito di tradurre in verbo e di rendere di conseguenza accessibile ciò che il
secondo esprimeva nei linguaggi specifici della propria forma di comunicazione.

Curiosamente, dalla stessa radice greca proviene un altro vocabolo italiano che per molti descrive
perfettamente lo stato in cui versa la critica musicale attuale: “crisi”. La condizione del critico
professionista che si occupa di musica appare infatti oggi assai più prosaica di quella tratteggiata in
precedenza, tanto da indurre non pochi osservatori del panorama culturale contemporaneo a
decretarne sic et simpliciter la morte, se non proprio clinica, per lo meno cerebrale.

Vista dalla prospettiva di un normale frequentatore ottocentesco di giornali musicali e non, magari
di estrazione alto borghese e di nazionalità francese o tedesca, ma anche italiana, la professione
della critica musicale potrebbe sembrare oggi effettivamente defunta. Il giornalismo musicale del XIX
secolo, di cui sopravvivono ancor oggi esempi magistrali vergati dalle penne di compositori del
calibro di Robert Schumann e Hector Berlioz, era infatti principalmente orientato alla presentazione
delle nuove composizioni che si proponevano al pubblico, cui si affiancava immancabilmente una
valutazione e un giudizio puntuale, più o meno severo. Scorrendo invece le pagine dedicate alla
cultura dai principali quotidiani nazionali odierni, soprattutto italiani, così come dalle riviste
specializzate di carattere divulgativo, sarà pressoché impossibile trovare articoli che recensiscano
musiche di nuova composizione e, qualora se ne parli, ciò che più conta non è la loro natura
musicale intrinseca, quanto piuttosto l’occasione, l’evento in cui queste si sono celebrate. Eccezion
fatta per alcuni casi illustri, che appaiono però quasi come epigoni di una generazione passata, la
critica musicale sembra essersi oggi ritirata nei pressi di quel margine dell’orizzonte culturale in cui
albergano l’aneddotica, la pubblicità e la cronaca mondana, spinta in questo dalle pressioni
esercitate in modo più o meno velato dagli operatori del marketing, legittimamente preoccupati di
incontrare il favore del grosso pubblico e di assicurare così una vitalità economica a se stessi e ai
prodotti da essi commercializzati.

Una tale situazione, va da sé, non è certo passata sotto il silenzio di quanti, musicisti, musicologi e,
soprattutto, lettori, hanno a cuore la preservazione e lo sviluppo dell’acculturazione musicale del
proprio paese: dalle osservazioni e dalle lamentele di questi è fiorito un recente dibattito, raccolto
peraltro con estremo interesse da molti giornalisti del settore, da cui sono scaturiti alcuni “identikit”
aggiornati del critico musicale, delle strategie operative che auspicabilmente dovrebbe
intraprendere e delle finalità della sua professione.

CHI È IL CRITICO MUSICALE

Nel tracciare un profilo attuale del giornalista musicale modello, uno dei temi più importanti è
certamente la definizione delle competenze che egli sarà in grado di mettere in campo sia al
momento della fruizione della musica, ascoltata in concerto o in disco, sia nella fase della produzione
vera e propria della recensione. È indubbio che la storia della critica musicale ottocentesca e
novecentesca sia costellata da nomi il cui contributo allo studio della storia della musica, delle
tecniche compositive e dell’ESTETICA testimonia un’ineccepibile preparazione specifica: basterà citare
i nomi di E. T. A. Hoffmann, Eduard Hanslick, Cahrl Dahlhaus e Donald Francis Tovey per ottenere
un’idea di l’esercizio della critica possa fondarsi sull’approfondimento analitico e su una conoscenza
capillare del fatto musicale. Non bisogna però dimenticare che, come insegna un’importante
corrente del giornalismo musicale italiano, per stilare validi resoconti di un evento non è necessario
partire da una formazione accademica specifica. Molti fra i più noti e celebrati maestri della critica
italiana, come per esempio Massimo Mila, Rubens Tedeschi ed Eugenio Montale, per citare tre
esempi autorevoli e molto diversi fra loro, provengono infatti da studi classici, benché ovviamente
corroborati da un’assidua frequentazione dei repertori musicali. Certo, da chi sceglie di fare della
musica una professione ci si aspetterebbe quantomeno che sappia leggere una partitura; tuttavia ciò
su cui tutti gli osservatori che si sono espressi sull’argomento concordano è che la qualità principale
del critico è l’esperienza acquisita in lunghi anni di assidua ed attenta partecipazione alla vita
musicale. Da essa dipendono la sua capacità di riconoscere i tratti significativi di una composizione o
di un’esecuzione e quella di sottoporli al vaglio della propria opinione e del proprio gusto, entrambe
indispensabili per potersi porre in modo consapevole di fronte alle domande che il pubblico dei
lettori vorrà presumibilmente porre al critico. A differenza del musicologo, che, forse erroneamente,
si suppone debba parzialmente prescindere dalle proprie inclinazioni estetiche per valutare in modo
scientifico l’oggetto delle sue ricerche, il critico musicale è chiamato ad esprimere pubblicamente e a
sostenere un’idea personale, la cui pretesa di verità vanta eguali diritti di tutte le altre opinioni simili,
quando sufficientemente informate. Tale presa di posizione si potrà fondare in misura variabile su
osservazioni di natura tecnica, purché accessibili ai destinatari della critica, su considerazioni
estetiche, su impressioni personali e su constatazioni derivate dalla conoscenza e dalla
frequentazione dei brani presi in esame. In ogni caso, la recensione non deve essere vista come il
momento conclusivo del discorso sulla musica di cui si parla, ma come punto di partenza per un
dialogo, anche virtuale, con le conclusioni espresse dalla voce autorevole dell’estensore, o anche
solo come incentivo per il lettore alla verifica di tali conclusioni con gli strumenti della propria
capacità di discernimento. L’esercizio della critica musicale impone quindi una certa dose di
parzialità e soggettività, certamente mediate dalla consapevolezza, come presupposti per la
formulazione di un giudizio personale. Essa impone infine anche un grado sufficiente di libertà nella
scelta dei soggetti da trattare (non esiste infatti critica più temuta da un musicista del “silenzio
stampa”) e dei contenuti da proporre, entrambi spesso predeterminati da scelte redazionali o da
convenzioni dettate da un galateo culturale che predilige l’annuncio e la presentazione di un evento
al resoconto e al giudizio su esso.

DI COSA PARLA LA CRITICA OGGI

Che la critica musicale parli di musica non è un dato né scontato né universalmente accettato. Ne è
indicazione evidente lo spostamento delle recensioni musicali dalle pagine culturali dei quotidiani (le
vecchie “terze pagine” ormai diventate “penultime”) a quelle dedicate agli “spettacoli”, trasloco che
sembra voler indicare una progressiva valorizzazione del carattere di evento dell’esecuzione
musicale a discapito dei contenuti che questo vorrebbe veicolare. Buona parte della critica musicale
di oggi parla di star, di finanziamenti pubblici, di sponsorizzazioni, di restaurazioni, di politiche
culturali e di grandi valori sociali. E anche di musica, ma in modo quasi surrettizio. Le richieste che
spesso pervengono alle testate giornalistiche sembrano invece testimoniare un desiderio di tornare
a concentrarsi sull’offerta delle stagioni concertistiche e, soprattutto, sull’esecuzione, sulle qualità
artistiche sprigionate dagli interpreti e sulla loro capacità (o, eventualmente, incapacità) di fornire
agli ascoltatori un’esperienza musicale degna di essere ricordata e commentata. In questo senso,
non fa differenza se si tratti di musica “colta” o “popular”, se il concerto si sia tenuto in un
prestigioso teatro settecentesco o in uno stadio gremito da una folla urlante: ogni esecuzione
trasmette sensazioni, messaggi e idee passibili di essere recepite, meditate, verbalizzate e lette, in
un circuito virtuoso tanto per gli addetti ai lavori quanto per il pubblico, effettivo o potenziale.

Dal canto suo, chi scrive per un quotidiano, per un settimanale o per una rivista di larga diffusione
deve tenere in debita considerazione le esigenze e la preparazione dei destinatari del suo lavoro:
abbiamo già notato come un linguaggio troppo denso di tecnicismi, se non corredati da
un’opportuna spiegazione, rischia di sortire l’effetto di disorientare e allontanare i lettori. D’altra
parte, un’esposizione esclusivamente metaforica e costellata di aggettivi generici tende ad appiattire
le specificità delle opere seguite e della qualità dell’esecuzione. Di un concerto caratterizzato da
esecuzioni “impeccabili”, assoli “mirabolanti”, e “superbi” arrangiamenti, si può forse intuire che è
stato apprezzato, ma non si capisce perché. La critica che si pone come obiettivo la veicolazione di
un’idea maturata su un’esperienza musicale sarà piuttosto chiamata a focalizzare pochi elementi
delle composizioni e dell’esecuzione, anche uno solo, e attraverso essi aprire al pubblico il proprio
punto di vista sul tutto, addentrandosi nei dettagli soltanto nella misura necessaria a rendere
evidenti le motivazioni e gli obiettivi delle proprie osservazioni. D’altra parte, non è possibile
individuare uno stile peculiare della critica musicale, un modello perfetto che raggiunga e coinvolga
in ugual modo l’erudito, l’appassionato, il musicologo, il curioso e il musicista di professione. È stato
infatti più volte affermato che ogni buon critico inventa ed esaurisce il proprio stile personale, che
potrà essere di stampo prevalentemente letterario o cronachistico, indulgente o severo, eppure
sempre efficace e apprezzato.

A COSA SERVE LA CRITICA

Il recente tramonto della figura del critico musicale professionista è in qualche modo legato a un
interrogativo rimasto aperto sulla sua funzione, sia all’interno del contesto in cui il suo contributo
prende forma e acquista visibilità (quotidiani, riviste specializzate, telegiornali, ecc…) sia in quello più
ampio del pubblico cui tale lavoro è destinato. Da un punto di vista prettamente pratico, la
recensione musicale è un articolo di cronaca ed ha a che fare quindi principalmente con
l’informazione. Essa deve rendere conto di un avvenimento e fornire ai propri lettori le indicazioni
necessarie per comprenderne la natura, la qualità, gli esiti e le finalità. Dal momento però che
l’avvenimento di cui si occupa il recensore è, almeno in linea di principio, veicolo di contenuti e
messaggi artistici, egli sarà chiamato ad informare il pubblico anche sulla loro portata culturale, sul
contesto storico in cui si colloca il repertorio proposto (soprattutto se si parla di musiche poco
conosciute) e sui suoi presupposti estetici. Persino il tanto deprecato preannuncio di uno spettacolo
è potenzialmente capace di dare una corretta informazione ai potenziali spettatori, mettendoli nella
condizione di prepararsi al meglio al programma che si apprestano ad ascoltare e indirizzandone
opportunamente l’attenzione. Da presentazione e resoconto, l’articolo del critico diviene quindi un
mezzo di diffusione della cultura, uno strumento quasi didattico finalizzato all’estensione
dell’educazione alla musica. Esso si fa carico di fornire delle risposte chiare alle domande dei lettori,
di rendere le loro stesse impressioni più consapevoli ed articolate, di collegarle a fatti musicali, di
creare la curiosità e l’interesse che stanno alla base della fioritura della vita artistica di una città o di
una nazione. E in questo possono rientrare anche le considerazioni, non direttamente legate alla
performance, relative agli interpreti, agli enti che promuovono e sostengono le attività
concertistiche e discografiche, alla loro situazione economica e alle possibilità d’intervento delle
istituzioni pubbliche. Tutte queste notizie fanno effettivamente parte del panorama che rende
possibile l’esistenza stessa di un circuito musicale attivo, il cui centro è, e deve continuare ad essere,
al musica. (NB)

LE STRUTTURE ORGANIZZATIVE

Per quanto riguarda la diffusione della musica eseguita per il pubblico, escludendo gli apparati musicali
che da sempre sono stati legati alla liturgia della chiesa e i teatri d’opera che già dal 1633 a Venezia si
erano aperti al pubblico pagante, nel corso del XVII secolo si assiste all’uscita della musica stessa dalle
corti o dai palazzi dell’aristocrazia, che pure parallelamente mantenevano le loro abitudini e i loro
maestri di cappella privati. Anche nelle classi borghesi nel XVII secolo si apprezza la musica e la si
esegue in eleganti accademie nelle quali gli invitati potevano assistere a concerti di musicisti ingaggiati
apposta per l’occasione; manifestazioni del genere si affermarono sempre di più acquistando una
certa continuità che, attraverso i salotti dell’Ottocento, sono giunte fino ai giorni nostri. Ricca è
l’iconografia di questa attività che ci illustra, pur con il variare delle mode, una tipologia sempre molto
simile.

La prima vera e propria serie di concerti per un pubblico pagante, come la concepiamo al giorno d’oggi,
fu realizzata nel 1672 a Londra dal violinista John Banister; i concerti, grazie anche ai suoi successori,
proseguirono nella stessa modalità per 42 anni. È proprio l’Inghilterra, grazie all’intraprendenza della
sua società aristocratica e borghese, a primeggiare in questa attività che da lì si espande poi in altre
nazioni europee. Sempre in Inghilterra è doveroso citare i Castle Society Concerts che si aprirono nel
1724, i Concerts of Ancient Music (poi King’s Concerts) che durarono dal 1776 al 1848 e i Salomon
Concerts (1791-1795) per i quali Haydn scrisse le sue celebri Sinfonie londinesi. In Francia la più famosa
istituzione che organizzava concerti pubblici fu il Concert spirituel delle Tuileries, fondato nel 1725,
ideato da Anne Danican Philidor, per cui anche Mozart scrisse e presentò, anche se con scarso
successo, alcuni brani. Nel 1828 vide la luce la Societé des Concerts du Conservatoire di Parigi, fondata
da François-Antoine Habeneck, che ancora è in vita. In Germania le esecuzioni di musiche in pubblico
a pagamento furono affidata ai cosiddetti “collegia musica”. Fra i più famosi, per i nomi che figurano
tra i protagonisti, vi fu il Collegium Musicum di Lipsia, fondato da Georg Philipp Telemann nel 1704;
dal 1729 al 1740 fu diretto da Johann Sebastian Bach che per esso compose o adattò numerosi brani.

L’Italia non ebbe all’inizio istituzioni in grado di procedere ad una periodica programmazione di
concerti pubblici, ma vi si manteneva ancora profondamente radicata l’usanza delle “accademie”
private. Bisogna attendere il XIX secolo per assistere alla nascita dei Concerti popolari fondati da Carlo
Pedrotti nel 1872 a Torino, che aprirono il campo ad altre iniziative simili come i Concerti sinfonici
della Scala. A Firenze nel 1869 Jette Sbolci aveva fondato i Concerti popolari. Nel 1895 nasce
l’Orchestra Musicale di Torino, la prima orchestra stabile in Italia. Nel 1908 a Roma cominciano la loro
attività i Concerti dell’Augusteo, una delle più importanti iniziative italiane in questo ambito che vide
in cartelloni i più celebri direttori del mondo. Né si può dimenticare la RAI Radiotelevisione italiana
che con le sue orchestre (nel 1994 confluite nell’unica Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI) e i suoi
auditorium ha organizzato e inondato l’etere con innumerevoli programmi musicali per circa 80 anni.
Nell’ambito della diffusione della musica da camera, proprio intorno agli anni della proclamazione del
Regno d’Italia (1861) nascevano alcune importanti società che vedevano nelle loro finalità una
rinascita di questo genere così trascurato, almeno nel nostro Paese, e che furono animate quasi da
spirito missionario, non solo promuovendo concerti ma anche concorsi ed edizioni. Si possono citare,
fra le tante, la Società del Quartetto di Milano, fondata nel 1864 fra gli altri da Arrigo Boito e Tito
Ricordi, e la quasi coeva Società del Quartetto di Firenze (1861) che raccolse intorno a sé musicisti
come Giovanni Pacini o poliedrici intellettuali come Abramo Basevi. Proprio a Firenze nacquero in
questo contesto le prime partiture tascabili ideate e realizzate dall’editore G.G. Guidi che rivoluzionò
così il mercato della musica da camera a stampa, aprendosi ad un pubblico sempre più vasto.

In Europa per tutto l’Ottocento l’ambito dell’organizzazione musicale si sviluppò molto e prefigurò
quella distribuzione della musica in tutte le città che è caratteristica dell’epoca contemporanea. Non
si può non ricordare la Gesellschaft der Musikfreunde fondata a Vienna nel 1812 e oggi celebre in
tutto il mondo (non fosse altro che per l’Orchestra Filarmonica di Vienna) e il Gewandhaus-Konzerte
di Lipsia, che risale addirittura al 1781, tuttora esistente e fregiato dai nomi dei più grandi artisti
dell’Otto e Novecento che vi furono ospiti. Innumerevoli nel Novecento le società concertistiche sorte
ovunque per diffondere la musica strumentale anche nelle città di medie e piccole dimensioni che
quasi riflettono oggi all’esterno ciò che avveniva in passato nel chiuso delle “accademie”. Sempre più
entra nel bilancio di esse il denaro pubblico.

In Italia, nella seconda metà del Novecento, oltre alla prosecuzione e al potenziamento dell’attività di
società nate nel passato, si è assistito alla riorganizzazione delle maggiori istituzioni musicali dislocate
in alcune delle più importanti città. Nel 1967 infatti entra in vigore la cosiddetta “legge Corona” (dal
nome del deputato che la ideò nel primo governo di centro-sinistra) che riconosce e regolamenta
alcuni enti lirico-sinfonici italiani ritenuti di maggiore importanza, ad essi riservando la maggior parte
degli stanziamenti per la musica. Essi furono, e sono, il Teatro Comunale di Bologna, il Teatro
Comunale di Firenze, il Teatro Comunale dell’Opera di Genova, il Teatro alla Scala di Milano, il Teatro
San Carlo di Napoli, il Teatro Massimo di Palermo, il Teatro dell’Opera di Roma, il Teatro Regio di
Torino, il Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Trieste, il Teatro La Fenice di Venezia e l’Arena di Verona.
Sono riconosciute istituzioni concertistiche assimilate l’Accademia nazionale di Santa Cecilia di Roma
e l’Istituzione dei concerti e del teatro lirico Giovanni Pierluigi da Palestrina di Cagliari. La maggior
parte di queste istituzioni organizzano cartelloni sia lirici sia sinfonici. Di recente, nel 1998, questi enti
sono stati trasformati in fondazioni, per permettere l’ingresso di capitali privati e sollevare così lo
Stato da una parte delle spese divenute molto gravose. Tuttavia, specialmente nella stagione estiva,
in Italia si assiste ovunque ad un pullulare di concerti e manifestazioni musicali realizzati soprattutto
per finalità turistiche che i Comuni stessi finanziano come ulteriore attrattiva culturale. (GB)

I MEZZI DI DIFFUSIONE
LA STAMPA

L’evento fatidico che cambia per sempre il modo e la storia della diffusione della musica è
l’invenzione della stampa musicale, o meglio l’applicazione dell’invenzione della stampa a caratteri
mobili alla musica. È infatti dopo la pubblicazione della celebre Bibbia di Gutenberg del 1455 che
appare, anche se molti anni più tardi, la prima musica a stampa con i caratteri mobili. La realizzò
Ottaviano Petrucci da Fossombrone che nel 1501 pubblicò l’Harmonice musices Odhecaton, una
raccolta di cento canti di musica armonica racchiusi in un prezioso volumetto oblungo. In realtà non
erano mancati alcuni altri esempi di musica stampata anche prima dell’Odhecaton ma si trattava di
edizioni realizzate con la tecnica dell’incisione a piena pagina della musica foglio per foglio in genere
usando la tecnica xilografica. Si possono citare fra gli altri il Graduale constantiense del 1473
stampato ad Augusta o il Missale romanum realizzato da Gallo a Roma nel 1476 o i vari esempi
stampati da Andrea Antico, quasi un rivale di Petrucci, con la stessa tecnica di incisione. La tecnica
tipografica venne ben presto perfezionata, potendosi realizzare l’intera pagina musicale con un solo
passaggio, mentre al Petrucci ne erano necessari tre. Il primo ad usare questa semplificazione fu il
francese Pierre Attaignant nel 1527 (Chansons nouvelles en musique a 4 parties). Si apre con tutto
questo un’epoca nuova in cui la musica inizia a diffondersi sempre più ampiamente grazie alla
relativa facilità di stampa che permetteva quantità considerevoli di copie e prezzi accettabili da una
sempre più una vasta categoria di persone.

Il genere di musica che per primo fu stampato col nuovo mezzo tipografico fu, naturalmente, quello
vocale polifonico che all’epoca era il più diffuso sia nell’ambito sacro che in quello profano
(grandissimo impulso all’espansione delle pubblicazioni a stampa lo dette la moda del madrigale
cinquecentesco), ma in seguito apparirono anche intavolature per liuto e per altri strumenti. Per
lungo tempo la stampa della musica polifonica avvenne separando in fascicoli le varie voci di cui si
componeva il brano, fornendo quindi la parte a ciascun cantore. Ma nel 1577 si ebbe un altro
importante cambiamento: fu pubblicata per la prima volta una partitura, che presentava cioè le
parti stampate tutte insieme una sotto l’altra dal registro acuto a quello grave. Videro infatti la luce
in questa nuova forma una scelta di madrigali di Cipriano de Rore con i tipi di Angelo Gardano a
Venezia. In questo periodo si viene inoltre a fissare in maniera definitiva la semiografia musicale che
si uniforma e diventerà una convenzione diffusa in tutta Europa.

Tuttavia nel XVII e nel XVIII secolo restò in vita anche una tecnica alternativa di stampa musicale,
cioè l’incisione su rame dell’intera pagina musicale, la cosiddetta calcografia. Successive modifiche
della tecnica sia calcografica sia a caratteri mobili furono introdotte da stampatori i cui nomi in molti
casi sono ancora oggi vivi attraverso le case editrici da loro fondate: Breitkopf Lipsia (1717), Schott
(Magonza 1770), Simrock (Bonn 1790), Hofmeister (Lipsia 1807), Ricordi (Milano 1808), Chappell
(Londra 1811), Peters (Lipsia 1814), Boosey (Londra 1816), Novello (Londra 1829), Sonzogno (Milano
1874). Tutti questi, e molti altri nel frattempo scomparsi o assorbiti da altri (Lucca, Milano 1825;
Artaria, Vienna 1750) contribuirono alla diffusione nella musica nel momento in cui si aprì in maniera
consistente il mercato dei cosiddetti dilettanti, coincidente con l’inizio del Romanticismo. Piace
citare per ultimo l’editore di Firenze G. G. Guidi che, legato alla Società del Quartetto della stessa
città, pubblicò le prime partiture tascabili rivoluzionando così la diffusione della musica da camera a
stampa. Senza interruzione alcuna di questo processo qualitativo-quantitativo si giunge al giorno
d’oggi un’altra svolta epocale dell’editoria musicale, quella basata su processi informatici attraverso i
quali chiunque ha la possibilità, con estrema semplicità, di comporre (nel senso tipografico) e di
stampare musica a casa propria.

LA RADIO E LA TELEVISIONE

Un altro veicolo fondamentale e formidabile della diffusione della musica fu la radio. Dopo le
scoperte di Guglielmo Marconi e di altri e un periodo pionieristico, soprattutto in Europa e Stati
Uniti, le trasmissioni radiofoniche conobbero un rapido successo. Ufficialmente la prima stazione
radiofonica che si rivolse al pubblico fu quella di Frank Conrad che da Pittsburg, nel 1919, in maniera
un po’ rudimentale e domestica trasmise una serie di programmi che potevano essere ascoltati
attraverso apparecchi che egli stesso aveva progettato. Furono tuttavia le industrie Westinghouse
che, sfruttando l’esperienza accumulata nelle produzione belliche, per prime produssero in quantità
apparecchi radio ricevitori che potevano ricevere le trasmissioni prodotte da alcuni membri della
stessa industria. Nacque così nel 1920 la KDKA che può essere considerata la prima emittente
radiofonica della storia destinata poi a moltiplicarsi per tutti gli Stati Uniti. In Italia, dopo le
restrizioni dovute all’esclusivo uso militare della radio, grazie all’entusiasmo del ministro delle poste
Costanzo Ciano, nel 1924 si inaugurò la prima stazione trasmittente da parte dell’URI (Unione
Radiofonica Italiana), una società costituita da Marconi, poi divenuta EIAR e dopo la guerra RAI.

Ciò che ha fatto e che fa la radio per la musica classica, non è paragonabile all’azione del nuovo
mezzo di trasmissione: la televisione. Sia perché quest’ultima, almeno in Italia, ha sempre dedicato
spazi marginali alla musica classica, sia perché nel frattempo il costume di vita è cambiato molto e
sempre meno le persone hanno la pazienza di stare fermi e concentrati per periodi lunghi, la musica
classica oggi si può trovare soprattutto su canali satellitari specializzati. A bene osservare però,
anche le odierne trasmissioni radiofoniche italiane di musica classica – la RAI ha il ben noto canale
apposito della filodiffusione oltre a Radiotre – sono assorbite sempre più dalla tendenza che si
diffonde rapidamente a considerare la musica come un sottofondo continuo, una base sonora
indistinta su cui si svolge la nostra vita.

I MEZZI DI REGISTRAZIONE

Nel 1877, l’americano Thomas Alva Edison inventò un sistema di registrazione e di riproduzione del
suono, argomento che aveva entusiasmato i tecnici e gli appassionati di musica fin dalla metà
dell’Ottocento. Si poté quindi, per la prima volta nella storia, diffondere la musica anche senza la
presenza fisica di un esecutore e cominciare a tramandare una certa tradizione esecutiva. Nel 1878
Edison ottenne il brevetto della sua invenzione – che egli chiamò fonografo - che consisteva
nell’incidere attraverso una puntina metallica su di un cilindretto rotante ricoperto di cera un suono o
una voce attraverso una membrana che vibrava colpita dalle onde sonore. La stessa puntina poi, posta
sul cilindretto in rotazione, riproduceva il procedimento inverso. Dopo pochi anni cominciò la
distribuzione dei cilindri dove era stata impressa della musica, dando luogo alla prima diffusione
commerciale di musica incisa. Altri ingegneri si cimentarono nel migliorare la riproduzione, che
all’inizio era invero piuttosto approssimativa; si ricorda, uno per tutti, il tedesco Emil Berliner che,
sempre negli Stati Uniti, ideò nel 1891 il passaggio dal cilindro al disco. L’utilizzo della “tromba”, che
caratterizza anche visivamente i giradischi di quell’epoca, rese questi disponibili per un ascolto
collettivo. Attraverso sempre maggiori perfezionamenti si arrivò al cosiddetto “78 giri” in bachelite
(girava 78 volte al minuto) che si avvalse, a partire dal 1919 di un procedimento di incisione elettrico
che sostituì quello meccanico con notevoli miglioramenti per la qualità del suono riprodotto.

Nel 1948 il 78 giri, che aveva nella breve durata delle due facciate il suo difetto intrinseco, fu prima
affiancato e poi soppiantato dalla nuova invenzione, ancora una volta americana, del “33 giri” (in
realtà 33 e 1/3 rotazioni al minuto). Raffinando le tecniche meccaniche, si poté infatti ottenere un
aumento considerevole della durata portandola a sfiorare i 30 minuti per facciata. Parallelamente
aumentò anche lo spettro di frequenze registrabili e con miglioramenti continui, meccanici, elettrici e
di materiali (la bachelite viene sostituita dal PVC – il celebre “vinile” e le puntine di lettura diventano
sempre più sofisticate), si giunge all’importante tappa successiva che è costituita dall’avvento della
stereofonia. Si poterono distinguere cioè, nell’incisione e nella riproduzione, due porzioni dello spazio
sonoro, una situata a destra e una a sinistra. Attraverso due altoparlanti e un amplificatore apposito
si riuscì a ricreare il fronte sonoro con una certa fedeltà. Da qui nacque tutta una serie di raffinatezze
che toccarono ogni ambito della riproduzione, sia in fase di incisione sia in quella di riproduzione, che
andò proprio sotto il nome di “alta fedeltà (dall’americano Hi-Fi) e che rivoluzionò nuovamente le
sempre più esigenti abitudini di ascolto.

Nel 1979 l’industria olandese Philips brevettò un’invenzione che ancora una volta sconvolse il modo
di diffusione della musica, introducendo il compact disc, ormai detto CD. A parte le novità delle
dimensioni molto diminuite (diametro 10 cm), dell’unica facciata, del colore argenteo anziché nero,
della durata fino a quasi un’ora e venti minuti, fu la tecnologia di incisione che determinò una vera
rivoluzione. Sfruttando infatti le già diffuse tecniche di registrazione digitale (o per meglio dire
numerica), per cui il suono è campionato e ridotto in una serie di successioni di numeri, e la potenza
di un raggio laser si poté imprimere sulla superficie del dischetto non più la spirale ininterrotta
prodotta dalle onde sonore, ma una serie di avvallamenti corrispondenti ai numeri 0 e 1. Si ottenne
così una maggiore resistenza dei supporti (gli LP erano molto delicati e si deterioravano ad ogni
ascolto), l’assoluta comodità di accesso ai singoli brani, l’istantanea e precisa pausa e ripresa della
riproduzione, oltre all’eliminazione del fruscio dovuto al contatto fra la puntina e la superficie del
disco. La stessa tecnica digitale, in abbinamento con la diffusione capillare dei calcolatori e di appositi
programmi, ha reso poi l’elaborazione della musica alla portata di tutti. Al CD si è aggiunto alla fine
degli anni ’90 il DVD, cioè digital versatile disc. Basato sugli stessi principi e dalle stesse dimensioni
del CD, il nuovo supporto, molto più capace (4,7 GB contro 800 MB), è stato utilizzato soprattutto per
programmi video ed è stato usato dall’industria musicale per pubblicare il repertorio operistico. La sua
diffusione è ormai pari a quella del CD.

IL WEB

Un ultimo accenno spetta alla rete, il cosiddetto Web che ha portato la diffusione della musica
riprodotta ad un livello veramente planetario. Tutto si può trovare “navigando”, e in maniera lecita,
o talvolta anche illecita, la musica circola in maniera vorticosa in ogni direzione. Tutto questo è
facilitato dall’introduzione di sistemi di compressione che hanno favorito la trasmissione dei brani
musicali comprimendoli, appunto, fino a raggiungere dimensioni abbastanza snelle da scorrere senza
intoppi e abbastanza velocemente attraverso le sottili linee telefoniche. Le tecnologie del futuro
anche immediato porteranno la diffusione della musica a livello ancora più capillare e sarà possibile
ascoltare qualsiasi tipo di musica ovunque e comunque (si pensi a ciò che accade già ora con i
telefoni portatili). E se la quantità è aumentata a dismisura, la qualità di riproduzione è calata
sensibilmente e, fra compressioni varie, altoparlantini di PC, minuscoli auricolari di telefonini,
sembra essersi ormai assestata, con buona pace di tutti, a livelli piuttosto mediocri. (GB)

TECNOLOGIE

La creazione artistica, in quanto incarnazione fisica di un pensiero estetico, non può darsi se non
nella compresenza di un momento speculativo, comprensivo di tutte le “idee” che l’autore intende
manifestare, e di un momento attuativo, che consiste nella manipolazione del materiale di partenza
attraverso l’esercizio di azioni pratiche. Quest’attività di manipolazione passa necessariamente
attraverso strumenti che consentano l’interazione dell’artista con la materia, costantemente
soggetti a un’evoluzione tecnologica atta a perfezionarne le caratteristiche in vista di determinati
scopi, a sostituire i materiali e le tecniche obsoleti e ad affiancare i sistemi esistenti con altri più
moderni, o semplicemente differenti. L’evoluzione tecnologica dello strumentario degli artisti non
segue necessariamente un percorso lineare dettato dalla necessità di risolvere nuovi problemi
tecnici: la creazione di apparecchiature innovative in altri campi applicativi, l’evoluzione del gusto e il
mutamento delle condizioni di fruibilità dell’opera sono alcuni dei fattori che possono influire sulla
nascita di nuovi mezzi di produzione e riproduzione dell’arte. Nel caso della musica, poi, le possibilità
d’intervento del mezzo tecnico si moltiplicano in virtù della peculiare natura “performativa” che
contraddistingue l’evento artistico sonoro. Il percorso che l’idea del compositore segue per
raggiungere il fruitore passa infatti attraverso almeno tre livelli di elaborazione che, soprattutto a
partire dalla fine dell’Ottocento, sono stati fortemente caratterizzati dalla presenza e dallo sviluppo
di apparecchiature elettriche ed elettroniche.

TECNOLOGIA ED ESECUZIONE

L’ambito in cui il rapporto fra tecnologia e musica gioca il ruolo storicamente più significativo è
senz’altro quello dell’esecuzione, dal momento che, con la sola eccezione delle composizioni
esclusivamente vocali, non esiste nessun genere musicale che non richieda l’azione di un interprete
su uno strumento produttore di suono. L’incremento delle potenzialità fisico acustiche dei corpi
vibranti (aumento delle possibilità dinamiche, della qualità timbrica e dell’estensione dinamica) e
l’agevolazione dell’attività digitale dell’esecutore sono le direttrici che hanno caratterizzato
principalmente l’opera di inventori e costruttori di strumenti, alcuni dei quali si sono meritati un
posto di rilievo nell’olimpo dei grandi nomi della storia della musica. È il caso di Antonio Stradivari, le
cui innovazioni nella tecnica di costruzione di strumenti ad arco sono viste ancor oggi come pietre
miliari della liuteria moderna, o di Bartolomeo Cristofori, che nel 1711 mise a punto uno strumento a
tastiera destinato a riscuotere un successo straordinario nei secoli a venire: il pianoforte.

Le continue modifiche, migliorie e sostituzioni nel campo della costruzione di strumenti musicali
esercitarono un notevole influsso sull’evoluzione degli stessi linguaggi; in particolare, il XVIII secolo
vide la nascita dei nuovi stili cosiddetti idiomatici, nei quali la scrittura musicale si mostra
inequivocabilmente connessa con le diteggiature, le posizioni e le tecniche esecutive degli strumenti
cui le composizioni sono dedicate. Buona parte della musica di Tartini e Paganini, per esempio, non
potrebbe essere adeguatamente compresa se non nel quadro di uno studio approfondito sulle
caratteristiche tecniche dei violini di cui tali compositori potevano disporre; lo stesso dicasi per
Chopin e Liszt relativamente al pianoforte, o per Giuliani e Sor per la chitarra. La composizione, in
tutti questi casi, diviene espressione di un’intima conoscenza da parte del compositore delle
potenzialità offerte e dei limiti tecnici imposti dallo strumento.

Sulla scorta della rivoluzione culturale delle avanguardie del primo Novecento, la ricerca tecnologica
dedicata agli strumenti musicali si trovò a dover affrontare tutta una serie di nuove problematiche,
principalmente legate all’acquisizione del rumore all’interno del vocabolario espressivo dei
compositori. I presupposti scientifici di questa imponente propulsione innovatrice si collocano nella
seconda metà del XIX secolo, soprattutto negli studi di acustica del fisico e fisiologo tedesco
Hermann von Helmholtz; tuttavia è al futurismo musicale sviluppatosi intorno agli anni Venti, e in
particolare al pittore e compositore L. Russolo, che si devono le prime macchine “intonarumori”,
strumenti artigianali in grado di riprodurre suoni a frequenze indeterminate o parzialmente
determinate emulanti suoni della vita reale. Nonostante lo scarso valore estetico generalmente
attribuito a questi progetti e alla musica che da essi scaturì, la musicologia storica è solita individuare
in essi i prodromi della grande rivoluzione della “nuova liuteria” novecentesca, inscindibilmente
connessa all’introduzione di tecnologie elettroniche nella progettazione di apparecchiature musicali

Il primo strumento in grado di generare suoni attraverso un procedimento elettronico fu presentato


da Thaddeus Cahll nel 1987 (il primo esemplare fu terminato però solo nel 1900) e prese il nome di
thelarmonium: una sorta di gigantesco organo di 200 tonnellate la cui produzione si arrestò nel 1908
a causa degli innumerevoli inconvenienti tecnici cui la costruzione e l’esecuzione davano origine. Il
primo strumento elettronico ad avere un impatto significativo sul mondo della musica fu invece il
theremin (1919), elaborato dall’ingegnere russo Lev Thermen, che suscitò la curiosità nel pubblico di
tutto il mondo sia per il timbro vagamente simile a quello della voce umana sia perché l’esecuzione
non prevedeva nessun contatto fisico fra interprete e strumento. L’invenzione del Theremin fu
presto seguita da quella di altri strumenti elettronici, quali lo Sphárophon e le Onde Martenot
(entrambi del 1924) e il Trautonium (1928), subito impiegati, anche se in misura piuttosto modesta,
dai compositori contemporanei. Di rilevanza musicale ben maggiore fu l’introduzione di tecnologie
elettroniche tali da consentire la manipolazione in tempo reale il suono prodotto acusticamente da
strumenti più o meno tradizionali. Rispetto agli strumenti completamente elettronici, la pratica del
“live electronics” è attecchita molto più profondamente nel pensiero delle ultime generazioni di
compositori di musica sperimentale, forse grazie anche al valore simbolico detenuto dagli strumenti
tradizionali impiegati, i quali, restituiscono una dimensione performativa all’esecuzione della musica,
per molti soggetta al rischio di un annullamento totale della necessità di esecutori dal vivo. La ricerca
volta alla creazione di nuovi strumenti presenta molte analogie con un altro grande settore della
tecnologia musicale, quello della sintesi di eventi sonori e della loro riproduzione elettronica. Già il
suono prodotto dal Theremin proveniva infatti, anche se indirettamente, da due oscillatori, ossia, da
meccanismi in grado di generare artificialmente onde sinusoidali pure, dalla combinazione delle
quali è teoricamente possibile ottenere ogni sorta di timbro immaginabile. Su questo principio si
basa il sintetizzatore introdotto da Robert Moog nel 1964, lo strumento che, grazie all’introduzione
di una vastissima gamma di timbri direttamente controllabili dall’esecutore, forse più di ogni altro ha
aperto al pubblico la strada all’esplorazione dei nuovi orizzonti sonori artificiali.

L’ultima grande fase della ricerca tecnica applicata all’esecuzione della musica ha avuto inizio,
intorno agli anni Ottanta, con l’introduzione del calcolatore elettronico e della tecnologia digitale in
genere, la quale, pur non essendo portatrice di nessuna sostanziale aggiunta al panorama sonoro
dell’epoca analogica, ha condotto a un enorme ampliamento delle potenzialità pratiche e della
qualità della resa sonora dei prodotti musicali, alla riduzione dell’ingombro e dei costi delle
apparecchiature e, di conseguenza, a un’accessibilità notevolmente maggiore delle stesse.

TECNOLOGIA E DIFFUSIONE

La ricerca fisico-acustica intrapresa su finire dell’Ottocento, che abbiamo visto preludere alla nascita
della liuteria elettronica, fu il punto di partenza di un altro grande progetto, i cui effetti sulla società
nel suo insieme furono talmente dirompenti da arrivare non solo a rivoluzionare la percezione del
fenomeno musicale, ma addirittura a modificare la vita quotidiana di milioni di persone in tutto il
mondo: la registrazione e riproduzione del suono. Il fonografo, la prima macchina in grado di fissare
e conservare un evento sonoro incidendone il profilo su un cilindro ricoperto da un foglio di stagno,
fu brevettato da Thomas Edison nel dicembre del 1877, principalmente per scopi burocratici e
privati, e comunque non artistici. Già nel 1888 si assistette tuttavia alla fondazione di due compagnie
statunitensi dedite alla distribuzione su tutto il territorio federale dei fonografi e dei cilindri prodotti
dalla Edison Phonograph Company e dalla American Graphophone Company di Graham Bell
(l’inventore del telefono). Al di là dei primi esperimenti d’incisione, come quella della prima Danza
Ungherese di Johannes Brahms eseguita dallo stesso compositore, il repertorio privilegiato delle
registrazioni fonografiche fu per lungo tempo quello bandistico e, in generale, per voce percussioni e
strumenti a fiato: la captazione dello spettro di frequenze e della gamma dinamica degli strumenti a
crode eccedeva infatti parzialmente la sensibilità delle prime apparecchiature di registrazione.

Pochi anni dopo l’introduzione dei cilindri sonori, fu presentata dal tedesco Emile Berliner un’altra
invenzione destinata a prendere il sopravvento sulla prima e a catalizzare il mercato musicale per
tutta la prima metà del Novecento: il disco (1987). Le limitazioni tecniche del fonografo (fra cui
anche la durata delle incisioni) furono quindi in parte ovviate dai nuovi supporti di ceralacca,
sostituiti poi nel 1948 da quelli acetati e pochi anni dopo da quelli in vinile a 78 giri. A questi si
affiancarono a partire dagli anni Quaranta i nastri magnetici, la cui commercializzazione sottoforma
di musicassetta iniziò però soltanto nel 1963. L’avvento infine della codifica digitale a lettura ottica e
del Compact Disc (1982) ha chiuso idealmente il ciclo novecentesco della ricerca tecnologica dedita
alla riproduzione della musica, aprendo contemporaneamente una nuova fase contraddistinta
dall’ideazione di forme sempre più “leggere” di compressione audio, fra cui il noto “Mp3”.
Accanto allo sviluppo e alla distribuzione delle registrazioni musicali, l’altro grande contributo fornito
alla musica dalla ricerca tecnologica, è quello della diffusione radiofonica, la cui paternità si è soliti
attribuire all’invenzione del 1895 di Guglielmo Marconi. In realtà, la possibilità tecnica di trasmettere
segnali sonori complessi quali sono quelli musicali, e di “rifornire” pertanto di musica le famiglie a
titolo completamente gratuito, è il risultato degli studi del fisico canadese Reginald Fessenden,
basati su presupposti teorici parzialmente differenti da quelli del collega italiano.

TECNOLOGIA E COMPOSIZIONE

L’apporto della ricerca tecnologica nel campo della composizione di musica prima del XX secolo, se
escludiamo i casi della musica idiomatica di cui abbiamo precedentemente accennato, fu, tutto
sommato, piuttosto modesto. In effetti, si può dire che fino all’avvento delle apparecchiature
elettriche, i “ferri del mestiere” di cui un compositore aveva bisogno per esercitare la propria arte
erano un foglio di carta (pentagrammata), una matita ed eventualmente, ma non necessariamente, il
proprio strumento. Paradossalmente, l’impulso più determinante alla nascita della musica
elettronica non provenne tanto dalla “nuova liuteria”, quanto dal dominio della registrazione e della
riproduzione (v. I mezzi di diffusione) . Fra il 1922 e il 1927, a Parigi, Darius Milhaud compì alcuni
esperimenti di trasformazione del suono della voce mediante variazioni di velocità nella rotazione
dei dischi, mentre la prima composizione a contemplare un organico di due giradischi a velocità
variabile, accompagnati da un pianoforte preparato e da una sezione di percussioni, è “Imaginary
Landscape” di John Cage (1939). In questo senso, soprattutto in seguito all’introduzione del nastro
magnetico, si mossero i membri del parigino GRM, fondato da Pierre Schaeffer e, in modo del tutto
peculiare, lo Studio di Fonologia istituito nel 1955 in seno alle strutture della RAI di Milano da
Luciano Berio e Bruno Maderna, mentre lo studio fondato nel 1951 a Colonia e diretto da Herbert
Eimert, si concentrò principalmente sull’esame delle potenzialità artistiche della composizione con
suoni sintetici. Alla fase “analogica” della composizione elettronica seguì poi, intorno agli anni
Ottanta, quella “digitale” della composizione assistita dal calcolatore elettronico, il quale, offrendo
potenzialità pressoché illimitate di generazione di eventi sonori e organizzazione delle strutture
compositive, può essere oggi considerato come una sorta di strumento musicale totale, in grado cioè
di tradurre (virtualmente) ogni tipo di idea musicale del compositore direttamente in suono, senza
bisogno di ulteriori mediazioni.

La crescente libertà d’azione e l’illimitato vocabolario sonoro offerti dalle tecnologie elettroniche
applicate alla composizione hanno posto in luce una serie di problematiche legate, da un lato, alla
relazione fra sperimentazione sonora e creazione artistica e, dall’altro, alla collocazione e alla
portata dell’apporto dell’autore, della sua sensibilità e del suo “mestiere” nell’ambito del processo
compositivo. Molte le critiche sollevate contro una musica che si paventava potesse soppiantare in
toto l’esperienza concertistica tradizionale. In particolare, soprattutto negli ultimi anni, la polemica
che investe questo settore della ricerca musicale si scaglia contro la presunta inopportunità di una
sperimentazione continua, e spesso molto onerosa, cui non sembra corrispondere un’adeguata
produzione di opere musicali significative dal punto di vista estetico. In realtà, la vitalità della musica
totalmente o parzialmente elettronica nel panorama concertistico europeo e statunitense, anche al
di fuori dei circuiti cosiddetti “colti” dimostra come la sperimentazione tecnologica musicale sia
tutt’altro che sterile e fine a se stessa. Inoltre, l’enorme diffusione degli ultimi anni di Personal
Computer e di strumentazioni musicali elettroniche a basso costo ha dato vita ai nuovi generi della
computer music e dell’internet music, fenomeni destinati ad avere notevoli ripercussioni sul
panorama musicale contemporaneo. (NB)
- INTERSEZIONI

MUSICA, MITO E RELIGIONE

L’affinità tra musica e dimensione spirituale ha radici antichissime e, pur in forme diverse, si è
manifestata e si manifesta nella maggior parte delle culture umane. Ne costituisce una prova, oltre
che un terreno d’indagine inesauribile, l’universo dei miti delle origini, in cui la musica riveste
sovente un ruolo di primo piano: il canto della sillaba OM dà origine al mondo in alcune mitologie
orientali, la voce degli dei dà forma alla realtà nei miti nordici, la risata di Thot coincideva con la
creazione dell’universo per gli antichi egizi, nell’India antica l’universo nasce al ritmo della danza di
Shiva, per alcune popolazioni dei nativi americani il canto della divinità, ripetuto tre volte, dà origine
a tutte le cose.

Lo studio della presenza della musica nei miti, nei riti e nelle liturgie religiose è stato condotto
prevalentemente dagli etnomusicologi (v. Etnomusicologia) e ha prodotto innumerevoli contributi
che hanno fatto luce su altrettanto numerosi popoli e culture del pianeta, varietà impossibile da
riassumere qui. Illustreremo quindi le linee generali dell’argomento, tenendo come riferimento
principale la cultura occidentale, ma senza rinunciare a riferimenti ed escursioni in altre prospettive
culturali.

LA MUSICA, IL MITO, IL TEMPO

La musica è una presenza costante nelle mitologie di tutto il mondo. Solo nella mitologia greca si
contano decine di personaggi legati alla musica, da Apollo alle Muse, dagli “inventori” degli
strumenti – Pan l’omonimo flauto, Atena l’aulo, Hermes la lira, ecc. – agli incantatori sonori, come
Orfeo o le Sirene; analoghe figure si ritrovano in altre culture: nella Genesi biblica Yuval (Iubal o
Jubal in altre trascrizioni) viene definito “padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto”, il leggendario
imperatore cinese Ku viene considerato creatore di molti strumenti musicali, e l’elenco potrebbe
facilmente continuare.

Si possono individuare alcune tipologie fondamentali delle ricorrenze della musica nel mito,
ricorrenze caratteristiche non solo della cultura greca:

1) Occorrenza fondamentale nei miti delle origini, sia come parte dell’atto creativo divino che come
garante dell’ordine universale (armonia delle sfere).

2) Insegnamento, conservazione e trasmissione delle conoscenze musicali dal divino all’umano; il


mito rivela i comportamenti musicalmente ammissibili e i divieti da non infrangere.

3) Il conflitto: la musica diventa arma nel confronto rituale tra uomini e divinità. L’emblematico mito
di Apollo e Marsia ha tanto valore religioso – censurando l’ hybris del satiro che vuole farsi pari a un
dio – quanto musicale, ribadendo la superiorità degli strumenti a corde di origine divina sui popolari
strumenti a fiato.

4) L’incanto: il mito racconta ed esalta il potere ammaliante dell’esperienza musicale, con un


messaggio religioso ambivalente. Se figure come le Sirene ribadiscono i limiti da non superare nella
ricerca della conoscenza, miti come quello di Orfeo mostrano come la musica possa elevare l’animo
umano e rivelare un ordine superiore al di là di ciò che è visibile. Il personaggio del bardo-profeta è
peraltro tra i più diffusi nelle mitologie e nelle religioni di tutto il mondo (si pensi anche al re Davide,
cui è attribuita l’invenzione dei salmi).

La figura che riassume le diverse tipologie di connessione tra musica e mito è quella dell’aedo,
personaggio reale che viene anche trasfigurato mitologicamente, si pensi al leggendario Omero
“inventore” dei poemi epici o alla sua personificazione letteraria Demodoco, cantore nell’Odissea.
Non è un caso che entrambi siano ciechi: è l’udito e quindi la superiore sensibilità musicale a metterli
direttamente in contatto con il divino e la dimensione trascendente.

Aedi, rapsodi e cantori epici sono figure storiche presenti in numerose culture e la loro funzione
sociale di custodi della memoria e dei valori religiosi di cui il mito è intriso sottolinea ulteriormente
fino a che punto esperienza musicale e racconto mitico risultino indissolubilmente legati: la parola
cantata ha più forza ed è più sacra perché trasfigura e nobilita la lingua comune.

Le connessioni tra musica e mito sono state oggetto di una celebre analisi dell’antropologo Claude
Lévi-Strauss (1908-2009), contenuta nei volumi Il crudo e il cotto e L’uomo nudo. L’idea di Lévi-
Strauss è che tanto la musica quanto il mito abbiano radici nel linguaggio verbale (v. Musica e
linguaggio) e ne rappresentino una versione imperfetta: il mito si fonda sul senso ma non sul suono –
ciò che conta è il racconto, non le parole con cui è espresso – la musica viceversa si basa sul suono
ma non sul senso. Entrambi cercano di rimediare alla propria carenza: la musica cerca di organizzare
i suoni in funzione di un senso, il mito cerca – attraverso formule ripetute, canti rituali ecc. – di
recuperare la dimensione sonora.

Nella prospettiva strutturalista di Lévi-Strauss, a un livello superficiale il linguaggio si sviluppa nella


dimensione temporale (v. Tempo), ma a uno stadio più profondo ha una natura a-temporale,
costituita dalle regole che orientano la costruzione del discorso. Ciò è vero anche per il mito e per la
musica: nel caso del primo il racconto si svolge nel tempo, ma si riferisce a verità universali, nel caso
della seconda il suono si dipana nella temporalità, ma secondo ordini razionali astratti che «non
hanno bisogno del tempo se non per infliggergli una smentita».

La musica, in questa luce, non è dunque solo un complemento del racconto mitico, ma ne condivide
il codice genetico e la natura paradossale, rappresentando il punto di congiunzione tra la finitezza
del tempo umano e l’eternità del divino. Una teoria che, pur essendo stata oggetto di diverse
critiche, illumina non solo la fortuna del mito come elemento ispiratore della creatività musicale –
soprattutto nell’opera lirica e nella religione dell’arte dei Romantici e in particolare di Richard
Wagner (v. Musica e filosofia) – ma anche la persistente tendenza di religioni e pratiche cultuali a
servirsi della musica come strumento rituale di comunicazione tra uomini e divinità, come
cercheremo di illustrare nel paragrafo seguente.

MUSICA E RITO RELIGIOSO

È raro imbattersi in cerimonie e riti religiosi in cui la musica non svolga una funzione determinante.
Si possono individuare tre livelli di interazione tra musica e rituale, con un grado crescente di
collaborazione tra i due fenomeni. A un primo stadio, la musica costituisce un mero complemento
della liturgia, accompagna e scandisce la cerimonia, ed è un tratto largamente caratteristico dei riti
cristiani e in particolare di quello cattolico. A un secondo livello, la musica può diventare chiave di
accesso alla dimensione trascendente e cioè è caratteristico di numerose esperienze religiose, dal
sufismo all’induismo, dall’Islam al buddhismo. Musica e rituale giungono infine a un punto di quasi
totale identificazione nelle pratiche di trance, possessione e sciamanesimo, in cui l’invocazione e
l’evocazione della divinità seguono precise formule musicali e coreutiche e s’impone la figura del
sacerdote-musicista.

Nella cultura occidentale, in cui prevalgono i primi due livelli, l’intervento della musica nel rituale è
connesso al rapporto privilegiato tra suono e parola. Nel mondo greco l’unità di poesia, musica e
danza – che emerge con particolare evidenza nella struttura drammaturgica della tragedia – ha
origine nelle pratiche di culto e si sviluppa per amplificare l’eloquenza del racconto mitico (secondo
un processo che, sottratto alla sfera religiosa, è peraltro caratteristico anche della “liturgia”
dell’opera in musica).

Nella liturgia cristiana e in particolare in quella cattolica, il legame tra parola sacra e musica è un
dato fondamentale: prima il canto e in seguito gli strumenti entrano nel cerimoniale rispondendo
alla necessità di amplificare (anche sul piano prettamente acustico) e far giungere la parola di Dio ai
fedeli in ambienti sempre più grandi e affollati, ma in primo luogo la musica valorizza e accresce
l’efficacia comunicativa e l’impatto emotivo del testo sacro.

Il rapporto parola-musica in Occidente si sviluppa in maniera biunivoca: la musica porta a emergere


suggestioni e significati nascosti nel testo religioso, mentre il desiderio di far risaltare la parola sacra
spinge la musica a un crescente grado di complessità. È infatti proprio all’interno delle pratiche
cultuali che si sviluppano le prime forme di polifonia e l’esigenza conseguente di fermare per iscritto
forme sonore sempre più complesse (v. Monodia e polifonia), determinante per la nascita della
notazione musicale (v. Oralità e scrittura).

L’unità di intenti che caratterizzava le prime fasi della polifonia liturgica era tuttavia destinata a
durare poco: se l’utilizzo di strutture ritmiche (v. Ritmo) e soluzioni armoniche (v. Armonia) sempre
più sofisticate metteva al servizio del testo sacro una tavolozza espressiva sempre più ampia, la
chiarezza e l’intelligibilità della parola risultavano sempre più spesso compromesse dalla complessità
dei mezzi musicali impiegati dai compositori. Il dissidio giunge a un punto di rottura con la Riforma
protestante e poi con il Concilio di Trento; sia nella nuova chiesa luterana che nel cattolicesimo post-
tridentino si cercarono di mettere al bando gli “eccessi” decorativi e artificiosi della polifonia,
privilegiando forme musicali più aderenti al testo sacro. Ciò sortì effetti soltanto in parte e la
conseguenza più duratura sulla produzione musicale fu la divaricazione sempre più marcata tra uno
stile sacro severo e impersonale e uno stile profano più libero da convenzioni e aderente alla
sensibilità del compositore. Come già in precedenza, non mancarono tuttavia prestiti e imitazioni tra
musica sacra e profana, con Messe ispirate da temi popolari e motivi a carattere religioso fatti propri
dalla musica profana.

Le relazioni tra musica e religione mutarono radicalmente a partire dalla seconda metà del XVII
secolo. In Occidente infatti – a differenza che in altre culture, dove come abbiamo accennato
esperienza musicale e spirituale presentano punti di contatto maggiori – aveva sin lì prevalso l’idea
che la musica e le altre arti fossero un mero complemento della liturgia, significativo certo ma non
essenziale alla pratica del culto. L’estetica del Romanticismo operò un decisivo ribaltamento,
secolarizzando la religione e sacralizzando la musica; intellettuali come Wackenroder (1773-1798) e
Schleiermacher (1768-1834) disegnano i confini di una religione dell’arte che ha nella musica, più
astratta tra le arti e per questo più spirituale, il suo faro. Ciò non significa che nell’Ottocento non si
scriva più musica religiosa, che sia destinata all’uso liturgico oppure solamente basata sui testi sacri
(è sufficiente qui solo far cenno alla Missa Solemnis di Beethoven); un afflato spirituale meno
confessionale tuttavia anima anche opere che nulla hanno a che vedere con tale contesto e che
trovano posto in una nuova cornice rituale, quella del concerto. A partire dalle osservazioni di
Caroline Humphrey e James Laidlaw sulle azioni archetipiche che caratterizzano le forme rituali, non
pare infatti azzardato interpretare il concerto come un rito che attinge consapevolmente alla liturgia
a carattere religioso: l’artista ha la funzione di celebrante, il palcoscenico diventa il suo altare, il
pubblico assume i tratti dell’assemblea e non a caso alterna silenzi ad applausi o fischi, secondo una
cadenza cerimoniale.

Nel Novecento, con la figura di Arnold Schönberg (1874-1951), tale funzione messianica appare
estendersi dall’interprete al compositore; animato da vocazione profetica, alimentata anche dalla
componente ebraico-cabbalistica della sua formazione culturale, Schönberg con l’introduzione della
dodecafonia (v. Tecniche compositive) intendeva contrapporre alla tirannia della bellezza la forza di
una superiore verità.

Il concetto di musica religiosa si afferma perciò come qualcosa di più ampio e trasversale rispetto
alla musica per uso liturgico, che nei secoli precedenti ne aveva costituito il nucleo principale; in
compositori come Olivier Messiaen (1908-1992) o György Ligeti (1923-2006) la musica sacra non
intende più descrivere o esplicitare i contenuti del testo sacro, ma utilizzare rappresentazioni
simboliche per delineare orizzonti spirituali e spazi di meditazione.

La tensione spirituale ha alimentato la vocazione sperimentale della musica del XX secolo spesso al
di fuori dai contesti rituali tradizionali, orientando in particolare alcune tendenze di elaborazione
della dimensione temporale dei fenomeni sonori, superando il modello lineare sino ad allora
prevalente, fondato sullo sviluppo e la variazione del materiale musicale di partenza (come i temi
all’interno di una forma-sonata), per saggiare la possibilità di un tempo verticale, non direzionato ed
“eterno” (v. Tempo). La traduzione pratica di tale aspirazione ideale ha prodotto tuttavia esiti
diseguali quando non addirittura opposti in autori diversi, si pensi al misticismo a-temporale di
alcune opere di Karlheinz Stockhausen (1928-2007), al cristianesimo sofferto di Bernd Alois
Zimmermann (1918-1970) – che nutriva i suoi lavori dodecafonici di suggestioni sonore molto
eterogenee per restituire l’idea di un contrasto superficiale dominato da un ordine superiore – o alle
composizioni dell’estone Arvo Pärt (n. 1935), in cui l’eternità del divino viene ricreata con uno
svuotamento del linguaggio musicale, ridotto a un’essenziale polifonia, punto di partenza della
corrente del cosiddetto minimalismo sacro.

La scena contemporanea, caratterizzata da un’estrema eterogeneità di linguaggi, è particolarmente


ricca di fenomeni attinenti alla sfera mitico-religiosa. Anche nella musica esplicitamente destinata a
scopi liturgici – in ambito cattolico specialmente dopo il Concilio Vaticano II – si è assistito a un
progressivo allentamento dei vincoli, che ha permesso l’ingresso nella pratica del culto di interventi
musicali che attingono a repertori estranei alla tradizione quale la popular music. Ciò non ha
prodotto tuttavia un nuovo corpus riconoscibile all’interno del repertorio liturgico; la produzione di
musica a carattere religioso appare ormai un fenomeno prevalentemente esterno alla funzione
rituale e nonostante ciò molto vitale, risposta a un diffuso bisogno spirituale che in parte fatica a
riconoscersi nelle forme e nelle istituzioni determinate dalla storia e dalla tradizione. (AF)
Musica e società

Le questioni che emergono quando si osservano le relazioni tra fenomeni musicali e i contesti sociali
in cui essi si manifestano sono sostanzialmente tre: il concetto di musica è costruito socialmente?
Qual è la funzione sociale della musica (v. Le funzioni della musica)? La musica è in grado di
influenzare l’organizzazione sociale o, viceversa, l’organizzazione sociale determina forme, contenuti
e strumenti dell’esperienza musicale?

Malgrado si tratti di problematiche determinanti per una maggiore comprensione del ruolo della
musica nelle comunità umane, lo studio delle relazioni tra musica e società ha faticato a imporsi nel
dibattito musicologico, condizionato dalla prevalenza di un’inclinazione storica e analitica (v. Le
discipline musicologiche).

La stessa area di ricerca che dovrebbe indagare tali aspetti – la sociologia della musica – non solo si
è costituita come disciplina soltanto a partire dai primi decenni del Novecento, ma ha anche trovato
difficoltà nel difendere la propria autonomia e nel trovare strumenti culturali adatti a sviluppare i
propri studi. Identificata come ramo minore della sociologia o come filone poco ortodosso degli studi
musicologici, la sociologia della musica ha visto disperdere molte energie nei tentativi di
circoscrivere il proprio campo d’indagine, a lungo compressa tra lo scetticismo dei formalisti – per
cui le opere musicali sono regolate da leggi e istanze autonome rispetto alla società in cui vengono
prodotte e recepite – e il meccanicismo della prospettiva contenutista, che tende a stabilire
stringenti rapporti di causa-effetto tra strutture sociali e pratica musicale. Solo a partire dagli anni
ottanta del secolo scorso gli studi sulle relazioni tra musica e società hanno assunto una dimensione
più ricca e organica grazie all’incontro tra sociologia della musica, etnomusicologia e cultural studies.

Di seguito cercheremo di delineare brevemente le tappe principali del percorso di affermazione della
sociologia della musica, evidenziandone i principali protagonisti e le riflessioni più significative.

Musica e società prima della sociologia della musica. Le ragioni di un ritardo

L’idea che sussistano importanti relazioni tra musica e società non è, ovviamente, una scoperta del
XX secolo; l’interpretazione di tali relazioni nella storia del pensiero occidentale, tuttavia, è forse la
causa principale del ritardo con cui la sociologia della musica si è affermata come disciplina.

Nel pensiero antico, e per lunghi secoli in seguito, è la seconda domanda – qual è la funzione sociale
della musica? – a costituire l’oggetto di riflessione; da Platone in poi, è la musica che può
determinare – obbedendo a precise prescrizioni etiche – la formazione di una buona società. Ciò
riflette una concezione di musica a lungo dominante nella filosofia occidentale (v. Musica e filosofia),
che si disinteressa della sua dimensione pratica e la interpreta come combinazione di proporzioni
matematiche che riflettono l’ordine del cosmo (o, nella prospettiva cristiana, del creato).

Quando tale paradigma verrà messo in crisi – prima dall’Illuminismo e poi, con più decisione, dal
Romanticismo – si assisterà a un progressivo cambio di atteggiamento, seppure in una direzione che
ancora non favorirà lo studio della musica in una prospettiva sociale. Se infatti Rousseau (1712-1778)
– identificando nella società organizzata l’allontanamento dallo stato di natura e parallelamente
nell’evoluzione del linguaggio un progressivo allentamento dell’originale forza comunicativa della
musica – seppure in una luce negativa coglie una relazione tra dinamiche sociali e musica, nel
pensiero romantico lo sbilanciamento verso l’esperienza musicale individuale (compositiva o
performativa) confina la società nei ruoli passivi di spettatrice, seguace o oppositrice della volontà di
potenza dell’artista.

I pionieri – Musica e società in Georg Simmel, Max Weber e Alfred Schutz

Solo nel Novecento, quando la musica abbandona i circuiti elitari aristocratici prima e borghesi poi
per diventare – con l’avvento dei mezzi di riproduzione (v. Tecnologie) – prodotto e fenomeno di
massa, emergono le prime riflessioni di carattere autenticamente sociologico sulla musica. Si tratta
di esperienze isolate e frammentarie, legate prevalentemente alle inclinazioni musicali individuali di
sociologi e filosofi.

Georg Simmel (1858-1918) evidenzia da un lato la socialità dell’esperienza dell’ascolto, capace di


sintonizzare molte persone sullo stesso brano musicale, sottolineando dall’altro come la musica
esprima sotto diversi aspetti gli elementi costituitivi di una comunità. Non senza qualche
semplificazione, Simmel identifica nella melodia il parametro musicale che esprime il carattere di un
gruppo sociale, nell’armonia l’indicatore del grado di complessità di una società e nell’evoluzione del
ritmo – presenza forte e ripetitiva già in età preistorica, che nella società moderna diventa realtà
frenetica e irregolare – uno degli elementi di spersonalizzazione della contemporaneità. Compito del
buon compositore è, per Simmel, far emergere nel modo più autentico la “voce” della comunità di
cui fa parte.

Max Weber (1864-1920) inserisce la riflessione sulla musica nel quadro complessivo del suo
pensiero, dominato dall’idea che l’affermazione della società moderna sia il risultato di un processo
di razionalizzazione e di crescente dominio tecnico sulla realtà. La musica non fa eccezione ed è anzi
uno dei motori di tale processo; Weber ricostruisce così una storia del linguaggio musicale che
muove dal perfezionamento tecnico degli strumenti e delle pratiche esecutive e compositive. In
questa prospettiva, ad esempio, la diffusione del pianoforte facilita sia lo sviluppo del virtuosismo
che la pratica dei dilettanti, rispondendo così alle esigenze differenziate della società di massa. Al
perfezionamento degli strumenti corrisponde, nella visione sin troppo meccanica e normativa di
Weber, l’evoluzione del linguaggio compositivo, che progressivamente si libera delle regole della
tonalità, per aprirsi a una libertà creativa priva di direzione che trova corrispondenza in una società
in cui il dominio tecnico formale ha il sopravvento sui contenuti.

Alfred Schutz (1899-1959) sviluppa le sue considerazioni sociologiche a partire da posizioni


fenomenologiche. Cogliendo soprattutto la dimensione temporale dell’oggetto musicale (v. Tempo),
identifica due livelli comunicativi nell’esperienza dell’esecuzione, uno più generale e l’altro più
specifico. Il primo riguarda il solo interprete: Schutz suggerisce che ogni esecuzione sia guidata da
una forma di precomprensione del brano, precomprensione determinata dagli insegnamenti
ricevuti, dagli ascolti fatti, dalle proprie esecuzioni, dal periodo storico in cui vive, ecc. Una
precomprensione socialmente derivata e socialmente approvata, che consente al musicista di
adeguare la propria esecuzione particolare a dei tipi ideali generali (con il termine tipi Schutz intende
le forme dell’apriori della conoscenza). Per descrivere il secondo livello di comunicazione
dell’esperienza musicale, Schutz prende in esame la situazione del concerto, rilevando come la
natura temporale della musica renda possibile che un avvenimento del tempo esterno quale
l’esecuzione consenta all’interprete di ricostruire il flusso interno di coscienza del compositore e
renderne partecipe l’ascoltatore. In tal modo la musica agisce come forza sincronizzante delle
singole durate (la durée bergsoniana) dei partecipanti al concerto, fa sì che essi invecchino insieme,
cioè condividano il medesimo tempo. Si instaura quindi una relazione di simultaneità tra esecutore e
ascoltatore e di quasi-simultaneità tra ascoltatore e autore. La musica consente perciò di stabilire
una relazione intersoggettiva che, estranea al linguaggio, possiede tutte le caratteristiche della
relazione di mutua sintonia, una situazione di condivisione pre-comunicativa. Secondo Schutz si può
dimostrare che ogni forma di comunicazione è derivata da questa interazione sociale esemplare.

Theodor W. Adorno e la sociologia della musica

Le riflessioni appena riportate sono frammentarie o occasionali all’interno del sistema di pensiero
degli autori citati. Il primo contributo organico allo studio delle relazioni tra musica e società viene
sviluppato da Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969). Muovendo da posizioni marxiste, Adorno
sostiene l’esistenza di un rapporto di causa-effetto tra l’organizzazione delle strutture sociali e
quella delle strutture musicali; così, ad esempio, la musica di Beethoven e la peculiare
organizzazione della forma sonata sono riflessi dell’affermazione della borghesia, mentre la musica
di Chopin è il prodotto dei salotti in cui viene pensata ed eseguita.

Uno dei tratti che caratterizzano la società moderna, in cui il mercato ha acquisito una forza
dominante crescente, è secondo Adorno la progressiva trasformazione della musica in prodotto di
consumo di massa, in maniera più evidente nella forma del jazz e delle canzonette. A questa “falsa
coscienza”, il filosofo contrappone quella autentica della musica colta, capace di esprimere – anche
attraverso sperimentazioni radicali – le contraddizioni e le aporie del sistema sociale in cui si
dispiega.

Di questa impalcatura concettuale – che tuttavia, nella caratteristica struttura “a costellazioni” del
pensiero adorniano, si arricchisce di punti di vista diversi e a volte contraddittori – Adorno si serve
per prendere in esame numerosi aspetti della pratica musicale – dall’opera lirica alla direzione
d’orchestra, dalla critica musicale ai rituali di consumo – pervenendo a una classificazione delle
tipologie di ascoltatori – dagli esperti che padroneggiano la tecnica agli a-musicali, passando per gli
ascoltatori sentimentali e i consumatori di musica.

L’esteso lavoro di analisi serve ad Adorno per delineare gli obiettivi della sociologia della musica, che
nella sua prospettiva corrispondono in primo luogo a una descrizione delle relazioni tra potere
politico-economico e prassi musicale in un dato quadro sociale, evidenziando come l’ideologia
dominante manipoli le coscienze attraverso la deformazione dei sistemi di produzione musicale e
quali forze si oppongano a simili tendenze.

I mondi dell’arte e la critica sociale del gusto

La sociologia della musica di Adorno – anche per stessa ammissione del filosofo coincidente con la
sua visione estetica – ha costituito un termine di confronto irrinunciabile per il dibattito successivo,
scatenando tuttavia anche molte opposizioni. La sociologia empirica americana, che predilige
l’approccio interazionista, con il suo più autorevole rappresentante Howard Becker (n. 1928) ha
messo in discussione i presupposti della sociologia adorniana, giudicando semplicistico interpretare
meccanicamente le relazioni tra struttura sociale e musica, sia perché la struttura sociale è
un’astrazione che spesso corrisponde a un’indistinta generalizzazione, sia perché è erroneo
considerare il significato musicale come immanente al fenomeno e immodificabile.

L’approccio suggerito da Becker considera al contrario il significato musicale come determinato


socialmente, nella concreta collaborazione tra soggetti coinvolti nella pratica musicale e contesto
culturale di riferimento. È la teoria dei “mondi artistici”: ogni gruppo sociale produce e si riconosce
in istituzioni e pratiche musicali precise, dotate di significato relativo in una prospettiva assoluta, ma
assoluto nella sua relatività. Non ha quindi alcun senso, in tale prospettiva, giudicare un repertorio,
un genere o una prassi musicale più o meno artistici di altri in generale; ciascun fenomeno musicale
si può valutare solo in rapporto al mondo artistico in cui vede la luce.

Ulteriori elementi di riflessione critica sulla prospettiva adorniana emergono, seppure


indirettamente, nell’opera di Pierre Bourdieu (1930-2002), che attraverso un’imponente indagine
statistica giunge a dimostrare come i gusti musicali – e i giudizi estetici che da essi derivano – siano il
prodotto delle differenze sociali esistenti: l’alta borghesia, ad esempio, apprezza Bach, mentre la
classe operaia è gratificata dai valzer degli Strauss. È un passo ulteriore rispetto a Becker: non solo il
significato della musica è costituito socialmente, ma anche la formulazione dei giudizi estetici (v.
Valore e giudizio estetico) è determinata dall’appartenenza a una classe sociale. La posizione di
Adorno, con la sua pretesa che esista una musica autentica che riflette le contraddizioni del reale e si
oppone a prodotti sonori di massa, non è dunque antisistemica come pretenderebbe, ma anzi non fa
che rafforzare le differenze sociali esistenti.

A partire dagli anni settanta, infatti, soprattutto in ambito anglosassone, gli esiti del pensiero di
Becker e Bourdieu alimentarono gli studi di una nuova generazione di musicologi, che criticò ancor
più duramente le posizioni di Adorno.

Etnomusicologia, popular music, gender studies: verso una nuova sociologia della musica

L’affermazione dell’etnomusicologia suggerì una crescente diffidenza nei riguardi di ogni astratto
concetto di musica d’arte, privilegiando lo studio e la descrizione dei fenomeni musicali in azione
all’interno di un determinato gruppo sociale; di più, lo stesso esercizio della sociologia della musica
prese sempre più a connotarsi come strumento politico. Testi come il celebre How Musical Is Man?
(Com’è musicale l’uomo?) di John Blacking (1928-1990), muovendo da posizioni marxiste ma
ribaltando la prospettiva adorniana, utilizzano gli esiti degli studi etnomusicologici per corrodere
alle fondamenta le gerarchie estetiche della musica occidentale, mostrando come i rapporti di
potere abbiano trasformato in leggi semplici convenzioni sociali, snaturando la percezione e la
descrizione dell’esperienza musicale.

Autori come John Shepherd (n. 1947) e soprattutto Simon Frith (n. 1946) misero in discussione l’idea
che la popular music potesse essere considerata una categoria indistinta e degradata
complessivamente a prodotto commerciale. I loro studi, al contrario, erano tesi a dimostrare come il
rock esprimesse musicalmente le istanze di gruppi sociali avversi all’ordine costituito, interpretando
proprio quella funzione di critica del potere che Adorno riteneva appannaggio esclusivo della musica
colta.

L’atteggiamento critico nei confronti dello strapotere concettuale della teoria musicale mutuato da
Blacking dall’osservazione delle pratiche musicali di gruppi sociali non-occidentali, caratterizza negli
anni ottanta anche riflessioni e contributi polemici sui rapporti tra musica e società interni alla
musica occidentale, in particolare nell’ambito della New Musicology. Susan McClary (n. 1946) – così
come, in maniera più o meno polemica, Eva Rieger, Marcia J. Citron, Ellen Koskoff e altre studiose
che hanno animato il dibattito musicologico a partire dalla fine degli anni ottanta – da una
prospettiva femminista studia storia, forme e generi musicali del repertorio colto come
dispiegamento dell’impianto maschilista della società occidentale. In questa scia si svilupperanno i
cosiddetti gender studies, che descrivono le connessioni tra identità – sessuale soprattutto, ma
anche etnica e religiosa – e pratiche musicali e rappresentano uno dei filoni più ricchi e complessi
della recente sociologia della musica.

È interessante osservare come approcci simili – pur sviluppandosi da presupposti concettuali del
tutto diversi e persino in aperta contrapposizione con il modello di sociologia musicale delineato da
Adorno, di cui intendono mostrare la dipendenza pregiudiziale da un sistema di valori arbitrario e
ideologico – finiscano paradossalmente per confermare l’idea adorniana di una connessione
profonda tra strutture e dinamiche sociali e produzione musicale.

Pensare musica e società oggi

Dopo gli anni novanta, la sociologia della musica si nutre sempre più di contaminazioni con altre
aree del sapere come antropologia, psicologia, filosofia, statistica e, negli ultimi decenni, il vasto
settore dei cultural studies. Si può quindi parlare di una natura liquida di questo ambito di studi, di
un atteggiamento che interessa ormai gran parte del dibattito musicologico.

I temi più discussi e studiati negli ultimi anni sono l’identità, la differenza e la globalizzazione, in uno
sguardo duplice che tende a considerare sia la specificità delle singole culture che il loro relazionarsi
all’interno di uno scenario mondiale composito e in trasformazione. In questa prospettiva ha e avrà
sempre più in futuro un ruolo determinante la diffusione dei nuovi media (v. I mezzi di diffusione),
che se da un lato produce mutazioni delle pratiche musicali ancora da descrivere e valutare,
dall’altro pongono in maniera del tutto nuova il problema del controllo sociale e della libertà
dell’individuo, con riflessi significativi sull’organizzazione delle istituzioni musicali (v. Le strutture
organizzative) e sulla produzione e diffusione della musica. (AF)

Musica e filosofia

“La filosofia è la musica più grande” (Platone, Fedone)

“La musica è una rivelazione più profonda di ogni saggezza e filosofia” (Ludwig Van Beethoven)

“[...] affermo che, ammesso che si potesse dare una spiegazione della musica, completamente
esatta, compiuta e particolareggiata, riprodurre cioè esattamente in concetti ciò che essa esprime,
questa sarebbe senz’altro una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in concetti, oppure
qualcosa del tutto simile, e sarebbe così la vera filosofia [...]” (Schopenhauer, Il mondo come volontà
e rappresentazione)

È sufficiente accostare qualche citazione per cogliere quanto il legame tra musica e filosofia sia stato
complesso e vitale nei secoli e sia ancora oggi un inesauribile stimolo a feconde e nuove riflessioni.
Discipline apparentemente distanti, sin dalle origini si sono cercate, incontrate e sovrapposte, con
frequenti incursioni in entrambi i sensi: i filosofi hanno riflettuto sulla musica e attraverso la musica,
i musicisti (e i musicologi) hanno cercato nei sistemi di pensiero elaborati dalla filosofia un quadro di
riferimento per la propria esperienza artistica o la propria elaborazione teorica.
Possiamo distinguere due atteggiamenti filosofici fondamentali nei riguardi della musica. C’è infatti
un pensiero sulla musica – che mira cioè a definirne natura e significato – e un pensiero che si
sviluppa dalla musica, che considera cioè quest’ultima l’apertura di un orizzonte di verità per la
comprensione della realtà nel suo complesso.

Nella prima categoria, oggi inquadrabile nell’ambito più vasto dell’estetica musicale, possono essere
fatte rientrare tutte le discussioni relative a un gruppo relativamente ristretto di problematiche
filosofiche, peraltro spinose: definire cosa è musica e cosa non lo è (v. Che cos’è la musica?),
descrivere le relazioni tra musica, linguaggio e altre forme d’arte (v. Musica e linguaggio),
determinare il significato dell’opera d’arte musicale, anche in relazione al contesto storico e sociale
di produzione e di ricezione (v. Le funzioni della musica) e infine definire i sistemi di valore in base ai
quali giudicare la qualità artistica delle opere musicali (v. Valore e giudizio estetico).

La seconda categoria, relativa all’insieme di saperi definibile come filosofia della musica, comprende
invece contributi più eterogenei, in cui la musica può risultare occasionale strumento esemplificativo
o elemento costitutivo e imprescindibile di un sistema filosofico.

Tali categorie non devono tuttavia essere intese come rigorosamente distinte, e anzi esse spesso si
sovrappongono e confondono, come cercheremo di mostrare descrivendo cronologicamente lo
sviluppo delle riflessioni filosofiche sulla musica.

Pensare la musica nell’antica Grecia

I primi esiti della riflessione filosofica sulla musica si manifestano naturalmente là dove la filosofia si
costituisce come disciplina, nell’antica Grecia. Le problematiche che il dibattito filosofico porta alla
luce sin dalle origini – e che risulteranno elementi di discussione costante nel confronto tra le
discipline – dimostrano la difficoltà e l’arbitrarietà di ogni tentativo di circoscrivere in categorie
troppo rigide le relazioni tra filosofia e musica, anche alla luce della volatilità della definizione di
quest’ultima. Se infatti una, e forse la più decisiva, di tali problematiche è la distinzione di ciò che è
musica da ciò che non lo è (v. Che cos’è la musica?) bisogna confrontarsi con l’evidenza che il
termine musica si riferisce a pratiche non sempre omogenee, né tra loro né a ciò che attualmente
consideriamo come tale. Nel caso dei Greci, questo termine concede uguale rappresentanza all’arte
dei suoni, alla poesia lirica e alla danza, ed è pertanto con questa natura “trinitaria” del concetto di
musica che il pensiero filosofico si confronta.

A causa della complessità del fenomeno musicale così inteso, elementi di riflessioni filosofica sulla
musica sono presenti in maniera disorganica nella poesia lirica e tragica, prima di condensare in
visioni teoriche più coese e compiute. È impossibile scindere la figura del poeta e del teorico della
musica, e non a caso il primo trattato dal titolo Peri mousikes di cui si abbia notizia è opera di Laso di
Ermione, poeta lirico del VI a.C; il testo si concentra sulla natura degli intervalli musicali (v.
Intervallo), problema centrale anche nella riflessione dei Pitagorici.

Due sono gli aspetti del fenomeno musicale che finiscono sotto la lente di Pitagora di Samo (circa
560-480 a.C.) e della sua scuola, fortemente intrecciati tra loro: l’organizzazione matematica della
musica e i suoi riflessi sul comportamento e la condotta di vita degli uomini. Nello studio dei
fenomeni acustici i Pitagorici evidenziarono come gli intervalli fondamentali di ottava, quinta e
quarta potessero essere espressi da rapporti matematici semplici (1:2, 2:3, 3:4), leggendo nel dato
fisico la conferma che il numero costituiva il superamento e l’armonizzazione delle contraddizioni del
reale. Il dogma pitagorico, per quanto matematicamente discutibile, si radicò a tal punto da farsi
metro di valutazione degli effetti della musica sulle persone, determinando a quale affetto
corrispondesse ciascuna armonia.

Il passo dalla descrizione alla prescrizione fu breve, e presto nella trattatistica si diffuse la
classificazione tra armonie buone e cattive, tra quelle utili per una positiva catarsi dalle passioni più
violente e quelle dannose per la salute. Sono riflessioni determinanti per lo sviluppo della filosofia
della musica di Platone prima e Aristotele poi; il punto di mediazione tra le due scuole filosofiche è
rappresentato dalla figura di Damone di Oa (V secolo a.C). Nei suoi scritti, Damone insiste sul legame
tra musica ed etica, in particolare nell’educazione dei giovani, riprendendo e rafforzando l’idea che
solo alcune armonie trasmettano i valori fondanti di una comunità e diano accesso alle virtù del
buon cittadino.

Una visione “conservatrice” è fatta propria anche da Platone, il quale si occupa della musica in
numerosi dialoghi, pervenendo nella Repubblica ad una sistemazione organica. Il filosofo ateniese –
che nella sua città ideale identifica nella musica la palestra dell’anima, così come la ginnastica è
quella del corpo – sceglie un’impostazione molto restrittiva, ammettendo solo due modi musicali, il
Dorico e il Frigio. Più in generale, Platone ha nei confronti della musica una posizione ambivalente:
da un lato la considera un pilastro della struttura razionale della realtà – nella forma cosmica
dell’armonia delle sfere e in quella umana dell’elevazione spirituale dell’individuo e della collettività
– dall’altro la ritiene, nelle forme strumentali che considera più volgari, come un potenziale
elemento di disordine, un prevalere della sottomissione ai piaceri sulla ricerca della virtù.

Opinioni meno unilateralmente negative riguardo la dimensione edonistica della pratica musicale si
manifestano già con Aristotele, che evita di considerare i modi musicali totalmente positivi o negativi
e preferisce evidenziarne le caratteristiche, ritornando sul potere catartico della musica come
medicina dell’anima. La musica rimane tuttavia oggetto di speculazione e non cadono i pregiudizi nei
riguardi dei musicisti professionisti, considerati artigiani volgari e sin troppo intraprendenti.

Per il superamento di tali pregiudizi bisognerà attendere Aristosseno di Taranto (IV secolo a.C.),
capace di ribaltare il rapporto di subordinazione della pratica musicale alle astrazioni speculative e di
riportare al centro del dibattito il fatto sonoro, così come dato nella combinazione tra percezione
sensibile e memoria. Il primato dell’orecchio sul calcolo matematico e la riduzione del valore etico
dei modi musicali a dato storico-culturale relativo professati da Aristosseno non riuscirono tuttavia a
fare davvero breccia nel dibattito filosofico, che nei secoli successivi si sarebbe nutrito più della
speculazione pitagorica e platonica che del metodo empirico del musico di Taranto.

Pensare la musica nel Medioevo

Non è difficile trovare nel mondo latino di età tardo-antica e altomedievale indizi del debito
profondo della filosofia della musica di orientamento platonico e pitagorico. Anzi, la svalutazione
intellettuale della pratica musicale, riferita soprattutto alla musica strumentale, si accentua: la
musica viene considerata degno oggetto di studio solo in quanto scienza delle proporzioni e inserita
per questo nel quadrivium delle arti liberali al fianco di aritmetica, geometria e astronomia, secondo
il modello di erudizione classica rielaborato in chiave cristiana da Agostino.

Modello e punto di riferimento di tale atteggiamento è il filosofo Severino Boezio (V-VI secolo d.C.),
autore del De institutione musica, trattato cui si richiameranno tutti i successivi contributi sulla
speculazione musicale di epoca medievale e non solo. Boezio sviluppa l’eredità del pensiero greco
identificando tre tipi di musica che i commentatori successivi inseriscono nel contesto della cultura
cristiana: quella mundana coincide con l’armonia delle sfere di Pitagora e Platone e viene associata
al divino, quella humana esprime l’equilibrio tra l’uomo e il creato, quella instrumentalis coincide
con la produzione del suono attraverso la voce (anche se nell’alto medioevo la musica vocale è
associata alla humana) o gli strumenti musicali. Solo quest’ultima tipologia di musica è udibile in
modo sensibile, mentre le prime due sono per Boezio oggetto di speculazione, dunque di
un’indagine di livello superiore, nel segno di un primato dell’intelletto sull’orecchio. Una visione che,
inevitabilmente, confinerà ancora in secondo piano il godimento estetico dell’esperienza musicale, la
quale sarà considerata valida solo in relazione alla capacità di elevare lo spirito umano verso Dio
attraverso l’armonia e l’equilibrio.

Tuttavia, il De institutione musica di Boezio consegna all’Occidente proprio l’indagine sulla musica
strumentale, oggetto di studio matematico in relazione alla natura proporzionale delle consonanze,
che attraverso ulteriori apporti di Calcidio, Macrobio e dello stesso Agostino influenzerà l’approccio
alla speculazione musicale successiva (musica e scienza). In età carolingia, e fino almeno al secolo XI,
lo sviluppo del canto liturgico e della sua notazione indirizza il recupero del pensiero musicale
boeziano alla fondazione di una dimensione scientifica della musica (scientia musicae), sorta
dall’esigenza di una giustificazione teorica, etica ed estetica del canto della chiesa. I monaci e gli
ecclesiastici eruditi sono quindi spinti a inquadrare i problemi speculativi in ambito musicale facendo
riferimento a una specifica prassi musicale, la quale viene anzitutto relazionata all’armonia cosmica e
dei cori angelici e all’armonia del corpo e dell’anima umana.

A partire dal secolo XII, grazie ai nuovi interessi naturalistici, e ancor più marcatamente nel secolo
XIII, con lo sviluppo della cultura universitaria e della filosofia di impianto aristotelico e con
l’emergere della polifonia d’arte sacra e profana, il pensiero filosofico sulla musica si orienta verso la
natura dell’esperienza musicale: la musica è arte o scienza? Riconosciuta quale arte pratica e scienza
teorica insieme, la musica è ora definita come scientia media tra la matematica e la filosofia
naturale, mentre al suo linguaggio, che si esprime ormai compiutamente nella notazione, è attribuita
la qualifica di artificium, ovvero frutto della maestria e della sensibilità umana.

Ed è proprio dagli sviluppi del linguaggio polifonico (v. Monodia e polifonia) che emerge un nuovo
problema speculativo, ovvero la questione della natura e della misura del tempo musicale,
alimentata dal contemporaneo dibattito filosofico sul tempo. L’esigenza, infatti, di un’accurata
misurazione e annotazione scritta della polifonia, soprattutto nell’ambito dell’ Ars nova, stimola
teorici della musica e matematici come Giovanni de Muris (circa 1300-1350) all’intuizione che il
tempo musicale è divisibile e misurabile secondo parametri convenzionali, funzionali alle esigenze
compositive.

Alle soglie dell’Umanesimo, la necessità di una svolta nell’impostazione speculativa della musica si
accompagna alla sempre più professionalizzata trattatistica musicale, che affronta i problemi
concreti della composizione. In questa prospettiva, Boezio e la sua musica speculativa sono ormai
inadeguati a dare risposte, sia a livello pratico che teorico: il musicus, divenuto compositore e
teorico insieme, rapporta ora il sapere musicale delle antiche auctoritates con riflessioni di natura
pratica ed estetica, da indirizzare alla creatività artistica e alla sua consapevole fruizione.

La nascita dell’estetica musicale e il pensiero musicale nell’epoca dei lumi


L’idea che la musica susciti interesse speculativo solo in ragione delle proporzioni matematiche che
la informano resiste, tuttavia, per secoli, soprattutto in ambito filosofico, anche dopo il tramonto del
sistema di prescrizioni etiche e di carattere religioso in cui Boezio e i secoli del Medioevo l’avevano
inserita; basti pensare che ancora Cartesio, pur spogliando le sue riflessioni sulla musica di ogni
teleologismo, la considera prevalentemente in ragione delle combinazioni intervallari (v. Intervallo)
che la costituiscono, da classificare non in relazione alla loro bellezza ma alla loro intrinseca
razionalità. Già in Cartesio, tuttavia, si fa strada l’idea che la fisica del suono sia incapace di rendere
ragione del piacere dell’ascolto: un intervallo di quarta è matematicamente più perfetto di un
intervallo di terza, ma non necessariamente più gradevole all’orecchio.

Si apre quindi un nuovo spazio per la riflessione filosofica sulla musica, spazio che viene per la prima
volta illuminato dall’opera di Jean-Baptiste Dubos (1670-1742). Dubos libera la musica
dall’inquadramento matematico e razionalizzante, considerandola nelle sue manifestazioni sensibili
e dunque mettendo al centro della sua analisi la pratica musicale strumentale e vocale. Esprimendo
la convinzione che la musica sia imitazione della realtà e abbia per vocazione il ruolo di potenziare
emotivamente la parola poetica, Dubos scardina la visione filosofica della musica come espressione
dell’ordine razionale delle cose e pone l’accento sulla ricezione dell’esperienza musicale, dominata
dal sentimento assai più che dalla ragione; il gusto estetico, definito dal piacere dell’ascolto e
temperato dall’esperienza, diventa quindi il termometro del valore artistico di un’opera musicale.

Con Dubos, si compie dunque la transizione da una concezione etica a una ormai già pienamente
estetica del fenomeno musicale, malgrado il termine “estetica” nasca ufficialmente solo nel 1750
con Alexander Gottlieb Baumgarten.

Nonostante il suo contributo sancisca definitivamente la dignità teorica del giudizio estetico nella
valutazione della natura e del significato dell’opera d’arte musicale, in parallelo con un’evoluzione
della concezione filosofica di ragione da garante dell’ordine universale a strumento critico soggettivo
di interpretazione della realtà, l’inquadramento speculativo matematico e spirituale della musica
fatica a cadere anche nel secolo dei Lumi. Il retaggio più resistente è senz’altro la scarsa
considerazione per la musica strumentale, cui solo il Romanticismo attribuirà finalmente un ruolo
centrale nella riflessione filosofica.

Al centro della speculazione degli Enciclopedisti c’è dunque principalmente la musica vocale, con una
trattazione che, specialmente in Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), si sviluppa però in direzione
polemica rispetto a ogni razionalizzazione astratta del fenomeno musicale. Si assiste a un
ribaltamento del sistema che si era imposto per secoli nel dibattito filosofico: i tentativi di descrivere
gli intervalli musicali come un sistema organico e naturale di proporzioni vengono giudicati un
occultamento della natura più profonda della musica, della sua spontaneità e della sua derivazione
diretta dal sentimento. La musica non può più essere interpretata come linguaggio universale, ma al
contrario come espressione delle passioni dell’individuo e della nazione a cui appartiene.

Il piacere e il gusto sostituiscono il calcolo e la ragione come strumenti di interpretazione del


fenomeno musicale, ma non permettono alla musica di risalire la gerarchia delle arti. Ancora nel
pensiero di Kant (1724-1804), la musica è classificata come gioco fuggevole “senza concetto”, arte
dal significato intraducibile e dunque incapace di raccontare il mondo con la stessa intensità di
poesia e arti figurative.

Pensare la musica nel Romanticismo


L’asemanticità della musica, suo tallone d’Achille nella filosofia settecentesca, diviene il suo punto di
forza in età romantica e il punto di partenza di un’estetica musicale non più sorella minore
dell’estetica tout court, ma sua dimensione trainante.

Già anticipato dalla sensibilità degli autori dello Sturm und Drang, il nuovo atteggiamento filosofico
nei riguardi della musica si dispiega in un’intera generazione di scrittori, filosofi e intellettuali tra cui
spiccano Wilhelm Heinrich Wackenroder, Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, Ludwig Tieck e
Friedrich Schelling.

L’evidenza che la musica non possa esprimere un significato determinato viene reinterpretata alla
luce di sistemi di pensiero in cerca di un Assoluto che non può essere compreso attraverso il mero
esercizio della ragione, ma come possibilità di accesso a un nucleo di verità altrimenti inaccessibile.
La musica strumentale, svincolata dalla parola e dunque da qualunque associazione semantica
potenzialmente riduttiva, assurge al ruolo di arte rivelatrice per eccellenza, ribaltando gerarchie
sedimentate nei secoli. L’autore di musica assoluta assume di conseguenza i contorni del profeta,
del genio capace di attingere a significati impenetrabili alla ragione e di renderli disponibili
attraverso la pratica compositiva ed esecutiva.

Da una filosofia della musica fondata sulla (presunta) oggettività delle leggi fisiche e della ragione, il
pensiero romantico approda a un’estetica musicale fondata sul soggetto e trova quindi una sponda
significativa nella filosofia idealista. Non è perciò un caso che la musica si ritagli uno spazio
autorevole nella filosofia di Hegel (1770-1831), che all’interno del suo sistema la pone sì al di sotto
della poesia – giudicata più libera da vincoli materiali e vicina alla pura espressione dei concetti – ma
al di sopra di tutte le altre arti e persino alla pittura per l’emancipazione dalla spazialità e la natura
squisitamente temporale. Hegel riconosce alla musica la capacità di mettere tra parentesi la distanza
tra soggetto e oggetto, inducendo l’Io a contemplarsi attraverso il sentimento puro, privo di
riferimenti a emozioni specifiche, ma le rimprovera un’insuperabile tendenza all’astrazione, al farsi
puro arabesco autoreferenziale e insignificante.

Nel pensiero di Schopenhauer (1788-1860) la musica compie un ulteriore passo in avanti: più che
conquistare il primato tra le arti, essa acquisisce uno status autonomo e al pari delle Idee viene
considerata immagine diretta della Volontà, la forza irrazionale alla radice della realtà. La musica è
per Schopenhauer infatti non solo l’arte dell’interiorità pura e priva di materialità, ma anche la
vetrina degli archetipi universali del sentimento. Ciò fa della musica una lingua universale e al tempo
stesso intraducibile; se potessimo tradurla in parole, afferma Schopenhauer con un celebre
paradosso, essa sarebbe la vera filosofia (v. Musica e linguaggio).

Nella seconda metà del XIX secolo il dibattito sulla musica non è più patrimonio esclusivo dei filosofi
e anzi, avviando una tendenza che si imporrà in maniera ancor più decisa nel Novecento, vede
compositori e critici musicali esporsi in prima linea e dividersi in due schieramenti su una domanda:
può la musica esprimere emozioni e significati?

Il manifesto di chi si schiera per il no è il saggio Vom Musikalisch-Schönen (Il bello musicale) del
critico Eduard Hanslick (1825-1904), che nella musica vede null’altro che un gioco di forme sonore,
incapace di esprimere emozioni; la bellezza della musica risiederebbe quindi nella sua struttura
formale, a prescindere dall’associazione con qualunque tipo di contenuto razionale o sentimentale.
Posizione, questa, che non solo darà vita a una vera e propria scuola di pensiero formalista della
musica, ma consegnerà al solo musicologo – che detiene le conoscenze tecniche per decifrare la
struttura dell’opera musicale – l’accesso al giudizio critico ed estetico sulla musica.

Sull’altro lato domina invece la figura di Richard Wagner (1813-1883), che nella sua sintesi tra
attività di compositore e di teorico dell’arte costituisce il modello speculativo di molti autori del
secolo successivo. Per Wagner, la musica è inscindibile dalla rete di significati storici e culturali
coinvolti nella sua produzione e ricezione; richiamandosi alla tradizione greca, egli reclama una
nuova unità tra poesia, musica e danza nella suprema sintesi del Gesamtkunstwerk (opera d’arte
totale). Presa da sola la musica non ha alcun significato: nella combinazione con la parola poetica
essa diventa capace di esprimere il mito e attraverso di esso il senso profondo della realtà in cui
viviamo.

Pensare la musica nel Novecento

La cosiddetta “guerra dei romantici” non conosce vincitori, ma amplia ulteriormente il campo di
battaglia di filosofia ed estetica della musica, aprendo un dibattito che nel Novecento è tanto ricco
quanto complesso, anche a causa del numero di attori sulla scena. Le tradizionali questioni
dell’estetica musicale non sono infatti più patrimonio esclusivo della speculazione dei filosofi, ma
diventano oggetto d’indagine e discussione di scienziati, antropologi, sociologi e molti altri, ma un
ruolo di primo piano è ormai stabilmente detenuto dai compositori.

Problema centrale della riflessione filosofica sulla musica nel Novecento, da cui discendono o a cui si
intrecciano tutti gli altri, è la definizione dell’opera d’arte musicale, in un contesto storico in cui le
“provocazioni” delle avanguardie minano le convenzioni e i rituali performativi tradizionali. Se alcuni
compositori, tra i quali spicca John Cage (1912-1992), hanno inteso indebolire anche nei loro scritti la
fondatezza del concetto di opera musicale – giudicato un’indebita costruzione metafisica che
allontana dalla percezione autentica del fenomeno sonoro – molti filosofi l’hanno difesa, seppure
con presupposti e obiettivi differenti. Roman Ingarden (1893-1970), che muove da una prospettiva
fenomenologica, considera l’opera musicale come un oggetto estetico intersoggettivo, mediazione
tra intenzione dell’autore e percezione degli ascoltatori, un limite ideale che trascende la partitura e
le sue esecuzioni; Hans Heinrich Eggebrecht (1919-1999) ricostruisce l’evoluzione del concetto di
opera musicale per ribadirne il valore storico (v. Storia e storiografia;); la cosiddetta New Musicology
ha ricordato l’impronta fondamentale della biografia dell’autore sulle scelte che danno forma
all’opera.

Problema direttamente connesso all’ontologia dell’opera musicale è quello del suo significato,
discussione che prosegue con armi intellettuali più affinate la guerra dei romantici. Da un lato
sopravvive, in compositori come Stravinskij o pensatori come Peter Kivy (n. 1934), la prospettiva
formalista di una musica incapace di esprimere altro che se stessa, dall’altro studiosi come Leonard
Meyer (1918-2007), avvalendosi dei progressi della psicologia, hanno evidenziato l’attitudine della
musica a produrre aspettative e attraverso la loro realizzazione/delusione a suscitare emozioni. Altri
ancora, rifacendosi alla fenomenologia o all’ermeneutica, considerano la musica capace di esprimere
significati attraverso l’interazione con il contesto storico e culturale di produzione e ricezione.

Altro dibattito acceso è quello sulla natura temporale dell’esperienza musicale. Alimentato dalle
riflessioni sul tempo di Husserl e Bergson – che proprio sulla musica modellano la loro filosofia
sull’argomento – vive dell’opposizione tra chi, come gli strutturalisti rappresentati da Claude Lèvi-
Strauss (1908-2009), considera la struttura profonda della musica non temporale e immutabile, e
quanti invece considerano il tempo in modi diversi elemento costitutivo dell’esperienza musicale.
Tra questi occorre ricordare almeno Gisèle Brelet (1919-1973) – per la quale la musica è
caratterizzata da una temporalità irreversibile, che è la manifestazione della temporalità del suo
autore – Susanne Langer (1895-1985) – che vede nella musica una forma simbolica della temporalità
– e fenomenologi come Alfred Schutz (1899-1959), che considerano il tempo la dimensione propria
di esistenza e significazione della musica.

Alla convergenza tra le principali tendenze di pensiero qui evidenziate va collocata la riflessione sulla
musica di Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969), impossibile da riassumere per complessità e
ricchezza dei temi trattati. Nella sua filosofia della musica trovano posto sia riflessioni intrinseche
alla musica e alla sua organizzazione sia elaborazioni sistematiche delle relazioni della musica con la
società e in particolare delle sue capacità di orientare e manipolare la pubblica opinione (v. Musica e
società).

Pensare la musica oggi

Taluni hanno visto nel tramonto del concetto di opera musicale e dei sistemi di pensiero di cui esso è
stato architrave la fine dell’estetica musicale come strumento capace di produrre nuovi contenuti di
pensiero, confinandola nel ruolo di disciplina storica.

Tuttavia, se oggi è difficile identificare con chiarezza i punti di contatto tra riflessione filosofica e
musica, ciò non lo si deve all’impoverimento delle due discipline, ma alla polverizzazione dei
contenuti e dei contributi di riflessione. La musica ha infatti raggiunto oggi livelli di diffusione senza
precedenti e anche gli spazi per la speculazione filosofica sull’argomento si sono moltiplicati di
conseguenza: pensare la musica nel mondo globalizzato, pensare la musica nel contesto delle nuove
tecnologie, pensare la musica nella sua interazione con altre arti sono solo alcuni dei sentieri che i
filosofi della musica – o quanti osservano la musica da una prospettiva filosofica – stanno
percorrendo e dovranno percorrere nel prossimo futuro. (AF e CP)

Musica e scienze

Il retaggio del pensiero romantico nei riguardi della musica (v. Musica e filosofia), caratterizzato da
una supremazia del sentimento sull’intelletto e della passione sul calcolo, ha inciso notevolmente
nell’occultare la relazione tra musica e sapere scientifico, che dall’antichità classica alle soglie dell’età
moderna dominò il dibattito sulla natura e le funzioni dell’esperienza musicale. Solo in tempi recenti,
in particolare con l’evoluzione delle neuroscienze, le indagini sulla dimensione scientifica della musica
sono ritornate al centro dell’interesse degli studiosi, sia scienziati che musicologi.

In via generale e sommaria, si possono identificare due ambiti essenziali nella relazione tra musica e
scienza. Il primo concerne l’esistenza di una vera e propria dimensione scientifica della musica, per la
quale quest’arte si rende oggetto teorico d’indagine fisica e matematica; il secondo, viceversa, utilizza
l’espressione musicale quale risorsa mirata a specifiche applicazioni in ambito fisico, matematico e
medico, come nel caso della musicoterapia, pratica medica oggi impiegata nell’azione terapeutica su
varie patologie e riabilitazioni psichiche e comportamentali.

È interessante osservare che entrambi i filoni d’indagine discendono da una comune e antica radice,
il pensiero musicale della scuola pitagorica, che gettò per secoli la sua ombra sulla speculazione
filosofica legata alla musica (v. Musica e filosofia).

Quanto alla natura scientifica della musica, infatti, la scuola pitagorica e, con più diretta influenza
nell’Occidente latino, la tradizione filosofica di matrice platonica svilupparono uno specifico ambito di
indagine centrato sulla collocazione della musica fra le scienze speculative, e nella fattispecie fra le
discipline matematiche, inquadrando lo studio delle consonanze musicali in quell’ambito di saperi che
Boezio (m. 524), sulla scia di Nicomaco, definì “scienza del numero applicata al suono”. Nello studio
dei fenomeni acustici i Pitagorici evidenziarono che gli intervalli fondamentali di ottava, quinta, quarta,
doppia ottava e ottava più quinta potevano essere espressi da rapporti matematici semplici fra i primi
quattro numeri naturali (2:1, 3:2, 4:3, 4:2, 3:1), leggendo così nella relazione fra dato fisico e dato
matematico la conferma che il numero costituiva il fondamento della realtà e garantiva
l’armonizzazione delle contrarietà insite nel mondo naturale.

Questo modo di intendere le consonanze e, più in generale, le relazioni fra suoni di altezza diversa
rimarrà persistente nei secoli a seguire, e costituirà il fondamento naturale nella costituzione della
gamma dei suoni musicali (v. Scala). Solo alla fine del Seicento, per la sollecitazione dell’evoluzione
della prassi musicale e dell’organologia, si imporrà il sistema fondato sul semitono temperato,
esprimibile con la radice dodicesima di due, quindi attraverso un rapporto irrazionale, dove però la
consonanza perfetta di ottava (2:1, in senso discendente, o 1:2, in senso ascendente) rimane a
fondamento della stessa divisione temperata (v. Armonia).

Per quanto riguarda il secondo ambito di relazioni fra musica e scienza, una tradizione di pensiero
ancor più antica del pitagorismo si radicò nella mitologia greca (come ad esempio nei miti di Orfeo e
di Anfione) e fu poi raccolta nel contesto della tradizione musicografica (basti ricordare Damone e
Aristide Quintiliano) e filosofica greca e latina. Essa esaltava il potere psicagogico della musica e il suo
impiego terapeutico sulla salute e il comportamento degli uomini. In tal senso, le antiche harmoniai
greche, di cui parla Platone e sulla cui natura i musicologi hanno a lungo dibattuto, costituivano una
sorta di repertorio atto a sollecitare oppure ad allontanare specifici stati d’animo e sintomatologie
somatiche. Per i pitagorici erano proprio le proprietà matematiche che facevano della musica un
efficace strumento terapeutico. Come riferisce Aristotele nel trattato Sull’anima (407b), “molti (cioè i
pitagorici) affermano che l’anima è una specie di harmonia, giacché l’armonia è una mescolanza e
sintesi di contrari, e il corpo è composto da contrari”. Agendo quindi su tali contrarietà, la musica
riusciva a placare l’ira o a conciliare il sonno o indurre altri effetti taumaturgici e medici. Il platonico
Giamblico, ad esempio, riferisce che Pitagora riuscì a placare l’ira di un giovane ubriaco suggerendo al
suonatore di aulos di modulare dalla inquieta melodia frigia alla più lenta armonia dorica. Questo e
altri miti, ripresi e rimaneggiati in molti scritti e infine trasmessi alla latinità medievale da Boezio,
evidenziano la convinzione antica nelle capacità della musica di influenzare la psicologia e la salute
umana, in forza della sua insita natura scientifico-matematica, quindi esatta e inoppugnabile.

Nei paragrafi che seguono, cercheremo di ricapitolare le tappe fondamentali nell’evoluzione del
rapporto tra musica e scienza seguendo i due percorsi appena tracciati che, pur separati, abbiamo
visto essersi sviluppati nei secoli nel solco della comune matrice pitagorico-platonica.

Musica, matematica, fisica: la scienza dei suoni

La concezione fisico-matematica della musica della scuola pitagorica si salda, nell’Europa medievale,
con la tradizione del pensiero cristiano. Con la celebre definizione Musica est scientia bene modulandi
Agostino trasmise l’idea che la musica fosse una scienza delle proporzioni numeriche. Il trattato più
noto della scienza musicale fu però il De institutione musica di Boezio (v. Musica e filosofia), nel quale,
a partire dagli esempi dei teorici greci della musica, veniva matematizzata la gamma dei suoni e veniva
ribadito il fondamento teorico per il quale solo due suoni in successione di diversa altezza che
potevano essere espressi attraverso rapporti matematici semplici potevano essere considerati
consonanti, quindi gradevoli all’udito nella pratica esecutiva (v. Armonia).

La natura scientifica dell’esperienza musicale così impostata costituì un assioma nel mondo medievale
occidentale non solo per i teorici, ma anche per i cantori di musica sacra. Il canto ecclesiastico, infatti,
subì nel corso del secolo IX un processo di unificazione e standardizzazione che coincise con
l’organizzazione del repertorio chiamato “gregoriano” in sistemi scalari (modi) desunti dal trattato di
Boezio. Non stupisce, quindi, che all’interno del sistema didattico medievale la musica, intesa ora
come arte del canto della chiesa, continuasse a essere inserita nel quadrivium delle arti liberali al
fianco di aritmetica, geometria e astronomia, anziché nel trivium in compagnia di grammatica, retorica
e dialettica, le arti della parola su cui quel canto, in ultima istanza, era basato.

Il riflesso di tali convinzioni sull’evoluzione del canto ecclesiastico, e, a partire dal secolo XII, anche
profano, è inevitabile se consideriamo che nel X secolo l’evoluzione del linguaggio polifonico era
sostenuta da un contesto teorico per il quale le uniche consonanze riconosciute nel discanto erano
ancora quelle di unisono, quarta, quinta e ottava, ossia proprio quelle definite dalla scuola pitagorica.
Gli sviluppi vertiginosi della polifonia d’arte nel corso del secolo XII, con la cosiddetta scuola di Notre
Dame, e, nei due secoli seguenti, con l’evoluzione delle tecniche compositive della cosiddetta ars
antiqua e ars nova, sollecitarono però lo scollamento fra la teoria musicale matematica di impianto
boeziano e la necessità dei musici di fornire risposte teoriche adeguate in termini di scientificità a un
repertorio polifonico sempre più ricco e diversificato. L’ ars musicae, più che la scientia musicae,
doveva farsi carico di individuare i principi scientifici che regolavano l’impiego e l’alternanza fra
consonanze e dissonanze e, soprattutto, la divisione dei suoni in termini di durata relativa, operazione
necessaria per definire l’assetto delle voci in discanto. La speculazione sul tempo musicale, sulla natura
delle durate e sulla loro resa in termini di tecniche di fusione delle voci è adesso al centro dell’interesse
dei teorici, e la matematica musicale tende ad adeguarsi alle sollecitazioni filosofiche, soprattutto di
filosofia naturale, emerse nella progressiva acquisizione della fisica aristotelica nelle università
medievali.

La musica è sempre più “scienza e arte” del comporre, ma l’interesse verso le speculazioni
numerologiche di matrice pitagorica continuerà a esercitare un fascino irresistibile anche per gli
intellettuali del Rinascimento, ormai pienamente consapevoli della natura “artistica”, ovvero
“artigianale”, del comporre (v. Invenzione e scrittura). Anzi, riattivata dalla cultura umanistica, l’analisi
matematica della musica di matrice platonico-pitagorica, sviluppata da Marsilio Ficino (1433-1499),
favorisce, in teorici e compositori come Giovanni Tinctoris, Bartolomeo Ramos De Pareja e più tardi
Gioseffo Zarlino, uno studio scientifico della musica che non muove da una cornice teorica
preconcetta, ma si sviluppa empiricamente, dalla descrizione e dall’analisi di una pratica musicale in
sempre più rapida evoluzione. Fioriscono così nuove teorie di calcolo per il temperamento dei suoni,
vengono suggeriti aggiustamenti dei sistemi scalari (v. Scala) ereditati dalla tradizione e progettati
strumenti musicali in grado di rispondere alle nuove esigenze performative.

La matematica e il numero rimangono le fondamenta della rinnovata scienza musicale, e in opere


come le Istituzioni harmoniche di Gioseffo Zarlino (1517-1590) questa scienza viene ancora applicata
allo studio dei rapporti intervallari fra i suoni. Analogamente, nel corso del Cinquecento eminenti
scienziati, quali l’astronomo Giovanni Keplero (1571-1630) che rinviene nelle proprietà geometriche
dei poligoni regolari inscritti nel cerchio la causa razionale della consonanza, e il matematico
Gianbattista Benedetti (1530-1590), nello studio dei rapporti fra frequenza e altezza dei suoni, offrono
interessanti esempi di come ricerca fisica e inquadramento numerologico convivono ancora nella
ricerca di un sistema di corrispondenze fra suoni, numeri e movimenti astrali.

Nel corso dello stesso secolo, inoltre, il paradigma della musica come scienza matematica è affiancato
dalla ritrovata convergenza tra musica e retorica (v. Musica e linguaggio), che, nel segno di un recupero
dell’originaria unità tra suono e parola poetica dell’arte greca, inquadra la musica come complemento
e accompagnamento della parola, convergenza che in ambito di evoluzione del linguaggio musicale si
salda con lo sviluppo del melodramma.

Gli esperimenti acustici dei promotori della rivoluzione scientifica, quali Galileo Galilei (anticipato in
ciò da suo padre Vincenzo, cultore e teorico di musica), Marino Mersenne (1588-1648), il primo a
misurare la velocità di propagazione del suono, Isaac Beeckman (1588-1637), studioso della fisiologia
dell’orecchio e autore di una concezione materialistica del suono, e Renato Cartesio (1596-1650), con
un trattato giovanile sui suoni impostato more geometrico, si indirizzano nei primi decenni del
Seicento verso un’analisi fisica del suono orientata in senso empirico e consentono lo sviluppo della
fisica acustica, la quale tuttavia poggia ancora su considerazioni matematiche, specialmente
geometriche, circa la natura del suono. Pur con variazioni anche significative, questa impalcatura
teorica domina il pensiero musicale occidentale per tutto il Seicento: ancora Leibniz (1646-1716) dirà
che “la musica è un esercizio occulto di aritmetica dello spirito, ignaro del proprio numerare” (“Musica
est exercitium aritmaeticae occultum nescientis se numerari animi”).

Nel corso del Settecento si assiste a un progressivo e definitivo mutare di atteggiamento: l’evoluzione
della pratica musicale e uno studio più sistematico della fisica degli strumenti e dei processi di
accordatura richiesti per la realizzazione di partiture orchestrali mettono in luce l’inadeguatezza della
scienza delle proporzioni musicali, sia su base aritmetica che geometrica, favorendo il definitivo
sviluppo di una teoria fisica del suono in senso scientifico moderno ma, come tale, sempre più staccata
da problematiche relative alla teoria del comporre. Ciò stimola l’affermarsi di una visione estetica e
non scientifica della musica che diventerà dominante nella cultura occidentale e che troverà il suo
culmine nel Romanticismo (v. Musica e filosofia).

Tutti gli sforzi per un’analisi scientifica dei fenomeni musicali verranno considerati artificiosi nella
nuova temperie culturale inaugurata già nel contesto dell’Illuminismo, ed il primo a fare le spese di
questo cambio di atteggiamento è Jean-Philippe Rameau (1683-1764). Il compositore francese, nei
suoi due trattati dedicati all’armonia, applicando il metodo d’indagine cartesiano ma avvalendosi
anche delle più recenti osservazioni sulla natura del suono – in particolare gli studi di Sauveur (1653-
1713) sulle corde vibranti e gli armonici – perviene alla convinzione che tutti i suoni derivino da un
unico basso fondamentale e che gli accordi costitutivi del sistema tonale siano quelli dati dalla
successione dei suoni armonici. Ribadendo di voler considerare la musica prima di tutto una scienza,
Rameau costruisce dunque un sistema razionale fondato sull’armonia, concepita come riflesso
dell’ordine naturale delle cose. Egli quindi sostituisce al fondamento metafisico del numero quello
fisico del basso fondamentale, ma aspira ugualmente a una razionalizzazione assoluta dei fenomeni
musicali, per sottrarli all’arbitrio del gusto. Tale posizione, acuita dall’emergere della querelle des
buffons, subì duri attacchi da parte degli Enciclopedisti e in particolare del matematico D’Alambert
(1717- 1783), per il quale la musica è scienza solo in senso metaforico, essendo essa, propriamente,
un’arte. Con tale affermazione, gli enciclopedisti si fanno portavoce della tendenza che cominciava a
ritenere il gusto e il valore estetico i tratti qualificanti dell’esperienza musicale, a prescindere da quali
ne fossero i fondamenti naturali, veri o presunti tali.

La tendenza anti-scientifica ebbe importanti riflessi anche sulla pratica musicale – con il definitivo
abbandono dei temperamenti fondati sulla scala di toni interi, a favore del più elastico e gradevole
temperamento equabile, matematicamente meno proporzionato ma musicalmente più efficiente – e
su quella compositiva, con il tramonto della scienza del contrappunto e l’affermazione del primato
della melodia.

Se fisici e scienziati come Leonhard Euler (1707-1783), Thomas Young (1773-1829), Ernst Chladni
(1756-1827) e Jean Baptiste Fourier (1768-1830) continuarono ad applicarsi allo studio del suono con
eccellenti risultati esplorando a fondo la natura delle onde sonore, la loro risonanza e interferenza e
la loro propagazione, la musica divenne patrimonio esclusivo degli artisti. Nell’estetica romantica,
infatti, l’acustica era considerata una scienza che mirava a descrivere l’elemento materiale del
fenomeno musicale, cioè la natura fisica del suono, senza essere coinvolta nella ricerca sul valore
irrazionale e metafisico dell’arte della musica. Si spiega così anche la freddezza con cui venne accolto
dai musicisti del tempo il lavoro di Hermann Von Helmholtz (1821-1894), cui si deve la nascita della
psicoacustica, ossia lo studio della psicologia della percezione dei suoni. A Helmholtz si deve in
particolare l’intuizione – oggi sostanzialmente confermata dai progressi tecnici dell’osservazione
scientifica – che la percezione della dissonanza dipenda dalla vicinanza di due armonici (attualmente
si parla di “banda critica” per cui due suoni vicini in frequenza danno luogo a battimenti), che
impedisce una chiara discriminazione dei suoni. Gli intervalli più consonanti, individuati dalla teoria
tradizionale, per Helmholtz sono dunque tali per ragioni naturali, tesi che non mancherà di trovare
molti detrattori.

I più agguerriti tra questi, al sorgere del XX secolo, sono gli esponenti della cosiddetta seconda scuola
di Vienna – Arnold Schönberg, Alban Berg e Anton Webern – che reputavano pure convenzioni le
regole dell’armonia tonale e fondarono il proprio linguaggio, la dodecafonia (v. Tecniche compositive),
sull’annullamento di ogni gerarchia tra le note fondata sulla maggiore o minore consonanza
intervallare. A ciò corrisponde, paradossalmente, un ritorno della concezione matematica della
musica: l’idea della serie di dodici suoni “non in relazione tra loro” come principio organizzativo della
composizione rimanda alla tradizione pitagorica che abbiamo descritto; le tecniche di permutazione
della serie – ancor più nel serialismo integrale, in cui oltre alle altezze vengono disposti in serie
ordinate anche gli altri parametri del suono (durata, intensità e timbro) – da un lato richiamano la
grande tradizione polifonica e dall’altro possono avvalersi di strumenti di calcolo avanzato, delineando
la figura del musicista-scienziato.

Se questo atteggiamento appare, in una prima fase, più l’apice della concezione romantica dell’arte e
della ricerca del controllo assoluto dell’organizzazione musicale da parte dell’autore, che non
un’autentica riscossa della visione scientifica dei fenomeni musicali, già dopo i primi decenni del
Novecento i progressi nelle tecnologie di registrazione, riproduzione e analisi del suono, uniti alla
nascita e agli sviluppi dell’informatica, hanno nuovamente condotto musica e scienza a trovare punti
di convergenza. Ciò ha alimentato nuove forme di creatività musicale in stretta sinergia con
l’evoluzione del pensiero scientifico, basti pensare alla musica spettrale di autori come Gerard Grisey
– che scaturisce da un’osservazione dello spettrogramma dei suoni – ai calcoli algoritmici e ai
procedimenti stocastici di Iannis Xenakis, alla musica frattale e ad altre forme di interazione tra scienza
e musica mediate dalla tecnologia.

Gli sviluppi tecnologici hanno dato nuovo impulso anche alla ricerca scientifica sui fondamenti della
percezione del suono e dell’esperienza musicale (v. Tecnologie). Sono nate nuove discipline come la
psicoacustica e la neuromusicologia, che studiano i meccanismi cerebrali connessi all’ascolto,
all’esecuzione e alla composizione musicale; i ricercatori hanno solo cominciato a esplorare le reazioni
del cervello umano agli stimoli musicali e ambiscono a spiegare in maniera esaustiva, attraverso uno
studio sistematico delle aree cerebrali coinvolte nell’ascolto e nella produzione di fenomeni musicali
eterogenei, come e perché la musica produca determinati effetti e risposte emotive, valutando anche
le variazioni tra differenti livelli di competenza musicale.

Si pone obiettivi simili la musicologia cognitiva, che si serve tuttavia prevalentemente delle crescenti
potenzialità di calcolo ed elaborazione dei moderni computer per costruire complessi modelli
informatici, in taluni casi vere e proprie Intelligenze Artificiali, capaci di illustrare forme e modalità di
comprensione dell’esperienza musicale.

Nonostante gli sforzi di queste discipline, una razionalizzazione assoluta della musica e delle sue
implicazioni è probabilmente destinata a sfuggire, ma tali studi promettono di alimentare nuovi
dibattiti e di influenzare l’attività creativa dei compositori che verranno.

Musica, medicina, musicoterapia

La “scienza musicale” che abbiamo descritto nel paragrafo precedente, intesa sia come studio della
fisica dei suoni che come parte integrante della pratica compositiva, anche nelle convinzioni estetiche
dei suoi più entusiasti portavoce può paradossalmente convivere con elementi di irrazionalità, come
accade per la mistica del numero dei pitagorici o la persistenza del concetto di Genio nel pensiero di
Arnold Schönberg.

Ciò è tanto più vero nei rapporti tra medicina e musica, in cui la distinzione tra scienza e componenti
rituali, religiose e magico-sciamaniche (v. Musica, mito e religione) risulta spesso difficile, tanto
nell’ambito della cultura occidentale – si pensi al mito di Orfeo, “musicoterapeuta” che ammansisce
le fiere, che si incarna poi come già ricordato negli episodi rituali con protagonisti Pitagora e i suoi
discepoli – quanto in altre culture, dove si registra spesso una convergenza (quando non una
coincidenza) tra dimensione religiosa e musicale nella pratica terapeutica. Per alcuni popoli, come i
Tumbuka del Malawi, musica e medicina sono addirittura concetti espressi da una sola parola, perché
nel contesto sociale esse non posso esistere come pratiche separate e autosufficienti.

Modello dominante in Occidente rimane per secoli la tradizione pitagorica e platonica, fondata su una
teoria speculativa delle proporzioni che si rispecchia sia, come abbiamo visto, nell’organizzazione della
musica, sia nell’equilibrio interno che garantisce la salute fisica e mentale dell’uomo. La teoria dei
quattro umori – bile, atrabile, flegma e sangue – sviluppata da Ippocrate e rimasta in auge sino al
Rinascimento, identifica nello sbilanciamento tra questi elementi la causa delle malattie; la musica,
capace di riequilibrare gli umori con le armonie adatte – che sviluppano cioè una reazione emotiva
uguale e contraria a quella che ha generato lo sbilanciamento – diventa perciò uno strumento tra i più
importanti a disposizione del terapeuta.

Il tramonto di tale concezione avviene nel tardo Rinascimento, in corrispondenza con l’ascesa del
metodo scientifico moderno; pur depurato da implicazioni religiose, lo studio degli effetti terapeutici
della musica non approda però in un primo tempo che a una teoria della simpatia universale, per cui
le vibrazioni dei corpi sonori, attraverso un effetto meccanico regolare, avrebbero ristabilito
l’omotonia delle fibre corporee.
Il primo trattato di musicoterapia, ad opera di Richard Brockiesby, risale alla prima metà del
Settecento, ma solo nella seconda metà del XIX secolo l’attenzione di medici e scienziati si spostò dagli
effetti fisici a quelli psicologici dell’esperienza musicale. Se ancora Hermann von Helmholtz appariva
più interessato allo studio degli aspetti fisiologici dell’ascolto, è nell’opera di Carl Stumpf (m. 1936)
che emerge per la prima volta l’interesse ad analizzare la percezione della musica nella coscienza. La
sua psicologia della musica risente ancora di un’evidente impostazione filosofica, ma muterà
progressivamente di segno, avvicinandosi alla teoria della Gestalt, che considera l’oggetto percepito
un’unità, che solo successivamente può essere suddivisa in parti distinte.

Gli studi di psicologia della musica privilegiano a lungo gli aspetti speculativi all’applicazione pratica.
Le prime ricerche sistematiche sugli effetti terapeutici della musica si sviluppano negli Stati Uniti e in
Gran Bretagna nel primo dopoguerra, con strategie di recupero da sindromi post-traumatiche
sperimentate su reduci dai combattimenti.

Negli anni cinquanta del Novecento tale approccio, più sistematico e scientificamente fondato, si
diffonde in Europa, e si assiste a una proliferazione di metodi musicoterapeutici. Si usa distinguere tali
metodi tra passivi – che si fondano cioè sulla pratica dell’ascolto – e attivi, che richiedono anche il
coinvolgimento dei pazienti nella pratica strumentale, ma tale distinzione non è sempre netta.

Un’altra distinzione possibile riguarda l’approccio individuale o di gruppo o l’utenza di riferimento


(anziani, bambini, disabili ecc.), ma più spesso è opportuno classificare le strategie di musicoterapia in
relazione ai loro obiettivi. In questa luce, la musicoterapia psicodinamica di Rolando Benenzon (n.
1939), Mary Priestley (n. 1925), Edith Lecourt e altri intende sviluppare o mantenere le capacità
cognitive, espressive e di apprendimento, orientamento e coordinamento motorio dei pazienti. I
modelli psicanalitici si interessano soprattutto al recupero del paziente sul piano delle relazioni sociali
mentre la cosiddetta musicoterapia umanistica – metodo Nordoff-Robbins e terapeuti come Leslie
Bunt – si rivolge alle potenzialità creative del paziente, in una visione della musicoterapia come luogo
di intersezione tra scienza e arte.

La situazione, considerato anche il carattere relativamente recente di tali esperienze, è estremamente


dinamica e in costante evoluzione, in relazione alla sempre maggiore consapevolezza della natura dei
legami tra fenomeni musicali e psiche, e porterà ancora a mutamenti anche molto significativi nella
valorizzazione della musica come strumento terapeutico. (AF e CP)

Musica e arti

Ripercorrendo la storia delle arti si osserva una costante tendenza alle intersezioni, alle
sovrapposizioni, alle commistioni tra discipline; il dibattito sul “paragone fra le arti”, sviluppatosi nel
Rinascimento con lo scopo di stabilire la supremazia di una disciplina sull’altra, è del resto alla base
della moderna estetica.

La musica non fa eccezione e ha cercato la convergenza con altre dimensioni estetiche sin dalle origini:
il termine mousiké utilizzato dai Greci esprimeva una sintesi di suono, parola poetica, gesto teatrale e
danza. Nei paragrafi che seguono illustreremo in sintesi presupposti ed esiti dell’incontro fra la musica
e le altre arti, con riferimenti prevalenti alla cultura occidentale.
Osserveremo tali relazioni nella loro natura biunivoca, descrivendo cioè sia in che modo la musica
abbia saputo inserirsi nella teoria e nella pratica di altre dimensioni creative sia come le altre arti
abbiano determinato un’evoluzione nella creazione, realizzazione e fruizione dell’esperienza musicale.

Musica e poesia

La relazione fra musica e poesia è certamente la più solida e intima tra i casi che prenderemo in esame.
In molte culture antiche, come quella greca, le due arti risultano sovrapposte al punto da essere quasi
indistinguibili; sebbene oggi, con poche eccezioni, la musica che accompagnava i componimenti lirici
greci sia andata perduta, la realizzazione dei versi era contestuale alla composizione sonora e l’opera
finale era il risultato di un unico processo creativo. La poesia, cantata e declamata, non poteva esistere
senza la musica e viceversa (v. Musica vocale).

Ciò rimane vero anche nel Medioevo quando, soprattutto grazie all’opera dei trovatori, la relazione
tra le due arti si cristallizza in formule convenzionali e ricorrenti, di cui rimane traccia più evidente
nelle forme poetiche; il termine sonetto, ad esempio, tradisce evidentemente una forte connessione
con la musica. Il latino, lingua colta ereditata dal passato, cede rapidamente il passo alle nuove lingue
nazionali, e il matrimonio di poesia e musica si consuma prevalentemente nella forma generica della
canzone, con una struttura eclettica capace di narrare fatti storici, episodi leggendari e scene di amore
cortese.

Se in un primo tempo la figura del poeta e del musicista ancora coincidono, si assiste a una progressiva
specializzazione dei ruoli, in particolare con gli autori dell’Ars Nova. Tra le forme poetico-musicali
regolate da ricorrenti schemi strofici e caratterizzate dalla prevalenza nobile dell’endecasillabo che si
affermarono in questo periodo – dopo il 1300 – occorre ricordare almeno il madrigale e la ballata, in
cui anche la dimensione della danza dimostra, anche se soltanto in modo stilizzato, di essere ancora
parte del processo creativo.

A queste, a partire dal Quattrocento, si accostarono forme poetico-musicali con tratti più popolari,
sottolineati già dalla preferenza per versi settenari e ottonari, come la villanella, la frottola e lo
strambotto. Ma l’incontro più alto di poesia e musica nel Rinascimento si trova certamente nel
rinnovato madrigale, che si libera dalle convenzioni metriche per approdare a una forma più libera,
adatta a un’elaborazione musicale sempre più sofisticata e meno dipendente dal ritmo del verso.

Il progressivo allentamento dei vincoli tra forma poetica e struttura musicale, con una marcata
prevalenza della seconda sulla prima, sarà contrastato da diversi tentativi di ritrovare l’aderenza tra
testo e resa sonora, nel desiderio di non compromettere l’intelligibilità della parola poetica. Uno di
questi tentativi coincide, nel Seicento, con la nascita dell’opera in musica, fondata sull’idea del “recitar
cantando”, ossia di restituire il primato al verso, chiamando la musica a esaltarne valore e significato.
L’aria diventa la forma poetica di riferimento, caratterizzata prima in prevalenza da una struttura
elementare, con la ripetizione variata della medesima strofa, e poi da forme più elaborate, come la
cosiddetta aria con da capo, in forma ABA (v. Principi formali), con l’ultima strofa spesso variata.

Ancora una volta, però, le esigenze di cantanti e musicisti reclamano forme meno stringenti e infatti
nel melodramma si assiste alla progressiva scomparsa della distinzione tra aria e recitativo e alla
prevalente sottomissione del testo poetico al discorso musicale.
Si oppone a questa tendenza, seppure in modo del tutto personale, l’opera di Richard Wagner, che
tanto negli scritti teorici quanto nei drammi musicali espresse la necessità di recuperare la perduta
unità di poesia e musica; scelta che non si traduce nel ritorno a forme poetico-musicali fisse, ma nella
ritrovata sovrapposizione tra poeta e compositore nella figura dello stesso Wagner, autore dei propri
libretti e perciò artefice di un solo, organico processo creativo.

Con questa pur importante eccezione, e nonostante alcuni occasionali recuperi di forme del passato,
poesia e musica dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri entrano in relazione a partire da presupposti
estetici ormai differenti e chiaramente distinti. Casi di relazione biunivoca, assimilabili agli esempi
della tradizione più antica, si possono semmai ritrovare nella canzone popolare d’autore, in cui è
possibile osservare sia il ricorso a forme poetiche convenzionali come la ballata o il sonetto sia
l’elaborazione contemporanea del discorso poetico e musicale ad opera di un solo soggetto, il
cantautore.

Musica e letteratura

Prendere in esame le intersezioni tra musica e letteratura significa farsi strada in un mondo
incredibilmente vasto e complesso, quello del rapporto tra musica e linguaggio, e che comprende
l’infinitamente piccolo – le relazioni tra parole e suoni – e l’infinitamente grande, per esempio le
funzioni della musica all’interno di un’opera, del linguaggio di un autore o di uno stile letterario.

Per offrire alcuni criteri di orientamento in questo affollato panorama, evidenziamo le principali
categorie di relazione tra le due sfere artistiche:

1) Letteratura nella musica: in questa categoria rientrano tutte le forme musicali che direttamente o
indirettamente si ispirano alla letteratura e alle sue procedure narrative. L’esempio più calzante è
quello della musica a programma, che comprende tutti i brani orientati da un riferimento
extramusicale. Nell’Ottocento, in particolare a partire dalla Sinfonia fantastica di Hector Berlioz, il
riferimento è spesso di matrice letteraria, come accade nei poemi sinfonici di Franz Liszt. La musica a
programma può attingere alla letteratura evocandone genericamente le suggestioni o ricalcandone
più da vicino i principi organizzativi, ad esempio “personalizzando” i temi e dando vita a forme di
interazione drammatica.

2) Musica e letteratura: si tratta dello spazio in cui musica e letteratura si sovrappongono, ossia
l’immenso repertorio della musica vocale. Più frequentemente è la musica che si adatta a un testo
preesistente, cercando di portarne alla luce l’espressività intrinseca, ma anche valorizzando il
potenziale fonico del linguaggio verbale. Nel caso dei libretti d’opera, tuttavia, musica e letteratura
sviluppano spesso forme di interdipendenza, sia che a collaborare siano compositore e librettista, sia
che queste due figure coincidano in un solo autore. In quest’ultimo caso, come accade ad esempio
nell’opera di Richard Wagner, si sviluppa una “polifonia delle idee” che si esprime in un contrappunto
creativo tra figure narrative e forme musicali.

3) Musica nella letteratura: comprende tutte le forme in cui la letteratura si appropria di elementi
caratteristici dell’espressività musicale. Un primo livello è costituito da testi che esplorano il linguaggio
verbale per la sua potenziale musicalità. A un secondo livello troviamo casi di testi che imitano le forme
musicali; ciò accade per esempio durante il Romanticismo, con esperimenti letterari mirati a
riprodurre la forma sonata o altre strutture consolidate del linguaggio musicale dell’epoca, nella
convinzione che la letteratura dovesse avvicinarsi alla musica per attingere al senso profondo delle
cose. Infine, fanno parte di questa categoria tutti i casi in cui la letteratura fa direttamente riferimento
alla musica, al suo ascolto e alla sua esecuzione, trasformandola in immagine letteraria con valore
metaforico. Esemplari in questa prospettiva i volumi della Recherche proustiana, in cui il “suono di
carta” dell’immaginaria sonata di Vinteuil diventa per i protagonisti del romanzo tema ricorrente e
momento rivelatore. In quest’ultima tipologia, la letteratura si serve delle qualità formali ed astratte
della musica, adattandole alle proprie esigenze espressive.

Musica e teatro

Musica e teatro condividono la medesima origine storica e geografica: la Grecia classica. Le reali forme
di interazione e rispondenza tra stesura del testo drammatico e composizione musicale sono oggi
impossibili da valutare, a causa della perdita completa delle musiche che animavano le
rappresentazioni teatrali, tuttavia le fonti chiariscono che la musica aveva un ruolo centrale nello
svolgimento drammaturgico e che anzi proprio da una forma poetico-musicale di carattere religioso –
il ditirambo – aveva preso origine la tragedia.

Un analogo processo di derivazione dalla pratica musicale a quella teatrale si osserva nel Medioevo
europeo, con la nascita del teatro sacro: dal canto liturgico dell’antifona, che alterna la proposta del
celebrante e la risposta del coro, si svilupperanno forme sempre più articolate di drammi liturgici,
rappresentati sui sagrati delle chiese in diverse forme di teatro musicale, come la lauda drammatica.

Nel Rinascimento, la fioritura della produzione teatrale profana in tutta Europa non comporta una
svalutazione della componente musicale. Canzoni ed interventi strumentali sono quasi sempre
presenti nelle rappresentazioni, secondo alcune tipologie fondamentali:

1) Musica interna alla rappresentazione: i personaggi sulla scena eseguono musica, utilizzando la
propria voce o strumenti musicali. Ciò serve a volte a potenziare le suggestioni espressive del testo.

2) Musica di scena: performance musicali, solitamente strumentali, accompagnano “realisticamente”


scene come banchetti, cerimonie, processioni, ecc.

3) Musica di commento: interventi vocali o strumentali “fuori campo” vengono introdotti per
rafforzare l’effetto drammatico di alcune scene.

Le musiche utilizzate prevalentemente nel teatro di prosa erano di repertorio e molto conosciute al
pubblico, includendo solo raramente composizioni originali.

La situazione muta con la nascita del melodramma, capostipite delle forme del teatro musicale (v.
musica scenica). Ideale recupero delle pratiche artistiche della Grecia classica, il melodramma è un
modello di teatro fondato sul “recitar cantando”, in cui la musica di nuova composizione è sì
originariamente al servizio del testo, ma permea di sé l’intera rappresentazione.

Già nel corso del XVII secolo la dimensione musicale prende il sopravvento su quella verbale, le arie –
che esprimono l’interiorità dei personaggi sulla scena e sono caratterizzate da un superiore
virtuosismo di scrittura ed esecutivo – rubano spazio ai recitativi, perni ideali della narrazione
drammaturgica. Non si tratta tuttavia di una tendenza irreversibile e univoca: attorno al melodramma
fioriscono molti dibattiti e si sperimentano diverse soluzioni cercando un bilanciamento tra
dimensione musicale e teatrale. Un caso esemplare è la cosiddetta riforma di Gluck (1714-1787) e
Calzabigi (1714-1795), tentativo di porre un freno alle richieste dei cantanti con un rinnovato accento
posto sulla coerenza drammatica e un uso più funzionale del coro e dell’orchestra.

La fortuna del teatro musicale ebbe ripercussioni anche sulla pratica della musica strumentale, con
una teatralizzazione del gesto esecutivo caratteristica di virtuosi come Liszt e Paganini e la nascita del
concerto, forma teatralizzata di presentazione dei brani strumentali.

È impossibile riassumere qui la proliferazione dei generi di teatro musicale dal Settecento in poi. Si
possono tuttavia osservare due tendenze principali: se l’opera lirica nelle sue diverse forme tende a
una sempre maggiore integrazione tra elementi teatrali e musicali – ad esempio nell’opera di Richard
Wagner, che ha per obiettivo principale la coerenza della struttura drammaturgica – nell’operetta ed
in altri generi di derivazione popolare – come, nel Novecento, il musical – rimane per lo più netta la
distinzione tra teatro della parola ed interventi musicali.

L’evoluzione del melodramma riflette spesso quella del teatro di prosa, grazie anche a collaborazioni
tra esponenti delle due forme d’arte – come quella tra il drammaturgo Bertolt Brecht (1898-1956) ed
il compositore Kurt Weill (1900-1950) – nutrendosi anche degli esiti più sperimentali del linguaggio
teatrale (l’opera Le Grand Macabre (1977) di Ligeti, ad esempio, è un vero e proprio “melodramma
dell’assurdo” che riflette le innovazioni di Samuel Beckett). Sia nel teatro di prosa che nell’opera lirica
si impone peraltro la figura del regista, che entra direttamente nel processo creativo moltiplicando le
soluzioni artistiche e le occasioni di scambio tra dimensione teatrale e musicale, sia per quanto
riguarda gli allestimenti di opere già esistenti sia nella realizzazione di lavori originali.

Le sperimentazioni delle avanguardie del XX secolo produssero inoltre forme artistiche ibride, in cui
l’esecuzione musicale si nutre di gesti teatrali ed è difficile stabilire linee di demarcazione chiare tra i
generi; si tratta di nuove tipologie di arte performativa in cui suono, parola e movimento ridiscutono
costantemente i propri equilibri. Tali forme risultano al centro della ricerca del teatro musicale
contemporaneo, nel quadro di una più generale tendenza alla sperimentazione di convergenze tra le
discipline artistiche.

Musica e danza

Il legame tra musica e danza è forse ancor più stretto di quello tra musica e teatro: fatte salve rare
eccezioni, non esistono forme di danza che si sviluppano in assenza di musica.

Le origini delle relazioni tra danza e musica, non solo nella cultura europea, affondano le radici in
contesti rituali e magico-religiosi (v. Musica, mito e religione). Con il teatro, le due arti costituiscono i
pilastri della tragedia classica, anche se in seguito la danza faticherà a imporsi come disciplina
autonoma, restando a lungo vincolata a occasioni cerimoniali o confinata al ruolo di appendice di
rappresentazioni teatrali con accompagnamento musicale. Come elemento caratteristico di numerosi
momenti della vita sociale, a partire dal Rinascimento la danza costituì un riferimento costante della
musica strumentale profana: elementi ritmici, melodici e armonici della danza, opportunamente
stilizzati, divennero il fondamento di composizioni anche molto complesse, basti ricordare il
cosiddetto basso di follia, derivato da una danza portoghese ed entrato nel vocabolario di molti
compositori del Cinquecento e del Seicento.

Questa tendenza rimarrà viva a lungo – i movimenti delle suite strumentali di Bach, ad esempio,
presentano titoli di danza e ne stilizzano le movenze – ma si assiste progressivamente
all’emancipazione della danza dalle rappresentazioni teatrali, processo che nell’Ottocento porterà alla
nascita del balletto. Si tratta di un genere artistico autonomo, in cui musica e danza collaborano a
sviluppare una narrazione drammatica senza interventi verbali; nel periodo romantico, gli esiti più
significativi scaturiscono dalla collaborazione del coreografo Marius Petipa (1810-1910) con il
compositore Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840-1893), che produsse i balletti Il lago dei cigni, La bella
addormentata e Lo schiaccianoci.

Nel XX secolo la danza subisce una profonda evoluzione e accanto a forme di innovazione della danza
classica – è il caso dei Balletti Russi di inizio secolo, che non a caso si avvalgono tra l’altro della musica
“rivoluzionaria” di Igor Stravinskij (1882-1971) – si registrano i primi esempi di danza contemporanea,
che producono nuove forme di interazione con la musica, meno vincolate a schemi formali predefiniti
e più in sintonia con il movimento del corpo dei danzatori.

Danza e musica evolvono parallelamente, assecondando le collaborazioni sempre più strette tra
coreografi e compositori, come quella tra Merce Cunningham (1919-2009) e John Cage (1912-1992);
musica e movimenti di danza non nascono più in momenti separati, ma si dipartono da un processo
creativo comune, in cui si registra anche la presenza di elementi caratteristici delle rappresentazioni
teatrali, come nel teatro-danza di Pina Bausch (1940-2009). La nuova modalità di interazione non
produce solo spettacoli autonomi, ma anche performance e happening cui partecipano artisti
specializzati in diverse discipline.

Nel Novecento si registra anche l’appropriazione, nella musica strumentale, di elementi melodici,
armonici e ritmici caratteristici di danze appartenenti alla tradizione extra-europea, come accaduto
nel caso del tango.

Musica e architettura

I rapporti tra musica e architettura si misurano principalmente sul piano delle proporzioni
matematiche, che costituiscono un elemento fondante di entrambe le discipline. La concezione
geometrico-matematica dei fenomeni musicali, dominante nel pensiero classico e medievale (v.
Musica e filosofia), favorì le convergenze tra musica e architettura, sebbene quest’ultima fosse
classificata tra le arti manuali, mentre la musica, in quanto speculazione sugli intervalli tra i suoni (v.
Intervallo), risultava annoverata tra le arti liberali.

Se non si può certo parlare di una collaborazione diretta tra musicisti e architetti, si osservano tuttavia
numerose corrispondenze tra le due arti: la monodia gregoriana risuona nelle spoglie basiliche
cristiane, mentre le consonanze verticali della prima polifonia si ascoltano nelle slanciate cattedrali
gotiche (v. Monodia e polifonia); l’impiego diffuso del concetto di sezione aurea e dei rapporti ordinati
da piccoli numeri interi nel Rinascimento si ritrova egualmente negli edifici progettati da Leon Battista
Alberti (1404-1472) e nei mottetti di Guillaume Dufay (1397-1494). Tra i casi di parallelismo tra le
discipline, quello probabilmente più noto e discusso riguarda il mottetto Nuper rosarum flores di
Dufay, scritto in occasione della consacrazione della chiesa di Santa Maria del Fiore, in cui alcuni
elementi strutturali riproducono le proporzioni della cupola ideata da Brunelleschi.

Tali rapporti non devono tuttavia essere considerati in maniera troppo meccanica, non solo perché un
brano musicale si presta a interpretazioni matematiche differenti e quindi è forte il rischio di incorrere
in forzature analitiche, ma anche e soprattutto perché i rapporti tra musica e architettura vanno
inquadrati all’interno di una retorica delle arti ricca ed articolata. L’esame di scritti dedicati a musica
e architettura di epoca rinascimentale e del periodo successivo, fino alla Architecture Harmonique di
René Ouvrard del 1679, fanno intravedere la rete complessa di rimandi e simboli che informa la visione
neopitagorica delle due arti, ben al di là dei semplicistici parallelismi tra le proporzioni.

Il definitivo tramonto della concezione pitagorica della musica nel corso del Settecento condusse a
una progressiva perdita di interesse nei confronti degli studi comparati tra le due discipline. La
diffusione popolare della musica, con il melodramma prima e la fortunata stagione della musica
sinfonica poi, aprirono tuttavia un nuovo terreno di confronto: la progettazione di nuovi spazi adeguati
al “consumo” delle esibizioni musicali. Teatri, sale da concerto, auditorium: gli architetti, progettando
gli spazi della musica, approfondiscono le proprie conoscenze fisiche ed acustiche, pensano e
realizzano nuove soluzioni ingegneristiche, sono portati a evolvere il proprio stile, sia costruendo
edifici nuovi che recuperando alla musica non-luoghi originariamente adibiti ad altre funzioni. Un
processo creativo biunivoco – nei secoli anche i musicisti svilupperanno una particolare attenzione per
gli spazi in cui hanno luogo le performance, giungendo in taluni casi a modellare le proprie
composizioni sul luogo di esecuzione – che è ancora particolarmente vitale ai giorni nostri, basti
pensare in Italia all’Auditorium Parco della Musica di Roma opera di Renzo Piano (n. 1937) o al recente
nuovo Teatro del Maggio Musicale Fiorentino.

Nel XX secolo, peraltro, il recupero di una concezione matematica dello spazio sonoro in opposizione
all’estetica del Romanticismo ha prodotto nuove forme di interazione tra composizione musicale e
architettura, che culminano nell’opera di Iannis Xenakis (1922-2001), che nella sua biografia fonde
l’esperienza di architetto con Le Corbusier (1887-1965) e quella di compositore. La maggior parte dei
suoi lavori è contraddistinta da architetture sonore complesse, frutto di calcoli matematici che
integrano proporzioni geometriche, processi stocastici e modulazione degli spazi sonori, e da una
visione estetica per cui musica e architettura si esprimono sì attraverso strumenti tecnici diversi, ma
attingono al medesimo serbatoio di principi razionali. Un recupero in veste contemporanea dell’antico
credo pitagorico che, anche grazie agli sviluppi dell’informatica, ha disegnato e sta disegnando ancora
oggi nuovi spazi di convergenza tra architettura e creatività musicale.

Musica e pittura

Rispetto alla poesia, al teatro, alla danza e anche all’architettura e alla letteratura, la pittura intrattiene
apparentemente con la musica rapporti meno stretti, perché si fonda a lungo su presupposti differenti
ed in particolare sul concetto di imitazione del reale che alla musica è in gran parte precluso per il suo
carattere astratto che l’avvicina, semmai, come abbiamo visto, alla speculazione matematica; inoltre,
se la musica è un’arte che si sviluppa prevalentemente nel tempo, la pittura occupa in primo luogo lo
spazio, rendendo più difficile la ricerca di una comune dimensione di esistenza.

La rappresentazione pittorica di strumenti e performance musicali può essere una fonte utile per gli
studiosi di organologia e prassi musicale, ma difficilmente si può considerare una forma di relazione
creativa tra le arti; analogamente, i casi di opere musicali ispirate a lavori pittorici – si pensi al noto
ciclo dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij (1839-1881) – mirano più a una descrizione sonora del
soggetto rappresentato che non a emulare tecniche e presupposti estetici dei modelli di riferimento.

A partire dal Settecento, tuttavia, si registrano i primi tentativi di convergenza tra le due arti, in
particolare con la teorizzazione delle possibili corrispondenze tra suoni e colori. L’idea di fondere
processo visivo e uditivo portò alla costruzione di curiosi strumenti, a cominciare dal clavicembalo
oculare di Louis-Bertrand Castel (1688-1757), capace di mostrare colori diversi a ogni tasto premuto,
progettato allo scopo di far vedere la musica ai sordi e far ascoltare i colori ai ciechi. Strumenti simili
ma più perfezionati – sorta di organi a colori – vennero brevettati oltre un secolo più tardi da
Bainbridge Bishop (1837-1905) e Wallace Rimington (1854-1918).

Al di là di questi esperimenti dalla breve fortuna, tensione alla sinestesia e convergenza tra musica e
pittura trovano una manifestazione più compiuta nell’opera di Aleksandr Skrjabin (1872-1915) e in
particolare nel suo poema sinfonico Prometeo, che include nella partitura un pentagramma per
indicazioni luminose che osservano precise corrispondenze tra suoni e colori. Nessuno strumento
dell’epoca fu tuttavia in grado soddisfare le esigenze del compositore: la sintonia tra visione e ascolto
non poteva essere raggiunta attraverso la fusione tra musica e pittura – troppo dinamica la prima e
troppo statica la seconda – ma avrebbe chiamato in causa una nuova arte, il cinema.

Negli stessi anni, però, musica e pittura trovavano una forma di convergenza completamente opposta
nelle opere pittoriche e nella riflessione teorica di Vasilij Kandinskij (1866-1944). Il progetto estetico
dell’artista russo portò al superamento della staticità spaziale del quadro attraverso la temporalità dei
suoni; le immagini organizzate lasciano quindi il posto al segno astratto e al colore puro, forme
pittoriche informali che provano ad appropriarsi delle strutture in movimento che caratterizzano i
fenomeni musicali. Non solo le tele di Kandinskij portano titoli musicali come improvvisazione o
composizione, ma ai principi della composizione musicale si legano direttamente, producendo
peculiari effetti sinestetici.

Obiettivo di Kandinskij, così come di Skrjabin, era costruire un’opera d’arte totale sul modello
vagheggiato da Richard Wagner di una confluenza di tutte le discipline artistiche. Con lo stesso
obiettivo, seppure in una cornice estetica diversa, pittura e musica interagirono nelle pratiche
artistiche delle avanguardie e in particolare negli happening; una convergenza multimediale tra le
discipline che è uno dei tratti caratteristici dell’arte del XX secolo, ancora oggi in piena evoluzione.

Musica, cinema e videoarte

L’invenzione del cinema ha consentito alla musica di accostarsi alla dimensione visiva superando
l’empasse della staticità delle opere pittoriche. Il movimento delle immagini caratteristico del nuovo
medium cinematografico chiamò in causa la musica ancor prima dell’intervento del sonoro: i film muti
erano spesso accompagnati da musica eseguita dal vivo, preziosa nello scandire le sequenze proiettate
sullo schermo. Proprio la dimensione della temporalità ha costituito e costituisce il terreno di incontro
privilegiato tra le due arti; sono prevalentemente le sincronie e le a-sincronie tra suono e immagine a
costruire gli orizzonti di senso dell’opera multimediale.

Con l’introduzione del sonoro, la musica diviene un elemento fondamentale della produzione
cinematografica. Essa può essere interna alla scena – prodotta cioè da una sorgente collocata nel
luogo e nel tempo dell’azione – o esterna, di solito con funzione di commento. Non mancano i casi
ibridi, in cui elementi musicali migrano, variati o invariati, dall’interno all’esterno o viceversa, come
quando una melodia del pianoforte in scena viene ripresa da un’orchestra fuori campo.

Un’altra importante distinzione riguarda il tipo di musica impiegata nei film, la cosiddetta colonna
sonora, che può essere interamente composta per l’occasione, totalmente composta da brani di
repertorio o mescolare le due soluzioni. La musica originale per film ha spesso fatto tesoro
dell’esperienza del teatro musicale, recuperando ad esempio la tecnica dei motivi conduttori che
caratterizzava l’opera wagneriana; non si possono tuttavia sintetizzare gli approcci dei compositori al
mezzo filmico, perché questi variano moltissimo sia per linguaggio – dalla pura avanguardia al
recupero di elementi di stili preesistenti (nel caso del cinema hollywoodiano, prevalentemente il
repertorio sinfonico tardoromantico) – sia per funzione, a volte provando ad assecondare la tensione
narrativa delle immagine ed altre tendendo alla pura astrazione.

Ruolo di mediazione fondamentale tra musica e video è svolto dal regista, che lavora più o meno
strettamente a fianco del compositore per definire il materiale musicale da impiegare e stabilisce, con
il montaggio, punti di convergenza e di allontanamento tra il decorso temporale delle immagini e
quello dei suoni, con effetti creativi molto eterogenei. Nei casi di maggiore collaborazione tra i due
media, musica e video dischiudono un universo metaforico comune e si alimentano dei rispettivi
procedimenti narrativi, come accade in sequenze di immagini che imitano forme musicali o in musiche
che riproducono effetti di movimento dell’immagine.

Le interazioni tra video e musica non si limitano al cinema: nelle installazioni della videoarte la musica
è spesso presente come elemento qualificante. In questo caso, l’opera d’arte multimediale prevede
solitamente forme particolari di diffusione del suono, che consentano un’immersione totale dello
spettatore e un movimento spaziale anche degli elementi musicali.

Non sempre, come nel cinema, il video precede la musica; nella videoarte devono infatti essere inclusi
anche i video musicali o videoclip, brevi filmati realizzati a partire da un brano preesistente sviluppatisi
nell’ambito della popular music a partire dagli anni sessanta del Novecento. Nati originariamente
come accompagnamento visivo didascalico alle canzoni, negli anni ottanta i videoclip, anche grazie alla
diffusione su canali televisivi dedicati come MTV, si sono sviluppati come genere artistico autonomo,
coinvolgendo registi e videoartisti di fama. Se in molti casi la natura commerciale del prodotto ha
favorito la sua standardizzazione – ne è un esempio la scontata analogia tra sequenze video e
sequenze formali della canzone di riferimento – non sono mancate opere innovative, che hanno
presentato forme inedite di adattamento tra musica e immagine, disegnando forme nuove di
temporalità audiovisiva non riconducibili alla pratica cinematografica. (AF)

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