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Immagini dell’Inquisizione

spagnola in Italia

Stefania Pastore
Scuola Normale Superiore di Pisa

1. Una guerra di bolle

Le prime immagini dell’inquisizione spagnola arrivarono a Roma quasi subito, sull’onda del-
lo sconcerto e della paura e delle numerose proteste sollevate. Nei primi contestati anni di vita
dell’Inquisizione spagnola, in un impressionante andirivieni di conferme e condanne della prima
bolla di fondazione della nuova Inquisizione, trovarono voce nell’elegante e un po’ freddo latino di
cancelleria: il ritratto in negativo del nuovo tribunale ebbe una prima formalizzazione nella bolla
del gennaio 1482, a neanche un anno dall’avvio del nuovo tribunale a Siviglia. Con un brusco passo
indietro Sisto IV spiegava che, di fronte a un desiderio comune, quello dell’estirpazione dell’eresia
giudaizzante, si era accondisceso a una richiesta che aveva portato a esiti inaccettabili: inaccettabili
erano stati i procedimenti dei primi inquisitori sivigliani, Juan de San Martín e Miguel de Morrillo
che in modo inconsulto e al di là di ogni forma di diritto, avevano incarcerato, torturato, privato
dei beni e bruciato un gran numero di innocenti1. Ma del tutto inammissibile, anzi dichiaratamente
contro il diritto canonico e i sacri canoni della Chiesa era la bolla del 1478, strappata con confuse e
generiche dichiarazioni di intenti regolarmente non rispettate2. Pochi mesi più tardi in un’altra bolla
mostrava di avere ben chiaro i punti più controversi del tribunale, imponendo di rendere pubblici i
nomi di accusatori e testimoni, di assegnare a ogni accusato un tempo adeguato per poter replicare
ai testimoni contrari concedendogli un avvocato d’ufficio, di lasciare aperta la possibilità di appello
alla Sede Apostolica, impugnando la sentenza spagnola, perfezionando più tardi quella che riuscirà
a imporsi come una vera e propria risposta romana al nuovo Tribunale, la Penitenzieria.
1
«Quo factum est, ut multiplices querele et lamentationes facte fuerint, tam contra Nos, quam contra Maiestates
Vestras et contra dilectos filios, Michaelen de Morillo, magistrum, et Iohannem de Sancto Martino, baccalarium in Theo-
logia […] Pro eo quod, ut asseritur, inconsulte et nullo iuris ordine servato procedentes, multos iniuste carceraverint,
duris tormentis subiecerint et hereticos iniuste declaraverint ac bonis spoliaverint, qui ultimo supplicio affecti fuere».
Bolla Numquam dubitavimus del 29 gennaio 1482, pubblicata in Bulario de la Inquisición española, a cura di G. Martínez
Díez, Madrid, 1998, pp. 88-90, p. 88.
2
«Nosque tunc pari desiderio [quello di indurre i giudaizzanti a seguire la Christi fidem] et fidei zelo litteras super
huiusmodi deputatione fieri iussimus, opera tamen eius, qui tunc litterarum earundem expeditionem nomine vestro soli-
citabat, evenit ut ipsarum tenore non plene et specifice, ut decebat, sed in genere et confuse Nobis ab eo exposite littere,
ipse contra Sanctorum Patrum et predecessorum nostrorum decreta ac commune observantiam expedite sint». Ibidem.

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Fu però attraverso la descrizione del primo nunzio permanente in Castiglia de Prats che la
struttura messa in piedi dai Re Cattolici apparve in tutta la sua sconcertante complessità: l’avvio
dei singoli tribunali di distretto garantiva alla Corona una forte possibilità di controllo centrale,
rinnovata autorità e consistenti entrate che si favoleggiava avessero in pochi anni rimpinguato
le casse regie, stremate dalla conquista di Granada. Non c’erano solo confische, pene pecuniarie
e commutazioni, ma un ulteriore fronte di entrate era stato aperto attraverso perdoni e riabili-
tazioni – canali tradizionalmente legati alla sede apostolica e alle suppliche di penitenzieria. Se-
condo de Prats i Re Cattolici avrebbero previsto dalla campagna di riabilitazioni portate avanti
tra la fine del 1495 e il 1497 diversi milioni di ducati, attraverso cui riorganizzare le finanze
della nuova istituzione.
Forse fu anche questo a spingere, alcuni mesi più tardi, lo spagnolo Alessandro VI a
pensare a una propria Inquisizione, organizzando per la prima volta in territorio pontifi-
cio un’Inquisizione ‘more hispanico’. Fu un episodio isolato, unico nella storia italiana, ma
significativo, che vide moduli e ritualità spagnole accolte e fatte proprie: proclamazione di
un editto di grazia e solenne auto de fe in cui duecentotrentatrè confessi giudaizzanti abiu-
rarono in un grande palco costruito sotto la basilica di san Pietro. I giudaizzanti, quasi tutti
di origine spagnola, sfilarono in processione con una candela in mano fino alla chiesa della
Minerva dove gli abiti di penitenza –gialli con una croce rossa esattamente come i sambenitos
spagnoli– vennero appesi. Non ci furono roghi a sancire la punizione dei giudaizzanti fuggiti
a Roma e i conversos riaccusati di giudaismo dall’effimera inquisizione di Alessandro VI
–formalmente relapsi e condannabili quindi alla pena capitale– scontarono attraverso pene
pecuniarie la riapertura dei processi3.

2. Vescovi e Inquisizione

In curia si iniziò ben presto a conoscere l’Inquisizione spagnola attraverso singole storie
personali, spesso anche attraverso i racconti diretti di colleghi in fuga: vescovi ed ecclesiastici
accusati scelsero la via di Roma ogniqualvolta le circostanze la rendevano possibile, giungendo
in Vaticano in cerca di protezione. La giurisdizione inquisitoriale non poteva raggiungerli se
non con una speciale autorizzazione papale e, anche in quel caso, una commissione apposita
doveva analizzare i documenti d’accusa inviati dalla Spagna. Fu una questione particolarmente
delicata nei rapporti tra Roma e Madrid4, un punto molle nella inattaccabile struttura messa
in piedi dai Re Cattolici, che nasceva paradossalmente dalla stessa forza dell’Inquisizione spa-

3
La vicenda è stata ricostruita da A. Foa, “Un vescovo marrano: il processo a Pedro de Aranda (Roma 1498)”, Qua-
derni storici, 99, 1998, pp. 533-551. Per un inquadramento dell’episodio all’interno delle lotte giurisdizionali tra Spagna
e Roma, cui rimando anche per le pagine precedenti cfr. S. Pastore, Il vangelo e la spada. L’Inquisizione di Castiglia e i suoi
critici (1460-1598), Roma, 2003, pp. 65-85.
4
Me ne sono occupata in S. Pastore, Roma, il Concilio di Trento, la nuova Inquisizione: alcune considerazioni sui
rapporti tra vescovi e inquisitori nella Spagna del Cinquecento, in L’Inquisizione e gli storici: un cantiere aperto. Atti dei
Convegni Lincei, Romq, 24-25 giugno 1999, Roma, 2000, pp. 109-146 e più in generale in Ead., Il vangelo e la spada, pp.
157-166, pp. 349-404, 453-469 e passim. Ma si veda ora l’importante messa a punto di E. Bonora, Giudicare i vescovi.
La definizione dei poteri nella Chiesa post-tridentina, Roma, 2007.

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gnola, il suo carattere ibrido, una giurisdizione mista che si era voluta ancora parzialmente
dipendente da Roma5.
Il primo caso controverso fu quello del potente vescovo di Segovia Juan Arias Dávila. Figlio
di uno dei più importanti personaggi del Quattrocento castigliano, il tesoriere maggiore di Gio-
vanni II e di Enrico IV Pedro Arias Dávila, il suo processo e quello alla memoria dei genitori
sarebbero stata una delle tante prova di forza con cui i Re Cattolici eliminarono poco a poco ser-
vitori scomodi facendo posto alla nuova classe inquisitoriale in ascesa, se l’abilità e le competenze
del vescovo di Segovia non avessero saputo trasformarlo, sfruttando la controversia con Roma,
in un processo all’Inquisizione spagnola stessa6. Protonotario ecclesiastico Dávila godeva infatti
di forti appoggi in curia, non ultimo di quello del potente cardinale Rodrigo Borja. La risposta
da parte romana fu pressochè immediata: il 25 settembre 1487 la cancelleria di Innocenzo VIII
redasse un breve in cui invitava Torquemada a comunicare a Roma eventuali accuse raccolte
contro prelati, ricordando la competenza esclusiva papale nei casi di processi a vescovi o prelati
di maggior grado7. Arias Dávila tentò prima di contrastare l’offensiva inquisitoriale dal proprio
palazzo vescovile, ricusando gli inquisitori che avevano iniziato il processo e lo stesso inquisitore
generale Torquemada, e pretendendo che fossero dei giudici nominati da Roma a prendere in
mano il processo8. “Poi di fronte” alla risolutezza dei Re Cattolici, per nulla disposti a delegare
un processo chiave nell’ambito degli equilibri di potere castigliani, da cui il fisco reale avrebbe
guadagnato, secondo un memoriale presentato dallo stesso Arias Dávila, una cifra che si aggirava
attorno ai 300.000 ducati9 e alla minaccia sempre più concreta che il processo si allargasse alla sua
stessa persona, decise la fuga. Nel 1490, dopo aver tentato di corrompere e far ritrattare alcuni te-
stimoni, lasciò la Spagna, non prima di aver dissotterato le ossa dei propri genitori per cercare di
salvarle dal fuoco dell’Inquisizione e per nascondere “con tutta probabilità” una sepoltura secon-
do il rito ebraico. A Roma i ducati sottratti alle confische dovettero essere in altro modo utilizzati:
il processo si chiuse con una rapida assoluzione del vescovo e dei genitori dalle accuse di giudai-

5
La definizione era di Tomás y Valiente, in un articolo ancora insuperato F. Tomás y Valiente, Relaciones de la
Inquisición con el aparato institucional del estado, in La Inquisición española. Nueva Visión, nuevos horizontes, a cura di J.
Pérez Villanueva, Madrid, 1980, pp. 41-65.
6
I documenti rimasti sul processo a Juan Árias Dávila e alla sua famiglia sono stati pubblicati in Fontes Iudaeorum
Regni Castellae, III: El proceso inquisitorial contra los Arias Dávila segovianos: un enfrentamiento social entre judíos y con-
versos, ed. C. Carrete Parrondo, Salamanca, 1986. Sugli Arias Dávila rimando alle pagine di Una élite de poder en la corte
de los Reyes Católicos. Los judeoconversos, Madrid, 1993, pp. 101-172 e al nutrito profilo biografico “Arias Dávila Juan”,
redatto da T. de Azcona per il DHEE, Suplemento, Madrid, 1987, pp. 64-67. Non mi pare apporti dati nuovi la mono-
grafia, comunque utile, di D. Gitlitz, Los Arias Dávila de Segovia entre la Sinagoga y la Iglesia, San Francisco, 1996. Cfr.
ora anche gli articoli raccolti in Arias Dávila: obispos y mecenas. Segovia en el siglo XV, Salamanca, 1998.
7
Il breve è pubblicato in in Bulario de la Inquisición española, p. 208.
8
Ma la forte pressione contro l’Inquisizione esercitata contemporaneamente anche in curia da Dávila e da altri
conversos è attestata dall’intensa attività degli agenti di Ferdinando a Roma e da una lettera preoccupata dei Sovrani del
15 dicembre 1488. Cfr. T. de Azcona, Isabel la Católica. Estudio crítico de su vida y su reinado, Madrid, 1964, p. 410 e Id.,
La elección y reforma de los Reyes Católicos, Madrid, 1960, p. 222.
9
Cfr. Azcona, Isabel, pp. 417-418. Isabella rispose sempre alle ovvie accuse di avidità che l’incameramento dei beni
della famiglia Arias Dávila non era stato il fine che l’aveva spinta a continuare il processo. Ma che anzi più volte nelle
discussioni che aveva avuto con il vescovo di Segovia si era detta disposta a rinunciare alla confisca dei beni di famiglia.
Cfr. Ivi, p. 418, n.130.

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smo10. L’offensiva portata avanti da Dávila non si limitò però a vanificare il processo intessuto
contro la propria famiglia, ma rimise violentemente in discussione il fragile equilibrio costruito
sulle iniziali concessioni di Innocenzo a Torquemada, spingendo il pontefice a riprendere quanto
più controllo possibile sul Tribunale della fede spagnolo e sulle cause da esso aperte11. Il vescovo
di Segovia aveva infatti composto diversi memoriali e un libello contro l’Inquisizione spagnola e
la politica religiosa dei Re Cattolici, che incontrarono ampia circolazione e consenso all’interno
della curia romana e, pare, presso lo stesso Pontefice. Ebbe gioco facile nel dimostrare il carat-
tere profondamente anti-evangelico delle persecuzioni contro i conversos, molto spesso accusati
con il solo scopo di incamerare denaro da applicare al fisco regio, le aperte violazioni del diritto
canonico, le palesi usurpazioni dei diritti degli ordinari spagnoli e in ultimo la pesante perdita
di autorità che il Papato riceveva da tutto questo12. A dare consistenza alle accuse di Arias Dávila
anche il caso di Pedro de Aranda, vescovo di Calahorra, passato rapidamente da presidente del
Consiglio di Castiglia a principale imputato in un processo inquisitoriale per giudaismo che lo
spinse a Roma in cerca di protezione13. Arias Dávila e Aranda avrebbero in poco tempo creato un
vasto movimento di opinione all’interno della curia romana, sostenuto a tratti alterni dallo stesso
Innocenzo VIII. La bolla con cui il Pontefice avocò alla curia romana i processi inquisitoriali in
corso non solo contro il vescovo ma contro la potente famiglia segoviana degli Arias Dávila (il
processo, portato avanti tra il 1486 e il 1490 aveva coinvolto i distretti inquisitoriali di Segovia,
Ávila, Osma, Zaragoza e la città di Valladolid) e contro quella degli Aranda fu un duro colpo asse-
stato ai tentativi di autonomia giurisdizionale della nuova Inquisizione spagnola. I sovrani, dopo
una serie di segreti tentativi di accordo con alcuni cardinali romani “sobre el remediar las cosas da
la Inquisición [...] según los deseos de los monarcas”14, dovettero piegarsi alle direttive romane.
Quasi quindici anni più tardi sarebbe stato un altro processo a un vescovo, quello a Her-
nando de Talavera, a riaprire le discussioni attorno al nuovo ed efferato Tribunale, con una
polemica che però, a differenza di quanto accadde per Arias Dávila e Aranda, non si limitò
all’ambito romano ma riuscì a spaccare in due il mondo politico e intellettuale spagnolo.
Confessore di Isabella e leader indiscusso del partito converso cresciuto attorno a lei, il Talave-
10
Cfr, Azcona, La elección y reforma, pp. 220-222.
11
Nel corso del 1490 Arias Dávila avrebbe chiesto anche il passaggio a Roma di tutte le cause in corso presso l’Inqui-
sizione di Valladolid. Cfr. Azcona, La elección y reforma, p. 222. Si veda la lettera dei Re Cattolici a Bernardino de Carvajal
e Juan de Medina sul processo Arias Dávila del 5 maggio 1490: «Y ahun direys a Su Sanctedat que aqua se affirma que, no
solamente el dicho obispo va por lo que toca a sus padre, madre y parientes, mas ahun que lieva cargo de los presos que
estan en Valladolid, para procurar con su Sanctedat que se impidan los processos, que contra ellos penden, e se evoque
alla el conocimiento y determinacion dellos; lo qual nos ha sido dicho ser fecho con conseio y acuerdo de algunas perso-
nas de importancia deste linage, que con el entendieron y comunicaron sobrello, en lugar secreto». Documentos sobre las
relaciones internacionales de los Reyes Católicos, ed. A. de la Torre, vol. III, Barcelona, 1951, p. 302. Sullo stato dei rapporti
tra Innocenzo VIII e Roma una buona sintesi è in T. de Azcona, “Relaciones de Inocencio VIII con los Reyes Católicos
según el fondo Podocataro de Venecia”, Hispania Sacra, 1980, pp. 3-28.
12
Si veda T. de Azcona, La elección y reforma del episcopado, pp. 219-222 e in Documentos sobre las Relaciones interna-
cionales de los Reyes Católicos, III, pp. 299-306, le lettere dei Re Cattolici a Bernardino de Carvajal e Juan de Medina sul
processo Arias Dávila, su cui si basa anche il resoconto di Azcona, del 5 e 6 maggio 1590.
13
Su Aranda si rimanda a Foa, “Un vescovo marrano”.
14
Come quelli tra il vescovo di Badajoz e il nunzio Pallavicini, cui fu promesso, in cambio di gestioni favorevoli alla
Corona, il vescovato di Segovia. Cfr. A. De la Torre, Documentos sobre relaciones internacionales de los Reyes Católicos, v.
III: (1488-91), p. 527.

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ra colpito dall’Inquisizione era un politico ormai in declino, lontano dalla corte e dalle grazie
della regina, adorato però come un santo da larga parte dell’opinione pubblica. Fu coinvolto,
come gli Álvarez de Toledo e buona parte dell’élite conversa di potere attorno a Isabella, nella
sanguinosa serie di processi aperti dall’Inquisizione di Córdoba, accusato di giudaismo insie-
me con larga parte dei collaboratori conversos di Isabella. Nel 1506, in una esplosiva situazio-
ne politica l’Inquisitore generale Diego de Deza chiese a Roma l’autorizzazione a procedere
contro l’arcivescovo granadino. Ferdinando appoggiò deciso la richiesta, dicendosi convinto
della sua colpevolezza e dell’estrema gravità dei processi castigliani15. A Roma avevano intanto
fatto appello anche i sostenitori dell’arcivescovo e una delegazione della città di Córdoba16.
Poco prima che arrivasse al pontefice la richiesta di autorizzazione, Jorge de Torres, canonico
magistrale di Granada, aveva inviato a Roma la prima biografia dell’arcivescovo: un accorato
schizzo agiografico in cui consegnava ai posteri la figura carismatica di chi era riuscito a con-
quistare l’anima di Isabella e a fermare con una sola croce di legno le migliaia di granadini in
rivolta contro i battesimi forzati di Cisneros. Era il maestro cui i grandi di Spagna avevano
voluto affidare i propri figli, il fondatore di collegi e l’educatore di laici ed ecclesiastici ma
soprattutto l’instancabile predicatore, che aveva aperto a tutti il senso delle sacre Scritture e
che pazientemente accompagnava i neofiti attraverso le verità di fede. Ma era il processo in-
quisitoriale, a difesa del quale la lettera di Torres era stata scritta, che chiudeva idealmente la
sua costruzione di santità. Accuse inique e ingiuste costituivano l’ultima e più concreta prova
della santità di Talavera e ne consegnavano un martirio affrontato con dignità e coraggio: era,
con un’immagine che riportava alle epistole paoline, la persecuzione della carne sullo spirito,
il trionfo di Caino e di Esaù17. La morte di Talavera, avvenuta pochi giorni prima del verdetto
romano di assoluzione, offrì anche le prime prove di santità. Pietro Martire d’Anghiera, tala-
veriano e cronista reale, le raccoglieva in una delle prime sue lettere di commento, indirizzata
al conte di Tendilla, descrivendo la folla accalcata ai suoi funerali, la ricerca disperata di una
reliquia da parte dei fedeli granadini e i primi miracoli di guarigioni impossibili, che diceva
di credere senza alcuna difficoltà. Le testimonianze di miracoli attribuiti all’arcivescovo di
Granada vennero raccolte davanti a un notaio e diligentemente affiancate da dichiarazioni
rese da parte di chi lo aveva conosciuto, forse in vista di un processo di canonizzazione che si
chiese da più parti, ma che significativamente non si riuscì neppure ad avviare. La sua fama
di ‘martire dell’Inquisizione’ bloccava ovviamente un cammino di santità tradizionale. La
sua storia poteva gettare un’ombra oscura e inquietante sulla legittimità e sulla correttezza

15
A. Rodríguez Villa, Don Francisco de Rojas embajador de los Reyes Católicos: noticia biográfica y documentos históri-
cos, Madrid, 1896, p. 448. Nella lettera da cui erano emersi “tan grandes crímenes y delitos que si yo o altro príncipe ho-
viera declinado dello se havría puesto tan grande cisma y herejía en la Iglesia de Dios que fuera mayor que la de Arriano,
y Vuestra Santidad deve dar gracias que en mi tiempo se haya descubierto porque sea castigado y reprimido”. La lettera è
citata in A. Cotarelo Valledor, Fray Diego de Deza, Madrid, 1902, ap. 3, p. 350.
16
Cfr. T. de Azcona, “El tipo ideal de obispo en la Iglesia española ante de la rebelión luterana”, Hispania Sacra, XI,
1958, pp. 21-64, pp. 54-60; T. Herrero del Collado, “El proceso inquisitorial por delito de herejía contra Hernando de
Talavera”, Anuario de Historia del derecho español, 1969, pp. 670-706, pp. 690-701.
17
Sulla fortuna del mito dell’arcivescovo di Granada in ambito cinquecentesco rimando alle osservazioni di M. Oli-
vari, “Hernando de Talavera i un tractat inèdit. Notes sobre un afer politico religiós entre el Quatre-cents i el Cinc-cents”,
Manuscrits, XVII, 1999, pp. 39-56, p. 42.

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dei procedimenti del tribunale della fede e rivelarsi un simbolo immensamente attrattivo e
carico di significati per i conversos alla mercè dell'Inquisizione e per chi allora premeva per
una riforma del Sant’Uffizio, tanto da continuare a rappresentare anche sul lungo periodo
un sottinteso, un non detto implicito, ma ugualmente eloquente, attorno cui anche a Cin-
quecento inoltrato si sarebbero raccolte posizioni vagamente anti-inquisitoriali. Il processo
a Talavera, primo vero grande scandalo dell’Inquisizione spagnola, riuscì a dividere in due
la società spagnola, suscitò paura, raccapriccio e indignazione e fu legato a doppio filo con i
contestatissimi processi di Córdoba, che coinvolsero una città intera e misero a dura prova la
lealtà al vecchio re Ferdinando. Nella lunga storia dell’inquisizione fu l’unico caso spagnola
in cui si dovette arrivare a un processo all’Inquisizione spagnola stessa, condotto con estrema
cautela dal Cardinal Cisneros18.
Roma, chiamata a più riprese in causa da sovrano e Inquisizione da una parte, dalle rap-
presentanze cittadine di Córdoba e Granada dall’altra, oltre che dai moltissimi sostenitori di
Talavera, stette a guardare. Accolse le lettere di Deza e Ferdinando così come le delegazioni
della città di Córdoba, gridi d’allarme sul dilagare dell’eresia e insieme memoriali di accusa
contro un’Inquisizione iniqua che ormai nessuno poteva fermare, prove del giudaismo del
primo arcivescovo di Granada e della sua santità. La richiesta a procedere contro l’arcivescovo
di Granada si arenò fino a che Giulio II non dichiarò, d’accordo con il nunzio Ruffo che
aveva aperto il processo informativo, l’innocenza del prelato, nell’aprile 1507. Ma gli echi di
quella vicenda dovettero risuonare a lungo, nella società spagnola cinquecentesca così come
in un Italia che stava per conoscere la prima rivolta contro l’introduzione di un’Inquisizione
“alla spagnola”. Le lettere di Pietro Martire d’Anghiera, umanista strappato all’Italia, sugli
infamanti processi di Córdoba, i ritratti del “tenebroso Lucero”, l’inquisitore di Córdoba che
aveva iniziato i processi circolarono ampiamente anche in ambito italiano. Furono proprio
i processi di Córdoba in cui “arsono in una mattina cento e dugento persone” a ispirare a
Guicciardini la sua analisi sull’Inquisizione spagnola, mentre, pochi anni più prima avrebbero
contribuito a sostanziare le accuse della celebre epistola De Inquisitione del napoletano Trista-
no Caracciolo19 e le proteste dei sudditi napoletani contro l’introduzione di un’Inquisizione
“alla spagnola”20.

3. La Roma rifugio: storie di Penitenzieria e vite da romanzo

Nel cercare di contrastare la spaventosa macchina che aveva messo in moto con la sua
autorizzazione, Sisto IV, poco prima della morte, ne approntò una non meno temibile, sicu-
ramente meno violenta e, a conti fatti, molto più redditizia. Lo fece in maniera indiretta, non
18
T. de Azcona, La Inquisición española procesada por la Congregación general de 1508, in La Inquisición española.
Nueva Visión, nuevos horizontes, a cura di J. Pérez Villanueva, Madrid, 1980, pp. 89-163.
19
Fu pubblicato da Muratori. Uso l’edizione di Rerum italicarum scriptores, t. XXII, parte I, Bologna, 1935, p. 109.
20
Sul primo tumulto napoletano cfr. almeno L. Amabile, Il santo officio de la Inquisizione in Napoli, Soveria, 1987
[Città di Castello, 1892], pp. 101-121 e F. Ruiz Martín, “La expulsión de los judíos del reino de Nápoles”, Hispania, IX,
1949, pp. 28-76, 179-240 e più recentemente A. Cernigliaro, Sovranità e feudo nel regno di Napoli 1505-1557, 2, Napoli,
1983, I, pp. 54-62.

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attaccando e cercando di ridimensionare i privilegi da lui elargiti alla nuova istituzione ma


aprendo un nuovo e sostanziale fronte di competizione e di conflitto: quello delle assoluzioni
di penitenzieria. La bolla dell’otto maggio 1484 stabiliva infatti che le assoluzioni ottenute
attraverso la Penitenzieria dovevano essere considerate valide in entrambi i fori e che chi voleva
limitare la loro efficacia al foro interno sosteneva opinioni ribelli e sacrileghe. La polemica con
il nuovo tribunale inquisitoriale spagnolo, che aveva cercato fin dall’inizio di garantirsi in foro
giudiziario l’esclusività di giurisdizione in materia di eresia, era evidente, così come la capacità
di inficiare e compromettere le possibilità d’azione dell’Inquisizione spagnola. Uno spoglio
esaustivo delle suppliche di penitenzieria riferite ai casi spagnoli è ancora da fare, ma nella par-
ziale raccolta fatta alcuni anni orsono da Tamburini, la maggior parte dei casi pare provenire
dalla Spagna: si tratta significativamente anche di casi di eresia –e spesso non di importanza
secondaria– che trovarono in ambito romano una più rapida e accomodante soluzione21. La
via aperta da Sisto IV dunque sembra essere stata percorsa molte volte, soprattutto dai sudditi
spagnoli che speravano, in cambio di una cospicua quantità di denaro, di poter evitare infa-
mia, delegittimazione sociale e pesanti danni economici cui un processo inquisitoriale da parte
del tribunale della fede spagnolo li avrebbe condannati22. Fu una strada che anche i pontefici
successivi lasciarono aperta –con la significativa eccezione di Alessandro VI, preoccupato di
far funzionare a pieno regime la propria inquisizione– e che solo dopo la nascita della moder-
na Inquisizione romana e il suo tentativo di imporsi a livello istituzionale come il tribunale
supremo della cristianità si volle, da parte romana, chiudere: sarà non a caso Pio V, il ‘grande
inquisitore’ a farlo nel 1569.23
Attraverso quel tribunale minore passarono a Roma centinaia di casi controversi. Storie mi-
nori di conversos in fuga, come quelle raccolte da Juan Gil nel suo imponente e magistrale studio
sui conversos di Siviglia24, o quella sfortunata dei coniugi di Córdoba che, incappati nell’effimera

21
Una panoramica che lascia solo intravvedere la ricchezza F. Tamburini, Santi e peccatori. Confessioni e suppliche dai
Registri della Penitenzieria dell’Archivio Segreto Vaticano (1451-1586), Milano, 1995, pp. 300-302. Ma lo stesso Tambu-
rini segnala che “una massa imponente di documenti riguardanti la Inquisizione spagnola è contenuta nei Registri delle
Suppliche della Penitenzieria dall’anno 1484 al 1525 e oltre (Registri 34-75)”. Nel suo ultimo intervento si ripercorrono
più sistematicamente alcuni casi. Cfr. F. Tamburini, Inquisición española y Penitenciaría apostólica, in Historia de la Inqui-
sición en España y América, vol III, Madrid, 2000, pp. 207-224.
22
Un’analisi per i primi anni, riferita ai ricorsi di conversos sivigliani in Penitenzieria è in J.Gil, Los conversos y la
Inquisición sevillana, Sevilla, 2000, vol. I, pp. 96-105.
23
Giulio II, ancora nel 1549 ribadí l’efficacia ‘in utroque foro’ delle assoluzioni di penitenzieria. Fu Pio V ad avviare,
vent’anni dopo, nel 1569, una riforma della penitenzieria che limitò le sue competenze al foro interno, eliminando così
ogni possibile attrito con l’operare dell’Inquisizione romana e con quella spagnola di conseguenza. Furono proprio i due
Papi tradizionalmente considerati come i più grandi sostenitori dell’Inquisizione romana moderna, Paolo IV e Pio V, a
scagliarsi contro la Penitenzieria. Ma è altrettanto significativo che l’attacco alla Penitenzieria a favore di un più efficace
intervento dell’Inquisizione romana nella lotta contro l’eresia, si affiancasse al tentativo di entrambi di imporre il nuovo
tribunale della fede romano come il Tribunale supremo, da cui avrebbe dovuto dipendere, in ultima analisi, anche il tri-
bunale della fede spagnolo. Per l’Inquisizione spagnola si chiuse insomma la fase di contrasto con la Penitenzieria, ma si
aprì quella, fatta questa volta di scontri aperti, con l’Inquisizione Romana stessa. Sui rapporti tra Carafa, Ghislieri e la Pe-
nitenzieria cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, 1996, p. 271. Sui tentativi
di riforma della Penitenzieria durante il Cinquecento cfr. F. Tamburini, “La riforma della penitenzieria nella prima metà
del sec. XVI e i cardinali Pucci in recenti saggi”, in Rivista di Storia della Chiesa in Italia, XLIV, (1990), pp. 111-140.
24
Juan Gil, Los conversos y la Inquisición de Sevilla, Sevilla, 2000-2003.

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Stefania Pastore

inquisizione di Alessandro VI, incontrarono a Roma ciò che avevano sfuggito in patria e aspetta-
rono pazienti la morte del pontefice e la riapertura delle porte del Tribunale25.
L’impennata della presenza spagnola a Roma seguì varie ondate, ingente fu ad esempio l’arri-
vo di catalani e valenciani a seguito del cardinale Borgia, ma a partire dalla nascita dell’Inquisizio-
ne spagnola i flussi dell’immigrazione seguirono anche i picchi della repressione del Tribunale26:
quello dei conversos spagnoli fuggiti dalla Spagna è un problema che diventa visibile, che a
Roma era sotto gli occhi di tutti. E non doveva andare troppo lontano dal vero Bembo, quando
nell’iperbole che apriva il suo inno a un ritorno all’italiano più puro, puntava il dito contro gli
accenti spagnoli sulla bocca di tutti27. Quasi a contrasto sfilano davanti agli occhi la bella Lozana
e le altre spagnole, rifugiate a Roma “desde el año que se puso la Inquisición”, con i loro belletti
e la loro lingua ibrida, le prove gastronomiche che incoronarono Lozana, che cucinava con l’olio
come tutti i conversos, regina di arguzia e dissimulazione28. Il realismo violento di Francisco
Delicado, altro cordobense fuggito forse alla stessa inquisizione, che non lasciava nulla al non
detto o all’immaginazione dei suoi lettori, consegnava forse il ritratto più bello, sicuramente il
più affollato e il più vivace, della comunità spagnola a Roma, tra Campo dei Fiori e Piazza Navo-
na. Una comunità brulicante di commerci, scambi e nuove libertà, in cui gli ebrei “munchos, y
amigos nuestros” “tratan con los cristianos”, e dove la patria chica, la Córdoba sempre rimpianta,
comune a Delicado, alle donne romane e alla stessa Aldonza, sembra quella dei roghi e dei pro-
cessi aperti da Lucero. Figura ancora troppo sfuocata, passando da Roma a Venezia negli anni del
Sacco, Delicado dovette portare con sè anche i segreti dell’importante stamperia spagnola di An-
tonio de Salamanca, insieme con le opere pronte da tradurre. Il suo fu un tradimento che spostò

25
Alessandro VI limitò notevolmente la possibilità di ricorrere alla penitenzieria. Un esempio è quello dei due
coniugi di Córdoba, condannati dall’Inquisizione spagnola e bruciati in effigie, poi condannati dagli inquisitori di Ales-
sandro VI che dopo la morte di quest’ultimo chiedono e ottengono l’assoluzione di penitenzieria. Cfr Ebrei, saraceni,
cristiani. Vita sociale e vita religiosa dai registri della Penitenzieria apostolica (secc. XIV-XVI), a cura di F. Tamburini, Milano,
1996, p. 79.
26
E’ uno studio ancora da fare ma i dati finora raccolti sembrano avallare l’importanza di una ricerca di questo gene-
re. Sulla comunità spagnola a Roma cfr. M. Vaquero Piñeiro, Una realtà nazionale composita: comunità e chiese "spagnole"
a Roma, in Roma capitale (1447-1527), a cura di S. Gensini, Pisa 1994, pp. 473-491, Id., Valencianos en Roma durante el
siglo XV: una presencia en torno a los Borja, in El hogar de los Borja, Valencia, 2001, pp. 185-198 e A. Serio, Modi, tempi
e uomini della presenza hispana a Roma nel primo Cinquecento (1503-1527), in L'Italia di Carlo V. Progetti, politiche di
governo e resistenze all'impero nell'età di Carlo V. Atti del Congresso Internazionale (Roma, 3-4-5 aprile 2001), Roma, 2003,
pp. 433-476.
27
P. Bembo, Prose della volgar lingua, riprendo la citazione da P. Bembo, Prose e rime, a cura di C. Dionisotti, Torino,
1966. «Poichè le Spagne a servire il Pontefice a Roma i loro popoli mandati aveano, e Valenza il colle Vaticano occupato
avea, ai nostri uomini e alle nostre donne oggimai altre voci, altri accenti avere in bocca non piace che gli spagnuoli».
28
E’ il VI e VIII Mamotreto della Lozana andaluza, episodio in cui Lozana, appena arrivata per farsi accettare dalle
donne spagnole, che la mettono alla prova per vedere se fosse “de nostris”, cioè di origine ebraica o cristiana vecchia. Uso
l’edizione di Allaigre, F. Delicado, La lozana andaluza, ed. C. Allaigre, Madrid, Cátedra, 1985, ma cfr. anche l’importante
introduzione dell’edizione di Damiani e la sua monografia B. Damiani, Francisco Delicado, Boston, 1974. Su Delicado e il
problema converso le pagine di F. Márquez Villanueva, “El mundo converso de La Lozana andaluza”, Archivo Hispalense,
171-173, 1973, pp.87-97. e R. Pike, “The conversos in La lozana andaluza”, MLN [Modern Languages Notes], 84, 1969,
pp. 304-308. E’ tornato su questi temi in un articolo denso di riflessioni e suggestioni, J.Amelang, Exchanges between Italy
and Spain: Culture and religion, in Spain in Italy. Politics, Society and Religion (1500-1700), ed. Th. J. Dandelet and J. A.
Marino, Leiden-Boston, 2007, pp. 433-455, cui rimando per un quadro molto più riccco degli incontri e degli scambi
culturali tra Italia e Spagna di questi anni.

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IMMAGINI DELL’INQUISIZIONE SPAGNOLA IN ITALIA

l’asse delle pubblicazioni spagnole da Roma a Venezia e diede il via a un’imponente commercio di
edizioni spagnole ma anche di traduzioni, che da Venezia raggiunsero Ferrara, Roma, Napoli e i
principali centri della diaspora spagnola in Italia. Era soprattutto una letteratura di evasione –ma
ci furono anche importanti eccezioni– che testimoniava ormai l’apertura di un nuovo mercato,
una parte consistente del quale, come dimostrava il successo italiano della Celestina, della Carcel
de amor, della Lozana, guardava alla comunità ebraica spagnola in Italia, con una letteratura in
cui il mondo converso, con le sue abitudini e i suoi cerimoniali fa continuamente capolino, striz-
zando l’occhio a lettori che avrebbero sicuramente capito29.

4. L’Inquisizione insegna: la riflessione politica da Machiavelli a Contarini

La Spagna era fortemente presente nella cultura italiana del primo Cinquecento, e non poteva
essere altrimenti, l’esempio spagnolo faceva scuola. Il regno dei Re Cattolici e la loro particola-
rissima politica erano argomenti principe nelle riflessioni politiche italiane. Basti pensare allo
splendido ritratto di Ferdinando offerto da Machiavelli nel Principe30, Il suo icastico riferimento
alla “pietosa crudeltà”, accennava all’espulsione degli ebrei ma certo anche valeva per l’inquisi-
zione, e segnava nell’uso spregiudicato della religione per rafforzare lo stato il punto di forza del
“principe nuovo” –sarebbe stato l’inizio di una riflessione di lungo corso nell’Europa moderna
sulla religione come instrumentum regni– additando l’abilità di Ferdinando a modello “perchè di
uno re debole è diventato per fama e per gloria el primo re de’ Cristiani”31.
Era quanto raccoglieva anche Guicciardini, non mancando nei suoi Ricordi di sottolineare
l’astuzia di Ferdinando, la sua capacità di creare consenso e legare gli animi degli spagnoli a
grandi imprese.
Al Tribunale dell’Inquisizione spagnolo Guicciardini dedicava poi nella sua Relazione delle
cose di Spagna, dei paragrafi a parte, spiegando che

Nelle cose della fede providono, ordinando con autorità apostolica inquisitori per tutto il re-
gno, che hanno, confiscando e’ beni di chi si trova culpato, ed ardendo le persone qualche volta,
sbigottito ognuno; e fu talvolta che a Corduba arsono in una mattina cento e dugento persone, in
modo che infiniti se ne partirono, che erano infetti; quegli che sono rimasti la vanno simulando, ma
è opinione che se la paura cessassi, ancora assai ne tornerebbono al vomito32

Vi tornava, significativamente, quando parlava delle entrate della Corona

29
Cfr. almeno A. Pallotta, “Venetian Printers and Spanish Literature in Sixteenth Century Italy”, Comparative Lit-
erature, 43, 1991, pp. 20-42.
30
N. Machiavelli, Il principe, a cura di L. Firpo, Torino, 1972, p. 71, cap. XXI Quod principem deceat ut egregius
habeatur.
31
«Possé nutrire, con danari della Chiesa e de’ populi, eserciti, e fare uno fonadmento con quella guerra lunga alla
milizia sua, la quale lo ha dipoi onorato. Oltre a questo, per poter intraprendere maggiori imprese, servendosi sempre
della religione, si volse a una pietosa crudeltà, cacciando e spogliando el suo regno de’ Marrani». Ivi., p. 72.
32
F. Guicciardini, Relazione di Spagna, in Id., Opere, a cura di Vittorio de Caprariis, Ricciardi, Milano-Napoli,
1953, p. 35.

823
Stefania Pastore

Cavato ha pe’ tempi passati molto delle inquisizione, perchè a ogni sentenzia che se ne dia, o
della vita o di altro, vi è la confiscazione de’ beni; e benchè ne donassi molti degli immobili, pure
n’ebbe di gran profitti33.

Guicciardini era allora rappresentante pontificio e proprio in questo periodo il viaggio di


rappresentanza in Spagna si impose come una tappa quasi obbligata delle carriere curiali, ma non
solo, dell’epoca. Divenne un’esperienza di vita per molti intellettuali italiani e l’impatto con l’In-
quisizione spagnola ma anche con la mentalità inquisitoriale spagnola fu fondamentale per molti
di loro. Non tutti ne trassero le massime politiche di Guicciardini, ma qualcosa rimaneva.
Baldassar Castiglione, ad esempio, pur non scrivendo mai di Inquisizione, mostrava però di
avere ben presente il funzionamento del Tribunale e i problemi etnici che spaccavano la società
spagnola. Nunzio nel difficile periodo del sacco, nell’aspra polemica che seguì alla circolazione
manoscritta del Diálogo de las cosas occurridas en Roma di Alfonso de Valdés, più di una volta
seppe colpire nel segno34. Lo fece facendo aleggiare l’accusa di giudaismo sull’avversario, accusan-
dolo di avere “più a memoria le cose ebree che le romane”35, oppure infamandolo con il pesante
riferimento, tipicamente ispanico, a un onore “perduto prima che nasceste”36.
Del resto la sua lettera di accusa si concludeva con una maledizione ben consapevole:

E perchè nell’ultimo del dialogo dite all’arcidiacono di voler andare a san Benito a fornire il
vostro religioso ragionamento, penso che sia pronostico che un san Benito abbia a venire a voi, e
che con quello abbiate da fornire la vita37

Un ritratto vissuto e meditato fu invece quello offerto da Gasparo Contarini, personaggio


chiave della politica di questi anni, con un ruolo essenziale sia nella vita politica veneziana sia
nella definizione di una “via” italiana di fronte ai problemi suscitati dalla Riforma e alla crisi reli-
giosa. Per quattro anni ambasciatore della Serenissima in Spagna, dal 1521 al 152538, Contarini
raccolse dal mondo inquisitoriale spagnolo una lezione diversa rispetto a quella di Castiglione,
che forse poi avrebbe condizionato anche le sue prese di posizione successive.
Tra la fine di gennaio e il febbraio 1525 la galea del fratello Andrea venne sequestrata a Carta-
gena, nella barca furono trovati alcuni libri proibiti, tra cui bibbie in ebraico, il fratello e gli altri
vennero fatti prigionieri dall’Inquisizione di Murcia.
Gasparo intervenne contestando duramente la politica di repressione culturale dell’Inquisi-
zione spagnola. Raccontò di un’Italia diversa dove nessun autore era proibito, neppure gli infede-
li, come testimoniava la lettura accanita di Averroè, che negli anni precedenti aveva infiammato,
con le riletture pomponazziane, gli ambienti intellettuali veneti:

33
Ivi, p. 43.
34
Cfr. dell’episodio la ricostruzione, tutta volta a difendere le ragioni di Castiglione di V. Cian, Un illustre nunzio
pontificio del Rinascimento: Baldassar Castiglione, Città del Vaticano, 1951, pp. 117-123.
35
Riprendo la lettera da A. de Valdés, Obra Completa, ed. a. Alcalá, Madrid, 1996, pp. 540-574, p. 549.
36
Ivi, p. 563.
37
Ivi, p. 574.
38
Si veda lo studio di E. Gleason, Gasparo Contarini. Venice, Rome and Reform, Berkeley-Los Angeles-Oxford, Uni-
versity of California Press, 1993. In particolare per gli anni di Contarini ambasciatore cfr. pp. 29-62.

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IMMAGINI DELL’INQUISIZIONE SPAGNOLA IN ITALIA

parlai longamente dechiarandoli il costume de Italia e di tutta la Chiesia catholica esser di admetter
ogni auctor infidele quantunque contraddicesse a la fede quando li paresse come Averois et molti
altri, perchè si faria iniuria quando non si volesse che li adversarii nostri fussero auditi et lecti,
aducendoli molte ragioni39

Con una punta di disprezzo, neanche troppo velato scriveva a Venezia che si aspettava che alla fine
li liberassero. Li avrebbero puniti comunque de leviter cioè con “una legier penitentia [...] come seria
dire di andar atorno un monasterio, over una chiesia con cierio in mano, over altre simile cerimonie
le quale qui usa”40. L’estraneità di Contarini dalle ritualità ma anche del cerimonialismo (bigotto
dell’Inquisizione spagnola trapelava con forza dalle sue parole e si trasformava in critica aperta:)
E concludeva:

Questa inquisitione in questi regni è una cosa teribilissima, nè il Re medisimo ha podestà su di


lei; et per li christiani novi una cosa che a noi pare minima, a costoro pare grande41

Quasi due anni più tardi, di fronte al Senato veneziano avrebbe ribadito il suo fermo giudizio
contro, per quel

consiglio [quello della Suprema] che è di tanta autorità e venerazione, che tutti tremano di lui. Nel
suo procedere, procede con maggior severità, e più terrore di quello, che in questa eccellentissima
repubblica soleva essere il consiglio dei Dieci. A me pare che eserciti una vera tirannide contro quei
poveri cristiani novelli, delli quali hanno fatto tanto strazio, che più dire non si potria42

5. Modelli e soluzioni: l’Inquisizione spagnola e l’Inquisizione romana

All’aprirsi delle prime discussioni su come impostare la desiderata riforma della Chiesa in
Italia e come affrontare l’emergenza ereticale in Italia molti avevano avuto modo di confrontarsi
con la soluzione spagnola. A lato dei roboanti processi dei primi anni dell’Inquisizione spagnola
e dei tentativi di Leone X di ripristinare anche in Spagna un’Inquisizione di tipo episcopale43 car-
dinali e i vescovi spagnoli dovevano aver portato a Roma idee e consapevolezze distinte su quella
loro ingombrante istituzione. Diversa doveva essere l’opinione sull’Inquisizione di un Quiñones,
che ospitò generosamente nel suo palazzo romano molti degli intellettuali di Alcalá scampati ai
processi per alumbradismo44 rispetto a quella di un Juan Álvarez de Toledo, che proprio a favore
di una svolta rigorista inquisitoriale avrebbe giocato il suo avvicinamento al partito nemico del
39
La lettera fu pubblicata nei Diari di Sanudo. Cfr. I diarii di Marino Sanudo, a cura di F. Stefani, G. Berchet, N.
Barozzi, Venezia, 1893, vol. 38, pp. 202-203, p. 202.
40
Ivi, pp. 202-203.
41
Ivi, p. 203.
42
Ivi, p.
43
Ho insistito su questi temi in S. Pastore, Il vangelo e la spada, pp. 125-131 e passim, cui rimando per una discus-
sione troppo tecnica per essere riportata in queste pagine.
44
Nel palazzo del Quiñones trovarono rifugio diversi spagnoli in fuga dall’Inquisizione e anche il grecista Juan del
Castillo, accusato e poi bruciato per alumbradismo. Cfr. M. Bataillon, Erasmo y España. Estudio sobre la historia espiritual
del siglo XVI, México, 1995, p. 479. Su Castillo cfr. S. Pastore, Un’eresia spagnola, pp. 133-166.

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Carafa45. Tra gli italiani, solo per fare un esempio, se conosciuta era, all’altezza degli anni trenta- qua-
ranta, l’unica passione spagnola del Carafa, quella per l’inquisizione, altrettanto nota doveva essere la
freddezza di Contarini. Il suo disprezzo nei confronti di un tribunale che giudicava idee e opinioni
ben si accordava del resto alla sua posizione irenica e conciliarista, improntata al dialogo con i prote-
stanti, mantenuta nel pieno della crisi religiosa italiana. Quando nel 1542 nacque l’Inquisizione ro-
mana il consesso di Cardinali delegati poteva contare su personaggi che avevano conosciuto la realtà
spagnola e il funzionamento della sua inquisizione e, soprattutto, su pareri diversi46.
La soluzione italiana, come più volte è stato detto, dovette confrontarsi con più autorità e
più padroni, in un territorio frammentato in cui i conti si fecero città per città, territorio per
territorio, venendo a patti con le diverse tradizioni locali e cercando di guadagnare di volta in
volta spazi e possibilità di intervento là dove era possibile47. Nulla di paragonabile alla compatta
e sistematica opera di radicamento dell’Inquisizione spagnola nel territorio, attraverso la nascita
dei singoli tribunali di distretto e le sistematiche visite degli inquisitori nelle regioni circostanti.
A partire dal 1542, anno di nascita l’Inquisizione spagnola diventò una realtà sempre presente nel
mondo italiano; presente nei confronti tra il Tribunale italiano e quello spagnolo e nel definirsi
della caratteristiche dell’Inquisizione romana; presente nei tentativi di imporre un’Inquisizione
“alla spagnola” a Napoli e poi a Milano e nelle vive reazioni da esso suscitate.
Anche al Concilio di Trento, momento fondamentale di incontro e di confronto tra i vescovi
europei, il tema inquisizione spagnola fu discusso diverse volte, con esiti niente affatto scontati.
La Commissione dell’Indice voluta nel 1562 nell’ambito del Concilio, riabilitò molti dei testi
condannati in Spagna, fra loro anche testi su cui la discussione era pericolosamente aperta come la
Guía de pecadores di fra Luis de Granada e soprattutto il Catechismo di Bartolomé de Carranza, in
quegli anni sotto processo in Spagna. Uno “sfreggio in faccia all’Inquisizione spagnola” come qual-
cuno disse più tardi. Mentre nell’ambito ordinario dei lavori conciliari vi furono accese discussioni
sul ruolo dei vescovi nel controllo e nella repressione dell’eresia, che videro un numero cospicuo di
vescovi spagnoli rivendicare, con l’appoggio di tutti gli altri, quel ruolo di primo piano che l’Inqui-
sizione aveva tolto loro nel 1480, non senza forti opposizioni da parte di Filippo II48.
E fu proprio un vescovo, anzi un arcivescovo, il potente primate di Spagna Bartolomé de
Carranza, messo sotto processo a partire dal 1559, a riaccendere in Italia –come già era successo
con Arias Dávila e con Talavera– la discussione sull’Inquisizione spagnola, sulle sue prerogative,
sull’estensione della sua giurisdizione, sui suoi contestati metodi.

45
Cfr. C. Hernando Sánchez, Castilla y Nápoles en el siglo XVI. El Virrey Pedro de Toledo. Linaje, estado y cultura (1532-
1553), Valladolid, 1994 e Id., Naples and Florence in Charles V’s Italy: family, court and government in the Toledo-Medici al-
liance, in Spain in Italy. Per gli ambigui rapporti tra partito imperiale e Álvarez de Toledo alla vigilia del conclave del 1549,
visti attraverso gli occhi dell’ambasciatore Diego Hurtado de Mendoza, cfr. anche S. Pastore, “Una Spagna anti-papale: gli
anni italiani di Diego Hurtado de Mendoza”, Roma moderna e contemporanea, 207, nn. 1-2. Sugli equilibri politici italiani
attorno all’Inquisizione cfr. ora l’edizione riveduta dello studio ormai classico di M.Firpo, Inquisizione romana e Controri-
forma. Studi sul cardinal Giovanni Morone (1509-1580) e il suo processo d’eresia, Brescia, 2005.
46
Rimando all’analisi di A. Prosperi, Per la storia dell’Inquisizione romana, in L’Inquisizione romana. Letture e ricer-
che, Roma, 2005, in part. pp. 54-66.
47
Cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Confessori, inquisitori, missionari, Torino, 1996, e Id., Per la storia del-
l’Inquisizione romana.
48
Cfr. S. Pastore, Roma, il Concilio di Trento, la nuova Inquisizione, pp. 117 e sgg.

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IMMAGINI DELL’INQUISIZIONE SPAGNOLA IN ITALIA

I suoi guai, nella ricostruzione inquisitoriale erano cominciati proprio da una mancata
denuncia all’inquisizione di un italiano, Carlo de Seso. Di fronte alle sue idee sospette in ma-
teria di ortodossia Carranza lo aveva avvertito “que mirase, y no pensase que estaba en Italia,
donde le castigarian las obras, porque en España le castigarian las obras y las palabras si no mi-
raba cómo hablaba”. Ma invece di denunciare il suo caso all’Inquisizione, si era convinto che
“en el no habria más de aquella soltura de hablar que hay en su tierra”. Come tutti gli italiani
Carlo era abituato a parlare troppo e troppo liberamente, anche in materie che probabilmente
non dominava del tutto, come la teologia. In un paese dove si castigavano ‘le opere’ e non le
parole, Seso che non era teologo, né sapeva di teologia aveva parlato “como avia oído hablar
en mi tierra a hombres letrados con quien he hablado”49.
La lunga odissea di Bartolomé de Carranza e del suo processo conteso tra Spagna e Italia
è troppo nota perchè se ne ripercorrano le tappe. Solo vorrei sottolineare che quel processo
che tanto aveva pesato negli equilibri di potere spagnoli degli ultimi anni, a lungo conteso
tra Roma e Madrid si concluse con una, magra, vittoria romana e aprì una nuova fase nei
rapporti tra le due inquisizioni e nella storia delle loro rappresentazioni. Roma, con il suo
carico di ostilità nei confronti di un’Inquisizione che si sentiva come troppo rigida e troppo
intimamente legata alla politica interna spagnola, sembrava aprire altre possibilità: altri “esti-
los”, altre censure erano quelle che avevano caratterizzato il processo romano all’Arcivescovo
di Toledo. Lo scontro tra giuristi inquisitori spagnoli e teologi italiani in quell’occasione
portò a un ripensamento e a una ridefinizione delle caratteristiche giuridico-canoniche delle
due inquisizioni. Il confronto aperto allora sulle procedure inquisitoriali aprì la strada ai
manuali e alla riflessione giuridica italiana: è proprio a partire da questa data che le imma-
gini dell’Inquisizione spagnola in Italia si spostano anche sul concreto terreno del confronto
giuridico e canonico, con gli importanti contributi dello stesso Simancas, di Peña e di Albizzi
e Sarpi poi50.

6. Inquisizione spagnola e immaginario italiano

La paura dell’Inquisizione spagnola in Italia o di contro le aspettative che una sua imposizio-
ne in Italia aveva suscitato, presero dunque forme diverse.
L’inquisizione spagnola, con la sua macabra ritualità, con la sua teatralità accentuata sapeva
colpire l’immaginario, come aveva capito a suo tempo Alessandro VI. Mercanti e viaggiatori as-
sistevano increduli agli spettacoli degli autos de fe, ai palchi innalzati nelle piazze principali delle
città, alle masse radunate ad assistere allo spettacolo che giuravano tutti insieme, ai sambenitos
gialli, con i diavoli e le fiamme disegnate indossati dai penitenziati, costretti a sfilare con un cero
in mano per le strade della città e poi sul palco.
49
La deposizione di Carranza è in Bartolomé de Carranza, Documentos Históricos, 8 voll., a cura di J. I. Tellechea
Idígoras, Madrid, 1962-1994, IV, 187-192. Sull’episodio cfr. J. I. Tellechea, Tiempos recios. Inquisición y heterodoxias,
Salamanca, 1977, pp. 78 e sgg. Sulla rilevanza della scelta di non denunciare il caso da parte di Carranza e sul dibattito
suscitato in Spagna ho insistito in S. Pastore, “A proposito di Matteo 18,15. Correctio fraterna e Inquisizione nella Spagna
del Cinquecento”, Rivista Storica Italiana, CXII, 2001, pp. 323- 368, e in S. Pastore, Il vangelo e la spada, pp. 229- 248.
50
Cfr. Pastore, Roma, il Concilio di Trento, la nuova Inquisizione.

827
Stefania Pastore

Nei territori sottoposti alla Corona spagnola l’immagine dell’Inquisizione spagnola era
anche, e soprattutto, quella tangibile e minacciosa di un’Istituzione che sapeva travolgere im-
provvisaqmente assetti consolidati. Fu soprattutto la paura delle a confische, dei tracolli eco-
nomici a dare consistenza alle rivolte contro l’Inquisizione, dalla prima rivolta napoletana, cui
diede voce il pamphlet di Tristano Caracciolo, alle succesive rivolta napoletane, a Milano, alle
Fiandre51.La consapevolezza dell’impatto violento dell’Inquisizione “alla spagnola” sulla socie-
tà, della sua capacità di irrompere e sconvolgere equilibri economici e sociali fu sempre molto
forte da parte delle classi dirigenti, della nobiltà, del patriziato cittadino nei territori italiani
sottoposti alla Corona di Spagna52. E del resto le stesse potenzialità politiche di un’istituzione
di quel tipo non sfuggirono ai maggiori storici italiani del tempo, che da Machiavelli, a Guic-
ciardini allo stesso Paolo Sarpi a inizio Seicento, avevano meditato su Inquisizione spagnola e
costruzione politica dello stato.
Ma lo spettro dell’Inquisizione spagnola in Italia diede vita anche a un altro tipo di riflessione
che sfociò, nelle pagine di uno dei più sensibili e tormentati intellettuali italiani, Torquato Tasso,
in una singolare protesta.
L’arcivescovo di Toledo Bartolomé de Carranza a un italiano si era premurato di ricordare che
l’Inquisizione spagnola colpiva non soltanto le azioni ma anche le parole, una realtà che, all’altez-
za degli anni Quaranta del Cinquecento, sembrava essere del tutto estranea alla forma mentis di
un italiano, abituato invece a quella “soltura de hablar”. Era la lezione che il veneziano Contarini
infliggeva al Consiglio della Suprema Inquisizione nel 1525, ricordando che in Italia si potevano
leggere gli autori infedeli e Averroè.
La avrebbe ripresa un giovane Torquato Tasso, ancora “incredulo”53 e lontano dal doloroso
ripiegamento controriformistico successivo, convinto della necessità di salvaguardare uno spazio
di autonomia per gli intellettuali italiani.
Il suo dialogo, il Gonzaga, ovvero Dialogo del piacere onesto, pubblicato nel 1580 – diventato
poi, con sensibili modifiche il Nifo overo del piacere - era ambientato nel 1547 a Napoli, nei mo-
menti convulsi del tentativo di introdurre un’Inquisizione “alla spagnola”. Tra i protagonisti il
padre Bernardo, Cesare Gonzaga e il filosofo Agostino Nifo, averroista sui generis (Agostin Sessa
nella prima versione).

51
Sul problema delle confische in Italia cfr. V. Lavenia, I beni dell’eretico, i conti dell’Inquisitore.Confische, Stati italia-
ni, economia del Sacro Tribunale, in L’Inquisizione e gli storici: un cantiere aperto, pp. 47-94. Per le rivolte di Milano cfr. ora
M. Giannini, “Fra autonomia politica e ortodossia religiosa: il tentativo d’introdurre l’Inquisizione «al modo di Spagna»
nello Stato di Milano (1558-1566)”, Società e storia, 91, 2001, pp. 79-134. Per le Fiandre cfr. almeno F. E. Beemon,
“The Myth of the Spanish Inquisition and the Preconditions for the Dutch Revolt”, Archiv für Reformationsgeschichte, 85,
1994, pp. 246-263 e A. Duke, Reformation and Revolt in the Low Countries, London-Ronceverte, 1990, pp. 152-174.
52
A. Prosperi, Tribunali della coscienza, p. 70.
53
Sugli anni giovanili di Tasso e sulla sua passione per l’averroismo ha insistito A. Gagliardi, L’averroismo e la
miscredenza di Torquato Tasso, in Torquato Tasso. Cultura e poesia, Atti del Convegno Torquato Tasso. Cultura e poesia,
1996, Torino, 1997, pp. Ma cfr. ora anche A. Corsaro, Percorsi dell’incredulità. Religione, amore e natura nel primo
Tasso, Roma, Salerno, 2003, pp. Ad entrambi rimando per un’analisi dettagliata, e divergente in molti punti, dei passi
in questione. Sul dialogo e sulle cautele di Tasso cfr. G. Scianatico, “Gli «umori de la Spagna e di Napoli» in un dialogo
del Tasso”, in Ead., L’idea del perfetto principe. Utopia e storia nella scrittura del Tasso, Napoli, 1998, pp. 65-90. Ma
ancora fondamentale l’analisi e la contestualizzazione che ne fece L. Firpo in T. Tasso, Tre dialoghi politici, a cura di L.
Firpo, Torino, 1980, pp. 42-50.

828
IMMAGINI DELL’INQUISIZIONE SPAGNOLA IN ITALIA

Nifo, dietro cui sembra nascondersi l’opinione dello stesso Tasso, a proposito dell’uso tutto
moderno di controllare e giudicare i pensieri, esclamava:

Questo uso nondimeno di punir così aspramente coloro c’hanno alcuna nuova opinione nella
relligione o diversa da quella che tengono e’ principi della città, è uso anzi moderno ch’antico54

E pur constatando con un forzatamente prudente giro di parole che “dapoi che gli impe-
ratori divennero cristiani fu con molta severità proceduto contro gli eretici” e che il difendere
l’integrità dello stato aveva portato giustamente a combattere il dissenso ereticale e alla nascita
dell’Inquisizione spagnola concludeva che non c’erano ragioni per introdurre l’Inquisizione
spagnola a Napoli, per arrischiare poi, con un’argomentazione molto simile a quella di Con-
tarini, che

la falsità delle opinioni non può ragionevolmente recare infamia se non quand’ella o è accompagna-
ta da pertinazia o congiunta a volontà perversa di corrompere e di infettare altrui; la quale perversità
de volontà, perchè non si trovava nel Peretto [in Pomponazzi] nè nel Porzio furono ne gli studi
publici tollerati, tutto che si sapesse publicamente che l’uno e l’altro di loro non più oltre credesse di
quel ch’Aristotele avesse creduto; e fu tolerato o, per dir meglio, è ancora in corte a Salerno il signor
Scipione Capece, il quale, d’opinione non solo aristotelico ma alessandrio, è degno d’ogni amore e
d’ogni riverenza e per altro virtuosissimo gentiluomo55

Ancora una volta l’Italia e i sistemi di repressione sembrano, anzi si immaginano, diversi, e la
loro diversità spicca attraverso il confronto con la realtà spagnola. L’Italia “d’altra complessione e
d’altri umori” diventa l’Italia di Pomponazzi e del Porzio, dell’aristotelismo padovano e delle in-
terpretazioni di Averroè, quella in cui, per parafrasare le parole di Contarini, era possibile leggere
gli autori infedeli e discutere le loro opinioni. Era un paese diverso dove la parabola degli intellet-
tuali, dall’aperto Quattrocento agli studi cinquecenteschi, aveva potuto essere, per un breve ma
significativo tratto, singolarmente diversa da quella dei colleghi spagnoli. Quel cauto e insieme
coraggioso appello aveva il sapore di un’ultima scommessa, lanciata fuori tempo in un Italia in
cui gli interventi della Chiesa Romana si stavano facendo sempre più insinuanti, allargando am-
biti e azioni repressive anche alla letteratura56, quasi nella convinzione che, tra le maglie larghe
di un sistema che non era ancora lontamente comparabile con la macchina reporessiva spagnola,
fosse possibile trovare ancora spazi di autonomia critica. La tragica vicenda personale del Tasso
e le peripezie e riscritture del suo Gonzaga-Nifo “quasi partecipe de la mia fortuna”57 dovettero
bruscamente smentire l’utopia del dialogo, mostrandoci un paese in cui le parole venivano giu-
dicate e censurate como le opere e la censura ecclesiastica veniva ormai introiettata diventando
autocensura. Ben altro commento meriterebbe l’esperimento tassiano, ma nell’affastellarsi delle
54
T. Tasso, Il Gonzaga overo del piacere onesto, in Id., Dialoghi, a cura di E. Raimondi, Firenze, 1958, III, p. 232.
55
Ivi, III, p. 240.
56
Cfr. soprattutto G. Fragnito, “Torquato Tasso, Paolo Costabili e la revisione della Gerusalemme Liberata”, Schifa-
noia, 22/23, 2002, pp. 57-69 e A. Quondam, “Sta notte mi sono svegliato con questo verso in bocca”. Tasso, Controriforma
e Classicismo, in Torquato Tasso e la cultura estense, a cura di G. Venturi, Firenze, 1999, pp. 535-595.
57
Cfr. la lettera dedicatoria del “Nifo” al Gonzaga in T. Tasso, Dialoghi, vol. II, t. I, p. 157 e C. Lord, “The Argu-
ment of Tasso’s Nifo”, Italica, 56, 1979, pp. 22-45.

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Stefania Pastore

immagini dell’Inquisizione spagnola in Italia ho voluto raccogliere anche questa, evocando appe-
na un percorso al quale spero, in altra sede, di dedicare più spazio.
La stessa tragica vicenda personale del Tasso dovette smentire l’utopia del 1580, mostrandoci
un paese in cui le parole venivano giudicate e censurate come le opere e la censura ecclesiastica
veniva ormai introiettata diventando autocensura. Ma forse vale ancora la pena raccogliere anche
questa immagine, e cercare ancora.

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