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Il castello che vedete qui, imponente e massiccio come una fortezza ha avuto molte vite, prima di arrivare a

noi e a differenza di tanti altri monumenti dell'antica Roma, non è mai stato abbandonato o distrutto
completamente.

Inizialmente è nato come monumento funebre e sepolcro dell'imperatore Adriano e della sua famiglia, più
tardi, Lungo la nostra passeggiata ve ne parlerò meglio di questo imperatore.

Per il momento sappiate che se non fosse stato per lui qui forse ci sarebbe stato un parcheggio :) :)

La famiglia dell'imperatore ADRIANO che si chiamava Elia, lo fece costruire intorno al 123 d.C. e rimase
monumento funebre per moltissimo tempo, fino al 217 d.C. Qui vennero sepolti tutti gli imperatori da
Adriano a Caracalla. E già di certo questo un buon motivo per dare inizio alla nostra
fantasmagorica...passeggiata proprio da questo monumento.

Il mausoleo aveva delle dimensioni notevoli e era costituito da 2 forme geometriche alla base un quadrato
di 89 metri alto 15, che sorreggeva un'altra costruzione a forma di cilindro di 20 metri.

Qui potete vedere una ricostruzione

Come si sà tutte le cose hanno un inizio e un fine e fu così anche per l'impero romano, verso il 400 già i
primi BARBARI - Ai quali io devo molto, il mio nome ad esempio - ahaha- iniziarono a invadere Roma e
proprio in questo periodo il monumento, data la sua vicinanza al Fiume e la sua imponenza diventa una
perfetta mole difensiva. Non a caso il castello viene anche detto MOLE ADRIANA -

Più precisamente nel 403 d.C. l'ultimo imperatore romano ONORIO, fa del monumento un bastione a
protezione del ponte, per impedire ai nemici di entrare in città. Addirittura, nel 546 durante le guerre
bizantino-gotiche si formò intorno alla MOLE ADRIANA una vera e propria cittadella fortificata, dove però si
accamparono i Barbari di TOTILA, germanici, che diedero il nome a quello che oggi è Borgo Pio e Borgo
Vittorio. Un corridoio sopraelevato e fortificato, collega strategicamente Castel Sant'Angelo a San Pietro, il
cosiddetto " Passetto di Borgo"...
Dunque la storia di questa ormai fortezza si avvia ad essere strettamente legata alla difesa di una Roma
MEDIEVALE, dove le più importanti famiglie dell'epoca, ma come pure i Papi se ne contendono il controllo e
la proprietà.

Infatti, se la vicinanza con la Basilica di San Pietro, sorta sulla tomba dell'apostolo nel 319, sembrava
predestinarla al ruolo di roccaforte della Cristianità, la sua collocazione strategica ne fece un
avamposto indispensabile per chiunque aspirasse a dirigere le sorti della città. Il processo che
doveva portare Castel Sant'Angelo per lungo tempo sotto il dominio pontificio ha inizio con la
leggendaria apparizione dell'arcangelo Michele, tradizionalmente datata all’epoca del papato di Gregorio I
Magno, (590-604) e legata alla pestilenza che chiuse tragicamente il VI secolo a Roma.

Fu proprio l'evento miracoloso a dare il nome alla monumento che vediamo qui oggi: L'arcangelo Michele
nel 590, appare al Papa Gregorio Magno ( quello dei canti gregoriani), mentre sta per rinfoderare la spada,
segno della fine della pestilenza... e noi oggigiorno ne sappiamo qualcosa di cosa sia un'epidemia....

in ricordo del miracolo, il castello CAMBIò IL SUO NOME in CASGTEL SANT'ANGELO e in cima fù costruita
una cappella, rimpiazzata poi nei secoli da una prima statua di San Michele, poi sostituita nel tempo da
varie altre, FINO AD ARRIVARE a questa che vediamo qui OGGI, opera dello scultore fiammingo Peter
Anton Verschaffelt, che vinse il concorso indetto da papa Benedetto XIV Lambertini in occasione del
Giubileo del 1750.

MA NOI OGGI QUI SIAMO VENUTI A CERCARE ANGELI O FANTASMI?

Ebbene, la storia del castello che porta il nome dell'Arcangelo Michele in realtà cambia completamente
direzione nel 928, quando una certa MAROZIA ne inaugura la FUNZIONE CARCERARIA, facendovi
imprigionare e STRANGOLARE addirittura un papa Giovanni X.

Nel corso dei secoli che corrono tra l'anno 1000 e il 1750, la fortezza è sempre sata detenuta da famiglie
nobili come gli Orsini o da papi importanti come Alessandro VI Borgia (1492-1503) - quello della scoperta
dell'america mica uno qualunque -- Se guardate bene potrete vedere ancora lo stemma e l'iscrizione affissa
la sopra...

Come vi dicevo il secondo millennio segna questo posto con la sua funzione CARCERARIA, E nelle sue
segrete celle furono rinchiuse diverse illustri personalità: da Alessandro Farnese (diventato poi Papa col
nome di Paolo III) a Giordano Bruno - che incotreremo alla fine del nostro incontro con i fantasmi di Roma -,
a Benvenuto Cellini, fino ai patrioti che durante il Risorgimento si batterono per detronizzare il Papa dal suo
potere temporale.

Ma certamente il caso più famoso di esecuzione capitale a Castel Sant’Angelo fu quello che riguardò
Beatrice Cenci che a ventidue anni fu giustiziata l’11 settembre del 1599 insieme al fratello Giacomo (per
squartamento) e alla matrigna Lucrezia Pietroni.

Come tramandano le cronache dell’epoca, quello fu un vero e proprio caso giudiziario, tra i più scandalosi e
dibattuti della intera storia della Capitale: del processo infatti parlò tutta Roma, e ancora per i secoli a
venire la fama della sinistra vicenda influenzò grandi scrittori come Stendhal, Percy B. Shelley e Alexandre
Dumas.

E c’era tutta Roma quel giorno ad assistere, nella Piazza di Castel Sant’Angelo, alla esecuzione della bella
Beatrice – accusata di parricidio – e dei suoi complici. Una folla enorme nel caldo afoso d’agosto: in tanti
svennero per la calca, altri addirittura finirono spintonati nel fiume.

Nella piazza, tra la gente, c’erano turisti e curiosi, frati confessori e tutti i rampolli delle famiglie nobili
dell’epoca; c’erano soldati e artisti, perfino Michelangelo Merisi da Caravaggio e Artemisia Gentileschi, i più
grandi dell’epoca.

La storia di Beatrice Cenci ricorda un po’ quella dell’artista tardo rinascimentale Artemisia Gentileschi,
anche lei romana di Roma. Entrambe le donne infatti furono oggetto di violenze da parte di un uomo, ma
alla protagonista di questa storia dell’orrore non si prospettò poi un futuro di riscatto, da grande pittrice di
corte europea, purtroppo. Beatrice Cenci, nata nel 1577, infatti era oggetto di violenze da parte del padre;
dopo anni di soprusi la donna riuscì a denunciare il suo genitore, ma nonostante la cattiva nomea di cui
godeva Francesco Cenci, la richiesta d’aiuto della donna non sortì alcun effetto. Lei e i suoi familiari allora,
esasperati dalle violenze del padre decisero di farsi giustizia da soli. Dopo aver stordito l’uomo violento,
Beatrice, i suoi fratelli Giacomo e Bernardo, la sua seconda moglie Lucrezia, il maniscalco Marzio da Fioran
e il castellano Olimpio Calvetti, lo uccisero in maniera molto cruenta, spezzandogli le gambe e
conficcandogli un chiodo in gola e nella testa, gettando infine il corpo da una rocca, di cui vi parlerò a breve.

Il padre di Beatrice (Francesco Cenci) non era esattamente una brava persona, era un tizio rissoso e
piantagrane, con un sacco di debiti ovunque e diverse denunce per violenze e abusi sessuali. Dava così
fastidio che quando Sisto V era Papa, fu costretto ad andarsene da Roma, giacché non si riusciva in alcun
modo a conciliare la durezza del pontefice con la sregolatezza di questo nobile. Comunque sia, morto Sisto
V torna a Roma rapidamente, quando NEL 1592, allo Stato Pontificio arriva Clemente VIII. Ecco, questo
Papa non stravedeva per il Signor Cenci e tutta l’allegra famigliola, quindi questo spiega tutta la storia che
ne segue.
La famiglia Cenci intanto ha seppellito la prima moglie di Francesco Cenci, il quale si risposa poco dopo con
Lucrezia Petroni, sempre nel 1592. I Cenci non sono visti benissimo, anche perché il padre non mantiene
bene i propri figli, i quali per andare a matrimonio si fanno sistemare direttamente dal Papa. Il padre non è
interessato, non elargisce nemmeno il denaro minimo per campare. Beatrice però intanto cresce, diventa
bella e comincia ad attirare le attenzioni di qualche nobile che si propone di prenderla in sposa. Il padre,
sicuramente animato da un interesse molto poco nobile, decide di tenere la figlia tutta per sé, segregandola
nella Rocca di Petrella Salto, territorio del Regno di Napoli. Là, praticamente nel nulla, le violenze sulla
moglie e gli stupri incessanti sulla figlia non hanno limiti (e nemmeno troppi testimoni) fino a quando
qualcosa non accade.

Francesco Cenci viene ucciso e l’omicidio passa – in un primo momento – come un incidente. In realtà il
corpo sembra sia stato seppellito prima che qualcuno potesse verificare come in realtà sia stato martoriato
il cranio a colpi di probabilissime mazze chiodate.

In quella casa effettivamente c’era un po’ di gente che voleva Francesco sotto ad un cipresso: Beatrice
sicuramente non era molto propensa a farsi leggere le favole della buonanotte, la matrigna aveva sempre
cercato di proteggere la figliastra, i fratelli sicuramente non vedevano di buon occhio il fatto di morire di
fame a causa di un padre fuori di testa… ma non erano gli unici. Lì ci stava anche tal Marzio Catalano[*], un
brigante al quale Francesco Cenci non solo aveva rubato la donna, ma gli aveva ucciso – per ella – tutti gli
uomini al soldo. Insomma, qualche rancore del passato che magari era ora di lasciar andare.

Tutta la famiglia torna a Roma a Palazzo credendo sicuramente che la storia sarebbe rimasta nel Regno di
Napoli. E invece no. Le cose non tornano a qualcuno, così viene riesumato il corpo di Francesco e i referti
parlano di ferite troppo profonde e troppo gravi per essere giustificate con l’incidente descritto dalla
famiglia della vittima. Tra l’altro, s’ha da dire che Clemente VIII non vedeva l’ora di togliersi dai piedi la
scomodissima famiglia dei Cenci, quindi spinse molto le indagini in un’unica direzione. Da questo momento
inizia un po’ la caccia all’uomo, qualcuno canta della congiura alle guardie e in breve tempo vengono
arrestati: Beatrice, Lucrezia, Bernardo e Giacomo. Insomma, i tre fratelli e la matrigna sono gli accusati e
iniziano ad essere sottoposti a torture indicibili.

In realtà il processo fu una mezza farsa, tant’è che non fu permesso alla difesa di tenere un’arringa finale.
Tutti colpevoli di omicidio, con immensa gioia del Pontefice, quindi tutti condannati alla pena capitale, fatta
eccezione per Bernardo che all’epoca aveva solo 18 anni. Non che gli andò meglio, comunque, fu infatti
costretto ad assistere all’esecuzione dei famigliari rimanendo legato ad una sedia, successivamente fu
mandato su una nave dove dovette remare, remare, remare per diversi anni. Pare sia riuscito comunque ad
riavere la libertà su pagamento, ma dopo diversi lustri.

Ma torniamo a Beatrice, la quale non ha mai ammesso di essere stata stuprata dal padre, la quale non ha
ceduto fino alla fine ai dolori immensi della tortura, prende la via assieme a Lucrezia per Castel Sant’Angelo,
dove verrà decapitata per ultima. Le cronache narrano di una donna ferma e risoluta che scelse di togliersi
da sola la benda dagli occhi e s’accomodò sul tronco senza aiuti, esponendo con fierezza il collo al boia. Si
racconta che poco prima di morire invocò Maria Vergine e Gesù Cristo, ma solo dopo aver detto al
giustiziere di fare tranquillamente il suo lavoro, poiché lei sarebbe stata presa in gloria dal Padre Eterno. Ci
sono anche aneddoti divertenti, un po’ di umorismo nero Seicentesco: pare infatti che la signora Lucrezia
avesse dei problemi ad esporre il collo a causa del seno prosperoso che faticava ad appoggiare sul tronco
dell’esecuzione.

Comunque sia così sono andate le cose, i beni della famiglia furono confiscati e in buona parte furono
assegnati ad un nipote del Papa Clemente VIII, il quale per altro si disse molto soddisfatto dell’epilogo della
vicenda, asserendo con convinzione che giustizia fosse stata fatta. Non erano dello stesso avviso i popolani
e diversi cardinali, molteplici infatti furono le richieste di clemenza, per altro i due boia che eseguirono le
condanne non ressero il peso della colpa e morirono suicidi molto poco tempo dopo.

Così termina la nostra storia, le spoglie di Beatrice sono tutt’ora sepolte nella chiesa di San Pietro in
Montorio, in un loculo davanti all’altare privo di nome secondo la regola per i condannati a morte.

Si racconta che la notte di ogni ’11 Settembre, proprio qui davanti a Castel Sant’Angelo, pare che la ragazza
si materializzi e porti a spasso la sua testa su un vassoio d’argento. Il vassoio non è un caso, fu veramente
sepolta con il cranio appoggiato su questo oggetto prezioso, peccato che durante la Prima Repubblica
Romana, i francesi decisero di profanare la tomba e giocare a calcio con la testa della poverina.

Nel 1798 le truppe napoleoniche invasero Roma e nelle loro scorrerie arrivarono anche nella chiesa di San
Pietro in Montorio, dove devastando il cimitero, dispersero i resti mortali della donna; addirittura ci fu chi
affermò che i soldati francesi giocarono a palla con la sua testa. Da quel momento in poi il fantasma di
Beatrice Cenci cominciò a vagare per la città di Roma e a farsi vedere soprattutto nelle notti tra il 10 e l’11
settembre, che cammina sul ponte di Castel Sant’Angelo con la sua testa in mano.

MA DI FANTASMI NON C'E' QUI SOLO QUELLO DELLA POVERA BEATRICE CENCI,

Si narra che qui si aggiri anche quello di un certo Giambattista Bugatti, meglio detto Mastro Titta, boia dello
stato Pontificio dal 1796 al 1864.

Questo oscuro personaggio nacque a Senigallia nel 1779 e morì a Roma nel 1869. Per circa 70 anni fu
l’esecutore delle condanne a morte per conto dello Stato Pontificio, raggiungendo il numero di ben 516
giustiziati.

Le esecuzioni avvenivano in piazza, davanti al popolo che accorreva da ogni parte della città per gustare il
macabro spettacolo. Vista l’esemplarità della pena, i genitori portavano i figli ad assistere alle esecuzioni e,
al momento dell’impiccagione o del taglio della testa, i bambini ricevevano uno schiaffo come monito per
eventuali azioni future non contemplate dalla legge.
Mastro Titta non era visto di buon occhio dai suoi cittadini. Proprio per questa ragione viveva dentro le
mura vaticane, al di là del fiume Tevere. Per precauzione non poteva entrare in città. Da qui il noto
proverbio:

“Boia nun passa ponte.”

È da lui che il termine "Mastro Titta" cominciò ad essere usato a Roma come sinonimo di boia, tanto per
indicare i molti che lo precedettero quanto per i pochi che seguirono.

Pur professando uno dei mestieri più orribili, Mastro Titta faceva il suo dovere con distacco, che è poi un
tradizionale atteggiamento dei romani verso gli alti e bassi della vita. Talvolta era uso offrire ai condannati
un'ultima presa di tabacco, quasi a voler dire loro non ve la prendete con me se oggi vi trovate qui, o
coraggio: non ci vorrà molto tempo, farò un bel lavoro.

Insomma, non svolgeva quell'attività per suo piacere, ma poiché qualcuno doveva pur farlo... se ne
occupava lui, anche con grande professionalità!

Mastro Titta per vivere svolgeva un'attività regolare: era verniciatore d'ombrelli, un'attività per la quale
gestiva una bottega nel quartiere di Borgo, sulla sponda occidentale del Tevere, non distante dai palazzi
pontifici. Ancora oggi lì esiste una via degli Ombrellari. Risiedeva in vicolo del Campanile 2, in una palazzina
dei primi del Cinquecento tutt'ora esistente. Per via della sua seconda "occupazione" più saltuaria, a
salvaguardia della sua stessa incolumità, gli era vietato accedere ai rioni centrali della città, situati sulla
sponda opposta del Tevere; poteva farlo solo in veste ufficiale, per il ben noto motivo: quando si diceva
Mastro Titta passa ponte, significava che qualcuno stava per rimetterci la testa.

Mastro Titta andò in pensione all'età di 85 anni e per i cinque anni che ancora visse gli fu persino
riconosciuta una pensione per lunghissimi servizi (come risulta da un documento ufficiale), servizi che
prendeva molto sul serio: all'alba dei giorni fatidici - la maggior parte delle esecuzioni aveva luogo di
mattina presto - indossava un mantello scarlatto e, solennemente, "passava ponte".

Teneva anche un registro della sua attività: un taccuino sul quale scupolosamente annotava date, nomi e
colpe per cui tali servizi venivano richiesti.a.

A rischio di apparire un po' macabri, è opportuno ricordare la versatilità di Mastro Titta nel maneggiare il
suo "strumentario" di lavoro: le sue tecniche comprendevano l'impiccagione, il mazzolamento (cioè
l'uccisione con un preciso colpo di mazza), la decapitazione a mezzo ghigliottina (retaggio della Rivoluzione
Francese) e persino lo squartamento; quest'ultima era una pena aggiuntiva, comminata ai rei di crimini
particolarmente efferati - ad esempio, l'omicidio di un prelato - e veniva inflitta dopo l'uccisione, al corpo
ormai privo di vita, con successiva affissione dei quarti smembrati ai quattro angoli del patibolo.

Le pubbliche esecuzioni si tenevano in luoghi fissi; piazza del Popolo, Via dei Cerchi e un altro famoso sito
per le sentenze capitali era proprio la piazzetta ad uno dei capi del ponte dirimpetto a Castel Sant'Angelo.

Le apparizioni raccontano di un uono con il mantello e il cappuccio calato sulla testa che si aggira vicino al
ponte S. Angelo o di un passante che offre una presa di tabacco e poi scompare...

Ancora oggi sia la SPADA che uccise Beatrice Cenci, così come il mantello e gli attrezzi del mestiere di
Mastro Titta, sono conservati al museo criminologico, che ha sede guarda caso in un ex CARCERE MINORILE
- PALAZZO del Gonfalone, non lontano dal ....TRIBUNALE PER I REATI MINORILI...

IL PANTHEON

Nel 1638 due coniugi provenienti da Norcia furono condannati a morte perché accusati di vendere salsicce
di carne umana nei pressi del Pantheon. Da questo episodio è rimasta l’abitudine di esclamare “Ha fatto a
fine di’ noricini da’ Rotonna”

In piazza della Rotonda c’è una targa che ricorda l’opera di demolizione, fatta eseguire da Pio VII nel 1823,
con l’obiettivo di liberare la piazza da ignobili taverne e dal mercato che ne deturpavano la bellezza e
restituirla al pubblico godimento:

In zona poi, ancora aleggiava il ricordo di un certo macabro fatto di cronaca avvenuto all’inizio del Seicento.

Si raccontava che due coniugi originari di Norcia vendevano con gran successo delle salsicce dalla bontà
incredibile e particolare. La fama di queste salsicce tenne cartello per parecchi anni finché un giorno
cominciò a girar la voce che quella che si vendeva non era propriamente tutta carne di maiale, ma bensì
anche carne umana.

La notizia, che ovviamente fece restare gli attoniti consumatori a bocca aperta e con lo stomaco rivoltato,
arrivò alle orecchie del Capitano di Giustizia (una sorta di attuale Commissario di Polizia), che dopo una
veloce indagine, appurò che il fatto non era una semplice diceria, ma la cruda realtà.

Questi due esperti norcini, per far le salsicce più saporite, attiravano infatti nella cantina della loro bottega
ignari clienti piuttosto in carne e li uccidevano a colpi di bastone.
Poi, bruciati i loro abiti e le ossa, impastavano la carne nelle salsicce, ottenendo così quel prodotto trovato
tanto buono, al punto che molti ghiottoni di Roma lo ricercavano.

Processati, vennero condannati a morte e la sentenza, tramite il taglio della testa, fu eseguita sotto il
pontificato di Urbano VIII, il 3 febbraio 1638.

Al riguardo, nella tradizione dei detti romaneschi, è rimasta l’abitudine di esclamare “Ha fatto a fine di’
noricini da’ Rotonna” riferendosi a qualcuno che tarda ad arrivare o che non dà più notizie di sé.

LA PIMPACCIA

Il Fantasma di Olimpia Pamphili vaga ancora per Piazza Navona nelle notti di plenilunio e sferzate da
temporali. Si dice che esca da Villa Pamphili con tutto l’oro trafugato al Papa su una carrozza guidata da un
cocchiere senza testa e trainata da quattro cavalli neri che sputano fuoco, e dopo aver attraversato Ponte
Sisto scompaia nel Tevere dove i diavoli vengono a prenderla per portarla all’inferno.

Il fantasma si avvicina alle povere vittime e ride in modo agghiacciante. Le sue risate rappresentano il
disprezzo rivolto al popolo romano a cui non piaceva per la sua ambizione sfrenata, per le sue origini
popolane e per il fatto che voleva regnare come una regina pur venendo da fuori Roma.

Donna Olimpia Maidalchini fu una delle protagoniste della storia di Roma nel XVII secolo. Figlia di un
appaltatore viterbese, il capitano Sforza Maidalchini, e di Vittoria Gualterio, Patrizia di Orvieto, Patrizia
Romana e Nobile di Viterbo. Olimpia si sposò, giovanissima, con un ricco Paolo Nini che la lasciò vedova,
ricca e libera dopo soli tre anni.

Rimasta vedova già a 20 anni, si era rimaritata in quattro e quattr’otto con il nobile Pamphilio Pamphili, 30
anni più vecchio di lei. Ma ricchissimo e in più… fratello del Cardinale Giovanni Battista. Vedova di lì a poco
per la seconda volta, Olimpia divenne la consigliera più ascoltata del cognato cardinale, che ben presto salì
al soglio pontificio con il nome di Innocenzo X (1644-1655). I maligni dissero che con il cognato Papa, uomo
a detta generale ruvido e bruttissimo, condivideva anche il letto.

Fatto sta che in pochi anni divenne la donna più potente e temuta di Roma. Viveva nel sontuoso ed
elegante Palazzo Pamphili in piazza Navona, fatto edificare personalmente da Innocenzo X. La statua
parlante di Pasquino per combinazione si trovava proprio alle spalle di piazza Navona. E Pasquino non
stette zitto a lungo: “Chi disse donna, disse danno! Chi disse femmina, disse malanno! Chi disse Olimpia
Maidalchina, disse femmina, danno, donna e rovina”.

Tutti coloro che avevano da chiedere qualcosa al Papa, dovevano passare prima da lei. E quasi sempre il suo
appoggio era concesso solo dietro ricchi regali e lasciti. Donna Olimpia comandava su tutti. Nel giro di
pochi anni la Papessa accumulò una vera fortuna. Il grande Bernini poté erigere la Fontana dei Quattro
Fiumi al centro di piazza Navona solo dopo averle fatto cospicui doni. Il Papa le regalò la splendida Villa
Pamphili.

Ma all’improvviso le condizioni di salute di papa Innocenzo peggiorarono e lo portarono alla tomba. Donna
Olimpia fiutò il vento contro, ma si non perse d’animo. E si affrettò a trafugare e mettere al sicuro l’ultimo
bottino: due casse piene d’oro che il pontefice morente custodiva gelosamente sotto il letto. Pochi giorni
dopo, infatti, fu esiliata da Roma dal nuovo Papa, Alessandro VII. Si ritirò a vita privata nella splendida villa
di San Martino al Cimino, a Viterbo, ma non sopravvisse a lungo: la peste se la portò via nel 1657. Lasciò in
eredità ben due milioni di scudi d’oro, un vero tesoro per quei tempi.

Ma il fantasma di Donna Olimpia, secondo le dicerie, non ha mai lasciato del tutto la Città Eterna. Ancora
oggi c’è chi giura di vederla correre di notte su un cocchio nero per via della Lungara diretta a Trastevere.
Di tanto in tanto alcuni dicono di scorgerla nel suo palazzo di piazza Navona. Vederla affacciata con il volto
arcigno alle finestre, secondo i più timorosi, è presagio di morte e disgrazie.

L’aspetto più interessante della figura di donna Olimpia è che gli eccessi che le furono attribuiti erano
soprattutto relativi ad un’ossessiva avidità di denaro e di potere, tipica degli uomini ma non frequentissima,
in maniera così esplicita e prevalente, nelle donne.

Si dice, che durante le feste a Roma, era tradizione per i ricchi, gettare in strada le candele che erano
servite per illuminare le finestre, in modo che i poveri ne potessero beneficiare, ebbene la Pimpaccia, così
chiamavano Olimpia i romani, faceva vestire da straccioni i suoi domestici per recuperare la cera delle
candele e non sprecarla.

Da dove deriva il soprannome di Pimpaccia? Da una pasquinata, cioè uno scritto satirico lasciato sulla più
celebre “statua parlante” di Roma, Pasquino.

In questo scritto Olimpia è definita “Olim-pia, nunc impia”

È un gioco di parole: in latino olim = una volta e pia =religiosa; nunc = adesso e impia (empia, piena di
peccati!).

Quindi il senso della frase è: Una volta brava e religiosa, ma adesso corrotta e peccatrice! Da questo scherzo
è nato il soprannome “Pimpaccia”.

Tra le pasquinate rimaste celebri sul suo conto:

Chi dice donna, dice danno – chi dice femmina, dice malanno – chi dice Olimpia Maidalchina, dice donna,
danno e rovina
Chi è persona accorta – corre da donna Olimpia a mani piene – e ciò che vuole ottiene.

GIORDANO BRUNO

Giordano Bruno nasce a Nola nel 1548 e dopo aver intrapreso la strada ecclesiastica di frate domenicano,
fugge dal convento, per professare le sue teorie filosofiche del libero pernsiero.

Dobbiamo anche a lui se viviamo in un epoca ci libera espressione, fu precursore di molte teorie filosofiche,
ma anche scientifiche.

Viaggiò in tutta Europa e era voluto e corteggiato dalle corone più importanti dell'epoca. Tuttavia, per
quello che oggi chiameremo la "fuga di cervelli", spesso si sente nostalgia di casa...e qui il povero Bruno
rimase incastrato....

Al suo rientro a Venezia, un certo Mocenigo voleva apprendere da lui le sue incredibili tecnicne di memoria,
ma rimase scontento del risultato e per tutta risposta lo accusò di eresia e da li furono guai per Giordano
Bruno, che venne prima imprigionato a Venezia e finì estradato a Roma per poi morire sul rogo.

Il processo che lo condusse al rogo durò pensate, per 8 lunghi anni, iniziò a Venezia, e 7 anni Bruno li passò
in carcere a Roma.

“Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla”. Giordano Bruno si rivolse
con queste parole al Tribunale dell’Inquisizione che lo condannava per eresia. Non abiurò e per questo fu
arso vivo nella piazza romana di Campo de’ Fiori il 17 febbraio del 1600.

La statua del frate domenicano in questa Piazza Campo de’ fiori, fu voluta dalla Massoneria e realizzata
dallo scultore Ettore Ferrari, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia dal 1904 al 1917. Ed è lì dal 1889
come un faro nella notte a indicarci la via della ricerca della verità.

Gli otto medaglioni son disposti a due a due per ogni lato del basamento e rappresentano alcuni degli
intellettuali che nei secoli hanno sfidato il potere ecclesiastico.

Delle quattro formelle quella frontale riporta l’iscrizione dettata dal filosofo Giovanni Bovio: «A Bruno / il
secolo da lui divinato / qui / dove il rogo arse»,

Le altre tre formelle invece sono tre bassorilievi raffiguranti ciascuno tre momenti particolarmente
significativi della vita di Giordano Bruno:
Bruno all'università di Oxford;

la sentenza del Sant’Uffizio

il rogo[11].

Termina qui il nostro viaggio alla ricerca e alla scoperta dei "FANTASMI di ROMA", che non sono poi così
lontani da noi, c'è sempre un dettaglio un palazzo o un monumento che continua a parlarci di LORO.

Certamente furono personaggi eccezionali e a volte semplicemente molto grotteschi. Ogni cosa che esiste
lascia un segno e la nostra meravigliosa città è uno scrigno di segreti e misteri che custodisce gelosamente,
noi oggi ne abbiamo visti solo alcuni, i più famosi, chissà quanti altri resteranno in silenzio.

Vi ringrazio per la vostra attenzione e mi auguro che abbiate trascorso piacevolmente la vostra passeggiata
romana, sempre onorata di poter raccontare la città eterna.

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