PIANO

ON BOUNDARIES
ISSUE #1
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pag. 2
Special Project/ Alicia Frankovich & Julian Dashper

pag. 8
Piano by Denis Isaia

pag. 9
In conversation with
Laboratorio Curatorial 060

pag.13
Situation Room/ Hackitectura.net

pag.18
INDICE
The Merzball Pavilion/ Loris Gréaud
INDEX

pag 22
Muoversi nella bottiglia di Klein, ovvero fare
lʼartista/ Cesare Pietroiusti

pag.25
Progetto a cura di/ Project by
Special Project/ Luca Trevisani
FEDERICA BUETI/JACOPO CANDOTTI
redazione@pianomagazine.org

pag.32
CONTRIBUTORS
Untitled/ Jacopo Candotti
Julian Dashper & Alicia Frankovich
Loris Gréaud
Hackitectura.net
Denis Isaia
Laboratorio Curatorial 060
Cesare Pietroiusti
Francesca Pagliuca pag.34
Luca Trevisani MICRO
Biennale di Berlino 2008/
Francesca Pagliuca

In copertina_Cesare Pietroiusti
“Tutto quello che trovo”, 1999, performance, base, Firenze,
Courtesy the artist
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Ci siamo sempre chiesti cosa costringesse entro stretti confini il contesto artistico in cui operiamo e ci
siamo sempre detti che saremmo riusciti ad individuare i punti deboli e partendo da quelli avremmo cer-
cato di ricostruire, trasformare, sbilanciare una forma troppo statica di pensare alla cultura, soprattutto alla
cultura contemporanea. Pensare che il contemporaneo sia risolvibile in singole presenze e singole person-
alità, ci sembra oltre che riduttivo soprattutto lontano da una certa visione fluida del reale, in cui i ruoli si
scambiano e le trame si intrecciano. Andare al di là della parzialità del singolo soggetto e abbracciare la re-
altà in modo trasversale diventa non solo una capacità acquisita, ma un abito mentale che riconosce nel-
l’Altro una fonte di inesauribile conoscenza e confronto. Per condividere l’Altro bisogna essere in grado di
superare i propri confini, fisici e mentali e per questo abbiamo deciso che il nostro primo step sarebbe pas-
sato da una riflessione ed un’analisi del concetto di confine lasciando la parola ad artisti, critici e curatori
secondo un principio di orizzontalità di matrice deleuziana. Una forma ibrida, plurale, un mostro “ a sette
teste” senza una propria identità, ma non per questo privo di carattere, anzi il suo carattere molteplice cerca
di individuare le differenze non per uniformarle, ma per moltiplicarle in una gamma di colori e sfumature
diverse. Il nostro Piano d’azione è stato quello di voler mostrare il reale nella sua esistenza come con-
traddizione inconciliabile che spinge a considerare i due aspetti di uno stesso problema, le due personalità
di uno stesso soggetto complementari eppure diverse. E ancora, identificarsi con l’Altro, o essere l’uno e l’al-
tro allo stesso tempo, come Alighiero e Boetti, che diventa i gemelli Boetti sperimentando la possibilità di
un approccio plurale e nomadico. Tra gli interstizi di ogni paradosso abbiamo cercato una modalità e alla
fine abbiamo deciso di mettere disordine nell’apparente ordine. Qui il nostro progetto è diventato uno spazio
senza un format, ma non senza forma, senza limiti, ma non senza un termine. Non è un caso che il primo
numero parli proprio di confini, consideriamo, infatti, PIANO stesso un limite e quindi un confine, dal
quale partire per esplorare i territori possibili della cultura contemporanea . E mentre attorno a noi pratiche
artistiche e curatoriali ripensano se stesse diventando strumenti per nuove strategie di pensiero, noi abbi-
amo deciso che forse valeva la pena di affrontare e approfondire un discorso attraverso le voci di chi ha con-
tribuito alla realizzazione di questo progetto. Adesso, ci auguriamo solo di incontrarvi sul nostro cammino…

"We have always wondered what we were obliged to do within the narrow confines of the artistic context
in which we operate, and we have always said that we would be able to identify weaknesses or grey areas
within culture, particularly concerning contemporary culture. We knew that from these areas of question that
have become pertinent to us, that we would try to rebuild and transform modes of thinking which are too
static. To think that the notion of contemporary can be solved by an individual presence or personality is too
reductive an idea, especially where roles exchange and plots intertwine, where they move away from a sin-
gular vision and become more real and more fluid. Going beyond the partial and individual subject and at-
tempting to embrace reality becomes not only experiential engagement, but an exercise of the mind, which
recognises in the Other as an inexhaustible source of knowledge and a benchmark in which to compare it-
self to. To share Otherness we must be able to be aware of Otherness and to overcome its borders, both phys-
ical and psychological. So we decided in this project that our first step would be to build an increasing
awareness and analysis on which to reflect, and to push the concept of borders leaving the words and im-
ages to artists, critics and curators, the outcome then being shown in the mode of a horizontal Deleuzian
array. In its hybrid and plural form, a monster "with seven heads" devoid of it’s own identity, but not neces-
sarily devoid of character, indeed this magazine is an attempt to identify differences and not for uniform
them, but to instead to revel in them, celebrating them in a range of different colours and shades. Our ac-
tion plan was to show the real in its existence as an irreconcilable contradiction, that leads us to consider
two aspects of the same problem or two personalities of the same model, which are complementary yet
yield differences. Again, to identify with the Other, or to be one and the other simultaneously as Alighiero
e Boetti did, where he became one person with two names, Boetti has experimented with the possibility of
a plural and nomadic approach to art. Among the interstices of every paradox, we tried out a different ap-
proach, and decided at the end to insert disorder within the parametres of apparent order with our page con-
tributions. Here our project has become an area without a format, but still it is not without form, nor limits,
nor is it without a deadline. It is no coincidence that in this first issue were we talk about borders, we in fact
use PIANO as a platform which herein is limited by itself, a boundary in which to explore and critique con-
temporary culture. Whilst around us artistic and curatorial practices are changing and new tools and strate-
gies of thought are being created, we decided to face and deepen speech and expression through the voices
of those who have contributed to the realisation of this project. Now we only hope to meet you on our jour-
ney."

Federica Bueti & Jacopo Candotti

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Special Project by
ALICIA FRANKOVICH &
JULIAN DASHPER

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di Denis Isaia

L'idea di andare piano mi solletica perchè non ne sono assolutamente capace anche se a volte mi
sento una lumaca. Mi piace anche l'idea del piano, inteso come una serie di azioni studiate sulla
carta, il piano di una mostra, il piano per una rapina in banca. Il piano militare mi ricorda l'avan-
guardia ed il fatto che il nome stesso avanguardia sia di derivazione militare e illuministica, cioè i
precursori dell'attuale plan managing. La strategia senza un piano è ciò in cui mi sento immerso
spesso quando parlo con alcuni colleghi, artisti o compagni casauli di viaggio, è una cosa che mi
da riluttanza, è un vagare irresponsabile che riduce il sistema a una groviera e intorpidisce anche le
menti che più amano guardare sopra se stesse. Quanto poi allo strumento musicale, cioè al piano-
forte, mi irrita meno del violino, ma mi irrita, è troppo per il mio orecchio più attento in generale ai
rumori. Amo chi chiude piano le porte, chi tossisce piano e chi riesce a scandire con piana preci-
sione le proprie parole (l'eleganza del discorso piano non la catturerò mai). Sogno un piano di la-
voro lungo e stretto. Sono vicino a relizzarne uno, poi magari ve ne parlo. Viaggiare in piano per
lunghe ore è una cosa a cui non siamo più abituati, ancora abbiamo in testa l'immaginario on the
road, ma francamente non so se è un bene. Credo che quel "piano" fosse legato a lussi che non pos-
siamo più permetterci, come spostare 1500 kili per spostarne in media 80, quelli dell'età dell'oro che
ci sta scivolando sotto i piedi. A me personalmente quell'idea di piano, pianura, andare mi ricorda
il grande rettilineo in Argentina intorno a Las Pampa, è una linea retta lunga oltre 300 kilomentri.
Come se non fosse necessario alcun piano a chi l'ha disegnata, forse non l'hanno nemmeno diseg-
nata, qualcuno era lì a indicare con le mani semplicemente di proseguire fintanto che era piano. Una
metafora che ben visualizza alcune amnesie della modernità, come se all'improvviso ci fossimo
trovati con nelle mani uno strumento più grosso dei nostri piani. Già perché se non mento, si dice
che più di 12 eventualità l'uomo non possa calcolare. Di fronte a questo paesaggio cognitivo anche
il migliore organizzatore soccombe, il limite è insito e insormontabile. Come dire project planning
software vs Ipod o black berry 0:5. Gol di quasi tutti e pianificazione ovviamente divina.

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in conversation with:
LABORATORIO CURATORIAL 060
Pratiche creative come forme di mobilitazione
sociale , una strategia curatoriale senza un’i-
dentità fissa: sono alcuni dei punti program-
matici di un approccio curatoriale che si
muove sui concetti di confine, diversità,
“crossover”. A un anno di distanza dalla
vincita del premio per giovani curatori,Best Art
Practice, abbiamo discusso con Laboratorio
Curatorial 060 sulla loro idea di confine.
di Federica Bueti
F.B.- The first issue of PIANOmagazine is focused on the
theme of boundaries. We will take time in this issue do dis-
cuss idea with you. What meanings do you assume in your
curatorial practice concerning the notion of Boundary?
L.C.060.- A boundary is a limit, and in that sense, both an
end and a beginning. In English, it is far away from that other
word, a Frontier, which means the point from which there is
something beyond. A boundary is closer to the meaning of
Frontera in Spanish. A boundary is an articulation and a
fringe, a site in which you are set to look out into the abyss,
into the unknown, but also an interstice in which to dwell, to
leave your prejudices behind for a moment, a pause for
breathtaking.
A curatorial practice as a boundary is the recognition of a
place that is unstable, not from this side but not yet from the
other one, without a fixed-identity, a no-man’s-land for the
radical experimentation with the intuition and the sensible.
A curatorial practice understood as a boundary implies the
ability of the equilibrist in order to transit from one stand-
point to another, the recognition of the threat of falling down
to either side, but with the nerve (or naïvity, maybe) to get
ahead, beyond your known possibilities, into what you pre-
viously thought you couldn’t get to, but after which nothing
different would have made sense.
F.B.- “Art as a strategy for thinking.” It is a social and cultural
engagement. How do you develop your strategy?
L.C.060.- We have developed a line of thought and a group
of work that tries to open itself to what we understand as a
political practice in the art sphere. By this, we do not mean
the mere representation of the political. We do not deal with
a subject matter as such. Our projects try to have an effect
over a specific field of action, by negotiating with it or by
outlining the opposing forces at play. We love the public
sphere, those places where art is just one more element but
not the favored one, where it can deal with other fields in
order to bring about fruitful exchanges, culturally speaking.
Sometimes our world must be fictionalized so it can be
thought. The border between politics and art is a fiction that
orders reality. We try to assume the position of the storyteller,
for the sake of multiplying the stories, for the means of act-
ing as a historical agent. We understand fiction delineates
different surfaces between what is visible and the invisible,
between what is speakable and makeable, reconfiguring thus
the map of the sensible. That is why we try to conform het-
erotopies, places without borders, territories where we can
find a crossroads for the reconfiguration of the visible, the
thinkable and politics.
Our strategy would be thus defined as the aesthetic confor-
mation of analytical tools (art-works behaving here as mon-
ads of thought, concrete ideas that appear in the world), in
order to use these tools, these devices, for the deployment of
artistic practices, for the activation of social issues from the
interweaving of diverse, empowered, sensibilities. A dialec-
tic of sorts, which we use to create interstices from the plat-
form of the art system itself.
F.B.- Laboratorio 060 is a Javier Toscano, Lourdes Morales
and Daniela Wolf project. This could seem obvious, but co-
operation is a very interesting way to practice. I believe that
collaborative practices play an important role in the devel-
opment of a cultural discourse. You can also look at some as-
pects of your practice with a good degree of lucidity. Do you
know what I mean? Andrea Fraser said that in a “project
work” not necessarily all of those involved must share the
same issues and ideologies, what important is sharing knowl-
edge and being consciousness that you are spending time
and working on the project together. In your experience what
does collaboration mean?
L.C.060.- We know exactly what you mean. For us, another
way to talk about the search for political mobility is through
a rearrangement of “forms”. That is, the way things are done,
operated, conceived from the start. Group working means
group thinking, a multiplicity of standpoints, disagreement
and engagement. We do not wholly agree with Andrea
Fraser’s quote, for it doesn’t mean we have to look for the
common, the “sharing of knowledge” and the “spending of
time together”. That is easy, but it is implied. A truly political
position comes in when you recognize the difference, the
disagreement, the failure in communicative practices, and
work from that region onwards.
When we develop a project we always look into the cir-
cumstances and the logic that each of us may bring about.
We then brainstorm in order to acknowledge possible out-
comes for a specific action. We never apply a rule of major-
ity among ourselves (democracy can sometimes mean a
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dictatorship of the many); whenever there is an argument that
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Video still, from the project Traffic, 2004
Curatorial action at periferico Sur, Mexico City, Mexico. (in collaboration with Gabriella Gomez-Mont).
raises an opposition to what is being thought, we strengthen
its point, as if it were an opportunity to bring the project into
a crisis, before its actual development. The crisis-point, thus
nurtured, becomes then our most appreciated asset.
F.B.- I strongly agree with the sentence on your website: "De-
finitions are for those who wish to stay inside predetermined
geographies and act out pre-established formulas.¨ In this
sense what kind of impact has working in a specific area like
South America?
L.C.060.- If we want to keep working politically in our own
field, we have to be wary of falling prey of categorizing
strategies from other participants. We do not want to be
tagged as “political agents”, for this means the neutralization
of practices, the indexing of activities, in the way the police
forces do. That is why we do not want to operate by stating
clear definitions. We operate more by finding collaborators,
partners of deeds.
Right now we have been operating from Mexico and the
Central American region, but we have made acquaintances
in the Southern Continent. Being on the Northern side of the
Continent, we feel there is a missing link in our common in-
terchanges.
Beyond from that, we like to think of ourselves as outsiders,
as peripherals, as individuals constantly changing functions
and roles. Our region establishes our context but does not
determine our work. There is obviously a risk at hand: to get
lost in the maremagnum of information, to make an identity
so fluid as to get dispersed involuntarily. We need to cope
with this risk, to make it operative, not stable, but sustain-
able.
About an impact, it is hard to say, it is hard to speak of your
own work on these terms. We know there is an impact for
sure, but how to measure it? What could be the standard?
There has been an impact on the people participating in dif-
ferent projects, and on our colleagues. Now it is easier to
recognize ourselves with those artists that are working along
similar lines, we are invited for debates, we are given a dis-
senters voice in artistic disputes. Many times, people that do
not recognize the way we operate invite us for certain proj-
ects and exhibitions, most of the time they do not know what
to do with us, they think we might arrange nice “packagings”
and then they get surprised with our proposals. Rejections
and problems “behind the scenery curtain” have been com-
mon, but how else to operate? We have been reluctant to
adapt ourselves to the “standard” strategies of the art world.
F.B.- In a sense what is evident in some of our projects, and
I am thinking of Systematic repertoire of quick reference for
students and professional… and Greenhouse effect, amongst
others, is a certain degree of adherence to institutional cri-
tique. What differentiates your approach from those of artists
like Andrea Fraser or Marcel Broodthears?
L.C.060.- The way we see it, Andrea Fraser and Marcel
Broodthaers made the practice of institutional critique a des-
tination. For us it is a start. They achieved a lot in their time,
we acknowledge not only them, but also Hans Haacke or
the conceptual approach to institutional critique by an artist
such as Joseph Kosuth. But at the end, their works have been
subsumed by the art industry. That is why we wanted to start
from this identification onwards, as a way to recognize the
territory. We wanted to start playing from this field (as a basic
operation of situating ourselves), but to avoid, at all possible
extents, to get stuck in somewhere, unproductively, 10
 PIANO
culturally speaking. We are trying to find our own way, by
moving transversally (across different fields), getting in and
out of the art scene, playing with the “functional” positions
of “artist” and “curator”, which so blatantly try to impose a
sense of order on the art system.
Also, we work more on projects than on pieces. We do not
want to fall in a productivity frenzy, like if we had to nurture
the market hunger. We plan our moves, set up our projects,
define our positions, and most of all, we think and reflect
theoretically on what we have achieved in order to set a set
of analytical tools that serve us creatively for the next step.
This takes time, but we are in no hurry to get anywhere. We
dwell in the paths of world-making through art practices. The
process is our message and our medium.
I would like to discuss the project “Frontera”, which won the
first edition of the prize for curators Best art practices. This
project raises very important questions. .
“La curaduría es un franco derivado de la complejidad del
ámbito artístico contemporáneo”. Could you explain this
concept?
As we stated before, curatorship is a “functional” position in
the art world. The function has been gaining respect, for it is
a way to order things, in the apparent chaos brought forth by
globalization. As a function, it is as important as a Search En-
gine for the internet (think for instance on Google). Of
course, it is a mediation, with all the problems this implies,
but also, with a possibility: the occasion to build meaning, to
develop visibility schemes, to play a set of tactics. We know
the social and cultural responsibility this implies, but we also
acknowledge how the system works, we are not naïve in this
sense, we do not overestimate its power, we are aware of the
fragility of an interpretation, of the vulnerability of a sym-
bolic operation. In one word, the curatorial “function” is one
among many, an armoire from which to gear ourselves for
Quixotic battles.
It gives value to contemporary cultural practices, to battle
with the idea of cultural inertia, creates space for dialogue
and engagement with the people who live the territory. Does
it appear a bit like a political program or perhaps a simple re-
flection on what art is, what it is not and what it instead
should instead be?
What art is and is not is the search for an ontology of the
artistic. What it should be is a deontology. We think there is
no other field that constantly asks itself what it should be.
This is in fact a possibility for mobilization through creative
practices. In this sense, we understand our own practice as
a methodology, that is, a way to turn “what is” into
“what it should be” can only be stated for a given context
and situation. No repetition is allowed. No formula creating.
Our methodology is not a log of procedures but the search
for the science of the unique, probably an oulipo-like in-
scription for the artistic field.
F.B.- In your practice, political and social thought intertwines
with artistic and curatorial practices. These connections link
to such things as a detonator, which explodes producing a
critical reflection on reality…
I was thinking of Traffic, accìon curatorial, 30 people had a
walk inside the Periferìco, Mexico City’s main freeway, at
peak hour, creating a show which lasted 47 minutes until the
police were notified and arrived at the event. What is the
meaning of the protest in a contemporary cultural context
and what kind of freedom does Laboratorio Curatorial 060
claim?
L.C.060.- An exhibition-as-protest is like a cry in the middle
of the desert. Art-works crying aloud their ephimerality, their
despair, their fragility. But not their uselessness. They carried
out precisely a dramatic meaning through their own vulner-
ability. We were not exactly protesting against anything, for
everything is protestable in our country. We were operating
with the help of street-vendors, appropriating their tactics, in
order to structure a discourse in which what was to be
stressed was the chaos in which we communally have gotten
into. Urban inanity and the common abandonment of the
public sphere. In this way, we wanted to claim a freedom to
a nonsensical use of the public realm, and in that way charge
our action politically. This action might be representative of
our way of doing things: anyone can sense there is something
political going on (in the sense a protest is political), but there
is not exactly a recognizable topic. We used billboards that
decontextualized phrases from political discourses, turned
them useless, even silly sometimes. So the form is there, but
the content is not clear. We were getting thus away from pan-
fletarism and closer to the structuring of a political method-
ology.
F.B.- Does it deconstruct reality or does it synthesize it? Or
perhaps does it do both… ?
L.C.060.- Deconstruction in the way that we are analyzing
aesthetic forms, getting to see how they work, and use them
in a different way. Synthesizing it in the way we are trying to
structure symbolic forms in order to cause, to induce differ-
ent sorts of socio-political mobility. But surely these two go
along.
F.B.- What about your future projects?
L.C.060.- We are trying to reinvent ourselves, trying to apply
what we have found and setting out a different itinerary at
the same time. But at the end, we are fascinated by the same
issues. So, our plans for future projects deal with social prob-
lems and urban settlements, with researching the needs of
specific groups in different countries and contexts, or the cul-
tural possibilities of alternative energies, to mention some ex-
amples.
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 PIANO

Frontera aereal view

Site Map, from the project Frontera. Sketch for the creation of a future society, 2006-2007
Series of on-site artistic interventions. Chiapas, Mexico. (in collaboration with Gabriella Gomez-Mont).

Laboratorio 060

An interdisciplinary arts collective based in Mexico City, founded in 2003. Their line of work implies an experimental and critical approach to the public
sphere and the articulation of a curatorial practice as a medium for artistic performance.

Some of the most relevant projects realized by the collective are: Repertorio sistemático de consulta rápida para el estudiante y profesional con definiciones
acordes con la realidad del mundo actual (Systematic repertoire of quick reference for students and professionals, with definitions according to the actual
world) at Canaia Gallery; Tráfico (Traffic), a curatorial action at the speedway Periférico; Frontera. Esbozo para la creación de una sociedad del futuro
(Frontera. Sketch for the creation of a future society) a series of artistic interventions at the border between Mexico and Guatemala and (in).COMunidades
((dis).COMmunities), an exhibition on electronic arts practices as part of the International Festival for Electronic Arts Transitio_mx02.
In 2007 the collective won the First Prize of the Best Art Practices Award by the Italian government for the Frontera project. They have produced several
projects and presentations developing the idea of an artistic production as a strategy for further critical developments. Articles about 060 have been pub-
lished widely in Mexican Media (including TV and radio programs), www.latinart.com, Art Press (USA), ART (GE), Exibart (IT), Sarai (IN) or Exit (SP), among

12
others.
 PIANO
Hackitectura.net:
Si tratta di un collettivo di artisti, architetti e
attivisti con base a Sevilla che in questi anni
ha sviluppato un ampio discorso sui concetti
di sostenibilità, condivisione dei saperi, ge-
ografie emergenti.Situation room è il progetto
vincitore della prima residenza presso Laboral,
Centro de Arte y Creacion Industrial, Gijon.
di Pablo De Soto
Situation Room is a term normally used to designate the
place used in times of crisis to assess and monitor data for de-
cision taking. Its origin can be traced back to World War II
with the invention of computers, digitalization and the col-
laboration of architects and the military. These rooms are
equipped with monitors and data boards used to control
everything from the Strait of Gibraltar to the nuclear fission
processes in a Nuclear Power Station or the life sustaining
mechanisms on board the International Space Station.
Thanks to the invention of the Internet at the beginning of the
90s and the computer boom, access to data collection and
display technologies experimented a kind of democratiza-
tion. This has enabled several experiences of Situation Rooms
in civil society, with temporary media-labs mainly influenced
by cybernetic ideas and free software.
PROPOSAL
Situation Room proposes an installation and processes
which, taking Asturias as a case study, can offer to the pub-
lic these reflections, invite them to participate in this open
experiment simulation of a Situation Room and ultimately fa-
cilitate the production of common knowledge among artists,
geographers, architects, biologists, economists, computer
specialists, critics and the public, about the issues put for-
ward.
What to monitor? Which data to quantify? How to display it?
Which database to access? What is the purpose of such a de-
vice in an Art and Industrial Creation Centre? How might this
device act on a long-term basis? Which access protocols are
required? How can this device help in certain decision-tak-
ing processes? And which of them?
The goals to be achieved during Situation Room are: To pro-
vide an introduction to the theoretical concepts and histori-
cal experiences of control rooms and situation rooms. To
SITUATION ROOM
experiment with a prot (architecture, hardware and software,
centralised-distributed control). To organise a local working
team using this situation room for carrying out mapping and
strategic design tasks for the region.
In order to achieve these goals, Situation Room will be con-
ceived: As an installation, from a technological and spatial
point of view. Such installation will consist of a monitoring
room located at the Plataforma galleries in LABoral. The
media-architecture of this room will consist of an immersive
multimedia space equipped with a round table Centro de
Arte y Creación Industrial
(nine metre diameter) supporting 15 computers using free
software OS, as well as six video projectors, eight plasma
display screens and several controllers.
As a working space, from a social and political point of view.
This work in progress space will open a collective process of
investigation and action on tactical aspects related with the
collection, interpretation and display of public information,
acting as a strategic partner in collaboration and in synergy
with the LABoral team.
ORIGINS
The Situation Room project is a distillation of hackitectura.net
experiences in design and the implementation of a series of
media labs or temporary labs since 2003. These include
"Pure Data Beta Rave", in the abandoned AVE train station in
Seville; "Okupa Futura: Ciudad Disidente" at the Centro
Cívico Federica Montseny in Corvera de Asturias; "La Multi-
tud conectada" / media lab satellite in La Rábida Huelva; and
Fadaiat: libertad de movimiento, libertad de conocimiento
presented on both sides of the Strait of Gibraltar.
Situation Room is the continuation of the temporary lab de-
signed and implemented by hackitectura.net in Geografías
Emergentes . For this project they reproduced the control
centre of a nuclear power station functioning as an open lab
for the development of a monthly programme of conferences
and workshops outside the dismantled Valdecaballeros nu-
clear power station.
METHODOLOGY
The working space will be divided into two stages: A first the-
oretical stage embracing workshops and lectures led by
international experts. A second practical stage consisting of
the experimentation of a Situation Room applied to the so-
cial-cultural and economic reality of Asturias.
13
 PIANO

Situation room, Laboral, Centro De Arte y Creacion Industrial, Gijon, Asturias,

Foto:Marcos Morilla, Cortesia de LABoral

The working space will be transversal and participative. The

lectures and workshops will be free and open to the public.
Due to their transdisciplinary character, they are of special in-
terest to university students in Computer Engineering, Indus-
trial and Telecommunications Engineering, Biology,
Economics, Business Studies, Geography, Philosophy and
History.

(Dis)engaging a Situation Room

di Alejandro Gonzalez.Architect and activist, Sevilla

What is the reality we start out from? What is the nature of

its basic processes and how are those processes monitored?
I would say that a simple model which may be used to rep-
resent the world at a certain scale could be taken from those
principles laid down by Cuvier(1 1) that allowed us to under-
stand living organisms from the viewpoint of their anatomy,
namely, of their physical configuration, of their body- inter-
face. Cuvier provided a glimpse of an evolutional strategy(22)
made up by stable central organs protected and replicated
in various unstable, changing, adaptable and singular con-

14
texts and peripheries.
 PIANO
A principle actually materialised at various scales in the evo-
lution of the body of Post-Fordist capitalism, with organs and
peripheries that are at once source code(3 3) and intercon-
nected physical-virtual structures. Hearts and brains that are
stable and replicated as stock exchanges and banks, - nec-
essarily democratic) ruling structures. Peripheries that are un-
stable just like the reality of the maquiladora-states with
interchangeable satraps and mercenary resources, or the fugi-
tive migrant peripheries of the Neo-Liberal homeostasis.
These are significant because they bring to the fore the risks
involved in a literal and rigid understanding of a centre-pe-
riphery structural model in a liquid world, where automa-
tisms and emergences outline unpredictable, irregular and
deterritorialised processes rather than simple patterns which
can be easily turned into models.
Another model to be highlighted is that of the City/Metropo-
lis. The world is reduced to city planning on all levels: on a
conceptual level from what, some time ago, Javier Echevar-
ría called Telepolis((4), that interconnected world-city-
network where making too many significations based on a
strict real-virtual differentiation is becoming less and less use-
ful in practical terms. A `theoretical' image that is accompa-
nied by a parallel process of Centro de Arte y Creación
Industrial effective transformation of the world-territory into
a continuous city where, just like the virtual-real dichotomy,
the urban-rural binomial explodes to be later recomposed in
hybrid, complex, fragmented tissues, with the emergence of
significant administrative limbos, devoid of any administra-
tive references taxonomising and framing them. In order to
be able to understand that City we will have to think it out-
side the urban models of modernism. And as François As-
cher(5 5) points out, the city, our reality, seems to characterise
its historical process through an accelerated evolution of the
movements of people, goods and information, through the
present-day dissolution of the mass subject and its productive
and reproductive systems/cultures; and through the emer-
gence of eventual and sporadic micro-political solidari-
ties/conflicts, once again deterritorialised, different of the
organic model of pre-contemporary cities. A dynamic, ac-
celerated, changing and recombining world-city; in our en-
vironment of definition with a prevailing presence in the
creation of value in cognitarian, virtual and grid-like work.
The most valuable factories of this Europe-district are now
located in the net. At present, the mobile phone and Internet
are the assembly line, and the cameras monitoring that situ-
ation are no longer made of steel and glass, as those once
used in a groundbreaking way by Cybersyn to control pro-
duction and its plants, but they will necessarily grow inside
a feedback of interconnected ones and zeros.
That statement literally takes us closer to the point I ultimately
want to reach in this introduction, to those territories where
the monitoring of reality is seemingly outlining such a com-
plexity that it is in danger of being confused with it and that
it may only be reflected by collective intelligence in
processes as iterative and dynamic as those of the very `real-
ity' observed, using digital networks as interfaces. That seems
to give rise to an incipient and already existing Situation Net-
work, albeit weak in its formlessness, deterritorialised and
digital, fractal and complex.
We would have to assess and to invent a way to implant that
network-reality from local physical spaces, and how to map
6) in order to empower it as a tool within those attempts at
it(6
monitoring. Or how would we be able to invert the existing
control engineering sciences by endowing them with a pre-
dominant `citizen'((7) direction. How to integrate the Situa-
tion Rooms into a Situation Network, no longer
understanding them as panoptic controlling physical spaces
with a single viewpoint reaching unnoticed into all corners
a model of a past of masses and nation-states but Centro de
Arte y Creación Industrial rather as something more complex
and unpredictable, based on spaces for participation, cre-
ation and empowering constituted in concentrators and cat-
alysts of inputs and outputs in/from the local reality from/to
the Global Situation Network, formalising it by means of the
connection of terminals, monitors disconnected in an open
albeit defined system. Necessarily understood in turn as a
virtual rather than a physical space, just in the way other co-
herent spaces of modernism like labour union spaces seem
to demand in this world of complexities in motion. The un-
derstanding of the world as a real scale laboratory demands
the formulation of a monitoring experiment, in which the
space-time limits are the result of the unpredictable emer-
gence and its solidarities rather than of seminal principles
emitted by `experts' and 'technicians' with all the added
problems of their own interfaces, related with the powers and
codes which are more necessary to monitor.
To sum up, paradoxically, if we want to be up to that new
`reality' we shall have to co-create an uncontrollable control
machine, a machine capable of draining power and jointly
developing our potentials. Those we share once we begin to
do away with capitalist individualism /competitiveness as a
source code for our lives, and start to replace it by open
source codes based on collective intelligence and on open
and deterritorialised cooperation. The trajectory of hackitec-
tura.net must be inscribed in that diffuse and necessary di-
rection, and makes them consistent and reliable in their
formulation of those first steps. For, certainly, we avail of the
technological instruments that are required to build those
necessary mechanisms and we find ourselves in the right mo-
ment to do it.
Note:
1) Georges Cuvier (1769-1832). A precursor of comparative anatomy, his
(1
principles were profusely disseminated in the 19th and 20th century. His
most important work is Regne animal distribué d'après son organisation
(translated into English as "The Animal Kingdom").
2) That is a personal interpretation: Cuvier did not believe in the evolution
(2
of species.
3) That is, inasmuch as a biopower, capitalism tends to create not only struc-
(3
tures where some bodies move or live in a `neutral' fashion, but also the at-
titudes, lifestyles and identities, models for the resolution and compression
of problems determining how they do so. A further layer within the com-
plexity of the processes to be monitored if we are to understand in a truly
15
emancipatory way a process of supervision of power structures with a view
to horizontalising them.
 PIANO
4) Javier ECHEVARRÍA: Telépolis, Ediciones Destino, 1994.
(4
5) François ASCHER: Los Nuevos Principios del Urbanismo: el fin de las
(5
ciudades no está al orden del día, Alianza Editorial, 2004.
6) In this regard, we must underline in these first steps the involvement of
(6
the Bureau d'Études, a praiseworthy collaborative which has created a
hugely powerful body of work in the field of cartography of not exclusively
spatial developments it had traditionally focused on, like the processes of
capitalist globalisation or its power structures.
7) We must point out that although useful in this context, it is a rather dan-
(7
gerous concept nearly always associated to the Participation it wishes to
promote. The instance, the migrating reality. As we have already stated, the
mobile migration peripheries are determinant phenomena and should be
integrated as subjects and objects of monitoring experiments if they do not
wish to be limited from the very moment of their inception.
taller_mapas3, Laboral, Centro De Arte y Creacion Industial, Gijon, Asturias, foto:Julio Calvo, Cortesia de LABoral
Are we the observers or those being observed
from the Situation Room?(*)
di Monica Bello. Indipendent curator from Barcelona. Member of
the Jury of LABjoven_Experimenta Award
In the context of this vast scene of transformations, the posi-
tion to be held by ordinary citizens remains rather unclear. In
daily life, habits are altered without any apparent impact. We
coexist with informational flows either partially or entirely
integrated into the exchange networks. The question that re-
mains will be how we assume our condition as producers
and products, and in what way are we the object of knowl-
edge or active generators of contents and critical learning;
whether we are actually connected to our environment by
knowing the mechanisms with a critical and responsible in-
volvement, or whether, on the contrary, we take part in the
mesh of the global laboratory as simple data. Are we the ob-
servers or those being observed from the Situation Room?
In collaboration with hackitectura.net, the artist Pablo de Soto
intends to establish a Situation Room at the Plataforma gal-
leries in LABoral Centro de Arte y Creación Industrial. It will
be an ephemeral medialab incorporating a varied range of
activities around a space of work and participation. The in-
stallation creates an architectural structure reconstructing the
narrative of classic situation rooms, allowing artists, partici-
pants and guests to gather data from various sources from the
surrounding environment in Asturias and to explore the pos-
sibilities offered by LABoral.
Situation Room endeavours to subvert an architecture that
has remained marginalised, but that nonetheless represents a
clear analogy of the mental process generated after World
War II and throughout the 20th century. The situation room
is a recurrent feature in classic fiction movies (Dr.
Strangelove) and in recent and populist TV series (Nikita, The
West Wing). In the real world, movements and exchange of
information and data on certain processes are monitored
from situation rooms, usually for the benefit of governments
or armies. Nowadays, they represent a service subject to
growing demand given that, in a world immersed in a
process of fast transformation, there is a need for immediate
analysis, something crucial to remaining competitive in the
global market. But the Situation Room at LABoral reverses
the roles as if in a situationist détournement, allowing for a
16
study of techno-capitalist system mechanisms in the specu-
lative
 PIANO
lative use of information. By generating a space for transver-
sal participation, reflection and knowledge, the artist repro-
duces a laboratory with a potential to perform on various
scales and to determine a multiplicity of narratives, estab-
lishing an analysis of the informational surroundings of LAB-
oral, of Asturias, and of the planetary and global
environment.
The social impact of the accelerated techno-scientific devel-
opment is overlooked at the very moment when citizens are
turned into mere market facts and products. The same ap-
plies to the environment, the resources, the rest of inhabi-
tants on the planet, and the way in which its organicity and
condition as a living autonomous entity is transferred to pa-
rameters of productivity. For some decades now, many artists
and theorists, communicators and scientists have committed
themselves in the formulation of alternatives to the concerns
of global society. The creation of epistemological, physical
or digital spaces represents a clear expression of the quest
for a new reality.
This project suggests an interest in positing structures and
processes fostering the diversity of participation profiles, wel-
coming experts and also giving value to amateur formula-
tions, allowing for the creation of easily crossable spaces for
communication and exchange, widening the categories of
learning and finding new languages and environments for re-
flection.
In the context of LABoral, it makes sense to engage in a re-
formulation of the role of the artist as an activator of
processes, promoting scenarios questioning reality, looking
for new meanings to the relationships between creation,
technology, thought and society, within the singular frame-
work provided by Asturias.
(*)Extract from the text by Monica Bello
Hackitectura.net
Composed by Pablo de Soto, Sergio Moreno and Jose Perez de Lama (aka
osfa), hackitectura.net is a group of architects and programmers developing
projects and theoretical research in the intersecting field of space, electronic
flows and social networks. Hackitectura.net stresses the use of real time
communication, free software, collaborative work and the emancipatory use
of technologies.
Their work has dealt with the creation of connected, participatory public
spaces and infrastructures, including projects such as Indymedia Estrecho
(2003-present; in collaboration with a wide network of social movements in
Southern Spain and Northern Africa), La Multitud Conectada (Huelva 2003),
Fadaiat (a transborder medialab and event between Tarifa and Tangier, 2004
& 2005), Geografías Emergentes (Extremadura, 2007), Situation Room (Lab-
oral, Gijon, 2008) and GISS (2005-present; a global freesoftware
videostreaming server network by Sergio Moreno and GISS team).
In 2006, hackitectura.net developed the concept of WikiPlaza to win the
Plaza de las Libertades - international competition (with Morales de Giles
Arquitectos and Esther Pizarro), to build a 30.000 sqm public space and cul-
tural building incorporating the free software community experiences of the
last decades to a civic building in Sevilla, Spain. Two different prototypes of
the project are scheduled to be implemented in Paris (Wikiplaza-Paris, may
2009) and at the Sevilla Bienal Internacional de Arte Contemporaneo (oc-
tober 2008).
Hackitectura.net's publications include the books “Fadaiat. Libertad de
movimiento/ libertad de conocimiento” (2006 – Spanish, English and Arab)
and “Devenires cíborg. Arquitectura, urbanismo y redes de comunicación”
(by Jose Pérez de Lama, 2006 - Spanish).
view of Situation Room, Laboral, Centro De Arte y Creacion
Industial, Gijon, Asturias, foto:Marcos Morilla, cortesia de LABoral
17
 PIANO
Ou tous les prétendus miracles que semblent opérer les fakirs des indes ne sont que des prestiges.
Par Loris Gréaud
La paléontologie peut être découpée en trois termes grecs :
paleo, de palaios, ancien ; ontos, vie, être ; logie, de logos,
étude, science.
Il s'agit donc, littéralement, de la « science étudiant la vie
ancienne » et plus précisément, de la discipline qui étudie les
organismes disparus ayant laissé dans les terrains sédimen-
taires des restes de leur corps. Il s’agit de la recherche et l'in-
terprétation des traces et des formes de vie aujourd'hui
disparues. Comme pour bien d’autres sciences et autres
accès au savoir, nous pouvons visiter des musées dédiés à la
paléontologie ou autres muséums d’histoire naturelle.
Les salles les plus fréquentées actuellement sont les espaces
consacrés aux squelettes. Les structures on toujours été des
formes fascinantes pour les humains : la structure du corps,
de l’esprit, des atomes, de l’univers… On parle de structurer
une pensée comme on structure un édifice.
Comment les constructions humaines, des abris rudimen-
taires aux plus grands édifices, tiennent debout ? Quelles sont
les principes constructifs communs à tous les bâtiments, à
toutes formes de pensées, à tous squelettes ?
Lorsque l’on observe un panorama complet des réalisations
les plus significatives de l’histoire de l’architecture, les
prouesses passées préfigurent toujours les constructions à
venir : des pyramides aux gratte-ciels, l’homme a toujours eu
cet instinct inné de vouloir construire.
Palaios, Ontos, Logos
Imaginons ensemble un muséum d’histoire naturelle et spé-
cifiquement la salle tant fréquentée des squelettes. Imaginons
un squelette qui contiendrait le musée. Ou imaginons en-
core des squelettes comme structure constructive non plus
du passé mais de l’avenir ; le futur.
Quelle est cette forme ?
Quelle est la structure de ce squelette-scénario ?
Quelle serait la fonction d’un édifice non édifié ?
Quelles seront les fonctions et l’assemblage ou reconstitu-
tion de formes qui restent à venir ?
Et enfin, quel est ce squelette dont le futur aiderait le passé ?
Quel est ce squelette qui perdrait sa fonction de vestige pour
du « prestige », soit littéralement selon son étymologie, de la
séduction exercée sur l’imagination des êtres humains.
MERBALL PAVILION
C’est par ce squelette aujourd’hui que nous tentons de
répondre, non pas un vestige du futur mais un vestige com-
posé de futur, composé de potentiel et le squelette du pres-
tige comme espace à venir.
MERZBALL : Retro-futur ?
Kurt Schwitters est un peintre et poète allemand. Il incarne
l'esprit individualiste et anarchiste du mouvement Dada dont
il constitue le chef de file dans sa ville natale de Hanovre,
fondant un mouvement parallèle qu'il appelle « Merz ».
Grand " fouilleur ", paléontologue de la société industrielle et
de la réalité urbaine, il intégrait à ses œuvres tout ce qu’il
trouvait au hasard de ses recherches : billets de tramway, cig-
ares, fil de fer, tout ce qui avait été rejeté par la société.
L’artiste, refusant une re-production illusoire de la réalité, fai-
sait au contraire "entrer" la vie, de façon fracassante, dans le
domaine de l’art. Pas de trace pourtant chez lui d’une esthé-
tique d’opposition comme celle de l’anti-art de Zurich ou de
Cologne. Le monde entier pouvait en effet constituer pour
Schwitters une œuvre d’art. L’artiste appela ironiquement ses
constructions " Merz ", partie centrale du mot Kommerzban.
À partir de 1920, Schwitters étendit à d’autres domaines sa
conception de l’"art total Merz", et notamment à l’architec-
ture. Il entreprit en 1920 l’édification d’une immense struc-
ture en plâtre et en matériaux divers, la Schwitters-Säule
(colonne Schwitters), qui envahit peu à peu toutes les pièces
et même tous les étages de sa maison et qu’il baptise du nom
de Merzbau. hn
Imaginons que la structure de notre squelette extrapole les
arêtes du Merzbau.
Une fois de plus, imaginons comme un ruban de möebius la
maison de Kurt Schwitters dans son architecture MERZ, pré-
cisément comme notre squelette autour du muséum d’his-
toire naturelle, un meta-squellette ? Un meta-Merzbau
Électricité" fouilleur " paléontologue, accumulateur ?
Une batterie d'accumulateur est un ensemble d'accumula-
teurs électriques reliés entre eux de façon à créer un généra-
teur de courant continu de la capacité et de la tension
désirées. Il est bien connu que la mise en charge des accu-
mulateurs est une opération primordiale pour que les batter-
ies conservent leurs caractéristiques initiales.
Les recherches d’accumulation d’énergie récentes (innova-
tion Américaine du MIT 2007 , la witricity) permettraient de
recharger les batteries sans fil et donc, de les recharger à dis-
tance sans avoir à établir une connexion physique. Exacte-
ment donc comme se « chargent » les histoires. Des histoire
pouvant être liées pourquoi pas, aux édifices, en d’autre
terme une « accumulation » de données techniques, de18
 PIANO

Cellar Door, Loris Gréaud, installation, Palais De Tokyo, 2008, Courtesy the artist

propriétés propres aux matériaux employés ou plus précisé- négociations ?

ment, d’actes ou d’actions dont se serait « chargé » un ou-
vrage. C’est là, précisément, que se situe notre conception dans une
archéologie du futur, dans l’excavation de formes qui restent
La tour Eiffel, squelette d’acier ne s’est elle pas « chargée » à venir, dans l’anarchie du Merz, dans des espaces non eu-
d’une explosion de créativité structurale dans la dernière clidiens où l’intérieur et l’extérieur ne formeraient qu’une
moitié du XIX siècle, quant au célèbre squelette dit « ossat- seule surface, dans un espace électrique chargé par ses pro-
ure » de la Statue de la Liberté ? pres tensions, le MERZBALL PAVILLON où tous les prétendus
Les structures pourraient, en quelques sortes, se charger miracles que semblent opérer les fakirs des indes ne sont que
comme les accumulateurs : les oscillations et la flexion de des prestiges.
l’Empire State Building, l’ossature magique du hangar d’avi-
ation de Nervi ou les rotations de la tour de la Canadian Na-
tional Railroad. Alors quel chargement pour cette espace du Cellar Door, Loris Gréaud, installation, Palais De Tokyo, 2008,
Courtesy the artist
Merzball pavillion ?
Notre réponse est le conflit et la négociation, qu’elle soit
économique ou poétique toute entreprise artistique est un
conflit et une suite de négociations. Imaginons notre
squelette chargé de cette histoire opaque où des personnes
se seraient affrontés, essayant de s’atteindre, tentant de trou-
ver de règles et du sens dans l’espace du conflit, faisant de la
négociation un spectacle et un ballet.

MERZBALL : Spectacle d’une sculpture ? Sculpture de possi-

ble spectacle ?
Yves Klein est notamment connue pour son bleu qu'il appli-
qua sur de nombreuses œuvres, L’IKB est entendu au-
jourd’hui comme la couleur de l’immatérielle, la couleur de
l’espace :
« Pour peindre l’espace, je me dois de me rendre sur place,
dans cet espace même... Sans trucs ni supercheries, ni non
plus en avion ni en parachute ou en fusée : [le peintre de l’e-
space] doit y aller par lui-même, avec une force individuelle
autonome, en un mot il doit être capable de léviter » et « Ja-
mais par la ligne, on n’a pu créer dans la peinture une qua-
trième, cinquième ou une quelconque autre dimension ;
seule la couleur peut tenter de réussir cet exploit ».
C’est cet exploit qu’ont produit les joueurs du Merz Ball, en

19
tentant de s’atteindre avec de l’espace et de l’immatériel,
quel type d’images cela produit? Quels types de conflits et de
 PIANO
Dove tutti I finti miracoli del fachiro indiano non sono altro che giochi di prestigio.
di Loris Gréaud
La parola paleontologia può essere scomposta in tre termini
greci: paleo da palaios, che significa antico; ontos significa
vita o essere vivente; logia provenie da logos, cioè studio o
scienza.
Il significato letterale della parola paleotologia è “la scienza
che studia la vita antica” e, più precisamente, si tratta della
disciplina che studia organismi che sono scomparsi las-
ciando traccia come sedimenti fossili nel profondo cuore
della terra.
La paleontologia è dunque la ricerca e l'interpretazione delle
tracce e delle forme di vita passate oramai scomparse e tutte
le informazioni derivate da questi studi possono essere os-
servate nei musei dedicati alla paleontologia o nei musei di
storia naturale.
Molte delle stanze da visitare in questi tipi di musei sono lu-
oghi di ammirazione e di consacrazione di scheletri fossili.
Le strutture di questi fossili in questo caso, ma le strutture nel
loro senso più generale hanno sempre affascinato l'uomo si
pensi alla struttura del corpo, la struttura dello spirito, degli
atomi e del cosmo…
Il nostro obiettivo qui è quello di strutturare il pensiero come
si costruisce e struttura un edificio.
Come possono le costruzioni umane, dai rudimentali rifugi
ai grandi edifici, rimanere in piedi? Quale è il principale
metodo di costruzione comune a tutti questi edifici, queste
forme di pensiero, questi scheletri?
Quando si osserva il panorama completo dei più significativi
progetti nella storia dell'architettura, l’ abilità del passato
sembra sempre prefigurare le nuove possibilità del futuro:
dalle piramidi ai grattacieli, l'uomo ha sempre avuto l'istinto
innato di costruire.
Palaios, Ontos, Logos
Immaginate un museo di storia naturale, in particolare una
delle sue stanze piene di scheletri. Immaginate uno scheletro
che contenga il museo stesso. O meglio ancora, immaginate
lo scheletro di una costruzione, non un frammento del pas-
sato, ma un’ architettura in divenire, un’ architettura del fu-
turo.
Quale sarebbe la sua forma?
Quale sarebbe lo scenario?
Quale sarebbe la funzione di un edificio non ancora edifi-
cato?
Quale sarebbe la funzione di questo assemblaggio nella ri-
costituzione di forme in divenire?
E, infine, quale sarebbe lo scheletro attraverso cui “il futuro
si prenderebbe cura del passato”?
E ancora, cosa sarebbe questo scheletro spogliato della sua
funzione di reliquia e fatto oggetto di “prestigio”- in ac-
cordo con il suo senso letterale, il suo senso etimologico e
con la seduzione esercitata sulla fantasia degli esseri umani?
E 'attraverso questa sorta di scheletro che oggi noi cerchiamo
di rispondere ai nostri interrogativi, un fossile che non ap-
partiene soltanto al futuro, ma composto in parte dal futuro,
dalle sue potenzialità, questo scheletro/struttura come nuovo
spazio da inventare.
MERZBALL: Retrofuture?
Kurt Schwitters è stato un pittore e poeta tedesco. Egli ha in-
carnato una personalità unica, lo spirito anarchico del
movimento Dada, di cui fu esponete in prima linea nella sua
città natale di Hannover, mentre allo stesso tempo fondò un
movimento parallelo che egli chiamò 'Merz'.
Grande precursore dei tempi, Schwitters è stato un paleon-
tologo della società industriale e della realtà urbana, inte-
grando insieme tutti gli oggetti trovati per caso, durante la
sua “caccia” in città: biglietti del tram, sigari, filo metallico,
qualsiasi cosa, tutti i rifiuti della nostra società. Questo
artista, rifiutado l’ illusoria riproduzione del reale, costrise la
vita ad entrare nel modo d'arte.
Non vi era, tuttavia, nella sua estetica nulla di oppositivo,
come invece avveniva nello stesso mometo nell’ anti-arte dei
movimeti di Zurigo e Colonia. Semplicemente per Schwit-
ters Il mondo intero costituiva un'opera d'arte.
E ' con ironia che l'artista ha scelto di chiamare le sue
costruzioni “Merz”, dalla parola Commerzbank. Dal 1920,
Schwitters attuò ed utilizzò il concetto di 'arte totale Merz' ad
altri campi, tra cui quello dell’ architettura. Egli si impegnò
nella composizione di una immensa struttura di gesso e altri
materiali, la Schwitters-säule (la colonna di Schwitters) e a
poco a poco le struttura cominciò ad invadere ogni camera,
infine tutti piani della sua casa e questo enorme groviglio
venne battezzato successivamente dallo stesso artista come
“Merzbau”.
20
 PIANO
Cellar Door, Loris Gréaud, installation, Palais De Tokyo, 2008,
Courtesy the artist
Ma torniamo alla struttura del nostro scheletro, e immagini-
amo di estrapolare i contorni del Merzbau. Ancora una volta,
immaginate la casa di Schwitters come un nastro di Möbius,
nella sua architettura Merz, come il nostro scheletro intorno
al museo di storia naturale, un meta-scheletro, un meta-
Merzbau.
“Escavatore” paleontologico di energia o accumulatore?
Una batteria di accumulatori è un’insieme di accumulatori
elettrici collegati tra di loro in modo da creare un generatore
di corrente secondo la capacità e la tensione desiderata.
E 'noto che questo caricabatterie è usato per conservare e
rinnovare le caratteristiche iniziali delle batterie.
Recenti ricerche sull'accumulo di energia e in particolare di
“witricty”, un’innovazione americana sviluppata al MIT nel
2007, consente di ricaricare le batterie in modalità wireless
da una grande distanza. Così facendo non è più necessario
stabilire una connessione fisica.
E 'grazie a questa modalità non fisica che noi possiamo “ri-
caricare” le nostre storie, e possiamo applicare queste
modalità anche agli edifici. Consideriamo come un 'accu-
mulo' le tecniche di manipolazione delle proprietà speci-
fiche dei materiali di costruzione impiegati, o meglio gli atti
e le azioni che danno vita all’energia di un opera d'arte.
Non è forse la Torre Eiffel, il suo scheletro di ferro, “ricari-
cato” dalla esplosione di creatività strutturali dell’ultima metà
del XIX secolo, e non vale forse lo stesso anche per altri
famosi scheletri, per i fossili, per la Statua della Libertà?
E 'stato dimostrato in diversi casi che le strutture architet-
toniche possono essere considerate degli accumulatori di en-
ergia: ad esempio la struttura dell’Empire State Building, il
meraviglioso fossile che è il Mervi's airplane hangar, e an-
cora le incredibili curve della torre del Canadian National
Railroad.
In questo senso, che tipo di carica potrebbe essere infusa
nel nostro spazio?
La nostra risposta è una carica conflittuale, una economia
dello spazio contro una poetica dello spazio, una carica di
negoziazione del conflitto.
Immaginate il nostro scheletro, carico di una storia oscura,
apparentemente incomprensibile, in cui le persone sono sfi-
date a raggiungere una comprensione delle regole e del sig-
nificato di questo spazio di conflitto, facendo della
negoziazione uno spettacolo, un balletto.
MERZBALL: spettacolo di una scultura? Potenziale di scul-
tura come Spettacolo?
Yves Klein è particolarmente noto per l'azzurro che ha imp-
iegato in numerose sue opere. IKB si propone oggi come il
colore della immaterialità, come il colore dello spazio:
“Per dipingere lo spazio ho il dovere di andare lì, verso il
vero spazio… senza illusioni o trucchi, né con un aereo o
una nave spaziale: [il pittore dello spazio] deve andare con
i propri mezzi, con una forza idividuale indipendente, in una
parola, egli deve essere in grado di “levitazione”. Una linea
in grado di creare una quarta, quinta o qualunque altra di-
mensione non è sufficiente; nella pittura, il colore, da solo,
può tentare di riuscire in questo processo”.
E 'solo questo risultato che determina per i giocatori di
Merzball, un impegno con lo spazio e con l'immateriale.
Che tipo di immagine può quindi essere prodotta? Quali tipi
di conflitti e negoziazioni?
E 'a questo punto, appunto, che il nostro concetto di ar-
chitettura del futuro si colloca, in forme di scavo che sono
ancora a venire, nell’ anarchia del Merz, nello spazio non-
euclideo in cui interno ed esterno formano una superficie
singola, in uno spazio elettrico carico di tensioni, nel
Padiglione Merzball dove tutti i finti miracoli del fachiro in-
diano non sono altro che giochi di prestigio.
(traduzione di Federica Bueti)
Loris Gréaud(1979) è un artista francese con base a Parigi.Tra le sue recenti
mostre personali sono incluse “Cellar Door(Once is Always twice)”, ICA
London(2008), “Devils Tower, Centre Pompidou, Paris(2006) e “Silence goes
more quickly when played backwards, Le Plateau, Frac Ile De France,
Paris(2005). Tra le mostre collettive, “Space Boomerang, Swiss Institute, New
York, “Notre Histoire”, Palais De Tokyo, Paris (entrambe nel 2006) e “Black
Market World”, Baltic Triennale, CAC, Vilnius 2005. Nel 2005 Gréaud ha
21
vinto il premio francese Ricard S.A. per il più innovativo artista under 40.
 PIANO
MUOVERSI NELLA BOTTIGLIA DI KLEIN, OVVERO FARE L’ARTISTA
di Cesare Pietroiusti
Da bambino la mia camera confinava con l’appartamento
dei miei nonni materni e tutte le sere, prima di dormire, mia
nonna mi dava la buonanotte bussando alcuni colpi sul muro
che ci divideva. E io rispondevo bussando a mia volta.
Un giorno convinsi Gianni, un amichetto, a praticare con il
cacciavite un buco in quel muro, per arrivare dall’altra parte.
Nascosti sotto il letto, che era appoggiato alla parete, lavo-
rammo per alcuni giorni e facemmo un discreto danno sul
muro prima di essere scoperti.
Mi diverte pensare che tutta la mia carriera di artista sia, in
fine, nient’altro che una risposta alla frustrazione di quel
buco che non arrivò mai dall’altra parte e per il quale arrivò
invece un muratore a stuccare e ripristinare. Mi diverte pen-
sare che è da allora che (da solo o con altri) ripeto l’espe-
rienza di quel tentativo: andare a vedere cosa c’è dall’altra
parte di un confine dato.
Nella mia prima mostra personale (Jartrakor, Roma, 1978) un
lavoro sonoro “mimava” la situazione di una persona che,
partendo da una sedia a un capo di un corridoio, ogni tanto
cominciava a correre e andava a sbattere rumorosamente
contro il muro di fondo. Solo anni dopo ho scoperto che
Barry Le Va aveva fatto un’opera praticamente identica nel
1969, ma già allora pensavo ad un rapporto con lo spazio
nei termini di un tentativo (fallimentare ma in qualche modo
coraggioso e degno di essere raccontato) di provarne i con-
fini.
Certamente all’epoca non mi era chiaro quanto il tema del
confine fosse, rispetto alla pratica – e alla politica – artistica,
cruciale. Ignoravo la varietà dei livelli e le implicazioni di
una scelta di sperimentazione liminare; forse intuivo confu-
samente la complessità o addirittura la contraddittorietà di
ogni “posizione” di lavoro sul confine.
Supponendo una semplice distinzione fra i due lati di un
confine nei termini dentro-fuori, si possono, schematiz-
zando, ipotizzare vari piani in cui una tale distinzione può
essere utilizzata:
1- Lo spazio fisico in cui si è materialmente collocati e in cui
si lavora. Per l’artista, il museo, la galleria, il luogo deputato
alla esposizione delle opere;
2- La tecnica che si usa per sviluppare una certa intenzione,
gli strumenti necessari alla realizzazione di un progetto;
3- L’ambito disciplinare in cui si opera e all’interno del quale
si è identificati, collocati, riconosciuti;
4- La comunità con la quale si scambiano elementi di sa-
pere, nonché emozioni, desideri, fantasmi;
5- Il linguaggio che si usa per significare e a cui si attribuisce
significato. E’ possibile per un artista l’esperienza di radicale
estraneità in uno qualunque, o magari in tutti, questi livelli?
E’, quella dell’estraneità e del rifiuto, una ipotesi filosofica-
mente e praticamente praticabile? E’ possibile stare costan-
temente e soltanto dall’altra parte, operando sempre fuori
dagli spazi deputati, senza tecniche e divisioni disciplinari
definite, con un linguaggio che richiede ogni volta un nuovo
codice, e privi di una comunità di riferimento? Ovviamente
no. L’esperienza del “fuori”, dell’al-di-là di un limite dato,
non è possibile in assoluto, come tale, ovvero lo è concet-
tualmente, ma al prezzo di una rinuncia ad ogni processo di
scambio cognitivo – che non è tanto il silenzio dell’eremita
o il discorso alternativo dell’irriducibile, ma più probabil-
mente la paralisi mentale e relazionale del soggetto autistico.
Il lavoro sul confine, la sperimentazione liminare dell’artista,
sarà piuttosto – per dirla à la Deleuze & Guattari - una prag-
matica che combina elementi di riconoscimento con ele-
menti di estraneità, che più o meno è quello che Freud
definisce come Unheimlich, l’inquietante. Una esperienza
che trova il suo spazio paradossale ma possibile nello spo-
stamento fra il “dentro” della norma e del dato, e il “fuori”
della trasformazione e del negativo.
Credo che gli artisti contemporanei abbiano in generale su-
perato una certa dipendenza da una visione ideologica che
sottoponeva la ricerca artistica alle esigenze rivoluzionarie
o del rifiuto e abbiano smesso di inseguire il canto delle si-
rene della non-compromissione e dell’estraneità radicale.
Una tale “libertà” – che non significa, ovviamente, passare a
ragionare soltanto nei termini di produzione-spettacolo-
mercato-comunicazione - credo che offra la possibilità di riu-
scire a praticare incessantemente l’esercizio che vorrei
definire come lo stare con un-piede-di-qua-e-un-piede-di-là.
Relativamente allo spazio deputato propongo quindi la teo-
ria, chiamiamola così, dello spostamento con resti: riuscire
a dislocare la pratica artistica in luoghi “altri” senza perdere
il contatto, la capacità di dialogo, la strada insomma che ri-
porta ai luoghi “propri”, senza succubanza né da una parte
né dall’altra.
Relativamente alla tecnica si tratta di riuscire ad utilizzare
strumentalmente il medium. Qualsiasi mezzo è alla portata
dell’artista contemporaneo. Ma l’uso del medium va sempre
commisurato alle caratteristiche del progetto a cui (e del con-
testo in cui) si sta lavorando e non viceversa. Essere medium-
artisti (video-artisti, pittori, installation-artist etc.) significa
accettare un rovesciamento alienante dei termini del rap-
porto fra l’agente (il produttore di senso) e il suo strumento,
l’uomo e il suo utensile.
Relativamente all’ambito disciplinare è chiaro, da quello che
ho già detto, che l’artista non si riconosce in nessuna
22
 PIANO
disciplina data ma, potenzialmente, attraversa tutti i loro con-
fini. Il sapere, nel rapporto trans-disciplinare, entra in un cir-
cuito in cui si moltiplica e diventa misto. L’esistenza di
Internet ha reso palese la positività della perdita delle spe-
cializzazioni. Nel momento in cui si mette sul tavolo un
sapere misto si riescono ad aggregare su dei progetti persone
che hanno appartenenze e definizioni anche molto diverse
tra loro. Ognuna darà un contributo legato alla sua disci-
plina, ma soprattutto vedrà la propria posizione con un oc-
chio diverso, dall’esterno. E questo apre possibilità di azione
inconcepibili all’interno di una logica disciplinare. Il sapere
artistico è il sapere non-specialistico: io ipotizzo un’univer-
sità in cui ci si forma all’assenza di specializzazione.
Ma il piano in cui il confine fra dentro e fuori risulta più prob-
lematico e intrinsecamente contraddittorio è proprio quello
dell’io, ovvero l’unità psico-fisica in cui, momento per mo-
mento, ci si ritrova.
La bottiglia di Klein (fonte wikipedia)
Il confine fra l’io e l’altro è un confine sensibile, anche po-
liticamente. Il pensiero dell’identità funziona in modo sem-
plice ed è per questo che è così convincente: io sono io,
l’altro è altro, distinto e separato da me, quindi non-io. Il pen-
siero della differenza è un pensiero più difficile, ma non
tanto perché introduce concetti come “tolleranza” o ”inte-
grazione”, quanto perché introduce al riconoscimento che
l’altro è inevitabilmente parte costitutiva dell’io, e che quindi
quel confine è variabile e fondamentalmente interno. L’ap-
porto più geniale di Freud è stato proprio quello di catego-
rizzare l’inconscio – il “rimosso” – come quella parte di sé
che non si vuole o non si riesce ad accettare per cui diventa
“altra” e richiede, proprio perché è così fortemente radicata
all’interno, delle difese (immaginarie) sempre più forti, verso
l’esterno. Fino alla situazione paranoide in cui l’ossessione
identitaria e la rigidità della difesa dall’altro proietta e
trasferisce in esso tutto il male che in verità si nasconde,
gelosamente, dentro. Si tratta di situazioni in cui il richiamo
alla purezza del corpo etnico e alla integrità del corpo so-
ciale (pensiamo a tutte le forme di razzismo e di stigmatiz-
zazione delle diversità che sono ormai diventate prioritarie
nell’agenda della politica-spettacolo contemporanea) mani-
festano ciò che vorrebbero nascondere, esorcizzano ciò che
temono e di cui si vorrebbero sbarazzare. Perché accade
questo, cosa c’è nel “sé”, di tanto pauroso e imbarazzante?
Cos’altro, se non la prossimità, l’intreccio, la commistione
con, l’inseparabilità da, l’”altro”. O, addirittura, l’inconcepi-
bile sensazione della sua necessità: io sono l’altro, e non
potrei essere io altrimenti? O, forse ancora peggio, di una
reciproca necessità : l’altro non sarebbe “sé” (ebreo, o zin-
garo, ad esempio), senza di me?
Fra la rigidità falsificata dell’appartenenza identitaria e l’im-
possibilità afasica dell’estraneità radicale, l’artista opta per
una pratica di molteplici spostamenti sul confine.
L’artista è lo sperimentatore, e a volte l’allenatore, delle
pratiche di spostamento sul confine fra l’io e l’altro, fra l’ap-
partenente e l’estraneo, fra il dentro e il fuori. Sa che non è
possibile negare l’identità, ma sa che si può praticare lo
spazio di questa negazione, per così dire identificandovisi.
Contrabbandiere di significati di limite, è sempre complice
(un po’ come un agente del contro-spionaggio che non si
capisce mai da che parte sta) del sistema linguistico che ha
bisogno, per continuare a funzionare, di quei cambiamenti
che rifiuta come errori. Un cavallo di Troia buono per en-
trambi i lati dei confini della conoscenza.
Una volta riconosciuta (ammesso che sia davvero possibile,
non è comunque mai un avvenimento una-volta-per-tutte,
ma, appunto, una pratica, un esercizio di mobilità; non è una
capacità né una tecnica, piuttosto una possibilità) questa in-
dissociabilità fra il sé e l’altro, si possono scegliere delle
strategie. Nel lavoro con altri, ad esempio, si può favorire, in
un processo circolatorio collettivo, lo spostamento del punto
di vista e l’assunzione (reciproca) del punto di vista altrui:
questo determina l’apertura di uno spazio che consente lo
sviluppo di un pensiero critico.
Lo sguardo e il pensiero critico sono, per me, lo sguardo e il
pensiero nel luogo dell’altro. Nel momento in cui riusciamo
a spostare il nostro punto di osservazione/interpretazione di
un fenomeno o di un contesto in un altro luogo rispetto a
quello nel quale siamo, noi assumiamo la possibilità di uno
sguardo critico.Perché ci sia questo spostamento è necessaria
la presenza di un altro soggetto, senza il quale non ci sarà
(ovvero non sarà riconoscibile) un altro luogo verso cui muo-
vere. Lo spostamento prevede e richiede una relazione
conoscitiva (e in qualche misura anche affettiva) con l’altro.
Non basta la sua presenza pura e semplice, ma è necessaria
23
la possibilità di accedere all’occhio, alle modalità di ragio-
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namento, ai pregiudizi, alle convinzioni e alle emozioni del-

l’altro. Il pensiero critico è quello che trova spazio e signifi-
cato grazie allo spostamento fra i due punti di vista, il proprio
e l’altrui.
Un’altra strategia che, come artista, ritengo possibile, è la
commistione rispetto alla autorialità e, attraverso processi di
delega, la situazione in cui le “mie” opere siano fatte da
qualcun altro (e così diventino anche opere di altri). Da
molto tempo credo che le “mie” (!) opere migliori siano
quelle fatte con altri, o da altri, e che significano altro,
rispetto alle mie intenzioni riconoscibili. Si tratta di negare la
propria identità di autore, o si tratta forse di “stare positiva-
mente” nella negazione e quindi affermare un’identità più
inclusiva? O forse, ancora meglio, di spostare l’accento da
una “posizione” identitaria (magari in grado di includere la
propria negazione) a una pragmatica di mobilità, di sposta-
mento, appunto, sui confini? Stare nella distanza-da-sé, in-
somma, come un esercizio di movimento in/su uno spazio,
invaginato come la celebre bottiglia di Klein, quella in cui,
una volta che si seguono i confini, il dentro non risulta più
distinguibile dal fuori.

Nato a Roma nel 1955, Cesare Pietroiusti vive a Roma

Laurea in Medicina, 1979, con tesi in Clinica Psichiatrica
Co-fondatore del Centro Studi Jartrakor, Roma, 1977 e della Rivista di Psi-
cologia dell'Arte, Roma, 1979.
Co-coordinatore dele residenze "Oreste" (Paliano e Montescaglioso1997-
2000); del progetto "Oreste alla Biennale" (50.ma Biennale di Venezia,
giugno-novembre 1999) e del convegno "Come spiegare a mia madre che
ciò che faccio serve a qualcosa?", Link, Bologna, 1997.
Vincitore del premio Alinovi 1999.
Co-fondatore di Nomads & Residents (New York, 2000).
Docente di "Laboratorio delle tecniche e delle espressione artistiche", IUAV,
Venezia (2004-).
Co-curatore del Sound Art Museum, Roma (2004-2006).
Membro del Comitato Scientifico (2005-) e co-curatore del Corso Superiore
di Arti Visive della Fondazione Ratti di Como (2006-).

Dal 1977 ha esposto in spazi privati e pubblici, deputati e non, in Italia e al-
l'estero. Negli ultimi anni il suo lavoro si è concentrato soprattutto sul tema
dello scambio e sui paradossi che possono crearsi nelle pieghe dei sistemi
e degli ordinamenti economici. A partire dal 2004 ha irreversibilmente
trasformato altrui banconote; distribuito gratuitamente decine di migliaia di
disegni individualmente prodotti e firmati; venduto storie; ingerito ban-
conote al termine di un'asta per poi restituirle al legittimo proprietario dopo
l'evacuazione; aperto negozi in cui la merce in vendita sono banconote e
la "valuta" con cui si possono acquistare è lo sguardo dell'acquirente; orga-
nizzato ristoranti in cui al termine del pasto, invece di pagare, si ricevono i
soldi del prezzo del cibo scritto sul menu ecc.
Nel 2007 ha fondato, in collaborazione con il collettivo Space di Bratislava,

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"Evolution de l'Art", la prima galleria d'arte contemporanea che tratta
soltanto opere immateriali.
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Special Project by
LUCA TREVISANI

| coalesce together element which are impossibile to be mixed | elaborate provisional and deeply ephimeral stratergies for
investigate and idea of togetherness, unity and community | an abstract laboratory | the work is a twat but severe effort for
challenge reality | a failure act | lonliness is a chimera | the impossibility of a social indipendent | Community. | A collec-
tive state of mind. | to trace lines of demarcation to construct a territory | that which belongs to what is mine, that which be-
longs to the other. | To measure | to separate. | Spatial utopia is a continuous breath, a rhythm that tries to impose itself on
the environment. | Natural flow and artificial barrier | the wear of water running over things | elements that work together
| elements that merge | The vortex is a circular, centripetal movement, where things lose themselves in the neck of a tunnel.
| A vortex is a body of water involved in a circular swirling movement often caused by the meeting of opposing currents. |
The water embodies the idea of perpetual motion, a continuous redefinition of an identity | the vortex is an objective cor-
relative, an essential metaphorical figure for detached observation of dynamics of encounter, of reciprocal shaping. | . . . |
The white, the black, the gray tones. | Unity and separation. | Real confines and non-existent confines; perceived or only
imagined. | Order and disorder | visible confines and invisible confines. | Radioactivity | Robert Barry ! Inert Gas Series. |
The infiniteness of the landscape. | On the night of Chernobyl the wind erased the sense of the political map of Europe. |
Geography didn't matter at all. That night, united Europe was truly born. | Luca Trevisani | spring 2008 | | coalesce together
element which are impossibile to be mixed | elaborate provisional and deeply ephimeral stratergies for investigate and idea
of togetherness, unity and community | an abstract laboratory | the work is a twat but severe effort for challenge reality | a
failure act | lonliness is a chimera | the impossibility of a social indipendent | Community. | A collective state of mind. | to
trace lines of demarcation to construct a territory | that which belongs to what is mine, that which belongs to the other. | To
measure | to separate. | Spatial utopia is a continuous breath, a rhythm that tries to impseitself on the environment. | Natu-
ral flow and artificial barrier | the wear of water running over things | elements that work together | elements that merge |
The vortex is a circular, centripetal movement, where things lose themselves in the neck of a funnel. | A vortex is a body of
water involved in a circular swirling movement often caused by the meeting of opposing currents. | The water embodies the
idea of perpetual motion, a continuous redefinition of an identity | the vortex is an objective correlative, an essential
metaphorical figure for detached observation of dynamics of encounter, of reciprocal shaping. | . . | The white, the black,
the gray tones. | Unity and separation. | Real confines and non-existent confines; perceived or only imagined. | Order and
disorder | visible confines and invisible confines. | Radioactivity | Robert Barry ! Inert Gas Series. | The infiniteness of the
landscape. | On the night of Chernobyl the wind erased the sense of the political map of Europe. | Geography didn't mat-
ter at all. That night, united Europe was truly born. |

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Luca Trevisani | spring 2008 |
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UNTITLED

di Jacopo Candotti

Lui è in grado di definire tutto e non si sbaglia mai.Da quando decido di affrontare qualsiasi prob-
lema, c’è sempre lui a consigliarmi e forse è il mio miglior amico di sempre. Ogni volta mi porta a
pensare di essere giunto ad un risultato ed aver conseguito un traguardo.Una distrazione mi è sem-
pre concessa quando guardo alla realtà ricordandomi puntualmente che è vera.La sua fisicità trova
sempre il modo per mostrarsi con grande efficacia, certo che sarà sempre lui la bussola più precisa
ed affidabile. Come contenitore non me lo vedo, in fondo sarebbe una contraddizione. Eppure lo per-
cepisco come tale, un oggetto puntato in tutte le direzioni di cui percepisco solo le sfumature. Come
quantificarlo?!Partire dal verde per portarlo al blu e al bianco deformandone il peso, aumentandone
densità e spessori.Si ha quasi la parvenza di poter costruire dal nulla realtà concrete e sconosciute.
Poi, l’inevitabile ritorno tra le mura trasparenti delle capacità.Forse si dovrebbe guardare al con-
trario, se ne trarrebbe beneficio. Il confine di un oggetto che non esiste. Una stasi subito pronta al-
l’azione più esagerata, come un cane che sta per morderti, una casa che sta per crollare, una
macchina che con la coda dell’occhio vedi ti sta investendo, come un testo a cui manca una parte
importante e che non sarai mai in grado di scrivere. Quante possibilità ci sono per andare fuori con-
trollo?! Forse scopro sfumature inedite della lettura delle cose solo quando mi sveglio. Un luogo
ideale in cui sviluppare sfumature lunghissime, luoghi dove si ha solo un’ offuscata visione delle es-
tremità. Lo spessore del bordo si assottiglia giorno dopo giorno aumentando di peso, pronto a
sbavare, accusando un forte stress sulla soglia dello strabordo. Ecco come essere schiacciato da un
filo. E se invertissi l’orizzonte cosa accadrebbe?Probabilmente mi troverei a pancia in giù e sarei an-
cora vivo. Non tocco suolo. Non rischio di perdere di vista alcun elemento. Ora che ho individuato
la mia linea, posso pensare di percorrerla fino in fondo senza rischi, con l’unico cruccio di non
cadere sù. La visuale rimane un’incognita, ma procedo con grande facilità. Non mi concedo nulla.
L’ambiente è fin troppo ricco di elementi per aggiungerne degli altri. Scorgo finalmente le mura in-
visibili. Mi sbilancio, devo porre attenzione a non perdere di vista alcun elemento, devo rimanere
sul segmento, l’unico riferimento reale. Uno scrollo e cedo alla gravità. Ti vedo. Sono sotto queste
parole, stretto tra lo spessore dell’inchiostro e il foglio, il suo peso, la sua dimensione.

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Untitled, 2007, acciaio inossidabile, carta, 175x90x40cm

Jacopo Candotti(1982) vive e lavora tra Roma e Bolzano.

Direttore del progetto PIANOmagazine.
Tra le mostre personali: “No man is an island”, Museion at Eurac Tower,
Bolzano(2008), ST05, Neon>fdv, Milano(2007).
Tra le mostre collettive: “Invisible Miracles”, fondazione Antonio
Ratti(2007), “Bella Vita”, New Cinatown Barbershop, Los Angeles(2007),
“Sperequazione1”, Neon>fdv Milano(2006), Fucina 3, “Della Natura
(umana) Molteplice”, Cave Michelangelo, Carrara(2006), “Diverse attitu-

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dini” Villa Delle Rose, Bologna(2006).
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Dialogare con il territorio e con i suoi abitanti, evadere le
consolidate formule espositive, strutturare delle piattaforme
creative più flessibili e aperte alla sperimentazione non
dovrebbero essere tra le priorità (spesso disattese) di un
rassegna biennale?
Nell’attesa di una manifestazione che palesi ancora di più
questi indirizzi e questa tipologia di pratiche, la Berlino not
turna di Szymczyk e Filipovic è stata una risposta significa-
tiva aprendo con decisione a quest’approccio: tra i vari in-
terventi, gli artisti finlandesi Tellervo Kalleinen e Oliver
Kochta-Kalleinien hanno condotto una lecture spiegando
come organizzare un Complaints Choir, progetto che li vede
Paola Pivi, “If you like it.Thank you.If you don’t like, I’m sorry.Enjoy
anyway.”
da anni interagire con diverse comunità di tutto mondo or-
ganizzando delle sessioni canore nella forma di riti collet-
tivi; A Night of Psicomagia di Danai Anesiadou: un omaggio
a Jodorowsky ma anche una riflessione sul sistema dell’arte
e sulle sue dinamiche; Artur Zmijewski che, dopo una per-
ormance stutturata come un laboratorio aperto, ha condotto
una conversazione con Slawomir Sierakowski, editor del
magazine polacco Krytyka Polityczna.
Dopo la Biennale della Wrong Gallery tutta concentrata in
Augustrasse era necessario ripensare l’intera città e il poten-
ziale dettato dalla scelta di determinate location, che avreb-
bero inciso e contribuito a definire l’intero progetto
curatoriale. Oltre al KW Institute for Contemporary Art, sede
storica della manifestazione, Adam Szymczyk e Elena Fil-
ipovic hanno puntato a un edificio significativo per la storia
politica della città — nonché esempio rilevante di architte-
tura museale — la Neue Nationalgalerie di Mies van der
Rohe; a un parco tra Mitte e Kreuzberg , lo Skulpturenpark
Berlin_Zentrum, una “terra di nessuno” emblematica dei lotti
riemersi dopo la caduta del muro; e a una padiglione tardo
classicista, lo Schinkel Pavilion, distrutto durante la seconda
guerra mondiale e ricostruito negli anni Sessanta.
Molti i lavori interessanti sia di giovani che di artisti ormai
affermati. Ai KW la sala principale del Centro è stata ricop-
erta d’asfalto: l’intervento intitolato Ground Control è a firma
di Ahmet Ogut e riflette sulle forme di potere esercitate nello
spazio pubblico in relazione a ciò che sta accadendo in
Turchia nel processo di modernizzazioni delle aree rurali. A
seguire, tra gli altri, video di Jos De Gruyter, Patricia Esquiv-
ias, Babette Mangolte, Manon de Boer e Ania Molska gio-
vanissima polacca che, con l’opera W=F*s(work) dove un
gruppo di contadini compone una “scultura umana”
reggendo dei pezzi di metallo, ha creato un ponte verso lo
Skulpturenpark Berlin_Zentrum, dove la stessa struttura era
esposta. L’ultimo piano dei KW è stato dedicato interamente
a un progetto di Tris Vonna-Michell, insignito di recente del
Bâloise Art Prize all’ultima edizione di Art Basel.
Un lavoro di Paola Pivi si è imposto allo sguardo appena var-
cata la soglia della Neue Nationalgalerie, una griglia metal-
lica rivestita di strass multicolor che correva parallelamente
alla facciata, una risposta irriverente all’architettura sobria ed
essenziale di van der Rohe. Se Paulina Olowska nella sua
nuova serie di dipinti ha omaggiato la pittrice Zofia Stryjen-
ska, Rosalind Nashashibi e Lucy Skaer nella loro instal-
lazione si sono appellate al mito di Pigmalione combinando
manufatti antichi e moderni, sia legati a cerimoniali che alla
vita quotifiana, donandogli nuovi significati.
Una moltitudine di storie, nessun filo conduttore netto e
definito, nessuna tendenza chiaramente marcata, ma sug-
gestioni e frammenti di dialoghi si sono stabiliti, persi e
ripristinati tra opera e opera, tra sede e sede. Lo stesso spir-
ito ha guidato anche la realizzazione del catalogo concepito
come spazio flessibile, un autentico laboratorio di pro-
duzione di pensiero che si avvale di testi di critici, filosofi, in-
tellettuali come di materiale d’archivio di vario tipo.
Un’ulteriore nota di merito quella di aver riprogettato in tal
direzione il catalogo riscoprendolo come un contenitore ed-
itoriale autonomo, destinato a un tempo, a uno spazio, a un
pubblico che va al di là di quello della biennale stessa.
Francesca Pagliuca
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