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CAPITOLO 14

La folla dei rivoltosi inizia a disperdersi


La folla in tumulto inizia a disperdersi e molti tornano alle proprie case, mentre un gruppo di facinorosi più
violenti, insoddisfatti della conclusione della rivolta senza spargimento di sangue, si trattiene presso la porta
della casa del vicario di Provvisione per vedere se si possa tentare ancora qualcosa: tuttavia i soldati spagnoli
prendono posizione accanto alla casa e i rivoltosi se ne vanno, alcuni con passo più spedito e altri facendo
finta di nulla. Lì intorno le strade sono ancora piene di drappelli di popolani, che si formano spontaneamente
e dove tutti sembrano avere qualcosa da dire su quella giornata: alcuni sono contenti che la cosa sia finita
bene e lodano il comportamento di Ferrer, pronosticando seri guai per il vicario, mentre altri (più astuti)
osservano che il gran cancelliere ha preso in giro i rivoltosi e che al vicario non succederà nulla, poiché i
signori si proteggono l'un l'altro. Intanto il sole sta tramontando e i popolani, stanchi di tutti gli avvenimenti
della giornata, iniziano ad allontanarsi.

Renzo arringa la folla con un discorso


Renzo nel frattempo si è sottratto alla calca e inizia a sentire il bisogno di sfamarsi e di riposare, ancora
agitato per le molte emozioni vissute durante la giornata. Sta cercando un'insegna di osteria dove alloggiare,
dal momento che è troppo tardi per tornare al convento, quando si imbatte in un capannello di popolani
intenti a discutere e, ancora eccitato per tutto ciò che ha visto in precedenza, decide di dire anche lui la sua
opinione, convinto che basti manifestare un proposito di fronte alla folla perché questo venga subito messo in
opera.
Renzo inizia a dire che, secondo lui, la faccenda del pane a buon mercato non è la sola che meriti l'attenzione
del popolo, giacché ci sono dei tiranni che opprimono la povera gente ed esercitano contro di essa degli
autentici soprusi: egli è certo che ci siano dei signori prepotenti a Milano come in campagna e una voce gli
dà prontamente ragione. Renzo aggiunge che le gride ci sono, stampate in bella evidenza, ma non vengono
applicate e non viene fatta giustizia ai poveri, perché c'è una "lega" di birboni che si proteggono l'uno con
l'altro, anche se il re e gli altri uomini di governo vorrebbero che i malvagi venissero puniti per i loro delitti.
Il giovane propone di recarsi tutti il giorno dopo da Ferrer, che si è dimostrato un galantuomo, per fargli
sapere come stanno le cose e invocare il suo aiuto: Renzo rammenta la sua triste esperienza dal
dottor Azzecca-garbugli, dove ha visto coi suoi occhi una grida firmata da Ferrer in persona e che riguardava
proprio un caso simile al suo, anche se non ha potuto ottenere soddisfazione. Il gran cancelliere non potrà
certo andare in giro in carrozza ad arrestare tutti i birboni, ma potrà comandare ai giudici e ai podestà di
applicare la legge e dare la giusta punizione a chi sgarra, con l'aiuto dei popolani che saranno pronti a darsi
da fare come è accaduto in questa giornata. L'uditorio ha ascoltato con interesse le sue parole e molti alla fine
si complimentano e applaudono, anche se alcuni disapprovano e osservano che tutti i montanari vorranno dir
la loro e questo, alla lunga, si volgerà in peggio per i poveri.

Il poliziotto conduce Renzo all'osteria


Renzo chiede a qualcuno della folla di indicargli un'osteria dove ricoverarsi, al che un tale, che ha ascoltato
attentamente il suo discorso senza dir nulla, si fa avanti dicendosi pronto ad accompagnarlo in una locanda di
cui conosce il padrone e dove il giovane starà benissimo. Renzo accetta volentieri e, dopo aver stretto molte
mani di sconosciuti, si incammina con l'estraneo che in realtà non è altri che un poliziotto travestito, che ha
intenzione di condurlo al palazzo di giustizia. Infatti l'uomo finge di discorrere alla buona col giovane,
chiedendogli da dove viene e osservando che al suo paese deve aver subìto molte angherie, al che Renzo
ribatte con naturale prudenza dicendo solo di venire dal territorio di Lecco. Il giovane è molto stanco e non
intende camminare oltre, perciò quando vede un'insegna di osteria con sopra il simbolo della Luna
Piena decide di entrare lì: l'uomo tenta di convincerlo a seguirlo oltre, adducendo come pretesto che in quella
locanda non si troverebbe bene, ma Renzo non sente ragioni ed entra nel locale, seguito dal poliziotto che
non intende lasciarlo (Renzo lo invita a bere un bicchiere e l'altro accetta con fare manierato). Il poliziotto,
che sembra pratico del luogo, lo guida all'interno dell'osteria attraverso un piccolo cortile, entrando poi in un
ampio locale illuminato dalla debole luce di due lumi che pendono dal soffitto e dove c'è una lunga tavola
con due panche ai lati, con piatti, fiaschi, carte e dadi dappertutto. Molti avventori sono intenti a giocare e a
bare, facendo un gran chiasso, mentre sulla tavola ci sono molte monete che, probabilmente, sono il frutto di
ruberie avvenute in quella giornata di tumulto.

Renzo mostra il pane gli avventori


L'oste siede accanto al camino, attento a tutto quel che succede nel locale, poi si alza e si avvicina ai due
nuovi arrivati, riconoscendo il poliziotto e imprecando tra sé poiché gli capita sempre tra i piedi quando
meno lo vorrebbe: quanto a Renzo, l'uomo è convinto che sia un altro sbirro o una sua preda e da come il
giovane parlerà lo capirà subito. L'oste chiede ai due cosa vogliano e Renzo ordina un fiasco di vino, quindi
il giovane si siede su una panca di fronte al poliziotto e, quando l'oste porta il vino, ne beve subito un sorso.
Ordina poi dello stufato e l'oste dichiara che non potrà servirgli del pane, al che Renzo tira fuori l'ultima delle
pagnotte che aveva trovato vicino alla croce di S. Dionigi, al suo arrivo a Milano, mostrandola agli avventori
e dicendo a voce alta che si tratta del pane della Provvidenza. Il giovane dichiara di aver avuto quel pane
gratis, ma si affretta a precisare di averlo trovato e non rubato, dicendosi pronto a pagarlo al proprietario
qualora lo incontrasse (le sue parole suscitano una risata generale).
Renzo spiega al poliziotto che ha davvero trovato quel pane, quindi inizia a mangiarlo e a bere vino, mentre
lo sbirro dice all'oste che il giovane ha intenzione di dormire nella locanda. L'oste si avvicina con in mano un
foglio di carta e una penna, chiedendo a Renzo di dirgli nome, cognome e città di provenienza, così come
prescrive una grida agli osti che diano ricovero a un forestiero nella loro locanda (l'oste nel dir questo guarda
fisso in volto il poliziotto).

L'oste mostra la grida a Renzo


Renzo non intende dire il proprio nome all'oste e, bevendo un altro bicchiere di vino, impreca contro tutte le
gride e le leggi scritte: l'oste va a prendere un esemplare della grida di cui ha parlato e la mostra al giovane,
che per tutta risposta pronuncia frasi irriguardose all'indirizzo dello stemma del governatore in cui
campeggia il volto di un re moro incatenato per la gola. Renzo aggiunge che quella grida non è certo in grado
di aiutarlo ad avere giustizia riguardo al suo matrimonio mandato a monte da un prepotente, quindi non ha
intenzione di dire il suo nome a qualcuno che non sia un frate cappuccino da cui sia andato a confessarsi.
L'oste non sa che fare e chiede indicazioni al poliziotto, il quale gli suggerisce di non insistere oltre, tanto più
che Renzo ha attirato l'attenzione di tutti gli avventori che applaudono alle sue parole contro le gride. L'oste
si allontana, dopo che Renzo gli ha consegnato il fiasco vuoto e gli ha chiesto di portargliene un altro con lo
stesso vino: mentre si allontana, l'oste impreca tra sé contro l'ingenuità di Renzo, che è finito nelle mani
della giustizia e si sta mettendo nei guai senza neppure rendersene conto, rischiando di causare fastidi anche
a lui.
Renzo torna a predicare contro l'abitudine dei potenti di usare sempre la penna e la parola scritta, suscitando
la battuta sarcastica di un avventore secondo il quale ciò dipende dal fatto che i signori mangiano oche e si
ritrovano dunque con tante penne di cui non sanno che fare. Tutti ridono e Renzo osserva che chi ha parlato è
un poeta, cioè un cervello balzano, aggiungendo poi che la parola scritta è un inganno usato dai potenti per
esercitare soprusi contro i più deboli, specie quando parlano in latino per confondere le idee a un povero
contadino che a malapena capisce il volgare.

Il poliziotto estorce a Renzo il suo nome


Il poliziotto si trattiene ancora in compagnia di Renzo, ricominciando a un tratto il discorso del pane a buon
mercato e dicendo di avere un suo progetto grazie al quale sarebbe possibile assicurare a tutti il giusto
quantitativo di pane. Renzo ascolta con attenzione, anche se la sua mente è annebbiata dai fumi dell'alcool, e
l'uomo afferma che si dovrebbe imporre un prezzo massimo che vada bene per tutti, badando a distribuire il
pane a seconda delle necessità di ogni famiglia. Per ottenere questo bisognerebbe dare a ciascuno un
biglietto, con scritto il nome, la professione e il numero di bocche da sfamare, in modo da poter comprare il
pane in proporzione adeguata: a lui, per esempio, ne dovrebbero dare uno con scritto "Ambrogio Fusella,
professione spadaio, una moglie e quattro figli a carico". L'uomo chiede poi a Renzo cosa ci dovrebbe essere
scritto sul suo biglietto e il giovane dice ingenuamente di chiamarsi Lorenzo Tramaglino, non ancora sposato
e dunque senza figli, al che il poliziotto sembra soddisfatto e si affretta ad alzarsi, accomiatandosi da Renzo e
dicendo che la sua famiglia lo sta aspettando a casa.

Renzo, ubriaco, diventa lo zimbello degli avventori


Renzo tenta invano di trattenere il poliziotto e di fargli bere un altro bicchiere di vino, ma l'uomo si libera di
lui con uno strattone e si affretta a uscire in strada: il giovane fissa il bicchiere che ha riempito e, dopo aver
detto alcune frasi sconclusionate al garzone dell'osteria, lo vuota d'un fiato. L'autore osserva che sarà
necessario un grande amore per la verità a proseguire nel racconto in cui il protagonista della vicenda non
farà una gran figura, anche se a sua parziale scusante va ricordato che Renzo non è avvezzo al bere e quei
pochi bicchieri sono stati sufficienti a dargli alla testa, specie in quella giornata in cui ha vissuto forti
emozioni. Il giovane tenta ancora di parlare al suo improvvisato uditorio, ma l'alcool gli annebbia il cervello
e formulare le frasi diventa via via più difficile, cosa per cui beve ancora dell'altro vino; si abbandona poi a
un discorso confuso, in cui accusa ancora l'oste di avergli voluto estorcere il nome per scriverlo su un foglio
e gli ricorda che sono i popolani a venire a bere nella sua locanda, non certo i signori come  Ferrer che si
tengono lontani da certi posti (un vicino ricorda che essi bevono acqua per mantenersi lucidi e poter mentire
alla povera gente). Il giovane rievoca ancora in modo confuso gli eventi della giornata e allude, senza fare
nomi, alla sua vicenda personale, ricordando il suono delle campane a martello la "notte degli imbrogli",
quando non era riuscito a sposare la sua promessa.
Così facendo, Renzo diventa lo zimbello di tutti gli avventori dell'osteria, che fanno a gara a prenderlo in
giro e a stuzzicarlo con domande canzonatorie, alle quali il giovane montanaro talvolta risponde in modo
sconclusionato, senza tuttavia mai fare i nomi delle persone conosciute (la sbornia non gli ha tolto del tutto la
naturale prudenza contadina). Per buona sorte, osserva amaramente l'autore, Renzo non fa mai il nome
di Lucia, giacché sarebbe un peccato vederlo diventare oggetto di burla da parte di quegli ubriaconi.

APPROFONDIMENTI

 L'episodio è fondamentale nel percorso di "formazione" di Renzo, che dopo aver assistito
al tumulto per il pane si mette a "predicare in piazza" attirando l'attenzione di un poliziotto, il che
sarà poi causa del suo arresto e della sua fuga nel Bergamasco (il giovane paga lo scotto della sua
condotta imprudente e della sua ingenuità, specie quando rivela allo sbirro il proprio nome).
 Il discorso che Renzo rivolge alla folla dopo il tumulto è un piccolo capolavoro di oratoria popolare,
in cui emerge tutta l'amarezza del giovane contadino per le angherie e i soprusi patiti al suo paese: ai
suoi occhi di montanaro inurbato la sommossa è stata un atto di giustizia e il popolo dovrebbe andare
da Ferrer per far rispettare la legge, facendo in modo che le gride siano finalmente applicate, senza
rendersi conto che l'unico a subire le ritorsioni della giustizia sarà lui stesso, pur non avendo fatto
nulla di male. L'autore guarda con simpatia Renzo e i suoi guai, ma vuole anche mettere in guardia
contro i moti di piazza e le soluzioni sediziose ai problemi politici, poiché le rivolte causano troppo
spesso disordini e violenze indiscriminate (alla fine del romanzo Renzo dirà di aver imparato "a non
predicare in piazza", condannando in modo implicito la sua partecipazione ai tumulti di Milano).

 L'autore svela la reale identità di Ambrogio Fusella nel cap. XV, quando dirà che è un "bargello
travestito" sguinzagliato dal capitano di giustizia per trovare dei capipopolo da arrestare e con cui
dare un esempio alla folla in tumulto: del resto già nel cap. XII un popolano aveva detto di aver visto
"certi galantuomini che giran, facendo l'indiano", alludendo proprio alla presenza di poliziotti
mescolati alla folla, mentre lo stesso oste della Luna Piena lo designa come "cane", alludendo al fatto
che l'uomo va a caccia di criminali. Il nome che egli fornisce a Renzo è dunque falso, come il
particolare pietoso dei quattro figli che lo attendono a casa.

 Nel finale del capitolo Renzo viene mostrato completamente ubriaco, intento a dare un pessimo
spettacolo di sé agli altri avventori dell'osteria: l'autore disapprova esplicitamente la sua condotta e in
seguito il giovane si mostrerà assai più morigerato nel bere (specie quando andrà all'osteria di
Gorgonzola, durante la sua fuga verso il Bergamasco).

 Renzo definisce "poeta", vale a dire cervello balzano, un avventore che pronuncia una battuta
sarcastica e Manzoni osserva con ironia che questo è il significato dato alla parola da quel
"guastamestieri del volgo", mentre il poeta dovrebbe essere "un sacro ingegno": è ovvio che l'autore
la pensa in realtà come il popolo e che la definizione da lui data di poeta ("un abitator di Pindo, un
allievo delle Muse") corrisponde alla concezione neoclassica che Manzoni ha del tutto abbandonato
in questa fase della sua attività di scrittore.
 Il tema della giustizia negata caratterizza l'intero cap. XIV, a partire dall'improvvisato discorso
che Renzo rivolge alla folla in seguito al tumulto di piazza (in cui il giovane afferma che le gride ci
sono e basterebbe applicarle, per cui è necessario coinvolgere Ferrer che ai suoi occhi è il garante
della legge) e in seguito nell'episodio all'osteria della Luna Piena, quando l'ingenuo montanaro è
vittima dei raggiri del poliziotto travestito, che si finge suo amico al solo scopo di estorcere il suo
nome per spiccare contro di lui un mandato di arresto. Nel triste "gioco delle parti" che si crea
intorno a Renzo ha un ruolo chiave l'astuto oste, che tiene mano allo sbirro non certo per amore della
giustizia ma solo per evitare i guai che la presenza di un sospetto sedizioso può portare al suo locale:

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