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APPROFONDIMENTI
L'episodio è fondamentale nel percorso di "formazione" di Renzo, che dopo aver assistito
al tumulto per il pane si mette a "predicare in piazza" attirando l'attenzione di un poliziotto, il che
sarà poi causa del suo arresto e della sua fuga nel Bergamasco (il giovane paga lo scotto della sua
condotta imprudente e della sua ingenuità, specie quando rivela allo sbirro il proprio nome).
Il discorso che Renzo rivolge alla folla dopo il tumulto è un piccolo capolavoro di oratoria popolare,
in cui emerge tutta l'amarezza del giovane contadino per le angherie e i soprusi patiti al suo paese: ai
suoi occhi di montanaro inurbato la sommossa è stata un atto di giustizia e il popolo dovrebbe andare
da Ferrer per far rispettare la legge, facendo in modo che le gride siano finalmente applicate, senza
rendersi conto che l'unico a subire le ritorsioni della giustizia sarà lui stesso, pur non avendo fatto
nulla di male. L'autore guarda con simpatia Renzo e i suoi guai, ma vuole anche mettere in guardia
contro i moti di piazza e le soluzioni sediziose ai problemi politici, poiché le rivolte causano troppo
spesso disordini e violenze indiscriminate (alla fine del romanzo Renzo dirà di aver imparato "a non
predicare in piazza", condannando in modo implicito la sua partecipazione ai tumulti di Milano).
L'autore svela la reale identità di Ambrogio Fusella nel cap. XV, quando dirà che è un "bargello
travestito" sguinzagliato dal capitano di giustizia per trovare dei capipopolo da arrestare e con cui
dare un esempio alla folla in tumulto: del resto già nel cap. XII un popolano aveva detto di aver visto
"certi galantuomini che giran, facendo l'indiano", alludendo proprio alla presenza di poliziotti
mescolati alla folla, mentre lo stesso oste della Luna Piena lo designa come "cane", alludendo al fatto
che l'uomo va a caccia di criminali. Il nome che egli fornisce a Renzo è dunque falso, come il
particolare pietoso dei quattro figli che lo attendono a casa.
Nel finale del capitolo Renzo viene mostrato completamente ubriaco, intento a dare un pessimo
spettacolo di sé agli altri avventori dell'osteria: l'autore disapprova esplicitamente la sua condotta e in
seguito il giovane si mostrerà assai più morigerato nel bere (specie quando andrà all'osteria di
Gorgonzola, durante la sua fuga verso il Bergamasco).
Renzo definisce "poeta", vale a dire cervello balzano, un avventore che pronuncia una battuta
sarcastica e Manzoni osserva con ironia che questo è il significato dato alla parola da quel
"guastamestieri del volgo", mentre il poeta dovrebbe essere "un sacro ingegno": è ovvio che l'autore
la pensa in realtà come il popolo e che la definizione da lui data di poeta ("un abitator di Pindo, un
allievo delle Muse") corrisponde alla concezione neoclassica che Manzoni ha del tutto abbandonato
in questa fase della sua attività di scrittore.
Il tema della giustizia negata caratterizza l'intero cap. XIV, a partire dall'improvvisato discorso
che Renzo rivolge alla folla in seguito al tumulto di piazza (in cui il giovane afferma che le gride ci
sono e basterebbe applicarle, per cui è necessario coinvolgere Ferrer che ai suoi occhi è il garante
della legge) e in seguito nell'episodio all'osteria della Luna Piena, quando l'ingenuo montanaro è
vittima dei raggiri del poliziotto travestito, che si finge suo amico al solo scopo di estorcere il suo
nome per spiccare contro di lui un mandato di arresto. Nel triste "gioco delle parti" che si crea
intorno a Renzo ha un ruolo chiave l'astuto oste, che tiene mano allo sbirro non certo per amore della
giustizia ma solo per evitare i guai che la presenza di un sospetto sedizioso può portare al suo locale: