Sei sulla pagina 1di 112

Lezione 17/02/20

Quando e perché nasce il diritto del lavoro?


Nasce quasi contestualmente l’avvento delle grandi rivoluzioni industriali che interessano tutti i
paesi europei e in realtà riguarda poi questo fenomeno il pianeta nel suo complesso. Il diritto del
lavoro nasce per dare una risposta ad un’assenza di regole che si poteva cogliere con riferimento al
rapporto di lavoro subordinato e al rapporto di lavoro in generale. Quello che si consuma con
l’avvento della rivoluzione industriale è un passaggio epocale per l’umanità perché finisce il
modello precedente, cioè quello fondato su un’attività economica prevalentemente agricola,
nell’ambito della quale non c’era niente di ciò che verrà dopo (impresa, modello organizzativo
come quello dell’impresa, il tessuto economico che nascerà per effetto della rivoluzione industriale
etc. etc.), ma c’era un mondo caratterizzato da ritmi produttivi che ormai appartengono alla storia,
quindi tutti i ritmi produttivi si collegavano al ciclo naturale della produzione agricola. Questo
sistema viene meno con la rivoluzione industriale perché l’invenzione delle macchine porterà
l’umanità a realizzare processi di automazione che prima erano totalmente inconcepibili.
Dall’invenzione delle macchine ecco che si crea la fabbrica perché grazie all’automazione è
possibile produrre beni che prima non esistevano e produrli per un numero indeterminato di
potenziali destinatari.
Questo tipo di modello sconvolge completamente la storia umana; non solo lo sconvolgimento
riguarda il tessuto sociale ed economico di un certo contesto, ma si creeranno molto pima di quanto
si possa pensare delle interazioni tra paesi che prima non esistevano perché l’avvento delle
macchine comporta progressivamente l’avvento di nuove tecnologie (la macchina a vapore
consentirà di concepire i primi treni a vapore e questi sono in grado di accorciare le distanze in
modo considerevole tra realtà diverse). Tutto questo accelera i processi produttivi e di relazione tra
gli esseri umani e rende tutto interdipendente. Questo fenomeno è riconducibile al primo seme della
globalizzazione.
Questo aspetto ha implicazioni profonde sulla tutela del lavoro perché quando nascono i primi
grandi industriali non ci sono regole che riguardano la tutela del lavoro per cui il lavoratore entra
nello stabilimento industriale e non ha alcuna regola che riguardi la protezione della sua salute,
sicurezza, integrità fisica non sa qual è la sua retribuzione e se lo chiede magari si trova davanti il
datore di lavoro che gli dice che sarà lui a determinarla e se il lavoratore non è d’accordo il datore
può dirgli di andar via etc. etc.
L’avvento della Rivoluzione industriale si connota per una situazione in cui non ci sono
assolutamente regole che riguardino il rapporto personale di lavoro. Succede che la situazione che
viene a determinarsi è drammatica perché la mancanza di tutele per i lavoratori ha effetti sulle vite
degli stessi, ma ha anche effetti sociali: se il lavoratore non ha un orario di lavoro e lavora ad es. 14
ore al giorno si logorerà facilmente e si potrà ammalare; se il lavoratore lavorerà senza alcuna
protezione rischierà di infortunarsi molto facilmente; se il lavoratore non avrà una retribuzione
adeguata rischierà di vivere al di sotto della soglia di povertà nonostante il fatto che lavori ogni
giorno etc. etc. tutti questi aspetti influiscono sulla vita della persona e sui suoi famigliari, ma
finiscono poi per diventare un problema sociale perché se tutti i lavoratori non hanno protezioni che
possano proteggerli da rischi infortunistici importanti richineranno di infortunarsi molto facilmente
e di perdere ad es. la piena capacità lavorativa o di ammalarsi e rimanere permanentemente mutilati
o con grandi menomazioni.
La materia del diritto del lavoro già dalle due origini rivela un intreccio tra la dimensione
individuale e la dimensione sociale. Le implicazioni della protezione del lavoro riguardano la sfera
individuale ed hanno implicazioni sociali ed economiche. Si sente parlare spesso di questa materia
in ambiti non giuridici e non è irrilevante da un punto di vista economico il tipo di soluzione
legislativa che si adotta in materia di lavoro: se il legislatore prende una certa direzione, questo per
il modello sociale non è irrilevante nel quale viviamo perché sono scelte non hanno implicazioni
che riguardano solo i rapporti di lavoro, ma riguarda una certa visione della società e dell’economia
(es. se penso che il licenziamento debba essere libero e che il lavoratore non possa essere licenziato
1
senza alcuna giustificazione, questa è una mia idea che non vive solo nella dinamica del diritto del
lavoro, ma ha delle dinamiche sociali).
La materia del diritto del lavoro è nata per offrire protezione a persone che per la prima volta nella
storia dell’umanità si trovavano ad operare in un contesto inedito senza precedenti (fabbrica).
Quindi, il diritto del lavoro è una risposta a questo grande punto interrogativo: cosa accade della
regolazione del lavoro in un contesto che è quello successivo all’avvento della Rivoluzione
industriale?
Il diritto del lavoro storicamente ha dato sempre molte risposte e le ha date sempre nell’ottica della
protezione del lavoro. Ma il diritto del lavoro ha esaurito questa sua funzione? No, perché il diritto
del lavoro ha dato una serie di risposte necessarie in un certo contesto, ma questo, per la
straordinaria dinamicità della nostra storia, non c’è più per cui il diritto del lavoro deve individuare
nuove risposte a nuove domande che prima non c’erano. Cambiano le domanda perché cambia il
contesto socioeconomico. Si tratta poi di capire se il diritto del lavoro è in grado di dare risposte
adeguate e sufficienti alla sete di domande che vengono poste dal contesto economico e sociale.
Quali sono queste domande? L’orario, la retribuzione, la sicurezza sul lavoro, la protezione della
maternità, ci deve essere o no un sistema pensionistico etc. etc. tutte queste domande hanno avuto
una risposta, ma queste risposte ad un certo punto non sono state più sufficienti, hanno perso la
capacità di orientare una certa tendenza perché è cambiato il modello economico.
Fino ad un certo punto nei paesi avanzati c’è un certo tipo di organizzazione del lavoro: c’è
l’impresa in cui si effettua una prestazione lavorativa di natura subordinata con un orario di lavoro
prestabilito, c’è una disciplina dei licenziamenti, c’è un trattamento retributivo uniformemente
corrisposto, c’è una protezione contro le discriminazioni etc. etc. ma ad un certo punto il rapporto di
lavoro subordinato si dissolve perché cambia anche il modello organizzativo dell’impresa e quindi
non c’è più l’impresa che ha uno stabilimento industriale con una sua sede dove si entra, si timbra il
cartellino, si trascorre una giornata di lavoro, si esce la sera etc. etc., le imprese di tipo tradizionale
sono sempre meno perché cambia il modello organizzativo, per cui tutto quell’apparato lavorativo
che è stato pensato per un tipo di lavoro tradizionale non serve più perché il rapporto di lavoro di
tipo tradizionale non c’è più. Ecco che cambia la domanda/e ed il problema è che rispetto a questo
tema non ci sono ancora le risposte adeguate.
Chi è il rider? è quello che ci porta la cena a casa ad es. e questa figura come possiamo
inquadrarla? È un rapporto di lavoro subordinato? Merita le stesse protezioni del lavoratore
dipendente oppure no? Una delle domande più importanti che si pone il diritto del lavoro in questi
anni è: che protezione diamo a queste nuove modalità di lavoro che ormai sono molto diffuse?
Rispetto a questa modalità di lavoro qual è la risposta del diritto del lavoro? Non c’è, è una
risposta ancora debole e confusa.
Forse questo accade perché la domanda è posta male? È possibile perché ci sono degli elementi
che inquinano la scena, cioè che rendono difficile l’individuazione corretta della domanda perché
perturbano la scena con degli artifici, uno di questi è la convinzione di molti che nell’era del 4.0,
cioè nell’era del digitale, della quarta Rivoluzione industriale la crescita delle tecnologie il lavoro
diventa immateriale. Questa è un po’ la falsa convinzione che si è sviluppata in parte dell’opinione
pubblica. Idea che con l’avvento di questa grande rivoluzione tecnologica il lavoro umano sia un
lavoro non più materiale, ma immateriale, impalpabile. Questa è una convinzione profondamente
erronea perché non è vero che con la crescita tecnologica il lavoro sia diventato immateriale; questo
può essere diventato vero per alcuni aspetti dell’organizzazione del lavoro. la circostanza che il
lavoro in un contesto prettamente tecnologico sia soprattutto intellettuale non significa che non ci
possa essere sfruttamento (es. se pensiamo che un esperto di software non debba compiere degli
sforzi fisici per elaborare quei programmi siamo nel torto perché lavorare per 14 ore davanti ad un
monitor significa rovinarsi la salute). La circostanza che il lavoro sia reso in forma tecnologica non
fa venir meno l’esigenza di protezione di quel lavoro perché anche dietro al lavoro intellettuale c’è
uno sforzo fisico. Il lavoro intellettuale è un lavoro manuale perché è un lavoro che richiede uno

2
sforzo, il quale è diverso da quello che compie l’operaio che sta in produzione, ma può comunque
avere effetti sulla salute.
Ma non c’è solo il lavoro intellettuale (es. rider) e allora quelle domande sono cambiate perché ad
es. l’operaio che entra in fabbrica alla fine del 1800 chiede che ci sia una limitazione dell’orario,
chiede una retribuzione adeguata, una protezione della sua salute; il rider oggi ci fa le stesse
domande, ma in un contesto diverso perché è chiaro che non possiamo pensare di trattare l’operaio
come il rider sul piano dell’orario, retribuzione, sicurezza. C’è bisogno di una risposta a queste
domande. Viene in considerazione qui il grande problema: noi la risposta a queste domande non
l’abbiamo data affatto, non abbiamo dato adeguate risposte a queste domande.

Costituzione
Nella Costituzione il lavoro assume un peso straordinario fin dall’ART. 1 “l’Italia è una
Repubblica democratica fondata sul lavoro” -> formula NON retorica perché i costituenti vollero
affermare che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sull’attività lavorativa, su un
comportamento dinamico degli esseri umani, cioè ciascuno di noi esiste in base a ciò che fa e non in
base a ciò che è; lo stato, i pubblici poteri, la collettività si riconoscono nell’idea che le persone
vadano valorizzate per la loro attività e non per il loro status. L’art. 1 fa venir meno definitivamente
i titoli nobiliari, i privilegi (l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, non su una casta). Ciascuno
di noi è valorizzato nella società in base a ciò che riesce a fare, in base al contributo che riesce a
dare alla società ed è un contributo che può avere varie caratteristiche; ognuno fa la sua parte con
ciò che ha, con ciò che sa fare. La valorizzazione del lavoro come elemento fondativo della
collettività è la negazione dell’ottica castale, del privilegio nobiliare, dell’appartenenza ad uno
status.
A noi interessa tutto questo soprattutto nella radice della valorizzazione del lavoro come elemento
di appartenenza ad una collettività perché prende vista senza dubbio un’idea del lavoro come un
qualcosa che appartiene alle persone.
L’art. 1 non dice, come avrebbe voluto la componente socialista della costituente, che l’Italia è una
Repubblica democratica fondata sui LAVORATORI perché questa formula sarebbe stata troppo
escludente rispetto agli altri soggetti. È proprio questa l’importanza dell’art.1: è una disposizione
aperta a tutti purché tutti siano disposti a dare un proprio contributo (nessuno può rimanere inerte in
un sistema sociale, tutti devono fare la propria parte).

ART. 2 “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” -> evoca i doveri inderogabili di
solidarietà sociale e i diritti inviolabili. L’inviolabilità dei diritti si riconnette necessariamente ad
una evocazione personalissima di quei diritti: quando i diritti hanno una matrice profondamente
personale inevitabilmente sono diritti inviolabili, i quali sono diritti fondamentali.
Cosa significa diritto inviolabile o diritto fondamentale?
È un diritto che non tollera negoziazioni, che non si può cedere, comprare, mettere in un’ottica
mercatista. Es. il diritto alla salute non si può cedere. L’inviolabilità dei diritti assume un peso
particolare nel diritto del lavoro perché una delle caratteristiche irriducibili dello schema lavoristico
è che c’è l’implicazione diretta della persona in un vincolo giuridico e questo non si trova in nessun
altro rapporto giuridico. Il lavoratore cede le proprie energie lavorative ad un’altra persona che la
utilizza e quindi c’è l’implicazione personale fortissima nel rapporto di lavoro.
L’art. 2 ci parla dei doveri inderogabili di solidarietà sociale che rappresentano la radice di
importanti profili di questa materia, in particolare del diritto della sicurezza sociale. Perché deve
esistere un sistema pensionistico? Perché se un lavoratore subisce un infortunio. Sul lavoro. ha una
malattia professionale il sistema pubblico se ne deve fare carico? Perché l’art. 2 Cost., ancor prima

3
dell’art. 38 Cost. che si occupa della sicurezza sociale, ci dice che in una collettività ci sono dei
doveri inderogabili di solidarietà sociale. Se c’è solidarietà sociale, una collettività di fronte ad una
persona anziana che non è più in grado di provvedere a sé stessa perché non ha più le forze per
lavorare si fa carico di individuare un sistema di protezione; di fronte ad un lavorare che subisce un
infortunio sul lavoro che porta ad una menomazione importante della sua integrità fisica (es. perde
una gamba) difficilmente potrà lavorare come prima, forse riuscirà a trovare un lavoro, ma sarà un
lavoro diverso. Di fronte a questo la collettività ritiene di farsi carico di questa situazione. Un
lavoratore che involontariamente perde il lavoro o che lo cerca ma non lo trova, un sistema che si
fonda sui doveri inderogabili di solidarietà sociale ritiene di farsi carico di queste situazioni.
L’art. 2 è il prisma attraverso cui guardare una serie di situazioni che emergono dal contesto sociale
e che sono meritevoli di protezione sociale.
La solidarietà è un elemento che tiene insieme una collettività.
Possiamo ricordare l’immagine di un gruppo di persone su una barca in cui si crea un foro. Quelli
che sono a prua guardano quelli che sono a poppa e gli dicono che c’è il foro e che andranno a
fondo. Non si preoccupano di aiutare quelli che stanno a poppa perché pensano che questo non li
riguardi, ma poi la barca affonda e muoiono tutti. La solidarietà è anche questo, cioè non è solo fine
a sé stessa, ma risponde anche ad un istinto di autoconservazione perché in un sistema che non è
solidale gli effetti negativi di questa assenza prima o poi possono toccare tutti.
Se manca la solidarietà sociale molto spesso le società diventano ingovernabili.
Nasce il sistema di protezione sociale, il sistema pensionistico in Germania sotto Bismark, il quale
era un conservatore che aveva capito che attraverso la sicurezza sociale si potesse governare la
società ed evitare il disordine sociale.

ART. 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di
fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del
Paese” -> disposizione che enuncia l’eguaglianza formale e sostanziale. Tutti i cittadini sono eguali
davanti alla legge: l’eguaglianza formare è il momento che determina ancora una volta
l’abbattimento del privilegio. Ci sono molte ragioni per ritenere che ad oggi non si sia realizzata a
pieno l’eguaglianza formale. affermare che siamo tutti uguali davanti alla legge significa dire ad es.
che non possono esserci processi diversi per alcune persone rispetto ad altre. Nell’Italia dei primi
dell’800 c’era una differenziazione processuale: il processo dei potenti era diverso da quello dei
poveri. L’affermazione dell’eguaglianza passa attraverso l’abolizione di questi elementi che sono
elementi castali, di odiosi privilegi che negano la radice stessa dell’eguaglianza.
L’eguaglianza formale è una condizione necessaria, ma non sufficiente per realizzare l’eguaglianza
perché abbiamo bisogno anche dell’eguaglianza sostanziale: il compito della Repubblica è quello di
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il regolare sviluppo della
persona umana.
Cosa intendiamo con questa formula? Prima di tutto che c’è diseguaglianza. L’art. 3 nel momento
stesso un cui enuncia l’eguaglianza formale come un fine imprescindibile riconosce che ci sono
disparità, ma affermando ciò dice che è ineludibile la strada diretta a rimuovere quelle disparità e
diseguaglianze che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
L’eguaglianza nel momento in cui declama la priorità assoluta che siamo tutti uguali davanti alla
legge si fa carico anche di fissare una regola che ha lo scopo di rimuovere le diseguaglianze laddove
esistano. Se parliamo di eguaglianza parliamo di un sistema che deve riconoscere le differenze e
rimuovere gli ostacoli.

4
La finalità del diritto del lavoro è riconoscere le differenze, rimuovere gli ostacoli, comprendere
quando è necessario agire nella prima direzione e quando nella seconda. La capacità di
discernimento tra queste due opzioni è la cifra del diritto del lavoro.

Il diritto in senso generale è fondato sul dialogo tra il testo normativo e la sua interpretazione, ma
certamente tutto il diritto del lavoro si presta ad essere osservato come un’interazione tra
eguaglianza formale e sostanziale. Es. la disciplina dei licenziamenti ha lo scopo di introdurre
dentro un rapporto di lavoro dosi di eguaglianza perché muove dal presupposto che il lavoratore si
trovi in una situazione di debolezza rispetto al datore di lavoro e quindi attraverso la disciplina che
limita il licenziamento vuole introdurre un correttivo rispetto a questa disparità.

Lezione 18/02/20
Art 4 Cost: DIRITTO AL LAVORO  enuncia un diritto importante nel nostro visionario. Non
intende affermare che ciascun cittadino abbia diritto ad un posto di lavoro, ma ciascuno di noi ha
diritto che i pubblici poteri si impegnino per far sì che sia garantita alla maggior parte dei cittadini
un posto di lavoro attraverso degli interventi per garantire la massima occupazione possibile. Come
i pubblici poteri possono realizzare questo obbiettivo? E’ difficile dare una risposta unica. L’idea
che se si rende più flessibile il rapporto di lavoro, ad esempio rendere più facile l’occupazione a
tempo determinato, aumenti l’occupazione non ha funzionato. Favorire l’assunzione a tempo
determinato non ha avuto l’effetto sperato. Se lo stato promuove l’occupazione con la flessibilità
nella nostra esperienza l’effetto sperato non si è realizzato. Lo stato deve intervenire, ma quali
siano gli strumenti per farlo è difficile da descrivere definitivamente.
L’art 4 si occupa anche del DOVERE DI LAVORARE  non è un dovere in senso tecnico,
poiché se esiste un diritto al lavoro non può esserci un vero e proprio dovere, ma una libertà. Non
c’è sanzione, se una persona non lavora possono derivarne degli effetti ma non in termini
sanzionatori. Nei sistemi totalitari, ex unione sovietica, chi non lavorava veniva deportato, era un
illecito penale non lavorare. In un sistema democratico non può essere ritenuto un Reato. Dal non
lavorare comunque derivano degli effetti. Ad esempio, il lavoratore che ha un’occupazione decide
di dimettersi, si ritiene che i pubblici poteri che cercano di dare il trattamento di disoccupazione
però NON spetta a chi perde volontariamente il lavoro, se il lavoratore si dimette non avrà
dall’INPS la NASPI, perché verranno protetti quei lavoratori che involontariamente hanno perso il
lavoro. Ci son degli effetti quindi ma non una sanzione. Ciascuno di noi pur non essendo obbligato
a lavorare non può pretendere di rimanere inerte nella società. Il cittadino della Repubblica non è
una persona inerte, può decidere anche di non lavorare, un contributo alla società lo deve dare
(volontariato, attività ricreative). Per la nostra Cost l’inerzia non è concepibile perché la nostra è
una repubblica fondata sul lavoro.
Art 35: “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, formula importante
perché la Cost ci vuole dire che il lavoro va tutelato comunque, in tutte le sue forme ed applicazioni.
Non è rilevante l’etichetta che diamo ad un determinato rapporto, non ci può essere una distinzione
radicale tra un lavoro reso in forma subordinata e uno reso in forma diversa, poiché aldilà di questo
rileva solo la situazione in cui si trova il lavoratore. Se il lavoratore ha delle esigenze non è
rilevante la forma del rapporto di lavoro. E’ rilevante l’esigenza di protezione sociale del lavoratore,
che sia autonomo, subordinato ecc non importa. Se c’è un lavoratore che ha esigenze di protezione
sociale, basta questo.
Per molto tempo non c’è stata esigenza di protezione dedicata ai lavoratori NON subordinati. Non si
guarda però al rapporto ma all’esigenza di protezione sociale. Lo schema classico vedeva da un lato
il lavoro subordinato, reso da un operaio alle dipendenze di un’impresa di grandi dimensioni cui si
applicava una certa disciplina dei licenziamenti, o l’impiegato e dall’altro il lavoratore autonomo, il
libero professionista in senso classico, avvocato, architetto, ingegnere, iscritti ad un albo che
operava sul mercato in una condizione diversa, con delle protezioni diverse da quelle del lavoratore
subordinato.
5
Due mondi diversi, era assurdo pensare di estendere la disciplina del diritto del lavoro all’avvocato,
al dentista etc.
Il dibattito sull’art 35 era teorico, a nessuno veniva in mente che vi fossero delle analogie tra questi
due mondi.
Dagli anni 80 in poi emerge una zona grigia: nuove figure che non sono né lavoro subordinato né
lavoro autonomo tradizionale. In questa zona grigia ci può essere la tendenza ad utilizzare uno
schema perché il datore di lavoro non si vuole fare carico degli oneri del lavoro subordinato. Questa
figura del terzo tipo ha delle esigenze di protezione sociale simili a quelle del lavoro subordinato e
quindi il legislatore alla luce dell’art 35 sarebbe dovuto intervenire estendendo almeno una parte del
lavoro subordinato a queste figure intermedie. Ma non l’ha fatto fino ad oggi. O meglio l’ha fatto
con delle soluzioni assolutamente insoddisfacenti. Ancora oggi noi ci portiamo dietro questa
situazione, questa asimmetria della protezione, quindi vede un forte sbilanciamento nella zona
grigia, dove i lavoratori hanno una scarsa protezione sociale.
Quello che accade è che certamente la mancanza di un intervento diretto a proteggere la zona
grigia ha avuto un impatto negativo sul diritto del lavoro ma a che sul mercato del lavoro e sul
tessuto sociale, creando precarietà, sofferenza sociale, vuoto di protezione prevalentemente per le
figure più giovani di lavoratori. In questa sacca della zona intermedia è forte la presenza dei giovani
precari che si sono trovati in questa gabbia della precarietà. Questo elemento vizia il funzionamento
del diritto del lavoro in Italia.
Art 36: disposizione che ha vari temi: si occupa della RETRIBUZIONE, della DURATA
MASSIMA DELLA GIORNATA LAVORATIVA e delle FERIE.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla LEGGE (La Cost prevede che la
materia dell’orario sia una materia in cui non è prevista una piena autonomia nemmeno nei contratti
collettivi). Perché? C’è la piena consapevolezza che il tema dell’orario o del tempo di lavoro è un
tema che ha profonde implicazioni con esigenze di ordine pubblico. Attraverso il tema dell’orario si
pongono questi che riguardano la salute umana. Orario come tema che viene visto in questa chiave.
Lo stesso vale per il diritto alle ferie: il costituente prevede l’irrinunciabilità del diritto alle ferie.
La C ha voluto rimarcare la centralità del riposo. Lavoratore che ha una sorta di obbligo di riposarsi,
il riposo è ritenuto ineliminabile nell’ambito di un rapporto di lavoro.
Questione centrale: la RETRIBUZIONE dev’essere proporzionata alla quantità e qualità del
lavoro e in ogni caso sufficiente a garantire al lavoratore e alla propria famiglia un’esistenza
libera e dignitosa. Due parametri: proporzionalità e sufficienza. (proporzionalità si riferisce alla
quantità e alla qualità/ sufficienza si riferisce all’esistenza libera e dignitosa, parametro che di per sé
non ha un legame alla corrispettività). Il problema riguarda quanto il datore debba farsi carico
dell’esistenza libera e dignitosa del lavoratore. Spetta a lui? Non c’è una risposta chiara a questo
perché qui viene in evidenza il fatto che il diritto del lavoro rivela la sua vocazione solidaristica: la
Cost ci dice che c’è uno scambio tra lavoro e retribuzione ma dev’esserci un qualcosa in più che
non c’è in ogni contratto, ci dev’essere anche l’aspetto della dignità del lavoro, che entra dentro un
vincolo contrattuale. Elemento sociale del contratto che viene inserito dalla Cost. La retribuzione si
determina in Italia con le TARIFFE.
Ma le tariffe previste dai contratti collettivi di lavoro riflettono in prevalenza uno scambio che è
quello del contratto collettivo. L’elemento sociale dov’è in questa negoziazione sociale? I sindacati
tengono conto dell’esistenza libera e dignitosa? Dove sia andata a finire è un mistero, secondo la
giurisprudenza è inglobata all’interno della tariffa minima del contratto collettivo, anche se non è
chiaro in che misura questo processo avvenga e come avvenga.
Art 37: parità uomo e donna  questione molto delicata, la parità di genere nel lavoro, a parità di
condizioni non ci possono essere differenziazioni sul posto di lavoro. La parità non si è avuta il
giorno dopo dall’entrata in vigore dell’art 37, poiché molte facce della discriminazione hanno
continuato ad essere molto presenti nel tessuto sociale e ancora oggi. Forme di discriminazione
verso le donne sono state visibili nel panorama italiano per molti anni e ancora oggi il processo non
è ancora completamente sconfitto. Deficit che ha una ricaduta anche sulla crescita del sistema
6
economico. In un modello arcaico dove i compiti della famiglia spettano alla donna, si presuppone
che la donna non lavori e quindi non abbia di conseguenza una retribuzione non producendo valore.
Nei sistemi più avanzati c’è una ripartizione di competenze in cui anche la donna contribuisce dal
punto di vista economico.
Art 38: esiste un diritto della previdenza e della sicurezza sociale. Articolo che si occupa di una
parte del Welfare state, cioè l’esigenza di un intervento dei pubblici poteri di fronte alle situazioni
di bisogno, disoccupazione involontaria, età avanzata, invalidità.
Come funziona il sistema pensionistico? C’è un sistema contributivo: il datore di lavoro quando
stipula il contratto è tenuto a versare all’ente previdenziale, normalmente all’INPS i contributi
previdenziali che sono l’elemento centrale per erogare le pensioni. Il datore di lavoro quindi
contribuisce al mantenimento del sistema previdenziale attraverso l’obbligo contributivo che però
non si riferisce alla pensione che poi sarà corrisposta a quel dipendente, è una cosa molto più
complessa. I contributi vanno nel sistema previdenziale che poi organizza i contributi per erogare le
prestazioni. È uno dei pilastri del diritto del lavoro. Già quando si stipula un contratto di lavoro
emerge un obbligo contributivo che non è negoziabile dal datore di lavoro. Obbligo che sussiste
aldilà della volontà delle parti. Ex lege dopo aver stipulato un contratto ho l’obbligo di versare i
contributi per l’inps, o l’assicurazione verso l’inail. Anche il sistema fiscale sta dentro questo
rapporto di lavoro. Quindi non sorgono solo obblighi tra le parti, ma anche con enti pubblici, inps,
inail, agenzia delle entrate ecc.
È evidente che il rapporto di lavoro è regolato dalla LEGGE e dal CONTRATTO COLLETTIVO.
Per capire veramente come funziona un rapporto individuale di lavoro bisogna sempre tenere
presente l’intreccio tra legge e contratto collettivo altrimenti non si capisce la concreta dinamica del
rapporto, quale è l’entità della retribuzione, l’orario di lavoro ecc, questa risposta non può essere
solo nella legge, la risposta ce la dà il contratto collettivo.
 (Consultare un contratto collettivo a scelta. Es: studiando il tema dell’orario lavorativo
bisognerebbe scegliere un contratto e confrontarlo.)
Il punto di osservazione della materia è l’INDEROGABILITA’ in peius come chiave di lettura del
diritto del lavoro. Il contratto collettivo può derogare in meglio rispetto alla legge ma non in peius,
il contratto individuale può derogare in meglio rispetto al contratto collettivo, ma non in peius
rispetto al CC e legge. Inderogabilità in peius: chiave del diritto del lavoro.
Art 41: libertà di iniziativa economica privata. La Cost ci dice che c’è una libertà di impresa che
però non è illimitata perché incontra una serie di limiti, dev’essere coerente con un’utilità sociale.
Se non ci fosse scritto che ci sono dei limiti, sarebbe difficile prevedere dei limiti per esempio alla
libertà di licenziare. Ragionamento che torna sempre nel diritto del lavoro perché c’è una libertà di
impresa art 41, c’è un principio di uguaglianza ex art 3, nel diritto del lavoro bisogna effettuare un
bilanciamento tra questi due diritti. Diritto del lavoro= Tentativo di equilibrio tra uguaglianza e
libertà di impresa.

LEZIONE 19/02/20
Cosa è il lavoro subordinato? Domanda importante poiché parliamo della subordinazione, delle
coordinate dentro il quale il diritto del lavoro si muove. Nel diritto del lavoro si è sempre partiti
dall’analisi della subordinazione, del diritto subordinato. Storicamente in grande prevalenza il
diritto del lavoro ha come punto di riferimento il rapporto di lavoro subordinato.
Quando parliamo di lavoro subordinato indichiamo un rapporto nel quale il lavoratore è soggetto al
potere direttivo del datore di lavoro. Parliamo di un rapporto di lavoro nel quale il lavoratore è alle
dipendenze del datore. Dobbiamo far riferimento a questo proposito all’art 2094 del cc.
ART 2094: si occupa del prestatore di lavoro subordinato. Ci offre una possibile definizione del
lavoratore subordinato. Dice che è colui che si obbliga a collaborare dietro il pagamento di una
retribuzione con il datore di lavoro lavorando alle dipendenze e sotto la direzione
dell’imprenditore.
7
Emergono quindi 3 elementi: la COLLABORAZIONE, la cd ETERO DIREZIONE (sotto la
direzione del datore), la DIPENDENZA. Il punto non è tanto individuare cosa è il lavoro
subordinare, ma bisogna distinguere il lavoro subordinato dal lavoro autonomo. Se definiamo il
lavoro subordinato sotto questi 3 aspetti è per distinguerlo dal lavoro autonomo e creare una
differenza. Perché creiamo la distinzione? Perché il diritto del lavoro si applica al lavoro
subordinato. Se restringiamo la nozione di subordinazione restringiamo la portata applicativa del
diritto del lavoro. Non è indifferente l’interpretazione che si dà nella qualificazione del rapporto.
Problema che si pone nel momento in cui nasce il diritto del lavoro. Una questione importante è la
distinzione tra lavoro subordinato e autonomo. Come viene fuori questo problema della
individuazione del lavoro subordinato? Viene fuori in un contesto nel quale non c’è nessuna regola
che si occupi del lavoro subordinato e che si occupi del contratto di lavoro.
Quando sul finire dell’800, primi 900, questo interrogativo di quando siamo di fronte a un rapporto
di lavoro subordinato, in quel momento storico non c’è una definizione legislativa di contratto di
lavoro, non c’è una definizione di lavoro subordinato. Nei primi del 900, quando si discute sulla
subordinazione, il dibattito si svolge in assenza di un qualsiasi riferimento legislativo. Nel codice
nel 65 non c’è una disciplina del contratto di lavoro perché il codice riflette ancora un sistema
giuridico piuttosto antiquato in cui non c’è il diritto del lavoro. Un grande giurista, Barassi, si
occupa della subordinazione nei suoi scritti e tra le sue opere principali, si ricorda “il contratto di
lavoro nel diritto positivo italiano”. La prima edizione si colloca nel 1915 e l’elemento sorprendente
è il momento in cui pubblica il libro, poiché non c’è una definizione di contratto di lavoro. Nel
titolo dell’opera c’è un tratto di profonda creatività.
Il rapporto di lavoro viene visto nell’ottica Barasssiana attraverso il prisma del contratto.
L’elaborazione di Barassi guarda alla radice del diritto romano, in assenza di appigli normativi, il
giurista va a ricercare dei fondamenti nella tradizione. Individua lo schema della locatio operis e
locatio operarum. La locatio operarum è un contratto in base al quale una parte loca la propria
attività senza che questa attività sia finalizzata a un risultato specifico, nel caso della locatio operis
la parte che loca questa opera lo fa perché l’attività negoziale è finalizzata al compimento di un
certo risultato, di un obiettivo. Barassi utilizza questa distinzione per dire che utilizzando questa
distinzione si può evidenziare la differenza tra lavoro subordinato (locatio operarum) e lavoro
autonomo (locatio operis).
Il pensiero Barassiano viene contrapposto ad un’altra ricostruzione di altri giuristi che sono ricordati
con altri giuristi ricordati come i cd socialisti della cattedra. Rispetto a Barassi non si occupano
dello schema negoziale ma si occupano di individuare non il contratto, il rapporto, ma di
individuare il lavoratore come destinatario di una certa disciplina. Ciò che rileva è che il diritto del
lavoro è orientato a proteggere certe categorie di lavoratori (manuali, operai ecc).
Si punta l’attenzione sull’esigenza di protezione sociale. Entrambe le ricostruzioni hanno punti di
interesse e rappresentano una classica ipotesi di confronto dialettico tra posizioni diverse, dibattito
necessario per la crescita. Ciascuna delle due tesi è importante. Si può dire che la tesi di Barassi non
nega il problema sociale, semplicemente il tentativo di ricondurre il rapporto di lavoro in uno
schema preciso nel quale può trovar corso la protezione sociale del lavoratore. Se io dico che il
diritto del lavoro si occupa degli operai, dei lavoratori manuali, sto dicendo una cosa che è
sicuramente giusta per esigenze sociali, ma sto perdendo qualcosa. L’esigenza di protezione non si
può dire che non riguardi gli impiegati o i dirigenti. Limitare il diritto del lavoro significa avere una
visione restrittiva. Quasi 50 anni dopo l’art 35 ci dice una cosa: la repubblica tutela il lavoro in
tutte le sue forme, si guarda all’esigenza di protezione sociale. Lo schema Barassiano ha vinto
proprio perché lo schema più aperto, capace di includere aree diverse del lavoro, schema capace di
dotare il diritto del lavoro di una capacità espansiva. Un diritto del lavoro che quindi non guarda
solo alla ristretta categoria degli operai ma a chiunque lavori, in una direzione di dipendenza e etero
direzione. In effetti la cultura giuslavoristica è ancora oggi unitaria in quella ricostruzione.
Non è semplice operare la differenziazione tra lavoro autonomo e subordinato quando poi il quadro
viene a cambiare nei decenni successivi. Bisogna dire che aldilà di una profonda trasformazione del
8
lavoro, una delle tante a cui abbiamo assistito, quella degli anni 80, fin dal profilo originario la
distinzione tra autonomia e subordinazione non è così banale.
Si è parlato di 3 elementi che si desumono dal 2094: collaborazione, l’eterodirezione e la
dipendenza. Ma questi 3 elementi hanno una certa carica di ambiguità.
Se io dico che il lavoratore ha un obbligo di collaborazione, perché un lavoratore autonomo non ha
un obbligo di collaborazione con la sua parte? Quindi se è vero che nel rapporto di lavoro
subordinato c’è la collaborazione come elemento di rapporto, sarebbe strano sostenere che il
lavoratore autonomo non è tenuto a un obbligo di collaborazione.
Poi abbiamo visto come il lavoratore subordinato opera sotto la direzione, formula che indica il
potere direttivo del datore verso il lavoratore. Ma anche nel caso di un rapporto di lavoro autonomo,
il committente al lavoratore autonomo dovrà impartire qualche direttiva.
La dipendenza è tipica del lavoro subordinato, ma cosa è non si capisce. Infatti, la formula è stata
interpretata come un qualcosa che non ci indica niente di nuovo. Questo elemento quindi non
sappiamo cosa è, quindi non ci può aiutare nella distinzione. Qualcuno si è sforzato di dire che la
dipendenza è una dipendenza economica, cioè quando il lavoratore subordinato sa che può contare
solo sulla retribuzione che gli viene corrisposta dal datore. Il lavoratore autonomo non può
identificarsi in questa ottica. Questo ci può aiutare a capire quando un lavoratore sia solo
formalmente autonomo, ma in realtà subordinato. Se siamo di fronte a un lavoratore autonomo che
ha un unico cliente, si trova in una situazione di dipendenza economica, nel linguaggio giuridico
MONOCOMMITTENZA. Non ha in questo caso una indipendenza economica, anche l’avvocato se
ha un solo cliente, non è indipendente.
Elementi che non sono decisivi a cogliere la differenza tra lavoro autonomo e subordinato, sono
utili, ma non decisivi. Secondo Albi, l’essenza della subordinazione sta nell’ETERODIREZIONE.
Subordinazione che indica l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo del datore di
lavoro, poiché il datore di lavoro è titolare di un potere direttivo. Cosa è? Il potere di incidere
momento per momento sul contenuto della prestazione del lavoratore. Questo potere non c’è
nel lavoro autonomo.
(ES: artigiano che ha un suo laboratorio, lavoratore autonomo. Un cliente va dall’artigiano per
commissionare la realizzazione di una libreria. Quindi il committente ordina all’artigiano una
libreria dando una serie di indicazioni, compreso il tempo max. L’artigiano accetta l’ordine con
tutte le indicazioni. Il giorno dopo il committente non può andare dall’artigiano a chiedere di
vedere. Dal punto di vista giuridico non ha questa possibilità. Il committente non ha un potere di
incidere sulla modalità di esecuzione della prestazione momento per momento, può determinare
preventivamente quale è il risultato finale, ma non può interferire sulle modalità esecutive della
prestazione).
(ES: impresa che produce mobili per arredamento e si producono anche librerie. Dentro un reparto
ci sono degli operai che stanno lavorando sulla realizzazione di una serie di librerie; il capo reparto
si reca nel reparto e ferma un lavoratore dicendo che non gli piace come sta montando un ripiano,
gli dice di rimontarlo. In questi casi il lavoratore, essendo subordinato, non può rifiutare l’ordine
direttivo. Se il capo reparto decide ogni 5 minuti di andare a vedere cosa sta facendo l’operaio, lo
può fare poiché ha il potere di incidere momento per momento).
È vero che la subordinazione è il potere di incidere momento per momento però nella realtà
operativa non è sempre facile dimostrare questa incidenza. Però si comprende cosa può essere in
senso stretto la eterodirezione nel lavoro subordinato.
Fino agli anni 70, il problema della differenziazione non è un problema centrale, sia dal punto di
vista culturale che pratico. Il mutamento del sistema economico e sociale dagli anni 80, porta a
dover riaffrontare il problema, perché si affermano delle nuove modalità di lavorare che vanno ad
inserirsi nella ZONA GRIGIA. Nella zona grigia non siamo in grado di capire quando siamo di
fronte al lavoratore autonomo o subordinato, ci sono confini non chiari. Nuove modalità di lavorare
determinate dal mutamento del livello economico, ma non si tratta solo delle nuove modalità di
lavorare, si assiste anche a una tendenza a eludere la disciplina del diritto del lavoro nel senso che i
9
datori, le imprese, per ottenere un significativo risparmio di costi, stipulano contratti di lavoro
autonomo che sono così solo sulla carta, nella sostanza è un rapporto di lavoro subordinato.
Accade che da un lato c’è un fenomeno genuino, l’emergere di una nuova modalità di lavoro tra
lavoro autonomo e subordinato. Tendenza che diventa importante che negli anni 90 esplode e negli
anni 2000 raggiunge il vertice massimo. Parliamo di una buona parte del lavoro precario, dove si
trova la zona grigia, le cd partite iva. Nella zona grigia c’è un po’ di tutto. Stiamo parlando della
precarietà che si connette a rapporti di lavoro continuati, area nella quale mancano elementi
protettivi per i lavoratori. Manca una produzione giuridica adeguata, il legislatore italiano non
interviene. Quello che accade è che c’è un vuoto normativo, una tendenza elusiva che si realizza sul
campo, di fronte a tutto questo l’inerzia del legislatore è ancora presente, però abbiamo un elemento
di novità, interviene la giurisprudenza. È chiamata a riempire il vuoto lasciato da un legislatore
inerte. La giurisprudenza interviene con gli strumenti che ha a disposizione, non può riscrivere le
leggi. Ecco che si apre una nuova finestra nel nostro ragionamento, se parliamo della giurisprudenza
sulla qualificazione del rapporto, prima bisogna dire che quando un giudice è chiamato a qualificare
un rapporto di lavoro cosa fa? Quali meccanismi utilizza? Parliamo della qualificazione del
rapporto di lavoro. Per qualificare un rapporto di lavoro, il giudice fa né più né meno di quello che
fa quando fa il suo mestiere. Il giudice interpreta e qualifica la fattispecie.
Conosciamo un metodo di qualificazione, metodo SILLOGISTICO che può sembrare di
particolare complessità ma non lo è. Con questa espressione si confronta qualsiasi giurista.
C’è una fattispecie legale, ammettiamo sia il 2094 cc, ogni fattispecie legale si compone
necessariamente di una serie di elementi, collaborazione, eterodirezione, dipendenza. Il giudice
parte da questa considerazione, dicendo che la fattispecie legale è costituita da 3 elementi. Il giudice
si trova davanti alla fattispecie concreta, l’avvocato sostiene una serie di cose. Il giudice deve sulla
base della domanda, verificare se gli elementi della fattispecie concreta coincidono con gli elementi
della fattispecie legale. Ci sono i 3 elementi nella fattispecie concreta? Se la fattispecie legale e
concreta coincidono, il giudice potrà dire che quel rapporto viene qualificato come rapporto di
lavoro subordinato. Se manca uno degli elementi, secondo questo metodo, il giudice deve dire che
le fattispecie non coincidono.
Allora si è tentato di utilizzare un criterio diverso dal metodo sillogistico, il cd METODO
TIPOLOGICO: consisterebbe nel compiere un processo non molto diverso da quello sillogistico
ma ad un certo punto lasciare al giudice una certa discrezionalità nel ricondurre la fattispecie
concreta a quella legale per approssimazione. Qui si crea un problema: dire che il metodo tipologico
è un metodo che consente la riconduzione nella fattispecie concreta alla fattispecie legale per
approssimazione, sicuramente consente di ampliare la portata applicativa della subordinazione,
quindi di estendere la subordinazione oltre i limiti ristretti del metodo sillogistico. Ma questa portata
espansiva che indichiamo con il metodo tipologico mette in discussione la certezza del diritto: se
torniamo all’esempio di prima 3 elementi della fattispecie legale, la fattispecie concreta
dobbiamo valutare se ha 3 elementi. Ce ne ha solo 2: il giudice facendo una operazione di
riconduzione per approssimazione dice che pur avendo solo 2 elementi si possa ricondurre la
fattispecie concreta a quella legale. In un altro caso il giudice dice che c’è solo un elemento ma
anche in questo caso riconduce alla fattispecie legale.
Succede che il giudice, orientato in questa direzione si lascia prendere un po’ troppo la mano e
applica troppo estensivamente la fattispecie subordinazione. Quindi se il metodo sillogistico è
troppo rigoroso, il metodo tipologico si estende troppo, quindi apre le porte alla discrezionalità forse
eccessiva del giudice. Questo è accaduto nel nostro contesto tra anni 80/90. Prima una particolare
restrizione della giurisprudenza, poi un ampliamento e poi sul finire degli anni 90 un nuovo
restringimento. Prima ha applicato il metodo tradizionale, di fronte alla drammaticità e alla tensione
sociale ha aperto le maglie, poi si è accorta di aver aperto troppo e ha voluta restringere. Una
giurisprudenza lasciata sola dal legislatore e questo è il problema. La giustizia nel caso concreto non
è negativa in sé, ma applicato a fenomeni così importanti diventa pericoloso, si formano degli

10
orientamenti giurisprudenziali che non sono coerenti, il formante normativo non coerente e di
conseguenza quello giurisprudenziale non risulta coerente.

Lezione 18/02/20

Art 4 Cost: DIRITTO AL LAVORO  enuncia un diritto importante nel nostro visionario. Non
intende affermare che ciascun cittadino abbia diritto ad un posto di lavoro, ma ciascuno di noi ha
diritto che i pubblici poteri si impegnino per far sì che sia garantita alla maggior parte dei cittadini
un posto di lavoro attraverso degli interventi per garantire la massima occupazione possibile. Come
i pubblici poteri possono realizzare questo obbiettivo? E’ difficile dare una risposta unica. L’idea
che se si rende più flessibile il rapporto di lavoro, ad esempio rendere più facile l’occupazione a
tempo determinato, aumenti l’occupazione non ha funzionato. Favorire l’assunzione a tempo
determinato non ha avuto l’effetto sperato. Se lo stato promuove l’occupazione con la flessibilità
nella nostra esperienza l’effetto sperato non si è realizzato. Lo stato deve intervenire, ma quali
siano gli strumenti per farlo è difficile da descrivere definitivamente.
L’art 4 si occupa anche del DOVERE DI LAVORARE  non è un dovere in senso tecnico,
poiché se esiste un diritto al lavoro non può esserci un vero e proprio dovere, ma una libertà. Non
c’è sanzione, se una persona non lavora possono derivarne degli effetti ma non in termini
sanzionatori. Nei sistemi totalitari, ex unione sovietica, chi non lavorava veniva deportato, era un
illecito penale non lavorare. In un sistema democratico non può essere ritenuto un Reato. Dal non
lavorare comunque derivano degli effetti. Ad esempio, il lavoratore che ha un’occupazione decide
di dimettersi, si ritiene che i pubblici poteri che cercano di dare il trattamento di disoccupazione
però NON spetta a chi perde volontariamente il lavoro, se il lavoratore si dimette non avrà
dall’INPS la NASPI, perché verranno protetti quei lavoratori che involontariamente hanno perso il
lavoro. Ci son degli effetti quindi ma non una sanzione. Ciascuno di noi pur non essendo obbligato
a lavorare non può pretendere di rimanere inerte nella società. Il cittadino della Repubblica non è
una persona inerte, può decidere anche di non lavorare, un contributo alla società lo deve dare
(volontariato, attività ricreative). Per la nostra Cost l’inerzia non è concepibile perché la nostra è
una repubblica fondata sul lavoro.
Art 35: “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, formula importante
perché la Cost ci vuole dire che il lavoro va tutelato comunque, in tutte le sue forme ed applicazioni.
Non è rilevante l’etichetta che diamo ad un determinato rapporto, non ci può essere una distinzione
radicale tra un lavoro reso in forma subordinata e uno reso in forma diversa, poiché aldilà di questo
rileva solo la situazione in cui si trova il lavoratore. Se il lavoratore ha delle esigenze non è
rilevante la forma del rapporto di lavoro. E’ rilevante l’esigenza di protezione sociale del lavoratore,
che sia autonomo, subordinato ecc non importa. Se c’è un lavoratore che ha esigenze di protezione
sociale, basta questo.
Per molto tempo non c’è stata esigenza di protezione dedicata ai lavoratori NON subordinati. Non si
guarda però al rapporto ma all’esigenza di protezione sociale. Lo schema classico vedeva da un lato
il lavoro subordinato, reso da un operaio alle dipendenze di un’impresa di grandi dimensioni cui si
applicava una certa disciplina dei licenziamenti, o l’impiegato e dall’altro il lavoratore autonomo, il
libero professionista in senso classico, avvocato, architetto, ingegnere, iscritti ad un albo che
operava sul mercato in una condizione diversa, con delle protezioni diverse da quelle del lavoratore
subordinato.
Due mondi diversi, era assurdo pensare di estendere la disciplina del diritto del lavoro all’avvocato,
al dentista etc.
Il dibattito sull’art 35 era teorico, a nessuno veniva in mente che vi fossero delle analogie tra questi
due mondi.
Dagli anni 80 in poi emerge una zona grigia: nuove figure che non sono né lavoro subordinato né
lavoro autonomo tradizionale. In questa zona grigia ci può essere la tendenza ad utilizzare uno
schema perché il datore di lavoro non si vuole fare carico degli oneri del lavoro subordinato. Questa
11
figura del terzo tipo ha delle esigenze di protezione sociale simili a quelle del lavoro subordinato e
quindi il legislatore alla luce dell’art 35 sarebbe dovuto intervenire estendendo almeno una parte del
lavoro subordinato a queste figure intermedie. Ma non l’ha fatto fino ad oggi. O meglio l’ha fatto
con delle soluzioni assolutamente insoddisfacenti. Ancora oggi noi ci portiamo dietro questa
situazione, questa asimmetria della protezione, quindi vede un forte sbilanciamento nella zona
grigia, dove i lavoratori hanno una scarsa protezione sociale.
Quello che accade è che certamente la mancanza di un intervento diretto a proteggere la zona
grigia ha avuto un impatto negativo sul diritto del lavoro ma a che sul mercato del lavoro e sul
tessuto sociale, creando precarietà, sofferenza sociale, vuoto di protezione prevalentemente per le
figure più giovani di lavoratori. In questa sacca della zona intermedia è forte la presenza dei giovani
precari che si sono trovati in questa gabbia della precarietà. Questo elemento vizia il funzionamento
del diritto del lavoro in Italia.
Art 36: disposizione che ha vari temi: si occupa della RETRIBUZIONE, della DURATA
MASSIMA DELLA GIORNATA LAVORATIVA e delle FERIE.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla LEGGE (La Cost prevede che la
materia dell’orario sia una materia in cui non è prevista una piena autonomia nemmeno nei contratti
collettivi). Perché? C’è la piena consapevolezza che il tema dell’orario o del tempo di lavoro è un
tema che ha profonde implicazioni con esigenze di ordine pubblico. Attraverso il tema dell’orario si
pongono questi che riguardano la salute umana. Orario come tema che viene visto in questa chiave.
Lo stesso vale per il diritto alle ferie: il costituente prevede l’irrinunciabilità del diritto alle ferie.
La C ha voluto rimarcare la centralità del riposo. Lavoratore che ha una sorta di obbligo di riposarsi,
il riposo è ritenuto ineliminabile nell’ambito di un rapporto di lavoro.
Questione centrale: la RETRIBUZIONE dev’essere proporzionata alla quantità e qualità del
lavoro e in ogni caso sufficiente a garantire al lavoratore e alla propria famiglia un’esistenza
libera e dignitosa. Due parametri: proporzionalità e sufficienza. (proporzionalità si riferisce alla
quantità e alla qualità/ sufficienza si riferisce all’esistenza libera e dignitosa, parametro che di per sé
non ha un legame alla corrispettività). Il problema riguarda quanto il datore debba farsi carico
dell’esistenza libera e dignitosa del lavoratore. Spetta a lui? Non c’è una risposta chiara a questo
perché qui viene in evidenza il fatto che il diritto del lavoro rivela la sua vocazione solidaristica: la
Cost ci dice che c’è uno scambio tra lavoro e retribuzione ma dev’esserci un qualcosa in più che
non c’è in ogni contratto, ci dev’essere anche l’aspetto della dignità del lavoro, che entra dentro un
vincolo contrattuale. Elemento sociale del contratto che viene inserito dalla Cost. La retribuzione si
determina in Italia con le TARIFFE.
Ma le tariffe previste dai contratti collettivi di lavoro riflettono in prevalenza uno scambio che è
quello del contratto collettivo. L’elemento sociale dov’è in questa negoziazione sociale? I sindacati
tengono conto dell’esistenza libera e dignitosa? Dove sia andata a finire è un mistero, secondo la
giurisprudenza è inglobata all’interno della tariffa minima del contratto collettivo, anche se non è
chiaro in che misura questo processo avvenga e come avvenga.
Art 37: parità uomo e donna  questione molto delicata, la parità di genere nel lavoro, a parità di
condizioni non ci possono essere differenziazioni sul posto di lavoro. La parità non si è avuta il
giorno dopo dall’entrata in vigore dell’art 37, poiché molte facce della discriminazione hanno
continuato ad essere molto presenti nel tessuto sociale e ancora oggi. Forme di discriminazione
verso le donne sono state visibili nel panorama italiano per molti anni e ancora oggi il processo non
è ancora completamente sconfitto. Deficit che ha una ricaduta anche sulla crescita del sistema
economico. In un modello arcaico dove i compiti della famiglia spettano alla donna, si presuppone
che la donna non lavori e quindi non abbia di conseguenza una retribuzione non producendo valore.
Nei sistemi più avanzati c’è una ripartizione di competenze in cui anche la donna contribuisce dal
punto di vista economico.
Art 38: esiste un diritto della previdenza e della sicurezza sociale. Articolo che si occupa di una
parte del Welfare state, cioè l’esigenza di un intervento dei pubblici poteri di fronte alle situazioni
di bisogno, disoccupazione involontaria, età avanzata, invalidità.
12
Come funziona il sistema pensionistico? C’è un sistema contributivo: il datore di lavoro quando
stipula il contratto è tenuto a versare all’ente previdenziale, normalmente all’INPS i contributi
previdenziali che sono l’elemento centrale per erogare le pensioni. Il datore di lavoro quindi
contribuisce al mantenimento del sistema previdenziale attraverso l’obbligo contributivo che però
non si riferisce alla pensione che poi sarà corrisposta a quel dipendente, è una cosa molto più
complessa. I contributi vanno nel sistema previdenziale che poi organizza i contributi per erogare le
prestazioni. È uno dei pilastri del diritto del lavoro. Già quando si stipula un contratto di lavoro
emerge un obbligo contributivo che non è negoziabile dal datore di lavoro. Obbligo che sussiste
aldilà della volontà delle parti. Ex lege dopo aver stipulato un contratto ho l’obbligo di versare i
contributi per l’inps, o l’assicurazione verso l’inail. Anche il sistema fiscale sta dentro questo
rapporto di lavoro. Quindi non sorgono solo obblighi tra le parti, ma anche con enti pubblici, inps,
inail, agenzia delle entrate ecc.
È evidente che il rapporto di lavoro è regolato dalla LEGGE e dal CONTRATTO COLLETTIVO.
Per capire veramente come funziona un rapporto individuale di lavoro bisogna sempre tenere
presente l’intreccio tra legge e contratto collettivo altrimenti non si capisce la concreta dinamica del
rapporto, quale è l’entità della retribuzione, l’orario di lavoro ecc, questa risposta non può essere
solo nella legge, la risposta ce la dà il contratto collettivo.
 (Consultare un contratto collettivo a scelta. Es: studiando il tema dell’orario lavorativo
bisognerebbe scegliere un contratto e confrontarlo.)
Il punto di osservazione della materia è l’INDEROGABILITA’ in peius come chiave di lettura del
diritto del lavoro. Il contratto collettivo può derogare in meglio rispetto alla legge ma non in peius,
il contratto individuale può derogare in meglio rispetto al contratto collettivo, ma non in peius
rispetto al CC e legge. Inderogabilità in peius: chiave del diritto del lavoro.
Art 41: libertà di iniziativa economica privata. La Cost ci dice che c’è una libertà di impresa che
però non è illimitata perché incontra una serie di limiti, dev’essere coerente con un’utilità sociale.
Se non ci fosse scritto che ci sono dei limiti, sarebbe difficile prevedere dei limiti per esempio alla
libertà di licenziare. Ragionamento che torna sempre nel diritto del lavoro perché c’è una libertà di
impresa art 41, c’è un principio di uguaglianza ex art 3, nel diritto del lavoro bisogna effettuare un
bilanciamento tra questi due diritti. Diritto del lavoro= Tentativo di equilibrio tra uguaglianza e
libertà di impresa.
LEZIONE 19/02
Cosa è il lavoro subordinato? Domanda importante poiché parliamo della subordinazione, delle
coordinate dentro il quale il diritto del lavoro si muove. Nel diritto del lavoro si è sempre partiti
dall’analisi della subordinazione, del diritto subordinato. Storicamente in grande prevalenza il
diritto del lavoro ha come punto di riferimento il rapporto di lavoro subordinato.
Quando parliamo di lavoro subordinato indichiamo un rapporto nel quale il lavoratore è soggetto al
potere direttivo del datore di lavoro. Parliamo di un rapporto di lavoro nel quale il lavoratore è alle
dipendenze del datore. Dobbiamo far riferimento a questo proposito all’art 2094 del cc.
ART 2094: si occupa del prestatore di lavoro subordinato. Ci offre una possibile definizione del
lavoratore subordinato. Dice che è colui che si obbliga a collaborare dietro il pagamento di una
retribuzione con il datore di lavoro lavorando alle dipendenze e sotto la direzione
dell’imprenditore.
Emergono quindi 3 elementi: la COLLABORAZIONE, la cd ETERO DIREZIONE (sotto la
direzione del datore), la DIPENDENZA. Il punto non è tanto individuare cosa è il lavoro
subordinare, ma bisogna distinguere il lavoro subordinato dal lavoro autonomo. Se definiamo il
lavoro subordinato sotto questi 3 aspetti è per distinguerlo dal lavoro autonomo e creare una
differenza. Perché creiamo la distinzione? Perché il diritto del lavoro si applica al lavoro
subordinato. Se restringiamo la nozione di subordinazione restringiamo la portata applicativa del
diritto del lavoro. Non è indifferente l’interpretazione che si dà nella qualificazione del rapporto.
Problema che si pone nel momento in cui nasce il diritto del lavoro. Una questione importante è la
13
distinzione tra lavoro subordinato e autonomo. Come viene fuori questo problema della
individuazione del lavoro subordinato? Viene fuori in un contesto nel quale non c’è nessuna regola
che si occupi del lavoro subordinato e che si occupi del contratto di lavoro.
Quando sul finire dell’800, primi 900, questo interrogativo di quando siamo di fronte a un rapporto
di lavoro subordinato, in quel momento storico non c’è una definizione legislativa di contratto di
lavoro, non c’è una definizione di lavoro subordinato. Nei primi del 900, quando si discute sulla
subordinazione, il dibattito si svolge in assenza di un qualsiasi riferimento legislativo. Nel codice
nel 65 non c’è una disciplina del contratto di lavoro perché il codice riflette ancora un sistema
giuridico piuttosto antiquato in cui non c’è il diritto del lavoro. Un grande giurista, Barassi, si
occupa della subordinazione nei suoi scritti e tra le sue opere principali, si ricorda “il contratto di
lavoro nel diritto positivo italiano”. La prima edizione si colloca nel 1915 e l’elemento sorprendente
è il momento in cui pubblica il libro, poiché non c’è una definizione di contratto di lavoro. Nel
titolo dell’opera c’è un tratto di profonda creatività.
Il rapporto di lavoro viene visto nell’ottica Barasssiana attraverso il prisma del contratto.
L’elaborazione di Barassi guarda alla radice del diritto romano, in assenza di appigli normativi, il
giurista va a ricercare dei fondamenti nella tradizione. Individua lo schema della locatio operis e
locatio operarum. La locatio operarum è un contratto in base al quale una parte loca la propria
attività senza che questa attività sia finalizzata a un risultato specifico, nel caso della locatio operis
la parte che loca questa opera lo fa perché l’attività negoziale è finalizzata al compimento di un
certo risultato, di un obiettivo. Barassi utilizza questa distinzione per dire che utilizzando questa
distinzione si può evidenziare la differenza tra lavoro subordinato (locatio operarum) e lavoro
autonomo (locatio operis).
Il pensiero Barassiano viene contrapposto ad un’altra ricostruzione di altri giuristi che sono ricordati
con altri giuristi ricordati come i cd socialisti della cattedra. Rispetto a Barassi non si occupano
dello schema negoziale ma si occupano di individuare non il contratto, il rapporto, ma di
individuare il lavoratore come destinatario di una certa disciplina. Ciò che rileva è che il diritto del
lavoro è orientato a proteggere certe categorie di lavoratori (manuali, operai ecc).
Si punta l’attenzione sull’esigenza di protezione sociale. Entrambe le ricostruzioni hanno punti di
interesse e rappresentano una classica ipotesi di confronto dialettico tra posizioni diverse, dibattito
necessario per la crescita. Ciascuna delle due tesi è importante. Si può dire che la tesi di Barassi non
nega il problema sociale, semplicemente il tentativo di ricondurre il rapporto di lavoro in uno
schema preciso nel quale può trovar corso la protezione sociale del lavoratore. Se io dico che il
diritto del lavoro si occupa degli operai, dei lavoratori manuali, sto dicendo una cosa che è
sicuramente giusta per esigenze sociali, ma sto perdendo qualcosa. L’esigenza di protezione non si
può dire che non riguardi gli impiegati o i dirigenti. Limitare il diritto del lavoro significa avere una
visione restrittiva. Quasi 50 anni dopo l’art 35 ci dice una cosa: la repubblica tutela il lavoro in
tutte le sue forme, si guarda all’esigenza di protezione sociale. Lo schema Barassiano ha vinto
proprio perché lo schema più aperto, capace di includere aree diverse del lavoro, schema capace di
dotare il diritto del lavoro di una capacità espansiva. Un diritto del lavoro che quindi non guarda
solo alla ristretta categoria degli operai ma a chiunque lavori, in una direzione di dipendenza e etero
direzione. In effetti la cultura giuslavoristica è ancora oggi unitaria in quella ricostruzione.
Non è semplice operare la differenziazione tra lavoro autonomo e subordinato quando poi il quadro
viene a cambiare nei decenni successivi. Bisogna dire che aldilà di una profonda trasformazione del
lavoro, una delle tante a cui abbiamo assistito, quella degli anni 80, fin dal profilo originario la
distinzione tra autonomia e subordinazione non è così banale.
Si è parlato di 3 elementi che si desumono dal 2094: collaborazione, l’eterodirezione e la
dipendenza. Ma questi 3 elementi hanno una certa carica di ambiguità.
Se io dico che il lavoratore ha un obbligo di collaborazione, perché un lavoratore autonomo non ha
un obbligo di collaborazione con la sua parte? Quindi se è vero che nel rapporto di lavoro
subordinato c’è la collaborazione come elemento di rapporto, sarebbe strano sostenere che il
lavoratore autonomo non è tenuto a un obbligo di collaborazione.
14
Poi abbiamo visto come il lavoratore subordinato opera sotto la direzione, formula che indica il
potere direttivo del datore verso il lavoratore. Ma anche nel caso di un rapporto di lavoro autonomo,
il committente al lavoratore autonomo dovrà impartire qualche direttiva.
La dipendenza è tipica del lavoro subordinato, ma cosa è non si capisce. Infatti, la formula è stata
interpretata come un qualcosa che non ci indica niente di nuovo. Questo elemento quindi non
sappiamo cosa è, quindi non ci può aiutare nella distinzione. Qualcuno si è sforzato di dire che la
dipendenza è una dipendenza economica, cioè quando il lavoratore subordinato sa che può contare
solo sulla retribuzione che gli viene corrisposta dal datore. Il lavoratore autonomo non può
identificarsi in questa ottica. Questo ci può aiutare a capire quando un lavoratore sia solo
formalmente autonomo, ma in realtà subordinato. Se siamo di fronte a un lavoratore autonomo che
ha un unico cliente, si trova in una situazione di dipendenza economica, nel linguaggio giuridico
MONOCOMMITTENZA. Non ha in questo caso una indipendenza economica, anche l’avvocato se
ha un solo cliente, non è indipendente.
Elementi che non sono decisivi a cogliere la differenza tra lavoro autonomo e subordinato, sono
utili, ma non decisivi. Secondo Albi, l’essenza della subordinazione sta nell’ETERODIREZIONE.
Subordinazione che indica l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo del datore di
lavoro, poiché il datore di lavoro è titolare di un potere direttivo. Cosa è? Il potere di incidere
momento per momento sul contenuto della prestazione del lavoratore. Questo potere non c’è
nel lavoro autonomo.
(ES: artigiano che ha un suo laboratorio, lavoratore autonomo. Un cliente va dall’artigiano per
commissionare la realizzazione di una libreria. Quindi il committente ordina all’artigiano una
libreria dando una serie di indicazioni, compreso il tempo max. L’artigiano accetta l’ordine con
tutte le indicazioni. Il giorno dopo il committente non può andare dall’artigiano a chiedere di
vedere. Dal punto di vista giuridico non ha questa possibilità. Il committente non ha un potere di
incidere sulla modalità di esecuzione della prestazione momento per momento, può determinare
preventivamente quale è il risultato finale, ma non può interferire sulle modalità esecutive della
prestazione).
(ES: impresa che produce mobili per arredamento e si producono anche librerie. Dentro un reparto
ci sono degli operai che stanno lavorando sulla realizzazione di una serie di librerie; il capo reparto
si reca nel reparto e ferma un lavoratore dicendo che non gli piace come sta montando un ripiano,
gli dice di rimontarlo. In questi casi il lavoratore, essendo subordinato, non può rifiutare l’ordine
direttivo. Se il capo reparto decide ogni 5 minuti di andare a vedere cosa sta facendo l’operaio, lo
può fare poiché ha il potere di incidere momento per momento).
È vero che la subordinazione è il potere di incidere momento per momento però nella realtà
operativa non è sempre facile dimostrare questa incidenza. Però si comprende cosa può essere in
senso stretto la eterodirezione nel lavoro subordinato.
Fino agli anni 70, il problema della differenziazione non è un problema centrale, sia dal punto di
vista culturale che pratico. Il mutamento del sistema economico e sociale dagli anni 80, porta a
dover riaffrontare il problema, perché si affermano delle nuove modalità di lavorare che vanno ad
inserirsi nella ZONA GRIGIA. Nella zona grigia non siamo in grado di capire quando siamo di
fronte al lavoratore autonomo o subordinato, ci sono confini non chiari. Nuove modalità di lavorare
determinate dal mutamento del livello economico, ma non si tratta solo delle nuove modalità di
lavorare, si assiste anche a una tendenza a eludere la disciplina del diritto del lavoro nel senso che i
datori, le imprese, per ottenere un significativo risparmio di costi, stipulano contratti di lavoro
autonomo che sono così solo sulla carta, nella sostanza è un rapporto di lavoro subordinato.
Accade che da un lato c’è un fenomeno genuino, l’emergere di una nuova modalità di lavoro tra
lavoro autonomo e subordinato. Tendenza che diventa importante che negli anni 90 esplode e negli
anni 2000 raggiunge il vertice massimo. Parliamo di una buona parte del lavoro precario, dove si
trova la zona grigia, le cd partite iva. Nella zona grigia c’è un po’ di tutto. Stiamo parlando della
precarietà che si connette a rapporti di lavoro continuati, area nella quale mancano elementi
protettivi per i lavoratori. Manca una produzione giuridica adeguata, il legislatore italiano non
15
interviene. Quello che accade è che c’è un vuoto normativo, una tendenza elusiva che si realizza sul
campo, di fronte a tutto questo l’inerzia del legislatore è ancora presente, però abbiamo un elemento
di novità, interviene la giurisprudenza. È chiamata a riempire il vuoto lasciato da un legislatore
inerte. La giurisprudenza interviene con gli strumenti che ha a disposizione, non può riscrivere le
leggi. Ecco che si apre una nuova finestra nel nostro ragionamento, se parliamo della giurisprudenza
sulla qualificazione del rapporto, prima bisogna dire che quando un giudice è chiamato a qualificare
un rapporto di lavoro cosa fa? Quali meccanismi utilizza? Parliamo della qualificazione del
rapporto di lavoro. Per qualificare un rapporto di lavoro, il giudice fa né più né meno di quello che
fa quando fa il suo mestiere. Il giudice interpreta e qualifica la fattispecie.
Conosciamo un metodo di qualificazione, metodo SILLOGISTICO che può sembrare di
particolare complessità ma non lo è. Con questa espressione si confronta qualsiasi giurista.
C’è una fattispecie legale, ammettiamo sia il 2094 cc, ogni fattispecie legale si compone
necessariamente di una serie di elementi, collaborazione, eterodirezione, dipendenza. Il giudice
parte da questa considerazione, dicendo che la fattispecie legale è costituita da 3 elementi. Il giudice
si trova davanti alla fattispecie concreta, l’avvocato sostiene una serie di cose. Il giudice deve sulla
base della domanda, verificare se gli elementi della fattispecie concreta coincidono con gli elementi
della fattispecie legale. Ci sono i 3 elementi nella fattispecie concreta? Se la fattispecie legale e
concreta coincidono, il giudice potrà dire che quel rapporto viene qualificato come rapporto di
lavoro subordinato. Se manca uno degli elementi, secondo questo metodo, il giudice deve dire che
le fattispecie non coincidono.
Allora si è tentato di utilizzare un criterio diverso dal metodo sillogistico, il cd METODO
TIPOLOGICO: consisterebbe nel compiere un processo non molto diverso da quello sillogistico
ma ad un certo punto lasciare al giudice una certa discrezionalità nel ricondurre la fattispecie
concreta a quella legale per approssimazione. Qui si crea un problema: dire che il metodo tipologico
è un metodo che consente la riconduzione nella fattispecie concreta alla fattispecie legale per
approssimazione, sicuramente consente di ampliare la portata applicativa della subordinazione,
quindi di estendere la subordinazione oltre i limiti ristretti del metodo sillogistico. Ma questa portata
espansiva che indichiamo con il metodo tipologico mette in discussione la certezza del diritto: se
torniamo all’esempio di prima 3 elementi della fattispecie legale, la fattispecie concreta
dobbiamo valutare se ha 3 elementi. Ce ne ha solo 2: il giudice facendo una operazione di
riconduzione per approssimazione dice che pur avendo solo 2 elementi si possa ricondurre la
fattispecie concreta a quella legale. In un altro caso il giudice dice che c’è solo un elemento ma
anche in questo caso riconduce alla fattispecie legale.
Succede che il giudice, orientato in questa direzione si lascia prendere un po’ troppo la mano e
applica troppo estensivamente la fattispecie subordinazione. Quindi se il metodo sillogistico è
troppo rigoroso, il metodo tipologico si estende troppo, quindi apre le porte alla discrezionalità forse
eccessiva del giudice. Questo è accaduto nel nostro contesto tra anni 80/90. Prima una particolare
restrizione della giurisprudenza, poi un ampliamento e poi sul finire degli anni 90 un nuovo
restringimento. Prima ha applicato il metodo tradizionale, di fronte alla drammaticità e alla tensione
sociale ha aperto le maglie, poi si è accorta di aver aperto troppo e ha voluta restringere. Una
giurisprudenza lasciata sola dal legislatore e questo è il problema. La giustizia nel caso concreto non
è negativa in sé, ma applicato a fenomeni così importanti diventa pericoloso, si formano degli
orientamenti giurisprudenziali che non sono coerenti, il formante normativo non coerente e di
conseguenza quello giurisprudenziale non risulta coerente.

Lezione 24/02/20

Il METODO SILLOGISTICO o SUSSUNTIVO è quel metodo di qualificazione che presuppone


che ci debba essere coincidenza tra la fattispecie concreta e quella legale. La fattispecie legale
prevede che una certa fattispecie abbia certe caratteristiche, allora cosa deve fare il giudice per

16
ritemere che la fattispecie legale si applichi a quella concreta? Verificare che ci sia coincidenza tra
gli elementi della fattispecie concreta e quella legale.
Es. il lavoro subordinato ha certi elementi che compongono la fattispecie: collaborazione e lavorare
alle dipendenze e sotto la direzione del datore si lavoro (fattispecie legale); affinché ad un certo
rapporto di lavoro sia applicata la fattispecie legale è necessario che la fattispecie concreta abbia gli
stessi elementi della fattispecie legale.
Ammettiamo che vi sia una fattispecie legale composta da 3 elementi -> A+B+C; la fattispecie
concreta deve essere composta da A1+B1+C1. Se il giudice, esaminando la fattispecie concreta,
vede che ci sono tutti e tre gli elementi della fattispecie legale può concludere dicendo che la
fattispecie legale si applica alla fattispecie concreta.
Se per qualche motivo non c’è un elemento della fattispecie concreta il giudice non può applicare la
fattispecie legale a quella concreta perché manca un elemento.
Il metodo sillogistico è un metodo profondamente radicato alla razionalità perché presuppone la
coincidenza tra la fattispecie concreta e legale.

Di questo metodo non si può fare a meno, è difficile pensare ad un sistema giuridico in cui si può
fare a meno di questo metodo di qualificazione.

Il limite di questo metodo è la sua possibile RIGIDITA’-> di fronte una certa fattispecie concreta
che dal punto di vista di un’esigenza di giustizia sostanziale ci porterebbe a dire che in un certo caso
sarebbe giusto applicare la fattispecie legale perché anche se manca un elemento tutti gli altri ci
sarebbero; questo metodo ha il limite del suo rigore, ma questo è proprio la sua forza perché
restituisce un ruolo a tutti i soggetti che operano (il giudice non può trasformarsi in un legislatore
perché l’equilibrio dei poteri sarebbe finito).

Il problema è che la materia del diritto del lavoro l’inerzia del legislatore ha portato spesso i giudici
ad operare in una posizione di supplenza rispetto alle carenze legislative, alla mancanza di un
intervento legislativo adeguato su questioni delicatissime, molto serie come quelle legate alla
protezione del lavoro.
Ad un certo punto si viene a creare una zona grigia tra il lavoro autonoma e quello subordinato, il
legislatore avrebbe dovuto intervenire, ma non l’ha fatto; l’esigenza di giustizia che emergeva in
quell’area ha trovato la strada giudiziale e quindi i giudici hanno iniziato a farsi carico di un vuoto
normativo e lo hanno fatto ampliando l’area del lavoro subordinato.

L’affermarsi di una certa chiave di lettura presuppone uno strumento che plasmi quella certa idea
che va a radicarsi nella condizione dei giudici -> METODO TIPOLOGICO -> se è facile
descrivere il metodo sillogistico o sussuntivo non è altrettanto facile descrivere il metodo tipologico
perché questo indica un percorso piuttosto approssimativo nella qualificazione della fattispecie:
secondo i fautori di tale metodo, di fronte ad una fattispecie concreta priva di uno degli elementi
essenziali il giudice può andare oltre se riesce ad operare una riconduzione per approssimazione
della fattispecie concreta a quella legale. È molto difficile però capire cosa significhi “riconduzione
per approssimazione” perché si dice che manca un elemento, ma guardando nell’insieme questa
fattispecie può essere ricondotta a quella legale.
Va fatta una valutazione non sui singoli elementi, ma sul tipo. È vero che non c’è l’elemento, ma la
sua assenza non fa venir meno la riconduzione al tipo di lavoro subordinato perché siamo davanti ad
un lavoratore ha determinate caratteristiche.
In questo modo superiamo la rigidità del metodo sillogistico, ma la superiamo ad un prezzo troppo
alto: nel momento in cui imbocchiamo questa strada è facile dire che non importa se manca anche
più di un elemento.
Andiamo di fronte alla possibile declinazione di un metodo che apre le porte ad una eccessiva
discrezionalità del giudice e questo non va bene.
17
Alla fine degli anni ’90 gli stessi giudici hanno capito di aver allargato troppo l’ambito del lavoro
subordinato e quindi sono ritornati gradualmente al metodo sillogistico.

Doppia questione:
1) Ruolo sociale del giudice del lavoro
2) Consapevolezza che questo tipo di operazione non può essere condotta per vie giudiziali.
Nella nostra realtà c’è la tendenza del giudice a entrare nel campo del legislatore e
viceversa.

Il metodo sillogistico riflette non solo una razionalità che è difficilmente conquistabile e noi ne
abbiamo molto bisogno soprattutto nei momenti di tensione (il giurista non deve lasciarsi
condizionare).
Probabilmente l’esasperazione che porta a mettere in contrapposizione il metodo sillogistico e
tipologico è un’esasperazione figlia del suo tempo. Oggi questo dibattito non ha più le stesse
caratteristiche di quello di fine anni ’90 e inizio 2000. Forse non esiste nemmeno una
contrapposizione tra questi due metodi.
Qui il punto fondamentale è: la fattispecie legale di cui stiamo parlando (art. 2094 c.c. ’42) ci è
utile per individuare la subordinazione? No, non è così facile attraverso la lettura del 2094
individuare gli stessi elementi che compongono la fattispecie. Leggendo tale articolo si individuano
3 fondamentali momenti:
1. OBBLIGO DI COLLABORAZIONE
2. DIPENDENZA -> in tanti giuristi hanno sostenuto che la formula “alle dipendenze e sotto
la dizione” sia ripetitiva. Altri invece valorizzano il tratto della dipendenza economica (il
lavoratore subordinato è economicamente dipendente -> quel lavoratore ha un unico
committente che è il datore di lavoro, non ha altri “committenti”, solo il datore di lavoro). in
questo senso la dipendenza è contrapposta all’autonomia.
3. ETERODIREZIONE -> cioè lavorare sotto la direzione del datore di lavoro. questo è
l’elemento che ci permette di distinguere il lavoro subordinato con il lavoro autonomo se lo
intendiamo come quel potere del datore di lavoro di incidere momento per momento sulla
prestazione lavorativa.

 Lavorare alle dipendenze e sotto la dizione del datore

Per quanto riguarda l’obbligo di collaborare il problema è che questo c’è anche nel lavoro
autonomo.

In realtà, una volta giunti alla conclusione che la subordinazione è etero direzione e che è
assoggettamento del lavoratore al potere direttivo del datore di lavoro, il problema che si pone è che
non sempre nella concreta dinamica di un rapporto di lavoro questa etero direzione è visibile e
facilmente dimostrabile perché non è detto che il datore di lavoro abbia l’esigenza di esternare
questo suo potere direttivo. In molte situazioni non c’è sempre il datore di lavoro che si reca dal
lavoratore e gli da tutte le direttive perché il lavoratore sa già che cosa deve fare e questo può
accadere per es. in contesti in cui si definiscono bene i ruoli di ciascuno e ciascun dipendente sa che
cosa deve fare. Allora, se questo non è necessario, quel rapporto di lavoro non è stato formalizzato
come rapporto di lavoro subordinato, ma si è stipulato un contratto di lavoro autonomo, il nostro
lavoratore va dal giudice e dice che è subordinato e non autonomo non può provarlo perché non c’è
traccia dell’esercizio di quel potere di incidenza sulle modalità di esecuzione del lavoro. Manca la
prova del potere direttivo. Non è un problema di metodo, ma di prova della subordinazione.

18
Assunto che la subordinazione sia quello che abbiamo detto, dobbiamo dire che la prova della
subordinazione può essere complessa e allora cosa hanno fatto i giudici?
Essi hanno fatto ricorso non a strumenti creativi o fantasiosi, ma alle PRESUNZIONI
GIUDIZIALI -> le troviamo regolate nel c.c. negli artt. 2727, 2728 e 2729. La presunzione è quel
procedimento logico che ci consente di risalire da un fatto noto a uno ignoto. Il professore entra
nell’aula N1 (fatto noto) e fa lezione (fatto ignoto). Dal fatto noto si giunge a quello ignoto.
Le presunzioni devono essere gravi, precise e concordanti. Non posso limitarmi solo ad un
elemento presuntivo, ma è necessario che ci siano più elementi, i quali devono essere orientati verso
un’unica direzione.
Poiché la subordinazione è il fatto ignoto allora quali possono essere i fatti noti? Quali possono
essere gli elementi presuntivi, gli indizi della subordinazione?
La giurisprudenza li ha individuati:
- Predeterminazione del trattamento retributivo -> se il trattamento retribuito è
predeterminato e cioè si dice al lavoratore che guadagnerà 1000 euro mensili, allora è
difficile che questo rapporto di lavoro sia autonomo perché se lo fosse il lavoratore
autonomo non negozia una volta per sempre quale è il suo compenso, ma lo fa caso per
caso. Se c’è una predeterminazione del trattamento retributivo (fatto noto) allora forse si può
risalire alla subordinazione (fatto ignoto), ma questo sarebbe un solo elemento e ne servono
altri;
- Predeterminazione dell’orario di lavoro -> difficile che il committente possa dire al
lavoratore autonomo che inizia e finisce di lavorare quando vuole lui perché il lavoratore
autonomo non lavora solo per lui, avrà altri clienti.
- Inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale -> il lavoratore deve avere un
luogo di lavoro, essere parte di un’organizzazione aziendale. Questo è tipico del lavoro
subordinato, è difficile che il lavoratore autonomo sia inserito nell’organizzazione aziendale
del datore di lavoro, può andarci ma poi torna via.
- Estraneità dal rischio di impresa -> il lavoratore dipendente è estraneo al rischio di
impresa (l’operaio che lavora in un’impresa che produce mobili da arredamento si reca al
lavoro una certa mattina e l’impianto non funziona. Il lavoratore dice al datore di lavoro che
è disponibile a lavorare, ma non è una cosa che può risolvere lui, la circostanza che ci sia un
imprevisto non è a lui imputabile). Il rischio se c’è un imprevisto non ricade sul lavoratore;
nel caso del lavoratore autonomo

Ad un certo punto nella storia del diritto del lavoro ha fatto apparizione una teoria secondo cui per
risolvere i problemi della qualificazione del rapporto era necessario fare riferimento alla volontà
delle parti. Questa teoria muove da questa considerazione: per stabilire se un rapporto di lavoro è
autonomo o subordinato bisogna andare a vedere qual è la volontà del lavoratore e del datore di
lavoro. se le parti hanno voluto un rapporto di lavoro autonomo, quello sarà autonomo e viceversa.
È una tesi duramente criticata dalla dottrina prevalente ed è stata rigettata dalla giurisprudenza, la
quale non l’ha mai ritenuto sostenibile perché nella qualificazione di un rapporto giuridico, quale
che esso sia, la volontà delle parti contraenti non può mai essere decisiva perché l’attività di
qualificazione spetta al giudice e non alle parti, le quali sono libere di dare un certo assetto
negoziale agli interessi, ma se quell’assetto negoziale è riconducibile ad un contratto o ad un altro
contratto questo non lo possono stabilire le parti, bensì il giudice. Fino a quando ci sarà la
separazione dei poteri sarà così perché la qualificazione della fattispecie spetta al giudice e non alle
parti perché se ammettiamo che le parti possono qualificare la fattispecie vuol dire che non abbiamo
capito come funziona lo stato di diritto.

Es. Tizio e Caio stipulano un contratto in base al quale T mensilmente deve versare a C la somma di
500 euro e C gli da un appartamento in cui T può andare a vivere. Questo contratto però dura 4

19
anni, anche se sul contratto però viene scritto “contratto di vendita”. Davanti al giudice la volontà
di T e C? No, è ovvio che il giudice terrà conto della volontà delle arti, ma in questo caso la volontà
delle parti non è solo quella formale (ciò che io ho scritto), ma anche quella sostanziale
(comportamento concreto). Per la volontà sostanziale è ovvio che quel contratto non potrà che
essere un contratto di locazione. Il giudice interpreta il contratto e poi lo qualifica. Ha rilevanza la
volontà delle parti? Sì, ma non può essere decisiva perché alla fine bisogna verificare se quel
contratto sia riconducibile o meno ad un certo tipo contrattuale.

Es2. T e C stipulano un contratto di lavoro in cui scrivono che l’orario di lavoro sarà dalle 8-12, che
c’è una retribuzione predeterminata, che ci sarà l’obbligo di recarsi in un certo luogo. Ma poi le
parti inseriscono una clausola in cui dicono che questo non è un contratto di lavoro subordinato, ma
autonomo. È chiaro che è irrilevante questa clausola perché l’assetto negoziale è anche formalmente
individuato in modo diverso.

Es3. Nel contratto di lavoro autonomo le parti sono spesso molto attente a quello che scrivono che
non è necessario predeterminare l’orario di lavoro, che non è necessario che il lavoratore si rechi
presso la sede del committente, che la retribuzione non viene determinata in modo fisso etc. etc.
Questo è ciò che le parti hanno dichiarato nel contratto (volontà formale), ma poi nell’esecuzione
del contratto il nostro lavoratore, nonostante il contratto di lavoro autonomo, riceverà una
retribuzione fissa, si reca nel luogo di lavoro in un certo orario. la volontà formale delle parti non
potrà essere decisiva nella qualificazione del rapporto.

Altra questione che si è posta una quindicina di anni fa è quella della CERTIFICAZIONE DEI
RAPPORTI DI LAVORO -> i rapporti di lavoro possono essere certificati dagli organismi di
certificazione, i quali non sono organi giudiziari, ma sono organi riconducibili alla PA ma non
all’autorità giudiziaria. Quando questa disciplina venne introdotta per la prima volta nel 2003 vi fu
un’accesa polemica tra gli studiosi e i pratici del diritto del lavoro perché questa disciplina poteva
essere interpretata come espressione di una facoltà attribuita ad un soggetto non giudiziale di
qualificare una fattispecie (attenzione perché solo il giudice può qualificare la fattispecie). Infatti,
attraverso dei correttivi normativi, ma soprattutto attraverso l’interpretazione si è poi affermato che
la certificazione dei rapporti di lavoro è un’attività utile per dare ordine agli assetti negoziali senza
andare in sede giudiziale, ma laddove vi siano controversie tra le parti, anche un atto di
certificazione può essere portato davanti all’Autorità giudiziaria. Quindi, questa disciplina della
certificazione dei rapporti di lavoro è una disciplina che comunque ha una sua utilità perché da
chiarezza e linearità a ciò che le parti vanno a definire, ma al tempo stesso è una disciplina che non
preclude il controllo giudiziale e solo così è legittima perché se invece intendesse precludere
l’accertamento giudiziale sarebbe costituzionalmente illegittima perché in violazione dell’art. 101 (i
giudici sono soggetti solo alla legge).

Lezione 25/02/20 (seminario)

Diritto del lavoro in trasformazione


Il legame tra le professioni giuridiche e il consulente del lavoro viene ad affermarsi in tempi più
recenti. La convenzione è un primo segnale di cambiamento che è in corso, è cambiato il diritto del
lavoro e gli interrogativi che sta ponendo negli ultimi 10 anni sono diversi da quelli che ci pone
prima quindi presuppongono risposte diverse perché la trasformazione del lavoro è divenuta una
trasformazione giuridica. I fenomeni che hanno contribuito a trasformare il lavoro hanno avuto una
reazione dall’ordinamento giuridico ma l’idea del lavoro novecentesca è tramontata. Cambiano i
riferimenti valoriali, gli strumenti e quindi anche l’approccio cognitivo che quel lavoro.
Perché il cambiamento del diritto del lavoro?

20
Possiamo dire che lo stravolgimento principale è stato determinato dalla IV rivoluzione industriale,
rivoluzione che viene definita da Visto come la “seconda età delle macchine”, nuova rivoluzione
industriale quindi siamo di fronte a un passaggio simile a quanto accaduto con la rivoluzione
industriale del 1800-1900. L’innovazione tecnologica è in grado di distruggere milioni di posti di
lavoro, ciò che è avvenuto più di un secolo fa quando si utilizzano le macchine ma si sono creati
nuovi posti di lavoro -> mutamento traumatico ma effetti benefici nel lungo periodo. Oggi siamo di
fronte a un qualcosa di simile? Sicuramente assisteremo alla distruzione di milioni di posti di
lavoro, la produzione di beni su larga scala non è più possibile con il sistema di 20-30 anni fa.
Questo fa venire meno tutta una serie di paradigmi: idea dell’impresa, della fabbrica, idea del
lavoratore che entra nello stabilimento e avrà fino alla pensione lo stesso orario di lavoro,
predeterminazione dell’orario e della retribuzione. Questo sistema del lavoro subordinato è stato
eroso da una costellazione di tipi contrattuali diversi. Questo elemento disorienta gli operatori del
sistema economico e professionale. Il disorientamento deriva anche dall’incapacità di cogliere la
presenza di valori che ci sembravano consolidati e trovavano la loro ragion d’essere in dei simboli
normativi: limitazioni in tema di orario-limiti al potere direttivo, la disciplina del licenziamento è un
simbolo polemicoequilibrio tra l’esigenza del lavoratore di preservare il posto di lavoro e
necessità per il datore di organizzare la produzione in base a esigenze diverse.
La trasformazione del diritto del lavoro mette anche in dubbio l’utilità e il bisogno della disciplina
del licenziamento; la limitazione dell’orario di lavoro rappresentava un baluardo, è una conquista
per il lavoratore ma in un modello organizzativo in cui c’è lo smart working la limitazione
dell’orario di lavoro come si va a controllare se è lo spazio di libertà dello smart working che fa
venire meno l’esigenza di controllare in modo stringente la durata della prestazione. Difficoltà di
separare il tempo di vita dal tempo di lavoro con le nuove tecnologie (nell’esperienza tedesca si
usano sistemi che bloccano le mail relative al lavoro dopo una certa ora). L’innovazione tecnologica
stravolge il nostro approccio culturale al lavoro e si traduce in qualcosa che poi diventa legge.
Documento dell’UE sull’intelligenza artificialesistema che è in grado di elaborare una certa
azione al di là dell’imput dell’essere umano, si sta discutendo di come offrire un profilo educativo
all’intelligenza artificiale perché questa è in grado di fare delle scelte in modo autonomo e che
devono essere dunque orientate eticamente (es. auto che si guida da sola), questo può avere delle
implicazioni su come quel modello che porta a realizzare quel progetto viene messo in pratica dal
lavoratore quindi è una questione che riguarda il datore di lavoro. (Dilemma del carrello).
Qual è il luogo di lavoro in un contesto profondamente trasformato? Difficile immaginare una
risposta, c’è bisogno di una ridefinizione dei paradigmi descrizione di un fenomeno che si
atteggia diversamente rispetto agli stilemi del lavoro come lo abbiamo conosciuto fino adesso, la
risposta non ‘è molto diversa da quella del passato se si parla di protezione sociale ma cambia lo
strumento con cui viene data. Nel nuovo contesto le domande sono le stesse “c’è o no l’esigenza di
protezione del lavoro?”, come si fa a garantire un’esistenza libera e dignitosa a una persona che
lavora, al di là delle etichette? Queste domande possono avere delle risposte se attraverso gli
elementi di novità riusciamo a intercettare l’esigenza di protezione.
Qual è l’altro elemento che è cambiato? L’effettività dei diritti in un sistema maturo non passa
necessariamente attraverso il filtro giudiziale. Il sistema giudiziale c’è a protezione dei diritti
fondamentali, è necessario e deve essere robusto ed efficace ma per questo è una sorta di estrema
ratio, il ricorso al giudice è un ricorso circoscritto. Questo è quello che accade in Francia e in
Inghilterra da almeno 20-30 anni quindi il diritto del lavoro non vive molto una dimensione
giudiziale conflittuale, si trovano altri contesti in cui appianare il conflitto perché spesso sarebbe
inutile, affollerebbe le aule di questioni che possono essere risolti con altre vie. L’Italia ci sta
arrivando adesso, non è una crisi ma un cambiamento radicale che diventa definitivo, vengono
messe in discussione le tecniche produttive che si usavano prima.
Avremo un processo di avvicinamento tra l’avvocato e il consulente del lavoro perché l’avvocato
avrà bisogno del consulente x gestire le questioni relative al diritto del lavoro in un contesto non
giudiziale e il consulente avrà bisogno dell’avvocato x un arricchimento reciproco.
21
Lezione 26/02/20 (assistente)

LAVORO AUTONOMO: disciplina meno dettagliata per diverse ragioni. Le definizioni legali,
codicistiche non aiutano nel lavoro subordinato come nel lavoro autonomo poiché quest’ultimo
viene definito come un rapporto di lavoro tra due parti in cui manca il vincolo di subordinazione.
Quindi occorre sapere il rapporto subordinato per conoscere il lavoro autonomo. Infatti, manca una
vera e propria definizione di lavoro autonomo, c’è quello di contratto di opera art 2222 e seg e dal
2229 in poi per le professioni intellettuali, categoria di rapporto di lavoro autonomo, normalmente si
tratta di categorie che richiedono l’iscrizione ad albi, ad es un avvocato, architetto ecc.
Non si può dire che l’art 2222 e seg siano gli unici apporti per il lavoro autonomo, si tratta della
disciplina dettata dal codice per tutti quei rapporti che hanno carattere di lavoro autonomo. Altre
figure come ad es un mandatario che è legato a un committente da un contratto di mandato saprà
che dovrà applicare le regole del contratto di mandato e in via residuale le regole del lavoro
autonomo.
ART 2222: Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un
servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del
committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina
particolare nel libro IV.
“senza vincolo di subordinazione” ci aiuta poco a identificare questa fattispecie.
“lavoro prevalentemente proprio” indicazione interessante perché nel lavoro subordinato, nel
modello del 2094, ci si riferisce al lavoro esclusivamente personale, quindi elemento di distinzione.
Questo vuol dire che il lavoratore autonomo nel rendere l’opera o il servizio per il suo committente
in cambio di denaro può avvalersi anche di una modesta organizzazione di mezzi ma anche di altre
persone, di collaboratori. (l’avvocato, lavoratore autonomo, che si avvale del praticante).
Storicamente il lavoratore autonomo è un lavoratore qualificato, ad es artigiano, costruttore, svolge
integralmente un ciclo produttivo, a differenza di un lavoratore subordinato che può occuparsi di un
segmento del ciclo produttivo.
Il lavoratore subordinato non utilizza mezzi propri, appartengono al datore di lavoro, nel caso del
lavoratore autonomo i mezzi utilizzati apparterranno al lavoratore stesso. Quindi possiamo
identificare molte differenze, anche in merito all’utilizzo dei mezzi.
Tutto questo che cosa comporta? Un problema di collegamento tra il lavoratore autonomo e il
piccolo imprenditore, non solo un problema di distinguere lavoratore autonomo e subordinato che in
concreto spesso è problematico, c’è un problema di riconduzione delle fattispecie anche in
collegamento tra l’imprenditore e il lavoratore autonomo, soprattutto in merito al piccolo
imprenditore, art 2083. (il codice non aiuta, siamo molto vicini come definizione).
Per sciogliere questi problemi applicativi si sono utilizzati diversi itinerari ricostruttivi anche in
ordine alla nozione di impresa. Alcuni autori ritengono che nella mera auto organizzazione, per il
solo fatto che un soggetto organizza l’intera attività, è considerato imprenditore, definizione però di
imprenditorialità molto ampia ed estensiva.
Un’altra nozione è la nozione di impresa per cui il principale oggetto dell’attività organizzativa
dell’imprenditore è il lavoro altrui, cioè se la mia struttura organizzativa si compone della
necessità di organizzare, di conciliare insieme la prestazione di più soggetti, questo riduce lo spazio
della figura del piccolo imprenditore.
ES: Idraulico che ha una ditta individuale e che opera in proprio e successivamente si fa aiutare dal
figlio, può avere una piccola organizzazione, ma se per lo più lavora lui sarà un lavoratore
autonomo.
La disciplina degli art 2222 e seg è residuale rispetto alla disciplina utilizzata dal codice con
riferimento ad alcune figure, ad es spedizione, contratto di trasporto, con l’inquadramento della
figura del vettore. Tutte queste figure prevedono un sinallagma riconducibile al 2222: Attività di
carattere lavorativo richiesta da un committente. Vi è anche una continuità con la figura dell’appalto
22
rispetto alla quale dobbiamo dire che se la struttura organizzativa del soggetto appaltatore prevale
sul lavoro personale allora avremo un appalto, altrimenti un contratto d’opera puro, lavoro
autonomo puro.
ES: Se mi viene chiesto di costruire una sedia e sono un artigiano capace di farlo da solo allora sarò
considerato un lavoratore autonomo, se io ho una organizzazione a cui viene chiesta di restaurare
un’aula, tavoli, sedie ecc, è più comprensibile considerarlo un appaltatore.
Il legislatore nel corso degli anni si è reso conto che i lavoratori autonomi non sono più quelli di
100 anni fa o comunque dell’epoca della codificazione, i livelli di protezione, sociali, si
incastravano di più nell’area della subordinazione, era più raro che un lavoratore autonomo avesse
bisogno di protezione. Tradizionalmente questi ultimi non hanno ad esempio bisogno di protezione
per la materia del licenziamento o contro la malattia. Anche storicamente l’avvocato o l’artigiano se
si ammala si riorganizza i tempi, non è come la situazione dei lavoratori subordinati. Questa realtà
si è modificata, sono aumentati i casi di lavoratori autonomi più deboli. Peraltro, sono cambiati i
livelli imprenditoriali, ci si è resi conto della diffusione di situazioni di debolezza contrattuale. (ad
es: nel caso dei rapporti tra imprese, nel caso di una crisi della impresa x a cui y fornisce dei
materiali, entrerà in crisi anche l’impresa y).
Progressivamente sono state introdotte una serie di regole per i lavoratori autonomi che prendono
spunto dalle regole dei lavoratori subordinati. Non estendendo esattamente la disciplina ma con
misure diverse. Un recente intervento con il cd STATUTO DEL LAVORO AUTONOMO: l
81/2017. Ha tentato di tutelare il lavoratore autonomo nelle varie tendenze economiche. Allo stesso
tempo ha reso più costoso il ricorso al lavoro autonomo per scoraggiare l’uso dei lavoratori
autonomi, dove questo avvenga per eludere le norme della subordinazione. (Le cd Partite Iva)
Si sono dettate regole nell’ambito della certezza dei pagamenti, si è mutata la disciplina in contrasto
con lo sfruttamento abusivo della professione ecc. Se io sono in una posizione dominante nel
mercato, perché sono ad es un semi monopolista, non posso sfruttare la posizione. In parte si è
estesa questa disciplina ai lavoratori autonomi.
Questo statuto ha introdotto anche una disciplina per le sospensioni con riferimento alla malattia,
alla maternità e anche allo stesso infortunio e si sono precisate anche regole con particolare
interesse alla tutela delle donne. Si sono previsti obblighi di forma scritta, con conseguenti sanzioni
e tutele come il diritto di autore o altre fattispecie in capo al lavoratore autonomo. La disciplina
delle sospensioni è applicata a rapporti di lavoro autonomo che hanno carattere continuativo però
sono quei casi di rapporto stabilmente sussistente con un determinato committente che è chiamato a
sostenere la perdita del lavoro per un certo periodo senza interrompere il rapporto di questo ultimo.
Sono fatte salve le regole sul sopravvenuto venir meno del committente attraverso l’impossibilità
sopravvenuta. Se ho come lavoratore autonomo un contratto con un soggetto e devo compiere una
determinata attività perché è estate (ad es potare gli alberi) se c’è una situazione di malattia anche
lunga, se non ho più interesse, potrò recedere dall’accordo.
Vi sono poi anche delle tutele processuali, ad es in tema di estensione dell’uso delle scritture
contabili dei lavoratori autonomi.
Nell’ambito del lavoro autonomo si è diffuso ed è stato riconosciuto dal legislatore il cd LAVORO
PARASUBORDINATO: non è una definizione legale, è una dicitura degli interpreti. Si tratta di
ipotesi di lavoratori autonomi che però in realtà sono un po’ a metà, in una zona grigia. Nel codice
civile del 42 vi è una figura che costituisce il prototipo, il contratto di agenzia. Caso di lavoratore
autonomo, che ha una definizione legale: la definizione di agente. Gli agenti, più di qualsiasi altra
figura di lavoratore autonomo hanno tradizionalmente preso la strada di essere parasubordinati,
spesso sono integrati nella organizzazione del committente. Incide sulla loro prestazione in maniera
molto simile a quella di un datore di lavoro nel rapporto subordinato, detiene quel potere direttivo
su cui costruiamo la eterodirezione.
Quando il legislatore per la prima volta evoca in maniera generica un modello? Nel 1959, con la
LEGGE VIGORELLI: estensione erga omnes dei contratti collettivi. Il campo di applicazione di
questa legge comprende anche “i rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni d’opera
23
continuativa e coordinata si applicasse il sistema dei minimi di trattamento dei contratti collettivi.
Cosa si intende? Il concetto di collaborazione già si evince dal 2094. Coordinata ci pone un
problema, sembra essere qualcosa di meno intenso. Nel 59, in una situazione in cui ancora non vi è
consapevolezza, la stessa parola para subordinazione verrà in uso molto dopo, però anche i
lavoratori che hanno queste caratteristiche possono pretendere l’applicazione dei minimi di
trattamento previsti. Nel 73, quando il legislatore si accorge che questa casistica non viene presa in
considerazione, il legislatore interviene con una riforma processuale, nel Codice di procedura civile
e introduce un rito speciale per le controversie in materia di lavoro e tra le altre cose modifica l’art
2113.
C’è la riscrittura dell’art 409 del Codice di procedura civile che ci dice quale è il campo di
applicazione: individuazione dei rapporti sostanziali per le cui controversie si applica un
determinato rito processuale per la risoluzione ad es anche delle locazioni.
Per la peculiarità del rapporto di lavoro, a tutela del lavoratore che è un soggetto debole, nel 73 si
introduce un rito speciale, nel dirci il campo di applicazione, cioè le controversie. L’art 409 elenca
una serie di casi, al n 3 parla dei rapporti che si concretizzano in una prestazione d’opera
continuativa, coordinata, prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato. Il
prevalentemente personale ci ricorda il prevalentemente proprio del 2222.
Prevalentemente personale: può esserci una ridotta presenza del contributo di prestazioni altrui o
anche di mezzi che possono essere di proprietà del prestatore. La personalità prevalente attiene
quasi alla fisicità, o comunque al diretto agire del prestatore sulla realizzazione dell’opera o del
servizio. Può essere materiale o intellettuale, frutto diretto della persona umana. Questa prestazione
è prevalente rispetto al resto (come il lavoro di altri o la presenza di mezzi).
Continuità: elemento comune alla subordinazione.
Coordinazione: difficile da definire, sicuramente una prestazione coordinata è una prestazione
della quale l’interferenza del committente è fondamentale per l’esercizio di un potere direttivo.
Avere un pagamento mensile, puntuale, sono indice di coordinazione e da cui ricavo
l’eterodirezione.
Se io ho una prestazione continuativa con un soggetto, faccio la stessa cosa per lo stesso soggetto,
ma non ho la eterodirezione, ho un coordinamento.
Nel 2017 con lo statuto del lavoro autonomo il legislatore ha integrato la definizione di para
subordinazione di cui al n 3 del 409 proprio dicendoci qualcosa in più sulla coordinazione. Fino al
2017 non c’era una definizione di coordinazione Afferma che la collaborazione si intende
coordinata quando nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle
parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività.
Nell’ambito del coordinamento il collaboratore organizza autonomamente l’attività. Questo non è
un elemento verissimo, cioè se voglio mi porto un collaboratore, se non voglio no, se voglio usare
un certo mezzo lo uso, altrimenti no.
(Un intervento precedente, nel 2015, di cui l’intervento del 2017 è speculare.)
Come dal 1973 in poi il legislatore si è occupato della disciplina sostanziale dei lavoratori
parasubordinati?
Da quel momento la logica regolativa del legislatore sarà quella di estendere ai lavoratori
parasubordinati alcune piccole nozioni delle tutele dei lavoratori subordinati. Non la disciplina nel
suo insieme, ma stabilire a cosa hanno diritto. Per esempio, verrà estesa la disciplina previdenziale,
verrà sostanzialmente garantito il diritto alla pensione, fino a quel momento i lavoratori
parasubordinati che rientrano nello schema del lavoro autonomo, non avevano l’obbligo di
iscrizione alle gestioni previdenziali. Dovevano istituirsi una pensione privata o essere iscritti a
cassa di previdenza dei vari ordini professionali.
Solo dal 95 c’è una gestione separata presso l’INPS che è diventata obbligatoria. Nel 2000 verrà
estesa una tutela antinfortunistica, una assicurazione obbligatoria contro gli infortuni. Anche in
tema di ammortizzatori sociali si sono estese ad esempio delle ipotesi di cassa integrazione
guadagni. Istituti tradizionali del lavoro subordinato. sono state estese indennità di malattie, di
24
maternità, anche disoccupazione (2015), però a prescindere da queste modalità regolativa che esiste
ancora nel mezzo, fra il 2003/2015 è esistito il lavoro a progetto, poi stato abrogato.
È stato introdotto nel 2003 con il dlgs 276, poi abrogato dal legislatore, dal cd Jobs act, nel 2015.
Questo istituto prevedeva che le collaborazioni coordinate e continuative con lavoro
prevalentemente personale avrebbero dovuto essere ricondotte obbligatoriamente a uno o più
progetti specifici determinati dal committente e gestiti dal collaboratore.
1 o + progetti quindi il progetto può essere qualsiasi cosa, che sia però specifico, può essere
anche la fase di un processo più ampio, gestita dal lavoratore parasubordinato.
Questo serviva a tentare di ridurre il ricorso elusivo alle collaborazioni coordinate e continuative.
Salvo casi particolari il lavoro a progetto era l’unico modo in cui poter fare ricorso al lavoro
parasubordinato. Le cd storiche co.co.co (contratto di collaborazione coordinata e continuativa)
diventano collaborazioni coordinate a progetto dove la sigla co.co.pro, toglie il termine
continuative, però pur sempre continuativo.
Il governo Monti del 2012 ha un po’ ristretto il fatto che spesso il progetto veniva descritto in modo
non specifico, quindi usato in modo elusivo. Nel 2015 verrà poi abrogato con la espansione delle
co.co.co. il legislatore del 2015 interviene con un altro intervento fondamentale, quello dell’art 2 del
decreto 81/2015: COLLABORAZIONI ORGANIZZATE DAL COMMITTENTE che vengono
descritte come rapporti di collaborazione che si concretano su prestazioni di lavoro esclusivamente
personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con
riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.
Nell’art 2 si stabilisce che ai rapporti che abbiano queste caratteristiche si applica la disciplina del
rapporto di lavoro subordinato, disposizione che esprime una tecnica legislativa, logica
dell’intervento nuova perché descrive i rapporti con una descrizione diversa dal 2094, almeno
apparentemente e prevede che vi si applichi gli effetti del lavoro subordinato.
Alcuni autori hanno ritenuto che si tratti di rapporti rientranti nell’estensione della disciplina,
siccome sono rapporti di para subordinazione particolarmente deboli, allora il legislatore decide di
applicare tutte le regole del lavoro subordinato.
Altri autori analizzano meglio: si parla di rapporti esclusivamente personali, continuativi, però la
parte “modalità di esecuzione organizzate dal committente anche con riferimento a tempo e luogo”,
è molto vicino alla subordinazione, proprio perché nel patrimonio evolutivo su cosa è la
eterodirezione, centrale è l’organizzazione dei tempi e dei luoghi. Gli autori dicono che tutto
sommato il legislatore non sta innovando molto, sta allargando il campo di applicazione della
disciplina. Il legislatore sta positivizzando (rendere le interpretazioni diritto positivo) dei vincoli
della subordinazione.
L’art 2 contiene delle eccezioni problematiche, in particolare la lettera A. Successivamente nel
2019, l’art 2 è stato modificato. La figura dell’art 2 è tornata ad avvicinarsi alla para
subordinazione.
Da vedere anche la modifica del 2017.
(mancano delle parti)

Lezione 02/03/20

Trattiamo una serie di temi tra loro strettamente connessi, terribilmente attuali e al tempo stesso
affondano le loro radici nella storia del diritto del lavoro.
INTERPOSIZIONE ILLECITA DI MANODOPERA: fenomeno che ha delle ricostruzioni
molto antiche, forma di sfruttamento del lavoro. Esprime una forma di sfruttamento irresponsabile
del lavoro umano perché il soggetto che sfrutta il lavoro umano è il soggetto che sfugge alle proprie
responsabilità. Questo è nella sua essenza definitoria il tema cioè l’irresponsabilità è l’elemento
presente nel fenomeno interpositorio. La legge si è fatta carico già da tempo, di individuare una
soluzione che vietasse questa forma di sfruttamento irresponsabile.

25
Viene in considerazione un fenomeno che ha connotazioni eticamente riprovevoli. Non c’è etica nel
tentativo, molto spesso riuscito, non solo di sfruttare il lavoro altrui ma anche sottraendosi ad ogni
forma di responsabilità. Lo schema interpositorio nella sua essenza è uno schema che può prestarsi
a vari livelli di violazione della regola. Ha un diverso livello di intensità del disvalore. Il
comportamento illecito, l’atto illecito, è un atto che può avere vari livelli di aggressività verso i beni
tutelati dalla legge. (CAPORALATO: riconducibile alla interposizione illecita di manodopera, non
esiste forma più grave).
Nello schema dell’interposizione illecita ci possono essere sempre violazioni della regola base, ma
tuttavia usando lo stesso livello del caporalato, addirittura si può andare anche in qualcosa di più
grave. (Schiavitù, punita poi penalmente.
SCHEMA INTERPOSITORIO: c’è un lavoratore che viene assunto da un soggetto A ma che
effettua la prestazione alle dipendenze di un soggetto B. Che problema si pone in questo caso? In sé
potrebbe non esserci un elemento di gravità particolare però il problema è cosa accade nel momento
in cui A o B decidono di non dar seguito ai loro obblighi. ES: a un certo punto il lavoratore assunto
a inizio gennaio, a fine mese, si rivolgerà a B chiedendo la retribuzione e B risponderà che il
contratto di lavoro è stipulato con A non con lui. Allora il lavoratore si rivolge ad A dicendo che il
contratto è stato stipulato tra loro due, però A risponde che non ha in realtà lavorato per lui. Se non
c’è quindi una previsione normativa che va a vietare questo schema si realizza nella sua struttura
minima una forma di sfruttamento del lavoro. Il lavoratore si troverà in difficoltà in mancanza di
una regola che vieti questo tipo di fenomeno.
Questo è accaduto fino al 1960, quando è intervenuta una legge, L 1369/1960 che per la prima volta
introdusse un divieto di interposizione illecita di manodopera. La finalità era quella di contrastare il
fenomeno interpositorio. Quindi si parla di uno schema triadico (lavoratore, sogg A, sogg B). Sogg
A titolare formalmente del rapporto, sogg B invece utilizzatore della prestazione lavorativa.
Questo schema è uno schema che può comportare conseguenze gravi, forme di sfruttamento quindi
bisogna vietare che questo schema si verifichi. Viene vietato dall’art 1 della L 1369 del 1960 che
appunto prevede che è vietato che si realizzi uno schema in base al quale vi sia l’interposizione
illecita di manodopera (definita anche appalto di mere prestazioni di lavoro).
Schema quindi vietato dalla L del 60’, quindi si impedisce che si possono realizzare quelle
determinate ipotesi. Il lavoratore cerca quindi i suoi diritti e non li trova, non riesce ad avere
soddisfazione del suo credito retributivo che non è il solo problema. Lo schema interpositorio è
espressione di una responsabilità che va anche oltre la retribuzione, ad es nell’ambito della materia
di sicurezza sul lavoro. Nello schema interpositorio non si trova la possibilità di individuare chi è
titolare dell’obbligo di sicurezza. Stroncare questo fine di fenomeno era quindi fondamentale.
Bisogna spiegare quale è il meccanismo sanzionatorio utilizzato dal legislatore del 60 fu quello di
imputare all’effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa la titolarità del rapporto di lavoro.
Quindi quando viene a concretizzarsi lo schema interpositorio illecito l’art 1 afferma che è datore di
lavoro colui che ha effettivamente utilizzato la prestazione lavorativa. La L del 60 spezza la logica
per cui si possa sfruttare il lavoratore in modo irresponsabile, senza risponderne. La L del 60 fissa
un divieto di dissociazione tra la titolarità formale del rapporto di lavoro e la effettiva
utilizzazione della prestazione lavorativa. L’ordinamento stabilisce che questi due elementi non
possono essere scissi. Va a imputare gli effetti sulla base della sostanza, chi ha utilizzato la
prestazione lavorativa.
Schema della L del 60 ha retto per 40 anni e venuta meno questa legge nel 2003, pur essendo stata
abrogata la L del 60 molto tempo dopo, lo schema interpositorio concepito nel 60 è ancora presente
oggi. Il divieto interpositorio quindi sussiste anche attualmente dove lo schema base è rimasto lo
stesso.
Ci possono comunque essere vari livelli di gravità che possono manifestarsi nei fenomeni
interpositori. Quando parliamo del cd caporalato, facciamo riferimento ad evocare la figura
militare del caporale che però niente ha a che vedere con questo riferimento. Esprime una sorta di
figura autoritaria, dove l’immagine classica è quella del “camioncino” che la mattina presto si reca
26
in vari posti, spiazzi, piazze, per raccogliere forza lavoro. Il caporale porta la forza di lavoro ad un
imprenditore edile o magari agricolo. Queste forme di sfruttamento conoscono poi all’interno una
diversificazione di gravità. Ad es in agricoltura assistiamo a forme di sfruttamento in varie aree del
nostro paese, persone tenute in posizione di totale soggezione, addirittura utilizzo di stupefacenti
per garantire la prestazione a tutti i costi.
L’interposizione non è solo questo, bisogna andare a distinguere, a selezionare, senza andare a
mettere tutto sullo stesso piano. Bisogna dosare il calibro e andare a discernere. Non si può mettere
sullo stesso piano un appalto e un’interposizione. Può darsi che un appalto possa sconfinare in una
interposizione. L’appalto è un contratto che ha una funzione importante nel funzionamento del
sistema economico e deve essere ben compreso nei suoi meccanismi di funzionamento. L’appalto è
uno strumento contrattuale assolutamente lecito, la cui utilizzazione può avere delle deviazioni che
possono portare verso l’illecito interpositorio.
Quando parliamo dell’appalto parliamo di un contratto che ha una sua disciplina generale nel cc, in
particolare è utile tenere presente l’art 1655 del cc. Questa disposizione prevede l’appalto è il
contratto in base al quale l’appaltatore si obbliga a compiere un’opera o un servizio con
organizzazione propria e gestione a proprio rischio dietro il corrispettivo di un prezzo. L’appaltatore
quindi si obbliga nei confronti di un committente a realizzare dietro il corrispettivo, un’opera o
servizio. Quindi l’appalto può essere di opera o di servizio.
Ci interessa “con un’organizzazione propria”: l’appaltatore quindi organizza in modo autonomo
assumendosi anche i possibili rischi. Cosa c’entra il diritto del lavoro? C’entra perché l’appaltatore
nel momento in cui realizza l’opera con una organizzazione autonoma utilizza il proprio personale, i
propri dipendenti. L’appalto è lecito proprio perché l’organizzazione dell’appaltatore è autonoma
rispetto a quella del committente. I dipendenti dell’appaltatore rispondono solo alle direttive del
loro datore di lavoro che è l’appaltatore. L’appaltatore ha una propria organizzazione di mezzi e
attrezzature (ad es: impresa edile), una organizzazione di dipendenti. Si tratta di uno schema è
lecito. Le implicazioni lavoristiche se lo schema è lecito, è che la L prevede una responsabilità
solidale del committente e dell’appaltatore per i crediti retributivi dei dipendenti dell’appaltatore.
La L dice che se ci sono i dipendenti dell’appaltatore che vanno ad eseguire l’appalto nei confronti
del committente, si prevede una tutela nel caso in cui l’appaltatore vada a scomparire e prevede che
anche il committente è responsabile in solido per i crediti dei lavoratori. Tutela ai dipendenti ma che
non intacca lo schema interpositorio.
ESEMPIO: società che si rivolge a una impresa edile per realizzare un edificio. In questo caso
l’appaltatore non ha strumenti, non ha macchinari, ha una serie di dipendenti. Per realizzare un
edificio di 4 piani l’imprenditore ha solo i dipendenti. Non c’è, art 1655, un’organizzazione
autonoma dell’appaltatore, non può con la sua organizzazione di operai, costruire l’opera. Quello
che succede è che il committente in realtà ha della strumentazione, dei macchinari, ha una
organizzazione. L’appaltatore mette a disposizione dei committenti i lavoratori che riceveranno sul
cantiere le direttive del committente, non dell’appaltatore. Se il committente dà direttive, siamo in
presenza della figura della interposizione illecita di manodopera, c’è un soggetto che sta utilizzando
la prestazione lavorativa. Questa è la deriva patologica dell’appalto, è la deviazione dallo schema
lecito.
Quando l’appaltatore non ha organizzazione propria, ma dipendenti utilizzati dal committente,
siamo di fronte a un appalto illecito. L’appalto manifesta momenti di illiceità in 2 profili:
- Quando l’appaltatore non ha una organizzazione propria adeguata rispetto alla realizzazione
dell’oggetto dell’appalto;
- Quando il committente impartisce direttive ai dipendenti dell’appaltatore.
Elementi, questi, che vanno verificati per sapere se l’appalto è lecito oppure o no. È lecito un
appalto che ha una propria e autonoma organizzazione e dove i lavoratori rispondo alle direttive
dell’appaltatore. Se manca uno di questi due elementi l’appalto può essere illecito.

27
Quando parliamo di organizzazione propria dobbiamo sempre andare a verificare che tipo di
organizzazione è necessaria per realizzare un certo tipo di appalto. L’esempio della realizzazione
dell’edificio è emblematico, se non ho macchinari, attrezzature e ho stipulato il contratto di appalto
siamo di fronte alla mancanza di un elemento chiave. Però quale è la organizzazione necessaria
per realizzare un servizio di pulizia dei locali oppure informatico? Non sempre l’appalto richiede
una organizzazione pesante (macchinari, attrezzature), nel caso dei servizi di pulizia di una scuola
ad esempio, non è che occorrono materiali particolari. Quindi vi possono essere dei casi in cui
l’appalto può essere realizzato con una organizzazione semplice in cui è preponderante la forza
lavoro. Non è che di fronte a una controversia di lavoro, il giudice del lavoro se ha davanti un
appalto di pulizia di locali, deve concludere immediatamente per l’illiceità dell’appalto solo perché
l’organizzazione dell’appaltatore è molto snella e semplice. L’importante è che l’organizzazione
dell’appaltatore sia adeguata rispetto alla organizzazione dell’obiettivo finale.
Appalti detti labour intensive, in cui è prevalente il profilo del lavoro, è centrale l’attività dei
lavoratori (pulizie, servizi informatici, manutenzioni software ad esempio). Non possiamo pensare
che lo schema dell’appalto sia illecito perché manca l’organizzazione, perché non è vero, è solo
diversa. L’importante è verificare che questo sia vero.

Lezione 03/03/20

APPALTO
L’appaltante è il soggetto per conto del quale l’opera viene realizzata, ma non deve interferire
nell’opera dell’appaltatore, nella gestione di tutto, anche del personale. Il committente non deve
interferire con l’organizzazione del personale, se lo fa l’appalto da lecito diventa illecito. Questo
criterio ha due elementi fondamentali:
- L’organizzazione autonoma
- Potere direttivo (i dipendenti non devono ricevere direttive dal committente)
Un appalto è illecito se i lavoratori dell’appaltatore sono soggetti a direttive da parte del
committente perché si va a cadere nello schema dell’interposizione illecita. L’apprezzamento
dell’organizzazione autonoma dell’appaltatore si compie in relazione al tipo di appalto, non tutti gli
appalti hanno le stesse caratteristiche.
Dove l’elemento organizzativo è molto leggero, labour intensive, dobbiamo sempre valutare
l’elemento organizzativo in base al tipo di appalto. È vero che è leggero ma per eseguire l’appalto
l’appaltatore non ha bisogno di una struttura pesante. La dimensione organizzativa va vista in
dimensione all’oggetto dell’appalto.
La nostra attenzione finisce per concentrarsi su: chi impartisce le direttive? Se la risposta è
l’appaltatore nulla quaestio. Se fosse il committente, comprometterebbe lo schema negoziale.
I passaggi successivi sul piano dell’evoluzione: la legge del 60 prevedeva il divieto di
interposizione illecita di manodopera, divieto che non consente una dissociazione tra la titolarità
formale di un rapporto di lavoro e l’effettiva utilizzazione della prestazione lavorativa; consentiva
l’appalto lecito purché vi fosse un appaltatore che avesse una organizzazione di mezzi adeguata e
pur essendo lecito, se nella esecuzione si venivano a porre in essere direttive da parte del
committente, si sarebbe determinata l’interposizione illecita. Due erano le questioni importanti che
venivano affrontate sempre dall’art 3 della L del 60: la responsabilità solidale tra appaltante e
appaltatore per i crediti dei dipendenti dell’appaltatore e un principio di difficile applicazione,
principio di parità retributiva tra i dipendenti dell’appaltatore e quelli dell’appaltante.
L’art 3 prevedeva che i dipendenti dell’appaltatore dovessero ricevere una retribuzione non
inferiore a quella corrisposta ai dipendenti dell’appaltante. Principio ispirato alla logica di equità,
eguaglianza, ma di difficile applicazione perché l’appaltatore aveva una organizzazione diversa da
quella del committente e quest’ultimo non si rivolgeva all’appaltatore per commissionare
un’opera/servizio che poteva svolgere con la propria organizzazione.
28
Ad es sono un’impresa metalmeccanica e mi rivolgo a un’impresa edile che mi costruisca un nuovo
reparto. Commissiono un appalto edile. In questo caso l’impresa metalmeccanica che ha operai
metalmeccanici si rivolge all’impresa edile, dire che c’è parità retributiva non è facile da realizzare,
si tratta di due attività diverse.
Oppure ad es un’impresa metalmeccanica si rivolge a un’impresa di software, come si fa a creare
l’unità retributiva? Quindi la parità retributiva era nell’ottica degli anni 60 un principio di difficile
realizzazione. La parità è possibile quando siamo davanti a situazioni uguali, ma quando siamo
davanti a situazioni diverse come si fa a rendere eguali situazioni diverse? È difficile.
Infatti, la parità retributiva non durò molto. La responsabilità solidale invece rimane solida, crea un
principio di responsabilità del committente: se io committente mi rivolgo a un appaltatore, devo
controllare con chi mi metto in affari. Quindi il legislatore ha previsto che se l’appaltante si rivolge
ad un appaltatore che non paga i suoi dipendenti alla fine anche l’appaltante ne risponderà in solido.
Questo serve a garantire i diritti dei lavoratori ma anche a realizzare un sistema di mercato che si
fonda su regole che hanno un minimo di decenza. Regola rimasta anche nella evoluzione
successiva.
La evoluzione successiva che caratteristiche ha? Lo schema è quello che abbiamo visto, non ci sono
stravolgimenti particolari sull’ossatura, è l’evoluzione economica e sociale che porta alle domande
nuove nei decenni successivi alla legge del 60. Ci sono 2 ordini di questioni:
- Sarà forse troppo rigido lo schema della legge del 60? Dibattito dottrinale.
Si può rendere meno rigido cercando di comprendere l’evoluzione economica e sociale che
si realizza, questo è stato fatto dalla stessa giurisprudenza. C’era l’esigenza di rileggere la
disciplina degli anni 60 tenendo conto che gli appalti non hanno quelle caratteristiche
pesanti che avevano gli appalti tradizionali in seguito all’evoluzione tecnologica. Si rende
più dinamiche le tecniche organizzative dell’attività di impresa e quindi di incidere sul
volume, entità, dimensione materiale di ciò che si va a realizzare con un appalto. Non si può
dire che ci sia stata una chiusura da parte della giurisprudenza. Questa lettura evolutiva non
può trasformare il sistema rientrando poi nell’interposizione illecita di manodopera. Non si
può andare a svuotare di significato il fenomeno dell’interposizione. La giurisprudenza si è
interessata dell’evoluzione, questo si riassume in un noto caso che ha riguardato gli appalti
dei servizi informatici sui quali poi si ebbe una pronuncia della cassazione nel 1990.
Per la prima volta la cassazione afferma con molta chiarezza che un appalto dei servizi informatici
anche se dotato di una scarsa consistenza organizzativa è da ritenersi lecito proprio perché ciò che
rileva veramente è la adeguatezza dell’organizzazione dell’appaltatore alla realizzazione
dell’appalto stesso. Se io devo fornire un servizio informatico non ho bisogno di un’attrezzatura
pesante, ma leggera. Questo non toglie, che pur avendo una struttura leggera, se poi il committente
impartisce direttive ai dipendenti dell’appaltatore siamo di fronte allo schema interpositorio. La
struttura può anche essere leggera però i dipendenti devono rispondere anche nel contesto più
avanzato tecnologicamente, a ricevere direttive solo dall’appaltatore.
Profilo che ritiene quindi alla evoluzione tecnologica. Percorso in modo adeguato

- L’altra questione è l’irruzione sulla scena di una fattispecie diversa da quella descritta:
parliamo del cd LAVORO INTERINALE parliamo della pox che la legge in deroga al
divieto interpositorio autorizzi determinati soggetti a somministrare lavoro. Il divieto di
interposizione illecita prevedeva che non è possibile un appalto di mere prestazioni di
lavoro. Però se è la legge che autorizza questa ipotesi a determinate condizioni, lo schema
diventa lecito. Ecco che in Europa negli anni 80 fanno apparizione le cd agenzie di lavoro
interinale che assumono poi varie denominazioni.
Queste agenzie sono autorizzate dalla legge a somministrare lavoro a particolari condizioni:
 Devono svolgere solo questa attività: somministrare lavoro
 Devono avere un’apposita autorizzazione ministeriale
29
 Devono avere determinati requisiti: ad es avere la sede più in regioni, una solidità
finanziaria, non avere nella società persone condannate per reati rilevanti dal punto
di vista di protezione del lavoro o reati più gravi. Vi sono requisiti molto rigidi.

Rimane fermo il divieto interpositorio, ma queste agenzie sono una eccezione alla regola
generale. Se le agenzie sono autorizzate infatti lo sono solo a particolari condizioni e se non
stanno dentro queste condizioni, si applica anche a loro il divieto interpositorio. Questo
avverrà in Francia (anni 80), Spagna (anni 90), in Italia l’introduzione di una fattispecie
simile avviene nel 97 con le cd agenzie di lavoro temporaneo. È la L 196/1997: pacchetto
TREU (ministro lavoro). Si occupa di introdurre per la prima volta questa nuova fattispecie
del cd LAVORO TEMPORANEO. Schema triadico: lavoratore, impresa utilizzatrice,
agenzia di lavoro temporaneo.

Lo schema funziona in modo semplice: c’è un contratto che viene stipulato tra l’utilizzatore e
l’agenzia di lavoro temporaneo. In base a questo contratto la nostra agenzia di lavoro temporaneo si
impegna a fornire alla impresa utilizzatrice del personale. L’agenzia stipula con il lavoratore un
contratto di lavoro, poi un contratto di lavoro temporaneo tra agenzia e utilizzatore. SCHEMA
INTERPOSITORIO che in questo caso è LECITO. Se vengono violate queste regole l’agenzia
subisce le conseguenze della interposizione illecita.
Ci sono una serie di questioni che vengono in considerazione: quando parliamo di questo schema è
evidente che dobbiamo prestare attenzione all’attuazione, cioè quali sono ad es le garanzie del
lavoratore. Ci sono rigide regole per la responsabilità solidale tra l’utilizzatore e l’agenzia di
fornitura del lavoro temporaneo. C’è un principio di parità retributiva. Però nel 97 parliamo di
“lavoro temporaneo”, quindi il lavoro fornito è per un certo tempo. Nel 2003 avremo una riforma
che riguarda anche il tema in questione Dlgs 276/2003 decreto con il quale sarà abrogata la
disciplina del lavoro temporaneo e sarà introdotta la disciplina della somministrazione di lavoro.
Nello schema trilaterale non cambia niente, ci sarà sempre un’impresa utilizzatrice, un’agenzia di
somministrazione, un lavoratore (dipendente dell’agenzia).
C’è la scissione tra titolarità formale del rapporto (agenzia stipula il contratto con il lavoratore) e
l’effettiva utilizzazione. Il lavoratore in somministrazione viene utilizzato da un altro soggetto.
Tutto questo avviene sotto il controllo della legge. Si prevedono sanzioni laddove vi siano deroghe
al quadro di regole.
La differenza è che nel 2003 si prevede non solo l’ipotesi in cui questo meccanismo possa operare
in modo DETERMINATO, ma anche l’ipotesi del tempo INDETERMINATO. Possiamo avere
quindi: somministrazione di lavoro a tempo DETERMINATO e somministrazione a tempo
INDETERMINATO. Bisogna in questo caso pensare al rapporto tra l’agenzia e l’impresa
utilizzatrice: l’impresa può stipulare con l’agenzia un contratto in base al quale:
- L’agenzia somministra lavoro all’impresa utilizzatrice per tot mesi (determinato)
- L’agenzia somministra lavoro all’impresa utilizzatrice a tempo INDETERMINATO:
elemento di novità rispetto al 97.
L’elemento di novità è che l’imprenditore potrebbe realizzare un piccolo “sogno”, quello di avere
un’impresa senza dipendenti. È vero che lavorano presso l’utilizzatore ma sono dipendenti
dell’agenzia. Non c’è niente di irresponsabile, non possiamo dire che l’utilizzatore realizza il
“sogno” senza alcun onere, poiché la somministrazione a tempo indeterminato presuppone dei costi
importanti per l’utilizzatore, deve pagare questo servizio.
L’APPALTO, dopo la legge del 60 che viene abrogata dal dlgs del 2003, trova nel decreto 276 una
sua disciplina, ART 29. L’art intanto ci vuole dire come si distingue l’appalto dalla
somministrazione. Nell’appalto si ha l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore,
l’agenzia di somministrazione non esegue un appalto, non ha bisogno di una sua attività, eroga un

30
servizio all’utilizzatore, fornisce manodopera dentro i confini fissati dal legislatore. Nell’appalto c’è
un’organizzazione dei mezzi.
L’art si fa carico di ricordare che l’organizzazione dei mezzi può essere rarefatta, labour intensive.
Riconosce, il legislatore del 2003, la natura delle organizzazioni labour intensive. Si fissa anche la
regola della responsabilità solidale tra committente e appaltatore per i trattamenti retributivi dei
dipendenti dell’appaltatore. Se l’appaltatore non paga i dipendenti il committente è responsabile in
solido con un limite: 2 anni dalla cessazione dell’appalto.
Nel gran numero di piccoli interventi normativi che hanno riguardato questa disposizione, si
prevede che la responsabilità solidale tra committente e appaltatore riguarda anche i contributi
previdenziali e i premi assicurativi. Quindi la responsabilità solidale non riguarda solo la
retribuzione ma anche i contributi, se l’appaltatore non versa i contributi ci va di mezzo anche il
committente.
Quando il contratto di appalto non viene seguito nel rispetto delle regole descritte cosa succede? È
prevista una conseguenza sanzionatoria che si chiama oggi: SOMMINISTRAZIONE
IRREGOLARE. Una volta interposizione illecita di manodopera, ma poiché la legge del 60 è stata
abrogata, il legislatore ha previsto un meccanismo che si chiama diversamente ma identico allo
schema della interposizione illecita.
Nel 2003 una parte della dottrina intendeva sostenere che non c’era più il divieto di interposizione,
però è una tesi marginale (sostenuta da pochi autori) che non regge per due ordini di ragione:
- Se c’è una fattispecie che colpisce la dissociazione tra titolarità formale del rapporto e
effettiva utilizzazione e si chiama somministrazione irregolare il risultato è lo stesso,
conseguenza sanzionatoria con stesse caratteristiche.
- Perché il legislatore ha previsto la fattispecie della somministrazione? Se non la prevede non
si può fare; se non fosse necessario un intervento del legislatore non ci sarebbe stata la
disciplina della somministrazione, ma se c’è una disciplina della somministrazione è
evidente che solo alle condizioni previste dalla legge può aver corso lo schema negoziale
previsto dalla legge. Sarebbe ridicolo pensare che viene meno un divieto che è iscritto nella
radice stessa del diritto del lavoro solo perché il legislatore ha cambiato i nomi alle cose. Il
legislatore dal 97 al 2003 non ha fatto altro che introdurre nel nostro ordinamento una
fattispecie prevista un po’ in tutti i paesi europei che non fa venir meno il divieto
interpositorio in senso generale ma semmai ne conferma la ragion d’essere al punto che lo
stesso legislatore per consentire l’esistenza di questo schema deve introdurre una disciplina
ad ok, se non la introducesse non sarebbe possibile.
Questo perché è evidente che c’è aldilà della introduzione di uno schema negoziale di un atto, c’è
un principio radicato nel diritto del lavoro, cioè quello in base al quale il datore è un soggetto che
utilizza una prestazione lavorativa altrui. Il datore è un soggetto che utilizza una prestazione
lavorativa altrui, se questo è vero, ogni volta che la utilizza deve assumersi ogni conseguenza dal
punto di vista della responsabilità. Non può pretendere si essere tenuto fuori, poiché non è possibile
utilizzare una prestazione lavorativa in modo irresponsabile. Anche nei paesi meno avanzati è ormai
un principio radicato.
C’è anche la questione del cd DISTACCO: fattispecie che trova la sua disciplina nella legge, art 30
dlgs 276/2003 si ha distacco quando un datore di lavoro per soddisfare un proprio interesse pone
temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una
determinata attività lavorativa. Pone a disposizione un proprio dipendente: deve essere temporaneo
ma soprattutto ci deve essere un interesse del datore di lavoro a soddisfare questa ipotesi.
L’interesse del distaccante (colui che mette a disposizione il soggetto presso il distaccatario) deve
essere presente, deve essere un interesse giuridico per poter svolgere questa azione. Se l’interesse
non c’è il distacco è illecito.

31
Il distacco vede la presenza di un INTERESSE LECITO quando ad es: il datore di lavoro dice di
mandare il suo dipendente presso un’altra impresa affinché apprenda un certo tipo di tecnica
lavorativa che lui non ha nella sua organizzazione. In questo modo quando torna può cominciare ad
utilizzare la nuova tecnica lavorativa. Obiettivo: far crescere professionalmente il dipendente.
Bisogna considerare la situazione ad esempio, impresa automobilistica manda ingegnere in un'altra
impresa per imparare una nuova tecnica. Ma quale impresa sarebbe disponibile a una cosa del
genere, a mettere a disposizione tecniche ad un’altra impresa che poi potrebbe quindi fargli
concorrenza.
Questa tecnica si svilupperà preferibilmente tra imprese che magari fanno parte di uno stesso
gruppo societario, di un’associazione, di un qualcosa che consente questo tipo di operazioni. Il
giudice va a valutare questo. Si torna altrimenti alla somministrazione irregolare, sfruttando tale
tecnica.
Se c’è una non temporaneità del distacco, quindi a tempo INDETERMINATO, ugualmente ci può
essere l’illiceità. La temporaneità viene valutato in modo elastico, può anche durare anni,
l’importante è che sia verificabile perché dura 3 anni. Realisticamente la formazione deve richiedere
3 anni, non 3 mesi, sennò c’è qualcosa che non torna. Durante il distacco il datore di lavoro rimane
responsabile del trattamento economico e normativo del lavoratore.
Se io distacco un dipendete presso un’altra società che quindi utilizza quella prestazione, quella
società riceve un vantaggio e non corrisponde alcun trattamento retributivo? Nella prassi accade
che: il distaccatario corrisponde una somma pari alla retribuzione al distaccante e il distaccante paga
il proprio dipendete. Io società A distacco il dipendente presso la società B: io pago il dipendente
perché sono il datore, ma B versa una somma pari alla retribuzione a A. E’ una partita di giro.
 Il distacco che comporti un mutamento di mansioni presuppone il consenso del lavoratore.
Con le stesse mansioni, non si ha bisogno del consenso, se il distacco comprende mansioni
diverse ci vuole.
 Quando il distacco comporti un trasferimento geografico superiore a 50 km il distacco può
avvenire solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Lezione 04/03/20

ARGOMENTO: TRASFERIMENTO DI AZIENDA


Quando si parla di questo è più importante comprendere cosa è l’azienda prima di tutto. L’azienda,
secondo la definizione prevista dall’art 2555 cc, è il complesso dei beni organizzati
dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa.
C’è quindi una strumentalità dell’azienda: l’azienda è uno strumento attraverso il quale
l’imprenditore svolge la sua attività. L’azienda non è l’impresa, sono cose distinte almeno nella
tradizione giuridica italiana, c’è una strumentalità dell’azienda rispetto all’impresa. Bisogna
considerare che se uno afferma “l’azienda assume/licenzia il lavoratore” assume un errore, non può
essere l’azienda, ma l’IMPRESA. L’azienda è un complesso di beni, non è il datore di lavoro. Nel
linguaggio quotidiano si tende comunque ad utilizzare anche il termine azienda però tecnicamente è
sbagliato.
Tornando all’azienda e la sua definizione, è vera nella sua accezione tradizionale di azienda perché
in una accezione più avanzata potremmo dire che non è necessario che ci sia un complesso di beni
organizzati in senso materiale, in senso pesante-organizzativo. Nella nostra attuale situazione,
l’azienda può essere sia di tipo TRADIZIONALE (complesso di beni) o anche qualcosa di “MENO
PESANTE” dal punto di vista organizzativo. L’evoluzione tecnologica porta con sé anche il

32
mutamento di alcune categorie o di alcune rappresentazioni che abbiamo e quindi i concetti devono
mutare e adattarsi all’evoluzione.
Il punto di partenza è l’art 2112 del cc del 42’ tutt’ora vigente. La disposizione originaria che
parlava del trasferimento di azienda. Il punto di arrivo rimane il 2112 solo che non coinciderà con il
2112 di partenza poiché la norma è stata riscritta più volte dal legislatore.
Dal punto di vista lavoristico ci interessa il trasferimento di azienda per valutare l’impatto del
trasferimento sui rapporti di lavoro. Il 2112 del cc già nel suo testo originario prevedeva che in caso
di trasferimento di azienda il rapporto di lavoro continuasse con l’acquirente. Da questo punto di
vista non è cambiato, l’unica differenza è che invece di dire acquirente si fa riferimento al termine
di cessionario. Per il resto contiene la stessa formula.
Il codice ci sta dicendo che c’è la continuazione del rapporto di lavoro, che la vicenda del
trasferimento di azienda non comporta degli effetti sul rapporto di lavoro. Il rapporto continua con
un diverso soggetto. Il soggetto A cede a B l’azienda, se si ha questo i rapporti di lavoro proseguono
con B, non c’è nessuna interruzione. Per il lavoratore la vicenda del trasferimento è irrilevante,
poiché non cambia nulla.
Il codice del 42 che è un codice che ha fatto delle scelte di tipo liberista per tanti aspetti, per altri
aspetti è un codice che cerca di realizzare una qualche forma di protezione per il lavoratore. Con la
continuazione del rapporto si ha una finalità protettiva del lavoratore. Il cessionario che prende in
mano l’azienda non potrà licenziare i dipendenti. Garantire la continuazione del rapporto di lavoro
in un contesto nel quale il licenziamento è libero serve a poco.
Il licenziamento oggi ha delle limitazioni, il datore non può licenziare senza motivazione.
Nel 1942 il licenziamento era libero, non c’era bisogno di motivazioni. Quindi nel contesto del 42
affermando il principio di continuazione del rapporto non apporta benefici al lavoratore. Quando
verrà inserita la disciplina delle limitazioni ai licenziamenti si apprezzerà la forza del 2112, che
rileverà la sua straordinaria capacità di garantire continuazione quando emergerà la limitazione dei
licenziamenti.
Se consideriamo un rapporto di lavoro a tempi indeterminato. Se un lavoratore viene assunto a
tempo indeterminato questo lavoratore sa che il suo rapporto non ha una scadenza come i contratti a
termine. Si ha una prospettiva più lunga davanti, ma se è pox che il datore mi licenzi liberamente,
senza dare motivazioni e senza conseguenze sanzionatorie, non posso fare tutto questo affidamento
sul tempo indeterminato. Questa certezza si ha in seguito alle limitazioni al licenziamento.
Il 2112 parlando di continuazione dei rapporti ci fa comprendere l’elemento della esigenza di
protezione del lavoro, nasce per proteggere il lavoratore. Questo aspetto non è venuto meno mai,
sono cambiati altri profili del 2112. La nozione di AZIENDA che era scolpita nel vecchio 2112 era
una nozione troppo rigida, poco inclusiva. Una nozione circoscritta e questo elemento rendeva più
difficile l’applicazione del trasferimento. Se la nozione è ristretta non posso applicarla in tanti casi.
Accade che ci si accorge di questa nozione ristretta e nel frattempo viene alla luce una direttiva
comunitaria che si occupa di aziende e trasferimento di azienda. Si adotta una nozione più ampia
di trasferimento di azienda, nella visione del diritto comunitario l’azienda deve essere definita come
UN’ATTIVITÀ ECONOMICA ORGANIZZATA.
Si arriva a modificare l’art 2112 prevedendo che l’azienda sia una attività economica organizzata.
Dal punto di vista giuslavoristico c’è il trasferimento d’azienda quando c’è il mutamento nella
titolarità di una attività economica organizzata. ESEMPIO: secondo il 2112 testo originario e
secondo il 2555 cc, se viene ceduta una attività che è quella di un servizio di pulizie dei locali
(dipendenti e quel minimo di attrezzature che accompagnano l’attività), questa non è un’azienda.
Secondo la visione comunitaria e secondo la visione per cui l’azienda è un’attività economica
organizzata, questo è un trasferimento di azienda. Dire attività economica organizzata ci consente di
ampliare il raggio di azione del trasferimento di azienda.
Ampliando la nozione di azienda si amplia la sfera di protezione nei confronti del lavoratore. La
questione è ormai superata, però possiamo dire che nella visione comunitaria dell’azienda e del suo
trasferimento è indifferente lo strumento tecnico giuridico che si adotta per realizzare la cessione
33
dell’azienda. Potrebbe essere un contratto, un qualsiasi altro atto negoziale o per effetto di un
provvedimento amministrativo, non è rilevante lo strumento utilizzato. L’importante è che l’azienda
circoli da un soggetto ad un altro, se questo avviene bisogna proteggere il lavoratore.
Nell’impostazione tradizionale del nostro ordinamento si prevedevano invece restrizioni importanti.
L’altra questione che viene affrontata nel corso dei decenni riguarda l’esigenza che vi sia una
INFORMAZIONE E CONSULTAZIONE SINDACALE nel caso del trasferimento di azienda.
Si prevede che quando il trasferimento di azienda riguardi un datore di lavoro che ha + di 15
dipendenti, si deve applicare questa procedura. (a lavoro I si è trattato nel comportamento
antisindacale: se il datore non fa sì che il sindacato possa esercitare i suoi diritti di informazione e
consultazione c’è una condotta ANTISINDACALE) la legge lo prevede espressamente.
Quando parliamo del trasferimento di azienda dobbiamo dire che c’è anche una espressa previsione
secondo cui il CEDENTE e il CESSIONARIO sono responsabili in solido per i crediti che il
lavoratore aveva al momento del trasferimento. L’altra domanda che dobbiamo porci è se quando i
rapporti proseguono con il cessionario quale è il contratto collettivo che si applica a quei rapporti:
la risposta è nel 2112 che al terzo comma indica come si risolve la questione se il cessionario
applica un contratto collettivo a quei rapporti si applicherà quel contratto. Nell’ipotesi, rara, in cui il
cessionario non applica nessun contratto collettivo, si continuerà ad applicare quello del cedente
fino alla scadenza, poi si dovrà valutare quale contratto applicare.
Questo può voler dire che forse in una vicenda, come quella del trasferimento di azienda, è vero che
il rapporto prosegue con il cessionario, quindi il lavoratore non perde il lavoro, è vero che c’è una
responsabilità solidale ma la circostanza che si applichi il contratto collettivo del cessionario
potrebbe comportare una diversa disciplina applicabile al rapporto in termini di minori o maggiori
protezioni. Questo potrebbe portare a ritenere che alcune vicende legate al trasferimento di azienda
potrebbero essere forse messe in pratica dal datore di lavoro per ottenere una riduzione del costo del
lavoro.
Oltre al trasferimento di azienda dobbiamo considerare il TRASFERIMENTO DEL RAMO DI
AZIENDA: l’art 2112 definisce la cd ARTICOLAZIONE FUNZIONALMENTE AUTONOMA
il ramo di azienda è proprio un’articolazione funzionalmente autonoma. Con il concetto di intende
una parte dell’azienda che è in grado di funzionare senza tutto il resto dell’azienda. Quindi abbiamo
un trasferimento di un ramo di azienda tutte le volte in cui una parte dell’azienda che viene
trasferita è in grado di funzionare da sola. Per questo è FUNZIONALMENTE AUTONOMA.
Se questa parte dell’azienda non funziona senza tutto il resto allora non avremo un ramo di azienda.
La differenza è che se non c’è un ramo di azienda il lavoratore può dire io non passo di là, il
rapporto non prosegue con il nuovo soggetto. L’affermazione del lavoratore, se è vera la sua analisi,
ha delle conseguenze. Se non è articolazione autonoma il rapporto del lavoratore può continuare
con il nuovo soggetto solo se c’è il consenso del lavoratore, 1406 cc. (cessione del contratto).
La cessione del contratto da intendersi in modo generale dove c’è anche la speces della cessione del
contratto di lavoro. La cessione del contratto di lavoro è possibile solo con il consenso del
contraente ceduto. Il datore di lavoro di A può cedere il contratto di lavoro al datore B con il
consenso del lavoratore. se il lavoratore non presta il suo consenso la cessione è nulla e il rapporto
rimane in capo al primo datore di lavoro. Quindi se si parla del 1406 ci vuole il consenso del
lavoratore, se c’è un trasferimento di ramo di azienda non è rilevante il consenso del lavoratore.
Quando parliamo di trasferimento di azienda non è rilevante il pensiero del lavoratore, il rapporto
non subisce modificazioni e poiché continua si è sempre ritenuto che il consenso del lavoratore non
fosse rilevante.
A cede a B l’azienda, se c’è una procedura di informazione e consultazione sindacale si saprà, ma
se siamo sotto i 15 dipendenti, il lavoratore potrebbe rendersi conto del trasferimento di azienda
solo dalla busta paga. In linea di stretto diritto né il cedente né il cessionario devono informare.
Nessuno ovviamente lo fa, il cedente per lealtà nei rapporti contrattuali, comunque non c’è scritto
da nessuna parte. Se c’è trasferimento d’azienda o di ramo di azienda è irrilevante che vi sia il

34
consenso del lavoratore. Se invece parliamo della cessione di un contratto di lavoro è necessario il
consenso del lavoratore.
TRASFERIMENTO DI RAMO DI AZIENDA: occorre che quindi vi sia una organizzazione
autonoma e dunque che la parta di “un tutto” sia in grado di funzionare senza “il tutto”.
ES: impresa di metalmeccanici che produce laminati in acciaio che ha 2000 dipendenti ha una serie
di reparti e uffici e ha anche il servizio di contabilità aziendale. Questo ufficio ha 100 impiegati, ha
una sua organizzazione, beni strumentali (computer…), il datore decide di trasferire questo ramo di
azienda cedendolo ad un’altra azienda. L’ufficio di contabilità è in grado di funzionare senza il
resto? In questo caso potrebbe venire qualche dubbio, in alcuni casi potrebbe essere un’operazione
che regge, in altri casi no.
ES: dentro l’impresa metalmeccanica c’è un meccanismo di trasporto delle merci che serve a far sì
che i nostri prodotti, di questa impresa, siano distribuiti nel territorio. C’è un insieme di dipendenti
che hanno le mansioni di autotrasportatori, una serie di mezzi di trasporto, ci sarà un ufficio che si
occupa di organizzare le spedizioni. C’è in questo caso una maggiore autonomia. Si può trasferire il
servizio di trasporto.
Se pensiamo all’ultimo esempio, potremmo chiederci chi poi dopo pensa al servizio di trasporto:
per quale motivo un’impresa che produce laminati d’acciaio decide di non avere più il ramo del
trasporto? Come fa? Ci sono diverse questioni:
- Probabilmente il soggetto vuole cedere l’attività perché vuole risparmiare cede il ramo e
quindi poi rivolgersi ad altri soggetti che gli offrono il servizio di trasporti.
Può accadere che ho un sistema di trasporto che mi costa 10 000 000 di euro, c’è un acquirente
disposto a comprarlo per 4 000 000 di euro. Se accetto, in base ai calcoli, se mi rivolgo a
un’impresa di trasporti spendo 4 000 000 l’anno. Alla fine, conviene.
Può anche accadere che ho un sistema di traporto che mi costa troppo, nessuno è interessato ad un
trasferimento, faccio un licenziamento collettivo e mi rivolgo ad una società esterna che mi offre il
servizio di trasporto.
Oppure l’imprenditore individua il ramo di azienda, cede il ramo ad un altro soggetto e stipula con
l’altro soggetto al quale ha appena ceduto il ramo un contratto di appalto, con il quale il cessionario
(che si è appena preso il ramo) offre al cedente il servizio di trasporto. I dipendenti del ramo
continueranno a fare la stessa cosa ma alle dipendenze di un soggetto diverso ma comunque
all’interno della stessa organizzazione. (l’autotrasportatore vedrà un cambiamento nell’etichetta,
nella divisa, anche nella retribuzione che potrebbe essere più bassa). Ipotesi che produce una serie
di conseguenze sulla protezione accordata al lavoratore.

Lezione 09/03/20
Contratto di lavoro a tempo determinato
Stiamo parlando di una questione molto antica e importante nello studio del diritto del lavoro
perché questo deve molto al tema del contratto a tempo determinato per le conseguenze che ne
derivano.

Nella fase iniziale del diritto del lavoro si discuteva sulla utilità circa la distinzione tra contratto di
lavoro a tempo determinato e contratto a tempo indeterminato perché nella fase di origine del diritto
del lavoro in realtà l’idea che il contratto fosse a tempo determinato poteva sembrare quasi una
conquista, nel senso che sul finire dell’800 va finalmente realizzandosi la rivoluzione liberale che
porta al superamento dei c.d. vincoli feudali -> rappresentazione dei rapporti giuridici che possono
fondarsi anche sul vincolo perpetuo (tra i due soggetti si istaura un vincolo che non ha mai fine).
Questo elemento indicava una visione della vita e dei rapporti sociali ed economici fortemente
cristallizzata. Nella fase preliminare rispetto alla nascita del diritto del lavoro si poteva dire che il
superamento dei limiti a tempo indeterminato rappresentasse un acquisto perché la libertà delle

35
persone trovava spazio nella circostanza in cui si potesse recedere da un contratto e non che quel
contratto dovesse legare eternamente due persone.
In questo senso, quando il codice civile del 1865 rimuove i vincoli perpetui fa fare un passo in
avanti alla storia della civiltà giuridica perché non essere asserviti eternamente a un altro soggetto
rappresenta una conquista della libertà.
Come si è evoluta questa libertà nel corso del tempo? L’idea del vincolo a tempo determinato oggi
non è espressione di libertà. Molto spesso è proprio la libertà indeterminata dalla durata circoscritta
del rapporto ad essere causa di forti difficoltà socioeconomiche del lavoratore perché significa
essere in una situazione di precarietà (c’è il rischio di non poter mai fare delle scelte, dei progetti
etc. etc.).
Il discorso del superamento del vincolo della indeterminabilità è un discorso che il diritto del lavoro
porta sempre con sé, che accompagna la storia del diritto del lavoro sin dalle sue origini perché se
da una parte il superamento del vincolo perpetuo rappresenta una conquista di libertà dall’altro
rappresenta un ostacolo rispetto alla realizzazione della persona.

Cosa accade nella riflessione giuslavorista anche remota?


Molto rapidamente verrà a consolidarsi la considerazione che attraverso un vincolo a tempo
indeterminato si può offrire al lavoratore un maggior livello di protezione. Il lavoratore che ha un
contratto a tempo indeterminato ha davanti a sé la possibilità di programmare meglio il proprio
futuro, ha una visione della vita meno dettata dalla particolarità.

Questa esigenza di fare ricorso al contratto a tempo indeterminato si avverte molto tra gli studiosi
del diritto del lavoro e nella fase iniziale si può dire che quasi viene dato per scontato che il vincolo
contrattuale corretto che non crea particolari problemi è un vincolo che va costituito con particolari
modalità. È evidente che se noi stabiliamo che un contratto di lavoro subordinato può essere
stipulato a tempo indeterminato o a tempo determinato dobbiamo anche stabilire una regola che ci
consenta di sanzionare l’uso illegittimo del ricorso al tempo determinato o indeterminato -> se
l’obiettivo dell’ordinamento è quello di far sì che il rapporto sia a tempo indeterminato,
l’ordinamento deve scoraggiare la stipulazione del contratto a tempo determinato e favorire la
stipulazione di quello determinato. In questo senso è intuitivo che l’ordinamento debba prevedere
delle regole che limitino il ricorso a tempo determinato (si può stipulare, ma non è possibile che la
sua stipulazione sia sempre possibile e ammessa).
La distinzione tra contratto a tempo indeterminato e determinato nella fase iniziale non era così
rilevante perché in un sistema economico di tipo tradizionale (sistema economico che va a crearsi
con la presenza di un modello produttivo che si afferma in quel momento e che comincia a dare
segni di sé, ma non è ancora evoluto) si poteva dare per scontato che la tendenza fosse verso il
contratto a tempo indeterminato. Tuttavia, molto rapidamente venne fuori la tendenza delle imprese
ad usare il contratto a tempo determinato in modo massiccio perché se ad un imprenditore si dava la
possibilità di scegliere di stipulare un contratto a tempi indeterminato o determinato senza che tra le
due scelte vi fossero delle particolari conseguenze, la conseguenza fu che inizialmente si faceva
grande ricorso al contratto a tempo determinato.
Il problema di fondo era che il legislatore italiano non aveva scoraggiato al massimo un uso
indiscriminato del contratto a termine, lo aveva fatto con l’art. 2097 del codice civile del ’42 che
prevedeva una remota, leggera conseguenza sanzionatoria per l’abuso del contratto a termine, ma
prevedeva questo profilo sanzionatorio in modo così variabile che non aveva alcuna funzione
deterrente nei confronti di quei datori di lavoro che ne abusavano.
Quella disposizione ha fatto quindi un pessimo servizio nella storia del contratto a termine perché
non lo ha incanalato nella giusta direzione, cioè quella di una possibilità per il datore di lavoro di
usare il contratto a termine, ma non in modo massiccio, non in una sorta di indifferenza regolativa
tra il contratto a tempo indeterminato e quello determinato. Quello che è accaduto è che
l’applicazione dell’art. 2097 c.c. del ’42 ha messo in evidenza un ricorso importante agli abusi: sul
36
finire degli anni ’50 fu nominata una commissione di inchiesta sull’utilizzazione del contratto a
termine e l’esito dei lavori mise in luce che grandi erano stati gli abusi che gli imprenditori avevano
messo in atto con i contratti a tempo indeterminato. Questa commissione dovette intervenire oc una
riforma che prevedesse delle conseguenze sanzionatorie per l’uso scorretto, abusivo del contratto a
tempo determinato.

Si arrivò alla l.n. 230/1962 -> legge che ha avuto un peso davvero significativo nella storia del
diritto del lavoro ed è una legge che viene concepita in un momento storico in cui è molto forte è
l’intervento del legislatore nella materia del diritto del lavoro con riforme importantissime (es. l.n.
1369/1960). La legge 230 fissa per la prima volta una regola importantissima: si stabilisce che il
contratto a tempo indeterminato è la regola generale e che il contratto a tempo determinato è
l’eccezione. Il contratto a termine, quindi, viene collocato nell’ottica dell’eccezione. La normalità è
che un contratto di lavoro si stipuli a tempo indeterminato. La legge prevedeva delle ipotesi, dei
capi specifici, delle situazioni che legittimavano la stipulazione del contratto a tempo determinato,
al di fuori di quei casi ben precisi la stipulazione era illegittima. La conseguenza della stipulazione
di un contratto a termine nelle ipotesi non preiste dalla legge è l’illegittimità e la trasformazione di
quel contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato. L’effetto sanzionatorio è
molto pesante perché ne deriva la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto (conseguenza
che scoraggia il ricorso al contratto a termine al di fuori dei casi previsti dalla legge).

Questo modello ha funzionato piuttosto bene fino ad un certo punto nella storia del diritto del lavoro
perché c’è un’evoluzione del diritto del lavoro, del tessuto sociale. L’evoluzione economica che
caratterizza l’Italia, ma non solo, si caratterizza per un modello economico che ha degli elementi
costanti: il modello economico si fonda sulla produzione in serie dei beni e servizi, si producono
nella convinzione che qualcuno acquisterà sempre quei beni e la parte di prodotto che per qualche
motivo non collocherò nel mercato la collocherò nei depositi e sono certo che l’anno successivo lo
metterò sul mercato. Questo modello produttivo è un modello produttivo di tipo seriale che si fonda
da un lato sulla convinzione la collocazione sul mercato sia sempre possibile e dall’altro dalla
convinzione che ove questo non sia possibile lo depositerò.
L’evoluzione del sistema economico che si coglie dagli anni ’80 stravolge queste due ferree
convinzioni: la prima convinzione, cioè quella di un mercato che non ha limiti perché riesce sempre
a collocare i prodotti, è una convinzione errata perché il modello capitalistico che aveva certe
caratteristiche ad un certo punto cambia completamente la sua impostazione nel senso che quel
modello conoscerà dal 1973 (crisi petrolifera) ci si accorge che il capitalismo ha dei cicli (c’è una
fase di crescita, ma ad un certo punto c’è un crollo del sistema e poi si riprende -> le c.d. curve di
crescita del sistema economico). Se questo è vero è inevitabile che questo non consenta una
produzione seriale e indefinita di beni perché non possono continuare a produrre confidando
ottimisticamente che il mercato sia in grado di assorbire tutto ciò che produco, ma devo limitare la
produzione. Non c’è una possibilità di rappresentare questo contesto come un contesto inamovibile
e immodificabile, ma è tutto l’opposto. L’imprenditore deve ingegnarsi e deve capire che non può
più continuare a produrre beni che depositerà perché l’economia non è un’eterna crescita, ma è fatta
di alti e bassi, quindi è evidente che in momenti di crisi il mercato sarà meno propenso ad assorbire
e recepire un certo tipo di prodotto per cui l’imprenditore non può produrre a vuoto.

L’altra grande questione riguarda l’obsolescenza del prodotto -> se fino ad un certo momento
storico l’obsolescenza era piuttosto lenta (es. si produceva un certo tipo di autovettura, ma prima
che quel tipo di autovettura diventasse obsoleta passava un certo periodo di tempo) da un certo
momento in poi l’obsolescenza del prodotto diventa molto corta. Da questo punto di vista, anche
questo elemento rende poco propenso l’imprenditore a fare ricorso ad una produzione seriale senza
limiti perché produrre un bene che nessuno tra un anno comprerà, in quanto superato da un altro
tipo di prodotto, porterebbe l’imprenditore al fallimento. Questo ragionamento è importante per
37
inquadrare il tema del contratto a tempo determinato perché se la produzione non ha bisogno di
interrompersi perché si può stoccare la merce dei magazzini e attendere che siano poi collocate, è
chiaro che l’imprenditore potrà assumere a tempo indeterminato e quindi assorbo l’utilizzazione di
quel lavoratore senza alcun problema; se, invece, la mia produzione va incontro a dei cicli e ci sono
dei momenti in cui produco di più e momenti in cui produco di meno l’imprenditore assumerà a
tempo determinato i dipendenti per un certo numero di mesi l’anno perché ad es. la produzione
subisce un’impennata nei mesi estivi. Succede che cambiando il modello economico accadde che
l’impresa avrà sempre bisogno di un numero di lavoratori a tempo indeterminato, ma per le
esigenze contingenze determinate da picchi di produzione in certe parti dell’anno farà ricorso al
contratto a tempo determinato. Questo comporta la difficoltà per il nostro imprenditore di poter
calcolare con precisione come organizzare la sua attività con riferimento alle assunzioni a tempo
determinato e si comincia ad avvertire, già alla fine degli anni ’70, una certa rigidità della l.n. 230.
È una legge che, concepita in un momento storico in cui le organizzazioni imprenditoriali si
caratterizzavano da un ricorso quasi assoluto al contratto a tempo determinato, rivela la sua
inadeguatezza per un contesto organizzativo nel quale il ricorso al contratto a termine diventa
sempre più importante. Quindi, la rigidità della legge 230 si contrappone alle esigenze di elasticità
delle pubbliche imprese. L’impresa ha bisogno di essere più elastica, di poter usare la forza lavoro
con un’elasticità dettata dalla situazione di mercato. L’esempio principale d questa esigenza di
flessibilità è proprio il contratto a tempo determinato. La legge 230 consente la stipulazione del
contratto a tempo determinato solo di fronte ad ipotesi tassative e alle imprese queste non bastano
più.
La storia va a finire che nel 1987 il legislatore con la l.n. 56/1987, in particolare con l’art. 23,
introduce una sorta di clausola di apertura del sistema, va a soddisfare un’esigenza di cui le imprese
si erano dette molto interessate a poterne beneficiare. Si prevede che sia consentita la stipulazione di
contratti a termine in ipotesi di contratti collettivi. Il legislatore prevede che i contratti collettivi
possano prevedere ulteriori ipotesi di contratto a termine rispetto a quelle previste dalla legge 231.
Questa è una riforma molto importante perché introduce uno spazio di flessibilità che prima non
c’era, ma demanda la gestione di questo spazio alle parti sociali. Flessibilità negoziata, che vede un
apporto decisivo dell’autonomia collettiva che è chiamata a fare una sintesi tra le esigenze
imprenditoriali e quelle di protezione dei lavoratori perché se non si stipula il contratto collettivo il
datore di lavoro non può accedere a questa collettività e il sindacato che si siede al tavolo negoziale
per stipulare il contratto che prevede ulteriori ipotesi di contratto a termine dice di no,
l’imprenditore non avrà la flessibilità del contratto a termine. Quindi, al sindacato verrà attribuito un
ruolo importantissimo, un ruolo di mediazione degli interessi, di negoziazione volta ad introdurre
una flessibilità mediata/controllata.
Quando arriviamo al 1987 arriviamo ad un punto importante perché questa riforma realizza un
compromesso molto interessante: da una parte rimane ferma la rigidità della l.n. 230/1962 e
dall’altra si mette in scena un quadro regolativo che attraverso la negoziazione sindacale è in grado
di aprire per l’impresa una situazione in cui si può gestire il contratto a tempo determinato con
maggiore flessibilità.

L’assetto regolativo del contratto a tempo trova un suo equilibrio che sembra non soffrire di
particolari problematicità; infatti, così sarà per almeno un decennio, poi è accaduto che il legislatore
ha deciso di tornare su questo tema: si comincia a discutere sull’esigenza di recepire la direttiva
comunitaria n. 70/1999, la quale si occupa del contratto a tempo determinato. Questa direttiva del
’99 fissa delle regole generali, individua dei principi e dei criteri ai quali deve ispirarsi la
legislazione. In Italia, quando viene approvata questa direttiva, nasce un dibattito circa l’esigenza o
meno di introdurre una riforma del contratto a tempo determinato.
Dobbiamo ricordare che quando c’è una nuova direttiva, gli stati membri devono fare una sorta di
prova interna per accertare se quella certa direttiva è o no recepita nel proprio stato. In questo caso

38
possiamo dire che la direttiva del ’99 enunciava dei principi e criteri direttivi che erano già recepiti
dall’ordinamento italiano. Quali erano questi principi e criteri direttivi?
- Se c’è o no un rapporto regola-eccezione. La direttiva comunitaria affermava espressamente
che gli stati membri devono avere una disciplina interna nella quale c’è un rapporto regola
(c. a tempo indeterminato) – eccezione (c. a tempo determinato). L’ordinamento italiano
rispettava questo principio.
- L’ordinamento interno deve avere una disciplina in cui in caso di abusi del contratto a
termine vi sia una risposta sanzionatoria. L’ordinamento italiano rispettava questo principio.

A ben vedere, secondo l’opinione di molti giuristi, l’Italia non doveva modificare la propria
disciplina del contratto a termine dopo la direttiva del ’99 perché già osservava con la propria
disciplina interna i principi e criteri direttivi previsti dalla direttiva stessa.

Nel 2001 il legislatore italiano decide di recepire la direttiva comunitaria nonostante la circostanza
che di fatto quella direttiva fosse già recepita e decide di elaborare una riforma che sarà introdotta
con il d.lgs. 368/2001, il quale va ad innovare la disciplina del contratto a tempo indeterminato.
Che cosa introduce questo decreto? Introduce una disciplina piuttosto strana perché intento la
premessa di questo ragionamento del legislatore del 2001 è che vi sia l’esigenza di liberalizzare il
contratto a tempo determinato per effetto della direttiva comunitaria; secondo gli autori del decreto
legislativo del 2001 c’è l’esigenza di modificare la disciplina italiana perché la direttiva comunitaria
impone un maggior livello di flessibilità. Questa affermazione in realtà non è corrispondente al
vero, non è vero che la direttiva comunitaria prevede una maggiore elasticità del contratto a
termine, questa intende fissare dei principi e tra questi non c’è la maggiore flessibilità.
Al tempo stesso quello che prevede il legislatore è un bel pasticcio perché il legislatore del 2001
abroga la l.n. 230/1962 e quindi elimina il sistema delle situazioni tassative e introduce un sistema
diverso fondato sulle c.d. clausole generali -> la stipulazione del contratto a termine è possibile di
fronte ad esigenze tecniche, organizzative, produttive nonché sostitutive.
Il punto però è che, visto che questa è una formula molto ambigua che lascia lo spazio a
interpretazioni molto diverse, soprattutto è una formula che lascia un elemento di incertezza sulla
sua interpretazione, un elemento che a ben vedere sarà la causa di grandi difficoltà sul piano
dell’interpretazione di questa disciplina e di incertezza pe gli stessi imprenditori.

Lezione 10/03/20
Il decreto 368 annuncia una riforma che si ritiene necessaria per l’attuazione della normativa
comunitaria ma in realtà a ben vedere la riforma del 2001 non era affatto necessario perché il nostro
ordinamento già conteneva i principi e i criteri direttivi emanati e sanciti dalla direttiva 70 del 99.
Ecco che possiamo dire che il decreto 368 nasce con una forte carica di ambiguità, poiché non vi
era l’esigenza. Quindi quale è l’esito di questo percorso riformatorio? L’attuazione della direttiva
non si dimostra necessaria attraverso il decreto e questo modello offre degli elementi di grande
incertezza. Questo perché il decreto 368 contiene una carica di ambiguità volendo da un lato
liberalizzare il contratto a termine e dall’altro lato non poter attuare ciò.
La direttiva contiene dei vincoli per il legislatore italiano, non può introdurre una disciplina
peggiorativa rispetto a quella precedente abbassando il livello di protezione del lavoro previsto in
uno degli stati membri e questo tipo di soluzione lascia molto a desiderare. Il decreto prevede una
formulazione ambigua, infatti si dice che “è consentita l’apposizione del termine ai contratti di
lavoro a fronti di ragioni tecniche, organizzative, produttive nonché sostitutive”.
Tali ragioni quali sarebbero, a cosa fa riferimento? Il problema è che stabilire il significato delle
clausole generali non è semplice. L’obiettivo nel 2001 era quello di liberalizzare il contratto a
termine, obiettivo che non si è realizzato poiché la liberalizzazione avrebbe presupposto una
soluzione diversa, orientata a rendere certi i confini tra contratto a termine e contratto a tempo
indeterminato. Invece la formulazione in questione, (ragioni tecniche organizzative…), apre a tutta
39
una serie di grandi problemi e difficoltà. L’affermazione potrebbe essere interpretata da un giudice
in un certo modo e da un altro giudice in un altro modo, poiché si tratta di clausole generali che
potrebbero avere un contenuto variabile. Utilizzando questa definizione ampia è accaduto che i
giudici interpretavano secondo le proprie idee.
Il tratto comune all’interpretazione del decreto del 2001 è stato di ritenere questo decreto non come
una ipotesi di liberalizzazione del contratto a termine. Quindi l’intenzione del legislatore è rimasta
un’intenzione non traducendosi in un testo normativo. Attraverso la formulazione non consentiva di
liberalizzare il contratto a termine. Dal 2001 al 2015 ciò che accade è che se da un lato il legislatore
ha annunciato una riforma liberalizzatrice, nella applicazione giurisprudenziale di fatto non ha
portato a nessuna liberalizzazione del contratto a termine. Al contrario i giudici del lavoro sono
arrivati a conclusioni opposte rispetto alle intenzioni del legislatore. Abbiamo assistito a una
situazione molto strana, il legislatore che annuncia una riforma all’insegna della liberalizzazione e
una giurisprudenza che giunge a interpretazioni completamente opposte.
Quello che accade, soprattutto nella fase inziale, è che molti imprenditori seguendo la chiave di
lettura proposta dal legislatore hanno iniziato a prevedere contratti a termine con l’idea che non
fossero sottoposti ad un controllo. Questi contratti poi sono arrivati nelle aule di giustizia ed è
accaduto che sono stati dichiarati illegittimi poiché non rispondono alla regola generale secondo cui
il contratto a termine è un’eccezione. Quindi la formulazione venne interpretata dai giudici come
ragioni temporanee. Letta in questa chiave veniva confermata la necessità di un rapporto
regola/eccezione e l’esigenza del datore di lavoro di provare l’eccezione. Se io imprenditore stipulo
un contratto a termine devo provare per quale ragione quel contratto rappresenta una eccezione.
Il contratto a termine da strumento di flessibilità diventa un terreno di scontro giurisprudenziale e
viene collocato al centro di una forte polemica in dottrina. È la giurisprudenza che riesce a
trasmettere forza alla disciplina che possiamo definire confusa.
Il momento storico è quindi molto delicato da esaminare poiché è inevitabile che se il legislatore fa
ricorso a una clausola generale, che questo apra spazi di discrezionalità al giudice. Quindi o il
legislatore decide di non far ricorso a clausole generali e quindi utilizzare la tecnica analitica (che
traccia i confini della fattispecie con dettaglio) e lo spazio discrezionale del giudice si restringe;
oppure il legislatore decide di fare ricorso alle clausole generali, con contenuti aperti. Il legislatore
che utilizza una clausola generale non può poi lamentarsi della discrezionalità del giudice
nell’applicazione e interpretazione della disposizione.
Non si può quindi andare a colpevolizzare la giurisprudenza delle interpretazioni date perché se il
legislatore avesse voluto ottenere un effetto meno frammentato nell’interpretazione avrebbe dovuto
fare ricorso ad una clausola analitica. Invece ha fatto ricorso a una clausola molto generale
provocando una forte incertezza giurisprudenziale.
Nel 2015 il legislatore interviene nuovamente sul tema del contratto a tempo determinato e lo fa con
il JOBS ACT (insieme di provvedimenti normativi che riguardano il tema del diritto del lavoro in
senso generale). Facciamo riferimento in questo caso al dlgs 81/2015 che ha riformato la disciplina
del contratto a termine con effetti profondi rivoluzionando la disciplina.
Il legislatore ha eliminato quella formula generale “ragioni tecniche, organizzative…”. Quella
formula è stata definita con il termine di CAUSALI (le ragioni). Nel 2015 è andato a eliminare le
causali e quindi ha previsto che il contratto a termine possa stipularsi senza dover indicare le
causali. Nella terminologia corrente la riforma del 2015 viene ricordata come la riforma che ha
introdotto il cd contratto a termine ACAUSALE (terminologia gergale). In questo modo il
legislatore è andato a compiere la liberalizzazione, si è consentito che la stipulazione del contratto a
termine possa avvenire senza che il datore di lavoro debba specificare le ragioni per le quali lo ha
stipulato.
Sostenere che il contratto a tempo determinato non deve avere una causa significa sostenere che c’è
una sorta di liberalizzazione del contratto a termine e quindi non si ha più il rapporto
regola/eccezione con il contratto a tempo indeterminato. Diventa indifferente per l’ordinamento che
le parti stipulino un contratto indeterminato o determinato. Quindi la riforma del 2015 realizza
40
veramente la liberalizzazione del contratto a termine. Negli anni successivi, fino al 2018, si
assisterà ad una crescita esponenziale del ricorso al contratto a tempo determinato.
Ci sono elementi che possono smentire il fatto che la riforma del 2015 realizza la liberalizzazione
del contratto a termine? Ci sono degli argomenti contrati, ma comunque deboli:
- Il legislatore del 2015, nel momento in cui elimina le cd causali introduce dei limiti alla pox
di ricorrere al contratto a termine: limiti quantitativi
1) Stabilisce che il contratto a termine non possa avere una durata complessiva superiore ai
36 mesi
2) Stabilisce che c’è un numero max di proroghe che possono essere stipulate con
riferimento al contratto a termine (numero pari a 5 proroghe)
3) Stabilisce un limite percentuale di assunzioni a termine, misura del 20%
Questi limiti, comunque deboli, vanno a bilanciare la liberalizzazione del contratto a termine.
Il limite dei 36 mesi comunque esisteva già prima, quindi si è confermato un limite già presente. Le
5 proroghe vengono aumentate, poiché prima era prevista una soltanto, quindi sono solo aumentate.
Anche per la percentuale non è che prima non esistesse il tema del limite percentuale, era confinato
in un sistema ristretto.
Il problema è che la riforma del 2015, è vero che ribadisce il limite dei 36 mesi, ma questo limite è
ballerino perché la formula utilizzata dal legislatore è “salva diversa previsione dei contratti
collettivi la durata max è pari a 36 mesi”. Ciò significa che attraverso il contratto collettivo il
legislatore può prevedere che le parti possono a loro volta prevedere una durata maggiore di 36
mesi. Quindi è vero che è un limite quantitativo ma è un limite derogabile da un accordo collettivo.
Lo stesso vale per i limiti percentuali, è vero che il legislatore fissa il 20% ma è altrettanto vero
che il legislatore afferma “salva diversa previsione dei contratti collettivi il limite è del 20%”.
Quindi emerge, che da un lato viene ad essere liberalizzato comunque con dei limiti, dall’altro che i
limiti potessero essere derogabili da modelli di contrattazione collettiva.
L’effetto finale di questa operazione è un effetto che ci pone davanti un contratto collettivo che
diventa estremamente flessibile, fortemente liberalizzato. Si può stipulare il contratto a termine in
casi molto più elevati. Ad esempio, è pox un contratto collettivo aziendale che possa elevare il
limite dal 20 al 60%. O che possa aumentare la durata max da 36 a 50 mesi.
Se è così i limiti numerici fissati dal legislatore sono piuttosto deboli e facilmente derogabili da un
contratto collettivo aziendale, nazionale o territoriale. Ragionamento che mette in evidenza una
tendenza del legislatore italiano a fare un ricorso eccessivo al contratto a termine che ha raggiunto
livelli impensabili. Questo però non è stato un bene, perché il ricorso eccessivo al contratto a
termine, ha certamente contribuito a creare delle sacche di precarietà.
Se un contratto a termine dura 36 mesi, ma poi può durare anche 54 mesi e le proroghe possono
essere 5 e all’interno di un’impresa ci possono essere 50 lavoratori su 100 che sono a tempo
determinato, avrei un modello di rapporti di lavoro che dalla cd flessibilità scivola facilmente verso
la precarietà. Prospettiva che svilisce la qualità della vita di un lavoratore che non può progettare un
suo futuro. Non è indifferente per il modello sociale/economico che si decide di adottare che tipo di
contratto a termine esiste in un ordinamento. Se in un paese c’è una disciplina estremamente
flessibile di contratto a termine è una scelta che ha delle ricadute sociali, in quella realtà la pox di
vivere serenamente sarà certamente resa più difficile.
La liberalizzazione del contratto a termine che avviene nel 2015 si ha in un contesto che tende
anche a travolgere pilastri della storia del diritto del lavoro che riguardano la tutela del lavoratore
contro il licenziamento attraverso una serie di riforme che si sono susseguite.
La fase di liberalizzazione del contratto a termine avrà una fine: la disciplina introdotta nel 2015
sarà infatti oggetto di una profonda rivisitazione nel 2018 con una riforma che viene ricordata con
la formula del cd DECRETO DIGNITA’  DL 87/2018 poi convertito nella legge 97/2018.
Il decreto-legge viene emanato dal governo rosso verde (lega-movimento cinque stelle). Importante

41
riforma del contratto a tempo determinato che si muove in una traiettoria ben diversa da quella
precedente (jobs act con governo Renzi). Si passa da un modello che realizza una sostanziale
liberalizzazione del contratto a termine ad un modello che invece fa fare un passo indietro al
processo di liberalizzazione. Il decreto dignità introduce una disciplina del contratto a termine che
capovolge l’impostazione precedente.
Cosa prevede il DECRETO DIGNITA’?
- Che il contratto a termine sia a-causale ma solo per i primi 12 mesi (quindi non occorre
indicare la ragione posta a base della stipulazione del contratto)
- Decorsi i 12 mesi il contratto deve avere una GIUSTIFICAZIONE che può essere per:
A) Esigenze temporanee e oggettive estranee all’ordinaria attività ovvero esigenze di
sostituzione di altri lavoratori;
B) esigenze connesse a incrementi temporanei significativi e non programmabili
dell’attività ordinaria.
La maggior parte dei commentatori hanno affermato che decorsi i 12 mesi, decorso il primo
contratto, non è più pox stipulare il contratto a termine o prorogare il contratto a termine
perché è altamente probabile che se quel contratto a termine viene sottoposto a una verifica
giudiziale il giudice dovrebbe concludere per la illegittimità del contratto a termine.
Le lettere A e B risultano essere inapplicabili poiché dimostrarle è molto difficile, le
esigenze sono difficili da dimostrare.
Quindi con il decreto dignità accade che superata la fase dei 12 mesi, del primo contratto a termine,
il datore di lavoro sarà poco propenso a stipulare un nuovo contratto a termine proprio perché la
probabilità che quel contratto sia ritenuto illegittimo dal giudice è elevatissima.
(Se viene fatto un contratto di 3 mesi ad esempio, sarà prorogabile fino a 12 mesi. Se dopo 3 mesi
viene fatto un nuovo contratto non potrà essere più un contratto a-causale.)

Lezione 11/03/20

Mansioni, qualifiche e categorie


Parliamo dell’oggetto della prestazione, di ciò che è dedotto nel contratto relativamente all’attività
lavorativa.
Quando parliamo di contratto di lavoro subordinato parliamo di un contratto che ha elementi di
particolarità: la definizione dell’attività lavorativa che il dipendente svolgerà non può avvenire una
volta per sempre nel momento della stipulazione del contratto perché il contratto ha la caratteristica
di essere eseguito costantemente nel tempo ed è difficile definire una volta per tutte tutte le attività
lavorative che il dipendente sarà chiamato a svolgere nel corso del contratto. Questo elemento
giuridico e fattuale ci induce a ritenere che nel contratto di lavoro il tema della definizione
dell’attività lavorativa deve essere affrontato con strumenti particolari.

Da questo punto di vista avremo una prima definizione alla quale possiamo fare riferimento ed è
quella di MANSIONI (non c’è una definizione giuridica) -> compiti che in concreto il lavoratore
è chiamato a svolgere.

Accanto alle mansioni usiamo molto spesso un altro termine: QUALIFICHE -> atti di
ricognizione formale delle attività concretamente svolte (quindi delle mansioni).
Es. un certo lavoratore ha le seguenti mansioni: rispondere al telefono, si occupa della
corrispondenza di un certo ufficio e si occupa anche della posta elettronica. Questa sono le sue 3
mansioni principali, quindi noi diremo che sulla base di queste mansioni questo lavoratore è un
impiegato che ha un certo tipo di inquadramento professionale.

42
Avremo un necessario elemento di relazione tra mansioni e qualifiche, nel senso che avremo
delle mansioni che hanno determinate caratteristiche e quindi che hanno un certo livello di
inquadramento professionale perché quando parliamo di qualifica parliamo poi del tipo di
inquadramento professionale.
Il problema di fondo è che ci deve essere un rapporto tra mansioni e qualifiche e quel rapporto
definisce la tutela della professionalità del lavoratore: per tutelare la professionalità del lavoratore
bisognerà indagare il rapporto che sussiste tra mansioni e qualifiche.
Es. un lavoratore si occupa della corrispondenza, della posta elettronica, della contabilità e gli viene
riconosciuto un certo inquadramento professionale, una certa qualifica. Il problema è che se ad un
certo punto decide di assegnare al lavoratore delle mansioni molto più modeste, molto meno
importanti di quelle di prima qui è evidente che un problema che riguarda la professionalità di quel
lavoratore si pone. Un lavoratore che fino a quel punto aveva svolto determinate mansioni ad un
cero punto viene chiamato a svolgere delle mansioni inferiori -> immaginiamo un impiegato
amministrativo che si occupa anche di questioni piuttosto importanti nel suo ufficio ad un certo
punto viene chiamato dal datore di lavoro che gli dice che dal giorno seguente si sarebbe dovuto
occupare della pulizia dello studio.
In questo esempio viene in luce una degradazione della professionalità del lavoratore, quindi è
chiaro che il diritto del lavoro si deve far carico di individuare una qualche regola che sia in grado
di proteggere la professionalità del lavoratore dalle tendenze del datore di lavoro ad utilizzare la
prestazione lavorativa con ampiezza e con un margine di discrezionalità piuttosto ampio.

Da un lato c’è la dinamicità dell’attività datoriale e dall’altra un’esigenza di protezione della


professionalità del lavoratore.

È come se ci fossero due cerchi ai quali poi si aggiunge un altro cerchio:


- Cerchio più piccolo -> mansioni
- Cerchio più grande -> qualifiche
- Cerchio ancora più grande -> categorie professionali

Le CATEGORIE PROFESSIONALI secondo l’art. 2095 c.c. sono 4:


1) Operai
2) Impiegati
3) Quadri
4) Dirigenti

“I prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai” -> in


realtà l’art. 2095 c.c. è una disposizione normativa che EVOCA le categorie, ma non le definisce,
non dice cosa è un impiegato, un operaio etc. etc., ma perché? Possiamo capirlo se pensiamo che
l’art. 2095 è entrato nel nostro ordinamento senza essere passato dalle porte strette del diritto
corporativo. Ma a noi interessa poco diffondere una serie di questioni che attengono all’evoluzione
del c.c. nella tratta delle fonti.
Cosa dobbiamo mettere a fuoco? Il fatto che il legislatore abbia evocato delle categorie che non ha
definito perché queste trovano la loro ragion d’essere nel tessuto sociale di riferimento, nell’ambito
delle relazioni contrattuali, nell’ambito, quindi, del diritto del lavoro per come sviluppa. Quelle del
2095 c.c. sono delle affermazioni che tuttavia non si traducono in una definizione.

Fortunatamente ci sono riferimenti normativi molto attivi che possono aiutarci a comprendere
quello di cui stiamo parlando.

Relativamente alla quadripartizione (operai, impiegati, quadri e dirigenti) possiamo sicuramente


dire che esprime una sorta gerarchia. Ogni organizzazione ha bisogno di una gerarchia
43
altrimenti si perde l’efficienza se non c’è una diramazione del potere dall’alto verso il basso.
Questo è comprovato da tutti gli studi che si occupano dell’organizzazioni produttive. Pensiamo ad
es. anche delle organizzazioni militari, queste senza un’organizzazione gerarchica non possono
funzionare perché se il sottoposto decide di violare gli ordini del superiore non è una questione di
principio, ma viene ad essere messa in discussione l’intera organizzazione. L’idea di una sorta di
organizzazione orizzontale in cui ciascuno è libero o meno di muoversi in una direzione o in
un’altra è utopica sul piano dello studio delle organizzazioni.
Siamo di fronte ad una gerarchia che può conoscere diverse tendenze, diverse modalità di
applicazione. La gerarchia è una cosa diversa dall’arbitrio, dall’abuso, dall’uso capriccioso e
volgare di un potere. La gerarchia presuppone una responsabilità, poteri, obblighi: tutti i soggetti
che operano in un’organizzazione hanno obblighi, diritti, responsabilità, competenze.

Partiamo da OPERAIO e IMPIEGATO -> si pongono alla base della scala gerarchica.
Come distinguerli l’uno dall’altro?
L’operaio è un lavoratore che svolge attività prevalentemente manuale, mentre l’impiegato
prevalentemente intellettuale.
Questa distinzione è attuale, è sostanzialmente condivisa. Attenzione però perché le sfumature che
la modernità ci pone sono moltissime perché se facciamo l’esempio di un operaio che sta in una
catena di produzione di una grande impresa automobilistica e che ha un elevato livello di
specializzazione al punto che maneggia un robot che esegue delle prestazioni legate alla produzione
di una certo frammento di una sezione di un’automobile, in questo tipo di attività possiamo cogliere
aspetti diversi perché c’è sì la manualità, ma si presuppongono anche delle condizioni intellettuali
di un certo tipo.
Se dico che c’è un impiegato che passa 6 ore della giornata a fare fotocopie per ordine del datore di
lavoro, rimane l’attività intellettuale, ma c’è anche e soprattutto quella manuale.
Questa distinzione per grandi linee persiste nella nostra epoca.

Accanto a questa distinzione ce ne era un’altra:


 Operaio -> colui che collabora nell’impresa;
 Impiegato -> colui che collabora all’impresa.

È una distinzione che intende rimarcare la circostanza che l’impiegato è prossimo alle finalità
perseguite dal proprio datore di lavoro. L’impiegato si sente parte dell’impresa e collabora per la
realizzazione degli obiettivi. Distinzione che porta con sé una forte carica retorica e storicamente
riproduceva una visione classista, quella secondo cui l’operaio è l’ultimo anello della catena e non
si interessa alle finalità dell’offesa. Questa distinzione non regge ed è quasi offensiva della
posizione dell’operaio perché anch’esso potrebbe sentirsi parte dell’impresa e credere fermamente
nel progetto che l’impresa intende realizzare.
Da questo punto di vista, nella visione originaria tra operaio e impiegato questa tendenza a separare
queste due categorie era molto forte e serviva anche a creare una sorte di frattura nel mondo del
lavoro (l’impiegato si sentiva più vicino all’imprenditore rispetto al resto degli operai -> si
intendeva creare una separazione e allentare le tendenze degli operai e degli impiegati a unirsi tra
loro e a rivendicare migliori condizioni di lavoro ad es.).

DIRIGENTE -> figura di vertice dell’organizzazione. Il dirigente è una figura che ha una
posizione elevatissima nell’organizzazione e non a caso nella visione tradizione del diritto del
lavoro il dirigente era ritenuto l’alter ego dell’imprenditore, dunque è come se fosse anche il
dirigente un imprenditore. È colui che realizza a tutti gli effetti un contributo decisivo nella
conduzione aziendale.
Questa figura apicale deve necessariamente avere regole diverse da quelle che invece caratterizzano
gli altri lavorati subordinati. C’è certamente un elemento che consente di spiegare tutte queste
44
differenze tra il dirigente e gli altri lavoratori: VINCOLO DI FIDUCIA che vincola il datore di
lavoro al dirigente. Sia chiaro che il vincolo di fiducia esiste in qualsiasi rapporto di lavoro
subordinato perché l’elemento fiduciario è il vero collante del rapporto di lavoro. L’elemento
fiduciario giustifica non solo il rapporto di lavoro, ma l’esistenza stessa di qualsiasi organizzazione
datoriale. L’impresa ha bisogno di gerarchia, ma soprattutto di fiducia tra le parti del rapporto. Il
datore di lavoro può esercitare il suo potere direttivo nelle forme più efficaci e più rigide che si
possano immaginare, ci può essere una scala gerarchica rigida, ma è inevitabile che se non c’è il
vincolo fiduciario il rapporto di lavoro subordinato non può funzionare.
Es. se io assumo un operaio che deve svolgere una serie di mansioni è chiaro che io per essere
sicuro esegua correttamente ogni attività che io ho detto di svolgere, in linea teorica dovrei metterci
accanto un’altra persona che segue un’altra persona. Così l’attività di impresa diventa
antieconomica.
La delicatezza dei compiti che il dirigente è chiamato a svolgere è tale da rendere questo vincolo
molto sensibile.
Es. un operaio muove una critica molto forte alla sua organizzazione aziendale (elemento
legittimo), ma anche il dirigente può muovere una critica al datore di lavoro, ma in questo caso
bisogna vedere come questo incide sul vincolo di fiducia perché se io datore di lavoro attribuisco al
dirigente le sorti dell’azienda, è evidente che il vincolo di fiducia è molto suscettibile, non deve
essere troppo sollecitato da entrambe le parti (mi fido del dirigente perché è il dirigente, non metto
in discussione quello che sta facendo perché gli ho messo in mano le sorti dell’impresa).

Questo giustifica una cosa, cioè che il dirigente non sia soggetto a vincoli di orario. Secondo la
legge non ci sono vincoli di orario per il rapporto di lavoro dirigenziale. Questo non significa che il
dirigente non possa avere un orario, molti contratti prevedono anche delle soluzioni che possono
individuare un orario nel rapporto di lavoro dirigenziale, ma questo non può comportare un
controllo sull’orario come con qualsiasi lavoratore subordinato e il livello di responsabilità che
grava sul dirigente ci consente di dire che la circostanza che il dirigente non abbia limiti di orario
non lo deve portare a stare fuori dall’impresa tutto il giorno perché tanto non ha vincoli di orario, è
esattamente l’opposto: non è necessario introdurre un vincolo di orario perché il rapporto fiduciario
p così forte che dobbiamo ritemere che il dirigente sarà presente secondo le esigenze che sono
necessarie in quell’organizzazione.
Se ad es. si sta ponendo una situazione molto importante nell’organizzazione aziendale in un certo
momento e il dirigente non c’è è evidente che il datore di lavoro ha riposto male la sua fiducia
perché è chiaro che non ha un vincolo di orario, ma essendo un dirigente deve sapere quando essere
presente.

L’altra grande questione è che chiaramente il dirigente, secondo la legge, non è soggetto ad alcuna
disciplina protettiva contro il licenziamento. Secondo la legge il licenziamento del dirigente è
libero. Esso può essere licenziato senza alcuna giustificazione perché il vincolo fiduciario è così
forte che la permanenza di un rapporto di lavoro in carenza di tale rapporto non è possibile. La
contrattazione collettiva prevede una tutela economica molto importante per il dirigente nel caso di
licenziamento ingiustificato (esso può agire in giudizio ed ottenere un risarcimento).
Bisogna anche dire nella legislazione più recente ha fatto capolino una piccola modifica legislativa
che ha incluso anche le figure dei dirigenti nel campo di applicazione della disciplina dei
licenziamenti collettivi.

Infine, il rapporto di lavoro del dirigente è regolato da uno specifico contratto di lavoro
collettivo. Se prendiamo il contratto collettivo dei metalmeccanici troveremo la disciplina degli
operai, impiegati e quadri, ma non troveremo la disciplina del dirigente perché esiste un contratto
collettivo dei dirigenti autonomo.

45
QUADRI -> si collocano in una posizione intermedia tra impiegati e dirigenti. I quadri vengono
fuori da un fenomeno sociale che poi si traduce in testo giuridico, cioè la c.d. marcia dei 40mila
(1980) -> siamo nel nord Italia alla fine di una lunga stagione di lotte sindacali che ha visto al
centro delle stesse la categoria degli operai. In questi anni il nostro paese non è ancora uscito del
tutto dalla stagione del terrorismo. In questo clima particolare ci sono degli impiegati delle grandi
imprese che svolgono funzioni molto elevate, dal punto di vista professionale e rivendicano il
riconoscimento di uno spazio autonomo rispetto alla categoria degli stessi impiegati, ma allo stesso
ritengono che la loro posizione non debba essere necessariamente equiparata a quella dei dirigenti.
Questa istanza che proviene dal mondo del lavoro e che trova il suo elemento simbolico nella
marcia del 40mila troverà il riconoscimento normativo nella l.n. 190/1985 che, appunto, introduce
la categoria dei quadri; parliamo dei quadri come impiegati che non sono dirigenti, ma nemmeno
impiegati, una categoria che sta al centro. Il quadro esercita delle funzioni di coordinamento che
gli impiegati non possono esercitare, ma al tempo stesso il quadro non esercita quel potere
dirigenziale tipico della categoria dei dirigenti.
Ha diritto ad una maggiorazione dal punto di vista retributivo.

Tutela della professionalità


È un qualcosa che serve a proteggere il lavoratore, metterlo a riparo, in modo che la sua carriera
lavorativa possa procedere secondo un riconoscimento dignitoso delle sue prerogative, dell’attività
svolta nel corso del tempo.

La disposizione regolatrice della tutela della professionalità è l’art. 2103 c.c. -> ha una lunga storia
perché contenuta giù nel c.c. del ’42 nel testo originario si occupava delle mansioni del lavoratore,
questa disposizione conoscerà un’importante riforma per effetto dell’art. 13 dello Statuto dei
lavoratori del 1970. La disposizione riformulata avrà una lunga vita, rimarrà in vigore fino al 2015
quando il Jobs Act. Non possiamo dire che la riforma del 2015 abbia completamente stravolto il
testo precedente, ma le modifiche che sono state apportate sono molto importanti sulle quasi ancora
oggi non abbiamo le idee del tutto chiare perché il testo della riforma del 2015 pone delle
incomprensioni.

Per quanto riguarda il testo originario (1942-1970) possiamo dire che realizza una qualche tutela
della professionalità, ma non è una tutela così marcata e forte come quella che si avrà con la riforma
del 1970. Nel testo originario si prevedeva una sorta di tutela che faceva riferimento al
riconoscimento della categoria (se sei impiegato, io datore di lavoro posso riconoscerti tutte le
mansioni purché io ti tenga dentro la cornice dell’impiegato).

Quello che accadde nel 1970 è stata una sorta di rivoluzione perché l’art. 2103 rimasto in vigore
fino al 2015 prevedeva che il lavoratore può essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto o
alle mansioni superiore che abbia successivamente acquisito e non può mai essere assegnato a
mansioni inferiori. Il lavoratore ha diritto ad essere assegnato a mansioni EQUIVALENTI alle
ultime effettivamente svolte -> formula chiave che ci sta a dire che c’è un rapporto di equivalenza
tra mansioni e qualifiche. Il lavoratore svolge determinate mansioni e proprio perché svolge
quelle mansioni gli deve essere riconosciuta una certa qualifica; se gli viene riconosciuta
quella qualifica il datore di lavoro non potrà mai chiedere o imporre al lavoratore di fare un
passo indietro. È nulla l’assegnazione del lavoratore ad una mansione inferiore.

Questi elementi sono decisivi nella tutela della professionalità perché viene fissata la tutela della
professionalità come TUTELA DEL PATRIMONIO PROFESSIONALE ACQUISITO, del c.d.
bagaglio professionale del lavoratore. Il datore di lavoro acquiesce un bagaglio professionale nel
corso del tempo, il datore di lavoro non può toglierglielo.

46
Se il lavoratore che formalmente è inquadrato nel primo livello comincia a svolgere per un certo
periodo di tempo (3 mesi) mansioni superiori a quelle che sono proprie del livello riconosciutegli
formalmente ha diritto al riconoscimento dell’inquadramento superiore (la c.d. PROMOZIONE
AUTOMATICA).
C’è un’eccezione però al riconoscimento dell’inquadramento superiore: secondo il vecchio testo del
2103 c.c., nel caso in cui il lavoratore abbia svolto mansioni superiori per sostituire un
lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto allora in questo caso il lavoratore
non avrà diritto all’inquadramento.
Nel corso del tempo il 2103 c.c. ha conosciuto un’evoluzione, non è rimasto sempre uguale a sé
stesso perché è evidente che la vecchia formulazione conteneva elementi di particolare rigidità e
quindi la giurisprudenza, a testo invariato, ha smussato alcune rigidità del testo precedente.

Quando parliamo di categorie, di livelli e di mansioni dobbiamo sapere che è centrale


nell’individuazione in concreto delle categorie e come queste funzionano in una dinamica specifica
andare a vedere cosa è previsto dalla contrattazione collettiva perché è quella che spiega i livelli di
inquadramento, delle qualifiche. Se vogliamo capire se un impiegato è di primo, secondo, terzo,
quarto etc. etc. livello dovremmo andare a vedere il contratto collettivo che si applica a quel
rapporto. Questo è del tutto naturale perché il contratto collettivo rappresenta l’incontro tra la
domanda e l’offerta di lavoro perché quando si va a stipulare un contratto collettivo non si parla
solo di retribuzione, ma ad es. si parla della retribuzione connessa al livello di inquadramento.

L’altra grande questione è che nel corso degli anni c’è stata una tendenza ad individuare spazi che
rendessero più flessibile il 2103 c.c. nel senso che in casi particolari consentire anche il
demansionamento del lavoratore. Dal ’70 al 2015 gli spazi per individuare ipotesi per individuare il
demansionamento del lavoratore sono stati coltivati sia dal legislatore (ha previsto delle espresse
ipotesi di deroga al 2103 c.c.) che dalla giurisprudenza.

Lezione 16/03/20
Lezione scorsa: Articolo 2103 del c.c.  disposizione che ha subito una riforma importante nel
1970 ad opera dello statuto dei lavoratori ed è rimasta in funzione fino al 2015. Questa disposizione
era portatrice di una inderogabilità della regola del divieto di assegnazione a mansione inferiori.
Quindi la regola dell’articolo 2103 prima della riforma del 2015 era la regola dell’equivalenza
professionale: il lavoratore ha diritto ad essere assegnato alle mansioni per le quali è stato assunto o
a mansioni equivalenti o superiori (con relativo inquadramento). Quindi c’era il divieto di
assegnazioni a mansioni inferiori. C’erano però delle deroghe espressamente previste dalla legge e
deroghe frutto dell’interpretazione giurisprudenziale.
Deroghe più importanti espressamente previste di assegnare mansioni inferiori al lavoratore:
 Licenziamenti collettivi: Se nel corso di una procedura di licenziamento collettivo si
raggiunge un accordo sindacale in base al quale il datore di lavoro licenzierà un numero
inferiore rispetto alle originarie previsioni, in questo quadro sarà possibile il
demansionamento dei lavoratori che non vengono licenziato. C’è una riduzione del
trattamento retributivo.
 Disciplina della maternità: si prevede che la lavoratrice in stato di maternità non può
svolgere delle mansioni che possono compromettere il regolare svolgimento della maternità,
quindi il datore di lavoro ha l’obbligo di far svolgere delle mansioni diverse ed è possibile
che siano anche mansioni inferiori. NON c’è una riduzione del trattamento retributivo.
 Lavoratore disabile: che quindi non può svolgere alcune mansioni in relazione alle sue
disabilità, può essere assegnato a mansioni anche inferiori con salvaguardia del trattamento
retributivo.
47
 Sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni: Il lavoratore assunto per svolgere
determinate mansioni e, per effetto di una sopravvenuta patologia o di un problema di salute,
perde in tutto o in parte le capacità lavorative che aveva in precedenza. In questo caso che il
datore di lavoro deve attivare un circuito, previsto dalla disciplina della sicurezza del lavoro,
e far verificare al medico competente se il lavoratore ha o no una ridotta capacità lavorativa.
Se il medico competente attesta la ridotta capacità lavorativa il datore di lavoro deve tentare
di individuare una diversa collocazione per quel dipendente, eventualmente anche inferiori.
Se non è possibile individuare mansioni alternative, anche inferiori, rimane solo la
possibilità del licenziamento del lavoratore.

Caso NON espressamente previsto dalla legge:


 Il datore di lavoro di un’impresa deve prendere atto che il posto di lavoro ricoperto da un
dipendente è un posto di lavoro che si rileva totalmente inutile, perché per es. per effetto di
uno sviluppo tecnologico (Es: Dipendente che si occupava di raccogliere i vari fax che
proveniva dalle varie sedi aziendali e gli archiviava e girava a chi di competenza. Con
l’innovazione tecnologica la società non ha più bisogno dei fax grazie alle e-mail. A questo
punto la funzione di questo impiegato si rileva totalmente inutile).
Il datore di lavoro in questo caso può licenziare il dipendente. Ma nella giurisprudenza si è
consolidata l’idea che il licenziamento per giustificato motivo debba essere preceduto da
un’attività di verifica da parte del datore di lavoro sulla possibilità di assegnare a lavoratore
una diversa collocazione aziendale, con mansioni eventualmente anche inferiori. Il datore di
lavoro, quindi, deve provare che non era possibile collocare in mansione diverse, anche
inferiori, il lavoratore.
Questa soluzione però non sembrava in linea con l’art. 2103, perché questo art. non
consentiva al datore di lavoro di assegnare mansioni inferiori, se non ci fosse una legge che
consentisse espressamente una deroga (come abbiamo visto prima). Quindi questa
giurisprudenza che consentiva, come unica alternativa al licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, di assegnare mansioni inferiori, era una giurisprudenza eversiva, che si
metteva in contrasto con l’art.2103? La risposta è che in questa sequenza in cui l’unica
alternativa al licenziamento è il demansionamento del lavoratore, non si parla di una deroga
all’art. 2103, ma di una fattispecie diversa, ovvero della novazione. Nel senso che non c’è
una deroga ad un rapporto che rimane uguale a se stesso, ma c’è un’ipotesi di novazione del
rapporto.

Nel 2015 l’art. 2103 è stato oggetto di un interessamento normativo che non ha prodotto eccellenti
risultati (Opinione di Albi), con il jobs act con l’art 3. del decreto 81 del 2015, che riscrive
l’art.2103.
Cosa ha comportato? Ha comportato una soluzione che sembra incrementare il livello di
discrezionalità attribuito al datore di lavoro in misura importante rispetto al passato, amplia cioè lo
spazio di flessibilità del datore di lavoro.
Il comma 1 del nuovo 2103 è prima di tutto poco chiaro e sembra quasi dirci che dentro la categoria
legale è possibile variare le mansioni, ovvero che è possibile assegnare al lavoratore qualsiasi
mansione dentro la categoria legale. La formula non chiara apre alla discrezionalità interpretativa e
siamo di fronte ad una difficoltà di lettura e possibili scelte ambigui (“La chiarezza è l’onesta dello
studioso”).
La novità da segnalare è quella del comma 2: “in caso di modifica dell’assetto organizzativo
aziendale che incide sulla posizione del lavoratore lo stesso può essere assegnato a mansioni
appartenenti a livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria

48
legale”. Quindi introduce un’ipotesi di demansionamento unilaterale. Quali sono le 2 caratteristiche
da mettere in evidenza:
 Il demansionamento deve essere fatto per iscritto a pena di nullità.
 Il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento
retributivo in godimento. Quindi questa ipotesi non incide sul trattamento retributivo, fatta
eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della
precedente prestazione lavorativa. (Es. Lavoratore che fa il cassiere di banca, il cassiere
viene demansionato. I contratti collettivi prevedono l’indennità di maneggio denaro. Poiché
con il demansionamento non maneggia più il denaro, non prenderà più questa indennità).
Il nuovo art.2103 prevede che il mutamento di mansione è accompagnato, ove necessario,
dall’assolvimento dell’obbligo formativo, quindi c’è un obbligo formativo che grava sul datore di
lavoro. Però il legislatore aggiunge anche che il mancato adempimento di questo obbligo formativo
non determina la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni. Quindi è una situazione un
po’ ambigua.
Il 2103 prevede anche che il demansionamento possa avvenire per effetto di previsione di contratti
collettivi.
Quindi le ipotesi nuove del 2015 sono il demansionamento unilaterale o quello previsti nei contratti
collettivi. Ad oggi non c’è grande ricorso a queste due nuove modalità per il demansionamento.
Ipotesi nuova prevista dal sesto comma dell’art.2103 che sembra ricalcare l’ipotesi di novazione di
cui abbiamo parlato prima. Si tratta di una fattispecie che finisce per includere la vecchia
interpretazione giurisprudenziale di cui abbiamo parlato prima ma che sembra di contenuto più
ampio.
L’incipit del sesto comma fa riferimento alle conciliazioni in sede protetta (Accordo che non può
essere più impugnato dal lavoratore), quelle conciliazioni che si stipulano ai sensi dell’art. 2113 del
cc, nell’ambito delle quali il lavoratore rinuncia ad alcuni dei suoi diritti e lo fa con l’assistenza
sindacale oppure amministrativa oppure in presenza dei legali.
Il contenuto di questo accordo prevede che il lavoratore viene assegnato a mansioni inferiori, senza
limiti con riferimento alla categoria (ci si può muovere tra le categorie  Es. il dirigente può andare
a lavorare in magazzino). Il lavoratore subisce una conseguente riduzione del trattamento
retributivo. Quando è possibile questa fattispecie:
 Vi sia l’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione (Es. Dirigente che si
vede soppresso il suo posto di lavoro e gli viene proposto un demansionamento per
conservare il suo posto di lavoro) oppure
 L’interesse del lavoratore all’acquisizione di una diversa professionalità (Es. un quadro che
lavora nell’ufficio contabilità e si apre una prospettiva di andare a lavorare nell’ufficio
amministrativo, il problema è che arriverà nell’ufficio amministrativo avrà scarse
competenze, quindi, il datore di lavoro e il lavoratore si metteranno d’accordo per un
demansionamento con minori responsabilità nel nuovo ufficio con, si spera, maggiori
prospettive in futuro e con l’auspicio di tornare ad essere quadro gradualmente) oppure
 L’interesse del lavoratore al miglioramento della condizione di vita (Es. Ingegnere che
svolge funzioni molte complesse e ha dei ritmi lavorativi molto serrati, il lavoratore si mette
d’accordo con il datore per essere assegnato a mansioni anche meno importanti ma con ritmi
meno pesanti, con un demansionamento).
Trasferimento del lavoratore: in senso geografico, da una sede ad un’altra (Sempre art. 2103) Il
lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate
ragioni tecniche, organizzative e produttive. Quindi il datore di lavoro deve motivare questo
spostamento. Siamo di fronte ad un potere unilaterale del datore, che è quello di variare il luogo di

49
prestazione, non c’è il consenso del lavoratore (ius variandi loci). (Es. Occorre che nella sede di
destinazione vi sia una carenza di organico).
Il 2103 non si occupa della forma di trasferimento o di un eventuale preavviso, per questo si occupa
la contrattazione collettiva, ad esempio, prevedendo che il trasferimento va comunicato per iscritto
e che sia dato un preavviso. La contrattazione collettiva si fa quasi sempre carico di prevedere
un’indennità di trasferimento, almeno per un certo periodo.
Vi sono alcuni contratti collettivi che prevedono, introducendo una disciplina di miglior favore
rispetto a quella legale, che se il trasferimento riguarda un lavoratore che ha raggiunto un certo
limite di età occorra il consenso del lavoratore (in questo caso non è unilaterale), esempio che si
trova nei contratti collettivi dei ferrovieri e dei bancari.

L’art. 2103 prevede un potere di variare il contenuto della prestazione con riferimento alle mansioni
o al luogo di lavoro.
L’ultimo comma dice che, salvo che ricorrano le condizioni al secondo e al quarto comma e fermo
quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo, quindi vuol dire se si deroga l’art.
2103 al livello di accordo individuale c’è nullità del patto contrario, a meno che non si tratti di un
demansionamento unilaterale che abbiamo visto essere ammesso, oppure che si tratti di
demansionamento previsto da contratto collettivo (Quarto comma), oppure che si tratti di un
accordo previsto al sesto comma (interesse del lavoratore).

Lezione 17/03/20

ARGOMENTOORARIO DI LAVORO: argomento di importanza dal punto di vista del diritto


del lavoro. Facciamo riferimento ad uno dei temi originari della materia. Quando parliamo del
diritto del lavoro nella sua fase originaria un delle questioni, oltre al trattamento retributivo, era
quello dell’orario. Quali erano e quali sono oggi i limiti all’orario di lavoro del dipendente. A
differenza del tema della retribuzione, nel caso dell’orario oltre all’esigenza di protezione c’è anche
un’esigenza di protezione della salute del lavoratore. Un orario eccessivo è in grado di incidere
negativamente sulla persona. Non solo un orario eccessivo è tale da compromettere l’equilibrio
psicofisico della persona ma è anche tale da annullare la sfera sociale della persona. L’idea che
l’orario non abbia limitazioni non può essere accettata, anche perché andrebbe a incidere nella
costruzione della società.
Nella fase di avvento della rivoluzione industriale è inevitabile che, così come mancano regole in
qualsiasi altro ambito, manchino regole sul tema dell’orario. La mancanza di regole in tema di
orario porta necessariamente ad una espansione del potere del datore di lavoro di incidere su quale
dovrà essere l’orario max. Quale è l’orario lo decide il datore essendo la parte forte del rapporto.
Siamo in un momento in cui non si ha nemmeno una disciplina limitativa ai licenziamenti, per cui il
lavoratore può essere licenziato senza che da ciò derivi conseguenza.
Quindi in questo periodo una mancanza di regole sull’orario di lavoro aveva come conseguenze una
incontrollabile dilatazione dell’orario.
La riduzione dell’orario giornaliero e settimanale è stata una delle prime rivendicazioni sindacali. I
sindacati hanno chiesto sin da subito un aumento del trattamento retributivo e una diminuzione
dell’orario di lavoro. Quando diciamo riduzione dell’orario facciamo riferimento alla riduzione a
parità di retribuzione. Il punto è che l’orario deve avere una disciplina legale, di questo si è sempre
discusso fin dalle origini. Le rivendicazioni sindacali su questo tema sono state sempre molto
importanti.
La prima importante limitazione dell’orario di lavoro è avvenuta con una legge del 1923: regio
decreto-legge. Siamo nella fase di un diritto del lavoro che assumerà molto presto la connotazione
di diritto fascista del lavoro. Si può dire che questo regio decreto viene elaborato da un legislatore
che ha già dentro di sé il virus totalitario del fascismo. Però questo passaggio storico è molto
importante: si tratta di una legge che pur avendo un’anima totalitaria che si accingeva a governare
50
l’Italia del totalitarismo, quel legislatore comunque realizzò un impianto regolativo dell’orario che
prevedeva importanti limitazioni in merito alla durata giornaliera e settimanale.
Prevedeva una durata max della giornata lavorativa di 8 ore e la durata max della settimana di 48
ore. Questo che ad oggi sembra scontato, a quel tempo fu una conquista: finalmente veniva previsto
a livello legale la durata dell’orario di lavoro. Anche uno stato autoritario quindi aveva interesse ad
incidere con elementi di protezione sociale del lavoro perché vi era l’esigenza anche di
salvaguardare i lavoratori da un eccessivo logoramento. È evidente che in questo modo il legislatore
spuntava una delle armi del sindacato, toglieva terreno alle rivendicazioni sindacali.
Il legislatore del 1923 giustificò questa sua scelta, facendo riferimento alla sanità della stirpe
italica. Impostazione che non era di certo compatibile con una visione democratica e liberale dello
stato. La legge del 1923 è rimasta in vigore in Italia fino al 2003, una delle leggi più longeve. Solo
un legislatore piuttosto improvvisato nel 2003 ha deciso di abrogare la legge. Ma la legge del 23’
passa indenne dalle riforme della costituzione della repubblica. Dopo la costituzione della
Repubblica ci si interroga sulla opportunità di abrogare la legge del 23’ ma nessuno è d’accordo.
L’ossatura della legge era una struttura solida e soprattutto espressiva di principi che riguardavano
la protezione del lavoratore che sono stati ritenuti evidentemente compatibili anche con i principi
costituzionali successivi.
Questo elemento quindi vediamo come va a inserirsi nel contesto normativo già nel 1923, l’orario
deve avere dei limiti. L’altro elemento è che qui sul tema dell’orario, si dice che è chiaro che c’è
uno spazio di negoziazione che può essere svolto dall’autonomia collettiva ma questo spazio non è
uno spazio illimitato, non possiamo attribuire all’autonomia collettiva uno spazio troppo ampio sul
tema dell’orario. Lo spazio c’è ma è uno spazio che non può mai toccare il tema del limite massimo
della durata. Non possiamo attribuire una capacità di sfondamento del limite max dell’orario. Idea
che emerge già dal regio decreto del 1923.
C’è già la convinzione che il tema dell’orario è un tema di ORDINE PUBBLICO. Non riguarda
solo la salute dei singoli lavoratori, ma la salute collettiva. Bisogna aggiungere che l’orario di
lavoro ordinato è possibile, sempre secondo il regio decreto del 23, un orario di lavoro straordinario,
una eccedenza. È pox andare oltre le 8 ore e 48 ore ma può avvenire solo in casi eccezionali e
andando ad individuare un limite massimo. Nel caso dello straordinario si affermava che si
potevano avere un max di 2 ore straordinarie al giorno e un max di 12 ore settimanali.
Si fissa la distribuzione dell’orario (8 e 48) e questa distinzione rimarrà vigente fino al 2003. Nel
frattempo, sul fronte della contrattazione collettiva, quello che accadrà è che i contratti collettivi
tenderanno ad abbassare la durata complessiva dell’orario complessivo fissato dalla legge. Quindi si
va a rinnovare un certo contratto collettivo che prevede nell’ambito dell’orario una durata della
settimana lavorativa di 46 ore. Se la durata legale è 48 si abbassa il livello con il contratto collettivo
a 46 e il livello potrebbe abbassarsi via via, in alcuni casi anche al di sotto di 40.
Quindi dalla metà degli anni 50 in poi i contratti collettivi progressivamente nel tempo ridurranno la
durata settimanale del lavoro. Andando quindi ad introdurre un trattamento di miglior favore per il
lavoratore. Possiamo dire che intorno alla metà degli anni 80/90 un po’ tutti i contratti collettivi si
assestano su una durata settimanale dell’orario pari a 40 ore.
Nell’Italia degli anni 80/90 c’è questa impostazione: la durata settimanale si aggira intorno alle 48
ore e in alcuni casi si assiste anche a una riduzione della durata max della giornata lavorativa. Si
prevede la durata della giornata più bassa alle 8 ore, ad es 7 ore e 40 minuti, 7 ore e 20 minuti o in
altri casi addirittura 7. Bisogna fare però anche un altro riferimento, l’art 36 della Cost prevede che
“la durata max della giornata lavorativa è prevista per legge”. Questa previsione è molto
importante: la costituzione fissa un principio di riserva di legge. Vuol dire che l’autonomia
collettiva non può intervenire in questo terreno della durata max, è solo il legislatore che può farlo.
Passaggio che vediamo combinante con il regio decreto del 1923 che fissa la durata max delle 8 h e
delle 48 h.
Agli inizi degli anni 90 c’è un consolidamento della nostra limitazione dell’orario, nel senso che la
contrattazione collettiva si assesta sulle 40 ore di medie, quindi significativa riduzione. Nel 1997
51
viene ad essere approvato un importante provvedimento di riforma, la legge 196/1997:
PACCHETTO TREU che si occupa di tante cose e anche di orario di lavoro.
Sull’orario di lavoro prevede che la durata max della settimana lavorativa sia portata da 48 ore a 40
ore, una riduzione della durata della settimana lavorativa. Viene lasciato fermo il limite delle 8 ore
giornaliere. Quindi il pacchetto TREU ha fatto coincidere un risultato che era andato consolidandosi
nel contesto della contrattazione collettiva, con la previsione legale, ha aggiornato la previsione
legale con il limite delle 40 ore. Il pacchetto Treu lascia ferma la durata della giornata lavorativa
che rimane quella di 8 ore.
Il pacchetto Treu si occupa anche di un’altra questione che è quella della cd
ANNUALIZZAZIONE DELL’ORARIO. L’orario di lavoro quindi può essere annualizzato e ciò
significa che, se si fa un accordo aziendale tra organizzazione sindacale e datore di lavoro sul piano
della flessibilità dell’orario di lavoro, è possibile che questo accordo possa prevedere la pox che nel
corso di un anno l’orario possa subire delle variazioni in aumento o in diminuzione purché la media
sia sempre quella delle 40 ore settimanali. Questo perché attraverso questa soluzione si ha un certo
spazio di manovra per il datore di lavoro che può dunque far leva su questo elemento per esigenze
di flessibilità. Ad esempio, se in un certo periodo dell’anno c’è un incremento il datore di lavoro
può utilizzare la prestazione lavorativa con una maggiore elasticità e in altri periodi dell’anno
quell’orario può andare in riduzione. (ad esempio, un periodo i dipendenti lavorano 42 ore e in un
altro periodo 38 ore, l’importante è che su base annuale vi sia una assoluta coerenza sulla media
delle 40 ore).
Questa soluzione ha un suo equilibrio nel senso che risponde ad una esigenza di flessibilità che
viene promossa dalle imprese che vogliono quindi una maggiore scioltezza di movimento nella
gestione dell’orario e al tempo stesso pone dei limiti ragionevoli.
Quindi nel 97 la soluzione è assolutamente equilibrata, in linea con la nostra esperienza storica. Il
legislatore del 97 ha preso atto della evoluzione sociale che ha portato l’autonomia collettiva ad
abbassare la durata a 40 ore, quindi ha recepito questo processo di riduzione dell’orario di lavoro.
Al tempo stesso hanno fatto capolino soluzioni dirette a dare una maggiore flessibilità al datore di
lavoro nella utilizzazione della prestazione oraria. Quadro nel quale non si pongono particolari
difficoltà di interpretazione e un quadro gestito con una certa coerenza dal nostro sistema di
relazioni industriali che accetta l’impostazione.
Accadrà che con il dlgs n 66/2003 si creerà il caos: decreto che abrogherà la legge del 1923 e
introdurrà una nuova disciplina dell’orario di lavoro che porrà una serie di delicati interrogativi.
Perché il legislatore del 2003 introduce una riforma dell’orario di lavoro? Perché nel 2003 decide
di dare attuazione a una direttiva comunitaria del 1993, direttiva n 104/1993. Il legislatore forse
macerato da un senso di colpa decide di dare attuazione ad una direttiva di 10 anni prima. Ben
venga l’attuazione ma l’attuazione delle direttive non è semplicemente un atto di recepimento
formale, ma lo stato membro deve prima di tutto verificare che i principi e criteri direttivi che sono
presenti nella direttiva, siano contenuti nel proprio ordinamento. Se sono presenti non c’è bisogno
di recepire e di fare nuovi decreti, se non sono presenti bisognerà conformarsi.
Le direttive in materia di politica sociale, (orario, trasferimento di azienda ecc…) vengono
emanate dall’U.E. per organizzare un quadro minimo di regole valevoli in tutti gli stati membri. In
materia di diritto del lavoro ormai da 20 anni le direttive vengono emanate soprattutto pensando ad
un contesto, quello dell’U.E, nella quale ci sono paesi di prima generazione, fondatori dell’U.E. nei
quali il livello di protezione del lavoro è particolarmente importante. Ma accanto a questi paesi vi
sono paesi che sono entrati più recentemente, in particolare quelli dell’est Europa, dove il livello di
protezione è generalmente più basso. Quindi la direttiva cerca di fare delle regole minime da
applicare a tutti gli stati dell’U.E.
Quando la direttiva fa questo non sta affatto dicendo ai paesi di antica tradizione di abbassare il
livello protettivo che già è presente, anzi non deve essere così. Si dice che i paesi membri non
devono abbassare in occasione del recepimento della direttiva, il livello di protezione giuridica dei
lavoratori già acordato nel loro sistema giuridico. La direttiva non può essere un pretesto per
52
abbassare il livello di protezione, serve ad uniformare, per fare rientrare i paesi che sono fuori dagli
standard dentro un livello accettabile di protezione.
L’Italia che aveva una disciplina da 80 anni, con un limite min e limite max di durata giornaliera e
settimanale e con una costituzione che prevede il principio della riserva di legge, allora l’Italia non
avrebbe potuto introdurre una disciplina peggiorativa anche perché la direttiva comunitaria in
funzione contiene quella che definiamo la CLAUSOLA DI NON REGRESSO: clausola in base alla
quale gli stati membri non possono attuare una direttiva abbassando la protezione giuridica del
lavoro che già esisteva.
Quale era il problema da risolvere? La direttiva del 93 fissava e fissa un limite che noi
rispettavamo da più di 80 anni. Eravamo ben al di sopra dello standard fissato dalla direttiva. La
DIRETTIVA dice che quello che occorre garantire è che in un arco temporale di 24 ore vi siano
almeno 11 ore di riposo consecutive.
Questo è un limite che rispettiamo ampiamente da ormai 100 anni, quindi nel 2003 nell’attuare la
direttiva noi avremmo anche potuto non emanarlo il decreto del 2003, il limite del riposo noi lo
rispettavamo. Era chiaro che la direttiva guardasse ad altri paesi, in cui i limiti sono blandi.
Non era quindi necessario intervenire per l’Italia e invece si interviene. Si interviene piuttosto male,
la riforma del 2003 è una pessima riforma sull’orario di lavoro. Questo perché il decreto 66/2003
fissa una durata normale della settimana lavorativa di 40 ore, quindi se noi leggiamo il decreto 66
all’art 3, l’articolo ci dice che l’orario settimanale di lavoro è fissato a 40 ore.
Quindi potremmo dire che non sia cambiato niente.
Però nell’art 4 si aggiunge una diversa previsione così formulata: “la durata media dell’orario di
lavoro non può in ogni caso superare per ogni periodo di 7 giorni le 48 ore comprese le ore di
lavoro straordinario”. Qui viene fuori il problema: è vero che il decreto 66 ci parla di una normale
durata di 40 ore ma poi ci dice che il valore medio può arrivare a 48 ore considerata la settimana
lavorativa. Poi aggiunge che il valore medio deve essere calcolato con un riferimento non superiore
a 4 mesi.
Che cosa vuol dire questa formula? Bisogna considerare un secondo elemento rilevante, leggendo il
decreto 66 non troviamo mai un passaggio nel quale si dice quale è la durata max della giornata
lavorativa, non è scritto da nessuna parte. E il decreto 66 ha abrogato il regio decreto del 1923 che
prevedeva la durata max delle 8 ore. Quindi non c’è più!
Qui si pone una domanda: se il legislatore non pone una durata massima della giornata lavorativa,
forse sta violando l’art 36 della costituzione? Perché l’art 36 ci dice che la durata max della giornata
lavorativa deve essere stabilita dalla legge ma poiché il decreto 66 ha ucciso il decreto del 1923 e
non prevede una durata max della giornata lavorativa, si dovrebbe concludere che il decreto 66 da
questo punto di vista è costituzionalmente illegittimo.
Come lo salviamo dalla dichiarazione di incostituzionalità? Dicendo che si ha una direttiva che
prevede 11 ore di punto di riferimento sulle 24 e quindi in questo senso si può dire che
nell’ordinamento italiano il limite è 13 ore per la giornata lavorativa.
Quale è l’effetto della soluzione? L’effetto è molto preoccupante perché se noi prendiamo le 48 ore
settimanali su un periodo medio di 4 mesi e le compariamo con le 13 ore della giornata lavorativa,
possono venir fuori incastri diversi. Ad esempio, una settimana si lavora 30 ore, la settimana
successiva 78 ore, la media fa 48. Se io rispetto su 4 mesi la media di 48 ore sono nel rispetto della
legge. Il limite è quello delle 13 ore.
Può succedere che ci sia un uso abnorme dell’orario di lavoro, si può avere una sorta di uso
sconfinato dell’orario, si può arrivare a costituire un orario in cui un giorno si lavora 13 ore e un
altro 5. Basta che alla fine dei 4 mesi riesco a produrre una media di 48 ore compresi gli
straordinari, ma questo può essere devastante per la salute del lavoratore perché ad esempio se
pensiamo che nel reparto produzione di un’impresa metalmeccanica un operaio possa lavorare per
78 ore settimanali, anche se la settimana successiva lavora 30, non sappiamo come potrebbe
arrivare alla settimana dopo.

53
Questo è lo scenario che ci consegna il legislatore del 2003. Questa impostazione non ha
funzionato; le imprese hanno fatto applicazione di questa impostazione? NO, le imprese non hanno
metabolizzato questo stimolo perché hanno compreso che l’utilizzazione di una prestazione per 78
ore settimanali non porta niente di buono nel lungo periodo. Poiché il tessuto imprenditoriale è
sano, nonostante i fenomeni interpositori, di sfruttamento che rappresentano fortunatamente
un’eccezione, e non ha preso in considerazione questi stimoli da overdose, che invece venivano
proposti da una legislazione che aveva ritenuto di andare oltre ogni immaginazione.
Perché il sistema ha retto? Per una ragione semplice, perché ci sono i contratti collettivi che
continuavano ad avere un tempo che si aggira intorno alle 40 ore settimanali. Per la contrattazione
collettiva è impensabile il modello presentato dal legislatore. Nell’ipotesi in cui non ci sia il
contratto collettivo, se all’interno di un determinato contesto imprenditoriale non si applica il
contratto collettivo, la disciplina applicabile è quella sancita dal legislatore del 2003 con molti
aspetti critici.

Lezione 18/03/20
Orario di lavoro discusso nella lezione scorsa, rimangono da specificare alcune cose strettamente
connesse al tema dell’orario:
Lavoro straordinario  come funziona oggi rispetto alla vecchia disciplina. Oggi è regolato
dall’articolo 5 del decreto 66 del 2003. Sostanzialmente qui si prevede che i contratti collettivi si
occupino del lavoro straordinario, che pone una regola generale di un tetto massimo di 250 ore
annuali di lavoro straordinario. Al di là delle previsioni del contratto collettivo il ricorso al lavoro
straordinario è ammesso in relazione ad esigenze eccezionali o casi di forza maggiore o eventi
particolari, quindi il ricorso al lavoro straordinario deve essere giustificato.
Riposo giornaliero: si stabilisce che fermo restando la durata normale del lavoro settimanale il
lavoratore ha diritto ad 11 ore di riposo consecutive ogni 24 ore. Regola che trova una sua
giustificazione ad individuare un limite massimo del numero di ore di una giornata lavorativa.
Durante l’orario di lavoro il lavoratore ha diritto a delle pause. Se l’orario di lavoro supera le 6 ore
ha diritto a delle pause previste nei c.c.l. Il lavorotore ha diritto, inoltre, ogni 7 giorni ad un periodo
di riposo di almeno 24 h consecutive (Riposo settimanale)
Ferie (Art. 10 del decreto 66 del 2003): Le ferie rappresentano una disciplina importante perché si
fa riferimento al periodo di riposo annuale. Il lavoratore ha diritto ad un riposo annuale non
inferiore a 4 settimane. (Negli USA non esistono delle ferie con una durata così estesa). Questo
periodo di ferie va goduto almeno per due settimane entro l’anno in cui si sono maturate le ferie e le
altre due entro 18 mesi dal periodo in cui si sono maturate. Se il lavoratore non gode delle ferie il
datore di lavoro deve necessariamente mettere in ferie il lavoratore, perché il datore di lavoro
rischia un’azione risarcitoria da parte del lavoratore. Il lavoratore non può rinunciare al godimento
delle ferie perché l’art.10 lo vieta e anche la direttiva comunitaria, lo vieta la corte di giustizia e lo
vieta l’art. 36 della Cost.
C’è solo un caso in cui le ferie possono e devono essere monetizzate: quando il rapporto si estingue,
in questo caso si parla di indennità sostitutiva delle ferie. Se per qualche motivo il nostro datore di
lavoro monetizza le ferie in costanza di rapporto, questo accordo è nullo.
La giurisprudenza sostiene, fatto salvo che ci troviamo davanti ad un diritto irrinunciabile da parte
del lavoratore, il momento in cui godere le ferie è frutto di una mediazione tra le parti, secondo le
esigenze del lavoratore e compatibilmente con le esigenze lavorative e di organizzazione aziendale.
C’è anche la questione del preavviso, anche se non c’è scritto da nessuna parte, è tradizione
giuridica che le richieste di ferie vengano formulate in anticipo (Il così detto piano ferie).

54
Contratto a tempo parziale (Part-time): parliamo di un contratto di lavoro che ha una riduzione
dell’orario di lavoro con corrispondente riduzione del trattamento retributivo. Questa tipologia
contrattuale nasce per consentire al lavoratore di conciliare le proprie esigenze di vita familiari e
personali con le esigenze lavorative. Inizialmente viene percepito come un modo per far sì che la
donna possa partecipare alla vita lavorativa, dando per scontato che è la donna che si occupa delle
faccende familiari. Ad oggi, con le profonde trasformazioni culturali, il contratto part time si presta
in linea generale a rendere possibile un equilibrio tra lavoro ed esigenze personali, non per forza ad
una donna, ma anche ad un uomo (Es. Una persona che vuole utilizzare metà giornata per una
passione sportiva).
Qual è il presupposto affinché questo tipo di contratto possa funzionare? Occorre che le parti fin dal
momento in cui stipulano il contratto stabiliscano qual è la distribuzione giornaliera, settimanale,
mensile ed annuale dell’orario di lavoro (Lavoro solo la mattina, o solo il pomeriggio, oppure un
giorno sì ed uno no). Una volta che le parti hanno stipulato il contratto di lavoro a tempo parziale e
decisa la distribuzione dobbiamo presuppore che lo hanno fatto perché il lavoratore ha da fare nelle
altre ore di lavoro, ma quello che sono le esigenze del lavoratore e come occupa le sue ore non deve
interessare al datore di lavoro. Se questo è vero, il datore di lavoro non può chiedere di cambiare gli
orari, perché non è solo una questione solo quantitativa di ore, ma perché nel resto delle ore il
lavoratore ha altri impegni e sono impegni meritevoli di protezione giuridica, quindi il datore di
lavoro non può imporre delle continui e frequenti variazioni di orari di lavoro perché in questo caso
il valore aggiunto del part time verrebbe meno.
Si può dire che l’evoluzione che ha caratterizzato il nostro sistema aveva inizialmente ritenuto
un’impostazione immodificabile, tuttavia, ad un certo punto con una riforma del 2000 si è
incominciato ad affermare che il lavoratore a tempo parziale potesse essere soggetto ad una
variazione importante della distribuzione dell’orario di lavoro, si parla delle clausole elastiche. Sono
delle clausole che devono essere apposte nel momento in cui il contratto viene stipulato, se il
lavoratore accetta queste clausole, il datore di lavoro può chiedere delle variazioni dell’orario di
lavoro, la clausola prevede un preavviso di almeno 2 giorni lavorativi. Legge contenuta nell’art. 6
del decreto 81 del 2015  le parti del contratto a tempo parziale possono pattuire per iscritto
clausole elastiche relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa.
L’introduzione delle clausole elastiche rappresenta un ipotesi regressiva nella disciplina originaria
del part time perché introduce un modo che rende difficile una conciliazione per il lavoratore tra
vita lavorativa e personale e rende gli spazi discrezionali del datore di lavoro molto più estesi.
Quindi il part time può diventare uno strumento attraverso il quale il datore di lavoro utilizza la
prestazione lavorativa come un elemento molto fluido che può controllare giorno per giorno, con
molta più elasticità, anche se c’è il preavviso.
Ieri abbiamo detto che applicando solamente la disciplina legale dell’orario (decreto 66 del 2003)
sarebbe possibile un orario di lavoro particolarmente esteso (10-12 ore giornaliero). Se noi
applichiamo questo decreto ci potremmo trovare di fronte un lavoratore part time che lavora 40 ore
settimanale, perché paradossalmente l’orario settimanale full time potrebbe essere di 78 ore.
Sappiamo che il paracadute della contrattazione collettiva ancora regge e impedisce questi
paradossi.

Contratto di lavoro intermittente (Detto anche lavoro a chiamata “job on call”): Siamo di fronte
ad un’ipotesi che crea qualche problema dal punto di vista della protezione giuridica per il
lavoratore perché questo contratto (art. 13 del decreto 81 del 2015) prevede che un “lavoratore si
pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo
discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi anche con
riferimento di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o
dell’anno”. E’ una formula molto ampia, perché è un contratto in base al quale c’è una generica e
incontrollata disponibilità del lavoratore.

55
Sarebbe un contratto interessante per il lavoratore se in quel periodo di attesa della chiamata
ricevesse una qualche contropartita retributiva, ma non è così, perché il lavoratore non verrà
retribuito per quella sua attesa. Si parla solo di indennità di disponibilità che viene corrisposta, ma
questa indennità non è minimamente comparabile alla retribuzione.
Il lavoratore sta in attesa di un’ipotetica chiamata che può non arrivare mai e in questo caso il
lavoratore non prenderà alcuna retribuzione, se non l’indennità di disponibilità.
Se il lavoratore intermittente si ammala? L’art 16 del decreto 81 dice che in caso di malattia il
lavoratore è tenuto ad informare tempestivamente il datore di lavoro, dichiarando anche a quanto
ammonta il periodo di malattia. In questo periodo il lavoratore non matura l’indennità di
disponibilità. Se il lavoratore non informa il datore di lavoro perde l’indennità per 15 giorni, salvo
diversa previsione del contratto individuale (che può prevedere conseguenze sanzionatorie più
pesanti).
Il comma 5 dell’art. 16 coerentemente prevede che il rifiuto ingiustificato del lavoratore di
rispondere alla chiamata può costituire motivo di licenziamento e comportare la restituzione della
quota di indennità riferita al periodo successivo al rifiuto. Questo mette bene in evidenza che siamo
di fronte ad un tipo di contratto che da luogo ad una sorta di dissoluzione del tempo di lavoro, che
di fatto non c’è più.
Dovrebbe essere un tipo di contratto che concilia vita lavorativa e vita personale, ma in realtà la
rende praticamente impossibile e non consente al lavoratore di conservare la sua dignità, perché
quest’ultimo sta in attesa rischiando di non ricevere alcun lavoro e anzi rischia il licenziamento in
caso di non risposta.
Questa tipologia contrattuale è molto insidiosa perché realizza una forma di sfruttamento della
persona che non ha precedenti nella storia del diritto di lavoro ed è paradossale che ancora esista,
perché tutti i giuristi che se ne sono occupati hanno parlato in maniera negativa del lavoro
intermittente con questa impostazione.
Ci possono essere anche degli utilizzi non scorretti del lavoro ad intermittenza, si parla di una
particolare tipologia di questo lavoro, che ha qualche stranezza, ovvero la variante è quella di un
contratto di lavoro intermittente in base al quale il datore di lavoro non assume alcun obbligo nel
chiamare il lavoratore e quest’ultimo non assume alcun obbligo a rispondere. In questo caso non c’è
l’indennità di disponibilità. È un vincolo giuridico in cui è quasi impercettibile il filo che unisce le
due parti, però almeno in questo caso, poiché non c’è nessun vincolo, la possibilità di un abuso è
scongiurata.
Un esempio in cui questo tipo di contratto si può usare in maniera moderatamente corretta è il
servizio di Catering.
Questo tipo di contratto è diverso dalla tipologia di lavoro occasionale.
Il contratto di tipo di lavoro a intermittenza è figlio della società odierna, dove si cerca di sfruttare il
lavoratore e al centro c’è solo l’interesse del datore di lavoro.

Lezione 23/03/20
Tema degli obblighi che gravano sul lavoratore e specificare quali sono e i corrispondenti poteri del
datore di lavoro. Norma di riferimento art. 2104 c.c. che tratta la diligenza del prestatore di lavoro.
Il primo comma dell’art. 2104 prevede che il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta
dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’azienda e da quello superiore della
produzione nazionale. Quest’ultima è un riferimento che presuppone una certa visione tra economia
e stato, l’idea era quello del diritto corporativo di una funzionalizzazione dell’economia rispetto
all’interesse nazionale. In un sistema democratico e liberale non è più accettata perché esiste la
libertà d’impresa.
A noi interessa valorizzare che siamo dentro un rapporto di lavoro subordinato e dentro un rapporto
giuridico obbligatorio e come in tutti i rapporti giuridici che hanno un’origine contrattuale, c’è
un’esigenza di andare ad individuare quali sono gli obblighi delle parti. Dal lato del lavoratore c’è
un obbligo di diligenza, che è la misura della prestazione, il parametro attraverso il quale possiamo
56
valutare come l’obbligo che la parte adempiere viene effettivamente adempiuto. In particolare, il
lavoratore deve eseguire determinate mansione e svolte secondo un livello di diligenza, che è
qualcosa che va commisurato in relazione al tipo di attività professionale, non è un discorso astratto
(Es. Se svolgo mansioni che presuppongono una laurea in ingegneria, il tipo di diligenza richiesta è
un tipo d diligenza qualificata in relazione a quel tipo di attività. Se svolgo mansioni semplici, ci
sarà un livello di diligenza parametrato a quel tipo di attività lavorativa).
Quindi il riferimento dell’art. 2104 alla diligenza richiesta dalla natura della prestazione è quello
che ci interessa maggiormente.
Però l’art. 2104 parla anche di un altro elemento, nel secondo comma, che è una disposizione
chiave del diritto del lavoro, è il cuore del rapporto di lavoro. Il secondo comma dice che il
lavoratore deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro,
impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo, dai quali gerarchicamente dipende. Qui c’è
un potere del datore di impartire al lavoratore disposizioni, queste disposizioni altro non sono che le
direttive che il datore impartisce ai propri dipendenti. Il rapporto di lavoro ha questo elemento
caratteristico, cioè non sarebbe possibile la gestione di un rapporto di lavoro se non ci fosse il potere
direttivo, perché la sola diligenza del lavoratore da sola non basterebbe. Il secondo comma richiama
anche l’organizzazione gerarchica dell’azienda, poiché anche i collaboratori possono esercitare,
secondo la catena gerarchica, delle direttive al lavoratore.
Questo potere direttivo è un potere che abbiamo già apprezzato quando abbiamo parlato delle
mansioni, perché è un ius variandi che abbiamo già visto in relazione alle mansioni, ma il potere
direttivo non è solo un potere di variare le mansioni, ma anche di variare il luogo delle prestazioni,
questo potere di trasferire è unilaterale. Da questo punto di vista il potere di poter variare le
mansioni o il luogo è un potere che fa sempre capo al potere direttivo, che è l’essenza stesso del
vincolo di subordinazione.
Se c’è il potere direttivo da una parte, dall’altra parte non c’è un diritto, ma c’è un obbligo. Il non
eseguire le direttive esprime un inadempimento contrattuale.
Quindi l’inadempimento contrattuale del lavoratore si ha quando il lavoratore non esegue la
prestazione con la diligenza dovuta (prima ipotesi) e quando non esegue le direttive che sono state
impartite (seconda ipotesi).
L’inadempimento porta con sé delle conseguenze.

Oltre a questi due obblighi (Diligenza ed eseguire le direttive impartite) c’è anche l’obbligo di
fedeltà (Disciplinato dall’art. 2505). L’articolo prevede che “il prestatore di lavoro non deve trattare
affari per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti
all’organizzazione o ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da recare ad essa
pregiudizio”.
Qui c’è una differenza tra la rubrica della disposizione (obbligo di fedeltà) e il tenore della
disposizione stessa, dove non si fa riferimento alla fedeltà. L’art. 2505 fa riferimento alla “fedeltà
del lavoratore”, espressione discutibile dal punto divista di una visione liberal-democratica del
rapporto di lavoro. Avrebbe senso forse usare un’altra espressione, tipo “lealtà”, che è meno
contaminata da una visione autoritaria.
Il contenuto dell’art.2505 non ha nulla a che vedere con la fedeltà, perché qui stiamo parlando
dell’obbligo di non svolgere un’attività concorrenziale e di non svolgere notizie riservate, quindi,
l’espressione fedeltà la comprendiamo ma non è pienamente giustificabile. Il legislatore ci sta
dicendo che il vincolo del lavoro subordinato è un vincolo che ha connotazioni di esclusività, il
lavoratore deve preservare l’attività del datore di lavoro (Es. un lavoratore che divulga a terzi
progetti di espansione dell’attività di impresa che sono oggetto di un’attività riservata).

Quindi ricapitolando nell’area dell’adempimento a cui è tenuto il lavoratore c’è:


 L’obbligo di diligenza (Primo comma art. 2104)

57
 L’obbligo di eseguire le direttive impartite (Secondo comma art. 2104)
 L’obbligo di non divulgare a terze notizie riservate, di non svolgere attività di concorrenza
con l’imprenditore (Art. 2505)
Questi elementi ci fanno cogliere la specificità del rapporto di lavoro subordinato (IMPORTANTE
SAPERLI E COLLOCARLI BENE NELLO STUDIO DELLA MATERIA)
A questo punto la domanda è: di fronte all’ipotesi in cui il lavoratore abbia violato quanto previsto
dall’art. 2104 o dal 2505 cosa succede?
La regola generale, quando parliamo dell’inadempimento degli obblighi contrattuali, è quella fissata
dall’art. 1218 del c.c., quella disposizione è dedicata alla responsabilità per inadempimento delle
obbligazioni. Questa disposizione dice che se il debitore non ha eseguito esattamente la prestazione
dovuta è tenuto al risarcimento del danno. Però questa non è l’unica disposizione da prendere in
considerazione, perché l’art. 1218 si aggancia ad un’altra disposizione chiave, che è l’art. 1453 del
c.c., che parla della risoluzione per inadempimento dell’obbligazione. L’art. 1453 prevede che se
una parte è inadempiente, l’altra parte può agire per l’inadempimento oppure può risolvere il
contratto. Quindi mettendo insieme il 1218 e il 1453, c’è da dire che il creditore, parlando in
astratto, di fronte all’inadempimento del debitore può fare quanto segue:
 Agire per l’adempimento, quindi portare il debitore davanti al giudice per costringere ad
adempiere
 Risolvere il contratto per inadempimento, salvo il diritto al risarcimento del danno
Quando noi diciamo che c’è la risoluzione del contratto per inadempimento, dobbiamo ricordare
che non qualsiasi inadempimento è rilevante ai fini della risoluzione, ma solo un inadempimento
che sia di non scarsa importanza. Cosa intendiamo di non scarsa importanza? Che non sia lieve, che
non sia inconsistente (Es. Caso di contratto di locazione: il canone di locazione è di 800€ mensili, il
conduttore, nel mese di febbraio, versa il canone di locazione di 799€. Il locatore risolve il contratto
per inadempimento per la mancanza di 1€. In questo caso è un inadempimento tale da portare alla
risoluzione, è un inadempimento di scarsa importanza.Il locatore avrebbe dovuto esperire altri
tentativi. In questo comportamento del locatore si può prevedere comportamento che non è ispirato
ai criteri di correttezza e buona fede contrattuale, si tratta di un’esasperazione del dettaglio. Quadro
iperpatologico di conflittualità.)
Ecco perché oltre all’art. 1453, dobbiamo prendere in considerazione l’art. 1455, quella
disposizione che ci dice che l’inadempimento che legittima la risoluzione è un inadempimento di
non scarsa importanza, quindi, la risoluzione del contratto non è legittimato da qualsiasi
inadempimento., che metta in discussione il vincolo contrattuale.
Si possono applicare questi elementi al rapporto di lavoro subordinato? La risposta è sì, si possono
applicare, ma l’applicazione di questi elementi crea non pochi problemi. Quindi se noi applichiamo
lo schema appena detto lo applichiamo in modo puro abbiamo qualche problema  Es. Il
lavoratore ha l’obbligo di rispettare che è stato contrattualmente definito, nell’esempio 9-13 e 15-
19. Il dipendente un certo giorno giunge sul luogo di lavoro con 5 minuti di ritardo. Il lavoratore è
inadempiente, perché non ha rispettato una regola del rapporto di lavoro ben chiara. Il non
adempiere un obbligo contrattuale comporta una possibile reazione del datore. Ma quale deve essere
questa reazione, può essere il licenziamento per giusta causa? Nello schema che abbiamo detto fino
ad ora il licenziamento del lavoratore sarebbe una risoluzione del contratto per inadempimento, ma
se è questo il caso vale anche quanto previsto dall’art. 1455, cioè l’inadempimento del lavoratore
deve essere di non scarsa importanza. Quindi possiamo ritenere che il ritardo di 5 minuti del
lavoratore sia un inadempimento di non scarsa importanza che legittima il licenziamento? Tutti
risponderebbero a questa domanda dicendo che c’è una reazione eccessiva da parte del datore. Il
problema è che se la reazione del datore, di fronte al ritardo di 5 minuti, è una reazione eccessiva,
dobbiamo giungere alla conclusione che il datore non può agire e deve tollerare questo
inadempimento, perché l’alternativa sarebbe il licenziamento. Ma il licenziamento è una reazione
58
troppo pesante al live inadempimento, quindi possiamo ammettere che il lavoratore possa ritardare
5 minuti tutti i giorni, essendo legittimato a farlo, perché il datore non può reagire.
Questo per dire che lo schema definito dal 1318, 1453 e dal 1455 è uno schema che non funziona
con riferimento al rapporto di lavoro. Quindi nel rapporto di lavoro emerge un elemento diverso,
che è rappresentato dalle sanzioni disciplinari, che sono il prodotto di un qualcosa che è il potere
disciplinare. Nel rapporto di lavoro disciplinato, ad una parte del rapporto (il datore) viene attribuito
il così detto potere disciplinare, un potere di irrogare al lavoratore sanzioni disciplinari. Le sanzioni
disciplinari sono definite conservative perché sono delle sanzioni che non comportano il
licenziamento, quindi rispondono al principio di conservazione del rapporto. Attraverso l’esercizio
di questo potere afflittivo (potere disciplinare), il datore di lavoro corregge il vincolo contrattuale
(Es. lavoratore che giunge 5 minuti di ritardo non può essere licenziato, ma può ricevere una
sanzione disciplinare in modo da dissuadere a futuri inadempimenti contrattuali, in questo caso
futuri ritardi).
L’art. 2106 c.c. prevede che “l’inosservanza delle disposizione contenuti nei due articoli precedenti
può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’inflazione”. Quindi
se il lavoratore ha violato l’art. 2104 (Obbligo di diligenza o di seguire le direttive) o l’art. 2105
(Così detto obbligo di fedeltà), allora il datore può applicare sanzioni disciplinari. L’art. 2106
riconosce un potere al datore di irrogare sanzioni disciplinari. La seconda disposizione importante
che fa l’art. 2106 è l’inciso finale, ovvero che le sanzioni vengono applicate “secondo la gravità
dell’infrazione”, questo significa che l’esercizio del potere disciplinare deve rispondere ad un
principio di proporzionalità. Quindi più grave è l’infrazione più grave deve essere l’infrazione e
viceversa.
Questo potere disciplinare è un unicum nell’ambito del diritto civile, nel senso che nessun’altro
rapporto giuridico obbligatorio ad una parte è attribuito il potere di sanzionare un’altra parte.
Questo è un potere unilaterale che ha un’origine autoritaria e questa rappresentazione di
un’organizzazione gerarchica che si fonda su un principio di autorità è una visione che è molto
intrisa di una carica ideologica se la collochiamo nel diritto corporativo, questa collocazione è stata
oggetto di una importante evoluzione nel corso dei decenni, che ha portato a superare la
rappresentazione di un diritto di lavoro espressivo di principi di autorità. All’origine vi era
l’esigenza del potere disciplinare, non per riaffermare l’ideologia del diritto corporativo, ma per far
funzionare il vincolo contrattuale, nel senso che questo vincolo può funzionare solo se c’è questo
vincolo (Torniamo a quanto detto prima, che di fronte ad un inadempimento lieve il datore di lavoro
non può licenziare, ma permette questi lievi inadempimenti e se tutti i dipendenti ponessero in atto
questi lievi inadempimenti l’organizzazione di un’impresa è gravemente compromessa, quindi la
genesi autoritaria del potere imprenditoriale si evolve e il potere disciplinare può essere visto come
un potere che dobbiamo riconoscere per ragioni funzionali, per ragioni che riguardano il
meccanismo del rapporto di lavoro e la sua capacità di reggere di fronte a lievi inadempimenti dei
lavoratori).
Dobbiamo dire che questo potere disciplinare che secondo il codice del 42 è un potere molto ampio,
l’art. 2106 non dice quali siano le sanzioni disciplinari e, poiché non lo dice, dobbiamo ritenere che
il datore di lavoro abbia un potere molto ampio nello stabilire quali possono essere le sanzioni. Il
punto è anche che non c’è, nell’art. 2106, la fissazione di qualche regola di garanzia, quindi
possiamo trovarci in una situazione in qui il datore può decidere di irrogare, senza ad esempio
andare a verificare se quel fatto è stato o meno posto in essere dal lavoratore. L’unica cosa che
secondo l’art. 2106 il datore deve fare è irrogare una sanzione che sia proporzionata, ma non ci sono
altre regole.
Nel 1970 il legislatore interviene e con l’art. 7 dello statuto dei lavoratori introduce per la prima
volta il procedimento disciplinare, che prima non esisteva. L’art. 7 fissa una regola preliminare
molto importante, cioè che le sanzioni disciplinari devono essere affisse in un luogo accessibile a
tutti, quindi ci deve un codice disciplinare. Occorre, quindi, che le regole disciplinari siano rese note
a tutti i lavoratori.
59
Art. 7 dice che:” le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali
ciascuna di esse può essere applicata e alle procedure di contestazioni delle esse, devono essere
portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti e si devono
applicare quanto in materia stabilito da accordi e contratti di lavoro, ove esistono”. Affermazione
importante perché il legislatore ci sta dicendo che esiste un’esigenza di chiarezza, il lavoratore deve
essere messo nelle condizioni di conoscere quali sono i comportamenti cui è tenuto ed ove tenuti
possono determinare sanzioni disciplinari. Quindi prima di tutto c’è un principio di conoscibilità.
L’art. 7 ci dice che se il contratto collettivo si occupa delle norme disciplinari, allora il datore di
lavoro deve applicare queste norme disciplinari. C’è un potere disciplinare, che è un potere
unilaterale, anche se ha una fonte contrattuale. Il potere disciplinare viene procedimentalizzato,
viene contrattualizzato e viene reso pubblico e visibile.

Lezione 24/03/20

L’art 2106 è una disposizione che va a interessare l’insieme di quelle reazioni che il datore di
lavoro attua davanti all’inadempimento del lavoratore. Nell’analisi partiamo dall’inadempimento
che può essere messo in atto dal lavoratore e da questo punto di vista l’inadempimento può avere
una reazione. Il diritto del lavoro ha messo in atto un criterio di adattamento che possiamo
individuare nel potere disciplinare. Superando la concezione originaria e introducendo una serie di
garanzie possiamo dire che è possibile introdurre un elemento che consente di conservare il
rapporto di lavoro senza giungere all’estrema conseguenza del licenziamento quando siamo di
fronte a comportamenti dei lavoratori riconducibili all’inadempimento ma non così gravi da portare
al licenziamento.
Nella visione attuale il diritto di lavoro è diretto a conservare il rapporto di lavoro con la dovuta
gradualità e elasticità rispetto a comportamenti difformi dagli obblighi contrattuali che il lavoratore
può mettere in atto nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato. È chiaro che non possiamo
pensare con gli occhi di oggi di fondare tutto il potere disciplinare solo sul 2106 del cc.
Disposizione che fissa un principio importantissimo: della proporzionalità; però il governo
disciplinare non può essere affidato nel contesto post costituzionale che cerca un suo percorso
nuovo, al 2106. Pone una condizione necessaria ma non sufficiente nell’ambito post costituzionale.
Il potere disciplinare sarà limitato non così velocemente dopo l’avvento della costituzione.
Dobbiamo allo statuto dei lavoratori un passaggio chiave nella definizione dei limiti e garanzie
connesse all’esercizio del potere disciplinare. In particolare, il tema dell’art 7 dello statuto dei
lavoratori: disposizione che ha procedimentalizzato il potere disciplinare, che ha reso il potere
disciplinare soggetto a limiti e procedure che prima non esistevano. C’è una regola aurea che è
quella della preventiva affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti e il primo
comma dell’art 7 ce lo ricorda.
L’art 7 ci dice che in luogo accessibile a tutti devono essere affisse le norme disciplinari, che
riguardano testualmente le norme relative alle sanzioni, infrazioni, in relazione alle quali ciascuna
di esse può essere applicata e alle procedure di contestazione delle stesse. Questa disposizione è
molto importante perché innanzitutto fissa un principio di trasparenza, di pubblicità delle regole
disciplinari, il lavoratore deve essere messo a conoscenza dei comportamenti ai quali è tenuto e i
comportamenti vietati con sanzione da parte del datore di lavoro.
Le norme disciplinari devono contenere quanto previsto in materia da accordi e contratti di lavoro
ove esistono e vediamo oggi come nella maggior parte si applicano contratti collettivi. Quindi le
norme sono innanzitutto quelle previste dai c. collettivi che contengono normalmente delle
previsioni su quali sono le sanzioni disciplinari in relazione a determinati comportamenti.
L’elemento chiave del ragionamento è che, se le norme disciplinari sono quelle previste dai c.
collettivi allora questo significa che il potere disciplinare è un potere che è stato contrattualizzato,
non è più il datore di lavoro solitariamente, unilateralmente, che determina le regole applicabili in
materia disciplinare ma sono le parti contraenti che stipulano il c. collettivo che determinano il
60
contenuto delle norme disciplinari. Il contenuto non è più un potere sovrano, abbandonato a sé
stesso e esercitato in solitudine dal datore di lavoro. Affermare la contrattualizzazione del potere
disciplinare significa adottare un principio di democraticità interna al luogo di lavoro.
Sull’art 7 primo comma bisogna aggiungere cosa significa in luogo accessibile a tutti: deve
trattarsi di un luogo che tutti possono attraversare e quindi poter vedere le norme disciplinari.
Il secondo comma dell’art 7 ci dice che il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento
disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e
senza averlo sentito a sua difesa. Affermazione molto importante poiché l’art dice che c’è una
preventiva contestazione dell’addebito, che deve essere scritta e che c’è un diritto di difesa. Il
datore di lavoro consente quindi un esercizio di difesa al lavoratore e solo quando il lavoratore avrà
esercitato o meno questo diritto di difesa, solo allora il datore di lavoro potrà irrogare la sanzione.
Siamo di fronte ad una sequenza procedimentale che è quella del procedimento disciplinare.
Quindi in primo luogo il datore contesta un fatto al lavoratore: scrive al lavoratore ad es. che è
arrivato in ritardo sul luogo di lavoro. Poi il ddl deve garantire al lavoratore l’esercizio del diritto di
difesa e solo quando il lavoratore è stato messo nelle condizioni di esercitare il diritto potrà irrogare
la sanzione (3 passaggi: CONTESTAZIONE, DIFESA, PROVVEDIMENTO). La contestazione
deve essere scritta e preventiva, prima contesto poi sento cosa ha da dire il lavoratore e solo infine
decide il ddl se irrogare la sanzione.
Contestazione SCRITTA: se la contestazione fosse orale è evidente che il lavoratore farebbe molta
fatica a potersi difendere da elementi che gli vengono riferiti verbalmente. Anche il datore ha
vantaggio ad una contestazione scritta senza evitare così fraintendimenti. Poi il lavoratore ha il
DIRITTO DI DIFENDERSI: presentando delle giustificazioni scritte oppure chiedendo di essere
sentito oralmente con l’eventuale assistenza di un rappresentante sindacale cui il lavoratore aderisce
o al quale il lavoratore conferisce il mandato. Addirittura, si può sostenere che prima possa
presentare le giustificazioni scritte e poi chiedere di essere sentito anche oralmente contestualmente.
Il lavoratore secondo l’art 7 ha 5 giorni di tempo per presentare le proprie giustificazioni. Solo al
termine avremo la decisione del datore che potrebbe anche giungere alla conclusione di non voler
irrogare la sanzione poiché le giustificazioni sono magari convincenti che hanno smontato
l’impressione originaria del ddl rispetto a una certa vicenda.
Quali sono secondo l’art 7 le sanzioni disciplinari? Abbiamo una quadripartizione: 4 possibili
sanzioni disciplinari.
- RIMPROVERO VERBALE: la più lieve. Poiché si tratta di una ammonizione verbale
alcuni sostengono che l’ammonizione verbale non sarebbe neanche una sanzione
disciplinare. Tanto è vero che abbiamo una certezza: che quando il provvedimento è meno
grave e quindi coincide con il rimprovero verbale allora forse non si può nemmeno parlare
di un provvedimento disciplinare. Se la sanzione è verbale difficile pensare che la
contestazione sia scritta. Questo non si può escludere in assoluto, però quando parliamo del
rimprovero verbale si richiede che vi sia una particolare semplificazione del procedimento
che nella sostanza non dovrebbe rimanere neanche traccia. Si tratta di una sanzione mite ma
che ha comunque un significato giuridico.
- RIMPROVERO SCRITTO: consiste nella stesura di una lettera in cui il ddl rimprovera
per scritto il lavoratore di aver posto in essere una determinata condotta che invece
rappresenta un inadempimento ma comunque lieve.
- MULTA: riduzione della retribuzione, una trattenuta, che può arrivare a un max di 4 ore di
retribuzione. Cominciamo quindi a vedere una sanzione di una certa importanza dal punto di
vista della dinamica del rapporto di lavoro. Se il rimprovero scritto ha una valenza
prevalentemente morale, la multa ha un effetto economico, è una trattenuta sulla
retribuzione. Non è una sanzione irrilevante. In questo caso dobbiamo valutare come non vi
sia un rapporto sereno del rapporto di lavoro.
61
- SOSPENSIONE DAL LAVORO E DALLA RETRIBUZIONE fino a un max di 10 gg:
Sospensione dal lavoro e non pagamento dei giorni in cui il lavoratore non lavora. Sanzione
pesante. Effettivamente quando un datore di lavoro arriva ad irrogare tale sanzione, anche di
un giorno, questo è un pessimo segnale sulla tenuta del rapporto di lavoro. Il rapporto è
compromesso, non in via definitiva, ma sicuramente non è sulla buona strada.
Queste sanzioni si ritrovano nell’art 7: in questo quadro bisogna dire che ovviamente l’esercizio del
potere disciplinare è espressione di un significativo livello di discrezionalità da parte del datore. È
una discrezionalità che il ddl ha in modo spiccato nell’ambito del lavoro privato, meno nell’ambito
del pubblico impiego.
Quando parliamo della contestazione disciplinare, la contestazione abbiamo detto deve essere
scritta; ma la CONTESTAZIONE sulla base di una ormai colta giurisprudenza deve avere alcune
caratteristiche fondamentali: intanto deve essere caratterizzata dalla specificità, deve essere
specifica. (principio della specificità della contestazione disciplinare). Ciò che viene contestato al
lavoratore deve essere fatto in modo circoscritto, chiaro, analitico.
Ad esempio, una contestazione è generica quando non consente al lavoratore di comprendere a
quali fatti specifici si riferisce il datore di lavoro. Non indica circostanze di tempo e di luogo, non
indica come i fatti sono svolti. Se il datore contesta: “con la presente lettera gli contesto che lei è
arrivato in ritardo”, contestazione generica. Non indica quando, di quanto ritardo si tratta.
Oppure: “le contesto che lei arriva spesso in ritardo” sembra che il datore si riferisca a un vizio
del lavoratore. Siamo di fronte alla difficoltà di indicare circostanze di tempo e di luogo e quindi
difficilmente possiamo ritenere che quel fatto sia stato contestato nella sua specificità. Nel momento
in cui al lavoratore viene contestato un fatto generico dobbiamo presupporre che il nostro lavoratore
non sia messo nelle condizioni di potersi difendere perché l’accusa è generica, indeterminata.
Un altro elemento importantissimo oltre alla specificità è la TEMPESTIVITA’: la contestazione
disciplinare deve essere tempestiva, immediata. Ci si riferisce alla distanza temporale tra la
contestazione e il fatto contestato. Se il fatto è accaduto un mese fa e il datore lo contesta adesso
potrebbe essere violato il principio di tempestività o di immediatezza della contestazione. Se è
trascorso un mese il lavoratore potrebbe anche non ricordare il motivo per il quale il fatto gli viene
contestato. Da questo punto di vista è chiaro che verrebbe negato al lavoratore il diritto di
difendersi, come si fa a difendersi da una cosa di cui si è persa traccia. E poi c’è anche un altro
riferimento che informa e che nutre il principio di tempestività di una solida ragionevolezza e cioè:
ammettiamo che il fatto contestato accaduto un mese prima, il datore era presente al fatto, ha visto
arrivare il lavoratore con 10 minuti di ritardo, dopo un mese invia una lettera di contestazione,
specifica indicando data, giorno e ora. Però c’è un problema, è passato un mese e il lavoratore aveva
compreso che quel fatto era stato tollerato nella specifica circostanza, allora non si tratta solo
dell’esercizio di difesa che viene ad essere compromesso, ma rivela il legittimo affidamento che il
lavoratore ha riposto nel contegno del datore.
Questo atteggiamento viene visto come un voler mostrare i muscoli, una forza da parte del datore. Il
datore se vuole irroga una sanzione, potere che esercita se come e quando vuole. Questo non va
bene nell’ottica dell’art 7 poiché il potere disciplinare deve essere esercitato con prudenza da parte
del ddl, con senso del limite, con atteggiamento improntato con lealtà, correttezza e buona fede.
Il principio di immediatezza deve essere meglio esplicitato: il principio va visto in senso relativo
perché quando noi diciamo che la contestazione non deve essere lontana temporalmente dal fatto,
intendiamo affermare una nozione relativa di immediatezza o di tempestività. Intendiamo dire che il
fatto conosciuto dal datore deve essere immediatamente contestato. Il datore nel momento in cui
conosce il fatto deve contestarlo se vuole. Il datore conosce il fatto e avvia il procedimento
disciplinare: non ci sono problemi in merito all’immediatezza.
Seconda questione: il datore ha conosciuto un certo fatto a distanza di 3 mesi dal fatto stesso, in
questo caso il datore viola o no il principio di tempestività se viola un procedimento disciplinare?
Se il fatto è conosciuto ma non era conoscibile prima dal datore, secondo criteri di ragionevolezza,
62
allora il datore può avviare il procedimento. Se il fatto invece era non conosciuto ma è stato
conosciuto dopo 3 mesi allora il datore di lavoro che avvia il procedimento disciplinare sta violando
il principio di tempestività.
ES: il ddl nell’ambito di un controllo contabile svolto dai suoi uffici viene a conoscenza che c’è una
alterazione di un documento contabile. Ci sono dei numeri che non tornano nella fatturazione, ci
sono degli ammanchi e questo viene fuori nell’ambito di un controllo fatto dagli uffici addetti. Ci si
accorge che solo il lavoratore Rossi è quello che può aver dato luogo a questa grave irregolarità. In
questo caso il datore avvia un procedimento disciplinare, è difficile che si possa sostenere che il ddl
ha violato il principio di tempestività. È evidente che a distanza di 3 mesi può essere possibile che il
datore di lavoro scopra un problema a livello contabile, non è che il ddl controlla sempre tutti i dati
contabili. I controlli si fanno periodicamente. L’impresa è un elemento che presuppone un collante
che è la fiducia che lega i rapporti giuridici che sono dentro l’impresa. Sarebbe assurdo quindi che il
controllo del ddl si traducesse in una sorta di mania a una tendenza ossessiva. Il fatto non era
conosciuto ma non poteva nemmeno essere conoscibile nel caso di specie. È evidente che
conoscenza del fatto e conoscibilità vanno visti caso per caso, in relazione al tipo di possibile
provvedimento disciplinare.
ES diverso: all’interno di un’impresa di 100 dipendenti (medie dimensioni) un giorno c’è una rissa
tra 2 colleghi. La rissa viene sedata, viene chiamato il 118 perché un dipendente rimane ferito. Tutto
lo stabilimento è interessato, tutti gli uffici. Il datore lascia correre e due mesi dopo decide di
contestare quanto accaduto ai dipendenti coinvolti nella rissa. In questo caso il datore non potrà dire
che non si era accorto di niente, che non sapeva del fatto.
Infine, il principio di INDEFETTIBILITA’ o di COERENZA tra infrazione e sanzione. Occorre
che il fatto contestato coincida con il fatto che porta alla sanzione disciplinare.
ES: al lavoratore si contesta di aver alterato la contabilità aziendale, il lavoratore dimostra che non è
così e il ddl prende atto delle giustificazioni irrogando una sanzione disciplinare perché ha litigato
con un collega qualche giorno dopo. Siamo di fronte ad una palese asimmetria nel procedimento
disciplinare. Con questo comportamento il ddl sta ledendo il diritto di difesa del lavoratore.
Cosa è la RECIDIVA? Si prevede nell’art 7 ultimo comma dello statuto dei lavoratori, che non
può tenersi conto di alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione.
Il ddl irroga una sanzione disciplinare al lavoratore ad es nel 2014, se il lavoratore successivamente
realizza altri comportamenti che sono meritevoli di una sanzione disciplinare, il ddl potrà tener
conto della precedente sanzione ma se quella precedente sanzione è stata irrogata nel corso dei due
anni precedenti. Questo vuol dire che l’art 7 valorizza la recidiva nel senso che ritiene che se il
lavoratore pone in essere più volte comportamenti rilevanti sul piano disciplinare questo può essere
oggetto di un inasprimento della sanzione del ddl. La sanzione può essere più pesante se il
lavoratore, non solo ha commesso il fatto che gli viene contestato, ma c’è un fatto che ha commesso
un anno fa perché questo denota la persistenza del lavoratore. Il legislatore ha inteso attribuire
rilevanza a questo elemento però il legislatore aggiunge che decorsi due anni non se ne può più
tener conto, altrimenti si finisce per imprigionare una persona nel suo passato. Dire che siccome
quella persona 2 anni fa ha commesso un illecito allora il ddl continuerà ad avere un pregiudizio nei
suoi confronti. Quindi il legislatore ha fissato il tetto dei due anni per dare rilevanza alla
RECIDIVA.
Quando si giunge al termine del procedimento come si chiude il procedimento? Con l’irrogazione di
una sanzione e la sanzione può essere nei vari modi visti. Per tali situazioni, lasciando da parte il
rimprovero verbale, e in particolare per la sanzione della multa e della sospensione, molto spesso i
c. collettivi introducono delle deroghe migliorative rispetto a questo tema. Ad es: ci sono diversi
c. collettivi che prevedono che la sospensione non possa superare i 3 giorni (deroga in melius). Ci
sono c. collettivi che prevedono una multa più bassa; comunque molti contratti collettivi abbassano
la durata complessiva della sospensione.
Una volta che la sanzione è stata irrogata il lavoratore può impugnare la sanzione. La può
impugnare promuovendo nei 20 gg successivi anche per mezzo dell’associazione sindacale alla
63
quale è iscritto, la costituzione tramite l’ufficio provinciale del lavoro, di un collegio di
conciliazione arbitrato, composto da un rappresentante del lavoratore e uno del datore di lavoro e da
un terzo membro (presidente del collegio). Se il lavoratore promuove il collegio di conciliazione
arbitrato allora la sanzione disciplinare rimane sospesa fino alla pronuncia del collegio. Ma quando
il lavoratore promuove la costituzione di questo collegio invia una comunicazione all’ufficio del
lavoro e al datore. Il datore deve nei 10 gg successivi al ricevimento della comunicazione decidere
se nominare un proprio rappresentante in seno al collegio di conciliazione.
- Se nei 10 gg successivi il datore non nomina il suo membro la sanzione non ha effetto.
- Se nei 10 gg il datore adisce l’autorità giudiziaria allora la sanzione rimane sospesa fino alla
definizione del giudizio.
Il lavoratore può decidere anche di promuovere una azione impugnando la questione davanti a un
giudice del lavoro. In questo caso la questione segue tutto un altro iter che non ha niente a che
vedere con il collegio di conciliazione arbitrato. In questo caso il lavoratore ha 5 anni di tempo per
impugnare giudizialmente la sanzione.
In conclusione, si può dire che le sanzioni disciplinari non possono mai comportare mutamenti
definitivi del rapporto di lavoro, cioè la sanzione disciplinare deve essere caratterizzata da una
afflizione temporanea per il lavoratore. quando parliamo di un mutamento definitivo siamo di fronte
a una sanzione illegittima seguendo proprio l’art 7 che afferma che non possono esserci
mutamenti definitivi.

Lezione 25/03/20

Obbligo di sicurezza che grava sul datore di lavoro --> Obbligo del datore di garantire la
sicurezza e la salute del lavoratore. Il rapporto di lavoro si caratterizza per una forte
compenetrazione con il profilo personalistico, cioè nel rapporto di lavoro vi è l’implicazione diretta
della persona nel vincolo contrattuale, questo fa sì che necessariamente sul datore incomba
l’obbligo di garantire la sicurezza e la salute del lavoratore. Siamo in presenza di un obbligo, che in
un lontano passato veniva definito un obbligo accessorio, ma con l’avvento della costituzione si è
giunti alla conclusione che l’obbligo di sicurezza ha una valenza assolutamente centrale nel
rapporto di lavoro. Siamo di fronte ad un obbligo fondamentale.
Il punto di partenza normativo è l’art. 2087 del cc del 1942, questa disposizione ha sancito per la
prima volta la sussistenza di questo obbligo. L’art. Prevede che l’imprenditore è tenuto ad adottare,
nell’esercizio dell’impresa, le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la
tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro.
C’è un obbligo, ma questo obbligo viene definito in relazione ad alcuni parametri (Tipo di lavoro,
esperienza e la tecnica). Il 2087 ci dice che l’obbligo del datore di lavoro è quello di predisporre le
misure necessarie, qui il legislatore pone un rapporto tra mezzo e fine (Come ci dicesse che non è
importante quale sia la misura, l’importante è che sia NECESSARIA allo scopo, cioè a tutelare la
sicurezza e la salute del lavoratore). Questa disposizione è ancora vigente ed è una disposizione da
tutti considerata eccellente, non solo per la tematica, ma anche per la tecnica normativa perché
utilizza uno schema molto intelligente dove si stabilisce un rapporto tra mezzo a fine e si indicano
dei parametri di riferimento. Per questo è sempre una disposizione attuale. Questa disposizone non
fa un elenco analitico di cosa è un obbligo di sicurezza (si sarebbe potuto anche fare così, cioè un
elenco di cosa si può e cosa non si può fare, la conseguenza è che dopo qualche anno questo elenco
finirà per invecchiare, perché per esempio ci sarà stata un’evoluzione tecnologica o il processo
produttivo si modifica), invece la tecnica utilizzata dal legislatore del 1942 è diversa perché si fonda
sulla parametrizzazione del lavoro.
L’obbligo di sicurezza deve essere, quindi, visto in relazione all’evoluzione tecnologica, scientifica,
delle scienze medica, che nel corso del tempo si realizzeranno. Ciò che era oggetto di conoscenza

64
nel 1942 rappresenta il parametro sul quale andare a verificare i confini dell’obbligo di sicurezza
nel 1942 (Es. Negli anni 50, con l’art 2087 già vigente ed operativo, non era noto la circostanza che
l’amianto fosse una sostanza altamente cancerogena, solo nei decenni successivi si giunge alla
certezza quasi assoluta che fosse nociva. Nel 1950 un imprenditore fa uso dell’amianto, applicando
il 2087 dobbiamo dire che il nostro imprenditore, secondo le conoscenze scientifiche di quel
momento storico, non può sapere che l’amianto è nocivo, ma sempre applicando l’art. 2087 ai
giorni nostri, il nostro datore di lavoro, che utlizza l’amianto, non potrà dire che non era a
conoscenza che l’amianto fosse una sostanza nociva per la salute umana). Questa disposizione è in
grado di seguire l’evoluzione storico, secondo la migliore scienza ed esperienza del momento
storico. Per i lavoristi l’obbligo di sicurezza è la massima sicurezza tecnologicamente possibile.
Questa formula ci dà l’idea il datore debba ricercare sempre il livello più elevato di sicurezza, lo
standard di sicurezza deve essere elevato. Perché? Perché l’imprenditore si fa carico della salute di
una persona che si fa carico di una persona che lavora nella sua organizzazione. Questo ci viene
detto dal legislatore del 1942 che tutela la “sanità della stirpe Italica”.
Al di là di questa ideologia nel codice del 42, che tutelava l’individuo e non la persona (Differenza
da individuo: La persona sottende una visione più ampia, integrata dell’essere vivente nel contesto
sociale nel quale va a collocarsi), va comunque riconosciuta la scelta.

Dopo il codice del 42, c’è stato un passaggio chiave che cambierà tutto, che troviamo nella
costituzione nell’art.32: Il diritto alla salute. “La repubblica tutela la salute, come fondamentale
diritto dell’individuo e come interesse della collettività”. Allora ecco che il 2087 deve essere letto
alla luce di questo principio fondamentale. È questo che ci consente di valorizzare il tratto
personalistico della salute e quindi di offrire una lettura evolutiva e costituzionalmente orientata
dell’art. 2087.

Quindi l’integrità fisica coincide con la salute? Non del tutto, secondo il 2087 quello che importa il
lavoratore veda salvaguardata la sua integrità fisica, quindi leggibile come nessuna lesione. Ma la
salute è qualcosa di più ampio dell’integrità fisica, la salute è “lo stato di completo benessere fisico,
mentale e sociale della persona” (Definizione dell’OMS). Quindi una persona non basta che si veda
garantita l’integrità fisica, perché se non ha una situazione di benessere sociale e mentale,
egualmente vede compromessa la sua salute. L’integrità fisica è una concezione riduttiva, che è
figlia dei tempi dell’art. Del 42. In questo senso il meccanismo descritto dall’art. 2087 è perfetto,
non è perfetto quanto ai beni che intende proteggere e tutelare, quindi il meccanismo bisogna che
venga aggiornato quanto ai beni protetti attraverso quella lettura costituzionalmente orientata. Molto
spesso per garantire la salute è necessario ledere l’integrità fisica (Es. Intervento chirugico che
rappresenta una lesione dell’integrità fisica).

L’art. 32 della costituzione farà molta fatica ad affermarsi, non solo nel diritto del lavoro, ma anche
in quello civile. C’è voluto molto tempo prima che il diritto alla salute assumesse il peso e il ruolo
che gli spettavano in visione moderna e avanzata della società. Negli anni 50-60 il diritto alla salute
non era molto riconosciuto nel diritto civile. Quando si parlava del danno che poteva essere subito
da una qualsiasi persona, al di là del rapporto di lavoro, fino alla fine degli anni 60, si faceva
riferimento alla capacità reddituale di quel soggetto (Es. Se Tizio investe con l’auto una persona,
come si fa ad individuare qual è il danno subito dalla persona investita, bisognerà verificare qual è
la sua capacità reddituale, quindi se Tizio investe un operaio il danno sarà parametrato alla capacità
reddituale dell’operaio, se invece investe un dirigente il danno sarà parametrato alla capacità
reddituale, c’è una grande disparità, un’iniquità. Immaginiamo che entrambe le persone non
possono più camminare per effetto dell’incidente stradale, ciò che riceveranno in termini di
risarcimento è diverso). Cosa manca in questo ragionamento? Manca il riconoscimento alla salute,
il danno alla salute fino agli anni 70 non era riconosciuto. Il danno alla salute non può essere
diverso in base al reddito.
65
Sarà solo per effetto della giurisprudenza costituzionale, che si affermerà negli anni 70, che si
giungerà alla conclusione che il diritto alla salute è un diritto pienamente operante nei rapporti tra
privati e che deve essere autonomamente risarcibile. Il riconoscimento del danno alla salute serve a
valorizzare la persona nell’ambito delle dinamiche dei rapporti tra i privati. C’è la necessità di
personalizzare il danno perché nessuno di noi è equiparabili ad un altro al 100%, l’eguaglianza è
uno strumento che serve a mettere tutti allo stesso livello di partenza, non è il livellamento, ma la
capacità di valorizzare le differenze e riconoscendo le opportunità di tutti, ma occorre al tempo
stesso riconoscere le differenze. Questi processi sono stati molto lenti.
Nel frattempo il danno alla salute non trovava riconoscimento nell’ambito del rapporto di lavoro,
perché se parliamo di infortunio su lavoro e malattie professionali si riteneva che la lesione
rilevante nel rapporto di lavoro fosse solo quella che riguardava la capacità lavorativa. C’è un
importante fonte normativa: dpr 1124 del 1965 (Testo unico per l’assicurazione obbligatoria contro
gli infortuni su lavoro e le malattie professionali) nella sua versione originaria legava il
riconoscimento dell’indennizzo al lavoratore alla lesione della capacità lavorativa del soggetto (Es.
Operaio in catena di produzione viene ferito da un macchinario sul volto e rimane una cicatrice
molto estesa, secondo il testo unico del 1965, all’operaio non aspettava nessun indennizzo perché
l’operaio può riprendere a lavorare perché la capacità lavorativa era intatta). Questa
rappresentazione di un’assicurazione obbligatorio contro gli infortuni sul lavoro e le malattie
professionali manca di qualcosa di importante, perché ci si vuole convincere il profilo personale
non ha rilievo (Visione molto riduttiva della tutela della persona).
Solo nel 2000, con il decreto legislativo 38, avremo il riconoscimento dell’indennizzo INAIL anche
per il danno alla persona.

Noi abbiamo esaltato l’art. 2087 del cc, mettendo in evidenza che questa disposizione ha avuto una
grande importanza per la sua capacità di orientarsi verso la protezione della salute del lavoratore.
Ma soprattutto c’è da chiarire una questione, è evidente che se parliamo di tutela della salute il
rimedio che di fronte alla lesione della salute viene preso in considerazione non dovrebbe essere,
almeno in prima battuta, il risarcimento del danno. Perché se parliamo di risarcimento del danno
significa che la salute è già stata lesa, compromessa. Quindi se è così l’ordinamento giuridico ha
fallito perché non è stato in grado di proteggere la salute del lavoratore.
Quando il pregiudizio è definitivo non c’è altra strada che il risarcimento del danno, però alla luce
di un diritto fondamentale ed una esigenza di prevenire il danno e l’insorgenza della patologia,
l’ordinamento avrebbe come priorità assoluta l’adempimento dell’obbligo di sicurezza, far sì che il
datore di lavoro possa essere messo nelle condizioni di adempiere, che il datore di lavoro sia
costretto ad adempire a svolgere la sua parte. Tuttavia dobbiamo dire che il nostro ordinamento
tende a valorizzare il tratto risarcitorio e non quello prevenzionale, almeno nell’esperienza concreta
si manifesta questo.

L’evoluzione successiva del 2087 è un'evoluzione che non ha visto un grande peso della sicurezza
sul lavoro nel dibattito pubblico negli anni 50-60-70. Perché? Inizialmente negli anni 50-60 non
c’era una cultura della sicurezza sul lavoro (Sia per il datore che per il lavoratore), quindi c’è stata
una sottovalutazione di questa tematica. Dal punto di vista normativo vi sono stati alcuni decreti
(Così detti decreti prevenzionistici) intorno alla metà degli anni 50, componenti di centinaia di
articoli, che cadono nel vizio della descrizione analitica dell’obbligo di sicurezza, descrivono
analiticamente ciò che il datore di lavoro deve fare per adempiere agli obblighi di ragioni di
sicurezza, ma con una specificità tale che dopo una decina di anni avevano perso totalmente la loro
capacità di regolare il tema della sicurezza sul lavoro.
Questa sottovalutazione della sicurezza del lavoro ha avuto delle controversie drammatiche (Es.
Industrie chimiche italiane che hanno non solo avuto un impatto negativo sull’inquinamento del
paese, pensiamo al caso Taranto, ma anche sulla sicurezza dei lavoratori. Grande processo penale
contro imprenditori accusati di omicidio di più di 500 lavoratori che operavano in alcune imprese
66
nella chimica in Porto Marghera, deceduti duranti gli anni 80-90, per patologie gravi insorte per
effetto dell’esposizione a sostanze chimiche nocive, come il cloruro di vinile monomero, sostanza
cancerogena che può provocare l’insorgenza di tumori maligni. Alcune di queste imprese andate a
processo, nei luoghi di lavoro, negli anni 70-80, i propri operai nei reparti camminavano
calpestando la polvera di cloruro di vinile monomero che arrivava alle ginocchia, quindi si
sporcavano da cima ai piedi con questa polvere e si saturavano di questo, anche se indossavano
delle tute, ma queste tute poi venivano portate in casa e anche la famiglia respirava queste polveri.
Tutto questo avveniva senza che gli operai sapessero che questa sostanza fosse altamente nociva. In
questa vicenda quello che emerge è anche una certa timidezza del sindacato, che aveva adottato una
linea morbida per contrastare queste prassi). Questo esempio indica la situazione in cui ci
trovavamo.

30/03/20 CONFERENZA (non fare)

Lezione 31/03/20

Abbiamo parlato del 2087 e abbiamo messo. In evidenza come questa disposizione faccia
riferimento alla c.d. integrità fisica, che è un elemento che ha un’origine piuttosto risalente perché si
fa riferimento a un qualcosa ben lontano dalla salute, ma dopo l’avvento della Costituzione si viene
a determinare una lettura evolutiva di tale articolo e, quindi, le parole “integrità fisica” vengono
viste in una dimensione diversa e si inizia a ritenere si debbano riferire alla SALUTE, di cui ci parla
l’art. 32 Cost. (fondamentale diritto dell’individuo, stato di concreto benessere della persona).
Questo cambia tutto perché l’impostazione originaria del codice del ’42 era diretta a preservare il
lavoratore da un pregiudizio fisico, ma l’idea di integrità fisica è davvero riduttivo in questo senso
rispetto all’idea di salute: quest’ultima è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e
poi perché a volte per salvaguardare la salute può essere necessario intervenire sull’integrità fisica
(es. intervento chirurgico). La questione che emerge nel corso del tempo è che il nostro sistema era
costruito senza valorizzare sufficientemente la tutela della salute e per arrivare a riconoscere la
tutela della salute tra i privati è stato necessario sul piano generale l’intervento della Corte Cost.

Quando abbiamo letto e fatto riferimento al 2087 c.c. abbiamo detto che c’è anche il rifermento alla
PERSONALITA’ MORALE, ma che cos’è?
Nell’originaria intenzione del legislatore faceva riferimento ad un qualcosa di molto vicino
dall’integrità fisica, è il lato c.d. rude dal punto di vista intellettivo dell’integrità fisica. Oggi
tendiamo ad avere una visione complessa della persona, non è solo fisicità, profilo materiale, ma è
anche ciò che riguarda il profilo psicologico, sentimentale e relazionale. È un insieme di elementi
che non si connettono solo alla fisicità, ma in realtà l’unico modo per dare senso a questo passaggio
è quello di individuare la personalità morale in una figura che ugualmente deve essere ad oggetto di
un’interpretazione costituzionalmente orientata. Questo passaggio del 2087 c.c. per lungo tempo la
dottrina e la giurisprudenza non attribuivano un particolare significato all’espressione “personalità
morale”, ma tendevano ad offrirne un’interpretazione riduttiva.
Ad un certo punto emerge un elemento nuovo e ci si accorge che quella personalità morale debba
essere letta alla luce dei principi costituzionali, ma anche dei valori costituzionali, in particolare
quello della DIGNITA’ DELLA PERSONA.
La dignità è un valore costituzionale, ma non è espressamente esplicitato ad una specifica
disposizione che riconosce ad es. un diritto alla dignità, ma possiamo certamente dire che c’è
un’intera costituzione che è rivolta al valore della dignità come valore supremo. Il punto è che però
non è facile definire la dignità perché si rischia di cadere anche nella retorica. La dignità è un
valore che orienta le scelte individuali e collettive verso ciò che appartiene all’essenza stessa
dell’inviolabile natura umana; la dignità è qualcosa che non è mai comprimibile, è l’irriducibile
umano e nemmeno gli strumenti repressivi più feroci sono in grado di eliminare la dignità di una
67
persona. Se questa parola assume un peso molto importante nella storia umana dobbiamo anche
farne un uso selettivo, non possiamo invocare una lezione alla dignità per qualsiasi lesione, bisogna
essere pronti a declinare questa parola con molto rigore.

Perché si comincia a parlare di personalità morale e quindi di dignità nel diritto del lavoro?
Perché fino ad un certo momento, quando si faceva riferimento al rapporto di lavoro il profilo del
possibile coinvolgimento della sfera più intima del lavoratore non veniva presa in particolare
considerazione. Se ad es. si fosse fatto riferimento ad uno stato psicologico del lavoratore, questo
elemento sarebbe stato scarsamente considerato.
Fino agli anni ’90 del ‘900 il profilo psicologico della posizione del lavoratore non era oggetto di
attenzione, ad un certo punto però viene ad affermarsi un fenomeno nuovo che non conoscevamo
prima, cioè il c.d. MOBBING -> fenomeno che può caratterizzare i contesti lavorativi e si
sostanzia in un comportamento di vessazione e sopruso che un datore di lavoro o un collega pone
in essere contro un lavoratore. È possibile che mobbing ci sia anche tra lavoratori dello stesso
livello di inquadramento oppure anche quando un gruppo di lavoratori/colleghi ne prende di mira
uno.
Può essere un fenomeno di varia intensità ed è stato oggetto di vari studi sociologici, psicologici e
anche giuridici.

Un grande studioso tedesco, Harald Ege, ha studiato questo fenomeno, ma lo ha fatto nella sua
versione più pesante e secondo Ege il mobbing è un insieme di comportamenti messi in atto da un
datore di lavoro o dai colleghi che ha come finalità quella di costringere quel lavoratore a dimettersi
o a suicidarsi.
È chiaro che stiamo parlando di un qualcosa di molto grave e dobbiamo pesare bene le parole
perché inizialmente in Italia assistiamo a fine anni ’90 ad una tendenza a riconoscere la sussistenza
del mobbing di fronte a qualsiasi cosa, c’è una sorta di ipersuscettibilità. Questo però porta a
mettere insieme situazioni molto diverse, cioè nell’ambito di un rapporto di lavoro così come
nell’ambito della vita di ciascuno di noi la conflittualità, il contrasto sono assolutamente fisiologici
e non possiamo ricondurre tutto questo al mobbing perché avremo una definizione troppo ampia e
indeterminata che non ci permette di selezionare quando nel contesto delle relazioni umane un
comportamento è diverso dalla normalità della dialettica umana e che sono estremamente
pericolosi.
Generalizzare è estremamente pericoloso perché se è grave il mobbing non abbiamo lo strumento
selettivo per individuarlo perché mettiamo tutto sullo stesso piano.
Quindi, in primo luogo, per affermare se c’è o meno questo fenomeno bisogna che il giurista,
quando si trova di fronte ad una situazione come questa, deve interloquire con il medico (per
comprendere se il lavorare ha o non ha una patologia legata all’attività lavorativa non deve fare di
testa propria e deve confrontarsi con le scienze mediche perché sono le uniche che possono aprire
degli elementi di conoscenza in casi come questi). Abbiamo bisogno di confrontarsi con un medico
che ci dica se c’è o meno la lesione della salute e dell’integrità psichica del lavoratore.

In Italia inizialmente c’era la tendenza a dir poco esagerata a ritenere la sussistenza del mobbing.
Qualsiasi comportamento del datore di lavoro o di un superiore gerarchico che assumesse un certo
livello di conflittualità veniva ricondotto al mobbing (es. datore di lavoro inalberato per una serie di
questioni che non saluta il dipendente, quest’ultimo afferma di essere mobbizzato perché non riceve
il saluto del datore di lavoro). Bisogna prendere in considerazione delle spie, come ad es. il
lavoratore viene assegnato ad una mansione inferiore, spostamento in un ufficio più piccolo
togliendo il telefono e internet etc. etc.
Occorrono dei fatti, delle circostanze fattuali concrete, apprezzabili esteriormente, percepibili
nella nostra realtà; non possiamo attribuire rilevanza a stati d’animo, a percezioni meramente
soggettive (mi guardava male, non mi ha salutato, ha stretto la mano più calorosamente a lui e non a
68
me). Diciamo che su questo tema si è assistito inizialmente ad un po’ di confusione e c’erano delle
folle di perseguitati che si accalcavano nelle aule di giustizia ritenendo di essere stati oggetto di
pesanti vessazioni e poi piano piano la giurisprudenza ha corretto il suo tiro ed è giunta a soluzioni
oggi accettabili.
Il lavoratore che sostiene di essere stato mobbizzato deve fornire degli elementi robusti per provare
di aver subito vessazioni e soprattutto occorre la prova di un danno alla salute (attestato sulla base
di una perizia medica attraverso la CTU -consulenza tecnica d’ufficio- che viene disposta dal
giudice).

L’UE si è occupata di sicurezza sul lavoro e anzi, se parliamo di diritto del lavoro, dobbiamo dire
che il primo grande argomento lavoristico di cui si è occupata la CEE e poi l’UE è appunto la
sicurezza sul lavoro. Purtroppo, però se ne è occupata con una lentezza sorprendente: aveva deciso
di occuparsi di questo tema fin dagli anni ’70 con una serie di documenti e raccomandazioni, ma
soprattutto in seguito alla strage di Marcinelle (disastro in una miniera in Belgio nel 1956 in cui
persero la vita circa 250 lavoratori e la gran parte di questi erano immigrati italiani), ma si arrivò a
qualcosa di concreto solo nel 1989.
L’Italia dall’89 ha aspettato 5 anni per recepire la direttiva (1994), ma lo abbiamo fatto perché
minacciati dall’UE (condanna per mancato recepimento della direttiva). Il legislatore italiano
solitamente quando viene emanata una direttiva dell’UE si gira dall’altra parte e fa finta che non sia
stata emanata fino a quando non interviene l’UE minacciando una condanna. Le direttive vengono,
quindi, recepite in fretta. Questo è quello che è accaduto anche con il d.lgs. 626/1994 che recepisce
la direttiva del 1989, ma quella disciplina del ’94 è una disciplina che venne tradotta in decreto
legislativo con una tale approssimazione che appena entrato in vigore ci si accorse che non poteva
essere applicato perché era scritto talmente male che non funzionava, era necessario emanare un
decreto correttivo. Quest’ultimo è stato emanato 2 anni dopo (1996), ma una volta corretto c’era un
problema di messa a regime di questa disciplina per cui entrò in vigore solo nel marzo 1997.
Quindi, la direttiva comunitaria è del 1989 e noi siamo riusciti a recepirla e a renderla operante nel
diritto italiano solo 8 anni dopo.
Questa direttiva era fondamentale perché intendeva inserire una disciplina comune a tutti i paesi
membri.
Il d.lgs 626/94 non ha avuto l’effettività che meritava e anche dopo in Italia sono rimasti aperti dei
problemi molto seri in materia di sicurezza sul lavoro, in particolare in materia di palese violazione
della disciplina prevenzionistica, la quale non veniva e viene tutt’ora applicata coerentemente nel
contesto produttivo italiano.
Cosa prevedeva e cosa continua a prevedere la legge?
Si tratta di una disciplina che si fonda su un alto livello di prevenzione oggettiva (il legislatore
dice come si devono adottare delle misure che hanno come obiettivo quello di prevenire la salute e
la sicurezza nei luoghi di lavoro) e soggettiva (il legislatore dice come bisogna realizzare un
sistema di prevenzione avendo riguardo ai soggetti che stanno dentro un luogo di lavoro perché è
inutile dire che questo non si può fare quando non si stabilisce chi lo deve fare).
L’elemento fortemente innovativo di questo decreto, alla luce della stessa direttiva che recepisce, è
quello di far sì che nel luogo di lavoro si prenda atto che c’è senza dubbio una responsabilità
preliminare centrale del datore di lavoro. Il datore di lavoro è il principale debitore di sicurezza.
Ma attenzione, se il sistema prevede una centralità del datore di lavoro sul piano degli obblighi, non
possiamo trascurare le altre figure (dirigente, preposto, lavoratore), tutti i soggetti che stanno nel
luogo di lavoro hanno degli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro.
Il preposto è un soggetto che una funzione di controllo, di vigilanza, è colui che verifica, con
riferimento alla sicurezza, che una certa disposizione sia rispettata.
La sicurezza è una catena delle responsabilità.
Questa disciplina, una volta entrata in vigore, potrebbe anche funzionare ma il problema è che ci
sono molte forme di elusione e violazione di regole prevenzionistiche, cosa dovuta alla difficoltà di
69
controllare il rispetto delle regole. Nel nostro ordinamento abbiamo un sistema di controlli piuttosto
debole, è possibile che gli organi di vigilanza possano controllare il 10/15% delle imprese. È una
situazione che indubbiamente facilita la tendenza al mancato rispetto della regola.

Accade che il tema della sicurezza dopo il d.lgs. 626 non è al centro dell’attenzione del diritto del
lavoro, se ne parla sì, ma si parla più di altro salvo alcuni momenti in cui sulla base di un’onda
mediatica si riinizia a parlare di sicurezza sul lavoro. se tv, social e mezzi di comunicazione generali
decidono di attribuire maggiore attenzione al tema della sicurezza sul lavoro allora tutti
cominceremo a parlare di questo, se cala l’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa su
questo tema allora non ne parleremo più.
Nel 2007 c’è stato un infortunio molto grave nell’impresa ThyssenKrupp e come emergerà grandi
erano le responsabilità del datore di lavoro perché mancavano delle minime accortezze in tema di
sicurezza. Questo episodio provocò una reazione mediatica molto forte, per cui dopo si iniziò a fare
la conta degli infortuni sul lavoro. C’è un’attenzione che non c’era mai stata, ma il problema è che
non basta farlo per un periodo e poi non pensarci più. Il punto è che quel clamore mediatico porterà
ad una riforma approvata nel 2008 (d.lgs. 81/2008) che prenderà il posto del d.lgs. 626/1994.
Si tratta di un salto di qualità rispetto al d.lgs 626? Non più di tanto perché il d.lgs. 81/2008 è stato
scritto sull’onda emozionale provocata dal clamore mediatico degli infortuni di quel periodo e le
riforme che durano non si fanno solo sulla base di un’emozione, ma sulla base della ragione, di un
processo di ricognizione dell’esistente che deve essere più profondo.

Lezione 01/04/20

POTERE DI CONTROLLO: nel nostro ordinamento è uno dei poteri attribuito al datore di
lavoro, il potere di controllare la prestazione lavorativa. L’argomento sarebbe semplice perché
effettivamente possiamo intuire che se c’è un potere direttivo, cioè impartire direttive al dipendente,
è quindi inevitabile che esercita un potere di controllo, va a verificare come la prestazione viene
seguita. Potere di controllo che va esercitato in forma che non siano lesive e invasive della libertà
della persona quindi abbiamo tutta una serie di limiti. Potere sull’esercizio della attività lavorativa
ma non su scelte del lavoratore estranee all’ambito lavorativo.
Se dovessimo limitarci a questo l’argomento sarebbe già concluso, ma non possiamo fermarci, vi
sono altre grandi questioni da esaminare. Le questioni riguardano il cd CONTROLLO A
DISTANZA DELL’ATTIVITA’ LAVORATIVA: il datore potrebbe e molto frequentemente lo fa,
controllare l’attività lavorativa attraverso strumenti che lo consentono, dispositivi elettronici che
consentono di controllare a distanza lo svolgimento dell’attività lavorativa. Lo statuto dei lavoratori
con una capacità già nel 1970 fu in grado di anticipare l’evoluzione del sistema perché l’art 4
dello statuto si occupa di definire un insieme di regole che vale a consentire al datore di esercitare
questo controllo a distanza, ma al tempo stesso è un sistema che consente anche di porre dei limiti
rispetto all’esercizio del potere di controllo.
L’art 4 si poneva quindi la questione dei limiti rispetto all’esercizio del potere, altrimenti il potere
di controllo sarebbe stato eccessivo, si sarebbe esagerato nel procedere alla definizione di questo
potere. L’art 4 prevedeva e prevede ancora oggi in buona parte che è possibile che il ddl possa
anche svolgere dei controlli a distanza ma questi controlli devono avere una finalità che nulla ha a
che vedere con l’attività lavorativa in senso stretto (ad es: sicurezza stabilimento o sicurezza sul
lavoro io datore controllo che il patrimonio aziendale sia salvaguardato e quindi che la stessa
azienda sia salvaguardata perciò colloco delle telecamere sul perimetro esterno dell’impresa che
servono a verificare che non ci siano intrusioni di estranei. Pur non essendo questa la finalità del
datore in realtà indirettamente potrebbe finire per riprendere il dipendente che entra nello
stabilimento, quindi ci potrebbe essere un interesse del dipendente a veder salvaguardata la sua
sfera personale, riservatezza e dati sensibili).

70
Il punto è che l’art 4 dice che il controllo sull’attività lavorativa non deve essere mai diretto e che
altra deve essere la finalità sottesa al controllo che il datore mette in atto per ragioni diverse,
esigenze organizzative produttive, sicurezza sul lavoro, tutela patrimonio aziendale. Questo non è
sufficiente e infatti l’art 4 poi dice che occorre comunque che vi sia o un accordo sindacale
stipulato dal datore e le rsa o rsu, quindi che consente ad esempio di istallare le telecamere sul
perimetro esterno dell’impresa. O se non c’è l’accordo sindacale con le rsu o rsa occorre che vi sia
una autorizzazione rilasciata dall’ispettorato del lavoro, autorità amministrativa.
RIASSUMENDO: Si parla di impianti audio lesivi o anche altro qualsiasi strumento di controllo e
se ci sono dobbiamo chiarire che il datore non deve mai usare gli strumenti con l’unica finalità di
controllare l’attività lavorativa. FINALITA’: esigenze organizzative, sicurezza sul lavoro, sicurezza
patrimonio aziendale. Oltre al controllo che non è mai diretto e che deve avere un’altra finalità c’è
un terzo elemento: o c’è un accordo sindacale oppure occorre una autorizzazione. Inoltre, anche se
c’è l’accordo o l’autorizzazione è chiaro che il datore non può controllare in modo diretto l’attività
lavorativa.
Quindi già nel 1970 si anticipa di molti anni il dibattito in Italia in tema di privacy. Nel 1970 solo il
diritto del lavoro conosceva una regola che si interessasse del tema fondamentale del tema della
riservatezza. Come è evidente l’art 4 mira a limitare il potere di controllo a distanza però nel corso
degli anni le questioni che si sono poste sono effettivamente molto delicate e complesse.
Intanto, se non c’è l’accordo sindacale le telecamere non si possono istallare e quindi in questo
senso il datore ha bisogno di intrattenere un rapporto positivo, leale e di reciproca collaborazione. In
alternativa l’autorizzazione ma è evidente che viene rilasciata sulla base di più rigidi criteri rispetto
all’accordo sindacale. Il problema però si lega da un lato ad esigenze che sono generali che valgono
oggi e varranno ancora per il futuro, dall’altro lato l’emersione di elementi di novità.
È vero che l’art 4 dello statuto ha avuto una sorta di capacità preventiva ma è anche vero che
l’evoluzione tecnologica è andata aldilà. Nel 1970 nessuno poteva immaginare che ci sarebbe stato
internet ad esempio, un’evoluzione così importante per arrivare a delle applicazioni informatiche
che hanno fatto fare al nostro vivere civile passi da gigante e al tempo stesso l’hanno resa molto più
controllabile.
L’insieme delle evoluzioni della tecnologia rappresenta proprio l’evolversi del controllo della
persona in generale ma in questo modo anche del LAVORATORE. Oggi quando il lavoratore
entra dentro il luogo di lavoro porta con sé tutti gli elementi della sua identità digitale (il telefono ad
es, poi accede a un computer messo a disposizione in cui ci sono programmi che registrano tutta
l’attività, se il lavoratore è stato su altri siti). Quindi è evidente che c’è un salto qualitativo con cui
dobbiamo fare i conti e porta a rendere più difficile l’applicazione dell’art 4. O dobbiamo
trasformare il luogo di lavoro in una sorta di regime nel quale non si può fare nulla per evitare il
controllo sulla attività lavorativa, oppure rendere il luogo di lavoro un luogo dove è possibile
utilizzare le tecnologie e quindi rendiamo meno rigido il quadro e sarà quindi più facile controllare.
ESEMPIO: io dovrei stabilire che nel luogo di lavoro il computer aziendale che io ho messo a
disposizione del dipendente non può essere usato se non per ragioni lavorative. Questo può
sembrare ragionevole però questa apparente ragionevolezza non fa i conti con l’evoluzione del
nostro approccio alla vita digitale. Cioè se io ho un pc e sto lavorando e devo prenotarmi un
biglietto ferroviario perché il giorno dopo devo partire, se io accedo al computer aziendale e compro
il biglietto impiego 5 min per fare questa operazione e rimango sul luogo di lavoro. Per 5 minuti è
vero che non mi sono dedicato anima e corpo al lavoro ma è anche vero che invece di impiegare
un’ora per andare alla stazione a fare il biglietto io questa operazione l’ho compiuta in 5 minuti.
Quale è l’interesse del datore in questo caso? È mandare fuori il dipendente per un’ora o
consentirgli in 5 min di fare il biglietto e tornare immediatamente a lavoro? Un datore che ha a
cuore i dipendenti opterà per consentire al dipendente di accedere per 5 min al sito di Trenitalia. Se
c’è questa commistione nell’uso del pc aziendale allora occorre che questo sia regolato da un
accordo sindacale e quindi questo diventa molto più difficile.

71
C’è oggi una particolare rigidità dell’art 4 finalizzata senza dubbio a garantire al lavoratore
l’esercizio dei suoi diritti fondamentali ma dall’altro l’innovazione tecnologia porta con sé una tale
confidenzialità con gli elementi tecnologici, tra lavoro e vita personale che passa attraverso uno
smartphone, svolgere al tempo stesso attività lavorative e non.
Questa commistione entrata quasi nel nostro dna è una bomba nell’ottica dell’art 4, perché nell’art 4
o c’è una rigida separazione tra attività lavorativa e vita privata o se c’è una commistione crea
problemi, poiché si richiede almeno un accordo sindacale.
Nel corso dell’applicazione dell’art 4 è accaduto che nella sua esperienza applicativa è venuto fuori
un problema molto serio: ma se il lavoratore nel corso della sua attività attua una condotta illecita, il
datore di lavoro che non ha un accorso sindacale che gli permette di controllare a distanza l’attività
lavorativa e che non ha neanche una alternativa, cosa può fare?
Per rispondere a tale domanda bisogna fare un esempio: la cassiera del supermercato che abilmente
si mette in tasca delle banconote prese dalla cassa, senza un accordo sindacale o senza una
autorizzazione amministrativa il datore di lavoro non può mettere una telecamera che verifichi se la
cassiera sta o non sta commettendo un illecito come quello descritto. Succede che se lo fa senza
l’accordo sindacale o autorizzazione, quale è l’effetto? È che quella prova che il datore ha acquisito
è inutilizzabile, potrebbe essere solo un danno e una beffa per il datore. Per evitare tutto questo ad
un certo punto della lunga storia dell’art 4 la giurisprudenza ha cominciato a parlare di controlli
difensivi legittimi da parte del datore: CONTROLLO DIFENSIVO LEGITTIMO la
giurisprudenza dice che è legittimo al di fuori dell’accordo sindacale e dell’autorizzazione
amministrativa se quel controllo ha ad oggetto una attività del lavoratore estranea all’attività
lavorativa. Il datore nel caso visto non sta controllando se la cassiera è diligente nell’eseguire la sua
prestazione, nel rilasciare ad es lo scontrino fiscale, ma sta verificando un controllo su un
comportamento di quella lavoratrice che nulla ha a che vedere con gli adempimenti contrattuali.
Quindi se il controllo ha questa finalità, verificare la sussistenza di un illecito penale o comunque
un fatto estraneo, non c’è bisogno dell’accordo o dell’autorizzazione, perché siamo fuori dal campo
di applicazione dell’art 4.
Questo ragionamento della giurisprudenza è stato fondamentale per una serie di ragioni: pensiamo
al caso poi fortunatamente risolto attraverso il giusto riconoscimento della legittimità dei
licenziamenti, al caso dei controlli svolti sui bagagli negli aeroporti.
Caso di moltissimi anni fa: c’era una società che si occupava dello smistamento dei bagagli
nell’aeroporto. La cooperativa aveva dei dipendenti che aprivano i bagagli e rubavano gli oggetti di
valore all’interno dei bagagli. Il problema era che inizialmente c’erano i controlli che il datore
faceva con telecamere ma in alcuni casi i giudici hanno affermato che si trattasse di controlli
illegittimi. Si trattava di prove inutilizzabili, quindi i licenziamenti che venivano fatti si
dichiaravano illegittimi. Fino a che la giurisprudenza non ammette la legittimità dei controlli
difensivi.
Nel 2015 l’art 4 viene riscritto non con uno stravolgimento di contenuto però ci sono degli elementi
di novità che tradiscono un po’ uno dei vizi della legislazione lavoristica degli ultimi 20 anni, cioè
una sorta di frattura, di separazione tra ciò che il legislatore annuncia e ciò che il legislatore
realizza. C’è una tendenza di “legislazione degli annunci” perché poi quello che accade non è quello
preannunciato. La riforma dell’art 4 per come annunciata viene presentata come una riforma che
consentirà qualsiasi forma di controllo nell’ambiente lavorativo superando i vecchi vincoli dell’art 4
però quando andiamo a vedere nel merito ci accorgiamo che le disposizioni dicono tutt’altro rispetto
a ciò che ha affermato il legislatore degli annunci.
L’art 4 intanto riconferma nella sua struttura sostanziale:
- che il controllo a distanza non può avvenire in forma diretta sull’attività lavorativa.
- Il controllo deve avere delle finalità meritevoli di protezione individuate dalla legge. E sono
le 3 individuate prima. (sicurezza lavoro, patrimonio ecc).
- È vero che deve esserci un accordo o in mancanza un’autorizzazione.

72
Si tratta di aspetti tutti confermati. Quindi uno sconvolgimento è solo un insieme di illusioni.
Le novità dell’art 4 sono sostanzialmente 2:
- Il secondo comma oggi prevede che le disposizioni di cui al comma 1 non si applica agli
strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di
legislazione degli accessi e delle presenze. Quindi c’è una eccezione alla regola generale,
c’è un’aerea nella quale non abbiamo bisogno dell’accordo sindacale e dell’autorizzazione e
quindi il controllo del datore può essere diretto.

“strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa”: cosa si intende?
Si fa riferimento agli strumenti tecnologici che il lavoratore usa per lavorare, quindi la posta
elettronica ad esempio, strumento se lo usa effettivamente per lavorare.
Qui il legislatore afferma che l’innovazione tecnologica ha comportato una tale
compenetrazione tra lo strumento di lavoro e il controllo che è impossibile distinguere lo
strumento dal controllo.
In questo momento ad esempio il soggetto professore sta eseguendo un’attività lavorativa e
sta utilizzando un computer, un programma e interloquendo a distanza con gli studenti: la
compenetrazione tra strumento e controllo in questo caso è inscindibile, non è possibile che
il professore possa fare diversamente la lezione, deve usare uno strumento per fare l’attività
lavorativa e si compenetra con il controllo stesso che lo strumento è in grado di realizzare.
Quindi in questi casi c’è una compenetrazione tra strumento e controllo che rende
impossibile prevedere una qualche forma di limitazione.
Questo è vero quando lo strumento è utilizzato solo per rendere la prestazione lavorativa
perché se c’è una utilizzazione anche personale (posta elettronica per prenotare ad es un
viaggio), allora quello strumento non è più solo uno strumento per rendere la prestazione
lavorativa e se questo accade è necessario che vi sia un accordo sindacale o
un’autorizzazione amministrativa. Quindi siamo di nuovo al punto di partenza.

“Strumenti di legislazione degli accessi e delle presenze”: ci riferiamo al lettore collocato


all’ingresso dei luoghi di lavoro che registra l’orario in cui si entra e l’orario in cui si esce.
Qui non c’è bisogno dell’accordo sindacale o autorizzazione amministrativa.

- Infine, le informazioni raccolte, sia sulla base del comma 1 dell’art 4 o le informazioni
raccolte sulla base del comma 2, non sono utilizzabili se non c’è stata l’informativa al
lavoratore. Sono utilizzabili se al lavoratore è stato indicato quali sono i dati che possono
essere raccolti attraverso lo strumento. Se il datore non informa il lavoratore le informazioni
che raccoglie sono inutilizzabili. Se il lavoratore non è messo a conoscenza ad es delle
istallazioni delle telecamere e viene licenziato, il lavoratore potrà sostenere che i dati
raccolti sono inutilizzabili ai sensi dell’art 4 comma 3 dello statuto dei lavoratori.
Se il datore ha il sospetto che il lavoratore stia commettendo illeciti e installa una telecamera
nascosta: si accorge che il lavoratore non ha commesso illeciti la telecamera nascosta è stata
utilizzata quindi illegittimamente, quindi il datore toglierà la telecamera e non dirà più nulla. Non è
che va a autodenunciarsi.

Lezione 06/04/20

Estinzione del rapporto del lavoro: i licenziamenti


Quando si inizia a parlare di una disciplina che liniti il ricorso al licenziamento?

73
La protezione del lavoratore trova un suo rafforzamento dopo l’avvento della Costituzione e nei
decenni successivi. La disciplina protettiva nel nostro ordinamento in materia di licenziamenti è
degli anni ’60 del 1900.
Con la crescita del sistema economico, con l’avvento della rivoluzione industriale alla fine dell’800
quello che andava emergendo nella storia appena iniziata del diritto del lavoro era che il lavoratore
aveva necessità di un vincolo a tempo indeterminato; quando abbiamo parlato del contratto a
termine abbiamo detto che il lavoratore vuole un rapporto di lavoro non precario, ma indeterminato
perché in questo modo il lavoratore può avere dei progetti, può avere degli obiettivi da raggiungere
e non dovrà preoccuparsi giorno dopo giorno quando quel rapporto scadrà.
C’è una regola generale secondo cui il rapporto di lavoro deve ritenersi a tempo indeterminato e c’è
una deroga secondo cui il rapporto può essere a termine.

Perché abbiamo parlato ora del contratto a tempo determinato?


Perché siamo di fronte ad una questione diversa, ma che ha un tratto in comune molto importante:
una volta che abbiamo attraversato il confine del tempo determinato e siamo entrati nel confine del
contratto indeterminato ci si pone un problema, anche se un contratto di lavoro è a tempo
indeterminato se poi il datore di lavoro può licenziare liberamente il lavoratore non è che si sia fatto
un gran passo in avanti; se il contratto è a termine normalmente il datore di lavoro non può
recedere prima del termine del contratto.
Es. se da una parte ho un contratto a termine che scade a ottobre 2020 e ho un contratto a tempo
indeterminato dall’altra part, se ci fosse una disciplina che permette al datore di lavoro di licenziare
liberamene il lavoratore sarebbe meglio per quest’ultimo avere un contratto a termine perché ha una
scadenza (almeno so che fino ad ottobre ho un contratto); se il datore di lavoro può licenziarmi
liberamente da un momento ad un altro è chiaro che sostanzialmente avere un contratto
indeterminato non da particolari garanzie al lavoratore.

Tutto quello che diremo serve a dare forza e sostegno ad una parola, cioè alla STABILITA’ del
rapporto di lavoro a tempo indeterminato prevede che ci siano dei limiti al potere di licenziare
perché se questi limiti non ci sono nessun contratto di lavoro indeterminato può essere considerato
stabile perché il lavoratore non ha nessuna garanzia. Per un paradosso è più stabile un contratto di
lavoro determinato in cui il lavoratore già sa quando finirà che un contratto indeterminato.
Se, dunque, c’è la necessità di una disciplina che limiti il licenziamento noi abbiamo bisogno che il
legislatore introduca una disciplina che vada in ricorso al licenziamento (questo è l’obiettivo di cui
tutti abbiamo bisogno).

Come era la situazione prima dell’entrata in vigore della Costituzione? Il licenziamento era libero,
non c’erano altre regole che questa. Nel diritto del lavoro delle origini valeva la regola del più forte,
il datore poteva licenziare quando voleva il lavoratore, non c’erano regole.
Il licenziamento era peraltro senza alcun onere di forma (non era necessario che fosse scritto).
Tutto ciò comportava una situazione di assoluta precarietà per il lavoratore; alle origini non c’era
nemmeno il contratto a termine. Era un diritto del lavoro che stava da una parte sola (datore di
lavoro).
Quali sono i passaggi successivi?
Noi abbiamo parlato del Codice civile del 1942 che aveva un’anima sociale, uno spirito diretto ad
introdurre tutele, protezioni per il lavoratore. La presenza di una disciplina protettiva emergeva ed
emerge sotto vari aspetti però sul piano dell’estinzione del rapporto di lavoro tale codice, che pure
aveva conosciuto dei profili solidali e protettivi, ha un’anima liberista, non ha un’anima che
valorizza la protezione sociale del lavoratore. La mancanza di protezione la troviamo in due
disposizioni:
1. Art. 2118 c.c. -> RECESSO CON PREAVVISO (recesso dal contratto a tempo
indeterminato) -> il datore di lavoro e il lavoratore sono su un piano di parità. Il datore di
74
lavoro può licenziare il lavoratore senza dover fornire alcun motivo di questa sua scelta così
come il lavoratore si può dimettere dal lavoro senza dare alcuna motivazione. L’unica cosa
che le due parti devono fare è dare un preavviso. Dal nostro punto di vista il codice del ’42
sta negando l’evidenza, noi sappiamo che il lavoratore e il datore non sono sullo stesso
piano perché per il lavoratore il licenziamento è un fatto drammatico. Le dimissioni possono
essere un problema per il datore di lavoro, ma non comparabile con il problema che ha il
lavoratore che rimane senza un reddito.
2. Art. 2119 c.c. -> RECESSO PER GIUSTA CAUSA -> riproduce la stessa logica della
libera recedibilità (ciascuna delle due parti può sciogliere il vincolo contrattuale), ma
introduce un elemento diverso, cioè quello della GIUSTA CAUSA. Se il recesso del
lavoratore (dimissione) o del datore di lavoro (licenziamento) avviene per una giusta causa
non è dovuto il preavviso ex art. 2118 c.c. non si definisce la giusta causa, ma dice che la
giusta causa è una causa che non consente la prosecuzione, neanche temporanea o
provvisoria del rapporto di lavoro. Nel 2119 c.c. saremo l’effetto della giusta causa, ma non
sappiamo che cosa spinge a definire così la giusta causa. Tutti i commentatori dell’epoca
condivisero una posizione, cioè che è evidente che debba trattarsi di qualcosa di grave.
Il secondo comma afferma che non costituisce giusta causa il fallimento dell’imprenditore
o la liquidazione amministrativa coatta dell’azienda -> se c’è un fallimento non possiamo
addossare la causa sul lavoratore e poi perché se c’è un fallimento non è detto che il
rapporto di lavoro debba cessare perché il fallimento dell’imprenditore potrebbe anche non
tradursi nella cessazione dell’attività di impresa, la quale poi in seguito potrebbe ripartire.
Per questo motivo se c’è un fallimento non per questo vi deve essere la cessazione dei
rapporti di lavoro.

Sono due disposizioni che si occupano del RECESSO. Queste disposizioni sono ancora vigenti. In
questo quadro di assoluta parità siamo di fronte ad un legislatore che non conosce e non valorizza la
differenza di posizione tra lavoratore e datore di lavoro.

Con l’avvento della Costituzione cambiano le coordinate in cui si muove il diritto del lavoro, le
quali sono destinate ad incidere fortemente sul tessuto del lavoro perché i principi costituzionali
ridisegnano il quadro in cui il rapporto del lavoro va a collocarsi:
- Principio di eguaglianza formale e sostanziale -> art. 3 -> l’eguaglianza sostanziale
prevede che sia compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale che impediscono lo sviluppo della persona umana. Se penso ad una disciplina in
grado di rimuovere gli ostacoli mi viene da pensare che se ho una disciplina che limita il
licenziamento e che quindi rende per il datore di lavoro più difficile licenziare, il lavoratore
ha davanti una disciplina che rimuove gli ostacoli perché viene messo in una situazione di
maggiore libertà (si libera di qualche ostacolo che rende la sua vita più difficile, incerta,
affidata agli umori del datore di lavoro).
- Diritto al lavoro -> art. 4 Cost. -> affermazione in si tende a voler vedere di carattere
retorico, ma significa che se la Costituzione riconosce il diritto al lavoro significa che il
licenziamento per ripicca, arbitrio e che non sia motivato da ragioni serie stiamo dicendo
che non consideriamo adeguatamente l’art. 4. Il licenziamento va a compromettere il diritto
al lavoro e per consentire che una parte possa compromettere u diritto di rango
costituzionale, almeno si stabilisca che lo faccia per una ragione seria, valida e non per una
qualsiasi.
- Tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni -> art. 35 Cost.
- Esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia -> art. 36

75
- Libertà di impresa -> art. 41 -> nel riconoscere la libertà di impresa pone dei limiti a
questa dicendo che questa non è illimitata, ma conosce il limite dell’utilitas sociale e
riconosce che non può svolgersi in contrasto con la libertà e la dignità umana.

Questi elementi ci portano a dire che per effetto della costituzione in Italia si pone un problema
molto grande che è quello di introdurre una limitazione alla libertà di licenziare. Questo avverrà con
la l.n. 604/1966 -> il legislatore per la prima volta introduce una disciplina che introduce un
limite al licenziamento. È uno spartiacque, non era mai successo prima in Italia.
Tale legge si occupa anche dei profili formali del licenziamento dicendoci che il licenziamento
deve avere forma scritta a pena di nullità.
Si tratta di una grandissima conquista di civiltà perché fino a quel momento il licenziamento era
libero e orale (poteva anche essere ad nutum, cioè facendo un segno con la testa). Arbitrio assolto
che si riproduceva non solo sulla sostanza, ma anche sulla forma. La mancanza di forma scritta era
fonte di ulteriori questioni perché non era nemmeno possibile stabilire la data certa del
licenziamento.
La forma scritta risponde ad un principio di trasparenza di una decisione. C’è un rendere atto
della scelta e si attribuisce a quella scelta una forma che ci da anche una certezza della data del
licenziamento.
Non solo il licenziamento deve essere pe riscritto, ma il datore dovrà nella lettera scritta indicare il
MOTIVO del licenziamento (requisito di forma -> forma scritta + motivazione). Se poi il motivo è
fondato o no è un’altra questione, è soggetto ad un controllo sostanziale.
Il motivo del licenziamento nella prima versione della l.n. 604/66 era così impostata: il datore
poteva licenziare il lavoratore indicando solo la forma scritta, ma non l’indicazione dei motivi; il
lavoratore entro 15 gg dalla comunicazione del licenziamento poteva chiedere i motivi al datore di
lavoro, il quale aveva 7 gg di tempo per comunicarli. Se il lavoratore non chiedeva i motivi il datore
non era tenuto a fornirli; se il lavoratore chiedeva i motivi, ma il lavoratore non li forniva allora il
licenziamento era inefficace, cioè nullo.
Oggi, per effetto di una riforma del 2012, il datore di lavoro deve fornire contestualmente i motivi
del licenziamento.

E sulla sostanza? Sulla sostanza la l.n. 604/1966 ci da due elementi fondamentali:


1. GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO ->
2. GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO oppure notevole inadempimento degli
obblighi contrattuali -> parliamo di che cos’è l’inadempimento, ma parlando di questo
parliamo di una questione propria del diritto civile. Che cos’è l’inadempimento? Per capirlo
dobbiamo capire che cosa sia l’adempimento cioè l’eseguire la prestazione dovuta per cui
l’inadempimento sarà il non eseguire esattamente la prestazione dovuta. Qui viene in
considerazione l’art. 1218 c.c. che ci dice che cosa è l’inadempimento. Il debitore che non
esegue esattamente l’obbligazione dovuta è dovuto al risarcimento del danno. Parliamo di
un comportamento non conforme agli obblighi contrattuali.
Ma se il lavoratore non ha adempiuto esattamente cosa succede? Il datore di lavoro può
licenziare il lavoratore, ma siamo sicuri? Dipende dalla gravità dell’inadempimento. Se ho
un inadempimento di scarsa importanza (art. 1455 c.c.) non posso licenziare e allora posso
irrogare una sanzione disciplinare (sanzioni conservative). Per il lieve inadempimento
avremo la sanzione conservativa. Quando l’inadempimento diventa notevole avremo il
licenziamento per giustificato motivo soggettivo
E la giusta causa? Questa era nel 2119 c.c., ma con il passare del tempo subisce una
metamorfosi perché prima serviva a distinguere il licenziamento con preavviso da quello
senza. Se il licenziamento era per giusta causa non era necessario il preavviso, però non
c’era altra conseguenza. Quindi, nel codice civile del 1942 se il datore dice che licenzia per
giusta causa non riconoscendo il preavviso e il lavoratore impugna quel licenziamento e
76
porta il datore davanti al giudice dicendo che la giusta causa non c’è e quindi gli spetta il
preavviso, il giudice potrà dare o meno ragione a quel lavoratore, ma l’oggetto di quella
causa sarà riconoscere o meno il preavviso al lavoratore e basta, non ci sono altre
conseguenze.
Con la l.n. 604/1966 l’art. 2119 c.c. subisce una metamorfosi perché se c’è la giusta causa il
licenziamento è legittimo, se non c’è il licenziamento è illegittimo. Se questo è corretto a
questo punto dobbiamo capire come si connettono la giusta causa e il giustificato motivo
soggettivo; se quest’ultimo è il notevole inadempimento, la giusta causa è il gravissimo
inadempimento. La distinzione tra giustificato motivo soggettivo e giusta causa è una
distinzione che si riferisce alla gravità dell’inadempimento.

Lezione 07/04/20

Quando siamo di fronte ad un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo
siamo di fronte ad un licenziamento che è disciplinare perché questi licenziamenti presuppongono
un rimprovero nei confronti del lavoratore. Quello che è venuto a determinarsi ad un certo punto
dell’evoluzione è stato che secondo l’art 7 dello statuto dei lavoratori, nel caso in cui il lavoratore
pone in essere un inadempimento contrattuale lieve che può tradursi in una possibile sanzione
disciplinare, allora è necessario che il ddl segua il procedimento indicato dall’art 7: preventiva
contestazione dell’addebito, termine a difesa e quando il procedimento si è concluso si valuta se
irrogare o meno la sanzione. Quindi questo esprime una serie di garanzie per il lavoratore
subordinato perché viene messo nella condizione di potersi difendere nel caso in cui ddl ritenga che
il lavoratore abbia commesso una negligenza, abbia violato un obbligo contrattuale.
Ma l’art 7 dello statuto si applicava alle sanzioni disciplinari, non si applicava al licenziamento
disciplinare perché non c’era una previsione espressa che si occupasse di questo aspetto. Ecco che
nel 1982 la corte costituzionale con la sent 204 intervenne sull’art 7 dichiarandone l’illegittimità
costituzionale nella parte in cui non era applicato all’ipotesi del licenziamento disciplinare. Il
problema era di parità, di uguaglianza perché si diceva che:
- se il lavoratore commette una lieve infrazione ha diritto alle garanzie dell’art 7
- se ha commesso una gravissima infrazione non viene riconosciuto l’art 7.
A fronte di una infrazione lieve al lavoratore veniva consentita la pox di difendersi, a fronte di una
infrazione grave il lavoratore non aveva la pox di difendersi. Ecco che si pronuncia la corte cost.
prevedendo che l’art 7 debba trovare applicazione anche al licenziamento disciplinare. Quindi il
licenziamento deve essere preceduto dalle garanzie previste dall’art 7. La questione che si pose
anche dopo la sentenza riguardava l’applicazione del primo comma dell’art 7, che riguarda il codice
disciplinare da affliggere nel luogo di lavoro. Questo perché si diceva che: è vero che la corte ha
detto che l’art 7 si applica anche al licenziamento, però se parliamo di giusta causa o di giustificato
motivo soggettivo le ragioni che sono poste a base di un licenziamento per giusta causa o
giustificato motivo soggettivo sono così gravi che sarebbe troppo pretendere che siano rilevanti solo
se affisse e previste dal codice disciplinare.
Quale era il problema? Non è che il datore deve scrivere “è vietato picchiare un collega”, si tratta di
comportamenti dei quali non vi è necessità di dire che siano dei comportamenti che nessuno deve
tenere. Questi comportamenti non li deve tenere solo il lavoratore subordinato ma nessuno in
generale, nessun cittadino. Non c’è la necessità di specificare questi fatti. Ad un certo punto la
giurisprudenza di legittimità e di merito pur condividendo la sent. della corte cost. hanno iniziato ad
avere dubbi in merito al primo comma. A parte tale considerazione tutto il resto è da acquisire, nel
senso che quando parliamo di licenziamento disciplinare dobbiamo considerare tutti gli elementi
che emergono nell’ambito del procedimento disciplinare. Quindi la preventiva contestazione
dell’addebito, il termine a difesa, il rispetto del termine e infine il provvedimento di irrogazione del
licenziamento disciplinare se a questo si arriverà.
77
(Sul piano del licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo e del
licenziamento disciplinare è concluso l’argomento.)
GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO: parliamo di una fattispecie della quale non viene
affatto in considerazione la colpa o il dolo del lavoratore, non si sta parlando dell’inadempimento
del lavoratore. Stiamo parlando di una ragione oggettiva quindi in senso lato di un qualcosa che
attiene all’organizzazione del lavoro del datore di lavoro. All’art 3 seconda parte della legge
604/1966 troviamo sancito: ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al
regolare funzionamento di essa. Il legislatore sta dicendo che stiamo parlando di un licenziamento
che ha a che fare con ragioni organizzative.
Viene in considerazione una serie di ragioni economiche che portano il datore al licenziamento,
non solo economiche ma in prevalenza sì. Racchiude scelte dell’imprenditore in punto di
organizzazione in relazione a questioni che hanno a che fare con la riduzione dei costi,
razionalizzazione ecc. Quali sono nello specifico le ragioni non possiamo dirlo poiché si collega
alla specificità del caso concreto. La legge del 1966 non ha mai subito modifiche normative in
questo punto. Questo ci offre una evoluzione giurisprudenziale che dura ormai da 50 anni, c’è un
diritto vivente, applicazione giurisprudenziale di una certa disposizione. Abbiamo quindi molti
elementi che possiamo trarre dagli insegnamenti della giurisprudenza per cogliere il significato
della disposizione. La disposizione ha finito per essere rappresentata in 4 elementi:
- RAGIONI POSTE A BASE DEL LICENZIAMENTO: la giurisprudenza ha detto per un
lungo lasso di tempo che si sostanziano in una situazione economica non favorevole nella
quale viene a trovarsi il datore. Una contingenza non favorevole o negativa. Tendenza
dell’impresa ad andar male, l’impresa arretra e perde terreno, dato che deve dimostrarsi
reale e dimostrabile. Non è sufficiente dire ma bisogna dimostrare con prove che siano
adeguate quale è la contingenza non favorevole. Le prove potrebbero essere: il calo del
fatturato, bilanci in perdita, devono essere ragioni serie e comprovate. Non basta un anno di
bilancio in perdita, un calo del fatturato non può essere di mille euro, deve essere notevole.
Bisogna aggiungere che in tempi più recenti la giurisprudenza ha ammesso che la ragione
posta a base del licenziamento potrebbe anche non essere una situazione economica non
favorevole ma potrebbe anche essere dettata da un’esigenza diversa, cioè il datore licenzia
perché il datore vuole aumentare il suo livello di reddittività. Attraverso la soppressione di
un posto di lavoro ottengo un aumento di reddittività. Questo ha messo in crisi molti
giuslavoristi, poiché si legavano le ragioni a momenti di difficoltà.

Questa giurisprudenza più recente, affermatosi circa nel 2016, induce ad una riflessione su
un altro elemento cioè sulla circostanza che non ha molto senso, cioè andare a sindacare nel
merito le scelte dell’imprenditore. Si potrebbe dire che il giudice non può andare a fare una
verifica nel merito delle scelte dell’imprenditore, altrimenti si va a sostituire. Se il giudice
valuta la coerenza delle scelte non sta entrando nel merito ma semplicemente verificando se
l’imprenditore è coerente con ciò che afferma e ciò che fa.

- SOPPRESSIONE DEL POSTO DI LAVORO: la giurisprudenza dice che il datore deve


quindi indicare le ragioni (primo elemento) e in secondo luogo provare la soppressione del
posto di lavoro. Il posto di lavoro deve essere stato soppresso e questa prova deve essere
data dal datore con assoluto rigore. Il datore non può bleffare, deve dimostrare il motivo. La
prova della soppressione è agevole quando siamo di fronte a una soppressione di tutte le
funzioni. Quando abbiamo un posto di lavoro abbiamo varie funzioni: soggetto risponde al
telefono, gestisce una parte della contabilità, si occupa della corrispondenza. Vengo
licenziato e il datore dice di aver soppresso il posto di lavoro, bisogna però valutare che tutte
le funzioni siano state soppresse (se la contabilità è svolto da un altro e la corrispondenza da

78
un altro non torna). C’è il rischio che questo venga individuato come una bleffa. È possibile
che sopprimendosi un posto di lavoro si sopprimono solo le funzioni prevalenti e che vi
siano delle funzioni residuali che vengono distribuite tra gli altri lavoratori.

ES: ammettiamo che la funzione F4 sia pari al 20% del posto di lavoro, quindi se cosi è in
questo caso non c’è niente di strano se quel 20% viene redistribuito tra tutti gli altri colleghi.
Il 20% delle funzioni residuali di cui ho ancora bisogno vengono quindi redistribuiti tra gli
altri colleghi. Ma ammettiamo che la funzione F4 sia pari all’80%, allora perché al
lavoratore non è stato indicato un part-time? Lo stesso si può dire anche nel caso del 20%
(magari il lavoratore rifiuterà però comunque è una proposta).

- NESSO DI CAUSA TRA LE RAGIONI POSTE A BASE DEL LICENZIAMENTO E


LA SOPPRESSIONE DEL POSTO DI LAVORO: sopprime il posto di lavoro perché
diventato inutile e da questo punto di vista il datore ha deciso di andare a eliminare una
funzione della quale si può fare a meno. Ma immaginiamo l’ipotesi in cui il datore dica che
la situazione economica è sfavorevolissima, ci sarebbe questo posto di cui posso fare a
meno, licenzio un dipendente che invece svolge una funzione che è molto utile. Siamo di
fronte al licenziamento asimmetrico. Occorre quindi dimostrare la coerenza della scelta che
l’imprenditore va a compiere. Scelta che deve essere caratterizzata da strumentalità logica.

- REPECHAGE O RIPESCAGGIO: il datore di lavoro che ha provato le ragioni, la


soppressione e il nesso di causa secondo la giurisprudenza deve provare che non è stato
possibile ricollocare quel lavoratore che è stato licenziato in mansioni diverse
all’interno del complesso aziendale. Mansioni alternative eventualmente anche inferiori.
Quindi si fa riferimento alla prova della ricollocazione. Si torna a far riferimento all’art
2103. Questo presuppone che ci sia una chiarezza nella posizione che assume il datore di
lavoro: deve provare che non è stato possibile ricollocare il lavoratore anche in posizioni
inferiori.

Se ho un reparto con 10 lavoratori che svolgono tutti la stessa attività: il datore intende licenziare
un lavoratore per contenere i costi, visto che si è ridotta l’attività. Se tutti svolgono la stessa
funzione come si fa a dire tizio piuttosto che caio? Qui viene fuori una questione importante, cioè
un’applicazione che dal punto di vista della legge, che non sarebbe secondo stretto diritto possibile,
si fa riferimento a criteri di scelta dei licenziamenti collettivi applicati anche nel caso individuale,
nel caso di specie (anzianità di servizio e minor carico famigliare).
Abbiamo detto che il licenziamento va intimato per iscritto e bisogna indicare i motivi, sempre in
questo quadro l’altra questione da mettere in evidenza è quella della PROVA: su chi grava l’onere
di provare la giusta causa o del giustificato motivo soggettivo o oggettivo? Sul DATORE DI
LAVORO. Deve dimostrare il fondamento della scelta.
La seconda questione è quella dell’IMPUGNAZIONE del licenziamento: posto che il lavoratore
viene licenziato dal ddl come il lavoratore deve procedere per impugnare il licenziamento? Esiste
una regola fissata dalla legge 204 cioè quella dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento.
Il lavoratore ha la facoltà di impugnare il licenziamento. L’impugnazione stragiudiziale è
l’impugnazione che il lavoratore manifesta attraverso un atto scritto, una raccomandata, con il quale
il lavoratore manifesta la sua volontà di impugnare e contestare il licenziamento che ritiene
illegittimo. C’è un termine di decadenza: 60 gg dalla comunicazione del licenziamento.
Nei successivi 180 gg da cui ha dato corso all’impugnazione stragiudiziale, il lavoratore ha la
facoltà se ritiene, di depositare ricorso nella cancelleria del giudice del lavoro, quindi impugnazione

79
giudiziale. Se il lavoratore non rispetta questi 2 termini decade dalla facoltà di impugnare il
licenziamento.

Lezione 15/04/20

GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO: per essere comprovato presuppone l’esistenza degli


elementi elencati. Occorre che alla base del licenziamento vi siano delle ragioni che secondo
l’impostazione tradizionale consistono in una situazione di difficoltà economica in cui si viene a
trovare il datore. Non si deve trattare necessariamente di una crisi, ma anche di una situazione
sfavorevole dal punto di vista economico. In base a questa situazione NON favorevole il datore si
decide a sopprimere un posto di lavoro (2°elemento: soppressione posto di lavoro). Per effetto di
tale decisione ci dovrà essere un NESSO DI CAUSA tra la soppressione e le ragioni (3°elemento:
ragione logica). Poi troviamo il REPECHAGE (4° elemento), cioè la pox di rintegrare il lavoratore
in una mansione anche diversa. Se non è possibile non avrò altra strada se non quella di procedere
al licenziamento.
Il datore nel valutare la pox di collocare il dipendente in mansioni diverse vede che è possibile,
magari in mansioni inferiori, lo può fare? Si va a far riferimento al tema delle mansioni, il
demansionamento. Si consente al datore e al lavoratore di sottoscrivere un accordo in base al quale
il lavoratore accetta di essere assegnato a mansioni inferiori pur di non perdere il lavoro. Quindi in
caso di giustificato motivo oggettivo il datore deve valutare se è pox ricollocare il dipendente in
mansioni equivalenti ma anche inferiori, in secondo luogo. Quindi il datore di lavoro deve provare
che non è possibile reinserire il lavoratore, quindi il licenziamento è l’extrema ratio, quando non è
possibile un’alternativa (come il repechage: frutto di una elaborazione giurisprudenziale coerente
con i principi del diritto del lavoro). Se esiste l’art 4 (tutela del lavoro) della costituzione è evidente
che la perdita del posto di lavoro deve essere l’unica alternativa, non ci sono altre strade, quando il
datore non trova alternative diverse allora ricorre al licenziamento. Vanno tentate prima tutte le altre
strade, ecco perché il licenziamento viene considerato l’estrema ratio.
Ecco perché nasce la disciplina per proteggere il lavoratore di fronte a un licenziamento illegittimo.
Siamo di fronte a un’evoluzione giurisprudenziale che è il frutto di una fisiologica evoluzione. Non
ci si deve stupire, ci sono anche patologie nell’applicazione della disciplina ma questo è del tutto
normale.
Le fattispecie: giusta causa, giustificato motivo soggettivo e giustificato motivo oggettivo hanno
delle caratteristiche comuni, sono normalmente ricondotti alle clausole generali.
CLAUSOLE GENERALI: cioè fattispecie a contenuto variabile. Cosa vuol dire? Che il legislatore
non individua una fattispecie in tutti i suoi elementi analitici, ci dà una fattispecie il cui contenuto
non è predeterminato e che ha degli elementi di particolare elasticità. Siamo di fronte ad una
fattispecie che richiede un margine di discrezionalità piuttosto ampio affidato al giudice. La
clausola generale comporta maggiore discrezionalità del giudice.
ES clausola generale: BUONA FEDE E CORRETTEZZA: clausole generali, cioè fattispecie a
contenuto variabile la cui concretizzazione avviene volta per volta sulla base dell’intervento del
giudice.
Perché il legislatore fa ricorso alle clausole generali? Immaginiamo che il legislatore non avesse
fatto ricorso alle clausole generali ma a ipotesi opposte: una fattispecie analitica. Invece di dire
NOTEVOLE INADEMPIMENTO, il legislatore avrebbe fatto un elenco. È evidente che la tecnica
della clausola generale semplifica molto la soluzione normativa poiché ha maggiore elasticità.
Nessuna elencazione potrà mai essere esaustiva allora è evidente che le clausole generali come
tecnica risulta più soddisfacente. La tecnica delle clausole generali ha comunque i suoi risvolti
negativi: aumentando la discrezionalità del giudice aumenta l’incertezza nell’applicazione.
Potremmo avere davanti a casi simili decisioni radicalmente opposte. Elemento di incertezza che
però si può governare attraverso i normali flussi dell’elaborazione giurisprudenziale (abbiamo 3

80
gradi di giudizio), è evidente che i giudici possono sbagliare e le decisioni sono appellabili. Quindi
è un rischio che vale la pena di correre perché le decisioni analitiche sarebbero troppo gravose.

Il licenziamento collettivo
Parliamo comunque di un licenziamento che avviene per ragioni economiche, che viene comunicato
al lavoratore o meglio a più lavoratori per ragioni economiche. Si connette ancora una volta al tema
di un andamento economico negativo. Andamento che evidentemente porterà il ddl alla scelta
estrema del licenziamento.
Se parliamo del licenziamento individuale e facciamo riferimento al giustificato motivo oggettivo,
cioè con ragioni connesse alla difficoltà, perché parliamo anche di licenziamento collettivo? La
differenza attiene prevalentemente alle dimensioni del fenomeno. Cioè quando noi siamo in
presenza di un licenziamento collettivo (pluralità di lavoratori) siamo davanti ad un fenomeno che
ha caratteristiche e ha conseguenze diverse rispetto al licenziamento individuale.
Involge un numero consistente diverso e conseguenze diverse. Cosa si intende? Se il datore licenzia
un dipendente per giustificato motivo oggettivo (poiché parliamo di ragioni economiche) parliamo
di un effetto importante nella sfera giuridica di quel lavoratore. Il lavoratore perde la sua fonte di
reddito. Se il datore licenzia 10 lavoratori, 100 lavoratori, indubbiamente la conseguenza di quel
licenziamento incide sulla sfera dei singoli lavoratori ma quella scelta ha delle ricadute sociali ed
economiche importanti, che vanno aldilà della posizione dei singoli.
ES: Immaginiamo un comune con 10 000 abitanti, c’è un’impresa con 1500 dipendenti, che ha
quindi un’importanza nel luogo. Se l’impresa decide di licenziare 1000 dipendenti, la ricaduta non
riguarderà solo le vite dei lavoratori, ma avrà una ricaduta sul territorio dal punto di vista sociale. Se
c’è un così grande numero di licenziamenti ci saranno esercizi commerciali che subiranno effetti
negativi sul consumo, i lavoratori tenderanno a spendere meno.
È per questo motivo che è necessaria una diversa regolamentazione del licenziamento collettivo
rispetto al licenziamento individuale. Licenziare più dipendenti significa avere un impatto sociale
importante. Tale disciplina ha un’origine nel diritto comunitario: la prima direttiva è del 1977 che
prevede l’introduzione di una disciplina specifica per i licenziamenti collettivi. Attuata in Italia nel
1991, con 14 anni di ritardo. Era in corso in Italia una grave crisi economica e nel 91 il recepimento
fu realizzato proprio in ragione della crisi economica.
La prima questione: quando si applica la disciplina dei licenziamenti collettivi?
Avremo l’applicazione quando saremo in presenza di imprese che hanno più di 15 dipendenti e
che intendono procedere ad almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 gg. Formula che identifica
il campo di applicazione nell’ordinamento italiano. Ciò che rileva non è quanti saranno alla fine i
licenziamenti, ma l’intenzione originaria del datore di lavoro.
Se siamo dentro il campo di applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi ecco che scatta
una procedura che il datore deve seguire per giungere al licenziamento collettivo: L 223/1991.
Parliamo di una procedura di licenziamento collettivo che deve precedere il licenziamento collettivo
stesso.
Il datore di lavoro in primis deve avviare una procedura di informazione e di consultazione
sindacale, coinvolgendo quindi i sindacati, le RSA o le RSU e alle rispettive associazioni di
categoria.
Questa comunicazione avvia una procedura di informazione e consultazione sindacale. L’art 4 della
L del 1991 prevede che le imprese che intendono esercitare la facoltà di licenziare collettivamente
devono darne comunicazione preventiva per iscritto alle rappresentanze sindacali aziendali,
dopodiché bisogna indicare che la comunicazione deve seguire delle caratteristiche.
La comunicazione segue tutte una serie di regole procedurali e deve contenere:

81
- Motivi che determinano la situazione di eccedenza: il datore deve scrivere il motivo per il
quale ritiene di procedere in questa direzione.
- Motivi tecnici, organizzativi o produttivi per i quali si ritiene di non poter adottare
misure idonee a porre rimedio alla situazione ed evitare in tutto o in parte il
licenziamento collettivo: il datore deve indicare quindi in primis i motivi e poi dimostrare
di aver valutato delle situazioni diverse ma non risultano praticabili (ES: invece di licenziare
il datore decide di trasformare alcuni rapporti in part time però è un ipotesi non percorribile
perché c’è una impossibilità di utilizzare anche a part time quelle prestazioni, perché c’è una
consistente diminuzione della attività produttiva).
- Numero della collocazione aziendale e dei profili del personale del personale eccedente,
nonché del personale abitualmente impiegato
- Tempi di attuazione del programma
- Eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale
- Altri elementi…
C’è un elemento molto importante, punto 3. Il datore deve fare un elenco di tutti, non con i nomi,
sarebbe un grave errore, elenco delle funzioni in cui si indica i profili professionali. (es: n1
impiegato 3° livello, n3 impiegati 5° livello ecc). Elenco quindi di tutti i dipendenti, eccedenti e non
eccedenti, questo perché devo motivare e mostrare quale è la situazione aziendale nella sua
oggettività, non interessano i profili personali dei dipendenti.
Il datore non può dire che un dipendente è più bravo di un altro. Se il dipendente ha commesso una
negligenza ci sarà un provvedimento disciplinare, ma il datore non può esprimere un giudizio di
valore, non è un giudice, non è titolare di un potere di valutazione morale. La comunicazione che il
datore ha trasmesso giunge nelle mani delle RSA o RSU e delle rispettive associazioni di categoria
e la parte sindacale ha 7 gg di tempo dal momento del ricevimento della comunicazione per
chiedere un esame congiunto. Il sindacato deve chiederlo altrimenti la procedura dopo 7 gg finisce.
L’esame congiunto viene fatto per valutare le cause che hanno contribuito a determinare
l’eccedenza di personale e la pox di utilizzazione diversa di tale personale.
In questa fase accade che il sindacato esercita il suo diritto di informazione e di consultazione e di
esame congiunto, quindi chiederà spiegazioni. Vorrà capire perché non sono possibili alternative e
spesso vi è anche una certa tensione. La procedura che tempi ha? Deve essere esaurita entro 45 gg
dalla data della comunicazione iniziale. Se le parti si incominciano a incontrare ma entro 45 gg non
giungono a nessuna soluzione, la legge prevede un ulteriore varco di 30 gg. La palla passa al
direttore dell’ispettorato del lavoro e prende atto del mancato accordo nella prima fase e convoca le
parti ad un tavolo chiedendo di raggiungere un accordo tentando un ulteriore esame congiunto.
L’esame congiunto deve esaurirsi entro 30 gg.
A questo punto, se non si raggiunge l’accordo la procedura deve comunque concludersi. Il termine
dei 45 gg e quello dei 30 non sono ritenuti tassativi. I 45 gg possono anche dilatarsi, come i 30
possono dilatarsi. Il legislatore non ha detto che i termini sono tassativi al fine di arrivare a un
accordo nel caso in cui non si trova. Se l’accordo comunque non si trova a un certo punto bisogna
prendere la decisione.
Sia che si sia raggiunto l’accordo sindacale sia che non si sia raggiunto l’impresa deve chiudere la
procedura. L’impresa ha facoltà di licenziare i dipendenti al termine della procedura. Si deve
procedere con un doppio regime di comunicazione. C’è la comunicazione che viene inviata ai
singoli lavoratori e la comunicazione che viene inviata agli uffici pubblici competenti per territorio
nonché alle associazioni sindacali.
La comunicazione inviata ai singoli lavoratori è una comunicazione in cui si rappresenta che al
termine della procedura di licenziamento collettivo vi è stata la presa d’atto della pox di concludere
il rapporto e quindi vi sarà l’estinzione del rapporto.

82
La comunicazione agli uffici pubblici e alle associazioni sindacali è diversa: bisogna indicare i
nomi dei lavoratori licenziati con l’indicazione di ciascun soggetto del nominativo, luogo di
residenza, qualifica, livello di inquadramento, età, carico di famiglia ecc. (art 4 comma 9 L 223),
nonché con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta (art
5 L 223/1991).
Cosa sono i CRITERI DI SCELTA? È evidente che se il datore deve licenziare un dipendente con un
licenziamento individuale la questione è più semplice, se deve licenziare 20 dipendenti la questione
è più complicata.
ES: se l’impresa ha 20 dipendenti e li licenzia tutti siamo di fronte a una situazione semplice (il
problema dello scegliere chi licenziare non si pone). Se l’impresa ha deciso di licenziare 4
dipendenti di 10 dipendenti di un reparto, perché ha scelto proprio quei 4? Poiché normalmente il
licenziamento collettivo non si traduce nel licenziamento di tutti, un criterio di scelta dovrà esserci
basato su un principio di ragionevolezza.
Il filtro ha due elementi: un elemento che attiene a quelli che chiamiamo i criteri sociali e l’altro
elemento riguarda i criteri organizzativi, la razionalità di impresa.
ES Ho licenziato quei 4 perché svolgevano le mansioni che io vado a sopprimere. (ad es 4 sono
alla contabilità e 6 alla amministrazione) decido di licenziare i 4 della contabilità perché ho
deciso di esternalizzare la contabilità che quindi non sarà più svolta dalla mia organizzazione.
Esempio che si appunta sul criterio della razionalità organizzativa.
ES diverso ho un ufficio dento il quale ci sono 10 lavoratori che svolgono tutti mansioni connesse
alla contabilità: ho deciso di ridurre questo ufficio da 10 unità a 5 perché ho fatto un investimento
tecnologico che mi consente di svolgere la funzione di contabilità con solo 5 dipendenti. Il criterio
della razionalità organizzativa non mi aiuta: occorrono dei criteri sociali. Ad es, potrei dire che
licenzio i dipendenti che hanno una minore anzianità di servizio perché si presume che il lavoratore
sia più giovane e sarà più semplice trovare un nuovo lavoro. L’altro criterio è quello dei carichi di
famiglia, ad es ho un dipendente che non ha figli e uno ne ha 3, ha un maggiore impatto sociale
licenziare il dipendente con 3 figli. Quindi c’è un intreccio tra i criteri ispirati alla razionalità
organizzativa, cioè esigenze tecniche produttive e i criteri sociali (anzianità e i carichi di famiglia).

Lezione 20/04/19
Riassunto lezione precedente:
Abbiamo descritto una procedura di licenziamento collettivi: sul piano generale si applica la legge
del 223/1991 e in particolare gli artt. 4, 5 e 24. Tale legge si applica a quei datori di lavoro che
hanno più di 15 dipendenti e che intendono effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120
giorni. C’è un programma originario che prevede il licenziamento di almeno 5 dipendenti, ma non è
detto che alla fine della procedura vi siano 5 licenziamenti, potrebbero essercene di meno, ma se si
superano occorre seguire la procedura. Aggiungiamo ora che ovviamente se per es. il datore di
lavoro dice che vuole licenziare 10 lavoratori e apre la procedura non può licenziarne di più perché
in questo caso il licenziamento sarebbe illegittimo.
Perché c’è una procedura di informazione e consultazione?
Perché si ritiene che in questo caso il controllo sul modo con cui il datore esercita il potere di
licenziare debba essere prima di tutto sindacale e pubblico ed è un controllo ex ante, cioè avviene
prima che ci sia il licenziamento.
È sindacale perché il sindacato è fondamentale nella procedura, è l’interlocutore fondamentale
della procedura di consultazione e informazione.
Il controllo è anche pubblico perché dopo i primi 45 giorni se non si trova un accordo sindacale
allora bisogna andare davanti all’ispettorato territoriale del lavoro. Questo tipo di controllo avviene
prima del licenziamento. Si è ritenuto adeguato questo controllo proprio in considerazione delle
caratteristiche del licenziamento collettivo, cioè che coinvolge più lavoratori ed ha delle ricadute
importanti non solo sui singoli rapporti, ma anche sul tessuto produttivo, economico e sociale di una
certa realtà territoriale.
83
Dentro questa procedura il sindacato deve svolgere un ruolo molto importante: si atteggia come
contropotere rispetto al potere del datore di lavoro; è una sorta di bilanciamento, un sistema di
contrappesi in modo da rendere fortemente controllata la scelta aziendale perché il sindacato ha
diritto a sapere come, quando, cosa, perché si fa la procedura, quale è il motivo dell’eccedenza etc.
etc.
Il datore non si deve sottrarre al confronto sindacale, non deve avere un atteggiamento di
chiusura, deve dialogare con il sindacato -> obbligo di confronto ispirato ai principi di
correttezza e buona fede, ma non è un obbligo di stipulare un accordo (l’obbligo a trattare non
corrisponde un obbligo a stipulare un accordo perché in questo caso saremmo di fronte ad una
violazione della libertà sindacale).
Quando diciamo che nel licenziamento collettivo c’è un controllo sindacale e pubblico, anche se
eventuale, non si intende dire che non può esserci un controllo giudiziale (se il lavoratore impugna
il licenziamento ci sarà), il quale è un controllo ex post (dopo che il licenziamento è stato intimato
dal datore di lavoro).

Procedura: il datore di lavoro comunica il licenziamento alle RSA e/o le rispettive associazioni di
categoria; nei 7 gg successivi le RSA e/o le rispettive associazioni di categoria chiedono l’esame
congiunto, abbiamo la trattativa e l’obbligo di informazione che si snoda in tutte le possibili
direzioni. Dobbiamo tener conto che potrebbe esserci una conflittualità nell’ambito delle relazioni
sindacali perché quando il datore comunica l’avvio di una procedura di licenziamento collettivo non
è infrequente che il sindacato possa ad es. dichiarare uno stato di agitazione, che vi possa essere
situazione di forte tensione sul luogo di lavoro per proteste sindacali proprio perché la partita in
gioco è importante, si parla di ridurre il personale, scelta che ha conseguenze drammatiche per parte
dei lavoratori. Si determina una situazione in cui ci sarà necessariamente un confronto, il quale sarà
molto aspro. Quando si toccano posti di lavoro è inevitabile che sia così.
Questo ragionamento va visto considerando anche ulteriori elementi: la presenza sindacale è
importante anche per il datore di lavoro perché il sindacato farà certamente la voce grossa e
cercherà di far valere il peso che le relazioni sociali e la legge gli attribuiscono, ma è evidente che
se il sindacato non fa nessun accordo non riesce ad attenuare gli effetti della procedura di
mobilità o licenziamento collettivo perché sarà il datore di lavoro a prendere da solo delle
decisioni; ma lo stesso imprenditore può avere un interesse ad aprire un dialogo con il
sindacato e lo stesso sindacato può avere interesse ad aprire un dialogo che porti ad un accordo con
il datore perché può attenuare gli effetti del licenziamento. L’imprenditore ha interesse a fare
l’accordo perché un licenziamento collettivo che avviene con il consenso del sindacato, con un
accordo espresso dal sindacato ha connotazioni meno conflittuali di una decisione che il
datore di lavoro prende solitariamente.
Ad ogni modo la procedura si deve concludere -> la fase del confronto sindacale dura 45 gg e se si
conclude senza un accordo interviene l’organo amministrativo e ci sarà il confronto presso
l’ispettorato del lavoro (entro i successivi 30 gg). Questi termini non sono tassativi, anche se
andiamo oltre i 45 giorni non c’è un’illegittimità che possa essere invocata perché l’intento del
legislatore era favorire l’accordo (si da più tempo per trovare l’intesa).
Ad un certo punto il datore comunicherà al singolo lavoratore il licenziamento e alle autorità
pubbliche competenti nonché ai sindacati l’elenco dei lavoratori licenziati indicando l’età la
collocazione professionale, residenza, carico di famiglia, modalità con le quali sono state applicate i
criteri di scelta etc. etc.

Cosa sono i criteri di scelta?


Abbiamo bisogno di individuare dei criteri di scelta per individuare i lavoratori da licenziare. A
differenza del licenziamento individuale qui si pone sempre la questione di quali lavoratori devono
essere licenziati (ne devono essere licenziati almeno 5). Se il licenziamento riguarda tutti non c’è

84
problema ad individuare i criteri di scelta, ma tutte le altre volte si pone la questione di quali
lavoratori licenziare e quali no.
Es. c’è un reparto di 10 dipendenti all’interno del quale abbiamo deciso di licenziarne 5. Occorre
fare riferimento ad alcuni criteri che riguardano la razionalità dell’impresa e il profilo sociale
della scelta.
L’art. 5 della l.n. 223/91 dice che i criteri di scelta sono previsti dai contratti collettivi, ma se
questi non ne fanno riferimento allora dovremmo guardare ai carichi di famiglia,
all’anzianità e alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale.

 ESIGENZE TECNICO-PRODUTTIVE ED ORGANIZZATIVE DEL COMPLESSO


AZIENDALE (TPO)-> qui si fa riferimento alla razionalità organizzativa dell’impresa,
cioè l’impresa decide di licenziare questo o quel lavoratore muovendo da una scelta che
dipende dall’organizzazione aziendale. Sopprimo quel posto di lavoro perché la mia scelta
organizzativa ricade su quel posto di lavoro.
Es. c’è un reparto che si occupa dell’assemblaggio di una serie di pezzi e io datore di lavoro
decido di esternalizzare la fase di assemblaggio ad una società in regime di appalto, quindi
non ho più bisogno di questo reparto. In questo reparto ci sono 10 dipendenti e la scelta dei
lavoratori da licenziare ricade su questi soggetti.
In questo esempio si può dire che potrebbe essere sufficiente solo questo criterio perché non
c’è qui da distinguere, ma non sempre questo esempio di verifica nella realtà perché se così
fosse sarebbe più semplice; ma spesso si parla di riduzione dell’attività, di contenimento e di
riorganizzazione dell’attività (è vero che sopprimo questo reparto, ma poi ho bisogno di
alcune figure che stanno in quel reparto he vado a mettere da un’altra parte).
Salvo il caso “semplice” della soppressione totale di un reparto di un’impresa, nella
normalità dei casi abbiamo bisogno di questo criterio perché solo questo ci fa capire se c’è
una scelta razionale del datore di lavoro, ma abbiamo bisogno anche dell’anzianità e dei
carichi di famiglia.
Se ho un reparto di 10 dipendenti e ho deciso di ridurre l’attività di quel reparto e licenziare
5 dipendenti e tutti quei dipendenti svolgono tutti le stesse mansioni, allora per stabilire
quali licenziare e quali no farò riferimento all’anzianità di servizio e ai carichi di famiglia (si
fa riferimento a quante persone vivono a carico del lavoratore, cioè figli minori e coniuge
che non ha lavoro).

 ANZIANITA’ DI SERVIZIO -> criterio di origini antichissime. Si tende a pensare che se


c’è un licenziamento collettivo tengo dentro chi lavora come me da più tempo (“premio”
con la permanenza del vincolo contrattuale quei dipendenti che stanno con me da più
tempo). Assume poi con il passare del tempo questo criterio una funzione sociale, cioè tengo
dento e non licenzio quei lavoratori con una maggiore anzianità di servizio perché hanno
un’età maggiore e il loro licenziamento avrebbe o potrebbe avere conseguenze più
importanti rispetto all’ipotesi di uno più giovane. Un lavoratore di una certa età farà più
fatica a ricollocarsi nel mondo del lavoro. questa concezione oggi è sempre meno vera
perché da un lato l’anzianità di servizio non è un parametro necessario per individuare l’età
anagrafica di un lavoratore (prima lo era). Criterio che mostra i segni del tempo;

 CARICHI DI FAMIGLIA -> consente di misurare l’impatto sociale di un provvedimento


come il licenziamento. Andare a licenziare un dipendente che ha 3 figli minori ha
conseguenze più importanti rispetto al licenziamento di un dipendente che non ha figli o ne
ha solo 1. Questo criterio conserva una sua attualità.

85
Questi criteri devono essere applicati in concorso tra loro, nel senso che questi criteri devono
essere applicati mai isolatamente, ma sempre tutti e tre. Dobbiamo verificare come renderli
coerenti e concorrenti tra loro, non devo mai fermarmi ad un solo criterio (ci sono casi in cui mi
fermerò ad un solo criterio, ma devo comunque verificare).

La contrattazione collettiva italiana a cui il legislatore attribuisce il compito di individuare i criteri


di scelta dei licenziamenti collettivi non ha dato prova di ricchezza di contenuti perché se andiamo a
vedere come la contrattazione collettiva è andata a individuare i criteri di scelta dobbiamo dire che
la contrattazione collettiva molto spesso ha fatto riferimento ai criteri legali. La circostanza che i
contratti collettivi facciamo spesso riferimenti ai criteri legali non cambia l’importanza di quel
riferimento perché quel riferimento vive dentro l’accordo sindacale e può subire degli
aggiustamenti, delle precisazioni, delle torsioni che le parti possono attribuire a questi criteri. C’è
una certa elasticità nell’inserire gli stessi criteri di scelta nella trama dell’accordo sindacale perché
questo consente alle parti sindacali di andare plasmare questi criteri secondo alcune particolarità e
specificità.

Il nostro legislatore è stato avaro di riferimenti sui criteri di scelta, il nostro sistema di
contrattazione collettiva oltre che a fare riferimento ai criteri legali, ha individuato criteri ulteriori
ai quali fare riferimento?
Si, fra questi troviamo il CRITERIO DELLA PROSSIMITA’ AL PENSIONAMENTO -> la
contrattazione collettava in molti casi ha fatto riferimento alla circostanza che il lavoratore fosse
vicino alla pensione per individuare quel lavoratore come da licenziare perché se io datore di lavoro
licenzio un lavoratore che da lì a poco percepirà il trattamento pensionistico l’impatto sociale del
mio licenziamento sarà molto modesto, almeno dal punto di vista del reddito. Anche se quel
lavoratore perde la retribuzione comunque di lì a poco percepirà la pensione e quindi sarà garantito
da punto di vista reddituale.
Quando il lavoratore viene licenziato all’esito di una procedura di licenziamento collettivo entra in
una procedura di ammortizzatori sociali, prima nell’indennità di mobilità (era un istituto proprio
del licenziamento collettivo) oggi nella Naspi (disoccupazione) che si applica sempre in caso di
perdita involontaria del posto di lavoro.
È chiaro che questa soluzione ha una ricaduta nel senso che prima questo dipendente andrà prima
nel trattamento di disoccupazione e poi andrà in pensione; se si avvia una procedura di
licenziamento collettivo, la quale si conclude con un accordo sindacale nell’ambito del quale
vengono individuati alcuni criteri di scelta tra cui quello della prossimità al pensionamento ed
applicando questo accordo si potrà apprezzare che alcuni dipendenti prima passeranno dal
trattamento di disoccupazione per un anno e poi andranno in pensione perché a distanza di un anno
avranno maturato il trattamento pensionistico.
È successo che ad un certo punto tra il 2011 e il 2012 con la riforma Fornero venne modificata la
disciplina dell’età pensionabile e, se fino a qualche tempo prima le regole relative al pensionamento
prevedevano che il lavoratore arrivasse ai 57/58 anni e poi percepiva la pensione, con la riforma
Fornero gran parte della disciplina precedente viene cambiata e si prevede un’età molto più
avanzata (età massima 70 anni). È successo che in molti accordi conclusi nell’ambito delle
procedure di mobilità, che avevano come criterio di scelta quello della prossimità al pensionamento,
il lavoratore avrebbe prima avuto il riconoscimento del trattamento di disoccupazione e poi sarebbe
andato in pensione compiendo i 61 anni di età; la riforma Fornero non ha tenuto conto di questi
accodi stipulati qualche anni prima rispetto alla riforma stessa ed è accaduto che questi lavoratori
venivano licenziati, andavano in disoccupazione e quando finiva e andavano per chiedere la
pensione gliela negavano perché l’età pensionabile non era ancora stata raggiunta perché nel
frattempo la legge l’aveva portata a 70 anni. Questa riforma ha creato delle situazioni drammatiche
perché c’erano migliaia e migliaia di lavoratori che avevano perso il lavoro, non avevano la
pensione, ma sulla base di un accordo sindacale avrebbero dovuto andare in pensione come
86
previsto. Questa situazione ha costretto il legislatore ad intervenire svariate volte per mettere riparo
questa grave mancanza del legislatore nella riforma pensionistica, il quale si è dimostrato incapace
di cogliere il senso delle sue stesse decisioni perché un legislatore ragionevole avrebbe dovuto
immaginare e soprattutto sapere che c’erano anche gli accordi sindacali di gestione degli esuberi.

Lezione 21/04/20

L’onere della prova della giusta causa e del giustificato motivo oggettivo o soggettivo grava sul
datore di lavoro che deve provare il fondamento. Nel licenziamento è necessario che si attui questa
condizione. La prova deve essere fornita dal datore di lavoro.
Altra questione importante è quella dell’impugnazione del licenziamento. Il licenziamento deve
essere impugnato dal lavoratore entro 60 gg dal licenziamento stesso. Si tratta dell’impugnazione
stragiudiziale del licenziamento: atto scritto che il lavoratore comunica con un mezzo idoneo che
consente di poter fornire una prova nel caso di contestazione dell’avvenuta consegna
(raccomandata con avviso di ricevimento). Egualmente il licenziamento deve essere comunicato per
iscritto con un mezzo idoneo, ugualmente pensiamo ad una raccomandata con avviso di
ricevimento. Parliamo di atti recettizi, negozi giuridici che producono il loro effetto quando
vengono a conoscenza dell’altra parte. È onere del soggetto che invia la comunicazione dare prova
nel caso di contestazione di avere consegnato quell’atto, negozio, quindi dare una controprova del
ricevimento. Questo vale sia per il licenziamento che per l’impugnazione che deve essere portata a
conoscenza del datore. L’impugnazione stragiudiziale deve essere idonea a manifestare la volontà
del lavoratore di impugnare e contestare il licenziamento che il lavoratore ritiene illegittimo.
Quindi l’impugnazione è un atto necessario per il lavoratore se intende contestare l’atto di recesso.
Questo mezzo è idoneo nel senso che il lavoratore dovrà utilizzare lo strumento della raccomandata.
Se parliamo sempre dell’impugnazione stragiudiziale teniamo conto che l’impugnazione non
esaurisce il tema perché almeno da un decennio, per effetto di una riforma del 2010, il lavoratore
una volta che ha impugnato stragiudizialmente, nei successivi 180 gg deve depositare il ricorso
nella cancelleria del giudice del lavoro. Quindi è un atto complesso a formazione progressiva. Se
ritiene di impugnare il licenziamento deve farlo entro determinati termini. Se il lavoratore non
rispetta i 60 gg o i 180 gg decade dalla facoltà di contestare la legittimità del licenziamento.
Questo prevede in particolare l’art 6 della L 604/1966 come modificato dalla L 183/2010.
Sempre per completare il ragionamento e per affrontare tutti gli aspetti, teniamo conto che c’è
un’altra questione che riguarda il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo.
Rispetto all’argomento già visto, bisogna dire che c’è un profilo procedurale che riguarda il
licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Se c’è questo tipo di licenziamento e viene in
considerazione da un datore che ha più di 15 dipendenti, deve prima di procedere al licenziamento
seguire una procedura che viene definita tentativo obbligatorio di conciliazione.
Come funziona? Il datore deve inviare una comunicazione all’ispettorato territoriale del lavoro,
trasmessa anche al lavoratore, e indicare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo
oggettivo e indicare i motivi di licenziamento.
L’ispettorato trasmette al datore e al lavoratore una convocazione per tentare questa conciliazione.
In questo contesto le parti possono essere assistite dalle organizzazioni sindacali ma anche da un
avvocato o da un consulente del lavoro. Procedura piuttosto semplice perché il datore manda la
comunicazione all’ispettorato, quest’ultimo convoca le parti per il tentativo di conciliazione. Se si
trova l’accordo bene altrimenti è inevitabile che il datore giungerà al licenziamento.
L’estinzione del rapporto non avviene quindi unilateralmente con il licenziamento ma sulla base di
una scelta consensuale, il rapporto cesserà comunque ma con una scelta condivisa. Potrebbero
essere previste misure per favorire la ricollocazione professionale ad esempio il datore potrebbe far
riferimento alle società outplacement, società che prendono in carica il lavoratore licenziato e
avviano un programma di formazione per il lavoratore cercando di collocarlo nel mercato del
lavoro.
87
Quando parliamo di licenziamento illegittimo parliamo di una serie possibile di vizi che
riguardano il licenziamento. L’illegittimità può essere connessa alla mancata indicazione dei motivi
nella lettera del licenziamento, può essere intimato il licenziamento con la procedura prevista dalla
L 604 per il gmo intimato dal datore che ha più di 15 dipendenti, può essere illegittimo per
mancanza di giustificazione; anche nel licenziamento collettivo parliamo di illegittimità per
violazione della procedura di informazione o per violazione dei criteri di scelta. Quindi la categoria
dell’illegittimità conosce tante variazioni. C’è una illegittimità che si connette al profilo formale e
uno al profilo sostanziale.
Questo quadro composito è delicato da esaminare perché oltre alla questione di cosa c’è dietro
l’illegittimità c’è una questione ancora più importante, cioè quale è la conseguenza che
l’ordinamento giuridico riconnette alla violazione delle regole previste dalla legge in materia di
licenziamento. Il legislatore dice che ci sono varie modalità per il licenziamento, ma una volta
indicati i profili di legittimità e quindi di illegittimità il legislatore si fa carico anche di invidiare le
conseguenze sanzionatorie che derivano dalle violazioni. Siamo di fronte ad una questione
piuttosto ingarbugliata.
Abbiamo avuto molte riforme che hanno profondamente inciso non tanto sulla fattispecie
licenziamento ma ha inciso in modo importante su quali sono le conseguenze che derivano dal
mancato rispetto delle regole in tema di licenziamento.
Viene in gioco l’art 8 della legge 604: prevede che quando risulti accertato che non ricorrono gli
estremi per licenziamento per giusta causa, giustificato motivo oggettivo o soggettivo, il datore è
tenuto a riassumere il lavoratore o in mancanza a risarcire il danno versando un’indennità
compresa tra un min di 2.5 e un max di 6 mensilità dell’ultima retribuzione, avuto riguardo al
numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del
prestatore di lavoro e al comportamento e alle condizioni delle parti. Aggiunge che: la misura
massima può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il lavoratore con anzianità superiore ai 10
anni e fino a 14 con anzianità superiore a 20 anni.
Viene in gioco un insieme piuttosto articolato di questioni. L’art 8 prevede quella che i lavoristi per
decenni hanno chiamato la cd tutela debole. Cioè se il licenziamento è ingiustificato allora il ddl
che vede dichiarare illegittimo dal giudice il licenziamento, può riassumere il lavoratore o in
alternativa corrispondergli una indennità. Nell’esperienza della legge 604 poiché questa alternativa
è posta nelle mani del datore, non risulta sia mai accaduto che il datore abbia detto di riassumere il
lavoratore.
Questa indennità ha un min e un max ma può subire un aumento in ordine all’anzianità di servizio.
Questa è quella inquadrata della cd tutela debole perché di lì a poco, e dopo la legge 604, arriverà
l’art 18 dello statuto dei lavoratori che invece nell’immaginario dei giuslavoristi è l’espressione
non della tutela debole ma forte.
Cosa prevedeva originariamente l’art 18? Dal 1970 al 2012 prevedeva che in caso di licenziamento
illegittimo intimato da un datore che occupa più di 15 dipendenti o che ne ha 60 nel complesso (15
in ambito comunale o 60 nel complesso nazionale), in questo caso, quando vi sono questi requisiti
dimensionali, l’art 18 prevedeva in caso di licenziamento illegittimo la reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro.
Per questo motivo, se il lavoratore veniva licenziato nel 1999 e veniva poi reintegrato a seguito di
un processo che durava 5 anni, il lavoratore aveva diritto ad essere reintegrato e a recepire tutte le
retribuzioni dal licenziamento fino alla ricollocazione.
Quindi se mettiamo a confronto l’art 8 e l’art 18 è evidente che c’è una tutela forte nell’art 18. Una
tutela fortissima, un rimedio caratterizzato da una straordinaria capacità dissuasiva nei confronti del
datore che dovesse spingersi a licenziare un dipendente con leggerezza.
Sempre all’art 18 si prevede che il datore oltre a dover reintegrare il lavoratore e dare lui la
retribuzione, deve versare anche i contributi per quel periodo considerato. Il datore intima il
licenziamento, il lavoratore impugna il licenziamento, arriva la sentenza dove il giudice ordina la
reintegrazione. Molti hanno detto che l’art 18 era il terribile rimedio. Nessun datore si avventura
88
verso licenziamenti intimati con leggerezza, con approssimazione, perché le conseguenze
sanzionatorie sono importanti.
Il lavoratore di fronte alla sentenza che ordina la reintegrazione aveva ed ha la facoltà di chiedere in
sostituzione della reintegra una indennità pari a 15 mensilità. Questa richiesta deve essere
effettuata entro 30 gg dall’invito del datore a riprendere servizio. E’ il lavoratore che sceglie.
Questo è quanto prevedeva l’art 18 nella sua originaria impostazione, molto cambiata da una
riforma nel 2012, la riforma Monti-Fornero.
È importante chiarire ora una cosa, qual è il campo di applicazione dell’art 18? Quando si applicava
e quando si applica anche oggi? Parliamo di datore di lavoro, imprenditore o non che in ciascuna
sede, stabilimento, filiale o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle
sue dipendenze più di 15 lavoratori o più di 5 se imprenditore agricolo (ambito comunale) e al
datore che occupa più di 60 lavoratori nel suo complesso.
La prima soglia da tenere presente è 15 o 5 in ambito agricolo in senso generale, più di 60 nel
complesso. Quando si superano queste soglie allora avremmo l’applicazione dell’art 18. Se sotto
queste soglie l’art 8 della legge 604. Data la spiegazione quel è il problema che abbiamo davanti?
C’è una differenza significativa tra i licenziamenti intimati da un datore che ha meno di 15
dipendenti e un datore che ha più di 15 dipendenti, c’è una differenza importante in termini di
tutela. Quella prevista dalla legge 604 è una tutela debole: corrispondere la max misura delle 6
mensilità, o 10 o 14, dal punto di vista del datore l’aspetto potrebbe essere non così importante. Il
max rischio è pagare al max 14 mensilità, è un rischio che il datore può correre. Il datore potrebbe
dire di licenziare, accordare 3 mensilità con il lavoratore e chiudere ogni questione.
Nel caso dell’art 18 cambia la prospettiva, se il datore dice di voler chiudere il rapporto con il
lavoratore, è possibile arrivare a un accordo o non fare accordi perché il datore ritiene di aver
ragione. Il datore corre un rischio diverso: potrebbe arrivare a pagare molte mensilità. Le accuse che
furono lanciate nei confronti dell’art 18 furono le più varie poiché il rimedio si poneva troppo
forte che poneva una serie di problemi per l’impresa. Per questo motivo le imprese sono poco
propense ad assumere perché temono l’applicazione dell’art 18, preferiscono rimanere sotto la
soglia dei 15 dipendenti per non vedersi applicato l’art 18. Preferiscono muoversi in una
dimensione più bassa e non è giusto che in tanti casi si arrivi alla reintegra quando le ragioni poste a
base del licenziamento in realtà sono serie. Argomenti diversi che si rivelavano anche molto deboli.
C’è una premessa da fare cioè che la reintegrazione opera se il licenziamento è illegittimo. Il
rimedio previsto dalla legge andava a colpire il comportamento illegittimo no legittimo.
La risposta sanzionatoria deve essere proporzionata. Si tratta di un dibattuto continuamente aperto
ma questo è argomento che presuppone comunque che ci si trovi di fronte ad un atto illegittimo.
Sovrapporre fattispecie ed effetti non è corretto e giuridicamente improponibile. Il problema non è
così banale perché c’è un ulteriore aspetto, posto che parliamo di licenziamenti illegittimi il
ragionamento che si pone è che la giurisprudenza può averci sorpreso con decisioni che hanno
lasciato esterrefatti i commentatori.
Non ci si può stupire davanti a un comportamento illegittimo, però la giurisprudenza in molti casi
ha dichiarato illegittimi licenziamenti che non erano da ricondurre in tale ambito. Se questa è la
contro obiezione vuol dire entrare nel merito della decisione. Se ragioniamo della giustezza del
provvedimento, della legittimità della decisione discutiamo del sistema processuale. È inevitabile
che ci sono casi in cui emerge una sorta di diritto opinabile, i giudici del lavoro hanno esagerato in
alcuni casi. Ciò è difficile da dire, è normale che ci sono degli eccessi, ci sono state soluzioni non
comprensibili però o accettiamo che c’è un sistema processuale oppure non lo accettiamo. Se lo
accettiamo sappiamo che c’è il sistema delle impugnazioni e ci muoviamo dentro quello.
Le clausole generali del gmo, gms e giusta causa, sono norme a contenuto variabile che vedono
necessariamente un intervento del giudice che si fonda su una discrezionalità piuttosto ampia.
È il legislatore che ha creato un sistema di clausole generali, non era possibile indicare tutte le cause
giuste e non giuste. Saggiamente il legislatore ha fatto ricorso alle clausole generali. Oggi non ci
possiamo stupire se in quello spazio discrezionale ci possono essere soluzioni, caso per caso, che
89
non sono ritenute magari giuste perché il giudice è un essere umano e può errare. Dobbiamo fare
attenzione alla circostanza che ovviamente molto spesso quanto leggiamo sui giornali non ci
descrive correttamente quanto avviene in una vicenda processuale. Il giornalista, anche se in totale
buona fede, potrebbe identificare la vicenda in modo non corretto.
Casi che risale a molti anni fa: tribunale di Milano infermiere licenziato perché ha preso a calci
un paziente in corsia. Il licenziamento è illegittimo perché non è proprio vero che l’infermiere ha
preso a calci il paziente e l’infermiere era stressato in quel periodo. Se le cose stanno a come
descritte ci sono molti motivi per ritenere criticabile la decisione infatti si può fare ricorso. Interessa
identificare che c’è una fattispecie e quella fattispecie può avere degli eccessi nell’interpretazione.
Ragionamento che incontra anche un altro aspetto legato al tema economico che porta alla riforma
del 2012: l’art 18 è un ostacolo dello sviluppo economico perché non consente all’imprenditorie
di organizzare con maggiore elasticità il personale. Quel dibattito sulla anti economicità porterà a
una riforma nel 2012 che ha ridotto l’integrazione nel caso dell’art 18. Oggi abbiamo
un’applicazione più circoscritta dell’integrazione. Ormai 8 anni dopo quella riforma se
l’obiettivo era facilitare la crescita occupazionale, possiamo dire che aver depotenziato l’art 18 non
ha comportato una crescita occupazione, purtroppo il livello di disoccupazione non è migliorato per
effetto della riforma dei licenziamenti. Non è migliorato nemmeno in seguito alla riforma del 2015.

Lezione 28/04/20

Disciplina dei licenziamenti che per lungo periodo non ha subito modifiche e poi a partire dal 2012
il legislatore è intervenuto a più riprese modificando la disciplina con interventi molto importanti.
Ripercorriamo alcuni passaggi già toccati:
1. l.n. 604/1966
Dal punto di vista dell’illegittimità del licenziamento se parliamo di giustificazione del
licenziamento prevede una tutela economica.
2. L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori
Aveva introdotto una disciplina più energica rispetto a quella prevista dalla l.n. 604/66 perché nel
suo testo originario prevedeva la reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro in caso di
licenziamento illegittimo (TUTELA REINTEGRATORIA PIENA). Il lavoratore, che impugna
il licenziamento e che vede accogliere il suo ricorso dal giudice, ha diritto ad essere reintegrato nel
posto di lavoro e a percepire tutte le retribuzioni mancate (dal momento del licenziamento
illegittimo al momento della reintegrazione del posto di lavoro). Si tratta di un rimedio
particolarmente efficace, dotato di un grande livello di effettività perché con l’intervento dell’art. 18
in buona misura si va a ripristinare lo status quo ante al licenziamento, si va a ricostruire la
situazione in modo da farla coincidere con ciò che era prima del licenziamento. Inoltre, il lavoratore
si vede versati anche i contributi previdenziali sulla retribuzione che percepisce.
Nell’art. 18 è prevista anche l’indennità sostitutiva della reintegrazione, cioè se il lavoratore
decide di non essere reintegrato e optare per l’indennità sostitutiva riceverà una reintegra pari a 15
mensilità, ma anche tutte le retribuzioni dal momento del licenziamento illegittimo fino all’effettiva
reintegrazione. Il lavoratore deve manifestare questa sua opzione per l’indennità sostitutiva della
reintegrazione entro 30 gg dall’invito che il datore gli ha fatto di prendere servizio. Il datore
potrebbe non voler invitare il lavoratore a prendere servizio e lo può fare, ma sostiene un costo
perché fino a quando non lo reintegra e non lo invita a prendere servizio deve pagargli la
retribuzione. La presa di principio del datore di lavoro non è economicamente una soluzione molto
intelligente perché sostanzialmente paga a vuoto ina retribuzione. Si discute se l’inottemperanza
all’ordinane giudiziale del datore possa considerarsi anche un illecito penale.
Il legislatore del ’70 si fede carico di chiarire che l’art. 18 non si applica a tutti i datori di lavoro,
ma a quei datori di lavoro imprenditori o non imprenditori che hanno alle proprie dipendenti più di
15 lavoratori subordinati o se si tratta di impresa agricola più di 5; si applica egualmente ai datori di
lavoro imprenditori o no che in ambito comunale hanno più di 15 dipendenti e anche all’impresa
90
agricola che in ambito comunale abbia più di 5 dipendenti. Infine, si applica l’art. 18 al datore di
lavoro che in ogni caso occupa più di 60 dipendenti nel suo complesso. Al di sotto della soglia in
questione si applica la l.n.604/66.
- Più di 15 dipendenti -> art. 18 Statuto dei lavoratori
- Più di 60 lavoratori nel complesso -> art 18
- Più di 5 lavoratori nell’impresa agricola -> art. 18
- Al di sotto di questa soglia si applica la l.n. 604/66
Questa distinzione (più o meno di 15) ce la portiamo dietro per un lungo tratto, ma questa situazione
è poi cambiata, rimane la questione dei 15 dipendenti ma si atteggia in modo diverso.

3. Riforma Fornero (2012)


Ragioni della riforma: nasce con l’intento di affrontare alcuni nodi critici del mercato del lavoro
italiano che secondo alcuni commentatori era troppo rigido e in cui si erano create delle propensioni
verso un’eccessiva burocratizzazione, verso un’eccessiva difficoltà di attivare meccanismi elastici
finalizzati ad una maggiore aggregazione della domanda. Tutto questo è un discorso che viene
portato avanti dagli economisti e filtra nel dibattito comunitario e ad un certo punto la situazione
anche molto difficile in cui l’Italia si è venuta a creare sul fine 2011 porta a delle scelte importanti
che vengono fatto da un governo di tecnici nominato dall’allora presidente della Repubblica
Napolitano, cioè il governo Monti. Tale governo è stato nominato da Napolitano nel momento
peggiore della situazione economica italiana e quello che accade è che il legislatore interviene su
vari fronti per risanare i conti pubblici e in questo quadro complessivo di riforme si mette mano al
sistema pensionistico con tagli anche molto dolorosi e si interviene ugualmente sul piano della
disciplina del licenziamento all’insegna della formula “ce lo chiede l’Europa”.
La crescita occupazionale non è mai connessa alle riforme che riguardano il diritto del lavoro, ma si
verifica quando ci sono fattori economici importanti che garantiscono la crescita del paese e se c’è
la crescita del paese ci sarà sicuramente una crescita del paese. Il diritto da solo non può far crescere
il sistema economico, al massimo può non ostacolare la sua crescita.

Quello che accade nel 2012 è sorprendente se visto con gli occhi di oggi perché la maggioranza
parlamentare dell’epoca si determina a spingere su una riforma dei licenziamenti, ma la
maggioranza dell’epoca esprime un forte compromesso perché è formata da centro destra
(Berlusconi) e centrosinistra (Partito democratico); è difficile immaginare che forze così diverse
possano fare sintesi. Poiché quella riforma sostanzialmente ripercorre una direzione piuttosto
contraddittoria e compromissoria, quello che è accaduto è che alla fine abbiamo avuto una riforma
dei licenziamenti che doveva avere l’input di realizzare una liberalizzazione, un allentamento dei
vincoli della disciplina dei licenziamenti, ma non si realizza questo effetto o comunque si realizza
con delle ambiguità sorprendenti. Ammesso che sia vero che l’Europa ci chiedeva di cambiare la
disciplina dei licenziamenti (il professore dice di no perché l’Europa al massimo ci chiedeva di
flessibilizzare il mercato del lavoro e potevamo realizzare questo obiettivo non necessariamente
intervenendo sulla disciplina dei licenziamenti, ma intervenendo su altri profili) nel 2012 la riforma
Fornero non realizza questo obiettivo perché l’art. 18 non viene abrogato, ma riformulato e
soprattutto tale articolo rimane una disposizione che non realizza l’obiettivo della chiarezza e della
certezza della regolazione.
Da un punto di vista di un’esigenza di celerità e di semplificazione è evidente che innanzitutto si
ricerca la certezza delle regole (abbiamo bisogno di sapere come funziona la disciplina dei
licenziamenti. L’imprenditore datore di lavoro preferisce sapere che cosa accade se licenzia un
lavoratore sbagliando) per poter programmare la propria attività; se questo è vero la riforma ha
completamente fallito il suo obiettivo, anzi ha aggravato la situazione perché se prima della riforma
alla domanda: “qual è la conseguenza del licenziamento illegittimo in caso di applicazione dell’art.
18?” la risposta era sempre la reintegrazione del posto di lavoro; dopo la riforma del 2012 a questa

91
domanda non è possibile rispondere in un colpo solo perché abbiamo introdotto 4 regimi diversi di
conseguenze sanzionatorie. Se prima c’era solo la reintegrazione, dopo il 2012 ci sarà:
1. Reintegrazione piena
2. Reintegrazione attenuata
3. Tutela economica da 12 a 24 mensilità
4. Tutela economica da 6 a 12 mensilità

Non è solo la circostanza che ci siano 4 regimi sanzionatori, ma è la circostanza che


l’individuazione di questi regimi è nebulosa, molto complicata, non è facile per l’interprete poter
individuare il campo di applicazione che viene in considerazione volta per volta. È difficile cogliere
una distinzione chiara tra l’applicazione della c.d. reintegrazione attenuata e la tutela economica 12-
24. Quindi, se l’effetto voleva essere quello di semplificare, non solo non si è realizzato, ma si è
realizzato l’effetto contrario.
Inoltre, secondo alcuni c’era una certa difficoltà a tradurre in inglese il testo attuale dell’art. 18
perché alcuni termini non sono trasferibili in un’altra lingua. Non è un bel biglietto da visita se
l’obiettivo è quello di condividere un approccio generale di natura europea.
Qui non c’entra rendere meno complesso licenziare o togliere la reintegrazione, il punto è che la
confusione che caratterizza questo ventaglio di rimedi incide negativamente sulla possibilità
dell’imprenditore di organizzare le proprie scelte e quindi è davvero clamoroso che questo si
realizzi ad opera di una maggioranza parlamentare e di un Governo che avevano come obiettivo la
traduzione in regole semplici e comprensibili una disciplina molto importante come quella dei
licenziamenti.

La c.d. reintegrazione piena, quella che prevede che il lavoratore venga reintegrato nel posto di
lavoro e che abbia diritto a percepire tutte le retribuzioni dal momento del licenziamento illegittimo
fino alla reintegrazione, rimane solo per il licenziamento discriminatorio, ritorsivo e nullo (es.
quando il licenziamento è intimato in forma orale).

- LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO -> un licenziamento è discriminatorio tutte le


volte in cui sia stato intimato con l’esclusivo fine di discriminare un lavoratore. La
discriminazione conosce una grande pluralità di possibili direzioni e possiamo dirlo anche
grazie ai d.lgs. 215 e 216 del 2003 perché questi due d.lgs. hanno ampliato l’area della
discriminazione andando ad includere ipotesi a cui prima non si faceva riferimento (es. la
discriminazione razziale esisteva già da tempio, ma dal 2003 si parla di discriminazione per
origine etica; esisteva da molto tempo la discriminazione religiosa, ma oggi si parla di
discriminazione ANCHE per convinzioni religiose). C’è un ampliamento dei fattori
discriminatori (es. per età, per obesità, per disabilità etc. etc.). Parliamo di un licenziamento
che raggiunge il massimo dell’odiosità. Se il licenziamento ha questa finalità è evidente che
già sulla scorta dei principi generali del diritto civile potremmo ritenerlo nullo perché i
negozi giuridici che hanno alla base un motivo illecito sono nulli. Quindi, è un motivo
illecito che rende nullo il negozio e a questa conclusione potremmo arrivare anche senza
l’art. 18, anche se è bene che ci sia perché codifica la nullità del licenziamento
discriminatorio e quindi ci permette di sostenere con maggiore facilità il percorso che ci
porta dall’etica al diritto di ritenere che il licenziamento discriminatorio debba essere colpito
dall’ordinamento con particolare durezza proprio per la gravità del fatto.
Detto questo, è evidente che c’è un problema: il licenziamento discriminatorio ha la
caratteristica che il lavoratore ha l’onere di provare l’esistenza della discriminazione e
molto spesso è una prova difficile da fornire perché il datore che cerca di non lasciare tracce
di questa sua finalità discriminatoria. Quella del lavoratore non è una probatio diabolica, ma
è certamente molto complessa.
92
Es. datore di lavoro licenzia il lavoratore formalmente per giusta causa (es. ha commesso
una grave negligenza); il datore è onerato di provare la giusta causa, è su di lui che grava
l’onere di provare l’esistenza della giusta causa. Se il lavoratore ritiene di aver subito una
discriminazione è lui a dover provare l’esistenza di questa discriminazione. Gli oneri
probatori entrano in circolo nell’ambito di una stessa vicenda.
Da questo punto di vista siano tutti d’accordo nel ritenere che se il licenziamento è
discriminatorio la conseguenza debba essere quella più grave, cioè la NULLITA’ del
licenziamento, per cui è improduttivo di effetti e il lavoratore ha diritto a tornare a
lavorare e alle retribuzioni che non gli sono state corrisposte. Viene applicato il vecchio
sistema della reintegrazione piena.

- LICENZIAMENTO RITORSIVO -> stesso discorso fatto sopra vale per il licenziamento
ritorsivo. Si ha questa forma di licenziamento quando il datore di lavoro intima il
licenziamento per vendetta, per ritorsione, per rappresaglia. Il licenziamento è animato
da un intento vendicativo del datore di lavoro.
Es. il lavoratore chiede un aumento retributivo al datore di lavoro e questo lo licenzia.
Es2. Il lavoratore fa presente che sul luogo di lavoro ci sono sostanze nocive per la salute e
chiede che siano rimosse e il datore lo licenzia.
C’è un onere probatorio molto faticoso che grava sul lavoratore. Anche in questo caso il
licenziamento è nullo e anche qui l’art. 18 nuova formulazione prevede che sia attratto nel
vecchio sistema del 18 vecchio testo.
Il licenziamento è nullo anche quando intimato alla lavoratrice madre, quindi nel periodo
che intercorre tra lo stato oggettivo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del
bambino.

- LICENZIAMENTO NULLO

La prima cosa che fa la riforma del 2012 è accorpare tutte le ipotesi nelle quali il licenziamento è
caratterizzato da una particolare odiosità.

Il passo successivo è quello di individuare le ipotesi a cui si applica invece la REINTEGRAZIONE


ATTENUATA. Qui il legislatore fa un ragionamento difficile da comprendere anche dal punto di
vista logico prima che giuridico perché dice che se c’è un licenziamento per giusta causa o c’è un
licenziamento per giustificato motivo soggettivo e c’è in queste ipotesi insussistenza del fatto
contestato allora ci deve essere la reintegrazione attenuata.
La reintegrazione attenuata si ha quando il lavoratore viene reintegrato nel posto di lavoro, ma
anziché percepire tutte le retribuzioni dal momento del licenziamento fino all’effettiva
reintegrazione si prevede un tetto massimo di indennità pari a 12 mensilità. Reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro e corresponsione al lavoratore di una indennità massima di 12
mensilità. Quindi, è una reintegrazione con una limitazione importante perché se il processo dura 10
anni e la sent. condanna il datore di lavoro alla reintegra la conseguenza sarà che il lavoratore viene
reintegrato, ma percepirà comunque un’indennità di 12 mensilità quale che sia la durata del
processo. In questo senso è una reintegrazione attenuata nei suoi effetti più pesanti.
Questa soluzione risponde anche ad un’esigenza reale perché nel sistema precedente, che in parte
ancora esiste per i casi di reintegrazione piena, quello che può accadere è che la durata del processo
finisce per incidere molto pesantemente sugli effetti della sentenza del giudice (se la causa durasse
un anno l’effetto sarebbe un anno di retribuzione, ma da questo punto di vista la lentezza del
sistema processuale finisce per essere pagata dal datore di lavoro). la reintegrazione attenuata è una
risposta anche ragionevole rispetto a degli effetti dell’art. 18 che non sono nemmeno responsabilità
dello stesso art. 18, ma della lentezza processuale.

93
Il problema è che noi cosa sia l’insussistenza del fatto contestato che porta a dirci che se presente ci
deve essere reintegrazione attenuata non è facile dare una risposta.
Questa formula ha creato grandi perplessità negli interpreti: se il datore ha contestato un fatto che si
rivela insussistente c’è la reintegra attenuata, se invece il fatto è sussistente allora ci potrebbe essere
l’ipotesi di un’applicazione di una tutela 12-24; allora questa distinzione tra fatto contestato
insussistente e sussistente su che cosa la basiamo? È difficile da chiarire questo aspetto, possiamo
dire che occorre che il fatto abbia connotazioni di illiceità. Il fatto contestato altro non è che
l’inadempimento di un obbligo contrattuale che può essere gravissimo nel caso della giusta causa
oppure notevole nel caso del giustificato motivo soggettivo.
Questa insussistenza del fatto va poi calata nella realtà e si traduce un meccanismo molto insidioso:
quando il datore di lavoro avvia un procedimento disciplinare deve stare molto attento ad
individuare quel fatto con sufficiente margine di precisione perché se quel fatto non viene provato
dal datore di lavoro è evidente che il fatto è insussistente e ci sarà una reintegra attenuata.
Es. c’è un lavoratore che è dipendente del supermercato e viene sorpreso mentre si reca presso uno
scaffare, apre un contenitore in cui c’è il vino, beve lo ripone sullo scaffale. Il datore di lavoro
scrive una lettera di contestazione in cui scrive: “X in data tot ha rubato una confezione di vino in
scatola”; il datore di lavoro licenzia il lavoratore per aver rubato il vino. Il fatto contestato è il furto
di una confezione di vino rubata dallo scaffale del supermercato in cui il dipendente lavora. Si
svolge il processo e il giudice accoglie il ricorso del lavoratore e dichiara l’illegittimità del
licenziamento per insussistenza del fatto contestato perché il fatto contestato è “il lavoratore ha
rubato il vino”, ma il giudice afferma che prendere dallo scaffale una confezione di vino, aprirla e
riporla sullo scaffale non è un furto perché l’art. 624 c.p. prevede che il furto sia la sottrazione della
cosa con finalità di trarne profitto, ma qui il lavoratore non ha sottratto la cosa, questa è rimasta lì
dove era. Il datore ha contestato u fatto che non sussiste perché il fatto era un’appropriazione
indebita, una sottrazione di una cosa ma non con le modalità del furto. Quindi, poiché il fatto
contestato non sussiste avremo la reintegrazione attenuata.
Si applicherebbe la reintegrazione attenuata all’ipotesi di insussistenza del fatto contestato della
giusta causa e del giustificato motivo oggettivo e si applicherebbe la reintegra attenuata nel caso
in cui vi sia la manifesta insussistenza del fatto posto a base del giustificato motivo oggettivo.
Che significa manifesta insussistenza? Un fatto o insussistente o non lo è, non c’è un fatto che
manifestatamente insussistente mentre un altro un po’ meno. La terminologia del legislatore ci
disorienta.
Ma che significa insussistenza del fatto posto a base del giustificato motivo oggettivo? Non c’è un
fatto posto a base del giustificato motivo oggettivo, il quale è una fattispecie complessa. Il
legislatore ci lascia con grande sorpresa nella difficoltà di comprendere a cosa si riferisce e sia la
dottrina che la giurisprudenza hanno cercato di dare una spiegazione all’oscura formula usata dalla
legge e si ritiene prevalentemente (non in modo esclusivo) che il fatto a base del giustificato motivo
soggettivo è la soppressione del posto di lavoro.

Lezione 29/04/20
Nell’area della reintegrazione attenuata dobbiamo aggiungere ulteriori fattispecie:
- LICENZIAMENTO INTIMATO AL LAVORATORE PER INIDONEITÀ
SOPRAVVENUTA ALLA PRESTAZIONE: il lavoratore diventa inidoneo per un
problema ad esempio di salute.
In questo caso cosa prevede il nostro ordinamento? Che se il lavoratore si trova in tal
situazione il datore deve attivare un procedimento rivolgendosi al medico competente, cd
sorveglianza sanitaria, affinché verifichi se c’è o non c’è effettivamente l’inidoneità e
laddove sia verificata, stabilire dove sia venuta meno e se in tutto o in parte. Bisogna anche
valutare quali possono essere le possibili mansioni da affidare al lavoratore, anche inferiori,
compatibili con lo stato di ridotta idoneità.
94
ES: lavoratore che svolge un lavoro dove solleva carichi importanti e per un problema alla
schiena non può più svolgere tale attività, allora fa presente che ha tale sofferenza, il ddl
attiva il circuito con il medico competente che prende atto dell’inidoneità e indica al ddl
quali potrebbero essere delle mansioni diverse che il lavoratore può svolgere. Il ddl deve
verificare se nell’ambito della sua organizzazione aziendale è possibile ricollocare il
lavoratore in mansioni diverse eventualmente anche inferiori. Se questo non è possibile
allora ci sarà un licenziamento per inidoneità sopravvenuta alla prestazione.

In questo caso, se il licenziamento viene impugnato dal lavoratore riuscendo a dimostrare


per es. che il datore ha sbagliato perché l’inidoneità non è stata correttamente rappresentata,
che c’era la possibilità di ricollocarlo in mansioni diverse e riesce a convincere il giudice,
anche in questo caso si applica la reintegrazione attenuata.

- LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL COMPORTO DI MALATTIA:


ES: art 2110 del cc prevede che se il lavoratore si ammala il rapporto rimane sospeso per un
periodo max (periodo di comporto) durante il quale il lavoratore non può essere licenziato.
Una volta che il comporto è scaduto solo a quel punto il datore può licenziare il lavoratore.
Peraltro, secondo l’impostazione ormai consolidata il comporto è frazionato: immaginiamo
che il comporto sia di 6 mesi complessivi, è chiaro che se il lavoratore si assenta un mese,
poi un altro, poi 15 gg, tutti questi periodi vanno sommati fino a quando non si arriva alla
soglia della durata massima. Quale è il punto fondamentale? Se il datore sbaglia a calcolare
la durata complessiva, il licenziamento è illegittimo e si avrà la reintegrazione attenuata.
Tutte le altre ipotesi di giusta causa, giustificato motivo oggettivo/soggettivo, che non ricadono
nelle ipotesi in cui si applica la reintegrazione attenuata, si applicherà la tutela economica da un
min di 12 mensilità ad un max di 24.
Infine, la cd tutela economica dimezzata, cui spetta una min di 6 mensilità e una max di 12, si
applica nei casi in cui:
- il licenziamento sia stato dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di
cui all’art 2 L 604: il datore comunica per iscritto il licenziamento ma comunica il
licenziamento senza i motivi.
- nell’ipotesi in cui sia stato dichiarato illegittimo per violazione dell’art 7 dello statuto dei
lavoratori: ad es la contestazione non è specifica, tempestiva ecc.
- nell’ipotesi in cui sia illegittimo in violazione dell’art 7 della legge 604: Es: succede che il
datore non ha rispettato la preventiva procedura di conciliazione che è prevista nel caso del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato al datore che ha più di 15
dipendenti. Se il datore non esperisce tale procedura avremo la tutela economica dimezzata.
Soluzione, in questi 3 casi, che è piuttosto timida rispetto alla reintegrazione e comunque anche
rispetto alla tutela economica (min 12 max 24). Qui si parla di un min di 6 e un max di 12,
qualcosa di molto contenuto che somiglia tanto alla vecchia 604.
Quando diciamo che il datore di lavoro nella lettera di licenziamento omette di indicare i motivi e
che la conseguenza è una tutela da 6 a 12 mensilità, dobbiamo aggiungere anche un altro elemento:
è vero che siamo di fronte a una tutela da 6 a 12 però se il datore quando comunica il licenziamento
non indica i motivi dobbiamo pensare che quando il lavoratore decide di impugnare il
licenziamento, il datore non deve contestare solo questo vizio, potrebbe ad ES dire che mancano i
motivi ma oltre a questo è anche manifestatamente insussistente il fatto che tu hai posto a base il
licenziamento. Il lavoratore potrebbe articolare il ricorso con una pluralità di domande: in via
principale potrebbe dire che il licenziamento è discriminatorio, in via subordinata che manca la
giustificazione e che non sono indicati formalmente i motivi.
95
Dal punto di vista processuale è evidente che se il datore non ha indicato i motivi, questo ha una
ripercussione più generale nel processo. Quando il lavoratore dice che il datore non ha indicato i
motivi e poi chiede di dimostrare la giusta causa o il gmo è chiaro che il datore è in difficoltà,
perché non avendo indicato i motivi mette in cattiva luce la posizione del datore, è poco trasparente.

Lo stesso discorso per il licenziamento disciplinare: è vero che se c’è un vizio procedurale che
riguarda l’art 7, oggi l’art 18 dello stesso statuto ci dice che si applica la tutela economica da 6 a 12
mensilità. È anche vero che una contestazione generica è una contestazione rispetto alla quale la
posizione del datore è piuttosto debole, ha l’onere di provare la giusta causa, il gmo, ma se ha
l’onere di provare e il suo licenziamento non è in grado di provare quali sono i fatti che sono stati
contestati al lavoratore, questo inciderà aldilà della pochezza delle mensilità. Il lavoratore potrà
articolare le sue domande in modo piuttosto articolato. Quindi non è mai una buona regola prendere
troppo poco sul serio l’esigenza di motivare il licenziamento e di seguire la procedura disciplinare.
Quindi abbiamo un vecchio art 18 che prevedeva una conseguenza generale, la reintegrazione, la
corresponsione delle retribuzioni dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, il pagamento
dei contributi per lo stesso periodo. Riguardava il datore con più di 15 dipendenti o che in un
ambito comunale avesse più di 15 dipendenti o che nel complesso avesse più di 60 dipendenti. Si
considera anche l’impresa agricola con più di 5 dipendenti.
Il nuovo articolo 18, in vigore dal 2012, ha previsto il ventaglio descritto: c’è la reintegra piena,
attenuata, tutela economica 12-24, tutela economica dimezzata 6-12. Per quanto riguarda il campo
di applicazione del nuovo articolo è rimasto lo stesso.
Se il campo di applicazione è lo stesso, il punto è che dire che si applica l’art 18 oggi non significa
necessariamente dire che si applica la reintegrazione.
È dimostrato quindi che non c’è stata una semplificazione con la riforma del 2012 nel senso che non
si può dire che oggi sia chiaro quali sono le conseguenze che derivano dall’illegittimità del
licenziamento ove si applichi l’art 18. Non un rimedio ma addirittura 4.
Quando c’è il provvedimento del giudice che ordina la reintegrazione, il datore di lavoro a quel
punto se siamo di fronte all’applicazione della reintegrazione piena o attenuata, il datore deve
invitare il lavoratore a riprendere servizio. Fino a quando non lo fa deve comunque continuare a
pagare la retribuzione. Quando il datore invita il lavoratore a riprendere servizio il lavoratore deve
decidere cosa fare. Può decidere di riprendere o di optare per la indennità sostitutiva della
reintegrazione. In questo caso il lavoratore ha la facoltà di chiedere, in sostituzione della
reintegrazione, un’indennità pari a 15 mensilità. In questo senso la richiesta deve essere effettuata
dal lavoratore entro 30 gg dall’invito del datore a riprendere servizio.
Se il lavoratore rimane inerte e non si fa avanti il rapporto cessa. Il rapporto si intende risolto
quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro 30 gg dall’invito del datore, salvo il caso in
cui abbia chiesto l’indennità sostitutiva. (art 18)
Si può aggiungere che il datore potrebbe anche revocare il licenziamento: il lavoratore viene
licenziato e il datore può revocare il licenziamento entro il termine di 15 gg dalla comunicazione
dell’impugnazione del lavoratore. Il rapporto quindi si intende ripristinato con diritto del lavoratore
anche della retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca. Il datore potrebbe infatti
rendersi conto di aver sbagliato. Il datore però potrebbe anche dire intanto di licenziare il lavoratore,
se poi quest’ultimo impugna allora revoca il licenziamento altrimenti no e decorsi 60 gg (termine
impugnazione), gli effetti del licenziamento si consolidano.
Caso dei lavoratori che rientrano nell’art 22 dello statuto: lavoratori che sono ricondotti alla
categoria dei dirigenti delle RSA: in questo caso, quando siamo di fronte ad un licenziamento, su
istanza congiunta del lavoratore e del sindacato a cui aderisce, il giudice può disporre con ordinanza
la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. Siamo di fronte ad una sorta di via previlegiata
(esigenza di protezione del sindacalismo nel posto di lavoro).
L’art 18 a un certo punto finisce sul banco degli imputati, che mettono in discussione l’articolo
ritendendo che ha prodotto grandi difficoltà al funzionamento del mercato del lavoro, ha impedito la
96
dinamicità. Possiamo dire che la riforma FORNERO del 2012 ha ridimensionato la portata della
tutela reintegratoria del posto di lavoro, ma ha reso anche di difficile comprensione dove si trovi la
tutela reintegratoria, in quale parte dell’art 18 vada a configurarsi.
Per questo motivo il legislatore qualche anno dopo, nel 2015, con il cd JOBS ACT e con la
disciplina del cd contratto a tutele crescenti, ritorna sul tema dei licenziamenti e c’è una nuova
riforma.
Parliamo del d.lgsl 23/2015: riforma della disciplina dei licenziamenti. Riforma molto importante.
La prima cosa da dire è che il decreto 23 non tocca l’art 18, non torna sull’art 18 che rimane come
era prima; individua una nuova disciplina dei licenziamenti che è generalmente applicabile a tutti i
rapporti di lavoro che sono sorti dal momento in cui entra in vigore il decreto.
7 marzo 2015: diventa una data importante: si stabilisce quale disciplina dei licenziamenti si
applica ai rapporti di lavoro. Che sono sorti dal 7 marzo il decreto 23, ai rapporti sorti fino al 7
marzo (si deve trattare di datori che hanno più di 15 dipendenti) si applica il vecchio ma riformato
(legge Fornero) art 18 dello statuto dei lavoratori. Il vecchio ma vigente art 18 è una disposizione ad
esaurimento.
Se siamo in presenza di un’impresa che prima del 7 marzo ha meno di 15 dipendenti e che supera i
15 dipendenti dopo il 7 marzo a quell’impresa non si applicherà l’art 18, ma l’art 23. Questo
previsto nell’art 1 del decreto 23.
Quale è allora la disciplina del decreto 23? È una disciplina che mette nell’angolo con una
maggiore certezza la reintegrazione. Anche nel nuovo regime ci sono casi in cui si applica la
reintegrazione, ma sono dei casi estremamente circoscritti di quanto lo siano già nel nuovo art 18. Il
legislatore ci dice che anche i rapporti sorti dal 7 marzo, se il licenziamento è discriminatorio,
ritorsivo o comunque nullo, in questi casi si applica la reintegrazione piena come nel vecchio art.
18. È una questione di civiltà che non c’entra niente con le riforme.
C’è un’ipotesi anche di reintegrazione attenuata nel decreto 23: in caso di licenziamento per
giusta causa, per gms, in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto
materiale contestato al lavoratore rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la
sproporzione del licenziamento. Ipotesi che somiglia all’insussistenza del fatto di cui abbiamo visto
all’art 18, però il legislatore va più in profondità. Questione delicata poiché il legislatore interviene
sul tema quasi a polemizzare contro la giurisprudenza che era maturata tra il 2012 e 2015. Il
legislatore cerca di stringere il più possibile per evitare che il giudice voglia applicare la
reintegrazione.
Quindi aggiunge la parola MATERIALE: non fatto in senso giuridico. Soluzione normativa molto
discussa e discutibile perché è inutile la parola materiale, perché è evidente che stiamo parlando di
insussistenza di un fatto e stiamo comunque parlando di un fatto riconducibile ad un inadempimento
notevole.
Il legislatore qui vorrebbe dirci che in sostanza la reintegra attenuata si può applicare solo se il
datore ha licenziato il lavoratore per un fatto che non esiste. I giudici hanno fatto notare che il fatto
nell’ambito va apprezzato come inadempimento, quello che viene fuori e che poi anche nel periodo
2015/2020 si ha, è che i giudici hanno avuto da ridire sulla interpretazione del fatto. Hanno
nuovamente ampliato il raggio di azione della tutela reintegratoria con riferimento a questa
specifica ipotesi.
La questione fondamentale è che il decreto 23 prevede in via generale che aldilà di questo unico
caso, per tutto il resto il decreto 23 prevede una tutela economica in caso di licenziamento
illegittimo. Bisogna fare alcune precisazioni, perché la tutela economica di cui ci parla il decreto 23
è stata comunque oggetto di importanti previsioni in tempi recenti. L’originario testo del decreto 23
prevedeva che vi era una tutela economica in tutti i casi di licenziamento illegittimo, diversi dalla
reintegrazione piena e attenuata, che aveva una soglia minima di 4 mensilità e una soglia max di 24
mensilità però il legislatore aveva previsto che la soglia minima di 4 per arrivare a 24 si dovesse
fare riferimento all’anzianità di servizio del lavoratore. La soglia minima di 4 spetta anche se lavoro
da un giorno per il resto si faceva riferimento alla anzianità.
97
È assolutamente irrilevante il maggiore o minore disvalore del licenziamento illegittimo. Caso di un
datore che licenzia il lavoratore che giunge sul luogo di lavoro con 10 minuti di ritardo. Il fatto
materiale sussiste, già questo consente di escludere la reintegrazione attenuata (c’è il fatto
materiale). Si applica la tutela economica ma senza andare a vedere se il fatto, solo facendo
riferimento all’anzianità di servizio.
Cosa succede rispetto alla soluzione originaria prevista dalla riforma del 2015? C’è un doppio
passaggio, il primo si ha con il decreto dignità del 2018 che modifica anche la disciplina del
contratto a termine. Alza le indennità da 4 a 24 e le porta da 6 a 36 ma lascia fermo il criterio di
calcolo connesso sempre all’anzianità di servizio.
Il secondo passaggio si concretizza con una sent. della Corte costituzionale, n 194, che dichiarerà
l’illegittimità costituzionale dell’art 3 del decreto 23 nella parte in cui prevede il meccanismo di
predeterminazione automatica dell’indennità prevista in caso di licenziamento illegittimo. Si dice
che il meccanismo che consente di stabilire quale è l’entità dell’indennità, quello dell’anzianità, è
incostituzionale. Non può andar bene che vi sia questa stretta correlazione, quindi dice che va bene
tenere conto anche dell’anzianità ma bisogna tener conto anche di altri elementi che sono la
convinzione delle parti e il comportamento di esse, ma anche la dimensione occupazionale del
datore. Nel determinare tra il minimo e il massimo il giudice dovrà tener conto dei vari elementi. La
corte aggiunge che l’indennità ha anche una funzione dissuasiva verso quei comportamenti del
datore che risultano contrari alla legge e secondo una diversa gradazione dell’offensività.
L’esito del ragionamento è che saltando il meccanismo della determinazione automatica connessa
all’anzianità oggi il giudice è libero, nel caso di licenziamento illegittimo, di individuare una soglia
che va da un min di 6 a un max di 36, senza connetterla necessariamente all’anzianità di servizio.
Meccanismo che può avere anche degli effetti particolari, effetti diversi per il lavoratore che opera
nel raggio dell’art 18.

Lezione 04/05/20

INDEROGABILITA’
Il diritto del lavoro si fonda su norme inderogabili. L’inderogabilità è la caratteristica fondamentale
del diritto del lavoro e non è possibile inserire delle deroghe peggiorative alla disciplina
giuslavorista, mentre è sempre possibile introdurre un trattamento di miglior favore per il
lavoratore.
La scala di inderogabilità prevede la presenza dell’accordo individuale, del contratto collettivo e
della legge -> questi elementi si intrecciano tra loro nel diritto del lavoro, c’è una dinamica che
sempre caratterizza questi intrecci.
L’inderogabilità si atteggia in tanti modi diversi, essa vive nel momento genetico del rapporto, nel
momento funzionale e in entrambi i casi si atteggia in modo diverso. L’inderogabilità assume
connotazioni diverse quando va a rivelarsi nel momento genetico del rapporto e quando va a
manifestarsi nel momento funzionale del rapporto.
- Nel momento genetico l’inderogabilità comporta la nullità di ogni patto contrario rispetto
alle previsioni lavoristiche. Nel momento in cui si sottoscrive il contratto individuale di
lavoro l’inderogabilità assume questa connotazione più rigida che viene a manifestarsi
attraverso il vizio di invalidità radicale (nullità) e la conseguente improduttibilità degli
effetti;
- Nel momento funzionale, cioè il momento in cui il rapporto è sorto e le parti ne stanno
dando attuazione. In questo momento vengono fuori altre questioni che attengono alla
possibile dismissione dei diritti del lavoratore. La dismissione o disposizione dei diritti che
appartengono alla sfera giuridica del titolare. Nel momento genetico, una delle questioni
fondamentali che si pone è che quel diritto su cui le parti vorrebbero prevedere una certa
disciplina non è ancora entrato nella sfera giuridica del titolare e questo può avvenire in un
qualsiasi momento genetico costitutivo di un diritto. Nel momento funzionale la questione
98
non può mai essere quella della nullità nel senso dell’improduttibilità degli effetti, ma la
questione sarà quella della dismissione del diritto e di un conseguente regime di invalidità,
la quale non è quella radicale connessa alla nullità, ma è quella dell’annullabilità. Quando
parliamo del momento funzionale e parliamo di un atto dismissivo del diritto facciamo
riferimento all’annullabilità e a un meccanismo che non vede il coinvolgimento della nullità,
per cui viene in considerazione l’art. 2113 c.c. perché è la disposizione che regola le rinunce
e transazioni. Nel momento genetico del rapporto non può venire in considerazione una
rinuncia alla transazione perché il diritto non è ancora entrato nella sfera giuridica del
lavoratore, ma non è possibile invocare tale art. anche nel momento funzionale qualora al
lavoratore si chieda di sottoscrivere una rinuncia ad un diritto futuro (es. si chiude al
lavoratore di rinunciare alla retribuzione del mese giugno 2020 e lo si fa nel maggio 2020 si
sta chiedendo di rinunciare ad un diritto che non è ancora entrato nella sua sfera giuridica,
per cui quella rinuncia sarebbe nulla). Parliamo dell’applicazione del 2113 c.c. quando il
diritto è già entrato nella sfera giuridica del lavoratore.
Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da
disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui
all'articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide -> il lavoratore non può rinunciare ai
suoi diritti. La rinuncia è invalida secondo l’ordinamento.
Le rinunzie e le transazioni di cui ai commi precedenti possono essere impugnate con qualsiasi atto
scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà -> l’impugnazione può
essere proposta entro 6 mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data di rinuncia o
transazione se queste sono avvenute dopo la cessazione del rapporto.
Bisogna tenere in considerazione la circostanza che il termine di decadenza decorre dal momento di
cessazione del rapporto perché questa scelta normativa conferma che il lavoratore è la parte debole
del rapporto e che siamo in presenza di una effettività della protezione che può essere garantita solo
a rapporto cessato (è un paradosso del diritto del lavoro perché per rendere effettivi i diritti del
lavoratore si affronta una tutela che il lavoratore potrà far valere quando il rapporto è ormai cessato.
Dovrebbe essere l’inverso: l’effettività della tutela dovrebbe operare durante il rapporto, non a
rapporto cessato). Vi è una difficoltà per il lavoratore di agire durante il rapporto di lavoro.

Questo aspetto è molto importante e viene in considerazione anche quando parliamo di


DECORRENZA DELLA PRESCRIZIONE (5 anni) -> una risalente sentenza della Corte di
Cassazione del 1963 ci ha detto che se i rapporti di lavoro sono assistiti da stabilità reale la
prescrizione dei crediti del lavoratore decorre in costanza di rapporto; se invece il rapporto di lavoro
non è assistito da stabilità reale la prescrizione die crediti del lavoratore decorre dalla data di
cessazione del rapporto perché si dice che se il lavoratore ha una protezione efficace e robusta
contro i licenziamenti allora potrà far valere i suoi diritti senza avere particolare timore di
conseguenze negative; se invece ha una protezione meno efficace allora il lavoratore non fa valere i
suoi diritti.

Questo ragionamento tra prescrizione che decorre durante il rapporto peri rapporti assistiti da
stabilità reale e prescrizione che decorre dalla cessazione del rapporto per quei rapporti che non
sono assistiti da stabilità reale, oggi questa distinzione è sostanzialmente venuta meno perché il
giudice d lavoro inizia a sostenere che nessun rapporto di lavoro è assistito da stabilità reale perché
la riforma Fornero (2012) ha reso non più centrale la tutela reintegratori e quindi già ha introdotto
quel ventaglio rimediale di cui abbiamo parlato. Se oggi applico l’art. 18 non è detto che la tutela
sanzionatoria sia necessariamente la reintegrazione.
La situazione si è aggravata con il contratto a tutele crescenti perché il decreto 23/15 dice che la
reintegrazione si applica ad un numero ancora più circoscritto di ipotesi.
Se mettiamo insieme questi elementi la conclusione è che è ragionevole ritenere che oggi nessun
rapporto sia assistito da una stabilità in senso concreto, nel senso che sia che vi si applichi il vecchio
99
18 sia che si applichi il decreto 23 egualmente siamo di fronte ad un quadro di rimedi che non ha al
centro la reintegrazione.

Lezione 05/05/20

Le rinunce e le transazioni
Le rinunce e le transazioni del lavoratore che hanno ad oggetto diritti derivanti da norme di legge o
contratto collettivo non sono valide, nel senso che sono annullabili ed il lavoratore ha la facoltà di
impugnarle entro 6 mesi che decorrono dalla cessazione del rapporto - o se la rinuncia o
transazione è successiva alla cessazione del rapporto dal momento della rinuncia o transazione.
- La rinuncia è un negozio giuridico unilaterale recettizio
- La transazione è un contratto con il quale le parti si fanno reciproche concessioni al fine di
prevenire o di concludere una lite.
La formula rinuncia e transazione è una formula molto ampia utilizzata dal 2113 -> si fa
riferimento a qualsiasi atto abdicativo/dismissivo di un diritto del lavoratore.
In tutti questi casi siamo nell’area della dismissione dei diritti e dell’applicazione del 2113.
-> Sempre il 2113 prevede che in alcune sedi (la sede sindacale, la sede amministrativa, la sede
giudiziale) il lavoratore può rinunciare ai propri diritti, ma la rinuncia ai propri diritti fatta in
queste sedi è una rinuncia inoppugnabile, cioè il lavoratore una volta che ha formulato rinuncia in
tali sedi non può tornare indietro. La ratio è che in queste sedi (sindacale, amministrativa,
giudiziale) si ritiene che il lavoratore sia messo nelle condizioni di comprendere quali sono gli
effetti, le conseguenze, degli atti dismissivi che mette in pratica.
Il lavoratore da solo senza l’assistenza del sindacato, di un funzionario della pubblica
amministrazione o il presidio del giudice, si ritiene che possa non aver compreso la ragione di
questa sua scelta dismissiva di un diritto -> Per questo motivo le rinunce e le transazioni che sono
riconducibili alla formula generale della conciliazione sottoscritta in queste sedi sono delle rinunce
inoppugnabili. Il lavoratore qui non può più
impugnare.
-> Se il lavoratore ha sottoscritto una rinuncia in sede sindacale e riesce a dimostrare che quella
rinuncia è stata con dolo oppure con violenza ecc.. allora in questo caso potrà far valere i vizi
classici del consenso, però è un terreno tutto in salita, perché la regola generale è che se il
lavoratore sottoscrive in queste sedi una rinuncia o una transazione non può tornare indietro.
Il licenziamento retroattivo
Il licenziamento può essere retroattivo? Si in alcuni casi può esserlo.
1. Licenziamento disciplinare per giusta causa
2. Licenziamento disciplinare per gms
3. Licenziamento per gmo intimato al lavoratore all’esito di quella procedura preventiva che
porta a quel tentativo obbligatorio di conciliazione che si applica solo ai licenziamenti
individuale per gmo intimati dal datore di lavoro che ha più di 15 dipendenti e al quale si
applica l’art. 18 dello statuto

Solo in questi 3 casi il licenziamento è retroattivo.


Questo è previsto dall’art. 1 comma 41 della legge n. 92 del 2012 – legge Fornero sui
licenziamenti.
-> Quindi se parliamo di un licenziamento per giusta causa o gms parliamo di un licenziamento
disciplinare, allora il legislatore ci dice che la retroattività ha come riferimento il momento di avvio
del procedimento disciplinare, il momento in cui il lavoratore riceve la contestazione disciplinare.
100
Es. contestazione disciplinare del 10 aprile 2020, il lavoratore presenta le sue giustificazioni, il
datore licenzia il lavoratore il 22 aprile del 2020. Ai sensi dell’art. 1 comma 41 della legge 92 il
licenziamento retroagisce alla data del 10 aprile, anche se viene intimato il 22 aprile produce i suoi
effetti dal 10 aprile.
Stessa ipotesi vale per gms, nel caso del gms c’è il preavviso, nel caso della giusta causa non c’è il
preavviso.
Gmo – licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato da un datore di lavoro con più di
15 dipendenti che deve applicare quella procedura preventiva di tentativo obbligatorio di
conciliazione. Il datore che intende licenziare il lavoratore deve inviare una
comunicazione all’ispettorato territoriale del lavoro e per conoscenza al lavoratore, nel quale dice
che intende di procedere al licenziamento e quindi ai sensi della legge chiede che vi sia questo
incontro davanti all’itl. L’itl convoca le parti
davanti a sé, si svolge questo tentativo, finisce questa fase conciliativa ed il lavoratore viene
licenziato.
In questo caso la legge del 2012 prevede che il licenziamento retroagisca al momento di avvio del
procedimento, cioè al momento in cui il datore ha chiesto l’incontro presso l’itl.
Ratio attraverso questa soluzione si viene a neutralizzare la possibilità che il lavoratore si possa
collocare in malattia durante il procedimento disciplinare o il licenziamento per gmo creando così
una sorta di stato sospensivo della procedura disciplinare o della procedura per licenziamento
gmo. Perché la malattia è un evento sospensivo del rapporto di
lavoro, per cui se il lavoratore si ammala il rapporto si sospende, il datore non può licenziare il
lavoratore se questo si è ammalato perché scatta un meccanismo descritto dal 2110 del c.c.
Questo meccanismo protettivo prevede che il lavoratore non può essere licenziato per il fatto in sé
di ammalarsi perché durante la malattia del lavoratore il rapporto rimane sospeso.
Anche se l’art 2110 ci dice che questo periodo di sospensione non è eterno il periodo di comporto
ha una durata massima che è quella prevista da tutti i contratti collettivi.
Quindi se il datore di lavoro invia la contestazione al lavoratore, il lavoratore manda il certificato di
malattia, poiché il periodo di comporto può durare anche 6 mesi può succedere che quel
procedimento rimane sospeso per mesi e mesi.
Nel 2012 la riforma Fornero prevedendo la retroattività del licenziamento ha superato questo
problema. Es. il datore avvia la contestazione e la invia al lavoratore, il lavoratore si
difende o meno, ma il giorno dopo manda la comunicazione di essere in malattia.
Questo è indifferente per il datore di lavoro, perché se il dipendente si è difeso dovrà prendere
atto delle sue difese, valutarle ed emettere il provvedimento finale, mentre se il lavoratore non si
è difeso ugualmente il datore dovrà trarre le sue conseguenze e potrà procedere al licenziamento.
L’unica ipotesi che può venire in considerazione è quella in cui il lavoratore dimostra che la
malattia gli impedisce di fornire le proprie difese, questo però non è cosi semplice.
Gli unici casi in cui la malattia preclude il diritto di difesa sono i casi un cui il lavoratore si trova in
uno stato di incapacità di intendere e di volere o in uno stato psicologico che deve essere
comprovato, in questi casi si può avere una dilatazione dei tempi, ma non nella normalità dei casi.
Nei casi in cui il lavoratore si colloca in malattia il procedimento disciplinare farà il suo corso, al
termine di questo procedimento il datore intima il licenziamento con efficacia retroattiva e poiché
il licenziamento retroagisce al momento della contestazione, in quel momento non c’era lo stato
di malattia del lavoratore perché successivo ed allora il rapporto si estingue.
In tutti e 3 i casi elencati si arriva alla stessa conclusione.
Comporto per malattia -> il licenziamento per superamento del comporto di malattia è un
licenziamento che fa categoria sé (non rientra nella giusta causa, gms, gmo), è un’autonoma
ipotesi di licenziamento. Se c’è la malattia il rapporto si sospende per il periodo di
101
comporto, al termine di quel periodo, quando si è raggiunto il termine massimo, in questo caso il
datore può licenziare il lavoratore per superamento del periodo di comporto.
C’è una fase sospensiva del rapporto imputabile alla malattia oltre la quale il rapporto si estingue,
c’è un limite di tollerabilità della fase sospensiva che è dato dalla durata massima del periodo di
comporto. Il limite di tollerabilità nel nostro ordinamento lo stabilisce il
contratto collettivo, è il contratto collettivo che ci dice qual è la soglia che una volta superata
legittima il licenziamento. Il licenziamento per
superamento del comporto di malattia non ha una motivazione oggettiva, soggettiva ecc.. non
importa, è un licenziamento che si fonda su un calcolo aritmetico -> quante assenze ha fatto il
lavoratore, ha superato la superata massima e quindi il rapporto si estingue per questa ragione.
Questioni che possono intrecciarsi -> es. il lavoratore potrebbe essere un falso malato, potrebbe
essere in stato di malattia ma durante fa altro, potrebbe svolgere delle attività in pieno contrasto
con la malattia. Se il datore riesce a provare che il lavoratore ha messo in atto
comportamenti del genere potrebbe licenziare il lavoratore non per superamento del comporto,
ma per giusta causa perché questo comportamento è di particolare gravità.
Però dobbiamo fare riferimento a quali comportamenti, non tutti i comportamenti che si
sostanzino nell’uscire di casa sono comportamenti che possono legittimare la giusta causa, non
tutti gli stati di malattia comportano un’infermità del lavoratore nella sua abitazione.
Durante la malattia ci sono le fasce di reperibilità, fasce orarie nelle quali il lavoratore deve stare
nella propria abitazione (10-12 / 15-17): in queste fasce il lavoratore non può uscire di casa,
questo significa che nelle altre ore della giornata può uscire di casa, ovviamente se questo
compatibile con il suo stato di salute. Es. se il lavoratore ha una malattia che gli impone l’assoluto
riposo e questo esce di casa tutti i giorni tornando in casa solo durante le fasce di reperibilità,
questo comportamento forse non si può ritenere del tutto legittimo. Il comportamento del
lavoratore potrebbe aggravare lo stato di malattia e quindi creare una disfunzionalità che si
ripercuote sull’organizzazione del datore di lavoro.
Licenziamento della lavoratrice in maternità:
Il licenziamento di una lavoratrice che si trova in uno stato oggettivo di gravidanza e fino al
compimento di un anno del bambino è nullo, improduttivo di effetti.
Qui siamo di fronte ad una disciplina che ha un’importante valenza protettiva per la maternità,
abbiamo previsto questo fin dal 1971 – prima legge in Italia che ha impedito il licenziamento della
lavoratrice madre. L. n. 1204 del 1971. Questa legge era all’avanguardia in Europa, siamo stati fra i
primi. Alle origini del diritto del lavoro la maternità era vista come un
ostacolo, un elemento di perturbazione dell’organizzazione aziendale.
Dalla legge del 71 si arriva al testo unico del 2001, d.lgs. 151 del 2001 che si occupa della tutela
della maternità e paternità. Dentro questa importante disciplina c’è l’art. 54 che prevede il divieto
di licenziamento che opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza -> il datore di
lavoro potrebbe anche non sapere che la lavoratrice è in stato di gravidanza, ma se intima il
licenziamento in quel periodo la lavoratrice un attimo dopo esibisce la certificazione che comprova
lo stato di gravidanza e dice tu non mi potevi licenziare. È una tutela oggettiva, qui non è affatto
rilevante l’intenzionalità del datore di lavoro, non importa, poteva sapere come non sapere – se
c’era lo stato oggettivo il licenziamento è nullo.
Ovviamente questo divieto conosce delle eccezioni:
1- Colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro,
non basta nemmeno la giusta causa, ma una colpa grave costituente giusta causa.
2- La cessazione dell’attività dell’azienda, se l’impresa cessa di esistere anche il rapporto di lavoro
con quella lavoratrice cesserà.
3- Ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del
102
rapporto per la scadenza del termine
4- Esito negativo della prova, se ad un rapporto di lavoro viene apposto un patto di prova il
licenziamento è libero nel periodo di prova.
Il datore può licenziare liberamente senza dare giustificazione ed il lavoratore può dimettersi.
Ipotesi di libera recedibilità:
A partire dal 1966 è pacifico che il licenziamento debba avere una giustificazione, questa è la
regola generale -> ma ci sono delle eccezioni nelle quali il licenziamento non deve avere una
giustificazione, ipotesi residuali di licenziamento libero.
All’inizio c’erano gli art. 2118 e 2119 del c.c., disposizioni ancora vigenti, ma c’erano solo quelle ed
in base a queste il licenziamento era ibero, il datore poteva licenziare il lavoratore senza
giustificazione (con preavviso 2118 – giusta causa 2119)
Con la legge 604 il licenziamento deve essere giustificato, residuano delle ipotesi di libera
recedibilità:
 Licenziamento del dirigente
Secondo la legge è un licenziamento libero, quindi secondo la legge il datore può licenziare
il dirigente senza dover fornire alcuna giustificazione al dirigente stesso.
Quest’affermazione deve però essere precisata aggiungendo che ormai da moltissimo
tempo, pur essendo vero che la legge questo prevede, esiste una contrattazione
collettiva che prevede per il dirigente una tutela economica in caso di licenziamento
ingiustificato o illegittimo.
Se applicassimo solo la legge il licenziamento sarebbe libero, ma la contrattazione collettiva
dei dirigenti introducendo un trattamento di miglior favore ci dice che c’è una tutela
economica, quindi un certo numero di indennità che il lavoratore dirigente ha diritto di
percepire in caso di licenziamento ingiustificato.
Il dirigente andrà dal giudice del lavoro e dirà questo licenziamento è ingiustificato e chiedo
che il datore sia condannato a corrispondermi un certo numero di indennità.
È il contratto collettivo che questa volta fornisce al giudice i parametri per poter applicare
la disciplina.
Perché il licenziamento del dirigente è libero? Perché si ha una particolare connotazione
del rapporto di fiducia -> non a caso la specificità è che il dirigente ha una sua
contrattazione collettiva a parte, non ha vincoli di orario il dirigente ed è il c.d. alter ego del
latore di lavoro, è liberamente licenziabile secondo la legge.

 Licenziamento del lavoratore domestico


Il datore può licenziare il lavoratore domestico senza fornire alcuna giustificazione, questo
perché anche in questo caso parliamo di un rapporto di stretta fiducia, un rapporto di
natura anche personale, quindi da sempre e anche attualmente si è ritenuto che il recesso
dovesse essere libero.

 Licenziamento del lavoratore in prova


Durante il periodo di prova ciascuna delle sue parti può recedere liberamente dal rapporto
di lavoro. il patto di prova è disciplinato dall’art. 2096 del c.c. e si prevede che le parti
possano decidere di apporre al contratto un patto di prova.
Il patto di prova deve essere anteriore o contestuale alla stipulazione del contratto
individuale, deve indicare quali sono le mansioni oggetto della prova e deve indicare una

103
durata del patto di prova. La durata del patto di prova lo ricaviamo dall’art. 10 della legge
604 del ’66 ed il limite massimo è di 6 mesi.
Ma va vista la durata del patto di prova in relazione alla qualità della prestazione lavorativa.
Es. se si assume un cameriere è difficile pensare che occorrano 6 mesi per verificare se quel
cameriere è idoneo a svolgere quelle mansioni.
Es. se assumiamo un ingegnere elettronico si giustifica un patto di prova molto più lungo.
Sono i contratti collettivi che dicono qual è la durata massima del periodo di prova in
relazione agli inquadramenti professionali dei lavoratori.

Il patto di prova può essere apposto a qualsiasi tipo di rapporto, determinato,


indeterminato ecc..
La finalità del patto di prova è quella di consentire alle parti di saggiare reciprocamente la
convenienza dell’affare.
Chiaramente proprio per questo motivo non ha senso che il datore debba giustificare la sua
decisione di recedere dal rapporto in prova o lo stesso debba fare il lavoratore.
Chiaramente bisogna comunque tenere presente che ci possono essere dei comportamenti
in frode alla legge che il datore può mettere in atto nella gestione del rapporto in prova
Es. ti assumo per fare una cosa e te ne faccio fare un’altra che non c’entra nulla con quella
scritta nella lettera di assunzione.
Es. il lavoratore ha avuto un contratto a tempo determinato per 6mesi e poi prima
dell’assunzione a tempo indeterminato si mette un patto di prova che ha ad oggetto le
stesse mansioni che quel lavoratore ha svolto per 6 mesi.

 Licenziamento del lavoratore che ha maturato i requisiti pensionistici


Storicamente si è sempre ritenuto che se il lavoratore ha maturato i requisiti per andare in
pensione viene meno la ragione stessa del rapporto, o meglio il rapporto può anche
proseguire fino a che il lavoratore non va in pensione (in ogni caso ci sono dei divieti di
cumulo tra pensione e reddito da lavoro dipendente), ma il datore può licenziare
liberamente, perché non c’è un’esigenza protettiva del lavoratore in questo caso, il
lavoratore percepisce o percepirà il trattamento pensionistico.
Coronavirus e gestione dei rapporti di lavoro
Situazione molto complessa nella quale ci siamo venuti a trovare - questa pandemia ha delle
implicazioni profondissime con il diritto del lavoro.
Abbiamo avuto una produzione normativa imponente e molto particolare che parte da una serie di
decreti del presidente del consiglio dei ministri (dpcm), ci sono stati una serie di decreti legge, poi
abbiamo avuto una serie di accordi tra governo e parti sociali, i c.d. protocolli condivisi -> sono dei
protocolli di concertazione sociale che sono stati sottoscritti governo, associazioni datoriali e
sindacati dei lavoratori. Questi numerosi provvedimenti sono stati prodotti per evitare il contagio
da prima nelle zone coinvolte dai fenomeni epidemiologici, le c.d. zone rosse e successivamente in
tutto il territorio nazionale.
Tutto inizia con un’ordinanza del ministero della salute del 30 Gennaio del 2020 che interdice il
traffico aereo con la Cina, ma poi ci sono state moltissime ordinanze, delibere, atti di vario genere
adottati dal governo -> Es. la delibera del 31 Gennaio 2020 che dichiara lo stato di emergenza per
6 mesi sull’intero territorio nazionale.
Decreto legge cura Italia -> ha introdotto tutta una serie di misure che riguardano il diritto del
lavoro, gli ammortizzatori sociali (la cassa integrazione guadagni in tutte le sue articolazioni), tutta
una disciplina per congedi, permessi, regole particolari per la malattia. Vi sono state disposizioni
per lo smart working, ma anche disposizioni in materia di licenziamento.
104
Tema della sicurezza sul lavoro
Il legislatore in questa emergenza ha individuato una serie di strumenti per garantire la salute e la
sicurezza nei luoghi di lavoro dei dipendenti e per prevenire il contagio.
Qui c’è una premessa da fare: rappresentazione errata del problema che è stata fatta
consapevolmente/inconsapevolmente anche da alcuni mezzi di comunicazione.
Non c’è nessuna contrapposizione tra libertà di impresa e sicurezza sul lavoro, non c’è da fare una
scelta in un senso o nell’altro, cioè volete la libertà d’impresa o volete la salute.
Queste contrapposizioni oltre a suonare come ricatti non ci portano da nessuna parte.
Se noi premiamo l’acceleratore sulla libertà di impresa e trascuriamo la sicurezza sul lavoro
andiamo a sbattere, perché aumentano i contagi e la situazione diventa ingestibile.
Se invece noi riteniamo che la sicurezza sul lavoro debba interpretarsi come interdizione di
qualsiasi attività economica è chiaro che andiamo a sbattere lo stesso perché il tessuto economico
si ferma.
Il punto è che è ben possibile tenere insieme libertà di impresa e la sicurezza.
Bisogna adottare le misure di prevenzione in modo corretto, bisogna fare uno sforzo di adeguarsi
alla situazione e mettere insieme quegli strumenti di protezione che consentono lo svolgimento
dell’attività di impresa e al tempo stesso garantiscono la sicurezza e la salute del lavoratore.
Quali sono questi ambiti di riferimento:
1. L’aggiornamento del documento di valutazione dei rischi:
La valutazione dei rischi è un atto del datore di lavoro di verificare in concreto quali sono i
rischi specifici che sono presenti in un certo luogo di lavoro. La valutazione dei rischi è
sempre la valutazione di un rischio specifico, perché un rischio generico esiste dovunque.
Di fronte al covid-19 noi siamo in presenza di un rischio generico o di un rischio specifico?
La domanda è molto complessa, la risposta è molto semplice agli esperti, ma a volte anche
gli esperti tendono a semplificare le situazioni -> secondo una parte importante degli
esperti il rischio da covid-19 è un rischio generico, cioè non c’è molta differenza tra
camminare per strada, andare al supermercato ecc..ed entrare in un luogo di lavoro, cioè il
rischio di contagiarsi lo si corre in un contesto qualsiasi, cioè non c’è motivo di differenziare
il luogo di lavoro da tutti gli altri luoghi.
Siamo in presenza di un rischio generico, siamo d’accordo, ma quest’affermazione rischia
poi di portarci a degli eccessi di semplificazione.
È vero che normalmente il rischio di contagio è un rischio generico, ma in particolari
ambienti lavorativi e a seconda delle tipologie di mansioni il rischio potrebbe diventare
specifico e richiedere un aggiornamento della valutazione dei rischi.
In particolare il rischio specifico riguarda i lavoratori in ambito sanitario, se parliamo dei
medici, infermieri ecc.. in questi casi è chiaro che c’è un rischio specifico, perché i lavoratori
sono a contatto con persone che hanno il virus e quindi dal punto di vista statistico la
circostanza che a loro volta possano infettarsi è molto alta, anche perché questi lavoratori
devono necessariamente entrare in contatto con queste persone, non possono rispettare
le distanze di sicurezza.
In questi casi si possono adottare tutta una serie di cautele, ma bisogna sapere che sono
delle cautele che riguardano un rischio specifico.
Se non ci sono dubbi che i lavoratori del settore sanitario sono soggetti ad un rischio
specifico e non generico, questo però può riguardare anche altri lavoratori, tutti quei
lavoratori che hanno un frequente contatto con il pubblico. Es. il cassiere del
supermercato, il farmacista ecc..

2. I nuovi dispositivi protezione individuale


105
In base al protocollo condiviso del 14 marzo 2020 (accorti tra governo e parti sociali,
protocollo al quale hanno seguito altri protocolli) oltre ad adottare e prescrivere particolari
misure igieniche soprattutto con riferimento alla pulizia e alla detersione delle mani, il
datore di lavoro deve anche fornire ai lavoratori una serie di dispositivi di protezione
individuale, cioè il liquido detergente e disinfettante deve essere una soluzione idroalcolica
almeno al 70% poiché se è inferiore non garantisce la distruzione del virus, le mascherine
se le condizioni di lavoro impongono una distanza interpersonale inferiore ad un metro.
In linea teorica potremmo dire che se siamo sicuri di poter garantire la distanza di almeno
un metro non dobbiamo fornire la mascherina, è cosi, ma è intuitivo che nessuno può
garantire che in contesto lavorativo la distanza interpersonale sia sempre di almeno un
metro. Le persone si muovono, hanno necessità di parlare, allora possiamo adottare tutte
le misure prevenzionistiche, ma non possiamo scongiurare il rischio che il contatto tra due
persone sia ad una distanza che inferiore ad un metro.
Altri dispositivi come guanti, cuffie, camici, occhiali, tute.. pensiamo al lavoro dei medici,
qua bisogna fornire dei dispositivi di protezione particolari.

La giurisprudenza comincia ad interessarsi di questo tema -> provvedimento del giudice del
lavoro di Firenze del 1° aprile 2020. Questo provvedimento ha ordinato ad una società di
food delivery di consegnare i dispositivi di protezione individuale ai propri riders che si
occupano di portare verso le abitazioni dei clienti il cibo che si può acquistare. In base a
questo provvedimento l’impresa di food delivery al fine di prevenire la diffusione del
contagio da covid-19 non può limitarsi a raccomandare l’uso dei dispositivi, ma deve
metterli a disposizione dei fattorini ed imporne l’utilizzo.

3. L’informazione del lavoratore


Lavoratori devono essere informati dei rischi nei quali si vengono a trovare, per questo
motivo devono essere affissi in luoghi visibili dei locali aziendali degli appositi dépliant
informativi che contengono le informazioni: obbligo di rimanere a casa in presenza di
febbre oltre la temperatura di 37.5 o altri sintomi influenzali e di contattare il medico o
l’autorità sanitaria, inoltre la consapevolezza e l’accettazione del fatto di non poter
proseguire lo svolgimento della prestazione in caso di insorgenza di sintomi influenzali,
provenienza da zone a rischio, contatti con pazienti contagiati ecc..
Inoltre le informazioni riguardano anche l’impegno a rispettare tutte le informazioni
dell’autorità e del datore di lavoro e l’impegno ad informare tempestivamente e
responsabilmente il datore di lavoro della presenza di sintomi influenzali durante lo
svolgimento della prestazione, avendo cura di rimanere ad adeguata distanza dalle persone
presenti.
Poi ci sono delle grandi questioni da affrontare.
 Temperatura
Una questione molto seria riguarda la possibilità per il datore di lavoro di misurare la temperatura
corporea del lavoratore -> qui viene in gioco da un lato la sicurezza e la salute dei lavoratori,
dall’altro la privacy del dipendente perché comunque con la misurazione della temperatura
corporea si va a trattare un dato sensibile della persona.
Se in un luogo di lavoro c’è un soggetto che ha la febbre -> il datore se non fa nulla rischia poi in
futuro di poter rispondere di un qualche danno alla salute del lavoratore, se fa qualcosa rischia di
incombere in altro tipo di responsabilità.
Sul piano generale si può sostenere che qui si può ammettere che il tema della privacy possa
essere ritenuto recessivo rispetto al tema della salute collettiva.
106
Nel senso che la stessa disciplina europea della privacy prevede delle eccezioni rispetto al divieto
di trattamento di dati sensibili nel caso in cui bisogna tutelare la salute della popolazione.
Qui forse il bilanciamento tra salute e privacy propende per la salute.
In questo caso il bilanciamento non è solo tra diritto alla privacy e alla salute, ma è anche tra
diritto alla privacy e diritto alla vita perché di coronavirus si muore, qui viene in considerazione una
lesione del bene supremo della vita.
Però non c’è bisogna anche qui di realizzare una contrapposizione tra privacy e salute perché per
es. è sufficiente redigere un’informativa per il dipendente, in modo che questo sia adotto del
modo in cui questi dati sono utilizzati, cioè per poter giungere ad ottenere questa opera di
rilevamento della temperatura.
 Accesso all’azienda
Accesso ai fornitori, clienti ecc.. qui bisogna individuare delle procedure di transito, di ingresso ed
uscita dei fornitori. Gli autisti che scaricano il materiale in un piazzale della fabbrica, questi
lavoratori non possono scendere ed entrare liberamente nel contesto aziendale, ma bisogna
adottare tutta una serie di cautele.
 Gestione degli spazi comuni
Bisogna contingentare l’accesso agli spazi comuni, garantire la ventilazione dei locali, un tempo
ridotto di sosta all’interno dei locali, bisogna assicurare le distanze, riorganizzare gli spazi ecc..
bisogna garantire la sanificazione periodica dei locali ed in questo senso vi sono dei costi che il
datore sostiene che possono essere dei costi anche molto importanti.
 Gestione del personale
Gestione delle assenze dal lavoro, i contratti a termine, le proroghe e i rinnovi dei contratti a
termine, lavoratori in regime di appalto, i lavoratori in somministrazione, le limitazioni degli
accessi ai luoghi di lavoro, gli strumenti per garantire la continuità della prestazione ecc..
Noi abbiamo avuto degli interventi del legislatore con il decreto cura Italia che sono stati
particolarmente interessanti, cioè il periodo trascorso in quarantena da parte del lavoratore con
sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva viene equiparato
nel decreto cura Italia a malattia.
L’assenza del lavoratore è equiparata a malattia e non è computabile ai fini del periodo di
comporto, si vuole proteggere il lavoratore da una situazione molto particolare, quindi ridurre
l’impatto già pesante di una persona che ha trascorso il periodo di quarantena.
Si prevede che un periodo di assenza dal servizio prescritto dall’autorità sanitaria a dipendenti
pubblici o privati (non hanno il virus, ma sono persone con disabilità gravi tali da essere soggetti a
rischio) venga equiparato ad un ricovero ospedaliero. Questo perché si vuole evitare che queste
persone già molto esposte abbiano a subire ulteriori pregiudizi anche sul piano del rapporto per la
situazione difficile in cui si vengono a trovare.
 Esigenze di cura dei figli minori
Se i lavoratori stanno a casa a volte lo fanno perché si devono prendere cura dei figli che non
vanno a scuola, quindi a volte il genitore potrebbe anche andare a lavorare, ma non ci può andare
perché ha il figlio minore a casa. Qui il decreto cura Italia prevede una disciplina dei congedi
retribuiti particolare rispetto a quella ordinaria, proprio per cercare di tamponare questa
situazione.
CONTRATTO A TERMINE -> il primo contratto tra datore e lavoratore per una durata massima di 12
mesi può essere acausale, ma se si esce da questo meccanismo dell’acausaltà tutto il resto è
invece attratto in un regime delle c.d. causali che sono delle causali molto rigide, nel senso che è
molto difficile rispettare quelle causali e quindi il datore di lavoro è poco propenso a stipulare il
contratto a termine proprio perché è molto probabile che il lavoratore riesca a dimostrare
l’assenza delle c.d. causali. Ora siamo di fronte agli eventi
107
eccezionali presi in considerazione dalle c.d. causali che consentono di stipulare un contratto a
termine causale e legittimo.
* lavoratori in regime di appalto -> devono essere protetti, c’è un’esigenza di estendere alle
aziende in appalto la possibilità di realizzare sedi e cantieri permanenti, quindi creare un
meccanismo di protezione che riguardi sia i lavoratori in senso generale sia in regime di appalto.
* lavoratori in somministrazione -> l’art. 35 comma 4 del decreto 81 del 2015 scinde gli obblighi in
materia di sicurezza. Sull’agenzia di somministrazione ricade l’obbligo informativo e di formazione
del lavoratore, salvo patto contrario. L’utilizzatore deve osservare nei confronti dei lavoratori
somministrati gli obblighi di prevenzione e protezione contenuti per legge e per contratto
collettivo nei confronti dei propri dipendenti. Questo per dire che tutte le cautele che abbiamo
descritto devono essere adottate dall’utilizzatore anche nei confronti del lavoratore in
somministrazione.

Lezione 06/05/20

Implicazioni che la pandemia globale determina sul rapporto di lavoro.


Elementi di riflessione su questo grande tema.
Ieri abbiamo toccato il tema della sicurezza sul lavoro, indubbiamente se parliamo di coronavirus e
di diritto del lavoro l'aggancio principale attiene alla sicurezza sul lavoro.
Rischi del contagio e quindi a maggior ragione c'è da tenere una maggiore attenzione rispetto al
contagio. Il tema della sicurezza sul lavoro è la chiave di volta per affrontare la situazione nella
quale ci troviamo: se non si adotta una adeguata sicurezza sul lavoro l'attività lavorativa ricomincia
con il pericolo: prevenzione nei contesti lavorativi, solo se si garantisce questo è possibile che le
attività produttive possano ripartire al meglio.
Questo aspetto deve essere meglio spiegato nel senso che non stiamo parlando della sicurezza sul
lavoro e di altre cose, ma dobbiamo tener conto che quale che sia l'argomento che affrontiamo, è
altamente probabile che in relazione a quell'argomento possa scaturire anche una problematica di
sicurezza sul lavoro: es tema dell'orario: in un contesto produttivo l'orario oggi deve essere
organizzato in modo tale che ad es non si favoriscano gli assembramenti nei reparti, si deve
organizzare l'orario di lavoro tenendo conto della distanza inter personale.
Bisogna organizzare i turni in modo diverso, la compresenza di queste persone in quel luogo
aumenta notevolmente il rischio di contagio. Oggi la regola è che se in un luogo di lavoro non si
può rispettare la distanza interpersonale di un metro allora si può adottare la mascherina.
Però dal punto di vista di una migliore gestione della sicurezza sul lavoro è auspicabile che siano
rispettate sia il metro di distanza sia la mascherina: perché non si sa se i due rimedi sono in grado di
scongiurare al 100 % il rischio del contagio: atteggiamento di max sicurezza tecnologicamente
possibile è opportuno rispettare entrambi i criteri. La mascherina è un dispositivo di protezione
individuale che rappresenta anche un costo da parte del datore. Questo per dire che dal tema
dell'orario c'è una stretta implicazione con la prevenzione del contagio. Stesso vale per le mansioni:
se c'è un lavoratore che svolge determinate mansioni (es mansioni con contatto frequente con il
pubblico: maggio rischio di contagio) si potrebbe far sì che queste mansioni siano svolte in un certo
modo: andrebbero potenziate le leggi protezionistiche es barriere parafiato di plexiglass.
condizionatore: veicolo di trasmissione del corona virus: deve essere sanificato.
Vengono in considerazione tante questioni diverse che spuntano in qualsiasi contesto.
In questo senso noi possiamo oggi prendere in considerazione anche un altro tema e cioè quello
dello smart working: il punto è che partiamo da una premessa generale: il nostro ordinamento
contempla due particolari modalità di svolgimento di attività lavorativa a distanza:
1. smart working (o lavoro agile);
2. telelavoro: due modalità attraverso le quali il lavoro può essere svolto a distanza.

108
Siamo di fronte ad una questione già di per sé interessante: il tema del lavoro a distanza è il tema
della nostra modernità, in generale possiamo dire che un tema di grande importanza perché si
connette fortemente alla innovazione tecnologica (straordinaria diffusione delle tecnologie e la
rivoluzione 4.0: insieme di innovazioni tecnologiche che hanno stravolto completamente le nostre
abitudini e i modelli di relazione sociale tra le persone e che hanno inciso in maniera straordinaria
anche sul tessuto economico: parliamo della innovazione tecnologica).
Già nel 1980 meccanismi di innovazione più diffusi rispetto a quelli precedenti aveva portato ad
una discussione molto animata sul mondo del lavoro, ma i passi in avanti fatti dalla tecnologia degli
anni 80 a quelli del 2020 sono passi avanti straordinari: impatto che comporta effetti sorprendenti
non sempre si tratta di effetti benefici, anzi secondo qualcuno gli effetti sono negativi. Punto che
riguarda il diritto del lavoro è che non c'è dubbio che attraverso queste tecnologie si possa avere una
soppressione consistente del mondo del lavoro. 1900: primi effetti quello che accadde è che la
prima rivoluzione industriale, ha creato milioni di posti di lavoro ma ne ha distrutti molti (posti
agricoli) ma ne ha creati più di quanti ne abbia distrutti e ha portato poi il benessere.
Trasformazione che non è stata a saldo negativo, m trasformazione che ha certamente determinato
un salto di qualità per il sistema economico nel suo complesso.
La rivoluzione 4.0 straordinario impatto della tecnologia del mondo del lavoro: distrugge posti di
lavoro ma al tempo stesso creandone di nuovi, Lo spartiacque è che vi siano competenze
professionali per ricoprire quei nuovi posti di lavoro: la formazione dei lavoratori è decisiva
affinché la rivoluzione economica non si risolva soltanto nella distruzione di posti di lavoro senza
un versante benefico. L'Italia non sembra del tutto preparata a questo salto di qualità.
attenzione a evitare quelli che possiamo definire i due estremi della questione:
-a prospettare tutto questo in una sorta di visione catastrofista (secondo cui tutto questo è
profondamente negativo, la rivoluzione tecnologica è un male e andrebbe fermata. es fenomeno
sociale che si è verificato proprio sul finire dell'800-900 luddismo movimento che si proponeva di
distruggere le macchine come espressione di una tecnologia che avrebbero distrutto i posti di
lavoro. Questa concezione non ha la capacità di cogliere il fenomeno evolutivo e di governarlo: non
si può fermare, fenomeno che ormai è qui, non si può tornare indietro e con la distruzione delle
macchine non si riuscirà a fermare il fenomeno;
- visione avveniristica: idea per cui per effetto della rivoluzione tecnologica sia tutto bellissimo,
perché l'innovazione tecnologica non è né un male né un bene, è posto nelle nostre mani: siamo noi
che abbiamo messo in pratica l'evoluzione, non è un fine ma un mezzo: se è un mezzo è governabile
attraverso il diritto: il diritto ha un ruolo centrale nella sua regolamentazione.
Problema che abbiamo noi come studiosi del diritto del lavoro? è che l'evoluzione tecnologica sta
stravolgendo i parametri attraverso cui noi abbiamo costruito il diritto del lavoro nelle sue
fondamenta: tempo e luogo, mettere in seria discussione i pilastri fondativi del diritto del lavoro. se
si incide sul tempo lo si fa mettendo in discussione l'estensione temporale della prestazione; luogo
in cui il lavoratore svolge la sua prestazione, addirittura noi facciamo riferimento ad un posto di
lavoro, ma nella innovazione tecnologica dov'è il luogo di lavoro se può essere prestata ovunque?
questo cambia totalmente il rapporto di lavoro: se il lavoratore può lavorare ovunque e in qualunque
momento il potere direzionale e gestionale come si esercita? sicurezza sul lavoro? si fonda sul
presupposto che vi sia un luogo di lavoro dove il lavoratore presta la sua attività e che appartiene al
lavoratore. come si calcola il rischio che possa infortunarsi o ammalarsi? se si ammala è la stessa
cosa che stare nella propria abitazione o nel luogo di lavoro? se ad es ha l'influenza nel momento
acuto non potrà lavorare neanche a casa, ma nei giorni della convalescenza e il lavoratore è a casa
potrebbe effettuare lo stesso la prestazione lavorativa e invece se dovesse recarsi nel luogo del
lavoro non sarebbe possibile, non sarebbe corretto esporre il lavoratore al rischio di una ricaduta.
Le assenze come vanno a configurarsi? quello che conta è che la prestazione sia resa, es se il
lavoratore durante l'orario di lavoro a casa esce di casa ma non necessariamente è come se in ufficio
il lavoratore uscisse.
Quali che siano le esemplificazioni noi siamo di fronte ad un'esigenza di tutela del lavoratore che
109
non è mai venuta meno, può cambiare lo strumento attraverso cui la tutela si realizza ma non
cambia l'esigenza prevenzionistica del lavoratore: proteggere il lavoratore e offrirgli delle garanzie
fondamentali.
In questo senso siamo di fronte a fenomeni nuovi.
La disciplina dello smart working è contenuta in una legge n 81 del 2017 che ha introdotto il lavoro
agile o smart working ex art 18 di questa legge. è stato introdotto allo scopo di incrementare la
competitività e di agevolare la conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro.
art 18 della legge 81 del 2017 definisce lo smart working quale modalità di esecuzione del rapporto
di lavoro subordinata stabilita mediante accordo tra le parti anche con forme di organizzazione per
fasi, per cicli per obiettivi, senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro e con possibili
strumenti tecnologici idonei allo svolgimento. La prestazione viene eseguita in parte all'interno dei
locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, con i limiti massimi di durata di
lavoro giornaliera e settimanale ex lege o ex contrattazione collettiva.
Accordo tra le parti, prestazione lavorativa eseguita in parte dentro e in parte fuori senza una
postazione fissa, assenza di vincoli di luogo e di orari di lavoro (ma durata max dell'orario), utilizzo
di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attività lavorativa.
Lo smart working non è un contratto di lavoro ma una particolare modalità di svolgimento
dell'attività lavorativa con durata anche a tempo indeterminato o determinato: accordo specifico che
si va ad innestare su un contratto di lavoro subordinato.
L'accordo richiede la forma scritta o ad probationem e anche ai fini della regolarità amministrativa:
se manca la forma scritta non è che sia nullo l'accordo ma sarà difficile dimostrare da parte delle
parti l'esistenza di questo accordo.
Se a tempo indeterminato ciascuna delle due parti può recedere dall'accordo NON DAL
CONTRATTO DI LAVORO SOTTOSTANTE con preavviso di 30 gg: si torna al normale lavoro in
presenza. Se a tempo determinato quando si ha la scadenza, lavoro in presenza.
L'accordo deve prevedere la disciplina della prestazione lavorativa svolta all'esterno dei locali
aziendali, quali sono le forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro, quali sono gli
strumenti utilizzati dal lavoratore, i tempi di riposo del lavoratore e le misure tecniche di
disconnessione da parte del lavoratore degli strumenti tecnologici ad es connesso al server
aziendale, proprio per evitare che in qualsiasi momento sia reperibile: diritto alla disconnessione in
modo da non essere raggiungibile, la tecnologia può essere pervasiva lo può controllare in qualsiasi
momento. elasticità del tempo e nel luogo, l'art 18 aggiunge anche che pur nei limiti della giornata
lavorativa e della settimana lavorativa: orario di lavoro quello normale, se questa lavoratrice va in
smart working attenzione, il lavoratore deve offrire la sua disponibilità durante questa fascia oraria
ma non in modo così rigido. Non è un lavoro h24 e 7 giorni su 7: modalità di svolgimento del
lavoro che comunque nella sua elasticità dentro questi parametri non significa che poi lavora di
notte, elasticità è dentro quei confini lì.
L'accordo deve prevedere anche il diritto all'apprendimento permanente del lavoratore, l'esercizio
del potere di controllo del datore di lavoro problema con l'art 4 dello statuto dei lavoratori: limiti al
controllo a distanza, comportamenti da cui scaturiscono sanzioni disciplinari: disciplina specifica
per lo smart working.
Comunicazione obbligatoria: il datore almeno un giorno prima dell'avvio di questa modalità deve
comunicare attraverso il modello unilav che il rapporto viene svolto in smart working.
Le disposizioni in quanto compatibili dello smart working è possibile anche nelle pubbliche
amministrazioni.

Telelavoro: disciplina nel settore privato contenuta nell'accordo interconfederale del 9 giugno del
2004, 16 luglio del 2002: accordo quadro UE: telelavoro forma di organizzazione e di svolgimento
del lavoro che si avvale delle tecnologie di comunicazione nel quale l'attività lavorativa viene svolta
al di fuori dell'attività aziendale. Anche nel pubblico impiego previsto dalla legge 191 del 1998: +
accordo quadro 23 marzo 2020. Ora qual è la differenza tra smart working e telelavoro? smart
110
working prestazione lavorativa in parte nei locali aziendali e in parte all'esterno senza una
postazione fissa, nel telelavoro viene eseguita interamente all'esterno con una postazione fissa:
smart working maggiore flessibilità; nello smart working il lavoratore potrebbe lavorare sulla
panchina di un parco, potrebbe lavorare mentre è steso a prendere il sole, è possibile? sì ma
ovviamente una qualche regola occorre metterla.
Nel telelavoro assoluta rigidità perché il telelavoro è il lavoro da casa.
Nel caso dello smart working sono le parti, datore di lavoro e lavoratore che decidono come si
debba svolgere quella prestazione: come quella prestazione viene resa. E lo possono stabilire
individuando che tutti i luoghi siano idonei allo svolgimento del lavoro ma c'è un'esigenza di
sicurezza e di prevenzione degli infortuni che impone prudenza: suggerire quali siano i luoghi dove
la prestazione può essere resa ma identificare a quali parametri di sicurezza devono rispondere
questi luoghi: il datore deve precisare dall'inizio i confini della prestazione resa con lo smart
working stesso.
Disciplina dello smart working che sta accadendo in questi giorni: con l'emergenza epidemiologica
fin dal mese di marzo il governo è intervenuto con i dpcm a ripetizione ma fin dai primi interventi è
intervenuto con lo smart working (con un dpcm: fonte normativa secondaria) e il governo è
intervenuto prevedendo alcune regole particolari per lo smart working, il così detto smart working
d'emergenza: in assenza di accordo individuale, si fonda su una comunicazione unilaterale del
datore di lavoro al lavoratore.
Unilateralità della decisione.
Tutti i dpcm continuano a dire di massimo utilizzo di smart working per le attività che possono
essere svolte con questa modalità, unilateralità dello smart working: sono io datore che ti colloco in
smart working: stravolgimento dello smart working: da strumento che ha la finalità di consentire la
conciliazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro e garantire maggiore efficienza, a questa
finalità ora se ne sostituisce un'altra: strumento che ha la finalità di garantire la salute e la sicurezza
del lavoratore e la continuità dell'attività di impresa.
Secondo un protocollo del 14 marzo del 2020 sottoscritto tra governo e parti sociali si stabilisce che
le imprese potranno disporre la chiusura dei reparti e utilizzare lo smart working per tutte le attività
che possono essere effettuate a distanza.
Metamorfosi dello smart working.
Personalmente il prof ritiene che come minimo il datore sottoscriva per accettazione questa
decisione unilaterale.
Qual è il contenuto dello smart working unilaterale? deve riflettere lo stesso contenuto dell'art 18
ma in realtà nella concretezza dei fatti vengono regolati aspetti molto scarni: es se non si dice nulla
nella comunicazione di smart working su dove deve essere effettuata la prestazione, il lavoratore la
può svolgere in qualsiasi luogo: se non vado a specificare che lo debba fare nel suo domicilio e poi
il dipendente va a lavorare in luoghi in cui si espone al contagio sarebbe inutile lo smart working:
luoghi rispettosi della disciplina attuale per evitare il contagio.
utilizzazione che avrebbe dovuto essere più attenta.
Aggiungiamo alcune cose: il decreto cura Italia ha previsto il diritto per i lavoratori gravemente
disabili o che abbiano nel nucleo familiare un lavoratore con grave disabilità: art 39 riconosce ai
lavoratori del settore privato con ridotta capacità lavorativa la priorità per l'accoglimento delle
istanze del lavoro agile.
Rendere più agevole il ricorso allo smart working. tribunale di Grosseto: diritto del lavoratore di
avere la possibilità di lavorare in smart working: il datore di lavoro lo ha forzatamente messo in
ferie e il lavoratore voleva lavorare in smart working: contesto eccezionale dove alcune regole
generali subiscono cambiamenti ma la regola generale diritto alle ferie ma facoltà del lavoratore di
individuare il periodo di ferie ma il lavoratore deve poter godere delle ferie, ma non le può stabilire
interamente il datore di lavoro la collocazione delle ferie ex art 10 del decreto del 2003: almeno per
15 gg il lavoratore ha diritto di individuare il periodo feriale, garantita anche una consecutività.
può farlo per alcuni giorni: es per ferie arretrate perché il godimento delle ferie deve essere
111
effettivo, ma non può anticipare le ferie del 2021.

Licenziamenti corona: Occorre un insieme di misure eccezionali prese dallo stato: vanno
salvaguardati i posti di lavoro dei lavoratori come cassa integrazione ma anche attraverso iniezione
di liquidità delle imprese, traghettate nella nuova fase. Proposta di statalizzazione delle imprese,
ritorno al modello IRI? non lo sa se sarà così ma ci sarà sicuramente necessità di una regia pubblica
in grado di evitare risvolti disastrosi.
Subito dopo la fine della II guerra mondiale nel 1945-46 decreti che avevano previsto il blocco dei
licenziamenti, cosa che è accaduta anche ora.
Dovete sapere che come diceva prima in Italia lo strumento della cassa integrazione è stato messo in
pratica con la fine della II guerra mondiale: i primi in Europa ad averlo inventato, non esisteva negli
altri paesi fino a poche settimane fa: cassa integrazione ammortizzatore sociale: strumento che serve
ad attenuare gli scossoni che possono riguardare le persone più deboli che rischiano di trovarsi
senza un reddito. La cassa integrazione viene in considerazione quando il rapporto di lavoro è
sospeso, se c'è estinzione del rapporto vengono in considerazione altri ammortizzatori sociali.
Strumento di integrazione del reddito, ed è l'Inps che eroga la cassa integrazione.
strumento che viene in considerazione quando si estingue il rapporto Naspi: rapporto di
disoccupazione.
la cassa integrazione guadagni ha una lunga storia alle sue spalle, venne messa in pratica
nell'immediato dopo guerra e da allora noi abbiamo sempre avuto a che fare con la cassa
integrazione anche ogni limite di ragionevolezza. in questi ultimi due mesi attraverso la cassa
integrazione si sta evitando la possibilità che per effetto dell'epidemia vi siano milioni di
disoccupati.
caratteristica che abbiamo in questo momento no crisi economica che nasce da un fenomeno
finanziario del 2008 ma stiamo parlando di un sistema economico che si è arrestato per effetto di un
virus.
molti imprenditori che erano solidi, si è fermata la loro attività perché tutto si è fermato: questo
blocco come si ha avuto può essere superato., se non si interviene con massiccia dose di liquidità.
molte imprese falliranno: bivio determinato anche da questioni dell'UE rigidità di alcuni paesi
Germania e Danimarca rispetto a possibili aperture da praticare per liberare risorse che possono
permettere di scollinare le imprese. in questo quadro si viene a collocare la sospensione dei
licenziamenti e la cassa integrazione guadagni con particolari disciplini: disciplina speciale della
cassa integrazione per Covid 19.
sia cassa integrazione ordinaria: a una serie di imprese secondo quanto indicato decreto d.lgs. 128
del 2015, poi abbiamo cassa integrazione straordinaria: riguarda interventi specifici per alcune
tipologie di imprese con certe caratteristiche (crisi strutturale) + intervento dei fondi di solidarietà
bilaterali + percorso residuale: cassa integrazione in deroga: sistema molto complesso che risponde
a una sorta di legislazione alluvionale che abbiamo sviluppato degli ultimi decenni: no sistema
universale di ammortizzatori sociali.
perché nel corso dei decenni il legislatore non è riuscito a creare un sistema universale: queste sono
le regole e queste valgono per tutti.
siamo stati i primi a inventare la cassa integrazione ma siamo pasticcioni perché non siamo riusciti a
cercare un sistema unico come risposta ad una stessa domanda: farraginosità, frammentarietà del
sistema: cassa n deroga: il legislatore ha aperto alla competenza delle regioni 22 diverse discipline
della cassa in deroga (20 regioni + 2 province autonome di Trento e Bolzano): erogazione che
riguarda centinaia di lavoratori e domande tantissime: troppo complesso, lento: per processare una
domanda si impiegano settimane e settimane.
il datore può pagare la cassa integrazione e poi rifarsi con l'Inps.

112

Potrebbero piacerti anche