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di Federica Bosco
Terapia del plasma, Perotti (San Matteo di Pavia): «Oggi sospesa per mancanza di pazienti, ma
tesoretto di 200 sacche pronte all’uso»
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La morte del professor Giuseppe De Donno, ex primario di pneumologia del Carlo Poma di
Mantova, sulla quale sta indagando la procura, ha riacceso i riflettori sulla terapia del plasma
iperimmune come cura contro il Covid-19. Per saperne di più siamo andati a vedere se e come viene
utilizzato oggi il plasma per la cura dei pazienti Covid al San Matteo di Pavia dal professor Cesare
Perotti, direttore del servizio di immunoematologia che, insieme a De Donno, è stato tra gli artefici
della terapia del plasma nella prima ondata di Covid.
Professore, è davvero possibile che un medico si sia tolto la vita perché deluso dalla non efficacia
della terapia?
«Non strumentalizziamo la morte di un valido professionista con la terapia che ha permesso di
salvare molte vite umane. La terapia del plasma ha funzionato ed è ancora oggi una delle più
efficaci terapie contro il Covid. La morte di De Donno non ha nulla a che vedere con la terapia del
plasma».
Un chiarimento è doveroso per salvaguardare la reputazione di un medico che ha speso tutte le sue
energie per cercare di salvare vite umane…
«Io ho lavorato con il buon De Donno, ci siamo sentiti più volte al telefono soprattutto nella prima
ondata, abbiamo scambiato messaggi ed e-mail per questioni lavorative. Se mi posso permettere un
ricordo, era una brava persona, molto volenterosa, di quelli che gettano il cuore oltre l’ostacolo».
Ma il plasma oggi è ancora utilizzato per curare i pazienti Covid al San Matteo?
«Al momento la terapia è sospesa perché la situazione è sotto controllo. Quindi abbiamo cessato
l’attività di raccolta e infusione a fine maggio. Non c’era più necessità».
In che senso?
«Diciamo che abbiamo imparato la lezione, sappiamo come affrontare il Covid e poi abbiamo un
tesoretto di più di 200 sacche di plasma pronte per essere utilizzate se ce ne fosse bisogno».
Mi faccia capire, la variante Delta è più contagiosa, ma meno grave e chi arriva in ospedale non ha
necessità del plasma che resta una cura efficace in casi gravi. È così?
«La variante Delta è più contagiosa perché si annida nelle alte vie respiratorie e quindi è più facile
la trasmissione, ma a livello clinico è meno potente».
Che sarebbero?
«Il plasma funziona eccome, ma con due presupposti: che contenga un elevato titolo anticorpale e
che sia dato precocemente. Ma non è tutto, perché fino a qui il principio potrebbe valere per
qualunque terapia. La vera novità sta nello scegliere il plasma giusto».
Mi spieghi meglio…
«Casomai ci fosse una ripresa della pandemia, dovremmo disporre di plasma iperimmune locale,
ossia degli anticorpi dei convalescenti della zona perché chi guarisce ha sviluppato gli anticorpi
giusti per il virus che ha colpito in quel luogo e in quella variante. Negli Stati Uniti stanno facendo
studi che dimostrano che l’impiego di plasma proveniente da 2.000 o 3.000 chilometri di distanza
dalla zona di residenza del malato non ha la stessa efficacia del plasma raccolto sul territorio perché
l’anticorpo specifico prodotto in quel luogo è quello che serve».
Insomma, il Plasma funziona a patto che abbia una carica anticorpale sufficiente e che provenga da
ex pazienti Covid dello stesso territorio. Perché allora tanta ostilità verso questa cura?
«L’Italia purtroppo è divisa tra guelfi e ghibellini… C’è tanta gente che ha sempre dato contro
perché il plasma costringe a lavorare e tanto, mentre c’è chi non ha voglia o non è capace di fare. Il
plasma può non funzionare se mancano determinati parametri: se si raccoglie male o se non ha
carica anticorpale. Invece funziona bene se si rispettano le condizioni che le ho detto: livello di
anticorpi, zona di provenienza e arco temporale. L’onestà intellettuale significa anche capire e
analizzare i dati».