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Alfina

terra di confine
tra
Tuscia Patrimonio Umbria
Silvio Manglaviti

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L’ALFINA. GEOGRAFIA STORICA

L’Alfina è un comprensorio geografico storico situato a cavaliere delle regioni Lazio (provincia di
Viterbo; comuni di Acquapendente, Bolsena, S. Lorenzo) e Umbria (provincia di Terni; comuni di
Castel Giorgio, Castel Viscardo, Orvieto), tra il lago di Bolsena e il medio corso del fiume Paglia, sul
limitare della Toscana sud-orientale (provincia di Siena).
Il comprensorio, di circa 10.000 ha, si caratterizza principalmente per un altopiano, a ponente di
Orvieto, di altitudine intorno ai 525 - 550 m slm, delimitato a nord e ad est dal ciglio rupestre
trachitico, le cui pendici scendono nell’alveo del suddetto fiume; a sud ed ovest da rilievi collinari
culminanti nei monti Volsinii (Poggio Torrone 690 m slm). I limiti storici del comprensorio erano
più ampi in quanto erano considerati de Alfina Monte Rubiaglio, Viceno, Benano, Sugano, Torre S.
Severo, Porano fino alle pendici stesse dell’altopiano nel versante dell’Orvietano, a q. 200 (limes
storico individuato da Carpentier).
Sull’Alfina è possibile evidenziare alcuni settori ambientali geomorfologici.
Piattaforma dell’Aeroporto. La denominazione di piattaforma (plateau) identifica aree uniformi dal
punto di vista geomorfologico di genesi vulcanica, come in questo caso di rilievo tabulare – mesa –.
L’area, nella parte settentrionale del comprensorio, è compresa tra Torre Alfina (600 m slm), comune
di Acquapendente; pod. Cornale e p.gio Giorgio (q. 548), comune di Castel Viscardo; ex Aeroporto
loc. Palazzina (q. 560), comune di Orvieto; S. Maria della Guardia (q. 538), loc. Citerno (q. 557),
Torraccia (q. 547), comune di Castel Giorgio. I toponimi presenti in questo settore ne rivelano alcuni
elementi caratteristici geografici: Tevertino, con riferimento al travertino, roccia connessa alla
presenza di sorgenti idrotermali; Fischio, forse evocativo di un qualche fenomeno connesso ai
soffioni. Nel lembo nordorientale della spianata fu realizzato l’“Aeroporto di Orvieto” (alias “di
Castelviscardo” o, anche, “di Castel Giorgio”), aeroscalo militare attivo fino al 1943, di cui
rimangono radi resti degli hangar realizzati da P. L. Nervi, ardita opera di alta rilevanza architettonica
ed archeologia industriale del Novecento. Nell’area sono state rilevate diverse emergenze culturali,
ambientali, paesaggistiche ed archeologiche: preistoriche, etrusche, romane e medievali. In
particolare, i toponimi Torre, Cornale, Guardia, Torraccia, siti medievali su probabili preesistenze
precedenti romane e/o etrusche, sono situati in prossimità dei bordi di quest’areale a cintura dello
stesso, forse come punti di sorveglianza sulla viabilità antica. Luoghi di interesse storico riportati
sulla cartografia seicentesca sono, oltre a Torre Alfina, il castello di Pecorone, le villae di Case Rosse,
Torraccia, Citerno, S. Maria della Guardia.
Poggi, piani e fossi. Nella parte meridionale ed occidentale del comprensorio si rileva una morfologia
meno uniforme fatta di spianate e vallette percorse dai tanti fossi che scendono dai morbidi rilievi a
contorno del plateau. Il terreno si fa articolato e compartimentato, costellato di profonde incisioni,
piccole forre scavate dai ruscelli prima di raggiungere e saltare con cascate il ciglio dell’acrocoro.

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Castel Giorgio, fondata sul preesistente sito di S. Giorgio di Vallocchi, sorge nell’antica Valle Laczola
citata nelle Comunalie a proposito di un cerretum (fitotoponimo ancora esistente in “Cerreto”, pressi
del cimitero). Cerro, quercia, sono tipici e presenti nella fitotoponomastica dell’Alfina, terra ricca di
macchie, boschi e pascoli: Cerro Soano; Quercia Galante; Cerquetino.
Diversi sono gli idronimi che indicano fonti, sorgenti, fontane. Romealla (Rigus Mealle, in cui si può
ancge leggere il riferimento all’antica viabilità Romea); Subissone; Luguscello e Laguscello (ad
indicare un piccolo fosso sull’itinerario per il lucus, bosco sacro o il lacus), che discendono in serie
parallela dai rilievi volsinii, fino al Cascio (che con F.sso Tordo ha invece origine dal P.gio di Biagio).
Areale ‘a poggi e buche’ (canyon di F.so di S. Paolo nei pressi di loc. “Pozzo”) caratterizzato da
circoscritti ambienti silvestri e macchia mediterranea alternati a pascoli e coltivi, con piccole zone
umide (Renara). Il paesaggio è punteggiato di antichi casali in pietra locale e laterizi prodotti nelle
fornaci castellesi (bell’esempio a “Vignolo”, antica proprietà Cozza). I poderi “l’Alfina” e “Fanello”,
prossimi alla confluenza dei fossi di “S. Croce”, “S. Paolo” e “del Piscino”, sono il baricentro
dell’altopiano, da qui si genera il fosso che tra Monte Tigno e S. Quirico salta nella sottostante valle
di Sassogna per confluire sotto Rocca Ripesena nel F.sso del Leone che nasce al Tione.
Monti Volsinii. Costituiscono il margine superiore della caldera che ospita il lago di Bolsena.
Pertinente all’Alfina è il versante nordorientale dei Monti Volsinii, da Monte Landro a Monte Panaro.
La displuviale orografica è costellata di emergenze archeologiche rilevanti: area sacra e tempio
etrusco a M.te Landro; resti etruschi a P.gio del Torrone e necropoli di Lauscello; castelli medievali
di Montalfina e Montiolo; Montedonico evoca l’antico castrum di Monte Giove Vecchio (i toponimi
con “Giove”, “Giano” e termini correlati sono relativi alla viabilità ed in particolare ai punti quotati
crocevia dove ci si possa volgere nelle diverse direzioni) e il non distante Pocatrabbio, poggio
Quatrabbio, quadrivio sulle direttrici Cassia e Traiana Nova.
Perimetro rupestre e relative pendici, ad elevata densità di emergenze culturali, ambientali,
paesaggistiche, tra cui: oltre a Castel Viscardo (e limitrofi castelli di Vitiano e Viceno); Bosco del
Sasseto; necropoli di Caldane (toponimo “parlante”, memoria relitta di preesistenti ambienti termali,
in sistema con le Fonti di Tiberio e Coriglia, presso Monte Rubiaglio); la nicchia naturalistica della
valle di Benano (con l’acquedotto di Tristi, le grotte lungo le ripe basaltiche frequentate dall’età del
Bronzo e le caratteristiche ‘Pietre Lanciate’, “basalti” colonnari); Lapone; Romitorio (colombari e
sepolture etrusche); Sossogna (basalti colonnari) e Rocca Ripesena; Tione; miniere di bauxite e
leucite di Sugano/Trinità; cave di tefrite (basaltino) di F.so Fanello coltivate in età etrusca per la
produzione delle macine biconiche (“molae versatiles” a Volsinii, in P. Binaco 2007).

La toponomastica alfinate rappresenta un valido indicatore, marker geotopografico, degli aspetti


geografici e geostorici, attuali e passati, riferiti soprattutto alla ricchezza di acque e boschi.
Numerosi sono gli idronimi che vi si rilevano non solo in quanto l’altopiano, serbatoio idrico naturale,
insista pienamente nel contesto dei bacini idrografico ed imbrifero del Lago di Bolsena ma anche per

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il sostanziale contributo delle tante sorgenti che scaturiscono dal perimetro dell’acrocoro ai bacini di
Paglia e Tevere. Sorgenti che alimentano fossi, fontanili e pozzi (Fontana Selva, Fontana Selvetta,
Pozzo, Pozzaccio, Pozzarello, Piscino). A questi si aggiungono piccoli ma suggestivi specchi d’acqua
di genesi pluviale, ancora esistenti come quello della Renara o relitti dei quali resta il toponimo:
Lagaccione, Troscione, Conca. Renaia, Renana, Renai, evidenziano depositi pozzolanici.
Sempre pertinenti all’Alfina sono i fossi Fanello, leggibile per analogia col Lauscello come Fanum
Riuscellus; il Cascio, a destra del tracciato della Via Cassia; il fosso delle Condotte (poi Mucaione)
che alimentava l’acquedotto medievale orvietano passando sull’Arcone.
Perazza, Melazzeta, Panaro, Macchia Tonda, Macchia Grossa, Roio, Rodinciampa, Ripadelce,
Carbonara, Ontanetum, Fracta Arleni nelle Comunalie evidenziano elementi di ripartizione e
destinazione d’uso delle terre.
Luguscello, già citato, si può leggere Lucus Riuscellus con riferimento al ‘bosco sacro’. Nella carta
Tusciae Antiquae di Abramo Ortelio (1584), tra fiume Paglia, Lago di Bolsena e Orvieto (l’Alfina),
è rappresentato il leggendario “bosco sacro” di Volsinii, con la didascalia «Etruriae sive
Volsiniensium lucus», di cui narrano gli autori antichi: «[…] quis timet aut timuit gelida Praeneste
ruinam aut positis nemorosa inter iuga Volsiniis aut simplicibus Gabiis aut proni Tiburis arce? nos
urbem colimus tenui tibicine fultam magna parte sui […]» (Giovenale, Satire, III).

Numerose sull’Alfina le tracce relitte della viabilità antica consolare con resti di basolati, rudus e
selciate romani e medievali.
Da Biagio si traguardano all’orizzonte, da nord in senso orario: Monte Tezio (Perugia), i Sibillini, il
Gran Sasso, il Terminillo, i Cimini, la Tolfa, l’Amiata e Cetona; da qui in direzione Orvieto passavano
la leggendaria Via Heracleia etrusca (Gamurrini rileva che presso loc. S. Giovanni nei paraggi di
Canonica fu trovata un’iscrizione dedicata ad Ercole protettore degli incroci viari); in epoca romana
la consolare Cassia, realizzata tra il 171 ed il 154 a.C. Successivamente il cursus publicus
sull’altopiano fu implementato con la realizzazione della Via Traiana Nova, tra Bolsena e Chiusi
«Viam novam Traianam a Volsiniis ad fines Clusinorum …» (miliare di Allerona, Monte Regole), e
il successivo diverticolo della Gioviana (Harris 1965; Mosca 2002). Le vie Romee, Francigena e
Germanica lambivano l’Alfina rispettivamente a nord e sud, raccordandosi agli antichi tracciati storici
come la Strada Antica Volsinea (Cipriano Manente), alias Romana o del Sasso Tagliato, prosecuzione
della “Selciata” del Petroio (Tamburino).
La Via Traiana Nova (aperta nel 108) attraversava l’Alfina da N a S e ancora oggi si trova il toponimo
Poggio Miglio, a nord sotto Poggio del Torrone, indizio di un probabile miliare. La Traiana N.
dall’Alfina scendeva al Paglia che attraversava con il Ponte della Mola o de subtus (dell’88 a.C.) tra
Monterubiaglio/Coriglia (Goriglia, sulle I.G.M. del 1878) e la Meana; toponimo da ‘mediana’, che
sta in mezzo, da intendere come ‘mezzacosta’ ma che ricorda anche miliarium medianum, cippi
miliari interposti tra i due principali di riferimento (ogni 9 miglia: e la Meana è al IX miglio,

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rispettivamente, dai fines Clusinorum (loc. Vicinnove, in comune di Monteleone d’Orvieto) e da
Bolsena.
Sul tracciato della Gioviana (realizzata sotto l’imperatore Gioviano, nel 363-364), che deviava dalla
Traiana N. dalle parti di Castel Giorgio, dove un tempo sorgeva Vallecchi o Vallocchi, compare
Strada Vecchia circa un chilometro ad ovest di Monte Tigno: assonante sia a Tinia (non lontano si
trova ancora il toponimo Fanello e questo è il luogo dove verosimilmente sorgeva il piviere di S.
Donato) sia ai Tignarii coordinati dal Praefectus Fabrum, a capo del Genio militare legionario addetto
anche alla costruzione delle strade, da cui potrebbe derivare lo stesso Fabro (TR), il cui castrum, è
sito a dominio del cursus publicus sua Cassia e Traiana N. e delle bonifiche e regimentazioni etrusche
e romane sul Chiani (Muro Grosso, etc.).
L’antica viabilità descritta consente di individuare l’Alfina, virtualmente, anche sulla Tabula
Peutingeriana, copia duecentesca – stampata nel Cinquecento – forse da una carta del mondo
originale romana, itineraria picta, del I sec. a.C. La carta riporta una via e dei riferimenti
toponomastici: «fl.o Pallia.» (in rosso), tra «Volsinis» e «Clusio», a cavallo della confluenza nel
Tevere e lungo l’itinerario è indicato «Pallia fl.» (in nero), tra le indicazioni topografiche di
«Volsinis» e «VIIII». Il già ricordato Pocatrabbio, Podium de Quatrabia come riportato nelle
Comunalie, potrebbe indicare ‘quattro vie’: la “Bolsena – Orvieto” e la “Montefiascone –
Acquapendente”, ovvero, il quadrivio all’incrocio di Cassia e Traiana Nova.

L’Alfina, identifica un territorio geografico e geografico storico, quale manifestazione di un concetto


mentale; costituisce infatti ab immemorabili un riferimento ecumenico presente da sempre nelle
coscienze delle popolazioni che nel corso dei millenni lo hanno abitato e di quanti lo abbiano
attraversato. Il legame con la storia, volsiniese-orvietana antica, è ancora nella memoria tramandata
nel gentilizio etrusco gens Alfina (Tamburini) originaria di Chiusi e il toponimo Molare, in una zona
di cave di trachite, riporta alle molae versatiles (Plinio il Vecchio, Nat. hist. XXXVI, 135; Varrone
ne attribuisce l’invenzione a Volsinii).
L’Alfina è cardine territoriale nella Tuscia Longobarda, della quale Urbs Vetus è capoluogo, come
evidenziano Waley e Carpentier «[…] dans l’esprit des Orviétans du XIIIe siècle, le contado n’est
pas seulement un ensemble des droits et des juridictions, mais une réalité territoriale à laquelle on
cherche, même si on ne réussit pas toujours, à donner des limites géographiques précises: la lisière
de la forêt du Monte Rufeno, le fleuve Chiani […]». Si tratta dunque, in riferimento a quelli comitali
orvietani, di confini chiari e ben definiti. Nei documenti orvietani relativi a dispute territoriali, si fa
riferimento a termini topografici inequivocabili: «[…] dicte silve pertinuisse et pertinere ad comune
Urbevetanum […]». «Ad perscrutandum et dividendum et designandum omnes fines et loca inter
districtum Urbetanorum ex una parte et comitatum dictum Senensium seu districtum vel aliorum
quorumque comunium seu nobilium qui confinant et habent terras suas et possessiones iuxta terras
et possessiones ipsorum Urbetanorum». «[…] usque ad flumen Clanis erat comunis Urbisveteris.»

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«[…] comune Urbisveteris habuit et habet citra Clanes in partibus castrorum Scetoni,
Camporseldulis et Salcis». «Quod comune Urbisveteris possidebat usque ad medium fluminis
Clanium». «[…] Usque ad fossatum Ostrie et michit in flumen Palee et descendit per flumen Palee
[…]».
Nella Galleria delle Carte Geografiche, oggi parte dei Musei Vaticani, che padre Egnatio Danti nel
1580 realizzò su commissione di papa Gregorio XIII del quale era il cosmografo (lo era stato prima
anche del granduca Cosimo I a Firenze) alla corografia del Patrimonium Sancti Petri, Tuscia
Suburbicaria si leggono i toponimi M. Alfino e T. Alfina.

Lo stesso Danti realizzò tre anni dopo per Monaldo Monaldeschi della Cervara (che risiedeva a Torre
Alfina) la Urbisveteris Antiquae Editionis Descriptio, prima rappresentazione del Territorio
Orvietano in cui è delineato lo Stato nel 1334, all’epoca di Manno Monaldeschi. Monaldo cita più
volte l’Alfina: «…Ma certa cosa è, che i Popoli Salpinati erano quivi, che fin d’hoggidì vi è questo
paese detto Alfina ...»; «…E tornando verso il fiume (Paglia) Benano, e nel piano dell’Alfina,
Castelgiorgio, Montealfino, & nell’estrema parte della Alfina dieci miglia sopra al fiume Paglia, si
vede Torre Alfina …da questo castello … si trova Acquapendente … presso (cui) si trova Proceno,
castello antico, & edificato … da Porsena Re.»
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Senza dubbio i toponimi Alfina fanno riferimento ad un territorio di confine, il limes naturale del
dominio comitale orvietano (che nei secoli XII e XIII si identifica con quello diocesano); il termine
compare già nel Medio Evo. “Sancti Donati de Alfina, Commenda ecclesia Sancti Iusti de Alfina,
pectias terrarum in Alfina, Sancti Sebastiani de Alphina, Monte Alphino”, sono presenti nei Codici
duecenteschi presso l’Archivio Vescovile di Orvieto. Inoltre, presso l’Archivio di Stato, Sottosezione
di Orvieto, in una serie di documenti inerenti al «…liber de confinibus pleberiorum Urbisveteris …»,
relativi ad un periodo compreso tra la seconda metà del 1100 e la fine del ‘200, parlando appunto del
confine cittadino orvietano, si riporta come «… ascendit usque ad rupes Alfine …». S’intende perciò
che tutto quanto sia sopra le “rupi” e, anzi, le rupi stesse, sia da ritenersi come “Alfina”, il cui
riferimento territoriale storicogeografico è appunto Orvieto. Se ne ha ulteriore conferma nella Carta
del Popolo: «… nec a platea intus nec a rupibus Alfine intus …», in cui – qui a proposito
dell’interdizione delle risse prope civitatem (orvietana) – si distingue bene il limite dell’Alfina verso
l’interno dell’altopiano e dalle sue rupi verso la zona interna della tenuta civitatis orvietana.
Il piviere di Sugano è da ritenersi parte dell’Alfina, come si evince anche dal Monaldeschi nei
Comentari, «… in Alfina Sucani …», a sua volta ripreso da una cronaca trecentesca. La Carpentier
colloca la Trinità «sur le pentes de l’Alfina», con possedimenti in Sugano e in Monte Rubiaglio.
Orvieto, come già visto, manteneva sull’Alfina numerosi possedimenti (comunalie) come quelli dei
Ranieri e della parte Aldobrandesca (che legava l’Alfina anche alle Terre Guiniccesche: Proceno,
Castell’Ottieri, Onano, ecc.); nonché un intero castello: «… castrum Montis Iovis de Alfina cum sua
tenuta …». Il Comune di Orvieto, centro amministrativo del polo di riferimento territoriale, traeva i
propri possedimenti anche in virtù di espropri, confische e conquiste. Dei propri beni decideva in
completa autonomia, dando terre per la fondazione del castrum di Patrignone in Alfina piuttosto che
stabilire comunalie nove alla frontiera Sud del piviere di Sugano, verso Montefiascone.
In chiusura, un rapido riferimento all’agionomastica dell’Alfina.
Sull’altopiano sono frequenti località e luoghi dedicati a Biagio, Giorgio/Gregorio (P.gio di Biagio;
S. Giorgio di Vallocchi), culti propri della Chiesa orientale e legati alla campagna, alla pastorizia, ai
raccolti. Sono diversi anche gli agionimi Giovanni, Lorenzo, che rispecchiano verosimili sincretismi
dai culti di Ercole (S. Lorenzo e Monte Landro; S. Giovanni a Canonica), ed ancora, Marco, Martino,
che con il citato Giovanni evocano culti templari, gerosolimitani (S. Marco al Romitorio). S. Donato
è una devozione aretina, nella cui terra il protettore dalle pesti fu vescovo. Quello degli agionimi è un
vero e proprio sistema interconnesso che permette di individuare percorsi, tracciati ora riscontrabili
sul terreno ora virtuali. Sono direttrici di collegamento tra siti abbaziali, conventuali, monasteri,
pivieri, espressamente dedicati, dotati di centri di riferimento territoriale adibiti a poste ed hospitali,
non di rado derivanti dalle antiche mansiones e stazioni sulla viabilità antica.

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CRONOLOGIA DELL’UNITA’ D’ITALIA
A cura del prof. Dino Carpanetto, Professore di Storia Moderna all’Università di Torino

L’Italia dalla Rivoluzione francese a Napoleone


1792-1796
Nel clima politico influenzato dalla Rivoluzione francese, anche in Italia si formano gruppi di
orientamento democratico-repubblicano che prendono a riferimento le idee di libertà, di eguaglianza,
di costituzione, provenienti dalla Francia. Il periodo vede diversi patrioti repubblicani, a Torino,
Milano, Napoli, Venezia, coinvolti in congiure contro i sovrani, che ovunque falliscono.
1796-1799
L’inizio della campagna d’Italia di Napoleone Bonaparte contro gli Austriaci determina il crollo delle
vecchie strutture statali della penisola e la nascita delle repubbliche «sorelle» Cispadana e
Transpadana – poi fuse nella Cisalpina –, Romana (1798) e Napoletana (1799). A Torino si forma un
governo provvisorio (dicembre 1798) sotto il controllo militare dei francesi e il re Carlo Emanuele
IV abbandona la capitale.
1799
Nell’estate-autunno, le repubbliche italiane sono travolte dalle insorgenze contadine e dalla
coalizione antifrancese. A Parigi il 18 brumaio (9 novembre) Napoleone si impadronisce del potere
con un colpo di stato.
1800
La vittoria di Napoleone a Marengo (14 giugno), che riporta l’alta Italia sotto controllo francese, apre
la strada alla ricostituzione della Repubblica Cisalpina.
1802
Ai Comizi di Lione i notabili della Cisalpina approvano la creazione della Repubblica Italiana, con
Napoleone presidente. Il Piemonte è annesso alla Francia; viene ricostituita la Repubblica Ligure.
1805
Napoleone trasforma la Repubblica Italiana in Regno d’Italia e viene incoronato re a Milano. La
Repubblica Ligure è annessa all’Impero francese.
1806
I Francesi invadono il Regno di Napoli. I Borbone si ritirano in Sicilia protetti dalla flotta inglese.
Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, diventa re di Napoli.
1808
I Francesi occupano Roma. L’anno seguente lo Stato Pontificio è annesso all’Impero francese; Pio
VII, arrestato, viene trasferito a Savona, poi a Fontainebleau.
L’Italia nel periodo della Restaurazione

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1814
Il 31 marzo le truppe della coalizione antifrancese entrano a Parigi. A Milano, il tentativo di salvare
il Regno d’Italia naufraga nel disordine. A Roma torna Pio VII. Il 16° novembre si apre il congresso
di Vienna.
1815
Il Congresso di Vienna decide gli equilibri italiani con la restaurazione delle antiche dinastie. Sui
troni di Napoli e di Palermo tornano i Borbone, nella persona di Ferdinando IV, che nel 1816 unisce
le corone dando vita al regno delle Due Sicilie e assumendo il nome di Ferdinando I. L’ex re di Napoli
Gioacchino Murat rivolge un appello agli Italiani (proclama di Rimini), invitandoli a prendere le armi
contro il dominio austriaco. Sconfitto dagli Austriaci a Tolentino, in settembre tenta uno sbarco in
Calabria nella speranza di sollevare le popolazioni e di riconquistare il trono, ma viene catturato a
Pizzo e fucilato.
Al Congresso di Vienna l’Austria ottiene la Lombardia e il Veneto, costituiti in regno Lombardo-
veneto. È decisa la restituzione al re di Sardegna del Piemonte, cui viene annessa la Liguria,
dell’intera Savoia e di Nizza. La Toscana è restituita al granduca Ferdinando III di Lorena. Parma,
Piacenza e Guastalla è assegnata a Maria Luisa d’Austria, moglie di Napoleone. Lucca a Maria Luisa
di Borbone. Modena a Francesco IV d’Austria-Este.
1820
Nel Regno delle Due Sicilie scoppia un’insurrezione, incoraggiata dalla rivoluzione che in Spagna ha
ripristinato la costituzione del 1812. I democratici, sotto la guida del generale Guglielmo Pepe, capo
della Carboneria, adottano una Costituzione e ottengono le elezioni per la nomina del Parlamento.
Ferdinando I giura la Costituzione. In Sicilia inizia un moto indipendentista. Le truppe napoletane
conquistano Palermo, mentre a Napoli si riunisce il Parlamento.
1821
L’insurrezione costituzionale coinvolge marginalmente il Piemonte. Nel febbraio un esercito
austriaco scende nel sud d’Italia e travolge le truppe fedeli alla Costituzione. Seguono fucilazioni ed
esili dei patrioti. Inutile il tentativo di fornire appoggio ai Napoletani dei liberali piemontesi, guidati
da Santorre di Santarosa e ingannati dall’ambiguo atteggiamento del principe Carlo Alberto. Nel
marzo 1821 alcuni reggimenti piemontesi si ribellano chiedendo la Costituzione e la guerra contro
l’Austria. I ribelli sono presto sconfitti dalle truppe austriache e da quelle piemontesi rimaste fedeli
al re Carlo Felice.
Anche nel LombardoVeneto si formano gruppi di liberali. Il dibattito si sviluppa attorno al giornale
“Il Conciliatore”, su cui scrivono letterati, giuristi ed economisti propagandando le teorie liberali. La
polizia austriaca li accusa di cospirazione e interviene. Seguono processi e condanne a morte o a
lunghe pene detentive.
1822
I tribunali piemontesi e napoletani emettono severe sentenze contro coloro che a vario titolo avevano

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partecipato ai moti liberali. Per sfuggire al carcere o alla pena di morte, centinaia di patrioti italiani si
rifugiano in Svizzera, Belgio, Inghilterra, Francia. In questi paesi tengono vivi i collegamenti, in
attesa di poter riprendere la lotta politica in Italia.
1831
Scoppiano moti liberali nei ducati di Modena e Parma e nello Stato pontificio (in particolare in Emilia-
Romagna). L’intervento delle truppe austriache consente ancora una volta una facile repressione. Il
duca di Modena Francesco IV fa giustiziare i capi della ribellione, Ciro Menotti e Vincenzo Borelli.
Il patriota italiano Giuseppe Mazzini fonda una nuova organizzazione rivoluzionaria, la «Giovine
Italia», ispirata agli ideali dell’unità, della repubblica e della fratellanza universale. In Piemonte Carlo
Alberto succede a Carlo Felice.
1832
Il papa Gregorio XVI condanna nell’enciclica Mirari vos la libertà di stampa e il diritto a ribellarsi
contro un governo dispotico.
1833
A Milano lo storico ed economista Carlo Cattaneo fonda la rivista “Il Politecnico”, con cui promuove
il processo di modernizzazione della penisola e il suo inserimento nell’area dello sviluppo
capitalistico e della rivoluzione industriale.
1834
Tentativi insurrezionali dei mazziniani a Genova e in altre parti d’Italia, che si concludono tutti con
fallimenti. Ai moti di Genova partecipa anche il giovane ufficiale di marina Giuseppe Garibaldi.
Mazzini fonda a Berna la «Giovine Europa», che raccoglie patrioti italiani, tedeschi e polacchi.
1843
Il filosofo Vincenzo Gioberti pubblica il Primato morale e civile degli italiani (1843), fautore
dell’accordo tra chiesa e movimento per l’indipendenza nazionale.
1844
Su impulso di Mazzini, esule a Londra, è riorganizzata l’associazione «Giovane Italia». Un gruppo
di mazziniani, guidato dai fratelli Bandiera, tenta un’insurrezione in Calabria che viene repressa dal
governo borbonico.
1846
L’elezione di Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti, suscita aspettative fra i liberali italiani.
A Roma sono attuate alcune riforme: amnistia per i prigionieri politici, allentamento della censura,
istituzione della guardia civica e di un consiglio municipale. Muore il duca di Modena Francesco IV
d’Austria-Este; gli succede il figlio Francesco V.
1847
Il re di Sardegna Carlo Alberto concede alcune riforme e una maggiore libertà di riunione e di stampa.
Pio IX concede la libertà di stampa; a Roma sorgono numerosi circoli democratici. Occupazione di
Ferrara da parte delle truppe austriache come forma di pressione contro la politica di apertura adottata

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dal papa.
Indipendenza e unità nazionale
1848
L’anno delle rivoluzione nazionali e sociali in Europa. Moto liberale a Palermo (12 gennaio), guidato
da Rosolino Pilo: cacciate le truppe borboniche si forma un governo provvisorio che adotta la
costituzione spagnola del 1812. Il re delle Due Sicilie Ferdinando II cede agli insorti e promulga una
costituzione ispirata a quella francese del 1830 (11 febbraio). Anche il granduca di Toscana Leopoldo
concede una costituzione. Il re di Sardegna Carlo Alberto promulga una costituzione, lo Statuto
Albertino (4 marzo).
Alla notizia dell’insurrezione liberale di Vienna, scoppia a Milano un moto popolare che dopo cinque
giornate di lotta (18-22 marzo) costringe le truppe austriache del maresciallo Radetzky a ritirarsi nelle
fortezze del «Quadrilatero» (Peschiera, Mantova, Verona, Legnano).
Il duca di Modena Francesco V è costretto a fuggire dallo stato, dove viene creato un governo
provvisorio. Anche il duca di Parma e Piacenza Carlo II Ludovico viene cacciato dal ducato, che dopo
un plebiscito è annesso al regno di Sardegna (29 maggio).
Venezia insorge il 17 marzo contro l’Austria; viene restaurata la Repubblica Veneta (22 marzo). A
capo del governo provvisorio è posto Daniele Manin. Il re di Sardegna, Carlo Alberto dichiara guerra
all’Austria e invade la Lombardia. Ha inizio la prima guerra d’indipendenza italiana. Truppe regolari
di tutti gli stati italiani si uniscono ai piemontesi. L’esercito sabaudo coglie alcuni successi a Goito e
a Pastrengo. Ma presto Pio IX richiama le proprie truppe; il suo esempio sarà seguito dagli altri stati.
Il re delle Due Sicilie Ferdinando II scioglie il parlamento e forma un ministero composto da elementi
conservatori. Guglielmo Pepe, comandante del corpo di spedizione inviato nell’Italia settentrionale
per combattere al fianco del regno di Sardegna, richiamato a Napoli, disobbedisce e si trasferisce a
Venezia per cooperare alla sua difesa. Il Piemonte decide di annettere la Lombardia. La sconfitta di
Carlo Alberto nella battaglia di Custoza (23-25 luglio) rovescia le sorti della guerra. Il 6 agosto gli
Austriaci rientrano a Milano; il 9 agosto il Piemonte si accorda con l’Austria e firma l’armistizio di
Salasco; la Lombardia torna all’Austria. Segue in tutta Italia un periodo di ritorno all’ordine. Gli
Austriaci occupano il ducato di Parma e Piacenza
Dopo l’uccisione del primo ministro, Pellegrino Rossi, scoppiano a Roma tumulti popolari che
inducono il papa Pio IX a fuggire a Gaeta. L’imperatore d’Austria Ferdinando I decide di abdicare.
Gli succede il nipote Francesco Giuseppe.
1849
In diversi stati italiani riprende l’iniziativa democratica e unitaria. Il granduca di Toscana Leopoldo
II fugge e si rifugia a Gaeta. A Firenze si forma un governo provvisorio, che proclama la Repubblica
Toscana, ma il 12 aprile elementi aristocratici e moderati rovesciano il governo democratico.
Un’assemblea costituente proclama a Roma (9 febbraio) la fine del potere temporale del papato e la
nascita della Repubblica Romana. Viene insediato (29 marzo) un triumvirato composto da Mazzini,

14
Carlo Armellini e Aurelio Saffi, la cui politica di conciliazione non vale a impedire un intervento
armato della Francia in soccorso del papa. Il re di Sardegna, Carlo Alberto, denuncia l’armistizio con
l’Austria e riprende le ostilità. Ma l’esercito piemontese, sotto la guida del generale polacco Wojciech
Chrzanowski, viene nuovamente sconfitto dagli Austriaci a Novara (23 marzo). Carlo Alberto abdica
in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Il giorno successivo Piemonte e Austria concludono a
Vignale un armistizio che non comporta perdite territoriali per i piemontesi. Il 10 agosto è firmata la
pace di Milano, con la quale si chiude definitivamente la prima guerra di indipendenza.
Dopo dieci giorni di scontri, i patrioti di Brescia, insorti sotto la guida di Tito Speri, si arrendono agli
Austriaci (1 aprile). In aprile il governo francese decide una spedizione militare contro la Repubblica
Romana. Le truppe guidate dal generale Oudinot sbarcano a Civitavecchia e iniziano l’occupazione
del territorio della repubblica; il 29/30 aprile i Francesi sferrano un attacco contro i volontari
repubblicani che difendono Roma, ma vengono respinti dagli uomini di Garibaldi.
Il liberale moderato Massimo d’Azeglio viene nominato capo del governo piemontese.
Le truppe del regno di Napoli riconquistano la Sicilia e occupano Palermo (15 maggio). Ferdinando
II, che nel marzo ha definitivamente sciolto il parlamento napoletano, abolisce anche nell’isola ogni
forma costituzionale.
Le autorità della Repubblica Romana sono costrette a cedere ai Francesi. L’assemblea costituente
prosegue tuttavia i lavori e il 3 luglio promulga la costituzione, mentre l’esercito francese occupa la
città. Le truppe comandate da Garibaldi tentano di sganciarsi dal nemico, ma vengono catturate o
disperse. Il duca Francesco V fa ritorno a Modena (10 agosto). In precedenza le truppe austriache
avevano riportato sul trono del ducato di Parma e Piacenza Carlo III Ferdinando di Borbone. La
restaurazione procede in tutta Italia; il Piemonte è l’unico stato a conservare lo statuto.
In Piemonte, Vittorio Emanuele II scioglie il parlamento (20 ottobre) che manifesta resistenza ad
approvare la pace di Milano, e con il proclama di Moncalieri fa appello agli elettori affinché
confermino la loro fiducia al governo moderato del conte Massimo d’Azeglio.
1850
Pio IX rientra a Roma, occupata dai Francesi, intenzionato a chiudere ogni precedente apertura fatta
ai liberali. L’Austria impone al Lombardo-Veneto un’amministrazione di tipo militare, mettendo
come governatore il generale Radetzky.
1852
Processi a Mantova contro i cospiratori mazziniani con 110 condanne. Tra gli otto fucilati il sacerdote
Enrico Tazzoli. Il Piemonte accoglie migliaia di esuli politici provenienti da tutti gli stati italiani. In
Piemonte diventa presidente del consiglio dei ministri Camillo Cavour, uomo di esperienza
internazionale, che nel 1848 con la fondazione del quotidiano “Il Risorgimento” aveva abbracciato
una linea liberale e costituzionalista. Cavour promuove riforme di modernizzazione economica e
istituzionale (ferrovie, canali di irrigazione, bonifiche) e leggi per la limitazione dei privilegi del clero.
In politica estera favorisce l’inserimento del regno sardo nella diplomazia europea.

15
1856
Al termine della guerra di Crimea, cui il regno sardo ha partecipato a fianco di Francia e Inghilterra,
Cavour solleva la questione italiana nel congresso di Parigi e denuncia il ruolo svolto in Italia
dall’Austria.
1857
Patrioti repubblicani, come Giuseppe La Farina, Daniele Manin e Giuseppe Garibaldi, fondano la
Società Nazionale Italiana, in appoggio alla politica di Cavour. Nuovo tentativo insurrezionale dei
mazziniani a Genova, prontamente represso.
In giugno un gruppo di patrioti italiani guidati da Carlo Pisacane tentano di sollevare le popolazioni
del Sud (spedizione di Sapri), ma sono dispersi dalle truppe borboniche e sterminati dalla
popolazione.
1858
Incontro segreto a Plombières tra Cavour e l’imperatore di francesi Napoleone III, in cui sono decisi
i preliminari dell’accordo franco-sabaudo, ratificato nel gennaio del 1859. Prevede uno scambio tra
territori e intervento militare: l’esercito francese si sarebbe mosso contro l’Austria in caso di
aggressione al Piemonte; dopo la guerra si sarebbe formato un Regno dell’Alta Italia (Piemonte,
Liguria, Lombardia, Veneto) governato dai Savoia; alla Francia sarebbero toccate in cambio la Savoia
e Nizza.
In previsione della nuova guerra con l’Austria, il Piemonte accoglie circa 20.000 mila volontari
provenienti perlopiù dalla Lombardia, da Modena, dalla Toscana e dal sud. Ammassando truppe ai
confini e facendo fare ai volontari di Garibaldi esercitazioni nelle vicinanze del territorio austriaco, il
Piemonte provoca la reazione di Francesco Giuseppe. All’imperatore austriaco, che intima di
sospendere tali azioni, Cavour risponde negativamente: si configura l’atteso pretesto di guerra,
condizione per mettere in atto gli accordi franco-piemontesi.
Seconda guerra di indipendenza (27 aprile-8 luglio). Le truppe franco-piemontesi sconfiggono gli
Austriaci a Montebello, Palestro, Magenta, Solferino e San Martino. Garibaldi, con i volontari
organizzati nella brigata dei Cacciatori delle Alpi, conquista Varese, Como, Bergamo e Brescia. In
Emilia, Romagna e Toscana la popolazione insorge chiedendo l’annessione al Piemonte: questi
avvenimenti preoccupano l’imperatore francese. L’8 luglio, Napoleone III, senza consultare il re
sabaudo, si ritira dal conflitto. Preliminari di pace, a Villafranca tra Napoleone III e Francesco
Giuseppe, nonostante l’opposizione di Cavour che si dimette da presidente del consiglio. La
Lombardia è ceduta al Piemonte.
1860
A riguardo delle regioni centrali si decide di sottoporre al giudizio delle popolazioni toscane, emiliane
e romagnole la proposta di fare parte del nuovo regno. I plebisciti danno risultato favorevole. Si forma
così uno stato nuovo, composto da Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia, Romagna e Toscana. Al
comando di Garibaldi una spedizione di volontari, i Mille, si imbarca da Quarto, vicino a Genova,

16
diretta in Sicilia (5 maggio 1860). Raggiunta l’isola (11 maggio), i garibaldini sconfiggono l’esercito
borbonico a Calatafimi e occupano Palermo. Dopo la battaglia di Milazzo, attraversano lo stretto e il
7 settembre Garibaldi fa ingresso a Napoli (7 settembre). Definitiva sconfitta dei borbonici nella
battaglia del Volturno (1 e 2 ottobre). Con il beneplacito della Francia l’esercito piemontese, scende
al sud. Dopo un breve scontro con le forze pontificie, Vittorio Emanuele II si incontra con Garibaldi
presso Teano, o secondo altre versioni a Taverna Catena nel comune di Vairano Patenora (26 ottobre).
Garibaldi lo saluta come re d’Italia. Chiede per un anno il governo delle regioni meridionali. Al rifiuto
del re, Garibaldi si ritira a Caprera.
1861
Dopo il ritiro di Garibaldi, i plebisciti approvano le annessioni del sud. Con una legge votata dal
parlamento convocato a Torino, in cui sono rappresentati tutti i territori acquisiti, Vittorio Emanuele
II è proclamato re d’Italia (17 marzo). A fondamento del regno d’Italia è mantenuto lo Statuto
albertino. Muore Cavour (6 giugno). Gli succede Bettino Ricasoli, che prosegue la direzione
moderata.
1861-1865
Il fenomeno del brigantaggio, manifestatosi come ribellione allo stato unitario, coinvolge le
campagne del sud d’Italia. Viene represso con l’intervento dell’esercito.
1862
Garibaldi con i suoi uomini muove dalla Calabria per conquistare Roma, ma viene bloccato
dall’esercito dopo uno scontro sull’Aspromonte (29 agosto).
1864
Accordo tra Italia e Francia: la Francia si impegna a ritirare entro due anni le truppe da Roma, in
cambio dell’impegno italiano a non violare militarmente lo stato pontificio.
1865
Trasferimento della capitale da Torino a Firenze.
1866
L’Italia partecipa alla guerra tra Austria e Prussia (terza guerra di indipendenza). Grazie ai successi
dell’alleato prussiano, acquisisce il Veneto.
1867
Il Parlamento vota misure antiecclesiastiche allo scopo di ricavare consistenti entrate fiscali. I
Francesi e i Pontifici bloccano nello scontro a Mentana una colonna di uomini guidati da Garibaldi,
che muove su Roma (3 novembre).
1868
Viene approvata la tassa sul macinato per sanare il debito pubblico.
1870
In seguito alla disfatta della Francia nella guerra con la Prussia lo Stato pontificio non dispone più
della protezione francese. Un reggimento di bersaglieri italiani entra a Roma e pone fine al potere

17
temporale della chiesa (20 settembre). Lo Stato pontifico è annesso al regno d’Italia e Roma ne
diventa capitale.

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19
Urbisveteris Antiquae Ditionis Descriptio
Padre Egnatio Danti per Monaldo Monaldeschi della Cervara, 1583

20
1712
21
Moroncelli

1745

22
1776
23
1776

1791

24
1798-99 Repubblica Romana

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1809

26
1812

1815 Restaurazione

27
Ante 1831

1844

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1860

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1878

30
31
1921

Il plateau de l’Alfina nella cartografia contemporanea (qui dall’Istituto Geografico Militare, Firenze)

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La Tuscia questa sconosciuta, sottotitolo … Oggi è un brand relegato grossomodo alla provincia
viterbese. Ma non è sempre stato così. Anzi, a dirla tutta è da qualche decennio soltanto che si parla
di Tuscia in tal senso.
La Tuscia era una vasta regione che oggi comprenderebbe Toscana, circondario Orvietano
dell’Umbria e provincia di Viterbo nel Lazio. Nel ’47 della Costituente – alla quale Orvieto ha
dedicata la via che mette in comunicazione il centro fisico urbano, col Palazzo dei Sette [Consoli
delle Arti Maggiori, autorità del governo della città medievale, divenuto poi del Governatore
pontificio] e la Torre del Papa [detta del Moro] con la piazza e il Palazzo del Popolo – sull’onda della
riconfigurazione dello Stato italiano dall’accentramento alla ripartizione politico-amministrativa su
scala regionale, sostenuto dai comitati sorti ad Orvieto e Viterbo e da un solido movimento di pubblica
opinione un nutrito ed autorevole gruppo di intellettuali (Bonaventura Tecchi; Renato Bonelli)
propose la rinascita della Regione Tuscia: «nel nuovo ordinamento territoriale dello Stato, che è allo
studio all’Assemblea Costituente formuliamo voti affinché alla Città di Roma, capitale della Nazione
e centro del Cattolicesimo, sia attribuita una particolare posizione amministrativa per l’assolvimento
delle sue altissime funzioni nazionali ed internazionali, e conseguentemente si proceda alla
ripartizione dell’attuale regione laziale, con la ricostituzione della antica Tuscia, alla quale vengano
attribuiti quei territori confinanti che hanno con essa maggiori affinità di carattere etnografico, etnico
ed economico.». Tuttavia non bastò; la proposta non ebbe seguito.
Ma dove era finita l’antica Tuscia? A chi impicciava la Tuscia? Chi temeva Civitavecchia, Orvieto e
Viterbo come provincie?
Orvieto nel 1860 si era ritrovata in Umbria dalla sera alla mattina e rinominata la toponomastica
cittadina per celebrare i protagonisti risorgimentali nonché fautori della liberazione (o anschlußß sotto
mentite spoglie): vie e piazze persero le vecchie denominazioni medievali e rinascimentali per essere
dedicate ai consueti Garibaldi (Gran Maestro Venerabile del Grande Oriente d’Italia), Cavour e, con
i Cacciatori del Tevere, ad altri personaggi dei movimenti fraterni carbonari e similari, Giosuè
Carducci, Felice Cavallotti (il bardo del Risorgimento), i Cahen (latifondisti anche delle terre
alleronesi e di Roma Prati, coinvolti nelle faccende della Banca Romana). Insomma, gli Orvietani
Umbri per caso?

Storicamente la Tuscia è una derivazione culturale, storica e geografica dell’Etruria, l’antica VII
Regio Augustea che a sua volta ereditava il limes ancestrale dei territori controllati dalle pòlis
etrusche: l’Etruria etrusca era compresa tra i fiumi Arno e Tevere (con espansioni coloniali verso la
Padania e la Valtellina a Nord e la Campania Cumana a Sud), a sua volta suddivisa in due
macroregioni – Settentrionale e Meridionale – separate dal corso del fiume Fiora (che nasce sul Monte
Amiata e sfocia sul Tirreno a Montalto di Castro). Popoli confinanti erano i Celti padani-marchigiani,

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gli Umbri (Perugia ed Orvieto erano etrusche, Todi era umbra, tanto per avere dei riferimenti
concreti), i Sabini, i Falisci e i Latini. Roma è etimologicamente di nascita etrusca e dei primi
monarchi i Tarquinii furono tra i più rappresentativi. Lo stesso Mar Tirreno deve il nome ai Thyrrenoi
come venivano chiamati i popoli etruschi, le cui origini sono collegabili ad antichi popoli del mare
provenienti da Oriente.
La Tuscia (in pectore) al tempo degli Etruschi comprendeva i territori controllati da alcune delle pòlis
nella Dodecapoli dell’Etruria meridionale ed in particolare: Vulci, Velzna (Volsinii), Tarqna, Caere.
Già da qui si comprende che la Tuscia era ben altra realtà geostorica e culturale da quella che oggi si
conosca.

Dirimente ed eloquente la rappresentazione corografica nella galleria delle carte Geografiche ai


Musei Vaticani (1580; sopra riportata in figura) dove tra le varie regioni italiche rappresentate fa bella
mostra di sé la Tuscia, ovvero la carta del “Patrimonium Scti Petri” – alias – “Tuscia Suburbicaria”
(… soggetta all’Urbe, Roma pontificia), con le piante dei due capoluoghi di riferimento: Orvieto e
Viterbo. Al di sopra della grande mappa dipinta della Tuscia una lunetta con rappresentato l’evento
che la caratterizza, il Miracolo eucaristico di Bolsena (presente anche in un altro dipinto nelle Stanze
di Raffaello) e la Processione del Corpus Domini, massima solennità eucaristica dell’universo
cristiano, istituita e promulgata con Bolla Transiturus di papa Urbano IV dalla sede apostolica in
Orvieto nel 1264 (La bolla del Corpus Domini fu inviata, insieme all’Officio liturgico della Messa
della solennità redatto da S. Tommaso D’Aquino anch’egli presso lo Studium orvietano e alla Corte
di Urbano IV in Orvieto, l’11 agosto 1264 al Patriarcato di Gerusalemme e alle Chiese germaniche,
l’8 settembre 1264 ad Eva di Saint-Martin in Liegi e alla cristianità universale). Si legge, nelle
rispettive didascalie, del cartiglio della carta della Tuscia:

« TVSCIA SVBVRBICARIA / FLORE PALLIA ET TIBERI / AMNIBVS /


MARIQ[UE]·TYRRHENO INCLVSA / QVINQVE NOBILISSIMAS /
PRINCIPESQ[UE]·ETRVRAE / CIVITATES / VEIOS FALERIOS CAERE / TARQVINIOS
VOLSINIOSQ[UE]· / OLIM COMPLEXA / QVOD / A MVLTIS INDE SECVLIS / AD SEDEM
APOSTOLICAM / PERTINVERIT / PATRIMONIVM B[EATI]·PETRI /NVNC APPELLATVR »

e della lunetta soprastante:


« CHRISTI CORPORIS / MIRACVLVM VVLSINII / ACTVM // IN VRBEVETO / AB VRBANO
IIII / CELEBRATVR » (vedi prossima figura).

Ecco, dunque, se si vuole comprendere cosa davvero sia Tuscia, la corografia parietale nella Galleria
delle Carte Geografiche ai Musei Vaticani chiarisce ogni questione.

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Ma, allora, da allora, cos’è accaduto? Perché quando oggi si parla di Tuscia ci si limita alla provincia
viterbese?
Il discorso è articolato e complesso. Il Territorio di Orvieto, a differenza del Viterbese quest’ultimo
sempre annoverato tout-court nel Patrimonio della Chiesa, è stato ab immemorabile un territorio a sé.
Costantemente affiliato ai pontefici, ma, se vogliamo, con una certa qual propria caratterizzazione
che ne esaltava la peculiare indipendenza. Non per nulla Orvieto, l’antica Velzna (Volsinii in lingua
latina), fu l’ultima città-stato della dodecapoli etrusca meridionale a cadere sotto l’espansione romana
nel 264 a.C. I Romani ne decretarono la damnatio memoriae, come alle grandi nemiche, vedi
Carthago, cancellando ogni traccia della sua esistenza e del Santuario Celeste degli etruschi che vi
sorgeva dappresso, il Fanum Voltumnae (depredando le duemila statue di bronzo da fondere per la
prima guerra punica), lasciando però una sorta di fil-rouge d’Arianna nel deportarne i profughi verso
la nuova colonia presso il lago (oggi detto di Bolsena, nome che da Volsinii deriva). Papa Adriano
IV, il primo ed ultimo – unico – pontefice inglese della storia, nel 1157 sancì giuridicamente il libero
Comune d’Orvieto e affidò a questo la responsabilità di garantire ai pontefici sicurezza in una vasta
area territoriale che andava da Sutri a Campiglia d’Orcia; area che comprendeva evidentemente anche
buona parte dell’attuale provincia viterbese.
Ma perché era l’area della Tuscia Longobarda ovvero Orvietana; Orvieto (Urbs Vetus) fu presa da
Agilulfo nel 593 (con Balneum Regis, Bagnoregio e dopo Suana, Sovana), come riporta Paolo
Diacono nell’Historia langobardorum (IV, 32), sconfiggendo i Bizantini. Bisanzio però controllava
ancora le terre a Sud di Orvieto e Bagnoregio, il Viterbese, cioè la Tuscia Romana soggetta alla
Chiesa. Questa situazione si protrasse fino al 774 quando il Regno longobardo fu conquistato
da Carlo Magno, Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum atque patricius Romanorum che
conservò le Leges Langobardorum; successivamente, per la rivolta del 776, capeggiata dal duca del
Friuli Rotgaudo, Carlo sostituì i duchi longobardi con i conti, nel ruolo di funzionari pubblici,
ridistribuendo i patrimoni ducali tra gli aristocratici Franchi. Anche il Ducato di Tuscia fu così
riorganizzato su base comitale e nel 781 con gli altri territori ex-longobardi venne inquadrato
nel Regnum Italicorum, affidato a Pipino sotto la tutela del padre Carlo. In seguito i governatori della
Tuscia toscana ricevettero il titolo di margravi.

Bonifacio II conte di Tuscia contrastò le incursioni dei Saraceni (nell'827 sbarcati in Sicilia, a Mazara
del Vallo e occupato Marsala, dall’arabo Marsa, porto, di ʿAlī). Bonifacio con la propria flotta dal
porto di Pisa si diresse verso la Tunisia (Ifriquiya) avendo ragione dei Saraceni. Fu incaricato della
tutela della Corsica dove fondò l’omonimo castello che dette il nome alle Bocche di Bonifacio.
Il pericolo delle incursioni musulmane e la necessità di trasformare le curtis in aziende agrarie più
produttive spinsero i vassalli minori a ricercare la protezione dei conti più potenti, favorendo il
processo di aggregazione delle contee. Vennero a formarsi così due grandi contee: la Contea
meridionale, corrispondente alla Maremma (detta oggi grossetana, ma al tempo Grosseto era un

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castello orvietano e infeudata agli Aldobrandeschi, e la Contea settentrionale, comprendente
la Maremma pisana, Lucca, Pisa, Luni e la Corsica, sotto il dominio dei conti di Lucca.
Successivamente, nel Regnum Italicorum si ricostituì il Ducato (riprendendo la denominazione
del precedente dominio longobardo), o Marca: nei documenti dell'847 Adalberto I, successore di
Bonifacio, è indicato come Tutor Corsicae insulae e Marcensis; il Marchio estese il proprio controllo
sui comitati di Firenze e Fiesole, pur rimanendo al di fuori del potere del marchese di Lucca (antico
Ducato di Tuscia sotto i Longobardi) i territori di Arezzo, Siena, Chiusi ed Orvieto.
Dopo il Trattato di Verdun, 843, per la suddivisione dell’impero, i gastaldati, le contee e
le diocesi della Tuscia, sfuggiti al controllo del governo centrale imperiale dilaniato dai conflitti
ereditari, vennero assoggettati con contratto di vassallaggio alla corte ducale di Lucca, di Adalberto
II e Berta di Lotaringia. Nel 903 Adalberto riuscì a sostituire anche nella sede di Chiusi un gastaldo
ostile con il conte Atto, suo "fidelis".
Nel 915 Berengario I venne incoronato imperatore da papa Giovanni X. Si oppose Berta, vedova di
Adalberto, intesa a favorire l'ascesa alla carica imperiale del suo primo figlio, Ugo di Provenza, che
contro Berengario mise in atto un’alleanza dei nipoti Alberico e Marozia, duchi di Spoleto, Rodolfo
di Borgogna e i marchesi di Ivrea. Nel 923 a Fiorenzuola d'Arda la disfatta di Berengario, che sarà
ucciso poi a tradimento l'anno dopo. Papa Giovanni X che lo aveva incoronato fu accusato di aver
introdotto in Italia milizie ungheresi, imprigionato e barbaramente ucciso dagli armati del figlio di
Berta, Guido secondo marito di Marozia, margravio di Tuscia.
La Tuscia rimase la Terra inquieta e difficile da assoggettare che era sempre stata sin dagli Etruschi.
Guido di Tuscia morì misteriosamente e Ugo, nominatosi Re d’Italia a Pavia nel 926 (e sposo di
Marozia per avere il sostegno dei conti di Tuscolo nel controllo di Roma) non riuscì a gestirla
nonostante la nomina di vassalli in Tuscia quali rappresentanti della corte Regia. Vi riuscì in parte il
figlio Uberto, margravio di Tuscia nel 936, nominato conte palatino dall'imperatore Ottone I, ovvero
rappresentante del re nell'Italia centrale.
Nel 968, un altro Ugo, figlio di Uberto, fu partigiano "fidelis" di Ottone III, amministratore
del Ducato di Spoleto – Camerino, il "Gran Barone" dantesco (Paradiso, XVI, 127-129.), nonché
fautore della riforma ecclesiastica (ebbe contatti ed elargì donazioni a san Nilo, san Romualdo e san
Bononio). Ugo di Toscana riuscì a consolidare i confini della Tuscia e a far crescere l'importanza
di Firenze. Esso dipendeva direttamente dal Sacro Romano Impero, poiché dopo l'auto-incoronazione
di Ottone I a Pavia con la Corona Ferrea, il Regnum Italicorum venne annesso all'Impero.
Da questo punto la storia della Tuscia Longobarda si intreccia con quella dei Canossa, con Bonifacio
IV di Toscana, margravio nel 1014. Dal suo secondo matrimonio con Beatrice di Lotaringia (1037)
nacque Matilde di Canossa, ultima di tre. Morto Bonifacio Beatrice sposa Goffredo il Barbuto, di
Lotaringia (contrastati dall’imperatore che temeva della fusione tra così vasti territori). La morte di
Goffredo (1069) lasciò Beatrice sola con l'appoggio del Papa e neanche il matrimonio della figlia
Matilde con il "ghibellino" Goffredo il Gobbo, riuscì ad appianare le difficoltà politiche della lotta

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per le investiture. Dal 1076, scomparsi marito e madre, la trentenne Matilde si ritroverà unica sovrana
incontrastata di tutte le terre dalla Tuscia Romana e Longobarda fino al lago di Garda, Margraviato
di Toscana compreso. La "Granduchessa" e "Grancontessa" si schierò con il papato e sposò Guelfo
V Duca di Baviera (1089), già in contrapposizione con l'allora Imperatore Enrico IV.
Matilde morì nel 1115 senza eredi diretti, il casato dei Canossa si disperse e in parte si estinse. Il loro
vasto territorio si disperse: alcuni castelli rimasero in possesso di signori locali, altri dei discendenti
di Prangarda, sorella di Tedaldo (nonno di Matilde), altri ancora vennero addirittura dimenticati in un
vuoto di potere o semplicemente inglobati nei territori papali.
Dopo la morte di Guido Guerra II (1124), figlio adottivo della Matilde, il Margraviato fu affidato a
Vicari Imperiali scelti principalmente tra i nobili tedeschi, Enrico X di Baviera (1135-1139),
l'Arcivescovo Cristiano di Magonza (1163-1173), Corrado di Urslingen (1193-1195), Filippo di
Svevia (1195-1197) che inasprì in Tuscia la lotta per le investiture, lotta tra Comuni ed Impero. Dove
i margravi (o marchesi) e l'istituzione stessa del Marchesato, furono imposti dall'Imperatore Federico
Barbarossa in contrasto con le nascenti autonomie comunali.

Da questo rapido excursus si può dedurre l’interesse della Chiesa per il controllo e la gestione del
potere nelle Terre di Tuscia. Il marchesato di Toscana diverrà Granducato e la Tuscia sarà quella
Suburbicaria rappresentata nei Musei Vaticani commissionata nel 1580 da papa Gregorio XIII e
realizzata da padre Egnatio Danti, matematico perugino, domenicano, già cosmografo del granduca
Cosimo I de Medici a Firenze e poi del papa a Roma.
È la sintesi culturale, storica e geografica dall’antica Etruria allo Stato della Chiesa (ricostituito come
entità amministrativa dopo la cattività avignonese con le riforme Egidiane dell’Albornoz) che ingloba
la Tuscia: quella Longobarda Orvietana con quella Suburbicaria, Romana, del Viterbese.
Durante la prima discesa napoleonica in Italia, la Tuscia Orvietana sarà smantellata ed Orvieto posta
sotto il controllo amministrativo dei dipartimenti di Spoleto (Todi) prima e del Trasimeno, poi. Le
resta solo Bolsena, castello orvietano nella diocesi orvietana da sempre ed ancora oggi pur nel Lazio.
Durante la Restaurazione, 1815, Orvieto riprenderà il suo territorio in Tuscia (di cui faceva parte
anche quella che oggi è detta Alta Tuscia, con Acquapendente) e sarà Provincia dello Stato Pontificio.
Nel 1860 Orvieto sarà “liberata” dalla Chiesa e annessa al nascente Regno d’Italia nella nuova
inventata provincia dell’Umbria, con Perugia. Viterbo invece, pur liberata in un primo momento con
Orvieto, rientrerà a far parte del Patrimonio della Chiesa fino al 1870.
Orvieto così, viene definitivamente separata dalla Tuscia e le sue antiche terre comitali (che andavano
dalla Val d’Orcia, all’Amiata, alla Maremma e dalla Valdichiana al Perugino, alla Teverina e Val di
Lago) fagocitate e spartite tra Viterbese, Senese e Perugino.
Il plebiscito fascista del 1928 decreterà la fine della provincia Orvietana e la nascita di quella Ternana.

Cartina tratta da D. WALEY, Mediaeval Orvieto, Cambridge 1952.

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Bibliografia di riferimento:
VRBISVETERIS ANTIQUAE DITIONIS DESCRIPTIO, il Territorio Orvietano in Tuscia nel 1334
(E Danti 1583). Cfr. S. MANGLAVITI, Urbisveteris …, in Bollettino I.S.A.O. L-LVII 1994-2001,
Orvieto 2002.

Alfina 1867

Quindi fu costituita una giunta municipale rivoluzionaria, i cui esponenti furono i Tauretti, Cesare
Paoletti, Enrico Piccioni e Pietro Moschini ed il 29 ottobre fu tenuta al municipio un'adunanza di
cittadini. 1)
Il primo ingresso in Soriano fu audacemente effettuato il 29 settembre da soli cinque garibaldini, che
armati di baionette, assalirono la caserma, tenuta d'altronde da solo tre gendarmi ed un carabiniere, e
requisirono armi, coperte e stivali. Poco dopo dalla via di Bomarzo giunsero altri quaranta volontari
agitanti il tricolore, i quali, assalita la rocca, liberarono i due detenuti politici Paolo Corsi e Luigi
Valeri. Occupata poi la residenza del governatore e requisiti 40 scudi all'esattoria comunale, verso le
cinque pomeridiane lasciarono il paese dirigendosi verso Viterbo, seguiti da una decina di Sorianesi,
tra cui il Corsi. Appena usciti dalle mura, requisirono la corrispondenza ufficiale in arrivo. 2) Non

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solo a Soriano, ma, vedremo, anche in altri paesi l'impresa garibaldina, non potendosi stabilizzare in
occupazione permanente per la mancanza di uomini e mezzi, si risolse in rapida incursione.
La riscossa pontificia parti da Montefìascone e si abbatté, il 5 ottobre, sui garibaldini di Bagnorea,
occupata fin dal 29 settembre,8) Nel piano elaborato dal comando pontificio il paese di san
Bonaventura rappresentava una delle punte strategiche (l'altra era Valentano) di due linee divergenti
dal centro militare posto nella città falisca. L'operazione, diretta dal valoroso colonnello. Azzanesi,
fu compiuta da 478 uomini bene equipaggiati: 4) l'accanita battaglia, durata tre ore, si concluse con
la disfatta dei garibaldini, che ebbero tredici morti, molti feriti e centodieci prigionieri, tra cui il conte
Pagliacci,3) un altro Corsi di nome Luigi e i due caprolatti fratelli Salvatori, distintisi nella presa di
Acquapendente.8) Lievissime furono invece le perdite pontificie e questo divario si spiega col
superiore armamento e l'avveduta tattica.
Dopo il colpo subito, la presenza dei volontari si diradò e di tutto il Patrimonio di San Pietro alla metà
di ottobre restava loro saldamente in mano solo la punta estrema di Torre Alfina, incuneata negli ostili
confini del regno, dove affluirono i laceri superstiti di Bagnorea e dove si trasferì l'Acerbi, che mosse
al contrattacco il 22 ottobre con tre battaglioni, occupando Celleno e spingendosi fino alle porte di
Viterbo.

1) Relazione del governatore di Acquapendente, busta 212.


2) Relazione del governatore di Soriano in data 30 settembre 1867, busta 212.
La famiglia Corsi di possidenti sorianesi diede un grande contributo alle vicende del Risorgimento
in provincia di Viterbo, distinguendosi coi coraggiosi Paolo, Alessandro e Giovanni ed anche con
tre figure di donne, Adelaide, Rosa e Domenica. Questi nomi son tutti schedati, con brevi cenni
biografici, in un sunto dei pregiudicati politici, composto dal governatore di Soriano dr. Cesare
Natali il 25 maggio 1861.
Il dottor Paolo Corsi aveva allora ventisette anni; unitosi ai garibaldini con* trinai alla liberazione
dei paesi vicini.
3) v. F. PKTKANGEM PAPMI, Un episodio della campagna garibaldina del 1867, la battaglia di
Bagnorea, Roma, 1965.
4) Erano 175 zuavi, 230 soldati di linea, 20 dragoni, 5 gendarmi, 30 artiglieri e 18 infermicci.
5) Il conte Giovanni Pagliacci Sacelli, uno dei massimi esponenti della nobiltà liberale viterbese, fu
tribuno del Circolo popolare nel 184849.
6) V. per i particolari delle operazioni belliche F PAPÌNI, op. ciu, pp> 53-84. Per il ponto di vista
reazionario sui precedenti e gli eventi del 1867, con particolare riferimento alla battaglia di
Bagnorea, v. ANTONMARIA BONETTI, Da Bagnorea a Mentana Trento, 1891 e La Rosa,
strenna viterbese del 1869, Viterbo, s.d.

39
Siamo con ciò al secondo tempo della spedizione garibaldina nel Viterbese, coincidente con la
leggendaria fuga di Garibaldi da Caprera1) e con la sua impresa nelle vicinanze di Roma.
Galvanizzati dal diretto intervento del capo, anche i garibaldini operanti nell'alto Lazio tornarono
all'offensiva, entrando in Orte il 17 ottobre, impegnando i pontifici nel combattimento di Farnese (18-
19 ottobre) e spingendosi con celeri incursioni a Vitorchiano, Canepina (22-23 ottobre) e Vallerano.
2)
Spinti dalla necessità a dure requisizioni ed impossibilitati per lo scarso numero a consolidare il
possesso di queste contrade, non riuscirono, però, a stabilire un contatto politicamente educativo con
le popolazioni, cui talora appara vero in luce non buona. 3)
Un’iniziativa insurrezionale con autentici addentellati locali e quindi una migliore accoglienza ai
garibaldini si verificò a Vignanello, dove scoppiò il moto il 16 ottobre, con a capo Giuseppe Segarelli,
Francesco Olivieri e Natale Cosi.4) Giunti in paese il due novembre quattro ufficiali garibaldini,
anch'essi della zona, furon ricevuti in municipio e festeggiati con un pranzo; nominata la nuova giunta
municipale, ripartirono il giorno successivo.5)
L'azione patriottica era stata frattanto facilitata dal ritiro delle guarnigioni pontificie defluite a guardia
di Roma, tanto che la sera del 28 ottobre l'Acerbi poté entrare in Viterbo con relativa facilità. Altre
camicie rosse riprendevano Bagnorea ed entravano in Montefiascone, già baluardo della difesa
pontificia, stabilendovisi in maniera consistente e continuativa. Ivi rimpatriarono gli emigrati
Silvestro Argentini, Gaetano Volpini, Pietro Menghini. Filippo Manzi e Colombano Cernitori, che
divenne sindaco. L'Argentini rappresentava l'ala sinistra garibaldina mentre il sindaco Cernitori
propugnava la fusione col regno d'Italia, ottenendo maggiori consensi tra la parte della cittadinanza,
che più seguiva gli avvenimenti, timorosa di disordini e pericoli per la proprietà. Il plebiscito, tenuto
il 5 novembre, ottenne perciò ben settecento voti sulla formula dell'unità d'Italia con Roma capitale:
taluni si giustificarono poi di fronte alle autorità papali con l'amena scappatoia che, non indicandosi
il sovrano della futura Italia unita, avevano potuto pensare a Pio IX. Fatto sta che nelle abitazioni di
distinte famiglie (Ricca, Battiloro, Basili, Vaggi, Tassoni, lacopini) si confezionarono bandiere
sabaude ricamate in oro ed argento pronte per festeggiare l'unione all'Italia.

1) V. C. SACERDOTE. Vita di Garibaldi, Milano, 1957, voi. IT, pp. 722 ss.
2) V. la strenua La rosa :.cit.; Invasione garibaldina in Vitorchiano ed altre notizie sulle truppe
piemontesi, 22 ottobre 1867, ai superiori dicasteri, Roma (Posizione ii- 5246, busta 219); Lettera
del priore Pietro Sante Moscatelli del 21 ottobre 1867 contenente un rapporto al delegato di Viterbo
(Comune di Canepina, n. 256, busta 219).
3) Requisizioni e contribuzioni forzato dei garibaldini soft documentate, per esempio, nel rapporto
del comando della brigata di Canapino, n. 23, del 29 novembre 1867, busta 213, nel cit. rapporto
sull'invasione in Vitorchiano, posizione n. 5246, busta 219 e in altri rapporti citati in note
precedenti circa le vicende di vari paesi.

40
4) Elenco dei compromessi di Vignanello nell'invasione garibaldina, polizia provincia di Viterbo,
protocollo riservato, posizione n. 34, busta 213.
5) Erano uno Scipioni di Bagnala, Corsi di Soriano (molto probabilmente il dottor Paolo, liberato
come si e visto dalla prigionia). Micci e Gragnardi pure di Soriano. La giunta fu costituita da
Angelo Felici, Francesco Olivieri, Natale Cosi, P. Paolo Ferrucci e Giuseppe Segarelli. Inoltre tre
giovani del luogo (Antonio Cianchi, Innocenzo Calvanelli e Vincenzo Petroni) ai arruolarono nelle
file garibaldine.

Il gonfaloniere cavalier Piero Buti, dopo qualche perplessità, ed il segretario comunale C. B. Basili
fin dal primo momento aderirono alla dittatura garibaldina, verso la quale tuttavia una parte del paese
si mantenne diffidente. Giuseppe Antonelli, Domenico Tassoni e Vincenzo Basili, invitati dal l'Acerbi
a costituire la guardia civica, in un primo momento ricusarono; quindi lo fecero, per l'insistenza del
prodittatore e per garantirai un armamento locale con cui far fronte ad eventuali estremismi dei
volontari forestieri. *) In generale, infatti, le guardie civiche e paesane esercitarono un'influenza
moderatrice, che fu poi riconosciuta dalle restaurate autorità papali. Marciando da Valentano alla
conquista di Montefiascone, il 28 ottobre i garibaldini eran pure entrati nei due paesi rivieraschi del
lago di Bolsena, Capo* dimonte e Marta, senza lasciarvi un presidio : si limitarono a qualche
requisizione e a nominare commissioni amministrative, ottenendo nella prima località l'adesione del
priore Domenico Ercolani e del segretario comunale Gaudenzi e nella seconda l'arruolamento di un
certo numero di giovani nelle loro file. Di tanto in tanto qualche volontario si recò poi lì da
Montefiascone. 2)
Prima ancora gli esuli di Bolsena Luigi Tosini, Giuseppe Mannelli, Ignazio Fioravanti e Francesco
Nerucci, rientrati nel loro paese, vi costituirono una giunta municipale e la sera del 4 novembre si
ebbe colà la fuggevole puntata di un distaccamento di truppa regolare italiana, che ripartì
all'indomani.8)
Una permanenza più lunga delle truppe regie, sotto il comando del generale Cesare Ricotti, si ebbe a
Civita Castellana, nella parte sud-orientale della provìncia, da dove fecero una rapida puntata in
Gallese, chiamate espressamente dal gonfaloniere Giuseppe Lattanti. Promotori del moto garibaldino
in questa ultima località furono il medico Luigi Siciliani, il sorianese Luigi Borghesi ed il bettoliere
Nicola Lattanzi di Corchiano, attivo anche nel suo paese insieme col mugnaio Filippo Abati. Fedeli
al governo pontificio restarono invece Stabbia e Calcata.s)
A Carbognano il moto ebbe presa nel ceto più povero, guidato dal tabaccaio Paolo Kardocci, da
Salvatore Bargiglioni e Pietro Migliarini; il Nardocci con un colpo di bastone mandò in pezzi il busto
di Pio IX.ft)
Tranquilla rimase Nepi malgrado la gendarmeria fosse stata ritirata in Ronciglione, località
strategicamente importante, che aveva dato un forte contributo all'emigrazione: 7) a Fabrica, dove si
era avuto in agosto un tumulto per

41
l) Dispacci del Comando Generale del corpo dei Cacciatori romani nella provincia di Viterbo al
sindaco di Montefiascone. in data 29 ottobre, 30 ottobre, 1 novembre, 3 novembre, 6 novembre 1807,
busta 213: Rapporto storico del governo di Montefiascone (n. 20 p.a., busta 234).
2J Rapporto storico, governo di Montefiascone, n, 20 p. s basta 234.
8) Rapporto storico, cit. (v. nota precedente).
4) Governo di Civita Castellana, n. 23, p.e., busta 234. Il bettoliere Nicola Lattanzi è presentato come
un pessimo soggetto per reati comuni oltre elio politici.
0) Governo di Civita Castellana, n. 23, p.., busta 234.
6) Polizia provinciale di Viterbo, prot. riservato, posizione n. 138. busta 212. Nonostante le accuse
per il grave atto, il Nardoaal non fu poi perseguito per mancanza di prove*
7) per il ritiro della gendarmeria da Nepi. v rubrica 13, posizione n. 5219,
basta 219. Gli emigrati da Ronciglione, appartenenti a vari ceti, erano seugantacinaue; la lista è
conservata nello busta 213.
Pietro Romani fece un dono a Giuseppe Pettinelli il 14 giugno 1870. Si trattava del libro scritto un
decennio prima dal gesuita P. Antonio Bresciani e stampato nel 1862 dalla Civiltà Cattolica sotto il
titolo “Olderico ovvero il Zuavo Ponteficio”. Una vera apologia del potere pontificio che metteva in
luce tutto il malessere degli ambienti cattolici filopontifici,
derivato dalla battaglia di Castelfidardo,
presa in esame come la più infame pagina di un’opera massonica. D’altra parte Romani e Pettinelli
rappresentavano alcuni dei rappresentanti dell’aristocrazia matelicese rimasta fedele al Papa, ancora
ad un decennio da quei fatti ed ormai alla vigilia della presa di Porta Pia. Secondo il Bresciani,
apologista sì, ma anche molto afferrato su molti fatti a lui contemporanei ed ottimo narratore per
leggere la battaglia con gli occhi dei perdenti, dietro all’operazione dei piemontesi, si celava
l’intento di sradicare il cattolicesimo in Italia, permettendo alle sette protestanti di fare breccia nel
suo tessuto sociale, distruggendo di fatto il potere della Chiesa e del Papa. Proprio per impedire il
disfacimento dello Stato Pontificio, quindi, tutte le speranze dei cattolici erano state affidate al
vecchio generale francese Lamoricière che in Algeria costrinse «Abdelkader
a cedere la sua
spada » (dando poi il costume arabo ai suoi Zuavi francobelgi),
mentre grande preoccupazione era
rivolta a Garibaldi ed alla sua spedizione dei Mille. Tanti i dubbi dei pontifici su come Garibaldi
avesse potuto sconfiggere un esercito tanto più grande nel Regno delle Due Sicilie, dove le truppe
erano pronte a battersi, mentre lo stato maggiore non faceva altro che ritirarsi; persino le vittorie
francopiemontesi
a Solferino e Magenta, venivano addebitate a presunti intendimenti con ufficiali
austriaci traditori. Come già noto, molto esiguo e folcloristico era l’esercito mercenario del Papa:

42
«Fra i Carabinieri, i quali con voce forestiera diconsi Gendarmi, e stanno nelle città a guardia
dell’ordine e della pace, scelse da un migliaio in su, bella gente, animosa e gagliarda; costoro che
non sogliono mai militare in campo, furono dal Generale assegnati in legioni: a Perugia, e in altre
parti dell’Umbria eran gli svizzeri, quelli che l’anno passato furon sì prodi all’assalto di Perugia,
ribellatasi al Papa: i granatieri e i cacciatori pontifici formavano il nerbo del piccioletto esercito
delle sante Chiavi, perocchè teneansi fedeli, ed eran pieni del foco e del valore italiano; i cacciatori
alemanni eran formati di gente veterana e bellicosa che al solo vederli ispiravano il terrore; le
Guide a cavallo eran composte di gentiluomini venuti d’oltremonti a militare in difesa del sommo
pontificato, e costituivano la guardia del Generale De Lamoricière, che li spediva a dare le sue
ordinazioni ai Colonnelli delle squadre [...] Montavano, siccome nobili e ricchi, bellissimi cavalli,
ed eran d’aria brava, audaci e rapidi nella mischia: i Zuavi francobelgi vestiano, come s’è detto
innanzi, alla foggia degli arabi, ed i Zuavi Irlandesi si differenziavan da loro nel color verde, negli
spallacci a sboffi screziati di giallo, e nella tunichetta, la quale scendeva con un po’ di falda ».
Nel libro si narra nei dettagli anche la marcia dell’esercito, composto di mercenari e di tanti
volontari della classe nobile, accorsi da mezza Europa. Si ricorda a Civita Castellana «Garibaldi ha
di molti partigiani in queste contrade », mentre la sosta a Collescipoli (dove per gli accademici del
tempo sarebbe nato e cresciuto il giovane Scipione l’Africano) servì a far gustare a tutti l’ottima
caffetteria del luogo. A Terni poi si riunirono gli Zuavi ed i Bersaglieri tedeschi, temendo il
Lamoricière che attacchi improvvisi di bande guidate da Zambianchi, Nicotera o Masi, potessero
mettere in luce l’incapacità della truppa a quel genere di combattimenti. Proprio in Umbria,
all’arrivo di notizie relative al passaggio di milizie garibaldine, Lamoricière dispose i presìdi: «una
colonna guardava li sbocchi di Radicofani dal lato di Viterbo; un’altra quelli di Cortona dal lato di
Perugia e d’Agubbio; un’altra alla frontiera di Pesaro [...] muniva il porto, e le mura d’Ancona;
facea bastionare la rocca di Spoleto».
Il 10 settembre, quando il modenese Cialdini con 12.000 uomini superò il confine puntando su
Ancona ed assalendo Pesaro (tenuta saldamente da appena 1200 uomini fra soldati ed ausiliari), per
poi trovare resistenze, seppur minime, lungo il percorso fino a Senigallia, i pontifici partivano da
Foligno e salivano a Colfiorito, dove si fermarono per bere e discendere poi lungo il Chienti,
fermandosi di tanto in tanto a mangiare lungo i frutteti che esistevano lungo la strada. Arrivarono a
Tolentino il 15 settembre dove riposarono ed il giorno seguente furono a Macerata al grido di «Viva
Gesù! Viva Maria! » (divennero le parole d’ordine dei filopontifici
fino al 1870 ed oltre), ormai
inseguiti dai piemontesi. Da lì infine proseguirono, accampandosi ad un miglio da Loreto.
Dal collegio dei Gesuiti, il Lamoricière prese il miglior telescopio per osservare meglio i movimenti
avversari, mentre gli ufficiali ed i soldati si recavano a pregare in Basilica per chiedere assistenza
divina per la vittoria. Quanto stava accadendo era infatti associato alle terribili profezie della
Vergine a La Salette, avvenuta proprio un 19 settembre, mentre la battaglia sarebbe avvenuta

43
proprio sui «vitiferi colli di Loreto», luogo mariano e ricco di significati. Di questa simbologia
comunque pare non ne ignorassero la portata neanche i “massoni”, tanto che «mettono in ischerno
le speranze che gli afflitti ripongono nel’Immacolata Concezione di Maria, e ad ogni vittoria
vomitano contro di Lei nuovi sarcasmi e nuove bestemmie siccome imbecille a proteggere i suoi
divoti. Ridono Roma che prega, dileggiano il Papa che ripone ogni sua fiducia nella protezione dei
Principi degli Apostoli; e quand’ebbero vinti i baloardi d’Ancona, per istrazio dei fedeli,
pubblicarono nel giornale toscano la Nazione, che appunto cadde Ancona nella festa di S. Michele
Arcangelo, protettore speciale della Chiesa romana ». A tutti erano note invece le divergenze
politiche tra Garibaldi e Cavour, dato che «il Piemonte vuole un’Italia piemonteggiante: le bande,
con Garibaldi, voglio un’Italia italiana ossia una repubblicona lunga lunga » ed insieme, Garibaldi
e Cavour, vengono paragonati ai «ladri di Pisa che s’azzuffano e s’accapigliano insieme di giorno,
e tengonsi poi il sacco la notte nelle ruberie. Il conte di Cavour vuol cavare la castagna dai carboni
accesi colla zampa del gatto; cioè vuole insignorirsi d’Italia, cacciandone i diritti Signori di quella
per mezzo delle ribellioni, commosse dai demagoghi e dalle bande Garibaldiane, poscia vi si
sofficca egli stesso, e adagiasi nel nido altrui. I garibaldiani dal lato loro fanno mostra di cedere,
dicendo ch’essi operano per la potenza e per la gloria di Re Vittorio Emmanuele; ma Garibaldi,
cavalcando in camiciotto rosso per le vie popolose delle conquistate città, va ammiccando
dall’arcione agli amici, e dicendo loro coll’occhio in bemolle – Cotesta monarchia posticcia
passerà di leggeri in Repubblica; e l’Italia piemontese diverrà italiana ».
Nel frattempo cadeva Perugia difesa da un migliaio di uomini «contra più di dieci mila » ed il
generale De Sonnaz accettò la resa, mentre gli svizzeri del generale Schmid ed i volontari pontifici
del colonnello Lazzarini cercarono un’ultima resistenza nella fortezza cittadina, ottenendo l’onore
delle armi; a Spoleto invece i piemontesi assaltarono la Rocca dell’Albornoz difesa dagli Zuavi
francesi: gli assalitori subirono 75 morti e 200 feriti, gli altri 3 morti e 10 feriti.
Le prime mosse a Castelfidardo invece avvennero la sera del 16 settembre spostando le milizie
pontificie da Portorecanati verso Loreto. La battaglia costò tanti nobili ufficiali caduti combattendo
alla Cascina delle Crocette, da De Pimodan a De Beaudiez, De Plessis, De Nauteuil, De Montravel.
Nella stessa cascina otto zuavi tennero fermi un migliaio di piemontesi combattendo alle finestre,
finché non furono scacciati dai cannoni. La battaglia di Ancona determinò la fine di tutto: l’assedio
piemontese da terra e per mare con 400 bocche da fuoco rigate, ebbe la meglio contro i 120 pezzi di
ogni tempo ed uso di Lamoricière. L’esplosione il 28 settembre del forte della Lanterna costrinse i
pontifici a capitolare ed il 29 fu ammainata la bandiera papale.
In evidenza viene invece posta l’atrocità piemontese dopo la battaglia, messa in evidenza anche da
una lettera del 29 settembre 1860 dal comandante degli Zuavi pontifici, il conte di Becdelièvre, che
condanna il comportamento tenuto contro i conforti religiosi apportati dai sacerdoti dopo la
battaglia ai moribondi: molti furono arrestati o allontanati dai soldati. Molti feriti pontifici furono
prima portati nel collegio gesuita di Loreto, quindi trasferiti dai piemontesi negli ospedali di Osimo

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e Jesi, lasciando i più gravi a Loreto dove furono curati dalle Figlie della Carità. Scarsa sarebbe
stata anche l’attenzione verso i prigionieri di guerra, costretti a marce forzate sotto il sole a
raggiungere Perugia, per poi essere rinviati verso Genova dove vennero rinchiusi nella fortezza di
San Benigno prima di essere rimpatriati.

Alfina: la Terra la Natura


il Mito
la Memoria la Storia
Volta (Olta) Velthune Velsna
Porsenna vs. Olta … gens Alphna
Oracolo di Monte Landro
La fanciulla e il lago
Tomba della quadriga Sarteano
S. Giorgio vs. drago
Amalasunta, Cristina
S. Donato il drago la peste
vulcani terremoti soffioni (Fischio)
idrotermalismo (Travertino, Fonti Tiberio)

TerrAntica
Sacra
di Velzna Volsinii,
del Fanum Voltumnae
Comitatus
di Urbs Vetus
pistrice (ippocampo)
Città del Corpus Domini
silvio manglaviti

Silvio Manglaviti
Dirigente del Ministero della Difesa (Colonnello dei Granatieri); Ufficiale Geografo dai Corsi regolari di Geografia
Militare presso la Scuola Superiore di Scienze Geografiche nell’Istituto Geografico Militare in Firenze; Insegnante
Militare dalla Scuola di Applicazione di Torino, già titolare delle cattedre di Topografia e Geopolitica ai Corsi di Laurea
per gli allievi marescialli presso l’Università degli Studi della Tuscia in Viterbo e Project Officer del Ministero della
Difesa presso il Prefetto di Viterbo per le celebrazioni ed iniziative dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Membro di:
Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, Istituto Storico Artistico Orvietano, ass.ne ex Alunni del Liceo Classico F.A.
Gualterio di Orvieto, Società Geografica Italiana. Fondatore dell’ass.ne Orvieto Città del Corpus Domini.
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