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KANONIKA

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LA DISCIPLINA DELLA PENITENZA


NELLE CHIESE ORIENTALI

Atti del simposio tenuto presso il Pontificio Istituto Orienale


Roma 3-5 giugno 2011

EXTRACTA
a cura di
G. Ruyssen, S.J.

PONTIFICIO ISTITUTO ORIENTALE


PIAZZA S. MARIA MAGGIORE, 7
I-00185 ROMA
2013
SOMMARIO

G. RUYSSEN, S.J., Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7


Sigle e abbreviazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
M. J. KUCHERA, S.J., Indirizzo di saluto ai partecipanti . . . . . . . . . . . . . . . . 11

D. CECCARELLI MOROLLI, Il sacramento della penitenza nei Sacri Canones del


primo millennio: uno sguardo alle fonti con qualche breve nota in mar-
gine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
O. CONDORELLI, Dalla penitenza pubblica alla penitenza privata, tra occiden-
te latino e oriente bizantino: percorsi e concezioni a confronto . . . . . . . 29
P. LA TERRA, Cenni sulla disciplina penitenziale delle Chiese orientali catto-
liche alla vigilia della codificazione moderna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89
M.-I. CRISTESCU, CIN, Il sacramento della penitenza nei sinodi romeni, fon-
tes iuris per il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium . . . . . . . . . . . . 99
F. MARTI, Questioni interrituali nell’amministrazione del sacramento della
Penitenza nella previgente legislazione canonica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113
A. DOBOS, Penitenza e confessione nella storia e nella prassi delle Chiese
antico-orientali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 143
J. ABBASS, O.F.M. Conv., A Legislative History of CCEO Canons 718-736 on
Penance . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153
M. J. KUCHERA, S.J., Two Different Systems in Confessional Reservations
reservatio ratio censuræ and reservatio ratione sui . . . . . . . . . . . . . . . . . . 187
N. LODA, Le «reservationes absolutionis» versus (contro) le censure. Rifles-
sioni comparative intorno all’efficacia dei due sistemi del diritto penale
canonico e sacramentale nel nuovo «Corpus Iuris Canonici» . . . . . . . . . 203
P. GEFAELL, Introduzione della «reservatio absolutionis» e cessazione auto-
matica di essa (cc. 727, 729/CCEO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 285
J. KOWAL, S.J., La cessazione della riserva per “grave pænitentis incommo-
dum” (can. 729, 2°/CCEO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 297
L. SABBARESE, C.S., Procedura da seguire nel caso dei peccati e censure ri-
servati alla Sede Apostolica con speciale riguardo alle confessioni latino-
orientali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 323
L. LORUSSO, O.P., Delitti commessi nella celebrazione del sacramento della
penitenza: commento esegetico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 339
P. SZABÓ, Coordinazione interecclesiale nell’amministrazione della peniten-
za. Questioni intra-cattoliche sorte dal possibile rimando dell’assoluzio-
ne sacramentale nel diritto orientale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 357

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Orazio Condorelli

DALLA PENITENZA PUBBLICA ALLA PENITENZA


PRIVATA, TRA OCCIDENTE LATINO E ORIENTE
BIZANTINO: PERCORSI E CONCEZIONI
A CONFRONTO*

1. Premessa**

Il tema che mi accingo a trattare presenta profili molteplici e differen-


ziati. Dalla teologia al diritto, dalla liturgia alla dimensione della storia
sociale, tali profili si intersecano o si sovrappongono prima di tutto nella
vita dei fedeli e della Chiesa, e parallelamente nella prospettiva di chi si
propone di riflettere scientificamente sul sacramento della penitenza. Se,
dunque, un accostamento interdisciplinare è postulato dalla natura stessa
del tema, è tuttavia alle questioni giuridiche che presterò maggiore atten-
zione.
Intendo, in primo luogo, tracciare le grandi linee dei percorsi che hanno
condotto, nella tradizione latina come in quella bizantina, dalla penitenza
pubblica a quella privata. Quindi tenterò di individuare alcuni elementi
fondamentali della concezione della penitenza, per come essi emergono da-
gli sviluppi storici in Oriente e in Occidente. La vastità e la complessità del
tema impongono una rigorosa selezione delle innumerevoli voci storiche
che sarebbe possibile ascoltare. Il panorama ne risulterà inevitabilmente
semplificato e frammentario. Confido, non di meno, che dal complesso dei
dati emergerà la sostanziale concordia delle due tradizioni.

2. La definizione del sistema della penitenza canonica (secoli IV-V)

Alle soglie del II secolo Ignazio di Antiochia esprime in modo mirabile la


fede delle comunità cristiane dell’età post-apostolica nel perdono divino dei
* Questo studio è anche destinato a una raccolta di scritti in onore del Prof. Gaetano Lo

Castro, che al tema del diritto divino e alla sua declinazione nella storia dell’uomo ha dedicato
pagine fondamentali: ‘Il mistero del diritto divino’, Ius Ecclesiae 8 (1996) 427-463, ora in G.
Lo Castro, Il mistero del diritto. I. Del diritto e della sua conoscenza (Collana di Studi di Diritto
Canonico ed Ecclesiastico, Sezione Canonistica 20; Torino 1997) 19-62.
** Le note a pie’ di pagina contengono solo i riferimenti alle fonti trattate nel testo. Gli

orientamenti bibliografici si trovano in appendice.

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peccati e nella funzione mediatrice della Chiesa. Ai fedeli di Filadelfia egli


ricorda che “Dio perdona tutti coloro che si pentono, purché il loro penti-
mento li riconduca all’unione con Dio e alla comunione con il vescovo”1. La
remissione dei peccati e la riconciliazione con Dio passano dunque attra-
verso il vescovo, che nella teologia ignaziana è concepito come “immagine
di Dio” (týpos Theoû) e ministro in cui si compendia la cattolicità della
Chiesa2.
Un dato che caratterizza il sistema penitenziale della Chiesa antica è
che la penitenza si compie in un contesto ecclesiale e pubblico nel quale il
vescovo è il principale ministro. Ulteriore elemento caratterizzante è la non
reiterabilità della penitenza. La definizione di una normativa comune è il
frutto degli sviluppi canonici prodotti dall’attività conciliare dei secoli IV e
V. Le vicende che avevano sconvolto la Chiesa nel secolo III diedero un for-
te impulso alla definizione del sistema. La controversia montanista prima,
poi la questione della riconciliazione dei lapsi dopo le persecuzioni di Decio
costrinsero la Chiesa ad approfondire il tema teologico della penitenza e a
prendere decisioni di portata generale.
Il processo penitenziale è scandito in tre fasi caratterizzate dall’aspetto
comunitario: l’entrata in penitenza, la permanenza nello stato penitenziale,
infine la riconciliazione.
L’entrata in penitenza può dipendere dalla volontà del peccatore stesso
di ricevere la remissione dei peccati, ovvero dall’iniziativa del vescovo di
imporre la penitenza al peccatore. Poiché tale fase è finalizzata alla riconci-
liazione, essa è riservata a chi, appunto, manifesta il pentimento per i pro-
pri peccati e la volontà di intraprendere il cammino che porterà alla loro
remissione. La premessa consiste nel riconoscimento e nella confessione
dei peccati gravi: anzitutto quelli della triade idolatria/apostasia, omicidio
volontario, fornicazione/adulterio — quelli che Origene giudicava “ingua-
ribili” (aníata)3 —, ma altri ancora che, pur non avendo la enorme gravità
dei primi, appaiono alla Chiesa meritevoli di essere puniti con la penitenza
pubblica. Le fonti mostrano come già nelle prime comunità di età aposto-
lica la prassi della confessione pubblica dei peccati fosse diffusa. Le Sacre
Scritture indicavano questa via. “Si confiteamur peccata nostra, fidelis est
et iustus, ut remittat nobis peccata et emundet nos ab omni iniustitia”, si
legge nella prima lettera di San Giovanni (1.9). Del pari, nella lettera di
San Giacomo troviamo l’esortazione: “Confitemini ergo alterutrum pec-

1 Ad Philadelphenses VIII.1: Ignace d’Antioche, Polycarpe de Smyrne, Lettres, Martyre de

Polycarpe, ed. P.Th. Camelot (Sources Chrétiennes 10, Paris 1969) 126 s.
2 Ad Trallianos III.1 (ed. Camelot 96 s.); ad Magnesios VI.1 (ed. Camelot 84 s.); Ad Smyr-

naeos VIII.2 (ed. Camelot 138 s.).


3 Origene, De oratione 28 (PG 11.527-528); cfr. in Leviticum homilia 15.2 (PG 12.560-561).

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 31

cata et orate pro invicem, ut sanemini” (5.16). Nella Didachè l’invito alla
confessione dei peccati è ripetuto in due momenti: “Nell’assemblea farai la
confessione completa dei tuoi peccati e non andrai alla tua preghiera con
una coscienza impura”; e ancora: “riunitevi nel giorno del Signore, spez-
zate il pane e rendete grazie dopo aver confessato i vostri peccati, affinché
il vostro sacrificio sia puro”4. Si tratta probabilmente di una confessione
generale, senza specifica enumerazione dei peccati, diretta a invocare il
perdono di Dio.
Fra gli autori che più contribuirono allo sviluppo della dottrina della
penitenza vi fu, nel III secolo, Tertulliano. Il trattato De paenitentia appar-
tiene alla sua fase cattolica. Si tratta della paenitentia secunda, attraverso la
quale sono perdonati i peccati commessi dopo il lavacro battesimale. Può
essere accordata una sola volta. È una operosior probatio che non consiste
solo in una conversione della coscienza, ma esige di manifestarsi con atti
esteriori. È qualificata con la parola greca exomologésis: cioè una confes-
sione a Dio e al prossimo che è anche una “prosternendi et humilificandi
hominis disciplina”5. Essa esige una serie di atti di mortificazione e una
publicatio sui che, per la vergogna che questa comporta, Tertulliano è co-
sciente possa indurre i peccatori a evitare o a differire nel tempo la peni-
tenza stessa.
Se il processo penitenziale era pubblico nel suo complesso, non necessa-
riamente pubblica doveva essere la confessione dei peccati occulti. Da questo
punto di vista le fonti attestano pratiche diversificate e differenti reazioni al
problema. Per i secoli IV e V alcuni testi sono molto eloquenti. Papa Leone
Magno, in una lettera indirizzata ai vescovi di Campania, Sannio e Piceno,
testimonia che in quelle Chiese si esigeva e si praticava la confessione pub-
blica dei singoli peccati da parte di chi chiedeva di entrare in penitenza (at-
traverso la lettura di un libello). Egli ordina di rimuovere tale consuetudine,
che a suo giudizio costituisce una illecita violazione della “regola apostoli-
ca”. È evidente l’intento pastorale del Pontefice. Sebbene tale confessione
pubblica possa rappresentare il frutto di una plenitudo fidei, essa potrebbe
costituire un ostacolo alla penitenza per il timore dei peccatori di incorre-
re nelle reazioni degli altri fedeli e della legge civile. È invece richiesta la
confessione segreta ai sacerdoti, quali mediatori tra i fedeli e Dio. L’accesso
alla penitenza risulterebbe incentivato se non si chiedesse di “pubblicare
la coscienza del peccatore di fronte alle orecchie del popolo”6. Su un’altra

4 Didachè, rispettivamente 4.14 e 14.1: La doctrine des Douze Apôtres (Didachè), édition

e introduction W. Rordorf - A. Tuilier (Sources Chrétiennes 248, Paris 1978) 164 s. e 192 s.
5 Tertulliano, De paenitentia, c. 9 (PL 1.1354).
6 Leone I, Epistola 168, c. 2 [PL 54.1210-1211; cfr. Ph. Jaffé, Regesta Pontificum romano-

rum, editionem secundam curaverunt F. Kaltenbrunner (JK: an. ?-590), P. Ewald (JE: 590-

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fonte, relativa alla prassi constantinopolitana, mi soffermerò più avanti.


L’entrata in penitenza è sancita in una cerimonia pubblica nella quale
il vescovo espelle simbolicamente il peccatore dalla chiesa, a significare la
sua condizione di scomunicato. Il penitente, da questo momento, si trova
inserito nel gruppo dei penitenti: esso è definito ordo paenitentium7 nel-
le fonti occidentali; le fonti orientali parlano invece di “coloro che fanno
penitenza”, o “sono in penitenza” (oi metanooûntes; oi en metanoía). La
conclusione del processo è la riconciliazione, concessa dal vescovo attra-
verso l’imposizione delle mani. La permanenza nell’ordine dei penitenti
dura per un tempo variabile, non fissato da regole universali, giudicato
congruo dal vescovo che ha imposto la penitenza. In Occidente, dal se-
colo V, la riconciliazione avveniva di norma il Giovedì Santo. Dal punto
di vista sacramentale la condizione del penitente implica l’esclusione dal
sacramento dell’eucaristia, ma non l’esclusione dalle cerimonie religiose e
dalle preghiere. La sua condizione è assimilabile a quella del catecumeno,
e comporta anche una collocazione fisica distinta dal resto dei fedeli nell’e-
dificio di culto (nel nartece). A partire dal secolo IV, in Oriente come in Oc-
cidente, i concili si impegnano a disciplinare la condizione dei penitenti, a
distinguere le diverse colpe, a stabilire le diverse penitenze e la loro durata
per i diversi tipi di peccati. La legislazione conciliare canonizza alcuni svi-
luppi disciplinari maturali nei secoli precedenti. L’appartenenza all’ordine
dei penitenti, innanzi tutto, non costituisce una situazione monolitica e
priva di differenziazioni. Possiamo notare, ad esempio, che il Concilio di
Nicea (325), nel definire le pene per coloro che avevano rinnegato la fede

882), S. Loewenfeld (JL: 882-1198), (Leipzig 1885; rist. anast. Graz 1956) JK 545, anno 459]:
“Illam etiam contra apostolicam regulam presumptionem, quam nuper agnovi a quibusdam
illicita usurpatione committi, modis omnibus constituo submoveri. De penitentia scilicet que
a fidelibus postulatur, ne de singulorum peccatorum genere, libello scripta professio publice
recitetur, cum reatus conscientiarum sufficiat solis sacerdotibus indicari confessione secreta.
Quamvis enim plenitudo fidei videatur esse laudabilis, que propter Dei timorem apud ho-
mines erubescere non veretur, tamen quia non omnium huiusmodi sunt peccata, ut ea, qui
penitentiam poscunt, non timeant publicare, removeatur tam improbabilis consuetudo, ne
multi a penitentie remediis arceantur, dum aut erubescunt aut metuunt inimicis suis sua facta
reserari, quibus possint legum constitutione percelli. Sufficit enim illa confessio que primum
Deo offertur, tum etiam sacerdoti, qui pro delictis penitentium precator accedit. Tunc enim
demum plures ad penitentiam poterunt provocari, si populi auribus non publicetur conscien-
tia confitentis”.
7 Per esempio ne parla il Concilio di Orange (441), can. 3 (Mansi 6.436 s.), con riferimento

al caso disciplinato dal can. 13 del Concilio di Nicea (325: cfr. sotto, nota 11): “Qui recedunt
de corpore, paenitentia accepta, placuit sine reconciliatoria manus impositione eis commu-
nicari, quod morientis sufficit consolationi secundum definitiones patrum, qui huiusmodi
communionem congruenter viaticum nominarunt. Quod si supervixerint, stent in ordine
paenitentum, et ostensis necessariis paenitentiae fructibus, legitimam communionem cum
reconciliatoria manus impositione percipiant”.

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 33

senza necessità durante la persecuzione di Licinio, distingue i fedeli in tre


categorie: essi dovranno trascorrere tre anni tra gli audientes, sei anni fra i
substrati, cioè coloro che si prosternano, e negli ultimi due anni potranno
pregare insieme al popolo dei fedeli ma senza partecipare all’offerta e alla
comunione8. Le regole dei Padri greci illustrano bene questa esperienza per
le diverse tipologie di peccato, e mostrano anche una differenziazione nella
distinzione dei gradi di penitenza. Basilio di Cesarea, ad esempio, accanto
ai tre suddetti gradi prevede un primo grado di “coloro che piangono” alle
porte della Chiesa9. Suo fratello Gregorio di Nissa, invece, non conosce il
quarto grado di coloro che assistono senza partecipare all’offerta10.
Un ulteriore, rilevantissimo principio disciplinare è canonizzato nel pri-
mo Concilio di Nicea nel canone 13. Il Concilio conferma l’osservanza di
una “legge antica e canonica” (palaiòs kai kanonikòs nómos), secondo la
quale a colui che si trova in punto di morte la Chiesa non negherà la comu-
nione eucaristica. Se, tuttavia, tale persona ritornerà in salute, dovrà essere
collocata nello stato di coloro che partecipano alla sola preghiera, e quindi
sarà escluso dall’eucaristia11. La norma consolida una tradizione cattolica
che tuttavia aveva sofferto eccezioni a causa delle posizioni rigoristiche dei
vescovi novaziani (secondo i quali per coloro che hanno commesso peccati
gravi dopo il battesimo la Chiesa non dispone più di mezzi di grazia, ma ri-

  8 Concilio di Nicea (325), can. 11 [Conciliorum oecumenicorum decreta (d’ora in poi =

COD), eds. G. Alberigo – G. Dossetti – P.-P. Joannou – C. Leonardi – P. Prodi, H. Jedin con­


sultante (Bologna 19733) 11]. Cfr. anche i cann. 12 e 14.
  9 Si veda per esempio Basilio di Cesarea, can. 22 [Les canons des Pères Grecs (d’ora in

poi = CPG), ed. P.P. Joannou (Pontificia Commissione per la Redazione del Codice di Diritto
Canonico Orientale. Fonti, fasc. IX. Discipline Générale antique [IVe-IXe sec.], t. I pars I, Grot-
taferrata 1963) 124 s.]: la penitenza per i fornicatori è di quattro anni. Il primo anno essi sono
esclusi dalle preghiere e si tengono con gli imploranti alle porte della Chiesa; il secondo anno
saranno ammessi tra gli uditori; il terzo tra i penitenti (eis metánoian), il quarto potranno as-
sistere alle preghiere dei fedeli astenendosi dalle offerte. In seguito potranno essere riammessi
alla partecipazione dei santi doni. Cfr. anche il can. 56 (CPG 145): la pena per chi commetta
omicidio volontario è di venti anni. I primi quattro anni dovrà stare con gli imploranti all’e-
sterno della porta della Chiesa, e domanderà ai fedeli che entrano di pregare per lui, confes-
sando pubblicamente la sua iniquità; poi sarà ricevuto tra gli uditori e uscirà insieme loro
dalla Chiesa per cinque anni; per sette anni pregherà con i prosternati e uscirà dalla Chiesa
con loro; per quattro anni assisterà semplicemente tra i fedeli, ma non parteciperà all’offerta;
quando tutto ciò sarà compiuto, prenderà parte ai doni santificati.
10 CPG 202.
11 Concilio di Nicea, can. 13 (COD 12): “De his qui in obitu positi communionem depo-

scunt. De his qui ad exitum vitae veniunt, etiam nunc lex antiqua regularisque servabitur
ita, ut, si quis egreditur e corpore, ultimo et necessario viatico minime privetur. Quod si de-
speratus et consecutus communionem oblationisque particeps factus iterum convaluerit, sit
inter eos, qui communionem orationis tantummodo consequuntur. Generaliter autem omni
cuilibet in exitu posito et poscenti sibi communionis gratiam tribui, episcopus probabiliter ex
oblatione dare debebit”.

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mane solo il perdono divino), ma anche di quelle mostrate per esempio dal
Concilio iberico di Elvira (306), che aveva negato la comunione in articulo
mortis per ipotesi gravissime (la ricaduta nel paganesimo dopo che si sia
ricevuto il battesimo)12.
Oltre alla esclusione dalla comunione eucaristica, in generale la condi-
zione di penitenza comportava ripetute pratiche di pietà: digiuni, elemosi-
ne, veglie di preghiera, etc. Ma sulla vita del penitente incombeva soprat-
tutto il peso, difficilmente sopportabile, di una serie di proibizioni peniten-
ziali che incidevano, in modo estremamente gravoso e definitivo, sulla sua
posizione familiare e sociale. Alcune autorevoli fonti occidentali descri-
vono bene questa situazione. Dalle lettere dei papi Siricio e Leone Magno
apprendiamo che al penitente era proibito, anche dopo la riconciliazione,
di riprendere il servizio nell’esercito. La professione del commercio gli era
sconsigliata, perché suscettibile di fare ricadere la persona in peccati gravi.
Gli era proibito stare in giudizio di fronte ai tribunali civili: se fosse stato
assolutamente necessario, allora era prescritto il ricorso ai tribunali eccle-
siastici. Per la durata della penitenza, il penitente doveva mantenere una
continenza perfetta, anche se era coniugato; altrettanto dopo la riconcilia-
zione. Il vedovo non poteva risposarsi, né prima né dopo la riconciliazione.
Leone Magno autorizza i giovani celibi a sposarsi dopo la conclusione della
penitenza, considerando questa una res venialis. La persona riconciliata
non poteva accedere agli ordini clericali13.
È dimostrato che in Occidente l’estremo rigore della disciplina peniten-
ziale provocava una scarsa partecipazione dei fedeli al processo peniten-
ziale. La scelta più frequente, talvolta incoraggiata dagli stessi pastori14, era
quella di chiedere e ottenere la penitenza sul letto di morte. Le difficoltà
insite nel sistema indussero la stessa legislazione canonica a porre ripetuti
limiti alla possibilità di accedere alla penitenza pubblica. Sono assoluta-
mente indicative le decisioni prese da due concili della Gallia merovingia.
Ad Agde, nel 506, si stabilì che la penitenza non fosse imposta ai giovani
con leggerezza (facile), per la fragilità della loro età e per la probabilità che
ricadessero in peccati gravi15. Il Concilio di Orléans del 538 pose invece un

12 Conciliodi Elvira (306), can. 1 e 2 (Mansi II.5-6).


13 Sileggano almeno, su questi temi, la lettera di Siricio a Imerio di Tarragona (385), c. 5
e 14 (PL 13.1137 e 1145), e la lettera di Leone Magno a Rustico di Narbona, Epistula 167 (JK
544, 458/459), responsa alle inquisitiones 10-13 (PL 54.1206-1207).
14 Si veda per esempio il Sermo 60 di Cesario di Arles († 543): ed. G. Morin, Sancti Caesarii

Opera omnia, I-II (Maredsous 1937) I 252-256.


15 Concilio di Agde (506), can. 15 (Mansi 8.327): “Penitentes, tempore quo penitentiam

petunt, impositionem manuum et cilicium super caput a sacerdote, sicut ubique constitutum
est, consequantur. Si autem comas non deposuerint, aut vestimenta non mutaverint, abiician-
tur, et nisi digne penituerint, non recipiantur. Iuvenibus etiam penitentia non facile commit-

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 35

netto divieto a che imponesse la penitenza ai giovani, e a questo aggiunse


che le persone sposate potevano essere ammesse alla penitenza solo con il
consenso del coniuge e in età ormai avanzata16.
Le criticità del sistema, dunque, nascono dal temibile intreccio tra il
rigore della disciplina penitenziale e il principio della non reiterabilità della
penitenza. Come si è detto, accanto alla pubblicità della penitenza, quello
della sua unicità è un elemento che caratterizza la penitenza nella Chiesa
antica. Il primo autore ad avere affermato tale principio è il misterioso
Erma nel suo Pastore. Che la penitenza possa essere accordata ai peccatori
una sola volta, dopo il battesimo, è un principio del quale non appaiono
chiare le ragioni. Per Erma è forse il frutto di una prospettiva escatologica,
perché la fine del mondo, avvicinandosi, non consentirebbe materialmente
la ripetizione della penitenza, ma forse vi è anche una ragione pedagogico-
psicologica, cioè fine di incitare i cristiani a mantenersi fedeli alle promes-
se battesimali senza prefigurare il beneficio di un perdono ripetuto nel
tempo17. Fatto sta che questa idea si diffuse e si consolidò nei secoli, fino a
divenire un principio cardinale della dottrina penitenziale.
Possiamo ricordare alcuni Padri della Chiesa latina. Per Ambrogio l’uni­
cità della penitenza pubblica è posta in collegamento con l’unicità del bat-
tesimo, e distinta da una penitenza quotidiana che il fedele deve compiere
per la remissione dei peccata leviora18. Per Agostino la giustificazione della
non reiterabilità della penitenza starebbe invece nella opportunità di non
svilire, ma all’opposto di rafforzare la forza sanante della penitenza/medi-
cina19.
Nel contesto orientale il quadro appare più diversificato. Il principio del-
la unicità della penitenza ebbe certamente vigore nell’Egitto di O ­ rigene20.

tenda est propter etatis fragilitatem. Viaticum tamen omnibus in morte positis non negan-
dum”. Il canone rifluirà, attraverso collezioni intermedie, nel Decretum Gratiani, D.50 c.63.
16 Concilio di Orléans (538), can. 27(24) [Monumenta Germaniae Historica, Concilia Aevi

Merovingici, ed. F. Maassen (Hannoverae 1893) 81]: “De paenetentum (sic) conversione. Ut ne
quis benedictionem paenetentiae (sic) iuvenibus personis credere presumat; certe coniugatis
nisi ex consensu parcium et aetate iam plena eam dare non audeat”.
17 Hermas, Le pasteur, introduction, texte critique, traduction et notes par R. Joly (Sources

Chrétiennes 53bis, Paris 19682) Précepte IV.1-3, p. 152-163.


18 Ambrogio, De paenitentia, 2.10 c. 95 (PL 16.522): “merito reprehenduntur qui sepius

agendam paenitentiam putant; quia luxuriantur in Christo. Nam si vere agerent paenitentiam,
iteranda postea non putarent; quia sicut unum baptisma ita una paenitentia, quae tamen
publice agitur; nam quotidie nos debere paenitere peccati, sed haec delictorum leviorum, illa
graviorum”.
19 Agostino, Epistola 153.7 (PL 33.656): “Quamvis ergo caute salubriterque provisum sit

ut locus illius humillimae poenitentiae semel in ecclesia concedatur, ne medicina vilis minus
utilis esset aegrotis, quae tanto magis salubrius erit, quanto minus contemptibilis fuerit...”.
20 Origene, in Leviticum, Homilia 15.2: “Nei crimini più gravi si fa luogo alla penitenza

solo una volta” (PG 12.560-561).

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Per l’area antiochiena possiamo portare un argumentum ex silentio: il prin-


cipio non è menzionato nella Didascalia degli Apostoli (ca. 220), e nem-
meno — negli ultimi decenni del secolo IV, e dunque in piena età della
penitenza canonica — nelle Costituzioni Apostoliche che sulla Didascalia si
basano. Anzi, notiamo delle consistenti particolarità nelle procedure peni-
tenziali rispetto alle prassi coeve. Nelle Costituzioni Apostoliche troviamo
passi che sembrano suggerire che la penitenza sia considerata reiterabile:
“In tutti i casi, o vescovo, non volgerai la faccia con disgusto da colui che
sarà caduto una prima e una seconda volta, non gli impedirai di ascoltare
la parola del Signore, né lo escluderai dalla vita comune, poiché il Signore
non rifiutò di mangiare con i pubblicani e i peccatori e, interpellato al pro-
posito dai Farisei, disse: ‘Non sono i sani che hanno bisogno del medico,
ma i malati”21. La durata della penitenza è alquanto breve (da due a sette
settimane di digiuno)22, paragonata ai tempi anche lunghissimi previsti dai
canoni penitenziali dell’epoca (per esempio quelli di Basilio di Cesarea e
Gregorio di Nissa). La riconciliazione restituisce il fedele nella condizione
che era stata perduta a causa del peccato: “Non solo Dio accoglie coloro
che si pentono, ma li ristabilisce anche nella antica dignità (eis tèn protéran
axían)”23.
Il principio della unicità della penitenza, inoltre, non è espliciamente
affermato nei canoni orientali, anche se di fatto, a causa della lunghezza
delle epitimíai (penitenze), la condizione penitenziale poteva di fatto pro-
trarsi per la lungezza di una vita. La prassi di alcuni vescovi sembra di fatto
presuporre la possibilità che la penitenza sia ripetuta più volte. Attraverso
Socrate Scolastico sappiamo che Giovanni Cristostomo, patriarca di Co-
stantinopoli, fu accusato di essere troppo indulgente con i peccatori, per
essere solito dire: “anche se hai fatto penitenza mille volte, vieni”. Secondo
lo storico coevo, tuttavia, questo atteggiamento si scontrava con la prassi
sinodale che invece ammetteva i peccatori alla penitenza una sola volta
dopo il battesimo24.
Nella storia della Chiesa costantinopolitana vi è un’altro fatto che è sta-
to messo in rilievo riguardo al tema che stiamo trattando. Da Socrate e
Sozomeno apprendiamo che nella Grande Chiesa erano stati istituiti dei
presbiteri preposti alla penitenza (epì tês metanoías), o ai penitenti (epì tôn

21 Cost.
Apost. II.40.1: Les Constitutions Apostoliques, I-III, Introduction, texte critique,
traduction et notes par M. Metzger (Sources Chrétiennes 320, 329, 336, Paris 1985-1987) I p.
268-271 (mia la traduzione).
22 Cost. Apost. II.16.1-2: ed. cit. I 184-187.
23 Cost. Apost. II.41.4: ed. cit. I 272 s. (traduzione mia).
24 Socrate, Storia ecclesiastica, lib. VI c. 21 (PG 67.725-728).

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 37

metanooúnton)25. Secondo Socrate tale istituzione risaliva ai tempi della


persecuzione di Decio. Per Sozomeno l’ufficio di presbitero penitenziere
sarebbe stato istituito per un’esigenza di riservatezza e segretezza: gli stes-
si vescovi avevano rilevato la pesantezza e la difficoltà di un sistema che
imponeva ai peccatori di divulgare i propri peccati di fronte alla moltitu-
dine dei fedeli, “come in un teatro”. Secondo la spiegazione di Sozome-
no, con il presbitero penitenziere la confessione diveniva così privata. Ma
dal suo discorso sembra di potersi anche evincere che la penitenza stessa
abbia così assunto una dimensione privata. Lo storico, infatti, ha cura di
distinguere nettamente il regime così introdotto a Costantinopoli da quello
della penitenza pubblica conservato fino a quel tempo da altre Chiese, in
particolare a Roma, i cui riti penitenziali sono puntualmente descritti. Il
ministero dei presbiteri penitenzieri fu tuttavia abolito sotto l’episcopato di
Nettario (381-397), il predecessore del Crisostomo, a causa di circostanze
contingenti (il caso di una donna che, accedendo in Chiesa per pregare in
ottemperanza alla penitenza ricevuta, aveva contratto una relazione illecita
con un diacono, creando scandalo pubblico). Secondo la testimonianza di
entrambi gli storici il risultato di tale abolizione fu che l’accesso alla comu-
nione eucaristica fu lasciato di fatto alla responsabilità di ciascun fedele.
La testimonianza di Socrate e Sozomeno mostra una esperienza, sia
pure peculiare, che si iscrive nel processo di sviluppo delle procedure peni-
tenziali e nella progressiva diffusione della penitenza privata. Qui occorre
fare una notazione. Il sistema della confessione e della penitenza privata
si congiunge storicamente con la prassi della reiterabilità della penitenza
stessa. Il che costringe a porre delle questioni, alle quali, tuttavia, non può
darsi risposta in questa sede. Cosa dire della penitenza a Costantinopoli nel
vigore dell’istituto dei presbiteri penitenzieri? Comportava, tale sistema, la
reiterabilità della penitenza? Se così fu, come coordinare tale ipotesi con
l’altra testimonianza di Sozomeno, secondo la quale la prassi penitenziale
di Giovanni Crisostomo si sarebbe posta in contrasto con la prassi sinodale
fino a quel tempo seguita? È possibile che a Costantinopoli (e forse altrove)
coesistessero, al tempo al quale tali testimonianze si riferiscono, una peni-
tenza pubblica non reiterabile e una penitenza privata reiterabile?

3. Dalla penitenza pubblica alla penitenza privata

Le difficoltà insite nel sistema della penitenza pubblica sono state messe
in rilievo, sia pur sommariamente, con riferimento sia all’Occidente latino

25 Socrate, Storia ecclesiastica, lib. V c. 19 (PG 67.613-620); Sozomeno, Storia ecclesiastica,

lib. VII c. 16 (PG 67.1457-1464).

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che all’Oriente bizantino. Il passaggio dalla penitenza pubblica a quella


privata si connette con tali criticità, che hanno fatto parlare, sotto il profilo
pastorale, di un fallimento del sistema penitenziale antico. Fu un passaggio
non repentino. Una forma privata di penitenza si accosta alla forma pubbli-
ca e si impone nella prassi fino a sostituirla completamente.

3.1. Sviluppi in Occidente


Nell’Occidente latino la diffusione della penitenza privata è opera dei
monaci missionari irlandesi e anglosassoni che, a partire dalla seconda
metà del secolo VI, si riversarono nel continente introducendo la nuova
pratica nei luoghi da loro visitati26. Nella Vita di San Colombano Giona di
Bobbio dà una efficace rappresentazione delle condizioni della disciplina
ecclesiastica in Gallia: forse a causa della frequente pressione dei nemici,
forse per negligenza dei vescovi, la virtù di religione era pressoché scom-
parsa. In quei luoghi permaneva solo la fede cristiana, a stento si rinveni-
vano tracce dei rimedi della penitenza e dell’amore per la mortificazione27.
Come è noto, si tratta di una penitenza “tariffata”: a ogni peccato corri-
sponde una precisa penitenza, misurata in giorni, mesi o anni di digiuno. Il
cardine della nuova forma della penitenza è la confessione privata dei pec-
cati fatta al ministro della Chiesa. Il ministro non è più necessariamente il
vescovo, ma anche il presbitero28. La tassazione delle penitenze è contenuta
nei libri penitenziali, libri ad uso dei confessori che, diversi nella mole e nei
contenuti, si diffondono innumerevoli in Europa. All’interno di tale forma

26 Sarebbe arduo non ricollegare la diffusione di tali pratiche con l’esercizio della con-

fessione monastica, che attiene alla dimensione della “direzione spirituale”, ma che non si
esclude possa avere avuto esiti sacramentali. Ricordiamo che San Benedetto — sulla scia dei
Padri orientali — aveva obbligato i monaci a rivelare i pensieri malvagi a uno spiritalis senior
(“Cogitationes malas cordi suo advenientes mox ad Christum allidere et seniori spiritali pa-
tefacere”: Regula Benedicti, c. 4.50); cfr. anche c. 46.5-6. “Si animae vero peccati causa fuerit
latens, tantum abbati aut spiritalibus senioribus patefaciat, qui sciat curare et sua et aliena
vulnera, non detegere et publicare”.
27 Giona di Bobbio (600-659) Sancti Columbani Vita, c. 11 ( PL 87.1017 s.): “A Britannicis

ergo finibus progressi, ad Gallias, ubi tunc vel ob frequentiam hostium externorum, vel ob
negligentiam presulum, religionis virtus pene abolita habebatur, tendunt. Fides tantum ma-
nebat christiana, nam penitentie medicamenta, et mortificationis amor vix vel paucis in illis
reperiebantur locis”.
28 Nel Penitenziale di Colombano si dà atto che ministro della penitenza è il vescovo o pre-

sbitero. Cfr. can. 13 (o can. 1 del cosiddetto Penitenziale B): “Si quis clericus homicidium fe-
cerit et proximum suum occiderit, decem annis exul poeniteat: Post hos recipiatur in patriam,
si bene egerit poenitentiam in pane et aqua, testimonio comprobato episcopi vel sacerdoti, cum
quo poenituit...” (mio il corsivo): Die Bussordnungen der abendländischen Kirche, ed. F.W.H.
Wasserschleben (Halle 1851) 355. Non è possibile esaminare, in questa sede, il problema della
confessione fatta ad altri soggetti, segnatamente i diaconi e i laici, per la quale è necessario
rinviare alla bibliografia indicata in appendice.

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 39

di penitenza si afferma il sistema delle commutazioni: una penitenza può


essere sostituita con il versamento di una somma di denaro (per esempio,
onorari per le messe), o addirittura è possibile che il penitente paghi una
terza persona affinché questa svolga la penitenza al posto suo. È chiaro che
tale possibilità genera abusi scandalosi. Di fronte all’introduzione di questo
complesso di innovazioni le reazioni sono all’inizio decisamente negative.
Per il Concilio di Toledo del 589 il voler fare penitenza ogni volta che si è
peccato rappresenta una execrabilis praesumptio. Il Concilio condanna le
nuove pratiche e conferma l’obbligo di seguire la penitenza pubblica sta-
bilita dai canoni antichi29. Ma nello spazio di pochi decenni la penitenza
privata si diffonde a macchia d’olio sul continente europeo e si impone de-
finitivamente. Tra il 639 e il 654 i vescovi riuniti nel Concilio di Châlon sur
Saône riconoscono l’utilità pastorale della penitenza, medicina dell’anima,
e danno il loro riconoscimento alle pratiche innovative30.
Durante l’epoca della riforma carolingia si registrano dei tentativi di
restaurare l’antico sistema della penitenza pubblica. Tali tentativi avran-
no un successo solo parziale, per l’effettiva rispondenza del sistema della
penitenza privata alle condizioni sociali e alla vita dei fedeli. Il Concilio di
Châlon (813) si duole della mancata osservanza della penitenza regolata
agli antichi canoni, e chiede il sostegno dell’imperatore affinché ai pecca-
tori pubblici sia imposta la penitenza pubblica31. Parallelamente, promuo-
ve l’eliminazione dei libri pentienziali, “quorum sunt certi errores, incerti
auctores”. I vescovi condannano tali libri per la loro arbitrarietà nel de-
finire le penitenze, giudicando che per peccati gravi sono previste pene
inusualmente lievi32. Pochi anni dopo (829) il Concilio di Parigi rinnova la
condanna dei libri penitenziali, ordinando ai vescovi di ricercarli diligen-

29 Concilio di Toledo (589), can. 11 (Mansi 9.995).


30 Concilio di Châlon (639/654), can. 8 [Monumenta Germaniae Historica, Concilia Aevi
Merovingici, cit., 210: “De poenitentia vero peccatorum, quae est medilla animae, utilem om-
nibus hominibus esse censemus: et ut poenitentibus a sacerdotibus data confessione indicatur
poenitentia, universitas sacerdotum nuscetur consentire”.
31 Concilio di Châlon (813), can. 25 [Monumenta Germaniae Historica, Concilia, II, Con-

cilia Aevi Karolini I, Pars I, ed. A. Werminghoff (Hannoverae et Lipsiae 1906) 278]: “Paeni-
tentiam agere iuxta antiqua canonum constitutionem in plerisque locis ab usu recessit, et
neque excommunicandi neque reconciliandi antiqui moris ordo servatur. Ut a domno (sic)
imperatore impetretur adiutorium, qualiter, si qui publice peccat, publica multetur penitentia
et secundum ordinem canonum pro merito suo et excommunicetur et reconcilietur”.
32 Concilio di Châlon (813), can. 38 (ed. cit. 281): “Modus autem paenitentiae peccata sua

confitentibus aut per antiquorum canonum institutionem aut per sanctarum scripturarum
auctoritatem aut per ecclesiasticam consuetudinem, sicut superius dictum est, imponi debet,
repudiatis ac penitus eliminatis libellis, quos paenitentiales vocant, quorum sunt certi erro-
res, incerti auctores... qui, dum pro peccatis gravibus leves quosdam et inusitatos imponunt
paenitentiae modos...”.

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temente nelle proprie diocesi e poi darli alle fiamme. Nello stesso tempo
raccomanda che i presbiteri siano adeguatamente istruiti dai propri vesco-
vi sul modo di condurre la confessione e di imporre ai peccatori le congrue
penitenze “secundum canonicam auctoritatem”. È netta la denuncia della
loro ignoranza ed incuria, causa di impunità di molti peccatori e della ro-
vina delle loro anime33.
Una eloquente testimonianza di questo clima di riforma è data da Giona
di Orléans († 843) nel trattato De institutione laicali. Da un lato egli mostra
che la penitenza pubblica è sostanzialmente in disuso, o almeno rarissi-
mamente imposta (preziosa e incisiva è la puntuale descrizione della con-
dizione del penitente pubblico); dall’altro denuncia i mali della situazione
che ne deriva. Le sue parole non sono da leggersi come una rievocazione
nostalgica di un passato aureo della Chiesa, ma piuttosto come una lucida
esposizione delle conseguenze scaturite dall’obsolescenza della dimensione
pubblica della penitenza. La denuncia riguarda la condizione di impunità e
impudenza con la quale i grandi peccatori pubblici continuano a vivere nel
seno della Chiesa (il peccato grave e pubblico non comporta l’esclusione del
peccatore dal corpus Ecclesiae e dalla comunione eucaristica), e lo scandalo
che questa situazione genera nella comunità ecclesiastica34.
33 Conciliodi Parigi (829), can. 32 [Monumenta Germaniae Historica, Concilia, II, Conci-
lia Aevi Karolini I, pars II, ed. A. Werminghoff, Hannoverae et Lipsiae 1908) 633]: “Ut codicelli,
quos penitentiales vocant, quia canonicae auctoritati refragantur, poenitus aboleantur. Quo-
niam multi sacerdotum partim incuria, partim ignorantia modum paenitentiae reatum suum
confitentibus secus, quam iura canonica decernant, imponunt, utentes scilicet quibusdam
codicellis contra canonicam auctoritatem scriptis, quos paenitentiales vocant, et ob id non
vulnera peccatorum curant, sed potius foventes palpant... omnibus nobis salubriter in com-
mune visum est, ut unusquisque episcoporum in sua parroechia eosdem erroneos codicellos
diligenter requirat et inventos igni tradat, ne per eos ulterius sacerdotes imperiti homines
decipiant... Presbyteri etiam imperiti sollerti studio ab episcopis suis instruendi sunt, qualiter
et confitentium peccata discrete inquirere eisque congruum modum secundum canonicam
auctoritatem paenitentiae noverint imponere, quoniam hactenus eorum incuria et ignorantia
multorum flagitia remanserunt impunita et hoc ad ruinam animarum pertinere dubium non
est”.
34 Giona di Orléans († 843), De institutione laicali, lib. I, c. 10 (PL 106.138 s.): “Quia peccati

vulnus penitentie remedio sanari valeat, ea que in precedenti capitulo collecta sunt, testamur;
modus vero eiusdem penitentie, tempusque penitendi in arbitrio sacerdotum, quibus ligandi
atque solvendi potestas est a Christo collata, est constitutus... Perrari namque sunt hodie in
Ecclesia, qui talem agant penitentiam, qualem antiquorum Patrum penitentium exempla et
auctoritas canonica sancit. Quis namque criminis reus, qui utique penitentia publica debuit
mulctari, cingulum militie deponit, et a limitibus Ecclesie cetuque fidelium arcetur, et a Chri-
sti corpus separatur? Quis porro in cinere et cilicio, more penitentium antiquorum lamenta
penitudinis suscipit? ... Unde colligitur quia religionis nostre priscis temporibus, dum quis
secundum constitutum sibi a sacerdote usque ad satisfactionem cilicio indutus, et cinere con-
spersus, habitu incults, humique prostratus, lacrymisque profusus videbatur, statim penitens
agnoscebatur, ut ei a Domino ignosceretur, ab omnibus deprecabatur. Nunc autem in cetu
christiano idcirco vix penitens agnoscitur, quia pene nihil horum erga penitentes agitur. Qua-

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 41

Il tentativo di riforma non ebbe la forza di vincere l’ormai radicata pras-


si della penitenza privata; non sembra nemmeno che questo sia stato l’o-
biettivo principale, quanto piuttosto quello di restaurare la pratica della
penitenza pubblica. Il risultato fu quello di produrre una dicotomia. Per i
peccati privati (gravi o lievi che fossero), rimaneva in vigore la penitenza
privata. La penitenza pubblica, invece, era imposta ai laici che avessero
commesso peccati gravi pubblicamente35. Come nell’evo antico, i chierici
rimangono esclusi dalla penitenza pubblica, considerata incompatibile con
il loro stato. Per loro sussistono le pene canoniche della scomunica e della
deposizione e il pellegrinaggio penitenziale. Tale dicotomia permarrà fino
alla riorganizzazione del sistema penitenziale avvenuto tra la fine del seco-
lo XII e gli inizi del successivo. Si distinguerà tra penitenza pubblica solen-
ne, riservata ai vescovi, inflitta ai laici per i peccati più gravi e scandalosi
commessi pubblicamente; penitenza pubblica non solenne, cioè il pellegri-
naggio penitenziale, imposto ai laici per colpe pubbliche meno gravi e ai
chierici; penitenza privata, per i peccati occulti, fossero essi gravi o lievi36.

propter credibile est, ut sicut alia multa in religione christiana viluerunt, ita quoque premis-
sus penitentie modus, ab usu, quod formidolosum est, recesserit. Et idcirco a multis diversa
flagitia perpetrantur audacter. Verum etiam si quispiam nostri temporis Christianus hodie
aut homicidium, aut aliquid aliud admiserit, quia huiuscemodi penitentia non plectitur, ideo
cras conventui fidelium irreverenter se adiungere non veretur. Et ideo Ecclesiam, cui peni-
tendo satisfacere debuit, scandalizare convincitur. Solent enim aut publice, aut tacite, intra
se adversus huiusmodi dicere: o interfector! flagitiose! Heri illud et illud admisisti, et hodie
collegio nostro, sanguine proximi tui cruentatis manibus te impudenter inseris: et, quod ma-
ioris est impudentie nobiscum participare non trepidas corpus et sanguinem Domini nostri
Jesu Christi? Quod dico plus usu quam voto expertus sum.... Hec non de occultis, sed de ma-
nifestis criminibus dicta sunt, que dum publice admittuntur, publica penitentie satisfactione
diluantur necesse est”.
35 Il sistema è esposto chiaramente da Rabano Mauro († 856), De institutione clericorum,

c. 30, de satisfactione et reconciliatione (PL 107.342 s.): “Quorum autem peccata in publico
sunt, in publico debet esse penitentia, per tempora que episcopi arbitrio penitentibus secun-
dum differentiam peccatorum decernuntur; eorumque reconciliatio in publico esse debet ab
episcopo, sive a presbiteris, iussu tamen episcoporum... Quorum ergo peccata occulta sunt,
et spontanea confessione soli tantumodo presbytero, sive episcopo ab eis fuerint revelata, ho-
rum occulta debet esse penitentia, secundum iudicium presbyteri, sive episcopi cui confessi
sunt, ne infirmi in Ecclesia scandalizentur, videntes eorum penas, quorum penitus ignorant
causas...”.
36 Nella Summa de paenitentia di Raimondo de Peñafort, scritta intorno al 1225 e desti-

nata ad ampio successo, le tre specie sono così descritte: “Species penitentie sunt tres: nam
alia est solennis, alia publica, alia privata. Solennis est, que fit in capite quadragesime cum
solennitate, que est dist. 50 In capite... Hec debet imponi ab episcopo tantum, vel de mandato
eius a sacerdote, et debet imponi pro crimine publico et vulgarissimo (!), quod totam moverit
urbem... Dicitur quandoque, que supra dicta est, solennis, quia publice fit; proprie tamen
dicitur <publica> illa, que fit in facie ecclesie, non cum solemnitate, sed cum iniungitur pe-
regrinatio per mundum cum baculo, cubitali, et scapulari, vel veste aliqua ad hoc consueta.
Hanc posset imponere quilibet sacerdos suo parochiano, quia non invenio sibi prohibitum,

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Per i secoli altomedievali le forme rituali della penitenza pubblica sono


descritte sia nei libri canonici, come per esempio nel De synodalibus causis
di Reginone di Prüm († 906)37, sia in quelli liturgici, come il Penitenziale ro-
mano-germanico del secolo X (961/964)38. Ma la penitenza pubblica solenne
andò progressivamente riducendo la sua importanza nei secoli bassome-
dievali. Opere liturgiche di amplissima diffusione come il Pontificale di Gu-
glielmo Durante (1293/95) ne documentano ancora l’esistenza. Può essere
interessante notare che agli inizi del secolo XIII il rituale della Chiesa di
Siena comprendeva una rubrica De forma mittendi poenitentes in carce-
rem, riguardante coloro che avevano commesso omicidio volontario, dove
la carcerazione penitenziale, volontariamente scelta dal penitente, durava
per il tempo di quaresima. È bene, tuttavia, precisare che il capitolo sembra
fare riferimento a una pratica non si sa quanto ancora in uso: “Forma mit-
tendi in carcerem poenitentes, in ecclesia nostra talis esse consuevit...”39.
Nelle Decretales di Gregorio IX il primo canone del titolo de paenitentiis et
remissionibus afferma seccamente il principio che “manifesta peccata non
sunt occulta correctione purganda”40. I commentatori, tuttavia, prestano
una minima attenzione a questo testo, limitandosi a precisare che i peccati
pubblici richiedono una penitenza pubblica, e che questa non può essere
imposta ai chierici. La scarsa attenzione che i giuristi dedicano al tema
è una chiara spia del declino, per non dire della sostanziale scomparsa

nisi consuetudo esset contraria in aliqua ecclesia... Item solennis penitentia non debet iterari;
alia quelibet, et debet, et potest iterari, quoties homo peccat, de pen. dist. 3 Reperiuntur (c.
2), et Septies in die cadit iustus (c. 23), et Adhuc instant perfidi (c. 32). Privata dicitur illa
penitentia, que singulariter fit quotidie, et cum quis peccata sua secrete sacerdoti confitetur”
[Sancti Raymundi de Peniafort Barcinonensis Ord. Praedicator. de paenitentia, et matrimonio,
lib. III, tit. 24, De paenitentiis et remissionibus, § 6 (Romae 1603) p. 440-442].
37 De synodalibus causis I 295: ed. F.G.A. Wasserschleben (Leipzig 1840) 136 s. Il capitolo

rifluirà, attraverso collezioni intermedie, nel Decretum Gratiani, D.50 c.64. Agli inizi del secolo
XIII la glossa ordinaria di Giovanni Teutonico al Decretum, D.50 c.64, v. representantur, sotto-
lineerà che “... solennis penitentia non est imponenda, nisi pro crimine manifesto et enormi,
quod totam urbem commovit, XXVI q.VII c. ult. (C. 27 q.7 c.14: è il can. 43 della Collezione
cartaginese del 419, già pubblicato nel precedente concilio del 397)” (ed. Romae 1582).
38 Pontificale romano-germanico del X secolo, XCIX, c. 71-73 (entrata in penitenza nel gior-

no del mercoledì delle ceneri:) e c. 224-251 (riconciliazione dei penitenti nel giovedì santo): Le
Pontifical romano-germanique du Xe siècle. Le Texte, ed. C. Vogel – R. Elze (Studi e testi 227,
Città del Vaticano 1963) II 21 e 59-67.
39 Ordo officiorum Ecclesiae Senensis ab Oderico eiusdem Ecclesiae canonico anno

MCCXIII. compositus: et nunc primum a D. Joanne Chrysostomo Trombelli bononiensi... edi-


tus, et adnotationibus illustratus, vindicatusque (Bononiae, Ex Typographia Longhi, 1766), c.
98, p 87 s.
40 X.5.38.1: sebbene sia attribuita ad un Alexander papa, si tratta di un frammento di una

epistola spuria dello Pseudo Gregorio I a Felice di Messina (JE † 1334).

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 43

della penitenza pubblica41. I canonisti, piuttosto, appaiono maggiormente


interessati a commentare il canone del Concilio Lateranese IV (1215) con
il quale era stato introdotto l’obbligo della confessione annuale al proprius
sacerdos, argomento sul quale tornerò più avanti nel discorso.
Queste linee di sviluppo conducono, in definitiva, al consolidamento
della confessione sacramentale privata come la conosciamo noi. L’aspetto
comunitario della penitenza antica è venuto meno, ma non certo la dimen-
sione ecclesiale, che adesso si concentra nel rapporto tra il sacerdote con-
fessore, titolare della potestà di legare e sciogliere, e il peccatore confitente.
Anche il peso delle penitenze (i digiuni, innanzi tutto) decresce, nel senso
che alla confessione stessa si attribuisce una funzione espiatoria determi-
nante, per la vergogna che essa genera nel confitente. Vi sono fonti dalle
quali sembra emergere che il peccatore debba tornare dal confessore dopo
aver compiuto la penitenza, per dare atto del suo comportamento e riceve-
re l’assoluzione. Ma la linea di tendenza va in altra direzione: l’assoluzione
segue immediatamente la confessione e l’imposizione delle penitenze42. Di
questo sviluppo troviamo piena testimonianza nelle opere dottrinali che
segnano, tra il secolo XI e il XII, la nascita della scienza teologica e lo svi-
luppo delle riflessioni scientifiche sul tema della penitenza. Alla metà del
secolo XI la pseudoagostiniana epistola De vera et falsa paenitentia mette
in rilievo come “erubescentia... ipsa partem habet remissionis”, precisando
che la grazia sacramentale della remissione dei peccati si riceve quando la
confessione è fatta al sacerdote che ha il potere di legare e sciogliere43. E

41 È sufficiente rimandare alla brevissima unica glossa al capitolo che compare nell’appa-

rato ordinario di Bernardo da Parma. Nel titolo de paenitentiis et remissionibus l’unico altro
capitolo che menziona espressamente la penitenza pubblica è una decretale di Clemente III
(X.5.38.7). Anche nelle ricostruzioni sistematiche che leggiamo nelle Summae Decretalium
si avverte una graduale riduzione della importanza del tema della distinzione fra i tre tipi di
penitenza. Nella Summa di Goffredo da Trani, che segue le tracce di Raimondo di Peñafort,
la tripartizione della penitenza è ancora oggetto di una sezione introduttiva della trattazione
[Goffredo da Trani, Summa super titulis Decretalium (Lugduni 1519), lib. V, de penitentiis et
remissionibus, n° 3, fol. 237vb-238ra]. Nella successiva Summa di Enrico da Susa (circa 1251),
la distinzione delle tre specie è invece oggetto di un’attenzione del tutto incidentale, relativa-
mente alla questione se la penitenza possa essere reiterata. La conclusione di Enrico da Susa
è che solo la paenitentia sollemnis non può essere reiterata, a differenza della publica (non
solenne) e della privata: “nam... quotidie iterantur” [Henrici de Segusio Cardinalis Hostiensis
Summa Aurea (Venetiis 1574), lib. V, de penitentiis et remissionibus, n° 55, col. 1825 s.].
42 Così attestano fonti che spaziano dal secolo VIII all’XI: si veda, per esempio, l’ordo ri-

portato da Burcardo di Worms (1108/12), Decretum, lib. 19 c. 7 (PL 140.977 s.).


43 Pseudo Agostino, De vera et falsa paenitentia ad Christi devotam, c. 10 (PL 40.1122):

“Erubescentia enim ipsa partem habet remissionis... In hoc enim quod per se ipsum dicit
sacerdoti, et erubescentia, vincit timore Dei offensi, fit venia criminis: fit enim veniale, quod
criminale erat in operatione; etsi non statim purgatur, fit tamen veniale quod commiserat
mortale... Quare qui confiteri vult peccata, ut inveniat gratiam, querat sacerdotem scientem

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44 orazio condorelli

nel secolo seguente Pietro Cantore († 1197) potrà affermare che “ipsa oris
confessio, maxima est pars satisfactionis”44.

3.2. Sviluppi nell’Oriente bizantino


Per l’Oriente, bizantino e non, il problema storico del passaggio dal si-
stema della penitenza pubblica a quello della penitenza privata conserva
parecchi punti oscuri, ed è condivisibile il giudizio di chi pensa che esso
non sia stato ancora debitamente approfondito. Come per gli sviluppi in-
terni alla Chiesa latina, tuttavia, anche per l’Oriente bizantino, sul quale
unicamente mi soffermerò, è possibile dire che il passaggio costituì un fe-
nomeno di lunga durata, né vi fu una repentina sostituzione della forma
pubblica con quella privata45. La presenza di canoni riguardanti la peniten-
za pubblica nelle collezioni canoniche commentate dai canonisti bizantini
perpetuava nel secondo millennio il ricordo di tali procedure, e ancora nel-
le fonti del secolo XV si trovano tracce di persistenza dell’antico sistema46.
Più sopra abbiamo visto come il fenomeno della confessione privata fos-
se già presente a Costantinopoli fino al tempo del patriarca Nettario, e sono
stati richiamati i fatti che attestano una possibile flessibilità del principio
dell’unicità della penitenza. D’altro canto, già nel secolo IV si avvertono
alcuni segni di crisi disciplinare, che sembrano toccare anche la penitenza,
come suggerisce una lettera indirizzata ai vescovi d’Italia e di Gallia da un
gruppo di vescovi orientali, tra i quali Basilio di Cesarea47. Si è giustamen-
te notato che, con la fine delle persecuzioni, il problema della apostasia e

ligare et solvere... Tanta itaque vis confessionis est, ut si deest sacerdos, confiteatur proximo.
Sepe enim contingit, quod penitens non potest verecundari coram sacerdote, quem deside-
ranti nec locus nec tempus offert. Et si ille cui confitebitur potestatem solvendi non habet, fit
tamen dignus venia, et desiderio sacerdotis, qui socio confiterut turpitudinem criminis...”. Il
passo sarà poi ricompreso sia nel Decretum Gratiani (de paenitentia D.1 c. 88), che nelle Sen-
tentiae di Pietro Lombardo (Liber IV, distinctio 17.4).
44 Pietro Cantore, Verbum abbreviatum, c. 143 (PL 205.342).
45 Dai Canoni confessionali falsamente attribuiti al Patriarca Niceforo, can. 28 e 29 (PG

100.857 s.), sembrerebbe potersi dedurre che nella Costantinopoli dei secoli X/XI (a tale epo-
ca risalirebbero i testi), come in Occidente in epoca carolingia, la penitenza pubblica fosse
imposta per il peccato pubblico, la penitenza privata per il peccato occulto. Secondo il can.
28, il confessore deve escludere dalla comunione, ma non dall’ingresso in Chiesa, colui che
abbia confessato peccati occulti. Secondo il can. 29, adulteri, omicidi e simili peccatori, se
hanno confessato di spontanea volontà i loro peccati, devono essere esclusi dalla comunione,
e possono restare in Chiesa fino alla preghiera dei catecumeni. Si aggiunge che “se i loro delitti
sono pubblici, allora devono compiere le penitenze secondo la legge ecclesiastica”. La questio-
ne meriterebbe ulteriori approfondimenti, che non possono essere condotti in questa sede.
46 Cfr. Simeone di Tessalonica († 1429), De sacro templo, c. 152 e 153 (PG 155.357).
47 Basilio di Cesarea, Ep. 92.2 (PG 32.480): “scompare la stretta osservanza dei canoni. Vi

è grande libertà nel peccare. Quelli, infatti, che sono arrivati al potere per mezzo dell’appoggio
umano, ricompensano la loro benevolenza accordando tutto ai peccatori per il piacere...”.

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 45

della riconciliazione dei lapsi divenne sempre meno pressante, così che la
Chiesa potè rivolgere la propria attenzione ai peccati quotidiani e meno
eccezionali. Si è inoltre notato che il progressivo incremento dei battesimi
degli infanti ridusse fortemente l’importanza dello stato catecumenale, così
che anche lo stato penitenziale, al primo collegato sotto il profilo liturgico,
finiva per perdere significato.
Secondo le più comuni ricostruzioni, l’affermazione della confessione
privata si colloca tra i secoli VIII e IX, in connessione con la crisi ico-
noclastica, e nelle sue origini è legata alla affermazione della spiritualità
monastica. Secondo una condivisibile ipotesi può dirsi, in estrema sintesi,
che la disciplina della confessione privata sorse dalla fusione della pratica
della exagóreusis (confessione) monastica con un rito di assoluzione. La
confessione, intesa nel senso di apertura dell’animo e della mente dei mo-
naci al loro superiore, era praticata negli ambienti monastici, e trova un
autorevolissimo esempio nelle Grandi Regole di San Basilio48. Tale pratica
aveva anche un peculiare sbocco liturgico nella liturgia delle ore, il mattu-
tino (órthros) e la compieta, allorché l’igumeno ascoltava le confessioni dei
monaci del cenobio. Il ruolo preponderante della spiritualità monastica nel
processo di affermazione della penitenza privata è certamente un aspetto
di congiunzione e di concordia fra la tradizione orientale e quella latina.
Il ricorso ai monaci per la confessione dei peccati andò via via diffon-
dendosi, e innumerevoli testimonianze possono portarsi in questo senso.
A quanto pare, almeno nel secolo IX non si avevano generalmente dub-
bi sulla efficacia sacramentale della confessione fatta ai monaci49. Nella
prassi sappiamo che tale confessione era fatta dai fedeli non solo agli ie-
romonaci, cioè quelli che avevano ricevuto l’ordinazione sacerdotale, ma
anche ai monaci non ordinati. Nella prossima sezione tratterò dei problemi
connessi con questo aspetto. Le cause di questa diffusione, e della rapi-

48 Basilio di Cesarea, Regulae fusius tractatae, responsio 26 (PG 31.985-988).


49 Tra le fonti che solitamente si citano al riguardo, forse la più eloquente — per quanto
essa esprime di un’opinione diffusa o addirittura divenuta comune — mi sembra il dialogo
intercorso, durante il Concilio costantinopolitano dell’869, tra il protospatario Teodoro e i
legati del papa, che avevano convocato il funzionario per chiedergli conto di alcune accuse.
Alla domanda se avesse confessato i propri peccati e fatto penitenza, egli rispose affermati-
vamente, precisando però di non conoscere il nome del confessore e di sapere solo che era
un chartofylax, aveva la tonsura e aveva trascorso quarant’anni su una colonna. Richiesto se
sapesse se fosse sacerdote, Teodoro rispose: “nescio: abbas erat, et habebam fidem in homi-
nem, et nuntiavi ei” (Atti del Concilio costantinopolitano, 869, nella versione di Anastasio
Bibliotecario: Mansi 16.150 s.). Non sono altrettanto perspicui i passi di Anastasio Sinaita
(† 700), Interrogationes et reponsiones, q. VI, “se sia cosa buona confessare i nostri peccati a
uomini spirituali” (PG 89.369-374), dove non si può escludere che egli si riferisca a “spirituali”
che hanno ricevuto l’ordine del presbiterato; e di Teodoro Studita († 826), Canoni per la con-
fessione e la soddisfazione dei peccati, c. 1 (PG 99.1721 s.).

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46 orazio condorelli

da autorevolezza acquisita da monaci, sono viste da taluni nella scarsità


o nell’assenza di presbiteri penitenzieri tra il clero secolare, da altri, per
un periodo successivo, nell’azione monastica di difesa della fede cattolica
contro il clero iconoclasta. Ma, soprattutto, al fondo di questo movimento
sta il riconoscimento delle peculiari doti spirituali dei monaci, della loro
tensione alla perfezione che ne fa, appunto, degli uomini e dei padri spiri-
tuali (pneumatikoì), a differenza dei sacerdoti secolari, i quali nella comune
considerazione erano chiamati “laici”50.
Come nell’Occidente latino l’introduzione della confessione e della pe-
nitenza privata è legata alla diffusione dei libri penitenziali, altrettanto
nell’Oriente bizantino il fenomeno è segnato dalla diffusione dei kanonária.
Essi si collocano in una linea di continuità con l’esperienza antica della
tassazione delle epitimie, alla quale avevano proceduto, sia pure in modo
diversificato, sia i concili che i Santi Padri con i loro canoni. Come genere
letterario si tratta, in realtà, di qualcosa di più che un semplice catalogo dei
peccati e delle corrispondenti penitenze. Ciò appare evidente già nel primo
e più antico kanonárion, il testo che costituì un archetipo, una sorta di
tronco dal quale si dipartirono molteplici rami. Mi riferisco al kanonárion
che nell’incipit è attribuito a “Giovanni monaco e diacono, discepolo del
grande Basilio”51. Il dichiarato autore non è da identificare con Giovanni il
Digiunatore, patriarca di Costantinopoli morto nel 596, al quale una linea
della tradizione lo attribuisce. Secondo alcuni il kanonárion è opera di un
solo autore, composta tra la seconda metà del secolo IX e la prima del X.
Secondo un’altra ipotesi si tratta di un’opera frutto di una sovrapposizione
di testi scritti attribuibili a quattro autori, appartententi a tempi diversi:
l’autore più antico sarebbe appunto un Giovanni diacono che scrisse tra

50 È eloquente in questo senso il can. 156 attribuito al patriarca Niceforo (806-815): J.B

Pitra, Juris ecclesiastici graecorum historia et monumenta (Romae 1868) II 341 s: “il sacerdote
‘laico’ (laikós) che ha una moglie non può essere (padre) spirituale (pneumatikós)... né è op-
portuno che ascolti le confessioni”.
51 È comodamente consultabile nell’edizione di M. Arranz, I Penitenziali bizantini. Il Pro-

tokanonarion o Kanonarion primitivo di Giovanni monaco e diacono e il Deuterokanonarion


o “Secondo Kanonarion” di Basilio monaco (Kanonika 3; Roma 1993) 30-129, che a fronte
del testo greco pone la “difficile ma precisa traduzione” (11) di Jean Morin: Commentarius
historicus de disciplina in administratione sacramenti poenitentiae tredecim primis saeculis in
Ecclesia occidentali, et hic usque in orientali observata... authore Ioanne Morino Blesensi, Con-
gregationis Oratorii D.N. Iesu Christi Presbytero (Parisiis, sumptibus Gaspari Meturas, 1651),
seconda parte, Codicum manuscriptorum, poenitentialium, sacramentariorum, pontificalium,
divinorum officiorum, collectionum canonicarum, et eiusmodi librorum, qui disciplinam eccle-
siasticam spectant, interiorem et exteriorem, nondum editorum, e quibus testimonia opere prae-
cedente promuntur descriptio et enarratio..., pp. 101-117. Per comodità nelle note che seguono
citerò dalla traduzione latina, indicando le pagine del libro di Arranz.

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 47

il 546 e il 630. Sia il titolo52 che le dichiarazioni di intento dell’autore pre-


sentano l’opera come il tentativo di descrivere le qualità, le quantità e le
differenze dei peccati, con le rispettive penitenze che il confessore impone
al penitente53. In effetti l’opera contiene anche un prologo e un rituale della
confessione, con le interrogazioni da fare al penitente e la formula di re-
missione dei peccati.
Il prologo presenta una storia dell’economia del perdono divino, espres-
sione dell’amore di Dio per l’uomo (philanthropía), cominciando dall’Anti-
co Testamento, proseguendo con la venuta di Cristo e con la missione da
lui affidata agli Apostoli e proseguita dai loro successori54. La penitenza per
i peccati era dagli Apostoli stabilita nell’esclusione dalla comunione euca-
ristica per pochi o per molti anni, talvolta anche fino al punto di morte.
L’ultimo anello di questa catena è costituito dal “grande e sacro Basilio, ca-
nonista clementissimo’, che fu suscitato “tra i sette luminari della Chiesa”.
Egli diede ai peccatori ragione di speranza, poiché, facendosi strumento
della provvidenza di Dio, benigno amante degli uomini, ridusse della metà
la durata delle penitenze. Sulla scia di questi modelli si colloca l’autore
del kanonárion, anche per correggere un duplice errore dei confessori: per
imperizia o ignoranza, o anche per mala fede, talvolta essi mostrano un’i-
nopportuna severità e inclemenza, altre volte mostrano di applicare una
imprudente misericordia55.
In quest’opera, come nelle altre del suo genere, il termine tecnico che
designa il confessore è anadechómenos, parola greca che indica colui che
accoglie il penitente, ma anche colui che si sostituisce al penitente, o se ne
prende carico. Vediamo, infatti, che dopo la confessione e la preghiera di
remissione il confessore conforta il confitente affermando di “prendere su
di sé” tutti i suoi peccati56.
Lascio momentaneamente da parte la questione storica e dogmatica re-

52 “Canonarion sigillatim explicans pravos animi affectus morbosque et poenitentias his

convenientes, necnon quae de communione, cibo potu et oratione observanda sunt, clementer
admodum definiens” (ed. cit. 30 s.).
53 “Deo bono cooperante, viresque immittente iam incipiam particulatim describere quan-

titates, qualitates et differentias peccatorum...” (ed. cit. 48 s.).


54 Ed. cit. 30-49.
55 “Nonnulli in quos incidi, imperiti, adulatores, vel seipsos non cognoscentes, ignorante-

sque se per immane pelagus navigare, tam temere in illud sese proiecerunt ut alios secum pra-
ecipitarent. Non dico tantum hoc illis contigisse propter affectatam sanctitatem et accuratam
summamque mandatorum observationem, sed etiam propter clementiam, compassionem,
preposteram misericordiam, imperitiam, rusticitatem, unde cum imperite curarent magis
occiderunt quam curarut. Vel etiam hoc contigit propter perfectae animadversionis studium
utrisque se bene facere iudicantibus: cum ille severitatem et inclementiam praeposteram, iste
vero misericordiam imprudentem demonstrat...” (ed. cit. 40 s.).
56 “Tum ipsum (confitentem) erigit, et ut propriam animam amplectitur; si fieri potest

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48 orazio condorelli

lativa al fatto che il ministero penitenziale era anche esercitato da monaci


senza ordinazione presbiterale. Nel modello di confessione e di penitenza
privata che emerge da questo kanonárion è certamente venuta meno la di-
mensione pubblica e comunitaria della procedura, nella quale, attraverso
la separazione del penitente dagli altri fedeli, veniva messa in evidenza la
portata escatologica del peccato, cioè la morte e la dannazione del pecca-
tore. Non mi pare, tuttavia, che si sia perso il senso della dimensione ec-
clesiale in cui si colloca il sacramento della penitenza. È vero che l’autore
dell’opera si dichiara “monaco e diacono”, ma dal complesso del discor-
so appare chiaro che egli pone la penitenza nel quadro di una economia
divina culminante nell’azione di Cristo e nella missione da Lui data agli
Apostoli. Il fine della confessione non è tanto quello del perfezionamento
spirituale, ma quello di propiziare il perdono divino, come testimonia la
presenza di una formula (deprecativa) di remissione57: e tale preghiera a
Dio, affinché perdoni i peccati del confitente, è evidentemente pronunciata
prima che il peccatore esegua le epitimie assegnategli. L’autore, inoltre,
assimila ripetutamente l’opera del confessore a quella del medico spiritua-
le, ma la qualifica anche come “giudizio”58. E non manca il riferimento al
potere di legare e sciogliere59.

4. Immagini della penitenza: alla ricerca dei fondamenti comuni

Questi sviluppi storici, sia pur sommariamente tracciati, mostrano che


il percorso che conduce dalla penitenza pubblica alla penitenza privata
appare, nelle principali linee di tendenza e nel risultato finale, analogo
nell’Occidente latino come nell’Oriente bizantino. La dimensione pubblica
cede il posto alla dimensione privata, ma la penitenza rimane comunque
intesa come un sacramento di riconciliazione nel quale la Chiesa, adem-
piendo una missione ricevuta da Cristo, attraverso i sacerdoti svolge un

manum suam ipsius collo imponit, ipsi dicens: Haec omnia, frater, ab hac hora sint super me,
praesertim si eum conspexerit intollerabili aliqua trititia submersus (ed. cit. 116-119).
57 “Deus, qui propter nos homo factus est, et totius mundi peccata portavit: omnia haec,

frater, quae <coram eo> indignitati meae confessus es, benignitate sua maxima boni consulat,
omnia tibi condonans in hoc saeculo et in futuro, qui vult, sustinet et donat omnibus salutem,
quique est benedictus in saecula. Amen” (ed. cit. 116 s.).
58 Ed. cit. 40 s.; 44 s.
59 Nella prima parte della conclusione: “Haec sunt poenitentiarum definitiones quae a

me impositae sunt et imponuntur, parvarum equidem, quaeque veniam facile concedunt; sed
istius discretionis auxilium nobis suppeditavit magnus Basilius... Cui autem Dei clementia
potestatem credidit solvendi et ligandi, si humaniore gratia uti velit, auctoritatem habet, cum
viderit confessionis et poenitentiae peccatoris excessum, minuenti poenaum tempus, nec ideo
erit condemnationi obnoxius” (ed. cit. 120 s.).

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 49

ministero di intercessione tra il fedele e Dio. Vi sono alcune fonti cano-


niche e teologiche nelle quali sono individuate e rappresentate, in modo
particolarmente eloquente, le strutture essenziali della penitenza, per come
la Chiesa ne ha assunto consapevolezza in diversi momenti della storia. A
queste fonti occorre adesso volgere lo sguardo.
Vi è un testo bizantino nel quale i caratteri essenziali della penitenza
e i fondamenti del potere della Chiesa di rimettere i peccati sono definiti
in modo mirabile. Mi sembra, e tenterò di dimostrarlo, che questo testo
esprima, sia pure con alcuni accenti tipici della spiritualità e della tradizio-
ne canonica orientali, convinzioni comuni e proprie della Chiesa cattolica.
Mi riferisco, ovviamente, al can. 102 del Concilio Trullano (692), che è co-
munemente considerato una sintesi della dottrina patristica orientale sul
sacramento della penitenza. Il testo, notissimo, rappresenta la penitenza
come medicina dell’anima e il sacerdote come medico chiamato ad appli-
care il rimedio appropriato alla malattia da curare. Nel compiere questo
ministero di guarigione il sacerdote deve svolgere un accurato esame del
malato e della sua malattia, cioè del peccatore, delle sue disposizioni e dei
suoi peccati, e secondo le circostanze deve scegliere e dosare la medicina
sapendosi muovere con equilibrio tra gli estremi del rigore e della mise-
ricordia60. È per questa concezione del peccato come malattia dell’anima

60 Concilio Trullano, c. 102 [Les canons des conciles oecuméniques, ed. P.-P. Joannou ed.

(Pontificia Commissione per la redazione del codice di di­ritto cano­nico orien­tale. Fonti. Fasc.
IX: Discipline générale antique [IIe IXe s.], t. I pars I; Grottaferrata 1962) 239-241: per comodità
riporto il testo nella traduzione latina di Joannou, che offre anche una traduzione in francese]:
“Quod dispositione, peccatoris, peccatique speciem examinare oportet. Oportet autem eos qui
solvendi et ligandi potestatem a Deo accepere, peccati qualitatem considerare et eius qui pec-
caverit promptum ad conversionem studium, et sic morbo convenientem afferre medicinam,
ne, si in utroque immoderatione utatur, a salute morbo laborantis excidat; non enim simplex
est morbus peccati, sed varius et multiformis et multas incommodi propagines germinans, ex
quibus malum multum diffunditur et ulterius progreditur, donec viribus medentibus repri-
matur. Quare qui medicinae scientiam in spiritu profitetur, oportet eum primum peccatoris
affectionem considerare, et utrum vergat ad sanitatem, an contra propriis moribus provocet
in se morbum, aspicere, et quomodo vitae conversationem intercedenti tempore ordinet, et si
artifici non reluctetur, et ulcus anime augeatur per impositorum medicamentorum adiectio-
num: sicque tandem ei misericordiam, prout dignus est, impertiri. Omnem enim rationem init
Deus et is cui pastoralis traditus est principatus (tèn poimantikèn hegemonían), ut errantem
ovem reducat, et vulnerato a serpente medeatur, et neque per desperationis praecipitia impel-
lat, nec ad vitae dissolutionem et contemptum fraena relaxet; sed una quidem omnino ratione,
sive per acriora et adstringentia, sive per mollioria et leniora medicamenta, affectioni resistat
et pro ulceris obductione adnitatur, fructus penitentiae examinans et sapienter dispensans
et gubernans hominem qui ad superiorem illuminationem vocatur. ‘Nos enim utraque scire
oportet, et quae summi iuris sint, et quae consuetudinis; in iis autem qui extrema non admit-
tunt, formam traditam’, sequi quemadmodum sanctus nos docet Basilius”. Una traduzione
inglese può leggersi in The Council in Trullo Revisited, edd. G. Nedungatt - M. Featherstone
(Kanonika 6; Roma 1995) 183-185. Nella conclusione il can. 102 contiene un richiamo al c.

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50 orazio condorelli

e per questa rappresentazione del pastore come medico che solitamente


il canone è richiamato dalla dottrina canonistica e teologica. Ma il testo
è altrettanto netto e significativo nel fatto di qualificare i ministri della
penitenza come coloro ai quali da Dio è stata conferita la potestà di legare
e sciogliere (exousían lýein kaì desmeîn), o, in altro modo, come coloro ai
quali è stato affidata “l’autorità pastorale” (tèn poimantikèn hegemonían).
Dunque, il ministero della remissione dei peccati è concepito come mi-
nistero ecclesiastico connesso con il potere delle chiavi: per esprimere il
concetto con terminologia tipicamente latina, è connesso con un “potere
giurisdizionale”. I due aspetti emergenti dalla lettura del canone trullano
meritano qualche approfondimento.

4.1. Penitenza come medicina dell’anima


La concezione della penitenza come una terapia appropriata che il me-
dico spirituale deve applicare al peccatore per procurarne la guarigione
trova ampio sviluppo già nell’età antica, ed è un aspetto nel quale tradizio-
ne latina e tradizione bizantina concordano pienamente. Qui può bastare
qualche esemplificazione attraverso il richiamo ad alcune fonti canoniche
orientali ed occidentali.
Tale concezione trova i suoi fondamenti nelle stesse parole di Cristo ri-
portate da Matteo (9.12-13): “Non est opus valentibus medico sed male ha-
bentibus”, e, poco appresso, “Non enim veni vocare iustos sed peccatores”.
Essa trova già amplissimo spazio negli scritti pseudoapostolici dei secoli
III e IV. La Didascalia degli Apostoli prima e poi le Costituzioni apostoliche
indulgono in vari luoghi e insistentemente in questa metafora. Mi limito a
ricordare un paio di passi delle Costituzioni. Il ruolo di medico delle anime
è compreso all’interno del ministero pastorale del vescovo: “Poiché tu sei
medico della Chiesa del Signore, offri cure adatte a ciascuno dei malati, in
ogni modo cura, guarisci e restituiscili in buona salute nella Chiesa. Pasci
il gregge, non da padrone e con durezza (Ez. 34.4), essendo autoritario (cfr.
Mt. 20.25), ma come buon pastore, che raccoglie al suo seno gli agnelli e
tratta con riguardo le pecore gravide (Isaia 40.11)”61. Compassione e mise-

3 di S. Basilio (CPG 101), dove si distingue ciò che è stabilito con rigore (akríbeia) da ciò che
è stabilito per consuetudine (synétheia). Ma la tradizione manoscritta del c. 102 (non del ca-
none basiliano) riporta anche sympátheia, cioè misericordia, come nota anche Balsamon (PG
137.869 s.). Tale distinzione, da applicare al peccato e al peccatore secondo le rispettive quali-
tà e disposizioni, compete al pastore, al quale è stato attribuito il potere di legare e sciogliere.
Analizzando tale distinzione Zonaras la scioglie secondo le due accezioni, che nel suo discorso
sembrano equivalenti. Tra acribia e misericordia, da un lato, e tra acribia e ciò che richiede la
consuetudine, cioè il “costume provato e confermato dal decorso del tempo, il quale, infatti,
sia i divini canoni che le leggi civili dispongono abbia forza di legge” (ibidem 873 s.).
61 Costituzioni Apostoliche, II.20.11 (ed. Metzger, I 204 s.). Sulla scia di Didascalia, II.20.11

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 51

ricordia devono guidare l’azione del vescovo. Solo quando la malattia avrà
manifestato il suo aspetto incurabile, allora occorrerà tagliare il membro
putrefatto, “per evitare che si corrompa il corpo intero della Chiesa”62.
Questa concezione, basata sul fondamento evangelico, trova ampio svi-
luppo nel pensiero dei Padri, che con la loro autorità daranno permanente
sostegno alla tradizione teologica e canonica bizantina. Ascoltiamo, per
esempio, la voce di Gregorio di Nissa († ca. 395). La sua Epistola canonica
a Letoio, vescovo di Melitene, è intesa a definire le epitimie quali rimedi
appropriati alle diverse infermità spirituali. Nel prologo leggiamo: “Così
come a proposito della malattia corporale la medicina non ha che un fine,
di guarire il malato, ma il modo della cura è differenziato, visto che secon-
do la varietà delle malattie a ciascuna di esse è applicato il metodo terapeu-
tico adatto; così, a proposito della malattia dell’anima, essendo grande la
varietà delle passioni, necessariamente multiformi saranno anche i mezzi
di terapia, al fine di operare la guarigione conformemente alle specie delle
passioni”63. Il peccato si presenta come un atto della passione (páthos) che
necessita di cura. La guarigione è possibile se il medico conosce l’anima e
le sue attività. A questo proposito Gregorio distingue le tre parti dell’ani-
ma — razionale, concupiscibile, irascibile64 — all’interno delle quali i di-
versi peccati sono generati. All’esclusione dalla comunione per periodi più
o meno lunghi si accompagna talvolta una penitenza intesa appunto come
cura per un vizio dell’anima. Per esempio, con riferimento al furto semplice
Gregorio stabilisce che, quando il peccatore confessa il suo peccato, dovrà
guarire dalla malattia applicandosi all’atto opposto al suo vizio: donerà ciò
che può ai poveri e mostrerà, attraverso l’abbandono di ciò che possiede,
che si è purgato dal male della cupidigia. Se non possiede nulla e non ha
che il suo corpo, dovrà seguire il precetto indicato dall’apostolo Paolo, il
quale ordina di guarire il vizio in questione con il lavoro personale: “Chi è
avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente
con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità” (Ef. 4.28)65.
I periodi di scomunica sacramentale definiti nei canoni penitenziali
sono lunghi e a volte lunghissimi. Per esempio, Basilio prevede una peni-
tenza di sette anni per chi ha commesso atti di fornicazione66 e di venti anni

[Didascalia et Constitutiones Apostolorum, ed. F.X. Funk, I-II (Paderborn 1905, ristampa To-
rino 1959) I 76].
62 Costituzioni Apostoliche, II.41.5-9 (ed. Metzger, I 272-276), in particolare II.41.7 per il

passo citato. Cfr. già Didascalia, II.41.3-9 (ed. Funk I 130-132).


63 Gregorio di Nissa, Epistola canonica a Letoio, prologo (CPG 204 s.).
64 Gregorio di Nissa, Epistola canonica a Letoio, prologo (CPG 205-209).
65 Gregorio di Nissa, Epistola canonica a Letoio, can. 6 (CPG 220-224).
66 Basilio di Cesarea, can. 59 (CPG 146 s.).

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per chi commetta omicidio volontario67. Ma si consolida il principio che i


medici dell’anima — che sono i vescovi, “economi della penitenza” — han-
no il potere e il dovere di attenuare le penitenze, se e quando ciò sia oppor-
tuno. San Basilio enuncia il principio che la guarigione dalla malattia del
peccato si determina non per la durata, ma per il modo della penitenza,
quando coloro ai quali Dio ha conferito il potere di legare e sciogliere con-
statano la verità e la profondità del pentimento del peccatore68. E ancora,
Basilio afferma la necessità di conoscere e percorrere sia la via della stretta
osservanza (akribeía) che quella della consuetudine / misericordia69. Gli fa
eco Gregorio di Nissa: è opportuno e giusto abbreviare talvolta i tempi della
penitenza, “perché, se è proibito gettare le perle ai porci, è anche assurdo
privare della perla preziosa colui che è ridivenuto uomo per la purezza e il
dominio delle passioni”70.
Alla base di tutto ciò sta la convinzione, mirabilmente espressa da Gio-
vanni Cristostomo, che il sacramento della penitenza è il luogo nel quale si
incontrano la conversione (metánoia) del peccatore con la philanthropía di
Dio. Per questo il Santo può esprimere la certezza che la vera conversione,
anche di colui che ha trascorso una vita in mezzo ai peccati, procura la sal-
vezza. La malizia umana e il peccato sono limitati, mentre l’amore di Dio e
la potenza della sua “divina medicina” sono illimitati71.
Come accennato, questa concezione, che ha così intensamente caratte-
rizzato la tradizione orientale della penitenza, può veramente dirsi patri-
monio comune della Chiesa cattolica. Nell’Occidente latino essa matura
nell’età dei Padri e trascorre, attraverso i secoli dell’alto medio evo, nel
nuovo millennio. L’idea della penitenza come medicina è familiare, per
esempio, a Tertulliano72, Ambrogio73 e Agostino74. Nella letteratura dei pe-
nitenziali la concezione della penitenza come medicina dell’anima e dei
confessori come medici spirituales trova il suo massimo campo di diffusio-
ne. Talvolta la metafora assume degli accenti tali che sembra quasi di leg-
gere delle fonti orientali scritte in lingua latina, come per esempio accade
nel Penitenziale di San Colombano75. L’ultimo esemplare della letteratura

67 Basilio di Cesarea, can. 56 (CPG 144 s.).


68 Basilio di Cesarea, can. 74 (CPG 151).
69 Basilio di Cesarea, can. 3 (CPG 100 s.).
70 Gregorio di Nissa, Epistola canonica a Letoio, can. 4 (CPG 215 s.).
71 Giovanni Crisostomo, De paenitentia, Homilia VIII (PG 49.337).
72 Tertulliano, De paenitentia VII.13: medicina iteranda (PL 1.1352).
73 Ambrogio, De paenitentia II.6, n. 48: paenitentiae medicina (PL 16.509).
74 Molteplici ricorrenze: si veda per esempio il passo dell’Epistola 153.7, citato sopra, nota

19.
75 “Diversitas culparum diversitatem facit poenitentiarum; nam et corporum medici di-

versis medicamentia generibus componunt. Aliter enim vulnera, aliter morbos, aliter tumo-

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penitenziale occidentale può dirsi il Corrector sive medicus di Burcardo


di Worms (1008/1012). Si tratta del libro XIX del suo Decretum, al quale
l’autore volle dare una titolazione autonoma: “Liber hic Corrector voca-
tur et medicus, quia correctiones corporum et animarum medicinas plene
continet...”76.
Abbiamo visto come nell’Oriente bizantino la descritta concezione della
penitenza sia stata recepita nel can. 102 del Concilio Trullano, trovando
dunque espressione all’interno della stessa legislazione canonica. Altrettan-
to deve dirsi dell’Occidente latino, solo che si pensi al più importante testo
normativo sulla penitenza del medioevo canonico latino. Mi riferisco al ca-
none Omnis utriusque sexus, promulgato nel Concilio Lateranense IV tenu-
to sotto il pontificato di Innocenzo III (1215), e poi rifluito nel Liber Extra
di Gregorio IX77. Nel canone, come si è accennato, è introdotto l’obbligo,
per i fedeli giunti all’età della discrezione, di confessare i peccati al proprius
sacerdos almeno una volta l’anno78. Il ruolo del sacerdote confessore è de-

res, aliter livores, aliter putredines, aliter caligines, aliter confractiones, aliter combustiones
curant. Ita igitur etiam spirituales medici diversis curationum generibus animarum vulnera,
morbos, culpas, dolores, aegritudines, infirmitates sanare debent...”: Wasserschleben, Die
Bussordnungen der abendländischen Kirche, cit., 355 (prologo del cosiddetto. Penitenziale B).
76 Burcardo di Worms, Decretum, Lib. XIX, incipit: “... et docet unumquemque sacerdo-

tem, etiam simplicem,quomodo unicuique succurrere valeat, ordinato vel sine ordine, pau-
peri, diviti, puero, juveni, decrepito, sano, infirmo, in omni etate et in utroque sexu” (PL
140.949).
77 Cito dalle Decretales di Gregorio IX, 5.38.12, de poenitentiis et remissionibus (mio il cor-

sivo con il quale intendo evidenziare i concetti sviluppati nel testo): “Omnis utriusque sexus
fidelis, postquam ad annos discretionis pervenerit, omnia sua solus peccata saltem semel in
anno fideliter confiteatur proprio sacerdoti, et iniunctam sibi poenitentiam propriis viribus
studeat adimplere, suscipiens reverenter ad minus in Pascha eucharistiae sacramentum, nisi
forte de proprii sacerdotis consilio ob aliquam rationabilem causam ad tempus ab huiusmodi
perceptione duxerit abstinendum; alioquin et vivens ab ingressu ecclesiae arceatur, et moriens
Christiana careat sepultura. Unde hoc salutare statutum frequenter in ecclesiis publicetur, ne
quisquam ignorantiae caecitate velamen excusationis assumat. Si quis autem alieno sacerdoti
voluerit iusta de causa sua confiteri peccata, licentiam prius postulet et obtineat a proprio
sacerdote, quum aliter ipse illum non possit absolvere vel ligare. Sacerdos autem sit discretus
et cautus, ut more periti medici superinfundat vinum et oleum vulneribus sauciati, diligenter
inquirens et peccatoris circumstantias et peccati, quibus prudenter intelligat, quale debeat ei pra-
ebere consilium, et cuiusmodi remedium adhibere, diversis experimentis utendo ad salvandum
aegrotum. Caveat autem omnino, ne verbo aut signo aut alio quovis modo aliquatenus prodat
peccatorem. Sed, si prudentiori consilio indiguerit, illud absque ulla expressione personae
caute requirat, quoniam, qui peccatum in poenitentiali iudicio sibi detectum praesumpserit
revelare, non solum a sacerdotali officio deponendum decernimus, verum etiam ad agendam
perpetuam poenitentiam in arctum monasterium detrudendum”.
78 In questa determinazione preoccupazioni di carattere pastorale convergono con lo sco-

po di controllare e reprimere la diffusione delle eresie. Si noti che l’obbligo di confessare i


peccati gravi almeno una volta l’anno è infine rifluito nel diritto codificato latino (can. 989/
CIC 1983). Tale prescrizione positiva non è invece stabilita dal diritto comune delle Chiese

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scritto in termini che, sia nei concetti che nei moduli espressivi, appaiono
del tutto consonanti con la tradizione sviluppata in Oriente: “Il sacerdote,
d’altra parte, sia discreto e cauto, affinché, al modo di un medico esperto,
versi vino e olio sulle ferite di chi è piagato, esaminando con diligenza le
circostanze sia del peccatore che del peccato, attraverso le quali apprenda
quale consiglio debba dargli e quale tipo di rimedio debba apprestare, fa-
cendo diverse prove al fine di salvare il malato”. Gli intepreti sviluppano
il filo della metafora e ne colgono i simbolismi più riposti. Secondo En-
rico da Susa († 1271), il sacerdote, quale ministro della confessione, è un
medico spirituale che deve guarire il peccatore dalle infermità e seguire
le tradizioni dell’arte canonica79. Il vino e l’olio significano gli estremi del
rigore e della misericordia, tra i quali il sacerdote deve saper muoversi
con equilibrio: non deve essere troppo rigido, perché il peccatore potrebbe
terrorizzarsi e allontanarsi dalla penitenza, né troppo benevolo, perché la
giustizia rischierebbe di svanire, ma deve sapere mescolare l’uno e l’altro
rimedio apponendo un medicamento idoneo a procurare la guarigione80.

4.1.1. La questione del valore terapeutico o satisfattorio delle penitenze/


epitimie
Con il tema del carattere terapeutico della penitenza si connette un’altra
questione agitata nella dottrina, cioè quella del valore delle penitenze o
epitimie. Si suole ripetere che la visione orientale e ortodossa delle epitimie
è quella di atti di natura terapeutica o pedagogica, e che in questa visione
si manifesterebbe una delle più evidenti differenze fra la tradizione bizan-
tina e quella latina. Nella teologia ortodossa contemporanea questo fatto
sembra essere sottolineato quasi per amore di distinzione o addirittura di
opposizione, e presso gli studiosi di parte cattolico-romana l’asserita diffe-
renza è solitamente sottolineata senza particolari approfondimenti.
Nella concezione latina la penitenza è inclusa nel concetto di soddisfa-
zione, quale atto, o complesso di atti di riparazione per il peccato commes-
so, attraverso i quali il peccatore guadagna, per così dire, la remissione dei

orientali cattoliche (can. 719/CCEO), in quanto estranea alla loro tradizione. Il canone, pur
raccomandando la confessione frequente, si esprime dicendo: “qui gravis peccati sibi conscius
est, quam primum fieri potest, sacramentum paenitentiae suscipiat...”.
79 Enrico da Susa, Lectura in X.5.37.12, v. periti medici, n° 25 [Henrici de Segusio Car-

dinalis Hostiensis... in Primum (etc.) Decretalium librum Commentaria, I-II (Venetiis, apud
Iuntas 1581) II fol. 102va]: “medicus enim est spiritualis, unde et infirmitates servare habet et
traditiones artis canonice sequi...”.
80 Enrico da Susa, Lectura in X.5.37.12, v. vinum et oleum, n° 25 (ed. cit., I fol. 102va-

b): “id est rigorem et misericordiam, q.d. nec ex toto rigidus sit, ne peccator terreatur, vel a
penitentia avertatur, nec ex toto misericors, ne iustitia dissolvatur, sed utrunque miscendo
emplastrum salubre apponat...”.

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peccati. L’origine della parola è giuridica, e in effetti nel diritto romano


satisfactio è equivalente a solutio81, cioè esprime il concetto della soluzione
di un debito. È noto che nella Doctrina de sanctissimis poenitentiae et extre-
mae unctionis sacramentis formulata dal Concilio di Trento la soddisfazio-
ne è compresa tra le parti del sacramento della penitenza. Essa è imposta
dal confessore al penitente non solo “ad novae vitae custodiam et infirmi-
tatis medicamentum, sed etiam ad praeteritorum peccatorum vindictam
et castigationem”82. Ora, la questione è di vedere se tale concezione della
soddisfazione come rivolta sia al passato (vendetta, castigo e riparazione)
che al presente e al futuro (medicina) sia estranea alla tradizione orientale.
Più sopra abbiamo visto come a partire dal secolo XII nella riflessio-
ne teologica latina sia stato posto in evidenza il carattere espiatorio della
stessa confessione, per la vergogna che essa genera nel confitente. Questo
valore continua ad essere sottolineato, insieme ad altri aspetti, anche nella
tradizione canonica, come testimonia alla metà del secolo XIII Enrico da
Susa commentando il canone Omnis utriusque sexus83. Ma i canonisti latini
sono anche molto attenti, in effetti, a evidenziare un importante aspetto
giuridico della satisfactio come parte della penitenza. Mi riferisco al tema
della restitutio ablati, cioè della restituzione della cosa ingiustamente sot-
tratta sulla quale la dottrina canonistica si sofferma riflettendo sulle parole
di Agostino tramandate nel Decretum di Graziano: “Si res aliena, propter
quam peccatum est, reddi possit, et non redditur, penitentia non agitur,
sed simulatur. Si autem veraciter agitur, non remittetur peccatum, nisi re-
stituatur ablatum; si, ut dixi, restitui potest...”84. Teologi e canonisti elabo-
rano un concetto di restitutio che va ben oltre la materiale restituzione di
una cosa ingiustamente sottratta, ma che si amplia fino a significare, in
termini generali, una ricomposizione dell’equilibrio svonvolto dall’azione
delittuosa e peccaminosa. Nel discorso dei giuristi il principio enucleato
da Agostino diviene una vera e propria regula iuris, che da Bonifacio VIII
fu inserita nel titolo de regulis iuris con cui si conclude il Liber Sextus:
81 D.46.3.52, Ulpianus libro 14 ad edictum: “Satisfactio pro solutione est”.
82 Concilio di Trento, Sessio XIV, 25 novembre 1551, Doctrina de sanctissimis poenitentiae
et extremae unctionis sacramentis, Cap. VII, de satisfactionis necessitate et fructu (COD 709).
83 Enrico da Susa, Lectura in X.5.38.12, v. si prudentiori consilio, nn° 34-37 (ed. cit., II fol.

103ra): “... valet enim confessio propter erubescentiam, et propter fidem quam peccator in
confessione exercet: quia per hoc ostendit se credere absolvendi et ligandi datam sacerdoti-
bus potestatem, XXIIII q. I Quodcunque. Valet et propter humilitatem et obedientiam, quam
exhibet mandatis Dei, dum flectendo genua et iungendo manus humiliat se peccator coram
sacerdote. Valet et propter gratiam, que ei confertur, maxime per manus impositionem... et
quia quasi impossibile est, quin Deus respiciat frequenter confitentem. Valet et propter inter-
dictorum et amissorum recuperationem: quia sacerdos reconciliat divine gratie et restituit
peccatorem ad sacramentorum participationem...”.
84 Decretum Gratiani, C. 14 q. 6 c.1: tratto da Agostino, Epistola 153 (PL 33.662).

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peccatum non dimittitur nisi restituatur ablatum. Anche per queste ragioni
i canonisti pongono una certa enfasi sul carattere satisfattorio della peni-
tenza imposta dal sacerdote. Sempre Enrico da Susa, soffermandosi sul
tema della satisfactio, afferma che essa può consistere in una dazione di
denaro o in altro. E ha cura di precisare al lettore che la restituzione delle
cose male acquisite, o il risarcimento dei danni arrecati ad altri, deve essere
pienamente (omnino) fatta a coloro che sono stati lesi dall’azione peccami-
nosa. Di questa restitutio — precisa — i sacerdoti non possono fare grazia
al confitente, e ciò perchè si tratta di una esigenza di giustizia, e perché il
peccato, appunto, non può essere rimesso nisi restituatur ablatum85. Dove
non si ponga un problema di restitutio, invece, il confessore ha la facoltà di
infliggere una penitenza che comunque tenga conto della contrizione del
peccatore, perché la grandezza del dolore vale più del tempo della peniten-
za, e la mortificazione dei vizi vale più della astinenza dai cibi86. Concetto
che, come abbiamo visto sopra, è ampiamente presente nella tradizione
orientale.
Vi sono fatti ed argomenti che inducono a dire che l’idea della peniten-

85 Enrico da Susa, Lectura in X.5.38.12, v. si prudentiori consilio, n° 35 (ed. cit., II fol.


103ra): “Sequitur satisfactio, que est sacerdotis arbitrio imponenda, ut legitur et not. supra
eod. Significavit. Hec quandoque consistit in pecunia, quandoque in aliis. Tu tamen scias,
quod restitutio male acquisitorum vel damnorum datorum sive iniuriarum irrogatarum om-
nino facienda est lesis, si reperiantur, de quo sacerdotes non possunt gratiam facere, quia nec
dimittitur peccatum etc., quod dic ut legitur et not. supra de usuris Cum tu § I”. Nella Summa
Decretalium (cronologicamente anteriore alla Lectura) lo stesso Enrico da Susa aveva dato
una definizione di satisfactio maggiormente aderente agli schemi tipici delle summae de pae-
nitentia: “ Quis sit effectus vere penitentie: sed dici potest quod satisfactio in duobus consistit,
scil. in eleemosyne largitione et carnis maceratio... Eleemosyna triplex est. Prima consistit in
cordis contritione... Secunda consistit in compassione proximi... Tertia consistit in fide viva,
sive dilectione non ficta et charitate operosa: quando scil. quandocunque et qualitercunque
damus consilium vel auxilium proximo indigenti. Ergo nedum consistit in rerum largitione,
sed etiam in consilio advocationis et cura tam spirituali quam corporali... Carnis maceratio
consistit in quatuor, scil. in orationibus, vigiliis, ieiuniis, flagellis...” (Summa Aurea, lib. V, de
penitentiis et remissionibus, n° 51, ed. cit. col. 1814). Non di meno, nella stessa summa il tema
della restitutio ablati è oggetto di una trattazione molto ampia (ivi, nn° 61-62, col. 1844-1865):
“Quibus et qualiter et a quibus et in quantum facienda est restitutio male acquisitorum. Bre-
viter respondeas quos damnum passis, vel heredibus sive successoribus eorum, si extant. Ab
his qui damnum dederunt, vel heredibus eorum. Et in solidum si facultas suppetit, facienda
est restitutio, alioquin frustratoria est penitentia, quia secundum Augustinum non dimittitur
peccatum nisi restituatur ablatum...”(n° 61, col. 1844).
86 Enrico da Susa, Lectura in X.5.38.12, v. si prudentiori consilio, n° 36 (ed. cit., II fol.

103ra): “In aliis vero arbitrari potest sacerdos contritione considerata, quia plus valet apud
Deum mensura doloris, quam temporis, et mortificatio vitiorum, quam abstinentia ciborum,
de penitentia dist. I Mensuram”. Il canone allegato in fine si trova nel Decretum Gratiani, de
paenitentia D. 1 c. 86, dove è attribuito a Gerolamo. In verità è un testo spurio; a margine
dell’edizione romana del Decretum i Correctores notano che il concetto ricorre anche in altre
fonti, fra cui citano la lettera di Basilio ad Anfilochio.

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 57

za come castigo ed espiazione non sia estranea alla tradizione bizantina,


anche se le fonti canoniche e teologiche pongono una particolare enfasi
sul carattere medicinale delle epitimie. In linea generale, mi sembra che
l’accentuazione di tale carattere debba appunto essere presa come tale, cioè
come una accentuazione, e non come una esclusione di aspetti o caratte-
ri diversi. Ritorniamo, ad esempio, al caso, menzionato poco sopra, della
penitenza stabilita da Gregorio di Nissa per chi abbia commesso un furto.
L’aspetto terapeutico risulta evidente anche per l’affermazione del princi-
pio che ha guidato l’individuazione della penitenza: la guarigione si ottiene
attraverso comportamenti contrari a quelli peccaminosi commessi. Il la-
dro dovrà dunque abbandonare tutto ciò che possiede e donarlo ai poveri,
perché solo così potrà guarire dalla malattia della cupidigia. Mi sembra
che qui Gregorio parli come teologo morale e si muova in una prospettiva
propriamente “profetica”, indicando la via della perfezione all’uomo che
veramente intende purificarsi delle sue malvagie passioni. Non mi sembra,
invece, che egli intenda negare un carattere espiatorio alla penitenza, o
escludere il debito di giustizia che, nell’esempio concreto, il ladro ha nei
confronti di colui al quale ha sottratto il bene. Per lo stesso Gregorio di
Nissa, inoltre, le epitimie hanno anche una funzione di prevenire una ri-
caduta nel male: nel can. 5 della Epistola canonica egli parla delle peniten-
ze stabilite dai Padri per il peccato di omicidio definendole un “presidio”
(paraphylakè)87.
Abbiamo visto che il can. 13 del Concilio di Nicea (325) sanciva il di-
ritto del peccatore di ricevere la comunione in punto di morte. La norma
prevede anche che chi sia stato così assolto sia però tenuto a compiere
la penitenza nel caso di sopravvivenza. Condivido l’interpretazione di chi
ritiene che tale previsione supponga un’idea di penitenza che sia diretta,
oltre che alla guarigione della malattia dell’anima, anche all’espiazione e
alla riparazione del male commesso.
Non mancano, come si è visto nel caso di Gregorio di Nissa, anche indizi
testuali. Sozomeno, per esempio, nel descrivere il sistema della penitenza
pubblica in vigore a Roma, afferma che il peccatore, concluso il tempo sta-
bilito, “come dopo avere adempiuto un debito” si presenta al vescovo per
essere assolto dal peccato88.
In sostanza, mi sembra che nella tradizione bizantina l’indubbio rilievo
attribuito alla funzione terapeutica delle epitimie non valga comunque a
cancellare una serie di altre finalità quali il castigo per il male compiuto, la
riparazione del danno, la prevenzione dai mali futuri. Che il panorama sia
più vario di come solitamente è presentato, è un dato che emerge chiara-
87 Gregorio di Nissa, Epistola canonica a Letoio (CPG 217).
88 Sozomeno, Storia ecclesiastica, lib. VII c. 16 (PG 67.1461 s.).

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mente dalle parole di Marco Eugenico, metropolita di Efeso, pronunciate


nel Concilio di Firenze durante le discussioni sulla questione del Purgato-
rio. È noto che egli fu acerrimo nemico dell’unione, alla quale si rifiutò di
aderire, e certamente non può essere accusato di indulgere verso le posi-
zioni dei Latini. In una delle Responsiones ad quaestiones latinorum Marco
si applica a chiarire perché la Chiesa bizantina impone ai penitenti delle
“soddisfazioni” (epitimie)89. Marco afferma che così è per molte cause, e
in concreto ne enuncia cinque. La prima, affinché con la pena che riceve
volontariamente in terra il peccatore possa evitare una pena non voluta nei
cieli. La seconda, perché il dolore della penitenza vinca la propensione al
piacere del peccato, secondo il principio che contraria per contraria curan-
tur. In terzo luogo la penitenza è inflitta affinché costituisca un vincolo o
un freno per l’anima, al fine di non far commettere peccati nel futuro. La
quarta ragione è che la penitenza aiuta la virtù a perfezionarsi. La quin-
ta, infine, perché il fatto che il penitente accetti la penitenza fornisce una
prova della sua volontà di odiare il peccato. Le epitimie —  prosegue Mar-
co — non sono imposte a colui che si trova in punto di morte, poiché per
la remissione dei peccati è sufficiente che colui al quale Dio ha concesso il

89 Marco di Efeso, Responsiones ad quaestiones latinorum, n° 14 [ed. L. Petit, ‘Documents

relatifs au Concile de Florence. I. La question du purgatoire a Ferrare’, in Patrologia Orien-


talis, eds. R. Graffin – F. Nau, XV (Paris 1927) 167-168]. Riporto il testo nella traduzione
latina coeva, osservando in premessa che la parola “satisfactio” traduce il greco epitímion:
“Decimum quartum et ultimum quaesitum fuit, num paenitentibus satisfactiones irrogemus,
et cuius gratia. Dicimus igitur, peccatorum remissionem absolutionemque non prius a nobis,
pro facta a Deo potestate, impertiri, quam satisfactiones imponamus, sed remissionem neuti-
quam tribuimus nisi cum eiusmodi poenis. Sic agimus multis ex causis. Prima quidem est, ut
peccator per molestiam in terris ultro susceptam, illic invitam castigationem effugiat... Altera
est, ut carnis sensus ad voluptatem pronus, ex quo odium in Deum concipi omneque pecca-
tum produci consuevit, hac laboriosa methodo adhibita auferatur; nam contraria, ut aiunt,
per contraria curantur, et necesse est ut voluptas per dolorem evellatur. Tertia est, ut vinculi
ac fraeni instar animae sit satisfactio irrogata, ne eadem in posterum committantur delicta.
Quarta est, cum virtus natura sua laboriosa res sit, ille laboribus assuescat oportet, qui ad
eiusdem habitum pervenire voluerit, quemadmodum per voluptatem in peccatum lapsus est.
Quinta, ut paenitens irrogatam satisfactionem acceptando argumenta nobis prebeat, pror-
susne peccatum odio prosequatur. Atque hae quidem sunt satisfactionum rationes, et aliae
forsan complures. Quae omnia praetermittimus, si qui urgente fato prope fuerint ut corpore
solvantur, duo illa satis esse arbitrantes ad peccatorum remissionem, conversionem nimirum
paenitentis et sincerum virtutis colendae propositum. Quamobrem illa tum remittimus pro
facultate nobis concessa. Tum credimus a Deo condonari et quoad culpam ipsam et quoad
penam eorum causa luendam: ‘quaecumque enim, inquit, solveritis super terram, erunt so-
luta in caelis’. Qua fide freti divinum Eucharistiae donum eiusmodi moribundis impertimur;
siquidem ad bonam frugem se recipere et sinceram agere paenitentiam, penes animum est
eius qui peccavit; at satisfactionem actu perficere, penes iudicium Dei est, quo hominem clam
ex hac vita tollit...”.

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 59

potere di legare e sciogliere constati due cose, cioè la conversione del peni-
tente e il suo sincero proposito di coltivare la virtù.
Da questa testimonianza emerge chiaramente che l’idea della penitenza
come terapia, sebbene fortemente accentuata nella tradizione bizantina,
non appare essere esclusiva. Le parole di Marco di Efeso mostrano che
nella comune considerazione della dottrina bizantina l’epitimia era consi-
derata sia come un castigo per il male commesso, inflitto su questa terra
piuttosto che nella vita ultraterrena; sia come un rimedio per curare le
cattive disposizioni dell’anima ed educare alla virtù; sia come un presidio
preventivo diretto a frenare possibili ricadute nel peccato. In definitiva,
non mi pare che vi sia una opposizione tra la concezione della penitenza
come medicina, tipica dei Bizantini, e la visione della penitenza come sod-
disfazione, elaborata in particolar modo in Occidente. Piuttosto, le due tra-
dizioni mostrano una sostanziale concordia, sebbene abbiano accentuato
di volta in volta, usando linguaggi in parte diversi, aspetti differenti di una
concezione fondamentalmente unitaria, perché cattolica.

4.2. Penitenza e potere di legare e sciogliere: il confessore come giudice


Abbiamo visto come il can. 102 del Concilio Trullano, oltre a sviluppa-
re abbondantemente l’idea della penitenza come rimedio medicinale, con
chiarezza ricollega la remissione dei peccati a un ministero che la Chiesa
svolge attraverso coloro che da Dio hanno ricevuto la potestà di legare e
sciogliere, o, come ivi si specifica, l’autorità pastorale (tèn poimantikèn he-
gemonían). Anche in questo caso il canone non fa che esplicitare una con-
sapevolezza retrostante a tutta la disciplina della penitenza sacramentale,
sia in Oriente che in Occidente. La missione di rimettere i peccati è stata
affidata da Cristo agli Apostoli e ai loro successori, i vescovi.

4.2.1. Sviluppi dottrinali nella Chiesa latina


In un contesto storico parallelo a quello in cui veniva alla luce il cano-
ne del Concilio Trullano, questa consapevolezza appare altrettanto matura
nelle fonti della Chiesa latina. Verso la metà del secolo IV, per esempio, a
proposito della remissione dei peccati papa Leone Magno aveva parlato di
una traditio potestatis fatta da Cristo ai praepositi Ecclesiae90. Alla fine del
90 Leone I, Epistola 108, ad Theodorum Forojuliensem episcopum, c. 2 (PL 54.1111 s.):

“Multiplex misericordia Dei ita lapsibus subvenit humanis, ut non solum per baptismi gra-
tiam, sed etiam per penitentie medicinam spes vite reparetur eterne, ut qui regenerationis
dona violassent, proprio se iudicio condemnantes, ad remissionem criminum pervenirent:
sic divine bonitatis presidiis ordinatis, ut indulgentia Dei nisi supplicationibus sacerdotum
nequeat obtineri. Mediator enim Dei et hominum homo Christus Iesus hanc prepositis Ec-
clesie tradidit potestatem ut et confitentibus actionem penitentie darent et eosdem salubri
satisfactione purgatos ad communionem sacramentorum per ianuam reconciliationis admit-

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secolo VI, poi, sempre a proposito della penitenza Gregorio Magno non
solo poneva bene in luce il concetto di successione apostolica collegato alla
potestà di legare e sciogliere; ma configurava anche la penitenza come un
giudizio che si conclude con una sentenza (sententia) di assoluzione91. Sia-
mo di fronte a un inquadramento giuridico del sacramento della penitenza
che avrà ampio sviluppo nella tradizione teologica e giuridica della Chiesa
latina. Per sintetizzare il senso di questa evoluzione, l’autorità pastorale del
sacerdote ministro della penitenza si veste dei panni della iurisdictio e si
traduce nell’esplicazione di una funzione che si modella su quella giudizia-
le. Al capo estremo di questa linea tali concetti ebbero una formulazione
nella dottrina del Concilio di Trento, dove si afferma che l’assoluzione sa-
cerdotale non costituisce l’esecuzione del nudo ministero di dichiarare che
i peccati sono rimessi, ma si configura “ad instar actus iudicialis, quo ab
ipso velut a iudice sententia pronunciatur”92.
Per l’aspetto che qui ci interessa, occorre notare che il Concilio di Tren-
to tira le fila di una concettualizzazione che aveva avuto inizio nelle trat-
tazioni teologiche e canonistiche a partire dal secolo XII. Da quell’epoca
si era affermata l’idea che la remissione dei peccati non dipendeva solo
dall’esercizio della potestà di ordine, ma anche da una iurisdictio collegata
a un ufficio pastorale, a una cura animarum concretizzata attraverso la

terent. Cui utique operi incessabiliter ipse Salvator intervenit, nec umquam ab his abest que
ministris suis exsequenda commisit, dicens: Ecce ego vobiscum sum omnibus diebus usque
ad consummationem seculi (Mt 28.20)...”. Il brano è rifluito, attraverso collezioni intermedie,
nel Decretum Gratiani, de paenitentia D.1 c. 49.
91 Gregorio I, Homilia XXVI (a proposito di Giovanni 20.19-31), cc. 5 e 6 (PL 76.1200):

“Horum (cioè Apostolorum) profecto nunc in ecclesia episcopi locum tenent. Ligandi atque
solvendi auctoritatem suscipiunt, qui gradus regiminis sortiuntur. Grandis honor, sed grave
pondus istius est honoris. Durum quippe est ut qui nescit tenere moderamina vite sue iudex
fiat aliene... Cause ergo pensande sunt, et tunc ligandi atque solvendi potestas exercenda.
Videndum est que culpa precessit, aut que sit penitentia secuta post culpam, ut quos omnipo-
tens Deus per compunctionis gratiam visitat, illos pastoris sententia absolvat. Tunc enim vera
est absolutio presidentis, cum interni arbitrium sequitur iudicis”. La conclusione rifluisce nel
Decretum Gratiani, C. 11 q. 3 c. 62. La tradizione teologica e canonica intendono il passo non
nel senso che il sacerdote si limiti a ratificare un perdono già elargito da Dio. Cfr. per esempio
la glossa di Giovanni Teutonico, v. iudicis: “idest Dei. Hic vult dicere, quod sacerdos neminem
absolvet, nisi precesserit absolutio Dei, idest contritio”.
92 Concilio di Trento, Sessio XIV, 25 novembre 1551, Doctrina de sanctissimis poenitentiae

et extremae unctionis sacramentis, Cap. VI, de ministro huius sacramenti et absolutione (COD
707): “Docet quoque, etiam sacerdotes, qui peccato mortali tenentur, per virtutem Spiritus
Sancti in ordinationem collatam tanquam Christi ministros functionem remittendi peccata
exercere, eosque prave sentire, qui in malis sacerdotibus hanc potestatem non esse conten-
dunt. Quamvis autem absolutio sacerdotis alieni beneficii sit dispensatio, tamen non est so-
lum nudum ministerium vel annunciandi evangelium, vel declarandi remissa esse peccata,
sed ad instar actus iudicialis, quo ab ipso velut a iudice sententia pronunciatur”.

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missione canonica. Alla radice di questa concezione sta, immancabile, il


conferimento agli Apostoli della potestà di legare e sciogliere93.
Alla metà del secolo XII queste linee di sviluppo appaiono già traccia-
te nel Decretum di Graziano. Nella prima distinctio del Tractatus de pae-
nitentia (è la Causa 33 quaestio 3 dell’opera) egli dà ampio rilievo a una
questione che sarà dibattuta per tutto il secolo XII, cioè “utrum sola cordis
contritione, et secreta satisfactione, absque oris confessione quisque possit
Deo satisfacere”94. La trattazione si articola secondo lo schema scolastico
della quaestio: in una prima parte si dà spazio alle auctoritates che posso-
no essere portate a sostegno della risposta affermativa95, nella seconda ai
testi che invece conducono a sostenere l’opposto, cioè che la remissione
dei peccati passi attraverso la confessione dei peccati al sacerdote e l’im-
posizione di una congrua soddisfazione96. È vero che a conclusione della
distinctio Graziano sembra accontentarsi di avere adeguatamente svolto il
suo compito di magister, illustrando due posizioni divergenti ma entrambe
sostenute da “uomini sapienti e religiosi”97. Tuttavia mi sembra che lo svi-
luppo delle argomentazioni grazianee penda decisamente verso l’idea che
contritio, confessio e satisfactio sono momenti di un processo che conduce
alla remissione dei peccati attraverso il ministero della Chiesa, cioè dei
sacerdoti muniti della potestà di legare e sciogliere: “solis sacerdotibus li-
gandi solvendique potestas a Deo tradita est”98. Questo, tra l’altro, è il senso

93 Su questi aspetti è chiarissimo Raimondo di Peñafort: “Debet quiliber regulariter con-

fiteri sacerdoti, nam sacerdotibus dedit Dominus potestatem ligand et solvendi, cum dixit
Ioann. 21 (11 ed. male) Quorum remiseritis, etc., de paenitentia dist. 1 Verbum Dei. Non
tamen cuilibet sacerdoti; licet enim omnes sacerdotes aeque in ordinatione recipiant hanc
potestatem, ligata est tamen ita, quod non possunt eam exequi, nisi data sibi auctoritate et
potestate ab episcopo diocesano, vel ab apostolica sede...” [Summa de paenitentia, lib. III, tit.
24, De paenitentiis et remissionibus, § 14 (ed. cit., p. 448)].
94 Graziano, De paenitentia (C. 33 q. 3), D.1, dictum ante c.1.
95 Graziano, De paenitentia D.1, dictum post c. 30: “Luce clarius constat cordis contri-

tione, non oris confessione peccata dimitti”; e ancora, dictum post c. 36: “... Cum ergo ante
confessionem, ut probatum est, simus resuscitati per gratiam, et filii lucis facti, euidentissime
apparet, quod sola contritione cordis sine confessione oris, peccatum remittitur.
96 Graziano, De paenitentia D.1, dictum post c. 37: “Alii e contra testantur, dicentes sine

confessione oris et satisfactione operis neminem a peccato posse mundari, si tempus satisfa-
ciendi habuerit”.
97 Graziano, De paenitentia D.1, dictum post c. 89: “Quibus auctoritatibus, vel quibus ratio-

num firmamentis utraque sentencia confessionis et satisfactionis nitatur, in medium breviter


proposuimus. Cui autem harum potius adherendum sit, lectoris iudicio reservatur. Utraque
enim fautores habet sapientes et religiosos viros”.
98 Graziano, De paenitentia D.1, dictum post c. 60: “Ex his itaque apparet, quod sine con-

fessione oris et satisfactione operis peccatum non remittitur. Nam si iniquitates nostras ne-
cesse est, ut dicamus, ut postea iustificemur; si nemo potest iustificari a peccato, nisi antea
fuerit confessus peccatum; si confessio paradysum aperit, veniam acquirit; si illa solum con-
fessio utilis est, que fit cum penitencia (in quo notatur aliud esse confessio, aliud penitencia,

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complessivo che la glossa ordinaria del Decretum attribuisce allo svolgi-


mento del discorso grazianeo99.
La concezione che l’esercizio della potestà di legare e sciogliere debba
essere incanalata in un concreto ufficio ecclesiastico con funzioni pastorali
appariva già consolidata agli inizi del Duecento, ed ebbe una chiarissima
manifestazione nella legislazione del Concilio Lateranese IV (1215). Come
è noto l’assise si caratterizzò per un potente afflato pastorale: il regimen
animarum è dichiarato essere “l’arte delle arti”100. Fra i decreti di riforma
vi è il già menzionato Omnis utriusque sexus, che imponeva l’obbligo della
confessione annuale al proprius sacerdos, figura espressamente distinta da
quella dell’alienus sacerdos. Si diede così una solenne sanzione canonica
al fatto che la remissione dei peccati deve essere impartita da un sacerdo-
te competente per giurisdizione, e si regolò giuridicamente l’accesso alla
confessione a un alienus sacerdos: “Si quis autem alieno sacerdoti voluerit
iusta de causa sua confiteri peccata, licentiam prius postulet et obtineat a
proprio sacerdote, quum aliter ipse illum non possit absolvere vel ligare”.
I canonisti diedero un chiaro e inequivocabile inquadramento dottrina-
le della situazione. Enrico da Susa, per esempio, identifica il proprius sa-
cerdos con colui al quale è affidata la cura della chiesa parrocchiale. Egli
definisce la cura come “vigil et onerosa ac solicita custodia animarum”.
L’affidamento di tale cura al parroco dipende dalla missione canonica, atto
del quale il diritto canonico stabilisce la disciplina101. Solo in virtù della

siue interior siue exterior accipiatur); si ille, qui promittit veniam occulte apud Deum non
apud ecclesiam penitenciam agenti, frustrat evangelium et claves datas ecclesiae, promittit
etiam quod Deus negat delinquenti; si nemo potest consequi veniam, nisi quantulamcumque,
etsi minorem quam debeat, peccati soluerit penam; si solis sacerdotibus ligandi solvendique
potestas a Deo tradita est; si nullus veniam accipit, nisi ecclesiae supplicationibus ipsam in-
petrare contendat: concluditur ergo, quod nullus ante confessionem oris et satisfactionem
operis peccati abolet culpam”. E ancora si veda la risposta alle argomentazioni contrarie, De
paenitentia D. 1, dictum post c. 87: “His auctoritatibus asseritur, neminem sine penitencia et
confessione propriae vocis a peccatis posse mundari. Unde premissae auctoritates, quibus
videbatur probari, sola contritione cordis ueniam prestari, aliter interpretandae sunt, quam
ab eis exponantur...”.
  99 Giovanni Teutonico, Apparatus in De paenitentia D. 1, dictum ante c. 1, v. his breviter:

“In hac igitur distinctione tractatur, an sola cordis contritione dimittantur peccata. Et potest
dici quod sic, Dei gratia interveniente: necessaria tamen est postea oris confessio et operis
satisfactio, si fieri possit, alioquin peccat mortaliter ex contemptu, qui hoc non facit”.
100 “Cum sit ars artium regimen animarum...”: Concilio Lateranense IV, c. 27, poi

X.1.14.14.
101 Enrico da Susa, Lectura in X.5.37.12, v. proprio, n. 12-14 (ed. cit., II fol. 102ra): “Propri-

us sacerdos dicitur ille cui cura parochialis ecclesie est commissa, sit (!) persona sive vicarius,
qui tenetur residentiam facere et ad illum, quem cura requirit ordinem se facere promoveri...
Sed quid est cura? Et quidem potest magisterialiter describi. Cura est vigil et onerosa ac soli-
cita custodia animarum commissa alicui, ut curet, ne pereant, sed salventur, que competit ex
lege, vel commissione canonica, aut consuetudine, seu prescriptione per sedem apostolicam

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licenza accordata dal proprius sacerdos un alienus sacerdos può impartire


l’assoluzione a un fedele a lui non soggetto: in questo caso non gli compete,
infatti, la potestà di legare e sciogliere, “cum non sit iudex suus”102: dove
la funzione di rimettere i peccati è espressamente assimilata alla funzione
giudiziale103. Ai giuristi fanno eco i teologi, dimostrando di recepire e con-
dividere sia il linguaggio che le conclusioni della scienza giuridica: secondo
Tommaso d’Aquino, “ad absolvendum requiritur potestas sacerdotalis et
iurisdictio”104.
La definizione tridentina dell’assoluzione sacerdotale come “actus iudi-
cialis” non fece che dare la massima sanzione del magistero ecclesiastico a
questa concezione maturata nel corso dei secoli nel seno della Chiesa lati-
na. I canonisti post-tridentini coglievano facilmente come tale definizione
fosse innestata nel tronco della tradizione canonica. Come, ad esempio, in
pieno Seicento afferma l’autorevolissimo Prospero Fagnani, che la defini-
zione ha il suo fondamento nella natura et ratio iudicii: questa postula che

non improbata... Ex quo sequitur quod si male vel negligenter curet, obligatur Deo... cui et
exinde tenetur rationem reddere... Hoc autem debet curare predictis modis, necnon visitando,
corrigendo, puniendo, sacramenta ecclesiastica exhibendo”.
102 Enrico da Susa, Lectura in X.5.37.12, v. solvere et ligare, n° 23 (ed. cit., I fol. 102va).
103 Nella Summa Decretalium Enrico da Susa aveva espresso il concetto con altrettanta

chiarezza: “Cui confitendum sit. Sacerdotibus, quibus data est hec potestas a mediatore Dei et
hominum, qui ipsos Ecclesie sue preposuit, et solvendi ac ligandi tradidit potestatem, de paen.
dist. I Multiplex (de paen. D.1 c.49), et in hoc sacerdos iudex est, de paen. dist. I Verbum (de
paen. D.1 c. 51)” (Summa aurea, lib. V, de penitentiis et remissionibus, n° 14, ed. cit. col. 1765).
104 Tommaso d’Aquino, Quodlibet XII, q. 19 (Utrum aliquis possit confessiones audire de

indulgentia domini Papae sine voluntate proprii praelati), conclusio: “Respondeo. Dicendum,
quod quidam dicunt quod quilibet sacerdos potest absolvere quemlibet a quolibet peccato;
et licet non bene faciat absolvendo, tamen absolutus est. Et ratio horum fuit, quia simul
datur presbytero in sua ordinatione potestas consecrandi corpus Christi, et potestas clavium;
et ideo, sicut potest consecrare quamlibet hostiam, ita potest absolvere quemlibet. Sed hoc
est erroneum; quia nullus potest absolvere propria auctoritate nisi eum qui est aliquo modo
sibi subditus: quia actus fiunt in materia propria, et absolutio sacramentalis habet iudicium
annexum, et hoc, scilicet iudicium, non est nisi in subditos et inferiores. Qui ergo non habet
subditum, non potest absolvere. Et sic iurisdictio dat materiam sacerdoti determinatam; se-
cus autem est de hostia, quae est materia determinata. Cui ergo nulla cura committitur, habet
clavem ligatam, ut iuristae dicunt, scilicet quia non habet omnino materiam. Alii dicunt,
quod nullus potest etiam auctoritate superioris praelati absolvere subditum inferioris praelati
contra voluntatem ipsius; puta, non potest auctoritate episcopi contra voluntatem parochialis
aliquem absolvere. Hoc etiam est erroneum. Quia ad absolvendum requiritur potestas sacer-
dotalis et iurisdictio. Episcopus autem habet immediatam iurisdictionem in omnes; unde
episcopus potest omnium confessiones audire, etiam contra voluntatem presbyteri parochia-
lis, et similiter etiam ille cui episcopus committit, et multo magis si Papa committit. Tamen
archiepiscopus, quia non habet immediatam iurisdictionem in omnes sui archiepiscopatus
nisi ex appellatione, non posset alicui dare licentiam vel auctoritatem audiendi confessiones
contra voluntatem episcopi et dioecesani suffraganei” (traggo la citazione dal sito www.cor-
pusthomisticum.org).

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la sentenza sia pronunciata nei confronti di un suddito, poiché nessuno


può essere giudicato da un giudice che su di lui non abbia competenza105.

4.2.2. Problematiche peculiari e sviluppi dottrinali nella Chiesa bizanti-


na
Si suole ripetere, sia da parte della dottrina ortodossa contemporanea
che da parte degli studiosi cattolici, che la Chiesa ortodossa concepisce
il sacramento della penitenza come un rimedio terapeutico piuttosto che
come un giudizio. A mio avviso questa affermazione è condivisibile nella
misura in cui intende cogliere e sottolineare l’aspetto forse più evidente e
prevalente nella tradizione orientale. Non sarebbe corretta se con essa si
volesse dire (come in effetti talvolta capita di leggere), che la visione della
penitenza come un giudizio, pronunciato da chi ha ricevuto da Dio la po-
testà di legare e sciogliere, sia estranea alla tradizione orientale e da questa
respinta. Proverò a dimostrare che si tratta, in effetti, di due prospettive
che si coniugano con equilibrio nella tradizione bizantina.
Testimonianze, alquanto risalenti nel tempo, di tale connessione sono
ben visibili nella letteratura pseudoapostolica. Nella Didascalia e nelle Co-
stituzioni Apostoliche il processo penitenziale e il processo “penale” sono
difficilmente distinguibili, o meglio rimangono indistinti. Se da un lato,
come abbiamo visto, le due opere pongono in grande rilievo il ruolo del
vescovo come medico delle anime, con altrettanta intensità esse sottoli-
neano il suo ruolo di giudice. L’indole giudiziale del processo penitenziale
risulta assolutamente evidente, anche attraverso l’insistente ripetizione del
verbo “giudicare” e del sostantivo “giudice”. Inoltre, tale funzione giudizia-
le è espressamente ricollegata con il potere delle chiavi. Alcuni passi delle
Costituzioni, contenenti precetti dati ai vescovi, sono estremamente chiari
in questo senso: “Così, siedi nella Chiesa e prendi la parola, sapendo che
tu hai il potere (exousían) di giudicare (krínein) i peccatori, perché a voi,

105 Prospero Fagnani, Commentaria in X.5.37.12, c. Omnis utriusque sexus, de penitentiis

et remissionibus [Prosperi Fagnani Commentaria in Quintum Librum Decretalium (Venetiis,


1697, apud Paulum Balleonium) nn° 52-54, p. 312b-313a]: “Ultimo nota confessionem sa-
cramentalem esse faciendam proprio sacerdoti dumtaxat, non autem alieno, nisi de proprii
sacerdotis licentia petita et obtenta... Et dicunt doctores hoc esse intelligendum non solum
cum quis confitetur semel in anno ut satisfaciat precepto Ecclesie, sed etiam pluries, ut hic
per Abbatem (cioè Nicolaum de Tudeschis) in 7 notabile. Et bene, quia confessio sacramen-
talis est actus iudicialis, non autem nudum ministerium pronunciandi et declarandi remissa
esse peccata, ut est diffinitum a concilio Tridentino sessio 14 de sacramento penitentiae can.
9. Natura autem, et ratio iudicii postulat ut sententia in subditos dumtaxat feratur, cum non
a suo iudice ligari nullus valeat, vel absolvi... Unde persuasum semper in Ecclesia Dei fuit,
et Tridentina Synodus verissimum esse confirmavit dicta sessio 14 cap. 7, nullius momenti
absolutionem eam esse debere, quam sacerdos in eum profert, in quem ordinariam aut sub-
delegatam non habet iurisdictionem”.

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vescovi, è stato detto: ‘Ciò che legherete sulla terra sarà legato nei cieli e
ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto nei cieli’106. E ancora: “Giudica
(kríne) dunque, o vescovo, con autorità come Dio”107.
Il quadro si arricchisce e si completa se proviamo a seguire le discussio-
ni relative al problema del ministro della confessione, e su quella peculia-
rità della tradizione bizantina riguardante la confessione fatta ai monaci.
È noto che le fonti canoniche della Chiesa antica riservavano il potere di
assolvere dai peccati ai vescovi, quali successori degli Apostoli, ai quali tale
potere era stato conferito da Cristo (Giovanni 20.19-23). Ma la regola aveva
anche le sue eccezioni. I Canoni apostolici accostano i presbiteri ai vescovi
quali ministri della penitenza108, e nella collezione dei canoni di Cartagine
(419) troviamo la verosimile spiegazione di questo fatto. Il can. 6 prevede
che la riconciliazione possa essere data solo dal vescovo109; il successivo
can. 7 prevede che se una persona in pericolo chieda di essere riconcilia-
ta in assenza del vescovo, il presbitero debba comunque consultare il ve-
scovo110. Ma il successivo can. 43, posteriore nel tempo ai due menzionati
canoni, rimuove il precedente limite e stabilisce che in caso di necessità il
presbitero possa riconciliare il penitente anche in assenza del vescovo111.
In questo quadro, dunque, il vescovo rimane il ministro ordinario, ma il
presbitero può esercitare il ministero penitenziale su delega o autorizza-
zione episcopale. Questo sistema è presupposto dal can. 102 del Concilio
Trullano, il quale, come sappiamo, riconosce il potere di rimettere i peccati
a coloro che hanno l’autorità pastorale e il potere di legare e sciogliere.
In siffatto sistema appare una stonatura l’imponente diffusione della
prassi di ricorrere per la confessione ai monaci: il problema, in particolare,
riguarda quei monaci che non avevano ricevuto l’ordinazione presbiterale,
ai quali i laici facevano amplissimo ricorso. Tale pratica, come si è visto, si
intensificò a partire dalla crisi iconoclastica, ed è abbondantemente atte-
stata ancora nelle fonti del secolo XIII112. Se tale era la pratica, sussisteva
106 Costituzioni Apostoliche, II.11.1-2 (ed. Metzger, I 166-169); nello stesso senso già Dida-

scalia, II.11.1-2 (ed. Funk, I 46).


107 Costituzioni Apostoliche, II.12.1-2 (ed. Metzger, I 168 s.); nello stesso senso già Dida-

scalia, II.12.1-2 (ed. Funk, I 48). Cfr. anche Didascalia II.36.9-II.37.1 (ed. Funk, I 122-124) e
rispettivamente Costituzioni II.37.1-3 (ed. Metzger, I 262 s.).
108 Canoni Apostolici, c. 52: Les canons des synodes particuliers, ed. P.-P. Joannou (Ponti-

ficia Commissione per la redazione del codice di di­ritto canonico orientale. Fonti. Fasc. IX:
Discipline générale antique [IIe IXe s.], t. I pars II; Grottaferrata 1962) 36.
109 Concilio di Cartagine (419), can. 6 (CSP 219 s.).
110 Concilio di Cartagine (419), can. 7 (CSP 220 s.).
111 Concilio di Cartagine (419), can. 43 (CSP 260 s.).
112 Per esempio è uno dei rimproveri che l’Imperatore latino di Oriente Baldovino di Fian-

dra rivolge ai Greci in una lettera indirizzata a Innocenzo III (PL 215.452): “... monachive,
penes quos, sacerdotibus spretis, tota ligandi atque solvendi consistebat auctoritas”.

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tuttavia il problema teorico se ciò fosse possibile. Diverse voci si pronun-


ciano a favore della possibilità che il monaco non presbitero possa ascolta-
re le confessioni e imporre le penitenze113. Una delle più autorevoli è quella
di Simeone il nuovo Teologo (949-1022), monaco e igumeno, che affronta
il problema in un celebre passo dell’epistola perì exomologéseos, che a torto
è stato attribuita a Giovanni Damasceno. Secondo Simeone il potere di
confessare e di assolvere (legare e sciogliere) era stato in principio attri-
buito agli Apostoli e ai loro successori, i vescovi, poi ai sacerdoti dalla vita
irreprensibile e pieni di grazia divina, ma successivamente fu devoluto ai
monaci, popolo eletto di Dio, perché i vescovi e i sacerdoti lo usavano male
o non lo usavano più. Per Simeone è dunque possibile confessare i peccati
anche a un monaco che non abbia ricevuto il sacerdozio. Egli parla di un
vero e proprio trasferimento della potestà, non nel senso che essa sia stata
da qualcuno sottratta a vescovi e presbiteri, ma nel senso che essi di fatto si
resero estranei al suo esercizio114. Tale situazione rappresentava, tuttavia,
una deviazione dai principi della autentica tradizione canonica bizantina, e
non sappiamo, in effetti, quale fosse, nei diversi tempi e nei diversi luoghi,
la reazione delle autorità ecclesiastiche. Anzi, prese di posizioni come quel-
le di Simeone il nuovo Teologo potrebbero pure sembrare delle risposte ad
attacchi diretti a negare la legittimità di tali pratiche.
La reazione comunque ci fu: ne troviamo chiare manifestazioni già alla
conclusione del secolo XI. L’elemento che caratterizza tali prese di posi-
zione è il recupero e la riaffermazione della autentica tradizione canonica
bizantina. Il che appare assolutamente evidente in alcuni testi del charto-
phylax Niceforo (1082-1094). Scrivendo al monaco Teodosio di Corinto,
egli afferma che se è vero che i vescovi hanno spesso per “pigrizia” lasciato
ai monaci la funzione di rimettere i peccati, tuttavia la funzione rimane
propria dei vescovi in virtù del potere di legare e sciogliere che ad essi com-
pete115. In un’altra lettera al medesimo destinatario Niceforo esprime un
chiaro giudizio di condanna circa la prassi della confessione a monaci non
ordinati: “I monaci che, senza essere presbiteri, ricevono le confessioni dei
penitenti, rifiutino o no l’assoluzione, devono sapere che agiscono contro i

113 Oltre a quelle ricordate sopra, nota 49, per il sec. IX si veda la risposta del patriarca

Niceforo alla Interrogazione 16 (in realtà il testo è di Teodoro Studita, epistola 549) [Syntágma
tôn theîon kaì ierôn kanónon, edd. G.A. Rhalli – M. Potli, IV (Atene 1854) 431.10]: la risposta
fa riferimento al caso di mancanza di un presbitero.
114 Simeone il nuovo Teologo, Epistola de confessione, n° 11 (tra le opere di Giovanni

Damasceno, PG 95.295). Anche in Karl Holl, Enthusiasmus und Bussgewalt beim griechischen
Mönchtum. Eine Studie zu Symeon dem neuen Theologen (Leipzig 1898) 119 s.
115 Niceforo chartophylax, Lettera (IV) al monaco Teodosio di Corinto sul potere di legare

e sciogliere [ed. P. Gautier, ‘Le chartophylax Nicéphore. Œuvre canonique et notice biblio-
graphique’, Revue des études byzantines 27 (1969) p. 159-195 (p. 182-186)].

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 67

canoni. Perché i santi Padri esigono che i sacerdoti stessi non riconcilino i
penitenti senza mandato del vescovo del luogo, così come dichiarano il se-
sto e il quarantaduesimo (sic: recte quarantatreesimo) canone del Concilio
di Cartagine. Ora, ai giorni nostri, io non so perché questa legislazione non
è osservata, ma, quanto a noi, ci atteniamo ai testi”116. Quale autorità (de-
terminante nella risoluzione dei problemi) Niceforo riconoscesse ai canoni
ecclesiastici emerge dall’insegnamento impartito al medesimo Teodosio:
“Noi chiamiamo canoni ecclesiastici stabiliti e confermati dai Padri teofori
i canoni che hanno composto i santi Apostoli e i santi Padri che si riuniro-
no nei sette concili ecumenici e, oltre a quelli, i canoni che sono opera dei
concili locali e quelli che sono stati promulgati dai ‘lumi’ della Chiesa che
hanno brillato in differenti epoche, i grandi gerarchi, dei quali tu troverai
agevolmente la lista nel preambolo del sesto Concilio, e la Chiesa non am-
mette niente al di fuori di questi canoni. Esaminando dunque attentamente
tutti i canoni summenzionati, tu non fallirai nella tua ricerca”117.
La reazione agli abusi ricorrenti nella prassi penitenziale si amplificò a
partire dalla seconda metà del secolo XII. Non mi sembra un caso che essa
assunse una impostazione coerente e toni particolarmente rigorosi proprio
nei canonisti dell’età classica, i quali avevano intrapreso l’opera di studio e
commento del complesso del patrimonio canonico della Chiesa bizantina.
È utile soffermarsi, pertanto, sull’analisi del pensiero di due autorevolissi-
mi interpreti della scuola canonistica bizantina del secolo XII, cioè Giovan-
ni Zonaras e Teodoro Balsamon.
Come abbiamo visto, il can. 102 del Concilio Trullano costituisce in un
certo senso la chiave di volta e la sintesi del sistema canonico riguardante il
sacramento della penitenza. Balsamon osserva che la norma fa riferimento
non solo ai vescovi del luogo, che hanno ricevuto dallo Spirito Santo la
potestà di legare e sciogliere, ma anche a coloro che hanno ricevuto inca-
rico dai vescovi. Tali ministri hanno la facoltà e il potere di modificare le
penitenze stabilite dai canoni, tenuto conto delle persone, della loro età e
delle loro disposizioni verso il peccato, delle loro abitudini, della qualità
del peccato. Valutando tutte queste circostanze è possibile che a ciascun
malato sia data una conveniente medicina118.
La questione del ministro della penitenza è approfondita a margine

116 Niceforo chartophylax, Lettera (I) al monaco Teodosio di Corinto, n° 4 (ed. Gautier, ‘Le

chartophylax Nicéphore’ 171-173).


117 Niceforo chartophylax, Lettera (II) al monaco Teodosio di Corinto (ed. Gautier, ‘Le char-

tophylax Nicéphore’ 176 s.).


118 Teodoro Balsamon, commento al can. 102 del Concilio Trullano (PG 137.869-870). Già

Zonaras, aveva osservato che tali facoltà sono lasciate “al giudizio (krísei) dei vescovi”, i quali
sono detti essere “pastori delle anime” (PG 137.871-874).

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di alcuni canoni che avevano esplicitamente trattato la questione. Che i


presbiteri potessero partecipare del ministero proprio dei vescovi era un
dato disciplinare esplicitato già nel secolo IV. Commentando il can. 13 del
Concilio di Nicea, relativo alla comunione da dare ai morenti, Balsamon
precisa che quando il vescovo non sia presente il viatico può essere dato dai
presbiteri119. A margine del 52o Canone apostolico egli osserva che in base
ad esso il potere di ascoltare le confessioni compete non solo ai vescovi,
ma anche ai presbiteri col permesso dei primi120. Per spiegare tale prero-
gativa episcopale Balsamon sviluppa l’idea che la cheirotonia e l’unzione
episcopale comportino la cancellazione di tutti i peccati compiuti prima
dell’ordinazione. Diversamente, la cheirotonia presbiterale comporta solo
la cancellazione dei peccati lievi: per questo i primi possono rimettere i
peccati, i secondi no121.
La riserva episcopale del potere di rimettere i peccati era apertamente
stata enunciata, come abbiamo visto, nei canoni cartaginesi. In relazione a
queste norme gli interpreti offrono molte interesanti notazioni. Commen-
tando il can. 6, Zonaras spiega che la riconciliazione consiste nell’atto di
“sciogliere” il peccatore, cioè di assolverlo; precisa che tale potere è riser-
vato ai vescovi in quanto a loro è stata concessa la potestà di legare e scio-
gliere122. Balsamon parla della riconciliazione (katallaghè) come attività di
chi ascolta le confessioni dei peccatori e li assolve (lýein). Il confessore è
medico dell’anima (psychikòs iatròs). Il can. 6 vieta ai presbiteri la potestà
di riconciliare i peccatori, che invece è riservata ai vescovi. Balsamon rinvia
dunque il lettore al successivo can. 43 di Cartagine, e fornisce una spiega-
zione della previsione del 52o Canone apostolico: bisogna intendere che
questo consenta ai presbiteri di svolgere il ministero penitenziale per inca-
rico (katà protropèn) ricevuto dal vescovo. La conclusione è netta e tocca
un duplice fronte: “perciò nota che i monaci consacrati (cioè presbiteri) che
ascoltano le confessioni senza il permesso episcopale fanno male; molto
peggio i monaci non presbiteri. Questi non possono farlo nemmeno con il
permesso del vescovo”123.
Tali concetti sono, in qualche modo, ribaditi e precisati a margine del

119 Balsamon,commento al can. 13 del Concilio di Nicea (325), (PG 137.278).


120 Balsamon,commento al can. 52 dei Canoni Apostolici (PG 137.143-146).
121 Balsamon, commento al can. 12 del Concilio di Ancyra, alia intepretatio (PG 137.1155-

1158). Sembra che tale spiegazione si basi sul can. 9 del Concilio di Neocesarea, secondo il
quale, a giudizio di molti la cheirotonia rimette ai presbiteri “gli altri peccati”, lasciando cioè
non rimessi i peccati carnali (CSP 79).
122 Zonaras, commento al can. 6 del Concilio di Cartagine (PG 138.45 s.).
123 Balsamon, commento al can. 6 del Concilio di Cartagine (PG 138.41-44). Sulla base di

una dichiarazione sinodale fatta su richiesta del monastero dell’Evergetide, inoltre, precisa
che quando gli statuti dei monasteri prevedono che il prefetto (kategoúmenos) ascolti le con-

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can. 7 del Concilio di Cartagine. Questo stabiliva che un presbitero, per


assolvere un peccatore in pericolo di morte, dovesse prima consultare il
vescovo. Così è, spiega Balsamon, perché “il vescovo tiene il luogo dell’A-
postolo, e ha ricevuto da Dio il potere (exousían) di legare e sciogliere”124. A
più forte ragione — continua —  non è consentito al presbitero ascoltare la
confessione di una persona sana. È molto interessante il breve commento
di Zonaras a questo canone125. Egli infatti definisce il potere di rimettere
i peccati come un “giudizio” (diákrisis), diretto a procurare l’assoluzione
(lýsis) del peccatore. Tale potestà è riservata ai vescovi, successori degli
Apostoli, e ricollegata al potere di legare e sciogliere.
E ancora. Il can. 43 di Cartagine, innovando rispetto al passato, aveva
stabilito che il sacerdote non può riconciliare il penitente senza il consenso
del vescovo, se non in caso di necessità e di assenza del vescovo. Per Zona-
ras è l’occasione di ribadire che “il nostro Signore Gesù Cristo ha dato agli
Apostoli il potere di legare e sciogliere; i sommi sacerdoti sono l’immagine
dei santi Apostoli”. Per questo il canone attribuisce ai vescovi il potere di
imporre le penitenze adeguate secondo la varietà dei peccati: “Al sacerdote,
in verità, non è data la facoltà di riconciliare contro la volontà del vescovo.
A colui, infatti, al quale è data la facoltà di legare, allo stesso compete quel-
la di riconciliare. Riconciliare (katallássein) è assolvere il penitente (tò lysai
tòn epitetimeménon), o in tutto, o temporaneamente” 126.
È interessante, per il tema qui trattato, un responso che Balsamon diede
a Marco, patriarca di Alessandria. Una delle interrogazioni riguardava il
dubbio se anche i monaci avessero, come i presbiteri, la facoltà di ascol-
tare le confessioni. Balsamone risponde che la potestà di rimettere i pec-
cati compete ai vescovi: i presbiteri, e fra questi anche i monaci ordinati,
possono esercitare tale potestà per delegazione del vescovo. I monaci che
non siano presbiteri non hanno tale facoltà, e dunque è un abuso se essi
ascoltano le confessioni. Il fondamento di tale potestà è visto nel passo del
Vangelo di Matteo 18.18127.
A una considerazione di sintesi, emerge che sul finire del secolo XII la
dottrina canonistica bizantina aveva nettamente ricostruito la rete dei prin-
cipi che reggono la disciplina canonica della penitenza. La reazione dot-

fessioni dei monaci, è necessario che il prefetto sia sacerdote (di fatto — riferisce — accadeva
che i prefetti fossero anche uomini profani, e persino donne).
124 Balsamon, commento al can. 7 del Concilio di Cartagine (PG 138.47 s.).
125 Zonaras, commento al can. 7 del Concilio di Cartagine (PG 138.47-50).
126 Zonaras, commento al can 43 (ma can. 46 nell’edizione qui usata) del Concilio di Car-

tagine (PG 138.173 s.).


127 Balsamon, Responsa ad interrogationes Marci, patriarchae Alexandrini, interrogatio 21

(Rhalli-Potli, Syntágma IV 464). L’interrogazione e la relativa risposta non sono ricomprese


nella serie edita in PG 138.951 ss.

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trinale alla pratica e agli abusi della confessione fatta ai monaci fu molto
decisa, e ciò contribuì a promuovere la restaurazione dell’ordine canonico.
Conformemente alla tradizione canonica del primo millennio, la potestà
di rimettere i peccati venne chiaramente ricollegata alla potestà di legare e
sciogliere concessa da Cristo agli Apostoli. Mi sembra molto significativo,
in questo contesto, che la dottrina canonistica abbia adoperato anche il
termine “giudizio” per qualificare giuridicamente l’azione di chi assolve i
peccatori.
Queste convinzioni si rafforzano nel corso del tempo, e nel secolo XV
appaiono perfettamente consolidate negli scritti di Simeone di Tessalonica
(† 1429). La sua opera è di carattere prevalentelmente teologico-liturgi-
co, ma la prospettiva canonistica non è trascurata. Nel trattato Sui sacra-
menti, nel quale Simeone propone il settenario sacramentale, la penitenza
(metánoia) è il sesto nell’ordine, prima dell’unzione degli infermi128. Al fine
della remissione dei peccati Cristo ha concesso ai sommi sacerdoti (i ve-
scovi) la potestà e la grazia (accosta dýnamis e chárisma, verrebbe voglia
di tradurre potestà di giurisdizione e di ordine) di legare e sciogliere, as-
sicurando la propria ratifica in cielo di quanto i sacerdoti compiono sulla
terra. L’assistenza di Cristo è garantita in perpetuo attraverso l’azione dello
Spirito Santo129.
Nel trattato Delle sacre ordinazioni Simeone afferma che i monaci non
ordinati non possono assumere l’ufficio di confessori (padri spirituali).
Tale ministero è riservato ai vescovi dai canoni; i presbiteri possono eser-
citarlo in caso di necessità e nell’assenza del vescovo. Vi sono, comunque,
dei peccati maggiori riservati alla cognizione del vescovo130.
Nei Responsa a Gabriele di Pentapoli Simeone ribadisce che il potere
di rimettere i peccati discende dal potere di legare e sciogliere concesso da
Cristo agli Apostoli: esso spetta dunque ai vescovi, e i sacerdoti possono
esercitarlo per delegazione episcopale, come insegnano i sacri canoni. Un
monaco che non sia presbitero non può ascoltare le confessioni se non in
caso di necessità; ma in questo caso il penitente è tenuto ad accedere a un
vero padre spirituale. Il confessore monaco che non sia presbitero ha dun-
que il dovere di spingere il confitente a rivolgersi a chi abbia realmente la
potestà di assolvere131.
Nel trattato Sulla penitenza l’arcivescovo di Tessalonica ha modo di

128 Simeonedi Tessalonica, Sui sacramenti, c. 39 (PG 155.177-180).


129 Simeonedi Tessalonica, Sui sacramenti, c. 51 (PG.155.195-196).
130 Simeone di Tessalonica, Delle sacre ordinazioni, c. 249 (PG 155.467 s.).
131 Simeone di Tessalonica, Responsa a Gabriele di Pentapoli, q. XI-XIII (PG 155.859-864).

Nello stesso senso q. XXXVI, dove si ribadisce che “è cosa estranea alla Chiesa” che un mona-
co non sacerdote possa rimettere i peccati (PG 155.883-886).

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ritornare sul tema. Leggiamo ancora una volta che questo sacramento è
amministrato dai vescovi o da coloro che da questi ne abbiano ricevuto
l’incarico. Ma soprattutto appare degno di nota l’accostamento delle due
immagini della penitenza, come medicina e come giudizio. I vescovi agi-
scono sia come medici che approntano opportuni rimedi per le malattie
dell’anima, sia come giudici, e come tali sono tenuti a giudicare secondo
i canoni (katà toùs kanónas toínyn diakrínein ápantes opheílousi). L’osser-
vanza dei canoni, ispirati dallo Spirito Santo, è la principale medicina, per-
ché essi trasmettono la grazia che dalla fonte, Cristo Salvatore, attraverso
gli Apostoli giunge per successione ai Padri e ai vescovi132.
Sulla linea di questi sviluppi dottrinali, un salto temporale di due secoli
ci porta infine a considerare brevemente la Confessione ortodossa di fede
della Chiesa cattolica e apostolica di Oriente di Pietro Moghila (1596-1646),
metropolta di Kiev. Fu scritta per difendere l’autentica dottrina ortodos-
sa dalle intepretazioni protestantizzanti che si erano fatte strada nel seno
stesso dell’ortodossia: si pensi alla Confessione di Cirillo Lucari (1629), di
ispirazione calvinista, che venne ripetutamente e ufficialmente condannata
a partire dal sinodo costantinopolitano del 1638. La Confessione di Pietro
Moghila presenta una interessante ricostruzione dogmatica della dottri-
na della penitenza. Essa costituisce il tentativo di recuperare e fissare i
principi fondamentali della tradizione ortodossa circa il sacramento della
penitenza, ma al contempo appare influenzata dalle categorie teologiche
elaborate nella Chiesa cattolica latina. Innanzi tutto la penitenza è colloca-
ta tra i sette sacramenti istituiti da Cristo. La parte del peccatore e il ruolo
del sacerdote sono chiaramente delineati. Dolore dei peccati, confessione
al sacerdote-padre spirituale (è significativo il modo in cui la confessio-
ne deve avvenire: accusatorie), proposito di emendare la propria vita e di
compiere le penitenze inflitte dal confessore caratterizzano la posizione
del confitente. Il sacerdote rimette i peccati attraverso l’assoluzione (lýsis),
nell’adempimento della missione conferita da Cristo (Giovanni 20.23)133.

132 Simeone di Tessalonica, Sulla penitenza, c. 254 (PG 155. 477-478).


133 Pietro Moghila, Orthodoxa Confessio Fidei Catholicae et Apostolicae Ecclesiae Orienta-
lis, I parte, q. 112, Quodnam quintum est mysterium? [Monumenta fidei Ecclesiae Orientalis,
ed. E.I. Kimmel, pars I (Jenae 1850) 189 s.]: “Quintum mysterium Poenitentia est, quae vera
quaedam penitusque infixa tristitia est, ob ea, quae in se quisquam admisit peccata. Quae cum
firmo animi proposito emendandae in posterum vitae suae, plenaque voluntate observandi
efficiendique, quicquid mulctae suppliciique irroget sacerdos, pater suus spiritualis, illi accu-
satorie detegit. Hoc Mysterium tum potissimum valet vimque exserit suam <cum> absolutio
peccatorum per sacerdotem secundum constitutionem atque morem ecclesiae conceditur.
Quippe ut delictorum suorum veniam quispiam consequitur; extemplo omnia sua peccata
a Deo per sacerdotem illi remissa sunt, secundum Christi ipsius verba qui dixit (Giovanni
20.23): ‘Accipite Spiritum Sanctum, si quorum peccata remiseritis, remittuntur illis; si quo-
rum retinueritis, retenta sunt’”.

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Colpisce, in questa dottrina, l’assenza di ogni riferimento alla dimensione


terapeutica del sacramento della confessione. Dall’altro lato è significativo
il risalto in cui è posto il ruolo di mediazione del sacerdote: se è Dio che in
definitiva rimette i peccati, la funzione del sacerdote non è meramente di-
chiarativa, ma si traduce in una assoluzione, data nell’esercizio del potere
di legare e sciogliere conferito da Cristo agli Apostoli e ai loro successori134.
Se tale ricostruzione appare in qualche modo dipendere dalla mutuazione
di schemi metodologici e teologici occidentali (in particolare, il rilievo dato
all’assoluzione), mi sembra che il succo della dottrina esposta da Pietro
Moghila risponda perfettamente alla tradizione ortodossa. Cosa che del
resto è riconosciuta alla Confessio nella sua integrità: essa fu approvata
nel 1643 dal patriarca di Costantinopoli Partenio I insieme ai patriarchi di
Alessandria, Antiochia e Gerusalemme135.

4.3. La questione della formula della remissione dei peccati


I principi dottrinali e le convinzioni che abbiamo visto svilupparsi e
consolidarsi nei secoli trovano un loro sbocco nella dimensione liturgica.
In questa prospettiva, dedicherò qualche cenno alla questione della for-
mula della remissione dei peccati: in breve, alla questione che, nella tradi-
zione propria della Chiesa latina, riguarda la forma del sacramento della
penitenza.
Nel 1551 il Concilio di Trento, definendo le parti del sacramento della
penitenza (contritio, confessio e satisfactio), insegnò anche che la forma,
“nella quale precipuamente è sita la forza dello stesso”, consiste nelle pa-
role pronunciate dal ministro secondo la formula: “ego te absolvo, etc.”136.
Siamo in presenza di quella forma che si suole definire “indicativa”. Al-

134 PietroMoghila, Orthodoxa Confessio, Parte prima, q. 109, Quo pacto fit sacramentale
sacerdotium? (ed. Kimmel 96): dopo aver citato Paolo, I Cor. 4.1 (“Ita nos aestimet homo, ut
ministros Christi, et oeconomos mysteriorum Dei”), continua: “Haec oeconomia res prae-
cipue duas complectitur: una est facultas ac potestas solvendi delicta (cioè peccata, in greco
amartías) hominum; quamobrem sic ad illam dictum fuit (Matteo 18.18): ‘Quidquid solveritis
super terra, id solutum erit in coelo’...”.
135 Nella lettera di approvazione (datata 11 marzo 1643) leggiamo: “Libellum istum vesti-

giis doctrinae Ecclesiae Christi fideliter insistere, sacrisque consentire canonibus: nulla vero
ex parte illi adversari comperimus” (ed. Kimmel 53).
136 Concilio di Trento, Sessio XIV, 25 novembre 1551, Doctrina de sanctissimis poeniten-

tiae et extremae unctionis sacramentis, Cap. III: De partibus et fructu huius sacramenti (COD
704): “Docet praeterea sancta synodus, sacramenti poenitentiae formam, in qua praecipue
ipsius vis sita est, in illis ministri verbis positam esse: Ego te absolvo etc., quibus quidem de
ecclesiae sanctae more preces quaedam laudabiliter adiunguntur, ad ipsius tamen formae
essentiam nequaquam spectant, neque ad ipsius sacramenti administrationem sunt necessa-
riae. Sunt autem quasi materia huius sacramenti ipsius poenitentiae actus, nempe contritio,
confessio et satisfactio”.

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lorché il Concilio enunciava questo insegnamento, tale forma era in uso


nella Chiesa latina da poco più di tre secoli. Per tutto l’alto medio evo e per
i primi due secoli del secondo millennio l’assoluzione dei peccati era stata
impartita con l’uso di formule liturgiche “deprecative”137, consistenti cioè
in una preghiera rivolta a Dio affinché perdoni i peccati del confitente.
I segni del cambiamento si avvertono dopo l’anno Mille. Allo stato delle
conoscenze, sembra che la prima testimonianza di una formula assoluto-
ria di tipo indicativo si trovi in uno scritto della metà del secolo XI. In una
lettera di Adelmanno di Liegi a Ermanno vescovo di Colonia troviamo un
inequivocabile riferimento a una formula usata dal sacerdote nella confes-
sione sacramentale: “Ego dimitto tibi peccata tua”. Adelmanno ne contesta
l’uso, considerando legittima solo la formula deprecativa138. Una ulteriore
testimonianza troviamo, verso la fine del secolo XII, in uno scritto del te-
ologo parigino Radolfo l’Ardente139. L’uso della forma deprecativa in Occi-
dente è però ancora attestato alla metà del secolo XIII. Tommaso d’Aquino,
nel suo opuscolo De forma absolutionis, considera la forma indicativa come

137 Testimoniate sia dai rituali della penitenza pubblica che da quelli della penitenza ta-
riffata. Per quanto riguarda la seconda vedere per esempio Burcardo di Worms, Decretum,
lib. 19 c. 7 (PL 140.777 s.), la cui fonte è Reginone di Prüm, De synodalibus causis 1.304 (ed.
Wasserschleben 147 s.).
138 Adelmannus Leodiensis, Epistula ad Hermannum Coloniensem (scritta fra 1036 e

1056), edita da R.B.C. Huygens, ‘Textes latins du XIe au XIIIe siècle’, Studi Medievali, III serie,
8 (1967) 451-503 (489-493: a p. 490 s. i passi qui di seguito citati): “Qua ergo temeritate sacer-
dotes novi testamenti lepram spiritualem mundare se profitentur. Quem unquam sanctorum
inveniunt cuiquam peccatori dixisse: ego dimitto tibi peccata tua ac non potius communicatis
ieiuniis et orationibus id eis quibus subvenire volebant a Domino impetrasse. Quod legimus
in aecclesiastica historia fecisse Iohannem apostolum pro iuvene illo quem a latrocinio re-
vocatum Christo iterum parturiebat. Sed et ipse Filius hominis habens potestatem in terra
dimittendi peccata devitata persone sue expressione non ait: remitto tibi omnia peccata tua sed
quasi verecunde: homo inquit dimittuntur tibi peccata tua [...] Considerandum vero est iuxta
normam sanctorum patrum quae culpa praecesserit, quae satisfactio sit secuta habitaque
sagaci discrecione tum demum timide atque humiliter potestas officii est adhibenda, nec ita
dicendum: Dimittat tibi dominus peccata tua, et ego tibi dimitto, nisi forte familiaris sit iniuria,
quae sacerdoti ipsi a reo fuerit illata. De tali utique peccato fidenter dicere potest: Indulgeat
tibi dominus, et ego...”.
139 Radolfo l’Ardente († 1200), Homilia LXIV in Litania maiori, che trae spunto dal passo

della lettera di Giacomo, 5.16: “Confitemini alterutrum peccata vestra, et orate pro invicem
ut salvemini” (PL 155.1900). La formula è usata in un passo in cui si fa distinzione tra la
confessione sacramentale al sacerdote e la confessione non sacramentale, nella quale non è
data l’assoluzione dei peccati: “Cui fieri debet confessio? Confessio criminalium debet fieri
sacerdoti, et nominatim, quia solus habet potestatem ligandi atque solvendi... Confessio vero
venialium alterutrum et cuilibet, etiam minori, potest fieri, quoniam propter venialia non
separatur homo a Deo, nisi ultra modum per incuriam excedat... Fit autem hec confessio, non
quod possit peccatis absolvere, sed quia propter humiliationem, et peccatorum nostrorum
accusationem, et fratris orationem, mundamur a peccatis. Unde et non dicimus ‘Ego dimitto
tibi peccata tua’, sed dicimus orando: ‘Misereatur tui omnipotens Deus, etc.”.

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l’unica valida, ma riportando gli argomenti del suo antagonista dà testi-


monianza che a quel tempo erano ancora ampiamente in uso le formule
deprecative140.
Lo sviluppo interno alla Chiesa latina e la progressiva affermazione
della forma indicativa, sancita dall’insegnamento del Concilio di Trento,
appaiono del tutto coerenti con l’evoluzione dottrinale che, ponendo la re-
missione dei peccati in relazione con il potere di legare e sciogliere, aveva
sottolineato l’indole giudiziale dell’assoluzione sacerdotale.
La connessione del sacramento della penitenza con il potere di legare e
sciogliere, concesso da Cristo agli Apostoli, è un caposaldo della concezio-
ne bizantina della penitenza. E l’accostamento della funzione sacerdotale a
quella giudiziale non è un motivo estraneo, come abbiamo visto, alla stessa
tradizione bizantina. Sebbene la Chiesa bizantina sia rimasta legata all’idea
del perdono dei peccati come ministero di intercessione, questa concezione
ha avuto tradizionalmente uno sbocco liturgico in formule di remissione di
carattere deprecativo. In alcune Chiese bizantine (come quella Russa o Ru-
mena) e in altre chiese orientali (come la Armena e la Maronita), tuttavia,
nel corso dei secoli si sono diffuse anche formule di carattere indicativo,
che generalmente vengono poste in relazione a una influenza della teologia
latina141.
Gli studi condotti negli ultimi decenni sulle preghiere penitenziali della
tradizione bizantina permettono di ricostruire un quadro complessivo ab-
bastanza definito, che non è il caso di ripercorrere in questa sede. È utile,

140 Tommaso d’Aquino, De forma absolutionis, cap. 5: “Ultimo autem redit ad primum,


resumens rationes prius inductas, quod non debet sacerdos dicere: ego te absolvo, tum quia
hoc pertinet ad potestatem Dei, tum quia sacerdoti est incertum an ille absolvatur. Quae iam
supra soluta sunt. Addit etiam obiciendo quod vix triginta anni sunt quod omnes hac sola
forma utebantur: absolutionem et remissionem et cetera. Sed quomodo potest de omnibus
testimonium perhibere qui omnes non vidit? Sed hoc certum est quod iam mille ducenti anni
sunt et amplius quod dictum est Petro: quodcumque solveris super terram...”. Cito dall’edizione
elettronica disponibile sul sito www.corpusthomisticum.org (Textum Leoninum Romae 1968
editum ac automato translatum a Roberto Busa SJ in taenias magneticas denuo recognovit
Enrique Alarcón atque instruxit).
141 Ciò risulta evidente, ad esempio, per Armeni e Maroniti. Per i primi vedere il Conci-

lium Sissense del 1344 (Mansi 25.1226): “sed pro forma absolutionis sciendum est, quod, licet
intentio sacerdotis et illius qui confitetur eadem est sicut vestra, quia sacerdos intendit dare
et populus recipere remissionem peccatorum, tamen formam non perfecte ponebant, sed sic
dicebant ut supra dictum est. Sed ex tunc quod habuimus notitiam Romane Ecclesie, multi
de nobis addiscentes formam eius, cum eadem forma facimus remissionem peccatorum et
docemus alios facere”. Per i Maroniti vedere il Sinodo del Monte Libano (1736), Pars II, Caput
IV, de sacramento paenitentiae, c. 3 (Mansi 38.52): “Quamvis in antiquis ritualibus Syriacis
aliisque recentibus Orientalium ecclesiarum euchologiis forma absolutionis reperiatur verbis
deprecativis expressa, haec tamen sancta synodus praecipit ac mandat sacerdotibus omnibus,
ut nulla alia forma utantur praeter hanc, quae verbis indicativis exprimitur: Ego te absolvo a
peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus sancti...”.

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 75

tuttavia, tracciare le linee maestre di questa storia. La tradizione liturgica


bizantina rimane sostanzialmente ancorata alle formule deprecative di re-
missione dei peccati142 (che hanno una valenza non sacramentale quando si
tratti di una confessione rivolta a un semplice monaco). Nei testi ricorrono,
pur con modulazioni diverse nel tempo, sia concetti tipicamente bizantini
come quello del Dio che guarisce le malattie e le debolezze del suo popolo,
o della philanthropía di un Dio che non vuole la morte del peccatore ma
la sua conversione, sia la menzione esplicita (attraverso la citazione di Gv
20.22-23) del potere di rimettere i peccati, trasmesso attraverso gli Apostoli
e i loro successori al ministro (sacerdote) che recita la preghiera (“attra-
verso me perdona il tuo servitore...”)143. Nei rituali sono anche testimonia-
te preghiere che costituiscono l’evoluzione di quelle appena menzionate:
all’invocazione rivolta a Dio affinché perdoni il peccatore si aggiunge una
formula in cui il sacerdote, in prima persona, assolve dal peccato: si tratta
di uno sviluppo abbastanza tardivo, attestato tra i secoli XIV e XVII, e ri-
conducibile all’Italia meridionale: non è inverosimile pensare a una “conta-
minazione” con la tradizione latina144. Guardando ai formulari attualmente
in uso presso i Greci, uniti e non uniti, è noto che essi discendono da un
testo edito da Jacques Goar nel 1647145 e da Jean Morin nel 1651146: dall’eu-
cologio di Goar tale rituale transitò negli eucologi ortodossi veneziani del
1692 e 1750, poi in successive edizioni di parte ortodossa come di parte cat-
tolica147. Si tratta di un testo che Goar aveva tratto “ex antiquissimo Eucho-
142 Per un esempio si veda la formula del kanonárion di Giovanni monaco e diacono,
riportata sopra, nota 57.
143 È il caso della preghiera riportata da M. Arranz, ‘Les prières pénitentielles de la tradi-

tion byzantine. Les sacrements de la restauration de l’ancien euchologe constantinopolitain,


II-2 (2e partie)’, Orientalia Christiana Periodica (= OCP) 57 (1991) 309-329 (322-325, senza
indicazione della datazione del testo).
144 Il domenicano Jacques Goar trascrive nel suo Rituale Graecorum due orazioni di as-

soluzione con formula indicativa, affermando che esse erano in uso presso Calabri, Apuli e
Siculo-Graeci [ΕUΧΟΛΟΓΙΟΝ sive Rituale Graecorum... illustratum opera R.P.F. Iacobi Goar,
Parisini, Ordinis Fratrum Praedicatorum, Sacrae Theologiae Lectoris, nuper in Orientem Mis-
si Apostolici (Lutetiae Parisiorum, apud Simeonem Piget, 1647) 678]. Cfr. anche le preghiere
edite da M. Arranz, ‘Les prières pénitentielles de la tradition byzantine. Les sacrements de la
restauration de l’ancien euchologe constantinopolitain, II-2 (3e partie)’, OCP 58 (1992) 23-82
(64-72): la maggior parte dei manoscritti che riportano queste preghiere proviene dall’Italia
meridionale.
145 Goar, Rituale Graecorum 678-680 (abbreviato nella parte delle interrogazioni). Goar

introduce questo testo con l’intento di dimostrare la fede dei Greci nel sacramento della peni-
tenza e la loro pratica della confessione.
146 Commentarius historicus de disciplina in administratione sacramenti poenitentiae trede-

cim primis saeculis in Ecclesia occidentali, et hic usque in orientali observata... authore Ioanne
Morino Blesensi, Congregationis Oratorii D.N. Iesu Christi Presbytero (Parisiis, sumptibus
Gaspari Meturas, 1651), appendice, 118-122.
147 Euchológion to Méga (Roma 1873) 206 s.

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logio Barberino”, cioè dal missale Barberiniano greco 306 della Biblioteca
Vaticana, risalente al secolo XVI, il cui testo risale però a tempi più antichi.
Le prime due preghiere di assoluzione ivi riportate fanno espresso riferi-
mento alle parole di Cristo tramandate dal Vangelo di Giovanni (20.22-23)
e contengono una formula deprecativa di assoluzione nella quale il ruolo
ministeriale del presbitero è chiaramente enunciato148. Per queste ragioni il
domenicano Goar raccomandava che esse fossero usate da tutti i confesso-
ri: sebbene avessero una forma a prima vista deprecativa, essa era in realtà
indicativa quanto ai contenuti sostanziali149.
La questione della validità delle formule deprecative per secoli tenne
impegnati i teologi, ma è degno di nota che la validità fu ammessa prima
nella Perbrevis instructio di Clemente VIII (1595)150, poi da Benedetto XIV
nella costituzione Etsi pastoralis (1742)151.
Per dare un’idea delle dispute riguardanti la forma dell’assoluzione, pre-
scelgo due autori che rappresentano, per diversi aspetti, figure intellettuali

148 Goar, Rituale Graecorum 680. Forma della preghiera di assoluzione (nella traduzione

di Goar): “Fili mi spiritualis, abiectus sum et humilis peccator: eius propterea qui apud me
confitetur, non valeo remittere super terram peccata; sed Deus est, qui illa condonat. Propter
illam autem divinitus prolatam, post Christum resurrectionem auditam, et Apostolis dicentem
vocem: ‘quorum dimiseritis’ et quae sequuntur: propter illam, inquam et nos confisi, dicimus:
Quaecumque tenuissime meae humilitati enarrasti, et quaecumque minus ex ignorantia vel
oblivione, qualescunque sit, exprimere non valuisti: condonet tibi Deus, in praesenti saeculo
et futuro”. La seconda orazione: “Deus, qui Davidi propria peccata confitenti per Nathan pe-
percit, qui Petrum negationem lugentem, et meretricem ad pedes flentem, et publicanum et
prodigum suscepit: ipse Deus, per me peccatorem in praesenti saeculo tibi parcat: et indem-
natum te in tremendo suo tribunali sistere faciat. De revelatis autem in confessione hac tuis
criminibus nulla tibi sollicitudo. Vade in pace”.
149 Goar, Rituale Graecorum 680: “Circa has orationes animadverto desiderandum esse ut

omnes illis uterentur confessores: penultima namque earum indubitatam tenet sacramenti
poenitentiae formam his verbis contentam, ... Per me tibi condonet Deus, quamvis enim de-
precativa prima fronte appareat, absoluta nihilominus his dictionibus, ... per me, redditur,
authoritatemque a Deo acceptam, quam prius minister memorabat, reo penitenti applicat, et
indulgentiae divinae instrumentum, et causam subordinatam se praedicat: in editis tamen vel
manuscriptis quibusque aliis desideratur”.
150 Perbrevis instructio super aliquibus ritibus Graecorum ad RR.PP.DD. Episcopos Latinos,

in quorum civitatibus vel dioecesibus Graeci vel Albanenses Graeco ritu viventes degunt: si può
leggere nel Bullarium Pontificium Sacrae Congregationis de Propaganda Fide I (Romae 1839)
pp. 1-4, e in Mansi 38.306-308. Sono rilevanti i §§ 8-9: “In casu necessitatis presbyteri graeci
catholici possint latinos absolvere. Utantur forma absolutionis in generali Concilio Florentino
praescripta et postea, si voluerint, dicant orationem illam deprecativam, quam pro forma hu-
siusmodi absolutionis dicere tantum consueverunt”. L’utilizzazione della forma indicativa, in
questo caso, è richiesta per l’assoluzione di un latino da parte di un presbitero greco.
151 Benedetto XIV, cost. Etsi pastoralis (1742), § V, de sacramento paenitentiae, c. V (ri-

prende testualmente i §§ 8-9 dell’Istruzione clementina, fondendoli in un unico capitolo) [Bul-


larum privilegiorum ac diplomatum Romanorum Pontificum amplissima collectio. Benedicti
Papae XIV Bullarium, t. I (Romae 1746) pp. 167-185 (172 s.)].

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dalla penitenza pubblica alla penitenza privata 77

di grande rilievo nel secolo XVII. Mi riferisco, anzitutto, a Pietro Arcudio


(circa 1563-1633), teologo corfiotto educato al Collegio Greco di Roma,
figura che dedicò tutta la sua vita alla causa dell’unione fra Chiesa greca
e Chiesa latina. In questa prospettiva egli pubblicò a Parigi, nel 1619, i
sette libri De concordia Ecclesiae occidentalis et orientalis in septem sacra-
mentorum administratione152. Il libro quarto, dedicato al sacramento della
penitenza, è in massima parte occupato da un capitolo III riguardante la
forma del sacramento153. Esso si articola, secondo un procedimento argo-
mentativo tipicamente scolastico, in una incessante sequenza di afferma-
zioni e obiezioni che preludono a soluzioni le quali sono ulterioremente
giustificate con la risposta ad argomenti contrari. A prima vista — afferma
Arcudio — la forma usata dai Greci appare come deprecativa, forma che
tuttavia appare inadeguata per un sacramento che, alla stregua della defi-
nizione tridentina, si configura come una iudicialis sententia154. Dopo una
lunghissima serie di argomentazioni che si snodano per una ventina di
pagine, l’autore conclude enunciando la sua opinione, che definisce pro-
babilissima, anzi certissima: in verità, la forma usata dai Greci non è né
deprecativa, né imperativa, né mista, ma “autoritativa e giudiziale”. Egli si
riferisce a una formula del genere “Ti ritengo perdonato”, che ritiene equi-
valente a quella “Ti rimetto i peccati”155. Arcudio, tuttavia, ammette che tale
forma non si trova negli eucologi circolanti a quel tempo, sebbene essa sia

152 Ho usato la seconda edizione parigina del 1626: Petri Arcudii Corcyraei presbyteri
philosophiae ac sacrae theologiae doctoris libri VII De concordia Ecclesiae occidentalis et
orientalis in septem sacramentorum administratione (Lutetiae Parisiorum, apud Sebastianum
Cramoisy, 1626). Nella Brevis relatio totius operis, preposta al testo, l’autore enuncia i suoi pro-
positi: egli intende dimostrare che la Chiesa occidentale e quella orientale sono concordi “in re
sacramentaria”, e denunciare eventuali abusi o false interpretazioni sorte nella Chiesa greca
per opera degli scismatici. Ma l’opera ha anche la funzione di redarguire e correggere gli ere-
tici del tempo (i protestanti), che asseriscono che i sette sacramenti sono una invenzione della
Chiesa Romana: affermazione falsa, dal momento che anche la Chiesa orientale li conosce e
li conserva. Vale anche per istruire i presuli cattolici nelle cui diocesi vivono Greci, Albanesi
o Rutheni, e per dare una guida ai chierici greci che si dichiarano uniti alla Chiesa Romana.
153 Arcudio, De concordia Ecclesiae occidentalis et orientalis in septem sacramentorum ad-

ministratione, lib. IV, de poenitentia, pp. 345-377: il caput III, De forma Sacramenti Poeniten-
tiae, occupa le pp. 350-375.
154 Arcudio, De concordia Ecclesiae occidentalis et orientalis, p. 350: la forma usata dai

Greci “videtur enim esse deprecatoria, ut patet inspicientibus Euchologium. Inter alia vero
sacramenta nullum est, quod minus sit capax forme depraecatoriae, quam sacramentum pa-
enitentiae, cum forma eius debeat esse iudicialis sententia”.
155 Arcudio, De concordia Ecclesiae occidentalis et orientalis, p. 369: la sua opinione, “ea

vero eiusmodi est, quae asserat huius sacramenti formam apud Graecos non esse imperati-
vam, non deprecatoriam, neque mixtam, sed omnino enunciativam, et ut ita dicam... aucto-
ritativam ac iudicialem... Talem enim praesefert sensus et significatio horum verborum... ad
verbum ‘Habeo te veniam donatum’, hoc est... veniam do, ignosco, condono, seu remitto tibi
peccata”.

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frequentemente usata dai confessori156. La conclusione del discorso vale a


riconoscere che i Greci posseggono la vera forma dell’assoluzione, sebbene
spesso non la usino. Da ciò l’auspicio (simile a quello che qualche decennio
dopo avrebbe espresso Goar), che fosse stabilita e inclusa nell’eucologio
una forma certa e determinata che tutti i Greci debbano usare157.
La risposta al problema che diede il dottissimo oratoriano Jean Morin
(1591-1658) si pone su un piano diverso, ed è sostenuta da argomenti di
portata più generale, che tuttavia non erano estranei alla prospettiva adot-
tata da Arcudio, anzi ne costituivano un sostrato implicito. La soluzione si
fonda su una teologia della storia che da un lato tiene conto della variabi-
lità storica della disciplina della Chiesa, dall’altro si sostiene sulla inerran-
za della Chiesa garantita dalla perpetua assistenza di Cristo attraverso lo
Spirito Santo158. Ne discende la consapevolezza della relatività delle forme
storiche dei sacramenti: se è vero che tutti i sacramenti sono stati istituiti
da Cristo, tuttavia la determinazione delle loro forme è stata affidata alla
definizione della Chiesa, definizione che si è compiuta e si compie nel corso

156 Arcudio, De concordia Ecclesiae occidentalis et orientalis, p. 370 s.: “At non extat

eiusmodi formam in Euchologio. Equidem fateor. Neque enim, si extaret, in recensendis alio-
rum opinionibus laborassem. Est tamen frequens, et in ore multorum confessariorum quoti-
die versatur, licet major pars Graecorum ex ignorantia, quod nesciant totam vim latere in his
paucis verbis, ea non utantur...”.
157 Arcudio, De concordia Ecclesiae occidentalis et orientalis, p. 375: “Est ergo vera forma

apud Graecos, sed duo ab illis requirenda, ut et fierent, optanda essent. Alterum ut passim
ea omnes uterentur, quod non faciunt. Alterum ut in re presenti, nimirum gravissima, atque
omnino necessaria, non cuilibet liceret ad libitum his, vel aliis verbis et orationibus eam enun-
ciare, sed una esset oratio, et forma certa et determinata, quae omnibus inservirent, quaeque
in Euchologio contineretur”.
158 Questa teologia della storia è esposta in alcune belle pagine (non numerate) della Pra-

efactio ad Lectorem, alla quale occorre rinviare. In questa sede occorre sottolineare come
per Morin l’assistenza dello Spirito Santo generi una continuità senza rotture tra presente e
passato. Da un lato “a Deo... praeceptum nobis est Ecclesiam hodie loquentem audire, non
solum alterius aevi”; dall’altro non ci si deve sorprendere che la variazione della disciplina
della Chiesa abbia fatto sì che “olim aliter factum est, quam hodie consuevit [...] Ita prae-
sentem consuetudinem hoc seculo post Christum natum decimo septimo labente in Ecclesia
vigentem amplectimur, probamus, laudamus, sed antiquam non improbamus, verum lau-
damus, imo suscipimus et miramur ut temporibus illis convenientem”. Dal punto di vista
della metodologia storiografica (e dei suoi eventuali risvolti eversivi sul piano della “politica
religiosa”), Morin distingue un duplice scopo degli storici: “Qui antiquae disciplinae e tenebris
eruendae et illustrandae navat operam, sive ea paenitentiam spectet, sive alia sacramenta, aut
qualescunque Ecclesiae ritus, duplicem scopum sibi proponere potest. Vel simpliciter intendit
ritus quales olim erant, et exercebantur, ante lectorum oculos describere, et exprimere; vel id
facit ut theoriam ad praxim revocet, et memoriam rituum antiquorum intermortuam renovet,
usumque antiquum recentiore correcto restituat”; e attribuisce a se stesso il primo intendi-
mento, certo che ne sarebbe disceso un vantaggio agli amanti delle antichità ecclesiastiche e
alla Chiesa stessa.

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della storia159. In linea con queste premesse — che l’autore argomenta con


il sostegno di teologi sia occidentali che orientali160 —, la questione della
forma della assoluzione perde tutta l’urgenza e la rilevanza che altri autori
le attribuivano. La soluzione che egli dà al problema è piuttosto singolare.
Secondo Morin, a ben guardare anche la forma usata dai Latini è deprecati-
va, perché all’Ego te absolvo si aggiunge in nomine Patris, et Filii, et Spiritus
Sancti. L’invocazione della Santissima Trinità è necessaria ad esprimere il
carattere ministeriale dell’azione del sacerdote. Ed è tale invocazione a co-
stituire l’elemento essenziale e principale della formula, del quale la prima
parte, Ego te absolvo, costituisce un accessorio161. Nella sua singolarità, tale
posizione vale comunque a significare la convergenza delle forme usate
dalla Chiesa latina e dalla Chiesa greca verso un centro costituito dalla
sostanza del sacramento, sulla quale vi è concordia fra le due Chiese. La
conclusione è che sia la forma deprecativa, usata dai Greci, che la forma
normalmente considerata indicativa, usata dai latini, hanno la medesima
potestas et significatio; inoltre, se la forma sia indicativa o deprecativa non
è questione che attiene alla sostanza del sacramento, purché ciascun mini-
stro sacro segua il rito della sua propria Chiesa162.
Il dibattito proseguì per secoli. Della validità della forma deprecativa,
159 Morin, Commentarius historicus de disciplina in administratione sacramenti poeniten-
tiae, lib. VIII, cap. XVII, p. 566-568. In particolare, n° I, p. 566: “Quae capite praecedente
relata sunt, evidenter mihi demonstare videntur maxime probabilem esse eorum doctorum
sententiam qui asserunt Christum Dominum nostrum plerorumque sacramentorum formas
et materias generatim tantum instituisse; earum vero determinationem Apostolorum et Ec-
clesiae auctoritati et prudentiae commisisse. Eas enim si Christus instituisset, et Apostolis
determinasset, eaedem essent et omni tempore, et apud omnes gentes. Utroque autem modo
contrarium deprehenditur: Orientales enim ab Occidentalibus hac in causa plurimum diffe-
runt. Deinde si Latinorum antiquissima sacramentaria consulamus et cum neotericis compa-
remus, antiquorumque et recentiorum Patrum dicta cum scholasticorum effatis, quod capiti-
bus praecedentibus factum est, quorundam sacramentorum materias formasque plurimorum
ampliatas labente tempore deprehendemus. Imo si plurimorum scholasticorum sententiam
sequamur de nonnullorum sacramentorum materiis et formis differentium, nihil prorsus oc-
curret, neque in sanctis Patribus, neque in antiquis sacramentariis eorum quae pro materiis
et formis assignant. Quare videtur omnino dicendum istarum rerum determinationem esse
definitioni Ecclesiarum permissam”.
160 Fra le auctoritates ricordate da Morin a sostegno del suo argomento compaiono, fra

gli altri: Innocenzo IV, Jacques de Vitry, Alessandro di Hales, Roberto Bellarmino, Giovanni
de Lugo, Simeone di Tessalonica fra i bizantini, e lo stesso Pietro Arcudio, che richiama
(senza citarlo) Bellarmino in un passo relativo alle sacre ordinazioni, De concordia Ecclesiae
occidentalis et orientalis, lib. VI, de sacramento ordinis, cap. IV, quae sit materia ordinum apud
Latinos, p. 434 s.
161 Morin, Commentarius historicus de disciplina in administratione sacramenti poeniten-

tiae, lib. VIII, cap. XVIII, n° VIII, p. 569 s.


162 Morin, Commentarius historicus de disciplina in administratione sacramenti poeniten-

tiae, lib. VIII, cap. XVIII, n° VIII, p. 570: “Dico iterum, nec sic formam Latinam a Graeca sub-
stantialiter differre, eo quod eadem sit modi indicativi et deprecativi potestas et significatio,

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ai giorni nostri, non si dubita più da parte cattolica: è ritenuta, di fatto,


equivalente alla forma indicativa in quanto si tenga conto della finalità
dell’azione penitenziale (l’assoluzione dei peccati), della fede del sacerdote
nella propria potestà di assolvere i peccati, della fede del confitente di rice-
vere l’assoluzione.

5. Conclusioni

L’invito, che tante volte Giovanni Paolo II ha rivolto alla Chiesa, a “re-
spirare come con i due polmoni dell’Oriente e dell’Occidente” e ad “ardere
nella carità di Cristo con un solo cuore dai due ventricoli”163, si impone
come un proficuo canone metodologico anche all’inteprete che si propon-
ga — sotto diverse prospettive — di cogliere il significato della cattolicità:
una cattolicità che non è uniformità, ma varietà e ricchezza che discen-
dono dal complesso e dall’intreccio delle tradizioni. Alla conclusione di
questo percorso di ricerca mi sembra che — pur nella distinzione degli
sviluppi storici e con la diversa accentuazione data ai diversi aspetti della
questione — emerga una vera e sostanziale concordia delle due tradizioni
latina e bizantina quanto alle concezioni fondamentali relative al sacra-
mento della penitenza.
Nell’Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia Giovanni Paolo
II, enumerando una serie di convinzioni attorno alle quali possono essere
raccolte le diverse affermazioni della dottrina cattolica circa il sacramento
della penitenza, ricordava, fra l’altro, che esso si caratterizza per l’indole
giudiziale (sia pure da intendere analogicamente rispetto ad altri generi
di giudizi umani), ma che la coscienza della Chiesa vi ritrova anche una
funzione terapeutica o medicinale. Il sacramento della penitenza, dunque,
si presenta a un tempo come tribunal misericordiae e locus sanationis spi-
ritualis164. Il ministro vi agisce “in persona Christi”, nell’adempimento di
una missione e nell’esercizio di un potere di rimettere i peccati che Cristo
conferì agli Apostoli affinché fosse trasmesso ai loro successori165. Che le

nec ullo modo ad sacramenti substantiam pertinere, indicative an deprecative enuntietur,


modo Ecclesie suae ritum quisque sequatur”.
163 Giovanni Paolo II, Costituzione Apostolica Sacri canones, 18 ottobre 1990: “Ipsa inde

ab exordiis codificationis canonicae orientalium Ecclesiarum constans Romanorum Pontifi-


cum voluntas duos Codices, alterum pro latina Ecclesia alterum pro Ecclesiis orientalibus ca-
tholicis, promulgandi, admodum manifesto ostendit velle eosdem servare id quod in Ecclesia,
Deo providente, evenit, ut ipsa unico Spiritu congregata quasi duobus pulmonibus Orientis et
Occidentis respiret atque uno corde quasi duos ventriculos habente in caritate Christi ardeat”.
164 Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Post-sinodale Reconciliatio et paenitentia (2

dicembre 1984), n° 31.II.


165 Giovanni Paolo II, Reconciliatio et paenitentia, n° 29.

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due tradizioni, latina e bizantina, abbiano fedelmente conservato queste


convinzioni — appartenenti a quelle che il Pontefice definisce precipuae
rationes huius magni Sacramenti166 — è un dato che credo sia visibile a
conclusione di queste pagine. Tali convinzioni sono rese esplicite anche
nel nuovo diritto codificato della Chiesa cattolica, tanto nel Codice lati-
no167 quanto, con una opportuna accentuazione, nel Codice dei Canoni del-
le Chiese orientali cattoliche168.

Orientamento bibliografico e postille


Le molteplici prospettive che convergono nel presente studio, e la duplice aper-
tura verso le tradizioni latina e bizantina, rendono ardua la compilazione di un’ap-
pendice nella quale si possa rendere conto al lettore della complessità dei percorsi
bibliografici relativi ai temi trattati. Queste note sono lontane da qualsiasi pretesa
di completezza, e costituiscono un orientamento nel senso più soggettivo del termi-
ne, in quanto ripercorrono un itinerario di letture che, innanzi tutto, hanno guidato
l’autore nella ricerca.
Per il Medioevo occidentale sono fondamentali gli studi di Cyrille Vogel, a co-
minciare dal volume La discipline penitentielle en Gaule des origines à la fin du VII
siecle (Paris 1952). Utili due antologie di fonti commentate e tradotte: Le pécheur et
la pénitence dans l’Église ancienne (Paris 1966); Le pécheur et la pénitence au Moyen
Âge (Paris 1969). Al tema della penitenza lo stesso Vogel ha dedicato un cospicuo
numero di studi, ora raccolti nel volume En rémission des péchés. Recherches sur les
systèmes pénitentiels dans l’Eglise latine, ed. A. Faivre (Variorum, Collected Studies
Series 450; Aldershot — Brookfield 1994). Fra i quali meritano di essere espressa-
mente citati, per la connessione con i temi qui trattati, i seguenti saggi: ‘Réflexions
de l’historien sur la discipline pénitentielle dans l’Eglise latine’, Cahiers du Cercle
Ernest Renan 129 (Paris 1983) 29-37, n° I; ‘Pénitence et excommunication dans
l’Eglise ancienne et durant le Haut Moyen Âge’, Concilium 107 (1975) 11-22, n° IV;
‘Composition légale et commutations dans le système de la pénitence tarifée’, Revue
de Droit Canonique 8 (1958) 289-318, 9 (1959) 1-38, 341-359, n° V; ‘Le pélérinage
pénitentiel’, Revue des Sciences Religieuses 38 (1964) 113-153, n° VII; ‘Les rites de
la pénitence publique aux Xe et XIe siècles’, Mélanges René Crozet (Poitiers 1966)
137-144, n° VIII; ‘Les rituels de la pénitence tarifée’, Liturgia opera divina e umana.

166 Giovanni Paolo II, Reconciliatio et paenitentia, n° 28.


167 Can.978 §1/CIC: “Meminerit sacerdos in audiendis confessionibus se iudicis pariter
et medici personam sustinere ac divinae iustitiae simul et misericordiae ministrum a Deo
constitutum esse, ut honori divino et animarum saluti consulat”.
168 Can. 732/CCEO: “§ 1. Pro qualitate, gravitate et numero peccatorum, habita ratione

paenitentis condicionis necnon eiusdem ad conversionem dispositionis, confessarius conve-


nientem morbo afferat medicinam opportuna opera paenitentiae imponens. § 2. Meminerit
sacerdos se divinae iustitiae et misericordiae ministrum a Deo constitutum esse; tamquam
pater spiritualis etiam opportuna consilia praebeat, ut quis progredi possit in sua vocatione
ad sanctitatem”.

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Studi offerti a S.E. Mons. A. Bugnini (Bibliotheca Ephemerides Liturgicae, Subsidia


26; Roma 1982) 419-427, n° XI.
Sul genere letterario dei libri penitenziali conserva la sua utilità il panorama of-
ferto da G. Le Bras, ‘Pénitentiels’, Dictionnaire de Théologie Catholique (d’ora in poi
DThC) XII.1 (Paris 1933) 1160-1179; dei successivi sviluppi storiografici dà conto
C. Vogel, Les “Libri paenitentiales” (Typologie des Sources du Moyen Âge Occiden-
tal 27; Turnhout 1978), da vedere con l’aggiornamento di A.J. Frantzen (Turnhout
1985). In particolare, sul carattere medicinale della penitenza nella concezione dei
libri penitenziali vedere J.T. McNeill, ‘La medicina per il peccato prescritta nei pe-
nitenziali’, Una componente della mentalità occidentale. I penitenziali nell’alto me-
dio evo, ed. M.G. Muzzarelli (Bologna 1980), pp. 215-233, già in Church History
1 (1932) 14-26; sul tema, in generale, si veda il volume Dimensione terapeutica del
sacramento della penitenza-riconciliazione, a cura di P. Sorgi (Facoltà Teologica di
Sicilia ‘S. Giovanni Evangelista’, Coll. Leitourghía 3; Trapani, 2009), nel quale si
legge anche il saggio di F.S. Cucinotta, ‘La penitenza nelle liturgie e nelle teologie
orientali’, 73-104. Sul penitenziale di Burcardo di Worms si veda il volume curato
da G. Picasso – G. Piana – G. Motta, A pane e acqua. Peccati e penitenze nel Medioe-
vo. Il penitenziale di Burcardo di Worms (Novara 1986), che del penitenziale porta
anche la traduzione italiana; inoltre L. Körntgen, ‘Fortschreibung frümittelalter-
licher Busspraxis. Burchards Liber corrector und seine Quellen’, Bischof Burchard
von Worms, ed. W. Hartmann (Mainz 2000) 199-226.
Sull’alto Medioevo occidentale si può fare riferimento agli studi di G. Garanci-
ni, ‘Persona, peccato, penitenza. Studi sulla disciplina penitenziale nell’Alto Medio
Evo’, Rivista di Storia del Diritto Italiano 47 (1974) 19-87; R. Kottje, ‘Busspraxis und
Bussritus’, Segni e riti nella Chiesa altomedievale occidentale (Settimane del Centro
Italiano di Studi sull’Alto Medioevo 32; Spoleto 1987) I 369-395; M. de Jong, ‘What
was “Public” about Public Penance? Paenitentia publica and Justice in the Carolin-
gian World’, La Giustizia nell’Alto Medioevo (secoli IX-XI) (Settimane di Studio del
CISAM 42; Spoleto 1997) II 863-902; Eadem, ‘Transformations of Penance’, Rituals
of Power from Late Antiquity to the Early Middle Ages, edd. F. Theuws - J.L. Nelson
(Leiden – Boston – Köln 2000) 185-224; Eadem, The Penitential State. Authority and
Atonement in the Ages of Louis the Pious (814-840) (Cambridge 2009); A. Firey, A
Contrite Heart. Prosecution and Redemption in the Carolingian Empire (Studies in
Medieval and Reformation Traditions 145; Leiden 2009). A più ampie prospettive
temporali si apre il recente volume collettaneo A New History of Penance, ed. A.
Firey (Leiden 2008). Fra le ricerche dedicate al basso Medioevo merita un ricordo
il libro di M.C. Mansfield, The Humiliation of Sinners. Public Penance in Thirteenth-
Century France (Ithaca 1995), che mostra la permanenza della penitenza pubblica
in Francia (ma anche in Renania ed Inghilterra) anche dopo il 1215; si veda inoltre
M.G. Muzzarelli, Penitenze nel Medioevo. Uomini e modelli a confronto (Bologna
1994).
Nella prospettiva della storia della teologia si segnalano gli studi complessivi di
P. Anciaux, Le sacrement de la pénitence (Louvain – Paris 19602) e di B. Poschmann,
La pénitence et l’onction des malades, traduzione dal edizione originale in lingua
tedesca (Histoire des Dogmes. IV Sacrements, 3; Paris 1966), quest’ultimo parti-
colarmente utile per la ricchezza delle fonti utilizzate. Per l’approccio dogmatico-

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sistematico costruito su basi storiche è tuttora utile l’inquadramento offerto da P.


Galtier, De paenitentia. Tractatus historicus-dogmaticus, editio novissima (Ponti-
ficia Universitas Gregoriana, Romae 1956). I tre volumi appena citati mettono a
frutto fonti storiche della tradizione latina e di quelle orientali.
Sullo spartiacque costituito, in Occidente, dai secoli XI/XII, e sui successivi svi-
luppi legislativi e dottrinali, costituiscono una buona guida gli studi di P. Prodi,
Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza
e diritto (Bologna 2000) 49 ss.; J. Goering, ‘The Internal Forum and the Literature
of Penance and Confession’, The History of Medieval Canon Law in the Classical
Period, 1140-1234. From Gratian to the Decretals of Pope Gregory IX, edd. W. Hart-
mann - K. Pennington (Washington D.C. 2008) 379-428, e Id., ‘The Scholastic Turn
(1100-1500): Penitential Theology and Law in the Schools’, A New History of Pen-
ance, ed. A. Firey (Leiden 2008) 219-237. Sul genere letterario delle somme peni-
tenziali sono specifici gli studi di P. Michaud-Quantin, Sommes de casuistique et
manuels de confession au moyen-âge (Lille 1962) e P. Grossi, ‘Somme penitenziali,
diritto canonico, diritto comune’, Annali della Facoltà Giuridica di Macerata, nuova
serie 1 (1966) 95-134.
In particolare, sul “padre della scienza del diritto canonico” e sul suo approccio
al tema della penitenza si vedano J. Gaudemet, ‘Le débat sur la confession dans
la Distinction I du “de penitentia” (Decret de Gratien, C.33, q.3)’, Zeitschrift der
Savigny Stiftung für Rechtsgeschichte, kanonistische Abteilung 71 (1985) 52-75; A.
Larson, ‘The Evolution of Gratian’s Tractatus de penitentia’, Bulletin of Medieval
Canon Law 26 (2004-2006) 59-123; Eadem, ‘The influence of the School of Laon on
Gratian: The Usage of the Glossa Ordinaria and Anselmian Sententiae in De peniten-
tia (Decretum C.33 q.3)’, Mediaeval Studies 72 (2010) 197-244; J. Wei, ‘Penitential
Theology in Gratian’s Decretum: Critique and Criticism in the Treatise Baptizato
homine’, Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, kanonistische Abtei-
lung 95 (2009) 78-100.
Una ricostruzione della dottrina penitenziale nel secolo XII è offerta dall’ampio
studio di P. Anciaux, La théologie du sacrement de la pénitence au XIIe siècle (Lou-
vain 1949). Sullo specifico tema della confessione fatta ai laici rimane fondamen-
tale la ricerca di A. Teetaert, La confession aux laïques dans l’Eglise latine depuis le
VIIIe jusqu’au XIVe siècle (Wetteren – Bruges – Paris 1926).
Nel quadro degli sviluppi in seno all’Occidente latino si è visto quale sia stata
la centralità del Concilio Lateranense IV con il suo can. 21. Sulle problematiche
di carattere pastorale e giuridico che ne scaturiscono vedere J. Avril, ‘A propos du
“proprius sacerdos”: Quelques réflexions sur les pouvoirs du prêtre de pa­roisse’,
Proceedings of the Fifth International Congress of Medieval Canon Law, Salamanca,
21-25 September 1976, edd. S. Kuttner - K. Pennington (Monumenta Iuris Canoni-
ci, Series C: Subsidia 6; Vaticano 1980) 471-486; M. Maccarrone, ‘“Cura animarum”
e “parochialis sacerdos” nelle costituzioni del IV Concilio Lateranense (1215). Ap-
plicazioni in Italia nel secolo XIII, Pievi e parrocchie in Italia nel Basso Medioevo
(sec. XIII-XV). Atti del VI Convegno di Storia della Chiesa in Italia (Firenze, 21-25
settembre 1981), I (Italia Sacra. Studi e documenti di Storia ecclesia­stica 35; Roma
1984) 81-195; P.M. Gy, ‘Le précepte de la confession annuelle et la nécessité de la
confession’, Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques 63 (1979) 529-547;

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Id., ‘Les définitions de la confession après le quatrième concile du Latran’, L’aveu:


Antiquité et Moyen Âge (Collection de l’Ecole Française de Rome 88; Rome 1986)
283-296. Il quadro istituzionale previsto dal canone lateranense venne turbato dalla
progressiva affermazione degli ordini mendicanti (domenicani e francescani): su
questi aspetti rimane fondamentale il saggio di Y. Congar, ‘Aspects ecclésiologiques
de la querelle entre mendiants et séculiers dans la seconde moitié du XIIIe siècle et
le début du XIVe’, Archives d’Histoire Doctrinale et Littéraire du Moyen Age 28 (1961)
35-151; si vedano, inoltre, gli studi raccolti nel volume Dalla penitenza all’ascolto
delle confessioni. Il ruolo dei frati mendicanti. Atti del XXIII Convegno internazio-
nale di Studi francescani, Assisi, 12-14 ottobre 1995 (Atti dei Convegni della Società
Internazionale di Studi francescani e del Centro Interuniversitario di Studi france-
scani nuova serie 6; Spoleto 1996).
Sul tema della restitutio dei male ablata, centrale nella riflessione della scienza
giuridica e teologica occidentale, rinvio a O. Condorelli, ‘Norma giuridica e norma
morale, giustizia e salus animarum secondo Diego de Covarrubias. Riflessioni a
margine della Relectio super regula “Peccatum”, Rivista Internazionale di Diritto Co-
mune 19 (2008) 163-202, con la letteratura ivi citata.
Sulla definizione tridentina della dottrina teologica e giuridica della penitenza
vedere J. Bernard, ‘Le sacrement de pénitence au Concile de Trente’, Revue de Droit
Canonique 34 (1984) 249-273 e A. Amato, I pronunciamenti tridentini sulla necessità
della confessione sacramentale nei Canoni 6-9 della Sessione XIV (25 novembre 1551)
(saggio di ermeneutica conciliare) (Bibliotheca Theologica Salesiana 7; Roma 1974).
Sulla confessione in epoca post-tridentina vedere lo studio di A. Prosperi, Tribunali
della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari (Torino 20092).
Tra Oriente e Occidente, l’idea di penitenza ha le sue radici nella terminologia
neotestamentaria che esprime il concetto di conversione (metanoeîn, metánoia; epi-
stréfein, epistrofè): al riguardo sono illuminanti le pagine di Yves M.-J. Congar, ‘La
conversione. Studio teologico e psicologico’, in Id., Sacerdozio e laicato di fronte ai
loro compiti di evangelizzazione e di civiltà, traduzione italiana (Brescia, Morcellia-
na, 1966) 21-44, in particolare 23-28.
Per quanto attiene alla tradizione orientale e più strettamente bizantina, alcuni
studi, per quanto risalenti nel tempo, conservano il loro valore perché solidamente
basati sulle fonti. Mi riferisco, in particolare, ad alcune voci del Dictionnaire de
Théologie Catholique che ho tenuto presenti nello scrivere queste pagine: E. Vacan-
dard, ‘[Confession]. IIe période (IVe-VIe siècle): I. Discipline de l’Église grecque’,
all’interno della voce del medesimo, ‘Confession. II. Confession du Ier au XIIIe
siècle’, DThC III.1 (Paris 1938) 838-894, in particolare 861-874; M. Jugie, ‘La péni-
tence dans l’Église grecque aprés le schisme’, all’interno della voce di E. Amann
– A. Michel – M. Jugie, ‘Penitence-sacrement’, DThC XII.1 (Paris 1933) 722-1138,
in particolare 1127-1138; P. Michel, ‘Absolution chez les grecs’, DThC I.1 (Paris
1930) 200-205; A. Vacant, ‘Absolution sous forme déprécatoire’, DThC I.1 (Paris
1930) 244-252; P. Galtier, ‘Satisfaction’, DThC XIV.1 (Paris 1939) 1129-1210, in
particolare 1146-1152, ‘L’accord avec les Églises d’Orient’; si veda inoltre M. Jugie,
Theologia dogmatica Christianorum orientalium ab ecclesia catholica dissidentium,
III (Parisiis 1930) 331-369.
Il volume di B. Petrà, La penitenza nelle Chiese ortodosse. Aspetti storici e sacra-

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mentali (Nuovi Saggi Teologici 63; Bologna 2005), costituisce un’agile e a un tempo
profonda introduzione al tema della penitenza, in cui le prospettive della teologia
sacramentale e morale convergono con l’attenzione alle fonti canoniche (la tradi-
zione dei sacri canoni).
Un rapido profilo ricostruttivo si legge in E. Ch. Suttner, ‘Busse (liturgisch-­
theologisch). C. Busse im christlichen Osten’, Lexikon des Mittelalters II (München
– Zürich 1983) 1125-1130.
La tradizione canonica bizantina e l’attuale disciplina del CCEO sono al centro
degli studi di E. Synek, ‘Rechtsgeschichtliche Anmerkungen zur Bussdisziplin im
CCEO’, Ius canonicum in Oriente et Occidente. Festschrift für Carl Gerold Fürst zum
70. Geburtstag, edd. H. Zapp – A. Weiss – S. Korta (Adnotationes in Ius Canonicum
25; Frankfurt am Main 2003) 385-402 e D. Salachas, ‘Il sacramento della penitenza
nella tradizione canonica orientale e problematiche interecclesiali’, Folia Canonica
6 (2003) 121-155.
Alcuni lavori sono particolarmente utili per ricostruire le linee della tradizione
orientale del sacramento della penitenza nello specchio della liturgia: L. Ligier, ‘Le
sacrament de la pénitence selon la tradition orientale’, Nouvelle Revue Théologique
89 (1967) 940-967 [anche in traduzione italiana, ‘Il sacramento della penitenza se-
condo la tradizione orientale’, La penitenza (Quaderni di Rivista Liturgica 9; Tori-
no 1968) 145-175]; Id., ‘Dimension personnelle et dimension communautaire de la
pénitence en Orient’, La Maison-Dieu 90 (1967) 155-188. Lo stesso Ligier ha offerto
un profilo sintetico nella sua Introduzione alla liturgia orientale della penitenza. Ad
usum privatum auditorum (Pontificium Institutum Orientalium Studiorum, Roma
1968), libro che merita un’attenzione ben maggiore di quella che l’Autore ha mode-
stamente richiesto indicandone i destinatari. Sulla stessa linea vedere anche F. van
de Paverd, ‘La pénitence dans le rite byzantin’, Questions Liturgiques 54 (1973) 191-
203. Lo studio di E. Mazza, ‘La celebrazione della penitenza nella liturgia bizantina
e in Occidente: due concezioni a confronto’, Ephemerides Liturgicae 115 (2001) 385-
440, rappresenta un tentativo riuscito di comparare le concezioni della penitenza
attraverso la storia della liturgia.
Varia e non uniforme utilità presentano i seguenti lavori: G. Wagner, ‘Bussdiszi-
plin in der Tradition des Ostens’, Liturgie et remission des péchés. Conferences Saint-
Serge. XX Semaine d’Études liturgiques, Paris, 2-5 juillet 1973, edd. A.M. Triacca
– A. Pistoia (Bibliotheca Ephemerides Liturgicae, Subsidia 3; Roma 1975) 251-264;
F. Nikolasch, ‘La liturgia penitenziale nelle Chiese orientali e suo significato’, Con-
cilium 7 (1971) 90-103; E. Melia, ‘L’acte écclesial de la réconciliation dand l’Église
orthodoxe’, Revue de Droit Canonique 34 (1984) 336-348; J.H. Erickson, ‘Penitential
Discipline in the Orthodox Canonical Tradition’, Saint Vladimir’s Theological Quar-
terly 21 (1977) 191-206: merita approfondimenti, che non possono essere condotti
in queste pagine, il suo accenno (p. 198) circa la possibilità che anche a Costanti-
nopoli, come in Occidente nell’epoca carolingia, si sia potuto instaurare un sistema
dicotomico articolato in penitenza pubblica e privata.
Su alcune delle fonti orientali trattate in queste pagine, in particolare sulla Dida-
scalia e sulle Costituzioni Apostoliche: P. Galtier, Aux origines du sacrement de péni-
tence (Analecta Gregoriana, vol. 54, Series Facultatis Theologicae, Sectio A, n° 6;
Romae 1951); K. Rahner, ‘Busslehre und Busspraxis der Didascalia Apostolorum’,

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Zeitschrift für katholische Theologie 72 (1950) 257-281; J. Bernhard, ‘Les institutions


pénitentielles d’après la Didascalie’, Melto 3 (= Mélanges Mgr. Pierre Dib; Kaslik, Li-
bano 1967) 237-267; M. Metzger, ‘La pénitence dans les Constitutions Apostoliques’,
Revue de Droit Canonique 34 (1984) 224-234; Id., Introduction à Les Constitutions
Apostoliques, ed. M. Metzger, I-III (Sources Chrétiennes 320, 329, 336; Paris 1985-
1987) II 97-105.
Sul can. 102 del Concilio Trullano, più volte ricordato in queste pagine, vedere
S.N. Troianos, ‘“Akribeia” und “Oikonomia” in den heiligen Kanones’, Ius Ecclesia-
rum vehiculum caritatis. Atti del simposio internazionale per il decennale dell’en-
trata in vigore del “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium”, Città del Vaticano,
19-23 novembre 2001 (Congregazione per le Chiese Orientali; Città del Vaticano
2004) 187-198 (193 s.); C.G. Fürst, ‘Diritto penale e carità’, ibidem 515-534.
Sulla letteratura penitenziale bizantina, e in particolare sul kanonárion di Gio-
vanni Diacono e Monaco, vedere E. Herman, ‘Il più antico penitenziale greco’, OCP
19 (1953) 71-127; M. Arranz, I Penitenziali bizantini. Il Protokanonarion o Kano-
narion primitivo di Giovanni monaco e diacono e il Deuterokanonarion o “Secondo
Kanonarion” di Basilio monaco (Kanonika 3; Roma 1993); F. van de Paverd, The Ka-
nonarion by John, Monk and Deacon, and Didascalia Patrum (Kanonika 12; Roma
2006), da ultimo ha riconsiderato la questione dell’autore e della datazione dell’o-
pera. Egli ritiene che il kanonárion sia opera di quattro autori: il primo e più antico
è il diacono e monaco Giovanni, poi vi sono le sezioni aggiunte da un “confessore”,
“un canonista”, un “maestro”. Giovanni avrebbe scritto tra il 546 e il 630 circa, e
non è da confondere con il patriarca costantinopolitano Giovanni il Digiunatore
(582-595), al quale alcune linee della tradizione attribuiscono l’opera.
Sui canonisti bizantini più frequentemente menzionati nella ricerca vedere G.P.
Stevens, De Theodoro Balsamone. Analysis operum ac mentis iuridicae (Corona La-
teranensis 16; Roma 1969); D. Ceccarelli Morolli, ‘Zonaras, Giovanni’, Dizionario
Enciclopedico dell’Oriente Cristiano, a cura di E.G. Farrugia (Roma 2000) 816 s. Su
Simeone il Nuovo Teologo: T. Špidlík, ‘Simeone il Nuovo Teologo’, Dizionario En-
ciclopedico dell’Oriente Cristiano, cit., 695 s., e B. Petrà, ‘Simeone il Nuovo Teologo.
Profilo biografico e spirituale’, Rivista di ascetica e mistica 18 (1993) 264-298. Su
Simeone di Tessalonica: M. Paparozzi, ‘Simeone di Tessalonica’, Dizionario Enci-
clopedico dell’Oriente Cristiano, cit., 694 s. Su Marco di Efeso: C. Capizzi, ‘Marco
Eugenico’, Dizionario Enciclopedico dell’Oriente Cristiano, cit., 467 s., e B. Petrà,
‘Kata to phronêma tôn patêron. La coerenza teologica di Marco di Efeso al Concilio
di Firenze’, Firenze e il concilio del 1439, a cura di P. Viti (Biblioteca Storica Tosca-
na, Firenze 1994) 873-900.
Sul sacramento della penitenza nella teologia ortodossa moderna e contempo-
ranea è fondamentale il volume di A. Amato, Il sacramento della penitenza nella
teologia greco-ortodossa. Studi storico-dogmatici (sec. XVI-XX) (Analecta Vlatadon
38; Tessalonica 1982), all’interno del quale è confluito il precedente lavoro su ‘Il
sacramento della penitenza nelle Confessioni di fede ortodosse del secolo XVII’,
Salesianum 42 (1980) 35-71. Non ho potuto consultare A. Amato, ‘La dimensione
terapeutica del sacramento della penitenza nella teologia e nella prassi della Chiesa
greco-ortodossa’, Theologie und Leben. Festgabe für Georg Söll zum 70. Geburtstag,
edd. A. Bodem – A.M. Kothgasser (Biblioteca di Scienze Religiose 58; Roma 1983).

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L’analisi delle posizioni della teologia ortodossa contemporanea, svolta da Amato


nel citato volume, mostra alcune significative convergenze con la tradizione dottri-
nale latina, delle quali può essere interessante fare qui qualche cenno. Per esem-
pio, il teologo K. Diovuniotis (1913) sostiene l’equivalenza della formula indicativa
latina con quella deprecativa bizantina (ivi, p. 358). E ancora, nella Dogmatikè di
Panaghiotis Trembelas (Dogmatica della Chiesa ortodossa cattolica, 1961) si trova
una significativa e inequivocabile affermazione della natura giudiziale dell’assolu-
zione (“giudizio di grazia, di pietà e di misericordia”), accanto alla quale l’autore
ribadisce che le soddisfazioni hanno carattere “terapeutico”. Non a caso, dunque,
Amato considera che sia “una nota di novità” “l’ampia presentazione... del carattere
giudiziale della penitenza, del padre spirituale come ‘giudice di grazia e di correzio-
ne’... e dell’assoluzione come ‘azione giudiziale’” (enérgheia dikastiké) (ivi, 366-369).
Per una rapida ma efficace presentazione e caratterizzazione del tema della
penitenza da parte di un autorevole teologo ortodosso contemporaneo vedere J.
Meyendorff, La teologia bizantina. Sviluppi storici e temi dottrinali (New York 1979;
traduzione italiana Genova 1984) 236-238.
Sul peccato e la penitenza nella prospettiva della spiritualità orientale vedere T.
Špidlík, La spiritualità dell’Oriente cristiano. Manuale sistematico (Roma 1985) 159-
176, e lo studio specifico di I. Hausherr, Penthos. La doctrine de la componction dans
l’Orient chrétien (Orientalia Christiana Analecta 132; Roma 1944).
Come si è ripetutamente messo, lo studio delle preghiere penitenziali e dei
formulari per la confessione è un essenziale via di comprensione di quelle con-
sapevolezze che trovano, in altra direzione, espressione nel pensiero teologico e
giuridico. Dopo i lavori di Placide de Meester, Studi sui sacramenti amministrati
secondo il rito bizantino. Storia, disciplina, riti abbreviati, questioni connesse (Roma
1947) 143-152 e di A. Raes, ‘Les formulaires grecs du rite de la pénitence’, Mélan-
ges en l’honneur de Mgr. Andrieu (Strasbourg 1956) 363-372, per un approccio al
tema sono ormai imprescindibili le ricerche di Miguel Arranz: ‘Les prières péni-
tentielles de la tradition byzantine. Les sacrements de la restauration de l’ancien
euchologe constantinopolitain, II-2 (Ière partie)’, OCP 57 (1991) 87-143; ‘Les prières
pénitentielles de la tradition byzantine. Les sacrements de la restauration de l’an-
cien euchologe constantinopolitain, II-2 (2e partie)’, OCP 57 (1991) 309-329; ‘Les
prières pénitentielles de la tradition byzantine. Les sacrements de la restauration de
l’ancien euchologe constantinopolitain, II-2 (3e partie)’, OCP 58 (1992) 23-82; ‘Les
formulaires de confession de la tradition byzantine. Les sacrements de la restau-
ration de l’ancien euchologe constantinopolitain, II-3 (Ière partie)’, OCP 58 (1992)
423-459; ‘Les formulaires de confession de la tradition byzantine. Les sacrements
de la restauration de l’ancien euchologe constantinopolitain, II-3 (2e partie)’, OCP
59 (1993) 63-89; ‘Les formulaires de confession de la tradition byzantine. Les sacre-
ments de la restauration de l’ancien euchologe constantinopolitain, II-3 (3e partie)’,
OCP 59 (1993) 357-386. A seguito di una puntuale analisi delle loro caratteristiche
Arranz classifica le preghiere penitenziali in sei categorie (K1-K6), e distingue i
formulari per la confessione in quelli propri del “rito monastico” e quelli destinati
al “rito presbiterale”. La confessione monastica è descritta nei kanonária, e qui la
riammissione alla comunione non si ottiene tramite una assoluzione, ma attraverso
l’esecuzione di una penitenza imposta dall’anadechómenos, il confessore che invoca

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il perdono di Dio sul penitente. La confessione presbiterale costituisce un vero e


proprio atto liturgico, che, dopo i secoli X-XI, finisce per ricalcare i rituali della
confessione monastica, anche nel tentativo di recuperare in capo ai presbiteri un
ruolo che nei secoli era divenuto “monopolio dei monaci” [Arranz, ‘Les formulaires
de confession... II-3 (Ie partie)’, OCP 58 (1992) 425-431]. Tra i diversi formulari mi
sono soffermato su quello del ms. Barberiniano greco 306 della Biblioteca Aposto-
lica Vaticana, la cui formula di assoluzione sta alla radice di quelle attualmente in
uso presso Greci uniti e non uniti. Su questo eucologio si veda anzi tutto Arranz,
‘Les formulaires de confession, II-3 (3e partie)’ 380-380. Il manoscritto Barberiniano
greco 306 fu copiato nella seconda metà del secolo XVI da Giorgio Basilikòs, figlio
dello scriba costantinopolitano Giorgio, e fu donato il 16 maggio 1577 al cardinale
Giulio Antonio Santoro da Antonio Grignetta, protonotaro apostolico e vicario epi-
scopale della diocesi di San Severina, in Calabria: P. Canart, ‘L’écriture de George
Basilikòs. De Constantinople à la Calabre en passant par Venise’, The Greek Script
in the 15th and 16th centuries (E hellenikè graphè katà toûs 15. kaì 16. aiònas) (Ate-
ne 2000) 165-191 (170), S. Lucà, ‘Teodoro sacerdote, copista del Reg. gr. Pii II 35.
Appunti su scribi e committenti di manoscritti greci’, Bollettino della Badia greca di
Grottaferrata, nuova serie 55 (2001) 127-164 (147 s.); M.T. Rodriquez, ‘Manoscritti
cartacei del Fondo del San Salvatore. Proposte di datazione’, Rivista di studi bizantini
e neoellenici, nuova serie 23 (2006) 177-259, nota 96. Devo queste informazioni alla
cortesia della Dottoressa Maria Teresa Rodriquez, che qui ringrazio.
Su Pietro Arcudio: L. Petit, ‘Arcudius Pierre’, DThC I.2 (Paris 1931) 1771-1773;
G. Mykoliw, ‘Arcudio Pietro’, Dizionario Biografico degli Italiani IV (Roma 1962)
15-17; G. Podskalsky, Griechische Theologie in der Zeit der Türkenherrschaft (1453-
1821) (München 1988) 156-160. Su Jean Morin: A. Molien, ‘Morin Jean’, DThC X.2
(Paris 1929) 2486-2489; G. Le Bras, Prolégomènes (Histoire du Droit et des Institu-
tions de l’Eglise en Occident, 1; Paris 1955) 9, 186; in traduzione italiana, La Chiesa
del diritto. Introduzione allo studio delle istituzioni ecclesiastiche, con premessa di
Francesco Margiotta Broglio (Bologna 1976) 10, 215. Su Jacques Goar: R. Cou-
lon, ‘Goar Jacques’, DThC VI.2 (Paris 1947) 1467-1469; C. Weise, ‘Goar Jacques’,
Biographisch-Bibliographisches Kirchenlexikon, XXI (Nordhausen 2003) 486-489.

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