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EXTRACTA
a cura di
G. Ruyssen, S.J.
1. Premessa**
Castro, che al tema del diritto divino e alla sua declinazione nella storia dell’uomo ha dedicato
pagine fondamentali: ‘Il mistero del diritto divino’, Ius Ecclesiae 8 (1996) 427-463, ora in G.
Lo Castro, Il mistero del diritto. I. Del diritto e della sua conoscenza (Collana di Studi di Diritto
Canonico ed Ecclesiastico, Sezione Canonistica 20; Torino 1997) 19-62.
** Le note a pie’ di pagina contengono solo i riferimenti alle fonti trattate nel testo. Gli
Polycarpe, ed. P.Th. Camelot (Sources Chrétiennes 10, Paris 1969) 126 s.
2 Ad Trallianos III.1 (ed. Camelot 96 s.); ad Magnesios VI.1 (ed. Camelot 84 s.); Ad Smyr-
cata et orate pro invicem, ut sanemini” (5.16). Nella Didachè l’invito alla
confessione dei peccati è ripetuto in due momenti: “Nell’assemblea farai la
confessione completa dei tuoi peccati e non andrai alla tua preghiera con
una coscienza impura”; e ancora: “riunitevi nel giorno del Signore, spez-
zate il pane e rendete grazie dopo aver confessato i vostri peccati, affinché
il vostro sacrificio sia puro”4. Si tratta probabilmente di una confessione
generale, senza specifica enumerazione dei peccati, diretta a invocare il
perdono di Dio.
Fra gli autori che più contribuirono allo sviluppo della dottrina della
penitenza vi fu, nel III secolo, Tertulliano. Il trattato De paenitentia appar-
tiene alla sua fase cattolica. Si tratta della paenitentia secunda, attraverso la
quale sono perdonati i peccati commessi dopo il lavacro battesimale. Può
essere accordata una sola volta. È una operosior probatio che non consiste
solo in una conversione della coscienza, ma esige di manifestarsi con atti
esteriori. È qualificata con la parola greca exomologésis: cioè una confes-
sione a Dio e al prossimo che è anche una “prosternendi et humilificandi
hominis disciplina”5. Essa esige una serie di atti di mortificazione e una
publicatio sui che, per la vergogna che questa comporta, Tertulliano è co-
sciente possa indurre i peccatori a evitare o a differire nel tempo la peni-
tenza stessa.
Se il processo penitenziale era pubblico nel suo complesso, non necessa-
riamente pubblica doveva essere la confessione dei peccati occulti. Da questo
punto di vista le fonti attestano pratiche diversificate e differenti reazioni al
problema. Per i secoli IV e V alcuni testi sono molto eloquenti. Papa Leone
Magno, in una lettera indirizzata ai vescovi di Campania, Sannio e Piceno,
testimonia che in quelle Chiese si esigeva e si praticava la confessione pub-
blica dei singoli peccati da parte di chi chiedeva di entrare in penitenza (at-
traverso la lettura di un libello). Egli ordina di rimuovere tale consuetudine,
che a suo giudizio costituisce una illecita violazione della “regola apostoli-
ca”. È evidente l’intento pastorale del Pontefice. Sebbene tale confessione
pubblica possa rappresentare il frutto di una plenitudo fidei, essa potrebbe
costituire un ostacolo alla penitenza per il timore dei peccatori di incorre-
re nelle reazioni degli altri fedeli e della legge civile. È invece richiesta la
confessione segreta ai sacerdoti, quali mediatori tra i fedeli e Dio. L’accesso
alla penitenza risulterebbe incentivato se non si chiedesse di “pubblicare
la coscienza del peccatore di fronte alle orecchie del popolo”6. Su un’altra
4 Didachè, rispettivamente 4.14 e 14.1: La doctrine des Douze Apôtres (Didachè), édition
e introduction W. Rordorf - A. Tuilier (Sources Chrétiennes 248, Paris 1978) 164 s. e 192 s.
5 Tertulliano, De paenitentia, c. 9 (PL 1.1354).
6 Leone I, Epistola 168, c. 2 [PL 54.1210-1211; cfr. Ph. Jaffé, Regesta Pontificum romano-
rum, editionem secundam curaverunt F. Kaltenbrunner (JK: an. ?-590), P. Ewald (JE: 590-
882), S. Loewenfeld (JL: 882-1198), (Leipzig 1885; rist. anast. Graz 1956) JK 545, anno 459]:
“Illam etiam contra apostolicam regulam presumptionem, quam nuper agnovi a quibusdam
illicita usurpatione committi, modis omnibus constituo submoveri. De penitentia scilicet que
a fidelibus postulatur, ne de singulorum peccatorum genere, libello scripta professio publice
recitetur, cum reatus conscientiarum sufficiat solis sacerdotibus indicari confessione secreta.
Quamvis enim plenitudo fidei videatur esse laudabilis, que propter Dei timorem apud ho-
mines erubescere non veretur, tamen quia non omnium huiusmodi sunt peccata, ut ea, qui
penitentiam poscunt, non timeant publicare, removeatur tam improbabilis consuetudo, ne
multi a penitentie remediis arceantur, dum aut erubescunt aut metuunt inimicis suis sua facta
reserari, quibus possint legum constitutione percelli. Sufficit enim illa confessio que primum
Deo offertur, tum etiam sacerdoti, qui pro delictis penitentium precator accedit. Tunc enim
demum plures ad penitentiam poterunt provocari, si populi auribus non publicetur conscien-
tia confitentis”.
7 Per esempio ne parla il Concilio di Orange (441), can. 3 (Mansi 6.436 s.), con riferimento
al caso disciplinato dal can. 13 del Concilio di Nicea (325: cfr. sotto, nota 11): “Qui recedunt
de corpore, paenitentia accepta, placuit sine reconciliatoria manus impositione eis commu-
nicari, quod morientis sufficit consolationi secundum definitiones patrum, qui huiusmodi
communionem congruenter viaticum nominarunt. Quod si supervixerint, stent in ordine
paenitentum, et ostensis necessariis paenitentiae fructibus, legitimam communionem cum
reconciliatoria manus impositione percipiant”.
poi = CPG), ed. P.P. Joannou (Pontificia Commissione per la Redazione del Codice di Diritto
Canonico Orientale. Fonti, fasc. IX. Discipline Générale antique [IVe-IXe sec.], t. I pars I, Grot-
taferrata 1963) 124 s.]: la penitenza per i fornicatori è di quattro anni. Il primo anno essi sono
esclusi dalle preghiere e si tengono con gli imploranti alle porte della Chiesa; il secondo anno
saranno ammessi tra gli uditori; il terzo tra i penitenti (eis metánoian), il quarto potranno as-
sistere alle preghiere dei fedeli astenendosi dalle offerte. In seguito potranno essere riammessi
alla partecipazione dei santi doni. Cfr. anche il can. 56 (CPG 145): la pena per chi commetta
omicidio volontario è di venti anni. I primi quattro anni dovrà stare con gli imploranti all’e-
sterno della porta della Chiesa, e domanderà ai fedeli che entrano di pregare per lui, confes-
sando pubblicamente la sua iniquità; poi sarà ricevuto tra gli uditori e uscirà insieme loro
dalla Chiesa per cinque anni; per sette anni pregherà con i prosternati e uscirà dalla Chiesa
con loro; per quattro anni assisterà semplicemente tra i fedeli, ma non parteciperà all’offerta;
quando tutto ciò sarà compiuto, prenderà parte ai doni santificati.
10 CPG 202.
11 Concilio di Nicea, can. 13 (COD 12): “De his qui in obitu positi communionem depo-
scunt. De his qui ad exitum vitae veniunt, etiam nunc lex antiqua regularisque servabitur
ita, ut, si quis egreditur e corpore, ultimo et necessario viatico minime privetur. Quod si de-
speratus et consecutus communionem oblationisque particeps factus iterum convaluerit, sit
inter eos, qui communionem orationis tantummodo consequuntur. Generaliter autem omni
cuilibet in exitu posito et poscenti sibi communionis gratiam tribui, episcopus probabiliter ex
oblatione dare debebit”.
mane solo il perdono divino), ma anche di quelle mostrate per esempio dal
Concilio iberico di Elvira (306), che aveva negato la comunione in articulo
mortis per ipotesi gravissime (la ricaduta nel paganesimo dopo che si sia
ricevuto il battesimo)12.
Oltre alla esclusione dalla comunione eucaristica, in generale la condi-
zione di penitenza comportava ripetute pratiche di pietà: digiuni, elemosi-
ne, veglie di preghiera, etc. Ma sulla vita del penitente incombeva soprat-
tutto il peso, difficilmente sopportabile, di una serie di proibizioni peniten-
ziali che incidevano, in modo estremamente gravoso e definitivo, sulla sua
posizione familiare e sociale. Alcune autorevoli fonti occidentali descri-
vono bene questa situazione. Dalle lettere dei papi Siricio e Leone Magno
apprendiamo che al penitente era proibito, anche dopo la riconciliazione,
di riprendere il servizio nell’esercito. La professione del commercio gli era
sconsigliata, perché suscettibile di fare ricadere la persona in peccati gravi.
Gli era proibito stare in giudizio di fronte ai tribunali civili: se fosse stato
assolutamente necessario, allora era prescritto il ricorso ai tribunali eccle-
siastici. Per la durata della penitenza, il penitente doveva mantenere una
continenza perfetta, anche se era coniugato; altrettanto dopo la riconcilia-
zione. Il vedovo non poteva risposarsi, né prima né dopo la riconciliazione.
Leone Magno autorizza i giovani celibi a sposarsi dopo la conclusione della
penitenza, considerando questa una res venialis. La persona riconciliata
non poteva accedere agli ordini clericali13.
È dimostrato che in Occidente l’estremo rigore della disciplina peniten-
ziale provocava una scarsa partecipazione dei fedeli al processo peniten-
ziale. La scelta più frequente, talvolta incoraggiata dagli stessi pastori14, era
quella di chiedere e ottenere la penitenza sul letto di morte. Le difficoltà
insite nel sistema indussero la stessa legislazione canonica a porre ripetuti
limiti alla possibilità di accedere alla penitenza pubblica. Sono assoluta-
mente indicative le decisioni prese da due concili della Gallia merovingia.
Ad Agde, nel 506, si stabilì che la penitenza non fosse imposta ai giovani
con leggerezza (facile), per la fragilità della loro età e per la probabilità che
ricadessero in peccati gravi15. Il Concilio di Orléans del 538 pose invece un
petunt, impositionem manuum et cilicium super caput a sacerdote, sicut ubique constitutum
est, consequantur. Si autem comas non deposuerint, aut vestimenta non mutaverint, abiician-
tur, et nisi digne penituerint, non recipiantur. Iuvenibus etiam penitentia non facile commit-
tenda est propter etatis fragilitatem. Viaticum tamen omnibus in morte positis non negan-
dum”. Il canone rifluirà, attraverso collezioni intermedie, nel Decretum Gratiani, D.50 c.63.
16 Concilio di Orléans (538), can. 27(24) [Monumenta Germaniae Historica, Concilia Aevi
Merovingici, ed. F. Maassen (Hannoverae 1893) 81]: “De paenetentum (sic) conversione. Ut ne
quis benedictionem paenetentiae (sic) iuvenibus personis credere presumat; certe coniugatis
nisi ex consensu parcium et aetate iam plena eam dare non audeat”.
17 Hermas, Le pasteur, introduction, texte critique, traduction et notes par R. Joly (Sources
agendam paenitentiam putant; quia luxuriantur in Christo. Nam si vere agerent paenitentiam,
iteranda postea non putarent; quia sicut unum baptisma ita una paenitentia, quae tamen
publice agitur; nam quotidie nos debere paenitere peccati, sed haec delictorum leviorum, illa
graviorum”.
19 Agostino, Epistola 153.7 (PL 33.656): “Quamvis ergo caute salubriterque provisum sit
ut locus illius humillimae poenitentiae semel in ecclesia concedatur, ne medicina vilis minus
utilis esset aegrotis, quae tanto magis salubrius erit, quanto minus contemptibilis fuerit...”.
20 Origene, in Leviticum, Homilia 15.2: “Nei crimini più gravi si fa luogo alla penitenza
21 Cost.
Apost. II.40.1: Les Constitutions Apostoliques, I-III, Introduction, texte critique,
traduction et notes par M. Metzger (Sources Chrétiennes 320, 329, 336, Paris 1985-1987) I p.
268-271 (mia la traduzione).
22 Cost. Apost. II.16.1-2: ed. cit. I 184-187.
23 Cost. Apost. II.41.4: ed. cit. I 272 s. (traduzione mia).
24 Socrate, Storia ecclesiastica, lib. VI c. 21 (PG 67.725-728).
Le difficoltà insite nel sistema della penitenza pubblica sono state messe
in rilievo, sia pur sommariamente, con riferimento sia all’Occidente latino
26 Sarebbe arduo non ricollegare la diffusione di tali pratiche con l’esercizio della con-
fessione monastica, che attiene alla dimensione della “direzione spirituale”, ma che non si
esclude possa avere avuto esiti sacramentali. Ricordiamo che San Benedetto — sulla scia dei
Padri orientali — aveva obbligato i monaci a rivelare i pensieri malvagi a uno spiritalis senior
(“Cogitationes malas cordi suo advenientes mox ad Christum allidere et seniori spiritali pa-
tefacere”: Regula Benedicti, c. 4.50); cfr. anche c. 46.5-6. “Si animae vero peccati causa fuerit
latens, tantum abbati aut spiritalibus senioribus patefaciat, qui sciat curare et sua et aliena
vulnera, non detegere et publicare”.
27 Giona di Bobbio (600-659) Sancti Columbani Vita, c. 11 ( PL 87.1017 s.): “A Britannicis
ergo finibus progressi, ad Gallias, ubi tunc vel ob frequentiam hostium externorum, vel ob
negligentiam presulum, religionis virtus pene abolita habebatur, tendunt. Fides tantum ma-
nebat christiana, nam penitentie medicamenta, et mortificationis amor vix vel paucis in illis
reperiebantur locis”.
28 Nel Penitenziale di Colombano si dà atto che ministro della penitenza è il vescovo o pre-
sbitero. Cfr. can. 13 (o can. 1 del cosiddetto Penitenziale B): “Si quis clericus homicidium fe-
cerit et proximum suum occiderit, decem annis exul poeniteat: Post hos recipiatur in patriam,
si bene egerit poenitentiam in pane et aqua, testimonio comprobato episcopi vel sacerdoti, cum
quo poenituit...” (mio il corsivo): Die Bussordnungen der abendländischen Kirche, ed. F.W.H.
Wasserschleben (Halle 1851) 355. Non è possibile esaminare, in questa sede, il problema della
confessione fatta ad altri soggetti, segnatamente i diaconi e i laici, per la quale è necessario
rinviare alla bibliografia indicata in appendice.
cilia Aevi Karolini I, Pars I, ed. A. Werminghoff (Hannoverae et Lipsiae 1906) 278]: “Paeni-
tentiam agere iuxta antiqua canonum constitutionem in plerisque locis ab usu recessit, et
neque excommunicandi neque reconciliandi antiqui moris ordo servatur. Ut a domno (sic)
imperatore impetretur adiutorium, qualiter, si qui publice peccat, publica multetur penitentia
et secundum ordinem canonum pro merito suo et excommunicetur et reconcilietur”.
32 Concilio di Châlon (813), can. 38 (ed. cit. 281): “Modus autem paenitentiae peccata sua
confitentibus aut per antiquorum canonum institutionem aut per sanctarum scripturarum
auctoritatem aut per ecclesiasticam consuetudinem, sicut superius dictum est, imponi debet,
repudiatis ac penitus eliminatis libellis, quos paenitentiales vocant, quorum sunt certi erro-
res, incerti auctores... qui, dum pro peccatis gravibus leves quosdam et inusitatos imponunt
paenitentiae modos...”.
temente nelle proprie diocesi e poi darli alle fiamme. Nello stesso tempo
raccomanda che i presbiteri siano adeguatamente istruiti dai propri vesco-
vi sul modo di condurre la confessione e di imporre ai peccatori le congrue
penitenze “secundum canonicam auctoritatem”. È netta la denuncia della
loro ignoranza ed incuria, causa di impunità di molti peccatori e della ro-
vina delle loro anime33.
Una eloquente testimonianza di questo clima di riforma è data da Giona
di Orléans († 843) nel trattato De institutione laicali. Da un lato egli mostra
che la penitenza pubblica è sostanzialmente in disuso, o almeno rarissi-
mamente imposta (preziosa e incisiva è la puntuale descrizione della con-
dizione del penitente pubblico); dall’altro denuncia i mali della situazione
che ne deriva. Le sue parole non sono da leggersi come una rievocazione
nostalgica di un passato aureo della Chiesa, ma piuttosto come una lucida
esposizione delle conseguenze scaturite dall’obsolescenza della dimensione
pubblica della penitenza. La denuncia riguarda la condizione di impunità e
impudenza con la quale i grandi peccatori pubblici continuano a vivere nel
seno della Chiesa (il peccato grave e pubblico non comporta l’esclusione del
peccatore dal corpus Ecclesiae e dalla comunione eucaristica), e lo scandalo
che questa situazione genera nella comunità ecclesiastica34.
33 Conciliodi Parigi (829), can. 32 [Monumenta Germaniae Historica, Concilia, II, Conci-
lia Aevi Karolini I, pars II, ed. A. Werminghoff, Hannoverae et Lipsiae 1908) 633]: “Ut codicelli,
quos penitentiales vocant, quia canonicae auctoritati refragantur, poenitus aboleantur. Quo-
niam multi sacerdotum partim incuria, partim ignorantia modum paenitentiae reatum suum
confitentibus secus, quam iura canonica decernant, imponunt, utentes scilicet quibusdam
codicellis contra canonicam auctoritatem scriptis, quos paenitentiales vocant, et ob id non
vulnera peccatorum curant, sed potius foventes palpant... omnibus nobis salubriter in com-
mune visum est, ut unusquisque episcoporum in sua parroechia eosdem erroneos codicellos
diligenter requirat et inventos igni tradat, ne per eos ulterius sacerdotes imperiti homines
decipiant... Presbyteri etiam imperiti sollerti studio ab episcopis suis instruendi sunt, qualiter
et confitentium peccata discrete inquirere eisque congruum modum secundum canonicam
auctoritatem paenitentiae noverint imponere, quoniam hactenus eorum incuria et ignorantia
multorum flagitia remanserunt impunita et hoc ad ruinam animarum pertinere dubium non
est”.
34 Giona di Orléans († 843), De institutione laicali, lib. I, c. 10 (PL 106.138 s.): “Quia peccati
vulnus penitentie remedio sanari valeat, ea que in precedenti capitulo collecta sunt, testamur;
modus vero eiusdem penitentie, tempusque penitendi in arbitrio sacerdotum, quibus ligandi
atque solvendi potestas est a Christo collata, est constitutus... Perrari namque sunt hodie in
Ecclesia, qui talem agant penitentiam, qualem antiquorum Patrum penitentium exempla et
auctoritas canonica sancit. Quis namque criminis reus, qui utique penitentia publica debuit
mulctari, cingulum militie deponit, et a limitibus Ecclesie cetuque fidelium arcetur, et a Chri-
sti corpus separatur? Quis porro in cinere et cilicio, more penitentium antiquorum lamenta
penitudinis suscipit? ... Unde colligitur quia religionis nostre priscis temporibus, dum quis
secundum constitutum sibi a sacerdote usque ad satisfactionem cilicio indutus, et cinere con-
spersus, habitu incults, humique prostratus, lacrymisque profusus videbatur, statim penitens
agnoscebatur, ut ei a Domino ignosceretur, ab omnibus deprecabatur. Nunc autem in cetu
christiano idcirco vix penitens agnoscitur, quia pene nihil horum erga penitentes agitur. Qua-
propter credibile est, ut sicut alia multa in religione christiana viluerunt, ita quoque premis-
sus penitentie modus, ab usu, quod formidolosum est, recesserit. Et idcirco a multis diversa
flagitia perpetrantur audacter. Verum etiam si quispiam nostri temporis Christianus hodie
aut homicidium, aut aliquid aliud admiserit, quia huiuscemodi penitentia non plectitur, ideo
cras conventui fidelium irreverenter se adiungere non veretur. Et ideo Ecclesiam, cui peni-
tendo satisfacere debuit, scandalizare convincitur. Solent enim aut publice, aut tacite, intra
se adversus huiusmodi dicere: o interfector! flagitiose! Heri illud et illud admisisti, et hodie
collegio nostro, sanguine proximi tui cruentatis manibus te impudenter inseris: et, quod ma-
ioris est impudentie nobiscum participare non trepidas corpus et sanguinem Domini nostri
Jesu Christi? Quod dico plus usu quam voto expertus sum.... Hec non de occultis, sed de ma-
nifestis criminibus dicta sunt, que dum publice admittuntur, publica penitentie satisfactione
diluantur necesse est”.
35 Il sistema è esposto chiaramente da Rabano Mauro († 856), De institutione clericorum,
c. 30, de satisfactione et reconciliatione (PL 107.342 s.): “Quorum autem peccata in publico
sunt, in publico debet esse penitentia, per tempora que episcopi arbitrio penitentibus secun-
dum differentiam peccatorum decernuntur; eorumque reconciliatio in publico esse debet ab
episcopo, sive a presbiteris, iussu tamen episcoporum... Quorum ergo peccata occulta sunt,
et spontanea confessione soli tantumodo presbytero, sive episcopo ab eis fuerint revelata, ho-
rum occulta debet esse penitentia, secundum iudicium presbyteri, sive episcopi cui confessi
sunt, ne infirmi in Ecclesia scandalizentur, videntes eorum penas, quorum penitus ignorant
causas...”.
36 Nella Summa de paenitentia di Raimondo de Peñafort, scritta intorno al 1225 e desti-
nata ad ampio successo, le tre specie sono così descritte: “Species penitentie sunt tres: nam
alia est solennis, alia publica, alia privata. Solennis est, que fit in capite quadragesime cum
solennitate, que est dist. 50 In capite... Hec debet imponi ab episcopo tantum, vel de mandato
eius a sacerdote, et debet imponi pro crimine publico et vulgarissimo (!), quod totam moverit
urbem... Dicitur quandoque, que supra dicta est, solennis, quia publice fit; proprie tamen
dicitur <publica> illa, que fit in facie ecclesie, non cum solemnitate, sed cum iniungitur pe-
regrinatio per mundum cum baculo, cubitali, et scapulari, vel veste aliqua ad hoc consueta.
Hanc posset imponere quilibet sacerdos suo parochiano, quia non invenio sibi prohibitum,
nisi consuetudo esset contraria in aliqua ecclesia... Item solennis penitentia non debet iterari;
alia quelibet, et debet, et potest iterari, quoties homo peccat, de pen. dist. 3 Reperiuntur (c.
2), et Septies in die cadit iustus (c. 23), et Adhuc instant perfidi (c. 32). Privata dicitur illa
penitentia, que singulariter fit quotidie, et cum quis peccata sua secrete sacerdoti confitetur”
[Sancti Raymundi de Peniafort Barcinonensis Ord. Praedicator. de paenitentia, et matrimonio,
lib. III, tit. 24, De paenitentiis et remissionibus, § 6 (Romae 1603) p. 440-442].
37 De synodalibus causis I 295: ed. F.G.A. Wasserschleben (Leipzig 1840) 136 s. Il capitolo
rifluirà, attraverso collezioni intermedie, nel Decretum Gratiani, D.50 c.64. Agli inizi del secolo
XIII la glossa ordinaria di Giovanni Teutonico al Decretum, D.50 c.64, v. representantur, sotto-
lineerà che “... solennis penitentia non est imponenda, nisi pro crimine manifesto et enormi,
quod totam urbem commovit, XXVI q.VII c. ult. (C. 27 q.7 c.14: è il can. 43 della Collezione
cartaginese del 419, già pubblicato nel precedente concilio del 397)” (ed. Romae 1582).
38 Pontificale romano-germanico del X secolo, XCIX, c. 71-73 (entrata in penitenza nel gior-
no del mercoledì delle ceneri:) e c. 224-251 (riconciliazione dei penitenti nel giovedì santo): Le
Pontifical romano-germanique du Xe siècle. Le Texte, ed. C. Vogel – R. Elze (Studi e testi 227,
Città del Vaticano 1963) II 21 e 59-67.
39 Ordo officiorum Ecclesiae Senensis ab Oderico eiusdem Ecclesiae canonico anno
41 È sufficiente rimandare alla brevissima unica glossa al capitolo che compare nell’appa-
rato ordinario di Bernardo da Parma. Nel titolo de paenitentiis et remissionibus l’unico altro
capitolo che menziona espressamente la penitenza pubblica è una decretale di Clemente III
(X.5.38.7). Anche nelle ricostruzioni sistematiche che leggiamo nelle Summae Decretalium
si avverte una graduale riduzione della importanza del tema della distinzione fra i tre tipi di
penitenza. Nella Summa di Goffredo da Trani, che segue le tracce di Raimondo di Peñafort,
la tripartizione della penitenza è ancora oggetto di una sezione introduttiva della trattazione
[Goffredo da Trani, Summa super titulis Decretalium (Lugduni 1519), lib. V, de penitentiis et
remissionibus, n° 3, fol. 237vb-238ra]. Nella successiva Summa di Enrico da Susa (circa 1251),
la distinzione delle tre specie è invece oggetto di un’attenzione del tutto incidentale, relativa-
mente alla questione se la penitenza possa essere reiterata. La conclusione di Enrico da Susa
è che solo la paenitentia sollemnis non può essere reiterata, a differenza della publica (non
solenne) e della privata: “nam... quotidie iterantur” [Henrici de Segusio Cardinalis Hostiensis
Summa Aurea (Venetiis 1574), lib. V, de penitentiis et remissionibus, n° 55, col. 1825 s.].
42 Così attestano fonti che spaziano dal secolo VIII all’XI: si veda, per esempio, l’ordo ri-
“Erubescentia enim ipsa partem habet remissionis... In hoc enim quod per se ipsum dicit
sacerdoti, et erubescentia, vincit timore Dei offensi, fit venia criminis: fit enim veniale, quod
criminale erat in operatione; etsi non statim purgatur, fit tamen veniale quod commiserat
mortale... Quare qui confiteri vult peccata, ut inveniat gratiam, querat sacerdotem scientem
nel secolo seguente Pietro Cantore († 1197) potrà affermare che “ipsa oris
confessio, maxima est pars satisfactionis”44.
ligare et solvere... Tanta itaque vis confessionis est, ut si deest sacerdos, confiteatur proximo.
Sepe enim contingit, quod penitens non potest verecundari coram sacerdote, quem deside-
ranti nec locus nec tempus offert. Et si ille cui confitebitur potestatem solvendi non habet, fit
tamen dignus venia, et desiderio sacerdotis, qui socio confiterut turpitudinem criminis...”. Il
passo sarà poi ricompreso sia nel Decretum Gratiani (de paenitentia D.1 c. 88), che nelle Sen-
tentiae di Pietro Lombardo (Liber IV, distinctio 17.4).
44 Pietro Cantore, Verbum abbreviatum, c. 143 (PL 205.342).
45 Dai Canoni confessionali falsamente attribuiti al Patriarca Niceforo, can. 28 e 29 (PG
100.857 s.), sembrerebbe potersi dedurre che nella Costantinopoli dei secoli X/XI (a tale epo-
ca risalirebbero i testi), come in Occidente in epoca carolingia, la penitenza pubblica fosse
imposta per il peccato pubblico, la penitenza privata per il peccato occulto. Secondo il can.
28, il confessore deve escludere dalla comunione, ma non dall’ingresso in Chiesa, colui che
abbia confessato peccati occulti. Secondo il can. 29, adulteri, omicidi e simili peccatori, se
hanno confessato di spontanea volontà i loro peccati, devono essere esclusi dalla comunione,
e possono restare in Chiesa fino alla preghiera dei catecumeni. Si aggiunge che “se i loro delitti
sono pubblici, allora devono compiere le penitenze secondo la legge ecclesiastica”. La questio-
ne meriterebbe ulteriori approfondimenti, che non possono essere condotti in questa sede.
46 Cfr. Simeone di Tessalonica († 1429), De sacro templo, c. 152 e 153 (PG 155.357).
47 Basilio di Cesarea, Ep. 92.2 (PG 32.480): “scompare la stretta osservanza dei canoni. Vi
è grande libertà nel peccare. Quelli, infatti, che sono arrivati al potere per mezzo dell’appoggio
umano, ricompensano la loro benevolenza accordando tutto ai peccatori per il piacere...”.
della riconciliazione dei lapsi divenne sempre meno pressante, così che la
Chiesa potè rivolgere la propria attenzione ai peccati quotidiani e meno
eccezionali. Si è inoltre notato che il progressivo incremento dei battesimi
degli infanti ridusse fortemente l’importanza dello stato catecumenale, così
che anche lo stato penitenziale, al primo collegato sotto il profilo liturgico,
finiva per perdere significato.
Secondo le più comuni ricostruzioni, l’affermazione della confessione
privata si colloca tra i secoli VIII e IX, in connessione con la crisi ico-
noclastica, e nelle sue origini è legata alla affermazione della spiritualità
monastica. Secondo una condivisibile ipotesi può dirsi, in estrema sintesi,
che la disciplina della confessione privata sorse dalla fusione della pratica
della exagóreusis (confessione) monastica con un rito di assoluzione. La
confessione, intesa nel senso di apertura dell’animo e della mente dei mo-
naci al loro superiore, era praticata negli ambienti monastici, e trova un
autorevolissimo esempio nelle Grandi Regole di San Basilio48. Tale pratica
aveva anche un peculiare sbocco liturgico nella liturgia delle ore, il mattu-
tino (órthros) e la compieta, allorché l’igumeno ascoltava le confessioni dei
monaci del cenobio. Il ruolo preponderante della spiritualità monastica nel
processo di affermazione della penitenza privata è certamente un aspetto
di congiunzione e di concordia fra la tradizione orientale e quella latina.
Il ricorso ai monaci per la confessione dei peccati andò via via diffon-
dendosi, e innumerevoli testimonianze possono portarsi in questo senso.
A quanto pare, almeno nel secolo IX non si avevano generalmente dub-
bi sulla efficacia sacramentale della confessione fatta ai monaci49. Nella
prassi sappiamo che tale confessione era fatta dai fedeli non solo agli ie-
romonaci, cioè quelli che avevano ricevuto l’ordinazione sacerdotale, ma
anche ai monaci non ordinati. Nella prossima sezione tratterò dei problemi
connessi con questo aspetto. Le cause di questa diffusione, e della rapi-
50 È eloquente in questo senso il can. 156 attribuito al patriarca Niceforo (806-815): J.B
Pitra, Juris ecclesiastici graecorum historia et monumenta (Romae 1868) II 341 s: “il sacerdote
‘laico’ (laikós) che ha una moglie non può essere (padre) spirituale (pneumatikós)... né è op-
portuno che ascolti le confessioni”.
51 È comodamente consultabile nell’edizione di M. Arranz, I Penitenziali bizantini. Il Pro-
convenientes, necnon quae de communione, cibo potu et oratione observanda sunt, clementer
admodum definiens” (ed. cit. 30 s.).
53 “Deo bono cooperante, viresque immittente iam incipiam particulatim describere quan-
sque se per immane pelagus navigare, tam temere in illud sese proiecerunt ut alios secum pra-
ecipitarent. Non dico tantum hoc illis contigisse propter affectatam sanctitatem et accuratam
summamque mandatorum observationem, sed etiam propter clementiam, compassionem,
preposteram misericordiam, imperitiam, rusticitatem, unde cum imperite curarent magis
occiderunt quam curarut. Vel etiam hoc contigit propter perfectae animadversionis studium
utrisque se bene facere iudicantibus: cum ille severitatem et inclementiam praeposteram, iste
vero misericordiam imprudentem demonstrat...” (ed. cit. 40 s.).
56 “Tum ipsum (confitentem) erigit, et ut propriam animam amplectitur; si fieri potest
manum suam ipsius collo imponit, ipsi dicens: Haec omnia, frater, ab hac hora sint super me,
praesertim si eum conspexerit intollerabili aliqua trititia submersus (ed. cit. 116-119).
57 “Deus, qui propter nos homo factus est, et totius mundi peccata portavit: omnia haec,
frater, quae <coram eo> indignitati meae confessus es, benignitate sua maxima boni consulat,
omnia tibi condonans in hoc saeculo et in futuro, qui vult, sustinet et donat omnibus salutem,
quique est benedictus in saecula. Amen” (ed. cit. 116 s.).
58 Ed. cit. 40 s.; 44 s.
59 Nella prima parte della conclusione: “Haec sunt poenitentiarum definitiones quae a
me impositae sunt et imponuntur, parvarum equidem, quaeque veniam facile concedunt; sed
istius discretionis auxilium nobis suppeditavit magnus Basilius... Cui autem Dei clementia
potestatem credidit solvendi et ligandi, si humaniore gratia uti velit, auctoritatem habet, cum
viderit confessionis et poenitentiae peccatoris excessum, minuenti poenaum tempus, nec ideo
erit condemnationi obnoxius” (ed. cit. 120 s.).
60 Concilio Trullano, c. 102 [Les canons des conciles oecuméniques, ed. P.-P. Joannou ed.
(Pontificia Commissione per la redazione del codice di diritto canonico orientale. Fonti. Fasc.
IX: Discipline générale antique [IIe IXe s.], t. I pars I; Grottaferrata 1962) 239-241: per comodità
riporto il testo nella traduzione latina di Joannou, che offre anche una traduzione in francese]:
“Quod dispositione, peccatoris, peccatique speciem examinare oportet. Oportet autem eos qui
solvendi et ligandi potestatem a Deo accepere, peccati qualitatem considerare et eius qui pec-
caverit promptum ad conversionem studium, et sic morbo convenientem afferre medicinam,
ne, si in utroque immoderatione utatur, a salute morbo laborantis excidat; non enim simplex
est morbus peccati, sed varius et multiformis et multas incommodi propagines germinans, ex
quibus malum multum diffunditur et ulterius progreditur, donec viribus medentibus repri-
matur. Quare qui medicinae scientiam in spiritu profitetur, oportet eum primum peccatoris
affectionem considerare, et utrum vergat ad sanitatem, an contra propriis moribus provocet
in se morbum, aspicere, et quomodo vitae conversationem intercedenti tempore ordinet, et si
artifici non reluctetur, et ulcus anime augeatur per impositorum medicamentorum adiectio-
num: sicque tandem ei misericordiam, prout dignus est, impertiri. Omnem enim rationem init
Deus et is cui pastoralis traditus est principatus (tèn poimantikèn hegemonían), ut errantem
ovem reducat, et vulnerato a serpente medeatur, et neque per desperationis praecipitia impel-
lat, nec ad vitae dissolutionem et contemptum fraena relaxet; sed una quidem omnino ratione,
sive per acriora et adstringentia, sive per mollioria et leniora medicamenta, affectioni resistat
et pro ulceris obductione adnitatur, fructus penitentiae examinans et sapienter dispensans
et gubernans hominem qui ad superiorem illuminationem vocatur. ‘Nos enim utraque scire
oportet, et quae summi iuris sint, et quae consuetudinis; in iis autem qui extrema non admit-
tunt, formam traditam’, sequi quemadmodum sanctus nos docet Basilius”. Una traduzione
inglese può leggersi in The Council in Trullo Revisited, edd. G. Nedungatt - M. Featherstone
(Kanonika 6; Roma 1995) 183-185. Nella conclusione il can. 102 contiene un richiamo al c.
3 di S. Basilio (CPG 101), dove si distingue ciò che è stabilito con rigore (akríbeia) da ciò che
è stabilito per consuetudine (synétheia). Ma la tradizione manoscritta del c. 102 (non del ca-
none basiliano) riporta anche sympátheia, cioè misericordia, come nota anche Balsamon (PG
137.869 s.). Tale distinzione, da applicare al peccato e al peccatore secondo le rispettive quali-
tà e disposizioni, compete al pastore, al quale è stato attribuito il potere di legare e sciogliere.
Analizzando tale distinzione Zonaras la scioglie secondo le due accezioni, che nel suo discorso
sembrano equivalenti. Tra acribia e misericordia, da un lato, e tra acribia e ciò che richiede la
consuetudine, cioè il “costume provato e confermato dal decorso del tempo, il quale, infatti,
sia i divini canoni che le leggi civili dispongono abbia forza di legge” (ibidem 873 s.).
61 Costituzioni Apostoliche, II.20.11 (ed. Metzger, I 204 s.). Sulla scia di Didascalia, II.20.11
ricordia devono guidare l’azione del vescovo. Solo quando la malattia avrà
manifestato il suo aspetto incurabile, allora occorrerà tagliare il membro
putrefatto, “per evitare che si corrompa il corpo intero della Chiesa”62.
Questa concezione, basata sul fondamento evangelico, trova ampio svi-
luppo nel pensiero dei Padri, che con la loro autorità daranno permanente
sostegno alla tradizione teologica e canonica bizantina. Ascoltiamo, per
esempio, la voce di Gregorio di Nissa († ca. 395). La sua Epistola canonica
a Letoio, vescovo di Melitene, è intesa a definire le epitimie quali rimedi
appropriati alle diverse infermità spirituali. Nel prologo leggiamo: “Così
come a proposito della malattia corporale la medicina non ha che un fine,
di guarire il malato, ma il modo della cura è differenziato, visto che secon-
do la varietà delle malattie a ciascuna di esse è applicato il metodo terapeu-
tico adatto; così, a proposito della malattia dell’anima, essendo grande la
varietà delle passioni, necessariamente multiformi saranno anche i mezzi
di terapia, al fine di operare la guarigione conformemente alle specie delle
passioni”63. Il peccato si presenta come un atto della passione (páthos) che
necessita di cura. La guarigione è possibile se il medico conosce l’anima e
le sue attività. A questo proposito Gregorio distingue le tre parti dell’ani-
ma — razionale, concupiscibile, irascibile64 — all’interno delle quali i di-
versi peccati sono generati. All’esclusione dalla comunione per periodi più
o meno lunghi si accompagna talvolta una penitenza intesa appunto come
cura per un vizio dell’anima. Per esempio, con riferimento al furto semplice
Gregorio stabilisce che, quando il peccatore confessa il suo peccato, dovrà
guarire dalla malattia applicandosi all’atto opposto al suo vizio: donerà ciò
che può ai poveri e mostrerà, attraverso l’abbandono di ciò che possiede,
che si è purgato dal male della cupidigia. Se non possiede nulla e non ha
che il suo corpo, dovrà seguire il precetto indicato dall’apostolo Paolo, il
quale ordina di guarire il vizio in questione con il lavoro personale: “Chi è
avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente
con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità” (Ef. 4.28)65.
I periodi di scomunica sacramentale definiti nei canoni penitenziali
sono lunghi e a volte lunghissimi. Per esempio, Basilio prevede una peni-
tenza di sette anni per chi ha commesso atti di fornicazione66 e di venti anni
[Didascalia et Constitutiones Apostolorum, ed. F.X. Funk, I-II (Paderborn 1905, ristampa To-
rino 1959) I 76].
62 Costituzioni Apostoliche, II.41.5-9 (ed. Metzger, I 272-276), in particolare II.41.7 per il
19.
75 “Diversitas culparum diversitatem facit poenitentiarum; nam et corporum medici di-
versis medicamentia generibus componunt. Aliter enim vulnera, aliter morbos, aliter tumo-
res, aliter livores, aliter putredines, aliter caligines, aliter confractiones, aliter combustiones
curant. Ita igitur etiam spirituales medici diversis curationum generibus animarum vulnera,
morbos, culpas, dolores, aegritudines, infirmitates sanare debent...”: Wasserschleben, Die
Bussordnungen der abendländischen Kirche, cit., 355 (prologo del cosiddetto. Penitenziale B).
76 Burcardo di Worms, Decretum, Lib. XIX, incipit: “... et docet unumquemque sacerdo-
tem, etiam simplicem,quomodo unicuique succurrere valeat, ordinato vel sine ordine, pau-
peri, diviti, puero, juveni, decrepito, sano, infirmo, in omni etate et in utroque sexu” (PL
140.949).
77 Cito dalle Decretales di Gregorio IX, 5.38.12, de poenitentiis et remissionibus (mio il cor-
sivo con il quale intendo evidenziare i concetti sviluppati nel testo): “Omnis utriusque sexus
fidelis, postquam ad annos discretionis pervenerit, omnia sua solus peccata saltem semel in
anno fideliter confiteatur proprio sacerdoti, et iniunctam sibi poenitentiam propriis viribus
studeat adimplere, suscipiens reverenter ad minus in Pascha eucharistiae sacramentum, nisi
forte de proprii sacerdotis consilio ob aliquam rationabilem causam ad tempus ab huiusmodi
perceptione duxerit abstinendum; alioquin et vivens ab ingressu ecclesiae arceatur, et moriens
Christiana careat sepultura. Unde hoc salutare statutum frequenter in ecclesiis publicetur, ne
quisquam ignorantiae caecitate velamen excusationis assumat. Si quis autem alieno sacerdoti
voluerit iusta de causa sua confiteri peccata, licentiam prius postulet et obtineat a proprio
sacerdote, quum aliter ipse illum non possit absolvere vel ligare. Sacerdos autem sit discretus
et cautus, ut more periti medici superinfundat vinum et oleum vulneribus sauciati, diligenter
inquirens et peccatoris circumstantias et peccati, quibus prudenter intelligat, quale debeat ei pra-
ebere consilium, et cuiusmodi remedium adhibere, diversis experimentis utendo ad salvandum
aegrotum. Caveat autem omnino, ne verbo aut signo aut alio quovis modo aliquatenus prodat
peccatorem. Sed, si prudentiori consilio indiguerit, illud absque ulla expressione personae
caute requirat, quoniam, qui peccatum in poenitentiali iudicio sibi detectum praesumpserit
revelare, non solum a sacerdotali officio deponendum decernimus, verum etiam ad agendam
perpetuam poenitentiam in arctum monasterium detrudendum”.
78 In questa determinazione preoccupazioni di carattere pastorale convergono con lo sco-
scritto in termini che, sia nei concetti che nei moduli espressivi, appaiono
del tutto consonanti con la tradizione sviluppata in Oriente: “Il sacerdote,
d’altra parte, sia discreto e cauto, affinché, al modo di un medico esperto,
versi vino e olio sulle ferite di chi è piagato, esaminando con diligenza le
circostanze sia del peccatore che del peccato, attraverso le quali apprenda
quale consiglio debba dargli e quale tipo di rimedio debba apprestare, fa-
cendo diverse prove al fine di salvare il malato”. Gli intepreti sviluppano
il filo della metafora e ne colgono i simbolismi più riposti. Secondo En-
rico da Susa († 1271), il sacerdote, quale ministro della confessione, è un
medico spirituale che deve guarire il peccatore dalle infermità e seguire
le tradizioni dell’arte canonica79. Il vino e l’olio significano gli estremi del
rigore e della misericordia, tra i quali il sacerdote deve saper muoversi
con equilibrio: non deve essere troppo rigido, perché il peccatore potrebbe
terrorizzarsi e allontanarsi dalla penitenza, né troppo benevolo, perché la
giustizia rischierebbe di svanire, ma deve sapere mescolare l’uno e l’altro
rimedio apponendo un medicamento idoneo a procurare la guarigione80.
orientali cattoliche (can. 719/CCEO), in quanto estranea alla loro tradizione. Il canone, pur
raccomandando la confessione frequente, si esprime dicendo: “qui gravis peccati sibi conscius
est, quam primum fieri potest, sacramentum paenitentiae suscipiat...”.
79 Enrico da Susa, Lectura in X.5.37.12, v. periti medici, n° 25 [Henrici de Segusio Car-
dinalis Hostiensis... in Primum (etc.) Decretalium librum Commentaria, I-II (Venetiis, apud
Iuntas 1581) II fol. 102va]: “medicus enim est spiritualis, unde et infirmitates servare habet et
traditiones artis canonice sequi...”.
80 Enrico da Susa, Lectura in X.5.37.12, v. vinum et oleum, n° 25 (ed. cit., I fol. 102va-
b): “id est rigorem et misericordiam, q.d. nec ex toto rigidus sit, ne peccator terreatur, vel a
penitentia avertatur, nec ex toto misericors, ne iustitia dissolvatur, sed utrunque miscendo
emplastrum salubre apponat...”.
103ra): “... valet enim confessio propter erubescentiam, et propter fidem quam peccator in
confessione exercet: quia per hoc ostendit se credere absolvendi et ligandi datam sacerdoti-
bus potestatem, XXIIII q. I Quodcunque. Valet et propter humilitatem et obedientiam, quam
exhibet mandatis Dei, dum flectendo genua et iungendo manus humiliat se peccator coram
sacerdote. Valet et propter gratiam, que ei confertur, maxime per manus impositionem... et
quia quasi impossibile est, quin Deus respiciat frequenter confitentem. Valet et propter inter-
dictorum et amissorum recuperationem: quia sacerdos reconciliat divine gratie et restituit
peccatorem ad sacramentorum participationem...”.
84 Decretum Gratiani, C. 14 q. 6 c.1: tratto da Agostino, Epistola 153 (PL 33.662).
peccatum non dimittitur nisi restituatur ablatum. Anche per queste ragioni
i canonisti pongono una certa enfasi sul carattere satisfattorio della peni-
tenza imposta dal sacerdote. Sempre Enrico da Susa, soffermandosi sul
tema della satisfactio, afferma che essa può consistere in una dazione di
denaro o in altro. E ha cura di precisare al lettore che la restituzione delle
cose male acquisite, o il risarcimento dei danni arrecati ad altri, deve essere
pienamente (omnino) fatta a coloro che sono stati lesi dall’azione peccami-
nosa. Di questa restitutio — precisa — i sacerdoti non possono fare grazia
al confitente, e ciò perchè si tratta di una esigenza di giustizia, e perché il
peccato, appunto, non può essere rimesso nisi restituatur ablatum85. Dove
non si ponga un problema di restitutio, invece, il confessore ha la facoltà di
infliggere una penitenza che comunque tenga conto della contrizione del
peccatore, perché la grandezza del dolore vale più del tempo della peniten-
za, e la mortificazione dei vizi vale più della astinenza dai cibi86. Concetto
che, come abbiamo visto sopra, è ampiamente presente nella tradizione
orientale.
Vi sono fatti ed argomenti che inducono a dire che l’idea della peniten-
103ra): “In aliis vero arbitrari potest sacerdos contritione considerata, quia plus valet apud
Deum mensura doloris, quam temporis, et mortificatio vitiorum, quam abstinentia ciborum,
de penitentia dist. I Mensuram”. Il canone allegato in fine si trova nel Decretum Gratiani, de
paenitentia D. 1 c. 86, dove è attribuito a Gerolamo. In verità è un testo spurio; a margine
dell’edizione romana del Decretum i Correctores notano che il concetto ricorre anche in altre
fonti, fra cui citano la lettera di Basilio ad Anfilochio.
potere di legare e sciogliere constati due cose, cioè la conversione del peni-
tente e il suo sincero proposito di coltivare la virtù.
Da questa testimonianza emerge chiaramente che l’idea della penitenza
come terapia, sebbene fortemente accentuata nella tradizione bizantina,
non appare essere esclusiva. Le parole di Marco di Efeso mostrano che
nella comune considerazione della dottrina bizantina l’epitimia era consi-
derata sia come un castigo per il male commesso, inflitto su questa terra
piuttosto che nella vita ultraterrena; sia come un rimedio per curare le
cattive disposizioni dell’anima ed educare alla virtù; sia come un presidio
preventivo diretto a frenare possibili ricadute nel peccato. In definitiva,
non mi pare che vi sia una opposizione tra la concezione della penitenza
come medicina, tipica dei Bizantini, e la visione della penitenza come sod-
disfazione, elaborata in particolar modo in Occidente. Piuttosto, le due tra-
dizioni mostrano una sostanziale concordia, sebbene abbiano accentuato
di volta in volta, usando linguaggi in parte diversi, aspetti differenti di una
concezione fondamentalmente unitaria, perché cattolica.
“Multiplex misericordia Dei ita lapsibus subvenit humanis, ut non solum per baptismi gra-
tiam, sed etiam per penitentie medicinam spes vite reparetur eterne, ut qui regenerationis
dona violassent, proprio se iudicio condemnantes, ad remissionem criminum pervenirent:
sic divine bonitatis presidiis ordinatis, ut indulgentia Dei nisi supplicationibus sacerdotum
nequeat obtineri. Mediator enim Dei et hominum homo Christus Iesus hanc prepositis Ec-
clesie tradidit potestatem ut et confitentibus actionem penitentie darent et eosdem salubri
satisfactione purgatos ad communionem sacramentorum per ianuam reconciliationis admit-
secolo VI, poi, sempre a proposito della penitenza Gregorio Magno non
solo poneva bene in luce il concetto di successione apostolica collegato alla
potestà di legare e sciogliere; ma configurava anche la penitenza come un
giudizio che si conclude con una sentenza (sententia) di assoluzione91. Sia-
mo di fronte a un inquadramento giuridico del sacramento della penitenza
che avrà ampio sviluppo nella tradizione teologica e giuridica della Chiesa
latina. Per sintetizzare il senso di questa evoluzione, l’autorità pastorale del
sacerdote ministro della penitenza si veste dei panni della iurisdictio e si
traduce nell’esplicazione di una funzione che si modella su quella giudizia-
le. Al capo estremo di questa linea tali concetti ebbero una formulazione
nella dottrina del Concilio di Trento, dove si afferma che l’assoluzione sa-
cerdotale non costituisce l’esecuzione del nudo ministero di dichiarare che
i peccati sono rimessi, ma si configura “ad instar actus iudicialis, quo ab
ipso velut a iudice sententia pronunciatur”92.
Per l’aspetto che qui ci interessa, occorre notare che il Concilio di Tren-
to tira le fila di una concettualizzazione che aveva avuto inizio nelle trat-
tazioni teologiche e canonistiche a partire dal secolo XII. Da quell’epoca
si era affermata l’idea che la remissione dei peccati non dipendeva solo
dall’esercizio della potestà di ordine, ma anche da una iurisdictio collegata
a un ufficio pastorale, a una cura animarum concretizzata attraverso la
terent. Cui utique operi incessabiliter ipse Salvator intervenit, nec umquam ab his abest que
ministris suis exsequenda commisit, dicens: Ecce ego vobiscum sum omnibus diebus usque
ad consummationem seculi (Mt 28.20)...”. Il brano è rifluito, attraverso collezioni intermedie,
nel Decretum Gratiani, de paenitentia D.1 c. 49.
91 Gregorio I, Homilia XXVI (a proposito di Giovanni 20.19-31), cc. 5 e 6 (PL 76.1200):
“Horum (cioè Apostolorum) profecto nunc in ecclesia episcopi locum tenent. Ligandi atque
solvendi auctoritatem suscipiunt, qui gradus regiminis sortiuntur. Grandis honor, sed grave
pondus istius est honoris. Durum quippe est ut qui nescit tenere moderamina vite sue iudex
fiat aliene... Cause ergo pensande sunt, et tunc ligandi atque solvendi potestas exercenda.
Videndum est que culpa precessit, aut que sit penitentia secuta post culpam, ut quos omnipo-
tens Deus per compunctionis gratiam visitat, illos pastoris sententia absolvat. Tunc enim vera
est absolutio presidentis, cum interni arbitrium sequitur iudicis”. La conclusione rifluisce nel
Decretum Gratiani, C. 11 q. 3 c. 62. La tradizione teologica e canonica intendono il passo non
nel senso che il sacerdote si limiti a ratificare un perdono già elargito da Dio. Cfr. per esempio
la glossa di Giovanni Teutonico, v. iudicis: “idest Dei. Hic vult dicere, quod sacerdos neminem
absolvet, nisi precesserit absolutio Dei, idest contritio”.
92 Concilio di Trento, Sessio XIV, 25 novembre 1551, Doctrina de sanctissimis poenitentiae
et extremae unctionis sacramentis, Cap. VI, de ministro huius sacramenti et absolutione (COD
707): “Docet quoque, etiam sacerdotes, qui peccato mortali tenentur, per virtutem Spiritus
Sancti in ordinationem collatam tanquam Christi ministros functionem remittendi peccata
exercere, eosque prave sentire, qui in malis sacerdotibus hanc potestatem non esse conten-
dunt. Quamvis autem absolutio sacerdotis alieni beneficii sit dispensatio, tamen non est so-
lum nudum ministerium vel annunciandi evangelium, vel declarandi remissa esse peccata,
sed ad instar actus iudicialis, quo ab ipso velut a iudice sententia pronunciatur”.
93 Su questi aspetti è chiarissimo Raimondo di Peñafort: “Debet quiliber regulariter con-
fiteri sacerdoti, nam sacerdotibus dedit Dominus potestatem ligand et solvendi, cum dixit
Ioann. 21 (11 ed. male) Quorum remiseritis, etc., de paenitentia dist. 1 Verbum Dei. Non
tamen cuilibet sacerdoti; licet enim omnes sacerdotes aeque in ordinatione recipiant hanc
potestatem, ligata est tamen ita, quod non possunt eam exequi, nisi data sibi auctoritate et
potestate ab episcopo diocesano, vel ab apostolica sede...” [Summa de paenitentia, lib. III, tit.
24, De paenitentiis et remissionibus, § 14 (ed. cit., p. 448)].
94 Graziano, De paenitentia (C. 33 q. 3), D.1, dictum ante c.1.
95 Graziano, De paenitentia D.1, dictum post c. 30: “Luce clarius constat cordis contri-
tione, non oris confessione peccata dimitti”; e ancora, dictum post c. 36: “... Cum ergo ante
confessionem, ut probatum est, simus resuscitati per gratiam, et filii lucis facti, euidentissime
apparet, quod sola contritione cordis sine confessione oris, peccatum remittitur.
96 Graziano, De paenitentia D.1, dictum post c. 37: “Alii e contra testantur, dicentes sine
confessione oris et satisfactione operis neminem a peccato posse mundari, si tempus satisfa-
ciendi habuerit”.
97 Graziano, De paenitentia D.1, dictum post c. 89: “Quibus auctoritatibus, vel quibus ratio-
fessione oris et satisfactione operis peccatum non remittitur. Nam si iniquitates nostras ne-
cesse est, ut dicamus, ut postea iustificemur; si nemo potest iustificari a peccato, nisi antea
fuerit confessus peccatum; si confessio paradysum aperit, veniam acquirit; si illa solum con-
fessio utilis est, que fit cum penitencia (in quo notatur aliud esse confessio, aliud penitencia,
siue interior siue exterior accipiatur); si ille, qui promittit veniam occulte apud Deum non
apud ecclesiam penitenciam agenti, frustrat evangelium et claves datas ecclesiae, promittit
etiam quod Deus negat delinquenti; si nemo potest consequi veniam, nisi quantulamcumque,
etsi minorem quam debeat, peccati soluerit penam; si solis sacerdotibus ligandi solvendique
potestas a Deo tradita est; si nullus veniam accipit, nisi ecclesiae supplicationibus ipsam in-
petrare contendat: concluditur ergo, quod nullus ante confessionem oris et satisfactionem
operis peccati abolet culpam”. E ancora si veda la risposta alle argomentazioni contrarie, De
paenitentia D. 1, dictum post c. 87: “His auctoritatibus asseritur, neminem sine penitencia et
confessione propriae vocis a peccatis posse mundari. Unde premissae auctoritates, quibus
videbatur probari, sola contritione cordis ueniam prestari, aliter interpretandae sunt, quam
ab eis exponantur...”.
99 Giovanni Teutonico, Apparatus in De paenitentia D. 1, dictum ante c. 1, v. his breviter:
“In hac igitur distinctione tractatur, an sola cordis contritione dimittantur peccata. Et potest
dici quod sic, Dei gratia interveniente: necessaria tamen est postea oris confessio et operis
satisfactio, si fieri possit, alioquin peccat mortaliter ex contemptu, qui hoc non facit”.
100 “Cum sit ars artium regimen animarum...”: Concilio Lateranense IV, c. 27, poi
X.1.14.14.
101 Enrico da Susa, Lectura in X.5.37.12, v. proprio, n. 12-14 (ed. cit., II fol. 102ra): “Propri-
us sacerdos dicitur ille cui cura parochialis ecclesie est commissa, sit (!) persona sive vicarius,
qui tenetur residentiam facere et ad illum, quem cura requirit ordinem se facere promoveri...
Sed quid est cura? Et quidem potest magisterialiter describi. Cura est vigil et onerosa ac soli-
cita custodia animarum commissa alicui, ut curet, ne pereant, sed salventur, que competit ex
lege, vel commissione canonica, aut consuetudine, seu prescriptione per sedem apostolicam
non improbata... Ex quo sequitur quod si male vel negligenter curet, obligatur Deo... cui et
exinde tenetur rationem reddere... Hoc autem debet curare predictis modis, necnon visitando,
corrigendo, puniendo, sacramenta ecclesiastica exhibendo”.
102 Enrico da Susa, Lectura in X.5.37.12, v. solvere et ligare, n° 23 (ed. cit., I fol. 102va).
103 Nella Summa Decretalium Enrico da Susa aveva espresso il concetto con altrettanta
chiarezza: “Cui confitendum sit. Sacerdotibus, quibus data est hec potestas a mediatore Dei et
hominum, qui ipsos Ecclesie sue preposuit, et solvendi ac ligandi tradidit potestatem, de paen.
dist. I Multiplex (de paen. D.1 c.49), et in hoc sacerdos iudex est, de paen. dist. I Verbum (de
paen. D.1 c. 51)” (Summa aurea, lib. V, de penitentiis et remissionibus, n° 14, ed. cit. col. 1765).
104 Tommaso d’Aquino, Quodlibet XII, q. 19 (Utrum aliquis possit confessiones audire de
indulgentia domini Papae sine voluntate proprii praelati), conclusio: “Respondeo. Dicendum,
quod quidam dicunt quod quilibet sacerdos potest absolvere quemlibet a quolibet peccato;
et licet non bene faciat absolvendo, tamen absolutus est. Et ratio horum fuit, quia simul
datur presbytero in sua ordinatione potestas consecrandi corpus Christi, et potestas clavium;
et ideo, sicut potest consecrare quamlibet hostiam, ita potest absolvere quemlibet. Sed hoc
est erroneum; quia nullus potest absolvere propria auctoritate nisi eum qui est aliquo modo
sibi subditus: quia actus fiunt in materia propria, et absolutio sacramentalis habet iudicium
annexum, et hoc, scilicet iudicium, non est nisi in subditos et inferiores. Qui ergo non habet
subditum, non potest absolvere. Et sic iurisdictio dat materiam sacerdoti determinatam; se-
cus autem est de hostia, quae est materia determinata. Cui ergo nulla cura committitur, habet
clavem ligatam, ut iuristae dicunt, scilicet quia non habet omnino materiam. Alii dicunt,
quod nullus potest etiam auctoritate superioris praelati absolvere subditum inferioris praelati
contra voluntatem ipsius; puta, non potest auctoritate episcopi contra voluntatem parochialis
aliquem absolvere. Hoc etiam est erroneum. Quia ad absolvendum requiritur potestas sacer-
dotalis et iurisdictio. Episcopus autem habet immediatam iurisdictionem in omnes; unde
episcopus potest omnium confessiones audire, etiam contra voluntatem presbyteri parochia-
lis, et similiter etiam ille cui episcopus committit, et multo magis si Papa committit. Tamen
archiepiscopus, quia non habet immediatam iurisdictionem in omnes sui archiepiscopatus
nisi ex appellatione, non posset alicui dare licentiam vel auctoritatem audiendi confessiones
contra voluntatem episcopi et dioecesani suffraganei” (traggo la citazione dal sito www.cor-
pusthomisticum.org).
vescovi, è stato detto: ‘Ciò che legherete sulla terra sarà legato nei cieli e
ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto nei cieli’106. E ancora: “Giudica
(kríne) dunque, o vescovo, con autorità come Dio”107.
Il quadro si arricchisce e si completa se proviamo a seguire le discussio-
ni relative al problema del ministro della confessione, e su quella peculia-
rità della tradizione bizantina riguardante la confessione fatta ai monaci.
È noto che le fonti canoniche della Chiesa antica riservavano il potere di
assolvere dai peccati ai vescovi, quali successori degli Apostoli, ai quali tale
potere era stato conferito da Cristo (Giovanni 20.19-23). Ma la regola aveva
anche le sue eccezioni. I Canoni apostolici accostano i presbiteri ai vescovi
quali ministri della penitenza108, e nella collezione dei canoni di Cartagine
(419) troviamo la verosimile spiegazione di questo fatto. Il can. 6 prevede
che la riconciliazione possa essere data solo dal vescovo109; il successivo
can. 7 prevede che se una persona in pericolo chieda di essere riconcilia-
ta in assenza del vescovo, il presbitero debba comunque consultare il ve-
scovo110. Ma il successivo can. 43, posteriore nel tempo ai due menzionati
canoni, rimuove il precedente limite e stabilisce che in caso di necessità il
presbitero possa riconciliare il penitente anche in assenza del vescovo111.
In questo quadro, dunque, il vescovo rimane il ministro ordinario, ma il
presbitero può esercitare il ministero penitenziale su delega o autorizza-
zione episcopale. Questo sistema è presupposto dal can. 102 del Concilio
Trullano, il quale, come sappiamo, riconosce il potere di rimettere i peccati
a coloro che hanno l’autorità pastorale e il potere di legare e sciogliere.
In siffatto sistema appare una stonatura l’imponente diffusione della
prassi di ricorrere per la confessione ai monaci: il problema, in particolare,
riguarda quei monaci che non avevano ricevuto l’ordinazione presbiterale,
ai quali i laici facevano amplissimo ricorso. Tale pratica, come si è visto, si
intensificò a partire dalla crisi iconoclastica, ed è abbondantemente atte-
stata ancora nelle fonti del secolo XIII112. Se tale era la pratica, sussisteva
106 Costituzioni Apostoliche, II.11.1-2 (ed. Metzger, I 166-169); nello stesso senso già Dida-
scalia, II.12.1-2 (ed. Funk, I 48). Cfr. anche Didascalia II.36.9-II.37.1 (ed. Funk, I 122-124) e
rispettivamente Costituzioni II.37.1-3 (ed. Metzger, I 262 s.).
108 Canoni Apostolici, c. 52: Les canons des synodes particuliers, ed. P.-P. Joannou (Ponti-
ficia Commissione per la redazione del codice di diritto canonico orientale. Fonti. Fasc. IX:
Discipline générale antique [IIe IXe s.], t. I pars II; Grottaferrata 1962) 36.
109 Concilio di Cartagine (419), can. 6 (CSP 219 s.).
110 Concilio di Cartagine (419), can. 7 (CSP 220 s.).
111 Concilio di Cartagine (419), can. 43 (CSP 260 s.).
112 Per esempio è uno dei rimproveri che l’Imperatore latino di Oriente Baldovino di Fian-
dra rivolge ai Greci in una lettera indirizzata a Innocenzo III (PL 215.452): “... monachive,
penes quos, sacerdotibus spretis, tota ligandi atque solvendi consistebat auctoritas”.
113 Oltre a quelle ricordate sopra, nota 49, per il sec. IX si veda la risposta del patriarca
Niceforo alla Interrogazione 16 (in realtà il testo è di Teodoro Studita, epistola 549) [Syntágma
tôn theîon kaì ierôn kanónon, edd. G.A. Rhalli – M. Potli, IV (Atene 1854) 431.10]: la risposta
fa riferimento al caso di mancanza di un presbitero.
114 Simeone il nuovo Teologo, Epistola de confessione, n° 11 (tra le opere di Giovanni
Damasceno, PG 95.295). Anche in Karl Holl, Enthusiasmus und Bussgewalt beim griechischen
Mönchtum. Eine Studie zu Symeon dem neuen Theologen (Leipzig 1898) 119 s.
115 Niceforo chartophylax, Lettera (IV) al monaco Teodosio di Corinto sul potere di legare
e sciogliere [ed. P. Gautier, ‘Le chartophylax Nicéphore. Œuvre canonique et notice biblio-
graphique’, Revue des études byzantines 27 (1969) p. 159-195 (p. 182-186)].
canoni. Perché i santi Padri esigono che i sacerdoti stessi non riconcilino i
penitenti senza mandato del vescovo del luogo, così come dichiarano il se-
sto e il quarantaduesimo (sic: recte quarantatreesimo) canone del Concilio
di Cartagine. Ora, ai giorni nostri, io non so perché questa legislazione non
è osservata, ma, quanto a noi, ci atteniamo ai testi”116. Quale autorità (de-
terminante nella risoluzione dei problemi) Niceforo riconoscesse ai canoni
ecclesiastici emerge dall’insegnamento impartito al medesimo Teodosio:
“Noi chiamiamo canoni ecclesiastici stabiliti e confermati dai Padri teofori
i canoni che hanno composto i santi Apostoli e i santi Padri che si riuniro-
no nei sette concili ecumenici e, oltre a quelli, i canoni che sono opera dei
concili locali e quelli che sono stati promulgati dai ‘lumi’ della Chiesa che
hanno brillato in differenti epoche, i grandi gerarchi, dei quali tu troverai
agevolmente la lista nel preambolo del sesto Concilio, e la Chiesa non am-
mette niente al di fuori di questi canoni. Esaminando dunque attentamente
tutti i canoni summenzionati, tu non fallirai nella tua ricerca”117.
La reazione agli abusi ricorrenti nella prassi penitenziale si amplificò a
partire dalla seconda metà del secolo XII. Non mi sembra un caso che essa
assunse una impostazione coerente e toni particolarmente rigorosi proprio
nei canonisti dell’età classica, i quali avevano intrapreso l’opera di studio e
commento del complesso del patrimonio canonico della Chiesa bizantina.
È utile soffermarsi, pertanto, sull’analisi del pensiero di due autorevolissi-
mi interpreti della scuola canonistica bizantina del secolo XII, cioè Giovan-
ni Zonaras e Teodoro Balsamon.
Come abbiamo visto, il can. 102 del Concilio Trullano costituisce in un
certo senso la chiave di volta e la sintesi del sistema canonico riguardante il
sacramento della penitenza. Balsamon osserva che la norma fa riferimento
non solo ai vescovi del luogo, che hanno ricevuto dallo Spirito Santo la
potestà di legare e sciogliere, ma anche a coloro che hanno ricevuto inca-
rico dai vescovi. Tali ministri hanno la facoltà e il potere di modificare le
penitenze stabilite dai canoni, tenuto conto delle persone, della loro età e
delle loro disposizioni verso il peccato, delle loro abitudini, della qualità
del peccato. Valutando tutte queste circostanze è possibile che a ciascun
malato sia data una conveniente medicina118.
La questione del ministro della penitenza è approfondita a margine
116 Niceforo chartophylax, Lettera (I) al monaco Teodosio di Corinto, n° 4 (ed. Gautier, ‘Le
Zonaras, aveva osservato che tali facoltà sono lasciate “al giudizio (krísei) dei vescovi”, i quali
sono detti essere “pastori delle anime” (PG 137.871-874).
1158). Sembra che tale spiegazione si basi sul can. 9 del Concilio di Neocesarea, secondo il
quale, a giudizio di molti la cheirotonia rimette ai presbiteri “gli altri peccati”, lasciando cioè
non rimessi i peccati carnali (CSP 79).
122 Zonaras, commento al can. 6 del Concilio di Cartagine (PG 138.45 s.).
123 Balsamon, commento al can. 6 del Concilio di Cartagine (PG 138.41-44). Sulla base di
una dichiarazione sinodale fatta su richiesta del monastero dell’Evergetide, inoltre, precisa
che quando gli statuti dei monasteri prevedono che il prefetto (kategoúmenos) ascolti le con-
fessioni dei monaci, è necessario che il prefetto sia sacerdote (di fatto — riferisce — accadeva
che i prefetti fossero anche uomini profani, e persino donne).
124 Balsamon, commento al can. 7 del Concilio di Cartagine (PG 138.47 s.).
125 Zonaras, commento al can. 7 del Concilio di Cartagine (PG 138.47-50).
126 Zonaras, commento al can 43 (ma can. 46 nell’edizione qui usata) del Concilio di Car-
trinale alla pratica e agli abusi della confessione fatta ai monaci fu molto
decisa, e ciò contribuì a promuovere la restaurazione dell’ordine canonico.
Conformemente alla tradizione canonica del primo millennio, la potestà
di rimettere i peccati venne chiaramente ricollegata alla potestà di legare e
sciogliere concessa da Cristo agli Apostoli. Mi sembra molto significativo,
in questo contesto, che la dottrina canonistica abbia adoperato anche il
termine “giudizio” per qualificare giuridicamente l’azione di chi assolve i
peccatori.
Queste convinzioni si rafforzano nel corso del tempo, e nel secolo XV
appaiono perfettamente consolidate negli scritti di Simeone di Tessalonica
(† 1429). La sua opera è di carattere prevalentelmente teologico-liturgi-
co, ma la prospettiva canonistica non è trascurata. Nel trattato Sui sacra-
menti, nel quale Simeone propone il settenario sacramentale, la penitenza
(metánoia) è il sesto nell’ordine, prima dell’unzione degli infermi128. Al fine
della remissione dei peccati Cristo ha concesso ai sommi sacerdoti (i ve-
scovi) la potestà e la grazia (accosta dýnamis e chárisma, verrebbe voglia
di tradurre potestà di giurisdizione e di ordine) di legare e sciogliere, as-
sicurando la propria ratifica in cielo di quanto i sacerdoti compiono sulla
terra. L’assistenza di Cristo è garantita in perpetuo attraverso l’azione dello
Spirito Santo129.
Nel trattato Delle sacre ordinazioni Simeone afferma che i monaci non
ordinati non possono assumere l’ufficio di confessori (padri spirituali).
Tale ministero è riservato ai vescovi dai canoni; i presbiteri possono eser-
citarlo in caso di necessità e nell’assenza del vescovo. Vi sono, comunque,
dei peccati maggiori riservati alla cognizione del vescovo130.
Nei Responsa a Gabriele di Pentapoli Simeone ribadisce che il potere
di rimettere i peccati discende dal potere di legare e sciogliere concesso da
Cristo agli Apostoli: esso spetta dunque ai vescovi, e i sacerdoti possono
esercitarlo per delegazione episcopale, come insegnano i sacri canoni. Un
monaco che non sia presbitero non può ascoltare le confessioni se non in
caso di necessità; ma in questo caso il penitente è tenuto ad accedere a un
vero padre spirituale. Il confessore monaco che non sia presbitero ha dun-
que il dovere di spingere il confitente a rivolgersi a chi abbia realmente la
potestà di assolvere131.
Nel trattato Sulla penitenza l’arcivescovo di Tessalonica ha modo di
Nello stesso senso q. XXXVI, dove si ribadisce che “è cosa estranea alla Chiesa” che un mona-
co non sacerdote possa rimettere i peccati (PG 155.883-886).
ritornare sul tema. Leggiamo ancora una volta che questo sacramento è
amministrato dai vescovi o da coloro che da questi ne abbiano ricevuto
l’incarico. Ma soprattutto appare degno di nota l’accostamento delle due
immagini della penitenza, come medicina e come giudizio. I vescovi agi-
scono sia come medici che approntano opportuni rimedi per le malattie
dell’anima, sia come giudici, e come tali sono tenuti a giudicare secondo
i canoni (katà toùs kanónas toínyn diakrínein ápantes opheílousi). L’osser-
vanza dei canoni, ispirati dallo Spirito Santo, è la principale medicina, per-
ché essi trasmettono la grazia che dalla fonte, Cristo Salvatore, attraverso
gli Apostoli giunge per successione ai Padri e ai vescovi132.
Sulla linea di questi sviluppi dottrinali, un salto temporale di due secoli
ci porta infine a considerare brevemente la Confessione ortodossa di fede
della Chiesa cattolica e apostolica di Oriente di Pietro Moghila (1596-1646),
metropolta di Kiev. Fu scritta per difendere l’autentica dottrina ortodos-
sa dalle intepretazioni protestantizzanti che si erano fatte strada nel seno
stesso dell’ortodossia: si pensi alla Confessione di Cirillo Lucari (1629), di
ispirazione calvinista, che venne ripetutamente e ufficialmente condannata
a partire dal sinodo costantinopolitano del 1638. La Confessione di Pietro
Moghila presenta una interessante ricostruzione dogmatica della dottri-
na della penitenza. Essa costituisce il tentativo di recuperare e fissare i
principi fondamentali della tradizione ortodossa circa il sacramento della
penitenza, ma al contempo appare influenzata dalle categorie teologiche
elaborate nella Chiesa cattolica latina. Innanzi tutto la penitenza è colloca-
ta tra i sette sacramenti istituiti da Cristo. La parte del peccatore e il ruolo
del sacerdote sono chiaramente delineati. Dolore dei peccati, confessione
al sacerdote-padre spirituale (è significativo il modo in cui la confessio-
ne deve avvenire: accusatorie), proposito di emendare la propria vita e di
compiere le penitenze inflitte dal confessore caratterizzano la posizione
del confitente. Il sacerdote rimette i peccati attraverso l’assoluzione (lýsis),
nell’adempimento della missione conferita da Cristo (Giovanni 20.23)133.
134 PietroMoghila, Orthodoxa Confessio, Parte prima, q. 109, Quo pacto fit sacramentale
sacerdotium? (ed. Kimmel 96): dopo aver citato Paolo, I Cor. 4.1 (“Ita nos aestimet homo, ut
ministros Christi, et oeconomos mysteriorum Dei”), continua: “Haec oeconomia res prae-
cipue duas complectitur: una est facultas ac potestas solvendi delicta (cioè peccata, in greco
amartías) hominum; quamobrem sic ad illam dictum fuit (Matteo 18.18): ‘Quidquid solveritis
super terra, id solutum erit in coelo’...”.
135 Nella lettera di approvazione (datata 11 marzo 1643) leggiamo: “Libellum istum vesti-
giis doctrinae Ecclesiae Christi fideliter insistere, sacrisque consentire canonibus: nulla vero
ex parte illi adversari comperimus” (ed. Kimmel 53).
136 Concilio di Trento, Sessio XIV, 25 novembre 1551, Doctrina de sanctissimis poeniten-
tiae et extremae unctionis sacramentis, Cap. III: De partibus et fructu huius sacramenti (COD
704): “Docet praeterea sancta synodus, sacramenti poenitentiae formam, in qua praecipue
ipsius vis sita est, in illis ministri verbis positam esse: Ego te absolvo etc., quibus quidem de
ecclesiae sanctae more preces quaedam laudabiliter adiunguntur, ad ipsius tamen formae
essentiam nequaquam spectant, neque ad ipsius sacramenti administrationem sunt necessa-
riae. Sunt autem quasi materia huius sacramenti ipsius poenitentiae actus, nempe contritio,
confessio et satisfactio”.
137 Testimoniate sia dai rituali della penitenza pubblica che da quelli della penitenza ta-
riffata. Per quanto riguarda la seconda vedere per esempio Burcardo di Worms, Decretum,
lib. 19 c. 7 (PL 140.777 s.), la cui fonte è Reginone di Prüm, De synodalibus causis 1.304 (ed.
Wasserschleben 147 s.).
138 Adelmannus Leodiensis, Epistula ad Hermannum Coloniensem (scritta fra 1036 e
1056), edita da R.B.C. Huygens, ‘Textes latins du XIe au XIIIe siècle’, Studi Medievali, III serie,
8 (1967) 451-503 (489-493: a p. 490 s. i passi qui di seguito citati): “Qua ergo temeritate sacer-
dotes novi testamenti lepram spiritualem mundare se profitentur. Quem unquam sanctorum
inveniunt cuiquam peccatori dixisse: ego dimitto tibi peccata tua ac non potius communicatis
ieiuniis et orationibus id eis quibus subvenire volebant a Domino impetrasse. Quod legimus
in aecclesiastica historia fecisse Iohannem apostolum pro iuvene illo quem a latrocinio re-
vocatum Christo iterum parturiebat. Sed et ipse Filius hominis habens potestatem in terra
dimittendi peccata devitata persone sue expressione non ait: remitto tibi omnia peccata tua sed
quasi verecunde: homo inquit dimittuntur tibi peccata tua [...] Considerandum vero est iuxta
normam sanctorum patrum quae culpa praecesserit, quae satisfactio sit secuta habitaque
sagaci discrecione tum demum timide atque humiliter potestas officii est adhibenda, nec ita
dicendum: Dimittat tibi dominus peccata tua, et ego tibi dimitto, nisi forte familiaris sit iniuria,
quae sacerdoti ipsi a reo fuerit illata. De tali utique peccato fidenter dicere potest: Indulgeat
tibi dominus, et ego...”.
139 Radolfo l’Ardente († 1200), Homilia LXIV in Litania maiori, che trae spunto dal passo
della lettera di Giacomo, 5.16: “Confitemini alterutrum peccata vestra, et orate pro invicem
ut salvemini” (PL 155.1900). La formula è usata in un passo in cui si fa distinzione tra la
confessione sacramentale al sacerdote e la confessione non sacramentale, nella quale non è
data l’assoluzione dei peccati: “Cui fieri debet confessio? Confessio criminalium debet fieri
sacerdoti, et nominatim, quia solus habet potestatem ligandi atque solvendi... Confessio vero
venialium alterutrum et cuilibet, etiam minori, potest fieri, quoniam propter venialia non
separatur homo a Deo, nisi ultra modum per incuriam excedat... Fit autem hec confessio, non
quod possit peccatis absolvere, sed quia propter humiliationem, et peccatorum nostrorum
accusationem, et fratris orationem, mundamur a peccatis. Unde et non dicimus ‘Ego dimitto
tibi peccata tua’, sed dicimus orando: ‘Misereatur tui omnipotens Deus, etc.”.
lium Sissense del 1344 (Mansi 25.1226): “sed pro forma absolutionis sciendum est, quod, licet
intentio sacerdotis et illius qui confitetur eadem est sicut vestra, quia sacerdos intendit dare
et populus recipere remissionem peccatorum, tamen formam non perfecte ponebant, sed sic
dicebant ut supra dictum est. Sed ex tunc quod habuimus notitiam Romane Ecclesie, multi
de nobis addiscentes formam eius, cum eadem forma facimus remissionem peccatorum et
docemus alios facere”. Per i Maroniti vedere il Sinodo del Monte Libano (1736), Pars II, Caput
IV, de sacramento paenitentiae, c. 3 (Mansi 38.52): “Quamvis in antiquis ritualibus Syriacis
aliisque recentibus Orientalium ecclesiarum euchologiis forma absolutionis reperiatur verbis
deprecativis expressa, haec tamen sancta synodus praecipit ac mandat sacerdotibus omnibus,
ut nulla alia forma utantur praeter hanc, quae verbis indicativis exprimitur: Ego te absolvo a
peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus sancti...”.
soluzione con formula indicativa, affermando che esse erano in uso presso Calabri, Apuli e
Siculo-Graeci [ΕUΧΟΛΟΓΙΟΝ sive Rituale Graecorum... illustratum opera R.P.F. Iacobi Goar,
Parisini, Ordinis Fratrum Praedicatorum, Sacrae Theologiae Lectoris, nuper in Orientem Mis-
si Apostolici (Lutetiae Parisiorum, apud Simeonem Piget, 1647) 678]. Cfr. anche le preghiere
edite da M. Arranz, ‘Les prières pénitentielles de la tradition byzantine. Les sacrements de la
restauration de l’ancien euchologe constantinopolitain, II-2 (3e partie)’, OCP 58 (1992) 23-82
(64-72): la maggior parte dei manoscritti che riportano queste preghiere proviene dall’Italia
meridionale.
145 Goar, Rituale Graecorum 678-680 (abbreviato nella parte delle interrogazioni). Goar
introduce questo testo con l’intento di dimostrare la fede dei Greci nel sacramento della peni-
tenza e la loro pratica della confessione.
146 Commentarius historicus de disciplina in administratione sacramenti poenitentiae trede-
cim primis saeculis in Ecclesia occidentali, et hic usque in orientali observata... authore Ioanne
Morino Blesensi, Congregationis Oratorii D.N. Iesu Christi Presbytero (Parisiis, sumptibus
Gaspari Meturas, 1651), appendice, 118-122.
147 Euchológion to Méga (Roma 1873) 206 s.
logio Barberino”, cioè dal missale Barberiniano greco 306 della Biblioteca
Vaticana, risalente al secolo XVI, il cui testo risale però a tempi più antichi.
Le prime due preghiere di assoluzione ivi riportate fanno espresso riferi-
mento alle parole di Cristo tramandate dal Vangelo di Giovanni (20.22-23)
e contengono una formula deprecativa di assoluzione nella quale il ruolo
ministeriale del presbitero è chiaramente enunciato148. Per queste ragioni il
domenicano Goar raccomandava che esse fossero usate da tutti i confesso-
ri: sebbene avessero una forma a prima vista deprecativa, essa era in realtà
indicativa quanto ai contenuti sostanziali149.
La questione della validità delle formule deprecative per secoli tenne
impegnati i teologi, ma è degno di nota che la validità fu ammessa prima
nella Perbrevis instructio di Clemente VIII (1595)150, poi da Benedetto XIV
nella costituzione Etsi pastoralis (1742)151.
Per dare un’idea delle dispute riguardanti la forma dell’assoluzione, pre-
scelgo due autori che rappresentano, per diversi aspetti, figure intellettuali
148 Goar, Rituale Graecorum 680. Forma della preghiera di assoluzione (nella traduzione
di Goar): “Fili mi spiritualis, abiectus sum et humilis peccator: eius propterea qui apud me
confitetur, non valeo remittere super terram peccata; sed Deus est, qui illa condonat. Propter
illam autem divinitus prolatam, post Christum resurrectionem auditam, et Apostolis dicentem
vocem: ‘quorum dimiseritis’ et quae sequuntur: propter illam, inquam et nos confisi, dicimus:
Quaecumque tenuissime meae humilitati enarrasti, et quaecumque minus ex ignorantia vel
oblivione, qualescunque sit, exprimere non valuisti: condonet tibi Deus, in praesenti saeculo
et futuro”. La seconda orazione: “Deus, qui Davidi propria peccata confitenti per Nathan pe-
percit, qui Petrum negationem lugentem, et meretricem ad pedes flentem, et publicanum et
prodigum suscepit: ipse Deus, per me peccatorem in praesenti saeculo tibi parcat: et indem-
natum te in tremendo suo tribunali sistere faciat. De revelatis autem in confessione hac tuis
criminibus nulla tibi sollicitudo. Vade in pace”.
149 Goar, Rituale Graecorum 680: “Circa has orationes animadverto desiderandum esse ut
omnes illis uterentur confessores: penultima namque earum indubitatam tenet sacramenti
poenitentiae formam his verbis contentam, ... Per me tibi condonet Deus, quamvis enim de-
precativa prima fronte appareat, absoluta nihilominus his dictionibus, ... per me, redditur,
authoritatemque a Deo acceptam, quam prius minister memorabat, reo penitenti applicat, et
indulgentiae divinae instrumentum, et causam subordinatam se praedicat: in editis tamen vel
manuscriptis quibusque aliis desideratur”.
150 Perbrevis instructio super aliquibus ritibus Graecorum ad RR.PP.DD. Episcopos Latinos,
in quorum civitatibus vel dioecesibus Graeci vel Albanenses Graeco ritu viventes degunt: si può
leggere nel Bullarium Pontificium Sacrae Congregationis de Propaganda Fide I (Romae 1839)
pp. 1-4, e in Mansi 38.306-308. Sono rilevanti i §§ 8-9: “In casu necessitatis presbyteri graeci
catholici possint latinos absolvere. Utantur forma absolutionis in generali Concilio Florentino
praescripta et postea, si voluerint, dicant orationem illam deprecativam, quam pro forma hu-
siusmodi absolutionis dicere tantum consueverunt”. L’utilizzazione della forma indicativa, in
questo caso, è richiesta per l’assoluzione di un latino da parte di un presbitero greco.
151 Benedetto XIV, cost. Etsi pastoralis (1742), § V, de sacramento paenitentiae, c. V (ri-
152 Ho usato la seconda edizione parigina del 1626: Petri Arcudii Corcyraei presbyteri
philosophiae ac sacrae theologiae doctoris libri VII De concordia Ecclesiae occidentalis et
orientalis in septem sacramentorum administratione (Lutetiae Parisiorum, apud Sebastianum
Cramoisy, 1626). Nella Brevis relatio totius operis, preposta al testo, l’autore enuncia i suoi pro-
positi: egli intende dimostrare che la Chiesa occidentale e quella orientale sono concordi “in re
sacramentaria”, e denunciare eventuali abusi o false interpretazioni sorte nella Chiesa greca
per opera degli scismatici. Ma l’opera ha anche la funzione di redarguire e correggere gli ere-
tici del tempo (i protestanti), che asseriscono che i sette sacramenti sono una invenzione della
Chiesa Romana: affermazione falsa, dal momento che anche la Chiesa orientale li conosce e
li conserva. Vale anche per istruire i presuli cattolici nelle cui diocesi vivono Greci, Albanesi
o Rutheni, e per dare una guida ai chierici greci che si dichiarano uniti alla Chiesa Romana.
153 Arcudio, De concordia Ecclesiae occidentalis et orientalis in septem sacramentorum ad-
ministratione, lib. IV, de poenitentia, pp. 345-377: il caput III, De forma Sacramenti Poeniten-
tiae, occupa le pp. 350-375.
154 Arcudio, De concordia Ecclesiae occidentalis et orientalis, p. 350: la forma usata dai
Greci “videtur enim esse deprecatoria, ut patet inspicientibus Euchologium. Inter alia vero
sacramenta nullum est, quod minus sit capax forme depraecatoriae, quam sacramentum pa-
enitentiae, cum forma eius debeat esse iudicialis sententia”.
155 Arcudio, De concordia Ecclesiae occidentalis et orientalis, p. 369: la sua opinione, “ea
vero eiusmodi est, quae asserat huius sacramenti formam apud Graecos non esse imperati-
vam, non deprecatoriam, neque mixtam, sed omnino enunciativam, et ut ita dicam... aucto-
ritativam ac iudicialem... Talem enim praesefert sensus et significatio horum verborum... ad
verbum ‘Habeo te veniam donatum’, hoc est... veniam do, ignosco, condono, seu remitto tibi
peccata”.
156 Arcudio, De concordia Ecclesiae occidentalis et orientalis, p. 370 s.: “At non extat
eiusmodi formam in Euchologio. Equidem fateor. Neque enim, si extaret, in recensendis alio-
rum opinionibus laborassem. Est tamen frequens, et in ore multorum confessariorum quoti-
die versatur, licet major pars Graecorum ex ignorantia, quod nesciant totam vim latere in his
paucis verbis, ea non utantur...”.
157 Arcudio, De concordia Ecclesiae occidentalis et orientalis, p. 375: “Est ergo vera forma
apud Graecos, sed duo ab illis requirenda, ut et fierent, optanda essent. Alterum ut passim
ea omnes uterentur, quod non faciunt. Alterum ut in re presenti, nimirum gravissima, atque
omnino necessaria, non cuilibet liceret ad libitum his, vel aliis verbis et orationibus eam enun-
ciare, sed una esset oratio, et forma certa et determinata, quae omnibus inservirent, quaeque
in Euchologio contineretur”.
158 Questa teologia della storia è esposta in alcune belle pagine (non numerate) della Pra-
efactio ad Lectorem, alla quale occorre rinviare. In questa sede occorre sottolineare come
per Morin l’assistenza dello Spirito Santo generi una continuità senza rotture tra presente e
passato. Da un lato “a Deo... praeceptum nobis est Ecclesiam hodie loquentem audire, non
solum alterius aevi”; dall’altro non ci si deve sorprendere che la variazione della disciplina
della Chiesa abbia fatto sì che “olim aliter factum est, quam hodie consuevit [...] Ita prae-
sentem consuetudinem hoc seculo post Christum natum decimo septimo labente in Ecclesia
vigentem amplectimur, probamus, laudamus, sed antiquam non improbamus, verum lau-
damus, imo suscipimus et miramur ut temporibus illis convenientem”. Dal punto di vista
della metodologia storiografica (e dei suoi eventuali risvolti eversivi sul piano della “politica
religiosa”), Morin distingue un duplice scopo degli storici: “Qui antiquae disciplinae e tenebris
eruendae et illustrandae navat operam, sive ea paenitentiam spectet, sive alia sacramenta, aut
qualescunque Ecclesiae ritus, duplicem scopum sibi proponere potest. Vel simpliciter intendit
ritus quales olim erant, et exercebantur, ante lectorum oculos describere, et exprimere; vel id
facit ut theoriam ad praxim revocet, et memoriam rituum antiquorum intermortuam renovet,
usumque antiquum recentiore correcto restituat”; e attribuisce a se stesso il primo intendi-
mento, certo che ne sarebbe disceso un vantaggio agli amanti delle antichità ecclesiastiche e
alla Chiesa stessa.
gli altri: Innocenzo IV, Jacques de Vitry, Alessandro di Hales, Roberto Bellarmino, Giovanni
de Lugo, Simeone di Tessalonica fra i bizantini, e lo stesso Pietro Arcudio, che richiama
(senza citarlo) Bellarmino in un passo relativo alle sacre ordinazioni, De concordia Ecclesiae
occidentalis et orientalis, lib. VI, de sacramento ordinis, cap. IV, quae sit materia ordinum apud
Latinos, p. 434 s.
161 Morin, Commentarius historicus de disciplina in administratione sacramenti poeniten-
tiae, lib. VIII, cap. XVIII, n° VIII, p. 570: “Dico iterum, nec sic formam Latinam a Graeca sub-
stantialiter differre, eo quod eadem sit modi indicativi et deprecativi potestas et significatio,
5. Conclusioni
L’invito, che tante volte Giovanni Paolo II ha rivolto alla Chiesa, a “re-
spirare come con i due polmoni dell’Oriente e dell’Occidente” e ad “ardere
nella carità di Cristo con un solo cuore dai due ventricoli”163, si impone
come un proficuo canone metodologico anche all’inteprete che si propon-
ga — sotto diverse prospettive — di cogliere il significato della cattolicità:
una cattolicità che non è uniformità, ma varietà e ricchezza che discen-
dono dal complesso e dall’intreccio delle tradizioni. Alla conclusione di
questo percorso di ricerca mi sembra che — pur nella distinzione degli
sviluppi storici e con la diversa accentuazione data ai diversi aspetti della
questione — emerga una vera e sostanziale concordia delle due tradizioni
latina e bizantina quanto alle concezioni fondamentali relative al sacra-
mento della penitenza.
Nell’Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia Giovanni Paolo
II, enumerando una serie di convinzioni attorno alle quali possono essere
raccolte le diverse affermazioni della dottrina cattolica circa il sacramento
della penitenza, ricordava, fra l’altro, che esso si caratterizza per l’indole
giudiziale (sia pure da intendere analogicamente rispetto ad altri generi
di giudizi umani), ma che la coscienza della Chiesa vi ritrova anche una
funzione terapeutica o medicinale. Il sacramento della penitenza, dunque,
si presenta a un tempo come tribunal misericordiae e locus sanationis spi-
ritualis164. Il ministro vi agisce “in persona Christi”, nell’adempimento di
una missione e nell’esercizio di un potere di rimettere i peccati che Cristo
conferì agli Apostoli affinché fosse trasmesso ai loro successori165. Che le
mentali (Nuovi Saggi Teologici 63; Bologna 2005), costituisce un’agile e a un tempo
profonda introduzione al tema della penitenza, in cui le prospettive della teologia
sacramentale e morale convergono con l’attenzione alle fonti canoniche (la tradi-
zione dei sacri canoni).
Un rapido profilo ricostruttivo si legge in E. Ch. Suttner, ‘Busse (liturgisch-
theologisch). C. Busse im christlichen Osten’, Lexikon des Mittelalters II (München
– Zürich 1983) 1125-1130.
La tradizione canonica bizantina e l’attuale disciplina del CCEO sono al centro
degli studi di E. Synek, ‘Rechtsgeschichtliche Anmerkungen zur Bussdisziplin im
CCEO’, Ius canonicum in Oriente et Occidente. Festschrift für Carl Gerold Fürst zum
70. Geburtstag, edd. H. Zapp – A. Weiss – S. Korta (Adnotationes in Ius Canonicum
25; Frankfurt am Main 2003) 385-402 e D. Salachas, ‘Il sacramento della penitenza
nella tradizione canonica orientale e problematiche interecclesiali’, Folia Canonica
6 (2003) 121-155.
Alcuni lavori sono particolarmente utili per ricostruire le linee della tradizione
orientale del sacramento della penitenza nello specchio della liturgia: L. Ligier, ‘Le
sacrament de la pénitence selon la tradition orientale’, Nouvelle Revue Théologique
89 (1967) 940-967 [anche in traduzione italiana, ‘Il sacramento della penitenza se-
condo la tradizione orientale’, La penitenza (Quaderni di Rivista Liturgica 9; Tori-
no 1968) 145-175]; Id., ‘Dimension personnelle et dimension communautaire de la
pénitence en Orient’, La Maison-Dieu 90 (1967) 155-188. Lo stesso Ligier ha offerto
un profilo sintetico nella sua Introduzione alla liturgia orientale della penitenza. Ad
usum privatum auditorum (Pontificium Institutum Orientalium Studiorum, Roma
1968), libro che merita un’attenzione ben maggiore di quella che l’Autore ha mode-
stamente richiesto indicandone i destinatari. Sulla stessa linea vedere anche F. van
de Paverd, ‘La pénitence dans le rite byzantin’, Questions Liturgiques 54 (1973) 191-
203. Lo studio di E. Mazza, ‘La celebrazione della penitenza nella liturgia bizantina
e in Occidente: due concezioni a confronto’, Ephemerides Liturgicae 115 (2001) 385-
440, rappresenta un tentativo riuscito di comparare le concezioni della penitenza
attraverso la storia della liturgia.
Varia e non uniforme utilità presentano i seguenti lavori: G. Wagner, ‘Bussdiszi-
plin in der Tradition des Ostens’, Liturgie et remission des péchés. Conferences Saint-
Serge. XX Semaine d’Études liturgiques, Paris, 2-5 juillet 1973, edd. A.M. Triacca
– A. Pistoia (Bibliotheca Ephemerides Liturgicae, Subsidia 3; Roma 1975) 251-264;
F. Nikolasch, ‘La liturgia penitenziale nelle Chiese orientali e suo significato’, Con-
cilium 7 (1971) 90-103; E. Melia, ‘L’acte écclesial de la réconciliation dand l’Église
orthodoxe’, Revue de Droit Canonique 34 (1984) 336-348; J.H. Erickson, ‘Penitential
Discipline in the Orthodox Canonical Tradition’, Saint Vladimir’s Theological Quar-
terly 21 (1977) 191-206: merita approfondimenti, che non possono essere condotti
in queste pagine, il suo accenno (p. 198) circa la possibilità che anche a Costanti-
nopoli, come in Occidente nell’epoca carolingia, si sia potuto instaurare un sistema
dicotomico articolato in penitenza pubblica e privata.
Su alcune delle fonti orientali trattate in queste pagine, in particolare sulla Dida-
scalia e sulle Costituzioni Apostoliche: P. Galtier, Aux origines du sacrement de péni-
tence (Analecta Gregoriana, vol. 54, Series Facultatis Theologicae, Sectio A, n° 6;
Romae 1951); K. Rahner, ‘Busslehre und Busspraxis der Didascalia Apostolorum’,