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Sommario

§ 1. La critica alla filosofia cartesiana.........................................2


a) L’universo dei viventi.............................................................3
b) Il mondo dei viventi e le piccole percezioni.......................4
§ 2. Leibniz e Spinoza......................................................................6
§ 3. La questione dell’esistenza del mondo e il principio del
meglio.......................................................................................................8
c) Dio come unità dei possibili e tendenza all’esistenza
degli enti..............................................................................................8
d) La monade come spontaneità..............................................10
e) Il mondo e la sua creazione come risultato della
concomitanza delle monadi............................................................12
f) Le conseguenze in chiave estetica.......................................14
§ 4. Il problema dell’unità del principio....................................19
g) La questione della verità......................................................19
§ 5. Il principio della sostanza individuale................................20
§ 1. La critica alla filosofia cartesiana

La filosofia di Leibniz prende le mosse in modo significativo


proprio dalla sua critica alla filosofia di Descartes, in particolare
per quanto riguarda il problema dell’estensione, e con ciò della
nostra possibilità di comprendere il mondo. Per Leibniz, nel
Discorso di metafisica, ciò che costituisce l’essenza della realtà
corporea non è l’estensione ma la forza. La materia per Leibniz è
essenzialmente forza attiva che la percorre nella sua completa
interezza; l’estensione è il risultato della contrapposizione di
queste forze che si intersecano e si contrappongono. L’intuizione
leibniziana è presaga degli sviluppi stessi della fisica
contemporanea, E=mc 2 ne rappresentazione la visualizzazione
matematica. La materia è di per sé energia, che noi ci
rappresentiamo come qualcosa di impenetrabile e quindi di esteso.
L’aspetto più importante, in senso filosofico, è però costituito
proprio dalla frantumazione e differenziazione della materia
sottoposta a tali forze. Se la materia e l’estensione, con cui si
presenta alla nostra attività rappresentazionale, è il risultato della
contrapposizione di forze interne alla materia, ne viene che la
materia si presenterà a noi come qualcosa di non omogeneo, di
differenziantesi al suo interno, e non a causa della nostra
particolare capacità rappresentativa. La materia perciò è solo
l’epifenomeno in cui si concretizzazione la manifestazione di
principi più alti di quelli con cui noi organizziamo la materia per
la nostra conoscenza, questi principi sono le forze, ovvero
l’attività, come soprattutto sarà interpretata in ambito romantico
nell’Ottocento. Questa considerazione della materia come forza, se
da un lato permette una più radicale differenziazione della materia
stessa, e quindi una molteplicità molto più spinta nella
configurazione del mondo, dall’altro lato introduce un concetto
nuovo rispetto al discorso cartesiano, o meglio impone una
modulazione diversa di quel concetto centrale nel cartesianesimo,
ovvero la natura e funzione della mente. La mente, infatti, che per
Descartes era ciò che mi si presenta per primo come chiaro e
distinto, perfettamente autoreferenziale, nella filosofia di Leibniz
è un vero e proprio principio inesteso e immateriale, poiché la sua
natura essenziale, quella di opporsi alla corporeità, fa sì che essa
possa perfettamente incarnare quel concetto di attività e forza che
rappresenta la nuova configurazione della natura corporea. Si
verrebbe così a realizzare un effettivo superamento del dualismo
cartesiano? La legge di continuità avrebbe per l’appunto questo
intendimento, la res corporea viene ricondotta ad un principio
attivo che la anima dall’interno e che la trasforma in attività. Ed è
proprio qui che dovrebbe essere superato il dualismo: il
meccanismo non è più inerte e passivo, ma acquista la stessa
fisionomia del soggetto attivo, dell’anima pensante,
differenziandosi da essa non in senso oppositivo ma in senso
progressivo/infinitesimale.

a) L’universo dei viventi


Sulla base di questa interpretazione del rapporto tra attività e
materia, Leibniz ha buon gioco nel presentare l’universo, la realtà,
non solo come una dimensione unitaria, ma anche come un mondo
di viventi, ovvero come un mondo la cui essenza è l’essere
animato in ogni sua più piccola parte. Il principio vitale è ciò che,
fenomenologicamente, caratterizza solo il vivente, ma alla luce
proprio della legge di continuità l’assenza del fenomeno della vita
non equivale alla negazione dell’attività, che nella vita organica si
mostra in maniera percettivamente sensibile. È quindi improprio
immaginare la natura come un mondo di rigorose fissità,
immutabili perché opposte all’attività che individua il vivente, e in
modo particolare il vivente cosciente dotato di anima/mente.

Questo aspetto mi sembra abbia una certa rilevanza per i principi


fondamentali dell’estetica barocca. Rappresentare la realtà nella
sua molteplice polimorficità significa, in fondo, rispecchiare
nell’arte come prodotto dell’attività immaginativa la stessa
attività che presiede allo sviluppo evolutivo della natura. La
percezione immaginativa, con cui l’artista si pone di fronte alla
natura, al contrario di quello che invece afferma Malebranche,
non solo ha una sua validità in senso estetico, ma permette anche
di misurare la nostra conoscenza della natura su un piano
gnoseologico alternativo ma complementare con la conoscenza
scientifica che, al contrario, appare limitata al solo carattere
rigidamente matematico con cui la ragione è in grado di ordinare
il reale.
Questa considerazione si ritrova anche in Baricalla, la quale
afferma appunto che per Leibniz l’organismo non può essere
ricompreso all’interno di una struttura semplicemente meccanica.
In altre parole, affidarsi al solo intelletto per comprendere la realtà
dell’organismo vivente non potrebbe mai concludere ad una
conoscenza delle nature semplici che, pure, dovrebbero costituire
il fondamento della conoscenza chiara e distinta. L’intelletto non
conduce al compimento del conoscere, ovvero non potrà mai
fornire un sapere completo del corpo vivo. Per questo, occorre
affidarsi ad una conoscenza di altro tipo, che non significa
necessariamente superiore, ma semplicemente capace di cogliere
per altra via quell’unità (e quindi compiutezza) che caratterizza
ogni sostanza.

È questo il significato di una riabilitazione della percezione


estetica nell’ambito della teoria della conoscenza. Leibniz, in
pratica, afferma che l’intelletto non è in alcun modo esaustivo
rispetto a certi oggetti, che vengono percepiti in una loro
compiutezza reale, che però rimane preclusa all’osservazione
razionale, mentre viene comunque percepita dai sensi. O meglio, i
sensi – e qui permane l’impostazione razionalista – non
forniscono una conoscenza certa dell’oggetto in sé, come dice
Malebranche, ma nel cogliere l’armonia che appare in certi
oggetti, come gli organismi viventi, rendono legittimo ricorrere a
principi di ordine diverso da quelli puramente corporei per
giustificare ciò che i sensi ci presentano dell’oggetto.

b) Il mondo dei viventi e le piccole percezioni


A sua volta, questo panvitalismo conduce a un panpsichismo. Il
principio originario è quello del dinamismo interno a questi centri
vitali, che altro non sono se non le monadi, dinamismo, ovvero
un’attività continua di natura rappresentativa, che Kant intenderà
come spontaneità dell’intelletto. Il riferimento è chiaramente
platonico, ovvero l’anima concepita nel Fedone, quindi un
principio caratterizzato dall’assoluta semplicità, e – proprio come
spontaneità – assolutamente attivo e non passivo, quindi non
subordinabile ai sensi.

Qui mi sembra che Leibniz accetti il principio di fondo di


Malebranche, vale a dire il fatto che esista un ordine delle nostre
facoltà, e che questo ordine faccia capo all’intelletto.

La maggior parte delle percezioni sono inconsce; questo, però,


impone una riflessione in merito alla semplicità dell’anima, e mi
sembra che non a caso Leibniz abbia fatto coincidere il progresso
dall’inconscio al conscio come un passaggio determinato dalla
distinzione tra due diversi livelli di percezione, sensibilità e
intelletto. Infatti, un principio assolutamente semplice perché
inesteso, come la monade/anima, per quale motivo dovrebbe
possedere percezioni inconsce, distinguendole – in sé – da quelle
consce? Chiaramente, non vi è una distinzione consapevole, perché
altrimenti non vi sarebbero percezioni inconsce; ma allora
dovremmo chiederci di che natura sia la distinzione in sé. Non
credo si possa rispondere in altro modo che tale distinzione sia
inconscia, e per questo non avvertita ma reale.

Con il che, si dovrebbe ammettere che l’anima sia internamente


distinta in due regioni, senza che l’attività percettiva della
monade, che deve coincidere con la monade stessa, possa
rappresentarsele. La questione della reminiscenza, che Leibniz
solleva esplicitamente, finisce credo per incastrarlo. Semplicità
dovrebbe voler significare (cfr. Pref. Nuovi saggi sull’intelletto
umano) che non si possono ulteriormente ricondurre le nostre idee
e quindi percezioni a principi più originari. Ora, così scrive
Leibniz:

Non sono per nulla favorevole alla tabula rasa di Aristotele, e c’è
qualcosa di solido in quel che Platone chiamava reminiscenza. C’è anzi
qualcosa di più. Non abbiamo infatti soltanto una reminiscenza di tutti i
nostri pensieri passati, ma anche un presentimento di tutti inostri
pensiero futuri. È vero che lo abbiamo confusamente e senza
distinguerli […]. Così […] è vero che non soltanto le nostre idee, ma
anche le nostre sensazioni nascono dal nostro proprio fondo, e che
l’anima è più indipendente di quanto si pensi (p. 15).

Indipendente, ovvero attiva. Se dovessimo interpretare le piccole


percezioni come una distinzione nell’anima, dovremmo anche
pensare che queste ultime limitino in qualche modo l’attività
spontanea della percezione. La legge di continuità serve a
spiegare questo passaggio, ma allora dovremmo negare l’esistenza
di un fondo da cui provengono le percezioni, fondo che per sua
natura ci deve rimanere del tutto sconosciuto (non percepito),
altrimenti non avremmo piccole percezioni che sorgono senza che
ce ne accorgiamo. In pratica, o l’anima è semplice, ma allora non
vi è modo di collocarvi le piccole percezioni, o vi sono distinzioni
al suo interno, ma allora non potrà essere una pura e assoluta
spontaneità. La soluzione kantiana credo faccia emergere il
problema piuttosto che risolverlo.

La conseguenza che Leibniz trae dal suo panpsichismo è che


ovunque nell’universo si trovano centri di attività psichica, ovvero
percettivi, sebbene solo gli enti dotati di ragione giungono al
livello di “appercezione” o autocoscienza. Per questo si può dire
che l’universo leibniziano è policentrico, e risponde in questo
modo a due istanze. Supera il rigido determinismo meccanicista
cartesiano, presentando la materia come animazione continua,
anche se non palesata da un’attività cosciente, e permette di
salvaguardare il principio di una individualità personale e
sostanziale, che la filosofia di Spinoza aveva categoricamente
escluso: «il modo umano di guardare l’universo non appare più
come l’unico possibile» (Baricalla, 45). Il che però significa
anche, in chiave estetica, che non vi è un unico modo di
conseguire, da parte dell’uomo, una conoscenza – oppure, in senso
più generico, una rappresentazione – certa di questo universo, che
sia affidata e garantita solo dalla matematica, affiancando a questa
anche l’arte e l’immaginazione.

§ 2. Leibniz e Spinoza

A parte le considerazioni specifiche dedicate all’etica


spinoziana, Leibniz si confronta con il pensatore olandese anche in
un altro breve testo, dedicato espressamente alla questione delle
anime individuali. Potremmo intendere questo tema come una
ulteriore possibile soluzione delle questioni delle nostre
percezioni, e qui in particolare del rapporto tra mente e corpo,
centrale appunto nella filosofia di Spinoza. Oltre il primo richiamo
alla dottrina dell’intelletto agente aristotelico, Leibniz affronta la
questione centrale con una prima osservazione riguardo al destino
delle anime particolari a fronte dell’esistenza di uno spirito unico,
facilmente assimilabile alla sostanza spinoziana. Dire, infatti, che
non esistano spiriti particolari, vale a dire individui sostanziali
dotati di una attività rappresentativa incondizionata, significa
sostenere un’affermazione «di cui non si ha neppure una nozione
distinta» (544). Il risultato «distrugge l’immortalità delle anime e
degrada il genere umano, o piuttosto tutte le creature viventi, dal
rango che loro appartiene e che è stato comunemente attribuito
loro» (ibid.).
Quello che appare a prima vista è che la critica all’idea che non
si diano nel mondo anime individuali, ovvero principi vitali,
sostanze individuali, o comunque le si voglia chiamare, è
determinata proprio partendo dall’idea del tutto, in cui tali principi
vitali sono posti, in quanto posti secondo un preciso ordine.

È chiaro che qui si incontrano due concetti fondamentali, l’ordine


e la totalità. A prescindere dall’esistenza o meno di uno spirito
unico, vale a dire l’unica sostanza come nel sistema spinoziano, la
realtà data deve essere sempre presa nella sua totalità, poiché
solo in questo modo possiamo pensare di averne una conoscenza
distinta (cfr. Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee ). Ma
nel testo richiamato si capisce anche che questa totalità viene
vista da Leibniz come capacità di ricondurre la percezione delle
idee complesse ai loro elementi semplici, ovvero non riconducibili
ad altro, principi primi. E questo mi sembra che implichi
necessariamente il contestuale riconoscimento di un ordine di tale
riconducibilità. Questo ordine viene proiettato sull’interezza
dell’universo, coinvolgendo appunto la totalità degli esseri
viventi, che per Leibniz sembrano la sua manifestazione più
chiara. Tanto che proprio la posizione di ciascuno all’interno di
questo ordine fa sì che ogni elemento non possa considerarsi privo
di una sua autonoma sostanzialità individuale, contrastante con
l’idea di una sostanza unica.

Un altro aspetto che sostiene la concezione leibniziana è


desunto dall’esperienza, a dimostrazione di come Leibniz voglia
sostenere la tesi non solo con un’argomentazione a priori, che
potrebbe anche essere smentita dai fatti, ma proprio con i fatti
desunti dalle nuove scoperte scientifiche ottenute con
l’osservazione al microscopio, curiosamente riprendendo anche
argomentazioni simili sostenute, in altro contesto, da Malebranche.
§ 3. La questione dell’esistenza del mondo
e il principio del meglio

Il problema dell’esistenza del mondo si proietta decisamente sia


nei confronti del rapporto con il pensiero di Spinoza, sia come
evoluzione e sviluppo della teoria della continuità, sia infine, per
ciò che più ci riguarda, in merito alla valutazione estetica in
ambito barocco che di questa teoria si può fare.
Il concetto cardine di questa riflessione è quello di unità.
Secondo la lettura di Mathieu, vi sono due considerazioni che
Leibniz elabora intorno al concetto di unità: da una parte, l’unità è
il presupposto metafisico dell’attività che Leibniz ritiene di poter
ritrovare all’interno di ogni manifestazione della natura, dall’altra
parte, questa unità come principio di attività è il risultato di una
costruzione a partire da elementi dati.

Mi sembra che qui si possano riassumere le cose in questo modo.


Il primo senso parte da una considerazione metafisica, come dirà
Kant, di ciò che la ragione può conoscere a priori. Il secondo
senso parte invece dal riscontro dell’esperienza, dal fatto cioè che
l’unità della nostra attività spirituale e percettiva è frantumata in
una molteplicità di idee, oggetti, sensazioni ecc.… e da questa
frantumazione bisogna risalire all’unità. In pratica, una volta
accettato di ricondurre ogni manifestazione della natura all’unità
monadica, il problema rimane quello di risalire dall’empirico al
metafisico. Ecco perché la giustificazione dell’unità diventa
essenziale, e con essa essenziale diventa la giustificazione
dell’orizzonte in cui questa unità riassume la complessa
molteplicità empirica.

Tre sono i livelli con cui interpretare questo concetto di unità:


Dio, sostanza individuale, mondo creato.

c) Dio come unità dei possibili e tendenza all’esistenza degli


enti
Il primo livello di unità è quello di Dio come unità dei possibili.
Ogni ente possibile è tale in quanto non presenta contraddittorietà
intrinseca, e, mi pare che si possa affermare così , Dio come unità
di tutti i possibili è garanzia della loro intrinseca
incontraddittorietà. Al di là di questa considerazione, comunque,
come afferma Mathieu, «l’atto indivisibile di Dio è la radice prima
della possibilità reale» (34), garantendo così la loro esistenza
reale, prima ancora che di fatto. Vale a dire, ogni ente possibile
esiste “in quanto” possibile, non perché reperito nell’esperienza;
mi pare, ancora, che qui Leibniz retroceda la possibilità in Dio
prima che nel soggetto, come invece farà Kant. Lì, sono le forme
pure a priori che determinano la possibilità di incontrare oggetti
nell’esperienza , sì che è il soggetto che diventa garante – in virtù
del complesso della deduzione trascendentale delle categorie –
dell’esistenza di un’esperienza, e in particolare proprio di questa
esperienza che non può non costituirsi sulla base dell ’universalità
delle categorie. In Leibniz invece, poiché l’esperienza nella
monade viene meno, la garanzia dell’esistenza del mondo va
ricercata e posta in un principio diverso da quello di un soggetto
che non ha nessuna possibilità di comunicare con l ’esterno.
Una volta posto Dio come una sorta di risultante della
computazione di tutti gli enti possibili in lui, ne dovrebbe venire
che, data l’esistenza del mondo, cioè di un insieme particolare di
questi enti possibili divenuti realmente esistenti, anche Dio deve
esistere come atto generatore di questo mondo, quindi Dio
creatore. Il che però, fa notare Mathieu, comporta una sorta di
contraddittorietà, perché

tale ricostruzione è spacciata, tuttavia, come legittima in linea di


principio, e contrasta con l’assunto di una attività fondante originaria
dell’unità divina (34).

In altre parole, se Dio crea il mondo, lo fa perché egli stesso è


principio di quell’attività unitaria che Leibniz riscontra in ogni
angolo del mondo, seppure solo in pochi aspetti tale attività
emerge in modo manifesto; ma perché questo sia ammissibile
logicamente, l’attività divina deve precedere ogni altra
(originarietà), ovvero deve essere a priori rispetto al mondo. Ma,
d’altro canto, se il concetto di Dio è ricostruito a partire dalla
contingenza del mondo come uno degli infiniti mondi possibili,
che sono possibili solo in quanto vengono ipotizzati in un punto
comune a tutti, e definisco tale punto comune Dio, allora Dio è
“ricostruito” a posteriori, a partire cioè dalla contingenza del
mondo, e per questo non si capisce dove abbia inizio quell’attività
originaria necessaria all’atto creativo.

Qui abbiamo sempre immancabilmente a che fare con la


contrapposizione Spinoza-Leibniz; l’alternativa vorrebbe infatti
che Dio fosse una realtà infinita, e quindi leibnizianamente una
pura attività non contrastata da altro, come afferma la definizione
di sostanza, salvo poi dover accettare lo svolgimento necessario di
ogni singolo modo di questa sostanza secondo le leggi stesse di
quell’unica natura attiva che è Dio. Viceversa, se si vuole
salvaguardare la libertà individuale affermando la sostanzialità
della monade, si deve necessariamente riconoscere che ognuna di
esse è in sé la riproposizione di quel centro di attività infinita che
Spinoza ipotizzava per la sola sostanza, ed ecco che nessuna a
questo punto può rendere ragione della concordanza con le altre,
e per questo va posta una monade suprema che le armonizza, ma
solo perché è essa stessa l’attività originaria che le crea, e con
questo si ritorna alla difficoltà iniziale, la concordanza, imposta
da Dio come origine, e quindi riproponendo l’ordine necessario
spinoziano.
A me sembra che qui tocchiamo il limite estremo dell’iniziale
problema cartesiano, il dualismo mente-corpo. Sia Spinoza che
Leibniz cercano di risolverlo, e lo fanno, ma mettendo in luce il
punto centrale, ovvero che questa soluzione si ottiene solamente
sacrificando o la libertà individuale, oppure la certezza di una
concordanza efficace tra soggetti altrimenti irrelati tra loro. Sarà
a questo punto Kant che ne trarrà le inevitabili conseguenze,
tracciando una netta lacerazione all’interno dell’individuo, e
consegnando il problema all’idealismo.

d) La monade come spontaneità


Lo stesso problema si presenta nei confronti dell’unità della
monade, cioè della sostanza individuale. La definizione di monade
ne mette in risalto l’assoluta semplicità, e quindi l’impossibilità di
ricondurre ad altro la sua spontaneità:

non c’è un mezzo per spiegare come una monade possa essere alterata o
modificata nella sua interiorità da qualche altra creatura […]. Le
monadi non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare o
uscire (283, § 7).

La parola chiave è modificazione, o modo per Spinoza. La


monade non subisce modificazione da altro, ergo l’unica
possibilità è che la modificazione sia del tutto interna, e provenga
da lei stessa; ora, se è così, è chiaro che questa modificazione deve
seguire la natura stessa della monade, non dipendendo dalla natura
di nient’altro fuori di lei.

“Seguire la propria natura”, in quest’espressione credo si


nasconda il senso del confronto Spinoza-Leibniz in questo
contesto. Agire esclusivamente secondo la propria natura
significava per Spinoza non essere limitato da altro, essere libero
perché operante secondo l’essenza che realmente si è. Questo però
vale solo in quanto l’essenza non rimane confinata nell’insieme
delle pure possibilità, ma esiste realmente actu, in pratica perché
niente è solo possibile, ma il possibile è nello stesso tempo reale.
E questo è solo la causa sui, in cui esistenza ed essenza
coincidono, così come coincidono possibilità e realtà. Non vi è
alcuna contingenza. Ora, per Spinoza questo discorso si applica
alla sostanza solo in quanto essa è infinita, non limitata da altro,
e perciò unica, in quanto cioè la causa coincide con il causato. A
me pare che qui Leibniz colga un punto che merita di essere
approfondito nella letteratura critica. Causa e causato, come
mostrato da Descartes per esempio nelle passioni dell’anima,
implica una distinzione tra attivo e passivo, poiché il causato, se
deve significare ciò che esso è, non può produrre un’azione,
perché cesserebbe di essere causato, e dovrebbe rivolgersi ad
altro nei confronti della cui passività esso apparirebbe come
attivo. Ma non vi altro che la causa stessa, che proprio in quanto
causa a sua volta non può cessare di essere attiva per subire
l’azione del causato trasformato in causa. In altre parole, la
sostanza spinoziana manca dell’autoreferenzialità del pensiero di
Descartes. Qui interviene Leibniz, il quale sposta l’attenzione
proprio sull’attività, forte delle sue scoperte in campo fisico.
L’attività della monade supera, a mio parere, l’impasse
spinoziana, perché essa rappresenta quell’autoreferenzialità che
Descartes aveva impostato e che Kant e l’idealismo porteranno a
compimento con il concetto di autocoscienza o spontaneità.
Attività + spontaneità fanno sì che la monade sostanza sia
un’esistenza che, in sé virtualmente infinita, trovi questa infinità
nella sua stessa spontaneità, come la volontà infinita di
Descartes, sebbene questa spontaneità non equivalga ad un
infinito in atto, reale, poiché proprio questa spontaneità rende
incapace la monade di relazione, e perciò necessitante di
un’attività superiore e originaria di coordinamento, l’armonia
prestabilita di Dio. questa supera invece i limiti del discorso
cartesiano, che non riusciva a trovare composizione tra mente e
corpo. Kant cercherà di risolvere il problema di questa
spontaneità inefficace con la separazione tra sensibilità e
intelletto, con le conseguenze ben note.

Non è un caso che Mathieu richiami proprio la critica di Kant a


tale spontaneità fittizia. Se l’attività della monade si esplica nei
suoi contenuti, prodotti dal fondo della propria essenza, rimane
sempre il fatto che questi contenuti, in un altro senso, sono da
sempre dati alla monade, proprio perché priva di finestre, quindi
incapace di cogliere qualcosa attraverso l’esperienza. La
spontaneità è svuotata, perché l’ordine viene sempre da una
dimensione originaria che, a questo punto, è l’unica vera attività
spontanea. In un senso, l’unità della monade è determinata dalla
sua spontanea attività, che in questo senso, dovrebbe
rigorosamente essere pensata come originaria, altrimenti non è
attività. Ma questa originarietà non può essere pensata
contemporaneamente con l’ordine con cui le idee della monade
vengono via via percepite e rappresentate, dal momento che questo
ordine è uno dei “possibili” ordini già contenuti in Dio, e quindi
già dati alla monade, che di esso fa parte integralmente. Alla
monade viene meno questa originarietà quando la si considera
come punto di vista limitato del mondo, che deve dividere con le
altre monadi, ma questo è un semplice fattore negativo, mancanza
di una completa chiarezza sul mondo, che non credo risolva il
problema di pensare un’attività che sia spontanea, ed insieme
condizionata.

e) Il mondo e la sua creazione come risultato della


concomitanza delle monadi
Il mondo si costituisce in unità come composizione delle azioni
delle singole monadi, ognuna delle quali rappresenta un punto di
vista particolare sul tutto. Le difficoltà di questa
particolarizzazione sono state accennate nel paragrafo precedente;
qui va visto il risultato dal punto di vista dell’oggettività e unità
del mondo preso per se stesso. Questa unità appare ovviamente
subordinata al concetto dell’armonia prestabilita. Mathieu mette in
rilievo il fatto che questa armonia vale per il cosiddetto mondo di
terzo grado, ovvero il mondo oggettivo, che dovrebbe essere
inteso, come oggettività, come il fondamento per cui qualunque
discorso venga fatto, esso si riferisce a questa realtà distinta.
Il primo grado sarebbe il mondo come possibile, che sussiste
solo nella mente divina, e per il quale mi sembra non occorra
alcuna armonia, dal momento che non è pensabile alcuna realtà
sostanziale distinta. Il secondo grado consisterebbe nel mondo
come

prospezione individuale di tale mondo possibile da parte di infiniti punti


di vista imperfetti (35),

cioè le singole monadi. Ma allora le monadi non sono parte del


mondo in quanto create con esso (e perciò con esso in armonia),
ma costituirebbero il mondo solo al terzo livello di unità,

come mondo oggettivo grazie alla coordinazione di tutti questi punti di


vista per virtù divina (ibid.).

Dunque, mi pare: tutto avviene all’interno dello spazio del


possibile divino, del virtuale mondo che non giace nell’esistenza
reale, bensì solamente come uno tra gli infiniti mondi che Dio può
far passare all’esistenza. Questa struttura virtuale credo sia
particolarmente importante da considerare, perché su di essa riposa
la possibilità di rendere efficace l’armonia. Gli infiniti mondi
devono comunque avere una loro reale consistenza ontologica,
devono cioè esistere in quanto possibili e in quanto lo sono in Dio ,
poiché altrimenti non vi sarebbe nessuna possibilità di scelta per il
migliore, ma si tornerebbe al monismo spinoziano. “In quanto
possibili”, per ribadire il valore ontologico della contingenza; “in
quanto in Dio”, per garantire la più completa unità dell’atto
creativo ed eliminare l’ipotesi della materia inerte e
meccanicamente organizzata descritta da Descartes.
A partire da qui, l’aspetto che Mathieu vuole mettere in luce è il
carattere di unità che attiene al mondo nella sua relazione,
all’interno dell’armonia, con le monadi. Infatti, nell’azione
esercitata in virtù dell’attività della monade, ciò che “subisce” il
mutamento è in fondo nient’altro che la monade stessa, che agisce
su di sé, avendo – non vedo come altro spiegarlo – come modello
la causa sui spinoziana, e quindi agisce in maniera sostanziale.
L’armonia, ricorda Mathieu, fa sì che ogni mutamento in una è un
mutamento nelle altre e quindi in tutte, sotto l’angolo visuale
proprio di ciascuna. Quindi, alla Spinoza la modificazione è
sempre modificazione di una sostanza nella sua essenziale attività
unitaria, ma l’armonia fa sì che la modificazione sia espressa in
tutte le monadi. Ora, che vuol dire qui la totalità? Cosa si afferma
quando si prende in considerazione la totalità delle monadi?

Poiché, infatti, per l’armonia prestabilita, nulla può variare per un punto
di vista senza che insieme qualcosa varî per tutti i punti di vista, quello
che propriamente agisce anche, qui, è il tutto del mondo, che agisce su
se stesso […] una connessione del tutto con se stesso (35-36).

Mi pare che abbiamo a che fare con una duplicità di piani. Da


una parte ciò che realmente agisce è la monade, poiché l’azione
come principio di attività originaria non può che procedere da una
realtà sostanziale che sia – almeno “dal punto di vista” dell’agire –
causa sui; dall’altra, ciò che agisce è anche il mondo nella sua
totalità, agente su se stesso, e qui ritorna ancora Spinoza,
complicato dalla molteplicità delle sostanze. Di fronte a questo
secondo livello di azione, che senso ha quella monadica? Per
Leibniz, secondo Mathieu, il risultato è chiaro: l’azione mondana o
psichica è simbolo di quella generale e totalizzante del mondo.

f) Le conseguenze in chiave estetica


Le conseguenze di una simbolizzazione dell’attività della
monade mi paiono evidenti: ciò che l’individuo nella sua
singolarità può fare a livello rappresentativo è certamente
procedere alla sempre maggiore chiarezza, ma non perché questa
poggi le sue basi su un fondamento che sia realmente interno
all’attività rappresentativa stessa, e quindi alla monade, ma solo
perché la mente partecipa di una realtà che, nello stesso tempo, la
precede nei suoi elementi complessivi, ma che essa contribuisce a
porre con la sua attività; attività che, a sua volta, si fonda sulla
correlazione del tutto con se stesso, come visto da Mathieu, ma di
cui l’unica espressione manifesta è, in pratica, un elemento
simbolico, che chiamiamo agire rappresentativo.
Io credo che proprio questo lato simbolico dell’attività della
monade apra significativamente alla possibilità dell’arte come
forma di percezione ulteriore del mondo. La duplicità dei piani
metafisici in cui si manifesta l’attività unitaria della struttura
ontologica della monade potrebbe far concludere che duplice è
anche il modo con cui il soggetto può rapportarsi al mondo, anzi
duplice è il modo con cui il mondo stesso si costituisce; raccolta e
composizione di elementi in un ordine che è il migliore – ma in
fondo unico –, a cui la monade è subordinata ma a cui può
accedere in una progressiva chiarezza di rappresentazione;
principio originario di attività che armonizza il tutto nella massima
complessità, a cui però la monade accede dal suo particolare punto
di vista, attivo a sua volta, e per questo la complessità acquista il
suo carattere policentrico e poliprospettico, che la cultura del
Barocco esalta in massimo grado.

Se, dunque, ciò che vi è di originario nell’armonia prestabilita è l’unità


del tutto, l’azione esterna sarà il manifestarsi simbolico della
semplicità; ma se, al contrario, si parte dalla molteplicità dei singoli
punti di vista, l’unità dell’armonia prestabilita non è più originaria, ma
è il mero risultato di una corrispondenza, che Dio solo può verificare,
tra ciò che accade per un punto di vista e ciò che accade per l’altro; e la
pretesa che l’armonia prestabilita esprima la «vera» azione metafisica
tra le sostanze apparita un sofisma (36).

Questa fondamentale duplicità nel rapporto monade-mondo


ritorna anche quando si passa a considerare la relazione tra la
monade e il corpo proprio, vale a dire tra l’anima – che presiede
all’aggregazione delle innumerevoli monadi corporee – e l’azione
fisica che da questo complesso fisico si dovrebbe produrre su
impulso dell’anima stessa. Il punto cruciale è che ogni monade è
un universo chiuso in se, come ben sappiamo, e per questo non
potrebbe né dovrebbe avere alcuna relazione o influenza con le
altre, a parte quell’organizzazione generale che è l’armonia.
Ancora una volta è Mathieu a mettere in evidenza questa
difficoltà:

Come può quell’azione tutta interna alla sostanza, che è l’atto della
realtà metafisica, tradursi in azione fisica che, come tale, sembra
esigere il concorso di infinite sostanze prese insieme, mentre ciascuna
sostanza non dovrebbe avere nessun rapporto diretto con le altre? Come
può un’anima, che è una sostanza individuale e perfetta per sé,
costituire, per un altro verso, la «forma di un corpo organico» che no
può appartenerle se non a titolo di rappresentazione? (39).

Mi pare che sia chiaro che, in questo modo, si finirebbe con il


perdere il principio dell’unità, poiché quello che mette in luce
Mathieu è che, sebbene si parli di attività come principio unitario
della realtà, pure l’azione con cui tale attività si concretizza non si
presenta in maniera univoca. Da una parte, l’atto metafisico della
monade-anima, unitario e semplice, e in un certo senso
incondizionato; dall’altra parte, l’azione fisica, che si mostra
inevitabilmente composita e costituita da una partecipazione
organizzata di più sostanze.
Se provassimo a mettere insieme le osservazioni di Mathieu e
Deleuze potremmo forse trovare una qualche risposta. Il primo
sostiene che la soluzione potrebbe trovarsi nel modo con cui
Leibniz indaga la nostra esperienza interna, primo grande esempio
di introspezione psicologica, al limite delle intuizioni
psicoanalitiche freudiane. Infatti, ben oltre il sottile velo delle
nostre rappresentazioni chiare e distinte, giace un mondo

di «momenti», di «impulsi», di «tendenze», di «rappresentazioni


confuse» e anche «oscure» se si vuole, che, tuttavia, sono segno di una
realtà che è, in un modo diverso da quello statico e formale, che
l’analisi logica attribuisce all’oggetto (39-40).

L’energia psichica che Freud interpreterà come fondamento


della nostra intera vita conscia è qui già intravista da Leibniz, ed
entrambi cercano, in vario modo, di ricondurre questa energia
fluida verso una realtà costituita ontologicamente in modo
determinato e definito. Anche Descartes aveva in fondo compreso
bene che la nostra mente non è un ricettacolo di idee luminose; il
suo impegno razionale e scientifico aveva però precluso ogni
forma di considerazione verso l’oscurità, concependo soltanto una
logica binaria, dove non vi era alcuna alternativa percorribile tra il
vero e il falso, che la ragione era chiamata a discernere. In
Leibniz, invece, sono proprio le piccole percezioni che rendono
più chiaro e coerente l’innatismo razionalista, come poi si vedrà.
Ma proprio il riconoscimento del valore delle conoscenze oscure
nell’economia complessiva della struttura della mente finisce con
il giustificare l’assunzione di fondo del pensiero leibniziano, quel
principio di continuità che il filosofo pone alla base della sua
considerazione della realtà. Se, infatti, la realtà è strutturata in
base alla continuità delle condizioni in cui si trova (e che noi
percepiamo solo in una determinata configurazione fissa), niente
di più comprensibile che questa continuità sia rappresentata anche
da quella vis ræpresentativa per eccellenza che è la mente, e che in
questa sua attività si riproduca la stessa uniforme continuità della
natura. Questo però comporta che anche la realtà materiale,
correlato di rappresentazione, sia segnata da questa continuità, che
(ecco il secondo apporto) Deleuze intende esplicare con il conetto
della “piega”. Ed ecco allora che l’arte barocca, esaltazione della
curvilineità della piega materiale in cui le molteplici scansioni
della sua continuità sono nascoste, costituisce la migliore
espressione pratica della teoria leibniziana, anzi da questa teoria
viene significativamente e esaurientemente interpretata. È proprio
la relativa impotenza dei sensi, messa in luce da Descartes a
Malebranche, che giustifica l’oscurità delle nostre
rappresentazioni; ma, nello stesso tempo, questa oscurità non può
essere espunta dal contenuto “vero” della mente, perché della
mente essa è integralmente costitutiva alla luce della lex
continuitatis, e ne costituisce il fondo in continua attività di
chiarificazione. Ne risulta riscattata anche l’immaginazione
barocca, che – lungi dall’essere liquidata come estrosa stravaganza
– diventa elemento costitutivo di questo stesso processo attivo di
chiarezza, rappresentandone il risvolto percettivo, limitato rispetto
all’intelletto, ma non meno indicativo della “verità” della natura e
del reale, ripiegato in sé, ma costantemente “aperto” all’influenza
dei processi della mente.
La soggettività, elemento centrale di ogni considerazione
dell’arte barocca, acquista così un valore imprescindibile
nell’insieme della cultura e dello spirito del periodo. Ogni punto
di vista monadico, come ogni prospettiva percettiva, non
disperdono la comprensione della verità, ma ne costituiscono il
contenuto sempre in movimento, sottoposto a una inesauribile
rielaborazione, mai compiuta, se considerata dalla molteplice
singolarità dei punti di vista delle monadi, ma sempre attualmente
presente nella percezione della complessità che quella stessa
molteplice serie di rappresentazioni individuali e la sua virtuale
infinità giustificano.
§ 4. Il problema dell’unità del principio

Confronto Aristotele-filosofia e scienza moderna. L vuole porre in


atto il tentativo di ricondurre questi due ambiti all’unità, superando il
carattere polivoco dell’essere aristotelico. In questa funzione va visto
l’introduzione dell’idea di ricondurre le differenze qualitative a diffe -
renza di grado quantitativo tra sostanze e/o stati di cose. Es: quiete-
movimento. Il risultato del principio fisico è tratto però da L a livello
metafisico, con l’introduzione e rielaborazione del concetto di forza at-
tiva, attraverso il quale rielaborare anche la nozione di sostanza (I, 428-
30). Ogni sostanza quindi è in sé una forza attiva, e solo il rapporto con
le altre interviene a determinare limiti di tale forza, che appaiono a noi
come stati di quiete della res extensa.

g) La questione della verità


L’unità della sostanza porta alla definizione del concetto di verità
come principio primo da cui desumere i caratteri della realtà. Principio
di identità e contraddizione: verità è identità, A=A, ma anche AB=A,
quindi anche un soggetto complesso deve essere ricondotto all’identità
univoca dei suoi elementi. Cartesiano, quindi analizzare il soggetto per
stabilire un rapporto 1:1 degli elementi costitutivi del soggetto e del
predicato. Proposizione vera quando il suo opposto è contraddittorio.
Principio ragion sufficiente, per ogni stato di cose si deve fornire la
ragione perché sia così e non altrimenti. Da qui la distinzione tra verità
ragione e verità fatto; ma la legge di continuità stabilisce anche che tra i
mondi possibili/verità ragione e mondo reale/verità fatto non sussiste
differenza di qualità, ma che progressivamente reale e possibile, contin -
gente e necessario debbano coincidere. In pratica esisteranno solo ve rità
ragione, necessarie: Spinoza.
Come conciliare la necessità sostanziale spinoziana con la contingen-
tia mundi leibniziana? Ogni proposizione è necessaria, ma per noi solo
in un’analisi infinita, quindi di fatto contingente. La verità è identità,
quindi anche ogni affermazione contingente deve essere riportata a tale
identità. Questo vuol dire che la struttura logica della verità è sottesa
anche alle condizioni materiali e contingenti del mondo fisico, che ten -
dono a realizzare, all’infinito, quelle strutture logiche. Ovvero, ogni
evento e sostanza ha in sé la completa serie delle ragioni che lo deter-
minano in quel modo.
§ 5. Il principio della sostanza indivi-
duale

Il concetto di verità implica, sul piano ontologico, la completezza


della definizione del soggetto sostanziale, i cui predicati devono poter
essere dedotti interamente dal suo concetto, ovvero dalla sua natura in -
dividuale sostanziale. Idea della notio completa: ogni predicato della
sostanza individuale non si aggiunge ad essa unicamente dall’esterno,
ma può essere dedotto dalla natura interna del soggetto.
La questione della sostanza individuale ha un riflesso ontologico for -
temente significativo: l’esistenza di ogni singola sostanza non ha un
fondo oscuro e irrazionale. La metafisica leibniziana ha fortemente in -
tellettualizzato il mondo reale, come dirà Kant. Ma ciò vuol dire che
ogni singola esistenza possiede in sé una ragione specifica della sua esi-
stenza, ragione che è determinata e radicata nell’analisi logica della sua
nozione.
Con ciò si deve affermare, con L, che ogni ragione esistenziale della
sostanza riposa in un complesso strutturato di condizioni logiche che
fondano un mondo possibile, ovvero un mondo strutturato logicamente
in ordine incontraddittorio. Dio scegli il migliore tra gli infiniti, quello
che raccoglie il maggior numero possibile di individui in una forma re-
lazionale coerente e organica.

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