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TURCHIA

Una guida per decifrare il linguaggio


di Erdoğan
Cengiz Aktar, Ahval, Turchia
30 ottobre 2019 13.38
L’amato grande timoniere turco, il comandante in capo dei jihadisti islamici
locali, il venerato protettore dei musulmani di tutto il mondo, non parla altra
lingua che un turco stentato. Lo stesso di milioni di turchi che, quindi, lo
capiscono facilmente. Ma accanto a questi “insider” ci sono le altre persone, che
hanno bisogno, soprattuto all’estero, di una guida per cogliere il senso della sua
neolingua. E quindi cominciamo con la definizione di alcuni suoi “concetti”
spesso ripetuti di questi tempi.

Terrorista
Qualsiasi essere umano, turco o straniero, che mette in discussione la sua
conoscenza di un qualsiasi aspetto dell’esistenza.

Il suo uso onnicomprensivo della parola “terrorista” copre così tante


sottocategorie che è molto facile perdersi. Per esempio, quando il dollaro si
rivaluta e rispetto alla lira turca sale, i suoi sostenitori cominciano a parlare del
“terrore del dollaro”. Quando i venditori di frutta e verdura aumentano i prezzi
all’ingrosso l’entourage di Recep Tayyip Erdoğan comincia a denunciare il
“terrorismo della frutta e della verdura”. Tuttavia l’appellativo si applica
comunemente ai curdi, ovunque essi vivano, che sono considerati fonte di una
minaccia alla sopravvivenza di tutto quanto è turco. L’opposizione è d’accordo.
Tutto considerato, chiunque potrebbe un giorno diventare uno dei terroristi di
cui parla Erdoğan.

Legittime preoccupazioni sulla sicurezza


Espressione onnicomprensiva che rappresenta una variante contemporanea di
una famosa paranoia turca: “I turchi non hanno altri amici che i turchi”.

In questo modo la repubblica turca è stata costruita sulle ceneri di un impero


ottomano multietnico, multiconfessionale e poliglotta, la cui ricca diversità è
stata sistematicamente distrutta.
L’“ideale” di una nazione turca etnicamente, religiosamente e linguisticamente
omogenea è ancora in corso di realizzazione dopo oltre un secolo. Lo sforzo di
pulizia etnico-religiosa è perlopiù concluso, con l’annientamento delle
popolazioni non musulmane (circa un quinto della popolazione) e l’imposizione
del turco come lingua unica. Aleviti e curdi che non appartengono alla
maggioranza turca sunnita devono ancora essere “omogeneizzati”.

Di conseguenza, viste le pulizie etnico-religiose passate e i presenti tentativi di


omogeneizzare forzatamente gli “elementi inusuali”, la Turchia è naturalmente
ossessionata dalla sua stessa sicurezza, poiché nessuno dei genocidi, pogrom,
atrocità, uccisioni di massa ed esclusioni dalla società è stato oggetto di
appropriata giustizia o assunzione di responsabilità. In altri termini, è normale
che la Turchia si senta insicura, seduta com’è su fragili fondamenta fatte di
sangue, sudore e lacrime.

Ma queste minacce sono reali? Gli occidentali e in particolare i funzionari della


Nato fanno presto a credere alle preoccupazioni della Turchia per la propria
sicurezza. Si tratta di uno specchietto per le allodole molto conveniente e che
permette di non fare niente, neppure condannare le implacabili azioni coercitive
e le palesi aggressioni della Turchia.

Questo accade nonostante i funzionari occidentali siano perfettamente


consapevoli dell’irrilevanza di tale concetto di legittima preoccupazione in sé.
Non esiste un singolo paese al mondo che minacci direttamente o indirettamente
la sicurezza della Turchia, stato che fa parte della Nato! L’inganno è tale che il
segretario generale di questa stessa istituzione, Jens Stoltenberg, perfettamente
consapevole di queste non minacce, continua a fare riferimento alle legittime
preoccupazioni per la sicurezza.

Casomai le legittime preoccupazioni per la sicurezza della Turchia sono quelle di


Erdoğan, che ha bisogno delle guerre per mantenere le sue grinfie sul potere, e
ha bisogno di proteggersi da qualsiasi tentativo di colpo di stato, come emerge
dall’acquisto dei sistemi missilistici russi S-400, destinati unicamente a
proteggere il suo palazzo.

Zona di sicurezza
Chiamata anche con il sinistro eufemismo di “corridoio di pace”.

È un sottoprodotto delle preoccupazioni per la sicurezza e costituisce il perno


dell’attuale attacco armato contro il Kurdistan siriano. Abbondantemente
pubblicizzato dallo stesso Erdoğan, che ha mostrato la mappa della fascia
protetta all’assemblea generale dell’Onu lo scorso settembre, questo “concetto”
non è altro che un limes o confine fortificato, come quello dell’impero romano,
aggiornato al ventunesimo secolo. Usato in seguito sistematicamente da tutti gli
imperi eurasiatici, tra cui quello di Bisanzio (akritai) e quello ottomano (uç
beyliği), consiste nella creazione di una zona tampone popolata da gruppi armati
di qualsiasi etnia, pagati e mantenuti dall’autorità centrale, liberi di tormentare
l’altra parte del confine e di garantire una certa stabilità nelle regioni più
instabili. Erdoğan vuole riempire questo corridoio, ipoteticamente lungo 340
chilometri e largo trenta, per un totale di circa 10.200 chilometri quadrati, nel
quale curdi e altri gruppi siriani indesiderati come gli yazidi saranno oggetto di
purga e saranno sostituiti con rifugiati siriani trasferiti forzatamente qui da altre
regioni insieme ai jihadisti pagati da Ankara e alle loro famiglie.

Esercito nazionale siriano


Fino a poco tempo fa Esercito siriano libero, ribattezzato dal regime di Erdoğan.

È composto da irregolari provenienti da vari gruppi jihadisti, tra cui il gruppo


Stato islamico (Is) e si valuta che sia composto da 110mila soldati. Ai suoi
effettivi è permesso eseguire saccheggi, prendere ostaggi, corrompere, uccidere e
terrorizzare la popolazione locale nelle parti già occupate della cosiddetta fascia
protetta, con l’obiettivo di spingere alla fuga gli abitanti. Quest’esercito
irregolare è la spina dorsale delle operazioni militari dell’esercito turco in Siria.

Lotta al gruppo Stato islamico (Is)


Un’altra clamorosa fandonia della Turchia!

L’ex inviato speciale degli Stati Uniti nella regione, Brett McGurk, conferma
quanto è noto ai servizi d’intelligence di tutto il mondo, oltre che al consiglio di
sicurezza dell’Onu: “Tal Abyad, una città siriana di confine, è stata la principale
rotta di approvvigionamento per l’Is dal giugno 2014 al giugno 2015, quando
armi, esplosivi e combattenti si muovevano liberamente dalla Turchia a Raqqa e
fino all’Iraq. La Turchia ha rifiutato le ripetute e argomentate richieste di
chiudere il suo lato del confine con l’aiuto e l’assistenza degli Stati Uniti. In
questo periodo, inoltre, la Turchia si è rifiutata di concedere all’esercito
statunitense di volare dalla base aerea di İncirlik per colpire le posizioni dell’Is
anche quando i combattenti del gruppo entravano in Siria dalla Turchia. Dopo la
perdita di Tal Abyad, l’Is ha riorganizzato i suoi combattenti stranieri nella città
di Manbij e ha continuato a pianificare grossi attentati in Europa. Per oltre sei
mesi abbiamo lavorato con la Turchia e i gruppi di opposizione da essa
approvati, che si muovevano dalle sue regioni occidentali verso quelle orientali,
per conquistare Manbij. Questi combattenti hanno ricevuto più supporto delle
Forze democratiche siriane, ma non potevano avanzare e alcuni hanno
consegnato gli equipaggiamenti forniti dagli Stati Uniti ai gruppi di Al Qaeda nel
nordovest della Siria. Gli avvertimenti di minaccia si sono dimostrati veritieri nel
novembre 2016, quando una brigata di combattimento dell’Is è partita da
Manbij, attraversando la Turchia e giungendo a Parigi, dove ha ucciso 131
persone. La cosa ha fatto seguito all’attentato suicida dell’Is all’aeroporto di
Bruxelles, anche questo effettuato da un gruppo che era venuto dalla Siria
attraversando la Turchia”.

E così oggi, con il principale sponsor del gruppo Stato islamico che rimette
fisicamente piede nella regione, è di nuovo alto il rischio di vedere rimessi in
libertà dei combattenti dell’Is imprigionati, ma anche centinaia di migliaia di
jihadisti alle dipendenze della Turchia a Idlib e nel Kurdistan siriano, liberi di
commettere atti di terrore nella regione e all’estero.

Ultimo ma non meno importante, l’assassinio del leader dell’Is in un villaggio


siriano vicino al confine turco nella provincia di Idlib, dove abbondando i
jihadisti, la dice lunga sulla probabile cooperazione di Ankara con l’Is.

Lotta al terrore
Come conseguenza dei giochi di prestigio sopra elencati, la lotta del regime turco
al terrore significa in realtà l’estirpazione dei curdi che sono considerati
semplicemente dei terroristi e quindi meritevoli di ogni sorta di maltrattamento.
E ce ne sono molti. La comunità internazionale comincia lentamente a capire il
trucchetto e parla oggi di “pulizia etnica” per descrivere l’attacco guidato
dall’esercito turco nel Kurdistan siriano. Quanto ai curdi di Turchia, la stessa
comunità internazionale rimane perlopiù silenziosa, approvando tacitamente gli
attuali e frequenti abusi e ingiustizie portati avanti sotto il nome di “lotta al
terrore”.

Colonialismo e imperialismo
Infine, colonialismo e imperialismo, nel lessico di Erdoğan, sono concetti che si
applicano a qualsiasi nazione, in particolare quelle occidentali, ma mai alla
Turchia, che però è impegnata a rimodellare i territori occupati di Cipro e Siria
con mezzi e strumenti tipicamente coloniali e imperiali.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano turco Ahval.

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