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Come, quando e dove ha incontrato Chet Baker per la prima volta?

Come è stato il vostro


incontro? e la vostra carriera insieme?

Fu nel novembre del 1979. Paolo Piangiarelli - un promoter e produttore di Macerata a quei tempi
molto attivo che avrebbe di lí a poco fondato l’etichetta Philology Records e che m’avrebbe dato
molte opportunità di incidere con importanti musicisti americani, tra cui proprio Chet - chiamò me e
il mio trio di allora, che comprendeva Riccardo del Fra al contrabbasso e Roberto Gatto alla
batteria, a suonare in un club della sua città, “La Tartaruga”. Chet veniva spesso in Italia, dove
aveva molti amici in varie città. Paolo mi disse che era arrivato nelle Marche dalla Germania, in
macchina, il che non era strano per Chet. Lui era solito noleggiare macchine di grossa cilindrata che
amava guidare anche per distanze molto lunghe. Ero molto emozionato alla vigilia di quel primo
incontro. Alcuni dischi di Chet erano tra i 78 giri di mio padre che, fin da bambino, avevo ascoltato
e amato e che erano stati fondamentali per consentirmi di apprendere il linguaggio del be – bop.
Ricordo bene i titoli di quelli in cui suonava Chet: Carioca, Line for Lyons, Frenesi, Freeway
(erano brani a nome di Gerry Mulligan e del suo famoso quartetto “pianoless”.) Insomma ce n’era
abbastanza per rendere quella chiamata e quell’incontro speciali.
Il concerto fu bellissimo. Suonammo diversi standard e tutto funzionò a meraviglia. Chet era in
ottima forma e io ce la misi tutta per essere all’altezza della poesia unica e inimitabile che veniva
fuori dalla sua tromba. In quel periodo ero direttore artistico di una piccola etichetta romana, la Edi
- pan, con cui avevo inciso tre anni prima, nel 1976, il mio primo piano solo (“The day after the
silence”) e, nel 1978 il mio primo Lp in quartetto (“From always to now”). Alla fine del concerto,
quando ancora ero avvolto dall’atmosfera magica dei suoni che Chet aveva condiviso con noi, e,
forse, proprio grazie ad essi e al feeling che ancora aleggiava nel locale, mi feci coraggio e gli chiesi
se era disposto a incidere con me e col mio trio per quella piccola etichetta romana. Chet fu
estremamente gentile. Dopo qualche secondo di esitazione mi disse, in italiano, “Ci devo pensare,
ti faccio sapere”. “Ok”, gli dissi, “aspetto una tua chiamata”.

In quanti dischi avete suonato insieme e come sono nate le idee di scrittura, di costruzione dei
brani, di costruzione di scaletta nei vari tour?

Quattro, e il primo dei quattro dischi registrati insieme fu appunto “Soft Journey”.

“Soft Journey” per la Edi-Pan, nato proprio da quel concerto a Macerata. Fu, dei quattro, quello
più costruito, pensato, organizzato, anche se l’occasione di inciderlo era un pò piovuta dal cielo, era
del tutto inaspettata. Successe che come aveva promesso una settimana dopo quel concerto a
Macerata Chet m’aveva chiamato per dirmi che accettava la mia proposta e che era disponibile a
incidere con me e il mio trio (che poi pensai di far diventare quartetto con l’aggiunta di Maurizio
Giammarco al sax tenore). Non stavo nella pelle. Cominciai febbrilmente a scrivere nuovi brani
pensando alla morbidezza del suo suono (per questo pensai di chiamare il disco “Soft journey”,
proprio per sottolineare quella che sembrava essere una delle caratteristiche più personali del suo
modo di suonare). Decidemmo di incidere il 4 dicembre, praticamente a ridosso del mio
compleanno, che cade il 5. A ripensarci oggi scelsi forse quella data non a caso. Chissà,
inconsciamente sapevo che quell’incontro rappresentava per me una sorta di nuova nascita artistica.
E fu proprio così.
Facemmo molte prove nei giorni precedenti il giorno dell’incisione. Avevo preparato con cura tutte
le parti. Quando gliele diedi, dopo aver letto i temi (è quindi del tutto falsa la leggenda secondo cui
non sapeva leggere la musica) Chet mi disse: “Suonami i pezzi molte volte al piano, preferisco
impararli così”. E così li imparò. In realtà dicendomi questo Chet aveva regalato a me (e a molti
altri, indirettamente) un suo piccolo grande segreto, che potrebbe essere utile a tutti quelli che
vogliono cimentarsi col jazz: quello di non imparare cioè i brani dall’armonia, dagli accordi segnati
sulla carta, i cui nomi non ti sanno dire la melodia e quindi la “storia” che ogni melodia porta con sé
(e che rischiano di rendere ogni pezzo uguale agli altri.) Ma di fare come faceva lui, cioè imparare i
brani dalla melodia, introiettarli, “incorporarsene” il percorso melodico e farli propri. Per sempre.
Per lui ogni melodia era una storia da raccontare. L’armonia la percepiva, eccome, e anche questa,
giustamente, la “melodizzava”, vale a dire che l’itinerario dei bassi fondamentali della griglia era,
per lui, una seconda melodia. Come è giusto che sia. Naturalmente tutto questo presupponeva un
orecchio eccezionale, che era evidentemente una sua qualità insieme all’altra, inseparabile dalla
prima, che era il senso del tempo. Quei giorni di prova, e poi l’incisione, furono giorni di svolta per
me. Chet suonò benissimo in quel disco e, grazie al suo carisma, fece suonare al meglio anche tutti
noi. Io ero scioccato dalla sua capacità di costruire con un’intelligenza musicale straordinaria assoli
che univano un’apparente semplicità ad una totale, profonda cantabilità. In quello che suonava non
c’era una sola nota che non fosse indispensabile.
L’incontro musicale con lui, quel “viaggio morbido” che facemmo insieme, furono per me un punto
di svolta senza precedenti, da cui la mia vita di musicista sarebbe rimasta segnata per sempre. Dopo
alcuni giorni di incisione Chet prese l’influenza. Così, dopo un mese di intervallo, all’inizio
dell’’80, completammo il disco incidendo, in duo My funny Valentine. Un disco evidentemente
fondamentale nella mia vicenda musicale. Anche perché fu nel corso di quell’incisione che Chet
scoprì, finendo per innamorarsene, il mio brano “Night Bird”, che di lí in avanti avrebbe registrato
in tutto il mondo, insegnandolo a musicisti di ogni Paese.

Gli altri dischi sono stati:


“Silence”, registrato a Roma l’11 e 12 novembre 1987 a nome di Charlie Haden, originariamente
pubblicato su Soul Note, ora reperibile su Camjazz. Qui il programma del disco fu deciso in studio
da Charlie Haden. Fu lui tra l’altro a voler realizzare l’incisione. Era innamorato del suono di Chet
ma non aveva mai inciso con lui. Si trovava in Italia insieme a Billy Higgins per alcuni concerti col
quartetto guidato da Ornette Coleman e Don Cherry e contattò il produttore della Soul Note
Giovanni Bonandrini - con cui aveva spesso inciso - per farsi aiutare a cercare Chet. Bonandrini
sapeva che avevo suonato e già inciso con Chet (“Soft Journey”) e mi chiamò. Si decise di incidere
a Roma perché Haden e Higgins avevano un day off dopo un concerto a Roma col quartetto di
Coleman-Cherry. Mi attivai e trovai studio e tecnico del suono (Massimo Rocci) per la seduta. Che
fu molto complicata. Chet non stava bene, in studio era presente anche la sua donna di allora,
Diane…ma la condizione psicofisica di Chet quel giorno era molto complicata. Comunque,
nonostante tutto, venne fuori un disco pieno di feeling, profondo, scuro, anche drammatico.
Contribuii tra l’altro con un mio brano, “Echi”. Diedi una mano in vario modo a Chet, lo sostenni
psicologicamente a distanza e lui mi ringraziò con qualche riga che lasciò scritto su un foglio di
musica in cui avevo scritto per lui la melodia del bellissimo “Silence” di Charlie Haden. Trovarlo
sul piano quando lui era già andato via fu un altro dei momenti intensi di cui mi chiedevi. Ce n’è
copia nel mio sito.
“The heart of the ballad”, in duo, registrato a Recanati il 29 febbraio 1988. Fu il primo dei due
dischi prodotti da Piangiarelli. Suonammo – e Chet anche cantò, in maniera come sempre sublime -
solo standard in questo caso per lo più voluti da Piangiarelli stesso (tranne “All the way”, che fu
suggerito da me). Fu una seduta tranquilla in cui per la prima volta io e Chet parlammo un pò di più.
Per esempio mentre provavamo “If could see me now” di Tadd Dameron mi parlò brevemente del
periodo in cui aveva abitato da lui. Mi chiese anche se ero sposato. E, insomma, fu una delle poche
volte in tanti anni e tanti incontri in cui scambiammo qualche parola. Io ero abbastanza timido, lui
riservato e silenzioso. Tutto il rapporto si giocava nella musica, ed era un rapporto veramente
potente, profondo. Fu durante quell’incisione che ci fu un momento particolarmente intenso di
intreccio emozionale tra noi. Fu mentre cantava “The thrill is gone”. Se uno ascolta con attenzione
quella traccia non è difficile individuare il passaggio in cui quell’intreccio si verificò (tra l’altro era
la prima volta in vita mia che suonavo quel brano). E’ una vibrazione potente, quasi erotica, una
combinazione incredibile di feeling tra la sua voce e il mio movimento armonico al pianoforte.
Ricordo ancora quegli attimi, mi sentii come sollevato in aria.
Infine - last but not least - la copertina dell’Lp riporta, sotto al grande cuore che vi campeggia, la
trascrizione del solo vocale che lui fece su “My old flame”. Era un solo di tale logica e bellezza che
poche ore dopo averlo registrato con lui mi sembrò giusto, mentre lo riascoltavo, trascriverlo nota
per nota con cura e, d’accordo col produttore, pubblicarlo in copertina. Chet era felice di quel disco.
Non me lo disse direttamente ma lo venni a sapere, per caso. Pochi giorni dopo l’incisione ero
andato infatti ad ascoltare in un piccolo club romano il pianista Ray Bryant e notai che, tra il
pubblico, non numeroso c’era anche Chet. Durante l’intervallo lui si alzò per andare a salutare
Bryant e dal posto in cui mi trovavo, nel locale semivuoto, colsi una frase di Chet che parlava a
Bryant, con orgoglioso entusiasmo, del disco in duo che aveva inciso pochi giorni prima. Rimasi in
disparte e andai a casa portando con me quelle preziose parole.
“Little girl blue”, registrato a Recanati l’1 e 2 marzo 1988 (quindi immediatamente dopo “The
heart of the ballad”) con me, Enzo Pietropaoli e Fabrizio Sferra, il mio trio di allora che si
chiamava Space Jazz trio.
Fui io a chiedere a Chet di incidere con noi il brano che avrebbe dato il titolo al disco. Era una
delicata canzone di Rodgers che conoscevo da un disco del chitarrista Tal Farlow, un disco che
avevo a casa da tanti anni. Ne feci per l’occasione un arrangiamento particolare. Lo puoi ascoltare
in YouTube, anche se temo che in quella versione non so perché all’inizio c’è un orribile video e
sembra che a suonare il brano sia un altro pianista che dà lo starter, dopo il quale inizio a suonare
io; quell’arrangiamento col cambio di tonalità è mio e la traccia che si ascolta è quella con me e il
mio trio; ascoltare per credere l’originale di “Little girl Blue”; un caso classico di stupida
subalternità europea agli USA

https://www.youtube.com/watch?v=rcdZh9owpwQ

A parte questo strano, imprevedibile sviluppo a posteriori la seduta fu molto piacevole. Credo sia
stata una delle migliori performance in assoluto del mio trio. Con Chet, nei giorni intorno
all’incisione, suonammo anche in concerto alcune date in varie città delle Marche (una o due anche
in duo) organizzate ancora da Piangiarelli. E, con quel trio, avevamo suonato con lui in precedenza
ad Aversa, dove negli anni ’80 c’era un attivissimo jazz club, il “Lennie Tristano”.
Per rispondere alla tua domanda riguardo alla scaletta nei concerti:
Di solito era Chet a dirci il pezzo da suonare. Erano standard in alcuni casi molto particolari che
suonava solo lui. Temi da film che magari in Italia erano passati inosservati tipo “Old devil moon”.
Ma in realtà era molto curioso e se gli piaceva un pezzo lo metteva in repertorio, non importava se
fosse uno standard. Per esempio suonai con lui spesso un bel brano del pianista Richie Beirach dal
titolo “Leaving”. Ce n’è una versione “archeologica” su YouTube registrata nel maggio 1980 a
Perugia.

https://www.youtube.com/watch?v=eSmKXCBFWuk
Dello stesso pianista avrebbe poi messo in repertorio un altro bellissimo brano, “Broken Wing”, che
divenne anche il titolo di un suo disco molto noto. Altri brani di autori apparentemente fuori dalla
sua estetica che suonavamo spesso erano “Beatrice” di Sam Rivers e “House of jade” di Wayne
Shorter (che è stato inciso in “Little Girl Blue”)

Quale è stato, fuori e dentro il palco, il momento più intenso vissuto con lui?

Tutta l’incisione di “Soft Journey” fu un interminabile momento di intensità. Veniva subito dopo
esserci conosciuti e per me era come entrare in un mondo magico, particolare, quello di un grande
artista la cui musica e la cui personalità, erano fortemente magnetiche.
E aggiungerei che ogni momento di musica con lui in studio d’incisione e fuori lo fu. Poi ce ne
furono altri “extra musicali”: uno capitò proprio dopo aver terminato di incidere “Soft journey”. Gli
avevo chiesto di scrivere le note di copertina per il disco. Era stato un pó titubante in merito,
dicendomi che non l’aveva mai fatto in vita sua e che, insomma, non sarebbe stato semplice per lui.
Alla fine però aveva accettato. Ma passavano i giorni e continuavo a non riceverle. Così pensai che
avesse cambiato idea o che se ne fosse dimenticato. Invece a un certo punto mi arriva una sua
telefonata in cui mi dice che è in partenza da Roma e che devo passare in un hotel al centro per
prendere qualcosa. Ci vado, e mi viene dato una busta contenente le note di copertina, scritte a
mano da lui con accurata, bellissima calligrafia. Ero felice. Poi guardo meglio la busta e noto che
era indirizzata al “Maestro Enrico Pieranunzi”. Ero confuso, in grande imbarazzo. Chet che mi
chiamava “Maestro”. Mi sembrava assurdo. Un regalo che arrivando da lui mi sembrava surreale.
Era veramente troppo ma era anche il segno di una stima che da lì in poi Chet m’avrebbe
manifestato in molti modi e in molte occasioni.

-Crede davvero che Chet Baker vivesse come se avesse le ali, come fosse inarrestabile ma leggero
allo stesso tempo? La sua musica quanto rispecchiava la sua personalità?

Credo che nei grandi artisti, più involontariamente che volontariamente, la musica che suonano
rispecchi totalmente la personalità. Quella visibile e, soprattutto, quella invisibile. Le ali di Chet
erano la sua musicalità senza precedenti e la forza con cui teneva fede ad essa. Chet era solo
apparentemente fragile. In realtà la sua forza era proprio nell’essersi creato il suo mondo espressivo,
nell’aver creato un mondo di suoni che era l’impronta di sé. E nel non allontanarsene mai. Le linee
melodiche che inventava ogni volta nei brani su cui improvvisava con la tromba o quando cantava
erano totalmente sue, erano capace di attrarre musicisti e comuni ascoltatori. Chet era un
incantatore, dotato di una sensibilità e di un’ intelligenza musicale rare.

Dal punto di vista tecnico, quanto Chet metteva in evidenza le sue capacità linguistiche ed
improvvisative? E quanto il suo linguaggio ha influenzato lei e chi ha suonato con lui?
Canto e tromba: cosa emergeva sul palco e fuori dal palco da questo dualismo?

Rispondo alle due domande qui sopra insieme.


Non c’era dualismo. Canto e tromba in Chet erano musicalmente la stessa cosa, intercambiabili. Le
linee che improvvisava cantando e quelle che improvvisava sullo strumento erano le stesse,
cambiava solo il mezzo. La differenza poteva esserci quando cantava una canzone dicendone le
parole. Lì veniva fuori l’incantatore, lo “story-teller”, era difficile resistere a quella sua fascinosa,
misteriosa ambiguità. Difficile resistere per chi suonava con lui – come è capitato a me molte volte
– e per il pubblico. Chet ti costringeva all’essenzialità, è stato forse l’ultimo grande poeta-narratore
della storia del jazz. Da questo punto di vista era avvicinabile ai poeti della beat generation. Dal
punto di vista vocale d’altra parte credo che Chet sia stato uno dei più grandi cantanti della storia
del jazz, oltre che uno dei più grandi trombettisti. E se dovessi accostarlo a qualcuno mi viene in
mente Billie Holiday, un’altra cantante anti-spettacolare, che aveva la capacità con pochi suoni da
lei emessi di portarti altrove.

-Era a conoscenza del disco "Chet is back" del '62 registrato a Roma, nel quale sono state aggiunte
poi delle Bonus track di sue composizioni inedie, su testi italiani di Alessandro Maffei ed
arrangiamenti di Ennio Morricone? Avete mai suonato insieme e fatto conoscere al pubblico le sue
composizioni originali cantate in italiano? Se sì, cosa ne pensa di queste composizioni? Come ha
reagito il mercato italiano a questo "nuovo Chet"?

Non conosco il disco di cui parli, ma quanto a inedito e sconosciuto credo che tutto quanto ho
scritto sopra sia più che sufficiente. Naturalmente ci sarebbe molto di più. Chet era un nomade, e,
soprattutto negli ultimi anni della sua vita, l’ultimo decennio direi, ha suonato ovunque, soprattutto
in Europa, e inciso moltissimo, ancora soprattutto in Europa. Bisognerebbe scrivere un libro a parte
su Chet in Italia, un paese in cui il primo concerto lo diede addirittura nel 1955, a Perugia. Alcuni
dischi che ha fatto da noi sono bellissimi ma molti neanche lo sanno. “Soft journey” fa eccezione, è
un disco cult, molte persone che mi avvicinano lo conoscono. Per fortuna è stato ristampato un paio
di volte (e dovrebbe esserlo di nuovo presto). Tutto quello che fai per valorizzare quello che Chet ha
fatto da noi e con i nostri musicisti è più che benvenuto!

Quanti tour avete affrontato in Italia e in Europa?

Qualcosa t’ho detto in mezzo alle risposte sopra. Non abbiamo mai fatto veri e propri tour (mai
all’estero, per esempio). Abbiamo suonato insieme spesso in Italia, “a macchia di leopardo”,
saltuariamente. Questo è dipeso dalla configurazione che aveva la mia vita allora. Insegnavo in
Conservatorio. Sarebbe un’altra storia, non interessante, qui.

Direbbe che Chet Baker, anche dopo la sua prematura morte, abbia influenzato e/o ispirato lei, la
sua musica ed il suo successivo percorso? Mi racconti di lei.

Certamente sì. In maniera diretta e indiretta. Nonostante la quantità relativamente limitata di


concerti insieme per me l’incontro con Chet, avere avuto la sorte di suonarci e inciderci è stato un
vero e proprio punto di svolta, musicale. Per cercare di esprimere il massimo col minimo, per
puntare all’essena della musica. E’attraverso lui che sono arrivato a Bill Evans e a capire che nel
jazz la cosa più importante non è l’improvvisazione ma l’interpretazione. Di cui Chet era un
Maestro vero ed assoluto. Indimenticabile.

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