Debbo aver letto che se ci si vuol ammalare di arte figurativa
non c'è nulla di meglio del fascino che emana dalle opere di Caravaggio. René Jullian, storico d'arte francese, nel suo Caravage (1961), enumera magistralmente le ragioni di tale fascino. Intanto, a) la "complessità" e la "novità" della pittura del lombardo, uno "stil nuovo" che non rinviene analogie con nessun pittore del passato e che, per questo, innova l'arte del dipingere facendone una forma unica, non riconducibile ad altra; insomma , un'invenzione tutta sua e, con una tale carica d'innovazione, da divenire, di per sé, una "scuola". Quindi, a seguire, b) l'armonia dei colori, che si riverberano più tardi, se si vuole fare un esempio, in quelli di Vermeer e c) la particolarità del suo modo di dipingere, da vedersi nella prevalente riduzione, fino alla totale rimozione, degli spazi scenici e architettonici con la conseguente centralità riservata al "soggetto", rappresentato da una o poche altre figure, tanto che dal nulla nascono esseri e cose e dall'"informe" emergono forme. Dal tutto, sempre secondo lo storico francese, discende una sorprendente monumentalità della composizione ancor più ricca di contenuti poetici. Questa "cifra" dell'arte pittorica secondo Caravaggio appare, anche se in forma ancora piuttosto prodromica, nelle prime sue opere, che, a Roma, presso la bottega del d'Arpino lo vedono "generista" e, nella fattispecie, pittore di "fiori" e "frutti". Si tratta di un genere calato dal nord, dai Paesi Bassi soprattutto, auspice la pittura fiamminga passata attraverso le "visitazioni" della pittura lombardo- veneta. A Roma Caravaggio è giunto da poco tempo e non trova che impiegarsi e, soprattutto, "piegarsi" ai bisogni del momento. Pittore di "genere", dunque. E qui s'accendono i primi fuochi del suo genio: sono "fiori" e "frutti" che declinano un linguaggio inusitato. Essi non vengono raffigurati nella floridezza tipicamente primaverile, così tanto graditi e in bella mostra di sé nei quadri da camera presso le residenze nobiliari. Appaiono, infatti, piuttosto lontani da intendimenti dal tono domestico e meramente ornamentale e non si sottraggono alle sottigliezze dell'interpretazione metaforica con rimandi alla vanitas e ai sottintesi erotici. Nasce così, e si è nel 1593, il Fanciullo con canestro di frutta. Non ci si poteva attendere una natura morta più verosimile del vero, tant'è che a noi moderni l'impressione può apparire addirittura "fotografica". I frutti, accomodati e accostati tra variopinti grappoli d'uva, fanno capolino tra una varietà congruente di foglie. Il naturalismo, d'origine leonardesca, si scopre e s'intravvede nei dettagli: le foglie a stelo non celano butterature e il fico maturo tradisce nella buccia un'incrinatura. Una foglia ingiallita è colta nello spasimo della caduta. Vi è l'uva, per fortuna, simbolo di gaiezza che riequilibra il "messaggio" non del tutto fausto rappresentato dal cesto. Ma che dire del ritratto a mezzo busto del fanciullo fruttaiolo? Egli si propone, seduta stante, come il prototipo dei "fanciulli" di Caravaggio. Creature un po' emblematiiche e un po' enigmatiche del mondo opaco vissuto dall'artista. Il fanciullo mostra la sua spalla destra ignuda, un particolare presente, se si esclude il Suonatore di liuto, in quasi tutte le opere coeve ove siano presenti figure giovanili. E' solo un vezzo teatrale del maestro? Altrettanto dicasi del capo reclinato all'indietro e delle labbra appena socchiuse. C'è chi reclama, anche qui, l'immancabile "insolenza" di Caravaggio, che tornerà anche in ben altre opere di più alta ispirazione. È il caso, forse, di fare piazza pulita di ogni sussuro "sinistro" sul conto di questo dipinto. Si ammiri, una volta per tutte, la genialità già presente nel ventiduenne artista: la bellezza di una pittura che emerge, nonostante tutto, da una natura morta, che cela in sé i segni di una imminente "decadenza" e dalla figura di adolescente colto nella fragranza della sua giovinezza. Egli è lasciato solo, né l'aiuta il fondo appena adombrato alle sue spalle, che, anzi, lo espone alla solitaria e certamente meravigliata, se non sbalordita, ammirazione di chi lo osserva.