Ouando Orazio Borgianni ritornava di Spagna a Roma — non molto discosto dal 1604 — vi ritro-
vava l’ambiente artistico al massimo rigoglio del nuovo classicismo, e ormai pienamente espresse
le idee artistiche capitali che importatevi con la venuta di Caravaggio dovevano fornire la base di un
nuovo mondo visuale allo sviluppo dell’aite moderna. Giova una scorsa rapidissima intorno ai lati di
quella base.
Per quanto riguarda gl’ intenti formali, Caravaggio riesciva a ripudiare completamente il valore dise-
gnativo che ogni oggetto avea assunta nella tradizione secolare dei Fiorentini e a creare un nuovo
senso di plasticità fondato essenzialmente sulla funzione stilizzatrice di un partito preso luminoso che
organizza la forma in piani netti e r.ecisi. Visione questa, che di fronte a quella plastico-lineare dei fio-
rentini io definisco come plastico-luminosa.
Nel senso compositivo, sostituiva alla trita e aduggiata composizione superficiale o centrale del
Rinascimento un'altra più semplice e profonda che sentisse tutto lo spazio della tela come da costruirsi
totalmente — e non da decorarsi spaziato — con un solo sviluppo di forma che ci dia l’alto, il tra-
verso e il profondo, rimpolpando di vita una linea che non diverga troppo dalla diagonale del cubo.
E nell’ impiego del colore, creava un colorismo di tono, tono composito ed opaco, il quale non
ammetteva vicino a sè il brillore del tono lustro, e soltanto per una lirica superiore rompeva la com-
pagine fusa e pannosa con una dissonanza di rosso schietto e granitico o di blu metallico, ed aspro.
Anche i Caracci avevano ormai attuato il loro programma decorativo nella galleria Farnese, ma
in realtà sebbene avessero saputo dar corpo a un mondo illustrativo affatto conveniente all’epoca, se
bene potessero fornire al pubblico gli articoli di prima necessità per la soddisfazione del suo senso
inferiormente estetico, o de’suoi ideali d’ogni calibro, anzi appunto per. tutto ciò, non potevano preoc-
cuparsi di idee essenzialmente artistiche. L’eroismo bucolico di Annibaie, l’erotismo larvato di Agostino,
l’umanità severa ma un poco tonta di Ludovico esauriscono il problema dei Carracci. Anche senza
voler ripetere le frasi fatte sul loro eclettismo stilistico, bisogna pur riconoscere che non era certo la
combinazione meccanica di elementi spaziali raffaelleschi con il plasticismo illusorio e astratto di Mi-
chelangelo che potesse creare una nuova visione artistica. Il nuovo libero senso decorativo e compositivo
di Veronese o di Tintoretto non li toccò d’altra parte mai intimamente e il venezianismo si ridusse in
loro più che altro a problema di fluidità di veicolo coloristico.
Il sovraccollo di una tradizione altissima non salva mai dalla colpa di non giungere all’arte. Ma-
saccio aveva di fronte a sè Giotto classico, come i Caracci avevano Michelangelo e Raffaello, eppure
egli non si ostinò nella posizione di Taddeo Gaddi o di Spinello, come fecero costoro. In realtà essi
con qualità naturalmente artistiche avrebbero riconquistata come Caravaggio una posizione arcaica.
Obbiettare poi che lo stile di Caravaggio era qualcosa di troppo scarno e riservato per un’impiego
decorativo, sarebbe difetto di senso degli sviluppi, poiché si trattava se mai non di ripetere ma di
sviluppare decorativamente lo stile di Caravaggio fondandosi sul suo senso della composizione ; ciò che
in realtà riesci a fare a Napoli Caracciolo, il grande patriarca del ’6oo Napolitano, creando i più begli
affreschi del secolo, e Lanfranco stesso il quale non arrivò al suo eminente senso compositivo senza
ispirazione caravaggesca, che lo raggiunse forse mediatamente attraverso lo stesso Caracciolo.
Ma molte altre direzioni stilistiche s’intrecciavano a Roma nel decennio dell’operosità di Bor-
gianni.
8 ROBERTO BONGHI
plastici aderenti e gnoccosi che preparano il migliore Valentin; e anche lo stile di Saraceni che con-
fina spesso con un sentimento quasi nordico dell’epidermide delle cose, e si tiene di solito a una meti-
colosa finitezza di pasta che non esclude tuttavia un’impressione di vacuo interiore. D’altra parte questo
artista è talmente trasmutabile da passare dalle grettezze di uno stile d’Elsheimer intristito fino a certe
larghezze di materia pittorica del tutto Veneziana.
Ma lo sviluppo più completo del colorismo zuccherino, delle ombre lucide e chiare, della super-
ficie preziosa e leggera che si compiace voluttuosamente del piegare le stoffe preziose seriche e can-
gianti, è quello che compie in questi anni l’artista pisano Orazio Gentileschi che, di certo, è il più
maraviglioso sarto e tessitore che mai abbia lavorato fra i pittori. Ma quanto più s’intensifica il senso
dell’epidermide tanto più diviene manchevole il senso di spessezza della sostanza pittorica che è affatto
senza direzione. Le sue membra giallognole sfumate con dolcezza è trasparenza infinite nei loro declivi
lentissimi paiono in realtà non pesare più che membra d’alluminio.
Ad ogni modo è notevole il fatto che è questo il momento di raffinamento epidermico e lussuoso
di molti artisti dell’ambiente romano; è in questo periodo che Guido compie le sue figure di velluto
grigioperla della cappella Paolina a Santa Maria Maggiore, e che Domenichino svaria le sue stoffe can-
gianti nei freschi di Grottaferrata. Ed è questa forse, incredibilmente sviata, l’unica eco caravaggesca nei
bolognesi.
Più miseranda è l’interpretazione che, in questo torno di tempo, danno della sostanza pittorica
caravaggesca, i due capoccia artistici romani, Giovanni Baglione e Antiveduto Gramatica. La loro men-
talità è così bassa che intendono la intensificazione di solidità in Caravaggio per durezza particolare
degli obbietti, per fibrosità lignea e nocchiosa.
Venuto il primo fuori dei fondi di bottega del cavalier d’Arpino (che, come già dicemmo, è in questo
periodo ormai un trapassato) e atterrito dalla novità caravaggesca crede di rinnovarsi disponendo grandi
membra legnose entro scorti acri e brutali al sommo, quali negli stessi anni sono ripresi e portati alla
loro forma più facchinesca da Antonio Pomarancio, contrapponendo al rossiccio o al brunito delle carni
grandi cannelloni di panneggi calcinósi, in cui si travasano ignobilmente i maravigliosi bianchi del Ca-
ravaggio. Non parliamo della composizione che costoro non sanno intendere nel Lombardo e che per
le scene complesse li riporta alla iconografia dei coetanei fiorentini. Il secondo, Antiveduto Gramatica,
artista — se così lo possiamo chiamare — di qualche maggior serietà che Baglione ci opprime anche
lui con la stessa brutalità contraffattiva della durezza materiale delle cose, col suo fare realistico a
prova di bomba, senza riguardo, sicuro di sè, grosso, che è pratico, terribilmente pratico nel far le
rivolte de’ panni, i cesti, le corde, i pani, le ova, masserizie e vettovaglie, tutta la suppellettile delle
scene sacre e profane. Frase sintomatica del Mancini!: «eccede (eccelle) nel fare i cappelli ». Eh, si!.
La durezza con cui interpretava-la superiore solidità caravaggesca e la sua forma tagliata con l’accetta
(svisamento dei piani di forma-luce di C.) passa poi ad un senso vacuo e lustro, come su lavagna,
quando alle prime forme innesta quelle dell’Orbetto, il Veronese di talento che non viene a Roma
che per decadere. E tuttavia l’influenza del praticone Gramatica è sufficientemente estesa se riesce in
questi anni ad essere l’intermediaria dello stile caravaggesco presso quel Domenico Fiasella, il meno
dotato e il più amato tra i genovesi del seicènto, la cui affinità di stile con Gramatica sono strettissime.
Queste 'erano adunque, brevissimamente, le sorti dell’arte di Caravaggio nel primo quarto del
seicento, a Roma.
Incompreso ed abbandonato il suo senso della composizione di cui soltanto Caracciolo lasciava
(probabilmente a Roma) alcuni sviluppi arditissimi ma affatto senza seguito fino alla ripresa mirabile
di Mattia Preti, gli artisti operanti a Roma si rivolsero al suo stile plastico come quello che spera-
vano di raggiungere con una semplice innovazione tecnica, mentre necessitava naturalmente un totale
mutamento di visione. Non approdarono a nulla perchè la interpretazione che ne davano sia che dipar-
tendosi dalle prime opere del novatore ne volgessero il senso a un preziosismo sensuale delle superficie
(Manfredi e imitatori nordici, Saraceni, Gentileschi e in piccola parte qualche bolognese), sia che rife-
rendosi alle sue forme compiute lo convertissero, in contraffazione delle materie singole o in generale
fibrosità e scheggiatura di piani lignei (Gramatica, Baglione, ecc.), era pur sempre interpretazione super-
ficiale perche sviando a scopo puramente gradevole o illusorio, cioè primordialmente estetico, il suo
senso della identità nella sostanza pittorica lo svuotava del suo significato creativo.
Cosicché si può ormai affermare e ricordare che l’unica interpretazione profonda, l’unico sviluppo
indipendente del senso della materia caravaggesca, l’unica fusione degna di Venezia e di Caravaggio
prima di Guercino e di Preti è quella che negli stessi anni, in un brevissimo torno di attività ne dava
un pittore quasi ignoto al pubblico, Orazio Borgianni.
L'Arte. XVII, 2.
IO ROBERTO LONGHT
**s
Per la biografia bastano i pochi dati espliciti o impliciti nel Baglione.1 Nato nel 1578 dovette
recarsi in Ispagna verso il '98 poiché vi andò già erudito degli elementi del disegno, vi stette molti anni
e tuttavia tornò a Roma che Caravaggio v’era ancora e tanto lavorò prima della sua partenza da poter
essere da lui giudicato e contrastato, cosi che cadendo la fuga di Caravaggio nell’agosto 1606, il
ritorno di B. va posto verso il 1604, anche perchè il ritratto ch’egli fece del cavalier Guarino deve
riferirsi al 1605 quando il poeta venne a Roma per l'elezione di Paolo V, e perchè ancora di questi
anni sono assai probabilmente le sue relazioni col Marino a Roma che gli chiese qualcosa per la sua
galleria.
Morì il 13 o il 14 gennaio 1616. 2
Non possiamo per ora considerare la sua attività in Ispagna dove dipinse parecchio e fra l’altro
una vòlta al Buen Retiro con il trionfo d’una regina — «y con gran fuego » ;3 — vedremo del resto
come l’influenza spagnola non si manifesti in lui che mediatamente e più che altro in qualche sotti-
lizzata armonia di colore, sicché possiamo passare direttamente alla considerazione della sua attività
romana.
***
Chi sia riescito a sfrondare dal tronco dell’opera caravaggesca tutto il frascame dei discepoli e a
spartirlo poco a poco nei fastelletti delle loro individualità, si trova tuttavia incerto per un esiguo numero
di opere fra le quali è il Davide che nella Galleria Borghese (n. 2) reca il nome di Caravaggio, sebbene
altri abbia già riconosciuto che di Caravaggio non è. 4 (Fig. 1).
L’opera si offre con particolare forza e simpatia tra le creazioni della scuola, sia come concezione
figurativa che sentimentale. Il problema è affatto caravaggesco e cioè l’isolamento plastico di una figura
nell’atmosfera per mezzo di un violento ed accentrato partito di luce. E v’ è ancora di caravaggesco
l’appianarsi sotto la luce del modellato o la corrosione, il livellamento delle asperità formali sotto
l’accanimento luminoso, immaginato di stragrande violenza e intensità, come quando un viso di fronte a
voi pullula bianchissimo e liscio sotto il chiarore friggente di una lampada ad arco, e nella sua chiarezza
è come un tremito cinematografico.
Ma ad un più attento esame si rivela nell’opera un disquilibrio di fattura; e, precisamente, tra la
resa filata delle parti già dette e quella dei panneggi, del testone reciso, del capitello e d’altri parti-
colari assai più libera, di pasta colante verso direzioni visibilissime ; una resa insomma che dal lumi-
nismo statico passa a un luminismo di guizzi e di macchia che non cura i particolari come Caravaggio,
anzi li sommerge in una fattura che ricorda parecchio quella di Guercino giovine. Anche più disforme
da Caravaggio e dai soliti caravaggeschi è l’intonazione, acre irreale tra il rosso bruciato che più e più
s’imbruna e un verdiccio sulfureo che si distilla lentamente nelle zone liminali tra l’ombra e la luce,
Ora, esclusi ad uno ad uno, per l’attribuzione dell’opera, gl’ imitatori più noti di Caravaggio, Man-
fredi più lustro sempre e smaltato, Saraceni più realista, minuto, e trito nei particolari rizzi del panneggio,
più cadente nella tipologia, Valentin più scomposto nella plasticità del modellato e d’intonazione affatto
disforme, e spumeggiata, ci si convince di esser di fronte a un’opera compiuta assai per tempo, nel ’6oo,
quando ancora la tipica caravaggesca non ha subito la deformazione solita ad avvenire sotto il criterio
1 Baglione, Vite de' pittori-, Napoli, 1733, pag. 133-136. ora vengo a sapere che la Direzione della Gallezia Borghese
2 Infatti il libro dei morti di San Lorenzo in Lucina ha cortesemente accolto la mia attribuzione a Borgianni del
(dal 1600, carte 324 verso, 217 retto. [Arch. Lateranense]) Davide n. 2. Non mi sentirei però di convenire n U’attri-
pone la sepoltura al 15 e perciò la ' morte non potrebbe buzione (pure recentissima) allo stesso del Cristo coronato
essere dell’II di gennaio come erroneamente comunicò il di spine (n. 321) attribuito erroneamente al Valentin come
Noack al Kstlerlex. Alla cortesia di monsignor Iasone e del già notò Lionello Venturi (Rote sulla Gali. Borghese, in
dott. Serafini devo l’aver potuto agevolmente riscontrare la L'Arte, pag. 45, 1909) e che io credo opera evidentissima
data esatta. di Giovanni Baglione poiché oltre al presentare i caratteri
3 Ccean Bermudez, Diccionario. Voi. I, pag. 181-182. che ho sommariamente indicati come propri a quel pittore
Madrid, 1800. si può singolarmente confrontare con altre sue tele e con
4 Adolfo Venturi, nel Catalogo della Galleria Borghese, freschi come quelli della cappella Paolina a Santa Maria
e Lionello Venturi, negli Studi su M. da C. Soltanto Maggiore, verso il 1610.
ORAZIO BOR GIÀNNI 15
storico e sentimentale degli imitatori, da un artista che procede quasi parallelamente a Caravaggio, che
cerca di attuare il suo stesso problema di isolamento plastico della figura, ma contemporaneamente, da
un’educazione forse anteriore è tratto ad innestarvi un senso di materia più calda, più colante, più
sinuosa, e per conseguenza un senso meno rigoristico degli effetti di luce.
Quando si voglia precisare meglio il torno in cui l’opera deve cadere, osservando che il Davide
ha certo seguito — come risulta dall’ imitazione di certi particolari (per esempio, la mano destra) — quello
di Caravaggio nella stessa Galleria che è circa il 1605, si dovrà porlo nel quinquennio 1605-1610 poiché
gli attacchi con un’altra opera di Borgianni compiuta nel 1612 sono di certo evidenti, ma lasciano sup
porre un decorso di tempo non indifferente. La seconda opera, cioè il San Carlo Borromeo della sacristia
di San Carlo alle Quattro Fontarte ci presenta Borgianni già sviluppato a uno stile proprio, o almeno
riescito alla fusione del caravaggismo con altri elementi, il Davide della Galleria Borghese ci riporta a.
un periodo quasi schiettamente caravaggesco, che noi siamo indotti a ricostruire idealmente non solo
dalle relazioni già notate fra le due opere, ma dal ricordo che trapela dalle parole di Baglione. Poiché
Baglione ricorda che B. poco dopo il ritorno in Roma fece un San Sebastiano maggiore del naturale,
ma di maniera un poco tinta. Ora per chi abbia pratica di Baglione — il quale per sistema non parlava
mai dell’influsso di Merisi — la frase vale: maniera caravaggesca. Non possiamo tuttavia spingerci oltre
a supporre che il San Sebastiano rappresentasse di fronte al Davide, dove c’è l’urto di due stili, il periodo
I2 ROBERTO LONCHI
caravaggesco puro di Borgianni, poiché è anzi probabile che gli elementi non caravaggeschi preesistes-
sero in lui e che si manifestassero quasi subito in contrasto agli altri — in un’opera come il Davide,
che del resto ha parecchie debolezze per essere poco più che primitiva.
L’avvenuta fusione dello stile di Borgianni con gli elementi caravaggeschi si ritrova, ripeto, nel
San Carlo Borromeo che adora la Trinità compiuto per i frati di San Carlino tra il lóri e il giugno 1612.1
(Fig. 2). Qui Borgianni ci si rivela di botto con un capolavoro che prende luogo fra le creazioni più
originali del nostro seicento.
L’intento iniziale è ancora quello caravaggesco di isolare plasticamente una figura nello spazio,
ma la risoluzione è diversa perchè attuata con un sentimento della forma e della sostanza affatto
disforme. Quello che in C. sarebbe stato appianamento mirabile della forma installata in una sostanza
invisibilmente granita diviene qui sinuosità rinterzata del contorno pastoso e friabile, colata d’impasto
1 Poiché, come appare dalle memorie manoscritte del con- tempo dovette compiersi il quadro citato dal Baglione, se-
vento, ch’io ho potuto consultare grazie alla cortesia del gnato OB, e che dopo la ricostruzione della chiesa per opera
Rettore, la fondazione del convento e della chiesetta primi- del Borromini passò in libreria e infine nella sacristia dove
tiva cade nel ión e la consacrazione ufficiale della chiesa tuttora si trova.
nel giugno 1612, secondo ogni probabilità entro questo
ORAZIO BORO IANNI 13
verso direzioni visibilissime, acciaccature plastiche della forma su cui la luce s’avvalla e s’insena, guizza e
lampeggia. Il lavoro del pennello, che in Caravaggio ad opera fatta scompare, qui si ostenta alla super-
ficie nelle grandi sbavature rapide, nelle improvvise frangie luminose della forma. Il senso plastico del
modellalo, sovrattutto nelle mani del santo, è ottenuto con un veicolo infinitamente più complesso, e
più ancora con la violenza contrapposta delle diverse zone di colore.
Poiché qui per la prima volta Borgianni ci rivela un temperamento di colorista autentico, e, per
questo lato, affatto disforme da Caravaggio. È ben certo anzi che la prima risonanza dell’opera in noi
è coloristica ; poiché accomunare gli sbalzi di un camice bianco-opalino venato dal granata sottostante,
come da strie di pastello, il bianco acre e calcinoso del colletto che fuoresce il bronzeo giallognolo
scottato di nero delle carni e il granata unico, indimenticabile del rocchetto e della veste cardinalizia
che nell’ombra passa in amaranto e scade sotto luce in rosa antico — campire il tutto sul fondo d’aere
perso e caliginoso di nero e giallo che si schiara nell’alto per filare mollemente la matassa di lana ver-
dolina dell’apparsa Trinità, e nel basso sfaldare il parapetto grigio bruno dove si ammelma un basso-
rilievo e il capitello corinzio inseguito nelle sue spire dal pennello si rapprende sotto i nostri occhi —
tutto ciò, dico, è cosa che supera il talento.
Vediamo qui, due anni dopo la morte di Caravaggio, il primo tentativo originale per conciliare
il suo stile plastico con uno stile pittorico, per intenderci, veneziano, e con un senso della luce, del
colore e del disnodarsi della materia più prossimi a Tintoretto e a Greco che non a Merisi.
4 ROBERTO LONG HI
E, veramente, quel senso particolare della materia che organizza la forma con una specie di di-
segno pittorico prodotto dal serpeggiare nervoso della stria coloristica lungo le direzioni essenziali
dei corpi, e la nota coloristica pura isolata e quasi astratta del granata amarantino sono qualcosa che
non ha riscontro forse che in Greco cui ci richiama (oltre lo schema esteriore della Trinità affatto
spagnuolo col Padre Eterno mitriate) il coagularsi rapidissimo delle forme minori e infine il particola-
rissimo senso romantico che esala da quella figura che sola si è trasferita in un deserto ruinoso e tem-
pestato, ciò che, di certo, è più affine al San Bernardino di Greco al Prado che non ai santi solenni e
rudi di Caravaggio. Giova osservare insomma che qui l’effetto originariamente caravaggesco è abusato
a scopo indubbiamente sentimentale.
A quest’opera mirabile deve riunirsi di soggetto come di tempo 1 la mezza figura del San Carlo,
che nella Galleria Colonna (IV sala, 91) porta il nome di Daniele Crespi.2 (Fig. 3). Dico anche di
soggetto poiché è evidente che questa mezza figura di santo tende ad individuarsi in un’azione di pre-
ghiera assai vivace e dialogica, analoga a quella del San Carlo con la Trinità. Non per questo l’opera
si potrebbe credere un pensiero per l’altra poiché se l’effetto di luce è più violento non è per ciò più
caravaggesco. Anzi la forma viene espressa qui per mezzo dei guizzi che la frangiano, in altre parole
dalla funzionalità del rabesco luminoso, e J’isolamento plastico della figura non è più un vero fine, ma
un effetto ottenuto quasi involontariamente mentre l’attenzione dell’artista si volge più e più a inten-
sità di materia e ad imprevisto d’effetto luminoso. Perfino la ricerca coloristica per un istante passa
in seconda linea, poiché il granata del rocchetto tende verso un’intonazione vinata non paragonabile
di certo per raffinatezza al tono d’amaranto nel primo San Carlo.
Quello che fa di quest’opera da camera una creazione anche più serrata dell'altra è l’affilatezza
*A parte le considerazioni stilistiche, è noto che tutte di Borgianni, poiché almeno nel 1783 era citato così:
le rappresentazioni di San Carlo Borromeo cadono dopo « n. 7. Un quadro di misura d’imperatore per alto, San
il 1610, anno in cui, appunto, avvenne la santificazione. Carlo Borromeo, autore incognito ». Catalogo dei quadri di
2 Credo eh’esso non abbia, tuttavia, portato mai il nome Casa Colonna, Roma, 1783.
ORAZIO BORCIANNI 15
trasversa nella posa del santo che nel quadro maggiore si disperdeva nell’effetto. Abbiamo accennato
brevemente al rinnovamento compositivo operato da Caravaggio ; ora dobbiam dire che B. è stato fra
i pochi ad intenderlo almeno parzialmente. Già il Davide si pone di scancio verso di voi, il San Carlo
con la Trinità aumenta questa impressione con quel moto ritorto per cui il corpo si assetta di spigolo
e si rannoda coll’angolo internato della Trinità; e qui finalmente in questa brevissima figura B. ci offre
uno degli esempi più semplici e comprensivi di composizione secentesca, poiché non ci sarà che Preti
a saper impietrare nelle pose arretrate le direzioni compositive, ma mentre egli le appianerà di luce,
Borgianni con resultato meno intenso le fissa alla meglio con un luminismo marginale che dà alla forma
un sapore curioso di disegno luminoso. Tutto ciò cela un dissidio tra luce, forma e composizione su
cui ritornerò e che era già stato terribilmente profondo in Tintoretto.
i6 ROBERTO LONGHJ
E non conosceremmo ormai altre figure isolate di Borgianni se non ci rimanesse una stampa a
consolarci di un’opera smarrita in due o tre esemplari: la stampa di un San Cristoforo. ’• (Fig. 4).
Ancora una volta Borgianni creò Una figura monumentalmente isolata, ancora una volta la pose
obliquamente a costruire con finezza il quadro in profondità. Ma se non possiamo pensare quale fosse
precisamente l’intonazione e se — ciò che è possibile — il pittore vi giungesse ad una vera resa d’aria
aperta di tipo spagnuolo, possiamo tuttavia rilevare dall’incisione lo svolgimento del senso individuo di
tutti i particolari della forma: ogni cosa s’arriccia crepitando riarsa. I panneggi si torcono come striz
zati da una stretta energetica, i capelli avvampano serpentini piccole ciocche uncinate (che si avvertono
già nella capigliatura del Davide Borghese), le onde anch’esse schioccano crespe, gli steli si inarcano
alla radice. E questo torcersi, questo strizzarsi della forma non le dà il senso di vizzo eh’.è nella striz-
zatura di Saraceni, ma le conserva anzi un che di brioso, di energetico, di presso e ribelle, di elasti-
cità terminale, che piace ed è se non stile, tendenza ad uno stile. Pare che la materia si ribelli all’am-
biente con petulanza più che con disdegno e lo vada frusteggiando agile e ironicamente con il ricciolo
terminale delle cose.
Dovette essere circa questo periodo che Borgianni si accinse a fondere le varie tendenze stilistiche
che lottavano nella sua pittura nella composizione più complessa che ci rimanga di lui, nella Natività
della Vergine ch’è al Santuario della Misericordia presso Savona.1 2 (Fig. 5).
Una composizione abilmente spaziata, mirabilmente atmosferica, eccezionale di scintillio pittorico
e di stile macehiettistico, una disposizione abile e graziosamente intervallata dei gruppi, un disegno
nervoso incluso nella direzione della stessa sostanza pittorica, un delizioso accordo di colori opulenti
e lentamente abbrustoliti dal mezzo atmosferico caldo, e brunito — quante qualità, quanto talento in
questo pittore romano, l’unico pittore forse degno di nota fra i nativi dell’Urbe!
Ma, anche, troppe qualità! troppe tendenze che non si urtano, ma stanno accanto senza fondersi
e non possono mai renderci quell’alto senso di stile che si manifesta nel semplicismo organico delle
grandi opere d’arte. E, così, l’opera stessa analitica c’impone un’analisi.
V’è di caravaggesco qui la scelta di uno spazio in cui il pieno in basso si equilibra coll’alta vacuità
superiore, ma mentre in Caravaggio il pieno era realmente murata solidità e il vuoto era vuoto sentito
e fatto risentire per mezzo di un solo oggetto spaziato (una tenda), qui la composizione dispersa (fioren-
tina) e di intento disegnativo valevole per singoli obietti non può ridare il senso organico di Cara-
vaggio, pur facendo subito ricorrere alla mente la famosa Morte della Vergine. V’è ancora di caravag-
gesco il partito laterale di luce che s’intensifica in certe parti fino a produrre l’isolamento del modellato
plastico nel servente che versa l’acqua, mentre in altre parti diviene luminismo di macchia e più di
macchietta, e infine le reminiscenze generali dell’impasto caravaggesco trasformato poco a poco — come
già vedemmo altrove —in una fluenza nervosa per fini quasi disegnativi; v’è persino qualche particolare
di modellato alla caravaggesca trasformato in legnosità secondo i criteri imitativi della scuola romana.
Così, chi abbia gran pratica di questa scuola potrà scorgere nella mano sinistra duretta della donna
che presenta il figlio alla puerpera il modellato che noi siamo soliti a definire come baglionesco e al
Baglione accennare la fattura metallica del panneggio di Gioachino e il suo stesso tipo, come lo scorcio
un po’ farcito della neonata. Ed essendo questi nel Borgianni caratteri sporadici noi crediamo vera-
mente probabile ch’egli abbia attinti e non iniziati nella scuola romana. D’altra parte poi ulteriori affinità
1 II primo esemplare è quello ricordato da Baglione per del Santuario di N. S. di M. presso Savona, Savona, 1878,
i frati di San Lorenzo in Lucina e che non ho potuto rin- p. 55) il nome di Borgianni, ma era nome tanto poco noto
tracciare, il secondo è quello da cui fu tratta la stampa e e curato, che l’opera venne affatto dimenticata dai biografi
che era stato fatto per Giovanni de Les ano, ambasciatore di Borgianni (Nagler e Kristeller, in Kstlerlex ), che
di Spagna. Uno dei due è probabilmente quello che nel 1670 non ne ritrovavano la citazione in Baglione. Io stesso la
il Grechetto vedeva in casa di un Imperiali a Genova. ritrovai per mero caso quando credevo di avere esaurite le
(Luxio, La Galleria dei Gonzaga, Milano, 1913, p. 307). ricerche delle opere di Borgianni. Poco ci servono le no-
Un terzo di misura grandissima che Baglione cita fra le tizie storiche per la datazione esatta del dipinto. Franco
opere primitive di Borgianni difficilmente può corrispondere Borsotto, che fece decorare a sue spese l’altare, fece anche
a quello da cui fu tratta la stampa che rivela caratteri stili- costruire la facciata della chiesa nel 1611, cosicché ciò può
stici di già sviluppati. portare una, per quanto debole, riconferma alle ragioni dello
2 L’opera deliziosa ha sempre portato nelle Guide (Ratti, stile che vogliono l’opera alquanto posteriore a questa data,
lustrazione di quanto di piu bello può vedersi in Genova e cioè verso il 1613.
nelle Riviere, Genova, 1780, p. 44, e: Queirolo, Storia
ORAZIO B OR GIANNI 17
con la stessa scuola ci si rivelano quando, volgendoci alla composizione, ci accorgiamo che mentre per
un istante aveva tentato di costruire una sequenza trasversa di forma dal gruppo intorno alla neonata,
al servente e all’ancella, non seppe organizzarla nel totale troppo aderente a uno schema più icono-
grafico che compositivo, più narrativo che costruttivo, lo schema di genere che, creato da Andrea del
Sarto e combinatosi poi a Venezia coll’ inventiva di Tintoretto, era venuto a Roma sui primi del sei-
cento con Passignano e Cigoli e s’era generalmente trasfuso, anche perchè non dissimile dagli schemi
che ne aveva creato poco prima il manierismo decorativo, nella scuola romana di Baglione e Gramatica
come in certi artisti di transito sul tipo di Cristoforo Pomarancio. In fatto la composizione si potrebbe
confrontare con profitto con quella certa di Baglione nella Quadreria del Palazzo Apostolico di Loreto,
con quella del Pomarancio nella Parrocchiale di Voltri, e con le numerose trattazioni consimili dovute
a Cigoli e Passignano.
Il tintorettismo di costoro, come del resto ho accennato, non è certo quello che B. adopera qui ; il
quale si potrebbe definire una specie di tintorettismo indipendente e spontaneo come poteva sortire da
chi possedeva un fondo invincibile di luminismo caravaggesco e ne tentava un uso vieppiù dispersivo,
L’Arte. XVII, 3.
tS ROBERTO LONGIH
fino alla improvvisazione delle macchiette luminóse, un fondo di nervosità disegnativa 1 e la esprimeva
con la funzionalità del rabesco luminoso, un fondo invincibile di note isolate alla veneziana e le voleva
accordare coi toni compositi e opachi di Caravaggio.
Poiché ho detto v’è disegno qui, disegno coloristico che crea: delle persone articolate in pose ele-
ganti alla fiorentina come la mirabile ancella sul dinanzi inconcepibile nel caravaggismo, e le altre
macchiette briose e movimentate del fondo; un disegno d’altra parte che tende più alla rapida carat-'
terizzazione di un singolo individuo fisico o psicologico che non a un totale ed organico rabesco for-
male. Ne consegue un avviamento verso un realismo di genere con il lieve suggello stilistico impresso
Fig. 7 — Borgianni : San Carlo fra gli appestati di Milano. Roma, Sant’Adriano.
(Fotografia Sansaini).
dalla unità dell’interpretazione briosa della forma cui accennai a proposito del San Cristoforo. Anche
qui rigogli elastici all’estremità della forma, scoppiettio terminale della materia compressa.
E del colore ho detto: fusione di Tintoretto e di Caravaggio; poiché i toni di giallo paglierino,
di giallo arancione e di rosso aurato, che dominano nelle ancelle sul dinanzi sono bene un portato
dell’opulenza caravaggesca primitiva, ma divengono più fratti liquidi e luminosi come a Venezia, per-
dono l’opacità e la spessezza che hanno in Caravaggio, si accostano a certi granata schiettamente
tintoretteschi, e anche nei secondi piani i toni di marrone, di verde, di azzurro lanoso, di giallo per
la materia granulosa che dà loro una fattura particolare come di pastello, si avviano più verso certe
armonie venete che non caravaggesche. E sono mirabili armonie soffici e lievemente grumose, subita-
mente calcinate dai toni post-caravaggeschi cosparsi di panneggi bianchi, rarefatti e come ragnati dalla
porosità di un’ombra corrosiva.
Qualità eccezionali, dunque, ma spesso impossibili a fondersi e ad unificarsi e che perciò vanno
godute nel tempo.
1 La quale si può riscontrare nel foglio con due disegni e che nella finezza del tratto ci pare veramente opera sua,
di figure femminili, che agli Uffizi è attribuito a Borgianni sebbene di periodo primitivo.
ORAZIO SORGI ANNI 19
Era necessaria una piccola cosa, e breve dove fosse impossibile risolversi per più che uno stile,
perchè Borgianni potesse creare perfettamente. E ciò avvenne precisamente in questo periodo di massimo
fiore — siamo verso il 1613 — quando Borgianni con un semplice Autoritralto ci diede quel capolavoro
d’arte e forse di letteratura che nella Galleria di Braunschweig si considera ancora come autoritratto
di Caravaggio,1 mentre basta un semplice confronto con l’autoritratto di Borgianni a San Luca per
convincersi che si è di fronte a un solo individuo. (Fig. 6).
È bene Borgianni che ci sta di fronte nel fiore della vita e dell’attività, coi suoi riccioli umidi ed
elastici, il suo fare tumido e alitante, come leggermente essoufflé, Borgianni trasandato ed elegante,
‘Il Bude riconobbe da tempo che l’opera non è di Cara- d. It. Mal. des XVII. Jahrhundert. Strassburg, 1907, pa-
vaggio e lo Schmerber osservandola epidermicamente pensò gine 36 e 224).
a un maestro olandese. (Cfr. Schmerber, Betracht. ìlber
20 ROBERTO LONGHI
1 È storia. Poiché, proprio in questo tempo, B. si affati- Celio, il cav. Celio, doveva smagarlo rapidamente fino alla
cava per ottenere un cavalierato che, toltogli poi dai rag- morte,
giri di un vigliacchissimo pittorello e scrittorello, Gasparo
ORAZIO BORGIANNI 2I
denza e di consunzione. « Guardate dunque come mi avete ridotto ! » I capelli più che ribelli incolti,
vizza veramente la gorgerina sucida ch’egli non si cura di mutare, e la bocca ancora semiaperta ma
con aria di disperazione e di spavento inferocito, pare attenda qualcosa che le capiti sotto il batter dei
denti. In verità l’acredine di quest’uomo a metter in luce la propria rovina è quanto di più doloroso
abbia saputo rendere un segno pittorico naturalmente incolto combaciando casualmente con l’espressione
di valori morali sconvolti.
Siamo nel 1615, l'ultimo anno di vita di Orazio Borgianni, quando egli compie quella Pietà (Fig. io)
che nella Galleria Spada reca ancora il nome di Annibaie Carracci, se bene il confronto con una
stampa (big. 9) firmata da B. e datata 1615, basti a farla riconoscere per opera del nostro, oltre all’as-
sicurarci che ne esistette un prototipo con una figura di plorante in più, da cui la stampa fu tratta. Con
l’opera Spada del resto coincide esattamente anche nel numero delle figure una Pietà che, come ricorda
Baglione, Borgianni compì a fresco in un finto riquadro nella sagrestia di San Salvatore in Lauro, se
bene il biografo non sappia riconoscere che allo stesso Borgianni appartiene anche il riquadro sotto-
posto con una testa d’apostolo.1
I due riquadri a fresco di liberissima fattura, e più pastosa che non siano di solito i freschi dei
Romani di questo periodo, sono d’intonazione calda ed aurata, come velata di cinereo, trattati con
una chiarezza naturale al fresco e che non si ritrova nel quadretto della Galleria Spada.
Nel quale le qualità di resa atmosferica sono alquanto intorbidate, e le ombre, in parte cresciute,
sono fumose, se bene sul viso di Maria non manchi una brillante improvvisazione di luce. Quelle che
nè pur qui vengono meno sono le qualità d’interpretazione unitaria dei particolari de’ quali, sul dinanzi,
il chiodo pastoso e ritorto, quasi vitalmente divincolato, è come la sigla stilistica. E, certo, se nella
plasticità appianata di certi particolari — visibile anche meglio nel tratteggio incrociato della stampa —
non si perpetuasse ancora un ultimo ricordo caravaggesco il segno nervoso avrebbe condotto l’artista
a uno scorcio totalmente ballonnè simile a quello del cadavere steso nel Ritrovamento del corpo dì San Marco
di Tintoretlo, cui tuttavia l’opera si richiama più che a qualunque altra resa della stessa situazione.
Cita ancora il Baglione come ultima opera di Borgianni, compiuta nella massima decadenza, 1 ’As-
1 Una copia mediocre della Pietà della Galleria Spada vidi sulla porta della sacristia di San Domenico Maggiore
di Napoli.
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sunta, eh’ era a Sant’ Elena ed è ora nella sacristia del Sacro Cuore a Castro Pretorio, ma noi che
ammettiamo che un artista possa, decadendo, decolorare il suo stile, ma non scambiarlo con altri, non
ritroviamo nell’opera che due teste, nell’ombra fortissima affatto isolate, le quali possano ritenersi toc-
cate da Borgianni, e crediamo l’opera compiuta per tutto il resto da un artista dozzinale di scuola
Romano-Bolognese.
Ma nella stessa sacristia del Sacro Cuore v’ è, sopra la porta, un Cristo portacroce che se nella
debolezza costruttiva non regge a paragone del resto e ci richiama alla decadenza, nel mirabile accordo
sugoso del rosso lampone della tunica incastonato profondamente nel celo d’azzurro caldissimo, nelle
carni lentamente torrefatte, nell’avvampare vaporante dei riccioli elastici, nell’accostamento, infine,
straordinariamente materiato delle zone di colore, nel ricordo vago e indeterminato ma invincibile del-
l’arte spagnuola (forse nel taglio), ci presenta una delle più semplici e moderne creazioni di Borgianni.
E non.conosco altro di lui.
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Così si strozzava miseramente la breve e brillante attività di un artista che oltre all’essere l’unico
nativo Romano che possa pretendere a questo nome, rappresenta nella cerchia romana del primo ’óoo
un valore eccezionale: Borgianni.
Il quale dipartendosi originariamente da un rudimentale senso dei piani e da un luminismo statico
alla caravaggesca, ma con pasta già in origine più liquidamente veneta, con toni più caldi, con disegno
ineluttabilmente più nervoso per quanto espresso nella colata dell’impasto, e con schemi iconografici di
fiorentinismo ritornato, doveva inevitabilmente allontanarsi poco a poco dal caravaggismo per giungere
a una fusione di segno e di colore ottenuto per mezzo della direzione impressa alla stria dell’impasto,
come prima e contemporaneamente a lui avevan fatto Tintoretto e Greco, senza ch'egli d’altra parte
potesse misurarsi mai con l’intellettualità disegnativa del primo, pari a quella dei più grandi fiorentini,
nè con l’esasperata lirica del secondo. Lo sviluppo ch’egli faceva subire a Caravaggio era puramente
tecnico e solo primordialmente lirico in quanto la sua pasta pittorica è più vicina agli spagnoli di quel
che non sia quella di Caravaggio, ma la sua educazione non gli permetteva di lievitarla in larghe colate,
e superfìci. Così invece di procedere verso Velasquez e Manet retrocediamo con Borgianni a un Tin-
torettismo indipendente e spontaneo, cioè a un dissidio insanabile tra forma e luminismo di macchia,
e stesura coloristica. Visioni disformi e inconciliabili capaci di fornire qualità artistiche ma non unità
artistica ad opere che vanno perciò inevitabilmente intese in due respiri : il primo per la forma, il
secondo per il colore.
Nel senso costruttivo delle sue tele Borgianni fu solo un maestro inferiore. Intese, è vero, la com-
posizione caravaggesca di spigolo meglio che i suoi coetanei, ma non seppe applicarla che alla figura
isolata, nelle composizioni maggiori ne diede accenni troppo distratti dal valore formale individuo,
troppo esigui e dispersi nelle proporzioni quasi di genere. Ber ciò nella scena sua più complessa, la
Natività della Vergine, v’è qualcosa che invece di preludere gl’interni di Velasquez, va verso quegli
Olandesi o verso il brio di un Giovanni Maria Crespi.
Il suo segno, infatto, eccezionalmente duttile e proclive a ricreare organicamente la vita, ebbe delle
inclinazioni stilistiche, ma si volse più spesso alla resa nervosa di certe analogie realistiche (i simbo-
lismi dello stile nella realtà) che non alla trasfigurazione organica della natura, sempre essenziale ai
grandi artisti. Fu insomma il suo uno stilismo psicologico più che pittorico, ch’egli trasceglieva acuta-
mente nella vita, e trasferiva nell’arte. Così procedendo verso la pittura di macchia, si fermò alla mac-
chietta realistica creata dalla bizzarria rara della luce sulla forma, si fermò al pittoresco che deve pur
subire un’ulteriore deformazione per divenire pittorico. Creò una lirica coloristica pura nel canto di
alcune note isolate, ma, anch’esse, fanno pur sempre l’effetto di una trovata più che di un capolavoro.
Vide, ahimè ! troppo artistica la vita e perciò non abbastanza artistica fu l’arte sua.
Il suo merito maggiore insomma — quando lo si riponga storicamente fra i suoi compagni di car-
riera pittorica — fu di essere senza dubbio il meglio dotato fra di essi per riescire quello che non riesci.
Roberto Bonghi.
ORAZIO BORGIANNI 23
1605-10. — Roma, Galleria Borghese, n. 2. Davide con la testa di Golia (attr. a Caravaggio),
circa 1612. — Roma, San Carlo alle Quattro Fontane. San Carlo Borromeo avanti la Trinità,
circa 1612. — Roma, Galleria Colonna, IV, 91. San Carlo Borromeo (attr. a Daniele Crespi),
circa 1613, — Savona, Santuario della Misericordia. La nascita della Vergine,
circa 1613. — Braunschweig, Museo. Autoritratto (creduto autoritratto di Caravaggio),
circa 1614. — Roma, Sant’Adriano. San Carlo fra gli appestati di Milano,
circa 1615. — Roma, Accademia di San Luca. Autoritratto.
circa 1615. — Roma, San Salvatore in Lauro. Pietà con due figure e testa d’apostolo in due riquadri
a fresco.
circa 1615. — Roma, Galleria Spada, Sala V. Pietà con Maria e Giovanni (attr. ad Annibaie Caracci).
circa 1615. — Roma, Sacro Cuore a Castro Pretorio, Sacristia. Cristo portacroce.
Per le stampe vedi Bartsch XVII, 3x5; Nagler, Kstlex, II, pag. 57; Malaspina, Catalogo di una
raccolta di stampe, Milano, 1824, I, 240; Kristeller in Kupferstich u. Holzschn. in 4 Jahrhnditn,
Berlin, 1905, pag. 409, e in Lexicon der Bild. Kstler, IV, pag. 357.
Opere smarrite.