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Parlo il Persiano

Unita 1
Ciao , Salve ‫سالم‬
Io sono… ‫هستم‬...‫من‬

.‫من مریم هستم‬ .‫سالم من مهدی هستم‬


(Salam Man Maryam Hastam ) ( salam mn mahdi hastam)
L’alfabeto della lingua persiana:
La scrittura arabica, che i popoli dell'Īrān adottarono insieme all'Islām,
si adatta pochissimo alle esigenze della lingua persiana. Il persiano non
è una lingua semitica ma indoeuropea; ha una gamma vocalica che
l'alfabeto arabico non è in grado di segnalare e il suo sistema
consonantico è completamente differente da quello arabo. Non c'è
dunque da stupirsi se l'alfabeto persiano appaia ibrido e ridondante,
con una serie di lettere derivate dall'arabo e non utilizzate in persiano,
più altre lettere inventate ex-novo per segnalare quei suoni del
persiano che non esistono in arabo.
L'alfabeto persiano ha desunto integralmente l'alfabeto
arabo ma ha dovuto adattarlo alle proprie esigenze
fonetiche. Ne vien fuori un ridondante alfabeto di 32
lettere, quattro più dell'alfabeto arabo.

Grafia dell’alfabeto:
Esempio:
Avendo derivato le proprie regole di scrittura dall'arabo, il
persiano non scrive le vocali brevi, ma soltanto il nudo
scheletro consonantico delle parole. Questo, nonostante
che il persiano non sia una lingua semitica e quindi dia
meno risalto alla struttura consonantica. La corretta lettura
delle vocali viene dettata dal contesto della frase e
dall'esperienza del lettore.
Le tre vocali brevi dunque non vengono segnate in alcun
modo, essendo considerate implicite:
Come in arabo, anche in persiano la presenza delle vocali
lunghe ā ū ī viene indicata facendo seguire alla vocale
implicita una consonante di prolungamento (matres
lectionis), che a seconda del caso sarà rispettivamente una
delle tre consonanti deboli ` w y [alef vāv yā].

Negli esempi che seguono, le consonanti deboli ` w y non vanno considerate come le
rispettive vocali lunghe ma come lettere di prolungamento delle vocali implicite:
All'inizio di parola, le vocali lunghe vengono indicate con
una alef seguita da una lettera di prolungamento (matres
lectionis), che per le vocali ā ū ī sarà rispettivamente la
consonante debole ` w y [alef vāv yā]. Nel caso di ā,
analogamente a quanto accade in arabo, non essendo
possibile disporre due alef di seguito, si provvede con
una alef madda, ovvero una alef sormontata da un'altra
piccola alef scritta di traverso.

Qualche esempio:
Alle vocali di cui abbiamo parlato, che si sovrappongono
a quelle già contemplate dalla scrittura araba, si unisce in
persiano la tipica vocale é, posta alla fin della parola e
sempre tonica (accentata). Viene indicata dalla
lettera hey, che normalmente è la consonante aspirata h,
ma che in fin di parola, qualora non sia preceduta da una
consonante lunga, acquista appunto il valore di é.

Esempio:
Nel persiano moderno vi sono quattro dittonghi, che
vengono rappresentati così:

Questi vengono contrassegnati usando combinazioni delle


stesse consonanti deboli usate anche per le vocali lunghe.
È importante pronunziare distintamente i due elementi del
dittongo, perché ne dipende il senso della parola.

All'inizio di parola, il dittongo è introdotto da alef, in questo modo:


Esempio:

L'attento lettore avrà notato che vi è nella notazione dei dittonghi un


certo grado di ambiguità con le stesse vocali. Non c'è modo di capire
quando una vāv nel corpo della parola vada pronunciata ū e quando sia
invece il dittongo ou. Analogamente non c'è modo di distinguere
una yā da pronunciarsi ī da una che indichi invece il dittongo ey. Ci sono
addirittura dei casi in cui la lettura vocalica e quella dittongata sono
distintive di significato, come ad esempio nella parola mū, "capello", che
letta dittongata nella forma mou diventa invece "tralcio di vite". Soltanto
una buona conoscenza della lingua aiuterà a riconoscere, parola per
parola, la giusta ortografia.

Si noti ancora che nel parlato i dittonghi tendono a trasformarsi in


vocali. Così āy è spesso pronunciato come una e lunga,
mentre ou diventa una o lunga.
La notazione araba delle vocali consisteva in una serie di tre diacritici
che, posti sopra o sotto la consonante, le davano la colorazione
vocalica a i u. Questo sistema è passato anche in persiano, dove le tre
mozioni sono chiamate
rispettivamente fetḥé, żemmé e kesré (oppure seber, pīš e sīr).

Il persiano deve però coprire con queste tre mozioni un campo vocalico
assai più vasto. Dunque fetḥé si usa per segnalare a ed ā, e anche é in fin
di parola; żemmé segnala o ed ū; kesré segnala infine e ed ī.

Vi è inoltre una quarta mozione, anch'essa derivata dall'arabo e chiamata


in persiano sokoun, la quale, posta su una consonante, indica l'assenza di
vocale. Al contrario dell'arabo, però, l'ortografia tradizionale persiana
evita di mettere il sokoun sulla consonante finale della parola.
Esempio:
Ereditato dall'arabo, dove accompagnava le semivocali
destinate a rappresentare le vocali brevi, in persiano il segno
chiamato hamzé, traslitterato con lo spirito dolce del greco, ha
perduto quest'uso e lo ritroviamo soltanto sulla hey finale,
qualora faccia le veci della vocale é, e sulla yā seguita da
un'altra yā (nel qual caso la prima yā perde i due puntini).

Esempio:

Si noti ancora che la hamzé, che alla fine di alcune parole


arabe segnava un colpo di glottide, sparisce allorché tali
parole passano in persiano.
Come abbiamo detto, il persiano non fa uso di diacritici.
Non segna le mozioni vocaliche, né fa uso di altri segni.
Analogamente, il raddoppiamento delle consonanti non
viene mai segnato, per quanto il persiano disponga di un
segno apposito mutuato dall'arabo, il tašdīd.

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