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LA FILOSOFIA DEL DISASTRO

- XVIII SECOLO -

L'ottimismo illuministico prima del 1755


Con filosofia del disastro, si intendono quei dibattiti filosofici principalmente illuministi che ebbero
come oggetto l’aspetto teologico della causa di una catastrofe. Con essi viene messa in discussione la tesi
della teodicea (giustizia di Dio, dal greco theos, dio, e dike, giustizia), termine filosofico introdotto da
Leibniz per riassumere il problema della sussistenza del male nel mondo in rapporto alla giustificazione
della divinità e del suo operato.

Nella prima metà del XVIII secolo, era molto diffusa fra i filosofi illuministici la fede nell’ottimismo e
nel progresso dell’umanità garantito da Dio. Secondo quanto afferma Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-
1716) nei suoi Saggi di teodicea (1710) e in Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione (1714),
la mente di Dio è la regione dei possibili, cioè di ciò che potrebbe esistere nella misura in cui è pensato da
Dio. Se il possibile è pensabile, vi è però una differenza nel pensiero dell’uomo e di Dio: pensando, il primo
riconosce la possibilità, mentre il secondo la fonda. Ma dire che in Dio sono presenti tutti i possibili, non
comporta che tutti i possibili siano reali: la sua mente stabilisce ciò che è possibile pensandolo; la sua
volontà sceglie tra le possibili le cose a cui dare esistenza. Per mondo Leibniz intende un insieme di
compossibili, ossia di cose possibili che non si escludono a vicenda (ad esempio, sulla Terra esiste una legge
di gravità posta da Dio; egli avrebbe potuto porne un'altra diversa, ma essa non sarebbe stata compossibile
con quella esistente). Esistono dunque infiniti mondi possibili, ma Dio ha deciso nella sua estrema saggezza
e infinita bontà di realizzarne solo uno, il migliore, quello dell’uomo (attribuire dell'essere è sempre
positivo). Leibniz non dice che tale mondo sia perfetto, ma semplicemente che è il migliore tra quelli che
Dio avrebbe potuto creare. D'altra parte, il mondo non potrebbe mai essere perfetto, dal momento che, se
lo fosse, sarebbe Dio stesso, l'ente perfetto. Ciò che è diverso da Dio deve per forza essere imperfetto:
dunque, il fatto che il mondo sia imperfetto è intrinseco alla bontà di Dio: le stesse imperfezioni e lo stesso
male di questo mondo sono espressioni della bontà divina.

Perlopiù il mondo, oltre ad essere il migliore tra quelli che Dio avrebbe potuto creare, è
estremamente variegato e molteplice: molteplicità che costituisce comunque un mondo unitario. Dietro ad
un apparente disordine si cela sempre un ordine divino. Celebre è la frase di Leibniz: “Se segnassimo a caso
dei punti su un foglio di carta, si potrebbe individuare sempre e comunque un'equazione matematica tale
da rendere conto di quanto fatto”.

« Ora questa suprema saggezza [di Dio], congiunta a una bontà che non è meno infinita di quella, non
poteva mancare di scegliere il meglio. Infatti, come un male minore è una specie di bene, così un bene
minore è una specie di male, se agisce come un ostacolo per un bene maggiore, e nelle azioni di Dio vi
sarebbe qualche cosa da correggere, se Egli aveva la possibilità di far meglio. [...] Qualche avversario, non
potendo rispondere a questo argomento, risponderà forse alla conclusione con un argomento contrario,
sostenendo che il mondo sarebbe potuto essere senza il peccato e senza il dolore; ma io nego che allora
sarebbe stato il migliore. Perché bisogna riflettere che tutto è connesso in ciascuno dei mondi possibili:
l’Universo, qualunque fosse per essere, è tutto d’un pezzo, come un Oceano; il minimo movimento estende il
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suo effetto a qualunque distanza, di modo che Dio ha tutto regolato in anticipo e una volta per tutte,
avendo previsto le preghiere, le buone e le cattive azioni e tutto il resto, e ciascuna cosa ha contribuito
idealmente, prima della sua esistenza, alla decisione che fu presa sull’esistenza di tutte le cose. Di modo che
nulla può essere cambiato nell’Universo (come accade in un numero) tranne la sua esistenza o, se si
preferisce, la sua individualità numerica. Così se il più piccolo male che accade nel mondo, non accadesse,
non sarebbe più questo mondo, che tutto sommato e soppesato, è apparso il migliore al Creatore che l’ha
scelto. »

« Dalla perfezione suprema di Dio deriva che creando l'universo, ha scelto il miglior piano possibile, nel
quale la più grande varietà possibile è congiunta col massimo ordine possibile... e ciò perché nell'intelletto
divino, in proporzione alle loro perfezioni, tutti i possibili pretendono all'esistenza; il risultato di questa
pretesa dev'essere il mondo attuale, il più perfetto possibile. »

Esaltatore dell’ottimismo cosmico fu successivamente Alexander Pope (1688-1744), padre putativo


della formula “Tutto è bene”; in realtà, questa formula è la traduzione volterriana dell’idea centrale del
Saggio sull’uomo del 1734 di Pope, espressa nella formula: “Whatever is, is right”, ossia “Qualsiasi cosa sia,
essa è giusta”, in quanto voluta da Dio. Tuttavia, la teoria secondo cui quello dell’uomo è il migliore dei
mondi possibili comincia già ad incrinarsi di fronte alla devastazione e alle stragi causate dalla guerra, nello
specifico dalla Guerra di successione austriaca (1740-1748) e da quella dei Sette anni (1756-1763). Si
comincia a dubitare dell’ottimismo storico quando nel 1753 l'Accademia delle Scienze di Berlino (fondata
dallo stesso Leibniz) bandisce un concorso in cui veniva richiesta l'analisi del pensiero di Pope. Vinse Adolf
Friedrich Reinhard con una Dissertazione in cui contestava l'ottimismo di Leibniz e Pope. Tale evento
originò negli ambienti illuministi tedeschi una vivace polemica, nella quale intervennero anche Moses
Mendelssohn e Gotthold Ephraim Lessing, coautori dell'opera “Pope, Ein Metaphisyker” (Pope, un
metafisico; 1753): più che sostenere Pope e il suo motto, essi polemizzavano con l'Accademia delle scienze
di Berlino che aveva bandito il concorso per screditare la teodicea di Leibniz.

Inizialmente anche François-Marie Arouet, detto Voltaire, si pone come sostenitore dell'ottimismo
leibniziano. A seguito dei suoi scritti polemici contro il governo francese di Luigi XV, per evitare l’ennesimo
arresto era stato costretto a ritirarsi a Londra tra il 1726 e il 1728: qui aveva conosciuto personalmente
Pope, che ricorda con stima nelle sue Lettere filosofiche redatte al suo ritorno in Francia, nelle quali
condivide l'ottimismo dei pensatori inglesi e critica invece il pessimismo di Pascal (che trascura l’individuo
in quanto tale, le sue esigenze nel mondo – dove è destinato a subire il male – e si preoccupa invece della
salvezza della sua anima). Nel poema Le mondain del 1736, Voltaire contesta ogni pratica ascetica o ispirata
alla frugalità e alla semplicità sostenuta da puritani e cattolici, mentre esalta il materiale gusto di vivere e la
non rinuncia a godere sino in fondo quanto la vita possa offrire. La sua opinione cambia radicalmente dopo
l'evento del terremoto di Lisbona del 1755, a seguito del quale comincia a dubitare dell'esistenza del male
come scelta provvidenziale di Dio.

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La catastrofe di Lisbona
La mattina del 1° novembre 1755, alle 10 circa, un terremoto di magnitudo 8.7 (scala Richter) si
scatenò nell’oceano Atlantico a 200 km a sud-ovest di Cabo de São Vicente. Il sisma interessò
complessivamente una superficie di 11 milioni di km2: colpì principalmente Portogallo, Spagna e Marocco,
ma interessò anche buona parte del Nord Europa (Norvegia, Svezia, Germania, Paesi Bassi, Francia, Gran
Bretagna e Irlanda). Le scosse causarono un maremoto che investì le coste atlantiche di Europa, Africa e
America Latina (Antille e Barbados).

L’effetto combinato di terremoto e maremoto causarono danni catastrofici principalmente a


Lisbona – dove si ebbero fra 60.000 e 90.000 morti (a seconda delle fonti) su una popolazione stimata di
275.000 abitanti – e in Marocco (10.000 decessi complessivi a Fez, Meknes e Marrakech). Nella capitale
portoghese le scosse durarono ben 6 minuti, comportando onde alte 15 metri e numerose frane
nell’entroterra. Una delle più accurate descrizioni del cataclisma a Lisbona si deve al geologo scozzese
Charles Lyell (1797-1875).

« Dapprima s'udì provenire dalle viscere della terra un rombo come di tuono, subito dopo una violenta
scossa abbatté gran parte della città. Durante sei spaventosi minuti, morirono 60.000 persone. Il mare
prima si ritirò, lasciando il molo e la riva a secco, con tutte le navi e le barche che vi erano ormeggiate,
quindi tornò rombando, sollevandosi di quindici metri oltre il suo solito livello. I monti Rabida, Estrella, Julio,
Marao e Cintra tremarono selvaggiamente, come suol dirsi, fino alle fondamenta; alcuni subirono delle
fratture sulla cima, in altri si formarono paurosi crepacci. […]
Gli esperti sostennero che il movimento di questo sisma sia stato ondulatorio, e che si sia mosso alla velocità
di 30 km al minuto. Una grande onda si abbatté sulle coste spagnole, e si dice, che a Cadice, abbia
raggiunto i 18 metri d'altezza. »

Prima del terremoto di Lisbona si erano verificate altre grandi e analoghe tragedie, che però non
avevano avuto l’eco di quella portoghese: nel 1699 un sisma in Cina aveva provocato la morte di ben
400.000 persone, mentre nel 1693, un terremoto aveva distrutto Catania e altri quarantacinque centri
abitati della Sicilia orientale causando un numero di morti analogo a quello di Lisbona (60.000).

Probabilmente, il terremoto di Lisbona ebbe una grandissima risonanza anche per il momento
storico in cui era avvenuto, che vedeva uno sviluppo notevole della comunicazione e della circolazione di
idee, fenomeni che si innestarono sull’impressione fisica prodotta dal terremoto in molti stati europei. In
più, Lisbona era la capitale di un paese fortemente cattolico, con alle spalle una storia di grandi sforzi di
cristianizzazione ed evangelizzazione delle colonie, e il sisma si era scatenato il giorno della festa di
Ognissanti, distruggendo quasi tutte le più importanti chiese della città. Inoltre, alla stessa ora in cui si
verificava il terremoto nell’Atlantico, si scatenarono un secondo sisma in Italia, avente epicentro presso
l’isola di Ponza, e un terzo ad Algeri. Tutte queste coincidenze portarono i filosofi del tempo ad un acceso
dibattito sul tema della teodicea. I teologi legati alla posizione religiosa tradizionale, invece, concepivano
l’evento come una manifestazione della collera divina: tuttavia, mentre i protestanti consideravano l’aver
dato accoglienza da parte di Lisbona all’Inquisizione e ai gesuiti una ragione sufficiente per incorrere in una
punizione esemplare, (facendo risalire addirittura la causa del terremoto al massacro degli Indios in Sud
America) gli apologeti cattolici si trovavano nell’impossibilità di spiegare la ragione per cui la vittima fosse
stata proprio la capitale portoghese.

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Il pensiero di Voltaire
All’epoca del terremoto Voltaire risiede a Les Délices, una tenuta poco fuori da Ginevra: la notizia
della catastrofe lo raggiunge la sera del 23 novembre. Il filosofo ne rimane turbato e in meno di venti giorni
compone il Poema sul disastro di Lisbona, un’opera in 234 versi che verrà pubblicata esattamente sei mesi
dopo il sisma, il 1° aprile 1756, in Svizzera e Francia. Il Poema ebbe una grandissima diffusione in tutta
Europa, con numerose edizioni a stampa (nel 1756 ne apparvero, autorizzate o non, una ventina).

Il pensiero volterriano non si presentava come una novità assoluta nella storia del pensiero
occidentale dal momento che Voltaire stesso dichiara espressamente nei suoi versi di riprendere le
argomentazioni della critica sistematica di Pierre Bayle (1647-1706) nei confronti della filosofia leibniziana
del "tutto è bene". Il poema vedeva infatti la luce quando ancora era vivo il ricordo di una lunga polemica,
sviluppatasi attraverso libri, riviste e lettere personali, che Bayle aveva sostenuto contro Leibniz sul
problema del male. Di fronte al modo tradizionale di concepire la storia come sintesi complessiva e
interpretativa dei molteplici piani su cui essa si articola, Pierre Bayle si pone a studiare i suoi minuti
frammenti, i singoli fatti. Contro il giustificazionismo della teodicea leibniziana, Bayle afferma l’esistenza del
male, come dato di fatto, come realtà quotidiana contro cui l'uomo deve lottare e che spesso, come nel
caso del male fisico, deve passivamente subire. È l'esperienza più semplice e più diretta che dà all'uomo la
coscienza dell'esistenza positiva del male, il quale non deve essere concepito come privazione di un bene
più grande: le sofferenze sono dolori positivi che l'uomo avverte come tali e sono indipendenti dalla
condotta morale degli individui. “L'anima delle bestie non ha peccato affatto e tuttavia è soggetta al dolore
e alla miseria ed è sottoposta a tutti i desideri sfrenati della creatura che ha peccato”, scrive Bayle
nell'articolo “Rorarius” del suo Dizionario. Analoghe considerazioni svolge a proposito del male morale e
del peccato, in cui l'onnipotenza divina e l'esistenza del male sembrano conciliarsi difficilmente. In realtà,
Bayle non tende a trovare una soluzione del problema del male, bensì a mostrarne l'insolubilità. Come dirà
Voltaire, “Abbandono Platone, rigetto Epicuro. Bayle ne sa più di tutti (…) Bayle insegna a dubitare: saggio e
grande abbastanza per non aver sistemi. Li ha tutti distrutti, mettendo in discussione anche se stesso”.

Il poema volterriano riprende così tutte le argomentazioni di Bayle, rivedendo il suo pensiero degli
anni precedenti e reinterpretando l’ottimismo metafisico di Pope e Leibniz, che viene presentato come una
posizione filosofica che porta a negare la realtà del male e ad anestetizzarla attraverso la sua riconduzione
entro l’ordine generale dell’universo. La tesi sostenuta da Voltaire è semplice: il male nel mondo non può
essere opera di Dio, ché in tal caso non sarebbe un Dio buono e giusto, né può essere opera di altri, ché in
tal caso non sarebbe un Dio onnipotente. Eppure il male esiste e ci dobbiamo fare i conti.

Voltaire afferma che, come insegna la catastrofe di Lisbona del 1755, l’impatto del male
“particolare”, ossia dell’evento specifico, non può più essere riassorbito nella formula rassicurante “Tutto è
bene”, che ha come effetto deleterio quello di ignorare ottusamente l’infelicità umana sulla terra.

« L’assioma Tutto è bene può suonare un po’ stonato per coloro che sono testimoni di tali sciagure. Tutto è
predeterminato, tutto è ordinato, senza dubbio, dalla mano della Provvidenza, ma da tempo è fin troppo
chiaro che non tutto è predisposto a favore della nostra felicità presente. »

Rispetto alla realtà del male l’ottimismo teologico e la sua relativa teodicea finiscono per essere
“solo un insulto ai dolori della nostra esistenza”. I “filosofi fallaci” sono invitati a contemplare le rovine del
terremoto e ad assumere finalmente consapevolezza del fatto che di fronte allo “spaventoso spettacolo

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delle ceneri fumanti” è improponibile la tesi secondo cui questo sarebbe “l’effetto delle leggi eterne che
rendono necessaria la scelta di un Dio libero e buono”.

« ‘Tutto è bene’, voi dite ‘e tutto è necessario’. Come! Forse che l’universo intero, senza questa voragine
infernale, senza inghiottire Lisbona, sarebbe stato più malvagio? »

Veramente si può credere, si chiede Voltaire, che tutte le disgrazie portate dal terremoto possano
essere riscattate dalla considerazione che tutto si giustifica agli occhi di chi sa guardare dalla prospettiva
delle “leggi universali”? In realtà, dinanzi alla catastrofe l’ottimismo metafisico si configura come lo “sforzo
impotente” di sventurati che fingono di essere contenti.

Secondo Voltaire la più profonda differenza tra l’uomo e gli altri esseri viventi è che il primo può
invocare a Dio affinché questo lo aiuti a comprendere il mistero del male. Nonostante ciò, l’esito finale di
tale invocazione nel poema di Voltaire è il silenzio di Dio, come indice dell’insondabilità del male (come
pure riporta nella voce “Tout est bien” del suo Dizionario filosofico del 1764).

“Se le folte querce sono incendiate dal fulmine, pure esse non avvertono i colpi che le abbattono: ma io vivo,
ma io sento, ma il mio cuore oppresso chiede aiuto al Dio che l’ha forgiato”.

La scelta improntata sullo scetticismo di Bayle (e dell’avversione a ogni spirito di “sistema” sul
problema del male) orienta verso il silenzio sulla secolare domanda che riguarda il male; silenzio che indica
il limite umano nel portare a completa trasparenza questo mistero, nell’esplicitarlo esaustivamente
attraverso il linguaggio, nel ridurlo entro i confini della semplice ragione. Ciò non significa affatto
indifferenza al cospetto dei diversi tentativi con i quali si è cercato, nella lunga storia del pensiero umano, di
rispondere a quella domanda. Scetticismo è dunque rigetto di ogni “sistema”, di ogni risposta definitiva e
certa alla questione. Voltaire afferma, da un lato, che il “principio segreto” del male “ci è sconosciuto”;
dall’altro, che noi uomini, “atomi pensanti”, “in seno all’infinito protendiamo il nostro essere”. Sicuramento
l’uomo non arriverà mai a “poterci vedere” e “conoscere”; ma ciò non toglie nulla allo sforzo senza fine di
misurarsi con la sua condizione. Anzi, come già osservato, è esattamente la capacità di farci questione a noi
stessi, per ogni aspetto della nostra esistenza, che ci distingue, come osserva Voltaire, dagli animali.

L’enfasi posta sul male metafisico (la finitudine umana come connotazione ontologica) fa subire una
brusca torsione all’idea della condizione umana, la quale si presenta connotata da tensioni sconosciute
all’ottimismo e posta dinanzi a un mistero, quello della sofferenza innocente, che fissa confini invalicabili
alla presunzione della ragione. Ma entro questa sofferta consapevolezza dei limiti dei poteri conoscitivi e
operativi dell’uomo, matura anche una dimensione morale del male, la rivendicazione della dignità del
finito, che si realizza nella capacità e nel dovere di agire per arginare i mali, per soccorrere i sofferenti, per
far fronte al negativo in ogni sua forma.

Posto dinanzi all’ingiustificabilità del male, Voltaire preferisce – rispetto alla linea che solo dopo di
lui sfocerà progressivamente nella negazione di Dio a partire dallo scandalo del male – la sospensione del
giudizio, la quale si concretizza nell’accettazione del limite umano di fronte al male, sia in termini
conoscitivi che operativi. Egli si ferma alla constatazione dell’irrisolvibilità della questione sulla convivenza
della giustizia di Dio e della presenza del male, finendo per far cadere tutto l’accento su quella dimensione
pragmatica (la lotta contro i mali dell’esistenza) che nella successiva opera Candide viene così isolata dallo
sforzo di pensare il male e diventa l’unica questione rilevante.

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Il soccorso chiesto a Dio appare in fin dei conti poco più che una ridondanza retorica, rispetto alla
quale domina un accento ben diverso, che prefigura la rivolta verso una divinità avvertita come sempre più
estranea e lontana. Voltaire prosegue su questa linea opponendo alla verità cristiana su Dio e alle sue
variegate forme e metamorfosi il sentimento di giustizia che opera nell’animo umano, inteso come rifiuto
verso quella verità che, se accettata, porterebbe con sé la correità nel male. Il poema di Voltaire, dunque,
non è soltanto l’atto con cui viene dichiarata l’improponibilità di ogni teodicea, ma è anche il passaggio
essenziale attraverso cui l’uomo sente di poter acquisire il diritto di porre sotto giudizio Dio in nome di
un’esigenza morale la quale resiste ai dogmi di ogni religione che contraddica l’istanza umana di giustizia.

Di fronte alla consapevolezza della limitazione umana in termini operativi, viene introdotta
l’importanza della speranza in una vita oltremondana, nella quale saranno riscattate le sofferenze e le
ingiustizie patite nel mondo. La speranza viene investita contemporaneamente di una valenza metafisica e
di una valenza etica: la prima consiste nella riformulazione dell’ottimismo metafisico di Pope e Leibniz,
mentre la seconda risiede nella condanna dell’atteggiamento del filosofo e del teologo, entrambi
“spettatori tranquilli” del “naufragio” che travolge i “fratelli morenti”.

« Un califfo un tempo, nella sua ultima ora, al Dio che adorava rivolse questa semplice preghiera: ‘Ti porto,
o unico re, o unico essere illimitato, tutto ciò che non hai nella tua immensità, i difetti, i rimpianti, i mali e
l’ignoranza’. Ma avrebbe potuto aggiungere anche la speranza. »

« Un giorno tutto sarà bene, ecco la nostra speranza; tutto è bene oggi, ecco l’illusione. »

Se il Poema termina ancora con una parola di speranza, Voltaire scriverà poco dopo il Candide
(1759), in cui il suo pessimismo diverrà totale. Il male è rappresentato in tutte le sue manifestazioni
possibili lungo l’avventura umana del protagonista Candide, così da fornire la più efficace denuncia
dell’ottimismo di Leibniz. Quest’ultimo viene inserito nelle vesti di Pangloss, una figura comica e patetica
che incarna il tentativo, sempre demolito, di imbastire una tesi di teodicea.

« Viveva in quei pressi un derviscio famosissimo, che aveva fama d’essere il maggior filosofo di Turchia.
Andarono a consultarlo. Pangloss prese la parola, e disse: ‘Maestro, siam venuti a pregarvi che ci spieghiate
perché sia stato creato un animale così bizzarro com’è l’uomo’. ‘Ma di che ti vai a impicciare?’, disse il
derviscio; ‘che te ne importa?’. ‘Ma, padre mio reverendo’, osservò Candido, ‘v’è pur nel mondo una
quantità spaventosa di mali’. ‘E che diavolo importano’, rispose il derviscio, ‘i mali ed i beni? Quando Sua
Altezza spedisce una nave in Egitto, si dà ella forse pensiero se i topi che sono nella stiva stanno comodi o
no?’. ‘E allora, che dobbiamo fare?’, domandò Pangloss. ‘Tacere’, rispose il derviscio. ‘Io m’ero illuso’,
riprese Pangloss, ‘di poter ragionare un pochino con voi delle cause e degli effetti, del migliore dei mondi
possibili, dell’origine del male, della natura dell’anima e dell’armonia prestabilita’. A questo punto il
derviscio sbatté loro l’uscio in faccia. »

L’approdo del ripensamento operato da Voltaire è sintetizzato nella conclusione del Candide, in cui
il protagonista, dopo le sue molte avventure e peregrinazioni, si convince che la soluzione migliore sia
seguire una vita semplice, frugale e laboriosa. E, benché Pangloss ogni tanto riproponga le sue divagazioni
metafisiche, s’imbatte nella risposta di Candide: “‘Voi dite bene […], ma noi bisogna che lavoriamo il nostro
orto’”. Si tratta della soluzione disperata di un uomo disincantato che tuttavia non vuole deporre le armi;
un uomo cui resta soltanto la sua battaglia in campo terreno, ossia quello della ragione.

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Il pensiero di Rousseau
Aspettandosi aspre critiche da parte del mondo cattolico, Voltaire manda una copia del sul Poema a
Rousseau, D'Alembert e Diderot aspettandosi il loro sostegno. Nella prefazione, sostiene che i filosofi che
teorizzano il bene di fronte al disastro sono più crudeli dello stesso terremoto, e scrive riferendosi a se
stesso:

« L’ autore si erge contro gli abusi che si sono potuti fare dell’antico assioma tutto è bene. Egli adotta
questa triste e più antica verità, riconosciuta da tutti, che c’è del male sulla terra e confessa che
l’espressione “tutto è bene”, presa in un senso assoluto e senza la speranza di un futuro, non è che un
insulto ai dolori della nostra vita. »

Inaspettatamente, il 18 agosto 1756 Rousseau risponde schierandosi con Leibniz e Pope, asserendo
che il loro positivismo costituisce l’unica via per comprendere e accettare i dolori insopportabili del male.
Difatti, introduce una nuova visone del male stesso, intendendo gli uomini come artefici primi della sua
esistenza e rigettando quindi che esso sia voluto da Dio: si parla di ottimismo teologico e pessimismo
antropologico. Secondo Rousseau, gli abitanti di Lisbona avevano offeso la semplicità della natura volendo
orgogliosamente costruire una prospera capitale: in essa col tempo si erano ammassate migliaia di persone,
che se fossero rimaste nell'ambiente contadino non avrebbero perso la vita. Le catastrofi naturali smorzano
così l'avidità della ricchezza: con i loro terribili effetti livellano equamente la società, che ha abbandonato lo
stato naturale, e le danno una nuova morale.

« Quell'ottimismo che trovate tanto crudele mi consola, tuttavia, di quegli stessi dolori che descrivete come
insopportabili. Il poema di Pope addolcisce i miei dolori e mi infonde pazienza, il vostro acuisce le mie pene e
mi spinge a mormorare contro la Provvidenza; e privandomi di tutto, mi induce alla disperazione. »

« Si può dubitare che accadano sismi anche nei deserti? Soltanto non se ne parla perché non provocano
alcun danno ai Signori delle città, gli unici uomini di cui si tenga conto. »

« Terremoti, eruzioni vulcaniche, incendi, inondazioni, diluvi, mutando di colpo, con la faccia della terra, il
corso delle società umane, le hanno combinate in modo nuovo, e queste combinazioni, le cui cause prime
erano fisiche e naturali, sono divenute, col tempo, la cause morali che mutano lo stato delle cose; hanno
prodotto, guerre, migrazioni, conquiste e infine rivoluzioni che riempiono la storia e che sono considerate
opera degli uomini, senza risalire a ciò che li ha fatti agire così. »

Rousseau critica infine Voltaire rimproverando la facilità del suo pessimismo, seppure ammettendo
che propria fede nell'ottimismo non sia fondata sulle logica filosofica.

« Sicuro dell'immortalità ormai raggiunta, [voi Voltaire] filosofeggiate tranquillamente... E tuttavia non
vedete altro che il male sulla terra. Ed io invece, uomo oscuro, povero, solo, tormentato da un male senza
rimedio, medito con piacere nel mio eremo e trovo che tutto è bene. »

« Tutte le sottigliezze della metafisica non mi faranno dubitare un momento dell'immortalità dell'anima, e
di una Provvidenza benefattrice. Io la sento, credo in essa, la voglio e spero in essa e la difenderei fino al mio
ultimo respiro. »

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Una pregnante conclusione Rousseau la lascia nell'apertura dell'Emile: "Tutto è bene nascendo
dalle mani dell'autore delle cose e tutto degenera tra le mani dell'uomo."

Il pensiero di Kant
Anche Immanuel Kant (1724-1804) si inserì nel contesto della filosofia del disastro, pubblicando nel
1756 ben tre opere aventi per tema conduttore il terremoto di Lisbona: Sulle cause dei terremoti in
occasione della sciagura che ha colpito le terre occidentali d'Europa verso la fine dell'anno trascorso, Storia
e descrizione naturale degli straordinari eventi del terremoto che alla fine del 1755 ha scosso gran parte
della terra, Ulteriori considerazioni sui terremoti avvertiti da qualche tempo. Inizialmente, egli cercò di
mantenere fede alla sua promessa di rigore scientifico annotando nei suoi tre scritti una grande mole di
dati sperimentali, misurazioni e teorie che rappresentano l'intento di tentare una descrizione oggettiva del
fenomeno. La sua teoria si basa su gigantesche caverne presenti nel sottosuolo terrestre riempite di gas
caldi, ipotesi confutata a seguito di scoperte scientifiche successive; tuttavia, essa resta pur sempre un
primo tentativo di spiegare i terremoti attraverso un approccio scientifico e non come una punizione divina.

Come sosteneva Walter Benjamin (1892-1940), filosofo e critico letterario tedesco:

« [Il testo di Kant sul terremoto di Lisbona] rappresenta probabilmente l'inizio della geografia scientifica in
Germania, e sicuramente quello della sismologia. »

Kant allargò poi le sue riflessioni su temi morali interpretati secondo la dottrina illuminista:
nell'insistenza sulla catastrofe da parte di alcuni autori, egli vede uno strumento superstizioso per indurre
timore nelle masse, così da ricondurle sotto la cieca sottomissione al potere religioso.

« La paura toglie agli uomini la capacità di riflettere. [… Gli uomini] pensano di mitigare le durezze della
sorte con un atteggiamento di cieca sottomissione che li porta ad abbandonarsi completamente alla grazia
e alla disgrazia. »

« Fra tutte le ragioni che muovono la pietà religiosa, quelle che traggono spunto dai terremoti sono senza
dubbio le più deboli. »

Tuttavia, la sua tesi centrale è volta a dimostrare che i terremoti sono fenomeni naturali prodotti
dalle stesse leggi di natura che reggono ogni altro evento sulla Terra: l'universo di Kant è buono in quanto
ordinato secondo leggi meccaniche impostegli da Dio. Così facendo, egli difende la peculiarità della scienza
moderna, che esclude ogni causa finale, e l'ottimismo metafisico leibniziano.

Così come Rousseau, Kant esamina quindi le colpe degli uomini per il disastro che ha colpito
Lisbona (edifici costruiti con materiali scadenti o in luoghi inadatti che hanno moltiplicato gli effetti
distruttivi), ma in più considera anche gli effetti positivi dei sismi, che portano alla luce acque termali, vene
metallifere, calore, nuova terra fertile. Tuttavia, la questione più importante per Kant resta il fatto che nei
terremoti l'uomo debba ricordarsi della sua limitatezza e cogliere l'insegnamento che gli viene dalla natura
di non considerarsi come il fine unico e supremo dell'universo.

« [L’uomo] non è stato generato per erigere dimore eterne su questo palcoscenico di vanità. »

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Raggiunta la fase più matura del suo pensiero, nel 1791 Kant un saggio intitolato Sul fallimento di
tutti i tentativi filosofici in teodicea: come si può evincere dal titolo, nell’opera Kant evidenzia come
qualsiasi sistema filosofico si era dimostrato fallimentare di fronte alla questione della teodicea. Difatti nel
momento in cui la ragione non si limita a dominare il terreno dell'esperienza, dove pure genera errori e
illusioni, e tende ad agire nell'orizzonte della metafisica, si scontra con problemi irrisolvibili. Sebbene molti
filosofi vedano nella metafisica la totale conoscenza e la vera scienza, secondo Kant questa manca di un
oggetto di indagine definito in modo empirico, e da questo fatto deriverebbero dunque idee di anima e Dio
prive di contenuto concreto.

« La ragione umana, anche senza il pungolo della semplice vanità dell'onniscienza, è perpetuamente
sospinta da un proprio bisogno verso quei problemi che non possono in nessun modo esser risolti da un uso
empirico della ragione... e così in tutti gli uomini una qualche metafisica è sempre esistita e sempre esisterà,
appena che la ragione s'innalzi alla speculazione. »

In considerazione di quanto detto, Kant imposta la questione dell’ottimismo in maniera differente


rispetto a Voltaire e Rousseau, chiedendosi quale valore abbia la vita per l’uomo: essa non deve essere
improntata al piacere e alla felicità, ma si qualifica per ciò che una persona fa conformandosi o meno alla
legge del dovere. L'uomo non deve sfuggire al dolore perché è questo che lo spinge all'azione, mentre se
egli insiste pigramente nel volere la tranquillità del godimento sarà la natura a farlo agire.

Fonti di ricerca:

 www.parodos.it
 www.homolaicus.com
 it.wikipedia.org
 www.filosofico.net
 www.filosofia.it
 meteoterremoti.altervista.org
 www.centrometeoitaliano.it
 La Storia – L’Enciclopedia di Repubblica
 Il pamphlet che scosse le fondamenta della Teodicea, Francesco Tanini
 Voltaire sul terremoto di Lisbona: Il male e la dignità del finito, Roberto Gatti

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