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I rifugi buddhisti di un cristiano: sui rischi di un confronto affrettato

Giuliano Giustarini

Alcuni amici mi hanno inviato un breve scritto di Vito Mancuso, pubblicato sulla sua
pagina Facebook il 17 settembre 2020, chiedendomi un parere. L’ho visto come una
bella occasione per riflettere sulle opportunità e i rischi di un approccio comparativo
alle varie tradizioni religiose, al di là del riferimento specifico alle osservazioni di
Mancuso. Prendo queste come esempio di una situazione più ampia e come spunto
per riflettere sui possibili errori cui possiamo essere indotti quando l’ispirazione
suscitata dai vari insegnamenti non è accompagnata da una sufficiente cautela. Così
ho scritto di getto alcune note, che riporto sotto, dopo la citazione dello stesso post.
L’intento non è di giungere a conclusioni opposte, ma di stimolare altre riflessioni su
un tema che pare appassionare molti.
“C’è un’espressione buddhista che io, pur non essendo buddhista, ripeto spesso dentro di me:
«Prendo rifugio nel Buddha, nel Dharma, nel Sangha». È una formula di preghiera che i fedeli
recitano quotidianamente per tre volte, e che viene detta «presa di rifugio nei tre gioielli».

Per Buddha si intende ovviamente il Buddha storico Siddharta Gautama, ma non solo; si
possono intendere anche tutte le forme di buddhità apparse nel mondo, tutti i profeti e le
profetesse del bene, della pace, della quiete, della verità, della giustizia; soprattutto si intende
la buddhità che ognuno conserva interiormente, quella entità misteriosa che la tradizione
buddhista chiama «isola del sé» (tanto più misteriosa perché il buddhismo nega l’esistenza
dell’anima individuale) e che corrisponde all’energia di consapevolezza; di essa in ambito
cristiano si può parlare in termini di dono dello Spirito Santo, precisamente del primo di essi, la
sapienza. Per Dharma si intende la dottrina di verità esposta dal Buddha e l’insieme di regole
etiche, ma anche l’ordine logico e cosmico, il respiro largo del mondo, la grande armonia, quella
logica complessiva che ha reso possibile la vita, l’intelligenza, il cuore; di essa in ambito
cristiano si può parlare ancora in termini di sapienza, intendendo il termine questa volta non
come una proprietà soggettiva ma come la sapienza creatrice di cui parlano alcuni testi biblici,
Hokmà in ebraico, Agía Sophía in greco, Sancta Sapientia in latino. Per Sangha infine si
intende la comunità, l’aggregazione costituita non sulla base di interessi (economici, politici,
sentimentali, socio-religiosi, pedagogici) ma unicamente sulla base di ideali; di essa in ambito
cristiano si parla come comunità o anche movimento.”

Vito Mancuso, FB, 17 settembre 2020

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Condivido dei punti e resto indubbiamente incantato dal richiamo di Mancuso a uno
sguardo interiore, a bussole, forgiate e donate da tradizioni sapienziali, che dirigono
cammini audaci verso le frontiere del conosciuto. Ciononostante, secondo me il passo
presenta anche alcuni problemi tipici del sincretismo. Uso il termine sincretismo nella
sua accezione più basilare, ovvero come accostamento di elementi presunti simili, o
addirittura identici, senza osservarne differenze significative.
Dal punto di vista del buddhismo, non saprei dire se (e fino a che punto) Mancuso
‘forzi la mano’ intenzionalmente oppure se semplicemente sia poco informato.
Andando per passo, sul primo rifugio: sono d’accordo che si possa parlare di rifugio
nella buddhità interiore (anche il maestro thailandese Ajahn Chah invitava a rifugiarsi
in “colui che sa” dentro di noi), ma sostenere che si tratterebbe di “quella entità
misteriosa che la tradizione buddhista chiama «isola del sé»” mi pare si distanzi dalle
stesse definizioni che, a giudicare dall’uso della stessa espressione, Mancuso
dovrebbe aver letto. Nel Mahāparinibbānasutta (Dīgha Nikāya 16) il Buddha offre, tra
gli ultimi insegnamenti, quello di avere come rifugio se stessi. L’espressione è attadīpā
attasaraṇā: grammaticalmente si chiamano bahubbīhi samāsa, e non si traducono
come fa Mancuso ma come “siate voi stessi un’isola, siate voi stessi un rifugio”. Qui
atta (come in tanti punti del canone, ma anche dell’intera letteratura pāli o sanscrita o
gāndhārī) è semplicemente un pronome riflessivo: non è un’entità misteriosa, non è
“lo stesso sè che viene negato” etc.
Sullo stesso punto, Mancuso ha ragione a dire che quel rifugio è la consapevolezza
(come lo stesso passo del DN 16 afferma), ma piuttosto che usare la locuzione
“energia di consapevolezza” avrebbe dovuto dire “esercizi di consapevolezza”: per
spiegare attadīpā attasaraṇā il Buddha elenca la formula breve dei quattro
satipaṭṭhāna, ovvero spiega come applicare la consapevolezza su oggetti prestabiliti.
Usare termini come “energia di consapevolezza” per definire il sé, che a sua volta
sarebbe un’entità misteriosa, mi pare fuorviante rispetto al contenuto delle scritture
buddhiste.
La possibile definizione della consapevolezza in ambito cristiano come di un “dono
dello Spirito Santo” potrebbe funzionare nel cristianesimo (credo), ma demarca una

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distinzione ben precisa tra lo stesso cristianesimo e il buddhismo. La consapevolezza
non è un dono di chicchessia, e il concetto di Spirito Santo è assente (come lo è quello
di un dio permanente, creatore ex nihilo).

Sul secondo rifugio. Il Dharma (pāli Dhamma) è in effetti ciò che sostiene (Ѵdhṛ):
l’insegnamento del Buddha e la verità in esso contenuta. Tuttavia mi pare che
Mancuso vi ascriva qualifiche meno appropriate quando arriva a “il respiro largo del
mondo, la grande armonia, quella logica complessiva che ha reso possibile la vita”.
Queste sono definizioni che personalmente non ho trovato nei testi buddhisti, e che
forse presentano il rischio di aggiungere erroneamente una colorazione rosea, di
sostanziale bellezza, al condizionato. Occorre ricordare che nel buddhismo tutto ciò
che è “creato/fatto, composto” è il saṃsāra, il ciclo continuo di rinascite nei vari mondi
e dimensioni, un ciclo che è limitato, in continua trasformazione, essenzialmente
affetto da sofferenza (dukkha) e inaffidabile. Sebbene spesso nei testi si dica che si
può praticare per dimorare in una prossima vita in dimensioni felici all’interno del
saṃsāra (temporeanamente), compito ultimo è il trascendere completamente, senza
residui, il saṃsāra. La liberazione è il nibbāna (nirvāṇa), il Dharma non fatto, non
composto, non nato, al di là del saṃsāra.

Sul terzo rifugio, il Saṅgha, mi sento in buona parte d’accordo, sebbene “sulla base di
ideali” mi sembri un’espressione un po’ vaga. Nei testi canonici il Saṅgha si adopera
alla coltivazione dei fattori elencati e descritti nell’ottuplice sentiero. In questo senso
trovo sensata una definizione generica di Saṅgha come una comunità certamente più
ampia di quella specificamente buddhista, includendo tutti coloro che seguono un’alta
aspirazione di bene.

È lodevole che Mancuso ‘tenga aperte le porte’ sottolineando i punti di contatto tra
varie tradizioni, in questo caso tra buddhismo e cristianesimo. L’altro lato della
medaglia però è che si perdano caratteristiche rilevanti delle rispettive tradizioni.
Secondo me le distinzioni sono necessarie, non sono mere barricate (o almeno non
dovrebbero esserlo). Non essendo ferrato nel cristianesimo, non saprei dire se e quali
aspetti cruciali del cristianesimo si perdano in un paragone con i rifugi buddhisti, ma
sospetto che un teologo ne troverebbe.

Sempre in riferimento ai rifugi buddhisti, sottolinearne la portata universale ha


indubbiamente il merito di rivolgersi a quanti avvertono uno slancio verso quella che

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si potrebbe chiamare ricerca interiore e di rendere questi strumenti accessibili; allo
stesso tempo, tuttavia, li rende un po’ superficiali, perché li spoglia di quelle qualità
che li caratterizzano e che rendono possibile avanzare in un cammino via via sempre
più distinto: se tutte le direzioni sono uguali, perché dovrei adoperarmi a percorrerne
una? E le direzioni sono davvero uguali o convergenti? Oppure la tesi che lo siano
richiede una manipolazione dei contenuti testuali (magari con buone intenzioni) al
servizio di un’interpretazione preconcetta?

***

Il post di Mancuso ha comunque il merito di sollevare un interrogativo che potrebbe


incontrare le esigenze di molti che, appassionati alle tecniche meditative buddhiste
oggi diffuse, si trovano a collocarle in un orientamento culturalmente diverso da quello
da cui provengono. Nella fattispecie, la domanda sollevata è: un cristiano può
prendere i rifugi buddhisti e restare cristiano? Ovviamente la domanda può restare
totalmente insignificante in un universo semantico in cui definizioni come ‘buddhista’
o ‘cristiano’ sono semplicemente delle etichette. E personalmente, manterrei viva
l’opzione che lo siano davvero e che la vera domanda sia un’altra, cioè se prassi e
dottrina cristiana possono rimanere tali o magari anche migliorarsi con una presa di
rifugio nel Buddha, nel Dharma e nel Saṅgha. Augurandomi di sì, lascio la domanda
senza risposta ma ne vorrei esaminare alcune basi: quanto occorre cambiare il senso
delle proposizioni buddhiste affinché queste suonino come cristiane o come universali
(e perciò ‘anche’ cristiane)?

Mancuso sembra operare delle equazioni abbastanza arbitrarie tra lessico buddhista
e cristiano. Un po’ come se ci trovassimo di fronte a due descrizioni di oggetti e li
equiparassimo perché entrambi emettono luce e mostrano delle lettere, ma uno
potrebbe essere l’insegna al neon di un ristorante e l’altro lo schermo di un computer:
gli oggetti avrebbero caratteristiche diverse e scopi diversi. Due o tre similitudini
generiche non sono sufficienti a indicare un’identità di fondo. Oppure, a un livello un
po’ più sottile, possiamo osservare due veicoli e convenire che sono due treni, e
concludere che sono identici e portano alla stessa destinazione. A un’osservazione
un po’ più attenta, ci accorgeremo che uno è un treno super-veloce, magari un
Frecciarossa o Italo, è l’altro è un treno più vecchiotto, meno aerodinamico, con molta
probabilità un treno regionale. Se prendiamo il primo ci ritroveremo in poche ore da

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Roma a Milano, se prendiamo il secondo ci ritroveremo (forse in un tempo più lungo,
come sanno i pendolari) da Roma a Viterbo. Oppure i due treni sono sostanzialmente
uguali, magari sono anche gli stessi tipi di treni, ma non possiamo dire che in ragione
di questa identità portano alla stessa destinazione: confondendoli possiamo andare a
Palermo invece che a Milano.

Mi rendo conto della banalità degli esempi, eppure i sincretismi rischiano di poggiare
su osservazioni più superficiali di queste: due o tre similitudini (spesso espresse in
lingue diverse e distanti, il che dovrebbe suggerire ulteriore cautela) sono talvolta
sufficienti a concludere che due concetti chiave di due rispettivi sistemi filosofici o
religiosi siano necessariamente identici. Possono esserlo, ovviamente, ma è difficile
saperlo, anche dopo le indispensabili analisi e studi approfonditi.

Il vantaggio della comparazione è nelle chiavi esegetiche che offre, mostrando un


concetto da angolazioni inusuali e potenzialmente svelandone sfaccettature diverse.
C’è ovviamente il prezioso intrecciarsi di sentieri, incontri, esperienze, conoscenze
che, mostrando vasti panorami, ispira viandanti. Ma c’è anche il rischio del “lost in
translation”, del perdere i significati, o di appiattirli cancellandone sfumature che sono
tutt’altro che superflue, come non è superfluo, in una stazione di treni, il cartello sul
binario che indica la destinazione e le tappe del viaggio.

(Roma, 19 settembre 2020)

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