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Ananda K. Coomaraswamy
Buddha e la dottrina del buddhismo
Luni Editrice

Titolo originale: Buddha and the Gospel of

Buddhism

Edizione tradotta e curata da Giuditta Sassi


1964, 1969 University Books, Inc. - U.S.A.
ISBN 0-8065-1098-6
1994 Luni Editrice - Milano
ISBN 88-7984-011-8

Introduzione
Il maggior merito di questo libro, merito che da solo lo rende degno ancor oggi
della massima attenzione anche se fu scritto nel 1916 (o forse proprio per
questo), che il suo approccio al Buddhismo, e in generale alle dottrine
dell'Oriente, radicalmente diverso da quello degli orientalisti occidentali.
In esso infatti Ananda K. Coomaraswamy, invece di limitarsi a prenderle in
considerazione "dall'esterno" come fanno questi ultimi (che poi fatalmente le
presentano deformate dal filtro delle loro idee preconcette), affronta la
"storia" e la dottrina del Buddhismo "dal di dentro", dopo essersi sforzato,
cio, di assimilarsele per come esse sono, e cercando in seguito, senza
sfigurarle, di esporle in modo che siano comprensibili da parte di chi, per
nascita e per abitudini mentali acquisite, molto lontano da esse.
Questo procedimento per cos dire "organico" e certo non facile, presuppone,
come si pu immaginare, una preparazione e delle predisposizioni non comuni; se
si pensa, poi, che all'epoca in cui il libro fu scritto le sole pubblicazioni
esistenti sul Buddhismo nell'area delle lingue europee erano quelle prodotte
dall'orientalismo "ufficiale", la considerazione per quest'opera non pu che
aumentare, fino al punto di giustificarci se diciamo che essa rappresenta
probabilmente, in qualche modo, il primo tentativo fatto nel mondo occidentale
di accostare una dottrina orientale secondo il suo spirito. Se vero che nel
tempo la seguirono altre, di Coomaraswamy stesso e di altri autori, primo fra
tutti Ren Gunon in Francia (con il quale Coomaraswamy collabor intensamente a
partire da una certa epoca e fino alla morte), che chiarirono e approfondirono
ulteriormente alcune concezioni generali, anche importanti, che in essa non
ricevono ancora una luce sufficiente, altres vero che questo lavoro di
conoscenza, di rettificazione di ipotesi preesistenti e di vera e propria
scoperta delle dottrine tradizionali orientali a beneficio dell'Occidente, si
presentava di mole cos poderosa da non poter essere esaurito n da un solo
libro, n da un autore da solo.
Bench nel corso della nostra fatica di traduzione (l'inglese di Coomaraswamy si
presenta a tratti impervio), ci abbia colto pi volte la tentazione di inserire
gi in questo volume i risultati di tali ricerche successive, cosa per attuare
la quale in alcuni casi sarebbe stato sufficiente modificare pochi termini - ma
che in altri ci avrebbe condotto a pi laboriosi interventi esplicativi -,
abbiamo alla fine deciso di mantenere costantemente invariata la terminologia
adottata dall'autore, e questo, principalmente per il rispetto che proviamo nei
confronti di un lavoro che giudichiamo serio e decisamente coraggioso.
Ci sia per permesso dare qui, una volta per tutte, alcuni avvertimenti al
lettore su qualcuno dei punti di interpretazione delle dottrine orientali che in
questo libro non ricevono ancora il trattamento che riserver loro lo stesso
Coomaraswamy nelle sue numerosissime trattazioni successive; ci non sminuir
assolutamente il valore di quest'opera, aiuter anzi coloro che abbiano gi
qualche dimestichezza con i lavori di Coomaraswamy a orizzontarsi, e in fondo
non far che inserirsi in quello sforzo per favorire la conoscenza del vero
Oriente da parte degli Occidentali a cui questo autore consacr tanto tempo

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della sua vita.


La storia della vita del Buddha e i numerosi frammenti di "leggende" che, dando
vita e profumo a questo libro, rendono ragione della dottrina buddhistica
attingendo alle sue fonti meno conosciute, mostrano come il Buddhismo parta
dalla constatazione che tutto ci che esiste, se ci si limita a considerarlo
nelle sue apparenze esteriori, intaccato dall'illusione, la quale si manifesta
agli uomini sotto le caratteristiche della transitoriet del mondo, e come
l'unica soluzione per sfuggire a questo stato di cose, la cui constatazione la
causa del dolore, sia di prendere prima di tutto chiara coscienza di tale
illusoriet e di ricercare poi, sotto di essa, e al di l di essa, quel che
immutabile, e costituisce la vera "radice" delle cose. Raggiungere questa
"radice", la quale non pu non esserci, perch presupporre una simile assenza
equivarrebbe a negare la realt dell'universo, costituisce la Liberazione e fa
una sola cosa con la realizzazione dell'essere, obiettivo di pura conoscenza.
Questo obiettivo, che di ordine universale e trascende ogni limitazione, non
va confuso con la salvezza, "termine tecnico" che nelle religioni ha per
significato la conservazione delle limitazioni, o almeno di alcune di esse,
costituenti propriamente l'individualit umana, stato ancora transeunte
dell'essere. Del resto, in generale, le religioni assumono che la salvezza,
frutto delle opere, sia uno scopo che ci si rende conto di aver raggiunto o no
solo dopo la morte, o scioglimento del composto umano, mentre la Liberazione (o
Nibbana secondo la terminologia buddhistica), proprio perch di natura
conoscitiva, o puramente intellettuale, si pu ottenere "qui e ora", cosa che
del resto Coomaraswamy fa notare ripetutamente anche in questo libro.
Come si pu dedurre da quanto abbiamo detto, si tratta di due fini di natura
profondamente diversa, non foss'altro che per i domini differenti in cui si
situano, l'universale l'uno, l'individuale l'altro; l'Occidente moderno, dal
quale scomparsa la vera metafisica, non conosce (molto spesso neanche
riconosce) la possibilit del primo ordine, e quando si trova in presenza di
espressioni di questa possibilit non pu far altro che riportarle, abbassandole
di livello, a quanto gli noto, che corrisponde solo alle possibilit del
secondo ordine. Questo spiega, in modo indubbiamente troppo schematico, ma
tuttavia sufficientemente approssimato alla realt, perch sia della pi grande
importanza per la comprensione corretta delle dottrine orientali, distinguere
anche tra esse e lo stesso "misticismo" di cui sono restate tracce in Occidente,
"misticismo" che si situa, quantunque a un rango indubbiamente elevato, ancora
all'interno delle possibilit individuali. Anche se si riscontrano talvolta
rassomiglianze di terminologia nelle espressioni scritte delle dottrine dei due
tipi, le realt a cui fatto riferimento sono diverse, e il non tenerne conto
non pu che provocare le confusioni pi incresciose.
Ci deve aver presente il lettore del libro, ma questo non gli impedir certo di
apprezzare nel suo pieno valore tutto quel che di positivo, ed molto, esso
contiene. Ci non gli impedir di apprezzare, ad esempio, il fatto che A. K.
Coomaraswamy ha con esso sfatato, per la prima volta in Occidente, l'idea falsa
che il Buddhismo sia "pessimistico"; o, cosa di un'importanza ancora pi
rilevante, il fatto che vi abbia sostenuto l'assenza di una reale opposizione
tra il Buddhismo ortodosso e l'Induismo, tradizione dalla quale il primo ha in
fondo tratto le sue origini: le delucidazioni dottrinali, di cui ricca
l'opera, mostrano come l'autore fosse gi ben cosciente (e questo un altro - e
non il minore - dei suoi meriti) che le espressioni formali specifiche del
Buddhismo sono soltanto un veicolo diverso per quelle verit immutabili che
costituiscono l'essenza di ogni dottrina realmente tradizionale.
Sugli sviluppi a cui diede luogo il Buddhismo originario, vale a dire su quelle
sue ramificazioni o scuole diverse che nel loro insieme possono raggrupparsi
nelle due grandi divisioni che portano il nome di Mahayana (la "Grande Via") e
di Hinayana (la "Piccola Via"), Coomaraswamy, al momento in cui scrisse questo
libro, pare non avesse ancora ragione per non associarsi all'interpretazione
degli orientalisti. Diamo qui, a integrazione di quel che egli dice
sull'argomento, il parere che poco pi tardi espresse Ren Gunon nella sua
prima opera: "Si pu dire che solo il Mahayana rappresenta davvero una dottrina
completa, incluso l'aspetto propriamente metafisico che ne costituisce la parte
superiore e centrale; lo Hinayana invece sembra una dottrina in qualche modo
ridotta al suo aspetto pi esterno e che non va oltre quanto comprensibile
alla maggioranza degli uomini...".

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Prefazione dell'autore
Con questo libro abbiamo voluto esporre, appoggiandoci sulle scritture
buddhistiche, i fondamenti dottrinali del Buddhismo nel modo pi semplice
possibile, e mettere i sistemi buddhistici in relazione, da un lato, con i
sistemi brahmanici da cui traggono origine, e, dall'altro, con quelli tra i
sistemi del misticismo cristiano che presentano con essi le analogie pi
strette. Contemporaneamente, abbiamo cercato di illustrare il ruolo che il
pensiero buddhista ha avuto nello sviluppo complessivo della cultura asiatica, e
di far intravedere, almeno in parte, l'importanza che pu ancora presentare per
i pensatori moderni.
Certo la via del Buddha non si occupa direttamente dell'ordine del mondo,
giacch invita gli uomini superiori ad abbandonarne piuttosto la scena.
Sennonch l'ordine del mondo pu essere stabilito solo su un fondamento di
conoscenza: qualsiasi male , in ultima istanza, riconducibile all'ignoranza.
Per cui necessario riconoscere il mondo per quello che esso realmente .
Gautama ci insegna che le caratteristiche di questa vita sono l'imperfezione, la
transitoriet, l'assenza di immutabilit in ci che solo individuale. Egli ci
propone un summum bonum che strettamente legato con la concezione mistica
cristiana del "disprezzo di s". Siamo in presenza di affermazioni ben definite
che possono essere o vere, o false, e di un altrettanto ben definito obiettivo,
che possiamo anch'esso o accettare, o rifiutare. Se le affermazioni sono false e
l'obiettivo indegno d'attenzione, sarebbe lo stesso della pi grande
importanza che le prime siano refutate e il secondo provato tale. Se poi la
diagnosi corretta e lo scopo valido, varrebbe comunque la pena che ci sia
riconosciuto erga omnes. Non possiamo desiderare, infatti, che venga perpetuata,
quale fondamento della nostra socialit, una concezione della vita
dimostrabilmente falsa, o uno scopo dimostrabilmente contrario al nostro
concetto di bene.
Questo libro perci da intendersi, non come un'ulteriore aggiunta alle nostre
gi sovraccariche biblioteche di informazioni, ma come un contributo
caratterizzato alla filosofia di vita. Lo studio dei modi di pensare e di
sentire degli altri, perch possa servirci realmente a qualcosa, dev'essere
provocato da ben altro che dalla curiosit o dal desiderio di trovare
giustificazioni per il nostro proprio sistema. Perch la civilt del mondo sia
una civilt comune, necessitiamo di una comune volont, vale a dire del
riconoscimento dei problemi che ci sono comuni, e della collaborazione di tutti
per risolverli. In un'epoca come la nostra, in cui il mondo occidentale sta
incominciando a rendersi conto di aver fallito nel suo tentativo di cogliere il
frutto della vita attraverso una societ fondata sulla concorrenza e
sull'autoaffermazione, c' un profondo significato nella scoperta del pensiero
asiatico, pensiero in cui si afferma con non flebile voce che il frutto della
vita pu essere colto soltanto in una societ fondata su concezioni di ordine
morale e di responsabilit reciproca. Mi si permetta di illustrare con un'unica
citazione il meraviglioso realismo e la sincerit di quell'etica sociale alla
quale la psicologia del Buddhismo concede il suo assenso: la vittoria genera
l'odio, perch il vinto infelice.
Sono molti i racconti di sovrani asiatici disposti a pagare il prezzo del
proprio regno per una sola parola di consiglio utile. Ci si potrebbe chiedere
con molta ragione se l'Europa, prima di arrivare al punto in cui , non avrebbe
avuto interesse a non considerare nessun prezzo troppo alto per un
riconoscimento generalizzato di questa verit. C' un altro passo, dallo Jataka
del cervo Ruru, che probabilmente unico in tutta la letteratura per la sua
sublime tenerezza e cortesia: Giacch, chi - chiede il Bodhisattva - si
servirebbe a cuor leggero di un linguaggio duro verso coloro che han commesso
una colpa, spargendo il sale, se cos si pu dire, sopra la ferita del loro
errore?
con doni come questo che il Buddhismo, e l'Induismo da cui esso uscito e nel
quale si riimmerso, si ergono contro il mondo del permissivismo, richiedendo
ai loro seguaci soltanto l'abbandono di ogni risentimento, cupidigia, e
ottusit; ed offrendo in cambio una felicit e una pace che sono al di l di
ogni nostra razionale comprensione. Possiamo forse negare che modi di pensiero

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che sanno trovare simile espressione suscitano la nostra simpatia pi profonda e


il nostro pi intenso interesse? Non possibile che l'affrancamento dal
risentimento, dalla cupidigia e ottusit siano sempre fuori tempo: ed proprio
su questa liberazione che costruito l'aspetto etico del Nibbana, l'aspetto
psicologico del quale l'oblio di s.
Si vedr chiaramente fino a che punto sono indebitato con il lavoro di altri
eruditi e studiosi, e qui desidero esprimere un franco e riconoscente
ringraziamento a tutti coloro dai cui lavori ho attinto citazioni, in
particolare al Professore e alla Signora Rhys Davids e al Professor Oldenberg.
Alcuni suggerimenti saranno utili come guida alla pronuncia. Le vocali in
generale si pronunciano come in italiano. Ogni consonante pronunciata
distintamente, e le aspirate si fanno sentire chiaramente. C ha il suono dolce,
mentre s in alcuni casi ha il suono di sh, come in Siva, Isvara, Sankara, ecc.
L'accento cade sulla prima sillaba o sulla terza, raramente o mai sulla seconda.
Certe parole, come kamma, Nibbana, Bodhisatta, ecc., sono riportate in queste
forme pali quando si tratta di Buddhismo Hinayana, e nelle pi familiari forme
sanscrite, come karma, Nirvana, Bodhisattva, quando si fa riferimento al
Mahayana.
A. Coomaraswamy
I will go down to self-annihilation and eternal death lest the Last Judgment
come and find me unannihilate, and I be seiz'd and giv'n into the hands of my
own Selfhood.
Scender fino alla negazione di me e alla morte eterna, per tema che il Giudizio
Finale, giungendo, mi trovi non ancora annullato, e io sia afferrato e
riconsegnato nelle mani della mia Individualit.
Blake, "Milton"
Ma, ohim, quant' duro per la Volont immergersi nel nulla, nulla attrarre,
nulla immaginare. Che cos sia, siatene certi. Ma non ne vale forse la pena, pi
di qualsiasi altra cosa si possa fare?
Boehme, "Dialoghi"
Not I, not any one else can travel that road for you.
You must travel it for yourself
N io, n nessun altro possiamo percorrere questa strada per te.
Devi percorrerla da te stesso.
Walt Whitman
Non metterai mai i piedi nella stessa acqua, giacch nuove acque ti si
rovesciano continuamente addosso.
Eraclito
Vraiement comencent amours en ioye et fynissent en dolours.
Invero, cominciano gli amori in gioia e in dolore finiscono.
Merlino
Per uomo senza passioni intendo chi non lascia che bene e male commuovano la sua
bilancia interna, ma si accomoda piuttosto a qualsiasi cosa accada, in modo
naturale, e nulla aggiunge alla somma della sua mortalit.
Chuang-tzu
Profonda, o Vaccha, questa dottrina, recondita e difficile da capire; buona,
eccellente, e non afferrabile con il semplice ragionamento, sottile e solo
intelligibile ai Saggi. Ed una dottrina ardua da assimilare per te, che
appartieni a un altro gruppo umano, che sei di un'altra fede, che hai altre idee
e un'altra disciplina, e siedi ai piedi di un altro Maestro.
Majjhima Nikaya, "Sutta 72"

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Parte prima - La vita del Buddha


La sua nascita
Il nome Buddha, "il Conoscitore", "l'Illuminato", "il Risvegliato"
l'appellativo con il quale il monaco errante e predicatore Gautama divenne pi
noto ai suoi discepoli. Su quest'uomo possiamo dire con una certa sicurezza che
nacque nell'anno 563 a.C. e mor nel 483 a.C. Era l'erede di una casa regnante
dei Sakya, il cui piccolo regno, una ricca pianura irrigata tra le colline
nepalesi ed il fiume Rapti, si trovava a Nord-Est dell'attuale provincia di
Oudh. A Sud-Ovest era situato il pi esteso e pi potente regno dei Kosala, ai
quali i Sakya dovevano un'obbedienza nominale. Il nome proprio del Buddha era
Siddhattha, il suo nome di famiglia Gautama, il nome di suo padre Suddhodana e
quello di sua madre Maya. solo in una leggenda posteriore che Suddhodana viene
rappresentato come un grande re; molto pi verosimilmente era invece un ricco
vassallo e possidente terriero. La madre di Siddhattha mor sette giorni dopo la
sua nascita, e sua sorella Mahajapati, un'altra moglie di Suddhodana, prese il
posto della madre per il giovane principe. Fu allevato a Kapilavatthu, un'attiva
capitale di provincia; apprese le arti marziali, l'equitazione, la vita all'aria
aperta in generale, e tutte le discipline cavalleresche, ma nei primi libri non
menzionato che fosse istruito nella dottrina brahmanica. In accordo con l'uso
dei giovani benestanti, abitava in tre diverse case in inverno, estate, e nella
stagione piovosa; queste case erano provviste di parchi ben curati e di una
buona quantit di comodi lussi. E documentato che si spos, ed ebbe un figlio,
di nome Rahula, che in seguito divenne suo discepolo. Siddhattha risentiva
dell'inquietudine intellettuale e spirituale della sua epoca, ed avvertiva una
crescente insoddisfazione per il mondo di piaceri in cui si muoveva,
un'insoddisfazione che traeva origine dalla constatazione della sua
transitoriet ed incertezza, e dalla dipendenza dell'uomo da tutti gli
inconvenienti della mortale condizione umana. Suddhodana temeva che questi
pensieri avrebbero portato alla perdita di suo figlio, che sarebbe diventato un
eremita, com'era la tendenza dei pensatori dell'epoca; questi timori erano
effettivamente ben fondati, poich a dispetto di tutti i piaceri e lussi che si
poterono escogitare per trattenerlo, Siddhattha alla fine lasci la sua casa per
adottare la "vita senza fissa dimora" del "pellegrino", come cercatore di quella
verit che sarebbe servita a liberare tutti gli uomini dalla schiavit della
mortalit. Egli trov questa illuminazione dopo anni di ricerca. Dopo di che,
durante un lungo ministero come predicatore errante, insegn le Quattro Verit
degli Ariya e l'Ottuplice Via; attirando molti discepoli, fond un ordine
monastico come rifugio per gli uomini superiori, i cercatori della libert
eterna e della pace immutabile. Mor a ottant'anni. Dopo la sua morte i suoi
discepoli riunirono le "Parole dell'illuminato" e da questo nucleo si svilupp,
nel corso di pochi secoli, l'intero corpo del Canone pali, e finalmente, con
un'elaborazione appena differente, l'intero corpo dei Mahayana Sutra. Che gran
parte della storia rappresenti fatti reali non solo ben possibile, ma
estremamente probabile; perch in ci non c' nulla che non sia in perfetto
accordo con la vita di quell'epoca e con il naturale sviluppo del pensiero
indiano. Sappiamo, per esempio, che molti gruppi di asceti erranti erano
impegnati nella stessa ricerca e che erano in gran parte reclutati in
un'aristocrazia intellettuale e sociale per la quale le pretese dei sacerdoti
brahmanici non erano pi accettabili e che non aveva minore ostilit nei
confronti dei molteplici culti di animismo popolare.
Siamo a conoscenza del nome di almeno un altro principe asceta, Vardhamana, un
contemporaneo del Buddha, e fondatore del sistema monastico dei Jaina.
Il Buddha leggendario
Ma mentre facile estrarre dai libri buddhistici un nucleo di fatti come quello
sopra delineato, il materiale per una biografia pi circostanziata del Buddha,
tenuto conto della sua vastit, non pu essere interpretato come storico nel
senso scientifico del termine. Comunque sia, molto pi importante della cronaca

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dei fatti l'espressione di tutto ci che tali fatti, cos come furono capiti,
significarono per coloro per i quali costituirono un'ispirazione vivente; ed
proprio questa espressione di ci che la vita del Buddha signific per i
Buddhisti - o Baudhha, come sono pi propriamente chiamati i seguaci di Gautama
-, che troviamo nelle vite leggendarie, quali il Lalitavistara, con cui i
lettori occidentali hanno pi familiarit per averlo gi trovato nel libro Light
of Asia, di Sir Edwin Arnold. Per la qual cosa, riporteremo qui la vita del
Buddha, in modo abbastanza dettagliato, desumendola dalle varie fonti indicate
[Principalmente il Nidanakatha (Introduzione al Pali Jataka), il Maha
Parinibbana Sutta, e il Lalitavistara], senza tener conto del fatto che esse
presuppongono uno sviluppo dottrinale che pu aver avuto luogo solo dopo la
morte del Buddha; e questo perch gli elementi miracolosi e mitologici sono
sempre molto trasparenti e artistici. La storia del Buddha incomincia con la
risoluzione del Brahmano Sumedha, molto tempo prima, di diventare un Buddha in
qualche cielo futuro di manifestazione, in modo da diffondere intorno a s la
verit salvatrice e di essere d'aiuto per l'umanit sofferente. Or sono
innumerevoli epoche, questo Sumedha, ritiratosi un giorno nella stanza pi
elevata della sua casa, sedutosi ritualmente, si concentr fermamente sul
pensiero:
"Sono soggetto alla nascita, alla decadenza, alla malattia, alla morte;
giusto, allora, che mi sforzi per conquistare il gran Nibbana immortale, che
tranquillo, e libero da morte e decadenza, malattia, tristezza e felicit.
Sicuramente ci dev'essere una via che porta al Nibbana e che libera l'uomo
dall'esistenza".
Conseguentemente, don tutta la sua ricchezza e adott la vita di eremita nella
foresta. A quel tempo Dipankara Buddha apparve nel mondo, e raggiunse
l'illuminazione. Avvenne che un giorno Dipankara Buddha passasse da quelle
parti, con uomini che gli spianavano la strada. Sumedha chiese ed ottenne il
permesso di unirsi al lavoro, ma non esegu solo quello. Quando Dipankara
arriv, Sumedha si distese nel fango, in modo che il Buddha potesse camminare
sul suo corpo senza inzaccherarsi i piedi. Allora l'attenzione di Dipankara si
rivolse a lui ed egli si rese conto dell'intenzione di Sumedha di divenire un
Buddha, e, guardando nel futuro, attraverso innumerevoli anni, vide che sarebbe
divenuto un Buddha con il nome di Gautama, e gli predisse l'avvenire di
conseguenza. Allora Sumedha si rallegr, e, respingendo l'immediata prospettiva
di divenire un Arahat, come discepolo di Dipankara, si disse:
"Meglio che io, come Dipankara, dopo essermi elevato alla suprema conoscenza
della verit, renda tutti gli uomini capaci di salire sul vascello della verit,
e gli possa in tal modo far attraversare il Mare dell'Esistenza; e solo allora
possa io stesso realizzare il Nibbana".
L'incarnazione del Buddha
Quando Dipankara con tutti i suoi seguaci fu passato, Sumedha esamin le dieci
perfezioni indispensabili per raggiungere lo stato di Buddha e decise di
praticarle nelle sue future vite. Cos avvenne, finch nell'ultima di queste
vite il Bodhisatta rinacque come Principe Vessantara, che esib la perfezione
della generosit soprannaturale, e al tempo dovuto trapass e dimor nel Cielo
dei Piaceri. Quando per il Bodhisatta fu giunto il tempo di ritornare sulla
terra per l'ultima volta, le divinit dei diecimila sistemi universali si
riunirono, e, avvicinando il Bodhisatta nel Cielo dei Piaceri, dissero:
"Ora giunto il momento, o Beato, per il tuo raggiungimento dello stato di
Buddha; adesso il tempo, o Beato, arrivato!"
Allora il Bodhisatta consider il tempo, il continente, il distretto, la trib,
e la madre, e, avendoli determinati, assent, dicendo:
"O Beati, giunto il tempo per me, di divenire un Buddha".
Ed anche se stava passeggiando nel Boschetto della Contentezza, lo lasci
volentieri, e fu concepito nel ventre della signora Maha Maya. Le modalit della
sua concezione sono spiegate come segue. All'epoca della festa di mezza estate a
Kapilavatthu, Maha Maya, la moglie di Suddhodana, si coric nel suo letto e fece
un sogno. Sogn che i quattro guardiani dei punti cardinali la sollevavano e la
trasportavano sull'Himalaya, dove la immersero nel lago Anotatta, e quindi ella
giacque a riposare su un giaciglio celeste all'interno di una dimora aurea sulla

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Collina d'Argento. Allora il Bodhisatta, che si era trasformato in un


bell'elefante bianco, e teneva nella proboscide un fiore di loto bianco, si
avvicin dal Nord e sembr toccare il suo fianco destro e penetrare nel suo
ventre. Il giorno seguente, quando si svegli, la donna raccont il sogno al suo
signore, ed esso fu interpretato dai Brahmani nel modo seguente: che la signora
aveva concepito un figlio d'uomo che, se avesse adottato la vita del padre di
famiglia, sarebbe divenuto un monarca universale; ma se avesse adottato la vita
religiosa sarebbe divenuto un Buddha, che avrebbe rimosso dal mondo i veli
dell'ignoranza e del peccato. Si dice anche che nel momento dell'incarnazione i
cieli e la terra mostrarono segni, i muti parlarono, gli zoppi camminarono,
tutti gli uomini cominciarono a parlare gentilmente, gli strumenti musicali
suonarono da soli, la terra si ricopr di fiori di loto, che scendevano dal
cielo, e tutti gli alberi fiorirono. Dal momento dell'incarnazione in poi, per
di pi, quattro angeli sorvegliarono il Bodhisatta e sua madre, per preservarli
da ogni male. La madre non si sentiva affaticata, e poteva percepire il bambino
nel suo ventre con la stessa chiarezza con cui si pu vedere il filo in una
gemma trasparente. La signora Maha Maya port cos il Bodhisatta per dieci mesi
lunari; alla fine di quel tempo, espresse il desiderio di andare a trovare la
sua famiglia a Devadaha; e intraprese il viaggio. Sulla strada tra Kapilavatthu
e Devadaha c'era un bosco di alberi sal che apparteneva ad entrambe le citt, e
che al tempo del viaggio della regina era pieno di frutti e fiori. In quel luogo
la regina ebbe il desiderio di riposare, fu portata presso il pi grande degli
alberi sal, e si ferm sotto di esso. Come alz una mano per afferrare uno dei
suoi rami le vennero le doglie e cos, in piedi e tenendo il ramo, partor.
Quattro angeli di Brahma ricevettero il bambino in una rete d'oro, e lo
mostrarono alla madre, dicendo:
"Rallegrati, o Signora! Ti nato un grande figlio".
Il bimbo si mise in piedi, fece sette passi, e grid:
"Sono supremo nel mondo. Questa la mia ultima nascita: in seguito non ci
saranno pi nascite per me!"
Contemporaneamente vennero alla luce i sette "connati", [o "nati nello stesso
tempo"] cio, la madre di Rahula; Ananda, il discepolo favorito; Channa, il
servitore; Kanthaka, il cavallo; Kaludayi, il ministro; il grande albero Bodhi;
e i vasi del Tesoro.
Kala Devala
Quando il Bodhisatta nacque ci fu grande gioia nel Cielo delle Trentatr
Divinit. A quel tempo anche un certo eremita di nome Kala Devala, un Adepto,
concentrato in samadhi, visit il Cielo dei Trentatr, e vedendo i rallegramenti
ne conobbe la causa. Torn immediatamente sulla terra, e si diresse al palazzo,
chiedendo di vedere il neonato. Il principe fu condotto a salutare il grande
Adepto, che si alz dal suo sedile e river il bambino, dicendo:
"Non posso certo provocare la mia distruzione"; perch se il bimbo si fosse
inchinato ai suoi piedi, la testa dell'eremita si sarebbe aperta in due davanti
ad un fatto cos contrario all'ordine naturale. Allora l'Adepto proiett la sua
visione avanti e indietro di quaranta periodi cosmici, e percep che il bambino
sarebbe divenuto un Buddha nella sua nascita presente; ma vide anche che lui
stesso sarebbe morto prima che avvenisse la grande illuminazione e sarebbe
rinato nel Cielo Informale; sarebbero dovuti apparire un centinaio o forse anche
un migliaio di Buddha prima che trovasse l'opportunit di divenire il discepolo
di uno di loro; vedendo questo, pianse. Chiam, comunque, suo nipote, che era un
padre di famiglia, e gli consigli di diventare eremita, perch dopo
trentacinque anni avrebbe ricevuto l'insegnamento del Buddha; questo stesso
nipote, di nome Nalaka, in seguito entr nell'ordine e divenne un Arahat.
Il quinto giorno vennero eseguite le cerimonie del nome, e il bambino fu
chiamato Siddhattha (Siddhartha). In questa occasione tra i Brahmani erano
presenti otto indovini; e di questi, sette predissero che il bambino sarebbe
divenuto un monarca universale o un Buddha; ma l'ottavo, di nome Kondanna,
predisse che sarebbe sicuramente divenuto un Buddha. Questo stesso Kondanna in
seguito fu uno dei cinque primi discepoli del Buddha.
Poi il padre del principe chiese:
"Cosa vedr mio figlio, che gli causer l'abbandono della vita di padre di

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famiglia?"
"I quattro segni", fu la risposta, "un uomo consumato dalla vecchiaia, un uomo
malato, un cadavere e un eremita".
Allora il re decise che questi segni non sarebbero mai stati visti da suo
figlio, perch non desiderava che divenisse un Buddha, ma che governasse il
mondo intero; e istitu un innumerevole e magnifico corpo di guardia e un
seguito per proteggere suo figlio da tali segni illuminanti, e per occupare la
sua mente con i piaceri mondani.
Sette giorni dopo la nascita del bambino la signora Maha Maya mor, rinascendo
nel Cielo delle Trentatr Divinit, e Siddhattha fu affidato alla sua zia e
matrigna, la Madre di famiglia Gautami. Allora avvenne un altro miracolo, in
occasione della festa dell'aratura. Mentre il re inaugurava i lavori di aratura
con le sue proprie mani, e le servitrici preparavano il cibo, il Bodhisatta
prese posto sotto a un albero jambu, e, a gambe incrociate come uno Yogi, si
immerse nel primo grado di contemplazione; e bench il tempo passasse, l'ombra
dell'albero non si mosse. Quando il re scorse questo miracolo, si prostern
davanti al bambino gridando:
"Questo, o mio caro, il secondo omaggio che ti viene offerto!"
Quando il Bodhisatta crebbe, suo padre gli fece costruire tre palazzi,
rispettivamente di nove, cinque e sette piani, dove risiedeva a seconda delle
stagioni. Il Bodhisatta vi viveva circondato da ogni lusso, e migliaia di
danzatrici erano addette al suo servizio e al suo divertimento. Condotto a
studiare dagli insegnanti di scrittura e di altre discipline, ben presto li
sorpass tutti, ed eccelse in tutte le arti marziali.
Le nozze del principe
Quando ebbe sedici anni, il re cerc una moglie per suo figlio, perch sperava
di attaccarlo ancora maggiormente alla vita mondana con i legami familiari. Il
principe aveva gi provato il desiderio di diventare eremita. Ma, come dicono i
libri, per conformarsi al comportamento dei precedenti Bodhisatta, acconsent a
sposarsi, purch fosse stato possibile trovare una ragazza di maniere perfette,
assolutamente sincera, modesta, congeniale al suo temperamento, e di nascita
pura ed onorevole, giovane e bella, ma non fiera della sua bellezza,
caritatevole, soddisfatta nell'abnegazione, e dolce come una sorella o una
madre, senza desiderio di musica, profumi, feste o vino, pura nel pensiero,
nella parola e nei fatti, l'ultima ad andare a letto e la prima ad alzarsi nella
casa dove avrebbe abitato. Brahmani furono mandati dappertutto a cercare una
tale fanciulla nelle famiglie Sakya. Alla fine la scelta cadde sulla cugina di
Siddhattha, Yasodhara, figlia di Suprabuddha di Kapilavatthu. E il re escogit
un piano per incatenare il cuore del giovane. Fece preparare una collezione di
splendidi gioielli, che Siddhattha avrebbe distribuito tra le fanciulle Sakya.
Cos avvenne; ma quando tutti i gioielli erano gi stati assegnati, Yasodhara
arriv in ritardo, e non c'era pi niente per lei. Pensando di essere
disprezzata, chiese se non ci fosse pi nessun regalo per lei. Siddhattha
rispose che non era stata sua intenzione disprezzarla, e mand a prendere altri
anelli e braccialetti che le diede. Ella disse:
"Mi si addice accettare regali simili?"
Egli rispose:
"Appartengono a me, e sono io che te li do".
Cos lei se ne and. Allora le spie di Suddhodana riferirono che Siddhattha
aveva posato i suoi occhi solo su Yasodhara, ed era entrato in conversazione con
lei. Venne inviato a Suprabuddha un messaggio per chiedere la mano di sua
figlia. Egli rispose che le figlie della famiglia si davano solo a coloro che
eccellevano nelle varie discipline e nelle arti marziali, e "poteva essere
questo il caso di uno la cui intera vita era stata trascorsa nel lusso di un
palazzo?"
Suddhodana si rammaric che suo figlio fosse considerato indolente e debole. Il
Bodhisatta intu il suo stato d'animo e gliene chiese la causa; essendone stato
informato, rassicur suo padre, e gli consigli di proclamare un torneo di arti
marziali, a cui fossero invitati tutti i giovani Sakya. Cos fu fatto. Il
Bodhisatta si dimostr superiore a tutti, primo nelle scienze della letteratura
e dei numeri, poi nella lotta e nel tiro all'arco, e in ognuna della

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sessantaquattro arti e scienze. Quando Siddhattha ebbe cos mostrato il suo


valore, Suprabuddha port sua figlia per offrirla al principe, e il matrimonio
fu celebrato con tutti i fasti. Tra i Sakya sconfitti vi erano due cugini del
Buddha; uno, Ananda, che divenne poi il discepolo favorito; e l'altro,
Devadatta, le cui crescenti invidia e gelosia lo resero per tutta la vita nemico
del vincitore.
I quattro segni
Il Bodhisatta non mai completamente dimentico della sua alta missione.
Naturalmente era necessario che gli fosse ricordato il momento che si
avvicinava; e a questo fine i Buddha cosmici facevano udire a Siddhattha, anche
mentre sedeva ad ascoltare il canto delle danzatrici, il messaggio:
"Ricorda il tuo voto, di salvare tutte le cose viventi: l'ora vicina. Solo
questo lo scopo della tua nascita".
Ed cos che, mentre il Bodhisatta sedeva nei suoi bei palazzi giorno dopo
giorno, circondato da tutti i piaceri fisici cd intellettuali che potevano
essere escogitati dall'amore e dall'arte, avvertiva un sempre pi insistente
richiamo al compimento del suo destino spirituale. Ed allora che dovevano
essergli rivelati i quattro segni che sarebbero stati la causa immediata della
Grande Rinuncia. Un giorno il Bodhisatta ebbe desiderio di visitare i giardini
reali. Suo padre stabil il giorno e diede ordine che la citt fosse spazzata e
adornata, che ogni spettacolo spiacevole fosse eliminato, e non fosse permesso
di apparire in pubblico a chi non fosse giovane e bello. Venne il giorno, ed il
principe avanz sul carro con l'auriga Channa. Ma i Deva ( Le divinit
olimpiche, capeggiate da Sakka, che risiede nel Cielo dei Trentatr: in
generale, poteri spirituali, divinit.) non possono essere dirottati dai loro
scopi: uno di loro assunse la forma di un vecchio decrepito e si mise in mezzo
alla strada.
"Che genere di uomo questo?" chiese il principe, e Channa rispose:
"Sire, un uomo anziano, reso curvo dagli anni".
"Tutti gli uomini, allora", domand il principe, "o solo questo, sono soggetti
all'invecchiamento?"
L'auriga pot solamente rispondere che la giovinezza deve cedere il posto alla
vecchiaia in ogni essere vivente.
"Infamia, allora, alla vita!" disse il principe, "Poich la decadenza di ogni
cosa vivente nota!" e torn al suo palazzo immerso nella tristezza. Quando
tutto ci che era avvenuto fu riportato al re, questi esclam:
"Questa la mia rovina!" e programm sempre pi numerosi divertimenti, musica e
giochi, calcolati per distrarre la mente di Siddhattha dal pensiero di
abbandonare il mondo.
Il principe usc nuovamente per visitare i giardini di Kapilavatthu e sulla
strada incontrarono un uomo malato, magro, debole e consumato dalla febbre.
Quando il significato di questo spettacolo gli fu reso chiaro dall'auriga, il
Bodhisatta esclam nuovamente:
"Se la salute fragile come la sostanza di un sogno, chi pu trarre piacere
dalla gioia e dai divertimenti?"
Il carro fu girato, ed egli torn al palazzo.
Una terza volta il principe usc, ed allora incontrarono un defunto seguto da
gente dolente che piangeva e si strappava i capelli:
"Perch quest'uomo giace in una bara?" domand il principe, "E perch quegli
altri piangono e si battono il petto?"
"Sire", rispose l'auriga, "egli morto, e non potr mai pi rivedere suo padre,
sua madre, i suoi figli o la casa: partito per un altro mondo".
"Sia maledetta questa giovent che distrutta dall'et", esclam il principe,
"e sia maledetta la salute che distrutta da innumerevoli malattie! Sia
maledetta la vita che finisce cos in fretta! Vorrei che la malattia, la
vecchiaia, e la morte fossero incatenate per sempre! Torna indietro, che io
possa cercare un mezzo di liberazione".
Quando il Bodhisatta usc per l'ultima volta, incontr un eremita, un monaco
mendicante. Questo Bhikkhu era padrone di s, sereno, dignitoso, controllato,
con gli occhi bassi, vestito con l'abito religioso, e teneva una scodella da
mendicante.

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"Chi quest'uomo dall'indole cos calma?" chiese il principe, "Vestito di


stracci fulvi, e di portamento cos dignitoso?"
"Sire", disse l'auriga, " un Bhikkhu, un religioso, che ha abbandonato ogni
ansiet e che conduce una vita di austerit, vive senza passioni e invidia, e
mendica il suo cibo giornaliero".
Il Bodhisatta rispose:
" una buona cosa, e mi fa desiderare lo stesso genere di vita: farsi monaco
sempre stato apprezzato dai Saggi, e questo sar il mio rifugio, il rifugio
degli altri e produrr il frutto della vita, e dell'immortalit".
Il Bodhisatta torn nuovamente al suo palazzo. Quando tutte queste cose furono
riportate a Suddhodhana, questi fece circondare il palazzo del principe da una
triplice cinta, raddoppi le guardie, e comand alle donne del palazzo di
esercitare tutto il loro fascino, e di distrarre i pensieri del principe con la
musica e i piaceri. Si ag di conseguenza. Ma Yasodhara fu agitata da sogni
portentosi: sogn che la terra era devastata da tempeste, si vide nuda e
mutilata, i suoi bei gioielli spezzati, il sole, la luna e le stelle cadevano
dal cielo e il monte Meru affondava in un profondo abisso. Quando raccont
questi sogni al Bodhisatta, egli rispose con tono gentile:
"Non devi aver paura. solo ai buoni e ai degni che arrivano simili sogni, mai
ai vili. Rallegrati! Poich il significato di tutti questi sogni che la
schiavit della mortalit sar vinta, i veli dell'ignoranza saranno squarciati,
perch io ho interamente abbracciato la via della saggezza e chiunque ha fede in
me sar salvato dai tre mali, senza eccezione".
La grande rinuncia
Il Bodhisatta riflett che non avrebbe dovuto partire come pellegrino senza
informarne suo padre; allora, quando vide il re la sera, gli disse:
"Sire, vicino il tempo della mia partenza, non impedirmelo, ma permettimi di
andare".
Gli occhi del re si riempirono di lacrime, mentre rispondeva:
"Cosa occorre per farti mutare proposito? Dimmi qualsiasi cosa desideri e sar
tua, sia pure me stesso, il palazzo, o il regno".
Il Bodhisatta rispose:
"Sire, io desidero quattro cose, e ti prego di concedermele: la prima, di
rimanere sempre in possesso del fresco colore della giovinezza; la seconda,
che la malattia non possa mai attaccarmi; la terza, che la mia vita non abbia
termine; l'ultima, che io non sia soggetto al declino".
Quando il re ud queste parole, fu sopraffatto dal dispiacere, poich il
principe desiderava ci che era impossibile che un uomo potesse donare. Allora
il Bodhisatta continu:
"Se allora non posso evitare la vecchiaia, la malattia, la morte e il declino,
concedimi almeno questa sola cosa, che quando lascer questo mondo io non debba
mai pi essere soggetto alla rinascita".
Siccome il re non pot dare una risposta migliore, acconsent al desiderio di
suo figlio. Ma l'ultimo giorno stabil una guardia addizionale di cinquecento
giovani Sakya ad ognuno dei quattro cancelli del palazzo, mentre la matrona
Gautami stabil all'interno una guardia di amazzoni, perch il re non voleva
permettere a suo figlio di partire di sua libera iniziativa.
Nello stesso tempo i capi degli Yakkha (spiriti della natura) si riunirono e
dissero:
"Oggi, amici, il Bodhisatta deve partire; affrettiamoci al suo servizio".
I quattro grandi re (i quattro re, guardiani dei quattro punti cardinali)
comandarono agli Yakkha di sollevare gli zoccoli del cavallo del principe. Anche
le Trentatr Divinit si riunirono, e Sakka ordin i loro servigi, cosicch uno
di loro gettasse un sonno pesante su tutti gli uomini, donne, giovani e
fanciulle di Kapilavatthu; un altro zittisse il rumore di elefanti, cavalli,
cammelli, tori ed altre bestie; ed altri fungessero da scorta, gettando una
pioggia di fiori e profumando l'aria. Sakka stesso annunci che avrebbe aperto i
cancelli e mostrato la via.
La mattina del giorno della partenza, quando il Bodhisatta si fu preparato, gli
fu portato il messaggio che Yasodhara gli aveva dato un figlio. Egli non si
rallegr, ma disse:

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"Un vincolo venuto alla luce, un ostacolo per me".


Ed il bambino ricevette il nome di Rahula, o "Ostacolo". Lo stesso giorno il
Bodhisatta torn in citt e una tale nobile vergine, di nome Kisa Gotami, che
stava sul tetto del suo palazzo, e contempl la bellezza e maest del futuro
Buddha che passava, compose una canzone:
certamente benedetta la madre, certamente benedetto il padre, certamente
benedetta la moglie, di un signore cos glorioso!
Udendo questo il Bodhisatta pens:
"Ella non dice altro che il cuore di una madre, di un padre o di una moglie
rallegrato da una simile vista. Ma per mezzo di cosa ogni cuore pu raggiungere
la felicit e la pace definitive?" La risposta sorse nella sua mente: "Quando il
fuoco della passione estinto, allora vi pace; e quando i fuochi del
risentimento e delle attrazioni sono morti, allora vi pace. dolce la lezione
che questa cantante mi ha insegnato, perch il Nibbana della pace che ho
cercato. Oggi rinuncer alla vita di padre di famiglia e non cercher
nient'altro che il Nibbana".
E slacciandosi la collana di perle la mand come onorario di un maestro a Kisa
Gotami. Ma ella pens che il principe la amasse e che le mandasse un regalo a
causa del suo amore. Quella sera le cantanti e le danzatrici si sforzarono di
piacere al principe: belle come ninfe del cielo, ballarono, cantarono, e
suonarono. Ma il Bodhisatta, con il cuore estraniato dalle tentazioni, non prov
piacere per l'intrattenimento, e si addorment. Cos le donne, vedendo che
dormiva, deposero i loro strumenti, e si addormentarono anche loro. Quando le
lampade alimentate con oli aromatici furono sul punto di spegnersi, il
Bodhisatta si risvegli e vide le ragazze che erano sembrate cos belle, nel
disordine del completo abbandono al sonno. Il figlio del re, vedendole cos
discinte e scomposte, che respiravano pesantemente, sbadigliavano e si muovevano
in attitudini sconvenienti, fu portato al disgusto.
"Questa la vera natura delle donne", pens, "ma l'uomo ingannato da abiti e
gioielli ed illuso dalla loro bellezza apparente. Se un uomo volesse solo
considerare lo stato naturale delle donne, e il cambiamento che avviene in esse
durante il sonno, sicuramente non conserverebbe la sua follia; ma egli sviato
dalla giusta volont, e cos soccombe alla passione".
E immediatamente decise di compiere la grande rinuncia quella stessa notte, e in
quello stesso momento, perch gli appariva che ogni modalit di esistenza sulla
terra o nel cielo assomigliasse sempre pi all'indugio in una dimora gi in
preda alle fiamme divoranti; la sua mente fu irresistibilmente attirata verso lo
stato di quelli che hanno rinunciato al mondo. Il Bodhisatta allora si alz dal
suo giaciglio e chiam Channa; l'auriga, che stava dormendo con la testa
appoggiata alla soglia, si alz e disse:
"Sire, sono qua".
Allora il Bodhisatta disse:
"Ho deciso di compiere la grande rinuncia oggi; sella il mio cavallo".
Channa and nella stalla e sell Kanthaka; il cavallo comprese qual era la
ragione per cui veniva sellato, e nitr di gioia, cos forte che l'intera citt
sarebbe stata svegliata, se i Deva non avessero soffocato il suono, cosicch
nessuno lo ud. Mentre Channa era nel cortile della stalla, il Bodhisatta pens:
"Dar un'occhiata a mio figlio", e and alla porta della camera di Yasodhara.
La madre di Rahula era addormentata su un letto cosparso di strati di fiori di
gelsomino, e la sua mano era appoggiata sulla testa di suo figlio. Il Bodhisatta
si ferm sul limitare della soglia, perch pens:
"Se sposto la sua mano per prendere mio figlio, si sveglier, e la mia partenza
sar ostacolata. Ritorner a trovarlo dopo aver raggiunto l'illuminazione".
Cos se ne usc, e vedendo il cavallo gi sellato, disse:
"Buon Kanthaka, questa notte tu mi salverai, allo scopo che io possa diventare
un Buddha con il tuo aiuto e possa salvare i mondi degli uomini e degli dei".
Kanthaka nitr nuovamente, ma il suono della sua voce non fu udito da nessuno.
Cos il Bodhisatta part", seguto da Channa: gli Yakkha mantennero sollevati gli
zoccoli di Kanthaka cos che non producessero suoni, e quando essi arrivarono ai
cancelli con le guardie, l'angelo che stava l li fece aprire silenziosamente.
In quel momento il demone Mara apparve nell'aria, e tent il Bodhisatta,
esclamando:

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"Non andare pi in l, mio Signore! Perch tra sette giorni apparir la ruota
della sovranit, e ti render sovrano dei quattro continenti e della miriade di
isole. Non andare pi in l!"
Il Bodhisatta rispose:
"Mara! So bene che questo vero. Ma io non cerco la sovranit del mondo.
Desidero diventare un Buddha, per dare la felicit a decine di migliaia di
mondi".
Cos il Tentatore lo lasci, ma risolse di seguirlo sempre come un'ombra, per
cogliere al volo l'occasione, se mai un pensiero di rabbia o desiderio fosse
sorto nel cuore del Bodhisatta. Era il giorno di luna piena di Asadha, quando il
principe lasci la citt. La sua marcia fu accompagnata da pompa e gloria,
perch le divinit e gli angeli portavano miriadi di torce davanti e dietro di
lui, e una pioggia di bei fiori era gettata dal cielo di Indra, cosicch gli
stessi fianchi di Kanthaka ne erano ricoperti. In questo modo il Bodhisatta
copr una grande distanza finch raggiunsero il fiume Anoma e lo attraversarono.
Quando giunsero dall'altro lato, il Bodhisatta smont da cavallo sulla spiaggia
sabbiosa e disse a Channa:
"Buon Channa, arrivato il momento che tu ritorni indietro, prendendo con te
tutti i miei gioielli e Kanthaka, poich io sto per diventare un eremita e un
pellegrino in queste foreste. Non ti crucciare per me, ma compiangi piuttosto
quelli che restano indietro incatenati da desideri il cui frutto l'afflizione.
mia risoluzione cercare il bene supremo oggi stesso, perch quale fiducia
potrei avere nella vita, quando la morte sempre in agguato? Conforta il re, e
parlagli, cosicch non mi ricordi mai, perch dove l'affetto si perso, non c'
pi dispiacere".
Ma Channa protest e chiese al Bodhisatta che avesse piet del re, di Yasodhara,
e della citt di Kapilavatthu. Il Bodhisatta rispose nuovamente:
"Anche se tornassi con i miei per ragioni di affetto, alla fine ne sarei
separato dalla morte. L'incontro e la dipartita degli esseri viventi come
quando il vento trascina via le nuvole che si erano unite, o come quando le
foglie si staccano dagli alberi. Non c' niente che possiamo definire nostro in
un'unione che non nulla pi di un sogno. Pertanto, visto che sei cos, vattene
e non crucciarti e d alla gente di Kapilavatthu: "Ritorner presto, trionfatore
della vecchiaia e della morte, o lui stesso fallir o perir".
Allora anche Channa avrebbe voluto farsi anacoreta, ma nuovamente il Bodhisatta
rispose:
"Se il tuo amore cos grande, vai ugualmente, porta il messaggio e poi torna".
Il Bodhisatta prese la spada affilata che Channa portava e con essa tagli i
propri lunghi capelli e il diadema ingioiellato, e li gett in acqua; nello
stesso momento in cui avvert la necessit di un abito da anacoreta, apparve un
Deva sotto l'aspetto di un cacciatore, con abiti di tinta fulva da Saggio del
bosco, e prendendo i vestiti di mussolina bianca del principe, gli diede in
cambio gli abiti rossicci, e se ne and.
Kanthaka assistette a tutto ci che stato raccontato e lecc i piedi del
Bodhisatta; il principe gli parl come ad un amico:
"Non ti rattristare, Kanthaka, perch stata provata la perfezione della tua
natura equina. Sopportalo, e presto il tuo dolore dar i suoi frutti".
Per Kanthaka pens:
"Da oggi in poi non vedr mai pi il mio padrone".
Si allontan dalla sua vista, mor di dolore e rinacque nel Cielo dei Trentatr.
Cos raddoppi la tristezza di Channa; straziato per il secondo dispiacere della
morte di Kanthaka torn in citt piangendo e gridando, e il Bodhisatta rest
solo.
La ricerca di una via di liberazione
Il Bodhisatta rimase una settimana nel bosco di manghi di Anupiya, e in seguito
prosegu fino a Rajagaha, la citt pi importante di Magadha. Mendicava il suo
cibo di porta in porta e la bellezza della sua persona spinse a compassione
tutta la citt. Quando ci arriv a conoscenza del re Bimbisara, questi si
diresse al luogo dove il Bodhisatta sedeva e gli offr il suo regno; ma, una
volta ancora, il Bodhisatta rifiut il trono regale, poich aveva gi
abbandonato tutto con la speranza di ottenere l'illuminazione, e non desiderava

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un potere terreno. Per acconsent alla richiesta del re che quando avesse
trovato la sua via avrebbe cominciato la predicazione in quello stesso regno.
Si dice che quando il Bodhisatta entr per la prima volta in un eremo (e questo
avvenne prima che si fosse diretto a Rajagaha), vide che i Saggi praticavano
molte strane penitenze; ne chiese il significato e quale fosse il risultato che
ognuno di loro voleva ottenere, e ricevette la risposta:
"Con simili penitenze sopportate per un certo tempo, con le pi alte raggiungono
il cielo, e con le inferiori, un frutto favorevole nel regno degli uomini; per
mezzo del dolore arrivano infine alla felicit, perch il dolore, dicono, la
radice del merito".
Ma a lui non parve che fosse questo il metodo per arrivare alla liberazione;
anche nella vita comune gli uomini sopportavano l'afflizione per conseguire la
felicit, e questa stessa felicit, tutto ben considerato, consisteva nel
dolore, perch sempre soggetta alla morte e alla rinascita.
"Non lo sforzo in se stesso che critico", disse, "che respinge le bassezze e
segue una propria via pi elevata: ma i Saggi della verit, per mezzo di questo
arduo lavoro, dovrebbero mirare allo stato nel quale non si deve pi rifare
niente. Poich il mentale che controlla il corpo, ci che si deve mantenere
solo il pensiero. N la purezza del cibo, n le acque di un fiume sacro possono
pulire il cuore: l'acqua solo acqua, e il vero luogo di pellegrinaggio la
virt di un uomo virtuoso".
Allora, rifiutando con cortesia le offerte del re, il Bodhisatta si diresse
all'eremitaggio del rinomato Saggio Alara Kalama, si fece suo discepolo ed
apprese i gradi successivi della meditazione estatica. Naturalmente Alara
insegnava la dottrina dell'Atman, la quale dice che il Saggio versato
nell'Essere Supremo "essendosi annullato come individualit, vede che non esiste
niente e viene chiamato nichilista: allora come un passero nella sua gabbia, con
l'anima che si separa dal corpo, viene dichiarato liberato: questo quel
supremo Brahman, costante, eterno, e senza caratteri distintivi, che i Saggi che
conoscono la realt chiamano liberazione". Ma Gautama (ed con questo nome che
i libri cominciano ora a chiamare il Bodhisatta), lascia da parte la frase
"senza caratteri distintivi", e con giustificazione verbale discute la
terminologia animistica e dualistica di anima e corpo: un'anima liberata,
argomentava, continua ad essere un'anima, e qualsiasi situazione raggiunga,
sempre soggetta alla rinascita, "e poich si afferma che ogni successiva
rinuncia accompagnata da qualit, sostengo che l'ottenimento assoluto del
nostro scopo si trova solo nell'abbandono di tutto".
[Nota: Ravvisiamo in questo punto il momento critico in cui il pensiero
buddhista e quello brahmanico si separano sulla questione dell'Atman. Non siamo
in grado di dire se sia Alara che non riusc a mettere in rilievo l'aspetto di
negazione d'ogni limite della dottrine del Brahman, o se sia Gautama (il quale
fino a questo momento presentato come totalmente privo di nozioni sul pensiero
brahmanico) che non riusc a distinguere il Brahman neutro dal dio Brahma. La
questione sar dibattuta con pi ampi sviluppi nella parte terza, cap. IV, di
questo libro.]
Allora il Bodhisatta lasci gli eremitaggi di Rajagaha e, cercando qualcosa al
di l, si inoltr in un bosco vicino, al villaggio di Uruvela, e ivi rimase
sulle pure rive del Nairanjana. In questo luogo lo avvicinarono cinque anacoreti
erranti che vivevano di carit, perch erano convinti che poco tempo dopo egli
avrebbe raggiunto l'illuminazione. La loro guida era Kondanna, il vecchio
indovino brahmano, che aveva predetto il futuro durante la festa di battesimo
del Bodhisatta. Pensando: "Questo pu essere il mezzo per conquistare la nascita
e la morte", Gautama pratic per sei anni in quel luogo una regola austera di
digiuno e mortificazione, di modo che il suo glorioso corpo si consum fino a
ridursi a pelle ed ossa. Si costrinse a cibarsi di un solo seme di sesamo o di
un granello di riso, finch un giorno, mentre passeggiava, vinto dalla
debolezza, svenne e cadde. Alcuni fra i Deva esclamarono:
"Gautama morto!"
Altri portarono la notizia a Suddhodana, re di Kapilavatthu. Ma egli rispose:
"Non posso crederci. Mio figlio non morir mai prima di aver raggiunto
l'illuminazione".
Non aveva dimenticato il miracolo ai piedi dell'albero jambu, n il giorno in

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cui il grande Saggio Kala Devala si era sentito obbligato a riverire il bambino.
Il Bodhisatta si riprese e si alz in piedi; e una volta ancora le divinit
informarono il re. Dopo questo episodio la fama delle estreme penitenze del
Bodhisatta si diffuse da tutte le parti, come nel cielo si diffonde il suono di
una grande campana. Ma egli percep che la mortificazione non era la via per
l'illuminazione e la liberazione, "che era la vera strada che ho trovato sotto
l'albero jambu, e che non pu essere raggiunta da chi ha perso la sua forza".
Cos, una volta ancora, il Grande Essere risolse di mendicare il suo cibo in
citt e villaggi, per recuperare la sua salute e le sue forze. Questo avvenne
nel trentesimo anno dell'esistenza di Gautama. Ma i cinque discepoli pensarono
che se Gautama non aveva potuto ottenere l'illuminazione neppure con sei anni
delle pi severe austerit, "come avrebbe potuto ottenerla ora, che chiede la
carit nei villaggi, e si ciba di alimenti ordinari?", e lo abbandonarono per
recarsi in un sobborgo di Benares, chiamato Isipatana.
La Suprema Illuminazione
Mentre Gautama viveva nel bosco vicino a Uruvela, la figlia del capo del
villaggio, di nome Sujata, era solita fare un'offerta giornaliera di cibo a
ottocento Brahmani, recitando la preghiera:
"Magari il Bodhisatta potesse ricevere finalmente un'offerta di cibo da parte
mia, ottenere l'illuminazione e trasformarsi in un Buddha!"
Ora che era giunto il momento in cui egli desiderava ricevere cibi nutrienti, un
Deva apparve a Sujata durante la notte e le annunci che il Bodhisatta aveva
abbandonato le sue austerit, e desiderava cibi buoni e nutrienti: "e allora si
compir la tua preghiera". Allora Sujata si alz in fretta di buon'ora e si rec
dal gregge del padre. Gi da molto tempo ella soleva mungere il latte da mille
vacche e nutrire con esso cinquecento altre vacche; con il latte di queste ne
nutriva altre duecentocinquanta, e cos finch solo otto vacche si nutrivano con
il latte che restava, e ci ella lo chiamava "far rientrare il latte a poco a
poco". Era il giorno di plenilunio del mese di maggio quando ricevette il
messaggio delle divinit; si alz presto, munse le otto vacche, prese il latte e
lo boll in marmitte nuove per preparare riso e latte. In tanto mand la sua
ancella Punna ai piedi del grande albero dove soleva lasciare le sue offerte
giornaliere. Il Bodhisatta, sapendo che quel giorno avrebbe ottenuto la suprema
illuminazione era seduto ai piedi dell'albero, attendendo l'ora di andare a
mendicare il suo cibo; la sua gloria era tale che tutta la regione dell'Est ne
era illuminata. L'ancella pens che fosse lo spirito dell'albero che si degnava
di ricevere l'offerta nelle sue proprie mani. Quando fu tornata e raccont
questo, Sujata la abbracci, le don la dote come a una figlia ed esclam:
"D'ora in avanti occuperai, per me, il posto di una figlia maggiore!"
Mand a cercare un vaso d'oro e vi pose il cibo ben cotto, lo copr con una tela
bianca candida e lo port con dignit ai piedi del grande albero nigrodha; l",
anche lei vide il Bodhisatta e credette che fosse lo spirito dell'albero. Sujata
gli si avvicin, gli mise il vaso nelle mani e guardandolo negli occhi, disse:
"Mio Signore, accetta ci che ti offro", ed aggiunse: "magari possa portarti
tanta felicit come quella che ha portato a me", e cos se ne and.
Il Bodhisatta prese il vaso d'oro, scese fino alla riva del fiume, si bagn e,
vestendosi come un Arahat, si sedette guardando verso Est (nell'India antica
l'Est era considerato il punto cardinale pi favorevole). Divise il riso in
quarantanove parti, e questo cibo fu sufficiente a nutrirlo per i quarantanove
giorni che seguirono l'illuminazione. Quando ebbe terminato di mangiare riso e
latte, prese il vaso d'oro e lo gett nel fiume, dicendo:
"Se oggi potr raggiungere l'illuminazione, che questo vaso vada controcorrente;
e se cos sar, che scenda a suo piacimento".
Quando lo ebbe lanciato in acqua il vaso risal rapidamente il fiume fino ad
arrivare al vortice del Re Serpente nero, e l affond.
Il Bodhisatta pass le ore calde del giorno in un bosco di alberi sal, vicino al
ruscello. Poi verso sera, si diresse ai piedi dell'Albero della Sapienza e l
prese la decisione:
"Se anche mi si seccassero la pelle, i nervi e le ossa, e se si prosciugasse il
sangue della mia vita, non lascer questo posto finch non abbia raggiunto la
Suprema Illuminazione".

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E si sedette con il viso rivolto ad Est.


In quel momento il demonio Mara si rese conto che il Bodhisatta aveva preso
posto con intenzione di ottenere l'Illuminazione Perfetta: di conseguenza,
convocando le truppe demoniache e montando il suo elefante da guerra, avanz
fino all'Albero della Sapienza. L c'era Maha Brahma, che sosteneva sopra il
Bodhisatta un baldacchino bianco da cerimonia, e Sakka che faceva risuonare la
grande tromba, e con loro vi erano tutte le schiere di divinit e di angeli. Ma
la formazione di Mara era talmente terribile che non ci fu nessuno tra le truppe
dei Deva che si azzard a rimanere per affrontarla. Il Grande Essere rest solo.
In un primo momento per, Mara assunse l'aspetto di un messaggero con abiti
stracciati ed ansante per la corsa, che portava una lettera dei prncipi Sakya.
Nella lettera c'era scritto che Devadatta aveva usurpato il regno di
Kapilavatthu, si era impadronito dei suoi beni e di sua moglie e aveva fatto
prigioniero Suddhodana, ed essi gli chiedevano di ritornare per restaurare la
pace e l'ordine. Ma il Bodhisatta riflett che era la lussuria che aveva portato
Devadatta a maltrattare cos le donne, la malizia che gli aveva fatto
imprigionare Suddhodana, mentre i Sakya, resi impotenti dalla codardia, non
erano riusciti a difendere il loro re: riflettendo cos sulla follia e debolezza
del cuore delle persone comuni, la sua decisione di raggiungere uno stato pi
elevato e migliore si rafforz e si conferm.
[Nota: Cfr., "I Saggi delle prime epoche si procuravano il Tao per loro stessi,
quindi lo portavano agli altri. Prima che tu lo possegga per te, che tempo hai
per occuparti dei fatti degli uomini in preda all'errore?" Chuang-tzu.]
Avendo fallito in questo espediente, Mara avanz all'assalto con tutte le sue
truppe, sforzandosi di vincere il Bodhisatta, prima con un tremendo turbine di
vento, poi con un tempesta di pioggia, che provoc un'imponente inondazione: ma
n l'orlo dell'abito del Bodhisatta si agit n una singola goccia d'acqua lo
raggiunse. Poi Mara gli gett una pioggia di rocce ed una gragnuola di armi
mortali avvelenate, di ceneri e carboni ardenti, e una tempesta di sabbia
rovente e fango infuocato; ma tutti questi proiettili non fecero che cadere ai
piedi del Bodhisatta come una pioggia di fiori celesti, o restarono sospesi in
aria come un baldacchino sulla sua testa. Non pot essere scosso neppure da un
attacco di fitta e quadruplice oscurit. Allora, constatando che tutti questi
mezzi fallivano, Mara si rivolse al Bodhisatta dicendogli:
Il Bodhisatta rispose:
"Alzati, Siddhattha, da quel posto, perch non tuo, ma mio!"
"Mara! Non hai realizzato le dieci perfezioni, e neppure le virt minori. Non
hai cercato la conoscenza, e neppure la salvezza del mondo. Il posto mio".
Allora Mara mont su tutte le furie, e lanci al Bodhisatta il suo scettrogiavellotto, il quale ha la virt di fendere in due un pilastro di solida roccia
come se fosse un tenero germoglio di canna: e tutti i demoni gettarono massi di
roccia. Ma il giavellotto rest sospeso in aria come un baldacchino e i massi di
roccia caddero come ghirlande di fiori.
Allora il Grande Essere disse a Mara:
"Mara, chi testimone che tu abbia mai elargito elemosine?"
Mara fece un gesto con la mano, ed un grido sorse dall'orda dei demoni; erano
mille voci che gridavano:
"Io sono testimone".
Allora il demone si rivolse al Bodhisatta, chiedendo:
"Siddhattha! Chi testimone che tu abbia elargito elemosine?"
Il Grande Essere rispose:
"Mara, tu hai molti testimoni viventi che tu abbia dato elemosine, ed io non ho
simili testimoni. Ma a parte le elemosine che ho dato nelle altre vite, io
chiedo a questa solida terra di testimoniare della mia soprannaturale generosit
quando nacqui come Vessantara".
Ed estraendo la mano destra dall'abito, la tese fino a toccare la terra, e disse:
"Testimoni, o no, della mia soprannaturale generosit quando nacqui come
Vessantara?"
E la grande Terra rispose con voce di tuono:
"Sono testimone di questo".
Allora il grande elefante di Mara si prostern in adorazione, e le truppe di
demoni fuggirono terrorizzate.

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Mara rest imbarazzato. Ma non si arrese, perch sperava di ottenere con altri
mezzi quello per cui la forza non aveva avuto effetto. Convoc le sue tre
figlie: Tanha, Rati, e Raga, ed esse danzarono davanti al Bodhisatta come i rami
flessuosi di un giovane albero frondoso servendosi di tutte le arti di seduzione
che conoscono le belle donne. Di nuovo gli offrirono la signoria della terra e
la compagnia di belle ragazze: esse cercarono di commuoverlo con canzoni della
stagione di primavera, ed esibirono la loro bellezza e grazia soprannaturali. Ma
il cuore del Bodhisatta non si commosse assolutamente, ed egli rispose:
Il piacere breve come un lampo abbagliante o come una pioggia autunnale, solo
per un momento... perch dovrei dunque desiderare i piaceri di cui parlate?
Vedo che i vostri corpi sono colmi di ogni impurit: la nascita e la morte, la
malattia e la vecchiaia sono il vostro retaggio.
Cerco la posta pi elevata difficile da raggiungere per gli uomini, la vera e
costante conoscenza del Saggio.
Poich non riuscivano a scuotere la calma del Bodhisatta, esse si sentirono
piene di vergogna e sconcertate: indirizzarono allora una preghiera al
Bodhisatta, augurandogli la fruizione del suo sforzo:
Che tu possa raggiungere ci che il tuo cuore desidera, trovare la liberazione
per te stesso, e liberare tutti!
[Nota: Secondo altri libri la tentazione delle figlie di Mara successiva
all'Illuminazione suprema.]
Ora le truppe del cielo, vedendo che l'esercito di Mara era sconfitto e le
astuzie delle figlie di Mara vane, si riunirono per onorare il Conquistatore e
vennero ai piedi dell'Albero della Sapienza, gridando per la gioia:
Beato sia il Buddha - Egli ha trionfato! E il Tentatore sconfitto!
La vittoria era completa che il sole era ancora al di sopra dell'orizzonte. Il
Bodhisatta si immerse in pensieri sempre pi profondi. Nella prima vigilia della
notte raggiunse la conoscenza degli stati anteriori dell'essere, nella seconda
vigilia ottenne l'occhio celeste della visione onnisciente, nella terza vigilia
ottenne la comprensione perfetta della Catena della Causalit che l'origine
del Male, e cos allo spuntare del giorno raggiunse l'Illuminazione Perfetta.
Allora irruppe dalle sue labbra il canto di trionfo:
Attraverso numerose e mutevoli nascite sono passato cercando invano il
costruttore della casa. Ma, o fondatore di case, sei trovato! Non potrai mai pi
progettare una casa per me! Tutte le tue travi sono spezzate, la colonna
principale si frantumata! La mia mente passata alla quiete del Nibbana.
Infine stata raggiunta la cessazione del desiderio!
[Nota: La casa , naturalmente, la casa - o piuttosto la prigione dell'esistenza individuale: il costruttore della casa il desiderio (tanha) il desiderio di fruire e di possedere -.]
Innumerevoli prodigi si manifestarono in quell'ora suprema. La terra si scosse
sei volte, e l'intero universo fu illuminato dallo splendore soprannaturale dei
sestuplici raggi che provenivano dal corpo del Buddha seduto. Il risentimento si
calm nel cuore di tutti gli uomini, ogni mancanza fu riempita, i malati furono
risanati, le catene dell'inferno cedettero e ogni creatura di qualsiasi genere
trov pace e riposo.
I quarantanove giorni
Gautama, che adesso era il Buddha, l'Illuminato, rimase seduto e immobile per
sette giorni, realizzando la beatitudine del Nibbana; poi si alz e rimase in
piedi per altri sette giorni, fissando intensamente il punto dove era stato
colto il frutto degli innumerevoli atti di eroica virt esercitati nelle vite

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precedenti: poi per altri sette giorni passeggi avanti e indietro per un
sentiero riparato che andava da Ovest ad Est, e che si stendeva dal trono sotto
l'Albero della Sapienza al luogo della Contemplazione Immutabile; nuovamente per
sette altri giorni rest seduto in un padiglione scolpito dalle divinit, vicino
allo stesso posto, e vi ripercorse in dettaglio, libro per libro, tutto ci che
insegnato nell'Abhidhamma Pitaka, cos come l'intera dottrina della causalit;
poi per sette altri giorni sedette sotto l'albero nigrodha dell'offerta di
Sujata, meditando sulla dottrina e sulla dolcezza del Nibbana - e secondo alcuni
libri, fu in questo momento che avvenne la tentazione delle figlie di Mara - poi
per altri sette giorni, mentre infuriava una terribile tempesta, il Re Serpente
Mucalinda lo protesse con il suo settuplice cappuccio; e per altri sette giorni
sedette sotto un albero rajayatana, godendo della dolcezza della liberazione.
Cos erano trascorse sette settimane, durante le quali il Buddha non aveva
provato desideri corporei, ma si era cibato della gioia della contemplazione,
della gioia dell'ottuplice via e della gioia del suo frutto, il Nibbana.
Solo dopo l'ultimo giorno delle sette settimane desider fare il bagno e
mangiare, e ricevendo l'acqua e uno stuzzicadenti dal dio Sakka, il Buddha si
lav il viso e si sedette ai piedi dell'albero. In quel momento due mercanti
brahmani viaggiavano in una carovana che andava da Orissa al paese centrale, e
un Deva, che era stato un parente dei mercanti in una vita precedente, ferm i
carri, e spinse i loro cuori a fare un'offerta di riso e dolci di miele al
Signore. Essi si diressero quindi verso di lui, dicendo:
"O Beato, abbi piet di noi, ed accetta questo cibo".
Il Buddha non possedeva neppure una ciotola, e siccome i Buddha non ricevono mai
un'offerta direttamente nelle loro mani, riflett su come l'avrebbe potuta
prendere. Immediatamente i quattro grandi re, i Reggitori dei quattro punti
cardinali, apparvero davanti a lui, ognuno di loro con una ciotola; e perch
nessuno di loro fosse deluso, il Buddha prese tutte e quattro le ciotole, e
mettendole una sopra all'altra, le fece diventare una, sul cui bordo si vedevano
le quattro linee dei bordi di ciascuna. In questa ciotola il Beato ricevette il
cibo, lo mangi, e ringrazi. I due mercanti si rifugiarono nel Buddha, nella
norma e nell'ordine, e divennero discepoli dichiarati. Allora il Buddha si alz
e torn nuovamente all'albero delle offerte di Sujata e l si sedette.
Riflettendo sulla profondit della verit che aveva trovato, sorse nella sua
mente il dubbio se sarebbe stato possibile farla conoscere agli altri: questo
dubbio sperimentato da ogni Buddha quando diviene consapevole della verit. Ma
Maha Brahma, esclamando: "Ahim! Il mondo sar perduto per sempre!" arriv in
tutta fretta, con le truppe dei Deva e scongiur il Maestro di proclamare la
Verit; ed egli acconsent alla loro richiesta.
[Nota: "Le grandi verit non fan presa sui cuori del volgo... E cos stando le
cose, anche se io conosco il vero cammino - come far, come far a guidarli? Se
pur sapendo che non ce la farei, tento comunque di impormi ad essi, sar questa
un'altra fonte d'errore. Meglio perci lasciar perdere, e non tentar neppure. Ma
se non tento io, chi tenter?" Chuang-tzu.
E altamente caratteristico della psicologia del genio che quando questo dubbio
assale il Buddha, egli risponda tuttavia ad una richiesta di guida; nel momento
in cui l'allievo pone le domande giuste, i dubbi dell'insegnante si risolvono.]
La prima rotazione della Ruota della Legge
Allora egli medit su a chi, per cominciare, avrebbe dovuto rivelare la verit,
e ricord Alara, il suo primo Maestro, e Uddaka, pensando che questi grandi
Saggi avrebbero potuto comprenderla velocemente; ma dopo un'accurata riflessione
scopr che entrambi erano recentemente morti.
Allora pens ai cinque pellegrini che erano stati suoi discepoli e in
meditazione vide che risiedevano nel Parco dei Cervi di Isipatana a Benares, e
risolse di recarvisi. Quando i cinque pellegrini, il cui capo era Kondanna,
videro il Buddha da lontano, si dissero:
"Amici miei, arriva Gautama il Bhikkhu. Non gli dobbiamo alcun rispetto, poich
ritornato al libero uso delle necessit della vita, e ha recuperato la sua
forza, e la sua bellezza. Comunque, poich di nobile nascita, prepariamogli un
sedile".

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Ma il Beato intu il loro pensiero, e concentrando quell'amore con il quale era


in grado di riempire il mondo intero, lo rivolse specialmente verso di loro.
Poich questo amore si era diffuso nei loro cuori, quando egli si avvicin, essi
non poterono aderire alla loro risoluzione, e cos si alzarono dai loro sedili e
si inchinarono davanti a lui in tutto rispetto. Ma non sapendo che egli aveva
raggiunto l'illuminazione, gli si rivolsero con l'appellativo di "Fratello".
Egli, dunque, annunci l'illuminazione, dicendo:
"O Bhikkhu, non rivolgetevi a me come "Fratello", perch sono divenuto un Buddha
dalla chiara visione, come quelli che mi hanno preceduto".
Cos il Buddha prese posto sul sedile che gli era stato preparato dai cinque
pellegrini, e fece loro il primo discorso, che chiamato "Messa in moto della
Ruota della Legge", o "Fondazione del regno della rettitudine".
"Ci sono due estremi che chi si immerso nella Via non dovrebbe perseguire - la
dedizione abituale, da una parte, alle passioni, ai piaceri delle cose
sensibili, una Via bassa e profana (di ricerca delle soddisfazioni), non nobile,
non profittevole, adatta solo per i mondani; e, dall'altra, la dedizione
abituale dell'automortificazione, che penosa, non nobile, non profittevole.
C' un Via di Mezzo, scoperta dal Tathagata (che vuol dire chi ha raggiunto
l'Arahatta; il titolo che il Buddha usa sempre riferendolo a se stesso. Non
chiama se stesso il Buddha; ed i suoi seguaci non gli si rivolgono mai con
questo appellativo) - una Via che apre gli occhi e fa ottenere la comprensione,
che conduce alla pace, alla vista interiore, alla saggezza pi elevata, al
Nirvana. In verit! E questa la Via ottuplice degli Ariya; vale a dire: Modi di
Vedere Retti, Rette Aspirazioni, Discorso Retto, Condotta Retta, Modo di Vivere
Retto, Sforzo Retto, Concentrazione Retta, e Samadhi Retto.
"Ora, questa la Nobile Verit riguardo alla sofferenza: la nascita
accompagnata da dolore, il declino dolore, la malattia dolore, la morte
dolore. L'unione con lo sgradevole dolore, la separazione dal gradevole
dolore; e qualsiasi voglia insoddisfatta , anch'essa, dolore. In breve, i
cinque aggregati (ossia le cinque condizioni dell'individualit) sono dolore.
"Ora questa la Nobile Verit riguardo all'origine della sofferenza: In verit!
la sete del desiderio che provoca il rinnovarsi delle esistenze, che si
accompagna ai piaceri delle cose sensibili, e ricerca la soddisfazione, ora qua,
ora l - vale a dire la brama della gratificazione dei sensi, o il desiderio di
prosperit.
"Ora, questa la Nobile Verit sull'eliminazione del dolore: In verit! Questa
eliminazione si ha quando non c' pi passione, rinunciando a, sbarazzandosi di,
liberandosi da, non dando pi asilo a questa sete insaziabile di possesso.
"Ora, questa la Nobile Verit riguardo alla Via che conduce all'eliminazione
del dolore. In verit! Essa questo Ottuplice Sentiero degli Ariya; vale a
dire: Retti Modi di Vivere, Rette Aspirazioni, Retto Discorso, Condotta e Modo
di Vivere, Retto Sforzo, Retta Concentrazione, e Retto Samadhi".
Allora, del gruppo dei Bhikkhu ai quali era stato predicato il primo discorso,
Kondanna ottenne immediatamente il frutto della prima via, ed i quattro altri
raggiunsero la stessa stazione nel corso dei quattro giorni seguenti. Il quinto
giorno il Buddha convoc i cinque di fianco a s, e indirizz loro il secondo
discorso chiamato "Sulla non-esistenza dell'anima", la cui sostanza riportata
nel modo seguente:
"Il corpo, o Bhikkhu, non pu essere l'anima eterna, perch tende verso la
distruzione. La sensazione, la percezione, le predisposizioni, e la coscienza,
messe insieme, non costituiscono l'anima eterna, perch se cos fosse anche la
coscienza non tenderebbe alla distruzione. Cosa pensate, che la forma sia
permanente o transitoria? E che la sensazione, la percezione, le predisposizioni
e la coscienza siano permanenti o transitorie?"
"Sono transitorie", risposero i cinque.
"E ci che transitorio, cattivo o buono?"
" cattivo", risposero i cinque.
"E di ci che transitorio, cattivo, e soggetto al cambiamento, si pu dire:
"Questo mio, questo sono io, questa la mia anima eterna"?"
"No, certo, non si pu dire cos", risposero i cinque.
"Allora, o Bhikkhu, si deve dire di qualsiasi forma fisica, passata o presente o
futura che sia, soggettiva o oggettiva, vicina o lontana, alta o bassa: "Non
mia, questo non sono io, questa non la mia anima eterna". E in simile modo, di
ogni sensazione, percezione, predisposizione e coscienza, si deve dire: "Esse

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non sono mie, io non sono queste, esse non sono la mia anima eterna". E
percependo questo, o Bhikkhu, il vero discepolo concepir disgusto per la forma
fisica, per la sensazione, la percezione, le predisposizioni e la coscienza, e
cos si spoglier del desiderio; in questo modo egli liberato, e diventa
consapevole di essersi liberato; e sa che il divenire si esaurito, che ha
vissuto secondo la verit, che ha fatto ci che era doveroso facesse e che ha
eliminato per sempre la mortalit".
In virt di questo discorso le menti dei cinque furono perfettamente illuminate,
ed ognuno di loro raggiunse il Nibbana, cosicch in quel momento esistevano
cinque Arahat nel mondo, oltre al Buddha stesso, che era il sesto. Il giorno
seguente un giovane di nome Yasa, e cinquantaquattro fra i suoi compagni
raggiunsero anche loro l'illuminazione, e cos c'erano sessanta persone oltre al
Maestro stesso, che avevano ottenuto lo stato di Arahatta. Il Maestro invi
questi sessanta in diverse direzioni, con l'ordine:
"Andate, o Bhikkhu, a predicare e ad insegnare".
Egli stesso procedette verso Uruvela, e durante il percorso accolse nell'ordine
trenta nobili giovani e invi anche loro in tutte le direzioni. A Uruvela il
Maestro trionf su tre asceti brahmani, adoratori del fuoco, e accett anche
loro nell'ordine con tutti i loro discepoli, e grazie a lui raggiunsero lo stato
di Arahatta. Il capo di questi era noto come Uruvela Kassapa. Quando si furono
seduti sul pendio di Gaya, egli pronunci il terzo discorso, chiamato il
"Discorso del fuoco":
"Tutte le cose, o Bhikkhu, sono in fiamme. E cosa sono Bhikkhu, tutte queste
cose in fiamme? L'occhio in fiamme, le forme sono in fiamme, la coscienza
dell'occhio in fiamme, le impressioni ricevute dall'occhio sono in fiamme; e
qualsiasi sensazione - piacevole, spiacevole, o neutra - trae origine dalle
impressioni ricevute dall'occhio, ed quindi ugualmente in fiamme.
"e da cosa sono accese tutte queste fiamme? Io dico che lo sono dal fuoco della
passione, del risentimento, e dal fuoco dell'illusione (raga, dosa, moha); sono
infiammate dalla nascita, dalla vecchiaia, dalla morte, dalla deplorazione,
dalla miseria, dal dispiacere e dalla disperazione.
"E cos per l'orecchio, per il naso, la lingua, e per il tatto. Anche il
mentale infiammato, i pensieri sono infiammati; e la coscienza mentale, le
impressioni ricevute dalla mente, e le sensazioni che sorgono dalle impressioni
che la mente riceve, anche queste sono infiammate.
"Da cosa sono infiammate? Io dico che lo sono dal fuoco della passione, dal
fuoco del risentimento, e dal fuoco dell'illusione; esse sono infiammate dalla
nascita, dalla vecchiaia, dalla morte, dalla deplorazione, dalla miseria, dal
dispiacere e dalla disperazione.
"E vedendo questo, o Bhikkhu, il vero discepolo concepisce disgusto per
l'occhio, le forme, la coscienza dell'occhio, le impressioni ricevute
dall'occhio, e per le sensazioni che ne derivano; e per l'orecchio, il naso, la
lingua, per il senso del tatto, per il mentale, i pensieri, la coscienza
mentale, le impressioni e le sensazioni. Cos si sveste del desiderio, e
conseguentemente liberato, ed consapevole di essersi liberato, e sa che il
divenire si esaurito, che ha vissuto secondo la verit, che ha fatto ci che
doveva, e che ha eliminato per sempre la mortalit".
Mentre il "Discorso del fuoco" veniva pronunciato, le menti dei mille Bhikkhu l
riuniti si emanciparono dall'attaccamento e si liberarono dalle bassezze, e cos
raggiunsero l'Arahatta e il Nibbana.
La conversione di Sariputta e Mogallana
Il Buddha, circondato da mille Arahat, il cui capo era Uruvela Kassapa, si rec
nella Selva delle Palme vicino a Rajagaha, per rispettare la promessa che aveva
fatto al re Bimbisara. Quando venne riferito al re: "Il Maestro giunto",
questi si affrett verso il bosco e si gett ai piedi del Buddha, e dopo aver
cos reso omaggio, egli e il suo seguito sedettero. Il re non riusciva a capire
se il Buddha era divenuto il discepolo di Uruvela Kassapa, o se lo era Uruvela
Kassapa del Buddha; per risolvere il dubbio, Uruvela Kassapa si prostern ai
piedi del Maestro, dicendo:
"Il Signore Benedetto il mio Maestro, e io sono il discepolo.
Tutta la gente acclam al gran potere del Buddha, esclamando:

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"Anche Uruvela Kassapa ha spezzato la rete dell'illusione e ha ceduto davanti al


seguace dei Buddha del passato!"
Per mostrare che questa non era la prima volta che Kassapa il grande gli aveva
ceduto, il Beato recit il Maha Narada Kassapa Jataka; e proclam le Quattro
Nobili Verit. Il re di Magadha con quasi tutto il suo seguito entr nella prima
via, e quelli che non fecero cos, divennero discepoli secolari. Il re fece una
grossa donazione all'ordine, con il Buddha alla sua testa, e la conferm
spargendo dell'acqua. Quando il Maestro ebbe cos ricevuto il Monastero della
Selva di Bamb, ringrazi, si alz dal suo posto, e si rec l. A quel tempo due
asceti brahmani, di nome Sariputta e Mogallana vivevano vicino a Rajagaha.
Sariputta osserv il venerabile Arahat Assaji nel suo giro di questua, not la
dignit e la grazia del suo contegno; e quando l'anziano ebbe ottenuto le
elemosine e stava andandosene dalla citt, Sariputta trov l'occasione di
parlargli e si inform su chi fosse il suo Maestro, e su quale fosse la dottrina
da lui praticata. Assaji rispose:
"Fratello, c' un grande monaco Sakya, e per seguirlo io ho abbandonato il
mondo. Questo Beato il mio Maestro, e la dottrina che io approvo la sua".
Allora Sariputta domand:
"Qual , allora, venerabile signore, la dottrina del tuo Maestro?"
"Fratello", rispose Assaji, "io sono un novizio e un principiante, e non molto
tempo che mi sono ritirato dal mondo per adottare la disciplina e la dottrina.
Quindi posso solamente esporti la dottrina in breve, e renderti la sua sostanza
in poche parole".
Allora il venerabile Assaji ripet a Sariputta il pellegrino i versi seguenti:
Di qualsiasi cosa prodotta da causa, la causa ne ha rivelato il Buddha, e allo
stesso modo, come esse cessino d'essere: questo ci che il grande Adepto
proclama.
Udendo questa esposizione della dottrina, Sariputta il pellegrino arriv alla
percezione chiara e distinta della verit che qualsiasi cosa soggetta
all'origine anche soggetta a cessazione. Cos Sariputta raggiunse la prima
via. Poi, tornato da Mogallana, gli rifer gli stessi versi e anch'egli
raggiunse la prima via. Questi due, lasciati i loro Maestri precedenti,
entrarono nell'ordine fondato dal Buddha, e in capo a breve tempo entrambi
raggiunsero l'Arahatta e il Maestro ne fece i suoi principali discepoli.
[Nota: L'elemento pi essenziale della dottrina buddhistica, la cui piena
realizzazione costituisce l'illuminazione di un Buddha, qui esposta con il
minor numero possibile di parole. La chiara enunciazione della legge della
causalit universale - la perpetua continuit del divenire - il grande
contributo del Buddha al pensiero indiano, perch solo con relativa difficolt
che il Vedanta in grado di liberarsi dal concetto di una Causa Prima. I versi
di Assaji sono spesso chiamati la "Professione di Fede Buddistica"; essi sono
citati negli scritti buddhistici pi frequentemente di qualsiasi altro testo.]
Il ritorno del Buddha a Kapilavatthu
Nel frattempo fu riferito a Suddhodana che suo figlio, che per sei anni si era
dedicato alla mortificazione, aveva ottenuto la perfetta illuminazione, aveva
messo in movimento la Ruota della Legge, e risiedeva nella Selva dei Bamb
vicino a Rajagaha. Egli invi un ambasciatore con un seguito di mille uomini
insieme al messaggio:
"Tuo padre, il re Suddhodana, desidera vederti".
Raggiunsero il monastero nell'ora dell'istruzione e rimanendo in piedi ad
ascoltare il discorso, l'ambasciatore raggiunse l'Arahatta con tutto il suo
seguito, e preg di essere ammesso nell'ordine; il Buddha li accett. Essendo
ora indifferenti alle cose di questo mondo, non consegnarono il messaggio del
re. Con le stesse modalit della prima volta il re invi altri messaggeri,
ognuno con un seguito uguale, e tutti questi, trascurando il loro incarico, non
tornarono, senza fargli sapere niente. Allora il re convinse il suo ministro
Kaludayin a portare il messaggio, e questi acconsent solo a condizione di
ricevere il permesso di diventare lui stesso membro dell'ordine.

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"Amico mio", disse il re, "puoi diventare un eremita o no, puoi fare ci che
vuoi, solo agisci in modo che io possa vedere mio figlio prima di morire".
Kaludayin si rec a Rajagaha, e stando in piedi tra i discepoli nell'ora
dell'istruzione, raggiunse l'Arahatta e fu accettato nell'ordine. A quell'epoca
erano trascorsi otto mesi dall'illuminazione, e di questo tempo, il primo
trimestre, o stagione delle piogge, era stato passato nel Parco dei Cervi a
Benares, altri tre mesi ad Uruvela, e due mesi a Rajagaha. Adesso era finita la
stagione fredda, la terra era coperta di erba verde, gli alberi di fiori
scarlatti, e le strade erano piacevoli per il viaggiatore. Il giorno della luna
piena di marzo, Kaludayin, un'intera settimana dopo la sua ammissione
nell'ordine, parl con il Buddha, e lo invit ad andare a trovare suo padre, che
desiderava vederlo. E il Maestro, prevedendo che ne sarebbe risultata la
salvezza di molti uomini, assent, dicendo a Kaludayin:
"Ben detto, Udayin, ci andr".
Infatti era conforme alla regola che i Fratelli viaggiassero da un luogo
all'altro. Accompagnato da ventimila Arahat di buona famiglia, e percorrendo
ogni giorno una lega, raggiunse Kapilavatthu in due mesi. Ma Kaludayin si spost
istantaneamente nell'aria e inform il re che suo figlio si era messo in
cammino, ed elogiando ogni giorno le virt del Buddha, predispose i Sakya a suo
favore.
I Sakya pensarono a quale sarebbe stato il luogo pi gradevole per la sua
residenza e scelsero il bosco di alberi nigrodha vicino alla citt. Con fiori in
mano, e accompagnati da bambini del posto, giovanotti e fanciulle di famiglia
reale, uscirono ad incontrarlo e lo condussero nel bosco. Ma vedendolo pi
giovane di loro, come se fosse stato un fratello minore, o un nipote, essi non
si prosternarono. Allora il Buddha, comprendendo i loro pensieri, comp il
miracolo del sollevamento in aria del suo sedile su una piattaforma
ingioiellata, e cos predic la legge. Il re, vedendo questo miracolo, disse:
"O Beato, quando Kala Devala si prostern ai tuoi piedi il giorno della tua
nascita, io ti tributai rispetto per la prima volta. Quando vidi che l'ombra
dell'albero jambu rimaneva immobile in occasione della festa dell'aratura, ti
tributai rispetto la seconda volta; ed ora, a causa di questo grande miracolo,
mi prosterno nuovamente ai tuoi piedi".
E non ci fu nessun Sakya che non si prostern ai piedi del Buddha nello stesso
momento. Allora il Beato scese dall'aria e sedette sul trono che gli era stato
preparato, e l pronunci un discorso, e cio, la storia della sua vita
anteriore come principe Vessantara.
La conversione dei Prncipi Sakya
Il giorno successivo il Maestro entr a Kapilavatthu per mendicare il suo cibo,
accompagnato da ventimila Arahat. Quando si fu sparsa la voce che il giovane
principe Siddhattha stava mendicando porta a porta, le finestre di case a molti
piani si spalancarono e una folla guard fuori stupita. Tra questi c'era la
madre di Rahula, che si disse:
"E giusto che il mio signore, che era solito percorrere questa citt in un
palanchino dorato, con ogni segno di pompa, ora debba mendicare il suo cibo di
porta in porta, con i capelli e la barba rasati, e vestito di abiti dalla tinta
fulva?"
Ella rifer le sue riflessioni al re. Egli, alzandosi immediatamente, usc per
protestare con suo figlio, che cos disonorava il clan dei Sakya.
"Pensi che ci sia impossibile", gli disse "provvedere al nutrimento per tutti i
tuoi seguaci?"
"E il nostro uso, o re!" fu la risposta.
"Non cos, Maestro", disse il re; "nessuno dei nostri antenati ha mai mendicato
il suo nutrimento".
"O re", replic il Buddha, "tu discendi dalla successione dei re, ma io discendo
dalla successione dei Buddha: e ognuno di loro ha mendicato il suo cibo
giornaliero, ed vissuto di elemosine" .
Stando in piedi in mezzo alla strada recit i versi:
Alzatevi e non indugiate, ricercate la vera vita! Chi esercita la virt riposa
nella beatitudine, in questo mondo come nell'altro.

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Quando il Buddha ebbe pronunciato questa strofa, il re raggiunse il frutto della


prima via. Allora il Buddha continu:
Ricercate la vera vita, non ricercate il peccato! Chi esercita la virt riposa
nella beatitudine, in questo mondo come nell'altro.
Ed il re ottenne il frutto della seconda via. Allora il Buddha recit il
Dhammapala Jataka, e il re raggiunse il frutto della terza via. Quando fu sul
punto di morire il re ottenne lo stato di Arahatta: non pratic mai il grande
sforzo in solitudine. Appena il re ebbe sperimentato il frutto della
conversione, prese la ciotola del Buddha e guid il Beato e tutti i suoi seguaci
nel palazzo, per servire loro cibo saporito.
Quando il pranzo fu terminato, le donne della casa vennero a rendere omaggio al
Beato, eccetto solo la madre di Rahula; ella rimase da sola, pensando:
"Se io ho un minimo valore agli occhi del mio signore, egli stesso verr da me e
allora gli render omaggio".
Effettivamente il Buddha and nella camera della madre di Rahula, accompagnato
dai due principali discepoli, e si sedette nel posto che gli era stato
preparato. La madre di Rahula accorse velocemente, pose le mani sulle sue
caviglie, ed appoggi la testa sui suoi piedi, rendendo cos omaggio come si era
proposta. Allora il re disse al Beato:
"Da quando mia figlia ha udito che hai indossato abiti da monaco, anche lei ha
indossato solo abiti dello stesso tipo; da quando ha udito che mangiavi solo un
pasto al giorno, anche lei ha fatto solo un singolo pasto; da quando ha udito
che avevi dimenticato l'uso dei giacigli elevati, anche lei ha dormito su una
stuoia appoggiata direttamente al suolo; e quando i suoi parenti avrebbero
voluto ospitarla e circondarla con ogni lusso, ella non li ha ascoltati. Tale
la sua bont, o Beato".
"Non c' da meravigliarsi", osserv il Beato, "che eserciti l'autocontrollo ora,
che la sua saggezza maturata; poich non faceva meno quando la sua saggezza
non era ancora matura".
Ed egli narr il Canda-kinnara Jataka.
Il secondo giorno un figlio di Suddhodhana e la signora Gautami dovevano
celebrare contemporaneamente la sua instaurazione come principe ereditario ed il
suo matrimonio con Janapada Kalyani, la bellezza del paese. Ma il Buddha and a
casa sua, e gli mise in mano la propria ciotola; e, nell'intento di fargli
capire che avrebbe dovuto abbandonare il mondo, gli augur la vera felicit;
poi, alzatosi, se ne and per la sua strada. Il giovane, non osando dire al
Maestro:
"Prenditi indietro la tua ciotola", fu obbligato a seguirlo al suo ritiro, e il
Buddha lo ricevette, bench fosse riluttante, nell'ordine, ed egli fu ordinato
monaco.
La mattina seguente la madre di Rahula vest il bambino con i suoi migliori
abiti e lo mand dal Beato, dicendogli:
"Guarda, mio caro, quel monaco che accompagnato da cos tanti Fratelli: egli
tuo padre, che possedeva un grande tesoro, che non abbiamo pi visto da quando
ci ha lasciati. Adesso vai da lui e digli: "O padre, io sono tuo figlio, ed ho
bisogno del tesoro; dammi il tesoro, perch un figlio l'erede della propriet
del padre".
Cos il bambino and dal Beato e rimase davanti a lui contento e di buon umore.
Quando il Beato ebbe terminato il suo pasto, si alz e se ne and, e il ragazzo
lo segu, dicendo, come sua madre gli aveva insegnato:
"O monaco! Dammi la mia eredit".
Allora il Beato disse a Sariputta:
"Bene, allora, Sariputta, ricevi Rahula nel nostro ordine".
Ma quando il re venne a sapere che suo nipote era stato ordinato ne fu
profondamente dispiaciuto; manifest il suo disappunto al Maestro, ed ottenne da
lui la promessa che in futuro nessun figlio sarebbe stato accettato nell'ordine
senza il consenso dei suoi genitori. Quindi, dopo che il re Suddhodana ebbe
ottenuto il frutto della terza via, il Beato, con la compagnia dei Fratelli,
ritorn a Rajagaha, e stabil la sua residenza nella Selva di Sita.
Ma tra Kapilavatthu e Rajagaha il Maestro si arrest per breve tempo nel Bosco
di Manghi di Anupiya. Mentre era in quel luogo un certo numero di Sakya decise

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di unirsi alla sua congregazione, e a questo scopo lo seguirono cost. I pi


importanti prncipi erano Anuruddha, Bhaddiva, Kimbila, Ananda, il cugino del
Buddha, che fu in seguito designato suo servitore personale, e Devadatta, altro
cugino del Buddha, che fu sempre suo nemico.
La conversione di Anathapindika
A quei tempi c'era un ricchissimo mercante, di nome Anathapindika, che risiedeva
in casa di un amico a Rajagaha, e che ebbe notizia che era sorto un Beato
Buddha. Di prima mattina egli and dal Maestro, ascolt la legge, si convert,
fece una grande donazione all'ordine, e ricevette dal Maestro la promessa che
avrebbe visitato Savatthi, la patria del mercante. Allora, lungo l'intero
percorso di una distanza di quarantacinque leghe, costru un padiglione ad ogni
lega. Compr il grande bosco di Jetavana a Savatthi per il prezzo di tante
monete d'oro quante ne occorrevano per ricoprirne tutta la superficie. Al centro
fece costruire una camera confortevole per il Maestro, celle separate per gli
ottanta anziani attorno ad essa, e molte altre residenze con lunghe sale, tetti
a terrazze, terrapieni su cui passeggiare di notte e di giorno, e riserve
d'acqua. Quindi mand al Maestro un messaggio per avvertirlo che tutto era
pronto. Il Maestro part da Rajagaha, e nel tempo necessario raggiunse Savatthi.
Il ricco mercante, con sua moglie, suo figlio e le sue due figlie, vestiti da
festa, e accompagnati da un seguito imponente uscirono ad accoglierlo; quando il
Beato, da parte sua, entr nel monastero appena costruito con tutta la grazia
infinita e l'incommensurabile maest di un Buddha, fece brillare il bosco con la
gloria della sua persona, come se fosse stato cosparso di polvere d'oro.
Allora Anathapindika chiese al Maestro:
"Che devo fare di questo monastero?"
Il Maestro rispose:
"Donalo all'Ordine, sia l'attuale che il futuro".
Il grande mercante, spruzzando acqua da un vaso d'oro nelle mani del Maestro,
conferm il regalo in questo modo. Il Maestro lo accett, ringrazi, lod la
destinazione dei monasteri e la loro donazione. La festa per la consacrazione
dur nove mesi. A quei tempi abitava a Savatthi, la pi importante citt del
Kosala, anche la signora Visakha, moglie del ricco mercante Punnavaddhana. Essa
si fece patrona e sostenitrice dell'ordine, e provoc anche la conversione di
suo suocero, che era un aderente dei Jaina svestiti; per questa ragione ottenne
il nome di madre di Migara. Inoltre aveva offerto all'Ordine il monastero di
Pubbarama, il cui pregio e splendore erano secondi solo a quelli del monastero
fatto erigere dallo stesso Anathapindika.
Il Buddha scongiura una guerra
Tre stagioni delle piogge erano state trascorse dal Signore nella Selva dei
Bamb. Fu nella quinta stagione, quando egli risiedeva nella residenza di
Kutagara, nella grande foresta vicino a Vesali, che sorse una disputa tra i
Sakya e i Koliya a proposito dell'acqua del fiume Rohim, che a causa di una
grande siccit, quell'anno non era sufficiente ad irrigare i campi di entrambe
le rive. Il litigio sal di tono e si stava per mettere mano alle armi, quando
il Buddha si rec sul luogo, e si sedette sulla riva del fiume. Si inform della
ragione per cui i prncipi Sakya e i Koliya si erano riuniti, e quando venne a
sapere che si erano riuniti per battersi, chiese quale fosse il motivo della
disputa. I prncipi risposero che non lo sapevano con precisione, e lo fecero
domandare al comandante in capo, che a sua volta non lo sapeva, e lo domand al
reggente; cos l'inchiesta prosegu fino a giungere al padrone delle terre, che
rifer sull'intera faccenda. "A quanto ammonta il valore dell'acqua?" chiese il
Buddha. " infimo", risposero i prncipi.
"E quello della terra?"
"Anche quello molto basso", dissero.
"E il valore dei prncipi?"
"Non pu essere misurato", risposero.
"E voi vorreste", disse il Buddha, "distruggere ci che ha il valore pi elevato
per qualcosa di cos poco pregio?"

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E calm la collera dei combattenti recitando diversi Jataka. Allora i prncipi


pensarono che grazie all'intervento del Buddha un grande spargimento di sangue
era stato evitato, e che se cos non fosse stato, avrebbe potuto non essere
rimasto nessuno di loro, per riferire la storia alle loro mogli e ai loro figli.
Perci, se egli fosse diventato, come avrebbe potuto se lo avesse desiderato, un
monarca universale, essi ne sarebbero stati i vassalli; scelsero
duecentocinquanta uomini tra di loro, da ognuna delle due parti, perch
divenissero suoi servitori, e si unissero all'ordine. Ma questi cinquecento
furono ordinati per desiderio dei loro parenti, e non per loro volont propria,
e le loro mogli si dispiacquero molto della loro mancanza.
L'ammissione delle donne
Avvenne in quel tempo che Suddhodana si ammalasse di un morbo mortale, e appena
questo fu riferito al Beato, egli si rec a Kapilavatthu per far visita a suo
padre. Quando fu arrivato davanti a lui, gli predic l'instabilit di tutte le
cose, cosicch Suddhodana raggiunse il frutto della quarta via, l'Arahatta, e il
Nibbana; e quindi mor. Dopo la morte di suo marito la regina vedova, la matrona
Gautami, decise di adottare la vita monastica, si tagli i capelli e si rec nel
luogo dove il Buddha risiedeva. Era accompagnata dalle mogli dei cinquecento
prncipi che erano stati ordinati in occasione della battaglia sventata sul
fiume Rohini, perch esse ritenevano fosse meglio per loro ritirarsi dal mondo,
che restare a casa come vedove. La matrona Gautami disse al Buddha che poich
Suddhodana era morto, e Rahula e Nanda erano entrambi ordinati Fratelli, ella
non desiderava restare sola, e chiese se poteva essere ammessa nell'ordine, con
le principesse che l'avevano seguita. Ma il Buddha rifiut questa richiesta, una
prima, una seconda, e una terza volta, perch pensava che se fossero state
ammesse le donne, avrebbero distratto le menti di molti che non avevano ancora
avuto accesso alle vie, e questo avrebbe dato adito a voci maligne contro
l'Ordine. Dopo esser state ripetutamente rifiutate, le donne non osavano
chiedere una quarta volta, e tornarono a casa loro. Il Buddha torn nella
residenza di Kutagara, vicino a Vesali.
La matrona Gautami disse alle altre principesse:
"Figlie mie, il Buddha ci ha rifiutato tre volte l'ammissione all'ordine;
sforziamoci di raggiungerlo dove si trova ora, e non potr pi negarcela".
Si tagliarono tutte i capelli, adottarono l'abbigliamento monastico, e portando
con s ciotole di terracotta per l'elemosina, si avviarono nella direzione di
Vesali a piedi; ritenevano infatti che fosse contrario alla disciplina che
un'anacoreta viaggiasse in carrozza. Cos quelle, che in tutta la loro vita
avevano camminato solo su lisci pavimenti, e considerato un avvenimento
eccezionale salire o scendere da un piano all'altro dei loro palazzi, percorsero
le strade polverose, e fu solo verso sera che raggiunsero il luogo dove stava il
Buddha. Furono ricevute da Ananda. Quando egli le vide, con i piedi sanguinanti,
ricoperte di polvere, e mezze morte, il suo cuore si riemp di compassione e i
suoi occhi di lacrime, e chiese il significato del loro viaggio. Quando lo ebbe
conosciuto, ne inform il Maestro, descrivendo tutto ci che aveva visto. Ma il
Buddha rispose semplicemente:
"Basta, Ananda, non mi chiedere che le donne si ritirino dalla vita domestica
per la vita errante, sotto la dottrina e la disciplina di Colui-che-ha-raggiuntoci".
E lo ripet tre volte. Ma Ananda supplic ancora il Beato di accettare le donne
nella vita errante. Chiese al Beato:
"Le donne sarebbero in grado, reverendo Signore, se si ritirano dalla vita
domestica alla vita errante, di ottenere i frutti della prima, della seconda,
della terza e della quarta via, e anche l'Arahatta?"
Il Buddha non pot negare che le donne ne sarebbero state capaci.
"I Buddha", chiese ancora Ananda, "sono nati nel nostro mondo solo a beneficio
degli uomini? Sicuramente lo sono anche a beneficio delle donne".
Allora il Beato acconsent che le donne potessero pronunciare la professione di
fede ed entrassero nell'ordine, sottostando alle condizioni degli Otto Doveri di
subordinazione ai Fratelli.
"Ma", aggiunse, "se le donne non fossero state ammesse nell'ordine, la buona
legge sarebbe durata mille anni, e adesso resister solo per cinquecento anni.

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Perch cos come, quando la gramigna invade un fiorente campo di riso, questo
campo non pu prosperare a lungo, nello stesso modo quando le donne si ritirano
dalla vita domestica alla vita errante sotto una dottrina e una disciplina, la
norma non resiste a lungo. E cos come un grosso bacino si rinforza con una diga
possente, cos io ho stabilito una barriera di otto importanti regole che non
devono essere trasgredite, finch dura la vita".
Fu cos che la matrona Gautami e le cinquecento principesse furono ammesse
nell'ordine; non era passato molto tempo che Gautami raggiunse lo stato di
Arahatta e le cinquecento principesse colsero il frutto della prima via. Questi
avvenimenti ebbero luogo nel sesto anno dall'Illuminazione.
Dal sesto al quattordicesimo anno
La sesta stagione delle piogge fu trascorsa a Savatthi, e quindi il Beato si
trasfer a Rajagaha. Il nome della moglie del re Bimbisara era Khema; ella
andava talmente fiera della sua bellezza che non si era mai degnata di far
visita al Maestro: ma in una certa occasione il re organizz un incontro per
mezzo di uno stratagemma. Allora il Buddha comp un miracolo per lei: produsse
l'immagine di una delle belle ninfe del cielo di Indra, e mentre lei la
osservava, la fece passare attraverso tutti gli stadi della giovent, della
maturit, della vecchiaia e della morte. Con questa terribile visione, la regina
si convinse ad ascoltare l'insegnamento del Maestro, entr nella prima via, e in
seguito avrebbe ottenuto lo stato di Arahatta.
Mentre il Maestro risiedeva a Rajagaha un ricco mercante di quel luogo venne in
possesso di un pezzo di legno di sandalo, e ne fece una ciotola. Si affrett ad
appenderla ad un'alta canna di bamb, e sollevando cos la ciotola in alto,
annunci:
"Se c' qualche pellegrino o Brahmano che possieda poteri miracolosi, tiri gi
questa ciotola".
Allora Mogallana e altri Fratelli si incitarono l'uno con l'altro a tirarla gi;
e un altro, di nome Pindola-Bharadvaja, si sollev nel cielo e prese la ciotola,
facendo poi tre volte il giro della citt prima di scendere, tra lo stupore di
tutti i cittadini. Quando questo fu riportato al Buddha, questi comment:
"Tutto ci non porter alla conversione di chi non convinto, e non porter
alcun vantaggio ai convertiti".
E proib ai Fratelli di dare esibizione dei poteri miracolosi. Il Buddha
incontr opposizione nel suo insegnamento, in particolare da parte di sei
Maestri eretici, ognuno dei quali aveva un grosso seguito di aderenti. Uno di
questi Maestri era Sanjaya, il primo Maestro di Sariputta e Mogallana; un altro
era Nigantha Nataputta, che pi noto come Vardhamana, il fondatore della setta
dei Jaina, la cui storia ricorda sotto molti aspetti quella del Buddhismo; ma
che, contrariamente al Buddhismo, conta ancora molti aderenti nell'India
propriamente detta. Questi diversi Maestri non riuscirono a trovare alcun
appoggio nel regno di Bimbisara, e quindi si trasferirono a Savatthi, sperando
di assicurarsi una maggiore influenza sul re Prasenajit. Savatthi era il luogo
dove i primi Buddha avevano mostrato i loro miracoli maggiori, e ricordando
questo il Buddha procedette a quella volta con l'intenzione di disorientare i
suoi oppositori. Trasport la sua residenza nel monastero di Jetavana.
Immediatamente dopo mostr al popolo, ai sei Maestri, e al re Prasenajit, una
serie di grandi miracoli: cre una grande strada in mezzo al cielo, che andava
da Oriente a Occidente, e vi cammin sopra mentre predicava la buona legge. In
questo modo i Maestri eretici furono sconfitti.
A proseguimento del grande miracolo, il Buddha part in direzione del Cielo dei
Trentatr, e l predic la legge a sua madre, Maha Maya. Il Buddha rest nel
Cielo dei Trentatr per tre mesi, e durante questo tempo cre un'immagine di se
stesso, che continu ad insegnare la legge sulla terra, e ogni giorno and in
giro a mendicare cibo. Quando il Buddha stava per discendere dal cielo, Sakka
comand a Vissakamma, l'architetto divino, di creare una scala tripla, i cui
piedi furono posti vicino alla citt di Sankissa. E il Buddha discese in quel
luogo, scortato da Brahma alla destra e Sakka alla sinistra.
Da Sankissa il Maestro torn al monastero di Jetavana vicino a Savatthi. Qua i
Maestri eretici convinsero una giovane donna di nome Cinca ad agire in modo tale
da far sorgere nella gente il sospetto di una relazione tra lei e il Maestro.

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Dopo molte visite al monastero, ella escogit un modo per assumere l'apparenza
di una donna in stato avanzato di gravidanza, e nel nono mese lanci un'accusa
aperta, e chiese che il Maestro le provvedesse un luogo per il parto. Il Buddha
rispose con voce grave:
"Sorella, se le tue parole sono vere o false, lo sappiamo solo tu ed io".
In quello stesso istante cedettero i legacci, con i quali la donna si era legata
una palla di legno per assumere l'apparenza di una donna incinta. Spinta dal
popolo indignato, spar in mezzo a fiamme che erano sorte dalla terra, e scese
nella parte pi bassa del Purgatorio.
Il nono ritiro fu trascorso nel Ghositarama a Kausambi. Tra i Fratelli sorsero
violenti scontenti su questioni di disciplina, e la saggezza e gentilezza del
Buddha non furono sufficienti a restaurare la pace. Allora egli lasci i
Fratelli e procedette fino al villaggio di Balajalonakara, con l'intenzione di
stabilirvisi da solo come eremita. Durante il percorso incontr Anuruddha,
Nandiya e Kimbila, che vivevano contenti in perfetta concordia, e rinfranc i
loro cuori con un discorso religioso. Poi si stabil nella Selva di Rakkhita e
vi visse in solitudine.
Dopo aver risieduto un certo tempo a Parileyyaka, il Signore si spost a
Savatthi. I Fratelli ribelli di Kausambi avevano ricevuto tali inequivocabili
segni di disprezzo da parte dei laici di quella citt, che risolsero di recarsi
a Savatthi e di esporre l'argomento della disputa al Maestro; accettarono la sua
decisione e cos la pace fu restaurata.
Durante l'undicesimo ritiro il Maestro risiedette a Rajagaha. Un giorno vi vide
un Brahmano, di nome Bharadvaja, che sovrintendeva alla coltivazione dei suoi
campi. Il Brahmano, vedendo che il Buddha si manteneva con le elemosine degli
altri, osserv:
"O pellegrino, io aro e semino, ed cos che mi procuro il cibo. Anche tu ari e
semini con lo stesso scopo?"
Il Buddha replic:
"Anch'io aro e semino, ed cos che mi procuro il cibo".
Il Brahmano ne fu sorpreso, e disse:
"Non vedo, o reverendo Gautama, che tu abbia un giogo, un vomere, un pungolo, o
buoi. Allora, come puoi dire che anche tu coltivi?"
Il Signore rispose:
"La fede il seme che semino; la devozione la pioggia; la modestia il
manico dell'aratro; la mente la barra del giogo; e la concentrazione il mio
aratro e pungolo. L'energia la mia coppia di buoi, che conduce alla salvezza,
che procede senza errori, fino al luogo dove non c' pi dolore".
E Bharadvaja fu talmente toccato da questa parabola che si convert, fece
professione di fede, e fu ammesso nell'Ordine.
Il tredicesimo anno, mentre il Buddha stava a Kapilavatthu, fu vittima di
violenti insulti da parte di suo suocero, Suprabuddha, e predisse che entro una
settimana Suprabuddha sarebbe stato inghiottito vivo dalla terra. E bench
Suprabuddha avesse trascorso l'intera settimana nella torre del suo palazzo, la
terra si apr ed egli fu inghiottito in accordo con la profezia, e sprofond nel
Purgatorio Inferiore.
Il Signore torn da Kapilavatthu al monastero di Jetavana a Savatthi e da l
procedette verso Alavi, un luogo che era infestato da un orco mangiatore di
uomini, che aveva l'abitudine di divorare i bambini del paese giorno dopo giorno.
Quando il Buddha apparve davanti a lui, fu accolto da minacce, ma il Maestro,
con gentilezza e pazienza, riusc ad addolcire il suo cuore, e riusc anche a
rispondere alle domande poste dall'orco, che divent un credente ed emend la
sua vita. Il Maestro conquist alla buona legge anche il feroce brigante
Angulimala, che, nonostante la sua vita malvagia, raggiunse rapidamente lo stato
di Arahatta.
All'incirca nello stesso tempo il pio Anathapindika diede sua figlia in
matrimonio al figlio di un amico che risiedeva ad Anga, e poich la famiglia di
Anga sosteneva il Maestro eretico Nigantha, diede a sua figlia un seguito di
servitrici per sostenerla nella giusta fede. La giovane moglie rifiut di
onorare gli asceti Jaina svestiti, e risvegli in sua suocera un impellente
desiderio di udire la predicazione del Maestro: quando egli arriv, l'intera
famiglia e molti altri si convertirono. Lasciando il compito del lavoro di
conversione ad Anuruddha, il Buddha torn a Savatthi.

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La vita quotidiana del Buddha


In questo modo trascorse anno dopo anno il ministero del Buddha errante, ma gli
eventi degli anni intermedi non possono essere ordinati con esattezza; baster
dare una descrizione generale della vita quotidiana del Maestro a quel tempo.
[Nota: Ci che segue citato dall'ammirevole riassunto di Oldenberg. Buddha,
traduzione inglese di W. Hoey.]
"Da un anno all'altro si ripet per Buddha e i suoi discepoli l'alternanza tra
periodi erranti e periodi di riposo e di ritiro. Nel mese di giugno, quando,
dopo il secco e rovente calore dell'estate indiana, le nuvole arrivano in masse
torreggianti, e i tuoni rombanti annunciano l'avvicinarsi del monsone carico di
pioggia, l'Indiano di oggi, come nelle epoche passate, prepara se stesso e la
sua casa per il periodo durante il quale tutte le solite operazioni sono
interrotte dalla pioggia: per intere settimane i torrenti straripanti confinano
gli abitanti nelle loro capanne, o perlomeno, nei loro villaggi, mentre le
comunicazioni con i vicini sono interrotte da rapide e turbolente correnti, e da
inondazioni. "Gli uccelli", dice un antico testo buddhistico, "costruiscono i
loro nidi sulla cima degli alberi. L nidificano e si nascondono durante la
stagione umida". E cos anche, era una pratica stabilita per i membri degli
ordini monastici, indubbiamente non solo dai tempi di Buddha, ma da quando era
esistito in India un sistema di peregrinazioni religiose, che si sospendessero
le operazioni itineranti durante i tre mesi di pioggia che venivano passati in
tranquillo ritiro nelle vicinanze di citt e villaggi, dove si poteva trovare un
sicuro sostegno nella carit dei credenti... Anche Buddha "osservava vassa, la
stagione delle piogge" circondato da gruppi di discepoli, che si riunivano
insieme per passare la stagione piovosa vicino al loro Maestro. Durante questa
stagione i re e i ricchi si contendevano l'onore di trattare come ospiti lui e i
discepoli che erano con lui, alloggiandoli in residenze e giardini che avevano
fornito alla comunit. Quando le piogge finivano, ricominciava la vita errante:
Buddha andava di citt in citt, di villaggio in villaggio, sempre scortato da
un gran numero di discepoli: i testi dicono spesso che in un luogo fossero
trecento, e in un altro cinquecento, a seguire il loro Maestro. Lungo le strade
maestre, dove i pellegrini religiosi, come i mercanti viaggiatori, erano soliti
passare, i credenti che abitavano nei paraggi avevano cura di procurare rifugi
in cui Buddha e i suoi discepoli potessero riparare: o, dovunque risiedessero i
monaci che professavano la dottrina, si era sicuri di trovare un alloggio nelle
vicinanze; e quand'anche non esistesse altro riparo, non mancavano gli alberi di
mango e di banyan, ai piedi dei quali il gruppo poteva fermarsi per la notte...
"I centri pi importanti di questi pellegrinaggi, e allo stesso tempo
approssimativamente i punti estremi, a Nord-Ovest e a Sud-Est dell'area, nei
quali trascorreva la vita errante del Buddha, erano le capitali dei re di Kosala
e Magadha, Savatthi, ora Sahet Maheth sul Rapti; e Rajagaha, ora Rajgir, a Sud
di Bihar. Nelle immediate vicinanze di queste citt la comunit possedeva molti
bei giardini, nei quali erano erette strutture di vari tipi per le necessit dei
membri. "Non troppo lontani e neppure troppo vicini alla citt", cos dice la
descrizione tipica di tali parchi che si ritrova nei testi sacri, "ben provvisti
di entrate e di uscite, di facile accesso per chi cerca di raggiungerli, senza
troppo trambusto durante il giorno, tranquilli di notte, lontani dall'agitazione
e dalle folle, luoghi di ritiro, posti benefici per la meditazione solitaria".
Uno di questi parchi era il Veluvana, "la Selva dei Bamb", che era stato in
precedenza terreno di piacere del re Bimbisara, e che da lui era stato offerto a
Buddha e alla Chiesa; un altro ancora pi noto era Jetavana a Savatthi, un dono
elargito dal pi generoso ammiratore di Buddha, il grande mercante
Anathapindika. Non solo i testi sacri, ma anche testimonianze monumentali, i
rilievi del grande Stupa di Bharhut, recentemente esplorato, mostrano come
questo dono di Anathapindika fosse altamente celebrato fin dai primi giorni
della Chiesa buddhista... Se si pu parlare di una dimora nella vita errante di
Buddha e dei suoi discepoli, luoghi come Veluvana e Jetavana possono pi di
tutti gli altri essere cos chiamati, vicini ai grandi centri della vita
indiana, ed ancora intoccati dall'agitazione delle capitali, un tempo quiete
residenze di vacanza di sovrani e nobili, prima che i mendicanti giallo-vestiti

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apparissero sulla scena e "la Chiesa nei quattro punti cardinali, presente e
assente" succedesse nel possesso dell'eredit regale. In questi parchi si
trovavano le residenze dei Fratelli, case, sale, chiostri, magazzini, circondati
da vasche di loti, fragranti manghi, snelle palme a ventaglio che ergevano il
loro fogliame in alto, al di sopra di tutto il resto, e dalla fitta verzura
dell'albero nyagrodha, le cui radici, cadendo dall'aria sulla terra, diventano
nuove talee, e con le loro arcate fresche, ombrose, e sentieri arborei, sembrano
invitare alla meditazione serena.
"Questi erano gli ambienti nei quali Buddha trascorse gran parte della sua vita,
probabilmente i suoi periodi pi ricchi di effettivo lavoro. Qui masse di
popolazione, sia laiche sia monastiche, si accalcavano per vederlo e per udirlo
predicare. Qui giunsero da paesi lontani monaci pellegrini che avevano saputo
della fama dell'insegnamento di Buddha, e passata la stagione delle piogge,
intraprendevano un pellegrinaggio per vedere il Maestro di persona...
"La fama della persona di Buddha attrasse da vicino e da lontano folle di
persone che gli stavano attorno, pur senza penetrare nei circoli pi interni
della comunit. Le persone si dicevano l'una con l'altra: "La gente viene
dall'asceta Gotama, attraversando regni e paesi, per conversare con lui".
Spesso, quando avveniva che si fermasse vicino alle residenze dei potenti, re,
prncipi e dignitari arrivavano su carri o su elefanti per rivolgergli domande e
udire la sua dottrina. Tale scena descritta all'inizio del "Sutra sul frutto
dell'ascesi", e riappare nelle rappresentazioni pittoriche dei rilievi di
Bharhut. Il Sutra racconta come il re Ajatasattu di Magadha, nella "Notte del
Loto" - che , nel plenilunio di ottobre, il periodo in cui i loti fioriscono sedesse all'aria aperta, circondato dai suoi nobili sul tetto piatto del suo
palazzo. "Allora", come riportato in questo testo, "il re di Magadha,
Ajatasattu, il figlio dei prncipi Vaidehi, lanci questa esclamazione: 'Bella
in verit questa notte di luna piena, piacevole in verit questa notte di
luna piena, grandiosa in verit questa notte di luna piena, felici presagi in
verit d questa notte di luna piena. Quale Samana (frate mendicante, Bhikkhu) o
quale Brahmano potr consultare, perch la mia anima si rincuori ascoltandolo?'"
Un consigliere nomina questo, e un altro quel Maestro; ma Jivaka, il medico del
re, siede in silenzio. Allora il re di Magadha, Ajatasattu, figlio di Vedehi, si
rivolse a Jivaka Komarabhacca: "Perch taci, o amico Jivaka?" - "Sire, nel mio
bosco di manghi risiede il Sublime, Santo, Supremo Buddha, con una grande
quantit di discepoli, con trecento monaci; di lui, il Sublime Gotama, si sparge
per il mondo un elogio rispettoso, in questi termini: Egli, il Sublime, il
Santo, Supremo Buddha, il Saggio, l'illustre, il Benedetto, che conosce
l'universo, il pi elevato, che soggioga gli uomini come buoi, il Maestro di dei
e uomini, il Sublime Buddha. Sire, vai ad ascoltarlo, il Sublime: se per caso lo
vedi, il Sublime, la tua anima, o sire, si rinvigorir" - Cos il re ordina che
gli elefanti siano preparati per lui e le regine, e la processione reale si
muove con torce accese in quella notte di luna piena, attraversando il cancello
di Rajagaha verso il bosco di manghi di Jivaka, dove si dice che il Buddha abbia
tenuto al re il famoso discorso "Sui frutti dell'ascesi", alla fine del quale il
re si unito alla Chiesa come membro laico...
"Una conclusione frequente di questi dialoghi , naturalmente, che gli avversari
battuti dai partigiani di Buddha invitino lui e i suoi discepoli a pranzo per il
giorno seguente: "Signore, che il Sublime e i suoi discepoli vogliano gradire di
accettare un invito a pranzo da me domani". E Buddha permette che il suo
silenzio sia interpretato come un consenso. Il giorno dopo, verso mezzogiorno,
quando il pranzo pronto, l'ospite invia a Buddha il messaggio: "Signore,
l'ora, il pranzo pronto"; e Buddha prende il suo mantello e la sua ciotola per
le elemosina e si reca con i discepoli nella citt o villaggio della residenza
del suo ospite. Dopo pranzo... durante il quale l'ospite stesso e la sua
famiglia servono gli invitati, quando l'usuale lavaggio delle mani terminato,
l'ospite prende posto con la famiglia di fianco a Buddha e Buddha rivolge loro
un discorso di ammonimento spirituale e di istruzione.
"Se la giornata non riempita da un invito, Buddha, secondo le abitudini
monastiche, intraprende il suo giro di questua nel villaggio o nella citt.
Egli, come pure i suoi discepoli, si alza presto, quando la luce dell'alba
appare nel cielo, e trascorre i primi momenti della giornata in esercizi
spirituali o in conversazione con i suoi discepoli, per poi procedere con i suoi
compagni verso la citt. Nei giorni in cui la sua reputazione era all'apice e il

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suo nome era pronunciato in tutta l'India, con quelli dei personaggi pi famosi,
giorno dopo giorno, si poteva vedere quest'uomo davanti a cui gli stessi re si
prosternavano, che camminava, con la ciotola delle elemosine in mano, per strade
e vicoli, di casa in casa, senza formulare alcuna richiesta, con sguardo
modesto, e che stava ad aspettare silenzioso che un boccone di cibo venisse
deposto nella sua ciotola.
"Quando era tornato dal giro di questua ed aveva mangiato il suo pasto, seguiva,
come richiedeva il clima indiano, un momento, se non di sonno, di riposo e
tranquillo raccoglimento. Riposando in una camera quieta o, meglio ancora, nella
fresca ombra di un denso fogliame, trascorreva le afose e soffocanti ore del
pomeriggio in solitaria contemplazione finch giungeva la sera che lo strappava
una volta di pi dal sacro silenzio all'animata compagnia di amici ed avversari".
La designazione di Ananda
Durante i primi vent'anni di vita del Buddha, i suoi servitori personali non
erano tali in modo permanente. I Fratelli facevano a turno nel portare la
ciotola e il mantello del Maestro, ed egli non favoriva l'uno piuttosto che
l'altro. Ma un giorno si rivolse ai Fratelli, dicendo:
"O Bhikkhu, incomincio ad essere avanti negli anni (a quel tempo il Buddha aveva
cinquantasei anni): alcuni Bhikkhu, quando gli si dice: "Andiamo di qua",
prendono un'altra strada, altri lasciano cadere per terra la mia scodella e il
mio mantello. Conoscete qualche Bhikkhu che possa essere il mio servitore
personale permanente?"
Allora il venerabile Sariputta si alz e disse:
"Io, o Signore, ti servir".
Il Sublime lo scart, e scart pure Mogallana il Grande. Dopo
di ci, tutti i principali discepoli dissero a turno: "Io ti servir".
Solo Ananda rimase silenzioso, perch pensava:
"Il Maestro stesso dir chi accetta".
Allora il Sublime disse:
"O Bhikkhu, Ananda non dev'essere spinto da altri: se lo sa da se stesso, mi
servir".
Allora Ananda si alz e disse:
"Se, Signore, vorrai negarmi quattro cose, e concedermene altre quattro, allora
ti servir".
Le quattro cose che Ananda desiderava gli fossero negate erano i favori
particolari, perch non voleva che si dicesse che si incaricava del servizio per
ottenere abiti, buon vitto, alloggio e inviti. Le quattro concessioni che
desiderava erano che il Buddha avrebbe accettato ogni invito ricevuto attraverso
Ananda, che sarebbe stato facilitato l'accesso a chi Ananda portava per parlare
con lui, e pure ad Ananda stesso, e che avrebbe ripetuto ad Ananda le dottrine
che questi desiderava udire nuovamente: infatti Ananda non desiderava che si
pensasse che il Buddha non gli dava importanza, o che la gente dicesse che il
servitore particolare del Buddha non era versato nella dottrina. Tutte queste
concessioni furono date dal Beato, e da quel momento in avanti, fino al giorno
della sua morte, Ananda rimase il servitore permanente del Buddha. Ananda non
raggiunse lo stato di Arahatta che dopo la morte del Buddha.
[Nota: Il servizio personale del Buddha comprendeva il compito di portargli
l'acqua e lo spazzolino da denti, di lavargli i piedi, di accompagnarlo fuori,
di portare la sua ciotola e il mantello, pulirgli la cella, e fare le funzioni
di ciambellano.]
L'inimicizia di Devadatta
Nella descrizione della vita quotidiana del Buddha riportata nelle pagine
antecedenti, fatta menzione di Ajatasattu, re di Magadha. Questo Ajatasattu
era il figlio di Bimbisara, il principale sostenitore regale del Buddha. Quando
Ajatasattu fu concepito, un presagio e una profezia indicarono che sarebbe stato
l'assassino di suo padre. E questo avvenne sotto istigazione di Devadatta. Un
giorno in cui il Buddha stava insegnando nella Selva dei Bamb, Devadatta

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propose che a causa dell'avanzata et del Maestro, il comando della


congregazione fosse esercitato da lui stesso. Dal momento in cui questo
suggerimento fu decisamente respinto, l'inimicizia e la volont di nuocere di
Devadatta aumentarono grandemente. A causa di ci che aveva avuto luogo, il
Buddha promulg un decreto contro Devadatta, perch era un rinnegato le cui
parole non dovevano essere considerate come procedenti dal Buddha, dalla legge,
e dalla comunit. L'adirato Devadatta si present davanti ad Ajatasattu, il
figlio ed erede del re Bimbisara, e lo persuase a trucidare suo padre e ad
usurpare il trono, mentre Devadatta avrebbe ucciso il Maestro e sarebbe
diventato un Buddha. Bimbisara, comunque, scopr l'intenzione di suo figlio, ma,
invece di punirlo in qualche modo, abdic al trono e lasci il comando a suo
figlio. Nonostante questo, poich Devadatta lo avvert che Bimbisara avrebbe
potuto desiderare di recuperare il trono, Ajatasattu lo fece morire d'inedia.
Allora Devadatta si assicur del consenso del nuovo re per l'assassinio del
Buddha, e assold trentun uomini per mettere in atto il suo progetto. Tutti
questi uomini, per, nonostante fossero criminali nati, furono cos toccati
dalla maest e dall'affabile gentilezza del Maestro, che non poterono alzare le
mani contro di lui, ma, al contrario, si convertirono e si unirono alla
comunit. Devadatta si convinse cos che il Buddha non poteva essere ucciso da
nessun essere umano, e decise di lanciargli contro il feroce elefante Malagiri.
Questa bestia era abituata a bere otto misure di liquore alcolico ogni giorno,
ma Devadatta ordin al guardiano di dargliene sedici misure l'ultimo giorno, e
di lasciarlo libero contro il Buddha quando questi percorreva le vie. Il Buddha
fu messo al corrente di ci che stava per avvenire, ma rifiut di cambiare il
suo percorso abituale, ed entr nella citt alla solita ora, accompagnato da un
gruppo di Bhikkhu. Allora l'elefante fu lasciato libero contro di lui, e si mise
a caricare rabbioso per le strade, causando disastri. I Bhikkhu supplicarono il
Maestro di fuggire, ma egli non volle; cercarono allora di camminare davanti a
lui, perch non fosse il primo ad incontrare la bestia selvaggia, ma il Buddha
proib questo procedimento, salvo che per Ananda a cui imped solo di usare
poteri miracolosi. In quel momento l'elefante stava per schiacciare la madre di
un bambino che era corso in strada ignaro del pericolo; ma il Buddha chiam
l'elefante:
"Non era inteso che tu distruggessi altri esseri oltre a me: io sono qui; non
sprecare la tua forza per un oggetto meno nobile".
Udendo la voce del Buddha, l'elefante guard verso di lui; immediatamente gli
effetti dell'alcol si dissolsero, e l'elefante gli si avvicin con modi gentili
e si inginocchi davanti a lui. Il Maestro gli ordin di non prendere pi vite
umane in futuro, e di essere gentile con tutta la gente: e l'elefante ripet i
cinque precetti davanti alla folla riunita. Cos fu soggiogata l'irruenza di
Malagiri, e se non fosse stato un quadrupede, sarebbe entrato nella prima via
(gli animali possono osservare i precetti, le divinit possono entrare nelle
vie, ma solo gli esseri umani possono raggiungere l'Arahatta e il Nibbana). Dopo
che il Buddha ebbe compiuto il miracolo, riflett che non sarebbe stato
conveniente chiedere l'elemosina nello stesso posto, e quindi torn al monastero
di Jetavana, senza procedere al suo giro abituale.
In seguito a questo, Devadatta tent di creare uno scisma nell'ordine. Insieme a
certi altri Bhikkhu chiese al Buddha di stabilire una regola ascetica pi dura
per i Fratelli, che non potessero vestirsi che di vecchi stracci, che vivessero
come eremiti dei boschi, che non accettassero inviti, e si astenessero dal
mangiare pesce e carne. Il Maestro rifiut di concedere simili richieste,
dichiarando che coloro che lo avessero desiderato potevano adottare questa
regola pi severa, ma che egli non l'avrebbe resa obbligatoria per tutti.
Devadatta, che si aspettava questo rifiuto, ne fece il motivo per una divisione
all'interno dell'Ordine. Con un partito di cinquecento Fratelli recentemente
ordinati, prese la direzione del Pendio di Gaya. Ma mentre stava predicando in
quel luogo, gli capit di vedere Sariputta e Mogallana tra gli ascoltatori, e
pensando che fossero del suo partito, domand a Sariputta di predicare, mentre
lui dormiva. Allora Sariputta e Mogallana si rivolsero all'assemblea e
persuasero i cinquecento a ritornare dal Maestro. Quando Devadatta si risvegli
ed apprese ci che era avvenuto, gli usc sangue bollente dalla bocca per la
collera. Devadatta giacque malato per nove mesi; alla fine di questo tempo
determin di chiedere il perdono del Buddha, perch sapeva che il Maestro non
nutriva cattive intenzioni nei suoi confronti. I suoi discepoli tentarono di

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dissuaderlo, sapendo che il Buddha avrebbe rifiutato di vederlo; ma egli si fece


trasportare su un palanchino al monastero di Jetavana. I Bhikkhu informarono il
Buddha che si stava avvicinando, ma il Maestro rispose:
"Non vedr il Buddha, perch i suoi crimini sono talmente grossi che n dieci,
n cento, e neppure mille Buddha possono aiutarlo".
Quando raggiunsero il monastero, i discepoli di Devadatta appoggiarono a terra
il palanchino; e allora, nonostante la sua debolezza, Devadatta si alz e si
mise in piedi. Ma non aveva ancora toccato il suolo con i piedi, che da terra
sorsero le fiamme dell'inferno pi basso, e lo avvolsero nella loro stretta,
prima i piedi, poi il bacino, e finalmente le spalle. Terrorizzato egli proruppe
in alte grida:
"Salvami, figlio mio. Sono il cugino del Buddha. O Buddha, anche se ho fatto
cos tanto contro di te, salvami in considerazione della nostra parentela!"
E ripet la formula per rifugiarsi nel Buddha, nella norma e nell'ordine. In
virt di questo ricevette alla fine l'aiuto delle Tre Gemme, e in una vita
futura diverr il Buddha "per s" Sattisara, nonostante che in quel momento
fosse finito all'inferno e avesse ricevuto un corpo di fuoco.
Il re Ajatasattu, che aveva trucidato il padre, avvert i rimorsi della
coscienza. Non trov conforto nei sei Maestri eretici che erano gli avversari
del Signore. E allora, seguendo il consiglio del medico Jivaka - come stato
riferito in precedenza - vide il Buddha, ud il suo insegnamento e si convert
alla vera fede.
La distruzione dei Sakya
Non era passato molto tempo che nel settimo anno del regno di Ajatasattu, il
figlio del re di Kosala detronizz suo padre e, per vendicarsi di uno sgarbo,
marci contro Kapilavatthu. Quasi l'intero clan dei Sakya per nella guerra che
ne segu, mentre il partito dei Kosala anneg in una grande inondazione.
Quando il Signore ebbe raggiunto il suo settantanovesimo anno - che era il
quarantaquattresimo anno dopo l'illuminazione - Ajatasattu intraprese
un'infruttuosa guerra contro i Vajjia di Vesali. Il Buddha fu consultato sulla
probabilit di una vittoria, ed grazie a questa circostanza che possiamo
conoscere il punto di vista del Maestro sulla politica, perch egli dichiara di
aver insegnato ai Vajjia le condizioni per condurre bene una guerra; poich lo
informano che i Vajjia continuano ad osservare queste istituzioni, egli predice
che non subiranno sconfitte. Queste condizioni sono formulate nei termini
seguenti:
"Finch, Ananda, i Vajjia saranno uniti in concordia, si solleveranno in
concordia e porteranno avanti le loro imprese in concordia - finch non
promulgheranno niente di nuovo su ci che gi stabilito, non abrogheranno
niente di ci che stato promulgato in precedenza, e agiranno in accordo con le
antiche istituzioni dei Vajjia che sono state stabilite nei primi tempi - finch
onoreranno, stimeranno e riveriranno i Vajjia anziani, e considereranno un
dovere prestare attenzione alle loro parole - finch nessuna donna o ragazza
appartenente al proprio clan sar trattenuta tra di loro con la forza e il
rapimento - finch onoreranno, stimeranno, riveriranno e sosterranno i santuari
Vajjia in citt e in campagna, e non permetteranno che le loro offerte e i riti
adeguati, che si compivano ed eseguivano anticamente, cadano in disuso - finch
la giusta protezione, difesa, e sostegno saranno
forniti pienamente agli
Arahat che ci sono tra di loro, cos che gli Arahat lontani entrino nel regno e
quelli che ci sono gi vi vivano a loro agio - finch continuer cos, ci si pu
aspettare che i Vajjia non declinino, ma prosperino".
In seguito a questo discorso il Maestro riun i Fratelli e illustr quarantun
condizioni per il benessere di un ordine religioso; di queste condizioni,
diverse che riguardano la concordia, l'osservanza, il mantenimento delle regole
gi esistenti, l'obbedienza e il rispetto degli anziani, sono identiche a quelle
date per una societ secolare. Tra le altre possiamo notare le seguenti:
"Finch, o Bhikkhu, ... i Fratelli si accontenteranno di una vita solitaria ...
che non si occupino, non si appassionino, e non si mettano in relazione con il
commercio ... che non interrompano il loro percorso verso il Nibbana per
l'ottenimento di qualcosa di molto minor valore ... che si esercitino
nell'attivit mentale, nella ricerca della verit, dell'energia, della gioia,

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della pace, della seria contemplazione, dell'equilibrio mentale ... che si


esercitino nella realizzazione delle idee di impermanenza di ogni fenomeno,
corporeo o mentale, dell'assenza di qualsiasi anima ... vivano tra gli Arahat
nella pratica, sia pubblica che privata, di quelle virt che producono la
liberazione e che sono stimate dal Saggio, che non sono macchiate dal desiderio
di una vita futura o dalla fede nell'efficacia degli atti esterni ... vivano tra
gli Arahat, curando, sia in pubblico che in privato, quel nobile e
provvidenziale discernimento che porta alla completa distruzione del dispiacere
di chi agisce in accordo con esso - finch osserveranno queste regole non c' da
aspettarsi che declinino, ma che prosperino".
E a Rajagaha, sul Picco dell'Avvoltoio, il Maestro istru i Fratelli, e cos
anche a Nalanda, sempre nello stesso modo.
"Tale la giusta condotta; tale la seria contemplazione; tale
l'intelligenza (sila, samadhi, e panna, sono qualcosa come "opere", "fede" e
"ragione" del Cristianesimo. La formula sopra citata appare ripetutamente come
riassunto corrente del discorso del Buddha.). Il frutto diviene grande, grande
il risultato della seria contemplazione, quando condotta nel modo giusto.
Grande diventa il frutto, grande il risultato dell'intelletto, quando viene
usato con seria contemplazione. Il mentale, se adoperato con intelligenza, si
libera dalle intossicazioni, cio dall'ebbrezza della sensualit, dall'ebbrezza
del divenire, dall'ebbrezza dell'illusione, dall'ebbrezza dell'ignoranza".
Il dono di un parco da parte di Ambapali
Allora il Maestro si diresse a Vesali. A quel tempo nella citt di Vesali viveva
una bella e ricca cortigiana di nome Ambapali, la "ragazza del mango". Le fu
riferito che il Beato era giunto a Vesali e si era fermato presso il suo bosco
di manghi. Immediatamente ella fece preparare i suoi carri ed usc verso il
bosco, accompagnata da tutto il suo corteo; appena raggiunse il luogo dove si
trovava il Beato, gli and incontro a piedi, e rimase rispettosamente in un
angolo; il Beato la istru e la rincuor con un discorso religioso. Ed ella,
essendo cos istruita e rincuorata, si rivolse al Beato e disse:
"Possa il maestro farmi l'onore di venire con tutti i Fratelli a pranzo da me
domani".
Il Beato acconsent con il silenzio. Ambapali si prostern davanti a lui e se ne
and.
[Nota: La descrizione della ricca cortigiana sinceramente devota, "rincuorata
dal discorso religioso", frequente nella vita indiana delle citt antiche come
ai giorni nostri. L'intero episodio mostra una bella tolleranza, richiamando
alla mente i racconti analoghi della Maddalena cristiana.]
Anche i prncipi Liccavi e Vesali vennero a sapere che il Beato era giunto in
citt, ed anche loro si diressero al bosco di manghi dove egli si trovava.
Quando arrivarono incontrarono Ambapali che stava ritornando ed ella guid il
carro dritto verso di loro, asse contro asse, ruota contro ruota, cosicch essi
esclamarono:
"Cos' successo, Ambapali, che tu guidi contro di noi il carro in questo modo?"
"Signori miei", ella rispose, "ho appena invitato il Beato e i Fratelli per il
pranzo di domani".
Allora i prncipi dissero:
"O Ambapali, cedici questo pranzo per una somma di centomila".
"Signori miei", disse lei, "se anche voi mi offriste tutto il Vesali con il suo
territorio, io non cederei mai questo invito cos onorevole".
Allora i Licchavi alzarono le mani esclamando:
"Siamo superati dalla ragazza del mango!" e proseguirono verso il bosco.
Quando anche loro ebbero salutato il Beato ed ebbero attentamente ascoltato le
sue istruzioni, si rivolsero al Maestro dicendo:
"Che il Beato possa farci l'onore di venire con tutti i Fratelli a pranzo da
noi, domani".
Ma il Buddha replic:
"O Licchavi, ho promesso che domani avrei pranzato con Ambapali, la cortigiana".
Nuovamente i prncipi esclamarono:

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"Siamo battuti dalla ragazza del mango!"


Il giorno seguente Ambapali serv il Signore e tutti i Fratelli con le sue
proprie mani, e quando essi non avrebbero pi potuto mangiare altro, chiese una
stuoia bassa, sedette di fianco al Maestro e disse:
"Signore, faccio dono di questa dimora all'Ordine di cui tu sei il capo".
Il Beato accett il dono, e dopo aver istruito e rincuorato Ambapali con un
discorso religioso, si alz e se ne and.
L'ultimo ritiro
Da Vesali il Maestro si rec al vicino villaggio di Beluva dove trascorse
l'ultimo ritiro. L si ammal gravemente. Ma il Beato, considerando che non era
ancora giunta la sua ora, e che non sarebbe stato giusto che se ne fosse andato
senza congedarsi dall'Ordine, "con un grande sforzo di volont ottenne che la
malattia regredisse, e si mantenne in vita fino a che fosse giunto il momento
fissato: cos la malattia si mitig". Quando si fu completamente ristabilito,
usc dal suo alloggio, e si sedette all'aperto; Ananda lo raggiunse, lo salut,
e disse:
"Ho osservato, o Signore, lo stato di salute del Beato, e ho osservato quanto il
Beato ha dovuto soffrire. Sebbene alla vista della malattia del Sublime il mio
corpo sia diventato debole come un verme, l'orizzonte sia divenuto appannato, e
le mie facolt non fossero pi lucide, nonostante tutto questo ho avuto un
piccolo conforto al pensiero che il Sublime non se ne sarebbe andato prima di
aver lasciato istruzioni a proposito dell'Ordine".
"Ananda", chiese il Buddha, "che cosa si aspetta l'Ordine da me? Ho predicato la
verit senza fare distinzioni tra la dottrina exoterica ed esoterica; perch,
rispettando le verit, Ananda, Colui-che-ha-raggiunto-ci non si paragona al
Maestro che detiene qualcosa in pugno, e che lascia qualcosa dietro di s.
Sicuramente, Ananda, se ci fosse qualcuno che nutrisse il pensiero: "sono io che
guider la confraternita", o "l'Ordine dipende da me", costui sarebbe tenuto a
dare istruzioni per le questioni che riguardano l'Ordine. Ma Colui-che-haraggiunto-ci, Ananda, non ritiene di essere lui a guidare la confraternita, o
che l'Ordine dipenda da lui. Allora, perch dovrebbe lasciare istruzioni su ci
che riguarda l'Ordine? Ormai io, o Ananda, sono invecchiato, sono carico d'anni,
e il mio viaggio sta volgendo al termine, sono giunto alla fine dei miei giorni,
e sto per compiere ottant'anni; e come un carro ormai rovinato, Ananda, pu
andare ancora avanti solo con l'aiuto di corregge, cos penso, il corpo di Coluiche-ha-raggiunto-ci pu continuare a reggersi solo con fasciature che lo
tengano insieme. E solamente, Ananda, quando il Tathagata, cessando di occuparsi
di qualsiasi cosa esterna, diviene immerso, con l'interruzione di ogni
sensazione separata, in quella concentrazione del cuore che non ha niente a che
vedere con gli oggetti materiali, solo allora che il corpo di Colui-che-haraggiunto-ci a suo agio.
"Quindi, o Ananda, siate lampade per voi stessi. Siate voi il vostro rifugio.
Dirigetevi in voi stessi invece che a rifugi esterni. Afferratevi strettamente
alla verit come se fosse una lampada. Afferratevi strettamente alla verit
rifugiandovi in essa. Non cercate rifugio in nessuno al di fuori di voi
stessi... E qualsiasi persona, Ananda, sia ora che dopo che sono morto, sia
lampada per se stessa, non Si diriga ad alcun rifugio esterno, ma si tenga forte
alla verit come sua lampada, e si rifugi nella verit, e non cerchi alcun
rifugio in qualcuno al di fuori di se stesso - sono loro, Ananda, tra i miei
Bhikkhu, che raggiungeranno l'altezza pi elevata! - Ma devono essere desiderosi
di apprendere".
[Nota: "Questo nobile passaggio", cito la traduzione del Professor Rhys Davids
"esprime con ammirevole arte letteraria l'individualismo puro del pensiero
buddhistico, qui molto vicino a quello di Whitman e Nietzsche".]
In un'altra occasione il Maestro passeggiava con Ananda verso il tempio di
Capala: egli cominci a parlare della sua morte imminente. E poich Ananda era
dispiaciuto e lo supplicava di restare sulla terra, egli disse:
"Ma, Ananda, non ti avevo gi precedentemente spiegato che nella natura stessa
di tutte le cose, vicine e care a noi, che dobbiamo separarci da esse,

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lasciarle, staccarci da esse? Allora, Ananda, come pu essere possibile - se


tutto ci che nasce, esiste, composto da organi, contiene in s la necessit
inerente alla dissoluzione - come, allora, potrebbe essere possibile che un tale
essere non dovesse dissolversi? Una simile condizione non pu esistere! E,
Ananda, ci che si ceduto, che si rigettato, a cui si rinunciato, che si
ha respinto e che stato abbandonato dal Tathagata, - il resto della vita che
gli rimane da vivere - in verit, a questo proposito, venuta spontanea al
Tathagata la frase seguente: "Il trapasso di Colui-che-ha-raggiunto-ci avr
luogo tra poco. Quando saranno passati tre mesi il Tathagata morir!" Se il
Tathagata, per desiderio di vivere ancora, si pentisse di queste parole, non
sarebbe saggio!"
In seguito il Buddha usc con Ananda per recarsi alla residenza di Kutagara
nella Grande Selva. Quando arrivarono e i Fratelli si furono riuniti, il Buddha
li esort e rese pubblico l'annuncio della sua morte imminente.
"Ascoltate, Fratelli, io vi avverto, dicendovi: "Tutte le cose composte
invecchiano. Lavorate con diligenza per la vostra salvezza. L'estinzione finale
del Tathagata avr luogo tra breve. Quando saranno passati tre mesi il Tathagata
morir!"
L'ultimo pasto
Quindi il Buddha procedette fino a Para, e si arrest nel bosco di manghi di
Cunda, un fabbro che lo aveva ereditato. Quando questo fu riferito a Cunda, egli
si affrett verso il bosco; il Buddha lo istru e lo rincuor con un discorso
religioso. Ed egli invit il Maestro e i Fratelli a pranzare a casa sua, la
mattina seguente.
La mattina presto Cunda il fabbro prepar riso dolce, torta e un piatto di
maiale (o forse tartufi. Ma non c' niente di contrario alla pratica buddhistica
nel mangiare carne, se preparata e offerta da altri): quindi annunci al Sublime
che era l'ora di pranzo. Egli, prendendo la sua scodella, si rec a casa di
Cunda il fabbro, partecip al pranzo, e quindi istru e rincuor Cunda il fabbro
con un discorso religioso.
Ma quando il Sublime ebbe consumato il pasto preparato da Cunda il fabbro, un
terribile malessere si impadron di lui, fu colpito da dissenteria accompagnata
da dolori cos acuti, che sembr in punto di morte. Ma il Sublime, conscio dei
propri doveri e con ammirevole autocontrollo, sopport senza lamentarsi, e,
quando si fu leggermente rimesso, disse ad Ananda:
"Vieni, Ananda, andiamo a Kusinara".
"Va bene, Signore", rispose il venerabile Ananda.
Allora il Sublime lasci il sentiero per mettersi ai piedi di un albero e disse
ad Ananda:
"Piega, ti prego, Ananda, il mantello in quattro, e stendilo a terra per me.
Sono stanco, Ananda, e devo riposare un po'".
"Va bene, Signore", rispose il venerabile Ananda.
E quando egli si fu seduto domand dell'acqua, che Ananda port, da un vicino
ruscello - l'acqua del ruscello scorreva limpida, nonostante una carovana di
cinquecento carri fosse appena passata per il guado.
La conversione di Pukkusa
Immediatamente dopo di questo pass di l un giovane, di nome Pukkusa, un
discepolo di Alara Kalama. Egli rifer al Buddha come in una certa occasione
questo Alara Kalama si fosse seduto di fianco alla strada, e fosse stato cos
assorto nella meditazione che cinquecento carri erano passati, cos vicini da
fargli impolverare il mantello: ed un certo uomo era rimasto cos impressionato
da questa profonda concentrazione che divenne il discepolo di Alara. All'udire
questo episodio il Buddha rispose raccontando di un'occasione di concentrazione
ancora maggiore, da parte sua, quando, mentre egli passeggiava avanti e indietro
in un campo di grano ad Atuma, cadde la pioggia, i lampi balenarono, e due
contadini e quattro uomini ne furono fulminati, ed egli, sebbene cosciente e
sveglio, non vide n ud il temporale: in quell'occasione un certo uomo fu
ugualmente cos impressionato dalla concentrazione del Maestro che divenne un

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discepolo. Udendo questo racconto, la fede di Pukkusa in Alara venne meno, ed


egli si rivolse al Sublime, alla legge e alla confraternita come rifugio, e
chiese al Sublime di accettarlo come discepolo laico. Si fece mandare due
mantelli di stoffa dorata e li offr al Maestro, proseguendo poi per la sua
strada. Ma quando Ananda ebbe spiegato i mantelli e il Maestro li ebbe
indossati, la stoffa dorata sembr perdere la sua lucentezza, e questo perch
quando Colui-che-ha-raggiunto-ci arriva all'illuminazione perfetta, e nel
giorno che deve trapassare, il colore della sua pelle diventa eccezionalmente
lucente.
"E adesso", disse il Maestro, "l'estremo trapasso di Colui-che-ha-raggiunto-ci,
avr luogo durante la terza ora di questa notte nella Selva di Sala dei Malla.
Vieni, Ananda, andiamo sul fiume Kakuttha".
"Va bene, Signore!" disse il venerabile Ananda.
Il Sublime scese nell'acqua del fiume Kakuttha, fece il bagno e bevve; poi,
sedutosi sulla riva, parl con Ananda di Cunda il fabbro, perch nessuno gli
imputasse la minima colpa se il Maestro era morto dopo aver ricevuto l'ultimo
pasto dalle sue mani. "Al contrario", disse, "ci sono due offerte di cibo che
sono estremamente preziose: quella che data immediatamente prima che Coluiche-ha-raggiunto-ci arrivi alla perfetta visione interiore, e l'altra prima del
suo estremo trapasso; ed " stato stabilito per Cunda il fabbro un kamma che gli
far avere una lunga vita, una buona nascita, una buona fortuna e una buona
fama, l'eredit del cielo e un potere sovrano. Quindi Cunda il fabbro non deve
provare alcun rimorso"".
La morte del Maestro
Allora il Sublime disse ad Ananda:
"Vieni, Ananda, andiamo alla Selva di Sala dei Malla, sulla riva opposta del
fiume Hiranyavati".
Quando vi furono arrivati, disse:
"Preparami il letto, ti prego, Ananda, con il posto per la testa a Nord, tra i
due alberi sala gemelli. Sono stanco, Ananda, e desidero distendermi".
"Va bene, Signore!" rispose il venerabile Ananda.
Il Sublime si allung sul lato destro, con una gamba appoggiata sull'altra; egli
era attento e concentrato.
Avvennero allora alcuni miracoli, e il Maestro ne parl con Ananda, dicendo:
"I due alberi sala gemelli sono una sola massa di fiori fuori stagione, che
cadono, si spargono e si sparpagliano al di sopra del corpo di Colui-che-haraggiunto-ci, in segno di reverenza per il successore dei Buddha
dell'antichit. Una musica celestiale risuona nel cielo, in segno di reverenza
per il successore dei Buddha dell'antichit. Ma non cos, Ananda, che Coluiche-ha-raggiunto-ci onorato e riverito nel modo giusto. Sono il fratello o la
sorella, l'uomo o la donna devoti che costantemente adempiono ai loro doveri
grandi e piccoli, che sono retti nella vita, che agiscono in accordo con i
precetti, sono essi che onorano e riveriscono il Tathagata nella maniera
adeguata. E quindi, Ananda, adempi costantemente ai tuoi doveri grandi e
piccoli, sii retto nella vita, agisci in conformit con i precetti; e cos,
Ananda, si deve insegnare".
Il Buddha si rivolse ad Ananda, per dirgli che vedeva una grande folla di
divinit riunite per osservare il Tathagata nella notte del suo trapasso finale;
e una folla di spiriti dell'aria e della terra, "dalla mente mondana, che si
strappano i capelli e piangono, che alzano le braccia e piangono, che si gettano
a terra e si agitano angosciati dal pensiero: "Troppo presto il Sublime se ne
andr! Troppo presto il Sublime morir! Troppo presto l'Occhio del mondo se ne
andr!" Ma", continu il Maestro, "gli spiriti liberi dalla passione sono calmi,
controllati, e memori del detto: "Impermanenti, in verit, sono tutte le cose
composte"".
E il Maestro menzion quattro luoghi che i discepoli avrebbero dovuto visitare
con reverenza: il luogo dov'era nato il Tathagata, il luogo dove aveva raggiunto
la Suprema Illuminazione, il luogo dove era stato stabilito il Regno della
Giustizia, e il luogo dove il Tathagata era trapassato:
"Coloro, Ananda, che moriranno compiendo uno di questi pellegrinaggi, con cuore
credente, dopo la morte, quando il corpo sar dissolto, rinasceranno in regni

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felici del cielo".


Quando Ananda chiese cosa si sarebbe dovuto fare con i resti del Tathagata, egli
rispose:
"Non limitatevi da soli, o Ananda, onorando i resti di Colui-che-haraggiunto-ci. Siate zelanti, ti scongiuro, Ananda, per il vostro profitto!
Dedicatevi al vostro bene! Ci sono discepoli laici che renderanno onore ai resti
del Tathagata".
Ananda non aveva ancora raggiunto lo stato di Arahatta, era ancora un discepolo,
e se ne and al monastero, dove si appoggi allo stipite di una porta, piangendo
al pensiero:
"Ohim! Rimarr solamente un apprendista, uno che non ancora arrivato alla
perfezione. E il Maestro sta per morire, lui che cos benevolo!"
Il Sublime intanto chiam i Fratelli e chiese:
"Fratelli, dov', ora Ananda?"
Essi risposero:
"Il venerabile Ananda, Signore, andato nel monastero; appoggiato allo
stipite di una porta, e piange al pensiero: "Ohim! Rimarr solo un apprendista,
uno che non ha portato a termine la sua perfezione. E il Maestro sta per morire,
lui che cos benevolo!""
Il Sublime chiam un Fratello e lo mand da Ananda con il messaggio:
"Fratello Ananda, il Maestro ti vuole".
Ananda venne, si inchin davanti al Sublime e si sedette rispettosamente. Allora
il Sublime disse:
"Basta, Ananda! Non ti agitare cos; non piangere! Non ti ho gi precedentemente
spiegato che nella natura stessa di tutte le cose pi vicine e care a noi che
dobbiamo separarci da esse, lasciarle, staccarcene? Allora, Ananda, come pu
essere possibile - poich tutto ci che nasce, esiste, composto di organi,
contiene in s la necessit intrinseca della dissoluzione - come, allora,
potrebbe essere possibile che un tale essere non dovesse dissolversi? Una simile
condizione non pu esistere. Per lungo tempo, Ananda, sei stato molto vicino a
me con atti d'amore, gentile e buono, senza variazioni, oltre ogni misura. Hai
fatto bene, Ananda! Sii diligente nello sforzo, e anche tu presto sarai libero
dall'ubriacatura dei sensi, dell'individualit, dell'illusione e dell'ignoranza".
E lod l'attento servizio di Ananda davanti all'intera assemblea. Poi il Maestro
disse ad Ananda:
"Ora vai al villaggio di Kusinara e informa i Malla che il Tathagata sta per
trapassare, al fine che essi non si rimproverino in seguito dicendo: "Il
Tathagata morto nel nostro villaggio, e noi non abbiamo approfittato
dell'occasione per rendere visita al Tathagata nelle sue ultime ore"".
I Malla di Kusinara, con i loro giovani, ragazze e mogli, furono dispiaciuti e
rattristati, e si recarono nella Selva dei Sala dove giaceva il Buddha. Ananda
li present al Maestro, famiglia per famiglia, durante il primo quarto della
notte.
A quel tempo vi era un pellegrino di nome Subhadda, a cui fu riferito
dell'imminente morte del Buddha; egli desiderava parlare con il Maestro per
dissipare i suoi dubbi. Con questo scopo si avvicin ad Ananda; ma egli gli
rifiut l'accesso al Maestro, dicendo: "Il Sublime stanco, non disturbatelo!"
Ma il Sublime ud ci che si diceva, e desider che Subhadda fosse fatto
accedere: infatti egli sapeva che le domande che voleva porre erano sincere, e
che Subhadda avrebbe compreso le risposte. Questo era ci che Subhadda
desiderava sapere: se i capi di altre scuole di pensiero, i Maestri di altre
congregazioni, come Nigantha Nataputta, o Sanjaya, il primo insegnante di
Sariputta e Mogallana, stimati da molti come uomini buoni, avessero, come
pretendevano, raggiunto una vera comprensione delle cose, o solo alcuni di essi
l'avessero raggiunta e altri no.
Il Sublime dichiar:
"In qualsiasi dottrina e disciplina, Subhadda, in cui non si trovi l'Ottuplice
Via degli Ariya, non si pu trovare un uomo di vera santit, sia di primo, che
di secondo, terzo o quarto grado. Ma in quella dottrina e disciplina dove si
trova l'Ottuplice Via degli Ariya, ci sono uomini di vera santit, di tutti e
quattro i gradi. I sistemi degli altri insegnanti sono vuoti - privi di veri
Saggi -. Ma in questo, Subhadda, i Fratelli possono vivere la vita perfetta,
perch il mondo non sia sprovvisto di Arahat".
Essendosi cos risolto il dubbio di Subhadda, egli si rivolse al Sublime, alla

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legge, e alla congregazione come rifugio, e fu accettato nell'ordine, e "dopo


poco tempo raggiunse lo scopo supremo della vita superiore (Nibbana), per la
ricerca del quale gli appartenenti dei clan abbandonano tutto, lasciando ogni
vantaggio e conforto della vita domestica, per divenire pellegrini erranti. S,
egli raggiunse questa meta suprema, da solo, mentre ancora era in questo mondo
visibile, arrivando alla conoscenza, e continuando a sperimentarla e a vederla a
faccia a faccia! Divenne conscio che questa nascita era per lui l'ultima, che
aveva realizzato la vita suprema, che tutto ci che era da fare era stato
compiuto, e che dopo questa vita presente non ce ne sarebbero pi state". Fu
cos che il venerabile Subhadda divenne presto un altro tra gli Arahat, fu
l'ultimo discepolo che il Sublime in persona avesse convertito.
Allora il Sublime si rivolse ai Fratelli e disse tre volte:
"Forse, Fratelli, ci sono dubbi o incomprensioni nella mente di alcuni Fratelli
a proposito del Buddha, della dottrina, della via, o del metodo. Chiedete
liberamente, Fratelli, in modo da non dovervi poi rimproverare pensando: "Il
nostro Maestro era a faccia a faccia con noi, e non osavamo interrogare il
Sublime quando eravamo a faccia a faccia con lui"".
Ma nessuno aveva dubbi o incomprensioni. E il venerabile Ananda disse al Sublime:
"Che cosa meravigliosa questa, Signore, che cosa meravigliosa! Veramente io
credo che in tutta questa assemblea di Fratelli non ci sia neppure un Fratello
che abbia un dubbio o un'incomprensione sul Buddha, sulla dottrina, sulla via, o
sul metodo!"
E il Buddha rispose:
"E certamente nella pienezza della tua fede che hai parlato, Ananda! Ma, Ananda,
il Tathagata sa per certo che in tutta questa assemblea di Fratelli non c'
neppure un Fratello che abbia un dubbio o un'incomprensione sul Buddha, sulla
dottrina, sulla via, o sul metodo! Perch anche il pi tardo (Secondo
Buddhaghosha questo si riferisce ad Ananda stesso, ed stato detto per
incoraggiamento), Ananda, di questi cinquecento Fratelli si trasformato, non
pi soggetto alla nascita in uno stato di sofferenza, e gli garantito che
raggiunger l'illuminazione dell'Arahatta".
E ancora, il Sublime si indirizz ai Fratelli e disse:
"La decadenza inerente a tutte le cose composte. Lavorate diligentemente per
la vostra salvezza!"
Questa fu l'ultima parola di Colui-che-ha-raggiunto-ci. Allora il Sublime entr
nel primo stadio di samadhi, nel secondo, nel terzo, e nel quarto; ed elevandosi
dal quarto stadio, entr nella stazione dell'indefinit dello spazio; quindi
nella stazione dell'indefinit del pensiero; poi nella stazione del vuoto; nella
stazione tra coscienza e incoscienza; e poi nella stazione dove la coscienza
delle sensazioni e delle idee completamente sparita. Allora sembr ad Ananda
che il Maestro fosse trapassato; ma egli ripass nuovamente in ogni stazione in
ordine inverso, fino a raggiungere lo stato di samadhi; dopo di che pass nel
terzo e quarto stadio di samadhi. E uscendo dall'ultimo stadio immediatamente
spir.
La disperazione dei Fratelli
Quando il Sublime fu morto, tra i Fratelli che non si erano ancora liberati
dalle passioni, alcuni alzarono le braccia piangendo, altri si gettarono a
terra, rotolandosi per il dolore al pensiero:
"Il Sublime morto troppo presto! Il Felice trapassato troppo presto!
L'Occhio del mondo se ne andato troppo presto".
Ma i Fratelli che si erano liberati dalle passioni, cio, gli Arahat, mantennero
il loro dispiacere composto, padroneggiandosi al pensiero:
"Tutte le cose composte sono impermanenti! Come sarebbe possibile che non si
dissolvessero?"
Il venerabile Anuruddha esort i Fratelli, dicendo:
"Basta, Fratelli! Non piangete, non lamentatevi! Il Sublime non ci aveva gi
insegnato prima, che nella natura stessa di tutte le cose pi vicine e care a
noi, che dovessimo separarci da esse, lasciarle, staccarcene? Allora come,
Fratelli, avrebbe potuto essere possibile - poich tutto ci che nasce, esiste,
composto da organi, contiene in s la necessit inerente della dissoluzione come avrebbe potuto essere possibile che pure un tale essere non si dissolvesse?

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Una simile condizione non pu esistere!"


I riti funebri
Il giorno seguente Ananda inform i Malla di Kusinara che il Sublime era
trapassato; anche loro alzarono le braccia e piansero, o si gettarono a terra, o
si rotolarono disperati al pensiero:
"Troppo presto morto il Sublime!"
Presero profumi e ghirlande, e tutte le musiche di Kusinara, e si diressero alla
Selva dei Sala, dove giaceva il corpo del Sublime. Trascorsero sei giorni
rendendo onore ed omaggio ai resti del Sublime, con danze, inni, musica,
ghirlande e profumi. Il settimo giorno trasportarono il corpo del Sublime
attraverso la citt e poi, uscendo dal cancello orientale, fino al tempio dei
Malla, dove doveva essere cremato su una pira. Fasciarono il corpo con strati di
cotone cardato e tele di tessuto, e lo misero in un recipiente di ferro, e poi
ancora in un altro; dopo aver costruito una pira funebre di legna profumata, vi
adagiarono il corpo del Sublime. Poi quattro capi dei Malla si lavarono la testa
e rivestirono abiti nuovi con l'intento di accendere il fuoco della pira
funebre. Ma, stupore! Non riuscivano ad appiccare il fuoco. E la ragione di
questo era che il venerabile Maha Kassapa stava procedendo da Pava a Kusinara
con una compagnia di cinquecento Fratelli: gli dei non volevano che la pira
prendesse fuoco finch il venerabile Maha Kassapa con questi Fratelli non avesse
salutato i piedi del Maestro. Quando Maha Kassapa giunse al luogo della pira
funebre, vi gir intorno tre volte e si prostern in segno di reverenza ai piedi
del Sublime, e ugualmente fecero i cinquecento Fratelli. Quando ebbero
terminato, la pira funebre prese fuoco da sola.
Bruciarono la carne e i fluidi del corpo, e tutti i tessuti; solo le ossa
restarono intatte; quando il corpo fu cos bruciato, ruscelli d'acqua caddero
dal cielo, e si alzarono dalla terra, spegnendo le fiamme; anche i Malla
contribuirono a spegnere il fuoco con recipienti d'acqua profumata. Disposero le
ossa nella Sala del Consiglio dei Malla, circondate da un'intelaiatura di spade
e da una barriera di archi, e l, per sette giorni resero onore e reverenza ad
esse con danze, musica, ghirlande e profumi. Fu riferito di queste cerimonie ad
Ajatasattu, ai Licchavi di Vesali, ai Sakya di Kapilavatthu, ai Bulis di
Alakappa, ai Koliya di Ramagama, e ai Brahmani di Vethadipa; e tutti questi, con
i Malla di Kusinara, avanzarono pretese per i resti del Sublime, e volevano
erigere un tumulo su di esse, e celebrare una festa d'onore. I Malla, per,
dicendo che il Sublime era morto nel loro villaggio, rifiutarono di spartire i
resti. Allora un certo Brahmano di nome Dona ricord ai capi riuniti che il
Buddha aveva insegnato la concordia, e consigli che i resti fossero divisi in
otto parti, e che un monumento fosse eretto da tutti quelli che accampavano
diritti nei loro diversi territori; e cos si fece.
Dona stesso eresse un monumento sul recipiente in cui i resti erano stati
custoditi, e i Moriya di Pippalivana, che avanzarono pretese per avere una parte
quando la distribuzione era gi stata fatta, eressero un tumulo sulle ceneri del
fuoco. Vi erano cos otto monumenti per i resti del Sublime, un altro per il
recipiente, e un terzo per le ceneri.

Parte seconda - La dottrina del Buddhismo originario


I - Dhamma, la dottrina e la disciplina
Come, o Fratelli il vasto mare ha un solo gusto,
il gusto del sale, cos, Fratelli,
questa dottrina e disciplina hanno un unico gusto,
il gusto della liberazione.
Cullavagga, IX.
L'insieme della dottrina (Dhamma, in sanscrito Dharma) di Gautama riassumibile
in modo semplice e breve nelle quattro verit degli Ariya (Ariyasaccani), o

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assiomi: che esiste la sofferenza (dukkha), che ha una causa (samudaya), che pu
essere soppressa (nirodha), e che c' un metodo per riuscirci (magga), la "Via".
Tutto questo consiste nell'applicazione della scienza medica generale alla cura
dei malati spirituali. Il buon medico, vedendo una qualsiasi persona sofferente,
procede alla diagnosi, riflette sulla cura e prescrive il regime necessario al
paziente. Questa la storia della vita di Gautama. L'anima malata, della
propria malattia conosce solo il dolore; cerca la causa della sua sofferenza, e
la sicurezza di una cura, e domanda cosa dovr fare per salvarsi: questa la
storia di coloro che si rifugiano nella legge del Buddha.
Ripetiamo qui la parte essenziale del primo discorso di Gautama:
"Questa, o monaci, la verit degli Ariya sulla sofferenza: la nascita
sofferenza, la vecchiaia sofferenza, la malattia sofferenza, la morte
sofferenza; stare con ci che non si ama sofferenza, essere separati da ci
che si ama sofferenza, non ottenere ci che si desidera sofferenza; in
breve, il quintuplice attaccamento al mondo sofferenza.
"Questa, o monaci, la verit degli Ariya sull'origine della sofferenza: il
desiderio di vivere che conduce da una nascita all'altra, insieme con la
passione e l'ambizione, che trovano gratificazione qua e l; la sete dei
piaceri, la sete di esistere, la sete del potere.
"Questa, o monaci, la verit degli Ariya sull'estinzione della sofferenza.
L'estinzione di questa sete si ottiene con il completo annullamento del
desiderio, lasciandolo cadere, cacciandolo, separandosi da esso, non
concedendogli spazio.
"Questa, o monaci, la verit degli Ariya sulla via che conduce all'estinzione
della sofferenza: questa sacra ottuplice via, cio: fede retta, aspirazione
retta, discorso retto, retta azione, retto modo di vivere, sforzo retto,
attenzione retta, samadhi retto".
E la prima divisione dell'ottuplice via: retta credenza, punto di vista, o fede,
che costituisce la dottrina del Buddha, la dottrina del Buddhismo, che ora
esporremo in modo sistematico. Questo insegnamento consiste in una conoscenza
del mondo e dell'uomo "come sono realmente". Questa giusta conoscenza si pu
riassumere molto chiaramente nella triplice formula di dukkha, anicca, anatta sofferenza, impermanenza, negazione di s [della propria individualit]. La
conoscenza di questi princpi una conoscenza della verit. Ora li
considereremo in ordine e in dettaglio.
Dukkha
L'esistenza del dolore, o male, la stessa raison-d'etre del Buddhismo:
"Se nel mondo non ci fossero queste cose, miei discepoli, il perfetto, il santo
Buddha supremo, non apparirebbe nel mondo; la legge e la dottrina che il
Perfetto ha offerto non brillerebbe nel mondo. Cosa sono queste tre cose?
Nascita, vecchiaia e morte.
"Ora come allora", ripete il Buddha, "vi spiegher questo: il dolore e
l'estinzione del dolore".
Dukkha da intendere sia come un sintomo che come la malattia. Nel primo senso
include tutte le perdite possibili, fisiche e mentali, "tutta la meschinit ed
angoscia senza fine", dolore e imperfezione di qualsiasi tipo a cui sono
soggetti l'umanit e tutti gli esseri viventi (senza escludere neppure le
divinit).
Cosicch Gautama non ha esposto nient'altro che un'ovvia constatazione dei
fatti. Naturalmente, potrebbe apparire che il nostro dolore nella vita sia
compensato dal piacere, e l'equilibrio dovrebbe essere assicurato, come in ogni
coppia di opposti. Ma se ci riflettiamo, comprendiamo che questo stesso
piacere la radice del dolore? perch "il dispiacere scaturisce dal flusso del
piacere dei sensi appena sia rimosso l'oggetto del desiderio sensuale".
Questo pure espresso dalle parole citate nel nostro frontespizio: Vraiement
comencent amours en ioye et fynissent en dolours; e cos pure dalle parole di
Nietzsche: "Avete mai detto "Si" a una gioia? O amici miei, allora avete anche
detto "Si" a tutta la pena".
E secondo il Dhammapada:
"Dalla gioia viene il dispiacere; dalla gioia viene il timore. Chi sia libero
dalla gioia, non prova pi dispiacere, perch, da dove gli verrebbe il timore?

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Dall'amore viene la pena, dall'amore viene il timore. Chi libero dall'amore


non prova pi pena: da dove gli verrebbe il timore?"
Ma non solo il piacere il preludio del dolore, il piacere dolore in se
stesso; sempre secondo le parole di Nietzsche, "Il piacere una forma di
dolore".
Perch c' sempre qualcosa che guasta la festa: la felicit nel senso positivo,
la gioia che dipende dal contatto con la sorgente di piacere esterno a se
stessi, non pu essere afferrata e non dura pi di un momento. E futilit delle
futilit tendere verso ci che non mai, ma che in continuo cambiamento; e
coloro che si rendono conto che tutto questo mondo della nostra esperienza un
divenire, che non raggiunger mai l'Essere, non tenderanno a ci che non pu
essere afferrato, ed completamente vuoto.
Conseguentemente, l'insieme della psicologia buddhistica diretto a un'analisi
della coscienza, mirata a rivelare il suo carattere sempre mutevole e composito.
Anicca
L'impermanenza l'inesorabile, fondamentale e spietata legge d'ogni esistenza.
"Ci sono cinque cose che n Samana, n Brahmano, n divinit, n Mara, n
Brahma, n qualsiasi altro essere dell'universo possono ottenere. Cosa sono
queste cinque cose? Che chi soggetto a vecchiaia non invecchi, che chi
soggetto a malattia non si ammali, che chi soggetto alla morte non muoia, che
chi soggetto a deperibilit non deperisca, che chi obbligato a sparire non
sparisca. Questo non pu ottenerlo n un Samana, n una divinit, n Mara, n
Brahma, n alcun essere dell'universo".
Come il pensiero brahmanico accetta la perpetuit temporale del samsara, una
continua successione e coincidenza di evoluzione e involuzione, una perpetua
successione di Brahma, passati e futuri, cos anche Gautama attira l'attenzione
- forse con ancor maggiore insistenza - sulla successione senza fine del
divenire. La seguente strofa stata considerata la professione di fede
buddhistica, e compare pi frequentemente di qualsiasi altro testo nelle
iscrizioni indiane buddhistiche:
Di
la
ed
il

quelle condizioni che originano da una causa


causa stata spiegata dal Tathagata:
il metodo per sopprimerla
grande Samana l'ha ugualmente insegnato.

Quanto la dottrina della perpetua successione delle cause sia essenziale nel
Buddhismo, appare dal fatto che se ne parla sempre come della dottrina:
"Vi insegner il Dhamma", dice Gautama, "se questo presente, accade questo;
dal sorgere di quello, sorge questo. Se quello assente, questo non diventa;
dalla cessazione di quello, questo cessa".
Leggiamo anche che "l'analisi del Dhamma la conoscenza che riguarda le
condizioni".
Ci che Gautama insegnava aveva lo scopo di evitare le due dottrine estreme del
realismo e del nichilismo, la credenza nell'essere fenomenico e la credenza che
non ci sia assolutamente alcun processo fenomenico:
"Tutte le cose sono: questo, o Kaccana, un punto di vista esagerato. Tutte le
cose non sono: questo il secondo punto di vista estremo. Negando entrambi
questi estremi, il Tathagata insegna la norma del giusto mezzo".
Questa dottrina del giusto mezzo asserisce che ogni cosa divenire, un flusso
senza inizio (causa prima) o fine; non esiste un momento statico quando questo
divenire raggiunge l'esistenza: non appena riusciamo a concepirlo con attributi
di nome e forma, esso gi trasmigrato o diventato qualcos'altro. Invece di
un individuo c' una successione di istanti di coscienza.
"Parlando con esattezza, la durata della vita di un essere vivente
spropositatamente breve, perch dura appena il tempo di un pensiero. Esattamente
come la ruota di un carro girando fa pressione solo su un punto del cerchione, e
quando ferma si appoggia solo su un punto; esattamente nello stesso modo, la
vita di un essere vivente dura solo il tempo di un pensiero. Appena questo
pensiero cessato, l'essere vivente considerato finito. stato detto:
"L'essere di un momento passato del pensiero ha vissuto,

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non vive pi, e non vivr pi.


"L'essere di un momento futuro del pensiero vivr ma non ha ancora vissuto, e
non vive ora.
"L'essere del momento presente del pensiero vive, ma non ha vissuto prima, e non
vivr poi".
Ci illudiamo se ci permettiamo di credere che ci possa mai essere una pausa nel
flusso del divenire, un luogo di riposo dove si raggiunga un'esistenza positiva,
anche per un brevissimo periodo di tempo. E solo chiudendo gli occhi davanti
alla successione degli eventi che possiamo arrivare a parlare di cose invece che
di mutamenti. La velocit o lunghezza del processo di mutamento non pu essere
generalizzata. Considerate un bambino, un ragazzo, un giovane, un uomo, e un
vecchio; quando esistito esattamente ognuno di loro? C'era un organismo, che
stato un neonato, e diventava un bambino; stato un bambino, e diventava un
ragazzo; e cos via. Il seme diventa pianticella, la pianticella un albero, e
l'albero lascia cadere i semi. E solo con la continuit, osservando il processo
del divenire che possiamo identificare il vecchio con il neonato, l'albero con
il seme; ma il vecchio non (uguale al) neonato, e neppure l'albero (al) seme.
La sostanza dei nostri corpi, e non meno la costituzione delle nostre anime,
cambia di momento in momento. Attribuire agli individui particolari un nome e
una forma solo una convenzione pragmatica, e non l'evidenza della sua insita
realt. Ogni esistenza organica, e ci che ne costituisce la sostanza una
successione di mutamenti, ognuno dei quali completamente determinato da
condizioni preesistenti. Perch questa legge della causalit ha una cos grande
importanza per Gautama, la cui dottrina non una ginnastica mentale, ma
"esattamente questo: il male e la cessazione del male"? Perch questa dottrina
precisamente la diagnosi medica della malattia di dukkha. Come una malattia
costituzionale, essa illustrata nella ben nota serie dei Dodici Nidana, la cui
interconnessione detta la legge dell'Origine Dipendente (Paticca-samupada). I
Dodici Nidana, in seguito chiamati la Ruota della Causalit, sono ripetuti in
non meno di novantasei sutta; l'importanza di questa serie deriva dal fatto che
incomincia con una spiegazione generale dei fenomeni, e con una spiegazione
sullo specifico fenomeno del male a cui i Buddhisti sono pi specialmente
interessati: lo scopo della serie di mostrare che vinnana, la coscienza
dell'io, non risiede in un'anima eterna, ma un fenomeno contingente che sorge
come conseguenza di cause ed effetti. Bisogna notare, come ha sottolineato il
Prof. Rhys Davids, che il valore di questo concatenamento non sta nel fatto che
esso spieghi il male, ma nel fatto che la giusta comprensione dell'origine
causale costituisce quella stessa discriminazione con cui la causa del male coscienza dell'io e desideri dell'io - distrutta.
La Ruota della Causalit si muove nel modo seguente:
Altre vite (passato): Ignoranza (avijja); Percezione erronea (sankhara) o vana
immaginazione, volont (cetana).
Questa vita (presente): Coscienza (dell'io, ecc.) (vinnana); Nome e Forma, cio:
Mente e Corpo (nama-rupa); Organi dei sensi (sadayatana); Contatto (spassa);
Emozione (vedana): Desiderio (tanha); Attaccamento (upadana).
e
Altre vite (futuro): Trasmutazione (bhava); Rinascita (jati); Vecchiaia e morte,
sofferenza, deplorazione, male, pena, disperazione (jaramaranam, ecc.).
Questa elencazione, dovunque sia riportata, termina con la formula: "Questa
l'origine di tutto l'insieme del male". Si noti che l'intera serie di termini
non sempre ripetuta per intero, e non lo neppure sempre nello stesso ordine;
questi sono piuttosto i raggi di una ruota che non la sua circonferenza.
Se a questo punto ci chiediamo quale sia l'effetto e quale la causa, chiaro
che l'ignoranza sta alla base di tutto. E dall'ignoranza che insorge il pensiero
dell'esistenza (entit), mentre non esiste altro che un cambiamento; dalla
concezione dell'individualit come un'entit, e dal desiderio dell'"io", deriva
la vita; la vita inseparabile dal male.
La diagnosi implica la cura; quest'ultima consiste nel togliere le condizioni
che mantengono lo stato patologico. Queste condizioni che mantengono l'ignoranza

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sono innanzitutto il desiderio, e il pensiero di "io" e "mio", con tutte le sue


implicazioni di egoismo e superstizione. I mezzi per attuare la cura sono
esposti nella disciplina mentale e morale dei "pellegrini" buddhisti.
Anatta
La dottrina di anatta inseparabile da quella di anicca, e consiste
nell'affermazione che in nessuna cosa esiste un'entit immutabile, e
soprattutto, un'"anima eterna" nell'uomo. Ananda domanda al Buddha: "Cosa
significa, Signore, la frase: il mondo vuoto?" Il Buddha risponde: "Che esso
vuoto, Ananda, di un s o di qualcosa che abbia la natura di un s. E cos' che
ne vuoto? I cinque ricettacoli dei cinque sensi, e la mente, e le sensazioni
collegate alla mente: tutto questo vuoto di un s o di qualcosa che gli sia
simile".
Gli stati mentali sono fenomeni come gli altri, e niente di sostanziale, come
un'anima o un ego, sta dietro di loro; cos come i nomi delle cose sono solo
concetti. I paragoni pi ricorrenti sono quelli tratti dai fenomeni naturali e
dagli oggetti costruiti, come un fiume, o un carro. Se si esclude l'acqua, la
sabbia, la riva destra e sinistra, dove si pu trovare il Gange? Se si divide il
carro nelle parti che lo compongono, come le ruote, il timone, l'assale, la
struttura, il sedile, e cos via, cosa resta del carro, se non il nome? Nello
stesso modo si constata che se si analizzano le parti che compongono la
coscienza, non resta niente; l'individuo mantiene le sembianze di un'identit di
momento in momento, ma questa identit semplicemente costituita da una serie
di momenti di coscienza, non l'assenza del cambiamento.
"Come un fiume", dice un Buddhista moderno, "che mantiene una forma costante,
un'identit sempre simile, sebbene oggi non rimanga neppure una singola goccia
di tutto il volume che componeva il fiume ieri".
E della massima importanza comprendere questa verit, perch per l'individuo
convinto della nozione "io sono una forma; la forma appartiene
all'individualit", "attraverso il cambiamento e l'alterazione della forma
sorgono la tristezza, la miseria, il dolore, e la disperazione". La similitudine
del fiume mette l'accento sulla continuit di un'identit perennemente mutevole.
Un altro esempio, preso dal sonno e dal sogno, sottolinea la natura
intermittente della coscienza; il corso ordinario dell'esistenza organica,
chiamato bhavanga-gati, paragonato al flusso di un sonno senza sogni; la
coscienza si risveglia solamente quando qualche stimolo esterno causa una
vibrazione nel flusso normale.
I Buddhisti parlano degli elementi complessi dell'esistenza cosciente in due
modi, in primo luogo come Nama-rupa, letteralmente nome e forma, cio, "la
natura dell'uomo e la sostanza carnale", e in secondo luogo, come i cinque
aggregati (khandha, skandha). Questi due o cinque comprendono l'intera
esperienza cosciente senza lasciar fuori nessuna attivit che possa essere
attribuita ad un'"anima". La relazione dei due schemi apparir dalla tavola
seguente:
1. Fattore mentale
Nama (sinonimi: vinnana, citta, mano, cio: coscienza, cuore, mente).
Fattore fisico
rupa
2. Fattore mentale
Vedana, sanna, sankhara, vinnana, (cio: sensazione, percezione, volont, ecc.,
e consapevolezza).
Fattore fisico
rupa
In entrambi i casi rupa l'organismo fisico (quindi non "forma" in senso
filosofico o estetico), la natura corporea; nama il nome o la mente; nama e
rupa, nome (semplici parole) e corpo, sono esattamente quelle caratteristiche
per cui una "persona", di fatto complessa e variabile, appare come un'unit. Nel
secondo gruppo, che non , come il primo, preso direttamente dalle Upanishad, un
maggiore accento posto sui diversi elementi del fattore mentale, con lo scopo

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pratico di escludere ogni possibile fessura che possa introdurre l'idea di una
mente o anima che sia un'unit immutabile.
Vedana la "sensazione" con il senso edonistico di piacevole, spiacevole, e
neutra, che risulta dal contatto con gli oggetti sensibili, e che produce tahna,
brama o desiderio. E data importanza al fatto "che non c' un'entit distinta
che percepisce", " solo la sensazione che percepisce o gode", e questo "per un
certo oggetto che in relazione causale con il piacere o altre sensazioni"
(Buddhaghosha). Il pensiero buddhistico non ammette un soggetto, e concentra la
sua attenzione sull'oggetto.
Sanna la percezione di qualsiasi genere, sensibile o mentale, cio,
"consapevolezza con identificazione, espressa con l'attribuzione di un nome"
(Rhys Davids).
Gli sankhara formano un gruppo composito, che include cetana, o la volont
(volizione), e una serie di cinquantuno coefficienti di qualsiasi stato di
coscienza.
Vinnana "qualsiasi consapevolezza della mente, non importa quanto generale o
astratto ne sia il contenuto".
E da notare che i termini rupa e vinnana, nella quintuplice classificazione,
sono usati in senso molto pi ampio che quando si adoperano per abbracciare
l'insieme dell'esistenza cosciente. Il sistema piuttosto laborioso dei khandha
stato in seguito sostituito da una divisione all'interno di citta, mente, e
cetasika, propriet mentali. Tutti i pensatori indiani sono, naturalmente,
d'accordo sulla natura organica e materiale della mente.
Per uno studio serio sulla mentalit dei Buddhisti il lettore pu consultare uno
qualsiasi dei due lavori della Rhys Davids sull'argomento. Bisogna far osservare
lo scopo pratico che i Buddhisti si prefiggevano con l'uso di queste
classificazioni.
"Perch", chiede Buddhaghosha, "il Sublime disse che c'erano cinque aggregati,
non uno di pi, e non uno di meno? Perch essi non solo assommano tutte le
classi di cose condizionate, ma non lasciano appigli all'anima e agli animisti;
in pi, includono tutte le altre classificazioni".
Cos i Buddhisti sembrano ammettere che il loro metodo di pensiero inventato
espressamente per provare la loro tesi. I Buddhisti avevano ovviamente ragione
ad accentuare l'importanza della complessa struttura dell'ego - un fatto che la
moderna ricerca patologica e medica ci mostra sempre maggiormente - ma questa
complessit dell'ego non tocca la questione dell'Atman brahmanico, che "non
cos, non cos".
Questo, dunque, ci che riguarda l'esposizione fondamentale dei "punti di
vista retti".
Le quattro vie
Le quattro vie sono state frequentemente menzionate. Si tratta di una
quadruplice divisione dell'ultima delle quattro verit degli Ariya. Le quattro
vie, o meglio i quattro stadi dell'unica via, sono le seguenti:
- Conversione, entrata nella corrente, che deriva dalla compagnia dei buoni,
dall'ascolto della legge, dalla riflessione illuminata, o dalla pratica della
virt. Essa dipende dall'aver riconosciuto le quattro verit degli Ariya, ed
successiva al primo gradino del semplice rifugiarsi nel Buddha, nella legge,
nell'Ordine, una formula che ripetuta da chiunque professi il Buddhismo,
compresi i molti che non sono ancora entrati nelle vie. La prima via porta alla
liberazione dall'illusione del senso dell'ego, dal dubbio sul Buddha e sulle sue
dottrine, e dalla credenza nell'efficacia assoluta di riti e cerimonie.
- La seconda via quella di coloro che vogliono tornare solamente ancora una
volta nel mondo, e in questa prossima vita raggiungere la liberazione finale. In
questa via l'individuo "convertito", gi liberatosi dai dubbi e dall'illusione
dell'individualit e del ritualismo fine a se stesso, pu ridurre al minimo gli
errori cardinali di lussuria, risentimento, e piacere.
- La terza via di quelli che non torneranno pi in questo mondo, ma
raggiungeranno la liberazione nella vita presente. Qui vengono distrutti gli
ultimi residui di passioni e risentimenti.
- La quarta via quella degli Arahat, gli Adepti; qui il Santo [o Saggio] si
libera da ogni desiderio di rinascita, sia in mondi formali che informali,

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dall'orgoglio, dal senso della "rettitudine in proprio", e dall'ignoranza. Lo


stato dell'Arahat cos descritto:
"Come una madre, anche a rischio della propria vita, protegge suo figlio, il suo
unico figlio, cos sia la benevolenza senza limiti verso tutti gli esseri. Che
la benevolenza senza limiti prevalga nel mondo intero, sopra, sotto, intorno,
indistintamente senza mischiarsi con sentimenti di interessi differenziati o
opposti. Se un uomo resta imperturbabilmente in questo stato mentale per tutto
il tempo che sveglio, che cammini, che segga, che sia sdraiato, gli si potr
applicare il detto: "Anche in questo mondo si potuta trovare la santit".
Sono ora elencati i dieci legami, stati di peccati da cui l'aspirante liberato
mentre percorre le quattro vie: sakkaya-ditthi, l'illusione dell'io o anima;
vicikiccha, il dubbio; silabbata paramasa, la dipendenza dai riti; kama, la
sensualit, il desiderio fisico; patigha, l'odio, il risentimento; ruparaga, il
desiderio di vivere in mondi materiali; aruparaga, il desiderio di vivere in
mondi spirituali; mano, l'orgoglio; uddhacca, il senso della "rettitudine in
proprio"; e avijja, l'ignoranza. L'aspirante diventa un Arahat quando sono
completamente sorpassati i primi cinque. La liberazione dagli altri cinque il
"frutto della quarta via".
Essi, avendo ottenuto il frutto della quarta via, ed essendosi immersi in
quest'acqua viva, hanno ricevuto l'inestimabile, e assaporano il Nibbana"
(Ratana Sutta). Si noter che qui si delinea una netta distinzione tra il
raggiungimento di Arahatta e la realizzazione del Nibbana, mentre in altri punti
i due stati sono considerati equivalenti. E chiaro, comunque, che se il Nibbana
il frutto della quarta via, coloro che sono semplicemente entrati in questa
via, e sono quindi Arahat, non hanno ancora ottenuto l'ultima liberazione. Essi
hanno ancora dei legami da cui affrancarsi.
Esiste un altro modo di raggruppare i difetti da cui il Santo si liberato;
esso noto come i tre, o quattro flagelli, o intossicazioni, o contaminazioni.
I tre sono: 1. kama asava, sensualit; 2. bhava asava, desiderio di rinascita;
3. avijja asava, ignoranza delle quattro verit degli Ariya; mentre il quarto
ditthi, "punti di vista", o speculazione metafisica. Chi libero da queste tre,
o quattro, contaminazioni mortali dei sensi, desiderio di vita, ignoranza e
punti di vista (individuali) ha raggiunto la liberazione, e per lui non ci sar
pi ritorno.
II - Samsara e kamma (karma)
Dopo tutto ci che stato detto ci troviamo in una condizione migliore per
comprendere la teoria della peregrinazione delle anime nel Buddhismo originario.
Dico particolarmente nel Buddhismo originario, perch nella maggior parte del
pensiero prebuddhistico, e in tutto il pensiero popolare, sia brahmanico che
buddhistico, la dottrina della metempsicosi, il passaggio della vita da una
forma all'altra, dopo la morte corporea, concepito animisticamente come la
trasmigrazione di un'anima individuale.
Prendiamo per esempio un testo come la Bhagavad Gita, II, 22: "Come un uomo
mette via gli abiti usati per indossarne di nuovi, cos Colui che risiede nel
corpo mette via il corpo usato per indossarne uno nuovo".
Qui il linguaggio chiaramente animistico. Un lettore comprender che un'anima,
un "manichino" etereo, si sposta da un corpo ad un altro; un secondo lettore,
osservando che Quello (l'abitante del corpo) non nient'altro che quello che
"non cos, non cos", percepisce che, parlando empiricamente, nulla - nulla che
si possa definire in qualche modo - trasmigra. Vi qui un'ambiguit che
inevitabile nel caso di tutte le concezioni che siano superiori alle esperienze
originariamente animistiche o sensitive.
[nota: Come, per esempio, nel caso analogo di rasa, che significa gusto o
sapore, ed arrivato ad assumere il significato, in senso tecnico, di emozione
estetica. Cos per ananda, originariamente piacere fisico, pi tardi usato
anche come beatitudine spirituale.]
Il pensiero brahmanico non cerca di sfuggire da questa ambiguit d'espressione,
che , inoltre, d'importanza storica; e questa continuit di sviluppo ha il
vantaggio che nessun abisso insuperabile sia fissato tra l'animista e il

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filosofo.
Questo vantaggio messo in risalto da Sankara nella sua distinzione tra la
conoscenza esoterica ed exoterica, para e apara vidya: a Quegli che "non cos,
non cos", le qualit sono attribuite per scopo di adorazione o come mezzo di
adattamento al pensiero limitato. Quest'attribuzione di qualit, da parte del
"profano", vista dal filosofo con indulgenza, perch egli capisce che la via
Non Descrivibile, il desiderio di Ci-che-non- [qualcosa], insopportabilmente
dura. Chi non si ancora aperto una strada verso l'idealismo, non deve e non
pu fare a meno dei supporti sensibili: il Brahmanesimo, considerato come una
chiesa, si distingue dal Buddhismo di Gautama - non ancora il Buddhismo della
chiesa buddhistica - per questa tenerezza verso i suoi figli spirituali: "Che
chi conosce di pi non risvegli dubbi negli uomini pi lenti e di minor talento".
[nota: I puristi spirituali che insistono sul fatto che solo le verit assolute,
come anatta (negazione del senso dell'io), e neti, neti (non cos, non cos)
dovrebbero essere insegnate e che considerano falsa ogni interpretazione
teologica ed estetica di queste verit, dovrebbero meditare le parole del
Maestro Kassapa: "Che i pellegrini virtuosi e i Brahmani non forzino la
maturazione di chi acerbo; che essi, essendo saggi, attendano che tale
maturazione avvenga". Payasi Sutta, Dialogues of the Buddha, II, 332.]
Gautama, d'altro canto, un iconoclasta inflessibile. Predica solo agli uomini
pi elevati, capaci di accettare i concetti di dukkha, anicca, e anatta nella
loro nudit. Questa posizione gli permise di sostenere un solo e unico argomento
con compattezza indivisibile; non aveva bisogno di riconoscere anche il valore
relativo delle altre forme o gradi della verit; egli voleva rompere
completamente con il pensiero corrente assolutista ed animista.
Questa posizione metteva per lui in particolare evidenza la propria difficolt
di esprimere ci che desiderava insegnare, servendosi del linguaggio popolare ed
animistico dei tempi; e non poteva neppure evitare l'uso di tale linguaggio,
perch ci lo avrebbe reso totalmente incomprensibile. Questa difficolt pu
aver contribuito all'esitazione che egli prov nei riguardi della predicazione
della dottrina. Il metodo che fu obbligato ad adottare, stato quello di usare
espressioni correnti, ampliandole e adattandole a modo suo, ed usando parole ben
note in un senso nuovo.
Dobbiamo comunque guardarci, come dice Buddhaghosha, dal supporre che il modo di
esporre l'argomento esprima esattamente il concetto. Il termine samsara uno di
questi modi; cos che l'"erranza" per Gautama non l'erranza di una qualsiasi
cosa. Il Buddhismo non parla mai della trasmigrazione delle anime, ma solo della
trasmigrazione di caratteristiche, di una personalit senza un'individualit.
Molti sono gli esempi di cui Gautama si serve per mostrare che nessuna cosa
trasmigra da una vita all'altra. La fine di una vita e l'inizio di un'altra
differiscono appena, come genere di cambiamento, da quello che avviene quando un
ragazzo diventa un uomo; anche questa una trasmigrazione, uno spostamento un
nuovo divenire.
Tra gli esempi usati pi spesso troviamo quello della fiamma, particolarmente
adeguato. La vita una fiamma, e la trasmigrazione, il nuovo divenire, la
rinascita, la trasmissione della fiamma da un oggetto combustibile ad un
altro; solo questo, niente di pi. Se accendiamo una candela con un'altra, la
fiamma passata solo una e sempre la stessa, nel senso di una continuit
mantenuta, ma la candela non la stessa. Allo stesso scopo, se ci permessa
un'intrusione moderna, non potremmo offrire un'immagine migliore, di quella di
una serie di palle da biliardo a stretto contatto; se un'altra palla fatta
rotolare contro l'ultima palla ferma, la palla che si muove si arrester
improvvisamente, e la prima palla ferma si metter in movimento. La
trasmigrazione buddhistica consiste esattamente in questo: la palla che si muove
per prima non procede, rimane indietro, muore; ma innegabilmente il movimento
di quella palla, il suo momento, il suo kamma, e non un movimento creato ex
novo, che rinasce nella palla seguente. La "reincarnazione" buddhistica una
trasmissione senza fine di tale impulso attraverso una serie indefinita di
forme; la salvezza per il Buddhismo arrivare a comprendere che le forme, le
palle da biliardo, sono strutture composte, soggette a deperimento, e che ci
che viene trasmesso solo un impulso, una vis a tergo, che determinata da ci
che si accumulato nel passato. Sono le caratteristiche di un uomo, e non egli

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stesso, che vanno avanti.


Non difficile comprendere perch Gautama abbia adottato la dottrina corrente
del kamma (azione, con pensiero, parola, o fatti). Nella sua forma pi semplice,
questa dottrina dichiara soltanto che le azioni sono inevitabilmente seguite
dalle loro conseguenze, "come un carro segue il cavallo da cui trainato". Nei
limiti dell'esperienza di una vita, si tratta semplicemente della legge di causa
ed effetto con questa considerazione in aggiunta, che le cause determinano le
caratteristiche, per cui il futuro comportamento dell'individuo in gran parte
predeterminato.
Il kamma non dev'essere per confuso con una predestinazione meccanica. Esso non
elimina la responsabilit e non rende vano lo sforzo: esso asserisce
semplicemente che l'ordine della natura non pu essere mutato con miracoli. E
logico che io debba giacere nel letto che mi sono preparato. Non posso
effettuare un miracolo e far scomparire il letto di colpo; devo raccogliere ci
che "io" ho seminato, ed la constatazione di questa realt che chiamata
kamma. E ugualmente certo che i miei sforzi presenti, ripetuti e ben diretti,
nel corso del tempo provocheranno l'esistenza di un altro tipo di letto, e la
constatazione di questa realt chiamata kamma. La dottrina del kamma, ben
lontana dall'inibire lo sforzo, insegna che nessun risultato pu essere
raggiunto senza "sforzarsi duramente". Certamente nella disciplina buddhistica
non c' niente di pi essenziale dello "sforzo corretto".
Se uniamo la dottrina del kamma con quella del samsara, le "azioni" con
l'"erranza", il kamma rappresenta una verit familiare, la verit che la storia
dell'individuo non comincia con la sua nascita. "L'uomo nasce come un giardino
gi piantato e seminato".
Prima che nascessi da mia madre,
generazioni e generazioni mi hanno guidato...
Adesso sto in questo punto.
Questa eredit concepibile in due modi. Il primo, la cui verit innegabile,
fa rilevare l'azione delle vite passate su quelle presenti; il secondo, che pu
essere vero o no, mostra l'azione di una singola serie continua di vite passate
su una singola vita presente. La teoria buddhistica del kamma unita a quella del
samsara non si discostano dal prototipo brahmanico adottando il secondo punto di
vista. Probabilmente esso viene scelto per il vantaggio pratico che offre nella
spiegazione dell'apparente ingiustizia naturale; infatti d una risposta
ragionevole alla domanda: "Chi ha commesso peccato, quest'uomo o i suoi
genitori, da farlo nascere cieco?" La teoria indiana risponde senza esitazione:
quest'uomo.
[nota: "Che l'individuo umano sia polipsichico, che un numero indefinito di
correnti di coscienza coesistano in ciascuno di noi, e che possano essere
variabilmente e a diversi livelli associate o dissociate, questa una dottrina
ora ampiamente accettata anche dalla "psicologia ortodossa"". G. W. Balfour,
Hibber Journal, n. 43.
Lo stesso pensiero espresso in maniera pi vicina al Buddhismo da Lafcadio
Hearn: "Cos' la nostra individualit? Con la massima certezza non per niente
un'individualit; una molteplicit incalcolabile. Cos' il corpo umano? Una
forma costituita da miliardi di entit viventi, un insieme impermanente di
individui chiamati cellule. E l'anima umana? Un composto di quintilioni di
anime. Noi siamo, tutti ed ognuno, composti indefiniti di frammenti di vite
anteriori". Nel Salmo di Ananda: "Un insieme malato, brulicante di fini e
luoghi, che non ha il potere di durare".]
Il Buddhismo, comunque, non spiega in che modo una continuit di causa ed
effetto sia mantenuta tra una vita A e la conseguente vita B, che sono separate
dal fatto della morte fisica; la cosa data per scontata. Le scuole brahmaniche
suppliscono a questa difficolt introducendo l'idea di un corpo "astrale" o
sottile (il linga-sarira), una materia composta, non l'Atman, che serve da
veicolo del mentale e delle caratteristiche e non si disintegra con la morte del
corpo fisico. In altre parole, abbiamo un gruppo, formato da corpo, anima, e
spirito; mentre i due primi elementi sono materiali, composti e fenomenici, il
terzo "non cos, non cos". Ci che trasmigra, e trasporta il kamma da una

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vita A ad un'altra vita B, l'anima, o corpo sottile (che il Vedanta, in


perfetto accordo con Gautama, definisce come non-Atman). E questo corpo sottile
che costituisce il fondamento di un nuovo corpo fisico, che modella a sua
immagine, effettuando quella che si potrebbe chiamare una "materializzazione"
spirituale che mantenuta durante la vita. Il principio lo stesso anche se
l'essere rinasce in cielo, in purgatorio, o sulla terra.
Questo punto di vista, bench non sia menzionato dai Buddhisti, non ha nulla che
si opponga alla teoria buddhistica. La validit della dottrina dell'animanon-eterna resta invariata con la sopravvivenza della personalit dopo la morte;
giacch questa sopravvivenza non potrebbe dimostrare che la personalit
costituisca un'unit eterna, n pu dimostrare che qualcosa sopravviva al
raggiungimento del Nibbana. Possiamo per dire che il Buddhismo, in particolare
nei Jataka, d la sopravvivenza della personalit (fino al momento di
raggiungere il Nibbana) per scontata; e se altrimenti fosse, la violenta
opposizione del Buddhismo al suicidio sarebbe poco spiegabile, perch essa si
appoggia sul solido argomento che ci vuole qualcosa di molto pi potente di una
dose di veleno per distruggere l'illusione dell'"io" e del "mio". Per riuscirci
bisogna esercitare lo sforzo instancabile di una strenua volont.
[nota: T. W. Rhys Davids, Ibid., pag. 78. La teoria del corpo sottile non
menzionata, a causa dell'astensione generale di Gautama da discussioni a
carattere escatologico. E comunque un tributo al valore del pensiero
buddhistico, che anche la prova della sopravvivenza della persona non si
opporrebbe alla dottrina centrale della complessit dell'anima e del suo
carattere fenomenico.]
III - I cieli buddhistici e come raggiungerli
Gautama non ha negato l'esistenza di divinit o di stati futuri d'esistenza in
paradisi o inferni. Il Buddhismo ateistico solo nel senso che nega l'esistenza
di una causa prima, e pone l'accento sul concetto della mortalit di tutti gli
esseri divini, per quanto longevi possano essere concepiti. A parte questo,
Gautama non si limitava solamente ad aderire a credenze popolari, ma parlava dei
suoi rapporti con le divinit e delle visite ai loro cieli; e, fatto ancora pi
importante, tutti quegli esercizi spirituali che non conducono direttamente al
Nibbana sono specialmente raccomandati per assicurarsi i minori, ma gi ben
auspicabili frutti di rinascite nei cieli inferiori, o nei mondi di Brahma,
formali o informali. In tutto questo, d'altronde, non c' nulla di contrastante
con lo spirito del Dhamma, che insiste sulla legge del divenire, ma non esclude
obbligatoriamente la possibilit di altre modalit del divenire, differenti da
quelle familiari al nostro campo d'esperienza. Lo spiritualismo, in altre
parole, anche se per nulla indispensabile per il Buddhismo originario, non
contraddice comunque il Dhamma.
Le principali divinit di cui si parla comunemente nei sutta, sono Sakka e
Brahma.
[nota: Il Brahman impersonale sconosciuto nella dialettica buddhistica.]
Sakka il re dell'Olimpo, "il Giove della moltitudine", ed pi o meno
identificabile con l'Indra del Brahmanesimo popolare. Pi grande di Sakka e
concepito in maniera pi spirituale, Brahma, il sovrano supremo della teologia
brahmanica ortodossa dell'epoca del Buddha. Entrambe queste divinit sono
descritte nei sutta come convertite al Dhamma del Buddha, che il "Maestro di
divinit e uomini". Un'intera serie di sutta tratta della conversione e
dell'esortazione di queste divinit, ed evidentemente questi sutta si propongono
di mostrare che le divinit brahmaniche sono veramente sostenitrici del Buddha,
e a questo scopo esse sono fatte parlare come Buddhisti illuminati e devoti.
Tavola di pagina 112: Mondi di Brahma (Brahma-loka):
1. Arupa-loka, o Piani informali: I quattro cieli superiori, esenti dal
desiderio dei sensi e non condizionati dalla forma. Questi cieli sono raggiunti
con la pratica dei quattro arupa jhana.

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2. Rupa-loka, o Piani formali: I sedici cieli, esenti dal desiderio dei sensi,
ma condizionati dalla forma. Questi cieli sono raggiunti con la pratica dei
quattro jhana.
Kama-loka, o Piani del desiderio dei sensi (sono anch'essi Rupa-loka, ma non
Brahma-loka:
1. I sei Kama-vacara devaloka. questi cieli sono raggiunti con
buone azioni:
Divinit: Paranimitta-vasavatti.
Divinit: Nimmana rati.
Cielo di Tusita (dove Gautama Buddha risiedeva prima della sua
ora Metteya attende la sua ultima nascita.
Divinit di Yama.
Cielo di Tavatimsa (dove risiedono le Trentatr divinit con a
I quattro grandi re (guardiani dei punti cardinali, Nord, Sud,

il merito delle

nascita e dove
capo Sakka).
Est e Ovest).

2. I cinque mondi di uomini, demoni, spiriti, animali e purgatorio.


[nota: Cento dei nostri anni costituiscono un giorno e una notte delle divinit
del gruppo dei Trentatr; trenta di questi giorni e notti il loro mese dodici di
questi mesi il loro anno; la durata della loro vita di mille di questi anni
celesti, o, secondo la misura umana, trentasei milioni di anni. Payasi Sutta.]
La cosmogonia buddhistica, sebbene si rifaccia a quella brahmanica, ha comunque
aspetti che le sono peculiari anche nei dettagli, e merita una certa attenzione.
La si comprender meglio dalla tavola della pagina precedente, piuttosto che da
una lunga descrizione. La parte pi essenziale e pi vera di tale cosmogonia (e
l'unica di cui si tratti nei passi pi profondi delle scritture buddhistiche),
la triplice divisione in Piani del desiderio, Piani formali di Brahma e Piani
informali di Brahma. C' una profonda verit nascosta anche nell'idea mitologica
della possibilit di visitare i mondi di Brahma quantunque si viva ancora sulla
terra. Non si eleva forse al di sopra del Piano del desiderio, chi, in
contemplazione estetica, "aus sich selbst entruckt"? Ed anche il geometra, non
conosce forse i Piani formali di Brahma? Ci sono modalit di esperienza che ci
possono portare ancora oltre. Poincar scrive dell'eremita matematico:
"Jamais il n'voquait une image sensible, et pourtant vous vous aperceviez
bientot que les entits les plus abstraites taient pour lui comme des etres
vivants. Il ne les voyait pas, mais il sentait qu'elles ne sont pas un
assemblage artificiel, et qu'elles ont je ne sait quel principe d'unit interne".
[nota: La valeur de la Science. La Rhys Davids fa notare l'apparente assenza di
musica nei cieli superiori del Buddhismo (Buddhist Psycology, pag. XIV); ma dove
la forma deve essere sostituita da "apparizioni elevate di pensieri astratti",
la musica pu anche essere silenziosa, e non abbisogna degli strumenti
articolati che sono usati nei cieli inferiori dei sensi. "Pitagora... non ha
detto che i movimenti dei corpi celesti provochino una musica udibile ma che
sono una musica in se stessi... soprasensibile". Schelling; "L'intero cielo
pieno di suoni, e questa musica prodotta senza dita e senza corde". Kabir.
Anche qui, nello stesso modo, esiste eternamente il Veda o Dhamma che "udito"
solo nei mondi inferiori.]
Ed anche Keats, non si riferisce forse al Piano informale di Brahma, quando
scrive in una sua lettera:
"Non ci sar spazio, e di conseguenza l'unico contatto tra gli spiriti sar
ottenuto attraverso le loro intelligenze. Mentre essi si comprenderanno
completamente l'uno con l'altro, noi, in questo mondo, ci comprendiamo solamente
a diversi livelli"? Se vero che chi non raggiunge il Nibbana qui ed ora
rinasce in un altro mondo - e questo dato per scontato nel Buddhismo
originario - allora cosa c' di pi ragionevole della supposizione che coloro
che sulla terra coltivino gli stati mentali che abbiamo indicato, cio gli stati
di autoconcentrazione nella contemplazione della bellezza o di una forma ideale,
o in un pensiero pi astratto, rinascano in quei mondi che hanno cos spesso

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visitato? Questa considerazione sostenuta come segue nel Tevijja Sutta:


Dopo aver descritto le quattro modalit sublimi, Gautama chiede:
"Cosa pensi, Vasettha, il Bhikkhu che vive cos pu possedere donne o ricchezze,
o no?"
"No, Gautama!"
"Sar colmo d'ira, o libero dall'ira?"
"Sar libero dall'ira, Gautama!"
"La sua mente sar colma di malizia, o libera dalla malizia?"
"Sar libera dalla malizia, Gautama!"
"La sua mente sar macchiata, o pura?"
"Sar pura, Gautama!"
"Egli sar padrone di se stesso, o no?"
"Certamente lo sar, Gautama!"
"Dunque tu dici, Vasettha, che il Bhikkhu libero dalle preoccupazioni del
padre di famiglia e mondane, e che Brahma libero dalle preoccupazioni del
padre di famiglia e mondane. C' dunque accordo e similitudine tra il Bhikkhu e
Brahma?"
"C', Gautama!"
"Molto bene, Vasettha. Allora in verit, Vasettha, il Bhikkhu che libero dalle
preoccupazioni del padre di famiglia, dopo la morte, quando il corpo dissolto,
pu unirsi a Brahma, che lo stesso; un tale stato di cose estremamente
possibile!"
Non dobbiamo comunque supporre che la pratica delle quattro modalit sublimi da
parte di un asceta, e lo stretto accordo con la formula buddhistica, sia il solo
mezzo par raggiungere l'unione con Brahma. Le scritture buddhistiche riconoscono
a fianco di questi esercizi etici altre speciali condizioni di intelletto ed
emozione che si ottengono nei "quattro jhana", e queste pratiche, come quelle
delle quattro modalit sublimi, possono essere seguite dai padri di famiglia,
come dagli asceti. Se nel mondo moderno dovesse essere provato, o diventasse di
credenza generale, che la personalit sopravvive alla morte - ed forse
ragionevole supporre che l'accidente della morte sia sufficiente a sopraffare la
volont individuale di vivere? - allora qualche classificazione dei cieli simile
a questa dell'escatologia del Buddhismo originario potrebbe anche aver corso; in
alternativa si potrebbe parlare dei tre cieli del Monismo: Bellezza, Amore, e
Verit. E possiamo anche credere, come i primi Buddhisti, che coloro che
raggiungeranno questi cieli siano precisamente coloro che hanno gi sperimentato
simili stati di coscienza: le varie sorta di artisti, amanti e filosofi. La
devozione e l'oblio di s di costoro deve portare, come gli stati di samadhi
buddhistici, ai mondi di Brahma, per la ragione che i simili si attraggono.
Proprio come il samadhi dei Buddhisti, anche la concentrazione dell'artista,
dell'amante e del filosofo dovrebbe tendere ad un'emancipazione finale.
IV - Il Nibbana
"Fin qui la storia pu essere raccontata,
ma ci che segue nascosto,
e non pu essere espresso dalle parole".
Galal ad-Din Rumi
Nibbana uno dei molteplici nomi della meta e summum bonum a cui convergono
tutti gli intenti del pensiero buddhistico. Ci che Moksha per il Brahmano, il
Tao per il Saggio cinese, Fana per il Sufi, la Vita Eterna per i seguaci di
Ges, questo il Nibbana per il Buddhista. Raggiungere questo Nibbana, al di l
della presa del male, l'unico pensiero che spinge l'aspirante buddhista ad
entrare nelle vie. Chi voglia comprendere il Buddhismo, quindi, deve cercare di
comprendere il Nibbana: non, cio, di interpretarlo razionalmente - poich la
speculazione una delle contaminazioni mortali - ma di comprenderne le
implicazioni per un Buddhista ortodosso e il significato sulle labbra di Gautama.
Sfortunatamente, il termine Nibbana (Nirvana nella forma sanscrita) divenuto
familiare agli studiosi europei ben prima che le scritture buddhistiche fossero
rese accessibili; i primi scrittori occidentali sul Buddhismo "lo hanno
interpretato in termini della loro propria credenza, come uno stato da

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raggiungere dopo la morte. Cos essi supponevano che l'"estinzione" dovesse


significare la morte di "un'anima"; e vi furono discussioni senza fine per
stabilire se questo significasse l'eterno samadhi, o l'annullamento assoluto di
un'anima".
[nota: Ma il Milinda Panha parla anche (erroneamente) di un Arahat come di chi
"entri nel" Nibbana, dicendo che il laico che raggiunge lo stato di Arahatta
deve entrare nell'Ordine o passare nel Nibbana; e qui l'ultima alternativa
implica la morte fisica (come nel caso di Suddhodana, il padre del Buddha, pag.
58).]
Si pu vedere quanto questa discussione fosse irrilevante se ci si rende conto
che il Nibbana uno stato che dev'essere realizzato qui ed ora, ed riferito
che sia stato raggiunto dal Buddha all'inizio del suo ministero, come pure da
innumerevoli Arahat, suoi discepoli, e se ricordiamo che il Buddhismo nega
l'esistenza di un'anima, in qualsiasi momento, sia prima che dopo la morte.
Nel Milinda Panha, il Nibbana paragonato ad una "citt gloriosa, immacolata e
senza macchia, pura e bianca, eterna, immortale, sicura, calma e felice"; e
tuttavia questa citt ben lungi dall'essere un cielo al quale gli uomini
giungano dopo la morte:
"Non vi luogo, o re, Est, Sud, Ovest o Nord, sopra, sotto o aldil, dove sia
situato il Nibbana; eppure il Nibbana ; e chi ordina rettamente la sua vita,
basandola sulla virt, e con attenzione intensa, pu realizzarlo, anche se vive
in Grecia, in Cina, ad Alessandria, o nel Kosala".
Entra in questa citt chi "emancipa la sua mente nell'Arahatta". Il significato
letterale della parola Nibbana : "estinzione", o "spegnimento", come per un
fuoco.
[nota: Sono possibili altre etimologie: " chiamato Nibbana ci in cui un
allontanamento da quel desiderio che detto vana, piacere sensuale". Anuruddha,
Compendium of Philosophy, IV, 14. importante ricordare che il termine Nirvana
anteriore al Buddhismo, ed una delle molte parole usate da Gautama con un
significato particolare. Nelle Upanishad non significa affatto l'estinzione di
qualcosa, ma piuttosto la perfetta realizzazione del S; per coloro che hanno
dissipato l'oscurit dell'ignoranza con la conoscenza perfetta, "si apre la pi
alta meta, l'eterno, perfetto Nirvana", Chandogya Upanishad, 8, 15, 1. L'uso
buddhistico d importanza al significato strettamente etimologico di
"estinzione", ma anche cos non si tratta dell'estinzione di un'anima o di
un'individualit, perch simili entit non esistono, e quindi non possono
estinguersi; sono solo le passioni (desiderio, risentimento, illusione) che
possono spegnersi. Quanto a ci che resta, se "qualcosa", il Buddhismo
originario mantiene il silenzio.]
Per comprendere la sua importanza tecnica, dobbiamo richiamare alla mente
l'esempio della fiamma cos ripetutamente usato nel pensiero buddhistico:
"L'intero mondo in fiamme", dice Gautama. "Da quale fuoco acceso? Dal fuoco
della passione (raga), del risentimento (dosa), dell'illusione (moha);
infiammato dal fuoco della nascita, della vecchiaia, della morte, della pena,
della deplorazione, del dispiacere, dell'afflizione e della disperazione".
Il processo della trasmigrazione, l'ordine naturale del divenire, la
comunicazione di questa fiamma da un composto combustibile ad un altro. La
salvezza dell'Arahat, il Santo, allora l'estinzione - Nibbana - delle fiamme
della passione, del risentimento, dell'illusione, e del desiderio di vita
separativa. Il Nibbana solo questo, niente di pi n di meno.
Nibbana (Nirvana) l'unico termine buddhistico familiare ai lettori occidentali
per esprimere la salvezza, ma solo uno dei tanti che ricorrono nelle scritture
ortodosse del Buddhismo. Forse il termine pi ampio Vimokha, o Vimutti,
"salvezza" o "liberazione", e coloro che hanno ottenuto questa salvezza sono
chiamati Arahat, Adepti, mentre lo stato dell'Adepto chiamato Arahatta. Altri
termini e definizioni esprimono "la fine della sofferenza", la "medicina per
ogni male", l'"acqua viva", l'"imperituro", il "durevole", l'"ineffabile", il
"distacco", la "sicurezza infinita".
Il Nibbana di cui abbiamo parlato fino ad ora, come si pu vedere,
essenzialmente etico; ma questo Nibbana comporta anche, ed quindi spesso usato

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come sinonimo per, la "cessazione del divenire"; e questo, naturalmente, il


massimo bene che si possa desiderare, di cui l'"estinzione" etica
semplicemente il mezzo ed il segno esteriore. La salvezza (Vimutti) ha quindi
anche un aspetto psicologico, il cui elemento pi essenziale l'affrancamento
dall'individualit. Troviamo cos definite le otto stazioni della liberazione:
1. avendo una forma esteriore, si vedono le forme; 2. inconsapevoli della
propria forma esteriore, si vedono le forme esterne a se stessi; 3. ipnosi
estetica; 4. permanenza nella sfera dello spazio considerata indefinita; 5.
permanenza nella sfera della cognizione considerata indefinita; 6. permanenza
nella sfera del nulla [di forma]; 7. permanenza nella sfera che non n
dell'ideazione n della non-ideazione; e 8. permanenza nello stato in cui sia le
sensazioni che le idee hanno cessato di essere.
[nota: Le stazioni dalla quarta alla settima sono le stesse dei quattro arupa
jhana per mezzo dei quali sono raggiunti i Cieli informali.]
Un altro modo di attualizzare la connotazione pratica del Nibbana buddhistico
di considerare la testimonianza di quegli Arahat che, con Gautama, vi sono
arrivati. Si dice che due discepoli di Gautama abbiano attestato quanto segue:
"Signore, a chi Arahat, che... ha conquistato il suo affrancamento, ha
completamente distrutto i vincoli con il divenire, che si emancipato con la
saggezza perfetta, a quegli non viene il pensiero che alcuni siano meglio di me,
o uguali a me, o meno di me".
"Cos ", ha risposto Gautama, "gli uomini con l'impronta della verit espongono
la gnosi che hanno raggiunto; parlano di ci che hanno ottenuto (attha), ma non
parlano di "io" (atta)". L'affrancamento che ci si propone nel Buddhismo
originario da mana, il concetto del riferimento a se stessi, l'ahamkara del
Samkhya. Di colui che l'ha ottenuto possiamo dire veramente che niente di lui
restato in lui. Troviamo questo aspetto in un dialogo tra due discepoli; uno ha
un'espressione serena e radiosa, e l'altro chiede:
"Dove sei stato oggi, Sariputta?"
"Sono stato solo, nel primo jhana (contemplazione), Fratello", la risposta
trionfante, "e l non mi ha mai sfiorato il pensiero: "sto arrivandoci; ne sono
emerso!""
Per sapere qualcosa degli effetti dell'esperienza del Nibbana sulla vita,
abbiamo la testimonianza dei Fratelli e delle Sorelle i cui "Salmi" sono
riportati nel Thera-theri-gatha. Per cominciare dai Fratelli:
"L'illusione mi ha abbandonato completamente", ' "adesso sono freddo; perch
ogni fuoco interiore mi ha lasciato."
Un altro descrive il facile movimento della vita del Liberato:
Cos come, senza fatica, il bue di razza
con possente dorso fa scivolar l'aratro lungo il solco,
cos, lievi scorrono per me le notti e i giorni
ora che acquisita la pura, incontaminata, beatitudine.
Forse il pensiero prevalente un piacere pi o meno estatico per essere
sfuggiti al male e al desiderio (dukkha e tahna), alla sensualit, al
risentimento, all'illusione; e alla prospettiva di una rinascita, nella
continuit del divenire, in qualsiasi altra vita condizionata. Se si guarda dal
punto di vista della volont, nuovamente, l'accento posto sull'ottenimento
della liberazione, della padronanza di s, e cos via. E l'ottenimento pu
essere descritto poeticamente - cos come il Brahman chiamato "beatitudine",
"intelligenza", e cos via, nelle scritture brahmaniche - come luce, verit,
conoscenza, felicit, calma, pace; ma le similitudini sono sempre fredde, non
suggeriscono mai un rapimento estatico violento o un'emozione soverchiante.
Anche se distinguiamo una nota di esultazione per la conquista ottenuta qui ed
ora, dobbiamo per riconoscere che l'insegnamento buddhistico ortodosso
caratterizzato dall'"assenza di qualsiasi gioia riguardante la prospettiva del
futuro"; e, invero, nessun Realizzato pu aspettarsi dal futuro una beatitudine
maggiore di quella che ha gi sperimentato: che cosa di pi potrebbe cercare chi
ha gi ottenuto il summum bonum, e l'accidente fisico della morte cosa potrebbe
aggiungere a chi ha gi raggiunto la meta come conseguenza del suo sforzo?

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[nota: Perch: "Il Paradiso gi sulla terra..." Boehme; perch: "Quando me ne


andr, che le mie ultime parole possano essere che ci che ho visto
insorpassabile". Tagore. Non c' niente di pi che possa essere desiderato.]
Gautama rifiuta espressamente di rispondere a qualsiasi domanda che riguardi la
vita dopo la morte, e ne condanna ogni speculazione come poco concludente:
"Non ho", dice, rivolgendosi al venerabile Malunkyaputta, che desiderava
informazioni su questo argomento, "rivelato che l'Arahat esista dopo la morte;
non ho rivelato che non esista; non ho rivelato che contemporaneamente esista e
non esista, e neppure che n esista, n non esista dopo la morte. E perch,
Malunkyaputta, non ho rivelato queste cose? Perch, o Malunkyaputta, sono
controproducenti, non hanno niente a che vedere con l'essenza della norma, non
tendono a mutare la volont, all'assenza suprema di passioni, alla cessazione,
al riposo, alle facolt superiori, alla saggezza, n al Nibbana; perci non ne
ho fatto parola".
I primi Arahat, astenendosi doverosamente dalla speculazione, devono aver
pensato qualcosa che coincide con le parole di Emerson:
"Dell'immortalit, l'anima, se ben impiegata, non curiosa. Sta cos bene, che
sicura che star bene".
E ingiunto nella maniera pi esplicita che lo stato del Nibbana non pu essere
discusso:
"Come una fiamma spenta dal vento", dice il Buddha, "sparisce e non pu essere
percepita, cos un Saggio, liberato da nome e forma, sparito, e non pu essere
percepito".
Il discepolo chiede:
"Allora egli semplicemente sfuggito alla vista, oppure non esiste proprio pi?"
"Per colui che scomparso", dice il Buddha, "non c' pi forma; ci per cui si
dice: "Egli " non esiste pi per lui; quando tutte le condizioni sono abolite,
sono aboliti anche tutti gli argomenti di discussione'". O ancora:
Come le scintille infiammate che vengono da una fucina
si spengono una dopo l'altra,
e nessuno sa dove sono andate, ...
cos per chi ha raggiunto la liberazione totale,
che ha oltrepassato il flusso dei desideri,
che entrato nella felicit tranquilla.
Di costoro non resta traccia.
In questo senso essi sono a volte paragonati agli uccelli dell'aria, il cui
percorso difficile da seguire, perch non lasciano tracce.
Ma torniamo al significato di Nibbana o Vimutti applicato agli Arahat ancora
viventi. Gli Arahat e il Buddha hanno raggiunto il Nibbana o Vimutti, e sono
Vimutto; dobbiamo intendere che questo stato sia conservato ininterrottamente
dal momento dell'illuminazione al momento della morte? Se cos, cos' che
mantiene la vita nell'essere liberato? Questa domanda viene posta anche nel
Vedanta. La risposta pi comune che la spinta del kamma antecedente
sufficiente a far perdurare la vita individuale anche dopo che la "volont di
vivere" cessata, e questo espresso nel vivido paragone della ruota del
vasaio, che continua a girare per qualche tempo anche dopo che la mano del
vasaio ha smesso di spingerla. In ogni caso evidente che la libert
dell'Arahat o Jivan-mukta non implica un immediato e permanente affrancamento
dalla mortalit: ad esempio, nonostante avesse raggiunto gi da molto tempo
l'illuminazione perfetta, riportato che il Buddha abbia sofferto per gravi
malattie, e che ne sia stato cosciente. Non c' dubbio che siano considerazioni
di questo tipo che hanno determinato la distinzione, qualche volta tracciata,
tra il Nibbana, o "Estinzione", e il Parinibbana, "Estinzione completa o
finale", che coincide con la morte fisica.
L'Arahat comunque passato attraverso un'esperienza che illumina tutta la sua
vita rimanente: conosce le cose per quello che sono in realt, ed libero da
timore e dispiacere: ha realizzato, anche se solo per un istante, l'Abisso, dove
non c' pi divenire. E rassicurato dell'autenticit dell'esperienza (estinzione
della propria individualit) dal fatto stesso che il pensiero "sto
sperimentando, ho sperimentato" non gli si presentato. Ma il semplice fatto
che sa di aver fatto quest'esperienza, e che pu farla ancora - pu anche

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comandarla a volont - prova che non la realizza in continuazione.


Inoltre, contrario ad ogni esperienza spirituale - e dobbiamo protestare
duramente contro la pretesa, diffusa fra i Buddhisti, che l'esperienza
buddhistica della salvezza sia unica - che il pi alto rapimento estatico possa
essere considerato come scientemente coesistente con l'attivit ordinaria della
coscienza empirica, anche se il tran tran della vita quotidiana sia semplice
come quello del Fratello buddhista. Nelle scritture buddhistiche
frequentemente riportato che sia il Buddha che i Fratelli entrano ed escono dal
pi elevato stato di samadhi. In altri momenti la coscienza empirica deve essere
sveglia; e, naturalmente, poich questa coscienza composita e mutevole, non
pu, come tale, essere "liberata". L'esperienza suggerisce dunque che mentre il
Nibbana sicuramente accessibile qui ed ora - come i mistici di tutte le epoche
hanno vigorosamente testimoniato - una realizzazione continua della salvezza
concepibile solo dopo la morte. E, come dice il Buddha, ci che la realizzazione
implica non soggetto alle sole leggi del pensiero razionale.
Il Buddhismo posteriore offre un'altra spiegazione per il fatto che non possiamo
considerare il Nibbana, o Vimutti, realizzato in questa vita come un'esperienza
ininterrotta. Questa spiegazione, che si accosta all'eresia docetica del
Cristianesimo, asserisce con solide basi logiche che l'individuo liberato - il
caso del Buddha considerato in modo particolare in un sistema che ritiene lo
stato di Buddha la meta, pi che non quello di Arahatta - liberato una volta
per tutte: ci che resta, l'uomo che vive e parla sulla terra, solo un
miraggio, che esiste nelle coscienze degli altri, ma che non sostenuto da
alcuna volont di vivere sua propria; una volta di pi la ruota del vasaio,
che la mano del vasaio ha smesso di spingere.
Certe prove tendono a indicare che lo stato del Nibbana, o Vimutti, offre il
privilegio di due mondi, la Vetta e l'Abisso.
Leggiamo, ad esempio, che quando un Fratello ha preso possesso delle Otto
Stazioni della Liberazione "in modo tale da immergersi in ognuna di esse, e da
emergerne, quando vuole, dove vuole, e per quanto vuole - e quando, inoltre,
avendo sradicato le Contaminazioni, egli entra e permane in quell'emancipazione
del cuore, quell'emancipazione dell'intelletto che da se stesso, qui nel
presente mondo, egli arrivato a conoscere e a realizzare - allora un simile
Fratello, o Ananda, detto "Libero-in-entrambi-i-modi"". Sfortunatamente non
possiamo intendere "libero in entrambi i modi" nel significato di "libero in
entrambi i mondi" - condizionato e incondizionato - perch la frase si riferisce
chiaramente al duplice carattere della liberazione, nello stesso tempo
psicologica ed etica. Ma , comunque, affermato che il Fratello divenuto Adepto
libero di passare da un mondo all'altro, dalla Vetta all'Abisso, e dall'Abisso
alla Vetta a volont: difficilmente si pu supporre che la morte fisica implichi
la perdita di questo potere: se invece lo si fa, si traccia in questo modo una
divisione tra il Nibbana dell'individuo vivente e il Nibbana del morto, e il
secondo diventa pi limitato, il meno libero. E che la coscienza del Vimutta
dopo la morte dell'individuo - o piuttosto, indipendentemente dalla vita o morte
dell'individuo - tocchi realmente sia la Vetta che l'Abisso, come asserisce
decisamente la dottrina brahmanica, in ogni caso il Buddha non lo nega. Troviamo
perfino scritto che "dire di un Fratello liberatosi con la discriminazione: "Non
sa, non vede", sarebbe assurdo!"
In altre parole, chiaro che l'"individuo" liberato, dopo la morte non cessa
"di conoscere le cose come sono realmente": essendosi purificate le porte della
percezione, egli continuer a vedere tutte le cose come sono, all'infinito - o
per tornare al linguaggio buddhistico, vuote -. Non c' comunque nessun
individuo che "vede", perch l'individuo di prima ugualmente limitato o vuoto:
soggetto e oggetto sono unificati nell'Abisso. Cos, ancora una volta, non
possiamo stabilire una distinzione definita tra la fraseologia positiva e
negativa degli Adepti. In ogni caso certo che l'uso buddhistico (e brahmanico)
dei negativi non intende che lo stato di liberazione implichi una perdita per
chi lo raggiunga. Per i lettori occidentali il linguaggio dei mistici
occidentali dovrebbe costituire un'indicazione sufficiente di ci che si
intende: il Nibbana sicuramente "quella nobile Perla, che al mondo appare
niente, ma che per i Figli della Saggezza Tutto". Cosa significa precisamente
il Nibbana nel Buddhismo originario, e il Nirvana nel Mahayana, non potrebbe
essere spiegato pi esattamente di come lo nel primo e nel secondo dei
seguenti paragrafi dei Dialoghi di Boehme:

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"E per finire, invece io ho detto: "Chiunque lo trovi, trova [insieme] Niente e
Tutto"; anche questo certo e vero. Ma cosa significa che egli non trova
Niente? Perch, ti dir, colui che lo trova, trova un Abisso sovrannaturale,
sovrasensibile, il quale non ha terreno o base su cui poggi, e nel quale non c'
luogo dove stia; e trova anche che nulla simile ad esso, per la qual cosa si
pu giustamente paragonarlo a Niente, perch pi profondo di qualsiasi Cosa,
ed come un Niente rispetto a Tutte le Cose, tanto pi che non pu essere
compreso da nessuna di esse. E poich non Nulla nei riguardi di qualsiasi
cosa, altres libero da Tutte le Cose, ed quell'unico Bene che l'uomo non
pu esprimere o descrivere cosa sia, perch non c' niente, a cui si possa
paragonarlo, con il quale esprimerlo.
"Ma in ci che ho detto alla fine: "Chiunque lo trovi, trova Tutto"; non c'
nulla che possa essere pi vero di una simile asserzione. E stato l'inizio di
ogni cosa; e governa tutte le cose. altres la fine di tutte le cose; per cui
comprender ogni cosa nel suo cerchio. Tutte le cose provengono da Esso, e in
Esso, e per mezzo di Esso. Se tu lo trovi, metti i piedi in quella terra dalla
quale tutte le cose traggono origine, e nella quale durano; e in essa tu sei un
Re [che regna] su tutte le opere di Dio".
V - L'etica
"Che i Fratelli non si occupino di commercio"
Theragatha, 1072
Esaminando l'argomento della morale buddhistica, non potremmo mai, in primo
luogo, dar troppo rilievo al fatto che lo scopo che si prefiggevano tanto
Gautama quanto Ges non era quello di stabilire l'ordine nel mondo.
[nota: Dhammapada, V, 412. Il Buddhista, come il Cristiano tolstoiano, non ha
fede nel governo. Leggiamo di lezioni spirituali ai prncipi, ma la "strada
della saggezza politica" chiamata "una via impura di falsit" (Jatalzamala,
XIX, 27). Il punto ulteriormente illustrato dal rifiuto di Gautama ad
intervenire quando gli giunse il messaggio che Devadatta aveva usurpato il trono
di Kapilavatthu (supra, pag. 38).]
Niente avrebbe potuto essere pi lontano dai pensieri del Buddha che il
raddrizzamento dell'ingiustizia sociale, e non si sarebbe potuto immaginare per
Colui-che-ha-raggiunto-ci un titolo meno adatto che quello di democratico o
riformatore sociale. "Un uomo saggio", dice il Dhammapada, "deve abbandonare lo
stato oscuro della vita nel mondo e perseguire lo stato luminoso della vita
monastica". Il messaggio di Gautama rivolto a coloro di cui percepisce la
potenzialit di discernimento finale gi sul punto di maturare: per questi egli
pronuncia la parola di affrancamento da cui sorge un richiamo irresistibile ad
abbandonare il mondo e a seguirlo: Nibbana.
"Questa legge appartiene al Saggio e non allo stolto".
Per i bambini e per coloro che sono come i bambini, come fa notare il Prof.
Oldenberg, le braccia del Buddha non sono aperte. Non neppure giusto per
Gautama confrontare il suo Dhamma - la norma buddhistica - con i Dharma che sono
assegnati a uomini di diverso stato sociale nell'ordine sociale brahmanico. Per
esaminare la sua dottrina senza pregiudizi dobbiamo concentrare la nostra
attenzione sul Sangha, l'Ordine, che egli ha fondato: dobbiamo comparare il suo
sistema, non con altre religioni, ma con un altro sistema monastico, e
considerare se la sua disciplina mentale e morale sia finalizzata o no a far
ottenere a chi la segue la salvezza che desidera. Certamente Gautama non credeva
che la salvezza si potesse ottenere in un altro modo, n da parte di Fratelli di
un altro ordine: perch, per coloro che seguissero un altro metodo, e per la
vasta massa dei laici si trattava solo di rinascere in condizioni favorevoli o
sfavorevoli a seconda del valore morale dei loro atti.
[nota: Il Buddhismo ha molto da dire sullo stato futuro di coloro che muoiono
senza essersi liberati, perch non si sono separati dalle condizioni che
determinano la rinascita. Come detto dalla Rhys Davids, "La massa della brava
gente ordinaria, che procede, con la pazienza e il coraggio dei mediocri

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mortali, da uno stadio all'altro di verde immaturit, attraverso quelle gioie e


quei dispiaceri che tanto spesso ricorrono e ricorreranno, il paradiso, il
purgatorio e la terra stessa attendono il loro futuro".]
L'ideale buddhistico originario non solo molto lontano da ci che immorale,
ma anche, e non di meno, da ci che morale: esso va al di l delle concezioni
del bene e del male, in quanto anche le buone azioni, secondo il giudizio del
mondo, determinano la rinascita: esse infatti hanno come conseguenza la loro
ricompensa.
"E voi, Fratelli", dice Gautama, "imparate dalla parabola della zattera che
dovete disfarvi delle buone condizioni, per non parlare di quelle cattive".
Il bene solo la zattera che ci fa attraversare il mare pericoloso; chi vuole
raggiungere la terra dell'ultima spiaggia deve abbandonare la zattera dopo aver
toccato terra. Comprendere questa realt non toglie comunque niente al valore
relativo della zattera.
Questa una "religione dell'eternit" - il nivritti marga brahmanico -, per
questo si potrebbe legittimamente chiamarla antisociale, se mai fosse anche solo
remotamente possibile, o se si supponesse che dovesse, o potesse, essere
adottata nella sua integralit, da tutti. Religioni come questa, che incorporano
la pi alta verit che l'umanit abbia raggiunto, possono essere criticate come
puritane solo se i loro seguaci cercano di imporre un regime ascetico (piuttosto
che uno di moderazione) a tutti indistintamente, o se la loro idea sull'arte
solamente edonistica, o se si oppongono completamente al culto e al rituale.
Ci sarebbe molto da dire in favore della dottrina brahmanica del debito sociale,
e del punto di vista secondo il quale un uomo dovrebbe ritirarsi dal mondo solo
avanti negli anni, e soltanto dopo che ha preso la sua debita parte della vita
del mondo. Possiamo per sostenere la convinzione che la rinuncia al mondo, in
qualsiasi momento, da parte di chi sperimenta la vocazione all'ascesi,
interamente giustificabile, se la vocazione reale. Inoltre, un reale
vantaggio sociale e morale per la comunit che un certo numero delle sue menti
pi acute, conducendo una vita che potrebbe dirsi riparata, possano rimanere
distaccate dalle attivit sociali e slegate dai vincoli sociali. Si d troppa
importanza all'"utilit" in comunit dove n i religieux n le donne sono
"protetti". Ma anche se stabilire l'ordine nel mondo non lo scopo
dell'eremita, ricordiamoci che egli lo spettatore che ha una visione pi
globale del gioco; non senza ragione che sia divenuto un uso tradizionale
dell'Oriente che il sovrano sia guidato dal Saggio. L'esempio dell'ascetismo,
inoltre, dove questo ascetismo naturale e non forzato, costituisce un utile
correttivo del lusso; dove la povert volontaria altamente rispettata una
parte della sofferenza implicita nella povert ordinaria svanisce. A tutt'oggi,
l'ideale brahmanico della vita frugale e della disciplina sociale influenza
ancora decisamente gli usi e i costumi di tutte le altre caste; lo stesso
risultato raggiunto dal monachesimo buddhista in Birmania, dove
consuetudine, non solo per chi conduce vita ascetica, ma per uomini di ogni
ceto, trascorrere un periodo pi o meno lungo all'interno dell'Ordine.
Probabilmente la causa dell'ostilit che molti nutrono per gli ideali monastici
di tipo buddhistico da ricercare nell'"egoismo" del loro obiettivo, o, per
considerare la cosa da un altro punto di vista, nel fatto che viene data
importanza alla conoscenza, piuttosto che all'amore. Ma ricordiamoci che la
maggior parte, e forse anche tutto il nostro "altruismo", non che illusione.
Nessuno pu crescere per un altro - nessuno.
Il dono a favore del donatore,
e la maggior parte gli ritorna - non pu mancare,
e nessuno comprende una grandezza o una bont
che non siano le sue, o un'indicazione che non si basi
sulla sua esperienza.
Ricordiamoci anche che la piet non esisterebbe pi, se tutti fossero felici
come voi [pity no more could be, if all were as happy as ye]: e proprio questa
felicit promessa a tutti coloro che abbandonano il desiderio, il
risentimento, e il sentimentalismo. Non dobbiamo neppure dimenticare che era un
dovere preciso dei Fratelli, e qualche volta anche delle Sorelle, predicare il
Dhamma; e chi pu sostenere l'asserzione che l'uomo viva di solo pane? Secondo

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l'Editto di Asoka, "Non esiste carit pi grande della carit del Dhamma".
Questo corrisponde anche alla convinzione di una mente occidentale cos pratica
come quella di Cromwell, la cui prima lettera esistente (come ha fatto notare
Vincent Smith) costituisce un parallelo molto vicino al detto di Asoka appena
citato:
"La costruzione di ospedali", egli scrive, "provvede ai corpi degli uomini;
costruire templi giudicato opera di piet; ma chi procura il cibo spirituale,
che costruisce i templi spirituali, sono costoro gli uomini veramente
caritatevoli, veramente pii". molto probabile che il Buddhismo pi antico non
avesse altro codice morale che quello della disciplina mentale e morale
prescritta a chi aveva rinunciato al mondo ed era entrato nelle vie. I seguenti
dieci comandamenti erano gli obblighi imposti ai Fratelli: evitare: 1. la
distruzione della vita; 2. il furto; 3. l'incontinenza sessuale; 4. la menzogna;
5. l'uso di liquori alcolici; 6. di mangiare tra i pasti; 7. la partecipazione a
divertimenti profani; 8. l'uso di unguenti e gioielli; 9. l'uso di letti elevati
o lussuosi; e, 10, il maneggio di soldi. Chi si dedicava all'insegnamento dei
Fratelli, ma restava laico, doveva obbedire alle prime cinque regole - che sono
tutte, si noter, di carattere negativo -. Ma nel caso dei laici, il terzo
comandamento inteso semplicemente come astensione dall'adulterio.
Praticamente tutte queste regole sono estratte da fonti brahmaniche. Questo
pi particolarmente evidente in altri passaggi dei libri canonici dove la
moralit laica esposta pi dettagliatamente. Quando pareri su questi argomenti
sono richiesti a Gautama o ai Fratelli, la decisione che viene presa si accorda
evidentemente con l'opinione pubblica corrente; il matrimonio e la vita
familiare non sono direttamente criticati, semplicemente fatto notare che la
vita secolare non conduce all'affrancamento da rinascite e sofferenza.
[nota: Ma la superiorit della vita errante sempre maggiormente ribadita; per
esempio: "La vita del padre di famiglia piena di impacci, una via contaminata
dalla passione; libera come l'aria la vita di chi ha rinunciato a tutte le
cose mondane. Com' difficile per l'uomo che vive in casa condurre una vita
elevata in tutta la sua pienezza, in tutta la sua purezza, in tutta la sua
brillante perfezione! Devo tagliarmi i capelli e la barba, devo rivestirmi di
abiti fulvi, e uscire dalla vita del padre di famiglia, allo stato di erranza".
Tevijja Sutta. " facile ottenere la rettitudine nella foresta, ma non per un
padre di famiglia". Jatakamala di Arya Sura XXXII.]
In alcuni libri abbiamo ovviamente una dettagliata esposizione dei reciproci
doveri di figli e genitori, marito e moglie, padrone e servo. Queste norme
stabiliscono proprio quei doveri che sono riconosciuti anche nelle opere
brahmaniche e indicano un modo di vita irreprensibile, dove dato particolare
risalto al non recar danno agli altri, sostenere i parenti, e dare in elemosina
ai Fratelli. Questa la condizione pi vicina a quella del pellegrino, che
membro dell'Ordine, ed "errante". I doveri dei laici sono esposti nel Sigalavada
Sutta per sei capi: i genitori devono allontanare i figli dal vizio, spingerli
verso la virt, far apprendere loro arti e scienze, provvederli di mogli o
mariti adeguati, e dar loro la loro eredit; i figli devono mantenere quelli che
li hanno mantenuti, adempiere ai doveri familiari, occuparsi della propriet dei
loro genitori, rendersi degni di esserne gli eredi, e finalmente onorare la loro
memoria. Gli allievi devono rispettare gli insegnanti alzandosi in loro
presenza, assecondarli, obbedendogli, rifornendoli del necessario e applicandosi
con attenzione all'apprendimento; l'insegnante deve mostrare affetto verso i
suoi allievi e indirizzarli a tutto ci che buono, insegnando loro ad
apprendere in fretta, istruendoli nella scienza e nella tradizione, parlando
bene di loro, e proteggendoli dal pericolo. Il marito deve trattare la moglie
con rispetto e gentilezza, esserle fedele, far s che sia rispettata dagli altri
e darle abiti e gioielli adeguati; essa deve tenere la casa nel dovuto ordine,
essere ospitale con parenti e amici, essere casta e parsimoniosa e in ogni cosa
comportarsi con abilit e diligenza. Un uomo deve coltivare le sue amicizie con
regali, linguaggio cortese, promuovere i loro interessi, trattare gli amici come
pari, e dividere con loro la sua prosperit; essi devono assisterlo quando in
difficolt, proteggere la sua propriet quando egli la trascura, offrirgli
rifugio in caso di bisogno, stargli vicino nella sfortuna, e mostrare gentilezza
verso la sua famiglia. Il padrone deve aver cura dei suoi dipendenti, imponendo

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loro un lavoro proporzionato alla loro forza, dandogli nutrimento e salario


adeguati, badando a loro quando sono ammalati, dividendo con loro ghiottonerie
insolite, e concedendo loro vacanze occasionali; essi devono alzarsi in sua
presenza, ritirarsi a riposare dopo di lui, essere contenti di ci che egli d
loro, lavorare volentieri e bene, e parlare bene di lui. Un laico deve
rispettare i Bhikkhu e i Brahmani con affetto, nel pensiero, nella parola,
nell'azione, tributando loro un pronto benvenuto, e supplendo alle loro
necessit temporali; essi (Bhikkhu e Brahmani) devono dissuaderlo dal vizio,
esortarlo alla virt, comportarsi con gentilezza verso di lui, istruirlo nella
religione, chiarire i suoi dubbi, e indicargli la via del cielo.
"E agendo cos le sei direzioni (Nord, Sud, Est, Ovest, Zenit e Nadir) sono
conservate in pace e libere dal pericolo".
Si pu anche notare, a proposito dei Fratelli e delle Sorelle, che, bench la
pratica delle buone azioni non fosse imposta con alcun mezzo, essi erano
costantemente impegnati in ci che ora chiameremmo educazione morale, e in gran
parte, ancor pi negli ultimi tempi, nell'educazione ed insegnamento in
generale. In tutti i casi, si pu difficilmente negare che il monachesimo
buddhistico sia stato un vero beneficio per ogni paese dove si introdotto, e
che anche in India il Buddhismo abbia nell'insieme apportato elementi validi e
specifici per un miglioramento permanente delle abitudini correnti di etica
sociale.
Sar un utile commento alla presente sezione l'aggiunta della seguente
citazione, che descrive la moralit popolare nella Ceylon buddhistica, dove una
considerevole parte della cultura popolare pu essere a ragione attribuita
all'influenza sociale del Buddhismo originario:
"Ogni anno c' una riunione di gente in provenienza da tutte le parti dell'isola
ad Anuradhapura per visitare quelli che sono chiamati i luoghi sacri. Stimo che
circa 20.000 persone vi convergano, vi rimangano alcuni giorni e poi partano.
Non esistono case per riceverli, ma si erigono capannucce e ci si accampa
all'aria aperta sotto la grande ombra degli alberi intorno al nostro parco.
Quando si avvicina il culmine della festa, il luogo diventa brulicante di vita;
e quando non c' neppure pi spazio per accamparsi, gli ultimi arrivati prendono
possesso senza tanti complimenti delle balconate degli edifici pubblici. Ma il
loro comportamento talmente corretto che nessuno pensa a disturbarli. Il
vecchio Kacceri (ufficio del governo), un edificio staccato, non lontano dal
bazar, si erge a circa un ottavo di miglio dalla casa del Vice Governatore. Fino
a poco tempo fa il tesoro era solitamente conservato in una piccola cassa
metallica, facilmente trasportabile da pochi uomini, che avrebbero potuto
scappare con essa; questo tesoro era custodito da tre guardie del posto. Si
lasciava perci tutti gli anni questa somma alla merc di tali uomini, che, se
avessero deciso di scappare con essa nella vicina giungla, nessuno sarebbe pi
stato capace di prenderli; e tuttavia mai a nessuno era venuto in mente che un
simile tentativo avrebbe potuto esser fatto. Questi 20.000 uomini, provenienti
da tutte le parti del paese, vanno e vengono abitualmente, senza che sia
prevista la presenza di nessun poliziotto; e, come magistrato del distretto,
posso solo dire che impossibile concepire qualcosa che sorpassi il loro decoro
e la loro sobriet di condotta. Non si mai udito che abbia avuto luogo
qualcosa di simile a una rissa". Rapporto dell'Agente governativo, Anuradhapura,
Ceylon, 1870.
A questo possiamo aggiungere la testimonianza di un certo Knox, che fu tenuto
prigioniero nell'interno di Ceylon alla fine del secolo XVII. Egli afferma che
il detto togli un contadino dall'aratro, lava la sua sporcizia, ed egli sar
capace di condurre un regno, "veniva applicato al popolo di Cande Uda... a causa
della civilt, intelligenza e seriet anche del pi povero di loro". "Il loro
contadino comune", egli aggiunge, "e agricoltore, parla con eleganza ed pieno
di qualit. Non c' differenza di abilit e di discorso tra un contadino e un
cortigiano".
Ma forse la migliore idea delle conseguenze etiche dei modi di pensare
buddhistici pu essere dedotta dalla seguente critica giapponese
dell'industrializzazione occidentale, originariamente pubblicata sul Daily Mail
giapponese (1890) dal Visconte Torio, il quale era profondamente versato nel
pensiero buddhistico, e aveva anche un alto rango nell'esercito giapponese:
"L'ordine o il disordine di una nazione non dipendono da qualcosa che cada dal
cielo o sorga dalla terra. Esso determinato dalla disposizione del popolo. Il

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perno su cui ruota l'ordine pubblico il punto in cui si separano gli interessi
pubblici dai privati. Se il popolo prevalentemente influenzato da
considerazioni di pubblico interesse, l'ordine assicurato; se lo da
considerazioni di interesse privato, il disordine inevitabile. Gli interessi
pubblici sono quelli che spingono alla debita osservanza dei doveri... Gli
interessi privati sono quelli suggeriti da motivi egoistici... Considerare gli
affari della nostra famiglia con l'attenzione che dovuta alla nostra famiglia
e i nostri affari nazionali con l'importanza che si deve alla nazione, questo
significa compiere appropriatamente il nostro dovere, ed essere guidati dalla
considerazione per l'interesse pubblico... L'egoismo insito in ogni uomo;
indulgere liberamente nei suoi confronti abbassarsi al rango di animali. E per
questo che i Saggi predicano i princpi del dovere e della propriet, della
giustizia e della moralit, mettendo freni agli scopi privati ed incoraggiando
lo spirito pubblico.... Ci che sappiamo della civilt occidentale che da
molti secoli essa si dibatte in una condizione confusa, ed ha finalmente
raggiunto un certo ordine; ma che anche quest'ordine, non essendo basato su
princpi come quello delle relazioni naturali e immutabili tra sovrano e
suddito, genitore e figlio, con i loro corrispondenti diritti e doveri,
soggetto ad un cambiamento continuo, secondo il crescere delle ambizioni e delle
mire umane. Siccome si adatta bene a persone le cui azioni sono dettate
dall'ambizione egoistica, l'adozione di questo sistema in Giappone perseguita
naturalmente da una certa classe di politici. Da un certo punto di vista
superficiale, il tipo di societ occidentale molto attraente, poich, essendo
il risultato di un libero sviluppo dei desideri umani dai tempi antichi,
rappresenta l'estremo del lusso e della stravaganza. In poche parole, lo stato
di cose che prevale nell'Occidente basato sul libero sviluppo dell'egoismo
umano, ci che pu essere raggiunto solo lasciando il dominio incontrastato a
questa qualit. In Occidente si presta poca attenzione ai disordini sociali;
tuttavia essi sono, di fatto, i segni evidenti ed i fattori del cattivo stato
presente delle cose... In Oriente, dai tempi antichi, il governo nazionale
basato sulla benevolenza, e mirato ad assicurare il benessere e la felicit del
popolo. Nessun credo politico ha mai sostenuto che l'energia intellettuale debba
essere coltivata con lo scopo di sfruttare gli inferiori e gli ignoranti...
Perch, per soddisfare i bisogni di un uomo dedito al lusso, necessaria la
fatica di mille persone. E certamente mostruoso che coloro che sono in debito
nei confronti del lavoro a cui sono dovuti i piaceri suggeriti dalla loro
civilt, dimentichino ci che devono al lavoratore, e lo trattino come se non
fosse neppure un essere umano. Ma la civilt, secondo l'Occidente, serve solo a
soddisfare uomini di smodati desideri. Non apporta benefici alle masse, perch
semplicemente un sistema sotto il quale le ambizioni combattono tra di loro per
ottenere i loro scopi... Che il sistema occidentale disturbi gravemente l'ordine
e la pace di un paese, gli uomini che hanno occhi lo vedono e gli uomini che
hanno orecchie lo sentono. Il futuro del Giappone sotto un simile sistema ci
riempie di ansiet. Un sistema basato sul principio che l'etica e la religione
sono fatte per servire l'ambizione umana si accorda naturalmente con i desideri
di individui egoisti; e teorie come quelle che sono insite nella moderna formula
di libert ed eguaglianza distruggono i rapporti stabiliti nella societ, ed
oltraggiano il decoro e la propriet... L'assoluta uguaglianza e l'assoluta
libert essendo irraggiungibili, si presuppone che i limiti prescritti dai
diritti e dai doveri siano stabiliti. Ma poich ogni persona cerca di avere pi
diritti e di essere gravata da meno doveri possibili, ne risultano dispute e
contese legali senza fine... E evidente che se i reciproci diritti degli uomini
e le loro condizioni sono fatti dipendere dal loro grado di ricchezza, la
maggioranza della gente, che non possiede ricchezza, deve rinunciare a veder
stabiliti i suoi diritti; e poich la minoranza costituita da chi ricco
accamper i suoi diritti, con l'approvazione della societ, estorcer ingiusti
doveri dal povero, trascurando i dettami dell'umanit e della benevolenza.
L'adozione di questi princpi di libert in Giappone corromperebbe gli usi buoni
e pacifici del nostro paese, renderebbe la gente predisposta all'aridit e
all'insensibilit, e sarebbe finalmente una fonte di disgrazia per le masse...
Bench al primo sguardo la civilt occidentale presenti un'apparenza attraente,
adattata com' alla gratificazione dei desideri individuali, essa per, poich
si basa sull'ipotesi che i desideri degli uomini costituiscano leggi naturali,
votata a finire nella delusione e nella demoralizzazione... Le nazioni

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occidentali sono divenute quello che sono dopo essere passate attraverso
conflitti e vicissitudini di tipo estremamente grave... Il disordine perpetuo
la loro sorte. L'uguaglianza pacifica non potr mai essere raggiunta a meno che
non sia costruita sulle rovine degli stati occidentali distrutti e sulle ceneri
delle popolazioni occidentali".
VI - La coscienza
Il Buddhismo stato spesso criticato in quanto, mentre il suo codice morale
ammirevole, esso non prende provvedimenti punitivi, o non abbastanza, per la
moralit. Possiamo dire prima di tutto che poich l'"individuo" non esiste, non
si pu parlare di ricompense o punizioni per l'individuo, e pertanto non possono
esistere per la moralit sanzioni basate su ricompense o punizioni che
colpiscano l'individuo nel futuro. N il Buddhismo nomina un Dio che abbia
emanato tavole della legge investite di autorit soprannaturale. Il vero
Buddhista, quindi, non ha bisogno di essere forzato dalla speranza del paradiso
o dal timore dell'inferno; egli non pu neppure immaginare una ricompensa pi
alta di quella della ragione, (intesa nel senso di Verit).
[nota: Chi non ammette la sufficienza della ragione non pu essere chiamato
Buddhista; nello stesso tempo non si pu concludere da questo a priori, che per
i veri Buddhisti, la ragione non debba essere una ricompensa sufficiente. Come
detto da C. A. F. Rhys Davids (Psalms of the Sisters, pag. XXIX), "Siamo sicuri
di aver stimato al loro giusto valore tutti i cuori umani ed ogni tocco al quale
essi rispondono?)" E notevole che nei trentaquattro Editti di Asoka che
stabiliscono il comportamento morale, ci sia solo un'allusione alla parola di
Buddha come tale; l'unica sanzione, nel senso di motivazione per la moralit,
il benessere comune e dell'individuo. L'idea di sostenere il benessere di tutti
gli esseri profondamente radicata nella mentalit indiana, ed un'attivit
mirata a questo scopo poco probabilmente richiederebbe una motivazione ulteriore
sia da parte dei Buddhisti che dei Brahmani.]
Poich il Buddhismo essenzialmente un sistema pratico, psicologico ed etico,
pi che filosofico e religioso, esso pu giustamente chiedere di essere
giudicato dai suoi frutti, e non ha da temere paragoni.
Si far comunque un po' di luce sul pensiero buddhistico se ci chiederemo a cosa
corrisponda la "coscienza" nel Buddhismo. La coscienza - per definire la parola
nelle lingue europee - un giudizio interno e morale sulle intenzioni e le
azioni dell'individuo, e come tale un innegabile fatto di consapevolezza; essa
riporta automaticamente e immediatamente tutte le attivit ad un modello morale.
In un sistema teistico come quelli semitici questo modello morale formulato in
una serie di comandamenti; nel sistema ateistico di autoaffermazione che
implicitamente riconosciuto nelle societ concorrenziali (l'industrialismo
moderno) esistono comandamenti simili, ma fatti dall'uomo e registrati in codici
legali; qui chi non infrange la legge ha una buona coscienza. In sistemi
idealistici come quello di Ges, il modello morale riassunto nel principio di
amare il proprio prossimo come se stessi, una posizione che i monisti
giustificano aggiungendo: "Perch il tuo prossimo, in realt, sei tu stesso".
Conseguentemente, nella sua forma pi bassa, la coscienza, che si pu
riconoscere anche in certi animali inferiori, consiste in qualcosa di pi che la
paura della punizione, che, comunque, pu facilmente svilupparsi in un senso di
"colpa" che non dipende assolutamente dal timore, e che in larga parte un
effetto delle convenzioni. Un altro aspetto pi elevato della coscienza basato
sulla ragione, sulla conoscenza di causa ed effetto - una piena comprensione che
le cattive azioni devono presto o tardi ricadere su chi le ha compiute, e sulla
riflessione, d'altra parte, che tutti gli esseri hanno una natura simile, e
quindi, che dev'essere giusto comportarsi con gli altri come si vorrebbe che gli
altri si comportassero con noi stessi. Una terza forma ancora pi elevata di
coscienza deriva dall'intuizione (ovvero dalla presa di coscienza)
dell'identit: una cattiva coscienza significa allora il riconoscimento di un
movente egoistico che equivale a una negazione della relazione interna di unit
di cui la coscienza testimone.
Il sati buddhistico, concentrazione o raccoglimento, si deve identificare con la

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coscienza basata sulla ragione. Essa non agisce spinta dalla paura delle
conseguenze, ma per il senso dell'inutilit di porre ostacoli al progresso
spirituale. Chi concentrato ricorda (riporta alla mente) la legge naturale,
cio l'entrata-nell'esistenza come risultato di una causa, e la nuova-dipartita,
di tutti i fenomeni, fisici o mentali. Agire come se l'azione del divenire non
fosse reale sarebbe da pazzi, sentimentali, sviati. Chi realizza "che tutte le
esistenze sono non-ego", non pu agire per interessi egoistici, perch non
conosce ego. Per molte menti occidentali pu sembrare che essere sempre memori
dell'impermanenza non possa essere una sanzione sufficiente per la moralit. Non
si pu comunque pretendere che una simile sanzione sia sufficiente per tutti.
Coloro, per esempio - forse la maggioranza dei Buddhisti professanti - che
stimano che esista un paradiso da raggiungere dopo la morte, compiono azioni
meritevoli per raggiungerlo. Ma per coloro che comprendono il vero significato
del Nibbana, il comportamento etico dettato da un imperativo categorico ed
interiore, "a causa del Nibbana".
[nota: Shikshasamuccaya di Shanti Deva versi 21, 23: "Rendi puro il tuo merito
con azioni piene dello spirito di sensibilit e col vuoto... l'aumento di
piacere deriva dall'elemosina piena della sensibilit e del vuoto".]
Poich il bene pi alto una condizione della mente (la condizione mentale
dell'Arahat, che liberato dal desiderio, dal risentimento e dal piacere), ogni
attivit etica giudicata come un mezzo per raggiungere questo stato. Una
cattiva coscienza, quindi, uno stato di peccato, considerato dal Buddhista
come una condizione mentale contraria al Nibbana.
Pu sembrare che "a causa del Nibbana" non sia una sufficiente motivazione
etica. Nello stesso modo anche il vero Buddhista potrebbe non riuscire a capire
la forza del cristiano "Sia fatta la Tua volont", "A modo Tuo, non mio,
Signore" o della rassegnazione che esprime la parola "Islam". Ma tutte queste
espressioni si riferiscono comunque alla stessa esperienza interiore, che il
Sufi ci menziona dicendo: "Chi non ha rinunciato alla (propria) volont, non ha
volont". E molto probabile che la forza di queste affermazioni non possa mai
essere completamente chiara per chi non ha gi sperimentato almeno l'inizio del
rivolgimento della volont individuale dall'affermazione alla negazione. E in
ragione di quanto un uomo permette ai suoi pensieri ed alle sue azioni di essere
determinati da moventi impersonali - la motivazione di anatta e del Nibbana,
come direbbe un Buddhista - che egli comincia a gustare una pace che oltrepassa
la comprensione. questa pace che si trova nel cuore di ogni religione, e il
Buddhismo pu proclamare a ragione che il principio "a causa del Nibbana"
sufficiente a rispondere affermativamente alla domanda se il sistema di Gautama
si possa descrivere come una religione (sebbene questa espressione si attagli
maggiormente al Mahayana che al pensiero originario). Questo aspetto della
coscienza che proibisce le cattive azioni - si ricorder che la maggior parte
dei primi comandamenti buddhistici sono negativi - , allora, sati, o la
concentrazione. C', comunque, un altro lato della coscienza che obbliga
l'individuo non solo a trattenersi dal far del male agli altri, ma a darsi da
fare per il loro vantaggio, in accordo con il principio che l'amore non mai
senza un effetto: si parla di questo nel Buddhismo del Mahayana, come del bodhicitta, o cuore dell'illuminazione. Questo differisce dal sati principalmente per
la sua spontaneit; un modo di essere che non deriva dalla riflessione, ma
dall'armonia della volont dell'individuo con la saggezza e l'attivit dei
Buddha. Di questa condizione si parla a volte in libri occidentali di
edificazione come di uno stato di grazia, o pi comunemente, come dello stato di
"essere in sintonia con l'infinito". Il senso di "bodhi-citta" reso
eccellentemente dall'idea di "germe d'eternit" di Feltham: questa espressione
la pi appropriata, perch il risveglio del bodhi-citta rappresentato
poeticamente nella letteratura buddhistica come lo sbocciare del loto del cuore.
[nota: "La Coscienza, la caratteristica di un Dio stampata in essa e
l'intuizione dell'Eternit provano tutte che essa sia un germe d'eternit".
Resolves, di Feltham.]
Le due condizioni mentali che nel Buddhismo corrispondono all'idea occidentale
di coscienza sono, quindi, la concentrazione, e l'amore; ed da queste

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condizioni che derivano tutte le concezioni del bene che sono definite per
esteso nei passi buddhistici sulla morale.
VII - Gli esercizi spirituali
Una parte definita del lavoro quotidiano dei membri del Sangha - sia Fratelli
che Sorelle - consisteva nella pratica di determinate meditazioni. Le modalit
di queste meditazioni si differenziano solo in dettagli minori da quelle che
sono praticate regolarmente dagli asceti indiani di altra forma tradizionale.
Seguendo una caratteristica sistematizzazione, questi metodi di allenamento del
cuore e del mentale sono spesso contati come quarantaquattro. Quanto
essenzialmente autodisciplinare sia lo scopo di queste pratiche di meditazione
appare dal fatto che alcune sono indicate per persone di un determinato
temperamento ed altre per chi ha un temperamento diverso. Ho deliberatamente
chiamato queste meditazioni un "lavoro", perch importante capire che non
stiamo parlando di qualcosa che abbia il carattere di un sogno ad occhi aperti o
di castelli in aria, ma di un rigoroso sistema di allenamento mentale, basato su
un'elaborata psicologia, e ben calcolato - ora con l'autosuggestione, ora con
profonda concentrazione - per produrre il tipo di risultato a cui si tende.
La disciplina del cuore
Le prime meditazioni sono di carattere etico, e per certi aspetti possono essere
paragonate alla preghiera. Esse consistono nell'incoraggiare gli stati d'animo
(bhavana) di benevolenza amorevole, compassione, simpatia e imparzialit (metta,
karuna, mudita e upekkha). Questi ultimi sono chiamati i quattro Stati d'animo
Illimitati e Sublimi (Brahmavihara). La meditazione sulla benevolenza amorevole,
per esempio, consiste nell'ampliamento di questo sentimento, nell'irraggiamento
attivo della buona volont in tutte le direzioni e verso ogni forma di vita: e
chiunque praticher anche questo solo esercizio buddhistico quotidianamente ad
un'ora fissa, per un tempo determinato, e con completa concentrazione, anche se
conosce poco altro del Buddhismo, potr giudicare da s a quale sviluppo del
carattere esso tende.
Forse capiremo meglio cosa significano veramente i quattro Sublimi Stati d'animo
considerando i loro equivalenti nel pensiero di un moderno.
Quando Walt Whitman dice:
Non ti chiedo chi sei, non m'importa,
non puoi fare nulla, n esser nulla
di pi di come ti comprendo,
e
Quando do, do me stesso,
questo metta.
Quando dice:
Non chiedo al ferito come si sente,
divento io stesso la persona ferita,
le mie piaghe illividiscono mentre
appoggiato a una canna lo osservo,
questo karuna.
Quando dice:
Capisco i cuori grandi degli eroi,
il coraggio dei tempi presenti e di tutti i tempi...
Io sono l'uomo, io ho sofferto, io c'ero,
questo mudita.
Quando dice:

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Li hai sbaragliati tutti? Sei diventato Presidente?


E un'inezia, ci arriveranno anche loro,
e andranno pi in l,
[nota: Se per "Presidente", leggiamo "Indra" o "Brahma" - di fatto i Presidenti
del mondo dei Deva e dell'intero universo, che svolgono la loro carica solo per
il tempo presente - possiamo comprendere questi versi in modo veramente
buddistico.]
questo upekkha.
La caratteristica puramente intellettuale di upekkha, (che corregge e bilancia
gli altri tre stati d'animo sublimi), forse spiegata meglio dalla Bhagavad
Gita (V. 18): "Coloro che sono realmente Pandit, guardano nello stesso modo un
Brahmano saggio e modesto, una mucca, un elefante, o anche un cane o un
fuoricasta". Questo ci fa ricordare che il sole splende ugualmente sul cattivo e
sul buono; e anche il Buddhismo conosce meditazioni speciali sugli elementi, per
esempio sulla terra, che non alberga risentimenti, ed il simbolo indiano della
pazienza; o sull'acqua, che ridiventa sempre chiara e trasparente, con qualsiasi
fango o sporcizia la si intorbidi. Il Buddhista eviterebbe ad ogni costo il
sentimentalismo e la parzialit: Gautama, forse, ha pensato, come Nietzsche,
"Ah, dove nel mondo ci sono state maggiori follie che nell'uomo pietoso?"
Alle quattro meditazioni gi menzionate ne associata un'altra (asubhabhavana), sulle "cose impure". Questa contemplazione, di genere molto diverso,
prescritta a coloro la cui natura emozionale gi sufficientemente attiva, ma
che d'altra parte si lasciano prendere troppo facilmente dal pensiero o dalla
vista della bellezza fisica, o si sentono orgogliosi della loro perfezione
corporea. L'obiettivo di questa meditazione di imprimere nella mente che ogni
organismo vivente soggetto a mutazione e deperimento; l'esercizio consiste
nella contemplazione di ossa umane o cadaveri mezzi decomposti, come se ne
possono vedere nei cimiteri indiani. Sarebbe difficile per questa disciplina
risvegliare la simpatia delle mentalit moderne. Ed il metodo non appare neppure
molto adeguato per conseguire lo scopo prefisso; non far risaltare piuttosto il
valore del momento fuggevole la riflessione:
questa la bellezza di una fanciulla come le foglie d'autunno che cadono e appassiscono?
Tutta la scienza analitica del fisiologo non lo rende meno capace di amare. Se
trascuriamo, comunque, questo aspetto puramente monastico di un tentativo forse
piuttosto futile di indurre al disgusto con mezzi artificiali, e ricordiamo come
il pensiero buddhistico sia sempre attento a respingere il sentimentalismo,
possiamo intendere una tale meditazione come una tecnica correttiva per i
temperamenti che si innamorano di tutto ci che nuovo e bello, ed ammirano
solo l'arte che rappresenta il fascino della giovent e della bellezza. Sembra
essere trascurato che la bellezza fisica in se stessa e da un certo punto di
vista un bene. Ma chi voglia procedere oltre deve rinunciare all'indulgere su
questo aspetto, non perch l'indulgervi sia male, ma perch ha altri e pi
impellenti desideri. Il vero asceta non chi tale per una specie di violenza
mentale, ma chi non considera le altre cose che come beni passeggeri.
[nota: Il detto del poeta, che "I desideri repressi provocano pestilenza",
confermato dalle ricerche della psicanalisi.]
A proposito di questo genere di meditazioni possiamo osservare che esse non sono
concepite solo per gli asceti, ma anche per i laici, e possono portare come
conseguenza ad azioni esteriori di compassione. Comunque sia, il pensiero
buddhistico si occupa pi delle condizioni mentali che di ingiunzioni dirette a
darsi da fare per gli altri; e il vero scopo dei quattro Stati d'animo Sublimi
di correggere le tendenze di chi ha una cattiva indole ed insensibile. E
essenziale superare il risentimento in vista di qualsiasi progresso futuro; ma i
quattro Stati d'animo Sublimi di per s conducono solo alla rinascita nei Cieli
formali di Brahma. Nel progresso successivo verso il Nibbana gli Stati d'animo

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Sublimi sono sorpassati, in quanto essi sono diretti ad altre persone, mentre il
pensiero dei pi avanzati diretto solamente verso il Nibbana. Per la
realizzazione del Nibbana non occorre sbarazzarsi solamente delle cattive
condizioni mentali, ma anche di quelle buone. Le prime portano a rinascere in
condizioni sgradevoli, e le altre a rinascere in condizioni favorevoli; ma non
costituiscono in tutti i casi la conoscenza liberatrice che d l'affrancamento
totale. Nel Buddha-carita di Asvaghosha (VII, 25) riportato che il Buddha
parlava di questi sforzi nel modo seguente:
"Non biasimo lo sforzo in se stesso, che scarta le bassezze, e cos prosegue per
una propria via elevata; ma disapprovo che il Saggio si dedichi a questo compito
ordinario, mentre dovrebbe cercare di raggiungere lo stato in cui nulla deve mai
pi essere rifatto".
Jhana
Un ulteriore gruppo di meditazioni consiste nei jhana o pi esattamente dhyana;
anche queste sono discipline di concentrazione ed astrazione quasi identiche a
quelle che sono meglio note come appartenenti allo Yoga.
"Sarai dunque beato" dice Boehme, "se riesci a smettere di pensare e di volere
in modo individuale, e se riesci a fermare la ruota della tua immaginazione e
dei tuoi sensi; poich a causa di ci puoi arrivare infine a vedere la grande
Salvezza di Dio, ed esser reso capace di ogni tipo di percezione divina e di
comunicazione celeste. Giacch in verit nulla ti ostacola in ci se non il tuo
proprio udito e la tua propria volont".
Proprio come il mistico cerca di astrarsi dall'attivit mentale, per conoscere
meglio la realt una, cos il Buddhista pratica esercizi di astrazione per
potersi liberare dal pensiero individuale e poter conoscere le cose come sono
realmente. Se omettiamo le due parole "di Dio" nell'ultima citazione, o se
ricordiamo che Dio nessuna cosa, essa esprimer esattamente le caratteristiche
e lo scopo ultimo dei jhana buddhistici.
Una serie di questi ultimi consiste nella meditazione su alcuni oggetti
determinati - per esempio, un cerchio di terra liscia in modo da separarsi da
ogni appetito o impulso in relazione ad essi. Questo esercizio ricorda
l'indifferenza della contemplazione estetica, dove lo spettatore "si libera da
se stesso"; il jhana buddhistico mira a raggiungere lo stesso risultato in modo
pi meccanico. Questa contemplazione spiana la via verso scopi pi elevati, e di
per se stessa porta ad una rinascita favorevole nel Cielo della forma ideale
(Rupa-loka). Lo stato di rapimento che ne risulta diviso in quattro o cinque
fasi.
Un'ulteriore serie, che assicura la rinascita nel Cielo informale (Arupa-loka),
consiste nella realizzazione successiva delle stazioni dell'indefinit dello
spazio, dell'indefinit dell'intellezione, del vuoto della non-coscienza-e-nonincoscienza. In questi esercizi l'aspirante assapora, se cos si pu dire, il
gusto anticipato dei mondi del ridivenire ai quali le sue caratteristiche lo
porteranno dopo la morte; in quei momenti, naturalmente, ha gi avuto accesso a
quei mondi.
Questi esercizi, comunque, non conducono direttamente e immediatamente al
Nibbana, ma solo al ri-divenire nelle condizioni pi ideali degli altri mondi
superiori. Oltre queste stazioni si trova la pratica del "pensiero rivolto al
mondo aldil" (lokuttaram cittam). Il metodo non differisce notevolmente da
quelli descritti in precedenza, ma senza il pensiero o desiderio di qualsiasi
altro mondo, sia formale che informale, ed perseguito soltanto con lo scopo di
raggiungere la perfezione della conoscenza qui ed ora. Per questa ragione,
nonostante la similitudine di metodo, gli autori buddhistici tracciano una netta
distinzione tra il jhana che conduce direttamente al Nibbana e quei jhana che
conducono semplicemente alla rinascita nei Cieli di Brahma, formali o informali.
Bisogna menzionare qui anche il termine samadhi, che indicava originariamente
qualsiasi meditazione profonda, o concentrazione su un oggetto sacro;
""citt'ekaggata", lo stato del mentale concentrato in un unico punto, un
sinonimo di samadhi... questo samadhi, che chiamato autoconcentrazione, ha
come segno caratteristico l'assenza di dispersione, di distrazione... e come
conseguenze, la calma, o la saggezza... e la naturalezza" [Commento del DhammaSangani].

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Il samadhi pu anche essere diviso in stadi separati, cio il vuoto (sunnata),


il senza segni (animitta), e il senza scopo (appanihita), che corrispondono alle
tre fasi di Vimutti che sono descritte in modo similare.
VIII - La consolazione
Nel pensiero di Gautama niente pi caratteristico della forma di consolazione
che offre alla sofferenza individuale. Non vi promessa di una ricompensa
futura, come quella di ritrovarsi in paradiso, ma vi il riferimento
all'universalit della sofferenza; l'individuo guidato a considerare il suo
dolore, non come "suo proprio", ma come il dolore del mondo, weltschmerz,
inseparabile dalla vita stessa; ogni dolore autoinflitto, perch inerente al
concetto di un "io". La consolazione si deve trovare nella "conoscenza delle
cose come sono in realt".
"Il pellegrinaggio degli esseri (samsara), miei discepoli", dice Gautama, "ha
inizio nell'eternit. Non si pu trovare nessun inizio (temporale) da cui
procedano le creature che, spinte dalla sete di esistere, vagano ed errano. Cosa
pensate voi, o discepoli, che sia di pi, l'acqua che nei quattro grandi
oceani, o le lacrime che avete versato e sparso, mentre vagabondavate ed
erravate in questo lungo pellegrinaggio, vi disperavate e piangevate, perch ci
che vi toccava era ci che detestavate, mentre ci che desideravate non vi
spettava?"
Non soltanto ognuno ha in s questa lunga eredit di sofferenze, ma tutti hanno
sperimentato ed ancora sperimentano la stessa cosa. raccontato che una madre,
Gotami la Snella, si rec da Gautama, dopo aver perso il suo unico figlio,
ancora piccolo. Stravolta dal dolore, con il corpicino del bimbo appoggiato
all'anca, andava di porta in porta gridando:
"Datemi una medicina per mio figlio!"
Quando fu arrivata da Gautama, egli le rispose:
"Vai in citt e portami un granellino di senape da ogni casa dove non sia mai
morto un uomo".
Ella and; ma non trov nessuna famiglia dove la morte non fosse mai entrata.
Alla fine, andando di casa in casa invano, ella torn in s, e pens:
"Sar la stessa cosa in tutta la citt ... la legge che tute le cose debbano
passare".
Cos dicendo, ritorn dal Maestro; e quando egli le chiese il seme, ella rispose:
"Ho gi compreso, Signore, la storia del granello di senape. Dammene conferma".
Quindi entr nella prima via, e dopo poco tempo raggiunse lo stato di Arahatta.
In un altro punto, si riferisce della monaca buddhista Patacara che consolava
molte madri della citt private dei loro figli con le parole seguenti:
Non piangere, perch cos la vita dell'uomo.
Senza che l'abbia chiesto viene,
senza che sia stato invitato a farlo se ne va.
Guarda! Chiedi a te stessa ancora da dove venne tuo figlio
ad aspettare in terra per questo corto respiro.
Da una parte arrivato, e da un'altra partito...
Entrato di qua, uscito di l - perch piangere?
[nota: C. A. F. Rhys Davids, Psalms of the Sisters, pag. 78. Si osservi che la
consolazione di Patacara differisce molto poco da quella di Sri Krishna nella
Bhagavad Gita (II, 27): "Per chi nato, la morte sicura; per chi morto, la
nascita sicura; cos per un avvenimento che non si pu evitare non fai bene a
disperarti"].
Anche queste madri, riportato, furono mosse a lasciare il mondo; e praticando
la disciplina mentale e morale dell'Ordine, raggiunsero in breve tempo la stato
di Arahatta e la fine del dolore.
E molto significativa, anche, la consolazione che il Buddha offre ai suoi
discepoli al momento della sua propria morte.
"Basta, Ananda! Non essere cos disperato; non piangere! Non ti avevo
precedentemente spiegato che nella natura stessa di tutte le cose pi vicine e
pi care a noi che dobbiamo separarcene? Allora, Ananda, come pu essere

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possibile - se tutto ci che nasce, esiste, composto di organi, contiene in s


la necessit inerente della dissoluzione - come, allora, potrebbe essere
possibile che un tale essere non debba dissolversi? Una simile condizione non
pu esistere!"
Si ricorder che Ananda, quantunque in certo qual modo il discepolo favorito del
Buddha, era anche spiritualmente il pi giovane, il pi indietro, e non
raggiunse l'Arahatta che dopo la morte del Buddha. Cos, quando questa morte
avviene, descritto sopraffatto dal dolore, mentre esclama:
Allora fu il terrore!
Allora i capelli si rizzarono!
Quando il Dotato di ogni grazia il supremo Buddha - mor!
e "tra i Fratelli che non si erano ancora liberati dalle passioni, alcuni
alzarono le braccia piangendo, altri si gettarono a terra, rotolandosi per il
dolore al pensiero: "Il Sublime morto troppo presto! Il Felice trapassato
troppo presto! La luce uscita da questo mondo troppo presto!" Ma i Fratelli
che si erano gi liberati dalle passioni mantennero il loro dispiacere composto
padroneggiandosi al pensiero: "Tutte le cose composte sono impermanenti! Come
sarebbe possibile (che non si dissolvessero)?""
Il venerabile Anuruddha, uno che era gi arrivato, ed era un Arahat, non risente
il duolo individuale e appassionato che fa disperare Ananda, e dice:
Quando colui che si liberato dai desideri passionali,
che ha raggiunto lo stato tranquillo del Nirvana,
quando il grande Saggio ha finito il suo lasso di vita,
nessuna agonia angosciosa ha disturbato quel cuore fermo!
Ben risoluto, e con mente irremovibile
ha trionfato tranquillamente sul dolore della morte.
Cos come anche una fiamma vivida si spegne, cos stata
l'ultima liberazione del suo cuore.
Mentre Sakka, il re delle divinit celesti, sotto Brahma, pronuncia i famosi
versi:
Transitorie tutte sono le parti e facolt di un essere,
la crescita la loro natura propria, e la decadenza,
sono prodotte, e poi dissolte ancora:
ridurle tutte in soggezione - la beatitudine.
IX - L'Ordine
L'istituzione centrale del Buddhismo Hinayana il Sangha, la "Comunit" dei
Fratelli, uomini, e in minor numero donne, che hanno lasciato il mondo per
percorrere la via che conduce all'Arahatta, all'ottenimento del Nibbana. Gautama
stesso, insieme ai suoi discepoli, apparteneva a quella classe di religieux,
allora noti come "pellegrini" (paribbajaka), che devono essere distinti dagli
eremiti che dimoravano nelle foreste (vanaprastha). I pellegrini viaggiavano da
soli o in gruppi, o si stabilivano per un certo tempo in boschi o edifici
appartati messigli a disposizione da laici generosi. Cos sentiamo del
mendicante pellegrino Potthapada, che in una certa occasione "risiedeva nel
palazzo eretto nel Parco della regina Mallika per le discussioni sui sistemi
d'opinione. Il palazzo era circondato da alberi tinduka e conosciuto con il nome
"Il Palazzo". Insieme a lui vi era una grande folla di mendicanti, all'incirca
trecento".
[nota: T. W. Rhys Davids, Dialogues of the Buddha, I, 224. Il Prof. Rhys Davids
aggiunge la nota seguente: "Il fatto stesso della costruzione di un simile
edificio un'altra prova della libert di pensiero che prevaleva nella valle
orientale del Gange nel secolo VI a.C. Buddhaghosha ci dice che dopo che "Il
Palazzo" fu costruito, altri intorno ad esso furono edificati in onore di vari
Maestri famosi, ma il gruppo di costruzioni continu ad essere chiamato "Il

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Palazzo". L i Brahmani, i Nigantha, gli Achela, i Paribbajaka, ed altri Maestri


si incontravano ed esponevano, o discutevano, i loro punti di vista".]
Questi mendicanti, o Bhikkhu (un termine che in seguito avrebbe assunto un
significato specificamente buddhista) erano spesso riuniti in gruppi, sotto
l'insegnamento di un Maestro spirituale, come il Potthapada sopra menzionato; e
sentiamo parlare, oltre ad altri, dei seguenti Ordini con i membri dei quali
Gautama prima o poi entrato in discussione: i Nigantha (o Jaina), guidati da
Mahavira; gli Ajivika, i Gotamaka, molto probabilmente seguaci di Devadatta, il
cugino scismatico e malevolo del Buddha; vari gruppi brahmanici, e molti altri
delle cui idee sappiamo poco. Il primo di questi gruppi si svilupp come il
Buddhismo in un ordine e in una scuola, ed sopravvissuto in India fino ai
tempi attuali con un'estesa letteratura e pi di un milione di aderenti. La
regola adottata dall'uno o dall'altro di questi gruppi di pellegrini si
differenziava nei dettagli, ma comprendeva sempre un certo grado di ascetismo
(che includeva sempre il celibato), combinato con la povert volontaria.
Ora possiamo esaminare maggiormente nei dettagli la speciale regola che fu
adottata nell'Ordine fondato da Gautama, ed organizzato secondo le sue direttive
immediate. Abbiamo gi menzionato i dieci comandamenti, o piuttosto, le dieci
proibizioni, che devono essere osservate da ogni membro dell'Ordine. Si richiede
inoltre ai Fratelli di indossare un abito monastico di stoffa gialla o
arancione, fatto di stracci cuciti insieme, di nessun valore; di mendicare il
loro cibo quotidiano; di astenersi dal cibo tra i pasti, che dovevano essere
consumati ad ore determinate e, generalmente, di mantenere un comportamento
decoroso. Ma non gli si richiede di fare voto di un'adesione per la durata di
tutta la vita - al contrario, coloro che scoprono di non avere una vera
vocazione sono incoraggiati a tornare nel mondo, dove, se non possono
raggiungere lo stato di Arahatta in questa vita, possono almeno aspirare ad una
rinascita favorevole. Ai Fratelli non neppure richiesto di far voto di
obbedienza ai superiori: tutti sono uguali, con il dovuto rispetto per
l'anzianit e il grado di avanzamento spirituale: anche nei grossi monasteri, il
capo semplicemente un primus inter pares. L'Ordine costituisce cos una
democrazia autogestita, analoga ad una gilda o a una casta professionale.
La disciplina formalmente mantenuta dall'Ordine come insieme, il quale
interviene su confessione o colpa provata di Fratello peccatore, e applica, in
occasione di convocazioni bimensili, una penitenza adeguata; il castigo pi
grave, stabilito per delitti aventi rapporto con i Quattro Peccati Capitali
(infrazione del voto di castit, furto, assassinio, vanto di poteri miracolosi),
l'espulsione dall'Ordine; negli Editti di Asoka si menziona anche l'espulsione
e la radiazione di eretici o scismatici. Un controllo esterno pure fornito
dall'opinione pubblica, che n ai tempi di Gautama, n nella moderna Birmania e
a Ceylon, tollererebbe una pretesa arbitraria alla vita sacra. Cos, dice Mr.
Fielding Hall, nella moderna Birmania "la supervisione esercitata dalla gente
sui loro monaci delle pi strette. Finch i monaci agiscono come dovrebbero,
sono estremamente onorati, ci si rivolge loro con titoli di gran rispetto, si
provvede a tutti i loro desideri entro le regole dei Wini (vinaya), ed essi sono
la gloria del villaggio... Appena uno di loro infrange le sue leggi, la sua
santit sparisce. Gli abitanti del villaggio non ne vorranno pi sapere di uno
come lui. Lo cacceranno dal paese, gli rifiuteranno il cibo, ne faranno uno
zimbello, un oggetto di disprezzo".
Il monastero in molti casi anche la scuola del villaggio; in Birmania d'uso
che quasi tutti i giovani prendano i voti monastici per un breve tempo, e che in
questo periodo risiedano tra le mura di un monastero.
[nota: "Tutti i monasteri sono scuole". Fielding Hall, The Soul of a People.
Naturalmente, l'insegnamento non un dovere essenziale del Fratello, ma un
compito assunto volontariamente. Condizioni simili hanno prevalso, fino in tempi
recenti, a Ceylon: "A parte la situazione in cui si trovano i sacerdoti come
proprietari terrieri verso i loro affittuari, e l'influenza tradizionale sui
loro possessi, essi detengono un altro genere di dominio sul popolo. I loro
pansala (monasteri) sono le scuole dei bambini del villaggio, ed anche i figli
dei capi superiori sono frequentemente istruiti da loro. Essi spesso conoscono
nozioni di medicina ed in caso di bisogno concedono il favore di consigli
gratuiti... La loro influenza sul popolo , da un punto di vista sociale,

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impiegata utilmente". Ceylon, Service Tenures Commission Report, 1872.]


Questa possibilit di usare l'Ordine come un "ritiro" spiega anche come sia
stato possibile per Asoka assumere l'abito monastico senza rinunciare in
definitiva al suo trono.
E soprattutto importante comprendere che il Fratello buddhista, il monaco, il
mendicante errante (Bhikkhu, la parola maggiormente in uso), il pellegrino, o
comunque lo vogliamo chiamare, non un prete. Egli non fa parte di una
successione apostolica, e non ha il potere di salvare o condannare, di perdonare
i peccati o di amministrare i sacramenti; non ha altra santit che non sia
inerente al suo attenersi alle regole della propria vita buona.
L'occuparsi della manutenzione o dell'andamento di un tempio buddhista non
parte essenziale dei suoi doveri, quantunque, nella maggior parte dei casi, un
tempio sia attribuito ad ogni monastero, e sia assegnato alla cura dei Fratelli,
mentre i santuari di villaggio hanno i loro preposti, i cui mezzi di
sostentamento sono costituiti dai prodotti della terra su cui hanno
giurisdizione. Ma tale cura dei luoghi sacri non ha niente a che vedere con
quella che propria dei preti [cristiani], e il tempio non contiene oggetti che
non siano accostabili alla stessa stregua sia da laici che da Fratelli.
Ogni monaco pu possedere solo otto cose: i tre abiti, un indumento per la parte
superiore del corpo, una ciotola da elemosina, un rasoio, un ago e un colino per
l'acqua. Il Bhikkhu moderno generalmente possiede in pi un ombrello ed alcuni
libri [la scrittura era conosciuta, ma i libri non erano d'uso comune quando
l'Ordine fu fondato: la base dell'insegnamento era ci che un uomo ricordava],
ma il maneggio dei soldi evitato accuratamente. Nonostante ci la durezza
della povert volontaria largamente mitigata dal fatto che permesso
all'Ordine in quanto tale di ricevere regali e lasciti da parte di laici, una
pratica che ebbe inizio gi ai tempi del Buddha; pi tardi i monasteri buddhisti
divennero estremamente ricchi e sono ben forniti di residenze per i Fratelli. Ma
anche in queste condizioni il modo di vita estremamente semplice, e nessuno
potrebbe accusare i monaci di permettersi alcun lusso.
X - La tolleranza
L'India la terra della tolleranza religiosa. Non ci pu essere alcun dubbio
che Gautama e i suoi discepoli usassero verso gli aderenti alle altre credenze
la stessa cortesia che ricevevano. Questo non solo indicato dalla procedura
generale adottata in caso di discussione con avversari, ma anche in molti
aneddoti ameni. Leggiamo, per esempio, che Gautama aveva convertito a Vaisali un
nobiluomo Licchavi che era stato un seguace di Mahavira: ma lo consigli come
segue: "Per lungo tempo, Siha, la tua casa stata un luogo di rifugio per i
Nigantha (seguaci di Mahavira, cio Jaina). Quindi devi considerare opportuno
che le elemosine gli siano ancora date quando vengono da te".
Il Buddhismo iniziale comprendeva diciotto diverse scuole di pensiero, qualche
volta denominate sette o confessioni; secondo un'altra classificazione sarebbero
state dodici. A proposito di queste scuole che sarebbero sorte dopo la sua
morte, si dice che Gautama si sia cos pronunciato:
"Queste scuole saranno i depositi dei dodici diversi frutti delle mie scritture,
senza che nessuna di esse abbia alcuna priorit o inferiorit rispetto alle
altre - proprio come il gusto dell'acqua di mare dappertutto lo stesso - o
come i figli di uno stesso uomo, tutti onesti e giusti; cos sar l'esposizione
della mia dottrina fatta da queste scuole".
Anche se queste non sono state le testuali parole del Buddha, esse testimoniano
comunque di ci che i Buddhisti, in un periodo successivo, immaginavano egli
avrebbe potuto molto verosimilmente aver detto; questa posizione permissiva
anche molto ben illustrata in pratica, perch ad esempio Hiouen Tsang, nel
secolo VI, trov rappresentanti di tutte le diciotto sette che vivevano a gomito
a gomito in un singolo monastero senza che ci fossero attriti. La tradizionale
tolleranza dei re indiani, che estendono in modo equanime la loro protezione su
tutte le sette, si vede inoltre molto bene nel caso di Asoka, che sosteneva
anche gli Ajivika, le cui dottrine sono cos spesso denunciate da Gautama come
decisamente false. Certi passaggi degli Editti trattano della tolleranza nella
maniera seguente: "La Sua Sacra Maest, il Re, onora gli uomini di ogni fede,

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sia asceti che padri di famiglia, con donazioni e varie forme di rispetto. La
Sua Sacra Maest, in tutti i casi, non si preoccupa molto dei regali o della
venerazione esteriore quanto, invece, che ci sia un aumento nell'essenza di
contenuto in tutte le forme tradizionali. L'aumento dell'essenza di contenuto
assume varie forme, ma la radice di esso il controllo delle parole; vale a
dire che un uomo non deve riverire la sua particolare tradizione o disprezzare
quella di un altro senza ragione. Il disprezzo pu esserci solo per ragioni
precise, perch le forme tradizionali di altra gente meritano tutte rispetto per
un motivo o per un altro... Chi onora la propria tradizione e disprezza le
tradizioni degli altri unicamente per attaccamento alla sua, e con l'intento di
elevare lo splendore della sua propria tradizione, in realt con una simile
condotta infligge il peggior danno proprio alla sua.
[nota: Colui, cio, secondo le parole di Schopenhauer, che "si sforza con ogni
mezzo di provare che i dogmi della credenza estranea non sono in accordo con
quelli della sua, per spiegare che non solo essi non dicono la stessa cosa, ma
certamente non intendono ci che intende la sua". Con questo egli immagina nella
sua semplicit di aver provato la falsit delle dottrine della fede estranea.
Non gli capita assolutamente mai di chiedersi quale delle due sia giusta. Ho
conosciuto una volta un Inglese, ardente sostenitore delle missioni straniere,
il quale mi informava che un Ind era un Buddhista che adorava Muhammad. La
politica di tolleranza di Asoka quella che ha sempre prevalso in India.
Vediamo, per esempio: "Che ogni uomo, per quanto ne sia in grado, favorisca la
comprensione delle scritture, sia della sua tradizione, sia di quelle di altre"
(Bhakta-kalpadruma, di Pratapa Simha, 1866). L'unico vero missionario colui
che porta punti di sostegno alle scritture degli altri, trovati nei suoi propri
testi. Pi si conoscono le varie fedi, pi diventa impossibile distinguerle una
dall'altra; e nessuna tradizione potrebbe essere vera, se non contenesse ci che
contengono anche le altre tradizioni. "Questi sono veramente i pensieri di tutti
gli uomini di tutte le epoche e paesi; essi non sono nuovi per me. Se non sono
tanto tuoi quanto miei, non sono niente, o quasi niente". Walt Whitman.]
La concordia, dunque, meritoria; il che significa, cio, ascoltare, ed
ascoltare volentieri, la legge della piet riconosciuta da un altro popolo. Per
questo desiderio della Sua Sacra Maest che i fedeli di qualsiasi forma
dispongano di molto insegnamento e si attengano ad una dottrina valida".
Comunque non bisogna arrivare a supporre che i Buddhisti iniziali estendessero
l'idea della tolleranza al punto di credere che fosse possibile ottenere la
salvezza altrimenti che con la dottrina e la disciplina insegnate espressamente
da Gautama. L'eresia, invece, considerata come un peccato che porta alla
dannazione, e che si deve espiare nei purgatori. Gli Ajivika sono considerati
particolarmente empi, e Gautama alla domanda se uno di loro potesse raggiungere
il cielo dopo la morte - per non parlare del Nibbana - risponde:
"Nei novantun periodi cosmici, o Vatsya, che ricordo, so di un unico Ajivika che
avesse raggiunto il cielo e che riconobbe la realt del kamma e l'efficacia dei
nostri riti".
"Le dottrine degli altri Maestri sono vuote", dice Gautama, "prive di veri
Santi", un punto di vista a cui il Fratello Nagita fa eco con questi versi:
Fuori dal nostro Ordine ci sono molti altri, che insegnano
una via che, mai, come questa conduce al Nibbana.
Il libero pensiero non era comunque tollerato all'interno dell'Ordine.
L'obiettivo globale dei concili buddhistici, cos come la stesura finale del
Canone pali, era di definire la giusta dottrina e di sradicare quella falsa. I
Fratelli eretici furono scomunicati; e questo appare con molta evidenza in
alcuni Editti di Asoka, che stabiliscono che non bisogna allontanarsi dalla via
della tradizione del Buddha, e che chi infrange l'unit tradizionale dev'essere
allontanato dall'Ordine ed esiliato dai Fratelli.
[nota: R: F: Johnston non perci completamente nel giusto quando dice che
l'espulsione dall'Ordine non mai inflitta per libert di pensiero o infedelt.
Buddhist China, pag. 308.]

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E quindi evidente che i primi Buddhisti non pretendevano semplicemente di


possedere la verit, ma anche di possederne il monopolio.
Il Mahayana ha pi punti di contatto con il Cattolicesimo. La dottrina
fondamentale dei Mezzi Adeguati (upaya) implica gi di per s la necessaria
variet di forme esteriori e formule che l'intuizione o la rivelazione devono
assumere. Per esempio possiamo leggere che:
"Vedendo un'incarnazione del Dharmakaya in ogni guida spirituale, qualsiasi sia
la sua nazionalit e la fede professata, i Mahayanisti riconoscono un Buddha in
Socrate, Muhammad Ges, Francesco d'Assisi, Confucio, Lao-tzu, e molti altri".
Il Mahayana in linea di principio eclettico come l'Induismo, e potrebbe
facilmente assimilarsi ogni via tradizionale straniera come una sua nuova setta.
Perch "i Conquistatori sono padroni di vani e molteplici mezzi attraverso i
quali il Tathagata rivela la luce suprema al mondo degli dei e degli uomini,
mezzi adatti al loro temperamento e alle loro prevenzioni". Tutti i Buddha
passati e futuri insegnano la stessa scienza di salvazione nel modo pi adatto
al tempo e al luogo della loro apparizione.
XI - Le donne
"Reverendo Signore, avete visto passare di qua una donna?" E l'anziano rispose:
"Era una donna, o un uomo
che pass di qui? Io non lo so.
Ma so questo: un pugno d'ossa
si sta muovendo lungo la strada".
Visuddhi Magga, cap. I.
Un buon numero di Jataka, o Storie delle vite di Gautama, sono intesi a
suggerire una morale di iniquit femminile.
"Insondabilmente profondo, come il percorso di un pesce negli abissi marini",
dicono, " il carattere delle donne, predoni dalle molteplici arti, dalle quali
difficile farsi dire la verit; per le quali la menzogna come una verit, e
la verit come una menzogna... Nessuna fede si deve prestare alle loro
preferenze e antipatie".
La dottrina di Gautama monastica, cos come il suo temperamento privo di
emozioni. Secondo le parole di Oldenberg:
"Era forse possibile che una mente come quella di Buddha, il quale con decisa
determinazione di rinuncia aveva volto le spalle a tutto ci che attraente e
piacevole di questo mondo, fosse dotata della facolt di capire ed apprezzare la
natura femminile?"
Dobbiamo comprendere che la mancanza di simpatia del Buddhismo originario per le
donne non un fenomeno unico; esso anzi piuttosto tipico del sentimento
monastico di tutto il mondo; ed basato sulla paura. Perch di tutte le insidie
dei sensi che l'ignoranza mette in atto per l'incauto, la pi insidiosa, la pi
pericolosa, la pi attraente, la donna.
"Maestro", dice Ananda, "come ci dobbiamo comportare con le donne?"
"Dovete evitare di guardarle, Ananda".
"Ma se le vediamo, cosa dobbiamo fare?"
"Non parlate loro, Ananda".
"Ma se dobbiamo parlare loro?"
"Allora dovete far attenzione a voi stessi, Ananda".
Innamorarsi una forma di moha, illusione; e come il punto di vista monastico
sull'arte prende in considerazione solo i suoi elementi sensibili, cos il punto
di vista monastico sulle donne e sull'amore per le donne prende in
considerazione esclusivamente i fattori fisici. Paragonare il Nibbana - come la
Brihadaranyaka Upanishad compara la beatitudine dell'intuizione dell'Atman - con
la felicit dimentica di s degli amanti terreni, stretti uno nelle braccia
dell'altro, per il Buddhismo sarebbe uno scherzo di cattivo gusto. Non meno
remoto dal sentimento buddhistico il punto di vista della cavalleria
occidentale, che vede nella donna una stella-guida, o quello dell'idealismo
Vaishnava o platonico, che trova nell'adorazione dell'individuo una disciplina
per l'amore del tutto.
Non possiamo negare che la posizione di Gautama sia giusta da un certo punto di

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vista. E difficile negare che la donna sia pi vicina dell'uomo al mondo; e la


differenziazione sessuale una "non cos, non cos" nel Nirvana. Dobbiamo solo
riconoscere che Gautama non aveva la concezione di un dovere morale di
provvedere alla continuit della razza, come invece implicito nella tarda
dottrina brahmanica del debito verso gli antenati. Chiamava indistintamente gli
uomini e le donne a sradicare il bosco infernale, ad abbandonare la natura
sessuale, e ad adottare un'umanit spirituale; per chi non era ancora preparato
a questo cambiamento provava la stessa compassione che uno spirito generoso pu
sentire per chi soffre e la cui sofferenza il prodotto della propria illusione.
Ananda, il discepolo favorito e spiritualmente pi giovane di Gautama, spesso
descritto nella posa di colui che perora la causa della donna. Quando fu
sollevata la questione dell'ammissione delle donne nell'Ordine - in effetti una
pretesa ai diritti delle donne non molto dissimile da quella dei moderni Ananda,
dopo che la sua domanda era gi stata rifiutata tre volte, alla fine chiede:
"Le donne sarebbero in grado, reverendo Signore, se si ritirano dalla vita
domestica alla vita errante, sotto la dottrina e la disciplina stabilite dal
Tathagata, di raggiungere il frutto della conversione, di ottenere il frutto di
un solo ritorno (nel mondo), di ottenere il frutto di non-ritorno, di ottenere
lo stato di Arahatta?"
Gautama non pu negare loro questa possibilit; in risposta all'ulteriore
richiesta di Ananda, egli ammette le donne nell'Ordine, sottoponendole per ad
ottanta pesanti regole, a cominciare da quella che anche la Sorella che sia
stata ordinata da pi tempo debba stare in piedi e comportarsi con estrema
umilt davanti ad un Fratello, anche se ordinato da appena un giorno. Ma egli
aggiunge:
"Se, Ananda, le donne non si fossero ritirate dalla vita domestica alla vita
errante, sotto la dottrina e la disciplina stabilite dal Tathagata, questa
tradizione, Ananda, sarebbe durata a lungo; la buona dottrina sarebbe rimasta
per mille anni.
"Ma poich, Ananda, le donne si sono adesso ritirate dalla vita domestica a
quella errante, sotto la dottrina e la disciplina stabilite dal Tathagata, non a
lungo, Ananda, durer la tradizione; solo cinquecento anni la buona dottrina
sussister".
Altrove, in risposta ad un'altra domanda posta da Ananda, Gautama risponde:
"Le donne si irritano facilmente, Ananda; le donne sono piene di passioni,
Ananda; le donne sono invidiose, Ananda; le donne sono stupide, Ananda. Questo
il motivo, Ananda, questa la causa per cui le donne non hanno diritto a
partecipare alle pubbliche assemblee, non gestiscono affari, e non si guadagnano
da vivere con una professione".
Molto significativo l'episodio dei trenta uomini caritatevoli, guidati dal
Bodhisatta quando viveva sotto la forma di un giovane Brahmano, Magha: questi
uomini stavano costruendo una stazione di sosta ad un crocicchio, per fare opera
di carit. "Ma siccome non amavano pi il genere femminile, non permettevano
alle donne di prendere parte alla buona azione". divertente osservare come una
signora di nome Piet riuscisse a corrompere uno di quegli uomini rigidamente
buoni, cos da renderle possibile uno stratagemma con il quale ottenere di
prender parte al lavoro meritorio, e in tal modo guadagnare per s un palazzo
nel cielo di Sakka. D'altra parte troviamo che Gautama non disdegnava di
accettare l'ospitalit e i doni di donne devote e laiche. Una di queste
l'onorevole matrona Visakha, "una ricca cittadina di Savatthi, la citt
principale del Kosala, madre di molti figli illustri, nonna di nipoti
innumerevoli". Questa signora procura su larga scala le provviste per il Buddha
e i suoi discepoli quando questi risiedono a Savatthi. Un giorno ella si
avvicina a Gautama e gli fa sette richieste, che sono: che le si permettesse di
rifornire i Fratelli di abiti per la stagione piovosa, di cibo per i Fratelli
che arrivavano a Savatthi o passavano per Savatthi, che erano malati o vi
risiedevano, di medicine per i malati e di asciugamani per le Sorelle. Ella
esprime il desiderio di dare ogni elemosina in dettaglio. Il Buddha risponde con
parole di approvazione, ed contento di concedere i sette favori. Si deve
notare che, in accordo con il modo indiano di considerare la carit, tutti
questi favori sono concessi a Visakha e non, come i lettori occidentali
potrebbero pensare, all'Ordine; perch il monaco mendicante, accettando le
offerte, d al donatore il merito di un atto benefico. Conformemente a ci il
Santo lod Visakha, in quanto avrebbe camminato sulla splendente, meritoria via,

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ed avrebbe mietuto a lungo la ricompensa della sua carit, su in cielo.


Il Professor Oldenberg fa giustamente notare:
"Descrizioni come questa di Visakha, benefattrice della comunit, con il loro
inesauribile zelo, e la loro non meno inestinguibile disponibilit monetaria,
sono certamente ricavate dalla vita dell'India di quei tempi: non devono essere
trascurate, se vogliamo farci un'idea dei personaggi che hanno fatto della pi
antica comunit buddhistica ci che era".
Gautama, comunque, non accettava solo le offerte delle persone rispettabili, ma
anche quelle dei "peccatori". E riportato che in una certa occasione accett per
se stesso ed i suoi seguaci un invito a pranzo (questo non comporta il sedersi
alla stessa tavola o mangiare contemporaneamente) dalla cortigiana Ambapah, e
rifiut l'invito alternativo dei prncipi Licchavi, con loro grande disappunto.
Egli stabil la sua residenza temporanea nel giardino di manghi della
cortigiana, di cui, inoltre, ella fece dono all'Ordine. Il sutta dice:
"Il Sublime accett il regalo; e dopo averla istruita, sollevata, incitata e
rincuorata con un discorso tradizionale, si alz dal suo posto e se ne and".
degno di nota che n di Visakha n di Ambapah si riporta che abbiano lasciato
il mondo come risultato immediato del suo insegnamento, o anche solo che abbiano
cambiato il loro genere di vita; i loro doni sono stati accettati da Gautama
semplicemente come quelli di una pia donna. Ciascuna di esse avrebbe ricevuto in
qualche cielo la ricompensa immediata della sua generosit, e in una vita futura
il frutto dell'illuminazione perfetta.
Il pensiero buddhistico tributa onore alla donna al punto di non dubitare mai
della sua possibilit di disfarsi della natura femminile, ed anche in questa
vita di diventare, per cos dire, un uomo. Si racconta il caso della signora
Gopika che, "avendo abbandonato i pensieri di una donna e avendo coltivato i
pensieri di un uomo" rinacque come figlio di Sakka in cielo. C'era anche, e pi
cospicuo, il grande corpo delle Sorelle - iniziate, sebbene malvolentieri, con
il consenso di Gautama stesso - tra le quali molte raggiunsero l'Arahatta e il
Nibbana; e le belle canzoni di giubilo di queste ultime sono conservate nei
Psalms of the Sisters. Sebbene queste Sorelle fossero considerate tecnicamente e
sempre inferiori ai Fratelli " ugualmente chiaro che, per superiorit
intellettuale e morale, una Theri poteva proclamare la sua uguaglianza con il
pi elevato della fraternit".
La donna che lasciava il mondo e adottava la regola della Sorella non solo
sfuggiva alle restrizioni e all'ingrato lavoro domestico, ma - come la vedova
ind del tipo di Lilavati, o come la pensatrice moderna che ha rapporti con i
suoi colleghi uomini in termini di uguaglianza - otteneva dai suoi Fratelli il
riconoscimento come essere razionale, un essere umano, pi che una donna; faceva
parte della comunione intellettuale dell'aristocrazia tradizionale degli Ariya.
La sua condizione chiaramente espressa nei Salmi:
Sono una donna in queste faccende, o
sono un uomo? O cosa sono, allora?
e
Come la natura femminile potrebbe ostacolarci?
se tutto ci che essenzialmente femminile stato abbandonato:
Di compiacermi in piaceri sensibili non mi parlare!
Vanit come quelle non posson pi allettarmi.
Questa posizione molto vicina a quella espressa da Schopenhauer e da
Weininger. Quest'ultimo riassume la sua argomentazione dicendo:
"L'uomo non pu fare a meno di rispettare la donna quando questa smetta di
essere un oggetto e un materiale per l'uomo... Una donna che avesse veramente
abbandonato la sua natura sessuale, che desideri stare in pace, non sarebbe pi
"donna". Avrebbe smesso di essere "donna", avrebbe ricevuto il segno interiore e
spirituale, come pure la forma esteriore, della rigenerazione". Egli si chiede:
"E (allora) possibile per la donna desiderare veramente di comprendere il
problema dell'esistenza, la concezione del peccato (dukkha)? Pu veramente
desiderare la liberazione? Questo pu accaderle solo se permeata da un ideale,

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guidata da una buona stella... Solo in questo modo ci pu essere l'emancipazione


(Nibbana) di una donna".
L'esperienza buddhistica risponde, a queste domande, che possibile per la
donna desiderare veramente la liberazione, e che un numero non insignificante di
donne tra le Sorelle buddhiste l'hanno ottenuta.
Si lascer ai difensori dell'"emancipazione" femminile da una parte, e agli
idealisti della femminilit, dall'altra, il compito di dibattere quanto queste
idee portino onore o disonore alla "donna".
XII - Il Buddhismo originario e la natura
Qua, o Bhikkhu, ci sono le radici degli alberi,
qua ci sono degli spazi vuoti: meditate.
Majjhima Nikaya, I, 118.
Non possiamo considerare la profonda comprensione della natura che caratterizza
gli ulteriori sviluppi del Buddhismo in Cina e in Giappone come interamente
estranea al Buddhismo originario e, ancor meno, come essenzialmente estremo
orientale piuttosto che indiana. A dispetto di se stessi i primi eremiti
buddhisti erano amanti della natura, e anche nella letteratura Hinayana il poeta
molte volte ha la meglio sul monaco. Quel compiacimento per i fiori e le foreste
che caratterizza l'epica brahmanica, specialmente il Ramayana, e tutte le
canzoni indiane d'amore, era sentito anche da alcuni Fratelli e Sorelle
buddhisti. E quasi esattamente lo stesso sentimento che si esprime
nell'esclamazione di Whitman:
Penso che potrei mutar vita e stare con gli animali,
sono cos placidi e controllati,
io sto a guardarli ancora e ancora.
Essi non si affaticano
e non si lamentano della propria condizione...
Nessuno di loro insoddisfatto,
nessuno impazzisce dalla mania di possedere cose.
Si pu riconoscere come tipicamente indiano, e quindi anche buddhistico, il
paragone dell'uomo ideale, sia esso Rama o Buddha, con un leone o un elefante, e
qualche volta una montagna che non si pu scuotere:
come un superbo elefante,
nelle altitudini boschive dell'Himalaya...
La proboscide del Naga fiducia;
le sue candide zanne equanimit...
Distacco la sua coda...
Dalle provviste accumulate si astiene.
e, nuovamente, l'eremita:
Brilla glorioso in una veste rattoppata
come il leone nell'oscura caverna della montagna.
o paragonato alla stessa montagna:
Su una base sicura,
un Fratello la cui illusione sia sparita,
come quella montagna si erge immobile.
Altrove il Buddha, o qualcuno che simile al Buddha paragonato al fiore di
loto:
Cos il Buddha nel mondo,
nato nel mondo,
ed ivi abitante,
ma in tutto incontaminato dal mondo,

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proprio come il giglio sulla superficie del lago.


La via del libero Buddhista, l'Ariya che si disfatto dei legami di questo
mondo, paragonata al volo delle bianche gru contro il cielo nuvoloso.
Anche tra i Salmi dei Fratelli troviamo veri poemi sulla natura:
Queste vette rocciose dal colore delle nuvole blu intenso,
dove sta nascosto un laghetto limpidissimo
di chiaro cristallo, acque fresche, e i cui declivi
coprono e abbelliscono i "greggi d'Indra"...
Begli altopiani rinfrescati dalla pioggia, e risuonanti
di gridi antifonali di creature crestate,
vette solitarie, dove spesso si recano i silenziosi Rishi...
Libere dalle folle dei cittadini di laggi,
ma affollate di stormi di esseri alati,
dimora dei greggi di creature selvatiche...
Frequentata da scimmie dal muso nero e da timidi cervi,
cos sono i luoghi dove la mia anima si diletta.
Ad uno dei poeti monaci si attribuiscono nove gatha, di cui uno suona:
Quando nel basso cielo
tuona il tamburo della nube tempestosa,
e tutte le strade degli uccelli sono fradice di pioggia,
il Fratello si siede nella cavit delle colline
solo, rapito nell'estasi del pensiero.
Una beatitudine pi elevata
di questa non concessa all'uomo.
Mentre un altro scrive ancora:
Quando vedo la gru,
dalle pallide ali chiare,
che la paura dispiega
della nera nube tempestosa,
cercar rifugio e sicuro riparo trovare,
allora il fiume Ajakarani
mi rallegra.
Chi non prova piacere
a vedere su entrambe le rive
gruppi di meli rosati in bella mostra,
oltre la grande grotta dell'eremitaggio,
o a udire il quieto gracidare delle rane?...
Non meno caratteristiche sono le canzoni sulla pioggia:
Dio fa piovere come una melodia delle pi dolci,
raccolta la mia capannuccia, riparata da un buon tetto.
Il mio cuore tranquillo e in pace.
Allora, se ti piace far piovere, Dio, fai piovere!
Ma queste sono espressioni individuali di alcuni monaci; non possiamo
francamente attribuire al Buddhismo originario - l'insegnamento del Buddha un'attrazione per il selvaggio. L'amore per i luoghi solitari causato dal loro
stesso isolamento, e perch essi sono il rifugio pi adatto dal trambusto e
dalle tentazioni del mondo, dal rapporto con uomini e donne profani. I versi da
noi citati che terminano con "questi sono i luoghi dove la mia anima si
diletta", sono immediatamente seguti da una giustificazione edificante che
suona quasi come una scusa:
Perch ci che mi porta vivo diletto
non sono i toni degli strumenti a corda,
a fiato, e dei tamburi,
ma che con l'intelletto ben disposto, intento,

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ottengo la perfetta visione della norma.


Mentre chi nota come "tutte le vie degli uccelli sono fradice di pioggia"
proclama di essere assorto nell'estasi del pensiero. Come osserva la Rhys
Davids, l'estasi qui non esattamente il prodotto di un piacere esclusivamente
spirituale. Il "paganesimo moderato" che permette al poeta anacoreta di
apprezzare tale piacere sensibile nelle scene e nei panorami delle foreste, non
forse, dal punto di vista della norma, una debolezza spirituale? A chi cedeva
ad esso, come penitenza sarebbe forse stata pi adatta la vita di citt.
Pi veramente in accordo con l'ideale monastico di completa indifferenza la
freddezza del monaco Citta Gutta, di cui il Visuddhi Magga riporta che vivesse
sessant'anni in una caverna affrescata davanti alla quale cresceva un bel
castagno rosato; non solo egli non aveva mai osservato le pitture sul soffitto
della caverna, ma anche dell'albero sapeva che fioriva ogni anno solo perch
vedeva il polline e i petali caduti a terra. Anche nel Maha Parinibbana Sutta,
il Buddha riserva la massima ammirazione all'uomo (lui stesso), che "pur essendo
cosciente e sveglio non vede n sente il suono della pioggia che batte e
scroscia, i bagliori dei lampi e il brontolo dei tuoni".
noto, e l'abbiamo gi detto, che la letteratura buddhistica dei primi tempi
abbonda di paragoni dell'uomo ideale con un elefante o un rinoceronte. La
ragione del paragone, per il Buddhista, sta nel fatto che egli ha in mente, in
particolare, un elefante solitario, e che il rinoceronte per natura solitario.
E cos che i Buddhisti esortavano gli uomini superiori a lasciare le folle,
sapendo che
"Le grandi imprese si compiono
quando uomini e montagne si incontrano.
Non si compiono facendo a gomitate nelle strade".
Ma non si pu attribuire agli autori buddhistici che usano queste metafore
alcuna comprensione particolare della natura, come del resto non si potrebbe
attribuirla ai primi scrittori cristiani che parlano dell'agnello e della
colomba. Il paragone, in realt, diventa facilmente ridicolo.
"Coltivando la gentilezza, l'equanimit, la compassione, l'indipendenza e la
simpatia, non ostacolato dal mondo intero, lasciatelo vagare da solo come un
rinoceronte", il tema costante del Khaggavisana Sutta. Ma si tratta di una
figura artificiale e falsa, e l'accostamento non rappresenta se non una
forzatura di fatti naturali a scopo didattico, giacch il rinoceronte un
animale irascibile, e l'elefante solitario una bestia ombrosa [a "rogue"]. Ed
ancora pi falso "non guardare le cose come sono realmente", attribuendo agli
animali - che di fatto non sono per niente liberi dalle passioni, che non
pensano ai loro peccati, che non praticano le meditazioni asubha - il
temperamento di un asceta umano. L'innocenza pagana degli animali e dei bambini
in realt molto lontana dall'ideale del primo Buddhismo monastico. Quel che ci
mostrano queste metafore la comune tendenza orientale a trovare negli oggetti
naturali simboli di idee generali. Ma questo non implica ancora quel senso di
unit della vita che si esprime nel poema di Matsunaga sulla gloria del mattino,
o l'appassionata professione di fede "in quegli scopi alati" di Whitman. Anche
le espressioni migabhutena cetasa, "dal cuore di cervo selvatico", e arannasannino, "che ha il senso selvatico delle cose" - nonostante la loro evidente
attrattiva - possono non significare sempre ci che sembrano dire. Come minimo
esse fanno sospettare che chi usava questi termini non comprendesse appieno
tutto ci che significavano. Nel Buddhismo Zen, al contrario, le frasi di questo
tipo hanno un significato vero e profondo, perch negli animali e nei bambini la
vita interna ed esterna unificata, la dualit di carne e spirito che ci
affligge con sensi di colpa non ancora percepita; il Buddhista Zen aspira
veramente a riacquistare quell'unit di coscienza che invocata nella bella
preghiera di Socrate - di rendere uno l'uomo interiore ed esteriore - ed egli sa
che per ritrovare il Regno dei Cieli, lo stato di Buddha, deve ridiventare come
un bambino piccolo, deve possedere il cuore del cervo selvatico; deve comunque
anche vincere l'ignoranza di cui essi non sono ancora coscienti. Ma non era in
questo senso che i primi asceti buddhisti si struggevano per il "senso selvatico
delle cose"; o, se per alcuni era cos, questi cantori individuali non sono
comunque esponenti tipici del Buddhismo originario, ma precursori del Mahayana e

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dello Zen, insegnato dai loro Maestri della foresta per comprendere l'unit
della vita, i quali avevano gi udito il Discorso dei Boschi, ed erano gi
passati attraverso l'isolamento spirituale dell'Arahat e del Pacceka Buddha.
Che la cultura iniziale del Buddhismo sia ancora lontana da un reale rapporto di
intimit con l'ipseit del mondo appare dalla sua mancanza di simpatia per la
natura umana. impossibile pretendere da una regola monastica che include quale
pratica essenziale la meditazione sulla sozzura delle cose, una simpatia reale
per la natura: incoerente provare piacere per il modo di vivere delle creature
selvatiche dei boschi, ed allontanarsi con disprezzo dalla nobilt e
dall'innocenza dell'uomo. E uno strano modo di guardare alla natura quello che
considera il corpo umano come "impuro, puzzolente, pieno di lordura", una "forma
spiacevole" e "un oggetto putrido", e che cerca di indurre al disgusto per i
corpi sani con la contemplazione di carogne in decomposizione. "Questo vile
corpo" dice Sorella Vijaya, "mi causa solo pena e vergogna".
Nessuno vorr negare che le verit del Buddhismo originario siano reali, o che
l'importanza accordata ad anicca (caducit), ad anatta (l'anima non eterna), e
al pensiero della salvezza qui ed ora, costituiscano una spinta permanente alla
nostra comprensione delle "cose come esse sono realmente"; e difficilmente
potremmo essere troppo grati per la condanna del sentimentalismo come un peccato
cardinale. Ma i primi Buddhisti, come numerosi altri entusiasti, facevano uso
degli aspetti della verit che erano loro propri per negare quelli degli altri:
erano cos convinti dei dispiaceri del mondo che non potevano simpatizzare con
le sue gioie. Dicendo questo, non dimentico il sublime stato d'animo di mudita,
ma ricordo anche che la prima letteratura buddhistica in generale piena di un
disprezzo del mondo che inevitabilmente impedisce qualsiasi partecipazione alle
sue speranze e ai suoi timori. Il Buddhismo originario non si associa alle
speranze e ai timori di questa vita: cerca solo di mostrare il rifugio da
entrambi, e la sua simpatia si rivolge agli sforzi di chi ancora prigioniero
di questi affanni. I primi Buddhisti non potevano comprendere il pensiero che
"l'essenza del dolce piacere non pu mai essere contaminata". D'altronde non
dobbiamo permetterci di spingere troppo oltre questa critica alle lacune del
Buddhismo originario. Ricordiamo una volta ancora che non si tratta di una
religione per laici, ma di una regola per monaci, che come tale, anche se
severa, ragionevole ed equilibrata, e ben studiata per coltivare il nobile
genere di carattere desiderato. Dobbiamo anche ricordare che Gautama non era
l'unico ad essere puritano; tale era la predisposizione intellettuale della sua
epoca, ed essa si riflette tanto nei testi brahmanici e jaina quanto in quelli
buddhistici, e sopravvive come una tendenza del pensiero indiano fino ai giorni
nostri, anche se meno preponderante tra le altre. L'estetica generale (non solo
buddhistica) dell'epoca di Gautama, inoltre, era pienamente edonistica. Non si
immaginava che la musica o l'arte plastica, considerate secolari, potessero
avere un'attrattiva diversa da quella soltanto sensibile, o che, considerate
come rituali, potessero servire ad uno scopo pi spirituale che quello di
piacere alle divinit o di essere utili per i bisogni del mago. Era anche
un'epoca in cui la civilt era molto sviluppata dal punto di vista materiale, e
soprattutto in quelle classi in cui hanno avuto origine i movimenti
dell'atmanesimo e del Buddhismo vi era un lusso esagerato per quanto semplice.
Quindi la prima reazione naturale della mente era quella di sfuggire alla
schiavit dei sensi con l'ascetismo, tagliandosi di netto, per cos dire, le
mani, e strappandosi gli occhi. Tra tanti altri che sentirono questo impulso,
Gautama si distingueva per la sua moderazione.
Dobbiamo comunque considerare quest'epoca indiana di ascetismo quasi un utile
periodo brahmacarya, la severa e spartana prima educazione del futuro padre di
famiglia, compiuto in conformit con la disciplina delle verit finali di anatta
e neti, neti. Come ha fatto notare uno dei pi severi critici del Buddhismo
originario:
"L'ascetismo e il puritanesimo sono mezzi quasi indispensabili per educare e
rendere nobile una razza che cerca di sollevarsi dalla sua bassezza ereditaria e
di lavorare per una supremazia futura". Nei secoli successivi la razza (per
"razza" non intendo qui niente di pi della successione di individui che hanno
fatto parte della cultura indo-ariana) che aveva con questi mezzi raggiunto la
maturit spirituale con la conoscenza di se stessa e con l'autocontrollo, pot
permettersi un rilassamento della disciplina monastica, rilassamento
proporzionato alla sua crescente capacita di accoppiare la rinuncia con il dolce

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piacere, e di trovare nel lavoro un non-lavoro. La futura civilt dell'India,


oltre a tutti i suoi meravigliosi ideali sociali, era basata sul tapas
intellettuale degli abitanti della foresta e dei pellegrini delle epoche delle
Upanishad e di Gautama, e sarebbe controproducente deprezzare qualcosa senza cui
il futuro non avrebbe potuto essere.
In s l'ideale del Buddhismo originario non ha bisogno di giustificazioni;
solo contro coloro che cercano di dimostrare che esso sia il solo ed unico mezzo
per raggiungere la verit liberatrice, e in particolare contro coloro che
parlano del Mahayana e dell'Induismo come sviati nella superstizione e
nell'ignoranza, che dobbiamo far notare inequivocabilmente che l'ideale del
Theravada, anche se di fatto non ristretto, in tutti i casi delimitato in modo
ben definito. Nessuno vuol sostenere che con il cambiamento non ci furono
perdite o guadagni; ma nessuna tradizione ha potuto permanere invariata anche
per un solo secolo; la possibilit di una simile eventualit sarebbe in
contrasto con anicca, e il Dhamma buddhistico non poteva impedirsi di
svilupparsi come qualsiasi altro seme vivente. Chi vorrebbe gettar via il tronco
e i rami, sia "tornando ai Veda" del Brahmanesimo che al Theravada Dhamma di
Gautama, pu essere paragonato ad un uomo che, vecchio di anni e di esperienza,
abbia compiuto azioni onorevoli, e che quindi, ricordando la grandezza dei santi
Maestri della sua giovent, non vorrebbe mai essersene andato dai loro piedi per
avere a che fare con il bene ed il male nel mondo degli uomini viventi. Dobbiamo
invece riconoscere che non esiste soluzione di continuit tra le leggi antiche e
le nuove e che il Mahayana e l'ulteriore espansione dell'Induismo sono per
sempre il frutto della disciplina originaria. Da questo punto di vista diventa
del massimo interesse cercare e riconoscere nel pensiero del Buddhismo
originario gli inequivocabili germi che si sono pienamente sviluppati in seguito
nel Mahayana, in particolare nel Mahayana di tipo zen, il quale, unito al
pensiero taoista, ha effettuato una riconciliazione dell'Ordine con il mondo.
Tra le fonti di questa cultura ampliata, quelle tracce di amore della natura e
quella tendenza all'espressione lirica e all'espressione in forma di ballata che
vediamo gi ben caratterizzate nei Salmi dei Fratelli e delle Sorelle e nei
Jataka non sono certo le meno importanti.
XIII - Il pessimismo buddhistico
stato spesso detto, e non sempre senza qualche ragione, che il Buddhismo
(originario) una fede pessimistica. al Buddha e i suoi simili che Nietzsche
si riferisce quando esclama:
"Incontrano un malato, un vecchio, o un cadavere - e immediatamente dicono:
"Rifiutiamo la vita"".
Si pu essere d'accordo sul fatto che il Buddhismo sia pessimista? La risposta
sia s che no. La vita umana ha per il Buddhista un valore supremo perch la
sola condizione dalla quale possa essere raggiunto il bene pi elevato; quindi
il suicidio (la prova concreta della convinzione che la vita non degna d'esser
vissuta) esplicitamente e costantemente condannato dalle scritture
buddhistiche come lo spreco di un'opportunit. Ma dobbiamo riconoscere che la
qualit della vita pu variare molto, e il Buddhismo ben lontano
dall'ottimismo applicato a qualsiasi e ad ogni tipo di vita, al semplice fatto
di esistere. Gautama ridicolizza il puro e semplice desiderio di vivere, cos
come Nietzsche disprezza gli uomini dediti ai sensi; perfino il desiderio di
rinascere nei Cieli superiori definito "basso" dai Buddhisti. La vita
ordinaria del mondo, secondo Gautama, non una vita che valga la pena di essere
vissuta; non una vera vita per un Ariya, un nobile. Ma d'altra parte egli
propone agli uomini superiori un modello di vita che considera degno, e dichiara
che questo il mezzo per ottenere il bene pi elevato; ed in ragione di questa
convinzione, che "il paradiso - cio - gi sulla terra", egli tutt'altro che
pessimista. Se dunque vero che egli rifiuta di considerare la vita come fine a
se stessa, si pu per ribattere che anche Nietzsche e Whitman lo fanno.
Quest'ultimo non considerato pessimista quando apprezza la morte pi della
vita:
Formuler parole
che rendono la morte accattivante...

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N ti permetter mai pi di ostacolarmi [o Morte]


con quel che credevo Vita,
perch mi chiaro, ora,
che il significato profondo sei Tu,
che chi si cela sotto le mutevoli forme della Vita
[quella] sei Tu...
E che un giorno, forse,
sei Tu che prenderai, il controllo di tutto.
Usando precisamente nello stesso modo la parola "Morte" per Nibbana, l'artista
disprezza la "vita":
"Perch, osservando troppo a lungo la vita, come pu uno non accorgersi che
tutto questo non il bello, il misterioso, il tragico; ma il buffo, il
melodrammatico e lo stupido: il complotto contro la vitalit - contro il calor
rosso e il bianco? E da simili cose, cui manca il sole della vita, non si pu
trarre ispirazione. Ma da quella misteriosa, gioiosa, e superbamente completa
vita che chiamata Morte... che sembra una specie di sorgente, uno sbocciare da
questa terra; da questa idea pu venire un'ispirazione cos vasta, che con
esultazione, senza esitare, io mi getto su di essa; e, guardate, in un solo
istante, mi ritrovo con le braccia colme di fiori".
La prima delle Quattro Verit degli Ariya, allora, - la quale afferma
l'esistenza della sofferenza, dukkha, come sintomo e malattia costituzionale
dell'individualit - non pu essere detta pessimistica, perch constata
semplicemente ci che ovvio: sappiamo che una vita condizionata di felicit
eterna una contraddizione in termini.
Inoltre, i Buddhisti originari erano molto lontani dall'essere infelici; si
rallegravano come chi in buona salute tra i malati, e perch avevano trovato
un rimedio per ogni possibile ricaduta.
Leggiamo, ad esempio, nel Dhammapada:
"Viviamo in perfetta gioia, senza nemici in questo mondo di lotte... viviamo tra
uomini malati, senza malattie... tra uomini che si sforzano, viviamo senza
fatica... Il monaco che risiede in un'abitazione vuota, la cui anima piena di
pace, gode di una felicit sovrumana, contemplando da solo la verit".
E da osservare, comunque, e lo si deve ammettere, che il modo di vedere la vita
ordinaria da parte del Buddhista manca di coraggio. La stessa importanza data a
dukkha falsa: perch non solo dukkha, ma una misura esattamente equilibrata
di dukkha e sukha in parti uguali, dolore e piacere, che il segno
caratteristico di questa vita. Ci sono certamente molte ragioni per cui non
possiamo mettere lo zenit del nostro essere in questo mondo di dolore e piacere;
ma la predominanza del dolore sul piacere non pu essere una di queste.
Un altro segno di vero pessimismo - parola con cui intendo solo "guardare al
lato brutto delle cose" - la caratteristica sfiducia nel piacere del Buddhismo
originario. Non possiamo trovar nobile un principio dominante di vita che
consiste nella ricerca di sfuggire al dolore, n uno che sia fondato sul
perseguimento del piacere; possiamo trovare nobilt, invece, molto pi nel
pensiero: "Non mi sforzo per correr dietro alla felicit, mi sforzo di fare il
mio lavoro".
Lo stato supremo dev'essere senza desiderio, perch il desiderio implica una
mancanza, ed in questo senso l'uomo superiore, l'Arahat, per definizione senza
passioni. Ora, questo uno stato che possiamo immaginare meglio al modo di
Chuang-tzu:
"Per uomo senza passioni intendo chi non lascia che bene e male commuovano la
sua bilancia interna, ma si accomoda piuttosto a qualsiasi cosa accada, in modo
naturale, e nulla aggiunge alla somma della sua mortalit".
Sennonch il Buddhista molto disturbato dal bene e dal male - teme il piacere
e vorrebbe evitare il dolore, e l'insieme del Dhamma costituito per ottenere
l'ultimo obiettivo. vero che la conoscenza liberatrice deve alla fine
affrancare l'individuo dalla possibilit del dolore:
"Ma il Buddhismo stato il primo a trasformare ci che era una semplice
conseguenza in una motivazione, e concependo la liberazione come un rimedio alle
sofferenze dell'esistenza, a fare dell'egoismo lo scopo dell'esistenza".
Questa probabilmente la critica pi severa che sia mai stata rivolta al
Buddhismo originario, e sebbene io pensi che sia ingiustamente generalizzatrice,
non meno vero che essa contiene alcuni elementi di verit. Diverso,

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ovviamente, il caso dell'ideale del Bodhisatta, il quale un individuo che a


causa di uno scopo che lo oltrepassa prende sulle sue spalle il fardello
dell'ignoranza del mondo e spontaneamente si prodiga in innumerevoli vite di
generosit soprannaturale. L'ideale del Bodhisatta praticamente identico a
quello del Superuomo di Nietzsche, che consiste in "Generosa Virt".
Ma mentre possiamo concedere che sotto certi aspetti il Buddhismo originario
abbia caratteristiche pessimistiche, dobbiamo protestare contro queste due
presunzioni: primo, che l'idea che la vita ordinaria, - il semplice fatto di
esistere -, sia relativamente senza valore, caratterizzabile come
"pessimistica"; secondo, che il "pessimismo", reale o immaginario che sia, delle
tradizioni indiane, abbia un qualche rapporto con le circostanze - supposte
infelici - della vita indiana, o con le snervanti conseguenze del clima
dell'India. Per quanto riguarda la prima supposizione, basta far notare che
l'"ottimistico" Nietzsche ha pi disprezzo per la "semplice esistenza" di quanto
se ne possa trovare in tutto il Buddhismo. Per quanto riguarda la seconda, si
deve mettere in rilievo - scegliendo uno solo tra i molti argomenti possibili che le cosiddette fedi pessimistiche hanno sempre avuto origine nelle classi
superiori, che godevano appieno delle belle cose della vita: se vi un
contrasto tra l'"ottimismo" infantile dei primi inni vedici, con le loro
preghiere per chiedere molto bestiame e lunga vita, e il "pessimismo" del
Vedanta o del Buddhismo, questo non un risultato di declino verso una civilt
materialistica, ma un risultato di accumulo d'esperienza. Perch l'opinione
corretta quella indiana, che, cio, non la privazione delle buone cose di
questo mondo a spingere i saggi a volgersi finalmente a pensieri pi elevati, ma
piuttosto la lunga esperienza della loro fondamentale monotonia. I desideri
repressi generano pestilenza, ma la strada degli eccessi porta al palazzo della
saggezza. La liberazione intende evitare un futuro paradiso non meno di un
futuro inferno - se fosse stata dettata da una semplice reazione alle miserie
dell'esistenza fisica, ci avrebbe dato vita a una religione simile, sotto certi
aspetti, al Cristianesimo, nel quale la compensazione dei dispiaceri di questa
vita prevista in un cielo di gioia senza fine.
XIV - Un imperatore buddhista
Nella tarda storia leggendaria di Gautama riportato un episodio
caratteristico. Si dice che quando egli era seduto sotto l'albero bodhi, e
prossimo a raggiungere il Nibbana, il Maligno, non riuscendo a pervenire al suo
scopo in altri modi, gli apparve sotto le spoglie di un messaggero con lettere
che portavano la falsa notizia che Devadatta - il cugino, e costante avversario
di Gautama - aveva usurpato il trono di Kapilavatthu, si era impadronito delle
mogli e dei beni di Gautama ed aveva imprigionato suo padre; le lettere lo
pregavano di ritornare per restaurare la pace e l'ordine. Ma Gautama riflett
che l'azione di Devadatta derivava dalla sua malizia e dalla sua passione,
mentre i Sakya, nel non difendere il loro re, avevano mostrato una codardia e
un'indole spregevoli. Considerando queste follie e debolezze della natura umana,
la sua decisione di raggiungere qualcosa di pi alto e migliore si conferm in
lui.
Questa leggenda esprime adeguatamente l'indifferenza del Buddhismo verso
l'ordine del mondo. in pieno accordo con questo punto di vista che il
Buddhismo non ha mai formulato l'ideale di un ordine sociale di questo o di quel
tipo: la sua etica puramente individualistica, e non pone la propria fiducia
in nessun regolamento esteriore. Il semplice buon governo non pu condurre
all'estinzione (Nibbana) del desiderio, del risentimento, e dell'illusione; e
poich la dottrina di Gautama ha solamente a che fare con quell'estinzione, non
si interessa minimamente del governo. Questa posizione praticamente identica a
quella di Ges, che respinse ogni associazione del regno di Dio con il potere
temporale. In accordo con questa posizione, sia il padre che la madre di
Gautama, sua moglie, suo figlio e un buon numero di prncipi Sakya abbandonarono
la loro condizione mondana e divennero discepoli erranti di Colui-che-haraggiunto-ci.
In tutti i casi, se ogni sovrano che accettava la dottrina buddhistica avesse
immediatamente adottato la vita errante, sarebbe impossibile, ora, parlare di
imperatori o re buddhistici. Vediamo, al contrario, che i prncipi sovrani,

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buddhisti per educazione o conversione, conservarono sempre il loro potere


temporale, e fecero uso di questo potere per propagare il Dhamma, per sostenere
i Fratelli, e per mantenere un ordine sociale consono all'etica buddhistica. La
storia ci ha trasmesso i nomi di molti re buddhisti, i quali, nonostante il
Buddhismo sia una dottrina di sola autodisciplina, cercarono di sfruttarlo per
migliorare l'ordine del mondo con il governo. E in questo modo che una dottrina
che era originariamente, se non antisociale, per lo meno non-sociale, arrivata
ad avere un'influenza sull'ordine sociale.
Ci faremo un'idea chiara dell'influenza sociale del Buddhismo dedicando la
nostra attenzione ad Asoka Maurya, il pi famoso sovrano buddhista dell'India.
Asoka sal al trono di Magadha nel 270 a.C. circa, e fu incoronato in modo pi
formale quattro anni pi tardi. Il primo grande avvenimento del suo regno ebbe
luogo otto anni dopo: fu la conquista di Kalinga, un territorio non trascurabile
situato lungo la costa orientale, a Sud della moderna Orissa; con questa
aggiunta, il suo territorio comprendeva l'India intera, meno l'estremo Sud. La
conquista ebbe come conseguenza il massacro di centomila persone, mentre altre
cinquantamila furono ridotte in cattivit e molte di pi perirono per carestia e
pestilenza. Forse lo spettacolo di tanta sofferenza indusse l'imperatore a
prestare un'attenzione particolare a quel sistema il cui unico scopo era di
indicare la via della liberazione dalla sofferenza, dukkha.
[nota: "La vittoria" dice il Dhammapada, v. 201, "genera l'odio, perch il vinto
infelice". Val la pena notare che si prevede per un futuro molto prossimo
un'intensificazione dello studio del Buddhismo, in ragione della sua "capacit
di trattenere i suoi aderenti da quei sanguinosi scoppi di carneficina
internazionale che si verificano in Occidente circa una volta per ogni
generazione". Cambridge Magazine, 24 aprile 1915.]
In ogni caso Asoka stesso racconta la sua adesione al Dhamma buddhistico nei
termini seguenti:
"Subito dopo l'annessione dei Kalinga, la Sua Sacra Maest cominci a proteggere
con zelo il Dhamma, ad amare il Dhamma, e a dare disposizioni in conformit con
esso. Tutto questo origin dal rimorso della Sua Sacra Maest per aver
conquistato i Kalinga, perch la conquista di un paese che prima era libero ha
come conseguenza carneficine, morte, e riduzione in cattivit della gente. Ci
causava alla Sua Sacra Maest un profondo dispiacere e rimorso", e collegando
cos la sua conversione con il cambiamento di attitudine nei riguardi degli
altri, egli continua:
"Cos, di tutta la gente dei Kalinga che stata massacrata, messa a morte o
ridotta in cattivit, se anche solo la centesima o la millesima parte avesse
sofferto la stessa sorte, ci ora causerebbe rimorsi alla Sua Sacra Maest.
Inoltre, se qualcuno recher alla Sua Sacra Maest un danno che possa essere
sopportato, egli lo sopporter... Questo pio editto stato scritto con questo
intento, che i miei figli e nipoti, chiunque essi siano, non considerino un
dovere il fare nuove conquiste. Se, per caso, essi si trovino impegnati in una
conquista con le armi, dovranno trar piacere dal compierla con pazienza e con
garbo e considerare una vera conquista solo quella ottenuta con la piet. Questo
vale sia per questo mondo che per l'altro. Che si metta ogni entusiasmo nello
sforzo, perch esso vale sia per questo mondo che per l'altro".
In molti altri editti, che sono scolpiti su pietra e che sono ancora esistenti,
Asoka proclama il suo Dhamma molto dettagliatamente. Questo Dhamma
evidentemente buddhistico, ma differisce dall'insegnamento di Gautama, in quanto
omette qualsiasi riferimento all'aspetto analitico (interiore) e riguarda
esclusivamente l'etica: il Nibbana non vi neppure menzionato, e la ricompensa
del buon comportamento il favore imperiale in questo mondo e il benessere
nell'altro, "quello che oltre", e non l'affrancamento dalla rinascita. La
menzione dei primi Buddha, insieme con altri dettagli, mostra gi un certo
sviluppo delle dottrine mahayanistiche. E possibile che Asoka avesse deciso di
raggiungere lo stato di Buddha in una vita futura, ma pi probabilmente mirava
solo a un futuro raggiungimento dell'Arahatta.
Gli Editti riguardano esclusivamente il comportamento etico; essi comportano una
considerevole quantit di interferenze nella libert individuale, e
corrispondono a qualcosa che noi ora potremmo chiamare un tentativo di "render
buona la gente con Decreto Ministeriale". Asoka desidera essere come un padre

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per i suoi sudditi, e parla con autorit paterna. D una grandissima importanza
alla tolleranza religiosa e al dovere del rispetto verso coloro a cui spetta per
anzianit o posizione; e sostiene vigorosamente l'inviolabilit della vita
animale. D'altra parte non tenta di abolire la pena capitale. Rispetto,
compassione, sincerit e simpatia sono le virt cardinali. Gli effetti pi
notevoli, permanenti e di grande portata delle attivit di Asoka sono quelli che
risultarono dalle sue missioni all'estero. Questa affermazione dev'essere
interpretata in senso moderno-evangelico e non politico: infatti vediamo che,
non soddisfatto di predicare il Dhamma ai propri sudditi, Asoka invi missionari
imperiali in tutte le altre parti dell'India, a Ceylon, e poi in Siria, Egitto,
Cirenaica, Macedonia ed Epiro; e questi missionari erano incaricati di
diffondere, oltre al Dhamma buddhistico, anche la conoscenza di utili medicine.
Si deve pi ad Asoka che a qualsiasi altro individuo se il Buddhismo divenuto
ed restato a lungo la forma tradizionale predominante dell'India, e certo
anche dell'Asia, e se ancora ai nostri giorni conta pi aderenti di qualsiasi
altra fede.
La conversione di Ceylon documentata nelle Cronache di Ceylon con una
ricchezza di dettagli pittoreschi che parzialmente confermata dalle scoperte
archeologiche dell'India settentrionale, ma che non pu essere considerata
storica in toto. In particolare, riportato che il capo della missione di Asoka
a Ceylon era un suo figlio chiamato Mahendra, che convert il re di Ceylon e
40.000 dei suoi sudditi. Per far s che anche la principessa Anula ed altre
donne potessero essere ordinate, un'ambasciata di ritorno fu inviata a
richiedere che si mandasse la figlia di Asoka, Sanghamitta, con un ramo del
sacro albero bodhi, da piantare a Ceylon. Si sostiene che il sacro albero bodhi,
ancora conservato ad Anuradhapura a Ceylon, sia quello stesso ramo che ora
diventato il pi vecchio albero storico del mondo. La principessa fu debitamente
ordinata da Sanghamitta e divenne un'Arahat. Nella realt dei fatti la
conversione di Ceylon dev'essere avvenuta in modo pi graduale di quanto viene
raccontato, ma non c' dubbio che ci furono scambi di ambasciate e conversioni.
I Singalesi - non, naturalmente, i Tamil che occupano una gran parte del Nord
dell'isola - sono rimasti Buddhisti fino ai giorni nostri, e nella maggior
parte, sebbene non nella totalit, di ortodossa fede Hinayana.
Dobbiamo pensare ad Asoka anche come a un grande amministratore e a un gran
costruttore. Il suo impero comprendeva quasi tutta l'India e l'Afghanistan, la
cui amministrazione era gi molto ben organizzata sia come registrazione che
come azione esecutiva. Con energia instancabile Asoka si imbarc
nell'impossibile compito di controllare personalmente tutti gli affari di
governo:
"Non sono mai pienamente soddisfatto", dice, "dei miei sforzi e della mia
conduzione degli affari".
La caratteristica essenziale della sua condizione di governo un dispotismo
paterno. Che abbia governato con successo un impero cos vasto per quarant'anni
una prova della sua abilit, come le parole dei suoi Editti lo sono della sua
forza di carattere - che si potrebbe paragonare a quella di Cromwell e
Costantino - e della sua piet pratica.
Abbiamo gi detto che gli Editti furono scolpiti sulla pietra, e che molti di
essi sono sopravvissuti fino a oggi. Alcuni sono incisi su colonne monolitiche;
quella che di gran lunga la pi bella la colonna scoperta recentemente a
Sarnath, tra i monasteri, nella localit del vecchio Parco dei Cervi di Benares,
dove Gautama pronunci il suo primo discorso. La colonna sormontata da un
capitello con leoni, con una fascia a bassorilievo che rappresenta un cavallo,
un leone, un toro, un elefante, e la Ruota della Legge. Il tutto poggia su una
base a forma di campana di genere persiano, come appare anche altrove
nell'architettura dello stesso periodo. L'insieme un'opera artigianale di
straordinaria perfezione, che per la finitezza pu essere paragonata solo con
l'accurata finizione di alcune opere murarie di Asoka, e con le superfici
levigate di alcune celle scavate nella roccia, che Asoka aveva destinato all'uso
degli Ajivika: e non dobbiamo dimenticare l'abilit ingegneristica che
comportava il trasporto e l'erezione: spesso pilastri monolitici che potevano
anche pesare una cinquantina di tonnellate si trovavano a centinaia di miglia
dai cantieri.
La capitale di Asoka a Pataliputra (gli scavi archeologici in questa zona sono
attualmente in fare di esecuzione), ora Patna, descritta nel modo seguente dal

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pellegrino cinese Fa Hien, otto secoli pi tardi:


"Il palazzo reale e le piazze al centro della citt, che esistono ora ed
esistevano anche anticamente, furono tutti fatti da spiriti, che egli impiegava,
i quali ammucchiarono le pietre, eressero muri e cancelli, ed eseguirono
l'elegante incisione e il lavoro di scultura in una maniera che nessuna mano
umana di questo mondo avrebbe potuto compiere".

Parte terza - I sistemi contemporanei al Buddhismo


I - Il Vedanta
Il sistema di pensiero che pu essere considerato come il pensiero tradizionale
indiano per eccellenza il Vedanta, il "completamento" o il "fine" dei Veda:
con questo termine, Vedanta, si deve intendere l'interpretazione delle
Upanishad, e dei Vedanta Sutra, secondo Sankaracarya nel secolo IX d.C. e
Ramanuja nell'XI. Si vedr che queste interpretazioni sintetiche sono di gran
lunga post-buddhistiche; ma questo non il caso delle pi importanti Upanishad
autentiche, cio la Brihadaranyaka e la Chandogya, che sono sicuramente
pre-buddhistiche. Esse sono anche le scritture pi importanti del Vedanta e qui
bisogna riferirsi in prevalenza ad esse, perch alcuni scrittori hanno osservato
che "sono le idee delle Upanishad che per una specie di degenerazione si sono
sviluppate nel Buddhismo, da una parte, e nel sistema Samkhya, dall'altra".
Cos come il Vecchio Testamento sostituto dal Nuovo, cos le Upanishad
dichiarano l'insufficienza del rituale e delle sue ricompense e vi sostituiscono
una religione dello spirito. Tutte le Upanishad trattano di un solo argomento,
la dottrina del Brahman o Atman. Molto spesso queste due parole sono considerate
sinonimi. Se o dove si opera una distinzione, allora il Brahman l'Assoluto, e
l'Atman quell'Assoluto in quanto realizzato dalla coscienza individuale;
possiamo allora esprimere il pensiero fondamentale delle Upanishad con la
semplice equazione:
Brahman = Atman
Se vogliamo cercare un paragone per questa identit, possiamo trovarlo
nell'identit dello spazio indefinito con lo spazio di qualsiasi contenitore
chiuso: frantumando i muri che delimitano il contenitore, cio l'ignoranza che
mantiene la nostra apparente individualit, l'identit dello spazio con lo
spazio evidente. "Quello sei Tu" la forma che assume l'equazione: nel
linguaggio specifico della Brihadaranyaka, Tat tvam asi. Quell'Assoluto uno e
lo stesso in qualsiasi cosa dentro di noi che dobbiamo considerare come il
nostro vero S, l'invariabile essenza del nostro essere, il nostro spirito. Che
cos' allora lo spirito dell'uomo? Cosa sono io? Questa una domanda alla
quale, come riconosce il Vedanta, ci possono essere molte risposte. Anche le
Upanishad pi idealistiche non incominciano negando, come fa Gautama,
l'esistenza di un io, di un soggetto conoscente e duraturo; solo attraverso un
processo di eliminazione che si raggiunge il pensiero che il soggetto niente
(no-thing = nessuna cosa) Alcuni identificano l'ego con il corpo, come facciamo
noi nel linguaggio comune quando, per esempio, diciamo: "Ho freddo" ("I am
cold") per intendere che "il corpo freddo". Ma osservando che il corpo cambia
e deperisce visibilmente, come possiamo identificare la nostra coscienza
superiore dell'eternit e della libert del nostro essere con la carne mortale?
Un'altra risposta suggerisce un'"anima eterna", che risiede nel corpo, passando
da un corpo ad un altro: questa la ben nota teoria indiana della
trasmigrazione di un individuo, alla quale, nel Buddhismo, sostituita la
trasmigrazione del "personaggio". Una simile anima, se immaginata libera da
vincoli corporei, pu essere assimilata alla coscienza nello stato di sogno,
dove i limiti di tempo e spazio sono solo vagamente accennati. Analoga a questa
la dottrina cristiana di un'anima eterna che passa dalla terra al paradiso o
all'inferno eterni, ed contro tali concezioni dell'Atman che diretta la
teoria dell'anatta del Buddhismo. Vi un terzo punto di vista, idealistico, che
riconosce solo un'anima suprema, nella quale non c' dualit, "n l'ombra di un

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cambiamento", n la coscienza del soggetto e dell'oggetto. Questo punto di


vista, soggetto a leggere differenze d'interpretazione, forma la comune base
filosofica di gran parte del misticismo orientale e occidentale. Qui lo stato
del S paragonato al sonno profondo. E questo S universale, uno senza nessun
"altro", che il ricercatore individuale, penetrando interiormente fino al
centro, trova nella propria coscienza, quando in lui non rimane pi niente di
proprio. Filosoficamente, come abbiamo detto, lo si raggiunge con un processo di
eliminazione - della sovrapposizione di attributi, e con la successiva negazione
di ognuno di essi, perch si scopre che ognuno di essi in contraddizione con
la nostra coscienza di un essere eterno e di libert completa -, cos si
raggiunge la grande formula vedantica, che descrive l'Atman o Brahman come "non
cos, non cos".
[nota: La lista completa di questi attributi, chiamati upadhi o determinazioni
individualizzanti include: 1. tutte le cose o relazioni col mondo esterno; 2. il
corpo, costituito da elementi grossolani; 3. gli indriya, cio i cinque organi
dei sensi ed i corrispondenti cinque organi d'azione; 4. manas (il mentale) o
antahkarana (organo interno) che include la comprensione e la volont cosciente,
il principio unificato, o apparentemente unificato, della vita cosciente,
l'anima in senso popolare; e 5. i mukhya prana, soffi vitali, il principio
similmente unificato, o apparentemente unificato, della vita inconscia. Tutti
questi attributi sono eliminati da chi trova il S, che il Brahman, "non cos,
non cos".]
L'"anima" , allora, vuota, non qualcosa (no thing), non passa dalla nascita
alla morte, non ha parti, non soggetta al divenire e al tempo, ma un Abisso
che ora quello che era all'inizio e che sar sempre. A queste tre stazioni [o
stati] dell'anima le ultime Upanishad ne aggiungono una quarta, che chiamata
semplicemente cos, la Quarta [il Quarto stato].
Abbiamo quindi quattro stazioni. La prima la coscienza della veglia
dell'esperienza di ogni giorno:
Quando l'anima accecata dall'illusione (Maya)
abita il corpo e compie le azioni;
dalle donne, dal cibo, dalle bevande,
e da molti oggetti di piacere,
ottiene soddisfazioni nella condizione di veglia.
[nota: Kaivalya Upanishad (12). Questo vivere in superficie, esperienza
empirica.]
Nella seconda stazione, del sonno con sogni [o di sogno]:
Nello stato di sogno si muove su e gi
e, come una divinit, foggia per s molte forme.
Nella terza stazione, del sonno profondo, non c' coscienza empirica, ma
identificazione con Brahman. Questa condizione corrisponde all'"Eterno Riposo"
del misticismo occidentale. Lo stato di liberazione descritto in un bel passo
della Brihadaranyaka Upanishad, che riportiamo qui ad esempio della letteratura
vedantica pre-buddhistica:
"Come nello spazio lass un falco o un'aquila, dopo essersi librato, stancamente
ripiega le ali e si immerge nel riposo, cos si affretta lo spirito a quella
condizione in cui, scivolando nel sonno, non avverte pi desideri e non ha
neppure pi sogni. Questo il suo (vero) modo di essere, nel quale innalzato
oltre i desideri, libero dal male e dalla paura. Perch, come chi abbracciato
da una donna che ama non ha coscienza di ci che fuori e ci che dentro,
cos anche lo Spirito, abbracciato dal S della Conoscenza (Brahman) non ha
consapevolezza di ci che esterno e di ci che interno. Questo il suo modo
di essere, in cui i desideri si sono placati; essendo lui stesso l'oggetto del
suo desiderio, egli senza desideri, e libero dal dolore. Allora il padre non
pi padre, n la madre madre, n le parole parole, n le divinit divinit n i
Veda Veda... Allora indifferente al bene, indifferente al male, allora ha
vinto tutti i tormenti del cuore... E tuttavia Egli un Conoscitore, anche se

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non conosce [in modo distintivo, analitico]; poich per il Conoscitore non c'
interruzione di conoscenza; perch imperituro... Egli sta immobile nell'oceano
tumultuoso, come uno spettatore, solo e senza compagno, colui il cui mondo
Brahman. Questa la sua pi alta meta, questa la sua massima gioia, questo
il suo mondo pi elevato, questa la sua beatitudine suprema".
Chi non si liberato in questo modo, ed ancora soggetto al desiderio,
Dopo aver ricevuto la ricompensa
per tutto ci che ha qui compiuto,
torna da quell'altro mondo
al basso mondo delle azioni.
Ma "chi senza desiderio, libero dal desiderio, il cui desiderio placato, che
lui stesso l'oggetto del suo desiderio, i suoi spiriti vitali non
l'abbandonano; egli Brahman e in Brahman si riassorbe":
Quando ogni passione se n' del tutto andata
che nel cuore umano si nasconde e annida,
trova allora il mortale, l'immortalit,
allora giunto egli a Brahman, il Supremo.
Il frutto naturale della liberazione in questa vita l'ascetismo, per cui:
"Gli antichi sapevano questo, quando non aspiravano ad avere discendenti,
dicendo: "Perch dovremmo desiderare discendenti, noi il cui s l'universo?" E
cessavano di desiderare figli, di desiderare possessi, di desiderare il mondo,
ed erravano come mendicanti. Perch il desiderio di figli desiderio di
possesso, il desiderio di possesso desiderio del mondo; perch tutti questi
sono semplici desideri. Ma Egli, l'Atman, "non cos, non cos"".
Vi un'altra stazione, chiamata "La Quarta", che trascende sia il Non-Essere
che l'Essere. Questa stazione indicata nel mantra "Om", e corrisponde alla
concezione occidentale dell'Eterno Riposo e dell'Opera Eterna come aspetti
simultanei dell'Unit. Come questa stazione differisca dal sonno profondo si
capir dai versi di Gaudapada:
Ai
un
n
li

due primi appartengono i sogni e il sonno,


sonno senza sogni il possesso del terzo,
i sogni n il sonno, chi conosce,
attribuisce al Quarto.

Falsa la conoscenza del sognatore,


nulla del tutto il dormiente conosce.
Sviati sono entrambi; dove tutto questo svanisce
l il Quarto raggiunto.
E nell'illusione senza inizio del mondo
che l'anima dorme: quando (per la verit) si sveglia,
in essa si sveglia l'eterno,
intemporale, e affrancato sia da sogni che sonno.
[nota: Qui l'uso dei simboli del risveglio e del sonno rovesciato: il vero
risveglio sonno verso il mondo.]
Questi versi sono post-buddhistici, ma rappresentano uno sviluppo perfettamente
logico della concezione del Brahman indicato come eterno conoscitore, senza
oggetto, nella frase appena citata, "Egli ancora un Conoscitore, anche se non
conosce; poich per il Conoscitore non c' interruzione di Conoscenza, perch
egli imperituro". Questa frase, si pu notare, ricorda vividamente ci che il
Buddha diceva dello stato post mortem di chi ha raggiunto il Nibbana:
"Dire di un Fratello che si liberato con la conoscenza interiore: "Non sa, non
vede", sarebbe assurdo!"
Lo scopo dell'insegnamento delle Upanishad, allora, di rimuovere la nostra
ignoranza, perch l'ignoranza sta alla radice del desiderio, ed il desiderio,
implicando mancanza, un segno di imperfezione, e non pu caratterizzare lo
stato supremo. La conoscenza che opposta all'ignoranza, come la luce

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all'oscurit, consiste nella realizzazione dell'unione con ci che "non cos,


non cos". Questa conoscenza non il mezzo per ottenere la liberazione, la
liberazione stessa.
Chi raggiunge la realizzazione "Io sono il Brahman" - non, certo, che pronuncia
solo verbalmente queste parole - riconoscendosi come la totalit di tutto ci
che , non ha pi nulla da desiderare o da temere perch non rimasto nulla che
sia da temere o da desiderare; egli non far pi del male ad alcun essere perch
nessuno si offende da solo. Chi ha raggiunto questa comprensione continua ad
esistere, perch le conseguenze delle azioni precedenti sono ancora valide nel
mondo empirico della causalit; ma la vita non pu pi ingannarlo. Le sue opere
precedenti sono arse nel fuoco della conoscenza. Sa che il suo corpo non il
"suo" corpo e che le sue azioni non sono le "sue" azioni, e quando muore, il suo
S non va in nessun luogo dove gi non fosse, ed egli non potr mai pi essere
soggetto alle limitazioni dell'esistenza individuale.
Come scorrono i fiumi e nell'Oceano
perdono nome e forma e ivi scompaiono,
cos egli va, libero di forma e nome,
il Saggio verso la divinit.
Qui il pensatore buddhista deve sempre aver in mente che "la divinit", in passi
come questo, si riferisce al Brahman che "non cos, non cos", e non a qualche
divinit personificata: precisamente come lo stesso Buddhismo costretto dalle
necessit del linguaggio a chiamare simbolicamente il Nibbana "Beatitudine" e
simili. Dei Brahmani e dei Buddhisti si pu ben dire, come si pu dire di tutte
le tradizioni nell'accezione pi profonda:
Tu vai per la tua, e io vado per la mia:
molteplici vie seguiamo;
per molti giorni, per molte strade,
che finiscono tutte in una.
Molti gli errori, e molte le composizioni per sanarli;
molte parole, e molte locande:
molti spazi da percorrere, ma solo una dimora
che in tutto il mondo valga la pena di raggiungere.
II - Il Samkhya
Esiste un'altra scuola, il Samkhya, non, come le Upanishad, creazione di una
collettivit, ma conosciuta come formulata da un Saggio, dal nome Kapila; da
cui, molto probabilmente, deriva il nome di Kapilavatthu, la citt della nascita
e della giovinezza del Buddha. Non trascurabile, a questo proposito, che il
Buddhismo "sembri essere sorto in una zona dove dominavano le idee Samkhya, e
aver preso in prestito da loro molte cose"; e il fatto che il Samkhya sia
realmente la fonte principale del modo di pensare del Buddhismo, d a questo
sistema un'importanza considerevole per il nostro studio. In contrasto con
l'idealismo monistico delle Upanishad, che definisce l'Atman o Purusha (spirito)
come la sola realt, il Samkhya prende in considerazione la dualit, postulando
la perenne realt di Purusha e Prakriti, spirito e natura; il Samkhya, inoltre,
parla di una pluralit di Purusha o spiriti, mentre il Purusha del pensiero
vedantino uno e indivisibile. La natura l'equilibrio naturalmente
indifferenziato delle tre qualit sattva, rajas, e tamas, "bont, passione e
inerzia"; l'evoluzione prodotta dall'avvicinamento allo spirito. Il primo
prodotto della differenziazione buddhi, la "ragione" [o, meglio, l'intelletto
trascendente]; poi ahamkara, il "concetto di individualit"; e da questo
derivano da una parte i cinque elementi sottili e grossolani, e dall'altra
manas, il "mentale", o "cuore", e gli organi interni ed esterni di sensazione.
Questi, con l'anima, costituiscono le venticinque categorie del Samkhya. Quello
che migra da corpo a corpo non lo spirito, poich esso incondizionato, ma
l'insieme delle caratteristiche, l'"anima" dell'essere che ora un individuo
umano, la quale costituita da buddhi, ahamkara, manas e dagli organi interni
ed esterni di sensazione, veicoli delle impressioni (samskara, vasana) delle

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azioni anteriori, e che riveste un nuovo corpo fisico secondo la precisa


conseguenza del loro valore morale.
Il Purusha che risiede nell'individuo - il jiva - non intaccabile, neppure nel
suo stato di limitazione; anche la sua apparente coscienza di soggetto ed
oggetto un'illusione. E l'"uomo interiore", l'"anima" - antahkarana, cio
buddhi, ahamkara e manas - che, mosso dallo spirito che brilla incoscientemente
sopra di lui, falsamente si immagina di essere un ego; in quest'"anima"
complessa sorgono le concezioni di piacere e pena, amore e odio; essa le
proietta sullo spirito o S, che conosce solo oscuramente, come attraverso uno
specchio. Questo circolo vizioso di vita perpetuato per sempre, interrotto
temporaneamente solo dal ritmo cosmico dell'involuzione ed evoluzione,
evoluzione e involuzione, in successivi periodi cosmici (kalpa). Ma ci sono
alcuni, per quanto molto pochi che, dopo molte nascite, raggiungono la
conoscenza salvatrice: con l'ascia della ragione si abbatte l'albero dell'egoit
dell'"anima", e dopo aver gettato via anche l'ascia, il legame dello spirito con
la materia reciso, lo spirito eternamente solo (kaivalya), non pi coinvolto
nella ruota della nascita e della morte (samsara). Chi comprende pienamente
questo punto di vista, sar preparato a comprendere le dottrine cardinali del
Buddhismo, che differiscono da quelle del Samkhya principalmente per la loro
tacita negazione di Purusha, o forse potremmo dire piuttosto, il loro rifiuto di
discutere di qualcosa di diverso dalla natura dell'"anima" e dei mezzi pratici
della liberazione; il Buddhismo e il Samkhya, non meno del Vedanta, sono
concordi nell'affermare che piacere e dolore sono entrambi sofferenza, perch
l'impermanenza di ogni piacere l'eterna guastafeste.
III - Lo Yoga
Smetti ogni attivit, tranne la tua propria,
fissando l'occhio tuo sopra un sol punto.
Boehme
Un terzo sistema, che era ben noto, sebbene non ancora articolato nei dettagli,
prima dell'epoca del Buddha, quello dello Yoga, o unione. Si tratta di una
disciplina che ha lo scopo di assicurare la liberazione indicata nel Samkhya.
Essa ha un aspetto pratico, che in parte etico ed in parte psicologico; e una
parte "regale", consistente nelle tre fasi di meditazione, dharana, dhyana e
samadhi, nella quale con la concentrazione del pensiero si sorpassa la
distinzione del soggetto e dell'oggetto, e l'anima diventa consapevole del suo
eterno stato di separazione dalla ragione sotto le sue diverse forme (samskara),
e diventa per sempre sola (kaivalya). Il sistema si differenzia dal Samkhya e
dal Buddhismo originario in quanto non ateistico - cio, riconosce un Dio
Supremo (Isvara), che un particolare e sublime Purusha, o anima individuale,
da cui il devoto pu essere aiutato nella via di liberazione; ma questo Isvara
non assolutamente essenziale per il sistema, ed solo uno dei molti supporti
di meditazione che sono suggeriti al ricercatore. Gli esercizi spirituali di
contemplazione buddhistici sono tratti praticamente senza variazioni da fonti
brahmaniche, e per questa ragione non necessario ripetere qui ci che gi
stato detto a questo proposito; ma potr essere utile illustrare qual il
significato dello Yoga realizzato, da una fonte completamente diversa, con il
seguente passaggio tratto dalle Lettere Filosofiche sul Dogmatismo e la Critica
di Schelling:
"In ognuno di noi risiede un meraviglioso potere segreto per liberarci dei
cambiamenti del tempo, di appartarci dalle cose esterne nel nostro foro
interiore, e di scoprire cos in noi l'eterno nella forma dell'immutabilit.
Questa presentazione di noi stessi a noi stessi la forma di esperienza
personale pi vera, da cui dipende tutto ci che sappiamo del mondo al di sopra
dei sensi. Questa presentazione ci mostra per la prima volta che cos'
l'esistenza reale, mentre tutto il resto solo apparenza. Differisce da ogni
altra presentazione dei sensi nella sua perfetta libert, mentre le altre
presentazioni sono limitate, essendo sovraccaricate dal peso dell'oggetto...
Questa presentazione intellettuale avviene quando cessiamo di essere il nostro
proprio oggetto, quando, ritirandoci in noi, l'immagine che percepisce si
immerge in quella percepita. In quel momento annulliamo il tempo e la durata del

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tempo: non siamo pi nel tempo, ma il tempo, o piuttosto la stessa eternit


(l'assenza di tempo), in noi. Il mondo esterno non pi un oggetto per noi,
ma perso in noi".
IV - Il Buddhismo e il Brahmanesimo
Tutti coloro che scrivono sul Buddhismo si trovano a dover affrontare la
difficolt di spiegare sotto quali rapporti l'insegnamento di Gautama differisca
dalle pi alte fasi del pensiero brahmanico. E vero che la distinzione apparve
abbastanza chiara a Gautama e ai suoi successori; ma ci era dovuto in gran
parte al fatto che il Brahmanesimo contro cui essi si mettevano in polemica era,
dopotutto, semplicemente il suo aspetto popolare. Da uno studio dei dialoghi del
Buddha sembrerebbe che egli non abbia mai incontrato un esponente capace del pi
elevato idealismo vedantino, quali uno Yajnavalkhya o un Janaka; o se Alara
dev'essere considerato tale, Gautama ebbe da ridire pi sulla terminologia
atmanistica che sul suo significato fondamentale. A Gautama e ai suoi seguaci di
allora, e di adesso, pare che le verit pi elevate - specialmente la verit
espressa dai Buddhisti nella frase An-atta, non-anima - siano piuttosto fuori
che dentro il pensiero brahmanico.
Nella storia delle religioni accaduto molte volte che il Protestante,
abbattute con facilit le difese esterne di una Fede Ortodossa, abbia creduto
che non restassero pi roccaforti da espugnare. Pu anche essere che Gautama,
invece, conoscesse l'esistenza di una simile roccaforte brahmanica - in cui era
custodita la verit che l'Atman "non cos, non cos" -, ma che considerasse la
citt circostante cos irreparabilmente abituata a errori di pensiero e
d'azione, da fargli preferire di costruire su un nuovo terreno, piuttosto che
dare la mano alla guarnigione assediata. Forse non tenne conto che tutte le
guarnigioni di questo genere non possono essere grandi, e non previde la loro
vittoria finale. Comunque sia, certo che in quel periodo non esisteva
un'opposizione di fondo tra la dottrina brahmanica e quella buddhistica; e che
Gautama, alcuni altri Kshattriya, e alcuni Brahmani erano tutti ugualmente
impegnati nello stesso compito.
A prima vista, niente pu sembrare pi netto dell'opposizione tra il buddhistico
An-atta, "non-Atman", e l'Atman brahmanico, l'unica realt. Ma usando lo stesso
termine, Atta o Atman, i Buddhisti e i Brahmani parlano di cose diverse, e
quando si capisca questo, si vedr che le dispute buddhistiche su tale punto
perdono quasi tutto il loro valore. Il Prof. Rhys Davids ammette francamente che
"Per quanto io ne possa sapere, il Brahman neutro completamente sconosciuto
dai Nikaya, e, per contro, l'idea del Buddha su Brahma, al maschile, in realt
differisce ampiamente da quella delle Upanishad".
[nota: Dialogues of the Buddha, 1, pag. 298: C. A. F. Rhys Davids, Buddhism,
pag. 57. - E tuttavia in questo secondo testo si sostiene che "l'argomento
buddhistico rivolto contro la posizione atmanista". proprio a questa
posizione che Gautama non si riferisce. La separazione tra Gautama e Alara
rappresenta, forse, la pi grande tragedia registrata nella storia tradizionale.
A. Worsley ha notato molto giustamente: " possibile che se Gautama avesse avuto
la sorte di incontrare, nelle sue prime peregrinazioni, due rappresentanti delle
dottrine pi elevate, l'intera storia del mondo antico sarebbe stata cambiata".
Concepts of Monism, pag. 197.]
Non c' niente, quindi, che dimostri che i Buddhisti abbiano mai realmente
compreso la pura dottrina dell'Atman, che "non cos, non cos". L'attacco che
essi portarono contro l'idea dell'anima o del s [con s iniziale minuscola]
diretto contro la concezione dell'eternit nel tempo di un'individualit
immutabile; essi non parlano dello spirito eterno, ed assicurano con ci,
tuttavia, di essersi sbarazzati della teoria dell'Atman! In realt entrambe le
parti concordavano nell'affermare che l'anima o ego (manas, ahamkara, vijnana,
ecc.) composta e fenomenica, mentre che di ci che "non cos", non sappiamo
niente.
La dialettica buddhistica, con l'esempio del carro, e cos via, mira a mostrare
che le cose sono "vuote"; quando gli elementi che le compongono sono
individuati, non rimane nient'altro che il "vuoto"; chi realizza questo,

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raggiunge il Nibbana, ed liberato. Ma non si pu distinguere questo "vuoto" o


"Abisso" da quel Brahman che "nessuna cosa".
vero che il Vedanta parla di molti Atman, tre, o anche cinque, e che il
jivatman, o "S incondizionato nell'individuo" a volte confuso con l'ego
individuale o soggetto discriminante (ahamkara o vijnana, come se attribuissimo
l'individualit ad una porzione di spazio rinchiusa in una giara, dimenticando
che lo spazio non pu essere diviso e che solo la giara ha "confini"); ma un
punto di vista nettamente non-animistico sostenuto in molti altri e pi
importanti passi. O Gautama conosceva solo il Brahmanesimo popolare, o scelse di
ignorarne gli aspetti pi elevati. In ogni caso, quelli che sconfigge cos
facilmente nelle controversie sono solo semplici burattini che non hanno
assolutamente mai esposto la dottrina del S incondizionato.
Gautama non incontra mai avversari della sua tempra, e per questa ragione la
polemica buddhistica per la maggior parte inevitabilmente impegnata in una
lotta contro i mulini a vento. Questa critica si applica tanto alle esposizioni
moderne quanto a quelle antiche.
Ci si dice, ad esempio, che il Buddhismo differisca dal Brahmanesimo nella sua
refutazione della "corrente idea pessimistica che la salvezza non potesse essere
ottenuta sulla terra e dovesse quindi essere cercata in una rinascita in cielo".
Ma se anche questa idea era "corrente" in quanto movente del rituale di
sacrificio, certo non era sostenuta dagli idealisti brahmanici. "Quello sei Tu"
si riferisce evidentemente ad una condizione presente, e non ad uno stato da
raggiungere dopo la morte.
"Anche oggi", dice la Brihadaranyaka (1, 4, 10), "colui che conosce questo - io
sono Brahman - diventa questo universo; e anche le divinit non hanno il potere
di impedirgli di diventarlo, perch egli il suo Atman".
Di fronte a dichiarazioni come queste non si pu accettare l'affermazione che la
dottrina della salvezza qui ed ora "non era mai stata espressa chiaramente ed
apertamente nel pensiero prebuddhistico".
Sentiamo inoltre dire che "in tutto il pensiero indiano, eccetto quello
buddhistico, le anime, e le divinit, che sono costituite ad imitazione delle
anime, sono considerate eccezioni", e che "a questi spiriti attribuita
un'essenza senza divenire, un'individualit senza cambiamenti, un inizio senza
una fine".
difficile capire come qualcuno, a conoscenza del pensiero indiano "ad
eccezione di quello buddhistico", possa fare un'affermazione di questo genere.
Giacch chiaramente specificato da Sankara che la parola "Indra" significa
"non un individuo, ma una certa posizione (sthana-visesha), qualcosa come la
parola "generale"; chi ne occupi la posizione, ne porta il nome".
Questo punto di vista dato per scontato nella letteratura popolare ind; si
ritiene comunemente, ad esempio, che Hanuman dovr essere "il Brahma" del
prossimo ciclo. Inoltre, nelle Upanishad pre-buddhistiche la posizione delle
divinit personificate non pi privilegiata di quanto non sia nel Buddhismo;
esattamente come nel Buddhismo esse sono rappresentate come bisognose, e capaci
di ricevere, la conoscenza liberatrice, e sotto questo riguardo non hanno una
posizione di vantaggio rispetto agli uomini. Sarebbe forse possibile indicare
qualche testo ind che pretenda attribuire a qualche divinit personificata in
quanto tale un inizio senza fine? E se tali testi potessero essere trovati,
potrebbero essi essere veramente considerati come rappresentativi del Vedanta?
Molto probabilmente, facendo l'affermazione sopracitata, gli esponenti moderni
del Buddhismo hanno confuso la posizione delle divinit Vediche (Deva) nel
Vedanta con il teismo che ne uno sviluppo successivo - analogo allo sviluppo
teistico dello stesso Buddhismo - dove le divinit personificate (Isvara)
appaiono simbolicamente rappresentative dell'Atman, assumendo le forme che sono
immaginate dai loro adoratori.
I Buddhisti attribuiscono una notevole importanza al rifiuto di Gautama di
permettere la discussione sullo stato post-mortem di chi abbia raggiunto il
Nibbana, rifiuto che si basa su ragioni di opportunit. Ma non c' niente di
specificamente buddhistico nel rifiuto della speculazione su tali temi; solo che
nel Vedanta questo rifiuto non si basa su motivi "pratici", ma sulla
constatazione dell'evidente futilit di una simile ricerca, perch, come dicono
i Sufi, "questo troppo elevato per il nostro essere limitato e contingente".
Sankara, ad esempio, ricorda un'antica storia, a proposito di un uomo di nome
Bahva, il quale fu interrogato da Vashkali sulla natura del Brahman, e rimase

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silenzioso. Interrogato nuovamente una seconda e una terza volta, alla fine
rispose:
"In effetti io ti sto insegnando, ma tu non capisci; questo Brahman silenzio".
Giacch quell'Atman di cui si dice: "Quello sei Tu" non il corpo e neppure
l'"anima" individuale, non un oggetto di conoscenza, ma, come il futuro stato
dell'Arahat, sta dall'altra parte dell'esperienza, invisibile, inesprimibile e
insondabile. Che il Brahman non possa essere conosciuto affermato
ripetutamente nelle Upanishad:
Quello che l'occhio non penetra, n il discorso, n il pensiero,
che resta sconosciuto, e che noi non vediamo,
come si potrebbe darcene informazione?
Non con il discorso, non con il pensiero,
non con la vista pu essere compreso,
Egli !
Con questa parola lo si comprende, e non in altro modo.
Esiste ancora molta confusione tra gli esponenti del Buddhismo a proposito di
ci che significhi realmente la dottrina dell'Atman. La formula dell'identit,
"Quello sei Tu", distorta irrimediabilmente dalla Rhys Davids quando scrive:
"L'argomento anti-atta del Buddhismo principalmente e costantemente diretto
contro la nozione di un'anima che era non solo un essere persistente,
immutabile, beato, che trasmigrava, ed era al disopra dei fenomeni, ma che era
anche un essere in cui il supremo Atman, o anima del mondo, era immanente, uno
con esso in essenza, e costituente il fattore corporeo o mentale che dettava il
suo fiat".
[nota: C. A. F. Rhys Davids, Buddhist Psycology, 1914, pag. 31. L'Atman
precisamente ci che non trasmigra. La parola "fiat" pare qui essere riferita
alla concezione del Brahman quale guida interna (antaryamin) e dell'universo
come conseguenza del suo ordine (prasasanam), ad esempio in Brihadaranyaka, 3,
8, 9. Ma in questo caso l'espressione male interpretata. La "guida interna"
l'imperativo categorico, la pi alta forma di coscienza, che possiamo paragonare
alla sanzione buddhistica "a causa del Nibbana"; mentre l'"ordine"
quell'ipseit (tattva) per cui ogni cosa diventa come diventa.]
Questa confusione non appartiene al Vedanta com'esso inteso dai Vedantini.
Forse i Buddhisti hanno sempre commesso l'errore di sottovalutare l'intelligenza
dei loro avversari. Possiamo solo dire che l'alto valore intrinseco del pensiero
buddhista non ha bisogno di una spuria giustificazione, ottenuta per confronto
con le forme popolari e non qualificate del Brahmanesimo. Ci che migliore
deve essere comparato con il migliore se lo si vuole veramente far conoscere
come tale.
Molto probabilmente i Buddhisti indicherebbero come animistici, passi come
questo della Bhagavad Gita, II, 22: "Come un uomo mette da parte gli abiti
consumati e ne indossa altri nuovi, cos ci che risiede nel corpo lascia il
corpo usato e va ad un altro nuovo", nonostante sia costantemente affermato
lungo tutto lo stesso capitolo che Quello "non mai nato e non muore mai". Ma
anche i Buddhisti sono costretti a far uso della fraseologia corrente, e sebbene
non intendano parlare della trasmigrazione di un'anima, anch'essi non possono
evitare di dire che quando qualcuno muore, "egli" rinasce in una nuova vita, e
nei Pitaka "ci sembra di scorgere la credenza nella trasmigrazione di un'anima
che si sposta, proprio quanto lo vediamo nei libri delle fedi animistiche".
Buddhaghosha commenta a questo proposito: "Sarebbe pi corretto non usare
espressioni comuni per esprimere il concetto", e "dobbiamo far attenzione" a non
credere che questi modi di dire esprimano ci che appare. Le difficolt di
linguaggio erano le stesse tanto per i Buddhisti quanto per i Brahmani; e la
stessa concessione dev'essere fatta per entrambi.
Ci si dice inoltre che le Upanishad classificate come pi antiche "mostrano un
animismo ingenuo; quelle classificate come posteriori rivelano che il pensiero
giunto ad una relativa maturit". Ma questa una completa inversione delle
cose. E vero, certo, che ci sono molti passi animistici nelle Upanishad antiche;
ma le formule "non cos, non cos", e "Quello sei Tu", prese insieme,

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rappresentano il pi alto sviluppo del pensiero indiano; le Upanishad posteriori


mostrano, non un progresso dovuto all'assorbimento di idee buddhistiche, ma una
reazione in favore del pensiero rituale e realistico, una specie di evoluzione
da Chiesa Superiore non senza parallelismi nello stesso Buddhismo.
Il Prof. Rhys Davids dice ancora:
"Il pi alto insegnamento in uso prima del Buddha, conservato ancora nelle
Upanishad pre-buddhistiche, era precisamente quello che trattava dell'unione con
Brahma"; non ci rendiamo conto di come quest'affermazione possa conciliarsi con
l'ammissione gi citata che "l'idea del Buddha su Brahma, al maschile, in realt
differisce completamente da quella delle Upanishad".
L'espressione "altra riva" un simbolo della salvezza, ed usata da entrambe
le parti; nel Tevijja Sutta Gautama insinua che per i Brahmani significhi unione
con Brahma (al maschile), mentre lui intende l'Arahatta. Se veramente egli
comprendeva il cuore della posizione atmanista in questo modo, questo dimostra
che egli parlava senza vera conoscenza di causa; e se sosteneva che questa era
la posizione brahmanica per avere argomenti contro i Brahmani, egli era
colpevole di deliberata disonest.
La seconda ipotesi non pu essere sostenuta. Ma innegabile che il dialogo di
Gautama in gran parte determinato da necessit polemiche.
I compilatori dei Dialoghi dovevano rappresentare un Buddha sempre vittorioso
nelle discussioni, e ci riuscirono erigendo un simulacro facile da demolire,
mentre l'oggetto vero e proprio dell'attacco, la teoria dell'Atman, non era in
realt mai attaccato. Gautama accusa costantemente gli altri di contorcersi come
anguille, ma nei Dialoghi adotta egli stesso la medesima tecnica. Il Brahman
neutro "tranquillamente ignorato", e le parole sono interpretate secondo nuovi
sensi. In particolare, la parola atta (Atman) usata in un senso diverso da
quello degli Atmanisti brahmanici, e cos una facile vittoria assicurata
"riferendosi a cose che sono diverse". L'aver coniato un nuovo termine,
"Anatta", per esprimere l'assenza di un'individualit permanente un capolavoro
d'ingegnosit, ma non dovrebbe accecarci al punto da non farci capire che
l'Atman permanente dei Brahmani non era assolutamente un'individualit.
Si pu concedere con una certa facilit che il pensiero buddhistico sia molto
pi coerente (uguale a se stesso) di quello delle Upanishad. Le Upanishad sono
il frutto di un lavoro di molte mani che si estende su diversi secoli; tra i
loro autori ci sono sia poeti che pensatori. Il Dhamma buddhistico proclama di
essere l'enunciazione di un singolo razionalista e di avere un unico sapore.
Gautama espone un credo e un sistema, ed preponderantemente a questo fatto che
fu dovuto il successo delle sue attivit missionarie. Le Upanishad non formulano
un credo, sebbene riconducano costantemente al pensiero dell'unit; con
Sankara, o Ramanuja, e non con gli autori delle Upanishad, che dobbiamo
confrontare Gautama, se vogliamo trovare un contrasto tra due consistenze dello
stesso peso.
Nessuno vuol asserire che le Upanishad espongano un credo unitario. Ma la
spiegazione delle loro discontinuit storica, e lascia la verit delle loro
conclusioni ultime completamente intatta. Il Dhamma di Gautama tende a
presentarsi come il lavoro di un singolo individuo e allora sarebbe molto strano
se non riuscisse a mantenere la propria coerenza; le Upanishad sono il lavoro di
molte menti, e l'insieme di molti pensieri. In altre parole, la letteratura del
pensiero indiano, escludendo il Buddhismo com'esso interpretato dai Buddhisti,
mostra uno sviluppo continuo e non conosce crisi acute; o piuttosto, le crisi
reali - come la riconduzione di tutte le divinit ad una sola, e lo sviluppo
delle dottrine di emancipazione e trasmigrazione - non sono determinate da nomi
e date, non sono state annunciate come il Dharma di un Maestro specifico, e si
possono individuare solo a posteriori. Si tratta piuttosto di un processo
graduale di "pensiero ad alta voce", nel corso del quale, spogliando il S dai
veli della contingenza, uno dopo l'altro, alla fine non resta che l'Abisso che
"non cos, non cos", il "terreno" [o "substrato"] dell'unit. Si arriva
dall'animismo all'idealismo con uno sviluppo lineare, ed per questa ragione
che si incontrano le terminologie originarie rivestite pi tardi di un nuovo
significato; inoltre i vecchi strati persistono al di sotto delle nuove
esposizioni, e cos non sono solo i termini originari, ma anche i pensieri
originari, che persistono nel grande complesso che viene definito Brahmanesimo.
Ma ci non significa che i pi elevati tra questi pensieri siano primitivi,
significa solo che la continuit storica di pensiero conservata nel sistema

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finale, e che il sistema adattato all'intelligenza di menti diverse. Sankara,


scrivendo molto dopo, e guardando indietro, all'andamento che tale sviluppo
aveva seguto, percep chiaramente questa complessit di pensiero nelle
Upanishad e spieg le loro discontinuit ed apparenti contraddizioni con la
brillante generalizzazione che divide gli insegnamenti scritti in verit
assoluta o esoterica (para vidya), e verit relative o exoteriche (apara vidya).
Con questa chiave di interpretazione nelle nostre mani possiamo guardare
l'intera letteratura upanishadica come un processo di pensiero, che culmina in
alcune formule ben definite, e possiamo distinguere la natura poetica e
simbolica di molti altri passaggi che non si riferiscono in modo minore alla
verit, ma ne parlano per mezzo di parabole. Le necessit della controversia
possono aver impedito ai Buddhisti originari di considerare in tutta la loro
estensione gli insegnamenti dei loro "avversari", o forse era veramente
impossibile, anche con la miglior buona volont, sintetizzare cos presto e cos
vicino al momento del suo sviluppo, l'intero corpo della speculazione indiana.
Comunque siano andate le cose, troviamo che di fatto il pensiero essenziale
delle Upanishad non mai compreso dai Buddhisti delle origini, ed solo
qualche volta oscuramente intravisto dagli esponenti moderni del Buddhismo.
Nel Buddhismo si pone un forte accento sulla dottrina del giusto mezzo, sia dal
punto di vista etico che della verit. Nel secondo caso , come prevedibile,
solo il mondo fenomenico che messo in discussione: Gautama ripudia le due
posizioni estreme, che ogni cosa , e che niente , e vi sostituisce il pensiero
che esiste solo un divenire. E doveroso dire, di Gautama, che il concetto
astratto della causalit in quanto principio fondamentale del mondo fenomenico
stato da lui pi fermamente affermato e pi chiaramente messo in evidenza di
come sia stato fatto nelle prime Upanishad; nonostante ci il pensiero e la
parola "divenire" sono comuni ad entrambi, ed entrambi concordano nel dire che
solo il Nibbana, o il Brahman (secondo la loro rispettiva fraseologia) libero
da questo divenire, che governa il mondo e che la caratteristica
dell'esistenza organica. Una differenza di prospettiva appare invece nel fatto
che il Buddha soddisfatto di questa conclusione, e condanna qualsiasi
ulteriore speculazione come inutile; la conseguenza di ci che, come Sankara,
egli esclude per sempre una riconciliazione dell'eternit e del tempo, della
religione e del mondo inteso in modo profano.
Lo stesso risultato ottenuto in altro modo da quei Vedantisti della scuola di
Sankara che svilupparono la dottrina di Maya in un senso assoluto, a significare
l'assoluta non-entit del mondo fenomenico se confrontato con l'unica realt del
Brahman, che solo . Questa una delle due posizioni estreme giustamente
rifiutate da Gautama, ma in rapporto a questo punto di vista sia Gautama che i
Mayavadini concordano nel rifiutare il mondo irreale del divenire, o perch esso
inseparabile dal male, o semplicemente perch , appunto, irreale.
Sennonch, l'interpretazione del termine Maya con il significato di assoluta
non-entit del mondo fenomenico, se pure appartiene al Vedanta [cosa di cui c'
da dubitare. La concezione dell'assoluta non-entit del mondo fenomenico
assolutamente contraria a molti passi della Brihadaranyaka e della Chandogya,
cos come dei Brahma Sutra, i quali (1, 2) asseriscono che "ogni cosa
Brahman". Non il "mondo", ma l'estensione del mondo in tempo e spazio - la
contrazione e l'identificazione nella variet - che costituisce Maya. Questo
il Vedanta secondo Ramanuja], relativamente tardiva; ed anche nel Rig Veda
troviamo espresso un altro pensiero, in cui l'intero universo identificato con
il "Maschio Eterno", posteriormente riconosciuto come simbolo dell'Atman. La
stessa idea trova molte espressioni nelle Upanishad, in particolare nel detto
"quello sei Tu". Troviamo qui, al posto del pensiero "non cos, non cos", o a
fianco di esso, la considerazione, ugualmente giusta, di pensiero totalizzante
che non c' nulla che non sia Brahman; quel Brahman che non Nulla (No Thing =
nessuna cosa), e nel contempo Tutto (All Things = tutte le cose). Bandire il
mondo del divenire come una semplice non-entit, un falso estremo, com'
giustamente fatto notare sia da Gautama, sia nell'Isa Upanishad, 12. E vero che
le cose non hanno esistenza propria in quanto tali, perch il divenire non si
ferma mai; ma il processo del divenire non pu essere negato, e siccome non pu
avere un inizio, non pu neppure avere una fine.
Cos da due diversi punti di vista appare affermata un'inconciliabile
opposizione del divenire e dell'Essere, del samsara e del Nirvana, questo e
Quello. Al disopra di questi estremi si presenta un'altra Dottrina del Mezzo, la

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quale interamente distinta da quella di Gautama; questi asserisce che


semplicemente il divenire a essere il marchio di questo mondo, quella assume che
anche l'Essere e il Non-essere lo sono. Quest'altra Via del Mezzo afferma che a
sussistere la Sola Realt, il Brahman, che per, insieme, Essere e
Non-essere: non semplicemente in quanto l'inesprimibile, ma altres come ci di
cui la nostra espressione , e deve essere, imperfetta e incompleta.
In realt ci sono due forme di Brahman, cio:
"Il formale e l'Informale, il mortale e l'Immortale,
il Costante e il mobile, l'Essere e l'Oltre".
I1 Brahman non solamente nirguna, "in nessun modo", ma anche sarvaguna, "in
tutti i modi"; e quest'ultimo si libera - raggiunge il Nirvana - conosce il
Brahman -, vede che sono uno e lo stesso, e che i due mondi sono uno.
La realt empirica (apara vidya) non quindi falsa in modo assoluto, ma solo
relativamente vera, mentre la verit assoluta (para vidya) abbraccia e riassume
ogni verit relativa; visto dal punto della nostra conoscenza empirica
veramente il reale che riflesso attraverso le porte d'entrata dei nostri
cinque o sei sensi, ed assume le forme della nostra immaginazione. Il mondo
fenomenico qui non senza significato, ma ha appena il significato che il grado
della nostra illuminazione ci permette di scoprire in lui. "Se le porte della
percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all'uomo com': infinita".
Da questo punto di vista la dottrina di avidya, o Maya, ignoranza o illusione,
non afferma e non deve affermare l'assoluta non-entit e insignificanza del
mondo, ma semplicemente che noi lo vediamo empiricamente, esteso negli ordini di
spazio, tempo e causalit, e perci non ha un'esistenza statica come una cosa in
se stessa: la nostra visione parziale falsa in quanto, ma soltanto in quanto,
parziale.
Nel Buddhismo questa posizione nascosta, e cos pure nel sistema di Sankara,
per l'importanza che data al fatto che il divenire uno stato da ripudiare; e
questa prospettiva metodologica, che trova una logica espressione nel
monachesimo e nel puritanesimo, ha attratto in modo troppo esclusivo
l'attenzione degli studiosi moderni. Troppo esclusivo, perch non questo modo
che pu dare, e d, la chiave dello sviluppo storico della cultura indiana, ma
la dottrina dell'identit di questo mondo e di Quello, dottrina la cui pi
notevole caratteristica appare essere un'intellezione generale
dell'indivisibilit del sensibile e dello spirituale.
Un'altra Via del Mezzo, di tipo etico, esposta da Gautama come via mediana tra
gli estremi dell'automortificazione e del permissivismo. Ma anche qui bisogna
riconoscere che non si tratta veramente di una via mediana, e che essa resta,
mettendo in contrasto lo stato luminoso del pellegrino con quello oscuro del
padre di famiglia, se non morbosamente ascetica, comunque inequivocabilmente una
regola di astensione piuttosto che di moderazione. Certe azioni e certi ambienti
sono condannati come cattivi in s. Gautama prova difficolt a prendere in
considerazione la possibilit che la liberazione possa essere ottenuta anche da
chi ancora impegnato in attivit mondane, o che questa libert debba dipendere
piuttosto dall'assenza di motivazione che dall'assenza di attivit; lo Jnana
Marga per lui l'unica via.
[nota: Non solamente egli non si accorge che il desiderio di evitare dukkha
gi in se stesso un desiderio, e come tale un ostacolo, ma ancora meno si rende
conto che la paura del piacere - anche se sopravviene senza essere ricercata -
un legame ancora pi sottile.]
Oldenberg fa giustamente notare che "nell'atteggiamento generale del Buddha non
c'era niente che potesse essere visto dai suoi contemporanei come inabituale,
[che] egli non dovette introdurre niente di fondamentalmente nuovo; al
contrario, un'innovazione sarebbe stato se egli avesse preso l'iniziativa di
predicare un mezzo di salvezza che non procedesse su una base di regole
monastiche".
[nota: Buddha, traduzione inglese, IIa ediz. (1904), pag. 119. vero che
l'Arahat laico non completamente sconosciuto nel Buddhismo originario (ventuno
sono ricordati nell'Anguttara Nikaya, III, 451, e Suddhodana, il padre di

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Gautama, menzionato in modo particolare), ma l'adempimento dei doveri mondani,


anche se disinteressato, non mai indicato come un mezzo di salvezza.]
La prima espressione sistematica di una simile "innovazione", la cui fonte e
giustificazione si pu ritrovare nella gi antica dottrina dell'identit di
"questo" e "Quello", divenire e Non-divenire, nella Bhagavad Gtta. Le sono
state attribuite diverse date dal 400 a.C. al 200 d.C., ma qualsiasi
rimodellazione essa possa aver subito difficilmente si pu dubitare che il suo
pensiero essenziale non sia il riconoscimento del Karma Yoga e del Bhakti Yoga,
a fianco dello Jnana Yoga, come "mezzi" di salvezza:
"E con le opere che Janaka e altri sono divenuti Adepti; anche tu devi
eseguirle, in considerazione dell'ordine del mondo... come fa l'ignorante, che
d importanza alle opere, cos deve fare il Saggio, ma senza attaccamento,
cercando di stabilire l'ordine nel mondo".
"Chi scorge la non-attivit nell'attivit e l'attivit nella non-attivit,
uomo di comprensione tra i mortali; egli nella regola, e compie l'attivit
perfetta... libero dall'attaccamento al frutto delle opere, soddisfatto per
sempre, sconfinato, sebbene impegnato nell'azione, egli non agisce affatto".
"Abbandonando tutte le tue azioni a Me, con la mente rivolta all'Uno superiore
al S, sii senza desideri e senza pensiero di un "mio", e, placata la tua
agitazione, impegnati in battaglia".
E cos che anche i laici possono raggiungere la perfetta liberazione, in una
vita sottomessa all'aspirazione, purch l'attivit sia priva di interessi e
riferimenti individuali. Il grado di limitazione insito nei vari ambienti
dipende interamente dalla prospettiva dell'individuo e non dalle buone o cattive
qualit intrinseche delle cose e delle condizioni. La limitazione e la
liberazione si possono trovare ugualmente in casa o nella foresta e non pi o
non meno in uno dei due luoghi; nello stesso modo, ogni cosa sacra (in termini
buddhistici, "vuota"), e questo vale anche per uomini e donne, non meno che per
montagne o foreste. Soprattutto, questa riconciliazione della religione con il
mondo, si manifesta praticamente nell'obbedienza disinteressata all'aspirazione
(sva-Dharma); perch, nonostante questo mondo sia solo un divenire, esso ha un
significato che non pu essere approfondito da chi gli volge la schiena per
sfuggire alle sue pene e per evitare i suoi piaceri.
Precisamente la stessa crisi di cui stiamo parlando ora, e che distingue il
Buddhismo dal Brahmanesimo, avvenne lungo la storia del Brahmanesimo stesso, e
deve, forse, avvenire nella storia di ogni scuola di pensiero che raggiunga il
suo pieno sviluppo. Si era sostenuto fra i Brahmani, come anche Gautama aveva
per un certo tempo affermato, che la salvezza dev'essere cercata nella penitenza
(tapas) e nella vita da eremita. Gautama non introdusse alcun cambiamento
radicale insistendo semplicemente sulla futilit del portare queste discipline
ad eccessi morbosi.
[nota: Forse dovremmo dire assolutamente nessun cambiamento, perch sarebbe
difficile indicare qualche antico o importante testo brahmanico che patrocini
una disciplina mentale e morale pi severa di quella dei Fratelli buddhisti; al
contrario, le Upanishad insistono costantemente che la salvezza si ottiene con
la sola conoscenza, e che tutto il resto semplice preliminare. Il frutto
dell'ascetismo in quanto tale, come di tutte le altre azioni, in se stesso
limitato: "Da una verit, o Gargi", dice Yajnavalkhya, egli stesso eremita, "chi
non conosce questo Uno imperituro, anche se distribuisse elemosine e praticasse
penitenze (tapas tapyate) in questo mondo per mille anni, non otterrebbe che un
bene limitato". Brihadararyaka Upanishad, 3, 8,10.]
Ma negli ambienti brahmanici, quel vasto movimento di pensiero di cui Gautama
rivela solo una singola fase e un singolo stadio, culmina in una teoria molto
diversa di tapas, che espressa come segue nel Manava Dharma-sastra:
"Il tapas del Brahmano lo studio concentrato; dello Kshattriya, la protezione
del debole; del Vaishya, il commercio e l'agricoltura; dello Sudra, il servizio
degli altri... Per il Brahmano, tapas e vidya, l'abnegazione e la saggezza, sono
gli unici mezzi intesi allo scopo finale".
Questa semplicemente un'altra versione della dottrina dell'aspirazione alla
quale abbiamo gi fatto riferimento. perfettamente vero che pi penetriamo in
profondit il pensiero buddhistico e brahmanico, meno possibile separarli. Se,

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ad esempio, immaginiamo posta a un Maestro di entrambe le tradizioni la domanda:


"Cosa devo fare per avere la salvezza?", la risposta sar la stessa: che in
realt quella salvezza consiste nel superare l'illusione che esista qualcosa
come l'ego - l'"io" -, ed il mezzo per ottenere questa salvezza sar descritto
come il superamento dei desideri. E queste sono certo anche le risposte di
Cristo e di tutti gli altri grandi Maestri: Chi perde la sua vita, la salver;
la Tua volont, non la mia. E solo quando si proceda a formulare una disciplina,
che sorgono le differenze, ed allora che l'idiosincrasia del Maestro in quanto
individuo diventa pi evidente. Il programma di Gautama dell'Ottuplice Via degli
Ariya, come uno schema completo, universale solo nel senso che in tutti i
paesi e in tutte le epoche si possono trovare individui di temperamento
razionalistico ed ascetico analogo al suo. Se paragoniamo il Buddhismo
originario a una "Zattera Minore", allora dobbiamo correttamente parlare del
Brahmanesimo e del "Mahayana" come di un "Vascello Maggiore"; ciascuno porta il
viaggiatore al porto desiderato, ma la nave pi grossa provvede alle necessit
di una maggiore variet di uomini. E qui che bisogna cercare la spiegazione di
quella "vittoria" finale dell'Induismo e del Mahayana, che gli esponenti del
Buddhismo originario e delle "pure tradizioni del Veda" sono concordi nel
considerare una decadenza verso la superstizione e il sacerdotalismo.
E stato, ed sempre rimasto in certo qual modo un principio del Brahmanesimo,
impartire gli insegnamenti pi elevati solo in successione discepolare a coloro
che si mostravano qualificati per riceverla. Il fatto che Gautama ignorasse la
posizione atmanista pu dimostrare che a quell'epoca la dottrina dell'Atman era
ancora una verit esoterica conosciuta solo da pochi. Gautama, d'altra parte,
mentre rifiutava di rispondere ad insolubili problemi escatologici e metafisici,
dice espressamente di non tenere nascosta una dottrina esoterica; tutti i suoi
discorsi erano pronunciati in pubblico, ed accessibili anche a laici e donne.
Non riservava solo alle caste dei "due-volte-nati" il diritto di entrare nel
dominio dello spirito, e la stima stata fatta che circa un dieci per cento dei
Fratelli era "di casta inferiore"; per lui, l'unico vero Brahmano l'uomo che
eccelle in saggezza e bont.
Su queste basi si sostiene talvolta che Gautama fu un riuscito riformatore
sociale che ruppe le catene della casta e conquist un posto nel regno dello
spirito per il povero e l'umile. Ma questo modo di considerare la missione di
Gautama, il cui regno, come quello di Ges, non era di questo mondo,
antistorico. Se Gautama fosse stato qualcuno che cercava di migliorare il mondo
con il buon governo, e di assicurare i loro giusti diritti ai poveri e agli
umili, non avrebbe lasciato il suo regno per divenire un pellegrino errante, non
avrebbe preferito la condizione di Maestro a quella di principe potente; non ci
sarebbe stato bisogno della "grande rinuncia", e la storia avrebbe ricordato un
altro Asoka il quale avrebbe realizzato l'ideale di un Dharmaraja terrestre come
Rama. Ma Gautama, quando vide il malato e il moribondo, non pens che la
sofferenza fosse dovuta a cause esterne, o che potesse essere alleviata
migliorando l'ordine sociale; vide che la sofferenza era legata all'affermazione
dell'ego nella natura umana, e quindi non insegn nient'altro che una disciplina
mentale e morale finalizzata a estirpare il concetto di un "io". Risulta fin
troppo chiaro che Gautama considera lo stato del mondo come irrimediabilmente
senza speranza; ma mentre la verit di ci, che i Brahmani stessi percepivano,
in certo qual senso irrefutabile, sono i Brahmani (che pure erano coscienti
della relativit di qualsiasi etica), e non Gautama, ad aver visto un profondo
significato nel mantenimento dell'ordine nel mondo, considerandolo una scuola
alla quale l'ignoranza pu essere gradualmente dissipata. Sono loro che si
occuparono dello sviluppo di una societ ideale, che anticiparono nelle utopie
di Valmiki, Vyasa, e Manu. Se un Buddhista avesse fatto notare ad un pensatore
brahmano l'impossibilit di stabilire un periodo di buon governo e prosperit,
questi avrebbe risposto che trovava una ragione per tentarlo nel compito stesso,
e non nella sua riuscita.
Errata pure la supposizione che Gautama possa aver rotto le catene della
casta; perch, nonostante quegli abili artigiani, gli utopisti brahmanici a cui
ci siamo riferiti, fossero gi al lavoro, le cosiddette catene non erano ancora
neppure state forgiate. Il sistema delle caste come esiste attualmente una
specie di "socialismo di gilde" retto da leggi teocratiche e associato
all'eugenetica; ogni casta si governa da s, internamente democratica, ed ha
la sua norma propria (Svadharma). Non occorre qui discutere del merito o del

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demerito di un tale sistema; quel che si deve comprendere che ai tempi di


Gautama il sistema non era ancora consolidato. Ci che gi esisteva era una
classificazione degli uomini, basata sulle loro caratteristiche, in "quattro
varna", o colori; ognuno di essi includeva molti gruppi, che in seguito si
cristallizzarono in caste separate. Inoltre, in quell'epoca la posizione dei
Brahmani come capi della societ non era ancora ben salda; non possiamo
considerare le indicazioni degli utopisti brahmanici come se fossero storiche, e
sembrerebbe che la condizione dei Brahmani all'epoca di Gautama fosse un po'
inferiore a quella degli Kshattriya. In ogni caso, a Magadha il rango
intellettuale dei secondi sufficientemente illustrato dalle loro opere, come
la formulazione della dottrina dell'Atman, l'istituzione dei monaci erranti, la
dottrina dell'An-atta di Gautama, gli insegnamenti di Mahavira, e cos via.
Nonostante questo, chiaro che i Brahmani avevano pretese a una superiorit
intellettuale ed etica; e nessuno che abbia qualche conoscenza della storia
indiana pu dubitare che in India i Brahmani di nascita abbiano meritato in
larga parte, per il loro carattere e le loro opere, il rispetto con cui sono
sempre stati trattati; facile criticare, come fece Gautama, il modo empirico
di determinare l'appartenenza alla casta dei Brahmani per nascita, ma questo era
il metodo pi pratico che si potesse trovare, e il mondo deve ancora scoprire un
modo migliore per assicurarsi in tutte le sue vicende la guida dei pi saggi.
Gautama non offre nessuna alternativa alla dottrina dell'appartenenza alla casta
brahmanica per nascita, considerata come la soluzione di un problema sociale, il
mezzo per preservare un particolare tipo di alta cultura. Egli riusciva ad
ignorare questo problema, solo perch desiderava che tutti gli uomini superiori
"errassero solitari".
Allo stesso tempo, Gautama non fu il solo a ricorrere a un'interpretazione del
termine Brahmano in senso puramente etico; lo stesso uso si trova nella
Brihadaranyaka Upanishad (III, 5, 1) pre-buddhistica ed altrove. Anche dove,
come nella Legge di Manu, la dottrina dello stato di Brahmano per nascita data
per scontata, troviamo detto che il Brahmano nato solo per il Dharma, e non
per le ricchezze o i piaceri; mentre il (posteriore) Markandeya Purana
stabilisce che al Brahmano non sia permesso di fare nulla "per ricerca della
soddisfazione". E per quanto riguarda l'altro punto, cio il diritto delle
classi inferiori ad avere una parte nel regno dello spirito, questo non fu
assolutamente affermato da Gautama per primo, n egli fu il solo a dirlo; nel
Samanna-phala Sutta, ad esempio, si attesta che le organizzazioni tradizionali
gi esistenti al tempo di Gautama e non fondate da lui ammettevano anche schiavi
nelle loro file, e in molti altri sutta buddhistici sono menzionati Sudra che
divennero pellegrini, come se questo fosse un uso comune e debitamente
riconosciuto. Se i Brahmani erano attenti ad escludere le classi incolte
dall'audizione dei Veda che essi ripetevano e insegnavano, ci si applicava a
quasi tutta l'antica letteratura vedica, nei suoi aspetti sacerdotali e magici;
sebbene sia possibile che la dottrina dell'Atman fosse conosciuta da pochi ai
tempi di Gautama (ed un fatto naturale che tali dottrine debbano rimanere a
lungo nelle mani di pochi), in tutti i casi l'opposizione brahmanica
all'iniziazione dei Sudra non si estende alle Upanishad, che costituiscono
quella parte del Veda che basta da sola per ottenere la liberazione. Comunque
sia, dobbiamo considerare che gli stessi Brahmani, per mezzo dei poemi epici
(specialmente la Bhagavad Gita ) e i Purana, intrapresero e compirono
spontaneamente quell'educazione dell'intero popolo indiano, donne comprese, che
ha reso quest'ultimo, dal punto di vista del carattere e della cortesia, se non
dell'apprendimento tecnico della lettura e della scrittura, la razza pi colta
ed educata del mondo. Paragonando il Buddhismo (cio, l'insegnamento di Gautama)
con il Brahmanesimo, dobbiamo quindi comprendere, e tener sempre conto, della
differenza del problema che si cercava di risolvere. Gautama si occupa solo ed
esclusivamente della salvezza; anche i Brahmani vedono in quel summum bonum il
significato ultimo di ogni esistenza, ma essi tengono conto anche delle cose di
importanza relativa; la loro una forma tradizionale sia dell'Eternit che del
Tempo, mentre Gautama ha in vista solo l'Eternit. Non veramente giusto, sia
per Gautama sia per i Brahmani, comparare i loro Dharma rispettivi; perch essi
si propongono di coprire terreni diversi. Dobbiamo piuttosto paragonare l'ideale
etico buddhistico con l'(identico) modello del Brahmanesimo, che si applica ai
Brahmani di nascita; dobbiamo comparare il sistema monastico buddhistico con gli
ordini brahmanici; la dottrina dell'anatta con la dottrina dell'Atman, ed allora

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troveremo identit. Ma se gli esponenti del Buddhismo insistono nel limitare il


contenuto del Buddhismo a ci che insegnato da Gautama, dobbiamo far notare
che questo un ideale ristretto, che sta in rapporto al Brahmanesimo come una
parte sta al tutto; Vijnana Bhikshu avrebbe potuto considerare il Buddhismo come
un "settimo darsana".
Esattamente come per la storia dei vari darsana brahmanici, cos per il
Buddhismo come setta, resta ancora molto da fare in quanto a elucidazioni
storiche, esegesi e interpretazione. Ma c' un lavoro ancora pi importante che
finora stato solo intravisto: uno studio storico coordinato del pensiero
indiano come insieme organico. Cos come ora vediamo chiaramente che
l'architettura indiana non pu essere divisa in stili su una base settaria,
perch sempre prima di tutto indiana, cos avviene per il pensiero filosofico
e religioso. Non esiste una vera opposizione tra Buddhismo e Brahmanesimo, ma un
movimento continuo a partire dalle origini, o molti movimenti strettamente
ricollegati tra di loro. L'integralit del pensiero indiano, comunque, non
sarebbe compromessa se se ne omettesse ogni elemento specificamente buddhistico;
dovremmo solo dire che alcuni dettagli sono stati elaborati meno adeguatamente o
senza dar loro molta importanza. Ad alcuni Buddhisti si potrebbero raccomandare
le parole di Asoka:
"Chi onora la propria tradizione e disprezza le tradizioni degli altri
unicamente per attaccamento alla sua, e con l'intento di elevare lo splendore
della sua propria tradizione, in realt con una simile condotta infligge il
peggior danno proprio alla sua. La concordia, dunque, meritoria; il che
significa, cio, ascoltare, ed ascoltare volentieri, la legge della piet
riconosciuta da un altro popolo".
Riassumendo: Gautama non enuncia la concezione della liberazione come uno stato
indipendente dall'ambiente e dalla vocazione; l'unit del suo sistema, come di
quello di Haeckel, si ottiene solo non tenendo conto dell'inesprimibile; nella
maggior parte dei suoi princpi fondamentali egli non differisce dagli
Atmanisti, sebbene esponga una concezione molto pi chiara della legge di
causalit come caratteristica essenziale del mondo del divenire. La maggior
parte della sua polemica, per, poggia su un equivoco. Implicita nel pensiero
brahmanico gi fin dagli inizi, d'altra parte, e costituente gli aspetti pi
marcati della dottrina ind posteriore - esposta anche nel Mahayana, ma con
maggiore difficolt - la convinzione che l'ignoranza mantenuta solo a causa
dell'attaccamento, e non con azioni senza desiderio e riferimenti individuali; e
la convinzione che questo e Quel mondo, divenire ed Essere, sono visti come uno
da coloro la cui ignoranza distrutta. In questa identificazione si effettua
una riconciliazione della via tradizionale con il mondo che invece rimase fuori
della portata dei Buddhisti Theravada. Le distinzioni tra il Buddhismo
originario ed il Brahmanesimo, anche se importanti per le loro conseguenze
pratiche, sono pi che altro dovute a questioni di temperamento;
fondamentalmente c' completo accordo sul fatto che la schiavit consiste nel
pensiero di "io" e "mio", e che questa schiavit pu essere abolita solo da
colui i cui desideri siano totalmente estinti.
[nota: Chi pretende che il Buddha non insegni l'estinzione del desiderio non gli
rende giustizia. Anche Nietzsche insegna un nishkama Dharma dicendo: "Allora
dovrei sforzarmi per la felicit? Io mi sforzo per il mio lavoro!"]
Per tutto ci che essenziale il Buddhismo e il Brahmanesimo formano un sistema
unico.

Parte quarta - Il Mahayana


I - Le origini del Mahayana
Un primo concilio buddhistico fu riunito sotto il regno di Asoka - circa 240
a.C. - con lo scopo di dirimere le dispute tra i diversi gruppi. E evidente che
erano gi sorte eresie, perch certi Editti di Asoka riguardano la radiazione di
scismatici; e, naturalmente, sappiamo che eresie erano gi in corso durante la

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vita del Buddha stesso. Con il passare del tempo vediamo che si svilupparono
numerose frazioni, che pretendevano tutte di essere seguaci della vera dottrina,
esattamente come nel caso del Cristianesimo e di ogni altra grande fede. Le
divisioni buddhistiche sono ripartite in due raggruppamenti principali: quelli
dello Hinayana ("la Piccola Zattera") e del Mahayana ("la Grande Zattera"). Il
primo, le cui scritture sono conservate in pali, pretende di rappresentare
l'insegnamento puro ed originario di Gautama, e in maggioranza conserva i suoi
aspetti razionalistici, monastici e puritani in modo molto marcato; il secondo,
le cui scritture sono in sanscrito, interpreta la dottrina in un altro modo, con
uno sviluppo metafisico, teologico e rituale. Lo Hinayana ha mantenuto la sua
supremazia principalmente nel Sud, in particolare a Ceylon e in Birmania; il
Mahayana principalmente nel Nord, in Nepal e in Cina. Ma inesatto parlare
delle due scuole come nettamente settentrionale e meridionale. Ricordiamo che
secondo lo Hinayana ortodosso, Gautama era originariamente un uomo come gli
altri, e differiva dagli altri solo per la sua penetrazione intuitiva del
segreto della vita e del dolore, per la sua percezione delle cose come esse sono
realmente, un continuo divenire; con questa conoscenza egli raggiunse il
Nibbana, e si estinsero per lui le cause di rinascita. Altri uomini, a cui la
via stata indicata dal Buddha o dai suoi discepoli, possono arrivare
all'Arahatta e al Nibbana, ma non sono considerati Buddha, n affermato che
ogni creatura possa raggiungere infine la condizione di Buddha. E proibita ogni
speculazione per stabilire se il Buddha e gli Arahat esistano o no dopo la morte
del corpo. Se ora esaminiamo le scritture canoniche come un tutto, - redatte in
pali nell'80 a.C. - troveremo che esse includono certi elementi che sono pi o
meno concordi con la pura dottrina intellettuale che sembra aver formato il
Dhamma estremamente coerente di Gautama stesso. Nel dialogo di Pasenadi, re del
Kosala, con la monaca Khema, dialogo il cui argomento lo stato di Buddha dopo
la morte, troviamo:
"O grande re, il Perfetto liberato da tutto ci, tanto che il suo essere non
pu pi essere valutato con misure terrestri: profondo, non misurabile,
inimmaginabile come il grande oceano". Ci suggerisce quindi che
l'indeterminato, l'irregistrabile, che qualcosa di diverso dal divenire,
ancora, sebbene al di l della nostra conoscenza o comprensione. Secondo
un'altra prospettiva, rispondendo alla domanda: Che genere di essere un
Buddha? Si dice che Gautama stesso abbia risposto che non n un Deva, n un
Gandharva, n uno Yakkha, n un uomo, ma un Buddha. Si pu solo comprendere
che un Buddha non dev'essere considerato un uomo ordinario; comunque sia si vede
qui apparire chiaramente un'apertura per la successiva dottrina del Mahayana sul
corpo di trasformazione.
Troviamo nuovamente (nell'Udnaa, VIII, 3) il passo seguente, che suona pi come
un detto brahmanico che buddhistico:
"C', o Bhikkhu, qualcuno che non nato, che senza origine, increato, non
formato. Se non ci fosse, o Bhikkhu, questo Essere non nato, senza origine,
increato, non formato, non ci sarebbe modo di sfuggire dal mondo dove si nasce,
si ha origine, si creati, e formati".
Si pu anche notare che la pi definita ed universale professione di fede del
Buddhista o convertito suona cos:
"Mi rifugio nel Buddha, nel Dhamma, e nel Sangha" (collettivamente, i "tre
gioielli").
[nota: La dottrina devozionale si presenta anche in un'altra forma, nella quale
quasi con le stesse parole della Bhagavad Gita, si riferisce che Gautama abbia
detto, di chi non ancora entrato nelle vie, che " sicuro del paradiso se ha
amore e fede in Me". Majjhima Nikaya, 22.]
Non c' dubbio che questa formula sia stata usata per la prima volta durante la
vita di Gautama, la cui persona poteva sembrare, a chi era stanco del mondo, un
porto di rifugio non meno della dottrina e dell'Ordine. Ma dopo la sua morte,
cosa potevano significare le parole "mi rifugio nel Buddha" per un laico o per i
pi critici fra i Fratelli? Non poteva significare la dottrina del Buddha,
perch menzionata separatamente. Quelle donne ed altre persone che vediamo nei
bassorilievi di Sanchi e Amaravati, che si prostrano con appassionata devozione
e con offerte di fiori davanti a un altare, su cui il Buddha rappresentato con
i simboli delle impronte dei piedi e dell'Albero della Sapienza, cosa significa

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per loro rifugiarsi nel Buddha? Questa frase, da sola, deve aver agito con il
potere sottile della suggestione ipnotica per convincere l'adoratore - e la
maggior parte degli uomini sono adoratori pi che pensatori per natura - che il
Buddha era ancora e che qualche relazione, anche se solo vagamente immaginata,
poteva stabilirsi tra l'adoratore e Colui-che-ha-raggiunto-ci. stata, quasi
certamente, la crescita di questa convinzione che ha determinato lo sviluppo
dell'iconolatria buddhistica e di tutta la teologia mistica del Mahayana.
l'elemento dell'adorazione che ha trasformato il sistema monastico di Gautama in
una religione mondiale.
Nella letteratura buddhistica originaria la parola "Buddha" non ancora usata
in senso tecnico: Gautama non parla mai di s come del "Buddha", e quando altri
lo fanno il termine significa solo l'Illuminato, il Risvegliato. Il Buddha
solo il pi saggio e il pi grande degli Arahat. Nel corso del tempo il termine
assunse un significato pi specialistico, che indicava un particolare tipo di
essere, mentre il termine Bodhisatta, o Essere di saggezza, usato da Gautama tra
l'entrata nella Via e il raggiungimento del Nibbana, giunse a significare un
destinato-a-diventare-un-Buddha, qualsiasi essere destinato a diventare un
Buddha in questa o in una futura vita. Questa dottrina del Bodhisatta
sviluppata per esteso nel libro dei 550 Jataka, o Storie delle vite, che narrano
le storie didattiche dell'esistenza anteriore di Gautama come uomo, animale, o
essere fatato. Quando il Brahmano Sumedha rifiuta il pensiero di attraversare da
solo il mare del divenire, e pronuncia il voto di raggiungere l'onniscienza, in
modo da poter condurre anche altri uomini, e divinit, attraverso questo mare,
parla gi nel senso del Mahayana. Associata alla dottrina del Bodhisatta anche
quella dei Buddha precedenti, i quali sono debitamente nominati nel Mahapadana
Sutta, ed i dettagli delle loro vite sono esposti secondo una formula fissa; il
loro numero di tre o sette, o, secondo un conto posteriore, ventiquattro. Dei
Buddha futuri menzionato solo il Bodhisatta Metteya, la personificazione della
benevolenza, nel Milinda Panha, che leggermente posteriore rispetto alle
scritture canoniche.
E possibile che i primi tre Buddha che si dice siano apparsi nel ciclo attuale,
ma molto tempo fa, rappresentino un ricordo di Maestri reali anteriori al
Buddha. In ogni caso, la teoria che tutti i Buddha insegnino la stessa dottrina
di considerevole interesse, e corrisponde alla prospettiva brahmanica
dell'eternit dei Veda, che sono uditi, pi che inventati, da Maestri
successivi. Questa credenza nell'unit eterna della verit, che comune agli
Indiani di diverse organizzazioni tradizionali, di grande importanza.
Senza riferirci in maggior dettaglio agli elementi mitologici e magici che sono
contenuti anche nella prima letteratura del Buddha, baster far notare che
questa letteratura contiene gi, come parzialmente indicato in precedenza, i
germi della maggior parte di quelle dottrine che sono elaborate, in modo di gran
lunga pi ampio, nei dogmi della "Grande Zattera". Lo sviluppo di questa
religione a partire dalla base della psicologia del Buddhismo originario,
quasi parallelo allo sviluppo dell'Induismo medioevale a partire dalla base
dell'idealismo puro delle Upanishad.
II - Il sistema del Mahayana
Le plus saint, c'est le plus amant.
Ruysbroeck
Il Mahayana, o Grande Veicolo [Vessel = nave, vascello; anche = vaso, coppa],
chiamato cos dai suoi aderenti, in contrasto con lo Hinayana, o Piccolo Veicolo
del Buddhismo originario, perch il primo offre a tutti gli esseri di tutti i
mondi la salvezza con la fede e l'amore, oltrech con la conoscenza, mentre il
secondo serve ad accompagnare sul tempestoso mare del divenire fino all'altra
riva del Nibbana quelle poche anime forti che non ricercano un aiuto spirituale
esterno o la consolazione dell'adorazione. Lo Hinayana, come la "via non
tracciata" di coloro che cercano il "nirguna Brahman", terribilmente
difficile; mentre il carico del Mahayana leggero, e non richiede che un uomo
debba rinunciare immediatamente al mondo e a tutti gli affetti dell'umanit. La
manifestazione del Corpo della Legge, dice il Mahayana, adattata alle varie
necessit dei figli di Buddha; mentre lo Hinayana solo ad uso di coloro che

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hanno gi lasciato la loro infanzia spirituale dietro di s. Lo Hinayana pone


l'accento sulla necessit della conoscenza salvatrice, e mira all'affrancamento
dall'individualit, rifiutando di sviluppare il mistero del Nibbana in senso
positivo; il Mahayana d invece maggior rilievo all'amore e mira alla salvezza
di ogni essere sensibile; esso trova nel Ninvana la Realt Una, che "vuota"
solo nel senso che libera dalle limitazioni di ogni fase dell'esperienza
contingente e limitata di cui abbiamo una conoscenza empirica. I Buddhisti della
scuola originaria, d'altra parte, naturalmente non accettano il nome di "Veicolo
Minore", e come autentici Protestanti sollevano obiezioni contro l'accomodamento
della vera dottrina alle necessit della natura umana. Cos vi sono opinioni
discordi nei riguardi del Mahayana, che considerato dagli uni uno sviluppo e
dagli altri una degenerazione. Persino gli esponenti dichiarati dello Hinayana
hanno talvolta i loro dubbi. E cos che in un certo punto dei suoi lavori il
Prof. Rhys Davids parla della dottrina del Bodhisattva come dell'erbaccia birana
che "port la dottrina fuori della Via degli Ariya", e l'erbaccia "non
attraente"; mentre in un punto dei suoi, la Rhys Davids scrive, parlando del
freddo distacco dell'Arahat, che forse "un pi santo Sariputta avrebbe aspirato
a mte ancor pi elevate, magari a un'infinita serie di rinascite, nel corso
delle quali potere, con sempre maggior forza e devozione, lavorare per
l'incremento dell'evoluzione religiosa dei suoi simili", aggiungendo che "gli
ideali sociali e religiosi di fatto evolvono anch'essi, cos da uscire da quella
prospettiva di un'opera definita e condizionata dal tempo che era propria degli
Arahat dell'antichit". Forse non il caso di definire il valore relativo di
ciascuna delle due scuole: la via della conoscenza chiamer a s sempre solo
alcuni, e la via dell'amore e dell'azione gli altri, che sono la maggioranza.
Coloro che sono salvati dalla conoscenza stanno in disparte dal mondo e dalle
sue speranze e timori, offrendo al mondo solo quella stessa conoscenza, che
permetter ad altri di percorrere la stessa via: quegli altri che sono spinti
dal loro amore e sapere all'attivit perpetua - nei quali la volont di vita
morta, ma in cui la volont del potere sopravvive ancora nelle sue forme pi
nobili e impersonali - alla fine raggiungono la stessa mta, e nel frattempo
ottengono una conciliazione della religione con il mondo, e l'unione della
rinuncia con l'azione. Lo sviluppo del Mahayana in effetti un traboccare del
Buddhismo al di fuori dei limiti dell'Ordine, nella vita del mondo; qualsiasi
siano i canali deviati in cui il Buddhismo possa essere sceso alla fine,
dobbiamo forse dire che tale identificazione con la vita del mondo, con tutte le
sue conseguenze in etica ed estetica, sia stata una sfortuna? Pochi di coloro
che conoscono la storia dell'Asia potrebbero sostenere una simile tesi.
I Mahayanisti non hanno esitazioni nel definire l'ideale hinayanico un ideale
egoistico; e noi abbiamo indicato in diversi punti in qual misura esso debba in
ogni caso essere considerato ristretto. Ma i Mahayanisti - per non parlare dei
critici cristiani dello Hinayana - non comprendono sufficientemente che un
essere egoista non avrebbe la possibilit di diventare un Arahat, che deve
essere libero persino dalla concezione di un ego, ed ancora di pi da qualsiasi
forma di autoaffermazione. L'egoismo dell'aspirante Arahat pi apparente che
reale. L'ideale di una realizzazione personale non opposto a quello di
autosacrificio: in uno sviluppo perfettamente armonioso queste tendenze
apparentemente opposte si conciliano. Attuare questa conciliazione, combinare la
rinuncia con la crescita, la conoscenza con l'amore, la calma con l'attivit,
il problema di ogni etica. Abbastanza curiosamente, sebbene la sua soluzione sia
stata spesso tentata dalle tradizioni orientali, nell'Occidente essa non mai
stata cos chiaramente enunciata come dall'"irreligioso" Nietzsche - l'ultimo
dei mistici - il cui ideale del Superuomo unisce la volont di potere (cfr.
pranidhana) alla virt generosa (cfr. karuna ).
Se la via personale del Buddha "per s" ha le apparenze dell'egoismo, possiamo
rispondere che il Grande Uomo non pu rendere ai suoi simili un favore maggiore
di quello della realizzazione dello stato pi elevato del suo essere. Dall'unit
della vita non possiamo fare a meno di dedurre l'identit del (vero) interesse
proprio con il (vero) interesse degli altri. Se allora i Mahayanisti possono
giustamente pretendere che il loro sistema sia certamente un pi grande veicolo
di salvezza nel senso della maggior convenienza, o miglior adattamento ai
bisogni della maggioranza dei viaggiatori, non possono d'altro canto accusare
altrettanto giustamente il capitano e l'equipaggio del battello minore di
egoismo. Chi cerca di raggiungere la riva opposta pu scegliere i mezzi pi

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adeguati ai suoi bisogni: la mta finale una sola, ed sempre la stessa.


La parte pi essenziale del Mahayana la sua insistenza sull'ideale del
Bodhisattva, che sostituisce quello dell'Arahatta, o si situa al di sopra di
esso. Mentre l'Arahat si sforza strenuamente verso il Nirvana, il Bodhisattva
rifiuta con la stessa fermezza di accettare la liberazione finale. "Poich il
disegno che gli esseri sensibili siano tutti liberati, non dimenticher le
creature mie compagne".
Il Bodhisattva colui in cui il bodhicitta, o cuore di saggezza, si
pienamente espanso. In un certo senso, tutti siamo Bodhisattva, e quindi tutti
Buddha, solo che in noi, a causa dell'ignoranza e dell'imperfezione in amore, la
gloria del cuore di saggezza non si ancora manifestata. Ma sono chiamati
specificamente Bodhisattva coloro che con precisa determinazione dedicano tutte
le attivit delle loro vite future e presenti al compito di salvare il mondo.
Essi non solo contemplano, semplicemente, ma sentono, tutto il dolore del mondo,
ed a causa del loro amore non possono rimanere indifferenti, e impegnano le loro
qualit con generosit soprannaturale. Si dice di Gautama Buddha, per esempio,
che non c' angolo sulla terra in cui egli non abbia, in qualche vita passata,
sacrificato la sua vita per amore degli altri, mentre l'intera storia della sua
ultima incarnazione, riportata nel Vessantara Jataka, mostra la stessa
generosit inestinguibile, che non si ritrae neppure davanti alla necessit di
abbandonare la moglie e i figli. Ma una volta che egli ha raggiunto lo stato di
Buddha, secondo la vecchia scuola, sono gli altri che devono lavorare da soli
per la loro salvezza: "Siate lampade per voi stessi", sono le ultime parole di
Gautama. Secondo il Mahayana, comunque, anche il raggiungimento dello stato di
Buddha non implica indifferenza verso il dolore del mondo; il lavoro di
salvazione perseguito in continuazione attraverso le emanazioni dei
Bodhisattva dai Buddha supremi, cos come il lavoro del Padre fatto da Ges.
I Bodhisattva sono in modo particolare distinti dagli Sravaka (Arahat) e dai
Pacceka-Buddha, o "Buddha-per-s", che sono diventati seguaci del Buddha "per
ottenere il loro proprio Nirvana completo": mentre i Bodhisattva entrano nella
Via "a cagione della loro compassione per il mondo, per il beneficio, il
completamento e la felicit del mondo in generale, sia Dei sia uomini, a cagione
del Nirvana completo di tutti gli esseri... Per questo sono chiamati Bodhisattva
Mahasattva".
[nota: Gli Ind esprimerebbero questo dicendo che gli Sravaka e i Pacceka-Buddha
hanno scelto la via della salvezza immediata: i Bodhisattva quella della
salvezza completa. "La via della liberazione differita e la via di tutti i
Bhakhta. la via della compassione o del servizio". P. N. Sinha, Commentary on
the Bhagavata Purana, pag. 359.]
Una dottrina collegata in modo particolare con l'ideale del Bodhisattva quella
del parivarta o cessione del merito etico a vantaggio degli altri, che molto
simile a una dottrina dell'espiazione per sostituzione. Mentre nel Buddhismo
originario ribadito che ogni vita interamente separata da tutte le altre
(questa anche una dottrina Jaina, derivata senza dubbio dalla concezione del
Samkhya di una pluralit di Purusha), il Mahayana insiste sull'interdipendenza e
addirittura sull'identit di tutte le vite; questa posizione offre una base
logica alla concezione secondo cui il merito acquisito da uno pu essere
devoluto per il bene degli altri. Questo un aspetto particolarmente attraente
del tardo Buddhismo; troviamo, ad esempio, che chiunque compie una buona azione,
come un'opera di carit o un pellegrinaggio, aggiunge ad essa la preghiera che
il merito possa esserne spartito da tutti gli esseri sensibili.
Si vedr che la dottrina del merito per sostituzione coinvolge l'interpretazione
del karma nel senso primo e pi generale a cui si faceva riferimento
precedentemente. Nessuno vive solo per s, ma deve guardare l'intera creazione
(che geme e lavora con lui) come un'unica vita e quindi come partecipante a uno
stesso karma, al quale ogni individuo contribuisce nel bene o nel male.
Nonostante che dal punto di vista individualistico possa apparir falso e
pericoloso limitare la dottrina della responsabilit puramente individuale, di
fatto cos non : il bene o il male dell'individuo coinvolge anche gli altri e
ci aumenta la sua responsabilit, piuttosto che alleggerirla. Nel karma non c'
alcun mistero: esso semplicemente una fase della legge di causa ed effetto, e
vale tanto per i gruppi e le comunit quanto per gli individui, anche se,

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naturalmente, gli individui non sono comunit. Prendiamo un esempio molto


semplice: se un singolo uomo di stato saggio, con il trattamento generoso di una
razza vinta, si assicura la lealt di quest'ultima per un futuro momento di
tensione, quel karma non si accumula semplicemente per lui stesso, ma per sempre
e per tutto lo stato; ed altri membri della comunit, anche quelli che si
fossero comportati ingenerosamente in prima istanza, beneficiano innegabilmente
del merito delegato di un singolo uomo. Proprio in questo stesso senso
possibile per anime eroiche portare e condividere il fardello dell'umanit. Con
questa concezione dell'assumere su di s un peccato altrui, o meglio, del
passaggio di un merito ad un altro, il Mahayana emerso definitivamente dalla
formula di isolamento psichico che lo Hinayana eredita dal Samkhya.
In altre parole, la grande difficolt di immaginare un karma particolare che
passa da individuo a individuo, senza neppure la persistenza di un corpo
sottile, evitata con la concezione degli esseri viventi, o meglio di tutto
l'universo, come costituenti una sola vita o s. Cos dai nostri antenati che
riceviamo il nostro karma, e non semplicemente dalle "nostre proprie" esistenze
passate; e qualsiasi karma noi creiamo sar ereditato per sempre dall'umanit.
Un Mahayanista moderno d del karma la seguente spiegazione:
"Le azioni congiunte di tutti gli esseri sensibili generano le variet di monti,
fiumi, paesi, eccetera. Questi sono prodotti da azioni aggregate, e per questo
sono detti frutti aggregati. La nostra vita presente il riflesso delle azioni
passate. Gli uomini considerano questi riflessi come i loro s reali. I loro
occhi, nasi, orecchie, lingue, e corpi - come pure i loro giardini, boschi,
fattorie, residenze, servitori e servitrici - gli uomini immaginano che siano di
loro propriet; ma, di fatto, essi sono solo effetti senza fine prodotti da
azioni innumerevoli. Se risaliamo indietro per ogni cosa fino agli estremi
limiti del passato, non possiamo trovarne un inizio: dunque si dice che la morte
e la vita non hanno inizio. E ugualmente, cercando il limite estremo del futuro,
non possiamo trovarne la fine".
Si pu far notare qui fino a che punto la dottrina del karma sia fatalistica e
allo stesso tempo non lo sia. Essa fatalistica nel senso che il presente
sempre determinato dal passato; ma il futuro rimane libero. Ogni azione che
compiamo dipende da ci che siamo arrivati ad essere in quel momento. Ma ci che
saremo in ogni momento dipende dalla direzione della volont. La legge karmica
asserisce semplicemente che questa direzione non pu essere alterata
improvvisamente con il perdono dei peccati, ma dev'essere cambiata dai nostri
propri sforzi. Anche se il mutamento di volont pare avvenire improvvisamente,
esso pu solo essere dovuto alla fruizione di tendenze accumulate per lungo
tempo (leggiamo spesso che Gautama predic la legge a tale e tal'altra persona
in quanto aveva visto che la sua intelligenza era "pienamente matura", ed in
questi casi ne risulta immediatamente la conversione). Cos, se non siamo
direttamente responsabili delle nostre azioni presenti, siamo sempre
responsabili delle nostre qualit, da cui dipendono le nostre azioni future. Per
questo motivo lo scopo della disciplina morale buddhistica sempre
l'accumulazione del merito (punya), cio della grazia, o semplicemente il
miglioramento delle qualit. I dottori mahayanisti identificano dieci stazioni
nell'evoluzione spirituale del Bodhisattva, cominciando dal primo risveglio del
Cuore di Saggezza (bodhicitta) con il calore della compassione (karuna) e la
luce della conoscenza divina (prajna). Queste "stazioni" sono quelle della
"gioia", della "purezza", della "radianza", dell'"ardore", del "difficile da
raggiungere", del "mostrare il viso", dell'"andar lontano", del "non muoversi in
qua e in l", dell'"intelligenza buona", e della "nube del Dharma". E nella
prima stazione che il Bodhisattva prende le importanti decisioni (pranidhana)
che determinano il corso delle sue vite future. Un esempio di un simile "voto"
la risoluzione di Avalokitesvara di non accettare la salvezza finch l'ultima
particella di polvere non avr raggiunto lo stato di Buddha prima di lui.
Si pu ricordare che il percorso (cariya) del Bodhisattva ha questo vantaggio,
che egli non nascer mai in un purgatorio o in una condizione sfavorevole sulla
terra. N il Bodhisattva dovr coltivare disgusto per le condizioni della vita;
egli non tenuto a praticare la meditazione sulle cose impure, come l'aspirante
allo stato di Arahatta. Il Bodhisattva riconosce semplicemente che le condizioni
della vita sono quelle che sono, che nella natura (tattva, bhutatha, ipseit)
delle cose di essere cos, e di conseguenza le prende per quello che valgono. Da
nessuna parte questa posizione espressa con maggior concisione che in questi

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ben noti versi giapponesi:


Ammesso che questo mondo di rugiada
sia solo un mondo di rugiada,
ammesso questo, tuttavia...
Ci considerato, la nuova legge buddhistica non era per nulla puritana, e non
inculcava un distacco assoluto. Certo il piacere non da ricercare come fine a
se stesso, ma non c' bisogno di respingerlo se si presenta incidentalmente. Il
Bodhisattva partecipa alla vita del mondo; ad esempio, egli ha una moglie, cos
che la sua generosit soprannaturale pu vedersi nel suo donarsi a moglie e
figli, e per la stessa ragione pu detenere potere e ricchezze. Se a causa
dell'attaccamento e di questa associazione con il mondo vengono inevitabilmente
commessi peccati veniali, ci di poca conseguenza, e simili peccati sono
cancellati con l'amore degli altri: i peccati cardinali di odio ed egoismo non
possono neppure essere immaginati in colui, in cui si risvegliato il cuore
della saggezza. Comunque sia non bisogna supporre che il Mahayana allenti in
qualche modo la regola dell'Ordine; ed anche a proposito della remissione dei
peccati dei profani si considerano solo mancanze minori e inevitabili, e non
deliberate azioni cattive. Se i dottori del Mahayana predicano la futilit del
rimorso e dello scoraggiamento, essi non sono per neppure quietisti, ma
propongono un misticismo pienamente pratico come quello di Ruysbroeck.
L'idea del Bodhisattva corrisponde a quella dell'Eroe, del Superuomo, del
Salvatore, dell'Avatara di altri sistemi. A questo proposito interessante
notare che la fierezza legittima - la volont di potere, unita alla virt
generosa - tutt'altro che assente nel carattere del Bodhisattva, ma che, al
contrario, "per tre cose si pu andare fieri: le opere dell'uomo, le sue
tentazioni, e il suo potere", e l'esposizione prosegue: "la fierezza per le
opere sta nel pensiero: "per me solo questo compito".
[nota: Blake: Ma quando Ges fu crocifisso,
allora fu compiuta la sua irritante fierezza.]
Questo mondo, reso schiavo dalla passione, non ha la forza di agire per il suo
bene; allora devo farlo io per loro, perch io non sono impotente come loro.
Altri eseguiranno cose facili, mentre io me ne resto a guardare? Se per orgoglio
lo far, meglio che il mio orgoglio perisca... Perci, con spirito fermo,
distrugger i portatori di distruzione; se fossi battuto da loro la mia pretesa
di conquistare i tre mondi sarebbe solo uno scherzo. Tutti li vincer; da
nessuno sar vinto. Questa la fierezza che mi anima, perch io sono figlio di
Leoni Conquistatori!...
[nota: Si parla spesso del Buddha come di un Conquistatore (Jina - che un
termine pi conosciuto in rapporto con i seguaci di Mahavira, i "Jaina") e di un
leone (Sakyasinha, il leone della razza dei Sakya).]
Circondato dall'esercito delle passioni l'uomo dovrebbe diventare mille volte
pi fiero, ed essere inacessibile alle loro orde come un leone per un branco di
cervi... Sicch in qualsiasi situazione si trovi, non diverr preda delle
passioni. Conseguentemente si offrir per qualsiasi compito si presenti,
desideroso di assolverlo... Come pu colui la cui felicit il lavoro, essere
felice non facendo nulla? Star sempre all'erta, cosicch ancor prima che gli si
presenti un compito da fare sar preparato ad affrontare qualsiasi difficolt.
Come il seme dell'albero del cotone trascinato secondo il capriccio del vento,
cos egli sar obbediente alla sua risoluzione; cos si conquista il potere
divino".
E il caso di far notare qui che un'importante distinzione tra il Mahayana e lo
Hinayana consiste nel fatto che il primo essenzialmente mitico e astorico; il
credente viene messo in guardia cos come l'adoratore di Krishna messo in
guardia nelle scritture dei Vaishnava che il Krishna Lila non un racconto
storico, ma un processo contenuto da sempre nel cuore dell'uomo - che le
questioni di portata storica non hanno importanza dal punto di vista religioso.
Per questo motivo, nonostante la sua forma pi popolare, il Mahayana stato, a
ragione, detto "pi filosofico" dello Hinayana, "perch sotto forme di

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immaginazione religiosa o mistica esprime l'universale, mentre lo Hinayana non


riesce a liberarsi dalla dominazione del fatto storico".
[nota: R. F. Johnston, Buddhist China, pag. 114. Molto probabilmente anche il
Cristianesimo riuscir in un prossimo futuro a infrangere l'"intricato connubio"
di religione e storia, dal quale i mistici sono gi usciti da lungo tempo. Non
ci pu essere una realt assoluta che non sia accessibile all'esperienza
diretta.]
Un'importante distinzione dogmatica, il cui significato apparir chiaro in
seguito, si trova nella nuova interpretazione dei Tre Rifugi. Nello Hinayana
questi ultimi sono il Buddha, il Dhamma e il Sangha; nel Mahayana essi sono i
Buddha, i Figli dei Buddha (Bodhisattva, sia in senso specifico che generale), e
il Dharmakaya.
La teologia del Mahayana
Il Mahayana si distingue dunque per la sua teologia mistica del Buddha. Essa non
dev'essere per confusa con la teologia popolare ed estremamente realistica di
Sakka e Brahma che si ritrova nel Buddhismo originario. La teologia mahayanica
del Buddha, come fa notare Rhys Davids, " la pi grande contraddizione che si
possa immaginare dell'Ateismo Agnostico", caratteristica, come si sa, del
sistema di pensiero di Gautama. Ma questa opposizione costituisce semplicemente
l'inevitabile contrasto tra religione e filosofia, tra verit relativa e verit
assoluta; e coloro che sono interessati alla scienza della teologia, o sono
toccati dall'arte, non saranno probabilmente d'accordo con la denuncia delle
divinit buddhistiche come invenzioni "di uno scolasticismo malaticcio, vuote
astrazioni senza vita o realt": in questo mondo contingente viviamo ogni giorno
di verit relative, e per tutti coloro che non desiderano respingere il mondo
del divenire al pi presto possibile queste verit relative sono ben lungi dal
mancare di vita o di realt. Il Mahayana, in quanto fede teistica, tale
solamente come lo pu essere il Vedanta, il che significa che ha un aspetto
esoterico che parla in termini negativi di un'ipseit e di un vuoto che non
possono essere conosciuti, mentre sotto un altro aspetto possiede un aspetto
exoterico pi elaborato in cui l'Assoluto visto attraverso la lente del tempo
e dello spazio, contratto e identificato nella variet. Questo sviluppo appare
nella dottrina del Trikaya, i tre corpi del Buddha. Essi sono: 1. il Dharmakaya,
o corpo d'essenza; 2. la sua manifestazione celeste nel Sambhogakaya, o corpo di
beatitudine; e 3. l'emanazione, trasformazione, o proiezione esterna, chiamata
Nirmanakaya, che appare come il Buddha individuale visibile sulla terra. Questo
un sistema che differisce abbastanza poco da quella che la dottrina
cristiana dell'incarnazione, e non escluso che sia il Cristianesimo che il
Mahayana siano eredi di comuni fonti gnostiche.
Il Dharmakaya pu essere paragonato al Padre; il Sambhogakaya alla figura del
Cristo glorioso; il Nirmanakaya al Ges visibile che annuncia in linguaggio
umano che "Io e mio Padre siamo Uno". Nel Vedanta: il Dharmakaya il Brahman,
senza tempo e incondizionato; il Sambhogakaya manifestato dalle forme di
Isvara; il Nirmanakaya in ogni Avatara.
L'essenza di tutte le cose, la realt una che le loro forme fugaci ci ricordano,
il Dharmakaya. Il Dharmakaya non un essere personale che si manifesti a noi
in una singola incarnazione, ma il substrato dell'anima, che tutto pervade
senza lasciare tracce, che non subisce di fatto alcuna modificazione, ma che ci
appare assumere innumerevoli forme: leggiamo che sebbene il Buddha (un termine
che qui dobbiamo intendere come impersonale) non si alzi dal suo seggio nella
torre (stato di Dharmakaya), egli pu assumere qualsiasi forma, anche quelle di
un Brahma, di una divinit, di un monaco, di un medico, di un commerciante, o di
un artista; pu manifestarsi in ogni forma di arte o mestiere, in citt o
villaggi; dal cielo pi elevato all'inferno pi profondo c' il Dharmakaya, in
cui tutti gli esseri sensibili sono uno. Il Dharmakaya il substrato
impersonale dello stato di Buddha da cui la volont personale, il pensiero e
l'amore degli innumerevoli Buddha e Bodhisattva procedono sempre, in risposta ai
bisogni di coloro in cui la natura perfetta non ancora realizzata. In alcune
delle ultime fasi del Mahayana, invece, il Dharmakaya personificato come

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Adi-Buddha (a volte Vairocana) che bisogna allora considerare come l'Essere


Supremo, al di sopra di tutti gli altri Buddha, e la cui Sakti Prajnaparamita.
Dharmakaya comunemente tradotto "Corpo della Legge", ma non dev'essere inteso
semplicemente come un equivalente dell'insieme delle scritture.
L'incommensurabile stato di Buddha, secondo il Mahayana, qualcosa di pi
dell'immortalit dell'individuo nella sua dottrina. Dobbiamo qui intendere il
Dharma come l'Om o il Logos. Per comprendere il significato di Dharmakaya con
maggiore completezza dobbiamo tener conto anche dei suoi sinonimi, ad esempio,
Svabhavakaya, o "corpo della natura propria" (simile allo svarupa brahmanico, o
"forma propria"), Tattva, o "ipseit", Sunya, "il vuoto" o l'"Abisso", Nirvana,
"la libert eterna", Samadhikaya, il "corpo di rapimento estatico", Bodhi,
"saggezza", Prajna, o "conoscenza divina", Tathagata-garbha, l'"utero di coloro
che raggiungono".
Alcuni di questi termini devono essere ulteriormente esaminati. Il "vuoto", ad
esempio, non significa assolutamente il "nulla", ma semplicemente l'assenza di
caratteristiche; il Dharmakaya "vuoto", cos come Brahman "non cos, non
cos", e come Duns Scoto dice che Dio "non chiamato Nulla impropriamente". E
precisamente dall'indeterminato che immaginabile l'evoluzione; dove non c'
niente, c' posto per qualsiasi cosa. La vuotezza delle cose la non-esistenza
delle cose in se stesse, alla quale si d giustamente tanta importanza nel
Buddhismo originario. L'espressione "corpo della natura propria" esprime il
pensiero "sono quello che sono". Bodhi il "cuore di saggezza", che si
risveglia con la determinazione di diventare un Buddha. L'"ipseit" pu essere
intesa a significare l'inevitabilit, o la spontaneit, che la causa superiore
di ogni cosa deve necessariamente essere nella cosa stessa. Si d un significato
particolare al nome Prajna o Prajnaparamita, cio, conoscenza suprema, ragione,
comprensione, sophia; perch il nome Prajnaparamita applicato alla scrittura
principale del Mahayana, o a un gruppo di scritture, intendendo la conoscenza
divina che hanno incorporata, e che anche personificata come una divinit
femminile. In quanto facente un tutt'uno con il Dharmakaya essa la conoscenza
dell'Abisso, lo stato di Buddha in cui il Bodhisattva individuale sparisce. Ma,
come ragione o comprensione, Tathagata-garbha, il ventre o madre dei Buddha,
la fonte da cui sgorga la variet delle cose, sia mentali che fisiche.
[nota: Precisamente come lo zero pu essere considerato un ventre o un utero,
essendo la somma e la fonte di una serie indefinita di quantit maggiori o
minori, come gli estremi, o coppie di opposti del mondo della relativit.]
Nella fraseologia ind, essa la Sakti del Supremo, il potere di manifestazione
inseparabile da ci che manifesta: Devi, Maya, o Prakriti, l'Uno che anche
molti. "Alla radice essa tutta-Brahman; nel tronco essa tutta-illusione; nel
fiore essa tutta-mondo; e nel frutto, tutta-liberazione". (Tantra-tattva)'.
[nota: "La natura sorge", dice Boehme, "nel mondo ulteriore della percezione e
conoscenza divina". "La saggezza il grande Mistero della natura divina; perch
in essa sono resi manifesti i poteri, i colori e le virt, cio la comprensione:
essa la comprensione divina - cio, la visione divina, dove l'Unit
manifesta... in cui le immagini degli angeli e le anime sono state viste
dall'eternit... in cui tutte le cose sono deposte in un unico luogo, come
un'immagine nascosta in un pezzo di legno prima che l'artigiano lo intagli e
gli dia forma". Clavis.
"Al tempo della creazione Brahma, Vishnu, Mahesvara ed altre divinit sono nate
dal corpo di quella Kalika senza inizio ed eterna, e al tempo della dissoluzione
spariranno nuovamente in lei". Nirvana Tantra. Kalika uno dei molti nomi di
Devi, Sakti, Prakriti, Parvati, Kali, ecc.: essa come Uma la "saggezza che ha
divorato il mio mentale e mi ha sbarazzato del mio senso di "io" e "mio"".
Tayumanavar: "colei che con l'inseparabilit assoluta mescolata, come fiore a
profumo, sole a raggio, vita a corpo... e che i suoi figli, tutte le cose
viventi, nutre di beatitudine ambrosiaca senza fine". Chidambara Swami. Non
senza significato che il nome tradizionale della madre terrena di Gautama sia
Maya.]
Il Nirvana

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La dottrina del Nirvana nel Mahayana richiede un esame un po' pi approfondito.


Abbiamo visto che nel Buddhismo originario Nibbana significava l'estinzione dei
fuochi della passione, del risentimento e dell'illusione, e la dissoluzione
della personalit individuale; ma cosa significhi pi o meno metafisicamente,
Gautama non vuol dirlo, e condanna decisamente la speculazione su di ci come
controproducente.
I Mahayanisti, invece, non esitano a sviluppare un esteso idealismo, simile a
quello del Vedanta, e sviluppano logicamente il fenomenalismo del Buddhismo
originario in un nichilismo totale, il quale, come abbiamo visto, dichiara che
l'intero mondo del divenire in realt vuoto e irreale.
Questo "nichilismo" portato alle sue estreme conseguenze in opere come il
Prajnaparamita [Cos chiamati perch trattano in esteso delle sei perfezioni
(paramita) di un Bodhisattva, e dell'ultima di queste in particolare. Le sei
perfezioni sono dana, carit; sila, moralit; khsanti, mansuetudine; virya,
energia; dhyana, meditazione; e Prajna, saggezza] e il Vajracchedika Sutra;
leggiamo, ad esempio, nel secondo:
"Ed ancora, o Subhuti, un Bodhisattva non deve fare un regalo, se ancora crede
nella realt degli oggetti; un Bodhisattva non deve fare regali se crede ancora
a qualcosa; non deve fare regali se crede ancora nella forma; non deve fare
regali se crede ancora nelle qualit specifiche di suono, odorato, gusto, e
tatto... E perch? Perch quel Bodhisattva, o Subhuti, che d un regalo, senza
credere in niente, la misura di quanto vale il suo merito non facile da
imparare!"
E questa negazione di esistenza separata portata ai suoi estremi logici con la
negazione dell'esistenza delle scritture:
""Allora, cosa pensi, o Subhuti, c' una dottrina che stata predicata dal
Tathaghata?" Subhuti rispose: "No, certo, o Degno di adorazione, non c' niente
che sia stato predicato dal Tathagata"".
Ancora pi impressionante la famosa "Via del Mezzo delle otto negazioni" di
Nagarjuna:
"Non c' produzione (utpada), non c' distruzione (uccheda), non c'
annullamento (nirodha), non c' durata (sasvata), non c' unit (ekartha), non
c' pluralit (nanartha), non c' entrata (agamana), e non c' uscita (nirgama)".
Questa prospettiva, comunque, non da intendere come nichilismo puro; infatti
si insiste costantemente che le cose di ogni genere n esistono, n non
esistono. Possiamo considerare questo "punto di vista medio" in due diversi
modi: come la dottrina che ci che non fenomenico non pu essere definito n
esistente n non esistente, o come la dottrina che dal punto di vista
dell'Assoluto, le cose non esistono, mentre che da quello del relativo, hanno
una realt relativa.
Nagarjuna
Il secondo punto di vista dichiaratamente sostenuto da Nagarjuna, il quale,
come Asvaghosha, dev'essere stato in origine un Brahmano, ed vissuto verso la
fine del secolo II d.C. La Via del Mezzo appena menzionata esposta da lui nei
Madhyamika sutra. Qui Nagarjuna d una risposta chiarissima all'obiezione che,
se tutto "vuoto", le quattro Verit degli Ariya, l'Ordine dei Fratelli, e lo
stesso Buddha devono essere considerati ed essere stati irreali: egli affronta
la difficolt nello stesso modo in cui Sankaracarya affronta le apparenti
incoerenze delle Upanishad, dicendo che il Buddha parla di due verit, la verit
una nel senso pi elevato, assoluto; e la verit convenzionale e relativa; chi
non comprende la distinzione tra queste due verit non pu capire il senso pi
profondo dell'insegnamento del Buddha.
[nota: Lo studioso occidentale incontra contraddizioni simili nei Vangeli
cristiani. Quando Cristo dice: "Io e il Padre mio siamo Uno", la verit
assoluta; quando sulla croce, parlando di s, dice che "dimenticato" dal
Padre, questa solo una verit relativa. Quando dice che Maria ha scelto la
parte buona, che non le sar tolta, assoluto; ma quando ci ordina di rendere a
Cesare ci che di Cesare, riconosce nuovamente il regno della relativit.
Anche in questo caso si pu quindi affermare che chi non riconosce la

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distinzione tra la verit assoluta e relativa, non si pu dire che comprenda il


Vangelo di Cristo.]
Il Mahayana , cos, ben lontano dall'affermare che il Nirvana sia non-esistenza
pura e semplice; esso non esita a dire che perdere la nostra vita salvarla. Il
Nirvana una realt, ovverosia, esso realmente ; anche in rapporto
all'individuo, non si pu dire che esso ci sar, o che questi vi entrer;
semplicemente, esso viene realizzato, non appena superata quell'ignoranza che
oscura la conoscenza della nostra vera libert, che niente ha mai violato, o
potr mai violare. Il Nirvana ci che non ha bisogni, non si acquisisce, non
intermittente, non non-intermittente, non soggetto alla distruzione, non
creato, la sua caratteristica l'assenza di caratteristiche, esso trascende sia
il Non-essere che l'Essere. Il Nirvana del Mahayana non pu essere spiegato
meglio che con le parole del grande Sufi Al-Hujwiri: "Quando un uomo resta
annullato nei suoi attributi raggiunge la perfetta sussistenza, non n vicino
n lontano, n estraneo n intimo, n sobrio n ubriaco, n separato n unito;
non ha nome o segno, o qualit o caratteristiche particolari" (Kashf al-Mahjub).
la realizzazione dell'amore infinito e della saggezza infinita, in cui la
conoscenza e l'amore insieme proclamano l'identit che costituisce il Nirvana.
Colui in cui il cuore di saggezza si risveglia non rifugge per dalle future
rinascite, "ma si immerge nella corrente ininterrotta del samsara, e si
sacrifica per salvare le creature sue compagne dall'essere eternamente sommerse
in esso". Non rifugge dall'esperienza, perch "come il fiore di loto non cresce
su un terreno arido, ma sboccia dal fango scuro ed umido, cos del cuore di
saggezza; in virt della passione e del peccato che i semi e i germogli dello
stato di Buddha possono crescere, e non dall'inazione e dall'annullamento
eterno" (Vimala-kirti Sutra).
La non-dualit del Mahayana culmina nel magnifico paradosso dell'identit del
Nirvana con il samsara, la non-distinzione del non-manifestato e del manifestato
- "questa nostra vita mondana un'attivit del Nirvana stesso, neppure la pi
sottile differenza esiste tra di loro" (Nagarjuna, Madhyamika Sastra). Questa
prospettiva espressa con forza drammatica nell'aforisma, "Yas klesas so bodhi,
yas samsaras tat nirvanam". Ci che peccato anche conoscenza, il regno del
divenire anche Nirvana.
[nota: Il monismo del Mahayana dunque totalizzante: afferma l'irrealt dei
fenomeni in quanto tali, ma afferma ugualmente la loro importanza. Questa vita
un sogno, ma non un sogno senza significato. Non ci sono tracce di approvazione
di questa dottrina nel Buddhismo originario, anzi in un punto essa anche
condannata da Asvaghosha come nata dal diavolo (The Awakening of Faith, tradotto
da T. Suzuki, pag. 137); forse essa stata qualche volta mal interpretata nel
senso di "Mangiamo, beviamo e stiamo allegri, perch domani moriamo".]
Il cuore dell'ipseit ed il cuore di nascita e morte sono uno e lo stesso cuore,
"ci che immortale e ci che mortale sono armoniosamente mescolati, perch
non sono una sola cosa, e non sono separati" (Asvaghosha). Se la verit non si
pu trovare nella nostra esperienza di ogni giorno, ancor meno la si trover
cercando altrove.
Il misticismo del Mahayana
Non c' quasi bisogno di far notare, sebbene sia una cosa importante da
comprendere, che questa la posizione conclusiva a cui i mistici di ogni epoca
e tradizione arrivano alla fine. Essa quella di Blake, quando dice che la
nozione che l'uomo ha di un corpo distinto dalla sua anima deve essere
cancellata, ed solo perch le porte della percezione sono chiuse dall'ignoranza - che non vediamo tutte le cose come sono, infinite. Essa
quella di Kabir, quando dice: "La realt in casa; casa nostra ci aiuta a
raggiungere Colui che reale; dappertutto io contemplo la sua bellezza"; e
quando chiede: "Qual la differenza tra il fiume e le sue onde? Perch ci che
stato chiamato onda non dovr essere pi considerato acqua?" Essa quella di
Boehme, quando dice che la vita di Enoch " in questo mondo, ma come fosse
assorbita nel Mistero; ma non alterata in se stessa, solo ritratta dalla nostra

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vista e dai nostri sensi, perch se i nostri occhi fossero aperti, la vedremmo":
il paradiso gi sulla terra, e solo a causa del nostro pensare a noi stessi e
della nostra volont autonoma noi non vediamo ed udiamo Dio. Essa quella di
Whitman, quando dice che non ci "sar mai una perfezione maggiore di quella che
qui, n pi paradiso o inferno di quanto ce ne sia ora", e chiede: "Perch
dovrei desiderare di vedere Dio meglio di oggi?"
Strano e difficile questo giusto paradosso che propongo,
gli oggetti grossolani e lo spirito invisibile sono una sola cosa.
I Buddha
Nel regno dell'assoluta (paramartha) verit possiamo parlare del Dharmakaya solo
come del vuoto. Ma per noi esiste anche un campo di relativa (samvritti) verit,
dove l'Assoluto manifestato dal nome e dalla forma; per chi risiede in cielo
come Sambhogakaya, il corpo di beatitudine, e per chi in terra come
Nirmanakaya, il corpo della trasformazione.
Il Sambhogakaya il Buddha, o i Buddha, considerati come divinit in cielo,
determinati da nome e forma, ma onniscienti, onnipresenti, e, all'interno della
legge di causalit, onnipotenti. Un Buddha inteso in questo senso, identico
all'"Isvara" brahmanico, che pu essere adorato sotto diversi nomi (per esempio,
come Vishnu o come Siva); e l'adoratore raggiunge il cielo retto da colui che
adora, sebbene sappia che tutte queste forme sono essenzialmente una e la
stessa. Il Mahayana infatti moltiplica il numero dei Buddha indefinitamente e
con perfetta logica, poich lo scopo di ogni individuo quello di diventare un
Buddha. La natura di questi Buddha ed i loro cieli saranno compresi meglio se
descriviamo il pi popolare di tutti, il cui nome Amitabha, o Amida.
Amitabha Buddha governa il cielo Sukavati, la Terra Pura, o Paradiso
Occidentale. Con lui sono in rapporto il Gautama storico, in quanto emanazione
terrestre, e il Bodhisattva Avalokitesvara come il Salvatore. La storia di
Amitabha racconta che molti cicli temporali addietro era un grande re, che
lasci il trono per divenire un pellegrino, e raggiunse lo stato di Bodhisattva
sotto la guida del Buddha, cio, del Buddha umano allora manifesto; fece una
serie di grandi voti, sia per diventare un Buddha con lo scopo di salvare tutte
le cose viventi, sia per creare un paradiso dove le anime dei beati potessero
godere di un lungo periodo di felicit, conoscenza e purezza. Il diciottesimo di
questi voti la fonte principale dello sviluppo dell'Amidismo, come chiamata
la fede degli adoratori di Amitabha. Questo voto cos diceva:
"Quando diventer un Buddha, che tutti gli esseri viventi delle dieci regioni
dell'universo possano mantenere una fede fiduciosa e gioiosa in me; che essi
concentrino i loro desideri su una rinascita nel mio paradiso, invochino il mio
nome, anche se solo dieci volte o meno; poi, se solo non si saranno resi
colpevoli dei cinque peccati atroci, e non avranno diffamato o vilipeso la vera
religione, il desiderio di tali esseri di nascere nel mio paradiso sar
certamente esaudito. Se cos non sar, che io possa non ricevere mai
l'illuminazione perfetta dello stato di Buddha".
Si tratta, come si vede, di una dottrina della salvezza per mezzo della fede,
pienamente sviluppata. Il parallelismo con alcune forme del Cristianesimo
molto evidente. Amitabha "attira" gli uomini a s, "manda" suo figlio Gautama
per guidare gli uomini verso di lui, ed sempre accessibile attraverso il santo
spirito di Avalokitesvara. ammessa l'efficacia del pentimento sul letto di
morte; e in ogni caso l'Amidista moribondo dovrebbe contemplare la gloriosa
figura di Amitabha, proprio come il Cattolico morente fissa gli occhi sul
crocifisso tenuto sollevato dal prete che amministra l'estrema unzione. Il
fedele amidista trasportato immediatamente in cielo e l rinasce con un corpo
spirituale nel calice di un loto del lago sacro. Ma i meno virtuosi devono
attendere a lungo prima che il loro loto si espanda, e prima di allora non
possono vedere il Dio. Quelli che hanno commesso uno dei cinque peccati
capitali, ma che abbiano invocato il nome di Amitabha, devono attendere
innumerevoli secoli, per un tempo, cio, al di fuori di ogni concezione, prima
che i loro fiori si schiudano; cos come, secondo Boehme, le anime che si
dipartono dal corpo "senza il corpo di Cristo, come se fossero appese ad un
filo", devono aspettare l'ultimo giorno [del giudizio] prima di arrivare.

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Un'altra idea mahayanista, che il cielo di un Buddha, cio, si estenda a tutto


l'universo, si trova anche in Boehme, il quale, alla domanda "le anime devono o
non devono lasciare il corpo alla morte, e andare in paradiso o in inferno?"
risponde: "In realt un simile tipo di entrata non c', perch il paradiso e
l'inferno sono dappertutto, essendo estesi universalmente". Parlando con maggior
precisione, il cielo di Amitabha non pu essere fatto simile al Nirvana, ma un
"campo di Buddha", dove si completa la preparazione per il Nirvana. La seguente
tavola mostra lo schema integrale della Buddhologia del Mahayana:
Tavola di pagina 252
Adibuddha
per il Centro: Buddha=Vairocana; Bodhisattva=Samantabhadra; Primo
Buddha=Kakusandha.
per l'Est: Buddha=Akshobya; Bodhisattva=Vajrapani; Primo Buddha=Konagammana.
per il Sud: Buddha=Ratnasambhava; Bodhisattva=Ratnapam; Primo Buddha=Kassapa.
per l'Ovest: Buddha=Amitabha; Bodhisattva=Avalokitesvara o Padmapani; Primo
Buddha=Gautama.
per il Nord: Buddha=Amoghasiddha; Bodhisattva=Visvapani; Primo Buddha=Metteya.
Il pantheon del Mahayana, comunque, si estende molto al di l di questo semplice
schema, fino a includere pi di cinquecento divinit: secondo le parole di
Lafcadio Hearn, "un antichissimo mare senza coste, di forme incomprensibilmente
poco delineate e confuse, ma che simboleggia la magia proteiforme di
quell'infinito sconosciuto che forma e riforma indefinitamente tutto l'essere
cosmico". Di tutte queste divinit si parler ancora pi avanti, ma bisogna
menzionare qui Prajnaparamita, il Bodhisattva Manjusri e i cinesi Ti-tsang e
Kwannon (Kwanyin), ed anche le Tara o Salvatrici, che sono le divinit
femminili, riconosciute pi o meno a partire dal secolo VI d.C. come
incarnazioni del principio di grazia nei Bodhisattva. Il pieno sviluppo di
questo pantheon ha luogo durante i primi dodici secoli d.C., sebbene il suo
inizio sia anteriore. La sua elaborazione finale nel Buddhismo lamaistico
continuer anche dopo.
Ora dobbiamo prendere in esame il Nirmanakaya, il piano di quelle apparizioni
del Buddha che sono emanate o proiettate dal Sambhogakaya come magiche
apparizioni terrestri, una dottrina della rivelazione in risposta alle necessit
spirituali degli esseri sensibili. Abbiamo gi visto che in uno stadio iniziale
del Buddhismo si dice che Gautama affermasse di non essere un uomo, ma un
Buddha; qui, in uno sviluppo simile a quello del Docetismo cristiano, troviamo
espressa la concezione che i primi Buddha non siano uomini viventi, ma spiriti o
forme di pensiero, che agiscono come veicoli della volont salvatrice che
conduce il Bodhisattva all'Abisso dello stato di Buddha. In parte, non c'
dubbio, questo rappresenta un tentativo di eliminare la difficolt logica
presentata dalla continua sopravvivenza della persona Gautama per molti anni,
anche dopo il raggiungimento di quell'illuminazione che taglia i legami
connettivi di quel composto spirituale conosciuto come personalit umana; questa
continuit stata anche adeguatamente paragonata al proseguire dei giri della
ruota del vasaio per qualche tempo dopo che la mano del vasaio ha smesso di
spingerla, mentre la morte fisica finale del corpo paragonata al susseguente
arresto della ruota.
I mezzi adeguati
Intimamente associata alla dottrina dell'emanazione quella dei Mezzi Adeguati
(upaya): "Il Cuore di Saggezza che risiede nell'unit crea particolari mezzi di
salvezza" (Nagarjuna). La conoscenza di questi mezzi una delle perfezioni
dello stato di Buddha, ed il potere di risposta all'indefinita variet dei
bisogni spirituali degli esseri sensibili. Le varie forme che assume il divino
Tathagata, manifestandosi nel posto giusto, e al momento giusto, senza mai
mancare la giusta opportunit e la giusta parola, queste manifestazioni
costituiscono il Nirmanakaya. Entro un certo limite la dottrina dell'upaya
corrisponde all'intelligenza pronta di Maestri come il Buddha o Cristo, che con
poco sforzo rendono cos efficacemente aiuto a chi li cerca e non meno
efficacemente disorientano i loro avversari: ammirevolmente illustrati, ad

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esempio, dal comportamento di Gautama con Gotami la Snella, e dai ben noti
episodi della vita di Ges. Di entrambi si pu dire:
Egli Colui che risponde;
a ci cui pu rispondersi, risponde;
a ci cui non si pu, dimostra
come non si possa.
Essa anche una dottrina dei vari gradi di verit: le fedi non sono divise in
vere e false, ma sono i molti pioli di una scala, e le diverse scale, che
portano all'Uno sconosciuto. La dottrina dell'upaya implica la comprensione
perfetta delle necessit umane da parte di quell'intelligenza divina che non ha
bisogni in se stessa, salvo ci che implicito nel detto, l'Eternit
innamorata delle produzioni del tempo, l'unica ragione che possiamo addurre per
il desiderio dell'Uno di diventare molti. Questa perfetta comprensione, "come
del padre col figlio, dell'amico con l'amico, dell'amante con l'amante", non
urta con il riconoscimento intellettuale delle divinit come fatte dall'uomo, e
questo gli Ind lo hanno stupendamente riconciliato con l'idea di grazia,
nell'adorazione: "Tu che assumi le forme immaginate dai tuoi adoratori",
indirizzata, naturalmente, dai Saiva a Siva, ma non meno appropriata al pensiero
del Mahayana. La dottrina dell'upaya si pu anche accostare al pensiero, "Egli
si rende come noi, perch noi possiamo essere come Lui". Le arti e le religioni
del mondo sono cos molte upaya, una sola fonte, una sola mta, soltanto con
differenza di mezzi.
Una seconda scuola Mahayana, sotto alcuni aspetti divergente dalla scuola
Madhyamika di Nagarjuna, la scuola Yogacara di Asanga e Vasubandhu. Qui si
riconoscono tre tipi di conoscenza invece di due; ma due di questi sono
semplicemente una suddivisione della conoscenza relativa in errore reale e
conoscenza relativa. Cos abbiamo, invece di samvritti e paramartha satya:
1. Parikalpita satya, ad esempio, quando prendiamo una corda per un serpente;
2. Paratantra satya, ad esempio, quando riconosciamo una corda per una corda;
3. Parispanna satya, quando riconosciamo che "corda" un semplice concetto
senza che esista come cosa in se stessa.
1. e 2. insieme, sono samvritti e 3. paramartha.
Gli Yogacara sviluppano una forma di idealismo che differisce dall'assoluto
agnosticismo dei Madhyamika. Secondo i primi esiste realmente una mente cosmica,
non impersonale, chiamata Alaya-vijnana, la mente onnicontenente, o perennementesussistente. Tutte le cose nell'universo stanno in essa, o piuttosto
costituiscono il suo substrato. Qualche volta essa viene confusa con l'ipseit;
ma in realt corrisponde pi al Brahman saguna (qualificato) che al nirguna (non
qualificato).
Essa fornisce la base per una specie di idealismo platonico; perch, secondo gli
Yogacara, in questa mente cosmica che i germi di tutte le cose esistono nel
loro stato ideale. In altre parole, il mondo "oggettivo" costituito
interamente da materia mentale, ed l'illusione nata dall'ignoranza che
proietta le idee reali in un universo esterno e fenomenico.

III - Ch'an, o Buddhismo Zen


Fino a qui abbiamo esposto la dottrina del Mahayana secondo la scuola Madhyamika
di Nagarjuna e la scuola Yogacara di Asanga, illustrando il Sambhogakaya secondo
la scuola degli Amidisti, e dando qualche informazione su altri culti speciali,
in particolare quello di Avalokitesvara. Accenneremo adesso per grandi linee a
un'altra fase del Mahayana, sempre di origine indiana, con ulteriore sviluppo in
Cina e Giappone. Si tratta della scuola di Bodhidharma, nota in Cina come Ch'an,
e in Giappone come Buddhismo Zen, dalla parola indiana jhana, o dhyana, gi
spiegata prima. Questo Ch'an, o Buddhismo Zen, sebbene associato praticamente in
misura pi o meno stretta con il culto di Amitabha, rappresenta l'aspetto pi
intellettuale e mistico del Mahayana, ed per sua natura piuttosto indifferente
all'iconolatria e all'autorit delle scritture.
Questa fase del Mahayana poco caratterizzabile da forme speciali e si pu

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difficilmente dire di essa che abbia qualche altro credo oltre a quello che il
regno dei cieli nel cuore dell'uomo. Questa forma di pensiero rappresenta il
Mahayana come religione mondiale nel modo pi completo; perch per quanto
attrattive e pittoresche possano essere le immagini del paradiso occidentale di
Amitabha, per quanto commoventi siano le storie leggendarie dei Buddha deificati
e dei Bodhisattva, queste rappresentazioni di un paradiso materiale e settario,
e queste divinit personalizzate, non possono pretendere di essere
universalmente accettate pi di quanto non lo siano quelle di qualsiasi altro
sistema teistico. Il Buddhismo Ch'an differisce dal Mahayana popolare ortodosso
dei sutra teistici come l'insegnamento di Cristo e dei mistici cristiani
differisce dal Cristianesimo sistematico delle chiese. Inoltre, esso
strettamente legato al pensiero taoista e non costituisce una semplice
religione, ma la cultura dell'Estremo Oriente, trovando piena espressione non
solo nella fede, ma praticamente nella vita e nell'arte.
Il Buddhismo Ch'an fu fondato in Cina nell'anno 527 dal patriarca Bodhidharma,
che si sostiene sia il ventottesimo della successione apostolica partita da
Gautama. Questo grand'uomo, il cui compito in Cina dur solo nove anni, e la cui
personalit ancora cos profondamente impressa nella memoria dell'Estremo
Oriente, era di carattere taciturno, perfino farouche, e poco incline a
sopportare di buon grado gli stupidi. Pass i nove anni della sua vita in Cina
(527/536 d.C.) nel monastero di Shao Lin, presso Loyang, godendo di poca
popolarit, e meritandosi il soprannome di "Brahmano che guarda il muro".
L'essenza della sua dottrina sostiene che il Buddha non si pu trovare nelle
figure e nei libri, ma nel cuore dell'uomo. I suoi seguaci, come indica il nome
della scuola, danno grande importanza alla meditazione; respingono l'adorazione
supina delle immagini, i vincoli dell'autorit, e i mali della classe
sacerdotale.
[nota: Non si deve supporre, comunque, che la larga diffusione delle idee Ch'an
in Cina abbia spazzato via l'adorazione rituale, o anche solo la superstizione.
Il modello del Cinese laico, come in altri paesi, "spesso crudele,
irrazionale, e superstizioso; egli capace di confondere il simbolo con la
realt oggettiva, e di sostenere che la fede una garanzia sufficiente per un
fatto storico". R. F. Johnston, Buddhist China, pag. 96. I gruppi Ch'an e
Amidisti, rispettivamente filosofico o mistico, e devozionale, sono intimamente
legati - sfarzosi santuari sorgono spesso di fianco a monasteri Ch'an - come il
misticismo cristiano associato all'iconolatria della Chiesa romana. Il
Buddhista cinese tende da una parte o dall'altra in conformit con il suo
temperamento e i suoi bisogni spirituali.]
Il principio fondamentale del Ch'an, o Buddhismo Zen, pu essere riassunto
nell'espressione che l'universo la scrittura dello Zen, o con termini pi
vicini alla filosofia, l'identit della molteplicit con l'Uno, del samsara con
il Brahman, di questo con Quello.
[nota: Per cui il vero Maestro colui "che fa intuire il supremo S in
qualunque cosa a cui la mente possa attaccarsi" (Kabir): perch "qualunque cosa,
di qualsiasi generesia, il compito della saggezza di vedervi ci che ha di
reale". Il Tutto in tutto.]
La scrittura stessa senza valore nella sua lettera, e conta solo per ci che
veicola; e per questo scopo ci sono anche altre guide oltre alle pagine scritte
e alle parole pronunciate. Si racconta, ad esempio, del saggio Huen Sha, che un
giorno egli si era preparato a fare un discorso alla congregazione riunita; era
sul punto di incominciare quando si ud un uccello cantare molto dolcemente nei
dintorni; Huen Sha scese dal pulpito osservando che il sermone era gi stato
predicato. Un altro Saggio, Teu-tse, un giorno indic una pietra che era vicina
al cancello del tempio, e fece notare: "In essa risiedono tutti i Buddha del
passato, del presente e del futuro". Lo spettacolo della natura era chiamato "il
discorso dell'Inanimato".
Come abbiamo gi indicato, alcune di queste concezioni possono essere fatte
risalire molto addietro nel tempo, alle prime origini del Buddhismo, e sarebbe
ugualmente facile stabilire paralleli con l'Occidente.
Quando i Maestri Zen fanno notare il sorgere e il tramontare del sole, il

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profondo mare, la caduta dei fiocchi di neve in inverno, e per mezzo di questi
esempi impartiscono lezioni di Zen, noi ci ricordiamo di colui che ci invita a
guardare i gigli, che non tessono e non filano, e a non preoccuparci per il
domani. Quando fu chiesto ai misteriosi visitatori dell'isola cinese di Puto di
spiegare la loro fede religiosa, essi risposero:
"I nostri occhi hanno visto l'oceano, le nostre orecchie hanno udito i venti
soffiare, la pioggia cadere, le onde del mare frangersi, e gli uccelli selvatici
cantare". Questo ci ricorda Blake, quando esclama: "Quando vedi un'aquila, vedi
una porzione di genio. Alza la testa!" e "La fierezza del pavone la gloria di
Dio".
I versi gi citati - un intero poema nell'originale giapponese -:
Ammesso che questo mondo di rugiadasia solo un mondo di rugiada, ammesso questo,
tuttavia...
appartengono alla pi pura tradizione Zen, sebbene forse non siano la sua pi
profonda espressione. La pi profonda intuizione quella dell'ipseit che trova
espressione nella stessa transitoriet di ogni momento passeggero: lo stesso
indivisibile essere si esprime in continuazione, e non mai espresso, nel
venire al mondo e nell'andarsene dell'uomo e dell'intero mondo, momento per
momento; il cuore stesso della "cultura" e della religione il riconoscere
l'Eterno, non come oscurato, ma come rivelato dal transitorio, vedendo
l'Infinito nel granello di sabbia; lo stesso Futuro in ogni nascita e lo stesso
Imperituro in ogni morte. Questi pensieri trovano un'espressione costante nella
poesia e nell'arte ispirate dal pensiero Zen. La gloria del mattino, ad esempio,
che sbiadisce in un'ora, il tema preferito del poeta e del pittore giapponese.
Cosa dobbiamo capire dalla poesia di Matsunaga Teitoku?
La gloria del mattino fiorisce solo un'ora,
ma non differisce in essenza
dal pino gigante che vive mille anni.
Dobbiamo pensare che la gloria del mattino sia una figura ed un simbolo della
tragica brevit della nostra vita, come un memento mori, un ricordo
dell'impermanenza, come la coda della cutrettola? Possiamo pensarlo, senza
dubbio: ma oltre a questo un significato pi profondo celato nelle parole di
Matsunaga, qualcosa di pi di un compiangimento per la costituzione stessa della
nostra esperienza. Secondo il commento di Kinso:
"Chi ha trovato la Via la mattina pu morire in pace la sera. Fiorire la
mattina, attendere il calore del sole, e poi perire, tale la sorte che la
Provvidenza ha assegnato alla gloria del mattino. Naturalmente, ci sono pini che
sono vissuti mille anni, ma la gloria del mattino, che deve morire cos presto,
neppure per un momento dimentica se stessa, e non si mostra invidiosa degli
altri. Ogni mattina i suoi fiori si schiudono, fantasticamente belli, producono
la virt naturale che gli stata predestinata, poi appassiscono. Cos essi
compiono fedelmente il loro dovere. Perch condannare questa fedelt come vana e
infruttuosa?
"La stessa cosa vale per il pino, ma poich la vita della gloria del mattino
pi breve, essa illustra il principio in modo pi incisivo. Il pino gigante non
elucubra sui suoi mille anni, come la gloria del mattino non elucubra sulla sua
vita di un giorno solo. Entrambi fanno semplicemente ci che bisogna. Certo, il
destino della gloria del mattino diverso da quello del pino, ma uguale ad
esso nel senso che entrambi obbediscono alla volont della Provvidenza, e sono
contenti. Matsunaga pensava che il suo cuore era come il loro cuore, e questa
la ragione per cui ha scritto la poesia della gloria del mattino".
La Contemplation upon flowers di Henry King molto vicina al senso della poesia
di Matsunaga. Lo studioso noter che quasi ogni pensiero espresso nella
letteratura buddhistica ed ind trova ugualmente espressione nel mondo
occidentale; e non potrebbe essere altrimenti, perch il valore di questi
pensieri universale e quindi essi non possono essere definiti propriamente n
orientali n occidentali; l'Oriente solo pi avanzato dell'occidente nella
loro accettazione pi ampia e completa.
Coraggiosi fiori, potessi essere prode come voi,
ed essere cos poco vano!

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Spuntate fuori, e fate mostra di voi senza danneggiare,


poi tornate ai vostri giacigli nella terra.
Non siete orgogliosi: conoscete il vostro lignaggio;
perch i vostri abiti ricamati vengono dalla terra.
Con questo contrasta il futile desiderio dell'uomo di un'eterna felicit terrena:
Voi obbedite ai vostri mesi e tempi, ma io
vorrei che fosse sempre primavera:
il mio destino non conoscerebbe inverno, mai morirei,
n penserei ad una simil cosa.
Oh, se potessi vedere il mio letto di terra e osservarlo
sorridendo, e guardarlo allegramente come voi fate!
cos che il Discorso dei Boschi dovrebbe insegnarci la spontaneit d'azione,
ad entrare nell'ordine naturale del mondo, non apatici o ribelli, ma dominando
la nostra anima con la rassegnazione.

Parte quinta - L'Arte buddhistica


I - La letteratura
Linguaggio e scrittura
Possiamo sostenere con una certa sicurezza che l'insegnamento di Gautama fu
comunicato ai suoi discepoli in magadhi, il dialetto parlato del suo paese
d'origine. I pi antichi documenti di letteratura buddhistica che esistano, gli
Editti di Asoka, sono scritti in una forma posteriore dell'analogo dialetto di
Kosala.
[nota: Gli Editti di Asoka, sebbene costituiscano autentica letteratura
buddhistica, non sono inclusi nel canone scritturale, e qui se ne parla in un
capitolo a parte.]
Le scritture dell'Hinayana buddhista, il Canone Theravada, o Antica Bibbia
buddhista, ci sono conservate solo nel dialetto letterario conosciuto come pali;
mentre i testi posteriori del Mahayana sono redatti in sanscrito, e conservati
in questa versione, o nelle prime traduzioni cinesi. Il pali e il sanscrito
negli ambienti buddhistici svolgono il ruolo che stato sostenuto dal latino
nella Chiesa cristiana del Medio Evo. Il pali una forma letteraria, basata sul
magadhi, che si svilupp gradualmente, e fu forse fissata definitivamente solo
quando le scritture vennero redatte per la prima volta a Ceylon verso l'80 a.C.
Come possiamo parlare di testi autentici se la loro stesura non avvenne che
quattro secoli dopo la morte del Maestro di cui si registrano le parole?
Questo possibile in India, e non in Europa. Al tempo di Gautama, un periodo
molto lungo di attivit letteraria era gi trascorso, e la stessa attivit
continuava ancora. La letteratura vedica, in particolare, ad eccezione delle
ultime Upanishad, era gi antica, mentre l'opera dei grandi scrittori di poesia
epica, dei grammatici e dei legisti, solo di poco pi tarda, e questa
letteratura stata fedelmente trasmessa fino ai giorni nostri. Esisteva anche
una grande massa di poesia popolare dell'epoca, sotto forma di ballate e
romanze, racconti e proverbi, parte della quale conservata ed inserita nella
letteratura buddhistica e sanscrita, come i Jataka, in pali, e i poemi epici
brahmanici. Ma molto improbabile che esistessero libri scritti fino a poco
tempo prima dell'epoca di Asoka.
La scrittura fu introdotta in India per la prima volta verso il secolo VIII
a.C., probabilmente da mercanti che commerciavano con le citt della valle
dell'Eufrate, ma per lungo tempo l'idea della parola scritta fu considerata
molto sfavorevolmente negli ambienti letterari. Un curioso esempio di questo
fatto implicito nella constatazione che i libri non sono inclusi nella lista

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dei beni personali che era permesso ai Fratelli possedere. Fino ad allora gli
Indiani adottavano un sistema di letteratura mnemonica, che, data la sicurezza
di una regolare successione di Maestri e discepoli, assicurava
contemporaneamente la trasmissione dei testi come, o forse ancora meglio, della
pagina scritta. Grazie a questo sistema mnemonico il bisogno di mezzi esterni di
registrazione non era avvertito. Lo studio consisteva perci nell'ascolto e
susseguentemente nella ripetizione a se stessi, e non nella lettura di libri.
Questa tradizione sopravvissuta con notevole forza fino ai giorni nostri; non
raro incontrare Pandit che sono in grado di ripetere a memoria intere sezioni
di letteratura sacra della pi incredibile lunghezza, e si crede ancora che
"l'istruzione orale sia di gran lunga superiore all'apprendimento dai libri,
perch fa maturare la mente e sviluppa le sue possibilit". superfluo far
notare che molti grandi pensatori, sia antichi che moderni, condividono questa
convinzione. Platone sostiene che l'invenzione delle lettere "produrr
smemoratezza nelle menti di coloro che le imparano, i quali, trascurando la
memoria e fidandosi della scrittura, ricorderanno superficialmente, per mezzo di
segni esteriori, e non interiormente per mezzo delle loro proprie facolt";
mentre Nietzsche esclama che "chi scrive con sangue e proverbi, non vuole essere
letto, ma essere imparato a memoria". Di fatto, la principale forma letteraria
dell'epoca di Gautama quella del sutra o sutta, una "successione" di logia da
imparare a memoria; e la maggior parte di tutta la letteratura indiana dei primi
tempi, persino la letteratura di legge e di grammatica, era scritta in versi.
Un'altra delle ragioni che facevano guardare alla scrittura con sfavore era che
il testo scritto diventa accessibile a tutti mentre i Brahmani desideravano
soprattutto impedire l'accesso alla dottrina esoterica a chi non era qualificato
per comprenderla o a farne buon uso; e a non divulgare altri argomenti a chi
forse avrebbe tentato di usurpare i loro diritti professionali. Il sistema
dell'educazione mnemonica e la successione discepolare erano inoltre cos ben
organizzati che non c'era pericolo che il "memorizzatore" ben addestrato potesse
mai dimenticare ci che sapeva; gli unici pericoli riconosciuti erano che certi
testi non venissero pi apprezzati e finissero per essere perduti, come
inevitabilmente avvenuto con gran parte della letteratura indiana originaria; o
che qualche incidente potesse interferire nella successione discepolare.
Inoltre, i mezzi per rendere i libri durevoli, ai tempi di Gautama non erano
ancora stati trovati. D'altra parte appare chiaro dal modo di pubblicazione
degli Editti di Asoka che una conoscenza abbastanza generale della scrittura, e
un alfabeto che era pi o meno uguale a quello dell'India moderna, esistevano
gi nel secolo III a.C.
Il Canone Buddhistico fu scritto per la prima volta in pali verso l'80 a.C.,
durante il regno del re Vattagamani, a Ceylon. Vale la pena citare le parole
della cronaca singalese di questo importante evento:
"Nei primi tempi i Bhikkhu pi saggi ricordavano a memoria il testo dei tre
Pitaka e l'annesso commento, ma quando videro che la gente stava allontanandosi
(dall'insegnamento ortodosso), i Bhikkhu si riunirono perch le vere dottrine
potessero durare nel tempo, e le scrissero in libri".
Questi testi sono stati fedelmente trasmessi fino ai tempi moderni da copisti
successivi. D'altra parte certo che una considerevole parte di questi testi
esistesse gi all'epoca di Asoka, perch ad alcuni ci si riferisce con il loro
titolo, e con citazioni, negli Editti. Senza addentrarci in una lunga
discussione, baster dire che alcune parti dei testi quasi certamente risalgono
ad un periodo molto antecedente, e riportano le parole e la dottrina di Gautama
com'erano ricordate dai suoi discepoli immediati. Gli Hinayanisti ortodossi,
comunque, hanno torto quando asseriscono che il Canone pali fu realmente
fissato, anche se non scritto, in occasione del "Primo Concilio", immediatamente
dopo la morte di Gautama; la Bibbia buddhista, come quella cristiana,
costituita da libri composti in differenti periodi, e molti, o la maggior parte
di essi, sono compilazioni di materiale proveniente da diverse fonti e di
periodi svariati.
Il Canone pali
Il Canone pali costituito dai "Tre Pitaka" o "Canestri". Il Vinaya Pitaka
riguarda le regole dell'ordine dei Fratelli. suddiviso come segue:

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Suttavibhanga: Parajika e Pacittiya.


Khandaka: Mahavagga e Cullavagga.
Parivara.
Non c' bisogno di ripetere qui ci che gi stato detto altrove
sull'organizzazione dell'Ordine dei Bhikkhu. Ma interessante notare che il
primo capitolo del Mahavagga contiene alcune delle parti pi antiche della
leggenda del Buddha, le quali raccontano in puro linguaggio arcaico come Gautama
abbia raggiunto l'illuminazione, deciso di predicare la legge, e acquisito i
primi discepoli. Anche qui sono riportati il Primo Discorso del Buddha, a
Benares, e il ben noto Discorso del Fuoco, come pure l'ordinazione di Rahula.
Nel Cullavagga si trovano le storie del mercante Anathapindika, che offr un
parco all'Ordine; di Devadatta, il cugino e nemico di Gautama, il primo
scismatico; la fondazione dell'Ordine delle Sorelle; e numerosi aneddoti
istruttivi, tutti in rapporto con la storia o la costituzione dell'Ordine.
Abbiamo gi citato il Primo Discorso di Gautama, in cui sono esposti i princpi
del Dhamma, le quattro Verit degli Ariya e l'Ottuplice Via. Trascriviamo qui,
riassumendolo, il discorso quasi ugualmente famoso in cui la vita transitoria
dell'individuo, soggetta al dolore e tormentata dai desideri, paragonata
all'esistenza in mezzo a un fuoco:
"Allora il Sublime disse ai suoi discepoli: "Ogni cosa, o discepoli, in
fiamme. E che cosa, o discepoli, in fiamme? L'occhio, o discepoli, in
fiamme, ci che si vede in fiamme, la conoscenza del visibile in fiamme, il
contatto con il visibile in fiamme, la sensazione che sorge dal contatto con
il visibile in fiamme, che sia piacere, pena, o n piacere n pena, anche
questo in fiamme. Da che fuoco sono accese le fiamme? Dal fuoco del desiderio,
dal fuoco dell'odio, dal fuoco dell'illusione, sono accese; dalla nascita, dalla
vecchiaia, dalla morte, dalla pena, dai lamenti, dal dolore, dalla sofferenza,
dalla disperazione, sono accese: cos dico. L'orecchio in fiamme, l'udibile
in fiamme, la conoscenza dell'udibile in fiamme, il contatto con l'udibile
in fiamme, le sensazioni che sorgono dal contatto con l'udibile sono in fiamme,
siano piacere, dolore, non siano n piacere n dolore, anche queste sono in
fiamme. Da che fuoco sono accese le fiamme? Dal fuoco del desiderio, dal fuoco
dell'odio, dal fuoco dell'illusione sono accese. Dalla nascita, dalla vecchiaia,
dalla morte, dal dolore, dai lamenti, dalla sofferenza, dalla pena, dalla
disperazione, sono accese: cos dico. Il senso dell'odorato in fiamme"; e cos
prosegue per la terza volta con la terza serie di proposizioni: "la lingua in
fiamme; il corpo in fiamme; il mentale in fiamme..." Ogni volta seguono le
stesse frasi integralmente. Poi il discorso prosegue:
""Sapendo questo, o discepoli, un saggio, nobile, ascoltatore della parola,
diventa disgustato dall'occhio, diventa disgustato dal visibile, diventa
disgustato dalla conoscenza del visibile, diventa disgustato dal contatto con il
visibile, diventa disgustato dalle sensazioni che sorgono dal contatto con il
visibile, che siano piacere, dolore, o n piacere n dolore. Diventa disgustato
dall'orecchio"; e cos seguono una dopo l'altra tutta la serie di idee esposte
sopra. Il discorso conclude:
""Divenendo disgustato da tutto questo, egli diviene libero dal desiderio;
libero dal desiderio, diventa liberato; nel Liberato sorge la conoscenza: sono
liberato; le rinascite sono finite, la santit perfetta, il dovere compiuto;
non ci sar pi ritorno in questo mondo; egli lo sa"".
C' da osservare che questo discorso diretto da Gautama ad un'assemblea di
Fratelli gi iniziati ed ordinati, gi abituati al pensiero dell'origine e del
declino. Un metodo leggermente differente adoperato nel rivolgersi a laici non
iniziati, come gli 80.000 anziani dei villaggi mandati dal re Bimbisara al
Buddha perch li istruisse. Ad essi Gautama si rivolge con uno stile molto pi
popolare, latte e miele rispetto al primo. Quando in un altro punto il Buddha
accusato di favoritismo, poich insegna la dottrina pi profonda ai suoi
discepoli e cose pi semplici al pubblico, egli propone l'esempio dei lavori di
un agricoltore, il quale dedica pi cure ai campi maggiormente produttivi (i
Fratelli), un po' di meno ai campi meno fertili (i laici buddhisti) ed ancora di
meno al suolo infecondo (coloro che non accettano la Buona Legge).
La disciplina l'argomento di cui tratta nel Vinaya Pitaka; il Sutta Pitaka, i1
"Canestro di Sutta", la nostra principale fonte per la dottrina del Buddha

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esposta con argomenti e dialoghi. Vi sono inclusi anche i "Salmi di Fratelli e


Sorelle", la produzione letteraria pi importante del Buddhismo originario, e i
Jataka, che inglobano la collezione pi ampia ed antica esistente di folklore.
Il Sutta Pitaka diviso come segue:
1. Digha Nikaya; 2. Majjhima Nikaya; 3. Samyutta Nikaya; 4. Anguttara Nikaya; e
5. Khuddaka Nikaya. Quest'ultimo, a sua volta, include: 1. Khuddakapatha; 2.
Dhammapada; 3. Udana; 4. Itivuttaka; 5. Suttanipata; 6. Vimanavatthu; 7.
Petavatthu; 8. Theragatha; 9. Therigatha; 10. Jataka; 11. Niddesa; 12.
Patisambhidamagga; 13. Apadana; 14. Buddhavamsa; e 15. Cariyapitaka.
Il primo dei Digha Nikaya Sutta chiamato la "Rete Perfetta". Si suppone che in
questa rete si prendano ed espongano ciascuna delle sessantadue diverse teorie
che derivano dall'antica concezione animistica dell'anima come un'entit sottile
e permanente, all'interno del corpo, e indipendente dalla vita del corpo. Questi
diversi "sgusciamenti di anguilla", come li chiama Gautama, egli afferma siano
tutti presi in trappola nella rete delle sessantadue modalit:
"Essi si tuffano di qua e di l, ma sono in essa; essi possono agitarsi di qua e
di l, ma sono rinchiusi in essa, catturati. Proprio, Fratelli, come quando un
abile pescatore o un pescatore novizio volesse pescare in un minuscolo stagno
d'acqua con una rete a maglie sottili e pensasse a ragione: "Qualsiasi pesce di
qualsiasi taglia ci possa essere in questo stagno, saranno tutti presi in questa
rete; che si agitino quanto possono, vi resteranno dentro, catturati"".
Sfortunatamente in tutti questi casi sentiamo solo una campana, che pare sempre
non lasciare via di scampo agli "abili assolutisti". Se mai Gautama avesse
incontrato un degno avversario, ci sarebbe piaciuto sentire cosa sarebbe
successo in simile occasione.
Di interesse pi consistente il Sutta sui Frutti della vita di un pellegrino.
Troviamo qui, inoltre, non un punto di vista puramente buddhistico, ma pi
genericamente indiano. L'intero Sutta costituisce una risposta alla domanda:
quali vantaggi ci sono nella vita di un anacoreta? Il re Ajatasattu di Magadha
fa notare i vantaggi che gli uomini ottengono con le loro occupazioni mondane, e
desidera sapere che frutti corrispondenti, che si vedano qui ed ora, colgano i
membri di un ordine ascetico. Gautama risponde che il frutto della vita pu
essere visto in:
1. L'onore e il rispetto tributati a un uomo simile dagli altri nel mondo; anche
il re, ad esempio, mostra rispetto per un uomo che precedentemente sia stato
schiavo o servo, se adotta la vita errante; 2. l'esercizio della pura moralit,
con gentilezza, onest, castit, ecc.; 3. la tranquillit, la libert dalla
paura, ecc., nate dalla rettitudine cosciente; 4. e 5. la concentrazione e il
dominio di s; 6. la soddisfazione con poco; 7. l'affrancamento dai cinque
impedimenti: cupidigia, cattivo carattere, pigrizia, ansiet e perplessit; 8.
la conseguente gioia e pace; 9. la pratica dei quattro jhana; 10. il
discernimento che sorge dalla conoscenza; 11. il potere di proiettare immagini
mentali, 12. le cinque modalit di chiaroveggenza (lettura del pensiero,
audizione, ecc.);
[nota: Queste sono pratiche generalmente, ma non necessariamente sempre,
condannate nelle scritture del Buddhismo originario]
e, per finire, 13. (che l'unica caratteristica specificamente buddhistica), la
realizzazione delle quattro Verit, la distruzione del flusso della passione, e
il raggiungimento dello stato di Arahatta.
L'argomentazione si conclude cos:
"Cos il puro Occhio celeste, che sorpassa quello degli uomini, vede gli esseri
che spariscono da uno stato di esistenza, e prendono forma in un altro;
riconosce il mediocre e il nobile, il favorito e lo sfavorito, il felice e lo
sfortunato, che trapassano con modalit conformi alle loro azioni".
[nota: Cito questo passo dell'Occhio celeste (Dibba-cakkhu) - visione
onnisciente di tutto ci che avviene nel Kamaloka e nel Rupaloka - perch la
stessa idea in forma meno mitica ricorre frequentemente nelle scritture indiane,
riferendosi all'intuizione degli uomini superiori in generale; essa pu essere
confrontata con altre, ad esempio in Chuang-tzu: "La mente del Saggio in riposo
diventa lo specchio dell'universo, lo specchio di tutta la creazione", e William
Morris: "Mi sembra che non passi ora del giorno senza che l'intero mondo mi si

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mostri". I Buddhisti riconoscono anche il Dhamma-cakkhu ("Occhio della verit")


e il Panna-cakkhu ("Occhio di saggezza"). Nella mitologia indiana questi tre
modi di "visione" sono simboleggiati dal terzo occhio che si localizza nella
fronte di Siva.]
E l'anacoreta percepisce le quattro Verit degli Ariya, "e sa che la rinascita
stata distrutta. La vita pi (elevata) stata raggiunta. Ci che c'era da fare
stato compiuto. Dopo questa vita presente non ce ne saranno pi altre!
"Proprio come, o re, se in un ridotto di montagna ci fosse una pozza d'acqua,
chiara, trasparente, e limpida; ed un uomo, standole a fianco, e con occhi
acuti, vedesse i crostacei, la ghiaietta, i ciottoli, e la quantit di pesci che
si agitano o riposano in essa: egli saprebbe: "Questa pozza chiara,
trasparente e limpida, vi sono i crostacei, la sabbia e la ghiaia, e i branchi
di pesci vi si muovono o stan fermi".
"Questo, o re, un frutto immediato della vita di un anacoreta, visibile in
questo mondo, pi elevato e dolce di quelli detti prima. Non c' frutto della
vita di un anacoreta, visibile in questo mondo, che sia pi elevato e pi dolce
di questo".
Il Tevijja Sutta, uno dei pochissimi testi che facciano notare il vantaggio
della rinascita nei cieli di Brahma, anche se lascia da parte l'idea
fondamentale dello stato di Arahatta, interessante per la bella descrizione
dei quattro Stati d'animo Sublimi i quali, se pur non sono il fine della cultura
buddhistica, ne costituiscono in ogni caso l'inizio:
"Egli fa in modo che la sua mente pervada tutto un punto cardinale con pensieri
d'amore, e cos un secondo punto cardinale, un terzo ed un quarto. Cos l'intero
mondo, sopra, sotto, intorno, e dappertutto, egli continua a pervaderlo con il
Cuore d'Amore, che si espande lontano, e aumenta, smisuratamente.
"Cos come, Vasettha, un potente trombettiere si fa udire - e
senza difficolt - in tutte le quattro direzioni dello spazio; cos tutte le
cose che hanno forma o vita, non ce n' nessuna a cui egli passi a lato, o che
lasci indietro, senza guardarle tutte con mente liberata, e amore sentito in
profondit.
"Veramente questa, Vasettha, la via per uno stato di unificazione con Brahma".
Esattamente la stessa formula ripetuta per i tre altri Stati d'Animo,
Compassione, Simpatia, e Imparzialit.
Il Sigalavada Sutta consiste in un discorso in cui il Buddha espone ad un
giovane laico i doveri di chi vive nel mondo, in generale conformit con le
ingiunzioni delle scritture brahmaniche.
Il Maha Parinibbana un sutta di maggiore importanza; esso infatti il grande
sutta della Completa Liberazione, in cui sono raccontati gli ultimi giorni e le
ultime parole del Maestro. Alcune parti risalgono quasi certamente al ricordo
degli immediati discepoli del Buddha. Indubbiamente antico, ad esempio, il
famoso detto:
"Allora, o Ananda, siate lampade per voi stessi. Siate il vostro proprio
rifugio. Attenetevi fermamente alla Norma come vostra luce, fermamente alla
Norma come vostro rifugio".
Cos per la descrizione del disperato dolore di Ananda, che si appoggia allo
stipite di una porta, piangendo, finch il Maestro non lo manda a chiamare per
dirgli parole di consolazione. Molti dei versi, disseminati in mezzo alla prosa,
che seguano momenti di alta emozione, devono essere antichi. In tutti questi
passi pi antichi il Buddha parla sempre come uomo tra gli uomini; ma altrove,
nella stessa opera, si parla anche liberamente di poteri soprannaturali e
portenti. Una certa quantit di citazioni da questo sutta gi stata riportata
in capitoli precedenti.
Il Payasi Sutta sostiene un'argomentazione in favore dell'esistenza di un'anima,
argomentazione che completamente contraria al vero spirito del pensiero del
Buddhismo originario. Il sostenitore della posizione buddhistica qui il
venerabile Kumara Kassapa, e non lo stesso Gautama; si sostiene che questa sia
la posizione buddhistica, ed assai curioso vedere uno scettico Payasi
domandare: "Come fa il Maestro Kassapa a conoscere
tutte queste cose: che ci sono trentatr divinit, o che le trentatr divinit
vivono cos a lungo? Non gli crediamo quando dice queste cose". evidente che
almeno alcuni dei Buddhisti originari, prendevano molto sul serio il loro
pantheon di divinit minori.

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Il Majjhima Nikaya contiene un certo numero - 152 - di discorsi e di dialoghi


pi brevi di quelli del Digha Nikaya.
Il Samyutta Nikaya contiene cinquantasei gruppi di sutta che trattano di
argomenti o persone in relazione tra di loro. Il Marasamyutta, e il
Bhikkunisamyutta, ad esempio, che costituiscono la quarta e la quinta serie,
contengono un gruppo di leggende in cui Mara il Tentatore appare al Buddha, ai
suoi discepoli, o a una o all'altra delle Sorelle, cercando di scuotere la loro
fede. Questi sutta sono redatti in una forma antica di conte fable, con prosa e
versi alternati. Il nome indiano di questo tipo di narrazione akhyana. Alcune
di queste ballate sono tra i pi bei poemi dell'India antica; in essi
riconosciamo anche molti elementi di un dramma primitivo, cio il materiale da
cui il dramma pu essersi sviluppato, ma non possiamo parlare di essi come di
veri e propri drammi buddhistici, perch n essi sono sufficientemente
elaborati, n un'attivit mondana come il dramma era tollerata dalla regola dei
Fratelli. Solo in un'epoca notevolmente pi tarda (Asvaghosha) troviamo poeti
buddhistici che scrivono deliberatamente lavori drammatici. Delle ballate
spirituali che stiamo considerando, la seguente di Gotami la Snella - la storia
della cui conversione gi stata da noi raccontata - servir ottimamente da
esempio:
"Cos ho udito. Una volta il Maestro stava a Savatthi, nel Bosco di Jetta, il
parco di Anathapindika. La Sorella Kisa Gotami si vest di buon mattino, e
portando la ciotola per elemosine sotto l'abito, and a Savatthi a mendicare il
suo cibo. Quando fu stata a Savatthi e torn con ci che aveva raccolto, mangi,
e poi entr nel Bosco Scuro, e si sedette ai piedi di un albero pensando di
passarvi la giornata.
"Allora Mara il maligno, desiderando far sorgere in lei il timore, l'agitazione
e il terrore, per farla desistere dalla sua concentrazione, si avvicin a lei.
Egli si rivolse a Kisa Gotami con i versi seguenti:
"Come mai tu te ne stai seduta
con il viso bagnato di pianto
quale una madre che ha perso il figlio?
Che abita qui tutto solo
nelle profondit della foresta,
non sar forse un uomo, quello che stai cercando?
"Allora Gotami la Snella riflett: "Chi costui? un essere umano o no, che ha
pronunciato questi versi?" E le venne in mente: " Mara il maligno, che cerca di
far sorgere in me timore, agitazione, e paura, e che vorrebbe farmi desistere
dalla mia concentrazione; egli ha recitato i versi". E quando la Sorella Kisa
Gotami seppe che era Mara, gli rispose con i versi seguenti:
" vero, certo, che io sono quella
il cui figlio perduto per sempre:
per quanto riguarda gli uomini,
non sono difficili da trovare!
Io non piango e non gemo,
n ho paura di te, amico mio:
il mio amore per il mondo completamente distrutto,
l'oscurit recisa in due
e io ho vinto gli eserciti della Morte
e risiedo qui liberata da tutti gli influssi mortali.
[nota: Le parole "per sempre" suggeriscono il pensiero che sebbene Gotami avesse
perduto suo figlio, essendo un'Arahat, non avrebbe mai pi sofferto per una
simile perdita.]
"A questo punto Mara spar, triste e deluso, pensando: "La Sorella Gotami mi
conosce".
L'Anguttara Nikaya un'opera molto ampia, che contiene in tutto 2.308 sutta.
Essi sono suddivisi in sezioni, numerate da una a undici; i sutta di ogni
sezione trattano di cose, che sono tante qual il numero della sezione stessa.
Cos, nella seconda sezione i sutta parlano delle due cose che un uomo deve
respingere, dei due tipi di Buddha, delle due virt della vita nella foresta;

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nella terza sezione i sutta parlano della triade di pensiero, parola e azione e
dei tre tipi di monaci; nella quarta sezione, si esaminano le quattro cose che
portano alla cessazione del divenire, delle quattro che portano al purgatorio,
delle quattro che portano al paradiso, e cos via; nell'ottava sezione si parla
degli otto modi in cui l'uomo e la donna si ostacolano uno con l'altra, e delle
otto cause di un terremoto; nella decima sezione, dei dieci poteri di un Buddha.
Non c' forse bisogno di farlo notare, ma la stesura formale e pedante, e il
tono generale piuttosto asciutto. Uno dei migliori passi, comunque, quello che
parla dei tre messaggeri degli Dei - vecchiaia, malattia, e morte - dei quali il
re Yama chiede notizie ai peccatori che vanno in purgatorio:
""O uomo, non hai visto il primo messaggero della morte apparire visibilmente
tra gli uomini?"
"Egli risponde: "Signore, non l'ho visto".
"Allora, o Fratelli, il re Yama gli dice: "O uomo, non hai visto, fra gli
uomini, un uomo o una donna di ottanta, o novanta, o cento anni, decrepito,
incurvato come la trave inclinata di un tetto a spiovente, ricurvo e appoggiato
a un bastone, che vacillava camminando, miserevole, da cui la giovent era
fuggita da molto, con i denti rotti, i capelli grigi e quasi calvo, barcollante,
con la fronte rugosa e con il viso chiazzato?"
"Egli risponde: "Signore, s".
"Allora, o Fratelli, il re Yama gli dice: "O uomo, non ti sopravvenuto il
pensiero, essendo una persona di intelligenza ed et mature: 'Anch'io sono
soggetto alla vecchiaia e non ne sono assolutamente esente. Da ora, agir
nobilmente, nelle azioni, nelle parole, e nei pensieri'?"
"Egli risponde: "Signore, non ho potuto. Signore, non ci ho pensato".
"Allora, o Fratelli, il re Yama gli dice: "O uomo, a causa della tua
irriflessione non sei riuscito ad agire nobilmente nelle azioni, nelle parole, e
nei pensieri. Cos anche tu sarai trattato, o uomo, in accordo con la tua
leggerezza... Sei tu che ti sei costruito questa malattia, e tu solo ne patirai
le conseguenze!""
Dal punto di vista letterario possiamo notare tre caratteristiche dei sutta
considerati fino ad ora. Prima di tutto, le ripetizioni, di cui si pu trovare
un esempio nel Discorso del Fuoco citato sopra. quasi impossibile presentare
testi simili ad un lettore moderno senza farne un condensato, senza usare la
congiunzione "e", e senza pronomi, come sono nell'originale, per non parlare
della tediosa ripetizione di ogni frase e di ogni sfumatura di pensiero.
"I periodi di questi discorsi", dice il Prof. Oldenberg, "nella loro immobilit
e rigida uniformit, privi di luci ed ombre, sono un'accurata pittura del mondo
come appariva agli occhi di quella fraternit monastica, il severo mondo
dell'origine e della decadenza, che procede come il meccanismo di un orologio in
un percorso sempre uniforme, ed oltre il quale sta l'immensa profondit del
Nirvana. Nelle parole di questo ministerio, non Si sente nessun suono di lavorio
interno... Nessun appello appassionato agli uomini perch entrino nella fede,
nessuna amarezza per il miscredente che se ne allontana. In questi discorsi, una
parola, una frase posta dietro a un'altra in un silenzio di tomba, sia che
esprima la cosa pi insignificante come la pi importante. Cos come, per la
coscienza buddhistica, i mondi di divinit e uomini sono regolati da una
necessit senza fine, cos lo sono anche i mondi delle idee e delle verit:
anche per queste c' una, ed una sola, forma necessaria di conoscenza e di
espressione, e il pensatore non crea egli stesso questa forma, ma adotta quella
che ha pi a portata di mano... E cos si accumulano quelle ripetizioni senza
fine, che i discepoli del Buddha non si stancavano mai di ascoltare sempre da
capo e di onorare ancora e ancora con il rispetto dovuto al pensiero sacro".
Forse gli autori buddhistici erano cos impegnati ad ammirare l'eccellente
dottrina, che non erano in grado di avvertire come le ripetizioni fossero un po'
noiose; forse gli sembrava di non poter ascoltare mai troppo spesso quelle
verit, cos difficilmente conquistate, che li avevano resi liberi. Un riflesso
di questo modo di vedere le cose l'abbiamo in uno degli Editti di
Asoka, nel quale l'imperatore dice:
"Certe frasi sono state ripetute tante e tante volte a causa della dolcezza
mielata di tale o tal altro argomento, nella speranza che la gente agisca in
base ad esse".
I Buddhisti delle origini non avevano alcun desiderio di rendere "gradevoli" le
loro scritture, ed verissimo che queste "hanno un unico gusto". Nello stesso

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tempo, assai probabile che un tale stile, estremamente serio ed effettivamente


anche un po' pesante, reso eloquente proprio dalla sua estrema seriet non si
pu negare che il metodo della ripetizione abbia una sua solennit cumulativa,
una specie di nobile e paziente austerit, una "monotonia sublime" - riflettesse
veramente il modo di esprimersi dello stesso Buddha. Poich Gautama non - come
Ges - un poeta e un mistico, ma uno psicologo: egli non parla a pescatori
incolti, ma a metafisici esperti, e in un'atmosfera di controversia: egli non
rivolge appelli personali, parla con tattica ben studiata, pi che con
entusiasmo o fervore, ed preoccupato di non lasciare aperte brecce a malintesi
accidentali o deliberati.
[nota: Se Gautama fosse realmente un mistico, come sostengono i Mahayanisti,
allora sarebbe in Buddhaghosha e in altri autori pali che dovremmo vedere i
principali responsabili del "Buddhismo pali".]
Naturalmente, egli avverte anche la preoccupazione che in futuro i discorsi pi
profondi possano essere trascurati in favore di composizioni pi artistiche ed
attraenti:
"Ci sono alcuni", egli dice, "che ascoltano volentieri le opere di miei seguaci
che sono poeti, poetastri, littrateurs, o mistici... i quali permettono che i
discorsi del Tathagata, di contenuto profondo, trascendente, e dedicato alla
dottrina del vuoto, siano dimenticati".
Possiamo cos pensare che i libri pi poetici e letterari siano stati ammessi
solo a poco a poco e con una certa difficolt nel canone; e questa
probabilmente la spiegazione del fatto che essi sono prevalentemente riuniti in
un Nikaya, il Khuddaka, che fu molto probabilmente incluso nelle scritture
autorevoli in un'epoca relativamente tarda, sebbene contenga in abbondanza
argomentazioni antiche a fianco di quelle pi recenti.
La seconda caratteristica che si riscontra nei sutta di cui abbiamo parlato fino
ad ora il metodo dialettico dell'argomentazione del Buddha. Il tono del suo
discorso sempre cortese ed amichevole:
"II metodo seguto sempre lo stesso. Gautama si pone per quanto possibile
nella posizione mentale dell'interlocutore. Non aggredisce mai le convinzioni a
cui quest'ultimo pi attaccato. Accetta come punto di partenza della sua
esposizione la desiderabilit dell'atto o della condizione apprezzati dal suo
oppositore... Spesso adotta la fraseologia stessa dell'interlocutore. E allora,
in parte dando un nuovo e (dal punto di vista buddhistico) pi profondo
significato alle parole, in parte rifacendosi alle concezioni etiche che sono
terreno comune tra di loro, gradualmente conduce il suo avversario alla propria
conclusione. Che , naturalmente, sempre lo stato di Arahatta".
Questo il metodo del dialogo socratico; e possiamo anche supporre che nei
Dialoghi esistenti ci sia stato almeno conservato tanto dell'insegnamento
autentico di Gautama, quanto Platone ci ha preservato degli insegnamenti di
Socrate. Il metodo, in ogni caso, presuppone una certa conoscenza del punto di
vista degli avversari di Gautama, poich, come fa notare giustamente il Prof.
Rhys Davids, l'argumentum ad hominem non pu mai essere solo e semplicemente
un'affermazione generale, senza nessun riferimento ai punti di vista
antagonisti. C' per anche lo svantaggio che l'argomentazione costruita in
modo da condurre ad una conclusione inevitabile, e per quanto la sequenza logica
possa essere indiscutibile, l'attribuzione di un nuovo senso alle parole qualche
volta "mette con le spalle al muro" l'avversario senza scontrarsi con la sua
posizione reale. In altre parole, non sentiamo veramente le due versioni
sull'argomento. Come commenta giustamente il Prof. Oldenberg: "Chi conversa con
Buddha solo capace di dire: "S", ed eventualmente di convertirsi, se
convertito non gi". Per quanto soggetti a questa limitazione, e a parte le
ripetizioni un po' tediose, possiamo comunque riconoscere che i Dialoghi sono
abilmente costruiti ed espressi in un linguaggio misurato e dignitoso.
Una terza caratteristica specifica dei sutta l'uso costante di paragoni e
parabole. Un esempio, ovviamente, non un argomentazione, ma spesso pi utile
di qualsiasi sequenza di fitti ragionamenti in senso stretto per convincere
l'ascoltatore. Molti degli esempi portati sono ben fondati, ed oltre a possedere
un loro valore educativo, gettano un'intensa luce sulla vita di tutti i giorni
nell'India antica, luce che la benvenuta per lo storico dei costumi. Quelli
che si riferiscono agli artigiani, ad esempio, sono particolarmente

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interessanti. Leggiamo quindi:


"Come, o re, un abile vasaio o il suo apprendista possono fare, i quali riescono
ad ottenere da argilla adeguatamente preparata qualsiasi forma di recipiente che
vogliano ottenere, o uno scultore d'avorio dall'avorio, o un orefice dall'oro:
cos, o re l'Abilit che un frutto immediato della vita di un anacoreta".
Samanna-phala Sutta.
E riferendosi alla pratica degli esercizi respiratori, e di concentrazione:
"Come un abile tornitore, o un apprendista tornitore, che lascia lunga la sua
corda, o la tira per accorciarla, cosciente di star facendo una cosa o
l'altra, cos deve fare il Fratello inspirando ed espirando". Maha
Satthipatthana Sutta.
Un esempio molto ricorrente quello della lampada ad olio:
"Come, Fratelli, una lampada ad olio brucia olio e stoppino, e un uomo di tanto
in tanto aggiunge olio e rinnova lo stoppino, questa lampada ad olio cos
riempita di combustibile brucia per un tempo molto pi lungo - cos, Fratelli,
cresce il desiderio nell'uomo che prova piacere nelle cose di questo mondo, che
in realt non sono altro che limiti". Samyutta Nikaya.
Un altro esempio molto usato quello del loto, perch:
""Come il loto nato nell'umido fango, cresce nell'acqua, emerge dall'acqua, ma
non contaminato da essa, cos sono io
sorto nel mondo, e sono passato oltre il mondo, e non sono contaminato dal
mondo", dice Gautama". Samyutta Nikaya.
Il loto diventato cos un simbolo di purezza; e nell'iconografia, quando
stato dato alla figura del Buddha un aspetto di apparizione, o nel caso di altri
esseri trascendenti, il piedistallo o sedile di loto un segno della loro
origine o natura di un altro mondo e divina. Inutile dire che il loto, in
letteratura, fonte di molte altre similitudini e metafore, per la maggior
parte non specificamente buddhistiche. Anche in generale, il loto rappresenta
inoltre qualcosa di eccellente e di propizio:
"Il ragazzo Vipassi, Fratelli, divent il beniamino e il prediletto del popolo,
cos come un loto blu, rosa, o bianco caro e amato da tutti, sicch egli era
letteralmente portato in palmo di mano da tutti". Mahapadana Sutta.
In un altro punto la vera vita spirituale paragonata a un liuto, le cui corde
non bisogna regolare troppo molli o troppo tirate; con questo si indica la
bilancia interna e l'armonia del carattere ideale. L'insegnamento della
salvezza, inoltre, paragonato al lavoro di risanamento del medico, il quale
estrae una freccia avvelenata dalla ferita, e applica le erbe medicamentose.
Qualche volta gli esempi sono umoristici, come quando si fa osservare che se un
uomo mungesse una vacca dalle corna, non otterrebbe latte; o che se uno
riempisse un contenitore di sabbia ed acqua, per quanto lo agitasse, non si
produrrebbe mai olio di sesamo; ed cos che un monaco non raggiunger mai la
sua mta se non vi si dirige per la strada giusta.
In altri casi la parabola non semplicemente senza valore come argomento
probante, ma assolutamente frivola. Quando, per esempio, si desidera esporre le
pretese sociali e spirituali dei Brahmani, Gautama chiede: se un fuoco fosse
acceso da un Brahmano, uno Kshattriya, un Vaishya e un Sudra; solo il fuoco
acceso dai Brahmani e dagli Kshattriya darebbe luce e calore, o non anche i
fuochi accesi dai fuoricasta, dai cacciatori e dagli spazzacamini? Il re con cui
Gautama sta parlando naturalmente pu rispondere solo che i fuochi non saranno
diversi nelle loro propriet. Ma cos'ha a che fare questo con una discussione
pr o contro lo schema brahmanico di differenziazione sociale? Che tutti gli
uomini abbiano molte caratteristiche in comune non prova che tutti gli uomini
siano uguali in ogni particolare, n nega i vantaggi di una cultura ereditaria:
L'intera discussione, come molte altre basate sull'analogia, non sta n in cielo
n in terra.
I contenuti del Khuddaka Nikaya sono molto vari. La maggior parte delle opere di
questa raccolta di aforismi, canzoni, poesie e favole hanno un certo carattere
artistico e letterario oltre che educativo, e per questa ragione esso ha molta
importanza nella storia letteraria dell'India. Anche qui una maggiore e relativa
importanza data all'etica, e la dottrina pi profonda occupa meno spazio. Il
Mangala Sutta, ad esempio, menziona il rispetto dei genitori, e l'affetto per la
moglie e i figli tra le azioni pi auspicabili. Ma nel Dhammapada che sono
principalmente riuniti gli aforismi etici. Questo libro in Europa pi noto di
qualsiasi altro testo buddhistico ed stato spesso tradotto. , infatti, degno

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dell'attenzione che ha attirato e del panegirico di Oldenberg:


"Per la comprensione del Buddhismo non potrebbe accadere niente di meglio che,
all'inizio degli studi su di esso, lo studente ricevesse da una mano propizia il
Dhammapada, la pi bella e ricca raccolta di proverbi, alla quale chi ha deciso
di studiare il Buddhismo deve tornare pi e pi volte".
Questa saggezza proverbiale traccia un quadro veritiero del pensiero e del
sentimento buddhistico, espressi in termini di emozione e poesia che rivestono i
temi della transitoriet e le formule di studio della mente umana di una tragica
mordacit, che spesso manca nei dialoghi a schema fisso.
"Come potete essere felici, come potete indulgere al desiderio? Le fiamme
bruciano continuamente. L'oscurit vi circonda: non vorreste cercare la luce?
"L'uomo raccoglie fiori; il suo cuore prova piacere. La morte lo sommerge, come
i flutti che inondano un villaggio, e lo spazzano via.
"L'uomo raccoglie fiori: il suo cuore si fissa sul piacere. Il Distruttore tiene
l'uomo dal desiderio insaziabile, in suo pugno.
"N nella regione dell'aria, n nelle profondit del mare, n
se penetrassi nelle fessure recondite delle montagne, tu potresti trovare un
luogo di questa terra dove la mano della Morte non sia in grado di raggiungerti.
"Dalla felicit proviene il dolore; dalla felicit proviene il timore. Chi si
sia liberato dalla felicit, il dolore non lo colpisce pi; come potrebbe
raggiungerlo il timore?
"Dall'amore viene il dolore; dall'amore viene il timore; chi liberato
dall'amore, il dolore non lo colpisce pi; come
potrebbe raggiungerlo il timore?
[nota: Questa verit, che ha penetrato cos profondamente il pensiero indiano,
bilanciata dal riconoscimento dell'impossibilit che la maggioranza degli uomini
possa astenersi dall'amore per timore del dolore, ed stata espressa con
tragica bellezza in un noto ritornello indiano, che pu essere tradotto cos: O
mia amata, se anche avessi saputo che l'amore porta dolore, forse che avrei
dovuto proclamare, battendo sul tamburo, che nessuno dovrebbe amare?]
"Chi guarda in basso verso il mondo, considerandolo come una bolla di sapone o
come un sogno, la Morte dominatrice non lo scorge.
"Chi ha attraversato la perversa e impraticabile via del samsara, che si
spinto avanti fino al termine, ha raggiunto la riva, ricco in meditazione,
libero dal desiderio, libero dall'esitazione; chi, liberato dall'essere, ha
trovato riposo, io lo proclamo
un vero Brahmano".
Il pensiero della transitoriet incombe costantemente su ogni altro pensiero:
"Vedendo queste ossa scolorite, che sono gettate in disparte, come zucche vuote
in autunno, come pu un uomo essere allegro?
"Stimando questo corpo come una bolla di sapone, considerandolo un miraggio,
spezzando il gambo del fiore del Tentatore, affrettati verso la meta, dove il
monarca Morte non ti vedr mai pi".
Chi arrivato col esclama:
"Viviamo nella gioia perfetta, senza nemici in questo mondo
di inimicizia; tra gli uomini colmi di inimicizia viviamo senza inimicizia.
"Viviamo nella gioia perfetta, sani tra i malati; tra gli uomini malati viviamo
senza malattia".
Leggiamo anche:
"Tutti gli uomini temono la punizione, tutti gli uomini amano la vita; ricorda
che anche tu sei come loro; non uccidere, n essere causa di uccisioni.
"La vittoria genera odio, perch il vinto infelice. Chi ha abbandonato sia la
vittoria che la sconfitta, quegli, contento, felice.
""Mi ha maltrattato, mi ha picchiato, mi ha battuto, mi ha derubato", in chi non
nutre simili pensieri l'odio cesser.
"Perch l'odio non ha mai potuto cessare attraverso l'odio: l'odio cessa per
mezzo dell'amore, questa una regola antica".
C' da notare che il Dhammapada un'antologia, pi che un'opera singola; molti
detti in esso contenuti hanno stretti paralleli in altri libri indiani come il
Mahabharata o lo Hitopadesa, e non pi di met possono essere considerati di
provenienza esclusivamente buddhistica.
L'Udana e l'Itivuttaka sono costituiti da prosa e poesia, e contengono una

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raccolta di detti
del Buddha. Il semplice aspetto etico del Dhamma, per esempio, si presenta in
essi nel modo seguente:
"Non dire maldicenze, non offendere,
mantenersi sobri in accordo con i precetti,
essere moderati nel cibo,
dormire soli,
concentrarsi in pensieri elevati,
questa la legge del Buddha".
Il Sutta-nipata, una raccolta di cinque sutta tutti in versi. Il Vasettha
Sutta, ad esempio, ritorna sulla vecchia questione di ci che faccia un
Brahmano, se la nascita o le caratteristiche proprie. In correlazione con questa
discussione, c' un notevole passo che afferma l'unit delle specie umane, un
punto di vista in accordo con la maggioranza (sebbene non con tutte) le autorit
moderne. Il passo procede, dopo aver menzionato i segni di distinzione tra
quadrupedi, serpenti, uccelli, ecc. in questo modo:
"Mentre in queste specie i segni distintivi tra specie e specie sono numerosi,
negli uomini i segni distintivi di ogni specie non sono molti.
"Non nei loro capelli, testa, orecchie, occhi, bocca, naso, labbra o fronti...
n nelle loro mani, piedi, palmi, unghie, polpacci, fianchi, colore o voce ci
sono segni distintivi di una specie in rapporto alle altre.
"C' differenza [di corpi] tra gli esseri dotati di corpo, ma non c' tra gli
uomini; la differenza tra gli uomini solo nel loro nome".
E quindi:
"Non per nascita si Brahmani, n per nascita non si Brahmani... ma per lo
sforzo, per la vita tradizionale, per l'autocontrollo e la temperanza, per
questo si Brahmani".
Fra tutte le opere del Khuddaka Nikaya, i "Salmi dei fratelli e delle Sorelle"
(Thera-theri-gatha) hanno un posto di primo piano per interesse letterario ed
umano. Per costruzione e bellezza questi canti sono degni di essere posti a
fianco degli inni del Rig Veda e dei poemi lirici di Kalidasa e Jayadeva. Ognuna
delle canzoni attribuita per nome ad un membro del Sangha che ha raggiunto lo
stato di Arahatta durante la vita di Gautama, e il commento che le segue spesso
aggiunge qualche parola a mo' di biografia dell'autore. Ma non dobbiamo riporre
troppa fiducia nei nomi, anche se la loro citazione ci porta non a torto a
supporre una grande variet di autori in questa raccolta. interessante notare
come l'analisi riveli certe differenze psicologiche tra le canzoni dei Fratelli
e quelle delle Sorelle: nelle seconde vi un tocco pi personale, e vi sono pi
aneddoti; nelle prime vi pi vita interiore e pi descrizioni della bellezza
naturale. Il contenuto di tutte le canzoni un piacere tranquillo, la pace
inesprimibile a cui sono giunti coloro che hanno lasciato il mondo e sono liberi
dai desideri e dal risentimento; ogni salmo come se fosse un piccolo canto di
trionfo - come l'inno che il Buddha rivolge al costruttore della casa, qui
attribuito all'Arahat Sivaka riferito all'esperienza interiore di chi parla.
Questi inni sono un'espressione personale di quegli ideali e di quegli scopi di
cui si parla nei testi pi "profondi". Da parte dei Fratelli molto spesso il
tema quello di una misoginia spinta all'estremo: il vero eroe colui che
chiude il cuore a "tutto ci che proviene dalla donna". Pi di un'immagine di
cadavere femminile in un campo di cimitero presentata con i particolari pi
sgradevoli; e cos alla fine la donna acquista una certa utilit, perch il suo
corpo in decomposizione insegna la lezione del disgusto; da qualsiasi altra
parte essa non potrebbe essere altro che un ostacolo per coloro che vogliono
attenersi ai loro doveri. Sarebbe forse ingiusto contrapporre questo punto di
vista all'ideale brahmanico del matrimonio che uomo e donna devono vivere
precisamente per conformarsi ai loro doveri sociali e tradizionali, perch qui
si tratta di un ordine monastico, e la letteratura ascetica del Brahmanesimo ci
fornisce anch'essa testi misogini paragonabili con quelli del Buddhismo. Il
testo seguente pu servire come esempio delle canzoni dei Thera:
[nota: Le traduzioni che seguono sono tratte dalle eccellenti versioni della
Rhys Davis (Psalms of the Brethren, 1913). Le pi interessanti poesie dei
fratelli sulla Natura sono state da noi citate in precedenza.]

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Di Candana si racconta che quando gli nacque un figlio, lasci la sua casa per
l'Ordine, e si ritir nella foresta. Un giorno, avendo saputo che era immerso in
meditazione in un cimitero, sua moglie cerc di riportarlo alla vita del padre
di famiglia. Fu invano; e questa la "testimonianza" dell'Arahat:
Ornato d'ori, un gruppo di fanciulle per corteo,
portandosi il bambino sopra un fianco,
mia moglie s'accost.
Mi accorsi dal suo incedere, la madre di mio figlio,
in simile apparecchio costituiva un tranello di Mara.
Ma allora sorse in me, pensiero pi profondo:
"Al fatto attento e alla sua causa".
In tutto ci insisteva miseria manifesta;
disgusto, indifferenza,
possedette la mente;
fu libero il mio cuore.
Si osservi della Norma il giusto ordine!
La Triplice Saggezza ho fatta mia,
fatto tutto ci che il Buddha disse.
Il seguente poemetto un estratto dal "Salmo di Revata":
Da quando da casa me ne andai,
verso la vita errante,
mai pi con mente conscia nutrii
n desideri o piani che non fossero degni d'un Ariyano
o colorati d'odio...
Non perdo tempo a temere la morte,
o a godere la vita. Attendo l'ora
a mo' d'un mercenario che ha concluso l'opera.
Non perdo tempo a temere la morte,
o a godere la vita.
Attendo l'ora con mente acuta e vigilando.
La mia fedelt e il mio amore
ha il mio Maestro,
del Buddha i precetti tutti ho seguto.
Deposto il fardello che portavo,
ragion di rinascita in me non troverai.
Il Bene per cui ho ripudiato il mondo,
lasciando casa mia per vagare errando,
quel Bene Supremo io l'ho ottenuto,
e ogni legame o ceppo l'ho distrutto.
Molto pi poetici dei versi ispirati dalla paura dei Fratelli verso le donne,
viste come la forma pi subdola di trappola mondana, sono quelli delle Sorelle,
le quali riflettono sullo sfiorire della loro giovinezza e bellezza, e prestano
attenzione alla lezione della transitoriet; tra questi nessuno pi
interessante di quello della cortigiana Ambapah, di cui abbiamo gi narrato la
generosit verso l'Ordine; essa si convert a causa della predica del figlio, e
studiando la legge dell'impermanenza, che poteva osservare nel suo corpo che
invecchiava; tutto ci si espresse nelle strofe seguenti (in tutto diciannove,
di cui ne cito cinque):
Neri e brillanti come peluria d'ape
un tempo si svolgevano i miei ricci.
Pi simili alla canapa, e cristosi, essi son ora,
con il passare degli anni.
Cos, non altrimenti, dice la runa,
il verbo del Veridico.
Folte come un boschetto ben piantato,
morbide al pettine, ordinate e divise,
le belle trecce son ora cadenti e scarmigliate

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con il passar degli anni.


Cos, non altrimenti, dice la runa,
il verbo del Veridico.
Grazioso era il disegno delle orecchie,
come un lavoro d'orafo, prezioso.
Rugose e pendenti esse son ora,
con il passar degli anni.
Cos, non altrimenti, dice la runa,
il verbo del Veridico.
Un tempo pieni e dal contorno rosa,
i miei piccoli seni, cadenti son ora e raggrinziti,
come otri senz'acqua,
con il passar degli anni.
Cos, non altrimenti, dice la runa
il verbo del Veridico.
Cos era il mio corpo.
Consumato dagli anni, debole e brutto,
ricetto di malanni multiformi,
ora vecchia dimora a cui cade l'intonaco.
Cos, non altrimenti, dice la runa,
verbo del Veridico.
"Ed cos che la Theri, dai segni visibili della caducit della sua persona,
comprese la transitoriet di tutti i fenomeni dei tre piani, e tenendola in
mente, rilev i segni della malattia (dukkha) e della non-anima (anatta), e
schiarendo il suo discernimento nel procedere della via raggiunse lo stato di
Arahatta".
[nota: La Rhys Davids commenta: "E interessante notare come si ritrovino qui
queste due antiche istituzioni, la prostituta della comunit e la Donna Saggia
con il suo monopolio della facolt di vedere-le-cose-come-stanno, sono-state e
saranno - riunite in una sola poesia".]
Le parole di Sundari-Nanda, un'altra sorella, riassumono lo stesso modo di
pensare:
Non pi del corpo mio ormai mi curo;
spassionata ormai la mia coscienza.
Da illimitato zelo solo animata, staccata, in pace e serena,
io gusto la calma del Nibbana.
Un altro lavoro composito, e della pi grande importanza per la storia della
letteratura e della socialit, il libro dei Jataka, o storie delle nascite
precedenti di Gautama. Originariamente esso era costituito esclusivamente da
versi, ai quali il copista deve aver aggiunto una spiegazione verbale. Ora essi
sono conservati sotto la forma del Jatakavannana pali, in cui i versi sono
inseriti in una struttura formale le cui parti principali sono un episodio
introduttivo e l'identificazione finale di personaggi; tra queste due parti
contenuta la storia propriamente detta, costituita da prosa e versi. Ognuno di
questi quattro elementi, come fa notare il Prof. Rhys Davids, ha avuto una
storia a s: l'antico libro dei Jataka conteneva soltanto i versi; il necessario
commento orale che accompagnava la citazione dei versi fu in seguito trascritto
e costituisce la storia in prosa, che riassunta, e, in certo qual modo,
ripetuta dai versi antichi; nacque cos la struttura scolastica che conosciamo.
I Jataka non furono completati sotto questa forma se non dopo il secolo V d.C.
Comunque sia, abbiamo ragione di credere che le storie cos conservate si
rifacciano fedelmente alla vecchia tradizione trasmessa almeno a partire dal
secolo III a.C., giacch un numero considerevole di queste storie illustrato
nelle note sculture di Bharhut, le quali sono definite con i loro nomi, e che
almeno in un caso portano anche mezzo verso. Da queste sculture apprendiamo che
i racconti e le favole popolari furono adattate a scopo educativo molto presto

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nella storia del Buddhismo, esattamente come nelle stesse sculture adattata ai
princpi buddhistici l'arte popolare e secolare.
Oltre a ci, c' da osservare che sebbene le storie siano ora adattate ai
princpi di edificazione buddhistici, esse appartengono alla letteratura indiana
pi che a quella specificamente buddhistica. In realt, la regola dell'Ordine
proibisce ai Fratelli di ascoltare storie di re e regine, guerre, donne,
divinit, fate, e cos via, e deve quindi essere passato qualche tempo prima che
i Buddhisti arrivassero a pensare che i Jataka erano stati veramente raccontati
dal Buddha stesso. Anche qui, perci, il fatto stesso che si porti tanta
attenzione sulla dottrina dei Bodhisattva, e che si dia una cos grande
importanza all'antica "decisione" del Brahmano Sumedha (nei Jataka), insieme ai
riferimenti introduttivi e d'altro genere ai ventiquattro "Buddha precedenti",
fanno pensare al libro dei Jataka come a un notevole esempio di sviluppo della
scolastica e della teologia buddhistiche, e si potrebbe addirittura dire che si
tratti di un testo del Mahayana, anche se invece incluso nel canone pali.
Molte delle storie in esso contenute sono anteriori al Buddhismo e, nonostante
siano rivestite di significati buddhistici, non datano dal tempo di Gautama, ma
ci danno un'immagine autentica della vita indiana del secolo V a.C. A parte il
loro valore letterario, questo solo fatto rende la raccolta dei Jataka molto
interessante; per cui essa la "pi fedele, pi completa, e pi antica raccolta
di folklore esistente in tutta la letteratura mondiale".
I Jataka sono molto vari sia negli argomenti che in quanto a valore letterario;
essi sono molto variabili anche in lunghezza; alcuni sono secchi e senza
spirito, altri esprimono un semplice buon senso moraleggiante, altri ancora
elaborano la dottrina sistematica dei Buddha anteriori e le caratteristiche del
Bodhisattva come esempi delle dieci grandi virt (Paramita), mentre altri infine
sono lavori dell'arte pi raffinata, ed espongono con intensit toccante il
dramma delle emozioni umane: alcuni sono frammenti epici, con un marcato profumo
aristocratico, altri sono lavori di misogini senza fantasia, altri sono ballate
popolari, e molti sono poco pi che racconti per bambini. Tutto questo
facilmente spiegabile con l'eterogeneit degli autori della raccolta, e con la
variet delle classi e delle occupazioni di coloro che furono reclutati
nell'Ordine dei pellegrini buddhisti.
Tra le storie pi semplici ci sono molte favole dalla diffusione mondiale, come
quella dell'asino nella pelle del leone, storie di bestie riconoscenti e di
uomini irriconoscenti; ci sono anche storie di demoni e fate, re cannibali e
stregoni, capaci di soddisfare i cuori di ogni bimbo o popolo infantile. Di
tutt'altro genere sono i brani epici formali, fra cui un rifacimento di alcune
antiche ballate di cui Rama il personaggio, analoghe a quelle che
costituiscono la base del Ramayana. Qui citeremo soltanto un Jataka un po'
estesamente, il Chaddanta Jataka (il quale per forse il pi bello), a cui
aggiungeremo inoltre un breve riassunto di quell'altro, il Vessantara Jataka,
che resta uno dei pi amati, forse perch espone la "generosit sovrumana" del
Bodhisattva nel corso della sua ultima incarnazione prima dell'ottenimento dello
stato di Buddha.
Chaddanta Jataka
Episodio introduttivo: Una ragazza di Savatthi di nobili natali, riconoscendo la
miseria della vita mondana, aveva adottato il modo di vivere errante, e un
giorno che sedeva con altre Sorelle, ad ascoltare l'insegnamento del Maestro, le
sopravvenne il pensiero:
"In una vita precedente sono stata una serva delle sue mogli?"
Ricord allora che al tempo dell'elefante Chaddanta, ella stessa era stata sua
moglie, ed il suo cuore si riemp di gioia. Ma "Ero ben disposta o mal disposta
verso di lui?" si chiese, "Poich la maggior parte delle donne sono mal disposte
verso i loro mariti".
Allora ricord di aver nutrito rancore contro Chaddanta, e di aver mandato un
cacciatore con una freccia avvelenata, perch gli strappasse le zanne. Per
questo la colse il rimorso, il suo cuore avvamp, ed ella ruppe in singhiozzi e
pianse forte. Vedendo ci, il Maestro sorrise, ed essendo interrogato dai
Fratelli rispose:
"Fratelli, questa giovane Sorella piangeva per un'offesa che mi ha fatto tanto

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tempo fa".
Cos dicendo raccont una storia del passato.
Una volta il Bodhisatta era nato nell'Himalaya come figlio del capo di un branco
di elefanti. Egli era di un bianco candido, con piedi e muso rossi; quando
crebbe divenne il capo di un grande branco, ed adorava i Buddha personificati.
Le due regine erano Cullasubhadda e Mahasubhadda. Un anno riferirono:
"Il grande bosco di sal in fiore"; e cos egli si rec in quel luogo con tutto
il suo branco.
Durante il percorso urt un albero sal con la fronte, e poich Cullasubhadda era
controvento, ramoscelli, foglie secche e formiche rosse le caddero addosso,
mentre Mahasubhadda stava sottovento, cos che le caddero addosso fiori, polline
e foglie verdi. Cullasubhadda pens:
"Fa cadere i fiori e il polline sulla sua moglie favorita, e i rametti e le
formiche rosse su di me", e cos ne ebbe risentimento.
In un'altra occasione, quando gli fu offerto un fior di loto a sette petali,
Chaddanta lo regal a Mahasubhadda.
Allora Cullasubhadda divenne ancora pi irritata, ed and ad un tempio dei
Buddha personificati, fece offerte di frutti selvatici, e preg:
"In seguito, quando trapasser, vorrei rinascere come figlia di un re, per poter
diventare la moglie del re di Benares. Allora gli diventer cara, potr
esercitare la mia volont, e potr fargli mandare un cacciatore con una freccia
avvelenata che ammazzi questo elefante e mi porti le sue sestuple zanne".
In seguito divenne effettivamente la regina sposa del re di Benares. Ricord la
sua vita precedente, e pens:
"La mia preghiera stata esaudita".
Si finse malata, e persuase il re a esaudire un suo desiderio, che era l'unico
mezzo per recuperare la sua salute e i suoi spiriti vitali; avrebbe detto in
cosa consisteva il suo desiderio quando tutti i cacciatori del re si fossero
riuniti. Questo era che uno di loro le portasse le zanne di Chaddanta. Apr una
finestra ed indic il nord dell'Himalaya dicendo:
L dimora, invincibile in potenza
questo elefante, bianco, con sei zanne,
signore di un branco forte di ottocento capi
le cui zanne sono come timoni di carri,
e veloci come il vento
nello stare in guardia e nell'attaccare!
Se vedessero un bimbo d'uomo
la loro furia lo distruggerebbe interamente,
E vide nel suo cuore il luogo stesso dove l'elefante si stava divertendo, e come
Uscito dal bagno e inghirlandato di loto,
si muove sulla pista di casa.
Vasto il suo boschetto, egli come un bianco giglio,
ed egli cammina verso una regina beneamata.
Di tutti i cacciatori, uno, di nome Sonuttara, che era uno zotico brutto, grande
e forte, accett il compito, e dopo essere stato rifornito di tutto il
necessario, si avvi per la sua strada. Gli ci vollero sette anni di faticoso
cammino per raggiungere i luoghi frequentati da Chaddanta; ma non appena vi
arriv, Sonuttara scav una fossa e la ricopr con piccoli tronchi d'albero ed
erba ed indossando la veste gialla da monaco e portando l'arco con la freccia
avvelenata, si nascose e rest in attesa. Presto Chaddanta pass di l, e
Sonuttara lo fer con la freccia avvelenata. Ma l'elefante, controllando i sui
sentimenti di rancore, chiese al cacciatore:
"Perch mi hai ferito? per tuoi scopi o per soddisfare la volont di un
altro?"
Il cacciatore rispose che Subhadda, la consorte del re di Benares, lo aveva
mandato perch si impadronisse delle sue zanne. Chaddanta riflett:
"Quella non desidera le mie zanne, ma la mia morte"; e disse:
Vieni ora, o cacciatore, e prima che io muoia
sega le mie zanne d'avorio;

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e annuncia alla regina, che si rallegri:


"Ecco le zanne, l'elefante morto".
Cos Chaddanta chin la testa, e Sonuttara cominci a segare le zanne; e poich
non riusciva a tagliarle, il grande elefante prese la sega nella proboscide e la
mosse avanti e indietro finch le zanne non furono recise. Poi se le tolse e
disse:
"Non ti do queste zanne, amico mio, perch penso che siano di poco valore, o per
guadagnare uno stato divino, ma perch le zanne dell'onniscienza mi sono mille
volte pi care di queste; e che questo prezioso dono mi propizi l'ottenimento
dell'onniscienza".
Quindi il cacciatore se ne and con le zanne; e prima che gli altri elefanti
avessero raggiunto Chaddanta, questi era morto.
Il cacciatore arriv davanti alla regina e disse:
Qui ci son le sue zanne, la bestia morta.
"Mi dici che morto?" ella esclam; ed egli rispose:
"Stai tranquilla che morto, qua ci sono le zanne".
Allora ella prese le zanne a sei raggi e tenendosele in grembo, pens:
"Queste sono le zanne di qualcuno che un tempo fu mio sposo", e fu presa da un
dispiacere cos grande che non lo pot sopportare; il suo cuore si spezz e mor
quel giorno stesso.
Per spiegare la storia, il Maestro disse:
Quella che vedete, Sorella in veste gialla,
era un tempo regina, e io il re degli elefanti,
che mor.
Ma colui che le lucenti zanne prese,
ineguagliate in terra, di puro bianco avorio
e le port a Benares, adesso ha nome Devadatta.
"Il Maestro raccont questa storia del passato, che la sua conoscenza gli
permetteva di sapere, ma egli era gi libero da tutto il suo dispiacere, pena e
dolore.
"Udendo questo discorso una moltitudine di uomini entr nella prima via, e la
Sorella novizia raggiunse lo stato di Arahatta poco tempo dopo".
Riassunto del Vessantara Jataka
Phusati, la regina-consorte del re di Sivi, ebbe un figlio; si chiamava
Vessantara e gli indovini predissero che si sarebbe dedicato a fare elemosine,
mai soddisfatto di ci che aveva gi dato. Fu fatto sposare con la cugina Maddi,
ed ebbero un figlio e una figlia. Vessantara possedeva anche un bianco elefante
magico, che portava la pioggia dovunque andasse. A quel tempo ci fu una siccit
e una carestia nel Kalinga, e gli uomini di quel paese, sapendo dell'elefante, e
della generosit di Vessantara, mandarono un'ambasciata di Brahmani per chiedere
in prestito l'elefante. Mentre il principe lo cavalcava attraverso la citt, per
visitare un suo asilo per i poveri, i Brahmani lo incontrarono per strada ed
implorarono la grazia che non gli rifiutasse l'elefante. Egli scese dal suo
dorso, e lo offr ai Brahmani, con
tutti i suoi gioielli principeschi e
centinaia di servitori.
Allora si avverti un possente terrore,
da far rizzare i capelli.
Quando fu donato il grande elefante,
la terra trem dalla paura,
ed il popolo della citt rimprover al Bodhisattva la sua eccessiva generosit.
Per evitare che la loro collera si scaricasse su di lui, egli fu bandito.
Vessantara pass un giorno intero donando elefanti, cavalli, donne, gioielli, e
cibo; poi usc per andare in esilio, accompagnato da Maddi e da entrambi i
bambini, in una sfarzosa carrozza, tirata da quattro cavalli. Durante il

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percorso diede i cavalli e il carro in elemosina; alla fine raggiunsero un bel


ritiro nella foresta, e qui si stabilirono in eremitaggio.
Quando un Brahmano rese visita a Vessantara, e gli chiese i figli come servi,
egli li consegn di buon grado; poi furono portati dallo stesso Brahmano alla
citt da cui Vessantara era stato esiliato, e l furono riscattati dai suoi
parenti. In seguito, Sakka apparve a Vessantara sotto l'aspetto di un altro
Brahmano, e gli chiese la moglie.
Il Bodhisattva don sua moglie al falso Brahmano, dicendo:
Non lo nego, mi tocca: ma pur se con dolore
io do, e non rifiuto; perch nel fare i doni
il mio cuore gioisce...
Sia Jali che Kanhajina, gi un altro me li prese
e or Maddi la devota, per dono di saggezza.
La mia moglie fedele non indesiderabile;
n lo sono i miei figli; ma la scienza perfetta
per me qualcosa, di pi desiderabile ancora.
Sakka allora si rivel, restitu Maddi, e concesse la fruizione di dieci
desideri; il risultato di ci fu che Vessantara e Maddi furono riportati alla
loro citt paterna, riacquistarono il favore, furono riuniti con i figli e
finalmente Vassantara ricevette l'assicurazione che sarebbe nato soltanto pi
una volta.
Altri libri del Canone
Il Buddhavamsa un racconto, un po' piatto, delle storie dei ventiquattro
Buddha precedenti, e della vita di Gautama, presentata come se fosse raccontata
da lui stesso. L'ultimo libro del Khuddaka Nikaya il Cariyapitaka, una
raccolta di trentacinque Jataka.
Non c' bisogno di esaminare qui per esteso la terza divisione del Canone pali,
l'Abhidhamma Pitaka, perch esso si differenzia dalla letteratura dei sutta gi
trattata solamente in quanto un po' pi arido, pi complesso, e pi scolastico;
l'originalit e la profondit ne sono relativamente assenti, e la nostra
conoscenza del pensiero buddhistico diminuirebbe di ben poco se tutti gli
Abhidhamma Pitaka fossero ignorati.
Letteratura pali non canonica
Se ora passiamo a parlare della letteratura pali buddhistica non canonica,
incontriamo al primo posto il noto libro delle Domande del re Milinda, che
avrebbe potuto benissimo essere incluso nel Canone, come di fatto in Siam. Il
passo pi spesso citato, molto caratteristico, del Milinda Panha, il discorso
del "carro" sull'anatta:
Nagasena chiede al re:
"Scusate, siete venuto a piedi, o a cavallo?"
E cos segue questo dialogo:
"Bhante, non vado a piedi: sono venuto in carro".
"Vostra Maest, se siete venuto in carro, spiegatemi in cosa consiste il carro.
Prego, Vostra Maest, il carro il timone?"
"No, in verit, Bhante".
"E l'assale il carro?"
"No, in verit Bhante".
E cos per le ruote, l'intelaiatura, l'asta della bandiera, il giogo, le redini
e il pungolo: il re ammette che nessuna di queste cose, e neppure tutte insieme,
costituiscano un carro, e che non c' neppure niente oltre a tutte queste cose
che costituisca un carro.
Allora Nagasena prosegue:
"Vostra Maest, nonostante io vi interroghi pressantemente, non riesco a
scoprire nessun carro. Veramente, allora, Vostra Maest, la parola carro
semplicemente un suono vuoto. Che cos' allora questo carro?"
E il re si convince che la parola "carro" "non che un modo di dire, un

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termine, un appellativo, un nome convenzionale, adoperato per timone, asse,


ruote, intelaiatura e asta della bandiera". Nagasena stabilisce il parallelo:
"E esattamente nello stesso modo, Vostra Maest, che (il mio nome) Nagasena non
che un modo di dire, un termine, un appellativo, un nome convenzionale, una
semplice parola" per diverse parti del corpo e della mente considerate
collettivamente, mentre "nel senso assoluto qui non c' nessun ego da trovare".
L'insieme della letteratura canonica buddhistica pali, comprese le Domande di
Milinda, di origine indiana, nonostante sia conservato solo in testi pali di
Ceylon, Birmania e Siam. Il resto della letteratura pali non canonica, d'altra
parte, quasi interamente opera dei Fratelli singalesi, o di autori indiani
come Buddhaghosha che si stabilirono a Ceylon. Questo dotto monaco proveniva da
una famiglia brahmanica di Bodh Gaya ed essendo stato convertito al Buddhismo
dal monaco Revata, si rec a Ceylon per studiare i commenti buddhistici. Qui
risiedette nel grande monastero di Anuradhapura, e come primo frutto dei suoi
studi compose il Visuddhi Magga, o "Via della purezza", un esteso compendio di
scienze buddhistiche. Per la maggior parte della sua opera, Buddhaghosha si
associa all'esposizione del vecchio ideale dell'Arahat, come, ad esempio, quando
parla di un monaco che cos distaccato dal mondo che per tre mesi mendica i
suoi pasti a casa di sua madre senza dire neppure una volta:
"Sono tuo figlio, sei mia madre"; nonostante ella desiderasse ardentemente avere
notizie del figlio perduto. Ed era una cos buona donna che, quando un altro
Fratello la inform che suo figlio si era presentato in incognito a casa sua,
parl del comportamento del figlio lodandolo. Per la maggior parte l'opera non
contiene contributi alla dottrina buddhistica, per vi sono raccolte molte
leggende e racconti che non si trovano in nessun altro testo; si mettono in un
certo risalto i miracoli compiuti dai Santi. Buddhaghosha compil anche un
commento sull'insieme della letteratura canonica; per dubbio che i commenti
ai Jataka e al Dhammapada siano realmente opera sua. In ogni caso, Buddhaghosha
il commentatore buddhistico per eccellenza; il suo metodo chiaro e incisivo,
e le leggende che illustrano i suoi lavori servono ad alleggerire i riassunti
pi tediosi.
Due opere pali buddhistiche molto importanti, il Dipavamsa e il Mahavamsa, sono
cronache in versi della storia di Ceylon. Nonostante non si faccia distinzione
tra saga, leggenda, e storia vera e propria, una parte considerevole, e
soprattutto quella finale di questi lavori, ha un grande valore storico.
Troviamo, ad esempio, una conferma sorprendente dell'affidabilit generale della
tradizione, nel fatto che le cronache menzionino tra i nomi dei missionari di
Asoka quelli di Kassapa-gotta e di Majjhima, inviati con altri tre nella zona
dell'Himalaya, dove un'esplorazione archeologica ha dissotterrato recentemente
da uno stupa presso Sanchi un'urna funeraria che porta un'iscrizione in
scrittura del secolo III a.C.:
"Dell'uomo buono Kassapa-gotta, Maestro di tutta la regione dell'Himalaya",
mentre all'interno dell'urna sta scritto: "Dell'uomo buono, Majjhima".
L'abitudine indiana, comunque, di considerare la storia come un'arte piuttosto
che come una scienza; e forse il principale interesse delle Cronache di Ceylon
sta proprio nel loro carattere epico. Il Dipavamsa, probabilmente del secolo IV
d.C. - poco prima di Buddhaghosha - redatto in un pali molto scadente, ed
nell'insieme una produzione senza alcun interesse artistico; esso stato
conservato solo in Birmania, mentre a Ceylon il suo posto stato preso dal
molto pi raffinato libro del Mahavamsa, scritto da Mahanama verso la fine del
secolo V.
"Qui possiamo", dice il Prof. Geiger, "in modo comunque non molto agevole,
seguire lo sviluppo dell'epica nella sua evoluzione letteraria. Possiamo farci
un quadro dei contenuti e della forma della cronaca che costituisce la base
della canzone epica, e dei vari elementi di cui composta... Il Dipavamsa
rappresenta un primo sforzo inesperto di dare origine a un'epica al di fuori del
materiale gi esistente. E un documento che attira l'attenzione proprio per
l'incompletezza della composizione e la sua mancanza di stile... Il Mahavamsa
invece gi degno del nome di una vera epica. E l'opera riconosciuta di un poeta.
E in una certa misura possiamo osservare questo poeta al lavoro nel suo studio.
Sebbene sia completamente dipendente dal suo materiale, che deve seguire il pi
rigorosamente possibile, lo tratta in maniera critica, percepisce le sue lacune
e le sue irregolarit, e cerca di migliorare ed eliminare".
Il protagonista di questo poema epico Dutthagamani, un re eroe nazionale del

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secolo II a.C., la cui notoriet negli annali buddhistici meridionali seconda


solo a quella dello stesso Asoka. La vittoria del re sul sovrano tamil narrata
come segue:
"Il re Dutthagamam fece proclamare con rullo di tamburi: "Io solo uccider
Elara". Armatosi, e montato l'elefante corazzato Kandula, insegu Elara e arriv
alla porta meridionale (di Anuradhapura). I due re si affrontarono in battaglia
presso la porta meridionale. Elara scagli il suo dardo, e Dutthagamam lo
schiv; fece perforare al suo elefante l'elefante di Elara con le sue zanne, e
tir il suo dardo contro Elara, che cadde con il suo elefante... Nel punto in
cui era caduto il corpo di Elara, lo bruci con il catafalco e fece costruire un
monumento che ordin di adorare. Ancora oggi, i prncipi di Lanka, quando
passano vicino a questo posto, fanno interrompere la musica a causa di questo
luogo di culto".
Con veri sentimenti buddhistici si rappresenta il re che non prova gioia per la
sua grande vittoria e per l'uccisione dell'invasore nemico:
"Considerando la sua gloriosa vittoria, sebbene fosse grande, non prov gioia,
ricordando che a causa di essa erano stati distrutti milioni di esseri".
A tale proposito la cronaca commenta:
"Se l'uomo pensasse alle schiere di esseri umani uccisi in innumerevoli miriadi
per bramosia, e ricordasse il (conseguente) male, e ricordasse anche che la
mortalit il (vero) uccisore di tutti, allora egli, in questo mondo,
rapidamente conquisterebbe la libert dal dolore ed uno stato felice".
Uno dei suoi guerrieri prese gli abiti da monaco e il nome di Theraputtabhaya,
dicendo:
"Combatter le passioni ribelli, sulle quali la vittoria difficile da
conquistare; che altra guerra rimane dove tutto il regno unito?"
Le scene sul letto di morte sono raccontate con profonda partecipazione: il re
fece trasportare il suo giaciglio in un punto da dove poteva guardare i suoi due
grandi edifici, il monastero del "Palazzo di Bronzo", e il "Grande Thupa", non
ancora finito. Era attorniato da migliaia di Fratelli, ma guardandoli non vide
Theraputtabhaya, il suo vecchio compagno d'armi, e pens:
"Adesso Theraputtabhaya non mi viene in aiuto, adesso che cominciata la
battaglia con la morte, perch probabilmente prevede la mia sconfitta".
Ma apparve Theraputtabhaya, e il re fu rallegrato dalle sue parole:
"O grande re e conduttore di uomini, non temere. Se il peccato non vinto, la
morte imbattibile. Tutto quel che venuto in questo mondo deve anche
andarsene, e tutto ci che , perituro; cos ha insegnato il Maestro. Anche i
Buddha, mai colpiti da vergogna o timore, sono soggetti alla morte; quindi
considera: tutto ci che , perituro, porta dispiacere ed irreale... O tu
che sei ricco di meriti, pensa a tutte le azioni meritorie che hai compiuto fino
a questo giorno, e immediatamente tutti ti andr bene!"
Il libro delle opere meritorie fu quindi letto ad alta voce, e qui troviamo una
lunga lista delle buone azioni del re: tra le altre, la sovvenzione di diciotto
ospedali per i malati.
"Ma tutte queste donazioni durante il mio regno, non hanno rallegrato il mio
cuore; solo due doni che ho fatto, senza preoccuparmi per la mia vita, mentre
ero in avversit, hanno rallegrato il mio cuore... Per ventiquattro anni sono
stato un protettore dei Fratelli, e anche il mio corpo sar un protettore dei
Fratelli. In un posto da cui si possa vedere il Grande Thupa... l bruciate il
mio corpo, il corpo del servitore dei Fratelli".
Alcuni continuatori del Mahavamsa hanno proseguito nella redazione delle
cronache fino ai tempi moderni, cosicch l'intera opera costituisce una notevole
testimonianza storica della cultura buddhistica a Ceylon.
Testi sanscriti
Non tratteremo dei rimanenti libri di letteratura buddhistica pali, e passeremo
ora all'esame dei libri sanscriti del Mahayana.
Una gran parte di essi corrisponde ai testi del Canone pali gi descritti; non
si tratta per di traduzioni dal pali, ma piuttosto di testi paralleli derivati
dalla stessa fonte indiana, il perduto Canone magadhi, sul quale si fondano i
libri pali. Per questa ragione, anche se pochi dei testi mahayanici possono
esser fatti risalire come stesura a prima dei secoli III o IV d.C., si pu

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constatare che essi incorporano materiale pi antico, corredato dalle nuove


aggiunte.
Il Mahavastu, in verit (o "Libro dei Grandi Eventi"), ancora nominalmente un
testo hinayanico, quantunque appartenga agli scritti della setta eretica dei
Lokottaravadin, i quali considerano il Buddha un essere sovrannaturale; la
biografia di quest'ultimo tutta un racconto di miracoli. Si tratta di una
compilazione senza alcun tentativo di organizzazione; essa comprende anche molte
cose che sono propriamente mahayaniche, quali un'enumerazione delle dieci
stazioni di un Bodhisattva, gli Inni a Buddha, la dottrina che l'adorazione del
Buddha sufficiente per raggiungere il Nirvana, e cos via; ma non vi in esso
la mitologia caratteristica del Mahayana.
Un'opera pi famosa e pi importante il Lalitavistara, "La storia del Gioco
(del Buddha)", un titolo che si ispira alla concezione ind di lila, o gioco, le
"Meravigliose Opere del Signore". E questa una biografia con un'elaborata
mitologia, in cui si d molta importanza alla fede, come elemento essenziale
della religione. La tendenza generale del Lalitavistara ben nota ai lettori
occidentali, perch ha costituito la base del bel poema di Sir Edwin Arnold, The
Light of Asia. I suoi contenuti sono anche fedelmente riprodotti nelle famose
sculture di Borobodur; e dalle scene dell'arte del Gandhara possiamo dedurre con
certezza che il Lalitavistara, o un testo molto simile ad esso, doveva gi
essere conosciuto nei secoli I e II d.C. In se stessa, l'opera non ancora
un'epica buddhistica, anche se i germi di un'epica li contiene.
Asvaghosha
E basandosi su ballate e aneddoti come quelli conservati nel Lalitavistara che
Asvaghosha, il pi grande poeta buddhistico, ha composto il suo capolavoro
Buddha-carita, la "Via del Buddha". Certo Asvaghosha non solo un poeta
buddhistico, ma anche uno dei maggiori poeti sanscriti e il principale
precursore di Kalidasa. Non abbiamo una conoscenza certa del periodo in cui
visse, ma molto probabile che questo scrittore abbia prodotto le sue opere nel
secolo I d.C., e in ogni caso egli dev'essere considerato il padre del Mahayana.
Prima di diventare buddhista molto probabile che questo autore abbia ricevuto
un'educazione di Brahmano. La sua biografia tibetana ci informa che "non c'era
problema che egli non sapesse risolvere, non c'era argomento che non sapesse
confutare; superava il suo avversario con la stessa facilit di un vento
tempestoso che travolga un albero decrepito". La stessa fonte ci dice che fu un
grande musicista, che compose canzoni e che andava di villaggio in villaggio con
un gruppo di cantanti di ambo i sessi. Le sue canzoni parlavano della vacuit
dei fenomeni, e le folle che udivano la sua bella musica restavano ad ascoltare
in estatico silenzio. Il pellegrino cinese I-tsing, che visit l'India nel
secolo VII, parla cos del suo stile letterario:
"Egli letto in lungo e in largo nelle cinque Indie e nelle terre dei mari
meridionali. Riveste di poche parole molte e molte idee, che cos rallegrano il
cuore del lettore che non si stanca mai di leggere il poema. La lettura di
questo poema molto proficua, perch le nobili dottrine vi sono esposte con
accattivante brevit".
L'opera che giunta ai giorni nostri non se non un frammento, completato da
altre mani; propriamente un poema epico buddhistico, concepito e redatto da un
poeta vero che ha dato vita a un lavoro d'arte, arricchito dal suo profondo
amore per il Buddha e dalla sua fede nella dottrina; un poema breve in senso
tecnico, scritto in uno stile un po' pi elaborato di quello del Mahavamsa, ma
non ancora eccessivamente artificiale. Il Buddha-carita non solo un importante
documento di letteratura specificamente buddhistica, ma ha anche esercitato
un'innegabile influenza sullo sviluppo dei classici sanscriti brahmanici.
Quando il bimbo divino nacque, qualcuno predisse:
"E nato un fanciullo che conosce quel mistero difficile da raggiungere, il mezzo
per distruggere la nascita. Abbandonando il suo regno, indifferente agli oggetti
del mondo, ed ottenendo la verit pi elevata con strenui sforzi, briller come
un sole di conoscenza per distruggere l'oscurit dell'illusione nel mondo...
Proclamer la via della liberazione a chi afflitto dalla pena, a chi
vincolato agli oggetti sensibili e perso nei sentieri selvaggi dell'esistenza
terrestre, come a viaggiatori che abbiano perso la strada... Per far evadere gli

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esseri viventi sfonder quella porta la cui serratura il desiderio, e i cui


due battenti sono l'ignoranza e l'illusione, con quell'eccellente colpo della
buona legge che cos difficile da trovare... E finch io non abbia udito la
sua legge, la mia vita solo fallimento; ma purtroppo arrivata la mia ora"
(dice colui che profetizza), "reputo perci anche il prender dimora nel pi alto
Cielo, una sfortuna".
Il giovane principe, man mano che cresceva, veniva circondato da ogni genere di
piacere, allo scopo di dissuaderlo dall'adottare la vita del pellegrino; suo
padre "organizz per suo figlio ogni sorta di divertimenti mondani, pregando:
"Che possa non dimenticarci mai, anche se sar trattenuto solo dall'inquietudine
dei sensi"".
Il principe tentato da belle donne, esperte nelle arti della seduzione:
"Vieni, e ascolta le note di questo ebbro cuc, come egli canta mentre un altro
cuc canta in accordo e con completa spontaneit. Vorrei che tu partecipassi
all'ebbrezza che la primavera produce negli uccelli, piuttosto che dei sogni di
un uomo di pensiero, che riflette sempre sulla sua saggezza!"
Esse cantano le canzoni primaverili popolari, e il risentimento delle donne
contro l'indifferenza dell'uomo; ma il Bodhisattva resta irremovibile,
preoccupato dal pensiero che la morte la sorte ultima di tutto.
""Che cosa manca in queste donne", chiede, "che non percepiscono che la
giovinezza incostante? Giacch la vecchiaia distrugger qualsiasi bellezza...
Evidentemente esse non sanno nulla della morte che trascina via tutto, esse sono
allegre in un mondo che costituito interamente da dolore, e cos a loro agio e
senza altre preoccupazioni che non siano il divertirsi e il ridere. Quale essere
razionale, che sa della vecchiaia, della morte e della malattia, potrebbe stare
in piedi o sedersi a suo agio, o dormire, o ancor meno ridere? Se il desiderio
sorge nel cuore dell'uomo, che sa che la morte certa, penso che la sua anima
debba essere fatta di ferro, che imprigiona quel grande terrore, e gli impedisce
di piangere".
La citazione seguente il lamento di Yasodhara quando scopre che il principe
Siddhartha diventato un pellegrino:
"Se vuole abbandonare come una vedova la sua onesta moglie, e diventare monaco,
allora dov' la sua fede, se vuole praticare una regola, senza che la sua onesta
moglie ne sia partecipe? Bisogna che non abbia mai udito degli antichi monarchi,
dei suoi antenati, Mahasudarsa ed altri, come essi si siano ritirati nella
foresta con le mogli, perch voglia adottare la vita ascetica senza di me! Non
vede che il marito e la moglie sono ugualmente benedetti dai sacrifici,
purificati dall'esecuzione dei riti vedici, e destinati a godere gli stessi
frutti nell'aldil?... Io non desidero le gioie del Cielo, che d'altronde non
sono difficili da ottenere per la gente comune, se ci tiene; ma il mio unico
desiderio che il mio amato non mi lasci mai, n in questo mondo, n
nell'altro".
E interessante osservare gli argomenti addotti dal sacerdote brahmano della
famiglia del re e da uno stimato consigliere, che sono inviati a persuadere il
Bodhysattva a tornare, offrendogli l'intero regno, al posto di suo padre. Il
primo dice:
"La via tradizionale non si pratica necessariamente solo nelle foreste; la
salvezza degli asceti si pu ottenere anche in una citt; i veri mezzi sono il
pensiero e lo sforzo; la foresta e le manifestazioni esteriori sono solo segni
di vigliaccheria".
E cita il caso di Janaka e di altri; nello stesso tempo supplica il principe di
aver piet degli infelici genitori. Il consigliere, con saggezza pi mondana,
sostiene che se ci sar una vita futura, ci sar abbastanza tempo di pensarci
quando ci si arriver, e se non c', la liberazione sar ottenuta senza sforzo
alcuno; inoltre, la natura del mondo non pu essere alterata, esso sottomesso
per sua natura alla mortalit, che non pu essere sconfitta con l'estinzione del
desiderio:
""Chi causa l'acutezza della spina?" chiede, "O le varie nature di bestie ed
uccelli? Tutte queste cose sono originate spontaneamente; non si agisce spinti
dal desiderio; come potrebbe esistere qualcosa come la volont?""
Intanto ricorda anche al principe i suoi doveri sociali, il suo debito con gli
antenati, che pu ripagare solo generando figli, studiando, facendo sacrifici
agli Dei, e gli suggerisce di adempiere a questi doveri sociali prima di
ritirarsi nella foresta. A questi sottili consiglieri il principe risponde

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offrendo la solita "consolazione" per i genitori in pena:


"Poich la dipartita inevitabilmente fissata nel corso del tempo per tutti gli
esseri, come per viaggiatori che si siano uniti ad una carovana nel percorso,
come potrebbe un uomo saggio provar dolore quando perde i suoi amati, anche se
gli ha voluto bene?"
Aggiunge che questa sua partenza verso la foresta non pu essere considerata
avvenire "in un momento inopportuno", perch la liberazione non pu mai avvenire
in un momento inopportuno. Che il re desideri consegnargli il regno, dice, un
nobile pensiero, ma "Come pu essere giusto, per un uomo saggio, assumere la
carica di re, nella dimora dell'illusione, dove si trovano ansiet, passione,
noia, e la violazione di ogni diritto quando ci si serva degli altri
(sfruttamento)?"
Alle obiezioni metafisiche risponde:
"Il dubbio se qualcosa esista o no, non lo posso risolvere con le parole di un
altro; quando avr determinato qual la verit con la disciplina o con lo Yoga,
comprender da me quello che se ne pu sapere... Dove pu andare un uomo saggio
seguendo la convinzione di un altro? Il genere umano come un cieco che sia
guidato nell'oscurit da un altro cieco... Per cui, anche se il sole cadesse
sulla terra, o il monte Himalaya si mettesse a ballare, io non torner mai a
casa mia per condurvi vita mondana, senza conoscenza della verit, e con i sensi
che colgono solo gli oggetti esterni: potrei entrare in un fuoco ardente, ma non
a casa mia, se il mio scopo non lo raggiungo".
In questo modo Asvaghosha rappresenta quei momenti critici che ci sono nella
vita di ogni Salvatore, e che sono familiari ai Cristiani per la risposta data
da Cristo ai genitori: "Non desiderate che porti a termine il lavoro del Padre
mio?" e per il suo rifiuto di un regno terreno e della funzione di Dharmaraja,
quando questi gli vengono offerti dal Diavolo.
I passi citati fino ad ora sono innanzi tutto didattici: ma nonostante l'abilit
con cui qui espresso il pensiero buddhistico, ce ne sono altri che esprimono
ancor meglio la scansione epica di Asvaghosha e la sua personale intensit di
immaginazione. Dei due seguenti estratti, il primo descrive una delle prime
meditazioni del Bodhisattva, sotto un melo rosato; e il secondo, il dono di cibo
che egli accetta, quando, dopo cinque anni di mortificazione della carne,
comprende che tale mortificazione non lo condurr alla mta, e ritorna al primo
metodo di intuizione interiore che aveva adottato sedendo sotto il melo rosato.
Qui Asvaghosha si dimostra vero poeta; ha il potere dei cantastorie di dipingere
un vivido quadro in poche parole, comprende il faticoso lavoro del contadino e
delle bestie da soma, e rappresenta la pura dignit di una fanciulla non
sofisticata, nella persona di una figlia di pastore, con la stessa semplicit di
Omero quando parla di Nausicaa.
Il principe un giorno usc con un gruppo di amici, "con il desiderio di vedere
le radure della foresta, e bramoso di pace:
"Attirato dall'amore dei boschi e desiderando le bellezze della terra, si rec
in un luogo vicino al margine di una foresta; l vide un pezzo di terra ben
arata, con i solchi segnati come onde nell'acqua... Guardando gli uomini che
aravano, con le facce sporche di terra, bruciate dal sole, e irritate dal vento,
e i loro buoi istupiditi dalla fatica del traino, il Nobile per eccellenza prov
un'estrema compassione; e scendendo dalla groppa del suo cavallo, passeggi
lentamente sulla terra, sopraffatto dal dolore. Meditando sulla nascita e sulla
distruzione che caratterizzano il mondo, si rattrist, ed esclam: "Certo tutto
questo miserevole!" In seguito, poich desiderava stare solo con i suoi
pensieri, conged gli amici che lo seguivano e si rec presso il tronco di un
melo rosato, in un luogo solitario; le foglie dell'albero erano tutte un
tremito. Egli si sedette sul terreno ricoperto di foglie e sull'erba color
smeraldo; e meditando sull'origine e la distruzione del mondo, scorse la via che
porta alla fermezza mentale".
Molti anni dopo, avendo vanamente mortificato la carne, il Bodhisattva riflett:
"Questa non la strada che porta all'assenza di passioni o alla liberazione;
quella era la strada giusta, che avevo trovato sotto il melo rosato. Ma quella
via non pu essere percorsa fino in fondo da chi abbia perduto tutte le sue
forze"... E riflett mentalmente, "Questa via richiede che io mi nutra"...
Allora, in quel momento, Nandabala, la figlia del capo dei pastori, spinta dagli
Dei (cio, seguendo un impulso spontaneo e inesplicabile), e con improvvisa
gioia che le nasceva nel cuore, arriv l; il suo braccio era ornato da una

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braccialetto di madreperla bianca, e indossava un abito di tessuto blu intenso,


come il fiume Jamuna, con la sua acqua blu e i suoi cerchi di schiuma; e con
gioia accresciuta dalla fede, ed occhi spalancati come loti, si inchin davanti
al Veggente e lo persuase a bere un po' di latte.
Gli altri lavori di Asvaghosha includono il Saundarananda Kavya, che tratta pure
esso della vita del Buddha, ed espone alcune tendenze mahayanistiche che non si
trovano nel Buddha-carita. Il Sutralamkara una raccolta di pie leggende in
prosa e versi, alla maniera dei Jataka e degli Avadana. Anche un Alamkara Sastra
attribuito ad Asvaghosha. Pi dubbio che egli possa essere l'autore del
Vajrasuci, o "Ago di Diamante", una polemica contro il sistema brahmanico delle
caste, che si appoggia principalmente su citazioni di fonti brahmaniche, come i
Veda, il Mahabharata, e La Legge di Manu. Rimane ancora da ricordare
l'importantissimo Mahayana-sraddha-utpada, o "Risveglio della fede nel
Mahayana", un'opera filosofica e mistica che tratta delle dottrine del Tathagatagarbha e dell'Alayavijnana alla maniera degli Yogavaracara e Asanga, ma ci sono
buone ragioni per pensare che questo testo sia di data notevolmente posteriore;
fu tradotto per la prima volta in cinese solamente nel secolo VI, e non
conosciuto nell'originale sanscrito.
Aryasura
Un poeta della scuola di Asvaghosha Aryasura, l'autore di un famoso
Jatakamala, o "Ghirlanda di Jataka", che deve risalire, molto probabilmente, al
secolo IV d.C. I Jatakamala di questo tipo sono raccolte di storie antiche
riprodotte come omelie in prosa artistica e versi, ad uso dei Maestri monaci
versati nella tradizione della prosa e poesia sanscrita di corte. Sul lavoro di
Aryasura stato detto giustamente:
"Forse lo scritto pi perfetto nel suo genere. Non meno che per la superiorit
del suo stile esso si distingue per la sottigliezza dei pensieri. I versi e la
prosa artistica sono redatti nel sanscrito pi puro, ed affascinano il lettore
per l'eleganza della loro forma e per l'abilit messa in mostra nel maneggiare
una grande variet di metri... Soprattutto, ammiro la sua moderazione. Al
contrario di molti altri Maestri indiani nell'arte della composizione
letteraria, egli non si permette di usare gli addobbi ornamentali e l'intera
mise en scne lussureggiante dell'alamkara sanscrito, non pi, per lo meno, di
quanto sia necessario per il suo argomento" (Speyer).
I-tsing giudica il Jatakamala una delle opere pi ammirate ai suoi tempi. Ma
ancora pi importante il fatto che le pitture murarie di Ajanta illustrino
queste versioni dei Jataka, e in alcuni casi le pitture portano addirittura
incisi alcuni versi dell'opera di Aryasura; la pittura e l'opera letteraria sono
in stretta armonia di sentimenti.
La prima storia racconta del dono che il Bodhisattva fa del proprio corpo per
nutrire una tigre affamata, perch non mangi il proprio piccolo. La storia
incomincia cos:
"Anche nelle vite precedenti, il Signore mostrava il suo innato, disinteressato
ed immenso amore verso tutte le creature, e si immedesimava in tutti gli esseri.
Per questa ragione dobbiamo avere la maggior fede possibile nel Buddha, il
Signore. Questo si vedr nella grande azione seguente del Signore in una vita
precedente".
Alla fine di ogni storia c' un commento che mette in rilievo la morale che vi
contenuta. Molte storie incoraggiano al dovere della generosit e della piet,
raccontando aneddoti su animali servizievoli e su uomini ingrati. Il cervo Ruru
ad esempio:
"Con i suoi grandi occhi azzurri di incomparabile dolcezza e lucentezza, con le
sue corna e i suoi zoccoli di un grazioso splendore, come se fossero fatti di
pietre preziose, questo cervo Ruru di bellezza superiore sembrava un tesoro di
gemme in movimento. Allora egli, sapendo che il suo corpo era una cosa molto
desiderabile, e consapevole del cuore crudele degli uomini, frequentava le
strade della foresta libere dalla presenza umana, e con la sua pronta
intelligenza faceva attenzione ad evitare i luoghi che erano resi insicuri dalle
insidie dei cacciatori... Metteva anche in guardia gli animali che lo seguivano.
Esercitava la sua funzione su di essi come un Maestro, come un padre.
"Un giorno sent le grida di un uomo che affogava, ed entrando nella corrente,

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gli salv la vita e lo port a riva. Il cervo Ruru preg anche l'uomo di non
dire nulla della sua avventura, perch temeva la crudelt degli uomini. Intanto
avvenne che la regina di quel paese sognasse proprio quel cervo, ed il re offr
una taglia per la cattura di quest'animale. L'uomo a cui il cervo aveva salvato
la vita, essendo povero, fu tentato dall'offerta di un prospero villaggio e di
dieci belle donne, e rivel al re il segreto del bel cervo. Il re stava per
lasciar partire la sua freccia, quando il cervo gli chiese di fermare la mano, e
di dirgli chi gli aveva rivelato il segreto della foresta dove egli dimorava.
Quando il re ebbe indicato il disgraziato, il cervo esclam: "Vergogna a lui!
proprio giusto il detto che ' meglio tirar fuori dall'acqua un tronco, che
salvare un uomo che annega'. cos che ricompensa lo sforzo fatto a suo
beneficio!"
"Il re chiese perch il cervo parlasse con tanta amarezza e il Bodhisattva
(perch, naturalmente, tale era il cervo) rispose: "Non il desiderio di
biasimare che mi ha spinto a queste parole, o re, ma conoscendo la sua azione
riprovevole, ho parlato duramente per dissuaderlo dal ripetere ancora simili
azioni. Perch chi userebbe di buon animo un linguaggio duro verso coloro che
hanno commesso una cattiva azione, spargendo sale, se cos si pu dire, sulle
ferite del loro peccato? Ma anche al suo figlio adorato un medico deve applicare
la medicina che richiede la malattia. Chi mi ha messo in questa situazione di
pericolo, o migliore degli uomini, colui che ho ripescato dalla corrente, per
piet verso di lui. Veramente, i rapporti con le cattive compagnie non portano
alla felicit".
"Il re voleva giustiziare l'uomo; ma il Bodhisattva parl in difesa della sua
vita, e perch ricevesse la ricompensa promessa. Allora il Bodhisattva predic
la dottrina al re, alle sue mogli e agli ufficiali della corte con il discorso
seguente:
""Della legge dalla quale dipendono i multiformi doveri e delle sue divisioni,
dell'astenersi dall'offendere gli altri, dal furto, e cose simili, credo che il
pi sintetico riassunto sia: 'Piet verso ogni creatura'. Perch considera, tu,
illustre principe: se la piet verso ogni creatura portasse gli uomini a
guardare gli altri come se stessi, o come membri della propria famiglia, il
cuore di chi albergherebbe pi il pericoloso desiderio di perversit?... Per
questa ragione il Saggio crede fermamente che l'essenza della giustizia sia
compresa nella piet. Quale virt, dunque, nutrita dal pio non conseguenza
della piet? Ricordandoti questo, sii assiduo nel fortificare la tua piet verso
tutto il popolo, considerando tutti pari a tuo figlio o a te stesso; e
conquistando con i tuoi atti pii i cuori del tuo popolo, possa tu glorificare la
tua maest!"
"Il re apprezz le parole del cervo Ruru e con i possidenti terrieri e i
cittadini divenne assiduo nella pratica della Legge della Giustizia. Garant
sicurezza a tutti i quadrupedi e agli uccelli..."
("Questa storia pu essere raccontata quando si parla della compassione, pu
essere citata a proposito dell'abnegazione dei virtuosi, e anche per criticare i
perversi").
Molte storie buddhistiche sono in accordo perfetto con le parole del poeta
occidentale, che dice:
Colui che prega meglio chi pi ama
tanto le cose grandi che le piccole,
ed certo che l'Ancient Mariner proprio quel tipo di racconto che i Fratelli
buddhisti di gusti letterari avrebbero trasformato in Jataka.
Difficilmente discernibili dai Jataka sono i vari Avadana, che sono costituiti
in genere da leggende di Bodhisattva. Tra di essi si pu notare il ciclo di
Asoka, che forma una parte dei Divyavadana o "Avadana celesti". La pi bella di
queste leggende la patetica storia di Kunala, il figlio di Asoka, a cui furono
cavati gli occhi per ordine della sua malvagia matrigna, senza che nel suo cuore
si risvegliassero sentimenti di collera o odio. Cito qui il riassunto
dell'episodio dal lavoro di Oldenberg:
"Kunala - questo nome gli era stato dato a causa dei suoi occhi
meravigliosamente belli, belli quanto gli occhi dell'uccello Kunala - vive
lontano dal trambusto della corte, dedito alla meditazione sull'impermanenza.
Una delle regine arde d'amore per il bel giovane, ma tanto le proposte quanto le

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minacce della bellezza respinta sono ugualmente vane. Assetata di vendetta, essa
trama per farlo mandare in una lontana provincia, e poi invia un ordine a quel
distretto, firmato con il sigillo d'avorio sottratto scaltramente al re, perch
vengano cavati gli occhi al principe. Il principe stesso offre una ricompensa a
chi fosse pronto ad eseguire l'ordine del re. Alla fine appare un uomo, orribile
d'aspetto, che si incarica del compito. Quando, tra le grida e i pianti della
folla, viene cavato il primo occhio, Kunala lo prende in mano e dice: "Perch
non vedi pi quelle forme che prima guardavi, tu, rozza palla di carne? Come si
illudono, come sono sviati quei pazzi, che si attaccano a te, dicendo: 'Questo
sono io'". E quando viene cavato il suo secondo occhio, dice: "Gli occhi di
carne, che sono difficili da ottenere, mi sono stati cavati, ma ho guadagnato il
perfetto occhio infallibile della saggezza. Il re mi ha dimenticato, ma io sono
il figlio del sublime Re della verit: mi si pu dire suo figlio". Viene allora
informato che fu per colpa della regina se stato eseguito quell'ordine contro
di lui. Egli replica: "Che possa godere a lungo felicit, vita e potere, colei
che mi ha portato a un cos alto benessere". E cos se ne va come mendicante con
sua moglie; e quando arriva alla citt di suo padre, suona il liuto davanti al
palazzo. Il re ode la voce di Kunala, lo fa chiamare, ma quando vede davanti a
lui il cieco, non riconosce suo figlio. Alla fine la verit viene alla luce. Il
re in un accesso di rabbia e di risentimento sta per far torturare ed uccidere
la perfida regina. Ma Kunala dice: "Non ti si addice ucciderla. Fai come comanda
l'onore, e non uccidere una donna. Non c' ricompensa pi grande che quella che
si riceve per la benevolenza: la pazienza, sire, stata comandata dal
Perfetto". Ed egli si getta ai piedi di suo padre dicendo: "O re, io non sento
dolore; nonostante l'inumano trattamento che ho subto, non sento il fuoco della
collera. Il mio cuore nutre solo sentimenti di benevolenza verso mia madre, che
ha dato l'ordine di cavarmi gli occhi. E se queste parole sono veramente
sincere, possano i miei occhi ritornare com'erano"; e i suoi occhi brillarono
splendenti come prima.
"Da nessun'altra parte la poesia buddhistica ha meglio onorato il perdono, e
l'amore rivolto anche ai nemici, di quanto abbia fatto nel racconto di Kunala.
Ma anche qui percepiamo quella fredda aria che fluttua attorno a tutte le
immagini della moralit buddhistica. Il Saggio sta cos in alto che nessun atto
umano lo pu avvicinare. Non prova risentimento per qualsiasi azione peccaminosa
che cerchi di aggredirlo, e non sente neppure dolore per questa azione. Il
corpo, sul quale i suoi nemici possono agire, non lui stesso. Senza provare
dolore per le azioni degli altri uomini, permette alla sua benevolenza di
aleggiare sopra a tutto, sia sopra il male sia sopra il bene. "Chi mi provoca
dolore e chi mi causa gioia, per me sono uguali; non conosco affetto o odio. In
gioia e in dolore io resto impassibile, nell'onore e nel disonore; in qualsiasi
situazione io sono uguale. Questa la perfezione della mia equanimit"".
L'insieme delle opere sanscrite buddhistiche fin qui descritte sta in una
posizione di mezzo tra lo Hinayana e il Mahayana, eccettuato, naturalmente, il
Risveglio della fede di Asvaghosha; tutte tendono per sempre pi verso il
Mahayana, e ci le porta ad esprimersi accrescendo l'importanza data alla
devozione al Buddha, secondo l'ideale del Bodhisattva.
Mahayana-sutra
Con i Mahayana-sutra arriviamo ad una serie di lavori integralmente e
completamente mahayanisti. Non esiste comunque un canone Mahayana, ma ci sono
nove libri che sono ancora altamente onorati da tutti i raggruppamenti del
Mahayana senza eccezione. Tra di questi c' il Lalitavistara gi menzionato,
l'Ashtasahasrika-prajnaparamita, e il Saddharmapundarika.
L'ultimo menzionato, il "Loto della buona legge", forse il pi importante di
essi, e certamente il pi notevole dal punto di vista letterario. Pu essere
datato circa alla fine del secolo II d.C. Esso non contiene pi tracce del
Buddha umano: il Buddha un Dio al di sopra di tutte le altre divinit, un
essere eterno, che sempre stato e sempre sar; la religione buddhistica qui
resa completamente indipendente dalla storia. Il Loto della Buona Legge pi un
dramma che un racconto;
"E una rappresentazione misteriosofica non sviluppata, in cui il personaggio
principale, ma non l'unico, Sakyamuni, il Signore. Consiste in una serie di

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dialoghi, illuminati dagli effetti magici di un preteso scenario soprannaturale.


Le arti fantasmagoriche dell'insieme hanno il chiaro intento di impressionare
con l'idea del potere e della gloria del Buddha, e i suoi discorsi devono
esprimere la sua suprema saggezza".
Sono di interesse letterario le numerose parabole drammatiche, come quella in
cui il Buddha ha la parte di un medico, i cui figli sono colpiti da un'epidemia.
Egli prepara per loro una medicina, che alcuni prendono, e guariscono; gli altri
sono incurabili, in quanto non hanno fiducia nella preparazione. Allora il padre
parte per un lontano paese - il Buddha individuale, che egli rappresenta,
trapassa - ed solo in quel momento che i figli abbandonati ed ancora
sofferenti si convincono che devono usare la medicina che gli stata lasciata,
comprendendo di non avere altra risorsa. Il narratore capisce assai bene come
sia una caratteristica della natura umana che l'uomo superiore spesso
apprezzato solo dopo la sua morte!
Il Karandavyuha, che fu tradotto in cinese gi nel secolo III d.C., una
glorificazione del Bodhisattva Avalokitesvara. Il Sukhavativyuha celebra il
Buddha Amitabha e la Terra Beata o Paradiso Occidentale. Un sutra pi
filosofico, anche molto diffuso in Giappone ai giorni nostri, il
Vajracchedika, o "Coltello di Diamante", e sotto quest'ultimo titolo familiare
ai numerosi lettori delle opere di Lafcadio Hearn.
Il seguente passo illustrer il suo carattere metafisico, e ricorder una delle
frasi di Boehme, in risposta alla domanda del discepolo:
"Dove se ne va l'anima quando il corpo muore?"
"Non c' necessit che vada da qualche parte".
"E allora? O Subhuti, se qualcuno dicesse che il Tathagata [in questo libro
generalmente tradotto "Colui-che-ha-raggiunto-ci"] va, o viene, o sta, o siede,
o giace; questi, o Subhuti, non comprende il significato del mio discorso. E
perch? Perch la parola Tathagata significa chi non va da nessuna parte, e non
viene da nessuna parte; per questo chiamato il Tathagata (veramente arrivato),
santo, e pienamente illuminato".
Le opere, molto pi ampie, che sono note come Prajnaparamita, sono colme di
testi simili sulla vacuit (sunyata) delle cose. Si conoscono lavori di questo
genere, che in svariate versioni hanno 100.000, 25.000, 8.000, e numeri
inferiori di distici; il Prajnaparamita di 8.000 distici quello che si trova
pi comunemente. In parte essi trattano delle sei perfezioni di un Bodhisattva
(Paramita), e specialmente della pi elevata, Prajna, la saggezza trascendente.
La saggezza consiste nella perfetta realizzazione del vuoto, il nulla [di
forma], il sunyata; tutto ci che , solo nome. In questi lavori le
ripetizioni e le lunghe liste di illustrazioni circostanziate delle verit
generali assumono un'ampiezza incredibile, molto superiore a ci che si trova
negli Hinayana Sutta. Ma ricordiamo che la verit unica della vacuit delle
cose, inculcata in questo modo per ripetizione - una ripetizione simile a quella
delle serie senza fine di figure dipinte e scolpite nelle chiese sotterrate e
sui muri dei templi - non una cosa facile da comprendere in profondit; e i
pii autori di queste opere non avevano un senso artistico delle proporzioni,
poich badavano solamente ad esprimere la verit sapienziale. Essi pensavano che
questa verit non potesse mai essere ripetuta troppo spesso; e se, come essi
sostengono nel Vajracchedika, anche i bambini e le persone ignoranti dovevano
sapere che la materia in se stessa non n qualcosa n niente, forse anche il
mondo moderno farebbe bene a considerare il valore della ripetizione come
principio formativo. Perch in Europa non sempre si ricorda, anche negli
ambienti scientifici, che la materia esiste solo come concetto.
Nagarjuna ed altri
Abbiamo gi ricordato il grande Maestro mahayana Nagarjuna, che oper nella
seconda parte del secolo II, un po' dopo Asvaghosha. Come quest'ultimo egli fu
prima un Brahmano, e nel suo lavoro evidente l'influenza brahmanica. Se non fu
proprio il fondatore del Mahayana, egli almeno il creatore di uno dei suoi
principali sviluppi, la scuola Madhyamika, le cui principali scritture sono i
suoi Madhyamika sutra. In questi ultimi egli si occupa fondamentalmente di
dimostrare l'indefinibilit dell'ipseit (bhuta-thuta), ed esprime questo
concetto molto chiaramente in diversi passaggi di tali sutra:

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Dopo la sua dipartita, non pensate cos:


"il Buddha ancora qui".
Egli al di sopra di ogni opposizione,
di Essere e Non-essere.
Mentre era ancora in vita, non pensate cos:
"il Buddha ora qui".
Egli al di sopra di ogni opposizione,
di Essere e Non-essere.
e:
Pensare che "Esso " eternalismo,
Pensar che "Esso non " nichilismo:
Essere e Non-essere,
n all'uno n all'altro il Saggio non s'attacca.
L'opera di Kumarajiva consiste nelle sue biografie di Asvaghosha e Nagarjuna, e
di un leggendario Deva o Aryadeva; queste biografie furono tradotte in cinese
alla fine del secolo V d.C. Le opere di Asanga, il grande Maestro della setta
Yogacara, furono tradotte in cinese nel secolo VI d.C.
Shanti Deva
Il pi eminente tra gli ultimi poeti del Mahayana Shanti Deva considerato un
personaggio di grandi virt spirituali, probabilmente vissuto nel secolo VII. Il
suo Shikshasamuccaya, o "Compendio del Discepolo" un lavoro di vasta cultura,
poich ogni strofa provvista di commento ed esegesi molto ampi: l'opera in s
non , e non intende essere, originale o personale. Le due prime delle sue
trentasette strofe suonano cos:
Poich per me, come per il mio vicino,
paura e dolore sono entrambi odiosi,
cosa distingue la mia individualit,
perch la preferisca a quella tua?
Vuoi metter fine al male,
e giungere alla Mta Benedetta?
Dai buone radici alla tua fede,
e all'illuminazione il tuo pensiero tutto.
Molto pi poetico, e molto notevole nella letteratura buddhistica per il suo
peso di emozione personale, il Bodhicaryavatara, o "Via dell'Illuminazione",
dove si toccano pi volte le note pi alte dell'arte religiosa. E forse la pi
bella di tutte le espressioni poetiche dell'ideale del Bodhisattva,
dell'autoconsacrazione al lavoro di salvezza e dell'eterna attivit dell'amore.
[nota: Questo lavoro stato paragonato all'Imitazione di Cristo di Thomas
Kempis; entrambe sono opere di vera devozione e vera arte, ma il
Bodhicaryavatara non un'"imitazione" del Buddha, bens un insegnamento di come
un uomo pu divenire un Buddha.]
"Non si dir niente di nuovo qui", dice Shanti Deva, "e io non ho alcuna abilit
nello scrivere libri; ho intrapreso questo lavoro per consacrare i miei
pensieri, e non per il benessere degli altri. Per mezzo di esso si rafforzato
il mio sacro impulso a forgiare la rettitudine; ma se altre creature lo
comprenderanno, il mio libro servir anche ad un altro scopo".
Quella che segue una parte della consacrazione di s (pranidhana) al lavoro di
salvazione, scritta da Shanti Deva:
"Io mi rallegro al massimo per tutte le buone azioni delle creature che fanno
cessare il dolore provocato dalla loro parte di male; che il sofferente possa
trovare felicit!... La pace (Nirvana) consiste nella rinuncia a tutte le cose,

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e il mio spirito desidera la pace; se devo abbandonare tutto, meglio che lo


lasci a beneficio delle altre creature. Offro me stesso a tutte le creature
viventi perch mi trattino come desiderino; possono percuotermi e ingiuriarmi
per sempre, cospargermi di polvere, divertirsi con il mio corpo, deridermi e
sbeffeggiarmi: ho dato loro il mio corpo, perch dovrei curarmene? Che essi mi
facciano qualsiasi cosa possa dare loro piacere; ma che possa non capitargli mai
disgrazia a causa mia... che tutti coloro che mi calunniano, mi offendono, o mi
scherniscono possano ottenere una parte di illuminazione. Sar il protettore
dell'indifeso, la guida dei dispersi, una barca, una diga, e un ponte per chi
cerca di raggiungere l'altra riva; una lampada per chi ha bisogno di una
lampada, un letto per chi ha bisogno di letto, uno schiavo per chi ha bisogno di
schiavi... oggi io chiamo il mondo allo stato di illuminazione, e nel contempo
della felicit; che possano le divinit, i demoni, e gli altri esseri
rallegrarsi in presenza di tutti i Salvatori!"
E vero che l'antico amore buddhistico per la solitudine e il disprezzo della
carne si esprimono ancora in Shanti Deva; ma c' una dolce intimit nelle sue
parole gentili che sovrastano la freddezza dell'ascetismo del Buddhismo
originario, e incoraggiano la nostra simpatia senza provocare disgusto:
"Gli alberi non sono sdegnosi, e non richiedono un laborioso corteggiamento;
vorrei dividere la sorte di questi dolci compagni! Vorrei abitare in un
santuario deserto sotto un albero o in caverne, per poter passeggiare senza
nascondermi, senza dovermi mai guardare alle spalle! Vorrei stare negli spazi
naturali e in terre senza padrone, come pellegrino errante, libero di volont,
con la sola ricchezza di una ciotola d'argilla, e del mantello senza valore per
i ladri, senza temere e preoccuparmi per il mio corpo. Vorrei andare a casa mia,
nel cimitero, e confrontare con gli altri scheletri il mio fragile corpo! Perch
questo corpo diventer cos puzzolente che neppure gli sciacalli lo
avvicineranno a causa del suo tanfo. Le parti ossose nate con la struttura
corporea cadranno a pezzi, e ancora di pi i miei amici. L'uomo nasce solo, e
solo muore; nessun altro partecipa dei suoi dolori. A cosa servono gli amici, se
non a ostacolare la propria via? Come un viandante si ferma per breve tempo in
un luogo, cos chi viaggia nella via dell'esistenza non trova in ogni nascita
che un riposo temporaneo...
"Basta allora con le strade terrene! Io seguo la via del Saggio, ricordando il
Discorso sulla vigilanza e mettendo da parte la pigrizia. Concentro il mio
potere per vincere il potere dell'oscurit, allontanando lo spirito dalle vie
inutili e fissandolo fermamente nel suo obiettivo...
"Stimiamo che ci siano due verit, la verit velata e la realt trascendente. La
realt oltre il dominio della comprensione; la comprensione chiamata verit
velata...
[nota: La verit velata, samvritti-satya, la vidya saguna o apara del Vedanta;
e la realt, paramartha-satya, la vidya nirguna o para del Vedanta; la prima
una "distinzione delle cose multiformi", la seconda verit "quella che
nell'unit". Tauler.]
Cos non vi mai n cessazione n esistenza; l'universo non arriva ad essere e
non smette di essere.
[nota: Come assomiglia a Bergson il pensiero che l'universo non smette mai di
essere!]
I corsi della vita, se li guardi, sono come sogni o come i rami della
piantaggine; in realt non c' distinzione tra chi in riposo e chi non lo .
Poich le forme dell'essere sono vuote, cosa si pu guadagnare, e cosa perdere?
Chi pu averne soddisfazione o essere deluso, e da chi?
[nota: "Chi ritiene che questo sia un assassino e chi pensa che questo sia
assassinato, sono entrambi senza discernimento; questo non uccide, e non
ucciso". Bhagavad Gita, II, 19.]
Da dove potrebbe provenire la gioia o il dolore? Che cos' dolce, cos' amaro?
Cos' il desiderio e dove lo si cercher? Se consideri il mondo delle cose
viventi, chi vi morir? Chi nascer, chi nasce? Chi un parente, chi un amico,

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e di chi? Che le creature mie compagne comprendano che tutto vuoto!... La


rettitudine si trova cercando oltre la verit velata".

II - La scultura e la pittura
Cos come il Buddhismo originario poco desiderava esprimere le sue idee
caratteristiche con la poesia, il dramma, o la musica, cos pure poco immaginava
che le arti della scultura e della pittura potessero avere scopi ed effetti
diversi da quelli mondani. I preconcetti edonistici erano troppo forti - e
questo vale in generale per tutto il pensiero indiano dell'epoca - perch un
atteggiamento diverso da quello puritano nei confronti dell'arte potesse essere
possibile per il filosofo. Le arti erano considerate una specie di lusso. Cos
troviamo testi come il seguente:
"Per me la bellezza non nulla, n la bellezza del corpo, n quella conferita
dagli abiti.
[nota: Infinitamente lontano dal punto di vista moderno, che era corrente anche
nell'India medioevale, "che il segreto di ogni arte... sta nella facolt di
oblo di se stessi". Riciotto Canudo, Music as a Religion of The Future.]
"Se un Fratello o una Sorella vede diversi colori, come ghirlande, figure
vestite, bambole, abiti, sculture in legno e in gesso, gioielleria, lavori
d'avorio, nastri, e cose del genere, essi non dovrebbero, per cercare il piacere
degli occhi, andare dove si possono vedere questi colori e forme" [Dasa Dammika
Sutta].
proibito alle Sorelle guardare "quadri di tresche" o scene d'amore; mentre ai
Fratelli permesso di avere i muri del monastero o della caverna dipinti con
rappresentazioni di ghirlande e piante rampicanti, mai di uomini e donne. La
motivazione edonistica di queste ingiunzioni rivelata molto chiaramente in un
passo del tardo Visuddhi Magga - poich lo Hinayana mantiene la tradizione
puritana fino alla fine, con la sola esile concessione che ammette la
raffigurazione del Buddha - dove "pittori e musicisti" sono classificati al pari
di "profumieri, cuochi, medici che preparano elisir, e altre persone del genere
che ci riforniscono di oggetti per il piacere dei sensi".
L'arte del "Buddhismo originario"
solamente a partire dai secoli III e II a.C. che possiamo trovare Buddhisti
che patrocinino gli artigiani e usino l'arte per scopi educativi. Da ci che
stato appena detto, comunque, si comprender facilmente che non si era ancora
arrivati ad un'arte religiosa specificamente buddhistica o brahmanica, ed
perci che l'arte del Buddhismo originario in realt l'arte popolare indiana
del tempo adattata ai fini buddhistici, mentre una fase speciale dell'arte,
rappresentata dai capitelli delle colonne di Asoka e altri motivi
architettonici, in realt di origine extraindiana.
Quest'arte non-buddhistica di cui abbiamo esempi nell'epoca di Asoka in
rapporto con il culto degli spiriti della natura, la Dea Terra, i Naga o re
serpenti delle acque, e i re Yakkha che reggono i quattro punti cardinali.
L'arte buddhistica originaria di Bharhut e Sanchi, che contemporanea di Asoka,
o leggermente pi tarda, riflette il predominio di questo culto nelle figure dei
guardiani Yakkha dei punti cardinali in bassorilievo, che proteggono le porte
d'entrata del porticato. La vittoria del Buddhismo sui culti animistici - certo,
solo una vittoria parziale, giacch questi culti sono ancora praticati
attualmente - indicata dalla presenza di questi spiriti della natura che
agiscono come guardiani dei templi buddhistici, come nella storia della vita del
Buddha, nell'episodio del Naga Mucalinda che diventa il protettore e rifugio del
Buddha durante la settimana delle tempeste. Gli spiriti della natura sembra
siano anche rappresentati con intenzione puramente decorativa, o forse
reverenziale, nel caso delle immagini di driadi insieme ad alberi, nella parte
superiore dei portoni di Sanchi. Queste immagini belle e sensuali sono di alto

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valore estetico, potenti ed espressive: ma nella loro vivida raffigurazione


pagana di amore della vita, possiamo considerarle molto poco rappresentative
dell'arte del Buddhismo originario.
Oltre alle immagini di spiriti della natura e alle raffigurazioni di animali,
decorative o protettive, l'arte dei portali di Sanchi illustra leggende
didattiche, le storie delle vite precedenti del Buddha (Jataka) e della sua
ultima incarnazione. In queste sculture delicatamente eseguite in bassorilievo
abbiamo una notevole documentazione sulla vita indiana, sul suo caratteristico
ambiente, i suoi usi e costumi, i suoi culti, riprodotto con convincente
realismo e ricchezza di dettagli particolareggiati. Ma sebbene ci dicano come la
santa leggenda fosse vista qualche secolo dopo la morte del Buddha, esse sono
principalmente illustrazioni di episodi edificanti, e solo entro un limite molto
ridotto meno, ad esempio, che a Borobodur - si pu dire che esprimano
direttamente le concezioni buddhistiche sulla vita e sulla morte.
C', comunque, un aspetto in cui queste concezioni sono perfettamente
rispettate, ed il fatto - strano a prima vista - che l'immagine del Maestro
non mai rappresentata. Anche nella scena che illustra la partenza di
Siddhattha [Rappresentata sulla trave orizzontale centrale del portone orientale
di Sanchi] dalla sua casa la groppa di Kanthaka vuota, vediamo solo il
cavallo, con le figure di Channa e dei Deva di scorta che sollevano i suoi
zoccoli perch non si senta il rumore dei suoi passi, e portano l'ombrello
dell'autorit al suo fianco. Il Buddha, comunque, pu essere simbolizzato in
vari modi, dall'Albero della Sapienza, dall'ombrello dell'autorit, o, pi
comunemente, con le impronte dei piedi.
Si vedr che l'assenza della figura del Buddha dal mondo degli uomini viventi dove rimangono ancora le tracce della sua funzione - un modo artistico di
rendere il silenzio misurato del Maestro, rispettando lo stato di post-mortem di
coloro che hanno raggiunto il Nibbana: "Il Perfetto si liberato da questo, il
suo essere non pu venir valutato con le misure del mondo corporeo", egli si
liberato da "nome e forma". Nell'omissione dell'immagine del Buddha, quindi,
quest'arte del Buddhismo originario veramente buddhistica; ma in quasi tutto
il resto essa un'arte sul Buddhismo, pi che buddhistica.
Le prime produzioni buddhistiche
Abbiamo spiegato in precedenza, sotto il titolo "Le origini del Mahayana", in
quale modo il Buddha giunse ad essere considerato come un Dio personificato, e
come la disciplina intellettuale dei primi Buddhisti si sia gradualmente
modificata attraverso la crescita di uno spirito di devozione che si esprime
nell'adorazione e nella creazione di un culto. In gran parte si dev'essere
trattato di un riflesso della crescente influenza della comunit laica, e ci
pu essere paragonato a tendenze simili nello sviluppo di altre fasi di fede
contemporanee. Con quale abbandono appassionato si venerassero i "piedi del
Signore" appare dalle sculture di Amaravati, un tempio buddhistico dell'India
meridionale, riccamente decorato con sculture in bassorilievo, principalmente
del secolo II d.C. Sentimenti di questo tipo richiedono un oggetto di adorazione
pi personale e pi accessibile del concetto astratto di qualcuno il cui essere
oltre la possibilit di concezione del pensiero, giacch, secondo le parole
stesse della Bhagavad Gita, "la via non tracciata terribilmente ardua". E cos
che il Buddha, e con lui il primo e poi altri Bodhisattva salvatori,
originariamente idealizzazioni di virt particolari, sono giunti ad essere
considerati divinit personificate, che rispondono alle preghiere dei loro
adoratori, ed estendono la capacit della loro benevolenza divina e della
infinita compassione a tutti coloro che cercano il loro aiuto. Fu questo bisogno
umano che sia nei templi buddhistici sia in quelli ind determin lo sviluppo
dell'iconografia.
La forma dell'immagine del Buddha - la figura dello Yogi in posizione assisa ebbe un'altra origine. Nei capitoli "Lo Yoga" e "Gli esercizi spirituali"
abbiamo gi parlato della grande importanza che essa ha avuto, anche nel
Buddhismo originario, per la pratica della contemplazione. Molto presto,
probabilmente gi, in effetti, al tempo del Buddha, lo Yogi seduto, che pratica
la disciplina mentale o raggiunge la pi alta stazione di samadhi, deve aver
rappresentato, per la mente indiana, la mta ultima dello sforzo spirituale e il

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punto d'arrivo della Grande Ricerca. E cos, quando si volle rappresentare con
un'icona visibile l'immagine di Colui-che-ha-raggiunto-ci, la forma pi
appropriata era gi a portata di mano. E molto probabile che figure del Buddha
assiso fossero gi d'uso locale e privato come oggetti di culto, ma solo dopo
l'inizio dell'ra cristiana che essi incominciarono ad avere un ruolo
ufficialmente riconosciuto nell'arte buddhistica, e che la figura del Buddha fu
introdotta nella scultura "narrativa".
[nota: Come fa rilevare il Foucher, la figura del reliquiario di Kanishka
"mostra un'arte gi stereotipata... e questo documento votivo basta da solo a
rendere pi antica di almeno un secolo la creazione del modello plastico del
Beato, facendoci cos risalire al primo secolo prima della nostra ra".
L'Origine greque de l'Image du Buddha, Paris, 1913, pag. 31.]
molto probabile che esempi di queste prime opere buddhistiche non esistano
pi, ma anche se cos fosse, le splendide e monumentali immagini di Anuradhapura
e Amaravati, che sono forse del secolo II d.C., riflettono ancora in gran parte
la piena forza dell'ispirazione primitiva. Di queste figure nessuna pi bella
- e forse non c' nulla di pi bello in tutta l'arte buddhistica - della
colossale figura di Anuradhapura. A quest'ultima bisogna associare un'immagine
del Buddha in piedi e una di un Bodhisattva. Tutte e tre sono da mettere in
relazione con le rappresentazioni del Buddha in piedi di Amaravati. In queste
immagini austere la grandezza morale dell'ideale del Nibbana trova la sua
espressione diretta nella forma monumentale, libera da ogni orpello
insignificante o da una qualunque enfasi, e questi prototipi sono riprodotti poi
in tutta l'arte buddhistica successiva.
La scultura greco-buddhistica
Per queste opere dobbiamo riprendere ad esaminare l'arte del Gandhara,
leggermente precedente, pi conosciuta e molto pi abbondante, generalmente
chiamata "greco-buddhistica". Quest'arte cos chiamata perch, a parte la
figura del Buddha seduto, che naturalmente interamente indiana, i personaggi
pi importanti del pantheon buddhistico - cio, il Buddha in piedi, la sua
figura seduta, le immagini di Bodhisattva e altre divinit buddhistiche, cos
come i personaggi che compongono alcune scene della vita del Buddha, e alcuni
dettagli di ornamentazione architetturale - sono, o basati direttamente, o
fortemente influenzati, dai prototipi greco-romani. Di fatto l'arte del Gandhara
una fase dell'arte delle provincie romane, arricchita con elementi indiani, e
adattata all'illustrazione delle leggende buddhistiche. L'influenza delle forme
occidentali chiaramente riconoscibile nella posteriore arte buddhistica
indiana e cinese: ma l'arte del Gandhara d l'impressione di una profonda
insincerit; per l'espressione compiacente dei costumi un po' affettati dei
Bodhisattva, e per i gesti effeminati e svogliati delle figure del Buddha essa
esprime solo vagamente l'energia spirituale del pensiero buddhistico. Anche dal
punto di vista occidentale quest'arte dev'essere considerata ancora pi
decadente di quella dell'impero romano: perch, veramente, "nei sabbiosi sfondi
del realismo romano, il flusso dell'ispirazione greca si perse per sempre", e
nulla lo mostra pi chiaramente dell'arte del Gandhara. E interessante osservare
anche il modo in cui certi simboli indiani sono interpretati goffamente ed
imperfettamente, perch questo fornisce la prova, se ce ne fosse bisogno, che i
modelli in questione sono di origine anteriore, e indiana. Un caso evidente
quello del sedile di loto, che il simbolo della purezza spirituale o divinit
del Buddha. Il Buddha seduto del Gandhara sbilanciato, in posizione insicura e
poco confortevole, sui petali appuntiti di un loto sproporzionatamente piccolo,
e questo difetto distrugge cos il senso di riposo che essenziale nella figura
dello Yogi - il quale nei libri indiani paragonato alla fiamma che non vacilla
in un luogo senza vento - ed in diretto conflitto con i testi yoga che
dichiarano che il sedile di meditazione dev'essere stabile e comodo (sthirasukha). Abbiamo davanti a noi il lavoro di artigiani stranieri che imitano una
formula indiana che non capiscono. Non possiamo credere che quest'arte sia
originale e autoctona e nonostante il suo interesse storico essa non
certamente primitiva nel senso in cui la parola usata dagli artisti.

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[nota: "Nell'arte primitiva si trover... assenza di rappresentazioni


naturalistiche, assenza di raffinatezza tecnica, forma solenne assoluta". Clive
Bell, Art, pag. 22.]
Iconografia
Possiamo ora fare una digressione, e dire qualcosa delle principali tipologie
dell'immagine del Buddha. La figura seduta ha tre forme fondamentali: la prima
rappresenta il puro samadhi, la stazione pi elevata di concentrazione - le mani
sono incrociate in grembo, in quello che noto come il "sigillo [o gesto
rituale] della meditazione" (dhyana mudra); nella seconda la mano destra
portata verso l'avanti, incrocia il ginocchio destro e tocca la terra, in quello
che si conosce come bhumisparsa mudra, ovvero il "sigillo [o gesto rituale]
della chiamata della terra a testimone"; la terza rappresenta il Buddha con le
mani sollevate davanti al petto, nella posizione detta dharmacakra mudra, o
"sigillo [gesto rituale] del far girare la ruota della legge". In un quarto tipo
di raffigurazione, la mano destra levata con il palmo rivolto in fuori, nel
gesto noto come abhaya mudra, ovvero "sigillo del dissipamento della paura".
Quest'ultima posizione caratteristica delle figure in piedi, e in questo caso
la mano sinistra sostiene l'orlo della veste. Nelle raffigurazioni di
Bodhisattva la mano destra spesse volte stesa nel gesto o "sigillo di carit"
(vara mudra), mentre la sinistra sostiene un'attributo, ad esempio il loto di
Avalokitesvara. Sennonch, la variet di Bodhisattva molto grande. Un'altra
posa caratteristica conosciuta come vitarka mudra, o "sigillo
dell'argomentazione", e rappresenta l'atto d'insegnare.
Altre forme sono generalmente esplicite, come la spada di saggezza che tenuta
in alto da Manjusri, per fendere l'oscurit dell'ignoranza. Si noter anche che
le immagini del Buddha hanno talune peculiarit fisiche, tra cui la pi cospicua
l'ushnisha o protuberanza sulla cima del cranio. Tecnicamente questo sembra
derivare da una forma occidentale di copricapo, ma come significato dev'essere
classificato fra le caratteristiche fisiche attribuite dai fisiognomisti indiani
all'Uomo Superiore, il Mahapurusha. Questo ushnisha serve a distinguere la
figura del Buddha da quella di un semplice Fratello, giacch le teste dei
Bhikkhu sono sempre completamente rasate e senza la protuberanza della saggezza
del Buddha. Il personaggio del Buddha si distingue anche in un altro modo da
quello del Bodhisattva, nel quale l'ushnisha ugualmente evidente, ossia per la
differenza del costume: quello del Buddha monastico, mentre quello del
Bodhisattva ha l'eleganza opulenta e ingioiellata di quello di un re o di una
divinit. In tutti e tre questi casi le orecchie sono forate e allungate, ma
solo il Bodhisattva indossa orecchini. Il costume monastico del Buddha e dei
Fratelli consiste in tre pezze di stoffa, che formano un sotto-abito
(antaravasaka) attorno ai lombi a guisa di gonna, allacciato da una fascia, un
soprabito (uttarasanga) che copre il petto e le spalle e cade sulle ginocchia, e
un mantello (sanghati) indossato sui due altri indumenti. E questo mantello
sovrapposto che pi si vede nelle immagini scolpite. Nelle figure in piedi il
drappeggio trattato con molta elaborazione, e pi lo , pi si pu dedurne che
stata forte l'influenza occidentale, essendo esso basato sul drappeggio dei
noti Sofocle laterani, e stabilisce un'assoluta identit di disegno tra il
Cristo greco-cristiano e il Buddha greco-buddhista: ma in gran parte delle
immagini tipicamente indiane il drappeggio quasi trasparente e indicato solo
da una semplice linea. Nelle immagini del periodo Gupta, in particolare,
traspare in modo netto, sotto il drappeggio degli abiti, l'intera figura
corporea. Gli indumenti superiori sono indossati in due modi diversi; in un caso
coprono entrambe le spalle e nell'altro lasciano la spalla destra scoperta. Un
altro aspetto notevole delle immagini del Buddha l'aureola, che assume varie
forme; i primi tipi sono semplici, mentre quelli del periodo Gupta sono decorati
con elaborazione; anche questo sembra essere un motivo tecnicamente occidentale,
ma allo stesso tempo rispecchia la tradizione dei "raggi del Buddha" e la sua
trasfigurazione, quindi da un punto di vista "visionario", pu essere detto
realistico.

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Arte classica buddhistica


I diversi tipi di arte buddhistica di cui abbiamo finora trattato, da questo
momento in avanti si avvicinano sempre di pi, fino a costituire, ad un certo
punto, una sola arte e un solo stile nazionali, che si espanderanno fino a
coprire tutta l'India nel periodo Gupta e formeranno la base dello sviluppo
coloniale e "missionario" dell'arte buddhistica in Siam, Cambogia, Birmania,
Giava, Cina e Giappone. Una delle caratteristiche pi marcate dell'arte Gupta
la pienezza e la dolcezza delle sue forme, ben esemplificata in particolare in
due figure; la prima un'immagine in piedi di Mathura, l'altra un'immagine
seduta che si trova nell'area del vecchio monastero del Parco dei Cervi a
Benares, dove fu predicato il primo discorso del Buddha. Si vedr che a
quest'epoca gli elementi stranieri introdotti dal Gandhara sono ormai
completamente assorbiti e indianizzati, e secondo le parole del Prof. Oscar
Munsterberg, "si sono sviluppati con ispirazione nazionale e buddhistica in una
nuova e genuina forma d'arte". Una transazione quasi impercettibile condurr
dall'arte indiana Gupta all'arte indiana classica, quest'ultima pi "mossa", e
contraddistinta da forme pi esili, da maggior delicatezza e padronanza delle
tecniche. E nella tarda pittura Gupta e nella prima pittura classica di Ajanta,
che l'arte indiana buddhistica, che ebbe inizio con la creazione della figura
seduta, raggiunge la sua perfezione finale e completa il suo ciclo. Queste
pitture, come i bassorilievi di Sanchi e Bharhut, illustrano principalmente le
storie delle vite antecedenti del Buddha e la sua ultima incarnazione. Si nota
comunque, in queste opere, un lungo sviluppo in dottrina e tecnica. La figura
del Buddha rappresentata liberamente, ma il modello ieratico generalmente
subordinato a quello del Bodhisattva, dipinto come un eroe vivente e in
movimento, in storie di vita umana e animale, dove mostra ogni possibile
perfezione di carattere. Quello che ancora pi notevole il fatto che la
pittura di Ajanta non faccia eco a quel disprezzo della vita che cos
insistito nei Pali sutta - in cui il mondo degli esseri viventi cos
amaramente denunciato come "impuro" - ma rappresenti questa vita con
appassionata simpatia per tutta la sua perfezione sensibile. La celebrazione
della bellezza delle donne non potrebbe essere pi evidente, e il suono della
musica dappertutto: non si fa riferimento alla vecchiaia, e non si insiste
sulla morte e sulla sofferenza, e la sola cosa che si fa notare della giovent e
della bellezza la loro transitoriet. La vita del mondo dipinta con completa
trasparenza - "come se in una fortezza di montagna ci fosse una pozza d'acqua,
chiara, limpida, e calma" - e appare come la sostanza di un sogno, troppo
fuggevole per essere afferrata, con forme evanescenti. Attraverso queste scene
incantate si muove la figura di chi ha il cuore indirizzato a una mta pi
distante, che prova una sconfinata compassione per tutti gli esseri di questo
mondo, i cui dolci piaceri sono soggetti alla morte. Ed proprio perch la
coscienza buddhistica medioevale ha imparato cos bene a capire il valore del
mondo che la figura di Colui che cerca di salvare tutte le creature da questa
gioiosa vita fenomenica appare cos tragica.
"Non che io non apprezzi queste mie zanne per il loro giusto valore", dice
l'elefante Bodhisattva nel Chaddanta Jataka, "n che io desideri la condizione
di Dio, ma le zanne della saggezza infinita mi sono care mille volte pi di
queste, e allora te le offro, buon cacciatore".
C' inoltre da osservare che l'Uomo Spiritualmente Superiore non mai povero e
derelitto, ma sempre abbondantemente dotato del comando e della ricchezza del
mondo, e non disdegna la compagnia delle belle donne. Dharma, artha, e kama, la
virt sociale, la ricchezza e i piaceri dei sensi sono suoi, ma nonostante
questo i pensieri del Bodhisattva non sono distolti dal quarto "obiettivo umano"
di moksha, la salvezza. Sicch, lungi dal raffigurare l'impossibilit dell'uomo
ricco ad accedere al Regno dei Cieli, ricchezze e potere sono invece mostrati
come il segno naturale della bont; e del resto, senza simili ricchezze e tal
potere, come potrebbe espandersi sufficientemente la generosit soprannaturale
del Bodhisattva? Fin qui, naturalmente, abbiamo parlato di etica pi che di
arte. Ad ogni buon conto, non l'argomento letterario buddhistico dell'arte di
Ajanta a renderla cos profondamente commovente - non c' bisogno di sapere qual
il tema dei dipinti per comprenderne il significato. Gli artisti dipingevano
cos, non perch fossero buddhisti, ma perch erano veramente artisti. Il
contenuto intellettuale e logico, e l'elemento narrativo, sono cos totalmente

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subordinati all'emozione diretta, che talvolta difficile rendersi conto che il


tema di tutti i dipinti di Ajanta realmente buddhistico. E sempre piuttosto
facile per un buon artigiano illustrare un credo o una leggenda, ma solo quando
un vero artista egli capace di esprimere nello stesso tempo la realt pi
profonda e basilare su cui sono fondati ogni credo e ogni rituale. certo che i
Buddhisti delle origini, i quali aborrivano i "dipinti di tresche", cio quelle
scene d'amore che spesso si vedono ad Ajanta, e che sposano tutte un criterio
edonistico dell'arte, avrebbero condannato l'intera opera come "mondana", o
addirittura "carnale". Abbiamo gi visto, per, che il contenuto dogmatico non
necessariamente in connessione con il significato spirituale dell'opera d'arte,
giacch nulla potrebbe essere meno spirituale dell'arte cos manifestamente
"buddhistica" del Gandhara.
Dopo il secolo VII, nell'India propriamente detta, il Buddhismo declin e
continu a fiorire solo in Bengala, nel Nepal, a Ceylon e nelle colonie
orientali. Gli splendidi monumenti della scultura indiana classica, cos
ampiamente distribuiti per tutta l'India - da Elephanta a Ellora e a
Mamallapuram - sono dunque quasi interamente indu come soggetto; soltanto qua e
l restano poche preziose reliquie di scultura buddhistica indiana dell'epoca
classica. Le pi belle sono probabilmente un bronzetto singalese di
Avalokitesvara e una figura di Maitreya, che dev'essere forse un po' pi tarda,
la quale - anch'essa reperita a Ceylon - molto graziosa, quantunque meno
rimarchevole della precedente. Due raffigurazioni del Buddha e di
Avalokitesvara, ritrovate in Nepal, sono da ricollegare direttamente alla
tipologia di Ajanta, e risalgono a un periodo stimabile dal secolo VIII al IX
d.C.; a un periodo classificabile dal secolo XI al XIII d.C. si possono far
risalire diversi esempi di manoscritti buddhistici su foglia di palma,
magnificamente illustrati secondo lo stesso stile. In seguito l'arte buddhistica
del Nepal si modificata sotto influenze tibetane, cinesi e forse anche
persiane. L'arte buddhistica rimase viva nel Magadha e nel Bengala fino alla
vittoria definitiva dell'Islam che comport la distruzione dei monasteri nel
secolo XII.
L'arte coloniale indiana
L'India stata la fonte di un'arte coloniale di grande importanza, sviluppatasi
dal secolo VI progressivamente in Birmania, Siam, Cambogia, Laos e
particolarmente a Giava: la maggior parte di quest'arte buddhistica. La scuola
pi importante quella giavanese. Giava fu colonizzata dagli Ind brahmanici
nei primi secoli dell'ra cristiana e leggermente pi tardi si largamente
convertita al Buddhismo; le due forme di fede sono esistite a fianco a fianco
fino alle conquiste musulmane del secolo XV. Il monumento buddhistico pi grande
e pi bello lo stupa di Borobodur; le gallerie per le processioni sono
adornate da una serie di circa 2.000 bassorilievi che illustrano la vita del
Buddha basandosi sul Lalitavistara, e sulle varie leggende prese dal Divyavadana
e dai Jataka. I bassorilievi sono cos numerosi che se fossero distesi in fila
coprirebbero uno spazio di pi di due miglia. Abbiamo qui una terza grande
Bibbia illustrata, simile come concezione, ma pi estesa, ai bassorilievi di
Sanchi e alle pitture di Ajanta. E un'"arte estremamente devota e spontanea",
che naturalmente non ha l'austerit e l'astrazione delle prime produzioni
buddhistiche, ma straordinariamente gradevole, decorativa, e spontanea. Gli
episodi rappresentati non sono certo cos esclusivamente eleganti come nel caso
di Ajanta, ma coprono interamente la sfera della vita indiana sia urbana che
contadina. L'elemento narrativo pi importante che ad Ajanta, perch gli
artigiani aderiscono fedelmente al libro. Ma "ogni gruppo e ogni figura sono
assolutamente autentiche e sincere nell'espressione del viso, nei gesti, e nella
posizione del corpo; le azioni che ricollegano i vari gruppi e i singoli
lineamenti sono espresse con forza e semplicit, senza sforzo o ricerca di
effetti speciali: era cos, perch poteva essere solo cos"! L'arte buddhistica
continu a fiorire a Giava per molti secoli, e molti lavori di ammirevole
bellezza sono ancora conservati, sia bassorilievi su pietra, che sculture a
tutto rilievo e bronzi pi piccoli e molto delicati. Tra le opere pi recenti
nessuna pi toccante del Manjusri - il Bodhisattva che tiene sollevata la
spada della saggezza -, ma non condivido il parere che il noto Prajnaparamita,

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sebbene molto bello, sia "una delle creazioni pi spirituali dell'arte", ma


piuttosto, come ha suggerito un altro critico, penso che questa immagine
graziosa, tranquilla e ingoiellata sia "tutta troppo umana".
L'Estremo Oriente
L'arte buddhistica della Cina ha tutta un'altra impronta, perch, nonostante si
ispiri alle forme dell'arte indiana, la Cina possedeva gi un'arte antica e, dal
punto di vista tecnico, molto avanzata, e possedeva una profonda filosofia sua
propria prima che i pellegrini e i missionari buddhistici portassero nelle
distese dell'Asia centrale l'impulso ad un nuovo sviluppo di pensiero e di arte
plastica; cos, anche se in Cina ci furono a quel tempo migliaia di Indiani, e
anche se alcuni di essi furono artisti buddhistici, l'arte cinese buddhistica
non , come quella giavanese, interamente indiana, ma essenzialmente una cosa
nuova, almeno tanto cinese quanto indiana.
La prima introduzione del Buddhismo ebbe luogo nel secolo I d.C. Nel secolo II
una statua d'oro, forse del Buddha, fu portata in Cina dall'Occidente; nello
stesso secolo una missione buddhista raggiunse la Cina dal paese dei Parti. Il
Buddhismo non ottenne comunque subito risultati duraturi, e i Cinesi erano
allora, come ora, in parte Confuciani, in parte Taoisti, e in parte Buddhisti.
Naturalmente, poich le prime influenze buddhistiche arrivarono attraverso
l'Asia occidentale, la prima arte buddhistica cinese presenta qualche affinit
con l'arte greco-buddhistica del Gandhara; ma ora rimangono poche tracce di
lavori antecedenti al secolo V, e a partire da quell'epoca gli elementi grecoromani incominciarono ad essere trascurabili, o si ritrovavano solo nei dettagli
minori dell'ornamentazione e della tecnica. Sotto la dinastia settentrionale Wei
dell'inizio del secolo V, comunque, ci fu un'intensa attivit artistica, e le
montagne e le caverne di Tatong sono scolpite con innumerevoli immagini di
Buddha e Bodhisattva di tutte le dimensioni, dalla miniatura al colosso; queste
opere sono le prime produzioni cinesi buddhistiche tipiche. Una figura colossale
misura qualcosa come novanta piedi d'altezza e la forma a tutto tondo; altre
figure, pi piccole, invece, sono molto delicate e sottili. Uno dei tratti di
diretta origine indiana si riconosce nelle gigantesche figure dei guardiani che
sono rappresentati come muscolosi giganti che proteggono le entrate delle
caverne buddhistiche. Mentre in queste immagini i muscoli sono molto sviluppati
e il corpo nudo, le figure del Buddha e dei Bodhisattva sono sempre vestite e
i dettagli anatomici sono soppressi e generalizzati. Caverne decorate si trovano
anche a Longmen vicino alla citt di Honan, una tarda capitale del Wei del Nord;
queste incisioni e sculture risalgono al secolo VI. Le iscrizioni che registrano
le varie donazioni mostrano che questi lavori erano commissionati dal re, dalla
regina, dai nobili, e anche da privati delle classi inferiori. Anche in Corea ci
fu un grande sviluppo della scultura buddhistica. Queste immagini, come anche
quelle gi descritte, sono scavate nella roccia viva, in un paesaggio di grande
bellezza naturale, lontano dalle abitazioni degli uomini. L'arte buddhistica in
India, come ad Ajanta, ed ancor pi nell'Estremo Oriente, costantemente
associata con scenari naturali imponenti: e se non fosse per questo amore della
natura e per l'istituzione del pellegrinaggio a luoghi sacri e distanti, sarebbe
difficile spiegare la grossa parte che ha avuto nell'arte cinese e giapponese
posteriore la pittura di paesaggi.
dalla Corea che il pensiero e l'arte buddhistici furono introdotti in Giappone
nel secolo VI. La nuova fede incontr un'aperta opposizione. L'eroe del periodo
della prima introduzione del Buddhismo in Giappone il celebre principe
Wumayado, il quale redasse i diciassette articoli della costituzione giapponese,
e scrisse alcuni notevoli commenti sui sutra buddhistici, esponendo gli
insegnamenti di Nagarjuna: egli ancora oggi venerato dagli artigiani e dagli
artisti giapponesi come patrono delle arti. Gli unici resti di questo periodo,
comunque, sono il colossale Buddha di bronzo di Ankoin, che soffr molte
vicissitudini e ha subto tante restaurazioni da non poter pi dare un'idea
precisa della prima arte buddhistica giapponese, e il famoso tempio di Horiuji,
presso Nara, che anche ricco di sculture e pitture dell'epoca.
"In queste opere troviamo", dice Okakura, "uno spirito di cos intensa
raffinatezza e purezza, che solo grandi sentimenti religiosi possono aver
generato. Perch la divinit, in questa prima fase di realizzazione nazionale,

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assumeva l'aspetto di un ideale astratto, inavvicinabile e misterioso, e anche


la sua distanza dal "naturale" d all'arte un fascino maestoso".
Questi rilievi attirano la nostra attenzione sul fatto che tutta l'arte
buddhistica iniziale dell'Estremo Oriente pi puramente ieratica e astratta di
quanto non sia, ad esempio, quella di Ajanta, con la quale, per altri aspetti,
la pittura di Horiuji strettamente confrontabile; e la spiegazione non da
cercare tanto lontano. Quando gli artisti dell'Estremo Oriente, infatti, con la
nuova religione, "adottarono le formule e i simboli indiani, li mantennero
separati dalla pratica ordinaria della loro arte, e cos dettero origine a una
qualit di esecuzione particolarmente ieratica, forse il tipo di arte pi
rarefatto e distaccato che un pittore abbia mai espresso", anche perch, "per la
mentalit indiana il Buddha e i suoi discepoli erano figure pi vicine, con
rapporti concreti con il loro mondo sociale. I luoghi dove essi avevano vissuto
e insegnato erano per loro luoghi ben definiti, dove essi stessi potevano in
qualsiasi momento andare in pellegrinaggio", e conseguentemente in India non
esisteva quella "separazione della tradizione sociale da quella religiosa" che
invece evidente nell'arte cinese, cos come evidente pure nella scultura e
nella pittura religiosa europea. Di due antiche pitture giapponesi di
Samantabhadra e di Manjusri, il Binyon fa notare:
"Le fluide linee della forma e del drappeggio sono di una dolcezza e di
un'armonia indescrivibili, quasi fossero animate esse stesse dalla vita; anche
il colore si schiude come parte della calma e lussureggiante vita interiore,
venato da linee d'oro, senza dare l'impressione di qualcosa di applicato dal di
fuori. Simili immagini, che questa prima arte buddhistica ha creato in gran
quantit, immagini dell'infinito, della saggezza, della tenerezza, non esprimono
solamente la serenit dello spirito, ma hanno, ad un grado mai raggiunto da
qualsiasi arte, il potere di introdurre lo spettatore nel loro discorso
spirituale: contemplarle commuove stranamente, e tranquillizza".
Dobbiamo comunque tornare nuovamente alla Cina, per esaminare l'arte classica
dell'epoca T'ang (618-905 d.C.), perch questo il grande periodo creativo
dell'Estremo Oriente, dal quale principalmente determinato lo sviluppo futuro
dell'arte sia cinese che giapponese: il ruolo che la Grecia ha avuto per
l'Europa, la Cina l'ha avuto per il Giappone.
"L'epoca T'ang si situa nella storia come il periodo del pi grande potere
esteriore della Cina, il periodo della sua maggiore poesia e della sua arte pi
grande e vigorosa, se non la pi perfetta. Il Buddhismo in quel momento si era
stabilito nella nazione cinese come non aveva mai fatto prima, e i suoi ideali
pervadevano l'immaginazione del tempo. La Cina non fu mai a contatto cos
stretto con l'India. Nella capitale T'ang di Loyang si potevano trovare numerosi
Indiani, compresi trecento monaci buddhisti, che predicavano attivamente la
fede. E le idee buddhistiche permeavano la pittura T'ang".
La scultura T'ang rappresentata al meglio nelle caverne scolpite di Longmen,
nei pressi di Honan; la sua tecnica di esecuzione simile a quella delle prime
sculture di Tatong; tra queste possiamo ricordare la figura centrale di un
Buddha colossale, e della stessa scuola, ma di provenienza sconosciuta, la
figura graziosa e quasi civettuola di un Bodhisattva, che ora si trova al museo
di Colonia. Molti altri esempi separati di scultura buddhistica T'ang si possono
osservare in musei americani ed europei. Di data intermedia tra i periodi Wei e
T'ang la monumentale stele di marmo nero, che si trova nella collezione
Goloubew. Il poco che sappiamo della pittura del periodo T'ang dominato dal
grande nome di Wu Tao-tzu, del quale una piccola quantit di opere pi o meno
autentiche sono conservate in Giappone. Una di esse, anche se non produzione
autentica di Wu Tao-tzu, comunque un capolavoro T'ang, la bella figura del
Buddha del tempio Tofukuji di Kyoto. Un altro dipinto di un artista un po'
posteriore a Wu Tao-tzu il Bodhisattva Kwanyin, l'Avalokitesvara indiano. In
un'epoca anteriore il virile Avalokitesvara era interpretato in Cina come una
divinit salvatrice femminile, ed esiste una lunga e affascinante leggenda
cinese che racconta la sua vita quale principessa terrena. Poich Kwanyin una
benigna salvatrice che ascolta tutti gli appelli e risponde a tutte le
preghiere, si capir facilmente come essa divenne una delle pi popolari tra
tutte le divinit buddhistiche, cinesi e giapponesi, e il soggetto per numerosi
dipinti. Si pu notare, ad esempio, che nella raffigurazione della collezione
Freer, la Dea porta in una mano un cesto, e nell'altra, che tiene distesa, ha un
pesce, mentre nella maggioranza delle rappresentazioni porta un rametto di

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salice o un'ampolla di acqua di vita. Un'opera di Wu Tao-tzu pi famosa la


"Morte del Buddha", dipinta nel 742 d.C., della quale "conosciamo per lo meno la
composizione, perch il disegno di Wu Tao-tzu fu ripetuto da pi d'uno dei primi
Maestri del Giappone, e l'originale descritto nei libri cinesi. Nel British
Museum c' un grande dipinto di simile soggetto, eseguito ad opera di un grande
artista e interamente eseguito su modello T'ang. La concezione maestosa.
L'intera composizione geme e si lamenta attorno al corpo del Buddha, che giace
pacifico al centro, poich gi entrato nel Nirvana, sotto un grande albero le
cui foglie sono appassite nei punti che non lo ricoprono. Santi e discepoli, re
e regine, sacerdoti e guerrieri, piangono e si percuotono il petto; gli angeli
nell'aria volteggiano afflitti; anche gli animali dei campi e della foresta, la
tigre, la pantera, il cavallo, l'elefante, dimostrano tristezza, rotolandosi per
terra gemendo; e gli uccelli piangono. Un'onda di disperazione pervade tutto il
dipinto. "Quale", ci si pu chiedere, "dev'essere stato l'effetto
dell'originale?""
Si conoscono i nomi di trecento altri pittori del periodo T'ang, ma non le loro
opere. Il maggiore di essi Wang Wei, che un pittore di paesaggi,
probabilmente il migliore in Cina, ed i Cinesi, si sa, sono i migliori in tutto
il mondo per quest'arte. C' da far notare che gli interessi del pittore cinese
di paesaggi sono molto lontani dalla semplice topografia; egli usa gli scenari
che gli sono familiari o le montagne e le foreste solitarie per interpretare e
comunicare uno stato d'animo, o per esprimere un concetto filosofico. in
questo modo che l'arte paesaggistica, sebbene non sia specificamente
buddhistica, conduce ad un sentimento religioso. Esiste un quadro Sung del
secolo XIII, che porta il titolo di "Melodia serale del tempio distante". "Una
catena di montagne erge il suo profilo scabro nel crepuscolo, le vette rilevate
che si stagliano contro il cielo pallido, le parti basse perse nella bruma, con
boschi che emergono o si mescolano lungo pendii irregolari. Da qualche parte tra
i boschi, sull'altopiano, si vede il tetto ricurvo di un tempio. quell'ora
silenziosa in cui i viaggiatori si dicono: "Il giorno passato", e ai loro
orecchi giunge da distante l'atteso suono della campana serotina. Il soggetto
in essenza lo stesso di quello che il genio poetico di Jean Francois Millet ha
concepito per il crepuscolo di Barbizon, all'ora in cui l'angelus suona sulla
pianura dalla lontana chiesa di Chailly".
Ma un altro critico ha osservato a questo proposito:
"Che differenza di esecuzione! Millet pone l'uomo in primo piano, spiegando il
significato del quadro con l'azione umana, invece l'artista cinese non ha
bisogno di immagini, solo un'allusione; lo spettatore deve completare il
pensiero da solo".
A quei tempi il mondo della natura era giunto a significare per l'artista cinese
qualcosa di diverso da ci che siamo abituati a pensare in rapporto con il
paesaggio europeo. In un certo senso egli usa delle forme della natura come
frasi di un linguaggio filosofico, servendosi delle montagne e della nebbia, del
drago e della tigre, come rappresentazioni dei Grandi Estremi: cosicch mentre
forse il critico moderno in grado di apprezzare la loro qualit puramente
estetica, solo con grande sforzo pu comprendere la profondit dell'allusione e
del significato mistico che questi disegni monocromi a pennello hanno per lo
studioso cinese impregnato della scienza della natura buddhistica e della
filosofia taoista. Molto spesso questo significato filosofico sottinteso , per
cos dire, inespresso. In tutti i casi, "la vita della natura e di tutte le cose
non umane considerata in se stessa; le sue caratteristiche sono contemplate e
la sua bellezza apprezzata per se stessa, e non per usarle e servirsene nella
vita dell'uomo. Non c' nessuna interferenza di sentimenti umani nei dipinti di
uccelli e di animali, della tigre che ruggisce nelle solitudini, del falco e
dell'aquila sulla rupe rocciosa; raramente vi l'influenza di quell'interesse
naturalistico che ha ispirato la maggior parte delle pitture europee di questo
genere".
Anche il pi piccolo fiore, l'insetto pi insignificante possono cos essere
rappresentati con tale intensit di visione da sembrare un mondo di per se
stessi: e questo mondo una parte di umanit, come l'uomo una parte del mondo
per sua natura. Il mondo della natura non un semplice oggetto di interesse, ma
un'espressione perpetua della vita una. Questi singolari versi di Blake
Il bruco sulla foglia

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mi ricorda il dolore di mia madre


sarebbero stati immediatamente comprensibili ad ogni lettore clto di epigrammi
medioevali cinesi e giapponesi, e avrebbe potuto ispirare, molto probabilmente,
innumerevoli dipinti, in cui il bruco sarebbe stato rappresentato per comunicare
all'occhio ed ancor pi al cuore dello spettatore l'unit essenziale di tutte le
esistenze. Questo il "Discorso della Natura", ed essere sensibili a queste
profezie e a questi sogni premonitori caratteristico sia della poesia sia
della pittura negli ultimi sviluppi del Mahayana. Cos, tanto in Cina come in
India, ma in modo diverso, il pensiero espresso nell'arte si svilupp da una
prima formulazione ieratica ad una rappresentazione della pura trasparenza della
vita.
Glossario
Dove una parola data in due forme, la prima in pali, la seconda, tra
parentesi, in sanscrito. Altrove la distinzione indicata dalle lettere P e
S. I termini pali e sanscriti sono, naturalmente, simili.
Ahamkara, S: il concetto di individualit, egoismo empirico.
Akhyana, S: antica forma letteraria, per racconto, favola.
Alamkara, S: retorica, ornamento poetico.
Alaya-vijnana, S: mente cosmica o ragione superiore, regno delle idee platoniche.
An-atta, P: la dottrina che sostiene che non ci siano ego, o anime.
Anicca (anitya): impermanenza, transitoriet.
Antahkarana, S: agente interiore, uomo interiore, l'anima.
Apara vidya, S: verit relativa, verit exoterica.
Arahat, P: chi ha raggiunto l'Arahatta.
Arahatta, P: lo stato della verit liberatrice, lo stato di chi ha raggiunto il
Nibbana, o di chi percorre la quarta via, il cui frutto il Nibbana.
Ariya (arya): nobile, rispettabile, onorevole.
Ariyasaccani (aryasatyani): le quattro nobili verit degli Ariya, enunciate nel
primo discorso del Buddha.
Arupa-loka, S: i quattro Cieli superiori, informali (che trascendono la forma).
Asubha-jhana, P: meditazione sull'impurit essenziale delle cose.
Atman, S: preso dai Buddhisti nel senso dell'ego, o anima, nel Brahmanesimo,
l'Assoluto, l'Incondizionato, lo Spirito, Brahman; anche il riflesso
dell'Assoluto nell'individuale.
Atta (artha): mta, guadagno, vantaggio, profitto.
Atta (atman), P: s [individuale], anima, ego; un'unit permanente nel senso di
"un'anima eterna", la cui esistenza negata nella proposizione "an-atta". Atta
etimologicamente equivale a atman, ma non designa l'Atman incondizionato dei
Brahmani assolutisti.
Avidya, S: ignoranza, la contrazione dell'ipseit nella variet. La base di
tanha, e cos di tutto il samsara.
L'ignoranza la vera "causa prima" della filosofia indiana: ma questa "causa
prima" "prima" solo in quanto "fondamentale", non come temporale. L'ignoranza
pu essere superata dalla coscienza individuale, che allora "si libera", vimutto.
Bhakti, S: devozione amorosa.
Bhakti marga, S: la via dell'amore, i mezzi della liberazione per mezzo della
devozione.
Bhavanga-gati, P, S: l'ordinaria vita incosciente del corpo, ecc.
Bhikkhu, P: monaco mendicante, "sacerdote buddhista".
Bhikkhuni, P: femminile di Bhikkhu.
Bodhi, P: saggezza, ipseit, intuizione, illuminazione, luce interiore. Cfr. con
il persiano 'ishq.
Bodhi-citta, P: cuore-della-sapienza, luce interiore, grazia, "germe
d'eternit", la scintilla divina della natura di Buddha nel cuore.
Bodhisatta (Bodhisattva): essere della saggezza. Gautama prima del
raggiungimento dell'illuminazione. Qualsiasi individuo che si dedica alla
salvezza degli altri e destinato al raggiungimento dello stato di Buddha.
Brahma, S: la suprema divinit personificata cos chiamata.

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Brahmacarya, S: vita casta, in particolare di un discepolo brahmano.


Brahmano, S: uomo della Brahmana varna, Brahmano di nascita, filosofo,
sacerdote. Eticamente, chi ottempera all'ideale del vero Brahmano.
Brahman, Brahma, S: l'Assoluto, l'Incondizionato, che "non cos, non cos", il
Fondamento, il S indivisibile, il Mondo dell'Immaginazione.
Buddha, P, S: Illuminato. Siddhattha Gautama, dopo aver raggiunto
l'illuminazione; altri individui che hanno ugualmente raggiunto l'illuminazione;
qualsiasi altro individuo considerato come un Essere supremo, il cui
raggiungimento dello stato di Buddha intemporale.
Buddhi, P, S: illuminazione, intelligenza.
Cakka (cakra): "ruota". Simbolo della sovranit, da cui la ruota della Buona
Legge, della rivelazione.
Cariya, P: "corso", successione delle vite di un Bodhisattva.
Cetana, P: volont.
Citta, P: cuore, ipseit.
Deva, P, S: ogni divinit personificata, angelo: Brahma, Sakka.
Dhamma (Dharma): norma, regola rivelata, legge, rettitudine, moralit,
religione; condizione.
Dhamma-cakkhu, S: occhio della verit.
Dharmakaya, S: corpo di legge, Logos, lo stato supremo di Buddha, Essere
assoluto, il Fondamento, conoscenza assoluta.
Dhibba-cakkhu, P: occhio celeste, visione onnisciente dell'universo della forma
(rupa-loka e kama-loka).
Dosa, P: odio, risentimento, vendetta, ira.
Dukkha, P: inferno, sofferenza, peccato, imperfezione. Uno dei tre segni
dell'esistenza e una delle quattro Verit degli Ariya.
Hinayana: il "Piccolo Veicolo", un termine applicato dai Mahayanisti, alle
dottrine del Buddhismo originario. La dottrina Hinayana espressa nel Theravada
pali. Occasionalmente, bench erroneamente, chiamato Buddhismo meridionale.
Isvara, S: Signore supremo, suprema divinit personificata. Dio nel senso
generale cristiano.
Jaina, P, S: un seguace di Mahavira, il Jina o Conquistatore.
Jataka, P, S: storia della nascita e di alcuni episodi delle vite anteriori del
Buddha.
Jhana (dhyana): meditazione, l'esercizio mentale cos chiamato, in particolare i
quattro samadhi.
Jiva, jivatman, S: l'Atman supremo particolarizzato nell'individuo.
Jnana, S: saggezza, intellettualit.
Jnana marga, S: la via intellettuale, mezzo per la salvezza ottenuta con la
conoscenza.
Kama, P, S: amore, passione.
Kama-loka, P, S: i sei Cieli delle divinit inferiori, ed i cinque mondi
inferiori.
Kamma (karma): azioni, caratteristiche, causalit.
Karma marga, S: la via dell'azione, mezzo per la salvezza ottenuta con
l'attivit disinteressata.
Karuna (karma): compassione, generosit, la qualit dominante in un Bodhisattva.
Khandha (skandha): "conglomerato", l'insieme dei fattori che compongono la
coscienza.
Klesa, S: peccato, pregiudizio.
Lila, S: "gioco", le "Meravigliose Opere del Signore", la manifestazione.
Madhyamika, S: una divisione del Mahayana, che si rif principalmente a
Nagarjuna.
Magga (marga): via, strada.
Mahayana, S: il "Grande Veicolo", le dottrine dei Mahayanisti, come essi stessi
si denominano. Il Mahayana esposto nei testi sanscriti buddhistici.
Occasionalmente chiamato, sebbene erroneamente, Buddhismo settentrionale.
Mana, P, S: orgoglio, vanit, ogni affermazione dell'ego.
Manas, P, S: mentale, anima; ego.
Maya, S: illusione, il potere creativo della manifestazione.
Metta (maitri): amicizia, buona volont, benevolenza.
Moha, P: infatuazione, illusione, pregiudizio, follia, sentimentalismo.
Mudita, P: simpatia, uno dei quattro Stati d'Animo Sublimi.
Mudra, S: gesto rituale. Posizione delle dita, gesto ieratico. "Sigillo".

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Naga, P, S: essere con doppia natura di uomo e serpente. Anche un elefante, o un


uomo saggio.
Nagini, P, S: femminile di Naga.
Nama-rupa, P, S: lett.: nome e forma; ci che di per se stesso costituisce un
aggregato di un'apparente personalit o unit. Psicologicamente,
"un'incarnazione" senza l'idea di niente di incarnato: mente e corpo, o mente e
materia. Per rupa in altri sensi, vedi la parola stessa.
Nibbana (Nirvana): eticamente, la morte delle passioni, del risentimento e
dell'illusione; psicologicamente, liberazione dall'individualit. Il
riconoscimento della verit. Uno stato di liberazione che dev'essere realizzato
qui ed ora; chi vi arrivato, liberato dal divenire e dopo la morte non
ritorna pi [nella manifestazione]. Il Nibbana non implica l"annichilimento
dell'anima", perch il Buddhismo insegna che non mai esistita un'entit come
l'anima. Nibbana uno dei molti nomi del summum bonum; pu essere tradotto come
Abisso, Quiete, Vuoto, o Nulla.
Nirguna, S: incondizionato, non qualificato, in nessun modo.
Nirmanakaya, S: corpo magico, apparizione, corpo di trasformazione, l'aspetto
terreno di un Buddha.
Nishkama, S: disinteressato, non contaminato da desiderio.
Nivritti marga, S: la via del ritorno.
Pacceka Buddha, P: chi ha raggiunto l'illuminazione, ma non insegna; un "Buddhaper-se-stesso".
Panna: saggezza, ragione, discernimento.
Panna-cakkhu, P: occhio dell'intuizione o della saggezza.
Para vidya, S: verit assoluta, verit esoterica.
Paramartha satya, S: verit assoluta.
Paramita, S: perfezione trascendente, in particolare la virt perfetta di un
Bodhisattva.
Paribbajaka, P: "pellegrino", eremita errante.
Parinibbana (parinirvana): "Nibbana totale", la stessa cosa di Nibbana,
Arahatta, Vimutti Anna, ecc., morte di un essere umano che ha gi realizzato il
Nibbana, morte di un Arahat: anche semplicemente "dissoluzione".
Paticca-samupada, P: origine dipendente, causalit.
Prajna, S: ragione, comprensione.
Prajnaparamita, S: ragione suprema. Personificata anche come "la Madre dei
Buddha", Tathagata-garbha. Cfr. il persiano 'aql. Considerata come la via
d'uscita, il principio dell'analisi; come la via d'entrata, il principio
della sintesi.
Prakriti, S: natura, il mondo corporeo.
Pranidhana, S: voto, autoconsacrazione, certezza, di un Bodhisattva.
Pravritti marga, S: la via della ricerca.
Punna (punya): merito, caratteristiche positive.
Purusha, S: "Maschio", una personificazione del Brahman o Atman (Vedanta):
un'anima individuale (Samkhya). Antitetico di Prakriti, "spirito" come opposto a
"materia".
Raga, P, S: lussuria, passione, desiderio.
Rakshasa, S: un demone divoratore di uomini.
Rupa, P, S: forma, figura. In senso categorico, qualit. Vedere anche nama-rupa.
Rupa-loka, P, S: i sei Cieli condizionati dalla forma, immediatamente sotto gli
arupa-loka.
Saguna, S: condizionato, qualificato.
Samadhi, P, S: tranquillit, autoconcentrazione, calma, enstasi. Uno stato
raggiunto in jhana, e quindi equivalente alla coscienza empirica trascendente:
anche lo stato di calma che sempre caratteristico dell'Arahat.
Samana, P: monaco pellegrino. Il Buddha spesso chiamato "il grande Samana".
Sambhogakaya, S: "Corpo di Beatitudine", l'aspetto celeste di un Buddha.
Samkhya: "Scuola del conto", una filosofia pre-buddhistica, cos detta perch
enumera le venticinque categorie.
Samsara, P, S: divenire, esistenza condizionata, nascita-e-morte, ricorrenza
indefinita, mortalit, esistenza corporea, il mondo vegetativo.
Samvritti satya, S: verit relativa.
Sangha, P, S: Ordine, Compagnia o Congregazione di monaci e monache.
Samskara (sankhara): "conformazione", impronta delle azioni passate, elementi
costitutivi del carattere.

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Sanna, P: percezione.
Sarraguna, S: saggio integrale, che possiede ogni qualit possibile.
Sati, P: autoconcentrazione, coscienza.
Sila, P: condotta, moralit.
Sufi: mistico persiano.
Sukha, P, S: bene, piacere, felicit, benessere.
Sukhavati: il Paradiso Occidentale di Amitabha, il Cielo Superiore, il "Campo di
Buddha", dove le anime sono fatte maturare per il Nirvana.
Sutta (sutra): "filo". Una forma letteraria delle scritture buddhistiche, parole
di Buddha "infilate insieme" come un discorso o un dialogo; nelle scritture
ind, una serie di aforismi collegati.
Svabhava, S: "natura-propria". L'Esistente di per s, la sorgente della
spontaneit; un termine analogo a "Io sono quello che sono", applicato al Buddha
supremo (Adi-Buddha del Mahayana posteriore).
Sva-dharma, S: "norma propria", dovere peculiare dell'individuo o gruppo sociale.
Tanha (trishna): desiderio, bramosia, avidit, voglia impellente di ottenere o
godere, movente interessato. In questo senso il Buddhismo insegna l'estinzione
del desiderio (nell'Induismo, "rinuncia ai frutti dell'azione"), ma tanha non
comprende l'aspirazione e la buona intenzione che sono incluse nel "desiderio
retto" dell'Ottuplice Via.
Tao: la dottrina dell'Assoluto del pensatore cinese Lao-tzu. Il termine Tao ha
una connotazione simile a quella del Nirvana e di Brahman.
Tapas, S: bruciore, incandescenza, sforzo, tortura.
Tara: la controparte femminile di un Bodhisattva, una Redentrice.
Tathagata, S: Cos-andato o Cos-venuto, Colui-che-ha-raggiunto-ci, un termine
usato dal Buddha parlando di se stesso.
Tathagata-garbha, S: "Utero di Coloro-che-hanno-raggiunto-ci". Il Dharmakaya, o
ipseit, considerato dal punto di vista del relativo e visto come l'origine di
tutte le cose; Madre dei Buddha e di tutti gli esseri sensibili; natura come
materia potenziale, Maya, Prakriti, Prajnaparamita.
Tattva, bhutatathata, S: ipseit, fondamento, substrato, l'inevitabilit e
universalit delle cose, la sorgente della spontaneit. La qualit di Infinito
in ogni particolare, del Tutto nel parziale.
Tavatimsa: Cielo delle trentatr divinit, uno dei sei Cieli inferiori.
Thera, P: anziano; tra i Fratelli, un Arahat.
Theravada, P: "Parola degli Anziani". Con questo termine i Buddhisti primitivi
distinguono la loro credenza da quella dei Mahayanisti. I testi Theravada
costituiscono il Canone pali.
Theri, P: femminile di Thera.
Thupa (stupa): tumulo commemorativo, che generalmente contiene reliquie.
Trikaya, S: i tre corpi, o modalit, di un Buddha (Mahayana), cio Dharmakaya,
Sambhogakaya, e Nirmanakaya, vedere queste parole.
Tri-ratna, S: i "Tre Gioielli". Nello Hinayana, il Buddha, il Dhamma, e il
Sangha; nel Mahayana, i Buddha, i figli del Buddha, e il Dharmakaya.
Tusita, S: Cielo dei Piaceri, uno dei sei Cieli Inferiori.
Upadhi (upadhi): attributi, sovrapposti dal mentale all'Incondizionato:
determinazioni individualizzanti.
Upanishad, S: libri del Veda posteriore, parzialmente pre-buddhistici, in cui si
trovano i testi principali del Vedanta o della filosofia brahmanica
dell'Assoluto, alla quale il Buddhismo nominalmente opposto.
Upaya, P: mezzi, agevolazioni.
Upekkha, P: imparzialit, unit di intenti, uno dei quattro Stati d'Animo
Sublimi.
Vanaprastha, S: eremita dei boschi.
Varna, S: "colore", natura. Combinato con il mestiere ereditario, ed il
riconoscimento di specifiche forme sociali, "colore" diventa la casta,
istituzione che era in via di sviluppo al tempo di Gautama.
Vedana, P: sensazione.
Vinnana (vijnana): coscienza, attivit mentale.
Vimutti, Vimokha (moksha): salvezza, liberazione, il summum bonum.
Vimutto: salvato, liberato.
Vinaya, P: regole dell'Ordine buddhistico.
Yakkha (Yaksha): spirito della natura.
Yogacara, S: divisione del Mahayana, principalmente dipendente da Asanga.

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Indice
Introduzione
7
Prefazione dell'autore

11

Parte prima: La vita del Buddha 17


Parte seconda: La dottrina del Buddhismo originario
I
Dhamma, La dottrina e la disciplina
91
II
Samsara e kamma (karma) 105
III
I cieli buddhistici e come raggiungerli 111
IV
Il Nibbana
116
V
L'etica 127
VI
La coscienza
137
VII
Gli esercizi spirituali 142
VIII
La consolazione 149
IX
L'Ordine
153
X
La tolleranza
157
XI
Le donne
161
XII
Il Buddhismo originario e la natura
168
XIII
Il pessimismo buddhistico
178
XIV
Un imperatore buddhista 183
Parte terza: I sistemi contemporanei al Buddhismo
I
Il Vedanta
191
II
Il Samkhya
198
III
Lo Yoga 200
IV
Il Buddhismo e il Brahmanesimo 202
Parte quarta: Il Mahayana
I
Le origini del Mahayana 227
II
Il sistema del Mahayana 232
III
Ch'an, o Buddhismo Zen 256
Parte quinta: L'arte buddhistica
I
La letteratura 265
II
La scultura e la pittura
Glossario

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