Sei sulla pagina 1di 4

Recensioni 261

neamente » il senso corre anche bene, e forse meglio. P. 275 a 31.3 aggiungere (Sulgi B) e a
p. 276 a 32.1 aggiungere (Sulgi A). P. 348 la lettura di TCL 16, 79, 46 e duplicati è da rive­
dere secondo il testo da noi pubblicato in OA Vili p. io con il commento relativo. P. 436
a proposito della lettura y I (invece di d uio) confessiamo che non abbiamo compreso come
essa possa essere suffragata dalla « Illustrierung » citata.
Dato il tipo di stampa, che non permette facilmente più correzioni di bozze, era inevi­
tabile che sfuggisse qualche errore. Ne segnaliamo alcuni, non per fame carico all’A., ma
piuttosto congratulandoci per il grado di accuratezza raggiunto. P. 18 penultima riga del
testo correggere aiarèdu (per aläredu) come è esatto tre righe sopra. Nella stessa pag. nota 4
leggi Thureau-Dangin, come alla nota 3. P. 148 r. 5 leggi steht (per sthet). P. 256 r. 5 leggi
wühlt (per suhlt). P. 256 ancora, ultima riga leggi UET 6, 155, 36 (per 33). P. 354 r. 9 leggi
UET 6, 1, 15-17. P. 370 a 52.1 correggi SET 4, 31-32 (per 21) e ivi, ultima parola della
citazione: m a - a n-d u7- d u7- d è - è n (per -en). P. 482 nella citazione di Gudea cil.
A 21, 26 ss è da leggere -Û.Û- (per -U.U-). Finalmente, p. 529 nella bibliografia correggi:
Buccellati; ibid., Cahiers du Groupe...-, ibid., Rencontre assyriologique...
Congratulandoci con il giovane studioso gli siamo oltremodo grati per questo lavoro
sodo, utile e piacevole.

Giorgio R. Castellino

Elena CasSIN, La splendeur divine. Introduction à l'étude de la mentalité mésopotamienne.


Paris - La Haye 1968. IX, 155 pp. Mouton & Co.

Un nuovo lavoro della distinta studiosa di Parigi e nella linea che essa pare preferire,
tra filologia ed etnologia culturale. La RSO (32, 1957) ha ospitato della medesima uno studio
sul « pesant d’or », ed essa ha a suo attivo altri studi interessanti. La pubblicazione presente è
di più ampio respiro e tratta un argomento di maggior rilievo: la concezione mcsopotamica
dello splendore numinoso o aureola divina, il melammu e termini affini, allo scopo di fornire
una delle «chiavi» per introdursi nel mondo concettuale della civiltà babilonese-assira.
La rosa dei termini specifici che vengono studiati è abbastanza complessa: namrirru (sumerico
Nf.GAL), rcBubbatu (Nf.HUS), puluhtu (palàhu, pulhu), Sarùru, birbirru, Halummatu,
melammu. Il principale è quest’ultimo termine, derivato dal sumerico me-1 am, con signi­
ficato essenziale « aura divina », luce abbagliante, valori condivisi da tutti gli altri termini,
eccetto quelli che indicando timore, come puluhtu, palàhu, pulhu, esprimono piuttosto un
effetto del melammu. A volte due termini sono associati per una più analitica e comprensiva
dichiarazione semantica.
La ricerca si svolge in otto capitoli e una conclusicne. Il I cap. di introduzione (pp. 9-15)
prende le mosse da un articolo dedicato parecchi anni fa da L. A. Oppenheim allo stesso argo­
mento in JAOS, 63 (1943), pp. 31-34, in cui l’autore tentava di vedere nel melammu il signi­
ficato concreto di «maschera», in base soprattutto ai passi dell’epopea di Erra IV 55-58 e la
lettera ABL 291, 13-18. La Cassin, pur ncn accettando la interpretazione concreta dell’Oppen-
heim, s’avvicina a lui per altri lati. Avrebbe potuto tener conto delle correzioni apportate
dall’Oppenheim stesso al suo articolo nel volume Ancient Mesopotamia, p. 337, in cui dichiara
che le idee espresse nell’articolo sono « partly obsolete » e tocca poi a p. 206 (con le note 29-31
di p. 366) il concetto di « Fortuna » (tychi) cui l’A. arriva più avanti (p. 78 s). In questo capi­
tolo si dà un’interpretazione di kurgarrù e kalaturru su cui vorremmo permetterci una
osservazione. I due esseri creati da Enki con la materia che raccoglie sotto le sue unghie (!)
riescono a compiere la loro missione di riportare Istar in vita, non in virtù della loro impor­
2Ó2 Recensioni

tanza, come pensa l’A., ma semplicemente perché essendo esseri imperfetti fisicamente non
appartengono all’umanità ordinaria che scende al regno dei morti.
Il cap. Il considera il melammu sotto i due aspetti attivo e passivo in quanto esso si
irradia dalla persona divina o dalle sue armi, dal tempio, e in quanto, per altro verso, la investe
come un manto di splendore. Per i due aspetti si hanno verbi appropriati in sumerico e in
accadico: lai* stendere, allargare d u 1 ‘ coprire d’ombra ’ § u b * cadere, scender sopra ’,
r i ‘ coprire, sopraffare ’, û s ‘ toccare (il cielo) ’, e inoltre in accadico sahàpu che esprime­
rebbe soprattutto l’azione irradiante della luce che emana da un essere soprannaturale, Hakànu
trans, ‘porre’, halàpu ‘coprire, avvolgere’, zänu ‘essere ornato, provvisto, carico di...’
Citazioni scelte documentano e illustrano le varie sfumature.
Nel cap. Ili (pp. 23-26) si esaminano i testi in cui melammu pare avere il significato
di ‘ pennacchio di luce ’, cioè uno scintillio che parte dal capo della divinità, la quale, si dice,
porta {naiu) ‘ è coperta ’ (aparu), ‘ è rivestita ’ {labàSu, Enüma elif I 136), ‘ è ricinta (il capo) ’
di un’infula. Oppure il melammu è fatto equivalente a illùku^, un oggetto di abbigliamento
sia maschile che femminile, e vi si uniscono sostantivi che ne mettono in risalto l’effetto di
timore: ni-me-làm, su-zi me-làm in sumerico, puluhtu, pulhu melammu in
accadico.
Allargando l’orizzonte d’investigazione, il cap. IV (pp. 27-52) indaga il contrasto tra
luce e tenebre primordiali, cioè tra luce e caos. Si studiano i miti sotto questo aspetto nella
convinzione, per questa via, di giungere alla loro adeguata interpretazione. Applicando i
significati acquisiti nei capitoli precedenti al passo di Enüma élit IV 57 ss ove si descrive
l’eroe Marduk la cui testa è ricoperta del suo melammu ratubbaii ‘ splendeur flamboyante ’
e a En.elit I 80-104, dove Marduk è descritto alla nascita fornito del melammu di dieci dei,
ripieno di terrore, con quattro occhi e quattro orecchi, l’A. ricava che melammu sta a indicare
la forza e il vigore eccezionale del dio in quanto il suo melammu è più splendente di tutti gli
altri. La forza connessa con il melammu risulta anche da En. élit I 61 ss a proposito di Ea
nella sua lotta contro Apsû. Segue poi uno sviluppo, che potrebbe dirsi ima digressione (di
cui si hanno altri esempi nel volume) sopra le relazioni tra Apsù e Mummu e il contesto con
Ea, per passare alla questione del « sonno » degli dei. Il quale è poi fatto parallelo a immobilità,
mancanza di vita, caos, prendendo in considerazione anche altri episodi di miti diversi. Se
ci è permessa un’osservazione, l’A., con altri studiosi, è incline a considerare il sonno degli
dei un po’ troppo materialmente. È ben vero che Tiamat decidendo di muover guerra agli
dei giovani porta come motivo e scopo di poter riposare (z nislalnini}, che nel mito di Dilmun,
quando si desidera l’intervento di Enki per provvedere l’acqua gli dei peritano a doverlo
svegliare dal suo riposo, che similmente in Atrahasis è il vacarme degli dei giovani e la dichia­
razione di sciopero fermale a mettere in allarme gli dei, i quali debbono farsi coraggio e andare
a * svegliare ’ Enlil dal suo sonno. Dai quali accenni parrebbe doversi ricavare che l’ideale
supremo degli dei e la loro « attività » principale consista nel ‘ dormire ’. Ma una simile inter­
pretazione è accettabile? Sarebbe riconoscere negli dei una vita ben povera in se stessa e
un’attività che contrasterebbe con ciò che i miti in genere ci dicono sull’azione varia degli
dei. Per uscire dalla contraddizione si può forse meglio interpretare codesto ‘ sonno ' come il
‘ riposo beato ’ di chi non ha preoccupazione alcuna e può godersi il vivere tranquillo. Dai
miti sumerici e accadici si rileva infatti che gli dei prima della creazione dell’uomo dovevano
faticare a nutrirsi e vestirsi (si veda il mito Lahar e Asnan e il mito di Atrahasis inizio: inuma
ilù awilum ublu dulia izbilu supìibla, ‘ quando gli dei (al modo) degli uomini portavano (il
peso della) fatica e portavano il corbello ’), il che era sentito come indecorose per gli dei e
oltremodo gravoso. Perciò si decide la creazione dell’uomo per porre sulle sue spalle tutto
il peso del lavoro e il compito del mantenimento degli dei. Altrettanto avviene nzW'Enùma
ehi quando Marduk viene alla resa dei conti con gli dei vinti. Per legge di guerra dovrebbero
essere uccisi o ridotti schiavi. Ma ciò disdice alla loro dignità. Se ne sacrifica allora il capo
Kingu e il lavoro dovuto ai vinti lo si carica sugli uomini che Marduk decide di creare con
Recensioni 263

l’aiuto di suo padre Ea. Gli dei respirano e da quel momento possono realmente godere del
privilegio della vita eterna e beata: la loro creatura, l’uomo, lavorerà per sé e per loro. LTTwwwa
eli! k esplicito (VI 129-31): ‘Se la spassino essi di continuo nella luce dello splendore abba­
gliante, poiché agli uomini, sua creazione vitale, ha imposto la fatica (allo scopo) di poter
essere tranquilli ’. Perciò secondo questa interpretazione la tranquillità degli dei non è l’immo­
bilità senza vita, né può essere accostata alla immobilità del caos. Non parrà strano il richiamo
all’ideale del filosofo in Grecia. La tavola di p. 52 Caos e Cosmos, interessante in sé e vera
negli elementi, potrebbe però non avere il sostegno di tutti i testi citati nel corso del capitolo.
Nelle pagine 53-64 si analizzano i sette melammu del mostro JJumbaba contro cui muovono
Gilgamesh e Enkidu. L’esame filologico è anche qui accompagnato da sviluppi che potreb­
bero apparire secondari nell’economia dell’opera, sui cedri, la loro considerazione nell’anti­
chità, sul loro uso. Da essi però l’A. crede di poter derivare il motivo essenziale della spedi­
zione dei due eroi. Gilgamesh e Enkidu andavano contro il mostro che vive nella foresta dei
cedri e ne è il custode, si proponevano di riportarne i tronchi del legno prezioso. L’uccisione
del mostro sarebbe stata necessaria solo per eliminare l’impedimento. Interpretazione che pare
però inconciliabile con la trama del poema accadico. Ivi lo scopo è in primis quello di procu­
rarsi la gloria e la fama come sostituto della vita indefettibile, e i tronchi del legno prezioso
riportati dalla foresta sono il documento dell’avvenuta conquista del mostro e del suo rifugio
(Vedere le nostre osservazioni in Letterature mesopotamiche, p. 187 ss di O. Botto, Storia
delle letterature d'Oriente, Milano 1969). Molto interessante è il parallelo classico dell’inno
di Callimaco a Demetra, vv. 25-60, ove Erisichto audacemente si spinge nel bosco folto della
dea per tagliarne gli alberi, e alle rimostranze della dea sotto le spoglie della guardiana, l’eroe
risponde con fare altezzoso che s’avvicina a quello usato da Gilgamesh contro la dea Istar
al suo ritorno dall’uccisione del mostro (p. 62, nota 33).
Un passo avanti si fa nel cap. VI (pp. 65-82) studiando il melammu a proposito del
re e poi dei semplici mortali. Si tocca qui, senza per altro entrarvi di proposito, il tema della
divinizzazione del re. Limitandosi al fenomeno luminoso vengono passati in rassegna i re della
dinastia di Akkad, Sargon I e Naräm-Sin, poi i re della III dinastia di Ur, con il raffronto
tra il re e il sole, indi i te della dinastia di Isin e Larsa. Passato Hammurabi, occorre scendere
fino a Kurigalzu I per sentire di nuovo parlare del melammu. Spontaneo si presenta l’acco­
stamento dell’aureola degli accadi con la xvarenah dell’Avesta (e, si può aggiungere, con il
farr dell’epopea neo-persiana del §ah-namch). Codesta aureola luminosa rappresenta la
protezione accordata dalla divinità al re, come la Fortuna o tycìii classica, e la b'ràkàh ebraica.
Applicata infine agli uomini, viene a significare salute, vigore, benessere. Generalizzando,
può perfino predicarsi della natura prospera e lussureggiante, cioè qualcosa di parallelo al
gdnos greco (p. 104).
L’argomento non è ancora esaurito e il capitolo seguente esamina un’altra componente
del melammu, la «palpitazione luminosa di esistenza», cioè la forza vitale (pp. 83-101).
Staccandosi dall’interpretazione data nel Chicago Assyrian Dictionary (CAD} su baltufbafiu
a proposito del mito della « Discesa di Istar agli Inferi », ove si intende !ubat baiti come
* gorgeous garment ’, l’A. ritorna al significato primitivo di « cache-sexe ». Altro termine
discusso è il sumerico h i -1 i, tradotto diversamente dagli autori. In senso generale corri­
spondendo all’accadico kuzbu, rappresenta l’attrazione « charme » della dea, ma nella toeletta
di Inanna (testo sumerico) pare avere un senso concreto. Il Falkenstein l’aveva tradotto
‘ parrucca ’, S. N. Kramer che l’aveva reso con * radiance ’, badando poi che è messo in rela­
zione con la fronte, aveva preferito ‘ ricciolo ’, ‘ lock of hair ’. Anche il significato di bijoux
appartiene a lji-li, poiché in un testo si ha la menzione di pietre preziose, n a4 1) i -1 i.
Altri paralleli sonc ancora ricavati dalla letteratura talmudica sugli usi degli sponsali, e dal­
l’episodio di Davide e Abigail (I Sam. 25) nei commenti del Talmud; infine dagli usi delle
donne arabe che accompagnavano i guerrieri alla battaglia (p. 99 s).
L’ultimo capo (pp. 103-119) chiude lo studio richiamando le relazioni dello splendore
264 Recensioni

con i colori, soprattutto il rosso, il giallo-oro, il bleu di lapislazzuli. Il rosso è usato particolar­
mente negli scongiuri per il suo valore ordalico (p. 106). Citando il passo CT 16, 28, 68-71
anche nel testo sumerico (che diverge alquanto dall’accadico e presenta forme scorrette) ne
vien data la traduzione secondo il Falkenstein (ASS NF I, 27), ma la traslitterazione (non
riferita dal Falkenstein) è presa dalla prima edizione dei testi senza le necessarie correzioni.
A p. 104 è da leggere quindi: tûg. g ù-è-sa5 n i-t e-n a - kc4 gû-gâ b i - i n -
m û tûg. s a5 tûg. n i-ga 1-1 a - k e4 bar-kù-ga bi-in-mù. A proposito
del colore rosso l’A. critica l’interpretazione di esso come colore funerario e sviluppa il contesto
richiamando la porpora e l’oro del paludamentum del generale e afferma che porpora e oro
avevano valore «ordalico», con il compito di conferire a chi doveva superare un combatti­
mento la « qualifica religiosa che gli permetterà di affrontare l’avversario con le maggiori
probabilità di vincerlo ». Viene poi ricordato quanto l’A. aveva già scritto a proposito del
«pesant d’or». Si ha un po’ l’impressione che attirata da scorci seducenti l’A. s’addentri in
paraggi che insensibilmente la portano un po’ lontano dal suo argomento specifico, non
tenendo distinti i campi e i tempi. Poiché un medesimo colore o un elemento qualsiasi della
fenomenologia religiosa, culturale, folcloristica, può servire a simbolismi diversi ed essere
accolto in un contesto semantico anche opposto. Per esempio, in occidente il nero è colore
funebre per eccellenza, in paesi dell’estremo Oriente è il colore rosso ad avere significato
funebre. A proposito dei colori, sulla percezione e designazione dei quali vi sono divergenze
rilevanti tra i vari popoli nei vari tempi, ora sarebbe da vedere l’ultimo lavoro del Landsberger
uscito postumo in JCS 21 (1967), pp. 139-173.
Le conclusioni (pp. 121-133) raccolgono le fila di tutta la trama sviluppata nel volume
e mettono anche a fuoco qualche punto il cui significato è stato possibile vedere più chiaro
solo attraverso l’esame del materiale svariatissimo e degli aspetti più complessi. Come si vede
dalla nostra presentazione, qua c là sommaria, l’opera in esame sta fra la filologia e l’etnologia;
parte dalla prima ma poi spazia nella seconda. Il filologo avrebbe potuto desiderare un’analisi
più aderente e più precisa dei testi, l’etnologo forse una trattazione più sistematica dal suo
punto di vista della materia. Manca, per scelta dell’A., la parte del materiale sumerico origi­
nale, in cui il concetto di melammu è stato dapprima formulato. Esso avrebbe contribuito
alla ricerca propostasi dall’A. costituendone una base indubbiamente solida. Episodi come
quello di Gilgamesh a Agga in cui la ‘ catastrofe ’ della tenzone agonistica è data proprio dallo
sfoggio del melammu da parte di Gilgamesh al momento cruciale, e altri analoghi potevano
utilmente essere sfruttati. Qualche incertezza qua e là nel rendere le parole sumeriche sono
indizio che l’A. si muove più a suo agio nel campo assiriologico. Gli assiriologi saranno grati
all’A. per l’illustrazione etnologica e gli etnologi e gli studiosi di religione comparata vi
troveranno un’elaborazione del materiale linguistico non sempre di facile esame. A questo
serviranno ottimamente gli indici: generale, analitico, dei testi sumerici, dei testi accadici,
dei nomi propri degli autori citati (pp. 137-153).

Giorgio R. Castellino

Karl Hecker, Grammatik der Kültepe-Tcxte (Analecta Orientalia, 44). Roma 1968. 310 pp.
Pontificium Institutum Biblicum.

Si tratta di un’ampia, completa e particolareggiata grammatica che costituisce il punto


d’arrivo degli studi specialistici condotti sui vari aspetti della lingua antico-assira. È grande
merito dell’istituto Biblico l’aver pubblicato un’opera così fondamentale, che degna­
mente si affianca alla grammatica GAG del von Soden, già pubblicata nella stessa collana
Analecta Orientalia, n. 33 (1952) ed ora nuovamente edita (n. 33* [1969]) con una parte di

Potrebbero piacerti anche