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Gioia, milanese, illustratrice di libri per bambini, è invitata nel piccolo

villaggio di Cape Love, sulla costa dorata del Maine, dalla folle e adorata zia
Arianna, che la vuole come damigella d’onore alle sue (quinte!) nozze.
Anche se zia Ari è sinonimo di guai, Gioia accetta senza sapere che, dopo le
strampalate nozze della zia, rimarrà bloccata a Cape Love e dovrà occuparsi
dei due cani di zietta (una terranova e un bassotto scatenati), del bookshop di
famiglia e del piccolo Jimmy, il figlio del suo nuovo vicino di casa, Sean, uno
che farebbe girare la testa anche a una santa. Peccato che Sean abbia già una
fidanzata, Grace, tanto bella e famosa quanto detestabile. Se solo zia Ari
fosse così gentile da tornarsene a casa sua (che, per la cronaca, è uno
stupendo faro sulla scogliera), Gioia potrebbe ripartire per Milano e
dimenticare una volta per tutte la notte bollente trascorsa insieme a Sean. O
no?
La nuova, esilarante commedia romantica dell’autrice di Bang Bang, tutta
colpa di un gatto rosso e di Un cuore nella bufera.
Viviana Giorgi (aka Georgette Grig, lo pseudonimo con cui scrive romanzi
storici) vive a Milano, dove lavora come giornalista freelance da molti anni,
soprattutto nel campo dello spettacolo. Da qualche anno si è imbattuta nel
romance ed è stato amore a prima vista. Dalla lettura alla scrittura il passo è
stato molto breve, forse troppo. Per Emma Books ha pubblicato il
fortunatissimo Bang Bang, Tutta colpa di un gatto rosso e Un cuore nella
bufera, un romanticissimo racconto natalizio all’insegna dell’amore, ma
anche della passione.
Alta marea a Cape Love
Viviana Giorgi
Alta marea a Cape Love
Viviana Giorgi

© Digitpub srl 2013


via Adige 20 – 20135 Milano, Italia
www.emmabooks.com – info@emmabooks.com

ISBN EPUB 9788897669463

Copertina di Boombang design – www.boombangdesign.com

Questo testo è diventato un ebook nel mese di luglio 2013

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A mio figlio Pietro e alla sua salutare ironia.
E a Wile E. Coyote. A modo suo, un eroe.
Un breve, forse non necessario, prologo sugli zii
d’America

Tutti dovrebbero avere uno zio d’America.


Io, per esempio, ce l’ho.
Veramente è una zia d’America e, a dirla tutta, non è neppure americana né
una zia vera: è solo un’amica di mia madre che da piccola chiamavo zia.
Zia Ari, Ari sta per Arianna.
Una folle, se per questo, zia Ari. Ribelle, estroversa e controcorrente.
Un’artista, niente meno. Una pittrice.
Da bambina io fissavo ammirata i suoi quadri strampalati e coloratissimi e
poi a casa cercavo di riprodurli con i miei acquarelli. Una volta pure sulle
pareti del salotto.
Non avevo ancora compiuto dieci anni che zia Ari, la mia zia preferita,
lasciò l’Italia al seguito di Steven, un pilota della US Air Force di stanza a
Vicenza. Molto coraggioso, bello e aitante, così lo descriveva mamma,
sottolineando ogni singolo aggettivo con un gran sospiro e un’espressione
sognante (fatto che già allora non mi sembrava gentile nei confronti di papà),
un po’ come quando, raccontandomi una fiaba, arrivava al punto in cui
faceva la sua apparizione il principe azzurro. Non che quel sospiro celasse
chissà quale delusione, in fondo la vita di mamma non era tanto male, ma
certo rifletteva i sogni non sopiti di una donna ancora giovane che aveva
rinunciato alla sua carriera di musicista per dedicarsi alla famiglia. E forse al
vero amore.
«Anche tu un giorno troverai il tuo principe azzurro, e ti porterà via dalla
tua mamma» mi diceva allora, accarezzandomi e scuotendo la testa, cosa che
immancabilmente mi faceva salire le lacrime agli occhi e mi terrorizzava
perché, dietro alla sua facciata di principe azzurro, quel tipo mi pareva più
che altro un orco che strappava le fanciulle innocenti alle loro mamme. Altro
che “vissero tutti felici e contenti”!
Da allora i principi azzurri mi sono sempre stati indigesti e ho fatto di tutto
per evitarli.
Come?
Con la prova sospiro, naturale! Se, incrociando lo sguardo di un tipo da
sballo, magari gentile, simpatico, intelligente e persino ricco, mi veniva da
sospirare alla maniera di mia madre, insomma se almeno nella mia testa mi
lasciavo andare a un «aaaaaaaahhh» senza soluzione di continuità, quel tipo
finiva nel girone degli orchi travestiti da principe azzurro, e lì rimaneva.
Come Steven. Perché Steven, bello, aitante e coraggioso top gun del cavolo,
dopo avermi portato via la mia zia preferita, l’ha pure lasciata.
Sola, al di là di un oceano che allora, dodicenne, fissavo impaurita sul
mappamondo, di quelli con la lucina dentro, che proprio zia Ari mi aveva
regalato prima di andarsene con Mr Air Force. «Vedi» mi diceva per farmi
capire che in fondo non eravamo poi così lontane, «con l’aereo in un attimo
arrivi.»
Be’, il suo concetto di “attimo” non è mai stato molto attendibile.
Come non lo è mai stata lei, attendibile.
Zia Ari. Bellissima, simpatica, estroversa. Tanto folle e imprevedibile da
influenzare la mia vita persino a distanza. Non perché io sia diventata una
ribelle come lei. Magari! Sono timida, introversa e piuttosto incline a
divorarmi il fegato per le preoccupazioni, invece di godermi la vita. Ma
perché anch’io, forse grazie a lei, mi guadagno da vivere con pennello e
tavolozza. Ho incominciato cercando di scopiazzare senza alcun successo le
sue opere psichedeliche e sono finita senza sapere come o perché a illustrare
libri per l’infanzia.
E ciò la dice già lunga su di me.
Sono un topolino, non un leone.
La mia vita ha imboccato una strada tranquilla che in fondo non mi
dispiace. C’è stato persino qualche uomo lungo il percorso. Uomo
rigorosamente beta, se non delta o gamma. Gli alfa fanno parte dei principi
azzurri, no, degli orchi. Degli orchi principi azzurri. Insomma, avete capito.
A proposito. Quasi mi dimentico di presentarmi.
Mi chiamo Gioia. Gioia Rambelli.
Ho trentadue anni, un piccolo appartamento a Milano, una famiglia che mi
ama, alcuni amici e al momento nessun fidanzato.
Ma ho zia Ari.
La mia zia d’America.
1
Una notte d’Aprile

Perché il telefono suona così, senza alcuna misericordia per le mie povere
orecchie, nel bel mezzo della notte?
Forse sto sognando.
Mi metto un cuscino sulla testa, ma non c’è verso che quell’aggeggio
infernale interrompa il suo odioso richiamo. Diavolo! Proprio ora che stavo
sognando di quel tipo incontrato ieri sera a casa di amici, quello con cui mi
sono sorpresa a flirtare nonostante fosse proprio uno da sospirone, il tipico
orco travestito da principe azzurro insomma, uno da cui avrei dovuto stare
lontana. Nel sogno il tipo mi chiede se mi piace andare per mercatini
dell’antiquariato, come se mi stesse facendo una proposta indecente. Il tono
della voce e le sue parole sono una continua allusione a qualcosa di molto più
interessante di qualche scassato pezzo di brocantage.
O forse sta parlando di bondage?
«Io adoro i mercatini dell’antiquariato» dico nel sogno, mettendo l’accento
sulla a di adoro e mentendo in modo spudorato, mentre le sue dannate labbra
si avvicinano un altro po’ alle mie.
Cavolo.
Che faccio se mi bacia, ora?
Non fai niente, scema che non sei altro! È solo un sogno, e poi non senti
che il telefono continua a suonare? Ora vibra, anche, irritato dalla tua
indifferenza.
In effetti…
E se fosse qualcosa di importante? Forse devo rispondere.
Mamma, papà, mio fratello.
L’orco travestito da principe azzurro? In fondo gli ho dato il mio numero,
no? E magari è sotto casa mia e vuole salire per finire quanto ha cominciato
nel sogno.
Impossibile più che improbabile, ma in ogni caso meglio verificare.
Come se fosse facile. Dov’è finito il cellulare?
Buttando cuscini e piumino all’aria, mi alzo di scatto e mi metto a caccia
del dispettoso esserino rumoroso e vibrante.
Niente sul comodino, niente per terra, niente sul letto.
Il suono si fa più irritato e non smette, e finalmente mi rendo conto che è un
suono lontano, ovattato, come se…
Come se fosse finito sotto il piumone. Mi ci tuffo come un esperto
subacqueo, esploro quell’universo sotterraneo caldo del mio sonno ed eccolo
lì, una luce sinistra nel buio della notte. Lo catturo come fosse una cernia e
fisso incredula il display.
Ci sono un sacco di numeri sul display e i primi tre sono due zeri seguiti da
un uno. 001, che non è un collega di James Bond, ma è il prefisso degli Stati
Uniti.
Diavolo! Zia Ari. Come non averci pensato prima?
Per lei il fuso orario è un optional, o forse neanche quello. Non esiste e
basta.
Rispondo con aria seccata.
«Zia Ari, sai che ore sono in Italia?»
«Certo che no!»
«Le cinque del mattino!»
«Bene, darling! Non è ora di alzarsi? Di mettersi al lavoro? Il mattino ha
l’oro in bocca.»
Forse la ucciderò.
«Non proprio. A dir la verità ho un gran saporaccio in bocca...» biascico.
Mr Orco travestito da Principe Azzurro aveva sempre una bottiglia in mano
e versava, versava, con quelle sue belle mani che…
«Su su, piccola mia. Alzarsi!»
Zia Ari mi riporta alla mia triste realtà delle cinque del mattino.
Alzo gli occhi al cielo e mi metto seduta sul bordo del letto, pronta a parare
il colpo che di certo arriverà presto. Di solito zia Ari mi chiede piaceri
impossibili che io, dopo aver brontolato a lungo, alla fine le faccio.
«Sei pronta per la notiziona?»
Sospiro, preparandomi al peggio.
«Non lo sono mai, zia Ari, ma tu spara.»
«Pronta pronta pronta?»
«Ok, pronta pronta pronta.»
Per un istante spero con un certo sollievo che la linea sia caduta perché, al
di là dell’Atlantico, tutto tace. Ma naturalmente non è così. La “notiziona”
arriva puntuale come un treno svizzero, e mi investe in pieno, neanche fossi
Anna Karenina.
«Mi sposo!»
Che in fondo, a pensarci bene, non è poi questa gran novità. Respiro a
fondo e senza neppure tentare di mascherare la mia irritazione chiedo:
«Ancora? E non potevi aspettare a dirmelo a un’ora decente?».
La sento sbuffare.
«Non stavo più nella pelle, sei la prima persona a saperlo. John me l’ha
appena chiesto e io ho detto di sì!»
«Grazie zia Ari, sono commossa e lusingata» ribatto ironica. «Ma sei
proprio certa di volerlo fare?»
«Perché non dovrei? In fondo ho solo cinquantacinque anni…»
«Sessantatré…»
«Ma ben portati! Sai quanto Pilates faccio per tenermi in forma?»
E su questo non posso darle torto. Gli uomini si voltano ancora quando lei
passa e la guardano con quello sguardo che a me certo non rivolgono tanto
spesso. Forse perché, se ci provano, li incenerisco.
«Preferirei non saperlo, zia, almeno non prima dell’alba. Non vorrei
riaddormentarmi e poi sognare di te e di Mr Pilates avvinghiati sul quel suo
lettino di tortura.»
«Pilates è morto da un pezzo! Mentre il mio John è molto, molto vivo, se
capisci a cosa mi riferisco.»
Purtroppo lo capisco.
«Sì zia, fin troppo bene. Ma, ti supplico, tralascia i particolari e in ogni caso
lascia che ti faccia le mie congratulazioni! Se lo sei tu, anch’io sono molto,
molto felice. Cos’è, il sesto marito?»
«E che esagerata sei! È solo il quinto!»
«Scusa, sai, ho perso il conto.» E dentro di me non dubito che ce ne sarà
anche un sesto.
«Stammi a sentire, darling. Questa volta non accetto scuse, devi venire alle
nozze, anche perché sarai la mia damigella d’onore.»
«La tua cosa?»
«Dai che hai capito! La mia damigella d’onore. La mia testimone. Ti voglio
al mio fianco, perché so che John è quello giusto…»
«Davvero? Non era Peter quello giusto?»
«Su, non essere acida con la tua zietta preferita.»
«Quasi zia, per la verità.»
«Quasi, hai ragione, perché sono molto di più di una semplice zia. Gioia,
darling, ti voglio bene come a nessuno al mondo e voglio condividere la mia
felicità con te. Ti prego, vieni. Devi venire. Il vestito è già qui che ti aspetta.»
Ecco, questo sì che è un bel problema.
2
Lunedì 17 giugno, quattro giorni alle nozze

Proveniente da Boston, il mio volo arriva puntuale a Portland, Maine.


Lo sapevate che quasi tutti i romanzi di Stephen King sono ambientati nel
Maine? Be’, se per quello anche i telefilm di quella menagramo della signora
in giallo, Jessica Fletcher, lo sono e la cosa, detto fra noi, mi pare sinistra.
L’aeroporto è grande e piuttosto affollato, ma il mio bagaglio, grazie al
cielo, non tarda ad arrivare. Lo individuo subito sul nastro trasportatore: è
l’unico trolley rosa shocking in una marea di valigie nere e blu.
Trascinandomelo dietro con un certo orgoglio femminile, mi dirigo al banco
del noleggio auto, dove una signorina tutta sorrisi mi fa firmare dei
documenti e alla fine mi chiede se “Italy” si scrive col th.
Le rispondo di sì.
È la prima volta che visito questa parte degli States, ma non certo la prima
volta che mi trovo in America perché ho trascorso con zia Ari molte delle mie
vacanze estive. Grandi vacanze, devo dire. Per lo più a ovest, in California,
dove zietta ha abitato per almeno venti anni prima di trasferirsi in Texas e poi
in Virginia. Anche lì sono stata. L’unica volta che non mi ha chiesto di
raggiungerla è stata quando si è trasferita nello Utah, al seguito del mormone
Isaiah. Anche perché il loro idillio è durato giusto il tempo necessario per
scoprire che quello, più di un matrimonio, sarebbe stato un illegale atto di
poligamia.
Da cinque anni zia Ari vive nel Maine che, se ancora non lo sapeste, è lo
stato più a nord e più a est degli USA, al confine con il Canada. Vive a Cape
Love, un villaggio di poche centinaia di anime che dista una sessantina di
chilometri da Portland; un luogo magnifico, dove si rincorrono spiagge
favolose, boschi incantati e porticcioli deliziosi. Certo, d’inverno fa freddino,
ma per fortuna zietta ha avuto il buon gusto di sposarsi a giugno.
La Chevy che mi danno è rossa e troppo grande, ma tanto qui le strade sono
enormi e il navigatore satellitare, che afferma di chiamarsi George, sembra
sapere il fatto suo. C’è una bella differenza tra George e Ugo, quello della
mia Panda, che non solo parla con la voce meccanica di un robot di un film di
fantascienza degli anni Cinquanta, ma continua a cannare le strade. E invece
George… La sua voce è così dannatamente sexy che mi strappa un “Wow” e
mi fa pensare che sia quella di George Clooney in persona. Dico, avete
presente quando fa la pubblicità del caffè e alla fine dice «What else»? In
quel momento non è al profumo di caffè che tutte le femmine sane di corpo e
di mente pensano, ma alla ventata di feromoni che si sprigiona dal Clooney.
Anche attraverso lo schermo tv.
«Dai, George, fammi sognare» mormoro ridacchiando verso il navigatore,
sperando che mi risponda.
Oddio, sono ridotta così male?
Io, ridotta male?
Sì, proprio tu, cara Gioia. Vorresti forse negare l’evidenza? Ammettilo che
la tua vita sentimentale è una frana, anzi, che è praticamente inesistente!
Guardo il navigatore e rispondo.
Mi dedico al lavoro. Ecco perché. Mi piace il mio lavoro, e mi dà un sacco
di soddisfazioni. Non ho tempo da sprecare, ma devi riconoscere che, dopo il
mio fallimentare fidanzamento, qualche tentativo di socializzare con l’altro
sesso in fondo l’ho fatto.
Qualche tentativo? Chi vuoi prendere in giro? Con la scusa della “regola
del sospirone”, dopo la rottura con Marco sei uscita solo con uomini che
neppure la figlia di Fantozzi avrebbe frequentato. Ora dimmi, la cosa non è
forse sospetta?
Spazientita guardo ancora il navigatore e dico arrabbiata Ora chiudi quella
bocca, George, ok? E poi, se non te ne fossi accorto, sto guidando, devo fare
attenzione.
George è così carino da interrompere questo monologo da schizzata
sussurrandomi, come se ci stessimo rotolando su un letto, «turn right».
Wow, che cosa hai in mente di fare, George?
Quasi non avessi mai stretto un volante in vita mia, giro a destra e mi
allontano con eccessiva prudenza dall’aeroporto e, senza mai schiodarmi
dalle trenta miglia orarie, seguo le indicazioni per Bath. Accendo la radio e…
Le note di Pink Cadillac del Boss mi investono. Se la mia vita fosse un film,
la voce di Bruce sarebbe la colonna sonora perfetta.
Mi metto a cantare a squarciagola e a saltare come un’invasata sul sedile, e
di colpo il mondo mi sembra magnifico.
I love you for your pink Cadillac
Crushed velvet seats
Riding in the back
Oozing down the street
Waving to the girls
Feeling out of sight
Spending all my money
On a Saturday night
Honey I just wonder what you do there in back
Of your pink Cadillac
Bruce, ti adoro!
Mi muovo verso nord, sulla 295, una strada a diciotto corsie – be’, forse
qualcuna di meno – ad alto scorrimento. L’unico problema lì sono i camion:
enormi, colorati, tutti una cromatura e pieni di fumaioli, hanno un muso
minaccioso, un clacson inumano e mi tallonano da vicino.
Forse non hanno neppure tutti i torti, perché, Pink Cadillac o no, sto
guidando come una lumaca. Prendo un gran respiro e pigio un po’ di più
sull’acceleratore in attesa che George mi indichi la deviazione verso est in
direzione di Bath e poi quella verso sud per la penisola dove vive zia Ari:
Heart Island. Non ridete, avete capito benissimo: zietta ha scovato non solo
l’unico lembo di terra al mondo che, a causa della sua forma, è detto Isola del
Cuore, ma per di più vive nel villaggio di Cape Love. Non mi stupirei se la
contea fosse quella di Harmony.
Un cuore pulsante, quello di Heart Island, per nulla domo, fatto di roccia
rosa e di vegetazione selvaggia e verdissima, spesso battuto dal vento e
circondato da un oceano blu come la notte che si infrange spumeggiante sulle
sue coste tormentate. Spesso, da quel che ho letto, è un cuore immerso nella
bufera.
In questo punto la costa del Maine è frastagliata e irrequieta, fatta di fiordi,
isolette e lingue di terra unite da numerosi ponti e bagnate dalle acque
dell’oceano, ma anche da quelle di fiumi e laghi. Quando attraverso l’ultimo
ponte, quello che mi porta sull’isola di Heart, abbasso il finestrino e respiro a
pieni polmoni l’aria profumata di oceano e di pino e per un istante il mondo
mi pare perfetto, la mia vita mi pare perfetta. Poi penso a zia Ari e la magia di
quel momento si riempie di crepe che corrono in tutte le direzioni, come su
un parabrezza colpito da un sasso. Zietta, in questa mia metafora, è il sasso. Il
parabrezza la mia vita.
Prevedendo che prima o poi il vetro si frantumerà in mille pezzi, il respiro
mi si blocca in gola e sono davvero tentata di fare dietro front, ma poi penso
di essere sopravvissuta sino a oggi alle stranezze di Arianna e che ho una
gran voglia di riabbracciarla e di conoscere il suo futuro sposo. Che deve
essere, con ogni probabilità, più pazzo di lei.
Riprendo a respirare e pigio sull’acceleratore.
La strada declina dolcemente e ora segue più da vicino la costa che, man
mano che ci si avvicina al villaggio, si fa più morbida. Alla mia destra gli
scogli lasciano il posto a una lunga spiaggia rosata, illuminata dal sole, ormai
allo Zenith. Il mare è calmo e al largo incrociano pescherecci e qualche barca
a vela. Dio, sembra il paradiso! Potrei anche viverci in un posto come questo.
Ingoio le preoccupazioni e mi sforzo di sentirmi felice.
Le prime case del villaggio mi appaiono in lontananza, meravigliose ed
eleganti, tutte di un delicato colore pastello. Mi sembrano lo sfondo ideale
per un progetto che ho in mente, un libro per ragazzi di cui però ho scritto
anche la storia. Il protagonista è un ragazzino dai capelli rossi che… Ma non
è il momento questo di raccontarvela.
Rallento per leggere sulla mia destra il cartello di benvenuto – a forma di
cuore! – sistemato all’inizio del villaggio. Dopo il welcome di prammatica,
mi informa che a Cape Love vivono 892 anime. Con me, penso, fanno 893.
Percorro la Main Street lentamente, per essere certa che i miei occhi non si
sbaglino. Tutto è vivace, lindo e perfetto, come in uno dei miei disegni: fiori
e piante adornano le finestre e i portici delle case, mentre ghirlande di rami di
pino bianco e pigne ondeggiano dai lampioni in puro stile liberty; la gente
sembra presa dalle normali commissioni mattutine, dentro e fuori da deliziosi
negozietti che non vedo l’ora di visitare. Forse sarà deformazione
professionale, ma mi pare di essere finita in un disegno di Norman Rockwell,
di quelli che raffigurano così bene la provincia americana degli anni
Cinquanta.
Ok. Sono nella provincia americana, ma è il 2013 e diavolo! Chi è più
abituato a gente che si sorride e che si ferma per strada a scambiare due
chiacchere senza dover correre subito via, quasi che il mondo non ce la
facesse ad aspettare? E dove sono i cellulari? Scruto i passanti – che mi fanno
un cenno di saluto con la mano! – e noto esterrefatta che nessuno, dico
nessuno, ha l’orecchio inchiavardato al cellulare! Che non ci sia segnale?
Presa da un senso da angoscia, controllo il mio telefonino: il segnale c’è, ed è
pure forte.
Dio sia benedetto.
Alla fine della Main Street, George mi invita ancora una volta a turn right,
obbedisco e imbocco la pittoresca via che conduce al porticciolo, affollato di
barche a vela, motoscafi d’altura e pescherecci. È proprio uno spettacolo. Sul
molo i pescatori appena rientrati da una notte di lavoro vanno avanti e
indietro con cassette piene di pesce e nasse contenenti aragoste e granchi
ancora vivi. Un grande marlin penzola in modo miserabile da un palo e
davanti a lui un uomo piuttosto grasso posa con la canna da pesca in mano
per la foto ricordo, quasi fosse un eroe. Respiro aria salmastra, mi piace.
Appena lascio il porto, la strada si inerpica per un centinaio di metri e il
profumo del mare si dissolve in quello dei pini e della folta e selvaggia
vegetazione che ricopre l’intera isola. Qui la strada si snoda lungo la
scogliera stretta e tortuosa. Il paesaggio è da togliere il fiato.
Passo davanti ad alcune grandi case in legno dalla struttura tipica del luogo,
forse riveduta e corretta da qualche architetto di città. La vista che godono
dell’oceano è strabiliante.
Ma non è qui che vive zia Ari. Troppo borghese! Zia Ari ha bisogno di
essere circondata dall’eccentrico, anche dentro le mura domestiche. È per
questa ragione che vive in un vecchio faro, a picco sulla scogliera.
Niente meno.
Eccolo, lo vedo comparire da lontano e ancora una volta ho l’impressione
di essere finita in un opuscolo pubblicitario che declama le meraviglie del
Maine: scogliere impervie, romantici fari e zie fuori di testa. Questa volta
però, devo ammetterlo, zia Ari ha fatto centro perché il luogo è di quelli che
non si scordano. Il faro si erge alla fine di un promontorio a picco
sull’oceano. La torre non è molto alta, ma è slanciata e ben proporzionata,
rossa e bianca come la casetta una volta abitata dal guardiano che le sorge a
fianco. Tutto il complesso è circondato da un’allegra staccionata bianca.
Spengo il navigatore – scusa, George – e giro nella strada sterrata che corre
tra ciuffi di erba alta e compatta che ondeggiano al vento. Sulla mia sinistra
scorgo una grande casa grigia e bianca, con un ampio portico che le gira
tutt’intorno, straripante di vasi fioriti. Dei magnifici cespugli di ortensie blu e
fucsia spuntano qua e là come li avesse dipinti Monet. Sul portico noto un
dondolo e poltroncine in midollino bianco, ricoperte da un trionfo di cinz e
volant dai colori pastello. C’è un bambino dai capelli rossi che gioca a calcio
nel prato dietro casa: non appena scorge la mia auto, corre verso la strada e
mi saluta con la mano, sul viso un grande punto interrogativo, negli occhi blu
una tristezza che non comprendo. Ricambio il saluto con un sorriso e gli
faccio “ciao ciao” con la manina. Una donna di mezza età lo raggiunge subito
– la mamma forse – e lo riporta con dolcezza verso la casa.
Proseguo con estrema lentezza per avere il tempo di abbracciare ogni
particolare di questo luogo da cartolina e dopo neanche un minuto fermo
l’auto. Scendo, prendo il telefonino e mi scatto una foto con il faro alle spalle.
Ho un sorriso che mi va da un orecchio all’altro. In fondo ho tanti motivi per
sorridere, no?
Sorrido perché sarò la damigella di zia Ari, naturalmente, anche se l’abito
che dovrò indossare… Be’, se pensate a qualcosa di tradizionale, siete
proprio fuori strada.
Sorrido soprattutto perché voglio bene a zia Ari e sono felice per lei e per
me stessa, e perché passare un po’ di tempo in un romantico faro a picco sul
mare non è poi così malaccio. Diavolo, sembra un faro di Edward Hopper!
Sorrido, infine, perché all’improvviso mi sento come un vulcano di idee
pronto a esplodere e sono sicura che qualcosa di importante stia per
stravolgere la mia vita. Stravolgere ho detto? Sbagliato!
Qualcosa sta per travolgermi!
In senso letterale.
Cosa?
Ma il comitato di accoglienza, che altro? E al galoppo!
Mi guardo intorno in cerca di una via di fuga, ma a meno di rientrare in
macchina e barricarmici dentro – cosa che non ho il tempo di fare – non mi
rimane che pregare.
Zia Ari, in testa, mi corre incontro a braccia aperte, seguita da un
quadrupede basso e lungo che sembra un paraspifferi e che abbaia come un
terranova. O forse è proprio un terranova ad abbaiare, perché ce n’è uno
enorme, bianco e nero, che galoppa come un toro piuttosto incavolato verso
di me. Supera con un gran balzo zia Ari e il paraspifferi mentre io fisso col
terrore negli occhi la sua lunga lingua rosa ballonzolare piena di bava al lato
della bocca. Non perché io abbia paura dei cani, sia chiaro, ma perché se la
bestia pantagruelica non si fermerà in tempo finirò spiaccicata per terra e mi
trasformerò in uno zerbino umano. Mi schiaccio contro la portiera dell’auto
per parare il colpo un secondo prima che il terranova si erga in tutta la sua
magnificenza e si butti con le sue zampone nere sulle mie spalle senza molti
complimenti.
Il contatto della mia faccia con la sua lingua rosa sgocciolante è previsto tra
meno di… 3-2-1!
Contatto avvenuto.
Ancora in apnea cerco di chiamare in aiuto zia Ari, che arranca verso di me
lanciando gridolini felici, mentre la bestia ci ha preso gusto e mi fa uno scrub
completo al viso a colpi di lingua ruvida. Roba da estetista professionista.
Nel frattempo il paraspifferi, che scopro essere un bassotto a pelo ruvido,
arriva anche lui, si infila sotto il terranova e, forse invidioso della stazza
dell’altro, per ripicca si attacca coi denti alla mia scarpa destra e incomincia a
tirare, scambiandola forse per un suo acerrimo nemico. Mentre io fronteggio
questo doppio attacco canino, zia Ari cinguetta il suo benvenuto come se
tutto fosse normale, abbracciandomi insieme al terranova e al bassotto.
Tutti insieme appassionatamente.
Sorvolerò sulla sfilza di improperi che mi passano per la mente e che ingoio
con un sorriso a ottantadue denti. Improperi rivolti a me stessa, non a zia Ari,
per averle di nuovo permesso di intrufolarsi nella mia vita e di travolgermi, e
questa volta in senso letterale. Ma nonostante tutto, malgrado la faccia
bagnata di bava di terranova e il piede ancora ostaggio dei denti aguzzi di un
bassotto, già so che fra pochi minuti cederò alla contagiosa joie de vivre di
zietta e che le saltellerò intorno felice, insieme al terranova e al bassotto.
A proposito. Riuscite a immaginare che effetto fanno un bassotto e un
terranova insieme?
Il terranova è enorme, mattacchione e affettuoso, il bassotto petulante e
altezzoso, convinto di essere un vip. Visto che il terranova è una lei –
Armageddon, e non a caso – e il bassotto è un lui – Montmorency, come il
terrier di Tre uomini in barca – mentre scarico il mio bagaglio chiedo per
scherzo a zia Ari se non teme che quei due possano darsi alla pazza gioia e
procreare una nuova razza, quella dei Terrabassa.
Lei mi guarda come se non avesse mai pensato a questa sciagurata
eventualità e da buona seguace new age mi risponde seria seria che non farà
mai niente per ostacolare i piani di madre natura e padre destino.
Ecco.
«In ogni caso» sussurro al bassotto senza farmi sentire da zietta, «non credo
proprio, caro Montmorency, che tu possa farcela.»
Forse si è offeso, perché mi guarda male.
***
Un paio di ore dopo ho il primo impatto con la verità.
Siedo con zia Ari e Montmorency – Armageddon ha il buon gusto di
accomodarsi per terra – su un divano che ha conosciuto tempi migliori, in
cima al faro, trasformato da Arianna nel suo studio. Non è difficile capirne il
motivo: la luce penetra senza ostacoli attraverso i finestroni di vetro e lo
spettacolo dell’oceano che si infrange sulla scogliera una trentina di metri
sotto di noi è da levare il fiato.
Il sole, ormai al tramonto, sembra esibirsi solo per i nostri occhi.
Su un cavalletto l’opera cui sta lavorando zia Ari è coperta da uno straccio
bianco. Evito di chiedere di che cosa si tratti (so che non ama parlarne) e
bevo il caffè lungo e forte che zia ha preparato in mio onore con una vecchia
moca, che risale con ogni probabilità ai primi anni Sessanta. Il caffè è
orrendo, ma mi sento bene.
Almeno sino a quando zietta non dice: «Potrai lavorare qui, se lo studio ti
piace».
La guardo incuriosita.
«Lavorare?»
«Sì, al tuo libro.»
«E perché, dopo il matrimonio, dovrei fermarmi qui?» chiedo sempre più
sospettosa. Lei mi dà un affettuoso colpetto sulla mano e mi risponde
serafica.
«Ma per tenere compagnia ai miei piccolini, naturalmente! Non possiamo
mica portarceli in viaggio di nozze!» dice accarezzando il testone di
Armageddon.
Tenere. Compagnia. Ai piccolini.
La belva e il paraspifferi.
Naaa. Mi sta prendendo in giro.
«Scherzi, vero?»
«Certo che no!»
«E cosa aspettavi a dirmelo, scusa?»
«Pensavo che fosse ovvio!»
«Ovvio? Ma se non sapevo neppure che tu avessi due cani!»
«Non chiamarli cani. Sono i miei piccolini» continua offesa, chinandosi per
accarezzare Montmorency. «Sono buoni come il pane, e sapranno difenderti
dagli sconosciuti. Dovresti essere riconoscente.»
E come no?
Mi alzo in piedi scuotendo la testa e comincio a misurare in modo nervoso
lo spazio. Per quanto il faro non sia più in funzione, nel centro della stanza è
ancora presente l’affascinante sistema di ingranaggi, lampade e lenti che per
quasi due secoli ha evitato a molte imbarcazioni di schiantarsi contro gli
scogli. Fisso quella meraviglia sperando che guidi anche me e che mi aiuti a
dominare la collera. Respiro a fondo una, due, tre volte e, mentre il sole
scompare dietro l’oceano, mi convinco che forse per una settimana posso
anche farcela. In fondo ho un biglietto open per l’Italia e qualche giorno in
più per esplorare questo magnifico luogo e magari per buttare giù qualche
schizzo per il mio libro non può certo essere tanto male. Anche se, a dire il
vero, il vulcano di idee dentro di me sembra ora un lumicino.
Mi giro verso Arianna e con fare minaccioso le punto addosso un dito.
«Una settimana di luna di miele e tornate alla base?»
«Sì, solo una settimana» afferma con una sicumera che dovrebbe
insospettirmi.
Ancora non sono convinta.
«Se tu non mi tieni i piccoli, non potremo andare in luna di miele…»
mormora abbassando gli occhi e facendomi sentire una schifezza.
Cedo.
«Va bene, zia, ma che siano sette giorni, non uno di più!»
«Giurin giuretta.»
“Giurin giuretta”? Era dalle elementari che non sentivo più questa
espressione.
Si alza in piedi soddisfatta, va alla scrivania e prende da un cassetto un
foglio di carta. Con espressione raggiante me lo porge.
«Ecco il programma» mi dice.
«Che programma?»
Mi guarda come avessi fatto una domanda idiota. O forse come se io fossi
idiota. Non ha tutti i torti, perché è così che mi sento.
3
18 giugno, martedì, tre giorni alle nozze

Mi sveglio dopo otto ore di sonno e di incubi dovuti in gran parte a ciò che
zia Ari, con un eufemismo, definisce “programma”.
Programma…
Trattasi di due fogli A4 fitti di appuntamenti, persone da incontrare, orari,
numeri di telefono, commissioni da fare per conto di zietta prima e dopo il
matrimonio. Fra le righe compare spesso la parola “libreria”, ma non si
capisce cosa dovrei farci io in una libreria. Ho la certezza che alla fine di
questa vacanza, che forse dovrei definire gulag, sarò più attenta ad accettare
gli inviti di Arianna. Zietta cara, la chiamerò d’ora in poi, parafrasando la
figlia di Joan Crawford.
Mi alzo dal letto e mi stiracchio. La mia stanza, rosa, bella, spaziosa, con
un letto a due piazze con tanto di baldacchino, è illuminata da un sole ancora
basso e profuma di caffè.
Un bel caffè mi ci vuole proprio.
Mi infilo sulla camicia da notte un golf pesante per ripararmi dal freddo,
perché in questa casa-faro a volte sembra di stare nel bel mezzo della rosa dei
venti, e apro la porta della mia camera con fare sonnolento.
Le palpebre si sollevano quel tanto necessario per vedere, a pochi metri da
me, uno sconosciuto alto, asciutto e con lunghi capelli corvini intento a
sorseggiare un caffè. Indossa soltanto un asciugamano legato intorno alla
vita. Un piccolo asciugamano.
Sbatto gli occhi per capire se sto ancora sognando, poi mi rendo conto di
essere sveglissima e tento di rientrare in camera e di richiudere la porta dietro
di me, forse perché spero di essere ancora in tempo per fuggire dalla finestra.
Illusa.
La voce di Arianna mi blocca.
«Gioia, tesoro, vieni che ti presento John!»
John! John Cooper, il suo fidanzato poco vestito e dal fisico, a quanto ho
potuto intravedere, davvero notevole.
Capito la zietta?
Non che lei sia da meno. Il Pilates su di lei ha fatto molti più miracoli che
su di me.
Forse anche perché io non ho mai fatto Pilates.
Dissoltasi l’ipotesi della fuga, prendo un respiro profondo e mi faccio
avanti cercando di non guardare ciò che quel dannato asciugamano, che ora
mi sembra ancora più piccolo, non nasconde completamente.
Mentre sorrido come un’imbecille alla coppia più disinibita e new age del
momento, che certo è più in sintonia con il cosmo intero di quanto io sia con
me stessa in quella stanza, vi spiego la ragione per cui alle nozze di zietta
sembrerò la sorella formosa di Pocahontas. Perché, nel caso non l’aveste
ancora capito, il matrimonio di zietta sarà un matrimonio alternativo.
Molto alternativo.
John Cooper, infatti, proviene dalla nobile famiglia di nativi americani
Copchca, della tribù Penobscot, una delle tribù riconosciute dal governo degli
Stati Uniti come “nazione”. Certo dubito che, come me, ne abbiate mai
sentito parlare: primo, non si è mai scontrata con quel simpaticone del
generale Custer; secondo, il cinema americano ha dato spazio solo agli
indiani del west, tipo Sioux, Cheyenne, Seminole. Non è un caso che ci sia un
genere western e non eastern. Comunque sia, questa antica tribù, nemica
giurata dei Mohawk, esiste realmente e ha la sua nazione in un’isola qui nel
Maine, dove vigono regole e leggi approvate dal governo USA.
John Cooper si gira verso di me e mi tende una mano forte, ben curata.
Emana fascino, virilità, sicurezza e ha un bellissimo viso, nonostante sia
solcato da rughe e cicatrici che forse, penso, si è procurato dando la caccia
agli orsi o agli squali, magari a tutti e due insieme, nel suo tempo libero. Con
quel fisico statuario e quegli occhi neri dal taglio orientale potrebbe essere
stato un divo del cinema negli anni Settanta e Ottanta e invece, scopro poco
dopo, John è un neurologo affermato, laureato a Harvard.
Mai lasciarsi ingannare dalle apparenze e soprattutto dai pregiudizi. Mi
sento stupida e grezza.
La sua stretta è forte e nello stesso tempo gentile e in pochi minuti con la
sua voce vellutata mi fa sentire a casa, lui e il suo asciugamano, piccolo
piccolo, stretto intorno alla vita. Zia Ari sembra il ritratto della felicità.
***
Circa tre ore dopo, camminiamo tutti e tre per la colorata Main Street di
Cape Love. Da quel che ho capito, John si è preso un giorno per sistemare gli
ultimi dettagli della cerimonia insieme alla sua promessa, dettagli che
comprendono la prova dell’abito della damigella d’onore.
Moi.
E così, poco dopo, mi trovo con zia Ari – John è andato non so dove – in
casa di Jessie, una nativa Penobscot pure molto new age che prima mi
squadra scuotendo la testa, poi sospira preoccupata fissandomi tette e fianchi,
e infine mi abbraccia e mi bacia sulla guancia almeno una dozzina di volte
mentre zia Ari mi fissa con la tipica espressione “tranquilla, è tutto ok”. Sarà.
Passiamo tutte e tre in un salottino dove, appeso a uno specchio a piede, c’è
l’indumento che fra tre giorni dovrò indossare.
E non per una festa in maschera.
Non riesco a trattenere un fischio di sorpresa. Perché è un abito bellissimo,
che neanche Pocahontas si è mai sognata di avere nell’armadio, se avesse
avuto un armadio, naturalmente. Mi avvicino e lo sfioro con delicatezza. È
una tunica, semplicissima, di una pelle che mi rifiuto di sapere a chi sia
appartenuta, sottile e morbida come la seta e candida come una nuvola
d’estate. Intorno allo scollo, un ricamo di perline azzurre e verdi mi ricorda le
onde dell’oceano, mentre al centro una variopinta figura a forma di V
rappresenta qualcosa che non capisco. Altre perline formano frange sulle
maniche e adornano i calzari di pelle che dovrei indossare, ovviamente più
piatti della pianura padana. Se io indosserò un abito tanto bello, mi chiedo,
che mai si metterà addosso zietta?
«È l’abito di una principessa Penobscot, di fine Ottocento, un’antenata di
John» spiega zia Ari. «Passa di generazione in generazione e viene utilizzato
solo in occasioni speciali. Il ricamo…»
«… simboleggia l’oceano» termino io.
Arianna mi guarda sorpresa.
«Già, è proprio così, e questi fregi colorati al centro del ricamo
rappresentano lo spirito del mare.»
Non che ciò sia altrettanto evidente, ma mi fido.
Jessie interrompe la nostra conversazione e mi esorta a indossare la tunica
perché afferma, senza usare eufemismi, di essere preoccupata che le mie
curve siano troppo pronunciate per starci dentro. Onestamente sono
preoccupata anch’io.
Così non ho altra scelta che denudarmi davanti alle due signore e infilarmi
nella tunica con molta circospezione, temendo a ogni secondo di sentire dei
crack sospetti provenire da qualche cucitura. Tirando qua e tirando là,
evidenziando tutto ciò che c’è da evidenziare, l’abito scivola invece sulle mie
curve senza lamentarsi. Non troppo, per lo meno.
«Zia Ari, non credo proprio sia il caso che io lo indossi…» dico decisa,
scuotendo la testa.
«Ma cosa dici? Ti sta benissimo, cara. E la tua aura, con questo abito,
risplende più di prima.»
Jessie conferma, facendo sì con la testa.
La mia aura? Come nella Profezia di Celestino? La mia natura pragmatica
per un momento oscilla e vorrebbe ribellarsi.
«Arianna» dico seria, «non ho nessuna aura.»
Lei fa spallucce, e alza gli occhi al cielo.
«Solo perché tu non la vedi, non è detto che non ci sia!»
«È detto, credimi!» rispondo secca.
«Almeno» continua lei, «lasciati dire che con quel vestito nessun uomo ti
staccherà gli occhi da dosso!»
«Oh» ribatto fissando nello specchio i punti dolenti. «Di ciò non ho alcun
dubbio.»
«E poi sono certa che Jessie farà di tutto per sistemarlo, vero cara?»
Jessie, il mento stretto tra le dita, con la stessa gravità di uno sciamano
continua a scuotere la testa. «Ci proverò» sentenzia alla fine.
Se non me ne vado subito, divento matta.
«Fate ciò che volete di me» borbotto sfilandomi l’abito, «ma ora vorrei
uscire di qua.» In quel momento non me ne importa niente se qualche
vecchio sporcaccione mi guarderà il sedere al matrimonio del secolo. Mi
avvolgerò in uno scialle, penso, e coprirò ogni parte di me eccedente dalla
taglia 42. E poi, quante persone saranno presenti alla cerimonia? Se non ho
capito male si tratta di una cosa intima, in famiglia.
È il concetto di famiglia di zia Ari e del suo nuovo fidanzato che mi
terrorizza.
***
Io e zietta riprendiamo il nostro giro nella Main Street e le preoccupazioni
poco per volta se ne vanno. È tutto così perfetto, curato, rassicurante qui! Mi
sembra di camminare in un film degli anni Cinquanta: tanto rétro che
potrebbe esserci lo zampino di un art director. Dimenticato l’abito da
Pocahontas, l’idea di poter utilizzare il villaggio come ambientazione della
mia storia prende forma e mi regala un brivido di eccitazione. Il sole, ormai
alto nel cielo, mi avvolge in un meraviglioso tepore, mentre il vento mi porta
alle narici il profumo del mare e alle orecchie gli striduli richiami dei
gabbiani. Se quella odiosetta della pubblicità ora mi chiedesse «cosa vuoi di
più dalla vita?» sono certa che le risponderei «niente».
Sulla strada principale si affacciano deliziosi, piccoli edifici a uno o due
piani, risalenti all’inizio del secolo scorso. Molti ospitano al piano terra
boutique o botteghe d’arte e di artigianato locale, molto colorate e allegre.
Altri, pochi per fortuna, sembrano essere disabitati. Chiedo a zia Arianna
come mai. Scuote la testa e i suoi occhi si fanno indignati.
«C’è qualcuno che vorrebbe trasformare Cape Love in un centro alla moda
e per far questo sta tentando di far piazza pulita dei proprietari degli stabili.»
Non ci capisco molto di speculazioni, quindi chiedo: «E come potrebbe
riuscirci?».
«Ingolosendo i proprietari con proposte così alte che non tutti possono
rifiutare. Agli inquilini, poi, aumentano il canone dell’affitto e offrono
incentivi per andarsene. Ma con la sottoscritta non avranno vita facile!» dice
combattiva.
La guardo sorpresa.
«Parli del faro sul promontorio, zia? Mi sembrava di aver capito che lo
avessi acquistato!»
«No, non parlo del faro, ma della piccola libreria di cui di recente sono
diventata socia.»
«Una libreria?» esclamo stupefatta, ricordandomi del promemoria formato
A4 di zietta come fosse una spada di Damocle.
«Non che io ci lavori proprio, non per il momento, almeno. L’ho fatto solo
per dare una mano a una cara amica in difficoltà, Joanna.»
La guardo per indurla a spiegarsi meglio. Sono curiosa di saperne di più su
questa sua ultima stranezza.
«Come ti dicevo prima» continua, «qualcuno – si dice una holding di
Boston – sta cercando di fare incetta di edifici storici.»
«Sì, e non è un bene» le dico, facendole cenno di continuare.
«Il proprietario dell’immobile che ospita la libreria per il momento si è
rifiutato di vendere, ma come contropartita ha aumentato a Joanna l’affitto.»
«Non mi pare una cosa carina da fare.»
«Certo, ma non è illegale. È solo questione di mercato.»
«E tu cosa c’entri?»
«Da sola Joanna non si poteva permettere di pagare una tale cifra, così sono
entrata in società con lei. In una sola mossa ho aiutato un’amica a far sì che
non chiudesse l’unica libreria rimasta a Cape Love e a combattere i misteriosi
speculatori.»
Ammetto di essere un po’ frastornata da queste notizie e di non capirci
molto, anche se il ragionamento non fa una grinza. E poi, quando c’è una
battaglia da combattere, nessuno è più agguerrito di zia Ari.
Certo, non credo che una pittrice new age abbia la minima idea di come si
gestisce una libreria, ma in ogni caso l’idea non mi dispiace affatto. Adoro le
librerie, soprattutto quelle piccole e familiari cui non siamo più abituati da
quando tutta la nostra vita si svolge on line. Quelle dove puoi sederti e
sfogliare un libro prima di decidere di comprarlo, quelle dove puoi scambiare
qualche parola e chiedere un consiglio a chi sta dietro al bancone. «Vieni» mi
dice zia prendendomi a braccetto, «il negozio è proprio qui, in fondo alla
strada.»
Sono proprio curiosa di vedere in che impresa questa volta zia Ari si sia
cacciata. La seguo in silenzio e, anche se sono ammirata dalla sua
intraprendenza, tengo il becco ben chiuso: con lei la prudenza non è mai
troppa.
Avanza lungo la strada come una regina, saluta tutti con una parola gentile
e mi presenta come la sua nipote prediletta. Forse perché, penso, non ne ha
altre.
Arriviamo davanti alla libreria. Si trova in un piccolo edificio in legno
bianco, con tanto di portico sul davanti. La porta e le cornici di finestre e
vetrine sono pitturate di un vivace rosa confetto. È la casa più deliziosamente
frou frou che essere umano abbia mai concepito.
«Al piano terreno c’è il negozio» mi spiega zia. «Sopra, invece, ci abita la
mia socia con il marito: anche loro sono invitati al matrimonio.»
Ai lati della porta di ingresso ci sono due vasi di ortensie già in fiore e un
paio di cesti, rosa, contenenti alcune decine di libri in offerta a due dollari. La
tentazione di frugarci dentro mi assale, ma zietta mi tira per il braccio. Alzo
gli occhi e noto che sopra la mia testa ballonzola un’insegna su cui sono
raffigurati un vecchio libro e il muso di un delizioso leprotto occhialuto che
assomiglia a Harry Potter. Non a caso il negozio si chiama The Little Hare’s
Bookshop. La libreria del leprotto. Mi avvicino alla vetrina, mi riparo gli
occhi dal riflesso del sole e cerco di capire cosa vi sia esposto. La prima
sensazione è che di libri ce ne siano pochi. Rimango impietrita a fissare oltre
il vetro. Sbatto gli occhi e cerco di capire. Voi, di solito, cosa ci trovate nelle
vetrine delle librerie? Libri, forse? Pile di bestseller che ti chiamano a gran
voce, che ti lusingano e ti invitano ad accoglierli a casa tua?
Qui? Niente di tutto ciò. La piccola, graziosa vetrina mi appare come un
delizioso mondo a parte, popolato dai più celebri personaggi della letteratura
di ogni tempo.
Devo ammettere che c’è una zampata di genialità in tutto ciò. Chi ha creato
questa meraviglia in miniatura ha utilizzato delle Barbie e dei Ken per il suo
scopo, abbigliandoli con piccoli abiti perfetti. E per dissolvere ogni dubbio
sulla loro identità, ha posizionato intorno a loro, come fosse la quinta di un
palcoscenico, i libri a cui appartengono.
Ma credetemi, non c’è modo di sbagliarsi.
Anna Karenina e Aleksej Kirillovič Vronskij, Oliver Twist e Artful
Dodger, Lizzie Bennet e Mr Darcy, David Copperfield e Agnes Wickfield,
Heathcliff e Catherine, Jane Eyre e Mr Rochester, Dr Jekyll & Mr Hide,
Emma Woodhouse e George Knightley, Harry Potter e Hermione (sì, ci sono
anche loro e la cosa mi piace molto). Fisso la vetrina, incredula e ammirata.
Ogni personaggio è perfetto sin nei minimi particolari.
Mi permetto un “Wow” di ammirazione e aggiungo: «Sono stupendi, dove
li hai trovati, zia?».
«Hai visto che meraviglia? Osserva i costumi, sono un vero capolavoro!
Non li ho “trovati”, li ha realizzati tutti la mia socia, Joanna, usando le sue
vecchie bambole. Vieni dentro, che te la presento.»
Il campanello trilla allegro sulla porta quando entriamo e, quasi avessimo
superato uno Star Gate, mi sembra di essere stata catapultata in un altro
mondo. Joanna è intenta a cucire, seduta dietro a un bancone ricoperto di
oggetti, della cui varia utilità non saprei dire.
Definirei il tutto… creativo. Molto.
L’ordine non regna sovrano qua dentro. Ciononostante, o forse per quello,
tutto è sublime e il profumo di libri si mescola a quello del caffè e dei fiori e
delle piante verdi che sono un po’ ovunque, nei posti più curiosi.
Joanna alza il suo bel viso su di noi.
«Joanna, tesoro, sono venuta a presentarti la mia nipotina, Gioia. La mia
damigella e testimone di nozze.»
Ora sono la sua nipotina, come se avessi cinque anni.
Joanna depone l’abitino che sta cucendo per il Ken/Tom Jones e si alza in
piedi mostrando in tutta la sua imponenza una pancia di… quindici mesi?
«Joanna aspetta un bambino» mi dice zia Ari come se non si fosse capito.
«Solo uno?» mormoro tentando una battuta che non fa ridere nessuno. Lì
dentro ce ne potrebbero stare comodamente tre.
Joanna esce da dietro il bancone e mi bacia e abbraccia. O almeno ci tenta,
perché con quella pancia l’operazione non è delle più facili.
«È il mio primo bambino» dice orgogliosa, accarezzando quel pallone
areostatico che si porta appresso. Le guardo il viso raggiante e mi accorgo
che è ormai quello di una donna matura. E felice. Per un istante l’invidia mi
rifila un pizzicotto di quelli col giro, che fanno un male cane. In fondo,
penso, Joanna quanti anni può avere più di me? Sei? Sette forse. A
quarant’anni potrò sfoderare un sorriso così dannatamente felice?
Mi deprimo all’istante. Poi penso di aver sette anni di tempo per cominciare
a sorridere come la testimonial di un dentifricio miracoloso e mi obbligo a
star meglio. Se devo smetterla di considerare il destino come un nemico e di
giudicare il mondo con la cartina a tornasole del cinismo, perché non iniziare
subito?
Joanna mi mostra con curiosa precisione il negozio che, malgrado tutto, è
organizzato secondo una logica, per quanto squinternata sia. In bella vista ci
sono i romanzi che Joanna considera i suoi capolavori, in edizioni nuove e
vecchie, mal ridotte o perfette, mentre nascosti – quasi che Joanna se ne
vergogni – ci sono i bestseller del momento, quelli che, forse, dovrebbero
stare in prima fila per farsi notare dai clienti. Ma siamo a Cape Love, in
fondo, dove la logica e la razionalità sembrano relegate in un ruolo
secondario. Come il marketing.
Joanna ci offre un caffè delizioso, ci mostra il settore dedicato ai libri per
ragazzi – incantevole! – e poi mi rivolge un altro sorriso irresistibile
dicendomi qualcosa che non capisco.
«Ti ringrazio tantissimo per la tua disponibilità, Gioia. È un conforto sapere
che in caso di bisogno» e dicendo così si accarezza il ventre, «potrò contare
su di te.»
Su di me?
Cerco di chiedere delucidazioni riguardo alla mia “disponibilità”, ma una
signora anziana dai capelli quasi turchini entra nel negozio e sussurrando
chiede qualcosa a Joanna. Percepisco la parola “sfumature” aleggiare
nell’aria profumata e preferisco non investigare, perché temo di sapere a che
cosa si riferisca l’adorabile vecchina.
***
Pochi minuti dopo sto camminando per la Main Street con zietta. Sono un
po’ perplessa, per la verità.
Di più.
Ho una pessima sensazione.
«Arianna» la chiamo sempre per nome quando sono arrabbiata. «Perché
Joanna mi ha ringraziato con tanto trasporto e mi ha detto che potrà contare
su di me?»
Zietta fa un cenno con la mano, come per dire “fesserie”, poi serafica
risponde: «Le ho detto che in caso di bisogno, saresti stata felice di darle una
mano finché non sarò tornata dal viaggio di nozze. Sai, nel caso il bambino le
desse dei problemi, o dovesse nascere prima del previsto. Meglio essere
prudenti».
Già, prudenti. Che io abbia capito male?
Riavvolgo il nastro di questa conversazione nella mia mente, poi schiaccio
il tasto play ed esplodo in un…
«Tu cosa hai fatto?»
Due signore si fermano a guardarci, colpite dal mio tono rancoroso.
Sembrano stupite che in quel villaggio, che pare un’illustrazione di John
Falter – uno dei miei maestri – ci possa essere anche qualcosa che esula dalla
perfezione.
Qualcosa di certo non è perfetto, almeno per me. Abbasso il tono della voce
e traggo un gran respiro per calmarmi.
«Zia Ari. Mi vuoi dire una volta per tutte cosa ti aspetti che io faccia dopo:
1) dovermi travestire da Pocahontas per le tue nozze, 2) badare ai tuoi
“piccolini”, come chiami quelle bestie feroci e 3) aiutare Joanna, spero solo
in negozio e non a partorire?» dico, sottolineando ogni punto con le dita della
mano destra. Fatica inutile, perché lei non mi risponde, tergiversa e mi fa
sospettare che questo “invito”, che peraltro mi costa parecchio in biglietto
aereo, nasconda delle altre soprese. Lei mi guarda e, seria seria, mentre una
lacrima ben programmata si materializza nel suo occhio destro, dice: «Non
mi aspetto niente, Gioia. Voglio solo che tu ti diverta, che magari incontri
finalmente qualcuno che sia giusto per te e ti innamori! Voglio la tua felicità,
bambina mia!».
Boom! Il tutto in una decina di giorni, mentre sarò impegnata a badare alle
due bestie e a vendere Sfumature alle over 80 di questa cittadina. La guardo
con la mia migliore espressione “chi vuoi fare fessa?” e lei è velocissima a
sporgersi verso di me e a schioccarmi un bacio, lasciandomi l’impronta delle
sue labbra rosso Dior sulla guancia. Come un marchio indelebile. O forse una
fattura.
4
19 giugno, mercoledì, due giorni alle nozze

È mattina, una bellissima mattina. L’aria è tiepida e il vento è abbastanza


gentile da non trascinarti via.
Insieme a Montmorency e Armageddon seguo zietta e la sua wedding
planner, Sonny, un’altra adepta new age che sembra una figlia dei fiori
quarant’anni dopo. Sonny starnazza a volume imbarazzante e si agita come
una tarantolata all’interno di un caffetano blu elettrico, mentre un ciondolo
col simbolo facciamo l’amore, non la guerra le saltella sulle tette abbondanti.
Parla delle idee geniali che ha avuto per il rinfresco – strettamente biologico,
of course – e ogni tre parole ci ricorda, nel caso non l’avessimo ancora
capito, che lei c’era a Woodstock e che in quei tre giorni di pace, d’amore e
di musica è stato nel suo caso l’amore ad avere la meglio.
E io che, ingenua, avevo sempre pensato a Woodstock come alla
consacrazione di gente tipo i Creedence Clearwater Revival e Crosby, Stills,
Nash & Young!
In ogni caso… devo trovare un modo per fuggire.
Quando le due fuori di testa si dirigono trillando verso il punto dove si terrà
la cerimonia – perché la cerimonia si terrà qui al faro, se ancora non l’aveste
capito, nel giorno del solstizio d’estate – ne approfitto per darmela a gambe,
seguita dalle due bestie che pure di Woodstock hanno le scatole piene.
Prendo il sentiero che scende al mare più veloce di una capretta di Heidi, con
Paraspifferi alle calcagna e Armageddon già in esplorazione sulla spiaggia.
Che meraviglia!
Immaginate: l’oceano blu e spumeggiante davanti a me, rocce rosse alle
mie spalle e un’incredibile spiaggia che si snoda per qualche centinaio di
metri in entrambe le direzioni. Chiudo gli occhi e alzo il viso al sole,
fregandomene per una volta degli UVA, e torno in pace con me stessa. Che
stia anch’io diventando un po’ new age? La sola idea mi fa sobbalzare
d’orrore. Riapro gli occhi e mi sento chiamare: «Joy, Joy, sono qui».
Non si tratta di un richiamo mistico, ma del bambino dai capelli rossi,
quello che abita nella grande casa grigia sul promontorio, vicino al faro.
Prima mi fa un cenno di saluto con la mano, poi si mette a correre verso di
me come se avesse una fretta terribile di parlarmi. In questi due giorni l’ho
incontrato spesso e ho potuto scambiare qualche parola con lui. Non che mi
piacciano particolarmente i ragazzini, ma mi è parso un tipetto adorabile.
Mentre i “piccoli” di zia sono impegnati a contendersi con foga un grosso
ramo portato sulla spiaggia dal mare, Jimmy mi raggiunge. Porta un paio di
jeans e una felpa rossa. Il capo è coperto da un cappello da baseball blu, ma
anche all’ombra della visiera si scorge sul suo volto un firmamento di
adorabili lentiggini. Avete presente Ron Howard (il Ricky di Happy Days) da
bambino? No? Be’, non so cosa farci. Ma è proprio spiccicato a lui.
«Ciao Jimmy, che bella sorpresa!» dico.
«Ciao, Joy» mi risponde lui, trafelato per la corsa. Mi chiama Joy perché è
più semplice che dire Gioia.
Intanto le due bestie sono ancora alle prese con il ramo. Nessuna delle due
pare voglia cedere.
«Come mai non sei a scuola?» chiedo e subito me ne pento.
Infatti lo vedo diventare tutto rosso.
«La scuola è finita, e poi io non ci andrei comunque» dice fissandosi le
scarpe. « È la signorina Betty a insegnarmi.»
«La signora Halls, vuoi dire? Zia Ari me l’ha presentata. Mi sembra
un’ottima persona.»
«Sì, proprio lei. È un’insegnante molto brava e paziente.»
«Davvero? Forte!» dico, con un sorriso che vorrei fosse rassicurante. Se
non va a scuola, penso, qualcosa non va. Non insisto e cambio argomento.
«Ti va di fare due passi con noi?»
Il suo volto si rasserena all’istante.
«Certo!»
Ci incamminiamo lungo la spiaggia e Armageddon ci supera cavalcando
beata sulla sabbia compatta mentre Paraspifferi, che come già prevedevo è
uscito vincitore dalla tenzone, ci segue con un metro di legno marcio in bocca
e non poche difficoltà: la sua testardaggine è inversamente proporzionale alla
sua stazza.
«Quanti anni hai, Jimmy?»
È quello che si chiede a un ragazzino come prima cosa, no?
«Dieci, undici a novembre.»
«Oh, sei già grande…» altra cosa che fa parte della conversazione standard.
«Non molto per la verità. Sono basso di statura. I miei compagni di classe,
a Portland, mi prendevano sempre in giro per la mia altezza.»
Ah!
«Tu andavi a scuola a Portland?»
«Sì, ma poi papà ha voluto che mi trasferissi qui con Miss Betty.»
«Capisco» ma non capisco affatto.
Mi fermo e mi giro verso di lui, fingendo di studiarlo con occhio critico.
Be’, non che Jimmy sia alto, ma a dieci anni si ha ancora il diritto di essere
piccolini, no?
«Tu basso? Naaa. Cos’eri, in una classe di ripetenti?»
«Ralph Olkovich era alto come la maestra.»
«E quanti anni aveva?»
«Dodici.»
«Ralph Olkovich era anche un asino, vero?»
«Sì, ma era grosso e... faceva male.»
Altro ah!
Prendo un grande respiro per tacitare la rabbia che mi sale dentro.
Riprendiamo a camminare, anche perché Armageddon è corsa avanti e sta
abbaiando per richiamare la nostra attenzione. Paraspifferi invece è dietro di
noi e continua a scrollare la testa, nel palese tentativo di finire la sua preda. Il
ramo.
«E chi picchiava quel bullo di Olkovich?»
Jimmy cambia espressione e non mi ci vuole molto a capire chi fosse la
vittima preferita. Forse è proprio questo il motivo per cui Jimmy ha lasciato
la sua scuola a Portland? Trattengo la mia rabbia a fatica e cambio discorso.
«Cosa ti piace fare, Jimmy, quando non studi?»
«Mi piace giocare a calcio, giocare con i cani di Miss Arianna, e guardare il
mare dal faro.»
«Oh, a parte giocare a calcio, abbiamo gusti simili. E poi?»
«Giocare alla PlayStation, vedere i cartoni in tv e disegnare.»
«Disegnare? Davvero ti piace? Anche a me!»
«E sei brava?»
«Non mi lamento, anche se non sono mai soddisfatta del mio lavoro.
Potremmo disegnare insieme qualche volta, se ti va.»
«Certo che mi va.» Tace e poi mi guarda con occhi colmi di speranza. «Sei
sposata, Joy, o fidanzata?»
«Perché, vuoi chiedere forse la mia mano?» scherzo. Lui diventa tutto
rosso.
«No, sono ancora un bambino. Era così, solo per saperlo.»
«Allora ti risponderò che non sono impegnata con nessuno.»
«Bene!» urla, e si mette a inseguire Armageddon. Lo osservo correre e
saltare e per un istante penso che il mondo sia perfetto e che la vita sia molto
più bella e semplice di quanto non mi paia di solito. Urlo un «ehi, aspettami!»
e mi metto a correre anch’io, e dietro di me si fionda Montmorency con il suo
ingombrante ramo-preda stretto tra i denti. Ho trentadue anni e mi sento di
nuovo una ragazzina, ho voglia di giocare sulla spiaggia con un bambino e
due cani, uno troppo grande e uno troppo basso, e mi sento felice come non
ero da tanto, troppo tempo.
Al diavolo i miei pensieri e le mie preoccupazioni. Al diavolo il futuro e i
raggi UVA. È solo il presente che conta, il profumo del mare, il suono
ritmato delle onde sulla battigia, i miei piedi che affondano appena nella
sabbia compatta, il cielo che sembra toccarmi. Sto correndo e mi sembra di
volare. Già, ma da quanto sto correndo? Possibile che quel ragazzino non si
sia ancora fermato, dov’è finito?
Comincio a preoccuparmi.
«Jimmy!» chiamo, nessuna risposta. Sarà più avanti, dietro a quegli scogli.
Mi ci arrampico, guardo a destra, a sinistra, ma non vedo nessuno
all’orizzonte, né umano né canino. Che diavolo? Ormai senza fiato, percorro
di corsa un altro pezzo di spiaggia, ma presto mi convinco che Jimmy e
Armageddon non possano essersi allontanati tanto. Torno indietro, sempre
con Montmorency che a questo punto mi fissa perplesso, se non seccato.
Oddio, cosa può essere successo a quei due? Penso che siano finiti
nell’oceano e per un istante scruto le onde in cerca di una manina che chiede
aiuto, come nelle barzellette. Scarto l’ipotesi “flutti assassini” perché
Armageddon, difetti a parte, è un terranova, e i terranova sanno il fatto loro
quando si tratta di gente che arranca in acqua. A proposito di Armageddon…
non è forse lei ad abbaiare in lontananza? Mi fermo ad ascoltare sotto lo
sguardo vigile di Montmorency: il suono proviene dall’alto, dalla cima del
promontorio. Come diavolo ci sono arrivati quei due là in alto? Torno sui
miei passi correndo sempre con paraspifferi e il suo ramo alle calcagna sino a
quando non trovo un sentiero che sale al promontorio. Sempre più
preoccupata che sia successo qualcosa al bambino – ve l’ho già detto, vero,
che sono una dalla preoccupazione facile? – lo imbocco con uno scatto degno
di Usain Bolt ai blocchi di partenza, senza riflettere che è ripido e pieno di
radici. Corro e inciampo e sento che prima o poi mi scoppierà il cuore. Arrivo
in cima alla salita e, con mia grande sorpresa, mi ritrovo nel giardino della
casa di Jimmy. Lui, grazie al cielo, è sano e salvo a qualche metro da me e si
rotola sull’erba insieme ad Armageddon, due cuccioli senza pensieri. Faccio
qualche passo ancora e poi decido che non ci provo neppure a raggiungerli.
Pazza sì, suicida no! Mi fermo sul ciglio del promontorio con la lingua di
fuori, piegata in due per la fatica, il respiro bloccato in gola (come il postino
di A piedi nudi nel parco!). Altro che volare! Sono ridotta così male che i
bronchi mi bruciano e le ginocchia mi implorano di darle in affido familiare a
qualcuno che non sia una carcassa come me. Ancora piegata in due, le mani
appoggiate sulle ginocchia, emetto un «Jimmy» sibilante e incerto, mentre
cerco di inalare in una volta sola tutta l’aria del Maine. È a questo punto che
Paraspifferi sbuca dal sentiero a tutta velocità e infierisce su di me
colpendomi dietro alle ginocchia con il ramo che ancora stringe con orgoglio
tra i denti.
Ahi!
Mi fa un male cane.
Ho detto “cane”?
Il suo è un agguato degno di Kato (il cameriere dell’Ispettor Clouseau,
ricordate?), coniuga fin troppo bene l’effetto sorpresa alla velocità di
esecuzione. Stramazzo a terra ed esprimo il mio disappunto con un urlo da far
accapponare la pelle a Stephen King e, mentre la diabolica bestiola mi fissa
scodinzolando con aria di sfida, rimango a terra priva di fiato, più umiliata e
offesa di Ivan Petrovič.
Due cani e un bambino mi hanno messa KO.
Vero, ma l’erba profuma di buono e il cielo, per quanto non riesca a vedere
nulla in quel momento, è più blu degli occhi di Jimmy. Il diavoletto! Lo sento
urlare qualcosa e ridere – probabilmente di me – e quando cerco di
risollevarmi per dirgliene quattro, mi accorgo che anche alla mia vista deve
essere successo qualcosa di terribile perché Jimmy nel frattempo sembra
essere alquanto cresciuto. Cerco di rimettermi in piedi e durante questa critica
fase di risalita, mi ritrovo per un momento a quattro zampe, proprio quando
Armageddon decide di partire alla carica – forse pensa che in quella bizzarra
posizione voglia anche giocare con lei – e so che mi travolgerà se non mi
spiccio a riguadagnare una postura da bipede eretto, o quasi. Con una forza di
volontà che pensavo di non avere più, mi rialzo e strizzo gli occhi verso
Jimmy per cercare di capire perché un attimo prima mi fosse sembrato troppo
alto e troppo grosso. Nel frattempo Armageddon sta per raggiungermi, ma la
schivo con l’eleganza di El Cordobés e mi sforzo di focalizzare la mia
attenzione su Jimmy. Che è di nuovo un ragazzino. Accanto a lui ora c’è un
uomo che, nella mia totale ipossia, avevo preso per un bambino. Indossa
jeans e camicia bianca, e se la ride come un matto. Di me, ci scommetterei.
Anche lui. Jimmy gli sta al fianco e gli tiene la mano. Sembra felice. Nel
frattempo mi dimentico di El Cordobés e Armageddon ne approfitta per
saltarmi addosso e rifilarmi una leccata in faccia prima di tornare
trotterellando verso i due maschi del gruppo, inseguita da paraspifferi. Sono
l’unica persona in quel singolare consesso umano-canino che non si sta
divertendo o meglio, per dirla tutta, che vorrebbe sparire.
Puff!
Se solo avessi il mantello di Harry Potter!
O il teletrasporto di Scotty! Non esiterei a teletrasportarmi su un altro
mondo.
E invece no. Rimango lì, attonita, scarmigliata, sudata e rossa in volto,
aspettando che il mio destino si compia mentre qualche molecola di ossigeno
riprende a circolarmi nel sangue e Jimmy, lo sconosciuto e le due bestie
dannate si muovono al rallentatore verso di me.
«Joy, Joy!» urla Jimmy. «È arrivato papà, è arrivato mio papà!»
E in quell’istante so che la felicità esiste, la sento accarezzarmi il viso
portata dal vento insieme a quelle semplici parole: “è arrivato mio papà”.
Jimmy è l’immagine lentigginosa della felicità, io quella della vittima di un
tornado. Ecco, ora ci si mette pure la commozione e gli occhi mi si gonfiano.
Con un gesto pietoso mi asciugo una lacrima, sistemo una ciocca di capelli
dietro l’orecchio e raddrizzo le spalle, giusto per darmi una parvenza umana
mentre continuo a infierire sui miei jeans sporchi di terra.
La piccola comitiva umano-canina mi ha ormai raggiunta. Paraspifferi si
accomoda su un mio piede, Armageddon mi saluta con una zampata e Jimmy
mi tira il braccio continuando a cantilenare che è arrivato suo papà. E io
piango, a questo punto senza capire il perché. Una mano si allunga verso di
me: è una mano forte, abbronzata, coperta da una peluria chiara.
«Piacere, sono il papà di Jimmy, Sean McCallun.»
Come se ancora non l’avessi capito.
È una voce profonda, sexy, la sua, che mi smuove qualcosa dentro. Tiro su
col naso, che naturalmente si è messo a colare come quello di un moccioso, e
allungo la mia mano fino a quando non incontro quella dello sconosciuto, o
meglio dell’ex sconosciuto, visto che si è presentato ufficialmente. E stringo,
stringo sperando di sublimare con quella stretta potente e decisa la figura
pietosa che sto facendo. Stringo come Hulk quando è incavolato, ma poi il
mio sguardo si alza sino a incontrare quello di Mr McCallun e ogni forza mi
abbandona.
Ora la mia mano è un semolino.
Lo fisso dritto negli occhi, blu e sorridenti come quelli di Jimmy, e prima di
riuscirmi a controllare lascio andare un sospiro da attacco d’enfisema che con
ogni probabilità scatena in Sean McCallun una miriade di interrogativi sulla
mia sanità mentale e fisica.
«Tutto bene, Joy?» mi chiede infatti subito, squadrandomi con un misto di
preoccupazione e stupore, mentre io ho l’ennesima, incontrovertibile
dimostrazione che la prova sospiro non sbaglia mai.
“Pericolo, pericolo! Orco travestito da principe!” urla una voce dentro di
me.
Mr McCallun è un orco, non c’è alcun dubbio, e per di più della sotto
categoria “fighi pazzeschi”, la più affascinante e pericolosa. Non c’è da
stupirsi che il mio cervello mi stia consegnando un bel decreto ingiuntivo:
massima vicinanza consentita, cento metri, anzi, facciamo cinquecento…
Mi riprendo e rispondo alla sua cortese domanda.
«Tutto bene, grazie, solo un problema di ossigeno» biascico poco convinta.
«In ogni caso» continuo cercando di sembrare normale, «sono Gioia
Rambelli, piacere.» Lo sguardo mi cade dai suoi occhi blu alle labbra.
Errore capitale.
Perché ha un sorriso da perdercisi dentro, deciso e sexy.
«Gioia» dice storpiando il mio nome, «la nipote di Arianna. Jimmy non ha
fatto che parlarmi di te negli ultimi due giorni» aggiunge e intanto allunga
una mano verso il mio viso.
Bofonchio un «perché?» poco convinto e rimango lì, come una statua di
sale mentre lui mi leva con delicatezza dei fili d’erba dai capelli, serio e
concentrato. Anche se ogni mia fibra sta rischiando di andare in corto,
approfitto della vicinanza per un’ulteriore esplorazione. Ha una fossetta sul
mento e un naso leggermente storto, che è perfetto sul suo viso molto virile,
coperto da un velo di barba. I capelli castani sono schiariti dal sole e gli
ricadono lisci sulla fronte, come a suo figlio. Mentre lui controlla che non ci
siano altri alieni sulla mia testa, io rimango immobile, trattengo il respiro e
continuo l’esplorazione. L’orco travestito da principe, sottocategoria “fighi
pazzeschi”, mi sovrasta almeno di una ventina di centimetri, perché con il
mio metro e sessantacinque gli arrivo appena alle spalle. Che sono spalle di
tutto rispetto, a giudicare da come la camicia tira sui punti giusti. Le maniche
appena arrotolate mostrano due braccia forti, anch’esse coperte da una peluria
chiara.
A essere onesta, vorrei farlo, ma non riesco a spingere la mia esplorazione
più in basso.
Rialzo gli occhi e incontro i suoi, proprio prima che mi sussurri «ora sei a
posto» e si allontani di un passo da me.
Non sono certo i cento metri del decreto ingiuntivo, ma torno a respirare.
«Grazie» rispondo prima di comunicare con molta serietà che devo tornare
a casa. «Zia Ari mi starà cercando, lei e Sonny, la wedding planner»
aggiungo. La scusa è perfetta.
Sean solleva un sopracciglio ironico.
«Prevedo un matrimonio… inusuale, o sbaglio?» mi chiede.
«Io non lo prevedo, ne sono purtroppo sicura!» rispondo alzando gli occhi
al cielo pensando con orrore che se Mr McCallun è fra gli invitati avrà il
privilegio di vedermi agghindata come Pocahontas.
Il solo pensiero di quella imminente sciagura mi scatena un’ondata di
panico.
«Devo andare» ripeto, chiamando a raccolta Paraspifferi e Armageddon che
hanno ripreso a rincorrersi allegramente per il prato.
«Allora ci vediamo al matrimonio» dice lui con un ultimo sorriso sleale.
«Certo» me ne esco garrula, come se la cosa mi fosse del tutto indifferente,
ma penso a Pocahontas e vorrei morire.
«Ciao Jimmy» aggiungo e faccio per girarmi, ma Jimmy scatta come un
velocista e mi prende una mano. Lo guardo sorpreso. Anche suo papà lo fissa
con un enorme punto interrogativo sul volto.
«Joy, volevo chiederti…»
Capisco che è imbarazzato e cerco di metterlo a suo agio con un sorriso.
«Dimmi pure, Jimmy…»
«Volevo chiederti… ecco, se avevi già un cavaliere per le nozze.»
È così serio che devo mordermi le labbra per non scoppiare a ridere.
Traggo un respiro profondo e dico: «A dir la verità, Jimmy, non ce l’ho un
cavaliere che mi accompagni alle nozze, anche perché si svolgeranno al faro
e io abito lì».
Con la coda dell’occhio vedo Sean McCallun fare un altro passo verso di
noi. Gli rivolgo uno sguardo interrogativo e lui si stringe nelle spalle come se
non avesse idea di cosa stia passando nella testa di suo figlio.
Jimmy ciondola da un piede all’altro, nervoso, incerto se chiedere ciò che
sta per chiedere. Ancora una volta gli vado incontro.
«Per quale motivo, Jimmy, ti interessa sapere se avrò un cavaliere alle
nozze?»
In realtà credo già di conoscere la ragione di quella domanda, almeno lo
spero: gli sono simpatica e vorrebbe che fosse suo padre ad accompagnarmi,
in modo di poter stare tutti insieme. L’ipotesi, non lo nego, mi sembra
alquanto allettante, orco o non orco.
Lui si morde il labbro inferiore, mentre Sean lo fissa con sempre maggior
curiosità. Jimmy gli lancia un’occhiata, quasi cercasse la sua approvazione,
poi la sua attenzione torna a me e finalmente dice: «Joy, volevo chiederti se
potrò farti io da cavaliere alle nozze di Arianna» e mi rivolge lo sguardo più
speranzoso che abbia mai visto in vita mia.
Mi rimangio il «tu??» che sta per scapparmi e fingendo di non essere
affatto sorpresa, dico con un sorriso megagalattico: «Ne sarei onorata,
Jimmy».
E non sto mentendo.
5
21 giugno, venerdì, giorno del solstizio d’estate e delle
nozze di zia Arianna

Dio ti ringrazio, sono ormai le sette di sera e le nozze dell’anno stanno per
iniziare. È un giorno bellissimo e quando la sposa dirà sì il sole tramonterà e
sparirà tra i flutti dell’oceano e il vecchio faro verrà riacceso a simboleggiare
l’inizio di una nuova vita, quella di Arianna e John insieme, mentre Venere
diventerà un puntino sempre più luminoso in cielo e una falce di luna sorgerà
come in una fiaba delle Mille e una Notte.
Amen.
Ogni istante è stato programmato con precisione più svizzera che new age,
e devo ammettere che ho ampiamente rivalutato il lavoro e le idee della
wedding planner anche se, nel corso della mattinata, sono stata più volte sul
punto di strozzarla con quella stessa patacca hippie che porta al collo.
In questo momento siedo con zia Ari nella sua camera. Dopo aver provato a
ingurgitare degli intrugli a base di erbe per calmarsi, ha optato saggiamente
per un Margarita, il cui effetto è più veloce e sicuro.
Le ho fatto compagnia.
Anche zia Ari indossa un abito originale Penobscot, lo stesso che la nonna,
la madre e le sorelle di John hanno indossato il giorno del loro matrimonio. È
in pelle d’alce – mi viene detto, non che io lo capisca da sola – e tanto
ricamato e ricco di perline e di pietre che mi chiedo come la sposa possa non
soccombere sotto quel peso. Zietta ha i capelli raccolti, ornati di grandi fiori
rossi la cui simbologia, perdonate, mi sfugge. Anche i ricami dell’abito sono
rossi, uno dei colori nuziali dei Penobscot. È raggiante e devo ammettere che,
per quanto io sopporti a stento le strampalate convinzioni new age, un’aura
dorata sembra davvero emanare dalla sua figura.
Merito del Margarita, forse, ma di quello che mi sono scolata io.
Mi guardo allo specchio per controllare se per caso anch’io non sia
circondata da un’aura dorata. Niente aura, ma il Margarita ha avuto dei buoni
effetti anche su di me, perché non mi trovo poi così malaccio, anche in
versione Pocahontas. Mi verso un altro Margarita e mi analizzo. L’abito tira
un po’ sui punti critici, è vero, ma devo ammettere che mi sta bene. I miei
capelli castani sono sciolti e i miei occhi scuri, truccati con poco kajal e
appena un po’ di mascara («per approfondire lo sguardo, solo sopra!» si è
raccomandata la wedding planner), sono luminosi. Anche il mio pallore
abituale sembra essere un ricordo, forse perché nascosto sotto sapienti
pennellate di fard o forse per merito del sole che ho preso scorrazzando con i
cani per la scogliera. Le mie labbra, con un velo di lucidalabbra, appaiono
persino sensuali.
Bevo un altro sorso e proseguo con l’analisi illogica della figura che vedo
riflessa nello specchio. Gli unici gioielli che indosso, un paio di orecchini e
un grosso bracciale di pietre e perline azzurre, fanno parte della mise. Ho
delle roselline selvatiche bianche dietro l’orecchio sinistro che secondo me
fanno più Hawaii che nativa americana, ma è stata la wedding planner in
persona a infilarmele dietro l’orecchio e non ho osato protestare. Non sembro
proprio una principessa Sioux, ma tutto sommato non sono ridicola come
temevo. Un po’ ridicola lo sono, per la verità, ma sono disposta a subire ogni
genere di pubblico ludibrio se la mia mascherata farà felice zia Ari.
La vedo riflessa nello specchio, proprio dietro di me. Mi sorride,
rassicurante.
«Credo che tu abbia ragione, che sia proprio quello giusto. John è un uomo
meraviglioso e sembra adorarti» le dico guardandola attraverso lo specchio.
«Non sai quanto, darling.»
Dagli ululati che ho sentito provenire la notte scorsa dalla loro camera,
credo di immaginarlo.
«Sai, Arianna, sarai anche un po’ strana, ma sei una grande zia!»
«Quasi una zia!»
«No, sei una zia vera. Mi spiace tanto che mamma non sia qui con noi. Ma
farle prendere un aereo ormai è impossibile.»
«Chiamala con Skype, anche se è notte in Italia. Voglio sentire la sua voce
prima di diventare la signora Cooper.»
Mi collego a Skype e mamma stranamente risponde dopo il settimo squillo.
Non dormiva ancora, dice, pensava a noi. Parliamo con mamma e papà,
mentre le lacrime scivolano senza sosta sulle guance da una parte all’altra
dell’oceano sino a quando qualcuno bussa alla porta. È la wedding planner,
infagottata per l’occasione in un caftano d’oro. Come un Gianduiotto.
Entra, vede i nostri volti rigati di pianto e, accasciandosi su una poltrona,
lancia un urlo potente. Impreca anche, e scuote la testa con fare molto poco
new age, ma poi si impadronisce dei ferri del mestiere e delle nostre facce e
con un po’ di cipria qua, e un tocco di fard là, ci riconsegna al mondo perfette
e in tempo da record.
È ora.
Con mano tremante consegno a zia Ari il suo bouquet di fiori rossi come la
passione perché, diavolo!, sarà pure un matrimonio mezzo indiano, ma il
bouquet la sposa lo deve avere.
Tenendoci per mano, ci incamminiamo verso il nostro destino sotto lo
sguardo perplesso di Montmorency e Armageddon.
***
Le nozze
La cerimonia si svolge all’aperto, quasi a picco sull’oceano. Gli ospiti, una
cinquantina di persone, siedono su sedie bianche decorate con rami e pigne di
pino bianco, pianta simbolo del Maine. Sono sistemate a semicerchio intorno
al punto in cui verrà celebrato il matrimonio. A destra gli ospiti della sposa, a
sinistra quelli dello sposo. Il tutto in uno strano miscuglio di tradizioni
americane, di oggi e di ieri, di derivazione europea e indiana. Il celebrante, un
giudice di pace doc, ovvero nativo americano, condurrà la cerimonia alla
maniera Penobscot – cosa che mi preoccupa molto –, ma darà valore legale
alle nozze anche secondo le leggi dello stato del Maine. Gianduiotto ha
pensato a tutto.
Sono io che accompagno la sposa all’altare. Non che ci sia un altare,
naturalmente. C’è un braciere, al suo posto, dove ardono allegramente rami di
betulla e foglie di salvia bianca. Le fiamme sono alimentate dal vento e
nell’aria, oltre a un fumo imbarazzante, c’è un odore non particolarmente
gradevole. Non escludo che Gianduiotto abbia gettato tra le braci anche una
manciatina di roba illegale. Avanziamo tra la piccola folla degli invitati, nei
miei occhi il terrore, in quelli di zia la felicità più sublime. John è a pochi
metri da lei, ormai, le sorride e le tende la mano. Con mio grande sollievo,
noto che tra gli ospiti alcune donne indossano abiti tradizionali dei nativi, non
sarò l’unica Pocahontas della festa, insomma, ma noto anche che nessun
uomo, compreso lo sposo, è vestito come un capo indiano.
Codardi!
Sono tutti in giacca e cravatta, loro, alla faccia del new age e della
cerimonia Penobscot.
Ormai siamo di fronte al braciere da cui emana un tepore piacevole. Il
promontorio è sempre battuto dal vento e anche se il sole è ancora ben in
vista nel cielo – è il solstizio, in fondo – il fresco che anticipa la sera
comincia a sentirsi sulla pelle.
John prende la mano di zia e gliela bacia, gli occhi persi negli occhi. La
commozione mi sale alla gola e nel tentativo di distogliere lo sguardo dai due
piccioncini – Gianduiotto non mi perdonerebbe mai se lasciassi sfuggire una
lacrima – vedo seduti in prima fila Jimmy, che mi rivolge un sorriso
adorabile, e suo papà, che non mi sorride affatto, ma che mi fissa con
espressione prima interrogativa, poi, quando mi riconosce, incredula e infine
divertita, permettendosi pure un sorrisetto ironico. Tutto merito del look
Pocahontas, senza dubbio. Piccata, faccio appena in tempo a incenerirlo con
il tipico sguardo “non provarci neppure a ridere di me”, che il celebrante ci
invita a sedere. Non come tutti gli altri su comode poltroncine tutte fiocchi e
tulle bianco, ma per terra, su coperte sgargianti e dall’aspetto alquanto ruvido,
sistemate proprio sotto il braciere. Chissà perché. Gli sposi prendono posto su
quella di mezzo io, con qualche difficoltà, mi sistemo su quella di destra e il
testimone di John su quella di sinistra. Si chiama Henry Gustaffson ed è un
avvocato di probabili origini vichinghe visto il nome, i capelli biondissimi e
gli occhi di un grigio chiarissimo; non solo assomiglia a Viggo Mortensen, il
che non guasta, ma è anche il primo cittadino di Cape Love. Età giusta, sulla
quarantina. L’ho conosciuto ieri sera durante l’addio al nubilato di zietta. È
entrato nel pub dove zia, io, Joanna e la wedding planner figlia dei fiori
stavamo bevendoci una birra (sì, tutto qui, nessun spogliarellista è uscito da
un pacco regalo e niente omaggi maliziosi alla sposa) e non se n’è più andato.
È uno di quegli uomini cui piace essere al centro dell’attenzione, soprattutto
se quel centro è tutto femminile. Non posso negare che sia un bel tipo,
simpatico e brillante e, come Arianna non ha smesso di ripetermi per tutta la
serata, “dannatamente scapolo”. Uno che potrei anche prendere in
considerazione, insomma, soprattutto perché è risultato negativo alla prova
sospiro.
Il Margarita che circola allegramente nelle mie vene non mi aiuta certo ad
accomodarmi sulla coperta rituale con eleganza. Mi ci vogliono tre umilianti
tentativi, durante i quali sento gli occhi di Sean incollati al mio fondo
schiena, prima di riuscire a sedermi in modo composto, con le gambe
ripiegate sotto di me. Come una vera squaw. Peccato che in questa posizione
così aggraziata e femminile il bordo del mio abito cominci a salire, lasciando
almeno venti centimetri di coscia en plein air, particolare che suscita un certo
interesse da parte del sindaco vichingo. Lo sfido con lo sguardo a rivolgere
l’attenzione altrove, cosa che non sortisce in lui alcun effetto, se non quello di
divertirlo. Alza le spalle come per dire “perché mai dovrei?” e ritorna a
ispezionare ciò che più gli garba.
Nello stesso momento, con un grido che mi gela il sangue, il
giudice/sciamano dà il via alle nozze. Prima avvolge gli sposi nella coperta
sacra (un’altra!), simbolo dell’unione dell’uomo con la donna e con la Madre
Terra, poi accende la lunga pipa – pure sacra – e, tra una sbuffata e l’altra,
invoca il grande spirito affinché protegga questa nuova famiglia, le doni una
prole numerosa (uh?) e la protegga durante la caccia e i lunghi inverni.
Ecco.
Con tutto il rispetto, meglio che al cinema.
Mentre il giudice/sciamano prosegue la celebrazione rischiando più volte di
darmi fuoco ai capelli con i lapilli della fottutissima pipa che non smette di
agitare, con piccoli spostamenti riesco a ruotare sulle ginocchia di almeno 45
gradi, quel tanto necessario affinché i due McCallun entrino nel mio campo
visivo.
Sono una bella visione, non c’è che dire.
Jimmy sembra affascinato dalla magia della cerimonia e non smette di
porre domande al padre. Ho seri dubbi che Mr McCallun sappia spiegargli
esattamente ciò che neppure a me sembra possibile capire, ma certo è che ci
prova.
Jimmy pende dalle sue labbra.
Anch’io pendo dalle sue labbra, a dire il vero. Che sono magnifiche e
tentatrici. Vagheggio sulla loro morbidezza e sul loro sapore, dando la colpa
di questa mia impennata ormonale non al Margarita, come forse dovrei, ma al
giudice/sciamano che, invece di cospargere di erbe rituali propiziatorie i due
sposi (e non c’è bisogno che vi spieghi cosa dovrebbero propiziare), ha
beccato in pieno me, complice una folata di vento improvviso. Frammenti di
erba non particolarmente profumati mi si sono infilati nella scollatura e
stanno per provocarmi un’orticaria.
La scusa del rito propiziatorio non regge, lo so, ma nonostante il mio
pragmatismo si ribelli a gran voce, mi ci attacco con tutte le mie forze. Anche
se quelle labbra, non devo scordarmelo, appartengono a un orco travestito da
principe, per di più della pericolosa sottocategoria “fighi pazzeschi”. Come
ho già detto, la peggiore.
Quando Sean si accorge che lo sto fissando, mi punta i suoi occhi blu
addosso e mi sorride. Mi giro di scatto verso il cerimoniere e la sua pipa
ballerina, ma non abbastanza in fretta per evitare che quel sorriso attraversi
come un fulmine i miei quattro punti cardinali: a nord la mente, a est il cuore,
a ovest la mia mano destra (quella con cui disegno) e a sud… Non c’è
bisogno di spiegare cosa ci sia laggiù.
È una scossa non prevista che mi becca in pieno e che rimbalza in tutte le
direzioni, fermandosi alla fine proprio a sud.
La cosa non mi piace.
Non faceva parte dei miei piani e come conseguenza avvampo, cosa che
detesto, sperando che il fard e la luce del tramonto mascherino il mio rossore.
Ho bisogno di aria fresca e da quel fuoco che brucia davanti a me, e che ora
mi pare un girone infernale, arriva solo un caldo torrido. Afferro il bouquet di
zia Ari e mi faccio aria come se fosse un ventaglio, cosa che non mi dà alcun
sollievo e che in più fa andar su tutte le furie Gianduiotto, che mi rifila
un’occhiata minacciosa.
Le tiro fuori la lingua, ma poi faccio la brava bambina e poso subito il
bouquet. Poi ripercorro alla rovescia i 45 gradi, e faccio sparire l’orco dal mio
campo visivo.
Ricomincio a respirare.
Be’, a questo punto ve lo devo confessare.
Ieri mi sono comportata come una tredicenne invaghita del suo compagno
di banco. Ho passato almeno un paio di ore a camminare con Montmorency e
Armageddon sulla spiaggia e sul promontorio con la speranza di incontrare
per caso Mr McCallun, o almeno Jimmy. La scusa ufficiale per quella
passeggiata solitaria era quella di smaltire un paio di etti per entrare meglio
nell’abito di Pocahontas, ma la verità era che avevo una voglia insana di
rivedere Sean, pur sapendo benissimo che si trattava di un desiderio
impulsivo e da respingere, se non altro a causa della prova sospiro, fin troppo
positiva. Una volta a casa, delusa di non averlo incontrato, ho cercato di
sublimare la mia frustrazione come avrebbe fatto l’adolescente infatuata di
cui sopra. Come? buttandomi su Google, naturalmente, sibilla digitale cui
tutti ormai siamo votati.
E quali parole credete che abbia digitato? Solo due.
“Sean” e “McCallun”.
In una frazione di secondo ho ottenuto più di un milione e mezzo di
risultati.
Un numero impressionante, per una persona normale.
Sempre che Sean McCallun sia una persona normale. Cosa che in effetti
non mi è parsa dal primo momento in cui i miei occhi si sono posati su di lui.
No, non è una rockstar, e neppure un divo di Hollywood, se ve lo state
chiedendo. È un uomo d’affari, fondatore e azionista di maggioranza di
Ocean Ltd, una piccola società di vendite on-line che sta espandendosi tanto
rapidamente da essere tra i titoli più scambiati a Wall Street negli ultimi mesi.
Notizie, queste, tutte trovate su Google, perché di Ocean, prima di ieri, non
sapevo granché. Solo che vendeva libri e pubblicava e-books a prezzi
competitivi – mi era capitato di comprarne un paio qualche tempo fa – e che
aveva sede a Portland, che io pensavo essere la Portland dell’Oregon, non del
Maine. Non che adesso io ne sappia molto di più, ma certo il mio interesse
per il suo azionista di maggioranza è alquanto cresciuto.
Per l’azionista, non per le sue azioni. Sia chiaro.
Dopo aver capito chi era, ho inserito nella casella di ricerca anche “vita
privata”, ma, con mio grande disappunto, non ho trovato molto.
Soltanto: quarantadue anni, divorziato, con un figlio.
Del figlio già sapevo, del divorzio ancora no.
Neppure cliccando “immagini”, ho trovato granché. Foto ufficiali di
convegni e conferenze stampa, tutta roba molto formale.
Come se Sean McCallun fosse solo casa e lavoro.
E chi ci crede?
Chissà perché ora, mentre zia Ari sta per dire il suo quinto sì e io dovrei
prestare tutta la mia attenzione di testimone e di (quasi) nipote a lei e a John,
non faccio che pensare a McCallun e mi sento quasi colpevole per averlo
spiato. Non che cercare qualcuno su Google sia poi questa grande operazione
di spionaggio, ma mi sembra che tutto il mondo sappia e disapprovi. In ogni
caso, tutto tempo sprecato, il mio, perché quell’uomo non avrà mai nulla a
che fare con me. Con quegli occhi blu da togliermi il fiato? No. Non è
proprio il caso.
Sento zia Ari dire qualcosa. Parla di fedeltà e di amore. Di eternità e
rispetto.
Per la quinta volta.
Ascolto la sua voce perdersi nel canto ripetitivo e ipnotico del mare. Il sole
sta calando e lo spettacolo è tanto grandioso che per un istante mi ci immergo
anima e corpo e mi dimentico della cerimonia.
Sospiro. Chiudo persino gli occhi, e quando li riapro ho la brutta sorpresa di
accorgermi che tutti, ma proprio tutti, mi stanno fissando. Gianduiotto con
intenti omicidi.
Oh oh! Non mi ci vuole molto a capirne il motivo.
Sono l’unica persona a essere ancora seduta, inchiodata al terreno con una
sparachiodi, mentre gli sposi e il vichingo mi osservano dall’alto. Devo
alzarmi.
Ce la posso fare. Con calma. Con un bel sorriso sulle labbra. Ce la devo
fare.
Ci provo. Sorrido.
Orripilo.
Perché non appena tento di spostare con la grazia e l’abilità di una vera
squaw la mia gamba sinistra, mi rendo conto che la traditrice è praticamente
in letargo e che se proseguirò nel tentativo di riacquistare la posizione eretta
crollerò miseramente sugli sposi o sul giudice sciamano, che mi fissa già
come fossi una calamità naturale.
Rimango seduta, e non smetto di sorridere.
Il vichingo si accorge del mio imbarazzo e accorre in mio aiuto come se
quel pietoso siparietto fosse parte della cerimonia.
«Grazie per avermi salvata!» mormoro mentre mi solleva da terra come
fossi una piuma.
«Mi ringrazierai più tardi» risponde con l’espressione di un lupo affamato.
Più tardi?
Non ho tempo di riflettere su come potrei ringraziarlo “più tardi” perché, a
questo punto della cerimonia, i testimoni, ovvero vichingo e io, hanno il
compito di togliere la coperta sacra dalle spalle degli sposi, di ripiegarla e di
consegnarla alla sposa che dovrà custodirla per tutta la vita e passarla alla sua
discendenza.
Nonostante il formicolio che adesso si è spostato alla mia gamba destra,
assolvo il mio compito come una brava squaw e ricevo da Gianduiotto un
sorriso così compiaciuto che quasi mi sento orgogliosa di me stessa. Poi il
giudice/sciamano agita ancora un paio di volte la pipa – altri lapilli sulla mia
testa – e infine, con un grande sorriso, dichiara il matrimonio valido anche
per le leggi dello Stato del Maine e degli Stati Uniti d’America.
«Puoi baciare la sposa» conclude, fissando John che non si fa pregare. Gli
ospiti acclamano gli sposi e fanno capannello intorno a loro, in un turbinio di
congratulazioni, baci e abbracci mentre il faro, come per miracolo, si
illumina.
Un «ooooh!» di meraviglia serpeggia tra i presenti.
In effetti, bisogna che gliene dia atto a Gianduiotto, è un gran colpo di
scena. Anch’io alzo lo sguardo verso la luce intermittente del faro e ne seguo
come ipnotizzata il riflesso sulle onde ormai quasi nere dell’oceano, almeno
sino a quando non sento una presenza vicino a me.
Due presenze, per la verità.
Quella del vichingo, che mi sta offrendo il braccio, e quella più piccina di
Jimmy che mi fissa dal basso con aria speranzosa.
«Eccomi!»dice.
Il mio cavaliere.
Mi chino a baciarlo sulla guancia, poi guardo il vichingo, un po’ sorpreso
da quella intromissione inattesa, e dico: «Mi spiace, Mr Gustaffson, ho già un
cavaliere».
Lui sorride al piccolo.
«Jimmy, a quanto pare mi hai soffiato la ragazza, stasera. Spero che non
diventerà un’abitudine.»
Il ragazzino diventa rosso, poi si chiude nelle spalle imbarazzato. Scambio
con Henry uno sguardo di intesa, e chiedo al piccolo: «Ti va, Jimmy, di
vedere da vicino la pipa sacra?».
«Sì sì» risponde con un entusiasmo che mi apre il cuore.
«Allora vieni con me. Andiamo dal giudice.»
«Noi ci vediamo dopo» dice vichingo mentre Jimmy e io ci allontaniamo.
Mi volto e gli sorrido e nel farlo noto che un altro uomo mi sta seguendo
con lo sguardo. Il mio sorriso svanisce nello stesso minuto in cui il mio cuore
manca un battito.
Sean.
“Non pensarci neanche” ripeto come un mantra mentre Jimmy, che sia
benedetto, mi tiene per mano, mi tira verso il giudice e non mi permette
neppure di baciare la sposa, se non a distanza.
Zia Arianna è radiosa al fianco di John, circondata dal suo amore e
dall’affetto degli amici. Forse abbiamo veramente un’aura, dopotutto, e la sua
in questo momento ha il colore della felicità.
***
Il ricevimento nuziale si tiene dall’altro lato del faro, ed è qui che wedding-
Gianduiotto-planner ha dato il meglio di sé: ogni piccolo particolare è
perfetto, senza esagerazioni, senza cadute di gusto. La serata è fresca, ma non
fredda, e l’alcool che circola già senza avarizia riscalda il sangue e scioglie le
lingue. C’è un enorme barbecue e un numero imprecisato di camerieri offre
agli ospiti ogni genere di cocktail e di antipasto. Conosco già la disposizione
dei posti a tavola, ma per sicurezza lancio un’occhiata ai segnaposti. So che
siederò al tavolo degli sposi, insieme al giudice sciamano, al vichingo e a
Jimmy, ciò che non so ancora è che al mio tavolo siederà anche Sean e una
donna di nome Grace. Come la principessa.
Per la serata è stata pure ingaggiata una band di rocker ormai anzianotti, ma
bravissimi, il cui repertorio comprende il meglio del rock americano: Neil
Young, James Taylor, Cat Steven, Jackson Brown, Creedence, Eagles,
Springsteen, tanto per citare qualche nome. C’è anche una piccola
piattaforma di legno dove forse più tardi si ballerà. Non io, perché a ballare
sono sempre stata un disastro. Soprattutto se vestita da Pocahontas.
Sto sorseggiando un cocktail di colore rosa quando mi ricordo dei cani. Zia
Ari li ha affidati a me ed è ormai ora che li porti fuori a sgranchirsi le zampe
e a far pipì. Mi giro verso Jimmy e chiedo: «Ti andrebbe di far giocare un po’
Armageddon e Montmorency?».
«Sìììììì!» mi risponde, non lesinando sulle ì.
«Allora, corri ad avvisare papà e raggiungimi al sentiero che scende alla
spiaggia, capito?»
Jimmy fa sì con la testa e corre a cercare suo padre; dopo un paio di minuti
ci ritroviamo in cima al sentiero.
Tenendo i due cani al guinzaglio affinché non abbattano nessun ospite,
scendiamo alla spiaggia e li lasciamo liberi di correre. Il ragazzino sembra
felice e mi riferisce tutto ciò che il giudice gli ha appena raccontato sulla pipa
e sulla storia della sua tribù.
«E John» continua fissandomi con due occhi tondi di eccitazione, «mi ha
promesso che dall’Isola degli Indiani mi porterà un vero copricapo indiano e
un arco con le frecce!»
«Davvero?» chiedo, fingendomi sorpresa. «Hai mai tirato con arco e
frecce?»
«No, ma John mi insegnerà e…»
Jimmy non smette di raccontare e di fare progetti che coinvolgono anche
me. Come andare a caccia di orsi con arco e frecce, per esempio.
«Poveri orsi…» dico.
«Ma non voglio proprio ucciderli, solo guardarli.»
«Hai mai visto il cartone Paperino Cacciatore?»
Scuote la testa, quasi mortificato.
«Prometto che uno dei prossimi giorni ce lo vediamo insieme perché è
fantastico. C’è Paperino, sai, e quell’orso dormiglione che vorrebbe andare in
letargo…»
I due cani, intanto, scorrazzano e abbaiano felici, mentre il faro per una
notte è tornato a illuminare la rotta di chi è in mare. A parte per il modo
imbarazzante in cui sono vestita, mi sento bene.
Risaliamo sul promontorio da un altro sentiero e torniamo verso il faro, i
due cani di nuovo al guinzaglio. Jimmy con Armageddon, io con
Montmorency, che dei due è il più scatenato e quello che tira di più.
«Hai fame?» chiedo mentre ormai siamo quasi alla base.
«Certo che ho fame! Possiamo tenere con noi i cani, mentre mangiamo? Ti
prego, Joy, li teniamo sotto il tavolo, così nessuno li vede.»
Penso a ciò che quei due potrebbero combinare soprattutto in zona
barbecue e lo guardo dispiaciuta, ma decisa.
«No, Jimmy, meglio che li rimettiamo dentro casa, ordini di zia Ari.»
Vedo il volto del bambino scurirsi, farsi duro, arrabbiato. Oddio, per i cani?
Non ho molta pratica di ragazzini, per cui cerco di rimediare subito.
«Ma tra un po’ li andremo a prendere e li porteremo fuori di nuovo e
ruberemo una costoletta dal barbecue per loro, ti va?»
Ora l’espressione di Jimmy è talmente furiosa che una lacrima di pura
rabbia gli cola sulla guancia.
«Jimmy, che cosa c’è? È per i cani che piangi?»
Lo costringo a fermarsi e a guardarmi. Lui tiene gli occhi bassi e le labbra
serrate.
«Dimmi cos’hai, ti prego. È colpa mia?»
Mi guarda serio serio e con una rabbia che mi stupisce dice: «Non è colpa
tua, è arrivata Grace» con lo stesso tono con cui mio padre avrebbe detto
«l’Inter ha perso».
Lo fisso interdetta. «Grace?»
«La fidanzata di papà.»
«Ohhh» dico fingendo di capire.
Chissà perché, ora sono di pessimo umore anch’io.
Grace, come la principessa. Non c’è bisogno di chiedere a Jimmy chi sia la
fidanzata di papà, perché lo capisco da sola appena la cerco tra la piccola
folla degli invitati. Mi salta agli occhi quasi fosse una gatta furiosa e mi
graffia. L’amor proprio, se non altro.
Allungo una mano verso Jimmy.
«Dai, andiamo» ma non gli chiedo perché detesti quella donna. Primo
perché non sono fatti miei, secondo perché Sean McCallun è un orco e per
default gli devo stare a distanza di sicurezza. Non che se gli stessi incollata
farebbe qualche differenza, perché, con una come Grace che gli gira intorno
non avrei alcuna possibilità.
Mi scappa un altro sospirone di quelli che proprio non riesco a reprimere.
«E cosa ha fatto Grace per esserti così antipatica?» chiedo a Jimmy,
nonostante i miei buoni propositi di lasciare Mr Ocean fuori dalla mia testa.
Le mani del ragazzino si stringono a pugno.
«Non mi vuole intorno e mi guarda come se mi odiasse, e poi speravo che
papà non la vedesse più!»
Quando si dice parlar chiaro!
Sono sorpresa, anzi perplessa, no, indignata. Prego che si sbagli.
«Non è possibile che qualcuno ti odi, Jimmy!» cerco di rassicurarlo.
«Lei mi odia.»
«Non è che per caso sei geloso di papà? È giusto che tuo papà abbia
qualcuno accanto, un’amica, una fidanzata…»
Che faccio ora, intercedo per la gatta furiosa?
«Già, così poi anche papà mi lascia da solo, come ha fatto mamma che se
ne è andata al Polo Sud.»
Al Polo Sud?
Forse è solo un modo di dire, o forse lo hanno fatto credere a Jimmy per
farlo stare tranquillo.
In ogni modo, ora siamo in zona dramma familiare, del tipo pesante, che io
non ho mai conosciuto, ringraziando il Cielo. Non so cosa dire e non voglio
fare il terzo grado al ragazzino, primo perché ho un groppo in gola grosso
come un cocomero, secondo perché non credo di avere il diritto di farlo.
Tornando verso il faro, gli prendo la mano e gliela stringo appena, per
comunicargli in modo silenzioso che gli sono amica. I cani, intanto, già
cominciano a sentire il profumo della carne che sfrigola sulla brace e puntano
in quella direzione.
I miei occhi, invece, puntano Grace.
Sta in piedi accanto a Sean e lo guarda con avidità e desiderio. Forse non è
proprio così, forse sono condizionata, ma le parole di Jimmy ancora mi
rimbalzano nella mente e non mi inducono certo a guardarla con simpatia. È
alta, slanciata, bionda, algida. Occhi azzurri e naso perfetto. Labbra carnose.
Bella come una top model; se è rifatta, lo è dannatamente bene. Per passare
inosservata in mezzo ai comuni mortali, si è incollata addosso un abito
vintage di Versace più rosso del fuoco che non lascia nulla
all’immaginazione, né davanti né dietro. Sarebbe la perfezione fatta femmina
se i suoi tacchi dodici non affondassero con mio grande soddisfazione nel
terreno come nelle sabbie mobili, cosa che le dà un portamento instabile e
sgraziato. Anche se di Mr McCallun non mi importa un fico secco – e ripeto
nella mia mente “un fico secco!” tanto perché il concetto mi sia proprio
chiaro – prendo la cosa come una rivincita personale: i miei calzari da
Pocahontas saranno anche contro ogni tentazione e più piatti della Pianura
Padana, ma almeno non mi fanno sembrare il gobbo di Notre Dame.
«Jimmy» dice Sean invitandolo a raggiungerlo, «vieni a salutare Grace!»
Ora la mano di Jimmy stringe la mia sin quasi a farmi male e i suoi occhi
mi fissano non più arrabbiati, ma impauriti.
Come faccio ad aiutarlo? Sono solo una sconosciuta vestita da Pocahontas,
in fondo, e di ragazzini non ne capisco niente. Mi piego verso di lui e gli
sussurro all’orecchio:
«Dai, andiamo, ci sono io qua con te».
«Ti prego» mi dice, ma è solo un mormorio indistinto e non riesco a capire
di cosa mi stia pregando.
«Andrà tutto bene» rispondo, la frase più stupida che c’è. Come faccio a
sapere, io, che andrà tutto bene?
La band sta suonando Take it Easy degli Eagles, “prenditela calma”, titolo
quanto mai adatto alla circostanza, e gli invitati sembrano divertirsi, ignari
del piccolo dramma di Jimmy. Vedo Arianna muoversi tra gli ospiti come
una vera regina Penobscot, il braccio di John sulle sue spalle, il braccio di lei
che gli stringe la vita. Ogni tanto si scambiano uno sguardo complice. Mi
chiedo se mai qualcuno mi abbraccerà e mi guarderà con tanta tenerezza e
devozione.
Al diavolo! Ho ben altri problemi da risolvere ora.
Ormai siamo a un metro da Sean e Grace, con Armageddon e Paraspifferi
in prima linea che tirano come matti. Grace li guarda avvicinarsi e arretra,
sprofondando a ogni passo nel terreno coi tacchi, attaccandosi al braccio di
Sean come fosse roba sua, la bella bocca rossa e lucida atteggiata a
espressione oltraggiata. Quando Paraspifferi si mette ad abbaiare come solo
lui sa fare, fissandola senza simpatia, lancia un piccolo urlo e scompare dietro
a Sean.
La principessa Grace ha paura dei cani.
Molta paura.
Non è divertente?
Sono troppo buona e, invece di infierire, cerco di risolvere la situazione
come meglio posso.
Fisso Sean negli occhi con la tipica espressione “se non ci fossi io il mondo
cadrebbe a pezzi” e dico: «Jimmy, perché non mi accompagni in casa a dare
la pappa ad Armageddon e Montmorency e poi torniamo da papà?».
«Mi sembra un’ottima idea, sembrano affamati» dice Sean, lanciandomi
uno sguardo riconoscente che mi farebbe sciogliere se non stessi ancora
cercando di convincermi che non mi importa un fico secco di lui.
«Ok, allora noi andiamo» dico, e con Jimmy per mano e i due cani al
guinzaglio mi avvio verso il faro, mentre sento Grace chiedere a Sean con
voce troppo acuta: «Chi è quella? La nuova babysitter?».
Quella. Io.
La nuova babysitter.
Quasi quasi ci ripenso e le scateno contro i cani.
6
La notte delle nozze

La festa di nozze prosegue fino alle due di notte senza un attimo di tregua e
quando mi preparo per andare a letto, sono ormai le tre. Tranne i cani, se ne
sono andati tutti: ospiti, catering, sposi. Sono sfinita e un po’ brilla, ma non
ho sonno. Dopo quanto successo, come potrei?
Mi faccio una doccia, mi infilo la T-shirt che uso per dormire, poi esco sul
portico con una tazza di caffè appena fatto. Paraspifferi, che ha la sindrome
del capo branco, mi segue. Mi siedo sul dondolo a gambe incrociate e lui si
accomoda al mio fianco, fissandomi spazientito.
«Se volevi dormire, dovevi startene a cuccia» gli dico accarezzandolo, e lui
mi rifila un’occhiata altezzosa, da vip. Poi, come me, si mette a guardare il
mare.
Dal portico, la vista dell’oceano è da urlo. La spuma bianca delle onde,
illuminata dalla luna, sembra ricamare l’orlo della spiaggia con fili d’oro. Il
profumo di salsedine e di resina mi riempie le narici.
Alzo lo sguardo al cielo.
Non ho mai visto brillare tante stelle tutte insieme. Forse è colpa del
solstizio se mi sento tanto sensibile agli stimoli della natura; o dello
champagne, o delle erbe propiziatorie che mi ritrovo ancora dappertutto
nonostante la doccia. O di Sean McCallun che, per quanto ci provi, non
riesco a togliermi di testa.
È una notte pericolosa: sta avvolgendomi nella sua magia e non c’è nulla
che la mia ragione possa fare per impedire ai miei pensieri di prendere
direzioni pericolose e a brividi sconosciuti di saettare indisturbati in me.
Alle prime luci dell’alba se ne andranno, penso, fingendo di crederci.
Bevo un altro sorso di caffè.
Montmorency, insensibile ai miei tormenti, si mette a girare come un
indemoniato su se stesso, poi tenta di scavare una buca nel cuscino del
dondolo e infine si acciambella. Due minuti dopo lo sento russare. Beato lui.
Fisso le stelle e, come in un film, rivivo alcuni momenti della giornata,
dalla prima mattina, con quel caffè bevuto in tutta tranquillità con zia Arianna
proprio qui, sul dondolo del portico, sino al momento in cui lei e John
partono felici verso la loro nuova vita (destinazione Indian Island, terra della
Nazione Penbonscot). Ora ballo un lento con Jimmy davanti allo sguardo
divertito di suo papà. Ora riascolto il brindisi agli sposi di Henry il vichingo,
alla fine del quale, non so come e non so perché, mi ritrovo intrappolata fra le
sue braccia. Rivedo gli occhi blu di Sean che troppo spesso mi seguono e il
sorriso tirato di Grace che vela a tratti la sua bellezza. Rivedo anche zia
Arianna che, proprio prima di partire per la luna di miele, si butta alle spalle
il bouquet, per la gioia delle ospiti nubili (poche) e di quelle divorziate e già
agé (molte).
Indovinate nelle mani di chi va a finire il grazioso mazzolino rosso?
Già, proprio nelle mie, nonostante io faccia di tutto per allontanarmi dal più
probabile punto d’atterraggio. Eppure, avrei dovuto saperlo che la mira di
Arianna non è quella di un tiratore scelto! Guardo il bouquet cadermi addosso
al rallentatore, come un meteorite che sta per schiacciarmi, un po’ come
capita tutti i giorni a Wile E. Coyote, e cosa faccio? Non scappo a gambe
levate, allungo le manine e lo afferro. E, una volta commesso l’insano gesto,
me ne rimango lì con un sorriso ebete sulle labbra e con il bouquet in mano,
tra gli applausi e le solite frasi spiritose e un po’ volgari che la gente dice in
queste occasioni.
«Ora sì che sei pericolosa» dice Henry il vichingo.
Perico-che? Ci metto un po’ a capire che allude al bouquet.
A questo punto potrei anche sfoderare tutto il mio senso dell’umorismo e
sopportare il mio destino, se Jimmy, sbucando all’improvviso dal capannello
di persone che mi attornia, non mi si avvicinasse e mi chiedesse preoccupato:
«Ora ti sposerai?» attirando su di noi l’attenzione di metà dei presenti.
«No, è solo un’usanza, Jimmy» rispondo con una risatina idiota.
«Ma hai preso il bouquet della sposa!» dice lui, con una logica ferrea e la
speranza negli occhi.
«Lo so, Jimmy, ma è stato solo un caso.»
Il silenzio intorno a noi adesso è tangibile. Cerco di distrarre il diavoletto
prendendolo per la gola (in senso metaforico).
«Andiamo a mangiare un altro pezzo di torta, Jimmy?»
Come sono ingenua! Lui, della torta, se ne infischia alla grande e continua
molto serio nel suo ragionamento: «Secondo me non lo è stato».
Comincio a irritarmi, anche perché ora Sean e Grace, la coppia più bella del
mondo, sono proprio in prima fila e mi guardano rispettivamente con
curiosità e irritazione.
«Cosa, non lo è stato?»
«Un caso.»
Oh!
Il ragazzino è alquanto determinato a mettermi nei guai.
Lo guardo fingendo di non capire, così come lo sta guardando suo padre.
«Senti senti, il piccolo, ha delle idee interessanti» dice qualcuno alla mia
destra.
«Forse lui sa qualcosa che noi non sappiamo» risponde una voce a sinistra.
Io sorrido come se tutto fosse perfetto in questa notte di mezza estate, come
direbbe il sommo William, ma sono gelata dentro e avvampo fuori, perché so
molto bene dove il piccolo impertinente andrà a parare.
«Cosa vuoi dire, Jimmy?» chiedo stupefatta, scarmigliando in un gesto
affettuoso i suoi capelli rossi e sbattendo le ciglia per lo stupore.
Lui sembra irritato da quel gesto, perché quello che sta facendo è un
discorso serio, non da bambino, e sembra che nessuno sia così intelligente da
capirlo.
«Che ti sposerai presto, naturalmente» risponde alla fine piccato,
prendendomi per scema.
«Ma sentitelo!» dico piegandomi verso di lui e fissandolo dritto negli occhi.
E poi faccio la domanda che non dovrei fare, ma che tutti si aspettano. «E
magari, visto che sei così ben informato, sapresti anche dirmi con chi?»
Jimmy non risponde. Fa molto peggio. Si gira verso suo padre e sfodera un
sorriso diabolico.
Questa notte, forse, è magica davvero.
Perché nello stesso momento in cui sto rivivendo nella mia mente tutta la
scena, compreso l’attimo in cui Sean mi rivolge uno sguardo seguito da un
centinaio di punti interrogativi, mi accorgo che c’è un uomo che cammina sul
promontorio, lentamente, come se fosse assorto nei suoi pensieri. Si ferma a
una trentina di metri da me e fissa l’oceano, le mani affondate nelle tasche, il
capo appena chino, e la sua figura si staglia nera contro il disco luminoso
della luna, come nelle mie illustrazioni. Solo che questa non è una favola
illustrata per bambini, è la mia strampalata vita. Trattengo il fiato, temendo
che l’uomo si possa accorgere della mia presenza, e mi appiattisco contro lo
schienale del dondolo pregando che Paraspifferi non cominci ad abbaiare,
come fa sempre quando si avvicina uno sconosciuto.
La notte deve essere proprio magica, perché il bassotto continua a dormire
alla grande mentre io non riesco a levare gli occhi da Sean. Perché la
silhouette che si staglia contro la luna, se non vi fosse ancora chiaro, è quella
di Sean McCallun.
Confesso che l’insana idea di chiamarlo o di palesarmi a lui in qualche
patetico modo, tipo colpo di tosse improvviso, mi passa per la testa. Potrei
raggiungerlo e, mentre un raggio di luna mi illumina d’argento, potrei
mormorare, che so? «Un penny per i tuoi pensieri!», come Deborah Kerr a
Cary Grant in Un Amore Splendido.
Con il probabile effetto di spaventarlo a morte e magari farlo precipitare
giù dagli scogli.
No. Meglio che me ne stia qui tranquilla a godermi lo spettacolo di Sean e a
fantasticare come una quindicenne su di lui. Accarezzo Paraspifferi, che si
allunga ulteriormente occupando in pratica tutto il dondolo, e a quel punto mi
accorgo che qualcosa di imprevisto sta accadendo. C’è un essere mostruoso,
nero come il carbone contro la luce della luna, che galoppa a tutta velocità
verso McCallun.
Un orso? Un lupo? So che a nord, nelle foreste, non mancano. Ma qui sulla
costa, ci sono orsi o lupi?
La belva sta per raggiungerlo e faccio appena in tempo ad alzarmi e a urlare
con tutto il fiato che ho in corpo «attento!» che due grosse zampe si posano
sulle spalle di Sean e una lingua lunghissima comincia a leccargli il viso.
Altro che orso! Altro che lupo!
Molto peggio.
Armageddon!
Paraspifferi si sveglia per il mio urlo e, ringhiando come un molosso, salta
giù dal dondolo e si precipita verso l’intruso con intenzioni bellicose.
Anch’io corro verso Sean, per cercare di salvarlo dai due “piccolini” di zietta
che, per quanto teneri e simpatici, sono pure dotati di considerevoli zanne.
Vedo Sean accasciarsi sull’erba, mentre Armageddon e Montmorency non
smettono di infierire su di lui.
«Armageddon, Montmorency, a cuccia, venite qua subito!» urlo
nell’indifferenza generale, correndo e scivolando con le infradito nell’erba
bagnata, e quando sono a pochi metri da quel grosso intrico di peli e arti
umani, il cuore mi si ferma quasi, perché sento un suono che mi mette paura.
Visioni di puro terrore mi assalgono e, per aggiungere una nota melensa al
tutto, penso anche che se fosse successo qualcosa a Sean, ora Jimmy sarebbe
completamente solo al mondo, e per colpa mia.
Mi sento agghiacciare.
«Armageddon, Montmorency, qui, subito!» urlo di nuovo. Li prendo per il
collare, li sposto di peso e le due belve si accomodano in prima fila con la
lingua a penzoloni a godersi lo spettacolo.
Nel frattempo Sean giace nell’erba immobile, gli occhi chiusi, il volto
lucido di leccate canine. Non vedo sangue in giro, ma ciò non mi rassicura
affatto perché, penso, potrebbe avere delle lesioni interne.
Boom!
Per quanto un sospetto mi cominci a serpeggiare tra i pochi neuroni ancora
funzionanti, il terrore non mi abbandona.
«Oddio, Sean! Ti prego ti prego ti prego! Parlami, dimmi che stai bene!»
farfuglio inginocchiandomi al suo fianco e poggiandogli l’orecchio sul cuore
per sentire se batte ancora.
Trattengo il respiro e…
Batte, eccome! E allora perché Sean non si muove?
Comincio a toccarlo da tutte le parti, per vedere che sia tutto di un pezzo.
È allora che sento di nuovo quel suono sottile provenire dal corpo esanime
di Mr McCallun, seguito da una serie di sussulti che diventano sempre più
violenti sino a quando non afferro l’orribile verità.
Oh!
Sean McCallun non ha lesioni interne. Non ha ferite. Punto.
Sta solo ridendo come un matto.
«Smettila, mi fai il solletico!» urla sempre ridendo, afferrandomi entrambe
le mani. Poi mi rovescia per terra e mi tiene inchiodata al terreno mentre il
mio cuore sembra essere impazzito: lo sento rimbombare nell’immobilità
della notte.
O forse è il suo?
Per un istante i nostri occhi rimangono incatenati, poi lui mi lascia libera,
rotola sulla schiena e ricomincia a ridere.
Dovrei essere sollevata che sia vivo e alquanto vegeto, e infatti lo sono, ma
sono anche furiosa.
«Stai… ridendo? Quando io ero convinta che tu… che tu! Per poco muoio
di paura e tu stavi solo fingendo? Non posso crederci!» sbotto esasperata, in
attesa di una spiegazione plausibile, che so già non verrà.
«Perdonami, non ho resistito! I cani volevano solo giocare, siamo amici.
Quando ti ho visto correre spaventata come se quei due mi stessero
sbranando, be’, mi sono lasciato prendere un po’ la mano. Se avessi visto la
tua faccia! Impagabile.»
«Molto, molto divertente.»
Mi rivolge uno sguardo da cucciolo bagnato, ma non mi incanta.
«Sei uscito indenne dall’attacco di Armageddon e Monty, non sfidare la
sorte provocandomi!» gli dico battendogli un dito sullo sterno con forza.
«Ehi, mi hai fatto male!»
«E questo è niente rispetto a quello che vorrei farti» ribatto.
Lui mi guarda e, scoppiando a ridere di nuovo, dice: «E neppure rispetto a
quello che vorrei farti io».
Mi rendo conto di avere ben poco addosso. La T-shirt mi arriva sì e no a
metà coscia e continua a scivolarmi dalle spalle, lasciando intravedere sul
davanti molto più del dovuto.
Ma non è questo il punto, la pruderie non c’entra affatto in questo
momento. Il punto è che sono ancora spaventata da morire.
Gli rifilo un’altra ditata sullo sterno alzando gli occhi al cielo, cosa che nel
linguaggio degli occhi alzati significa “gli uomini non pensano che a quello”,
e rialzandomi con l’agilità di un furetto mi dirigo a lunghi passi verso casa,
seguita dai due “piccolini”, scodinzolanti e alquanto fieri della loro
scorribanda notturna.
Sean, intanto, sta ancora ridendo.
«Joy!» mi chiama, cercando di soffocare le risa. «Aspettami, ti prego.»
Mi giro di scatto e urlo con una sfumatura isterica nella voce: «Mi chiamo
Gioia. Tuo figlio mi chiama Joy, e lo scuso perché è un bambino, ma è
possibile che tu non sia capace di pronunciare il mio nome senza storpiarlo?
G-i-o-i-a».
«Gioia» ripete storpiandolo. «È un bel nome. Cosa significa in italiano?»
«Significa joy» rispondo.
«Allora, spiegami: perché non posso chiamarti Joy se ti chiami Joy?»
Saputello come il figlio.
Ancora una volta alzo gli occhi al cielo, cosa che in questo momento nel
linguaggio degli occhi alzati significa “gli uomini sono tutti zucconi”, anche
se non posso negare che un po’ di logica nella sua osservazione ci sia.
Dato che sta rialzandosi da terra, riprendo a camminare più veloce di prima.
Ho voglia di chiudermi in casa e sbattere la testa contro il muro una ventina
di volte per aver fatto la figura dell’imbecille.
Sento i passi di Sean dietro di me, sempre più vicini, e nonostante io
allunghi di nuovo il passo, le sue gambe sono ben più lunghe delle mie e non
gli ci vuole molto a raggiungermi, a prendermi per un braccio e a farmi
ruotare su me stessa.
I suoi occhi blu, una sfumatura più chiara del colore del cielo all’alba, mi
fissano adirati.
Io, invece, fisso la sua mano con aria di sfida nonostante non mi dispiaccia
affatto sentirla su di me. La fisso proterva, sinché lui non mi lascia andare.
«È pazzesco!» dice.
«Cosa?»
Ora assume un’aria oltraggiata.
«Sono stato assalito dai cani di tua zia, cani che tu dovresti tenere a bada, e
te la prendi con me? Non dovrebbe forse essere il contrario? Non dovrei
essere io quello arrabbiato?»
«Assalito! Non hai appena finito di dire che stavate giocando? Ora cambi la
versione dei fatti? Sono morta di paura, non lo capisci? Mentre tu… ridevi di
me. Non è stato affatto carino da parte tua!»
Lui mi sorride e io sento le ginocchia cedere mentre il mio sguardo si fissa
sulle sue labbra. Sembra che non possa farne a meno.
«Davvero hai avuto paura?» mi chiede con una voce bassa e sensuale cui
non ero preparata.
Alzo una mano come per chiudere quella conversazione e scuoto la testa.
«Non ha più importanza adesso. Ora scusami, ma è meglio che rientri in
casa.»
E mi rimetto a camminare.
Lui, dietro.
«Ti accompagno fino alla porta.»
«Non c’è bisogno.»
«Insisto.»
«Hai paura che faccia brutti incontri?»
«Già.»
«Forse li ho già fatti» sussurro, senza diminuire l’andatura.
«Grazie per la stima» commenta lui.
Quando arrivo davanti alla porta di casa, i primi bagliori del nuovo giorno
spuntano a est. Mi giro con lentezza verso l’oceano e rimango senza fiato
davanti a quello spettacolo, anche perché Sean mi è ormai alle spalle. È
talmente vicino che il calore del suo corpo mi avvolge, scivolando sul mio
come fuoco liquido e concentrandosi dove proprio non dovrebbe.
Devo entrare in casa, mettere lo spessore fisico di una porta tra me e lui,
farmi una doccia gelata.
Ma non mi muovo.
Un altro passo, ora lui è ancora più vicino.
«Non ci si abitua mai a un tale spettacolo, neppure dopo cent’anni»
sussurra, e il suo respiro mi accarezza. La sua voce, roca e sensuale, mi sta
offrendo il sole, ogni alba, ogni tramonto. Ogni fottutissima stella.
L’intero universo.
La sua mano ora mi sfiora con gentilezza i capelli, poi li prende
delicatamente tra le dita, lasciandomi scoperta la nuca.
«Cosa… cosa stai facendo…» balbetto, come se non lo sapessi già.
«Cerco di rendere indimenticabile questo momento.»
Come se quella fosse una spiegazione sensata.
«No, Sean. Cerchi di rendere questo momento un terribile errore» ribatto
con un filo di voce.
«Forse hai ragione» mormora, «o forse no.»
Poi le sue braccia scivolano delicate sulle mie e si posano sul mio addome,
stringendomi a sé e provocando un vero terremoto nelle mie parti più segrete
che rispondono a un invito fin troppo esplicito, di quelli che tolgono il respiro
e ti fanno piegare le ginocchia. Perché be’, lo ammetto, non è affatto male
sentirsi tanto desiderate da Sean McCallun.
Lui poggia le labbra sulla mia nuca e io, invece di respingerlo, di girarmi,
di dargli un ceffone o di chiedergli se gli stia dando di volta il cervello, chino
appena il capo, come per invitarlo a servirsi liberamente. Di me.
E lui si serve.
La sua bocca indugia sulla mia pelle, la assapora, la prende con delicatezza
tra le labbra, la accarezza con la punta della lingua sino a quando con uno
sforzo di volontà titanico non mi obbligo a fermarlo. Prima che sia troppo
tardi.
«Buonanotte, Sean.»
Per un momento spero di averlo solo pensato, ma l’ho detto, forte e chiaro.
Buonanotte, Sean.
Sento la sua bocca staccarsi dalla mia pelle e la sensazione è così straziante
che il panico mi assale e un gemito traditore mi sgorga dalla gola.
Mi irrigidisco, dentro e fuori, e mentre la natura ancora una volta celebra il
suo trionfo con la nascita di un nuovo giorno, Sean McCallun sussurra «La
notte è ormai dietro di noi, Gioia, è solo un ricordo».
Come le sue labbra che per sempre sentirò bruciare sulla mia pelle.
Non ho neppure il coraggio di guardarlo negli occhi e mi rifugio in casa,
seguita da Armageddon e Paraspifferi. Sean non accenna a seguirmi. Forse è
sorpreso dalla mia fuga, o è arrabbiato. O del tutto indifferente.
Rimango per qualche minuto appoggiata alla porta, col cuore che senza il
mio permesso va a mille e mille domande che mi vorticano in testa. E
sebbene ci provi, non so rispondere a nessuna.
7
22 giugno, domenica, la mattina dopo le nozze

Quando apro gli occhi dopo un sonno breve e agitato, il sole che ho visto
nascere è già oltre lo Zenith. Non che io voglia proprio alzarmi, ma devo
farlo perché qualcuno sta bussando alla porta e Armageddon e Paraspifferi
scodinzolano e piagnucolano ai piedi del letto, implorandomi di lasciarli
uscire di casa.
E se fosse Sean?
Ora so che non è il momento di ripensare a quanto è accaduto solo poche
ore prima, ma non riesco a smettere di chiedermi perché, invece di scappare,
io non abbia afferrato McCallun per il bavero della camicia, non l’abbia
trascinato in casa e sbattuto sul letto, anche in senso figurato.
«Chi è?» chiedo al misterioso visitatore con la voce impastata di sonno e
rimpianto.
«Sono io, Jimmy.»
Paraspifferi e Armageddon si agitano davanti alla porta.
«Sei solo?» chiedo.
«Sì.»
Apro la porta e a causa della luce accecante non posso evitare di fissare il
piccolo con una smorfia. I cani, nel frattempo, si catapultano fuori e
cominciano a scorrazzare per il promontorio.
«Ciao Jimmy» dico, senza troppo entusiasmo. Non che lui se ne accorga
perché subito domanda: «Joy, Joy! Vuoi venire in barca con me e papà
questo pomeriggio?».
Il ragazzino sembra non stare più nella pelle e ne comprendo subito il
motivo.
«Saremo solo papà e io, Grace ha detto che rimane a casa.»
Oh, Grace.
«Jimmy, non credo che mi farebbe bene: ho dormito poco e ho un gran mal
di testa.»
«Dai, ti prego» piagnucola lui.
«No, Jimmy. Un’altra volta forse. Ringrazia il papà per l’invito. E ora ho
bisogno di un caffè.»
Penso di avere, con questa affermazione, congedato il piccolo McCallun,
ma lui si infila in casa e mi segue in cucina.
«Vuoi un caffè anche tu?» gli chiedo.
Lui mi guarda sgranando gli occhi. «Ma sono solo un bambino, non bevo
caffè!»
«Dai, scherzavo. C’è della torta in frigo, la vuoi?»
«Quella degli sposi?»
«Sì, proprio quella.»
Pigio il pulsante del caffè come fosse un gesto sacro, quindi prendo dal
frigo un pezzo di torta per Jimmy.
Non faccio a tempo a sedermi con lui al tavolo della cucina che qualcun
altro bussa, questa volta alla porta della cucina.
Grande!
«Vado io!» si offre il ragazzino. Schizza dalla sedia e spalanca la porta
incurante che io sia impresentabile ai maschi di età superiore ai dieci anni.
Stringo gli occhi e prego che non sia Sean.
Prego, ma nessuno dall’Alto mi ascolta perché è logico che sia lui, Sean
McCallun, preceduto da Armageddon e Paraspifferi, alquanto desiderosi di
fare colazione. Abbaiano e si agitano come due ossessi guardando
alternativamente me e le scatolette di pappa riposte su uno scaffale.
Io, invece, guardo il mio caffè ormai senza più speranza di berlo, dico un
«ciao Sean» privo di entusiasmo e mi do da fare con le scatolette.
Dio, è da schianto, anche di prima mattina. Jeans sdruciti, polo vecchiotta e
un paio di Timberland che hanno visto tempi migliori. E ogni muscolo, anche
se certo non messo in evidenza da un abbigliamento così casual, al posto
giusto. È sexy da far paura. Mentre io? Sono così conciata che probabilmente
si sta chiedendo per quale motivo questa mattina all’alba si sia sentito attratto
da una come me. Quando nel suo letto aveva una come Grace.
Si siede al tavolo con Jimmy, che intanto ha ripreso a mangiare la torta, e si
mette a bere il mio caffè.
«Ehi!» dico, come se stesse commettendo un crimine. Ma poi le bestie si
mettono a passeggiare sui miei piedi e a frustarmi con la loro coda, quindi mi
dimentico del caffè e di Sean.
Anche la sua barba un po’ lunga è irresistibile, dannazione!
«Non sembra che tu abbia dormito bene» dice lui con aria ironica.
La ciotola di Paraspifferi è pronta e gliela metto a terra, fuori dalla porta
della cucina. Quando rientro dico laconica: «Già. Ho dormito poco e male».
«Hai fatto forse dei… brutti sogni?» insiste Sean.
Preparo la ciotola di Armageddon e gliela porto fuori. Una volta tornata in
cucina dico: «Non direi brutti, semmai inverosimili».
«Di quelli a cui non riesci a smettere di pensare perché hai l’incredibile
sensazione di averli vissuti veramente?» mi chiede, portandosi la mia tazza di
caffè alla bocca. Gli fisso le labbra e in quel momento vorrei tanto essere
quella tazza.
Ne prendo un’altra e mi verso del caffè.
«Proprio di quelli» rispondo ironica. «Come fai a saperlo?»
«Ho avuto lo stesso problema, stamattina, e ancora mi chiedo se ho sognato
oppure no.»
«Si dà troppa importanza ai sogni» dico io.
«E troppo poca alla realtà» ribatte lui senza staccare gli occhi dai miei.
Continuiamo a fissarci in silenzio bevendo il nostro caffè, mentre Jimmy
mangia la torta e ci guarda come se fossimo due svitati. Poi alza le spalle
come se rinunciasse a capire e dice: «Joy non può venire in barca a vela,
papà».
«Perché non puoi?» mi chiede Sean senza girarci intorno.
«Non mi sento bene.»
Lui alza un sopracciglio, più scettico di San Tommaso.
«Posso uscire a giocare con i cani?» chiede Jimmy e all’unisono
rispondiamo «Sì!» (Sean), e «No!» (io). Il ragazzino ci guarda ancora più
interdetto .«Vai pure» gli dice suo padre, e lui corre fuori, subito inseguito
dalle due pestifere bestie.
«Se è per quel che è successo stanotte che non vuoi venire con noi in barca
a vela…»
Mi nascondo dietro la tazza.
«Come, è successo veramente? E io che credevo che fosse uno di quei
sogni!» rispondo ironica. Poi aggiungo secca: «No, non è certo per quello che
non vengo».
Butto giù un sorso di caffè, e mi sembra fiele perché all’improvviso mi
rendo conto che Sean è qui per riportare le cose fra noi entro i limiti di un
buon rapporto di vicinato. Sta cercando di fare la cosa giusta, insomma, e non
mi piace. Vorrei tanto che facesse la cosa sbagliata. Tipo alzarsi, prendermi
fra le braccia e stordirmi con un bacio da Guinness dei Primati.
«Forse ne dovremmo parlare» continua. «Non so cosa mi sia preso stanotte,
devi perdonarmi.»
Appunto, altro che bacio. Fottutissime scuse del cavolo.
Alzo gli occhi al cielo. «Senti, non è necessario, va bene? E comunque, era
l’alba, non era più notte.»
E mentre pronuncio queste parole sento una fitta allo stomaco, perché io
vorrei parlarne ancora e ancora e dirgli che se vuole può riprendere da dove
ha lasciato. Sento ancora le sue labbra umide solleticarmi la nuca e le sue
mani stringersi intorno a me, mentre lui… Stupida che sono! Lui è qui per
rimettere le cose a posto, non devo dimenticarlo. Mai.
Scuote la testa e continua con le giustificazioni. Vorrei rificcargliele tutte in
gola.
«Avevo bevuto troppo…» dice.
«Anch’io» lo interrompo subito, «e con ciò siamo pari. Per fortuna abbiamo
avuto l’intelligenza di fermarci in tempo, non è successo niente di grave e
quindi… amici come prima.»
Amici.
Bevo un altro sorso.
«Già.» Il suo volto è scuro, tirato. Mi guardo bene da chiedergli perché.
Finisce il suo caffè e si alza in piedi. Io rimango seduta per via della T-shirt
troppo corta.
«Già» ripeto, come fosse un congedo definitivo e la fine della nostra
avventura di mezza estate, e proprio in quel momento suona il telefono di
casa. Essendo un apparecchio a parete non posso che alzarmi e andare a
rispondere perché forse è zia Ari e voglio sapere come sta.
«Allora buona barca a vela» gli dico nel caso non avesse ancora capito che
è meglio che se ne vada via subito e che mi lasci coi miei rimpianti. Al terzo
suono alzo la cornetta.
«Pronto?»
Lui, invece non se ne va. Rimane seduto a guardarmi e ad ascoltare la mia
conversazione, cosa che non mi dispiace affatto perché è il signor Sindaco,
Henry il vichingo, e spero come una dodicenne che la cosa possa ingelosirlo.
«Ah! Chi? Ciao. Pensavo fosse zia!» Pausa. «Oggi a Bath? Sì?» Altra
pausa. «Va bene, allora grazie mille. Ti aspetto fra un’ora? Perfetto. A dopo»
e riappendo.
Lui è ancora lì che mi fissa, con un sorprendente cipiglio.
«Chi era?»
«Prego?»
«Al telefono, chi era?»
«Non pretenderai che ti risponda, vero?»
«Non pretendo niente. Tanto già so che era Henry.»
«Buon udito, complimenti!»
«Certo che è strano» continua lui, indifferente alla mia ironia. «Mi pareva
che avessi detto di non sentirti bene un attimo fa. Eppure a Henry hai detto di
sì.»
Come la sera precedente, ho l’impressione che fra quei due non corra buon
sangue.
Non aggiungo altro, ma i miei occhi parlano per me.
“Non sono fatti tuoi, Sean” penso.
Lui si alza, si ferma davanti a me e si stringe nelle spalle, nello stesso
adorabile modo in cui lo fa suo figlio.
«Scusa, hai ragione, non sono fatti miei» bofonchia. Poi se ne va
offrendomi un primo piano da urlo del suo lato B.
8
Venerdì 28 giugno, cinque giorni dopo le nozze

Sono stati cinque giorni d’inferno.


Altro che vacanza.
Be’, forse non proprio d’inferno, ma molto impegnativi sì.
Ho dovuto badare ai cani. Tutto il giorno.
A Joanna. La mattina.
A Jimmy. Il pomeriggio.
A Henry Fergusson. La sera.
Per essere sincera, Herny Fergusson ho dovuto tenerlo a bada. Lui e le sue
lunghe mani di sindaco.
Per fortuna tra due giorni zia Ari e John torneranno dalla luna di miele e io
potrò programmare il mio ritorno a casa.
Anche se…
Continuo a chiedermi se tornare in Italia è proprio ciò che voglio. Magari
potrei fermarmi ancora un po’ qui, e chissà…
Perché la verità è che malgrado ogni ragionamento, consapevolezza, logica
e buonsenso, non ho fatto che pensare a Mr Ocean – lui e il suo milione e
mezzo di risultati su Google – e alla scia bollente che le sue labbra hanno
lasciato sulla stramaledetta e traditrice pelle della mia nuca quella notte.
Ma quella era la notte di mezza estate, quella del solstizio, e si sa che tutto,
in una notte così, può accadere. Come farsi baciare da un perfetto sconosciuto
e rovinarsi per sempre la vita.
Punto e a capo.
Ma lasciate che vi racconti qualcosa dei miei primi cinque giorni a Cape
Love.
Il lunedì mattina mi chiama Joanna.
«Cara, verresti a darmi una mano? A fine settimana incominceranno ad
arrivare i primi vacanzieri e avrei da fare qualche spostamento in negozio.»
Qualche spostamento? Diciamo una rivoluzione copernicana, almeno, forse
anche due. Ma come si fa a dire di no a una che ha una pancia che sta per
esplodere?
E così, da allora, ogni mattina carico i “piccolini” di zia sulla scassatissima
jeep – sempre di zia – e mi presento alle nove puntuale in libreria. E mi do
parecchio da fare. All’inizio ubbidisco agli ordini strampalati di Joanna, poi
agisco di testa mia: i bestseller in bella vista, per esempio, sono tutta opera
mia.
Non crediate, però, che me la sia cavata così a buon mercato, perché i miei
incarichi sono molti e imprevedibili e comprendono anche ciò che Joanna mi
presenta come “il giro anziani”.
«Niente di impegnativo» mi dice. «Devi solo bussare alla porta di sei dolci
signore molto “anta” che vivono sole e, con un sorriso rassicurante, chiedere
loro se hanno bisogno di qualcosa. Sai, rapporti di buon vicinato.»
«Lascia fare a me» dico senza sapere dove mi vado a cacciare. E poi, che
sarà mai fare visita a delle dolci signore?
Parto per il mio primo giro ricognitivo. Nessun problema, almeno fino a
quando le adorabili vecchiette mi chiedono (una dopo l’altra!) se voglio un
caffè. Eufemismo per dire che mi obbligano a bere un caffè. Saranno anche
delle vecchiette tutte pizzi e capelli azzurrini, ma sono più intransigenti di un
sergente maggiore dei Marine. Alla sesta visita mormoro disperata «un
altro?», ma neppure il tremore delle mie mani, dovuto all’eccesso di caffeina
che mi circola allegra nel sangue, sembra essere per Mrs Heseltein una scusa
sufficiente per un rifiuto.
Non ho mai bevuto tanto caffè come in questi giorni, né mi sono mai così
imbottita di dolcetti da mille calorie al boccone. Ma devo ammettere che, a
compensare questo attentato glicemico, sono stata molto bene istruita sulla
storia locale, per così dire: non c’è tradimento o grande passione degli ultimi
cinquant’anni di cui non sia stata messa al corrente con eccessiva dovizia di
particolari. Non solo. Sarà perché la mia faccia ispira fiducia, ma le sei
signore mi hanno anche rivelato che esisterebbe un piano diabolico per
scacciarle dalle loro case. Paranoie senili, penso, conseguenze della crisi
economica o dell’avanzare dell’Alzheimer.
Ciononostante, non è la prima volta che ho la netta sensazione che ciò che
mi aveva detto zia Ari sia vero, e cioè che a Cape Love ci siano dei forti
interessi in ballo e che qualcuno sia interessato a trasformare il villaggio in
qualcosa di diverso.
Anche Joanna è del medesimo parere.
«Qualcuno sta comprando case come fossero noccioline e se per caso il
nostro padrone di casa dovesse decidere di vendere o di aumentarci l’affitto,
saremmo obbligate a chiudere.»
La mia routine quotidiana di questi giorni prevede che, una volta a casa
dopo il lavoro in libreria, io mi dedichi al nuovo libro. Per una volta credo nel
mio progetto, tanto da sentire il fiato della creatività mescolarsi al mio. Forse
perché Cape Love si sta rivelando un meraviglioso background per la mia
storia; forse perché i suoi bizzarri abitanti si stanno poco per volta
sostituendo ai mei personaggi; o forse ancora perché il mio protagonista ha le
stesse fattezze e i modi di fare di un bambino dai capelli rossi che vive nella
grande casa grigia vicino al faro.
Routine o no, in quasi una settimana non c’è stato un giorno in cui io sia
riuscita a prendere carta e matita per più di una decina di minuti. Perché, ogni
volta che torno a casa, Jimmy è già al faro ad aspettarmi.
Così come mi è impossibile dire no alla pancia di Joanna, mi è impossibile
dire no a questo ragazzino che ha per unica compagnia una
governante/maestra e che mi confessa, con le lacrime agli occhi, che non
vede l’ora che sia venerdì «perché allora papà arriverà e mi ha promesso
che…».
Sono così tante le promesse di papà che più di una volta mi sono chiesta se
Jimmy non se le sia immaginate.
Oggi è venerdì e, nonostante a me non abbia fatto alcuna promessa, anch’io
aspetto con impazienza il ritorno di Sean a Cape Love. E allora come mai
accetto un invito a cena del sindaco vichingo? Forse, perché così spero di
convincermi che Mr Ocean sia solo un banale incidente di percorso.
È così che lo devo considerare, e non appena zietta tornerà prenderò senza
rimorsi il primo volo che mi porterà lontano dal Maine, da Sean e dalla sua
dolce – si fa per dire – fidanzata. Grace, creatura di rara bellezza, dotata di
lunghi tentacoli, invisibili agli altri, ma non a me. Che si avvinghi pure a Mr
Ocean e stringa fino a soffocarlo, se vuole, ma si guardi bene dal toccare
Jimmy. Altrimenti io…io…
Io cosa?
Oggi è venerdì, dicevo, e il pomeriggio lo passo con Jimmy. Gli chiedo di
posare per me, perché, gli spiego, il protagonista del mio libro sarà simile a
lui, stessi capelli rossi, stessi occhi blu, stesso sorriso (cosa che lo fa crescere
di un bel tocco sia in statura che in amor proprio). È talmente felice di questa
scoperta che riesce a rimanere in posa per ben cinque-minuti-cinque di
seguito. Poi è lui a volermi fare il ritratto e… ci credereste? Il piccolo Jimmy
è piuttosto bravo e ha un tratto naturale che mi sorprende.
«Bravissimo» gli dico. «Hai un vero talento per il disegno.»
Jimmy cresce di un altro tocco.
«Davvero?» dice sgranando gli occhi.
«Davvero.»
«Allora porto a casa il tuo ritratto e lo mostro a papà stasera, quando
arriva.»
Ecco. Immagino l’espressione felice di Grace.
Andiamo giù alla spiaggia con i cani al seguito e, come ogni pomeriggio,
incontriamo un gruppo di ragazzini più o meno dell’età di Jimmy che giocano
a calcio.
«Vuoi giocare?» gli chiedono anche oggi, ma Jimmy come al solito rimane
fuori, a guardarli, col desiderio di giocare stampato sul volto, ma troppo
timoroso per provarci.
«Dai, vieni a giocare, che ci manca uno» insiste poco dopo un altro. E,
grazie al cielo, Jimmy si fa forza ed entra in campo. E gioca. Prima timido
timido, schivando quasi la palla come se scottasse, poi comincia a prendere
confidenza finché si mette a correre agile e veloce come un vero attaccante e
finisce per segnare ben tre gol, immortalato ogni volta dalla camera del mio
telefonino. Gli altri bambini si stringono intorno a lui, lo acclamano, gli
danno pacche sulle spalle, e lui è felice. Lo sguardo di gioia e di orgoglio che
mi regala! Giuro, non lo dimenticherò mai più. Tutto sembra procedere alla
grande sino a quando, a fine partita, non gli chiedono di entrare nella loro
squadra di calcio perché presto ci sarà un torneo e “uno bravo così” non se lo
possono lasciar scappare. Invece di essere felice per i complimenti, Jimmy si
rabbuia, biascica qualcosa e si rintana dietro di me.
«E quando inizia il torneo?» chiedo io a quello che sembra essere il capo
del gruppo.
«Fra un paio di settimane, ma gli allenamenti sono già cominciati. Ci sono
tutte le informazioni necessarie nell’atrio della scuola.»
Ringrazio il ragazzino e prendo nota mentale di informarmi su allenamenti
e torneo.
«Bravissimo, sei un vero campione» dico poi a Jimmy che mi sta sempre
attaccato come un cucciolo di koala.
Lui non risponde e mi stringe, le sue braccia strette intorno alla mia vita, la
sua testa che arriva appena al mio stomaco. Lo sento sussultare. Se non ci
fosse tutta quella gente in spiaggia, scoppierei a piangere anch’io.
***
Sera. Aspetto che il vichingo mi venga a prendere per andare a cena.
Quando scende come Odino dalla sua macchina sportiva, i capelli riflettono
gli ultimi raggi di un sole che potrebbe essere quello della mezzanotte
scandinava. L’effetto non è male, neanche quando il mio sguardo pennella
lentamente la camicia azzurra per poi scendere lungo i pantaloni di lino
bianco, dalla piega perfetta.
Non male davvero.
Ma non sospiro. Neppure un piccolo «ah», anche se lo vorrei tanto. Un
«ah» magari solo accennato.
Ci provo girandomi appena, perché lui non mi veda: «Ah».
Non funziona.
Perché Vichingo non è un orco travestito da principe, come qualcun altro di
mia conoscenza. Conoscenza molto, ma molto alla lontana, se è per questo.
Non è la prima volta che Henry e io usciamo insieme e non posso negare di
essere stata bene con lui in passato. Anche se… ci ha provato, ma con un
certo stile.
«Ciao!» lo saluto raggiungendolo alla macchina.
«Ciao» risponde prendendomi la mano e baciandomela come un
gentiluomo d’altri tempi. Ci sa fare.
Mi tiene la portiera dell’auto aperta (yes, proprio come nei film!) e mentre
prendo posto non mi toglie gli occhi di dosso.
«Cosa c’è da guardare?» gli chiedo senza girarci troppo intorno.
Lui si mette a ridere.
«Te.»
«Perché?»
«Secondo te perché si guarda una ragazza?»
«Sarebbe un complimento?»
«Un mezzo complimento. Se vuoi un complimento vero, non devi che
chiederlo. Ne avrei già una sfilza pronta.»
«Non provarci» rispondo alzando una mano per scoraggiarlo. «I
complimenti mi mettono a disagio, come la galanteria eccessiva…»
«La galanteria fa parte della mia natura. Sei avvisata, io gioco pulito.»
Lo guardo divertita mentre tiro verso le ginocchia il bordo dell’abitino
rosso Desigual che indosso, salito troppo in alto.
«Se mi avvisi, il bello dov’è?» protesto, fingendomi delusa, quando anche
lui sale in macchina.
«Il bello? Quello viene dopo.»
Ora mi mordo il labbro inferiore come se fossi davvero preoccupata da
quella dichiarazione d’intenti. Forse dovrei esserlo perché mi accorgo di stare
flirtando in modo spudorato e di divertirmi un mondo a farlo.
«Meglio che non ci speri troppo» ribatto, guardandolo male.
«Non si dice che la speranza è l’ultima a morire?»
Già. Come non dargli ragione?
«Dove mi porti?» chiedo per cambiare argomento.
«Da Sam. Spero che tu abbia fame» dice, «perché ci ha preparato una cena
fantastica.»
Accende il motore e partiamo. Quando passiamo di fianco alla casa dei
McCallun non posso fare a meno di girarmi e guardare se l’auto di Sean è
parcheggiata nel vialetto. Non c’è.
Poco dopo sediamo da Sam, uno dei ristoranti che si affacciano sul
porticciolo di Cape Love e devo ammettere di essere di ottimo umore.
Sembra che il vichingo, in questa dolce serata estiva, abbia molti alleati: il
cielo stellato, l’aria tiepida e profumata, un cibo ottimo e una caraffa di
Margarita così forte che basterebbe a mettere KO l’intera ciurma di una
portaerei. La sua corte è piacevole, lieve ma persistente, come se non fosse
abituato a darsi per vinto. Mi fa sentire desiderata come da tanto tempo non
sono e la cosa, lo confesso, mi solletica come le bollicine di champagne
quando sembra che ti salgano su per il naso.
Le attenzioni del vichingo mi lusingano e mi tentano.
Perché non dovrebbero? Non c’è nulla che non va in lui, né in me.
Ho cercato in largo e in lungo una ragione per respingerlo e non l’ho
trovata. Perché Henry è un uomo interessante, attraente e divertente che,
oltretutto, potrebbe rivelarsi un ottimo antidoto alla mia fissazione per Mr
McCallun.
Il fidanzatissimo Mr McCallun.
Che mi ha baciata sul collo colpendomi alle spalle come un ninja.
Mi faccio aria con un lembo dell’enorme bavagliolo che ci hanno annodato
al collo. Al solo pensiero di Sean, sento il polso accelerare come un contatore
Geiger in presenza di Uranio 235 e lo stomaco girarsi sottosopra quasi fosse
pieno di farfalle.
Oh se svolazzano, le bastarde, e ogni colpo d’ali è un crudele invito a
desiderare chi non avrò mai.
Undicesimo comandamento: non desiderare l’uomo di Grace.
Anche se è più facile a dirlo che non a farlo.
Meglio innaffiare i dannati lepidotteri con un altro po’ di Margarita.
Ingurgito tutto un bicchiere, ma le farfalle, ora che sono un po’ brille anche
loro, svolazzano ancor più frenetiche.
«Ehi, vacci piano» mi dice Henry. «Non voglio che quando cederai ai miei
più segreti desideri tu lo faccia perché sei ubriaca» mi dice scherzando e
prendendomi il bicchiere dalle mani.
«Ehi! Restituiscimelo subito, Mr Illusione, e togliti certe idee dalla testa. Se
vuoi proprio saperlo, non sto cercando di ubriacarmi, ma solo di affogare dei
bastardi di lepidotteri.»
«Dei…lepidotteri? Oh sì, sei completamente ubriaca.»
«Touché» dico e approfitto della intimità che si sta creando fra noi per
chiedergli se sia vero che qualcuno sta cercando di mettere le mani sugli
edifici storici di Cape Love, se ci sia una speculazione in atto. In fondo, chi
meglio del sindaco dovrebbe conoscere la verità?
«Speculazione, dici?» mi risponde con aria stupefatta. «Io penso solo che
Cape Love stia vivendo un buon periodo. Molta gente vorrebbe comprare
casa qui perché è un posto sicuro, oltre che bellissimo. Io stesso faccio la
spola quasi tutti i giorni da Portland pur di vivere qui.»
«Quindi nessuna speculazione? Joanna è preoccupata» insisto.
Riprende ad armeggiare con la sua aragosta.
«Tranquillizza Joanna, lei e tua zia non hanno ragione di preoccuparsi.»
«Sono contenta di sentirlo» dico, e cambio discorso mentre lotto all’ultimo
sangue con una chela.
Lui me la prende di mano e la rompe per me. Estrae la polpa e me la offre
con la sua forchetta in un gesto molto intimo. Troppo. Sento gli occhi di tutto
il ristorante su di noi. Mi irrigidisco un po’ e chiedo: «John dice che alle
prossime elezioni ti vuoi candidare al Congresso, è vero?».
«Uh huh!» risponde, mostrandomi nel frattempo come fare per estrarre la
polpa senza imbrattare lui, i nostri vicini di tavolo e me stessa.
Lo fisso sorpresa.
«Però, sono davvero impressionata! Sto cenando con un possibile, futuro
rappresentante del Congresso.»
«La cosa mi dà delle chance in più di mostrarti la mia collezione di
farfalle?»
«L’hai detto apposta. Odio le farfalle.»
Lui ride e mi imbocca di nuovo.
Deglutisco e gli chiedo: «Non ti basta il tuo lavoro di avvocato e la carica
di sindaco, sei davvero così ambizioso da voler puntare tanto in alto?».
«Non è ambizione la mia» dice fissandomi con occhi scintillanti, «ma che
tu ci creda o noi, è amore per questa terra: sarei onorato di poter
rappresentare il Maine e questo distretto in Campidoglio, non c’è nulla di
male, mi sembra.»
«Al contrario. Detto così sembra persino… onorevole, una parola che
troppo spesso non si associa alla politica.»
«È esattamente così che la vedo» mi risponde offrendomi un altro boccone
di polpa bianchissima e succulenta. Capisco perché il Maine sia famoso per le
sue aragoste.
Gli sorrido e per un paio di minuti mangiamo in silenzio, ognuno alle prese
con le sue chele.
«Peccato, non sarò più qui per le prossime elezioni, ma tiferò per te anche
dall’altra parte dell’oceano» dico.
«E chi può dire che non sarai più qui? Potrei convincerti a restare e farti
avere una green card.»
«Come nel film con Depardieu e la McDowell?»
«Sì, ma non dovresti sposare nessuno. Magari flirtare un po’ con me…»
Alzo gli occhi al cielo.
«Devo prenderla come una proposta indecente a tempo indeterminato?»
chiedo.
«Non avrei trovato definizione migliore.»
Chissà perché, il mio bicchiere è di nuovo pieno.
«Ti ringrazio per la green card, ma devo tornare a casa, a Milano.»
«Potrei farti cambiare idea…A essere sincero, detesto l’idea che tu te ne
vada prima che noi due…»
Lo guardo male.
«… ci conosciamo meglio» conclude.
«Sono lusingata» rispondo ironica.
«Senti, ti andrebbe dopo cena di andare a casa mia? Mi piacerebbe
mostrarti…»
«Ti ho già avvisato, niente farfalle!» dico puntandogli un dito contro.
Lui si mette a ridere.
«Veramente speravo di mostrarti i miei quadri. Tua zia dice che sono
“interessanti” e dal momento che anche tu sei un’artista...»
Sollevo un sopracciglio fissandolo perplessa.
«Davvero ti interessa la mia opinione?»
«Certo! Non avevo seconde intenzioni, be’, sì le avevo, ma è umano, no?»
I suoi occhi chiarissimi e le sue labbra sorridono mentre attende una mia
risposta.
«Facciamo una cosa» dico con un sorriso. «Niente quadri per stasera. Ma se
prometti di andartene presto, ti offro un caffè sul portico di casa e parliamo
un po’ della tua vena artistica.»
«Avevo sperato in qualcosa di diverso, ma accetto: in fondo da cosa nasce
cosa, no?»
«Non questa sera, Henry. Entiendes?»
Mi accarezza una mano con un pollice, un piccolo gesto, ma molto
sensuale, e fissandomi con quei suoi occhi colore del ghiaccio mi dice con
voce che mi regala un brivido inatteso: «Saprò aspettare».
9
Mezzanotte

Quando il vichingo se ne va, è appena mezzanotte.


«Ti ho promesso che me ne sarei andato presto e mantengo la promessa»
mi dice quando lo accompagno alla sua auto. «Anche perché è chiaro che la
tua mente è altrove. Spero di non aver fatto o detto qualcosa di sbagliato.»
No, non ha fatto proprio niente di sbagliato.
«Devono essere i troppi Margarita, sono molto stanca, perdonami»
rispondo con un fare rassicurante.
«Sicura che vada tutto bene?»
«Sicurissima. Grazie Henry per questa bella serata. contatore geiger
«Sono stato molto bene con te, Gioia.»
Non rispondo perché se gli dico «anch’io» temo proprio che possa
equivocare.
Si china a sfiorarmi la bocca ed è così veloce che non riesco a evitare il
contatto con le sue labbra. Una toccata e fuga che mi sorprende, ma non mi
dispiace, nonostante non mi trasmetta alcuna emozione, neppure un brivido
piccolo piccolo. La colpa non è del vichingo, che ha agito da professionista
del bacio, senza commettere errori e aggiungendo pure, come tocco di classe,
una piccola esitazione prima di toccare le mie labbra. No, la colpa è mia,
perché la mia mente in quell’attimo è già altrove. Per essere più precisi, si
trova a circa duecento metri a ovest del faro, non lontana dal punto in cui è
parcheggiata l’auto di Mr McCallun.
Sean è arrivato.
“È arrivato, e allora?” chiede quella disfattista nascosta da qualche parte
dentro di me che non fa che tarpare le ali mie e delle farfalle che mi
svolazzano nello stomaco.
Infierisce pure, la simpaticona.
“E comunque, non sarà certo arrivato da solo, carina. Ti ricordi che è
fidanzato con Miss Perfezione?” aggiunge.
E chi se lo scorda? Ma non è una buona ragione per dover cancellare Sean
anche dai miei pensieri, oltre che dalla mia vita.
***
Porto fuori i cani per l’ultima passeggiata prima di andare a dormire. Ho
infilato sopra l’abito una felpa e messo un paio di scarpe da jogging. In una
mano tengo una grossa torcia, dall’altra gli inevitabili sacchettini, nel caso
Armageddon o Paraspifferi debbano fare qualcosa.
Cammino lungo il viottolo che conduce alla strada principale e che, guarda
caso, corre di fianco alla grande casa grigia e bianca dei McCallun. Tutto
tace, tranne il mio cuore che supera i limiti di velocità senza il mio permesso;
a parte la piccola lampada sul portico, le luci sono tutte spente. Meglio così, o
forse peggio, non lo so. Passo oltre, percorro ancora un centinaio di metri,
raccatto ciò che Armageddon restituisce alla natura e faccio dietro front, con
le due bestie sempre alle calcagna. Sinché non passo di nuovo di fianco alla
casa di Sean e lì mi sento chiamare.
«Joy, sei tu?»
Joy. Mi ha chiamata Joy, come Jimmy. Ma la voce non è certo quella di un
ragazzino di dieci anni.
Dal portico una figura che non fatico a riconoscere mi fa un segno con la
mano.
Ricambio il saluto sventolando un braccio, ma non mi fermo, come se quel
segno provenisse da un vicino scocciatore e non dall’uomo che mi sta
facendo battere il cuore in modo dissennato.
A prima vista, senza motivo, senza salvezza.
Vado avanti per la mia strada, con un che di stupido e di ostinato,
stringendo il sacchettino di Armageddon tra le dita, lottando contro la crisi di
panico che sento nascere senza motivo.
Cammino, pur non riuscendo a muovere le membra; respiro, pur avendo un
groppo che mi chiude la gola. Il sangue corre nelle vene come una Ferrari in
pista, senza una sola ragione per farlo. Perché Sean a questo punto sarà
rientrato in casa, non si sarà certo preso il disturbo di seguirmi, no?
Perché mai dovrebbe farlo?
«Joy!»
Inutile che mi guardi intorno. Non c’è un’altra Joy nei paraggi.
La voce è appena dietro di me, ora. Altro che a casa.
Sì, sono davvero in preda a una specie di panico adolescenziale. Vorrei
scappare a gambe levate, invece mi fermo e mi giro, aspettando che Mr
Magnifico – così mi appare, ora, magnifico – mi raggiunga mentre i cani già
gli saltellano intorno tutti feste e scodinzolii.
Piccoli bastardelli traditori.
A dir la verità, gli saltellerei intorno anch’io se la vita di una trentaduenne
single, che in questo momento si comporta come una dodicenne, fosse
semplice come quella di Paraspifferi o di Armageddon.
Ho trascorso gli ultimi cinque giorni pensando a lui. Sognando di lui.
Vagheggiando delle sue labbra e dei suoi occhi blu come se si trattasse del
principe azzurro della mia vita, e non di un orco fidanzato una strega. E ora,
che avrei la possibilità di passare qualche istante con lui in questa notte
meravigliosa, di spingermi persino a chiedergli qualcosa di compromettente
del tipo «come stai?» che faccio? Mi rifugio dietro a una facciata di cortese
indifferenza.
«Buonasera, Mr McCallun» dico, rigida e spinosa come un cardo.
Lui inclina la testa perplesso, in un gesto familiare che mi ricorda Jimmy.
«Mr McCallun?» ripete.
«Hai forse cambiato cognome?» ribatto. Rigida, spinosa e per di più acida.
Le qualità che un uomo più apprezza in una donna, insomma. Non che mi
importi far la figura della stronzetta acida con lui, mi basta solo poter tornare
in Italia portandomi via il cuore tutto intero.
Lui ormai è vicinissimo e mi fissa ancora un po’ sorpreso.
«No, da domenica scorsa non ho cambiato cognome; è che mi illudevo che
ti ricordassi il mio nome di battesimo.»
«Sean. Me lo ricordo bene. Sei tu a non ricordarti il mio, a quanto pare, che
è Gioia, non Joy.»
«Joy. Mi piace chiamarti Joy.»
«E a me Mr McCallun.»
Mi giro e riprendo a camminare lungo il viottolo, chiedendomi se mi
seguirà o se tornerà sui suoi passi.
Mi segue.
«Jimmy non ha fatto che parlarmi di te da quando sono arrivato.»
«Mi spiace…»
«A me per niente. Mi ha raccontato delle vostre passeggiate sulla spiaggia e
di come oggi abbia giocato a calcio con degli altri bambini. Era felice ed
eccitatissimo...»
Continuo a camminare.
«Eccitatissimo, ma anche spaventato. Quando gli altri bambini gli hanno
offerto di entrare nella squadra di calcio, lui si è rabbuiato e mi ha...»
Taccio, perché mi sembra di aver oltrepassato una linea invalicabile,
privata. Jimmy è figlio suo, dopotutto, io non ne capisco un’acca di ragazzini
e non ho alcun diritto di dirgli ciò che ho sentito quando Jimmy si è stretto a
me, quando mi ha abbracciata come se volesse non lasciarmi andare mai più.
Mi chiedo se abbia mai abbracciato in quel modo suo padre, o sua madre.
Sean mi prende per un braccio e mi costringe a fermarmi e girarmi verso di
lui, non rude, ma deciso. I suoi occhi frugano i miei in cerca di spiegazioni e
non nascondono la sua angoscia.
«Ti ha cosa?»
Chiudo gli occhi e traggo un lungo respiro.
«Mi ha abbracciata, si è stretto a me come se avesse bisogno di… aiuto, di
affetto. Piangeva» rispondo.
Sento le sue dita stringersi intorno al mio braccio e anche se è buio vedo il
suo volto contrarsi.
«Il Cielo sa se quel bambino ha bisogno di aiuto» mormora. «Faccio tutto
ciò che posso per lui, ma non gli basta, non gli può bastare.»
Le sue parole tradiscono un dolore profondo, non solo preoccupazione, e
mi colpiscono in pieno petto come una staffilata.
«Mi spiace, Sean» mormoro, mentre riprendiamo a camminare.
In silenzio arriviamo in pochi minuti al faro, con la colonna sonora del
vento e del mare a far da eco ai nostri pensieri. Anche Paraspifferi e
Armageddon sembrano all’improvviso mesti e ci trotterellano intorno come i
cani ben educati che si vedono nei reality tv, dopo l’addestramento.
«Grazie di avermi riaccompagnata» dico quando siamo sul portico e poi,
con mia somma sorpresa, sento la mia voce aggiungere: «Ho voglia di una
tazza di tè. Ne vuoi una anche tu?».
Una. Tazza. Di. Tè.
Quando mai bevo una tazza di tè prima di andare a letto? Devo essere
impazzita perché so che nella sua testa piena di testosterone la mia offerta
deve essere suonata così: «Ho voglia di una sveltina, e tu?».
Avvampo. Poi, dopo un attimo di imbarazzante silenzio, me ne esco con un
patetico «Adoro il tè» nel tentativo di rendere più plausibile la mia offerta.
Non che questa spiegazione basti a togliergli quell’espressione dagli occhi.
Sarà anche colpa del buio, ma le sue pupille appaiono dilatate, intense, forse
perché pensa che io penso che lui pensi…
Diamine! Meglio che io smetta di pensare, tout court.
Dal momento che Mr Magnifico non ha ancora risposto – non valgo
dunque neppure il tempo di una sveltina? – ne approfitto per aprire la porta
che dal portico conduce in soggiorno, mentre continuo a elaborare
considerazioni inutili sul tema sveltine. Del tipo: uno che è abituato alla
perfezione di Grace potrebbe mai prendere in considerazione una come me,
anche se solo per una cosa di tre minuti?
All’improvviso mi sento uno schifo.
Eppure, prima, a cena, il vichingo mi ha fatto sentire desiderata e
corteggiata. Possibile che ora vicino a Sean, il cui solo pensiero mi suscita
sospironi e desideri vietati ai minori, io mi senta la donna meno sexy del
mondo, il tipo “neanche su un’isola deserta, grazie?”.
Sarà perché indosso una felpa XL che mi arriva quasi alle ginocchia e
perché ai piedi porto un paio di sneakers che certo non mi slanciano. Sarà
perché i miei capelli sono arruffati dal vento e perché il trucco mi deve essere
colato facendomi assomigliare a un pugile suonato o, nel migliore dei casi, a
un panda. O forse sarà perché ancora tengo con disinvoltura in mano il
sacchettino di Armageddon che sarà pure biodegradabile, ma certo non è
profumato.
Ci sono momenti in cui suonare la ritirata è la sola strategia vincente, e
questo è uno di quelli. La tazza di tè può aspettare.
«Buonanotte, Sean» dico.
Non faccio neppure in tempo a fare un passo oltre la soglia che lui mi posa
una mano sulla spalla e me la stringe appena. Un gesto dolce, intimo che
dovrebbe al massimo regalarmi un brivido, non provocarmi una reazione
come se a toccarmi fosse stato Freddy-Nightmare-Krueger con le sue
unghione d’acciaio.
Una scossa ad alta tensione, insomma, che evidentemente gli trasmetto,
perché anche lui sussulta di brutto.
Ecco, ora gli ho anche fatto venire un colpo. Come mai non se l’è già data a
gambe?
«Caspita se sei tesa!» esclama chinandosi leggermente verso di me, più
rigida di un baccalà. Le sue parole si infrangono sulla mia nuca e mi
provocano altri piccoli, piacevolissimi brividi.
«Scusami Joy, non volevo farti paura.»
«Neanch’io» rispondo.
Mi giro lentamente verso di lui e gli sono così vicina da sfiorarlo. Vorrei
fare un passo indietro, ma non posso perché i suoi occhi mi incatenano a lui,
cercano risposte che non ho. Il suo sguardo, dapprima serio e quasi
indagatore, in un battito di ciglia si addolcisce e diventa sleale, seducente,
intimo, tanto da ridurre la mia volontà a una mera ombra.
Quando Sean mi guarda così non mi sento una schifezza, mi sento una
regina, ma non ho alcun potere.
Non ho corona, né scettro, né sudditi. Il potere è tutto nelle sue mani e lui lo
sa. Trattengo il respiro per cercare di fermare un tremito che non riesco a
controllare e aspetto di tornare in possesso di me stessa. Non so cos’altro
fare.
Un sospiro e i suoi occhi scivolano sulle mie labbra, i miei sulle sue.
Sarebbe l’attimo perfetto per un bacio se quella peste di Paraspifferi non
decidesse proprio in quell’esatto, preciso, ineluttabile momento di sfidare
Sean a singolar tenzone: tutto scodinzolante lascia cadere una schifosissima
pallina da tennis intrisa di bava ai suoi piedi, esibendosi pure in un «woof!»
risentito.
Che tempismo, la bestiaccia!
La cosa non mi riempie certo di gioia, ma almeno ricomincio a respirare.
Facciamo un passo indietro e, fissando Paraspifferi che trepida in attesa,
scoppiamo a ridere.
«Va bene Montmorency, l’hai voluto tu!» dice Sean e, nonostante sia
davvero disgustoso, raccoglie quell’orrore e si esibisce in un lancio degno di
Baby Ruth. La palla vola oltre la balaustra del portico seguita da Paraspifferi.
Addio bacio. Addio atmosfera magica.
Amen.
«Se vuoi la verità» dice Sean, «detesto il tè, ma una birra l’accetterei molto
volentieri, e anche un lavandino per lavarmi le mani.»
Che faccio?
Scavo in fondo ai neuroni alla ricerca di una scusa per chiedergli di
andarsene, ma… dovrà pure lavarsi le mani, no? E poi, davvero, chi ha voglia
di mandarlo via?
«Vada per la birra» rispondo con un filo di voce e un sorriso teso come
quello del Joker, mentre il sangue riprende la sua folle corsa in formula uno e
io vedo scorrere nella mente i possibili finali di questo film.
«Hai voluto la bicicletta? Ora pedala!» mi diceva mamma da bambina.
Ho voluto Sean McCallun e ora che faccio, pedalo?
Entrambi ci laviamo le mani nel lavello della cucina, poi prendo due birre
dal frigo e, con una scusa patetica, corro in camera a sistemarmi. Una
pettinata ai capelli, un velo di fard, un po’ di kajal, uno spruzzo di profumo,
niente di molto evidente, ma tutto molto necessario. Mi tolgo felpa e sneakers
e mi rimetto il golfino nero taglia Barbie e i sandali con tacco dieci che
indossavo alla cena col vichingo. Tempo impiegato dalla fata Smemorina per
fare bidibi bodibi bu e rendermi decente, un minuto e mezzo. Torno in cucina
e Sean sta aprendo le birre. Si gira e mi squadra in giù, in su e poi ancora in
giù prima di incatenare i suoi occhi ai miei e chiedermi senza girarci intorno:
«Sei andata vestita così a cena con Henry?».
Lo guardo stupita.
«E tu cosa ne sai con chi sono andata a cena?»
«Ho riconosciuto la sua auto quando ti ha riaccompagnata a casa.»
Elementare, Watson!
Poi aggiunge con un sorriso divertito: «E devo ammettere che sono stato
molto contento quando ho visto che ritornava indietro quasi subito».
Non so se essere arrabbiata o lusingata.
Prendo due bicchieri dalla credenza e li metto sul tavolo.
Lui scuote la testa e mi passa una bottiglia, poi porta la sua alle labbra.
Mentre beve non riesco a togliere gli occhi dal suo pomo d’Adamo che va su
e giù in modo ritmico, sensuale.
Possibile che io non abbia altro per la testa stasera? Forse l’aragosta è
davvero afrodisiaca, dopotutto.
Bevo una sorsata di birra poi dico: «Mr McCallun, con chi esco non sono
fatti tuoi».
«Lo so, non dovrebbero, ma...»
In quel momento gli suona il cellulare, proprio dopo il “ma”. Guarda sul
display chi è, alza gli occhi al cielo, mormora un frettoloso «scusa» e
risponde.
«Grace» dice. «Sei già a New York?»
Ecco. La Principessa in persona. A New York. Questa almeno è una bella
notizia.
«Così hai accettato» dice lui. E aggiunge: «Grace Adams, nuova stella della
ABC. Congratulazioni».
Il tono della sua voce è amaro, sarcastico.
«E quando devi trasferirti?»
Le rotelle nella mia mente cominciano a girare. Grace, che ho appena
scoperto chiamarsi Adams di cognome, deve dunque trasferirsi. A New York
probabilmente, per andare a lavorare alla ABC. Nientemeno! Che sia una
anchor, una produttrice? Forse, concludo, è l’esperta in streghe e vampiri.
Meglio che me ne vada prima che il mio interesse per ciò che quei due si
stanno dicendo diventi troppo palese.
Prendo la mia birra ed esco sul portico, pensando che quella donna deve
essere una strega se lo ha chiamato proprio nel preciso momento in cui lui
stava per dirmi qualcosa che ora non mi dirà più. “A New York ci sarà andata
con la scopa” penso acida.
Ma il mondo, qua fuori, ha un sapore diverso. La serata è magnifica e potrei
rimanere ore a fissare il nero velluto del mare e del cielo, a bearmi del
profumo dell’aria salmastra, ad ascoltare la musica delle onde che si
infrangono sulla battigia (e il russare di Paraspifferi, che è rientrato nel
frattempo alla base con l’orrida pallina). Forse è questo che dovrei fare,
liberare la mente e godermi questo momento di comunione totale con la
natura. Molto new age. E invece no, non ci penso neppure. Mi faccio il
sangue amaro pensando che Sean è ancora al telefono con Grace e che se non
mi raggiungerà subito rientrerò in casa, lo prenderò per il bavero e lo
trascinerò fuori di peso. O forse gli butterò le braccia al collo e lo stordirò con
il bacio più bacio che abbia mai ricevuto in vita sua.
E al diavolo la strega.
I secondi passano. Tic e tac, tic e tac.
Che avranno mai da dirsi quei due?
Mi accoccolo sul dondolo con le gambe rannicchiate sotto di me e in quel
momento lui arriva.
«Tutto bene?» gli chiedo.
«Non proprio. Ma ora preferirei non pensarci.»
«Scusa, non volevo essere invadente.»
Mi lancia ancora quello sguardo pieno di domande e privo di risposte, poi
mi chiede scusa mostrandomi il cellulare, se lo rinfila in tasca e mi si siede
accanto. E visto che una buona metà del dondolo è occupata dalle mie gambe,
non ha altra scelta che sedersi molto vicino a me.
Per un po’ non diciamo una parola, dondoliamo appena avanti e indietro e
fissiamo il mare davanti a noi, come se fossimo due attori che stanno
concentrandosi prima di entrare in scena. Poi lo spettacolo inizia.
Riprendiamo dalla scena che Paraspifferi, con grande tempismo, aveva
interrotto.
Il suo braccio si allunga, mi cinge le spalle e mi attira a sé con naturalezza,
come se lo avesse fatto mille volte prima di allora. Io, con la stessa
naturalezza, mi lascio andare, appoggio la testa sulla sua spalla e respiro il
suo profumo, che è buono, che è suo. Qualcosa dentro di me, forse il DNA o
qualche ricettore chimico dal nome impossibile, deve averlo giudicato come
l’uomo giusto per me perché all’improvviso mi stanno arrivando segnali
pericolosi da corpo, testa, cuore, stomaco e più in basso ancora, che mi
spingono verso di lui.
Se non lo mando via adesso, non avrò più la forza di farlo.
Mi stringe a sé e io penso che tra un secondo ci baceremo con la stessa
voracità di due golosi che si buttano su una Sacher, ma lui mi sorprende,
baciandomi a lungo non le labbra, ma la fronte. Un gesto che non è affatto
casto e puro, ma tanto erotico e sensuale che mi fa girar la testa e socchiudere
la bocca in cerca di ossigeno. Le sue labbra sono così morbide e calde e
umide sulla mia pelle che mi strappano un gemito imprevisto.
«Mr McCallun…»
«Miss Joy» replica lui divertito, regalandomi un sorriso che mi toglie il
fiato.
“Se non lo respingo adesso, non avrò più la forza di farlo” continuo a
ripetere come una filastrocca.
Lui appoggia la fronte sulla mia e i nostri occhi si fondono in un unico
sguardo. I suoi, quasi neri nella notte, sono colmi di desiderio e mi invitano a
mandare al diavolo il buon senso residuo – proprio poco, in verità – e a
limitare da lì in poi il mio vocabolario a una sola parola.
Sì.
Sì. Sì. Sì. Un sì a 360 gradi che non dia adito a dubbi sulle mie intenzioni.
E mentre sto per pronunciarlo senza che alcuna domanda mi sia stata posta,
lui mi rifila un altro bacio sulla fronte, molto meno sensuale questa volta,
toglie il braccio dalla mia spalla e con un sospiro si alza in piedi.
Oh!
Mi rimangio in fretta e furia il mio sì da donna perduta.
Qualcosa non va. Decisamente qualcosa non va, perché, e mi si perdoni il
pragmatismo, quello che vedo davanti a me è un uomo in lotta con la sua
forza di volontà, ansimante e decisamente eccitato.
Che ha deciso di dire di no.
Distolgo in fretta lo sguardo dalla zona che dovrebbe essere off limits per
una signora e lo alzo sino a quando non mi perdo negli occhi di Sean che
ancora mi sta fissando come se fossi una fetta di Sacher ricoperta di panna
montata. Ansima lui, ansimo io: sembriamo una coppia di asmatici in crisi di
astinenza da Ventolin.
Scuote la testa.
«Non posso Joy» mi dice, e la sua voce trema, come le sue mani.
«Non puoi cosa, Sean?» chiedo con voce non meno tremula, sicura che sia
stata la telefonata della strega a fargli cambiare idea.
«Cosa? mi chiedi. Ti rispondo subito, e in modo molto chiaro.»
Si avvicina e piegandosi verso di me si appoggia al sedile del dondolo,
imprigionandomi di fatto fra le sue braccia. Siamo così vicini che sento il suo
calore avvolgermi e il suo respiro accarezzarmi il viso.
Pessima scelta di posizione per uno che si prepara al gran rifiuto.
«Non posso baciarti, sollevarti di peso come un uomo delle caverne,
buttarti su un letto e fare l’amore con te per tutta la notte. Ecco cosa vorrei,
ma non posso fare.»
«Meglio, perché non sono certa che essere sollevata da un cavernicolo sia
proprio quello che io vorrei» dico, solo per nascondere il magone che sta per
divorarmi. Non certo per il sesso mancato, ma per qualcosa di molto più
importante che forse rimpiangerò per tutta la vita.
Mi rifila il classico sguardo “chi vuoi prendere in giro?”.
«Sei una pessima attrice, Joy. Un attimo fa volevamo la stessa cosa, non
cercare di negarlo.»
Si allontana di qualche passo, in attesa di una mia risposta.
«È vero, no, non lo nego, Sean, ma in fondo…»
Lui continua a fissarmi, serio. Troppo.
«In fondo non è successo niente» continuo con un tono più leggero.
«Probabilmente è stato solo l’effetto degli intrugli new age che zia Ari ha
sparso in ogni angolo della casa, per John, sai. Dice che sono “utili
all’amore”. Chissà che non abbia ragione, per una volta?»
«Già» dice lui molto poco convinto.
Gli sorrido. Meglio sorridere che scoppiare a piangere.
Si siede accanto a me e mi prende la mano.
«Ho bisogno di tempo, Joy.»
«Lo dici come se io mi aspettassi qualcosa da te.»
«Non è così?»
«No, almeno non credo.» Chiudo gli occhi e mi appoggio allo schienale,
abbandonandomi al nulla.
«Se solo ti avessi incontrata prima, le cose sarebbero diverse per noi, ora.
Vorrei poterti spiegare…»
Ma non spiega.
Lo guardo in cerca di un indizio, ma mi sforzo di non chiedere, mentre una
di quelle dannate farfalle che non smettono di svolazzarmi nello stomaco se
ne arriva in gola e non va più né su né giù.
Se solo mi avesse incontrata prima. Perché le cose sarebbero diverse?
Ora mi viene quasi da singhiozzare, come una bambina delusa o forse come
una donna isterica.
Prima. Incontrata prima di cosa?
Dio, non sono penosa? Faccio la brava e cerco di comportarmi da adulta. Ci
provo almeno.
«Senti, non devi darmi nessuna spiegazione.» Fin qui tutto bene, no?
Continuo. «È stato solo un momento di debolezza per entrambi, ma non è
successo nulla. Diamo la colpa al mare, a questo cielo, alla stramaledetta luna
e facciamola finita.»
«Credevo fosse colpa degli intrugli new age di tua zia» dice lui
sorridendomi.
«Già, quasi mi dimenticavo del loro straordinario influsso. Una ragione in
più per metterci una pietra sopra. E poi, presto me ne andrò, sempre che zietta
torni come promesso a fine settimana.»
«Te ne vai a causa mia?»
E ora che cosa rispondo?
«No, ma figurati!»
Ma figurati!
«Ho degli impegni di lavoro da rispettare, e sono terribilmente indietro»
mento.
Non mi pare affatto convinto di questa spiegazione. I suoi occhi cercano nei
miei un punto debole.
«Che lavoro fai? Domanda stupida, lo so già fin troppo bene.»
«Davvero?» chiedo stupita.
«Te l’ho già detto, non facciamo che parlare di te al telefono, Jimmy e io.
Di te e solo di te. Joy ha fatto questo, Joy ha passato la mattina in libreria con
Joanna, Joy mi ha fatto giocare con i cani…»
«Oddio, davvero ha monopolizzato le vostre telefonate parlando di me? Mi
spiace tanto, non lo sapevo!»
«A me non spiace affatto. Anche perché mi è apparso allegro, rilassato,
come non era più da tanto tempo. Me lo ha confermato anche Mrs Hall. E
devo ringraziare te, per questo.»
«Non ne capisco niente di ragazzini, non credo proprio che tu debba
ringraziarmi. Ma Jimmy è speciale. Mi piace.»
«Mi ha detto anche che lo hai ritratto.»
«È vero, ed è stato bravissimo. Fermo e immobile come un soldatino.
Esattamente per cinque minuti.» Sorrido, pensando all’espressione intenta di
Jimmy mentre lo ritraevo. «Ho lavorato in questi giorni, anche se non quanto
avrei voluto; ho buttato giù schizzi di Cape Love e delle persone che vi
abitano. Questo villaggio è l’ambientazione ideale per il libro che ho in
mente.»
«Allora non devi andartene subito. Ci sono posti straordinari che potrei
mostrarti nei prossimi giorni.»
Lo fisso con la tipica espressione “ti pare una buona idea?” ma lui fa finta
di niente.
«Questo angolo di terra non ha segreti per me. E poi, rimarrò a Cape Love
ancora per qualche giorno, per passare un po’ di tempo con Jimmy e anche
per concludere degli affari di cui devo occuparmi personalmente.»
Per un attimo rimaniamo in attesa che accada qualcosa, quasi immobili su
un dondolo che pure non si muove. Ma non succede nulla.
«Non so cosa farò e dove sarò nei prossimi giorni, ma grazie mille per
l’offerta» dico. Poi subito aggiungo: «Forse ora è meglio che tu te ne vada».
«Sì, forse è meglio.»
Si alza.
«Grazie della birra.»
Gli sorrido.
«Buonanotte, Sean.»
«Buonanotte, Joy.»
Se ne va.
Io rimango.
Sola, con quella farfalla che mi svolazza ancora in gola.
E con il nome di Grace Adams pronto per Google.
10
Sabato 29 giugno, una bellissima giornata

Avevo letto che nel Maine la pioggia non è un optional, ma quando mi


sveglio è un altro splendido giorno. Sole, cielo di un blu imbarazzante, mare
increspato dal vento. È il vento forte, proveniente da nord, che rende questa
giornata speciale per far volare gli aquiloni.
Appena alzata li vedo già dalla finestra della mia camera da letto svolazzare
colorati sopra la scogliera e, quando poco dopo esco di casa con i due cani,
trovo già molti appassionati, che qui chiamano kiter, radunati sul
promontorio. Il cielo è un meraviglioso spettacolo multicolore. Così, col naso
in aria, mentre Armageddon e Montmorency scorrazzano allegri, mi avvicino
al gruppo di kiter e mi siedo su una roccia ad ammirare la loro maestria. Se
state pensando al giocattolo di carta che portavate da bambini in spiaggia,
siete sulla cattiva strada, perché qui gli aquiloni sono un affare serio, giganti
tecnologici che vengono pilotati non attraverso quell’odioso filo di nylon che
finiva per attorcigliarsi sempre intorno alla vicina di ombrellone, ma tramite
un sistema di fili non certo semplice da manovrare. Nonostante porti gli
occhiali da sole, schermo gli occhi con la mano per guardare il cielo sopra di
me: animali, supereroi e complesse figure geometriche si esibiscono in
difficili acrobazie pilotati, non senza fatica ed esperienza, da una ventina di
kiter, per lo più uomini adulti, molti con figli in totale adorazione al seguito.
Meglio non tentare la sorte: con questo vento e con quegli aquiloni i bambini
verrebbero trascinati via di peso. Col telefonino scatto delle foto – devo
assolutamente mettere questa coloratissima scena nel mio libro – e intanto
bevo il caffè che mi sono riscaldata in fretta e furia nel microonde.
Sean.
Non me lo sono dimenticato. Non ho fatto che pensare a lui per tutta la
notte, a lui e a quella frase sibillina che mi sta facendo impazzire. Perché non
te ne sei stato zitto, Sean?
«Se solo ti avessi incontrata prima, le cose sarebbero diverse per noi, ora.
Vorrei poterti spiegare…»
Per noi. Come se ci fosse un noi.
Non so cosa sia successo una settimana prima del matrimonio di zietta,
Sean, ma so di certo che c’entra la bellissima e molto in carriera Grace
Adams, nuova produttrice della ABC, come si dice in lungo e in largo oggi su
Internet. Così in carriera da aver annunciato in rete la sua decisione di
trasferirsi a New York prima di comunicarlo al te, il suo fidanzato. E tu non
te ne sei neppure accorto.
Ma non sono fatti miei, anche se vorrei che lo fossero.
Spingo lo sguardo fino alla grande casa grigia e bianca, come ormai è mia
abitudine, e penso che Sean stia ancora dormendo, senza di me.
Prendo ancora un paio di foto, finisco il caffè che, sì, è davvero pessimo, e
mi alzo per tornare a casa a cambiarmi. Joanna mi aspetta in libreria alle nove
e mezza e non ho la minima idea di che ore siano. Controllo sul cellulare, che
naturalmente porta ancora l’ora italiana. Dopo il solito attimo di smarrimento,
devo fare una semplice sottrazione (meno sei ore) per sapere che sono appena
le otto. Decido di fermarmi a ancora un po’ a godermi lo spettacolo, anche
perché Paraspifferi e Armageddon, che sembrano essere vecchi amici di tutti i
presenti, si stanno divertendo come due matti a correre intorno ai kiter e ad
abbaiare agli aquiloni.
Indosso un paio di bermuda troppo grandi, sneakers, felpa gigante e un
cappellino da baseball rubato a zietta. Con la coda di cavallo e gli occhiali da
sole, sarei quasi irriconoscibile. Ma non per Jimmy che mi individua da
lontano e sbracciandosi mi chiama a pieni polmoni.
«Joy, Joy, siamo qua!»
“Siamo qua.” È la prima persona plurale che mi toglie il respiro. Mi giro e
li vedo, figlio e padre, vestiti quasi uguali, bermuda tipo militare, T-shirt
bianca e cappellino dei Portland Sea Dogs, la squadra di baseball della
capitale. I loro occhi sono nascosti da un paio di occhiali in perfetto stile
Blues Brothers, gli stessi che indosso anch’io. Avanzano reggendo ognuno un
capo di un grandissimo aquilone che sembra impaziente di spiccare il volo.
Armageddon e Paraspifferi scodinzolano tra le loro gambe, felici che altri
invitati si uniscano alla festa.
Sono felice anch’io.
Mi alzo e rispondo al saluto con un cenno della mano mentre Jimmy,
inseguito dalle due bestie, con uno scatto si mette a correre verso di me. Suo
padre, intanto, prosegue verso il bordo del promontorio, dove il vento è più
forte, stringendo l’aquilone che sembra volergli scappare via. Nonostante gli
occhiali scuri, so che mi sta guardando.
Jimmy arriva e mi placca come un quarterback – un abbraccio, secondo lui
– sprizzando felicità da tutti i pori. Sempre tenendosi stretto a me spara a
raffica una serie di frasi di cui distinguo solo alcune parole: “aquilone”, “qui
tutta la settimana”, “barca a vela”, “picnic”, “cinema”, “Grace è a New
York”.
Ho capito bene? Sean rimarrà a Cape Love per tutta la settimana, mentre la
strega è a New York? Perché non ci rimane a New York?
Ancora quelle farfalle, ancora un tuffo al cuore.
Poi Jimmy mi afferra la mano e mi tira, nonostante le mie proteste.
«Vieni, andiamo da papà, vieni.»
«Non posso, Joanna mi aspetta…»
«Solo cinque minuti, dai!»
Come dire no a un bambino tanto delizioso, soprattutto se ha un padre
come Sean?
Lui, intanto, si è trovato uno spiazzo ancora libero in mezzo agli altri kiter
e, seduto per terra a gambe incrociate, sta districando qualcosa e montando
dei pezzi, forse la coda, sul corpo principale dell’aquilone. Appena si accorge
del nostro arrivo si interrompe, mi guarda, mi sorride, mi saluta. Un
semplicissimo «Ciao Joy» ma la sua voce è così calda e le sue labbra sono
così invitanti che mi giunge come una proposta indecente.
Wow. Doppio wow. Triplo wow.
Eccolo, ancora quel dannato sospiro che mi sale dallo stomaco e sembra
esplodermi dentro ogni volta che lo vedo.
“Il principe che mi porterà via da te, mamma.”
«Ciao Sean» rispondo.
«Mi dai una mano tu, visto che Jimmy sembra essere sparito?»
«Come sparito?» Mi guardo intorno e in effetti se n’è già scappato via e
quando finalmente lo vedo è insieme ad altri ragazzini, tutti in adorazione di
una grande balena bianca che nuota nel cielo. Ogni tanto si volta verso di noi
e ci fissa con una strana intensità, come se ci stesse controllando.
«Sembra abbia trovato degli amici» dico. Poi mi inginocchio di fianco a
Sean.
«Cosa devo fare?» gli chiedo.
La barba non rasata gli ombreggia il volto e devo trattenermi perché ho una
voglia disperata di passargli una mano sul viso e sentire che effetto fa sulla
mia pelle.
«Ecco, reggi questi, per favore.»
Mi passa un paio di fili e io li tengo stretti uno per mano, ubbidiente, felice
di indossare gli occhiali da sole, così posso mangiarmelo con gli occhi, visto
che sarà il massimo che potrò mai fare con lui dopo il suo niet di ieri notte.
Ma… di solito non è la donna a respingere le avances? A fare la preziosa?
Forse mi ha scaricata perché crede che io sia una che ci sta con tutti? Come
si permette? Dio, è uno snob! Odio gli snob.
«Passami il filo di destra per favore.»
«Eccolo.»
Glielo passo e mentre lo lega a un occhiello che pende dal corpo centrale
dell’aquilone mi chiede: «Hai dormito bene? Perché io non ho dormito
affatto. E gli intrugli di tua zia non c’entrano per niente».
«Non ci farei troppo conto, tu non la conosci bene come me, zietta.» Tento
di buttarla sul leggero perché la sua aria così seria mi mette a disagio.
Sì, deve essere uno snob.
«Comunque» aggiungo senza riuscire a trattenermi, «neanche io ho dormito
molto. Forse non avremmo dovuto bere una birra gelata così tardi.»
L’ho detto davvero? La birra gelata? Che faccia tosta!
Come se una misera birra potesse aver avuto a che fare con la mia e la sua
insonnia. Con gli occhi spalancati nel buio. Con il continuo rigirarsi in un
letto troppo vuoto. Con il desiderio che brucia anche in questo momento. Con
le domande infinite sul domani. Con i se e con i ma. In altre parole, con una
notte d’inferno. Non solo per me, a quanto pare, perché Sean smette di
trafficare e mi guarda, incredulo, quasi in collera. Le labbra sono leggermente
aperte, come se avesse appena finito di dire «Che cavolo stai dicendo, Joy?»,
mentre il pomo d’Adamo sembra animato di vita propria, nervoso. Si toglie
gli occhiali, poi allunga una mano e sfila anche i miei. Io rimango immobile,
impietrita. I suoi occhi, dello stesso azzurro del cielo, sono incollati ai miei e
forse ci resteranno per l’eternità se non farò qualcosa. Ho voglia di attaccarmi
a uno di quegli aquiloni e volare via. Già, ma perché dovrei scappare, io?
Quando ero pronta a starci? È lui che ha cambiato idea all’ultimo, è lui lo
snob, non io.
«La birra? Tu dici che è stata la birra a tenerci svegli entrambi? Di solito
concilia il sonno, non fa certo rimanere svegli» dice, un sorriso sarcastico
sulle labbra. Dio quanto vorrei prenderle tra le mie e succhiarle appena.
Come reagirebbe Mr Magnifico se lo facessi?
È ovvio che la sua sia una domanda retorica, perché non aspetta una
risposta, scuote la testa, fa un sorrisetto di compatimento, si rinfila gli
occhiali e torna a trafficare con fili e ganci.
Rimango a fissarlo, sino a quando ripete «filo della mano destra» come se
dicesse «bisturi».
Glielo passo, lui ci fa qualcosa, poi dice «filo di sinistra» rifà la stessa
operazione, quindi si alza e mi ordina di mettermi dietro di lui.
«Papà aspetta, papà!»
Jimmy arriva di corsa e si sistema tra me e Sean, attaccato alle gambe del
padre. C’è talmente tanto vento che non serve correre per far decollare…
«Ehi» urlo entusiasta, «ma è il Millenium Falcon! C’è anche Han Solo?»
Padre e figlio si girano a guardarmi, poi si scambiano un’occhiata di intesa
che non capisco. Il Millenium Falcon (l’astronave di Han Solo in Guerre
Stellari, per chi non lo sapesse) decolla e… sì, è un vero spettacolo, sembra
pronto per il salto nell’iperspazio. Sean allenta i fili, poco per volta, per farlo
salire ancora più in alto, fatica quasi a tenerlo e deve spesso aggiustare la
propria posizione per controbilanciare la forza del vento. Con l’aquilone
ormai in cielo, Jimmy e io non siamo più costretti a rimanere dietro Sean e i
miei occhi scendono poco per volta dal Millenium Falcon sino a fissarsi su
Mr Magnifico. Che è un gran bel vedere, con tutti quei muscoli in tensione
per lo sforzo. Non è una muscolatura pompata, la sua, ma naturale,
armoniosa, sciolta, anche se si vede che in palestra o a spaccar legna ci va, e
parecchio. Le sue sono braccia che mi piacerebbe sentire strette intorno alla
vita o alle spalle, infondono sicurezza solo a guardarle. Come se non
bastassero le braccia di Sean a distrarmi dal volo del Millenium Falcon, i
bermuda gli scendono sotto la vita e il vento gli solleva un po’ la T-shirt. Non
mi perdo certo lo spettacolo inatteso. Il suo addome è piatto e muscoloso e
l’ombra dorata di peli, che dall’ombelico scende nascosta dai bermuda, mi fa
venire pensieri inopportuni.
“Ehi, c’è un bambino qui nei paraggi” mi dico.
Distolgo lo sguardo, quasi avessi la sensazione che Sean possa sentirlo su
di sé come una carezza per nulla innocente, divento rossa al pensiero e, per
non cadere in altre tentazioni, mi decido a tornare a casa. Devo ancora
vestirmi, in fondo, e Joanna mi aspetta in negozio e le gentili e deliziose
signore anziane che ormai visito ogni giorno, aspettano una mia visita, con –
ahimè – il caffè pronto.
«Devo andare!» urlo per farmi sentire sopra il frastuono degli aquiloni che
sbattono nel vento.
«Non vuoi provarci, prima?» chiede Sean.
Lo guardo smarrita, pensando che in realtà vorrei provarci, ma che non è
proprio il caso visto dove siamo.
Lui sorride, un sorriso malizioso che mi rivolta dentro.
«Intendevo, non vuoi provare a far volare l’aquilone?»
«Dai, Joy, prova. È fantastico!» gli fa eco Jimmy.
«Ok» dico, preoccupata come sempre quando devo affrontare qualcosa di
nuovo.
Sean mi passa i due manipoli e per poco il Millenium Falcon non mi
trascina in cielo con Han Solo e Chewbacca. Non volo via, non
preoccupatevi, anche perché Sean si è piazzato dietro di me e mi sta
stringendo forte, come soli pochi minuti prima avevo sognato che facesse,
anche se nelle orecchie non mi bisbiglia frasi appassionate, ma mi suggerisce
cosa fare per manovrare l’aquilone. Tira di qua, tira di là, brava, vai così, sì,
cose del genere. Poco per volta ci prendo gusto e scoppio in una risata di pura
felicità.
«Hai ragione, Jimmy» urlo, «è bellissimo!»
Lo è davvero.
Anche se ancora non so se sto parlando dell’aquilone o del modo in cui suo
padre continua a stringermi e a mormorarmi nell’orecchio parole che, con un
pizzico di malizia, potrei anche equivocare. Anche perché se fino a pochi
secondi prima il bacino di Mr Magnifico aveva la decenza di non sfiorarmi,
ora è appiccicato al mio lato B come se fossimo Patrick Swayze e Cynthia
Rhodes (molto più brava di Jennifer Grey) in Dirty Dancing. Con le dovute e
inevitabili conseguenze.
OH!
Forse è proprio meglio che vada.
«Devo andare» sbraito, mentre un’onda di calore mi attraversa dalla testa ai
piedi e all’improvviso fatico a respirare, anche se di ossigeno lì intorno ce n’è
davvero tanto.
«Non ancora» mormora lui, «ora il vento è troppo forte perché tu possa
ripassarmi i manipoli.»
«Manovro io, manovro io!» urla Jimmy.
«Non ancora, Jimmy, stai lontano!» gli risponde Sean, con un velo di
preoccupazione nella voce.
Io, intanto, sono ancora stretta fra le sue braccia, in una situazione sempre
più imbarazzante. Per me e per lui che sta lottando per rimanere con il bacino
a distanza di sicurezza, senza riuscirci affatto, peraltro.
«Sean, ti prego» lo imploro quasi.
«Scusa, credimi, sono più mortificato di te» mi sussurra in un orecchio.
Gli credo, ma non rispondo – meglio sorvolare – e quando infine urla
«ora!», gli ripasso i manipoli con circospezione perché, se dovessero
scapparci di mano, potrebbero colpire qualcuno e non fargli certo del bene.
Sono libera, ma ancora sento il calore delle sue braccia e di qualcos’altro su
di me e ho l’impressione che sarà difficile cancellarne il ricordo.
«Si è fatto tardi, meglio che vada, ciao e grazie!» dico come se nulla fosse
successo e mi chino a baciare Jimmy sulla guancia.
«Aspetta!» strilla il piccolo. Poi guarda in alto verso il padre e gli chiede:
«Papà, Joy può venire al cinema con noi a vedere L’uomo d’acciaio,
stasera?».
Sean si gira e mi fa: «Ti piacerebbe?».
E non che mi venga in mente di fare un po’ la preziosa. «Sì!» dico senza
esitare.
«Bene, si parte alle sei, allora.»
«Sarò pronta.»
Recupero Paraspifferi e Armageddon, che non hanno mai smesso di fare la
spola tra i vari kiter, e correndo come una ragazzina dietro di loro me ne
torno a casa.
Il mondo mi pare all’improvviso molto confuso, ma magnifico.
***
Mi cambio, faccio uno straccio di colazione – anche se non mi va giù niente
– poi, con i cani a seguito, raggiungo Joanna in negozio.
Non ha l’aria felice. Dopo un saluto frettoloso, mi dice: «So per certo che la
prossima settimana Mr Cannnigham, il proprietario del negozio, incontrerà
un possibile acquirente… Se vende, addio libreria».
Le prendo una mano, cerco di consolarla.
«Troverete una soluzione, ne sono certa. Zia Arianna ne è al corrente?»
«Non disturbo certo la sua luna di miele per darle una preoccupazione in
più. E poi, a Indian Island i cellulari non sempre prendono.»
«Lo so bene, ho provato a chiamarla ogni giorno, senza successo. Ma
domani dovrebbe rientrare a Cape Love, no?»
Joanna sospira, distoglie lo sguardo e torna a sistemare il cartello con la
scritta romance sullo scaffale delle novità.
Comincio a sentire puzza di bruciato.
«Joanna, per caso tu l’hai sentita?»
Nicchia e cambia discorso.
«Così ti sembra che possa andare bene?» mi chiede indicando il cartello
che pende tutto da un lato.
«Joanna! Hai sentito mia zia?»
«Be’, sì, ecco…»
«Ecco cosa?»
«Mi ha chiamato ieri per dirmi che sarebbero rimasti al villaggio Penobscot
un’altra settimana. Devono incontrare i parenti di John, il consiglio degli
anziani e gli sciamani. Un matrimonio implica molti impegni nella tribù.»
«E se gli impegni li avessi anch’io?» sbotto. «Quasi quasi trovo qualcuno
che si occupi di Armageddon e Montmorency e me ne vado. Possibile che zia
Arianna non cambi mai? Che non abbia ancora imparato a rispettare il
prossimo?» Che poi, sarei io.
Visto che l’ho presa male, Joanna finge un malessere. Si accascia su una
sedia tenendosi la pancia e respira come si vede nei film quando le donne
sono in travaglio. Mi ricorda un treno a vapore in partenza: fffu fffu fffu. Una
bella messa in scena, non c’è che dire. La guardo male e lei smette subito.
«Anche io ho bisogno che tu rimanga!» protesta con una smorfia di dolore,
quasi che il piccolo avesse cominciato a ballare la break dance.
Alzo gli occhi al cielo ed esco dal negozio. Solo un momento, per
calmarmi, per riflettere.
Da una parte sono arrabbiata perché, ancora una volta, zia Ari mi ha
manovrata, senza dimostrarmi il minimo rispetto. Con quale finalità l’abbia
fatto, non so, anche se sono certa che non sia quella di tenere compagnia ai
suoi “piccolini”. Zia ha sempre un approccio laterale alle cose che spesso
sulle prime non capisco, molto spesso neanche dopo. D’altra parte, penso non
appena la rabbia mi sbolle, se zia non torna potrò rimanere un’altra settimana
a Cape Love, cosa che, a rifletterci meglio, non so se sia proprio saggia, visto
che il mio principe-orco è già promesso a un’altra principessa.
Mumble mumble.
Ma c’è poco da pensare, il dado è già tratto, ed è stata la manina di zietta a
lanciarlo.
Rientro in negozio insieme a una cliente e Joanna balza in piedi sulla sedia
come se non fosse mai stata meglio in vita sua. Tutto sommato ne sono felice
(perché il dubbio che non fingesse e stesse per spadellare il piccolo in
negozio in fondo ce l’avevo) e tiro un respiro di sollievo.
«Vado a trovare le signore in giallo» le dico, e parto per andare a bussare
come ogni mattina alla porta delle mie spacciatrici di caffeina.
Adorabili vecchiette. Le chiamo “le signore in giallo” perché sarebbero
perfette in un telefilm di Mrs Fletcher.
Quando Rose mi apre ha il viso tirato, è agitata. Non comprendo quale
problema l’angusti così tanto sinché non mi siedo al tavolo della cucina in
paziente attesa di una tazza di caffè. Tazza? Sarebbe meglio dire bidone di
caffè che, nonostante il colore slavato, contiene caffeina in quantità. Bevo
senza via di scampo.
«Ho saputo che la prossima settimana il padrone di casa incontrerà un
compratore» mi dice mesta.
Anche lei!
«E ciò significa solo una cosa: affitto aumentato o via di qua. Temo che
non potrò più permettermi di abitare in questa casa.»
Poco dopo la scena si ripete (caffè compreso) e anche Susan mi dice la
stessa cosa, con gli occhi che le si riempiono di lacrime.
Chi è questo misterioso compratore che vuole buttare in strada delle
adorabili vecchiette e chiudere l’unica libreria di Cape Love? Uno
speculatore, senza dubbio, uno che vuole trasformare questo delizioso
villaggio in un resort per ricconi in vacanza.
Devo fare qualcosa, anche se proprio non so cosa.
Incomincio andando a bussare alla porta del sindaco: mi sembra di
ricordare che al sabato mattina riceva i cittadini. Perché no, in fondo? Se il
vichingo ha il tempo per corteggiarmi, avrà anche il tempo di starmi ad
ascoltare.
Il municipio di Cape Love è un edificio di fine Ottocento in mattoni rossi e
si trova nell’unica piazza del paese. Non è particolarmente grande, ma ha
un’aria ufficiale grazie alle colonne bianche del portico e alla torretta aguzza
che si eleva dal tetto e che ospita un grande orologio. L’insieme è molto
grazioso e rassicurante. Salgo i quattro scalini che portano all’ingresso ed
entro nel vestibolo dove una donna di mezza età accoglie i visitatori. In un
angolo un poliziotto in divisa è molto occupato a sfogliare USA Today.
Quando dico a Linda – così recita l’etichetta che porta pinzata sulla camicia
bianca – che sono qui per vedere il sindaco, mi guarda con aria sospettosa,
poi chiama qualcuno al telefono, sorride e mi invita a salire al primo piano.
Un grande ritratto di Mr Nelson Dingley Jr, barbetta e baffi bianchi e un
sospetto di riporto sulla testa, mi accoglie al primo piano. Non che io sappia
chi sia Mr Nelson Dingley Jr, ma quando mi avvicino al quadro una targa mi
informa che è stato un giornalista e un politico, eletto governatore del Maine
nel 1874.
«Ti interessa la storia del nostro Stato, Gioia?»
Mi giro di soprassalto e il vichingo è a pochi passi da me, bello, slanciato,
pantaloni grigi e camicia bianca a righine blu, colletto aperto, maniche
arrotolate e cravatta regimental. Profuma, forse un po’ troppo, di buon
dopobarba, Obsession di Calvin Klein dice il mio olfatto. Un sindaco
affascinante, senza dubbio. Un futuro congressman di sicuro successo.
«Non proprio, Henry. Più della storia mi interessa il presente» rispondo
sorridente.
Allungo la mano e lui la stringe nella sua per un tempo troppo lungo. I suoi
occhi grigi stanno cercando di leggermi dentro.
«E il presente…» aggiunge, «coinvolge me?»
«In qualità di sindaco, sì.»
«Peccato, mi ero già illuso che fosse una visita di… piacere.»
«Mi dedichi cinque minuti?» lo interrompo prima che cominci a divagare,
una cosa in cui, da bravo politico, è bravissimo.
«Allora è una cosa seria! Andiamo nel mio ufficio.»
Lo seguo in un ufficio arredato con mobili chippendale, elegante e semplice
nel contempo. Mi aiuta a sedere su una delle due poltroncine sistemate
davanti alla scrivania (sempre galante!), poi si accomoda al suo posto di
comando.
«Dimmi tutto, ti ascolto» dice con un sorriso e una certa tendenza alla
condiscendenza che mi irrita un po’.
In breve gli racconto le preoccupazioni di Joanna, di Rose e Susan e per un
attimo colgo un guizzo nel suo sguardo, come se fosse stato colto alla
sprovvista. Mi colpiscono l’interesse che dimostra per la faccenda e una frase
che gli esce di bocca quasi per sbaglio e di cui, a giudicare dall’espressione
dei suoi occhi, si pente subito: «E l’incontro con questo misterioso
compratore, dovrebbe svolgersi questa settimana?».
Sembra sorpreso non per il fatto che ci sarà un incontro, ma perché si terrà
questa settimana.
Registro la cosa in un angolo del mio cervello, senza saperne la ragione.
«Non so davvero chi possa essere interessato a fare incetta di case d’epoca
a Cape Love, Gioia, e temo che le nostre comuni amiche abbiano gonfiato un
po’ la cosa. Ma per te, mi informerò.»
«Lo faresti davvero? Te ne sarò riconoscente.»
«Aspetta a esserlo. Ci sono delle condizioni» aggiunge con espressione
furbetta.
Si alza, gira intorno alla scrivania e appoggia le mani sui braccioli della
poltroncina su cui siedo. In altre parole mi intrappola tra le sue braccia.
«Indagherò sulla cosa, ma solo se tu questa stasera uscirai con me» dice
fissandomi le labbra come se avesse fame. «Ho un invito molto formale a
Portland e tu potresti trasformare la mia serata da terribilmente noiosa a
incredibilmente eccitante.»
«Davvero avrei questo potere? Chi mai l’avrebbe detto!» rispondo ironica.
«Uh huh, ce l’hai eccome» mormora lui avvicinandosi un altro po’ alla mia
bocca.
Nonostante abbia una voglia matta di spingerlo via, resisto alla tentazione e
gli tengo testa.
«Non sai quanto sia mortificata, ma temo che dovrai accontentarti di una
serata noiosa perché sono già occupata… E poi, signor sindaco, ti sembra
questo il modo di ricattare chi viene a chiedere il tuo aiuto?»
Lui sfodera un’espressione mefistofelica che mi strappa una risatina.
«Sono pronto anche al ricatto per ottenere ciò che voglio, Gioia.» Chiude
gli occhi e inspira profondamente. Poi dice: «Sai che profumi di buono?».
«Grazie per il complimento, ma il trucco del profumo è vecchio, non
attacca. Non cambierai argomento tanto facilmente. E… così per saperlo,
cosa, di grazia, vorresti ottenere?»
Lui si rialza, torna al suo posto con un sorriso malizioso stampato sul volto
e, invece di rispondere alla mia domanda, dice: «Allora, se stasera sei già
occupata, rimandiamo a domani sera. A casa mia. Ti prometto di darti tutte le
informazioni che vuoi».
A casa sua?
«Signor sindaco, che invito poco appropriato! Sarebbe meglio fare domani
a colazione. Preparerò un picnic da portare in spiaggia. Ci stai?»
«Ma ci sarà un sacco di gente in spiaggia! Turisti, bambini urlanti…» si
lamenta lui.
Come se non lo sapessi. Un luogo molto più sicuro, la spiaggia di
domenica, se devi uscire con un lupo.
«Tanta gente, sì. Ma mescolarti ai tuoi concittadini accrescerà la tua
popolarità, Henry.»
Sembra riflettere sulla cosa.
«Forse hai ragione. Forse farmi vedere in giro con una bella ragazza come
te farà salire le mie azioni.»
«Una bella ragazza come me e… due cani. I cani suscitano sempre molta
simpatia nella gente.»
Lui alza un sopracciglio, sembra divertito.
«Dovresti entrare in politica!»
«Io? Avrò preso da zia Ari, è lei la manipolatrice professionista di
famiglia.»
Lui si mette a ridere, come se la cosa fosse ben nota anche a lui.
«Domani a mezzogiorno al faro? Va bene?» chiede rialzandosi. Il colloquio
è finito. Mi alzo anch’io.
«Perfetto. Aspetterò con impazienza te e le informazioni che mi porterai.»
«Non è molto lusinghiero detto così, Gioia.»
«L’ultima cosa di cui hai bisogno, caro signor Sindaco, sono altre
lusinghe.»
Mi accompagna sino alla porta.
«Gioia?»
«Sì?»
«Posso chiederti con chi uscirai stasera?»
«Certo. Con un ragazzino di dieci anni: andremo al cinema e poi a
mangiare una pizza.»
Un’ombra gli vela per un istante lo sguardo.
«E… verrà anche il padre del ragazzino?»
«Divertiti al party» rispondo, ed esco dal suo ufficio.
11
Lo stesso giorno, tardo pomeriggio

Alle cinque e mezza sono pronta, ho già fatto giocare i cani e gli ho
preparato la pappa.
Siedo nel patio in attesa di sentire l’auto di Sean scendere lungo il viale
sterrato e fermarsi dietro casa.
Non sono nervosa, sono molto di più. Questa sera uscirò con Mr Magnifico,
non con uno qualsiasi. Veramente uscirò con Mr Magnifico e con suo figlio
di dieci anni, ma il concetto non cambia. E non andremo a cenare in qualche
romantico ristorantino sul mare, a lume di candela, ma a vedere L’uomo
d’acciaio e poi a mangiare in un fast food. Ma il concetto non cambia.
Corro allo specchio un’ultima volta per controllare il mio aspetto.
Indosso un abito nero a minuscoli pois bianchi che mi aderisce fino ai
fianchi per poi aprirsi in una gonna morbida, che ondeggia sinuosa quando
cammino (ho il torcicollo a furia di guardare allo specchio l’effetto sul mio
lato B). Le maniche coprono appena le spalle e la scollatura a barchetta non è
profonda. È un abito semplice, non particolarmente sexy, in cui però mi sento
bene. Ai piedi ho sandali neri di vernice con zeppa alta e fiocco in punta che
mi fanno sentire tanto Minnie, e sul braccio porto il golfino nero taglia
Barbie, in caso l’aria condizionata al cinema sia da broncopolmonite
fulminante.
Controllo i capelli, che ho lasciato lisci e sciolti, e il trucco, mascara, un
velo di kajal, fard e lucidalabbra appena rosato. L’insieme fa molto “ragazza
della porta accanto”, cosa che non mi dovrebbe stupire, perché in fondo è
quello che sono.
Alle sei in punto sento arrivare l’auto di Sean, una Jeep Patriot nera che ha
visto tempi migliori. Esco dal portico appena in tempo per vedere padre e
figlio scenderne. Sono così carini! Oddio, Jimmy è carino, Sean è da sballo.
Meglio che guardi da un’altra parte, prima di mettermi a sbavargli sui piedi
come Armageddon. Jimmy mi corre incontro e, come ormai è sua abitudine,
più che abbracciarmi mi placca, colpendomi con tutta la sua affettuosa forza
sullo stomaco; l’impatto mi svuota i polmoni, ma lui è totalmente indifferente
al mio stato comatoso e si aggrappa a me come un koala urlando delle frasi
sconnesse. Al solito, non afferro ogni parola, ma capisco che c’entrano
Superman, un hamburger enorme, una confezione gigante di popcorn e una
dichiarazione d’amore.
La sua per me.
«Ti voglio bene» dice, così forte e chiaro che lo sente anche Sean, il quale
nel frattempo si è avvicinato al punto dove è avvenuto il
placcaggio/abbraccio.
Ci scambiamo una prima occhiata interrogativa e subito dopo una seconda
che più o meno significa “ne parliamo dopo”, perché è chiaro che dobbiamo
parlarne. Non che mi dispiaccia che il piccolo si stia affezionando a me, ma:
primo, non voglio che senta la mia mancanza quando me ne andrò; secondo,
qualcosa non mi convince. Ho l’impressione che Jimmy, con questo plateale
sfoggio di affetto, voglia dimostrare qualcosa più che a me, a suo padre.
«Sei tutta d’un pezzo?» mi chiede Sean, quando Jimmy mi libera dalla sua
presa e saltando come un grillo ritorna all’auto.
«Sì, sono come nuova. Ma se vuoi la mia opinione, tuo figlio dovrebbe
giocare a rugby, non a calcio.»
«Vieni» mi dice lui con un sorriso e con un’intimità che mi regala un
brivido. Con un fare possessivo che non mi dispiace affatto, posa gentilmente
la sua mano sul mio gomito (altro brivido), mi accompagna all’auto e, dopo
avermi aperto la portiera, mi aiuta a salire in macchina.
Approfitto dei pochi secondi che lui impiega per raggiungere l’altro lato
dell’auto per sventolarmi con entrambe le mani: quando Sean mi è vicino è
come stare attaccata a un forno; quando mi tocca, è come stare dentro a un
forno. Se la serata procede così, in un paio di ore sarò bella che arrostita.
Jimmy è già seduto sul sedile posteriore, con la cintura allacciata. Sembra
molto eccitato. Lo guardo interrogativa e lui mi strizza l’occhio, come
fossimo complici di qualche cosa.
Di una macchinazione che non riesco a comprendere.
Vorrei chiedergli spiegazioni, ma Sean sale in macchina e non voglio
mettere in difficoltà il piccolo. Troverò il modo di indagare più tardi.
«Tutto bene? Pronti?» chiede Sean guardando prima suo figlio, poi me
come se stessimo per partire per un’avventura indimenticabile.
«Sììììì!» risponde urlando Jimmy.
«Andava tutto bene» dico, «prima che Jimmy mi massacrasse i timpani.» Il
piccolo se la ride soddisfatto e io mi giro verso il finestrino. Rimango a
fissare con finto interesse il panorama fino a quando l’aria condizionata che
mi arriva addosso non mi riporta a temperatura ambiente.
Dopo mezz’ora stiamo cercando posto nel parcheggio del Regal di
Brunswick, un complesso multisala dove pare essersi concentrata metà della
popolazione del Maine. Le file per i biglietti sono lunghissime, ma Sean li ha
presi on line e gli basta accostare lo schermo del cellulare a un lettore per
farci entrare.
«Adoro andare al cinema» dico mentre siamo in coda al banco dei popcorn.
«Anch’io lo adoro» risponde Sean con un sorriso che, nella mia
immaginazione esasperata, mi lega a lui per l’eternità solo perché
condividiamo la stessa passione.
Un momento che sarebbe quasi perfetto nel mondo edulcorato di “Miss
porta accanto” se Jimmy non lo prendesse a martellate con un acido «A
Grace non piace andare al cinema.»
È ovvio persino a me che ciò, agli occhi del ragazzino, è una mancanza
insormontabile.
Suo padre lo guarda male, ma il piccolo non ha terminato la sua piccola
provocazione e aggiunge in tono di sfida: «E non ha la più pallida idea di
cosa sia il Millennium Falcon!».
Che io stamattina ho riconosciuto dopo aver dato una sola occhiata
all’aquilone dei McCallun. La cosa non mi piace, mi fa sentire a disagio. Sto
per dire qualcosa per calmare il ragazzino e abbassare le mie quotazioni in
favore di quelle di Grace (ebbene sì), ma suo padre mi precede.
«Ora basta» gli dice Sean con aria molto seria. Troppo.
Jimmy alza le spalle e mormora a denti stretti: «Ma è vero! E una volta mi
ha detto che Guerre Stellari è una stupidaggine per bambini! Sarà lei una
stupidaggine!».
«Jimmy, ti ho già avvisato, smettila.»
Il tono di Sean è duro, adesso, e a Jimmy scivola un lacrimone sulla
guancia. Ma ancora non è soddisfatto. Fissando suo padre con una collera che
mi impressiona, mormora: «Non è giusto, io non la voglio quella».
Parole pesanti che fanno traboccare il vaso, in questo caso la pazienza di
Sean.
«Un altro fiato e ce ne torniamo a casa.»
«Eh no!» protesto come una bambina cercando di alleggerire la tensione.
«Io voglio vedere L’uomo d’acciaio! Non mi porterete via così facilmente da
Henry Cavill.» Sean si gira verso di me con un’espressione così furiosa che
temo che stia per sgridare anche me. Mi va meglio che a Jimmy: me la cavo
con un’occhiataccia e un indice puntato contro il naso.
Grande!
Nel frattempo Jimmy incrocia le braccia e si gira di spalle, arrabbiato e
offeso; ogni tanto il suo corpo è scosso da un sussulto, cosa che mi fa capire
che sta piangendo. Dio! Io non resisto al pianto di un bambino! Sarei pronta a
concedergli qualsiasi cosa pur di farlo smettere.
Restituisco l’occhiataccia a Sean poi mi piego per sussurrare qualcosa di
consolatorio a Jimmy nello stesso momento in cui: 1) lui decide di scappare
e, 2) il ragazzo che vende popcorn ci propina la sua stupida tiritera: «Salve
gente, cosa posso fare per voi?».
Ma davvero?
Cosa puoi voler fare per noi, Dan – così è scritto sulla targhetta che ha sul
petto – se non venderci dei popcorn? O sei forse in grado di risolvere la
piccola crisi familiare che si sta svolgendo sotto i tuoi occhi inespressivi?
Pur se sono tentata di rifilargli una rispostaccia, dopo un attimo di
smarrimento ordino una confezione gigante di popcorn e due coche, mentre
seguo con la coda dell’occhio Sean che si lancia all’inseguimento di Jimmy.
E non è facile, perché l’atrio è pieno di gente e Jimmy sgattaiola veloce
come il vento fra le gambe di tutti, come Oliver Twist dopo aver sottratto a
qualche malcapitato un orologio o un portafoglio. Solo che Jimmy non ha
rubato nulla, ma crede che presto gli verrà rubato qualcosa di molto
importante: suo padre.
Diavolo! Possibile che riesca sempre a farmi coinvolgere in qualche
casino? E ora, come ne esco?
Mentre aspetto di riveder comparire padre e figlio tenendo in equilibrio
popcorn e bibite, mi chiedo se per caso io abbia qualche responsabilità in
tutto ciò, se mi sia comportata con troppa leggerezza e dato a Jimmy la
speranza di riuscire a trasformare la principessa Grace in una ex. Perché, se è
così, non finirò mai di tirarmi delle bacchettate sulla testa.
Rischiando di rovesciare tutto, mi caccio in bocca una manciatina di
popcorn e poi un’altra ancora, finché qualcuno molto basso mi tira per il
braccio.
«Jimmy!» sbotto. «Mi hai fatto prendere una paura da morire!»
Dio sia lodato, è tornato. Anche se, a quanto pare, senza il paparino.
«Scusa, Joy, ma non vorrai mica mangiarteli tutti tu, vero?» mi chiede,
guardandomi con occhi ancora bagnati di lacrime.
«No di certo, anzi, dammi una mano che se no va a finire che mi cadono
per terra. Te la senti di tenerli tu?»
«Certo!»
Gli passo tutto il malloppo. Con sprezzo del pericolo, si mette subito una
ventina di popcorn in bocca.
«E papà dov’è?» chiedo.
«Non lo so.»
«Non l’hai visto?»
«No.»
«Ti ha seguito, però.»
Lui alza le spalle, come se non gliene importasse niente.
«Jimmy!» lo rimbrotto spazientita. Poi chiedo.
«Conosci a memoria il numero del cellulare di papà?»
«Certo, me l’ha fatto imparare, nel caso avessi bisogno di lui.»
«Allora dimmelo, fai il bravo. Perché ora hai bisogno di lui.»
E anch’io.
Prendo il telefono dalla borsa e digito il numero di Sean – così mi rimane
anche in memoria, che furbona! Due suoni e risponde brusco.
«Sì?»
«Sono io, Gioia. Jimmy è qui con me, vicino al banco dei popcorn. Vieni.»
Jimmy mi stringe il braccio.
«È arrabbiato?» sussurra.
«No, non è arrabbiato, è terrorizzato. Hai fatto una bruttissima cosa a
scappare via così.»
«Io non volevo...»
Non riesce a finire la frase perché Sean è già davanti a noi, il volto
contratto, gli occhi ancora colmi di paura. Guarda suo figlio per un attimo,
forse per assicurarsi che sia proprio lui, che stia bene, poi si china e lo
abbraccia. Metà dei popcorn finiscono prima per aria, poi per terra, ma a me
sembrano coriandoli in un giorno di festa.
«Scusami papà» dice Jimmy tenendosi stretto al collo del padre, come se
lui, adesso, avesse paura di perderlo.
«Non farlo mai più, Jimmy. Mai più, promesso?»
Mi asciugo un paio di lacrime e mando giù il groppo che mi serra la gola e
alla fine riesco a dire: «Ragazzi, il film inizia, andiamo?».
Sean prende in braccio Jimmy e finalmente entriamo in sala. Facciamo
appena in tempo a sederci e le luci si spengono.
Dio! Se questo è solo l’inizio della serata, cosa mi aspetterà alla fine? Non
lo so. So solo che sono stanca morta, consumata dalla tensione. È
impegnativo uscire con i McCallun boys.
Sediamo nell’ordine: Sean, Jimmy e io. Le poltrone sono così grandi che
Jimmy ci sparisce dentro. Ora è tranquillo, sorride felice in attesa delle
imprese dell’uomo d’acciaio. In una mano stringe il contenitore dei popcorn,
nell’altra la mano di suo padre. Mentre lo schermo comincia a illuminarsi, mi
giro verso Sean e nello stesso attimo anche lui si gira verso di me.
Gli sorrido.
Mi sorride.
Mormora un silenzioso «dobbiamo parlare».
Mormoro un silenzioso «lo so».
Poi Kal El arriva sulla Terra e un’altra meravigliosa storia inizia.
E poi finisce. E quando finisce la mia mano sinistra fa ancora parte di un
gruppo laocoontico, formato da due piccole e diaboliche manine, da una
molto più grande e forte e, appunto, dalla mia.
Tutte insieme appassionatamente.
I titoli di coda scorrono, guardo il gruppo laocoontico e...
Come ho fatto a non capirlo prima? O meglio, a far finta di non capire. È
lampante, come il fatto che Superman abbia sempre amato Lois Lane e non
Lara Lang.
Non dico di non essere simpatica a Jimmy, non dico che non mi voglia
anche un po’ di bene o che non si diverta con me, ma sono ormai certa che
tutte queste sue dimostrazioni di affetto abbiano un solo scopo: quello di
spingermi tra le braccia del padre e scongiurare così il pericolo Grace.
Grace la fidanzata, Grace la promessa sposa. Grace la perfida Grimilde.
Possibile che un bambino di dieci anni possa aver avuto la malizia di
architettare un piano del genere?
***
Siamo di nuovo in auto, diretti a un ristorante «dove fanno gli hamburger
più grandi e buoni del mondo» mi fa sapere Jimmy.
«Fantastico, ho una fame da lupi» dico, e sono sincera. «Non c’è niente di
meglio di un buon hamburger dopo un bel film. Ci sono anche le patatine,
vero?»
Percepisco stupore nella voce di Jimmy quando mi risponde: «Tu mangi
anche le patatine?».
«Perché, vuoi mangiarti anche le mie, Jimmy?» scherzo.
«No, è che… pensavo che le femmine non mangiassero hamburger e
patatine. Ma solo insalata.»
Messaggio ricevuto: Grace mangia solo insalata. E poi mi stupisco di non
essere magra come lei!
Sento lo sguardo di Sean su di me e cambio subito argomento, fingo di non
aver capito qualcosa della trama del film e chiedo a Jimmy spiegazioni. Lui
parte in un’accorata rivisitazione della storia che mi fa sorridere di tenerezza:
sono così diversi i punti di vista di un bambino dai nostri! Sean mi prende per
un instante la mano e me la stringe forte, non so per quale ragione, forse
perché apprezza che io stia dando corda a Jimmy, che mi interessi di ciò che
gli piace. La sua mano è grande, invitante e promette cose che non potrei
riferire di fronte a un bambino. La mia temperatura a quel semplice e casto
contatto comincia a risalire. Giro il bocchettone del condizionamento e mi
lascio colpire in pieno dal fiotto d’aria ghiacciata. Tra la polmonite e andare
in fiamme per un uomo che non avrò, scelgo la polmonite.
***
Jimmy ha ragione. A vederli passare diretti agli altri tavoli, gli hamburger
di Fanny sembrano veramente superbi e le patatine stratosferiche. Il locale è
semplice, familiare, un po’ anni Cinquanta, stile American Graffiti, insomma,
con tavoli di formica rossa e divanetti di vera finta pelle blu elettrico. Ci sono
neon pubblicitari alle pareti e un lungo bancone con alti sgabelli per chi vuole
consumare qualcosa in fretta. Non c’è più un posto libero in tutto il ristorante
e fuori c’è addirittura la coda. Ma non per noi. Malgrado ci sia un cartello
grande come una casa che dice “non si accettano prenotazioni”, noi abbiamo
un tavolo riservato che ci aspetta.
Mi chiedo se sia merito dei soldi di Mr McCallun o dei suoi occhi blu. In
ogni caso, per una volta, mi godo i vantaggi della celebrità.
Una cameriera sorridente in grembiule rosa confetto ci accompagna al
tavolo e poco dopo Fanny in persona viene a rendere omaggio a Mr
Magnifico.
Ora capisco che non c’entrano i suoi soldi e forse neppure gli occhi blu.
«Il mio Sean!» lo apostrofa, e non a bassa voce. Lei è un donnone di età
indefinita, più vicina ai settanta che ai sessanta, dai capelli rossi fuoco e dagli
occhi di un azzurro innaturale. A modo suo, è ancora una donna molto bella.
Abbraccia Sean come se lo conoscesse da sempre e forse è proprio così
perché Mr Magnifico sembra divertirsi un mondo, anche se tutto il locale ci
osserva.
«Joy» mi dice come se fossimo a un ricevimento da Almack’s, «posso
presentarti la mia grande amica Mrs Fanny Bridgerton? Il suo locale è famoso
in tutto il Maine.»
Mentre io allungo una mano timida, Fanny mi squadra, mi pesa, mi valuta.
Poi, con un «Vieni qua, bambina» che dovrebbe bastare a prepararmi al
peggio, mi avvolge nel suo potente abbraccio.
Gasp!
Non che io sia del tutto contraria a esser stritolata da una sconosciuta prima
di cena, ma non mi dispiacerebbe neppure riuscire a respirare.
Quando molla la presa e io riprendo fiato, mette i pugni sui fianchi e si gira
minacciosa verso Sean.
«Era ora che mi facessi conoscere una ragazza come si deve. Per questa» –
sarei io – «hai la mia benedizione.»
Amen.
Jimmy approva anche lui, con un cenno della testa.
Io sono a dir poco esterrefatta e non approvo affatto.
Sto per dichiarare ufficialmente al mondo e a Fanny che non sono la sua
ragazza, ma Sean mi fa segno di tacere, con l’espressione di chi si sta
divertendo come un matto.
Gli rivolgo la classica occhiata “ma che cavolo…”, ma alla fine sto al
gioco. Pronta al peggio, anche perché la situazione sta raggiungendo
imprevedibili livelli di surrealismo. Mi prendo, senza fare una piega, una
pacca sulle spalle che mi fa vibrare per qualche secondo come un diapason –
laaaaaa – e accetto persino con signorile pazienza un paio di consigli “da
donna a donna” su come tenermi stretto Sean.
Sì, avete capito bene.
«E guarda che io parlo chiaro!» aggiunge un po’ minacciosa. Non che
avessi dubbi a riguardo, ma non avevo neppure idea del significato di
“chiaro” per Mrs Bridgerton.
Fanny usa parecchi eufemismi, senza i quali probabilmente Jimmy
passerebbe anni e anni sul divano di uno strizzacervelli, ma il risultato non
cambia. Il primo consiglio riguarda il saperci fare in cucina – ok, sei tu
l’esperta, Fanny! – , il secondo il saperci fare a letto. Dritte che potrebbero far
arrossire un battaglione di alpini ubriachi, figuriamoci me. Sean non
arrossisce affatto, anzi pare proprio che non si sia mai divertito tanto.
Se avessi la vista ai raggi X di Superman, lo incenerirei volentieri.
E ci sarebbe spazio anche per un terzo consiglio “da donna a donna” se
Jimmy non decidesse che è tempo di richiamare l’attenzione di Fanny su di
sé.
Grazie Signore Grazie.
Quando alla fine la donna se ne va assicurandoci che penserà lei alla nostra
cena, tiro un respiro di sollievo. Sollievo? Farei meglio a essere terrorizzata,
invece, perché Jimmy è curioso come un gatto e mi chiede: «Cosa voleva dire
Fanny quando ti ha detto che a papà devi farne almeno uno a settimana?».
Sean scoppia a ridere, io non rido affatto. Forse sto per svenire.
«Un hamburger, come li fa lei» rispondo alla fine diventando più rossa
delle famose aragoste del Maine.
«Ahhh!» dice Jimmy.
«Ahhh, ecco, ora ho capito!» gli fa eco suo padre.
Mi alzo, rischiando di fare strike con bicchieri e ketchup, e mi rifugio alla
toilette.
***
Per dare un tocco di salutare ipocrisia al suo menu, Fanny in persona ci
porta come antipasto una succulenta e abbondante insalata e dice a Jimmy
che non avrà le sue patatine se prima non la mangerà tutta. Lui brontola un
po’, ma quando attacco il mio piatto di verdure come fosse pura ambrosia,
cede al ricatto di Fanny. La prima forchettata va a destinazione, e così la
seconda. «Anche se è da femmine, non è così male» bofonchia alla terza.
Sean, invece, sta bevendo la sua birra e non sembra neppure prendere in
considerazione l’idea di dare il buon esempio al figlio. Non che la cosa passi
inosservata…
«Papà non mangia l’insalata» mi rivela Jimmy in gran segreto, coprendosi
la bocca con la mano.
Il piccolo spione!
«Cosa cosa cosa? Chi non mangia l’insalata?» proclamo, guardandomi
intorno e fingendomi scandalizzata.
Jimmy ridacchiando mi indica col pollice Sean.
Mi giro verso “papà” con aria severa come Fraulein Rottenmeier e dico:
«Già, sembra proprio che qualcuno faccia il furbo. Ma quel qualcuno
dovrebbe aver capito che… niente insalata, niente patatine!».
Per dare maggior rilievo al tutto, sollevo anche un sopracciglio.
Jimmy scoppia a ridere come un matto e io con lui, mentre Sean alza le
mani in un gesto di resa e brontola: «Va bene, va bene, avete vinto, mangerò
l’insalata! Ma siete due schiavisti».
Poi si gira verso di me, mi punta la forchetta contro e dice: «Però tu questa
me la paghi». I nostri occhi rimangono incatenati per un secondo di troppo,
passando dalle facezie a una serietà che mi scatena dentro un vero terremoto.
Colpa di quelle dannatissime farfalle, che sono tornate a svolazzarmi nello
stomaco ancora più numerose di prima.
«Vedremo» rispondo, e avvampando mi nascondo dietro a una forchettata
di lattughino.
Quando partiamo per tornare a casa, dopo cena, il cielo sembra quello delle
mille e una notte, con quella falce di luna che ti pare di poter toccare e tutte
quelle stelle che forse sono spuntate all’improvviso nell’universo, come
margherite in un prato. È il cielo del Maine, insomma, quando il tempo è
clemente e non ci sono uragani in vista. Per la verità un uragano è in arrivo,
almeno dentro di me. Perché stanno per scontrarsi un fronte di desideri
bollenti, proveniente da sud, e un fronte di sagge e noiose considerazioni,
proveniente da nord, dalla mia testa insomma, più freddo dello zero assoluto.
Un bel pasticcio, insomma, che non so come evitare. Perché, inutile che ci
giri intorno, so già come finirà questa serata se lascerò che le cose accadano.
Siamo in macchina da pochi minuti e Jimmy si è già addormentato. Ce ne
accorgiamo perché dal sedile posteriore proviene un silenzio assoluto. Sean
ha inserito un cd e quando riconosco le prime note di una delle mie canzoni
preferite i due fronti che già stanno combattendo in me, quello torrido e
quello siderale, cominciano pericolosamente a mischiarsi. Possibile che tra
tutte le fottutissime canzoni di questo mondo Sean abbia scelto The River del
Boss?
Chennessò, una di Al Bano o di Toto Cotugno, no?
Come se lui sapesse chi sono Al Bano e Cotugno. Con tutto il rispetto.
«Diavolo» mormoro in italiano, «proprio questa?»
Sean si gira verso di me e i suoi occhi azzurri risplendono nel buio
dell’abitacolo.
Il fronte torrido ormai staziona sopra il mio stomaco.
«Cosa hai detto?» mi chiede.
«Ho detto» gli spiego tornando all’inglese, «di tutte le fottutissime canzoni
dovevi mettere proprio questa?»
«È una delle mie preferite» risponde lui con un tono di voce basso, intimo,
che mi scivola addosso come una carezza.
Mi lascio andare contro lo schienale, il capo appena riverso, gli occhi chiusi
e le labbra leggermente aperte, perché ho bisogno di far entrare più ossigeno
nei polmoni.
«È anche una delle mie preferite» mormoro, mentre Springsteen sta
cantando la sua incredibile storia d’amore solo per Sean e me.
Diavolo.
Non bastava il maledetto cielo da Mille e una notte e questa dannata
attrazione che mi sta facendo bollire il sangue? Anche tu, Bruce, ti ci metti?
Sean non dice niente, ma fa di peggio: prende la mia mano sinistra e la
tiene stretta nella sua, un gesto così intimo e nel contempo normale che non
riesco a trattenere un gemito.
Il fronte torrido ormai è arrivato all’altezza della gola e fa della mia
respirazione una missione impossibile.
Così non va.
Mi raddrizzo, mi riprendo la mano che brucia come quella di Muzio
Scevola e dico: «Noi, noi... dovremmo parlare. Di Jimmy» specifico subito.
«Perché… sì, insomma, credo di aver capito il motivo del suo
comportamento.»
Il suo sguardo rimane concentrato sulla strada, ha le labbra strette e noto un
piccolo movimento del pomo d’Adamo, come se stesse mandando giù un
boccone amaro. Batte una mano sul volante, non con rabbia, ma come se si
sentisse sconfitto.
«Credo anch’io di averlo capito, si chiama Grace. Ma se non ti dispiace,
preferirei parlarne a casa. Non vorrei che Jimmy ci sentisse.»
«Certo, capisco» mormoro.
Poi, per cambiare argomento, dico: «Fra un paio di settimane ci sarà un
torneo di calcio organizzato dalla scuola. I bambini che abbiamo incontrato in
spiaggia hanno chiesto a Jimmy di iscriversi e giocare nella loro squadra».
«Sì, me l’avevi già detto.»
«Pensavo che forse il torneo sarebbe l’occasione per Jimmy di ricominciare
a stare tra i ragazzi della sua età. Credo che dovresti tentare di convincerlo a
partecipare.»
Lui mi guarda.
«Ci proverò, anche a me pare una buona idea, Joy. Grazie per avermelo
ricordato.»
Mi giro appena verso il finestrino e vi appoggio contro la fronte.
L’intera area è immersa nel buio, tranne la strada di fronte a noi, illuminata
dai fari della Jeep. Sean ha detto che avremmo continuato a parlare di Jimmy
“a casa”. Di quale casa stava parlando? Quella dove vivo io? O la sua?
In ogni caso, sappiamo entrambi che questa serata non terminerà con un
«Grazie Sean del film e del fantastico hamburger. È stato divertente, ci
sentiamo presto, buonanotte». Punto e a capo.
Non finirà così perché dobbiamo parlare. Di Jimmy, certo. Ma anche di
quello che entrambi non riusciamo a toglierci di testa. Qualsiasi cosa sia.
Arriviamo al faro che è circa mezzanotte e Sean spegne il motore.
Si passa una mano nei capelli, come fosse stanco. Si lascia andare contro il
poggiatesta, poi mi guarda, ma prima di parlare mi fissa per un tempo che mi
sembra eterno.
È buio, ma ho la chiara impressione che stia prendendo una decisione, e
non una facile. Forse ha cambiato idea, forse non vuole più “parlare”. In ogni
caso, sta a lui decidere, io, per il momento, passo.
«Devo andare dai cani» dico, poi faccio per aprire la portiera, ma lui mi
ferma con un «Joy!» piuttosto deciso che mi dà la pelle d’oca, una sensazione
che mi rende ancora più insicura e fragile.
Mi giro appena, rimanendo attaccata alla maniglia come a un’ancora di
salvezza. Aspetto che sia lui a parlare.
«La signora Hall» mi dice, «è via per il fine settimana. Non posso venire da
te e lasciare Jimmy a casa da solo.»
«Non credevo di averti invitato» dico sorridendo, cercando più che altro di
prendere tempo.
Lui mi scruta stupito.
«Non avevi detto che dovevamo parlare?»
Ora mi sento anche una cretina.
«Sì, ma possiamo farlo domani se stasera non puoi.»
«No, lo faremo adesso. Carica i cani in macchina e andiamo da me. Per una
volta si accontenteranno del giardino di casa mia per la loro passeggiata
notturna. Li controlleremo dal portico, ti va bene?»
Il programma non fa una grinza, ma...
«Forse sarebbe meglio rimandare a domani, non credo che faccia molta
differenza…» A insistere è il mio lato più codardo.
«No, parleremo stasera. Vai a prenderli ora.»
E questo è un ordine.
«Va bene. Ma dammi cinque minuti per favore.»
Prendo un gran respiro e scendo dall’auto. Mentre Armageddon e
Paraspifferi escono di corsa di casa, io mi ci infilo e mi chiudo in bagno per
darmi una rinfrescata, poi mi lavo i denti e faccio, per ogni evenienza, pipì.
Quando esco di casa Sean mi aspetta vicino all’auto e i cani sono già nel
baule.
Chissà dove credono di andare.
Risaliamo sulla Jeep e un minuto dopo ci fermiamo davanti alla casa grigia
dei McCallun.
«Io prendo il bambino in braccio, tu aprimi la porta di casa per favore. I
cani li faremo scendere dopo, quando Jimmy è a letto.»
Mr magnifico ha una spiccata tendenza al comando e al controllo.
«Va bene» bisbiglio, «ma lascia il finestrino aperto.»
«Già fatto.»
Mi passa le chiavi di casa e tengo quella della porta di ingresso separata
dalle altre. Poi aspetto che lui prenda in braccio Jimmy – che non ha mai
smesso di dormire – e nel cono di luce proveniente dei fari dell’auto mi
dirigo verso l’ingresso. Mi giro e guardo Sean trasportare con sicurezza
Jimmy fra le braccia: il piccolo non ha nessuna voglia di svegliarsi e gli sta
appoggiato alla spalla come il più tenero dei cuccioli.
«Una volta entrata in casa, accendi la luce, trovi l’interruttore alla tua
sinistra, poi avrai trenta secondi per digitare il codice che disinserisce
l’allarme. È J75493» mi dice mentre traffico con la serratura.
«Cosa? E credi che me lo ricorderò? Dovrai dettarmi il codice quando è il
momento, e con lentezza. Ho la memoria di un girino» dico guardandolo
allarmata.
«Non assomigli a un girino» ridacchia.
Apro la porta.
«Sarebbe un complimento?»
«Be’, voleva esserlo. La luce, a sinistra» mi dice lui.
«Questo me lo ricordo.»
Accendo la luce, ma non oso guardarmi intorno perché ormai saranno già
passati almeno quindici secondi. Alzo lo sguardo sul display luminoso
dell’allarme. Il conto alla rovescia è incominciato e una lucina rossa,
accompagnata da un beep irritante, lampeggia impietosa. Meglio che mi
spicci.
«Allora» dico, «J.»
«7» mormora. Eseguo. «5, perfetto, 4, 9, 3.»
L’8 non lo premo, è più forte di me.
«Che diavolo aspetti?» mi chiede Sean.
Devo solo digitare un ultimo numero e il display luminoso indica che ci
sono ancora dieci secondi di tempo, 010.
009.
«Digita il 3, Joy!»
Io sorrido e non ci penso affatto.
«Aspetta.»
008.
È a questo punto che premo il 3 e il countdown si ferma a 007.
Ah!
«Perdonami, ho sempre desiderato farlo» spiego, come se fosse del tutto
ovvio. Ma non lo è, visto che Sean mi sta fissando come una fuori di testa.
Spiego.
«Ho fermato il conto alla rovescia su 007, come James Bond, hai capito
adesso?»
«Ohhh» dice soltanto, poi ruota gli occhi al cielo come se mi compatisse,
anche se sta ridendo sotto i baffi.
«Tu non lo fai mai?» sussurro per non svegliare il bambino.
Scuote la testa.
«Potrei anche trovare la cosa divertente, Joy, se Jimmy non pesasse più di
quaranta chili. Seguimi, per favore.»
«Ok, non si può neanche scherzare.»
Saliamo al primo piano e Sean mi indica la stanza di Jimmy. Apro la porta
e accendo la luce del comodino mentre lui si avvicina al letto col bambino in
braccio.
«Il copriletto, per favore» dice, e appena lo scosto depone con molta
attenzione il piccolo sul letto.
«Wow! Mio figlio comincia a essere troppo pesante per questo!» dice
asciugandosi il sudore sulla fronte.
«O tu troppo vecchio» lo prendo in giro.
«Vuoi che ti dimostri che non sono ancora decrepito?» dice, scoccandomi
un sorriso adorabile e malizioso.
«Sì, per esempio potresti fare cinquanta flessioni su un braccio solo, come
Rocky» rispondo.
«Ma davvero? In realtà pensavo a qualcosa di più piacevole.»
Ok, me la sono meritata. Non rispondo e incomincio a darmi da fare con
Jimmy, come se sapessi cosa sto facendo.
Prima gli tolgo le scarpe, poi mi chino su di lui, gli sfilo jeans e calze e lo
copro. È un gesto naturale il mio, non certo dovuto alla presenza di Sean alle
mie spalle. Come lo so che è lì e mi osserva? Perché sento il suo sguardo
accarezzarmi la schiena, vertebra dopo vertebra, brivido dopo brivido.
Quando mi rialzo mi accorgo che è più vicino a me di quanto credessi.
Quando mi regala un altro di quei suoi sorrisi che mi tolgono il respiro, il suo
calore mi avvolge e i suoi occhi mi frugano l’anima.
L’effetto è struggente, intimo. Più di quanto non sarebbe se ora fossi
completamente nuda di fronte a lui.
Abbasso il mio sguardo e raccolgo i jeans e i calzini di Jimmy, mettendoli
in ordine su una sedia perché non voglio pensare, non voglio incontrare lo
sguardo di Sean.
«Grazie» mormora con un sospiro, mettendo in moto una serie di
neurotrasmettitori che dal mio cervello si diffondono nel mio corpo con
conseguenze disastrose. Sento il cuore accelerare con una sgommata e il
sangue slittare in curva. Eppure, come un’attrice consumata, mi fingo del
tutto a mio agio, sorrido e dico: «Figurati».
Figurati? Qualcosa di meno banale, no?
Spengo la lampada sul comodino e vado verso la porta che Sean mi tiene
aperta. Nonostante la sua figura sia un’ombra contro la luce che proviene dal
corridoio, sento il suo sguardo indugiare su di me. Quando gli passo vicino,
lui rimane immobile e i nostri corpi si sfiorano.
È come un pronti via per i miei neurotrasmettitori. Si ributtano in circolo
più veloci e letali di prima perché ora sono in combutta con quelli di Sean. Si
scambiano dati e informazioni, i maledetti, come software di uno stesso
computer, quello che sovrintende alla salvaguardia e alla procreazione della
specie.
Respiro feromoni in quantità sufficiente a ritrovarmi incinta a distanza.
Mi allontano da Sean, così, a scopo precauzionale.
Il portatore sano di testosterone sorride senza pietà.
«Vado a cambiarmi la camicia, ti spiace?» mormora con voce che sembra
promettermi il paradiso.
Mi spiace? Sì che mi spiace, perché vorrei tanto strappargliela io di dosso
la sua bella camicia. Ovvio che non glielo dico.
Invece gli rispondo, più innocente di Santa Maria Goretti: «Certo, io nel
frattempo penso ai cani. Credo che a questo punto Paraspifferi sia già il
bassotto più offeso del mondo».
Ok, posso anche permettermi un paio di respiri, adesso.
12
Notte

La notte, si dice, porta consiglio. Ed è proprio un consiglio che mi


servirebbe quando Sean mi raggiunge sul portico, reggendo nella stessa mano
due bottiglie di birra che tintinnano l’una contro l’altra e che nella mia mente
risuonano come un campanello d’allarme.
Perchè Sean mi guarda così? E perché altra birra? Dovere di ospitalità o
vuol forse farmi ubriacare? Come se ce ne fosse bisogno.
Chiudo gli occhi e sento i suoi passi dietro di me. Non è uno di grandi
parole, è evidente, perché pronuncia in un sussurro il mio nome – Joy – e poi
mi porge la bottiglia di Miller senza aggiungere altro. Ciò che le parole non
possono dire, gli occhi però non tacciono. Sono scuri di desiderio e mi
promettono il paradiso.
Ma non dovevamo parlare?
Lo ringrazio, prendendo la bottiglia. Le mie dita sfiorano le sue, di loro
spontanea volontà, come se non aspettassero altro che sentire il contatto con
la sua pelle. Ho la sensazione che tutto il mio corpo rotoli verso di lui come
un fiume verso le rapide. Eppure io sono un tipo da cascatelle, al massimo,
non certo da acque turbolente e pericolose.
Gli giro le spalle e appoggio le braccia alla balaustra e poco dopo lui fa lo
stesso, e mentre beviamo osserviamo in silenzio Armageddon e
Montmorency scorrazzare a pochi metri da noi.
«Grazie per questa serata» dice dopo un po’. «Se Jimmy non avesse fatto
quella scena sarebbe stata perfetta.»
«Deve essere difficile per te crescere un ragazzo da solo, col lavoro e tutto
il resto.» Il resto implica anche Grace.
Prende un sospiro profondo e scuote la testa.
«Ti confesso che quando l’ho perso di vista nell’atrio del cinema, ho
creduto di impazzire. Per fortuna c’eri tu.» Mi giro verso di lui sinceramente
sorpresa. I suoi occhi sono già su di me e mi stanno accarezzando. Scuoto
leggermente la testa.
«Non ho fatto molto. Al contrario, credo di essere stata la causa
involontaria di capricci e fuga. Mi spiace molto, se solo avessi saputo che
passare del tempo con tuo figlio gli avrebbe creato dei problemi o delle
aspettative...»
«Non è a lui che hai creato problemi, Joy, non l’hai ancora capito?»
No, non l’ho capito. Apro la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiudo
perché non ho neppure la forza per respirare. Mi sembra che il mondo si sia
fermato per aspettare noi.
Noi. Come se ci fosse un noi.
Sean appoggia la bottiglia sul bordo della balaustra, poi fa altrettanto con la
mia. Le sue mani ora sono libere di prendere le mie e di stringerle; il loro
calore si diffonde attraverso le dita in ogni singola fibra del mio corpo e la
sensazione è così improvvisa che non riesco a trattenere un gemito di
sorpresa. In un istante mi attira a sé e mi ritrovo tra le sue braccia.
Ora le rapide sono davvero vicine e sono spaventata e nello stesso tempo
attratta dal vuoto in cui sto per buttarmi. Non c’è più appiglio cui
aggrapparmi, nessuna ancora di salvezza. Sto per precipitare. Lo so io, lo sa
anche Sean.
Alzo il volto e i nostri occhi si fondono in un unico sguardo di puro, liquido
desiderio. «Sean» mormoro quando ormai sento il vuoto sotto di me
risucchiarmi lungo spire di fuoco. Le sue labbra trovano le mie, si muovono
lente, morbide e delicate, indagano, promettono, lusingano, prendono.
«Sean» ripeto, e mentre mormoro ancora il suo nome, il suo corpo mi
chiede di più, di colpo impaziente, avido e possessivo. Le nostre bocche non
giocano ora. La sua lingua mi accarezza e mi penetra, accende il desiderio di
entrambi come fosse alcool buttato sulla brace. Rispondo a quell’invito
invadendolo a mia volta e mi stringo a lui come se da quel contatto
dipendesse la mia stessa vita. Un gemito disperato risuona nell’aria, forse
mio, forse suo, forse di entrambi. Rovescio il capo perché non riesco a
resistere alle sue labbra che stanno scendendo verso la mia gola, succhiando e
leccando come fosse ricoperta di gelato.
Un altro gemito, non riesco a trattenerlo.
Ora mi spinge, mi guida con determinazione e in pochi secondi, non so
davvero come, mi ritrovo schiacciata dal corpo di Sean contro la parete. Non
mi dispiace affatto, perché non faccio nulla per staccarmi da lui, anzi gli sto
appiccicata come una T-shirt bagnata.
«Ti desidero, Joy, ti voglio, ora» mormora, mordicchiandomi il lobo di un
orecchio. Oh, non c’è alcun dubbio che mi desideri; lo sento contro di me, mi
incendia come nessuno mai prima d’ora. Sono persa tra le braccia di un
uomo; pronta a qualsiasi cosa lui mi chieda; incosciente delle inevitabili
conseguenze che questa notte avrà sulla mia vita. E poi, che diamine! Non
l’ho mai fatto contro una parete, tutt’al più ne ho letto in qualche romanzo
della Brockmann. Questa potrebbe essere la mia unica occasione, in fondo, e
sono davvero stanca di vivere aspettando una seconda chance che, tanto, non
arriva mai.
Sì, ho deciso.
Le mie ginocchia stanno per cedere e devo aggrapparmi a Sean con tutte le
mie forze mentre sento la mia stessa voce rispondere con un’urgenza che non
mi è solita: «Sì Sean, ti prego» che non so bene cosa voglia dire – perché e di
che lo sto pregando? – ma la mia risposta deve avere un qualche significato
logico perché le sue labbra risalgono verso le mie lasciandomi sul collo una
scia bollente e una frase del tipo «sono pazzo di te».
Un altro gemito. Mio, suo, nostro?
Il gemito persiste.
Lui smette di baciarmi e mi fissa perplesso. Senza un’altra parola
abbassiamo entrambi lo sguardo. No, questo non è un gemito, è il sottile
pigolio di Armageddon quando vuole per sé l’attenzione del mondo intero.
Armageddon e Montmorency! Le due adorabili creature, che in questo
momento vorrei strozzare, sono ormai sul portico e siedono ai nostri piedi,
guardandoci interrogative e con le lingue a penzoloni. Hanno sete.
Sean appoggia la fronte contro la mia e si abbandona a un sospiro frustrato.
«Mi spiace» mormoro, mentre la comicità della situazione diventa
irresistibile.
«È la seconda volta che i tuoi cani ci interrompono sul più bello» mormora
lui con una specie di grugnito. «Non sono miei» protesto, alzando gli occhi al
cielo.
«Sembra quasi che stiano a guardia della tua virtù!»
«Cosa?»
Intanto Paraspifferi, indispettito dalla nostra indifferenza, decide di passare
all’azione ed emettendo un suono gutturale che lo fa sembrare molto più
feroce di quanto non sia, attacca una scarpa di Sean come fosse il suo peggior
nemico.
«Ehi!» impreca Sean, poi mi guarda, io lo guardo, e scoppiamo a ridere,
cosa che provoca nei due cani un momento di euforia improvvisa. Forse lo
prendono come il segnale che la festa non è ancora finita e riprendono a
inseguirsi lungo il portico prima di sparire di nuovo in giardino. «Vieni» mi
dice Sean, mi prende per mano e mi porta in casa.
«Cosa vuoi fare?» gli chiedo con il cuore che batte.
«Continuare quello che abbiamo interrotto, magari con un po’ di privacy in
più e un paio di cani in meno.»
Come dargli torto?
«Be’, in fondo si potrebbe almeno tentare» dico, come se fossimo in ritardo
per un film.
«“Tentare?”» risponde fissandomi con occhi così blu e intensi che mi
sembra di sciogliermici dentro. «Conosci la differenza tra “volere” e
“tentare”, Joy?»
Non aspetta la mia risposta che sarebbe comunque pleonastica. Come se la
casa stesse per andare a fuoco mi trascina in cucina, prende da un armadio
una grande ciotola, la riempie di acqua e la mette per terra in un angolo. Poi
arraffa una scatola di biscotti nella dispensa e mi rivolge un sorriso diabolico.
«Questo è volere. E ciò che voglio ora è corrompere i guardiani della tua
virtù con un paio di biscotti…»
Mi appoggio al tavolo della cucina e lo guardo con aria maliziosa.
«Un paio di biscotti? È dunque questo il prezzo della mia virtù? Un paio di
biscotti!» esclamo, alzando gli occhi al cielo e scuotendo il capo come fossi
oltraggiata.
«Se la metti così...» Butta alle spalle l’intera scatola e i biscotti volano per
tutta la cucina. Poi, infischiandosene dei cani e dei biscotti, in due falcate è
davanti a me, senza un’altra parola mi prende per la vita, mi solleva senza il
minimo sforzo e mi fa sedere sul tavolo. La mia espressione da stupita si fa
presto seria, come d’altronde la sua. Armageddon e Paraspifferi sono usciti
dalla nostra testa e anche se le due cose non sono direttamente collegate, o
forse sì, la gonna mi è salita su per le cosce, che sono aperte abbastanza per
lasciare posto a Sean di starmi appiccicato in punti di solito meno frequentati.
Nonostante la comicità della situazione non sia del tutto evaporata, entrambi
stiamo tremando.
«Cosa penseranno di me Armageddon e Paraspifferi?» butto là in tono
ironico, non certo come una donna che sta per concedersi su un tavolo di
cucina. Il mio respiro è affannato, il mio cuore un rullo di tamburi. E come
potrebbe non essere così, visto che Sean mi sta dando una dimostrazione
pratica di cosa accade quando un maschio di buona e robusta costituzione
risponde al richiamo dei sensi? Benché i nostri corpi si sfiorino appena,
brividi di piacere scorrono dentro di me, devastanti e improvvisi. Lascio
andare un altro gemito – eh basta! –, chiudo gli occhi e rovescio il capo, che
tradotto in parole sarebbe: «che aspetti, Sean, a sbattermi su questo dannato
tavolo di cucina?».
Non credo nella telepatia, ma certo la domanda deve in qualche modo
arrivargli perché, mentre ricomincia a mordicchiarmi sul collo, mi chiede.
«Hai mai visto Bull Durham?»
«Vuoi parlare di baseball, adesso?» rispondo lasciandomi scappare un
suono che è una via di mezzo tra un lamento e un risatina.
«Non proprio di baseball, ma di cosa accade tra Kevin Costner e Susan
Sarandon. Te lo ricordi?»
Mi ha abbassato leggermente lo scollo dell’abito in modo che la sua bocca,
sempre più calda e possessiva, possa avere libero accesso alla mia spalla
sinistra. Chiudo gli occhi e mi mordo il labbro inferiore per evitare altri
mugolii da porno star. Prendo un profondo respiro e rispondo.
«Come potrei scordarmi di quella scena? Crash e Annie su quel tavolo…»
«Mmm, allora te la ricordi bene» mi dice, seguendo con la bocca la linea
delle mie clavicole.
«La conosco a memoria, lo confesso» mormoro con un altro sospiro.
«Kevin Costner al meglio.»
Ora è passato all’altra spalla mentre le sue dita ricamano pizzi sulla mia
pelle, che non è mai stata tanto calda e sensibile.
«Quella scena» continua mentre la sua bocca risale verso la mia, «l’ho
sempre considerata una delle più erotiche mai viste al cinema.»
Esprimo la mia approvazione con un altro mugolio.
«E sai una cosa?» continua in un sussurro terribilmente sexy, le sue labbra
contro le mie. «Nei miei sogni più proibiti ho sempre fantasticato di rivivere
quella scena, ma non ho mai trovato la donna giusta per farlo.»
Da come mi sta fissando, o vuole divorarmi o pensa che io sia la donna
giusta. Chiudo gli occhi cercando di imprimere nella pellicola dei ricordi
questo momento.
«Vorresti forse farmi credere che quella donna sono io?» mormoro sulla
sua bocca. «Secondo me lo dici a tutte.»
Ridacchia.
«Hai ancora qualche dubbio?» dice poi passando gentilmente la lingua
sull’interno delle mie labbra. La cosa mi fa decisamente uscire di senno
perché lo prendo per il bavero della camicia e lo tiro ancora più vicino a me.
«Forse, allora, potresti smettere di parlare e incominciare a darti da fare»
dico con voce roca – è proprio la mia? –, e mi sento in questo momento più
persa e provocante di Susan Sarandon sdraiata su quel tavolo con Kevin
sopra di lei.
Sean non se lo fa ripetere e quando le sue labbra ritrovano le mie se ne
impossessa con una tale violenza che tutto il fiato mi esce in un solo colpo
dai polmoni. Annaspo e affondo nella sua bocca come fosse la mia unica
fonte di vita. Le nostre lingue si danno un gran da fare a prendere e a dare e a
riprendere di nuovo, mentre le mani di Sean si occupano, non senza qualche
difficoltà, della mia lampo. Il corpetto dell’abito scivola giù e rimango con
addosso solo il reggiseno di peccaminoso pizzo nero, una spesa folle che,
dopo stanotte, non considererò più inutile. Sean pennella la mia pelle con uno
sguardo bollente ed emette più che un gemito un suono di gola, basso e
disperato; mi accarezza i seni con dita leggere, poi la sua bocca scivola sui
capezzoli irrigiditi, li prende uno dopo l’altro fra le labbra e li succhia senza
neppure scostare il tessuto del reggiseno.
Se è un sogno, che qualcuno mi svegli, per favore.
Mi appoggio sui gomiti e mi rovescio all’indietro, e che Sean faccia di me
ciò che vuole. Perché in questo momento non cerco altro. Il mondo, fuori da
questa cucina, è solo un optional.
Nessuno dei due ha voglia di altri preliminari. Glielo leggo negli occhi e lui
lo legge nei miei. Quando mi solleva la gonna fin sopra i fianchi e mi sfila gli
slip (che per una volta nella mia vita sono coordinati al reggiseno, oh yeah!),
mi toglie anche il fiato. Afferro con avidità il piacere che Sean mi dà e me lo
tengo stretto il più a lungo possibile, perché so che questa notte sarà unica e
non voglio che inibizioni, timori, pudori, pensieri sul futuro o dannatissimi
sensi di colpa me la possano rovinare. Voglio, come Susan, tutto. Voglio il
mio Kevin. Voglio urlare e fare cose che prima di stasera non ho mai neppure
pensato di fare.
Sono pronta. Per lui.
La bocca di Sean scivola sul mio addome e, quando comincia a scendere,
non riesco a trattenere un grido di sorpresa, di piacere, di completo
abbandono. E non che, dopo un breve surplace, si fermi lì, non ne ha la
minima intenzione. Continua e continua, avida ed esperta, come se
conoscesse ogni mio più intimo segreto, ogni mia debolezza, ogni mio
desiderio; senza pietà, sorda alle mie preghiere, cieca di fronte alle mie dita
ormai esangui che stringono spasmodiche il bordo del tavolo come fosse
quello di una zattera. Procede fino al momento in cui le onde del mio piacere
non la ricompensano della fatica. Ampiamente.
Lascio il mio grido fluire insieme al mio piacere e non mi imbarazza affatto
che gli occhi ingordi di Sean si nutrano di me mentre giaccio senza forze su
un tavolo di cucina, ansimante, discinta, persa nel piacere che lui, Sean, Mr
Magnifico, mi ha dato.
Il suo sguardo è infiammato dall’eccitazione e dal desiderio non ancora
soddisfatto. Forse dovrei dire qualcosa tipo «sei stato fantastico» o qualche
altra banalità, ma, riferendomi a un’altra famosa scena del film, gli chiedo:
«Mi legherai al letto e mi metterai anche lo smalto sulle unghie dei piedi,
adesso?».
Il sorriso malizioso che Sean mi regala è incredibile, divertente e sexy.
«Potrebbe essere divertente metterti lo smalto, ma non ora, magari più
tardi, piccola squaw. Ora dovrai sopportare il mio egoismo maschilista,
perché, se non sarò dentro di te entro trenta secondi, credo che morirò,
esploderò forse, e mi avrai per sempre sulla coscienza.»
La sua voce roca e il suo respiro affannato mi dicono che non scherza
affatto.
«Cosa aspetti allora? Non sia mai che tu muoia per colpa mia» rispondo
sullo stesso tono ironico, mentre il desiderio comincia di nuovo a pulsarmi
nelle vene. E come potrebbe non essere così?
Non so neppure cosa sia il pudore, questa notte. Giaccio semi sdraiata su un
tavolo, praticamente nuda, ansimante, esposta, in fremente attesa che il
principe-orco più incredibile che io abbia mai incontrato mi faccia sua, come
in un feuilleton.
Mi sistemo meglio sul bordo del tavolo per gustarmi la scena di Sean che si
spoglia e, per provocarlo, comincio a canticchiare I just want to make love to
you, versione Stones, per essere precisa. Canzone più che perfetta per uno
spogliarello. Lui capisce al volo e ridendo, cantando con me ed esibendosi
nelle espressioni più buffe e sexy mai apparse sul volto di un superfigo come
lui, comincia ad ancheggiare e a togliersi la camicia.
Spalle larghe, braccia muscolose, addominali perfetti. Possibile che Mr
Magnifico non abbia neppure un po’ di pancia? Lo divoro con gli occhi
mentre fa roteare la camicia sopra la testa e poi me la lancia. La prendo e me
la porto al viso e ne respiro con avidità il profumo – voglio memorizzarlo per
poterlo risentire ogni volta che vorrò! – mentre lui è già alle prese con i
pantaloni che scivolano, scivolano e poi volano attraverso la cucina, come le
ali del peccato. Anche i calzini atterrano da qualche parte, mentre continuo a
cantare con Mick I don’t want to be your slave, I just want to make love to
you. Sean è in boxer ora, e ridendo gioca con l’elastico come si vede fare ai
California Dreams o come diavolo si chiamano, e saltellando con poca grazia
comincia a sfilarseli. Continuo a cantare, a incitarlo chiamandolo “baby”, e
soprattutto a ridere di gusto, ma quando alla fine anche i boxer volano per
aria e Sean si avvicina e mi accarezza con la punta delle dita un braccio, un
semplice, asessuato braccio, la voce mi si strozza in gola e comincio a
tremare. Tutto ciò che riesco a emettere è solo un stupido verso gutturale.
Sean è davanti a me, nudo e attraente come il diavolo, più eccitato del
diavolo. Lo prendo nelle mie mani e ora è lui a emettere uno stupido verso
gutturale prima di coprire la mia bocca con la sua e di stordirmi con un bacio
che mi farà probabilmente finire all’inferno.
«Hai apprezzato lo strip?» mi chiede senza mai lasciare le mie labbra.
«Sì baby, sei stato fantastico. Hai una carriera davanti a te, nel caso gli
affari ti andassero male» rispondo ironica, ma subito ogni voglia di scherzare
mi abbandona.
Siamo ormai così seri e pronti, che al nostro cospetto anche Grey e Ana, i
protagonisti delle Sfumature, si sentirebbero dei dilettanti.
È in piedi, pronto a entrare in me, ma esita. Si batte la mano contro la fronte
e impreca: «Cazzo».
“Cazzo”? A parte la scelta appropriata del termine, un’orrida ipotesi mi fa
accapponare la pelle.
«Ce l’hai vero? Dimmi che ce ne hai almeno uno…» Mi rendo conto di
stare implorandolo.
Lui mi guarda e scuote la testa, mortificato.
Sono una statua di sale.
«Cazzo!» Questa volta l’ho detto io.
«Non-ce-l’hai?» ripeto bianca come un cencio.
«Parli forse di questo?»
Apre il pugno della mano destra e me lo mostra, un preservativo nella sua
bella confezione argentata. Vedendo la mia faccia allibita scoppia a ridere.
«Scusa, non ho resistito» ridacchia, mentre io prima gli assesto un cazzotto
sulla spalla, poi gli strappo il preservativo dalla mano, rompo la confezione
con i denti e glielo infilo con l’abilità degna di una professionista, anche se –
lo giuro – è la prima volta in vita mia che lo faccio. Quando a tempo di
record termino l’operazione, i nostri sguardi si incrociano e se l’espressione
del suo viso riflette la mia come credo, l’anticipazione ci sta divorando
entrambi.
«E ora, principessa, I just want to make love to you» canticchia.
Per fargli capire che non potrei essere più d’accordo, gli circondo i fianchi
con le gambe.
«Anch’io lo voglio» mormoro, un istante prima che le sue labbra catturino
le mie e la sua lingua mi penetri senza delicatezza, mimando ciò che sta per
accadere fra di noi, ma un po’ più in basso. E quando accade, rimaniamo
immobili per un lungo istante, senza fiato, sorpresi, forse anche un po’
impauriti perché lo capiamo subito, ci lampeggia davanti come un neon
colorato.
Siamo perfetti.
Insieme siamo perfetti.
Mi tiene stretta a lui, un braccio intorno alla vita, una mano sulla nuca, ogni
dito un’impronta bollente sulla mia pelle. Mi aggrappo alle sue spalle, ma
non potendo muovermi non faccio altro che accoglierlo in me, assecondare
ogni suo movimento, abbandonarmi a una passione sconosciuta che continua
a crescere, come in un bolero erotico e sensuale, sempre più veloce, sempre
più eccitante.
Presto il nostro respiro si fa irregolare, i lamenti più ravvicinati, i gemiti più
impazienti, i nostri sguardi più complici. Le labbra si lasciano e si ritrovano,
mai paghe del sapore dell’altro.
Sento la mano di Sean scivolare dalla nuca al seno, giocare coi capezzoli,
poi scendere fra di noi. Il solo contatto mi fa sussultare e gemere e invocare la
mia liberazione.
«Se fai così, non posso più… io non riesco a più a trattenermi…» mormora
lui.
Rispondo con un gemito e lui comincia a muoversi sempre più veloce
dentro e contro di me, sinché non esplode e io esplodo con lui nell’orgasmo
più devastante che abbia mai provato. Altro che fuochi di artificio! Altro che
piccola morte!
Forse sto proprio morendo.
Se non ci fosse Sean a sostenermi, credo che scivolerei giù dal tavolo prima
di scivolare nell’oblio.
Con lentezza l’oblio lascia il posto alla realtà e mi accorgo che le braccia di
Sean sono ancora salde e sicure intorno a me, scosse dallo stesso tremore che
non mi abbandona ancora.
Appoggia la sua fronte alla mia, mi sorride con quei suoi occhi incredibili e
mormora una sola parola: «Dio!».
Nonostante sia ancora ansimante e in debito di ossigeno, trovo la forza di
prenderlo in giro.
«Ehi, addirittura crederti un dio…»
Lui si mette a ridere e mi bacia sulla bocca, un lungo bacio che spero non
sia una fine.
«Non sono tanto presuntuoso, Joy. O forse dovrei?» mi chiede sollevando
un sopracciglio.
Lo bacio anch’io, ma sulla punta del naso.
«Vorresti forse dire che… il merito è solo tuo?»
Mi rivolge uno sguardo divertito, ironico.
«A giudicare da come mi pregavi…»
Lo guardo male, fingendomi oltraggiata. Voglio mantenere il tono del
nostro dopo su livelli leggeri. Perché il solo pensiero che questa sarà la prima
e anche l’ultima notte insieme a lui potrebbe farmi scoppiare in un pianto
disperato. E non è piangere ciò che voglio. Desidero che il ricordo di questa
notte sia per entrambi indimenticabile, qualcosa cui aggrapparmi quando non
mi rimarrà altro.
«Un po’ di merito, forse ce l’ho anch’io» rispondo con un sorriso che
vorrebbe essere malizioso, ma forse è solo un altro modo per nascondere il
panico che mi sta montando dentro.
Lui mi bacia ancora, un altro bacio profondo che mi lascia senza fiato.
«Ok, lo ammetto» dice staccandosi dalle mie labbra.
«Cosa?»
«Ammetto che questa è stata la più incredibile, fantastica sco…» Si
interrompe. «Scusa, non volevo chiamarla così.»
«Sco…?»
«Già.»
«E cosa è stata, se non una sco…, Sean? Sesso? Non ci vedo una gran
differenza» chiedo, ostentando un cinismo che non mi appartiene.
«Non lo so, Joy. So solo che è stato più di un semplice e salutare esercizio
di sesso e che il merito non è mio, ma neppure tuo, se per questo…»
«No?» rispondo come un angioletto, come se la cosa mi fosse sfuggita, se il
sesso per me fosse sempre stratosferico.
Lui scuote il capo e mi fissa con occhi all’improvviso troppo seri.
Prende un profondo respiro, poi dice: «Il merito è nostro, Joy».
Nostro? Nostro.
«Siamo semplicemente perfetti, insieme» dice.
Ecco, ora sono veramente a pezzi.
Lui fa per proseguire, forse per spiegarmi questa sua sballata e pericolosa
teoria della perfezione come se non la conoscessi già, ma gli impedisco di
parlare, mormorando sulla sua bocca: «Taci, Sean, per l’amor di Dio, taci».
Scuote la testa, poi chiude gli occhi e rovescia il capo, quasi stesse
prendendo una decisione importante o cercando una soluzione a un problema
impossibile.
Quando i suoi occhi ritrovano i miei, ha già cambiato espressione.
«Andiamo a farci una doccia» dice, «e poi a letto.»
Mi aiuta a scendere dal tavolo e mentre ci rivestiamo ci accorgiamo di non
essere più soli. Armageddon e Paraspifferi, dopo essersi spazzolati la scatola
di biscotti e aver finito l’acqua nella ciotola, si sono sistemati sul tappeto
davanti al lavello a godersi quello strano spettacolo di umana debolezza e, a
giudicare dalla loro espressione, sembra anche che lo spettacolo li abbia
annoiati.
Sean chiude tutte le porte di casa mentre io rabbocco l’acqua nella ciotola e
ordino con una carezza ai miei due amici quadrupedi di starsene buoni lì, a
cuccia. Poi seguo Sean su per le scale, sino alla sua camera da letto.
E non c’è bisogno che aggiunga altro.
13
Domenica 29 giugno, mattino

Mi risveglio nel letto di Sean e, grazie al cielo, è abbastanza presto per


sperare che Jimmy stia ancora dormendo. Se mi trovasse a letto con suo
padre come reagirebbe? E come potrei spiegargli che nulla è cambiato fra noi
e che Grace è sempre la pretendente ufficiale al trono?
“Non lo guardare, non lo guardare, non lo guardare” mi ripeto, mentre
indugio nel letto, ma no resisto, gli lancio un’occhiata e finisco per rimanere
con lo sguardo inchiodata a lui. Sean dorme sereno. Sembra molto più
giovane della sua età ed è una magnifica visione. Un vero principe.
Solo un lembo di lenzuolo lo copre – sì, in punti strategici – e avrei una
gran voglia di toccare tutta quella pelle nuda, assonnata, abbronzata. E questa
volta almeno, non con secondi fini. Vorrei accarezzarlo, fargli il solletico,
baciare ogni centimetro quadrato della sua pelle che profuma di buono e di
sapone, lo stesso di cui profumo anch’io.
La doccia…
Dopotutto, sembra proprio che le scene bollenti di romanzi e film non siano
pura fantasia, come credevo. Ridacchio al pensiero che la donna che questa
notte si è rotolata su questo letto e in altri posti con Sean sono proprio io.
L’esperta mondiale di ranocchi che non si trasformano in principi, di maschi
beta in discesa rapida verso gamma e delta.
Un movimento quasi infantile di Sean, una mano che si stringe al lenzuolo
in cerca di sicurezza, mi strappa un sorriso e mi scatena dentro un piccolo
terremoto. Vorrei passargli una mano sulla peluria bionda del petto, sfiorargli
le labbra con le mie, sussurrargli qualcosa di bollente nell’orecchio mentre gli
mordicchio il lobo. Tutti pensieri molto sbagliati che devo ricacciare in fondo
alla lista dei desideri. Perché non voglio che Sean si svegli. Non voglio
affrontare il gelo della delusione, di un “è stato bello, ma è già domani” anche
se so benissimo di doverlo fare, perché è esattamente così che le cose
andranno. È stata una notte di fuoco, una notte da “una botta e via” (tre,
veramente), e ciò è quanto.
Punto a capo.
La mia vita deve ricominciare. Lontano da qui. Lontano da Sean. Ho un
libro da scrivere e qualche ranocchio da incontrare. Devo pensare a prenotare
un aereo e tornare alla vita di sempre, sempre che zietta si degni di
ricomparire a Cape Love con il suo nuovo sposo indiano. Una morsa di pura
invidia mi afferra la gola. Invidio l’amore che brilla negli occhi di zia Ari e di
John quando si guardano, invidio il loro presente e il loro futuro insieme,
almeno fino a quando durerà.
Sospiro. Ultimamente sembra che mi venga facile.
Devo alzarmi.
Cercando di non far rumore, scivolo fuori dal letto e comincio a cercare
vestito e biancheria con la sensazione che ogni passo risuoni nella stanza
come una grancassa. L’impresa non è facile, anche perché mi scappa da
morire la pipì, ma alla fine recupero tutto e con passo felpato mi dirigo verso
il bagno.
Fruscio di lenzuola.
«Buongiorno, Joy.»
Merda!
La voce roca e assonnata di Sean mi colpisce sleale alla schiena e un
brivido di puro piacere mi percorre la colonna prima di raggiungere altre zone
più private.
Proprio quel tipo di emozione assassina che stavo cercando con cura di
evitare.
Mi giro verso di lui e quando mi ricordo di non avere addosso nulla,
neppure una goccia di Chanel n.5, arrossisco dalla testa agli alluci. Non che
Mr Magnifico non abbia già visto come sono fatta, se per quello ha usato tutti
i sensi per esplorarmi in lungo, in largo e in obliquo (wow, sì!). Ma in
circostanze… diverse, molto. Ora è mattina e la vita ricomincia da ieri. La
notte non è stata che un piacevole intervallo. Un sogno perfetto a occhi aperti.
Qualsiasi cosa sia stata, è da dimenticare.
Cerco di coprirmi col vestito, ma, per quanto ci metta un notevole impegno,
c’è sempre qualche parte che mi scappa fuori.
Lui mi fissa con aria incuriosita, se non divertita. Ruota la testa da un lato e
poi dall’altro, per seguire le mie evoluzioni pudiche.
«È meglio che vada» dico.
«Perché invece non torni a letto?» chiede con voce così bassa e carica di
testosterone che mi fa accelerare forte il sangue nelle vene.
Chiudo gli occhi per non guardarlo, per avere qualche chance di resistere
all’impulso che mi farebbe correre veloce da lui.
Anche se sono ormai in apnea, come una donna assennata ripeto il
concetto: «No, Sean, è meglio che vada prima che Jimmy si svegli e ci trovi
insieme. Sarebbe un disastro per lui, soprattutto dopo quanto è successo ieri
sera. O te ne sei già dimenticato?».
Sparisco in bagno, dove finalmente mi impongo di respirare. Respiro per
poco, perché un paio di secondi dopo Sean è dietro di me, vedo il suo riflesso
nello specchio.
Come diceva quella vecchia canzone?
Sono una donna, non sono una santa. Già.
Decido di distogliere lo sguardo dal metro e ottantacinque di Sean e di
passargli per sicurezza i boxer, che pendono dalla maniglia della cabina-
doccia.
Li prendo fra due dita, mi giro e glieli porgo, il braccio teso, come se
volessi nello stesso tempo tenerlo a distanza.
«Ma che diavolo?» borbotta.
Per quanto sia ancora nuda, sono più inflessibile di Mary Poppins e mi
immagino che la cosa non manchi di comicità. Sollevo il sopracciglio e
rimango immobile, il braccio ancora teso, i boxer sempre fra di noi, in
paziente attesa che lui li prenda. Quando lo fa tiro un respiro di sollievo e lui
ricomincia a borbottare.
«Credi che sia un padre incosciente? Jimmy è un dormiglione, non si
sveglia mai prima delle nove, e poi le chiavi nelle stanze esistono per
chiudere le porte, se te ne fossi dimenticata.»
Si infila i boxer, mentre io rimango immobile, guardando con testardaggine
dall’altra parte e stringendo al petto i miei abiti, virtuosa fino in fondo.
«Ora, se tu fossi così cortese da uscire, potrei vestirmi» dico con voce
ridicolmente tremula, quando ormai i boxer nascondono ciò che era diventato
più che un indizio sulle intenzioni di Sean.
«Giuro che non ti capisco» borbotta lui andandosene.
Se è per quello, non mi capisco neppure io.
Scendo al piano inferiore e appena metto piede in cucina i miei due amici
canini mi trotterellano incontro, Armageddon felice, Paraspifferi oltraggiato
per aver passato una notte intera su un tappetino ruvido e non su un comodo
divano.
Mi accuccio e li coccolo un po’, poi li lascio uscire e scorrazzare liberi in
giardino.
Loro vanno e Sean arriva.
Perché ogni volta che i miei occhi si posano su di lui, magnifico orco
travestito da principe, il mio cervello sembra subire un elettroshock? Grazie
al cielo adesso indossa anche jeans e T-shirt. Solo i suoi piedi sono nudi.
San Crispino ti ringrazio.
«Caffè?» mi chiede.
Vorrei rifiutare, ma se non faccio circolare subito un po’ di caffeina nelle
vene, potrei anche addormentarmi durante il breve tragitto che mi riporterà al
faro, insomma, a casa. Non è che io abbia trascorso la notte a dormire.
«Te ne sarei riconoscente per tutta la vita» rispondo.
«Vuoi anche due uova? Io ho una fame da lupo!»
Chissà come mai?
Sospiro, vorrei passare tutta la mattinata insieme a lui, ma non devo, devo
andarmene subito, e in fretta. Quindi, per coerenza, rispondo: «Fritte o
strapazzate?».
Alla faccia della coerenza.
«Come le preferisci?»
«Strapazzate.»
«E sia.»
In silenzio lo osservo mentre si dà da fare con estrema disinvoltura prima
alla macchina del caffè, poi ai fornelli. È un gran bel vedere (ok, anche
sedere!) che mi mette in circolo delle strane idee, troppo intime e casalinghe,
di quelle che poi ti fanno male. Le respingo con tutta la mia forza, che
davvero è pochina, mentre lui rompe quattro uova in una ciotola con la
maestria di uno chef, vi aggiunge del latte e del sale, qualcosa di verde e
sbatte il tutto mentre già in una padella del delizioso bacon sta incominciando
a soffriggere, con buona pace del mio e del suo colesterolo. Certo il profumo
è delizioso e quando si mescola a quello del caffè che sta colando dal filtro,
mi sembra di essere in paradiso.
Forse sto ancora sognando.
«Mmm…» mormoro, e non so bene se sia in onore dei profumini che mi
stanno tentando o di Sean, che trovo il più sexy e adorabile dei cuochi. Non
riesco a ricordare nessun maschio, neppure tra quelli rospi e delta che ho
frequentato, neppure tra quelli formato zerbino, che mi abbia mai preparato
un caffè, figuriamoci la colazione. In questo momento mi chiedo se ho più
fame di Sean o delle sue uova. Sono ingorda, vero?
Ok, prima di mettermi a sbavare è meglio che distragga la mente.
«Dove trovo tazze e piatti?» chiedo come se fossi capitata in casa sua per
caso e non avessi passato con lui la notte a fare cose, anche in cucina.
«Nel primo armadietto, qui alla mia sinistra» risponde.
Ottima idea. Se prima c’era un tavolo fra me e lui, ora gli dovrò passare di
fianco, sentire nelle narici il suo profumo, oltre a quello del bacon. E fare
finta di niente.
«Prendi anche il succo d’arancia dal frigo e il pane, per favore» aggiunge
lui mescolando uova e pancetta.
Mi piace guardarlo.
Mi piace ascoltarlo.
Mi piace fare cose con lui.
Un altro sospirone. Orco, orco, orco!
“Smettila di fare la ragazzina e prendi quei dannati piatti.” Ubbidisco al
mio lato più sensato.
Prima vado al frigorifero, che si trova a distanza di sicurezza. Prendo succo
e pane a cassetta e li porto sul tavolo. Poi mi dirigo all’armadietto delle
stoviglie e per far ciò passo proprio dietro di lui. A qualche centimetro. Lui
pare assolutamente indifferente al fatto e continua a rimestare. Apro l’antina
del reparto superiore, prendo due tazze e le appoggio sul ripiano sottostante.
Poi cerco di prendere i piatti, che maledetti sono ancora più in alto, dove non
arrivo. Ma quanto è alta Mrs Hall, la signora che si occupa di Jimmy? Due
metri?
Mi alzo sulle punte come una ballerina e comincio a esibirmi in un
esercizio di stretching estremo.
Sono quasi sul punto di desistere e di andare a prendere una sedia, quando
sento Sean sghignazzare dietro di me.
«Serve aiuto?» chiede, e il suo corpo sfiora il mio; le sue mani si
appoggiano delicate alla mia vita, il suo bacino spinge contro il mio lato B.
Mi dimentico di respirare. Quando me ne ricordo…
«Sean» mormoro, «non mi sembra proprio il caso…»
«Sto solo cercando di aiutarti, sei bassotta come Paraspifferi, lo sai?» dice,
e le sue parole non mi offendono affatto, anzi mi solleticano il collo e altri
parti più intime, mentre le sue labbra si posano tra spalla e nuca e stringono
dolcemente.
«Ho fame» mormora.
E non c’è dubbio di cosa abbia fame, anzi di chi. Vorrei tanto lasciarmi
andare a lui e alla sua passione che preme contro di me, ma, che la forza sia
con me, resisto.
«Sean» ripeto con un altro sforzo di volontà. E a questo punto, dopo aver
sussurrato un «come vuoi» a denti stretti, lui fa ciò che non mi aspetto.
Stringe la presa intorno alla vita e mi solleva, come se non pesassi
sessantadue chili, ma venticinque, sinché non raggiungo il ripiano dei piatti.
«Presi» dico, e allora lui con lentezza mi deposita a terra, lasciando
scivolare le sue mani su di me, senza pietà.
Quando i miei piedi tornano sul pavimento, appoggio i piatti sul ripiano e
mi giro verso di lui. Mi struscio, per la verità, contro di lui, visto che ancora
mi sta appiccicato, le sue mani strette intorno alla vita. La tentazione di
passargli le braccia intorno al collo e di attirarlo ancor più a me è quasi
irresistibile e lo sguardo che ci scambiamo non è dei più innocenti. A dire il
vero, potremmo abbrustolirci del pane, tanto è rovente.
A proposito, sniff sniff, a giudicare dall’odore qualcosa sta già bruciando.
«Le uova!» urliamo all’unisono.
Stanno andando a fuoco.
Cinque minuti dopo sediamo al tavolo, a distanza prudenziale, bevendo il
caffè e spartendoci le uova e la pancetta che non si sono carbonizzate.
«Malgrado il tuo tentativo di dare fuoco alla casa, le uova sono buone»
dico. «E anche il caffè è ottimo. Grazie.»
Non sembra che l’argomento sia di suo interesse. Mi guarda con occhi che
mi paiono severi e velati di collera. Beve un sorso di caffè e dice: «Ieri sera
avremmo dovuto parlare, invece la serata si è conclusa…».
«… in modo inatteso. Sì, c’ero anch’io, me ne sono accorta» lo interrompo.
«Forse, se non volessi dartela a gambe come una lepre, potremmo parlare
adesso.»
«Di cosa, Sean?» chiedo fissandolo con la tipica espressione “non c’è
niente di cui parlare” dipinta sul volto.
Metto in bocca una forchettata di uova. Lui, invece, la forchetta la mette
giù e mi mostra il pollice della mano destra come se stesse per iniziare una
lunga enumerazione. Cosa che puntualmente fa.
«Uno, dobbiamo parlare di quel che è successo stanotte, tanto per
cominciare. Due» e qui scatta l’indice, «dell’attaccamento che Jimmy ha per
te. Tre» è la volta del medio, «di noi. Non sai neanche chi sono, e io non so
chi sei tu. Incomincio con una domanda che mi ha tenuto sveglio stanotte.»
Lo fisso ostinata.
«Pensavo di essere stata io a tenerti sveglio.»
«Mi riferivo ai momenti in cui abbiamo finto di dormire. Ecco la domanda.
Siamo davvero soltanto due estranei che non possono rimanere nella stessa
stanza senza saltarsi addosso, o siamo altro?»
Mi verso dell’altro caffè perché non so cosa rispondere.
«Perché se sei convinta» continua, «che io sia uno abituato a una botta e
via, ti sbagli di grosso. Da quando sto con Grace, non ho più guardato
un’altra. A parte te, ovviamente.»
«Ovviamente» dico acida.
«Allora, non rispondi?»
Mi alzo in piedi. Il fatto è che non so come rispondere alla sua domanda
senza, di fatto, rispondergli. Così dico: «E anche se fossimo altro? Cosa
cambierebbe?». Prendo la tazza colma di caffè in mano. «Posso portarmela al
faro? Non voglio sprecare questo ottimo caffè. La riporterò più tardi.»
«Non puoi berlo qui? Non abbiamo ancora finito di parlare.»
Scuoto la testa, decisa.
«Devo andare a casa a dare la pappa ai cani, a farmi una doccia e forse a
dormire un po’. E… Diavolo!» Mi batto la mano sulla fronte. Mi sono
ricordata all’improvviso del picnic con Henry, il vichingo. Ho promesso che
il cestino lo avrei portato io, e devo pensare anche a quello. Un bel cestino da
qualche parte l’ho visto in casa, ma non ho idea se nel frigo c’è qualcosa da
metterci dentro.
Sean mi fissa sorpreso.
«Diavolo che cosa?»
«Niente di grave, è che mi sono ricordata che devo fare una cosa.»
Anche se Sean non parla, il grande punto interrogativo che vedo sulla sua
faccia richiede una risposta.
«Ho un appuntamento a mezzogiorno e me ne ero completamente
scordata.»
«Con chi?»
Gli sorrido. “Non sono fatti tuoi” dicono i miei occhi.
«Grazie della colazione, Sean. Più tardi o domani riporto la tazza.»
«Certo. La tazza, la colazione, il dannato caffè. Non posso crederci. È la
prima volta che una donna mi molla in questo modo» mormora tra i denti,
abbastanza forte perché io lo senta. Sembra allibito.
Scuoto la testa e mi dirigo alla porta che dà sul giardino. La apro e mi giro,
per imprimere Sean nella mia memoria, per ricordarmi per sempre di come
meravigliose possano essere le mattine con l’uomo giusto. Giusto?
«Non ti sto mollando» dico. «E comunque» aggiungo con aria fiera, «non
sono una bassotta. Sono alta ben un metro e sessantacinque centimetri, che
non saprei tradurre in quelle strane misure che usate da queste parti»
aggiungo. Poi me ne vado.
Merda merda merda.
***
Lo stesso giorno, più tardi
Cinque ore più tardi sto camminando sulla spiaggia con il vichingo. È
piacevole sentire il profumo del mare sulla pelle, la musica rassicurante delle
onde che si infrangono sulla battigia, le urla dei bambini che corrono dentro e
fuori l’acqua, anche se il mare oggi non è dei più calmi. Ma c’è un sole caldo,
quindi la spiaggia che corre sotto il promontorio è affollata come ci si aspetta
che sia di domenica.
Henry, vestito in jeans e polo, sembra molto rilassato, a suo agio. Saluta
tutti, elargisce sorrisi a destra e a manca come nella pubblicità di un
dentifricio.
Un po’ seguiti e un po’ preceduti da Armageddon e Paraspifferi, giungiamo
in un punto dove la spiaggia si allarga. C’è molta gente, cosa che al signor
sindaco sembra non dispiacere.
Ci sistemiamo proprio sotto la scogliera, dove c’è una perfetta zona
d’ombra che sembra fatta apposta per il nostro picnic.
«Affamato?» chiedo, mentre stendo una tovaglia sulla spiaggia.
Da come mi guarda lo è. Ridendo dice: «Piuttosto».
Alzo gli occhi al cielo, ma anche se il suo corteggiamento è prevedibile,
non nego che mi diverta.
Una giovane coppia viene verso di noi, sorridente. Henry le va incontro e
stringe le mani di entrambi. Non colgo esattamente di cosa parlino, ma
sembra che il vichingo gli stia promettendo qualcosa. Quando ritorna da me e
si siede sulla coperta che ho aperto sulla spiaggia (è evidente che il signor
sindaco non è uno a cui piaccia dare una mano in faccende di poco conto)
l’uomo con cui ha appena parlato alza il telefonino e chiede: «posso?».
«Certo, Tom» risponde Henry. E Tom ci scatta una foto, anche due o tre.
Sono così ingenua da non capire ancora dove quelle foto andranno a finire.
«Le tue quotazioni salgono» gli dico, «avevo ragione.»
«Salirebbero ancora di più se tu mi permettessi di prenderti per mano o
magari abbracciarti. Sai, alla gente piacciono le storie d’amore.»
Lo guardo allarmata, senza capirci un’acca.
«Spiegati, per favore.»
«Parlo delle nostre foto che sono già su Twitter e sugli altri social network,
e che probabilmente domani pubblicheranno sul Portland Press Herald e
mostreranno nelle tv locali. A proposito, sei un incanto, oggi.»
Ci metto un po’ a elaborare il significato delle sue parole.
«Di cosa stai farneticando?» chiedo allibita.
«Non farnetico affatto. Dico solo che sei un incanto e che, se potessi
baciarti, questa giornata diventerebbe da bellissima a perfetta.»
Scuoto la testa vivacemente.
«No, non hai proprio capito. Mi riferivo a quella cosa di Twitter e delle tv
locali. Di che diavolo di foto stai parlando?» gli chiedo minacciandolo con un
cucchiaio.
Lui mi guarda divertito.
«Non ti sei accorta di tutte le foto e dei video che la gente ha fatto con i
telefonini? Da quando i cellulari hanno le videocamere incorporate, la parola
privacy si potrebbe toglierla dal vocabolario. Ma…» continua puntandomi un
dito contro, «la cosa ha anche un risvolto positivo. Hai proprio ragione, le
mie quotazioni saliranno.»
«Io non voglio comparire sui social network e in tv! Faranno delle
insinuazioni! Diranno…cose!» protesto.
Lui alza le spalle. Batte una mano sulla coperta come per invitarmi a sedere
accanto a lui e poi dice: «Cosa c’è di buono in quel cestino?».
Lo guardo come fosse un alieno.
***
«Buonissima, adoro la pasta» dice terminando il secondo piatto di pasta
fredda (con pomodorini, olive e capperi) che si è spazzolato. «Ma se metto su
un chilo, sai chi incolperò, vero?»
Mi serve un altro bicchiere di buon pinot bianco e gelato della California.
«E tu sai chi incolperò io se mi ubriacherò e finirò su Twitter, vero?»
Lui si china verso di me e mi sussurra con un sorriso diabolico: «Farti
ubriacare è esattamente ciò che conto di fare» mentre l’ennesimo telefonino
immortala la scena. Proprio una scenetta romantica.
«Brindo alla privacy» dico a voce alta, alzando il bicchiere verso il
fotografo improvvisato, irritata e quasi pronta alla rissa. Stupido gesto, perché
dovrei prendermela solo con me stessa: a chi è venuta questa brillante idea
del picnic in spiaggia con il vichingo, nonché sindaco di Cape Love e
prossimo candidato al congresso?
Al mio genio italico.
Bevo un altro sorso, e devo stare attenta perché la possibilità che il pinot mi
dia alla testa non è poi così remota.
«Dunque, Henry. Il party di ieri sera è stato interessante?»
«Noiosissimo, per la verità. E il tuo film?»
«Divertentissimo, come si suppone sia un film di Superman.»
«E il tuo accompagnatore? Quello maggiorenne intendo.»
Sembra che all’improvviso tutto il mio sangue abbia deciso di concentrarsi
sulle mie guance. Divento più rossa dei pomodorini che ho messo nella pasta.
Rimango per di più senza parole.
«Adoro una donna che arrossisce» dice lui piantandomi gli occhi addosso
come due arpioni, «ma preferisco quando arrossisce per me, e non per un
viziato approfittatore.»
Il mio sguardo scatta nel suo. Sento il viso tornare pallido, come se il
sangue si stesse trasformando in acqua.
«Viziato approfittatore?» ripeto con una tacita preghiera di spiegazioni e
del tutto indifferente a mostrare la mia costernazione.
«Non che sia mai stato amico di Sean McCallun, anzi, a dire il vero, non ci
siamo mai sopportati. Ma non posso negare che ha sempre sostenuto la città
con generose donazioni. Ma da ieri sera…»
Mi sembra che il cuore mi stia per scoppiare nel petto, perché so già cosa il
vichingo sta per dirmi. Lo guardo, in attesa che lo faccia, maledizione! Lui si
gode questo momento, sa di avermi in palmo. Dopotutto è un avvocato e un
politico e sa come tener in pugno la gente. Soprattutto una mammoletta come
me.
«È Sean McCallun, l’uomo con cui sei uscita ieri sera, che sta facendo
incetta di edifici storici. Abitazioni e negozi che sono affittati da anni a
pensionati, per lo più. Dio solo sa che intenzioni abbia. Cosa vuol fare del
nostro villaggio? Ribattezzarlo Ocean, forse?»
Non dico niente. Mi guardo le mani perché non sopporto l’espressione di
vittoria che campeggia negli occhi grigi e freddi di Henry. I suoi capelli
chiarissimi brillano, ma come il ghiaccio. Henry mi dà i brividi.
«Dunque è così» mormoro, senza nascondere la delusione che mi sta
devastando.
Sean, uno speculatore? Penso a Joanna, alla libreria che forse dovrà
chiudere, alle nostre vecchine, quelle che ormai vado a trovare tutti i giorni e
che mi affogano di caffè: tutte costrette a lasciare la propria casa e forse a
trasferirsi, se Sean lo vorrà.
«Già, è così» risponde lui.
Sono così mesta che anche Armageddon e Montmorency se ne accorgono.
Si accucciano vicino a me e appoggiano il muso sulle mie gambe.
Voglio trovare una spiegazione sensata a questa storia. Sean deve avere una
ragione per comportarsi così.
«Perché lo fa, secondo te?» chiedo.
Alza le spalle e scuote la testa.
«Chi lo sa? Avrà un progetto preciso, questo è chiaro.»
«Ma tu cosa pensi?»
«Non penso niente, per il momento.»
Sul volto ha un’espressione dura, determinata.
«In qualità di sindaco, non puoi impedire una speculazione di questo
genere?»
«Siamo in democrazia, Gioia, in un paese dove mercato e concorrenza sono
dei dogmi.»
«Già, ma intanto quelle povere donne dovranno lasciare la loro casa, come
faranno?»
Mi passa un braccio dietro le spalle, e mi stringe a sé per consolarmi,
almeno all’apparenza.
«Penserò a loro, non ti preoccupare. Ci penserò io! Troverò il modo per
bloccare tutto ciò.»
Prima che io riesca a liberarmi dal suo abbraccio e dalle sue labbra che si
sono posate sulla mia fronte, un numero enne di foto sono già state scattate.
Che mi fotografino pure! Sono talmente sconvolta dalla notizia che Henry mi
ha dato, che non mi importa nulla di quello che penserà la gente di me, di noi.
Ciò che è certo, è che non intendo rimanere a guardare mentre un piano così
bieco sta per essere perpetrato ai danni di vecchie signore innocenti… In
realtà sembrano uscite da Arsenico e vecchi merletti, ma non è questo il
punto! Il punto è la giustizia! È troppo facile prendersela con loro!
Voglio lottare per loro, almeno per il periodo che rimarrò a Cape Love.
Non so bene come, ma qualche soluzione la troverò, perché se ho avuto il
coraggio di andarci a letto solo pochi giorni dopo averlo conosciuto, avrò
anche la forza di far cambiare idea a Mr Ocean, di farlo ragionare.
Sono ormai le quattro del pomeriggio e gli ingranaggi del mio cervello
vanno a mille mentre, immobile e silenziosa, fisso l’oceano. Le onde
sembrano essersi allungate sulla battigia e la spiaggia è diventata più sottile.
«La marea» dico, mentre noto che il braccio di Henry è ancora ben saldo e
protettivo intorno alla mia vita.
«Sì, il mare sta crescendo. Meglio andare, se vogliamo tornare al faro lungo
la spiaggia e non doverci arrampicare sugli scogli o risalire sul promontorio.»
Si alza in piedi.
«Ok» rispondo laconica, incominciando a mettere via ciò che resta del
picnic.
C’è l’alta marea a Cape Love. Ho la fredda sensazione che stia per
inghiottirmi, accogliente come una culla, pericolosa come un gorgo. Brividi
mi corrono lungo la schiena mentre piego la coperta e chiamo a gran voce
Paraspifferi, impegnato in una lotta all’ultimo sangue con una bottiglia di
plastica che qualche demente ha abbandonato sulla spiaggia.
14
Al faro, quello stesso giorno

Una volta giunti al faro, ho qualche difficoltà a liberarmi di Henry, che mi


offre di terminare la giornata insieme a lui. Con la scusa che devo lavorare e
la promessa di una cena il prossimo martedì, riesco alla fine a mandarlo via.
Una volta sola, mi faccio una doccia, mi infilo un paio di vecchi short e una
canotta bianca e salgo in cima al faro, seguita come sempre dai miei due
fedeli guardiani canini. Spalanco tutte le finestre e subito una meravigliosa
aria fresca di vento e profumata di pini e di salsedine invade lo spazio e le
mie narici. Le vetrate del faro mi offrono una panoramica di 360 gradi, così
ruoto lentamente su me stessa per bearmi di quello spettacolo e mi fermo
circa a gradi 250, proprio nel punto in cui la grande casa bianca e grigia dei
McCallun entra nel mio campo visivo. Non mi sembra che ci sia nessuno in
giro. Se è per questo non c’è pure l’auto di Sean. Mi chiedo dove se ne siano
andati quei due.
Lo sgomento non mi ha ancora abbandonata e ho una voglia folle di andare
a esprimere tutta la mia delusione e il mio rancore a Mr Magnifico anche se
una voce mi dice di non essere precipitosa, di sentire un’altra campana, la
sua. Ma non ora, ora sono troppo su di giri. Dovrò essere calma quando lo
affronterò e soprattutto dovrò essermi tolta dalla testa i ricordi della notte
precedente. Perché non solo occupano ogni neurone e sinapsi della mia
mente, ma si allargano come una rete a ogni cellula del mio corpo, strusciano
infidi dentro di me, tronfi del loro potere. Mi lusingano, catturano i miei sensi
e li risvegliano, senza pietà. Sono ricordi così vivi e potenti da solleticarmi la
pelle, da mandarmi il cuore in corto, da togliermi il respiro. Come se le mani
e la bocca di Sean fossero ancora su di me. Come se lui fosse ancora dentro
di me.
Potrei disegnare una mappa del mio corpo e indicare con una freccia dove
Sean mi ha toccato, baciato, morsicchiato. Ogni singolo, dannatissimo punto.
Dalla nuca agli alluci. Già, anche gli alluci.
Servizio completo.
È chiaro perché non posso andare da lui e dirgli il fatto suo ora? Perché
sarebbe un disastro, ecco cosa sarebbe, gli basterebbe allungare una mano
verso di me e mi dimenticherei del resto del mondo, vecchine comprese.
Disegnerò, ecco cosa farò. Il disegno, come ogni altro lavoro manuale, mi
calma e mi distrae. E poi devo andare avanti con il mio libro, no? Il mio
lavoro è la mia vera vita. Cape Love non è che un attimo e passerà senza
lasciare segno.
Come se ci credessi…
Mi siedo alla scrivania di zia Ari che guarda verso il mare, bevo un sorso
del caffè di cui mi sono armata e prendo in mano una foto di Jimmy, il volto
del protagonista della mia storia.
Dio! quanto assomiglia a suo padre.
Rigiro la foto tra le mani sorridendo come un’imbecille, poi la rimetto giù.
Forse è meglio che disegni qualcos’altro, guardare gli occhi di Jimmy è
come guardare quelli di suo padre, e la cosa non mi fa bene. Mrs Heseltein,
con il suo terribile chihuahua in braccio, potrebbe essere invece un buon
soggetto. Cerco la sua fotografia e mi metto al lavoro.
Passa un’ora, due ore, tre. La luce è meno accecante adesso, più rosata.
Forse perché il sole sta tramontando e il cielo e il mare a ovest sono colorati
di rosso. Una sinfonia di colori che subito cerco di riprodurre a matita su un
foglio.
Soddisfatta, mi alzo in piedi e noto che Armageddon e Paraspifferi mi
stanno osservando con una certa insistenza. Per non dire assatanati. Dio!
Devono essere già le nove! Hanno fame.
«Avete ragione, poverini, non mi sono dimenticata di voi» dico,
accucciandomi fra loro e accarezzandoli. E guadagnandomi il loro sguardo
adorante. Prima di scendere dal faro, però, indugio un altro secondo e mi
posiziono ancora a gradi 250, così, tanto per dare una sbirciatina alla casa dei
miei vicini. Il SUV di Sean ora è parcheggiato nel vialetto. I due uomini di
casa sono tornati alla base.
Sistemati i cani, scelgo un film da noleggiare dal catalogo on line di Ocean
e mi sistemo davanti alla tv. Zietta sarà pure una figlia dei fiori, tutta zen e
illusioni new age, ma quando si tratta di tecnologia, Dio la benedica, sceglie
il meglio ed è al passo coi tempi. La tv lcd a 50 pollici che sto per accendere
è una meraviglia e il collegamento al mio computer perfetto. Scarico il film e
clicco play. Con una ciotola di patatine consolatorie alla mia destra e una
scatola di kleenex dall’altra, mi sistemo a gambe incrociate sul divano e…
via! La mia serata quasi perfetta incomincia. Non che io abbia veramente
bisogno di kleenex per asciugarmi le lacrime. Non ho certo scelto un film da
piangere. Masochista sì, ma non sino a questo punto. Ma visto che 1) al
momento sono piuttosto sensibile alle storie d’amore; 2) so che Sean è a casa
sua e che la sua casa si trova a pochi minuti a piedi dalla mia; e 3) ho la
sensazione che probabilmente non lo vedrò più, anche perché ormai l’ho
classificato tra gli “orchi speculatori senza cuore figli di buona donna”, è
probabile che prima o poi di un kleenex avrò bisogno.
Dannazione.
Sospiro, alle prime immagini del film che, per la cronaca, è quella delizia di
Un amore di testimone, con Michelle Monaghan e Patrick Dempsey. Lo
adoro. Adoro New York, adoro il caffè, adoro la Scozia, adoro il lui e il lei di
questa commedia così romantica e divertente. E la nonna di lei! Dio, la nonna
è fantastica. Conosco questo film praticamente a memoria, ma la cosa non mi
vieta di gustarmelo di nuovo come fosse la prima volta.
Saranno ormai le dieci e mezza e finalmente arrivo alla parte del film che si
svolge in Scozia. Mi preparo a godermi ogni minuto, perché ci sono dei punti
irresistibili, durante i quali so già che scoppierò a ridere come una cretina.
Come quello della cena di famiglia nel castello dell’altro lui, il duca
scozzese, quello che vorrebbe sposare lei e che alla fine non la sposerà. Ok,
lo so che se non avete visto il film non ci avete capito niente, ma forse vi ho
incuriosito e troverete una buona occasione per farlo. Dunque, sto ridendo
come una pazza quando qualcuno bussa alla finestra. Più che sussultare,
sobbalzo. Paraspifferi scatta dal divano come un cavaliere dell’apocalisse
pronto alla vendetta mentre Armageddon, molto più saggia, alza solo un
orecchio e dà a malapena una sbirciatina, poi, considerato lo scampato
pericolo, si rimette a dormire. Non fa certo come me che, per lo spavento, mi
esibisco in un doppio carpiato facendo volare in giro tutte le patatine – be’, le
poche che sono rimaste, per la verità. Ora sì che Armageddon si alza e
comincia con la sua linguona a spazzare pavimento e divano. Divora tutte le
chips cadute, insomma, briciole comprese. Brava ragazza. Non che nel
frattempo io mi sia dimenticata dello sconosciuto (anzi, a ben vedere…
conosciuto!) alla finestra, che è ancora lì e mi fissa con un che di accusatorio
negli occhi.
Lui accusa me? Mr-Speculatore-distruggi-felicità-di-povere-vecchiette sta
guardandomi male?
Gli faccio segno di andare alla porta del portico e vado ad aprirgli.
«Si può sapere per quale motivo ridevi così tanto?» mi chiede entrando in
salotto come una furia. Tiene in mano un iPad.
«Buonasera anche a te» gli rispondo secca. «Stavo vedendo un film
divertente, tutto qua, e di solito quando guardo un film divertente mi scappa
anche qualche risata. Cosa che non è certo un reato.»
Calco il tono sulla parola “reato”, anche se forse è un termine un po’
esagerato per descrivere cosa lui sta facendo. Infatti mi guarda con
espressione stupita.
«No, certo che non lo è.»
«Entra pure, sei venuto a riprenderti la tazza?» chiedo sempre con tono
gelido.
«Di che diavolo parli? Sei più strana del solito, Joy.»
«Io sarei strana? Parlo della tazza di caffè che ho preso in prestito
stamattina, ecco di che diavolo parlo. Te la vado a prendere.»
Sparisco in cucina e torno dopo pochi secondi con la tazza incriminata in
mano. Lo ritrovo seduto sul divano, col muso di Armageddon sulle ginocchia
e Paraspifferi sulle ginocchia. Per un attimo invidio Montmorency.
«Eccola» dico porgendogliela.
«L’ho visto, molto carino» dice accennando col capo allo schermo, dove il
fermo immagine mostra gli occhi azzurri di Patrick Dempsey. Bellissimi,
certo, ma nulla a che vedere con quelli di Sean. Commetto l’errore di
guardarli e per un istante mi ci perdo dentro. Sono più scuri del solito e
mandano scintille pericolose.
«Jimmy?» chiedo.
«È già a letto, c’è Mrs Hall con lui, non l’ho abbandonato a se stesso, se è
questo a cui stai pensando.»
«Nient’affatto.»
«Bene.»
«Bene.»
«E cosa avete fatto, oggi?» aggiungo dopo qualche secondo. “Hai investito
col tuo SUV del cavolo qualche vecchietta inerme?” Lo penso solo, non lo
dico.
«Barca a vela» risponde lui. «Mi sarebbe piaciuto invitarti, ma da come te
ne sei scappata via questa mattina mi è sembrato che avessi di meglio da fare.
E poi, come dici tu, non è giusto per Jimmy vederci sempre insieme.
Potrebbe farsi strane idee.»
«Già, molto strane. Non voglio essere troppo presente nella sua vita»
commento rigida, ma in fondo infastidita che anche lui lo pensi.
Non mi risponde, afferra invece il telecomando e fa ripartire il film.
«Accomodati pure» dico ironica.
«Già fatto» mi risponde fissandomi con una faccia da schiaffi.
Grande!
«Se poi tu avessi anche una birra da offrirmi, sarebbe perfetto.»
Che sfrontatezza!
Lo guardo male per la seconda volta, poi mi alzo e vado in cucina a
prendergliela. Se c’è una cosa che non manca in casa di zia Ari, è una buona
scorta di Miller.
Torno in salotto e solo perché vedo Sean, quasi fosse normale per noi
essere nella medesima stanza, una scossa mi attraversa in lungo e in largo. Ha
appoggiato i piedi nudi sul tavolino (ma ci ha messo un giornale sotto), tiene
le braccia incrociate dietro la testa ed è il ritratto di mister “sono a mio agio”.
Solo a guardarlo mi vengono pensieri molto, molto da cattiva ragazza. Tipo
sedermi a cavalcioni su di lui e passare subito al sodo senza perdere tempo in
stupidi preliminari. Sean è così… invitante.
Ci sono uomini che in T-shirt sformate e jeans sdruciti dall’uso e non dalla
moda del momento ti possono fare impazzire, e Sean è proprio uno di quelli.
Non che mi dispiacerebbe se ci dessimo subito al sesso sfrenato –
occupazione in cui ci siamo dimostrati parecchio bravi e affiatati – ma in tutta
onestà mi basterebbe potermi accoccolare al suo fianco e rubargli qualche
sorso di birra mentre ci guardiamo insieme il film.
Continuo imbambolata a mangiarmelo con gli occhi, mentre lui ride a
vedere Dempsey in kilt alle prese con un enorme tronco d’albero, e in quel
momento mi appare non solo magnifico, ma anche perfetto. Il suo pomo
d’Adamo si muove su e giù mentre ride e, che Dio mi fermi, la voglia di
prenderlo fra le labbra è quasi irresistibile. L’immagine, così idilliaca e
intima, si scheggia in mille pezzi come uno specchio finito a terra quando
l’ultimo neurone che sembra funzionarmi ancora mi ricorda che Mr
Magnifico è un orco che, con ogni probabilità, a colazione divora adorabili
vecchiette.
Mi schiarisco la voce cercando di non fissargli il pomo d’Adamo.
«Eccoti la birra» dico allungando il braccio.
Lui la prende con un «grazie» e si abbandona a un’altra risata.
Bellissimi denti. Così bianchi e regolari! Mi mordo il labbro inferiore con
forza, per togliermi dalla testa certe idee, poi ritorno severa.
«Hai intenzione di rimanere a guardare la fine del film?» chiedo sempre più
rigida.
«Non mi spiacerebbe affatto… O forse tu preferiresti navigare un po’ su
Internet? Sai, oggi tra Facebook e Twitter le novità non mancano.»
Sulle prime non ci arrivo, ma poi grazie al mio unico neurone funzionante,
sempre lui, capisco il non velato doppio senso. Mi irrigidisco. Perché, una
volta tornata a casa, non ho controllato Internet? Il vichingo, io e il vichingo.
Dalla spiaggia di Cape Love ai social network. Su Youtube e sui siti della
stampa locale.
Sto ancora ripensando alla quantità industriale di foto e video di cui sono
stata l’involontaria protagonista, al modo in cui Henry mi ha stretto la vita,
mi ha baciato la fronte. Tutti atteggiamenti innocenti che certo, agli occhi
della gente, e di Sean, non saranno sembrati tali. Mentre fisso, senza vederlo,
lo schermo della tv in preda a un comprensibile disagio, Sean apre la custodia
dell’iPad e comincia a far scorrere le foto pubblicate sul sito del Portland
Herald e a commentarle ad alta voce.
«Sei molto fotogenica, Joy. Bella questa! Molto romantica. E senti qua!
Sembra che tutti si chiedano chi sia la futura first lady del nostro stimato
sindaco. Qui si dice che forse sei la figlia di un petroliere texano. Qui che sei
una stagista, come Monica Lewinsky! Che maliziosi!»
«Smettila» dico, «non sei divertente.» Il mio tono è gelido. Ma lui non ci
pensa neppure a smetterla.
«In questa foto stai benissimo, sei splendida! Sfido che Henry non riuscisse
a tenere le mani a posto! E Armageddon e Montmorency? Completano il
quadretto. Sembrate i perfetti fidanzatini d’America, pronti a convolare a
nozze e a produrre una nidiata di figli.»
«Puoi risparmiarti il sarcasmo, e andartene.»
Lui alza le spalle e prosegue a pugnalarmi.
«Sai che dopo la pubblicazione di queste foto su Internet è stato effettuato
un sondaggio – indovina commissionato da chi? – e l’indice di gradimento di
Mr Gustaffson è già cresciuto di dieci punti? No, non lo sapevi? Chissà
domani cosa succederà quando il Portland le pubblicherà sulle sue pagine!»
«Potrebbe pubblicarle anche il Washington Post, per quel che mi importa.»
«Henry comincerà a sfregarsi le mani alla mattina e finirà solo a notte
fonda, quando sarà troppo esausto per continuare.» Prende fiato. L’aria gli
esce dai polmoni e rientra un paio di volte prima che aggiunga: «E ora
passiamo ai video su Youtube, che sono ancora più interessanti» e incomincia
ad armeggiare con quel dannato iPad.
La voce di Sean è vetriolo puro nelle mie orecchie, i suoi occhi due lame di
fuoco che mi bruciano il cuore.
Oh, Mr Magnifico ha voluto ferirmi e ci è riuscito in pieno, un discorso
perfetto, il suo, pieno di sarcasmo e di amarezza durante il quale mi sono
abbandonata contro la spalliera del divano e non ho mai smesso di fissare lo
schermo della tv. Un amore di testimone è arrivato al punto in cui lei trova lui
che si rotola su un letto con una delle sue migliori amiche prima di
scapparsene via senza concedergli il beneficio del dubbio. Esattamente come
Sean sta facendo con me.
Non voglio dargli spiegazioni, che sarebbe come ammettere una colpa che
non ho. E poi, chi è Sean per pretendere delle spiegazioni da me?
«Pensa pure quello che vuoi» sussurro, «prendi la tazza e vattene.»
Per la prima volta lo guardo apertamente, sfidandolo, ma chissà perché non
posso fare a meno di notare l’ombra scura della barba sul suo volto e devo
trattenermi per non allungare una mano e accarezzarlo. Ho voglia di sentire la
sua guancia ruvida contro la mia mano.
Lui scuote la testa, e il risolino sarcastico che piega le sue labbra è uno
schiaffo sulle mie.
Non ha ancora finito.
«Non posso credere che tu, dopo ieri notte, l’abbia fatto davvero. Che tu ti
sia fatta baciare da… un altro, da un manipolatore, per di più, da un politico
figlio di puttana che venderebbe sua madre pur di arrivare a Washington.
Come hai potuto essere tanto ingenua, Joy? Come hai potuto, dopo quello che
è successo fra noi?»
E qui la freddezza sui cui contavo mi abbandona.
«Primo, mi chiamo Gioia, e non Joy» incomincio. Mi alzo in piedi e mi
giro con lentezza verso di lui, lo guardo dall’alto al basso, perché lui è ancora
sdraiato sul divano, come fosse un playboy su una spiaggia di Saint Tropez.
È… irritante, anche perché i suoi occhi non lasciano mai l’iPad e dalla sua
bocca continuano a uscire piccoli «ah» e «oh» sarcastici che vorrei fargli
ingoiare.
Prendo un lungo sospiro prima di dare sfogo alla contro arringa.
«Secondo» e qui scatta l’indice, «con che diritto mi accusi? Forse ti sei
scordato che dei due sei tu a essere fidanzato e, da quanto ho capito, a doverti
sposare presto? Tu hai tradito… quella (non trovo altra parola), io non ho
tradito nessuno.»
Il suo sguardo scatta verso l’alto, dritto nei miei occhi e non nega nulla,
cosa che mi conferma che le nozze con la principessa Grace non sono solo
una paura nascosta di Jimmy, ma un dato di fatto. Un lampo di collera mi
attraversa l’orgoglio, mentre la delusione mi stringe il cuore. Reprimo un
singhiozzo e alzo di nuovo mento e spalle e riprendo il mio conteggio.
«Terzo, non hai pensato che le immagini possano dare una
rappresentazione distorta della realtà?»
Sbuffa, e alza le spalle. «Onestamente? No, non l’ho pensato.»
«Quarto…» Al punto quattro ho sempre difficoltà con le dita, e anche ora
mi si attorcigliano in modo buffo prima di riuscire a sistemarle nella giusta
posizione. «Quarto» ripeto con una certa enfasi, «come puoi accusare Henry
di essere un manipolatore quando tu, e non lui, stai tramando per buttare sulla
strada quelle povere vecchiette indifese?»
Strizza gli occhi come se cercasse di vedere nel buio e scuote la testa con
forza.
Poi appoggia l’iPad sul divano e si alza in piedi.
Dio quanto è grande. E minaccioso.
Come una preda di fronte al predatore, cerco di farmi più grande, di
apparire pericolosa: raddrizzo la schiena, alzo il mento, non rompo il contatto
visivo. Stringo anche le mani a pugno, quasi fossi pronta a tirargli un cazzotto
sul naso.
Per un attimo fruga immobile i miei occhi e il mio viso, poi mi chiede,
gelido: «Di che cazzo stai parlando?».
Di. Che. Cazzo.
Sì, per la seconda volta da quando lo conosco usa proprio la parola “cazzo”,
ma questa volta è molto, molto arrabbiato.
“Stai calma” mi ripeto, “stai calma” e per un attimo mi assale il dubbio che
le mie accuse non siano altro che calunnie. Ma non retrocedo di un passo e
sparo la mia verità tutta e subito, prima di cambiare idea.
«Sto parlando del fatto che qualcuno, offrendo cifre troppo allettanti per
essere rifiutate, sta cercando di mettere le mani sulle case storiche di Cape
Love, compresa la libreria di zia Ari. E ho i miei motivi di credere che questo
qualcuno sia tu.»
Lui piega leggermente la testa di lato, forse per guardarmi meglio, come il
lupo cattivo con cappuccetto rosso.
«Fammi capire: stai dicendo che sarei uno speculatore senza scrupoli,
pronto a mettere delle anziane signore sulla strada? A parte il fatto che, se ho
capito a chi ti riferisci, non sono poi così “indifese”, è di questo che mi
accusi?»
Perché mi sento così insicura, come se di colpo il castello delle accuse
contro Sean, così ben costruito con l’aiuto del vichingo, stesse per crollarmi
addosso? E se le intenzioni di Sean non fossero una mera speculazione
finanziaria? Cosa ne so io, in fondo, di investimenti? Già. Ma se il fine non è
il guadagno, quale motivo potrebbe indurlo a investire milioni di dollari
senza avere un tornaconto?
Mi viene in mente solo una risposta: la pura follia. E Sean non mi pare
certo né un folle né uno stupido.
La voce mi esce tremula quando gli rispondo, perché in fin dei conti non
sono più tanto sicura di quanto ho appena affermato.
«Se vuoi metterla così, è proprio ciò di cui ti accuso, di approfittarti delle
mie vecchiette “indifese”: che tu lo sappia o no, sono terrorizzate all’idea di
perdere la casa o di vedersi aumentare l’affitto a dismisura dal nuovo
proprietario. Non oso pensare come resteranno deluse quando verranno a
sapere che sei tu il misterioso compratore, l’uomo che temono come il
diavolo. In quanto alla libreria di zia Ari e di Joanna, sarà solo l’ennesima
libreria indipendente a sparire dalla faccia della terra. Una più o una in meno
che differenza vuoi che faccia?» e poi aggiungo: «Per te?».
Lui mi guarda sempre più arrabbiato.
Infervorata, continuo il mio bel discorsetto.
«Le piccole librerie stanno sparendo per colpa di quelli come…»
Mi rendo conto che ora sto anche per accusarlo di essere responsabile della
chiusura di migliaia di piccole librerie in tutto il mondo. Cosa che non solo è
esagerata e semplicistica, ma non è neppure vera. Anche una sprovveduta
come me capisce che le cose sono molto più complicate di così e che il
progresso – bla bla bla – deve andare avanti. Effetti collaterali compresi.
Il volto di Sean sembra attraversato da una bufera.
«Avanti, finisci la frase, Joy» abbaia.
«Gioia, mi chiamo Gioia» ribatto testarda.
Mi fissa al limite della pazienza. Contrae la mascella e stringe le mani a
pugno.
«Finisci la frase, Joy» ripete.
«Non dirmi quello che devo fare, Sean!»
«Allora la finirò io per te. Volevi dire “per colpa di quelli come te, di quelli
che vendono libri on-line” giusto?»
Mi fissa con occhi furenti. Non abbasso la testa. Lui continua. «Dimmi, G-
i-o-i-a, i tuoi libri, quelli che tu illustri così bene, non sono forse venduti
anche on-line?»
Per un istante la mia bocca si apre, ma nessun suono ne esce. Poi le parole
cominciano a fluire di nuovo, fuori controllo.
«Cosa vuoi, dire, che sono un’ipocrita? I miei libri saranno anche venduti
on line, ma io non compro librerie per trasformarle in…»
«In cosa, esattamente?» mi interrompe.«In supermercati o garage? Sembri
conoscere molte cose di me che neppure io conosco. Complimenti.»
Ogni singola cellula di Mr Magnifico trasuda sarcasmo, un sarcasmo che
non è fatto per divertire, ma per ferire e che, soprattutto, ha il sapore della
fine.
Raccolgo dal divano il suo iPad e dal tavolino la tazza di caffè e glieli
piazzo in mano, uno a destra e l’altra a sinistra. Poi vado ad aprire la porta e
gliela tengo aperta sinché non se ne va.
Con l’iPad. Con la tazza. Con il mio cuore.
15
Lunedì 30 giugno, sera

Un altro giorno è trascorso, lungo e solitario. L’unica novità è che zia Ari
mi ha telefonato.
Bontà sua!
Una semplice, chiara, risolutiva telefonata arrivata pochi minuti fa, mentre
ero sotto la doccia. Zia Ari non telefona mai a caso, lei sceglie sempre i
momenti peggiori per farlo.
Tralascio la serie di gridolini di gioia relativi alla luna di miele e alle
qualità, fisiche e spirituali – più quelle fisiche, per la verità – del novello
sposo e arrivo subito al punto.
Ecco il punto.
«Tesoro» dice, e già capisco che butta male. «Avremmo deciso di fermarci
un’altra settimanina e di spingerci oltre il confine canadese, dove ancora
vivono alcune comunità Penbenscot. Non ti dispiace vero badare a tutto
quanto per qualche giorno ancora? In fondo, se le voci che ho sentito sono
veritiere, sembra che tu te la stia cavando piuttosto bene…»
Tipico di zia Ari cambiare oggetto del discorso per evitare domande
scomode.
«A cosa ti riferisci, per l’esattezza?» chiedo senza nascondere il mio
nervosismo.
«Solo che hai avuto il tuo bel da fare: sei uscita sia con Sean che con
Henry!»
Di questo non voglio proprio parlare con lei. Ora sono io che cambio
discorso.
«Va bene zia, posso rimanere un’altra settimana» dico, anche perché voglio
capirci qualcosa di più su quanto sta avvenendo al villaggio.
Sento un respiro di sollievo provenire dall’altra parte del telefono.
«Non sai quanto io sia sollevata a sapere che ci sei tu a occuparti di tutto!»
«Non sarei così ottimista sulle mie qualità, zia Ari.»
«Al contrario! Joanna mi ha detto che stai indagando sul misterioso
speculatore che vorrebbe acquistare la libreria. Hai qualche novità?»
Questa è davvero troppo!
«Tu parli con Joanna?»
«Certo, ci sentiamo tutti i giorni! Credi che sia un’incosciente e non mi
informi di quanto succede al villaggio?»
Stai calma stai calma stai calma.
«Ma allora, perché diavolo non rispondi alle mie chiamate, perché non mi
richiami?»
Sospira, la folle figlia dei fiori.
«Se non ti richiamo non è certo perché non ti voglia bene, ma perché sento
che è giusto lasciarti vivere questo scampolo di vita da sola. Ho delle strane
vibrazioni se penso a te e a Cape Love. Anche se penso a te e a Sean
McCallun.»
Mi affosso su una sedia.
«Anch’io ho delle stranissime vibrazioni se penso a Sean. Zia, credo che lo
speculatore sia proprio lui» mormoro come se stessi rivelando chi è il vero
assassino di Kennedy.
Silenzio.
«Sei sicura di ciò che dici?»
«Quasi.»
La sento tirare un respiro di sollievo.
«Bene, se dietro a questa storia c’è lui, non dobbiamo più preoccuparci.
Sono certa che ha una valida ragione per comportarsi così, anche se non ho la
più pallida idea di quale possa essere.»
«Una “valida” ragione? Ma zia, come fai a essere sicura che non manderà
via tutti e trasformerà Cape Love in un resort esclusivo o in un posto di quelli
in cui arrivano torpedoni carichi di turisti?»
«Naaa. Sean non farebbe mai una cosa del genere, Sean ama Cape Love.
Non scordare che ci è nato. La casa dove vive non l’ha comprata, è della sua
famiglia da generazioni.»
Non so cosa dire, così me ne sto zitta a pensare che forse sono corsa troppo
presto a conclusioni sbagliate.
«Hai già raccontato a qualcuno dei tuoi sospetti?»
«No, ne ho parlato solo con Henry. È stato lui, per la verità, a farmi il nome
di Sean. Oddio, zia! E se avessi fatto un casino?»
«Non c’è casino che non possa essere sistemato, Gioia. Non farci una
malattia, lascia che le cose… succedano e vedrai che tutto prenderà un senso.
Ma tieni per il momento questa notizia per te, non divulgarla, neppure a
Joanna, va bene?»
«Sì, ho capito. Era già quello che avevo intenzione di fare.»
«Brava, ci vuole prudenza in queste cose. Invece, raccontami del picnic con
il sindaco. Le foto e i filmati in rete sono incredibili. Allora, dimmi tutto…»
Le racconto. Mi chiede. Le rispondo. Ridiamo del vichingo, parliamo male
degli uomini e alla fine, quando ci salutiamo, mi sento molto meglio. Ho
ancora nelle orecchie la sua ultima frase: «hai ancora una settimana da
trascorrere a Cape Love, sette giorni in cui infinite cose possono accadere,
se tu lo vorrai».
Forse zia Ari è davvero una fata, come ha sempre affermato di essere, e sa
predire il futuro. Ora, oltre a credere alle streghe, credo anche alle fate?
Esco con i cani per la loro passeggiatina notturna, poi mi prendo il mio e-
reader e filo a letto. Non voglio pensare a Sean, questa sera – l’ho già fatto
tutto il giorno! – e non voglio pensare all’errore di giudizio che posso aver
compiuto. D’altronde non sono famosa per il mio giudizio assennato, ma per
essere più ingenua delle caprette di Heidi. Leggere rosa, un rassicurante rosa
confetto, potrebbe essere l’unico antidoto per combattere il disagio in cui mi
sto perdendo, per allontanare l’immagine di Sean che non mi abbandona mai.
Peccato che Hart MacKenzie, l’eroe del romanzo, gli assomigli
dannatamente. È pure scozzese e a volte indossa il kilt. Non posso che lasciar
volare la fantasia…
La lettura prosegue a spizzichi e bocconi quando a mezzanotte, appena
chiusa la luce del comodino, suona di nuovo il telefono di casa. Deve essere
zia.
«Zia» dico in tono assonnato.
«Sono Sean, Joy, non tua zia. Mi spiace disturbarti, ma ho bisogno che tu
venga subito da noi.»
«È successo qualcosa a Jimmy?» chiedo spaventata.
«No, credo che Mrs Hall abbia una colica renale. Sta molto male ed è
meglio che l’accompagni al pronto soccorso a Bath. Un’ambulanza ci
metterebbe troppo ad arrivare. Potresti venire qui e rimanere con Jimmy sino
al mio ritorno?»
«Corro.»
Mi infilo short e maglietta, prendo la jeep di zietta e senza cani al seguito in
trenta secondi sono davanti a casa McCallun. Scendo dall’auto mentre Mrs
Hall e Sean stanno uscendo di casa. Mrs Hall, di solito molto distaccata, mi
guarda con riconoscenza, io la incoraggio con un sorriso.
«Se dovessero esserci dei problemi, ti telefono» mi dice Sean prima di
salire in macchina.
Gli faccio un cenno con la testa, entro in casa e mi preparo a un’attesa
piuttosto lunga. Controllo che Jimmy dorma – è uno spettacolo guardarlo –
poi scendo in salotto e mi sistemo sul divano con l’e-reader. Un quarto d’ora
e crollo anch’io.
Mi sveglio che albeggia. La luce bianca del primo mattino penetra in casa
dalle grandi vetrate, accompagnata dal suono e dal profumo del mare. Mi
appoggio al gomito e mi guardo intorno. Sono smarrita nella nebbia del
risveglio, incapace di riprendere la mia vita dal punto in cui mi si era fermata,
come fosse un libro. Non c’è un segnalibro che mi aiuti, mai.
Poco per volta la nebbia si dissolve e ogni sensazione diventa
consapevolezza, il senso di smarrimento, se non di angoscia, se ne va.
Riconosco la casa in cui mi trovo. Riconosco Sean che dorme sull’altro
divano del salotto. È un divano più piccolo del mio e le gambe gli penzolano
di fuori. Mi accorgo solo ora che quando è rientrato mi ha coperta con un
plaid. Perché è un plaid caldo quello che ho addosso, che accarezzo come
fosse lui, che profuma di lui. Rimango a fissare Sean, indecisa sul da farsi.
Vorrei sdraiarmi di nuovo, riaddormentarmi con lui, ma poi decido che, visto
quanto è accaduto domenica sera fra noi, è meglio che io me ne vada. Di Mrs
Hall chiederò informazioni più tardi. Mi alzo badando di non fare rumore e lo
copro con il plaid. Deve essere molto stanco, perché reagisce al contatto
rannicchiandosi sul fianco, ma senza mai smettere di dormire. Ha il volto
teso, anche nel sonno. Vorrei far scivolare via tutta quella tensione dal suo
volto, magari con un bacio? Nei film funziona, nelle fiabe anche. Nella
realtà?
Non proprio.
La tentazione di sfiorargli le labbra con le mie prima di andarmene è
comunque tanto insistente che devo fare un passo indietro per controllarmi. E
poi, che senso avrebbe baciare uno che mi ha dato dell’ipocrita poco più di
ventiquattro ore fa e che io ho accusato di essere un bieco speculatore?
In punta di piedi esco da casa sua, certa che quella sarà un pessima
giornata.
***
Martedì 1 luglio, mattina
Quando arrivo in libreria, Joanna è seduta su una sedia e mi sembra assai
prossima al momento del countdown, anche se al parto dovrebbe mancare
ancora un mese. Ha un una pancia che minaccia di esplodere e un viso
stanchissimo. Ciononostante, sta armeggiando con una Barbie e un Ken poco
vestiti. Sorrido, pensando che due altri personaggi romanzeschi stanno per
entrare a far parte della sua incredibile collezione. Per la verità sono un po’
strani e mi chiedo chi mai possano essere.
Povera Joanna, mi sembra davvero stanca.
«Buongiorno, mia cara. Visto che sono arrivata con un po’ d’anticipo,
perché non sali su a casa a riposare? Non credo ci saranno molti clienti oggi,
posso arrangiarmi da sola» dico assestandole un bacio sulla guancia.
Lei mi guarda con occhi carichi di speranza e riconoscenza.
«Davvero? Lo faresti davvero? Anche oggi pomeriggio? Non devi lavorare
ai tuoi disegni?»
«Posso disegnare anche qui, se il negozio non sarà troppo affollato di
compratori.»
«Come se lo fosse mai durante la settimana!»
«Possiamo sempre sperarlo, no? In ogni caso, rimarrò qui anche nel
pomeriggio, non ti preoccupare. Ma tu devi promettere di andare a farti dare
un’occhiata in ospedale, d’accordo?»
«Sì credo proprio che ci andrò perché sento delle contrazioni che non mi
convincono. Avviso mio marito.»
«Brava ragazza, e mentre aspetti che lui venga a prenderti, buttati un po’
sul letto.»
Con un sospiro, sistema con delicatezza Barbie e Ken nella cesta da lavoro
e pulisce con un panno il bancone, peraltro già lucido e splendente. Di tutti
gli hobby, quello di Joanna mi sembra davvero strano, ma ammetto che il
risultato è delizioso.
«E chi sarebbero i nostri due nuovi amici?» chiedo facendo un cenno verso
Barbie.
«Come, non l’hai riconosciuta? Lei è Anastasia, naturalmente.»
Naturalmente.
La guardo col sorriso tipico di chi non ha capito. Il nome mi dice qualcosa,
ma non lo focalizzo.
«Anastasia, Ana!» ripete un po’ infastidita dalla mia ignoranza tenendosi le
reni, in perfetto stile donna gravida pronta a sfornare una mezza dozzina di
pargoli.
«Intendi dire Anastasia Romanov, la figlia dello zar?» chiedo ingenua,
sperando che si riferisca a lei e non a quell’altra Anastasia.
Alza gli occhi al cielo e scuote la testa.
«Ma no! Lei è Anastasia, Ana Steele, lui è Christian Grey. Questi due nomi
non ti suonano familiari?»
Ecco, come non detto.
Potrei inorridire davanti all’idea di vedere quei due, i protagonisti delle
Sfumature, in vetrina al fianco di David Copperfield, di Jane Eyre, di Lizzie e
di Darcy, ma invece sapete cosa faccio? Scoppio in una incredibile risata.
Anastasia Steele e Christian Grey, delle cui performance erotiche non se ne
può veramente più. Non fare la snob, Gioia, mi dico. In fondo perché no?
Con tutti i libri che quei due hanno fatto vendere, anche in questa libreria, Mr
Grey, Ana e le loro Cinquanta sfumature un posto nella più famosa vetrina
del Maine (a sentire zia Ari) se lo sono guadagnato. Inoltre, immaginare
l’espressione oltraggiata di Mr Darcy quando si troverà davanti Mr Grey non
ha prezzo.
Mentre Joanna si dirige verso la porta secondaria per salire al suo
appartamento, mi accorgo che Armageddon e Paraspifferi sono alle prese con
una grossa scatola di cartone. Annusano, grattano la superficie con le zampe,
emettono strani mugolii. Sono curiosi come due scimmie.
«Ehi voi! A cuccia» urlo senza molto successo. Poi mi affaccio alla porta
dalla quale Joanna è appena sparita e urlo: «Cosa c’è in quello scatolone,
Joanna?».
«Lo scaffale nuovo, da sistemare al posto di quello rotto in alto a sinistra»
mi risponde lei. Poi aggiunge in tono melodrammatico: «Lo monterò domani,
ma se vuoi pensarci tu…».
Lascia cadere la frase, così, con nonchalance, in modo che sia io a dover
prendere la decisione: montarlo o non montarlo? Usa i tempi giusti e
l’intonazione di chi conosce alla perfezione l’uso della retorica e il tono per
sottintendere tutt’altra frase: “se non lo monterai tu, dovrò inerpicarmi su per
una scala pericolosa e farlo io, e ciò ti renderà responsabile della vita mia e
di quella della creatura che porto in grembo, nel caso dovessi cadere…”.
Tanto per parlare chiaro.
Sento la voce uscirmi dalla gola senza permesso e dire con un che di
rassicurante.
«Non ti preoccupare Joanna, lo monto io. Tu vai a riposarti.»
Non ti preoccupare? Lo monto io?
Chi ha parlato, il carpentiere dell’anno o sono stata io?
Perché, se esiste una persona negata per il bricolage, per piantare un chiodo
o solo una puntina da disegno, quella sono io. Come posso aver pensato di
offrirmi volontaria per un’impresa del genere? Montare uno scaffale, niente
meno, e per di più uno di quelli che si trovano all’ultimo ripiano della
scaffalatura! C’è anche bisogno di una scala, per farlo, cosa che,
considerando che soffro pure di vertigini, mi agita non poco. A che diavolo
stavo pensando quando ho detto «lo monto io?».
Calma, Gioia. Una cosa alla volta. Ci penserai più tardi.
Prima che il negozio ufficialmente si apra al pubblico, devo infatti
occuparmi delle amiche della signora in giallo, controllare che stiano bene e
che non abbiano già ricevuto l’ordine di sfratto.
Da Sean.
Chi mi aveva detto che a Cape Love avrei vissuto una rilassante e
corroborante vacanza e non certo un mese di lavori forzati?
Io un’idea ce l’avrei. Incomincia per “z” e finisce per “ia”.
Forse, al suo ritorno, la strozzerò!
La visita alle gentili signore sull’orlo dello sfratto dura un po’ più del solito
perché l’eco delle mie foto con Henry sui social network è ancora alto. Non
pensiate che le signore siano prive di computer, tablet, telefonino e ogni
genere di dannato aggeggio elettronico. Sono anche bravissime a navigare su
Internet e veloci come il diavolo a muoversi su Google. Certo, si lamentano
sempre di vederci poco, ma vi assicuro che non hanno molto da invidiare a
una lince. Mi chiedono informazioni su questa o quella foto che mi ritrae con
Henry e cercano in tutti i modi di sapere se fra il signor sindaco e la
sottoscritta la giornata sia terminata in un letto. Mrs Heseltein ne è tanto
sicura da aver scommesso con Mrs Rose, ma per riscuotere i cinque dollari
della scommessa ora avrebbe bisogno di una mia dichiarazione scritta.
Quando esco da casa sua, l’idea di strozzare prima lei poi zia Ari mi fa
prudere le dita e lanciare un urlo di pura disperazione che terrorizza un paio
di vacanzieri innocenti.
Oltre ad aver messo a dura prova la mia pazienza, anche questa mattina le
amiche della signora Fletcher, che Dio me la tenga sempre lontana, hanno
messo a dura prova la mia vescica. Sono così piena di caffè che corro in
libreria come se ad aspettarmi a braccia aperte ci fosse Brad Pitt senza
Angelina e quando arrivo e scorgo un uomo sotto il portico della libreria…
No, non è Brad, è uno molto meglio di lui, Mr Ocean, Sean McCallun.
Arrivo come se un uragano mi fosse alle calcagna. Lui incomincia a parlare
nella mia totale indifferenza.
«Buongiorno Joy, volevo ringraziarti per stanotte. Quando mi sono
svegliato te ne eri già an… Cosa c’è, Joy, stai male?» mi chiede quando si
accorge della mia faccia bianca come un cencio. Faccio segno di no con la
testa e mentre cerco di infilare la chiave nella toppa non smetto di saltellare
come una tarantolata e a mordermi il labbro inferiore. Cosa succederebbe se
proprio ora io dovessi… di fronte a Sean?
Non scherziamo, per favore.
Finalmente la chiave entra nella toppa e mi sfugge un gemito. Il futuro mi
appare più roseo.
Sean continua a fissarmi preoccupato.
«Sei sicura di star bene?» chiede, ma io non lo sento neppure.
Spalanco la porta e senza dargli spiegazioni corro nel retro dove, una volta
chiusa all’interno della piccola toilette, passo in pochi secondi dall’inferno
alla visione di un coro angelico e, come una miracolata, ritorno a vivere. Ed
essendo ancora viva, poco dopo torno anche a pensare.
Se si può definire pensiero quel gran punto di domanda che ho in testa e
che mi manda in corto il cervello.
Sean è qui. Ora cosa faccio?
Ancora all’interno della toilette, mi guardo allo specchio come una
quindicenne che si è appena imbattuta nel ragazzo di cui è cotta. Che forse è
un bastardo con il cuore a forma di dollaro.
Bastardo o no, mi sciolgo i capelli, mi aggiusto un po’ ed esco.
Lui è appoggiato al bancone e sta sfogliando un romanzo, Suspect, un
thriller che ho adorato. Quegli adulatori di professione che sono Armageddon
e Paraspifferi sono prostrati ai suoi piedi.
«Ti piace Robert Crais?» chiedo.
«È uno dei miei autori preferiti e questo» dice sollevando il libro, «non l’ho
ancora letto. Lo prendo.»
Lo fisso interdetta.
«Tu cosa?»
«Lo prendo. Non sei qui per vendere libri?»
«Ma tu… Tu vendi libri. Hai l’intero universo dei libri a tua disposizione.»
«Per la verità vendo libri e molti altri articoli meno romantici. Sono solo
affari, Joy. E ti assicuro che il piacere che mi dà acquistare un libro in una
piccola libreria come questa è grandissimo.»
Alzo un sopracciglio. Forse mi sta prendendo in giro.
«È per questo motivo che intendi comprarla?»
Lui mi guarda spazientito. «Dammi fiducia, Joy, ti prego. Non voglio
comprare la libreria, ma l’edificio.»
«Non è la stessa cosa?»
«No, non lo è.»
«Comunque sia… Lo vuoi davvero?»
«Cosa?»
«Il romanzo, Suspect.»
«Certo.»
Me lo passa. Il bancone è in mezzo a noi e siamo ancora un po’ tesi per
tutto quello che è successo nelle ultime quarantotto ore, ma, quando le nostre
dita si sfiorano, una scintilla si accende e il ricordo del suo corpo solido e
caldo contro il mio strappa un battito al mio cuore. I suoi occhi
all’improvviso mi paiono più scuri e carichi di desiderio, blu come una notte
di passione.
Ma… davvero?
Al massimo, me lo sarò immaginata. Meglio che smetta di leggere
romance, soprattutto con Sean intorno. Mi riempiono la testa di dabbenaggini
romantiche e lo stomaco di farfalle svolazzanti. Dopo quanto è successo fra
noi, in ogni senso, non dovrei forse essere meno incline a vedere il mondo
dietro a una lente colorata di fottutissimo rosa? Lui, dopotutto, è un orco, uno
speculatore e ha già una principessa di nome Grace che lo attende all’altare.
Cosa devo fare per togliermelo di testa, scoprire anche che è un serial killer?
Lo scontrino, devo fare lo scontrino.
Le mani mi tremano un po’ quando cerco di mettere in funzione il
registratore di cassa. Lui ha ricominciato a parlare e la sua voce, così
profonda e vellutata, mi fa a pensare a cose sconvenienti mentre cerco il tasto
per far funzionare questo demonio.
«Sì, Joy. Ho bisogno proprio di leggere un buon libro, fatto di vecchia
carta. Nonostante sul mio e-reader abbia una biblioteca intera, ho bisogno di
un libro vero, da tenere in mano.»
«Se non erro, oltre a possedere la Ocean, casa tua è piena di libri.»
«Ma io voglio leggere questo. Sembra quasi che ti dispiaccia vendermelo.
Sai una cosa, Joy? Sei proprio negata per gli affari!»
«Come se non lo sapessi!» Sospiro. «Ma Joanna oggi è in ospedale per un
controllo, quindi non rimango che io a far andare avanti la baracca. Ma
quando torna mia zia… Sto già assaporando la vendetta. Mi ha convinta che
sarebbe stata una vacanza rilassante. Non mi ha parlato né della libreria, né
dei cani, né delle adorabili vecchiette.»
«Arianna può essere davvero convincente.»
«Manipolatrice è più corretto.»
Lui ridacchia, io continuo a pigiare sui tasti, ma sembra che nessuno sia
quello giusto.
«Non riesco a far funzionare questo coso» ammetto. «Forse è meglio che te
lo regali io. Il libro.»
I nostri sguardi rimangono incatenati per un secondo di troppo.
«No. Aspetta, ci provo io.»
Con un sorriso disarmante gira intorno al bancone e subito mi è di fianco.
Ora il mio cuore non perde un battito, ma almeno dieci, poi incomincia ad
accelerare come un matto e spingere il sangue nei posti più sbagliati. Sean,
per fortuna, sembra troppo concentrato sul registratore di cassa per accorgersi
del colore rosso fuoco delle mie guance.
«Ecco, credo che tu debba pigiare questo e poi questo, e poi digitare la
cifra. Quanto costa, ventisette dollari?»
«Sì, ma con lo sconto del 20%» aggiungo.
«Mi fai lo sconto?» mi guarda ridacchiando.
«Joanna lo fa a tutti, quindi anche a te.»
«E sconto 20% sia!» Schiaccia due altri tasti e lo scontrino esce con un din.
«Non si rifiuta mai, uno sconto.»
«Giusto, ma ora puoi tornare dall’altra parte del bancone, quella dei clienti»
dico. «E grazie per avermi mostrato come si fa a far funzionare questo
aggeggio.»
Mi fissa con un’aria divertita, poi ritorna sui suoi passi e il mio cuore
comincia a rallentare.
Infilo il libro in una busta, ci metto anche lo scontrino, e glielo passo, poi
prendo i venti dollari che mi porge. Molto professionale, molto distaccata.
Fuori.
Dentro sono una specie di gorgo di emozioni.
«Non mi hai ancora detto come sta Mrs Hall» dico.
«Sta meglio, ma è ancora in ospedale. Se tutto va bene, la dimettono nel
pomeriggio.»
«E Jimmy?»
«È agli allenamenti di calcio.»
Lo guardo sorpresa.
«Ieri siamo andati al campo della scuola durante un allenamento e… dopo
essersi fatto pregare un po’ ha accettato di partecipare al torneo.»
«Ma è magnifico!» esclamo con un gran sorriso.
«Hai avuto una grande idea, Joy, ti sono riconoscente.»
«Non dirlo neanche» rispondo, ma devo abbassare gli occhi perché mi
guarda come se fosse molto più che riconoscente. Sento le ginocchia cedere.
Mi aggrappo al bancone sperando che mi regga.
«La notte scorsa, dopo che tu e Mrs Hall siete andati in ospedale, ha
dormito come un angioletto» dico per cambiare discorso.
«E tu, sei riuscita a chiudere occhio?»
«Sì.»
«Ero venuto proprio per questo, per ringraziarti di esserti precipitata a casa
nostra ieri notte, e invece… sembra che me ne sia dimenticato.»
«Non devi ringraziarmi. L’ho fatto con piacere e lo sai che ho un debole per
tuo figlio.»
E per te.
«Te lo dico ora, Joy, grazie. E mi spiace di non essermi svegliato
stamattina, quando te ne sei andata.»
«Sembravi stanchissimo, ho preferito non disturbarti.»
«Mi hai coperto con il plaid…»
«Non volevo che congelassi…»
«Ho pensato che ti importasse qualcosa di me.»
«Ho solo fatto ciò che tu stesso avevi fatto qualche ora prima. Come se ti
importasse qualcosa di me» dico ripetendo le sue parole. Poi aggiungo: «È
tutto a posto, Sean, possiamo terminare questa conversazione da
decerebrati?».
Lui mi sorride, come se la pensasse come me.
«Va bene, Joy, ma io credo che dovremmo parlare, credo che ci siano stati
degli stupidi fraintendimenti fra noi…»
«Se è così mi spiace Sean, ma adesso non ho tempo. Ho da fare. E» dico,
puntandogli un dito addosso, «non è una scusa.»
«E cosa avresti da fare di così urgente, di grazia?» chiede spazientito. «Non
mi sembra che il negozio abbondi di clienti.»
Lo guardo dritto negli occhi, offesa dalla sua mancanza di fiducia nelle mie
doti di libraia. Poi, alzando la testa orgogliosa come se dovessi fare
un’operazione a cuore aperto, dico: «Devo montare uno scaffale, se proprio
vuoi saperlo».
«Montare uno scaffale, tu?»
«Vedi qualcun altro qui dentro che possa farlo?»
«Non lo vedo, ma so che c’è.»
«Cos’è, una sciarada?»
«No, Joy. Volevo solo dirti che io posso montarlo, aiutarti.»
«Tu? Ma sei capace?»
«Come credi che mi sia guadagnato i soldi per mantenermi all’università?
Facendo lavoretti. Montando scaffali, soprattutto.»
Lo guardo sbalordita.
«È vero?»
«Non proprio. Ma uno scaffale? Cosa vuoi che sia mettere insieme quattro
assi per uno che ha creato un piccolo impero partendo da zero?»
La sua ironia mi fa sorridere, lo fa sorridere. E il suo sorriso rende le mie
ginocchia più soffici della gommapiuma. Le sento cedere, le traditrici, e devo
sostenermi ancora al bancone per non stramazzare al suolo come un uovo
strapazzato. Intanto penso alla sua proposta. Che non è indecente, come forse
vorrei, ma una semplice, offerta d’aiuto.
So che dovrei stargli alla larga, ma l’idea che lui rimanga ancora con me
per un’oretta non mi dispiace affatto. Ho preso la mia decisione. Lo fisso
piegando la testa di lato, come per studiarlo.
«Ti sei offerto volontario perché ne va del tuo orgoglio di maschio tuttofare
e domatore di scaffali?»
«Certo! Un vero uomo non può lasciarsi sfuggire certe occasioni.»
«Va bene, allora, mettiamoci al lavoro.»
***
Due ore dopo siamo ancora lì.
Al lavoro.
Sean è arrampicato sulla scala e per quanto non mi dispiaccia affatto avere
una visione ravvicinata del suo fondo schiena, delle sue cosce strette nei jeans
e dei suoi bicipiti e pettorali in tensione sotto la T-shirt, l’operazione scaffale
sta raggiungendo dei vertici di pura comicità che certo non immaginavo.
Primo, perché mi sento un po’ come Lady Chatterley, o forse come le
impiegate di quella famosa pubblicità della coca-cola che si mangiano con gli
occhi il muratore strafigo durante la pausa pranzo. Secondo, perché una
piccola folla si è radunata in negozio a seguire in diretta l’avvenimento
(compreso un paio di clienti, Dio li benedica!). Terzo, perché Sean, per
quanto ce la stia mettendo tutta, si sta rivelando un disastro sul versante
bricolage e la cosa mi intenerisce e mi diverte insieme.
Perché per lui, ormai, montare quel dannato scaffale è diventata una
questione di principio e non si darebbe per vinto neppure se dovessero
atterrare gli alieni proprio davanti alla libreria.
Ora sta martellando qualcosa mentre Mr Rhoads, titolare della tavola calda
sull’altro lato della via, scuote la testa e mormora a Mr Greaves, che noleggia
barche ai turisti, che così Sean non ce la farà mai. Mr Greaves, da parte sua,
sostiene che dovrebbe smontare prima lo scaffale sottostante, e poi rimontare
il tutto insieme, dando origine, secondo Mr Sullivan – e non a torto –, a una
catena di eventi irreversibili tipo reazione nucleare. Mrs Hesentein, che certo
non si perde una scena del genere, se ne sta ad ammirare in prima fila il lato
B di Sean con il chihuahua in braccio, e intanto ne approfitta per cercare di
spillare a Mrs Rose i cinque dollari della scommessa. Non contenta, continua
a commentare le mie foto col vichingo gridando ai quattro venti che anche
lei, se avesse avuto l’età giusta…
Anche lei. Come se anche io.
A nulla servono le mie pubbliche proteste per smorzare l’entusiasmo e la
curiosità delle signore e, mentre Sean incomincia ad avvitare un pezzo di
legno a un altro dimostrando di avere nervi più saldi di una putrella d’acciaio,
il campanello appeso sopra la porta tintinna e Mrs Canningham entra con una
brocca colma di limonata ghiacciata, seguita da Mrs Reitman che porta dei
bicchieri di carta e dei biscotti fatti da lei.
Altro che Wisteria Lane!
Il tutto viene deposto sul bancone e il party inizia. Altra gente entra e
ognuno porta qualcosa da mangiare e ha un consiglio per Sean che forse tra
un po’ scenderà da quella scala e commetterà una strage di massa a colpi di
martello. O forse lo farò io al posto suo.
Arraffo un bicchiere di limonata e, mentre tutti si buttano sulla caraffa e sui
biscotti e su qualsiasi cosa commestibile ormai ci sia sul bancone, io mi
dirigo verso la scala.
«Sean, mi spiace» urlo per farmi sentire sopra le voci dei gaudenti. «Se
scendi da quella scala ti prometto che ti rapisco e ti porto in salvo. Ce ne
andiamo dal retro, tanto credo che non se ne accorgerebbero neppure.»
Sean smette di avvitare e guarda in basso, verso di me. È sudato e
terribilmente sexy e sembra sopportare stoicamente la situazione.
«Non ti preoccupare per me. Li conosco da quando sono nato, ci ho fatto il
callo. E poi non posso andarmene adesso: credo di aver finalmente decifrato
questi dannati schemi.»
Non posso evitare di ridacchiare.
«Alla buonora» commento.
«Così mi dimostri la tua riconoscenza, ridendo di me?»
«Conosci un metodo migliore?»
Vola giù dalla scala, beve in un sorso la limonata che gli porgo, mi prende
per mano e mi porta sul retro, dove la pazza folla non ci può vedere. Poi si
pulisce la bocca con il dorso della mano – e qui sbavo come Lady Chatterley
– e prima che io possa pensare di respingerlo – non che l’idea superi lo
scoglio della prima sinapsi – mi ritrovo contro la parete, stretta a lui, la mia
bocca catturata dalla sua. Sean è un ciclone che si muove intorno e dentro di
me, sollevandomi da terra e portandomi in paradiso, o forse ancora più in
alto. Non c’è dolcezza in quel bacio, solo passione distillata, pericolosa,
assoluta, accesa ancor più dalla consapevolezza che non potremo andare
oltre. Sento premere la sua erezione contro di me accompagnata da un suono
basso, gutturale, più di sofferenza che di piacere, che mi manda in
fibrillazione corpo e anima. Gemo a mia volta, mentre le sue mani mi
accarezzano possessive, provocando in me ogni genere di reazione chimica
che porterebbe a un immediato e selvaggio accoppiamento sul pavimento
della libreria di Joanna e zia Ari se solo, dall’altra parte del muro, non ci
fosse al gran completo la delegazione cittadina deputata al controllo del
civico fai da te.
«Sean» mormoro cercando di respirare, cosa che mi sembra di non fare da
parecchio, «dobbiamo smetterla.»
«Perché? Non credo di poter smettere» mi risponde mentre le sue mani si
infilano sotto la mia T-shirt. Sono calde, forti e con molta probabilità anche
luride.
Mi accarezza e io mugolo senza vergogna cercando nel contempo di
respingerlo a parole, cosa che, lo so bene, è un controsenso.
«Vuoi che ci scoprano? Pensa a cosa farebbero con quei maledetti
telefonini! Credi forse che non ne siano armati?» mormoro poco convinta.
Si mette a ridere e le sue mani poco per volta scivolano fuori dalla mia
maglietta.
«Ok, capito, torno a quel dannatissimo scaffale. In realtà sei solo interessata
alle mie capacità di provetto carpentiere, vero?»
«Già, come ci sei arrivato?»
«Sono un tipo sveglio. E… guarda che voglio essere pagato in natura per i
miei servigi.» Scherza lo so, ma questo è uno scherzo serio.
«Sean, per quanto ripagarti in natura non mi dispiacerebbe affatto, lo sai
che non è il caso che andiamo avanti con questa storia, vero?»
«Vuoi che finisca o no il lavoro?» mormora mordicchiandomi un orecchio.
Non mi faccio corrompere.
«Sean, che senso avrebbe?»
Lui mi guarda per un lunghissimo istante prima di parlare e i suoi occhi
diventano scuri, seri.
«Non lo so, Joy. Non lo so. Ma ti giuro che ho tutte le intenzioni di
scoprirlo.»
Un’ora dopo lo scaffale è montato, anche se pende un po’ sulla sinistra, tipo
Torre di Pisa, insomma. Sean scende dalla scala come un eroe anche se
ormai, ad applaudirlo, siamo rimasti in pochi.
«Reggerà?» gli chiedo.
Mi guarda con un sorriso malizioso che minaccia anche il mio equilibrio.
Ora pendo più io dello scaffale.
«Questa domanda ti costerà parecchio» aggiunge. «Il mio prezzo ora è
salito.»
Anche Joanna è tornata alla base e sembra alquanto divertita che lo scaffale
sia diventato un caso pubblico.
«Un po’ di pubblicità non guasta» commenta tenendosi la pancia.
«Anche perché nel frattempo ho venduto qualche copia» le dico soddisfatta.
«Altre Sfumature?» chiede. Ormai sembra ossessionata dalla trilogia della
James.
Ringrazia Sean con un abbraccio, reso alquanto difficoltoso dalla pancia
voluminosa, e si attacca al telefono. Dal modo in cui ogni tanto lancia
un’occhiata a me e una a Sean, ho il forte sospetto che stia parlando di noi a
zia Ari.
«È zia?» le chiedo.
Lei mi risponde con la tipica occhiata “assolutamente no”!
Bugiarda.
Intanto, mentre chissà cosa hanno da dirsi quelle due, aiuto Sean a
sistemare gli attrezzi.
«Ho una fame da lupi» mi dice.
Mi rendo conto di non aver messo nello stomaco nulla da stamattina.
Biscotti e sandwich sono spariti prima che potessi arraffarne uno.
«Anch’io ho fame.»
«Credi che potremmo andare a mangiare qualcosa insieme?»
«Devo chiedere a Joanna se se la sente di rimanere in negozio da sola.»
«Va bene, io intanto vado a lavarmi le mani, se non ti dispiace.»
Me le mostra. Sono nere.
Tutti e due pensiamo alla stessa cosa, alle sue mani che si infilano sotto la
mia T-shirt e mi accarezzano.
«Mi spiace, temo di averti sporcata tutta.»
A me non spiace affatto. Glielo comunico con un sorriso tutt’altro che
innocente. Poi dico: «Fai in fretta a lavarti, ho voglia di granchio».
«Conosco un posto fantastico, lontano da questa pazza folla.»
«Dove non ci metteranno su Twitter?»
«Puoi scommetterci.»
«È deciso, allora, ma offro io.»
16
Martedì 1 luglio, pomeriggio

Un quarto d’ora dopo sono in macchina e sto tornando a casa con i cani.
Devo lasciarli al faro, poi aspettare che Sean mi venga a prendere dopo aver
fatto un salto a casa sua a cambiarsi. Anch’io mi faccio una doccia a razzo e
mi infilo un prendisole a fiori che sono convinta mi stia bene. Poi mi trucco,
profumo e pettino, persino. Quando il SUV di Sean arriva al faro, il cuore
comincia ad accelerare, anticipa un pomeriggio intimo, pieno di parole dolci
e tenere rivelazioni. Poi vedo la testa rossa di Jimmy spuntare dal sedile
posteriore e sono certa che sarà un pomeriggio diverso.
«Ciao, Jimmy» dico entrando in macchina. «Che bella sorpresa.»
Sean mi guarda come per scusarsi.
Io lo guardo come per assicurargli che va tutto bene.
«Ciao Joy, papà mi ha raccontato che ha montato uno scaffale nel negozio
di Joanna.»
«Oh sì, perfettamente!»
«Strano, perché papà è negato per i lavoretti» ridacchia.
«Grazie per il tuo supporto, Jimmy!» dice Sean.
«Veramente è negato?» intervengo. «A me è sembrato bravissimo, oggi!»
«Davvero?» chiede Jimmy sorpreso.
Scoppio a ridere. «Be’, non proprio bravissimo, ma volenteroso. Credo che
metteremo una targa ricordo, fuori dalla libreria, per ricordare l’impresa di
tuo padre.»
«Molto spiritosa» borbotta Sean.
«Cosa ne pensi, Jimmy? Pensavo a una frase tipo: “Questo scaffale è stato
montato con sprezzo del pericolo da Sean McCallun”» dico con enfasi.
Jimmy scoppia a ridere, poi chiede: «Cos’è una targa ricordo?».
«Lascia perdere Jimmy, poi te lo spiego» gli risponde Sean. «Joy mi sta
solo prendendo in giro.»
«So che sei andato all’allenamento, oggi» dico, girandomi verso Jimmy.
«Com’è andata?»
E qui Jimmy comincia a raccontare, ricordandosi solo ogni tanto di
prendere aria.
Ci fermiamo a un semaforo e Sean mi prende la mano e me la stringe. Per
un istante ci perdiamo negli occhi dell’altro, poi qualcuno dietro di noi suona
impaziente e Sean lascia andare la mia mano e riparte. Jimmy continua a
parlare.
Dopo circa venti minuti, sono quasi le tre del pomeriggio, arriviamo al
piccolo ristorante dove, secondo Sean, si mangiano i granchi e le aragoste più
incredibili del Maine. È un locale semplice che si affaccia sul porticciolo di
un villaggio sulla costa est della penisola. Mentre Jimmy si mette a
scorrazzare sul molo al di là della strada, ci sediamo a un tavolo sotto il
portico. Le tovaglie sono di carta, le sedie sono di quelle impagliate, a buon
mercato. L’atmosfera cordiale mi fa sentire bene. Nel cielo, i gabbiani volano
bassi, forse perché alcune barche hanno appena attraccato al molo e i
pescatori stanno scaricando il pesce. Un uomo, con in mano una cassetta
piena di gamberi, attraversa la strada, poi sale gli scalini del portico e si dirige
verso l’ingresso. Quando ci vede, e non è difficile dal momento che siamo gli
unici clienti, appoggia su un tavolo la cassa e si esibisce in un tuonante: «Che
io sia dannato! Sean, questa sì che è una sorpresa!».
Jimmy gli corre incontro urlando «Steve!», almeno credo.
«E ci sei anche tu, grande uomo!» aggiunge Steve accogliendo il ragazzino
tra le sue braccia. È un uomo sui quaranta, sorridente e un po’ sovrappeso.
Sean si alza e i due si abbracciano, poi si scambiano un paio di pacche sulle
spalle, come fanno gli uomini quando vogliono mettere in chiaro che la loro è
un’amicizia virile.
«Joy, posso presentarti il mio compagno di scuola e miglior amico di
sempre Steve?»
Gli stringo la mano.
«Qualcosa mi aveva suggerito che ti chiamassi Steve» dico guardando con
un sorriso Jimmy. «Piacere Steve, sono Joy.»
Con un’occhiata a Sean, Steve si informa su dove sia finita Grace.
Sean gli risponde «te lo spiego dopo» con un’altra occhiata. O almeno così
mi sembra di intuire.
«Joy è la nipote di Arianna» spiega Sean, e Steve si esibisce in un «ooohh»
pieno di significati.
«Se sei la nipote di Arianna, ti meriti il meglio. Come un granchio reale
appena pescato, e tu, grande uomo» continua Steve rivolto a Jimmy, «vuoi
rimanere qui con loro o preferisci venire a vedere cosa abbiamo pescato oggi?
C’è anche uno squaletto, con dei bei denti aguzzi. Fred sta già
ispezionandolo.»
«Sìììì!» urla Jimmy, poi si gira verso suo padre per avere il permesso.
«Vai pure, divertiti» gli dice con un sorriso Sean. Quindi, rivolto a me,
spiega: «Fred è il figlio di Steve. Lui e Jimmy si incontrano di rado, ma è
l’unico ragazzino con cui Jimmy sta volentieri».
La mia mano è di nuovo nella sua. Non faccio niente per toglierla. Ci si
trova talmente bene che probabilmente, se lo facessi, si ribellerebbe e mi
tirerebbe uno schiaffo. Rimani pure lì, mano, e goditi quella calda e forte di
Sean.
Un telefono squilla, Sean risponde e dopo un «perfetto» e un «grazie»
chiude la comunicazione.
«Scusa» mormora, «lavoro».
Voglio continuare il discorso che la telefonata ha interrotto, mi sta a cuore.
Così dico: «Sono felice che Jimmy abbia accettato di andare agli allenamenti
di calcio. È un primo passo. Forse in autunno potrebbe anche tornare a
scuola».
Mi fissa, il sorriso che prima gli brillava sul viso si è spento.
«Lo spero tanto. Dopo quello che ha passato a Portland per colpa di quei
bulli da strapazzo, lo psicologo mi ha detto di andarci piano, di aspettare che
sia lui a chiedere di tornare a scuola.»
«Chissà… Il calcio potrebbe essere la carta vincente per superare i suoi
timori.»
«In ogni caso, sarà un tentativo. Non sai che sollievo sarebbe per me
vederlo tornare a una vita normale.»
Faccio sì con la testa. Sean mi stringe la mano, sorride e mormora un
«grazie» che mi avvolge come un’onda calda. Ok, meglio che mi raffreddi.
Gli faccio un’altra domanda.
«E di sua madre, Jimmy non chiede mai? Mi ha detto che è in missione in
Antartide. È vero o si tratta di una sua fantasia?»
«Nessuna fantasia, è una scienziata. Per la verità avrebbe già dovuto essere
indietro da tre mesi. Ma, a quanto pare, non le importa niente di suo figlio. Si
preoccupa più dei suoi pinguini reali che di Jimmy.»
Mi chiedo che razza di madre sia, ma non mi permetto di commentare.
Sean va avanti.
«Sono quasi due anni che non vede suo figlio, se non attraverso un
computer. E sai cosa mi ha detto Jimmy?»
Mi viene una fitta al cuore.
«Non voglio saperlo, Sean, per favore, penso che non lo sopporterei.»
Vedo il suo volto indurirsi ulteriormente. Mi stringe la mano sino a farmi
male.
«Mi ha detto che non la vuole più come mamma. Ha detto che se ne
cercherà lui una. Perché, a quanto pare, non vuole neppure Grace.»
Qualcosa mi sta impedendo di respirare. Un groppo alla gola che non va né
su né giù.
Non dovrebbe importarmene, ma pensare che un ragazzino adorabile come
Jimmy sia arrivato a rinnegare sua madre... In quanto a Grace, sono
d’accordo con lui: chi vorrebbe la regina di ghiaccio come madre? Quando
ritorno a respirare non commento, ma dico: «Mi sembrava di averti detto che
non volevo sapere. Grazie tante per avermi rovinato gli ultimi giorni del mio
soggiorno nel Maine».
«Hai proprio deciso di partire?»
Ora la mia mano è stretta nella sua come in una morsa. Gli occhi di Sean
sembrano scuri di collera.
Guardo le nostre mani intrecciate.
«Mi fai male, Sean, per favore...»
Allenta la presa, forse perché in quel momento arriva la madre di Fred, con
del vino ghiacciato e del pane fragrante. Mette il tutto sulla tavola, mentre mi
fissa e scambia un sorrisetto di intesa con Sean.
«Sean, tesoro. Che felicità vederti» dice, schioccandogli un paio di baci
sulla guancia, «e che felicità rivedere il tuo meraviglioso ragazzo. Dio quanto
crescono in fretta!»
Poi si gira verso di me e mi tende la mano.
«Io sono Anne, piacere.»
«Io sono Gioia» rispondo stringendole a mia volta la mano.
«La nipote di Arianna» dice lei, come se fosse un titolo nobiliare o una
maledizione. «Sei famosa, mia cara.»
«Per le foto su Twitter?»
«Già» risponde, «e tra poche ore potresti essere nota anche per altro. Qui le
notizie volano con il vento.»
La guardiamo entrambi come fosse E.T..
«Per lo scaffale?» chiedo.
«Lo scaffale? Che scaffale? No, no, a causa di Jimmy. Sta dicendo in giro
che sei la fidanzata di suo padre. E che vi sposerete.»
«Cosa?» gridiamo all’unisono Sean e io scattando in piedi.
«Avete capito bene.»
«È solo un bambino e si è affezionato a Joy in queste ultime settimane.
Stava prendendovi in giro» dice Sean poco convinto.
«Al contrario, era molto serio. Sai cosa ti dico, Sean? Che quel ragazzino ti
sta mandando dei segnali grandi con una montagna, non puoi ignorarli.
Comunque…» continua con un sospiro, «adesso rilassatevi con un bicchiere
del tuo sauvignon preferito, Sean, offre la casa. Torno fra cinque minuti con i
vostri piatti.»
Ecco, i piatti. Peccato che non abbia più fame.
Sean si passa una mano sul viso, e mormora: «Mi spiace, Joy, non
intendevo coinvolgerti così nei miei casini familiari. Ho sbagliato e continuo
a farlo».
Proprio la frase che volevo sentire.
Mi sembra di precipitare in un abisso.
Dico addio al pranzetto idilliaco in riva al mare. Dico addio a Sean.
Dio, perché ho incontrato quest’uomo se dovrò perderlo subito?
«In che senso “hai sbagliato”, scusa?» chiedo con un filo di voce.
«Ho permesso a Jimmy di affezionarsi a te e l’ho permesso anche a me
stesso.»
Il cuore mi salta in petto come un canguro. A fatica riesco a dire: «Non
vedo nulla di male in ciò».
«Non hai appena finito di dire che te ne andrai via non appena Arianna
ritornerà? Come credi che ci resterà quel bambino quando gli dirai addio?»
«E come credi che ci resterò io?» “… quando tu e la principessa Grace
convolerete a nozze?” aggiungo nella mia testa.
Lo guardo. Mi guarda. I suoi occhi stanno frugandomi l’anima come uno
scanner.
Chiudo i miei illudendomi di sfuggire a quell’esame impietoso.
Un istante dopo capisco che sta versando il vino nei bicchieri.
«Tieni» mi dice, porgendomene uno. Riapro gli occhi, prendo il bicchiere e
bevo un sorso. Il sauvignon preferito di Sean mi sembra fiele.
«Sta capitando tutto troppo in fretta» dice lui, portandosi il bicchiere alle
labbra. Il vino è sempre più amaro.
«Perché, Sean?»
Lui mi fissa senza muovere un muscolo.
Chiude gli occhi. Scuote la testa. Si passa il palmo della mano sulla fronte,
come per scacciare un’emicrania. Ma non parla.
«Lascia perdere, non era mia intenzione interferire nella tua vita, tantomeno
in quella di Jimmy che non ha alcuna colpa in tutto ciò» dico sicura come una
donna matura, ma sentendomi dentro un’angoscia tipo adolescente respinta.
«Nessuno ti ha affibbiato delle colpe, Joy. Semmai sono io ad averne.»
Faccio un gesto spazientito con la mano.
«Lasciamo perdere, Sean, hai ragione. Tutto è capitato troppo in fretta,
anche se non so bene cosa significhi “tutto”. Che siamo andati a letto
insieme? Che sono diventata amica di Jimmy?»
Lui non risponde. Mi guarda e basta. Aggiungo in un bisbiglio:
«Considerato il tuo silenzio, non puoi certo biasimarmi a questo punto se me
ne voglio andare».
Lui tace, e quindi acconsente ancora.
È d’accordo con me, vuole che me vada.
Una dannata lacrima pensa bene di rotolarmi giù lungo la guancia. E poi
un’altra. E non che servano i miei pietosi tentativi di nasconderle. Sembro
una fontana.
Ora, non che sperassi di vedere l’orco trasformarsi in un principe azzurro,
vero, mio, ma la delusione brucia lo stesso. Lui a quanto pare non sa che
farsene di me. Se non per un’altra notte o forse due. Anche se, come ha
ammesso, si è affezionato a me, come fossi un altro cane.
Armageddon, Paraspifferi e… Gioia.
Una profonda irritazione scende dal cervello al cuore e si trasforma in
amarezza. E siccome le disgrazie non vengono mai da sole, in quel momento
suona pure il mio cellulare. Rispondo tirando su col naso. Dall’altra parte il
vichingo mi chiede preoccupato: «Gioia, sei tu? Cosa sta succedendo?
Piangi?».
«No, va tutto bene» mento.
«Chi diavolo è?» chiede Sean.
«Non sono fatti tuoi» ribatto.
«Non sono fatti miei?» chiede il vichingo.
«Non parlavo a te Henry!»
«Ci mancava Henry!» dice Sean battendo un pugno sul tavolo che fa
tintinnare i bicchieri.
«Con chi sei, Gioia? Cos’era quel fracasso?» chiede il vichingo.
«Non sono fatti tuoi» rispondo io.
«Adesso è a me che parli, vero?»
«Vero.»
Pausa.
«Ti ricordi del nostro appuntamento?» continua lui.
«No, per la verità in questo momento non ricordo nulla.»
È la verità.
«Tu e io. Abbiamo un appuntamento questa sera, Gioia.»
«Hai ragione.»
«Vengo a prenderti alle sette. Ok?»
«Ok.»
«Fatti bella, ti porto in un bel posto.»
«Così che possano scattarci altre foto insieme e postarle su Twitter? Ho
visto che i tuoi indici di gradimento sono saliti dopo il nostro picnic.»
«È vero, ma ti prometto che non ci saranno cellulari indiscreti intorno a noi
questa sera.»
«Ci conto, Henry. Non mi piace essere usata.»
«Non ti ho usata.»
«Va bene. Alle sette, allora.»
Chiudo irritata la telefonata e mi asciugo un’ultima lacrima.
«Cosa voleva?» mi chiede Sean, con troppa aggressività.
«Ricordarmi il nostro appuntamento di stasera.»
«Che diavolo! Esci ancora con lui?»
«A quanto pare sì. Ma non credo che dovrebbe importartene, soprattutto a
questo punto.»
«Il fatto è che non voglio che esci con quel figlio di puttana, e non voglio
che tu te ne vada. Lo so, è pazzesco, ma più ci penso…»
«Facciamo una cosa» lo interrompo. «Non parliamone sino a domani, o
forse non parliamone mai più. Punto. E non pensiamo. Godiamoci il pranzo e
non facciamoci trovare da Jimmy col muso lungo.»
Scuote la testa, poi si alza in piedi e si avvicina alla balaustra del portico.
Pare quasi che stia lottando con se stesso e mi illudo che stia soffrendo un po’
anche lui. Quando ritorna mormora un «va bene» per nulla convincente.
«Visto che ci siamo» dico per smettere di piangere o forse perché questa
sarà l’ultima occasione per chiederglielo, «mi spieghi un altro tuo casino?
Perché stai comprando tutti quegli edifici a Cape Love, compresa la libreria?
Cosa vuoi farci?»
La brezza che fino a qualche attimo fa ci stava accarezzando con gentilezza
sta per trasformarsi in una tempesta.
Mi guarda stupito.
«E adesso cosa c’entra questa storia?»
Non che abbia tutti i torti.
«C’entra che voglio conoscere la verità. Voglio sapere con chi sono andata
a letto.»
«Perché, non lo sai già?»
«Non lo so, Sean, non lo so più.»
Non deve essere la risposta giusta, perché lo vedo stringere i pugni e
irrigidirsi. Forse sta per esplodere. O tirarmi un cazzotto. Ma non batto ciglio.
Quando vedo la sua mascella rilassarsi, mi tranquillizzo un poco. E quando
con voce gelida mi risponde, vorrei morire.
Perché non ho capito niente di Sean McCallun.
«Sei andata a letto con uno che ha investito quasi cinque milioni di dollari
solo perché non vuole che il villaggio dove è nato venga trasformato in un
resort di lusso.»
Ecco.
«Sei andata a letto con uno che non vuole che vengano aperte boutique alla
moda al posto di librerie pittoresche, che vecchiette per nulla indifese
vengano cacciate per lasciare le loro case a cafoni arricchiti, che un campo di
golf esclusivo e un hotel a cinque stelle vengano costruiti sulla scogliera.
Ecco con chi sei andata a letto.»
La mandibola mi si deve essere staccata dall’articolazione (temporo-
mandibolare, per la precisione), perché continuo a fissare Sean come una
cernia lessa sino a quando non mi esce un pietoso balbettio.
«Non capisco… Io credevo…»
«Tu credevi ciò che il nostro stimato sindaco ti ha fatto credere.»
«Non è vero!» protesto con veemenza eccessiva. La mandibola è tornata al
suo posto.
«Se gli avessi creduto» continuo, «non ti avrei permesso di baciarmi
stamattina in libreria e non avrei voluto conoscere la tua versione dei fatti. E
poi il vichingo non mi ha detto altro che la verità.»
«Il vichingo?»
«Già, lo chiamo così, ma lui non lo sa.»
«C’è qualcosa tra voi?»
«E anche se fosse?»
I suoi occhi scavano nei miei e in pochi secondi scoprono la verità.
«No, non c’è niente fra voi» dice Sean.
«Come fai a esserne così sicuro?»
«Dal modo in cui mi hai baciato e dal modo in cui mi guardi, anche
adesso.»
«Quanta arroganza, Sean.»
«Negalo. Dimmi che provi interesse per lui e ti crederò.»
«Provo. Interesse. Per lui.»
«Bugiarda.»
Sbuffo, spazientita dalla sua presunzione. Ma ha ragione, sono una
bugiarda. Pessima, peraltro.
«Voglio andare a casa, Sean. Posso prendere un taxi, se tu e Jimmy volete
rimanere ancora.»
«Non essere ridicola, Joy. Primo, perché qui un taxi non lo trovi; secondo,
perché dobbiamo ancora mangiare.»
Mangiare? Già me ne ero completamente dimenticata. Ma non ho voglia di
mangiare. Voglio solo andarmene e trovare un muro contro cui sbattere la
testa.
«Dimmi cosa ti ha detto Henry, per favore Joy, è importante.»
Annuisco. Non c’è motivo, in fondo, per tenerglielo nascosto.
«Gli ho chiesto di informarsi su chi stesse tentando di acquistare la libreria
e gli edifici della Main Street e mi ha risposto che eri tu. Tutto qui.»
«Tutto qui? Non direi proprio. Mi ha fatto passare per un bieco speculatore,
quando la verità è…»
«La verità è…?»
«… che a speculare non sono io, ma un’importante società di Boston che
finanzierà la campagna elettorale di Henry, sempre che riceva i permessi
necessari a costruire a Cape Love quel famoso resort di lusso con campo da
golf annesso di cui parlavamo prima. Indovina un po’ chi ha l’ultima parola
sulle concessioni edilizie…»
Lo fisso con due occhi tondi, pieni di punti interrogativi.
«Dio! Sei più ingenua di Alice nel paese delle meraviglie, Joy, svegliati!»
Lo dice come se lui fosse Bianconiglio.
Il mondo sembra crollarmi addosso, offuscato dalla nebbia e, quando mi
riprendo, un grande granchio mi sta fissando con quei suoi occhietti neri.
Come diavolo è finito nel mio piatto?
«Sentirai che delizia» mi dice qualcuno.
Steve, ecco come ci è finito.
Gli sorrido e lo ringrazio, ma non riesco a smettere di pensare a quanto sia
stata ingenua a dubitare di Sean. Eppure zia Ari mi aveva detto in modo
molto chiaro di avere fiducia in lui, che ci doveva essere una valida
spiegazione se si era comportato così.
Prendo la forchetta in mano, anche se proprio a mangiare non ci penso.
«E cosa succederà» chiedo, «quando le tue acquisizioni saranno effettive?»
Lui guarda l’orologio, come Bianconiglio, ma in modo molto più sexy.
«Per la verità sono già effettive, da circa mezz’ora. Dall’ultima telefonata
che ho ricevuto. E tanto perché tu lo sappia, dalla scorsa settimana a oggi il
prezzo è salito parecchio. Forse perché tu hai messo il naso in questa storia.»
Sono come impietrita. Dov’è quel muro, che devo sbattere la testa?
«Cosa avrei fatto io? Non ci ho messo il naso!» protesto.
«In buona fede, ma l’hai messo. Hai parlato con Henry e i signori di Boston
hanno fatto la loro controfferta, facendo crescere il prezzo delle case.»
Perché anche il granchio sembra guardarmi con disapprovazione? Non oso
chiedere. Poi chiedo, a testa alta, come se fossi pronta a pagare per la mia
idiozia.
«Mi spiace Sean, non potevo sapere. Quanto ti sono costata?»
Il mio bicchiere è vuoto. Sean me lo riempie. Io me ne scolo metà. Sean
sceglie proprio quel momento per rispondermi.
«Circa un milione.»
Il vino prende la via sbagliata e io comincio a tossire rischiando di sputarlo
tutto fuori.
«Un milione?» chiedo continuando a tossire. Sto dando uno spettacolo
pietoso, ma diavolo! Un fottutissimo milione!
«Sono solo soldi» dice Sean, ridacchiando. «Ma, se non muori prima
strozzata dal vino, potrei pretendere un risarcimento per esserti intromessa
nelle mie trattative.»
Da come brillano i suoi occhi, capisco subito di che risarcimento si tratti.
La tosse si calma. Inspiro, espiro. Inspiro, espiro. Ricomincio a vivere,
rossa come l’aragosta di Sean e col viso rigato di lacrime.
«Perdonami» dico, «non pensavo di averti procurato un tale danno, anche
se…»
«Anche se…»
«Be’, ancora non capisco perché tu l’abbia fatto se non ci guadagni nulla.»
Prende un grande respiro.
«Non dico che non sia un buon investimento, al contrario, sono certo che lo
diventerà. Ma la ragione principale per cui l’ho fatto è che chi era interessato
a trasformare Cape Love in una località alla moda ora forse cambierà idea. E
se non cambierà idea, almeno non toccherà la Main Street.»
«E le vecchiette?»
«Rimarranno tranquille a casa loro.»
«E la libreria?»
«Continuerà a esistere. E se Joanna e tua zia lo vorranno, potranno entrare a
far parte di un circuito di piccole librerie indipendenti che sto creando.»
«Tu stai creando un circuito di librerie?»
«Una delle mie società, per la precisione. Diamo una mano alle piccole
librerie fornendo qualche suggerimento di marketing e organizzando degli
eventi: uscite in anteprima, autori che presentano il loro ultimo romanzo,
promozioni speciali, piccole cose del genere.»
«Ancora non capisco perché tu lo faccia. Per senso di responsabilità o di
colpa?»
Sean si stringe nelle spalle.
«Non ho mai riflettuto molto sul perché, mi sono solo reso conto di doverlo
fare. E, a giudicare dai primi risultati, credo di averci visto giusto ancora una
volta.»
Mi è ritornato lo sguardo da cernia lessa.
«Mangia» mi dice lui mentre si annoda intorno al collo il grande bavaglio
che Steve gli ha portato con l’aragosta.
Faccio sì con la testa e prendo la forchetta in mano. Poi guardo gli occhi del
granchio e la metto giù.
«Non ho parole» mormoro. «Devi pensare che sono un’idiota, e se ti può
consolare, lo penso anch’io.»
«Non lo penso, ma ora mangia» mi dice mentre cerca di avere la meglio su
una chela.
Metto in bocca un pezzo di granchio.
Cavoli, è buonissimo!
Tornando a casa, passiamo a prendere all’ospedale di Bath Mrs Hall. Le
lascio il posto davanti e mi sistemo sul sedile posteriore con Jimmy. La
donna sta meglio, anche se, dice, dovrà presto sottoporsi a un intervento con
il litotritore.
«Cos’è un litotritore?» chiede Jimmy colpito da quello strano nome e,
quando Mrs Hall glielo spiega, commenta con un «forte!» come se si trattasse
dell’arma di un supereroe.
Jimmy non cessa per un solo istante di parlare. Ci racconta di Fred e di
come, con grande sprezzo del pericolo, hanno prima toccato i denti dello
squaletto e poi giocato a calcio.
«A proposito, visto che ormai hai cominciato gli allenamenti, spero proprio
che tu abbia intenzione di partecipare al torneo di calcio» dico, augurandomi
di sentire un sì come risposta.
«Posso papà?»
«Certo, anzi devi. Tutta la squadra te ne sarà grata.»
«Ma tu, verrai a vedermi?» chiede al padre.
«Non perderò una partita, promesso.»
«E tu?» chiede rivolto a me.
Ecco.
Per fortuna arriviamo a destinazione. Mrs Hall scende a casa McCallun e
Jimmy e Sean mi accompagnano sino al faro.
«Allora» fa il ragazzino, più determinato che mai, «verrai a vedermi
giocare se partecipo al torneo? Comincia fra dieci giorni.»
Mi dispiace doverlo fare, ma devo dirglielo.
«Jimmy» ruoto verso di lui per guardarlo negli occhi, «devo dirti una
cosa.»
«Cosa?» mi chiede con un sorriso disarmante.
«Lascia perdere, Joy» mi ordina Sean. Forse non ha capito che non sono il
tipo che prende ordini.
Alzo gli occhi al cielo, cosa che fa ridere Jimmy, e continuo: «Se sarò
ancora qui, verrò, te lo prometto, ma devi sapere che quando Arianna tornerà,
io dovrò tornare in Italia».
Il suo visetto lentigginoso assume un’espressione interrogativa.
«Joy, lascia perdere, per favore» insiste Sean.
«E quando ritornerai?» chiede Jimmy.
«Non lo so, dipende da molte cose.»
«Ma devi finire il tuo libro!»
«È vero, ma posso finirlo anche a Milano. Ho scattato tantissime foto, di
Cape Love e delle persone che vi abitano, e anche del mio protagonista
preferito» dico, scompigliandogli i capelli.
«Sarei io, il tuo protagonista preferito?» chiede insicuro.
«E chi altri? Certo che sei tu! E se questo libro avrà successo, sarà il primo
della serie Le Avventure di Jim McCallun» annuncio con un ampio gesto
della mano destra, come se già leggessi il titolo.
«Dai, mi prendi in giro!» dice lui.
«Giuro che è vero, se mi lascerai usare il tuo nome e il tuo faccino, e
sempre che papà non abbia nulla a che ridire in proposito…» aggiungo
guardando Sean. Vedo il suo sorriso riflettersi nello specchietto retrovisore.
«Se va bene a te, Jimmy…»
«Sììì!» commenta il ragazzino.
Forse è andata, forse ha accettato la cosa. Forse ha accettato l’idea che io
lasci Cape Love per terminare il libro, anche se va in giro a dire che suo
padre e io ci sposeremo.
O forse non ha accettato un bel niente.
«E quanto starai via?»
Appunto.
«Non so… Ci vuole tempo a stampare un libro, Jimmy.»
Dio! Speriamo che se la beva. Non voglio dargli un’altra delusione, non
voglio che pensi a me come un’altra persona che sta per abbandonarlo.
«Ma scusa, non te lo può stampare papà?»
L’osservazione non fa un grinza. Perché i ragazzini sono così svegli di
questi tempi?
«Ho un contratto con un altro editore, Jimmy, e devo rispettarlo» rispondo
senza battere ciglio.
«Allora invia i disegni via Internet» obietta lui. È un vero osso duro. La sua
logica è ferrea.
«Non è possibile, per la stampa servono gli originali.»
«Mandali con il corriere.»
Ecco. Ora non so più che dire.
«Jimmy, non essere insistente» dice Sean, forse per tirarmi fuori dai guai.
Vorrà anche togliermi dagli impicci, ma in realtà mi fa un male cane.
«Ora devo proprio andare» dico come se tutto fosse stato risolto. Mi chino
a dare un bacio a Jimmy e alzo lo sguardo su Sean, che mi sta fissando
attraverso lo specchietto retrovisore.
«Be’, grazie per lo scaffale e per il granchio, Sean.»
«È stato un piacere, aiutarti, Joy» risponde lui, come fossi una vecchia
signora che ha appena aiutato ad attraversare la strada.
Cristo Santo!
Scendo dalla macchina, sbatto la portiera e mi affretto verso il faro, ma non
abbastanza veloce per non sentire Jimmy che urla il mio nome.
«Joy!»
Mi giro e faccio qualche passo indietro, verso l’auto. Jimmy ha abbassato il
finestrino e mi guarda in un chiaro atteggiamento di sfida.
«Se non verrai a vedermi giocare» dice con calma glaciale, «non
parteciperò al torneo e non giocherò mai più a calcio in vita mia!»
Ecco. Un ricatto in piena regola.
Se m’avessero tirato un cazzotto in faccia, mi avrebbero fatto meno male.
17
Martedì 1 luglio, sera

Il vichingo arriva alle sette precise, lo aspetto vicino alla torre del faro
mentre i due cani si rincorrono giocando. Scende dalla BMW sicuro di sé,
aggressivo come sempre. Abito di lino color crema, camicia bianca, elegante,
attraente. Quando mi vede in jeans e T-shirt mi guarda sorpreso.
«Mi ero dimenticato di dirti che voglio portarti in un posto elegante?»
«No, te ne eri ricordato, solo che ho cambiato idea, non ci vengo più. Se ti
fossi degnato di rispondere al telefono o di guardare i messaggi ti saresti
risparmiato un viaggio.»
«Ah!» è il suo unico commento.
Ha la faccia di un uomo seccato, non abituato a essere respinto.
Sul promontorio, a qualche decina di metri da noi, ci sono ancora gruppetti
di persone che rientrano dalla spiaggia. Qualcuno ci osserva incuriosito.
«Entriamo in casa, Henry, non voglio diventare la protagonista di una soap
opera su Twitter.»
Mi segue oltre la soglia in salotto.
«Allora?» chiede con fare per nulla mite. «Perché hai cambiato idea?»
«Perché mi hai fatto credere qualcosa che non è. Io tendo a credere alle
persone, a fidarmi. È un mio difetto.»
«Non ti capisco.»
Si siede sul divano come fosse il padrone di casa.
«Mi hai indotto a credere che Sean McCallun fosse un bieco speculatore,
desideroso di comprarsi mezzo villaggio per farci chissà cosa, e invece… le
cose non stanno proprio così, a quel che ho capito. Non mi è piaciuto,
Henry.»
Alza un sopracciglio e mi rivolge uno sguardo di sfida.
«E tu sai come stanno le cose, a quanto pare.»
«So solo che l’intenzione di Sean non è quella di speculare, mentre…»
«Mentre qualcun altro vorrebbe farlo.»
«Già.»
«Siediti di fianco a me, Gioia. Voglio spiegarti qualcosa.»
Mi siedo, ma cerco di mantenere fra noi una distanza di sicurezza.
«Ti ricordi in che circostanza ci siamo conosciuti?»
«Certo, in occasione del matrimonio di zia Ari.»
«E ti ricordi che tu e io siamo stati i testimoni degli sposi?»
«Come potrei averlo scordato? Ero vestita da Pocahontas. Il mio
travestimento di carnevale preferito, un’esperienza che, ti assicuro, non si
dimentica.»
Mi sorride, sembra un sorriso sincero.
«Eri deliziosa con quell’abito.»
«Ero… strana, questo te lo concedo. Ma conosci zia Ari! Non si riesce a
dirle di no.»
«Già.»
«Tutto questo cosa c’entra, Henry?»
«C’entra a dirti che se ti fidi di tua zia e di suo marito, che mi hanno voluto
come testimone, puoi fidarti anche di me. Non sono un figlio di puttana,
benché Sean ne sia convinto fin dai tempi del liceo. Ma sono un politico, e
come tale ho delle responsabilità.»
Non so come, ma è riuscito ad avvicinarsi a me, tanto che i nostri corpi si
sfiorano.
«Che tipo di responsabilità?»
«Tipo non mandare in malora Cape Love. E per riuscirci, devo accettare dei
compromessi, se non ho un’altra scelta.»
«Come permettere che costruiscano un campo da golf e un hotel di lusso?»
«Esatto. Un campo da golf, un hotel di lusso e un ospedale. Piccolo, ma
efficiente.»
«Un ospedale?»
«Già, il progetto è di John, il marito di tua zia. E dopo l’ospedale una nuova
scuola superiore in modo che i ragazzi di tutta la penisola non debbano
recarsi tutte le mattine a Bath.»
Scuola e ospedale, due delle parole che i politici preferiscono. Lo guardo
senza nascondere la mia diffidenza.
«Un ospedale e una scuola? Ti sei trasformato in Madre Teresa o vuoi solo
fare colpo su di me?»
Si mette a ridere.
«Voglio solo che Cape Love non finisca come molti altri villaggi,
abbandonato e cadente. Ma perché ciò accada, ho bisogno di essere eletto al
Congresso. Ho bisogno che qualcuno finanzi la mia campagna, e non c’è
nessuno disposto a farlo senza ottenere qualcosa in cambio.»
Mi passa un braccio dietro alla spalla.
«Possibile che non ci sia un’altra strada? Sean non potrebbe aiutarti?»
«Sean? Mi detesta con tutto il cuore e, come hai visto, ha cercato di
mettermi subito i bastoni tra le ruote acquistando ben cinque degli edifici
storici più importanti. Così, tanto per sbattermi in faccia i suoi soldi e il suo
potere.»
«No, non l’ha fatto per quello, ma solo perché ama Cape Love, come lo ami
tu.»
Henry scoppia a ridere.
«Ama talmente il suo villaggio natale che se ne è andato appena ha potuto.
Chi è rimasto a occuparsene, secondo te? Non ti facevo tanto ingenua, Gioia»
dice con un’amarezza che suona sincera. «Mi sembri Alice nel Paese delle
Meraviglie.»
Alzo gli occhi al cielo e sbotto: «Con questa storia di Alice mi avete
davvero rotto tutti e due!».
Henry mi guarda senza capire. Impaziente e un po’ irritata continuo a
esporre la folle teoria che il mio cervello sta cominciando a concepire.
«Forse se lui appoggiasse la tua campagna elettorale…»
«Questa è la battuta del secolo!»
Batto un piede per terra, irritata.
«No, ascoltami. Se Sean appoggiasse la tua campagna elettorale e trovasse
altri sostenitori, non ci sarebbe bisogno di barattare un campo da golf e un
hotel per una scuola e un ospedale.»
Sembra riflettere sull’idea, mentre il suo braccio mi stringe a lui e io lotto
per togliergli la mano dalla spalla, senza successo.
«Perché non provi a parlargliene, Henry?»
«Di cosa dovrebbe parlarmi? Di come siete carini voi due insieme?»
La voce di Sean mi fa sussultare. Mi giro e lo vedo. È in piedi, sulla porta
del portico, e non ha l’aria di un uomo felice. Neanche un pochino. Ha l’aria
di un temporale che sta per esplodere. E un temporale di quelli pericolosi.
«Parli del diavolo…» dice Henry.
«Sean!» urlo, e quasi mi sento in colpa, come se mi avesse beccato a fare
cose turpi con un altro. Come se fra noi ci fosse qualcosa di serio, di
importante.
Già.
Sean fa qualche passo verso di noi. Stringe i pugni ed è palese che stia
cercando di calmarsi, ma l’espressione nei suoi occhi è quella di un mare in
tempesta e mi spaventa.
«Ero venuto per parlarti, Joy, ma vedo che sei occupata.»
«Di cosa volevi parlarmi?» chiedo col cuore che sta per uscirmi dal petto.
«Non ha più importanza a questo punto.»
«Oh sì che ne ha, almeno per me» protesto, ma lui sembra infischiarsene.
«Meglio che me ne vada.»
«No! Ti prego, siediti e parla con Henry» dico con voce stridula.
Henry tace, ci fissa.
«Di cosa dovremmo parlare?»
«Di Cape Love.»
Sean mi guarda con un ghigno sarcastico, aggressivo.
«Vuoi dire forse di come i suoi amici di Boston vogliono trasformare il
nostro villaggio?»
«No, di come potremmo evitare che ciò accada» risponde con tono pacato
Henry alzandosi in piedi. «L’idea è di Gioia e a me pare pazzesca. Ma perché
non discuterne? Per una sera possiamo evitare di comportarci come due
teenager che si detestano e far finta di essere uomini adulti.»
Lo sguardo di Sean non mi pare poi così da uomo adulto, ma in ogni caso
tiro un sospiro di sollievo perché, almeno per il momento, quei due non si
sono ancora presi a pugni.
Senza dire una parola, vado in cucina e ritorno con un paio di birre che
sistemo sul tavolino di fronte al divano. Poi li lascio ai loro discorsi “da
grandi” e con Armageddon e Paraspifferi esco per la passeggiata serale sulla
scogliera. Se in casa voleranno i coltelli non voglio prendermene uno nel
petto. Ritorno dopo un’oretta, e li trovo ancora a parlare. Le suppellettili della
casa sono al loro posto e nessuno dei due ha un occhio nero. A dir la verità,
non si accorgono quasi di me. Va bene così, mi ritaglio un ruolo tipo
“mogliettina-clone” di Stepford e finisco in cucina, dove mi metto a preparare
dei sandwich. Sono le nove di sera, in fondo, e non sono solo Armageddon e
Paraspifferi ad avere fame. Nutro i cani, poi gli uomini e me stessa. Dopo, mi
guardano tutti riconoscenti; i cani si concedono un pisolino, gli uomini
riprendono a parlare fitto.
Alle undici sono ormai appisolata su una poltrona, le gambe rannicchiate
sotto di me, un cuscino dietro la testa.
A mezzanotte un bacio sulla fronte mi sveglia.
Apro gli occhi e vedo Henry chino su di me. Mi sorride.
«Potresti aver avuto una grande idea, Gioia. Grazie di tutto.»
«Te ne vai?» chiedo senza capire ancora bene come, dove, quando e
perché.
«Credo che sia meglio così. So riconoscere quando ho perso.»
«Perso? Cosa hai perso?»
«Te Gioia. E non credere che non mi dispiaccia.»
Henry lancia un’occhiata a Sean, gli fa un cenno di saluto con la testa e se
ne va.
Sean siede ancora sul divano e sembra alquanto pensieroso. Mi fissa in
silenzio.
«Allora?» chiedo senza muovermi dalla poltrona. Tenere un certo numero
di metri tra me e Mr Ocean mi fa vivere più tranquilla.
Si alza in piedi con un sospiro. Sono già meno tranquilla.
«Sembra impossibile. Henry e io d’accordo! Dobbiamo ringraziare te per
questo, ci hai obbligato per una volta a ragionare e a superare i nostri
rancori.»
«Quali rancori?»
«Cose da ragazzi, rivalità soprattutto, che ci portiamo dietro dalle
elementari. Lui di famiglia ricca e potente, io povera e ininfluente. Lui ligio
agli studi e al dovere, io ribelle e arrabbiato. Lui pazzo di una ragazza, io
pure… Vedi, le cose in fondo non sono molto cambiate…»
Non so se quest’ultima frase abbia qualche riferimento col presente e con
me, ma faccio finta di niente.
«Mi sembra che oggi non sia più così… anzi.»
«Sono solo più ricco di lui, cosa che non conta poi molto quando hai a che
fare con un avvocato di successo che è pure un politico.»
«Capisco il tuo punto di vista…» In realtà non so neppure cosa volessi dire
perché Sean è ormai davanti a me, cosa che oltre a mandarmi in completa
confusione, mi fa sentire vulnerabile e insicura. Mi rannicchio sulla poltrona
come una lumaca nella chiocciola mentre la temperatura intorno a me sembra
all’improvviso essere quella dei tropici. Ora si è rimesso a parlare e con una
certa fatica riacchiappo il filo del discorso. L’argomento sono ancora lui e il
vichingo.
«Non so cosa uscirà da tutto ciò che ci siamo detti stasera, ma almeno
potremo dire di averci tentato. Il programma di figliodipapàGustaffson per il
rilancio di Cape Love mi sembra sensato e fattibile. Sempre che Henry non
faccia scherzi.»
«FigliodipapàGustaffson?»
«Già, era così che lo chiamavo, prima di chiamarlo figlio di puttana.»
Mi guarda dall’alto del suo metro e ottantacinque, non so con quali
intenzioni, ma un’idea ce l’ho. Mi rannicchio ancora di più, pur sapendo che
o trovo nei prossimi due secondi il modo di smaterializzarmi come in Star
Trek o non ho via di scampo.
Come è logico, non ho via di scampo.
Lo vedo chinarsi su di me, con una lentezza che mi toglie il fiato, fino a
quando le nostre labbra si incontrano. Un bacio leggero, tenero. Umido. Per
nulla casto.
Mi perdo nei suoi occhi invece di respingerlo.
E le nostre labbra si incontrano di nuovo.
Proprio ciò che non doveva succedere.
L’unica cosa che riesco a dire è «Sean» seguito da un ridicolo gemito,
anche perché le farfalle stanno svolazzando di nuovo nel mio stomaco e
impediscono ai miei neuroni di lavorare, se non in direzione della
riproduzione della specie. E non che ci vadano giù leggeri.
«Ero venuto per parlare, Joy, ma ora…» mi sussurra con quella sua voce
sexy e piena di testosterone, «non riesco a pensare ad altro che fare l’amore
con te, anche se potrebbe essere, come mi hai detto una volta, il peggior
errore della mia vita.»
«Della nostra vita» aggiungo, e pur essendo convinta che sia un
imperdonabile sbaglio, gli butto le braccia al collo in preda a un’improvvisa
febbre di insensatezza new age, affidando di fatto il mio futuro al volere
inoppugnabile del destino.
Ohhh! Per la verità sarebbe alquanto oppugnabile se non permettessi a
Sean di sollevarmi dalla poltrona come una delle sette spose per i sette
fratelli, senza troppi complimenti e con una fretta del diavolo, e lui non mi
chiedesse senza alcun romanticismo un «dove?» al quale rispondo al volo.
Quando si dice andare al dunque…
Non che io sia molto più romantica di lui, perché gli do dei colpetti sul
braccio come se stessi incitando un cavallo col frustino e impartisco ordini
secchi e precisi. «Dritto, destra, seconda porta a sinistra. A sinistra ho detto,
non a destra!»
Entriamo nella mia stanza e lui mi scarica sul letto con buona pace dei
preliminari e comincia a spogliarsi come se gli abiti gli bruciassero addosso.
Lo guardo soddisfatta, come fosse una tazza di crema e io un gatto goloso.
«Cosa aspetti?» mi chiede. «Spogliati.»
Quando si dice la fretta…
Mi metto a ridere, si mette a ridere, e l’impazienza contagia anche me, mi
strappo di dosso la T-shirt, mi contorco per sfilarmi i Levi’s. Ma quando sto
per togliermi reggiseno e mutandine, di semplice cotone bianco contro ogni
tentazione, lui mi dice di fermarmi. Ora non ride più e sembra aver
dimenticato la fretta.
«Voglio farlo io» sussurra, e una scossa mi attraversa da nord a sud come
una saetta concentrando la sua potenza a sud. Se morirò, morirò felice.
Rischiando di sciogliermi ogni volta che i suoi occhi mi accarezzano, mi
metto in ginocchio sul letto. Lui è in piedi e il fatto che sia nudo ed eccitato
davanti a me non mi lascia indifferente. Entrambi abbiamo il respiro
irregolare, o forse non respiriamo neppure, e i nostri cuori cavalcano veloci.
Si china verso di me, sento il suo respiro solleticarmi la pelle. Ma rimango
immobile, in attesa che sia lui a dirmi cosa fare: la cosa mi eccita e mi diverte
molto più di quanto avrei mai osato immaginare.
«Ora girati» mi sussurra, prendendomi a tradimento il lobo di un orecchio
tra le labbra, e io ubbidisco, annaspando per un po’ d’aria, il cuore e la mente
immobili nell’attesa.
Per un attimo, nella stanza immersa nella penombra, il silenzio è assoluto,
morbido come la seta, poi il suo respiro mi solletica la nuca, le sue labbra
assaporano la mia pelle, le sue mani mi liberano dal reggiseno, per poi
impossessarsi dei miei capezzoli. Mi inarco, chiamo il suo nome, sento la sua
erezione premere contro la mia schiena.
Ora la fretta è solo un ricordo. Ogni secondo è prezioso, ogni sensazione è
spinta all’eccesso, frazionata in mille fotogrammi che si stampano nella mia
mente.
Sono in ginocchio sul letto, lui è ancora in piedi, dietro di me. La sua bocca
ora scende lungo le vertebre, e ogni vertebra è un brivido di piacere e un
tormento insieme. Quando arriva alle mutandine le fa scivolare più in basso
poi mi chiede di sdraiarmi.
Senza obiettare gli ubbidisco mentre lui… Dio! Le vertebre sono finite, ma
le sue labbra non hanno ancora smesso di scendere, la sua lingua di esplorare.
«Sean» lo supplico, non so bene di che. Libero la mente da ogni pensiero,
da ogni se e da ogni ma, e lascio che lui mi porti dove non credevo si potesse
arrivare. Urlo, scossa da lampi, fulmini e saette che credevo stessero solo in
mezzo a un uragano. Mi chiedo se sono ancora viva e riprendo fiato.
Ora le sue labbra ripercorrono la colonna vertebrale in direzione inversa, e
ogni vertebra è salutata da un bacio e una parola.
Sono-di-te-ti-voglio-ogni-della-mia-vita. Sono queste le uniche parole che
distinguo con chiarezza e non afferro quelle che stanno tra “sono” e “di” e tra
“ogni” e “della”.
Poco male. È risaputo che gli uomini durante il sesso perdono il controllo e
mentono alla grande, forse senza neppure accorgersene.
Non sono che parole, in fondo, e come tali, si sa, volano.
Rimango immobile, ancora distesa a pancia in giù, mentre lui si sdraia
sopra di me, reggendosi sulle braccia per non pesarmi addosso. Le mie dita
stringono il cuscino mentre giro di lato il viso per offrirgli la mia bocca.
«Voglio prenderti così…» sussurra sulle mie labbra, ma non per chiedermi
il permesso.
«Sì» rispondo, e trattengo il fiato senza riuscire a tirar fuori un solo altro
monosillabo sino a quando lui mormora il mio nome, quello vero, «Gioia» e
un brivido di tenerezza mi avvolge il cuore. «Sean» rispondo, come se due
nomi, detti insieme, assumessero un significato più grande, diverso, unico.
Gemo quando Sean entra in me, e non c’è niente e nessuno all’infuori di
noi in questo benedetto mondo sino all’attimo in cui insieme cediamo al
nostro piacere.
Per qualche istante rimaniamo così, immobili, avvolti dal silenzio della
notte.
Poi lui rotola al mio fianco.
I suoi occhi sono due laghi blu in cui vorrei annegare e il suo respiro è
affaticato, come se tutta l’aria intorno a lui non gli bastasse a sopravvivere. Ci
guardiamo. Ci abbracciamo. Quando lui fa per dire qualcosa io gli metto
l’indice sulle labbra e mormoro «ssshhh». Infine ci addormentiamo.
Forse non avremmo dovuto farlo, ma lo abbiamo fatto. E ora è troppo tardi
per ripensarci.
18
Venerdì 4 luglio

Anche una piccola cittadina come Cape Love ha il suo 4 di luglio, il suo
Indipendence Day. Per chi non se lo ricordasse, è il giorno in cui, nel 1776, le
tredici colonie americane approvarono la Dichiarazione di indipendenza dal
Regno di Gran Bretagna, documento che a leggerlo, ancora oggi, mette i
brividi. Il 4 di luglio, come abbiamo visto in mille film e telefilm, l’America
si colora di rosso bianco e blu da Nord a Sud, da Est a Ovest, trasformandosi
in un’unica, infinita bandiera a stelle e strisce.
E Cape Love non è da meno.
Fin dalle prime luci dell’alba (me l’hanno riferito, io all’alba dormivo
ancora), la Main Street è un fiorire di drappi, coccarde, bandiere e ghirlande
di fiori in tinta, e non c’è vetrina che non sia agghindata per l’occasione.
Quella della libreria di Joanna e di zia Ari è davvero un piccolo capolavoro
dell’assurdo. Joanna si è superata riproducendo a modo suo il famoso dipinto
di John Trumbull, quello esposto a Washington e stampato sul retro delle
banconote da due dollari, che riproduce il momento in cui John Adams,
Roger Sherman, Thomas Jefferson e Benjamin Franklin presentano la
Dichiarazione di indipendenza a John Hancock, presidente del Congresso.
Ovvio che, nella versione di Joanna, sono cinque nerboruti Ken, riveduti e
corretti con abiti del tempo, parrucche e codini, a prestare le loro fattezze un
po’ squadrate ai padri della patria. Da non crederci.
Se vi interessa sapere se in questi giorni zia Ari è tornata alla meta, vi
rispondo subito che non è tornata. In compenso sono arrivati per festeggiare il
4 luglio in famiglia i nonni di Jimmy, ovvero i genitori di Sean, settantenni
assai in forma che ormai vivono per gran parte dell’anno in Florida.
Sean invece non c’è. È ufficialmente ancora a Portland a cercare sostenitori
per il programma politico del vichingo.
«Se qualcuno mi avesse detto che avrei dato una mano a quel bastardo a far
carriera, sarei scoppiato a ridere, o gli avrei tirato un pugno sul naso» mi dice,
salutandomi, il mattino successivo alla nostra ultima notte bollente. Giusto
prima di chinarsi su di me e di accarezzarmi le labbra con le sue,
sussurrandomi un «ciao» pieno di significati tanto nascosti che sono rimasti
tali.
«Ciao» nel senso che ci vediamo presto?
O «ciao» nel senso di tanti saluti e a mai più rivederci?
È stato in quel momento di confusione totale che ho capito tutto.
Non che i giorni successivi a quella notte Sean non mi abbia cercata. Per la
verità mi ha chiamata più volte e, visto che io non gli ho mai risposto, ha
tempestato la mia segreteria con messaggi che dicevano più o meno tutti la
stessa cosa: «dobbiamo parlare, richiamami». Io, ovvio, non l’ho fatto, se non
con un messaggino in cui gli chiedevo di non telefonarmi più, cosa che lui,
dopo un paio di ulteriori tentativi, ha fatto.
Per quale motivo io gli abbia inviato una tale insensata richiesta non lo so.
Forse perché avevo – e ho – una paura del diavolo che lui mi dica qualcosa
che non voglio sentire. Tipo: sei la donna della mia vita, ma non ti merito.
Oppure: il sesso è stato grande, ma cos’è il sesso senza amore? Oppure: ho
già preso un impegno con un’altra donna (Grace???) e il mio onore mi
obbliga a mantenerlo.
Banalità del genere, insomma. Che lui, Sean, Mr Magnifico o orco che dir
si voglia, non direbbe mai.
E allora per quale stupida ragione non ho risposto alle sue telefonate?
1) Perché sono sempre contorta nelle mie considerazioni. 2) Perché se non
ha ancora capito che non “dobbiamo parlare”, allora è meglio che io lo
dimentichi subito, quando sono ancora in tempo a impedire che il mio cuore
venga massacrato.
Ciò che c’era da dire è già stato detto.
Con le carezze, con i baci, con gli sguardi. Con il desiderio, con quel sottile
malessere che entrambi proviamo quando siamo lontani. Be’, almeno credo
che sia così.
Che altro rimane da dire?
Nelle fiabe i principi non parlano quasi mai alle principesse. Le guardano
negli occhi, si innamorano, magari le salvano dal cattivo (o dalla cattiva) di
turno e alla fine se le portano via sul loro destriero bianco. Punto e a capo.
Come nelle fiabe che mi raccontava mamma, voglio che sia così anche per
noi. Anche se conosco Sean solo da poche settimane e se ai nostri giorni
nessuno crede più nel “vissero per sempre felici e contenti”.
Io voglio il mio folle, incredibile e assurdo lieto fine. Come Cenerentola e
Aurora. Come Pretty Woman.
E se non lo potrò avere, il mio biglietto open per l’Italia in poche ore mi
riporterà alla mia vita di sempre che ricomincerò tra le lacrime e uno
sgocciolamento continuo del naso.
Strano, proprio quando il futuro è così incasinato e bislacco da apparirmi a
prima vista più complicato di un’opera di Escher, sono calma e serena.
Guardo il mio costume e, scuotendo la testa, comincio a prepararmi.
***
Ho saputo da Jimmy che suo padre arriverà in tempo per assistere alla
parata. Quando me lo dice, un piccolo tuffo al cuore mi riaccende la speranza,
perché alla parata ci sarò anch’io: devo aiutare Joanna e altre volontarie in
costume a distribuire a cittadini e vacanzieri di Cape Love la riproduzione –
su carta anticata, sia chiaro – della Dichiarazione di indipendenza, omaggio
personale del sindaco alla cittadinanza.
Se non fossi stata abbastanza chiara, anch’io indosserò un costume, perché
dovrò ricoprire il posto lasciato vacante da zietta.
A proposito di zietta…
Non appena farà ritorno a Cape Love… la strozzerò.
Si sa che gli americani trasformano tutto in spettacolo, anche la storia. Così,
come vuole la tradizione di Cape Love, oggi verrà rivissuto nella piazza del
municipio il sacro momento della firma della Dichiarazione di indipendenza
per mano dei cinquantasei rappresentanti delle tredici colonie, l’America del
1776. Il vichingo, considerate le sue nuove ambizioni politiche, mi ha
confidato che si unirà ai cinquantasei padri della patria e firmerà il
documento per ultimo davanti a John Hancock in persona (interpretato da Mr
Rhoads, il padrone della tavola calda).
Lo guardo perplessa.
Mi sorride angelico.
Sarà una mattinata calda, lunga e stancante.
Da quando sono arrivata a Cape Love, non so come, sono riusciti prima a
trasformarmi nella sorella rotondetta di Pocahontas, poi in un soldato della
rivoluzione americana. Io, che non mi sono mai travestita a Carnevale. E che
non sono neppure americana.
In un soldato, esatto, non in una gentile donzella della Filadelfia del 1776,
perché a quanto pare non c’era più un costume femminile che fosse della mia
taglia.
Per evitare discussioni, ho accettato così di indossare braghe color sabbia,
stivali al ginocchio e la giacca rossa blu del soldato semplice Smith,
guadagnandoci pure un tricorno e un moschetto finto che pesa come uno
vero.
Con i favoriti posticci e la parrucca con codino, il mio travestimento è
completo.
Neppure mia madre sarebbe in grado di riconoscermi.
Quando raggiungo la Main Street, marciando come un bravo soldatino, il
mio cuore batte così forte che per un attimo dimentico persino il tormento che
mi sta infliggendo la parrucca. Incontro Joanna davanti al negozio. L’abito
che indossa fa l’effetto di una lente di ingrandimento e la sua pancia sembra
sul punto di esplodere.
«Come sta il bambino?» chiedo abbracciandola. «Non avrà per caso
intenzione di nascere il 4 di luglio?»
«Non mi dispiacerebbe affatto, Gioia, non ne posso davvero più. E poi ogni
anno al compleanno avrebbe fuochi d’artificio gratis, no?»
Un indubbio vantaggio.
Il marito la stringe con affetto, come se volesse proteggerla, poi mi
consegna il pacco dei volantini che dovrò distribuire al pubblico. Quando le
prime note di Stars and Stripes echeggiano in testa al drappello, ci
prepariamo a marciare.
La gente si accalca ai due bordi della strada e i bambini agitano bandierine
e palloncini a stelle e strisce. La parata prende via con lentezza, in testa le
immancabili majorettes, poi la banda dei pompieri, seguita da un drappello di
veterani di varie guerre, dai due agenti della polizia locale, da Mr Rhoads-
John Hancock, Jefferson, Franklin e Adam e dai restanti cinquantadue
firmatari della Dichiarazione. Ogni gruppo è preceduto da un portabandiera
in costume storico.
Certo, in confronto alla parata che si svolge a New York, la nostra è come
la fila di formichine al picnic di Paperino, ma qui si respira un’aria piacevole,
allegra e rilassata che a New York non si sognano neanche. Man mano che la
parata avanza verso il municipio, anche il pubblico si unisce del corteo,
rendendo la celebrazione più colorata, vivace e allegra.
Il mio posto è vicino ai due poliziotti di Cape Love che sembrano più
impegnati a dare un voto alle ragazze del pubblico che a meditare sui valori
della libertà e della democrazia. Io distribuisco copie della Dichiarazione a
destra e a manca, incerta se sentirmi fiera del mio costume da soldatino di
piombo, o orripilata da tutta questa messa in scena. Quando intravedo Jimmy
tra la folla, insieme ai nonni e a Mrs Hall, in un istante il mio viso si illumina
in un sorriso.
Mi avvicino e, non riconosciuta, consegno con fare compito una copia della
Dichiarazione di indipendenza a Mrs Hall e ai signori McCallun, che ho
incontrato il giorno prima mentre assistevo all’allenamento di calcio di
Jimmy. Poi ne offro una anche a Jimmy che non mi stacca gli occhi di dosso.
Mi studia con attenzione per un po’, poi la bocca gli si spalanca per la
sorpresa, gli occhi sorridono, e lui grida saltandomi al collo: «Joy! È Joy, è
Joy!».
«Sei davvero tu?» mi domanda Mrs Hall.
«Purtroppo sì» rispondo.
«Davvero irriconoscibile» aggiunge la signora McCallun ridacchiando.
Sorrido imbarazzata, poi, indicando il pacco dei volantini, chiedo a Jimmy:
«Ti andrebbe di aiutarmi a consegnare questi?».
Lui guarda in tacita preghiera i nonni e la governante che gli fanno segno di
sì. Gli metto il mio tricorno in testa, e via che partiamo in missione.
Un’ora dopo, la rievocazione storica è in pieno svolgimento di fronte al
Municipio e Jimmy e io ci comportiamo come fossimo per davvero di
guardia al Congresso di Filadelfia, seri, impettiti, vigili. Ringraziando Iddio,
la rievocazione è arrivata al punto in cui i rappresentanti delle colonie
firmano il documento, salutati dal pubblico con qualche applauso e molti
sbadigli. La fame, la noia, il caldo e la stanchezza, nonostante la gente sieda
su un fresco prato all’ombra dei tigli, cominciano ad avere la meglio sullo
spirito patriottico.
Nonostante io continui a controllare lo spazio davanti a me con gli occhi e
con la pancia, è Jimmy a vedere per primo suo padre sbucare tra la folla. Mi
tira la coda della giacca e me lo indica.
Solo a guardarlo camminare verso di noi il cuore si mette a balzarmi in
petto come un canguro ubriaco.
È il momento che attendo da giorni, che sogno a occhi sia aperti che chiusi,
e che immagino come la copertina di un romanzo rosa d’annata: un lungo,
languido sguardo, un sorriso che promette l’infinito, la mia mano nella sua,
un tramonto rosso fuoco, il bacio della brezza sulla nostra pelle e il suono
delle onde che si mescola al battito dei nostri cuori.
Già. Se i piani sono questi, sarà meglio che mi tolga il costume da soldatino
di piombo, però.
«Non dirgli che son vestita come il soldato Smith» gli dico, riprendendomi
il tricorno e il moschetto. «Vediamo se mi riconosce. Ora corri da lui.»
Seguo dalla mia postazione di sentinella la scena dell’incontro. Jimmy che
corre da Sean, Sean che lo prende in braccio e lo stringe, Sean che gli chiede
qualcosa, Jimmy che scuote la testa, i due che si siedono sull’erba e che
sembrano felici. Sotto il tricorno sorrido di tenerezza, ma rimango al mio
posto ligia al dovere fino alla fine delle firme dei padri della Patria. Quando il
vichingo prende la parola, decido di aver già dato abbastanza alla causa della
rivoluzione e me ne vado a passo di marcia verso il punto in cui Sean e
Jimmy siedono sul prato, come una sentinella coscienziosa. Il ragazzino mi
vede, sorride, ma io gli faccio cenno di non tradirmi e proseguo marciando,
testa alta e petto in dentro, immaginando già l’espressione di Sean quando mi
esibirò in un saluto militare alquanto casalingo prima di togliermi tricorno e
parrucca.
Jimmy continua a fissarmi, a fare buffe facce e a strizzarmi di continuo
l’occhio. Glielo strizzo anch’io mentre Sean sembra seguire il discorso del
sindaco, anche se con un risolino sarcastico sulle labbra. Poi il suo cellulare
suona, non che io lo senta, ma vedo Sean rispondere e guardarsi in giro come
se cercasse qualcuno fra la folla, mentre Jimmy comincia ad agitarsi con
un’espressione corrucciata sul viso che non promette nulla di buono.
Non credevo di avere un sesto senso, ma in questo momento scopro di
averlo. Perché capisco in un attimo che l’espressione di Jimmy vuol dire solo
guai. Il ragazzino sta per commettere qualche sciocchezza, come quella sera
al cinema, quando è scappato via come un furetto spaventato.
Urlo «Jimmy!», ma lui non mi sente. Continua a guardare Sean che
telefona e un punto alla sua destra.
«Jimmy!» urlo di nuovo mentre incomincio a muovermi verso di lui,
infischiandomene dei padri della patria.
Troppo tardi. Mentre mi avvicino, Jimmy si sta alzando.
«Ehi, Jimmy!» lo chiamo ancora.
Ormai è in piedi, mi lancia un’occhiata piena di rancore, e più veloce di un
furetto ruota su se stesso e scappa via.
Ora anche Sean lo chiama a gran voce. Teso in volto, si alza in piedi per
cercarlo in mezzo alla folla e in quel momento i suoi occhi incontrano i miei.
Prima mi osserva interdetto, come se, pur riconoscendo in me dei tratti
familiari, non avesse la più pallida idea di chi sia; poi una scintilla si accende
e illumina il suo sguardo di incredibili riflessi, un’esplosione di stupore e
meraviglia che mi fa accelerare il battito nelle vene, almeno sino a quando i
riflessi si spengono e gli occhi blu di Sean diventano neri di collera.
Non capisco cosa diavolo stia succedendo, so solo che l’abito bianco di
Grace firmato Chanel ora sta in mezzo a noi. Almeno duemila dollari di un
bianco freddo e accecante.
Come una doccia ghiacciata.
Non vedo nessuna pennellata di rosa illusione in mezzo a quel bianco.
Come un bravo soldatino faccio dietro front e, pur sapendo di aver perso la
mia personale battaglia, mi metto subito a cercare Jimmy.
***
Alle cinque del pomeriggio tutto Cape Love sta cercando il piccolo
fuggitivo, comprese le majorettes, i pompieri, i due poliziotti e il sindaco. Un
piccolo quartier generale è stato approntato nella hall del municipio e la gente
va e viene portando notizie che fino a ora non sono servite a nulla.
Sean è terrorizzato e tutte le volte che mi incontra mi guarda come se fosse
colpa mia.
E devo ammettere che, almeno in parte, sono d’accordo con lui.
Grace è troppo superiore per rimanere in mezzo ai comuni mortali e non ha
messo mai il naso fuori dall’ufficio del vichingo, al cui futuro politico pare
essersi all’improvviso interessata. Parla di interviste, parla di speciali, parla di
tutto fuorché di Jimmy.
«I ragazzini fanno sempre così» dice a Sean con un gesto infastidito della
mano. Come se lei di ragazzini sapesse qualcosa.
Sean la guarda come fosse pure lei colpevole.
Rientro dalla mia ultima perlustrazione con aria abbattuta. Ho abbandonato
parrucca, tricorno, moschetto e giacca di ordinanza, ma anche così, in braghe
e camicia, sto schiattando di caldo. Sean è davanti a un portatile, intento a
studiare una mappa con i due poliziotti e a pianificare con loro altri giri e
turni di esplorazione.
«Sean» dico, sperando che mi degni di uno sguardo.
Lui si volta e mi dice di aspettare. Poi si alza, mi prende per un braccio e mi
porta in un angolo della hall.
«Qualche novità?» chiedo senza speranza.
«Nessuna. Sono a pezzi, Joy. Se penso che potrebbe essergli successo
qualcosa… Se è andato allo scogliera… ci sono punti pericolosi, dove il
terreno è friabile. Ci sono rocce pericolose e la marea non perdona in alcune
insenature. Ormai è alta marea.»
Un brivido mi corre lungo la schiena, pensando a onde invisibili che
inghiottono tutto. Che inghiottono Jimmy.
«Anch’io sono a pezzi, Sean» mormoro col cuore in gola, «ma Jimmy è un
ragazzo in gamba, prudente e conosce bene la zona. Lo troveremo sano e
salvo, ne sono sicura. In questo momento sarà terrorizzato anche lui, ma gli
mancherà il coraggio di tornare, per paura di una punizione. L’avete cercato
al campo di calcio?»
«Sì.»
«A casa?»
«Ho mandato i miei a controllare. Non c’è. Ho controllato anche il porto,
nel caso gli fosse venuto in mente di prendere il mare con la barca a vela, sa
accendere il motore e farla funzionare. Ma nessuno l’ha visto in giro e la
barca è ancora agli ormeggi, chiusa.»
Non riesco a trattenere una lacrima pensando a Jimmy, fuori da qualche
parte, impaurito e solo.
«Sono così dispiaciuta, mi sento in parte responsabile per la sua fuga.»
«Lo siamo entrambi, Joy.»
«Davvero?» chiedo un po’ infastidita.
«Sì, per averlo illuso.»
“Per averlo illuso”?
Forse in un altro momento me ne sarei stata zitta, ma la tensione certo non
mi aiuta. La collera mi esplode dentro, come una granata. Gli punto un dito
contro e dico a voce abbastanza alta perché molti dei presenti si girino verso
di noi: «Io non ho illuso nessuno, Sean, se non me stessa. Quindi non
accusarmi di qualcosa che non ho fatto».
«E allora» anche lui è arrabbiato, adesso, «se non è per averlo illuso, perché
diavolo ti senti responsabile della sua fuga?»
Lo fisso senza nascondere il mio risentimento.
«Perché oggi avrei dovuto capire le sue intenzioni, accorgermi che stava
per commettere una sciocchezza. Avrei dovuto inseguirlo non appena è
scappato via, e invece… ho pensato solo a me stessa, mi sono persa come una
quindicenne negli occhi di suo padre e sono rimasta paralizzata quando mi
sono accorta che era in dolce compagnia.»
Sean scuote la testa.
«Grace… non stiamo più insieme. Non avevo la più pallida idea che
venisse. Se ti fossi degnata di rispondere a quel maledetto telefono avrei
potuto dirtelo e Jimmy non sarebbe scappato» dice gelido.
Gelido, come la stretta che sento al cuore.
«Non riuscirai a farmi sentire in colpa. Potresti averla già sposata, per quel
che mi importa adesso. Ora voglio solo trovare Jimmy, poi andarmene da
qui» sbraito.
Ruoto su me stessa come un generale (forse sono i miei abiti militari a
ispirarmi) e a passi decisi mi dirigo verso la scrivania dove è stata dispiegata
una mappa della zona e dove Henry, in maniche di camicia e capelli arruffati
ad arte, sembra dirigere le operazioni di ricerca come se sapesse cosa sta
facendo. A questo punto è arrivata persino una tv locale, e lui offre il suo lato
migliore mentre impartisce istruzioni probabilmente inutili. Io mi faccio
spazio tra i presenti e raggiungo un posto in prima fila, proprio davanti alla
mappa. Sean è ora dietro di me.
«Hai in mente qualcosa?» mi chiede con un briciolo di speranza nella voce.
Gli faccio segno di non disturbarmi. Fisso per un po’ la cartina senza vederla,
poi, sotto lo sguardo incuriosito dei presenti e della telecamera, salgo su una
sedia e mi metto a fissarla dall’alto.
No, non sono uscita di testa. È solo un sistema che uso quando non trovo
qualcosa. Cambio il punto di vista e, che ci crediate o no, di solito funziona.
Scruto la cartina dall’alto e lo sguardo mi cade proprio sulla casa di zietta.
Il faro sembra invitarmi a entrare.
E se Jimmy fosse tornato verso casa e poi si fosse nascosto in cima al faro?
Me ne sto ancora in piedi sulla sedia, gli occhi fissi alla mappa.
«Joy? Hai avuto qualche idea?»
È la voce di Sean, devo rispondergli.
«Non so… È un’idea tanto banale che mi picchierei da sola per non averci
pensato prima.»
Salto giù dalla sedia e come Archimede gridò «Eureka!», io esclamo «Il
faro!».
«Il faro?»
«Ma sì, certo. Jimmy sa dove nascondo la chiave e poi gli piace stare là in
alto a giocare. Una volta mi ha detto pure che da grande gli piacerebbe vivere
in un faro.»
Negli occhi di Sean vedo apparire un barlume di speranza.
«Va bene, andiamo a vedere.»
Tutti fanno per seguirci, ma Sean li blocca. «Restate qui. Andremo solo noi
due. Se Jimmy è nascosto nel faro, non voglio che veda arrivare da lontano
un piccolo esercito e che si spaventi.»
Faccio per andare, ma la giornalista mi si avvicina con il microfono in
mano. «Posso chiederle dove state andando?»
«No» rispondo secca, «ma può sempre intervistare il sindaco.»
Poi mi giro e sorrido al vichingo e anche lui mi sorride e mi manda un
bacio.
«Ho capito chi è lei.» insiste la giornalista puntandomi un dito sotto il naso.
«La fidanzata del sindaco! Quella di Twitter!»
«No, non ero io, si sbaglia. Era la signora in bianco. Intervisti anche lei,
vedrà, sarà felice di raccontarle ogni cosa.»
Intanto la signora in bianco si sta affrettando verso Sean, muovendosi a
passetti irregolari e corti a causa dei tacchi alti, cosa che la fa apparire più
ridicola che sexy. Mi avvicino per ascoltare meglio.
Grace, abbarbicandosi al braccio di Sean: «Vorrei venire anch’io, Sean. Ci
terrei veramente».
Per poco non urlo.
Sean, seccato: «Grace, non è il caso…».
Grace, rigida come una scopa, sul viso un sorriso forzato: «Possibile che tu
non capisca? Sto facendo del mio meglio!».
Sean sembra sorpreso. «Davvero? Grace, ne abbiamo già discusso.»
Di cosa avete discusso? Non potresti essere un po’ più chiaro, Sean?
Grace, avvicinandosi di più a Sean: «Non vuoi ripensarci, forse abbiamo
preso una decisione troppo avventata… Potremmo riparlarne, quando avrai
trovato Jimmy, naturalmente».
Bontà sua.
Sean, ancora più seccato: «Ma ti pare questo il momento per parlare di noi?
E poi, mi sembrava fossimo d’accordo che non c’è più nulla da dire».
Lo so, sono di parte e non è neppure generoso gioire dei fallimenti altrui,
ma un “Bravo Sean!” mi sgorga silenzioso dal cuore.
Sean si libera con fermezza della mano di Grace, ancora avvinghiata come i
tentacoli di un polpo al suo braccio, e in due falcate mi è vicino e mi spinge
fuori dal municipio con una fretta del diavolo. Sento lo sguardo di Grace
bruciarmi la schiena.
Che si fotta! Non è il momento di pensare a lei.
Sean pigia sull’acceleratore come Steve McQueen in Bullitt, e in quattro
minuti arriviamo al faro. Sollevando una nuvola di polvere, parcheggia di
traverso nella piazzola davanti a casa di zia e si butta fuori come se l’auto
stesse andando a fuoco.
«Jimmy!» urla e guarda in alto, verso la cima del faro.
Questa volta non mi apre la portiera, ma lo perdono. Scendo dall’auto e mi
guardo attorno.
Come sospettavo.
«Non urlare così, Sean, non spaventarlo» gli dico quando lo raggiungo. «So
che Jimmy è qui. O se non è qui, lo è stato. Stai tranquillo.»
Tengo la voce bassa, e mi guardo intorno.
«Come fai a sapere che è qui?» mi chiede senza smettere di fissare la cima
del faro.
«I cani» spiego. «Questa mattina li avevo lasciati in giardino, chiusi nel
loro recinto, e ora non ci sono più. O sono scappati, o Jimmy li ha fatti uscire
e li ha portati con sé.»
Quasi a confermare la mia ipotesi, un cane abbaia – Armageddon, non ho
dubbi – e subito gli fa eco un’altra scarica di bau, più acuta e petulante –
Paraspifferi.
Sembra un coro angelico e non ci sono dubbi che provenga dal faro.
Guardo Sean e gli stringo la mano. Poi con un sorriso gli dico solo: «Vai».
Non voglio imporre la mia presenza mentre padre e figlio si ritrovano,
mentre si abbracciano e si scambiano forse promesse che sono e devono
rimanere soltanto loro.
«Tu non vieni?» mi chiede.
«Dopo, ora vai tu.» Lo sguardo pieno di speranza, gratitudine e angoscia
che mi rivolge mi entra dentro come una staffilata, raggiunge prima il cuore,
poi la pancia. È una ferita profonda, che sono certa mi porterò dentro per
sempre, soprattutto se userò quel biglietto open che ho sistemato sul
comodino e che ogni giorno mi ricorda che questa non è la mia vera vita.
Mentre Sean scompare dentro al faro urlando «Jimmy, sono qui, sono
arrivato!» cammino con lentezza verso il bordo della scogliera. Mi siedo
sull’erba e fisso l’alta marea che avanza verso di me. Una luna trasparente,
quasi piena, è già nel cielo ancora azzurro. Da una parte il sole, dall’altra la
luna, e Jimmy con suo papà. Il mondo mi sembra all’improvviso bellissimo.
E allora, perché sto piangendo?
Armageddon e Paraspifferi corrono verso di me, dietro Sean e Jimmy
avanzano tenendosi per mano. Saluto con il braccio e urlo «Ciao, Jimmy»
come se fosse una giornata come tante altre. Non faccio in tempo ad alzarmi
che Jimmy mi colpisce con un placcaggio dei suoi che mi svuota l’aria dai
polmoni. I cani ci saltellano intorno euforici e speranzosi.
«Jimmy, tesoro, che bello rivederti! Ci sei mancato» dico tenendolo stretto
a me, lottando per trattenere le lacrime. Lui no. Singhiozza come un bambino
impaurito e sperduto che ha ritrovato la via di casa e che non vuole più
perderla. Sean ci guarda e, Dio!, piange anche lui?
«Vieni» gli dico, allungando una mano. Sean la prende, me la bacia e poi si
unisce a noi, in un abbraccio a tre pieno di singhiozzi e di silenzi che valgono
più di mille parole.
Quando l’abbraccio si rompe, propongo a Jimmy di entrare a casa con la
scusa della pappa dei cani, in realtà voglio dare il tempo a Sean di fare le
telefonate necessarie per tranquillizzare tutti. Aiutata da Jimmy, metto per
terra una ciotola di croccantini e una di acqua fresca, poi, mentre i cani si
buttano sul cibo, lo accompagno in bagno dove ci laviamo mani e faccia –
sono orrenda, gonfia di pianto, ma non mi importa – prima di tornare in
cucina.
«Ti va del gelato?» gli chiedo, certa dei benefici effetti di crema e
cioccolato sull’umore.
«Sììì, e qualche biscotto, per piacere. Ho molta fame.»
Gli accarezzo la guancia provando una tenerezza che non credevo di avere.
«Anch’io, Jimmy, ho una fame terribile.»
Ci sediamo al tavolo di cucina con la sensazione che la vita ora sia più
bella. Davanti a noi, una enorme confezione di gelato e due scatole di
biscotti, per ogni evenienza. Gli passo un cucchiaio e cominciamo a mangiare
il gelato direttamente dalla confezione, esprimendo il nostro apprezzamento
con versetti vari ed espressioni buffe.
«Ehi, a me niente?» chiede Sean, prendendo posto vicino a Jimmy.
Gli passo un cucchiaio e un sorriso, e ora siamo in tre a mangiare il gelato,
ridendo e scherzando, mentre i nostri cuori poco per volta tornano a volare.
«Ragazzi» chiedo come se quello fosse il più normale dei 4 di luglio, «dove
vediamo i fuochi stasera?»
Jimmy guarda il padre con un gran punto di domanda, quasi avesse paura
che per punizione Sean gli negasse di vederli.
«Dalla scogliera davanti a casa, come sempre» risponde Sean, quasi la
questione non si ponesse neppure. «Ma prima ci sarà un barbecue, perché non
so voi, ma io ho una fame terribile e non vedo l’ora di mettere qualcosa di
serio sotto i denti.»
«Sììì!» urla Jimmy prima di ficcarsi in bocca un altro cucchiaio di gelato.
Poi, guardando negli occhi il padre, dice qualcosa che non dimenticherò mai.
«Scusa, papà, se sono scappato.»
Pausa.
«E scusa se sono stato maleducato con Grace.»
Pausa.
Sean mi lancia un’occhiata, io non muovo un muscolo e continuo a fissare
Jimmy.
«Sono solo un bambino, e non ho il diritto di scegliere al posto tuo, devi
decidere tu chi ti piace, non io...»
Mi guarda. Io guardo Sean e avvampo.
«Shhh» lo interrompe Sean. «Tu sei mio figlio, e ogni mia scelta sarà
sempre presa insieme a te, lo prometto.»
Jimmy stringe gli occhi e già so che da quella bocca uscirà qualcosa che
non mi piace. E infatti, mentre cerco senza successo di ficcargli in bocca una
cucchiaiata di gelato per impedirgli di parlare, chiede, senza usare giri di
parole: «Ma a te, chi piace di più, papà, Grace o Joy?».
La voce dell’innocenza ha parlato! Cerco di fulminarlo con gli occhi, ma il
gelato mi va di traverso e incomincio a tossire, mentre Sean scoppia a ridere e
non fa neppure un tentativo per cercare di frenarsi. Certo la situazione è buffa
– sembra di essere alle elementari – e la giornata è stata così difficile che la
tensione è ancora alle stelle, ma…
Cerco di fulminare anche lui.
Jimmy ci guarda senza capire. «Cosa succede?» insiste. «Perché mi
guardate così?»
«Jimmy» dice alla fine Sean ancora ridendo. «Ti rendi conto di aver messo
in imbarazzo Joy?»
«Molto in imbarazzo» dico guardando male il ragazzino.
«Ma io… Io volevo solo sapere chi ti piace di più.»
«Non credi di conoscere già la risposta?» gli chiede Sean.
Jimmy prima mi lancia un’occhiata d’intesa, poi corre ad abbracciare Sean,
e non importa se lo fa con un cucchiaio pieno di gelato sgocciolante in mano.
Per fortuna, Armageddon, regina della casa, accorre subito e pulisce tutto.
Forse dovrei dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma non riesco quasi a respirare.
È la dichiarazione più strampalata che io abbia mai avuto. Sempre che sia una
dichiarazione.
Mi alzo e vado al lavello, faccio scorrere l’acqua in modo che se il groppo
che ho in gola si scioglierà e io scoppierò a piangere, il rumore dell’acqua
coprirà quello delle mie lacrime. Perché, anche se sono felice, ho una gran
voglia di piangere. Mi sciacquo di nuovo la faccia e mi giro, spostando il mio
sguardo dall’uno all’altro, seria, molto seria.
«Ragazzi, non credete che dovreste chiedere la mia opinione prima di
parlare di me come se non fossi neppure presente?»
Mi guardano entrambi stupiti, quattro occhi tondi, incredibilmente uguali e
blu.
«Perché? A te non piace mio padre?» mi chiede Joy come se un no fosse
un’opzione impossibile.
«Non è questo il punto» ribatto. «Il punto è…» esito.
«Il punto è…» incalza Sean.
«Il punto è…» guardo prima l’uno, poi l’altro cercando disperatamente
quale sia il punto, ma, dato che non lo trovo, dico: «Il punto è che dovete
andarvene subito perché se non mi levo questi vestiti di dosso e non mi faccio
una doccia tra meno di un minuto, sarà peggio per voi». Con gesto teatrale
indico a entrambi la porta con il braccio teso.
«Ce ne andiamo, ce ne andiamo» dice Sean con un sorrisetto indisponente,
«ma prima rispondi alla domanda di Jimmy.»
Alzo gli occhi al cielo.
«Che domanda?» chiedo, facendo finta di essermene dimenticata.
Jimmy non se n’è dimenticato.
«Ti ho chiesto se papà ti piace oppure no.»
«Non mi sembra una domanda complicata, Jimmy, a te pare complicata?»
dice Sean.
«Ma no, papà!»
«Ci basta un sì o un no, Joy» conclude Sean, continuando a ridere sotto i
baffi.
Cosa rispondo adesso?
Sospiro con una certa platealità e indico di nuovo la porta.
«Sì, ma ora fuori!»
E in quel momento suona il mio cellulare.
Ecco.
***
Mezz’ora più tardi entriamo nell’ospedale di Bath. Sean, io e Jimmy che
sebbene sia stanchissimo si è rifiutato di rimanere a casa con i nonni.
«Il reparto maternità» chiedo a un’infermiera.
«Primo piano, scala a destra.» Poi aggiunge, squadrandomi divertita, «bella
uniforme!»
Già. Sono ancora vestita come un soldatino di piombo.
Saliamo la scala e non c’è bisogno di chiedere in che stanza sia Joanna,
perché suo marito Ralph sta camminando avanti e indietro per il corridoio.
Appena ci vede ci corre incontro.
«Per fortuna che sei arrivata Joy, Joanna ha chiesto di te. Non di sua madre,
né delle sorelle. Di te.»
Che fortuna! Dopo una giornata del genere è proprio ciò che mi ci vuole,
penso, ma in realtà ne sono felice e persino un po’ commossa.
«Come sta, dov’è?» chiedo.
«La stanno visitando ora per decidere se intervenire con un cesareo o
indurre il parto» spiega lui, più pallido di un lenzuolo.
«Cosa vuol dire indurre il parto?» chiede Jimmy.
«Far nascere il bambino» gli risponde Sean calmo.
«Sì, ma come?»
Guardo Sean con la tipica espressione “ora vediamo come te la cavi”. Lui
mi incenerisce con gli occhi.
«Dopo te lo spiego Jimmy» risponde, meno calmo.
Una ginecologa ci informa che Joanna è sotto ossitocina e che secondo lei
al parto non dovrebbe mancare molto. Non fa in tempo a finire di pronunciare
molto che un urlo ci investe, con la forza di un uragano. Joanna.
«Difatti» dice la dottoressa soddisfatta, «il travaglio pare che sia già
iniziato.»
Dopo quell’urlo da horror movie, anche Jimmy e Sean sono pallidi come il
fantasmino Casper. Jimmy quasi sta per scoppiare a piangere.
«Stanno facendo del male a Joanna?» mi chiede, con il terrore negli occhi.
«Nessuno le sta facendo male, Jimmy, poi le passa tutto.» Prendo quasi di
peso padre e figlio e li trascino fuori dal reparto.
«Vi chiamo non appena so qualcosa! Andate a mangiare, adesso, ci sarà
pure un bar da qualche parte, no?» e richiudo le porte dietro di loro.
Poi prendo Ralph per un braccio e vado da Joanna.
Uomini!
***
Due ore più tardi, sono circa le nove di sera e siamo ancora una volta in
auto, diretti a Cape Love. Jimmy dorme sul sedile posteriore, Sean guida e io
sto cercando di riprendermi dalle emozioni del 4 luglio più lungo e frenetico
della mia vita.
«Ora che Jimmy dorme, raccontami cosa è successo» dice Sean.
Mi giro appena verso di lui. Mi piace guardarlo e ora ho una scusa valida
per farlo senza sembrare un’adolescente innamorata.
«Quando Ralph è svenuto, la dottoressa ha voluto che entrassi io in sala
parto. Se la cosa ti può divertire, anche lei ha commentato con sarcasmo il
mio abbigliamento da soldatino di piombo, nonostante indossassi un camice
lungo sino ai piedi.»
Sean ridacchia. Anche lui sembra rilassato, ora, in attesa che questo incubo
di giornata termini.
«E poi, cosa è successo?»
«Poi? Poi ho assistito alla nascita della piccola Elizabeth, Sean, ho tenuto la
mano a sua madre che si esibiva in un invidiabile repertorio di parolacce. E
ho incoraggiato suo padre, che giaceva esamine su una barella.»
«E…»
«Ed è stata l’esperienza più incredibile della mia vita.»
«Fino a oggi» aggiunge lui, ma non so cosa voglia dire, e non glielo chiedo.
Penso al viso di Joanna, prima quasi furioso per il dolore, poi sereno come
quello della Madonna mentre stringe per la prima volta la sua bambina fra le
braccia.
«Per almeno un paio di settimane Elizabeth dovrà rimanere in ospedale,
sotto osservazione, ma il pediatra dice che sebbene sia solo di otto mesi è
splendida e sana come un pesce.»
Sean mi guarda, allunga una mano e mi asciuga una lacrima. Possibile che
io non faccia altro che piangere, oggi?
«Di solito non piango così tanto, Sean» dico, poi mordo il labbro superiore
per evitare che mi scappi anche un singhiozzo.
«Sei una vera frignona» mi risponde così serio che credo dica davvero.
«Be’, ammetterai che non è stata una giornata facile.»
«È stato uno dei peggiori giorni della mia vita e se non ci fossi stata tu,
sarebbe diventato il peggiore. Non sei una frignona, sei una donna
meravigliosa, Gioia» mormora.
Un singhiozzo, malgrado tutto, riesce a scapparmi via.
«Gioia, mi hai chiamato Gioia, non Joy?»
«Non è così che ti chiami? Apprezza lo sforzo, Gioia. Sai cosa penso delle
vostre vocali italiane, vero?» dice prendendomi la mano. «Sono come una
puntata di Al confine della realtà…»
«Va bene, apprezzo lo sforzo, Sean. Ma abituati, perché mi piace quando
mi chiami Gioia.»
«Gioia, Gioia, Gioia» ripete storpiando ogni lettera.
«Sforzo apprezzato, ora però puoi anche tacere» dico, portando le mani alle
orecchie come se quella litania mi stesse uccidendo.
Lui continua: «Gioia, Gioia, Gioia».
«Chiamami Joy, ti supplico, hai vinto tu.»
Per un paio di minuti mi lascio cullare dal movimento dell’auto. Mi piace
guardare Sean guidare, ora è rilassato e quasi si dimentica dell’acceleratore.
Scivoliamo leggeri sull’asfalto, accarezzati da una brezza gentile e profumata
che proviene dal suo finestrino aperto. Mi accorgo di guardare Sean come se
fosse mio. Il mio principe azzurro. Che mi sta portando sul suo bianco
destriero nel regno dove vivremo felici e contenti. Per sempre.
Fottute fiabe.
«Non vuoi sapere cosa è successo fra Grace e me?»
Fottute fiabe, appunto. Mi ero quasi dimenticata della strega cattiva.
«Non mi riguarda.»
«Invece sì, e parecchio. Per cui apri bene le orecchie.»
«Non mi piace pensare di essere stata la causa della vostra rottura…»
«Diciamo che hai accelerato le cose, ma già non andava da un pezzo fra
noi. In questi giorni l’ho raggiunta a New York per parlare e lei si è
permessa addirittura di darmi un ultimatum, come mi tenesse per le palle,
scusa l’espressione.»
Lo guardo col cuore in gola, in silenzio, e gli faccio cenno di proseguire.
«In breve, pretendeva che ci trasferissimo entrambi a New York, ma che
lasciassi Jimmy crescere da solo a Cape Love. “Dove l’aria è certo più
salutare” ha avuto il coraggio di aggiungere!»
Strega cattiva sino in fondo.
«Oltre a queste due assurde richieste, avevo già una lista lunghissima di
cose che non mi andavano giù. Non ci ho messo molto a prendere la
decisione giusta. Dopo mi è sembrato di ricominciare a vivere.»
Io ricomincio a respirare. Mi sembra tutto così complicato, anche se, a ben
vedere, non lo è. Punto a capo.
Ciononostante non posso non dire: «Ma dovevate sposarvi!».
Espira a lungo, come avesse scampato un pericolo. «Grazie a te, non è
successo.» E non aggiunge altro.
Mi appoggio allo schienale e chiudo gli occhi, cercando di togliermi di
mente Grace. Non voglio provare alcun tipo di rimorso per una così. L’aria
fresca che penetra dal finestrino è come una carezza sul mio viso e si porta
via ogni cruccio.
«Potresti ritornare sul concetto di prima?» chiedo dopo un paio di minuti.
«Quale concetto?»
«Quello della donna meravigliosa.»
«Ah, quello!»
«Be’ se non ti spiace troppo, proprio quello.»
«D’accordo. Stavo dicendo che sei una donna meravigliosa...»
«Va avanti.»
«Una donna meravigliosa e alquanto impaziente, mi pare.»
Gli faccio segno con la mano di sorvolare.
«E oltre a essere impaziente e meravigliosa, sei anche bellissima…»
«Non certo questa sera, con questo affare addosso…»
«Sei intelligente e divertente.»
«Questo è abbastanza vero.»
«E sei coraggiosa, come hai dimostrato oggi.»
«Coraggiosa ad andare in giro conciata così.»
«E ami il cinema e gli hamburger, cosa che per Jimmy è in cima a ogni
pregio.»
«Sono d’accordo.»
«E ti piacciono le canzoni di Springsteen.»
«Oh yeah!»
«E poi sei un’artista.»
«Non proprio, ma mi piace farlo credere.»
Lui tace un momento, come se stesse pensando.
«Altro?» chiedo io, con notevole sfacciataggine.
«Sei dannatamente sexy, anche con quel tricorno in testa.»
«Questa è una enorme bugia.»
«Un pochino lo è, lo ammetto. Ma tricorno a parte, sei così sexy da farmi
perdere la testa ogni volta che ti poso gli occhi addosso. Per non parlare del
sesso, che con te è straordinario. Non puoi negarlo.»
E chi lo nega?
«Shh, se ti sente Jimmy!» lo ammonisco. Lui prosegue.
«In una parola, Gioia, sei la donna per me.»
«In una parola, Sean? Direi in cinque parole: sei-la-donna-per-me» conto,
aiutandomi con le dita.
«Una o cinque parole, il concetto non cambia.»
«Un concetto, addirittura!»
«Un concetto, ma molto semplice.»
Mi prende la mano e me la bacia liberando in me un uragano di brividi che
comincia a fare danni a incominciare dalla testa per finire agli alluci.
«Voglio che ci proviamo, Joy. Con serietà e impegno. Ci ho pensato molto
in questi giorni, e ti sono stato lontano per cercare di capire.»
«Cosa hai capito?» Non aggiungo «zuccone», ma lo penso.
«Ho capito che solo a pochi è concessa la fortuna che è capitata a noi e che
se la buttassimo al vento saremmo due imbecilli. Cosa che né tu né io
siamo.»
«Di che fortuna parli?» mormoro mentre il cuore ormai sta per andare in
orbita.
«La fortuna di esserci incontrati. Sai, quella cosa che si chiama colpo di
fulmine? Perché per me è stato così. Anche se tua zia ci ha messo lo
zampino.»
«È una delle sue specialità, se per quello.»
Già zietta. Dove diavolo sarà?
Mi prende una mano e se la porta alle labbra. Senza ricordarmi di respirare
mormoro: «Colpo di fulmine? È davvero questo che pensi sia successo fra di
noi?».
«Sì. O amore a prima vista, se preferisci.»
Preferisco, ma non glielo dico, anche perché siamo ormai arrivati davanti a
casa McCallun e il primo fuoco d’artificio esplode come una tavolozza di
colori in cielo, facendomi sussultare. Ma lo dimentico subito, perché Sean ha
spento il motore e mi sta baciando e il suo bacio, profondo e possessivo, è
molto meglio di qualsiasi fuoco d’artificio. Continuiamo a baciarci, come in
un drive in degli anni Sessanta, finché la voce di Jimmy non ci riporta alla
realtà.
«I fuochi d’artificio! Sono iniziati! Corriamo sul promontorio a vederli.»
Sean sospira, io pure, ma poi insieme diciamo: «Certo, andiamo» e tutti e
tre usciamo insieme dall’auto e corriamo sino al punto in cui un piccolo
capannello di persone è a naso in su e sta ammirando i fuochi.
I signori McCallun, Mrs Hall, John e zietta.
Zietta?
«Zia Ari!»
«Gioia, amore mio!» urla lei, superando il fragore del fuoco d’artificio
appena esploso.
Ci abbracciamo e, nonostante io abbia sempre intenzione di strozzarla, non
sono mai stata tanto felice.
Dopo i fuochi d’artificio, dopo la mia tanto sospirata doccia, dopo il
barbecue, siamo tutti sul portico di casa McCallun. Nonostante tutto ciò che è
successo in queste ultime settimane a Cape Love, le avventure di Arianna e
John tengono banco e il 4 di luglio sta per concludersi nel modo più degno e
spensierato. Mrs Hall ha appena accompagnato a letto Jimmy e Ralph ci ha
chiamato per rassicurarci sulle condizioni di Joanna.
Sento gli occhi di Sean su di me. Lo guardo interrogativa e lui mi fa un
cenno con il capo. Lo seguo in un angolo del portico sotto gli occhi più che
vigili di zietta.
«Ora che si fa?» mi chiede lui.
«In che senso?»
«“In che senso”? Ti è saltato in mente che nessuna delle due case è libera e
che io ho una gran voglia di dimostrarti quanto ti desidero?»
Diavolo! Ha ragione.
«Neanche fossimo due liceali» dico divertita. «Qualche idea, Mr
McCallun?»
«L’unica che mi viene in mente è che c’è un discreto motel a dieci minuti
da Cape Love…»
«Affare fatto» dico. «Ma come facciamo a dirglielo?» chiedo indicando
l’allegra combriccola che ci sta osservando con molto interesse.
«Ci penso io, non preoccuparti. Sono un uomo di quarant’anni, vuoi che
non riesca a dire ai miei che sto fuori tutta la notte?»
Mi prende per mano e mi trascina davanti a quello che mi pare un gran
giurì. Per fortuna è abbastanza buio perché non si veda che sono diventata
rossa.
«Noi usciamo, andiamo un po’ in giro» annuncia Sean, forse
dimenticandosi di avere quarant’anni, perché sembra che stia chiedendo il
permesso ai suoi.
«E dove andate?» chiede mammina.
Per fortuna zietta è più sveglia di mammina, e le rifila la tipica occhiata
“chiudi quella bocca, non sono fatti tuoi”. Poi aggiunge: «Divertitevi!».
«Ci puoi scommettere, zia» sussurro, mentre mi chino su di lei per
schioccarle un bacio sulla guancia. «E non mi aspettare alzata» aggiungo.
Lei sospira e sorride, quasi fosse tutto merito suo.
Diavolo, ma non lo è, forse?
«Rientri tardi, Sean?» gli chiede suo padre come se avesse quindici anni.
«Papà» gli risponde Sean in modo che tutti possano sentire, «stanotte non
rientro affatto. Devo mettertelo per iscritto?»
Mammina non capisce, ma papino finalmente si illumina, mi guarda e
pronuncia un «ooohh» pieno di significati.
Già.
Sean mi prende per mano e ci incamminiamo verso l’auto.
«Buonanotte» ci urlano dietro, tutti in coro, mamme, padri, false zie e zii
acquisiti.
«Buonanotte» urliamo noi di rimando.
«Potete scommetterci che sarà una buona notte. Una notte che non
dimenticheremo mai. Sei d’accordo, Gioia?» mormora Sean tra i denti.
«Mi chiamo Joy, e sono tanto d’accordo che se non ti spicci a portarmi in
quel motel credo che ti sedurrò sul sedile posteriore dell’auto.»
«Confesso che ci stavo pensando anch’io.»
«Allora, che aspettiamo?»
Lui mi sorride, io mi sciolgo, e poi insieme, correndo verso l’auto,
scoppiamo a ridere.
Altri titoli
Cranford, Alaska. Vigilia di Natale. Lucy si trova bloccata in uno sperduto
paesino di 647 abitanti, lontana dal mondo e dalla civiltà. Il suo volo è stato
cancellato causa neve e il burbero scrittore che deve intervistare non si fa
trovare. Ma quando Lucy, per caso, scopre che Kyle Hartson, Mr Bestseller, è
in città, prende una decisione: cascasse il mondo, farà quell’intervista, anche
a costo di… innamorarsi! Dopo Bang Bang, tutta colpa di un gatto rosso,
ecco il nuovo, romanticissimo racconto di Natale di Viviana Giorgi: lasciate
che vi scaldi l’anima e il cuore, come un morbido e confortevole quilt.

Viviana Giorgi (aka Georgette Grig, lo pseudonimo con cui scrive romanzi
storici) vive a Milano, dove lavora come giornalista freelance da molti anni,
soprattutto nel campo dello spettacolo. Da qualche anno si è imbattuta nel
romance ed è stato amore a prima vista. Dalla lettura alla scrittura il passo è
stato molto breve, forse troppo. Bang Bang, Tutta colpa di un gatto rosso è il
suo primo romanzo contemporaneo, dove si parla molto di romance e si vive
come in un romance, ma in chiave decisamente ironica.
Sì, è stata tutta colpa di un gatto rosso. Il mio. La bestia scappa dalla
finestra a mezzanotte, e io mi butto in strada per recuperarlo, sexy come un
sacco di patate, e incontro... l’ uomo dei miei sogni, una specie di Marlboro
Man che smonta non da cavallo, ma da una fiammante BMW.
In altre parole, il mio nuovo vicino di casa. Lui mi fissa perplesso e
incuriosito e il colpo mi arriva subito, preciso, bang bang, dritto al cuore,
come nella vecchia canzone dell’Equipe ‘84. Nick, si chiama Nick.
Io Nora. Non può essere un caso, mi dico, e mi butto in questa storia, a
testa bassa, senza sospettare in che pasticci mi ficcherò. Perché è ovvio che
nella nostra storia si infilino altre persone, e tutte con qualcosa da dire o fare.
Viola, un’adorabile bimba di otto mesi; Tommaso, il prof, egocentrico,
bastardo seduttore cui l’ho giurata; un’orda di adorabili femmine folli che
altro non sono che le mie amiche del cuore; Camilla, la disinibita, e un
piccolo esercito di suocere, madri, padri, tate e… una nonna diabolica. E,
come se non bastasse, c’è un romanzo rosa che aspetta di essere tradotto, uno
strano borgo in piena Milano dove la gente sembra diversa e un po’ pazza e,
ahimé, c’è anche lei, Gabrielle, la stronza. Senza contare il gatto rosso.

Fra noi è stato come dice lui: tutto e subito. Appassionato, assoluto,
prepotente. Intenso. Siamo precipitati uno nella vita dell’altra come due
particelle subatomiche sparate da un acceleratore di protoni. Non abbiamo
avuto scelta, non abbiamo potuto evitarci. La natura, o forse il caso, o forse
una sconosciuta forza elettromagnetica, ha scelto per noi.
Non siamo amici. Non siamo fidanzati. Non siamo amanti. Non siamo
niente se non vicini di casa. Eppure…

Viviana Giorgi (aka Georgette Grig, lo pseudonimo con cui scrive romanzi
storici) vive a Milano, dove lavora come giornalista freelance da molti anni,
soprattutto nel campo dello spettacolo. Da qualche anno si è imbattuta nel
romance ed è stato amore a prima vista. Dalla lettura alla scrittura il passo è
stato molto breve, forse troppo. Bang Bang, Tutta colpa di un gatto rosso è il
suo primo romanzo contemporaneo, dove si parla molto di romance e si vive
come in un romance, ma in chiave decisamente ironica.
In occasione del bicentenario di Orgoglio e Pregiudizio, tre autrici ci
raccontano tre storie d’amore diverse, ma con qualcosa in comune: sono tutte
ispirate (più o meno liberamente) al grande romanzo di Jane Austen, che
compie ben duecento anni, ma non li dimostra affatto.
Tre racconti, dunque, e tre protagonisti: Gemma, scrittrice di romance che,
invitata a Chawton per le celebrazioni in onore di Orgoglio e Pregiudizio,
conosce l’arrogante Mr Alexander nel racconto First Impressions di Viviana
Giorgi; William, figlio di Darcy e Lizzy, innamorato di Erin, nel racconto di
Laura Randazzo Per onore e per amore; e infine Katherine che, nel racconto
Negli occhi del drago di Paola Gianinetto, disprezza, ma è anche attratta dal
bellissimo e ricchissimo Edward.
Tre storie d’amore da non perdere per immergersi nelle atmosfere
“austeniane” e lasciarsi trasportare dall’immaginazione. Perché, come dice
Mr Darcy: «L’immaginazione femminile è velocissima: balza in un attimo
dall’ammirazione all’amore, dall’amore al matrimonio».
Viviana Giorgi (aka Georgette Grig) vive a Milano, dove lavora come
giornalista freelance da molti anni, soprattutto nel campo dello spettacolo. Da
qualche anno si è imbattuta nel romance ed è stato amore a prima vista. Per
Emma Books ha pubblicato Bang Bang. Tutta colpa di un gatto rosso e il
bestseller Un cuore nella bufera.
Laura Randazzo è nata a Palermo il 17 giugno 1976. Da sempre legge e
scrive. Ama fare trekking in montagna e immersioni subacquee, viaggiare e
suonare la batteria. Lavora a Palermo come architetto e designer. Per Emma
Books ha pubblicato L’ombra della luna.
Paola Gianinetto vive a Torino e lavora da molti anni come adattatrice
dialoghista per la televisione. Per Emma Books ha pubblicato la trilogia
Principi azzurro sangue, di cui uscirà a breve il secondo capitolo.

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