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Sì, ci si sono messi in due, il vento e un cowboy, a combinare questo

pasticcio. Proprio un cowboy-cowboy, con tanto di cappello e cavallo di


ordinanza, uno scassato pick-up rosso e un paio di occhi verdi come due laghi
di montagna. Margherita (Maggie) lo incontra appena scende dall’aereo che
l’ha portata negli States. Più che incontrarlo, per la verità, si scontra con lui, e
nella involontaria colluttazione che segue gli fa pure un occhio nero. Colpa
del cowboy, certo, ma anche del vento fortissimo che per lei è molto peggio
di una maledizione.
La trentatreenne Maggie Donati scrive romance, è italiana e ha un piano.
Un piano scellerato, se per questo. Infatti, nonostante lei sostenga di aver
volato per quasi diecimila miglia per passare il Natale con sorella e nipotina,
la vera (e segretissima) ragione del suo viaggio nel Wyoming è un’altra, e
non di poco peso: vuole un figlio e qualcuno con cui farlo. Perché non un
cowboy dagli occhi verdi, allora? Sotto le mille luci colorate di un Natale
freddissimo, battuto da un vento incessante e imbiancato da neve e ghiaccio,
riuscirà Maggie a portare a compimento la sua missione senza cadere nella
trappola dell’amore? O forse vi rinuncerà e tornerà a casa, a Milano, a
piangere sulla spalla dei suoi cari amici Nick e Nora Corsi? Già, proprio loro,
gli eroi di Bang Bang, Tutta Colpa di Un Gatto Rosso che, nel frattempo,
hanno messo su casa e famiglia.
Dopo l’Alaska di Un Cuore nella Bufera, Viviana Giorgi ci regala questo
Natale un’altra commedia romantica ambientata negli USA, per la precisione
a Hope, Wyoming, cittadina dove il tempo sembra essersi fermato: settecento
anime in tutto, senza contare i cani, i cavalli e neppure i lupi.
Viviana Giorgi (aka Georgette Grig, lo pseudonimo con cui scrive romanzi
storici) vive a Milano, dove lavora come giornalista freelance da molti anni,
soprattutto nel campo dello spettacolo. Da qualche anno si è imbattuta nel
romance ed è stato amore a prima vista. Dalla lettura alla scrittura il passo è
stato molto breve, forse troppo. Per Emma Books ha pubblicato Bang Bang,
Tutta Colpa di Un Gatto Rosso, Alta Marea a Cape Love e First Impressions,
novella che fa parte dell’antologia “austeniana” Amore, orgoglio e
Pregiudizio.
Il suo sito è www.vivianagiorgi.it
Tutta colpa del vento
(e di un cowboy dagli occhi verdi)
Viviana Giorgi
Tutta colpa del vento
Viviana Giorgi

© Digitpub srl 2013


via degli Olivetani 12 – 20123 Milano, Italia
www.emmabooks.com – info@emmabooks.com

ISBN EPUB 9788897669968

Questo testo è diventato un ebook nel mese di dicembre 2013

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Dedica e ringraziamenti
Dedico questo romanzo al genere western, e a mio padre che da piccola mi
ha insegnato ad amarlo.
Ringrazio per le loro indimenticabili canzoni, ricorrenti fra queste righe:
Bob Dylan, Emmilou Harris, Sam Wood, Dolly Parton, Johnny Cash, Frank
Dean & The Snakehandlers.
Ringrazio anche Timothy Olyphant (il Raylan Givens della serie tv
Justified) di esistere.
Prologo
16 dicembre 2012, Wyoming
Dopo sedici ore di viaggio, uno scalo a Londra e un altro a Chicago,
Margherita atterrò alla fine a Cody, dove il vento soffiava talmente forte che
l’aereo non aveva fatto che barcollare per tutta la discesa.
Sulle prime pensò di rimanere inchiodata al suo posto sino a quando Eolo
non si fosse messo una mano sulla coscienza, ma poi si accorse di sei occhi
che la fissavano perplessi e impazienti, quelli di due hostess e di uno steward.
Con un sorriso tirato sulle labbra e il terrore nel cuore, si alzò a fatica e
caracollò sino all’uscita dove si aggrappò alla maniglia del portellone.
«Signorina, ora dovrebbe proprio scendere…» le disse lo steward senza un
minimo di pietà.
Odioso di un uomo!
Possibile che non capisse quanto fosse spaventata dal vento?
Dannato. Inclemente.
Soffiava da ogni direzione graffiandole il volto con punte di ghiaccio,
togliendole il fiato, impedendole di muoversi, di fare il primo passo sulla
scaletta.
«Signorina…» insistette lo steward.
Chiudendo gli occhi, Margherita cominciò a scendere. Uno, due, tre,
quattro scalini. Una pausa. Cinque, sei, sette, otto. E poi…
Terra ferma sotto di lei.
Grazie.
Si sentiva come una sopravvissuta di Lost, ma senza un Josh Holloway
qualsiasi a dare un senso di speranza al futuro, o un’isoletta tropicale a fare
da cornice al suo incubo.
Perché era il fertile e sconfinato suolo del Wyoming che la accoglieva.
Verde in estate, bianco d’inverno. Rosso d’autunno e variopinto in primavera.
Un celebrato, rigoglioso trionfo della natura.
Sempre che non si fosse terrorizzati dal vento.
Margherita si sentì avvolta da una spirale di gelo. Che ci fosse una tempesta
in arrivo?
Rabbrividendo, si mise a correre vero il terminal rischiando a ogni passo di
scivolare sul ghiaccio.
Niente di che stupirsi, perché era inverno, mancavano due settimane a
Natale, il periodo preferito di Maggie, quello in cui era nata e quello in cui, a
Dio piacendo, avrebbe concepito suo figlio.
Una folata di aria gelata la colpì in pieno volto e quasi se la portò via. Già
che c’era, Margherita, Maggie, imprecò in lingua originale.
«Shit.»
1
Un mese prima, Milano
A sentire quello spocchioso del ginecologo, un super specialista da 500
euro a botta che aveva odiato al primo sguardo, Margherita era una primipara
attempata.
Attempata io? Ma scusi, lei si è visto di recente allo specchio?
Per la verità primipara e attempata lo sarebbe diventata solo quando uno
spermatozoo fosse riuscito a farsi largo con le unghie e con i denti all’interno
del piccolo ovocita che se ne stava al caldo nella sua pancia e che, sempre
secondo l’esimio imbecille, sembrava essere alquanto determinato a
respingere l’invasore a colpi di kung fu.
«Deve sapere, cara signorina Donati…»
Cara? Io?
«Che certe donne rimangono incinte più facilmente di altre e, per quanto
l’assenza di stati patologici mi induca a pensare che lei sia del tutto abile ad
avere figli, una gravidanza assistita le assicurerebbe di raggiungere il suo
scopo senza stress emotivi.»
E a te assicurerebbe qualche migliaio di euro… borioso bastardo.
«A maggior ragione dal momento che mi pare di aver capito che in questo
periodo lei è single» aveva aggiunto, mentre un sorrisino indisponente e
paternalista appariva su quella sua bocca strizzata a culo di gallina.
Era stato per quell’indelicato cenno alla sua singletudine che Margherita si
era alzata e, senza aggiungere un solo ba, era uscita a testa alta dallo studio.
Che fosse single o plurifidanzata non erano fatti dell’esimio bastardo.
Quando più tardi aveva raccontato a Nora l’accaduto, l’amica aveva
sorriso, mentre il piccolo Giacomo ciucciava con fragorosa soddisfazione
dalle sue tette.
A Nora Mantelli Margherita doveva molto.
Quando aveva rotto con il suo fidanzato di sempre, Nora le aveva offerto
non solo una spalla su cui singhiozzare e la sua amicizia incondizionata, ma
anche una casa, la villetta dove aveva abitato prima di sposare Nick Corsi.
«Quelle vecchie mura hanno bisogno di qualcuno che le ami» le aveva
detto con un sorriso, «e poi, l’idea che abiteremo nella stessa via mi riempie
di gioia e potrò sempre contare su di te quando avrò bisogno di una
babysitter, vero? »
*
La cucina di Nora e Nick Corsi era accogliente, piena di oggetti che
indicavano la presenza in casa di due bambini piccoli. E di un gatto, grosso e
rosso, di nome Red.
Quel pomeriggio, mentre Margherita raccontava all’amica della visita al
medico e del suo brusco epilogo, Red le saltò in braccio e cominciò a esibirsi
nel suo vasto repertorio di numeri gatteschi.
«Così me ne sono andata. È stato un errore fin dal principio scegliere di
consultare un barone della medicina come quello…»
«Già, troppo simile a tuo padre.»
«Ti prego, non nominare il suo nome invano…»
«Ti adoro quando entri in modalità battagliera, Maggie, avrei voluto essere
presente alla scena…»
«Che mi è costata 500 euro. Giuro che d’ora in poi mi rivolgerò solo a un
ginecologo con due cromosomi X.»
«Ahi!» sbottò Nora guardando il suo piccolo. «Questo bambino è
carnivoro, altro che latte!»
«Colpa del cromosoma Y.»
In quel momento la tata Carla fece irruzione in cucina insieme alla piccola
Viola, figlia del marito di Nora, Nick.
«Questa bambina ha una fame da lupi e io ho voglia di un bel tè. Che ne
dite, ragazze, se ne preparo una tazza anche a voi? Mi sembrate preoccupate e
non c’è nulla che una tazza di tè non possa risolvere.»
La saggezza della tata Carla era inattaccabile.
Dopo il tè, Margherita prese Giacomo dalle braccia di sua madre e si mise a
camminare per la stanza in attesa che il bambino si esibisse nel ruttino di rito.
«È davvero massacrante avere un figlio» disse Nora guardando con amore
il suo piccolo in braccio all’amica. «Sei proprio sicura di volerlo fare?»
Margherita sorrise, ma non rispose.
Se avere un figlio era massacrante per una come Nora, cosa sarebbe stato
per una mamma single e disorganizzata come lei?
Nora, suo marito Nick e i loro due bimbi, per non parlare del gatto e della
tata, erano così perfetti da sembrare usciti da una pubblicità del Mulino
Bianco. Anche Barbablù, vedendoli, avrebbe rivisto le sue idee sulla
famiglia.
Ma non Maggie.
Perché non erano un marito e una famiglia che Margherita sognava.
No.
Pur scrivendo romanzi che per contratto finivano con un lieto fine
sgocciolante melassa, non pretendeva tanto.
Margherita desiderava solo un figlio, quello che il suo fidanzato storico e
stronzissimo non aveva voluto darle quando il momento giusto si era
presentato.
Certo, il no del bastardo era stato peggio di una bastonata nei denti. Maggie
aveva sofferto in silenzio, dilaniata da quel tradimento imprevisto, ma poi era
giunta a una sana e semplice conclusione…
Che si fottesse il fidanzato e con lui tutti i portatori di cromosoma Y.
Perché lei non aveva bisogno di un uomo per avere un figlio. Il mondo era
pieno di spermatozoi congelati e, in fondo, non c’era che l’imbarazzo della
scelta.
Schioccando un bacio sul naso del piccolo Giacomo e restituendolo alle
braccia della madre, disse: «Sarà meglio che vada adesso, vorrei lavorare un
po’alla revisione, non ho che una settimana…».
In quel momento il rombo della moto di Nick risuonò nel silenzio della
sera.
«Ecco il principe azzurro rientrare al castello in sella al suo destriero» disse
Margherita, alzando gli occhi al cielo, mentre il volto dell’amica si
illuminava sino a risplendere. «E ti sarei grata se mi risparmiassi quello
sguardo grondante zucchero. Vuoi farmi schiattare per uno shock glicemico o
per un attacco di invidia?»
Nora fissò l’amica con aria furbetta. «Non posso farci niente, Maggie. Tu
che scrivi romance dovresti conoscere bene questa sensazione. Ogni volta,
per me, è come la prima. Lo guardo e mi manca il respiro.»
«Sintomo dello stramaledetto colpo di fulmine…»
«Già, quante volte l’hai descritto nei tuoi romanzi? E sei proprio convinta
che un giorno non potrebbe accadere anche a te?»
«A me? Mai. Ormai sono vaccinata contro certe calamità.»
«Davvero? Calamità, la chiami? E se la freccia di Cupido ti colpisse
proprio quando meno te l’aspetti?»
In quel momento il principe azzurro si affacciò in cucina interrompendo sul
nascere il commento cinico di Maggie.
«Ehi! Sono un uomo fortunato stasera. Trovo ad accogliermi due splendide
donne, non solo una» esordì Nick esibendosi nel suo sorriso micidiale, quello
che aveva fatto innamorare Nora alla prima occhiata e che ancora le faceva
battere il cuore.
Nick prese in braccio suo figlio, poi baciò Margherita sulla guancia e sua
moglie sulle labbra, mentre Red saltava con un balzo su una sedia,
pretendendo la sua dose di attenzioni.
«Ciao anche a te bestiaccia» fece Nick accarezzandolo, mentre quello si
esibiva nel suo ricco repertorio di fusa e di miao in attesa che lui gli mollasse
come ogni sera un croccantino.
Tenendo stretto a sé il piccolo Giacomo ormai addormentato, Nick fissò
interrogativo le due donne.
«C’è qualcosa che non va? Di solito quando siete insieme non state zitte un
istante…»
«Niente» risposero all’unisono.
Nick aggrottò la fronte, incredulo. «Ho capito, si tratta di un segreto…»
«Sì» rispose Margherita.
«No» fece Nora.
«Sì o no?» chiese Nick all’improvviso serio.
«Niente di drammatico, davvero…» disse Maggie.
Nick guardò sua moglie.
«Riguarda Maggie, non sta a me parlartene.»
Nick sollevò un sopracciglio e fissò l’amica, in attesa di una spiegazione.
Difficile resistere a quello sguardo.
«Nick, non è niente di che. Devo solo prendere una decisione difficile.»
«Professionale?»
«Personale.»
«Perché non ti fermi a cena con noi, allora, e la prendi subito dopo il
caffè?»
*
E fu dopo il caffè che Maggie prese la sua decisione. Una sciagurata, folle
decisione, potrebbe definirla qualcuno. Le apparve d’improvviso mentre
guardava Nick giocare con Viola, la bimba avuta dal suo precedente
matrimonio. Una storia drammatica e molto dolorosa, ma finita bene. La
madre di Viola, infatti, avrebbe abortito se Nick, all’ultimo minuto, non
l’avesse persuasa a non farlo. Sulle prime era stato d’accordo con lei, aveva
troppe cose a cui pensare per diventare padre, ma poi, d’un tratto,
accompagnandola in clinica per l’intervento, aveva capito di volere quel
bambino. E l’aveva convinta a metterlo al mondo. Non con parole struggenti
e grondanti retorica, ma con l’unica cosa che sapeva l’avrebbe persuasa a
rinunciare al piccolo subito dopo la nascita: un assegno con parecchi zeri.
In parole povere, Nick Corsi aveva comprato sua figlia.
Non era stato facile per lui prendere una tale decisione e, forse, era stato
solo per dare alla bambina il conforto di una famiglia vera se aveva superato i
rancori con i suoi genitori ed era tornato a vivere in Italia. Nella stessa via
dove abitava Nora. In una strana sera, l’aveva incontrata e se ne era
innamorato. E ora era l’uomo più felice al mondo.
Guardando padre e figlia giocare con i Lego, Maggie provò a rovesciare i
ruoli.
Se fosse stata lei a rimanere incinta e poi a liberarsi del padre? Se invece
che con uno sterile, deprimente intervento in sala operatoria avesse provato a
rimanere incinta nel vecchio, ben collaudato modo? Non aveva bisogno che
della compiacente collaborazione di un uomo sano, possibilmente di
bell’aspetto e intelligente che, una volta fatto il suo dovere, fosse sparito per
sempre dalla sua vita, inconsapevole di aver dato una mano alla
sopravvivenza della specie umana.
Piano azzardato ma interessante, certo da perfezionare, ma pur sempre un
piano.
Quando per Maggie arrivò il momento di andarsene, Nick insistette per
accompagnarla a casa.
«Hai preso la tua decisione?» le chiese mentre le apriva il portone.
Maggie lo guardò con un largo sorriso sulle labbra. «Oh sì, e posso
ringraziare te per questo. Mi hai aperto… gli orizzonti!»
Lui fece una strana espressione e si batté il petto con l’indice. «Io?»
«Un giorno forse ti racconterò come.»
Si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò sulla guancia.
«Ora torna al mulino bianco, alla tua splendida moglie e a quei gioielli dei
tuoi bambini. Buonanotte Nick, vi voglio bene.»
«Sei sicura di sentirti bene, Maggie, o devo preoccuparmi?»
«Mai stata meglio in vita mia. Sparisci, ora. Va’ a casa!»
*
Quella notte Margherita non revisionò il suo romanzo e nemmeno dormì.
Camminò su e giù mettendo a punto il suo piano scriteriato, fece molte
ricerche su internet e, quando furono le quattro del mattino, lanciò Skype e
chiamò sua sorella Susanna al di là dell’Oceano. Per la precisione a Hope,
Wyoming, 785 abitanti, senza contare mucche, cani e cavalli.
E non era forse un magnifico segno che Hope, in inglese, significasse
speranza?
2
16 dicembre 2012, Cody, Wyoming
Margherita mise con cautela il naso fuori dallo Yellowstone Regional
Airport di Cody, dove tutti gli anni, d’estate, sbarcano migliaia di turisti per
andare a visitare il parco di Yellowstone.
Non che Maggie avesse la minima intenzione di farci un giro, magari con al
braccio un bel cestino da picnic da regalare al primo grizzly di passaggio. No,
aveva ben altri programmi per quella vacanza.
Il primo dei quali era raggiungere al più presto la casa di sua sorella, visto
che ormai era già buio.
Uscì dal terminal con gli ultimi passeggeri e si guardò intorno sorpresa. Chi
aveva dipinto di bianco quell’angolo di mondo? Se non fosse stato per le luci
intermittenti dell’enorme albero di Natale sistemato davanti all’ingresso
dell’aeroporto, non c’era che bianco e una temperatura che la faceva sentire
come un bastoncino Findus.
Cavolo!
Prima il vento, ora neve, freddo e ghiaccio. E quel grizzly enorme che la
stava fissando in modo poco amichevole dal suo piedistallo. Va bene, era
fatto di legno, ma un brivido glielo diede lo stesso.
Avvolta nel piumino, il cappuccio ben chiuso sopra la testa e l’aria stanca
di chi non dorme da un giorno, Maggie si incamminò verso la fermata degli
autobus trascinando il suo trolley rosa, scivolando un passo sì e l’altro pure.
Perché, per sbarcare in quella solitaria landa di neve e ghiaccio, aveva scelto
non i comodi moonboot che sua sorella le aveva raccomandato di indossare
ma un paio di stivali dal tacco assurdamente alto.
Perché non le aveva dato ascolto? In fondo Susanna, in questa terra
congelata, ci viveva da sette anni.
Diavolo, già sette anni. Ma come era riuscita a farcela?
L’amore. Tutta colpa dell’amore.
Suzie, almeno, l’amore della sua vita l’aveva trovato.
Alla fermata del bus mancavano solo una cinquantina di metri e Maggie
strinse i denti augurandosi che quel vento gelato, che la colpiva al viso come
uno schiaffo e le saliva su per la gonna con la forza di un tornado, fosse solo
un optional e non una dotazione di serie del posto. Perché, se non fosse
ancora chiaro, Margherita soffriva di a-ne-mo-fo-bia. In altre e più semplici
parole, aveva paura del vento. I sintomi? Palpitazioni, panico, senso di
soffocamento. Il rimedio? Una pinta di valium.
Peccato che quella sera non ne avesse a portata neppure una goccia.
Pensa positivo, pensa positivo, si disse. Vedi il bus? Ancora pochi metri e
ci sei, al sicuro.
Già.
Si guardò intorno. In giro non c’era un’anima: dove fossero finiti i suoi
compagni di volo, per la verità non più di una decina di persone, era un
mistero. Che avessero preso un taxi? Un’eventualità poi non così remota in
un aeroporto.
Maledizione! Perché mai non ne aveva preso uno anche lei invece di optare
per l’autobus? Ora sarebbe stata al caldo e soprattutto al riparo dal vento.
Ma quante storie!
Non sarebbe stato certo un soffio d’aria a fermare il suo glorioso contributo
al perpetuarsi della specie umana.
Doveva solo calmarsi, respirare e cantare.
A testa bassa, lo sguardo fisso alla punta dei piedi, Margherita accelerò il
passo e incominciò a intonare Blowing in the wind. Tanto, lì era sola e
nessuno poteva protestare o supplicarla in ginocchio di finirla con quello
strazio.
C’erano volute ben cinque sedute di ipnosi per convincere il suo inconscio
che canticchiare Blowing in the wind poteva aiutarla a controllare il panico.
Non che fosse altrettanto efficace della pinta di Valium, ma un po’
funzionava. Un paradosso, visto il titolo della canzone, Soffia nel vento.
How many roads must a man walk down,
before you call him a man…
Pochi passi. Il bus era ancora lì che l’aspettava.
«Hey Doc! You ok?» urlò qualcuno dietro di lei.
Doc?
Quel tipo non stava certo chiamando lei e, comunque, che andasse pure al
diavolo. Doveva concentrarsi su Bob Dylan e continuare a camminare fino
alla fermata, fino al bus, fino alla salvezza.
«Hey Doc?»
Ancora?
«Fottiti, stranger in the night» rispose senza neppure voltarsi.
La voce di Dylan riprese a girarle nella testa, come un vecchio 45 giri.
Stringendo i pugni, Maggie si rimise a cantare, questa volta a squarciagola.
How many seas must a white dove sails…
Before she sleeps in the sand…
Ormai sul display luminoso del bus si leggeva chiaramente la destinazione,
Hope. Al di là dei finestrini ghiacciati si muovevano le ombre di alcuni
passeggeri e, vicino alla portiera del guidatore, si scorgeva la sagoma di un
uomo intento a fumare. A ogni boccata il mozzicone si incendiava, come
quello di Raymond Burr ne La Finestra sul Cortile di Hitchcock.
Meglio muoversi, il mozzicone era corto, la sigaretta quasi finita.
Maggie allungò il passo, ma uno schiaffo di vento ghiacciato la travolse in
pieno, rischiando di buttarla a terra.
«Merda!» imprecò Maggie, questa volta in italiano, mentre il panico le si
infilava con il vento sotto i vestiti.
Il conducente spense il mozzicone, risalì sull’autobus e mise in moto.
Margherita allungò il passo.
«Hey Doc!»
Ancora quella voce che la inseguiva. Ma questa volta Margherita non la
sentì quasi, troppo presa com’era a urlare al conducente: «Ehi, signore, mi
aspetti per favore!».
Dannazione, mi avrà sentita?
Un’altra folata, di vento e di panico. Arrancando disperata sul ghiaccio col
trolley al seguito, il berretto ormai di sguincio sugli occhi, Maggie riprese a
cantare.
The answer my friend, is blowing in the wind,
the answer is blowing in the …
Fu a quel punto, prima che potesse uccidere anche quell’ultima strofa, che
una mano forte come una tenaglia le si strinse intorno al braccio
provocandole un tale spavento che la parola wind si perse davvero nel vento,
lasciando il posto a un urlo di terrore che avrebbe terrorizzato persino Wes
Craven.
E dato che i guai tendono a non venire mai soli, in quello stesso momento
una folata ancora più violenta delle precedenti circondò Maggie, dandole la
bizzarra sensazione che presto un tornado l’avrebbe risucchiata in cielo come
Dorothy nel Mago di Oz.
Cosa che, naturalmente, non accadde.
Forse per la semplice ragione che, pur in modo alquanto maldestro, si tuffò
a peso morto sul suo aggressore, ancorandosi saldamente a lui con gambe e
braccia, tipo koala terrorizzato.
Somewhere over the rainbow…
L’aggressore, peraltro del tutto inconsapevole di esserlo, sulle prime
rimase immobile, fulminato dagli eventi, quindi si esibì in un gran balzo
all’indietro per sottrarsi a quella che lì per lì gli parve una mossa di qualche
arte marziale del cavolo. E nel cercare di uscire indenne dall’attacco di quel
ninja più stonato di una campana, 1) scivolò sul ghiaccio, 2) il suo amato
Stetson gli volò via dalla testa e, infine, 3) stramazzò a terra portandosi
appresso il ninja e il suo trolley rosa. Poi urlò.
Il suo urlo risuonò nel buio della sera, seguito da una serie di imprecazioni
in lingua inglese che cominciavano quasi tutte con l’eclettico termine fuck,
che, come è noto, racchiude in sé parecchi significati.
E se quanto appena successo non fosse stato già fin troppo stravagante, nei
concitati secondi che seguirono Maggie rifilò al poveretto pure una
involontaria gomitata allo zigomo destro. Non per cattiveria, sia chiaro, ma
nel patetico tentativo di fermare con un cenno della mano l’ultimo bus della
giornata diretto a Hope.
«Merda!» mormorò Maggie abbattuta.
«Shit» le fece eco l’uomo, malconcio e incredulo sotto di lei.
***
Dei due, nonostante la stazza, era lui ad avere avuto la peggio. Cosa
comprensibile, dal momento che una completa svitata, che sulle prime aveva
scambiato per quell’angelo sceso in terra di Doc, gli era appena piombata
addosso come un treno in corsa, rifilandogli una gomitata sullo zigomo e
colpendolo sugli stinchi con un trolley di almeno venti chili e per di più di un
imbarazzante rosa confetto.
Peggio che in un incubo.
Ora la svitata gli stava sopra e lo fissava immobile, spaventata almeno
quanto lo era lui stesso, sorpresa di come quel disastro fosse potuto
succedere.
«What the fuck?» esclamò l’uomo, questa volta mettendo il fuck al termine
della frase.
«What the fuck!? Mi hai aggredita e buttata per terra e ora ho perso
l’autobus» rispose Maggie in un inglese troppo britannico per quell’angolo di
mondo, cercando di liberarsi da quell’intrico di braccia, gambe e trolley rosa.
Tentativo quasi patetico, perché l’uomo, immaginando che lei volesse
darsela a gambe o forse rifilargli un’altra gomitata, le afferrò i polsi e con uno
scatto repentino la rigirò su se stessa, immobilizzandola sotto di sé.
Come un lottatore di sumo... o come un amante impaziente…
***
Non solo il panico le martellava le tempie e il fottutissimo bus si era ormai
dileguato nella notte. Non solo si trovava spiaccicata a terra in una
oltraggiosa posizione tipo pollo alla diavola; ora Maggie aveva un altro e ben
più serio problema.
Perché, per quanto ci provasse, lo straniero non le appariva come un grasso
e sudato lottatore di sumo, ma come l’amante hot, pericoloso e sexy di cui si
innamoravano le eroine dei suoi romanzi e, a dirla tutta, lei stessa molto
prima di loro. Il maledetto aveva occhi verdi, in quel momento scuri come il
mare in tempesta, e un corpo solido come l’acciaio da cui si diffondeva un
calore invitante.
Troppo.
Nonostante pensieri del tutto inopportuni la stessero tentando e cercassero
di insinuarsi dove non avrebbero dovuto, Maggie si sentiva ancora troppo
irrequieta e spaventata per valutare i pro della situazione. I contro, invece, le
erano assai più chiari.
Il tempo di un respiro e riprese a divincolarsi e a scalciare.
«Fuck!» esclamò lo straniero, stupito da quel nuovo attacco.
«Fuck…you» rispose Maggie senza fantasia, ma con incisiva
determinazione.
***
«Ehi! Vuoi startene un po’ calma? Non voglio farti del male, solo liberarti
senza beccarmi un cazzotto in un occhio, ok?»
La svitata lo fissava poco convinta.
«Tanto per la cronaca, mi chiamo Mitch.»
«Come faccio a esserne certa?»
«Che mi chiamo Mitch?»
Maggie alzò gli occhi al cielo. «Potresti chiamarti anche Paperino, per quel
che mi importa. Intendevo…Come faccio a sapere che non vuoi farmi del
male?»
«Ah…quello.»
***
Lui le sorrise, un sorriso tanto malandrino e sensuale che, nonostante il
ghiaccio le stesse ormai penetrando nelle ossa, Maggie si sentì avvampare.
Con un voilà irridente, lui le lasciò i polsi, poi sollevò le mani come se si
stesse arrendendo a un nemico. Mossa avventata, perché in cambio, invece di
offrirgli il calumet della pace, Maggie lo colpì di taglio sulla trachea, un
colpo del tutto fortuito ma molto ben assestato.
«Scusa, volevo recuperare la mia borsa» mormorò, per nulla dispiaciuta.
Così impari a guardarmi in quel modo, cowboy.
***
Mitch si mise a rantolare, a tossire, a fissare allibito la sconosciuta,
rivalutando l’ipotesi che la donna fosse un ninja in missione. I suoi occhi si
fecero ancora più scuri e minacciosi mentre, in debito di ossigeno, cercava di
emettere un suono qualsiasi: se quella pazzoide voleva la guerra, che guerra
fosse. Così, quando lei cominciò a urlare e a blaterare minacce improbabili,
visto che si trovava immobilizzata sotto di lui, le catturò di nuovo i polsi e,
senza pensarci su troppo, non trovò altra soluzione che chiuderle la bocca con
la sua. Per farla tacere e ridurla all’impotenza, non per altri scopi.
Forse.
La sua trovata all’inizio sembrò funzionare.
Gli urli della donna gli rimbalzarono sulle labbra sempre più deboli, finché
si spensero in un gemito sottile che provocò in lui una curiosa e inaspettata
reazione che, se le circostanze fossero state diverse, quella non fosse stata una
pazza furiosa (o un ninja) e il luogo meno pubblico, avrebbe potuto prendere
per una sana eccitazione sessuale e non certo per un semplice riflesso causato
dall’adrenalina che gli era entrata in circolo.
Ma davvero?
Allora, se davvero era così, per quale motivo la sua lingua, in modo del
tutto autonomo e incontrollato, stava avendo la disastrosa idea di uscire allo
scoperto e di avere un incontro ravvicinato del terzo tipo con la lingua della
pazza?
Dio santissimo! Pazza o ninja che fosse, la sconosciuta sapeva baciare,
eccome, tanto da portarlo in pochi secondi a ricredersi sulla scarica di
adrenalina e rivalutare l’ipotesi della sana eccitazione sessuale.
Troppo tardi.
Perché la svitata, nel frattempo, aveva optato per una repentina ritirata e si
era sottratta alle sue labbra.
Forse era stato quel bacio improvviso, forse la sua evidente eccitazione, o
forse gli ottanta chili che la inchiodavano al suolo, ma la donna ora sembrava
essersi calmata. Lo fissava incuriosita più che impaurita, silenziosa e
immobile sotto di lui. Perfetta sotto di lui. Morbida come piaceva a lui, dove
piaceva a lui.
Ancora disteso su di lei, la fissò col respiro corto e il cuore impazzito, in
una posizione che con tutta probabilità era tra le preferite dal Marchese De
Sade.
Cosa che non andava affatto bene.
Non solo doveva togliersi certi pensieri dalla testa, ma anche rialzarsi
subito, prima che lei interpretasse nel modo sbagliato le sue intenzioni.
Oh, c’era poco da interpretare.
Si mosse a disagio, cercando di non sfregare il bacino contro quello della
pazza, poi chiese: «Mi spieghi chi diavolo sei e perché mi hai aggredito in
quel modo? E già che ci siamo, potresti anche dirmi che male ti ha fatto il
povero Bob Dylan per massacrarlo in quel modo?»
La donna gli rivolse un’occhiata chiaramente ostile, poi sfoggiò un inglese
da piani alti di Downton Abbey, ma molto più arrabbiato.
«Primo, non ti ho aggredito io, tu hai aggredito me, sbattendomi per terra
senza complimenti. E secondo… non stavo uccidendo Bob Dylan, ma stavo
chiedendogli aiuto, se proprio lo vuoi sapere.»
Mitch alzò un sopracciglio, perplesso. La donna era decisamente pazza, per
quanto molto attraente e bravissima a baciare.
«Qualche secolo fa quelle come te, le bruciavano» disse pensando che non
assomigliasse poi così tanto a Doc. Sì, gli occhi grigi erano gli stessi, ma i
capelli che sbucavano dal berretto di lana rosa erano rossi come quelli del
diavolo, non biondi come quelli di un angelo. E quelle labbra… Mentre il
cuore partiva di nuovo in quarta, si chiese se sarebbe mai riuscito a togliersele
dalla testa, a dimenticare il loro sapore.
«Sei più tranquilla, adesso?»
«No, per niente. E, tanto perché tu lo sappia, non sono una strega.»
«Questo è ancora tutto da dimostrare…»
Lei alzò gli occhi al cielo. «Vuoi toglierti di mezzo, per piacere?»
«Io ora mi alzo, ma tu rimani tranquilla, ok? Non ti voglio fare del male,
ma non voglio neppure che tu ne faccia a me.»
Lei annuì decisa, le labbra serrate, forse per dissuaderlo dal baciarla ancora.
Con lentezza Mitch le liberò i polsi. Poi, con un movimento elegante, si
rialzò e recuperò da terra il suo Stetson color tabacco. «Allora, straniera?
Vuoi alzarti da sola o devo chiamare un carroattrezzi?»
***
A quella minaccia, gli occhi di Maggie si aprirono di scatto, in tempo per
cogliere l’ispezione a cui lo sconosciuto la stava sottoponendo.
«Guardami pure le gambe, se ti fa piacere. In questo momento non mi
importerebbe neppure se fosse Brad Pitt a farlo» sbottò acida, cercando senza
successo di coprirsi.
«Difficile non guardarle, dal momento che me le agiti sotto il naso come
fossi una trapezista. Ti consiglio di coprirti, prima di morire congelata.»
«Grazie per il consiglio, da sola non ci sarei mai arrivata…» bisbigliò,
mentre, con un sorriso forzato, incominciava le grandi manovre per rialzarsi
da terra.
Lui le tese una mano, lei la rifiutò. Lui arretrò di un passo e incrociò le
braccia, le labbra piegate in un sorriso ironico.
«Fai pure» disse, «non c’è fretta.»
Maggie alzò gli occhi al cielo poi, sperando che lui non lo notasse, lo
guardò di sottecchi. Certo era imponente! Imponente e sexy, come uno
sconosciuto non aveva il diritto di essere. Capelli castani, occhi verdi,
un’ombra di barba sul volto, un naso dritto e una mascella ben messa, labbra
da sognarci sopra, morbide e affamate.
Labbra che ho appena baciato, pensò Maggie sentendosi di nuovo
avvampare. Anche perché dalle labbra il pensiero volò più in basso. Non
riusciva a togliersi dalla testa come il suo corpo aveva reagito al contatto con
quello del cowboy. Forse era stato solo un effetto collaterale di quella
disgraziata serie di eventi, o forse l’aveva solo immaginato.
No, certe cose non si immaginano.
Per quanto negli ultimi due anni avesse vissuto in completa astinenza,
sapeva ancora riconoscere un’erezione.
«Sicura che non vuoi una mano?»
Con un sussulto Maggie si risvegliò dai suoi pensieri.
«Naaa, ce la faccio benissimo» rispose ostentando un’invidiabile sicurezza,
quasi avesse ai piedi dei ramponi da ghiaccio e non stivali con un tacco
scriteriato.
Con la testardaggine che le era solita, fece un altro tentativo, mettendocela
tutta per rialzarsi senza mostrare ciò che una signora non dovrebbe mai
mostrare, soprattutto a uno sconosciuto di cowboy con degli occhi verdi da
perderci il sonno.
Lui non smise di fissarla, anzi, si esibì pure in una serie di espressioni
stupefatte e divertite inclinando la testa – e lo Stetson che ci stava sopra – ora
a destra ora a sinistra. E quando, in un ultimo disperato tentativo di rialzarsi,
lei ricadde senza grazia sul sedere, lui le diede la botta finale con il più
classico e beffardo degli sguardi te l’avevo detto io!
Non contenta di quel colpo basso al suo orgoglio, rimase pure a fissarlo
inerte mentre, con un movimento improvviso, lui si chinava su di lei, la
afferrava per le braccia e le restituiva in un paio di secondi l’originale
posizione di bipede eretto.
«Oh Cielo!» esclamò Maggie, oltraggiata certo, ma anche impressionata da
quello sfoggio primitivo di forza fisica. Quell’uomo era un vero paleolitico!
Che continuava a sorprenderla e a toglierle il fiato.
Si girò e gli diede le spalle per sistemarsi la gonna e scrollarsi la neve di
dosso, ma anche perché lui non si accorgesse che il viso le stava andando a
fuoco.
Respira e conta fino a dieci, Maggie. Uno, due, tre…
Ecco, così andava meglio.
Quando si girò di nuovo verso di lui, sfoggiava sulle labbra il suo miglior
sorriso. Ironico, naturalmente.
«Grazie dell’aiuto e soprattutto grazie per avermi fatto perdere l’ultimo bus
per Hope.» Poi, con molta dignità, si sistemò il berretto rosa sulla testa.
«Hope?»
«Già, Hope. È là che devo andare, da mia sorella.»
Un guizzo verde illuminò il volto del cowboy. «Ora capisco…» disse.
«Che cosa, di grazia?»
«Il motivo per cui ti avevo scambiato per Doc. Sei sua sorella, le assomigli
come una goccia d’acqua!»
«Tu conosci Suzie?»
«Certo, sei Maggie, vero, la scrittrice?! Mi ha parlato di te.»
Lei assentì, lo studiò un istante, poi disse: «E perché mai mia sorella
avrebbe dovuto fare una cosa tanto stupida?».
«Quale cosa?»
«Parlarti di me.»
Lui alzò le spalle, come se non sapesse che risposta dare. «Forse perché ti
vuole bene e sente la tua mancanza. E perché gli amici servono anche ad
ascoltare.»
Maggie lo fissò sorpresa, come se lo stesse vedendo per la prima volta. Che
non fosse poi così primitivo, quel cowboy? Inclinò la testa come se volesse
porgli un’altra domanda, ma una folata di vento la investì in pieno
ricordandole che doveva ancora trovare il modo di raggiungere Hope.
«Devo andare, ora. Scusami ancora per averti colpito, non è stato certo
intenzionale, Mick» tagliò corto recuperando il trolley.
«Se vuoi ti accompagno io da tua sorella, ci passo davanti tornando a casa.
Mitch, non Mick.»
«Grazie, ma un taxi andrà benissimo» lo interruppe lei, scuotendo decisa il
capo.
«Non ne troverai uno che ti porta a Hope, a quest’ora.»
«E allora andrò a piedi. Bye Mick» disse Maggie, incamminandosi verso la
fermata dei taxi.
Lui la seguì. «A piedi, eh?»
«Perché no?»
«Forse perché sono circa cinquanta miglia? In ogni caso, ti auguro una
buona passeggiata. E mi chiamo Mitch, dannazione, non Mick. Mitch
Sandford.»
«Mitch, certo, lo ricorderò. Ci vediamo, Mitch» rispose lei senza girarsi
neppure e facendogli ciao ciao con la manina. Sì, meglio stare alla larga da
quel cowboy, che fosse amico di sua sorella oppure no. Se cinque minuti
insieme a lui erano stati come una folle corsa sulle montagne russe, un
viaggio di cinquanta miglia al suo fianco cosa sarebbe stato, un salto
nell’iperspazio?
Come lui aveva predetto con un pizzico di fastidioso paternalismo, il
parcheggio dei taxi era deserto. Certo, era preoccupante, ma Maggie era
ancora così scossa da quanto era appena successo con quel tipo, quel Mitch
non Mick, che non diede alla cosa il giusto valore.
Prima o poi un taxi sarebbe arrivato. Era in America, in fondo, non in
mezzo al deserto del Gobi!
Rassicurata da quella fenomenale considerazione, decise di aspettare sotto
la tettoia del terminal, vicino alla grande statua del grizzly. Dio, ma erano
davvero così giganteschi quegli animali?
Vento implacabile, neve, cowboy da farti venire le palpitazioni, e grizzly
enormi e feroci. No, il Wyoming non era proprio il paese più adatto a lei, ma
ormai era troppo tardi per ripensarci, no? Grizzly o non grizzly, se lo sarebbe
fatto andare bene, tanto era questione di un mese, non di più. Giusto il tempo
per trovare il donatore adatto e portare a termine il suo piano. Un piano che, a
pensarci bene, faceva acqua da tutte le parti.
Con un sospiro, si sedette sul trolley, davanti alla corsia vuota dei taxi,
ostentando un’invidiabile disinvoltura ma sentendosi sempre meno sicura. E
poi, ora che quel cowboy se ne era andato, il sangue cominciava a rallentare
la sua corsa, provocandole un pauroso abbassamento della temperatura
corporea.
Il freddo di colpo sembrò morderla.
Tremò, si alzò e cominciò a battere i piedi per terra.
Il display luminoso alla sua sinistra diceva che erano le sette e tre minuti di
sera del sedici dicembre duemiladodici e che la temperatura era di…
quattordici gradi? Impossibile, il termometro doveva essere impazzito. Ce ne
dovevano essere meno di zero, di gradi.
Intanto di taxi ancora niente. La cosa era fortemente sospetta e il fatto che
in tutto l’aeroporto non ci fosse più in giro nessuno la rendeva ancora più
inquietante.
Dopo cinque minuti, i timori di Maggie incominciarono a trasformarsi in
orrende premonizioni e i quattordici gradi in una temperatura prossima allo
zero assoluto, anche perché si era resa conto che negli USA i gradi erano
Fahrenheit, non i vecchi e rassicuranti Celsius.
Per riscaldarsi, si mise a saltellare sul posto, guardandosi di continuo
intorno in cerca di una soluzione.
Che non arrivava.
Forse avrebbe fatto meglio a ingoiare l’orgoglio e accettare un passaggio da
quel cowboy, ma chissà se era davvero un amico di sua sorella? E se fosse
stato un poco di buono? Un wanted, un serial killer? Be’, anche se fosse stato
un amico di sua sorella, implorare un passaggio da lui sarebbe stato
imbarazzante. Dopo quello che le aveva fatto! Prima l’aveva seguita, poi
placcata e gettata a terra come fosse un quarterback in fuga, poi baciata,
palpeggiata e quindi sollevata da terra, e senza che lei glielo avesse neppure
chiesto. No, era stata saggia a non accettare il suo invito, anche se quel tipo
aveva occhi così verdi da essere probabilmente illegali, mani che avrebbero
svegliato la Bella Addormentata con una sola carezza e una massa di muscoli
da vietare ai diciotto. Per non dire che baciava da urlo.
Un tipo pericoloso, quel Mitch non Mick. Uno da togliersi subito dalla testa.
Era una donna con un piano, dopotutto, e quell’uomo non ne avrebbe mai
fatto parte.
Di taxi, intanto, neppure l’ombra.
Dopo cinque minuti, che a certe temperature sembrano ore, Maggie rientrò
con la coda tra le gambe nel terminal dove un addetto a non sapeva cosa le
confermò senza alcuna pietà che fino all’indomani mattina di taxi non ne
sarebbero arrivati.
«È un piccolo aeroporto regionale, con pochi voli…»
«Si potrà affittare un’auto…» miagolò Maggie, speranzosa.
«A quest’ora, Miss? Mi spiace, gli impiegati sono già andati tutti a casa.»
«E allora, che faccio?»
«C’è un motel, a circa duecento iarde dal terminal, direzione nord.»
«Be’, grazie» rispose Maggie per nulla convinta.
Direzione nord. Un motel.
Duecento iarde.
Quell’uomo doveva essere pazzo. Lui e le sue iarde. Quanto era lunga una
iarda?
Uscì dal terminal tallonata dal trolley rosa, cercando in modo frenetico il
cellulare nella borsa.
Il cellulare, benedetto chi l’aveva inventato, sarebbe stato la soluzione ai
suoi guai. Avrebbe chiamato Suzie e aspettato all’interno del terminal che lei
o suo marito finissero di lavorare e la venissero a prendere. In fondo fino a
Hope non erano che cinquanta miglia, che ci voleva a percorrerle? Cinquanta
miglia corrispondevano esattamente a chilometri…? Nonostante fosse
profondamente irritata verso le bizzarre unità di misura che il popolo
anglosassone si ostinava ancora a usare, si sforzò di fare due conti. Ok, Hope
non è proprio girato l’angolo: una ottantina di chilometri, ovvero almeno
un’ora di attesa prima che qualcuno arrivasse a prelevarla.
Sì, era davvero necessario chiamare sua sorella a quel punto, anche se di
certo si sarebbe beccata una ramanzina per non essere riuscita a salire su quel
dannato autobus.
Mise la borsa a ferro e fuoco – più che una borsa, un pozzo senza fondo – e
finalmente riuscì a recuperare il cellulare che si era nascosto in una delle
diciotto tasche interne.
Sospirone.
Con l’iPhone in mano era di nuovo padrona della sua vita. Si sfilò il
guanto, poi premette con urgenza il tasto on.
Ma niente accadde.
Oh! Forse perché, avendo le dita congelate, non aveva pigiato abbastanza.
Dannati affari.
Ci riprovò una, due, tre volte, con sempre più forza e disperazione, senza
ottenere da quel coso un minimo cenno di riconoscenza.
Non successe niente, nothing, rien de rien.
Nichts.
Deglutì, poi respirò profondamente, come se fosse solo questione di
crederci.
Vero che ti accendi, tesoruccio mio?
Il dito, ormai prossimo al congelamento, fece un altro tentativo, ma
l’iPhone era morto, stecchito, come capita quando ci si dimentica di
ricaricarlo.
«Ci voleva anche questa!» sbraitò Maggie, ben più disperata delle
casalinghe di Wisteria Lane.
Ahuuuuuuuuuh, le fece eco qualcuno da lontano.
A quel suono spaventoso, le pupille le si dilatarono e il cuore cominciò a
correre, inseguito da una scarica di adrenalina.
Ahuuuuuuuuuh?
Quali temibili, notturne creature si aggiravano in quella terra selvaggia?
Lupi?
Un brivido le corse giù per la schiena.
Non solo era rimasta senza taxi, bus e cellulare. Ma era pure circondata da
lupi affamati, come in un episodio di True Blood. Le duecento iarde che la
separavano dal motel nella sua immaginazione erano ormai diventate mille.
Ipotesi motel, scartata.
Margherita decise di passare così al piano B, cosa che, per una che non
aveva neppure un piano A, era davvero stupefacente.
Dopo aver insultato ad alta voce e in ordine sparso i cellulari, se stessa, i
taxisti e il povero Bob Dylan – che a tratti osava ancora gironzolarle per la
testa – decise che a tutto c’era rimedio. In fondo prima dei telefonini la gente
sopravviveva lo stesso, no? Bastava mantenere la calma e riflettere. Cercare
un telefono a monete, ad esempio.
Pregando di trovarne uno ancora in funzione, si incamminò verso il
terminal, ma dopo due passi le sue orecchie congelate percepirono un rumore
che in quel momento le parve paradisiaco, quello di un motore a scoppio, che
doveva per forza essere quello di un taxi.
«Sììììììì!» urlò come un’adolescente eccitata, e con un sorriso vittorioso si
girò di scatto in direzione del parcheggio.
Il sorriso svanì subito. Perché ciò che aveva davanti non era un taxi, ma un
vecchio pick-up Ford rosso, piuttosto male in arnese, per di più. Come quello
che guida lo sceriffo Raylan Givens in Justified, insomma, un telefilm che lei
adorava.
Da vittorioso, il sorriso di Maggie si fece guardingo. Di chi diavolo era
quell’affare?
L’affare accostò al marciapiede e il finestrino del guidatore si abbassò. Per
un istante Maggie pensò davvero che alla guida ci fosse Raylan Givens: oh,
lo Stetson d’ordinanza in testa c’era, ma se possibile, i suoi occhi erano
ancora più verdi di quelli di Timoty Olyphant.
Merda.
Occhi così non si dimenticano facilmente.
Di nuovo lui. Di nuovo il cowboy.
Mitch. Mick. Mitch.
Alzando gli occhi al cielo e lottando per apparire in pieno controllo della
situazione, esclamò ironica: «Mitch, ancora tu! Dobbiamo smetterla di
incontrarci così, la gente potrebbe mormorare!».
Lui si tolse di bocca un mozzicone di sigaro e soffiò il fumo nella sua
direzione regalandole un sorriso che le fece piegare le ginocchia e strizzare il
cuore.
Dannato cowboy.
«Pensavo che fossi già su un taxi diretta a Hope» disse sarcastico, con un
sussurro roco che le fece sbattere gli occhi e aprire la bocca in cerca di una
boccata di ossigeno supplementare. Peccato che, invece dell’ossigeno, fu il
fumo a entrarle dentro. Acre, intenso.
Maggie prima fece una smorfia, poi agitò le mani davanti a sé per
allontanarlo. Troppo tardi, perché l’aroma del tabacco aveva già scatenato in
lei il ricordo di quel bacio assurdo a cui pochi minuti prima quel cowboy
insolente l’aveva costretta.
Costretta?
La temperatura intorno a lei sembrava essersi rialzata di una ventina di
gradi.
«Pensavi male. Pare che i taxi, in questa landa ghiacciata, siano una rarità.
Chissà, forse, prima o poi, ne arriverà uno.»
«Forse.»
Senza toglierle gli occhi di dosso e con una lentezza che le parve calcolata,
Mitch inalò un’altra boccata e poi soffiò di nuovo il fumo nella sua direzione.
Una palese dichiarazione di guerra.
«Il fumo fa male, dovrebbero proibirlo» lo apostrofò lei, severa,
cominciando a tossire in modo esagerato.
«Anche tu fai male, se è per quello. Forse dovrebbero proibire anche te.»
Lei non rispose, ma continuò a fissarlo con aria di chi non se la beve.
«Hai dei dubbi? Guarda qua! Ho lo zigomo gonfio come un pallone ed
entrambi gli stinchi a pezzi. Non so neppure se riuscirò a montare, domani.»
«A montare?» chiese lei, per pentirsene subito dopo.
«A cavallo» rispose lui divertito, un sorriso malizioso negli occhi verdi.
Cowboy del cavolo. L’aveva fatta arrossire, di nuovo.
Maggie chiuse gli occhi e contò sino a dieci.
Uno, due, tre…
Se voleva arrivare a casa di sua sorella prima che facesse notte, non aveva
altra scelta che chiedere al cowboy di accompagnarla. Certo, avrebbe sempre
potuto optare per il motel e attraversare quelle duecento iarde pullulanti di
lupi.
Un altro ululato.
No, non avrebbe potuto.
«Lupi» disse Mitch, il braccio sinistro che sporgeva indolente dal
finestrino, il mozzicone del sigaro stretto tra le dita.
«Lupi» ripeté lei con un’alzata di spalle, come se si trattasse di barboncini
addestrati. Poi mosse un paio di passi esitanti verso il pick-up. Quell’affare
era così alto che dovette allungare il collo e sollevare la testa per parlare al
cowboy. «Mi chiedevo…» mormorò vincendo ogni residua resistenza.
Lui rimase immobile, se non per il sopracciglio sinistro che scattò verso
l’alto.
«… se per caso tu non potessi darmi uno strappo.»
Lui finse di prendere in considerazione la cosa. Poi, con un altro sbuffo di
fumo, disse: «Mi sembrava che avessi rifiutato la mia offerta, dieci minuti
fa...».
«Perché non intendevo esserti di disturbo» rispose lei come se si stesse
rivolgendo alla duchessa di Kent.
E di fatti lui scoppiò a ridere. «Essermi di disturbo? Dopo avermi assalito
come un ninja? Ma sarò magnanimo. Dai, sali.»
Maggie tirò un sospiro di sollievo. Era così stanca e infreddolita che anche
quel pick-up scassato le parve per un istante una limousine.
«Dove metto la valigia?»
«Buttala dietro, nel cassone.»
Buttare nel cassone la sua Samsonite rosa, costata una cifra improponibile?
«Preferirei sistemarla in cabina, se non ti spiace.»
«In cabina non c’è posto, qua dietro è pieno di roba. A meno che tu
preferisca viaggiare nel cassone e la valigia sul sedile…»
Lei rimase zitta, gli occhi sgranati, per nulla certa che quella fosse solo una
battuta.
«Ok, ci penso io» tagliò corto lui, aprendo la portiera e scivolando a terra
con un balzo. Afferrò il trolley per la maniglia e, senza un’altra parola, lo
fece volare nel cassone.
Oh!
Il botto risuonò nelle orecchie di Maggie come una granata.
Risistemandosi lo Stetson sulla testa, il cowboy girò intorno al pick-up e
con un sorriso esagerato aprì la portiera del passeggero.
«Sali, sorella di Suzie, o vuoi che dia una mano anche a te?»
Era del tutto inutile sprecare il proprio tempo con quel cowboy, anche se
era sexy da morire. Così, con la poca dignità che le rimaneva e la stanchezza
che incominciava a minarle la ragione, Maggie caracollò sino a lui che se ne
stava lì, solido come una roccia, con la portiera aperta e una mano tesa.
Ma davvero? Voleva davvero aiutarla a salire?
In che secolo viveva questa gente?
Certo, inerpicarsi su quel coso con indosso una gonna tanto stretta non
sarebbe stato facile. Ma non avrebbe dato al cowboy anche quella
soddisfazione, ci sarebbe riuscita da sola.
«Non ho bisogno di nessuna mano, grazie.»
Senza battere ciglio, sollevò la gonna sino a metà coscia, incurante dello
sguardo interessato di Mitch. Poi mise il piede destro sul predellino, si
sostenne alla maniglia interna della portiera e pensò: è come montare a
cavallo, in fondo.
E… issa!
Al primo tentativo le cose non andarono come avrebbero dovuto.
Al secondo ce l’avrebbe anche fatta se il sorrisino indisponente di Mitch
non le avesse tolto le forze.
Il terzo tentativo fu quello buono.
Certo la gonna le era salita sino all’inguine e il cuore sembrava che stesse
per uscirle dal petto, ma… che cavolo! Era stata pur sempre una piccola
soddisfazione. Cercando di calmarsi, si appoggiò allo schienale e chiuse gli
occhi esausta, mentre il cowboy girava di nuovo intorno al pick-up e si
sistemava al posto di guida.
Con il sigaro ancora acceso.
Maggie fiutò l’aria, poi fece una smorfia e chiese: «Puoi spegnere quel coso
puzzolente, per favore, o preferisci che mi senta male?»
«Non pensarci neppure di star male sul mio Ford F150 Ranger del ‘78.»
«Ah! Cos’è, un prezioso pezzo di antiquariato?»
«Per me è prezioso. Era di mio nonno.»
«Non fatico a crederlo.»
Mitch la guardò irritato, poi spense il mozzicone nel posacenere.
«Metti la cintura, Meg.»
«Sarebbe Maggie.»
«Maggie, allora. La cintura.»
Come se fosse stato facile.
Maggie cominciò ad armeggiare senza successo con la fottuta cintura. Al
quinto tentativo non sapeva se strillare, morsicare qualcuno (e la scelta in
quel caso sarebbe stata forzata) o incominciare a piangere a dirotto. Ma non
fece niente di tutto ciò. Respirò a fondo, chiuse gli occhi e contò ancora fino
a dieci. Non era certo il momento di ingaggiare un’altra stupida lotta con quel
cowboy, era troppo stanca.
«Non riesco a chiuderla» ammise e si sentì sollevata se non felice quando
lui, con tono privo di qualsiasi sarcasmo o irritazione, le mormorò un
rassicurante «Ci penso io».
«Grazie, Mitch» rispose in un sussurro.
Non era meraviglioso potersi affidare a un’altra persona, almeno una volta
nella vita? Anche per un’inezia come quella?
Mitch si allungò su di lei e afferrò i due capi della cintura con molta
lentezza. Maggie rimase immobile e lo lasciò fare, riconoscente, sentendosi
sicura nelle sue mani. Si fece cullare, invadere dall’odore di Mitch, sapone,
aghi di pino e tabacco perfettamente miscelati, così buono da farle girare la
testa e correre il sangue troppo forte nelle vene. Si riempì i polmoni di quel
profumo, così virile e personale, sicura che lì dentro ci dovesse essere una
quantità illegale di feromoni.
La cintura fece clack e lui le regalò un sorriso che le fece piegare le
ginocchia.
Fortuna che era seduta.
Con un wroom improvviso, il pick-up partì.
*
Il pick-up proseguiva lungo la strada principale che da Cody si snodava
verso sud-est, fino a Laramy. La neve ricopriva ogni cosa e restituiva la poca
luce proveniente dal cielo stellato. A est le montagne apparivano e
scomparivano in lontananza come le immagini luminose di un caleidoscopio.
A ovest gli altopiani e le foreste sembravano non finire mai.
Forse il merito era della quiete che abbracciava ogni atomo di quella terra,
ma per la prima volta, dopo il suo arrivo disastroso nel Wyoming, Maggie si
sentì stranamente in pace con il mondo. O chissà, forse il merito era di Mitch
che pareva a suo agio alla guida di quel coso. Guardarlo le piaceva, forse
troppo, e dovette resistere più volte al desiderio di allungare una mano e
toccarlo.
Dio che caldo faceva!
Senza trovarlo, cercò sulla portiera il comando per aprire il finestrino.
«Come si apre il finestrino?»
«Gira la manovella.»
Già, la manovella. Le aveva viste solo nei film.
«Non ne avevo mai usata una, prima…»
«Perché sei troppo giovane» disse Mitch guardandola.
Lei non rispose, ma commise l’errore di ricambiare il suo sguardo.
Anche se solo per un attimo, fu sicura di aver visto brillare qualcosa in
quegli occhi verdi: un lampo, una vibrazione improvvisa che non fu capace di
respingere.
Lo schermo, Mister Sulu! Su lo schermo!
Troppo tardi! Quel lampo la colpì in pieno petto.
Colpita e affondata.
*
Viaggiarono in silenzio per qualche minuto, mentre la neve aveva
ricominciato a cadere.
«Tu c’eri già?» chiese Maggie.
«Uh?»
«C’eri già nel 1978?»
«Vuoi forse adularmi con questa domanda? Eccome se c’ero. Ero un
bellissimo bambino di otto anni, nel 1978.»
Maggie fece due conti. Mitch aveva quarantadue anni, nove più di lei.
«Sei vecchio, ma li porti bene» disse scherzando.
Lui le rispose con un sorriso.
Era troppo chiedere che lui non le sorridesse più?
«Fra quanto arriveremo?»
«Fra un’oretta, più o meno. Perché non ti fai un sonnellino, nel frattempo?»
«Non sono stanca» mentì. «Ma se tu fossi tanto gentile da prestarmi il
cellulare, chiamerei volentieri mia sorella. Purtroppo il mio è morto.»
«Eccolo» le disse porgendole il telefono.
***
Da come la conversazione esplose in italiano, Mitch ebbe l’impressione che
le due sorelle si stessero raccontando gli ultimi dieci anni della loro vita, ma
poco dopo dovette ricredersi. Perché cominciò a supporre che l’argomento
fosse molto più attuale: lui.
«Ehi! Non è cortese usare una lingua che gli altri non capiscono!» disse,
guardandola divertito.
Maggie alzò gli occhi al cielo, mormorò qualcosa alla sorella, e con
un’ultima risata riattaccò.
«Non volevo essere scortese, scusa. È solo che ci viene più naturale parlare
in italiano… Comunque, ti aggiorno su tutto. Sia Suzie che Peter sono ancora
in ospedale. A casa con la bambina c’è la babysitter, quindi non dovrò
scassinare la serratura per entrare. Dio, è da un anno che non vedo Stella,
chissà come sarà cresciuta la mia piccolina!»
«Quel demonietto di Stella?» chiese lui pronunciando il nome della piccola
in modo buffo. «Ci puoi contare che è cresciuta! E che lingua lunga ha!»
«Probabilmente la conosci meglio tu di me…»
«Questo è sicuro, sono il suo zio preferito! Lo zio dei cavalli… Gelosa?»
«Lo zio preferito?» ripeté Maggie incredula.
«In persona. Quella piccola un giorno diventerà una grande cavallerizza e
sarà tutto merito…»
Una forte scarica elettrostatica, seguita da una voce gracchiante, rimbombò
nell’abitacolo interrompendo la loro conversazione.
«Sono Anne, Mitch, mi ricevi? Dove ti trovi? Passo.»
***
Che sorpresa era mai quella? Nell’epoca delle comunicazioni satellitari in
quel posto usavano ancora il CB? Come nei vecchi film?
«Affermativo, Anne, mi trovo a cinque miglia a sud dell’aeroporto.
Qualche problema? Passo.»
«Cynthia Lowell ha chiamato il 911. Ha avuto un incidente subito dopo la
biforcazione della 16 con la 120. Ci ha contattati col cellulare, ma poi la linea
è caduta e non sono più riuscita a parlarle. Ho già richiesto l’intervento di
un’autoambulanza da Cody, ma tu sei più vicino. Potresti andare a dare
un’occhiata? Passo.»
«Corro, poi ti faccio sapere. Passo e chiudo.»
Passo e chiudo? E roger, se lo erano forse dimenticati?
Maggie fissò Mitch con occhi sgranati, preoccupata.
«Cosa succede?» chiese.
«Non hai sentito?»
Poi, senza perdere altro tempo prezioso, senza quasi rallentare, invertì la
marcia e pigiò sull’acceleratore, mentre Maggie lanciava un urlo e si
puntellava contro il cruscotto per non precipitargli addosso.
«Che diavolo succede? Posso saperlo?» chiese di nuovo.
«Dopo te lo spiego. Ora prendi la sirena dietro il mio sedile.»
«Cosa devo prendere?»
«La sirena: le hai mai viste nei film? Lampeggiano ed emettono un suono
davvero sgradevole. Di solito stanno sul tetto delle auto della polizia.»
«Questa è un’auto della polizia?»
«Non appena tirerai fuori quella dannata sirena lo diventerà.»
«Stiamo per inseguire qualcuno?»
«No.»
«Per arrestare qualcuno?»
«Arresterò te, se non fai subito ciò che ti ho chiesto.»
Quando giunsero in vista della piccola Toyota di Cynthia Lowell, Mitch
accostò e illuminò l’area coi fari, poi con un balzo smontò a terra.
«Non scendere, Maggie.»
Un ordine.
L’auto di Cynthia era finita con le ruote anteriori in una piccola depressione
del terreno, ma non sembrava essere ridotta poi così male. Maggie osservava
Mitch mentre esaminava con gesti precisi l’esterno dell’auto, apriva la
portiera posteriore ed entrava. Trattenne il fiato.
Da quanto aveva capito dalla voce gracchiante di Anne, lì dentro c’erano
una donna e la sua bambina. Erano forse ferite? Forse anche… Troppi anni di
telefilm stavano portandole alla mente immagini raccapriccianti, in stile CSI.
Infischiandosene dell’ordine di Mitch (chi diavolo si credeva di essere?),
scivolò giù dal pick-up e, scricchiolando sul ghiaccio, si avvicinò al luogo del
delitto. Col cuore in gola, combattendo contro il vento che aveva
ricominciato a soffiare con forza, si avvicinò all’auto. Voci. Una era di Mitch,
l’altra di una donna, l’ultima di una bambina.
Stavano ridendo.
Ridendo? Sul luogo del delitto?
Per capire che cosa stesse succedendo, Maggie pensò bene di schiacciare il
naso contro il finestrino posteriore, nel momento esatto in cui Mitch pensava
di aprire la portiera. Per la seconda volta in meno di un’ora finì a gambe
all’aria.
«Ehi! Non ti avevo detto di rimanere sul pick-up?» le chiese mentre le luci
arancio e blu della sirena gli si riflettevano sul viso con effetti sinistri.
«Sì, ma io… volevo rendermi utile» rispose Maggie mentre lui l’aiutava
(per la seconda volta in meno di un’ora) a rialzarsi. «Ho sentito la voce di una
bambina…»
«Ok, allora, entra in quell’auto e parla alla piccola, cerca di distrarla mentre
mi occupo di sua madre. Si chiama Jo e ha poco più di tre anni.»
*
Quando l’ambulanza arrivò, circa dieci minuti più tardi, Cynthia aveva già
al collo un collarino rigido e un grosso cerotto sulla fronte. Stava bene ma, a
giudicare dall’espressione del viso, era terrorizzata. La piccola, invece,
sembrava a posto.
Maggie aveva trascorso gli ultimi dieci minuti a cantarle canzoncine e a
raccontarle cose buffe, ma senza mai riuscire a togliere gli occhi di dosso a
Mitch. Era stato magnifico guardarlo mentre si occupava di Cynthia, così
gentile, tranquillo e dannatamente efficiente.
Che sia gentile con tutto il mondo tranne che con me?
Forse era proprio così perché, quando l’ambulanza ripartì con Cynthia e la
piccola Jo a bordo, Mitch le ordinò senza troppi complimenti di risalire sul
pick-up, e questa volta di rimanerci.
«Perché dovrei farlo?»
«Perché te lo dico io. Non ho il tempo per preoccuparmi che tu finisca in
qualche guaio o venga colta da un’altra crisi di panico.»
Oh!
«Panico? Nessun panico» mentì Maggie, accorgendosi solo allora del vento
fortissimo.
Lui la fissò con più dubbi di San Tommaso, ma quando le parlò la sua voce
era gentile. «Rimonta sul pick-up, Maggie, hai fatto già molto, grazie. E se
proprio devi straziare il povero Dylan, fallo mentre scatto qualche foto qua
fuori.»
Maggie lo guardò incerta. «Se solo potessi darti una mano, il vento non
sarebbe più un problema per me» gli disse con una preghiera negli occhi.
Lui le sorrise, facendole dimenticare per un istante il vento e il mondo
intero. «Ok, allora. Prendi questa torcia e illumina dove ti dico io. E rimani
attaccata a me, capito?»
Lei fece di sì con la testa e lo seguì.
Lui fotografava con una macchina digitale e con il cellulare, lei illuminava.
In perfetta sintonia, in coppia come in un episodio di CSI.
Una volta tornati a bordo, il cowboy inviò le foto prese dal cellulare alla
centrale – e dove se no? – poi si accertò con un’occhiata che lei stesse bene,
abbassò il finestrino, prese la sirena dal tetto e gliela porse, in un tacito
comando.
«Sono l’addetta ufficiale alla sirena, ormai?» chiese lei sperando di
strappargli un altro sorriso. Le piaceva da morire vedere quelle splendide
labbra curvarsi verso l’alto per lei.
Ma lui, senza neppure uno straccio di commento, riavviò il motore e con
una manovra a U riprese la direzione di casa.
E addio sorriso.
Riponendo la sirena dietro il sedile, Maggie tastò con le dita qualcosa di
facilmente riconoscibile. «Ehi, c’è un fucile qua dietro.»
« Lo so, è il mio» disse lui prima di ripiombare in quel suo silenzio da
cowboy.
*
Chi diavolo sei Mitch? La domanda continuava a girarle come un disco
rotto nella mente, senza risposta. Non che dovesse a tutti i costi trovarne una,
anzi. Più si sentiva attratta da lui, più si convinceva che era il classico tipo
che una donna in missione doveva evitare come la peste.
Perché un tipo come lui non rispondeva alle regole numero uno e numero
due del suo piano. E cioè:
1) il donatore (inconsapevole) deve essere come un bicchiere d’acqua di
fonte, non come una coppa di champagne ghiacciato. Deve dissetare, non
inebriare;
2) il donatore (sempre inconsapevole) deve essere un tipo affidabile ma
facile da dimenticare.
Con un sospiro, Maggie si girò verso Mitch e a malincuore lo cancellò dalla
lista dei candidati.
*
Un quarto d’ora dopo avevano percorso circa sette delle quaranta miglia
che rimanevano per giungere a Hope. In quel quarto d’ora lui aveva guidato,
parlato con Anne al CB e inserito una cassetta di Emmylou Harris nello
stereo. Poi si era chiuso nei suoi pensieri.
Dio, chi cavolo usa ancora le cassette ai giorni nostri?
«Nel vecchio West l’MP3 e i CD non sono ancora arrivati?» chiese Maggie
in tono ironico.
«No, Miss Maggie, qui usiamo ancora i grammofoni a tromba…» disse lui
strascicando la pronuncia, come in un vecchio film del selvaggio West.
«Lo sospettavo» commentò lei.
La conversazione si concluse lì.
Dopo altri venti minuti di viaggio, Maggie non ne poteva più del silenzio di
Mitch e della voce di Emmylou Harris. Era stanca, anchilosata e affamata e
ormai disperava di riuscire a raggiungere casa.
«Quando arriviamo?»
Mitch si girò verso di lei. «Presto. Non posso correre con questo fondo
gelato. Visto cosa è successo a Cynthia?»
«Lo so, ma non ce la faccio più.»
«Su, abbi pazienza! Sembri una bambina di cinque anni!»
«Una bambina di cinque anni? Grazie tante!» sbottò lei offesa,
rannicchiandosi sul sedile, scomoda e mortificata. Era da quindici ore che
stava seduta, dannazione! Non ne poteva proprio più di essere sballottata,
prima da un aereo, poi dal vento e ora da un cowboy brontolone e privo di
sensibilità, anche se più sexy del diavolo.
Ancora un po’ di pazienza, si disse, e sarebbe arrivata a casa di sua sorella,
al sicuro. Chiuse gli occhi, sperando di riuscire ad addormentarsi e
riprendersi dalla stanchezza del viaggio e dal modo folle in cui era iniziata la
sua avventura nel West. Ce n’era abbastanza per scriverci un romanzo,
figuriamoci per un’ora della sua – di solito – monotona esistenza. Vento da
far paura e un eroico cowboy dagli occhi verdi, pure da far paura. Da non
crederci!
Il torpore cominciò ad avvolgerla e il sonno a sedurla. Sentì le palpebre
chiudersi e la mente cedere al sogno. Un sogno con due occhi verdi e uno
Stetson in testa che, purtroppo, non durò più di un paio di minuti, e cioè sino
a quando il pick-up prese una buca e sobbalzò malamente. E tanti saluti al
pisolino.
Di nuovo sveglia per colpa di quell’improvviso scossone, Maggie sbarrò le
palpebre, inghiottì un paio di respiri e si girò verso il cowboy con fare
oltraggiato. Guidava sicuro come Apollo il suo carro, per nulla scosso di
essere finito in una buca grande come un cratere lunare! Anzi, pareva così
immerso nei suoi pensieri che probabilmente si era scordato della sua
esistenza. Forse credeva di averla gettata nel cassone insieme alla sua
Samsonite?
Questa indifferenza non era affatto lusinghiera, per quanto dovesse
ammettere di non essere nella sua forma migliore quel giorno.
Ciononostante… Era davvero così trasparente che un uomo poteva
dimenticarsi di lei subito dopo averla baciata fino a stordirla?
Dio, che caldo faceva su quel coso.
Si sfilò il berretto di lana e scosse la testa. Un casco di capelli rosso
mogano le cadde sulla fronte e ai lati del viso.
Cosa che evidentemente risvegliò l’interesse del suo compagno di viaggio
perché un guizzo verde illuminò come un lampo il buio della notte.
Maggie sorrise. Il cowboy, dopotutto, non era entrato in letargo come i
grizzly, dava ancora qualche segno di vita.
Con deliberata lentezza si tolse pure il piumino, giusto per vedere la sua
reazione, per provocarlo un pochino.
Ancora quel guizzo.
Non che le importasse veramente. Era solo per gioco. Per rompere la
monotonia di quel viaggio eterno e il silenzio indisponente di quel cowboy.
***
Mitch guidava in silenzio, la splendida voce di Emmylou come sottofondo
e quella strana donna al suo fianco.
Non che volesse approfondire più di tanto la sua conoscenza. Una volta che
l’avesse lasciata a casa di Suzie, le avrebbe detto arrivederci e, con un po’ di
fortuna, non l’avrebbe più rivista. Molta fortuna, perché in una cittadina
piccola come Hope non era poi così difficile incontrarsi per caso.
E anche se fosse successo? Era un uomo adulto, con molta esperienza alle
spalle, capace di controllare la situazione. Era stato un soldato, un poliziotto.
Aveva cavalcato tori e cavalli nei rodei. E ora temeva una svitata dai capelli
rossi?
Naaaa…
Si passò una mano sul volto, un gesto a lui familiare quando era teso, poi si
girò verso Maggie e, con un inatteso moto di tenerezza, si accorse che si era
addormentata. Era evidente che dovesse essere molto stanca dopo quasi un
giorno di viaggio. Be’, almeno mentre dormiva non gli avrebbe trapassato i
timpani con quella sua interpretazione terapeutica di Blowing in the wind.
Dio! Quando prima l’aveva sentita cantare a squarciagola era stato incerto
se tapparle la bocca o chiamare la neuro. Poi era successo quel che era
successo, il placcaggio, il bacio, quel rotolarsi per terra come se stessero
facendo sesso, quella sensazione imprevedibile ed eccitante che lo aveva
lasciato senza fiato. Tramortito.
Le diede ancora una sbirciatina. Dormiva con le labbra leggermente
socchiuse, invitanti e morbide. E se avesse fermato l’auto e l’avesse baciata?
Idea pessima e pericolosa.
In fondo, la sua esistenza di scapolo era perfetta. Usciva con donne che gli
davano quello che desiderava, ovvero, in tre semplici parole: sesso, sesso e
sesso; a volte anche amicizia e risate, vero, ma sempre senza pretendere da
lui nessun tipo di impegno.
Mentre era pronto a scommettere un centone che, se le avesse dato un dito,
la svitata gli avrebbe chiesto di più: la mano, poi il braccio, fino ad arrivare al
cuore, probabilmente. E lui, a giudicare da come il suo corpo stava
rispondendo alla semplice vicinanza di lei, avrebbe corso il rischio di darle
tutto.
Nossignora.
Le sarebbe rimasto a debita, salutare distanza.
E poi, come avrebbe potuto solo pensare di portarsi a letto la sorella di
Suzie? Alla prima visita di controllo avrebbe rischiato la castrazione.
Sì, era deciso.
La svitata era off limits per lui e sarebbe rimasta tale.
Il pick-up sobbalzò.
Aveva preso una brutta buca, dannazione, e di certo non l’unica in quel
tratto. Doveva rimanere concentrato, gli occhi sulla strada. Si rese conto che
Maggie si era risvegliata perché la sentì trattenere un paio di respiri, forse
spaventata a causa del brusco sobbalzo. Stava per scusarsi con lei quando,
con la coda dell’occhio, la vide muoversi. Stava togliendosi quel ridicolo
berretto rosa e liberando… una notevole massa di capelli rossi. Lisci,
morbidi.
Provò il desiderio di allungare una mano e di passare le dita in quella
cascata fulva, avvicinare il viso e respirarne il profumo, sentirne la seta sulle
labbra. Dio, avrebbe voluto fare altre mille cose se già non avesse stabilito
che Maggie era off limits.
E ora, che diavolo stava facendo? Perché si toglieva il piumino? E con
quella lentezza? Già cominciava a farlo sudare...
Notò anche che la gonna le stava scivolando più in alto e che il cardigan,
come per miracolo, si era aperto rivelando che la camicia bianca aveva un
bottone di troppo slacciato e che il reggiseno era bianco e semplicissimo,
senza pizzi o nastrini. Di pizzi e nastrini lei non aveva alcun bisogno.
Deglutì con la bocca secca come carta vetrata.
Si schiarì la voce, una, due, tre volte. Poi, come se non avesse in testa certe
idee, chiese: «Hai caldo, vuoi che abbassi un po’ il riscaldamento?».
***
Nonostante si fosse sfilata il piumino di dosso come avrebbe fatto Dita Von
Teese in un enorme bicchiere di champagne, l’unico effetto che il suo
ridicolo strip-tease aveva suscitato nel cowboy era stato quello di chiederle se
avesse caldo.
Un bel successo, non c’era che dire!
Forse avrebbe dovuto seguire uno di quei corsi che andavano di moda, in
cui ti insegnavano in un paio di lezioni a trasformarti in Jessica Rabbit.
Forse.
Sentì ancora lo sguardo di Mitch su di sé e un brivido le corse giù per la
schiena. Una semplice reazione dovuta alla stanchezza, ma molto, molto
piacevole. Troppo.
Meglio pensare ad altro.
«Succede spesso?» chiese.
«Cosa?» rispose lui, secco, gli occhi fissi sulla strada.
«Che tu debba comportarti da eroe.»
«Da eroe? Cosa vuoi dire?»
«Prima, sul luogo dell’incidente, ti sei comportato come uno che sa il fatto
suo e anche quello degli altri, se per quello.»
Lo fissò nel buio di quella strana notte e lo sguardo di lui, per un istante,
rimase incatenato al suo.
Poi Mitch scosse la testa e disse: «Eroe, per così poco? Naaaa».
Maggie non mollò la presa e girandosi verso di lui chiese: «Chi sei, una
specie di Raylan Givens? Hai anche il cappello come il suo, per non parlare
di questo coso…»
Lui si abbandonò a una risata e disse: «Questo coso ti sta portando a casa,
se non lo avessi capito. Dovresti essergli riconoscente».
Lei alzò gli occhi al cielo, in modo plateale.
«E comunque» continuò lui, «non sono niente del genere. Do
semplicemente una mano alla polizia in caso di bisogno. Ma ti confesso che
Justified piace anche a me. Forse, dopotutto, tu e io abbiamo qualcosa in
comune.»
«Non montarti la testa, cowboy…»
«Mai fatto in tutta la mia vita.»
«Ma almeno… la stella di latta sul petto, ce l’hai?»
E dicendo ciò, forse a causa della stanchezza o dell’atmosfera scherzosa
che si era istaurata fra loro, Maggie si sporse verso di lui e fece qualcosa che
non avrebbe mai dovuto fare e che mai aveva fatto in vita sua. Mise le mani
addosso a un uomo che non conosceva affatto, alla ricerca di un distintivo
visto solo al cinema e in tv.
Mossa alquanto imprudente perché, un secondo dopo, si ritrovò inchiodata
al sedile, le braccia imprigionate e il cow boy sopra di lei. Nel tempo di una
pulsazione, Mitch aveva bloccato l’auto, si era liberato della cintura di
sicurezza e per la seconda volta in un giorno l’aveva schiacciata senza
complimenti sotto di lui. E non in senso metaforico.
«Non farlo mai più!» le sibilò in faccia, senza nascondere la sua collera.
***
Nonostante sapesse che avrebbe dovuto liberarla immediatamente, il suo
corpo sembrava non volergli ubbidire.
«Volevo solo vedere se avevi il distintivo…» balbettò lei con labbra che
tremavano per lo spavento.
«Non ha importanza cosa volevi vedere, non farlo mai più» tagliò corto lui.
Con un’imprecazione si risistemò dietro al volante, diede gas e ripartì.
Nonostante cercasse di non darlo a vedere, era scosso quanto Maggie.
No, molto di più.
Primo, perché le si era buttato addosso come se fosse stata una terrorista di
Al Qaeda. Secondo, perché la sua istintiva reazione di difesa si era subito
trasformata in altro.
In modo imbarazzante.
Colpa dell’adrenalina e di quella donna pestifera che, insieme, formavano
un team davvero pericoloso.
Mitch sospirò, poi si girò verso la donna pestifera che se ne stava
rincantucciata contro la portiera, il più possibile lontano da lui. Così,
arrotolata com’era nel piumino nel quale si era di nuovo stretta, gli ricordò un
riccio spaventato a morte.
Dio che imbecille era stato!
«Maggie…» cominciò.
Lei si schiacciò ancor di più contro la portiera e lo fissò con occhi grandi di
paura. Il suo respiro era corto e affannato.
«Mi spiace, non volevo spaventarti. È l’istinto che ha prevalso sulla
ragione. Per un attimo ho pensato che volessi disarmarmi e ho agito di
conseguenza.»
Come sola risposta lei si voltò verso il finestrino, le mani strette una
nell’altra per fermare il tremore.
*
Mezz’ora più tardi imboccavano il vialetto dei Kroll e Suzie e Peter, già
rientrati a casa, uscirono ad accoglierli sul portico illuminato dalle
decorazioni natalizie.
Ignari di quanto fosse appena successo, continuarono a sorridere e a
salutare con la mano sino a quando il furgone inchiodò e Maggie si catapultò
fuori e si rintanò in casa senza molte cerimonie.
Marito e moglie si guardarono in faccia, perplessi, quindi si voltarono verso
Mitch con la classica espressione che cavolo è successo? stampata sul viso.
Senza il minimo risultato.
Continuarono a fissarlo sempre più perplessi mentre, con l’aria di chi sta
per esplodere, il loro amico Mitch Sandford 1) prendeva dal cassone il trolley
rosa di Maggie, 2) lo mollava con un tonfo vicino alla porta di casa, 3)
scuoteva la testa, 4) allargava le braccia come per dire che colpa ne ho io se
quella è una svitata, 5) risaliva sul pick-up e 6) se ne andava.
Con la ferma intenzione – ma questo Suzie e Peter non lo potevano sapere
– di rimanere lontano da quella casa sino a quando la svitata non fosse risalita
su un aereo e andata via da lì.
3
Venerdì 17 dicembre, Hope
Il giorno dopo il tempo era cupo, la temperatura era scesa ancora e il vento
alzava la neve da terra passando un’altra mano di bianco sul mondo.
Decisamente una giornata difficile per Maggie. Così Suzie, che si era presa
un giorno libero per stare insieme a sua sorella, non le chiese neppure di
mettere il naso fuori di casa.
Peter, invece, primario del St Thomas, l’ospedale della contea dove anche
Susy lavorava, era andato al lavoro, forse per lasciare da sole le due sorelle e
permettere loro di parlare, come solo le donne sapevano fare.
Peter Kroll aveva conosciuto Susanna all’Università di Bethesda sette anni
prima, dove entrambi lavoravano a un progetto di ricerca. Lui, di una decina
d’anni più anziano, era a capo del laboratorio, lei una dei tanti giovani
ricercatori ai suoi ordini. La loro storia ci aveva messo un po’ a decollare, ma
quando lo aveva fatto, in un paio di mesi erano diventati marito e moglie.
Dopo un paio di anni emozionanti, avevano lasciato Bethesda e accettato il
posto al St Thomas per stare vicini alla madre di lui, malata di Alzheimer.
Non avevano mai rimpianto quella scelta: erano felici, soddisfatti del lavoro e
della loro vita, amati dalla gente del luogo e ancora pazzi l’uno dell’altra.
L’arrivo di Stella, due anni e mezzo prima, aveva reso perfetta la loro felicità.
Stanca per il lungo viaggio, quella mattina Maggie dormì fino a tardi, giocò
molto con Stella e parlò poco, e mai di Mitch.
Sua sorella Susanna, pur morendo dalla curiosità di sapere cosa fosse
successo fra loro la sera precedente, non solo non le rivolse imbarazzanti
domande, ma rimase in paziente attesa, sperando che prima o poi Maggie
avrebbe finito per raccontarle qualcosa.
Ma si sbagliava.
Verso mezzogiorno cominciò a pensare che forse sarebbe stato più facile
estorcere qualche notizia a Mitch. Così gli telefonò con la scusa di volerlo
ringraziare per aver accompagnato a casa Maggie e ci rimase decisamente
male quando lui la liquidò in quattro e quattr’otto con qualcosa di molto
simile a un grugnito. E rimase ancora peggio quando, per completare un
quadretto evidentemente ben poco idilliaco, le inviò via MMS un primo
piano del suo occhio nero.
A quel punto, Suzie sbottò in un «Che diavolo…?» e poi mostrò lo schermo
del cellulare a Maggie, indicando l’occhio nero di Mitch come fosse un atto
d’accusa.
«Zio cavalli!» esclamò la piccola Stella con un gran sorriso vedendo la foto
di Mitch.
Maggie alzò gli occhi al cielo. Che la piccola Stella chiamasse quel cowboy
zio, mentre lei per la bimba era ancora un’estranea, be’, le pareva a dir poco
un oltraggio da vendicare.
«Allora, Maggie, come la spieghi, questa?» chiese Suzie battendo con
l’indice sullo schermo del cellulare.
«Ah! Non sapevo che i rudi cowboy del Wyoming corressero dal dottore
per un occhio nero!»
«Maggie!» la redarguì sua sorella, come fossero ancora due bambine.
«E va bene» sbottò pestando un piede, proprio come una bambina. «Se
proprio ci tieni a saperlo, è stato un incidente, un semplice incidente: ci siamo
scontrati per caso nel piazzale dell’aeroporto e il mio gomito è finito nel suo
occhio!» si giustificò, senza dilungarsi in particolari e guardandosi bene dal
raccontarle cosa fosse accaduto dopo.
«E tutto è successo per caso?»
«Certo!» rispose con aria offesa. Poi, con una scusa pietosa – controllare le
email sul suo computer – volò di sopra, in camera sua.
Maggie richiuse la porta della stanza e vi si appoggiò contro. Il pensiero di
quanto era successo dopo il loro incontro, a come Mitch l’avesse baciata e
poi immobilizzata, le dava ancora i brividi.
Quell’uomo!
Quell’uomo le aveva anche afferrato in un istante entrambe le mani e
l’aveva schiacciata tra il sedile di quel coso e il suo corpo, terrorizzandola
con un’aggressività eccessiva: ancora adesso poteva sentire il suo respiro
affannato sul viso, le sue dita strette intorno ai polsi, il suo… Era stato così
arrogante in quel suo primitivo sfoggio di forza e virilità, che non aveva
neppure fatto niente per nasconderle la sua eccitazione. L’aveva fissata come
se lei fosse stata l’unica donna rimasta sulla terra e lui l’ultimo uomo, come
se fosse stato pronto a mangiarsela viva.
Maledetto quel cowboy e il momento in cui l’aveva incontrato.
***
Non che Maggie fosse l’unica a essere rimasta sconvolta dall’accaduto.
Mitch ne era talmente scosso che, una volta arrivato a casa, non era riuscito a
calmarsi e invece di andarsene a letto aveva finito per passare la notte nella
stalla, insieme al suo cane Archibald e ai suoi cavalli.
Perché, come diceva sempre il nonno, gli animali non fanno tante storie, ti
capiscono e stanno ad ascoltarti senza pretendere nulla in cambio.
Molto meglio degli strizzacervelli.
Così aveva steso un sacco a pelo sul fieno vicino al vecchio Storm, il
pezzato che suo padre gli aveva regalato quando aveva compiuto cinque anni,
gli aveva accarezzato il lungo muso incanutito e parlato con dolcezza,
sentendosi subito meglio.
«Stasera ho incontrato una donna e mi sono comportato come un vero
stronzo» disse. «In un’ora è accaduto di tutto: l’ho baciata, mi sono eccitato
come un cane in calore – scusa Archie, senza offesa –, mi sono preso una
gomitata in pieno zigomo, un uppercut sul mento e un trolley negli stinchi.
Avrei anche potuto sopportare tutto se, alla fine, non l’avessi terrorizzata.
Lei, lei… voleva sapere se portavo il distintivo sul petto e io l’ho aggredita.
Le sono saltato addosso come a un terrorista pronto a farsi saltare in aria in
una scuola piena di bambini.»
Storm e Archibald pendevano dalle sue labbra.
«E il peggio è che non solo la donna in questione è la sorella di Suzie, ma
che, mentre le saltavo addosso come un Rambo del cazzo, avevo pure
l’uccello duro come il cemento! Non mi sono mai sentito così a disagio in
tutta la mia vita.»
A quel punto Storm aveva scosso la testa e con dolcezza aveva avvicinato il
muso al volto di Mitch, come se lo capisse, mentre Archie, meno sensibile,
aveva mugolato e si era messo a pancia all’aria in cerca di coccole.
Mitch si era sentito subito meglio.
Il nonno aveva ragione, gli animali sono meglio di uno strizzacervelli.
Poi, una volta entrato nel sacco a pelo, aveva spento la torcia e si era
coperto il volto con lo Stetson. «Vi prometto che da questo momento in poi
starò alla larga da quella svitata. Non ho bisogno di complicarmi la vita con
una come quella. Notte ragazzi, grazie per avermi ascoltato.»
Aveva chiuso gli occhi, ma non era riuscito a prendere sonno fino al
sorgere del sole.
***
Sabato 18 dicembre, Hope
«Se non fosse che in un paio di mesi diventerei un baule, potrei abituarmi
in fretta a una colazione così» disse Maggie spazzolando anche l’ultimo
pezzo di salsiccia dal piatto. «Non so proprio come tu possa essere così in
forma, Suzie!»
La tata di Stella, una donna ispanica di una certa età, si avvicinò al tavolo
con altri pancake.
«Te gustano, chica?»
«Diable se me gustano, posso averne un altro, por favor?» rispose Maggie.
La donna non parlava quasi l’inglese, ma con Suzie aveva ormai sviluppato
un idioma ispano-italiano che funzionava benissimo.
Con occhi che brillavano, Maggie affogò il pancake nello sciroppo d’acero
e si lasciò andare a un’espressione di pura gioia.
«Mio Dio! Sono sublimi, son sublimes, muchas gracias Teresita.»
«Sublimes, ma pieni di calorie» aggiunse sua sorella alzando un
sopracciglio.
Suzie era felice di avere di nuovo Maggie nella sua vita, anche se solo per
pochi giorni. Nonostante tanti anni fossero trascorsi e tante cose successe,
aveva la sensazione che non si fossero mai lasciate. Erano ancora le bambine
e le ragazzine di un tempo. Erano le donne di oggi. Di nuovo insieme.
«Dai, smettila di mangiare, sorellina, che usciamo» le disse. «Con questo
bel sole voglio approfittarne e farti visitare Hope; inoltre, ho delle
commissioni da fare, così mi darai una mano.»
Maggie smise di mangiare e fissò Suzie con il panico negli occhi.
«Non ti preoccupare, Maggie, non tira un alito di vento» la rassicurò Suzie.
«E poi, l’occasione è da prendere al volo. Peter si è offerto di guardare la
piccola, quindi abbiamo una mezza giornata tutta per noi.»
Maggie si abbandonò a un sospiro di sollievo. Se il vento avesse continuato
a soffiare come il giorno prima, avrebbe finito per non uscire mai di casa e la
sua missione sarebbe andata a farsi fottere.
«Te l’ho già detto che stasera si esce?» continuò Suzie scrutando di
sottecchi la sorella. «Andremo da Sly. Peter e io non ci mettiamo piede da un
secolo e non vediamo l’ora. Ti va come programma?»
«Mi sembra un programma fantastico» ribatté Maggie ironica. «Anche se
non ho la minima idea di chi o cosa sia Sly.»
«Il locale di Sly è il massimo che questo buco sperduto nel West possa
offrire, straniera.»
«Roba da jet set?»
«Jet set locale, diciamo.»
«WOW! Adesso sì che sono elettrizzata.»
Be’, ironia a parte, avrebbe potuto dare un’occhiata in giro, adocchiare
qualche possibile donatore…
«Non fare la snob. Ci sono persone adorabili in questo posto, e cowboy
davvero carini.»
Oh sì, quello Maggie lo sapeva già.
Come Mitch Sandford.
Definirlo carino era un eufemismo. Dirompente, semmai. Pericoloso. Sexy
da togliere il sonno. Sentii le guance andare in fiamme. Meglio cambiare
subito discorso prima che sua sorella ricominciasse a fare domande.
«Faccio in tempo a mangiare un altro pancake, prima di uscire?» chiese.
«Neanche per sogno!» rispose Suzie bacchettandola affettuosamente sulla
mano già allungata verso il piatto di portata. «Vuoi riprenderti in pochi giorni
i chili persi in anni di dieta?»
Maggie alzò gli occhi al cielo e finì il suo caffè.
*
Con la scusa del jet leg e di un’emicrania galoppante, il giorno precedente
Maggie era riuscita a sottrarsi alle domande della sorella, ma ora, durante il
breve viaggio che si apprestavano a fare in auto, sapeva che non avrebbe
avuto la possibilità di evitare un interrogatorio tipo KGB.
Argomento del terzo grado: Mitch Sandford. What else?
«Sono così felice che passerai il Natale con noi, Maggie» disse Suzie non
appena il SUV lasciò il vialetto di casa.
«Lo sono anch’io, sorellona. Mi mancavi tantissimo e volevo rivedere
Stella. Dio, è una creatura magnifica e così vivace!»
«Sì, lei e Peter sono la mia vita. Sono una donna fortunata, Maggie.»
«E io sono felice per te. Peter è fantastico.»
«Il mio principe azzurro in camice bianco. Ma dimmi di te, sorellina…»
Ecco, ci siamo…
«Non è che tu sia venuta fin qui per fuggire da qualcosa o da qualcuno?
Ancora da quel bastardo di Giorgio, magari?»
Che si sia dimenticata della mia zuffa con Mitch?
«Giorgio? La nostra storia è finita da mesi ormai. E non mi importa
davvero più nulla di quell’idiota egoista.»
«Allora è nostro padre? Sei venuta qui per non passare il Natale con lui a
Londra?»
«Con lui e con la nuova fidanzatina. Ventottenne, più giovane di noi, Suzie.
No, non avevo bisogno di una scusa per dirgli di no. Ti sembra tanto strano
che io volessi trascorrere il Natale con la mia vera famiglia?»
Stavano percorrendo la via principale e, nonostante fosse giorno, le
luminarie per il Natale erano già accese. Anche le case, basse e per lo più di
legno, erano cariche di addobbi natalizi. Molte risalivano a più di cent’anni
prima e sebbene Maggie avesse già visitato la cittadina nei video che sua
sorella le aveva mandato, ad attraversare la Main Street le sembrò di fare un
salto nel passato.
«Dio, che meraviglia! Ma è tutto vero o siamo sul set di un film western? Il
saloon dov’è? E lo sceriffo?»
Mitch?
«Incredibile, vero? E tutto originale, fine Ottocento, tanto che spesso qui a
Hope vengono a girare gli esterni di film o serie televisive. Soldi buoni per la
città, come dice Carolyn, il nostro sindaco. E in quanto al saloon… poi
magari ci facciamo un salto. Per lo sceriffo, non so proprio dove sia.»
Attraversarono per tutta la sua lunghezza la cittadina e dopo qualche miglio
parcheggiarono fuori da un piccolo centro commerciale. Anche quello, tutto
un addobbo.
«Non ti spiace se intanto facciamo un po’ di spesa, vero?» chiese Suzie.
«Ma cosa dici? Sono venuta nel Wyoming per fare la spesa!» rispose
Maggie con un sorriso.
Dentro si moriva di caldo e il contrasto con la rigida temperatura esterna le
levò il fiato.
«Ti ci abituerai, vedrai» disse Suzie.
Passarono attraverso vari reparti di abbigliamento, poi entrarono nel settore
dedicato agli alimentari. Maggie si armò di carrello, preparandosi
mentalmente alla scarica di domande con cui Suzie l’avrebbe presto
bersagliata.
«Tornando al discorso di prima…»
Appunto…
«… a parte il piacere di passare insieme il Natale, c’è qualche altra ragione
per cui sei venuta, vero Maggie? Ti conosco troppo bene per non essermene
accorta.»
Maggie prese una confezione di arance da un banco.
«Hmmm, in effetti, una ragione piuttosto importante c’è, Suzie.»
La sorella la guardò incuriosita mentre prendeva un bottiglione gigantesco
di latte. «Che sarebbe?»
«Trovare un donatore.»
«Un donatore di che?»
«Di sperma, naturalmente» rispose Maggie con il tono più naturale del
mondo.
Suzie riuscì solo a balbettare la parola sperma, poi lasciò cadere a terra il
bottiglione di latte che prima rimbalzò allegramente, poi rotolò come una
palla lungo la corsia fermandosi ai piedi di una cliente.
«Mi scusi, signora» disse Suzie imbarazzata, mentre Maggie scoppiava a
ridere e proseguiva col carrello verso i cereali.
La sorella recuperò il bidoncino di latte e si mise a rincorrerla. «Ehi, dico,
che cavolo volevi dire?» le urlò dietro. Quindi, una volta al suo fianco, si
mise a bisbigliare. «Sei venuta per farti fare un’inseminazione artificiale a
Hope?»
Maggie rise divertita e scosse la testa. «No, Suzie. Sono venuta a Hope per
fare un’inseminazione vecchia maniera. Metodo molto più veloce, comodo ed
efficiente. E magari pure piacevole. Prendiamo dei biscotti al cioccolato per
Stella?»
Suzie la fissava a bocca aperta, ancora sotto shock. «Dei biscotti al
ciocc…? Maggie, non prendermi in giro: che diavolo volevi dire con metodo
molto più veloce, comodo ed efficiente?»
Maggie alzò gli occhi al cielo e si incamminò verso il corridoio dei
surgelati con Suzie alle calcagna. «E sì che sei tu la sorella maggiore! E sei
pure medico! Certe cose dovresti saperle» esclamò fermandosi davanti alle
verdure surgelate.
«Sorella maggiore, medico e donna alquanto confusa, ti assicuro. Dimmi
per favore che non stai parlando di…?»
«Ma sì! Parlo del tradizionale zucchi zucchi, detto anche sesso, o coito, ma
non interrotto… Insomma, della vecchia scopa…»
Suzie, guardandosi intorno, le fece cenno con la mano di smetterla, come se
in quel posto qualcuno potesse afferrare il significato della parola italiana
scopa..., visto che l’ultima sillaba non era mai stata pronunciata. Poi, dopo
essersi guardata ancora intorno con aria circospetta, mormorò: «Ho capito
benissimo cosa intendi. È il senso della cosa che non ho ancora afferrato».
«Vuoi che ti faccia uno schema?»
«Dio santo, Maggie, ma ti senti? Sei fuori di testa?»
«Anche tu pensi che io sia fuori di testa, come quel cowboy pieno di sé?»
Suzie arraffò una busta di piselli congelati e se la mise sulla fronte, come
per scacciare un’emicrania incipiente. Poi, sempre con i piselli sulla testa,
chiese con tono sconfitto: «E, tanto per saperlo, con chi vorresti fare zucchi
zucchi?»
A quella domanda Maggie sorrise e rivolse alla sorella uno sguardo
cospiratore. «Questo particolare è ancora da decidere. E, visto che me lo
chiedi, è qui che entri in gioco tu.»
«Io? Stai scherzando vero? Vuoi forse che ti organizzi degli appuntamenti a
sfondo sessuale? Alla mia sorellina?»
Maggie scoppiò in una risata liberatrice. «No, non è questo che voglio, non
hai ancora capito? Ti credevo più sveglia, Suzie. E smettila di tenere quel
sacchetto di piselli sulla testa, sembri… strana.»
«Io sembrerei strana?» sbottò Suzie, poi, gettando i piselli nel carrello,
rispose: «Temo di stare incominciando a capire, Maggie, e ti dico subito che
la mia risposta è NO!».
Maggie riprese ad avanzare lungo il corridoio dei surgelati e con voce
pacata incominciò a spiegare il suo piano alla sorella che le camminava al
fianco in stato di semi shock.
«Pensavo che, dato che tu e Peter siete i medici di questa comunità, avreste
potuto indicarmi un buon donatore, un tipo sano, intelligente, con buoni
cromosomi, insomma. Questa è una terra di cowboy, gli stalloni sono
all’ordine del giorno…»
«Per un allevatore di cavalli forse…»
«Che differenza fa, in fondo?» rispose Maggie mentre fingeva di
controllare se nei biscotti che aveva preso per Stella ci fossero acidi grassi
idrogenati. Parlare di cowboy le stava ricordando Mitch in modo fastidioso,
tanto che sentì lo stomaco restringersi e altre parti riscaldarsi.
Suzie scosse la testa. «Mi stai prendendo per i fondelli, Maggie? Dimmi per
favore che è uno scherzo!» sibilò tra i denti guardandola allibita prima di
impossessarsi del carrello e di partire in quarta verso il reparto uova e
formaggi. Maggie alzò gli occhi al cielo e la inseguì. Ci sarebbe voluto un
po’ a convincere sua sorella a collaborare, ma ci sarebbe riuscita.
*
Sulla strada del ritorno si fermarono da Edda’s, un diner dove si poteva
mangiare e bere di tutto a partire dalle sei del mattino fino alle nove di sera.
Non appena si furono sistemate a un tavolo, Edda in persona si diresse verso
di loro. Dopo aver fissato per qualche istante Maggie con stupore, si fiondò a
baciarla.
«Non mi dire! Tu sei la sorella di Suzie: questa sì che è una grande
sorpresa!»
Edda era più vicina ai settanta che ai sessanta, aveva capelli quasi rosa e un
trucco decisamente multicolor. Anche il grembiule era rosa, come ogni
suppellettile e mobilio nel locale. Dio, sembrava di essere piombati in
Ritorno al futuro capitolo uno, o in American Graffiti. No, in Grease, decise
alla fine Maggie lanciando un’occhiata alla sorella e beandosi di tutto quel
rosa. Per un istante si immaginò con addosso il giubbotto delle Pink Ladies.
«Brava ragazza! Sei venuta a passare il Natale con la nostra splendida
dottoressa italiana. Le vogliamo tutti un sacco di bene, sai?» disse Edda
sedendosi con loro, mentre faceva cenno a una cameriera in pink estremo di
avvicinarsi col bricco di caffè.
«Tutti adorano mia sorella, Edda» rispose Maggie fissando Suzie. «Ha
sempre avuto l’animo della missionaria, sempre pronta ad aiutare il prossimo,
soprattutto la sua sorellina quando ha bisogno di lei…»
«Neanche una missionaria può soddisfare certe richieste impossibili!»
rispose Suzie, rifilandole un’occhiataccia, mentre Edda già bersagliava
Maggie di domande, soprattutto sul suo stato attuale di single. In città erano
note a tutti le sue ambizioni da Dolly Gallagher Levi, la famosa sensale di
matrimoni di Hello Dolly, e non era certo un caso che la donna avesse appeso
sopra la cassa il manifesto originale del film, autografato da Walther Matthau
e Barbra Streisand.
«Se cerchi un uomo vero, uno che le palle le porta ancora appese lì sotto e
non arrotolate intorno al collo, sei arrivata nel posto giusto, Maggie, ti darò
una mano io!»
Ecco.
Maggie rivolse a Suzie uno sguardo di sguincio, che nel vocabolario degli
sguardi voleva dire: Visto? Almeno su di lei posso contare!
«Ora, ragazze mie, devo proprio tornare al lavoro» disse Edda alzandosi
con un sospiro. «Ma di quella cosa ne riparleremo presto, Maggie, ok?»
E così dicendo, se ne andò rifilandole una gran pacca sulle spalle che le
tolse il respiro.
Il locale, fino a quel momento quasi vuoto, si stava riempiendo di clientela,
in gran parte femminile. Suzie salutava le nuove arrivate con un sorriso o un
cenno della mano. Era evidente che fosse stimata dalla comunità, cosa che
riempì Maggie di orgoglio.
Missione a parte, era davvero felice di poter trascorrere un po’ di tempo
con lei e la sua famiglia.
Un paio di donne sui quaranta si avvicinarono, sorrisero a Maggie e si
presentarono, come se già fossero al corrente del suo arrivo. In fondo, Hope
era una cittadina con meno di ottocento anime, ed era inevitabile che le voci
circolassero veloci come il vento.
Se quelle donne avessero solo immaginato il motivo del suo viaggio a
Hope, non sarebbero state tanto carine con lei!
Si sentiva una traditrice mentre stringeva loro la mano e sorrideva affabile.
Se avessero solo sospettato che lei era lì per prendersi, anche se solo per
poche notti, uno dei loro uomini… Magari un fidanzato, o un fratello, persino
un marito, nel caso fosse stato dotato di spermatozoi olimpionici. Perché, e
questo era fondamentale per il successo, non avrebbe dovuto guardare in
faccia nessuno e zittire i suoi sensi di colpa una volta individuato il donatore.
Lo stallone, insomma.
Una mezz’ora e un paio di caffè dopo, le due sorelle erano di nuovo in
macchina e stavano costeggiando in silenzio un grande fiume.
«Dio, è magnifico…» disse Maggie.
«Sì, il vecchio Big Horn River…»
Ma non era delle bellezze naturali del posto che Maggie voleva parlare.
«Suzie, spero che tu abbia capito le mie intenzioni…»
«Eccome se le ho capite. Non sei venuta nel Wyoming per passare il Natale
con la tua nipotina e con tua sorella, ma solo per trovare uno che ti scopi» la
interruppe.
Maggie sospirò. «No, voglio trovare un donatore per una inseminazione
naturale.»
«Il che equivale a scopare.»
Maggie si girò verso la sorella, cercando di controllare la sua collera. «Se
avessi voluto semplicemente scopare sarei rimasta in Italia. Se sono venuta
fin qui, in un ambiente che come sai per me è ostile, pieno di neve, vento,
lupi e orsi…»
«E pieno di cowboy strafichi come Mitch Sandford…»
Maggie alzò gli occhi al cielo. «Già, ci ho perso proprio la testa dietro a
quel bovaro! Nel senso che per poco me la stacca, la testa!» ribatté ironica.
«Non chiamarlo bovaro. Primo perché è un allevatore di cavalli, e secondo
perché è una persona meravigliosa, un amico generoso.»
«Già» disse Maggie, un già pieno di significati.
Suzie guidò per qualche istante in silenzio, con l’aria di una che stava
riflettendo. Poi chiese: «Scusa, in che senso per poco ti stacca la testa?»
Maggie alzò gli occhi al cielo. «Non ha importanza adesso. Vorrei solo che
tu comprendessi che se sono venuta a Hope è perché ho bisogno del tuo aiuto,
Suzie. Non posso pensare di fare un figlio con un uomo che magari ha un
antenato che è un pazzo criminale! Ho bisogno di avere informazioni su di
lui, come mi darebbero alla banca del seme!»
«Cosa c’entro io…»
«Be’, come ho cercato di spiegarti prima, ed è evidente che non mi sono
spiegata bene, pensavo che, in quanto medico del luogo, avresti potuto
consigliarmi qualcuno.»
«E rischiare di essere radiata dall’albo?»
Avendo già valutato questo aspetto della cosa come un possibile ostacolo,
Maggie cercò di minimizzare. «Non ti chiederei di violare la privacy di
nessuno, vorrei solo un tuo giudizio, un sì o un no.»
«Mi sembra un’idea folle. Solo a te poteva venire! Ne hai parlato con la tua
terapista?»
Maggie si agitò sul sedile. Sapeva che prima o poi la cosa sarebbe venuta
fuori. «Ho smesso di andarci. Non faceva che ripetermi che le mie fobie sono
tutte colpa di papà. Una diagnosi originale, a duecento euro a botta!»
«Ma la psicoanalisi ti ha aiutato! Ti è ritornato tutto in mente. È stato un
passo necessario per vincere le tue fobie.»
«E per farmi incazzare ancora di più con il nostro caro paparino. Ora lo
odio. Un bel successo davvero. Solo il caro vecchio Edipo ne esce vincitore.»
«Non è stato semplice neanche per lui dopo la morte di mamma.»
«Certo che no, ciononostante…»
«Se pensi all’assurda dinamica dei fatti… tu dormivi e papà stava cercando
di salvare un uomo che aveva appena avuto un infarto. Era un medico,
dopotutto, stava facendo il suo dovere…»
«Già, dimenticandosi di me per più di due ore, chiusa in macchina su quel
traghetto per la Scozia. E vorrei ricordarti che era davvero una notte buia e
tempestosa. Ero bloccata nell’auto, sola, col vento che sembrava dovesse
portarsi via ogni cosa, anche me. Avevo cinque anni, cazzo, ed ero
terrorizzata.»
Suzie si girò verso la sorella, preoccupata. Maggie guardava fuori dal
finestrino e tremava leggermente. Forse stava piangendo.
«Non mi importa se sei venuta solo per cercare un donatore, Maggie. Ciò
che conta è che tu sia qui adesso, con noi» disse accostando al lato della
strada.
«Oh Suzie!» esclamò Maggie scoppiando a piangere e cercando di
abbracciare la sorella nonostante la cintura di sicurezza. «Non hai idea di
quanto mi manchi. E volevo rivedere la mia nipotina, passare un po’ di tempo
con lei, prima che prendesse la patente…»
Anche Suzie lottò con la cintura, finché riuscì ad abbracciare Maggie.
«Anche tu mi manchi, sorellina, ogni giorno della mia vita.»
Dopo qualche lacrima confortante, qualche ricordo infantile e la promessa
che non sarebbero rimaste mai più lontane così a lungo, Suzie rimise in moto
l’auto.
«Hai dei fazzolettini?» chiese Maggie tirando su col naso.
«Possibile che tu non ce li abbia mai?» brontolò l’altra, col tono della
sorella maggiore. «Guarda nel cassettino del cruscotto.»
«Il fatto è che me li dimentico, o li perdo. Quindi tanto vale che li chieda a
qualcuno» rispose Maggie aprendo lo sportellino davanti a sé.
«Un ragionamento che non fa una grinza, sorellina. Invece…»
«Invece?»
«Ripensando al discorso di prima… c’è una cosa che non capisco: se hai
bisogno di un… donatore, perché non trovarne uno più vicino a casa?»
Maggie si soffiò il naso e si asciugò un’ultima lacrima. Poi rispose. «Il
motivo è molto semplice, Suzie. Vorrei tornare a Milano con un bambino in
grembo, non con un bambino in grembo e con un uomo che mi fiata sul collo.
Non ho bisogno di un uomo nella mia vita, voglio solo un figlio.»
E qui Suzie inchiodò in modo violento, dando una pratica dimostrazione di
cosa servano le cinture di sicurezza.
«Dico, sei pazza a frenare così?» sbottò Maggie.
«Sarei io la pazza, qua dentro? Come puoi solo pensare di usare un uomo in
questo modo? E di pretendere che io ti aiuti a farlo? È folle! Di più, è
immorale.»
«Immorale, dici? Pensa a quante volte nella storia dell’umanità gli uomini
sono spariti dalla circolazione dopo aver messo incinta una ragazza. Certo,
non pareggerei il conto, ma sarebbe comunque una piccola vendetta nei
confronti di tutte le donne sedotte e abbandonate, non credi?»
«L’unica cosa che credo» disse Suzie puntando un dito minaccioso verso
Maggie, «è che tu sei completamente pazza. Come fai a non capire che è
immorale?»
«Non ci sarebbe nulla di male se il donatore non ne venisse mai a sapere
nulla. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, non si dice così?»
«Credo sia anche contro la legge.»
«Ma figurati! Non ho alcuna intenzione di obbligare qualcuno a fare sesso,
se è questo a cui pensi.»
«Ci mancherebbe altro.»
Suzie ingranò la prima e ripartì. Dopo qualche minuto, l’auto si fermò
davanti a casa. Suzie fece per scendere dall’auto, ma Maggie le afferrò la
mano.
«Ti prego, Susanna. Non ho nessun fidanzato all’orizzonte, nessuna storia.
L’unica cosa certa è che avrò presto trentaquattro anni. Voglio un figlio,
Suzie. Lo desidero con tutto il mio cuore. Ho bisogno del tuo aiuto per fare la
scelta giusta. Non credo che il giuramento di Ippocrate ti vieti di aiutare tua
sorella!»
«Faresti crescere un bambino senza padre.»
«E noi, allora? Sei davvero convinta di aver avuto un padre? Dammi retta,
di padri modello ce ne sono ben pochi. Gli altri sono solo degli egoisti che
pensano a scoparsi la segretaria e che dei figli se ne fregano completamente.»
In quel momento Peter uscì di casa sorridendo con Stella in braccio. Una
visione tanto perfetta che Maggie sentì una fitta di invidia pungerle il cuore.
«Certo, l’eccezione conferma la regola» disse guardando il cognato
avvicinarsi. Poi si girò di nuovo verso Suzie e le prese la mano. «Potrei non
avere mai la tua fortuna, Suzie. Potrei non trovare mai un uomo magnifico
come Peter. Ti prego, aiutami.»
*
Il resto della giornata passò tranquillo e la sera arrivò presto, e con lei
anche la babysitter che avrebbe badato alla bambina mentre loro tre andavano
da Sly, il locale dove tutto il paese si ritrovava al sabato sera. Era da tanto che
i Kroll non ci andavano e Maggie era una validissima ragione per rompere la
routine casalinga cui si erano abituati dopo la nascita di Stella.
«Che si fa da Sly?» aveva chiesto Maggie al cognato.
«Di tutto: si mangia, si beve, si ascolta del buon country dal vivo. Si balla e
si gioca a biliardo. Si incontrano gli amici o i nemici di sempre. A volte, nel
parcheggio, coppie nuove e vecchie si danno da fare sul sedile posteriore: più
di un bambino è stato concepito nel parcheggio di Sly.» A quelle parole,
Suzie aveva cominciato a tossire, mentre Maggie si era esibita in un sorrisetto
malizioso.
«Toglitelo dalla mente!» le aveva detto Suzie non appena era riuscita a
respirare.
«Cosa deve togliersi dalla mente Maggie?» aveva chiesto Peter. Ma
nessuna delle due sorelle gli aveva risposto.
Verso le otto di sera, Maggie e Suzie raggiunsero Peter nell’ingresso di
casa.
«Wow, sarò l’uomo più invidiato di Hope! Che intenzioni avete voi due,
stendere tutti i maschi della contea?» esclamò quando le vide ancheggiare
verso di lui.
Suzie gli rifilò una gomitata nel costato e gli sorrise maliziosa. «Mi offrirai
da bere, cowboy?» chiese con un’occhiata da vamp.
«Ti offrirò qualsiasi cosa tu voglia, babe» rispose lui inarcando un
sopracciglio.
«Ehi! Forse voi due potreste rimanere a casa e chiudervi subito in camera
da letto…» disse Maggie ridendo.
«Mi parrebbe un’ottima idea» azzardò Peter.
«A me pessima» disse Suzie. «Non voglio perdermi un solo sguardo che si
beccherà la mia sorellina, stasera. E poi, scusa, non ci sarà anche Craig?»
«Craig?» chiese Maggie.
«Un vecchio amico di Peter, uno di qui ma che vive a Chicago.» La prese
sotto braccio e Maggie le rifilò un bacio sulla guancia bisbigliando: «Tipo
interessante?».
«Gli prenderò un campione di DNA, poi te lo saprò dire» rispose ironica.
Maggie la guardò incredula. «So che scherzavi, ma hai per caso cambiato
opinione sul mio piano? Non lo trovi più criminale?»
Suzie alzò gli occhi al cielo. «No che non ho cambiato opinione, e lo trovo
ancora criminale, ma se è quello che desideri con tutto il cuore… È tutto il
pomeriggio che ci penso e forse sono un po’ pazza anch’io, perché ho deciso
che ti aiuterò. Altrimenti, che sorella maggiore sarei?»
Maggie sentì crescere il groppo che già aveva in gola. Tentò di dire
qualcosa, ma inutilmente.
«Ma tu» continuò l’altra, «devi promettermi di pensarci bene, perché, se
mai il piano dovesse riuscire, il difficile verrà dopo. Sarai da sola, tu e il tuo
bambino. E, anche se avrai mille tate e babysitter che ti aiuteranno, non potrai
condividere la responsabilità di quella creatura con nessun altro. Sarete solo
voi due.»
Maggie le prese entrambe le mani nelle sue. «Lo so che sarà difficile, ma ce
la farò, Suzie e, se sarò presa da dubbi o timori, avrò sempre te e Peter su cui
contare.» Una lacrima le rotolò sul viso.
«E noi ci saremo, ma… non vorrai per caso metterti a piangere, ora?»
Maggie scosse la testa, senza riuscire a parlare.
«Oddio, sorellina!» disse stringendola a sé e poi subito lasciandola. «Mi
pare incredibile ciò che stiamo per fare…!»
«Cosa state per fare, voi due?» chiese Peter avvicinandosi.
«Niente di che, cose da donne» rispose sua moglie con un gran sorriso. Poi
lei e Maggie scoppiarono a ridere e batterono il cinque sotto lo sguardo
allibito di Peter.
«Siete davvero strane, stasera. Non siete un po’ troppo grandi per queste
esibizioni da liceali?»
«No!» risposero all’unisono, poi scoppiarono a ridere e lo seguirono fuori
di casa.
Non che Maggie avesse alcuna intenzione di stendere qualcuno quella sera,
soprattutto non sul sedile posteriore di un’auto. Il suo scopo era guardarsi
intorno, tastare il terreno. Notare ed essere notata. Per questo si era vestita in
modo semplice ma tale da non passare inosservata agli occhi dei possibili
donatori che avrebbe incontrato. Gonna jeans sopra il ginocchio e una maglia
nera aderente con una scollatura che mostrava ma non troppo. Stivali di cuoio
con tacco dieci, grosso, una cintura dello stesso colore. Si era truccata in
modo più deciso del solito, aveva spettinato ad arte i capelli ramati e si era
messa persino gli orecchini d’oro a cerchio che le stavano bene, quelli che
facevano tanto Jane Fonda nel suo periodo impegnato. Certo, si sentiva un
po’ stupida ad aver fatto tutti quei preparativi in vista di qualcosa che ancora
non sapeva bene cosa fosse, ma era stato così divertente sentire di nuovo
quella strana eccitazione correre in lei, quel brivido di anticipazione che le
aveva fatto battere il cuore più veloce.
I suoi occhi grigi brillavano dietro al kajal come da molto tempo non
succedeva.
Anche Suzie si era vestita in modo provocante. Non uscivano spesso, e di
giorno, in ospedale, suo marito la vedeva infagottata in un camice e a casa in
jeans e T-shirt. Considerato lo sguardo che le aveva rivolto, non se ne sarebbe
pentita.
Fuori faceva molto freddo, ma la serata era tranquilla, senza vento, cosa che
a Maggie apparve come un ottimo presagio.
Dieci minuti più tardi, arrivarono da Sly.
***
Mitch Sandford fissava il suo occhio nero allo specchio. Quella svitata con
la mania del vento e di Bob Dylan l’aveva conciato come nessun pugno di
maschio aveva fatto in quarantadue anni di vita.
Il ghiaccio aveva diminuito il gonfiore e la bistecca aveva fatto maturare
l’ematoma, che da blu era diventato di un giallo verdognolo. In ogni caso,
non un bel vedere.
Un occhio nero non era niente di insolito in zona, ma certo avrebbe
sollevato le domande di molti curiosi. Quella sera avrebbe dovuto dare mille
spiegazioni e subire in silenzio gli sfottò di una buona metà della popolazione
di Hope.
Conciato per le feste da una femmina.
Se avesse raccontato la verità, le domande su come l’incidente fosse
capitato sarebbero presto degenerate in squallide allusioni sessuali. Cosa le
stavi facendo? Qualche giochetto un po’ troppo pesante? Le piace farlo
violento? No, avrebbe mentito, detto che aveva sbattuto la faccia contro uno
stipite, o uno zoccolo di cavallo. Non certo contro il gomito di Maggie.
Dannazione, era un occhio nero da Guinness dei Primati! Non c’era modo
che la gente non lo notasse, neanche se si fosse calcato lo Stetson fin sotto il
naso. Forse sarebbe stato meglio rimanersene al ranch con un buon libro e la
voce di Neil Young come sottofondo invece di uscire con Rosalyn. Ma il loro
appuntamento era già fissato da una settimana e non voleva darle ancora
buca, non se lo meritava. E poi, finire la giornata nel suo letto non sarebbe
stato così male. Era un letto particolarmente caldo e forse l’avrebbe aiutato a
buttarsi alle spalle quello strano disagio che provava da un po’ di tempo.
Perché, da un paio di giorni, e quello era un fatto, sentiva che qualcosa nella
sua vita stava per cambiare.
Già, ma cosa?
La sua vita…
Non era mai stato un tipo particolarmente socievole.
Dopo la morte dei suoi genitori, il nonno l’aveva preso con sé al ranch, a
Paradise. In fondo era colpa di suo nonno se aveva imparato ad apprezzare i
cavalli più degli esseri umani e a preferire la loro compagnia a quella dei suoi
simili. Poi ci aveva pensato l’esercito a insegnargli altre cose. Alla fine della
scuola, forse per rendere omaggio al ricordo di suo padre che aveva servito in
Vietnam, non era andato al college ma si era iscritto all’accademia del 75°
Reggimento dei Ranger, un comparto di forze speciali dell’esercito dove era
rimasto per quasi dieci anni, come suo padre. In quel periodo i contatti col
mondo in cui era cresciuto avevano subito un brusco arresto.
Dieci anni duri, difficili, dove aveva visto e fatto di tutto. Cose, per lo più,
che avrebbe voluto dimenticare.
Quando era tornato a casa, pochi mesi prima della morte del nonno, aveva
provato una strana emozione, inattesa e fastidiosa. Si era sentito come se il
luogo in cui era cresciuto non lo riconoscesse più. Lui, invece, ne aveva
riconosciuto ogni angolo, ogni sfumatura, ogni profumo. Ogni voce della
natura.
Era stato in quel momento, con l’aria pungente proveniente dalle montagne
del Big Horn che gli schiaffeggiava l’anima, che aveva capito di appartenere
a quella terra e, in un istante, aveva deciso che sarebbe rimasto.
Dapprima, la gente di Hope l’aveva guardato con un misto di rispetto e
pietà, dando per scontato che anche lui, come molti reduci, fosse affetto da
PTSD, da sindrome da stress post traumatico. Cosa che, per sua fortuna, non
era.
Poi, giorno dopo giorno, l’atteggiamento nei suoi confronti era mutato,
forse anche grazie alla stella di vice-sceriffo che aveva accettato di portare sul
petto, anche se solo in senso metaforico.
Il distintivo, per la verità, ce l’aveva veramente, ma il suo era solo un
impegno su base volontaria e il suo aiuto veniva richiesto unicamente in caso
di bisogno. Non erano compiti eroici i suoi. A Hope non succedeva mai
niente di veramente drammatico o pericoloso. Era una cittadina tranquilla e
abbastanza piccola da non attirare la malavita, dove la gente non aveva né
troppi soldi, né troppi grilli per la testa. I maggiori pericoli che si era trovato
ad affrontare erano stati un orso che si era intrufolato non invitato nel
giardino dei McKannon, qualche rissa al sabato sera o qualcuno che si era
messo al volante nonostante fosse pieno di alcol.
Sì, Hope era una cittadina davvero tranquilla, anche per un vice-sceriffo.
Negli anni la sua vita sociale era migliorata. Era amato da tutti, benvoluto
dagli uomini e corteggiato dalle donne, sposate o nubili che fossero. Aveva
avuto delle relazioni, ma nessuna importante e nessuna duratura. Flirt, giorni
e notti passati piacevolmente in compagnia femminile, niente di più.
Il fatto strano era che non aveva mai voluto portare nessuna donna a casa
sua, a Paradise. Il letto di lei o quello di un motel decente erano stati i luoghi
dove aveva consumato le sue storie, più erotiche che sentimentali. Non che
fosse il tipico bastardo, con le donne. Al contrario. Era generoso e affettuoso,
ma anche sincero e molto diretto sul fatto che non aveva intenzione di
impegnarsi, né per la vita né per altro.
E così era stato. Almeno sino a quel momento. Perché, da quando aveva
quell’occhio nero, non faceva che pensare a che effetto gli avrebbe fatto se
quella svitata dai capelli rossi avesse varcato la porta di Paradise.
La immaginava seduta al tavolo della cucina con una tazza di caffè in
mano, o sul divano, davanti al camino acceso a leggere un romanzo, o molto
più spesso sdraiata nel suo letto. Nuda e invitante. E ciò che rendeva il tutto
ancora più preoccupante era che, mentre sognava a occhi aperti quella pazza
pericolosa, non poteva fare a meno di sorridere come un imbecille.
Forse, dopotutto, soffriva veramente di sindrome da stress post traumatico, e
la causa del suo stress era lei. Maggie. Rossa, sexy e imprevedibile. Svitata.
Divertente.
Sorella di Suzie.
Off limits.
Cercando di non pensare troppo al significato categorico di off limits,
Mitch indossò il giaccone e lo Stetson, uscì di casa e si diresse al furgone.
Per fortuna la serata era magnifica e la strada per arrivare da Sly non
sarebbe stata un problema, neanche con un occhio mezzo chiuso.
***
Quando l’auto entrò nel parcheggio di Sly, Maggie sbatté gli occhi
incredula, chiedendosi per la seconda volta da quando era arrivata a Hope se
per caso non fosse stata la famosa DeLorean di Ritorno al futuro a portarli
sino a lì, e non la jeep di Peter.
Dove diavolo erano finiti? Negli anni Sessanta?
Il locale all’apparenza era un vecchio ranch di pietra e legno, con graziose
tendine a scacchi blu alle finestre e una grande scritta al neon che
lampeggiava rossa e bianca sopra il tetto: Sly’s.
Nel caso qualcuno pensasse di aver sbagliato locale.
Ai lati, altri due neon sembravano lì dalla fine della seconda guerra
mondiale e pubblicizzavano famose marche di birra e sigarette, quasi due
classici dell’arte moderna americana. Ma ciò che quasi ubriacò Maggie
furono le miriadi di luci natalizie che si accendevano e spegnevano lungo
tutto il perimetro dell’edificio e sugli alberi e cespugli degli spiazzi
circostanti, riflettendosi sulla neve e sulle auto parcheggiate. La visione era
così straordinaria che Maggie si lasciò andare a un wow di puro stupore.
«Riusciranno a vederlo anche dalla luna!» commentò.
«Puoi scommetterci. È da anni che Sly vince il primo premio per le migliori
decorazioni natalizie di tutta la contea. E scommetto che se lo aggiudicherà
anche questa volta.»
«Alla faccia del risparmio energetico!» commentò Maggie, poi seguì Peter
e Suzie dentro il locale.
Anche l’interno era sorprendente, rumoroso e decoratissimo. Stringendo
alla vita moglie e cognata, Peter si diresse nella sala principale dove
sembrava già esserci il tutto esaurito. Un bancone di almeno quindici metri
correva lungo la parete di fondo e in un angolo un albero di Natale
proporzionato all’ambiente era addobbato senza risparmio. L’aria profumava
di buono, di resina, di cannella e di whisky. Molti salutarono in modo
familiare Peter e Suzie e si rivolsero a Maggie chiamandola rispettosamente
Ma’am.
Il gruppo dei Kroll proseguì verso la sala successiva dove tre tavoli da
biliardo erano assediati da una piccola folla. C’era chi in mano reggeva una
stecca, chi solo un bicchiere. Anche qui l’ingresso di Peter e Suzie non passò
inosservato: molti saluti, qualche parola, tanti sorrisi. Nell’aria c’era un tale
senso di amicizia e di rispetto che Maggie si sentì orgogliosa per la
considerazione di cui sua sorella e suo cognato godevano.
Mentre Peter e Suzie scambiavano qualche parola con una coppia di mezza
età, l’attenzione di Maggie venne attirata dal lato B di un giocatore che, chino
sul biliardo, stava per sferrare il suo colpo. Un lato B da urlo, stretto in un
paio di Levi’s alquanto vissuti. Non le ci volle altro per capire di chi fossero
quei jeans.
Di Mitch Sandford.
Perché il cowboy non è in strada a dar la caccia ai malviventi? E quella
bionda che lo guarda come se lo volesse divorare è con lui?
«Maggie?» la chiamò Peter indicando l’altra sala. «Andiamo?»
Maggie sussultò e arrossì, come se tutti avessero potuto leggerle nella
mente. «Eccomi» rispose, ma prima di proseguire non riuscì a evitare di
girarsi verso il paio di Levi’s e soprattutto verso quello che contenevano.
Camminava guardandosi indietro, con la sensazione di muoversi al
rallentatore in un mondo che rimaneva immobile, tranne che per quei Levi’s
che si animavano, ruotavano verso di lei e diventavano gambe, spalle,
braccia.
Occhi verdi.
Labbra.
Mitch.
Se ne stava lì con la stecca tra le mani, quel cavolo di Stetson in testa, una
camicia jeans aperta e, sotto, una T-shirt grigia che metteva in mostra ogni
suo dannato muscolo. Sorrideva alla bionda che ora gli stava incollata al
braccio, gli occhi verdi su quel corpo formoso, come fossero mani. La
toccava, con quegli occhi, la accarezzava. Soprattutto dove non avrebbe
dovuto, almeno in pubblico.
Maggie sentì una fitta di assurda gelosia attraversarle il cuore e impedirle
qualsiasi movimento. Così rimase lì, una statua di sale con la bocca
spalancata e una stupida espressione sul volto, incapace di girare su se stessa
e di andarsene. Incapace di staccargli lo sguardo di dosso.
Non che quel cowboy le fosse mai uscito dalla testa, ma si era quasi
convinta di averlo almeno relegato in un angolino. Si era sbagliata.
Cavolo! Perché doveva trovarselo tra i piedi proprio quella sera? E per di
più con una bionda con stampato sulla fronte uno sbattimi grande come una
casa?
In un battito di ciglia, Mitch sollevò lo sguardo dalle tette della bionda e lo
puntò a colpo sicuro negli occhi di Maggie, come se già sapesse che lei era lì,
paralizzata dallo stupore, col cuore che le batteva in petto come una
grancassa. Senza alcuna pietà, rimase a fissarla finché lei si girò di scatto,
fingendo di non averlo visto.
Fingendo che lui non l’avesse scoperta a mangiarselo con gli occhi, a
sbavargli dietro come una stupida adolescente.
*
«Hai visto, c’è Mitch!» bisbigliò Suzie rifilandole una gomitata e
prendendola a braccetto. Maggie cercò di apparire tranquilla, temendo
addirittura che la sorella potesse sentire il suo cuore battere contro la gabbia
toracica.
«Bella notizia davvero!» rispose con un sarcasmo fasullo.
«Puoi dirlo a voce alta, sorellina. Ippocrate si rigirerà nella tomba per quel
che sto per dirti, ma per quel... ehm... piccolo favore di cui avresti bisogno,
Mitch sarebbe perfetto, un dieci e lode su tutti i fronti! Ieri ho dato una
sbirciatina alla sua cartella clinica…»
Maggie la fissò con due occhi increduli. «L’hai fatto davvero?»
«L’ho fatto per te e per il mio nipotino, anche se la cosa mi sembra sempre
più folle.»
«Il tuo futuro nipotino. Forse.»
«Mitch potrebbe essere un padre perfetto.»
Maggie alzò gli occhi al cielo. «Non è di un padre che ho bisogno, te l’ho
già spiegato, Suzie. E poi, lui è fuori budget, proprio non me lo posso
permettere…»
Erano ormai arrivate nella sala dove avrebbero cenato.
«E perché non potresti permettertelo?» chiese Suzie scrutando la sorella.
«Te lo spiego dopo» sussurrò lei ringraziando il cielo che fossero ormai
giunte al loro tavolo.
L’argomento Mitch Sandford poteva aspettare.
Peter le accolse con un finalmente! e le aiutò ad accomodarsi al tavolo, uno
dei migliori del locale: non solo si trovava a bordo della pista da ballo, ma era
anche esattamente di fronte al palco sul quale gli Snakehandlers stavano già
sistemando microfoni e strumenti.
«Questo gruppo è fenomenale» disse Peter dopo aver scambiato un saluto
con il leader della band, Frank Dean. «Country western ai massimi livelli.»
«Mi piace il country western» commentò Maggie, il cui cuore stava
cominciando finalmente a rallentare.
«E sentirai questa band!» Poi aggiunse sedendosi a sua volta: «Come al
solito, Craig è in ritardo».
«Craig? Già, me ne ero quasi dimenticata» disse Maggie rifilando
un’occhiata con molti punti di domanda a sua sorella.
«È un nostro amico che lavora al “Chronicle” di Chicago» rispose Peter. «È
tornato a Hope per trascorrere le feste di Natale con i suoi e, a quanto mi ha
detto, per revisionare in santa pace il suo ultimo libro. Mi è parso gentile
chiedergli di unirsi a noi, spero non ti dispiaccia, Maggie. E poi ho pensato
che essendo entrambi scrittori avreste avuto degli argomenti in comune.»
«Mi farà molto piacere conoscerlo» rispose Maggie rifilando un calcio
sotto il tavolo alla sorella, che con un risolino aveva bisbigliato: «Forse
avresti preferito che fosse qualcun altro a cenare con noi, magari un
cowboy?». Alzò gli occhi al cielo, poi la incenerì con un’occhiataccia e le tirò
fuori la lingua, il tutto mentre Craig Haas li raggiungeva al tavolo seguito da
Mr Sly in persona.
Arrossendo, Maggie riarrotolò la lingua in bocca, sbatté gli occhioni e si
esibì in un’espressione da angioletto. Craig la fissò sorpreso, poi si mise a
ridere di gusto, anche se solo con gli occhi.
Sly era un uomo anziano e gioviale, in gran forma per la sua età, con un
lungo codino e grandi baffi bianchi. Craig Haas, invece, non era anziano. Più
o meno sui quaranta, atletico, occhi grigio-azzurri e capelli biondi. Indossava
come tutti in quel posto un paio di jeans e stivali da cowboy. Teneva il
cellulare in mano, come se stesse attendendo una telefonata importante.
Con tanto di sopracciglio alzato, Suzie osservò il muto dialogo in corso fra
il nuovo arrivato e sua sorella, poi si avvicinò a Maggie e bisbigliò: «Buon
materiale genetico, anche il suo».
Quando si diede il via alle presentazioni, il cellulare di Craig si mise a
suonare, così Sly ne approfittò per abbracciare Peter e Suzie e stritolare la
mano di Maggie.
Ecco.
Fingendo di seguire la conversazione tra Sly e suo cognato, Maggie guardò
di sottecchi Craig pensando che non fosse per niente male; poi si lasciò
attrarre dallo sciocco giochetto che ultimamente faceva sempre più spesso, e
cioè immaginò un bambino con i suoi lineamenti e quelli di Craig
opportunamente shakerati. Occhi grigi, capelli chiari, carnagione molto
chiara. Carnagione chiara... mmmh. Quello sì che poteva essere un problema,
con il buco dell’ozono e tutto il resto. Lei non voleva che il suo bambino…
Ma a che diavolo stava pensando? Era uscita di testa?
Per fortuna Craig si rimise in tasca il Blackberry e, dopo aver stretto la
mano a Peter e abbracciato Suzie, si concentrò su Maggie.
O, per meglio dire, cominciò a puntarla, giusto come uno di quei lupi
affamati che ululavano sugli altipiani.
Maggie dovette ammetterlo. Carnagione chiara o no, era un tipo
interessante e attraente, che sapeva di esserlo. Era anche un tipo alquanto
arrogante perché, dal modo in cui la stava guardando, la dava già distesa nel
suo letto in… ventiquattro ore?
Facciamo diciotto.
Maggie fece due conti, pensando a quanti giorni mancassero ancora
all’ovulazione.
Certo, prima di scegliere un donatore intendeva guardarsi intorno, vagliare,
valutare, ma già sapeva che Craig sarebbe finito sulla lista dei papabili.
Ecco, ci voleva una lista, o ancora meglio una tabella su cui annotare e
valutare i requisiti necessari per diventare il prescelto.
Il fuco.
Maggie sorrise all’idea, sempre fissando Craig ma senza vederlo
veramente.
«Maggie?» la chiamò lui chinandosi leggermente nella sua direzione.
Con un piccolo soprassalto, lei tornò alla realtà. «Oh, scusami, stavo
pensando…»
Lui le sorrise, mostrando denti perfetti (un più per lui), e le sussurrò con
voce roca: «Un penny per i tuoi pensieri…».
«Un penny? Valgono molto di più!» esclamò lei ridacchiando.
Se proprio lo vuoi sapere, stavo pensando di trasformarti in un fuco, e sai
che fine fanno i fuchi, vero?
«Adoro le donne misteriose, ma ti devo avvisare che sono pericoloso
quando divento curioso…»
«Oh, davvero?» rispose Maggie fingendosi preoccupata.
Come se il caos non fosse stato già alle stelle, in quel momento gli
Snakehandlers cominciarono a dare il benvenuto al pubblico a un volume
impossibile e Sly a raccomandare le sue bistecche, le migliori del Wyoming,
soprattutto se accompagnate da fiumi di birra Rainier.
«Sapevo di essere un uomo fortunato, ma non tanto fortunato!» le disse
Craig avvicinandosi tanto che Maggie sentì il calore del suo respiro sul viso e
il profumo del suo dopobarba. Buono, fresco.
«Fortunato? E per quale motivo?» gli chiese di rimando, divertendosi a
flirtare con lui.
«Forse perché siedo vicino alla donna più affascinante di tutto il
Wyoming?»
«Più che fortunato, adulatore. O forse fortunato perché adulatore?»
«Affascinante e dotata di una logica disarmante. Mai uscire con donne
intelligenti, diceva mio padre…»
«Noi non stiamo uscendo, Mr Haas, e non è affatto detto che io sia
intelligente.»
Lui le sorrise, con quegli occhi grigi che per un istante le scrutarono
l’anima. «Forse… ma sono intenzionato a scoprirlo. E poi credo che mio
padre avesse torto.»
*
La serata procedeva in modo piacevole e nonostante Maggie osservasse
l’andirivieni della gente intorno a lei con la stessa attenzione di un addetto al
radar di un sommergibile nucleare, lo Stetson di Mitch sembrava essersi
dileguato.
Meglio così, perché in fondo si stava divertendo: le brocche di birra
giravano allegramente e, come promesso, le bistecche e le patate arrosto
erano fantastiche. E poi era piacevole ascoltare Peter e Craig ricordare le loro
imprese giovanili e le prime fidanzate, mentre lei e Suzie li prendevano un
po’ in giro, in perfetta sintonia. Sì, Maggie cominciava a divertirsi e a sentirsi
davvero bene, Mitch o non Mitch, bionda o non bionda.
Quando si diede inizio alle danze, una dopo l’altra le coppie scesero in
pista. Prima qualche brano di rock & roll scaldò l’atmosfera, poi arrivarono
gli slow che, nel West, non sono lenti normali.
Nossignore.
Le coppie, anche quelle non ufficiali, si stringono come se il ballo fosse il
preliminare di qualcosa di meno soft. Il cavaliere prende con la sinistra la
mano destra della dama e se la porta al cuore, in un gesto possessivo e
romantico, mentre la destra gliela piazza ben aperta e decisa sulla schiena, un
po’ più in basso, per la verità. Lei gli appoggia il capo sulla spalla, in modo
quasi sottomesso, forse per permettere alla bocca di lui di muoversi
indisturbata lungo il suo volto e il suo collo, con effetto comico assicurato se
il cavaliere non è di almeno dieci centimetri più alto della dama.
Per non parlare del doppio passo obbligatorio, con quella hesitation che
rende il tutto ancora più intimo, sexy.
O complicato.
Lo slow nel West, insomma, è una filosofia di vita. Un atto di dominazione
più che una danza, primitivo e molto, molto sensuale.
Margherita ne era affascinata.
«Cosa attira tanto la tua attenzione da fissare in quel modo la pista da
ballo?»
«Be’, sai, mi sembra che vi siate fermati agli anni Cinquanta» mormorò
fissando le coppie girare lente su se stesse. «Da come i cavalieri stringono le
loro dame, sembra che il femminismo nelle vostre sale da ballo non sia mai
arrivato.»
Craig la fissò incuriosito. «Cosa vuoi dire?»
«Ecco… sembra più il preliminare di un accoppiamento che un ballo»
rispose Maggie senza peli sulla lingua.
«Oh, in quel senso» disse lui attirando l’attenzione di Suzie.
Il brano era terminato. Alcune coppie ritornarono a sedersi, altre rimasero
in pista in attesa che la band intonasse un nuovo pezzo.
«Di cosa parlate?» chiese Suzie, tutta un sorriso.
Maggie le rifilò un calcio sotto il tavolo.
«Ahi!»
«Che succede?» chiese Craig.
«Niente!» rispose Maggie, pronta.
Lui le rivolse uno sguardo perplesso, poi riprese a parlare. «Sai, qui
teniamo molto alle nostre tradizioni. Una volta il ballo era l’unico modo per
stringere la propria donna, almeno in pubblico.»
«E di stringerla senza lasciare molto all’immaginazione altrui» commentò
Maggie con un sorriso.
Craig non rispose, ma prese la mano di Maggie e, infischiandosene delle
sue proteste, la trascinò in pista. «Ora ti do una dimostrazione pratica di come
si balla uno slow.»
In quel momento la band cominciò a suonare Wonderful World di Sam
Cook, una canzone capace di ridurre in poltiglia anche il più arido dei cuori.
Maggie sulle prime si irrigidì, ma dopo pochi passi si affidò a Craig, al suo
profumo che sapeva di buono e alle sue mani decise; gli permise di stringerla
più del necessario e di ballare guancia a guancia. Non era poi tanto male
essere stretta da un uomo interessante, per giunta dotato di un ottimo DNA.
Chiuse gli occhi, si lasciò trasportare dalla musica e dall’esperienza di Craig
e ondeggiò al ritmo del suo perfetto doppio passo. Lui le mormorò un
complimento all’orecchio e la sensazione che subito riverberò da quel
sussurro fu perfetta e intima, tanto che le venne naturale chiudere gli occhi,
sorridere e rimanere ancora per un istante stretta a lui nonostante la musica
fosse finita.
Quando con lentezza riaprì gli occhi, si accorse che uno Stetson era entrato
nel suo campo visivo.
Le palpebre scattarono in posizione di massima allerta e seguirono il
cappello.
Si muoveva fluido come un miraggio sopra quel mare di teste, poi imboccò
l’uscita laterale del locale e sparì.
Mitch?
«Cerchi qualcuno?» chiese Craig senza liberarla dal suo abbraccio.
«Io? No, no, chi mai dovrei cercare?» Rispose lei tutto uno stupore,
sbattendo gli occhioni grigi e arrossendo come una ragazzina.
«Ho avuto l’impressione che ti fosse passato davanti un fantasma.»
Già, con un cappello da cowboy in testa.
Fra gli applausi, la band annunciò qualche minuto di pausa e come tutte le
altre coppie sulla pista, Craig e Maggie tornarono al tavolo, tenendosi per
mano.
«Ehi! Vi davamo per dispersi!» disse Suzie guardando interrogativa la
sorella.
«Purtroppo non ci siamo ancora dispersi» rispose Craig rivolgendo a
Maggie il suo miglior sorriso. «Ma non dispero.»
«Ti do il permesso ufficiale di disperarti, Craig» gli disse lei, stando al
gioco.
«Non mi conosci ancora, sono molto tenace.»
«Oh, io lo sono più di te.»
Suzie seguì lo scambio di battute tra i due come fosse una partita di tennis e
non appena riuscì a inserirsi disse non senza malizia: «Eravate belli da
vedere, sembravate… affiatati».
Osservazione che le fece guadagnare un’occhiataccia di Maggie e un
sorriso riconoscente di Craig.
Poi sospirò a fondo e girandosi verso Peter disse con aria delusa: «Peccato
che mio marito non mi abbia ancora invitata a ballare…»
«Una vecchia coppia come noi, ballare?» rispose lui con aria quasi
scandalizzata.
Lei alzò gli occhi al cielo. «Be’, ora è chiaro a tutti che non ti ho sposato
per il tuo romanticismo.»
Scoppiarono a ridere e Craig versò a tutti un altro giro di birra.
«Vuoi forse farmi ubriacare?» gli chiese Maggie.
«Non ho bisogno di certe bassezze per conquistare una donna…»
«Vorresti conquistarmi, dunque?»
«Sono un uomo sano e single, perché non dovrei volerlo?»
«Allora, Mr Presunzione, dal momento che sei tanto sicuro di te, vediamo
se passi questo piccolo test» ribatté lei con aria volutamente saccente. «Chi
balla What a Wonderful World e con chi, in una delle scene più romantiche
mai realizzate al cinema?»
Lui finse di concentrarsi come a un quiz televisivo. «Mmmh, non ne ho
davvero idea» disse dopo un po’, con l’aria di uno a cui non importava molto
di saperlo.
E qui, Mr Haas perse alcuni punti agli occhi di Maggie, nonostante il
patrimonio genetico classe AAA e i denti perfetti.
«Scherzi? Davvero non lo sai?»
Lui scosse la testa, fingendosi mortificato.
Lei alzò gli occhi al cielo, come se quell’ignoranza fosse inammissibile.
«Harrison Ford e Kelly McGillies in Witness. Te lo ricordi adesso?»
Lui scosse ancora la testa.
Che Mr Haas fosse un asino?
«No, non me lo ricordo. Non è che io vada molto al cinema.»
«Davvero? Ti perdi uno dei piaceri della vita» rispose lei pensando già di
mettergli un meno sulla tabella dei fuchi.
Lui si sporse verso di lei e, con lo stesso tono che avrebbe usato per farle
una proposta indecente, chiese: «Che ne dici se lo noleggio e una delle
prossime sere ce lo vediamo insieme?».
«Forse» rispose Maggie, pensando che quella avrebbe potuto essere una
buona occasione per...
Già, per quello.
Una cameriera portò un’altra brocca di birra e i boccali si riempirono e si
svuotarono più volte. L’atmosfera era allegra, la musica perfetta e lo Stetson
di Mitch aveva avuto sino a quel momento il buon gusto di starsene fuori dai
piedi.
Craig era un buon conversatore e non perdeva occasione per corteggiare
Maggie con la giusta dose di ironia. Quando lei si alzò per andare alla toilette,
scattò in piedi anche lui per spostarle la sedia e per scortarla.
Vuole accompagnarmi a fare pipì?
«Credo di potercela fare da sola» gli disse con un sorriso ironico, ma poi
Suzie le spiegò (in italiano) che nel West si usava così e che gli uomini, con
la scusa delle tradizioni, si comportavano a volte in modo ridicolo.
«Io mi ci sono abituata e in fondo non è tanto male, anche perché hai
qualcuno cui mollare la borsetta. E poi» concluse la sorella in un sussurro,
«ricordati che anche Craig è un ok pieno. Famiglia sana, valori del sangue
perfetti. Probabilità di spermatozoi vivaci ancora alta.»
Maggie fece tanto d’occhi. «Non penserai certo che io possa… questa sera
stessa…»
Suzie sollevò le spalle, esibendosi in un sorriso furbetto.
«Cosa vi siete dette?» chiese Craig, divertito dallo scambio di battute tra le
due sorelle.
«Niente di speciale, cose da donne. Allora, andiamo?»
Lui le passò un braccio intorno alla vita e la condusse attraverso la folla
fino alle famose toilette di Sly.
***
«Vado fuori, ho bisogno di aria» disse Mitch senza troppi complimenti,
afferrando la giacca dallo schienale della sedia.
Rosalyn si affrettò a infilarsi la pelliccia ecologica leopardata e lo seguì
ondeggiando sui tacchi alti.
«Non c’è bisogno che mi accompagni» continuò lui con un tono seccato.
Lei si fermò un istante, poi continuò a seguirlo, facendolo sentire un
maledetto stronzo.
Il fatto era che Rosalyn non aveva nessuna colpa se lui voleva prendere
l’intero mondo a calci o… qualcuno a cazzotti. E, a dire il vero, lui stesso non
capiva perché volesse farlo.
Ciò che capiva, e molto chiaramente, era che da quando la svitata era
arrivata a Hope – e ce l’aveva portata lui! – la sua esistenza era diventata un
incubo.
Perché Maggie sembrava essergli entrata a gomitate e ginocchiate nel
cervello e, a quanto pareva, non aveva alcuna intenzione di andarsene. Era
diventata la sua ossessione dai capelli rossi. Di notte, poi, la sfacciata entrava
nei suoi sogni attraverso altre parti del corpo, molto più intime, e allora, per
cacciarla via…
Già era difficile sopportarla quando era nei suoi pensieri, figuriamoci in
carne e ossa! Più carne che ossa, per la verità.
Come era successo prima.
Se ne stava tranquillo a giocare a biliardo, con Rosalyn che gli sorrideva
promettendogli qualsiasi cosa, quando lei era arrivata. Aveva avvertito la sua
presenza tra tutta quella gente, come se avesse riconosciuto il suo profumo o
il rumore dei suoi passi. O la cadenza del suo respiro. Si era girato e…
diavolo! Lei era davvero lì, a pochi metri da lui; non la donna più bella che
avesse mai incontrato, ma certo la più desiderabile. Gli era bastato tuffarsi per
un istante in quei suoi occhi grigi da bambi impaurito perché il cuore gli
partisse per la tangente, completamente fuori controllo. Non c’era da stupirsi
che, subito dopo, avesse sbagliato il colpo come un novellino.
Anche questa volta aveva liquidato la questione con la patetica scusa
dell’attrazione fisica.
Forse dovrei portarmela a letto, si era detto allora con tono da bastardo,
fingendo di considerarla una delle tante.
Ma, poco dopo, quando l’aveva vista ballare appiccicata a Craig, la
reazione che aveva provato era stata ben diversa, violenta e dolorosa come un
cazzotto sul naso o, meglio, come una coltellata in pieno cuore.
Sei forse geloso, Mitch Sandford? Di una delle tante?
Il punto era che, fra tutti i maschi presenti quella sera, lei aveva scelto di
ballare proprio con Craig Haas. E non che il bastardo si sforzasse di tenere le
mani a posto! La stringeva a sé come fosse di sua proprietà, come se non
stesse pensando che a farsela, lì e subito. Che diavolo ci faceva poi Craig-va-
a-farti-fottere-Haas a Hope, era un mistero. Perché aveva scelto proprio quel
Natale per tornare a casa?
Il rancore che un tempo aveva provato per lui, peraltro del tutto ricambiato,
in quel momento era riaffiorato e Mitch non aveva saputo fare di meglio che
girare sui tacchi e andarsene.
Vigliacco.
Geloso e vigliacco.
«Dove andiamo, Mitch?» gli chiese Rosalyn mentre lo seguiva fiduciosa.
«Fuori, voglio fumare» rispose lui pentendosi subito della sua rudezza, ma
senza fermarsi ad aspettarla.
«Oh, speravo volessi fare altro» gli rispose lei con un risolino.
«Più tardi, forse. Vedremo.»
***
Mentre andavano verso la toilette, molte giovani donne si fermarono a
salutare Craig con calore, forse spinte dall’alcol o dalla pura sfacciataggine,
senza risparmiare a quella straniera dai capelli rossi occhiate diffidenti.
«Spero non vorrai anche accompagnarmi dentro!» gli disse lei scherzando.
«No, ma non mi dispiacerebbe fare due passi, dopo. Tu e io e un po’ di
silenzio.»
«Ma si gela là fuori!»
«Nessuna donna ha mai sofferto il freddo, con me» le sussurrò lui con un
sorriso malizioso.
Maggie ricambiò il sorriso, con l’espressione di una che non se la beve.
«Forse non avrò così freddo, dopotutto.»
«Io dico di sì. E mi chiederai di scaldarti.»
«Scordatelo.»
Attraversarono la sala del biliardo e Maggie, pur sforzandosi di guardare
fisso davanti a sé, non fece altro che cercare Mitch e il suo Stetson: ai tavoli
da biliardo, al bancone del bar e tra i tavoli. Gli Stetson abbondavano
ovunque, ma non c’era nessuna T-shirt grigia sotto di loro, nessun paio di
occhi verdi da perdercisi dentro.
Dove diavolo sei finito, cowboy?
«Qualcosa non va? Cerchi qualcuno?» le chiese Craig mentre
raggiungevano la toilette.
«No, nessuno. Sono solo curiosa, mi piace qui. Ora, se non ti dispiace…»
Sfilò il braccio da quello di Craig e si guardò intorno. Non poteva credere
ai suoi occhi. Fuori dalla toilette femminile c’erano almeno dieci uomini in
attesa della loro dama. Quasi tutti con la borsetta al braccio.
«Toglimi una curiosità, Craig. Se tu fossi in un locale di Chicago,
accompagneresti al bagno la tua ragazza?»
«Se solo ci provassi, mi spaccherebbe un piatto in testa. Ma qui non siamo
a Chicago, siamo nel West. Le regole sono diverse.»
Maggie sorrise, alzò gli occhi al cielo e, finalmente sola, andò a fare pipì.
Quando uscì, Craig era lì che l’aspettava come un cane pastore. Indossava
già il giaccone e teneva sul braccio il piumino di Maggie, il che suggeriva che
l’idea di fare due passi in quel gelo polare non l’avesse abbandonato. Dando
per scontato che lei morisse dalla voglia di accompagnarlo, con l’abilità di un
maggiordomo britannico l’aiutò a infilarsi il piumino. Nonostante i tacchi,
Craig era alto almeno dieci centimetri più di lei, profumava di buono e nella
luce fioca del locale il suo sguardo grigio-azzurro indugiava su di lei,
rassicurandola e lusingandola. Non che per questo Maggie avesse intenzione
di farsi stendere subito sul sedile posteriore di una Cadillac: avere una
missione da portare a termine e comportarsi da zoccola erano due cose ben
diverse.
Uscirono dal locale e, nonostante il freddo quasi le togliesse il fiato,
immergersi nel silenzio e nella calma della notte le instillò un senso di pace.
E poi quella follia di luci natalizie che coloravano come mille arcobaleni il
paesaggio circostante l’affascinava come una bambina.
«Sembra di essere all’interno di un caleidoscopio» disse indicando le luci
che si rincorrevano riflettendosi sulla neve. «O forse come essere fatti di
LSD…»
Craig le sorrise. «Sai, fin da piccolo queste luci hanno avuto su di me un
fascino irripetibile.»
«Lo posso immaginare…»
«Mi piace la tua voce, mi piace come parli, Maggie. È molto brit.»
«Per forza! Ho vissuto in Scozia e in Inghilterra sino a ventitré anni. Non
ho colpe se parlo così» rispose lei alzando le braccia in segno di resa.
«E poi mi piace il fatto che anche tu scrivi. Mi sembra che ci sia lo zampino
del destino nel nostro incontro…»
«Propenderei più per mia sorella e Peter.»
«Deduco che sei single.»
«Già» tagliò corto lei senza chiedergli se anche lui lo fosse. Single. Meglio
non sapere se quegli spermatozoi appartenevano già a un’altra.
Camminarono lungo il perimetro del locale, verso il cortile che si apriva sul
retro. Il parcheggio era sul lato opposto, quindi non sembrava che Craig
avesse in mente programmi che prevedevano l’uso del sedile posteriore di
un’auto.
Si misero a parlare del loro lavoro. Craig le raccontò di essere tornato a
casa per revisionare il suo secondo romanzo, come il primo ambientato
nell’eccitante mondo del football americano che lui, al college e
all’università, aveva praticato con successo.
Maggie gli rifilò un’occhiata sghemba, aggiungendo di non capirci nulla
della versione americana, ma che a scuola, in Inghilterra, aveva visto
innumerevoli partite di rugby. Quindi gli parlò dei suoi romanzi e quando
pronunciò la parola romance lui non riuscì a evitare un’espressione
sarcastica.
«Sono almeno erotici?» chiese con una buona dose di paternalismo.
«Sono sexy, non erotici. Di sesso ce n’è, e tanto, ma in quanto espressione
dell’amore, non come morbosa ricerca del piacere» rispose secca Maggie,
rendendosi all’improvviso conto che era solo sesso, non amore, quel che lei
cercava in quel momento.
Lui fece un piccolo schiocco con le labbra, che la irritò. Nonostante i
cromosomi da dieci e lode.
«Mi piacerebbe leggerne uno» disse.
«Perché? Non dirmi che ti piace il romance, non ci crederei.»
«No. Solo per curiosità. O forse per il desiderio di capire cosa cerchi in un
uomo.»
Solo ventitré piccoli cromosomi, pensò Maggie, ma rispose: «E ti aspetti di
trovarlo sulle pagine di un mio libro?»
«Forse.»
A Nord Est le montagne risplendevano della luce della luna. Il paesaggio
era immobile, bellissimo. Struggente.
«Vieni, andiamo nel cortile interno. Ci sono delle sedie a dondolo sotto il
portico, ti va?»
«Non sarebbe meglio rientrare? Fa un freddo cane…»
«Dai, cinque minuti, poi passiamo dall’ingresso posteriore. Vorrei fumare
una sigaretta e dentro è vietato.»
«Basta che non mi affumichi» disse Maggie, pensando che quella del fumo
sarebbe stata la scusa perfetta per non sedergli troppo vicino.
Certo, qualcosa non quadrava.
Se l’idea di rimanere sola qualche minuto con un possibile donatore, per di
più decisamente affascinante, le dava tanto fastidio, come poteva pensare di
andarci a letto insieme?
Seguì Craig lungo il lato posteriore dell’edificio sino al cortile interno del
vecchio ranch. Da qualche parte ci doveva essere ancora una stalla, perché si
avvertiva con chiarezza la presenza di cavalli.
Mentre salivano i gradini del portico, che correva intorno a tutto l’edificio,
Craig la prese per mano. Pur irrigidendosi un po’, Maggie lo lasciò fare.
«Mi piaceva venire qui, da ragazzino…» le disse.
«Con la tua fidanzatina di turno?»
«Anche. In effetti, il primo bacio vero l’ho dato qui.»
Maggie alzò gli occhi al cielo, un po’ a disagio. Si era forse messo in testa
di baciarla? «Comincio ad avere freddo, Craig.»
«Vieni» le disse passandole un braccio intorno alla vita. «Così va meglio?»
E fu a quel punto che Maggie si immobilizzò.
Non per il braccio che la stringeva. Non perché fosse a disagio. Ma perché
nell’aria c’era odore di sigaro. C’era odore di Mitch Sandford.
Che tempismo quel cowboy!
Forse avrebbe dovuto buttarsi tra le braccia di Craig, oppure chiamare
Mitch a gran voce: Ehi cowboy, so che sei qui! Stai impestando l’aria con
quel tuo sigaro puzzolente! O ignorarlo e focalizzare la sua attenzione su
Craig.
«Rientriamo, Craig? Suzie e Peter ci daranno per dispersi. Dov’è
quell’ingresso sul retro di cui parlavi?» chiese fermandosi di colpo e tentando
un improvviso dietro front.
«Ho fatto qualcosa che non va?» chiese lui perplesso.
Maggie si accorse che aveva la fronte aggrottata.
«No, non ancora, almeno» rispose in tono scherzoso. «È solo che ho
freddo.»
Le sembrava che l’odore di tabacco fosse diventato all’improvviso più
forte. Annusando l’aria come un segugio, decise che la scia di fumo
proveniva dall’angolo buio in fondo al portico, alla loro sinistra.
Ecco dove ti nascondi, cowboy!
Ciò che non le era ancora chiaro era se Mitch fosse solo o in compagnia
della bionda. L’idea che quella gli stesse ancora incollata addosso era
fastidiosa come una scheggia sotto un’unghia.
«Sicura di voler rientrare? Non ho intenzione di sedurti, se è questo che
temi…» disse Craig, scherzando.
«Non lo temo affatto, dal momento che è lampante che tu sia l’esempio del
perfetto gentiluomo. Vecchio stampo del West. Come non ne fanno più.»
«Posso anche non esserlo, all’occorrenza. Basta chiedere…» disse lui con
un sorriso malizioso.
«Ti preferisco gentiluomo, Craig.»
Almeno stasera.
«Che delusione! E io che credevo che amassi il mio lato più libertino… Va
bene, mi arrendo, rientriamo.»
«Un vero gentleman.»
«Già.»
Maggie sentì il braccio di Craig stringerla, ma non disse niente, non
protestò. Voleva solo andarsene via al più presto, prima di fare qualche
incontro spiacevole.
Ora sentiva la presenza di Mitch più vicina. Forse si stava muovendo verso
di loro.
«Torniamo indietro?»
«Cos’hai, fretta?» chiese Craig.
«No, freddo!»
Una voce avvolta in una nuvola di fumo viaggiò nel buio sino a loro. Poi
Mitch Sandford uscì dall’ombra. Prima lo Stetson, poi lui. Infine la bionda.
«Craig Haas, questo è l’ultimo posto al mondo dove avrei pensato di
incontrarti. Maggie, piacere di rivederti…»
Maggie sentì Craig imprecare tra sé. Imprecò anche lei.
«Mitch Sandford, l’uomo sbagliato al momento sbagliato. Come sempre.
Vi conoscete?»
A Maggie fu subito evidente che i due uomini si stavano squadrando con
palese antipatia. L’aria le parve diventare ancora più fredda.
«Buonasera Mitch» disse cercando di stemperare la tensione. «Fa così
freddo, qua fuori, che stavamo rientrando.»
Un raggio di luna illuminò per un istante la bionda e la sua complessa
acconciatura in perfetto stile Dolly Parton.
«Craig, andiamo? Per favore, sto congelando!» continuò Maggie ma in
modo poco convincente, perché lui non si mosse di un millimetro. Fissava
Mitch come fosse pronto a prendersi a cornate con lui.
Era uno scherzo o era così che i maschi locali segnavano il territorio?
Doveva fare qualcosa.
«Be’, io rientro, se voi volete rimanere qui a parlare dei bei tempi andati e a
congelarvi le chiappe, fate pure» disse decisa, e girandosi cercò di capire
dove andare in quel buio quasi totale, rotto solo a tratti dai riflessi delle
illuminazioni natalizie, qualche lampadina e da quella fettina di luna.
Mosse qualche passo verso una luce che tremolava oltre il cortile e
all’improvviso Craig le fu al fianco, la prese per un braccio e senza una
parola la trascinò via quasi di peso. Sembrava emettere una scia al calor
bianco da tanto era furente. Era un distillato di pura rabbia.
«Ehi! Ma voi uomini del West siete sempre così aggressivi? Che diavolo
avete in testa?» gli chiese trotterellandogli al fianco. Lo sentì irrigidirsi ancor
di più.
«Mi spiace, Maggie, è che certa gente proprio non la reggo.»
Certa gente.
Il cowboy.
***
Mitch non si mosse. Rimase in silenzio a fissare Craig Haas che si
allontanava stringendo il braccio della svitata. Be’, tanto peggio per lui! Si
sarebbe presto accorto che quella era una pazza. E poi per quale motivo
avrebbe dovuto essere infastidito dalla cosa? Dio li fa, poi li accoppia. Una
pazza pericolosa e un bastardo laureato a Harvard. Che magnifica coppia!
La bionda gli si strofinò contro, calda, disponibile.
«Mitch, andiamo da me?» gli chiese leccandosi il labbro inferiore.
Lui si girò a guardarla e per un attimo non vide il suo viso, ma quello di
Maggie. Poi i capelli rossi diventarono biondo platino e gli occhi ritornarono
a essere quelli scuri di Rosalyn.
Anche le mani tornarono a essere quelle di Rosalyn, così esplicite e dirette.
Avrebbe voluto togliersele di dosso, ma non lo fece. Disse invece una sola
parola.
«Andiamo.»
4
Lunedì 20 dicembre, Hope
Dopo una domenica passata a dormire e a decorare la casa in vista del
Natale, il lunedì mattina Maggie si alzò presto e con una coperta addosso
entrò in cucina alla ricerca disperata di un caffè.
Suzie alzò gli occhi dal giornale e la fissò con orrore. «Mio Dio, sorellina,
stanotte hai fatto bagordi o stai male?»
«Ho solo dormito poco» rispose, schioccando sulla guancia di Stella un
grosso bacio.
Seduta come una regina sul seggiolone, la piccola emise un urletto di gioia
seguito da un sssia (zia) con molte s e da un grande sorriso, mentre
continuava a pasticciare con le mani nella tazza piena di latte e cereali.
«Ha il permesso di farlo?» chiese Maggie a sua sorella guardando la nipote
con orrore.
«Certo. Deve fare le sue esperienze.»
«Già, anch’io dovrei farle» rispose Maggie crollando su una sedia.
«Mi sembra che tu sia venuta a Hope proprio per questo, no?»
«Ma ora comincio a pensare che forse sarebbe meglio rinunciare.»
«È per questo che hai quella faccia terribile? Perché hai dei dubbi sul tuo
piano? O forse perché hai sognato tutta la notte il DNA di Craig Haas? Una
perfetta doppia elica…» la prese in giro Suzie.
Maggie alzò gli occhi al cielo. «Smettila. In questo momento ho bisogno
solo di un caffè. Non voglio sentire parlare di codice genetico. Né di Craig.»
Anche perché non le era piaciuto scoprire che, dietro quel suo fare da
gentleman, nascondeva tanta aggressività.
Teresita, come la fata Smemorina, si materializzò e le porse una tazza
fumante.
«Gracias, hai salvato mi vida» le disse Maggie con lo sguardo di un
cucciolo strappato alla vivisezione.
«Mr Craig es un buen tipo» rispose Teresita scrutandola come se volesse
perforarle l’anima.
Anche lei.
«Cos’è questo, l’argomento del dia qui a Hope?»
«Come potrebbe non esserlo? È un piccolo centro, e l’altra sera, da Sly,
Craig ti fissava come fossi una torta di fragole ricoperta di cioccolata e panna.
Tutti se ne sono accorti. Anche perché lui non solo è la celebrità del luogo,
ma è famoso anche per le sue conquiste vip.»
«Dovrei sentirmi lusingata per le sue attenzioni, dunque? Mi sa che Craig
sia il tipo basta che respiri.»
«Non direi proprio. Anzi!»
«Adesso sì che sono lusingata.»
«Dovrebbero essere lusingate le altre, credimi. Hai presente il tipo
anoressico con la puzza sotto il naso, massimo venticinquenne? Ecco, quel
tipo.»
«Forse allora Craig si è accorto di me perché ero una novità. Una novità in
carne e piuttosto in là con gli anni.»
«A trentatré anni? Comunque, neanche Craig è un ragazzino, ha l’età di
Peter e di Mitch, quarantadue anni suonati.»
«Mitch?» intervenne Teresita. «Me gusta mucho Mr Sandford, mas que Mr
Craig.»
«Anche a me» le fece eco Suzie fissando con attenzione la sorella.
Fingendo un improvviso colpo di tosse, Maggie si nascose dietro al
tovagliolo. Se quelle due si accorgevano che era diventata rossa aveva finito
di vivere.
Mentre Suzie osservava divertita l’imbarazzo della sorella, Stella cominciò
a saltare sul seggiolone e a lanciarsi in un discorso molto articolato in
italiano, inglese e spagnolo. Le uniche parole comprensibili, caballo e Mitch.
Ecco, a quanto pareva il cowboy era amato da tutte le donne della casa.
Maggie guardò con aria interrogativa Suzie.
«Stella e Mitch sono amici» rispose. Poi, rivolgendosi a sua figlia: «Vuoi
andare a vedere i cavalli di Mitch, piccolina?».
La piccola, in tutta risposta, ricominciò a saltare sul seggiolone, come fosse
in groppa a un cavallo.
Forse, pensò Maggie in quel momento di totale confusione, l’idea di avere
un figlio non era poi tanto furba. Sembrava molto più complicato del
previsto.
«Mitch, caballos» insisteva la piccola.
«I cavalli di Mitch?» chiese Maggie senza comprendere.
«Caballos, caballos…» ripeté Stella.
«Mitch alleva purosangue» spiegò Suzie.
«Sì, me l’avevi detto. Ma non fa il poliziotto? »
«Be’, anche» rispose Suzie. «Per la verità è un ex ranger.»
«Del parco di Yellowstone?»
Suzie scoppiò a ridere poi disse: «Non quel tipo di ranger, nulla a che
vedere con orsi e alci. Quello dei ranger è un corpo speciale dell’esercito, di
quelli che non si sa mai bene cosa facciano… Ma ora Mitch è un allevatore di
purosangue e, vista la sua esperienza, dà una mano allo sceriffo quando
occorre. Non è che ci sia una grande criminalità qui a Hope, ringraziando il
cielo.»
«Un po’ come Dean Martin nel Dollaro d’onore di Howard Hawks» disse
Maggie.
«Se lo dici tu. Sai che non mi sono mai piaciuti i western e di vecchi film
non capisco nulla. Eri tu che giocavi con le pistole da piccola.»
«Mentre tu giocavi con l’Allegro Chirurgo e io ero costretta a subire ogni
genere di operazione…» Poi aggiunse: «Che tipo di esperienza?».
«L’esperienza di chi?»
«Di Mitch, non stavamo parlando di lui?»
«Non riesci a togliertelo dalla testa, eh? Nei ranger è stato anche nella
polizia militare.»
«Come Jack Reacher?»
«E adesso, chi sarebbe questo Reacher?»
«Lascia perdere, Suzie. Se dico Jethro Gibbs, capisci?»
«Come no! Quando si tratta di NCIS capisco tutto. Mitch era una specie di
poliziotto, proprio come Gibbs. Indagava su reati commessi o subiti da
militari.»
Maggie si alzò in piedi e cominciò a muoversi per la cucina. Si sentiva
strana, a disagio. Dunque, il cowboy era veramente un eroe?
«Ottimo DNA» aggiunse Suzie.
Maggie la guardò male. «Ho capito, me l’hai già detto, almeno una trentina
di volte. Ora, col tuo permesso, posso accendere la tv? Vorrei sentire le
previsioni del tempo e, se non sono annunciati né vento né bufere di neve, e
neppure un uragano tropicale, mi piacerebbe portare Stella al centro
commerciale, reparto giochi. Voglio farle un bel regalo per Natale. Ti va
bene, Suzie, o non ti fidi a lasciarla sola con me?»
Suzie la fissò perplessa. «Perché non dovrei?»
«Attacchi di panico. Ne vado soggetta, ti ricordi?»
«Ah, quelli! Difficile dimenticarsene, sorellina. Ma sono sicura che se
dovrai prenderti cura di Stella non ti verrà nessun attacco di panico. Neppure
se un ciclone dovesse passarti sopra la testa.»
«Conosco questa teoria, ma se non fosse vera?»
Suzie la tacitò con la mano e sorrise. «Il problema potrebbe essere Stella
semmai: portarla al reparto giochi di un centro commerciale mi pare
un’impresa suicida. Si capisce che non hai figli. Per il momento, almeno.»
Maggie sgranò gli occhi, incerta se rinunciare all’idea, ma poi Stella le
sorrise, ripetendo caballo caballo, e lei non ebbe altra scelta che perseverare
nella sua impresa suicida.
«Penso che riuscirò a cavarmela. Ci divertiremo e Stella sarà un angelo.
Vero amore della ssia?» disse esibendosi in una smorfia che fece scoppiare la
piccola in una risata irresistibile.
Suzie prese in braccio sua figlia e le stampò un bacio sulla guanciotta
paffuta. «La mamma deve correre in ospedale, piccola, a fare il suo dovere di
medico e forse a farsi radiare dall’albo» le disse.
«Radiare?» le chiese Maggie con due occhi tondi di curiosità.
La sorella le sorrise in modo malizioso e disse con aria innocente:
«Pensavo che oggi, durante la pausa pranzo, potrei dare un’occhiata alle
cartelle cliniche dei maschi single con età compresa tra i trenta e i
quarantacinque».
Maggie esibì un sorriso che pareva la pubblicità di un dentifricio. «Davvero
farai questo per me? Pensi che Ippocrate comprenderà le esigenze di una
futura primipara attempata?»
«Chissà, potrebbe anche sforzarsi di farlo» rispose Suzie. Poi le passò la
bimba e le ordinò di levarsi di torno prima che cambiasse idea.
*
Fuori non c’era vento e neppure nevicava: due piccoli regali dal cielo che
fecero di Maggie una donna felice.
Con Stella ben imbragata nel seggiolino, guidò con prudenza sino al centro
commerciale, tentando di interpretare lo strano idioma multi-lingue della
nipotina. Aveva l’impressione che anche qualche parola in lingua sioux
facesse parte del lessico della piccola.
«Haugh!» disse, guardandola attraverso lo specchietto retrovisore.
«Haugh!» le rispose Stella, ridendo a crepapelle.
Cosa si fossero dette, rimase un mistero per entrambe.
Quando entrarono nel complesso, la bimba era ancora imbragata, ma questa
volta nel suo passeggino. Mentre Maggie le toglieva giacca e cappello, Stella
si guardava attorno, beandosi di tutta quella meraviglia.
Non ci voleva un genio per capire da cosa fosse affascinata. Era quasi
Natale in fondo, e il centro commerciale luccicava di mille decorazioni che
brillavano al ritmo di Jingle Bell Rock. Impossibile non rimanerne colpiti.
Dopo un giro esplorativo, Maggie spinse il passeggino verso il reparto
giocattoli, dove il clima natalizio cresceva inesorabile insieme ai colori e ai
decibel, sino a trasformarsi in follia pura.
Come un cane da caccia, Stella ne respirò probabilmente l’odore prima
ancora di arrivarci, perché la sua eccitazione divenne all’improvviso
incontenibile.
Omammamia!
Per quanto contagiata dall’entusiasmo della piccola, Maggie non era
preparata a fronteggiarne gli effetti collaterali e fu colta da un brivido di
terrore quando Stella lanciò un grido in stile Esorcista. Come aveva definito
Suzie quel viaggio al centro commerciale? Un’impresa suicida?
Ecco.
Signore santissimo!
La piccola era tutta un indicare, un agitarsi sul passeggino, uno sporgersi
per toccare qualsiasi cosa le capitasse a tiro e, sotto sotto, Maggie non poteva
certo disapprovarla, perché sembrava di essere finiti proprio nel laboratorio di
Babbo Natale; in un angolo del reparto c’era anche la casa del vecchio Santa,
ma, da quel che si leggeva su un cartello, in quel momento Mr Claus era in
pausa.
Passarono davanti a ogni tipo di gioco che mente umana avesse potuto
concepire – bambole, peluche, lego, giochi per piccolissimi e giochi per
bimbi più grandi – e Stella commentava ogni cosa con gridolini di gioia,
allungando le manine e scalciando allegramente.
Poi giunsero nel settore dedicato a cowboy e indiani e lì qualcosa cambiò.
All’improvviso, Stella si fece silenziosa e il suo piccolo sguardo da
Terminator in passeggino cominciò ad analizzare lo spazio con meticolosa
precisione, senza distrazioni, in concentrato silenzio.
Omammamia!
Cercando di governare il panico nascente con respiri profondi, Maggie si
illuse per un istante che lo strano comportamento della piccola fosse da
attribuire alla stanchezza o al sonno o a qualcosa di incomprensibile
dell’universo bambinesco.
Ma si sbagliava, naturalmente.
«Cosa c’è tesoruccio della ssia, hai sonno forse, fame o sete?» le chiese
abbassandosi e sorridendo in modo forzato, terrorizzata dai possibili sviluppi
della situazione.
Ma la bimba non la considerò neppure, intenta com’era a perlustrare
l’ambiente.
La situazione diventava ogni minuto più critica.
Per cercare di distrarre la nipotina, che esibiva ormai un cipiglio
preoccupante sul volto, Maggie prese da un bancone due cappelli da cowboy,
uno lo sistemò sulla testolina di Stella, l’altro sulla sua. E, come per
miracolo…
«Steeeesson!» prese a urlare felice la bimba, indicando il cappello di
Maggie e poi il suo.
Stetson? Come diavolo fa una bambina di due anni a conoscere una marca
di cappelli da cowboy? E non una marca a caso. La preferita di Mitch
Sandford.
Cos’era, una congiura?
Sperando di togliersi di testa anche Mitch, oltre allo Stetson, Maggie si levò
il cappello e lo rimise a posto, ma quando fece per levarlo alla bambina,
quella si mise a protestare, e in modo alquanto vivace.
Al braccio di ferro dei capricci non era ancora pronta. A cedere su tutta la
linea, sì.
«Va bene, va bene piccola, puoi tenerlo! Ma sai che questo cappello ti sta
benissimo?» le disse baciandola sulla guancia.
«Steeeesson» la corresse lei con un gran sorriso.
Maggie fissò sua nipote stupita.
La bimba si mise a ridere e allungò la manina a indicare un punto dall’altra
parte del reparto.
«E adesso, che altro c’è, birba che non sei altro?» rispose lei voltandosi
nella direzione indicata da Stella.
Per una frazione di secondo un vero Stetson balenò nel suo campo visivo.
Il cuore di Maggie mancò un battito, facciamo due, mentre le ginocchia
sembrarono di colpo essere diventate di gelatina.
Non fare la stupida! Hai idea di quanti dannati cappelli di quella marca
circolino in Wyoming? Lì sotto non c’è Mitch, tranquilla, ma solo un altro
cowboy del cavolo, probabilmente brutto, pelato e con le gambe storte.
Non erano storte quelle di Mitch.
Prendendo un gran respiro, tornò a spingere il passeggino tenendo lo
sguardo fisso davanti a sé. Perché, in fondo, non si poteva mai sapere chi si
nascondesse sotto uno Stetson.
Stella, nel frattempo, si era tolta il cappello da cowgirl e lo agitava in aria
urlando «Caballos, caballos!»
Come in un rodeo nel New Mexico.
Maggie sulle prime non capì cosa avesse provocato un tale equino
entusiasmo in Stella, ma poi li vide. Allineati sul banco successivo c’erano
decine di cavallini di peluche di ogni grandezza e colore. Morbidi, teneri, con
gli occhi dolci e il muso adorabile. Incitata dalle urla crescenti della nipotina,
Maggie spinse il passeggino verso quel morbido branco, sapendo benissimo
che, se le urla di gioia di quel diavoletto si fossero trasformate in capricci,
non avrebbe resistito per un solo minuto.
«Volo quello» disse Stella indicando un pony pezzato, morbido, adorabile,
con un muso da riempire di baci.
«È questo che ti piacerebbe per Natale, Stella?» le chiese Maggie.
La bambina incominciò allora a sorridere e a scalciare e, agitando la testa in
un sì deciso, allungò le due “tenere” braccine verso il piccolo, delizioso
peluche. Maggie commise il tragico errore di prenderlo dal bancone e di
porgerglielo.
La colonna sonora di Psycho le risuonò subito nelle orecchie.
Zin Zin Zin!
Oh, Stella era felice in quel momento.
Era una figlia felice del consumismo. L’immagine perfetta del Natale che
ogni grande magazzino vorrebbe nella sua pubblicità.
Felice e, insieme, diabolica.
Stringeva il peluche al petto, lo baciava e, socchiudendo gli occhi in
atteggiamento estatico, ripeteva «Bello caballo mio, mio cavallino», giusto
nel caso Maggie volesse metterne in discussione la proprietà.
Prova a togliermelo, se ci riesci, ssia…
Maggie, nella sua inesperienza ziesca, non si era accorta di quella sfida
nascosta e così, quando commise il madornale errore di dire alla piccola:
«Ridammelo, Stella, che lo rimettiamo a posto con i suoi amici. Vedrai che te
lo porta Babbo Natale, il cavallino», il labbro inferiore della piccola cominciò
a tremare, mentre lo sguardo da angioletto diventava quello di Norman Bates.
«Caballo mio, no di Babbo Natale.»
E come darle torto?
Maggie prese un bel respiro e pensò che ce la poteva fare.
«Devi solo aspettare qualche giorno, in fondo» disse alla piccola in un
disperato tentativo di farla ragionare.
Far ragionare una bambina di due anni nel paese dei balocchi?
***
Forse accorgendosi che la zia stava per cedere, Stella scoppiò a piangere e
diventò tanto paonazza che la povera Maggie per contrasto sbiancò,
terrorizzata, annichilita da una situazione che non aveva previsto e che le era
scappata di mano sin dall’inizio. Una situazione da panico. Una situazione
suicida.
È solo il capriccio di una bimba, ce la posso fare.
Ma intanto era diventata talmente pallida che per un attimo persino Stella
smise di fare i capricci e si mise a fissare preoccupata la zia. Un paio di
secondi, non di più, perché appena la piccola iena si rese conto di avere zietta
in pugno, si esibì in un altro acuto degno della Callas. L’acuto rimbalzò da
orecchio a orecchio amplificato dall’acustica del centro commerciale e non
smise sino a quando la piccina non capì di aver vinto. Ovvero quando
comprese che la zia era pronta a cedere su tutto, senza neppure fare il
tentativo di negoziare.
Maggie era smarrita. Intorno a lei, mamme perfette la fissavano come fosse
una seviziatrice di bambini. Qualcuna addirittura scuoteva il capo,
disapprovando.
La colonna sonora di Psycho, intanto, era oramai alla sua apoteosi. Zin Zin
Zin. Come da copione, Maggie si arrese davanti a Norman Bates.
«Ok, puoi tenere il cavallino, piccola ricattatrice, basta che smetti di
piangere» disse alla nipotina, inginocchiandosi di fronte a lei, come Marie
Antoinette davanti alla ghigliottina.
Stella smise di piangere all’istante e strinse il pony al petto. «Cavallino,
mio» disse con aria estatica.
Se gli altoparlanti in quel momento avessero sparato a tutto volume We are
the champions, Maggie non si sarebbe stupita.
Quando arrivarono alla cassa, Maggie a fatica riuscì a togliere dalle mani di
sua nipote il caballo e dalla sua testa il cappello da cowgirl per poterli pagare.
Poi, calpestando ogni briciola rimanente del suo amor proprio ziesco,
riconsegnò il tutto a Stella e, meditando un immediato ritorno all’uso della
pillola anticoncezionale, si diresse verso l’uscita del centro commerciale.
Fu allora che…
«Caballo caballo!» ricominciò la piccola.
«Oh no, di nuovo!?»
Assalita da una crisi di sconforto, Maggie fermò il passeggino prostrandosi
ancora una volta davanti alla piccola despota. «Ce l’hai già, il cavallino,
tesoro…»
Strano!
Stella sembrava felice in quel momento, non certo una bimba capricciosa.
Ma allora perché continuava a ripetere caballo e a toccarsi il cappello da
cowgirl mentre indicava un punto proprio sopra la sua testa?
Un improvviso calore si diffuse in ogni cellula di Maggie mentre al rallenti
si girava nella direzione indicata con tanta ostinazione dalla bimba. Lo
sguardo si fermò prima su un paio di stivali che Maggie era sicura di aver già
visto, poi risalì lungo un paio di gambe molto lunghe e robuste, purtroppo
nascoste dai jeans, incontrò un giaccone verde imbottito, anche quello già
visto, e si fissò infine su uno Stetson senza neppure chiedersi chi ci fosse
sotto. Perché già lo sapeva che sotto il dannato Stetson c’era lui, il cowboy, in
tutto il suo fottutissimo splendore.
«Mitch!» esclamò Maggie senza riuscire a nascondere il proprio stupore né
tantomeno a rialzarsi da quella insolita posizione.
«Maggie!» rispose lui, fissandola spazientito, come se fosse stanco di
ritrovarsela troppo spesso tra i piedi.
Letteralmente.
Poi, curvandosi su di lei, la prese per la vita, la sollevò senza fatica e, a
braccia tese, la tenne qualche secondo sospesa, prima di farla scivolare verso
il basso, corpo contro corpo, occhi negli occhi, respiro nel respiro.
Cosa diavolo credi di fare, cowboy?
Maggie rimase senza fiato, l’espressione stupita di un bambi illuminato dai
fari di un’auto in corsa, mentre un fastidioso calore si diffondeva dentro di
lei, invadendo la sua intimità come un fuoco inarrestabile. Lui la guardava
con quello sguardo da perderci il sonno, come se volesse sfidarla a negare
l’attrazione che, anche in quell’istante, li stava consumando. Un’attrazione
più simile a un’esplosione nucleare che alla debole fiammella di una candela.
O forse se li era immaginati, l’attrazione e tutto il resto?
Perché, una volta che l’ebbe liberata dalla sua presa, lui si scordò di lei per
dedicarsi interamente a Stella.
Oh!
La bimba se la rideva, indicando prima il cappello di Mitch, poi il proprio,
infine il cavallino di peluche.
«Ma questo… questo è Storm!» esclamò Mitch esibendosi solo per Stella in
un’espressione di pura meraviglia, che mandò in sollucchero la piccola.
«Sì, Storm, caballo indiano!» ripeté Stella allungando le braccine per farsi
prendere in braccio da Mitch.
L’espressione di Maggie cambiò da quella di un bambi stupito a quella di
una donna molto oltraggiata, pronta a prendere quel cowboy per il bavero,
trascinarlo nel camerino di prova più vicino e dimostrargli che forse, se ci
prestava un po’ più di attenzione, anche lui avrebbe sentito quel dannato
fuoco bruciare ogni volta che i loro sguardi si incrociavano.
Ovvio che non fece nulla del genere. Si schiarì la voce e alzò un
sopracciglio, cercando di scordarsi la storia del camerino più vicino.
«E… chi sarebbe Storm?» chiese.
«Il mio vecchio pezzato. Stiamo insieme da trent’anni» rispose lui
continuando a fissare Stella, come se lei fosse invisibile.
«Lo dici quasi fosse una donna» ribatté Maggie, piccata.
Lui le rivolse un’occhiata fugace, di sfida. «Credi? Ti sbagli di grosso.
Storm è molto meglio di una donna!»
«Oh.»
Prima che in nome di tutto il genere femminile lei potesse replicare, lui le
sorrise in un modo da toglierle il fiato. La fossetta sul mento, poi, quel giorno
sembrava più dolce del miele…
E se si fosse allungata verso di lui e gliela avesse leccata?
Solo a pensarci, le sue ginocchia vacillarono e per un attimo temette di
finire di nuovo lunga distesa per terra.
Doveva star lontana da quel cowboy.
Perché, per quanto già sapesse che non sarebbe mai diventata la mamma –
né tantomeno la zia – dell’anno, non voleva rinunciare al suo piano solo
perché un cowboy dagli occhi verdi si era messo di mezzo. Non chiedeva
altro che un uomo sano e gentile si unisse a lei per fare un bambino. Senza
passione né desiderio, senza struggimenti né sofferenze.
«Vuoi dire, cowboy, che la compagnia di un cavallo per te è meglio di
quella di una donna?» riuscì finalmente a replicare.
«Dipende dalla donna» rispose lui senza la minima esitazione e senza
distogliere l’attenzione da Stella che continuava a parlottare di caballi.
«Però, che ammissione compromettente e…!»
Non voleva usare la parola maschilista.
«Maschilista, vuoi dire? Forse, ma ammetterai che un cavallo è meno
problematico…»
«Ma davvero?» esclamò lei incrociando le braccia e fissandolo sarcastica.
«… e che è fedele sino alla morte; è dolce e comprensivo e, soprattutto, non
discute mai. Non posso dire lo stesso di molte donne che ho conosciuto.»
Maggie scosse la testa in modo vivace e i suoi capelli ondeggiarono in
mille riflessi. Sentiva gli occhi di Mitch bruciarle addosso.
«Non crederai di trascinarmi in qualche polemica pseudo-femminista?»
disse. «Non mi interessa affatto come la pensiate qui nel West e non mi
scandalizzo se preferisci la compagnia di un cavallo a quella di una donna.
Sono solo fatti tuoi. Ora è meglio che andiamo, piccola» aggiunse rivolta a
Stella.
«Caballo caballo!» disse quella per richiamare l’attenzione di Mitch. Che
si chinò, prese la piccola in braccio e se la mise a cavalcioni sul collo prima
che Maggie riuscisse a fermarlo.
«Cosa credi di fare con mia nipote?»
«Portarla a cavalluccio sino all’auto. Hai paura che la faccia cadere?»
Maggie fu presa in contropiede e non trovò alcuna obiezione da opporre,
anche perché Stella lassù sembrava il ritratto della felicità.
«No, certo che non ho nulla in contrario» rispose un po’ rigida, «ma devo
allacciarle il piumino e metterle sciarpa e cappello prima di uscire da qui.»
Lui disse alla bimba di tenersi forte, poi si piegò sulle ginocchia per
consentire a Maggie di rivestirla.
Come se fosse facile fare qualsiasi cosa con il respiro di lui che le
accarezzava il viso e quegli occhi verdi che le fissavano le labbra.
«Smettila di guardarmi così, mi innervosisci» gli sussurrò infilando il
berretto in testa alla piccola.
Lui si finse sorpreso. «Certo che sei strana. Io innervosire te? Dopo quanto
mi hai fatto?»
«Io?»
Mitch si girò indicando il punto in cui il suo zigomo si era scontrato con il
gomito di Maggie. «Non mi chiedi neppure se va meglio?» le disse.
«Va meglio?» rispose lei con un sorriso angelico.
«Al momento no, ma andrà meglio se sulla via di casa vi fermerete qualche
minuto al mio ranch. Credo che Stella sarebbe felice di incontrare Storm,
quello vero. Che ne dici?»
Senza rispondere, Maggie alzò gli occhi al cielo e s’incamminò verso le
porte automatiche dell’uscita mentre Stella, ancora al collo di Mitch,
mostrava a tutto il mondo il suo cavallino di peluche.
Tutti e tre insieme sembravano l’immagine della famiglia perfetta.
5
Paradise
Mitch si sedette al volante, accese il motore e attese che la Ford di Maggie
lo raggiungesse, poi ingranò la marcia e partì. Le strade erano buone quel
giorno e in venti minuti sarebbero giunti al ranch.
Ancora non capiva perché avesse insistito per portarle a Paradise.
Certo, voleva fare una sorpresa a Stella mostrandole il puledrino appena
nato, ma c’era dell’altro. Guardò nello specchietto e, alla sola vista della Ford
guidata da Maggie, sorrise.
Inutile negarlo a se stesso: le parole gli erano uscite dalla bocca di getto,
prima che potesse rimangiarsele, perché, in quei pochi minuti trascorsi
insieme a Maggie e Stella, si era sentito pieno di gioia come da troppo tempo
non succedeva.
Gli era sembrato di camminare a due spanne da terra solo perché era con
loro.
Una svitata troppo attraente e un’adorabile pupattola di due anni erano
riuscite a fargli questo. Punto a capo.
Non che credesse che in un angolo nascosto della sua testa ci fosse altro,
tipo mettere ordine nella sua vita o il desiderio di avere una famiglia… Non
certo dopo quanto gli era successo in passato.
E in quanto ai bambini, gli piacevano un sacco e si divertiva a stare con
loro. Ma solo quando erano figli degli altri.
Lui, padre, proprio non si vedeva.
Zio acquisito, al massimo.
Una filosofia di vita di cui non andava fiero, ma le cose ormai stavano così.
***
Maggie seguì il pick-up rosso prima lungo la statale, poi in una strada
laterale all’inizio della quale un arco di pietra annunciava l’ingresso a
Paradise: nome piuttosto impegnativo, soprattutto perché il suo proprietario
non le dava affatto l’idea di essere un santo. Seguì il cowboy per un altro
miglio prima di giungere al ranch, un complesso di edifici distribuiti lungo i
due lati più lunghi di un cortile di forma rettangolare. Maggie notò quattro
costruzioni principali, due di pietra, due di legno, più altre cinque più piccole.
Al lato nord del cortile, una ventina di cavalli trotterellava all’interno di un
grande recinto, godendosi il sole tiepido di mezzogiorno.
Quando i due veicoli parcheggiarono, i cavalli si affrettarono verso la
staccionata, scuotendo le teste e lanciando dei piccoli nitriti in segno di
saluto. Un’immagine di cui Maggie difficilmente si sarebbe dimenticata.
«Amore, guarda, ci sono i cavalli!» disse spegnendo il motore. «Stella, li
hai visti?»
Strano che la bimba fosse tanto quieta. Preoccupata, Maggie si girò verso il
sedile posteriore, dando così le spalle alla portiera dell’auto: grazie al cielo,
Stella si era semplicemente addormentata nel suo seggiolino, con caballo
stretto fra le braccia e il cappello da cowboy in testa. Era così adorabile che
sentì il cuore gonfiarsi di amore.
Era ancora persa nella visione della bimba, quando Mitch aprì la portiera
del guidatore e infilò il capo all’interno dell’auto. Maggie trattenne il fiato,
senza sapere bene cosa fare. Le era così vicino che sentiva il suo respiro
accarezzarle la nuca.
Si irrigidì, cercando di respingere i danni che quella carezza impalpabile e
sensuale stava provocando in lei, piccoli brividi caldi e pericolosi che, dalla
pelle, si diffondevano in parti molto più private del suo corpo.
«Dorme?» le chiese lui in un sussurro.
Lei gli fece cenno di sì, senza neppure tentare di girarsi perché, se l’avesse
fatto, le loro labbra si sarebbero potute trovate a una distanza a rischio bacio.
Non era neppure certa di respirare.
«Sì, dorme, e forse è meglio che la riporti subito a casa» rispose infine,
mentre il profumo di Mitch le entrava dentro, inducendola a fantasticare su
cose che non avrebbe dovuto neppure pensare in presenza di una bambina.
Il braccio di Mitch si posò sul sedile, vicino alla sua spalla. Ora era
davvero in trappola. Si irrigidì ulteriormente mentre lui le sussurrava ancora
nell’orecchio qualcosa che ormai stentava a comprendere.
«Non vorrai portarla a casa senza averla fatta giocare con Storm, spero. Sai
che capriccio pianterebbe appena sveglia? E poi, ho in serbo un’altra sorpresa
per lei, forse anche per te.»
Per me?
La voce di Mitch era ormai così sensuale e roca che le sue parole le
scivolarono dentro come una proposta indecente. Se qualcuno li avesse visti
in quel momento avrebbe pensato di trovarsi nel bel mezzo di una scena di
seduzione, e forse non si sarebbe sbagliato.
«Cosa…» Si schiarì la voce, poi riprese. «Cosa dovrei fare, allora?» chiese
rimanendo rigida come uno stoccafisso per evitare qualsiasi contatto con il
corpo di Mitch.
Lui espirò profondamente e le si avvicinò ancora di più. Le sue labbra
ormai la sfioravano.
«La portiamo in casa e Aiyana si occuperà di lei. Intanto io potrei mostrarti
il ranch… Poi, vedremo.»
Aiyana? Il Ranch? E, soprattutto, poi vedremo? Cosa vedremo, Santiddio?
In ogni caso doveva far presto a uscire da quella situazione e da quell’auto.
Così si schiarì di nuovo la voce e si voltò quasi di scatto, rischiando, come
previsto, uno scontro frontale con la bocca del cowboy, cosa che provocò in
lui un evidente divertimento.
Deglutì, imbarazzata.
«Va bene, ma ora spostati per favore, vorrei scendere» disse d’un fiato,
serrando subito dopo gli occhi per non incontrare quelli di Mitch, ancora fissi
sulle sue labbra.
«Certo» rispose lui senza riuscire a trattenere un risolino.
Maggie senti qualcosa di delicato sfiorarle le labbra. La manica del
giaccone di Mitch? Lo Stetson? Le sua bocca, forse?
Riaprì gli occhi, e grazie al cielo lui era già fuori dall’auto. Le teneva aperta
la portiera, innocente come un serafino.
Che avesse equivocato? Forse Mitch non aveva mai avuto alcuna
intenzione di provarci, forse tutto quel sussurrare intimo e sensuale era
servito solo a non svegliare Stella.
E il modo in cui le aveva fissato le labbra, allora? Anche quello era stato
così innocente?
Be’, forse aveva qualcosa fra i denti e lui stava cercando di capire che tipo
di insalata fosse.
Si passò la lingua sui denti, niente.
Con un gran sospiro, Maggie cercò di calmare il battito del cuore, si voltò a
dare un’occhiata a Stella e poi uscì dall’auto, guardandosi intorno.
Sì, era proprio una bella giornata, riscaldata da un sole luminoso.
Paradise non assomigliava ai ranch visti al cinema e neppure a quelli
pubblicati sulle riviste di arredamento. Era molto di più. Era un distillato di
calore, forza, sicurezza e virilità allo stato puro. E, ciò che era peggio,
profumava di casa.
Casa?
Maggie respinse un fremito che assomigliava troppo alla speranza.
Si girò verso Mitch e lo accarezzò con lo sguardo, ma fu come se fossero le
sue mani a toccarlo.
Era lì, efficiente e sicuro, terribilmente sexy e virile anche mentre si
occupava di Stella. Maggie lo osservò armeggiare con disinvoltura con la
chiusura del seggiolino e poi prendere la piccola in braccio come una tata
esperta.
«Seguimi» mormorò, e con Stella che dormiva beata fra le sue braccia si
diresse verso casa.
Maggie alzò gli occhi al cielo e sentendosi strana lo seguì.
*
Dalla soglia anche all’interno il ranch era curato, pulito e ordinato, e molto
molto virile.
Le ricordò un po’ quello di Sette spose per sette fratelli, ma dopo l’arrivo
delle ragazze.
Una donna di mezza età dai capelli neri come le penne di un corvo li
accolse all’ingresso. Era una nativa americana, con la pelle scura e liscia, gli
occhi più neri dei capelli. Bellissima.
«Potevi dirmelo che portavi a casa la nostra la principessina e Suzie, avrei
preparato qualcosa di buono per pranzo» sussurrò la donna, prima di prendere
Stella dalle braccia di Mitch.
«Non è Suzie» rispose lui sorridendo, indicando col pollice Maggie. «È sua
sorella, Maggie. Maggie, questa è Aiyana. Aiyana, ti presento Maggie.»
Il bel volto della donna si illuminò. «Incredibile, siete due gocce d’acqua tu
e Suzie» commentò fissando Mitch, che a sua volta non toglieva gli occhi di
dosso a Maggie. «Spero che rimarrai a lungo con noi, Maggie.»
«Non credo, purtroppo, non so…» mormorò lei diventando rossa.
«Forse riusciremo a farti cambiare idea» la interruppe la donna.
Perché poi volesse farle cambiare idea, Maggie non lo capiva.
L’altra le sorrise. «Siete d’accordo se porto la bambina di là e vi aspetto fra
mezz’ora per il pranzo?»
«Grazie mille, ma io dovrei tornare a casa, Suzie non sa che siamo qui…
Aina.»
«Aiyana» la corresse lei ridendo. Poi alzò un sopracciglio e disse, anzi
ordinò: «Telefona a Suzie, Mitch, e avvertila che le due signore si fermeranno
a pranzo con noi».
Che fosse anche lei un ex ranger?
Mitch avvolse la donna, che ancora reggeva Stella in braccio, in uno scialle
colorato, poi la spinse delicatamente oltre la porta di casa. Maggie non disse
nulla, ma lo guardò con aria interrogativa e preoccupata, come se fosse
incerta se potersi fidare o no…
Lui le sorrise, cercando di rassicurarla. «È in buone mani, non ti
preoccupare. Aiyana e suo marito Hakan vivono nell’edificio di fronte e
lavorano per me. Lui si occupa del ranch, lei della casa e di nutrire gli
uomini. E lo fa in modo spettacolare. Proverai tra poco la sua cucina.»
«Mi sembra una donna piuttosto… decisa.»
«Peggio del mio colonnello, sì. Ma insostituibile. Ora, se ti va, ti faccio
visitare il ranch, che ne dici? Non ci vorrà molto.»
Maggie sapeva benissimo di stare per cacciarsi in qualche guaio, ma ormai
era lì, curiosa di vedere dove viveva quel cowboy.
«Certo che mi va. Non sono mai stata in un vero ranch, se non al cinema.»
«Bene, allora. Pronta per il giro turistico?»
«Prontissima!» Più che pronta Maggie era ansiosa, quasi sentisse quel
luogo familiare.
Che diavolo ti frulla in testa? Scordatelo.
Mitch le sorrise, rassicurante, ma i suoi occhi verdi non fecero che
peggiorare la situazione. Maggie si sentiva vulnerabile e trasparente al suo
fianco. E difatti…
«Qualcosa non va?» le chiese.
Lei lo fissò sorpresa. Quel cowboy le leggeva dentro come fosse un libro
aperto. Meglio cambiare subito argomento.
«Suppongo che questo sia il salotto» disse guardandosi intorno: pareti di
pietra e tronchi, coloratissimi tappeti indiani, solidi divani in pelle, mobili
semplici, ma con impresso il fascino del tempo, cimeli cheyenne e del
vecchio West, una libreria stracolma di volumi e un camino così grande che
un uomo vi avrebbe potuto dormire dentro o stare dritto in piedi.
«È bellissimo» mormorò Maggie con un sospiro.
«Grazie, non è una reggia, ma è… casa mia, come la voglio io.»
La voce di Mitch, un sussurro di velluto, era così vicina da baciarle la nuca.
Che intenzioni aveva? Di sedurla forse in pieno giorno? Con sua nipote a
due passi da loro? Meglio togliergli subito quell’idea dalla testa. Doveva
muoversi, allontanarsi da lui, fingere di non sentire quel fuoco che le
bruciava dentro quando lui le stava vicino. Come in quel momento.
Prese un gran respiro, si sventolò di soppiatto con entrambe le mani poi,
con fare indifferente, si diresse verso una bacheca di vetro contenente
un’intera collezione di revolver e Winchester, provenienti forse all’esercito di
Custer. Due parole veloci su quei cimeli, poi riprese a muoversi per la stanza
osservando e accarezzando oggetti e suppellettili vecchi almeno un centinaio
d’anni. Non che fosse facile ostentare tutta quella indifferenza. Perché,
mentre lei ammirava una vecchia tabacchiera o una pipa indiana, lo sguardo
di Mitch non le dava tregua e indugiava su di lei come una carezza lenta e
sensuale, promettendole l’impossibile.
***
Se poco prima, nell’auto di Maggie, si era comportato da vero idiota, ora si
stava comportando da idiota al quadrato. Certo, era stupito che una donna
come lei, abituata a ben altre condizioni di vita, potesse interessarsi a quelle
cianfrusaglie da vecchio West, ma erano altri i motivi per cui se la stava
bevendo con gli occhi. E non avevano nulla a che vedere con la sua casa.
Deglutì, turbato dal tenore dei suoi pensieri, e fece un passo indietro per
mettere più spazio fra loro.
«E questi?» gli chiese lei, indicando i quadri che pendevano dalle pareti.
Montagne innevate e cavalli selvaggi.
Mitch trattenne il fiato mentre i suoi occhi cercavano ancora quelli di lei.
Come se già non fosse stato abbastanza aver appena fatto la figura
dell’imbecille, sentì un insolito calore inondargli il volto, come un ragazzino
alla prima cotta. Lui, un uomo duro, un ex ufficiale dell’esercito, un
poliziotto, un cowboy.
Un imbecille.
Meglio smettere di guardarla come se volesse divorarla.
«Quelli…» disse con un che di malinconico, «li ha dipinti mio nonno Ryan,
forse per ammazzare il tempo d’inverno.»
«Sono paesaggi di qui?»
«Sì, certo. Se ti farà piacere, te li mostrerò, un giorno. Non si può
raggiungerli che a cavallo, e non prima di primavera inoltrata… Sai
cavalcare, vero?»
Non più solo un semplice imbecille, adesso si sentiva un imbecille patetico.
Si pentì quasi subito di aver pronunciato quelle parole troppo intime, si
pentì di averle parlato di un possibile futuro insieme. A primavera! Santiddio,
era ancora così lontana la primavera. Altre donne, per un frase così, gli
avrebbero già lanciato un lazo e stretto il cappio intorno al collo.
Lei gli sorrise appena, fermandosi davanti a un altro quadro. Cavalli e
montagne, ancora.
«Mi piacerebbe molto che tu me li mostrassi, Mitch, ma non credo che mi
fermerò così a lungo a Hope. E sì, so cavalcare, sono in grado di stare in
sella» disse lei con un guizzo ironico nello sguardo.
Bene, la svitata sapeva stare in sella. In quel momento la immaginò
cavalcare al suo fianco, sugli altipiani o sui sentieri di montagna. Andavano
al passo e parlavano, lei sorrideva e sembrava felice.
Imbecille, patetico e illuso.
Dannazione! Perché l’aveva portata a casa?
Lo assalì una sensazione fastidiosa, quasi sconosciuta. Ripensò al loro
primo incontro, alla gomitata allo zigomo che lei gli aveva rifilato. Alla
Samsonite rosa sugli stinchi. Al bacio passionale che si erano scambiati sul
piazzale dell’aeroporto rotolando sul marciapiede coperto di neve come
fossero stati su un letto. Alla scarica di ormoni che per qualche istante gli
aveva offuscato la ragione, al contatto elettrizzante dei loro corpi.
Forse, oltre a quello sullo zigomo, lei gli aveva dato anche un colpo alla
testa, e bello forte.
Per fortuna che anche i colpi in testa, prima o poi, guarivano.
Maggie ora era ferma davanti alla grande vetrata che si apriva sulle
montagne piene di neve e illuminate dal sole.
«Dio, che meraviglia! Deve essere incredibile al tramonto» mormorò.
«Lo è. Le montagne si tingono poco per volta di rosso, poi, quando cala il
buio, sembra che risplendano di luce propria» disse lui mentre cercava di
scacciare dalla mente i molti modi in cui gli sarebbe piaciuto ammirare quello
spettacolo con lei.
Lei si girò lentamente, curiosa, attenta. «E tutte queste magnifiche sculture
in legno, chi le ha fatte?»
Lui si infilò le mani nelle tasche dei jeans e alzò le spalle, come un
ragazzino imbarazzato. «Non le chiamerei proprio sculture. Sono
semplicemente delle figure che mi diverto a intagliare nel legno. D’inverno il
ranch dà poco lavoro e le sere possono essere molto lunghe se si è…»
«Se si è?»
«Niente.»
«Sono molto belle, Mitch.»
«Naaa, non sono che pezzi di legno.»
***
Cowboy, sceriffo, eroe e ora pure artista?
Forse sarebbe stato meglio sparire dalla circolazione prima che “People” lo
eleggesse anche uomo più sexy dell’anno, davanti a Brad Pitt e a Bradley
Cooper.
Maggie si schiarì la voce e fece un passo indietro, per allontanarsi da lui e
da quel suo profumo che le faceva girare la testa.
«Tutto, per la verità, è molto bello e… caldo qui. Mi piace la tua casa,
Mitch, ha personalità…»
«Sono mobili che appartengono alla mia famiglia. Io li ho solo recuperati
dalla rimessa e sistemati. Ogni pezzo ha una storia che si tramanda. Forse te
ne racconterò qualcuna, un giorno.»
Un giorno?
Ancora?
Se Mitch andava avanti a parlarle di futuro, quel credulone del suo cuore,
che da quando era arrivata a Hope sembrava deciso a comportarsi come uno
stupido, avrebbe finito per credergli.
Si schiarì la voce e raddrizzò le spalle.
«Un giorno? Ho molti dubbi, in proposito» rispose in modo definitivo
entrando nella stanza seguente.
«Mai dire mai» mormorò lui seguendola, e lei ebbe l’impressione che le
fosse talmente vicino che, se si fosse fermata di colpo, le sarebbe finito
addosso. Come in un cartone animato.
Sorrise, tentata dall’idea.
Si trovavano ora nello studio di Mitch. Spartano, maschile, con una forte
personalità e quell’insistente aroma di pini nell’aria. La parete principale era
occupata da un vecchio tavolo che fungeva da scrivania, invaso da
documenti, oggetti, carte geografiche, registri. Nel mezzo, un laptop spento.
Dietro al tavolo, un’altra libreria, piena zeppa di libri.
Certo che, per essere un rude cowboy, Mitch leggeva parecchio…
«A quanto pare, non intagli solo legno nelle lunghe sere d’inverno» disse
Maggie accennando agli scaffali stracolmi di romanzi.
«No di certo, ho anche altri passatempi…» rispose, e un guizzo malizioso
lampeggiò negli occhi verdi.
Maggie si sentì avvampare. «Mi riferivo ai libri…» disse gelida.
«Ah, quelli!» rispose lui, con un sorriso divertito su quelle labbra da sogno.
No, da incubo. «Sì, leggo parecchio, lo ammetto.»
«Non è un difetto.»
«Disse la scrittrice.»
«Chi scrive è prima di tutto un forte lettore» replicò con aria un po’
saccente, mentre in realtà si immaginava di sedere con Mitch davanti al
fuoco, con un libro in mano, o anche senza.
Per evitare che o anche senza assumesse connotati più espliciti, si
concentrò su altri particolari della stanza: i trofei vinti ai concorsi ippici e ai
rodei ben allineati sulla mensola del camino, una vecchia poltrona in pelle e
un poggia-piedi un po’ sfondato, un tavolino da caffè carico di libri, un
tappeto indiano dai colori ormai sbiaditi.
L’insieme era talmente vissuto e perfetto che avrebbe fatto la felicità di
qualsiasi art director di “AD”.
A parte il fatto che era vero.
«Questo è l’angolo della casa che preferisco, dove pianifico il lavoro»
mormorò lui come se le stesse rivelando un segreto.
Anche il mio, avrebbe voluto rispondere lei in tono altrettanto intimo. Ma
non lo fece. Chiuse invece gli occhi e immaginò Mitch dietro alla scrivania:
mentre pensava al lavoro, lo sguardo alle montagne là fuori, mentre si
portava alle labbra una tazza di caffè fumante, oppure chino al computer, il
volto illuminato dalla luce dello schermo. O, ancora, sprofondato in quella
vecchia poltrona, il riflesso delle fiamme nel camino che danzava su di lui, un
cane al suo fianco, addormentato sul tappeto logoro.
Già, un cane.
Ce ne doveva pur essere uno da qualche parte.
«Hai un cane, vero? Quel tappeto è per lui?» gli chiese di impulso.
Un solo passo e lui fu lì, caldo e protettivo dietro di lei. La sua bocca… oh,
così vicina al lobo del suo orecchio destro da regalarle un brivido di piacere.
«Sì, hai ragione, ho un cane, Archie. Mi ha adottato tanto tempo fa.»
Non proprio le parole di Cyrano a Rossana, ma il loro suono uscì tanto
seducente e sensuale che Maggie pregò affinché le ginocchia continuassero a
sostenerla.
***
Mitch era rimasto sorpreso dalla domanda di Maggie, per come lei avesse
visto dentro la sua vita. Il punto era che non capiva se la cosa lo rendesse
felice oppure no.
C’erano molte cose che non capiva, quando si trattava di quella donna.
Come la ragione per cui, nonostante d’abitudine fosse riservato e geloso della
sua intimità, gli piacesse vederla muoversi in mezzo alle sue cose, attenta ai
piccoli dettagli, curiosa, dannatamente percettiva. Come quella storia del
cane. Come diavolo ci era riuscita? Forse le aveva già detto di averne uno?
Archie, cane enorme e peloso come uno yeti, scelse proprio quel momento
per entrare in scena, come un grande attore.
«Oh, ma allora esisti davvero» disse Maggie per nulla sorpresa o impaurita,
cominciando ad accarezzarlo e a fargli mille complimenti.
Ok, Archie amava essere al centro delle attenzioni, ma di solito accoglieva i
visitatori con una certa diffidenza.
Non Maggie. Sembrava un cucciolo di barboncino con lei.
Cos’era quella donna, un’ammaliatrice oltre che una svitata?
«A cuccia Archie» ordinò Mitch al grosso meticcio.
Con un piccolo grugnito di disapprovazione il cane interruppe la sua festosa
presentazione e si sedette fissando con occhi speranzosi ora il suo padrone,
ora Maggie. La coda batteva un ritmo sincopato sul pavimento.
Tump tump.
«Sembra che tu gli vada a genio, un privilegio che non molti possono
vantare» le disse.
«Certo, perché non dovrei andargli a genio?» rispose Maggie.
Tump tump.
«Mmmh, vediamo» disse Mitch fissando il soffitto come se vi cercasse una
risposta. «Ad esempio, perché Archie è un vecchio originale, molto
abitudinario e non facile da conquistare. Di solito mostra i denti, non
scodinzola come se fosse il miglior amico dell’uomo.»
«Magari preferisce le donne…»
«In questo caso, avrebbe tutta la mia approvazione.»
***
Ecco.
Un sorriso come quello che le aveva appena rivolto avrebbe dovuto essere
vietato per legge, pensò Maggie. Colpiva dritto al cuore, preciso e inesorabile
come un cecchino.
Meglio non pensarci e cambiare argomento.
«L’albero di Natale non lo fai?»
La domanda sembrò coglierlo impreparato. Prima la fissò sorpreso, poi
scosse la testa e disse: «E per chi dovrei farlo?»
«Per te stesso, forse?»
«Lo fanno già Aiyana e Hakan, basta quello per tutto il ranch.»
Argomento concluso. Meglio trovarne un altro prima che lui si avvicinasse
di un altro passo.
«E di sopra?» chiese indicando le scale. «Cosa c’è?»
Ma brava! Cosa vuoi che ci sia, di sopra, se non le camere da letto? Vuoi
per caso che ti mostri anche quelle e che magari ti colpisca con un altro di
quei suoi sorrisi irresistibili?
No, grazie! L’ultimo stava ancora rimbalzando dentro di lei tra cuore,
stomaco e ancora più in basso, come un proiettile impazzito.
«Le camere da letto. Vuoi vederle?» rispose lui.
Oddio, stava davvero arrossendo?
«Be’, no, grazie, non occorre. Anche perché forse dovrei andare a vedere
cosa sta combinando Stella.»
Lui sospirò. «Va bene. Ma prima vorrei farti conoscere qualcuno.»
*
Maggie rimase sorpresa quando, con Archie alle costole, Mitch la
accompagnò in una delle due scuderie di Paradise. Erano anni che non
entrava in una stalla, che non respirava quell’odore, buono e sgradevole nel
contempo. Un odore che le ricordava la sua fanciullezza e tutti gli anni in cui
suo padre l’aveva costretta a montare.
La stalla era una solida, vecchia costruzione in legno Douglas, molto
spaziosa e ben mantenuta, divisa all’interno in una ventina di cubicoli, in quel
momento quasi tutti vuoti perché i cavalli erano ancora fuori, nel recinto, a
godersi quella giornata di sole.
Solo un paio erano rimasti lì al caldo.
Appena sentirono il passo familiare di Mitch, entrambi sporsero il muso e
con un leggero scalpiccio si girarono verso l’ingresso, gli occhi grandi di
attesa.
«Ciao ragazzi» disse Mitch prendendo alcune mele da un sacco e
passandone un paio a Maggie.
«Pensavo volessi presentarmi qualcuno» mormorò incuriosita.
«Infatti. Aspetta e vedrai» le rispose Mitch dando una mela anche ad
Archie che lo fissava impaziente.
«Gli piacciono le mele?»
«No, ma se non gliene do una, poi fa l’offeso» spiegò Mitch divertito,
mentre Archie trotterellava in un angolo della stalla e si scavava una cuccia
nel fieno.
«È geloso» disse Maggie avvicinandosi al primo dei due cavalli.
Un pezzato. Storm.
«Caballo?» chiese imitando la vocina di Stella.
«Caballo, sì» disse lui con una voce che pareva vibrare di emozione.
Per un attimo i loro occhi si incontrarono e lei vide un guizzo illuminare
quelli di Mitch, solo un lampo, ma che le scaldò il cuore.
Storm aveva il pelo lungo e l’aria stanca. Era vecchio, il muso era coperto
di peli ispidi e bianchi, gli occhi un po’ appannati che però diventavano più
luminosi del sole quando guardava Mitch.
«Piacere, Storm» disse Maggie accarezzandogli il muso e allungandogli
una mela.
Lui mosse la grossa testa in segno di ringraziamento.
«Storm è il mio primo cavallo» continuò lui. «Me lo regalò mio padre per i
cinque anni, prima che lui...» Non concluse la frase. «Siamo cresciuti
insieme, lui e io.»
«Sembra vecchio…»
«Molto vecchio, per un cavallo. Trentasette anni. Temo che Storm sia
molto stanco ormai…»
Non concluse la frase, ma era fin troppo chiaro cosa intendesse dire. Storm
ingoiò l’ultimo pezzo di mela poi gli avvicinò il muso al volto, quasi volesse
parlargli. Mitch gli sussurrò qualcosa e il cavallo lanciò un piccolo, tenero
nitrito.
Cristo santo! Il cowboy ha anche uno stramaledetto cuore?
Sentì la gola stringersi e lacrime allagarle gli occhi. Come avrebbe fatto,
adesso, a togliersi quell’immagine dalla testa? A togliersi Mitch dalla testa!
Forse era una congiura, uno scherzo del destino.
O una candid camera.
Si girò di scatto e asciugandosi gli occhi camminò decisa verso l’altro
cavallo.
Una cavallina ancora giovane, fulva, vivace.
Quando Mitch la raggiunse, Maggie stava già accarezzandole il muso.
«Dio! Hai dei cavalli meravigliosi, Mitch!»
«Sì, lo so» rispose lui senza nascondere il proprio orgoglio. «Pura razza
americana, veri discendenti dei cavalli di Montezuma. In altre parole…
Mustang. La mia famiglia li alleva da sempre. Sono cavalli speciali, forti,
intelligenti e indipendenti.»
«Li fai gareggiare?»
«Non io, ma alcuni allevatori li comprano per le corse. In ogni caso, non
sono cavalli per tutti, li vendo solo agli appassionati, a chi sono sicuro che li
tratterà con il dovuto rispetto. Qualcuno di loro invece rimarrà per sempre a
Paradise, come stallone o fattrice. Questa magnifica cavallina, ad esempio.
Sugar.»
«Ciao Sugar…» disse Maggie offrendole una mela.
La cavallina si avvicinò e con delicatezza prese il frutto tra i denti.
Sembrava sorridere.
«Come mai non è fuori con gli altri cavalli?» chiese Maggie.
«Ora te lo spiego» le disse lui, con l’espressione di un prestigiatore pronto a
fare una magia. «Seguimi» aggiunse poi, aprendo la porta del cubicolo.
E magia fu.
Sotto la pancia della cavalla, un puledrino del medesimo colore le stava
succhiando il latte da una mammella.
Maggie rimase a bocca aperta a fissare il puledrino, un’altra ondata di
lacrime pronta a riempirle gli occhi. Non era forse il caso di smetterla di
comportarsi come una frignona isterica? «È bellissimo» disse.
«Sì, è meraviglioso. Sugar è andata in calore quando nessuno se
l’aspettava, ed ecco il risultato. Non ho ancora scoperto chi sia il colpevole,
ma lo saprò presto con l’analisi del DNA.»
Maggie lo fissava stupita. E commossa, maledizione! «Vuoi dire che questo
piccolino è stato come… una specie di regalo di Natale?»
«Hai detto bene. Tanto inaspettato che lo abbiamo chiamato Miracle. Ora
non ci resta che aspettare…»
«Cosa?» gli chiese lei subito preoccupata.
«Questa non è la stagione giusta per i puledri. Potrebbe non farcela.»
Maggie sentì un groppo stringerle la gola. «Oh, ma tu non lo permetterai,
vero Mitch?» una preghiera, più che una domanda.
Lui le sorrise, con labbra irresistibili e occhi sinceri. Un altro colpo preciso,
che le arrivò dritto al cuore.
«Farò di tutto perché Miracle diventi un fantastico stallone, Maggie, te lo
prometto.»
Che quello fosse un segno, che il cowboy fosse davvero l’uomo giusto per
il suo bambino, un po’ come il misterioso e intraprendente stallone era stato
per Miracle?
Oddio, stava pensando a se stessa come a una cavalla da riproduzione. A
quel punto era arrivata?
Forse era meglio lasciare tutto. Dimenticarsi del suo folle piano e tornare
alla vita di sempre, scrivere degli amori di altri, dei figli di altri.
Sì.
Trasse un respiro profondo e solo allora si accorse che Mitch la stava
guardando con una strana intensità.
«A cosa stai pensando?» le chiese senza darle il tempo di riprendersi né di
rispondere.
Perché le aveva preso la mano, perché la stava attirando verso di sé?
Maggie sentì le ginocchia piegarsi e il respiro diventare difficile, mentre
quel traditore del suo cuore partiva al galoppo senza chiederle il permesso.
«Io… non so a cosa sto pensando. Non so neppure se sto pensando, Mitch»
si decise finalmente a rispondere.
E non che mentisse. Perché con lui così vicino non sarebbe più riuscita ad
avere un pensiero sensato per molto, molto tempo.
Mai più, probabilmente.
Ora le aveva pure circondato la vita e la stava spingendo con dolce
determinazione verso una parete.
«Co... cosa stai facendo, Mitch?» balbettò, in un sussurro che certo non
poteva essere scambiato per giù le zampe, cowboy!
«Cosa credi che stia facendo, Maggie?» fu l’unica risposta che Mitch le
diede prima di posare le labbra sulle sue, una, due, tre volte; piccoli baci che
le fecero girare la testa e le tolsero il respiro. Niente a che vedere con il bacio
che le aveva dato con prepotenza durante il loro primo incontro –oh no! – ma
qualcosa di molto più pericoloso, seducente come un salto nel vuoto.
Lasciarsi andare sarebbe stato un attimo…
E poi?
***
Il gemito che sfuggì dalle labbra di Maggie fu per Mitch un enorme
semaforo verde. Senza ulteriori esitazioni ingranò la marcia e pigiò
sull’acceleratore, dando retta al cuore e non alla mente.
Le sue labbra divennero più avide e senza incertezza si impossessarono di
quelle di lei, razziando tutto ciò che trovavano lungo il cammino.
Non solo le labbra chiesero di più. Anche il suo corpo divenne più esigente,
sollecitato dai segnali che ogni cellula di Maggie gli stava inviando. E mentre
si stringeva a lei, aderendo senza pietà ai suoi punti più sensibili e intimi, le
mani si mossero leggere e determinate, accarezzando ed esplorando finché
non sentirono il calore della pelle nuda e accogliente di lei sotto il piumino,
sotto la camicetta, sotto la gonna.
Sotto.
Non che Maggie se ne stesse lì immobile a guardare! Anche le sue labbra
non cessavano di succhiare e mordicchiare, di assaporare come se fossero a
digiuno da troppo tempo. E le sue mani…
***
Dio, era meraviglioso toccare il cowboy, così forte, virile, diverso da ogni
uomo che aveva conosciuto.
Mitch era… solido, concreto e allo stesso tempo gentile e generoso, come
se conoscesse ogni angolo segreto del suo corpo, ogni suo punto più
sensibile, ogni sua debolezza. Le sue mani erano possessive e le sue labbra…
magnifiche mentre le lasciavano una scia bollente sul collo e sulla gola, e
scendevano sempre più in basso, strappandole un sospiro disperato.
Sono proprio io a gemere come una pornostar?
Quando Mitch le prese tra le labbra un capezzolo, provocando effetti
disastrosi sulla sua forza di volontà, senza riflettere urlò sì e gli circondò il
bacino con la gamba destra offrendosi, di fatto, a lui.
In una stalla, davanti agli occhi innocenti di Miracle e Sugar.
Oddio… Sì!
Lui rispose a quel gesto così esplicito mormorando parole sconclusionate,
cui Maggie rispose con un’altra sfilza di sì incondizionati. La sollevò,
invitandola a circondargli la vita con entrambe le gambe. Invito implicito che
lei accettò subito.
Lo sentì premere dove il desiderio pulsava in lei più prepotente e le bastò
quel contatto, pur attenuato da alcuni strati di abbigliamento, per toglierle
prima il fiato, poi a mandarla oltre il limite.
Ben oltre il limite.
Urlò il suo piacere e urlò il nome di Mitch, sentendosi andare in frantumi
per colpa di un orgasmo traditore che l’aveva colta di sorpresa. In una stalla.
Roba che neanche nei suoi romanzi più hot aveva mai osato descrivere.
Come avrebbe fatto a rimettere a posto i pezzi della sua vita, ora?
Ci avrebbe pensato, ma dopo, perché in quel momento Mitch la fissava
come se volesse divorarla. E lei aveva tutte le intenzioni di lasciarglielo fare.
Armeggiando con la sua biancheria intima, Mitch le sussurrò un «Ti voglio,
adesso» così carico di desiderio che un’altra esplosione di brividi e ormoni la
attraversò da nord a sud, andandosi a scontrare con quella precedente che non
si era ancora del tutto spenta.
«Mitch» mormorò ancora, senza capire come lui riuscisse a farla sentire
così… persa? Cosa che peraltro non le impediva affatto di dedicarsi ad
aspetti più pratici della faccenda, come aprirgli la fibbia della cintura. Per
fortuna con poco successo perché, nello stesso momento, qualcuno,
all’ingresso della scuderia, chiamò i loro nomi.
«Maggie, Mitch, siete qui? C’è una bambina che si è appena svegliata e
vuole la zia!»
Aiyana! Stella!
Era fritta.
Anche perché Archie, nel frattempo, aveva lasciato la sua comoda cuccia e
si era piazzato davanti al cubicolo di Sugar rivelando al mondo intero il loro
nascondiglio.
Ecco.
Lo sguardo che Mitch le stava lanciando era puro distillato di panico.
E se lui era in preda al panico, lei avrebbe fatto meglio a non esserlo.
Gli fece segno di tacere, poi si staccò da lui badando di non fare rumore e si
riabbassò la gonna, quindi si chiuse il piumino sino al mento e uscì dal
cubicolo mentre Mitch tentava di nascondere dietro al giaccone l’evidenza.
Che a quel punto era decisamente evidente.
«Stella, amore!» disse Maggie andando verso la nipotina a braccia aperte,
sperando che Aiyana non si accorgesse dei capelli spettinati e delle labbra
gonfie. «Sai che cosa mi ha mostrato Mitch?» aggiunse con un sorriso
innocente.
Ayana inarcò un sopracciglio.
Ma che diavolo aveva capito quella donna?
«Caballo?» chiese Stella illuminandosi e indicando Storm.
Lo sguardo di Aiyana trapassò Maggie e con una veloce panoramica si
fissò sul cubicolo di Sugar.
Ok, ce l’avrebbe fatta, che Aiyana pensasse ciò che voleva. In fondo era
maggiorenne, libera e vaccinata e poteva anche farsi sbattere da un cowboy in
una stalla se le andava. Allora perché era arrossita in quel modo?
Stella, doveva occuparsi di Stella.
«Non caballo, tesoro, ma cavallino, un adorabile puledrino. Vuoi vederlo?»
rispose cercando di ignorare gli occhi della donna.
«Sì, cavallino» disse la piccola mentre Mitch le raggiungeva, anche lui
rosso in volto.
Ecco.
Dopo uno scambio di occhiate imbarazzate, Aiyana piazzò la bambina in
braccio a Maggie e disse seria: «Mostrate Miracle a Stella, poi venite a
mangiare, che è pronto».
Mentre usciva, però, la sentirono sghignazzare.
*
Quel pomeriggio lei e Mitch non ebbero più modo di rimanere soli. Dopo
pranzo lui dovette aiutare gli uomini a riportare nelle stalle i cavalli e
sovrintendere la ricostruzione dei cubicoli nella seconda stalla. Maggie
approfittò della sua assenza per lasciare il ranch appena possibile e tornare a
casa.
Per scappare a casa, cercando magari di rinsavire lungo la strada.
Certo, non sarebbe stato così semplice dimenticarsi dell’accaduto, della
leggerezza con cui era caduta tra le braccia di quel cowboy.
Braccia forti, mani esperte, labbra da perderci la testa.
Solo a ripensarci, provava un irresistibile desiderio di invertire la marcia e
tornare a Paradise.
Da lui.
Guardò Stella nello specchietto retrovisore e ringraziò il cielo che ci fosse
lei a impedirglielo.
Perché doveva metterselo bene in testa: non era per dar sfogo ai sensi che
aveva fatto quasi diecimila miglia.
Nossignore.
Né tantomeno per concedersi a un cowboy sexy come il peccato – altro che
Paradise! – che di certo da lei voleva solo una cosa, mentre lei, già lo sapeva,
avrebbe finito per cadergli ai piedi e rimanerci per sempre.
Il piano, doveva rimanere concentrata sul piano, ricordarsi in ogni
momento che era di cromosomi che aveva bisogno, non di uomini.
Il cowboy avrebbe dovuto rimanere un incidente di percorso, nonostante
sentisse ancora le sue mani e la sua bocca bruciarle la pelle e quegli occhi
verdi pesanti di desiderio accarezzarle le labbra. Nonostante le fosse bastato
sfiorarlo per sciogliersi addosso a lui.
Punto e a capo.
Così, quando quel tardo pomeriggio lui la chiamò chiedendole se potevano
vedersi quella sera, lei gli disse di no.
Un tondo, deciso no.
NO.
Gli disse anche che era stato un errore da parte sua cedere così all’impulso
di un attimo, e di questa sua leggerezza gli chiedeva perdono. Lo pregava
anche di dimenticare quanto era successo in quella fottuta stalla.
Be’, non aveva usato il termine fottuta, ma l’aveva pensato.
«Ci vediamo, Mitch.»
E aveva chiuso la comunicazione.
Come la stronza che non era.
***
Mitch si accasciò sulla sua poltrona preferita e fissò il cellulare per almeno
cinque minuti prima di riuscire a rimetterselo in tasca. Lo guardava incredulo,
come se le parole che aveva appena sentito pronunciare da Maggie fossero
arrivate dritte da un’astronave aliena.
Un errore?
Poche ore prima si era sciolta come burro caldo tra le sue braccia ed era
stato un errore? Una leggerezza? Già da un pezzo aveva capito che quella
donna non aveva tutti i neuroni a posto, ma… - Dio santissimo! – al solo
contatto dei loro corpi, peraltro molto vestiti, era venuta in quel modo
devastante e lui aveva rischiato di seguirla subito, come un ragazzino alla sua
prima volta.
Ed era stato un fottutissimo errore? Come l’aveva chiamato, anche? Ah!
L’impulso di un attimo. Attimo! Ma se non aveva fatto che flirtare e
provocarlo per tutto il giorno, con quegli occhi che lo pregavano di prenderla,
con quella bocca che gli prometteva il paradiso a ogni parola, a ogni sospiro,
a ogni stramaledetto sorriso.
Ora sapeva di aver sbagliato. Fin dall’inizio avrebbe dovuto considerare
quanto successo fra loro niente più di una occasionale sveltina. Ma diavolo!
Da quando lei se n’era andata, non aveva fantasticato che di riprendere da
dove erano stati interrotti, dal momento in cui la svitata aveva urlato il suo
nome e si era abbandonata tremante contro di lui, sicuro che anche lei
bruciasse della sua stessa impazienza.
Ma Maggie gli aveva risposto no, grazie e gli aveva sbattuto giù il telefono
con un ci vediamo, Mitch.
Che se lo fosse sognato? Be’, se quello era un sogno doveva aver mangiato
molto pesante la sera prima, perché sembrava proprio un incubo.
Archie si avvicinò e gli appoggiò una grossa zampa sulla coscia, in cerca di
un po’ di attenzione. Mitch lo grattò dietro alle orecchie.
«La svitata piaceva anche a te, vero, vecchio mio?»
Archie mugolò.
«Be’, meglio che te la togli subito dalla mente, perché non ho alcuna
intenzione di perdere un istante di più con una che mi ha usato e poi gettato
via come un… oggetto sessuale.»
Dio santissimo! In vita sua non si era mai considerato un oggetto sessuale.
Imprecò, pensando a come lei lo avesse abbindolato. Tutte quelle stronzate
sulla casa, sui libri, sui quadri di suo nonno e sul fottuto albero di Natale per
qualche minuto gli avevano fatto correre più veloce il sangue e sperare che
qualcosa fosse cambiato dentro di lui, che la vecchia diffidenza verso il sesso
debole – che fosse debole era la balla più grande mai messa in circolazione –
si fosse incrinata.
No, era ancora lì, dentro di lui, più forte che mai.
Intoccabile diffidenza, salvifica protettrice del maschio indifeso.
Recuperò sospirando il cellulare e compose un altro numero.
Lei rispose al secondo squillo.
«Rosalyn, ti va di vederci, questa sera?»
6
I giorni precedenti il Natale, Hope
Nei giorni precedenti la vigilia, Maggie non aveva fatto altro che cambiare
idea. Un giorno decideva di abbandonare quel suo folle piano riproduttivo, il
giorno dopo voleva andare fino in fondo. E, in uno dei giorni sì, aveva deciso
di riprendere in mano la lista dei donatori che Suzie le aveva fornito (e pure
in carne e ossa, a domicilio).
La sfilata degli stalloni era cominciata già la sera del 18 dicembre, quando
era stato invitato a cena Jack Putnam, il proprietario della concessionaria
locale della Ford. Oh, niente da ridire, un bell’uomo e un buon diavolo, con
un pedigree notevole e nessuna malattia grave in famiglia. Ma il fatto che
mangiasse più o meno come un maiale e che la sua conversazione fosse ai
minimi storici dell’umana sopportazione non depose certo a suo favore.
Quando quella sera tolse il disturbo, Maggie cancellò in modo indelebile il
suo nome dalla lista dei papabili.
«Sicura che Mitch non ti interessi proprio?» aveva chiesto Suzie a Maggie
il giorno dopo, e avendo ricevuto dalla sorella un niet molto deciso si era
risolta a invitare a cena David Soleman, vedovo e preside della scuola di
Hope che, oltre al pedigree integerrimo, aveva dalla sua due pargoli che erano
il ritratto della salute. Con Soleman, insomma, Maggie avrebbe potuto
acquistare, se non proprio a colpo sicuro, almeno dopo aver visto un
campione della merce. Ma quando Soleman uscì dalla porta di casa Kroll,
anche il suo nome venne depennato dalla lista.
La sera del 20 dicembre Peter non si stupì più di tanto quando, entrando in
casa dopo una sfibrante giornata al pronto soccorso, trovò seduto sulla sua
poltrona preferita, e per di più con un bicchiere del suo whisky speciale in
mano, Alan Cooper, il padrone della segheria.
«Ciao Alan, come va?» chiese rifilando un’occhiata interrogativa alla
moglie. E, come le altre sere, ebbe per risposta il tipico sguardo dopo ti
spiego.
Quella sera, al momento delle presentazioni, Maggie si abbandonò quasi a
un fischio di ammirazione: l’uomo era il ritratto vivente della salute,
imponente quanto i tronchi che segava, con un’ottima dentatura e due occhi
azzurri sinceri. Non mancava neppure di spirito e la sua conversazione non
era disprezzabile, ma al momento in cui si congedò dopo averle detto che
sperava di rivederla presto, Maggie sorrise, chiuse la porta ed estrasse la lista.
Un altro nome fu cancellato con un segnaccio deciso. Perché, anche
sforzandosi, non poteva pensare a nessuno di quei signori come al padre di
suo figlio.
«Domani ci riproviamo?» le chiese Suzie sedendosi con lei in cucina per un
ultimo caffè.
«Non so, Suzie, sono stanca. Forse non era destino, è meglio finirla qui. Ho
creduto che venire in America per concepire un figlio potesse essere la
soluzione ideale, ma ora mi sembra solo una decisione stupida.» Sospirò e si
alzò in piedi, stiracchiandosi il collo, poi aggiunse: «In ogni caso, sorellona,
sono felice perché trascorrerò il Natale insieme a voi. Siete la mia sola
famiglia, l’unica probabilmente che mai avrò».
A quel punto le due sorelle si abbracciarono e scoppiarono a piangere.
Peter, trovandole così, chiese spiegazioni, ottenendo, come unica risposta,
altri singhiozzi e lacrime.
Così, nelle sere del 21 e del 22 dicembre nessun altro ospite si sedette alla
tavola dei Kroll.
Finché, il 23 mattina, Craig Haas suonò alla porta. E rimise tutto in
discussione.
*
Craig Haas entrò in casa come un divo di Hollywood. Bello, alto, biondo,
con occhi azzurri come il cielo e una sciarpa rossa che dava un tocco di
colore alla sua carnagione diafana.
«Buongiorno, signore» disse, e senza essere invitato si infilò in casa. Be’,
anche perché fuori c’erano quindici gradi sotto zero.
«Ciao Craig, finalmente di ritorno! Ci sei mancato!» disse Suzie rifilando
un’occhiata a Maggie e mormorando: «Forse è un segno del destino».
Maggie non aveva voglia di segni del destino, dopo i vari Jack, David e
Alan, quindi sorrise senza troppo entusiasmo a Mr Chicago Chronicle.
«Per fortuna sono riuscito a tornare in tempo per Natale, facendomi quasi
scuoiare vivo dal mio direttore. Ma è andata e ora, almeno fino a quando non
avrò finito la revisione del romanzo, non mi muoverò da Hope.» Poi, rivolto
a Maggie, aggiunse: «Sono felice che tu sia ancora qui. Mi sarebbe spiaciuto
non ritrovarti».
«Si ferma almeno sin dopo Capodanno, forse di più. Vero, sorellina?» si
inserì Suzie con un gran sorriso, poi disse: «Craig, ti lascio con Maggie ora.
Ho qualcosa di importante da fare prima di andare in ospedale. Mi perdoni?».
«Ma certo, anzi… Maggie, ti andrebbe di accompagnarmi a fare gli ultimi
acquisti per Natale? Ho bisogno del consiglio di una donna per un paio di
regali, per mia mamma e mia zia…»
«Be’, forse ti conveniva prenderli sulla Magnificent Mile…» rispose
Maggie con una punta di acido nella voce.
«Forse, ma sono convinto che, se mi darai una mano, troverò qualcosa di
perfetto anche in zona. So già dove andare.»
Altro sguardo di incoraggiamento di Suzie alla sorella, con tanto di
occhiacci e un Vai silenzioso.
In fondo non sarebbe stato così terribile, si disse Maggie, abbagliata dal
bianco splendente del sorriso di Craig.
Dio, quell’uomo avrebbe potuto essere il testimonial di un dentifricio.
Chissà, forse anche suo figlio avrebbe avuto un sorriso tanto splendente…
«Va bene, ti accompagno volentieri» tagliò corto prima di cambiare idea.
Dieci minuti più tardi Maggie sedeva sul sedile anteriore del grosso SUV
nero di Craig.
Craig sfiorò un tasto dell’iPod e da un potente impianto di amplificazione
uscirono le note di un brano di jazz tanto free da essere insopportabile.
Maggie pensò al country western di Emmylou Harris che aveva ascoltato sul
vecchio pick-up di Mitch, così caldo e intimo, e sentì una fitta chiuderle lo
stomaco.
Stupida.
Stupida e sentimentale.
Ecco cosa si otteneva a ragionare con le viscere e non con la testa.
Un bel mal di stomaco.
Craig. Con lui avrebbe usato solo la testa.
Si girò leggermente e, cercando di apparire naturale, lo passò in rassegna.
Sembrava il candidato ideale: bello, con patrimonio genetico di classe AAA
(almeno a sentire Suzie), intelligente, brillante e, cosa che non guastava
affatto, capace di flirtare come un professionista, particolare che, al momento
del dunque, avrebbe avuto la sua importanza: perché, se avesse dovuto essere
lei a fare il primo passo, insomma a sedurlo, era certa che non ne avrebbe mai
avuto il coraggio.
L’ispezione terminò e Maggie decise che, se la situazione fosse stata
propizia e l’ovulazione in corso, non sarebbe certo stato un sacrificio andarci
a letto, nonostante quei piccoli difetti che, in circostanze diverse, le avrebbero
fatto dire no, grazie.
Come il fatto che Craig fosse troppo pieno di sé e che, dietro quella facciata
rassicurante, si nascondesse un predatore. Cosa che, in fondo, non avrebbe
dovuto interessarle. Anzi.
Dio, quel free jazz era un vero strazio.
«E, se vuoi sapere come la penso» le stava dicendo lui fissandola con più di
un’intenzione negli occhi, «non potevo scegliere Natale migliore per tornare
a casa.»
Ok, sarebbe stata al suo gioco, in fondo era lì per quello, no?
«E… perché non potevi scegliere Natale migliore per tornare a casa?» gli
chiese sbattendo gli occhioni grigi con un’ironia che forse lui non colse.
Infatti, invece di ribattere nello stesso tono, le prese una mano, se la portò
alle labbra e, guardandola come se al mondo non esistesse nessun’altra
donna, rispose con un sussurro: «Non lo indovini?».
Boom!
Lei alzò un sopracciglio e gli rivolse il classico sguardo chi credi di
prendere in giro?
Questa volta lui ebbe la buona creanza di scoppiare a ridere. «Va bene, mi
arrendo. Ma se con te i miei trucchi da seduttore non funzionano, mi dici cosa
devo fare per conquistarti?»
«Non molto» rispose lei con un sorrisino malizioso, «non molto.»
*
Venti minuti dopo entrarono nel parcheggio di un’area commerciale a sud
di Hope, quasi ai confini con la cittadina di Worland. Sembrava un
complesso più grande di quello in cui Maggie e Stella avevano incontrato
Mitch, lo stesso giorno in cui, un paio di ore dopo, lei si era dissolta tra le sue
braccia. Al solo ricordo, Maggie rabbrividì, sotto lo sguardo curioso di Craig
che già le stava aprendo la portiera.
«Tutto bene?»
«Tutto benissimo, grazie» gli mentì.
Salirono al secondo piano dove il complesso ospitava alcune boutique.
Guardarono le vetrine, entrarono nei negozi e Maggie aiutò Craig a fare le
sue scelte scoprendo che tra i suoi difetti non c’era l’avarizia.
Quando ebbero terminato, lui era carico di pacchi e pacchettini.
«Craig, sembri la versione maschile di un romanzo della Kinsella.»
«Chi sarebbe la Kinsella?»
«Dai, non puoi non saperlo.»
Lui le sorrise e i suoi occhi brillarono. Occhi del colore del cielo, belli ma
un po’ freddi.
«Certo che so chi è la Kinsella, faccio il giornalista, quindi per definizione
so tutto. Ma i suoi libri non sono il mio genere.»
«Neppure il mio, se è per quello» disse Maggie dirigendosi verso la scala
mobile che scendeva al piano terra.
«Ehi, aspetta! Dove credi di andare, non ho finito! Seguimi.»
«Sì, mio padrone e signore, agli ordini!»
«Brava ragazza, così ti voglio…»
«Già.»
Se solo immaginassi cosa vorrei io…
«Andiamo ancora su, al terzo piano.»
Presero l’ascensore centrale, un tubo di plexiglas che diede le vertigini a
Maggie, e quando ne scesero si ritrovarono davanti a un negozio di
biancheria intima femminile. Non un negozio, il negozio, il tempio della
lingerie sexy, il famoso Victoria’s Secrets.
Prima d’allora Maggie non ne aveva mai visto uno, né tantomeno vi era
entrata. Portava biancheria di cotone di solito, bianca per lo più, che mai
avrebbe potuto essere definita sexy. Non che qualche volta non si fosse fatta
tentare da un po’ di pizzo ridotto ai minimi termini, ma ogni volta che l’aveva
indossato si era sentita più ridicola che provocante e, al momento del dunque,
persino impacciata.
Ma trovarsi in quella multinazionale dell’osé ora la divertiva.
«E qui vorresti comprare qualcosa per tua madre e tua zia? Sono davvero
curiosa di conoscere le due signore!» disse Maggie entrando nel negozio.
Lui si mise a ridere. «Penso che a mia zia potrebbe venire un infarto se le
comprassi un completino Victoria’s Secrets. No, vorrei prendere qualcosa da
regalare a una mia amica, con la speranza che lo indossi presto per me.»
Maggie avvampò e lui le sorrise, con quel suo sorriso perbene dietro il
quale ancora una volta lampeggiò un’espressione lupesca.
Ovvio che non avrebbe potuto scommetterci, ma era già certa di sapere chi
fosse l’amica in questione. Decise di stare al gioco: finire nel letto di Craig
non era quello che voleva anche lei?
«Ok, mettiamoci al lavoro allora» disse Maggie. «Ho fame.»
La ricerca del completino per l’amica di Craig si rivelò alquanto divertente.
Maggie si drappeggiò sul seno reggiseni improponibili e négligé imbarazzanti
atteggiandosi a vamp esperta. Craig la guardava fingendosi serio, con occhio
clinico e forse qualcosa di più, suggerendole più volte con aria maliziosa che
sarebbe stato molto più deciso su cosa acquistare se glieli avesse visti
addosso.
«Ci sono camerini molto discreti» aggiunse prendendola in giro. Maggie
rise di gusto e rispose con un lapidario «Scordatelo!»
Alla fine, Craig fece la sua scelta. «Ho deciso per questo!» le disse e quindi
si diresse alla cassa per pagare.
Non era ancora certa che il regalo fosse per lei, ma il fatto che lui avesse
preso qualcosa di carino e decente, seppur molto più piccolo e sexy di ciò che
indossava ogni giorno (cosa di cui peraltro lui non poteva avere idea), le fece
piacere. Se le avesse acquistato un négligé di pizzo nero con inserti di marabù
rosso… ecco, sarebbe stato decisamente più imbarazzante e forse l’avrebbe
costretta a farea un altro segnaccio sulla lista.
Sulla via del ritorno, Maggie insistette per fermarsi da Edda a mangiare
qualcosa e non in una certa locanda dove Craig sembrava desideroso di
portarla. Chissà perché ma, almeno per quel giorno, preferiva mantenere
ancora le distanze.
Il locale, che sotto Natale era tutto un fiocco rosso, a quell’ora era
affollatissimo, soprattutto di signore che, quando Maggie e Craig fecero il
loro ingresso, si azzittirono, probabilmente per esaminarli meglio. In fondo
non capitava spesso di vedere entrare in quel posto Craig Haas, la celebrità
del luogo, e per di più con una straniera. Mezza straniera, qualcuno disse,
perché era la sorella italiana della dottoressa Kroll.
Di sicuro ci sarebbe stato di che parlare per settimane.
Per qualche istante il silenzio coprì ogni cosa, poi, poco per volta, il
normale chiacchiericcio di fondo si rialzò e Maggie riprese a respirare.
Craig, a differenza di lei, sembrava completamente a suo agio sotto i
riflettori e, mentre seguivano la cameriera sino al tavolo, non faceva che
scambiare un saluto o una parola con questa o quella signora. Tutte, giovani e
vecchie, lo guardavano in completa adorazione. Non c’era dubbio che
appartenesse alla categoria dei conquistatori.
Craig scostò la sedia di Maggie, sempre da perfetto gentiluomo, attese che
si sedesse e poi prese posto di fronte a lei.
«Non sapevo che il locale fosse così pieno» gli disse lei ancora accaldata in
volto per aver suscitato tanto interesse nei presenti.
«Ti secca che ti abbiano vista con me?»
«E perché dovrebbe?»
«Perché tutte queste signore, in questo preciso istante, si staranno
chiedendo se andiamo a letto insieme.»
Maggie alzò gli occhi al cielo. «Che pensino quello che vogliono, se non
hanno di meglio da fare! Dunque, raccontami: quali sono i tuoi piani per
domani?»
«I tuoi?» incalzò lui.
Fare il test di ovulazione e poi, eventualmente, accettare il tuo invito e
farmi sedurre.
«Rimarrò a casa con mia sorella e mio cognato e aspetterò alzata con Stella
l’arrivo di Babbo Natale, che, da quanto mi ha detto Peter, arriverà suppergiù
alle nove di sera. Almeno, questo è il piano.»
«Babbo Natale?»
«Peter travestito da Babbo Natale.»
«Oh, capisco.»
«E tu, cosa farai?»
«Mi farò imbottire di cibo da mia madre, aprirò i doni sotto l’albero con la
mia famiglia e poi, se mi dirai di sì, verrò a prenderti. Potremmo andare a
bere un eggnog da qualche parte e magari ad assistere alla funzione di
mezzanotte. È molto suggestiva, per quel che mi ricordo.»
Maggie fece finta di pensarci. «Mmmh, posso darti una risposta domani?»
«Non fare la preziosa, tanto mi dirai di sì.»
«La tentazione di dirti di no, a questo punto, è molto allettante, Mr Haas.»
«Non quanto quella di dirmi di sì» rispose lui guardandola col sorriso della
vittoria sulle labbra.
Maggie fece per replicare, ma in quel momento Edda arrivò al tavolo con i
menu.
«Guarda chi c’è qui! La mia piccola Maggie!»
Maggie si alzò per prendersi la sua dose di abbracci.
«Edda» mormorò Craig con uno scintillio di denti bianchi.
«Ciao Craig, che onore vederti nel mio locale!» disse la donna senza
preoccuparsi di nascondere l’ironia.
«È un piacere anche per me, Edda.»
«Dunque, cosa posso portarvi?»
«Direi due special completi.»
Maggie fissò prima l’uno e poi l’altra con aria perplessa, ed Edda le spiegò:
«Non badarci, cara, è abitudine degli uomini del posto decidere cosa debbano
mangiare le proprie donne, li fa sentire potenti».
«Ma io non sono la sua donna!» protestò Maggie rivolgendosi a Craig e
ricevendo, come risposta, un altro sorriso ferino.
Lo special completo si rivelò ottimo e di dimensioni pantagrueliche.
Pancake con sciroppo d’acero, uova alla benedict con pancetta e un muffin ai
mirtilli che da solo sarebbe bastato a nutrirla per tutto il giorno.
Quando ebbero finito, Maggie si accorse che Edda cercava di richiamare la
sua attenzione. Dai segni che le stava facendo, sembrava proprio che volesse
parlarle in privato, senza Craig tra i piedi.
Così, piuttosto incuriosita, si alzò e disse al suo compagno che doveva
recarsi alla toilette.
Anche Craig scattò in piedi, probabilmente per accompagnarla, ma il «Non
provarci neppure» di Maggie gli fece cambiare idea.
*
Edda le fece segno di seguirla e le due donne entrarono in un piccolo
ufficio dove un computer d’annata occupava gran parte di una piccola
scrivania. Sulla parete dietro a questa campeggiava un grande manifesto di
Barbra Streisand, ovviamente nei panni di Dolly Levi.
«C’è qualcosa che non va?» chiese Maggie alla donna più anziana,
preoccupata per tutta quella segretezza. Negli ultimi tempi era andata di
frequente a prendere un caffè o a pranzare nel suo locale e aveva cominciato
ad apprezzare la sua schiettezza e i suoi consigli, che più di una volta erano
finiti con un nome: Mitch Sandford.
La donna si schiarì la voce, poi girò intorno alla scrivania e accese il
computer talmente vecchio che probabilmente ci avrebbe messo dieci minuti
ad avviarsi.
«Certo che c’è qualcosa che non va. Tu e Craig Haas non andate per nulla
bene insieme. Guarda qua!» disse invitandola a raggiungerla.
«Io non vedo nulla» disse fissando lo schermo nero del computer.
«Abbi un po’ di pazienza, signorina» le rispose. «Possibile che oggigiorno
andiate tutti di corsa?»
Ci vollero almeno due minuti prima che lo schermo si illuminasse. Poi
Edda digitò qualcosa sulla tastiera e comparve un grafico a istogrammi, che
sapeva di antico, come il computer.
«Perdonami, Edda, ma non riesco proprio a capire…»
«Guarda con attenzione. Questo è il grafico di Craig, e questo…» continuò
cliccando i tasti in un modo che sembrava del tutto casuale, «è il tuo. L’ho
terminato proprio l’altra sera, ed ecco che ci viene subito utile.»
«Il mio che? E per quale motivo ci verrebbe utile, Edda?»
«Ora te lo spiego. Questo è il tuo grafico, vedi? Ogni rettangolo,
istogramma si chiama, corrisponde a delle caratteristiche precise del tuo
carattere…»
«Sono stupefatta» mormorò Maggie.
«Se confronti i due grafici, il tuo e quello di Craig, ti rendi conto che non
sono sovrapponibili se non per piccole aree. E bada che me ne intendo. Col
mio metodo, che negli ultimi tempi ho reso più scientifico…»
Scientifico?
«… ho creato coppie che resistono da decenni.»
Creato.
Maggie alzò un sopracciglio. «Non è che io intenda sposarmi domani con
Craig» disse sarcastica.
«No, non ho detto questo. Ma…» Edda esalò un gran sospiro e scosse la
testa. «… ma ho visto come lo guardavi. Con un interesse evidente. E ho
visto soprattutto come lui guardava te. Con un interesse ancora maggiore.»
«È vero, non mi dispiace affatto, ma lo reputo solo… una piacevole
compagnia, niente di più» disse Maggie alzando le spalle, sulle difensive.
Non poteva certo dire a quella diabolica donna cosa prevedesse il suo piano.
«Lui non è l’uomo per te. È uno che pensa solo a se stesso. Non è cattivo,
ma è inaffidabile. E lasciatelo dire da una che ci è passata: un tipo così può
fare molto male a una donna.»
Edda era dannatamente seria mentre la metteva sull’avviso, tanto che
Maggie sentì un brivido correrle giù per la schiena.
«Me ne ricorderò» disse, prima di tornare da Craig.
7
La notte di Natale, Hope
Altro che Stille Nacht! Quella notte sarebbe stata da incubo, per nulla
tranquilla! Una serata in cui forse lo stesso Bambin Gesù si sarebbe rifiutato
di venire al mondo.
Quella sera Maggie comprese, letteralmente, il significato del detto tempo
da lupi. Li sentì ululare prima in lontananza, poi sempre più vicini, mentre la
neve continuava a scendere talmente fitta da diventare simile a un muro
invalicabile.
E poi c’era quel gran vento che, se non costituiva certo una novità per i
cittadini di Hope, era fonte di puro terrore per una anemofobica dalla testa ai
piedi come lei.
E questo cataclisma succedeva proprio la notte in cui aveva deciso di
entrare in azione.
Perché? Quel pomeriggio aveva ripetuto il test di ovulazione per almeno tre
volte e aveva controllato e ricontrollato ogni stick, rigirandolo fra le mani. E
quando era stata sicura, oltre ogni ragionevole dubbio, che due su tre fossero
positivi, aveva preso il telefono e chiamato Craig Haas. In fondo quale notte
sarebbe stata più propizia di quella di Natale per concepire un figlio?
Certo, quella notte era davvero buia e tempestosa, ma avrebbe raccolto tutta
la sua determinazione e combattuto le sue fobie, magari con un po’ di aiuto
farmacologico se proprio fosse stato necessario, poi avrebbe fatto il suo
dovere per diventare una primipara attempata, nonostante il parere contrario
di Edda e dei suoi istogrammi.
Sì, dopo cena e dopo l’arrivo di Babbo Natale sarebbe uscita a bere
qualcosa con Craig, poi si sarebbe infilata nel suo letto.
***
Al contrario di Maggie e della piccola Stella, Mitch Sandford non amava il
Natale. Erano troppi e dolorosi i ricordi che le festività di fine anno
resuscitavano. Il sorriso dolce di sua madre quando lui apriva i regali sotto
l’albero e lo sguardo orgoglioso di suo padre la mattina del Natale dei suoi
cinque anni, quando gli aveva regalato il suo primo cavallo, Storm. E poi, i
25 dicembre passati con il nonno e più tardi con la ragazza che aveva deciso
di sposare, Renée. Prima che Craig gliela portasse via.
Da allora, molti natali li aveva trascorsi in compagnia dello Zio Sam,
lontano da Paradise, in terre spesso aride e armato sino ai denti.
*
La sera di quel 24 dicembre, Mitch sedeva davanti al camino accarezzando
il testone di Archie e, come ogni anno, non riusciva a staccarsi dai ricordi del
passato.
Si toccò la piccola cicatrice che si era fatto sul mento cadendo da Storm lo
stesso giorno in cui lo aveva ricevuto. Non avrebbe mai scordato
l’espressione spaventata di sua madre e quella orgogliosa di suo padre
quando lui era risalito in sella senza versare una lacrima.
Dio, era passata una vita da allora, ma le feste erano sempre arrivate
dolorosamente puntuali.
Tutti gli anni molti amici, compresi i Kroll, lo invitavano a trascorrere il
Natale con loro, ma nonostante lui fosse grato del loro affetto, preferiva
attraversare il cortile e fermarsi un po’ con Aiyana e Hakan, poi sellare Storm
e passeggiare con lui e Archie sull’altopiano imbiancato di neve.
Ma quest’anno Storm non ce l’avrebbe fatta. Era troppo vecchio e stanco
per affrontare un tale sforzo. Soprattutto con quel diavolo di tempesta là
fuori.
Bevve un sorso di caffè e si sporse in avanti per ravvivare il fuoco, poi
prese un libro dal tavolino e cercò di concentrarsi nella lettura.
Tentativo patetico e inutile.
Pensò allora a come sarebbe stato condividere il ranch con una donna, un
pensiero che negli ultimi tempi ritornava spesso.
Pensò a Renée che se ne era andata con Craig Haas.
Pensò a Rosalyn, che gli riscaldava il corpo ma non il cuore.
Poi pensò a Maggie.
A come si era sciolta tra le sue braccia e a come si era sciolto lui quando
l’aveva sentita fremere contro di sé.
Se chiudeva gli occhi, poteva sentirla ancora gemere e invocare il suo
nome. Una sensazione che non si fermava alle sue parti maschili, come
avrebbe dovuto, ma che gli entrava dentro, nella testa e nel cuore, come non
avrebbe dovuto.
Si alzò dalla poltrona imprecando, poi fissò il fuoco che ardeva nel camino
e sentì il desiderio di partecipare alla funzione di mezzanotte, anche se non
l’aveva più fatto da quando il nonno se ne era andato. Non che fosse stato
colpito da un attacco mistico, ma doveva andarci.
***
La cena della Vigilia era stata perfetta, con Suzie, Peter, Stella e un
tacchino di dimensioni pantagrueliche. Avevano mangiato, scherzato e
preparato il latte e i biscotti per Babbo Natale. Poi le luci, tranne quelle
dell’albero, erano state spente e le tre donne di casa avevano atteso l’arrivo di
Santa sedute sulla scala. La gioia che aveva illuminato gli occhi di Stella
quando quel Babbo Natale che assomigliava parecchio al Dr Kroll era entrato
in casa con un sacco sulle spalle, sarebbe bastata da sola a giustificare il
lungo viaggio di Maggie nel Wyoming.
Ora veniva la parte più difficile.
Uscire con Craig Haas e tutto il resto.
Si era vestita con cura, un abito di maglia di un rosso molto natalizio,
scollato, che la fasciava senza lasciar dubbi su cosa ci fosse sotto e che aveva
riscosso la totale approvazione di suo cognato Peter. Be’, in fondo doveva
giocare alla seduttrice quella notte, no? Un abito così ci stava tutto. Non solo.
Per essere pronta alla battaglia, aveva indossato il completino da
combattimento che Craig aveva acquistato per lei il giorno prima da
Victoria’s Secret e che, pensando forse di non essere visto, le aveva infilato
nella borsa mentre rientravano a Hope.
Prima di indossarlo, Maggie aveva rigirato più volte entrambi i pezzi fra le
mani, pensando che al massimo avrebbero potuto andare bene a una Barbie.
Ma alla fine, nonostante tirassero un po’ di qua, un po’ di là, dovette
ammettere che l’effetto su di lei non era poi così disastroso.
*
«Wow, che nottata» disse Maggie infilandosi nel SUV di Craig verso le
dieci di sera.
«Niente di insolito per il Wyoming. Rilassati e affidati a me, ok?» rispose
Craig sporgendosi verso di lei e dandole un fuggevole bacio sulla bocca.
Maggie fu lì lì per sottrarsi a quel contatto imprevisto, ma poi decise di
lasciarsi baciare: sarebbe stato meglio abituarsi fin da subito alle sue labbra,
visto che, nel corso della serata, le avrebbe conosciute sin troppo bene.
«Ehi!» sussurrò lui indugiando qualche istante ancora sulla bocca di
Maggie.
«Ehi» rispose lei con un sorriso di incoraggiamento, non rivolto a Craig ma
a se stessa. «Non mi avevi promesso un eggnog?» aggiunse, cercando in
modo garbato di respingerlo.
«Mmmh, sì, una promessa è una promessa, anche se… ormai non c’è
eggnog che possa competere con la dolcezza delle tue labbra…»
Omammamia.
Maggie gli rivolse un altro sorriso e respinse un nuovo attacco,
appoggiandogli una mano sul petto.
«Andiamo, Craig, è già tardi, e se vogliamo anche assistere alla funzione
non c’è tempo da perdere» gli disse. Poi alzò gli occhi al cielo e si girò verso
il finestrino, non certa che ce l’avrebbe fatta ad andare sino in fondo. «Allora,
dove mi porti a prendere l’eggnog?» chiese un minuto dopo, girandosi di
nuovo verso Craig e cercando in lui tutti quei lati positivi che le avevano fatto
prendere la decisione.
Bello era bello, certo, affascinante pure, e brillante. E la stava corteggiando
con un notevole savoir faire. E poi... c’era il fatto dei cromosomi di classe
AAA da tener presente.
Anche se, ultimamente, quando pensava al suo ipotetico figlio, lo vedeva
con occhi verdi e capelli scuri, come qualcuno di sua conoscenza…
Perché, se il tuo bambino avesse gli occhi gialli e i capelli verdi, e se il suo
DNA non fosse propriamente da tripla A, non lo ameresti lo stesso?
Certo che lo amerei lo stesso, rispose in cuore suo dandosi dell’idiota.
In ogni caso, un bambino necessitava di un padre per essere concepito e
Craig avrebbe fatto al caso suo, per quanto non si sentisse affatto attratta da
lui e fosse piuttosto irritata dal modo insinuante in cui la corteggiava.
Prendere o lasciare.
E lei era determinata a prendere.
«Ho prenotato al Dragonfly, la locanda di cui ti parlavo ieri» disse lui
affrontando un po’ troppo velocemente una curva.
Maggie si attaccò alla maniglia, tesa in volto. «Il Dragonfly? Dici sul serio?
Come in Una mamma per amica? Sempre che ci arriviamo vivi, al
Dragonfly. Craig, potresti rallentare un po’?»
Lui sorrise e staccò appena il piede dall’acceleratore, poi chiese: «Una
mamma per che cosa?».
Non aveva la più pallida idea di chi fossero le Gillmore Girls. Be’, per
quanto la cosa fosse gravissima, che importanza poteva avere? In fondo
doveva solo andarci a letto, mica passarci la vita.
«Lascia perdere, è solo una serie tv, molto divertente. Non ho capito bene
cosa hai prenotato…» chiese, cercando di spegnere il campanello d’allarme
che risuonava in lei.
«Ho prenotato un tavolo, naturalmente» rispose lui con un sorriso malizioso
che dava alla parola tavolo il significato di camera da letto.
Maggie chiuse gli occhi e meditò sulle conseguenze che, quella notte, una
camera da letto avrebbe potuto apportare alla sua vita.
«Vedrai, il Dragonfly è un posticino delizioso, ti piacerà» concluse lui.
Delizioso come un albergo a ore?
Dopo venti minuti parcheggiarono davanti al posticino delizioso, una bella
costruzione in legno e pietra illuminata da una cascata di lucine natalizie e
immersa tra gli abeti.
In pratica, un luogo fuori dal mondo. Con la neve che cadeva così spessa, a
Maggie parve di trovarsi all’interno di una di quelle bocce di vetro che,
quando vengono agitate, sembra che ci nevichi dentro.
Un po’ come sentirsi in trappola, insomma.
*
Il Dragonfly era davvero un posticino delizioso, e la cosa rassicurò un poco
Maggie. Almeno, se avesse deciso di farlo, l’avrebbe fatto in un luogo pulito
e confortevole.
Oddio, con ciò che stava per succedere quella notte era quella la sua
priorità? Che il posto fosse confortevole?
La proprietaria li accolse con calore e, dopo essersi informata su come
fosse andato il viaggio, li accompagnò al piano di sopra, sino a una porta.
Sulla porta, così come sulla vecchia chiave che la donna utilizzò per aprirla,
c’era l’immagine di un giacinto blu, uno dei fiori selvatici tipici della zona.
Dietro alla porta, invece, c’erano un divano, un caminetto accesso e un
tavolino con un vassoio. E, sul vassoio, una coppa di eggnog fumante, due
boccali e un piatto di biscotti che profumavano di burro. Decorazioni fatte
con rami di pino e pigne pendevano dalle pareti e una porta chiusa portava
probabilmente dove Maggie supponeva.
Ce l’avrebbe fatta a varcarla?
La padrona, molto discreta, augurò Buon Natale ai suoi due ospiti e se ne
andò.
Craig si voltò verso Maggie, le prese una mano e la fece sedere sul divano
accanto a sé.
«Allora, ti piace?» le chiese passandole un braccio dietro alle spalle.
«È… delizioso, Craig, avevi ragione. Anche se questo» disse guardandosi
intorno, «è qualcosa di diverso da quanto mi aspettavo. Non avevi detto di
aver prenotato un tavolo?»
«Il tavolo c’è, no? Non ho mentito» disse lui con un sorriso malizioso. «Ho
pensato che, se fossimo stati soli, sarebbe stato più… intimo e tranquillo.»
«Oh, fin troppo intimo e tranquillo… Su questo siamo d’accordo» rispose
Maggie. Poi si alzò e, con la grazia di una geisha, versò l’eggnog nei
bicchieri e gliene porse uno. Poi si risedette, ma un po’ più lontano di prima.
Craig, con un movimento quasi impercettibile, in un istante le fu di nuovo
addosso.
«Brindo al Natale, Maggie…» disse sollevando il bicchiere.
«Buon Natale, Craig» rispose lei sollevando il suo. Se lo portò quindi alle
labbra e bevve un sorso della bevanda forte e squisita.
Bevve anche lui, poi l’espressione nei suoi occhi cambiò, divenne molto
meno natalizia e più lupesca.
«… e a una notte indimenticabile» mormorò.
Indimenticabile, ne era certa anche Maggie.
Nonostante in quel momento si sentisse meno sexy di Nonna Papera, ce la
mise tutta per rivolgergli uno sguardo altrettanto sensuale e lupesco, con
l’unico risultato che si sentì un’idiota.
«A noi due…» proseguì lui, appoggiando il bicchiere sul tavolino e
avvicinandosi a Maggie, un braccio sulla spalliera del divano, l’altro intorno
alla vita di lei.
Maggie teneva ancora il bicchiere stretto tra le dita, come un’ultima difesa
prima di venire divorata. Forse non era stata affatto una buona idea uscire con
lui, nonostante il piano e tutto il resto.
La mano di Craig scivolò sino a raggiungere la scollatura dell’abito di
maglia rossa. «Sei bellissima, stasera, sono pazzo di te» sussurrò mentre le
accarezzava il decolleté con dita leggere.
Che frase originale! Perché non stai zitto, almeno?
Maggie deglutì e rimase immobile, mentre i polpastrelli freddi di Craig si
insinuavano sotto l’abito, mettendo a nudo le spalline del reggiseno, quello di
Victoria’s Secret che lui le aveva infilato nella borsa il giorno prima.
«Allora l’hai trovato, e l’hai indossato per me, birichina» disse lui
chinandosi verso di lei per baciarla.
Birichina? Io? Odiava quella parola e soprattutto il modo in cui lui l’aveva
detta!
Craig le stava ora succhiando la base del collo.
Sta per azzannarmi, dannazione, e chiuse gli occhi, come una predestinata
di True Blood.
Lui, essendo un uomo, e per di più alquanto tronfio, pensò che gli occhi li
avesse chiusi perché in preda a un’estasi erotica. Quindi, ancor più tronfio,
continuò a divorarle la delicata pelle del collo, lasciandole una scia umidiccia
e appiccicosa di eggnog sino alle labbra.
Maggie sentì l’urgente bisogno di respirare prima che le venisse un attacco
di panico da sesso imminente.
«Craig, lasciami almeno mettere giù il bicchiere» mormorò, non trovando
una scusa migliore.
Lui, già troppo impegnato in altro, non glielo permise e proseguì la sua
opera di seduzione posandole una mano sul ginocchio destro. E risaliva,
quella mano, velocemente – Aiuto! – mentre le labbra mangiucchiavano
quelle di Maggie, quasi fossero un gustoso appetizer prima del piatto
principale.
E lei era il piatto principale.
Pensavi forse che un tipo come Craig Haas ti avesse portato in una
locanda – ok, «deliziosa» – per leggerti brani di Un Canto di Natale? E poi,
ricordati, carina, che sei stata tu a scegliere LUI per il tuo dannato piano e a
volere tutto questo.
Tutto questo implicava un sacco di cose, anche essere sbranata dal lupo.
In quel momento, puntuale come in un film, l’ululato di un vero lupo
risuonò in lontananza facendo sussultare Maggie. Dal bicchiere un bel po’ di
eggnog, giallo e appiccicoso, si riversò sulla spalla di Craig, che fece un salto
indietro, esclamando un merda assai poco romantico.
«Oddio, perdonami! È stato quel lupo – già, quale dei due? – a
spaventarmi. Aspetta che ti pulisco.»
Afferrò un tovagliolino di carta e incominciò a spalmare eggnog su tutta la
manica della bella giacca di cashmere di Mr Haas, che, per quanto allupato,
ebbe un moto di impazienza.
«Vado un attimo in bagno a ripulirmi, ma tu non muoverti, va bene?» disse
con un tono di comando che non piacque affatto a Maggie.
Fu lei, questa volta, a lanciargli uno sguardo lupesco, travestito da sguardo
di agnello. «Ma certo, Craig, dove vuoi che vada?»
Tre minuti dopo sedeva in auto con una coppia di mezza età che, dopo aver
consumato la cena della Vigilia in quella romantica locanda sperduta in
mezzo agli abeti – e ai lupi – stava tornando a Hope.
Era bastata un’occhiata a Maggie per accendere la solidarietà della signora
Curtis.
«Vieni, cara» le aveva detto. «Con noi sarai al sicuro.»
E così era stato.
L’avrebbero accompagnata sino a Hope, poi avrebbe trovato un taxi o
sarebbe ritornata a casa a piedi.
In quella bufera? Con quel vento? E con tutti quei lupi in giro?
Be’, avrebbe risolto il problema dopo.
***
Anche per uno nato e cresciuto nel Wyoming come Mitch Sandford, quella
era una notte da incubo. Neve, vento e buio si insinuavano dappertutto, anche
nell’anima. Altro che Stille Nacht!
Era rimasto da Sly un paio d’ore, aveva bevuto bourbon e tirato un paio di
colpi di stecca con altri cowboy solitari. Dei disperati come lui insomma,
uomini che non avevano una famiglia, o forse che scappavano da una
famiglia. La loro compagnia e il bourbon, invece di tirarlo su di morale, lo
avevano reso ancor più malinconico.
Verso le undici aveva pensato bene di rimontare sul pick-up e di dirigersi
lentamente verso la chiesa, la stessa nella quale suo nonno e i suoi genitori
non avevano mai mancato una funzione per tutta la loro vita. Ricordi
dolorosi, che cercò di seppellire in un angolo della mente. Il Natale non era
forse una festa gioiosa?
Cercando di distinguere l’asfalto della strada attraverso il muro di neve che
il cielo aveva deciso di mandare proprio quella notte, accese la radio,
lasciando che la musica riempisse lo spazio e la sua testa.
Certo che, fra tutte le canzoni al mondo, dovevano trasmettere proprio
Make you feel my love di Dylan? Ecco, ora era veramente fregato. Perché,
mescolata al bourbon che aveva in corpo, già sapeva dove una canzone come
quella l’avrebbe portato…
A sognare l’impossibile e a chiedersi: a chi avrebbe voluto far sentire il
proprio amore, lui?
Un solo nome gli salì alle labbra, forse a causa di Bob Dylan o del
ventaccio che faceva ballare il pick-up come un aquilone. Un solo nome, lo
stesso che gli era ormai entrato dentro e che non riusciva più a estirpare né
dalla sua mente né tantomeno dal suo cuore.
***
«Ti piace Bob Dylan, cara?» le chiese la signora Curtis mentre il marito
procedeva lentamente verso Hope, la neve che sbatteva contro l’auto sferzata
dal vento.
Maggie si portò una mano alla bocca e si rimangiò le ultime parole di
Blowing in the wind. Cantarla era ormai divenuto un riflesso condizionato
quando il vento soffiava forte, che fosse sola o in compagnia. Era l’unico
modo in cui riusciva a mantenersi calma, a stare meglio. Insomma, meno
peggio.
«Sì, signora Curtis, è uno dei miei cantautori preferiti» rispose con voce un
po’ stridula.
«È sempre piaciuto tanto anche a me… Ma eccoci arrivati. Vieni anche tu
alla funzione, cara?»
«Dovrei telefonare a mia sorella, veramente.»
«Chiamala e poi entra in chiesa, ti farà stare meglio.»
Lo sguardo comprensivo che le rivolse le riscaldò il cuore. Maggie le
sorrise, riconoscente. «Certo signora Curtis, lo farò.»
L’auto parcheggiò nei pressi della chiesa illuminata, dove la gente già
cominciava a entrare nonostante mancasse mezz’ora all’inizio della funzione.
I Curtis uscirono dalla macchina mentre Maggie apriva la portiera senza
riuscire a trovare la forza di seguirli. Ancora una volta, la signora le venne in
aiuto. «Vieni con me cara» le disse tendendole una mano.
Maggie la prese, scese e, cantando non certo inni sacri ma il vecchio
menestrello e il suo vento, giunse infine sana e salva nell’atrio della chiesa.
«Tu telefona, cara, ti terrò un posto vicino a noi.»
Maggie la guardò come un gattino randagio infreddolito e affamato guarda
il suo salvatore.
Miao.
Sul telefonino c’erano almeno dieci messaggi, tutti di Craig. Digitò un
sintetico mi spiace in risposta all’ultimo e chiamò casa Kroll. Rispose con
voce assonnata Teresita, che quella sera avrebbe dovuto trovarsi a casa con la
sua famiglia, non da Suzie. Maggie si allarmò subito.
«Teresita, mia sorella non è a casa?»
«Lei e il señor Peter sono stati chiamati d’urgenza in ospedale per
un’emergenza. Pare ci sia stato un incidente con alcuni feriti. Rientreranno
tardi.»
«Tu puoi fermarti con Stella? Anch’io ho avuto una piccola... mmmh...
emergenza e non so a che ora potrò essere a casa.»
«Certo, mi fermerò anche tutta la notte se occorre.»
«Gracias. Feliz Navidad, Teresita.»
«Feliz Navidad, Maggie.»
Ora, però, c’era ancora da risolvere un piccolo problema. Come avrebbe
fatto a tornare a casa dopo la funzione se né Suzie né Peter potevano venire a
prenderla? Con quel tempaccio non voleva chiedere ai Curtis di
accompagnarla fino a casa, erano stati già fin troppo gentili con lei. Forse
sarebbe riuscita a trovare un passaggio da qualcuno… Be’, in qualche modo
avrebbe fatto.
Entrò in chiesa e percorse il corridoio centrale sino a quando non riconobbe
tra i fedeli la signora Curtis che, come promesso, le aveva tenuto un posto al
suo fianco. Chiedendo scusa a chi era già seduto, si infilò nella panca e si
sistemò di fianco a lei.
«Tutto bene?» le chiese la donna.
Maggie ricambiò il sorriso e mentì. «Sì, grazie, tutto bene.»
In realtà non andava bene niente. La sua serata, così ben pianificata, era
stata un disastro: era scappata come una codarda da Craig – perché la sua
fuga non poteva certo essere considerata una dimostrazione di coraggio! – e il
suo brillante piano era miseramente fallito. Meglio così, forse il suo destino
era quello di diventare solo attempata e non primipara.
Da quando lo aveva lasciato solo alla locanda – cosa che avrebbe dovuto
farla sentire in colpa invece che divertirla tanto – era la prima volta che
pensava veramente a lui.
Dio! Certo, doveva essere furioso con lei. Non solo l’aveva mollato in asso
invece di infilarsi nel suo letto, ma gli aveva pure rovesciato un bicchiere di
eggnog su una giacca da almeno duemila dollari. Soffocò un’altra risatina,
nonostante non fosse da escludere che lui, in quel preciso momento, la stesse
cercando, e non con buone intenzioni. Che volesse davvero vendicarsi?
E per che cosa? Perché il suo orgoglio maschile aveva subito un colpo
basso? Per quanto Craig Haas fosse pieno di sé, non sarebbe mai arrivato a
tanto.
Un altro drin del telefonino. Craig aveva probabilmente ricevuto il suo
telegrafico mi spiace.
Maggie guardò il display. Sì, era Craig.
Anche a me spiace.
Una risposta altrettanto concisa e diretta, sufficiente a farla sentire a
disagio.
Almeno, invece di darsi alla fuga, avrebbe potuto affrontarlo, aspettare che
fosse riemerso dal bagno con la sua giacca di cashmere tutta impataccata. Se
non lo aveva fatto, era solo perché era stata colta dal panico, perché, in fondo
a se stessa, non voleva correre neppure il più piccolo rischio di mettere al
mondo un figlio con i cromosomi da tripla A di Craig Haas.
Non voleva un figlio lupesco.
Gli mandò un altro messaggio stringato – perdonami – pensando che il
giorno dopo gli avrebbe telefonato, fatto gli auguri di Natale e spiegato i
motivi della sua fuga. E poi, amici come prima. Cioè, non amici.
Sì, avrebbe fatto proprio così.
Non che questo bel proposito le servisse a risolvere il suo problema
immediato, che era quello di tornare a casa dopo la funzione.
Maggie chiuse gli occhi, sperando di estrarre dal cilindro una soluzione
accettabile. Dunque, chi avrebbe potuto chiamare?
Per quanto si sforzasse, un solo nome le girava in testa, quello del cowboy.
Mitch-strafigo-Sandford.
Che, non appena avesse risposto al cellulare e riconosciuto la sua voce, le
avrebbe messo giù.
Tastino rosso e addio passaggio.
O, visto che a Natale i miracoli potevano sempre succedere, se non avesse
interrotto subito la comunicazione l’avrebbe fatto immediatamente dopo,
quando lei gli avesse spiegato la situazione.
Ciao Mitch! Come stai? Ti telefono perché ho avuto un problema con
Craig Haas, sì, proprio lui. Che problema, chiedi? Oh, niente di che,
all’ultimo ho deciso di non andarci a letto. Sai, non volevo che fosse lui il
padre di mio figlio, tutto qui. E ora mi trovo sola, in città, in mezzo a questa
bufera e ai lupi, e non ho nessuno che mi riaccompagni a casa. Non è che mi
daresti un passaggio?
Sospirò, guadagnandosi un’occhiata curiosa della signora Curtis. Chissà
dov’era Mitch in quel momento… Probabilmente nel letto di quella bionda o
di un’altra donna.
Il coro e i fedeli cominciarono a intonare Holy Night e un paio di brividi le
corsero giù per la schiena, insieme alle immagini di un passato che non
voleva ricordare. Per un istante rivide sua madre. Non come le era stata
mostrata in fotografia tante volte dopo la sua morte, ma la sua mamma, che
l’accarezzava e che a Natale le cantava proprio quella bellissima melodia.
Sentì una lacrima correrle lungo il volto, e poi un’altra. Di lei conservava
solo una reminiscenza sfocata, ma l’immagine del suo viso, in quell’ultimo
Natale passato insieme, le era rimasta così impressa da averla sempre nel
cuore e negli occhi, anche in quel momento. O almeno così credeva.
La tragica ironia che la moglie di un già affermato ginecologo fosse stata la
vittima di un aborto spontaneo non l’aveva mai colpita come in quel
momento. Si ricordò di quel giorno maledetto, della voce all’improvviso
debole di sua madre che chiedeva a Suzie di badare alla sorellina, a lei, prima
di chiudersi in bagno.
Per morire.
Il groppo che le era salito in gola aveva raggiunto dimensioni preoccupanti.
Stille Nacht. Non c’era nulla di tranquillo e silenzioso in quella notte. I
ricordi urlavano dentro di lei come i lupi là fuori, più affamati e arrabbiati di
loro. Dopo la morte di mamma, suo padre – almeno questo era quello che le
era stato detto – aveva accettato un posto in un piccolo ospedale del nord
della Scozia, un luogo sperduto nel freddo e nella pioggia dove lei e Suzie,
all’epoca bimbe di tre e sei anni, erano cresciute. Sole, con tate sempre
diverse che all’inizio parlavano una lingua sconosciuta. Il dubbio che da
sempre si portava dentro, e cioè che suo padre avesse ritenuto le sue due
figlie colpevoli per non aver salvato la madre, la colpì ancora una volta dritto
al cuore, peggio di una coltellata. Colpa anche di quella musica, forse, che la
gente intorno a lei non aveva ancora smesso di intonare.
Prese un grande respiro e scacciò via i ricordi, o almeno ci tentò.
Odiava quando le emozioni avevano la meglio sul suo autocontrollo, cosa
che succedeva più o meno sempre. Si asciugò le guance col palmo della
mano e tirò su col naso, decisa a respingere emozioni e ricordi tanto
opprimenti. Doveva concentrarsi solo sul presente. Su quella notte. Sulla
tempesta di neve. Sui lupi.
Su Mitch Sandford.
Prese il telefonino, lo mise su silenzioso, cercò il numero di telefono di
Mitch e decise di inviargli un messaggio, tutto in lettere maiuscole.
DOVE SEI, COWBOY?
Poi non staccò più gli occhi dallo schermo, neppure quando il pastore iniziò
il suo sermone.
Era curioso come tutto, nella vita, fosse relativo e transitorio. Perché, in
quel momento, della tempesta e del vento, dei lupi e di Craig, del fatto che
forse avrebbe dovuto passare la notte su una panca della chiesa, non le
importava più nulla.
L’unico pensiero fisso nella sua mente era che quel dannato cowboy non le
aveva ancora risposto.
Come si permetteva? E se lei avesse avuto bisogno di lui? Se fosse stata
rapita da un serial killer? Non era forse anche una specie di sceriffo? Non
aveva forse il compito di accorrere quando una donna sola e nei guai
invocava il suo aiuto?
Si ricordò di come fosse accorso in suoi aiuto l’ultima volta che si erano
incontrati – nella stalla del suo ranch nientemeno, come in un western! – e
sentì il polso accelerare e il volto andare in fiamme.
A dire la verità, pochi secondi e le parve che tutto il corpo stesse per
prendere fuoco.
Misericordia: si era forse scordata di essere in chiesa, la notte della Vigilia?
Prese il foglio dei canti di Natale e cominciò a sventolarsi.
Si tolse il cappello, si aprì il piumino. Pensò alle calamità naturali che
avrebbero potuto succedere quella notte, ma il fuoco non si spense.
Anzi.
Se solo avesse sentito un piccolo fuocherello bruciare in lei quando Craig
l’aveva baciata, ora non si sarebbe trovata in questa fastidiosa situazione. E la
colpa di chi era?
La colpa era solo del cowboy, del suo Stetson e di come l’aveva baciata a
tradimento. Fatto altre cose, a tradimento. Facendo apparire ai suoi occhi ogni
altro maschio un optional non necessario.
Sì, la colpa era solo del cowboy.
In quel momento lo schermo del telefonino si illuminò.
COSA VUOI?
Ecco.
***
Mitch Sandford non vide entrare Maggie in chiesa perché vi giunse dopo di
lei, a funzione già cominciata. Sino all’ultimo era rimasto chiuso nel pick-up
parcheggiato di fronte alla chiesa incerto sul da fare, poi aveva ceduto
all’impulso che lo aveva portato sin lì ed era entrato.
Tenendo lo Stetson stretto tra le mani, si fermò in fondo al tempio, in un
angolo, dove pensava che sarebbe passato inosservato. Pettegola com’era
certa gente, non voleva rischiare che qualcuno mettesse in giro la voce della
sua improvvisa redenzione. Perché nessuno si occupava della propria anima e
dei propri peccati, invece di interessarsi a quelli degli altri?
Soprattutto ai suoi.
Aveva immaginato che sarebbe stato difficile, ma non così tanto. I ricordi
dolorosi di altre vigilie, di altre funzioni al fianco dei suoi genitori e di suo
nonno lo assalirono, ma seppe respingerli in un angolo del cuore sino al
momento in cui li sentì placarsi. La funzione sarebbe durata solo un’ora in
fondo, e poi sarebbe stato libero di ritornare al suo ranch, di trascorrere un
altro Natale da solo. Quando il telefono vibrò nella tasca del giaccone, per un
istante pensò di non guardarlo, con la sensazione che sarebbe stato un errore.
E se fosse stato lo sceriffo a richiedere il suo intervento? In una notte come
quella tutto era possibile. Così pescò il telefonino dal giaccone e lesse.
DOVE SEI, COWBOY?
La svitata. Sì, era stato un errore imperdonabile, come aveva pensato.
COSA VUOI?
Digitò e inviò.
Lei gli rispose subito.
UN PASSAGGIO SINO A CASA, NEL CASO TU FOSSI IN CITTÀ.
Sgrunt.
Era stato proprio lui a grugnire come un vecchio brontolone?
Mitch si guardò intorno, sperando che nessuno si fosse accorto che stava
armeggiando col telefonino. La prima volta che entrava in chiesa dopo quasi
dieci anni, col pastore già impegnato nel sermone di Natale, e lui scambiava
SMS con la svitata?
Forse, dopotutto, nessuno avrebbe tirato in ballo la sua improvvisa
redenzione.
DOVE SEI?
Digitò e inviò.
IN CHIESA, fu la risposta.
Il mondo per un istante smise di ruotare.
In chiesa? Maggie era lì?
Si guardò intorno, cercò tra i fedeli intorno a lui, ma non notò nessuna testa
rossa. Forse era in un’altra delle tre chiese di Hope.
CHIESA DI HOLY SPIRIT?
Digitò, rendendosi conto che all’improvviso le sue mani stavano tremando.
SÌ.
Maggie era lì.
OK, VENGO, digitò.
Oltre alle mani che non volevano smettere di tremare, ora ci si mettevano
anche le labbra a fare di testa loro.
Stava sorridendo, come un imbecille.
***
Il pastore augurò Buon Natale, il coro riprese a cantare e l’organo a
suonare. Fu in quel momento che Maggie sentì che lui era vicino. Si girò
appena e lo vide.
Se ne stava in piedi nel corridoio centrale, a qualche passo da lei, lo Stetson
fra le mani, un’espressione indecifrabile sul volto.
Il sangue prese a correrle troppo veloce nelle vene e, per quanto faticasse
ad ammetterlo, si sentì così felice che un sorriso le illuminò il volto, come se
lui fosse tornato a casa dopo un lungo viaggio.
Già, quale casa?
Mitch, invece, rimase di pietra, come se la chiamata di Maggie non fosse
che un’altra scocciatura da risolvere.
Il sorriso si spense poco per volta sulle labbra di Maggie e gli occhi, prima
ridenti, si strinsero in uno sguardo interrogativo.
Se il cowboy preferiva che fra loro ci fosse il gelo, che gelo fosse. Non era
obbligata a sorridergli, in fondo, né a far conversazione. Lo avrebbe solo
ringraziato per il passaggio e poi, estranei come prima.
Mitch le fece cenno con la testa di seguirla e, senza neppure aspettarla,
ruotò su se stesso e si incamminò verso l’uscita del tempio. Maggie sentì il
suo amor proprio reagire all’atteggiamento scostante di Mitch, ma decise di
fingere un’indifferenza e una calma che non provava; si prese il tempo
necessario per ringraziare i signori Curtis e per salutare le altre persone che,
come lei, erano in fila verso l’uscita.
Scostante forse era un termine troppo gentile, se riferito al cowboy.
Prepotente era più appropriato. Perché, non appena mise il naso fuori dalla
chiesa, lui la prese per un braccio e, dopo aver brontolato qualcosa, la
trascinò quasi di peso verso il suo Ford rosso, parcheggiato proprio dall’altra
parte della strada.
«Ehi!» protestò Maggie arrancandogli dietro.
«Sali e taci. Non voglio che qualcuno metta il tuo e il mio nome all’interno
dello stesso pettegolezzo.»
E, così dicendo, l’aiutò senza troppe cerimonie a inerpicarsi su per quel suo
pick-up impossibile, raccomandandole con un grugnito di allacciare la cintura
di sicurezza. Poi girò dall’altra parte e salì con un balzo al posto del
guidatore.
*
Pur essendoci appena passata in mezzo, Maggie si accorse solo allora che la
tempesta era ulteriormente peggiorata e che la neve ghiacciata ormai batteva
quasi orizzontalmente sui vetri.
«Non mi importa di cosa penserà la gente, voglio solo andare a casa»
mormorò.
Lui la fissò immobile, un sopracciglio alzato, in attesa di una spiegazione.
«Certo che hai una bella faccia tosta. Pensavo di essere stato un errore»
disse.
Come dargli torto se era arrabbiato?
Gli aveva detto che era stato un errore, certo. Non un errore che avrebbe
compiuto ogni giorno della sua vita, se solo lui glielo avesse chiesto.
«Non ti chiedo che di portarmi a casa, Mitch, per favore» lo implorò lei
sentendosi all’improvviso sfinita.
Nel buio lui mise in moto, il pomo d’Adamo che si muoveva in su e in giù
come la valvola di scarico di quel suo caratteraccio.
«Ok, andiamo» disse, e mosse il vecchio Ford fuori dal parcheggio.
«Grazie» sussurrò Maggie.
Sulle prime lui non le chiese niente. Prese invece una di quelle sue vecchie
cassette e la infilò nel mangianastri quasi con rabbia.
Le note di The first time I saw your face di Johnny Cash si diffusero dagli
altoparlanti e arrivarono dritte al cuore di Maggie.
La prima volta che vidi il tuo viso... Il pensiero che Mitch l’avesse scelta
apposta, per dirle qualcosa di assurdamente romantico, la sfiorò, ma se ne
andò subito dopo quando con fare brusco lui pigiò il tasto eject, prese la
cassetta e la gettò sul cruscotto borbottando una parola molto simile a
stronzate.
«Cosa sono stronzate?» chiese Maggie.
Lui sbuffò.
«Le parole di questa canzone?»
«Già. Le trovo ridicole e zuccherose. E…» aggiunse mettendo così fine
all’argomento, «ora non mi va affatto di parlarne.»
«Ok, come vuoi tu» rispose lei rannicchiandosi sul sedile.
Ma dopo un minuto...
«Spero di non essere io la causa di tanta rabbia, non eri obbligato a venirmi
a prendere» disse cercando di mantenere un’aria calma e ragionevole anche
se si sentiva come una bomba pronta a esplodere.
Per un istante un guizzo verde si posò su di lei, poi si spense nel buio.
«Non sono venuto a prenderti. Se proprio lo vuoi sapere, ero già lì, in
chiesa.»
«Oh!» esclamò lei, come se così il gesto di Mitch assumesse un altro
significato, molto meno cavalleresco ed eroico. «Non pensavo che fossi un
tipo da chiesa. Ma grazie lo stesso.»
Si domandò come Mitch l’avrebbe presa se gli avesse raccontato cosa le era
capitato quella sera. Non che ci fosse da pensarci su molto: l’avrebbe presa
male, visto che di mezzo c’era Craig (perché poi i due si odiassero tanto era
un mistero). Ma in ogni caso, si sentiva in dovere di spiegargli perché lo
avesse chiamato, magari evitando di nominare Haas.
In fondo glielo doveva.
«Il fatto è che per una serie di eventi sfortunati mi sono ritrovata…»
Lui si girò solo un attimo verso di lei e anche al buio Maggie si accorse di
quanto fosse irritato.
«Non mi interessano i tuoi casini, Maggie, tienili per te. E, se per caso non
te ne fossi accorta, cosa che mi parrebbe strana visto che vai in panico per un
soffio di vento, c’è una brutta tempesta là fuori e guidare in queste condizioni
richiede molta attenzione. Per cui fammi un piacere: stai zitta.»
Oh! Nessuno le diceva di stare zitta da un bel po’ di anni.
Arrogante di un cowboy.
Credeva di poterla comandare a bacchetta perché era corso in suo aiuto? O
forse per quello che era successo fra loro al ranch?
Che la maltrattasse pure, lei non avrebbe risposto alle sue provocazioni,
non gli avrebbe dato quella soddisfazione. Voleva solo andare a casa.
«Scusa, non ti disturberò più.» Passo e chiudo.
Però era strano.
Il cowboy aveva ragione almeno su una cosa. Per quanto là fuori ci fosse
una tempesta da paura, lei stava respirando normalmente, non tremava
neppure, né sentiva il cuore soffocare in una morsa. Insomma, non c’era
nessun fottutissimo attacco di panico in corso. Non che non ne fosse felice, lo
era eccome, ma era soprattutto sorpresa, per non dire un po’ spaventata.
Secondo la sua terapista, ex terapista per la verità… Che andasse al diavolo,
lei e le sue teorie strampalate!
Si girò appena e fissò Mitch, così solido e concentrato alla guida. Che fosse
colpa del cowboy se non era terrorizzata dall’apocalisse là fuori?
Prese un lungo respiro e si rese conto di quello che aveva appena pensato.
Colpa? Che non fosse invece merito di quel cowboy dagli occhi verdi se si
sentiva così tranquilla e sicura?
***
Avrebbe pagato per sapere cosa le era successo quella sera, ma non glielo
avrebbe chiesto. Non voleva lasciarsi coinvolgere di nuovo da quella svitata,
nonostante lo stupido sorriso che gli nasceva dentro ogni volta che pensava a
lei.
Ancora qualche giorno e se ne sarebbe tornata in Europa e lui avrebbe tirato
un sospiro di sollievo e dimenticato ciò che era successo fra loro al ranch.
L’impulso di un attimo, lo aveva definito, come se lei, durante quell’attimo,
fosse stata altrove. Come se non avesse sentito i loro corpi bruciare nello
stesso fuoco.
Bugiarda.
Quelle parole gli salivano in gola ogni dannatissimo giorno e ogni volta gli
toglievano il respiro. E certo non per una stupida questione di orgoglio
maschile, che Dio lo fulminasse in quello stesso momento se lo era.
Anche se non voleva ammetterlo, c’era molto di più.
Per quanto avesse provato a cancellarla dalla mente, Maggie gli era rimasta
addosso, come un’impronta impressa a fuoco sulla pelle. Anche in quel
momento la sentiva bruciare, infiammargli il cuore e la mente. La carne,
soprattutto.
Strinse il volante tra le dita sinché non sentì le unghie scavare nel palmo
delle mani.
Ancora pochi minuti…
Pochi minuti e quel breve ma penoso capitolo della sua vita si sarebbe
chiuso per sempre.
Represse di nuovo il desiderio di chiederle cosa fosse accaduto quella sera,
poi la zittì in modo brusco quando lei si offrì di dargli delle spiegazioni. Se
l’avesse ascoltata, in seguito non avrebbe fatto altro che rimuginare sulle sue
parole, sui se e sui ma. No, grazie.
Fra meno di un miglio la strada avrebbe curvato a destra verso casa Kroll e
senza Maggie seduta accanto si sarebbe sentito subito meglio. Perché ora lo
stava fissando con quei due occhi da cerbiatta spaventata? Di cosa aveva
paura? Di lui, della tempesta? Se non avesse smesso di fissarlo così,
sarebbero finiti presto fuori strada.
Problema risolto.
Il cellulare suonò, fastidioso in quel silenzio rotto solo dal tergicristalli e
dal borbottio del motore.
«Mitch Sandford» rispose secco.
***
Maggie vide l’espressione di Mitch indurirsi, la mano che reggeva il
volante stringersi a pugno. Qualcosa non andava. Senza rendersene neppure
conto, si spostò verso la portiera, allontanandosi il più possibile da lui.
«Arrivo» disse lui con voce preoccupata. «Dimmi esattamente cosa è
successo. Ora.»
La spiegazione non gli piacque a giudicare dalla serie di fuck che gli uscì
dalle labbra e dal colpo che vibrò sul volante, tanto forte che Maggie temette
lo avesse rotto.
«Cosa c’è?» chiese agitata, scivolando un po’ più lontana verso la portiera.
Lui alzò una mano per zittirla.
«Sarò lì tra cinque minuti» disse. Poi chiuse il telefono e pigiò
sull’acceleratore.
Maggie vide la deviazione per casa Kroll avvicinarsi e poi sparire dietro di
lei nella notte.
«Non dovevi girare di là?» chiese senza troppa convinzione. Non ottenne
risposta. Allora controllò la cintura di sicurezza e chiuse gli occhi sperando
che Mitch sapesse il fatto suo alla guida di quel coso.
Dopo quattro minuti e trenta secondi esatti arrivarono vivi a Paradise.
Mitch parcheggiò di fronte a casa di Hakan e balzò giù con un diavolo per
capello. Hakan era già sull’uscio di casa, Aiyana dietro di lui.
Maggie, con un po’ di fatica, riuscì ad aprire la portiera e scivolare giù dal
pick-up nonostante l’abito attillato.
«Vieni Maggie, vieni in casa che fuori si gela» la invitò Aiyana, sorpresa di
vederla e con un sorriso tirato sul volto.
«Cosa è successo?» le chiese lei entrando, spaventata. «È morto
qualcuno?»
«Grazie al cielo no. È Miracle. È scappato dalla stalla.»
Le ci volle un momento per riordinare i pensieri. Poi chiese: «Il
puledrino?».
«Sì, e non so proprio capire come sia successo. Seguimi, raggiungiamo gli
uomini in cucina.»
In quell’istante a Maggie sembrò di essere ripiombata indietro nel tempo di
almeno cinquant’anni. Nel gruppo degli uomini era compreso anche Archie,
che sembrava piuttosto eccitato da quel fuoriprogramma.
Hakan stava spiegando probabilmente per l’ennesima volta la dinamica
della sparizione, mentre Mitch continuava a camminare su e giù per la grande
cucina come un leone in gabbia.
«Aiutami a preparare il caffè, Maggie» le disse Aiyana, «meglio che
lasciamo gli uomini da soli.»
Altro che cinquant’anni! Il balzo nel tempo era stato di almeno
centocinquant’anni! Maggie fissò incredula Aiyana, ma poi non disse nulla e
la seguì al lavello.
Sentì Hakan dire: «Verso le undici e mezzo sono andato a controllare che la
stalla fosse chiusa, e lo era. Come mia abitudine sono arrivato sino al
cubicolo di Sugar per assicurarmi che Miracle stesse bene. Ho controllato
pure che ogni dannata finestra e porta della stalla fossero chiuse».
«Poi cosa è successo?»
«Sono rientrato in casa e poco dopo la mezzanotte ho sentito abbaiare
Archie. Inavvertitamente dovevo averlo chiuso fuori. Gli ho aperto e in
quell’istante ho percepito che qualcosa non quadrava.»
«In che senso? Hai visto qualcosa, forse?»
«Non lo so, continuo a pensarci, ma non riesco a ricordare nulla. Forse ho
sentito un rumore inusuale che mi ha messo in guardia. Fatto sta che sono
subito corso alla stalla e ho trovato aperte sia la porta di ingresso che quella
di Sugar. Miracle era scomparso, ma non doveva essere uscito dalla stalla da
molto, perché si intravedevano ancora le sue orme sulla neve.»
«Se erano ancora visibili verso mezzanotte, non dovrebbe essere passata
più di un’ora dalla sua fuga.»
«Che, per un puledrino come lui, equivale a essere già morto, con tutti i
lupi affamati che ci sono in giro» disse Hakan.
«Non morirà, non glielo permetterò, non la notte di Natale» disse Mitch
come se parlasse a se stesso. Poi aggiunse: «Sei certo che qualcuno non sia
entrato nel ranch e lo abbia portato via?».
«Lo escludo nel modo più assoluto, Archie avrebbe abbaiato se avesse
sentito un’auto o dei passi in cortile. In ogni caso, per quale ragione qualcuno
avrebbe dovuto disturbarsi a venire fin qui con questo tempaccio e rubare un
puledro che sta a mala pena in piedi, quando nella stalla ci sono dei
purosangue che valgono centinaia di migliaia di dollari?»
Mitch assentì, ma non disse una parola. Prese il caffè che Aiyana gli stava
offrendo e ne bevve un lungo sorso.
«Non so come possa essere accaduto, mi dispiace tantissimo» mormorò
Hakan.
«Non è colpa tua, e poi sono certo che lo ritroverò» gli rispose Mitch
appoggiandogli una mano sulla spalla.
Stanca di starsene in disparte, Maggie gli si avvicinò. «Che intenzioni hai?»
gli chiese preoccupata.
Lui la guardò stupito, quasi si fosse dimenticato della sua presenza. «Ho in
mente di fare l’unica cosa sensata, Maggie.» Poi, rivolto a Hakan, disse:
«Sellami Thunder mentre io vado a prepararmi», e a grandi passi si diresse
verso l’uscita, la tazza di caffè ancora in mano.
«Ti preparo dei sandwich e un thermos di caffè caldo. E delle zollette di
zucchero per Miracle, per quando lo troverai» gli disse Aiyana.
Maggie pensò di non aver capito bene. Corse dietro a Mitch e cercò di
bloccarlo, prendendolo per un braccio.
«Che diavolo credi di fare, Maggie?» chiese lui spazientito.
«IO? Che diavolo credi di fare tu! Non vorrai andare là fuori a cavallo,
vero?»
«Scusa Maggie, non ho tempo da perdere adesso. Lasciami il braccio per
favore.»
Lui riprese a camminare, ma Maggie non mollò la presa.
«Non puoi andare, è pericoloso» aggiunse zampettandogli dietro.
Mitch si fermò di colpo e lei gli finì addosso e per non cadere si aggrappò
al suo giaccone. In una frazione di secondo sentì il braccio di lui sostenerla,
protettivo, forte. Fatto solo per lei. Per un istante rimasero a fissarsi, l’uno
stretto all’altra, entrambi consapevoli del fuoco che divampava in loro ogni
volta che erano vicini. Poi Mitch ruppe il contatto visivo e la allontanò da sé,
brusco. «Tieni, renditi utile» disse.
Le mise in mano la tazza di caffè vuota e in un battibaleno imboccò la
porta. Maggie, per nulla doma, lo seguì.
***
Fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto in vita sua, doveva ritrovare
Miracle, o non se lo sarebbe mai perdonato. Aveva fatto tanto per mantenere
quel puledrino in vita e non avrebbe permesso alla tempesta di portarselo via
la notte di Natale. Aprì la porta di casa come una furia e, bruciando i gradini a
due a due, salì in camera per cambiarsi. Fu mentre si stava levando i jeans
che notò Maggie che lo fissava dalla porta. Era appoggiata allo stipite e lo
guardava seria, per nulla imbarazzata. Il suo cuore perse un battito, poi ripartì
più in fretta di prima. Cercando di tenerlo a bada, continuò a spogliarsi.
«Lo tieni anche a dormire, lo Stetson?» chiese Maggie con un sorriso
timido.
Lui se lo tolse dalla testa e con un tiro preciso lo gettò sulla panca ai piedi
del letto.
«Se vuoi scoprirlo, non hai che un modo per farlo» disse. Poi prese dei
vestiti da un cassetto e incominciò a infilarseli, indumenti termici, pensati per
le temperature polari.
Maggie sorrise. «Be’, non sei molto sexy con quei mutandoni…»
Finalmente sorrise anche lui. «Ti assicuro che al momento giusto
sparirebbero.»
Maggie mosse qualche passo verso di lui, lui continuò a vestirsi, come se la
situazione fosse del tutto normale.
«Sei sicuro di voler commettere questa follia?»
«Parli dei mutandoni?»
«Mitch…»
«Sì, Maggie, sono sicuro.»
Lei scosse il capo e chiuse gli occhi, come se non riuscisse a capacitarsi
della follia che lui stava per compiere. «Inutile che io cerchi di convincerti?»
«Maggie… sarebbe inutile. Se tu desideri tornare a casa, Hakan ti
accompagnerà.»
A casa? Di che casa parlava?
«No, se non ti dispiace, aspetterò qui il tuo ritorno.»
Mitch la guardò uscire dalla sua camera da letto resistendo all’impulso di
seguirla, di stringerla a sé e di dirle quanto le fosse grato. Per un momento
chiuse gli occhi e, scacciando dalla mente tutti gli altri pensieri, la immaginò
nel suo letto, appena sveglia, con in mano la tazza di caffè che le aveva
portato. O abbracciata a lui, ancora calda e profumata del suo amore.
No. Per quanto insieme facessero scintille, la svitata non era per lui. Non
l’aveva forse già deciso da un pezzo?
Ora c’era Miracle da salvare.
***
Maggie lo vide sparire nella bufera, ingoiato dal vento e dalla neve. Solo,
naturalmente, perché aveva proibito ad Hakan di accompagnarlo. Pur
sapendo che era ben equipaggiato, era terrorizzata all’idea che gli potesse
succedere qualcosa. Certo, aveva con sé due telefoni satellitari, viveri,
coperte, torce al magnesio e persino una pistola razzo per segnalare la sua
posizione. Aveva anche un fucile, nel caso un branco di lupi avesse deciso di
approfondire la sua conoscenza. Ma anche così, non sarebbe stata una
passeggiata.
«Non c’è niente di cui preoccuparsi» le aveva detto Hakan.
«Non c’è niente di cui NON preoccuparsi» aveva risposto lei.
Quando Mitch non fu più visibile, Maggie scoprì che stava piangendo. Per
la verità fu Aiyana a farlo.
La abbracciò e le disse: «Non piangere, bambina, tornerà. È un ranger, ne
ha passate di peggio nella sua vita. Ora entriamo in casa, beviamo una tazza
di tè e magari mangiamo un paio di biscotti. Ci aiuterà a passare questa
lunghissima notte».
Un paio di ore dopo, Maggie era l’unica a essere ancora sveglia e, dato che
non ce la faceva proprio a dormire, decise di attraversare il cortile e di andare
a casa di Mitch. Lasciò un biglietto ad Aiyana per informarla della sua
decisione, prese la chiave di Mitch dalla rastrelliera, si imbacuccò a dovere e
uscì. La tempesta, più violenta di prima, non l’avrebbe fermata: chiuse gli
occhi e contò fino a dieci, attraversò il cortile di corsa e, una volta sotto il
portico, infilò la chiave nella toppa ed entrò in casa.
Tutto senza quasi respirare.
Subito, il profumo di Mitch la accolse e l’accarezzò, facendola sentire
protetta, sicura.
A casa.
Non sapeva cosa la spingesse, ma sentiva di doverlo fare. E se Mitch, al suo
ritorno, si fosse arrabbiato, tanto peggio per lui.
Andò a colpo sicuro verso il ripostiglio dove, secondo le indicazioni di
Aiyana, sapeva che avrebbe trovato ciò che le occorreva.
***
Erano le tre di notte, faceva un freddo cane e di Miracle nessuna traccia.
Era stata una follia cercarlo nella bufera, ma era stata anche l’unica decisione
da prendere. Perché, nonostante nella sua vita avesse visto tanti puledri
morire, precipitati in un dirupo o morsi da un serpente, mai si era sentito così.
Coinvolto, toccato sin nel profondo dell’anima. Quel puledrino nato sotto
Natale era diventato un simbolo per lui, anche se ancora non aveva capito
esattamente di cosa. Non che avesse la minima importanza in quel momento,
ciò che davvero contava era trovarlo e riportarlo a casa. Vivo.
Cercando di proteggersi il volto dalla neve, dura come proiettili di ghiaccio,
si diresse verso il ruscello da dove imboccò la pista che saliva verso
l’altopiano, giudicandola la scelta più probabile anche per Miracle.
Muovendo il raggio della torcia da destra a sinistra, continuava a chiamare
con voce pacata il nome del puledro, nella speranza che avesse risalito il
ruscello e non si fosse perso in uno dei sentieri laterali, impervi e poco
battuti. Procedette al passo per quasi un’ora, uscendo spesso dal sentiero per
ispezionare anfratti e avvallamenti nascosti e, quando ormai aveva perso ogni
speranza, finalmente lo vide, se quell’ombra delicata era proprio la sua e non
quella di un cerbiatto: se ne stava fermo, vicino a un grosso Douglas, come se
cercasse di trovarvi riparo. Era spaventato e di certo affamato. Ma vivo.
Sentì il cuore esplodere di gioia e il viso bagnarsi di qualcosa di caldo.
Forse, dopotutto, non era stato un caso se aveva deciso di chiamarlo Miracle,
miracolo.
Schermando la luce per non spaventarlo, gli si avvicinò lentamente e,
quando fu a pochi metri da lui, smontò portando con sé un lazo, una coperta e
la bisaccia. Parlandogli dolcemente, incominciò ad avvicinarsi.
Fu in quel momento che lo sentì, un suono basso e minaccioso,
inconfondibile. Lupi. Li vide subito, macchie scure contro la neve candida.
Erano tre, una femmina e due maschi. Anche loro stanchi, affamati.
Avrebbe potuto prendere il fucile e sparare un colpo in aria per metterli in
fuga, ma così facendo avrebbe spaventato anche il puledro. E se lui fosse
scappato, i lupi lo avrebbero rincorso e sarebbero certo stati più veloci di lui a
ritrovarlo. No, doveva assicurare Miracle al lazo, poi avrebbe pensato a
mettere le belve in fuga.
***
Maggie non ci aveva messo molto a trovare nel ripostiglio le scatole
contenenti gli addobbi natalizi; le aveva sistemate sul tavolo della cucina e
senza esitazioni si era data da fare. C’erano piccole meraviglie conservate con
amore in carta velina, lì dentro, metri e metri di nastro rosso e luci di tutti i
colori; le era bastato scegliere fra tutto quel ben di Dio, sistemare qualche
addobbo nei punti giusti, e in pochi minuti il profumo del Natale si era
diffuso per tutta la casa. Anche fuori di casa, per la verità, perché non si era
dimenticata di appendere una ghirlanda colorata alla porta di ingresso e di
avvolgere delle lucine intermittenti alla balaustra del portico.
Mancava ancora un particolare, però. L’albero, o almeno qualcosa che lo
ricordasse. Certo non poteva uscire e abbattere un abete con le sue mani, ma
forse… Andò nella legnaia e lì trovò un grosso ramo di pino che faceva al
caso suo. Lo ornò con alcune palline e del nastro rosso e lo sistemò sulla
mensola del camino, chiedendosi quale sarebbe stata la reazione di Mitch una
volta tornato a casa. Sempre che fosse tornato. E se si fosse perso? Se i lupi –
sembrava ce ne dovessero essere a bizzeffe in quel posto – lo avessero
scambiato per la loro cena di Natale? Se il cavallo fosse scivolato e finito in
un burrone?
Se, se, se. E se invece fosse tornato a casa sano e salvo con Miracle? Come
lo avrebbe accolto?
In quel momento era troppo stanca per pensarci, ma per qualche ragione
nascosta aver addobbato la casa di Mitch le aveva restituito una parvenza di
serenità e di fiducia. A mamma sarebbe piaciuta quella casa, pensò. Poi si
sdraiò sul divano di fronte al camino, si avvolse nella coperta che trovò
piegata sul bracciolo e, cullata dal tepore che emanava ancora dalle braci,
levò al cielo una preghiera, lei che non pregava mai. E si addormentò.
***
Mitch si avvicinò con studiata lentezza, il fucile carico, la torcia in mano,
allargò le braccia e lasciò che il lungo pastrano gli sventolasse ai lati. Più
grande fosse apparso, più i lupi lo avrebbero temuto. Infastiditi dalla luce, lo
fissavano ringhiando, i lunghi denti esposti, la fame negli occhi.
Probabilmente erano giorni che quei poveretti non mangiavano. Be’, gli
spiaceva per loro, ma non sarebbe stato Miracle a sfamarli. Si avvicinò
ancora, e quelli indietreggiarono, pur dando chiari segnali di aggressività.
Con movimenti lenti, Mitch prese dalla bisaccia il grosso pezzo di carne
cruda che aveva portato dal ranch e glielo lanciò. I lupi vi si gettarono sopra e
incominciarono a contenderselo, mentre Mitch metteva il lazo al collo di
Miracle, avvolgeva il puledro in una coperta e, dopo esserselo messo in
spalla, correva verso Thunder. Sistemato Miracle sulla groppa del cavallo,
montò in un balzo e lanciò il baio al galoppo, temendo che presto i lupi, non
certo sazi, li avrebbero inseguiti. Certo, aveva un fucile per spaventarli e, in
caso estremo, per difendersi da loro, ma sperava proprio di non doverlo usare.
Era troppo felice per ammazzare delle creature, dopo averne salvata una.
L’aveva trovato.
Miracle era vivo, intorpidito dal gelo, dalla fame e dalla paura, ma vivo.
Nonostante i lupi che forse gli stavano già alle calcagna, in quel momento il
mondo gli parve un posto meraviglioso dove tutto era possibile, anche i
miracoli.
***
Maggie dormì per circa un’ora, sino a quando alcuni colpi – di fucile? – e
l’abbaiare di Archie non la svegliarono.
«Mitch!» esclamò alzandosi.
Si infilò gli stivali e si strinse la coperta sulle spalle, poi corse fuori per
controllare se fosse stato il ritorno di Mitch ad aver causato quella benedetta
confusione. Nella corte, con Aiyana e Hakan, c’erano altri due uomini che
Maggie riconobbe fra quelli che aveva incontrato durante la sua precedente
visita al ranch. Entrambi erano già in sella, pronti a muoversi. Archie
sembrava in preda a una strana eccitazione e non smetteva di correre e
abbaiare.
Mitch non era tornato.
«Cosa è stato? Sembravano spari» chiese con un nodo alla gola
«Sì, lo erano, Miss Maggie» rispose Hakan.
Maggie divenne più bianca della neve che non aveva ancora smesso di
scendere. «Chi ha sparato?»
«Mitch. Forse per avvisarci che è vicino, forse perché ha trovato dei lupi o
perché ha bisogno di aiuto. In ogni caso David e John stanno per andare a
cercarlo» rispose Hakan alzando il pollice verso i due.
«E come contano di trovarlo?»
«Spareranno dei colpi in aria e attenderanno che lui risponda.»
«Non sarebbe più comodo usare i cellulari?» chiese.
«Lo sarebbe se funzionassero. La bufera ha probabilmente abbattuto un
ripetitore. Bisogna affidarsi ai vecchi sistemi.»
Non che la cosa la rassicurasse.
I due uomini spronarono i cavalli e sparirono nel buio seguiti da Archie.
Maggie guardò l’orologio. Erano le cinque del mattino e Mitch era là fuori da
quattro ore. Rientrò in casa solo per indossare il piumino, poi rimase sul
portico e non smise per un solo istante di fissare l’oscurità da dove il cowboy
avrebbe potuto ricomparire da un momento all’altro.
Un altro sparo la fece sussultare, seguito da un altro ancora, poi l’unica
colonna sonora fu quella del vento che con prepotenza si stava portando via
la tempesta. Lo sentì su di sé, violento come uno schiaffo; vide mulinelli di
neve alzarsi, come piccoli tornado.
Che Eolo fosse arrabbiato, e di brutto, era una realtà, ma...
Ma.
Respirò profondamente guardando le nuvole che correvano veloci in cielo e
si chiese, per la seconda volta in poche ore, per quale motivo non fosse
terrorizzata dal vento.
L’unica risposta che seppe darsi aveva a che fare con un cowboy, e non le
piacque.
Alle cinque e quarantacinque, alla voce del vento si unì l’abbaiare festoso
di Archie. Il grosso cane fu il primo a ricomparire dal nulla e a raggiungere
scodinzolando il cortile del ranch. Lo seguivano Mitch e i suoi uomini.
Cavalcavano lenti, piegati leggermente in avanti per ripararsi dall’aria gelata.
Maggie prima urlò, poi si precipitò con Aiyana e Hakan verso la stalla e
diede una mano ad aprire i due pesanti battenti. I tre uomini entrarono in fila
indiana, in silenzio. Thunder era sporco di sangue sui garretti posteriori e
portava in groppa sia Mitch che un grosso fagotto avvolto in una coperta,
Miracle. Nessuno sapeva ancora se ce l’avesse fatta.
***
Non appena Mitch vide Maggie, fu come se un raggio di sole lo avesse
baciato dopo il gelo e la fatica di quella notte.
Era stato difficile, là fuori, e forse era stato anche inutile, ma la vista di
Maggie che lo aspettava con occhi carichi di speranza e un sorriso
preoccupato sulle labbra lo stava ripagando di ogni sforzo. La guardò, una
ridicola speranza nel cuore, e per un istante gli parve che i loro occhi si
stessero scambiando segreti e promesse a cui mai, prima d’ora, aveva
creduto.
Lei era lì. Per lui. Per il momento si sarebbe dovuto accontentare di questo.
Mitch rimase in sella, i suoi uomini smontarono e si diedero subito da fare
per mettere il puledrino a terra. Fecero con cautela, senza fretta, guidati dalla
voce calma di lui e dalle istruzioni di Hakan che insieme ai cavalli aveva
passato la vita.
Deposero Miracle sulla paglia asciutta, già pronta per lui, tolsero piano la
coperta che lo avvolgeva e incominciarono ad asciugarlo e a massaggiarlo
vigorosamente con degli stracci.
«Il cuore batte ancora» disse Hakan, infondendo a tutti i presenti un alito di
speranza.
Solo allora Mitch ebbe la forza di smontare. Si inginocchiò di fianco al
puledro, gli accarezzò il muso e gli parlò dolcemente, il cuore che batteva
sempre più forte in attesa che un segnale di vita arrivasse.
***
Maggie rimase a distanza, lottando contro quel groppo che le serrava la
gola e tutte quelle lacrime che premevano per uscire.
«Dai cavallino, dai che ce la fai, ce la devi fare» continuava a ripetere a
mezza voce.
Aiyana le si avvicinò e le mormorò qualcosa. «Vai da lui.»
Era talmente confusa che sulle prime non comprese neppure chi fosse lui,
poi capì. Con lentezza si avvicinò a quei quattro uomini che stavano dando
l’anima per salvare la vita di un puledrino, si inginocchiò di fianco a Mitch e
appoggiò una mano sul suo braccio stringendo leggermente, come a dargli
coraggio, o a riceverlo da lui. Quando si girò verso di lei, Maggie si tuffò nel
lago verde dei suoi occhi e in quello stesso momento riaprì il cuore alla
speranza.
Guardando Miracle, strinse la mano di Mitch e ricominciò a mormorare:
«Dai cavallino, dai che ce la fai». Ancora e ancora, sino a quando Miracle
non sembrò sentirla e, a modo suo, le rispose. Scosse vigorosamente la bella
testa stellata, nitrì e fece dei deboli e goffi tentativi per rimettersi in piedi. Gli
uomini gli fecero subito spazio e il puledrino, benché barcollante e insicuro
sulle zampe sottili, riuscì a rialzarsi.
«Vuol dire che è salvo?» chiese Maggie stringendosi a Mitch.
«No, sapremo se vivrà solo quando cercherà il latte della madre.»
Mitch prese il lazo che Miracle aveva ancora al collo e guidò il puledro
sino al cubicolo dove Sugar lo aspettava nervosa. Docile, si lasciò togliere il
lazo dal collo ed entrò nello spazio che ben conosceva. La cavalla sorrise, o
almeno a Maggie così parve, e con un nitrito che pareva una carezza chiamò
il suo piccolo. Sotto lo sguardo fremente di quegli uomini duri e stanchi,
Miracle mosse i pochi passi che lo separavano da lei. La cavalla abbassò il
muso e gli diede dei colpetti sul collo lungo e tenero, come per invitarlo a
fare il suo dovere. Miracle si avvicinò ancora e, preso il capezzolo della
madre in bocca, cominciò a succhiare.
«Sìììì!» urlarono tutti all’unisono.
Mitch si lasciò cadere su una balla di fieno e cominciò a ridere o forse a
piangere. Nessuno lo scoprì mai, perché Archie gli saltò addosso e prese a
leccargli il viso. Maggie, di sicuro, scoppiò a piangere.
*
Poco dopo, Maggie si avvicinò a Mitch che stava parlando con Hakan.
«Un maschio molto aggressivo ci ha seguiti e ha attaccato Thunder»
diceva.
«Hai dovuto sparargli?»
Mitch scoppiò a ridere. «Ho sparato in aria per spaventarlo, ma quando è
tornato alla carica una seconda volta ci ha pensato Thunder con un calcio sul
muso a sistemarlo. Il povero lupo guaiva come un chihuahua quando è corso
via con la coda tra le gambe!»
«Per i racconti ci sarà tempo domani!» li interruppe Aiyana. «Ora fila a
letto, Mitch! A Miracle penseranno gli uomini e tra poco arriverà anche il Dr
Rosemberg per ricucire le ferite di Thunder. Tu non sei più necessario, hai
già fatto abbastanza per stanotte. E anche se fai finta di niente, sei così stanco
che tra poco ti addormenti qui nella stalla.»
«Non mi tentare, dormirei volentieri vicino a Miracle…» disse Mitch.
«Non ci pensare neppure. Fila a letto che ti voglio in forma per il pranzo di
Natale. Sono stata a cucinare per ben due giorni!»
«Ok, ubbidisco. Lo sai che sei una donna impossibile?» disse Mitch
schioccandole un bacio sulla guancia.
Lei si sciolse in un sorriso. «Va’ a riposare. E non farti vedere in giro prima
di mezzogiorno.»
«Altrimenti?»
«Ti sparo.»
Mitch le rifilò un altro bacio sulla fronte, poi si girò verso Maggie e le tese
la mano, in un invito silenzioso a seguirlo. Lei rimase a fissare quella mano
grande e forte che l’attendeva senza dire una parola, senza respirare, senza
comprendere ciò che quell’invito significasse.
«Vieni» la incoraggiò lui, «devi essere stanca morta anche tu.»
Oh se lo era!
Lasciò che Mitch le avvolgesse la mano nella sua. Quando passarono
davanti al vecchio Storm, il cavallo nitrì e scosse la grossa testa pezzata.
Mitch si fermò, gli diede uno zuccherino e gli sussurrò qualcosa che sembrò
farlo felice.
«Andiamo, Mitch» lo esortò Maggie rimanendo al suo fianco, la mano
stretta nella sua.
Insieme uscirono dalla stalla e si incamminarono verso casa.
*
Impossibile che non avesse notato la ringhiera del portico illuminata da una
miriade di minuscole lucine.
«Come, non dici niente? Non brontoli? Non le prendi a fucilate?» chiese
Maggie mentre attraversavano il cortile.
«In effetti ci ho pensato» rispose lui fingendosi serio.
Maggie si mise a ridere. «Pensavo che fossi talmente stanco da non
essertene accorto.»
«Per non accorgermi di tutta quella luce avrei dovuto essere cieco, più che
stanco.»
«E… cosa ne pensi?»
«Il Natale non è il periodo più bello dell’anno per me, Maggie.»
«Se vuoi faccio sparire tutto, immediatamente.»
Lui si fermò e le rivolse una tacita domanda: c’è altro?
Maggie alzò gli occhi al cielo. «Mi dispiace, Mitch, non lo sapevo. Io… mi
sono lasciata prendere un po’ la mano, ecco. Pensavo che, una volta tornato a
casa, ti avrebbe fatto piacere trovare un po’ di atmosfera natalizia ad
accoglierti. Ti ricordi che oggi è Natale, vero?»
«Come potrei scordarmene, Maggie?» rispose lui in un sussurro.
Erano ormai arrivati di fronte alla porta di ingresso.
«Anche la ghirlanda…» mormorò, come se avesse visto l’inferno.
«Già, è un po’ rovinata dal tempo, ma è meglio che niente, no?» rispose
Maggie sentendosi all’improvviso morire.
Dio santissimo, cosa ho combinato?
Mitch si appoggiò alla parete di fianco alla porta e chiuse gli occhi, il volto
stanco e tirato. «Odio il Natale, Maggie.»
Fu come se qualcuno le avesse tolto il mondo da sotto i piedi. Respirò
profondamente, senza nessuna intenzione di lasciare che Mitch si crogiolasse
nell’autocommiserazione.
«Io non lo odio e non l’ho mai odiato, neanche quando mi è capitato di
passarlo da sola. Ma soprattutto, non odio questo Natale, Mitch.»
Lui aprì appena le palpebre, abbastanza perché lei potesse scorgere il colore
della speranza brillare nei suoi occhi.
«Cosa vuoi dire, cos’ha questo Natale di speciale, Maggie?»
«Tutto! Una vigilia così non ti è sembrata speciale?»
«Perché, avrebbe dovuto?» disse lui inarcando un sopracciglio.
«Dimmi che mi stai prendendo in giro, Mitch, ti prego!»
Vide la tensione in lui sciogliersi in un sorriso che le accarezzò il cuore. «Ti
sto prendendo in giro, Maggie, ma voglio lo stesso che tu mi dica perché
questo Natale è speciale.»
Lei prese un gran respiro e cominciò il suo piccolo elenco aiutandosi con le
dita di una mano. Mostrò il pollice.
«Primo: sei accorso in aiuto di una stupida donna che aveva combinato un
casino…»
«Non voglio sapere niente di quel casino…»
«Né io ho intenzione di parlartene. Secondo: la stessa stupida donna è
riuscita a sopravvivere in mezzo a una tempesta di neve e vento, cosa che è
da considerarsi poco meno di un miracolo, visto che soffre di anemofobia.»
«Che parolone, e solo per dire che sei svitata!»
«Non sono svitata» protestò Maggie.
«Solo un pochino» disse lui, ancora con quel sorriso sleale sulle labbra.
«Non è vero» protestò di nuovo Maggie, sentendosi all’improvviso in
paradiso. Forse perché aveva ammesso con tanta leggerezza il suo problema,
forse perché ormai era Natale o forse perché il cowboy le aveva passato un
braccio intorno alla vita e la stava attirando a sé.
Doveva concentrarsi sul punto tre.
«Terzo: ti sei buttato nella missione impossibile di trovare Miracle e l’hai
trovato, nonostante la bufera e i lupi e non so cos’altro ancora. E questo è un
miracolo di Natale, Mitch. Se Frank Capra avesse girato La vita è una cosa
meravigliosa qui in Wyoming, be’, non avrebbe trovato un finale altrettanto
perfetto. E infine, quarto…»
Ancora quel lago verde in cui lasciarsi cadere...
«Quarto? Non hai ancora finito, Maggie?»
Lui la strinse, sino a quando i loro corpi si toccarono e il battito dei loro
cuori non divenne uno solo.
«Quarto… sei con me, Mitch, e la vita non mi è mai sembrata così
meravigliosa.»
Ecco, l’aveva detto.
Si alzò sulla punta dei piedi, gli appoggiò le mani sulle spalle e mormorò
sulle sue labbra: «Buon straordinario Natale, Mitch».
Poi lo baciò.
***
Per quanto fosse distrutto e mezzo congelato, sentì il proprio corpo reagire
come se avesse toccato un filo dell’alta tensione. Prima rispose al bacio,
spingendolo oltre la soglia del vietato ai minori, poi prese Maggie in braccio
come fosse una delle sette spose e lui uno dei sette fratelli, spalancò senza
complimenti la porta di casa ed entrò senza mai staccare le labbra da quelle di
lei. E, nonostante la stanchezza, avrebbe divorato gli scalini a due a due sino
alla camera da letto se quel ficcanaso di Archie non si fosse infilato nella
porta che già stava per richiudersi abbaiando e scodinzolando come un
cucciolo.
«Ehi, cosa ci fai qui vecchio mio, non vedi che siamo molto occupati?»
disse Mitch sorridendo.
Anche Maggie sorrise, ma poi ebbe un sospetto. «Mitch, mettimi giù, per
favore.»
«Hai già cambiato idea?» le chiese prima di farsela scivolare addosso con
deliberata lentezza, per nulla convinto di separarsi da lei.
Maggie gli diede un frettoloso bacio sulla bocca, poi corse alla porta.
«Ehi, non te ne starai andando, vero?» le urlò dietro lui. «Non è bello che
mi abbandoni dopo avermi illuso, e a Natale per di più!»
«Avanti, seguimi» disse lei prendendolo per mano e, malgrado le sue
proteste, lo trascinò di nuovo alla stalla, con Archie che trotterellava dietro di
loro. «Voglio fare un esperimento» gli disse.
«Ora?»
«Ci vuole solo un momento. Sta’ a guardare. Archie! Vieni con me, bello.»
Il cane abbaiando la seguì dentro alla stalla, lei ne uscì subito e lo chiuse
dentro.
«Non capisco» disse Mitch.
«Forse ho scoperto chi ha aperto la porta della stalla permettendo a Miracle
di scappare.»
«Dimmi chi, e lo uccido.»
In quel momento Archie si mise a grattare la porta, poi la serratura scattò e
il grosso cane ricomparve, felice e innocente come un angioletto.
«Archie?» disse Mitch incredulo.
«Per me sì, è stato lui. Sa aprire le porte, ma evidentemente non richiuderle.
Forse Hakan non ci ha fatto caso, ma Archie potrebbe averlo seguito sin nel
cubicolo di Sugar ed esserci rimasto chiuso dentro.»
«E dopo, per liberarsi, potrebbe aver aperto prima la porta di Sugar, poi
quella della stalla.»
Il cane li fissava scodinzolante, felice di quella notte brava.
«Archie, vecchio mio, sei un vero criminale…» mormorò Mitch
accarezzandogli la testa.
Maggie sorrise, poi lo tirò per la manica e disse: «Basta con le smancerie,
adesso. Rientriamo, Mitch, che qui fuori si gela, e Dio sa se hai preso
abbastanza freddo stanotte. Vieni anche tu, Archie?»
***
Dopo aver riempito le ciotole di Archie con croccantini e acqua fresca,
Mitch scoprì di morire di fame. Maggie gli disse di andare sotto la doccia,
che gli avrebbe preparato un sandwich e poi lo avrebbe raggiunto.
«Nel senso di… sotto la doccia?» chiese lui alzando entrambe le
sopracciglia.
«Forse, ora vai.»
«Ti aspetterò lì.»
Maggie non rispose.
Quando salì in camera da letto, sentì lo scroscio dell’acqua provenire dal
bagno. Lasciò il panino e il bicchiere di latte caldo che aveva preparato su un
tavolino, bussò alla porta e, senza attendere risposta, entrò.
Mitch era davvero sotto la doccia, ma non avrebbe potuto dire se la stesse
aspettando o no. Sedeva su una panca, la testa appoggiata alla parete, gli
occhi chiusi, il corpo rilassato. Sembrava dormire. Maggie lo fissò come se
avesse davanti a sé un cupcake gigante, pronto a essere divorato. Ma senza
forchetta o cucchiaio, solo con mani e bocca.
In un istante si spogliò, gettò i suoi abiti sul pavimento e aprì la porta
scorrevole della cabina.
L’aria era calda e profumata e l’acqua bollente l’accolse come una
benedizione, lavando via dal suo corpo e dalla sua mente ogni stanchezza e
ansia.
«Mitch, sono qui» mormorò, poi si sedette a cavalcioni su di lui.
Il cowboy rimase immobile. Che dormisse veramente?
Maggie cominciò ad assaggiare quell’immenso, muscoloso, bollente
cupcake, sempre più affamata, sempre più golosa. Iniziò dalle labbra, che
assaporò con la punta della lingua, poi, lasciando una scia bollente sulla pelle,
proseguì verso il collo e risalì sino all’orecchio sinistro.
Lui non riuscì a trattenere un mugolio, ma ancora non disse una parola né si
mosse.
«Sei sveglio, cowboy?» sussurrò lei continuando a tormentargli il lobo
dell’orecchio.
Domanda inutile, visto che, non appena i loro corpi erano venuti in
contatto, lui aveva dato prova di avere almeno una parte di sé molto sveglia.
Maggie fremette e tornò a dedicarsi ai suoi assaggi.
Lasciò a malincuore l’orecchio e ripercorse la strada a ritroso, verso il
basso, fermandosi sopra la spalla di Mitch, un vero inno alla gioia.
Un altro gemito, forse di lui, forse di lei. Maggie cominciò a succhiargli e
mordicchiargli la pelle, con più forza adesso, scendendo ancora un po’ verso
quei magnifici pettorali che non vedeva l’ora di assaggiare.
«Dunque, stai dormendo veramente, non fingi» mormorò ridacchiando tra
un boccone e l’altro, cominciando con lentezza crudele a muoversi contro di
lui.
Questa volta fu decisamente lui a gemere.
«In questo caso, non posso certo approfittarmi di un cowboy stanco e
addormentato, quindi…»
Fece per alzarsi, ma due mani forti come l’acciaio la immobilizzarono. Gli
occhi di Mitch si spalancarono, per nulla assonnati, mentre, con un tono che
non ammetteva repliche, le diceva: «Non pensarci neppure ad andartene!».
Maggie scoppiò a ridere, ma poi il riso si spense sulle labbra, ancora aperte
su quelle di lui.
«Cosa stai aspettando, cowboy?»
***
Senza mai lasciarle la bocca, la sollevò appena e con un solo movimento fu
dentro di lei. Il suono roco e sensuale che uscì dalle labbra di Maggie gli
penetrò nel corpo e nell’anima, lasciandolo senza fiato, schiavo di un
desiderio mai provato prima. Voleva bere dalle sue labbra la passione che la
assetava e dissetarla con la sua, dare piacere e riceverlo. Soprattutto dare.
L’attirò impaziente a sé, poi le strinse entrambi i polsi e glieli portò dietro la
schiena per impedirle di muoversi sopra di lui.
Era talmente eccitato che temeva di venire prima ancora di incominciare ad
amarla.
«Non muoverti, Maggie» le sussurrò sulle labbra, invadendo la sua bocca,
esplorando, succhiando, lottando con la lingua di lei sinché non la sentì
docile contro la sua. Solo allora le liberò i polsi e lasciò che fosse lei a
condurre il loro amore, a ondeggiare con calcolata lentezza sopra di lui, a
strappargli il respiro e ogni forza residua. Voleva darle piacere, una, dieci,
mille volte, prima di concedere al proprio di esplodere.
«Maggie» disse come in un’invocazione, mentre la bocca lasciava quella di
lei e andava a cercarle il seno.
Si muovevano così meravigliosamente in sintonia che Maggie si inarcò e
gli offrì i capezzoli dolenti, implorando su di sé il tocco delle sue labbra e
delle sue mani.
«Maggie» mormorò lui di nuovo, mentre accompagnava con la bocca
chiusa su un capezzolo di lei il suo ondeggiare ritmico, succhiando,
mordicchiando, leccando.
Credendo di impazzire, rimase immobile mentre lei si muoveva su di lui,
sempre più in fretta, il capo riverso e quel continuo gemito che le usciva dalle
labbra e che, già lo sapeva, gli avrebbe fatto presto perdere il controllo. E così
fu. Quando la sentì venire intorno a sé, le scosse che la percorsero e l’urlo
strozzato del suo piacere gli attraversarono il corpo in una vibrazione
lacerante e inattesa.
Maggie.
Ansante, lei appoggiò allora la fronte alla sua ed entrambi rimasero
immobili, il respiro difficoltoso, gli occhi non ancora sazi, il battito del cuore
l’unica eco della loro passione.
Ora solo un terremoto avrebbe potuto fermarlo.
***
Ancora scossa da un piacere che forse non sarebbe mai finito, Maggie
affidò se stessa a Mitch, stringendosi a lui come alla vita, mentre, senza
uscire dal suo ventre, lui si alzava e la spingeva contro una delle pareti della
doccia.
Quando il piacere cominciò a placarsi e la sua mente riuscì a riconnettersi
al corpo, Maggie si lasciò andare a un risolino liberatorio: primo, perché
quell’uomo riusciva a farla esplodere come una diciassettenne non appena le
metteva le mani addosso; secondo, perché quello che lui le stava facendo in
quella doccia era quanto lei stessa aveva spesso descritto nei suoi romanzi
senza averne la minima esperienza. E ora doveva ammettere che la realtà
superava di gran lunga l’immaginazione.
Un altro risolino.
«Ehi! Io sto lottando per trattenermi, e tu continui a ridere? Sappi che la
virilità di un uomo per un’umiliazione come questa potrebbe subire un
trauma irreversibile!» disse lui scherzando, ma non troppo.
«Non mi sembra che la tua virilità ne stia risentendo, cowboy» rispose lei
con un sorriso malizioso.
Un lampo verde la dissuase dal provarci ancora e la sua ilarità si dissolse in
un istante. Anche perché Mitch le aveva catturato le labbra e aveva
cominciato a baciarla con una tale passione che il respiro le si bloccò in gola
e il desiderio si riaccese più forte di prima. Era sempre stata una da
togliamoci il pensiero subito e in fretta, ma ora non le bastava ciò che aveva
già avuto, ne voleva ancora.
«Hai ancora voglia di ridere, straniera?» le chiese Mitch, la bocca su quella
di lei, mentre con ogni colpo, sempre più forte e ravvicinato, la incatenava a
sé.
Maggie lottò per un po’ d’aria ed emise un debole no, poi abbandonò ogni
controllo quando lui prese a toccarla dove il desiderio era più intenso, come
neanche lei stessa sapeva fare. Gemette e sospirò e si sentì fremere quando
Mitch le mormorò cose deliziosamente indecenti. E, alla fine, urlò con lui
quando insieme furono scossi dalle stesse onde di un piacere che sembrava
non volersi più placare.
Roba che le sue eroine non si erano mai neppure sognate di fare.
*
Le poche ore che rimasero a letto prima che il cellulare di Maggie li
svegliasse, le trascorsero dormendo ma abbracciati come se ancora si stessero
amando. Dopo la sua avventura notturna alla ricerca di Miracle e la doccia
infuocata, Mitch si era addormentato come un bambino e Maggie, cullata dal
calore del suo corpo, lo aveva seguito poco dopo. Prima, però, aveva riacceso
il cellulare per inviare un messaggio a Suzie: STO BENE SORELLINA,
TORNO DOMANI, O FORSE NON TORNO AFFATTO, seguito da una
decina di smile.
Poi aveva appoggiato il telefono sul comodino di Mitch, in quel momento il
più comodo da raggiungere, e stringendosi a lui era crollata.
8
Natale, Hope
Alle dieci di mattina, cioè non molte ore dopo essersi coricati, il cellulare di
Maggie suonò e Mitch, credendo fosse il suo, rispose.
«Sai quanti messaggi ti ho mandato stanotte? Si può sapere perché sei
scappata in quel modo dopo che le cose stavano andando alla grande fra noi?
Maggie? Ci sei?»
Craig.
«Un momento» rispose Mitch, secco. Stava per aggiungere anche pezzo di
merda, ma si rimangiò le parole. «È per te» disse, la voce come il brontolio di
una tempesta imminente.
Detto ciò, buttò il telefono sul letto e, con foga eccessiva, si alzò e si chiuse
in bagno dove non ebbe migliore idea che sbattere un pugno contro una
parete, furioso con se stesso per ciò che stava provando. Considerate l’idiozia
del gesto e l’imbecillità della sua motivazione, il dolore che quel colpo gli
provocò fu il segno dell’esistenza di una qualche forma di giustizia.
***
Ancora mezza addormentata, calda di sonno e di amore, Maggie rimase a
osservare la fuga di Mitch senza capire cosa fosse successo, addirittura
attribuendola a un’impellente necessità fisiologica. Poi sentì provenire dal
telefono, materializzatosi accanto a lei, uno mormorio piuttosto su di giri.
Prese il cellulare in mano e rispose.
«Suzie, sei tu?»
«No, carina, non sono Suzie, sono Craig. Sai, quello che hai piantato in
asso ieri sera alla locanda…»
Craig.
«Craig, mi spiace. Ti ho inviato un messaggio per scusarmi…»
«E tu credi di poterti scusare con un messaggio del cazzo?»
Maggie sospirò. Non aveva voglia di litigare, non ne sentiva neppure
l’esigenza visto che di Craig non le importava nulla. E poi, se Mitch fosse
tornato, avrebbe potuto interpretare male il senso di quella conversazione. O
forse l’aveva già fatto?
Era stato Mitch a rispondere al telefono e, per quanto addormentato, aveva
probabilmente riconosciuto la voce di Craig o ne aveva letto il nome sul
display.
«Craig» disse mentre Mitch usciva dal bagno nero in volto. Gli sorrise, ma
lui, invece di correre da lei e stringerla fra le braccia, aprì l’armadio e prese
un paio di jeans puliti e una camicia, poi si sedette sul letto e cominciò a
vestirsi. Dandole le spalle.
Maggie deglutì sentendo il proprio corpo andare a fuoco per lui e congelare
a causa di Craig.
«Craig» ripeté, «ti prego ancora di scusarmi, ma non credo sia il caso di
parlarne adesso. Ti devo lasciare.»
Mitch commentò con un ah! decisamente sarcastico. Craig, invece, forse
non comprese il significato delle parole di Maggie, o fece finta di non capirle,
perché urlò un «Dove sei?» così infuriato e sonoro che arrivò dritto e chiaro
anche alle orecchie di Mitch. Che, senza pensarci due volte, si girò verso
Maggie e quasi le strappò il telefono di mano.
Oh! Nessuno aveva mai osato farlo. Che fosse anche quella un’abitudine
del West?
Ancora incredula, rimase a osservare in silenzio l’evolversi di una
situazione che cominciava ad apparirle più surreale che irritante.
«La signora ha detto che vuole chiudere qui questa conversazione. Hai
capito il concetto, Craig, o devo venire a spiegartelo io?» disse Mitch con
voce minacciosa come una tempesta in arrivo. Quindi pigiò il tasto rosso e
gettò il telefono sul letto.
Senza aggiungere neppure un grunt.
Ecco.
Maggie rimase a bocca aperta, stupefatta e offesa, incapace di trovare le
parole adatte per esprimere il suo stato d’animo. Che cosa ci faceva, lei, in
una società come quella? Dove gli uomini al ristorante ordinavano per le
donne e le aspettavano fuori dalle toilette per proteggerle; dove i cowboy, a
Natale, salvavano i puledri dal gelo e dai lupi e le donne dal corteggiamento
di uomini che loro odiavano. Dove ti strappavano il telefono di mano e si
prendevano la briga di parlare al posto tuo. Dove i rancori venivano risolti a
suon di pugni.
Già, che cosa ci faceva lei lì?
Sentì che quel mondo stava cominciando ad avvolgersi intorno alla sua gola
e a stringere. E Mitch, nonostante gli istogrammi di Edda, faceva parte di
quel mondo.
Il telefono suonò di nuovo e Mitch fu veloce ad afferrarlo, ma Maggie lo
gelò.
«Non provarci, Mitch. È il mio telefono.»
Il suo pomo d’Adamo andò su e giù più volte prima che lui le porgesse il
cellulare. Quindi si girò di spalle e riprese a vestirsi.
Questa volta era Suzie.
Graziesignoregrazie.
«Ciao Suzie, no no, tutto bene. Sì, tra poco torno a casa. Per mezzogiorno
sarò lì. Buon Natale anche a te, tesoro.»
Fu Mitch a rompere per primo un silenzio che stava diventando
imbarazzante.
«Scusa, Maggie, non volevo farmi i fatti tuoi. Non so cosa mi abbia preso.»
Era ancora seduto sul letto e le dava le spalle. Maggie avrebbe voluto tanto
abbracciarlo, stringersi a lui e mormorargli che nulla aveva importanza dopo
la notte precedente, invece disse solo la verità: «Scusa, ma non ti credo».
Poi si alzò dal letto e, con solo un asciugamano addosso, si diresse senza
un’altra parola in bagno.
***
Mitch la guardò allontanarsi e si diede dell’idiota, un’abitudine dura a
morire.
Lo sapeva, aveva sbagliato. Eccome se lo sapeva, ma non era riuscito a
trattenersi perché minacciare Craig era un piacere sottile cui non riusciva a
sottrarsi. Prima o poi, e qualcosa gli diceva più prima che poi, avrebbe
dovuto risolvere la cosa.
Se solo avesse potuto tornare indietro di cinque minuti… Avrebbe ingoiato
il suo rancore e lasciato a Maggie il suo spazio; non le avrebbe strappato il
telefono di mano in quel modo rozzo e primitivo.
Era così che lei lo vedeva? Come un bifolco rozzo e primitivo?
E forse non lo era, al suo confronto?
Provenivano da mondi troppo diversi per poter solo pensare a loro due
insieme. A parte il sesso, naturalmente, che era stato incandescente.
Anche a costo di fare la figura dell’idiota, doveva spiegarle che, se si era
comportato così, era solo perché… Già, perché? Perché il pensiero di lei tra
le braccia di Craig gli aveva fatto un male insopportabile, ecco perché. E non
per una stupida faccenda di rivalità maschile, di corna contro corna, come tra
due alci in calore.
Diglielo, imbecille!
No, non lo avrebbe fatto, nonostante Maggie gli fosse scivolata dentro,
giorno dopo giorno. Sotto la pelle, nella mente, nel cuore, immune dalle sue
difese. Le avrebbe lasciato credere di essere un bifolco, rozzo e primitivo,
così al momento giusto se ne sarebbe andata senza rimorsi.
Ma non appena la vide uscire dal bagno con addosso quell’abito rosso che
non lasciava nulla all’immaginazione, ogni buon proposito lo abbandonò e il
desiderio esplose di nuovo in lui, più prepotente di prima. Fatto alquanto
imbarazzante, dal momento che non aveva ancora indossato i jeans e che
infilarseli ora non sarebbe stato più così facile. Rimase seduto sul letto e si
coprì con un lembo del lenzuolo.
«Ho bisogno di un caffè, e poi di un taxi, così non ti devi disturbare ad
accompagnarmi» gli disse passandogli davanti. Aveva gli stivali, la borsa in
mano e l’aria di chi si stava chiedendo che diavolo ci facesse lì, con lui.
Mitch sentì piangere il suo orgoglio ferito, poi, cercando di tenere a bada
quel groviglio di sensazioni che non riusciva a spiegare, disse: «Non ci sono
taxi a Hope il giorno di Natale, e non è un disturbo accompagnarti. E poi
dovrei comunque passare a trovare tua sorella e tuo cognato e portare il mio
regalo alla piccola ammaliatrice».
Stella.
Lei lo fissò per qualche istante, senza permettere a nessun sentimento di
riflettersi nel suo sguardo. Poi, incamminandosi verso la porta della camera,
aggiunse: «Va bene allora, preparerò il caffè mentre tu finisci di vestirti».
Come se quella notte fra loro non fosse successo nulla, come se i loro corpi
non si fossero bagnati dello stesso sudore.
Nonostante tutte le cose che si era detto, l’indifferenza di Maggie lo irritò.
Senza riflettere, buttò coperte e lenzuola per aria e in due falcate le fu
addosso. Le afferrò un braccio senza delicatezza e la fece ruotare verso di lui.
Avrebbe voluto scusarsi, spiegarle i molti perché che gli incasinavano la vita,
ma fece l’unica cosa che moriva dalla voglia di fare.
L’attirò a sé e la baciò.
***
Maggie cercò di resistere, di liberarsi dalle sue braccia che la stringevano,
dalla sua bocca che la esplorava prepotente e affamata, ma poi cedette alla
passione di Mitch e si sciolse in quel bacio. Il vestito volò di nuovo sul
pavimento, ma la biancheria rimase al suo posto.
«Non togliertela, voglio farlo io» le disse lui con voce arrochita dal
desiderio.
Ingoiando il disagio, Maggie lo lasciò fare, lasciò che le sfilasse quei due
piccoli pezzi di seta impalpabile che Craig Haas le aveva regalato e, quando
finalmente anche quelli volarono sul pavimento, sentì ogni insicurezza
svanire. Dopo aver fatto l’amore con Mitch li avrebbe bruciati.
Nuda e disarmata davanti a lui, era pronta a prendere tutto quello che lui le
avrebbe dato e a conservarlo per sempre nel suo cuore.
Mitch la spinse sino al letto e poi sul letto, senza mai smettere di baciarla,
accarezzandola con forza più che gentilezza, dedicandosi a darle piacere,
come se fosse la missione della sua vita. Mani avide e labbra bollenti si
fermarono sui punti più caldi e lasciarono sui loro corpi cicatrici di fuoco che
mai si sarebbero rimarginate. Si amarono come fosse il loro ultimo giorno,
sino a quando il piacere li colse, improvviso, intenso e devastante, lasciandoli
entrambi privi di fiato e di parole. E con un milione di domande senza
risposta.
*
Per quanto cercasse di seppellirle in un angolo della mente, le sensazioni
che Mitch le aveva appena fatto provare continuavano a tornare in superficie,
regalandole brividi improvvisi e prendendosi gioco di quel poco che
rimaneva della sua forza di volontà.
Forse, pensò Maggie, l’unico modo per tacitarle era quello di tornare a
casa, da Stella. Quando la piccola avesse aperto il suo regalo (un altro
caballino di peluche che assomigliava terribilmente a Miracle), avrebbe
sorriso e urlato di gioia nel suo buffo idioma ispano-italo-inglese, restituendo
al Natale la sua giusta dimensione. Perché, se per caso se lo fosse
dimenticata, il Natale era fatto per far felici i bimbi, per aprire doni avvolti in
magnifiche carte colorate, per indulgere in pranzi ipercalorici e sentire
vecchie canzoni che parlavano di slitte e di neve. Non per perdersi dietro a un
cowboy dagli occhi verdi, capace di farle dimenticare il mondo con un solo
sguardo.
Maggie desiderava con tutto il cuore che quel Natale fosse perfetto,
indimenticabile.
Voleva conservarne il ricordo per i giorni difficili, per quando avrebbe
dovuto lasciare Suzie e Stella e tornare in Italia.
A Dio piacendo sola, senza un embrione che si divideva in modo frenetico
nella sua pancia.
Era stato Mitch a tirare in ballo l’argomento dopo la prima volta che
avevano fatto l’amore. Nella doccia, in piedi.
«Maggie, mi spiace. Non so cosa mi sia preso… Non credere che io sia il
classico maschio bastardo ed egoista, o forse lo sono diventato…»
Lei aveva compreso subito e lo aveva interrotto. «È perché non abbiamo
preso precauzioni che ti stai insultando così allegramente, cowboy?»
«Sì. Confesso che non mi era mai successo. È solo che… Be’, c’eri anche
tu, e sai come è stato.»
Incandescente? Stratosferico? Indimenticabile? Sì, c’ero anch’io, Mitch.
Come se avesse già previsto tutto, gli aveva risposto: «Tranquillo, prendo la
pillola – la pillola, che bugiarda! – e sono sana come un pesce. Se anche tu
sei a posto – e sapeva bene che lo era – non abbiamo bisogno di
quell’affare.»
Quell’affare. Perché non l’aveva chiamato col suo nome, preservativo?
Una menzogna imperdonabile come la sciocchezza che aveva compiuto, e
per ben due volte. Forse era stato il cocktail di ormoni che circolava in lei in
quei giorni ad averglielo fatto scordare, ma non aveva forse già stabilito da
un pezzo e con estrema chiarezza che il cowboy non era compatibile con il
suo piano? Perché, a differenza di Craig Haas, lui non sarebbe più riuscita a
toglierselo dalla mente. Perché il sesso, con lui, non aveva avuto nulla a che
vedere con l’inseminazione naturale, sterile e indolore, che aveva previsto.
Era stato ben di più.
Puro calor bianco che aveva prima acceso i loro corpi, poi i loro cuori.
Un errore imperdonabile.
*
Prima di lasciare Paradise, Maggie chiese a Mitch di vedere Miracle e di
salutare Aiyana e Hakan.
«Dici che si sono accorti che abbiamo passato la notte insieme?» gli chiese.
«Ormai lo saprà tutta la città» le rispose lui ridendo. «Rassegnati.»
Be’, se non altro Edda sarebbe stata contenta.
Il salotto di Aiyana, già affollato di ospiti, era riscaldato dal fuoco che
ardeva in un grande camino di pietra e soprattutto da una bevanda calda a
base di whisky e spezie che circolava allegramente. Quando fecero il loro
ingresso seguiti da Archie, Mitch si sottopose alla sua razione di pacche sulle
spalle, complimenti e occhiate di intesa, Maggie all’ispezione minuziosa e
inevitabile di sguardi curiosi.
Cosa si aspettava, che la ignorassero?
Fra gli ospiti, c’era anche la madre di Hakan, un’anziana nativa americana
guardata con grande rispetto da tutti i presenti. Sedeva su una vecchia
poltrona come se fosse un trono e intorno a lei uno sciame di api operaie era
pronto a scattare ai suoi ordini. La sua pelle era rugosa come quella di un
bufalo, ma i capelli erano ancora straordinariamente corvini, stretti in due
lunghe trecce adorne di nastri e perline. In mano reggeva un bicchiere,
all’apparenza pieno di whisky. A confermare l’impressione che la donna
fosse una sorta di capo, Mitch andò a porgerle subito i suoi omaggi e Maggie
lo seguì, rimanendo qualche passo distante per adeguarsi al comportamento
deferente che tutte le donne, a parte la vecchia, sembravano tenere con i
propri uomini. Non che Mitch fosse il suo uomo, ma questo atteggiamento
antidiluviano cominciava a divertirla.
Dal momento che era seduta, la vecchia fissava Mitch dal basso in alto,
nonostante si avesse l’impressione che fosse lei a dominare la situazione.
«Occhi di Lago, era ora che ti degnassi di venire a salutarmi!» disse con
fare offeso.
Occhi di lago? Un soprannome dovuto agli occhi verdi di Mitch, pensò
Maggie.
«Buon Natale, Principessa, ti trovo come sempre bellissima» le rispose lui
chinandosi a darle un bacio sulla guancia. Poi, girandosi verso Maggie,
spiegò: «Cielo del Mattino è una principessa di nobile famiglia cheyenne».
«Oh!» rispose Maggie sgranando gli occhi.
«Mostrami questa tua ragazza dai capelli di fuoco!» disse la donna con fare
imperioso, mettendo in mostra la scarsa dentatura e battendo due volte sul
pavimento il bastone che stringeva fra le mani.
Tutti, all’improvviso, tacquero.
Questa tua ragazza. Dai capelli di fuoco.
Io? si chiese Maggie, cogliendo un lampo di insicurezza negli occhi verdi
di Mitch.
Lui le tese la mano, fece un passo nella sua direzione e mormorò: «Reggimi
il gioco, Maggie, e farai di questa vecchia una persona felice».
Maggie deglutì, poi avvampò, infine si lasciò trascinare di fronte
all’anziana davanti a tutti gli ospiti, ormai stretti attorno a loro.
Forse la donna si aspettava che si inchinasse come davanti a un’altezza
reale? Decise che di inchinarsi non era proprio il caso e che un sorriso sincero
sarebbe stato sufficiente.
«Buon Natale, Cielo del Mattino» disse timida. Il modo in cui la vecchia la
fissava la metteva a disagio.
«Avvicinati ancora un po’» le ordinò tendendole la mano destra.
Maggie prima valutò l’ipotesi di baciargliela, poi la scartò subito e si
convinse che la donna volesse semplicemente stringergliela.
Ma anche quell’ipotesi si rivelò sbagliata perché, quando le porse la destra,
la donna disse, spazientita: «Non quella, voglio la sinistra».
«Oh, certo» rispose Maggie, senza sapere bene cosa fosse certo.
Dopo una danza di mani destre, sinistre e ancora destre, Cielo del Mattino
riuscì finalmente a catturare la sinistra di Maggie nelle sue, chiuse gli occhi –
cosa che permise a Maggie di lanciare un’occhiata disperata a Mitch – e si
esibì in un «Mmmh» pieno di significati reconditi.
In un silenzio religioso, tutti seguivano quello strano rito, compreso Mitch
che, nonostante tutto, non riusciva a levarsi un sorrisetto ironico dalle labbra.
«Allora, Cielo del Mattino, ho scelto bene?» le chiese, fissando Maggie
divertito.
Lei lo ricambiò con una smorfia.
Cielo del Mattino batté ancora una volta con forza il bastone sul pavimento
e riaprì gli occhi. Poi diede il suo responso. «Hai scelto bene, Occhi di Lago.
Anche perché questa donna possiede qualcosa che ti appartiene.»
Ecco.
«E dimmi, principessa, cosa avrebbe questa donna di mio?»
La vecchia sghignazzò. «Un miracolo» rispose.
Un miracolo?
In tutta onestà, Maggie cominciava a non poterne più di queste assurde
sciarade, con tutto il rispetto per la principessa. Fece per andarsene, ma Mitch
la obbligò a rimanere trattenendola per un braccio.
«Un miracolo?» ripeté Mitch sempre più inquieto.
«Già» fu la sola risposta della vecchia.
Mitch avrebbe forse voluto chiedere di più, ma Aiyana con prontezza
intervenne, tentando di distrarre Cielo del Mattino dalle sue divinazioni.
Perché, pur nella perplessità generale, non le era stato difficile comprendere a
cosa la vecchia si riferisse.
«Un altro goccio di whisky, mamma cara?»
La donna la fissò con aria solenne, poi le sorrise. «Grazie, figlia, ma
proprio un goccio.» Quindi, con un gesto della mano, la esortò a versare sino
a quando il bicchiere non fu colmo sino all’orlo.
Ancora confusa, Maggie si guardò intorno alla ricerca di Mitch, ma di lui
non sembrava più esserci traccia. Raggiunse allora Aiyana e, fingendo di
volerle dare una mano, la condusse con sé in cucina. «Che diavolo voleva
dire la vecchia pazza? Che cosa avrei io che appartiene a Mitch e che sarebbe
un miracolo?»
«Non l’hai capito?»
«No di certo! E poi non credo a certe cose!»
Aiyana si mise a ridere. «Prova a pensarci meglio, Maggie. Che cos’è un
miracolo, secondo te?»
«Un evento inspiegabile, con connotazioni fortemente positive, direi.»
«Giusto. Oppure? Il nome Miracle ti ricorda qualcosa?»
«Certo, il puledrino. Ma che c’entra? Come se io potessi avere un puledrino
che appartiene a Mitch!»
«Un puledrino no, ma un cucciolo?»
Maggie navigava ancora nel buio più totale. «Un cucciolo di cane?»
«Possibile che tu non capisca, Maggie? Un cucciolo di uomo!»
«Tipo Mowgli nel Libro della Giungla?» chiese, forse per rimandare il
momento della piena comprensione.
«Già, tipo Mowgli. Un cucciolo d’uomo.»
L’espressione di Maggie cambiò da esterrefatta a terrorizzata. «No, è
impossibile, Aiyana» disse cominciando a scuotere la testa.
Aiyana la fissava in assoluto silenzio.
Maggie si buttò su una sedia a peso morto, la testa fra le mani, gli occhi
rotondi e increduli. «Dimmi che Cielo del Mattino è solo una vecchia
ubriacona, Aiyana, e che le predizioni non sono il suo forte!»
Aiyana si sedette di fronte a lei con aria divertita. «Qualche volta ci
azzecca, qualche volta no. Con me ci ha azzeccato, ma non era così difficile,
dopotutto, dal momento che Hakan e io eravamo appena sposati e non
pensavamo che a quello.»
«È stato così imbarazzante, Aiyana, davanti a tutta quella gente! Pensi che
abbiano capito a cosa si riferisse tua suocera?»
«Qualcuno sì, qualcuno no. Ma pensaci meglio: cosa ci sarebbe di male se
tu e Mitch metteste al mondo un bambino?»
«Dai, non scherzare.»
«Non scherzo affatto. Ho visto come ti guarda Mitch…»
«Non so come lui mi guardi, ma so che se l’è data a gambe. Hai idea di
dove sia finito?»
«No, ma scommetterei che è nella stalla. È il luogo dove si rintana quando
ha un problema. Parla con Storm.»
Ecco.
«E il problema sarei io, stavolta?»
Prima di rispondere, Aiyana si alzò e andò a prendere due tazze di caffè. Ne
diede una a Maggie dopo averci messo una quantità di zucchero da shock
diabetico. Come se le volesse indorare la pillola.
«Sai, ho l’impressione che le parole di mia suocera non abbiano nulla a che
vedere con le sue visioni, che, se vuoi il mio sincero parere, dipendono solo
dal whisky che tracanna.»
Maggie la fissò con un grande punto interrogativo sul volto. «E allora,
perché ha detto quella frase?»
«Credo che abbia voluto provocare Mitch.»
Aiyana si alzò, prese il bricco del caffè e ne versò altro nella tazza di
Maggie.
«Devi sapere» continuò, «che Mitch ha sempre affermato di non volersi
sposare né di volere dei figli, per non rischiare di mettere al mondo degli
infelici, dice. Un punto di vista amaro, che credo dipenda dalla morte
improvvisa dei suoi genitori quando aveva appena sette anni.»
«Un punto di vista che Cielo del Mattino non condivide, evidentemente.
Avrebbe potuto evitare di coinvolgermi, però…»
«Se l’ha fatto, ha le sue buone ragioni, credimi. Mia suocera è una vecchia
ubriacona, ma sa il fatto suo. Ora, Maggie, perché non vai a cercare Occhi di
Lago?»
«Sarà meglio, è proprio ora che torni a casa.»
Mitch non voleva avere figli. Ecco qualcosa di importante che non sapeva.
Una ragione in più per sperare che la loro notte di fuoco non avesse avuto
alcuna miracolosa conseguenza.
*
Arrivarono a casa Kroll in silenzio e Mitch si fermò solo il tempo
necessario per dare a Stella il suo dono, un bellissimo cavallino a dondolo,
intagliato nel legno.
«È splendido, Mitch» commentò Maggie guardando la nipotina dondolarsi
con aria felice.
«Sì, lo è, come tutte le cose che faceva mio nonno» le rispose lui.
Maggie lo guardò stupita. «L’ha fatto tuo nonno? Per te?»
«Sì, io l’ho solo rimesso a posto.»
La conversazione finì lì.
Mitch rimase ancora qualche minuto a parlare con Peter, poi se ne andò
nonostante le insistenze di Suzie perché si fermasse a pranzo.
Maggie lo accompagnò al pick-up, i passi che scricchiolavano sulla neve
ghiacciata come unica colonna sonora. Ok, avrebbe avuto tante cose da dirgli,
ma in quel momento la gola era chiusa da un groppo di dimensioni
preoccupanti e aprirla sarebbe stato un vero disastro perché non sapeva cosa
ne sarebbe potuto uscire.
Di una sola cosa era certa. Mitch stava scappando. Da lei, da se stesso, dal
mondo intero probabilmente.
«Sei sicuro di volertene andare?» gli chiese mentre lui risaliva sul pick-up.
«Sì, è meglio che me ne vada, Maggie. Te l’ho già detto, il Natale non fa
per me, non sarei una buona compagnia per nessuno» disse evitando di
guardarla negli occhi, poi chiuse la portiera e accese il motore.
«È per quello che ha detto Cielo del Mattino, vero?» urlò Maggie per farsi
sentire sopra il fracasso del vecchio diesel.
Lui la guardò ma non rispose. Ingranò la retromarcia e partì.
Ecco.
«Buon Natale, Mitch e vai a farti fottere!» gli gridò dietro, sentendo la
rabbia montarle in corpo.
E visto che i guai non vengono mai soli, un paio di ore dopo Craig Haas
suonò alla porta, sfoggiando un occhio nero di giornata.
***
Era vero. Il Natale gli provocava troppi brutti ricordi per poter essere un
giorno felice. Era durante la notte di un Natale di molti anni prima che i suoi
genitori erano morti, finiti fuori strada, probabilmente per evitare di investire
un cervo con la loro auto. Non che ci fossero certezze a quel proposito, ma le
orme di un grosso cervo erano state trovate sulla strada, proprio nel punto in
cui l’auto aveva sbandato ed era finita giù dalla scarpata. Va’ a spiegare a un
bambino di sette anni che Babbo Natale gli aveva lasciato sotto l’albero tanti
bei doni colorati, ma che nello stesso tempo gli aveva portato via per sempre i
suoi genitori e il fratellino che avrebbe dovuto arrivare presto. Ancora, a
distanza di tanti anni, sentiva su di sé gli sguardi pieni di lacrime e
compassione degli amici e dei parenti che si ostinavano a chiedergli se stava
bene. No che non stava bene! Era un bambino, diavolo, come poteva sentirsi
bene sapendo che sua mamma e suo papà non sarebbero mai più tornati a
casa? Per fortuna il nonno lo aveva salvato. Era andato a prenderlo a Laramy
quella notte stessa e lo aveva portato con sé al ranch. «Starai con me da oggi
in poi, figliolo» gli aveva detto. E così era stato.
Ecco perché detestava il Natale ed ecco perché il pensiero di avere una
famiglia sua era troppo doloroso per essere preso in considerazione.
Almeno sino a quella mattina.
Perché quella mattina non solo si era svegliato con una donna nel suo letto,
cosa che non gli era mai capitata prima, ma aveva anche sentito una strana
fitta al cuore quando lei aveva deciso di andarsene. L’aveva presa tra le
braccia e, con maniere forse troppo decise, glielo aveva impedito, facendo
sesso con lei in modo tale che nessuno dei due se ne sarebbe più scordato.
Con un trasporto che lo aveva lasciato preda di un languore fastidioso.
Ancora adesso, gli andava su e giù per lo stomaco e ogni volta che risaliva
cercava di farsi strada verso il cuore. Il perché di questo languore non era
difficile da comprendere neanche a un refrattario cronico come lui.
Con Maggie aveva fatto l’amore, non il solito sesso. Ed era stato
incredibile.
A rendere quella mattina di Natale ancor più complicata, ci si era messa
pure Cielo del Mattino. Con le sue profezie, l’aveva rigettato nell’inferno dei
suoi ricordi e delle sue insicurezze. Perché, nonostante all’inizio non avesse
compreso a quale tipo di miracolo la vecchia alcolizzata stesse riferendosi,
all’improvviso la spiegazione gli era esplosa nel cervello.
Un miracolo. Come Miracle. Come un figlio.
Non che credesse nelle capacità divinatorie della donna. No di certo, anche
perché in questo caso si sarebbe trattato di un vero miracolo, o di una
sfortuna micidiale, visto che Maggie prendeva la pillola. O almeno così gli
aveva detto.
Non aveva ragione di non crederle, ma la sola possibilità che una tale
calamità potesse essere capitata a lui, l’aveva riportato al suo umore natalizio
di sempre, e cioè più nero del carbone.
E se Cielo del Mattino avesse visto il vero?
No. Maggie prendeva la pillola.
Forse fu a causa della tensione accumulata la notte precedente – Dio!, non
era stata certo una Vigilia di Natale tranquilla – o di quello che era successo
la mattina – compreso il fatto di aver pensato alla temibile parola che inizia
con la a e che finisce con more – ma quando vide il SUV di Craig Haas
parcheggiato davanti a Edda’s, inchiodò, smontò dal suo pick-up come Wyatt
Earp all’Ok Corral ed entrò nel locale, e certo non per augurare Buon Natale
ai presenti.
Per fortuna, essendo Natale, il locale era quasi deserto e così furono in
pochi ad assistere a quella scazzottata indegna in cui uno dei contendenti –
Mitch Sandford – sapeva tirar pugni, mentre l’altro – Craig Haas – era bravo
più che altro a prenderli. E forse anche desideroso di prenderli perché, non
appena vide Mitch dirigersi verso di lui minaccioso come il più famoso dei
fratelli Earp, gli chiese con aria strafottente se gli fosse piaciuto il regalo di
Natale che aveva fatto a Maggie.
Alla successiva domanda di Mitch – di che diavolo parli? – Haas lo guardò
con aria di sfida e descrisse per filo e per segno il completino Victoria’s
Secret di Maggie, insinuando pure di essere stato il primo a sfilarglielo.
A quel punto partì il pugno di Mitch che però non raggiunse il bersaglio,
ma solo la parete dietro al bersaglio. Perché Craig, pur non sapendo boxare,
sapeva schivare alla grande, avendo giocato egregiamente per anni a football,
nel ruolo di quarterback.
L’unico ferito, fino a quel momento, era Mitch. Alla mano destra, quella
buona.
Craig lo fissava con aria di scorno, come un bambino dispettoso, sentendosi
forte e invincibile, come un bambino sciocco. Perché di lì a poco il secondo
pugno di Mitch lo beccò in pieno, sullo zigomo destro, buttandolo a gambe
all’aria.
Edda accorse allora insieme al cuoco, un uomo che all’apparenza aveva
almeno cent’anni, ma che brandiva un batticarne come fosse una spada laser.
Con non poca fatica i due contendenti furono divisi e i loro animi, almeno per
il momento, sedati. Due sacchetti di piselli congelati finirono uno sulla mano
di Mitch, l’altro sull’occhio di Craig.
«Due uomini adulti comportarsi così, come due alci in calore, e a Natale!»
brontolava Edda controllando le ammaccature di entrambi.
Gli alci si scambiarono uno sguardo aggressivo, Craig con un occhio solo.
«Dovrei chiamare la polizia!» aggiunse Edda, beccandosi un’occhiata di
Mitch che, più o meno, diceva: sono io la polizia.
Non certo intimidita, la donna disse: «Invece di tenervi dentro tutto questo
risentimento, invece di prendervi a testate, perché non cercate di risolvere i
problemi parlandovi?».
«E di cosa dovremmo parlare, dei corsi e ricorsi della storia?» chiese Mitch
con rabbia, poi si alzò per andarsene, buttando il sacchetto di piselli su un
tavolo. «Mi spiace per questo casino, Edda, buon Natale.»
«Forse la storia è diversa da come tu credi che sia, Mitch!» gli urlò dietro
Craig, ma lui se ne era già andato.
***
Maggie sedeva al tavolo, una tazza di caffè in mano, il laptop aperto
davanti al lei. «Non lo voglio vedere» disse a sua sorella.
«Volevo scusarmi con te, Maggie.»
«Oh, sei già qui» disse lei alzando gli occhi al cielo.
«Ok, vi lascio soli» intervenne Suzy, guardando l’uno e l’altro con aria
interrogativa. «Ma non urlate che svegliate Stella.»
Craig si avvicinò al tavolo e si sedette di fianco a Maggie che, imperterrita,
continuava a consultare alcune tabelle sullo schermo e prendeva appunti su
un foglio di carta. Alzò lo sguardo su di lui.
«E perché dovresti scusarti? Sono stata io, in fondo, a piantarti in asso
all’improvviso.»
«Questo è vero, ma se l’hai fatto è per colpa mia. Ti ho teso un’imboscata
perché ero convinto che fosse ciò che anche tu volevi.»
«Se lo dici tu… allora ok. Ti perdono, puoi andare.»
Maggie prese un altro appunto.
«Cosa stai controllando sul computer?»
«I voli.»
«Vuoi partire? Così presto? Speravo potessimo riprovarci.»
Maggie scrisse qualcosa, poi gli puntò contro la penna. «Lusingata, ma non
servirebbe, Craig. Non perché tu non valga la pena di un secondo tentativo,
ma davvero, non sarebbe il momento giusto.»
Maggie depose la penna e si alzò in piedi. Prese in mano la tazza di caffè
vuota e, per la prima volta da quando lui era entrato, notò l’occhio nero.
«Ouch!» disse con una smorfia.
«Già!»
«Caffè?»
«Perché no? Grazie.»
Maggie versò del caffè nella propria tazza e ne riempì una pulita per lui, poi
gliela porse. «Zucchero, latte?»
«Zucchero, ne ho bisogno.»
Maggie sorrise e gli passò anche la zuccheriera. «Allora» disse, «da queste
parti è una tradizione fare a botte il giorno di Natale?»
Lui bevve un sorso, fece una smorfia di dolore e poi si sforzò di sorridere.
«No, non lo è. Ma per quanto strano ti possa sembrare, mi ha fatto bene. Mi
ha aiutato a capire parecchie cose, il pugno e Edda, insieme. Quella donna è
meglio di vent’anni di sedute dallo strizzacervelli.»
Maggie alzò gli occhi al cielo. «Come mai non mi stupisce che ci sia di
mezzo Hello Dolly?»
Lui sorrise di nuovo. «No, Maggie, Edda questa volta non c’entra, se non
per il fatto che la scazzottata si è svolta nel suo locale. La colpa è di Mitch, è
entrato come una furia e mi ha colpito.»
Maggie alzò ancora una volta gli occhi al cielo. «Come mai non mi stupisce
neppure che ci sia lui di mezzo? Quell’uomo è un cavernicolo!» commentò,
poi alzò un sopracciglio e si sporse leggermente verso Craig. «Non che tu sia
un agnellino, chiaro. Perché… tu non hai fatto niente per meritarti quel
cazzotto, vero?»
Lui sorrise. «Be’, non che siamo mai stati molto amici, noi due, dopo che…
In realtà ci odiamo dai tempi del college.»
«La ragione, se posso metterci il naso?» lo incalzò Maggie.
«Gli ho portato via la donna che voleva sposare. O almeno di questo è
convinto lui. Le cose in realtà sono andate molto diversamente.»
Maggie bevve un sorso di caffè e assentì con il capo. «E gliel’hai mai
detto?»
«No.»
«Perché?»
«La verità sarebbe stata molto più crudele per lui. Eravamo amici, a quel
tempo, giovani e ingenui. Ho pensato che quella fosse la soluzione migliore.»
Maggie aggrottò la fronte. «Non so cosa sia successo vent’anni fa, e non
voglio neppure saperlo. Ma potresti raccontargli la verità adesso, perché non
lo fai?»
«Perché è passato troppo tempo e le nostre strade si sono separate per
sempre. La mia vita è a Chicago, vengo di rado a Hope, anche se di recente
ho sentito sempre più spesso la necessità di tornarci. Sai quelle storie sul
ritorno alle origini?»
«Diglielo, Craig.»
«Per beccarmi un altro pugno?» Craig si sporse e le prese una mano fra le
sue. «Ho fatto un’altra stronzata, oggi, che devi sapere.»
Maggie trattenne il fiato, sicura che la stronzata riguardasse anche lei.
«Quando l’ho visto entrare da Edda come una furia, non ho resistito e gli ho
raccontato un’altra frottola.»
Maggie appoggiò la tazza sul tavolo così violentemente che un po’ di caffè
ne spillò fuori. «Che diavolo gli hai detto, Craig?»
«Gli ho fatto credere che noi due…»
«Noi due cosa?» chiese Maggie irrigidendosi ulteriormente.
«Che siamo stati insieme! Il che, da come puoi capire dal mio occhio pesto,
non lo ha entusiasmato.»
«Come ti sei permesso di fare una cosa del genere?» sbottò Maggie
alzandosi in piedi di scatto, cercando di resistere alla tentazione di fargli nero
anche l’altro occhio.
«No, è che… Insomma, mettiti nei miei panni. Ieri sera mi hai mollato
senza una parola, stamattina ti chiamo al telefono e mi risponde Mitch. Non
mi è stato difficile capire cosa fosse successo tra voi e mi ha mandato in
bestia.»
Maggie si risedette, lo sguardo fisso davanti a sé. «E se io provassi
qualcosa per Mitch? Non te lo sei chiesto prima di comportarti come un
quindicenne vendicativo?»
Craig si alzò in piedi, come se la sua visita fosse ormai terminata. «Non mi
sono chiesto niente, ho agito di impulso, Maggie. Sono venuto perché mi
sembrava giusto informarti della cosa: mi sono comportato da bastardo, ma
non volevo fare del male a te, solo a lui. In quanto a me…»
Maggie alzò lo sguardo verso di lui, per nulla benevola nei suoi confronti.
«Cercherò in qualche modo di dirgli che gli ho mentito, a meno che tu non
voglia ripensarci e tornare con me al Dragonfly» aggiunse in tono scherzoso.
Maggie avrebbe voluto strozzarlo, subito, nella cucina di sua sorella, ma in
quel momento Stella entrò con caballo in braccio e il mondo le parve
migliore.
«Vieni, amore» le disse spalancando le braccia.
La piccola, ancora assonnata per il pisolino pomeridiano, le si arrampicò in
braccio e le si strinse al collo.
Craig rimase immobile per qualche istante, il volto all’improvviso troppo
serio, come se volesse dire qualcosa ma non ne avesse il coraggio.
«Che hai, Craig?» gli chiese Maggie mentre cullava la piccola fra le
braccia.
Lui trasse un gran sospiro, poi disse: «Vuoi davvero saperlo?».
Maggie fece cenno di sì.
«Questo è ciò che vorrei vedere la sera, rientrando a casa…»
Maggie si guardò intorno, senza capire. «Che cosa vorresti vedere?»
«Non fa niente, Maggie, non fa niente. Scusami ancora.»
Poi si chinò, depose un bacio sulla testolina di Stella e uno sulla fronte di
Maggie. Si girò e senza un’altra parola ne andò.
9
Aspettando la fine dell’anno, Hope
Maggie non aveva trovato nessun volo prima del due gennaio. Certo, era
contenta di rimanere qualche giorno ancora con sua sorella e la nipotina, ma
l’idea di incontrare Mitch anche solo per sbaglio la teneva in costante stato di
agitazione. Non era sicura che Craig gli avesse già confessato la sua piccola
bugia – Dio! perché non gli aveva fatto nero anche l’altro occhio? – ma in
ogni caso era chiaro che Mitch non avesse più alcun interesse per lei dal
momento che era sparito dalla circolazione. Non una telefonata, non una
visita, e neppure un va’ a farti fottere, Maggie urlato in corsa dal suo pick-up
rosso. Per quanto si sforzasse di credere che fosse lei a non avere più alcun
interesse per lui, la realtà era molto diversa e assomigliava più a un ferro
rovente conficcato nel cuore che a un sassolino nella scarpa.
Ma non c’era solo il ricordo di Mitch a renderle i giorni difficili.
C’era il vento, ad esempio. Il terrore per il caro Eolo era ricomparso il
giorno di Santo Stefano, non appena si era accorta che il mondo, là fuori,
sembrava stesse ballando una giga. Non che avesse mai creduto di essere
guarita del tutto, ma la notte di Natale, pur con quel vento minaccioso, era
riuscita a non cedere al panico. E non c’era bisogno di tirare in ballo qualche
teoria del cavolo per capirne il motivo.
Il motivo era Mitch.
E poi… Poi c’era suo padre, che con il suo solito tempismo aveva scelto
proprio quei giorni per ricominciare a darle il tormento.
Aveva chiamato su Skype il giorno di Natale per fare gli auguri alle sue
ragazze. Maggie, con fare provocatorio, gli aveva chiesto se si ricordava il
nome di sua nipote, convinta che non ne avesse la minima idea. Dallo
schermo del computer, lui l’aveva guardata scuotendo la testa, con
compassione, come se la conflittualità che sentiva nella figlia minore fosse
ormai arrivata a livelli da camicia di forza.
«Stella si chiama, sei contenta adesso? E tu ti chiami Margherita, pensa, mi
ricordo anche di te!» aveva risposto con la sua solita, odiosa ironia.
Maggie gli aveva rivolto un sorriso altrettanto ironico e risposto con un
acido: «Stupefacente!», ma non se ne era andata, come avrebbe voluto; era
rimasta a fissarlo, forse per offrirgli un’ultima occasione. Che suo padre
afferrò.
«Maggie, dal momento che il tuo aereo farà scalo a Londra, perché non ti
fermi un paio di giorni a casa?» Casa? Quale casa? «Ho voglia di vederti,
piccola» aveva concluso con un sorriso.
Lei aveva sentito il gelo salirle nel cuore, ma poi sua sorella le aveva
rifilato una gomitata nelle costole e mormorato un vai imperioso, e lei aveva
semplicemente risposto: «Ok, vengo».
*
Dal giorno di Natale la vita sociale di Maggie si era molto ridimensionata.
Usciva solo di giorno per fare delle commissioni o, quando il tempo glielo
permetteva, per visitare le cittadine vicine. Si era spinta a nord sino a Cody e
a sud fino a Laramy, ed era arrivata persino ai piedi del Big Horn e della
Wind Mountain, la Montagna del Vento, tanto per dimostrare a se stessa che
poteva cavarsela da sola, anche in quelle lande ancora selvagge. Aveva
percorso per ore le strade dell’altopiano, ammirato laghi e fumi ghiacciati e
foreste luccicanti di neve perché sentiva che quella terra, così aspra e
difficile, cominciava a penetrarle attraverso la pelle e ad annodarsi alle
viscere. O forse perché così riusciva per qualche ora a non pensare a Mitch.
10
31 dicembre, San Silvestro
«Devi venire con noi da Sly al veglione di Capodanno, ci divertiremo» le
aveva detto Suzie la mattina del 31 dicembre, ma lei aveva scosso il capo e
ricominciato a esplorare su Google Maps l’area intorno a Hope, cercando
inutilmente di evitare la zona dove sorgeva Paradise. Se non ci fosse stata alla
larga, prima o poi avrebbe puntato il mouse in quella direzione, con l’assurda
speranza di vedere all’improvviso comparire sullo schermo Mitch. Meglio
chiudere il laptop e smetterla di comportarsi come una quattordicenne. E
giusto perché di anni ne aveva trentatré, sospirò e andò in cucina a tagliarsi
una fetta di torta che, per farsi ancora più male, cosparse di crema al
cioccolato. Ecco, ora le mancava solo di ingrassare per colpa di Mitch, e poi
il quadro della innamorata depressa sarebbe stato completo.
Un lungo brivido le gelò la schiena e le strinse la gola.
Una spiacevole sensazione cui era ormai abituata, ma che quella mattina
non riuscì a sopportare. Indossò gli stivali sopra i jeans, prese la borsa e,
senza riflettere, urlò a Teresita che sarebbe uscita.
***
Storm sembrava irrequieto. Quando Mitch andò nella stalla per assicurarsi
che stesse bene, il cavallo lo accolse con una specie di sorriso, scosse il
testone pezzato e gli comunicò, a modo suo, che era stanco di stare chiuso lì
dentro. Voleva andare fuori, insomma, sentire il sole scaldargli le ossa e
respirare il profumo della terra dei suoi antenati. Be’, questo, almeno, era ciò
che dedusse Mitch dagli occhi di Storm che brillavano di anticipazione come
quelli di un puledrino.
«Va bene, vecchio mio, oggi ti porto a fare una passeggiata. Te la meriti»
gli disse porgendogli la mela che gli portava ogni giorno. Poi sellò Thunder,
mise una coperta sulla schiena di Storm e, con Archie e i due cavalli al
seguito, uscì dalla scuderia.
La giornata era magnifica, soleggiata e, per essere il 31 dicembre, persino
tiepida.
Una passeggiata avrebbe fatto bene anche a lui. In qualche modo doveva
soffocare la tensione che lo divorava da quando aveva escluso Maggie dalla
sua vita. Maggie e qualsiasi altra donna. Rosalyn compresa.
«Mi dispiace farti soffrire» le aveva detto all’ennesima telefonata, «ma
credimi, non posso.»
Montò in sella a Thunder e, tenendo Storm per le briglie, si diresse verso il
sentiero che portava ai pascoli a nord, facilmente praticabile nonostante la
neve. Entrambi i cavalli nitrirono e presero a trotterellare, all’apparenza felici
di quella scelta.
Anche Archie pareva felice. Mitch, invece, non lo era affatto.
Erano stati giorni difficili quelli, perché, nonostante si fosse buttato nel
lavoro e avesse anche concluso un paio di ottime vendite, non era riuscito a
togliersi di mente Maggie.
Sulle prime, l’idea che avesse fatto l’amore con lui subito dopo essere
uscita dal letto di un altro uomo – e non di un uomo qualunque, ma di Craig
Haas – lo aveva ferito molto più della gomitata che gli aveva rifilato quel
giorno all’aeroporto. Perché, per qualche ora almeno, aveva creduto che
qualcosa avrebbe potuto cambiare con Maggie nel suo orizzonte. Poi Craig si
era presentato al ranch e, rimanendo a debita distanza, gli aveva spiegato che
fra lui e Maggie non c’era stato nulla, solo uno squallido tentativo di
seduzione da parte sua, a causa del quale lei lo aveva piantato in asso. Mitch
gli aveva creduto, ma quando l’altro aveva tirato in ballo i loro problemi
passati aveva scosso la testa e gli aveva detto, stringendo minaccioso i pugni:
«Per oggi basta così, non sono dell’umore adatto», e Craig lo aveva mandato
a farsi fottere e se ne era andato senza troppi rimpianti.
A quel punto si era sentito ancora peggio.
Perché già sapeva che non sarebbe riuscito a tornare da lei.
Non era abbastanza bastardo per farlo.
***
Maggie arrivò a Paradise, parcheggiò l’auto slittando sulla neve e, come se
il mondo stesse per saltare in aria e solo lei potesse salvarlo, raggiunse di
corsa Hakan che stava parlando con alcuni uomini.
«Buongiorno, Hakan, dov’è Mitch?»
«Buongiorno, Maggie» rispose l’uomo, sorpreso da tanta vemenza. «Mitch
è uscito a cavallo portandosi dietro Storm.»
Maggie non ebbe un istante di esitazione e disse: «Potresti sellarmi un
cavallo, per favore?»
Hakan la guardò come fosse pazza.
«So montare, non ti preoccupare, l’ho fatto per anni.»
«Sicura?»
«Se vuoi ti do una dimostrazione.»
Lui la fissò dubbioso, ma bastò un «Ti prego, Hakan» per convincerlo.
«Va bene, te lo sello, ma il cavallo lo scelgo io. Se poi ti fai male, Mitch mi
spella vivo.»
Così le diede un grigio un po’ grasso, sul quale lei montò di slancio, come
se avesse smesso di andare a cavallo da un paio d’ore e non da dodici anni.
Il cavallo, che si chiamava Reagan perché si diceva fosse discendente di
uno stallone appartenuto all’ex presidente, fu felice di uscire dalla stalla con
in groppa un cavaliere così leggero e gentile. Maggie gli parlò nelle lunghe
orecchie e gli diede qualche zuccherino, poi lo lasciò libero di procedere alla
andatura che preferiva, che subito si rivelò essere molto lenta e rilassata.
Reagan non era certo un amante della velocità.
Che differenza rispetto ai tempi in cui si allenava per i concorsi! Allora era
stata costretta a utilizzare selle scomode e a vestirsi come una che stava per
partecipare a una caccia alla volpe col Principe Carlo. Ben di rado aveva
potuto permettersi il lusso di una passeggiata in campagna: la sua vita di
cavallerizza si era svolta quasi sempre all’interno di maneggi, lastricati di
ostacoli da superare in un balzo.
La sella che Hakan le aveva dato, invece, era così comoda che le pareva
una poltrona e cavalcare tra le nevi e gli abeti, con le montagne sullo sfondo,
le metteva voglia di sorridere al mondo. Respirò a pieni polmoni l’aria pura e
tiepida di sole e, desiderosa di raggiungere Mitch al più presto, spronò
Reagan al galoppo. Il cavallo decise che un trotterello tranquillo sarebbe stato
un giusto e più sicuro compromesso.
*
Ma man mano che Maggie procedeva verso il suo obiettivo, il buonumore
dovuto alla cavalcata e a quel panorama immacolato cominciò però ad
affievolirsi e, poco per volta, ad assomigliare alla collera.
Tutti i pensieri che in quei giorni non l’avevano mai lasciata, tutti i ma e i
se che avevano condizionato la sua brevissima storia con Mitch, tutti i ricordi
che la tenevano sveglia di notte stavano confluendo in una semplice
considerazione. E cioè che il cowboy fosse un gran bastardo.
Come aveva potuto dimenticarla così in fretta dopo la notte che avevano
trascorso insieme, dopo le mille, silenziose promesse che i loro occhi si erano
scambiati, dopo i baci e i sospiri che erano passati da bocca a bocca? Come
aveva potuto non tornare da lei dopo aver saputo da Craig che fra loro non
era successo niente?
Concetti assai profondi le sgorgarono allora dalle labbra insieme a una
nuvoletta di vapore, del tipo va’ a farti fottere, cowboy, peggio per te!
No, a ben pensarci sarebbe stato peggio per lei. Perché la preoccupazione
che il suo piano perfetto fosse riuscito in pieno cominciava a farle perdere il
sonno. Aveva trasvolato l’Atlantico in cerca di un donatore, e l’aveva
trovato. Peccato che fosse quello sbagliato.
Sarebbe stato un vero disastro se, tra tutti i cromosomi disponibili nel
Wyoming, fossero stati proprio quelli del cowboy a unirsi ai suoi e a dar vita
a un microscopico embrione destinato a replicarsi milioni di volte sino a
trasformarsi in un piccolo Mitch.
Che ogni giorno della sua vita le avrebbe ricordato l’altro Mitch, quello
grande.
Quando la mattina del giorno prima Maggie aveva esposto le proprie
preoccupazioni a Suzie, sua sorella, pragmatica come sempre, le aveva
suggerito l’unica cosa da fare, dirlo a Mitch. Subito.
«Mi sembra prematuro, non credi? E poi lui non vuole figli! Non posso
dirglielo» aveva ribattuto Maggie sull’orlo di una crisi di nervi.
«Che li voglia o no, eravate in due quella notte. E poi, ti parrebbe morale,
nel caso tu fossi incinta, tenerglielo nascosto?»
«Tanto vale che io aspetti un mese, per essere sicura.»
«No, Maggie, devi dirglielo ora.»
Già, come se fosse facile. Si immaginava già la scena.
Forse Mitch avrebbe tirato un pugno anche a lei.
No, non avrebbe mai avuto il coraggio di dirglielo.
Intanto, quel pigrone di Reagan, fiutando nell’aria l’odore dei suoi amici,
aveva aumentato l’andatura e Maggie sentì prima Archie abbaiare e subito
dopo lo vide comparire sul sentiero, scodinzolante e festoso.
«Ciao, Archie, dov’è il tuo padrone?»
Senza mai smettere di abbaiare, il cane fece dietro front, girandosi ogni
tanto verso di lei per invitarla a seguirlo.
Mitch doveva essere vicinissimo, appena dietro la curva. Il punto era: come
avrebbe reagito vedendola?
Maggie non credeva affatto che avrebbe scodinzolato.
***
Mitch era sceso da cavallo non appena aveva capito di essere seguito e
stringeva in mano il fucile, tanto per evitare spiacevoli sorprese. Ma non
appena si accorse che lo sconosciuto in arrivo non era altri che la svitata, lo
rinfoderò in gran fretta. Che diavolo ci facesse lì Maggie, e per di più in sella
a quel fannullone di Reagan, era un mistero che avrebbe risolto presto anche
senza l’aiuto delle armi.
Non sembrava di buonumore, anzi, se avesse dovuto descriverla a
qualcuno, non avrebbe esitato a usare il termine incazzata.
Cosa voleva ancora da lui quella donna? Provocare altri danni irreparabili
alla sua quieta esistenza?
Non era la sola a essere nera, comunque, lui era più furioso di lei. Era
furioso con lei. Per essere entrata a testa bassa nella sua vita, colpendo e
abbattendo ogni difesa che si era con pazienza costruito intorno a sé. Per
gettarlo di continuo (anche in quel momento) in uno stato di confusione
fastidiosa in cui il futuro si distorceva e assumeva toni inquietanti, grondanti
melassa sentimentale. Come in un film di Doris Day degli anni Sessanta.
Non proprio ciò che aveva programmato per la sua vita.
Forse.
Dannazione, non lo sapeva neanche più.
Maggie smontò con un balzo, elegante e sicura, come una che a cavallo ci
sa stare, e lui osservandola non poté soffocare un piccolo brivido di desiderio,
o di rimpianto, o di tutti e due.
Sentì il sangue pulsargli più veloce nelle vene e il rischioso impulso di
afferrarla e stringerla forte fra le braccia prima di rimontare insieme sullo
stesso cavallo e, come in un vecchio film, cavalcare insieme verso il lieto
fine. Che, in quel preciso momento, nella sua testa, assomigliava molto al suo
letto.
Ecco l’effetto che gli faceva la svitata, ecco perché doveva evitarla. Lui per
certe cose non c’era proprio portato.
Maggie si fermò a un passo da lui, guardandolo dal basso verso l’alto con
atteggiamento aggressivo, sembrando così, per contrasto, più piccola e
delicata del solito. Per reprimere l’impulso di prenderle il viso fra le mani e di
baciarla, si mise a trafficare coi guanti.
«Ora mi vorresti anche sparare?» chiese lei con fare battagliero, il berretto
rosso tirato fin sugli occhi grigi. Occhi in cui si sarebbe specchiato per
sempre se non fosse stato più che attento a evitarli.
Mascherò la gioia che sentiva crescergli dentro dietro un’espressione
vagamente irritata. «Non volevo spararti, e neppure spaventarti. Ma, in queste
zone, la prudenza non è mai troppa. Lupi, orsi, a volta qualche balordo che si
diverte a giocare a Billy the Kid.»
«Oh, capisco, roba da selvaggio West. Ma credevo che gli orsi dormissero
in questa stagione.»
Lui sospirò. Dannazione, perché era così bella? Gli orsi, ecco di cosa
stavano parlando. Di stramaledetti orsi.
«Sono in letargo, certo. Ma capita che Yogi ogni tanto si svegli e, quando
succede, di solito è molto affamato. Meglio non rischiare» disse toccando il
fucile. Poi aggiunse: «Sei venuta sin qui per parlare di orsi?».
Maggie si avvicinò e lo fissò per qualche istante. «No, sono solo venuta a
dirti che tra due giorni partirò e a darti questo.»
Non che se lo aspettasse, ma forse avrebbe dovuto, perché l’aggressività in
lei era palese e lui, certi segnali, era stato addestrato a coglierli. Ma questa
volta rimase immobile, le braccia lungo i fianchi e un’espressione stupita sul
volto, mentre lei alzava la mano destra per colpirlo. In fondo un po’ se lo
meritava. Chiuse gli occhi, aspettando che il colpo gli atterrasse sulla
guancia.
***
Maggie alzò la mano per colpirlo. Non l’aveva mai fatto in vita sua, se non
si contava quel buffetto che aveva dato a quell’odioso di Patrick Taylor in
quinta elementare. E, in ogni caso, non era andata sin lì per schiaffeggiarlo,
per di più in sella a quel lavativo di cavallo.
No.
Se lo aveva fatto era solo per guardarlo in faccia mentre gli diceva, con un
risentimento che lei stessa non capiva, che se ne sarebbe andata via per
sempre. Poi, lo sguardo carico di sopportazione di Mitch aveva armato la sua
mano e questa si era alzata con intenzioni per nulla pacifiche nei confronti
della sua guancia.
Dove, peraltro, non era mai arrivata.
Maggie la fermò prima che colpisse il bersaglio, la rabbia che l’aveva
guidata sino a quel momento trasformata in delusione e sconforto. La mano
ricadde lungo il fianco e Maggie, con un «Vai a farti fottere, Mitch» girò sui
tacchi per rimontare in sella e per andarsene. E questa volta davvero.
***
Stupito che lo schiaffo non fosse andato a segno, Mitch riaprì gli occhi un
istante prima che Maggie lo mandasse a farsi fottere. Pure lei! Sembrava
essere diventato il passatempo nazionale mandarlo al diavolo. Dopo Craig
anche Maggie. Se andava avanti così, davanti al ranch ci sarebbe stata la fila,
prima della fine dell’anno.
Ma la svitata non l’avrebbe passata liscia, gli doveva una spiegazione.
Maggie aveva già infilato il piede destro nella staffa e stava per rimontare a
cavallo, quando in due falcate Mitch la raggiunse, la prese per la vita e la
trascinò a terra con sé. Lei sopra, lui sotto. Archie su entrambi. Reagan
disturbato da quella confusione.
«Che diavolo credi di fare, Mitch?» urlò Maggie cercando di liberarsi da
quelle braccia d’acciaio che la immobilizzavano.
Già, che diavolo credeva di fare? Non lo sapeva bene neppure lui. Sapeva
solo che il cuore stava per uscirgli dal petto tanto batteva forte.
Prese un lungo respiro, poi, cercando di apparire padrone della situazione,
disse: «Credo che tu mi debba qualche spiegazione, non sei d’accordo?».
In verità non sapeva neppure perché lei avrebbe dovuto dargli una
spiegazione, visto che era stato lui ad allontanarla dalla sua vita, ma
inaspettatamente la domanda dovette avere un effetto calmante su Maggie,
perché smise di agitarsi. Lui non si lasciò sfuggire l’occasione e, con un
movimento brusco, ruotò su se stesso ritrovandosi alla fine sopra di lei.
Meglio, molto meglio. Una posizione tradizionale, ma sempre apprezzabile.
Dannazione! Possibile che non gli frullasse altro per la testa?
«Ehi!» si lamentò Maggie riprendendo ad agitarsi. «Lasciami subito.»
Voleva anche lui la medesima cosa, lasciarla libera e parlare. Ma non la
lasciò. Il suo corpo sembrava apprezzare troppo quella nuova sistemazione.
«Se mi dirai il vero motivo per cui sei venuta a cercarmi e perché volevi
tirarmi uno schiaffo, ti lascerò andare.»
«Ok.»
«Ok.»
«Ok.»
Con deliberata lentezza lui le liberò i polsi, poi con movimento elegante e
fluido si alzò in piedi e tese le mani a Maggie.
«Principessa…» disse offrendole il suo aiuto.
«Faccio da sola» ribatté lei senza nascondere la stizza.
«Come vuoi» tagliò corto lui recuperando lo Stetson da terra.
«Te l’ha dato Hakan?» chiese, indicando Reagan, mentre lei si toglieva la
neve di dosso e si risistemava il berretto rosso in testa.
«Già, non si fidava molto delle mia capacità di cavallerizza. Quel cavallo
non solo è grasso, ma è anche un lavativo.»
Mitch scoppiò a ridere. «Lavativo, verissimo. Ora montaci sopra, Maggie, e
rientriamo che il freddo comincia a pungere. Parleremo a casa.»
Si rese conto di aver pronunciato la parola casa come se il ranch fosse la
loro casa, non solo la sua. Se non fosse stato attento, ancora qualche minuto e
si sarebbe inginocchiato davanti a lei e le avrebbe chiesto di sposarlo.
***
Maggie montò e con il cuore in subbuglio girò il cavallo verso Paradise.
Forse, dopotutto, quello schiaffo avrebbe anche potuto darglielo. Non per
averla sedotta e subito dopo abbandonata, ma per lo sguardo infastidito e
indifferente con cui l’aveva accolta, mettendo in chiaro, come se fosse stato
necessario, che non aveva alcun interesse per lei. Per non parlare del fucile…
Altro che dirgli la verità, come Suzie si era raccomandata di fare. Ora non
avrebbe più potuto dirgliela, la verità. Se gli avesse detto che 1) non aveva
mai ingurgitato una pillola in vita sua e che 2) c’era solo la remota possibilità
che si fosse innamorata di lui, Mitch avrebbe spronato Thunder al galoppo e
si sarebbe barricato dentro a quel suo ranch, armato fino ai denti, come un
pioniere accerchiato dai Sioux.
Incitò Reagan a mettersi in moto, il cavallo attese che Thunder e Storm lo
superassero, poi, con molta calma, li seguì.
***
Aveva lasciato che Hakan si occupasse dei cavalli, poi Maggie aveva
voluto dare una carezza a Miracle e salutare Aiyana. E le due donne avevano
probabilmente cominciato a chiacchierare davanti a una tazza di tè – irritante
passatempo, quello del tè, tipico del sesso femminile – mentre lui… A dirla
tutta, quell’attesa lo stava uccidendo. Sedeva alla scrivania fingendo di
controllare le email, nervoso come un quindicenne innamorato, il cervello
invaso da una cortina di nebbia. Cosa avrebbe fatto una volta che Maggie lo
avesse raggiunto? Più ci pensava, più l’unica cosa che gli pareva giusto fare
era prenderla in braccio, correre su per le scale e chiudersi in camera da letto
con lei, come in paradiso. Che fosse pure dannato per l’eternità, poi.
I suoi pensieri vennero interrotti dal motore di un’auto.
Sollevò un sopracciglio, si precipitò alla finestra e...
«Maggie!» urlò.
La svitata se ne stava andando e Aiyana la salutava sorridente dalla porta di
casa sua.
Donne! Si erano forse alleate contro di lui, quelle due?
Aiyana rientrò, mentre lui usciva di casa con un diavolo per capello.
Chiamò Maggie a gran voce, ma la svitata ormai era troppo lontana per
sentirlo. Attraversò allora di corsa il cortile ed entrò come un temporale nella
casa di fronte. Aiyana si stava togliendo con molta calma uno scialle dalle
spalle, ma dal risolino dispettoso che le incurvava le labbra Mitch dedusse
che lo stesse aspettando.
Strega!
«Dove è andata?» chiese senza disturbarsi ad aggiungere un soggetto alla
domanda.
Aiyana lo guardò fingendosi sorpresa. «Dove è andata, chi?» gli rispose.
Lui alzò gli occhi al cielo, strinse la mascella e serrò i pugni, tutto nello
stesso momento.
Aiyana sorrise compiaciuta.
«Dove è andata Maggie» disse Mitch scandendo le parole e cercando di
tenere a bada la furia che stava montando in lui.
«Ma dal parrucchiere, naturalmente» rispose Aiyana, come se la cosa
dovesse essere ovvia al mondo intero.
«Naturalmente. E perché diavolo è andata dal parrucchiere, visto che io la
stavo aspettando per… parlare?»
«Perché vuole farsi carina per il veglione da Sly. Sai che oggi è l’ultimo
dell’anno, o te ne sei dimenticato?»
Il veglione. Da Sly.
«Maggie ha detto che l’avresti portata lì, stasera» aggiunse Aiyana.
La mascella di Mitch si aprì di scatto, lasciandolo per qualche secondo a
bocca aperta come un luccio appena pescato.
Quando riuscì a richiuderla, almeno un po’, disse: «Maggie deve aver
capito male. Io non andrò a passare l’ultimo dell’anno in quel casino…».
«Ah no?»
«No.»
«Te ne starai chiuso nella stalla con Storm?»
«L’idea mi pare più allettante.»
«In ogni caso, Maggie si aspetta che tu vada a prenderla alle dieci.»
La mascella di Mitch si spalancò di nuovo.
Aiyana scoppiò a ridere e se ne andò, lasciandolo a rimuginare in solitudine
su come quelle due donne lo avessero raggirato.
11
Mezzanotte, da Sly
Nello specchietto retrovisore Maggie aveva visto Mitch correrle dietro, ma
si era ben guardata dal pigiare sul freno, anzi, aveva accelerato slittando sul
fondo ghiacciato, col cuore che le batteva forte.
Se Mitch desiderava confrontarsi con lei, lo avrebbe fatto dopo averla
portata fuori, corteggiata e trattata con rispetto. Se non voleva più saperne
niente di lei, doveva almeno dirglielo.
In realtà era stata Aiyana a darle l’idea e lei ci aveva messo un po’ ad
accettare il suo suggerimento, ma alla fine le era sembrato perfetto. In fondo
era l’ultimo dell’anno e dopo quasi una settimana passata in casa a
rimuginare sul cowboy, aveva voglia di divertirsi un po’, di ballare e flirtare
con mille uomini diversi, se le fosse andato a genio. Sempre che Mitch fosse
stato in prima fila a godersi lo spettacolo.
Il parrucchiere aveva fatto un buon lavoro e i capelli le ricadevano sulle
spalle, lucidi e setosi. Anche l’abito che le aveva imprestato Suzie avrebbe
fatto un buon lavoro. Sembrava cucito su di lei, un tubino nero a mezze
maniche che davanti faceva tanto bon ton, ma che dietro le lasciava scoperta
la schiena e forse anche qualcosa di più. Anche le scarpe nere, dal tacco
vertiginoso, erano di sua sorella.
Si guardò allo specchio e le piacque ciò che vide.
Non l’immagine del solito micetto timoroso, ma quella di una vera
leonessa. Merito anche del trucco più pesante del solito che metteva in risalto
i suoi occhi grigi e del rossetto che esaltava la bocca già generosa.
Indossò i suoi soliti orecchini a cerchio, il braccialetto da cui mai si
separava, con il nome inciso sulla targhetta. Poi controllò che le autoreggenti
fossero a posto e levò al cielo una piccola preghiera perché vi restassero per
tutta la serata. Quindi, si sedette ad aspettare. Erano solo le nove e trenta.
«Arriverà, arriverà» disse Suzie girando su se stessa per avere
l’approvazione della sorella.
«Sei fantastica, sorellina» rispose Maggie, mentre Peter, camicia bianca e
giacca nera in perfetto stile western, era chino su di lei per cercare di capire
dove finisse la scollatura dell’abito.
«Credo che dovremo portare il defibrillatore, stasera, Suzie. Prevedo che la
scollatura di tua sorella provocherà almeno un paio di infarti!» disse
scherzando.
Suzie lo fissò con le mani sui fianchi. «Sarà meglio portare anche del
ghiaccio per l’occhio nero che ti farò, se non smetterai subito di ispezionare il
fondoschiena di Maggie e non darai un’occhiata anche al mio.»
In quel momento il campanello della porta suonò.
Maggie scattò in piedi, nervosa come non si sentiva dai tempi della sua
prima cotta. «Oddio, che faccio ora?»
«Infilati il piumino, non lasciare che lui veda la scollatura. Rimarrà senza
fiato per la sorpresa quando ti aiuterà a sfilartelo.»
«Da quando sei così perversa?» le chiese Maggie.
Suzie non rispose e si esibì in un’espressione satanica.
Mitch entrò, ma non come uno che stesse per andare a festeggiare con gli
amici la fine dell’anno. Rigirava uno Stetson nero tra le mani, all’apparenza
imbarazzato. Salutò Suzie e Peter, ma a Maggie riservò la classica
espressione era proprio necessario?
Maggie fece finta di nulla.
«Allora, andiamo? È già tardi e appena dopo mezzanotte Peter e io
dovremo rientrare, causa babysitter» disse Suzie mentre li spingeva alla porta.
Suzie e Peter presero la loro auto, Maggie e Mitch si issarono (Maggie non
senza le solite difficoltà) sul pick-up rosso.
Senza un solo ba, Mitch girò la chiave dell’accensione e pigiò
sull’acceleratore del pick-up che si mise in moto con un colpo di tosse.
«Grazie per essere venuto a prendermi» disse lei guardandolo di sottecchi.
«Prego» rispose lui. Poi guidò in silenzio sino al locale di Sly.
Non che fosse un buon inizio per un appuntamento.
***
Era stato un tormento sederle accanto e non poterla baciare. Non solo.
Guardarla ballare con altri si era rivelata una vera tortura perché quel dannato
vestito che le lasciava la schiena completamente nuda era come miele sul
naso di un orso goloso. E Sly, quella notte, sembrava pieno di orsi golosi,
tutti in fila per invitarla a ballare! E non che Maggie dicesse di no a qualcuno.
Nossignore, sorrideva e si lasciava condurre per mano al centro della pista da
ballo da perfetti sconosciuti. E ogni tanto, ballando, lo guardava e gli rifilava
quel sorriso ironico, come a dirgli contento tu…
Non era contento affatto. Non vedeva l’ora che la mezzanotte arrivasse,
così 1) avrebbe avuto la scusa di baciarla e di ristabilire la gerarchia davanti
agli orsi golosi, 2) l’avrebbe caricata sul pick-up e riportata a casa. Quale
casa, ancora non poteva dire.
***
Maggie sorrise quando il suo cavaliere, un uomo di mezza età con troppa
pancia e troppo profumo addosso, la riaccompagnò al tavolo. Peter e Suzie
erano rimasti sulla pista per l’ultimo ballo dell’anno, Mitch era solo, che
l’aspettava. Al suo arrivo si alzò, come un perfetto gentiluomo.
«Sei ancora arrabbiato con me, cowboy?»
Lui le accarezzò il corpo con lo sguardo, scendendo e risalendo con crudele
lentezza, soffermandosi alla fine sulle labbra, come volesse divorargliele.
Maggie prese un tovagliolino di carta e prese a sventolarsi.
«Non sono mai stato arrabbiato con te. Terrorizzato da te, semmai.»
Per Maggie fu come se qualcuno le avesse tolto il pavimento da sotto i
piedi. Cercò un appiglio a cui sostenersi, ma trovò solo la mano del cowboy,
già pronta per lei.
«Terrorizzato… Quindi, deduco che se ti chiedo di invitarmi a ballare
l’ultimo lento dell’anno, tu, essendo terrorizzato, rifiuterai…»
Era da quando erano arrivati che moriva dalla voglia di ballare con lui.
Voleva stringersi a lui, sentire i loro cuori battere all’unisono un’ultima volta
prima di andarsene forse per sempre da Hope. Dalla speranza.
E poi, con quella giacca nera in perfetto stile country-western sui jeans, la
camicia bianca ricamata e il tipico fiocco di raso nero al posto della cravatta,
era bello da mozzare il fiato. Chissà se ballando avrebbe potuto passargli una
mano tra i capelli scuri e imprimere per sempre quella sensazione dentro di
sé?
Come se non ne avesse già avute in abbondanza di sensazioni da ricordare,
con lui. La verità era che non si sarebbe tolta il ricordo del cowboy dalla pelle
neanche se si fosse lavata con la soda caustica. Più che un ricordo, Mitch
sarebbe per sempre rimasto un’impronta incisa a fuoco nella sua carne.
«L’ultimo ballo dell’anno? D’accordo. Andiamo, Maggie» le sussurrò
prendendole la mano e conducendola verso la pista da ballo. «E a ben
pensarci, certo che sono arrabbiato, per lo scherzetto che tu e Aiyana mi
avete giocato» disse ironico, gli occhi due fessure verdi che non la lasciavano
mai e che, in quel momento, avrebbero potuto sciogliere con una sola
occhiata tutta la neve del Wyoming.
Roba da scottarsi in modo serio, insomma.
Un brivido corse giù per la schiena nuda di Maggie. «Dunque, ritieni che
uscire con me sia uno scherzetto?»
Lui sorrise, e quel sorriso le fece piegare le ginocchia e accelerare il polso,
le lacerò l’anima e trasformò le sue viscere in un groviglio pulsante.
«Al contrario, lo ritengo un onore, ma anche una tortura, perché, se in
questo momento non fossimo in mezzo a tutta questa gente, vorrei mostrarti
cosa intendo io per stringere una donna fra le braccia» le bisbigliò in un
orecchio, un distillato di pura sensualità che le scivolò dentro come un
liquore bollente.
Ancora una volta Maggie vacillò e dovette sostenersi a Mitch.
«Questo è uno scherzo Mitch, e anche di pessimo gusto se non sei sincero.»
Il tono di Maggie era scherzoso, ma l’implicita domanda era dannatamente
seria. Fai sul serio, Mitch?
Lui aprì la bocca per replicare, ma il cantante della band annunciò il brano
che stavano per eseguire e Mitch cambiò idea.
«E per finire in bellezza l’anno, un grande brano scritto e portato al
successo da Dolly Parton, I will always love you, che la povera Whitney
Huston interpretò nel suo film più famoso, The Bodyguard.»
Dannazione! pensò Maggie, ora era davvero nei guai. Ci mancava una
canzone struggente come quella, due innamorati che si dicono addio per
sempre, e il cowboy avrebbe potuto chiederle anche di fare bungee jumping
nuda dal ponte più alto del Big Horn River e lei lo avrebbe fatto.
Ormai erano giunti sulla pista da ballo. Mitch le prese la destra nella sua e
la fece ruotare due volte su se stessa. Poi le cinse la vita e chiuse nel suo
pugno la mano di Maggie. E se la portò al petto. I loro visi si avvicinarono e,
in qualche modo, nonostante le altezze diverse, vennero a contatto. Quando
cominciarono a ballare, lui la strinse a sé come facevano una volta nel West,
come se lei fosse la sua donna e non avesse che quell’occasione per farlo.
Sì, quello era proprio un altro mondo. E Maggie cominciava ad adorarlo.
***
Quando il brano terminò, mancavano solo cinque minuti a mezzanotte.
Tenendole la mano stretta nella sua, Mitch riaccompagnò Maggie al tavolo,
pensando a tutte quelle cose che le avrebbe fatto dopo, se lei gli avesse detto
di sì. Insieme a Suzie e Peter seguirono il discorsetto che Sly, come ogni fine-
anno, propinò ai suoi ospiti, e poi, come se già non bastasse, quello di Edda,
invitata come sempre a salire sul palco per ricordare ai presenti, tra applausi e
urla di approvazione, le storie d’amore fiorite nell’anno che stava per
concludersi. Mitch, che in quel momento avrebbe avuto cose più importanti
da fare, tipo affondare le mani nei capelli di Maggie e la bocca nel suo collo,
alzò gli occhi al cielo e fece finta di non accorgersi del sorriso malizioso che
Suzie gli stava rivolgendo. Con la scusa di spiegare a Maggie cosa stesse
succedendo, si avvicinò un po’ di più a lei e, cingendole le spalle con un
braccio, l’attirò a sé.
Tanto perché gli orsi capissero a chi apparteneva quel miele.
Edda, intanto, continuava a parlare. «E spero, cari amici, che un’altra
coppia possa formarsi presto, magari questa notte stessa, perché, secondo le
mie analisi – e qui qualcuno fischiò, qualcun altro gridò Nobel per Edda –
questi due sono davvero fatti l’una per l’altro.»
«Chi sarebbe la coppia felice?» chiese un tipo dal fondo.
Edda non rispose, ma il suo sguardo si illuminò posandosi su Mitch e
Maggie che in quel momento sembravano scambiarsi delle dolci parole. Si
alzò qualche applauso, seguito da battute di gusto discutibile.
«Credo stiano parlando di noi» le sussurrò Mitch in un orecchio.
«Cosa?»
«Fai finta di niente, passerà. Sono gli svantaggi di abitare in un buco come
questo» continuò lui, divertendosi a reggere il gioco a Edda.
«Per fortuna, dopodomani parto» gli sussurrò Maggie, e Mitch sentì la
bocca dello stomaco chiudersi.
Ecco, tanto per finire l’anno in bellezza.
***
La mezzanotte più attesa e festeggiata dell’anno stava per scoccare anche a
Hope, Wyoming, tra molto alcol e propositi che forse non sarebbero mai stati
mantenuti. Maggie alzò il calice pieno di spumante e si unì alla voce dei
presenti per il conto alla rovescia. Sly dirigeva il coro, controllando i secondi
che passavano sul suo cellulare.
10, 9, 8…
Maggie sentì la mano di Mitch solleticarle la schiena nuda, poi insinuarsi
sotto l’abito all’altezza del fianco e stringerla a sé. Dio, era sleale toccarla
così mentre erano in mezzo a tutta quella gente. La sua mano era come fuoco
sulla pelle e Maggie inspirò profondamente cercando di reprimere il gemito
che sentiva crescerle in gola.
Perché il nuovo anno non si spicciava ad arrivare?
7, 6, 5, 4…
Poi se ne infischiò di quello che la gente poteva pensare e si abbandonò a
lui e lo guardò come se in quel momento il resto del mondo avesse avuto il
buon gusto di lasciarli soli. Gli occhi di Mitch brillarono in risposta, scuri di
passione, mentre la sua mano… Dio, se Mitch non la smetteva di accarezzarla
così, le ginocchia l’avrebbero presto tradita.
3, 2, 1, Buon Anno!
Mentre un Valzer delle candele in versione rock veniva intonato dalla band
e sui presenti piovevano palloncini colorati e coriandoli luccicanti, i bicchieri
presero a tintinnare, gli auguri a volare e gli abbracci e le strette di mano a
rincorrersi per la sala. Maggie vide un mare di coppie chiudersi in un bacio
che sembrava più di un augurio la conferma di una promessa segreta. Quel
bacio, casto e passionale insieme, si stava diffondendo come un’onda
romantica su giovani e vecchi, coppie sposate e innamorati dell’ultima ora.
Diavolo, sembrava uno tsunami.
Il sorriso le lasciò le labbra e un’espressione di smarrimento la sostituì.
Guardò Mitch, in attesa.
Fu a quel punto che lui le prese il viso fra le mani e la baciò.
***
E non smise di baciarla neppure quando il vociare del pubblico tornò a
riempire il silenzio e l’orchestra riprese a suonare. Mitch si fermò solo
quando sentì un mmmh imbarazzato di Peter avvisarli che tutti li stavano
guardando e che presto per separarli avrebbero dovuto chiamare la buon
costume. Non che a Hope ci fosse la buon costume…
Mitch si separò da Maggie e subito sentì il vuoto lasciato dalle labbra di lei
riempirsi di una nuova emozione, una via di mezzo tra la gioia assoluta e un
dolore fisico insopportabile.
Doveva porre rimedio a quella situazione, prima di perdere del tutto il
senno.
«Andiamo a casa, Maggie, non ce la faccio più ad aspettare» le sussurrò. E
lei, senza bisogno di chiedergli spiegazioni, gli disse di sì, con un battito di
palpebre.
Come se il mondo stesse per andare a fuoco, augurarono buon anno a Suzie
e Peter e a tutti quelli che incrociarono dirigendosi a passo di marcia verso
l’uscita. Col fiato in gola si infilarono i loro giacconi e, appena fuori, corsero
al pick-up tenendosi per mano. Maggie non era mai stata tanto veloce a
salirvi.
In quel momento una suite del Four Seasons – non che ce ne fosse uno a
Hope – non avrebbe potuto essere più invitante per loro.
Le bocche si unirono, più affamate ed esigenti di prima, le mani si mossero
possessive, avide di esplorare e di dare piacere. Con manovre rese possibili
solo da un desiderio impaziente e da una conversazione elementare (più a
destra, aspetta, attenta alla mia gamba, il mio braccio! La leva del freno a
mano!), Mitch riuscì a scivolare sul sedile del passeggero, a inclinarlo
leggermente e a trascinare Maggie sopra di sé, le gambe di lei ripiegate ai lati
di lui. La temperatura all’interno del pick-up, intanto, continuava a crescere.
«Dio, Maggie, mi sembra di essere tornato ragazzino. Sai da quanto non lo
faccio sul sedile di un’auto?» le chiese con un filo di voce prima di lasciarsi
andare a un altro gemito. «Mmmh, autoreggenti…» mormorò esplorando la
pelle nuda delle cosce di Maggie e spingendosi con la mano sempre più in
alto. «Ti sei messa di impegno per farmi perdere la testa stanotte?»
***
«Forse» rispose lei ridacchiando, mentre con mani tremanti tentava di
aprirgli la camicia. Poi si chinò sulle sue labbra e le leccò come se fossero di
panna montata. «Per me è la prima volta su un’auto, quindi… rendila
indimenticabile, cowboy.»
La sola risposta che Maggie ottenne fu un suono basso e gutturale che
sfuggì dalla gola di Mitch e che le scese giù lungo lo stomaco e le viscere
sino a farla gemere a sua volta.
«Anche tu ti sei messo d’impegno per farmi perdere la testa, stanotte»
miagolò, mentre lui stava cercando con poco successo di spogliarla. «Sta’
fermo, cowboy, ci penso io» gli mormorò sfiorandogli le labbra, come se
stesse da sempre preparandosi a quel momento.
Si tolse il piumino, poi prese a sfilarsi lentamente l’abito, eccitata dallo
sguardo di Mitch che fissava ipnotizzato la seta scivolarle sulla pelle.
Assecondò i desideri di Mitch, che erano anche i suoi. Lasciò che le
succhiasse i capezzoli fino a stordirla e che le sue mani si bagnassero di lei,
sino a quando il tormento fu tale che non riuscì più a resistere. Lo desiderava
dentro di sé con un’urgenza mai provata prima, quasi che in tutti quegli anni
non avesse mai conosciuto la vera passione. Ora non ne avrebbe sprecato una
sola goccia.
Cominciò ad armeggiare con la sua cintura e lentamente liberò la sua
erezione dai jeans.
«Ferma» la implorò Mitch, mentre lei lo stringeva tra le mani e cominciava
lentamente ad accarezzarlo. «Se solo mi sfiori un’altra volta…» aggiunse con
voce strozzata dalla tensione e, senza aspettare risposta, la sollevò quel poco
necessario per entrare in lei.
Era calda e pronta per lui.
Per un istante assaporarono immobili quel contatto profondo e perfetto, poi
le loro bocche si cercarono e i loro respiri si fusero in un unico, infinito
sospiro.
Maggie si mosse per prima, ondeggiò sopra di lui sino a quando lui rispose
al suo invito con colpi sempre più ravvicinati e potenti, sino a quando i gemiti
di entrambi si trasformarono in grida soffocate e le grida vibrarono del loro
piacere.
Insieme.
Una sola parola avrebbe potuto descrivere quel momento.
Perfezione.
Quando il fuoco che bruciava in loro si calmò, rimasero stretti l’uno
all’altra, ansimanti e sudati, fronte contro fronte, negli occhi e sulle labbra un
desiderio non ancora sazio.
«Andiamo a casa» disse lui, come se tutto il resto non contasse.
Si rivestirono in fretta, poi Mitch mise in moto e la portò a Paradise.
*
1 gennaio 2013, Paradise
Rimasero chiusi nella camera di Mitch per tutta la notte e per tutto il giorno
successivo. Si amarono ogni volta come se fosse l’ultima, parlarono delle
loro vite, mangiarono dolci e bevvero caffè davanti al camino acceso,
riscaldati solo da una coperta e dal bisogno fisico di rimanere insieme.
Poi arrivò la sera e Maggie chiese a Mitch di riaccompagnarla a casa di
Suzie. Lui assentì, un piccolo gesto del capo pieno di insicurezza e di
domande inespresse. Si rivestirono in silenzio e in silenzio arrivarono a
destinazione.
Lui fermò il pick-up appena prima dell’ingresso di casa. «Perché non
rimani, perché non torni con me al ranch?»
Maggie sospirò e scosse la testa.
Lui insistette. «Sei proprio sicura di voler partire domani?» Il suo tono era
intimo, certo, ma a Maggie non parve spezzato dall’emozione, come forse
avrebbe sperato. La guardava con quei suoi occhi incredibili, appesantiti dal
sonno perduto, tanto scuri da essere indecifrabili. Cosa ci fosse, là dietro, non
era facile capirlo. D’altronde, non era sicura di capire neppure se stessa.
Perché, se lui le avesse detto una sola parola per trattenerla, se le avesse
chiesto di restare con maggiore determinazione, forse avrebbe cambiato idea.
«Sì, Mitch, sono sicura di voler partire. Devo tornare alla mia vita. Devo
passare a Londra da mio padre e ho del lavoro che mi aspetta» disse, tanto
per aggrapparsi a qualcosa.
«Passa almeno l’ultima notte con me…»
Come se non ci avesse pensato, almeno cento volte negli ultimi minuti! Ma,
se avesse passato la notte con lui, dove avrebbe trovato il coraggio di
andarsene? Perché, prima o poi, sarebbe arrivato il momento in cui lui le
avrebbe chiesto di farlo, spezzandole il cuore.
«No, Mitch, credo che sia meglio dirsi addio qui, adesso» rispose
rimanendo immobile, per timore che il suo corpo la tradisse.
Lui colpì con forza il volante con il palmo della mano, ma non disse niente.
Le passò invece un braccio dietro alle spalle, si chinò verso di lei e la baciò,
con una passione carica di sofferenza più che di desiderio.
Quando le loro labbra si separarono, Maggie si accorse di piangere e fu
certa che per molto tempo le lacrime non si sarebbero più fermate. Senza
un’altra parola aprì la portiera e corse via.
12
2 gennaio, Yellowstone Regional Airport di Cody
La mattina era gelida e spazzata da un vento inclemente, lo stesso che
l’aveva accolta al suo arrivo. Maggie fu assalita dai soliti timori, ma un
semplice sorriso di Stella e un suo tenero abbraccio l’avevano aiutata a
scacciarlo.
Be’, di certo non avrebbe sentito nostalgia per il vento del Wyoming. No,
almeno di quello no.
La sera precedente aveva parlato a lungo con Suzie che – logico! – non
aveva approvato la sua scelta di scappare.
«Non sto scappando» aveva protestato Maggie.
«Oh, sì che lo stai facendo. E mi chiedo perché, se Mitch è l’uomo giusto.»
Maggie si era abbandonata a una risata quasi isterica. «Lo conosco da un
paio di settimane e, certo, abbiamo fatto del gran sesso insieme. Ma mi
spieghi come posso capire se è l’uomo giusto? E, se anche lui lo fosse, io
sono la donna giusta per lui?» aveva chiesto tirando su col naso e
asciugandosi le lacrime dal viso.
Sospirando, Suzie si era allora alzata e aveva preso due cucchiai e una
confezione di gelato dal frigo. Poi era tornata a sedersi di fianco a Maggie al
tavolo della cucina e le aveva passato un cucchiaio.
«Pistacchio e nocciola?» le aveva chiesto Maggie tra i singhiozzi.
«Naturalmente, come quando eravamo bambine e io cercavo di consolarti
per qualcosa che papà ti aveva fatto, o meglio che tu credevi che papà ti
avesse fatto.»
«Che mi aveva fatto, Suzie, che mi aveva fatto.»
Per qualche istante avevano affogato passato e presente nel gelato, poi
Suzie le aveva chiesto: «Pensi di essere incinta? In fondo è per questo che sei
venuta fin qua».
«Sono venuta per passare il Natale con la mia famiglia, veramente» aveva
risposto Maggie in tono piccato.
Suzie l’aveva fissata con un sorrisetto ironico. «Siamo sincere, sorellina.
Sei venuta per unire l’utile al dilettevole…»
Maggie aveva alzato gli occhi al cielo. «Potrei essere anche incinta, per
quel che ne so. Due dei tre test di fertilità fatti il giorno della Vigilia di Natale
erano risultati positivi, dopotutto.»
«Già, mi ricordo bene.»
«Non doveva succedere, non era così che avevo previsto che andasse il mio
piano» aveva detto Maggie scuotendo la testa.
«Posso dirti cosa penso di questa storia?» le aveva chiesto Suzie.
«Tanto so già che me lo dirai lo stesso.»
«Esatto» aveva detto Suzie puntandole l’indice addosso. «Credo che tu ti
sia persa dietro Mitch dal primo momento che lo hai visto e non abbia mai
avuto intenzione di andare a letto con nessun altro se non con lui.»
Maggie non aveva negato, ma l’aveva fissata col tipico sguardo e allora?
«Quello che non capisco» aveva proseguito Suzie, «è perché invece di fare
un test di gravidanza scappi senza dirgli niente. Da quel che ho capito, non
gli sei completamente indifferente.»
Soprattutto quando la stringeva fra le braccia.
«Anche se non gli sono indifferente, non ha fatto nulla per fermarmi, per
convincermi a non partire. Mi ha solo chiesto se non ci avessi ripensato e se
non avessi voluto passare un’altra notte insieme a lui. Non proprio una
dichiarazione d’amore…»
«No, sono d’accordo, ma non credi cha anche lui sia confuso?»
«Non lo so. Sotto sotto temo di essere stata solo un’altra delle sue donne,
Suzie, niente di più. Senza contare che…» E qui Maggie si era interrotta e si
era messa in bocca l’ultima cucchiaiata di gelato rimasta.
«Grazie per avermene lasciato un po’!» aveva brontolato Suzie prima di
tornare al punto. «Senza contare che cosa?»
Maggie si era alzata e aveva cominciato a camminare per la cucina,
tormentandosi le mani. «Suzie, Mitch non vuole avere figli, né una famiglia.
Se gli rivelassi che potrei aspettare un bambino da lui, non solo ammetterei di
essere una bugiarda – gli ho fatto credere di prendere la pillola – ma lo
costringerei anche a prendere una decisione che, in ogni caso, lo renderebbe
infelice. Quindi…»
«Quindi…»
«Ho deciso che la mia storia con lui si fermerà a questo punto. Nel caso
non dovessi essere incinta, fra qualche mese potrei tornare a Hope e vedere se
la scintilla fra noi è ancora capace di trasformarsi in fuoco. O se si è spenta.»
A quel punto Suzie l’aveva guardata come se fosse stata una completa
svitata. «Tu sei pazza, sorellina mia. Ma non capisci che dovrebbe essere
esattamente il contrario?»
«Oh, quante storie, Suzie! Non farmi la morale, per favore. E se, una volta
conosciuta la verità, non volesse il bambino? Ci hai pensato? Dovrei mettere
al mondo un figlio senza il consenso del padre.»
«Succederebbe comunque, no?»
«No, perché Mitch non saprebbe della sua esistenza. Se invece glielo
dicessi, mi incolperebbe per tutta la vita di averlo incastrato, direbbe che gli
ho mentito e non capirebbe mai che desideravo solo un figlio, e non un figlio
e un padre. Dammi retta, meglio finirla adesso, per il bene di tutti e due.»
Ciò detto, Maggie si era alzata per andare a finire i bagagli. Argomento
chiuso.
*
Il viaggio verso Cody fu sulle prime rallegrato dai gridolini e dai discorsetti
di Stella poi, quando la piccola si addormentò nel suo seggiolino, procedette
in silenzio perché nessuna delle due sorelle Donati sarebbe riuscita a parlare
senza scoppiare a piangere. Cosa che successe puntualmente poco dopo
all’aeroporto, quando arrivò il momento di dirsi addio. Stella prima le fissò
incredule, poi cominciò a frignare anche lei.
A proposito di addii indolori.
Maggie diede un ultimo bacio a entrambe, assicurò Suzie che l’avrebbe
chiamata da Londra, poi si infilò nella zona dei controlli con un ultimo cenno
della mano e un bacio.
Passaporto, metal detector, una breve ispezione del bagaglio a mano. Poi
troppo tempo per pensare a Mitch e per cercare il suo volto tra i pochi
passeggeri che come lei attendevano l’aereo per Chicago.
Al momento di imbarcarsi, non si girò indietro neppure una volta, ma salì
sulla scaletta dell’aereo col cuore gonfio e gli occhi allagati di lacrime. In
testa la musica e le parole di I will always love you, come se il tempo si fosse
fermato la notte dell’ultimo dell’anno e lei stesse ancora ballando tra le
braccia di Mitch.
Come se ancora lui la stesse amando.
Seduta al suo posto, lo sguardo incollato al finestrino, ripensò a The
Bodygard, al momento in cui Whitney Huston urla al pilota di fermare
l’aereo e si precipita fuori per un ultimo disperato bacio a Kevin Costner.
Dio, perché quelle cose non accadevano mai nella vita reale? E mentre le note
di I will always love you non smettevano di pugnalarle il cuore, lo vide.
Prima lo Stetson, poi lui.
Mitch.
Sulle prime pensò che fosse un’illusione ottica dovuta alle lacrime e al suo
stato d’animo confuso, poi non ebbe più alcun dubbio che fosse il cowboy. E
che fosse lì per lei.
Rimase per qualche istante pietrificata, poi, con il cuore che sembrava voler
scoppiare, infranse la corazza di emozioni che la stava immobilizzando. Si
alzò di scatto, dimenticandosi di slacciarsi la cintura, e rimbalzò sul sedile in
modo scomposto. Poi ci riprovò, a cintura slacciata, scavalcò il passeggero
che aveva di fianco senza troppi complimenti e si precipitò verso l’uscita
mentre una hostess stava già chiudendo il portellone. Lo stava sbattendo in
faccia alla sua vita, quel dannato portellone, per sempre.
«Noooo» urlò, attirando l’attenzione di tutti i passeggeri, oltre che della
hostess. «La prego, devo scendere» la supplicò, il volto bagnato di lacrime,
ma quella non si lasciò corrompere e la invitò con fermezza a tornare
immediatamente al suo posto. L’aereo stava già rullando.
Maggie non obbedì e si precipitò al finestrino più vicino e si mise a battere
sul vetro con i pugni per cercare di richiamare l’attenzione di Mitch. Ma lui
non la vide, né la sentì. Invece la vide la hostess che la prese per un braccio e
la costrinse a sedere vicino a sé nei posti riservati agli assistenti. Poi le
allacciò la cintura, come a una bambina.
«Mi spiace, non volevo creare confusione. Volevo scendere solo per un
minuto, come Whitney Huston» mormorò Maggie piangendo.
La hostess, una donna di mezza età dall’aria tranquilla, sorrise, sospirò e le
passò un kleenex.
«La vita non è un film, bambina, e tu non sei Whitney Huston, per tua
fortuna, oserei dire. E poi, se ben ricordi, in The Bodygard la storia d’amore
non ha un lieto fine, così come in Casablanca. Spero invece che tu potrai
avere il tuo lieto fine.»
Maggie tirò su col naso e si asciugò gli occhi.
«È per quello schianto di cowboy che volevi scendere?» continuò la hostess
mentre l’aereo aveva ormai raggiunto la pista di decollo.
Maggie fece segno di sì con la testa.
«Se vuoi un consiglio da amica, meglio lasciarli perdere i cowboy, sono
tutti uguali, alla fine ti riducono il cuore come un colabrodo.»
Poi l’aereo prese la sua rincorsa verso il cielo e decollò.
13
Sei mesi dopo, 15 giugno 2013, Milano
Mitch era arrivato a Milano il quindici di giugno. Sì, è vero, ci aveva messo
sei mesi per decidersi ad affrontare, oltre al viaggio, una situazione che
dentro di lui non si era ancora conclusa. Una situazione che aveva bisogno di
un’ultima parola, fine, perché lui potesse ricominciare la sua vita di sempre.
Per questa ragione aveva smesso di obbedire alla ragione e, per una volta,
aveva ascoltato il cuore che, da quando Maggie lo aveva lasciato, non aveva
smesso di dargli il tormento.
Il 2 di gennaio, ormai sei mesi prima, era arrivato all’aeroporto in ritardo e
tutto a causa di una chiamata della centrale di polizia che richiedeva il suo
intervento. Nessun bandito in giro, nessun assalto alla diligenza, solo un
gruppo di alci che aveva scelto la statale per Laramy per spostarsi. Certo,
aveva corso come un matto per arrivare in tempo e poter salutare Maggie
prima che partisse. Magari per dirle qualcosa che fosse più di un grunt.
Grazie al distintivo e alla sua amicizia con un poliziotto dell’aeroporto, era
riuscito persino a superare i controlli e a precipitarsi sulla pista dove quel
dannato aereo stava già iniziando a rullare. Per un attimo aveva anche avuto
la sensazione che Maggie stesse battendo sul finestrino per richiamare la sua
attenzione, ma era stato solo un flash prima che l’aereo si allontanasse per
sempre, lasciandolo con un buco grosso come una montagna al posto del
cuore.
Dopo, se ne era tornato al ranch di pessimo umore e i giorni successivi era
incominciato il tormento.
La vedeva ovunque, la cercava ovunque. Da Edda, da Sly, in mezzo alla
gente che camminava per la Main Street. La cercava soprattutto nel suo letto.
Allungava il braccio, sperando che fosse lì, morbida, calda, pronta a ricevere i
suoi baci e le sue carezze.
Ma non c’era.
La sensazione di vuoto che allora lo prendeva era così dolorosa che spesso
aveva abbandonato la sua stanza per andare a trascorrere la notte nella camera
degli ospiti. In bianco.
Non era solo questione di sesso. Di sesso ne avrebbe potuto avere quanto
ne voleva se solo lo avesse cercato. Era questione che quella svitata gli era
entrata dentro come nessuna donna aveva mai fatto e si era accampata nel suo
cuore senza chiedergli il permesso.
Non voleva ammettere di essersi innamorato di lei, ma neppure era così
ipocrita da negarlo. Semplicemente, cercava di evitare di affrontare
l’argomento davanti a uno specchio.
I mesi passavano e lei aveva risposto alle sue email solo in modo molto
freddo e formale. Sto bene, grazie. E tu? Come sta Miracle? E Storm? Roba
da fargli venire voglia di prendere il computer e di sfasciarlo contro il muro.
Non che lui le avesse dichiarato il suo amore, ma forse – forse – gli sarebbe
bastato un piccolo incoraggiamento da parte di lei per farlo. O, forse, avrebbe
dovuto scriverle un mi manchi oppure ho voglia di vederti, Maggie. Niente di
molto romantico, ma poche, concrete parole per poter dire di averci almeno
provato e non sentirsi un totale imbecille.
Dopo averle inviato un certo numero di email e aver ricevuto in risposta un
altrettanto numero di risposte cortesi e glaciali, gli parve evidente che il
disinteresse di lei nei suoi confronti avesse ormai imboccato la via del non
ritorno. Di ciò diede più che altro la colpa a se stesso perché, se avesse
cercato di trattenerla a Hope con argomenti più convincenti di sei sicura che
vuoi partire?, forse lei si sarebbe fermata più a lungo e la loro storia avrebbe
potuto trasformarsi in qualcosa di importante o finire in modo indolore con lo
spegnersi della passione. Ma no, non aveva cercato in nessun modo di
trattenerla, salvo correre come un disperato all’aeroporto la mattina della sua
partenza e arrivare in tempo solo per vedere l’aereo decollare.
Aveva amato due donne in vita sua (sì, amato, perché a un certo punto fu
certo di essere innamorato della svitata), e tutte e due lo avevano mollato. Per
la verità, Craig gli aveva scritto e spiegato come era andata con Renée, la
ragazza che lui avrebbe dovuto sposare vent’anni prima. Nella sua lettera
Craig diceva che l’unica ragione per cui l’aveva convinta a seguirlo a
Chicago, allettandola con la prospettiva di un lavoro, era il fatto che Renée
non fosse quella santarellina che Mitch si era illuso che fosse. Al contrario.
Appena lui era partito per l’Accademia, si era data da fare con ogni maschio
in buona salute del circondario, senza neppure la decenza di farlo con
discrezione. Dal canto suo, lui non l’aveva neppure sfiorata.
Nel mio giovanile idealismo – gli aveva scritto Craig – avevo pensato che
per te sarebbe stato meglio crederla nel mio che in un letto ogni giorno
diverso. Non è stato facile per me, e ancora non sono certo che la scelta di
proteggerti dalla verità sia stata quella giusta. Sono invece sicuro che oggi,
sempre in nome dell’amicizia, rifarei la stessa cosa.
Questa nuova visione dei fatti lo aveva sconvolto, non tanto per le
rivelazioni sulle tendenze ninfomani di Renée – che peraltro con lui non
aveva mai espresso – ma per aver perso un amico a causa di una donna
sbagliata. Cosa che, una volta di più, riconfermava la teoria che quando si
amava qualcuno si finiva sempre per soffrire come un cane.
O per compiere azioni folli.
Come quella, ad esempio, di prendere un aereo per Milano e andare a
cercare Maggie senza farle neppure una telefonata.
Era stato in battaglia, aveva cavalcato tori e cavalli selvaggi, arrestato
criminali in divisa. Ma non aveva avuto il coraggio di rischiare un no dalla
donna che amava.
*
All’aeroporto di Malpensa Mitch prese un taxi e si fece lasciare a un
centinaio di metri dalla casa di Maggie. Aveva studiato molto bene la zona su
Google Maps e, prima di suonare alla sua porta, voleva avere qualche minuto
per rilassarsi e ripassare il discorsetto che si era preparato. Dio, quanto
cemento c’era in quel posto? Come faceva Maggie a sopportarlo?
Respirò in profondità lo smog della città mentre fissava con curiosità e
crescente speranza la piccola via privata in fondo alla quale sapeva che
viveva Maggie. Be’, se non altro lì le case erano basse e c’erano degli alberi,
e persino un po’ di fiori alle finestre. Dava l’impressione di essere un luogo
meno opprimente del resto della città, anche se lui, lì, non avrebbe mai
sopportato di vivere. Si rese conto di essere bagnato di sudore, forse perché
era oltremodo agitato, forse perché la temperatura in Italia in quel periodo era
molto più elevata che a Hope, dove anche in pianura c’erano ancora chiazze
di neve non sciolta.
La via di Maggie era separata dal resto del mondo da una cancellata
montata su due colonnine di mattoni; su quella di destra c’era la pulsantiera
dei citofoni. Fra pochi secondi avrebbe suonato a quello di Maggie, lei gli
avrebbe risposto e, dopo un primo momento di incredulità, l’avrebbe invitato
a entrare in casa.
Forse.
Una BMW si fermò davanti al cancello che lentamente si aprì. L’auto
proseguì lungo la via e Mitch accelerò il passo per poter entrare prima che il
cancello si richiudesse. L’auto parcheggiò in fondo alla via, proprio davanti
alla casa dipinta di rosa in cui Maggie gli aveva detto di abitare. Col cuore
che batteva all’impazzata, Mitch allungò il passo, ma poi, quando vide la
portiera del guidatore aprirsi, una voce dentro di lui gli disse di rallentare,
anzi, di fermarsi. Non si nascose, ma rimase immobile a guardare, come se
fosse stato colpito da un fulmine in quel cielo assolato. Nel cuore aveva un
pessimo presentimento. L’uomo, un bel tipo sui quarant’anni, girò intorno
alla BMW e aprì la portiera anteriore.
Ora la gola di Mitch era completamente secca. Doveva essere il caldo a
opprimerlo, o tutto quel cemento…
L’uomo disse qualcosa e si mise a ridere, una risata che a Mitch parve
felice, poi allungò una mano e aiutò il passeggero a scendere.
Il passeggero.
Maggie.
Ancora prima di vederla, Mitch sapeva che era lei. Cercò di urlare il suo
nome, non voleva rimanere immobile come un guardone a spiarla, ma nessun
suono gli uscì dalla gola.
Lei emerse dalla macchina con una goffaggine che non era sua. Stava
ridendo e parlando con quel tipo, come se fossero intimi, come se fossero
felici.
Mitch strinse i pugni e serrò la mascella, quasi si stesse preparando a far
sapere a quei due che lui era lì e che, accidenti a loro, era lì che li guardava
mentre ridevano e flirtavano come due innamorati; ma poi il suo cervello si
rese conto che c’era qualcosa di diverso in Maggie, di molto diverso, anche se
non riusciva a tradurre in parole ciò che gli occhi vedevano fin troppo
chiaramente.
I due stavano entrando in casa, ora. Lui apriva il portoncino per lei e lei
aspettava giù dai tre scalini che portavano all’interno. Indossava un abito
chiaro, forse con dei piccoli fiori stampati, i suoi capelli rossi giocavano con i
raggi del sole e la sua pancia era decisamente sporgente.
Pancia. Sporgente.
Un altro fulmine.
Il suo cervello finalmente tradusse in parole le immagini che gli occhi gli
avevano inviato. Parole crude, che non riusciva a elaborare.
Maggie è incinta.
Le elaborò.
Maggie aspettava un bambino, sant’Iddio, possibile che se ne fosse accorto
solo ora?
L’uomo aprì il portoncino mentre un gatto rosso attraversava la strada e li
raggiungeva. Maggie si chinò ad accarezzarlo e l’uomo la guardò con un
sorriso a trentadue denti stampato sulla bocca. Mitch sentì l’impulso di
farglieli cadere tutti e trentadue, uno dopo l’altro. Cosa difficile, visto che
ancora non riusciva a muoversi né a respirare. Poi Maggie salì gli scalini ed
entrambi sparirono in casa, seguiti dal gatto.
Allora Mitch si concesse di respirare, una, due, tre volte, sino a quando
l’abitudine al respiro fu di nuovo ristabilita. Girò sui tacchi e ripercorse la
piccola via all’incontrario, poi uscì dal cancello e cominciò a vagare senza
meta, la mente vuota e il cuore distrutto, in mezzo a tutto quel caldo e al
cemento soffocante.
Dio, aveva bisogno di tornare subito al ranch, tra le sue montagne e le sue
praterie. Dove il vento, che Maggie odiava, spazzava via tutto, anche la
sofferenza.
Quattro ore dopo sedeva nella sala d’aspetto di Malpensa, in lista d’attesa
per il primo volo diretto negli Stati Uniti.
14
24 settembre 2013, Clinica Mangiagalli, Milano
«Allora, Margherita, vuoi qualcuno in sala parto con te oppure no?»
Le doglie erano iniziate già da qualche ora e Margherita non era affatto
contenta.
Sapeva del partorirai con dolore e di tutto il bla bla bla che si tirava in
ballo quando c’era di mezzo una partoriente, ma che cavolo! Non ci aveva
mai creduto troppo e, poi, c’era un limite a tutto. Partorirai con dolore, va
bene, ma non con un dolore come questo, tale da farti maledire il giorno in
cui avevi concepito il piccolo mostro.
Ma forse era solo lei a sentirsi così, era la madre più egoista e snaturata
dell’universo.
«Non mi importa chi entrerà, ma datemi qualcosa per il dolore, o se Alien
non si decide a mettere fuori la testa da solo, tiratelo fuori a forza.»
Da quando era entrata in travaglio, aveva incominciato a chiamare il
bambino Alien.
«Margherita, sei stata tu a non volere l’epidurale…» protestò l’ostetrica.
«Ci mancava solo che rimanessi anche paralizzata, dopo aver subito questa
tortura!» rispose lei acida.
La fiducia di Maggie nella classe medica non era delle più elevate.
L’ostetrica alzò gli occhi al cielo e insistette: «Allora, non vuoi nessuno con
te?».
«Posso entrare io con te in sala parto, Maggie, ci terrei moltissimo, lo sai.»
Maggie guardò suo padre, l’esimio Professor Donati, primario e docente di
ginecologia al King’s College di Londra. Aveva sperato di essere lui a far
nascere suo nipote, ma Maggie gli aveva detto di no. «Voglio un dottore
donna» era stata la sua unica spiegazione.
Ora, tra una fitta e l’altra, guardò suo padre come un possibile alleato. «Va
bene, papà, ti lascio entrare, ma solo se mi darai qualcosa per far cessare
questa tortura. Adesso. Devi pur avere qualche antidolorifico in quella tua
borsa, dannazione, sei un ginecologo, no?»
«Stai forse cercando di corrompermi, Maggie?» chiese lui sorridendole.
Lei socchiuse gli occhi, accennò un sorriso e gli strinse la mano. «Non
attacca, vero? Non importa, papà, puoi entrare lo stesso in sala parto. Grazie
per essere venuto e per essere qui con me.»
Forse glielo disse per sfinimento, o forse perché in quegli ultimi mesi il
loro rapporto era migliorato. Non che lui si fosse trasformato da un giorno
all’altro nel padre dell’anno, ma Maggie non poteva negare che si fosse fatto
in quattro, e forse anche in otto, per riparare alle incomprensioni del passato.
Non solo. Le aveva anche confessato, con le lacrime agli occhi, di essersi
condannato ogni giorno della sua vita per essere stato la causa della morte
della moglie.
Non le sue figlie, lui.
«Ero un ginecologo, maledizione, sapevo fin troppo bene che era una
gravidanza a rischio, eppure sono stato debole e non ho insistito abbastanza
per convincere vostra madre a rinunciare al bambino. Non mi perdonerò mai
per quello che ho fatto a lei, a voi e a me stesso.»
Dunque suo padre non aveva mai incolpato lei e Suzie di quanto successo
alla madre. Per quanto tardiva e poco consolatoria, quella rivelazione le
liberò il cuore da un peso che in trent’anni era cresciuto sino a opprimerla.
E ora suo padre era lì, con lei, e cercava di calmarla. Senza molto successo,
peraltro. Alien si era di nuovo scatenato.
«Il dolore poi passa e si scorda. Resisti, figlia mia, resisti. Lo fanno un
sacco di donne ogni giorno, sai?»
«Come se tu avessi mai provato qualcosa del genere!» gli rispose lei,
ironica. «Sei stato fortunato a nascere maschio, come lo è questa creatura.»
Il Prof Donati si chinò a baciarle la fronte e le sussurrò: «Sarà un bambino
magnifico, come te».
Dopo circa un’ora, alla Clinica Mangiagalli di Milano nacque Ryan
Sandford Donati. Ryan Sandford, come il nonno del padre, e con quei nomi
fu regolarmente registrato. Forse Mitch non sarebbe mai venuto a conoscenza
dell’esistenza di suo figlio, ma Maggie aveva pensato che fosse giusto dare al
bambino, almeno all’anagrafe, un padre, oltre che una madre.
15
23 dicembre 2013, Hope
L’aereo atterrò a Cody la mattina del 23 dicembre, nel bel mezzo di una
bufera di neve, ma questa volta l’unica preoccupazione di Maggie fu il
bambino. Con l’arrivo del piccolo e con le mille preoccupazioni che ogni
giorno la tenevano impegnata, ogni sua fobia si era infranta lasciandole solo
il desiderio di occuparsi di Ryan, di amarlo e di proteggerlo da ogni pericolo.
Atterrò a Cody in compagnia di suo padre e della nuova compagna di lui,
Ann, che grazie al cielo non era una ventenne in minigonna ma veleggiava in
modo orgoglioso verso i sessanta.
Suzie venne a prenderli all’aeroporto e, quando vide il piccolo Ryan, le ci
vollero circa cinque minuti prima di riuscire a parlare.
«Dio santo, quanto gli assomiglia!» furono le sue uniche parole.
Su questo non c’erano dubbi. Gli occhi del piccolo erano dello stesso verde
di quelli del padre, così come anche la forma del viso e delle labbra. Per il
momento gli mancavano solo un piccolo Stetson in testa e un paio di stivali ai
piedi per essere il ritratto in miniatura di Mitch.
*
A mezzanotte in casa Kroll erano tutti addormentati, tranne Maggie che
stava allattando il piccolo Ryan in camera sua. Suzie la raggiunse e si sedette
sul letto e, senza girarci troppo intorno, le diede la notizia.
«Mi ha telefonato Aiyana» disse guardando il nipotino succhiare con
avidità, «Mitch sa che sei tornata. Per la verità pare che tutta la città lo
sappia.»
Il cuore di Maggie si fermò un istante, poi riprese a correre.
«Quello che il cowboy non sospetta è che sono tornata per lui. Sono così
arrabbiata con Mitch che se ci penso mi viene voglia di prendere il primo
aereo domattina e sparire di nuovo. Non so cosa accadrà domani, ma non
vedo l’ora di togliermi questo peso dalla coscienza.»
«Cosa gli dirai?»
Maggie sospirò e scosse la testa. «Non lo so. Voglio solo dargli
l’opportunità di scegliere se fare il padre o no.»
Suzie accarezzò la testolina coperta di capelli scuri. «Maggie, è un bambino
bellissimo. Il tuo folle piano ha avuto successo! Non è incredibile?»
«Il mio folle piano non prevedeva che io perdessi la testa per il padre di
mio figlio. Doveva essere una toccata e fuga, con un addio definitivo come
finale. E invece… eccomi qua.»
Si portò il piccolo all’altro seno.
«Hai già pensato a come dirlo a Mitch?»
No, non ci aveva pensato.
«Improvviserò, sorellina. Forse mi vestirò da Babbo Natale e gli lascerò
suo figlio sotto l’albero, con un biglietto di auguri. Forse gli riempirò la
faccia di schiaffi per essersi dimenticato di me a tempo di record.» Sospirò e
scosse il capo. «Non so come glielo dirò, e non ci voglio pensare adesso.
L’unica cosa che conta, ora, è lui» disse guardando suo figlio.
«Vero, ma se fossi in te, comincerei a rifletterci su.»
Maggie si chinò e diede un bacio a Ryan sulla fronte, poi aggiunse: «Ci
penserò, Suzie, ma ora sono troppo stanca per farlo. E poi, come diceva
Rossella O’Hara, domani è un altro giorno, no? E lei, credimi, di queste cose
si intendeva».
***
Mitch seppe del ritorno di Maggie a Hope la sera del 23 mentre era da Sly,
dove si era fermato a bere una birra in compagnia di Craig.
«Ancora fra i piedi, a quanto pare» disse in tono scherzoso, stringendogli la
mano.
«Pare proprio che dovrai sopportarmi anche quest’anno, Mitch, spero solo
che non mi farai nero anche l’altro occhio.»
Sedevano al bar, cercando di riguadagnare i vent’anni che avevano gettato
via, quando Sly si piazzò davanti a loro al di là del bancone.
«Mitch, Craig… Avete sentito che la sorella di Suzie è tornata in città? La
rossa che Edda ti voleva affibbiare, Mitch, te la ricordi? O la voleva
affibbiare a te, Craig? Diavolo, la mia memoria sta peggiorando ogni giorno
che passa. In ogni caso, la rossa è arrivata ieri per passare il Natale con i
Kroll e, da quel che ho saputo, non è sola, c’è un uomo con lei. Siete avvisati,
non prendetevi a cornate per lei. Ora vado che ho da fare. Voi divertitevi,
ragazzi!»
Quando se ne fu andato, Craig non disse nulla, ma si girò verso Mitch, che,
bianco come un cencio, teneva il boccale a mezz’aria, immobile come la
Statua della Libertà.
«Ehi amico» disse Craig, «tutto a posto?»
No, niente era a posto.
Ora che ce la stava mettendo tutta per dimenticarla – nel senso che si
sforzava di non pensare a lei per almeno un paio di minuti al giorno – la
svitata era tornata a tormentarlo, e per di più insieme all’uomo a cui aveva
probabilmente già dato un figlio. Quello che aveva visto insieme a lei a
Milano, quello che era sceso dalla BMW e le aveva sorriso come se fosse
l’uomo più felice della terra.
Dannazione! Chissà se aveva portato anche il bambino? Che domanda
idiota, certo che lo aveva portato! Anche se ne sapeva più di gravidanze
equine che umane, non era difficile capire che il piccolo doveva essere stato
concepito all’inizio dell’anno e quindi non doveva avere più di un paio di
mesi. E una madre non lascia da solo un bambino di un paio di mesi. Ma
perché diavolo era venuta fino a Hope con un neonato? Perché era una
svitata, ecco perché.
E voleva tormentarlo.
«Mitch, cosa c’è?» gli chiese Craig guardandolo preoccupato. «Parlami,
amico, dimmi cosa posso fare per aiutarti.»
«Se mi ubriaco, mi porti tu a casa?»
«Ah, ma allora è molto peggio di quanto credessi. Sei innamorato!»
Mitch lo guardò male. «Craig…» disse in tono minaccioso.
Craig gli diede una pacca sulle spalle e chiamò il barista. «Due whisky»
ordinò, poi li mise entrambi davanti all’amico. «Bevi quanto vuoi e conta su
di me. So ascoltare e tacere. Poi ti aiuterò anche a infilarti sotto le coperte.»
«Se solo ci provi...» disse Mitch mostrando il pugno e tentando di dare un
tono scherzoso alla voce, che invece tremava in sincrono col battito del cuore.
Bevve il primo whisky. Poi non si fece pregare e si ubriacò.
Un paio di ore dopo, Craig lo riportò a Paradise dove, con l’aiuto di Hakan,
lo sistemò sul divano del salotto.
Quando Hakan rientrò a casa sua, raccontò tutto ad Aiyana e la donna
decise che la mattina dopo sarebbe andata da Maggie di buonora per dirle il
fatto suo. Perché nessuno poteva trattare in quel modo il suo Mitch.
16
24 dicembre, Vigilia di Natale, Hope
La mattina della Vigilia di Natale Aiyana si presentò in casa Kroll a un’ora
insolita per una visita di cortesia. Alle sette e trenta del mattino, per la
precisione. Sembrava un cane da punta.
«Aiyana, questa sì che è una sorpresa!» le disse Suzie invitandola a entrare.
«Vieni, il caffè è pronto.»
La donna non si fece pregare. «Dov’è?» chiese.
«Sono qui, in cucina» rispose Maggie che aveva riconosciuto la voce.
Con uno scatto da bracco, Aiyana puntò verso la cucina, superando la
padrona di casa, un’espressione furente sul viso.
«Sei venuta per dare il colpo di grazia al mio Mitch?» chiese entrando nella
stanza che profumava di caffè, il pesante poncho indiano che le svolazzava ai
lati come le ali dell’angelo della vendetta.
Maggie le sorrise e le rispose: «Non so, Aiyana, dipenderà da lui».
La donna inchiodò, come succede nei cartoni animati, non appena il suo
sguardo si abbassò sul fagotto che teneva in braccio Maggie.
«Gesù santissimo!» sbottò, poi riprese a muoversi verso di lei, ma al
rallentatore. «È chi credo che sia?» disse guardando il piccolo Ryan che si
esibiva in una serie di versetti.
Maggie fece di sì con la testa.
«Devo sedermi» bofonchiò Aiyana, instabile sulle gambe.
Suzie le andò vicino e l’aiutò a sistemarsi su una sedia, poi le portò un
bicchiere d’acqua. La donna sembrava in stato di shock e continuava a
ripetere: «Cielo del Mattino aveva ragione, Cielo del Mattino aveva ragione.
Un miracolo, un miracolo. Come Miracle».
«Chi sarebbe Cielo del Mattino?» chiese il Professor Donati entrando in
cucina.
«Qualcuno che dovresti conoscere, papà. Ti aiuterebbe di certo a superare
la tua limitata visione pragmatica della vita» rispose Maggie. Poi si alzò e si
avvicinò ad Aiyana. Le diede un bacio sulla guancia e le porse il piccolo.
«Me lo terresti per cinque minuti mentre mi verso un altro caffè? Perché tu lo
sappia, si chiama Ryan.»
Aiyana alzò gli occhi già velati di lacrime verso quel fagottino vestito
d’azzurro, lo prese in braccio e cominciò a parlargli in lingua cheyenne.
Ecco.
Cosa che Ryan sembrò apprezzare moltissimo, almeno a giudicare dai
sorrisi e dai versetti con cui prese a confabulare con la donna.
Maggie bevve il suo caffè, poi riprese il piccolo che si stava
addormentando e lo sistemò nella carrozzina.
«Ti devo chiedere una cosa» le disse Aiyana.
«Tutto quello che vuoi, ma andiamo a parlare in un luogo più tranquillo di
questo.»
***
Aiyana se ne andò da casa dei Kroll verso le nove di mattina, certa che
quello sarebbe stato un Natale bellissimo. Aveva promesso a Maggie che non
avrebbe detto nulla a Mitch dei suoi piani, ma ciò non significava che non
avesse mille cose da fare, da preparare. Con un bambino di pochi mesi in giro
per casa, di lavoro ce ne sarebbe stato tantissimo.
Un bambino a Natale!
Un altro miracolo, proprio come Miracle.
Ringraziò il Signore per il dono che stava per arrivare e si preparò ad
affrontare quella testa dura del suo Mitch.
***
Mitch si svegliò all’alba con la testa che scoppiava e il cuore a pezzi.
La storia della sua vita, insomma, ogni volta che si lasciava fregare dal
cuore.
Non amare, non soffrirai, si era ripetuto mille volte. Dopo la prima botta,
per un po’ di anni era andata bene, ma poi era finito per cascarci di nuovo.
Il fatto era che quel giorno era la Vigilia di Natale e per quanto ci provasse
non poteva scordare cosa fosse accaduto un anno prima.
Aveva fatto l’amore con Maggie per la prima volta, un anno prima, ecco
cosa era successo.
Non. Pensare. A. Lei.
Rivisse ogni istante di quella notte, da quando lei lo aveva chiamato per
chiedergli aiuto a quando era rientrato al ranch dopo aver salvato Miracle e
l’aveva trovata ancora lì ad aspettarlo. A distanza di un anno sentiva ancora la
pelle di Maggie scottare contro la sua.
A un certo punto cercò di alzarsi dal divano, ma poi decise che non aveva
ragione per farlo. Il giaccone lo teneva al caldo, ai cavalli avrebbe pensato
Hakan e Archie aveva acqua e croccantini e poteva entrare e uscire da casa
come e quando gli andava passando dalla sua porticina in cucina. Quindi…
che il mondo andasse pure a farsi fottere, lui non si sarebbe mosso da quel
divano per tutto il giorno. E anche per quello dopo, e quello dopo ancora. Se
ne sarebbe stato lì sino a quando Maggie non se ne fosse ritornata in quella
sua città piena di cemento e smog, con il suo fidanzato.
O forse era già un marito?
Perché, ora che avevano un figlio, era possibile che quel porco l’avesse
sposata. Mettere incinta una donna alla sua età, ma non si vergognava? Non
aveva mai sentito di parlare di preservativi, il bastardo?
Già, come se lui li avesse usati, con Maggie.
Non. Pensare. A. Lei.
O forse il bambino lo avevano cercato.
Il pensiero gli provocò una fitta, la fitta gli chiuse lo stomaco e spinse verso
l’alto il whisky che ancora gli si agitava dentro.
Cazzo.
Si alzò e corse in bagno.
Quando ne uscì era più bianco e più freddo di Nosferatu. Ma la cosa
sarebbe anche stata sopportabile se Aiyana non si fosse materializzata in casa
sua, e con un’aria che non prometteva nulla di buono.
Se ne stava a fissarlo seduta sul divano. Occupando il divano con
premeditazione perché lui non ci si potesse più sdraiare. Donna pestifera!
«Aiyana, sto male, lasciami in pace per favore, voglio sdraiarmi…»
Aiyana incrociò le braccia sul petto e strinse gli occhi in uno sguardo
minaccioso. «No, tu ora vai a farti una doccia, puzzi da far schifo. Poi berrai
un caffè e farai quello che il padrone di un ranch deve fare tutte le mattine.
Vigilia di Natale compresa.»
Archie, forse disturbato dall’odore del suo padrone, parve approvare le
parole di Aiyana ed emise uno strano latrato.
Mitch alzò gli occhi al cielo, guardò Aiyana come se fosse un extraterrestre
e tentò di ributtarsi sul divano.
«Mitch Sandford, forse tu non hai capito» disse lei senza mollare il
territorio conquistato. «Devi farti una doccia e occuparti del ranch. Ti sei
scordato che hai detto agli uomini di non venire oggi, di starsene a casa con
le famiglie? Chi credi che farà tutto il lavoro, il mio povero marito?»
Archie approvò ancora.
Traditore di un cane.
Aiyana non aveva torto. Aveva detto agli uomini di stare a casa, oggi e
domani. E c’erano cose in un ranch che neppure a Natale si potevano
smettere di fare. Tipo nutrire i cavalli, pulirli, cambiare la paglia sporca.
Soprattutto controllare che stessero bene. C’erano venticinque cavalli nella
sua stalla. Diavolo, perché aveva così tanti cavalli?
«Non so se ce la farò, Aiyana, mi sento davvero male!» disse come un
bambino che non voleva andare a scuola.
«Ce la farai, ce la farai, ce l’hai sempre fatta. E lavorare, invece di
commiserarti, ti farà bene al corpo e allo spirito. Il whisky non mi sembra che
ti sia servito a molto, no? Vai a cambiarti, che intanto ti preparo il caffè e
qualcosa da mettere sotto i denti e poi metto in ordine questo posto.»
«Non c’è bisogno, Aiyana, tanto non verrà nessuno.»
La donna sorrise ma non disse nulla.
Quando Mitch ridiscese, il profumo del caffè lo riportò alla vita. Se ne
versò una tazza, poi, mentre andava verso il suo studio, trovò Aiyana intenta
a pulire la culla, quella che suo nonno aveva costruito per lui e che lui usava
ormai come portariviste e CD.
«Perché la pulisci?» le chiese.
«Perché è piena di polvere. E quelle riviste sono tutte vecchie! Posso
buttarle?»
Non aveva torto, in fondo.
«Fai pure» le rispose Mitch. Poi andò alla sua scrivania e accese il
computer.
***
Maggie aveva promesso ad Aiyana, e soprattutto a se stessa, che entro quel
giorno avrebbe avuto il coraggio di parlare a Mitch e di presentargli suo
figlio.
Ciao, Mitch, volevo presentarti una persona, tuo figlio, per la verità. L’ho
chiamato Ryan, come tuo nonno. Spero non ti dispiaccia…
Già.
Quante volte aveva provato allo specchio quel ridicolo discorsetto? Da
quando il bambino era nato, almeno mille volte, senza mai riuscire a trovare
parole che non fossero ridicole o troppo allegre o fastidiosamente
drammatiche. Ma ora, forse, le avrebbe trovate. Sarebbero fluite dalla sua
bocca come proiettili perché, santissimo cielo, era arrabbiata. No, furiosa.
Con Mitch.
Forse non sarebbe neppure riuscita a parlare e gli avrebbe comunicato la
sua collera e la sua indignazione a suon di schiaffi, poi gli avrebbe mostrato il
piccolo e se ne sarebbe andata via per sempre. E di cowboy non avrebbe mai
più voluto sentir parlare, neanche al cinema.
Perché, come aveva saputo da Aiyana, lo sciagurato – Mitch – non solo
aveva preso un aereo per Milano senza avvisarla – cosa che non giudicava
affatto romantica ma proterva – ma si era pure guardato bene dal fermarsi
quel tanto per salutarla. Aveva viaggiato per almeno diecimila miglia e tutto
quello che era stato capace di fare era rimanere lì come una statua di sale a
fissarla da lontano.
Imbecille di un cowboy!
Vigliacco di un cowboy!
Aiyana, che fino a quella mattina non aveva idea dello stato di Maggie, le
aveva raccontato che Mitch se ne era andato via dopo averla vista scendere da
una BMW ed entrare in casa con un uomo.
Un uomo?
Solo un altro essere di genere maschile era entrato in casa sua nell’ultimo
anno, se si escludevano suo padre e il gatto Red, ed era il suo vicino di casa,
Nick Corsi. Lui e sua moglie Nora le erano stati vicini in ogni momento della
gravidanza, l’avevano aiutata e sostenuta, e di questo non li avrebbe mai
potuti ringraziare abbastanza.
Mitch, a quanto pareva, non l’aveva vista in questo modo e, invece di fare
la cosa più ovvia, invece di bussare alla sua porta e chiederle che diavolo
stesse succedendo, aveva pensato di andarsene, di tornare tra i suoi cavalli
senza neppure un ciao o un come stai. O una domanda di poca importanza
come: il figlio che porti lì dentro è mio?
Il fatto era che Mitch non aveva detto niente ad Aiyana della pancia, di cui
certo si doveva essere accorto perché a metà giugno lei era di sei mesi ma la
sua pancia sembrava già di otto.
E se Mitch aveva evitato di citare ad Aiyana quel piccolo particolare,
doveva esserci una ragione.
Semplice come l’acqua di fonte.
Mitch non voleva avere nulla a che fare con suo figlio.
Bastardo e vigliacco sino in fondo, se ne era andato, lasciandola sola a
vedersela con pannolini, biberon e un figlio da crescere.
La rabbia di Maggie crebbe ancora.
Non che lei non avesse la sua parte di colpe in questa faccenda, era la prima
ad ammetterle; ma, se solo avesse supposto che lui le aveva già girato le
spalle sei mesi prima, non sarebbe mai tornata a Hope. Perché, se era tornata
in quel posto pieno di neve, di vento e di lupi, era solo per lui, dannazione.
Perché si sentiva in colpa per avergli nascosto quel miracolo di bambino. E
perché, che fosse maledetto il suo stupido cuore, lo amava.
Guardò il piccolo che dormiva placido nella carrozzina e mormorò:
«Nonostante si sia comportato come un bastardo, glielo dirò, bambino mio,
non ti preoccupare. Lo farò per te, perché meriti di avere un padre, anche se
tuo padre, a quanto pare, non merita te».
*
Aiyana chiamò Maggie alle cinque del pomeriggio. Fu la piccola Stella, che
ormai era una signorina di tre anni e mezzo, ad andare a rispondere.
«Sssia, telefono» le disse porgendole la cornetta.
Col cuore che batteva, Maggie rispose.
«Starà a casa, tutta la sera» le comunicò Aiyana con l’aria di un agente
segreto.
«Perfetto» ribatté Maggie e cominciò subito a prepararsi.
Era una serata gelida ma magnifica. Una serata perfetta per la Vigilia di
Natale.
Fu Peter ad accompagnarla a Paradise e a riempirla di raccomandazioni,
come prima di lui avevano fatto suo padre e sua sorella. E, come se non
bastasse, anche la nuova fidanzata di suo padre.
Maggie attese di arrivare nei pressi di Paradise prima di comporre con mani
tremanti il numero di Mitch.
Rispondi, rispondi, rispondi…
Lui rispose al quinto trillo.
«Mitch, sono io, Maggie.»
Nessun suono, solo il rumore di qualcosa che cadeva per terra e andava in
frantumi.
«Mitch, ci sei, va tutto bene?»
Ci fu una pausa, poi un respiro profondo.
«Tutto bene? No, Maggie, direi proprio di no. Va da schifo, se vuoi
saperlo.»
Ora era lei a non riuscire a respirare. Chiuse gli occhi, contò fino a tre e poi
disse: «Mitch, mi spiace, ma non mi importa affatto se stai da schifo. Ho
bisogno di vederti».
«Com’è che hai sempre bisogno di me alla Vigilia di Natale? Non ti sarai
messa in qualche altro casino spero, come l’anno scorso?»
Già, quando sono finita nel tuo letto. Sorrise, un sorriso amaro.
«No, Mitch. Anzi, sì. Mi sono ficcata nel più grande casino della mia vita,
se vuoi saperlo.»
«Devo venirti a prendere da qualche parte?» chiese ironico, ma la voce gli
tremava.
«No» rispose lei, mentre l’auto di Peter entrava a Paradise e si fermava
davanti alla porta di Mitch.
Assalita dai ricordi, Maggie si guardò intorno e scorse Aiyana e Hakan alla
finestra. Fece loro un cenno con la mano e loro lo ricambiarono con il pollice
alzato.
Nonostante un nodo le chiudesse la gola, disse: «No, non devi venirmi a
prendere. Devi solo aprire la porta di casa».
A questo punto dall’altra parte ci fu una pausa più lunga.
«Mitch ci sei?»
«Sì, dannazione se ci sono. Sto arrivando.»
La porta si aprì e Mitch comparve sulla soglia.
Il cuore di Maggie cominciò a correre.
«Maggie…» disse Peter appoggiandole una mano sul braccio, con fare
protettivo.
«Non ti preoccupare, Peter, andrà tutto bene. Se avrò bisogno, chiamerò.»
Poi si girò, abbassò il finestrino e disse: «Vuoi deciderti a darmi una mano,
cowboy?».
Lui si avvicinò e le aprì la portiera.
«Ciao, Peter.»
«Ciao, Mitch.»
Le era così vicino che se avesse solo allungato una mano avrebbe potuto
toccarlo. Così, per evitare ogni tentazione, intrecciò le dita, come se pregasse.
Certo, la testa le girava e lo stomaco sembrava stesse ballando il sirtaki, ma le
parve del tutto normale ascoltare la voce profonda di Mitch e respirare il suo
profumo, quasi fossero suoni e aromi di casa.
Per un istante si lasciò cullare da quella sensazione rassicurante e
avvolgente, poi con uno sforzo tornò con i piedi per terra.
Non c’era nessuna casa, non c’era nessuna normalità cui aggrapparsi.
Si schiarì la voce e disse: «Mitch, non rimanertene lì imbambolato. Per
favore, prendi la borsa che è nel baule dell’auto, io prenderò il bambino».
Il bambino.
Anche pronunciare quella parola le era sembrato normale.
Ma certo non dovette sembrare normale a Mitch, che vacillò visibilmente e
dovette sostenersi al tettuccio dell’auto per non perdere l’equilibrio.
Con un gesto della mano Maggie lo incitò a muoversi, sorridendo dentro di
sé per quella piccola vittoria. Poi scese dall’auto, aprì la portiera del
passeggero e liberò dalle cinture di sicurezza il trasportino del piccolo.
Facendo attenzione a non svegliare Ryan che dormiva beato, prese il
seggiolino per il manico e lo tirò fuori.
Era fatta. Con quel gesto normale, Ryan era entrato a far parte del mondo
di Mitch, che lui lo volesse o no.
Sentì dei passi dietro di lei e poi e un suono soffocato provenire dalla gola
del cowboy.
«Già, fa un effetto strano, vero?» infierì lei di nuovo, cercando di rimanere
indifferente davanti al turbamento di Mitch.
Lui non rispose, ma continuò a fissare il piccolo con la bocca spalancata.
«Muoviti, che fa freddo qui fuori» lo incalzò.
Lui assentì col capo e le aprì la porta.
«Cos’è, hai perso la parola, cowboy?» gli chiese con un sorrisetto ironico.
Lui assentì di nuovo, lasciandola passare.
Sulla soglia Maggie si girò verso Peter e gli mandò un bacio.
***
Suo figlio? Quell’esserino che stava provocando in lui una vera e propria
esplosione nucleare era suo figlio? Certo che lo era. Per quanto fosse tutto
imbacuccato di azzurro come un principino, fin dal primo istante non aveva
avuto il benché minimo dubbio che fosse suo. Lo aveva sentito. Una
sensazione tanto elettrizzante quanto terrificante. Che ancora gli toglieva il
fiato e gli provocava un insano desiderio di ridere e urlare al mondo intero
che quel miracolo di bimbo era suo. Di ululare alla luna, forse. Felice come
un lupo sull’altopiano.
Aveva un figlio.
Ma allora, quell’altro uomo che aveva visto con Maggie a Milano chi era,
se non era il padre del bambino?
Doveva calmarsi, riflettere, e magari ritrovare l’uso della parola. Ci voleva
un respiro profondo, così… Inalò così tanto da rischiare di ubriacarsi di
ossigeno. Non sapeva se fosse in grado di parlare, ma ci provò.
«Maggie...»
Dio, stava tremando come una foglia. E se si fosse sbagliato, se si fosse
solo illuso? Anche se già conosceva la risposta, doveva chiederglielo.
«Il piccolo è mio?» disse con un filo di voce, quasi vergognandosi per
quella domanda inutile, quasi offensiva.
Altro respirone. Ecco, c’era riuscito, anche se certo non aveva elaborato
una frase da lasciare ai posteri. Anche se non aveva saputo come definire
quella minuscola creatura se non con un generico piccolo. Ma era già un
inizio.
Lei alzò gli occhi al cielo e gli rispose in modo altrettanto diretto. «Se non
fosse tuo, non avrei fatto diecimila miglia per venire sin qui, non credi,
cowboy?»
Lui vacillò. Sorrise. Si commosse. Cercò di muoversi, senza riuscirci.
Anche Maggie stava sorridendo? A lui, al piccolo? O forse alla vita? Ora
lei gli stava parlando, lentamente, come fosse anche lui un bambino.
«Mitch, andiamo in salotto. Non c’era una culla una volta, lì?»
Si rese conto di fissarla come se non avesse capito una dannata parola di
quello che gli aveva detto. In effetti non aveva capito una dannata parola.
«Una culla? In salotto?»
«Già, quella cosa dove si mettono a dormire i neonati…»
«Ohhh, volevi dire una culla.»
Lei lo guardò come se fosse un perfetto imbecille. Cosa che in effetti si
sentiva di essere.
«Una culla, certo. È vero, ora che ci penso in salotto c’è la mia vecchia
culla di legno, ma ci sono dentro delle riviste.»
Lei lo fissò spazientita. «Allora va’ a buttare via le riviste. E poi trova un
cuscino, non troppo morbido…»
Lui era già schizzato verso la culla. Ora stava lì a fissarla dall’alto, senza
capire. «Strano» disse, «qui dentro non ci sono più le riviste. Ma ci sono già
un cuscino e una coperta.»
Lei lo raggiunse e gli sorrise. «Ma guarda che combinazione!»
Forse, tra tutta quella nebbia che gli stava offuscando il cervello, si stava
aprendo un barlume di sereno.
Quella mattina…
«Aiyana, è stata Aiyana a pulire la culla e a liberarla dalle riviste. Eravate
d’accordo, voi due» disse puntandole contro un dito.
«Detto così sembra una vera cospirazione» ironizzò lei appoggiando il
trasportino sul tavolo di fronte al divano e cominciando a liberare il bambino
dal porte-enfant imbottito e dal berrettino di lana.
Il piccolo indossava una tutina azzurra ed era bellissimo. Piuttosto lungo
per avere poco più di tre mesi e con due manine tenere, strette a pugno. Mitch
non riusciva a togliergli gli occhi di dosso.
«Mettilo nella culla, Mitch, per favore.»
Un altro ordine, perentorio, il più difficile che avesse ricevuto in vita sua.
«Cosa?»
«Mettilo. Nella. Culla» ripeté Maggie scandendo le parole.
«Non ci penso neppure. Non sono capace di prendere un bambino così
piccolo in braccio. Non l’ho mai fatto» rispose lui terrorizzato, senza neppure
tentare di nascondere il terrore.
Maggie alzò gli occhi al cielo. «Mitch, non è difficile. Pesa solo sei chili e
non è fatto di cristallo, ma di carne, come te e me. Prendi Ryan e mettilo nella
culla, per favore. Così, prima della prossima poppata, potremo parlare.»
Se quella donna credeva di averlo convinto si sbagliava di grosso. Lui non
poteva rischiare di prendere in braccio Ryan e magari farlo cadere, o
rompergli uno di quegli ossicini così delicati…
Ryan? La svitata aveva detto proprio Ryan?
Il suo cuore mancò un battito, forse anche due o tre.
«Come hai detto che si chiama?» le chiese con il pomo d’Adamo che
doveva essersi impigliato in gola, perché non riusciva più a respirare.
Lei gli sorrise. «Si chiama Ryan, hai capito bene, proprio come tuo nonno.»
«Ryan» mormorò lui fissando suo figlio.
Maggie sospirò, poi, chinandosi per prendere il bambino, disse: «Va bene,
se non lo vuoi fare tu, lo farò io».
«No, aspetta, lo farò io, dammi solo un attimo per favore.»
Si chinò su suo figlio e, dopo una decina di tentativi alquanto goffi,
finalmente trovò il modo per sollevarlo.
«Attento alla testa, sostienila» gli disse Maggie, ora meno sicura di sé. Una
raccomandazione inutile, perché la mano sinistra di Mitch, così grande e
forte, già reggeva il capo delicato del bambino.
«Così va bene?» chiese lui.
«Va benissimo. Vuoi tenerlo un po’ in braccio?» gli chiese lei appoggiando
con delicatezza una copertina intorno al piccolo.
«Posso davvero?»
«Direi proprio di sì, cowboy, dal momento che è tuo figlio! O te ne sei già
scordato?»
Mio figlio.
Entrambi si sedettero sul divano, gli occhi fissi al piccolo, un calore intorno
a loro che nessuno dei due aveva mai provato prima e che non proveniva
certo dalle braci che ardevano nel camino.
***
Le cose non erano andate come aveva immaginato. Avrebbe dovuto
schiaffeggiare Mitch, dirgli il fatto suo per essere fuggito da lei e dal bambino
quel giorno a Milano, ma non ci riusciva. Era come se la rabbia si fosse
dissolta in quel momento perfetto.
Sedeva al fianco di Mitch e gli occhi di lui erano colmi d’amore per suo
figlio. Colmi d’amore e, a quanto pareva, di lacrime. Lasciò che la gioia
penetrasse in lui e che lui la trasmettesse attraverso il battito del suo cuore a
Ryan. La stessa gioia stava avvolgendo poco per volta anche lei.
Dio, com’era piccolo tra le sue braccia, com’era perfetto. Quell’immagine,
impressa a fuoco nella sua mente, sarebbe stata un giorno l’ultima a morire
con lei.
Sospirò, guardandosi attorno.
«Hai decorato la casa quest’anno, e c’è pure un piccolo albero di Natale.
Sono felice che tu l’abbia fatto» mormorò, la testa appoggiata allo schienale,
non sulla spalla di lui come avrebbe voluto.
«Non sono molto bravo in queste cose, ma meglio di niente, no?» rispose
lui sussurrando per paura di svegliare il bambino.
«E Archie, dov’è?»
«Aiyana ha insistito per tenerlo con sé. Ora capisco perché» rispose
accennando col capo al bambino.
«Mitch…»
Lui la interruppe, brusco, determinato. «Perché non me l’hai detto,
Maggie? Perché mi hai fatto questo?»
Già, perché? Per un sacco di motivi che ora le sembravano deboli e stupidi.
Si asciugò una lacrima e fissò le braci ardere nel camino in cerca di parole
che non venivano. Poi si girò verso di lui che la fissava con occhi scuri di
amore e di collera.
«Lo so, ho sbagliato, ed è per riparare al mio errore che sono tornata a
Hope. Ma cerca di capirmi!»
«Sto tentando, Maggie, credimi» rispose lui serissimo.
Lei si asciugò una lacrima, poi continuò. «Se non te l’ho detto è perché ero
certa che tu non volessi figli. Desideravo questo bambino con tutto il mio
cuore, ma non volevo ricoprirti di responsabilità che non eri pronto ad
accettare.»
«Non potevi esserne certa, non ne avevamo mai parlato.»
«L’avevo letto nei tuoi occhi, Mitch, e più di una volta. Ero disposta a non
rivederti mai più pur di non farti soffrire.»
«Non hai pensato che lo avrei scoperto lo stesso, prima o poi?»
«Mi spiace, Mitch. Spero che mi perdonerai un giorno.»
Per qualche istante tacquero, lo sguardo di entrambi sul loro bambino che
dormiva sereno. Fu Mitch a interrompere per primo quel silenzio solo
apparentemente tranquillo.
«Ma… come è potuto accadere, mi avevi detto che prendevi la pillola.»
Lei sorrise, un sorriso amaro. «Ti ho mentito, Mitch, o meglio è stata una
parte di me a farlo.»
Mitch aggrottò la fronte, per nulla soddisfatto di quella risposta. «Maggie,
voglio la verità, non scuse!»
«Oh, Mitch, è tutto così complicato che non so da che parte cominciare!»
«Prova dall’inizio, magari. La notte di Natale è perfetta per i racconti,
soprattutto quelli che parlano di neonati… Provaci.»
Maggie sospirò, poi col cuore che batteva forte appoggiò la testa sulla sua
spalla e il calore di lui l’avvolse e le diede coraggio. Chiuse gli occhi e
cominciò a parlare.
«Tutto è cominciato perché desideravo un figlio, Mitch, ma non volevo un
padre. Ho pensato che a Hope avrei potuto trovare un… donatore, un uomo
di cui non doveva importarmi, che avrei potuto scordare facilmente dopo
esserci andata a letto. Con un po’ di fortuna, e nessuna relazione
ingombrante, me ne sarei tornata in Italia portando dentro di me un bambino,
solo mio.»
«Sei venuta a Hope per trovare uno stallone?»
«Non uno stallone, un donatore.»
Mitch la fissava a bocca aperta. «Dimmi che stai scherzando…»
Lei scosse di nuovo la testa. «Sei venuta fin qui per farti mettere incinta da
uno sconosciuto? Ti sembrerò all’antica, ma mi pare un’idea folle, quasi
criminale…»
Lei strinse le mani a pugno, sino a farsi diventare quasi bianche le nocche.
«Forse lo è, Mitch, ma all’epoca mi era parsa un’idea meno squallida di
rivolgermi a una banca del seme.»
Il piccolo mosse una manina, aprì la bocca quasi volesse dire la sua in
proposito, poi continuò il suo sonno. Per qualche istante l’attenzione di
entrambi rimase incollata a lui.
«In ogni caso, Maggie, il tuo comportamento non è stato molto lusinghiero
nei miei confronti… Stallone, donatore, che cosa cambia?»
Maggie alzò la testa dalla spalla di Mitch e lo guardò sorpresa. «No, no,
cos’hai capito? Tu non c’entri col mio piano. Tu non dovevi farne parte. Tu
sei stato la causa del suo fallimento. Perché, dannazione, dopo averti
conosciuto non volevo più soltanto un figlio, volevo anche te. Con te ho fatto
l’amore solo perché desideravo farlo, perché, se vuoi proprio saperlo, ero
pazza di te.»
Lui scosse la testa, come se non fosse convinto. «Ciò non toglie che mi hai
mentito sul fatto che prendevi la pillola…»
«Quella bugia mi è sgorgata dal cuore. Il mio piano era andato in frantumi
ormai e il destino mi offriva un’ultima occasione, l’unica possibile sin
dall’inizio, perché non me la sarei mai sentita di andare a letto con uno
sconosciuto. Senza riflettere, l’ho presa al volo. E ho fatto bene. Guarda
nostro figlio, è una meraviglia.»
«È molto di più, è un miracolo» mormorò lui.
«È solo un bambino…»
«Che si chiama Ryan, come mio nonno. Grazie per averlo chiamato così,
Maggie.»
«Se è per quello, gli ho dato anche il tuo cognome, spero non ti dispiaccia.»
«Si chiama Ryan Sandford?» chiese lui stupito.
«Sì, ho aggiunto anche Donati, nel caso tu non lo avessi voluto riconoscere.
E a questo proposito… Non hai dubbi che sia figlio tuo? È importante per me
esserne certa.»
Lui sorrise, e quando le parole gli uscirono dal cuore, non solo dalla bocca,
vibravano di gioia.
«Come potrei? Ho sentito che era mio appena l’ho visto. E poi… è il mio
ritratto, non te ne sei accorta?»
«E aspetta che questo ragazzo si svegli e avrai un’altra sorpresa.»
La guardò con occhi così dolci e riconoscenti che anche l’ultima barriera
che la separava da lui crollò.
«Mitch, c’è una cosa che vorrei chiederti…»
«La luna? Corro a prenderla…»
Lei allungò una mano e gli sfiorò il volto con una carezza. «Non voglio la
luna, quella ce l’ho già. Vorrei che tu mi dicessi cosa è successo a Milano.»
Lui la guardò stupito. «Tu sai del mio viaggio?»
«Me ne ha parlato Aiyana stamattina. Mitch, voglio sapere perché te ne sei
andato senza neanche salutarmi. Hai avuto paura?»
«Paura? Io? E di cosa, per la miseria!»
Anche per la miseria gli uscì come un sussurro.
«Paura di diventare padre, Mitch.»
Lui sorrise, poi chinò il capo e, per la prima volta in vita sua, baciò suo
figlio sulla fronte.
«La paura di essere padre ce l’ho adesso, Maggie, e mi sta paralizzando.
Ma a Milano no, non è stata paura. Se me ne sono andato è perché ti ho vista
con un altro uomo e ho creduto che lui fosse il padre del figlio che portavi in
grembo.»
«Hai creduto davvero che Nick fosse il padre del bambino? Non hai fatto
due conti prima di escludere che tu potessi essere il padre?»
«Sono così imbecille da non averci neppure pensato!»
Maggie sentì il cuore scivolarle nel petto, in cerca di un punto saldo cui
aggrapparsi mentre vedeva il suo futuro riflettersi negli occhi verdi di Mitch.
«Maggie, non potevo aspettare un altro giorno senza dirti che ti amavo, per
questo ho preso quel maledetto aereo. Pensavo che guardandoti negli occhi ce
l’avrei fatta, che tu avresti capito. Ma poi ti ho visto con lui, sembravate
felici: tu, lui e il bambino nella pancia.»
«E allora sei scappato, come un vigliacco. Dio, perché lo hai fatto?»
«Che diritto avevo io di invadere la tua vita?»
«Oh, Mitch» mormorò lei abbandonandosi di nuovo contro di lui, «siamo
stati così ciechi!»
«Ciechi e imbecilli, Maggie» mormorò lui prima di sfiorarle le labbra con
un bacio. Un bacio leggero come una carezza ma per nulla casto.
Un gemito le sgorgò dalla gola, seguito da un sorriso beato. «Ehi, cowboy,
hai intenzione di fare subito un altro figlio, qui sul divano?»
«Non chiederei di meglio, la casa è grande, c’è un sacco di posto…»
«Vero, ma credo che dovremo aspettare» sussurrò lei con aria da
cospiratrice. «Alien si sta svegliando.»
«Alien?»
«Aspetta di vederlo mangiare e capirai perché lo chiamo così.»
«Ehi, si è mosso!» disse lui fissando terrorizzato Ryan.
«I bambini tendono a farlo, Mitch.»
Ryan alzò entrambi i pugnetti, poi spalancò la bocca come un cucciolo
affamato.
«Ehi, guarda che destro! Gli insegnerò a…»
Maggie alzò gli occhi al cielo. «Piano, cowboy, ogni cosa a suo tempo. Per
il momento occupiamoci di sfamarlo.»
«Dobbiamo preparargli una pappa o qualcosa del genere? C’è del pollo in
frigo.»
Lei scoppiò a ridere. «La pappa è già pronta. Tu non ti preoccupare, ci
penso io.»
E a quel punto Ryan aprì gli occhi.
«Se ancora avevi qualche dubbio…» disse Maggie sollevando lo sguardo
dagli occhi del piccolo a quelli di Mitch.
Erano identici, lo stesso verde, la stessa forma, la stessa espressione
sorpresa.
Gli uni lo specchio perfetto degli altri.
Mitch si abbandonò a una risata piena di meraviglia e non si vergognò
quando da quella risata sgorgarono lacrime calde di felicità.
***
Forse la Terra si era messa a girare all’incontrario, o la forza di gravità era
all’improvviso sparita, perché gli sembrava di fluttuare nell’aria, leggero e
felice come un palloncino volato via dalle mani di un ragazzino. Sentiva
ancora il calore di Ryan sul suo corpo e sentiva il suo profumo nelle narici,
mentre lo guardava succhiare come un lupacchiotto affamato dal seno di
Maggie. Senza smettere mai di chiedersi se quello non fosse solo un sogno, il
più bello della sua vita, corse a prendere un bicchiere di latte per Maggie,
perché l’aveva visto fare in qualche film, seguì con interesse il cambio del
pannolino, operazione che gli sembrò terribilmente complessa, si esibì in una
serie di boccacce e versetti che impressionarono più Maggie che il bambino
e, alla fine, giudicò fenomenale il ruttino di Ryan.
«Però» disse con orgoglio.
«E questo è niente. Alien può fare di meglio, te ne accorgerai.»
Verso le nove di sera Aiyana e Hakan bussarono alla porta con la scusa di
portare a Maggie e Mitch una torta di mele ancora calda e dell’eggnogg
appena fatto. In realtà, morivano dalla voglia di vedere e coccolare il nuovo
piccolo di casa Sandford.
«È il tuo ritratto, Mitch. Tuo nonno sarebbe orgoglioso di te» borbottò
Hakan con un sorriso a trentadue denti e una stretta di mano molto virile che,
pochi secondi dopo, si trasformò in un abbraccio bagnato di lacrime.
«Vecchio sentimentale!» fu il severo commento di Aiyana che, da quando
era entrata in casa, non aveva ancora smesso di piangere.
Fiutando l’aria come un segugio, arrivò anche Archie. In un istante fu
vicino alla culla, il naso umido impegnato ad analizzare i molti odori che
provenivano da quel nuovo, piccolo umano. Dopo averlo annusato una
quindicina di volte, terminò la sua ricognizione con un lungo guaito e, con
fare protettivo, si sistemò ai piedi della culla.
A mezzanotte Mitch baciò Maggie davanti al camino acceso. Fu un bacio
profondo e passionale, ma anche tenero e delicato, capace di dire più di mille
parole.
«Mmmh…» mormorò, «sai di eggnog. Potrei continuare ad assaggiarti per
tutta la notte…»
«Quando è così, accomodati pure. Ma prima…» aggiunse lei sciogliendosi
nei suoi occhi, «... te la sentiresti di portare la culla in camera da letto,
cowboy?»
Glielo chiese in modo leggero, scherzoso, ma entrambi sapevano che in
quella semplice domanda c’era molto di più. C’erano le promesse, le
speranze, l’impegno per una vita insieme.
C’era il loro futuro.
«Ci puoi scommettere che me la sento, mia dolcissima svitata…»
«Ehi! Non sono una svitata!»
«No?»
La culla e Mitch volarono su per le scale, mentre Maggie, ridacchiando per
tutta quella fretta, salì molto più lentamente stringendo a sé il bambino.
Più tardi, fecero l’amore con passione e generosità, ma con una tenerezza e
una serenità che appagò sia il loro desiderio che le loro anime. E, per non
svegliare il piccolo, lo fecero in un silenzio assoluto e magico, avvolti dal
battito dei loro cuori e dalla dolce carezza dei loro sospiri.
Epilogo
25 dicembre, Natale, Paradise
Maggie volle fare un salto nella stalla per vedere i progressi di Miracle, a
cui sentiva di dovere parte della sua felicità. Ryan, in braccio a suo padre, si
guardava attorno con due grandi occhi svegli, incuriosito dai musi dei cavalli
che si affacciavano ai cubicoli.
«Ciao, ragazzi» disse Mitch facendo le presentazioni, «questo è mio figlio.»
Poi si fermò davanti a un cubicolo da cui sporgeva una testa ormai
imbiancata dal tempo. «Ryan, questo è Storm, un vecchio amico di papà.»
Il cavallo nitrì e il bambino sussultò.
«Mitch, attento, non voglio che il bambino si spaventi…» disse Maggie
avvicinandosi preoccupata, ma nello stesso momento le labbra e gli occhi di
Ryan si allungarono in un sorriso che scaldò il cuore di Mitch.
«Visto?» disse lui orgoglioso. «Un Sandford non può avere paura dei
cavalli.»
Maggie alzò gli occhi al cielo, poi diede una mela e una carezza a Storm e
disse: «Andiamo da Miracle».
Miracle era ormai un cavallo adulto. Bello, fiero, con una magnifica
criniera fulva e una stella bianca sulla fronte uguale a quella della madre.
Anche lui salutò con un nitrito e accettò con entusiasmo una mela dalle
mani di Maggie.
«È una bestia bellissima e molto intelligente. Ha tutte le caratteristiche per
diventare un campione.»
Maggie gli accarezzò il muso.
«Hai poi scoperto chi sia il misterioso padre?»
Mitch scoppiò a ridere. «Non lo crederesti mai.»
«Non vorrai dire che…»
«Già, proprio lui!»
«Reagan, il lavativo!»
«Lavativo, ma a quanto pare piuttosto intraprendente.»
«Oddio» disse Maggie ancora incredula, «è proprio vero che tutto a questo
mondo è possibile.»
Mitch guardò suo figlio e disse: «Sì!».
***
Cielo del Mattino sedeva sulla poltrona d’onore come l’anno precedente,
circondata da Aiyana e dalle sue numerose figlie, nipoti e bisnipoti che si
preoccupavano soprattutto di tenerle il bicchiere ben rifornito. Il profumo del
whisky aleggiava intorno a lei come fosse Chanel n. 5.
Quando Maggie e Mitch le si avvicinarono per mostrarle il piccolo Ryan, la
donna non si scompose e con voce grave annunciò: «Così andare doveva».
Così andare doveva?
«Si è messa a parlare come Yoda adesso?» mormorò Maggie a Mitch,
cercando di non scoppiare a ridere.
«Zitta!» mormorò lui faticando a rimanere serio.
«Un miracolo da questa donna avuto tu hai, giovane Sandford…»
«Ha detto giovane Sandford, come Yoda avrebbe detto giovane
Skywalker!» disse Maggie coprendosi la bocca con una mano.
Mitch le rifilò una gomitata. «Taci, ho detto, prima che se ne esca con
un’altra profezia.»
Troppo tardi.
«E altri ne avrai.»
«Oddio, Mitch, pensi che intenda… Chiedile quanti, presto!»
«Quanti io dire per ora non so.»
Ecco.
Altri titoli
Nicole lavora per il Foreign Service americano. È una donna coraggiosa,
ambiziosa ed è completamente concentrata sulla carriera diplomatica. Non
c’è posto per un uomo nella sua vita: troppo rischioso. Fino a quel 17
dicembre ad Amman. Fino a che, a una festa all’Ambasciata italiana, non
conosce l’affascinante Alessandro della Torre. Inizia per lei una settimana di
fuoco. Dopo anni di astinenza e solitudine, in soli sette giorni, Alessandro
risveglia la donna passionale che è in lei. Una settimana soltanto, la settimana
più intensa della sua vita. Finché, la Vigilia di Natale, il mondo le crolla
addosso: Alessandro sparisce nel nulla e Nicole precipita nella più totale
disperazione. E poi, esattamente un anno dopo...
Lisa Marie Rice avrà sempre trent’anni e non invecchierà mai. È alta,
sensuale, bellissima. Gli uomini cadono ai suoi piedi come pere mature. È
stata insignita dei più prestigiosi premi letterari. Ha una laurea in archeologia,
una in astrofisica e una in letteratura tibetana. Ovviamente, Lisa Marie Rice è
una donna virtuale ed esiste solo di fronte allo schermo, mentre scrive
romanzi erotici. Scompare non appena spegne il pc... Tra i suoi romanzi
pubblicati in Italia, Amanti pericolosi, Segreti pericolosi, Passione pericolosa
(Leggereditore) e Mezzanotte è l’ora, Mezzanotte arriverà, A mezzanotte un
angelo (Mondadori). http://www.lisamariericebooks.com/
Se vuoi conoscere la storia di Nick e Nora, non perderti Bang Bang...

Sì, è stata tutta colpa di un gatto rosso. Il mio. La bestia scappa dalla
finestra a mezzanotte, e io mi butto in strada per recuperarlo, sexy come un
sacco di patate, e incontro... l’ uomo dei miei sogni, una specie di Marlboro
Man che smonta non da cavallo, ma da una fiammante BMW.
In altre parole, il mio nuovo vicino di casa. Lui mi fissa perplesso e
incuriosito e il colpo mi arriva subito, preciso, bang bang, dritto al cuore,
come nella vecchia canzone dell’Equipe ‘84. Nick, si chiama Nick.
Io Nora. Non può essere un caso, mi dico, e mi butto in questa storia, a
testa bassa, senza sospettare in che pasticci mi ficcherò. Perché è ovvio che
nella nostra storia si infilino altre persone, e tutte con qualcosa da dire o fare.
Viola, un’adorabile bimba di otto mesi; Tommaso, il prof, egocentrico,
bastardo seduttore cui l’ho giurata; un’orda di adorabili femmine folli che
altro non sono che le mie amiche del cuore; Camilla, la disinibita, e un
piccolo esercito di suocere, madri, padri, tate e… una nonna diabolica. E,
come se non bastasse, c’è un romanzo rosa che aspetta di essere tradotto, uno
strano borgo in piena Milano dove la gente sembra diversa e un po’ pazza e,
ahimé, c’è anche lei, Gabrielle, la stronza. Senza contare il gatto rosso.

Fra noi è stato come dice lui: tutto e subito. Appassionato, assoluto,
prepotente. Intenso. Siamo precipitati uno nella vita dell’altra come due
particelle subatomiche sparate da un acceleratore di protoni. Non abbiamo
avuto scelta, non abbiamo potuto evitarci. La natura, o forse il caso, o forse
una sconosciuta forza elettromagnetica, ha scelto per noi.
Non siamo amici. Non siamo fidanzati. Non siamo amanti. Non siamo
niente se non vicini di casa. Eppure…

Viviana Giorgi (aka Georgette Grig, lo pseudonimo con cui scrive romanzi
storici) vive a Milano, dove lavora come giornalista freelance da molti anni,
soprattutto nel campo dello spettacolo. Da qualche anno si è imbattuta nel
romance ed è stato amore a prima vista. Dalla lettura alla scrittura il passo è
stato molto breve, forse troppo. Bang Bang, Tutta colpa di un gatto rosso è il
suo primo romanzo contemporaneo, dove si parla molto di romance e si vive
come in un romance, ma in chiave decisamente ironica.
Per rivivere le emozioni del Natale in un altro racconto di Viviana Giorgi

Cranford, Alaska. Vigilia di Natale. Lucy si trova bloccata in uno sperduto


paesino di 647 abitanti, lontana dal mondo e dalla civiltà. Il suo volo è stato
cancellato causa neve e il burbero scrittore che deve intervistare non si fa
trovare. Ma quando Lucy, per caso, scopre che Kyle Hartson, Mr Bestseller, è
in città, prende una decisione: cascasse il mondo, farà quell’intervista, anche
a costo di… innamorarsi! Dopo Bang Bang, tutta colpa di un gatto rosso,
ecco il nuovo, romanticissimo racconto di Natale di Viviana Giorgi: lasciate
che vi scaldi l’anima e il cuore, come un morbido e confortevole quilt.

Viviana Giorgi (aka Georgette Grig, lo pseudonimo con cui scrive romanzi
storici) vive a Milano, dove lavora come giornalista freelance da molti anni,
soprattutto nel campo dello spettacolo. Da qualche anno si è imbattuta nel
romance ed è stato amore a prima vista. Dalla lettura alla scrittura il passo è
stato molto breve, forse troppo. Bang Bang, Tutta colpa di un gatto rosso è il
suo primo romanzo contemporaneo, dove si parla molto di romance e si vive
come in un romance, ma in chiave decisamente ironica.

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