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Capitolo 25

Le ultime certezze: Chick Corea e Keith Jarrett

A volte abbiamo assistito all’ascesa di musicisti che sono poi finiti nel dimenticatoio.
Ad esempio negli anni Cinquanta, la presenza contemporanea di figure come John Coltrane,
Sonny Rollins, ha oscurato dei solisti di grande espressività e levatura, come Hank Mobley,
Harold Land, per rimanere tra specialisti dello stesso strumento, nella fattispecie il sax tenore.

Per gli specialisti del pianoforte poteva accadere altrettanto negli anni Sessanta, quando erano in
piena ascesa Bill Evans, McCoy Tyner, Herbie Hancock, mentre il più tradizionale Oscar Peterson
continuava a stupire per il suo virtuosismo.

Invece il giovane Chick Corea riuscì ad attirare su di sé l’attenzione di critica e pubblico per il
suo eccezionale talento.

Nato nel 1941 a Chelsea, Massachusetts, quindi in piena Seconda Guerra Mondiale, Armando
Anthony Corea crebbe in una famiglia dove la musica era di casa: il padre, grande ammiratore di
Thelonious Monk, suonava la tromba e dirigeva un’orchestra da ballo locale.

Il giovane Chick tudiò i compositori eurocolti, con una preferenza per Bach e Mozart, ma
contemporaneamente veniva affascinato dai grandi del jazz: Duke Ellington, Dizzy Gillespie,
Charlie Parker e inevitabilmente Monk.

Giunto a New York poco più che ventenne, perché ammesso al corso superiore della Juillard
School of Music, quindi con solide premesse per diventare un concertista classico, frequentò la
scuola soltanto per un mese, poiché fu letteralmente “rapito” dai musicisti di jazz di stanza a New
York.

Il primo a notarlo fu il percussionista Mongo Santamaria; il musicista cubano influenzò fin da


subito il gusto del giovane pianista, che nel corso della sua lunga e fortunata carriera continuò a far
sentire nelle proprie composizioni la cosiddetta “spanish tinge”, il colore spagnoleggiante della
musica jazz.

Lo stile del giovane Corea era coinvolgente:

A) romantico ma asciutto
B) fortemente ritmico
C) dinamico e a volte scherzoso

Soprattutto a colpire era la sua tecnica solidissima, messa al servizio delle caratteristiche citate.

Seguirono altre collaborazioni di prestigio per Chick, con:

A) il flautista Herbie Mann


B) i trombettisti Blue Mitchell e Woody Shaw

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Tra i suoi partner abituali di metà anni Sessanta ricordiamo:

A) il sassofonista Joe Farrell


B) il contrabbassista Steve Swallow

Fu il sassofonista Stan Getz a dargli il coraggio di realizzare le prime incisioni come leader;
il grande interprete della bossanova lo aveva già scritturato in altre occasioni prima di coinvolgere
Corea nel suo album del 1967 Sweet Rain.

L’anno precedente però Chick aveva già dato alle stampe il suo disco d’esordio, Tones for Joan’s
Bones, con il seguente organico:

A) Chick Corea
B) Woody Shaw alla tromba
C) Joe Farrell al sax tenore e al flauto
D) Steve swallow al contrabbasso
E) Joe Chambers alla batteria

Era un disco dai colori accesi, in stile modale, con brani intensi caratterizzati da cambi di tempo e
pedali armonici; in particolare la title track “Tones for Joan’s Bones” ricordava molto da vicino i
cambi e l’atmosfera delle composizioni contemporanee del suo collega Herbie Hancock, come
“Dolphin Dance”, anche se lo stile compositivo di Corea risultava assolutamente personale fin da
allora.

Nel 1968 l’uscita di un nuovo disco, questa volta in trio, Now He Sings, Now He Sobs, con:

A) il contrabbassista Miroslav Vitous


B) il batterista Roy Haynes

In questa dimensione ridotta il pianista riuscì a trovare il suono a lui più congeniale, grazie anche
al contributo di quei musicisti straordinari, in particolare del batterista Roy Haynes, che portava
con sé un pezzo di storia del jazz, avendo suonato con Charlie Parker; in questa occasione la
musica di Corea apparve in tutto il suo splendore, rivelando soprattutto le sue qualità di
compositore.

In particolare nel brano Now He Sings, Now He Sobs si intravedono in filigrana i colori che
caratterizzeranno grandi composizioni come “Spain”, grazie al tocco secco del pianista e le
cadenze che richiamavano la musica spagnoleggiante, in particolare il flamenco.

Corea si presentava come un’evoluzione del pianismo di Bill Evans, con più energia e il fascino
latino che portava con sé grazie alle origini mediterranee.

Così alla fine degli anni Sessanta approdò alla corte di Miles Davis, prima partecipando
all’incisione di In a Silent Way (al piano elettrico insieme a Hancock, mentre Zawinul suonava
l’organo) e poi a Bitches Brew, lo storico disco che portò a termine la storica fusione tra jazz e
rock da parte del trombettista.
Nel frattempo Corea aveva preso il posto di Hancock nel gruppo live di Davis, dopo l’episodio del
malinteso capitato durante il viaggio di nozze del pianista titolare, che non rientrò in patria
adducendo la scusa di essere ammalato e non fu creduto da Davis, sebbene lo fosse davvero..

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L’esperienza con Davis terminò nel 1970 e immediatamente Chick Corea fondò i Circle, un trio
con cui si dedicò all’ improvvisazione “libera”, formato da:

A) Dave Holland al contrabbasso


B) Barry Altschul alla batteria

Al trio si aggiugeva spesso il sassofonista di Chicago Anthony Braxton.


Braxton è sempre stato esponente di quell’avanguardia più ardita e radicale, che poco o nulla ha
concesso alla facile comprensione da parte del pubblico; un musicista intellettuale e un jazzista di
grande cultura le cui musiche non sono mai state di facile lettura.

Corea era stato coinvolto dalla mania dell’improvvisazione collettiva, l’ovvio e consequenziale
sviluppo del successo che arrise al free jazz all’inizio degli anni Settanta, dopo un decennio di
sperimentazioni.
Se è vero che una parte di jazzisti si preoccupava di raggiungere il vasto pubblico strizzando
l’occhio prima al soul, poi alla bossanova e infine al rock, bisogna ricordare che moltissimi
musicisti afroamericani aderirono all’estetica della musica libera, dell’improvvisazione estrema,
indice di una tensione sociale/razziale giunta al culmine della sua storia afroamericana.

Alla giovane star sembrò d’intraprendere un’esperienza fantastica, a volte anche dolorosa, che
faceva volare alto, facendo pensare che quello fosse l’unico modo “vero” di suonare, vista la
straordinaria evoluzione della musica jazz.

E invece il sogno s’infranse nel corso di un tour europeo, proprio in Italia, in un piccolo centro
dell’appennino emiliano di cui non si ricorda nemmeno il nome: quella sera il trio Circle,
rinforzato da Braxron fu quasi costretto a fuggire, tanto la sua musica non fu gradita!

Dopo essere tonato a New York e avere dato un saggio del proprio solismo pianistico in Piano
Improvisations, una raccolta in due volumi pubblicata dalla neonata etichetta tedesca ECM nel
1971, Corea l’anno seguente si presentò con un nuovo innovativo progetto.

Nel 1972 fondò infatti i Return to Forever, una fantastica formazione con:

A) il sassofonista Joe Farrell


B) il bassista Stanley Clarke
C) il percussionista brasiliano Airto Moreira
D) la cantante Flora Purim, moglie anche lei brasiliana del percussionista Airto Moreira

Inaspettatamente il pianista aveva fuso la sua passione per la musica eurocolta con il jazz, il rock e
soprattutto i ritmie le sonorità carioca dei Moreira; questa virata verso il Brasile dava al gruppo
influenze nuove, ancora poco sfruttate nel jazz contemporaneo, fermo alla storica bossanova di
Stan Getz.

Il gruppo dei Return to Forever traghettò il neonato jazz rock verso la cosiddetta fusion, un nuovo
stile musicale in cui elementi eterogenei provenienti da vari generi confluivano naturalmente, fusi
abilmente.

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Non che Corea fosse il solo a operare questa svolta: bisogna ricordare che in quegli stessi anni
altre formazioni, come la Mahavishnu Orchestra del chitarrista John McLaughlin, stavano facendo
altrettanto.

Si trattò comunque di un esperimento assai riuscito: il tocco spagnoleggiante del pianista rimase
intatto, supportato da una tecnica imperiosa, esaltata dai ritmi incalzanti imposti dalla sezione
ritmica; la cosa che stupiva di più erano le composizioni, delle vere e proprie “ouverture”
jazzistiche, ricche di pathos, assolutamente virtuosistiche, perché ricche di:

A) contrappunti
B) parti d’insieme iper-arrangiate
C) strutture articolate
D) temi accattivanti
E) cascate di note che cadevano perfette una dopo l’altra con infallibile precisione.

Il successo fu immediato e di proporzioni clamorose: al festival di Newport del 1973 il gruppo


ebbe un applauso di venti minuti!

Se il primo disco eponimo Return to Forever conteneva brani di incommensurabile bellezza come
“Crystal Silence”, e la iperbolica title track “Return to Forever” che era un po’ il manifesto
programmatico del gruppo, nel secondo album, intitolato Light as a Feather, sempre del 1972, fu
incisa per la prima volta la mitica “Spain”, la composizione più rappresentativa di Chick Corea.
Altra perla di questo secondo disco dei Return to Forever fu il brano “500 Miles High”.

Al di là delle composizioni l’aspetto pianistico era di assoluto rilievo; a suo agio sia con lo
strumento acustico che con quello elettrico Corea impressionava per l’inesauribile capacità
improvvisativa e la sua velocità d’esecuzione

Il “virtuosismo” ha sempre rappresentato un mito tra gli stessi musicisti; anche il pubblico ne è
tradizionalmente affascinato, tanto da tributare grandi onori a quegli strumentisti che quando
suonano sembrano volare: la sensazione di assoluta padronanza del mezzo assicura l’ammirazione
dell’ascoltatore, che rimane letteralmente affabulato, forse perché grazie alla velocità ciò che il
musicista esegue sfugge al suo tentativo di codifica e gli sembra perciò straordinario.

Tra la fine degli anni Sessanta e per tutto il nuovo decennio Corea si affermò come il pianista più
interessante del momento: in quanto a popolarità presso il grande pubblico non solo americano,
prevalse per qualche tempo su Hancock e Jarrett, che allora cominciava la sua ascesa; assai
preparato tecnicamente, continuava ad acquistare credito e sempre nuovi estimatori anche grazie
alla fama che gli derivava dalle sue composizioni.

Nel 1976, al culmine della popolarità dei Return to Forever, Corea registrò con quegli stessi
musicisti un album a suo nome; il titolo era The Leuprechaun, una sorta di gnomo o personaggio
delle favole della mitologia irlandese. Questo lavoro era di ampio respiro orchestrale, perché oltre
ad includere i musicisti della sua band fusion includeva:

A) una sezione di cinque brass (tre trombe e due tromboni)


B) un sax (il fedele Joe Farrell, che era anche un ottimo flautista)
C) un quartetto d’archi

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Al basso Eddie Gomez si alternava con Anthony Jackson, mentre alla batteria sedeva il solido
Steve Gadd; l’uso strumentale della voce di Gayle Moran, sua moglie, cantante e tastierista che
aveva fatto parte della Mahavishnu di Mclaughlin, completava il sound del disco: il suo ruolo era
quello di eseguire vocalizzi e talvolta la lead voice del quartetto d’archi.
Soltanto in “Soft and Gentle”, una composizione della stessa Moran, la cantante interpretava un
regolare testo.
Sembrava quasi musica da film, con una scrittura contemporanea che virava verso un’efficace
fusion elettrica.
L’album vinse il Grammy Award come migliore disco strumentale dell’anno.

Sempre nel 1976 Corea diede alle stampe un altro disco altrettanto importante, My Spanish
Heart; l’album riprendeva il filo del discorso legato alla “spanish tinge”, una delle caratteristiche
peculiari del pianista.
Anche questo Lp fu realizzato con un organico allargato, con:

A) una sezione di brass (tre trombe, un trombone)


B) un quartetto d’archi (due violini, viola e cello)

Al basso figurava nuovamente Stanley Clarke, mentre alla batteria fu confermato Steve Gadd; la
sezione ritmica era arricchita dal percussionista Don Alias e il batterista Narada Michael Walden.
Alla voce ancora una volta la moglie, Gayle Moran e al violino un altro musicista proveniente
dalla seconda formazione della Mahavishnu Orchestra, il violinista francese Jean-Luc Ponty.

Sebbene molto accattivante, questo doppio album non vinse alcun premio ma è rimasto uno dei
lavori più famosi di Corea; quantomeno un brano contenuto nel lato 3 è passato alla storia:
“Armando’s Rhumba”.

Un nuovo importante riconoscimento fu invece tributato al disco del 1978 intitolato Friends,
registrato stavolta in quartetto con:

A) Joe Farrell (sax e flauto)


B) Eddie Gomez al contrabbasso
C) Steve Gadd alla batteria

Grazie a Friends, che presentava in copertina i quattro componenti della band come Puffi
musicisti (personaggi dei cartoni animati creati dal disegnatore belga Peyo), Corea si vide
attribuire il secondo premio Grammy riservato al miglior disco strumentale dell’anno.
Nell’album era contenuta una magnifica composizione, “Sicily”, ispirata chiaramente all’Italia,
sua terra d’origine, dal titolo; interpretato successivamente dal cantautore Pino Daniele, che
aggiunse un testo, il brano vinse un premio nel nostro Paese, la “Targa Tenco”, nel 1993.

Nello stesso anno Corea pubblicò un altro disco bellissimo, un po’ sulla falsariga dei precedenti
The Leprechaun e My Spanish Heart, nel senso che le sue composizioni (ad eccezione di due brani
della moglie), furono suonate ancora una volta da un ampio organico strumentale:

A) la sezione ritmica (piano, basso, batteria)


B) un sax (sempre Joe Farrell)
C) una sezione fiati con quattro brass (3 trombe e 1 trombone)
D) un quintetto d’archi (2 violini, 2 viole e un cello).

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Il titolo del disco riprendeva il gusto favolistico già evidenziato in passato: infatti s’intitolava The
Mad Hatter, cioè “Il cappellaio matto”, personaggio tratto da “Alice nel paese delle meraviglie”
di Lewis Carroll.

Al di là degli intenti programmatici, questo album conteneva la solita musica affascinante e


popolare allo stesso tempo; la capacità di toccare le corde del cuore degli ascoltatori è sempre stata
una dote notevole di Chick Corea, forse la più rilevante.
Il disco conteneva il bellissimo brano “Humpty Dumpty”, dalla melodia dinamica e l’andamento
brillante, un pezzo d’effetto, di difficile esecuzione.
In questo lavoro discografico ci fu la straordinaria partecipazione del collega Herbie Hancock, al
piano elettrico in due brani.

Gli anni Ottanta furono contrassegnati da un’attività poliedrica per il pianista; il decennio si aprì
con Three Quartets, un disco articolato e ambizioso pubblicato nel 1981, stavolta realizzato in
quartetto con:

A) Michael Brecker al sax tenore


B) Eddie Gomez al basso
C) Steve Gadd alla batteria

L’intento di Corea era quello di realizzare un album ispirato ai quartetti d’archi del periodo
Barocco, Classico, Romantico e Impressionista, utilizzando però una strumentazione jazz.

Due di queste composizioni, il “Quartet No.2 – Part I” e il “Quartet No. 2 –Part II” erano
dedicate rispettivamente a Duke Ellington e John Coltrane.
Sebbene il disco propendesse decisamente verso un linguaggio più jazzistico la prima traccia
presentava invece un vamp in ¾ di chiara matrice rock.

Nello stesso periodo iniziò una duratura collaborazione con il vibrafonista Gary Burton, suonando
in duo con lui sia in concerti live che in studio

La successiva collaborazione vide l’incontro con il pianista e compositore austriaco Friederich


Gulda; personaggio anticonvenzionale quanto geniale, Gulda era un nusicista eurocolto che fin
dagli anni Cinquanta aveva spesso flirtato con il jazz, scrivendo parecchia musica in un linguaggio
che si poneva al confine tra i due mondi.
Dalla loro collaborazione nacque The Meeting, album pubblicato nel 1983.
L’anno dopo l’esperimento fu replicato, questa volta prendendo come spunto la musica di Mozart;
questo secondo disco insieme fu intitolato Mozart Double Piano Concerto Fantasy for Two
Pianos.

Tuttavia l’operazione commercialmente più riuscita fu sicuramente il progetto Elektric Band; si


trattava di un nuovo quartetto, orientato decisamente verso un sound decisamante elettrico:

A) Chick Corea suonava esclusivamente tastiere e sintetizzatori


B) Il bassista John Patitucci imbracciò uno strumento inedito, a sei corde
C) Il batterista Dave Weckl alternava la batteria acustica all’electric drum
D) I chitarristi Scott Henderson e Carlos Rios erano invece ottimi solisti di chitarra elettrica

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Il disco d’esordio del 1986, dal titolo eponimo The Chick Corea Elektric Band fece epoca; il
sound elettrico esaltava il virtuosismo assoluto dei musicisti del gruppo; un brano in particolare,
“Got A Match?”, presentava un tema “alla Bach” contaminato con sonorità estremamente
contemporanee e attuali, suonato con l’abituale slancio e ineffabile abilità dal pianista e da tutta la
band.
All’ Elektric Band seguì poi negli anni Novanta una meno interessante Acoustic Band, con più o
meno gli stessi musicisti, ma l’utilizzo esclusivo di strumenti acustici.

Iniziò da quel gruppo l’attività di talent scout di Corea, che da quel momento in poi scoprì e lanciò
numerosi talenti, non soltanto coinvolgendoli nei propri gruppi ma anche come semplice
produttore.
Citiamo tra i suoi pupilli:

A) il basssista e contrabbassista John Patitucci


B) il batterista Dave Weckl
C) il chitarrista Scott Henderson
D) il pianista Brad Meldhau
E) in tempi recenti il contrabbassista Avishai Cohen

Keith Jarrett

Se Chick Corea ha avuto una carriera favolosa (ed è ancora attivissimo sia sul piano discografico
che nei concerti live), ma in qualche modo le sue proposte negli ultimi anni hanno manifestato una
certa ripetitività, nel caso di Keith Jarrett possiamo parlare di un mito contemporaneo e
intramontabile.

Infatti la sua fama, iniziata negli anni Settanta, non ha conosciuto flessioni e il prestigio di questo
musicista, che raramente si è allontanato dalla dimensione acustica, è andato crescendo sempre di
più, fino a rappresentare una sorta di figura “intoccabile” nel mondo del jazz.
Ogni suo concerto è un evento da non perdere, perché rappresenta l’improvvisazione allo stato
puro e l’approccio del pianista ha un che di mistico e trascendentale.

Jarrett nacque ad Allentown in Pennsylvania, l’8 maggio del 1945, il V-Day, giorno della vittoria
degli Stati Uniti sulla Germania che segnò la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Keith era il primo dei cinque figli di una famiglia multietnica, austroungarica per parte materna e
padre afroamericano.
La musica era un’inclinazione familiare, la nonna materna suonava il pianoforte e una zia lo
insegnava; il padre, che non aveva potuto studiare a causa della Grande Depressione era un grande
appassionato, mentre la madre, che aveva studiato fin da piccola, cantava in alcuni cori locali.
La formazione del primogenito dei Jarrett, Keith fu di tutto rispetto:

A) a tre anni iniziò lo studio del pianoforte


B) svolse regolari studi classici
C) si esibì varie volte all’Academy of Music di Philadelphia e al Madison Square Garden
D) a nove anni tenne il suo primo concerto
E) dai dodici anni iniziò a suonare come professionista
F) dai quindici intraprese gli studi di composizione

Dopo aver studiato da Chopin a Bartòk capì però che la sua strada era l’improvvisazione.

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Si iscrisse per un anno al Berklee College of Music di Boston, poi sposò la sua compagna di
scuole superiori Margot Erney e si trasferì con lei a New York; nel frattempo aveva vinto una
borsa di studio per frequentare i corsi della famosa insegnante Nadia Boulanger a Parigi, ma
rifiutò.

Nella Grande Mela iniziò a suonare al Village Vanguard, con il clarinettista Tony Scott, al
secolo Antonio Sciacca, musicista di origine italiana ma naturalizzato americano, che aveva
collaborato con Billie Holiday e vinto negli anni Cinquanta diversi referendum jazzistici,
inglobando il linguaggio bebop nel suo strumento, solitamente non adatto a quello stile.

Notato a una jam session da Art Blakey, entrò a far parte dei Jazz Messengers guidati dal
batterista, ma vi rimase soltanto quattro mesi; in quel periodo il gruppo faceva una sorta di hard
bop modernizzato, ad alto tasso di funky.
Quella formazione dei Jazz Messengers era completata da:

A) Chuck Mangione alla tromba


B) Frank Mitchell al sax tenore
C) Reggie Johnson al contrabbasso

Nel 1965 Jarrett entrò a far parte del quartetto di Charles Lloyd, un sassofonista e flautista
afroamericano d’indubbio fascino, anche perché seppe ben interpretare il momento storico e
partecipare al movimento culturale degli hippy, o “controcultura” giovanile.
Lloyd nei primi anni Sessanta era stato direttore musicale del gruppo di Chico Hamilton, leader
di uno dei gruppi più interessanti della West Coast, che annoverava in organico un altro musicista
di grande spessore, il chitarrista di origine ungherese Gabor Szabo, che con le sue accordature
particolari e un linguaggio innovativo influenzò grandemente i successivi chitarristi elettrici.
Inoltre Lloyd era stato il primo mentore di tre musicisti divenuti poi assai noti grazie a Davis:

A) Herbie Hancock
B) Ron Carter
C) Tony Williams

Con loro aveva registrato due dischi a proprio nome, per la Columbia Records.

Il nuovo quartetto formato dal sassofonista con:

A) Keith Jarrett al pianoforte


B) Cecil McBee al contrabbasso, poi sostituito da Ron McClure
C) il batterista Jack DeJohnette

grazie a una musica aperta, spesso ipnotica e orientaleggiante, con lontani echi di Coltrane e
frequenti richiami a mondi lontani ed esotici, con la ricerca di sonorità etniche, divenne molto
popolare, e i suoi musicisti insieme a lui.

Dopo alcuni album la collaborazione con il quartetto di Charles Lloyd finì; nel frattempo Jarrett
aveva fondato un suo trio, con il contrabbassista Charlie Haden, esponente di punta del free jazz
e il batterista Paul Motian, già componente del trio di Bill Evans.

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Proprio Bill Evans, pianista bianco affermatosi come nuovo e sensibile interprete della formula
piano-contrabbasso-batteria era uno dei principali riferimenti stilistici di Keith, insieme a:

A) Ahmad Jamal
B) McCoy Tyner

Ma forse più di tutti fu Paul Bley il musicista che influenzò per certi versi la concezione musicale
e jazzistica di Keith Jarrett, specialmente per quanto riguardava il suo lato più intimo, seppur
bilanciato da alcune spigolosità che ricordano il linguaggio della musica d’avanguardia
contemporanea.

Con Haden e Motian, il pianista di Allentown registrò Life Between The Exit Signs nel 1967.

Poi iniziò la collaborazione di Keith Jarrett con il grande Miles Davis, il quale avendo
apoditticamente dichiarato che il pianoforte acustico era ormai uno strumento che apparteneva al
passato, lo fece cimentare prevalentemente con il piano elettrico e all’organo; con il trombettista
Jarrett registrò due Lp:

A) Miles at the Fillmore nel 1970


B) Like-Evil nel 1971

La musica prodotta da Davis in quel periodo risultava selvaggia e psichedelica, dal momento che il
trombettista era reduce dal clamoroso successo di Bitches Brew e intendeva proseguire i suoi
esperimenti sulla fusione tra jazz e rock.

Con Davis finì nel 1971; nello stesso anno l’amore per la ricerca di dimensioni alternative portò
Jarrett a fondare un duo sperimentale con il batterista Jack DeJohnette, formato quindi soltanto da
tastiere e percussioni, denominato Ruta and Daitya, con cui anticipò di fatto la moda della world
music.

Sempre nel 1971 fu prodotto un altro pregevole disco, voluto dall’Atlantic, che mise insieme due
artisti sotto contratto da questa etichetta discografica: Gary Burton & Keith Jarrett; nel progetto
figuravano oltre ai due leader:

A) il bassista Steve Swallow


B) il batterista Bill Goodwin
C) il chitarrista Sam Brown.

Passando alla Columbia Jarrett assunse l’impegno di realizzare due album; il primo fu un
interessante lavoro con Dewey Redman, Haden, Motian, Sam Brown e Airto Moreira più una
sezione di brass e di archi, intitolato “Expectations”.

Il secondo non fu mai realizzato perché il pianista avrebbe voluto fare un disco in piano solo; dal
momento che l’idea non venne avallata dal produttore George Avakian, Jarrett rinunciò a favore di
Herbie Hancock.

Ma “le aspettative” a cui facevano riferimento il titolo del disco inciso con la Columbia stavano
per essere soddisfatte di lì a poco: infatti nello stesso periodo Keith Jarrett aveva incontrato
Manfred Eicher, il fondatore dell’etichetta discografica tedesca ECM, che lo avrebbe prodotto e
valorizzato enormemente nei decenni successivi.

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Grazie all’ECM nel 1972 vide la luce Facing You, un disco inciso da Jarrett solo con il suo
pianoforte.
A questo disco fece seguito Solo Concerts, album live che conteneva le registrazioni effettuate nel
corso di due concerti tenuti dal pianista a Brema e Losanna; si trattava di una musica strutturata
come una suite, che spaziava dal gospel a clusters dissonanti e talvolta rabbiosi, mischiando
melodie folk e country con i ritmi del boogie-woogie.
Il cofanetto, che conteneva tre Lp, vendette benissimo.

Visto il successo di queste incisioni Jarrett continuò a realizzare dischi da solo:

A) Staircase nel 1973


B) una raccolta di 10 Lp registrati live in Giappone, intitolata Sun Bear Concerts, pubblicata
nel 1976

Il più famoso di tutti fu The Koln Concert, registrato a Colonia, in Germania e pubblicato
dall’ECM nel 1975; il successo di quest’album fu dovuto ad una piccola rivoluzione stilistica
operata da Jarrett, che in quell’occasione rinunciò alla sofisticata ricerca timbrica dei dischi
precedenti a favore di una maggiore semplicità e immediatezza.
La prima parte era una lunga suite di musica dai colori cangianti, ottenuti grazie ad escursioni
dinamiche, frammenti di melodie ritmiche e ipnotiche, con echi di ballate gospel; nella seconda
parte Jarrett creò una serie di divagazioni intorno al tema principale, divenuto poi una sua
composizione autonoma intitolata “Memories of Tomorrow”, sviluppate organicamente,
componendo così un affascinante quadro minimal-intimista.

La cosa più interessante di questi album registrati in solitudine da Jarrett era l’intento
programmatico del pianista: realizzare delle performance totalmente improvvisate.
Il pianista dichiarava di prepararsi a questi appuntamenti cercando di fare “tabula rasa” delle
proprie reminiscenze jazzistiche, evitando di utilizzare materiale melodico già sfruttato in
precedenza; se durante l’happening musicale gli si presentava qualche tema esistente si sforzava di
evitarlo accuratamente, poiché tutto, dalla melodia alle variazioni doveva assolutamente essere
creato sul momento.

Negli anni Settanta l’attività di Keith Jarrett divenne molto intensa; oltre a proseguire le proprie
sperimentazioni in piano solo lavorò stabilmente con due quartetti, uno americano e l’altro
europeo.

Aggiungendo il sassofonista Dewey Redman al suo trio di fine anni Sessanta con il
contrabbassista Charlie Haden e il batterista Paul Motian, il pianista aveva creato il suo
“Quartetto americano”; con questa formazione già all’inizio degli anni Settanta Jarrett aveva
realizzato tre album per l’Atlantic:

A) El Juicio, registrato nel luglio del 1971


B) Birth, inciso nelle stesse sessioni di registrazione di El Juicio, quindi anch’esso del 1971
C) The Mourning of a Star, inciso nell’agosto dello stesso anno

Seguirono Backhand e Death and the Flower, entrambi del 1974; in questi dischi si aggiunse alla
formazione il percussionista brasiliano Guilherme Franco.

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A metà del decennio Jarrett registrò ancora con il quartetto americano:

A) prima un Lp per la Impulse!, intitolato Mysteries, nel 1975


B) l’anno successivo The Survivors Suite, questa volta con l’etichetta tedesca ECM.

Poi seguì ancora un disco live, Eyes of the Heart, pubblicato dall’ECM e infine due album
registrati in studio ancora con la Impulse!:

A) Byablue del 1976


B) Bop-Be, uscito sempre nel 1976

Nello stesso periodo però il pianista intraprese un’intensa e fruttuosa collaborazione con tre
musicisti europei:

A) Jan Garbarek, sassofonista norvegese


B) Palle Danielsson al contrabbasso
C) Jon Christensen alla batteria

Con i due musicisti danesi e il sassofonista scandinavo Keith Jarrett diede vita al cosiddetto
“Quartetto europeo”, con i quale realizzò dischi bellissimi, in cui l’approccio musicale risultava
totalmente differente rispetto a quello statunitense.
Le algide sonorità proposte dai tre musicisti nordeuropei ispirarono al pianista americano una
musica diversa, talvolta di stampo quasi eurocolto, seppure proiettata verso una concezione libera,
improvvisata e creativa.

Questo quartetto incise la sua prima opera, dal titolo Belonging nel 1974, seguita dal capolavoro
del 1976 My Song e da tre dischi live pubblicati sempre dall’ECM nel 1979:

A) Sleeper
B) Personal Mountains
C) Nude Ants

L’album My Song fu un disco memorabile, con temi bellissimi, a partire dalla title track; ma un
pò tutti i brani di questo disco erano meravigliosi, grazie all’apporto puntuale dei suoi musicisti e
soprattutto alla scrittura abile e frastagliata del leader, che non rinunciava a venature gospel e
country.
Infatti anche gli altri temi di questo disco, “Questar”, “Tabarka” e “Country” erano di gran livello,
nati da spunti lirici felicissimi sui quali il quartetto riusciva a costruire una musica “alta” che
risultava contemporaneamente popolare e ricercata.
Soprattutto il sassofonista Jan Garbarek, che si era già fatto notare negli anni Sessanta come un
musicista fortemente influenzato dal free jazz ed aveva partecipato alle sperimentazioni elettriche
del compositore George Russell in Scandinavia, trasse da questa collaborazione con il pianista
americano un’immensa quanto meritata popolarità

In mezzo a questi progetti Jarrett trovò lo spazio per realizzare altri episodi musicali
interessantissimi, come alcuni dischi prodotti sempre dall’ECM, che contenevano sue
composizioni per orchestra d’archi e solisti jazz; il primo lavoro fu Luminessence del 1974, in cui
si aggiungevano all’ensemble sinfonico le improvvisazioni del sassofono di Jan Garbarek.

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Nel successivo album, Arbour Zena del 1975, oltre a Garbarek e all’orchestra d’archi il pianista
volle anche il contrabbassista Charlie Haden, componente storico del suo quartetto americano.

Con questi lavori Jarrett diede vita a una sorta di riuscita “third stream” contemporanea,
producendo atmosfere musicali che rievocavano i paesaggi incantati del Nord Europa; i progetti si
rivelarono pagine musicali rarefatte ma piene di lirismo, con lunghe composizioni del pianista,
interpretate con solennità ed estrema pacatezza dall’intero ensemble orchestrale.
Sebbene le partiture scritte fossero la struttura portante di quei progetti, le improvvisazioni di
Jarrett e degli altri solisti (Garbarek e Haden) conferirono a quella musica un forte senso di
apertura e indeterminatezza che per tradizione caratterizzano il jazz.

Pur non essendo riconducibili direttamente alla musica afroamericana, questi dischi rimangono tra
le migliori produzioni jazz mai realizzate in Europa; l’interazione tra archi e solisti era tangibile,
curatissima, tanto che i vari episodi che componevano questi album formavano delle composizioni
del tutto coerenti e unitarie.

Gli anni Ottanta si aprirono con la nascita di un nuovo progetto, un trio “canonico” composto da
pianoforte, contrabbasso e batteria; si trattava di una formazione dal taglio più classico rispetto
alle precedenti esperienze del pianista, che tuttavia sarebbe entrata di diritto tra i gruppi
fondamentali della storia del jazz, alla pari degli Hot Five di Armstrong, del quartetto di John
Coltrane e del secondo quintetto di Miles Davis.

Questa volta Keith Jarrett volle con sé il bassista bianco Gary Peacock, musicista famoso per
essere stato coinvolto in mille avventure del jazz più creativo e meno conservatore, da Bill Evans a
Don Cherry, Steve Lacy e Paul Bley.
A completare l’organico fu chiamato un amico con cui il pianista aveva condiviso gli esordi, nel
quartetto di Lloyd, il batterista afroamericano Jack DeJohnette.
Nel 1983 decise di registrare con loro un album di standard jazz, intitolato semplicemente
Standards, Volume I; a questo disco fecero seguito immediatamente Standards, Volume II e
Changes, registrati nella medesima sessione.

Così prese vita quella che a tutt’oggi è la formazione più longeva di Jarrett, lo “Standard Trio”.

Il nuovo gruppo s’ispirava innanzitutto al trio del pianista Ahmad Jamal, formazione che aveva già
influenzato Davis per tutti gli anni Cinquanta, per la sua linearità e l’abbondanza di idee
melodiche e multitonali.

Ma soprattutto lo Standard Trio riprendeva il discorso lasciato interrotto da Bill Evans, eroe del
pianoforte jazz scomparso nel 1980; infatti come già aveva fatto in passato mirabilmente il
pianista bianco, Jarrett desiderava reinterpretare il songbook dei grandi compositori di canzoni
classiche americane, da Jerome Kern a Rodgers e Hart, passando per Cole Porter, Kurt Weill e
Sammy Cahn.

Gli “standard” o “evergreen”, altrimenti detti “canzoni americane classiche”, sono da sempre stati
un banco di prova per i jazzisti, a cominciare dagli anni Trenta, quando il mercato discografico
con sede a Tin Pan Alley, la “via della padella di stagno” di New York, impose nel mondo lo stile
e la produzione musicale “leggera” statunitense; si trattava di canzoni di pregevole fattura,
risultato della collaborazione di abili musicisti e poetici autori di testi.

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Soprattutto per l’efficacia delle strutture armoniche, si diffuse la consuetudine da parte dei
musicisti jazz di utilizzare i capolavori prodotti da grandi compositori “di professione” come base
per le proprie improvvisazioni e la pratica si protrasse dalla Swing Era fino all’inizio degli anni
Sessanta.
Per tutto quel decennio aleggiò un’aria nuova nel campo della musica afroamericana, che
imponeva di abbandonare tutto ciò che si era suonato in precedenza; tuttavia dopo una decina
d’anni gli standard ricomparvero, quasi ad attestare il valore della tradizione per quei musicisti che
sceglievano il jazz come loro musica d’elezione.

Gli standard si erano sempre suonati, rinnovandosi nel passaggio da una generazione all’altra,
spesso affrontati con stili diversi ma partendo dal medesimo presupposto, quello di essere temi
noti sui quali improvvisare, anche perché costruiti su giri armonici che funzionano sicuramente: il
vantaggio di eseguire qualcosa di conosciuto metteva in condizione l’ascoltatore di valutare
effettivamente la creatività dell’esecutore, offrendogli la possibilità di confrontare e apprezzare
nuove versioni di quei brani che costituiscono la tradizione jazzistica.

La lettura degli standard da parte del trio di Jarrett avveniva sempre con estrema naturalezza,
attraverso un procedimento di continua invenzione, simile a un gioco; in realtà pur esprimendosi
con un linguaggio apparentemente semplice i musicisti approcciavano il materiale tematico con la
massima concentrazione:

A) il pianista esplorava le armonie dei brani con la consueta sapienza


B) il contrabbasso agile e frastagliato di Peacock interagiva continuamente con il leader,
proponendo nuove soluzioni oppure assecondando le sostituzioni armoniche di Jarrett
C) il lavoro alla batteria di DeJohnette saldava insieme le idee degli altri due musicisti,
garantendo swing e sostegno senza mai strafare

Il risultato fu subito magico!

Il fatto che a suonare gli standard fossero tre jazzisti che avevano preso parte ai movimenti di
avanguardia musicale degli anni Sessanta offriva realmente delle nuove letture a quelle canzoni; la
grande libertà improvvisativa consentiva letteralmente di reinventare i brani in repertorio, come
accadde per esempio alla ballad “God Bless The Child”, trasformata in un pezzo contemporaneo
dalle sonorità funky e rhythm’n’blues.

Nei brani incisi dal trio tutte le parti venivano riconsiderate e trattate con uguale importanza, a
partire dalle introduzioni di pianoforte, veri e propri preludi “classici”, con procedimenti fugati e
invenzioni a più voci, retaggio della passione di Jarrett per la musica eurocolta, a cui il pianista si
era da sempre dedicato parallelamente al jazz.
Questi prologhi inventati introducevano naturalmente i temi, eseguiti con insuperabile maestria, e
le successive variazioni del pianista, che si alternava nei soli con il contrabbasso.
Una delle migliori introduzioni fu quella di “Stella By Starlight”, contenuta in Standards Live del
1985.

Notevoli erano anche le code, che spesso prolungavano i brani di qualche minuto; memorabile fu
quella inventata dal trio su “Autumn Leaves” di Kosma/Prevert, da Still Live del 1985, che
presentava marcati accenti latini, un mirabile esempio della “spanish tinge” del jazz.
Anche negli assoli i tre musicisti davano il meglio di sé, improvvisando con l’entusiasmo di chi
suona un brano per la prima vollta: ne scaturivano assoli carichi di tensione e sempre “freschi”,
innovativi, privi di qualsiasi routine.

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Jarrett e i suoi colleghi interpretavano gli standard come se fossero realmente proprie
composizioni, presentate al pubblico per la prima volta!

Tra i brani riproposti ricordiamo:

A) My Funny Valentine
B) When I Fall In Love
C) In Love in Vain
D) Autumn Leaves
E) Stella By Starlight
F) The Song Is You
G) If I Should Lose You
H) All The Things You Are
I) Love Letters
J) I Fall In Love Too Easily
K) It Never Entered My Mind
L) The Way You Look Tonight

Questi sono soltanto una parte dei titoli proposti nei dischi dello Standards Trio; come si vede
erano brani famosissimi, che già avevano conosciuto svariate letture, eppure quelle di Jarrett e soci
sembravano canzoni del tutto nuove.

Lo Standards Trio realizzò una serie impressionante di dischi in studio, alternati con degli album
live, registrati dal vivo, tutti prodotti dall’etichetta europea ECM:

A) Standards, Vol. 1, del 1983


B) Standards, Vol. 2, del 1983
C) Changes, del 1983
D) Standards Live, Live del 1985
E) Still Live, Live del 1985
F) Changeless, Live del 1987
G) Standards in Norway, Live del 1989
H) Tribute, Live del 1989
I) The Cure, Live del 1990
J) Bye Bye Blackbird, del 1991
K) At the Deer Head Inn, Live del 1992, registrato con Paul Motian alla batteria
L) Keith Jarrett at the Blue Note, Live del 1994
M) Tokio ’96, Live del 1996
N) Whisper Not, Live del 1999
O) Inside Out, Live del 2000
P) Yesterdays, Live del 2001
Q) Always Let Me Go, Live del 2001
R) My Foolish Heart, Live del 2001
S) Up for It, Live del 2002
T) The Out-of-Towners, Live del 2004
U) Somewhere, Live del 2009
Quasi tutti gli album registrati con questo trio proponevano esclusivamente degli standards;
facevano però eccezione Changes del 1983 e Changeless del 1987, che presentavano brani

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originali di Jarrett; d’altronde già nel disco Standards Vol. 2 del 1983 compariva “So Tender”,
un’altra bellissima composizione del pianista.

Abbiamo accennato alla passione di Jarrett per la musica eurocolta, un campo in cui il pianista si
era volentieri cimentato come compositore, realizzando dischi come Luminessence e Arbour Zena,
che abbiamo descritto in precedenza; le incisioni di questo tipo, comprendenti cioè sue
composizioni originali eseguite da organici sinfonici proseguirono, con The Celestial Hawk,
eseguito nel 1980 dalla Syracuse Symphony Orchestra con Jarrett al pianoforte, forse il maggior
contributo del pianista come compositore “serio”, seguito nel 1993 da Bridge of Light.

Oltre che in veste di autore, in questo campo Jarrett ha lasciato delle tracce importanti anche come
esecutore, nonostante il suo nome resti legato indissolubilmente al jazz.

Soprattutto sulle composizioni di Johann Sebastian Bach si è concentrata l’attività di Keith


Jarrett come interprete dei compositori “classici” europei; infatti oltre a incidere l’opera completa
“Das Wohltemperierte Klavier” (“Il clavicembalo ben temperato”), in due volumi pubblicati
rispettivamente nel 1987 e nel 1990, Jarrett registrò altre celebri pagine del compositore tedesco:

A) Le variazioni Goldberg, nel 1989


B) 3 Sonaten fur Viola da Gamba und Cembalo, ancora nel 1991
C) Le suite francesi, sempre del 1991

La musica di Georg Friedrich Handel offrì a Jarrett lo spunto per due dischi, come sempre
prodotti dalla ECM:

A) Six Sonatas for Recorder and Harpsichord, del 1990


B) Suites for Keyboard del 1996

Di rilievo furono i 24 Preludi e Fughe di Shostakovich, incisi nel 1991.

Anche Mozart fu brillantemente interpretato da Jarrett in due dischi degli anni Novanta:

A) Piano Concertos, Masonic Funeral Music and Symphony in G minor del 1994
B) Piano Concertos and Adagio and Fugue del 1996

Il 13 febbraio 1995 Jarrett ebbe forse la sua più grande affermazione come artista “totale”, che
travalicava i generi musicali: fu il primo solista di jazz a tenere un concerto nel tempio della lirica
in Italia, il Teatro alla Scala di Milano. L’evento fu documentato da un disco live, ovviamente
prodotto dall’ECM.

Questo interesse profondo per la musica colta risaliva ai primi anni Settanta, quando l’artista
dichiarava che Bach e la folksinger canadese Joni Mitchell erano i suoi artisti preferiti.
L’artista dichiarò di potersi cimentare con Bach grazie al fatto di suonare il clavicembalo, poiché
aveva approfondito la conoscenza della musica del compositore tedesco direttamente su quello
strumento.
Tra l’altro oltre a suonare il pianoforte Keith Jarrett si è cimentato con due strumenti antichi:

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A) l’organo barocco
B) il clavicordo

Infatti in Hymns/Spheres (ECM, 1976) registrò alcune improvvisazioni sull’organo del


diciottesimo secolo dell’abbazia benedettina di Ottobeuren, in Germania, in Baviera;
successivamente in Book of Ways, pubblicato sempre dall’ECM nel 1986, realizzò un disco per
solo clavicordo.

Altre passioni di Jarrett sono state il sax soprano e i flauti dolci, strumenti utilizzati spesso in
campo jazzistico, sin dai tempi in cui faceva parte del quartetto di Charles Lloyd; anche qualche
anno dopo nei concerti con il quartetto americano il musicista si esibiva spesso al sax soprano e
alle percussioni.
Il culmine di queste evasioni dalla tastiera fu Spirits, un doppio cd del 1985, registrato da solo e
prodotto dalla solita ECM in cui Jarrett creò una suggestiva world music universale suonando
soltanto strumenti diversi dal pianoforte:

A) flauti
B) sassofoni
C) percussioni
D) tablas

Musicista dal carattere piuttosto schivo e introverso, Jarrett ha sofferto verso la fine degli anni
Novanta della “Sindrome da affaticamento cronico”, patologia di recente definizione, che l’ha
costretto a vivere in ritiro nella sua casa per lunghi periodi di tempo.

Grazie a questo isolamento il pianista raggiunse la completa guarigione e festeggiò il traguardo


incidendo nel 1998 l’album The Melody at Night, With You, un regalo di Natale per la moglie.
Era il primo disco per piano solo in cui abbandonava le improvvisazioni e le composizioni “colte”
per suonare invece vecchie canzoni e standard.

Keith Jarrett è diventato famoso anche per i suoi comportamenti sul palco durante i concerti; quasi
sempre le sue esibizioni dal vivo sono caratterizzate da continui vocalizzi, degli acuti lamenti con
cui il pianista inconsciamente accompagna i fraseggi.
D’altra parte anche i contorcimenti, i movimenti spesso plateali e la postura innaturale che il
pianista assume, alzandosi dallo sgabello e quasi amoreggiando con il piano confermano quanto il
suo rapporto con il pianoforte sia “fisico”.

Soprattutto negli ultimi tempi il suo atteggiamento ostile nei confronti del pubblico ha accresciuto
la fama di artista sublime, ma dal pessimo carattere: in molte occasioni ha chiesto il più assoluto
silenzio, di non fumare, di non scattare fotografie con i flash, addirittura di non tossire!
Quando i suoi ammonimenti non sono stati raccolti il pianista ha interrotto l’esibizione; Jarrett ha
però dichiarato che non fosse affatto sua intenzione maltrattare gli spettatori, motivando il proprio
nervosismo con il fatto che ogni possibile distrazione gli causava la perdita della melodia che
aveva in testa.

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