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Capitolo 12

La rivoluzione del Bebop

Il nuovo stile aveva avuto dei precursori in alcuni solisti affermatisi sul finire degli anni ’30:

A) Il sassofonista Lester Young


B) Il chitarrista Charlie Christian
C) Il contrabbassista Jimmy Blanton
D) Il trombettista Roy Eldridge

Ognuno di questi musicisti diede un contributo importante per l’evoluzione del proprio strumento, talvolta
suggerendo o anticipando i futuri sviluppi della musica Jazz.

La gestazione del Bebop avvenne però a New York a partire dal 1940, in un locale chiamato Minton’s
Playhouse, ricavato in una sala dell’Hotel Cecil.
Era ancora l’epoca delle jam session e siccome gran parte dei frequentatori del locale erano musicisti, questi
avevano libero accesso al palco.
Il locale così scritturava soltanto una minuscola house band, in pratica una sezione ritmica formata per lo più
dal batterista Kenny Clarke, dal pianista Thelonious Monk e dal bassista Nick Fenton, a cui si aggiungeva
Joe Guy alla tromba.
Su tutti spiccava il chitarrista Charlie Christian, giunto a New York dall’Oklahoma perché scritturato da
Benny Goodman.
Chiunque poteva salire in pedana e così, specialmente di lunedi (quando le big band riposavano) si faceva la
coda per suonare.

Tra gli habitué c’erano alcune grandi stelle del jazz classico:

A. Il sassofonista tenore Coleman Hawkins, all’apice del successo


B. l’autentico virtuoso Art Tatum, soprannominato negli anni Trenta “L’Angelo del pianoforte”
C. Il pianista Teddy Wilson
D. L’arrangiatore polistrumentista Benny Carter (sassofonista ma si dedicò per un periodo anche alla
tromba)
E. Chu Berry (sax tenore, solista in numerose orchestre di prima grandezza)
F. Mary Lou Williams, pianista ed arrangiatrice di talento

A questi si aggiunsero, come frequentatori del Minton’s:

A. Bud Powell (pianista, un tipo piuttosto chiuso, strano)


B. I pianisti Clyde Hart, Al Haig e Tadd Dameron
C. Dizzy Gillespie (trombettista)
D. Charlie Parker, virtuoso del sax contralto che arrivò da Kansas City nel 1941

Il profeta del Jazz moderno fu probabilmente il pianista Thelonious Monk, compositore dotato ed originale;
aveva composto il brano “Round Midnight” a diciannove anni, nel 1936, anticipando di molto l’evoluzione di
alcuni caratteri della musica jazz:

A. introdusse delle tensioni armoniche nuove, sconosciute fino a quel momento, come la quarta
aumentata, utilizzando accordi inconsueti ed intervalli come le seconde maggiori e minori, risultando
così l’inventore dei “clusters”!
B. presentò nelle sue composizioni delle successioni cromatiche, come già aveva fatto Duke Ellington,
ma intensificandone l’utilizzo creò una nuova maniera di trattare l’armonia, più dinamica e complessa,
indicando la strada ai futuri boppers

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Il pianista, all’anagrafe Thelonious Sphere Monk, era nato a Rocky Mount (North Carolina) nel 1917, ma la
famiglia si era trasferita dopo pochi anni a Manhattan, New York City.

Il sassofonista Charlie Parker suscitò una grande curiosità nell’ambiente musicale della città.
Era già conosciuto perché si esibiva alla Clarke Monroe’s Uptown House, ad Harlem, e di lui si faceva un
gran parlare, tanto che Kenny Clarke e Monk andarono di persona ad ascoltarlo e lo convinsero a trasferirsi al
Minton’s Playhouse.

In tutto il periodo della Swing Era i solisti di jazz avevano avvertito una grande difficoltà ad esprimersi;
nonostante le occasioni di suonare fossero assai numerose raramente gli era richiesto di improvvisare e se ciò
avveniva era per un numero limitato di battute.
Così anche gli strumentisti più dotati risultavano ingabbiati, costretti a rispettare le partiture e le esigenze delle
big band che li scritturavano.
La ragione era da ricondurre alla funzione assolta da quella musica: lo swing era fatto per ballare, e tutte le
altre esigenze venivano dopo.
Tuttavia nessuno pensava di trovarsi vicino a una rivoluzione di immensa portata, che sarebbe avvenuta di lì a
poco.

La rivoluzione del bebop fu associata ad un luogo ben preciso: la Cinquantaduesima strada Ovest di New
York, una traversa di Manhattan.
Anche se il Minton’s e il Monroe’s si trovavano ad Harlem, quartiere depositario della memoria culturale e
artistica afroamericana, nella Cinquantaduesima strada si concentravano tutti i locali migliori, anche perchè
vicinissima a Broadway.
Tutti i musicisti nelle ore libere dal lavoro si riversavano nei club di quella strada in cerca di emozioni e jam
session e i nomi di quei luoghi sono passati alla storia; proviamo a ricordare i più importanti:

A) Birdland
B) Bop City
C) Downbeat
D) Famous Door
E) Hickory House
F) Jimmy Ryan’s
G) Kelly’s Stable
H) Onyx
I) Royal Roost
J) Small’s Paradise
K) Spotlite
L) Yacht Club
M) Three Deuces

Intanto al Minton’s i musicisti aggiungevano delle nuove trovate per rivitalizzare le jam session:

A. Charlie Parker creava delle linee melodiche innovative, sfruttando le note estreme degli accordi per
creare un rapporto meno ovvio tra il tema e l’armonia, adattata e sviluppata in conseguenza di esso.

B. Kenny Clarke stava rivoluzionando l’uso della batteria. Tutto il disegno principale del ritmo swing
veniva spostato sul piatto “ride”, che prima aveva solo una funzione coloristica.
Il rullante risultava così svincolato dalla funzione di marcare il tempo e poteva suonare in
contrappunto al solista.
La cassa non marcava più i quattro tempi della misura, ma al pari del rullante faceva degli accenti
improvvisi ed isolati, che spezzavano deliberatamente il beat.

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Talune innovazioni per quanto riguarda la batteria erano già state anticipate da “Papa” Jo Jones, che
utilizzava già queste “bombe” nell’orchestra di Count Basie, fin dai tempi di Kansas City.

I tempi staccati erano velocissimi, anche per scoraggiare la gran quantità di musicisti che volevano misurarsi
con i campioni del Minton’s.

Allo stesso scopo Dizzy Gillespie e Thelonious Monk a volte si incontravano nel pomeriggio per elaborare dei
complessi giri di accordi, ricavati dalle strutture armoniche delle canzoni di Tin Pan Alley, che ovviamente
risultavano inseguibili per gli improvvisatori modesti.

Insieme a quello dell’innovativo trombettista Dizzy Gillespie il contributo maggiore alla nuova musica fu dato
da Charlie Parker.
Cresciuto a Kansas City e nutritosi soprattutto del blues, aveva studiato a fondo Lester Young e il sassofonista
contralto texano Buster Smith (solista già nei Blue Devils di Walter Page).

Lo stile di Parker, caratterizzato da un iperbolico virtuosismo apparve subito tanto originale quanto
sorprendente.

La sua figura anche fuori dal palco emanava un incredibile carisma, dovuto alla sua altissima levatura di
musicista.

Sulla sua scia si posero tantissimi emulatori, che cominciarono a seguirlo come un Messia.

In effetti tutto in lui appare rivoluzionario:

A) La fluidità e la rapidità del fraseggio


B) La lunghezza delle frasi che, articolate in semicrome e spesso biscrome, si sviluppavano per ampie
porzioni della struttura armonica, realizzando un’unica linea che sottolineava i cambi d’accordo.
C) L’utilizzo di intervalli “nuovi”, scoperti come lui stesso raccontò “….pensando alle estensioni delle
armonie sul giro di “Cherokee” (un brano di Ray Noble).
D) Lo straordinario senso ritmico applicato al fraseggio, articolato e imprevedibile perché le figurazioni
da lui concepite si susseguivano con un’ estrema varietà di soluzioni.
E) L’ estro e l’ originalità come compositore; pur muovendosi nell’ambito del blues e dei giri armonici
degli standard i suoi temi sovvertivano tutti i principi melodici.

A queste qualità dobbiamo aggiungere una tragica tendenza all’autodistruzione da parte di Parker; dipendente
dall’eroina e dall’alcool purtroppo anche su questo fece moltissimi proseliti!
I giovani presero ad imitarlo, pensando ingenuamente di riuscire a suonare come lui.

L’altra grande personalità del movimento bebop fu John Birks Gillespie, più conosciuto semplicemente come
Dizzy Gillespie: il nomignolo gli fu affibbiato perché era un mattacchione, sempre allegro e soprattutto incline
a fare scherzi.

Gillespie aveva militato fino agli anni’40 nell’orchestra di Cab Calloway, il grande showman afroamericano,
band leader, cantante ed anche provetto ballerino, che aveva sostituito nientedimeno che Duke Ellington al
Cotton Club, riscuotendo se possibile un successo ancora maggiore.
Il rapporto con Cab Calloway, che mal sopportava i suoi continui lazzi, non fu mai pacifico: si racconta
addirittura che il trombettista nel fare uno dei suoi soliti scherzi acooltellò il caporchestra per sbaglio!
Anche musicalmente non andavano d’accordo: nonostante il trombettista avesse un talento innegabile, provava
continuamente dei fraseggi un po’ troppo arditi per l’epoca.
In effetti Gillespie, che aveva studiato il pianoforte e l’armonia, risultando teoricamente più preparato della
media dei musicisti di jazz, cominciava già a sperimentare soluzioni alternative durante gli assoli e la cosa non
era mai piaciuta a Calloway.

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Così quando nel 1941 il cantante licenziò Gillespie dalla sua orchestra pronunciò nei suoi confronti la celebre
frase: “così finalmente la smetterai di suonare quella musica cinese!”.
Dopo quell’esperienza il trombettista iniziò a scrivere arrangiamenti (anche per la big band di Woody Herman)
e lavorò come free lance con la cantante Ella Fitzgerald, che aveva ereditato l’orchestra da Chick Webb alla
morte dello sfortunato batterista.

Il primo incontro tra Gillespie e Charlie Parker era avvenuto diversi anni prima della nascita del bebop, nella
nuova orchestra messa su da Earl “Fatha” Hines, il pianista veterano del jazz, che dopo dieci anni trascorsi
come musicista residente al Gran Terrace Cafe di Chicago desiderava rimettersi in pista, facendo una musica
più moderna.
.Così Hines reclutò dei giovani talenti che sarebbero poi entrati nella storia:

A. il sassofonista tenore Budd Johnson


B. il trombettista e violinista Ray Nance
C. il trombonista Bennie Green
D. il trombettista Benny Harris
E. il sassofonista tenore Wardell Gray
F. Il sassofonista contralto e arrangiatore Benny Carter
G. il trombettista Dizzy Gillespie
H. il sassofonista contralto Charlie Parker
I. il cantante Billy Eckstine, dalla profonda voce baritonale ma dallo stile brillante e ritmico
J. Sarah Vaughan, cantante dal timbro scuro e l’estensione di contralto, impiegata talvolta anche come
seconda pianista.
K. Il batterista Shadow Wilson
Talvolta, già negli anni del Grand Terrace Cafe, Hines si faceva sostituire al pianoforte per dirigere meglio
l’orchestra (una compagine di circa 20 elementi); spesso suonarono con lui alcune stelle dello Swing:

A. Teddy Wilson
B. Nat “King” Cole
C. Jess Stacy

Questa compagine, anche a causa del Recording Ban (lo sciopero delle registrazioni attuato dal 1942 al 1944
dalla Federazione Musicisti che reclamavano i diritti di riproduzione sui loro dischi), non incise mai e dopo
poco tempo si sciolse; fu un vero peccato perché si racconta che fosse stata la migliore orchestra mai esistita:
pura leggenda?

Negli anni successivi i nascenti boppers avevano ripetuto l’esperienza nella formazione del cantante Billy
Eckstine, che stava diventando una stella di prima grandezza (all’epoca era molto più popolare di Frank
Sinatra, già in attività con l’orchestra di Tommy Dorsey).
Billy Eckstine ricostituì per qualche tempo l’orchestra creata e poi sciolta da Earl Hines, riunendo
nuovamente quei talenti emergenti, accomunati dalla ricerca di un nuovo modo di suonare e improvvisare.

In questa compagine militò come sostituto per una settimana anche un giovanissimo Miles Davis, quando
l’orchestra si trovò con un elemento in meno dalle parti di St. Louis, città natale del trombettista.

Nel periodo intercorso al di fuori delle succitate big band Parker e Gillespie presero strade separate:

A. Parker suonò con il trombettista Cootie Williams, già stella dell’orchestra di Duke Ellington

B. Gillespie con il sassofonista Coleman Hawkins e con l’orchestra di Duke Ellington (anche se solo per
tre settimane)

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Poi Dizzy Gillespie formò il suo primo quintetto, in comproprietà con il contrabbassista Oscar Pettiford e il
batterista Max Roach (epigono e seguace di Kenny Clarke) che faceva parte della ritmica che accompagnava
Charlie Parker al Clarke’s Monroe).

Questo gruppo esordì all’ Onyx Club di New York all’inizio del ’44 e suscitò lo sgomento e la curiosità dei
musicisti presenti in sala, tra cui diversi elementi dell’orchestra di Woody Herman (che erano altrettanto
inclini alla modernità) e di Jimmy Dorsey, che fu così colpito da tornare per due sere di seguito a sentirlo.

In questa formazione le prime trovate musicali del Minton’s e quelle maturate nell’orchestra di Earl Hines si
sommarono e definirono meglio.
Ad esempio fu determinante l’innovazione apportata da Oscar Pettiford dell’esposizione del tema, iniziale e
finale, fatta all’unisono da tromba e sax.

Anche il nomignolo “bebop” nacque in quell’occasione: in un brano suonato dal quintetto una breve frase di
due note veniva tradotta onomatopeicamente con le sillabe be-bop, che poi divenne anche il titolo del pezzo.
Il tema descriveva un intervallo discendente di quarta aumentata (es. fa diesis – do), una soluzione o piuttosto
una chiusura di frase largamente impiegata dai nuovi improvvisatori, suggerita loro dalle innovazioni
armoniche del pianista Thelonious Monk.

Dopo quella scrittura all’Onyx i leader si separarono, così i complessi Bop a New York divennero due:

A. Gillespie si trasferì allo Yacht Club insieme al sassofonista tenore Budd Johnson e al batterista Max
Roach
B. Pettiford rimase all’Onyx con musicisti di livello minore

Fino a quel momento Parker e Gillespie, detti anche i “Dioscuri del bebop” (come i gemelli della mitologia
greca Castore e Polluce), avevano agito separatamente, limitandosi a suonare insieme nelle jam session.

Finalmente tra la fine del ’44 e l’inizio del ’45 i due musicisti, indiscussi leader del movimento, si
ritrovarono insieme, formando un quintetto che fece sensazione:

A. Sia realizzando dei memorabili concerti al Three Deuces, suscitando un immenso scalpore
B. Sia registrando insieme alcuni dischi per le etichette indipendenti National, Savoy, Apollo,
Continental, Guild
C. Infine in due concerti alla Town Hall (maggio/giugno 1945) che li consacrò nuove stelle della musica
jazz, diventando noti a un pubblico più vasto della ristretta cerchia di intenditori

Un ulteriore passo avanti verso una reale sintonia e comunità di intenti tra i nascenti boppers, fu fatto grazie
alla costituzione di big band che raggrupparono i solisti del Minton’s e permisero la messa a punto di uno stile
più unitario e riconoscibile.
Il nuovo jazz però suscitò subito perplessità e dure critiche.

Fu quanto raccolse Gillespie con la sua prima grande orchestra bebop, effettuando una tournèe negli Stati del
Sud (1945) e successivamente a Los Angeles, dove si esibì con un piccolo gruppo insieme a Charlie Parker,
il vibrafonista Milt Jackson e il giovane contrabbassista Ray Brown.

Gillespie non desistette; l’anno dopo a New York, allo Spotlite (nella 52° strada), la sua seconda grande
orchestra raccolse finalmente il consenso del pubblico e della critica; l’affermazione conseguita lo portò ai
vertici delle classifiche stilate dai lettori della rivista Metronome.

Nel 1947 la big band diretta dal trombettista, con Parker appena rientrato sulla scena dopo un ricovero in
ospedale psichiatrico e la cantante Ella Fitzgerald, si esibì addirittura alla Carnegie Hall.

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Sicuramente le grandi doti di showman di Gillespie, che aveva messo a frutto tutti i trucchi imparati da Cab
Calloway ed altri grandi uomini di spettacolo, contribuirono a far digerire agli spettatori le asperità musicali
presenti nel bebop; il leader, posizionato davanti all’orchestra, oltre a suonare cantava in stile ed improvvisava
dei curiosi balletti che risultavano molto divertenti.
Il fine giustifica i mezzi e la compagine orchestrale del trombettista riuscì a sopravvivere suonando la nuova
musica per qualche anno, riscuotendo tutto sommato un buon successo.

Ormai il bebop si era affermato, ma erano molti i suoi detrattori.


Citiamo per tutti:

A. Hugues Panassiè, critico musicale francese, parlò di degenerazione musicale, di aberrazione

B. Il trombettista tradizionale Louis Armstrong trovava i boppers furbi e “pieni di malizia” perché
avevano messo in difficoltà gli anziani facendo solo del gratuito esibizionismo.
Diceva di sentire nella loro musica soltanto accordi strampalati che stupivano la gente perché erano
una curiosa novità; ma al dilà di qeusti effetti non c’era una melodia orecchiabile nè un ritmo regolare
su cui ballare.
In realtà secondo lui non sapevano eseguire correttamente i temi, perciò facevano ricorso a una
miriade di note sbagliate.
Proseguendo su quella strada i jazzisti neri sarebbero tornati ad essere poveri perché non ci sarà più
lavoro nemmeno per loro.

In effetti il bebop non era e non voleva essere musica da ballo, anzi era proprio questo uno dei presupposti
principali che portarono alla sua nascita.
I giovani jazzisti provavano avversione per quanto era avvenuto nel periodo dello Swing, quando:

A. la gente era più interessata a divertirsi, scatenandosi col ballo


B. non aveva interesse per gli aspetti musicali
C. il pubblico spesso, specialmente nei teatri, invadeva addirittura il palco perchè in platea non c’era più
spazio per ballare
D. i ballerini attiravano l’attenzione del pubblico più dei musicisti stessi

La nuova musica rappresentava un progresso rispetto al jazz precedente sotto tutti i punti di vista: melodico,
armonico e ritmico.
Soprattutto voleva essere musica “pura”, soltanto da ascoltare, eppure profondamente, nella sua essenza, nera.

Ogni aspetto del jazz tradizionale venne sottoposto a revisione:

A. Si rinnovò il repertorio, perché le canzoni commerciali lanciate sul mercato dai compositori di Tin Pan
Alley erano poco stimolanti
B. Si riesumò il blues, familiare ai boppers, la maggior parte dei quali proveniva dal Sud.
C. Si inventarono nuovi brani, i jazz song, con delle ardite linee melodiche magari sovrapposte alle
armonie di brani standard e canzoni tradizionali.

Le melodie tipiche del bebop erano:

A. Zigzaganti, imprevedibili, bizzarre, caratterizzate da intervalli inconsueti


B. Le frasi, quasi scollegate tra di loro, davano alle composizioni un equilibrio instabile
C. I temi, sebbene nati sulle armonie degli standard, erano totalmente diversi dagli originali, tanto da
generare brani inediti ed irriconoscibili, che meritavano un nuovo titolo.

Questi pezzi, nati dagli standard con la linea melodica completamente venivano chiamati “contrafacts”.

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Anche le armonie degli standard tradizionali venivano arricchite con accordi alterati, ricchi di tensioni.
Tra i giri armonici più battuti ricordiamo quelli tratti dalle canzoni:

A. How High The Moon ( Lewis/Hamilton)


B. I Got Rhythm ( George Gershwin)
C. Indiana (Mac Donald e Hanley)
D. All The Things You Are (Jerome Kern)
E. Cherokee (Ray Noble)

Dai brani sopracitati ad esempio nacquero queste contrafacts:

A. Ornithology (C.Parker)
B. Anthropology (C. Parker)
C. Donna Lee (C. Parker)
D. Dizzy Atmosphere (D. Gillespie)
E. Ko ko (C. Parker)

A questi titoli dobbiamo aggiungere un’infinità di temi bop costruiti sulla struttura armonica del blues, suonati
tendenzialmente a ritmo piuttosto sostenuto:

A. Billie’s Bounce (C. Parker)


B. Au Privave (C. Parker)
C. Now’s The Time (C. Parker)

Anche la struttura armonica di “I Got Rhythm”, brano del 1930 di George Gershwin fu assunta come forma
fissa del jazz, seconda per importanza solo al blues; i nuovi brani costruiti sul giro vennero chiamati “Rhythm
Changes”, cioè i cambi (armonici) di “I Got Rhythm”:

A. Anthropology (Charlie Parker)


B. Oleo (Sonny Rollins)
C. Lester Leaps In (Lester Young)
D. Serpent’s Tooth (Miles Davis)

Tra i brani originali riscosse enorme successo una composizione di Dizzy Gillespie, scritta a quattro mani con
il misconosciuto pianista Frank Paparelli, intitolata “A Night In Tunisia”.
Il brano è diventato un classico jazz di tutti i tempi, suonato ancor oggi con lo stesso entusiasmo da numerosi
jazzisti che lo ripropongono con arrangiamenti rivisitati, cosa che fece lo stesso Gillespie negli anni successivi
al bebop.
Parker invece oltre alle numerosissime contrafacts regalò ai posteri un inedito particolarmente affascinante,
intitolato “Confirmation”.

Anche la maniera di accompagnare gli assoli da parte della sezione ritmica cambiò radicalmente:

A. si presentava una più varia ed imprevedibile scansione dei 4/4, con pause e silenzi che diventano
espressivi e carichi di tensione.
B. la base ritmica cessava di essere un placido sfondo per le improvvisazioni, che venivano sottolineate
ed esaltate da un andamento apparentemente disarticolato ma più dinamico.
C. la pulsazione della batteria divenne poliritmica, punteggiata e spezzata continuamente dagli accenti
isolati della grancassa, arricchita da complesse figurazioni eseguite sui timpani e sul rullante
D. la chitarra, ritenuta superata con il suo regolare accompagnamento in quattro, venne eliminata
E. il ruolo del pianoforte fu semplificato: la sinistra non doveva più rinforzare le linee del basso (come
nello stile “stride piano”) e poteva commentare in maniera più sobria, anche se molto sincopata. (si
indica Clyde Hart come l’inventore di questa nuova maniera di accompagnare).

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Il pianista Lennie Tristano, che fu un accanito sostenitore della nuova musica, osservò:

A. “con questo accompagnamento meno pesante e regolare il solista sente gli accordi ma non ne resta
schiacciato, può così pensare mentre suona e realmente improvvisare”.
B. “il bebop è fresco, leggero, mentre lo swing era caldo, pesante, rumoroso”

Caratteri dominanti della musica bebop:

A. unisoni fra due (o più) strumenti a fiato, per esporre il tema


B. tempi velocissimi
C. conseguente virtuosismo di tutti gli strumentisti
D. bruschi finali
E. salti assai ampi nelle linee melodiche improvvisate, anche di un’ottava
F. predilezione per armonie e intervalli dissonanti
G. l’ impiego dell’intervallo di 5° diminuita, una blue note, tanto frequente da diventare una caratteristica
distintiva del fraseggio.

In breve tempo i boppers diventarono una vera e propria setta, desiderosa di distinguersi dalla massa.
Musicisti o semplici simpatizzanti adottarono un abbigliamento standard, composto da:

A. il basco
B. occhiali neri dalla pesante montatura
C. la mosca sotto il labbro (Goattee)
D. una cravatta/foulard in stile bohèmienne, che dava un tocco intellettuale ed evidenziava una
propensione alla sovversione
Erano imitati, oltre che dai musicisti che si sforzavano di fare la nuova musica, anche dalla schiera di
sostenitori e simpatizzanti, che furono chiamati hipsters, gente anticonformista, moderna, aggiornatissima,
addentro alle cose segrete (hip) e contrapposti ai borghesi ottusi, conformisti (squares)

Diventò anche di moda la conversione alla religione musulmana, non tanto per anticonformismo, quanto
piuttosto per aggirare i problemi razziali:

A. un musulmano era considerato più di un afroamericano cattolico, discendente da schiavi


B. diventando maomettano, il nero si sentiva più africano e meno americano, ritrovando almeno nel nome
e nelle tuniche indossate una parte dell’identità e dignità perdute con il distacco dell’Africa.

La guerra aveva dato un ennesimo scossone alle coscienze dei neri, che si distanziarono nuovamente dai
bianchi.
Il miraggio dell’integrazione, intravisto nell’Era dello Swing, era tramontato.
Parker e Gillespie, che dal canto loro pensavano solo a fare musica, diventarono loro malgrado dei simboli,
dei portabandiera dei loro fratelli di razza.

La musica nera degli anni ’40 era il risultato di consapevoli tentativi da parte della razza afroamericana di
riappropriarsi della propria arte, e di sottrarla alla comprensione generale.

I jazzisti si sentivano ormai dei musicisti seri, artisti rispettabili, quindi non più disposti ad essere considerati
una semplice espressione popolare.

Invece il fatto che il jazz scegliesse di smettere di essere musica di evasione ne segnò la condanna da parte
dell’”Establishment”, il sistema gestito dalle classi bianche dominanti, che mal accettarono e contrastarono
queste rivendicazioni ideologiche.

I bianchi continuarono ad ascoltare i vecchi spiritual, oppure seguivano con interesse i numerosi tentativi di
“Jazz Sinfonico”.

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Il favore del pubblico fu riservato alle nuove orchestre bianche:

A. Quella di Woody Herman (clarinettista), che faceva un jazz eccitante, pieno di tensione, che
entusiasmava gli americani del dopoguerra.
B. Quella di Stan Kenton (che ebbe grande popolarità dal 1945) con l’arrangiatore di origine siciliana,
ma californiano d’adozione Pete Rugolo.
Eseguiva una musica di grande effetto: piena di accordi dissonanti, ricca di percussioni di tipo
sinfonico e con le sezioni di ottoni squillanti ma molto precisi ed armonizzati in maniera ardita (spesso
5 trombe).

Comunque sia Woody Herman che Benny Goodman tentarono di aggiornarsi, aderendo al nuovo stile
boppistico, l’uno con arrangiamenti arditi e l’altro con formazioni di carattere tipicamente bop (autunno 1947).

L’opposizione al bebop però continuava:

A. Rudi Blesh, con la sua etichetta Circle, chiamava musicisti della vecchia guardia, producendo dischi e
realizzando trasmissioni radiofoniche sotto l’eloquente quanto polemica etichetta “This is Jazz”.
B. il movimento “New Orleans Revival” incontrava i favori del pubblico; la riscoperta di Bunk Johnson
(che era stato nel gruppo del mitico Buddy Bolden) e la celebrazione radiofonica della musica di Kid
Ory fatta da Orson Welles, suscitarono l’interesse dei giovani americani.

Il New Orleans Revival e la riproposizione della musica Dixieland fatta a New York dal chitarrista Eddie
Condon, in un suo locale nel Greenvich Village dove suonava tutte le sere con i suoi fedeli seguaci, non
interessarono però il pubblico nero.

Il bebop li aveva disorientati: il passaggio dalle big band della Swing Era alla musica ermetica e concettuale
di Parker e Gillespie fu troppo brusco.
Gli afroamericani avevano bisogno di una musica più semplice, fondata sul blues, con una pulsazione ritmica
regolare, che facesse venire voglia di ballare.

Essi la trovarono nel Rhythm and Blues (nuovo nome imposto dalle case discografiche al blues rinnovato)
suonato da grandi formazioni, talvolta addirittura orchestre, come quella di Lionel Hampton.
I dischi prodotti di questo nuovo genere presero il posto dei Race records.
Erano blues cantati, spesso urlati, per lo più spensierati e lontani dalle atmosfere dimesse in cui erano nati
nelle campagne del Sud.
Il blues che era stato alla base del linguaggio bop si nutrì di nuova linfa e tornò d’attualità:
contemporaneamente si trovava ad essere parte di una linguaggio rivoluzionario e alternativa di facile
consumo al nuovo jazz.
Ciò che venne chiamato in quel momento “rhythm and blues” fu spesso un jazz grossolano e plateale,
talvolta strumentale, fortemente ritmato, alquanto ripetitivo ed ossessivo, perchè limitato alle armonie e alla
struttura del blues.

Le orchestre rhythm and blues più note negli anni Quaranta furono quelle di:

A. Lionel Hampton (vibrafonista, pianista e batterista)


B. Illinois Jaquet (sassofonista tenore)
C. Arnett Cobb (sassofonista tenore)
D. Earl Bostic (sassofonista contralto)

Così dal secondo dopoguerra in poi per gli afroamericani ci furono due musiche:

A. Il jazz, visto da ora in poi come musica “dotta”, riservata ad una minoranza dai gusti evoluti
B. il R’N’B (Rhythm and Blues) che era un prodotto di consumo, destinato alle masse e perciò
standardizzato.

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La linea di connessione era sempre il blues, che però nel jazz era diventato principalmente uno schema
armonico (anche se molto importante e suonato).

Nell’altra musica il blues continuava ad essere una genuina espressione popolare, con la funzione di
comunicare i valori ed i pensieri della comunità nera, mezzo d’espressione alla portata di tutti.

Oltre al bebop e alla musica delle orchestre bianche, completavano il quadro musicale Nordamericano
di quegli anni i primi esponenti del cosiddetto Mainstream, cioè la “corrente principale”.
Quei musicisti suonavano prevalentemente le musiche dei songwriters Gershwin, Berlin, Kern, Porter,
Rodgers, divenute celebri con le commedie musicali e i film da esse tratti, che già da allora venivano
considerate un patrimonio della cultura americana, rispettato ed amato dagli appassionati di jazz di
tutto il mondo.

Essi facevano un jazz elegante, suonato da complessi di piccole dimensioni, come:

A. il trio di Nat “King” Cole, eccezionale pianista e superbo cantante

B. il trio di Erroll Garner, pianista dotato di uno swing eccezionale, che comunicava attraverso la
tastiera feeling jazzistico e inesauribile fantasia

C’era poi il jazz eccitante, spettacolare e divulgativo proposto dall’impresario Norman Granz a partire dal
1946 con la formula “Jazz at the Philarmonic”.
Non era la prima volta che la musica afroamericana entrava nei teatri e nelle sale da concerto, ma ques’idea si
rivelò vincente.
Granz riuniva per delle piccole tournée i migliori specialisti di ogni strumento, una sorta di Nazionale del
jazz; la musica che si presentava non era certo avveniristica ma nemmeno troppo conservatrice, improvvisata
alla maniera delle jam session, ma con il contributo di grandi solisti in gara tra di loro (talvolta furono
ingaggiati anche gli eroi del bebop Parker e Gillespie).

Dopo qualche anno, spronato dal successo Norman Granz fondò una propria etichetta discografica, la Verve, e
cominciò a proporre su disco le registrazioni dal vivo dei numerosi concerti tenuti in America, Europa ed Asia.

Nel 1949 fu il solo a concludere affari con il jazz.

Le grandi formazioni del periodo swing furono costrette a sciogliersi per la nuova fase di crisi della musica
afroamericana: il jazz era aveva cessato di essere la musica più popolare.
Molti diedero la colpa al bebop che da musica difficile qual’era aveva determinato l’allontanamento del
pubblico.

Intorno al 1950 il mondo dei boppers neri era quasi alla disperazione.

L’unico a salvarsi fu Gillespie, che da grande uomo di spettacolo riusciva a divertire sempre il suo pubblico.

Parker sopravvisse per qualche tempo, esibendosi ed incidendo con un’orchestra d’archi, ma gli altri
boppers condussero una vita misera e penosa:

A. sia per l’incomprensione sempre più manifesta da parte del pubblico

B. anche per la diffusione delle droghe pesanti che sconvolgevano le loro esistenze e non di rado li
uccidevano.

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