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Capitolo 9

L’Era dello Swing

Nel 1935 la crisi poteva dirsi superata: dopo appena tre anni il New Deal diede i suoi frutti con una ripresa
economica che pervase tutta la nazione.

Nella musica si avvertì un radicale cambiamento, passando dalle canzoni dolci, sentimentali, malinconiche,
tipiche della depressione, ai festosi, eccitanti temi di moderna ispirazione, che mettevano euforia e
scatenavano la voglia di ballare.

A quella musica fu dato il nome di Swing, parola che prima aveva indicato una particolare accentuazione
ritmica, una specie di dondolio, come indica la traduzione letterale.

Le tre accezioni della parola swing:

A. il ritmo base del jazz, dal periodo classico fino agli anni Sessanta

B. la particolare accentuazione ritmica, simile a un dondolio, qualità indispensabile per una buona
esecuzione jazzistica, anche quando il tempo suonato dal batterista non è quello omonimo.

C. La musica suonata nella Swing Era

Era la stessa musica che già si ascoltava da anni, suonata dalle orchestre di Fletcher Henderson, Cab
Calloway, Count Basie, Chick Webb, forse soltanto più levigata, più curata.

Inoltre con l’eguale accentuazione dei 4 tempi della battuta il ritmo era diventato più fluido, scorrevole e più
ballabile.

In effetti i band leader afroamericani stavano lavorando a quel concetto di musica già da una decina d’anni;
addirittura un disco inciso dall’orchestra di Duke Ellington del 1932 e cantato da Ivie Anderson presentava il
termine swing nel titolo.
Il brano in questione “It Don’t Mean A Thing If It Ain’t Got That Swing”, cioè ”..non vuol dir niente se non
ha quel certo swing”, esprimeva anche a livello musicale il pieno raggiungimento di quella formula
“ballabile” che di lì a poco sarebbe stata predominante e vincente quasi per un decennio.

Il jazz perse un pò del suo candore, della sua purezza e anche parte della sua aggressività e calore; le grandi
orchestre accantonarono per un po’ le sonorità del blues e cominciarono a suonare i successi di Broadway e
Tin Pan Alley, scritti da grandi songwriters del periodo classico della canzone americana come Gershwin,
Kern, Berlin, Porter e Rodgers:
La musica afroamericana acquisì un pubblico vastissimo, diventando però sostanzialmente musica
d’intrattenimento.

A tale processo contribuirono sia i musicisti bianchi che i neri:

A. I bianchi, oltre ad assecondare la generale tendenza alla spensieratezza, seguivano un proprio istinto
di ricercatezza formale.

B. I neri si adattarono perchè videro la loro musica diventare profondamente popolare, finalmente
accettata dopo essere stata a lungo guardata con sospetto (o supportata fino a quel momento
specialmente dai gangster).

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I neri avevano imparato a dissimulare l’odio per i bianchi e si sforzavano di integrarsi sempre meglio nel
tessuto sociale americano; pur mantenendo dei sentimenti di rivalsa riuscivano a sopportare le continue
oppressioni quotidiane.

Ogni tanto la situazione peggiorava, come nel 1935, quando il Cotton Club ed altri locali di Harlem chiusero
a seguito degli ennesimi scontri razziali.

Sicuramente il problema era lontano dall’essere risolto, però almeno per quanto riguardava la musica l’Era
dello Swing compì il miracolo dell’integrazione:

A. Alcune orchestre bianche scritturarono dei sidemen neri (il primo a farlo fu Benny Goodman)

B. Alcune orchestre nere cominciano ad utilizzare arrangiamenti scritti dai bianchi, un pò per esigenze
di sound ed anche per una sorta di adesione spontanea agli stessi ideali estetici.

Per tutti questi motivi lo Swing fu la musica di tutti i giovani americani dal ’35 al ’45.

Tutto avvenne per merito di un biscotto

Il primo a beneficiare della nuova popolarità che arrise al jazz fu il clarinettista bianco Benny Goodman.
Nato a Chicago nel 1909 da una famiglia di origine ebrea studiò alla scuola di musica della Sinagoga della
sua città.
Goodman fu un talento precocissimo; fece una dura gavetta nelle orchestre da ballo per qualche anno in giro
per la Nazione ed infine giunse a New York a seguito del batterista e direttore Ben Pollack.
Nel 1934 con l’aiuto e i consigli del talent scout John Hammond costituì la propria orchestra di 13 elementi.
Con questa oltre a girare senza troppo successo da una costa all’altra degli Stati Uniti, prese parte a “Let’s
Dance”, un programma radiofonico della durata di tre ore dedicato alla musica da ballo, animato da diverse
orchestre (oltre alla formazione del clarinettista c’erano quelle di Xavier Cugat e Kel Murray).
Benny Goodman suonava la musica meno commerciale e fu relegato nell’ultima ora di programmazione.
La trasmissione era patrocinata dalla National Biscuit Company, che per lanciare sul mercato un nuovo tipo
di biscotto, scelse la strada della musica per grandi orchestre, che si esibivano in diretta radiofonica da
diversi ballrooms situati in diverse zone del Paese.

Alla trasmissione fece seguito una nuova estenuante tournée che tuttavia non riscosse grandi consensi, tant’è
che l’orchestra avrebbe chiudere in California dopo una lunga serie di delusioni.
In quello Stato la musica di Benny Goodman era diventata pian piano molto popolare perché trasmessa
nell’ora di punta per via del fuso orario; fu così che nell’agosto del 1935 al Palomar Ballroom di Los
Angeles ebbe inizio la più grande stagione della musica jazz, quella esplosa con la Swing Craze.

Dopo aver ascoltato per mesi quel nuovo sound attraverso la radio, la gente dimostrò di conoscere a memoria
i temi più famosi dell’orchestra, tanto che durante il secondo set del concerto il pubblico in sala smise di
ballare e si accalcò sotto il palco, decretando il successo della nuova musica.

Da Los Angeles Goodman si spostò prima a Chicago e quindi a New York, riscuotendo un successo sempre
crescente; nel marzo del 1937 il successo al botteghino fu clamoroso:

A. Ai cinque spettacoli del primo giorno, al Paramount Theatre di New York assistettero ben 21.000
persone.
B. Il pubblico ballava tra le file di poltrone, e non trovando spazio invase addirittura i lati del palco.

Il successo di Benny Goodman fu tale da rivoluzionare il panorama della musica leggera americana.
Il jazz divenne improvvisamente popolarissimo e tutte le orchestre iniziarono a fare swing, cioè jazz
ballabile, suonato in smoking e un pò affettato, stereotipato ma sempre jazz.

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Lo Swing fu un fenomeno popolare di incredibile portata; la musica realizzata in quegli anni non fu mai
banale, esprimendo delle eccellenze sia in campo solistico sia come formazioni d’insieme.

L’organico tipico diventò la big band, la cui struttura ad un certo punto si stabilizzò su questo standard:

A. 4 trombe
B. 4 tromboni
C. 5 sassofoni
D. chitarra ritmica
E. pianoforte
F. contrabbasso
G. batteria
H. 1 o 2 cantanti, talvolta anche gruppi vocali

Dopo gli anni difficili seguiti alla crisi del ’29 che avevano rischiato di far finire la musica afroamericana gli
uomini dello Swing furono una sorta di salvatori della patria per il jazz.

Tra le compagini interamente composte da musicisti afroamericani spiccavano quelle di:

A. Duke Ellington
B. Fletcher Henderson
C. Jimmy Lunceford
D. Cab Calloway
E. Louis Armstrong
F. Chick Webb

A queste si aggiunsero le due migliori big band di Kansas City, sempre afroamericane:

A. Count Basie (scoperto da John Hammond)


B. Andy Kirk (con la solista, arrangiatrice e pianista Mary Lou Williams)

Sulla scia di Benny Goodman brillarono le grandi orchestre bianche di più recente costituzione:

A. Jimmy Dorsey
B. Tommy Dorsey
C. I Casa Loma (gia esistente ma rinnovata)
D. Dai musicisti che avevano suonato con il batterista Ben Pollack, nacque una nuova formazione
capitanata da Bob Crosby (fratello del celebre crooner Bing), l’unica imparentata con le sonorità di
New Orleans.

Quest’ultima formazione diede di lì a poco l’inizio al “Dixieland Revival”.

Infine ci fu l’ultima generazione di band leader bianchi, che comprendeva dei campioni assoluti:

A. Artie Shaw, che contese lo scettro di “re del clarinetto” a Benny Goodman
B. Il clarinettista e sassofonista Woody Herman, protagonista di una carriera lunga e in perenne ascesa,
insieme ai suoi numerosi “greggi”
C. Glenn Miller, che avrebbe superato tutti in popolarità

Le orchestre erano molto curate dal punto di vista musicale ma anche per quanto riguarda l’immagine.
Tutte avevano brillanti divise mentre il band leader spesso indossava il frac.

Il direttore afroamericano Jimmy Lunceford, che costringeva i propri musicisti a effettuare estenuanti prove
di sezione prima di eseguire i nuovi arrangiamenti, era solito dirigere con una lunga bacchetta bianca.

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In quanto a perfezionismo Benny Goodman fu comunque imbattibile; il clarinettista, che poteva vantare delle
solide basi tecniche da concertista classico, provava gli arrangiamenti del suo super quartetto con il pianista
Teddy Wilson, il batterista Gene Krupa e il vibrafonista Lionel Hampton anche 100 volte!
D’altra parte gli straordinari risultati raggiunti da quei quattro incredibili virtuosi dimostrarono che aveva
ragione…

I grandi alberghi facevano musica tutte le sere, così come le grandi ed eleganti sale da ballo:

A. A New York c’era quella del Pennsylvania Hotel, insieme al Lincoln e il Commodore
B. A Chicago il Congress Hotel e lo Sherman
C. A Los Angeles il Palomar e il Palladium

Ad Harlem sopravvisse il Savoy, passato indenne alla grande crisi e ancora teatro delle “Battle of Jazz”.

Chick Webb era il più frequente mattatore e vincitore di quelle sfide; ebbe qualche difficoltà soltanto quando
nel suo regno arrivò Benny Goodman con la formazione al completo.
Quel giorno rimasero fuori ben 20.000 spettatori, in fila per ore.
Difficili anche le sfide con Count Basie e con gli spettacolari Casa Loma.
Ma fu con Duke Ellington che dovette incassare la più dura sconfitta.

Al Savoy le serate erano interminabili, tanto che il locale chiudeva con la Breakfast Dance (il ballo della
prima colazione) alle 8 del mattino.

Come in altri ballrooms, dilagava la moda del ballo acrobatico, portato fino all’esasperazione dagli
“jitterbugs”, i più esaltati patiti dello swing, gli specialisti del Lindy Hop.

I band leaders mal sopportavano le loro esibizioni esagerate e spesso addiritura invadenti; i ballerini
costituivano un vero e proprio show nello spettacolo, tanto che talvolta disturbavano i musicisti e
distoglievano l’attenzione degli ascoltatori.
Il clarinettista Artie Shaw una sera del 1939, all’apice del successo si sentì esasperato dalla foga dei ballerini
tanto da abbandonare l’orchestra sul palco, decidendo poi di ritirarsi per qualche tempo in un eremo solitario
in Messico.

I fan delle orchestre erano soffocanti nei loro slanci affettuosi, con le loro richieste di autografi nei momenti
meno opportuni, come prima di salire sul palco.

Il jazz entrò di diritto anche nei teatri, stavolta non per quelle pompose presentazioni di carattere divulgativo
alla Jim Europe o Paul Whiteman.
I concerti erano spesso accoppiati alla proiezione di film.

Nel 1938 perfino la mitica Carnegie Hall di New York, tempio della musica classica, aprì le porte al jazz.

Il 16 gennaio di quell’anno ci fu forse l’evento clou della Swing Era, con un programma imponente curato
direttamente da Benny Goodman. Oltre alla big band e al quartetto del clarinettista, furono presentati vari
solisti provenienti dalle orchestre di Duke Ellington e Count Basie:

A. Count Basie (pianoforte)


B. Freddie Green (chitarra)
C. Lester Young (sax tenore)
D. Johnny Hodges (sax contralto e soprano)
E. Harry Carney (sax baritono)
F. Cootie Williams (tromba)
G. Buck Clayton (tromba)
H. Walter Page (contrabbasso)
I. Bobby Hackett (cornetta)

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Prima di questo evento, che ricevette un enorme risalto da parte della stampa, c’erano già state delle
scorpacciate di jazz:

A. quella all’Imperial Theatre di New York nel 1936, con ben 17 orchestre

B. il cosiddetto “Carnevale dello Swing” che si tenne allo stadio di Randall’s Island nel 1938, con
addirittura 25 big band

Possiamo considerare tali eventi quali antesignani dei grandi festival jazzistici mondiali.

Questo interesse che dilagava portò anche al recupero dei primi grandi musicisti di jazz ormai caduti nel
dimenticatoio: sempre nel 1938 John Hammond organizzò i concerti “From Spiritual To Swing”,
documentati su disco.
In quest’occasione egli ripropose i grandi pianisti di boogie-woogie che rischiavano di essere dimenticati:

A. Pete Johnson
B. Albert Ammons
C. Meade Lux Lewis

Altri appassionati capeggiati da Charles Edward Smith e Frederich Ramsey jr., scovarono addirittura Bunk
Johnson, mitica seconda cornetta della Ragtime Band di Buddy Bolden, questo musicista divenne una stella
del “New Orleans Revival” dopo che gli furono fatti rimettere i denti.

E nel 1938 tornò alla ribalta dopo anni di assenza Jelly Roll Morton, registrando per la Biblioteca del
Congresso a Washington una serie di dischi-documentario.

Nello stesso periodo Milt Gabler, proprietario del Commodore Music Shop, iniziò a pubblicare dei dischi di
jazz primigenio, riesumando vecchie incisioni contenute nei race records.
Successivamente produsse una serie di dischi per la propria etichetta, la Commodore, in cui convocò in sala i
migliori solisti bianchi e neri, prima negli studi di registrazione della Decca, poi al Jimmy Ryan’s.

Il Jimmy Ryan’s era uno dei locali della 52° strada, fra la 6° e la 5° Avenue, vicino Broadway.
Questa via era diventata il centro del jazz già da qualche anno ed era conosciuta come “la strada dello
swing”.

Altrettanto famoso era l’Onyx, frequentato nei primi anni Trenta dai componenti del Local 802, la sezione di
New York del sindacato musicisti; inaugurato ufficialmente solo alla fine del proibizionismo nel 1934, con
una storica jam session che durò tutta la notte, fu uno dei club che diede maggiore impulso al jazz.

Louis Prima, trombettista e cantante di New Orleans inaugurò invece il Famous Door, in cui trovarono posto
prima il suo concittadino Wingy Manone, storico trombettista e band leader e poi la cantante Billie Holiday.

La Holiday poi divenne la regina incontrastata della 52° strada, cantando principalmente al Kelly’s Stable e
poi al Downbeat, club inaugurato nel 1944.
Il suo primato fu messo in discussione solo quando fece le sue prime apparizioni Ella Fitzgerald, che aveva
debuttato al Savoy a metà degli anni Trenta con l’orchestra di Chick Webb.

Ancora al Famous Door ebbero i loro primi successi le orchestre di:

A. Count Basie
B. Woody Herman
C. Le formazioni dello xilofonista e vibrafonista Red Norvo, che si esibiva anche insieme alla moglie
Mildred Bailey, la prima cantante bianca ad avvicinarsi alle grandi interpreti nere. I due coniugi
furono soprannominati “Mr. & Mrs. Swing”

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Ancora in quella strada si poteva incontrare spesso il grande virtuoso del pianoforte Art Tatum (che suonava
per una mezza dozzina di birre come compenso) e il sassofonista tenore Coleman Hawkins, tornato da una
delle sue lunghe permanenze in Europa.

La musica che si ascoltava nei locali della 52° strada era diversa da quella imperante:

A. era più nera


B. più vicina alle forme jazzistiche strumentali degli anni Venti
C. soprattutto non era destinata al ballo ma solo all’ascolto

Tuttavia aveva perso gran parte della componente blues delle origini:

A. il blues aveva un posto secondario nei repertori delle nuove leve


B. lo si poteva intravedere nella struttura o nelle armonie di alcuni pezzi strumentali, ma non erano più
in repertorio

Altro punto di concentrazione dei jazz club fu il Greenvich Village, dove al Nick’s di Nick Rongetti si creò
l’avamposto degli ex-musicisti di Chicago, organizzati dal chitarrista Eddie Condon.

Al Cafè Society si cominciarono a presentare formazioni miste di musicisti neri e bianchi, anticipando il
fenomeno che ebbe il suo acme nella 52° strada qualche anno dopo.

La discriminazione infatti era ancora molto sentita e spesso vere e proprie stelle della musica jazz come
Billie Holiday e il pianista Teddy Wilson dovevano subire umiliazioni, restrizioni ed anche licenziamenti se
contravvenivano alle regole.

Anche quando in Europa scoppiò la guerra, in America la “swing craze” non diminuì affatto.

Gli ultimi ad avere successo furono:

A. Glenn Miller
B. Woody Herman
C. Charlie Barnet , la cui big band era ritenuta “più negra delle orchestre bianche”
D. Gene Krupa
E. Harry James
F. Teddy Wilson
G. Lionel Hampton, che anticipò la tendenza musicale del Rhythm and Blues

Con lo scoppio della guerra però la società americana subì dei rapidi cambiamenti:

A. la rapida espansione delle industrie belliche provocò una nuova emigrazione in massa dei neri verso i
centri industriali, determinando frequenti tumulti
B. nei neri crebbe l’amara consapevolezza di andare in Europa a combattere il nazismo, mentre nel
proprio paese veniva ancora praticato il razzismo.

Solo sulla musica jazz, ed in particolare sullo swing, le popolazioni nere e bianche americane andavano
d’accordo.
Era musica consolatoria, ascoltata alla radio ed anche grazie ai “V Discs”, incisioni prodotte esclusivamente
per le forze armate con il miglior jazz prodotto in quegli anni.

Nel frattempo un fatto apparentemente banale causò la disaffezione del pubblico alla musica swing: James
Petrillo, presidente della American Federation of Musicians of the United States and Canada indisse uno
sciopero delle registrazioni discografiche, il cosiddetto Recording ban, allo scopo di far riconoscere ai
musicisti i compensi per i diritti di riproduzione.

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Per le incisioni in studio la maggior parte dei musicisti percepiva cifre irrisorie: la paga sindacale era di
appena venti dollari per l’intera giornata, mentre i dischi incassavano milioni.

Per questo motivo, per circa due anni, dal 1942 al 1944 gli unici dischi prodotti furono quelli per le forze
armate, i V-discs, i cosiddetti “dischi della vittoria”, destinati per lo più ai soldati impegnati al fronte.

Non presero parte allo sciopero i musicisti di colore, specialmente quelli dediti al neonato rhythm and blues,
e gli interpreti vocali di musica commerciale, che divennero i nuovi divi soppiantando i jazzisti.

Il risultato di quel duro braccio di ferro tra le Major e i musicisti fu che si ottenne una nuova regola a favore
delle generazioni future ma la gente si disabituò al jazz, e altrettanto velocemente si disaffezionò alle sorti
della musica strumentale!

Fu così che l’Era dello Swing giunse alla conclusione, convenzionalmente fatta coincidere con la morte del
maggiore delle Forze Armate, direttore dell’ Orchestra dell’Esercito Glenn Miller, scomparso nel dicembre
del 1944 nelle acque dello stretto della Manica durante la trasvolata da Londra a Parigi.

Una conclusione annunciata dal silenzio di quelle sale di registrazione deserte, abbandonate volontariamente
dai solisti dalle grandi orchestre che avevano fatto del jazz una musica veramente per tutti, senza distinzioni
di classe e di colore della pelle.

L’Era dello Swing lasciava però un’eredità: la musica di grandi solisti come Benny Goodman e una fitta
schiera di arrangiatori che avevano contribuito a rendere il jazz una musica perfetta per ballare e quindi
immensamente popolare.

Ai primi orchestratori, i veterani Duke Ellington, Fletcher Henderson, Don Redman, Benny Carter, si
aggiunsero dei nuovi talenti come:

A. Billy Strayhorn, vero e proprio alter ego di Duke Ellington


B. Sy Oliver, arrangiatore di Tommy Dorsey
C. Eddie Sauter, arrangiò per Red Norno, Artie Shaw, Woody Herman
D. Bob Haggart, arrangiatore di Ella Fitzgerald e Louis Armstrong
E. Johnny Mandel, scrisse per Count Basie, Frank Sinatra, Anita O’Day

In quel periodo ad affermarsi erano state soprattutto grandi orchestre, le big band.

Tra i complessi, il meglio fu rappresentato dalle piccole formazioni di Benny Goodman e una piccola band
che anticipava in qualche modo le sonorità del bebop, il sestetto di John Kirby.

In quegli anni si mise in luce il primo musicista europeo di jazz, il chitarrista Django Reinhardt.
Discendente da una vecchia famiglia di zingari che aveva girato mezza Europa, nacque in Belgio ed anche
quando diventò la stella del jazz francese continuò a vivere nel carrozzone di famiglia.
Nel suo modo di suonare vibrava quella sensibilità per gli strumenti a corda tipica degli zingari, sia quando
imbracciano il violino che quando suonano la chitarra flamenco.
La grande venerazione per il chitarrista americano (di origine italiana) Eddie Lang lo portò a formare il suo
famoso “Hot Club de France Quintet”, un quintetto composto da tre chitarre, violino e contrabbasso.
Suo alter ego musicale divenne il violinista francese Stephane Grappelli, con cui ricostituì in Europa
l’equivalente del duo americano formato da Joe Venuti e Eddie Lang.

Nato in Belgio a Liberchies nel 1910 Reinhardt rimase vittima giovanissimo di un incendio che scoppiò nel
campo nomadi; il suo carrozzone fu devastato dalle fiamme e perse l’uso di due dita della mano sinistra, che
furono praticamente saldate insieme dai medici che cauterizzarono le ferite.

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La menomazione giunse quando Django già suonava per cui il chitarrista dovette inventarsi una nuova
tecnica nel giro di qualche mese; impugnando il manico con il pollice utilizzava le due dita restanti per
eseguire velocissime frasi di sapore jazzistico, che diventarono veri e propri virtuosismi col passare del
tempo.
Stupì tutto il mondo per il modo in cui era riuscito da europeo ad interiorizzare la musica afroamericana,
sintetizzandola in una propria sintesi di sapore gitano.

In effetti come diceva il critico Marshall Stearns: “c’è più swing in un gruppo di musicisti tzigani che in un
esercito di tamburi africani”; la sola spiegazione è probabilmente quella sociologica: gli zingari si trovavano
in una posizione emarginata rispetto alla società europea quanto gli afroamericani negli U.S.A.

Django fu anche un fecondo compositore:

A. Nuages
B. Minor Swing
C. Tears

Sono i suoi temi più belli, giustamente diventati famosi e soprattutto il primo (Nuages) sopravvive come
standard del jazz.

Nel 1946 Duke Ellington ingaggiò il chitarrista per una tournée americana: non tuttto andò liscio, infatti
Reinhardt non portò con sé la chitarra, pensando che a un musicista come lui l’avrebbero fatta trovare sul
posto; inoltre il suo nome non compariva in cartellone, cosa che generò il disappunto del chitarrista che fu
sul punto di non esiibirsi con il Duca.

A tutt’oggi Django Reinhardt è l’unico europeo il cui nome viene fatto alle volte quando si domanda ai
jazzisti americani quali siano i loro modelli o i musicisti che li abbiano influenzato; lo stile da lui derivato è
detto oggi “chitarra manouche”.

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