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Capitolo 22

Miles Davis e il jazz rock

Gli anni Sessanta furono anni di continue fusioni, determinanti per i successivi sviluppi del jazz.
La vertiginosa evoluzione della musica commerciale esercitò certamente un’influenza
determinante affinchè la musica d’improvvisazione cambiasse obiettivi e rotta.

In particolare fu quando nacque il concetto di musica pop (a metà degli anni Cinquanta, proprio in
alternativa al jazz, divenuto un genere elitario ed impegnato, e alla musica classica, che aveva un
bacino d’utenza e una rilevanza enormi), che i musicisti afroamericani si posero il problema di
proporre le loro improvvisazioni attraverso nuovi ritmi e sonorità differenti.

Il jazz trovava la sua essenza in una certa sobrietà espressiva, che si traduceva nel rifiuto dei mezzi
d’amplificazione e della pur modesta tecnologia di allora a favore dell’immediatezza fisica del
suono reale prodotto dai musicisti; l’utilizzo di strumenti acustici garantiva purezza e rigore, a
differenza di quanto avveniva nella musica commerciale.
Pensiamo all’uso del delay, dei riverberi, delle prime “camere d’eco”, che caratterizzarono la
musica giovanile, il rock’n’roll e i gruppi vocali del doo wop……
Quanto di più lontano poteva essere dall’ascetismo del suono di Bill Evans?
Se allarghiamo il discorso ai cantanti, nei generi commerciali le voci venivano arricchite con
effetti da studio di registrazione; nel jazz invece lo scat di Ella Fitzgerald non aveva bisogno di
alcun trattamento che ne prolungasse il suono!
Sarah Vaughan fu capace di trarre i più bei chiaroscuri soltanto attraverso l’uso del microfono, ma
nessun filtro era necessario per rendere ancor più sensuali le sue interpretazioni
Per non parlare di Billie Holiday……..!

Ci volle il coraggio di un grande jazzista per sovvertire una tradizione così radicata: Miles Davis
portò progressivamente nella sua musica l’elettrificazione e col tempo una patina sempre più pop.

All’inizio degli anni Sessanta, nell’epoca in cui il rock doveva ancora esplodere, non avvenne
alcuna fusione determinante; tuttavia progressivamente si assistette all’introduzione di nuovi
strumenti elettrici:

A. il pianoforte prodotto dalla Fender, il mitico Rhodes


B. i primi sintetizzatori (il Moog è dei primi anni Sessanta)
C. il basso elettrico, che già nel soul e nel primigenio funky garantiva una pulsazione meno
faticosa e più costante del contrabbasso
D. la chitarra elettrica, che poteva sfruttare una moltitudine di effetti

Quest’ultimo strumento era entrato nel jazz negli anni Quaranta, grazie al pioniere Charlie
Christian, ma il suo suono era stato per un paio di decenni pulito, semmai venato d’influenze
country (come fece Jim Hall nel decennio successivo suonando nei gruppi di Jimmy Giuffre e
Chico Hamilton) ma lontano anni luce da una qualsiasi idea di distorsione.

Fu con il rock che il suono delle chitarre si appesantì notevolmente e questo strumento cominciò a
mettere seriamente in pericolo lo strapotere dei sassofoni e degli ottoni: l’arma in più dei
chitarristi, grazie agli amplificatori, era la manopola del volume!

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Se nei gruppi rock della British Invasion e in quelli rivali del Surf già spopolavano i suoni
amplificati in maniera parossistica tanto da causare involontariamente la distorsione, fu con il
grande Jimi Hendrix che la scena mutò definitivamente: un grande solista di chitarra elettrica,
accompagnato soltanto dal basso di Noel Redding e la batteria di Mitch Mitchell (due musicisti
bianchi, inglesi, poi sostituiti dagli afroamericani Buddy Miles, batterista, e dal bassista Bill Cox
nella Band of Gypsies) riusciva a esprimere appieno la rabbia del ghetto, il tedio esistenziale, la
violenza di un passaggio generazionale combattuto e sofferto, lo stesso senso di ribellione che si
poteva riconoscere negli esponenti più radicali del free jazz, fughe dalla tonalità incluse, pur
rimanendo saldamente ancorato al mondo del blues.

Fu il “fenomeno Hendrix” (e il vicepresidente e general manager della Columbia Clive Davis, che
curiosamente portava lo stesso cognome di Miles) a spingere il trombettista principe del jazz a
tentare qualcosa di simile con la propria musica, allo scopo di recuperare il gap di vendite che si
era venuto a creare in quegli anni tra i cataloghi pop-rock e quello del jazz prodotto dall’etichetta
discografica statunitense.

Il travolgente Sly Stone, uno dei precursori del funky, riscuoteva consensi unanimi ed era
diventato popolarissimo tra gli afroamericani, grazie alla ballabilità della sua musica; il suo gruppo
Sly and Family Stone rappresentò un punto di riferimento per Davis in questa fase di transizione:
nel suo caso era l’incredibile “groove” quel suo procedere ipnotico, reiterato ed ossessivo ad
attrarre irresistibilmente Miles, che si approprierà definitivamente di quel concetto soltanto nei
decenni successivi.

Prima di Miles interessanti esperimenti erano stati compiuti in Gran Bretagna, patria del rock e
negli Stati Uniti; pur essendo estremamente interessaanti non suscitarono il fragore determinato da
Davis con i suoi progetti di fine decennio, sicuramente perché non possedevano la genialità e la
classe del trombettista nato nel 1926 ad Alton, nei pressi di East-St. Louis.

Proviamo a riassumerli……

In Gran Bretagna fin dagli inizi degli anni Sessanta il primo a muovere dei passi verso quella che
pareva un’improbabile sintesi tra jazz e rock fu il chitarrista, cantante e conduttore radiofonico
Alexis Korner, fondatore nel 1962 dei Blues Incorporated, insieme al cantante Cyril Davies.
L’idea fu quella di aggiungere una sezione di sassofoni, che suonavano in stile hard bop in
contrapposizione alla ritmica rhythm and blues; Dick Heckstall-Smith e Art Themen ai sax
aggiungevano alla ruvida ritmica percussiva una decisa venatura jazz.

Nei Blues Incorporated militarono tante future star:

A. il cantante Mick Jagger (Rolling Stones)


B. il bassista scozzese Jack Bruce (Cream)
C. i batteristi Charlie Watts (Rolling Stones) e Ginger Baker (Cream)

Dopo di lui l’inquietante Graham Bond (nome completo Graham John Clifton Bond), tastierista,
cantante e sassofonista, uno dei pionieri dell’organo Hammond nel rock e considerato il
fondatore del rhythm and blues britannico, fondò la Graham Bond Organization, che annoverò
tra le sue file i sopracitati Jack Bruce e Ginger Baker, nonché un giovanissimo John McLaughlin.
In quella band il senso jazzistico, rappresentato da lunghe scorribande improvvisate veniva però
soffocato da accenti marcatamente rock.

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John Mayall fu un altro punto di riferimento fondamentale della scena blues rock inglese, che
ebbe un ruolo di transizione tra il blues classico di Leadbelly, la chitarra sparuta ma rotonda di
Eddie Lang e il rock blues degli anni Settanta.
Da autodidatta imparò a suonare anche l’armonica e il piano ma fu essenzialmente chitarrista e
cantante; con il suo gruppo, denominato Bluesbreakers rappresentò una sorta di accademia per i
giovani musicisti, tra i quali spiccò il grande chitarrista Eric Clapton.
Nel 1966 fu pubblicato l’album Blues Breakers with Eric Clapton, pietra miliare del rock blues,
notevole soprattutto nelle prime due tracce per la sperimentazione sui cambi di tempo che
lasciavano presagire i successivi sviluppi dello stile “progressive”.

Poi Clapton, il bassista-cantante Jack Bruce e il batterista Ginger Baker fondarono i Cream
nello stesso anno, il 1966.
La musica di questa band era caratterizzata da lunghi assoli strumentali; i Cream tennero concerti
principalmente negli Stati Unitie si sciolsero dopo appena un paio d’anni, ma avevano lasciato un
solco indelebile, entrando nella storia.
I Cream avevano due facce: la prima più misurata era quella da studio; le loro esibizioni live
invece consistevano in lunghe session improvvisate, suonate a volumi altissimi, che grazie alla
bravura dei tre musicisti si trasformavano in momenti di rara bellezza e pura energia.
Saldamente ancorati al blues e all’estetica dei riff, i Cream erano guidati dalla voce e dal solismo
magistrale di Eric Clapton, sostenuto creativamente dal bassista Jack Bruce, autore dei brani, che
non si limitava soltanto a suonare dei riff ma alternava efficaci passaggi melodici e dalle
poliritmiche scomposizioni di Ginger Baker: entrambi i musicisti della ritmica si consideravano
all’epoca quasi dei jazzisti puri!
Il gruppo dimostrò come il jazz potesse trasmettere nuove idee al rock, la nuova musica
paradossalmente nata da una sua costola seppur remota, il rhythm and blues.
Sull’esempio dei Cream si aprirono ampi spazi per quello che di un concerto rock è il momento
fàtico: l’assolo chitarristico, un volo ad ali spiegate verso la poesia che culmina nel
virtuosismo…..proprio come faceva John Coltrane, che infatti era estremamente popolare tra i
musicisti fondatori del genere rock.

Dopo di loro il batterista Jon Hiseman formò nel 1969 la prima band di jazz rock in senso
stretto: i Colosseum; il leader decise di invertire la rotta rispetto ai gruppi britannici dediti al blues
rock: anziché partire dalle tradizionali dodici misure Hiseman nel proprio gruppo adottò
progressioni armoniche più complesse, di chiara matrice jazzistica, innestate però sui ritmi rock
con cui il pubblico aveva grande familiarità.

Infine nel 1969, sempre in Inghilterra, il trombettista di free jazz Ian Carr fondò una band
interessantissima: i Nucleus.
Insieme ad altri musicisti esperti di libera improvvisazione Carr realizzò una miscela assai
interessante e futurista, che in qualche modo mostrò la strada a formazioni come i Soft Machine.
Carr dichiarò di voler utilizzare l’aggressiva precisione del rock per compensare l’alto livello
d’astrazione delle improvvisazioni (free).
La musica del gruppo fu annunciata dall’album Greek Varations, registrato a nome del cantante
Neil Ardley; il brano “Persephone’s Jive” di Carr conteneva elementi che si ritroveranno dei
Nucleus.
Nel gruppo predominava la figura del leader, che dopo anni di estrema creatività si riavvicinò alla
pratica compositiva per realizzare il proprio ideale di musica: i suoi arrangiamenti erano
articolatissimi, basati su tempi dispari e presentavano un machiavellico studio della poliritmia,
ottenuta sovrapponendo strati simultanei di 4/4 e 8/8, sbilanciati in ogni chorus da una misura in
11/8.

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Ian Carr, che era nato in Scozia nel 1933 a Dumfries, iniziò in quegli anni anche l’attività di
biografo ufficiale di Miles Davis, ripercorrendo le tappe artistiche del trombettista americano che
fu il principale artefice della fusione tra jazz e rock.
Carr è scomparso a Londra nel 2009.

Prima di riprendere a parlare di Miles dobbiamo però citare dei precursori del nuovo genere che
furono attivi negli anni Sessanta negli Stati Uniti, sperimentando con strumenti elettrici e quindi
anticipando in qualche modo le sonorità del jazz-rock.
Si trattò sostanzialmente di esperienze circoscritte al jazz elettrico.

In primis citiamo il vibrafonista Gary Burton, che nel 1967 aveva dato alle stampe l’ottimo
lavoro in quartetto Duster, insieme al chitarrista elettrico Larry Coryell, il contrabbassista Steve
Swallow e il batterista Roy Haynes.
Burton aveva elaborato una tecnica personalissima al vibrafono e alla marimba, che aveva studiato
da autodidatta, prima di perfezionarsi nel biennio 1960-61 al Berklee College of Music di
Boston: in pratica utilizzando quattro bacchette anziché due aveva sviluppato una nuova tecnica
che consentiva di suonare gli accordi, proprio come un pianista; tale sistema è quello
maggiormente in uso tra i vibrafonisti moderni.
Dopo aver debuttato con i gruppi del pianista George Shearing e del sassofonista Stan Getz,
Burton si affermò in breve come un eccellente solista; quindi nella seconda metà degli anni
Sessanta si mise in evidenza per le sue sperimentazioni elettriche, che coinvolsero dopo Coryell i
giovani chitarristi Pat Metheny e John Scofield.
Negli anni Settanta Burton tornò da insegnante al Berklee di Boston, una vera e propria istituzione
preposta allo studio della musica jazz; le sue capacità d’insegnante, unite a una grande
disponibilità verso gli allievi è spesso ricordata da John Scofield, che si ritiene a tutti gli effetti un
suo discepolo.
Gary Burton inoltre lanciò la formula del concerto in duo, stringendo un sodalizio fortunato e
lunghissimo con il pianista Chick Corea.
Tornando a Duster, il linguaggio jazzistico del quartetto era già molto evoluto e precorreva alcuni
tratti virtuosistici di un certo tipo di fusion degli anni a venire; il suono del chitarrista Coryell, che
faceva un uso diffuso del delay, creava insieme al vibrafono di Burton un suond innovativo e
senza dubbio affascinante, sebbene la musica non fosse di facile fruizione.

Un altro pioniere del jazz elettrico era stato il trombettista bianco Don Ellis, già noto per le sue
mirabili sortite solistiche (personalissime) nei dischi incisi con il compositore George Russell.
Negli anni Sessanta, dopo aver accarezzato l’idea di un’improvvisazione totalmente libera, tornò a
privilegiare le strutture formali, dalle quali eventualmente poteva spingersi oltre limiti
predeterminati; inoltre iniziò a sperimentare con gli strumenti elettrici, formando addirittura una
big band che esplorava questi nuovi territori:
Egli stesso adottò per breve tempo una tromba elettrificata; fu di quel periodo l’incisione
dell’album Electric Bath, che conteneva già nel titolo chiari intenti programmatici.

Anche il suo mentore, l’appena citato George Russell, che a metà degli anni Sessanta si era recato
in Scandinavia a insegnare, registrò in Europa molte delle sue opere rock-fusion, collaborando con
giovani musicisti locali, future star del jazz, come il chitarrista Terje Rypdal e soprattutto il
sassofonista norvegese Jan Garbarek, a quel tempo musicista votato al free jazz più estremo.
Con lui Russell realizzò nel 1968 l’Electronic Sonata for Souls Loved By Nature, un brano
dalla durata di venticinque minuti, che metteva in luce le sue concezioni di compositore
avventuroso e sempre all’avanguardia.

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Sempre negli Stati Uniti, sperimentarono l’utilizzo di strumenti elettrici o elettronici nella loro
musica:

A) il flautista Herbie Mann


B) il sassofonista e polistrumentista Yusef Lateef
C) il sassofonista tenore Eddie Harris

Tuttavia spesso l’utilizzo di sonorità ampiamente in uso nel rock e in altra musica di consumo, ai
fini di realizzare maggiori vendite discografiche, conferiva alla musica di questi jazzisti una patina
pop troppo marcata, inaugurando una tendenza che avrebbe visto il suo acme nei due decenni
successivi, gli anni Settanta e soprattutto gli Ottanta, con la vera e propria esplosione della fusion.

Del resto in quest’ottica si può indicare già il soul-jazz come prima forma di avvicinamento della
musica d’improvvisazione alle esigenze di un mercato discografico che si rivolgeva sempre di più
alle nuove generazioni, cresciute con il rhythm and blues e il rock’n’roll.

In definitiva tra tanti contendenti fu il misconosciuto Mike Nock, pianista di origine neozelandese,
a fondare il primo gruppo ufficiale del jazz-rock americano: i Fourth Way.
Nock aveva mosso i primi passi negli Stati Uniti suonando con il sassofonista Yusef Lateef, un
musicista da sempre dedito alla ricerca sul suono; una volta esaurita la sua collaborazione con il
sassofonista afroamericano, Nock creò una propria formazione, denominata Fourth Way.
Questo gruppo fu il primo ad adottare regolarmente i tempi binari del rock per caratterizzare la
propria musica, che per il resto rimaneva di chiara derivazione jazzistica, per quanto riguarda il
linguaggio, ma strizzava l’occhio alle strutture semplici e ripetitive dell’altro genere musicale che
a quel tempo era diventato maggiormente popolare presso i giovani.
La formazione si presentava come un quartetto atipico e innovativo per l’adozione del piano
Fender e del basso elettrico, ma soprattutto per la presenza di Michael White, un violinista dal
linguaggio moderno e ardito; gli altri componenti erano Nock, leader e pianista, Ron McClure al
basso elettrico e il batterista Eddie Marshall
I Fourth Way si formarono nel 1967 e incisero tre album:

A) The Fourth Way, nel 1969


B) The Sun and Moon Have Come Together
C) Werewolf (Harvest, 1970), registrato live al Montreux Jazz Festival

Questo interessante quartetto non divenne mai veramente famoso, ma rappresentò un importante
punto di riferimento per formazioni jazz-rock nate negli anni Settanta come i Weather Report.

Tuttavia su quest’ultimo gruppo e su tutta la gestazione che portò alla fusione di differenti generi
musicali si protende un’ombra ben più importante determinante, quella del grande Miles Davis.

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UN NUOVO QUINTETTO

Il grande Miles non era un tipo che amava ripetersi; dopo la realizzazione di Kind of Blue, pietra
miliare e perfetto esempio di jazz modale, il trombettista continuò a guardare oltre…
In realtà lo storico sestetto che comprendeva John Coltrane e Bill Evans si sgretolò sotto i suoi
occhi; nella storia del jazz era già successo ad altri grandi leader di lanciare dei grandi solisti che
successivamente si misero in proprio:

A) Benny Goodman fece da talent scout a Lionel Hampton, Gene Krupa, Harry James, tutti
questi musicisti lo abbandonarono per mettersi in proprio.
B) King Oliver con Louis Armstrong

Gli anni Sessanta si aprirono in maniera interlocutoria per Davis, che non partecipò attivamente
alle rivendicazioni antisegregazioniste di colleghi come Roach, Rollins e Mingus; eppure i principi
del movimento afroamericano erano presenti nella sua poetica, innanzitutto l’orgoglio per la
propria razza e delle radici africane, che si traducevano nel disprezzo dei bianchi, proseguendo con
l’esigenza di libertà e la ricerca di nuove possibilità espressive.

Nel 1963 realizzò l’album Seven Steps To Heaven; per questo lavoro scelse come pianista
l’inglese Victor Feldman, che si dimostrò adattissimo alla musica di Davis, grazie al senso
misurato del fraseggio e al suo innato relax musicale. Ma già da questo disco l’ingresso del
contrabbassista Ron Carter fu il primo passo verso la costituzione di una nuova grandissima
formazione, forse la migliore della sua carriera, anche se non lo porterà a conseguire risultati
concreti e definitivi nell’ottica della sua ricerca.
Ron Carter, giovane musicista di Detroit, aveva appena 25 anni ma aveva già suonato con:

A) Jim Hall
B) Art Farmer
C) Randy Weston
D) Herbie Mann
E) Bobby Timmons
F) Thelonious Monk

Alla batteria si alternarono nelle varie tracce del disco il veterano Frank Butler e il giovanissimo
batterista di Boston Anthony “Tony” Williams, un’altra “scoperta” di Davis: nonostante avesse
appena diciassette anni il batterista evidenziò fin da subito una personalità straordinaria e una
tecnica innovativa, soprattutto per il modo di suonare sui piatti, che gli permetteva di realizzare un
modernissimo senso di poliritmia.
Tony Williams dichiarò di aver studiato a fondo tutti i più grandi batteristi del suo tempo, non per
imitarli ma per evitare di riprodurre le loro stesse cose!

Nella title track dell’album Seven Steps To Heaven, brano scritto da Davis a quattro mani con
Victor Feldman, curiosamente non suonò il pianista inglese ma un’altra giovane rivelazione
d’inizio decennio: il chicagoano Herbie Hancock.

Quindi nel 1963 erano già entrati nel gruppo tre musicisti che accompagnarono e ispirarono Davis
in questa fase di ennesimo rinnovamento.

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Al sax tenore in quella formazione figurava il bravissimo George Coleman, uno dei migliori
solisti del jazz moderno sul suo strumento, seppure non baciato dalla stessa fortuna di altri
colleghi; pur suonando egregiamente le sue caratteristiche (piuttosto vicine allo stile di Coltrane)
non si rivelarono adatte al nuovo progetto di Miles.

La nuova sezione ritmica invece stimolava grandemente il trombettista; Davis apprezzava


soprattutto la grande capacità d’interazione dei suoi nuovi musicisti, capaci di realizzare un
dialogo fitto e continuo, totalmente improvvisato.
Possiamo indicare come caratteristiche fondamentali di questa fase:

A) il call-and-response
B) vertiginose velocità di esecuzione
C) grande senso dell’improvvisazione collettiva
D) armonie bitonali
E) la ripresa di frasi l’uno con l’altro, apportando piccole variazioni
F) un’accentuazione della dimensione improvvisata

L’interplay maggiore avveniva tra Tony Williams e Davis; a Hancock, che alcune volte chiedeva
lumi al leader, Davis rispondeva: “…non sai cosa suonare? Allora non suonare…”
Capitava così che il pianista, diplomato al Grinnell College nel 1960 e già accompagnatore
dell’irriducibile Coleman Hawkins e del trombettista Donald Bird, con cui giunse a New York,
sospendesse talvolta l’accompagnamento dei soli, creando così ancora maggiore spazio per le
improvvisazioni.
Herbie Hancock era dotato di un tocco veramente straordinario, cristallino; da ragazzino aveva
eseguito dei concerti classici e la sua preparazione tecnica apportò alla musica di Davis precisione
e profondità armonica, pur non rinunciando al colore del blues.
Il suo pregio maggiore come pianista era la padronanza assoluta dello strumento, grazie alla quale
realizzava:

A) veloci scale
B) un peculiare modo di suonare per ottave, in maniera diversa e più secca di McCoy Tyner
C) continue scomposizioni degli accordi, creando sempre diversi colori armonici
D) un senso geometrico nella costruzione degli assoli
E) precisione e consequenzialità nel fraseggio improvvisato

La sua sapienza pianistica era tale da potere affermare che riuscisse a fondere la tecnica eurocolta
al jazz e al blues.

Dal canto suo Davis evidenziò nuove concezioni solistiche, utilizzando la tromba in modo più
ampio e completo, dai bassi ai toni acuti, che non erano mai stati il suo forte; inoltre ampliò la
ricerca sul cromatismo, aggiungendo variazioni micro tonali con l’impiego di mezze posizioni sui
tasti dello strumento.
La sua tromba sembrava parlare, gemere, contorcersi e gridare, con grandi esiti emotivi e
spettacolari.

Nell’estate del 1964 entrò a far parte del quintetto di Davis il sassofonista Wayne Shorter;
sebbene i sideman del maestro siano stati innumerevoli e tutti d’immenso valore, il musicista nato
a Newark (nel New Jersey) nel 1933 si rivelò decisivo per lo sviluppo delle formazioni di Davis in
quel decennio.

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Le qualità di Shorter come solista erano notevoli, influenzato grandemente da Coltrane ma in
possesso di un proprio linguaggio, che partiva dalla tradizione e contemporaneamente indicava
nuove direzioni alla musica jazz; ispirato dalla musica dal gruppo e soprattutto stimolato da Davis
il sassofonista si mostrò camaleontico, talvolta paragonabile a un violoncello, altre a una viola,
spesso con un suono che sembrava diventare liquido, tanto era fluttuante ed elastico.
Ancora più rilevante era il suo talento di compositore, che Davis valorizzò (e sfruttò)
ampiamente.

E.S.P. del 1965, fu l’album che segnò l’ingresso del sassofonista nel gruppo di Davis: lo storico
quintetto degli anni Sessanta era completato!
La musica di Davis entrò in una fase, più meditativa, a tratti quasi cameristica; in essa
comparivano:

A) continui chiaroscuri
B) impiego sistematico del cromatismo (specialmente nei due fiati)
C) la dissoluzione del fraseggio tonale

La title track E.S.P. era una composizione innovativa, che non somigliava a nulla che fosse già
stato fatto; il titolo simboleggiava nuove percezioni sensoriali e concezioni musicali.
Tuttavia, ai fini della nostra disanima, il pezzo più importante di quell’album fu “Eighty One”,
composto da Davis e Ron Carter; questo brano infatti era suonato da Williams con un ritmo
binario, di chiara matrice rock, annunciando un profetico abbandono del senso di suddivisione
ternaria tradizionale e identificativa del jazz.
Se già nelle esibizioni live la scansione rock era comparsa naturalmente nello sviluppo di qualche
assolo, in “Eighty One” l’assunzione di un tempo binario marcato e martellante fu completa.

In Miles Smiles, del 1966 tutte le premesse parvero consolidarsi; le composizioni di Shorter
continuarono a fioccare (“Orbits”, “Dolores” e soprattutto il 6/4 “Footprints”); da quel momento
la musica prese una direzione ancora più definita.

Tuttavia a colpire e talvolta disorientare pubblico e critica furono le libertà armoniche e ritmiche
del gruppo, con i solisti che suonavano liberamente, senza seguire i cambi d’accordo, salvo poi
ritrovarsi perfettamente quando rientrava il tema, rispettando così la forma.

Una simile posizione risultava innovativa e contemporaneamente antitetica rispetto ai colleghi del
free jazz storico, che spesso avevano salvato l’elemento melodico distruggendo schemi
predeterminati e strutture armoniche.

Questo stadio evolutivo della musica del quintetto fu sintetizzato nella cosiddetta formula
pronunciata da Davis: “Rhythm, non changes!”.

In questo possiamo vedere una sostanziale affinità con l’ideatore del free jazz Ornette Coleman,
che mai rinunciò a un ritmo sottostante stabile e definito, che facesse da contrasto alle proprie
libertà armoniche e melodiche.

La musica di Davis riusciva a far coesistere la tradizione africana, il suo mondo poliritmico e
ancestrale, con le influenze d’estrazione classica, grazie alle raffinate ricerche armoniche di
Hancock e alla sapienza compositiva di Shorter, eccezionali interpreti e ideali intermediari con la
musica eurocolta.

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Nel 1967 arrivarono due nuovi album:

A) Sorcerer, un disco raffinato e intenso, dal sapore estatico e riflessivo, che esplorava inedite
atmosfere esotiche, specialmente nei temi composti da Shorter, che sono quattro (“Prince
of Darkness”, “Masqualero”, “Limbo” e “Vonetta”). In questo si può vedere un’influenza
indiretta della moda giovanile affascinata dall’India e dalle religioni orientali.

B) Nefertiti, un magnifico esempio di jazz concettuale, forse uno dei punti più alti della
produzione di questo quintetto; la title track “Nefertiti” consisteva in un tema (di Shorter)
suonato dai fiati e ripetuto all’infinito, facendo da sfondo a interventi solistici della ritmica.
La melodia procedeva spesso con cromatismi e intervalli di quarta, evitando così il
convenzionale rapporto con gli accordi, concepiti ancora come sovrapposizioni di terze.
L’album è il primo della cosiddetta trilogia africana di Davis (gli altri sono Filles De
Kilimanjaro e Bitches Brew).

La formula proposta da Davis e i suoi musicisti era altamente jazzistica: pur essendo basata su
parametri precisi era pronta a sovvertirli.
Era una musica che presentava sì strutture ritmiche, melodiche e armoniche, ma da cui era
possibile uscire per poi rientrare, facendole comparire talvolta in primo piano ed altre utilizzandole
come sfondo.

LA SVOLTA ELETTRICA DI MILES

Prima di realizzare la fusione tra jazz e rock, Miles realizzò interessanti esperimenti nell’ambito
del jazz elettrico. Fu uno stadio intermedio, condiviso con altri jazzisti, ma non definitivo.

La musica giovanile aveva attinto alcuni strumenti-simbolo dal jazz:

A) la chitarra elettrica, lanciata da Charlie Christian


B) l’organo Hammond, reso famoso da Jimmy Smith

Altri, come le tastiere elettriche, provenivano dalle ricerche di compositori “classici” di musica
elettronica, mentre il basso elettrico si era diffuso negli anni Cinquanta con il rock’n’roll e i suoi
derivati, che costituivano la prima musica commerciale modernamente concepita.

Negli anni Sessanta cambiavano anche le modalità di fruizione della musica dal vivo, con la crisi
dei piccoli club e il diffondersi dei raduni giovanili, che avvenivano nei festival all’aperto o in
grandi spazi concertistici come il Fillmore East a San Francisco e il Fillmore West a New York,
capaci di ospitare tante persone che condividevano nuovi ideali.

L’adesione ai parametri della musica commerciale, come l’elettrificazione e l’utilizzo delle


ritmiche binarie di matrice rock avvicinò Davis e il suo gruppo al gusto dei giovani; inoltre
l’inclusione del musicista da parte della Columbia nel catalogo pop, che rispetto al jazz garantiva
il raggiungimento di un pubblico maggiore e più eterogeneo, sortì gli effetti sperati, con una
impennata nelle vendite dei suoi dischi.

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Eppure per Davis la musica rimaneva sostanzialmente un veicolo per l’improvvisazione, non
rispecchiandosi nei contenuti espressi dalla musica di consumo, con i suoi tre minuti di durata, i
semplici riff e le strutture chiuse della forma-canzone.

Nella musica di Davis si notava un’espansione delle durate dei brani, che sempre più spesso,
grazie allo stile intimista e meditativo somigliavano a grandi flussi di coscienza, in un lento
dipanarsi d’improvvisazioni oppure di temi ripetuti e ostinati.

Dal 1968 al 1970 la svolta elettrica si caratterizzò per i seguenti aspetti:

A) melodie scarne ed essenziali, derivata da frammenti cromatici oppure da note tratte dalle scale
B) temi che non rispettando le tradizionali strutture formali avevano una metrica libera
C) uso libero dell’armonia, con frequenti sovrapposizioni di accordi che seguendo le
improvvisazioni sconfinavano nell’atonalità
D) giri di basso ostinati, costruiti su brevi riff; mentre i solisti si allontanavano dalle armonie date
questo strumento fungeva da collante con la tonalità d’impianto
E) la batteria scandiva delle ritmiche semplici e ostinate, di chiara derivazione pop
F) la ritmica utilizzata per eseguire parti strutturali dei brani, come introduzioni, interludi e finali

Con Filles de Kilimanjaro, album del 1968, secondo tassello della cosiddetta trilogia africana,
inaugurata da Nefertiti e destinata a concludersi con Bitches Brew, anche la formazione stava
cambiando: in aggiunta a Ron Carter, che suonò la maggior parte dei brani del disco, adoperando
in uno anche il basso elettrico, entrò il contrabbassista inglese Dave Holland.
Inoltre Davis chiamò (soltanto per dei “live”) il contrabbassista cecoslovacco Miroslav Vitous
(che era anche un grande sportivo, essendo stato selezionato dalla nazionale di nuoto del suo paese
per partecipare alle Olimpiadi del 1968).
Il pianista Chick Corea si aggiunse al fedelissimo Herbie Hancock; quest’ultimo, ammalatosi
durante il viaggio di nozze, non fu creduto dal leader, il quale lo sostituì nelle formazioni utilizzate
per i concerti live.

Anche il pianista viennese Joe Zawinul, che suonava da qualche anno negli Stati Uniti con le
formazioni del sassofonista ex-davisiano Cannonball Adderley, era un sorvegliato speciale da
Miles; una volta il trombettista andò apposta a Città del Messico per sentirgli suonare il piano
elettrico Wurlitzer, anche se quella sera poi mancò l’elettricità e il viaggio si sarebbe rivelato
inutile.

Filles de Kilimanjaro è un disco di transizione, in cui l’atmosfera musicale è permeata di


atonalismo e free jazz, due concetti “aleatori” che venivano contrapposti decisamente alla
pragmaticità della sezione ritmica, che si muoveva su solidi riff oppure figure obbligate e di
semplice concezione.

Anche se in qualche brano la regolarità ritmica veniva talvolta accantonata per effetti che
conferivano maggiore libertà alla musica, come rullate e improvvisi colpi di piatto del batterista
Tony Williams, si intravedeva la tendenza che avrebbe predominato nella musica realizzata da
Davis gli anni successivi.

Il 1969 fu l’anno del magnifico In A Silent Way; sebbene le esibizioni live e i dischi Miles In The
Sky e Filles de Kilimanjaro avessero già fatto intravedere un netto cambiamento stilistico da parte
del musicista, quest’ultimo lavoro conteneva il primo vero approccio completamente elettrico di
Davis alla sua musica.

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Questo disco è considerato una pietra miliare di quel periodo, perché fondeva brillantemente il
jazz con il rock, risultando così uno dei primi tentativi di esplorazione di Davis verso un genere di
musica definito fusion, direzione che diventò ancor più evidente nel successivo lavoro pubblicato,
il celebre Bitches Brew.

In A Silent Way fu accolto da giudizi contrastanti; i critici improvvisamente capirono il senso


della ricerca realizzata da Miles Davis negli ultimi anni, in bilico tra le istanze proprie della
musica afroamericana (l’improvvisazione e una relativa libertà formale) e le sonorità accattivanti
della musica di consumo, che il grande pubblico sembrava ormai favorire.
Soprattutto i recensori del tempo più inclini al jazz videro in quest’album un progressivo
impoverimento dei contenuti jazzistici a favore di una smaccata commerciabilità.

La title track era un brano composto da Joe Zawinul (che da quel momento cominciò a essere
presente regolarmente nei lavori in studio del trombettista), completamente modificato dal leader:
inizialmente concepito su un ritmo di bossa nova e con regolari cambi armonici, “In A Silent
Way” fu trasformato eliminando tutti gli accordi e vincolando l’armonia a un pedale di mi
maggiore, su cui la melodia veniva suonata su un tempo libero, quasi “rubato” e senza nessuna
improvvisazione.
Per realizzare questo disco fu convocato in studio John McLaughlin, un chitarrista appena giunto a
New York dall’Inghilterra; amico di Dave Holland e collaboratore del sassofonista britannico John
Surman, il giovane inglese rappresentava probabilmente agli occhi di Davis l’ideale anello di
congiunzione tra i mondi opposti del jazz e del rock, provenendo dalla patria riconosciuta del
nuovo genere.
Mc Laughlin si era fatto notare in patria come grande virtuoso e formidabile solista, cresciuto
all’ombra di chitarristi come Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page, e perciò già addentro alle
sonorità blues e jazz rock.
A Davis non sfuggì il suo talento e Mc Laughlin appena giunto in America si ritrovò dall’oggi al
domani insieme al trombettista, per questa storica incisione.

Già in Filles de Kilimanjaro Davis aveva rinunciato alla sonorità del pianoforte acustico, a favore
del piano elettrico; in questo ultimo disco i tastieristi divennero addirittura tre:

A) Herbie Hancock al piano elettrico


B) Chick Corea anche lui al piano elettrico
C) Joe Zawinul all’organo

La scelta apparve motivata dalla necessità di un sound stratificato e mobile, in cui gli intrecci tra
organo e piano Fender creavano una sorta di onda circolare, intensa, ma che sembrava muoversi
lentamente; anche le dinamiche erano tendenti al piano, spingendosi non oltre il mezzoforte.

L’uso di delay, echi e playback era già molto accentuato, come mezzi per aggiungere profondità a
ciò che sembrava la vera urgenza espressiva di Davis: il suono.

Musicalmente l’album era il risultato delle session realizzate in studio e poi ricomposte da Teo
Macero, il produttore occulto che insieme a Davis realizzò molti dischi negli anni Sessanta; le
progressioni scalari e l’utilizzo di una modalità misurata, che manteneva legami con la tonalità
d’impianto dei brani donavano al disco una leggerezza straordinaria.
La mancanza di strutture predeterminate costringeva i musicisti ad ascoltarsi, quasi come avviene
in una jam session, dando maggior peso all’interplay e alle dinamiche; il risultato era una musica

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raffinata eppure semplice ed essenziale, ma soprattutto fresca perchè totalmente improvvisata e
non frutto di prove.
Sicuramente In A Silent Way aveva un che di psichedelico e d’altra parte era impossibile che un
uomo curioso come Davis non fosse stato influenzato dalla musica e dalla moda della
psichedelica, uno stile di vita che si diffuse ben presto anche in Europa e in buona parte del mondo
occidentale.

Bitches Brew apparve come il punto di svolta definitivo per Davis; tutto sembrava innovativo,
sebbene fosse giunto dopo le incessanti sperimentazioni compiute dal trombettista per l’intero
decennio.
Pubblicato nel 1970 il disco fu realizzato con l’ausilio di ben 13 musicisti:

A) Miles Davis alla tromba


B) Wayne Shorter al sax soprano
C) Bennie Maupin al clarinetto basso
D) Joe Zawinul, Chick Corea e Larry Young al piano elettrico
E) John McLaughlin alla chitarra elettrica
F) Dave Holland al contrabbasso
G) Harvey Brooks al basso elettrico
H) I batterisit Jack DeJohnette e Lenny White
I) Don Alias alla batteria e alle congas
J) Jumma Santos (Jim Riley), che suonò congas e shaker

L’album fu caratterizzato dall’uso di strumenti elettrici, da una massiccia opera di post-produzione


dell’onnipresente Teo Macero, con la totale rielaborazione del materiale registrato in studio;
in esso era compiuta la totale dissoluzione della forma-canzone a favore della libera
improvvisazione, con la conseguente mancanza di melodie memorizzabili e l’espansione delle
durate dei singoli brani.

In realtà per quanto concerne la nascita ufficiale del jazz rock Bitches Brew non aveva alcun
primato: in effetti due dischi, In A Silent Way dello stesso Davis, ed Emergency!, realizzato dai
Lifetime del batterista Tony Williams, appena uscito dal gruppo di Miles, avevano già in
precedenza realizzato la tanto agognata fusione tra i due generi musicali.

Quest’album segnava invece l’inizio dello stile fusion, un concetto ancor più ampio della
definizione jazz rock appena coniata dai critici musicali di quel periodo, soprattutto riferendosi
all’opera di Davis: ci fu chi vide a partire da questo disco una sorta di comunicazione circolare tra
jazz, il rhythm and blues, il funk e l’acid rock bianco.

L’idea di condivisione e convivenza democratica tra generi differenti si estendeva ai singoli


musicisti del progetto, che godevano di spazi paritetici; eppure, tra tante tastiere, bassi, percussioni
e batterie l’elemento di spicco di quella musica era proprio lo strumento suonato da Davis: unico
leader di gruppi che avevano realizzato l’ardita fusione tra jazz e rock a suonare la tromba, pur
adoperando talvolta effetti elettronici che ne modificavano il suono, come il wah-wah.

Bitches Brew ebbe un grande successo commerciale, si parla di mezzo milione di copie nel giro di
pochi mesi, il disco più venduto nella storia del jazz dopo Kind of Blue, sempre di Davis.
Il trombettista cambiò anche look, cominciando ad indossare giacche di pelle, occhialoni neri e
camicie dai colori psichedelici, in linea con quanto facevano le star del rock negli stessi anni.

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Davis dichiarò di essersi ispirato ad alcuni modelli afroamericani, legati a una musica di consumo;
il già citato Sly Stone, il “re” del soul James Brown e soprattutto Jimi Hendrix.
A farglieli conoscere era stata la sua compagna di allora, Betty Mabry, una modella ed attrice, un
tipo abbastanza irrequieto ma irresistibilmente attratta dai musicisti, dal momento che era stata la
prima fidanzata proprio di Hendrix ed ebbe delle relazioni con Hugh Masekela, trombettista
sudafricano e poi con il chitarrista Eric Clapton.
Inoltre Miles ammise di aver cercato di portare nella sua musica anche qualcosa delle concezioni
“d’avanguardia” del compositore tedesco Karl Heinz Stockhausen.

Proprio l’emulazione fu la molla che spinse Davis a questo cambiamento epocale, pur non avendo
stima musicale per i protagonisti della scena pop-rock; Miles sosteneva però che se loro (che non
avevano profondità musicale, né una competenza profonda della materia, né versatilità)
realizzavano vendite colossali lui avrebbe potuto fare comodamente altrettanto.

Come colori che si miscelano su una tela il jazz e il rock generavano nuove soluzioni sonore, in
cui prevalevano di tanto in tanto gli aspetti dell’uno o dell’altro; la maggiore presenza di stilemi
jazzistici dava alla musica un’aria più ricercata ed elitaria, ma comunque accettata dalle nuove
generazioni, come dimostra il fatto che Davis fu presente al mega raduno organizzato all’isola di
Wight, un lembo appartato del Regno Unito.
Fu il giorno in cui il jazz e il rock si incontrarono!
Infatti in quell’occasione, precisamente il 29 agosto del 1970, il trombettista realizzò un’esaltante
preformance di ben 35 minuti, affiancato dai tastieristi Chick Corea e Keith Jarrett, dal
sassofonista Gary Bartz, dal bassista Dave Holland e da Jack DeJohnette e Airto Moreira
rispettivamente alla batteria e alle percussioni.
Quando a prevalere erano gli elementi rock, viceversa il risultato sconfinava rapidamente nel pop;
la musica di band come i Chicago, i Blood Sweat and Tears e soprattutto i successivi Earth,
Wind & Fire, pur essendo pregevole, ballabile e d’ascolto, non si può assimilare al jazz, pur
essendo legata all’universo sonoro afroamericano.

Negli anni Sessanta era inevitabile per qualsiasi musicista confrontarsi con le innovazioni
stilistiche apportate da Ornette Coleman e il suo free jazz; parimenti bisognava fare i conti con il
neonato genere rock.
Miles Davis era stato un protagonista della scena musicale e voleva certamente continuare a
esserlo, per cui non poteva ignorare dei fenomeni tanto diffusi e di enorme interesse; nel caso del
rock poi, si trattava di contendere il successo a nuove star, che avrebbero potuto oscurare la
propria fama.

Possiamo affermare che la posizione assunta da Davis rispetto al free jazz fu parzialmente
antitetica; negli anni in cui quello stile esplodeva a New York e Chicago, il trombettista optò per
una musica fortemente strutturata, in cui la forma creava il presupposto per uscire “fuori”. Nel
contempo, grazie al cromatismo e al dissolvimento della tonalità operati dal modernissimo stile
pianistico di Herbie Hancock, la libertà nelle improvvisazioni era garantita.

Come reazione alla musica rock invece Davis estremizzò i momenti improvvisativi, utilizzando
però in maniera sempre maggiore i ritmi e gli accompagnamenti ostinati del nuovo genere
musicale; ponendo la ritmica in contrapposizione alla libertà dei solisti, si potenziava il senso delle
improvvisazioni

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In entrambi i casi era riuscito a dare un senso popolare alla propria musica, in qualche modo
fruibile dal pubblico proprio attraverso la forma e il ritmo.
Quello che sembra certo, come osservò qualche tempo fa in un’intervista il sassofonista e
compositore napoletano Daniele Sepe, è che i dischi di Davis degli anni Sessanta, a cui si riferisce
tutto questo discorso sul jazz rock, contenevano qualcosa che l’ascoltatore poteva identificare
come il jazz del futuro, che anticipava ciò che si sarebbe sentito tra vent’anni.
Al contrario, la musica del Duemila contiene riferimenti continui al jazz di trent’anni fa, come dire
che oggi non c’è nulla di nuovo ed originale, che non sia stato già sentito ed esplorato nei decenni
scorsi.

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