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Capitolo 26

Bestseller degli anni Ottanta: Pat Metheny, Steps Ahead, Don Grolnick, Wayne Shorter

La musica prodotta negli anni Ottanta apparentemente aveva poco a che spartire con il jazz:

A) contaminazioni di generi musicali differenti


B) nuovi stili d’improvvisazione
C) prevalenza di strumentazione elettrica
D) progressiva diminuzione della dimensione acustica
E) finalizzata al consumo di massa

Tra i musicisti che la produssero nacquero nuovi miti, che spesso oscurarono i grandi jazzisti che
erano ancora in attività e stentavano a trovare spazio.

Si chiamava Fusion, un nuovo genere/stile che riassumeva le tendenze che avevano prevalso nel
decennio precedente:

A) Jazz rock
B) Jazz elettrico
C) World Music
D) Fusion

Probabilmente era l’espressione più adatta per esprimere il concetto di “fusione” tra cose distanti e
differenti; era l’ennesima forma di sincretismo culturale realizzata dal jazz, ormai chiamato comunemente
“musica afroamericana” dagli etnomusicologi e dai docenti delle università che si interessavano al
fenomeno.

Appare chiaro a distanza di anni che si confermava la capacità dei musicisti specializzati
nell’improvvisare di utilizzare elementi di eterogenea provenienza per comporre una sintesi
personale.

Alcune tecniche chitarristiche mutuate dal rock vennero adottate da sassofonisti, per ottenere un
maggiore impatto nelle proprie improvvisazioni; le dinamiche esasperate potevano ricollegarsi ai
cliché imposti dalla musica dance.

Un tipo di linguaggio più accessibile venne costruito sulle strutture tipiche del jazz, mantenendo
intatta la ricerca per le tensioni e le armonie “difficili”, operando una trasformazione inversa,
rispetto a quella che quarant’anni prima avevano fatto i creatori del bebop:

A) I boppers aggiunsero delle melodie difficili alle armonie degli standard


B) Gli esponenti della fusion di quegli anni realizzavano melodie orecchiabili su accordi
complessi

Anche le strutture su cui si eseguivano gli assoli mutarono:

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A) spesso non seguivano il giro armonico del tema
B) venivano creati dei ritornelli con micro strutture
C) si improvvisava su “vamp”, specialmente i batteristi

I vamp sono dei riff maggiormente strutturati, stimolanti ritmicamente e armonicamente per il
reiterarsi della sequenza di accordi in un tempo stretto; si ripetevano creando delle vere e proprie
sezioni all’interno dei brani. Potevano fungere anche da introduzioni e finali.

L’utilizzo sempre più ampio dell’elettrificazione e di una maggiore amplificazione rispondeva


all’esigenza di esibirsi in spazi ampi come gli stadi e i palasport, luoghi che non erano nati con il
preciso scopo di ospitare concerti: nonostante finora non ci sia stata alcuna interazione concreta tra
musica e sport, da decenni le due cose spesso convivono in occasione di eventi di massa.
Purtroppo, soprattutto nei Palasport, spazi chiusi e rimbombanti assistere a un concerto equivale a
sopportare un supplizio!

I tastieristi ebbero a disposizione un nuovo strumento, “il campionatore”; questo in qualche modo
era stato anticipato dal Mellotron, una tastiera che recava sotto ogni tasto uno spezzone di nastro
dove era stata pre-registrata la nota corrispondente: per questo motivo non si può definire un
campionatore, perché si limitava a riprodurre suoni memorizzati a parte.
Il primo campionatore “vero” fu realizzato dalla ditta australiana Fairlight all’inizio degli anni
Ottanta.
Anche le Drum Machine divennero spesso parte integrante della dotazione di un batterista fusion.

La dimensione acustica era sempre meno utilizzata dai gruppi musicali, che per essere coinvolti
nei grandi Festival dovevano avere un suono “moderno”.
Per tale motivo anche Dizzy Gillespie e Sonny Rollins utilizzarono sempre più frequentemente
gruppi elettrici, con chitarra e basso.
Come sappiamo poi Miles nel corso di quel decennio superò tutti!

Il mercato discografico imponeva delle precise condizioni ai creatori di progetti musicali:

A) che il prodotto fosse “vendibile”


B) che raggiungesse sempre nuove fasce di utenza
C) che potesse attrarre appassionati di generi musicali differenti
D) che seguisse la “tendenza” del momento, cavalcando l’onda di ciò che si affermava in quel
periodo storico

Era certamente estranea la volontà di “creare qualcosa di nuovo”, tuttavia anche questo contribuì
alle fortune della “Fusion”.
Il merito di questi musicisti, a ben vedere è stato grande, forse paragonabile a quello che poterono
vantare i “campioni” dell’Era dello Swing: avere aiutato il jazz a sopravvivere.
Proprio come i maestri degli anni Trenta seppero far rinascere la passione del grande pubblico per
la musica afroamericana, gli artisti degli anni Ottanta attrassero i più esigenti tra gli ascoltatori
delle nuove generazioni; questi, giunti nell’”era dell’informazione” non si rivelarono pochi e
quantomeno tennero vivo l’interesse per la musica improvvisata conosciuta con il nome di jazz!

Per fortuna il gusto per le sonorità blues non si perse mai.


Pat Metheny e il PMG

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Probabilmente il personaggio-chiave e meglio conosciuto di questa categoria di musicisti è stato il
chitarrista Pat Metheny.
Patrick Bruce Metheny nacque nel 1954 a Lee’s Summit, una cittadina del Missuori non lontana
da Kansas City; a 8 anni iniziò a studiare la musica e in breve tempo seppe leggerla e scriverla e il
suo primo strumento non fu la chitarra ma la tromba.
A insegnargliela era stato il fratello maggiore Mike, noto insegnante alla Berklee di Boston.
Pat fu uno di quei ragazzi che assistette all’apparizione dei Beatles all’Ed Sullivan Show, evento
che diede inizio ufficialmente alla cosiddetta “British Invasion”, cioè la conquista del mercato
discografico americano da parte dei creatori dei gruppi inglesi creatori del rock.
Il giovanissimo vide inoltre per ben 15 volte “A Hard Day’s Night”, il primo film dei ragazzi di
Liverpool; a quell’epoca risale ovviamente l’acquisto della prima chitarra da parte dei genitori, che
regalarono al figlio una Gibson ES-140 T ¾, pagata circa 70 dollari.
Questo strumento ebbe poca fortuna, poiché fu frantumata nella stiva di un aereo in occasione di
un viaggio compiuto nelle vacanze estive con la famiglia…ma subito i genitori comprarono a Pat
una nuova chitarra.
Nel 1968 Metheny ascoltò il grande Wes Montgomery, che si era esibito al Festival Jazz di Kansas
City e ne rimase folgorato; curiosamente quella sera si esibì anche quello che sarebbe stato il
primo mentore di Metheny, il vibrafonista Gary Burton.
Insieme a Montgomery uno dei primi chitarristi a influenzarlo decisamente fu Attila Zoeller,
musicista ungherese conosciuto ad un corso estivo organizzato dalla Millikin University, a cui
aveva avuto accesso dopo aver vinto una borsa di studio; Zoeller gli impartì le prime lezioni serie
di armonia, insieme al pianista Dan Haerle.
Iniziò una febbrile full immersion nel jazz, con studi e ascolti esclusivamente di quel genere per il
giovane Pat; prese parte ai primi gruppi giovanili, tra cui una formazione diretta dal figlio di Dave
Brubeck, Chris, che era trombonista, bassista e pianista.
Anche gli “organ trio” furono frequenti, sull’esempio di Jimmy Smith; questa formazione
affascinava Metheny, che suonava spesso dei blues nello stile di Kenny Burrell e Wes
Montgomery ovviamente.

Lasciata Kansas City nel 1972 Metheny si iscrisse all’Università di Miami, in Florida; lì il
chitarrista incontrò tra i compagni di corso numerosi musicisti destinati a diventare famosi:

A) i bassisti Jaco Pastorius e Will Lee


B) il chitarrista Hiram bullock
C) il chitarrista Steve Morse (futuro leader del gruppo Dixie Dregs)
D) il pianista Gil Goldstein

Tra essi conobbe anche il batterista Danny Gottlieb, e il bassista elettrico Mark Egan, che
sarebbero diventati colonne del Pat Metheny Group negli anni successivi.

Dopo il primo anno di corso, tornato in estate a Lee’s Summit, Metheny fece le sue prime
esperienze d’insegnante, conoscendo il bassista Steve Rodby, futuro membro del Pat Metheny
Group e soprattutto il vibrafonista Gary Burton.
Tornato a Miami, il chitarrista ebbe poi l’occasione di suonare sporadicamente in alcuni show con
i cantanti Tom Jones e Liza Minnelli, e in ambito jazzistico con il trombettista Ira Sullivan e il
flautista Herbie Mann.

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Le sue capacità d’insegnante furono notate dal vibrafonista Gary Burton, che all’epoca uno dei
docenti più influenti del Berklee College: invitato dal vibrafonista Pat si trasferìrsi a Boston nel
1974, diventando a diciannove anni il più giovane docente della scuola.

Poco tempo dopo arrivò anche l’esperienza nel gruppo di Paul Bley, condivisa con il bassista
Jaco Pastorius, che portò alla realizzazione di Jaco, un album pubblicato a nome del pianista,
sebbene il titolo originale del disco fosse in realtà: Pastorius/Metheny/Ditmas/Bley.
Pubblicato nel 1974 fu la prima incisione ufficiale di Pastorius e Metheny.

Intanto il giovane chitarrista aveva coronato un altro sogno, quello di far parte del gruppo di Gary
Burton, l’unica band jazz in cui la chitarra aveva un ruolo da protagonista.
Nella formazione peraltro un chitarrista c’era già, ed era un musicista che avrebbe influenzato
grandemente lo stile di Metheny, Mick Goodrick
Con Gary Burton all’epoca suonavano altri due autentici fuoriclasse:

A) Steve Swallow al basso


B) Bob Moses alla batteria

In quella band Metheny aveva il ruolo di secondo chitarrista, e si cimentava sulla 6 e sulla 12
corde con notevole entusiasmo, potendo apprendere molto sia dal leader che dall’esperto
Goodrick.
Il debutto discografico di Metheny con il vibrafonista avvenne nel 1974 con l’album Ring; in
questo disco l’unico pezzo contenente un assolo di Metheny fu “Intrude”.
L’anno successivo il chitarrista registrò soltanto con la chitarra a 12 corde il nuovo album di
Burton, intitolato Dreams So Real.

Burton era sotto contratto con l’ECM, etichetta europea fondata da Manfred Eicher; fu naturale
perciò che Metheny realizzasse per quella stessa casa discografica il primo album a suo nome:
intitolato Bright Size Life e pubblicato nel 1975, fu un disco assai riuscito, condiviso con
l’emergente astro del basso elettrico Jaco Pastorius e il batterista di Burton, l’afroamericano Bob
Moses.
Questo disco conteneva tutte composizioni del chitarrista ad eccezione di un medley dedicato a
Ornette Coleman, con due composizioni del sassofonista texano, “Round Trip/ Broadway
Blues”.

All’epoca Metheny aveva appena 21 anni, ma già evidenziava:

A) un tocco personale
B) la tecnica brillante
C) la felice vena compositiva
D) il suo suono caratteristico

L’album ebbe recensioni molto positive.

Nell’aprile del 1975 Metheny incontrò per la prima volta il pianista Lyle Mays, che sarebbe
diventato il suo alter ego musicale; l’anno successivo iniziò a lavorare insieme a lui, effettuando
dei concerti con il bassista Steve Swallow e il batterista Danny Gottlieb, un pupillo del chitarrista.

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Intanto il chitarrista principale del gruppo di Burton, Mike Goodrick, aveva lasciato la band e
l’importanza di Metheny all’interno del gruppo crebbe progressivamente, dal momento che oltre a
scrivere la maggior parte dei brani contenuti nel disco riuscì a far assumere dal vibrafonista il
batterista Danny Gottlieb. Nella formazione ormai non figuravano più due chitarristi ma un
bassista elettrico e un contrabbassista: Burton infatti aggiunse al suo gruppo il contrabbassista
tedesco Eberhard Weber, onnipresente nelle produzioni targate ECM.

Sempre grazie all’etichetta tedesca nel 1977 Metheny vide pubblicato Watercolors, il secondo
album a suo nome; i musicisti che registrarono il lavoro erano già la base del Pat Metheny Group:

A) Lyle Mays al piano


B) Danny Gottlieb alla batteria
C) Eberhard Weber al contrabbasso

Ad eccezione del contrabbassista tedesco gli altri due resteranno a lungo a fianco di Metheny.

Registrato in Norvegia, nel mitico Talent Studio prescelto dall’etichetta ECM, questo disco
tuttavia non fu giudicato soddisfacente dal chitarrista, che si dichiarò troppo influenzato dal gusto
e dalle scelte del produttore Manfred Eicher; tuttavia le tracce dell’album denotavano una
leggerezza e una liquidità che rispecchiavano gli intenti programmatici esposti nel titolo e lo stile
inconfondibile del chitarrista.

Il 22 maggio del 1977 fu una data molto importante nella carriera di Pat Metheny: infatti dopo tre
anni di intensa collaborazione con Gary Burton lasciò il gruppo del vibrafonista e il giorno dopo
iniziò le prove per la sua prima esperienza da leader.
Stava nascendo il Pat Metheny Group, con la seguente formazione:

A) Pat Metheny alla chitarra


B) Lyle Mays al pianoforte
C) Il bassista Mark Egan
D) Il batterista Danny Gottlieb

A quell’epoca i principali gruppi jazz si dividevano in due tipologie:

A) i gruppi acustici, come il Bill Evans Trio e le band ECM di Keith Jarrett

B) le electric band come i Return to Forever di Chick Corea e gli Headhunters di Herbie
Hancock

La neonata formazione di Pat Metheny si posizionava invece perfettamente nel mezzo.


Molta attenzione fu prestata alla strumentazione e ai suoni; l’esordio avvenne il 28 giugno del
1977 al club Axis di New York e le serate si susseguirono numerosissime in tutta la nazione,
raggiungendo anche i posti più sperduti.
Il gruppo si esibiva spesso anche in circuiti al di fuori del jazz, essendo di supporto a musicisti
rock e star del pop come Carlos Santana.

Dopo un lungo rodaggio, durante il quale i quattro musicisti provarono una serie di nuove
composizioni del leader, nel gennaio del 1978 fu inciso ad Oslo per la ECM il primo album del
Pat Metheny Group, dal titolo omonimo.

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Il 12 luglio fu pubblicato l’album Pat Metheny Group, che vendette in poco tempo ben 250.000
copie, raggiungendo i vertici di tutte le classiifiche jazz; il disco ebbe un enorme successo, anche
perché rappresentava una ventata di freschezza rispetto alla produzione discografica del tempo,
caratterizzata dalle sonorità elettriche esasperate di gruppi come la Mahavishnu Orchestra di
McLaughlin, ricalcate da numerosi emulatori.
Eppure la tecnologia non era estranea al progetto, anzi i musicisti adottarono alcune novità
tecniche, come la nuova tastiera Oberheim, suonata da Lyle Mays e il delay digitale MXR Blue
Box, utilizzato da Metheny nei concerti live insieme al più costoso Lexicon, di cui il chitarrista si
dotò nonostante si trattasse di un’attrezzatura prettamente da studio di registrazione.
La musica del gruppo risultava innovativa e fresca: i concerti furono numerosi e il gruppo si esibì
anche in Europa, con diverse date in Germania e in Gran Bretagna.

Intanto il talento di Metheny continuava a esprimersi anche in registrazioni effettuate in chitarra


solo: ancora nel 1978 realizzò un album intitolato New Chautauqua, registrato di nuovo a Oslo e
prodotto dall’ECM.
Anche questa produzione riscosse un incredibile risultato di vendite come album jazz, superando
le 200.000 copie.

Nel giugno del 1979 il Pat Metheny Group intanto si riunì nuovamente in studio per il secondo
album, intitolato American Garage in omaggio al periodo passato dal chitarrista a suonare nel
box auto di casa con le prime band.
Tutte le composizioni del disco furono scritte insieme da Metheny e Mays, a conferma del fatto
che la loro collaborazione era diventata sempre più stretta.
Quest’album aveva un taglio più rock e fondeva in maniera originale questo genere con il jazz,
tuttavia non fu giudicato dal leader un lavoro riuscitissimo, anche a causa dei missaggi piuttosto
approssimativi.
Anche American Garage vendette benissimo, 200.000 copie nelle prime due settimane,
raggiungendo il primo posto della classifica stilata da Billboard.
Questo disco fu nominato miglior album jazz dell’anno 1980, il chitarrista fu eletto “miglior
chitarrista jazz” e il Pat Metheny Group “Top Group dell’anno”.

In quel periodo inoltre il chitarrista aveva messo da parte il proprio atteggiamento di ascoltatore
“purista” di jazz, per appassionarsi alle proposte musicali di artisti appartenenti al circuito più
commerciale, come la cantante canadese Joni Mitchell e il crooner pop James Taylor.
Quasi per fatalità Metheny fu coinvolto nella tournée che seguì alla pubblicazione del disco
proprio di Joni Mitchell dedicato alla musica del compositore e contrabbassista Charles Mingus;
intitolato semplicemente Mingus, realizzava il desiderio della cantante canadese di avvicinarsi al
jazz, anche grazie all’apporto di una band di stelle che l’accompagnava in tour nei concerti live.
La formazione era di tutto rispetto:

A) Lyle Mays alle tastiere


B) Pat Metheny alle chitarre
C) Jaco Pastorius al basso
D) Michael Brecker al sax
E) Don Alias alla batteria
F) i Persuasions, formazione vocale “a cappella”, che aveva già collaborato e inciso con
Frank Zappa, i Grateful Dead, Sam Cooke, Elvis Presley e perfino Liza Minnelli

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Nonostante Mingus non fosse uno degli autori preferiti da Metheny, il chitarrista accettò per non
perdere l’occasione di suonare nuovamente con Pastorius e con il formidabile sassofonista
Michael Brecker, riuscendo inoltre a far includere nel progetto anche il suo fedele pianista Lyle
Mays; tuttavia quest’esperienza non si rivelò felicissima per il chitarrista di Lee’s Summit, dal
momento che la Mitchell non era una jazzista “pura” e bisognava suonare fedelmente gli
arrangiamenti, quindi senza improvvisare troppo. Eppure in quel contesto la critica specializzata
definì lo stile di Metheny: “….la cosa più eccitante nel campo della chitarra dal periodo di Jimi
Hendrix”.
Da questo tour fu poi ricavato un disco live intitolato Shadows and Light, pubblicato nel 1980.

Intano il Pat Metheny Group aveva una media di 280 concerti l’anno, un numero impressionante
che dava l’idea del successo riportato e della resistenza fisica dei suoi musicisti, che si
sottoponevano a viaggi estenuanti, spesso a bordo di un Van, guidato dallo stesso Metheny.
Le paghe variavano dai 10 ai 200 dollari per concerto e comunque Metheny investiva i propri
guadagni nell’acquisto di nuovi strumenti per la band: proprio a partire da quel tour infatti Lyle
Mays potè utilizzare uno Steinway Gran piano di fabbricazione tedesca, comprato dal leader.

Al volgere del decennio Metheny cominciò a esprimere il desiderio di realizzare un album in stile
puramente jazzistico, perciò a metà del 1980 fece alcune serate nei club con vari musicisti per
scegliere la formazione più adatta allo scopo, esibendosi tra gli altri con:

A) il sassofonista Dave Liebman


B) una ritmica composta da Gottlieb e Ron McClure al contrabbasso
C) un’altra sezione ritmica con il contrabbassista Eddie Gomez e il batterista Paul Motian

Inoltre contattò i sassofonisti Bob Berg e Michael Brecker e il contrabbassista Charlie Haden.
Alla fine di maggio di quell’anno riunì in sala (sempre a Oslo, in Norvegia) la formazione
prescelta per incidere il disco ‘80/’81, che annoverava:

A) Dewey Redman e Michael Brecker ai sax


B) Charlie Haden al contrabbasso
C) Jack DeJohnette alla batteria

Il disco rispecchiava il desiderio di Metheny di suonare con degli strumenti a fiato.


Fu un lavoro eccellente, nonostante fosse stato registrato in soli due giorni; possedeva un
eccellente livello tecnico, grazie soprattutto all’opera di Jan Eric Kongshaug, uno dei più quotati
contrabbassisti e chitarristi jazz norvegesi, nonché fonico di fiducia dell’etichetta ECM, che
Metheny aveva ritrovato puntualmente nel Talent Studio di Oslo fin dai tempi di Passenger (1976)
di Gary Burton.
Soprattutto l’album ‘80/’81 era la testimonianza dello spirito di ricerca che animava il chitarrista,
il quale nonostante il successo del suo progetto principale, il Pat Metheny Group, desiderava
guardare oltre, spingendosi oltre i limiti del consenso popolare che era stato già accordato alla
propria musica.
Fu un lavoro di non facile lettura, caratterizzato da un linguaggio assai moderno, in stile post-bop,
con vaste aree d’improvvisazione atonale.
Nell’album veniva fuori l’empatia con il contrabbassista Charlie Haden, anche lui originario del
Missuori; la collaborazione con questo musicista fece peraltro capire al leader l’inadeguatezza di
Mark Egan all’interno del Pat Metheny Group.

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Tutti diedero il meglio, a partire dai due sassofonisti Redman e Brecker, insieme in alcune tracce
del doppio Lp, come soprattutto “The Bat”, “Open” e “Pretty Scattered”; in particolare Brecker si
distinse nel brano “Every Day (I Thank You)”, mentre Redman animò la title track “’80/’81”.
Il batterista Jack DeJohnette dal canto suo impreziosì il disco con il suo spettacolare drumming.
Dopo l’uscita di quest’album fu organizzata una tournée con i musicisti del progetto, che tuttavia
si rivelò piuttosto deludente per Metheny, che non trovò alcuna coesione nella musica realizzata
nei concerti effettuati da quel gruppo. Praticamente il piccolo miracolo avvenuto in sala non si
ripetè dal vivo.

Nel giugno del 1980 intanto riprese il tour del PMG, che questa volta portò il chitarrista in una
terra che si rivelò a lui particolarmente congeniale: il Brasile.
Da sempre Metheny aveva ammirato il cantante Milton Nascimento, una delle personalità più
interessanti della scena musicale di quel paese dopo Antonio Carlos Jobim; cantante e compositore
originalissimo, Nascimento era stato scoperto dal pubblico nordamericano grazie a Wayne
Shorter, che lo aveva valorizzato nel disco Native Dancer, pubblicato dalla Columbia nel 1975.
A Rio de Janeiro il chitarrista conobbe il percussionista Nanà Vasconcelos e il chitarrista
Toninho Horta, due stretti collaboratori di Nascimento; inoltre tra il pubblico si fece avanti un
fan, che successivamente sarebbe diventato un suo musicista, il cantante e polistrumentista
argentino Pedro Aznar, che gli diede una cassetta con alcuni brani incisi nel suo studio
domestico.
Nel corso di quel viaggio Pat approfondì l’amicizia con Horta, accettando di partecipare al disco
che il chitarrista brasiliano stava realizzando in quei periodo; in breve, la permanenza di Metheny
in Brasile, che sarebbe dovuta essere di tre giorni, si trasformò in una lunga vacanza-studio di tre
settimane.

Nonostante l’attività frenetica non mancavano nuovi progetti: a settembre di quello stesso anno, il
1980, Metheny e Lyle Mays erano nuovamente in studio a Oslo per registrare con l’ECM; il disco,
intitolato As Wichita Falls, So Falls Wichita Falls, fu arricchito da un souvenir che il chitarrista
si era portato dal Brasile: il percussionista Nanà Vasconcelos.
In questo pregevole album realizzato insolitamente in trio l’elettronica e la dimensione acustica si
fondevano con i ritmi brasiliani; l’esperimento riuscì in pieno, tanto che la lunga suite che dava il
titolo all’album è rimasta uno dei migliori momenti della collaborazione tra Metheny e Mays.
Anche le vendite di questo disco furono ottime, così in quell’anno grazie agli album American
Garage e As Wichita Falls, So Falls Wichita Falls, il chitarrista realizzò l’incredibile primato di
restare per 36 settimane ai vertici delle classifiche di jazz americane.

Probabilmente questi esperimenti e gli incontri fatti negli ultimi tempi indussero Metheny a
rinnovare la sua formazione stabile, il PMG.
Subito dopo il secondo disco il bassista Mark Egan, tra i fondatori del Pat Metheny Group aveva
lasciato il gruppo, sostituito da Steve Rodby; quest’ultimo aveva suonato con Metheny nel
lontano 1973, in occasione di un campus estivo di studi musicali frequentato insieme.
Musicista poco appariscente ma dalle basi solidissime, Rodby vantava una serie di collaborazioni
importanti a livello jazzistico, tra cui Joe Henderson, Roy Haynes, Sonny Stitt, Art Farmer,
George Coleman, Zoot Sims, Lee Konitz e molti altri ancora; inoltre quando non era impegnato
con le tournèe faceva parte della formazione d’avanguardia Contemporary Chambers Players.
Un simile curriculum convinse Pat, che poteva contare adesso su un musicista capace di suonare
basso acustico ed elettrico, proprio come il chitarrista desiderava da tempo.

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Insieme a Steve Rodby entrò nel Pat Metheny Group il percussionista Nana Vasconcelos;
l’avvento di questo musicista rappresentò un ponte tra Metheny e il Brasile.
Personaggio di grande umanità e amore per la musica, Vasconcelos univa ai sonagli e alle
percussioni un sapiente uso della voce, utilizzata non come farebbe un normale vocalist, ma
sfruttata come puro suono, richiamando atmosfere ancestrali di epoche remote in cui la parola
ancora non esisteva: era ciò che il cantante Milton Nascimento (di cui il percussionista era uno
storico collaboratore) faceva da anni, affascinando spesso i jazzisti statunitensi per il peculiare
utilizzo del mezzo vocale.

Quando la nuova formazione iniziò a provare Metheny decise di dare una svolta anche al sound
del gruppo; dopo aver contattato la New England Digital Co., produttrice del Synclavier, un
nuovo tipo di sintetizzatore, Pat instaurò con essa un rapporto di stretta collaborazione finalizzato
alla messa a punto di una particolare chitarra capace di interfacciarsi con quella tastiera
utilizzandone i suoni.
Così quando il gruppo entrò in sala per incidere il disco Offramp, per conto dell’etichetta ECM il
22 ottobre del 1981 le innovazioni tecniche non mancarono di certo:

A) la chitarra synth Roland 303, suonata da Metheny


B) l’inserimento del Synclavier, tra le tastiere utilizzate da Lyle Mays

Il pezzo che rese immortale quest’album fu certamente “Are You Going With Me?”, una
composizione del chitarrista che conteneva una straordinaria cavalcata solistica di Metheny,
realizzata con una tecnica quasi trombettistica, per il respiro del suo fraseggio.
Altro capolavoro del disco fu il brano “James”, dedicato al cantante James Taylor, uno dei pezzi
più belli e giustamente noti di Metheny, per la linea melodica popolare e di grande freschezza,
unita a un’interessante progressione armonica.
Anche l’ultima traccia, intitolata “Au Lait”, era degna di nota tanto da rappresentare una sorta di
capolavoro dimenticato e passato quasi inosservato, nonostante il prezioso apporto vocale di
Vasconcelos e il solo di Metheny, realizzato con la sua tradizionale Gibson.
A quest’album se ne aggiunse un altro, realizzato con la medesima formazione, il live Travels,
che conteneva le registrazioni di alcuni concerti effettuati durante il tour successivo all’uscita di
Offramp; questo live fruttò il secondo Grammy a Metheny nella categoria “Best Jazz
performance”.

Nel 1983 Metheny fondò parallelamente una sua formazione jazz, il Pat Metheny Trio, con:

A) il contrabbassista Charlie Haden


B) il batterista Billy Higgins

Trovandosi al cospetto di due mostri sacri il chitarrista si esaltò e diede dimostrazione della
propria padronanza del linguaggio jazzistico bop , sorprendendo la critica specializzata che non
potè fare a meno di notare (dopo circa dieci anni dalle incisioni effettuate dal chitarrista con Gary
Burton) quanto Pat sapesse suonare bene il vero jazz e come lo conoscesse profondamente.
Il Pat Metheny Trio effettuò una lunga tournée estiva nel 1983 toccando anche il Giappone e
l’anno successivo l’ECM pubblicò l’album di questa formazione, intitolato Rejoicing, che fu
accolto positivamente sia in America che in Europa, vendendo circa 200.000 copie.
L’Accademia del Jazz di Francia dichiarò questo disco “Migliore opera jazz contemporanea”.

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Tra i brani migliori di questo lavoro c’erano “Lonely Woman” di Horace Silver, “Rejoicing” di
Ornette Coleman (che diede il titolo al disco) e alcuni inediti come “Blues for Pat” di Charlie
Haden e “Story from a Stranger” di Metheny.

La fase successiva del PMG si aprì con l’uscita di Nanà Vasconcelos dal gruppo; insieme a lui
Metheny cercò un nuovo percussionista, ma nessuno corrispondeva alle sue esigenze; inoltre la
collaborazione con il batterista Danny Gottlieb dopo più di un decennio era giunta al capolinea.
Alla fine fu scelto Paul Wertico, a cui toccò un compito non facile, dal momento che
nell’economia del gruppo il ruolo del batterista era fondamentale, dovendo creare colori con l’uso
intenso dei piatti.
Wertico, nato a Chicago nel 1953 aveva già un’ottima reputazione, avendo collaborato con il
chitarrista Larry Coryell, Eddie Harris, Lew Tabakin e il flautista Herbie Mann; con Metheny il
suo linguaggio migliorò ulteriormente, tanto che poco tempo dopo l’inizio della sua militanza nel
PMG il chitarrista affermò che Wertico aveva fatto progressi straordinari, poiché era in grado di
suonare in stili differenti rimanendo sempre personale.
Forse però la novità più rilevante fu l’ingresso in formazione del polistrumentista-cantante
argentino Pedro Aznar, che Pat aveva conosciuto in Brasile qualche anno prima, in occasione del
suo primo concerto a Rio de Janeiro.
Aznar era uno straordinario talento, dotato di un timbro vocale affascinante, con uno stile di canto
“amazzonico” in qualche modo assimilabile a quello di Milton Nascimento.
Inoltre suonava da vero virtuoso il basso elettrico, le tastiere, la chitarra e perfino le percussioni,
approfondite su richiesta di Metheny dopo essere stato assunto nel gruppo.

Aznar e Wertico esordirono nel tour del PMG del 1983 che promuoveva il disco Offramp; in
quell’occasione oltre ai due nuovi musicisti Metheny si avvalse di uno splendido quartetto vocale
femminile: le sorelle Perri.
Ascoltate dal chitarrista in un provino che conteneva la versione cantata di “Airstream”, brano
tratto da American Garage, secondo album del PMG, Metheny ne fu così colpito da invitare le
quattro sorelle afroamericane (Lori, Carol, Darlene e Sharon) ad aprire i concerti del suo tour
cantando proprio quel brano accompagnate da tutto il gruppo.
La critica ne fu entusiasta e sebbene la collaborazione con il chitarrista non sia stata duratura
regalò a quel quartetto vocale una popolarità notevole.

Così nel 1984 arrivò il quarto album del PMG, intitolato First Circle, l’ultimo realizzato con
l’etichetta tedesca ECM e il primo con la nuova formazione che comprendeva:

A) Pat Metheny
B) Lyle Mays
C) Pedro Aznar
D) Steve Rodby
E) Paul Wertico

Quest’organico era praticamente perfetto per le esigenze di Metheny e del suo braccio destro Lyle
Mays.
First Circle piacque moltissimo allo stesso Metheny e al pubblico e valse al chitarrista il terzo
Grammy della sua carriera come “Best jazz-fusion performance”.

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A metà del 1985 Pat balzò nuovamente agli onori della cronaca per essere stato l’unico musicista
di jazz invitato a suonare al Live Aid, il mega evento musicale creato per scopi umanitari e di
beneficenza dal cantante/produttore Bob Geldof. Per la verità in quell’occasione fu ospite del
grande Carlos Santana, grande chitarrista cubano divenuto ormai una star del rock, comunque il
fatto dava l’idea della popolarità a cui Metheny era assurto.

Nonostante si fosse conclusa la collaborazione con l’amata/odiata ECM, il 1985 fu davvero un


anno di grazie per Pat Metheny; infatti la sua attività non si limitò al PMG ma incontrò e suonò
per la prima volta con due dei suoi musicisti preferiti: Milton Nascimento e Ornette Coleman.

Con il cantante e compositore brasiliano registrò in studio a Rio De Janeiro un pezzo intitolato
“Vidro e Corte”, contenente un lungo assolo di Metheny alla chitarra synth Roland 303 e incluso
nell’album di Nascimento Encontros e Despedidas, pubblicato nel 1985.
I due artisti si lasciarono ripromettendosi di fare presto un disco insieme, che a tutt’oggi non si è
ancora realizzato!
Con il sassofonista inventore del free jazz Ornette Coleman riuscì invece ad incidere, e per bene.
L’album arrivò dopo un lungo corteggiamento del chitarrista e grazie all’interessamento del
contrabbassista Charlie Haden, che di Coleman era intimo amico e storico collaboratore.
Nel dicembre del 1985 iniziarono le prove e i due artisti scrissero dei brani insieme; Metheny
aveva a lungo studiato la tecnica d’improvvisazione teorizzata dal sassofonista texano e
praticamente poteva dirsi l’unico chitarrista in grado di suonare “armolodicamente” secondo i
dettami del maestro: l’album, intitolato Song X, fu registrato in soli tre giorni e venne pubblicato
nel 1986 dalla Geffen Records, la nuova etichetta discografica che produceva Pat Metheny.
Ne venne fuori un disco che era pura dinamite!
Basti ascoltare la title-track “Song X” e l’originalissima “Endangerde Species” per rendersi
conto di quanto si potesse ancora ottenere dall’improvvisazione free e dal jazz più creativo e
avanguardistico; in questo disco Metheny unì l’elettronica alla propria ricerca sul fraseggio nello
stile di Coleman: in più di un brano con la sua chitarra synth doppiava il sax nei temi, mentre negli
assoli creava atmosfere insolite, ottenute grazie a sonorità contemporanee.
Autentico pioniere della chitarra synth Metheny in “MoB JoB” utilizzò per la prima volta uno
strumento particolarissimo, la Pikasso Guitar costruita per lui da Linda Manzer, una 42 corde a tre
manici acustica ed elettrificata, con la possibilità di pilotare il Synclaver.
La vena lirica di Ornette Coleman veniva fuori immutata rispetto ai tempi di “Lonely Woman”,
contenuta nello storico album del 1959 The Shape of Jazz To Come, nei brani “MoB JoB”, una
sua composizione, e soprattutto la splendida “Kathelin Gray”, scritta dal sassofonista insieme a
Metheny.
Ovviamente ampio merito della riuscita di questo progetto era da riconoscere ai musicisti che
formavano la ritmica: il contrabbassista Charlie Haden e i due batteristi, Jack DeJohnette e
Denardo Coleman, figlio d’arte del maestro texano.

Il capolavoro indiscusso di quegli anni fu però il successivo disco del PMG, quello che permise a
Metheny di raggiungere un pubblico così vasto da travalicare i limiti del jazz e della fusion: Still
Life fu il quinto album registrato dalla band nel 1987 con un nuovo metodo di lavoro, concesso
dalla nuova etichetta discografica del chitarrista, la Geffen Records.
La Geffen Records, nata nel 1980 aveva prodotto l’icona della discomusic Donna Summer, poi
moltissimi altri artisti pop e rock, come John Lennon, Elthon John, Madonna, gli Aerosmith e i
Guns N’ Roses.

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Metheny era l’unico artista jazz di questa casa discografica e gli fu data ampia libertà d’azione; il
chitarrista registrò prima le basi e successivamente aggiunse gli altri strumenti e i propri assoli; ne
scaturì un risultato perfetto, come Pat aveva sempre desiderato.
La formazione fu rinnovata un’altra volta, con l’ingresso di tre nuovi musicisti:

A) Il vocalist inglese David Blamires, che trasferitosi in Canada era divenuto uno dei turnisti
più richiesti di quel Paese. Oltre a comporre suonava diversi strumenti, tra cui la tromba, il
violino, la chitarra e l’accordion
B) Il cantante, trombettista e chitarrista statunitense Mark Ledford
C) il percussionista e cantante Armando Marcal, nuovamente un brasiliano

Il dato tecnico più importante fu l’utilizzo da parte di Metheny della nuova chitarra elettrica Coral
Sitar, il cui suono si poteva ascoltare nel brano più celebre del disco “Last Train Home”, una
ballata jazz-country di modernissima concezione, resa particolarmente affascinante dal groove di
batteria suonato in sedicesimi.
Le voci invece si apprezzavano pienamente in “Minuano”, un pezzo di chiara concezione
brasiliana, un samba in ¾; nonostante la temporanea uscita dal gruppo di Pedro Aznar, autentico
fuoriclasse che in quel periodo tentò di intraprendere una propria strada come solista, i tre nuovi
musicisti avevano ripreso e sviluppato coralmente la modalità tanto cara a Metheny, cioè il canto
vocalizzato privo di testo, ispirato al suono della voce di Milton Nascimento.

A questo punto appariva già delineato e perfettamente comprensibile il contributo dato da


Metheny alla musica improvvisata di quegli anni, seguendo diverse direzioni:

A) l’introduzione di elementi della musica brasiliana nel jazz


B) l’utilizzo originale delle voci, usate come strumenti
C) l’attenzione al sound del gruppo, aggiornando continuamente la propria strumentazione e
quella dei propri musicisti, con lo sguardo sempre rivolto in avanti, quindi sfruttando le
nuove sonorità offerte dalla tecnologia

Nel 1989 Aznar era tornato saldamente al suo posto e il PMG registrò nuovamente con il quintetto
“storico” l’album Letters From Home: fu un altro successo, anche se il livello delle composizioni
era meno brillante del solito.
Il disco era il seguito ideale di Still Life e le caratteristiche appena descritte erano tutte presenti e
messe a frutto: “Have You Heard” presentava un tipico andamento brasiliano “alla Metheny”,
mentre la delicata “Every Summer Night” proponeva atmosfere più “crossover”, ammiccando
dolcemente verso un pop di classe, quindi piuttosto in stile “smooth jazz”.

Gli anni Ottanta si chiudevano trionfalmente per Pat Metheny, il quale oltre ad affermarsi con il
proprio gruppo aveva collaborato con alcuni tra i più grandi jazzisti viventi; infatti, oltre ai già
citati Charlie Haden , Paul Motian e Ornette Coleman aveva avuto modo di suonare anche con:

A) il sassofonista Sonny Rollins, con il quale fu in tour nel 1983


B) in duo con Jim Hall in varie occasioni, a partire dal 1982
C) Michael Brecker, che lo volle alla chitarra nel primo disco inciso a suo nome nel 1986
D) Jack DeJohnette ed Herbie Hancock, con cui aveva inciso a nome del batterista l’album
Parallel Realities a fine decennio

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Il grande chitarrista non s’era fatto mancare nemmeno una collaborazione con il compositore di
musica minimalista Steve Reich, con cui aveva inciso nel 1987 Electric Counterpoint, un’opera
in tre movimenti: “Fast”, “Slow” e “Fast”.

La curiosità di Metheny si era estrinsecata in altre forme ancora; a partire dagli anni Settanta
infatti il chitarrista si era cimentato con le colonne sonore:
Il primo lavoro era stato una sonorizzazione fatta insieme a Lyle Mays per un documentario tv
intitolato Searchfor Solution e trasmesso nel 1979.
Successivamente nel 1983 aveva realizzato da solo la colonna sonora del film Little Sister, diretto
dal regista Jan Egleson, con gli attori Kevin Bacon e John Savage; essendo una produzione a basso
costo il chitarrista registrò direttamente con la Synclavier guitar direttamente collegata a un
registratore a due piste digitali, utilizzando come effetto soltanto un poco di reverbero.
Infine nel 1985 lavorò instancabilmente, dalle 14 alle 20 ore al giorno per realizzare la sound track
di The Falcon and the Snowman, il nuovo film di John Schlesinger; insieme a lui il fidato Lyle
Mays che ebbe la possibilità di mettere in mostra ancora una volta le doti di abilissimo
arrangiatore ed orchestratore, ma tutto il PMG partecipò alle registrazioni.
In questo caso la fortuna diede una mano al chitarrista; infatti mentre il film era in fase di
montaggio David Bowie, amico di lunga data del regista, fu invitato ad assistere ad una visione
privata della pellicola: folgorato dal brano “Chris” il cantante inglese decise di apporvi delle
liriche e di interpretarlo.
Con delle piccole modifiche fatte alla melodia originale per meglio adattarvi le parole nacque il
brano “This is not America”, che fu poi montato sui titoli di coda.
Il risultato fu davvero brillante, anche se al nome di Metheny non venne dato il giusto risalto in
fase di promozione del pezzo, tuttavia il chitarrista fu molto soddisfatto per aver realizzato questa
inattesa e insolita collaborazione.
Subito dopo fu offerta a Metheny una nuova opportunità in campo cinematografico: gli furono
commissionate le musiche del film Twice in a Lifetime, diretto dal regista Bud Yorkin e
interpretato da Gene Hackman e Ann Margaret; questa volta le sue composizioni vennero suonate
da altri musicisti ad eccezione di alcuni interventi di chitarra acustica.
Nel frattempo un altro regista, Kevin Reynolds utilizzò alcuni brani tratti dai dischi di Metheny
con grande sapienza per il suo film Fandango, una pellicola nostalgica ambientata nel 1971,
prodotta da Steven Spielberg per la Warner e interpretata da Kevin Costner, così ben fatta da
diventare un cult movie.

Gli anni Novanta si aprirono con un altro capolavoro, Secret Story, strepitoso album a suo nome
con pezzi bellissimi come “Facing West” e soprattutto “Always and Forever”, dedicato ai suoi
familiari e impreziosito dall’intervento all’arminica a bocca del belga Toots Thielemans.
Seguirono poi vari dischi, tutti diversi eppure di livello eccellente:

A) I Can See Your House From Here, in duo con John Scofield
B) The Road To You con il Pat Metheny Group
C) Zero Tolerance for Silence, inciso da solo, sovraincidendo con la sua chitarra

Poi ancora un nuovo album registrato in studio dal PMG nel 1995, intitolato We Live Here e il
disco in duo Jim Hall & Pat Metheny, pubblicato dalla Telarc del 1999.

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La prova più bella però di questa produzione di fine secolo fu Under The Missuori Sky, inciso in
duo con il contrabbassista Charlie Haden, con cui Metheny aveva condiviso già vari lavori; questa
volta il trait d’union tra i due era il Missuori, lo Stato bagnato dall’omonimo fiume, il più grande
affluente del mondo che confluisce nel più famoso Mississippi.
In verità Metheny era effettivamente del Missuori, mentre Haden era nato poco più a Nord, in una
città chiamata Shenandoah, nello Stato dello Iowa, che però con il Missuori è confinante.
In questo disco i due interpretarono anche il tema tratto dalla colonna sonora del film Nuovo
Cinema Paradiso, del regista italiano Giuseppe Tornatore, composta da Ennio Morricone.

Altri avvicendamenti si verificarono all’interno del PMG, formazione che ormai aveva più di
vent’anni e si apprestava a diventare una sorta di moderna fucina di talenti, alla stregua dei Jazz
Messengers: verso la fine del decennio entrarono infatti:

A) il bassista, cantante e percussionista camerunense Richard Bona


B) il batterista messicano Antonio Sanchez
C) il trombettista vietnamita Cuong Vu
D) Dave Samuels alla marimba e alle percussioni

Nel 2001 fu realizzato ancora un bellissimo album del PMG, grazie al team composto da Metheny,
Lyle Mays e il bassista e produttore Steve Rodby: il risultato fu Speaking of Now, vera summa
contenente una sorta di “best of” del gruppo.

Nel 2005 Metheny iniziò una collaborazione intensa con il pianista Brad Meldhau.

Nel 2008 il chitarrista ha dato alle stampe un nuovo disco in trio, questa volta con Christian
McBride al contrabbasso e Antonio Sanchez alla batteria, intitolato Day Trip.

L’ultimo stupefacente progetto del chitarrista è stato comunque Orchestrion, un album realizzato
nel 2010 con un ensemble musicale tutto computerizzato, fatto di tanti strumenti acustici ed
elettrici, pilotato da Metheny attraverso le più avanzate tecnologie.

“Pat Metheny ha fatto tanto per la musica, perché ha portato tantissima gente abituata al rock ad
ascoltare la sua musica, facendo poi loro apprezzare anche ciò che ha realizzato con il trio e con
Ornette Coleman”. (Eliot Zigmund)
Mi permetto di dissentire dall’opinione del grande batterista di Bill Evans, i fanatici del rock non
credo che reggerebbero più di una traccia di Song X……quella è roba per appassionati di vero
jazz!

Questo moderno e aggraziato menestrello moderno incarna idealmente il mito greco di Apollo, che
con la sua lira era un po’ il simbolo della musica: in senso lato Metheny incarna la figura del
musicista felice di imbracciare il suo strumento in ogni occasione possibile, tanto è vero che il
chitarrista dedica ancora moltissimo del suo tempo a studiare, esercitandosi almeno un’ora e
mezza prima di ogni concerto!
Metheny vive di musica, eppure per tanti aspetti potrebbe sembrare “poco” musicista: non ha mai
in vita sua non ha mai bevuto una birra né fumato una sigaretta……

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Steps Ahead

Se Pat Metheny è stato popolare in maniera trasversale, riuscendo a essere apprezzato dalla critica
e da un vasto pubblico, il gruppo degli Steps Ahead ha rappresentato il meglio per i musicisti,
soprattutto a livello strumentale, incarnando l’ideale formazione contemporanea per qualche
tempo a partire dalla metà degli anni Ottanta.

Gli Steps furono gli eredi di formazioni come i Weather Report, la Mahavishnu Orchestra e i
Return To Forever, che avevano dominato la scena musicale del decennio precedente imponendo
degli standard tecnici molto elevati; la ricerca timbrica e la sperimentazione con strumenti elettrici
effettuata da questi gruppi trovò la sua logica evoluzione nel lavoro degli Steps Ahead.

Il fondatore della band fu il vibrafonista Michael Mainieri, più noto come Mike, vibrafonista
nato a New York nel 1938, che aveva costruito una solida carriera jazzistica nel corso di diversi
decenni.
Iniziò ad imporsi negli anni Cinquanta, collaborando tra gli altri con:

A) il batterista Buddy Rich


B) la grande Billy Holiday
C) Dizzy gillespie
D) Coleman Hawkins
E) Wes Montgomery

Nel decennio successivo si unì al flautista Jeremy Steig nel gruppo precursore del jazz rock
Jeremy & the Satyrs, esibendosi spesso all’A-GoGo, Club di New York attorno al quale
gravitavano figure come Frank Zappa, Jimi Hendrix e Richie Havens.

Alla fine degli anni Sessanta diversi elementi di quella band, tra cui Mainieri, confluirono
nell’Orchestra White Elephant, un ensemble sperimentale caratterizzato dalla presenza di solisti
di spicco quali:

A) Michael Brecker
B) Il sassofonista baritono Ronnie Cuber
C) I trombettisti Lew Soloff, Randy Brecker e Jon Faddis

Nel 1979 Mainieri diede inizio al progetto degli Steps, gruppo d’avanguardia jazz fusion che
riuniva alcuni tra i migliori musicisti con cui aveva collaborato:

A) Michael Brecker al sax tenore


B) Mike Mainieri al vibrafono
C) Don Grolnick al pianoforte e alle tastiere
D) Eddie Gomez al contrabbasso
E) Steve Gadd alla batteria

Con l’aggiunta del chitarrista giapponese Kazumi Watanabe la band registrò un doppio album
live, intitolato Smokin’in the Pit, pubblicato nel 1989, prima incisione degli Steps che fu accolta
benissimo vincendo un disco d’oro; nello stesso anno seguirono Step by Step il secondo album
realizzato in studio, e un nuovo Lp dal vivo, Paradox.

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Nei primi tre dischi la band si chiamò semplicemente Steps; nel 1982 si scoprì che tale
denominazione era condivisa con un complesso musicale del Nord Carolina, che peraltro aveva
depositato il marchio, così il gruppo cambiò il suo nome in Steps Ahead.

Nel 1983 ci fu il debutto discografico della nuova band con l’album omonimo Steps Ahead; in
quel periodo una parte della formazione era cambiata:

A) Michael Brecker
B) Mike Mainieri
C) Eliane Elias al pianoforte
D) Eddie Gomez al contrabbasso
E) Peter Erskine alla batteria

Il capolavoro della band fu il disco successivo, intitolato Modern Times e pubblicato nel 1984;
al pianoforte e alle tastiere Warren Bernhardt aveva preso il posto di Eliane Elias, che era stata la
moglie del fratello di Michael Brecker, il trombettista Randy.
Il disco conteneva composizioni Mainieri, Brecker, Erskine e Bernhardt, soprattutto “Oops” e
“Self Portrait”, ballad suggestiva e tecnologica, dal momento che il leader suonava il synth vibe,
uno strumento di cui fu pioniere, che attraverso dei trigger poteva agire come un sintetizzatore,
sfruttando le potenzialità dei sequencer, dispositivi musicali atti a creare dei loop, brevi
frammenti melodici o armonici reiterati ad libitum.
Quest’album riscosse un successo mondiale, raggiungendo trasversalmente un pubblico
grandissimo: il suono energico e potente della band piacque molto anche agli ascoltatori
tradizionali del genere rock; a ben vedere rappresentò un ponte ideale che traghettò parecchi
appassionati verso il jazz, seppure di modernissima concezione.
La forza della band era una esplosiva miscela di suoni, armonie complesse e arrangiamenti
calibrati, che facevano venir fuori le voci dei singoli strumenti dando l’impressione che fossero
paritetiche, avendo degli spazi ben distribuiti; soprattutto il vibrafono caratterizzava il sound,
richiamando alla mente i precedenti gruppi in cui questo strumento aveva avuto un ruolo
preponderante:

A) il quartetto di Benny Goodman


B) la big band rhythm and blues di Lionel Hampton
C) il quintetto di George Shearing
D) il Modern Jazz Quartet

Il solista più spettacolare degli Steps Ahead fu però Michael Brecker, il più importante esponente
contemporaneo del sax tenore, capace di contendere a Charlie Parker e John Coltrane il primato
dello strumentista ad ancia più virtuoso della storia del jazz.
Negli anni d’oro degli Steps Ahead e poi nei propri dischi Brecker sperimentò con eccezionali
risultati un sintetizzatore a fiato, l’Akai EWI 1000, uno strumento avveniristico che conferiva
eccezionali possibilità ai sassofonisti, disponendo di un’estensione di otto ottave! Il prototipo fu
esposto al Museo d’Arte Moderna di New York e somigliava a un tubo dritto e quadrangolare;
rimane un mistero come Brecker riuscisse a padroneggiarlo con un’abilità paragonabile a quella
che aveva sul sassofono, dal momento che era dotato di sensori così sensibili da rendere a
qualsiasi suo collega l’approccio con quello strumento veramente scoraggiante.

I successivi dischi di questo gruppo lamentarono un’eccessiva routine, sia Magnetic del 1986 che
N.Y.C. pubblicato nel 1989; l’elenco delle incisioni in studio della band si completa con Yin-
Yang del 1992 e Vibe, uscito nel 1994.

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Una volta disgregatosi il nucleo originale, nelle varie formazioni degli Stepse Ahead hanno
militato notissimi musicisti:

A) i batteristi Dannis Chambers, Steve Smith, Jeff “Tain” Watts, Ben Perosky
B) i bassisti Victor Bailey, Darryl Jones, Tony Levin
C) i chitarristi Mike Stern, Steve Kahn, Chuck Loeb, Hiram Bullock
D) i pianisti Kenny Kirkland, Mitch Forman, Dave Kikoski, Joey Calderazzo, Rachel Z
E) I sassofonisti Bob Berg, Bob Minzer, Rick Margitza, Donny McCaslin
F) I cantanti Dianne Reeves, Bobby McFerrin, Richard Bona

Wayne Shorter

Sassofonista, compositore, musicista a tutto tondo.


Wayne Shorter è uno dei maggiori musicisti di jazz viventi; cresciuto nel periodo in cui esplose
l’hard bop si affermò grazie ai gruppi di Miles Davis negli anni Sessanta e nel decennio
successivo con i mitici Weather Report, di cui fu fondatore e membro effettivo dal primo
all’ultimo album.

Shorter tuttavia non si limitò a questo; già nel 1975, in piena attività con i Weather il sassofonista
aveva realizzato un disco a proprio nome intitolato Native Dancer, in cui rivelò al pubblico
statunitense il talento del cantante brasiliano Milton Nascimento.
Possiamo dire che quel disco fu molto di più: fornì un’idea di come la musica brasiliana potesse
continuare a contribuire con le proprie sonorità all’evoluzione del jazz.
Ad esempio l’utilizzo della voce di Nascimento, con il suo canto vocalizzato che spesso faceva a
meno di un testo per ottenere un suono “puro”, da aggiungere agli strumenti consueti di un
organico jazz diede inizio alla moda musicale che Pat Metheny portò alla sua massima espressione
circa dieci anni dopo!
Il connubio tra i suoni e i ritmi della musica brasiliana era di lunga durata nel jazz: fin dai tempi di
Stan Getz il jazz samba aveva spopolato nel mondo, affascinando schiere di ascoltatori che
trovavano questo stile musicale sobrio e sofisticato.
Mentre Getz aveva attinto al repertorio della bossanova, rifacendosi a compositori come Jobim,
Luiz Bonfà, Baden Powell e Joao Gilberto, Shorter si rivolse ai nuovi autori del Tropicalismo, un
movimento che avendo assunto ben presto uno spiccato carattere politico di denuncia del governo
carioca fu osteggiato in patria, costringendo i protagonisti a esiliare, trascorrendo gli anni
“difficili” in Europa, alcuni di loro anche in Italia; tra essi ricordiamo i cantanti Caetano Veloso,
Gilberto Gil, Chico Buarque De Hollanda, il chitarrista Antonio Pecci, in arte Toquinho,
Milton Nascimento, Maria Betanha e soprattutto (il più grande di tutti), l’ambasciatore della
musica brasiliana nel mondo, l’artista e poeta Vinicius De Moraes.
Native Dancer rivelava le sonorità amazzoniche, il timbro talvolta nasale ma estremamente
sensuale di Milton Nascimento, autore di alcuni brani del disco; tra le altre composizioni
dell’album spiccavano due brani strumentali di Shorter, “Beauty and the Beast” e la splendida
“Ana Maria”, composizione dedicata alla moglie, la portoghese Ana Maria Fernando.
Questo disco fu realizzato grazie alla collaborazione del suo amico fraterno Herbie Hancock, che
prestò il proprio inconfondibile stile al progetto del sassofonista suonando il pianoforte e le
tastiere in tutte le tracce dell’album.

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Con quest’album Shorter diede inizio a un peculiare stile di jazz liscio, fluido, di facile presa,
perciò definito “smooth”; l’apparente semplicità ed economia stilistica del sassofonista però
celava un’infinita sapienza e saggezza musicale, che consisteva nel far sembrare semplici cose in
realtà molto più profonde; sulla sua scia nacquero solisti “leggeri” come Kenny G, degli emulatori
semplici e basta, che degli originali non possedevano lo spessore e la classe.

Wayne Shorter negli anni Ottanta contemporaneamente ai Weather Report realizzò varie
collaborazioni importanti con star del pop internazionale:

A) Joni Mitchell
B) Pino Daniele
C) Carlos Santana
D) Steely Dan

Anche quest’attività per quanto non riconducibile in alcun modo alla storia del jazz aveva rivelava
delle valenze da non sottovalutare:

A) la partecipazione a progetti pop di star del jazz come Wayne Shorter, Michael Brecker,
Stan Getz, Toots Thielemans, Chick Corea, Don Cherry, Gato Barbieri e molti altri
attiravano l’attenzione del pubblico sul jazz suscitando una nuova curiosità per la musica
afroamericana (non a caso i loro assoli strumentali, memorabili, diventavano la cosa
migliore del pezzo)
B) Il fatto di essere chiamati a impreziosire le produzioni più ambiziose dava l’idea di quanto
questi strumentisti, con la sola forza del jazz fossero arrivati a una effettiva notorietà
presso gli addetti ai lavori, tanto da essere proposti al grande pubblico (ovviamente i più
esperti appassionati di musica li conoscevano già, molto tempo prima dei critici)

Una volta conclusa l’esperienza con i Wather Report, Shorter che non aveva fatto dischi a proprio
nome per dieci anni, pur essendo considerato uno dei massimi e più prolifici compositori della
storia della musica jazz, diede un saggio della propria maestria con Atlantis, pubblicato nel 1985:
si trattava contemporaneamente di un riassunto di quanto di buono i suoi colleghi stessero facendo
in quegli anni, gettando però uno sguardo sul futuro della musica avanti di vent’anni!
Nonostante l’utilizzo di sintetizzatori e tastiere il progetto compositivo era così innovativo da
risultare a un primo ascolto ancora sorprendente; a ben vedere la musica di Shorter era sempre
stata in anticipo rispetto ai tempi, basti pensare a brani innovativi come “Footprints” e
“Pinocchio”, composti negli anni Sessanta, per avere un’idea di come il sassofonista non si
rifacesse alle mode ma piuttosto finisse per imporle.

Atlantis fu un album veramente brillante: scattante e tecnologico ma al tempo stesso appassionato


e toccante, specialmente nei brani “The Three Marias” e “Endagered Species”.

Shorter in quel periodo cominciò a utilizzare prevalentemente il sax soprano, adottando il modello
SY 62, un particolare strumento dritto come di consueto ma con la prima parte (quella vicina al
becco) leggermente ricurva; il suono di quello strumento era quasi quello di un oboe, tanto era
composto ed espressivo.

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La sua carriera di leader proseguì dedicandosi alla scoperta di nuovi talenti, molti dei quali furono
femminili:

A) le percussioniste Marylin Mazur e Terry Line Carrington


B) le pianiste Geri Allen, Renee Rosnes e Rachel Z

L’amicizia trentennale con Herbie Hancock fu sancita da un disco molto meditativo e pensoso,
pubblicato nel 1997 e intitolato 1+1; in quel periodo Shorter aveva perso la moglie, la portoghese
Ana Maria Fernando, perita in un incidente aereo insieme a una loro nipote mentre stava
raggiungendo il marito in tournée in Europa.

La grande fede, Shorter è praticante buddista e l’amore per la musica hanno fatto si che il
saasofonista continuasse a produrre nuovi dischi di grande livello negli ultimi anni:

A) Alegria, nel 2003


B) Beyond the Sound Barrier del 2005
C) Without a Net del 2013

Il quartetto attuale, con il pianista Danilo Perez, il bassista John Patitucci e il batterista Brian
Blade realizza una musica di grande spessore, pur essendo estremamente misurata; talvolta un po’
troppo concettuale per piacere al grande pubblico ha fatto intravedere un ritorno di Shorter alla
musica acustica e le sua preferenze per l’aspetto compositivo della musica e per la free
improvisation, l’improvvisazione “libera”.

Don Grolnick

Nel caso di Don Grolnick ci troviamo di fronte a un musicista sconosciuto ai più, che però
realizzò negli anni Ottanta una propria sintesi musicale che conferì al jazz un modello ideale da
seguire; i musicisti più grandi di quel periodo si avvalsero della sua collaborazione, utilizzandone
le composizioni e le capacità di arrangiatore moderno ed eclettico.
Pianista, compositore, arrangiatore e produttore musicale di grande spessore oltre a far parte della
prima formazione degli Steps, Grolnick lavorò con artisti provenienti da generi musicali
differenti:

A) pop
B) rock
C) latin
D) soul
E) jazz
F) fusion
G)
Nato a Brooklyn, New York nel 1947, Grolnick si avvicinò alla musica suonando l’accordion ma
dopo poco tempo passò al pianoforte; l’interesse per il jazz iniziò quando il padre lo portò ad un
concerto dell’orchestra di Count Basie e subito dopo aver visto Erroll Garner esibirsi alla
Carnegie Hall.

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Pur essendosi laureato in filosofia alla Tufts University di Boston decise di intraprendere la
carriera di musicista; rimase in quella città per formare i Fire & Ice, una band di jazz rock creata
insieme al bassista Stuart Shulman e al chitarrista Ken Melville.
Il gruppo aprì i concerti di B.B. King, The Jeff Beck Group e i Velvet Underground, in noti club
di Boston come The Ark e il Boston Tea Party; furono queste le prime influenze che Grolnick
ricevette da artisti del genere rock e blues.
Trasferitosi a New York nel 1969 Grolnick formò ancora una volta insieme al chitarrista Ken
Melville una nuova band jazz fusion, denominata semplicemente “D”, che effettuò alcune
performance live insieme alla superstar Ultra Violet, prodotta da Andy Warhol.

Subito dopo entrò nei Dreams, una magnifica band formata dal batterista Billy Cobham, con tutti
giovani musicisti molto promettenti; in quest’occasione incontrò Michael e Randy Brecker.

Per tutti gli anni Settanta Grolnick partecipò come sideman ai dischi di noti jazzisti:

A) il chitarrista George Benson


B) il contrabbassista Ron Carter
C) il trombettista Art Farmer
D) il flautista Hubert Laws
E) il compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra Don Sebesky
F) il compositore, arrangiatore Claus Ogerman, con cui realizzò il bellissimo album
Cityscape

Il decennio successivo però rappresentò il meglio nella breve carriera di Don Grolnick; il
musicista infatti divenne molto richiesto come produttore musicale e star del pop, del soul e del
jazz se lo contesero, tra questi ricordiamo:

A) il cantautore James Taylor


B) la cantante Linda Ronstadt
C) l’afroamericana regina del soul Roberta Flack
D) Carly Simon
E) Bette Midler
F) Il sassofonista contralto David Sanborn
G) Il bassista Marcus Miller
H) Il sassofonista Bob Mintzer
I) Il contrabbassista Dave Holland
J) Il complesso degli Steely Dan

Nel 1985 Grolnick incise finalmente il primo disco a suo nome, che si sarebbe rivelato un
caposaldo del genere jazz fusion di tutti i tempi, lo storico Hearts and Numbers.
I sideman coinvolti furono tutti di grande livello, a cominciare da Michael Brecker e Peter
Erskine, ma ciò che rese speciale questo disco fu la bellezza degli arrangiamenti e delle
composizioni, che funsero da veri e propri modelli per i suoi contemporanei; il lavoro aveva
evidenti analogie con la musica degli Steps Ahead, di cui Grolnick stesso era stato membro, ma
presentava maggiore sobrietà espressiva e una formidabile organizzazione degli elementi musicali.
I brani a livello melodico erano concatenazioni di brevi temi, non seguendo perciò le tradizionali
forme del jazz, eppure evitando la ripetitività degli schemi applicati nelle composizioni da tanti
gruppi fusion e jazz rock; sembrava quasi che le cellule tematiche si succedessero come passando
da un quadro all’altro di un videogame.

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Queste composizioni sono rimaste celebri, scolpite nel cuore di chi ha avuto la fortuna di
ascoltarle: “The Four Sleepers”, “Regrets”, “Act Natural” e soprattutto “Pools”, che insieme
alla più recente “Nothing Personal” fu il brano maggiormente reinterpretato da altri musicisti.
Don Grolnick rappresentò il prototipo di musicista “fusion”, per l’ecletticità e il suo saper
attingere a elementi provenienti da generi diversi ricostruendoli in un tutto unitario e funzionale.
Gli altri dischi pubblicati a suo nome furono:

A) Weaver of Dreams
B) Nighttown
C) Media Noche
D) London Concert (pubblicato postumo nel 2000)

Nessuno di questi album eguagliò la bellezza di Hearts and Numbers.


Purtroppo Don Grolnick è stato un musicista dalla carriera molto breve, infatti morì a 48 anni nel
1996 per una rara forma di linfoma.

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