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Capitolo 10

Le voci nel jazz

Le prime manifestazioni della musica afroamericana furono i calls e i cries, di carattere vocale ed
individuale:.

I worksong riportarono il canto corale ad essere un elemento centrale della vita degli afroamericani.

Le ballate e i coon song del mistrel show per quanto composti da musicisti bianchi riproducevano i ritmi
sincopati di ascendenza africana.

Lo spiritual e il blues approfondirono l’espressività delle voci, scambiandosi spesso tra di loro spunti
tematici e addirittura i ruoli: ci furono blues cantati nelle chiese e molti inni religiosi divennero dei
blues.

Fino a questo punto della storia tutta la gestazione del jazz era avvenuta attraverso il canto: per gran
parte dell’Ottocento la voce era stato il principale strumento “di sintesi” per gli afroamericani.
Per lungo tempo l’utilizzo di strumenti tradizionali non era stato concesso agli schiavi o addirittura
vietato, per questo fu grazie al canto se fu conservato il patrimonio ritmico proveniente dall’Africa,
tramandato oralmente alle generazioni successive.

A partire dal 1890 il ragtime portò in auge la musica strumentale, influenzando ampiamente il repertorio
bandistico che venne emulato e ripreso dai primi musicisti afroamericani con le marchin’ band; poi per
circa vent’anni da un miscuglio di generi differenti, più o meno quelli sopracitati, iniziò a concretizzarsi
una musica che prese il nome di jazz; questa fu una lunga fase di evoluzione che vide le voci escluse,
infatti ad eccezione del blues tutta la musica afroamericana di inizio Novecento fu di carattere
strumentale.

Dalle fanfare marcianti alle ragtime band fino agli organici tipici del dixieland o di New Orleans i
cantanti non vennero coinvolti e se ne intuisce chiaramente il motivo: le voci sarebbero state coperte dal
suono più potente dei fiati messe a confronto con gli strumenti a fiato e non sarebbero stati udibili!

Il microfono fu inventato solo all’inizio degli anni Venti e fino a quel momento le voci furono tagliate
fuori dall’evoluzione della musica jazz.

A quel punto i cantanti si trovavano in una condizione piuttosto interessante perchè si trovarono a
disporre di differenti modelli di espressione vocale maturati in quegli anni di “ascolto” della musica
strumentale, con la possibilità di scegliere la propria strada tra queste tre grandi direzioni:
:
A. proseguire la linea dei cantanti del vaudeville, che rifacendosi al cakewalk e al ragtime si
ricongiungeva al jazz per la scattante e rapida scanzione sincopata

B. imitare con la voce il suono e il fraseggio degli strumenti a fiato

C. utilizzare il canto scat

Ci furono ovviamente migliaia di specialisti ma soltanto gli interpreti migliori riuscirono in qualche
modo a far proprie le tre modalità, scrivendo così la storia del canto jazz.

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Al Jolson

Il primo rappresentante del canto moderno, fortemente influenzato dal jazz fu Asa Yoelson, che con la
americanizzazione del nome divenne Al Jolson: il suo stile fu l’immagine della salute e della gaiezza
degli Stati Uniti del Ventesimo secolo.
Nato da una famiglia di cantori ebraici a Srednik, in Lituania, nemmeno lui sapeva con esattezza
quando, successivamente scelse egli stesso la sua data di nascita indicandola come il 26 maggio del
1886.
All’età di cinque anni circa si trasferì con la famiglia a New York, andando incontro a un luminoso
destino.
Subì giovanissimo la perdita della madre ma iniziò precocemente la professione di cantante insieme al
fratello minore Hirsch, esibendosi con un duo chiamato “Al and Harry” nei circuiti dei medicine show,
dei circhi e del teatro di varietà o vaudeville.
Agli inizi del Novecento intraprese una carriera solista come “black face entertainer”, la maschera
tipica del minstrel show; nel decennio successivo la sua popolarità crebbe a tal punto da tenere a
battesimo un giovanissimo songwriter, George Gerhwin, cantando nella commedia musicale “Sinbad”
la canzone “Swanee”, primo successo del geniale compositore.
Nel 1920 regalò al mondo del jazz “Avalon”, un song di sua composizione, uno dei temi classici
dell’hot jazz, anche se la paternità del brano è stata talvolta messa in discussione.

Divo tra i più acclamati del teatro musicale Al Jolson infondeva alle sue interpretazioni un’enfasi
talvolta prosaica che però donava un senso di vigore e pienezza vocale.
La sua musicalità e ritmicità si esprimevano anche attraverso le doti di ballerino e fantasista: era
abilissimo ad improvvisare fischiando e facendo finta di impugnare un’ocarina.

A dare ad Al Jolson la dignità di antesignano dei cantanti della moderna musica afroamericana fu
soprattutto un film girato nel 1927 con la regia di Alan Crosland: “Il Cantante di Jazz”.
Fu la prima pellicola del cinema sonoro, almeno per quanto riguardava le scene in cui si cantava, invece
per il resto dei dialoghi vennero ancora utilizzate le didascalie.
Curiosamente la storia del film presentava delle analogie con la sua vita: si narrava di un ragazzino
ebreo che piuttosto che proseguire la tradizione di famiglia (il padre era il Cantor della Sinagoga)
sceglieva di diventare un entertainer, una figura anticonformista e ribelle: un cantante di jazz!

Nel film Jolson fu impareggiabile, cantando e ballando in presa diretta e truccato da afroamericano
ripropose il cavallo di battaglia del “black face entertainer”; nel pieno dell’Età del jazz era normale che
a rappresentare la musica degli afroamericani fosse un bianco con il volto dipinto, però Jolson fu in
grado di rendere appieno la ritmicità e il divertimento che derivava da quella musica.

A parte la melensa e ironica “Mammy”, il suo successo più longevo e cavallo di battaglia presentato
anche nel film del 1927 fu il brano “Toot, Toot, Tootsie, Goodbye”, uno dei manifesti sonori dei
“Roaring Twenties”

Il senso dello swing emanato dalle sue incisioni é sicuramente arcaico ma piuttosto accentuato e la
ritmicità del suo cantare è ancora oggi letteralmente trascinante, caratteristiche peraltro esaltate da una
dizione forte e chiara (Jolson era anche un attore); il suo canto fu privo di inflessioni blues ma
interamente pervaso dallo spirito del ragtime e dalla musica delle prime jazz band di stanza a New York,
spettacolari ma un po’ rigide.

Ciò era tipico dei primi interpreti del jazz di New York che non si lasciavano mai completamente andare
perché consapevoli di esibirsi davanti ad un pubblico sofisticato, quello dei teatri, bianco e borghese,
non ancora avvezzo a una eccessiva negritudine.

2
Ethel Waters

Le prime cantanti jazz ebbero molto in comune con le cantanti di blues “classico”, che erano state le
prime interpreti vocali femminili a proporsi come soliste ma a differenza loro avevano una visione più
strumentale.

Ethel Waters iniziò la carriera discografica nel 1921, afferendo al canto una capacità di:

A. infondere drammaticità ai testi


B. alterare sottilmente le melodie, dal punto di vista metrico e ritmico.

Fu influenzata dagli strumenti a fiato che aveva ascoltato e il suo stile presentava una notevole
sincopazione; fu una cantante sofisticata e raffinata capace di gestire l’interpretazione delle canzoni con
una ricca gamma di sfumature, passando dal tono drammatico a quello ironico giocando su allusioni e
doppi sensi.
Pur avendo lavorato nel mondo del black vaudeville e quindi accomunata nella prima parte della sua
sarriera a interpreti di blues classico come Mamie Smith, Lucille Hegamin e Bessie Smith la Waters si
specializzò in un repertorio di canzoni popolari e ballads, che seppe innalzare di livello grazie alla
propria ricercatezza vocale.
Fu un’interprete “cool” ante litteram, una cantante che pur non rinnegando il blues seppe raccontare i
piccoli drammi quotidiani con una sobrietà unica.

Nata nel 1896 a Chester in Pennsylvania, ebbe un’infanzia segnata dalla povertà; la famiglia piuttosto
anaffettiva a causa delle condizioni perennemente disagiate non dimorò mai per più di quindici mesi
nello stesso posto! La Waters dichiarò di non essere mai stata “bambina”, avendo scoperto presto gli
aspetti peggiori degli esseri umani..

Il suo talento si rivelò all’improvviso e cominciò a lavorare in teatri e nel circuito afroamericano,
affermandosi a Baltimora, Chicago e Atlanta fino ad arrivare ad Harlem, a New York dove negli anni
Venti divenne una protagonista della “black reinassance” , una vera e propria regina della musica
afroamericana, esibendosi con le orchestre di:

A. Fletcher Henderson
B. Duke Ellington
C. Will Marion Cook

introducendo molti brani che sarebbero diventati degli standard del jazz:

A. Dinah
B. Sweet Georgia Brown
C. Stormy Weather

Le sue versioni vocali arricchivano le melodie originali con piccole continue ricercatezze che furono
alla base dello stile di numerose interpreti che da lei impararono molto.

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Adelaide Hall

Il talento di Adelaide Hall fu rivelato al mondo nel 1927, dopo aver inciso con l’orchestra di Duke
Ellington “Creole Love Call”, ma la cantante era una pupilla di Fats Waller,; la Hall si distinse per un
uso spericolato della voce, forse un timbro meno felice della Waters ma più ricco di fascino esotico.
Nata come ballerina, a causa della morte prematura di Florence Mills improvvisamente la Hall si trovò a
cantare e ballare fianco a fianco con Bill “Bojangles” Robinson, una delle prime stelle afroamericane.
A differenza della Waters si specializzò nell’imitazione degli strumenti a fiato, in particolare di quelli
che suonavano nello stile “Jungla”; la cantante si esibiva al Cotton Club nel periodo in cui l’orchestra
di Duke Ellington era la house band del famoso locale di Harlem.
Una sera fu udita dal maestro mentre cantava dei vocalizzi nascosta dietro il sipario mentre l’orchestra
suonava il brano “Creole Love Call”; Ellington ne fu così entusiasta da invitarla ad incidere il brano
insieme all’orchestra, il risultato fu un capolavoro.
La Hall sfoggiò una verve e una vivacità insieme ad una sommessa e dolorosa passione in numerose
incisioni, sempre riecheggiando il suono degli strumentisti a lei familiari, cioè i solisti della sezione
brass della Duke Ellington Orchestra:

A. i trombettisti Bubber Miley e Cootie Williams


B. trombonisti Charles Irvis e Joe “Tricky Sam” Nanton

Questi musicisti con l’uso di sordine “plunger” facevano letteralmente parlare i loro strumenti,
emulando il lamento della voce umana oppure gli echi distorti udibili in una foresta, facendo una
rappresentazione sonora dell’Africa selvaggia, da cui tutto il popolo afroamericano proveniva.
Lo stile di questi solisti derivava da quello di King Oliver, che fu appunto il primo ad utilizzare la
sordina applicata alla propria cornetta.
Lo stile Jungla creato da Ellington influenzò il jazz negli anni a venire ed è udibile tutte le volte che gli
strumenti a fiato adoperano il cosiddetto “growl”, un effetto che si ottiene cantando nella gola una
melodia parallela a quella suonata.
La Hall in una serie di incisioni successive mostrò una crescente dimestichezza con il linguaggio degli
strumenti a fiato, spesso non disdegnando la tecnica complementare dello “scat”.

Ivie Anderson

La cantante afroamericana Ivie Anderson, nata a Gilroy (California) nel 1905 fu una delle interpreti
preferite da Duke Ellington ma iniziò la sua carriera professionale nel 1931, al Grand Terrace Cafe di
Chicago con un altro pianista, Earl Hines.
L’anno dopo fu scritturata dal Duca, che dirigeva l’orchestra più importante di New York: fu la vocalist
di Ellington dal 1932 al 1942.
La sua interpretazione di “It Don’t Mean A Thing If It Ain’t Got That Swing” del 1932 è una pietra
miliare della storia del jazz ed è il brano che diede idealmente il via alla Swing Era.
L’incisione è rimasta memorabile: la Anderson iniziava con una piccola improvvisazione, fatta di frasi
profonde che facevano da preludio al tema strumentale dopodiché aggrediva il tema con piglio deciso,
esprimendo un pathos unico, sfoggiando un ottimo tempo, un temperamento drammatico e un timbro
rubusto, profondamente afroamericano.
Infine dopo gli assoli nell’ultima parte del pezzo si produsse in vivaci linee scat che preludevano al
finale d’insieme.
Già dall’analisi di questo brano si evince come la Anderson padroneggiasse entrambe le tecniche
improvvisative della libera sillabazione e dell’imitazione degli strumenti a fiato; successivamente mise
in mostra un altro pregio significativo: sapeva interpretare le ballad in maniera sensuale e profonda,
attingendo alle sonorità blues. Un esempio di questa sua arte sui tempi lenti fu l’altro brano
ellingtoniano “I Got it Bad”, tratto dallo show “Jump for Joy” del 1941.
Fu ampiamente ispirata dai musicisti di Ellington, soprattutto dal sassofonista Johnny Hodges; tale
influenza si avvertiva nell’attacco delle note più lunghe che partivano un quarto di tono sotto la loro
altezza reale.

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Louis Armstrong

Il trombettista di New Orleans è considerato il “padre” del canto jazz e per estensione di tutto il jazz!
L’affermazione non è un paradosso perché Louis Armstrong fu l’inventore del linguaggio o forse
semplicemente sintetizzò e codificò anche in campo vocale quanto era avvenuto nei primi anni del
Novecento.
La sua qualità di trombettista e musicista portentoso non potevano non riflettersi sulle sue performance
vocali: in effetti Armstrong cantava e suonava allo stesso modo, cioè meravigliosamente bene, perché
ricco di sfumature, di fantasia, con un timbro unico e un senso del tempo infallibile.
Rielaborò il linguaggio appreso da King Oliver, Keppard e gli altri maestri di New Orleans e lo
distanziò da quel contesto che si basava su un’idea di improvvisazione collettiva per inventare a metà
degli anni Venti l’attuale concetto di “assolo”.
La fortuna dell’Armstrong cantante derivò anche dall’aver lavorato a fianco di interpreti come:

A. Ethel Waters
B. Bessie Smith

Da ognuna trasse dei salutari insegnamenti su come modulare al meglio la voce e dare la giusta
profondità ai testi; così facendo portò l’arte del canto jazz a un livello inarrivabile per i suoi
contemporanei.
Parlare di Louis Armstrong è facile: aveva tutte le doti desiderabili per un musicista, personalità, swing,
fantasia, brio, miscelati ad una passione intensa che dava credibilità anche alle sue interpretazioni più
discutibili, come quando entrava in scena truccato da “Re degli Zulu” in una commedia musicale degli
anni Trenta.

Lo stile vocale del genio di New Orleans applicò con naturalezza:

A. la metrica
B. l’intonazione
C. il fraseggio
D. il timbro

del jazz ai normali testi delle canzoni commerciali che il pubblico riconosceva.
Fu il suo manager Tommy Rockwell a indirizzare Armstrong verso un repertorio di canzoni popolari
riconoscibili, invece di proporre le sue composizioni originali.

Come interprete vocale la sua carriera prese veramente quota nel 1929, con l’interpretazione della
canzone di Fats Waller “Ain’t Misbehavin”; la sua versione fu superiore addirittura a quella
dell’autore, un altro grande maestro del canto jazz, per la lettura personale che seppe dare al testo e la
rielaborazione della linea melodica, che seguiva un percorso da musicista in grado di reinventare il tema
senza fargli perdere forza e bellezza.
Pur perdendo qua e là qualche parole del testo Armstrong creò una parafrasi della melodia,
inframmezzata da break vocali semi-scat che ricalcavano il suo stile trombettistico
L’aggiunta di parole “sue” cone “….oh, baby” serviva a bilanciare metricamente le variazioni
tematiche.
Sostituisce le parole del testo “for you” con una vivace frase costruita sulla frase “Oh Baby, love you;
really…love you”.
Queste piccole libertà rappresentarono le innovazioni essenziali apportate da Armstrong al canto jazz
prima che cominciassero gli anni Trenta, per questo è ritenuto il primo “vero” interprete vocale della
musica afroamericana, sicuramente il più completo.
Dopo che si era esaurita la forza innovativa impressa con la sua tromba al fraseggio e
all’improvvisazione del jazz continuò a rappresentare se stesso in maniera dignitosa ma piuttosto
ripetitiva; viceversa come cantante continuò a produrre sempre nuovi capolavori, realizzando

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specialmente in coppia con Ella Fitzgerald dei dischi memorabili in cui passava in rassegna i
capolavori della canzone americana scritti da Gershwin, Porter, Berlin, Kern, rodgers ed altri.
Con il passare del tempo la sua abilità vocale se possibile si accrebbe, tanto che il canto diventò il
“bastone della sua vecchiaia”; le ultime grandi affermazioni le colse infatti proprio come cantante,
interpretando negli anni Sessanta dei brani memorabili come:

A. Hello Dolly

B. What A Wonderful World

C. We Have All The Time In The World

La storia attribuisce ad Armstrong un’innovazione basilare per l’evoluzione del canto jazz: l’invenzione
dello “scat”.
Accadde nel 1926, durante la registrazione di “Heebie Jeebies”: nel primo e nell’ultimo chorus
Armstrong cantò regolarmente il testo; in quello centrale il foglio contenente il testo scivolò a terra
cadendo dal leggio, al che Satchmo per non interrompere la registrazione creò un canto privo di parole,
rifacendosi con sillabe e una serie di effetti timbrici alle sue tecniche strumentali
Se è vero che fu tra i primi a realizzare un assolo documentato su disco di questa tecnica vocale bisogna
invece distruggere un mito:
Armstrong non fu l’inventore dello “scat” poiché quella particolare sillabazione ritmica priva di parole
divenuta poi la base indispensabile di quasi tutte le improvvisazioni vocali esisteva già da diversi anni.
Lo stesso Armstrong raccontava che era un giochetto piuttosto diffuso tra i musicisti di New Orleans il
riprodurre con la voce le variazioni fatte dagli strumenti.
Tuttavia non si pensava ad esso come un effetto utilizzare nell’incisione di un disco.
In effetti per Armstrong lo scat rimase uno strumento vocale da utilizzare di tanto in tanto per arricchire
un’interpretazione, piccoli frammenti qua e là; era un tocco personale che utilizzava per “firmare” e
rendere “speciale” ogni sua performance.
Inoltre la tecnica di sillabare viene ancor oggi utilizzata in Africa per “cantare” dei ritmi o particolari
figurazioni metriche.
In effetti si conosce almeno un antesignano ed un coevo che padroneggiavano quella tecnica altrettanto
bene, anche se ovviamente Armstrong aveva dalla sua parte la scelta e la giustezza delle note!

Cliff Edwards

Il bianco Cliff Edwards fu uno di questi precursori; conosciuto come “Ukulele Ike” perché era solito
esibirsi in solitudine accompagnandosi soltanto con il suono del suo ukulele, fu un personaggio noto al
grande pubblico anche per le sue partecipazioni a film e show radiofonici e televisivi.
Attore, cantante e doppiatore, la sua voce fu utilizzata per il personaggio del Grillo Parlante nel
lungometraggio d’animazione “Pinocchio” di Walt Disney.
L’artista proveniva dal vaudeville ma fin dal 1922 registrò i primi esempi di scat su disco, dimostrando
una buona padronanza della tecnica; si specializzò sull’imitazione degli strumenti a fiato ed era in grado
di improvvisare interi chorus.
Anche se non si può considerare propriamente un jazzista padroneggiò la tecnica improvvisativa della
musica afroamericana: nelle sue incisioni si percepisce un ritmo incalzante e un fraseggio assai
scorrevole, per cui le sue frasi presentano un’inflessione jazz assai marcata.

La sua carriera ebbe inizio negli anni Venti e fu piuttosto lunga anche se inframmezzata da periodi di
lavoro meno intensi; comunque conquistò una meritata notorietà nello show business americano come
caratterista, continuando ad esibirsi fino al 1971, anno in cui morì.

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Red McKenzie

Contemporaneamente ad Armstrong il “rosso” Red McKenzie s’impose come cantante ritmico ed


improvvisatore estroso e fantasioso.
Fu un dei principali animatori del jazz di Chicago; insieme ad Eddie Condon e i migliori musicisti di
quella città incise numerosi dischi a proprio nome: in realtà durante gli anni Venti chi procurava
l’ingaggio per la registrazione diventava automaticamente il leader della formazione.

Negli anni Venti fu molto attivo, formando insieme a Jack Bland i Mond City Blue Blowers, mentre
insieme ad Eddy Condon diede vita a molte registrazioni dei MCKenzie and Condon’s Chicagoans per
la Okeh Records.

McKenzie si specializzò nell’imitazione degli strumenti a fiato dell’hot jazz esibendosi con uno
strumento popolare: il pettine rivestito di carta velina
Altre volte utilizzava il kazoo.
La scelta di questi strumenti poveri testimonia dell’indigenza e delle scarse possibilità avute dal cantante
nel procurarsi un’adeguata istruzione musicale: possiamo dire però che il suo talento fu tale da farlo
passare alla storia, seppure in un ruolo minore, avendo registrato copiosamente e lasciato ai posteri
numerose prove del suo talento.

Negli anni Trenta si produsse anche come “crooner”, cantante colloquiale dal piglio piuttosto brillante e
ritmato, pur non contendendo lo scettro a Bing Crosby. e alle stelle assolute dell’epoca che furono Russ
Columbo, Rudy Vallee e Guy Lombardo.

Anche in quella veste rimase essenzialmente un buon cantante ritmico; a Jack Bland formò i Mond City
Blue Blowers, mentre insieme ad Eddy Condon diede vita a molte registrazioni dei MCKenzie and
Condon’s Chicagoans per la Okeh Records.

Leo Scatman Watson

Afroamericano, nato a Kansas City nel 1898, Watson fu principalmente un cantante ma anche un
versatile musicista che sapeva suonare la batteria, il trombone e il tiple, una piccola chitarra tipica della
Colombia.

Uomo di punta degli Spirits of Rhythm, una formazione vocale che si accompagnava soltanto con
strumenti a corda, Leo Watson fu detto Scatman per la grande dimestichezza con lo scat.
Gli Spirits of Rhythm erano una formazione assai interessante, formata da tre cantanti che suonavano
anche il tiple, un contrabbasso e il solista di chitarra Teddy Bunn.
La musica realizzata da quella formazione era davvero elettrizzante; i background vocali incalzavano il
cantante solista che si produceva in spettacolari improvvisazioni, con spericolate evoluzioni compiute
restando nel registro medio della voce maschile, che a quell’altezza ricorda il suono di un sax tenore.

Oltre ad incidere con gli Spirits if Rhythm Watson si esibì durante l’Era dello Swing con varie big
bands, tra cui quelle di:

A. Artie Shaw
B. Gene Krupa
C. Jimmy Mundy

Leo Watson ebbe una lunga carriera, che si vivacizzò ulteriormente quando si impose lo stile del
“vocalese” negli anni Cinquanta.

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Fats Waller

Curiosamente i primi due grandi cantanti jazz furono un trombettista e un pianista; se Armstrong aveva
applicato il suo genio improvvisativo al repertorio leggero e futile dei song di Tin Pan Alley cercando di
esaltarne i pregi, al contrario il pianista e compositore Fats Waller nelle sue interpretazioni vocali non
resisteva alla tentazione di ridicolizzare le canzonette commerciali.
Thomas Wright Waller nacque a New York nel 1904; fu l’ allievo prediletto di James P. Johnson, e
come il maestro sviluppò lo stile stride piano.
Fu anche il precursore nel jazz all’organo, che utilizzò spesso nei teatri per accompagnare le proiezioni
dei film muti, afferendo un colore brillante al suono austero e solenne di quello strumento; Count Basie
raccontava che negli anni Venti appena giunto a New York aveva trascorso intere serate seduto a terra in
prossimità della pedaliera dell’organo suonato da Fats Waller, per apprendere i movimenti corretti della
sezione ritmica, traendone degli insegnamenti che poi applicò alla musica della sua orchestra.
Waller fu uno straordinario compositore naturale, capace di scrivere in tempo reale sia la musica che le
parole di un’intera commedia musicale, magari assistendo alle prove di un balletto.
Lavorò spesso per il teatro di rivista ad Harlem, dove colse successi clamorosi come “Hot Chocolates”
del 1929.
Come cantante fu originalissimo, dando il la a tutta una schiera di entertainer che utilizzavano il
linguaggio del jazz per divertire e sorprendere il pubblico, ostentando una padronanza tecnica senza
limiti.
Se i virtuosi avevano sempre impressionato gli spettatori Waller fu uno di essi; dotato di un carattere
allegro ed esuberante applicava al canto una serie di tecniche:

A. sostituiva spiritosamente alcune parole del testo


B. nel contempo le commentava sia parlando che cantando
C. cambiava repentinamente registro vocale, passando dal baritono al falsetto da adolescente
D. passava bruscamente da accenti gravi e drammatici al più travolgente umorismo

Aveva un’abilità verbale che gli consentiva di creare velocemente giochi di parole, andando a briglia
sciolte in una direzione opposta a quella del Waller pianista, decisamente scollato sul tempo:
A volte le sue declamazioni stravolgevano la metrica a tal punto che alcune frasi diventavano quasi dei
soli scat;
Nesssuno possedeva la sua capacità improvvisativa unita ad un così inarrestabile buonumore.
Nemmeno le forme sacre degli afroamericani cioè i blues e i boogie woogie, che lui chiamava “woozy-
woozy” o “bluesy-woozy” o “woozy blues” erano risparmiati dal suo sarcasmo, poiché i testi
malinconici e talvolta banali erano l’ideale per le sue parodie.
Pur parodiando le canzoni bianche il carattere critico delle interpretazioni vocali del pianista di Harlem
donavano maggiore spessore a quei testi, ristabilendo il giusto equilibrio e un certo distacco che
paradossalmente arricchiva il contenuto delle canzoni troppo banali; aggiungendo un po’ del modo di
pensare degli afroamericani il peso specifico di quei brani in qualche modo aumentava.

Come cantante fu certamente atipico: per tutte queste caratteristiche appare chiaro come piuttosto che
interpretare l’oggetto della canzone Waller se ne distanziasse a priori volutamente, completamente.
Walller in questo modo riusciva ad essere interprete e critico allo stesso tempo di una canzone.
Come autore Fats Waller lasciò al jazz i seguenti standard:

A. Ain’t Misbehavin
B. Honeysuckle Rose
C. Jitterbug Waltz

Si esibiva sempre con due bottiglie di gin vicino al pianoforte, una a destra e l’altra a sinistra; il suo
appetito smodato lo portava a mangiare tutti d’un fiato fino a dodici hot dog.
Morì per una polmonite a soli 39 anni, privando il mondo del jazz del suo irresistibile buonumore e del
suo talento di pianista, cantante e compositore.

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Cab Calloway

Molti pensano che il cantante Cab Calloway provenga dal mondo del blues, mentre fu uno dei creatori
dello Swing, nonché uno dei sommi interpreti del jazz e della grande musica afroamericana.

Il suo vero nome era Cabell Calloway III, nacque a Rochester nello stato di New York nel 1907 e
insieme a Louis Armstrong e Fats Waller è considerato l’ultimo componente di quella triade di
interpreti vocali afroamericani che hanno dato il maggiore contributo alla nascita e all’affermazione del
canto nel jazz.

Gli altri due erano anche strumentisti quindi potevano attingere al proprio linguaggio strumentale,
Calloway invece fu il primo cantante a dirigere una band di livello nazionale; questo fatto mise il canto
jazz direttamente sotto i riflettori, poiché la maggior parte dei pezzi della sua orchestra, che pure
annoverava ottimi solisti come i trombettisti Mario Bauza e Dizzy Gillespie, e i sassofonisti Ben
Webster e Chu Berry, erano sostanzialmente incentrati su di lui.
La sua presenza sul palco era pervasiva a tutti i livelli: nelle pause del canto e nei passaggi strumentali
andava ad incitare i solisti in modo teatrale, magari gridando “….swingate, cagnacci!”

Al di là delle sue doti di travolgente uomo di spettacolo Cab Calloway era un cantante con:

A. una gamma vocale eccezionale


B. una dizione estremamente chiara
C. un timbro forte e potente

L’intensità della sua voce era straordinaria, tanto che nelle incisioni si avverte come Calloway per
cantare le note più acute usasse allontanarsi dal microfono evitando così di far distorcere il suono della
registrazione

Sebbene avesse attinto la tecnica dello scat principalmente da Armstrong fu nondimeno un vocalist
fantasioso, creativo ed originale.

All’inizio degli anni Trenta Calloway aveva già sviluppato la sua peculiare maniera di stare sul palco,
basata su un perfetto mix di:

A. presenza scenica
B. potenza
C. capacità di proiezione vocale.

Il suo era un canto fortemente allusivo, che esprimeva continui rimandi ai tipi di vocalità che lo avevano
influenzato:

A. il canto e il fraseggio di Armstrong


B. lo scat
C. i cantanti country-blues
D. lo stile dei cantori ebraici delle Sinagoghe
E. i personaggi dei bassifondi, di cui riportò lo slang e il tipo di parlantina rapida

Da questo miscuglio di elementi che egli aveva sintetizzato compiutamente derivava il suo modo di
giocare sul tempo; la varietà delle tecniche vocali e l’inventiva di questo interprete furono superiori a
quelle dei vocalist suoi contemporanei perché nonostante fossero assai complesse risultavano
perfettamente integrate e presentate con stile.

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Calloway aveva sostituito dal 1932 Duke Ellington al Cotton Club di Harlem e doveva parte della sua
notorietà alla lunga serie di canzoni costruite sul personaggio di Minnie, the Mooche e il suo compagno
Smokey Joe, brani che presentavano metaforicamente vari livelli di significato.
Difficilmente infatti i bianchi avrebbero potuto capire il significato di quelle canzoni che descrivevano
gli aspetti più crudi della vita, racchiudendo l’essenza della cultura afroamericana dei bassifondi delle
grandi città come New York, ma le trovarono ugualmente irresistibili.

La saga di Minnie the Moocher era incentrata sul personaggio di una donna dei bassifondi:

A. durissima e al tempo stesso fragile


B. con un cuore enorme
C. dipendente dall’oppio o meno frequentemente dalla cocaina
D. che sogna di possedere un milione di dollari in monete da 5 e 10 centesimi, da contare un
milione di volte

La storia venne riproposta in numerose canzoni:

A. Minnie the Moocher’s Wedding Day


B. Smokey Joe
C. Kicking the Gong Around
D. The Ghost of Smoky Joe

Nella versione originale il cantante si produsse nella consueta varietà di effetti vocali, aggiungendo al
testo, peraltro perfettamente declamato:

A. una salmodia dei cantori ebrei


B. alcuni urletti acuti
C. uno scat a cui risponde con entusiasmo tutta la band.

Fu proprio questo schema che recuperava l’ancestrale meccanismo del call and response a rendere
speciale la canzone; Minnie the Moocher rappresentò il modello su cui si forgiarono une decina di anni
dopo i primi successi del Rhythm and Blues, come “Hey! Ba-Ba- Re- Bop” di Lionel Hampton.

Il canto a risposta coinvolgeva non solo l’orchestra ma tutti gli spettatori, che venivano così coinvolti
nella performance decretando il successo del brano che fu il cavallo di battaglia di Calloway per
decenni.

Grazie a tutto ciò riusciamo a spiegarci facilmente la sua posizione di grande star e leader della band
afroamericana meglio pagata degli anni Trenta.

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Mildred Bailey

Nata nel 1903 a Tekoa, nello Stato di Washington, Mildrd Rinker Bailey, conosciuta soltanto come
Mildred Bailey fu introdotta nello show business dal fratello Al Rinker, uno delle voci dei Rhythm
Boys, trio vocale dell’orchestra di Paul Whiteman.
Dopo un’audizione lavorò con il grande band leader bianco “Re del Jazz” per il grande pubblico (un po’
inesperto di musica afroamericana) degli anni Venti, ma non registrò mai con lui.

Con i musicisti della sua orchestra invece interpretò “Georgia on My Mind” e “Rockin’ Chair” del
compositore Hoagy Carmichael, di lì a poco resosi immortale con la canzone “Stardust” del 1930.

Nell’orchestra di Whiteman incontrò il futuro marito, il vibrafonista e xilofonista Red Norvo, con cui
strinse un sodalizio anche artistico: i due gestirono in società la propria orchestra e furono a lungo
soprannominati “Mr. E Mrs. Swing”.

I suoi punti di forza erano nel timbro della voce che vantava:

A. uno smagliante registro medio


B. lo squisito registro superiore
C. sottili sfumature

La bellezza e l’equilibrio della sua voce pare derivassero dagli esercizi vocali che la madre di sangue
indiano le aveva fatto fare da bambina, quando si recava con lei nella Coeur d’Alene Reservation per
rivivere i canti e riti della sua gente.
La Bailey dichiarava: “Questa musica è una vera miniera per educare la voce. Serve ad un soprano che
abbia la voce un po’ stridula perché corregge gli accenti sgradevoli e contemporaneamente elimina i toni
troppo bassi della voce di contralto (quando questa risulta troppo scura)……questi canti indiani sono
utili perché bisogna fare un sacco di note e coprire un’estensione di voce incredibile”:

Di sicuro le sue interpretazioni delle ballad influenzarono anche Billie Holiday, che concludeva spesso
le frasi alla stessa maniera della Bailey, rivoltando la melodia verso il basso, cercando la tonica e
fermandosi su di essa.

Incise oltre che con il marito con i migliori musicisti di jazz dell’epoca:

A. il pianista Teddy Wilson


B. Il trombettista Roy Eldridge
C. La pianista Mary Lou Williams
D. Il sassofonista Johnny Hodges
E. Il clarinettista Artie Shaw
F. Il contrabbassista John Kirby

Nei tempi medi aveva una particolare maniera di cantare, un leggero ritardo ma che si rivelava di grande
efficacia per le vampate improvvise ed espressive che riusciva ad imprimere alle esecuzioni, ricalcando
il vibrato e gli accenti drammatici tipici delle interpreti del blues classico.

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Bing Crosby

Coetaneo di Mildred Bailey era il baritono bianco Harry Lillis Crosby, famoso come Bing Crosby.
Nato nel 1903 a Tacoma, quindi anche lui nello Stato di Washington, il cantante si mise in luce negli
anni Venti come solista dei Rhythm Boys, formazione vocale dell’orchestra di Paul Whiteman,
formato da Harry Barris, Al Rinker (fratello della Bailey) e lui.

Il trio aveva un’ampia gamma di colori vocali:

A. L’armonizzazione dalle ballad a parti strette


B. l’esposizione della melodia accompagnata da eleganti riff nello stile degli ottoni e delle ance
C. lo scat in tempo veloce

Il fraseggio più jazzistico era stato loro indicato dal cornettista Bix Beiderbecke, che suonando in quella
formazione influenzò il sound orchestrale e il linguaggio di tutti gli altri solisti.
Beiderbecke fu definito il primo musicista “cool”, perché suonava il jazz in maniera più pacata, con un
tono diverso dagli altri trombettisti dell’epoca; conseguentemente Bing Crosby adattò il proprio canto a
quelle dinamiche, che esprimevano “più affetto che effetto”.
Lo stile che ne derivò fu definito “crooning”, e prevedeva parole sussurrate in tono dolce e in tono
rilassato e confidenziale; gli interpreti di quello stile furono chiamti “crooner”.
I crooner furono i protagonisti musicali del periodo della Grande Depressione, successivo alla crisi
economica del ’29; le loro voci carezzevoli e sdolcinate aiutavano ad evadere dalle preoccupazioni e
dagli stenti quotidiani, portando gli ascoltatori in un mondo di sogni e promesse.
In quegli anni che preludevano all’esplosione dello Swing si affermarono tre cantanti in particolare, che
furono per breve tempo le stelle dell’epoca:

A. Russ Columbo
B. Rudy Valle
C. Guy Lombardo

Ben più longeva fu la carriera di Bing Crosby fu uno dei cantanti più popolari della storia della musica
americana; pur non essendo un jazzista in senso stretto ebbe nel suo repertorio tantissimi brani suonati
dai solisti di quella musica:

A. Blue Skies
B. Pennies From Heaven

Suonò e incise come solista con i migliori componenti dell’orchestra Whiteman:

A. Il cornettista Bix Beiderbecke


B. Il trombonista Jack Teagarden
C. Il trombonista Tommy Dorsey
D. Il sassofonista e clarinettista Jimmy Dorsey
E. Il chitarrista Eddie Lang

Infine debuttò da solista interpretando brani come:

A. Out Of Nowhere
B. Just One More Chance

Questi brani furono degli assoluti best-seller nelle classifiche d’ascolto del 1931
Lo swing espresso da Bing Crosby fu sempre ottimo, permeato com’era dei suoni che avevano
caratterizzato gli anni Venti, con la formazione delle prime orchestre di jazz.

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Il suo senso ritmico e le scorrevoli esposizioni fecero scuola presso tutti i cantanti bianchi; egli stesso
riconosceva però un enorme debito ad Al Jolson, giustamente ritenuto il capostipite di tutti i vocalist
moderni.
Dopo aver intrapreso con successo la carriera di attore tornò al canto, affermandosi nel 1941 con il suo
successo maggiore “White Christmas”, scritta da Irving Berlin.
Bing Crosby fu un cantante d’influenza jazz piuttosto che un vero jazzista in grado di improvvisare;
tuttavia il suo stile ha rappresentato una guida per molti vocalist americani, a cui ha mostrato:

A. come unire la metrica jazz a una sensazione di rilassatezza e disinvoltura


B. come gestire il microfono
C. il controllo del fiato
D. gestire l’uso degli abbellimenti, in lui appena accennati
E. il trucco di cantare sulle consonanti, quindi un po’ in anticipo sul tempo, malgrado il relax….!

Billie Holiday

Il suo vero nome era Eleanora Fagan o Helinor Harris e il suo concepimento fu il frutto di una notte
d’amore tra il suonatore di banjo quindicenne Clarence Halliday (conosciuto però come Holiday) e
Sarah Julia Fagan, ballerina di appena tredici anni.
Il nome Billie Holiday pertanto derivò dal cognome fittizio del padre, che mai si occupò di lei e da
quello dell’attrice Billie Dove.
C’è incertezza anche sulla sua città natale, ritenuta da alcuni Baltimora e da altri Filadelfia; sicura è
invece la data di nascita, il 7 aprile del 1915.
Ebbe un’infanzia difficile, vissuta tra le città di Baltimora e New York e lavorò fin da giovanissima;
pulendo le scale e i portoni dei palazzi però incontrò il jazz, attraverso i dischi di Armstrong e Bessie
Smith ascoltati mentre faceva le pulizie in una casa di piacere: nello stesso luogo, in seguito a una
violenza subita, a dodici anni iniziò a prostituirsi.
Infine ancora adolescente effettuò un provino come ballerina: fu scartata ma le chiesero di cantare ed
andò decisamente meglio:
Appena quindicenne iniziò a lavorare nei locali di Harlem.
Il talent scout John Hammond fu Il suo esordio discografico avvenne grazie al talent scout John
Hammond, che la fece registrare con l’orchestra del cognato Benny Goodman; successivamente
continuò a incidere con:

A. piccoli gruppi diretti dal pianista Teddy Wilson


B. l’orchestra di Count Basie
C. Artie Shaw

La Holiday riuscì ad imporre il suo stile personale a ogni canzone che interpretò; quasi mai si atteneva
alla melodia originale, infatti:

A. cambiava alcune parole del testo


B. modificava la linea melodica delle canzoni

Louis Armstrong era stato la sua influenza maggiore, da lui la Holiday prese il fraseggio e il timing.
Nonostante ciò la cantante fu estremamente originale, con un timbro caratteristico, dolce e malinconico,
che la facevano sembrare al tempo stesso una bambina e una donna di mondo.
Modellò il suo fraseggio su quello degli strumenti a fiato e approcciava i temi in modo minimale e
raffinato, adagiandosi con disinvoltura sulla melodia.

La cantante strinse un sodalizio artistico e umano con il grande sassofonista Lester Young, che le fu
vicino nella buona e nella cattiva sorte: i suoi assoli melodici e leggeri e il suo relax sul tempo
costituivano la migliore controparte alla sua voce.

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All’appellativo “Lady”, che la Holiday si era guadagnato sin dagli esordi, quando rifiutava le mance dei
clienti che pretendevano di depositarle tra le cosce delle cantanti, Young aggiunse “Day”; fu così che il
suo secondo nome d’arte divenne “Lady Day”.
Il suo canto ricevette ogni sorta di elogi da parte di pubblico e critica; dopo una session di registrazione
nel 1944 con Paul Whiteman fu universalmente riconosciuta come:

A. l’unica cantante jazz di rilievo


B. la migliore interprete vocale, perché sapeva trasmettere la propria sensibilità attraverso schemi
vocali originali e delicati

Il suo timbro vocale, dolce e malinconico, proveniva direttamente dal profondo della sua anima; la
sofferenza patita nel corso dell’infanzia si riacutizzò dopo che fu incarcerata per droga.
Nel 1947 finì in prigione, sbattuta in prima pagina dalla stampa che speculò impietosamente sul fatto;
dopo la detenzione, che l’aveva costretta a una penosa disintossicazione abbandonata a sé stessa in cella
senza alcuna somministrazione di tranquillanti o cure mediche la Holiday ritornò sulle scene assai
provata.
Il suo canto divenne più puro, maggiormente vicina a sé stessa e alla verità: lei cantava il vero, il reale:
per questo fu un’impareggiabile interprete del blues.

Di nuovo sotto accusa nel marzo del 1949, anche se poi assolta, fu nuovamente ferita dai caratteri
cubitali dei giornali, lasciandola per il resto della sua vita in preda a una terribile angoscia, causata dal
non sapere se la gente venisse ad ascoltare la cantante o per assistere all’ennesima caduta di un mito
come lei votato all’autodistruzione.
Nel 1939 aveva già realizzato il suo capolavoro “Strange Fruit”; la canzone era stata scritta da un
insegnante ebreo, Abel Meeropol, con lo pseudonimo di Lewin Allan: in essa si raccontava uno dei
tanti linciaggi avvenuti all’epoca in uno stato del Sud.
Lo “strano frutto” che pendeva da un albero era infatti un afroamericano impiccato, un tema
politicamente scottante che portò la cantante alla ribalta come interprete impegnata; con quel brano la
Holiday passò da cantante di jazz a cantante di protesta e si guadagnò la copertina del “Time” .
Il testo allusivo e ironico veniva esposto in modo sottile, con un equilibrio perfetto tra dignità, dolore e
intensità drammatica.
I musicisti afroamericani maggiormente impegnati nella difesa dei diritti civili s’ispirarono a questa
canzone:

A. Charles Mingus, grazie ad essa capì come una canzone doveva raccontare una storia,
evidenziando i torti inflitti dai bianchi alla razza nera
B. Max Roach affermò che con “Strange Fruit” la Holiday aveva fatto una dichiarazione
profondamente sentita da tutti gli afroamericani. In un clima in cui nessuno parlava lei divenne
una combattente, una voce per il suo popolo.

Un altro brano di sua composizione, “God Bless the Child”, è diventato uno standard vocale; la
canzone rappresentò il perfetto punto di equilibrio tra il suo repertorio più leggero e la drammaticità di
“Strange Fruit”.
L’interpretazione di questo brano riassumeva le sue peculiarità stilistiche, mostrando la personalissima
visione di Billie Holiday del canto jazz:

A. l’esposizione molto libera della linea melodica, continuamente reinventata


B. il timbro sognante ma malinconico
C. l’articolazione libera del fraseggio

Negli anni Cinquanta la cantante scelse spesso Mal Waldron come partner musicale sviluppando con il
pianista newyorkese un rapporto particolarmente simbiotico, similmente a come era avvenuto con il
sassofonista Lester Young.
La Holiday influenzò le generazioni successive di cantanti, a partire da Peggy Lee, proseguendo con
Abbey Lincoln, fino alla contemporanea Dee Dee Bridgewater.

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Ella Fitzgerald

Se la creazione del canto jazz si deve ad Armstrong, Waller e Calloway i successivi sviluppi furono
opera di interpreti femminili, soprattutto di Ella Fitzgerald.

Nata nel 1917 a Newport News, una città autonoma degli Stati Uniti situata nello stato della Virginia,
ma cresciuta a New York tra orfanatrofi e quartieri malfamati cominciò la sua carriera nel 1934 con un
concorso per voci nuove, la cosiddetta “Ora del dilettante” che si teneva la domenica pomeriggio
all’Apollo Theater di Harlem.
Lì fu notata da Chick Webb, lo sfortunato ma talentuoso batterista di Baltimora a capo di un’orchestra
che suonava regolarmente al Savoy, grande locale di New York in cui avvenivano le famose “Battles of
Jazz”, che ne assunse la patria potestà adottandola ed inserendola nella sua formazione.
Da subito evidenziò delle doti di interprete eccezionale tanto nei brani vivaci quanto nelle ballad, che
interpretava in maniera pulita e impeccabile, surclassando il crooner dell’orchestra Charles Linton.

Con la sua interpretazione di “A-Tisket , A-Tasket”, una rielaborazione di una canzoncina per bambini
l’orchestra di Webb raggiunse il successo e lei diventò la vocalist più importante degli Stati Uniti:
indubbiamente era la prima a padroneggiare la qualità strumentale della voce a un livello paragonabile a
quello di Armstrong.

Le sue qualità erano numerose, la cantante fu un vero e proprio concentrato di virtù musicali:

A. l’intonazione perfetta
B. un orecchio naturale per l’armonia
C. l’ampiezza della sua gamma vocale
D. la purezza del suo timbro
E. l’estrema convinzione nell’interpretare i testi
F. la perfezione vocale
G. i sottili abbellimenti
H. un senso del tempo infallibile

Già in “A-Tisket, A-Tasket” il suo assolo conteneva una serie di frasi piene di inventiva, che
costruivano una nuova linea vocale giocando con il ritmo alla maniera degli strumentisti jazz.
Nelle successive incisioni poi mostrò un’ottima padronanza della tecnica scat, che Ella sapeva utilizzare
con raffinatezza , fantasia e assoluta pulizia, superando i risultati ottenuti fino ad allora dalle colleghe
ellingtoniane Adelaide Hall e Ivie Anderson.

A partire dal 1945 nel suo linguaggio entrò prepotentemente anche il bebop; nell’incisione di “Flyin’
Home” comparirono i primi fraseggi presi in prestito dai jazzisti più moderni.
I critici di “Down Beat” scrissero all’epoca della sua dizione perfetta, della sua magnifica concezione
strumentale applicata al canto, della sua padronanza ritmica e delle argute citazioni dei nuovi cantanti
bop:

A. Dizzy Gillespie
B. Babs Gonzales
C. Slam Stewart
D. Lionel Hampton
E. Leo Watson

Una delle performance più celebrate della Fitgerald è la sua versione di “How High Is The Moon”,
registrata con una delle formazioni organizzate da Norman Granz per i concerti “Jazz at the
Philarmonic”, che contiene una serie di chorus finali, in cui improvvisa a rotta di collo, citando tra
l’altro “Ornithology” di Charlie Parker, che di quella canzone era la contrafact bop.

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Fu un personaggio inamovibile di quei grandi eventi di jazz organizzati dall’impresario Granz che
diventò il suo agente e la fece incidere copiosamente con l’etichetta discografica da lui creata, la Verve.

Insieme a Louis Armstrong incise una serie di dischi di grande successo commerciale, uno di quei
mezzi di diffusione del jazz che sono rimasti dei classici
Altri felici incontri discografici della sua carriera furono con il pianista Oscar Peterson e l’orchestra di
Count Basie.
Il sottile humour che permeava alcune sue interpretazioni di brani a tempo veloce la portava a fare
spesso delle citazioni, dimostrando di avere una memoria incredibile per i testi delle canzoni e i temi di
jazz strumentale più celebri del suo tempo; forse l’unica pecca riscontrabile in quest’interprete tanto
celebrata è il tono talvolta rigido e l’inflessione un pò fredda della voce.

Incise con Duke Ellington degli album bellissimi, in cui passava in rassegna le composizioni più belle
del maestro.
La dote migliore di Ella Fitgerald fu infatti la versatilità, che le permetteva di affrontare brani complicati
e profondi e all’occorrenza abbellire anche i motivi più insignificanti; fu un’impareggiabile interprete
dei songbook di numerosi autori come Gershwin, Berlin, Kern, Porter, Rodgers, Arlen, tanto che le
sue versioni appaiono come quelle definitive.

Ella è stata la cantante jazz prediletta dagli americani e continua a costituire nel tempo un punto di
riferimento indispensabile per chi impara a cantare jazz.

Di lei l’illustre collega Bing Crosby disse:


“Uomo, donna o bambino, la cantante più grande di tutti è Ella Fitzgerald!”.

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