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Capitolo 21

Soul jazz e jazz samba

Gli anni Sessanta videro un relativo declino del ritmo swing, che era stato uno degli elementi portanti
del jazz a partire dagli anni Venti.
La nascita di generi musicali estremamente popolari come il rock’n’roll e il rock, portarono nel
mondo del jazz, sempre più organizzato da abili produttori, la spinta a emulare i successi di vendite
che quelle nuove musiche realizzavano.
A predominare furono gli interessi delle case discografiche, che ancor più di prima iniziarono a
gestire il mercato della musica d’intrattenimento sacrificando spesso la profondità e l’artisticità dei
progetti a favore di un sicuro guadagno.
All’inizio del decennio precedente Ray Charles prima e James Brown poi avevano sollevato
indignazione negli afroamericani mischiando il sacro e il profano: il gospel con il blues; da questa
miscela era nato il genere denominato soul, la musica dell’anima, soprattutto un mezzo d’identità
sociale tra i fratelli di etnia africana.

Nello stesso periodo, a metà degli anni Cinquanta, la parola soul si diffuse anche nel mondo del jazz
grazie al pianista Horace Silver, che la legava anche al concetto di funky, prima insieme ai Jazz
Messengers di Art Blakey e poi nella musica realizzata con i propri gruppi.

Di lì a poco si definì uno stile jazzistico ben preciso, ammiccante e gradevole, rimanendo tuttavia
profondamente afroamericano: il soul jazz.

Se l’hard bop era la semplificazione della musica creata da Charlie Parker e Gillespie, il soul jazz fu
l’ulteriore passo verso l’immediatezza, l’orecchiabilità usato come “gancio” dal jazz per attrarre il
pubblico e realizzare migliori risultati nelle vendite dei dischi.

La genesi dello stile si fa risalire al brano “Preacher” del 1955, in cui riecheggiavano gli echi delle
chiese afroamericane, il gospel e soprattutto dei nuovi ritmi binari provenienti dal rhythm’n’blues.

Il genere Rhythm’n’blues era stato il naturale sviluppo dei race records, quelle prime incisioni
realizzate negli anni Venti contenenti soprattutto blues cosiddetti classici, interpretati da donne e
riservate nei piani delle etichette discografiche esclusivamente ad un pubblico di compratori
afroamericani.
Già alla fine del decennio entrarono a far parte altri stili di blues, come il boogie-woogie, cantato e
suonato da cantanti detti “shouters”, cioè urlatori, di solito accompagnati da pianisti: Big Joe Turner
e Pete Johnson da Chicago fecero valere la loro energia e contagiosa allegria, che riproduceva le
festose atmosfere che si respiravano e la musica che si ascoltava nei famosi “rent parties”, feste
organizzate in seno alla comunità afroamericana per racimolare i soldi dell’affitto.

Durante la Swing Era furono senz’altro le band bianche a godere della maggiore popolarità,
realizzando altissimi profitti, tuttavia parecchi artisti afroamericani proposero una personale miscela
di swing e blues: fu il caso di Louis Jordan, sassofonista e cantante dell’orchestra di Chick Webb,
che fuoriscì dalla compagine del batterista per una certa rivalità con Ella Fitzgerald, che era diventata
la stella della formazione.
La musica di Jordan veniva definita Jump, cioè uno stile baldanzoso e saltellante, praticamente un
boogie-woogie adatto al nuovo tipo di ballo detto Jive; l’accentuazione prevalente era ancora
swingante, basata sullo shuffle, ma sostanzialmente si trattava già di rhythm’n’blues.

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Negli anni Quaranta il blues suonato a tempo di swing da alcune big band come quella del
vibrafonista Lionel Hampton rappresentò l’alternativa a cui si rivolsero i ballerini e il pubblico del
jazz meno sofisticato, messo a dura prova dall’avvento del bebop.

Infine nel 1949 il giornalista di Billboard Jerry Wrexler utilizzò questo termine per indicare il genere
musicale suonato dagli afroamericani, a base di boogie-woogie, swing regolare e pesante, detto
shuffle; la forma del blues forniva la struttura a gran parte dei brani.
A questo punto appare chiaro che rhythm’n’blues era un’espressione aggiornata, politicamente
corretta da utilizzare al posto di race records!

I campioni di quella musica furono soprattutto Fats Domino, pianista e cantante di New Orleans, Ike
Turner, autore del brano “Rocket 88”, il già citato Big Joe Turner e alcune band provenienti dal jazz
come quella di Cab Calloway e Lionel Hampton.

Lo shuffle contaminato con le sonorità del country divenne ben presto la base del rock’n’roll, genere
lanciato da cantanti come Bill Haley e soprattutto Elvis Presley.
E’ corretto pertanto pensare che quest’ultima etichetta, coniata dal disc jockey Alan Freed, non fosse
altro che la denominazione bianca data al genere del rhytm’n’blues, convenzionalmente utilizzato
per indicare la musica degli interpreti neri.

Non solo lo shuffle fu adottato dai musicisti del rhythm’n’blues e del rock’n’roll: in questi due generi
paralleli comparivano delle scansioni ritmiche binarie che risalivano agli antichi spiritual interpretati
a tempo doppio, i jubilees, a loro volta derivati dalla polka, danza europea molto popolare in tutto
l’Ottocento e il “terzinato”, una scansione in genere lenta, in 12/8, utilizzata per accompagnare brani
romantici e d’atmosfera.
Quest’ultimo ritmo fu alla base di un altro fenomeno musicale di rilevante importanza nella musica
popolare americana degli anni Cinquanta: il doo wop; anch’esso derivava dalla concezione domanda-
risposta degli antichi spiritual, anzi rappresentava il retaggio africano del canto corale che si era
espresso come prima forma musicale degli schiavi, attraverso i worksong e i canti religiosi.
Esponenti di punta di questo genere, caratterizzato da coretti che realizzavano un accompagnamento
dolce e carezzevole adoperando prevalentemente le sillabe “doo” e “wop”, da cui il nome di questa
corrente musicale, furono The Platters, con la celebre “Only You”.

Il jazz è sempre stato un genere che ha fagocitato qualunque musica gli capitasse a tiro; il grande
successo del genere doo wop non lasciò indifferente nemmeno il grande Duke Ellington, che
nell’album Blues in Orbit del 1959 presentò il ritmo terzinato come base ritmica per un bellissimo ed
enigmatico blues che aveva la caratteristica di essere armonizzato con accordi di settima maggiore!

Così gli anni Sessanta si aprirono nel segno della sintesi tra generi musicali diversi; il mondo del jazz
non sfuggì a questa tendenza, nonostante si fossero appena affermate nuovi stili come l’hard bop e il
modale e come vedremo il sincretismo musicale fu il tratto dominante del decennio.

Come detto colui che per primo pensò di fondere armonie jazzistiche, l’eredità della musica da
chiesa, i ritmi binari di provenienza latina e l’immancabile senso del blues fu il pianista e
compositore Horace Silver.

La sua famiglia era originaria dell’isola di Capoverde, ideale ponte geografico tra l’Africa e le
Americhe, e Silver sembrò portare dentro la solarità delle atmosfere caraibiche che seppe fondere
con le sue influenze jazzistiche più autentiche, Monk e Bud Powell.

Grande accompagnatore, fu scoperto dal sassofonista Stan Getz, ma soprattutto splendido


compositore di temi diventati standard, Silver definì benissimo la ricetta ideale per creare brani in
stile soul jazz.

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Il personale decalogo del compositore fu addirittura pubblicato sul retro della copertina dell’album
Sister Sadie, disco del 1959:

A. Bellezza melodica
B. Semplicità del significato
C. Bellezza armonica
D. Ritmo
E. Influenze ambientali, religiose, etniche

In effetti Silver utilizzò spesso alcuni ritmi caraibici per arrangiare le proprie composizioni, come
avvenne per Song For My Father ad esempio; si trattava di alcuni disegni tipici della musica cubana
o antillana adattati al metro del jazz.
Composizioni immortali come “Nica’s Dream”, dedicata alla baronessa Pannonica De Koenigswater,
mecenate e sostenitrice di jazzisti in difficoltà (nel suo appartamento accolse Parker, che vi morì nel
1955 e per lunghi anni Thelonious monk con la moglie Nellie) o “Kissin’ Cousins” sono gli esempi
meglio riusciti e fecero da prototipo per la produzione successiva, propria e altrui.

La ricetta creata da Horace Silver fu adottata ben presto da una folta schiera di emuli, che si
inserirono nel filone del soul jazz spesso con straordinari risultati.

E’il caso ad esempio del pianista di Chicago Herbie Hancock, che realizzò il suo primo album per la
Blue Note includendo un brano che col tempo è diventato uno standard, nonché una delle sue più
note composizioni: “Watermelon Man”, del 1962.

Nel successivo album Empyrean Isle il pianista ripetè l’esperimento presentando un brano
dall’andamento simile, il celebre “Cantaloupe Island”.

Ovviamente la carriera di Hancock decollò grazie alla lunga e stimolante collaborazione con il
trombettista Miles Davis, a sua volta impegnato a cercare un altro tipo di fusione, quella tra il jazz e
il rock; Davis per tutti gli anni Sessanta utilizzò il pianista come capo della sezione ritmica dei suoi
gruppi, favorendo così la crescita musicale di quello che attualmente è considerato uno dei maggiori
pianisti della storia del jazz.

Un altro grande esponente del soul jazz fu il sassofonista Julian Cannonball Adderley, nato in Florida
e nutrito fin dall’infanzia del blues più autentico.
Il suo stile al sax contralto era caldo e melodico, pur risultando estremamente brillante e scorrevole;
quando suonava il blues nelle formazioni di Miles Davis, che ne lanciò definitivamente la carriera, il
sassofonista non si ritrovava con tutte le sostituzioni armoniche che avevano apportato i boppers:
per Adderley la musica era un discorso diretto, forte e chiaro.

All’inizio degli anni Sessanta, uscito dal sestetto di Davis, Cannonball mise su una serie di
formazioni insieme al fratello, il cornettista e abile arrangiatore Nat; nei gruppi degli Adderley
militarono grandi musicisti, che diedero spesso un contributo valido sotto il profilo della
composizione:

A. i pianisti Bobby Timmons, Victor Feldman e soprattutto Joe Zawinul


B. il bassista Sam Jones
C. il batterista Louis Hayes
D. i sassofonisti Charles Lloyd e Yusef Lateef

Il primo successo inciso dagli Adderley in stile soul jazz fu “Work Song”, un brano di Nat diventato
uno standard; altrettanto celebri furono “This Here” di Bobby Timmons, già pianista dei Jazz
Messengers di Art Blakey e “Mercy, Mercy, Mercy” del pianista austriaco Joe Zawinul, futuro
creatore dei Weather Report.

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Verso la fine degli anni Sessanta la formula blues/soul + jazz degli Adderley garantì una certa
notorietà ai due fratelli, che vennero apprezzati anche da un pubblico non specialistico, quello della
musica pop; tuttavia la sincera vena jazzistica garantì a Cannonball e al fratello Nat la stima
imperitura degli appassionati di jazz.
Tra l’altro lo stesso Julian era un compositore notevole, autore di brani efficaci e orecchiabili,
caratterizzati da tempi veloci e melodie gradevoli e cantabili, venate di bebop e di blues.

Anche un musicista intransigente e radicale come Charlie Mingus si rifece al soul in un brano
contenuto nell’Lp del 1959 Mingus Ah Um; in “Better Git In Your Soul” infatti oltre a riportare il
termine nel titolo, comparve l’andamento terzinato (sebbene preso a un tempo assai concitato) e
soprattutto espliciti richiami al gospel, a cui un po’ tutto l’album faceva riferimento, realizzati con
urla e un clima musicale arroventato e a tratti violento.

Il soul jazz a ben vedere non rappresentò la prima commistione storicamente avvenuta nella musica
afroamericana; molti studiosi hanno visto nella “spanish tinge”, il colore latino genericamente
indicato, addirittura una delle componenti fondamentali del sincretismo avvenuto in Nord America
che ha dato origine al jazz, tanto che lo studioso italiano Marcello Piras indica la musica a noi cara
come ispano-afroamericana.

Tuttavia di quest’aspetto parleremo in un altro capitolo, che avrà il compito di riassumere i contributi
dati al jazz da numerosi musicisti cubani e non.

Se questo stile, il soul jazz, era una promanazione dell’hard bop appare naturale come la maggior
parte degli esponenti provengano dai gruppi più rappresentativi di quella corrente.

Tra tutti colui che raccolse i maggiori consensi e straordinari successi di vendita fu il trombettista
Lee Morgan.
Nacque a Philadelphia nel 1938 e fu un solista dallo stile fluente, virtuosistico ma intensamente
espressivo; Lee Morgan si mise in luce nelle formazioni di Art Blakey, fu quindi un Jazz Messenger,
ma contemporaneamente iniziò ad incidere per la Blue note come silema con i maggiori jazzisti
dell’epoca:

A. John Coltrane, in Blue Train


B. Wayne Shorter, in Night Dreamer
C. Sonny Clarke, in Candy, inciso in quartetto

Nel 1963 realizzò l’album che può essere ragionevolmente considerato l’emblema del soul jazz, o
semplicemente la sua più efficace incarnazione, The Sidewinder.

Grazie all’apporto di Joe Henderson al sax tenore, Barry Harris al piano, del contrabbassista di
Sonny Rollins Bob Cranshaw e de batterista Billy Higgins, il disco brillò subito per la sua freschezza
e il sapiente uso della poliritmia, creata grazie ad arrangiamenti sofisticati e assai curati.
Ogni strumento aveva la sua parte ben definita e ben organizzata, con il risultato di ottenere una
magico incastro dal punto di vista ritmico realizzato con suoni ed altezze definite.

In particolare la title track presenta al suo interno una duplice valenza:

A. porta a compimento la fusione tra soul e jazz


B. anticipa gli sviluppi del genere, presentando un ritmo funky

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Anche del funky era stato progenitore Horace Silver; la sua concezione musicale volutamente rozza e
piena di feeling fu da lui definita con questo termine, per esprimere qualcosa di terreno, facendo
esplicito riferimento agli umori emanati durante uno sforzo fisico.

In “The Sidewinder” il ritmo di base è proprio un funky, espresso attraverso ghost notes contenute in
quartine di semicrome che riempiono i tempi della misura; la conversione da soul a funky fu un
processo determinato da alcuni artisti, soprattutto James Brown, quando si rese conto che la musica
realizzata da etichette come la Motown o la Atlantic erano dei meri prodotti commerciali,
edulcorazioni del significato originario, legato alla passione e alla sofferenza del popolo
afroamericano e soprattutto sapientemente orchestrato per raggiungere indistintamente un pubblico
di compratori senza confini di razza.

Nel funky qualsiasi concessione al gusto popolare, quello dei compratori di dischi con contenuti
afroamericani nascosti e banalizzati sotto una spessa patina di commercialità (da riconoscere nell’uso
di arrangiamenti che strizzavano l’occhio ai prodotti commerciali “di classe”, quindi con archi e
pulsanti ma ben calibrate sezioni ritmiche) venne spazzata via, per dare spazio al groove, ottenuto
con un nuovo ritmo più secco e incisivo, crudo ma ottimo da ballare.

Negli anni Sessanta furono gli organisti a esplorare a fondo il soul jazz, facilitati dal suono che
automaticamente richiamava alla mente il gospel, la musica da chiesa.

Questo strumento fu praticamente reinventato nel 1935, quando Laurens Hammond brevettò un
nuovo tipo di modello elettrico che doveva rappresentare un’alternativa a i ben più costosi organi a
canne; l’Hammond trovò invece un ampio utilizzo prima nel jazz, poi nel blues, nel gospel ed infine
fu adottato dai complessi rock e pop.

Negli anni Cinquanta il capostipite Jimmy Smith portò in auge l’organo, strabiliando il mondo
soprattutto per l’utilizzo degli arti inferiori che, suonando contemporaneamente alle mani,
realizzavano efficacissime linee di walking bass; le formazioni in cui compariva l’organo erano
pertanto prive di contrabbasso, proprio perché la funzione di questo strumento (fondamentale nella
musica jazz) era assolta dallo stesso organista.

Sulla sua scia si affermarono il veterano Bill Doggett, anche lui afroamericano, che aveva militato
nei Timpany Five del sassofonista e cantante Louis Jordan, una star del rhyhm and blues degli anni
Quaranta, introducendo l’organo Hammond nel suono di quel gruppo.

Un altro esponente fu Leslie Coleman “Les” McCann, che negli anni Sessanta collaborò con il
sassofonista “sperimentatore” Eddie Harris e nel decennio successivo affiancò spesso come solista o
arrangiatore le cantanti Roberta Flack e Tina Turner nonché il chitarrista Carlos Santana.

Infine i due organisti più jazzistici:

A. Jack McDuff, che aveva iniziato la carriera come bassista, cambiando definitivamente
strumento negli anni Sessanta. Oltre ad avere praticamente scoperto il chitarrista George
Benson, collaborò spesso con il chitarrista Grant Green e il sassofonista Gene Ammons.
B. Jimmy McGriff, curiosamente anche lui bassista di formazione, che si dedicò allo studio
dell’organo Hammond dopo che il suo amico d’infanzia Jimmy Smith si era imposto con
quello strumento. Lo stesso Smith e Milt Buckner, il talentuoso pianista di Lionel Hampton,
furono i suoi insegnanti, ma su tutta la sua musica aleggiò sempre l’influenza dello stile di
Count Basie, che fu sostanzialmente la sua influenza più consistente.

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L’altro strumento che assurse un po’ ad epitome del soul jazz fu il sax tenore; l’estensione di questo
strumento è comparabile a quella di un cantante uomo, riassumendo però le possibilità insite nei
registri di un tenore nella seconda ottava ma garantendo la profondità della voce batironale e
occasionalmente addirittura del basso (il sax tenore ha la sua nota più bassa lab ben una decima
maggiore sotto il do centrale, e può per i virtuosi allungarsi fino al sib posto una quindicesima
minore sopra).
Questa estrema similitudine con il timbro di una voce maschile, unita alla flessibilità e duttilità del
suo suono ha reso il sax tenore uno degli strumenti guida del jazz moderno e sicuro protagonista
nello stile venato di soul.

Si ebbero dei grandi interpreti in alcuni solisti che avevano collaborato direttamente con il grande
ispiratore e creatore ufficiale del genere soul, Ray Charles:

A. David “Fathead” Newman


B. Curtis Amy

Insieme al contraltista Hank Crawford dapprima suonarono nei gruppi del cantante, fino ad
assumerne a turno la direzione musicale; infine si affermarono come solisti di soul jazz dotati di
fantasia, passione e tecnica esecutiva, caratteristiche affinate grazie ad esperienze dirette fatte sul
campo.

Il più popolare fu senza dubbio King Curtis, sebbene non si possa considerare a nessun titolo un
musicista di jazz; la sua capacità espressiva e di trasmettere con il sax un reale grado di eccitazione al
pubblico lo fece diventare una star del soul strumentale, tanto che l’artista partecipava regolarmente
a show televisivi anche fuori dagli Stati Uniti, specialmente in Giappone.
Soprattutto il suono di King Curtis rappresentò un modello nuovo, grazie a un uso estensivo del
vibrato generalmente eseguito in maniera più veloce e alla sua bellezza oggettiva influenzò le
generazioni successive indicando una strada a sassofonisti come David Sanborn e Michael Brecker.

Molto più aderenti all’estetica jazz che a quella soul furono invece:

A. Eddie Harris, già citato, che contribuì anche alla nascita del jazz rock; sperimentò
ampiamente sul suono, specialmente con il varitone, una sorta di octavier, che gli consentiva
di ottenere suoni ripetuti in varie ottave, e alla pari di Miles Davis il wah-wah.
B. Stanley Turrentine, che si esibì spesso insieme alla moglie, l’organista Shirley Scott. Dotato
di un sontuoso fraseggio hard bop e un forte spirito soul rappresentò forse il più convincente
interprete del soul jazz.
C. Roland Kirk, prodigioso polistrumentista che riusciva a suonare fino a tre sax
contemporaneamente; suonò con Charlie Mingus e con gruppi a proprio nome.
D. Gene Ammons, che poteva vantare una lunga militanza nelle orchestre degli anni Cinquanta
di C ount Basie.

IL JAZZ SAMBA

Se il soul jazz era stata la forma di fusione generatasi dall’hard bop con il soul, la nuova musica
popolare presso gli afroamericani, il jazz samba fu un naturale sviluppo del cool jazz, che si fuse con
i ritmi brasiliani.

In particolare la bossa nova, che era una forma di samba a tempo più lento e con prevalenza di
sonorità leggere e carezzevoli, rappresentò il presupposto e l’essenza di questo particolare stile
jazzistico, il jazz samba, sviluppatosi all’inizio degli anni Sessanta.

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Il nome di questa corrente stilistica derivò dal titolo di un disco inciso dal sassofonista Stan Getz e il
chitarrista Charlie Byrd nel 1962; in esso furono interpretati diversi brani del compositore Antonio
Carlos Brasileiro de Almeida Jobim, detto “Tom”, come “Desafinado”, che sarebbe diventato un
classico.
La bossa nova, termine che può essere tradotto come “roba nuova” o “tendenza nuova”, era nata a
Rio De Janeiro nella seconda metà degli anni Cinquanta, grazie a un gruppo di musicisti e interpreti
come Joao Gilberto, cantante e chitarrista, Baden Powell, compositore e chitarrista e soprattutto il già
citato pianista-cantante-compositore Jobim; questo novero di artisti fu ampiamente influenzato dal
poeta e diplomatico Vinicius De Moraes, che scrisse i testi delle maggior parte delle loro canzoni.

Erano quasi tutti giovani bianchi benestanti appartenenti alla borghesia brasiliana, seguaci entusiasti
del presidente democratico Juscelino Kubitschek, uomo dal saldo credo modernista promotore di un
risveglio economico della nazione.
In effetti la “bossa” rappresentava un’ideale di bellezza musicale, espresso con dolcezza e atmosfere
sognanti che sembravano fatte apposta per esprimere il momento d’oro del Brasile.

Comunque pare certo che i giovani compositori brasiliani citati fossero stati letteralmente folgorati
dal cool jazz, dallo stile “californiano” della west coast, con la sua sapienza armonica e la
sofisticatezza degli arrangiamenti; in Brasile due cantanti in particolare furono considerati promotori
del jazz negli anni Quaranta:

A. il cantante e pianista Dick Farney (al secolo Farnésio Dutra da Silva), una sorta di Sinatra
brasiliano
B. il compositore e cantante Johnny Alf , pseudonimo di José Alfredo da Silva

I più giovani Jobim, Baden Powell e Joao Gilberto fusero le armonie jazzistiche con il ritmo del
samba, creando nuovi temi originali; la bossa nova fu così lanciata e si impose a livello mondiale
grazie a “Orfeu Negro”, uno storico film del 1957 diretto dal regista Marcel Camus, che vinse la
Palma d’Oro al festival di Cannes e un Oscar a Hollywood.
Il lungometraggio era tratto da “Orfeu de Coicecao”, una piéce teatrale scritta da Vinicius de Moraes,
che riprendeva il mito della Grecia classica di Orfeo ed Euridice adattato ai giorni nostri e
ambientato a Rio de Janeiro durante la settimana del Carnevale.

Le canzoni “A Felicidade”, “Samba de Orfeu” e soprattutto “Orfeu Negro” (diventata uno standard
del jazz con il titolo inglese “Black Orpheus”) fecero conoscere al mondo la nuova musica brasiliana,
rinnovata nei contenuti e influenzata dal jazz proveniente degli Stati Uniti.

Fino a quel momento la musica tradizionale brasiliana aveva avuto tre anime:

A. la prima era rappresentata dai ritmi degli schiavi africani


B. la seconda era la musica portoghese, soprattutto il “fado”
C. la terza derivava dai suoni e dalle percussioni degli indigeni

Quando a questi si aggiunse il jazz nacque la bossa nova.

Paradossalmente però quel genere musicale esercitò un’influenza di ritorno sul jazz degli anni
Sessanta, espandendo il concetto di musica latina che fino a quel momento era stato associato
esclusivamente ai ritmi cubani o caraibici provenienti delle Grandi Antille, geograficamente più
vicine agli U.S.A.

La bossa nova si aggiunse al jazz sia come “colore” che come repertorio: brani come “Wave”, “How
Insensitive”, “Triste”, “Chega de Saudade” e molti altri sono diventati in breve tempo degli standard,
interpretati da tantissimi jazzisti anche dopo e al di fuori del movimento del jazz samba.

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Nel 1963, pochi mesi dopo lo storico disco di Byard e Getz fu registrato l’album “Getz/Gilberto”,
che conteneva la storica versione di “Garota de Ipanema” cantata dalla moglie di Joao, Astrud
Gilberto.

Jobim stesso si trasformò da compositore e musicista in cantante, partecipando a dischi importanti


prodotti negli Stati Uniti, da etichette che avevano un ricco catalogo jazz come la Verve:

A. “The Composere of Desafinado Plays”, con gli arrangiamenti del direttore d’orchestra Claus
Ogerman
B. “The Wonderful World of Antonio Carlos Jobim”, curato dal grande arrangiatore Nelson
Riddle
C. “Francis Albert Sinatra & Antonio Carlos Jobim” del 1967, un vero e proprio summit tra i
due esponenti più conosciuti della musica popolare negli U.S.A. e in Brasile; in
quell’occasione Sinatra dichiarò di non aver mai dovuto cantare così piano e a bassa voce
per adeguarsi al volume di Jobim; gli arrangiamenti furono curati ancora una volta da Claus
Ogerman

La scelta di Sinatra fu la prova che il repertorio della bossa nova e in particolare di Jobim fosse
diventato indispensabile ai grandi interpreti; il disco con “The Voice” segnò la definitiva
consacrazione americana di Jobim e l’ingresso delle sue canzoni nel patrimonio comune del jazz,
insieme ai brani di Gershwin e Cole Porter:
Infatti a partire da quel momento il suo esempio fu seguito da tanti cantanti e strumentisti e la musica
di Jobim fu eseguita da artisti del calibro di:

A. Ella Fitzgerald
B. Sarah Vaughan
C. Carmen McRae
D. Miles Davis
E. Chet Baker,
F. Coleman Hawkins
G. Dexter Gordon
H. Archie Shepp

Soprattutto nell’ambito del jazz samba lo stesso Jobim realizzò uno storico disco nel 1970 intitolato
“Stone Flower”, con il flautista Hubert Laws, il trombonista Urbie Green, il contrabbassista Ron
Carter e i brasiliani Eumir Deodato, pianista e arrangiatore di grande talento e il percussionista Airto
Moreira.

Notevole nell’economia della bossa nova è stata la figura del bahiano di nascita Joao Gilberto,
grande chitarrista e cantante nella cui voce dall’intonazione nasale si percepiscono gli echi di un
Brasile antico e africano; il suo stile chitarristico essenziale e scevro da virtuosismi era agilissimo e
infallibile, tanto che la modalità preferita dall’artista è stata prevelentemente esibirsi in solitudine.
Anche lui beneficiò di un’immensa popolarità internazionale grazie alla collaborazione con il
sassofonista Stan Getz, che con lui realizzò l’album “Getz/Gilberto”, come detto, nel 1963.

La caratteristica peculiare di questo artista che è considerato “la voce ufficiale” della bossa nova
risiede nella magica combinazione tra la voce e la sua chitarra, nel loro scorrere parallelo anche se
continuamente oscillante per i continui slittamenti di tempo, ottenuti con accelerazioni del canto,
giocato quasi sempre in anticipo rispetto all’armonia.

Prima della storica incisione di Stan Getz, che attirò l’attenzione del mondo sui ritmi e le canzoni
provenienti dal Brasile c’era stato un disco realizzato nel 1953 da due musicisti che si erano
conosciuti tra le fila dell’orchestra del direttore “progressive” Stan Kenton: il sassofonista contralto
Bud Shank e il chitarrista carioca Laurindo Almeida.

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“Brazilliance”, questo il titolo del disco, fu il primo esperimento di fusione tra samba e jazz e
dimostrò come fosse naturale per un jazzista californiano e uno brasiliano interagire suonando
musica latinoamericana grazie al retroterra africano comune ai due generi musicali.

Precedentemente ancora il termine samba era entrato nell’ambito della musica leggera o
cinematografico per indicare dei brani suonati da grandi orchestre sui ritmi tropicali tipici del
carnevale e del floklore carioca.
Nel 1933 il film musicale Flying Down to Rio (conosciuto in Italia come “Carioca”), interpretato da
Fred Astaire e Ginger Rogers introdusse ufficialmente la musica brasiliana negli Stati Uniti.
Era stata poi la cantante, ballerina e attrice Carmen Miranda a rendere popolare la musica del
folklore brasiliano, anche grazie all’uso di costumi assai sfrazosi e scenografici, imponendosi per
tutti gli anni Quaranta: nel 1945 fu l’artista hollywoodiana più pagata.

Un altro esempio della penetrazione della musica brasiliana e dell’America Latina in genere fu la
produzione da parte della Disney di meravigliosi cartoni animati:

A. Saludos Amigos del 1943


B. The Three Caballeros (I Tre Caballeros) del 1945

Con essi arrivarono a una diffusione mondiale i primi temi brasiliani di grande successo:

A. “Tico-Tico”,
B. “Brazil”
C. “Bahia”

Questi brani rappresentarono dei veri e propri prototipi di un genere musicale che suscitò da subito
l’interesse dei jazzisti moderni, tanto è vero che nel 1951 Charlie Parker registrò per la Verve “Tico-
Tico”.

Tra gli interpreti del jazz samba un posto di spicco ovviamente spetta al sassofonista Stan Getz; la
sua classe musicale, cresciuta per tutti gli anni Quaranta e quindi assorbendo il fraseggio complesso
del bebop, si era messa in luce fin da giovane, quando militò perfino nell’orchestra di Benny
Goodman.
Getz fu una stella di prima grandezza già alla fine degli anni Quaranta: era il migliore dei “four
brothers”, quattro sassofonisti bianchi lanciati dal direttore d’orchestra Woody Herman; in quegli
anni fu un po’ l’emblema del sassofonista “cool”, che derivava direttamente dallo stile di Lester
Young, ma che possedeva un’agilità e una capacità di suonare i cambi d’accordo repentini da
consumato bopper.

Tuttavia non fu tanto il cool jazz quanto il jazz samba a regalare la fama internazionale e una
popolarità immensa al sassofonista: il suo suono levigato e la capacità melodica innata si sposava
perfettamente con il ritmo e le atmosfere della bossa nova; nessun altro ha saputo incarnare meglio lo
spirito della musica brasiliana sposandolo con un fraseggio jazzistico di rara bellezza e perfezione.
Le interpretazioni della musica brasiliana di Stan Getz registrate negli anni Sessanta e in seguito per
il resto della sua carriera hanno stabilito dei canoni imprescindibili per qualsiasi musicista, tanto che
discostarsene risulta quasi sempre inappropriato.

Forse l’unico collega sassofonista tenore in grado di interpretare ad altissimi livelli la musica
brasiliana è stato l’afroamericano Joe Henderson, autore tra l’altro di un moderno standard del jazz
samba, la bellissima “Recordame”, contenuta nel suo album d’esordio Page One del 1963.

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Anche il trombettista bop e post-bop Kenny Dorham diede il suo contributo alla creazione della
letteratura jazzistica ispirata al Brasile; curiosamente nello stesso album sopracitato (Page One di Joe
Henderson) Dorham suonò come sideman ma compose un altro brano che sarebbe diventato classico
per tutti i jazzisti, la celebre “Blue Bossa”.

Dal canto suo il sassofonista Paul Desmond, oltre ad essere un pilastro del quartetto del compositore
Dave Brubeck, interpretò pagine appassionate dedicate alla musica brasiliana di nuovo corso, come
nel pregevole album “Bossa Antigua”, pubblicato nel 1964 con la partecipazione straordinaria del
chitarrista Jim Hall, sempre interessante e stilisticamente irreprensibile.

Infine tra gli interpreti brasiliani di jazz samba degli anni Sessanta si mise in luce l’ottimo pianista e
arrangiatore Sergio Mendes, con le sue formazioni Brasil 65 e Brasil 66; in seguito il musicista
continuò a realizzare opere sublimi, come l’album del 1992 intitolato “Brasileiro”.

Uno dei successi maggiori riportati da Mendes in carriera fu la fortunata versione di “Mas Que
Nada”, registrata nel 1966, una magnifica canzone composta in realtà dal cantante e compositore
brasiliano George Ben nel 1963.

La sua classe lo pone al riparo da qualsiasi critica, pur essendo considerato un musicista dalle
spiccate venature pop.

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