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Chiamati e inviati come “servi col Servo”

dietro a Lui sul nostro piccolo sentiero

Chagall Crocifissione bianca 1938

Premessa
L’antifona d’ingresso della Messa del giovedì santo riprende un testo centrale di Paolo: «Quanto a me non
ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato
crocifisso, come io per il mondo» (Gal 6,14). La prospettiva di At 9,16 «gli mostrerò quanto dovrà soffrire
(deî patheîn) per il mio nome» richiama Lc 24,26: «bisognava che il Messia patisse (deî patheîn) queste
sofferenze per entrare nella sua gloria» indicando la conformazione o corrispondenza della passione di Paolo
alla passione del Cristo (cfr At 21-28 con Lc 22-23). Intuiamo allora lo scopo più alto di tutta la vita
dell’apostolo: «la sublimità della conoscenza di Gesù Messia mio Signore … [cioè] conoscere Lui: la potenza
della sua risurrezione e la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte nella speranza
di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,8.10s). Gesù Messia crocifisso è l’unica “sapienza” con cui Paolo
si presenta evangelizzando (1Cor 2,2; cfr Gal 3,1). Sapienza divina, misteriosa, nascosta “che è il Signore
della gloria crocifisso e che solo lo Spirito può svelare”. Per quanto già evangelizzati, anche per noi questa
sapienza rimane “scandalo e follia”.
I racconti della passione ci fanno entrare nella “sapienza della croce”. Per Marco (Mc 14,1-16,8) lo scandalo
della croce ci manifesta il mistero di Gesù, Messia e Figlio di Dio, che si offre a chiunque si fida e si affida a

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Lui. Per Matteo (Mt 26,1-27,66) il disegno di Dio si è compiuto in Gesù Messia l’Emmanuele, Dio con noi,
ogni giorno fino alla fine. Per Luca (Lc 22,1-23,56) in Gesù Dio visita definitivamente il suo popolo. Seguendo
il Messia, l’uomo della sofferenza, ogni discepolo sconfigge il potere delle tenebre attraversando sofferenza e
morte per entrare con Lui nella gloria. In Giovanni (Gv 13,1-19,42) la croce diventa il trono di gloria, al quale
tutti volgono lo sguardo e ne sono attratti.
Ascoltando il Signore Risorto che, prima ai due di Emmaus (Lc 24,26s) e poi ai discepoli (Lc 24,44-49),
spiega in tutte le Scritture ciò che si riferisce a lui e apre la mente all’intelligenza delle Scritture, chiediamo
allo Spirito santo la sapienza della croce per riconoscere il Messia crocifisso. Sia questa la nostra insistente
preghiera: Aprimi, o Padre, gli occhi, le orecchie e il cuore, con la forte tenerezza del tuo Spirito, affinché io
possa “conoscere Gesù Messia mio Signore”, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue
sofferenze e possa anch’io offrire la mia vita nella chiesa suo corpo per il mondo intero.

1. Il travaglio di Dio nella sofferenza del giusto


Gen 21,8-21 e 22,1-19 Abramo chiamato a offrire Isacco, dopo aver cacciato Ismaele e Agar.
Gen 32,23-33 Giacobbe lotta con Dio al guado dello Iabbok
Es 4,24 Dio cerca di far morire Mosè (cfr Eb 11,26 stimava l’obbrobrio del Messia ricchezza maggiore …)
1Sam 26,18-20 David a ‘En Gedi rivolto a Saul: «Perché il signore perseguita il suo servo? …»
2Re 23,29s e 2Cr 35,24-27 il pio re Giosia muore “trafitto” a Meghiddo …
Ger 26; 38; 43s Geremia condannato a morte, gettato nel pozzo, muore[?] esule … in Egitto
Zac 12,10-14 Guarderanno a me che hanno trafitto … lutto e pianto come per il figlio unico, come per il
primogenito … nella piana di Meghiddo …
Su questo sfondo si stagliano i canti del Servo del Signore nella seconda parte di Isaia (Is 40-66), il libro di
Giobbe, la storia di Giuseppe (Gen 37-50), i salmi del giusto abbandonato (Sal 22; cfr 69) e della pietra scartata
divenuta testata d’angolo, opera del Signore, meraviglia ai nostri occhi … il giorno fatto dal Signore (Sal
118,22-24).

2. Il Messia sofferente nei poemi del Servo del Signore


Li proclamiamo nella liturgia della settimana santa: domenica delle palme Is 50,4-7; lunedì Is 42,1-7;
martedì Is 49,1-6; mercoledì Is 50,4-9a e venerdì Is 52,13-53,12 (cfr anche Is 61,1-3a.6a.8b-9 nella messa
crismale).
Come il Servo impianta le giustizia nel Paese e porta la salvezza alle Nazioni? La tenerezza forte di Dio si
svela nella debolezza del suo Servo, nella sua sofferenza e nella sua morte, e in coloro che attraverso
un’anamnesi trasformante della sua esperienza sono conformati a lui.
Vale la pena dedicare del tempo a una contemplazione orante per immergerci nella bellezza letteraria di
questi poemi e lasciarci coinvolgere attivamente nelle nostre scelte di vita dal messaggio sempre nuovo,
inaudito e sconvolgente, cioè la sapienza della croce … che illumina il nostro cammino per crucem ad lucem
alla ricerca del nostro “piccolo sentiero”. 1
2.1 Nel primo canto (Is 42,1-4), il Signore presenta il
“Servo” che si è scelto, in cui si compiace e al quale dona
lo Spirito in vista di una missione di salvezza, di vita, di
gioia, attraverso un processo che attua la giustizia: «Ti ho
formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce a
delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi, faccia manoscritto antico dalla prima grotta di Qumran (1QIs )
uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,6-7). Dunque, una
missione di salvezza, di gioia, di vita, di liberazione; una missione tutta positiva, che però si presenta come
una missione difficile e inevitabilmente segnata dalla sofferenza e dalla morte. La missione che il Servo riceve
ci riguarda tutti come destinatari; siamo noi infatti quei ciechi che devono tornare a vedere, quei prigionieri
che sono da liberare. Ma ci riguarda anche come parte attiva della missione, come battezzati e laici chiamati e
impegnati nella CVX. Il Servo è mandato fondamentalmente a combattere e a vincere il male, utilizzando delle
armi che non sono quelle del male e mettendosi su un piano che non è quello del male: «Non griderà e non
alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà la canna incrinata, non spegnerà uno stoppino
dalla fiamma smorta» (Is 42,2-3). Il Servo è mandato a risanare, a lottare, a vincere, ma senza violenza, senza
gridare, senza spaccare tutto per ricominciare tutto da capo; entrando invece dentro una realtà malata, andando
a ricercare quel minimo di bene che è ancora rimasto, per rispondere al male con il bene e vincere il male con
i criteri del bene. Il male urla nelle piazze, il male è violento. Il Servo deve combatterlo senza urlare, senza

1 Le seguenti riflessioni sui quattro Canti del Servo riprendono quelle di Bruna C OSTACURTA nel Ritiro di Quaresima del 10.04.2000.

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violenza. Armi impari, perché tutta la forza aggressiva e violenta del male adesso deve essere affrontata da
qualcuno che invece decisamente e positivamente rinuncia alla violenza e all’aggressività, e si presenta davanti
al male disarmato. Disarmato delle armi del male e armato invece delle armi del bene, dell’amore, che sono le
uniche armi che possono veramente costruire la salvezza. Sembrano però armi inadatte, apparentemente
inefficaci. La potenza dell’amore del Servo apparentemente è impotente davanti alla potenza violenta del male,
e invece così comincia la rivelazione del Servo: la lotta è su un altro piano e l’unico modo per vincere è almeno
apparentemente di perdere, cioè di affrontare il male con armi diverse, perché solo così si può davvero vincere,
senza spegnere la fiamma che è mezza moribonda, senza spezzare la canna che ormai è incrinata. Ora però, se
si affronta il male senza usare le stesse armi del male, è inevitabile che il male ad un certo punto sembri
prendere il sopravvento. Se si vuole rispondere al male con il bene il male bisogna subirlo per poterlo
trasformare in bene. Perché il modo per non subire il male sarebbe di farlo, sarebbe di rispondere al male con
il male, allora apparentemente non lo si subisce; ma se si vuole rispondere al male con il bene, si diventa
vittime del male e proprio perché vittime e, dunque riassorbendolo nella propria capacità di amore, quel male
può diventare bene. Allora il Servo, e noi con Lui, siamo chiamati a combattere con armi diverse da quelle del
male; siamo chiamati a essere ricercatori del bene, trovandoci in mezzo a canne incrinate e a fiamme smorte;
non possiamo rassegnarci, ma andiamo in cerca di quello che è ancora rimasto di bene, a cui attaccarci per
poter da lì ripartire. La canna incrinata non la si spezza, dicendo: basta, ormai non serve più! Si va a cercare
ancora quel pezzettino in cui la canna è ancora attaccata per trovare il modo di risanarla; si va a cercare ancora
quella fiammella che ormai non si vede neanche più e si parte da lì, si soffia sopra piano piano perché la
fiamma riprenda. Questa è la missione del Servo che, così facendo, deve entrare nel male; apparentemente
entra in questa dimensione di debolezza davanti al male, ma in realtà con la forza dell’amore riesce a sopportare
il male senza lasciarsene contagiare. Egli stesso infatti: «non sarà smorto e non si incrinerà» (Is 42,3b). La
traduzione della CEI dice: «non verrà meno e non si abbatterà», ma in realtà quei due verbi sono gli stessi che
si utilizzano per la fiamma e per la canna; allora si dice: “non spezza la canna incrinata e lui non si incrinerà,
non spegnerà la fiamma smorta e lui non diventerà smorto”. Eccolo il segreto: sopportare il male senza
diventare male, senza farsene contagiare, per poterlo invece guarire; dico “sopportare”, che è l’atteggiamento
di chi va in cerca del bene e di chi davanti al male ha la pazienza necessaria per vincerlo e ha anche la dolcezza,
la tolleranza che serve per vincerlo e che non è un lasciarsi contagiare, un lasciar correre, ma è mettere in opera
quella forza grande che è quella della comprensione e dell’amore, quella pazienza che è la longanimità di Dio
e che permette di vincere. L’inflessibilità di solito è dei deboli; la longanimità e la lungimiranza è dei forti e
questo è il Servo! Questa missione però fa male. Combatte il male, ma entra nella sofferenza. Man mano che
si va avanti nella vicenda del Servo nei canti di Isaia si vede sempre di più all’opera il male, la sofferenza che
il Servo deve patire.
2.2 Nel secondo canto (Is 49,1-6) il Servo
entra in una dimensione di sofferenza, che per
adesso è solo interiore e che è la percezione
dell’apparente inutilità della sua missione. Il
Signore «mi ha detto: “Mio servo tu sei,
Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”. Io
ho risposto: “Invano ho faticato, per nulla e
invano ho consumato le mie forze!”» (Is 49,3-
4). Questa è la percezione che il Servo ha del
suo lavoro. Credo che nessuno di noi faccia
fatica a riconoscersi in queste parole del Servo. Invano, a vuoto, vanamente; l’idea di qualche cosa di
inconsistente, di girare a vuoto, di girare intorno in modo insensato, di non arrivare da nessuna parte. Come se
si lavorasse tanto e poi questo non serve a niente, non ha senso, e poi il male comunque sembra sempre tanto
più grande. A che serve quello che facciamo? E ci si ritrova soli. È la crisi del Servo, la crisi di ogni servo
della salvezza. Ed è una crisi inevitabile, necessaria. Se il servizio è quello della salvezza di Dio siamo
costitutivamente inadeguati a compiere questo servizio e questa missione. Se fossimo adeguati così da dire:
“Perfetto! Questo è proprio quello che io so e posso fare! Tutto torna, va benissimo! Poi alla fine posso far
quadrare i conti tra gli sforzi che ho fatto e i risultati, perché io ci so fare...” Se così fosse, allora noi saremmo
dio, e non mi pare, o la missione che stiamo portando avanti non è quella di Dio, ma è la nostra! E una missione
del genere non salva nessuno, perché l’unica missione che salva è quella di Dio! D’altra parte se è la missione
di Dio, è inevitabile, siamo inadeguati! C’è questa sproporzione assoluta tra noi strumenti e ciò che il Signore
con noi vuole compiere. Ed è questo che necessariamente deve portare a questa percezione che è tutto vano,
non vano nel senso che non serve, ma vano nel senso che noi non abbiamo la possibilità di verificare quello
che stiamo facendo, di verificare se ci sono dei risultati, perché noi ci stiamo muovendo a dei livelli che non

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sono i nostri e che non sono i livelli della possibile verifica perché siamo servi di una salvezza che si gioca nel
segreto dei cuori, che quindi non si può contare. Sì, la si può vedere qua e là da alcuni segni, ma sono sempre
segni ambigui e non permettono una verifica; anche perché ciò che è verificabile non è importante nel Regno
di Dio. Il vero momento in cui la missione del Servo è stata realizzata è il momento in cui il Signore Gesù
appeso ad una croce sembra maledetto da Dio, abbandonato, lasciato solo dai suoi apparentemente senza
nessun futuro. Che contava ancora Gesù sulla croce? Non c’era più nessuno! E quelli che c’erano erano lì per
dire: “lo vedete? Dio lo ha abbandonato!” Eppure là la missione è finalmente compiuta! Lo spossesso della
missione, L’obbedienza ai criteri di Dio, che sono diversi da quelli del mondo, ci libera anche
dall’impossessarci della missione e ci sotiene in questa fatica di credere al senso della missione che ci è stata
affidata. Questa è la sofferenza spirituale del Servo che poi si apre ad una sofferenza anche fisica.
2.3 Nel terzo canto (Is 50,4-9) c’è il
rifiuto del Servo da parte degli uomini:
«Ho presentato il mio dorso ai
flagellatori, le mie guance a coloro che
mi strappavano la barba, non ho sottratto
la faccia agli insulti e agli sputi» (Is
50,6):Non è solo violenza fisica, ma la
violenza fisica che passa attraverso una
violenza umiliante (la barba strappata, gli sputi, gli insulti). La violenza umiliante è violenta due volte: ti
distrugge il fisico e la tua dignità di persona e così riesce a ucciderti due volte. Ed è la reazione tipica
all’annuncio di salvezza. Infatti se il compito del Servo è di ridare la vista ai ciechi e di far uscire dal carcere i
prigionieri, quando la cecità è quella del male e quando quel carcere è quello del peccato, avviene che si è
davanti a della gente che è talmente prigioniera del peccato da non sapere neppure più di essere nel carcere,
che è talmente accecata dal male da non essere più neanche consapevole di essere cieca. Quello che Gesù, il
Servo definitivo, fa per tutta la sua vita: è cercare di convincere gli uomini di peccato, perché finché non li
convince, loro non si lasceranno mai salvare, finché questi non capiscono che sono ciechi non accetteranno
mai che qualcuno gli apra gli occhi. Bisogna essere consapevoli di essere malati per accettare il medico. «Non
sono i sani quelli che hanno bisogno del medico, ma i malati» (Mt 9,12) dice Gesù! Ma se Gesù viene come
medico, bisogna capire finalmente di essere malati per poterlo accettare come colui che ti guarisce. Aver
finalmente capito di essere malati, ciechi e prigionieri, questo vuol dire che già ci vediamo, che già siamo sulla
via della guarigione e che il carcere ha già aperto le porte. Per cui il Servo è mandato a portare la luce a quelli
che dicono di vederci e se qualcuno viene a dir loro
che sono ciechi, allora si arrabbiano. Questo Servo,
che continua a dirci che siamo ciechi e prigionieri,
prima o poi bisogna farlo fuori. Dunque, il male
reagisce in modo violento; inevitabilmente, quando
il bene si presenta e il Servo è talmente dedicato e
identificato con la sua missione di salvezza e di bene
che, quando il bene viene rifiutato, inevitabilmente
anche il Servo si ritrova ad essere rifiutato. La figura
del Servo a cui bisogna far riferimento nella nostra
vita è quella di un Servo che assume totalmente la
sua missione, così da non avere spazi propri di
riserva, da non avere spiagge su cui ritirarsi. Come
se dicessi: “la missione di Dio l’accetto, però mi
tengo una parte di me fuori, in salvo, mi tengo le mie
vie di uscita. Assumo la missione, però...” Questo
non è possibile, quando la missione è quella di Dio.
O la si assume tutta o non si assume! E se si assume
tutta, quando rifiutano la salvezza che tu porti, non
sperare di salvarti, rifiutano anche te! E se vogliono
distruggere quel bene, perché lo percepiscono come
un pericolo e come un’offesa, se distruggono quel
bene, non ti illudere, perché distruggono anche te.
2.4 Ecco allora il quarto canto del Servo (Is
52,13-53,12): la distruzione del Servo, questa lunga
vicenda di passione e di morte. Essa comincia con

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un paradosso che dà la chiave di interpretazione di questo quarto canto. Comincia con la presentazione che il
Signore fa del Servo (anche nel primo canto aveva detto: «Ecco il mio servo che io sostengo» Is 42,1): «Ecco
il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. Come molti si stupirono di lui, —
tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo —, così
si meraviglieranno di lui molte nazioni. I re davanti a lui si chiuderanno la bocca, perché vedranno un fatto
mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito» (Is 52,13-15). Questo dà la chiave: il
Servo è colui che è sfigurato, talmente sfigurato dal male che gli si è riversato addosso, da non sembrare
neppure più un uomo; ebbene, questo Servo così sfigurato è il Servo onorato, glorificato, innalzato. È per
questo sono tutti nello stupore. Lo stupore di vedere che un uomo possa soffrire così tanto e, ancora di più, lo
stupore di vedere che un uomo così sofferente, questo uomo dentro questa sofferenza sia innalzato ed esaltato,
dentro quella sofferenza, non quando la sofferenza è passata. Questi primi versetti del quarto canto ci danno
la chiave di interpretazione della vicenda di morte e di resurrezione del Servo e quindi di Gesù come una
vicenda in cui morte e risurrezione coincidono. Non c’è la passione, e poi la morte e poi dopo la risurrezione,
ma già dentro la passione, dentro la morte il Servo è innalzato e glorificato. È già dentro la morte che la morte
è vinta, e quindi si apre alla risurrezione. Questi primi versetti del quarto canto sono fortemente “giovannei”,
perché Gesù è colui che, nel momento in cui viene tirato su sulla croce, è innalzato alla destra del Padre; nel
momento in cui viene attaccato al legno è intronizzato sul trono della gloria, nel momento in cui muore è
risorto. Però sta tre giorni lì, dentro il sepolcro, perché non è una morte falsa, per modo di dire, una morte che
è già risurrezione, ma è una morte vera! E proprio perché vera, è risurrezione. Questi primi versetti ci danno
la chiave. Poi si snoda pian piano la vicenda del Servo, virgulto e radice: «è cresciuto come un virgulto davanti
a Lui e come una radice in terra arida» (Is 53,2). Quest’immagine del virgulto e della radice probabilmente
evoca Is 11, che presenta il Messia come virgulto nel tronco di Iesse, forse un’allusione alla dinastia davidica,
però anche un’allusione alla situazione di difficoltà in cui il Servo nasce e vive. È un virgulto che nasce in una
terra desertica, come se fin dalla sua origine il Servo dovesse lottare per vivere. Un virgulto sulla terra arida
non ce la fa e se ce la fa vuol dire che ha un tale amore per la vita da essere più forte anche della morte del
deserto. Questo virgulto nel deserto è una specie di miracolo, così come è un miracolo questo Servo che dà la
vita per il suo popolo. Si snoda la sua vicenda come vicenda di sofferenza e di morte: “uomo dei dolori, esperto
nel patire” (Is 53,3), era talmente sfigurato il suo aspetto da non essere più riconoscibile come uomo. È uomo
dei dolori, come se ormai la sofferenza l’avesse coperto radicalmente e lui fosse definitivamente identificato
con la sua sofferenza e con la sua morte. Il cammino è proprio quello che contempliamo nella settimana santa:
«maltrattato si lasciò umiliare, non aprì la sua bocca» (Is 53,7). Come Gesù, durante il processo, tace per non
accusare coloro che lo accusano, in modo che loro non debbano essere condannati: «era come agnello condotto
al macello, come pecora muta di fronte ai tosatori e non aprì la sua bocca» (Is 53,7). L’immagine dell’agnello
è così parlante per noi in riferimento alla passione di Gesù e questa immagine della pecora in mano ai tosatori
è qualcosa dell’essere in balìa di chi ti prende e tu non puoi fare apparentemente più niente. L’immagine del
Servo come della pecora in mano ai tosatori è qualcosa di molto violento! La girano, la voltano, proprio questa
è anche la condizione del Servo, che è in mano a coloro che fanno di lui quello che vogliono. Lui però, nella
confessione di coloro che nella sua sofferenza hanno sperimentato la salvezza, è uno che «si è caricato delle
nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità» (Is 53,4-5) mentre «noi tutti eravamo
sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi
tutti» (Is 53,6), e poi «maltrattato si lasciò umiliare» (Is 53,7). Il Servo entra nel dolore, ma senza che appaia
immediatamente la verità di ciò che sta avvenendo. La rivelazione del senso ciò che sta avvenendo è che il
Servo sta assumendo su di sé le conseguenze del male per liberare gli uomini da quel male. E coloro che fanno
esperienza di questa liberazione attestano che «il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti» (Is 53,6)
e «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe siamo stati guariti» (Is 53,5). Non nel
senso che la punizione che doveva toccare a noi è invece toccata a lui, ma è che il male che noi abbiamo fatto
con tutte le sue conseguenze viene affrontato dal Servo che accetta che il male gli ricada addosso, per poterlo
così prendere su di sé rispondendo con il bene. Il male ha questa sua forza terribile che è quella di riprodurre
altro male. Se devo affrontare qualcuno che mi fa del male, io istintivamente sono portato a reagire,
rispondendo con il male a lui: è inevitabile! Mi fanno un torto e io troverò il modo di rifarglielo: parlano male
di me e io parlerò male di loro; mi offendono e io li offendo e se non riesco a offendere loro andrò a cercare
qualcun altro da offendere, perché da qualche parte bisogna che faccia uscire il male che ho accumulato e che
mi hanno messo dentro. La forza terribile del male è che mette il male dentro l’altro mentre glielo fa. Ora
invece, nella vicenda del Servo (e in pienezza del Signore Gesù), non c’è male dentro di lui, perché lui è
l’innocente, perché lui è uomo in tutto simile a noi, ma non nel peccato. E allora il male non gli mette il male
dentro, il male gli si rovescia addosso, lo distrugge, ma non gli mette il male dentro così che lui risponda con

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il male. E allora è come se il male gli si rovesciasse addosso e non trovasse niente su cui impiantarsi per
crescere; gli si rovescia addosso, ma non può riprodursi come altro male, perché trova solo bene e lì
inevitabilmente finisce per scaricarsi. È il male che perde il suo veleno («dov’è, o morte, il tuo pungiglione?»
1Cor 15,55; cf Os 13,14), è il male che non può più riprodursi perché lì non trova risposte di male e che,
ritrovando solo risposte di bene, si ritrova praticamente annientato. Esattamente il contrario di quello che
pensavano coloro che si ritenevano vicini a dio accumulando iniquità e ingiustizia: «E noi lo giudicavamo
castigato, percosso da Dio e umiliato» (Is 53,4b).
È questa la realtà della salvezza, del dono totale di sé del Signore Gesù che accetta di morire per poterci
dare la vita; lui in realtà, prendendo su di sé il male estremo di una morte non redenta, che noi non possiamo
neanche immaginare, e “facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce” (Fil 2,8), morendo “dona
la vita” (Gv 10,15-17) per noi e la dà perché la vita sia possibile pure per noi. È la vicenda di colui che dona e
che dona talmente tanto e in modo talmente gratuito che accetta perfino che non si veda che quello è dono.
Gesù muore per amore e «noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato» (Is 53,4b). È talmente
tanto il dono, talmente puro e gratuito il dono che accetta anche che non si sappia; non perché vinca la
menzogna, ma perché l’uomo possa accogliere un dono che è talmente dono da non chiedere nulla in cambio,
se non di essere accettato. Questa vita che Gesù dona non chiede nulla in cambio, chiede solo di essere accettata
come vita di Gesù; il dono chiede solo di essere accettato come dono. Il perdono non chiede niente in cambio,
chiede solo di essere accettato come perdono: è chiaro che poi questo cambia la vita della persona che l’accetta,
ma non perché chi dà il dono e il perdono non glielo dà se non ha in cambio qualche altra cosa; non glielo dà
se non c’è almeno la grande riconoscenza (come se dicesse: “sono pronto a dare la vita, ma che almeno lo
sappiano! Così almeno muoio con questa gratificazione!”). No! Il dono e il perdono di Dio chiede solo di
essere accolto, poi se l’accogli ti cambia. Questo è il mistero pasquale. E allora è chiaro che la spirale del male
in questo modo si interrompe e la morte diventa vita.
Fermiamoci infine sull’ultimo versetto del nostro canto, in cui dopo aver mostrato il cammino di morte e
perciò di risurrezione e di vita del Servo, Dio conclude il tutto dicendo: «perché ha spogliato se stesso fino alla
morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava (levava) il peccato di molti e intercedeva per i
colpevoli» (Is 53,12). Quest’ultima dimensione, quella dell’intercessione, è importante anche per la nostra vita
come discepoli-apostoli nella CVX.
Il Servo come intercessore per il popolo, si inserisce e porta a compimento la tradizione delle grandi figure
di intercessori. Abramo lotta in qualche modo con Dio e intercede per strappargli la salvezza di Sodoma (Gen
18,16-33). Mosè intercede per il popolo (Es 32,11-13.30-32). Mosè, uomo di preghiera e di intercessione,
prega tanto, prega per tutti, persino per il faraone. Dopo il peccato “originale” del vitello d’oro, c’è la grande
preghiera di Mosè: il popolo ha peccato e Mosè intercede per i peccatori: «se tu perdonassi il loro peccato...
Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,32). L’intercessore — come Abramo, Mosè, il
Servo, il Signore Gesù —, è colui che dà voce alla salvezza di Dio, al desiderio, alla volontà di salvezza di
Dio. Ecco perché si dice che il Servo mentre moriva e risorgeva stava intercedendo; lì si concretizza
l’intercessione come forza salvifica. Che cosa vuol dire intercedere? Non certamente mettersi davanti a Dio
per convincerlo a fare il bene, perché Dio è già abbondantemente convinto di fare il bene, perché è bene e non
ha nessun bisogno che noi lo convinciamo a farlo, ma nel senso che noi diventiamo quel suo desiderio di bene,
quella sua volontà di bene, noi la trasformiamo in carne, noi diventiamo quel suo desiderio di bene. Colui che
intercede è colui che fa diventare parola incarnata la decisione di Dio di salvare.
Quella volontà di salvare, nella preghiera diventa parola e in colui che prega diventa carne e sangue. Allora,
in realtà, chi è l’intercessore? È colui che desidera il desiderio di Dio, è colui che vuole la volontà di Dio, a fa
e la dice. Diventa questo coagulo, nella carne e nel sangue, del desiderio di salvezza di Dio, così che adesso
ciò che Dio vuole di bene per gli uomini si è incarnato ed è entrato dentro la storia e sta lì racchiuso in quella
carne e in quel sangue dentro quella storia da salvare.
Per questo è molto importante che colui che intercede stia dentro il popolo. Mosè stava dentro il popolo;
Abramo no; non stava dentro Sodoma e infatti la sua preghiera è: “Signore, vai a cercare i giusti che stanno
dentro Sodoma!”; non può Abramo dire: “Sodoma ha peccato, ma siccome io sono tuo amico, sono giusto, tu
guarda me e salva Sodoma!”. Abramo deve dire: “Signore, guarda Sodoma e cerca lì dentro i giusti”, perché
la salvezza non si può fare all’insaputa di coloro che devono essere salvati; la salvezza deve partire da quella
dimensione di bene che sta lì per poter rispondere al male con il bene e salvare. La salvezza non è come se Dio
dicesse: “io dovevo punire Sodoma, però per riguardo ad Abramo, io non la punisco più!” No! Sodoma deve
essere salvata, cioè da cattiva che era deve diventare buona, da peccatrice che era deve diventare innocente.
Bisogna perciò partire da Sodoma! Allora ecco perché il Servo è dentro il popolo, ecco perché Dio si fa uomo,
per essere dentro il popolo. Il luogo di salvezza, di assoluto bene e di totale innocenza sta dentro l’umanità,
che può allora rispondere al male con il bene e può trasformare il peccatore in innocente.

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Bisogna andare in cerca dei giusti. Cercarli a Sodoma e non ci sono. Cercare a Gerusalemme («Percorrete
le vie di Gerusalemme, osservate bene e informatevi, cercate nelle sue piazze se c'è un uomo che pratichi il
diritto, e cerchi la fedeltà, e io la perdonerò» Ger 5,1) un giusto che salvi la città e non c’è. Cercare il giusto
dentro l’umanità e non c’è. Allora il Giusto viene, si fa uomo. E adesso il Giusto c’è dentro l’umanità: è il
Signore Gesù! Lui nella sua innocenza diventa questo coagulo di carne e sangue che fa diventare carne il
desiderio, la volontà, la decisione di salvezza di Dio.
Perciò Gesù è l’innocente che muore per rendere innocenti i colpevoli; è il Giusto che risponde al male con
il bene, perché la via del bene sia possibile per tutti. Gesù è colui che muore, non morendo, ma dando la vita
così che sia possibile la vita per tutti e la morte dunque muoia. È l’intercessore che rende definitivamente
possibile la salvezza per questa sua intercessione che incarna la decisione di salvezza di Dio. Egli chiede a me,
a noi, con una chiamata personale e particolare, di essere questi intercessori che desiderano il desiderio di Dio,
che con la loro voce rendono parola la volontà di salvezza di Dio e che, assumendo il cammino del Servo,
possono portare dentro il male il bene e così portare a compimento il cammino di passione, di morte e di
risurrezione del Signore Gesù. Portare a compimento il mistero pasquale per coloro che ci sono affidati in
famiglia, sul lavoro, nella comunità di vita cristiana, nella convivenza civile e nell’impegno sociale e politico,
nella scelta dei poveri e degli scartati, a servizio della giustizia per la edificazione del Regno.

Riassumendo, ecco l’annuncio del quarto canto del Servo. La sua base narrativa è la conversione di un
gruppo attraverso una anamnesi trasformante: prima accusatore di una vittima, è diventato poi accusatore di
se stesso. Questa conversione non proviene da discorsi della vittima che tace, ma dalla visione retrospettiva
dei suoi tormenti. Questa visione è resa “nuova” da una illuminazione/rivelazione dall’alto e si trasmette come
messaggio di portata universale. Di qui la funzione strategica di Is 53,1: «Chi avrebbe creduto al nostro
annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?». Questo messaggio stabilisce un rapporto
tra gruppi separati, ma non può proporre ciò che è stato ricevuto per illuminazione se non rivolgendosi alla
fede, questo fa ostacolo alla sua diffusione. È inconcepibile. Non perché avrebbe come contenuto diretto la
risurrezione fisica, ma perché colui che non può perdonare perché è morto diventa lo strumento del perdono e
della purificazione, in quanto egli dona la conoscenza che permette la confessione o il consenso. C’è
identificazione tra salvato e vittima: il Servo è incorporato nel noi dei salvati.
Autentica profezia, apre lo sguardo sulle verità ultime. Alla fine un gruppo diventa testimone e messaggero,
illuminato direttamente riguardo al Servo da parte di Colui che lo ha inviato. L’esaltazione gloriosa del Servo
sparito ha suscitato un gruppo di testimoni che a sua volta è un gruppo di servi. Il Servo che ha unificato il
gruppo disperso si qualifica indirettamente come pastore, anzi come “agnello-pastore” (cf Is 53,7 con Ap 7,17).
Chi è il Servo per me?
Soprattutto nella passione, Gesù è Messia e rivelatore del Padre. Il suo mistero pasquale è “croce-via”
obbligato per la salvezza di ogni uomo (cfr Gaudium et spes 22). Lasciamo emergere dal silenzio eloquente
del Servo la Parola che trasforma la nostra vita: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).2

3. La passione di Paolo nel ministero apostolico


Paolo osa applicare a se stesso (agli apostoli e ai cristiani in genere) i canti del Servo. Secondo At 13,46s
ad Antiochia di Pisidia, dopo il primo grande discorso missionario nella sinagoga, il sabato seguente Paolo e
Barnaba rispondono alle contraddizioni e bestemmie dei Giudei con franchezza: «Era necessario che fosse
proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete … ecco noi ci rivolgiamo ai pagani.
Così infatti ci ha ordinato il Signore» e cita Is 49,6: «Io ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la
salvezza sino all’estremità della terra».
In Rom 10,14-17 commentando Is 28,16 «Chiunque crede in lui non sarà deluso» e Gl 3,5 «Chiunque
invocherà il nome del Signore sarà salvato» nella progressione fede → ascolto → predicazione → missione,
cita Is 52,7 «Come sono belli sui monti i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene! » e Is 53,1
«Signore, chi ha creduto dopo averci ascoltato?», riflettendo sul mistero dell’incredulità di gran parte di Israele,
che è il suo più intimo tormento. In Rom 11,1-10 infatti affermando chiaramente «Dio non ha ripudiato il suo
popolo», cita poi il lamento di Elia e la risposta di Dio (1Re 19,10.14.18), riconoscendosi tra gli ebrei credenti
in Gesù, gli eletti per grazia, rispetto a coloro che rimangono induriti nel cuore, e cita Is 29,10 (cfr Is 6,9s) col
Sal 69,23s.

2 Per continuare lo studio e la riflessione cfr E. FRANCO, «La morte del servo sofferente in Is 53», in A.B.I., Gesù e la sua morte. Atti
della XXVII Settimana Biblica, Paideia, Brescia 1984, 219-236: P. BEAUCHAMP, « Lectures et relectures du quatrième chant du
Serviteur : d’Isaïe à Jean », in Jacques VERMEYLEN (éd.), The Book of Isaiah. Le livre d’Isaïe. Les oracles et leurs relectures. Unité et
complexité de l'ouvrage (Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium 81), Leuven University Press, Louvain 1989, 325-
355.

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La comprensione della Passione di Gesù illumina la passione del suo ministero, ed è un esempio-richiamo
per noi, nel suo grande spirito di fede (cfr Fil 3,17-4,1) e nel suo profondo sentire cum et pro ecclesia (cfr Col
1,24s). Come vivificare e sostenere la passione nella missione apostolica? Lasciando crescere in noi la Parola
del Dio dei sofferenti, cioè la sapienza del Crocifisso, come testimoni-annunciatori-servi del Servo.

4. Il posto e il nome (Yad waShem) dei servi col Servo


La vicenda unica del Servo, rivelazione del braccio del Signore, è segno di contraddizione tra chi crede e
chi rifiuta l’annuncio. Il Servo portatore di un messaggio, non letto o letto male, una volta sparito, diventa lui
stesso messaggio: l’annunciante diventa annunciato. Ecco la continuità dei servi annunciatori (Is 52,7.10),
posterità del Servo (53,10b) nella sterile (54) e nell’eunuco (56,4s “nome eterno mai cancellato”). Il Servo
guarisce (53,5b) ciò che era inguaribile (Is 6,10): cecità, sordità, durezza di cuore (cfr 42,18-20 Israele servo
sordo e cieco! con 43,8 fa uscire il popolo cieco e sordo radunando le nazioni per l’annuncio e 48,6-8 hai udito
e visto e non vorresti testimoniarlo?). Il credente-testimone, come il noi del quarto canto, vede il Servo sul
trono di suo Padre (cfr 1Cr 29,23) e si vede già nella passione e nella prova seduto col Messia crocifisso sul
trono più alto ed elevato di Papà (Lc 22,28-30). Questa la “conoscenza” e la “sapienza” nell’azione del pastore
(Ger 3,15; 9,23; 23,5); la bellezza dei sapienti … che brilleranno come stelle (Dan 1,4; 9,13.22.25; 11,33;
12,3s.10).

5. Imparare a leggere la gloria della Passione come Giovanni


Gv 12,37-43 commenta la scena dei Greci (12,20-36) prima del grido di Gesù (12,44-50) che chiude il libro
dei segni (Gv 2-12) e apre il libro dell’ora gloriosa della passione (Gv 13-19). Il commento si riferisce alle
parole di Gesù «È giunta l’ora …», «Se il chicco di grano …», «Chi ama la sua vita …», «Se uno mi vuol
servire…», «Ora l’anima mia è turbata …» che poi si nasconde da loro, quelli che, nonostante tanti “segni”
fatti davanti a loro, non credevano in lui. Cita Is 53,1 con Is 6,10 concludendo: «questo disse Isaia perché vide
la sua gloria e parlò di lui».
Non si tratta della gloria eterna del Verbo, ma della gloria dell’esaltazione, cioè della vittoria nella morte.
È nell’esaltazione della croce che Gesù attira tutti a sé (12,21) ma solo chi ha lo sguardo trasformato sulla
vittima può essere guarito e diventare servo col Servo, testimone-annunciatore della salvezza. Riconoscere
proprio Lui nella sua individualità irrimpiazzabile, colui che dice: «Abramo ha visto il mio giorno» (Gv 8,56),
«Mosè ha scritto di me» (Gv 5,46) e di cui il discepolo dice: «Isaia parlò di lui» (Gv 12,41), questo il dato
nuovo che porta a compimento la Scrittura. Dio non si manifesta in generale, ma nel concreto e nel particolare
… in un “piccolo sentiero” anche nella e attraverso la nostra vita, come comunità apostolica, nella passione
del servizio nella chiesa e nel mondo.

Conclusione
Proseguendo nel cammino quaresimale, ci conceda il Signore di crescere nella consapevolezza della nostra
fragilità e nella vigilanza (cfr 1Ts 5,3-11; Ef 6,11-13) affinché si aprano i nostri occhi e, attraverso i misteri e
i ministeri posti nelle nostre mani, scopriamo anche noi che “quando siamo deboli allora siamo forti” (2Cor
12,9s) e che “tutto possiamo [diventiamo onnipotenti] in Colui che ci dà la forza” (Fil 4,13).
Seguendo Gesù lungo la via della croce e meditando sulla sua passione, possiamo ripetere la preghiera che
conclude la liturgia del venerdì santo: «O Signore, la partecipazione a questo grande mistero ci consacri per
sempre al tuo servizio. Amen».

Rifletto sulla mia vita e il mio impegno in CVX


— Sono interamente (spirito, anima e corpo) con Gesù per essere “servo col Servo”, discepolo-apostolo
alla sua sequela, inviato a testimoniare ovunque la gioia del Vangelo, lottando contro e convertendomi da ogni
forma di inequità, chiacchericcio e maldicenza, per vivere l’amore senza ipocrisia e attuando la giustizia nella
misericordia, riconciliato e pacificato per essere strumento di riconciliazione?
— Non sarò risorto e svuoterò la Pasqua di Gesù, se non lascio vivificare in me ogni seme di vita e non
lotto per far morire in me e attorno a me tutti i semi di morte … che contagiano e inquinano il mondo con
l’inequità che semina ingiustizia, infelicità e morte. Sono pronto a vivificare la Vita che già mi è stata donata
nel battesimo e a diventare strumento di ri-generazione nei rapporti familiari, ecclesiali, sociali e per chiunque
il Signore mette sulla mia strada?
— Desidero diventare sempre più apostolo, chiamato e inviato come servo col Servo, per vivere e
testimoniare la gioia della comunione col Risorto concretamante e passo dopo passo lungo un piccolo sentiero
in questa CVX del Gesù Nuovo per sentirmi ed essere laico impegnato come membro vivo nel corpo ecclesiale
che è la CVX in Italia e nel mondo?
6 marzo 2020

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