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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA

Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata


CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN
SCIENZE UMANE E PEDAGOGICHE

Camminare senza zaino:


aprire le strade per l'inclusione

Relatore
Prof.ssa Marina Santi

Laureando
Alberto Conte
Matricola: 1043721

A.A. 2015-2016
Dedico questo traguardo a Riccardo Corrà,
mio modello di vita
per il ragazzo che è stato,
e per l'uomo che è oggi.
Sommario
Introduzione ....................................................................................................... 3

1. Dall’esclusione all’integrazione ...................................................................... 9

1.1 Pedagogia Speciale: Disciplina in evoluzione ........................................... 9

1.2 Radici della Pedagogia Speciale e Cambiamento del Paradigma. ......... 10

1.3 Verso la scolarizzazione integrata. ......................................................... 14

1.4 Albori della Pedagogia Speciale in Italia ................................................. 15

1.5 La stagione dell’esclusione ..................................................................... 17

1.6 Dall’esclusione all’inserimento ................................................................ 18

1.7 Il cammino verso l’integrazione scolastica .............................................. 20

1.8 Legge Quadro sull’handicap ................................................................... 22

2. Pensare l’inclusione ..................................................................................... 27

2.1. Il sottile passaggio da integrazione a inclusione .................................... 27

2.2. ICF e ICF-CY ......................................................................................... 35

2.3. Tra individualizzazione e personalizzazione .......................................... 43

2.4. Per una didattica di qualità ..................................................................... 46

2.5. Osservazione e Interazione Professionale ............................................. 47

2.6. Individualizzare e Personalizzare........................................................... 49

2.7. L’individualizzazione per l’inclusione...................................................... 51

2.8. Percorsi individuali, non individualistici .................................................. 53

2.9. Valutazione e Auto orientamento ........................................................... 54

2.10. Valutazione Autentica .......................................................................... 57

3. Esperienza senza zaino ............................................................................... 61

3.1. Le scuole pilota ...................................................................................... 61

3.2. Senza Zaino ........................................................................................... 64

3.3. Knowledge Building Community ............................................................ 68


3.4. Dalla dipendenza alla responsabilità ...................................................... 71

3.5 Il GCA: Global Curriculum Approach ....................................................... 75

3.6. Approccio Pedagogico del GCA ............................................................. 80

3.7. L’aula Senza Zaino................................................................................. 83

3.8. Una nuova aula ...................................................................................... 85

3.9. Cooperative Learning e Modalità di aggregazione ................................. 87

3.10. La gestione della classe ....................................................................... 92

Conclusione ...................................................................................................... 97

Elenco delle Figure ......................................................................................... 101

Sitografia ........................................................................................................ 101

Bibliografia ...................................................................................................... 103

Ringraziamenti................................................................................................ 111
1
2
Introduzione
Terminata la mia avventura triennale di scienze dell’educazione mi venne
assegnato il compito di affiancare uno studente di Diritto Dell’Economia nella
preparazione dell’esame di Statistica. La persona in questione soffre di
spasticismo atetosico, accompagnato da una cartella clinica che descriveva un
ritardo mentale accentuato, il che comportava diverse implicazioni: la difficoltà nel
seguire una normale lezione scolastica, il costante accompagnamento di una
persona che lo seguisse nelle sue esigenze quotidiane, nonché un’accentuata
difficoltà a relazionarsi dovuta non tanto al lato caratteriale, quanto al mezzo di
comunicazione, la voce, disturbata dalle difficoltà fisiche. Parlo di questa
esperienza, perché da lì ho maturato un modo di insegnare, che se fosse stato
anche solo lontanamente paragonabile a quello che mi aveva accompagnato per
vent’anni della mia vita, probabilmente ora lo studente in questione dovrebbe
ancora superare l’esame, un modo di operare che mi ha aperto ad infinite
questioni sulla scuola di oggi, e su quella che potrebbe essere. Chi è il docente?
Come può svolgere il suo ruolo in vista di un migliore apprendimento? Chi è lo
studente? E soprattutto, perché una persona regolarmente diplomata in una
scuola superiore, ed iscritta ad un corso di studi nella risoluzione della frazione
dieci mezzi risponde otto? Parto da quest’ultima domanda, perché quella che più
mi ha arrovellato. Qualche mio compagno di corso ingenuamente mi suggeriva
una discalculia di fondo, che però non mi spiegava perché altri calcoli, con numeri
a più cifre, venivano eseguiti correttamente. La parte sconvolgente è stata scoprire
che la frazione veniva letta come sottrazione (il simbolo di frazione confuso col
segno meno), e di conseguenza realizzare che nella scuola superiore in cui si era
diplomato Gianfranco, non aveva trattato l’argomento in questione. Da qui allora le
prime domande, come ad esempio perché non gli fosse stato insegnato un
argomento di suo interesse e alla sua portata? Le altre domande sono nate in
corso d’opera, perché col mio metodo iniziale, vale a dire, seguire la lezione
universitaria e riportare quanto appreso in sede separata allo studente, un po’
come avviene nelle scuole ora, era tutto fuorché efficace. Dopo un mese di lavoro
intenso avevo ottenuto risultati scarsi ed insoddisfacenti, portando ad un
peggioramento motivazionale sia mio, che dello studente. La questione
fondamentale era l’imputazione delle responsabilità: la persona che avevo in

3
carico non era all’altezza del compito, o il mio metodo didattico era inefficace?
Questa domanda appare banale, ma ritengo sia alla base della risoluzione di
tantissimi insuccessi scolastici che viviamo oggigiorno, spesso attribuiti agli
studenti stessi. Attribuire la causa di un insuccesso all’alunno stesso difficilmente
risolve un problema, bensì talvolta lo accentua, e provare ad attuare quella
rivoluzione pedagogica copernicana di cui tanto si scrive dal 1970 ad oggi, è
sicuramente la soluzione che ho ritenuto più valida. Nel caso specifico, se la
persona era all’altezza del compito (e questa è stata la premessa che ho
abbracciato), era responsabilità mia creare una situazione di apprendimento
efficace, un metodo didattico che fosse funzionale e fornisse alla persona le
competenze richieste dall’insegnamento universitario. Cambia la prospettiva e
cambia la domanda, quella questione che deve essere alla base di ogni progetto
pedagogico: “Da dove partire?”. Dewey sicuramente è venuto in mio aiuto, nel
momento in cui afferma che ogni forma di apprendimento autentico parte dalla
realtà, dall’esperire, così come lo stesso Aristotele insegna che la forma può
essere colta dalla materia. Prima ancora però di arrivare a loro, sono partito dalla
riflessione sulla motivazione, ed in particolare ad un discernimento tra quella
intrinseca ed estrinseca, delle quali solo la prima è alla base di un apprendimento
a lungo termine. Perché potessi partire dalla motivazione intrinseca allora, era
necessario partire dalla persona, e trovare quelli che erano i suoi interessi
personali. Da lì ho iniziato a costruire contesti di apprendimento personalizzati,
con esempi concreti basati su ciò che più interessava da vicino Gianfranco,
affinché la soluzione corretta di un problema non fosse mossa dal soddisfacimento
di una mia aspettativa, ma da un piacere personale nel risolvere questioni che lo
riguardassero da vicino utilizzando gli strumenti propri della disciplina oggetto di
apprendimento. Senza rendermene conto muovevo ingenuamente i miei primi
passi nel mondo dell’inclusione, che avrebbe modulato per sempre il mio modus
operandi e avrebbe posto i miei primi interrogativi inerenti all’esperienza scolastica
da me vissuta. E’ possibile differenziare l’apprendimento pur rispettando gli
obiettivi ministeriali in una classe di venti e più persone? E’ attuabile questo
spostamento di prospettiva dal docente allo studente? E’ stato il pensare alla
classe, che ha mosso in me un’altra questione fondamentale fino ad allora
sottovalutata: la classe come comunità. Che ruolo ha? Può essere un facilitatore,
o viceversa rischia di essere elemento di dispersione e confusione? Iniziai a

4
organizzare piccoli gruppi di studio, un po’ aiutato dalle mie amicizie personali
instaurate durante le lezioni, un po’ grazie alla stessa attitudine caratteriale di
Gianfranco incline alla socializzazione, ed i risultati superarono di gran lunga le
mie aspettative. Non solo si creavano situazioni di mutuo-aiuto, in cui i membri del
gruppo si aiutavano vicendevolmente nella risoluzione dei problemi, ma si
creavano relazioni di tipo emotivo che avrebbero superato l’aspetto scolastico, ed
avrebbero introdotto lo studente ad una situazione di autonomia. Quando non
avevo possibilità di esserci fisicamente, Gianfranco contattava autonomamente
altri membri del gruppo, che in un clima di amicizia accettavano di accompagnarlo
per quelle giornate. In altre parole, la piccola comunità che senza rendermene
conto era andata a crearsi, sviluppava competenze trasversali che incrociavano
quelle conoscitive, con quelle sociali ed emotive, in uno scambio che era
reciproco. Sono bastati questi accorgimenti per cambiare radicalmente il processo
di insegnamento-apprendimento, portando ad un esito positivo dell’esame, e
cambiamenti radicali nella vita dello studente. Arriviamo allora alla questione
centrale della tesi, che di fatto è la domanda che mi ha accompagnato durante
tutto il corso di laurea: è possibile questo nella scuola odierna? Rivedo il mio
percorso scolastico, e vedo uno studente isolato in un banco nell’angolo dell’aula,
scarabocchiare sul quaderno, incapace di relazionarsi coi compagni, e dato
continuamente per “spacciato” da insegnanti e genitori. La sfida di questa tesi è
stata re-immaginare quella situazione di apprendimento, risultata decisamente
inefficace, individuandone i limiti e, partendo dalla mia esperienza, individuarne
una nuova, in cui la classe non vuol dire competizione ma collaborazione,
apprendimento non vuol dire passività ma protagonismo e l’insegnante non è un
nemico, ma il miglior alleato nel percorso di costruzione della conoscenza. Una
soluzione non tanto per me, quanto per quegli studenti “che hanno le capacità ma
non si applicano”, per quei docenti costretti a sbattere il registro di classe sulla
cattedra per esigere silenzio, e per tutti i genitori, perché ogni figlio ha le
potenzialità, ma è il contesto di apprendimento a rivelarle.

Ogni esperienza nasce dal passato, ragione per cui ho voluto analizzare la
situazione scolastica in Italia, ed in particolare come è stato affrontato il tema delle
diverse abilità nel secolo scorso, superando diverse stagioni: l’esclusione,
l’inserimento “selvaggio” e l’integrazione. Se oggi possiamo vantare un’istruzione

5
che integra la disabilità in un contesto “normale” è grazie ad un percorso di
crescita che ha coinvolto diversi studiosi tra pedagogisti, medici e psicologi, oltre
che tappe legislative complicate e delicate, che hanno portato a quella che oggi
chiamiamo “integrazione”. Tuttavia, cosa significa integrazione? In che misura
vengono integrati i Bisogni Educativi Speciali nelle classi? E’ davvero possibile
una migliore integrazione nel sistema didattico così come è configurato ora? Da
qui nascono tutte quelle riflessioni relative all’inclusione che sono oggetto delle
questioni didattiche odierne, dalle metodologie didattiche a quelle organizzative,
che smuovono molta terra dalle radici di una pianta ben radicata. Troppo forse
radicata, se consideriamo che la didattica contemporanea è figlia della stessa
adottata dai docenti greci un paio di migliaia di anni fa. Cosa vuol dire includere?
Come cambia il ruolo del docente? Cosa vuol dire invertire la prospettiva, e
rendere un apprendimento passivo un apprendimento responsabile? Prima ancora
di calarsi nel contesto italiano, vale la pena aprire una finestra sul dibattito
internazionale, ed in particolare ad uno dei documenti più innovativi mai redatti,
ovvero l’International Classification of Functioning, uno strumento che assieme
all’alunno chiama in causa il contesto e tutti gli elementi che possono essere o di
facilitazione o di disturbo per l’apprendimento. Successivamente diventa
interessante trattare la personalizzazione e la differenziazione che non vanno lette
in termini individualistici, ma come strumenti per rendere effettivamente
democratica l’istruzione. La valutazione infine, che da strumento di competizione,
può essere rivisitata e riletta in strumento di crescita e sussidio al miglioramento
delle capacità della persona e della comunità. A nulla però vale la teoria se fine a
sé stessa, ed ecco perché nel terzo capitolo ho riportato un’esperienza concreta,
attiva nel lucchese dai primi anni del duemila: il progetto Senza Zaino. Una scuola
pilota che non presento come matrice per le scuole che verranno, ma come guida,
come esempio attuatore di quelle idee di cui è promotrice la didattica inclusiva.
Una scuola che col suo metodo, il Global Curriculum Approach, prende in esame
ogni singolo elemento della didattica a partire dagli artefatti materiali e
dall’ambiente, e lo rielabora in termini inclusivi, dove la diversità non è differenza,
ma valore aggiunto. Lo studente diventa protagonista della propria formazione
all’interno di una comunità di ricerca che non premia o punisce ma scopre e
conosce, all’interno di un ambiente accogliente ed ospitale, che non richiede

6
l’utilizzo dello zaino in quanto già fornita di tutti gli strumenti necessari
all’apprendimento, accessibili a tutti.

E’ una rivoluzione rispettosa del passato, che esige a sua volta rispetto e
riconoscimento dello studente, che non è un individuo da omogeneizzare, ma una
diversità da scoprire e valorizzare, in una scuola che nasce e vuole essere
opportunità e preparazione alla vita.

7
8
1. Dall’esclusione all’integrazione

1.1 Pedagogia Speciale: Disciplina in evoluzione

Nel campo delle scienze dell’educazione, la Pedagogia Speciale è una disciplina


“in primo piano nella ricerca teorica e applicata, indubbiamente per il fatto di
essere disciplina giovane – Nella denominazione attuale compie quasi
cinquant’anni- ma soprattutto per l’ambito di riferimento: l’educazione delle
persone portatrici di diversità sul piano individuale – per problemi di deficit – e/o
sociale – per la condizione di handicap/difficoltà di apprendimento e/o
comportamento e/o integrazione.”1 La sua continua evoluzione e la sua attualità
sono testimoniate dalla crescente evoluzione sia quantitativa che evolutiva nel
panorama internazionale della letteratura specifica e dalle continue ricerche che
ne dimostrano la complessità e le diverse implicazioni dell’oggetto di studio. Un
dinamismo che trova riscontro nei destinatari, nella terminologia, e nella
metodologia, che suggerisce da un lato “la volontà manifesta di accostarsi ai
diversi con sempre maggiore conoscenza, sensibilità e rispetto; dall’altro esprime
la tensione dovuta allo sforzo di trovare l’approccio più adeguato, la
considerazione ottimale, la soluzione organizzativa più avanzata,
temporaneamente “ideale”.” 2

La pedagogia Speciale pone al centro della propria riflessione il bisogno formativo


speciale, caratterizzandosi come Pedagogia della Complessità e della Diversità, in
grado di fornire risposte adeguate a bisogni formativi specifici. Va evidenziato che
il suo compito non è riportare la Persona alla “normalità”, normalità intesa come
uno standard di prestazioni, bensì favorire lo sviluppo delle potenzialità della
Persona, in un progetto rivolto alla conquista della sua autonomia, della sua
crescita e di una sua piena partecipazione alla vita della società grazie alla
valorizzazione del potenziale educativo del singolo.

1
M. Pavone “Dall’esclusione all’inclusione: lo sguardo della pedagogia speciale” 2010 [S.I.],
Mondadori Università, pag. 3
2
Ibidem, pag. 3

9
Nei paesi occidentali, l’attenzione verso i soggetti con disabilità, soggetti
privilegiati della Pedagogia Speciale, specie nell’ultimo secolo, ha compiuto passi
in avanti. Si è assistito inoltre a un processo di emancipazione dei portatori di
deficit in diversi aspetti: culturale, educativo, politico, tecnologico, ecc. Ne è un
riscontro la presenza di persone con disabilità in qualsiasi ambito della vita
sociale, dalla scuola agli ambiti di lavoro, piuttosto che nei settori artistici o quelli
sportivi. Un processo tuttavia ancora in progress, in quanto mentre sotto uno
sguardo d’insieme appare un panorama inclusivo, più da vicino appaiono contrasti
e zone d’ombra.

Nel panorama mondiale in particolare appare una realtà critica. In una stima
dell’ONU3 su 650 milioni di persone con disabilità, l’80% vive in paesi in via di
sviluppo o in paesi poveri e solamente il 2% di questi riceve un sostegno dallo
Stato. Per quanto riguarda i minori invece, secondo un rapporto dell’UNICEF il
98% nel 2004 non aveva un’istruzione formale a livello di primo ciclo scolare.
Sembrano dunque correlarsi disabilità e povertà, uno status dovuto a carenza di
risorse e scarso riconoscimento sociale. La Convenzione delle Nazioni Unite sui
diritti delle persone con disabilità è uno degli approdi più recenti, un tentativo
significativo per riequilibrare significativamente i gravi svantaggi sociali e
promuovere la partecipazione delle persone con disabilità alla vita sociale, politica,
economica e culturale. Un cambiamento positivo che si può comprendere grazie a
una prospettiva pedagogica che assume come modello di approccio il principio
dell’Educabilità, indipendentemente dalla condizione della persona, “in un’ottica
progettuale di compensazione biologica e sociale del deficit/disagio”4.

1.2 Radici della Pedagogia Speciale e Cambiamento del Paradigma.

Tra i primi studiosi di Pedagogia Speciale, troviamo in Francia tra la fine del
settecento e la prima metà dell’ottocento le esperienze educative rivolte alle
persone con disabilità di Jean Marc Gaspard Itard, medico pedagogista ed

3
SuperAbile INAIL "650 milioni di disabili nel mondo, in Italia oltre 2 milioni e mezzo: Per le Nazioni
Unite l'80% dei disabili vive nei paesi in via di sviluppo. Nell'Unione europea sono almeno in 50
milioni. I dati italiani: nel nostro paese almeno 2,6 milioni di disabili " 2009, [S.I.]
4
M. Pavone “Dall’esclusione all’inclusione: lo sguardo della pedagogia speciale” 2010, [S.I.],
Mondadori Università, pag. 3

10
educatore francese, famoso per il suo lavoro con i ragazzi sordomuti; Edouard
Seguin, anch’egli medico noto per aver lavorato con bambini con deficit cognitivi.
In Italia, circa un secolo più tardi, tra le figure più note che si occupano di
Pedagogia Speciale troviamo Maria Montessori, Sante De Sanctis e Ferruccio
Montesano, sebbene non siano stati gli unici, ma spiccano tra tutti per la validità
degli strumenti proposti, il potere innovativo dei percorsi tracciati, e l’elaborazione
scientifica che hanno in comune la stessa direzione: accompagnare la cura
educativa alle cure mediche nel trattamento dei minori insufficienti mentali. E’
ancora presto però per parlare di Pedagogia Speciale in sé, in quanto conosciuta
con varie denominazioni e declinazioni, dipendentemente dagli autori. De Sanctis
per esempio parla di Pedagogia Emendativa 5, mentre Maurice Debesse usa il
termine “Pedagogia Curativa”6, con la quale si intende il riadattamento di ragazzi
con disturbi del comportamento di origine fisica o mentale.

Il nome “Pedagogia Speciale” si afferma in nella seconda metà del novecento,


quando la disciplina viene introdotta in ambito universitario presso la “Facoltà del
Magistero di Roma”, con una cattedra autonoma affidata a Roberto Zavalloni. In
parallelo alla Pedagogia Speciale nasce un’altra disciplina affine in campo medico,
ovvero la Neuropsichiatria Infantile, che ha come uno dei padri più illustri, lo
psichiatra Giovanni Bollea.

E’ Roberto Zavalloni, a proporre una definizione puntuale della nuova disciplina,


specificandola come “scienza delle difficoltà psichiche, dei ritardi e delle turbe di
ogni sorta dello sviluppo bio-psico-sociale del fanciullo e del giovane,
considerandoli in prospettiva educativa e didattica. Il disadattamento ambientale
come effetto del disadattamento personale e familiare rappresenta il vastissimo
campo della Pedagogia Speciale […] che si propone la rieducazione del
comportamento asociale o antisociale e l’adattamento alla vita psichica normale di
chi è disadattato. Tutti i soggetti che, per insufficienza di mezzi intellettivi o
attitudinali o per turbe del carattere, siano esse di origine ereditaria o acquisita,
non corrispondono alla norma, entrano nel campo di studio e di azione della

5
G. Pesci, S. Pesci "Le radici della pedagogia speciale" 2005, [S.I.], Armando Editore
6
I. Wojnar "PROFILES OF FAMOUS EDUCATORS: MAURICE DEBESSE (1903–98)” Prospects:
the quarterly review of comparative education, vol. XXXIII, no. 3, 2003, Paris, UNESCO:
International Bureau of Education http://www.ibe.unesco.org/sites/default/files/debessee.pdf

11
Pedagogia Speciale: una gamma di soggetti, quindi, quanto mai vasta, soprattutto
se considerata in tutto il periodo dell’obbligo scolastico ed oltre”7. Emerge un
approccio alla Pedagogia Speciale più terapeutico che educativo, che punta a una
“normalità” e non trova spazio per “potenzialità”. In un altro documento
dell’UNESCO del 1968, viene definita come un “arricchimento dell’educazione
generale, che mira al miglioramento della qualità delle vite di coloro che faticano a
causa di una varietà di condizioni di handicap.” 8 e propone di porre rimedio a certi
tipi di Handicap tramite metodi pedagogici e materiale tecnico, prevenendo il
disadattamento.

Nei quarant’anni successivi l’ottica si è spostata, grazie all’intensificarsi delle


ricerche nel settore la disciplina si è evoluta e con essa la sua impostazione
teorica e metodica, definendo un suo ruolo preciso, che non è sicuramente
relegato all’“arricchimento dell’educazione generale”, né a quello di riparare, bensì
quello di favorire la formazione della personalità dei soggetti con bisogni educativi
speciali, valorizzando le capacità presenti, puntando sul rafforzamento dei punti di
forza.

“La dinamica in cui si muove attualmente la Pedagogia Speciale è quella di offrire


risposte specifiche (speciali) a problemi personali particolari in contesti di
normalità e non in ambienti separati; questa scelta anziché ridurne l’importanza
valorizza la specialità pedagogica declinandola in modo più mirato, meno
aprioristico”9.

Al centro di quest’ottica, vige un principio fondamentale che è quello di


Educabilità. Il progetto educativo è sempre possibile, indipendentemente dalle
problematiche individuali. E’ una ricerca dinamica di un equilibrio possibile tra la
realtà della minorazione e quello dell’apertura alle possibilità della persona.

7
R. Zavalloni “Educarsi alla responsabilità” 1986, Milano, Edizioni paoline
8
United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization "Expert meeting on special
education: Report of the meeting, Paris 5-7 Dec 1968" 1969, Paris,
http://unesdoc.unesco.org/images/0000/000020/002083EB.pdf
9
M. Pavone “Dall’esclusione all’inclusione: lo sguardo della pedagogia speciale” 2010, [S.I.],
Mondadori Università, pag. 7

12
“Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente il
fatto che gli stipiti sono duri: questa massima alla quale il vecchio professore si era
sempre attenuto è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il
senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza
sia giustificata, allora ci dev'essere anche qualcosa che chiameremo senso della
possibilità.
Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà,
deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o tal altra
cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com'è, egli pensa: beh, probabilmente
potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe
anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di
non dar maggior importanza a quello che è, che a quello che non è.”10

L’educabilità diventa allora la possibilità di orientarsi verso una meta propria e


possibile. Non è quindi una caratteristica intrinseca al soggetto, quanto invece un
modo di intendere l’educazione. Per poter educare, è necessario credere che
nell’Altro, e la sfida risiede nel contribuire positivamente, non senza rischi,
all’evoluzione della sua persona. E’ un cambio di prospettiva molto importante
quello avvenuto fino ad oggi, una Rivoluzione Copernicana 11 pedagogica per
Philippe Meirieu, che sposta il centro dell’educazione dall’educatore all’educando.
E’ un’educazione che si rivolge a tutti, senza soglie minime, richiede alla
Pedagogia un rinnovato impegno a identificare e mettere in opera condizioni e
indicatori che possano agevolarne la realizzazione e che alcuni studiosi hanno
individuato nei seguenti punti12:

 Migliore conoscenza del soggetto e delle sindromi e patologie;


 Migliori strumenti diagnostici;
 Favorevoli contesti culturali e sociali (promozione di senso comunitario e di
valori inclusivi);
 Presa in carico globale della persona con disabilità;

10
R. Musil, “L'uomo senza qualità”, trad. A. Rho, 1972, Torino, Einaudi, pp.12-13
11
P. Meirieu "FRANKENSTEIN EDUCATORE" 2007, Bergamo, edizioni junior srl
12
P. Crispiani, C. Giaconi "Qualità di vita e integrazione scolastica. Indicatori e strumenti di
valutazione per le disabilità" 2009, Centro Studi Erickson, p.150

13
 Migliore qualità dell’offerta formativa;
 Lunga estensione temporale della relazione educativa;
 Progetto di vita longitudinale;
 Propositività e assertività delle azioni educative;
 Disponibilità di sussidi, protesi, sostegni, guide, traduttori, ecc.

Attuare l’educabilità è difficile perché ogni persona è diversa dall’altra, sebbene


possano appartenere alla stessa categoria di minorazione. Non vi sono due
sordomuti con le stesse caratteristiche personali e che richiedano lo stesso tipo di
intervento, perché entrambe avranno differenti predisposizioni e potenzialità. Il
pericolo nasce dall’etichettamento, dall’attribuzione di priorità alla classificazione
dei sintomi, invece che all’area delle possibilità. L’essenza della persona corre il
rischio di essere ridotta e mascherata dalla diagnosi. “Si è convinti grazie
all’etichetta, di sapere tutto sull’altro, chi è, cosa desidera e come è strutturata la
sua vita, perché l’etichetta non si limita a classificare, ma stabilisce un senso, una
sorta di ordine nella vita di chi la porta”13.

1.3 Verso la scolarizzazione integrata.

Grazie alla spinta di associazioni di mutuo soccorso, con fini assistenziali e


promotrici di sensibilizzazione sociale, si sviluppa in Europa, tra l’ottocento e il
novecento, l’interesse educativo per l’infanzia e tutte le forme di disabilità. In
Polonia per esempio nascono le prime scuole speciali per cerebrolesi, a
Copenhagen quelle per bambini con difficoltà di apprendimento, ed in Germania
scuole per bambini con diverse tipologie di minorazione. Quest’attenzione rivolta
ai minori con disabilità, destinata a vedere un’evoluzione nel ventesimo secolo, è
dovuta a diversi fattori. L’istituzione dell’obbligo scolastico è uno di quelli più
importanti, che trova luce verso la fine dell’ottocento in Europa e nei paesi
occidentali con un certo sincronismo: in Gran Bretagna nel 1880, anche se una
prima formulazione risale al 1870, in Francia nel 1882 in Olanda e in Svizzera,
nella Scozia, in Canada, in quattordici stati degli Usa, tra gli anni settanta o nei
primi anni ottanta. In Italia il dibattito sull’Istruzione Obbligatoria era aperto già dal

13
M. Benasayag, G. Schmit "L' epoca delle passioni tristi" traduzione a cura di Missana E. 2013,
Feltrinelli

14
1859 con la legge Casati che non prevedeva l’obbligo della frequenza scolastica,
ma imponeva ai capi famiglia di dare un’istruzione pari a quella pubblica, e trova
realizzazione con la Legge Coppino14 del 1877. E’ bene ricordare che, sempre in
questo periodo, vedono la luce discipline come la Psicologia Sperimentale, con
Wilhelm Wundt nel 1879, la psicoanalisi con Freud, la sociologia con Auguste
Comte, e la Pedagogia Sperimentale. In parallelo a questi nuovi campi di ricerca,
va segnalato inoltre una nuova concezione dell’infanzia e un rinnovamento della
scuola, a cui contribuiscono significativamente due movimenti: le scuole nuove e
la Pedagogia dell’Attivismo. Due movimenti che segnano una nuova visione della
scuola e che trovano fondamento nei seguenti principi15:

 Espressione dell’energia vitale del fanciullo;


 Rispetto dell’individualità singolare;
 Spontanea espressione degli interessi e dell’esperienza diretta;
 Attenzione alle fasi di sviluppo;
 Atteggiamento cooperativo;
 Coeducazione;
 Educazione dell’uomo e del cittadino.

E’ un secolo che segna passi in avanti specie per l’infanzia persona con disabilità,
non solamente per l’inserimento degli insegnamenti di Neuropsichiatria infantile e
Pedagogia Speciale negli ordinamenti didattici universitari, ma anche sul piano
legislativo e pedagogico. Per quanto riguarda il primo viene sancito il diritto
all’educazione, mentre sul piano del versante pedagogico, inizia ad essere
superata la scelta delle scuole speciali, e a prediligere la scelta dell’integrazione in
alcune aree dell’Europa.

1.4 Albori della Pedagogia Speciale in Italia

A contribuire alla nascita della Pedagogia Speciale e della Psichiatria infantile in


Italia sono Maria Montessori, Sante De Sanctis, e Giuseppe Montesano. Maria
Montessori, una delle più note studiose in campo educativo, è nota sia nel nostro

14
D. Ragazzini "Dizionario di storia moderna e contemporanea: Istruzione obbligatoria",
http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/i/i085.htm
15
R. Tassi "Itinerari pedagogici" 2009, Bologna, Zanichelli editore S.p.A.

15
panorama nazionale che quello internazionale, per il carattere rivoluzionario delle
sue idee pedagogiche. “Io però, a differenza dei miei colleghi ebbi l’intuizione che
la questione dei deficienti fosse prevalentemente pedagogica anziché medica, e
mentre molti parlavano nei congressi medici del metodo medico-pedagogico per la
cura e l’educazione dei fanciulli frenastenici, io ne feci argomento di educazione
morale”16.

Nel mondo medico l’irreversibilità viene associata al concetto di “incurabilità”.


Questo porta a far coincidere la diagnosi con la prognosi. Tuttavia irreversibilità e
incurabilità sono due concetti separati, ed il primo appartiene all’ambito medico,
mentre il secondo alla società, in quanto compito suo quello di curare, inteso come
“prendersi cura di”. Sotto questo aspetto, Maria Montessori anticipa la diagnosi
funzionale come intervento educativo specifico, “come elemento intrinseco a un
progetto pensato e personalizzato per mettere il portatore di handicap in
condizioni a lui favorevoli per un percorso formativo- rieducativo”17. Nel bambino
piccolo niente è preformato, ed anzi, in lui risiedono potenzialità (nebule) che
possono svilupparsi solo con l’interazione con gli elementi offerti dall’ambiente. E’
la “mente assorbente”, la facoltà cognitiva che evolve e necessita di essere
continuamente sollecitata. Diventa pertanto fondamentale l’ambiente e il materiale
didattico strutturato da impiegare in modo rigoroso, e la formazione continua e
specializzata degli insegnanti18. In merito a quest’ultimo punto va citato lo
Psichiatra Giuseppe Ferruccio Montesano a cui va il merito di aver affermato
l’importanza del docente, il quale deve possedere conoscenze, metodi e strumenti
speciali, per poter operare con l’infanzia in difficoltà. Non a caso nel 1900 fonda a
Roma la prima scuola magistrale ortofrenica in collaborazione con Maria
Montessori, un’istituzione finalizzata alla rieducazione dei fanciulli frenastenici e
alla formazione del personale specializzato, permettendo e offrendo un percorso
di “tirocinio diretto osservativo”. A lui va anche l’iniziativa delle “classi differenziali”,
dedicate a bambini con problemi nello sviluppo cognitivo, che a causa delle
difficoltà di apprendimento o comportamento venivano respinti dalla scuola.

16
V. Piazza "Maria Montessori: La via italiana all'handicap" 1998, [S.I.], Erickson editore
17
Ibidem.
18
M. Montessori "Il Metodo della Pedagogia Scientifica applicato all'educazione infantile nelle Case
dei Bambini" 1909, Città di Castello, Casa Editrice S. Lapi

16
Una terza figura importante negli albori della Pedagogia Speciale in Italia e della
Psichiatria Infantile, è infinte il medico Sante De Sanctis, noto per i diversi
ambulatori avviati nel 1903. La sua peculiarità, la sua carica rivoluzionaria, risiede
nell’ampio spazio che dedica alla collaborazione tra le diverse figure professionali,
e all’organizzazione degli spazi negli asili-scuola, istituti dedicati ai bambini poveri
e minorati psichici19, caratterizzati da un insegnamento individualizzato, lezioni di
ortofonia, canto, educazione fisica e avviamento al lavoro, con obiettivo ultimo il
loro rientro attivo nella società grazie all’educazione e alla riabilitazione
scientificamente fondate.

La sinergia che emerge tra impegno medico e pedagogico, l’interesse educativo


verso l’infanzia disabile conseguente al trattamento medico, emersi da questi
quadri teorici, porta a coltivare la convinzione che i soggetti anormali necessitino
di interventi speciali studiati ad-hoc, da realizzarsi in strutture specifiche, diverse
da quelle ordinarie20.

1.5 La stagione dell’esclusione

L’approccio medico-pedagogico quindi avrà la meglio su quello didattico-


pedagogico fino ad oltre la metà del Novecento in Italia. Lo Stato fino alla Riforma
Gentile del 1923 non interviene nel settore dell’educazione dell’infanzia delle
persone con disabilità, e le scuole speciali e le prime classi differenziali nascono
grazie ai privati.21 Vi è quindi un “doppio sistema scolastico educativo”22, uno
riservato agli alunni normodotati, e uno speciale per gli ipodotati e i minorati, un
sistema destinato a continuare fino agli anni settanta. Un primo cambiamento
importante arriva con la Riforma Gentile del 1923 che definisce il ruolo dello Stato
nel settore dell’Educazione Speciale con lo scopo di razionalizzare le diverse
realtà istituzionali esistenti. Dieci anni più tardi l'istruzione speciale prevede classi
differenziali per gli allievi con lievi ritardi, “ospitate nei normali plessi scolastici e
19
G. Cimino, G. P. Lombardo "Sante De Sanctis tra psicologia generale e psicologia applicata"
2004, Franco Angeli editore
20
Gelati M., “Pedagogia Speciale e integrazione” 2004, Roma, Carocci
21
S. Nocera "II diritto all'integrazione nella scuola dell'autonomia. Gli alunni in situazione di
handicap nella normativa scolastica italiana" 2001, [S.I] Edizioni Erickson
22
O. Sagramola "L'inserimento scolastico degli handicappati. Principi e norme" 1989, [S.I], Editrice
La Scuola, p.19

17
scuole speciali per sordi, ciechi ed anormali psichici, situati in plessi distinti. Per i
casi più gravi sono previsti istituti speciali, con lunghi soggiorni in cui gli allievi
vivevano separati anche dalle famiglie.

Le classi differenziali sono però destinate anche agli allievi con problemi di
condotta o disagio sociale o familiare. E' ad esempio il caso dei figli degli emigranti
del sud che giungono nel nord-ovest, i quali molto spesso, di anormale hanno solo
la scarsissima frequentazione della lingua italiana.

Fino alla fine degli anni '60 la logica prevalente rimane quella della separazione,
in cui l'allievo con disabilità viene percepito come un malato da affidare ad un
maestro-medico e come potenziale elemento di disturbo.”23

1.6 Dall’esclusione all’inserimento

Per le persone con disabilità, la diffusione delle classi differenziali e delle scuole
speciali rappresenta sicuramente per l’epoca una novità e un miglioramento in
termini di qualità della vita. Precedentemente, con gli istituti spesso presenti
solitamente nelle grandi città, l’inserimento implicava un allontanamento del
minore dalla famiglia e dalla quotidianità, per periodi di tempo medio-lunghi. Al
contrario le classi differenziali e le scuole speciali, essendo presenti anche nei
territori comunali, permettevano la vita in famiglia e spesso si poteva scegliere la
frequenza giornaliera al ricovero. E’ un momento caratterizzato dal passaggio di
una prospettiva assistenziale e filantropica, ad una mirata sui bisogni del soggetto,
sia medici che educativi.24

Verso la fine degli anni Cinquanta, si assiste ad un forte incremento della


domanda di scolarizzazione, noto anche come “esplosione scolastica”25
riconducibile al boom economico del dopoguerra col conseguente miglioramento
delle condizioni di vita di una società industriale in rapida evoluzione, e al
diffondersi degli ideali democratici, inclusi i diritti di uguaglianza di tutti i cittadini,
23
T. Naccarato "INTEGRAZIONE SCOLASTICA: UN LUNGO PERCORSO AD OSTACOLI" 2011,
[S.I.] http://www.disabili.com/scuola-a-istruzione/articoli-scuola-istruzione/integrazione-scolastica-
un-lungo-percorso-ad-ostacoli
24
L. De Anna "Pedagogia speciale. I bisogni educativi speciali" 1998, [S.I], Guerini e Associati
25
M. Alliegro "L'educazione dei ciechi: storia, concetti e metodi" Collana MedicoPsicoPedagogica
diretta da Giovanni Bollea, 1991, Roma, Armando Editore

18
incluse le persone con disabilità, tradizionalmente emarginate. Con essa,
emergono problematiche relative all’inserimento nelle scuole quali
l’alfabetizzazione, la dispersione e una percentuale significativa di abbandoni, che
portano allo studio di interventi più adeguati al recupero dell’infanzia in difficoltà da
parte di pedagogisti, psicologi, psichiatri e medici. Al fine di formalizzare
descrizioni diagnostiche e interventi di recupero vengono aperti centri medico-
psico-pedagogici, che contribuiscono a incrementare il sistema delle scuole
speciali e delle classi differenziali negli anni Sessanta. Un’analisi Istat indica che
due anni dopo l’entrata in vigore della legge sull’inserimento dei minori con
disabilità nella scuola comune (1971) vi sono oltre mille scuole speciali funzionanti
e 8000 classi differenziali circa26.

E’ un sistema scolastico educativo doppio, avviato a inizio secolo dai Comuni e


formalizzato con la riforma Gentile con cui viene controllata l’infanzia disabile in
istituzioni separate, consentendo alla scuola di operare su “categorie omogenee di
scolari con interventi uniformi e ordinamenti rigidamente prefissati” 27. Le strutture
speciali rivelano però insufficienze nella preparazione del personale, dei locali e
dei materiali28. La scelta dell’istituzionalizzazione come strumento di crescita
personale viene criticato sotto il punto di vista sociopsicologico ed etico, in quanto
viene ritenuto preferibile un inserimento nei contesti normali. La scuola appare
come fonte di filtro sociale, in quanto classifica e confina gli allievi in diverse
strutture. Inoltre un decennio prima veniva inserito nell’articolo 3 della Costituzione
del 1948 il principio di pari dignità sociale e uguaglianza di tutti i cittadini, ed in
particolare nell’articolo 3829 viene sancito il diritto per gli “inabili e i minorati”
all’educazione e all’avviamento professionale.

26
P. Gherardini, S. Nocera "L' integrazione scolastica delle persone Down. Una ricerca sugli
indicatori di qualità in Italia" 2000, [S.I], Eickson
27
O. Sagramola "L'inserimento scolastico degli handicappati. Principi e norme" 1989, [S.I], Editrice
La Scuola, p.22
28
Ibidem, p.28
29
Cost. Art.38 Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto
al mantenimento e all'assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita
in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale.
Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.
L'assistenza privata è libera.

19
Viene messo inoltre in discussione il concetto di irrecuperabilità, principio alla base
della separazione dei percorsi di istruzione per gli alunni. Il focus della ricerca
scientifica e pedagogica si concentra sul concetto di educabilità, ed in particolare
sulle potenzialità di recupero di persone svantaggiate, ed il pericolo costituito
dall’esperienza isolante e di segregazione scolastica. Viene invece portata avanti
l’idea che solo l’inserimento in un contesto normale, a fianco a compagni
“normodotati” può favorire l’espansione delle capacità presenti in chi è portatore di
una minorazione. E’ questa la mentalità che porta ad un graduale ed irreversibile
declino delle istituzioni speciali, che vede l’apice con la Legge 30 marzo 1971,
n.118 (nuove norme in favore di mutilati ed invalidi civili) 30, il primo
pronunciamento giuridico a favore dell’obbligo scolastico per i bambini con
disabilità nelle classi normali della scuola pubblica. Restano tuttavia esclusi i
sensoriali, sebbene si rimedierà pochi anni dopo con la Legge n. 360/76 per i
ciechi e con la Legge n. 517/7731 per i sordi. Nonostante i limiti del provvedimento,
la legge n.118 è un punto di svolta importante, in quanto da una realtà di
esclusione scolastica, di fatto ancora in atto, si apre una nuova prospettiva di
inserimento.

1.7 Il cammino verso l’integrazione scolastica

Con l’inserimento degli alunni con disabilità nella scuola di tutti nel 1971 si
raggiunge una tappa di notevole importanza e di autentica democrazia e col
disposto dell’art.2832 della Legge n.118/1971 si apre una lunga stagione legislativa
a tutela del diritto all’educazione e all’istruzione degli alunni con situazioni di

30
Legge 30 marzo 1971, n. 118 (in GU 2 aprile 1971, n. 82) "Conversione in legge del D.L. 30
gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili"
31
Legge 4 agosto 1977, n. 517 (in GU 18 agosto 1977, n. 224) "Norme sulla valutazione degli
alunni e sull'abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell'ordinamento
scolastico"
32
L. 118/1971 Art. 28 (Provvedimenti per la frequenza scolastica)
Ai mutilati e invalidi civili che non siano autosufficienti e che frequentino la scuola dello obbligo o i
corsi di addestramento professionale finanziati dallo Stato vengono assicurati:
a) il trasporto gratuito dalla propria abitazione alla sede della scuola o del corso e viceversa, a
carico dei patronati scolastici o dei consorzi dei patronati scolastici o degli enti gestori dei corsi;
b) l'accesso alla scuola mediante adatti accorgimenti per il superamento e la eliminazione delle
barriere architettoniche che ne impediscono la frequenza;
c) l'assistenza durante gli orari scolastici degli invalidi più gravi.
L'istruzione dell'obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvi i casi in cui i
soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da
impedire o rendere molto difficoltoso l'apprendimento o l'inserimento nelle predette classi normali.

20
handicap e trova l’apice nell’enunciato contenuto nell’art. 12 della Legge
104/199233. Tuttavia il primo periodo di frequenza delle classi comuni trova un
sistema scolastico impreparato, e non attrezzato e nascono da subito tensioni e
critiche. Andrea Canevaro, sulla linea di Volterra34 chiarisce la differenza tra
inserimento-assimilazione e integrazione-adattamento reciproco: se
all’inserimento di un bambino ammesso in una scuola in quest’ultima non vi sono
dei cambiamenti allora è stato assimilato, viceversa se invece dei piccoli
cambiamenti vengono vissuti sia dal bambino che dalla scuola, in quest’ultimo
caso possiamo parlare di integrazione, al contrario del primo che altro non è che
35
inserimento selvaggio dell’alunno con disabilità . Il ministero dell’Istruzione
pertanto si preoccupa di analizzare più da vicino il fenomeno, incaricando la
senatrice Franca Falcucci e una commissione tecnica di esperti. Nel rapporto
conclusivo, emerge che l’inserimento degli alunni con disabilità è possibile se
accompagnati da cambiamenti profondi nella struttura, nei contenuti e nei metodi.
Nella Circolare Falcucci (1975) viene raccomandata la presenza di spazi adeguati
nelle scuole ospitanti, la presenza di un’equipe per l’assistenza medico-psico-
socio-pedagogica, ma in particolare la flessibilità programmatica e organizzativa
degli orari e dei raggruppamenti degli allievi e degli insegnanti. Il suo documento
costituisce la “Magna Charta”36 dell’integrazione degli alunni in situazione di
handicap. “Il superamento di qualsiasi forma di emarginazione degli handicappati
passa attraverso un nuovo modo di concepire e di attuare la scuola, così da poter
veramente accogliere ogni bambino ed ogni adolescente per favorirne lo sviluppo
personale, precisando peraltro che la frequenza di scuole comuni da parte di
bambini handicappati non implica il raggiungimento di mete culturali minime
comuni.”37

33
LEGGE 5 febbraio 1992, n. 104 “Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti
delle persone handicappate”. (GU n.39 del 17-2-1992 - Suppl. Ordinario n. 30)
34
Volterra, Porcari, Li Destri "Passato e presente - Uno sguardo sull' educazione dei sordi in Italia"
1995, [S.I], Gnocchi Editore, p.225
35
A. Canevaro “Pedagogia Speciale. La riduzione dell’handicap” 1999, Milano, Mondadori, p. 25
36
Ibidem, p.570.
37
Ministero della pubblica istruzione "DOCUMENTO FALCUCCI: RELAZIONE CONCLUSIVA
DELLA COMMISSIONE FALCUCCI CONCERNENTE I PROBLEMI SCOLASTICI DEGLI ALUNNI
HANDICAPPATI" 1975

21
Inizia a delinearsi un modello di integrazione italiana, tra cui si distingue Andrea
Canevaro che definisce la differenza tra deficit, inteso come minorazione o danno
irreversibile e handicap, o svantaggio conseguente al deficit che la persona vive
ogni volta che trova barriere all’esterno, siano esse fisiche, sociali o psicologiche,
e che limitano la sua possibilità di sviluppo. In questa nuova ottica va sottolineato
come l’handicap sia un fattore relativo e non assoluto al contrario del deficit, e
pertanto le potenzialità dell’alunno con disabilità vengano valorizzate e si punti ad
abbattere quelle barriere che fanno da ostacolo per i traguardi fissati.

Due anni dopo la Circolare Falcucci viene emanata la Legge 517/77, ispirata alla
precedente, ed una delle più avanzate in materia, che sistematizza aspetti
fondamentali come la programmazione e la valutazione. In particolare prevede
l’estensione del diritto alla frequenza delle scuole comuni anche per i sordi
(art.10), l’introduzione dell’insegnante specializzato nelle scuole comuni (art.2), la
riduzione degli alunni nelle classi con alunni con disabilità (art.7), l’integrazione
specialistica da parte del servizio sanitario e la coordinazione degli interventi pluri-
professionali. Questo provvedimento inoltre prevede dispositivi che rendano la
scuola più accogliente per gli studenti in difficoltà, dall’individualizzazione
educativa in base alle singole esigenze, alla sostituzione dei voti con delle schede
di valutazione. Trattando la disabilità internamente al processo di trasformazione
del sistema scolastico, e non separatamente, è possibile vedere in questo modello
le prime basi di un modello inclusivo.

Nel 3 giugno 1987 la sentenza della Corte Costituzionale n.215 estende la


frequenza degli alunni con disabilità alla scuola secondaria superiore, precisando
che l’intervento scolastico deve garantire apprendimenti alla portata di tutti, senza
limitarsi alla semplice socializzazione. Si delineano così in questo percorso le
condizioni per il passaggio dall’inserimento a un vero processo di integrazione-
inclusione, puntando sulla qualità dell’offerta formativa, in tutte le sue articolazioni.

1.8 Legge Quadro sull’handicap

Viene approvata dopo anni di dibattiti nel 1992 la “Legge Quadro sull’handicap”
(Legge n. 104/92), una legge che oltre a definire nuovi diritti specifici per i soggetti
con disabilità, “indirizza gli interventi delle Regioni, degli enti locali, e delle autorità

22
preposte, al fine di tradurre in operatività le dichiarazioni di principio”38. Si tratta di
un traguardo importante e innovativo sotto diversi aspetti, che non pone più il
focus sui servizi e sugli operatori, ma sulla persona e le sue difficoltà. Una
rivoluzione copernicana, che mette al centro l’individuo con disabilità dalla nascita
all’età adulta, occupandosi di tutti gli aspetti che lo riguardano: salute, integrazione
sociale, educazione, istruzione e formazione professionale.

Composta da 44 articoli, di cui 6 dedicati all’integrazione scolastica (12, 13 14 15


16 e 43), la legge 104 contiene norme importanti che garantiscono alle persone
con disabilità il diritto all’educazione e all’istruzione e la piena attuazione
dell’integrazione scolastica. E’ una legge fondamentale che affronta le complessità
legate all’integrazione del soggetto con disabilità nella vita sociale, lavorativa e
culturale del paese (nota 14 di pagina 14). Inoltre propone la definizione di
persona con disabilità, che assume sotto molti aspetti un carattere attuale: “E’
persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o
sensoriale, stabilizzata o progressiva che è causa di difficoltà di apprendimento, di
relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di
svantaggio sociale o di emarginazione.” (Art. 3 comma 1)

Nella legge 104/1992 vengono indicati alcuni passaggi fondamentali per rendere
possibile l’integrazione scolastica:

1. La coordinazione della programmazione dei servizi scolastici con quelli


sanitari, socio assistenziali, culturali, ricreativi e sportivi;
2. Fornire le scuole di sussidi didattici e tecnici per gli studenti con disabilità;
3. Interventi nelle università per rispondere ai bisogni degli studenti con
disabilità, in particolare di interpreti per i non udenti;
4. L’obbligo per gli enti locali di fornire assistenza per l’autonomia e la
comunicazione agli alunni con disabilità fisiche o sensoriali;
5. Insegnanti specializzati per l’integrazione scolastica nelle classi dove sono
presenti alunni con disabilità;
6. Continuità educativa;
7. Il completamento della scuola dell’obbligo;

38
M. Pavone “Dall’esclusione all’inclusione: lo sguardo della pedagogia speciale” 2010 [S.I.],
Mondadori Università

23
8. Gruppi di lavoro presso l’Ufficio scolastico provinciale di gruppi di lavoro per
l’integrazione scolastica, con compiti di consulenza e proposta ai
provveditori scolastici.

Per la prima volta inoltre viene proposto un percorso specifico, con appositi
strumenti metodologici finalizzati al raggiungimento degli obiettivi di integrazione
scolastica, ovvero individuazione dell’handicap, diagnosi funzionale, profilo
dinamico funzionale, piano educativo individualizzato.

In particolare questi ultimi tre verranno garantiti due anni dopo la legge quadro,
con il DPR del 24 febbraio 1994, detto anche Atto di Indirizzo e coordinamento
relativo ai compiti delle Unità Sanitarie Locali in materia di alunni in situazione di
Handicap, con il quale si stabiliscono gli strumenti per realizzare il processo di
integrazione scolastica.

L’integrazione diventa dunque un concetto più ampio del semplice inserimento,


come l’istruzione. “Il processo di adattamento reciproco tra il soggetto e il contesto
richiede alla scuola nel suo insieme piccoli e grandi cambiamenti: coinvolge tutti gli
insegnanti di classe e i compagni, rendendo possibile lo stimolo alla maturazione
di questi ultimi sul piano del rispetto della diversità, dello sviluppo di atteggiamenti
di solidarietà e di mutuo aiuto, dell’ampliamento delle capacità cognitive.”

Diversi dibattiti, negli anni seguenti, hanno avuto al centro dell’attenzione la “legge
quadro sull’Handicap”, giudicata da alcuni un provvedimento di impostazione
“assistenziale”, dato che anche il titolo fa riferimento all’assistenza prima che
all’integrazione, e da altri “vocazionale”, prevedendo efficaci articolazioni
progettuali in assenza di una adeguata copertura finanziaria. Marisa Pavone fa
notare degli anacronismi di fondo, come il centralismo statale che le fa da sfondo,
e “l’invasività della sanitarizzazione dell’handicap”, quest’ultima superata con il
modello di classificazione delle condizioni di salute/disabilità delle persone,
conosciuto con l’acronimo ICF (International Classification o Functioning, Disability
and Health, 2001) che consente una valutazione delle funzioni dell’organismo
umano considerate nel contesto culturale e ambientale, differentemente dalla
vecchia impostazione. Un altro punto fragile della legge Quadro è sicuramente “la
mancanza di prospettiva progettuale e di sistematicità organizzativa, nel sostegno
all’inserimento lavorativo e alla vita indipendente per il disabile adulto e anziano”.

24
E’ chiaro che da sola una legge, per quanto buona, non è sufficiente, sebbene
essa sia condizione necessaria. Il quadro normativo non può sostituire quella che
deve essere la tensione progettuale verso il vero obiettivo, vale a dire il progetto di
vita personale e l’attenzione alle potenzialità, alle diversità come risorse, e non
differenze. In merito a questo, la legge Quadro apre nuove aspettative per il
futuro39:

 La prevalenza della progettualità, rispetto al tecnicismo e alla


medicalizzazione;
 Consolidamento e ampliamento della logica della concertazione collegiale
intra- e inter-istituzionale;
 Migliore definizione del profilo e delle competenze di alcuni professori di
aiuto, quali in particolare il docente specializzato per le attività di sostegno e
le figure dell’educatore e del collaboratore scolastico;
 Superamento della logica degli interventi per categorie di persone a
vantaggio della logica dei servizi per tutti i cittadini.

39
M. Pavone “Dall’esclusione all’inclusione: lo sguardo della pedagogia speciale” 2010 [S.I.],
Mondadori Università

25
26
2. Pensare l’inclusione

2.1. Il sottile passaggio da integrazione a inclusione

L’educazione speciale oggi, e con essa l’intera progettualità didattico educativa,


deve confrontarsi con problematiche poste dalla diversità e dall’eterogeneità
sociali in una società complessa e multiculturale. Oggi più che mai è necessaria
una didattica di qualità che consideri e si apra alla pluralità dei bisogni educativi
speciali e non, in cui la diversità sia vissuta come fonte di arricchimento e non
come ostacolo. Abbiamo visto come da un percorso di esclusione si sia arrivati a
parlare di integrazione, ma il dibattito oggi verte su un nuovo concetto che apre ad
un nuovo domani: la prospettiva dell’inclusione. La questione educativa nella
progettazione di uno sviluppo equilibrato delle società civili, dove il diritto di
apprendere e potenziare le proprie capacità, devono essere aperti a tutti a
prescindere dallo “status” o dalle “apparenze”, è centrale oggi nei documenti
internazionali. La possibilità di poter vivere una vita felice, nel segno
dell’accoglienza, della solidarietà e dell’appartenenza, deve essere di tutti. La
sottile linea che separa l’integrazione dall’inclusione nasce proprio da queste
riflessioni: nell’integrazione l’attenzione è rivolta nell’individuazione di funzionali
processi di razionalizzazione e di adattamento per accogliere la diversità dei
soggetti con disabilità e dei soggetti con “bisogni educativi speciali” nel contesto
formativo; mentre l’inclusione “ha come riferimento l’insieme delle abilità differenti
attraverso le quali gli alunni si propongono agli insegnanti, innescando così
richieste legittime di cambiamento nei confronti dell’organizzazione, della didattica
e delle relazioni… Ciò significa che il problema del successo formativo non è
limitato solo ad alcune categorie, come quelle dei disabili e di altre categorie a
rischio di disapprendimento, ma coinvolge tutti gli alunni”40. Con questa
impostazione, l’educazione inclusiva necessita una didattica diversa, di qualità, e
diventano centrali percorsi individualizzati e personalizzati, per poter garantire ad
ogni studente pari opportunità educative e formative, e reali diritti di cittadinanza e
appartenenza.

40
Aa. Vv. “L’inclusione scolastica. Processi e strumenti di autoanalisi per la qualità inclusiva”,
Vannini, Brescia, 2009. P.13

27
Ianes afferma che “la lotta per l’integrazione scolastica, per le varie forme di de-
istituzionalizzazione, le lotte per i diritti umani in tutto il mondo partono ovviamente
da questo bisogno di uguaglianza, dal bisogno di essere considerati pari agli altri,
non inferiori. Sentirsi normali nel senso di sentirsi di pari valore anche se
profondamente diversi”41. Il concetto di inclusione, ovvero il poter far parte di un
gruppo alla pari degli altri mantenendo le proprie particolarità e la propria identità,
richiama due concetti chiave. Il primo è la normalità, che fa riferimento al bisogno
di appartenenza, di poter essere considerati e trattati al pari degli altri, il secondo
invece è la specialità, che fa riferimento al bisogno di identità, con le proprie
caratteristiche che rendono ogni soggetto diverso dall’altro.

“La convivenza a scuola di alunni con bisogni educativi particolari, speciali,


originali, eterogenei rimanda ad una più articolata riflessione sul ruolo assunto
dall’intera impalcatura didattica in cui le competenze speciali (e specialistiche
legate principalmente alla individuazione ed alla comprensione della natura dei
deficit) risultano più diffuse e insieme paradossalmente più definite e
qualitativamente elevate rispetto alla vasta gamma di bisogni educativi in genere
presenti nell’attuale panorama scolastico”42. Per poter parlare di inclusione delle
diversità è necessario superare visioni assistenzialistiche, o eccessivamente
tecnicistiche-specialistiche, e questo diventa possibile quando la proposta
didattica coniuga le esigenze formative della persona con disabilità a scuola con
quelle del più vasto tessuto sociale e culturale. Già nella Dichiarazione di
Salamanca43, emerge la necessità di un intervento educativo-didattico in grado di
poter collegare le possibilità formative personali del soggetto diversamente abile
alla scelta dei tempi e alle modalità di apprendimento più adeguate, mirando al
raggiungimento di quelle autonomie necessarie a favorire qualsiasi forma di
integrazione sociale e culturale, all’interno di un progetto inclusivo di natura
integrata. La didattica speciale assume un ruolo cruciale nel progettare contesti di
apprendimento modulati e studiati con obiettivi formativi specifici in grado di

41
D. Ianes “La speciale normalità. Strategie di integrazione e inclusione per le disabilità e i bisogni
educativi speciali.” Erickson, trento 2006 p12
42
P. Gaspari “Sotto il segno dell’inclusione” Anicia Editore, 2011. P.35
43
THE SALAMANCA STATEMENT AND FRAMEWORK FOR ACTION ON SPECIAL NEEDS
EDUCATION Adopted by the WORLD CONFERENCE ON SPECIAL NEEDS EDUCATION:
ACCESS AND QUALITY, Salamanca, Spain, 7-10 June 1994, United Nations - Educational,
Scientific and Cultural Organization, Ministry of Education and Science, Spain
(http://www.unesco.org/education/pdf/SALAMA_E.PDF)

28
evocare e potenziare in ogni alunno la globalità delle risorse cognitive, culturali,
sociali, ecc., muovendosi tra la dimensione formale e informale dell’istruzione, e
coinvolgendo più competenze e professionalità. Questo diventa possibile
solamente predisponendo significativi progetti di personalizzazione e
differenziazione dei percorsi formativi, sia dentro che fuori l’ambiente scolastico,
aiutando “l’altro a rispettare limiti e possibilità, guidandolo, senza sostituirsi, nella
difficile costruzione del personale Progetto di Vita”44. Definire percorsi di
integrazione scolastica e sociale, individuando collegialmente i tempi, le strategie
didattiche, i contenuti, che trovano forma nella Diagnosi Funzionale, nel Profilo
dinamico funzionale e nella costruzione del Piano educativo individualizzato,
diventa centrale nel momento in cui si vuole incentrare l’azione didattica verso un
progetto di accompagnamento del soggetto con deficit e “bisogni educativi
speciali”, e trasformare gli interventi didattici in autentiche pratiche inclusive della
diversità. Perché questo diventi possibile nel panorama odierno è necessario
parlare di una proposta didattica nuova ed emancipatrice, una didattica inclusiva.
A parlarne è anche un recente documento ministeriale sulle Indicazioni Nazionali
per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione 45 che
sottolinea l’importanza di pensare ad una scuola inclusiva in cui venga garantito il
successo formativo di ciascun alunno. La centralità della persona che emerge da
questo documento, l’attenzione al suo percorso di crescita, emerge anche nella
Riforma Moratti del 200346. I docenti, seguendo le recenti disposizioni normative,
devono elaborare nuove strategie di insegnamento-apprendimento, che possano
rispondere alla complessità sociale e culturale delle proprie classi. Quello che
viene chiesto oggi è un rinnovo che soddisfi bisogni ed esigenze educative
sempre più complesse, adottando un’azione didattica che superi le logiche
enciclopedico-nozionistiche, e che invece valorizzi di più l’aspetto procedurale e
sociale, sempre nell’ottica di un insegnamento-apprendimento di qualità. Le
diverse situazioni formative ed esistenziali presenti nel contesto scolastico devono
essere accolte, riconosciute e valorizzate, in modo che la differenza non sia
44
P. Gaspari “Sotto il segno dell’inclusione” Anicia Editore, 2011. P.36
45
Ministero dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca "Indicazioni nazionali per il curricolo della
scuola dell'infanzia e del primo ciclo d'istruzione" 2012
(http://www.indicazioninazionali.it/documenti_Indicazioni_nazionali/indicazioni_nazionali_infanzia_p
rimo_ciclo.pdf)
46
LEGGE 28 marzo 2003, n.53 “Delega al Governo per la definizione delle norme generali
sull'istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione
professionale”.

29
disuguaglianza discriminatrice ma risorsa. “La comunità-classe non può essere
considerata un’unità monolitica e uniforme, in cui la proposta didattica sia uguale
per tutti”47 bensì un ambiente dove le diversità trovino valorizzazione e
accoglienza. Emerge da queste prime riflessioni delle differenze rispetto al
concetto già trattato dell’“integrazione”. Integrazione è un termine che arriva dal
latino “integer”, che significa rendere completo, ed implica l’idea di uno stato di
mancanza in essere, di incompiutezza. Tuttora gli alunni sono chiamati a doversi
adattare a standard di “normalizzazione” per poter trovare spazio e riconoscimento
nel contesto scolastico, in quanto “il paradigma a cui fa implicitamente riferimento
il processo di integrazione è di natura ‘assimilazionista’ ovvero fondato
sull’adattamento dell’alunno disabile rispetto ad un’organizzazione scolastica
fondamentalmente strutturata per gli alunni “normali” all’interno della quale la
progettazione per gli alunni “speciali” svolge ancora un ruolo marginale o
residuale, poiché sporadicamente accordata al progetto di tutti”48. Con
Integrazione, si parla di un processo che individua strategie per portare l’alunno
con disabilità al pari degli altri, un percorso di “normalizzazione”, in cui la distanza
da un preteso standard di adeguatezza diventa metro di misura per la qualità
dell’intervento scolastico. L’inclusione al contrario punta alla piena partecipazione
alla vita scolastica da parte di tutti i soggetti, senza fissare standard fissi a priori.
“Se l’integrazione tende a identificare uno stato, una condizione, l’inclusione
rappresenta piuttosto un processo, una filosofia dell’accettazione, ossia la
capacità di fornire una cornice dentro cui gli alunni […] possono essere
ugualmente valorizzati, trattati con rispetto e forniti di uguali opportunità a
scuola”49. Educare la persona con disabilità in un contesto comune, in funzione
delle sue specificità e senza ricorrere a sistemi differenziati deve essere la
caratteristica chiave della scuola di tutti, fornendo offerte formative adeguate ai
diversi specifici bisogni educativi. In quest’ottica, l’inclusione non si limita
solamente agli alunni con disabilità, ma volge il suo sguardo ad ogni soggetto a
rischio di esclusione o in situazioni di marginalità. Parlare di contesto scolastico
inclusivo significa parlare di una comunità educante attenta ai bisogni di tutti e in
grado di progettare una pluralità di aiuti e sostegni che possano garantire un

47
F. Giancaterina “L’inclusione scolastica dei disabili, in ‘prospettive sociali e sanitarie’” n.14, 2008,
p.6
48
P. Gaspari “Sotto il segno dell’inclusione” Anicia Editore, 2011. pag. 40
49
T.Booth, M. Ainscow “L’index per l’inclusione” Erickson, 2008. pp13

30
migliore grado di autonomia, competenze e di partecipazione agli studenti. “I
principi di funzionamento e le regole del contesto devono essere riformulati
avendo presenti tutti i componenti, ciascuno portatore della propria specificità: la
diversità di tutti e di ciascuno diviene la condizione normale di scuola e d’aula”50.

L’attuale scenario scolastico, ma anche quello sociale e culturale, è caratterizzato


da una cultura dell’efficientismo e della performance che non trovano spazio
nell’ottica inclusiva. Le diversità vanno rispettate e valorizzate, senza essere
etichettate, e senza diventare differenze. Includere significa mettere in risalto la
personalizzazione dei percorsi di insegnamento- apprendimento, la relazione di
cura educativa, la cooperazione in una scuola che è accogliente, e attenta ai
bisogni di ciascun alunno. Realizzare la cultura inclusiva, una cultura del
riconoscimento e della valorizzazione di tutte le diversità, significa elaborare una
didattica caratterizzata da continui adattamenti individualizzati dei mezzi, delle
strategie, e degli strumenti adottati nelle attività svolte nel gruppo classe.

Non è sufficiente considerare solamente le capacità e le competenze attitudinali


emergenti e manifeste, ma vanno individuate e valorizzate anche le potenzialità
latenti, affinché tutti possano raggiungere secondo le personali caratteristiche
significativi traguardi formativi non standardizzati. Concretamente vuol dire parlare
di una scuola dell’autonomia che favorisce la progettazione di percorsi didattici
articolati, differenziati ed integrati, prevedendo sia obiettivi comuni, sia obiettivi
diversificati grazie ad attività sostitutive o compensative (sostegno o
potenziamento). Una scuola che di fatto diventa “organizzazione sociale nella
quale si condividono scopi e azioni che funziona sempre meglio in relazione
all’apporto che tutti sanno offrire: una scuola che ha, dunque, le caratteristiche
della comunità”51. Le regole nella scuola comunità, poiché elaborate dall’interno,
diventano un patto condiviso e assumono un valore integrante e inclusivo, in cui
tutti i membri possono riconoscersi. Una comunità che in quest’ottica diventa di
cura, di apprendimento, di ricerca, e assolutamente inclusiva, in grado di
accogliere alunni con diverse esigenze formative, che promuove
un’organizzazione flessibile del gruppo classe, allestendo gruppi diversificati di

50
T. Zappaterra “Special needs a scuola. Pedagogia didattica e inclusiva per alunni con disabilità”
Edizioni ETS, Pisa, 2010, pp. 13
51
A. Canevaro “L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Trent’anni di inclusione nella
scuola italiana” Erickson, 2007. Pp. 148 149

31
alunni (piccolo gruppo, lavoro in coppia, ecc.). Supera la rigida organizzazione
settimanale delle lezioni grazie all’uso modulare dei tempi scolastici, ricorre a
diversi mediatori didattici (iconici verbali motori ecc.) intercettando e valorizzando
così i diversi bisogni educativi degli alunni rendendoli protagonisti del loro
processo di apprendimento.

E’ una prospettiva lontana dalla scuola del giorno d’oggi, caratterizzata per
Frabboni da sette gravi errori che impediscono la realizzazione dell’ottica
inclusiva. In primis la competizione tra alunni che da antagonisti lottano per
acquisire i contenuti trasmessi dall’insegnante a lezione e dal libro di testo
(memorizzazione di conoscenze standardizzate). Secondo grave errore è la
separazione presente tra esperienza e istruzione, teoria e pratica. Terzo il grave
distacco tra i linguaggi del cuore e il linguaggio della mente. Quarto la
perpetuazione di una cultura inagibile all’indagine e alla scoperta, alla messa in
dubbio critica. Quinto l’esclusione/separazione degli alunni che si ritrovano
estraniati dall’istruzione ufficiale, o per ripetenza o per dispersione. Sesto i
programmi ministeriali tradotti dalla scuola come percorso a tappe forzate
percorribile solo da chi in possesso di saperi ufficiali e standardizzati. Settimo è
l’esclusione di quegli alunni in difficoltà cognitiva dai percorsi comuni52. Nell’ottica
del cambiamento e della ridefinizione del proprio ruolo culturale e formativo, è
necessario riporre una maggiore attenzione nella didattica della scuola superiore,
dove casi di disagio, devianza, e disadattamento sono più frequenti. La scuola
indipendentemente dal suo ordine e grado non può restare impassibile dinanzi a
omissioni familiari, a carenze affettivo/relazionali degli alunni, ai fenomeni di
devianza e insuccesso che evidenziano stati di declino emotivo e
comportamentale. Tuttavia la didattica attuale non ha le caratteristiche necessarie
per incontrare le difficoltà evolutive degli adolescenti. E’ necessario superare la
rigidità asettica e impermeabile dei percorsi disciplinari, gerarchicamente
organizzati, la logica autoreferenziale di una visione trasmissiva dei saperi e non
partecipativa, come se i conflitti relazionali e le difficoltà di ciascun alunno siano
escluse dall’impostazione didattica. Diventa di fondamentale importanza
promuovere nuove tendenze educative, caratterizzate da strategie e metodi che
riconoscano i bisogni emergenti, e prevengano l’insuccesso scolastico e

52
F. Frabboni “La scuola che verrà” Erickson, Trento, 2007

32
l’abbandono. La didattica gestionale della classe deve essere ripensata, partendo
dalla riduzione del tasso di selettività e competizione, fino all’uso efficace del
feedback per monitorare la qualità dei percorsi d’insegnamento apprendimento,
così come anche sul gradiente di responsabilità assunto da ogni studente,
indicatore di primaria importanza sulla qualità inclusiva della stessa istituzione
scolastica. Le consuetudini relazionali vanno riviste, in modo tale da poter lavorare
con e per l’alunno in difficoltà, nell’ottica della cura educativa, in vista di un
apprendimento di qualità, interdipendente al suo livello di crescita personale. Allo
stato attuale fanno fatica ad affermarsi le funzioni della cura educativa, e questa
mancanza porta a insoddisfazioni e disfunzioni nelle dinamiche relazionali e nei
legami affettivi.

Un’ulteriore riflessione va aperta in merito al valore di una didattica inclusiva


plurale, aperta e al servizio della pluralità e alla diversità degli studenti e alla
complessità dei loro bisogni formativi. “Andrebbero costruite delle prassi didattiche
quotidiane in cui le difficoltà/disabilità di quell’alunno sia il “mediatore scientifico”
per insegnare aspetti importanti della biologia, della linguistica, della sociologia,
della psicologia. […] Una difficoltà diventa direttamente un valore didattico se
l’alunno che la presenta viene messo in integrazione ben strutturato con gli altri
alunni, e qui il riferimento obbligato è alle varie procedure di apprendimento
cooperativo e di tutoring, e più in generale alle strategie educative e didattiche
mediate dai pari”53. La scuola, in quanto luogo formativo in cui ogni studente
incrementa le proprie competenze e abilità e costruisce un suo bagaglio culturale
che lo accompagnerà per la vita, ha una forte valenza educativa e formativa
soprattutto per le persone in situazione di difficoltà. Le pratiche integrative adottate
fino a poco tempo fa, non erano preparate adeguatamente, in particolare quando
l’unico punto di riferimento dell’alunno diversamente abile era l’insegnante di
sostegno. La relazione duale sostegno-alunno con disabilità, separava la persona
“diversa” dal contesto classe, dalle relazioni con i coetanei e con gli adulti,
portando di fatto a un’emarginazione. Affinché si possa parlare di inclusione, ma
anche di integrazione, non si può ragionare in un’ottica custodialistica, o per
trattamenti specialistici di natura individuale. Individualizzare significa proporre

53
D. Ianes “Disabilità, diversità e svantaggio (bisogni educativi speciali) e inclusione scolastica” in
G. Domenici, F. Frabboni (a cura di) “Indicazioni per il curricolo. Scuola dell’infanzia, primaria e
secondaria di primo grado” Erickson, 2007. pp 72-72

33
adattamenti didattici, flessibili, integrati, all’interno di comuni modelli progettuali, e
non adottare una didattica individuale o duale. L’ideale sarebbe la qualificazione di
tutti gli insegnanti, indipendentemente dall’ordine e grado di scuola, in modo tale
che la scuola possa rispondere ai “bisogni educativi speciali” di ogni alunno,
diventando autentica comunità accogliente. Di conseguenza la tradizionale
funzione dell’insegnante di sostegno andrebbe a modificarsi, in quanto gli stessi
insegnanti normali della classe andrebbero a prendersi carico gli alunni
diversamente abili e non, essendo ciascun alunno portatore di esigenze
particolari. “Occorre superare la figura dell’insegnante di sostegno tradizionale
(l’insegnante “degli handicappati”) per arrivare ad una diffusione
dell’insegnamento speciale all’interno del curricolo normale. L’insegnante di classe
è l’insegnante di tutti i ragazzi, quindi (e in special modo) anche di quello
disabile”54.

Rimane centrale comunque riconoscere i bisogni formativi individuali di ciascun


alunno e di conseguenza differenziare le proposte didattiche, ricorrendo a pratiche
inclusive che salvaguardino la singolarità e la diversità di ogni persona, superando
la logica dell’etichettamento delle differenze. “Il mosaico dei bisogni che debbono
essere soddisfatti determina la pluralità degli itinerari e delle forme, poiché ciascun
caso è unico: non prodotto in serie, ma confezionato su misura e modellato grazie
a adattamenti successivi”55. Questa prospettiva inclusiva sta trovando riscontro
anche sul dibattito europeo, e molte ricerche attuali insistono sul valore degli
interventi di educazione speciale individualizzata secondo modelli inclusivi56.

Le modalità di intervento educativo nei principali contesti formativi, oggi purtroppo


sono caratterizzati da unilateralità, autoreferenzialità e settorialismo, e indicano un
livello di inclusione culturale e sociale dei soggetti con “bisogni educativi speciali”
e non, poco adeguato, portando la persona ad una dis-umanizzazione e dis-
integrazione, vista come oggetto da esplorare, indagare, assistere e correggere57.
E’ necessario alimentare una cultura e una didattica davvero inclusive, in cui le
professionalità coinvolte crescano nel dialogo e nella sinergia, senza mai

54
S. Andrich, L. Miato “L’inclusività della classe: alcuni indicatori per valutarla e promuoverla, in
‘Difficoltà di apprendimento’”Riviste Erickson, 2003. p. 79
55
C. Gardou “Diversità vulnerabilità e handicap. Per una nuova cultura della disabilità” Erickson,
2006. p. 148
56
B. Norwich “Dilemmas of difference, inclusion and disability” Outledge, London, 2008
57
D. Resico “L’approccio integrato della persona diversamente abile” Angeli, Milano, 2007

34
sostituirsi, e tutte le risorse vengano messe al servizio della persona con disabilità
allo scopo di migliorarne la qualità dell’esistenza. In altri termini è necessaria una
scuola nuova, che non si limiti all’acquisizione di competenze legate ai saperi
tradizionali, ma anche a quei saperi di vita e cittadinanza essenziali per lo sviluppo
della vita sociale. Una scuola che promuova la fiducia in se stessi e nelle proprie
risorse personali, e che valorizzi la dimensione decisionale e progettuale della
persona.

2.2. ICF e ICF-CY

Un contributo importante per la cultura dell’inclusione è fornito dall’OMS con l’ICF,


la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e Della Salute
(International Classification of Functioning, Disability and Health) nel 2001 e con
l’ICF-CY nel 2007 dedicata ai bambini e agli adolescenti (International
Classification of Functioning, Disability and Health. Children and Youth). In questi
documenti viene considerato l’allievo nella sua globalità e nell’interazione tra il
contesto di vita e la propria condizione individuale, e viene rimarcata la necessità
di acquisire strumenti interpretativi della realtà scolastica che possano leggere la
complessità dell’ambiente in cui vive l’alunno stesso.

In quest’ottica diventano cruciali i significati di salute e disabilità. La prima viene


intesa come risultato di un benessere psico-fisico della persona (e non soltanto
assenza di malattia quindi), considerata nella multidimensionalità e nell’interazione
tra diverse variabili e fattori. La disabilità invece come risultante di una relazione
tra fattori personali, fattori ambientali e condizione di salute dell’individuo,
rappresentanti il contesto in cui vive.

E’ centrale in questi documenti il concetto universale di “funzionamento umano”,


che riguarda qualsiasi persona, ed è determinato dalla relazione del singolo con
l’ambiente, composto da altre persone, tecnologie, ecc. che possono essere
barriere o facilitatori nell’interazione, le prime intese come ostacoli, le seconde
come sostegni e risorse. L’ICF, enfatizza la funzione infatti, e assume una
posizione neutrale verso l’eziologia, e proprio per questa caratteristica, può essere
uno strumento valido per professionisti di ambiti diversi (sanitario, scolastico,
psicologico, sociale ecc.). Viene proposta una dimensione culturale e operativa

35
che sposta l’attenzione dalla disabilità, descritta riduttivamente come
menomazione psichica o fisica, alla persona con i suoi bisogni e le sue
caratteristiche relativamente al contesto in cui vive, per poter elaborare interventi
mirati alla promozione della qualità di vita, oltre al rilevamento dei problemi che
limitano il suo “funzionamento”. Nell’ambiente scolastico esistono differenze
costitutive delle relazioni che si sviluppano al suo interno, e portano l’attenzione
sulle abilità individuali degli alunni, e sulle barriere e sui facilitatori che incidono
sullo sviluppo. Viene quindi rimessa in discussione la formazione uniforme e
omologante, così come anche la dicotomia abilità/disabilità.

L’ICF nasce come revisione della Classificazione Internazionale delle


Menomazioni delle Disabilità e degli Handicap (ICIDH), pubblicata vent’anni prima
a fini ricercativi dall’OMS nel 1980. Approvato nel 2001 dalla 54° World Health
Assembly (WHA), l’ICF diventa ufficialmente parte della Famiglia delle
Classificazioni Internazionali (FIC) dell’OMS insieme all’International Statistical
Classification of Diseas and Related Health Problems 10th revision (ICDH-10),
all’International Classification of Health Interventions (ICHI) e alle Classificazioni
derivate. Nell’ICDH-10, modello di riferimento eziologico, vengono classificate le
malattie, i disturbi e le lesioni, mentre nell’ICF vengono classificate il
funzionamento e la disabilità associate alle condizioni di salute della persona.
Sono due classificazioni pertanto complementari da utilizzare congiuntamente per
poter descrivere il “funzionamento della persona”.

Grazie all’ICF è possibile ottenere informazioni tramite la descrizione delle


“situazioni che riguardano il funzionamento umano e le sue restrizioni”58. Le
informazioni vengono organizzate grazie alle componenti che lo costituiscono,
ciascuna di queste segnalate da determinate lettere dell’alfabeto, e suddivise a
loro volta in “blocchi di categorie” e/o categorie singole. Il documento è pertanto
suddiviso in due parti, e quattro principali componenti, la prima inerente al
Funzionamento e Disabilità, mentre la seconda dedicata ai Fattori Contestuali.

58
OMS 2007 p.36

36
Le componenti della prima parte sono:

B) (Body) Funzioni Corporee (Osservazione a livello corporeo): Ovvero le funzioni


fisiologiche e psicologiche dei sistemi corporei, organizzate in 8 Capitoli:

1) Funzioni mentali;
2) Funzioni sensoriali e dolore;
3) Funzioni della voce e dell’eloquio;
4) Funzioni del sistema cardiovascolare, ematologico, immunologico e
respiratorio;
5) Funzioni del sistema digestivo, metabolico ed endocrino;
6) Funzioni genitourinarie e riproduttive;
7) Funzioni neuromuscoloscheletriche collegate al movimento;
8) Funzioni della cute e strutture associate.

S) (Structure) Strutture corporee (Osservazione a livello corporeo) Ovvero le parti


anatomiche del corpo

1) Strutture del sistema nervoso;


2) Occhio, orecchio e strutture collegate;
3) Strutture collegate alla voce e all’eloquio;
4) Strutture dei sistemi cardiovascolari, immunologico e respiratorio;
5) Strutture collegate al sistema digestivo, metabolico, ed endocrino;
6) Strutture collegate al sistema genitourinario e riproduttivo;
7) Strutture collegate al movimento;
8) Cute e strutture collegate.

D) (Domain) Attività e partecipazione (Osservazione a livello della persona): Il


grado di partecipazione e di esecuzione di un compito o di un’azione da parte
della persona.

1) Apprendimento e applicazione della conoscenza;


2) Compiti e richieste di carattere generale;
3) Comunicazione;
4) Mobilità;
5) Cura della propria persona;
6) Vita domestica;

37
7) Interazioni e relazioni interpersonali;
8) Principali aree della vita;
9) Vita di comunità, sociale e civica.

Le componenti della Seconda parte invece, ovvero i Fattori Contestuali, sono:

E) (Environment) Fattori Ambientali (Osservazione a livello ambientale): l’impatto


che il mondo fisico e sociale può avere sulle prestazioni della persona in un
determinato contesto.

1) Prodotti e tecnologia;
2) Ambiente naturale e cambiamenti apportati dall’uomo all’ambiente;
3) Supporto e relazioni;
4) Atteggiamenti;
5) Servizi, sistemi e politiche.

Fattori Personali: Facendo questi riferimento al singolo individuo, al suo vissuto


personale, e alle sue caratteristiche individuali non riconducibili agli stati
individuali, non vengono classificati specificatamente, e comprendono il sesso,
l’età, la forma fisica, lo stile di vita, l’educazione ricevuta, le abitudini, le capacità di
adattamento, l’istruzione, il background sociale, la professione, l’esperienza, il
carattere e i modelli di comportamento generali59. Volendo evidenziare le
componenti e le loro interazioni nell’ICF torna utile lo schema proposto dall’OMS60.

Figura 1: “Condizioni di salute: disturbo/malattia”, OMS 2001

59
L. C. Cajola, A. M. Ciraci “Didattica inclusiva” Armando Editore, 2013. p.54
60
OMS 2001, p.23

38
Per individuare i bisogni educativi speciali l’ICF rappresenta attualmente lo
strumento più efficace, e maggiormente utilizzato, senza ridurli a problemi del
singolo e considerandoli in relazione tra l’individuo e l’ambiente. Sotto questo
punto di vista l’ICF apre la strada ad una progettazione realmente inclusiva, dove
centrale è il concetto di accessibilità, sancito anche dalla Convenzione delle
Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, che permette la piena
partecipazione a tutti gli aspetti della vita (ONU 2006, art.9), così come si può
evincere da almeno tre principi in particolare in essa contenuti e qui sotto riportati:

a) Accessibilità: al fine di consentire alle persone con disabilità di vivere in


maniera indipendente e di partecipare pienamente a tutti gli ambiti della
vita, gli Stati Parti devono prendere misure appropriate per assicurare alle
persone con disabilità, su base di eguaglianza con gli altri, l’accesso
all’ambiente fisico, ai trasporti, all’informazione e alla comunicazione,
compresi i sistemi e le tecnologie di informazione e comunicazione, e ad
altre attrezzature e servizi aperti o offerti al pubblico, sia nelle aree urbane
che nelle aree rurali.
b) Accomodamento ragionevole: ovvero le modifiche e gli adattamenti
necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato o
eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle
persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con
gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali.
c) Progettazione universale: vale a dire la progettazione (e realizzazione) di
prodotti, ambienti, programmi e servizi utilizzabili da tutte le persone, nella
misura più estesa possibile, senza il bisogno di adattamenti o di
progettazioni specializzate e senza escludere dispositivi di ausilio per
particolari gruppi di persone con disabilità ove siano necessari61.

“Gli esperimenti di isolamento hanno reso evidente come un essere umano


impoverito dal punto di vista sensoriale perda ben presto il controllo delle proprie
funzioni mentali”62. Mettere al centro la persona significa dunque eliminare le
barriere e gli ostacoli in qualsiasi contesto, e disporre di condizioni ambientali

61
Convenzione O.N.U. sul diritto alle Persone con disabilità, 2006 (traduzione di Maria Rita Saulle
ultimata il 2 marzo 2007)
62
J. S. Bruner “Processes of Cognitive Growth: Infancy” Worcester, MA: Clark University Press. Tr.
It. “Prime fasi dello sviluppo cognitivo” Armando, Roma, 1985.

39
ideali per l’autodeterminazione dell’individuo. Per far questo l’ICF propone
l’introduzione e l’impiego efficace di facilitatori di vario tipo che contribuiscano alla
partecipazione di tutti, ovvero fattori presenti nell’ambiente di una persona che
migliorano il funzionamento e riducono la disabilità.

I codici presenti nell’ICF richiedono l’uso di uno o più qualificatori che indicano
l’entità del problema in questione. Questi sono codificati con uno o più numeri
dopo un punto fermo. Senza questi, un codice non ha nessun significato ed indica
l’assenza di un problema. I qualificatori costituiscono quindi un’ulteriore classe di
definizione ed indicano un livello di funzionamento in relazione alle quattro
categorie: “Funzioni corporee”, “Strutture Corporee”, “Attività e partecipazione” e
“Fattori Ambientali e Personali”. In merito ai qualificatori nell’area “Attività e
Partecipazione”, l’ICF fa riferimento al qualificatore di capacità, ovvero l’abilità
della persona nell’esecuzione di un compito in un ambiente standard, e al
qualificatore di performance, cioè quello che una persona fa nel suo ambiente
abituale. La gradazione in questo caso vanno da 0 a 4, ovvero da Nessuna
Difficoltà, fino a Difficoltà Completa. Per i fattori ambientali invece vi sono
qualificatori relativi sia alle barriere, sia ai facilitatori.

“Dedicata ai bambini di tutto il mondo e a tutti coloro che sono stati bambini”63,
l’ICF-CY (Children and Youth) costituisce un ulteriore contributo per gli insegnanti
che operano nell’ambito dei bisogni educativi speciali che si sviluppano nei primi
due decenni di vita. Le manifestazioni di disabilità e le condizioni di salute dei
bambini e degli adolescenti differiscono per natura, intensità e impatto da quelle
degli adulti. L’ICF CY quindi, nonostante evidenzi la stessa impostazione
concettuale dell’ICF, prende in considerazione la differenza tra gli ambienti di vita
e le attività dei soggetti in età evolutiva rispetto a quelle degli adulti, nascendo
appunto per poter essere utilizzata nei settori dell’istruzione, della salute e dei
servizi sociali, con i bambini e gli adolescenti.

L’adolescenza e l’infanzia sono caratterizzate da rapidi mutamenti nello sviluppo


fisico, psicologico e sociale, accompagnati da “altri cambiamenti che definiscono e
caratterizzano la natura e la complessità dell’ambiente infantile stesso durante la
prima e seconda infanzia, la preadolescenza e l’adolescenza, e che

63
OMS 2007

40
accompagnano l’accrescimento di competenze, di partecipazione sociale e di
indipendenza”64. Gli aspetti curati dall’ICF-CY in particolare sono:

1) Il contesto famigliare e gli adulti significativi;


2) Il ritardo evolutivo, in quanto soggettivo in base alle differenze individuali
di crescita e sviluppo;
3) La partecipazione;
4) I contesti ambientali, che variano nel passaggio dalla prima infanzia
all’adolescenza.

La scuola costituisce una delle aree di vita fondamentali, ragion per cui l’ICF-CY
ridefinisce con maggior precisione quelle categorie generali indicate nel blocco
“Istruzione”, e le arricchisce di ulteriori aspetti rilevanti, come per esempio quelli
inerenti al come e al se il bambino o l’adolescente

 Accede ad un programma di istruzione;


 Passa da un livello all’altro;
 Progredisce nel programma di istruzione;
 Mantiene il programma di istruzione;
 Termina il programma di istruzione.

Altrettanta importanza viene attribuita ovviamente anche alla partecipazione


scolastica e le attività ad essa connesse, sia l’impegno nei confronti della vita
scolastica.

Ciò che caratterizza l’ICF-CY (come anche l’ICF) è la rilevanza che assume la
realtà concreta, l’ambiente, in cui la persona è inserita, e l’importanza del contesto
nei livelli di partecipazione sociale. Il contesto di un percorso di vita che una
persona vive nel presente, condiziona il percorso di vita successivo. L’ambiente
assume importanza nel momento in cui svolge la funzione di facilitatore o barriera
per l’individuo, incidendone positivamente o negativamente. E’ necessario quindi
chiamare in gioco una molteplicità di sinergie professionali, sia interne che esterne
all’ambito scolastico, che siano facilitatori e allo stesso tempo siano in grado di
progettarne nel contesto. Il lavoro d’equipe è una caratteristica imprescindibile
dell’ICF-CY, in quanto per affrontare specifiche situazioni educative e formative

64
L. C. Cajola, A. M. Ciraci “Didattica inclusiva” Armando Editore, 2013. p.54

41
richiede che ogni professionista impegnato nel lavoro preventivo, riabilitativo, ed
educativo descriva in base alla propria competenza il dominio della salute in cui
esiste un determinato problema.

Una dimensione inclusiva richiede che a fronte di un contesto variegato di


diversità, si vada oltre la mera certificazione che spesso rischia di rinchiudere in
cornici ristrette, e si consideri la persona nella sua totalità, con le sue potenzialità,
in una prospettiva bio-psico-sociale fondata sul profilo di funzionamento e analisi
del contesto, consentendo di individuare i Bisogni Educativi Speciali dell’alunno
“prescindendo da preclusive tipizzazioni”65. Nella scuola inclusiva le differenze e le
difficoltà sono da trattare con una didattica plurale, capace di valorizzare le prime
e affrontare con competenza le seconde “trasformandole da ostacolo per l’allievo
a obiettivo strategico per gli insegnanti”66. Viene chiamato in causa allora il “diritto
alla personalizzazione dell’apprendimento” affermato nella Legge n.53/2003,
secondo il quale diventa opportuna e necessaria “l’adozione di una
personalizzazione della didattica eventualmente di misure compensative o
dispensative nella prospettiva di una presa in carico globale ed inclusiva di tutti gli
alunni”. Lo strumento privilegiato è il Piano Didattico Personalizzato (PDP) che
definisce, monitora e documenta le strategie di intervento più idonee e i criteri di
valutazione degli apprendimenti, e le progettazioni didattiche da condividere con la
famiglia.

Il Bisogno Educativo Speciale, nell’ottica proposta dall’ICF, si può intendere come


una difficoltà evolutiva nel funzionamento del soggetto, nei vari ambiti della salute
secondo il modello ICF dell’OMS, sotto un punto di vista educativo e apprenditivo;
uno stato di difficoltà dovuto non esclusivamente a causa di una disabilità, ma
anche a seguito di determinati fattori personali e sociali e che necessita di una
educazione speciale individualizzata. Non si restringe ad una determinata
categoria di soggetti, ma fa riferimento a una pluralità.

65
MIUR, Direttiva 27 dicembre 2012 “Strumenti d’intervento per alunni con Bisogni educativi
Speciali e l’organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica 2013”
66
L. C. Cajola P. Pecoraro “Musicoterapia per l'integrazione. Metodologie didattiche e procedure
valutative Disponibilità immediata” Franco Angeli, 2008

42
2.3. Tra individualizzazione e personalizzazione

Vi sono cinque principi fondamentali a regolare l’istruzione e l’educazione inclusiva


per Nenad Suzic:

1) Il principio dell’accettazione e del sostegno sociale;


2) Il principio dell’intervento precoce e della riabilitazione;
3) Il principio dell’individualizzazione;
4) Il principio dello sviluppo funzionale e del sostegno sociale;
5) Il principio del rinforzo e della gratificazione.

Ogni persona è diversa dall’altra e costituisce un caso a sé, specie in caso di


“bisogno speciale”, ed in quanto tale richiede dei funzionali processi di
individualizzazione e adattamenti metodologici e didattici in ambito scolastico. Uno
dei compiti fondamentali della scuola è quello di assicurare a tutti gli alunni il
raggiungimento di competenze ed abilità essenziali e comuni, dando allo stesso
tempo a ciascuno la possibilità di coltivare le proprie inclinazioni personali. Il
raggiungimento di standard di apprendimento comuni deve essere accessibile
anche agli alunni con disabilità o bisogni educativi speciali, e in una scuola
inclusiva la promozione di processi di socializzazione interconnessi ai processi di
apprendimento esercitano un ruolo fondamentale. In questa prospettiva Nenad
Suzic sintetizza alcune possibili pratiche inclusive realizzate con l’ausilio
dell’individualizzazione67:

a) Adattare i contenuti del programma scolastico e didattico;


b) Adattare i metodi e le tecniche del lavoro didattico;
c) Individuare e prevedere una serie di ruoli e compiti che il bambino con bes
può padroneggiare e partecipare in questo modo al lavoro di un piccolo
gruppo o della classe intera;
d) Identificare le risorse e le abilità funzionali che questi bambini possiedono in
forme più o meno esplicite o latenti;
e) Predisporre una serie di risorse, soluzioni tecniche e ausili.

67
N. Suzic “assi verso una scuola inclusiva, dai principi alle competenze necessarie” Erickson,
Trento, 2009, pp.63-64

43
Percorsi di individualizzazione, personalizzazione e differenziazione nella didattica
inclusiva, richiedono una rivisitazione del modello curricolare. Serve una
progettualità meno rigida e prestabilita, con percorsi didattici slegati dalla logica
della linearità delle conoscenze. Flessibilità è la parola chiave, in grado di vincere
la sfida lanciata dalla complessità, dove gli stessi percorsi didattici rappresentano
uno sfondo, uno scenario semantico, dove è lo studente ad essere protagonista
della costruzione dei propri apprendimenti, con i suoi limiti, le debolezze, le
risorse, i punti-forza e le potenzialità, tutte da sviluppare con il sussidio di un
educatore partecipe e dinamico, in grado di rimettersi in gioco nelle varie situazioni
didattiche. Abbiamo allora degli obiettivi specifici, che indicano determinati livelli di
competenza da far raggiungere al bambino assieme alla padronanza dei principali
sistemi simbolico-culturali, ai quali si affiancano gli obiettivi formativi, che
interpretano e valorizzano l’alunno reale, nella contestualizzazione delle esigenze
formative specifiche. Ovviamente questo implica una adeguata e funzionale
riorganizzazione delle dimensioni didattico-curricolari ed organizzative in ambito
scolastico, affinché si possa rispondere efficacemente alle esigenze formative di
ciascun alunno. I tempi di insegnamento delle varie discipline, devono adattarsi ai
tempi e alle modalità di apprendimento di ciascun studente, e gli itinerari didattici
devono essere personalizzati, specie nel gruppo classe, per incentivare il livello di
partecipazione-inclusione, nei processi di socializzazione e apprendimento, degli
alunni con disabilità o in difficoltà.

“Nel perseguire traguardi comuni per tutti è indispensabile individualizzare


(differenziare) i percorsi, e per dare modo a ognuno di coltivare le proprie
inclinazioni è necessario personalizzare (diversificare) certi traguardi”68. Sebbene
entrambe siano legate a processi di una dialettica di complementarietà,
l’individualizzazione non va confusa con la differenziazione. La personalizzazione-
individualizzazione dei percorsi didattici in particolare, migliora sempre e
comunque le condizioni di vita scolastica di alunni tra loro differenti e diversi per
attitudini, personalità e modalità di apprendimento.

68
M. Baldacci, F. Frabboni “La controriforma della scuola. Il trionfo del mercato e del mediatico”
Franco Angeli, Milano 2009, pp111-112

44
“L’attuazione dell’individualizzazione avviene attraverso69:

 La scelta degli obiettivi della classe raggiungibili dall’alunno con disabilità


(che tenga contro soprattutto delle potenzialità e non solo delle carenze);
 L’avvicinamento degli obiettivi del singolo alunno a quelli della classe e
viceversa;
 L’uso di facilitatori (computer, sussidi, materiali specifici, cartelloni, quaderni
personalizzati, ecc.);
 La revisione dei libri di testo (riduzione, semplificazione, arricchimento e
spiegazione mediante immagini, ecc.);
 Le metodologie e gli strumenti pensati per l’alunno con disabilità che
vengono però utilizzati anche per il resto della classe;
 L’organizzazione flessibile della classe, che viene attuata sistematicamente
in tempi stabiliti (gruppi di livello, gruppi eterogenei, ecc., affidati
alternativamente all’insegnante curricolare e all’insegnante di sostegno);
 L’uso efficace delle compresenze (laboratori, gruppi di lavoro, ecc.);
 Le verifiche graduate che utilizzano mediatori diversi”.

Per poter parlare di una scuola “a misura” di ogni bambino è necessario adottare
una logica progettuale individualizzata, con percorsi cognitivi monitorati all’inizio,
durante e al termine del lavoro, affinché nessun alunno resti “indietro”. La
flessibilità, il feedback, la gradualità e la sistematizzazione semantica delle
conoscenze sono principi basilari in un itinerario di insegnamento personalizzato.
E’ per questo che parlare di personalizzazione e individualizzazione, significa
apportare una trasformazione nelle impostazioni metodologiche tradizionali, e
pedagogiche, in quanto la valorizzazione e il riconoscimento delle potenzialità di
ciascun bambino, e il riconoscimento dei diversi stili e ritmi di apprendimento,
diventano centrali.

69
Pavone M. “Personalizzare l’integrazione. Un progetto educativo per l’handicap tra
professionalità docente e dimensione comunitaria” La scuola, Brescia, 2004, p.80

45
2.4. Per una didattica di qualità

Ad essere oggetto di trasformazione, assieme alla didattica, è anche la


professionalità del docente, col suo agire educativo, in quanto tenuto a
riconoscere le potenzialità educative di tutti gli alunni, rimuovendo le barriere e
alimentando i facilitatori. In particolare a dover essere rivisitate sono le prassi
tradizionali di insegnamento apprendimento, affinché si possano sviluppare
percorsi didattici innovativi di respiro e valenza formativa più ampie, senza togliere
valore ad abilità e competenze strumentali. L’educazione inclusiva necessita una
didattica di qualità aperta alle diverse esigenze formative e alla pluralità dei
bisogni, in cui la diversità viene vissuta come risorsa e stimolo. Il riconoscimento
delle diverse abilità degli alunni è il primo passo per poter attuare strategie di
insegnamento-apprendimento realmente efficaci, in quanto ogni allievo,
indipendentemente dalla disabilità e dalle sue difficoltà, possiede risorse e qualità
uniche da esprimere e valorizzare. E’ nella didattica differenziata, individualizzata
e personalizzata che viene garantita e si realizza l’uguaglianza delle opportunità
formative. “Di conseguenza” scrivono Medeghini e Valtellina “il problema
principale per la scuola diventa quello di costruire e assumere culturalmente le
differenze per poi ricercare tutte quelle condizioni e quegli adattamenti che
permettono alle differenze, anche di apprendimento, di trovare accoglienza e di
esprimersi, garantendo davvero l’uguaglianza delle opportunità nel processo della
formazione”70. Diversificare è la sfida del docente, permette di ridurre gli elementi
di debolezza e sviluppare le potenzialità della persona, ma richiede la padronanza
delle metodologie di azione didattica e di gestione della classe restando aperti alla
creatività. Conseguentemente, è impossibile pensare a un’organizzazione
dell’insegnamento uniforme e omogenea. Dinanzi alla molteplicità delle risorse di
cui ciascun stendente, l’insegnante deve essere in grado di offrire una possibilità
di scelta tra percorsi di apprendimento che siano differenti tra loro in modi, tempi e
contenuti. A fronte di una crescente complessità dei bisogni formativi emergenti, e
a seguito dei ragionamenti condotti finora, diventa impensabile la tradizionale
impostazione didattica basata sulla lezione frontale. Elaborare interventi formativi
calibrati sui bisogni individuali, e superare la tradizionale impostazione didattica

70
R. Medeghini, E. Valtellina “Quale disabilità? Culture, modelli e processi di inclusione” Franco
Angeli, Milano, 2006. p.109

46
(inidonea per affrontare la complessità), richiede l’elaborazione di nuovi modelli di
insegnamento-apprendimento, “che prevedano l’organizzazione di gruppi di mutuo
aiuto, uno stile cooperativo, una rete di sostegni ed aiuto spendibili per tutti gli
allievi, gruppi di lavoro all’interno delle medesime aree di competenza,
un’attenzione particolare alla costruzione di possibili alleanze ecosistemiche con le
altre agenzie educativo-formative esistenti nel territorio etc.”71. Si richiede alla
scuola una rivisitazione delle strategie didattiche, delle dinamiche relazionali, dei
climi di classe, e dei contenuti, per poter dare spazio allo spirito critico e alla
creatività, a nuove forme di conoscenza che sviluppino le potenzialità di ciascuno
studente secondo le proprie inclinazioni. “L’inclusione di qualità del soggetto non
solo è possibile ma diviene un’autentica risorsa per l’intera scuola intesa come
comunità: le pratiche educative e didattiche sono tenute ad assicurare un buon
livello di sviluppo delle competenze sociali, cognitive, affettive, etc. dell’alunno
diversamente abile, promuovendo in modo congiunto e complementare le
potenzialità, gli interessi, gli stili di apprendimento di tutti gli alunni all’interno di
una scuola che educa la persona, ogni persona a potenziare gli strumenti, le
abilità necessarie a conoscere e a comprendere il mondo, per agire in modo
significativo, critico, con gli altri, per gli altri, nel più vasto orizzonte sociale e
culturale”72.

2.5. Osservazione e Interazione Professionale

Come già analizzato, il processo di inclusione scolastica degli allievi con bisogni
educativi speciali, richiede un sistema organizzativo articolato ed il docente
specializzato nel sostegno non può esserne l’unico garante. Secondo la
prospettiva sistemica, non basta analizzare i singoli elementi parte di un sistema
(nel nostro caso il processo di inclusione) ma è necessario individuare le
problematiche legate all’organizzazione dei diversi elementi del sistema scuola. In
quest’ottica il docente deve possedere competenze di controllo del proprio
atteggiamento in quanto elemento di un sistema, per imparare ad imparare
dall’esperienza. Uno dei requisiti del lavoro d’equipe è l’assunzione di
consapevolezza rispetto alle finalità che la comunità educativa persegue, oltre che

71
P. Gaspari P. Sandri “Inclusione e diversità. Teorie e itinerari progettuali per una rinnovata
didattica speciale” Franco Angeli, 2015
72
Ibidem.

47
di una responsabilità collettiva nei confronti dei percorsi educativo-formativi di ogni
alunno. Si tratta di superare quella che è l’attuale ottica individuale dell’insegnante
e sviluppare abilità di comunicazione interpersonale, competenze empatiche,
negoziative, e una gestione positiva dei conflitti, con un atteggiamento di
disposizione autentica verso l’altro, spostando l’attenzione dalle caratteristiche
individuali di ogni elemento, alle modalità di relazione interpersonali73.

Dinanzi alle difficoltà organizzative, il docente deve adottare un doppio sguardo:


uno rivolto alla situazione problematica, l’altro a sé stesso. “La competenza
professionale infatti coniuga in sé numerosi aspetti quali le conoscenze di base,
l’autorevolezza che deriva dall’esperienza, la consapevolezza di essere parte di
un sistema e di controbuire a co-costruirlo, il rispetto per la “storia” dell’altro e per
la “storia” dell’istituzione nella quale ci si trova ad operare, la necessità di lavorare
in “rete” nella considerazione dell’altrui punto di vista, ma anche l’umiltà di
ammettere un proprio “limite”, la necessità di chiedere un aiuto e un consiglio, di
“porsi in ricerca” in modo competente.”74 Lavorare con le diversità vuol dire sapersi
mettere continuamente in discussione, per poter costruire relazioni costruttive con
tutti quelli che condividono il percorso formativo della persona con disabilità. E’
solo riconoscendo la propria storia formativa e riflettendo criticamente sui propri
comportamenti e atteggiamenti che il docente può affrontare situazioni didattiche e
comunicative con competenza.

L’osservazione pedagogica deve essere ecologico-sistemica, nel momento in cui


tiene conto dei comportamenti, così come del contesto in cui questi hanno luogo,
e di come i soggetti interagenti comunicano e si percepiscono tra di loro. E’
importante il punto di vista di chi osserva, poiché interviene nella definizione
dell’oggetto di indagine e degli scopi per cui l’osservazione viene condotta. Vi
sono diversi errori che possono emergere nel processo di
osservazione/valutazione dell’allievo, due tra i più noti sono l’effetto Rosenthal (più
comunemente conosciuto come effetto Pigmalione)75 che condiziona
pesantemente i risultati sulla base delle proprie aspettative, e l’effetto alone,

73
P. Watzlawick, J. Weakland “La prospettiva Relazionale” Astrolabio, Roma, 1978.
74
P. Gaspari, P. Sandri “Inclusione e diversità. Teorie e itinerari progettuali per una rinnovata
didattica speciale” Franco Angeli, 2015. pag. 92
75
E. Fortunato “Valutazione studenti, attenti all’effetto Pigmalione. Come liberarsi dai
condizionamenti: dalla continuità ai BES e DSA” Orizzonte Scuola, 2015

48
quando le caratteristiche di un tratto di personalità del soggetto influenzano la
rilevazione di altri tratti76.

Per questo il confronto delle osservazioni soggettive, influenzate dai propri schemi
mentali, assumono un valore chiave nel processo inclusivo, in quanto porta ad una
valutazione condivisa che permetta una migliore comprensione dei fenomeni
osservati, e fornisca dati sulla base dei quali proporre adeguati interventi formativi.
E’ fondamentale confrontare e integrare le osservazioni, così come le riflessioni e
le percezioni, di ogni singola figura educativa coinvolta nella vita del soggetto con
disabilità, al fine di analizzare, comprendere ed elaborare percorsi di inclusione.

2.6. Individualizzare e Personalizzare

Tra individualizzazione e personalizzazione esiste una linea di confine tanto tenue


sul piano pratico quanto rilevante su quello teorico, rendendo importante definire
meglio il significato che assumono i due termini. A livello didattico
l’individualizzazione, si riferisce a tutti quei possibili adattamenti, mediante
strategie e modalità didattiche, dei percorsi di insegnamento rispetto alle esigenze
specifiche degli studenti, mentre a livello pedagogico rappresenta un principio
formativo che volge la sua attenzione alle caratteristiche individuali della persona.
In altri termini possiamo dire che con individualizzazione intendiamo quei metodi e
quelle strategie didattiche che vengono adottate affinché ogni alunno possa
raggiungere le competenze essenziali previste dal curricolo. La personalizzazione
invece, mira ad assicurare ad ogni studente una propria forma di eccellenza
cognitiva, grazie ad una diversificazione dei percorsi di insegnamento, coltivando
le singole potenzialità. La personalizzazione intende sviluppare i talenti propri di
ciascun individuo, elaborando percorsi differenziati, con diversi obiettivi e percorsi
didattici, diversamente dall’individualizzazione dove l’obiettivo è il raggiungimento
di traguardi comuni. Sono due pratiche didattiche tra loro differenti ma allo stesso
tempo complementari. Possiamo dire che “l’individualizzazione rappresenta il
braccio operativo del modello concentrato sulle competenze di base, mentre la
personalizzazione costituisce il correlato didattico del modello centrato sullo

76
Prof. Roberto Trinchero “Pedagogia Sperimentale On line: Fonti di invalidità della rilevazione”
2004 (http://www.edurete.org/public/pedagogia_sperimentale/corso.aspx)

49
sviluppo dei talenti personali”77. La personalizzazione rappresenta l’esigenza di
promuovere le potenzialità del singolo, mentre l’individualizzazione mira a dotare
tutti delle competenze fondamentali. Per poter adattare l’insegnamento in
relazione delle singole caratteristiche cognitive e affettive, significa rispettare quelli
che sono i personali stili cognitivi, ritmi di apprendimento, e codici linguistici.
L’individualizzazione diventa quindi un “abito su misura” studiato per rispondere
alle esigenze educativo-formative individuali, stimolare le potenzialità abbattendo
le barriere. Inoltre prevede una modularizzazione del tipo di apprendimento che
l’alunno consegue, partendo da un’analisi delle abilità e competenze possedute.
Fondamentali sono poi azioni di regolazione-calibrazione della proposta didattica,
grazie all’utilizzo di appositi feedback ricevuti sia dal singolo alunno che dall’intero
gruppo classe. “In sintesi, alle flessibilità delle “formae mentis” e degli stili cognitivi
di ogni bambino dovrà necessariamente corrispondere un’impalcatura
metodologico-curriculare elastica, innovativa, caratterizzata dal pluralismo degli
approcci delle strategie didattiche”78. Vi è un’altra importante distinzione inerente
la natura dell’apprendimento, da considerare nella formulazione della
progettazione didattica: gli apprendimenti significativi per l’alunno e quelli
meccanici. Perché un apprendimento sia significativo, lo studente deve essere
protagonista della personale costruzione di significato, che coinvolge pensieri,
sentimenti e azioni, tre aspetti che vanno integrati nella creazione di
conoscenza.79 Un ultimo aspetto infine, che riveste un ruolo chiave nella didattica
dell’individualizzazione e della personalizzazione dei processi d’insegnamento-
apprendimento, è la motivazione. Affianco ai già noti processi di motivazione
intrinseca, e motivazione estrinseca, una terza concettualizzazione arriva da Paolo
Manfredini, con la motivazione di competenza, ovvero “l’attivazione di quei
comportamenti grazie ai quali l’individuo si sente padrone del proprio ambiente ed
è in grado di esercitarne un controllo, cosa di per sé gratificante e appagante”80.

Le modalità di lavoro che nascono dall’esigenza dell’individualizzazione


dell’insegnamento, non sono solamente individuali, ma anche per gruppi, con

77
M. Baldacci “Personalizzazione o individualizzazione?” Erickson, 2005. Cit. p.20
78
P. Gaspari , P. Sandri “Inclusione e diversità. Teorie e itinerari progettuali per una rinnovata
didattica speciale” Franco Angeli, 2015 p.35
79
J. Bovak “L’apprendimento significativo” Erickson, Trento, 2001, p.20
80
P. Manfredini “Il portfolio: stili di lavoro e piani di studio personalizzati, in Benzoni I., Portfolio
delle competenze e processi di personalizzazione”, junior, Bergamo, 2005, p.45

50
l’ausilio di processi di aiuto reciproco, tutoring, che permettono il raggiungimento di
traguardi formativi significativi, basati sulla condivisione delle esperienze
didattiche.

2.7. L’individualizzazione per l’inclusione

Proponendo percorsi omogenei, uguali per tutti, senza considerare le


caratteristiche individuali, i diversi stili cognitivi, la scuola non può rispondere
efficacemente ai bisogni degli alunni con maggiori difficoltà. Ecco perché è
importante far si che le proposte didattiche nascano dagli interessi e dai bisogni
degli studenti, distanziandosi dalla standardizzazione, introducendo progetti che
rendano l’apprendimento autentico e significativo, e “elementi di flessibilità
organizzativa e didattica funzionali al superamento delle difficoltà del gruppo
classe”81. Parlare di inclusione scolastica e sociale, richiede di poter garantire agli
studenti l’opportunità di vivere attivamente, in modo costruttivo e collaborativo, i
processi di apprendimento, formazione e socializzazione. Per poter realizzare una
didattica realmente inclusiva, non significa però, ragionando in quest’ottica,
elaborare infiniti stili di insegnamento per altrettanti alunni, ma semplicemente
elaborare un’impostazione metodologica flessibile, evolutiva, rispettosa delle
esigenze formative individuali e del contesto, con modalità di lavoro cooperative
all’interno della classe. Con le strategie di individualizzazione e personalizzazione
fin qui presentate, l’inclusione delle differenze vede la propria realizzazione. Al
centro dell’attenzione resta comunque la costruzione degli apprendimenti,
caratterizzati da una natura socializzata e socializzante, che si realizzano nel
confronto socio-cognitivo, all’interno di una didattica aperta, problemica,
implicando l’elaborazione di sistematici e personali processi di rielaborazione
cognitivo-affettiva, l’apertura a nuovi traguardi significativi formativi, costruiti non
individualmente, ma in un contesto di gruppo. Ogni alunno infatti non è persona a
sé stante, isolata, bensì è un soggetto comunitario il cui senso di appartenenza
dipende dalla quantità e dalla qualità delle relazioni costruite attorno a sé.
Considerato questo ulteriore aspetto, la scuola è chiamata a realizzare un ulteriore
salto di qualità, aiutando ogni studente all’incontro con l’altro, portatore di saperi,
conoscenze e una storia personale proprie, diventando così un autentico contesto
81
M. Giunchi “Lo Sfondo integratore per costruire mediazioni significative tra insegnanti e bambini”
in Difficoltà di apprendimento” Erickson, Trento, n.1, 2004. P.85

51
di vita. “La didattica dell’individualizzazione e della personalizzazione agisce allo
scopo di generare un clima relazionale ed un’organizzazione didattico-curricolare
inclusivi all’interno di un’istituzione educativa interpretata come significativo
scenario di accoglienza, valorizzazione e riconoscimento di bambini con bisogni
differenti “speciali” e non”82.

Ogni persona in formazione deve essere considerato come universo complesso,


con punti di forza e debolezza, la cui diversità deve essere considerata una risorsa
da valorizzare, per poterne cogliere la sua ricchezza. Perché questo sia
realizzabile deve essere predisposto un contesto capace di garantire la
partecipazione democratica alla vita comunitaria, con l’adozione di interventi
didattici non caratterizzati dalla necessità di uno standard a priori da raggiungere.
Un bambino con bisogni educativi speciali, richiede una didattica viva, alternativa,
propositiva e flessibile, con attenzione alla ricerca, all’operatività, alle attività ludico
esplorative, alla manualità alla valorizzazione del pensiero intuitivo, ai linguaggi
affettivi-emotivi coniugati alle potenzialità cognitive individuali. Ogni alunno
conquista “a modo suo” le conoscenze personali, con ritmi, tempi, strategie
originali e soggettive. Affinché diversi stili cognitivi e comunicativi possano
incontrarsi e confrontarsi, servono quei contesti complessi che finora abbiamo
delineato. Non si parla più di una trasmissione di un sapere stereotipato, ma di
costruzione del sapere, partendo da situazioni “problemiche”, psicosociali ed
affettive, stimolanti, specie per la persona con “deficit” E’ una pedagogia
promozionale di ricerca e scoperta, in grado di proporre situazioni educative e
didattiche che attivano l’interesse e l’attenzione del bambino, portandolo
all’elaborazione di nuove conoscenze, attivando effettivi processi di
coscientizzazione, realizzati con ragionamenti critico-costruttivi. La scuola diventa
una sorta di “sfondo integratore”83, uno scenario capace di individuare e
valorizzare possibili sinergie connettive, dando ulteriore significato alle attività che
i docenti e gli alunni promuovono. L’educatore diventa una sorta di regista, che
progetta uno sfondo integratore dando una direzione al processo educativo,
elaborando percorsi didattici flessibili e mai precostruiti.

82
P. Gaspari, P. Sandri “Inclusione e diversità. Teorie e itinerari progettuali per una rinnovata
didattica speciale” Franco Angeli, 2015. pag. 39
83
P. Gaspari P. Sandri “Inclusione e diversità. Teorie e itinerari progettuali per una rinnovata
didattica speciale” Franco Angeli, 2015. pag. 39

52
2.8. Percorsi individuali, non individualistici

Vi è il rischio di confondere quelli che sono percorsi individuali con percorsi


individualistici, i quali rappresentano un ostacolo all’integrazione delle diversità,
oltre che un pericolo per le persone con deficit. Parlare di educazione individuale è
infatti ben diverso da educazione individualizzata come sottolinea anche
Bartolomeis. “La differenza tra le due è grande. La prima ignora e la seconda
promuove il bisogno sociale, guidandolo a prendere consistenza
84
nell’apprendimento culturale e morale” . La logica di individualizzazione trova la
propria concretizzazione nell’ambito del lavoro socializzato, senza articolarsi in
procedure individuali. Il contesto classe eterogeneo è una risorsa, che deve
prevalere sugli interessi individuali. Se così non fosse a pagarne le conseguenze
sarebbero in primis gli studenti diversamente abili, in quanto le diversità, da
risorse, si trasformerebbero in disuguaglianze. Nello scenario odierno, la
completa partecipazione dell’alunno con bisogni educativi speciali al progetto
didattico, resta un obiettivo da raggiungere, poiché frequentemente viene
ostacolato da prassi rigidamente specialistico-tecnicistiche, che non ne
permettono la valorizzazione dei potenziali educativi individuali. E’ importante
riservare una rigorosa attenzione alla legge della reciprocità, all’elaborazione di
progetti educativo-didattici caratterizzati da natura reticolare, orizzontale,
sinergica. Per poter valorizzare le differenze individuali e le caratteristiche
specifiche del singolo, è imprescindibile la scelta del criterio di differenziazione-
personalizzazione didattica, tuttavia deve essere preservato il legame con la
cultura della partecipazione. E’ utile ribadire che l’individualizzazione non coincide
con la didattica differenziata. “L’individualizzazione è una categoria generale della
didattica: se si vuole esercitare un intervento didattico proficuo, non si può
prescindere dalle capacità, dalle possibilità reattive e apprenditive del soggetto
[…] Una didattica differenziata, o specializzata deve corrispondere alle peculiari
esigenze di categorie di soggetti che presentano carenze e deficit organici
specifici”85.

84
F. De Bartolomeis “Introduzione alla didattica della scuola attiva” La nuova italia, Firenze, 1953,
p.13
85
R. Zavalloni “Introduzione alla didattica differenziale” La Feltrinelli, 1983. cit. p.19

53
La personalizzazione educativo-didattica, elaborata dagli studi di didattica speciale
per l’inclusione degli alunni in situazioni di handicap, è un argomento che deve
essere approfondito. Affinché questo sia possibile, devono essere approfonditi i
seguenti punti86:

1) Il potenziamento della ricerca, sia dal lato pratico che teorico;


2) La rivisitazione di rigorosi e specifici percorsi formativi per i docenti;
3) Il dialogo interdisciplinare;
4) Il potenziamento delle logiche di rete, della dimensione orientativa della
didattica stessa.

Offrire al bambino con deficit le condizioni per realizzare le proprie potenzialità


all’interno di una comunità socio-culturale, è la condizione sine qua non la scuola
possa essere realmente emancipativa e promotrice di un processo di integrazione
di sempre maggior qualità. La scuola deve restare medesima per tutti, ma senza
imporre a tutti né gli stessi percorsi, né gli stessi traguardi e neppure gli stessi
strumenti.

2.9. Valutazione e Auto orientamento

Per realizzare un processo di personalizzazione, in base a quanto visto finora,


sono necessarie alcune condizioni tra loro interconnesse87:

1) Pluralismo dei percorsi formativi;


2) Possibilità di scelta da parte dell’alunno;
3) Raggiungimento di un certo livello di consapevolezza delle personali abilità;
4) Un adeguato contesto scolastico.

Queste condizioni, a loro volta seguono alcuni fondamentali principi pedagogico-


didattici: il principio dell’auto-orientamento, il principio della valutazione critica e il
principio delle opzioni. Il principio delle opzioni elaborato da Edouard Claperède88,
prevede l’attivazione di attività opzionali scelte dallo studente in base alle proprie
inclinazioni personali (attività alternative, laboratori ecc). L’idea alla base è quello

86
P. Gaspari P. Sandri “Inclusione e diversità. Teorie e itinerari progettuali per una rinnovata
didattica speciale” Franco Angeli, 2015.
87
Ibidem.
88
Massimo Dei Cas, E. Claparede, 2009 (http://docplayer.it/11485864-Edouard-claparede-1873-
1940.html)

54
di ridurre il numero di ore della frequenza scolastica dedicate al “programma
minimo”, ovvero il nucleo del curricolo che deve essere comune al percorso
formativo di ogni allievo, ritagliando ore da rendere disponibili a “corsi”
complementari o speciali a scelta libera dello studente tra quelli attivati dall’istituto
scolastico, affinché ognuno possa ritagliarsi un curricolo personalizzato.

Il principio dell’auto-orientamento è “finalizzato a realizzare congiuntamente la


condizione della scelta e quella della autoconsapevolezza”89. Lo studente oltre ad
avere la possibilità di scegliere, dovrebbe sviluppare anche la capacità di
scegliere, ovvero imparare ad orientarsi autonomamente tra diverse alternative
possibili. Questa capacità è strettamente legata a due fattori: “da un lato la
progressiva consapevolezza dei propri punti di forza e dei propri punti di
debolezza; dall'altro la consuetudine con la valutazione delle diverse alternative
rispetto alle proprie inclinazioni.”90

Il principio della valutazione critica infine è finalizzato a rendere l’alunno cosciente


delle competenze e delle abilità raggiunte, sviluppando una capacità di
autovalutazione delle proprie esperienze formative.

Il tema della valutazione in particolare richiede una specifica riflessione. Così


come è importante che il prodotto, il profitto, le abilità raggiunte siano oggetto di
valutazione, è di altrettanta importanza la valutazione delle modalità processuali,
del come lo studente raggiunge i propri traguardi, i propri apprendimenti,
analizzando sia i procedimenti attivati, le strategie didattiche e gli strumenti più
funzionali, l’utilizzo dei tempi e degli spazi, sia la qualità dello sviluppo cognitivo e
metacognitivo raggiunti dall’alunno.

Di altrettanta importanza è la capacità di autovalutazione dell’allievo, per un


maggior grado di autonomia, ma anche e soprattutto per avere la possibilità di
constatare continuamente la validità dei suoi apprendimenti, contestualizzando le
abilità e le capacità ottenute oltre il confine scolastico, per capirne la valenza
sociale, culturale ed esistenziale. Valutazioni che mirano a riempire gli studenti di
nozioni prive di elementi di criticità e buon senso, privilegiando un’impostazione

89
G. Cerini, M. Spinosi “Voci della scuola duemilatre. Idee e proposte per l'organizzazione e la
didattica” Tecnodid, Napoli, 2004. CIT Massimo Baldacci, Preside della Facoltà di Scienze della
Formazione Primaria "L'individualizzazione" Università di Urbino
90
Ibidem.

55
didattica che privilegia solo alcuni settori della conoscenza sono obsolete ed
inefficaci. Si delinea un modello scolastico che “dovrebbe mirare alla realizzazione
di una valutazione autentica, cioè di un processo valutativo veramente predittivo di
ciò che gli studenti sarebbero capaci di fare qualora si trovassero in situazioni di
vita reale”91.

Le informazioni non vengono trattate passivamente dagli studenti, in quanto


partecipanti del processo di apprendimento, costruttori dei significati partendo da
quanto hanno acquisito. Gli allievi che padroneggiano il proprio apprendimento
sono in grado di darsi obiettivi di apprendimento appropriati, di utilizzare
costruttivamente le loro conoscenze e le loro abilità per orientare il loro
apprendimento e scegliere le strategie adatte per il lavoro che devono svolgere.

I tempi di apprendimento, i codici linguistici, le conoscenze ed esperienze


pregresse, le caratteristiche cognitive individuali sono variabili che richiedono
un’attenta riflessione nella logica della personalizzazione. Il tempo è una variabile
data dai diversi tempi di apprendimento che ogni alunno necessita,
differentemente l’uno dall’altro, per acquisire la stessa abilità/conoscenza. Il
linguaggio è la variabile determinata dalla padronanza di un determinato codice
linguistico e che incide inevitabilmente sulla qualità del processo di
apprendimento. Infine le conoscenze ed esperienze pregresse di un bambino, la
sua storia, i suoi vissuti, sono il punto di partenza sul quale adattare i percorsi di
apprendimento in base alle diverse condizioni possedute inizialmente dai singoli
studenti.

“Quindi la valutazione non si esaurisce nel giudizio delle prestazioni scolastiche,


ma deve allargarsi a comprendere anche la raccolta dei dati che servono a
valutare tutte le variabili in gioco: l’alunno, ma anche le “guide”, i metodi, le
condizioni create o imposte, i vincoli”92.

91
M. Pavone “Il portfolio per l’alunno disabile. Uno strumento di valutazione autentica e orientativa”
Erickson, Trento, 2006, p.54
92
M. Pavone “Il portfolio per l’alunno disabile. Uno strumento di valutazione autentica e orientativa”
Erickson, Trento, 2006, p.57

56
2.10. Valutazione Autentica

Uno dei temi più delicati è appunto la questione inerente la valutazione degli
studenti. Spesso infatti, mette in discussione insegnanti, alunni, famiglie e i motivi
di insoddisfazione sono tanti, ma il più ricorrente è la difficoltà nel trovare elementi
di trasparenza nell’espressione del giudizio. Inoltre la valutazione tradizionale
esclude93:

 Il processo di apprendimento;
 La costruzione dell’apprendimento;
 La capacità di applicazione reale (autentica) di ciò che si è imparato;
 La manifestazione delle abilità sociali;
 Lo sviluppo della conoscenza;
 L’autovalutazione da parte dello studente;
 La condivisione dei criteri di valutazione.

Una recente corrente di pensiero, che nasce dalla riflessione critica sulla
valutazione tradizionale, ovvero quella valutazione misurata attraverso forme
standardizzate, ha portato a una valutazione alternativa, meglio nota come
valutazione autentica.

Solitamente la valutazione del profitto scolastico si ottiene confrontando i risultati


attesi (gli obiettivi), con i risultati ottenuti, stimando così il grado di apprendimento.
In seguito all’esigenza di misurazioni più precise possibili, si è dovuto ricorrere a
prove standardizzate. Nonostante questo sistema voglia misurare il grado di
successo o insuccesso di apprendimento dello studente, di fatto è diventato anche
un sistema di giudizio selettivo. Tuttavia il limite maggiore della valutazione
tradizionale, sta nel valutare ciò che un ragazzo riproduce nel momento della
prova, del test, e non il processo di costruzione e sviluppo della conoscenza, né la
capacità di applicazione reale della conoscenza posseduta. Affinché una
valutazione sia più estesa, più autentica, dovrebbe considerare la capacità “di

93
A cura di Daniela Di Donato “Valutazione Autentica” 2016
(http://www.iccastelcovati.gov.it/sito/wp-content/uploads/2016/03/Valutazione-autentica.pdf)

57
pensiero critico, di soluzione dei problemi, di metacognizione, di efficienza nelle
prove, di lavoro in gruppo, di ragionamento e di apprendimento permanente”94.

Grant Wiggins, con l’idea di valutazione autentica, indica una valutazione che
verifichi non solo ciò che lo studente sa, ma come sa usare le sue conoscenze,
con prestazioni reali e adeguate al suo apprendimento, una verifica basata non su
un test, ma su una prestazione95. Molti studenti ottengono buoni risultati nei test a
scelta multipla, ma nel momento in cui si chiede loro di dimostrare ciò che sanno
con una prestazione concreta, non dimostrano lo stesso grado di preparazione
emerso dagli stessi test. D’altronde conoscere la struttura di una bicicletta e le
regole stradali, non significa poi di fatto saper guidare una bici. Valutare concetti e
nozioni è diverso quindi, dal valutare le reali capacità di ragionamento critico, di
problem solving, e creatività dello studente in situazioni concrete e reali. Ancora
Wiggins sottolinea che valutiamo autenticamente “quando ancoriamo il controllo al
tipo di lavoro che persone concrete fanno piuttosto che solo sollecitare risposte
facili da calcolare con risposte semplici. La valutazione autentica è un vero
accertamento della prestazione perché da essa apprendiamo se gli studenti
possono in modo intelligente usare ciò che hanno appreso in situazioni che in
modo considerevole li avvicinano a situazioni di adulti e se possono rinnovare
nuove situazioni”96.

L’enfasi della valutazione ricade sulla riflessione e sulla comprensione, in un


contesto in cui gli studenti devono applicare le loro conoscenze in contesti reali,
vivi. “La valutazione autentica o alternativa si fonda quindi anche sulla convinzione
che l’apprendimento scolastico non si dimostra con l’accumulo di nozioni, ma con
la capacità di generalizzare, di trasferire e di utilizzare la conoscenza acquisita a
contesti reali. Per questo nella valutazione autentica le prove sono preparate in

94
J. Arter, L. Bond “Why is assessment changing” In R. E. Blum, & J. A. Arter (Eds.), A handbook
for student performance assessment in an era of restructuring, (I-3: 1-4). 1996. Alexandria, VA:
Association for Supervision and Curriculum Development
95
G. Wiggins “Assessing student performance: Exploring the purpose and limits of testing” San
Francisco, 1993, CA: Jossey-Bass
96
G.Wiggins “Educative assessment. Designing assessments to inform and improve student
performance” San Francisco, 1998, CA: Jossey-Bass.

58
modo da richiedere agli studenti di utilizzare processi di pensiero più complesso,
più impegnativo e più elevato”97.

Sempre Wiggins riassume in sei punti le caratteristiche principali per una


valutazione autentica:

1) Rilevanza del mondo reale (i compiti devono essere collocati in contesti


quanto più reali);
2) Richiede giudizio e innovazione (le sfide non devono essere risolvibili con
procedimenti standardizzati o applicando algoritmi preesistenti, ma proporre
problemi risolvibili in più modi con l’utilizzo delle abilità e delle conoscenze
possedute);
3) Richiede agli studenti di “costruire” la disciplina (esplorare e lavorare dentro
una disciplina, senza replicare o riaffermare quanto gli è stato insegnato);
4) Replica o simula i contesti nei quali gli adulti sono “controllati” sul luogo di
lavoro, nella vita civile e nella vita personale;
5) Accerta l’abilità dello studente a usare efficientemente e realmente un
repertorio di conoscenze e di abilità per negoziare un compito complesso;
6) Permette appropriate opportunità di ripetere, di praticare, di consultare
risorse e di avere feedback su e di perfezionare la prestazione e i prodotti.

Non essendo selettiva, o classificatoria, la valutazione autentica promuove e


rafforza tutti, permettendo a tutti di compiere prestazioni di qualità. Promuove
l’autoriflessione e il controllo del proprio apprendimento, rendendo gli studenti
esaminatori di sé stessi e gli insegnanti mediatori del processo di apprendimento.

97
P. Winograd, F. D. Perkins “Authentic assessment in the classroom: Principles and practices”. In
R. E. Blum, & J. A. Arter (Eds.), A handbook for student performance assessment in an era of
restructuring (I-8: 1-11), 1996, Alexandria, VA: Association for Supervision and Curriculum
Development.

59
60
3. Esperienza senza zaino

3.1. Le scuole pilota

Nello stato attuale la scuola italiana, nella definizione di un suo profilo definitivo
che non potrà che essere sperimentale, necessita da parte del personale e delle
istituzioni un duplice impegno. Da un lato deve progettare itinerari innovativi di
offerte formative, di curricoli, per tenere viva la ricerca pedagogica nell’ambiente
scolastico, sia per l’organizzazione che per la sua identità culturale e civile.
Dall’altro deve “dotarsi di modelli-guida”, di esperienze di riferimento, di “scuole
pilota”, da tener presenti non come calchi da applicare, ma come stimoli da far
rivivere, scegliendoli adattandoli e calibrandoli in base alla situazione locale,
assunta nella propria realtà scolastica”98. Il ruolo delle scuole-pilota diventa
centrale all’interno di questo scenario, e andrebbero conosciute nella loro identità
e nella loro modalità di rispondere innovativamente ai problemi di difficile
soluzione per la scuola attuale. Vi sono diversi esempi di scuole sperimentali in
Italia, dalla Scuola-Città Pestalozzi a Firenze, attiva dal 194599, alla Società
Umanitaria, così come le scuole-pilota montessoriane, e quelle steineriane, scuole
che con le loro caratteristiche specifiche, calandosi nella realtà scolastica locale,
svolgono una funzione innovativa e orientativa per l’attuale scuola dell’autonomia,
una scuola che deve essere sperimentale, ed in quanto tale necessita di stimoli e
modelli. Una di queste esperienze è la “Senza Zaino”, ideata da Marco Orsi,
realizzata a Lucca, e ispirata a modelli illustri (Montessori, Dewey, Bruner tra
questi). Questo capitolo intende appunto presentare il progetto, evidenziando la
sua doppia valenza – essere un modello e elemento innovativo – e come di fatto
rifletta l’idea di inclusione presentata nel capitolo precedente.

Alcuni interrogativi basilari si muovono alla base: cosa viene offerto oggi agli
studenti? Competenza, autonomia e apprendimento trovano spazio nelle offerte
formative? E’ un modello di formazione che porta all’esplorazione del sapere, o un
semplice travaso di informazioni da docente a studente? E ancora, la scuola è un
luogo vitale, di ricerca collettiva, dove sperimentare esperienze significative, e
lavorare in comunità, o un luogo di transito dove le nozioni apprese risultano prive

98
M.Orsi "A scuola senza zaino" Erickson, 2006 p.13
99
http://www.centrostoricopestalozzi.it/scuola-citta-pestalozzi/scuola-citta-pestalozzi.html

61
di significato e richiedono sforzi ingiustificabili? La persona viene considerata nella
sua globalità, nelle sue debolezze e potenzialità, nei suoi desideri e aspettative?
Qual è la causa della demotivazione, della noia e della passività constatabile negli
alunni? E’ una scuola che rispetta la loro dignità, svincolata da modelli conformisti,
che promuove libertà, indipendenza, autonomia, creatività e ricerca?

Se ci sono delle responsabilità, la scuola, ne ha la sua buona parte, ragion per cui
è chiamata a ripensare criticamente a pratiche consolidate, a rimettere in
discussione strutture, impostazioni e comportamenti sedimentati. Come già visto,
fin dagli anni Novanta, si sottolineava l’importanza dell’autonomia degli istituti
scolastici, della necessità di un sistema aperto a sperimentazioni e proposte, con
elementi di flessibilità e innovazione, per un sistema che correva il rischio di
restare fossilizzato. Di fatto però, il modello è rimasto quello di allora,
caratterizzato da un sapere trasmissivo fondato su tre elementi: spiegazione alla
cattedra, compito individuale ai banchi, test di verifica. La ricerca e
l’apprendimento basate sull’esperienza non trovano spazio in una struttura che ha
la sua centratura sulla motivazione estrinseca data dai voti, in una relazionalità
individualistica e competitiva.

Il cambiamento è necessario e parte, nell’esperienza Senza Zaino, dai semplici


oggetti (definiti “hardware”), apparentemente neutri, ma colmi di significato. Il
primo da cui parte è proprio lo zaino che gli studenti utilizzano per andare a
scuola: perché lo si usa solo a scuola? Perché gli adulti utilizzano cartelle ben più
leggere? Immaginarne un’esclusione fa emergere resistenze, chiusure che
evidenziano come gli oggetti hanno rilevanza nelle organizzazioni, e il loro
coinvolgimento è d’obbligo se si cerca il cambiamento, dallo zaino, all’aula, a
quella struttura mentale composta da cattedre, banchi e lavagne.

Non si tratta solamente di una progettazione generica della formazione ma


dell’ambiente formativo, in una visione ecologica del fare scuola che ha portato
all’elaborazione del Metodo del Curricolo Globale. Questo non è un metodo di
insegnamento, ma una prospettiva che considera l’esperienza scolastica nella sua
totalità vissuta quotidianamente dallo studente e che influisce sulla sua crescita e
sul suo apprendimento, sulle relazioni soggetto-soggetto e soggetto-oggetto. Più
precisamente si tratta di pensare ad un sapere e una conoscenza in grado di

62
spaziare dalla realtà locale fino ad investire il mondo intero, consapevoli del fatto
che viviamo in una realtà interconnessa, dove le istanze personali si legano a
quelle sociali e planetarie. Sotto questo aspetto il Metodo del Curricolo Globale
segue e fa proprio quanto indicato dalle Indicazioni Nazionali per il curricolo,
laddove si enuncia che “Le relazioni fra il microcosmo personale e il macrocosmo
dell’umanità e del pianeta oggi devono essere intese in un duplice senso. Da un
lato tutto ciò che accade nel mondo influenza la vita di ogni persona; dall’altro,
ogni persona tiene nelle sue stesse mani una responsabilità unica e singolare nei
confronti del futuro dell’umanità.

La scuola può e deve educare a questa consapevolezza e a questa responsabilità


i bambini e gli adolescenti, in tutte le fasi della loro formazione. A questo scopo si
deve comprendere che il bisogno di conoscenze degli studenti non si soddisfa con
il semplice accumulo di tante informazioni in vari campi, ma solo con il pieno
dominio dei singoli ambiti disciplinari e, contemporaneamente, con l’elaborazione
delle loro molteplici connessioni”100.

Progettare con il Metodo del Curricolo globale significa lavorare con un sistema
complesso dove nozioni e oggetti, software e hardware, sono connessi e
interagiscono tra di loro. Viene promosso un disegno didattico in cui docenti e
alunni assieme elaborano il percorso scolastico, uscendo dalla logica
dell’insegnante che progetta lavori da far svolgere agli studenti, ed entrando
nell’ottica di una costruzione condivisa di progetti e significati, dove tutti hanno un
ruolo e sono impegnati nella ricerca del sapere. Significa ripensare il concetto
stesso di progettare, intendendo un “chi fa che cosa” riferito sia agli alunni che agli
insegnanti, arrivando di fatto ad immaginare un apprendimento cooperativo in una
scuola che diventa effettiva comunità di ricerca.

Un ultimo punto di forza della Scuola Senza Zaino è la riduzione dell’enfasi sui
risultati. Nel nostro sistema scolastico viene data troppa importanza agli obiettivi
da raggiungere, a discapito del processo di apprendimento. Si è imposto un
modello per obiettivi che ha messo in secondo piano la metodologia, togliendo

100
"CULTURA SCUOLA PERSONA.VERSO LE INDICAZIONI NAZIONALI PER LA SCUOLA
DELL'INFANZIAE PER IL PRIMO CICLO DI ISTRUZIONE: LA SCUOLA NEL NUOVO
SCENARIO" Roma, 3 aprile 2007
http://archivio.pubblica.istruzione.it/ministro/comunicati/2007/indicazioni_nazionali.shtml

63
valore all’attività didattica. Dare eccessivo valore alla prestazione, sul risultato ha
costi che vengono pagati in termini di stress da parte dell’alunno e del docente,
con uno svuotamento di senso del processo di apprendimento. Inoltre vi sono altri
aspetti critici inerenti a questo fenomeno, come evidenziato da Ivano Gagliardini e
Paolo Meazzini101:

a) Elevati stati d’ansia sono invalidanti per la prestazione;


b) Molti studenti nelle scuole presentano aspetti legati all’ansia da
prestazione;
c) La scuola non è al momento attrezzata per analizzare e intervenire sul
fenomeno;
d) Molti soggetti con forte ansia da prestazione sono emotivamente labili,
tanto che alcuni di essi, dopo alcuni insuccessi, abbandonano la scuola.

Questo apprendimento finalizzato al risultato, è lo specchio di un modello


scolastico passivo, che tiene sotto pressione studenti e docenti. Il progetto Senza
Zaino invece propone un modello che valorizzi l’attività stessa, alleggerendo il
peso dei risultati, puntando sul coinvolgimento degli alunni. La scuola diventa un
ambiente formativo in cui lo studente è protagonista di una ricerca continua, di
cooperazione, di libertà di esplorazione del campo del sapere.

Presento la Scuola Senza Zaino, proprio perché a mio avviso, riflette le principali
caratteristiche della Scuola Inclusiva, una scuola che, come abbiamo visto,
riconosce la persona in tutta la sua globalità, è luogo vitale, appassionante e
coinvolgente, dove si ricerca insieme, in uno spirito di comunità, e promuove
competenze autonomia e apprendimento. Un modello di scuola che non vuole
essere punto di arrivo, ma tappa verso la migliore delle scuole possibili.

3.2. Senza Zaino

La prima riflessione comincia da quello che Edgar Schein classificherebbe come


Artefatto Materiale: lo zaino. Per artefatti intendiamo quei prodotti immediatamente
osservabili (architettura, abbigliamento, rituali, gerghi) ma che devono essere
interpretati. Rappresentano “il livello di percezione della cultura più immediato, che
101
I. Gagliardini, P. Meazzini "L'ANSIA NELLA VALUTAZIONE SCOLASTICA - Gli aspetti critici del
fenomeno" Dalla rivista "Terapia del comportamento n. 33-34/1992" Bulzoni editore
http://www.neurolinguistic.com/proxima/articoli/art-57.htm

64
si osserva e si ascolta non appena si entra in azienda […], una traccia evidente
della struttura culturale, osservabile anche da spettatori esterni all’organizzazione,
e proprio perché facilmente interpretabile è uno strumento chiave della
trasmissione della cultura e dell’apprendimento”.102 Gli oggetti utilizzati in altre
parole, riflettono una cultura, le teorie in uso, all’interno di un’organizzazione. In un
artefatto vengono racchiusi molteplici aspetti che tuttavia essendo impliciti, talvolta
sono celati. Un elemento comune e apparentemente banale nella scuola è lo
zaino, che però in sé racchiude diverse questioni. E’ interessante infatti chiedersi
come mai venga utilizzato in ambito scolastico, mentre i professionisti in ambito
lavorativo utilizzino delle semplici cartelle leggere. Qual è la sua dimensione più
profonda? Cosa si cela sotto la punta di questo iceberg?

Partiamo dalla definizione base del termine: “Sacco di tessuto robusto, con tasche
esterne e spallacci, usato da militari, escursionisti, alpinisti ecc…”103 Quello che
emerge, è l’immagine di un artefatto utilizzato da chi si appresta ad affrontare
ambienti inospitali, talvolta di guerra, ma in ogni caso disagevoli. E’ dunque questa
l’immagine che si profila della scuola: un ambiente formativo spoglio, senza gli
equipaggiamenti base, che richiede ai suoi membri (gli studenti) di attrezzarsi.
Un’inabilità data non solo dalla necessità dello zaino, ma dalle architetture spesso
rigide, con spazi non adeguatamente curati, poco attrezzate, e stanze strette
destinate a contenere tra i venti e i trenta alunni quando normalmente lo stesso
spazio ospiterebbe cinque impiegati circa.

Quello che appare è una svalutazione sostanziale degli oggetti materiali, i quali
vengono spogliati sia del loro significato che del loro valore. Di fatto
l’insegnamento diventa de-contestualizzato e astratto, separato dal concreto e dal
reale, snaturando il valore dell’esperire vissuto nello spazio con i suoi artefatti.
Eppure ogni oggetto è portatore di messaggio, ma non solo: “ogni nuovo
strumento non solo perfeziona la qualità del messaggio ma lo modifica! Gli
strumenti e la tecnologia non sono mai neutri rispetto ai contenuti che
veicolano”.104 Gli oggetti in generale, non solo lo zaino, condizionano le relazioni di

102
L. Liguori “La cultura organizzativa: studi teorici ed applicativi” Tesi di Laurea Università degli
Studi della Tuscia, 2012
103
http://dizionari.repubblica.it/Italiano/Z/zaino.php
104
M. McLuhan "You Know Nothing of My Work!" Lez. 15-16, 2013
http://didattica.uniroma2.it/assets/uploads/corsi/145317/Corso_2012-13_lez_15-16.pdf

65
apprendimento, indipendentemente dal docente, ragion per cui questi deve
prestare grande attenzione alla valenza strutturale, ai modelli pedagogici ancorati
in un sistema composto da relazioni, soggetti e artefatti materiali e immateriali che
influiscono sulla qualità dell’azione didattica. L’organizzazione di cui parla Schein
non deve essere ristretta solamente all’ambito lavorativo, ma qualsiasi luogo della
vita, inclusa la scuola, quest’ultima frequentata da ragazzi maggiormente sensibili
ai messaggi. “Il mondo esiste in forme, colori, atmosfere, qualità tattili:
un’ostensione di forme che si autopresentano. Tutte le cose mostrano un volto, il
mondo non si riduce solo ad un insieme di segni in codice da cui decodificarne il
significato, bensì una fisionomia da guardare in faccia. In quanto forme
espressive, le cose parlano, mostrano nella forma lo stato in cui sono. Si
annunciano, testimoniano della propria presenza […] e guardano noi,
indipendentemente da come noi le consideriamo, indipendentemente dalle nostre
prospettive, da ciò che vogliamo fare di esse, e da come di esse disponiamo.” 105
Anche lo zaino ha un suo volto, e parla di un ambiente disagevole al quale docenti
e alunni si abituano, ed in questa abitudine il messaggio viene celato. E’ un
messaggio che però arriva a livello inconscio, percepito sebbene non riconosciuto,
e contraddice i progetti di accoglienza che talvolta la scuola prova ad attuare.

La stessa inospitalità della scuola viene ben descritta dall’attesa fatidica, da parte
di studenti e docenti, del suono della campanella che sancisce il termine delle
lezioni. Un’attesa che caratterizza la scuola come luogo transitorio, attraversato da
persone che desiderano andarsene quanto prima possibile.

Un luogo, per essere tale, secondo Marc Augè, dovrebbe rispondere a tre
caratteristiche106:

 Essere identitario: in grado quindi di individuare l’identità di chi lo abita;


 Essere relazionale: stabilendo una reciprocità dei rapporti tra gli individui
funzionale ad una comune appartenenza;
 Essere storico: mantenendo la consapevolezza delle proprie radici in chi lo
abita.

105
P. Mottana "La 'controeducazione' di James Hillman" Editore Ipoc, 2013. p.41
106
“Paesaggi Mutanti” Blog. http://paesaggimutanti.it/node/198

66
Tuttavia la transitorietà e l’inospitalità legate alla scuola sembrano meglio
identificarla come un non-luogo, uno spazio privo di valore identitario, asettico. E’
impensabile l’apprendimento in un ambiente con queste caratteristiche. Il
cambiamento, per poter essere autentico, deve partire dalla progettazione di un
mondo ospitale, di un luogo identitario, di un luogo dove la persona viene
riconosciuta. Un luogo dove gli oggetti comunichino accoglienza a chi vi
interagiscono.

E’ difficile pensare a una pedagogia inclusiva quando allo stato attuale viene
utilizzato un modello pedagogico trasmissivo, individualistico e sorvegliativo, in cui
sono proibiti gli scambi tra compagni, ed il docente è un mero trasmettitore di
contenuti, oltre che un sorvegliante. Dove trovano spazio cooperazione,
partecipazione e scoperta in questo modello, vecchio di circa duemila anni? E
ancora, che tipo di motivazione muove lo studente nello studio? E’ una
motivazione intrinseca, caratterizzata dal piacere del conoscere e della scoperta, o
una motivazione estrinseca, dovuta al compiacimento degli adulti, siano essi
genitori o insegnanti?

Torniamo ora allo zaino e approfondiamo la sua funzione ed il perché viene


utilizzato. Generalmente questo contiene libri di testo, quaderni, e strumenti che
servono ad interagire con questi (penne, matite ecc.). Si profila una scuola
libresca ed astratta, che pensa il reale, ma senza toccarlo. Come abbiamo già
visto però “l'educazione viene a coincidere con l'esperienza, e si connota quindi
come un processo interattivo tra l'individuo e l'ambiente in cui esso è inserito. […]
Per essere educativa, e vantare dunque un valore pedagogico, un'esperienza
deve avere le caratteristiche della continuità e dell'interazione.”107 Parlare di
scuola senza zaino vuol dire allora liberarsi non solo di un semplice oggetto, ma di
una serie di connotazioni negative che rovinano l’apprendimento e il far scuola,
attaccando non solo la parte ecologica, ma anche l’aspetto organizzativo, mirando
ad un sistema nuovo, inclusivo, dove tutti sono protagonisti liberi di imparare ed
insegnare, pur riconoscendo a ciascuno ruoli e risorse differenti. Una scuola dove
gli insegnanti organizzano collegialmente un ambiente ricco di stimoli, esperienze,

107
"Il pragmatismo americano: Dewey" Sapere.it
http://www.sapere.it/sapere/strumenti/studiafacile/psicologia-pedagogia/Pedagogia/La-scienza-dell-
educazione-nel-Novecento/Il-pragmatismo-americano--Dewey.html

67
guidando e problematizzando, accompagnando e facilitando, guidando verso la
conoscenza in un percorso impegnativo ma gratificante. “In definitiva togliere lo
zaino diventa significativo se cogliamo tutte le valenze del modello pedagogico
che esso sostiene e se contemporaneamente agiamo su più piani in favore di un
modello diverso, non tanto per progettare la formazione ma, più estesamente, per
ri-progettare l’ambiente formativo”.108 Un percorso verso qualcosa di nuovo,
seguendo le idee della scuola come comunità di ricerca, che tocca il mondo reale
e contribuisce alla sua trasformazione.

3.3. Knowledge Building Community

Abbiamo visto come in generale lo zaino evidenzia un modello pedagogico e


organizzativo parcellizzato in cui si privilegia una concezione logico-astratta del
processo di insegnamento-apprendimento, dimenticandosi della concretezza, del
mondo reale, aspetto di fondamentale importanza nell’apprendimento. Si tratta di
quell’esperienza a cui attualmente viene dato poco peso, di un metodo
laboratoriale e sperimentale, a cui invece si tende a preferire quello alfabetico-
tipografico basato sul parlare, leggere, scrivere, ascoltare. In altre parole viene
privilegiato il pensiero astratto, togliendo rilevanza, o addirittura eliminando il
carattere empirico, dimenticando però che il processo stesso di astrazione parte
proprio dalla realtà tangibile (Aristotele nel Libro Tredicesimo della Metafisica). “In
classe i ragazzi sono fondamentalmente passivi, non fanno nulla o quasi nulla con
le mani o le gambe, e il solo modo di comportamento che essi sono in grado di
esprimere, in condizioni molto spesso restrittive non fosse altro che per ragioni di
ordine e disciplina, è quello verbale: rispondere alle domande dell’insegnante,
prendere appunti, scrivere un tema e così via.”109

Diventa allora interessante pensare a un ambiente formativo che parta invece


dall’esperire, dalla pratica vissuta in un ambiente di comunità, in un autentico
clima di collegialità professionale, di partecipazione degli studenti, dove
l’insegnamento è vissuto e non “subito”. Si tratta di rendere i discenti protagonisti
della propria crescita e del proprio apprendimento, in un processo educativo in cui
non si parte dalla “forma”, ma dalla “materia”, dove viene sollecitata la libera
108
M.Orsi "A scuola senza zaino" Erickson, 2006 p.31
109
D. Parisi “Perché la psicologia dell’apprendimento serve così poco a scuola” Scuola et Città n.2,
2002. P.61

68
crescita di ciascuno nel rispetto delle regole costruite collegialmente che non
costituiscono vincoli, ma indicazioni di una strada da percorrere. Essendo un
percorso condiviso da più partecipanti, diventa centrale l’idea di comunità. Una
comunità che diventa tale nel momento in cui è110:

 Una comunità di relazioni: amicizia, informalità accettazione incondizionata


gli uni degli altri;
 Una comunità di luogo: spazi ampi, accoglienti, dotati di materiali / senso di
appartenenza, riconoscimento affettivo dello stare assieme, lavoro efficace;
 Una comunità di mente e di cuore studenti, docenti, genitori condividono
valori, obiettivi, saperi, modi di fare;
 Una comunità di memoria: genera, storia e storie, alimenta i legami;
 Una comunità di pratiche: accoglie e valorizza le pratiche e le condivide.

Possiamo trovare una sintesi di questi concetti nell’idea della comunità di ricerca.
Vale a dire una comunità formata da più persone tra loro connesse, collegate a
loro volta con altre comunità, sia perché il soggetto singolo è in situazione di
multiappartenenza, sia perché le comunità sono legate tra loro e più in generale
con il mondo, e sono dotate di risorse materiali, in quanto le attività sono la
risultante di un’interazione tra soggetti e oggetti. In altre parole la comunità di
ricerca è una “serie di relazioni fra alcune persone, un’attività e il mondo, sia nel
loro divenire sia in rapporto ad altre comunità di pratica tangenziali e in parte
sovrapposte”111.

L’apprendimento in questo caso diventa il risultato di un’azione costante di


indagine, di esplorazione, in una dimensione di ricerca dove il clima, l’agire, le
relazioni, gli obiettivi, la configurazione degli spazi e degli arredi hanno una
valenza fondante e fondamentale. E’ una comunità di ricerca che è visibile, in
quanto produce manufatti culturali, vale a dire scoperte, indagini, conoscenze,
competenze112 che devono essere mostrati, resi pubblici tramite pannelli, cartelloni
plastici o qualsiasi altro oggetto rappresentativo (mostre, rappresentazioni teatrali,
relazioni, ecc.). Una comunità quindi aperta all’esterno, che diventa un’agenzia
culturale al servizio della comunità locale in cui è inserita. Un ulteriore aspetto

110
T. J. Sergiovanni “Costruire comunità nelle scuole” Las, 2000. P.66
111
J. Lave, E.Wenger “L’apprendimento situato” Erickson, Trento, 2006. P.64
112
M. Santi "Costruire comunità di integrazione in classe" Pensa Multimedia, 2006

69
importante è il ricercare insieme, che apre ad apprendimenti non solo di tipo
cognitivo, ma anche relazionali (cooperazione) e promuove valori improntati al
riconoscimento dell’altro, alla scoperta del proprio sé, ed al dialogo. La scuola
diventa laboratorio dove si impara agendo, partendo da ambiti concreti e non
decontestualizzati, e l’esperire diventa centrale.

Cambia di fatto anche il ruolo di docente che, se nella scuola senza zaino è un
vaso che riversa le sue conoscenze nei suoi studenti, nella comunità di ricerca,
abbracciata dal progetto Senza Zaino, agisce principalmente come esperto nella
disciplina e coordinatore del gruppo di ricerca. Sostiene e incoraggia lo sviluppo
della ricerca, fornendo i dati a sua disposizione, la sua conoscenza non limita ciò
che viene appreso dagli studenti, ma contribuisce allo sviluppo del discorso
comune, può analizzare criticamente le idee ed argomentare le proprie posizioni,
ma senza porre la sua conoscenza come punto di arrivo definitivo ed indiscutibile.
“Il suo ruolo passa quindi dal facilitare dall’esterno il processo di apprendimento al
prenderne parte e condurlo, mantenendo un ruolo di leadership in virtù del fatto di
essere esperto su come costruire conoscenza su un problema oggetto di
indagine.”113

Viene allora naturale interrogarsi sul come e sul cosa la valutazione della
conoscenza può avere luogo all’interno di quest’ottica. Se per conoscere è
necessario valutare, per valutare è necessario conoscere. Con questo gioco di
parole, si intende affermare che il processo di valutazione rientra a pieno titolo nel
processo formativo, e ha come obiettivo la registrazione dei processi comunicativi,
le metodologie di soluzione dei problemi e i cambiamenti prodotti dalla comunità di
ricerca. Non si limita a una valutazione sommativa, ad una certificazione dei
risultati raggiunti, perché guarda il processo in itinere, alle trasformazioni avvenute
nel percorso che ha portato a determinati risultati (cognitivi relazionali,
motivazionali). “Limitarsi alla valutazione del prodotto significherebbe attribuire
pesi e misure a performance individuali, a prodotti isolati, creando un netto
distacco non solo tra questi oggetti della valutazione, ma anche tra i processi che
li hanno prodotti (spesso paralleli, talvolta interrelati, raramente completamente

113
S. Cacciamani "Verso una scuola come comunità di ricerca: Per costruire il sapere attraverso
l’interazione non è necessaria la presenza fisica. Un ambiente di lavoro online può offrire strumenti
e potenzialità nuove. La scuola come comunità di apprendimento" L'E'cole Valditaine, 2004
http://www.regione.vda.it/istruzione/Pubblicazioni/ecole_valdotaine_archives/74/24.htm

70
indipendenti).”114 Inoltre una valutazione di prodotto separa il valutatore
dall’oggetto della valutazione, quando invece nella comunità di ricerca è la stessa
comunità che stabilisce i criteri di valutazione ed è valutatrice del proprio lavoro.
Una valutazione del nostro tipo allora richiede altri strumenti, tra i quali possiamo
citare il portfolio della comunità ed il rise above. Col primo si intende un processo
di raccolta del materiale prodotto dalla comunità, e considerato dalla stessa come
indicativo della conoscenza sviluppata e del suo processo di costruzione. Col rise
above invece si intende un passaggio di sintesi, in cui i membri della comunità
fanno il punto della situazione e cercano di definire una fase intermedia di sintesi
dei risultati raggiunti.115 In entrambi i casi si ricorre ad una valutazione continua e
distribuita, e mentre col primo si considera un processo che coinvolge tutti i
membri della comunità, eliminando la separazione valutatore-valutato, col primo si
fa riferimento a una collocazione simbolica della valutazione inserita non al
termine del processo, ma come processo continuo. “Il modello teorico della KBC è
attualmente implementato nella formazione online attivata presso l’Università della
Valle d’Aosta, con esiti molto positivi sia sul versante della valutazione delle
attività formative da parte degli studenti sia per quanto riguarda i risultati ottenuti in
termini di prestazioni accademiche.”116

3.4. Dalla dipendenza alla responsabilità

Atteggiamenti di passività e sottomissione sono propri di un modello pedagogico


improntato alla dipendenza, un modello la cui attenzione è rivolta al controllo e alla
sorveglianza. In quest’ottica l’apprendimento passa in secondo piano, dando più
spazio e rilevanza ad un clima ordinato e controllato, dove gli studenti sono
passivamente subordinati all’insegnante. Ne consegue una motivazione
dell’alunno estrinseca, in cui l’obiettivo è il soddisfacimento delle richieste del
docente e le attese dei propri genitori, risultando di fatto in un apprendimento

114
L. Vanin, S. Cacciamani "Knowledge Building Community in classe:progettazione,
realizzazionee valutazione - L'applicazione del modello Knowledge Building nella scuola italiana"
TD 47 numeo 2, 2009
115
L. Vanin, S. Cacciamani "Knowledge Building Community in classe:progettazione,
realizzazionee valutazione - L'applicazione del modello Knowledge Building nella scuola italiana"
TD 47 numeo 2, 2009
116
S. Cacciamani "Verso una scuola come comunità di ricerca: Per costruire il sapere attraverso
l’interazione non è necessaria la presenza fisica. Un ambiente di lavoro online può offrire strumenti
e potenzialità nuove. La scuola come comunità di apprendimento" L'E'cole Valditaine, 2004
http://www.regione.vda.it/istruzione/Pubblicazioni/ecole_valdotaine_archives/74/24.htm

71
efficace nel breve termine, vale a dire nel conseguimento del buon esito di un test,
ma inefficace nel medio e lungo termine. “Tale scuola si rivela altresì incapace di
motivare ed entusiasmare gli allievi, di trasmettere loro il senso dell’impegno
scolastico, di proporre apprendimenti connessi al mondo reale, di promuovere la
padronanza di un ambito conoscitivo. Essa pertanto si accontenta del
“compromesso delle risposte corrette”, ossia dell’esibizione, da parte dei suoi
studenti, di “prestazioni meccaniche, ritualistiche e convenzionali” che non
garantiscono la presenza di una comprensione profonda né della capacità di
applicare quanto appreso in contesti differenti. E’ proprio per tale ragione che […]
nel discente scolastico sopravvive la mente incolta di un bambino di cinque anni
con tutto il suo carico di teorie intuitive, di stereotipi, di concezioni errate che
l’istruzione successiva non riesce ad estirpare in quanto ignora”.117 Si svuota in
questo modo il senso dell’apprendimento, perché non risponde ai bisogni più
profondi, e questo genera un disagio che si traduce o in collaborazione e
passività, o in demotivazione e disinteresse. Pur essendo un modello con
maggiore diffusione, è anche quello ritenuto generalmente meno efficace. L’aula,
come già visto, è uno degli strumenti di controllo principali, in cui grazie alla sua
disposizione, permette all’insegnante di avere i suoi studenti faccia a faccia,
impedendo scambi verbali, o qualsiasi altra azione che potrebbe generare disturbo
e ostacolo alla comunicazione del docente. Questa posizione mette in rilievo un
certo tipo di considerazione che si ha degli alunni: persone “incapaci di affrontare
processi di apprendimento senza coercizioni, inevitabilmente portati a non stare
attenti in classe, a parlare col vicino di banco, a ingannare l’insegnante”.118 E’ un
modello, quello della dipendenza, fondato su alcuni assunti di base riassumibili in
sette punti, che collidono col concetto di scuola inclusiva119:

1) Sfiducia verso gli studenti, inclini per natura al disturbo e al disinteresse;


2) L’insegnante controllore, che mantiene l’ambiente ordinato e disciplinato,
richiedendo silenzio, obbedienza, e ascolto, grazie all’uso di premi e
punizioni;
3) Il processo di insegnamento subordina l’apprendimento;

117
B. De Canale "Howard Gardner e la Teoria delle intelligenze multiple - Parte seconda" Pegaso
Università Telematica, Lezione XVII, 2006
118
L. D'Alonzo "Integrazioni e gestione della classe" La Scuola, Brescia, 2002. p.70-71
119
M.Orsi "A scuola senza zaino" Erickson, 2006

72
4) Le regole sono imposte dall’esterno;
5) Gli studenti svantaggiati devono essere “trattati” separatamente;
6) Il sistema premi-punizioni, favorisce la motivazione estrinseca a discapito di
quella intrinseca;
7) Spazi tradizionali, tempi standardizzati e insegnamenti sequenziali.

“Gestire la classe non significa, quindi, ‘tenere la disciplina’, è molto di più, poiché
la disciplina è certamente importante, ma, di per sé, non risolve e, soprattutto, non
promuove l’apprendimento. Essa è volta a mantenere l’ordine, a prevenire i
comportamenti inadeguati degli allievi, a controllare gli atteggiamenti degli alunni
in modo da correggere ed intervenire con azioni più o meno coercitive nei
confronti degli studenti per ricondurre le condotte inadatte ad un ordine
condiviso.”120

Si contrappone a questo modello, quello della responsabilità, che trova la sua


forza nell’autoapprendimento, ovvero sulla libera adesione dell’alunno, che cresce
ed impara cogliendo il significato di ciò che gli viene proposto.
Nell’autoapprendimento trova spazio la motivazione intrinseca della persona,
legata alle risorse interiori, cognitive, emotive, e affettive, nata dall’interesse e dal
desiderio di accrescimento personale. Se nel modello precedente la relazione era
squilibrata a favore del docente, qui il potere attribuitogli viene utilizzato proprio
per ribilanciare la stessa, assumendo comportamenti non di controllo, ma discreti,
sensibili e responsabili. Comportamenti che riconoscono la debolezza e allo
stesso tempo le potenzialità dell’alunno in crescita. Questi si traducono in ascolto
attivo, che legge i bisogni, i disagi e le risorse, in un percorso di insegnamento-
apprendimento che vuole trasferire il potere dall’insegnante all’allievo, secondo il
principio di una responsabilità che genera responsabilità. Una rinuncia di potere
progressiva, che elimina progressivamente la naturale dipendenza del giovane, e
che caratterizza questo modello della responsabilità. Vengono promosse
l’autonomia e la partecipazione in contrapposizione alla dipendenza, veri
protagonisti di un apprendimento autentico. “L’insegnante di maggior successo
affronta la gestione della classe come un processo teso a stabilire e a mantenere

120
L.d’Alonzo "Integrazioni e gestione della classe" LA scuola, Brescia, 2002

73
ambienti efficaci d’apprendimento. Gli insegnanti di minore successo affrontano la
conduzione della classe come un processo che mira a “instaurare la disciplina”.121

Analizziamo quindi ora i sette assunti principali del modello della responsabilità122:

1) La fiducia nei confronti degli allievi, in quanto ritenuti in grado di rispettare le


regole, assumere responsabilità e partecipare attivamente se l’ambiente
formativo è favorevole.
2) L’insegnante ha la funzione di creare le condizioni per l’autonomia, la
partecipazione, e la responsabilità, adottando un ruolo non protagonista,
ma di regista, e facilitatore.
3) Il processo di apprendimento ha più rilevanza rispetto all’insegnamento.
4) Le regole sono costruite e accettate assieme, democraticamente.
5) Gli alunni svantaggiati non sono “trattati” separatamente. La classe è
composta da alunni con caratteristiche diverse, ciascuno con bisogni,
risorse e difficoltà differenti, e pertanto è necessario fornire un ambiente
formativo ricco di stimoli e materiali organizzato per aree e attività in
contemporanea (e non sequenzialmente), seguendo l’ottica della
personalizzazione e individualizzazione della didattica.
6) La motivazione intrinseca alla base dell’apprendimento.
7) Uno spazio vario e tempi sinottici intrecciati a tempi sequenziali, che si
traducono in attività uguali per tutti e attività diverse che però sono orientate
verso obiettivi condivisi, in un processo di co-costruzione dei significati e del
sapere.

Il modello della dipendenza è un modello ben radicato nella scuola attuale,


essendo consolidato nella nostra cultura già dai tempi dell’antica Roma. E’ quindi
ovvio che il passaggio al modello della responsabilità non può essere semplice e
veloce, e sicuramente vi saranno fasi in cui le caratteristiche di entrambi
convivranno. Si tratta però di comprendere appieno i limiti del primo e focalizzare i
punti chiavi e innovatori del secondo. Lo studente deve vivere il proprio percorso
formativo, e non subirlo passivamente.

121
J.Brophy “Insegnare a studenti con problemi” Las, Roma 1999, p.27
122
M.Orsi "A scuola senza zaino" Erickson, 2006

74
3.5 Il GCA: Global Curriculum Approach

Partiamo dall’evidenziare la rilevanza dell’ambiente formativo, in quanto parte


della totalità dell’esperienza formativa dello studente, in un approccio sistemico-
ecologico contrapposto al modello della dipendenza, e ad un modello che
segmenta il sapere. Parcellizzare la conoscenza la de-contestualizza e la
disincarna dalla realtà. Questo curricolo segmentato è emblematicamente
rappresentato dallo zaino, all’interno del quale troviamo libri, e strumenti divisi per
materia e docente, nei quali gli studenti devono ricostruire un legame e un senso
col mondo che li circonda. Per poter immaginare qualcosa di differente occorre
contrapporre la nozione di curricolo globale, la cui rilevanza non risiede tanto nella
progettazione di un nuovo tipo di formazione, ma nel rivedere l’ambiente
formativo. “Tutti gli elementi o aspetti dell’ambiente scolastico che possono influire
sulla validità dell’apprendimento degli alunni”.123 La prospettiva del curricolo
globale ha un’ottica estensiva, una prospettiva nuova sul complesso dei processi
educativi, i cui focus sono lo sviluppo cognitivo e socio-emotivo dello studente, i
metodi di insegnamento, i comportamenti dei docenti l’organizzazione
dell’istituzione scolastica, la relazione tra scuola e società e la valutazione. Dire
che ha un’ottica estensiva significa che la prospettiva del curricolo globale ha una
visione che coinvolge tutte le questioni che concernono la teoria dell’educazione.
E’ una prospettiva metodologica del curricolo diversa da quella del tradizionale
programma da svolgere, con due caratteristiche principali:

1) Considera tutti gli elementi che compongono il curricolo nella progettazione


di attività didattiche efficaci;
2) Non è un curricolo stabilito da un’autorità scolastica, ma dall’insegnante e
dal gruppo degli insegnanti.

Non è tanto il contenuto dell’insegnamento quanto la modalità in cui viene


proposto ad avere priorità. Si tratta di progettare l’intera esperienza scolastica,
considerando le molteplici sfaccettature che caratterizzano la vita di una comunità
composta da alunni, docenti e genitori, e non i singoli elementi disciplinari. E’ un
curricolo che considera tutte le risorse e le contingenze educative, e non si ferma

123
J. D. Nisbeth, N. J. Entwistle “Metodologia della ricerca educativa e della sperimentazione”
Armando, Roma, 1973. P.193-194

75
ai contenuti in senso culturale dell’insegnamento; è “la scuola in quanto
esperienza vissuta dall’ alunno in tutte le sue dimensioni e occasioni”.124 Si tratta
di collegare un approccio focalizzato sui contenuti e sull’aspetto formativo delle
discipline, ad uno più attento al processo dell’apprendimento, alle strategie e alle
metodologie. Progettare allora diventa studiare una nuova strutturazione
dell’ambiente formativo, attuando scelte che considerino le variabili date dagli
spazi, dagli strumenti, dai tempi e dalle relazioni interne ed esterne. Ambiente che
spesso viene trascurato e sottovalutato, ma che definisce un clima e porta
messaggi immediatamente percepiti da chi lo vive. Che sia silenzioso o rumoroso,
l’ambiente parla, con la disposizione degli arredi, coi colori allegri o tristi che siano,
con l’ordine, con la disposizione degli strumenti e dei materiali didattici, e coi
comportamenti degli attori che lo frequentano. “Come per la persona che è
rappresentata dal suo abbigliamento e dalla sua igiene personale, così l’ambiente
fisico della classe può comunicare com’è quella classe, racconta in modo più o
meno percettibile la natura e la filosofia dell’insegnante, il livello di organizzazione
che probabilmente caratterizza la classe e l’interesse dell’insegnante nei confronti
del successo dei suoi studenti”.125

Nel suo approccio Globale al Curricolo, Marco Orsi individua tre livelli di analisi
che legano l’aspetto organizzativo a quello didattico.126

Il primo livello, assumendo l’aula come centro dell’organizzazione scolastica,


analizza la connessione tra la parte amministrativa (il back) e la parte produttiva (il
front). Più precisamente parlando di back office intendiamo quelle attività di
carattere educazionale e amministrativo, momenti in cui si svolgono funzioni di
carattere burocratico, finanziario e amministrativo. Con front office invece si
intende il momento di produzione, caratterizzato dall’interazione quotidiana tra i
principali attori (docente e discenti).

124
C. Scurati “Un curricolo nella scuola elementare” La Scuola, Brescia, 1977, pag.21
125
C. A. Tomlinson, M. B. Imbeau “Condurre e gestire una classe eterogenea” Las, Roma, 2012.
p.126
126
M.Orsi "A scuola senza zaino" Erickson, 2006. P .71

76
E’ possibile classificare le varie tipologie di attività. Abbiamo allora per le Back
Activities:

1) Riunioni collegiali dei docenti;


2) Attività di co-gestione che coinvolgono genitori e personale scolastico;
3) Attività del capo di istituto e del suo staff;
4) Attività amministrativa;
5) Attività del personale ausiliario.

E per le Front Activities:

1) Attività didattiche, suddivise a loro volta in attività di aula, e attività comuni


(classi aperte e laboratori in comune);
2) Attività a casa;
3) Attività intermedie, vale a dire quelle non specificatamente didattiche, come
ad esempio la ricreazione, la mensa, l’entrata e l’uscita da scuola;
4) Attività Straordinarie, come ad esempio le gite scolastiche, le
rappresentazioni teatrali e le varie manifestazioni organizzate dalla scuola.

Parlare di Curricolo Globale significa superare il dualismo tra le due attività


attualmente esistente, privilegiando il lato front, ovvero la relazione educativa
studente-insegnante. In questi termini l’aula diventa il centro dell’organizzazione
scolastica. L’influenza delle attività di back office, riferite alle azioni di
progettazione, valutazione, amministrazione scolastica assume una duplice
valenza: emblematica e funzionale. Emblematica in quanto le relazioni dei soggetti
adulti della scuola, vale a dire docenti e capo di istituto (non genitori) si esplicano
nel modo di progettare, di cooperare e lavorare in gruppo e definiscono il clima, le
regole e i valori. Funzionale perché queste attività sono di fatto azioni di supporto
per le attività con gli studenti. La scuola in questo primo livello “appare come un
sistema le cui coerenze/incoerenze organizzative, che includono sia il back che il
front office, diventano un chiaro messaggio curricolare”.127 Un messaggio
complesso che definisce l’offerta formativa e che influisce sulla qualità del lavoro
in classe, sul rapporto studenti-docente.

127
M.Orsi "A scuola senza zaino" Erickson, 2006 p.73

77
Un secondo livello riguarda gli artefatti materiali e immateriali, e la loro
connessione. Abbiamo più volte rimarcato la visione unitaria del curricolo, e non
frammentaria, dell’approccio del curricolo globale. Una progettazione portatrice di
un messaggio complessivo dato dalla risultante di ogni singolo elemento
dell’organizzazione scolastica a cui è esposto lo studente, nel suo esperire
quotidiano. E’ proprio per questo che viene rimarcata la centralità dell’esperienza
e di conseguenza l’importanza degli elementi che la costituiscono. Si tratta in
particolare di portare alla luce quella trama di relazioni che legano gli artefatti
materiali e quelli immateriali e che qualificano l’attività scolastica, non solo nelle
attività di front, ma anche in quelle di back.

Prendiamo ad esempio un’attività di back come la riunione tra docenti. Gli artefatti
immateriali (chiamati anche Software) che la caratterizzano sono la capacità di
ascolto, la condivisione del metodo di lavoro, il rispetto degli orari e la capacità di
giungere a decisioni. Gli artefatti materiali invece (detti anche Hardware) possono
essere benissimo individuati col locale che ospita al riunione, la disposizione
dell’arredo, la configurazione del tavolo e delle sedie, e la strumentazione.
L’insieme di questi elementi determina la qualità della riunione. Così come questo
si applica nelle attività di back, allo stesso modo si realizza nelle attività di front.
Prendiamo ad esempio una lezione di geometria. Gli artefatti immateriali sono le
strategie e i metodi adottati dall’insegnante per insegnare a riconoscere e
calcolare determinati elementi geometrici, ma non solo. Sono software infatti
anche le abilità già in possesso dallo studente, che l’insegnante deve individuare
in una valutazione iniziale. Gli artefatti materiali invece sono gli strumenti e i
supporti materiali adottati: l’ambiente e la sua disposizione interna, l’illuminazione,
i tavoli, le matite, i quaderni ecc. Il successo di una buona azione didattica non è
determinato solamente dalle strategie didattiche adottate dal docente, o dalla
predisposizione dello studente (artefatti immateriali) ma anche dall’utilizzo ottimale
degli artefatti materiali più adeguati. Infatti “l’aspetto, l’organizzazione e la struttura
di una classe possono incoraggiare l’apprendimento con colori accattivanti, con
esposizione dei lavori ben fatti dai ragazzi, con angoli per lavoro individuale e
spazi per il lavoro in gruppo […]”.128

128
C. A. Tomlinson, M. B. Imbeau “Condurre e gestire una classe eterogenea” Las, Roma, 2012.
p.50

78
Possiamo ripartire questi artefatti in diverse categorie. Avremo allora per quanto
riguarda gli artefatti materiali:

1) Materiali didattici, che possono essere materiali di gestione (campanella,


orologi, computer, Videoproiettori ecc.), di apprendimento (schedari,
attrezzatura per laboratori, software didattici) e cancelleria;
2) Lo spazio, riferito agli arredi, alle aule, ai laboratori, alle biblioteche, ecc;
3) Acustica, ovvero tutti i suoni presenti durante l’attività didattica.

Per gli artefatti immateriali invece vengono individuate le seguenti categorie:

1) I tempi e la loro organizzazione;


2) Il sapere professionale dei docenti, i metodi e gli strumenti della
progettazione e della valutazione;
3) Il sapere professionale del capo di istituto che riguarda la sua capacità di
esercizio della leadership e della gestione organizzativa e progettuale delle
attività didattico-educative;
4) Le conoscenze e le abilità degli studenti;
5) Le regole, i comportamenti, il linguaggio adottati nel gruppo e nelle
relazioni.

Il terzo e ultimo livello infine riguarda due dimensioni proprie dell’ambiente


formativo e più in generale del curricolo, vale a dire una sovrastante e una
soggiacente. Immaginando un iceberg, la dimensione sovrastante è la parte
visibile a occhio nudo, quella più facilmente trattabile manipolabile, vale a dire tutto
quello che è stato dichiarato ed è esplicitamente agito e progettato. Per
dimensione soggiacente invece intendiamo elementi che si danno per scontati
oppure che non vengono toccati perché originerebbero conflitto. Di solito usando
l’immagine dell’iceberg si immaginano elementi di tipo psicologico, ma si possono
benissimo inserire tra questi anche quegli artefatti immateriali che a livello
inconscio parlano (ad esempio l’arredo dello spazio, i materiali didattici). Sono
quegli elementi che Schein chiama assunti base, vale a dire “le convinzioni
profonde e inespresse, date talmente per scontate da non attrarre l’attenzione e di
cui spesso i membri non sono nemmeno del tutto consapevoli. Ma è proprio
questo il livello più importante per capire l’anima dell’organizzazione, le
motivazioni profonde delle azioni dei suoi membri e il modo in cui questi sono stati

79
selezionati e plasmati. Fare emergere gli assunti fondamentali di
un’organizzazione è il compito più difficile, ma è qui che si gioca il valore della
ricerca, la sua possibilità di andare oltre la banale descrizione di cose che già si
sanno.”129 Affinché sia possibile l’approccio globale al curricolo la parte sommersa
deve essere scoperta, portando alla luce quanto dato per scontato, in quanto
contiene importanti aspetti nascosti che devono essere considerati.

3.6. Approccio Pedagogico del GCA

La globalità dell’approccio GCA investe quattro elementi: la persona, il sapere,


l’integrazione delle differenze e l’ambiente.

“Il pedagogista considera l’uomo nella sua integralità, corpo e anima, conoscenza
ed azione, la sua l’attenzione è centrata sull’intima profondità della persona,
preoccupato dell’interiorizzarsi dell’influenza educativa.”130 La persona viene
considerata globalmente, nel suo insieme di potenzialità e difficoltà, come
un’intersezione di pluralità e intelligenze che la rendono unica nel suo specifico. A
questo concetto si lega strettamente il concetto di globalità come integrazione
delle differenze e non della differenza. L’ambiente formativo è strutturato in modo
tale da poter rispondere alle esigenze di ogni studente in quanto portatore di
diverse abilità, senza percorsi paralleli separati destinati a persone con particolari
disabilità. E’ una globalità che inoltre investe anche la conoscenza, i saperi, in
opposizione alla segmentazione delle materie di studio attualmente in corso. Il
sapere, le discipline devono essere connesse, in una visione sistemica: da qui ne
consegue l’enfasi sulla multi-interdisciplinarità, sulla trasversalità delle
competenze. Infine la globalità riguarda anche l’ambiente formativo, un ambiente
visto come un’unità di soggetti e oggetti, di artefatti materiali e immateriali, di back
e di front.

129
G. Pompella "EDGAR SCHEIN: IL PRIMATO DELLA CULTURA ORGANIZZATIVA" Pionero
Digital Innovation, 2013 http://www.pionero.it/2013/12/13/edgar-schein-il-primato-della-cultura-
organizzativa/
130
E. Bagetto "Scoprire l'altro" L'effetto Pigmalione
http://www.edurete.org/pd/sele_art.asp?idp=80&ida=789

80
Presentati i quattro caratteri fondanti del GCA, elenco di seguito le sei scelte
pedagogiche fondamentali131:

1) L’esperienza e la ricerca;
2) Il senso e i sensi;
3) La centralità dell’attività;
4) L’aula come mondo vitale;
5) La co-progettazione;
6) La valutazione come valutazione autentica.

Dewey sottolinea come la realtà non abbia una struttura rigidamente immutabile,
ma sia frutto dell’interazione tra uomo e natura che in tale rapporto si costruiscono
e si determinano. Questo rapporto è dato dall’esperienza, una dimensione dove la
logica si fonde con la pratica. L’educazione allora diventa ricostruzione e
riorganizzazione dell’esperienza che accresce il significato dell’esperienza stessa
e incrementa l’abilità di dirigerla. “Nessun modello determinato o esterno deve
essere prescritto, il criterio pedagogico del buon educatore consiste nel verificare
se l'apprendimento o l'intervento favoriscono altri apprendimenti o ulteriore
educazione.”132 Un apprendimento, inteso come crescita armonica e globale,
diventa autentico quando basato sull’esperienza.

Ne consegue l’importanza dei sensi: l’efficacia di un apprendimento è correlato ai


sensi. Sollecitare i sensi con un ambiente ricco di stimoli percettivi, accolti perché
sensati, in grado di interessare il soggetto, di suscitarne emozioni, di motivarlo, è
la chiave per un apprendimento significativo. Un apprendimento caratterizzato dal
collegamento generato da conoscenze già possedute, e nuove relazioni nelle
mappe cognitive che legano la mente, il corpo e l'ambiente.

Diventa allora chiaro il valore attribuito all’attività che il progetto Senza Zaino
inserisce tra le sue scelte pedagogiche. Si tratta infatti di restituire centralità alla
pratica, in un ritorno a quel mondo della vita di cui parlava Husserl, un mondo in
cui è possibile“trasformare la non conoscenza in conoscenza e di attingere
occasionalmente una conoscenza sulla base dell'esperienza e dell'induzione (di

131
M.Orsi "A scuola senza zaino" Erickson, 2006 p.85
132
"John Dewey" Il Diogene-Pagine Enciclopediche
http://www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=Dewey.html

81
un’esperienza che continuamente viene verificata e che esclude costantemente le
apparenze).”133 Abbiamo già visto nel secondo capitolo come troppa attenzione
venga data oggi ai traguardi, a discapito del percorso. Un percorso che dimentica
il valore dell’attività, in quanto capace di esprimere senso e di coinvolgere lo
studente nel processo di acquisizione della conoscenza. Si tratta di restituire
vitalità, concretezza, ad un processo di insegnamento-apprendimento di tipo
riflessivo, ovvero un apprendimento che trova il proprio fondamento nel concetto di
riflessione nel corso dell'azione. Il luogo della conoscenza risiede infatti per Schon
nell’azione stessa.134 Ecco allora che la progettazione Senza Zaino restringe gli
archi temporali all’interno dei quali opera, riportando l’attenzione ad una
progettazione micro, ovvero una pianificazione della giornata, come vedremo più
avanti.

Parlare di sensi e attività vuol dire chiamare in causa l’aula, e la necessità di


ridarle spessore in quanto mondo vitale della scuola. L’aula intesa non solo come
elemento fisico, ma anche come luogo di interazione apprenditiva, ed in quanto
tale non può essere trascurata, né le si può sottrarre importanza nel progettare
l’apprendimento.

La progettazione in una comunità di ricerca significa co-progettare, ovvero rendere


partecipi tutti i protagonisti dell’azione didattico-educativa, ragione per cui il
Progetto Senza Zaino richiama il contratto formativo già elaborato da Parkhurst, in
cui l’allievo diventa parte del processo di insegnamento-apprendimento. Una
corresponsabilizzazione di alunni ed insegnanti, di alunni e genitori, attraverso una
135
personalizzazione dei tempi e dei ritmi di svolgimento dei progetti didattici.

La valutazione infine è la valutazione autentica, già trattata nel capitolo


precedente. Una valutazione che pone l’enfasi sulla riflessione attorno al
processo, sulla presa di coscienza delle competenze acquisite, sulla
metacognizione. Una valutazione che non è testing decontestualizzato, fondata su
modalità tipografiche e su intelligenze linguistico-espressive esperite sotto
sorveglianza, ma è contestualizzata, si avvale di strumenti osservativi e si occupa

133
E. Husserl “Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale
Phänomenologie” a cura di W. Biemel, Tübingen, 1952, trad. it. “La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale” Il Saggiatore, Milano, 1983, pagg. 152-154
134
D. Schon “Education the Riflective Practioner” Jossey-Bass, San Francisco, 1987.
135
H. Parkhurst “L’educazione secondo il piano Dalton” La Nuova Italia, Firenze,1922

82
della performance sia a livello individuale che di gruppo, incrociando le varie
competenze e intelligenze, liberando lo studente dal peso opprimente del
controllo.

3.7. L’aula Senza Zaino

L’aula è il luogo dove studenti e insegnanti passano la maggior parte del tempo, è
il centro dell’ambiente formativo ed è da qui che il Progetto Senza Zaino vuole
partire per sviluppare un cambiamento. Essendo un mondo vissuto
quotidianamente, è l’ambito primario di relazioni di familiarità, amicizia e costruisce
i significati di senso. Oggi le scuole vivono uno stato di pressione posta
dall’esterno, che le intrappola in uno stato di frenesia progettuale che incide
negativamente sulle risorse temporali, finanziarie e professionali, oltre che sulla
routine quotidiana appesantita dal peso di troppi impegni e compiti da portare a
termine. Ne deriva una chiusura degli insegnanti nelle proprie classi, ed uno stato
di stress che intacca qualsiasi processo di insegnamento-apprendimento. “La crisi
della scuola è una crisi di radicamento nel mondo della vita, che alla fine diventa
nei fatti negatrice della centralità dell’allievo e delle relazioni educative che proprio
nell’aula hanno luogo e che, al di là di tutto, sono la linfa vitale dell’istituzione
scolastica. Al contrario l’eccesso di progettualità disincarnata, il carico burocratico
che incombe, gli stessi ruoli del dirigente scolastico e di molte figure di docenti che
con lui collaborano, sono proiettati fuori da questa dimensione originaria, in una
prospettiva di impegno che non tiene conto di reali esigenze e domande”.136 Tutto
questo corrompe l’anima dell’aula, principale luogo di interazione tra studenti e
insegnante, la svalorizza, quando invece andrebbe protetta, preservata e curata.
Un altro problema più legato all’organizzazione scolastica, è il distacco che
sussiste tra il dirigente ed i docenti. Una piramide il cui vertice impartisce ordini e
direttive, ma la base reagisce solitamente in termini difensivi, chiudendosi o
ridefinendo le decisioni diramate, evidenziando di fatto dei legami deboli all’interno
dell’organizzazione. Un altro degli obiettivi del progetto Senza Zaino è allora
ristabilire quei canali di comunicazione, trovando la centralità proprio nell’aula. In
un certo senso si tratta di rovesciare la piramide, ponendo nel vertice posto ora in
basso il dirigente scolastico, leader educativo, ed in alto l’aula. Insomma, una

136
M.Orsi "A scuola senza zaino" Erickson, 2006 p.146

83
prospettiva in cui tutto il comparto back office (team amministrativo, dirigenza
scolastica, collegio docenti, consigli di istituto ecc.) è orientato al servizio della
parte front, l’aula, che diventa il cuore dell’organizzazione scolastica.

Essendo l’aula il centro di questa prospettiva, è necessario allora analizzare quelli


che sono i limiti della struttura-classe, e comprenderli in modo approfondito
affinché il cambiamento possa essere reale e efficace. I dati da considerare
possono essere così elencati:

 Lo spazio: uno spazio ristretto che deve ospitare dalle venti alle trenta
persone per un arco di tempo consistente. Spesso presenta una sola
configurazione, il che limita spesso eventuali metodologie didattiche.
 La dimensione della popolazione: le classi ospitano spesso gruppi di venti-
trenta persone, ma diventa interessante ricordare che “le ricerche di
laboratorio dimostrano che un individuo ha difficoltà a mettersi in contatto
emozionale contemporaneamente con più di dodici persone”137. Un lavoro
che quindi diventa inevitabilmente inefficiente una volta superate le dieci-
quindici persone in un gruppo.
 Le modalità di raggruppamento: gli studenti sono raggruppati seguendo
rigide logiche burocratiche basate sull’età e sull’appartenenza territoriale.
Inoltre mentre normalmente l’adesione ad un’organizzazione è libera e
spontanea, nel caso della scuola è forzata dalla legge.
 I tempi: la formazione scolastica prevede una lunga permanenza,
preparatoria alla vita. La realizzazione soggettiva viene rimandata ad un
futuro lontano ed incerto.
 Esigenze di controllo, sorveglianza, trasmissività: la scuola di oggi controlla,
sorveglia, e trasmette nozioni e conoscenze, in un processo di
conformazione del soggetto giovane. Come già visto è un modello che
promuove la dipendenza e l’adattamento, sacrificando però libertà e
creatività.138

137
C. Kaneklin, F. Manoukian “Conoscere l’organizzazione. Formazione e ricerca psicologica”
Carocci Editore, 1990. P.213
138
M.Orsi "A scuola senza zaino" Erickson, 2006 p.149

84
L’aula così come esiste ora è specchio di un modello di dipendenza. Uno spazio
standardizzato che rappresenta un’unica area di lavoro, e che conseguentemente
standardizza e parcellizza le attività, in una visione curricolare segmentata.

3.8. Una nuova aula

Un ambiente formativo che sia ispirato alla comunità di ricerca, che si ispiri ai
valori dell’ospitalità e della responsabilità, un ambiente realmente inclusivo è dato
dal clima che si respira in classe, dai materiali e dagli strumenti adottati,
dall’arredo, dal modo di lavorare (insieme, a gruppi e a coppie), dalle relazioni che
vanno ad instaurarsi. L’aula, nel progetto senza zaino, è un luogo di riferimento
identitario, un punto dove ogni singolo protagonista trova un riferimento, un
appoggio, un ambiente personalizzato dove il ruolo dell’insegnante è quello di
organizzatore della ricerca e facilitatore. Non esiste una sola modalità di
organizzare l’aula secondo questi criteri, ma il progetto Senza Zaino ne propone
uno che bene incontra tutto quello che finora è stato scritto, intrecciando uno
spazio politopo con un tempo policronico.

Figura 2: "Dentro l’aula di una «scuola senza zaino" Tratto da Le Guide Erickson - Bes a scuola. 10°
Edizione - Convegno Internazionale Centro Studi Erickson

85
Esaminiamo i vari punti:

1) L’area tavoli: Area destinata al lavoro individuale, a coppie o a gruppi.


2) Zona Forum: Area pensata per i momenti del grande gruppo dove le attività
possono essere di vario tipo: spiegazioni, discussioni guidate, racconti,
prese di decisioni. Da notare la disposizione di tre panche a ferro e al
centro un tappeto anallergico.
3) Queste due aree sono mini-laboratori che possono essere di vario tipo
(artistici, scientifici, ecc.).
4) L’area computer, dedicata ad un paio di computer con software didattici,
utilizzati come strumento per l’approfondimento delle discipline.
5) Il tavolo del docente (non cattedra): un tavolo dedicato al lavoro del docente
con un massimo di due-tre alunni in un affiancamento personalizzato.
6) Armadi forniti di strumentazione didattica.
7) Cassettiere: ogni alunno ha a disposizione almeno un cassetto nel quale
riporre i propri materiali.
8) Eventuali piante per rendere più accogliente, vivo ed ospitale l’ambiente.

La maggior parte del materiale è in comune ed accessibile a tutti, proprio come


avviene in qualsiasi altro tipo di organizzazione (per esempio quella lavorativa).
L’obiettivo di costruire questo tipo di aula, un determinato clima, il tipo di relazioni,
il modo di lavorare, consiste proprio nel creare un piccolo “centro di ricerca” che
coinvolge inevitabilmente tutti e spinge all’esplorazione del mondo in più modi.
Non si tratta solamente di rendere più gradevole, un luogo solitamente spoglio e
inospitale, ma di progettare un ambiente formativo in cui ogni elemento sia
orientato a sviluppare processi di apprendimento basati sull’esperienza,
sull’esplorazione, sulla ricerca e sulla corporeità. Si tratta di pensare a un modello
alternativo orientato alla cooperazione e alla responsabilità, in un percorso che
deve però considerare alcuni step.

In primis è necessario comprendere e osservare attentamente il modello


tradizionale, i suoi limiti, e i suoi assunti di base. Un modello che tutti abbiamo
vissuto inevitabilmente, e di conseguenza abbiamo fortemente radicato nella
nostra forma mentis, specie i docenti che involontariamente adottano e
mantengono come punto di riferimento una volta inseriti nel mondo della scuola.

86
Diversi aspetti devono essere portati alla luce, nella parte visibile dell’iceberg,
come ad esempio l’assunto implicito che gli studenti abbiano costantemente
bisogno della presenza assidua dell’insegnante, e che il loro lavoro sia
principalmente di natura individuale e competitivo.

Il secondo passo è allora uscire da questa logica individualistica ed iniziare a


pensare la classe come un gruppo di lavoro, ma non dato a priori, bensì da
costruire. Una classe in sé è un semplice insieme di soggetti, ed è necessario un
lungo percorso di apprendistato per costruire un gruppo di lavoro, ovvero dei
comportamenti cooperativi e responsabili.

Infine l’ultimo passaggio consiste nel realizzare l’efficacia dell’apprendimento


realizzato collaborando, in altre parole, del cooperative learning.”
Il Cooperative Learning costituisce una specifica metodologia di insegnamento
attraverso la quale gli studenti apprendono in piccoli gruppi, aiutandosi
reciprocamente e sentendosi corresponsabili del reciproco percorso. L’insegnante
assume un ruolo di facilitatore ed organizzatore delle attività, strutturando
“ambienti di apprendimento” in cui gli studenti, favoriti da un clima relazionale
positivo, trasformano ogni attività di apprendimento in un processo di “problem
solving di gruppo”, conseguendo obiettivi la cui realizzazione richiede il contributo
personale di tutti.”139 Questo tipo di apprendimento presenta numerosi vantaggi,
quali un migliore benessere140 psicologico, una migliore qualità delle relazioni e
migliori prestazioni, diversamente da quello basato sull’individualismo e sulla
competizione. Premiare o punire il singolo individuo tramite valutazioni, siano esse
formali o informali, sviluppa un forte senso di rivalità e di personalismo, elementi
che minano la qualità del clima di classe, delle relazioni e conseguentemente
dell’apprendimento.

3.9. Cooperative Learning e Modalità di aggregazione

Il Cooperative Learning è un metodo didattico, che prevede l’organizzazione degli


studenti in piccoli gruppi per raggiungere obiettivi comuni, in un percorso di aiuto
reciproco. I lavori di gruppo sono una modalità già adottata nelle scuole, tuttavia è
139
D. Pavan, P. Ellerani "COOPERATIVE LEARNING. L'APPRENDIMENTO COOPERATIVO
COME METODOLOGIA COMPLESSIVA DI GESTIONE DELLA CLASSE" Educazione&Scuola,
2016
140
E. Ghedin "Ben-essere disabili. Un approccio positivo all'inclusione" Liguori, 2010

87
possibile lavorare in gruppo senza trarne alcun profitto, o per mancanza di
interesse o per insoddisfazione. Al contrario, nell’apprendimento cooperativo gli
studenti sono protagonisti di tutte le fasi del lavoro, dalla pianificazione alla
valutazione, sono mossi da motivazione intrinseca, e l’insegnante in tutto questo è
principalmente l’organizzatore e il facilitatore dell’attività. Vi sono diversi studi di
autori noti, alcuni già citati, che confermano questa tesi, come ad esempio Dewey,
Vygotskij e Piaget.

Affinché il lavoro di gruppo sia qualificabile come Cooperative Learning devono


essere presenti le seguenti caratteristiche, evidenziati da F. Tessaro 141:

a) Interdipendenza positiva. Vi è l’affidamento reciproco per il raggiungimento di


un obiettivo. Gli studenti si sentono responsabili del loro personale
apprendimento ma anche di quello di tutti gli altri.
b) Eterogeneità. Il gruppo è formato da caratteristiche e abilità eterogenee.
c) Responsabilità condivisa della leadership. In altre parole la leadership è
distribuita tra i vari partecipanti e ognuno è leader del proprio ruolo, per le
sue specifiche competenze, rispetto al ruolo assegnatoli.
d) Due tipi di competenze promosse dal compito: cognitive e relazionali. Non
una a discapito dell’altra, ma entrambe parallelamente.
e) Le competenze sociali (gestione dei conflitti, fiducia reciproca, abilità di
comunicazione) sono esplicitamente insegnate e ricercate alla pari delle
competenze cognitive.
f) Il docente predispone ambiente e materiali in base all’attività da seguire.
g) Due tipi di valutazione: una per il gruppo, e una individuale. Una valutazione
che deve essere incentivazione personale.
h) Sviluppo di comportamenti efficaci quali scambio di informazioni e materiali,
aiuto reciproco, sostegno e comunicazione aperta e diretta.
i) Motivazione intrinseca fondata sulla qualità del rapporto, sull’aiuto e sulla
stima reciproca e sul successo del gruppo.

141
F. Tessaro “Metodologie e didattica dell’insegnamento secondario” Armando, Roma, 2002.
P.189-190

88
Vi sono diversi tipi di forme di aggregazione alla base del Cooperative Learning, e
quelle che riprende il Progetto Senza Zaino sono la coppia, il gruppo e il grande
gruppo.

Procediamo con ordine. Per un lavoro efficace di coppia è necessario strutturare


materiali, ambienti e strategie di apprendimento adeguatamente. I tavoli da lavoro
dovranno essere facilitanti, deve essere fornito tutto il materiale di cancelleria
necessario e il quaderno da lavoro del singolo potrà essere impiegato per l’attività
di coppia. Non vi sono regole fisse per comporre una coppia, purché vengano
assemblate in funzione delle attività e del tipo di esperienza che si vuole proporre.
Ad esempio se si vuole privilegiare un’attività cognitiva, i due componenti avranno
attitudini diversi per favorire attività di tutoring. Bisogna tenere conto però anche
della gradazione di attività da proporre, e considerarne la componente
collaborativa. Scrivere una relazione, discutere e sintetizzare un argomento, sono
tutti validi punti di partenza. Il secondo passo è lavorare su compiti iconici, quali il
disegno e la rappresentazione. In ultima le attività di coppia più proficue sono
quelle da svolgere a casa, che coinvolgono le famiglie nella promozione del
Cooperative Learning.

Le attività più semplici da proporre nei lavori di coppia sono le attività


monocroniche, ovvero quelle uguali nelle quali viene fornito lo stesso compito e lo
stesso materiale. L’obiettivo principale però è sfruttare lo spazio politopo dell’aula
senza zaino per promuovere attività policroniche (in contemporanea), vale a dire
compiti separati o connessi, studiate all’interno dello stesso progetto, di ricerca o
di prodotto. L’organizzazione dell’aula presentata dovrebbe facilitare questo
genere di attività, grazie alla diversificazione degli spazi (laboratori, spazio
computer, forum).

Un altro aspetto fondamentale nel lavoro di coppie è la gestione della voce. Il tono
di voce basso, l’eliminazione di rumori, favoriscono la comunicazione, ed
eliminano il pericolo di generare caos e confusione.

Infine riesaminare e pianificare l’attività sono elementi fondamentali per una


corretta gestione del lavoro. Individuare le istruzioni per l’uso, pianificare assieme
la giornata e la settimana, costruire modelli di procedure condivisi, e codificare

89
regole da realizzare, valutare, e rielaborare sono tutti elementi fondanti del
Cooperative Learning.

Quanto detto sinora si applica anche per un gruppo che include più di due
elementi, tuttavia abbiamo tre tipi di formazione dello stesso, senza seguire regole
fisse.142

a) Gruppi formali la cui durata può variare, dal tempo di una lezione ad alcune
settimane. Sono utili per insegnare contenuti ed abilità anche differenti e
coinvolgono attivamente gli studenti nel lavoro di organizzazione del
materiale e di spiegazione, riassunto e integrazione dei nuovi contenuti
nelle strutture concettuali esistenti.
b) Gruppi informali, ovvero gruppi creati ad hoc la cui durata va da pochi
minuti al tempo di una lezione. Si possono usare durante l'insegnamento
diretto (in situazioni di lettura, dimostrazione, proiezione di filmati) per
focalizzare l'attenzione degli studenti sul materiale da imparare, creare un
clima favorevole all'apprendimento, indurre aspettative sugli argomenti che
saranno trattati durante la lezione, assicurarsi che gli studenti elaborino
cognitivamente il materiale che viene insegnato e chiudere la lezione.
c) I gruppi di base cioè gruppi eterogenei a lungo termine (della durata di
almeno un anno) con membri stabili che lavorano sostenendosi, aiutandosi,
incoraggiandosi e assistendosi nel processo di apprendimento. Nei gruppi
di base viene favorita l’instaurazione di rapporti di collaborazione e
personali durevoli e significativi.

Per un miglior funzionamento dei gruppi è utile assegnare ruoli particolari ai


membri che li compongono, come moderatori, coordinatori e responsabili
dell’organizzazione del materiale. Per rendere possibile questo è opportuno
organizzare piccoli momenti formativi per gli studenti che ricopriranno tali ruoli,
ruotando poi le responsabilità dopo che tali compiti sono stati appresi e esercitati
con sicurezza. L’eterogeneità è, come già detto, un elemento di grande
importanza nella formazione di un gruppo, che deve considerare gli aspetti affettivi
e cognitivi. Non esiste un numero di componenti fisso ma, considerando i posti

142
D. W. Johnson, R. T. Johnson, E. J. Holubec “Apprendimento cooperative in classe, migliorare il
clima emotivo e il rendimento” Erickson, 2000

90
utilizzabili ai tavoli, ogni singolo gruppo avrà dai quattro ai sei membri, un numero
ridotto, ma che assicura uno svolgimento efficace ed agevole dell’attività. Attività
che nasce dall’individuazione di un problema, grazie all’aiuto del docente, rileva le
questioni a cui dare risposta, e divide l’argomento in altri sottoargomenti da
affrontare in altrettanti gruppi. Si pianifica la ricerca delle fonti di informazione, si
avvia la ricerca nei gruppi, si sintetizza il lavoro, e si conclude con la
presentazione dei propri risultati alla classe, concludendo il percorso con una
sintesi di tutti i lavori presentati.

Un ultimo tipo di gruppo è il grande gruppo, costituito dalla classe. Questa


tipologia rispecchia quella della logica tradizionale della classe, in cui gli alunni
frontalmente ascoltano il docente passivamente. Proprio per questo nel progetto
Senza Zaino il lavoro nel grande gruppo è presente per brevi periodi e su attività
specifiche utilizzando l’area del forum. Il grande gruppo viene chiamato in causa in
momenti come143:

 Una spiegazione/lezione frontale;


 Una discussione guidata;
 La presentazione di una sintesi dei lavori di ricerca;
 La lettura di un racconto;
 La presa di decisioni su qualche attività da svolgere;
 Un problema della classe;
 Piccole drammatizzazioni.

Un’ultima precisazione infine va fatta sul lavoro individuale che investe il singolo
alunno, separatamente dal contesto gruppo. Ogni individuo ha bisogno di spazi
personali per ritrovare sé stesso e sviluppare una consapevolezza di sé. Diventa
pertanto opportuno individuare la modalità per preservare l’individualità, magari
tramite compiti e attività da svolgere da soli, sebbene non debba diventare la
modalità di lavoro prevalente.

143
M.Orsi "A scuola senza zaino" Erickson, 2006 p.160

91
3.10. La gestione della classe

Oltre alla formazione dei gruppi, ci sono altre considerazioni da fare per quanto
riguarda la gestione del gruppo classe, una gestione orientata a valorizzare tutti i
particolari dell’ambiente formativo e i membri del gruppo. Essendo l’attenzione
rivolta sempre alla cooperazione tra insegnanti e allievi, qualsiasi modifica,
introduzione di oggetti, cambiamento, deve essere concordata in momenti
collegiali, vale a dire nelle riunioni del team docenti, e negli incontri con gli
studenti. Le altre considerazioni riguardo alla gestione della classe riguardano le
strategie, le fonti di disturbo, ed infine (ma non meno importante) i materiali.

Per quanto riguarda le strategie di gestione, richiamiamo in causa il ruolo del


docente. L’atteggiamento comune è di tipo dualistico, vale a dire, si stabiliscono
delle regole e si lavora sulla disciplina richiedendo comportamenti adeguati per un
corretto svolgimento dell’attività didattica. Ma “l’insegnante di maggior successo
affronta la gestione della classe come un processo teso a stabilire e a mantenere
ambienti efficaci d’apprendimento.” Viceversa “Gli insegnanti di minore successo
affrontano la conduzione della classe come un processo che mira a instaurare la
disciplina”.144 Il rispetto delle regole e l’adeguatezza dei comportamenti si realizza
autenticamente se spontaneo e non indotto, e si ottiene quando l’attività proposta
è coinvolgente e crea interesse.

Per poter realizzare un clima di questo tipo il docente deve:

 Saper negoziare le attività e gli obiettivi con gli allievi;


 Permettere agli studenti di stabilire dei propri obiettivi personali;
 Presentare preventivamente un elenco di obiettivi relativi al tema da
affrontare agli studenti, affinché questi siano consapevoli del significato
dell’attività;
 Presentare gli argomenti in anticipo;
 Dare materiale per una prima ricognizione in modo da assistere alle lezioni
con qualche informazione sull’argomento.

144
M. Pellegrini "Per una gestione efficace della classe: Strategie efficaci per gestire la classe e
per promuovere l'autoregolazione del comportamento da parte degli alunni. La proposta della
ricercatrice statunitense Brandi Simonsen." La Vita Scolastica: La rivista dell'istruzione primaria,
GIUNTIScuola, 2014

92
Per una comunicazione più efficace, ed un maggiore coinvolgimento, il docente
deve saper mostrare attenzione per quelli che sono gli interessi dei suoi studenti,
e a tal fine tornano utili le seguenti indicazioni145:

 Salutare per nome ciascun alunno quando entra e quando esce dalla porta;
 Parlare con gli studenti dei loro interessi;
 Discutere di fatti che interessino i propri studenti (musica, sport, giochi
ecc.);
 Complimentarsi per i successi extrascolastici;
 Rapportarsi con gli studenti anche in attività non strettamente scolastiche
(pausa pranzo).

Gli alunni sono prima di tutto persone con cui il docente passerà un lungo arco di
tempo, pertanto diventa rilevante approfondire la conoscenza di ogni singolo volto,
grazie ad attività come la creazione di un pannello di foto di ciascun alunno da
esporre nella scuola, la realizzazione di una propria autobiografia scritta o
fotografica, colloqui frontali, etc. Tutte queste indicazioni dovrebbero aiutare a
legare la ricerca a problemi attuali e culturalmente rilevanti per gli studenti,
creando autentico coinvolgimento ed interesse, che sono alla base della
motivazione intrinseca.

Altre strategie per una corretta conduzione di una giornata scolastica in una
scuola Senza Zaino infine sono

 Preparare anticipatamente i materiali per gli alunni;


 Arrivare a scuola con anticipo sufficiente a preparare l’ambiente per le
attività;
 Pianificare correttamente la giornata per evitare tempi morti;
 Tenere pronte attività di riserva;
 Evitare di voler controllare tutto.

Parlare di queste strategie però perde di rilevanza se non consideriamo uno dei
fattori chiave che determina la qualità di qualsiasi forma di comunicazione: il
rumore.

145
M. P. Pietropaolo "Gestione della classe" ITI G. B. Bosco Lucarelli, Benevento
http://www.itilucarelli.gov.it/ITI/

93
Sono noti gli elementi presenti all’interno di una comunicazione, vale a dire:

1. Emittente, colui che invia il messaggio;


2. Ricevente, colui che lo riceve;
3. Messaggio, il contenuto che si comunica;
4. Referente, l'oggetto della comunicazione;
5. Codice, i segni con cui è formulato il messaggio;
6. Canale, il mezzo attraverso cui passa il messaggio.

Ogni comunicazione può essere disturbata o addirittura impedita in base all’entità


del rumore che interviene. “’Rumore’ è un termine tecnico, che fa riferimento a
inconvenienti di tipo fisico: p.es. una voce rauca o balbettante da parte
dell'emittente, oppure la distrazione o la sordità da parte del ricevente.”146 Questo
problema è solitamente sottovalutato nell’ambiente formativo. Non si tiene infatti in
adeguata considerazione la gestione dell’acustica, nonostante le scuole siano
ambienti con un numero consistente di persone raggruppate in ambienti ristretti, e
nonostante un lavoro di qualità arrivi prima di tutto da un clima calmo, distensivo e
silenzioso. Alcune misure che potrebbero essere prese come esempio potrebbero
essere l’insonorizzazione dei locali, ma anche semplici palline da tennis forate da
applicare alle quattro gambe delle sedie.

La voce è un altro strumento che può essere usato a favore come anche contro la
creazione di un clima calmo, e che però talvolta viene abusato. “Il silenzio nelle
scuole comuni vuol dire ‘cessazione del chiasso’, l’arresto di una reazione, la
negazione della scompostezza e del disordine. Mentre il silenzio può intendersi
come uno stato positivo, come uno stato ‘superiore’ al normale ordine delle cose.
Come una inibizione istantanea che costa uno sforzo, una tensione della volontà e
che distacca dai rumori della vita comune quasi isolando l’anima delle voci
esteriori”.147 Nel progetto Senza Zaino viene promosso un uso sobrio e limitato
della voce, favorendo il linguaggio non verbale. Queste parole non vanno
fraintese. La comunicazione tra gli allievi non solo è permessa ma è incentivata
come già visto, ma questa deve avvenire in maniera controllata, con toni di voce

146
E. Galavotti "CONTRO LA GRAMMATICA ITALIANA: COMUNICARE PER SEGNI - SEGNI
PER COMUNICARE" Homolaicus - Sezione Linguaggi
http://www.homolaicus.com/linguaggi/grammatica/comunica_segni.htm
147
M. Montessori “La scoperta del bambino” Garzanti, Milano, 1999. pp.151-152

94
bassi che non disturbino un clima sereno e ovattato. L’insegnante nelle classi è
solito richiamare l’attenzione alzando la voce, o generando un rumore che sovrasti
quello generale dell’aula. Nel progetto Senza Zaino questo non avviene, bensì si
fa uso di forme di comunicazioni iconiche (ad esempio l’assegnazione di un
cartello a forma di pesce), o scritte (biglietti).

Parliamo infine dei materiali di gestione utili per la conduzione della classe,
partendo da quello più discusso finora: lo zaino. Questo ha una valenza negativa,
oltre per il modello pedagogico e organizzativo a cui rimanda, anche per una serie
di altre controindicazioni quali la scomodità, la perdita di tempo nel togliere e
rimettere al suo interno materiali, il costo di acquisto elevato, e la scarsa
funzionalità, dato che se l’ambiente formativo è adeguatamente organizzato,
perde di utilità. Senza parlare poi dello spreco dello spazio prodotto da ventidue
zaini in un’aula di quarantacinque metri quadrati.148 Al suo posto allora nel
progetto Senza Zaino viene adottata una semplice valigetta sulla quale compare il
nome del progetto e dell’alunno, consegnata in un’apposita cerimonia dal capo di
istituto nel primo giorno di scuola. Il suo contenuto dovrà essere la merenda e lo
stretto indispensabile per svolgere i compiti a casa (un libro e qualche quaderno).
La cancelleria non sparisce ovviamente, ma viene acquistata dal gruppo genitori
sotto il consiglio degli insegnanti. Questa verrà collocata negli armadi e negli
appositi spazi, tenuti in ordine dagli alunni, oppure depositati nei vassoi posti al
centro delle tavole, a disposizione dei gruppi. L’acquisto in comune oltre a
consentire un risparmio per le famiglie, stimola la gestione in comune dell’aula e
l’acquisizione di competenze in relazione al lavoro di gruppo.

Un altro materiale di gestione di grande importanza per la conduzione dell’attività


della classe è il misuratore del tempo. Questo aiuta l’autonomia degli studenti,
controlla la durata delle attività, ed evita che sia l’insegnante a segnalare il
passaggio da un’attività all’altra. Ottimi misuratori di tempo normalmente adottati
sono gli orologi e le clessidre.

148
A. Regis "I LIMITI E LE RESPONSABILITA’ IMPOSTI DALLA NORMATIVA SCOLASTICA AI
DIRIGENTI SCOLASTICI NELLA FORMAZIONI DELLE CLASSI" Dipartimento scolastico
UNI.G.E.S.
http://www.f-s-i.it/scuola/sicurezza/articolo/limit_responsabilita_dirigenti_formazione_classi.pdf

95
96
Conclusione
In questo lavoro, abbiamo analizzato un secolo caratterizzato da un’attenzione
crescente rivolta al riconoscimento dei diritti universali e alla realizzazione delle
potenzialità di ogni persona, anche portatrice di diversità. Un secolo segnato da
diversi stadi, accompagnati da svolte normative e mutamenti di pensiero, che
portano oggi a una riflessione che investe l’intero campo della didattica. Abbiamo
visto il primo movimento che favorì l’integrazione degli allievi con disabilità nelle
classi “normali” nel 1971, concretizzatosi con la Legge 118 (art.28). In seguito a
questa arrivarono altri documenti e circolari che trovano una loro sintesi nella
Legge 517 del 1977, che stabilisce le forme di integrazione a favore degli alunni
portatori di handicap, col sussidio di insegnanti specializzati. Da quel momento,
l’Italia divenne oggetto di interesse da parte del resto del mondo, in quanto una
percentuale rilevante degli allievi con disabilità era inserita nelle classi normali
(ben il 90% già negli anni successivi al 1990). Tuttavia, è inevitabile chiedersi se in
seguito a tutte le scelte politiche-culturali, inclusa quella del 1992, corrispose una
verifica della validità scientifica dell’iniziativa, e la risposta in seguito a quanto
analizzato finora è un “non abbastanza”. E’ stato un secolo di enormi
cambiamenti, un percorso che però è ancora distante dall’essere compiuto, e
dovrebbe trovare a mio avviso un compimento nell’ educazione inclusiva.

L’educazione speciale, ma anche l’intera progettualità educativo-didattica, si trova


a confrontarsi con i problemi posti dalle “vecchie” e “nuove” diversità, organiche e
sociali, in una società sempre più complessa e multiculturale. Le riflessioni
sull’educazione inclusiva necessitano di una didattica di qualità, che sia aperta alle
diversificate esigenze formative, speciali ma non solo, e comprensiva della
pluralità dei bisogni, di tutti gli studenti, in cui la diversità viene vissuta come
stimolo e opportunità. Non si tratta di individuare processi funzionali di
razionalizzazione e di adattamento per accogliere le diversità dei soggetti con
disabilità e dei soggetti con “bisogni educativi speciali” nei contesti formativi, come
di fatto avviene nell’integrazione, ma di fare riferimento all’insieme delle abilità
diverse, attraverso le quali gli allievi si propongono, “innescando così richieste
legittime di cambiamento nei confronti dell’organizzazione, della didattica e delle
relazioni… Ciò significa che il problema del successo formativo non è limitato solo
ad alcune categorie, come quelle dei disabili e di altre categorie a rischio di
97
disapprendimento, ma coinvolge tutti gli alunni…”.149 Parlare di educazione
inclusiva in quest’ottica, implica necessariamente una scuola “diversa”, dove a
ricoprire un ruolo chiave sono percorsi individualizzati e personalizzati, per poter
garantire ad ogni allievo pari opportunità educative e reali diritti di appartenenza.

Le questioni che vengono a sollevarsi richiedono una progettualità educativa


nuova, un’innovazione profonda della didattica e dei percorsi formativi. Una
didattica che parta realmente dall’alunno, dai suoi interessi e dalla realtà che lo
circonda. “Il vero cambiamento è infatti far vivere le cose allo studente invece che
parlarne. Si tratta di creare le occasioni per rendere possibile l’incontro dell’alunno
con le cose del mondo, che lo incoraggi a riconoscere la sua durezza ed
insondabilità, che lo aiuti a incontrarsi/scontrarsi con il limite, sapendo nel
contempo alimentare per le cose del mondo curiosità e meraviglia” 150. Il progetto
Senza Zaino abbraccia queste premesse e le fa proprie, proponendo un modello
di scuola nuovo, che rivede gli spazi, le relazioni interne ed esterne all’aula, e il
metodo didattico.

Una progettazione che parte dall’ambiente formativo e che guarda l’esperienza


scolastica in tutta la sua ampiezza. Un ambiente costituito da un sistema
complesso di relazioni tra soggetti e soggetti ma anche tra soggetti ed oggetti. Se
bisogna partire dall’esperire, allora il primo passo da muovere deve essere in
quell’ambiente che genera esperienze a loro volta generative, e in quanto tale si
proponga come esperienza di comunità di ricerca. Questa generatività
dell’esperienza è il risultato di un’educazione problematizzante che si contrappone
a quell’educazione depositaria che travasa le informazioni oggettivizzando
l’educando. Ne deriva una nuova collocazione dell’educatore, riconfigurando la
sua asimmetria relazionale non più in posizione di dominio, ma di servizio, di
sollecitazione a crescere, a divenire, ad una riproposizione socratica dell’arte
maieutica. Gli educandi da docili recipienti passivi, diventano ricercatori critici, in
dialogo col docente anch’egli ricercatore critico.

149
R. Medeghini "L’inclusione scolastica. Processi e strumenti di autoanalisi per la qualità
inclusiva" Vannini, Brescia, 2009. p.13
150
M. Orsi "L'ora di lezione non basta" Maggioli Editore, 2015. P.6

98
Mi sembra davvero strano dover affrontare questi temi alla luce della mole di
materiale già scritto da autori celebri come Freire, Dewey, Vygotskij, ma anche in
seguito alla redazione di importanti documenti internazionali come l’ICF, ma allo
stesso tempo doveroso, nel momento in cui operando come insegnante di
“recupero” mi vengono presentati bambini utilizzando termini come “svogliato” o
“senza speranza”. Pare quasi che il termine “BES” venga utilizzato come scusante
per l’insuccesso di un progetto educativo, e si trascuri invece tutta la parte della
personalizzazione e dell’individualizzazione, per non parlare dei facilitatori!
Proporre un’educazione “democratica” significa offrire pari opportunità educative a
tutti, che parta dalle potenzialità del singolo, non imporre una didattica uguale,
incurante delle diversità.

Questo lavoro riconosce un passato e un presente, ma vuole augurare un futuro


all’educazione inclusiva e democratica, affinché al centro del progetto educativo vi
siano veramente gli studenti, la libertà e l’autonomia, e la riscoperta del
conoscere. Non vi è nessuna pretesa di esaurire il tema, che anzi, meriterebbe
ulteriori sviluppi, ma è un augurio a pensare e sperimentare una scuola diversa. E
prima ancora di essere un augurio, vuole essere il mio ringraziamento personale a
Iliah, Magdalena, e Gianfranco, per avermi aiutato a scoprire un nuovo modo di
crescere, imparare e costruire conoscenza, ad abbracciare una sfida educativa
che nasce dalla diversità e si risolve nella possibilità. Perché tutti gli studenti
hanno le capacità, e tutti non vedono l’ora di metterle in gioco, quando il contesto
formativo lo permette.

99
100
Elenco delle Figure
Figura 1: “Condizioni di salute: disturbo/malattia”, OMS 2001 ............................. 38
Figura 2: "Dentro l’aula di una «scuola senza zaino" Tratto da Le Guide Erickson -
Bes a scuola. 10° Edizione - Convegno Internazionale Centro Studi Erickson .... 85

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109
110
Ringraziamenti
Ci tenevo a scrivere questa parte, in quanto il raggiungimento di questo traguardo non è merito
solo mio. Ho incrociato tantissime persone nella mia vita, una diversa dall’altra, ed ognuna mi ha
dato qualcosa, sia in termini di emozioni, che di lezioni di vita. Farò pochissimi nomi, proprio
perché ci tengo che tutti facciano parte del cuore della persona che scrive queste parole, senza
escludere davvero nessuno, partendo da Giuseppe Foresta, il mio primo compagno di banco
nell’avventura scolastica, con la sua spensieratezza e la sua genuinità, passando per la
professoressa E. Gnesin, e il suo dolore per una scelta di vita non appagante, arrivando a te che
leggi queste parole, che in un momento buio della mia vita, mi hai preso per mano e hai
camminato assieme a me, probabilmente inconsapevolmente, in questi ultimi metri prima del
traguardo. A tutti quanti, grazie di cuore.

Mi avete tutti insegnato cose meravigliose: l’amore incondizionato per la propria famiglia,
indipendentemente dal mucchio di polvere sotto il tappeto (“Parchè ogni canseo, ga’ el so
bordeo” ndMaria), il valore dell’Altro non in quanto amico, ma quanto persona, con una sua
individualità e un suo tesoro da scoprire, la curiosità per il diverso, perché portatore di novità che
arricchiscono e mai impoveriscono. Mi avete mostrato che anche la notte più buia, può essere
superata in compagnia di qualcuno, attendendo la luce del mattino che puntualmente torna
sempre. Al contrario ho scoperto a mie spese che la solitudine porta allo smarrimento, lo
smarrimento alla sofferenza, e la sofferenza alla deviazione (nel migliore dei casi).

Ho scoperto che la strada per i propri sogni è colma di ostacoli, e quando gioisci per averne
superato uno, subito te se ne para uno davanti ancora più grande, ma voi mi avete insegnato che
non sono lì per fermarmi o rendermi la vita un inferno, ma semplicemente interrogarmi su quanto
ci tenga a tagliare il traguardo al termine del percorso e a fermare quelli che al contempo non ci
tengono quanto me.

Ho scoperto che non ci si rende conto dell’importanza di qualcuno nella propria vita fino a quando
non lo si perde, sia per un lungo arco di tempo, sia in via definitiva. Tendiamo davvero a dare per
scontato troppe vite attorno a noi senza le quali però saremmo persi, e quando le perdiamo
sperimentiamo il dolore del “troppo tardi”. Mi avete però insegnato che lasciare andare è la
sublimazione del perdere, un momento estremamente delicato e profondo allo stesso tempo,
indiscutibilmente doloroso, in cui però accogliamo nella sua interezza colui da cui ci stiamo
separando, rendendolo parte del nostro essere. Il lutto, la separazione, anche in senso lato, che
prima vivevo solamente come il dolore causato da una perdita, oggi lo vivo anche nella gioia e

111
nella gratitudine del dono. Un dono che è autentico non solo perché reciproco, ma anche perché
circolare: il dono che oggi tu fai a me, un domani lo scambierò con altre persone, in una catena
che non conosce fine.

Ho imparato che nella vita ci sono davvero tantissimi figli di troia ai quali ho augurato le peggio
cose che potessi immaginare. Mi avete insegnato che “quelle peggio cose” molto probabilmente
le avevano già vissute, e forse era ora che qualcuno andasse da loro, e gli prestasse ciò che la vita
gli aveva negato fino a quel momento: Ascolto Autentico, e una parola amica. Nessuna persona è
intrinsecamente malvagia. Il “male” è lo sporco nell’anima che arriva dall’esterno, e se a volte una
spugnetta può non bastare a rimuoverlo, talvolta persino una vasca a idromassaggio può non
essere sufficiente. Il tempo è la chiave. Donate a una persona il vostro tempo, e vi arricchirete di
tutto ciò che di bello nasconde sotto lo sporco, come lei si arricchirà di voi, in quella reciprocità
del dono, che peraltro ricordo essere anche circolare.

Il tempo speso con una persona, non è mai tempo perso, se il suo unico fine è l’ascolto e la
condivisione.

Non sono parole di una persona cristiana, o buddista, o qualsiasi altra religione/movimento
filosofico/culturale possano essere riconducibili, ma semplicemente di chi ha avuto la
fortuna/sfortuna di conoscere l’emarginazione e la solitudine per un periodo importante della sua
vita. Dico ‘fortuna’ perché guardando il mondo da una finestra ho avuto modo di osservare in
silenzio senza che nessuno mi disturbasse lo scorrere frenetico di vite che non avevano mai modo
di soffermarsi sull’autenticità della relazione. Forse, vuoi per la Società basata sul consumismo, o
magari per i ritmi di vita che impediscono di trovare il tempo e la serenità necessarie a dare il
giusto valore all’Altro, fatto sta che ho assistito a una crescente oggettivizzazione della persona, in
una visione utilitaristica. Nel momento in cui non svolge più correttamente la sua funzione,
diventa scartabile, e rimpiazzabile con qualcosa di nuovo. Una persona circondata da oggetti non
è forse la più sola delle persone?

Ho sperimentato la solitudine, e ho scoperto che uscirne da soli, è pressoché impossibile, e l’unica


speranza giace nell’attendere qualcuno disposto ad accoglierci col nostro sporco e aiutarci a
ritrovare una strada verso la luce. Una fortuna immensa, che ho ripromesso di condividere con
chiunque avessi trovato nel mio cammino. Grazie per averlo fatto con me.

In merito a questo è d’obbligo per me ringraziare diverse case videoludiche, nonostante questo
possa urtare la coscienza di qualcuno, senza le quali oggi molto probabilmente non starei
scrivendo queste parole. Avrei potuto leggere libri o guardare film. Uscire di casa a fare un giro

112
era fuori discussione, se non volevo essere vittima di episodi di bullismo e, francamente parlando,
già quelli a scuola bastavano e avanzavano. Fortunatamente il mondo videoludico mi ha permesso
di “vivere” in altre realtà, con altre persone che, seppur virtualmente, contavano su di me e
instauravano relazioni che nella mia testa vivevo come reali. Se la vita mi sbatteva in faccia che
ero una nullità, nel videogioco ero l’unica speranza per salvare un mondo destinato alla rovina, o
se non altro un nessuno che POTEVA diventare qualcuno. Succede tutto nella testa, ma succede, e
questo a volte basta. Mi hanno insegnato che ce la potevo fare, che se anche fallivo in un impresa,
avrei avuto più possibilità di riuscita se avessi riprovato con maggiore impegno, e che la vera
sconfitta giace nella resa. Non mi arrenderò più. Non permettete a nessuno di arrendersi.

Mi avete insegnato queste e moltissime altre cose che devo ancora finire di apprendere, e che
non vedo l’ora di imparare, per poi portarle con me nel cammino della vita e condividerle con chi
non ha avuto la fortuna di conoscervi come vi ho conosciuto io.

Grazie. Siete il mio cuore.

Alberto.

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