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YOGINI

IL LATO IN OMBRA DELLA DEA

GUIDO ZANDERIGO
così Ella è l’ultima, unificata Sakti,
la Signora suprema, la Tripla città,
il Sé di Brahma, Visnu e Isa;
l’Essere che è potenza di conoscenza, azione e volontà

Vamakesvarimatam IV, 10-11

L’India da sempre si dispiega attraverso un eccesso di segni, impronte, appigli


sospesi.
Le sue cosmogonie pendono come grappoli dall’Uno, ciascuna sugosa di acque e
sangue. Le sue epiche sono oceaniche, onnipervasive, tentacolari. I miti
invariabilmente labirintici, non tanto nell’essenza delle trame, quanto nello svaporare
dei contorni in una messe di divagazioni che si aggrovigliano mischiando personaggi,
scombinando riferimenti, riallineando confini tra luce e oscurità.
In questa stratificazione abbiamo imparato a muoverci guardinghi, a saggiare il
terreno col piede, sempre pronti allo scarto improvviso.
Eppure nulla ci aveva preparato allo sprofondare evocato dalle yogini.
Già a un primo sguardo qualcosa in loro sfugge. Qual è la loro natura? Di che
sostanza sono intessute? Dove collocarle nelle precise geometrie del cosmo?
Le yogini eludono queste categorie confondendo i panni del manifestatore e del
manifesto, della conoscenza e del conosciuto.
Così la loro cifra appare giocarsi altrove, in una inclinazione misterica, notturna, in
quella penombra ove chi non sa vedere prende la corda per serpente.
Dotate di mille volti, grondanti sangue, le yogini se ne stanno in disparte, con la
pazienza di chi conosce il passaggio obbligato. Accucciate dietro l’albero del tirtha,
appena sotto la superficie della sua pozza, tra la terra del tumulo.
Non dispensano le lusinghe d’un dio bonario. Le yogini strappano, mondano,
eviscerano. E lo fanno senza lenire, senza il compromesso della pietà.
A loro, con gesto istintivo, tentiamo quasi tutti di sottrarci. Solo i migliori tra noi
corrono incontro a quell’abbraccio con ebbro sorriso.
Eppure, in un modo o nell’altro, finiremo comunque per incontrarle. Perché le yogini
frequentano la morte, sia essa riunione con l’Assoluto o nostra personale resa.

22
La natura delle yogini

Di fatto, col termine yogini la tradizione indiana designa svariate categorie di entità
femminili che si presentano come vere e proprie espressioni del divino, in forma
sottile o sotto semplici spoglie umane.
Tale diversificazione si conferma anche in ambito buddhista vajrayana ove le yogini
vengono assimilate alle dakini (tib. khandroma) - letteralmente ‘coloro che volano
nel cielo’ - suddivise in dakini segrete (tib. yum chenmo), riflesso della conoscenza
trascendente (prajnaparamita), dakini interiori (vajra dakini), che fungono da guide
spirituali (tib. yidam) durante la meditazione, dakini esteriori, che agiscono sul corpo
sottile del praticante, e dakini completamente esteriori presenti sotto forma umana
come donne dedite allo yoga o consorti di yogi dai grandi poteri (mahasiddha).

Pur in questa varietà d’aspetti, le yogini sembrano però mantenere alcuni tratti
comuni quali la frequentazione di animali feroci - fiere e rapaci -, il richiamo a
possessione e sacrificio, lo sviluppo di poteri - tra cui il volo - e una connotazione
notturna che allude alla loro signoria su quegli interstizi del gorgo ciclico del tempo
ove s’annidano promessa e terrore d’annullamento. Su tutti un carattere di segretezza
accompagnato da una fama inquietante, se non addirittura sinistra, che ha permesso
loro di mantenersi ‘sottotraccia’, lontane da una devozione popolare troppo esplicita,
come sancito da una delle più nette dichiarazioni del Kaulajnana Nirnaya 1 ‘le yogini
ricevettero la sapienza che istantaneamente manifesta lo yoga. Tale sapienza fu
chiamata yogini kaula poiché essa non oltrepassò mai i limiti del loro cerchio.’ 2
Diffusi su tutto il territorio dell’India, questi elementi tipici dell’ambiente tantrico
sembrano assumere particolare rilevanza nella geografia sacra dell’Assam,
dipanandosi tra miti e allusioni nel nome della conoscenza sottile e delle sue
proteiformi manifestazioni al femminile - come devi, mahavidya, matrika,
gramadevata, balagraha o yaksini - volte a ridefinire le vie salvifiche tra riti cruenti,
seduzioni mistiche e danze macabre.

1
Testo tantrico del IX secolo, il Kaulajnana Nirnaya viene attribuito al siddha Matsyendranath,
figura di riferimento della scuola dei Kamphat yogi, che funge da spartiacque tra il tantrismo delle
origini e le sue evoluzioni medievali. Matsyendranath descrive sé stesso come fondatore della
tradizione yogini kaula, dottrina che riformò le precedenti scuole siddha kaula del Kasmir dando
vita alla cosiddetta tradizione orientale che si radicò in Kamarupa (Assam). Egli viene considerato
l’intermediario sovrumano che ‘portò quaggiù nel sito lunare di Candra-dvipa (il continente della
luna) o Candra-giri (la collina della luna) l’originaria rivelazione tantrica.’
David Gordon White, The alchemical body, University of Chicago Press, Chicago, 1996.
Il Kaulajnana Nirnaya contiene formule rituali e magiche e occupa una posizione fondamentale sia
in ambiente tantrico hindu che in quello buddhista vajrayana.
2
Tale carattere di segretezza trova conferma nello Sri Matottara Tantra, testo che si insinua tra i
misteri delle yogini. Ciascun capitolo termina infatti con l’ammonimento che la materia trattata è
yogini guhya (segreto delle yogini).
Vidya Dehejia, Yogini Cult and Temples. A Tantric Tradition, National Museum New Delhi, 1986.
33
Yogini come divinità

Il più elevato aspetto delle yogini è quello che le pone direttamente in relazione con la
Devi suprema.
Tra i suoi appellativi troviamo infatti Yogini o Yoganirata (Colei che pratica lo
yoga), Yogamaya (Colei che è fatta di yoga) e Yoganandapradayini (Colei che
conferisce beatitudine attraverso lo yoga).
Nel Visnubhagavata Purana la Devi è detta Maha Yogini (la grande Yogini), nel
Lalita Sahasranama 3 Ella è Kula Yogini, la Yogini assimilata a Kali (da cui kaula -
quelli della famiglia di Kali - scuola tantrica sviluppatasi nel nord-est dell’India tra
Bengala e Assam). E, tra i mille nomi della Devi, l’officiante invoca ‘Tu sei Yogini’.
Di fatto, in tutto l’intreccio di correnti confluito nella tradizione sakta, si conserva
una sovrapposizione tra la Dea, unica e principiale, e le forme attraverso cui Ella si
manifesta. Tanto che molte fonti hindu e buddhiste identificano a diverso titolo Devi
(la Dea), Sakti (espressione al femminile/potenza del divino), yogini e dakini.

Se si passa dalla sfera unitaria della Devi alla sua capacità di suddividersi e replicarsi
in ghirlande che ne declinano appellativi, aspetti parziali, sfaccettature o
caratteristiche subordinate, ritroviamo le yogini in schiere di varia entità - 16, 42, 50 o
81 - anche se più comunemente si presentano riunite in gruppi di sessantaquattro.
Secondo il Candi Purana 4 esse furono formate con sessantaquattro parti del corpo
della Dea e rappresentano le dakini più oscure, portatrici di morte. Una simile visione
si ritrova nella sezione Arunacala Mahatmya dello Skanda Purana secondo cui Devi
creò dal proprio corpo il cerchio delle sessantaquattro yogini per combattere il
demone Mahisasura. E proprio in un cerchio di yogini, il Phetkarini Tantra 5
prescrive che Devi debba essere adorata nella sua forma di Smasana Kalika, la Dea
Kali dei cimiteri.
Già da questi primi accenni emerge come il raccogliersi in cerchio (cakra o mandala)
risulti segno distintivo delle yogini, segno che si conferma nell’atipica pianta
circolare dei loro templi ove esse di norma cingono un Bhairava danzante nello
scarno sacello centrale. Si tratta di luoghi di culto appartati, nascosti nel profondo
della foresta o a corona di isolate colline, quasi dei consessi silvani di yogini fissati
3
Il Lalita Sahasranama è uno dei testi più sacri della devozione alla Dea ed enumera i suoi mille
nomi, organizzati sotto forma di inno, la cui recitazione porta alla liberazione ultima. L’inno si trova
nel Brahmananda Purana come dialogo tra Hayagriva e il saggio Agastya.
4
Il Candi Purana, testo composto in Orissa nel XV secolo da Sudramuni Sarala Das, riprende il
mito dell’uccisione del demone Mahisasura da parte di Durga. In esso si narra di come la dea Candi
avesse generato sessantaquattro yogini insaziabili di sangue, ossa e midollo, sempre disposte a
combattere i demoni per cibarsene.
5
Il Phetkarini Tantra, assieme al Nila Tantra, viene indicato da Siva quale mezzo per ottenere
potere (Shakti), conoscenza (Sarasvati) e ricchezza (Laksmi). Esso risulta uno dei testi più oscuri
della via della mano sinistra e conferisce il potere di controllare la Devi nella sua forma di sciacallo
attraverso supporti rituali particolarmente tenebrosi come la Phetkarini mala, collana composta con
ossa di donna morta di parto.
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nella pietra. Bassi recinti senza copertura in cui viene meno l’elemento centrale del
tempio hindu - il garbhagrha - e quindi il camino attraverso cui il fumo
dell’oblazione vegetale può salire al cielo. Ma se il sacrificio rimane atto fondante di
qualsiasi rituale, esso dovrà aver comunque luogo, assumendo perciò altra e ben più
cruda natura.
Le sculture di yogini addossate al muro perimetrale di questi ascosi sacelli spesso
presentano corpo femminile e testa animale. Ciò allude simbolicamente a delle
caratteristiche condivise con quell’animale o al potere di soggiogarlo per assorbirne
le inclinazioni (forza, capacità di volo, artigli e zanne pronte a dilaniare, morso
venefico, ecc.).
Di fatto le stesse cavalcature (vahana) su cui sono assise - come civette, avvoltoi,
tigri, sciacalli, elefanti, cavalli, serpenti, ecc. - corrispondono agli animali che, nel
Kaulajnana Nirnaya, Siva descrive quali forme assunte dalle yogini per muoversi
sulla terra riproponendo il tema della possessione/sostituzione che si ritroverà come
elemento chiave della trance sciamanica in ambiente tribale.

Le liste tradizionali (namavali) spesso riportano tra le yogini anche nomi di matrika,
le Madri, anello di congiunzione tra proiezioni popolari di forze della natura e gli
aspetti di potenza al femminile delle maggiori ipostasi divine hindu.
Nell’Agni Purana e nel Devi Mahatmya,6 le yogini sono associate alle astamatrika, le
otto principali forme della Devi, da cui, per serie di otto, fluiscono le sessantaquattro
yogini.
Esse costituiscono un’estensione del più classico gruppo di sette madri
(saptamatrika) - Brahmi, Mahesvari, Aindri/Indrani, Kaumari, Vaisnavi, Varahi e
Camunda - cui si affianca abitualmente Mahalaksmi o Yogesvari (Varaha Purana),
quella stessa Yogesvari che viene considerata una yogini andando così a rinsaldare
ulteriormente il rapporto matrika-yogini.
I miti sull’origine delle matrika narrati nei Purana hanno in comune il tema della
lotta cruenta tra gli Dei - Siva, Visnu o Indra a seconda della fonte - e il demone
Andhakasura (altrove sostituito da Raktabija) il cui sangue, gocciolando a terra,
rigenera continuamente nuovi demoni. Le matrika vengono perciò create per bere il
sangue non appena sgorga dalle sue ferite, impedendo così la moltiplicazione
dell’asura. Vi è una evidente chiave simbolica del mito dal momento che le
matrika/yogini, sorbendo il sangue e dunque asciugando la fonte di rigenerazione,
riducono il molteplice all’unità ponendo in tal modo le condizioni affinché possa
cessare il fluire diabolico di maya, il mondo illusorio delle forme. Ed è proprio il
sacrificio - evocato dal sangue - a essere il viatico per il superamento del contingente
garantendo il reintegro nell’unità principiale. Il Varaha Purana ci offre però una
significativa variante ponendo in relazione le astamatrika con le otto qualità
6
Il Devi Mahatmya o Candi Patha, considerato il più importante testo di riferimento per le correnti
sakta, fu composto intorno al V secolo d.C. e costituisce la sezione compresa tra il 74esimo e
l’86esimo capitolo del Markandeya Purana. Esso consta di settecento (saptasata) versi e per questo
viene anche chiamato Durga Saptasati. Ancora una volta al centro della narrazione è la battaglia di
Durga contro il demone Mahisasura.
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diaboliche di Andhakasura in quanto, una volta svolto il loro terribile compito e
avendo quindi assorbito le qualità del demone attraverso il suo sangue, devono essere
messe sotto il controllo di vidya, la scienza. In tale veste Yogesvari corrisponde a
kama, il desiderio, Mahesvari a krodha, la collera, Vaisnavi a lobha, l’avidità,
Brahmani a mada, la superbia, Kaumari a moha, l’illusione, Indrani a matsarya, la
colpa, Yami o Camunda a paisunya, la falsità, e Varahi a asuya, l’invidia. Sotto
questa prospettiva, dunque, il sacrificio e le tremende conseguenze che esso scatena
possono essere governate soltanto da vidya.
La sovrapposizione delle matrika a elementi diabolici introduce d’altra parte una
delle caratteristiche centrali e forse più contraddittorie - almeno nella prospettiva
occidentale bene/male - del mondo divino indiano. La Dea tende infatti a presentarsi,
e ad agire nei confronti del fedele, secondo una doppia natura: Ella può essere madre
benevola, protettrice, salvifica e, al contempo, irata, famelica, imperscrutabile
dispensatrice di malattia e morte.
Vidya, la scienza, è allora la chiave per circoscrivere e mettere sotto controllo la
potenza racchiusa in questo loro lato oscuro, potenza pur tuttavia necessaria a
intraprendere il processo di trasformazione individuale.

Proprio tale lato oscuro trova evidenza in gran parte della letteratura riguardante le
yogini emergendo quale tratto saliente del loro modo di manifestarsi.
Nell’ottavo patala dello Yogini Tantra 7, Siva le descrive come esseri spaventosi con
innumerevoli volti e occhi fiammeggianti.
Nello Yasastilaka 8 si narra che le Mahayogini, attendenti di Candamari, comparvero
in cielo al calar della notte attraversando la volta celeste con tale foga che le loro
trecce si sciolsero.9 Esse avevano decorazioni di sangue sulle gote e nel loro volo
scuotevano collane, braccialetti e cavigliere con gran fragore, mentre dalle calotte
craniche strette tra le mani si staccavano frammenti.
Dopo aver proteso la lingua tra le zanne aguzze per abbeverarsi nelle acque della
Ganga celeste, sollevando così la riprovazione dei Sapta rsa - la costellazione
dell’Orsa o, in termini simbolici, il luogo ove è depositata la conoscenza dei Veda -,
le Mahayogini ripresero la discesa oscurando il cielo con i lunghi capelli sciolti e

7
Lo Yogini Tantra, testo assamese del XVI secolo, costituisce una delle opera di riferimento della
tradizione vamacara (altrimenti nota come ‘via della mano sinistra’) che segue le pratiche tantriche
più estreme.
8
Testo jaina composto da Somadeva Suri in epoca Saka nel 881 o, secondo altre fonti, nel 939. La
traduzione è tratta da Vidya Dehejia, Yogini Cult and Temples. A Tantric Tradition, National
Museum New Delhi, 1986.
9
Lo scioglimento della treccia indica tradizionalmente il periodo del ciclo femminile ed è quindi
segno della natura ‘mestruata’ della Dea. Al proposito risulta significativo l’accostamento con il
passo del Mahabharata dove Draupadi scioglie la propria treccia inzuppandola nel sangue del
Kuruksetra al termine della battaglia conclusiva tra Pandava e Kaurava (Giovanni Torcinovich e
Gian Giuseppe Filippi, Draupadi: il culto femminile e il ciclo della Dea madre, conferenza VAIS
presso Società Letteraria di Verona, 7 maggio 2004).
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mandando sinistri bagliori dai teschi incastonati nelle corone, simili a stelle nella
notte nera.10
Da questa fosca, ma affascinante descrizione emerge una forza tremenda, una
vibrazione di potenza che scuote il cosmo nella notte primordiale. E d’altra parte
proprio le trecce di capelli che si dispiegano in tutte le direzioni evocano la chioma di
Siva Nataraja nella danza di creazione e dissoluzione cosmica, simbolo dei misteri
divini che misurano l’universo penetrandolo in tutte le sue componenti.11

L’accostamento della Dea all’oscurità notturna si ritrova nel Devi Mahatmya, ove i
suoi epiteti sono Maha-maya (grande illusione), Kala-ratri (nera notte del tempo),
Maha-ratri (grande notte) e Moha-ratri (notte ingannevole).
Tale prospettiva viene ripresa in ambiente tantrico dalle dasamahavidya
(letteralmente ‘le dieci grandi Scienze’), espressioni esoteriche della Devi collegate al
tantrismo sakta che fungono preminentemente da supporto nella pratica spirituale
(sadhana) piuttosto che offrirsi come mero oggetto di devozione (bhakti).12 Al di là
delle necessarie differenze di tratto e di funzione che caratterizzano le singole
mahavidya, vi è un costante richiamo alla loro indole notturna - come messo in
evidenza da Alain Daniélou 13 - tanto da identificarle ciascuna con un ben preciso tipo
di notte. Si tratta d’una conferma a quanto fin qui emerso sulla natura della Devi ove
la notte diviene un preciso riferimento a un ambito temporale - o meglio a una
coincidenza di condizioni - su cui Ella esercita la sua tremenda Signoria tra un ciclo e
l’altro della manifestazione. Notte che si pone come metafora d’una sospensione
della realtà illusoria durante la quale la Dea schiude le sue fauci offrendo all’adepto
in grado di guardare oltre le apparenze una via di fuga dal fluire del molteplice, da
quell’illusione, Maya, che altro non è se non uno dei suoi mille nomi.
Una delle interpretazioni più tenebrose di questo carattere delle mahavidya è offerta
sicuramente da Dhumavati - nota anche col nome di Dhumravarahi 14 - che, secondo
il Tantraraja,15 incarna il principio di non esistenza, notte nera (kala-ratri), grande
10
In termini cosmologici la Ganga celeste corrisponde alla Via Lattea. Tale equivalenza ritorna nei
frammenti staccatisi dalle calotte craniche (kapala) e sparsi nel cielo dalle Mahayogini, che
simbolicamente richiamano le ossa triturate dei morti che vanno a formare la polvere stellare della
via lattea.
Giorgio de Santillana e Herta von Dechend, Il mulino di Amleto, ed. it. Adelphi, Milano, 1983.
11
Gian Giuseppe Filippi, Tantrismo e Arte, Quaderni dell’Unicorno, Archè, Milano, 1978.
12
Claudia Ramasso, Il tempio di Kamakhya e il culto delle Dasa Mahavidya, ……
13
Alain Daniélou, Hindu Polytheism, Bollingen Foundation, New York, 1964.
14
Dhumravarahi compare come uno dei nomi di Mahavarahi tra i ventisette segreti (rahasya) dello
SriVidya Amnaya Krama accanto a Vasya Varahi, Astra Varahi, Brihad Varahi, Kirata Varahi e
Strustambhana Vartali, tutte legate alla direzione sud. Per quanto verrà detto più avanti, appare
particolarmente significativo l’accostamento a Kirata Varahi, essendo i Kirata una popolazione
delle montagne dedita al consumo rituale di carne e vino che si ricollega al culto di Kamakhya.
15
Il Tantraraja Tantra (il re dei Tantra) tratta le tre forme (rupa) della dea Tripurasundari: quella
suprema, quella sottile e quella grossolana e le sue conseguenti forme di culto attraverso mente,
parola e corpo.
Esso viene tradizionalmente annoverato tra i sessantaquattro principali Tantra, testi composti tra il
VI e il XV secolo sulla base di culti e pratiche preesistenti. Suddivisi in ragione della divinità cui
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notte di morte e dissoluzione, notte spietata (daruna-ratri) ove tutto è perduto. Ella è
la divina madre al tempo del diluvio, quando il mondo giaceva sotto le acque,
evocatrice del tremendo vuoto che segue l’apocalisse finale (pralaya) e precede la
creazione.
La solitudine che permea Dhumavati ne fa l’unica mahavidya a non avere controparte
maschile e per questo è chiamata Vidhara, la vedova. Ricorrono nel suo apparato
iconografico tutti gli elementi volti a incutere ribrezzo e terrore: due lunghe zanne,
corpo e vesti coperte di sangue, seno smunto, cadaveri e mani mozzate per orecchini,
una mundamala (filo di teschi o di teste spiccate) per collana. Completa questi sinistri
richiami un corvo nero, simbolo delle forze oscure, che troneggia sul suo stendardo,
lo stesso corvo che riappare nel titolo di un testo tantrico della mano sinistra, il
Kakacandesvarimata, ‘La Madre feroce (dal volto di) corvo’.
La pratica meditativa (upasana) dedicata a Dhumavati si svolge nelle buie notti di
luna nuova 16 in un luogo solitario - foresta o cimitero - ove il sadhaka nudo siede
rivolto a sud. Un rituale di potenza che consente di raggiungere trance e samadhi
attraverso i dieci poteri cosmici identificati con le dasamahavidya stesse.
E la contiguità con il fenomeno della trance viene sancita anche dal ventilabro
(surpa) da lei stretto in mano, simbolo di separazione del corpo fisico perituro da ciò
che dura oltre la morte e, al contempo, strumento attraverso il cui scuotimento ritmico
lo sciamano raggiunge la trance.17 Ma a differenza dei fenomeni sciamanici legati
all’accesso a un mondo intermedio, la trance è qui finalizzata al conseguimento di
poteri (siddhi) che aprano la via alla conoscenza ultima.

Vi è in tutto ciò un evidente un richiamo alla vedica Nirrti, notte nera, Dea-madre di
Mrtyu, la morte, che nell’Atharvaveda personifica sfortuna, decadenza e distruzione e
nel RgVeda malattia e dissoluzione, per poi divenire in fase post-vedica Nirrta, il
dikpala a guardia della direzione sud, direzione connessa proprio con la morte.

sono riferiti, vengono considerati Tantra di ambito saiva i ventotto Agama classici (Mūlāgama), di
ambito vaisnava il Pancaratra e il Vaikhanasa, mentre ascritti alla scuola sakta o propriamente
tantra sono il Mahanirvana, il Kularnava, il Pancasara, il Tantraraja, il Rudrayamala, il
Brahmayamala, il Visnayamala e il Todala.
I Tantra si sono diffusi anche in ambienti jaina e buddhisti tant’è che esiste un Tantraraja Tantra -
per esteso Paramadibuddodhhrita Sri Kalcakra name tantraraja - di scuola buddhista mahayana
collegato alla dottrina del kalacakra (la ruota del tempo).
16
La notte di luna nuova è definita in sanscrito amavasya, unione, poiché è il momento in cui luna
(soma) e sole (agni) sono più vicini. In amavasya avviene l’unione sessuale mimata della regina
con il cavallo sacrificato nel corso dell’asvamedha, simbolo dell’unione con il re e quindi
dell’oblazione del succo seminale nel fuoco della matrice femminile.
Lilia Arnoldo, La dea che uccide il bufalo, da Il sangue purificatore nel sacrificio del bufalo
nell’Asia meridionale, AVIS, Venezia, 2002.
17
Il ventilabro (surpa) è un ampio vassoio di fibre intrecciate usato in India e nel sud-est asiatico
per far saltare i chicchi di riso o, in genere, dei cereali in modo che il vento li separi dalla pula
disperdendola. Il rumore dei semi che ricadono ritmicamente sul ventilabro è utilizzato per
accompagnare lo sciamano nella sua danza sempre più incalzante che lo porta alla trance. Per
maggiori dettagli vedasi Gian Giuseppe Filippi, Il movimento della Devi: un’epidemia di
possessione collettiva, Annali di Ca’ Foscari, anno XLI, Venezia, 2002.
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La sua indole terrifica si conferma nel Manava Dharmasastra (Il libro della Legge di
Manu) in cui si suggerisce di placarne l’ira attraverso il sacrificio notturno d’un asino
guercio presso un crocicchio, asino che allude alle potenze oscure e che, assieme al
ventilabro, ritroveremo attribuito anche a Sitala, dea del vaiolo.18 E proprio per
uccidere Nirrti - uccisione che implica una sostituzione - il Suparbhedagama ci offre
una significativa variante del mito sulla nascita delle saptamatrika a opera di Brahma.
Tra esse Camunda, al pari di Nirrti/Dhumavati, è l’unica a non avere controparte
maschile in quanto generata dalla furia stessa della Dea, peculiarità che trova
riscontro nelle prime sculture di saptamatrika ove ella è la sola del gruppo a essere
raffigurata con quattro braccia a sancirne l’autonoma natura divina.
Camunda è dunque l’aspetto della Devi suprema che scatena la potenza sopita della
natura (prakriti), furia votata alla battaglia e alla distruzione. Ella è Kali che
sconfigge e decapita i demoni Canda e Munda (e da cui trae il nome). Ella è una delle
matrika che danzano ebbre di sangue al termine della battaglia di Durga contro i
demoni Sumbha e Nisumbha.19
Ci troviamo al cospetto d’una ipostasi tremenda, una potenza il cui urlo è simile a
quello di cento sciacalli, degni attendenti spesso raffigurati ai suoi piedi mentre
s’abbeverano di sangue da kapala e teste mozzate. Tuttavia non sono questi gli unici,
orribili compagni a farle corona tant’è che, nelle innumerevoli varianti iconografiche,
la corte di Camunda s’allarga per includere pisaca (spettri), preta (spiriti revenant),
cadaveri, leoni, leopardi, iene e civette. Il pasa, cappio che tiene avvinti, è suo segno.
Una pelle di tigre le cinge i fianchi. E per placarla non si esita a offrire in suo nome
vino e sacrifici, in origine senza dubbio umani.
Ella va infine invocata per pacificare le balagraha, entità che dispensano malattie ai
bambini, a riprova del suo sinistro potere su vita e morte.

Ma se Camunda si caratterizza per l’aspetto terrifico e la mancanza d’un canone


fisso, anche Varahi si stacca decisamente dal gruppo delle saptamatrika per dar luogo
a svariate rappresentazioni e notevoli spunti interpretativi, a partire già dal suo
aspetto di Dea-cinghiale, colei cioè che usa scavare con le zanne per recuperare sotto
la superficie ciò che è nascosto o che è andato perduto.
Così il suo veicolo (vahana) può essere un uomo prono a quattro zampe (templi di
Parasuramesvara a Bhubanesvar, Mt. Abu e Saraikela), con chiara allusione al
controllo/trasformazione degli esseri umani in animali, allusione che si rafforza
nell’uso del pasa, il cappio con cui le yogini/streghe tengono avvinti gli uomini da
loro asserviti. Altrove ella cavalca un gana (Vaital Deul a Bhubanesvar, raro tempio
dedicato al culto delle matrika), una tartaruga o un serpente dalla testa umana (naga)

18
Gian Giuseppe Filippi, Il movimento della Devi: un’epidemia di possessione collettiva, Annali di
Ca’ Foscari, anno XLI, Venezia, 2002.
19
Monia Marchetto, Il sangue nella mitologia sakta, da Il sangue purificatore nel sacrificio del
bufalo nell’Asia meridionale, AVIS, Venezia, 2002.
Nel Mahisamardini-stotra del Devi Mahatmya, torna il tema della treccia di capelli quando Devi,
nella forma terrifica di Durga, viene descritta con ‘la lunga chioma intrecciata come un banco di
nuvole che ricopre il suo volto spaventoso’.
99
- entrambi richiami al patala (gli inferi) - o, ancora, un uccello dal lungo collo (con
ogni probabilità un avvoltoio). Per l’ottenimento di specifiche grazie, il Tantraraja
Tantra prescrive che Varahi sia visualizzata sul dorso di un leone (per aiutare ad
attraversare le difficoltà), una tigre, un elefante, un cavallo o un’aquila (garuda).
Varahi viene poi considerata una vera e propria yogini dalla testa di cinghiale,
assimilazione che si riconferma in ambito vajrayana ove, tra le divinità citate
nell’Anuttara Yoga Tantra,20 troviamo Yogini-Varahi accanto a Yamari, Yamantaka
e Tara.
Eppure i riferimenti tradizionali a Varahi non si limitano a tali richiami simbolici
andando invece a proiettarsi in un ben diverso ordine intellettuale.
Al pari di Yama a volte si accompagna al bufalo e beve sangue da un kapala venendo
perciò assimilata all’energia distruttiva del dio infero. D’altra parte il Silpa Sangraha
descrive Varahi come figlia di Yama, mentre Hemadri 21 afferma che ella è Yami,
gemella del Dio della morte.
Varahi è ritenuta poi una ratri-devata (dea notturna), tanto che molti dei rituali a lei
dedicati hanno luogo dopo il tramonto. E il Parasurama Kalpasutra indica
esplicitamente come ella debba essere adorata nel cuore della notte.
La sua inclinazione oscura - oltre a riflettersi nel nome Dhumravarahi (la Varahi
color nero fumo) e Dhumavati (la dea fumosa) - torna nel suo coinvolgimento con le
scuole tantriche della mano sinistra (vamacara) che ne associano il culto a pratiche
estreme, come il pancamakara, su cui avremo modo di soffermarci più avanti.
Altrove il suo nome è Danda-natha, la Signora della verga, che in termini simbolici
evoca il suo dominio sull’asse cosmico.
Ella è colei che distrugge le forze del male che impediscono al devoto i progressi
spirituali conducendolo alla conoscenza di SriVidya. E proprio la scuola SriVidya la
eleva al rango di Para Vidya, Scienza trascendente. Sempre nello stesso ambito
tradizionale, Varahi, assieme a Kurukulla, è parte costituente l’unità principiale della
Devi, assumendo così una funzione di cruciale rilevanza per la tradizione sakta.
Ella è infine Kaivalyarupini in quanto non diversa da kaivalya, la solitudine, meta
ultima dello yoga, il più importante tra i cinque tipi di realizzazione (salokya,
samipya, sarupya, sayujya e, appunto, kaivalya).
Varahi sottende dunque la mukti finale e ha il potere di concedere le siddhi supreme a
quei sadhaka che la venerano con sincerità.

Varahi e Camunda - tra tutte le matrika - sembrano perciò condividere alcuni aspetti
tipici dei culti tantrici delle yogini, sia per la contiguità con fiere (tigri, leoni, iene) e
rapaci (civette, aquile, avvoltoi), sia per l’uso del pasa - simbolo di possessione e

20
Anuttara Yoga Tantra, traducibile come ‘il più alto Yoga Tantra’, è il modo in cui vengono
definiti in ambito vajrayana i testi tantrici buddhisti di origine indiana. Essi formano
tradizionalmente parte dei 108 volumi del Kangyur, la più diffusa raccolta di testi dottrinali
vajrayana.
21
Ministro della dinastia Yadava di Devagiri sotto i regni di Mahadev e Ramcandra (1259- 1274
d.C.), il pandit Hemadri fu anche insigne letterato e a lui si deve il testo alchemico Caturvarga
Chintāmani, oltre che un trattato medico noto come Āyurveda Rasāyana.
110
0
controllo psichico -, sia per una vicinanza al mondo infero attraverso preta, pisaca,
cadaveri e rimandi a Yama e al patala.
Ma sotto questi riferimenti iconografici si nasconde un significato ben più sottile.
Nella Candogya Upanisad tra le scienze tradizionali troviamo citate anche la bhuta
vidya (la scienza dei vampiri) e la sarpa vidya (la scienza dei serpenti, conosciuta
anche come Garuda vidya). Esse sono utilizzate accanto a Veda, Itihasa e Purana
negli ultimi dieci giorni dell’asvamedha, il sacrificio del cavallo - rituale di grande
valenza simbolica -, assieme ad altre pratiche oscure quali la rakso vidya (la scienza
degli spiriti malvagi) e l’asura vidya (la scienza dei demoni).22 D’altra parte
nell’Asvalayana Grhya sutra,23 la rakso vidya è sostituita dalla pisaca vidya, dove i
pisaca altro non sono che un diverso nome per i serpenti, i naga, sovrani del patala
loka.
Si ripropone dunque attraverso tali caratteristiche di Varahi e Camunda il richiamo a
una conoscenza ctonia, oscura, retaggio degli dei di un’epoca precedente ora relegati
alla funzione di demoni/titani. Una conoscenza che viene perciò tratta dalle viscere
della terra per formare la base delle pratiche tantriche.
Il binomio naga/conoscenza segreta risulta peraltro centrale in tutto l’apparato
simbolico delle yogini emergendo anche in Patanjali - il rsi noto per aver divulgato il
raja yoga (lo yoga reale/supremo) - abitualmente raffigurato con testa e tronco umani
e la parte inferiore da serpente le cui spire compiono tre giri e mezzo, al pari di quelle
di kundalini adagiata nel muladhara cakra.24
Tali allusioni si ripropongono nelle dasamahavidya - quasi tutte caratterizzate dal
pasa - a partire da Kali, che nel suo aspetto di Bhadrakali, è contornata da bhuta,
pisaca, yogini, dakini, yaksini e innumerevoli demoni o che, in qualità di Guhyakali,
è visualizzata con una doppia testa animale e umana.
Se dunque Camunda rappresenta l’orrore della distruzione - e quindi il tempo
divoratore - Varahi è la conoscenza sottile, colei in grado di spezzare le catene di quel
tempo. Sono queste le due polarità del mondo tantrico, l’essenza delle vie della mano
sinistra (vamacara) e della mano destra (daksinacara).

Eppure oltre questa polarizzazione, al di là di queste connotazioni particolaristiche, le


saptamatrika proiettano nel loro insieme anche un significato comune.
La loro lettura simbolica si fa allora corale e il complesso scultoreo, che le ritrae con
altre figure di ambito saiva, viene a riassumere l’intera parabola della Dea portando
le saptamatrika a incarnare il ciclo cosmico del tempo e della sua fine.
Qui Siva Natesa, posto in genere all’inizio del gruppo, dà il via alla creazione
dell’universo attraverso la danza, sostituito a volte da Ganesa che a livello sottile
indica la via iniziatica e dunque la (ri)nascita. Segue la prima delle matrika, nella
composizione più classica Brahmi, sakti del creatore Brahma, mentre Vaisnavi, al
22
S.V. Venkateswara, Indian Culture through the Ages, Longmans, Green and Co., London, 1928.
23
Il Grhya sutra di Asvalayana - discepolo del grande rsi Saunaka - è annoverato tra i cosiddetti
sutra domestici.
24
Secondo il Vamana Purana, per combattere il demone Raktabija, Varahi emerse dal corpo della
Dea seduta proprio sul serpente Sesanaga.
111
1
centro (quarta di sette), incarna la conservazione dell’universo. Il ciclo si conclude
con Camunda - la dissoluzione - il cui aspetto scheletrico suggerisce il superamento
della morte. A suggello del gruppo ritorna infine Siva, ora Daksinamurti (colui che
pacifica il Sud), Signore che reca la conoscenza, oppure Kalabhairava (colui che
spaventa la morte stessa), che allude alla morte come liberazione dal ciclo delle
rinascite, ribadendo in questa trasposizione il legame conoscenza-liberazione.
Kalabhairava, o Kala Rudra, è dunque il tempo, quel tempo che secondo
l’Atharvaveda è associato a una partizione settenaria (con sette ruote il tempo avanza,
sette i suoi mozzi) in cui si ripropone, non a caso, il numero canonico delle matrika.
Ma qui il suo avanzare è l’ineluttabile appuntamento con la dissoluzione, qui Siva è
Mahakala, il tempo divoratore dell’intero universo, colui che ingoia tutto nella grande
oscurità. E Kali la nera ne è la controparte femminile.
Sotto questa prospettiva le saptamatrika rappresentano allora creazione,
preservazione, morte e riassorbimento nell’unità principiale. E come le mahavidya,
con la loro inclinazione notturna, indicano la possibilità d’una interruzione, una via di
fuga dal perenne fluire delle rinascite. Così, nella loro successione, esse finiscono per
riassumere il processo che, attraverso la via tantrica, consente di acquisire la
liberazione ultima (mukti).

Yogini come guide sottili

Seguendo a ritroso la gradazione sottesa anche in ambito vajrayana, la successiva


categoria di yogini/dakini è riferita alle guide spirituali (vajra dakini) 25 che fungono
da supporto nelle pratiche delle scuole tantriche.
I mandala o cakra - diagrammi che riassumono in termini sintetici la struttura del
cosmo - sono i più diffusi di tali supporti e se ne ritrova traccia fin nella forma stessa
dei templi dedicati al culto delle yogini. Si tratta di costruzioni a pianta circolare - o
più rararamente rettangolare - che replicano sul terreno consacrato dal sacrificio
(vastu purusa mandala) diagrammi quali il kecari cakra e lo yogini cakra, entrambi
composti di sessantaquattro yogini, il muladhara cakra, composto da ottantun yogini,
o il malini cakra, composto di cinquanta yogini.
Nei dipinti su carta o stoffa su cui sono raffigurati i medesimi mandala, le yogini vi
stanno adagiate radialmente a formare la struttura di collegamento tra la
circonferenza e la parte centrale esprimendo così una delle metafore più care al
pensiero indiano dove il cerchio esterno rappresenta la manifestazione, il mondo del
molteplice, in opposizione - o meglio in modo complementare - al centro che

25
Il termine vajra dakini, che indica tale categoria di guide sottili, introduce una relazione diretta
con il vajra (fulmine o diamante), simbolo assiale del tantrismo buddhista e, al contempo, segno di
incorruttibilità e dunque di ciò che supera il contingente. Tale prospettiva simbolica connota anche i
nomi di altre entità che incontreremo nel corso del presente studio come Vajrayogini, Vajravarahi e
Vajrabhairava.
112
2
sottende l’origine, motore immobile dell’universo.26 I raggi - in questo caso le yogini
- divengono allora le vie che possono ricondurre l’uomo verso l’unità principiale,
verso il ricongiungimento (yug, radice di yoga e dunque di yogini) con l’Assoluto.

Una visione analoga, seppur espressa in termini assiali, è quella che vede sette
categorie di yogini (dakini, rakini, lakini, kakini, sakini, hakini e yakini) presiedere i
sette cakra del corpo umano allineati lungo un asse detto merudanda (il bastone del
monte Meru). Qui la loro presenza allude ai poteri (siddhi) che, con il risveglio di
kundalini e la sua risalita lungo tale asse, vengono dispensati dalle yogini in ciascuno
dei loti/chakra attraversati sottilmente dal praticante fino a consentirgli il
raggiungimento dello sahasrara cakra posto alla sommità del capo, loto supremo che
schiude la porta a moksa.
In tale prospettiva i richiami a conoscenza sottile e tempo divoratore messi in
evidenza dalle due matrika Varahi e Camunda - quelle che più si avvicinano
simbolicamente alle yogini - trovano rispondenza con le caratteristiche del sesto
cakra, l’ajna cakra, costituito appunto da due petali, considerato l’occhio della
conoscenza collegato al senso dell’eternità. Questo cakra, posto a livello della
ghiandola pineale, rappresenta infatti in termini microcosmici il raggiungimento della
perfezione dello stato umano, il centro ove si riceve dall’alto il comandamento (ajna)
del guru interiore.
E l’asse che infila i diversi cakra altro non è se non susumna, il centrale dei tre canali
sottili (nadi) che attraversano il corpo umano. Similmente, secondo una visione
macrocosmica, questo è l’asse che collega il centro terrestre al centro celeste,
ulteriore metafora della via per la reintegrazione nel Principio.
Altri livelli simbolici sono poi collegati alle stazioni che scandiscono la risalita lungo
il merudanda, come la presenza di due triangoli, uno chiamato Traipura, posto nel
muladhara cakra, alla base della colonna vertebrale dove giace arrotolata kundalini, e
uno, Kamakala, a sostegno dello sahasrara, riproponendo in termini microcosmici
quanto appena espresso su centro terrestre e centro celeste. Ed è significativo
sottolineare come il triangolo di base sia noto anche come Kamarupa, andando così a
tratteggiare una prima allusione nell’identificazione dell’Assam (Kamarupa) quale
centro del mondo per la tradizione tantrica.

Le stesse sette yogini (dakini, rakini, lakini, kakini, sakini, hakini e yakini) sono poi
collegate ai sette dhatu, le parti costituenti il corpo umano, che corrispondono alla
linfa vitale (rasa), al sangue (rakta), ai muscoli (mansa), al grasso (med), alle ossa
(asthi), al midollo e al tessuto nervoso (majja), al seme e al sistema riproduttivo
(sukra) qualificandole così come principio/sostanza della manifestazione.

26
Interessante notare come, nelle rappresentazioni di tali cakra, le yogini che presidiano i vari
settori prendano il nome petali (dala) o raggi (ara) elementi questi che si ritrovano, in modo
equivalente, in relazione a Surya i cui sette raggi o lingue sono detti anche le sue rosse sorelle.
113
3
Anche gli yantra - diagrammi con funzione di supporto alle pratiche meditative –
sono collegati alle yogini.
Otto sono infatti le categorie di yogini (prataka, gupta, guptatara, sampradaya,
kulakaula, nigarbha, parapararahasya) che presidiano i vari livelli di SriCakra, lo
yantra della Devi, formato dall’intreccio di cinque triangoli con la punta rivolta in
basso (segno del principio femminile) e quattro con la punta in alto (segno del
principio maschile), raffigurazione che ripresenta in termini più complessi il
simbolismo dello yantra di Vajravarahi, costituito invece dall’intersezione di due soli
triangoli dai vertici contrapposti a indicare l’unione dei princìpi alla base della
manifestazione dell’universo ed equivalente a ciò che in Occidente è noto come
sigillo di Salomone.27
Al centro di SriCakra è insediata la Dea stessa, Tripurasundari/Lalita, colei che, tra le
Dasamahavidya, incarna SriVidya (la Scienza della Devi), la via più qualificata della
tradizione sakta.
Il Prapancasara Tantra 28 indica come il parabindu - punto centrale dello yantra e
quindi elemento ultimo e più elevato della pratica meditativa - sia diviso in due parti,
di cui la destra è bindu … (inserire segno) , principio maschile, Purusa, Ham, mentre
la sinistra è visarga … (inserire segno), principio femminile, Prakriti, Sah. Secondo
il Tantraraja Tantra, Varahi (detta anche Pancami), sebbene raffigurata al femminile
come Devi, costituisce il ‘principio paterno’ di Lalita/Tripurasundari, mentre
Kurukulla/Tara ne è il ‘principio materno’ e la loro unione realizza la manifestazione
del mondo, Ham-Sah … (inserire segno).
Varahi è così la luna nuova in opposizione alla luna piena di Kurululla. E ancora
Varahi rappresenta l’aspetto illuminante della Devi (prakasa) e Kurukulla la
consapevolezza del Sé (vimarsa).
Ritorna dunque, in prospettiva Sankhya, la polarizzazione di Varahi e Camunda/Tara
nei due principi della manifestazione purusa e prakriti che qui, in modo ancor più
evidente, lungi dal rappresentare una dualità appaiono integrati nella loro funzione
sintetica all’interno del parabindu, riflesso della Dea stessa.
Tripurasundari diviene allora il ciclo senza fine di emanazioni e riassorbimenti
mentre la pratica yogica di meditazione sullo SriYantra si trasforma in un viaggio

27
Lo yantra di Vajravarahi, rappresentando la compenetrazione del principio maschile e di quello
femminile e quindi il mondo manifesto, trova un’interessante proiezione nel damaru, il tamburello
tenuto in mano da Siva, costituito da due coni uniti per la punta a formare una sorta di clessidra. Se
il suo primo livello di lettura è così legato allo scorrere del tempo - ove Siva, che batte il ritmo della
vita e della morte, è Signore del tempo distruttore che tutto continuamente fagocita e trasforma - in
esso riconosciamo anche i due triangoli dello yantra. E Siva li tiene in equilibrio perfetto per
quell’ultimo lembo di giunzione, sull’orlo del divenire. Egli è dunque Nataraja, che al passo
sfrenato della danza tandava impera su quel limitare, sulla porta stretta attraverso cui fluisce
l’eterna distruzione e rinascita dei mondi.
Non è perciò casuale che in Tibet il damaru venga realizzato con due calotte craniche contrapposte,
a tantrica memoria dell’indissolubilità tra vita e morte.
28
Il Prapancasara Tantra è uno dei principali tra i ventotto Agama - testi composti in forma di
dialogo tra Siva e la Dea (in genere sotto le sembianze di Parvati) - che si sofferma in modo
particolare sulla forma costitutiva del bindu.
114
4
attraverso i vari livelli del cosmo e, al tempo stesso, attraverso i cakra del corpo
umano.
Gli antichi testi della scuola SriVidya contengono già in modo esplicito tale visione
dottrinale. Se il Nityasodasikarnava (L’oceano della tradizione delle sedici nitya
divine) descrive infatti i rituali e i loro effetti magici, lo Yoginihrdaya (Il cuore delle
yogini) interpreta SriCakra come espansione e contrazione del cosmo.29 E la scelta di
utilizzare il termine hrdaya (cuore) sottende un preciso riferimento poiché il cuore
costituisce il punto centrale dell’essere umano, il luogo ove risiede il Sé, posto in
relazione a livello macrocosmico con Brahmapura, la cittadella degli Dei, polo
celeste dell’asse cosmico.

Da tutto ciò emerge come le yogini rimandino simbolicamente alla centralità della
conoscenza, una conoscenza che pur appartenendo a un livello dottrinale di carattere
cosmologico contiene in nuce dei riferimenti di ordine metafisico.
Questa visione si conferma in ambito vajrayana ove le dakini rappresentano l’ultimo
gradino di un cammino iniziato dal maestro (guru), necessario a far compiere il primo
passo sulla via della verità, per poi passare al supporto divino (devata) e concludersi
appunto con le dakini, che offrono l’ottenimento della realizzazione ultima. Nello
Yangzab, testo di scuola dzogchen, questi gradi interiori sono assimilati alle ‘tre
radici’ dove il guru è la trasposizione di Guru Rimpoche (Padmasambhava), il devata
(yidam) quella di Hayagriva e le dakini quella di Vajravarahi, aspetto esoterico della
Dea che ritroveremo come forma di geografia sacra nella terra nascosta (beyul) più
significativa della tradizione vajrayana.

Yogini come navagraha e costellazioni

Sempre in veste d’esseri sottili, le yogini ritornano in chiave cosmologica ponendosi


al centro d’una lunga serie di riferimenti astrali.
Sette yogini (Mangala, Pingala, Dhanya, Bhramari, Bhadrika, Ulaka e Siddhida)
vengono associate ai pianeti (graha) e costituiscono una scala settenaria di influssi
che si alternano con cadenza annuale. Ogni individuo è dunque correlato alla nascita
a una data posizione delle yogini attraverso diagrammi astrologici chiamati
Yoginidasa. Allo stesso modo la loro posizione diviene cruciale all’inizio dei
pellegrinaggi e ne determina l’esito.
Se a questa scala planetaria si aggiunge un’ottava yogini, Santaka, che corrisponde
alla coppia Rahu-Ketu - l’eclissi e la cometa o, in termini astronomici, i due nodi
lunari (i due punti ove l’orbita lunare interseca l’eclittica, cioè l’orbita apparente del
sole attorno alla terra) - la sua proiezione esce dal mondo del manifesto per
29
Il Nityasodasikarnava e lo Yoginihrdaya vanno a formare il Vamakesvara Tantra o
Vamakesvarimatam - la dottrina della Signora del vamacara - uno dei testi più autorevoli della
scuola Sri Vidya secondo il punto di vista Kaula. L’opera è formata da cinque capitoli che trattano
yantra, mantra, mudra e pratiche del culto di Lalita-Tripurasundari.
115
5
comprendere i livelli sottili del cosmo e sancire così la piena identificazione tra
yogini e navagraha (i nove pianeti).30
D’altra parte Rahu e Ketu - personificazioni delle due parti in cui è stato tagliato da
Visnu il serpente-asura Vasuki per aver bevuto amrita/soma, nettare d’immortalità
destinato solo agli Dei - inaugurano una lunga serie di miti legati alla decapitazione
in nome del possesso della bevanda divina/conoscenza suprema che rappresenta il
punto finale del percorso dello yogin tantrico.
Rahu, la testa decapitata, viene associato ai diversi tipi di avvelenamenti, nonché ai
disturbi mentali, alla possessione e alla follia. E’ considerato figlio di Maya (il potere
illusorio della Dea) e dunque induce confusione e attaccamento.
Ketu, la coda del dragone, si ricollega invece alla funzione degli Asvin, essendo in
grado di rimuovere l’effetto del morso dei serpenti o, più in generale, della malattia.31
Egli è posto in relazione con Matsya e Ganesa, al pari dei quali rappresenta la
conoscenza principiale quale strumento di realizzazione.
L’avvelenamento e la capacità di neutralizzarlo o in altri termini il potere su malattia
e guarigione - che equivale a quello sulla vita e sulla morte e che necessariamente si
intreccia con la lotta per il possesso di soma - rimarrà un tema centrale nei diversi
aspetti in cui si declinano le yogini. Ma, al pari di queste, Rahu e Ketu - in quanto
eclissi e dunque null’altro che ombre - più che incarnare in modo esplicito l’unità che
nasce dalla fusione degli opposti, ne abbozzano solo un’evanescente traccia.

A Gauhati (Assam) si trova un raro e interessante tempio dedicato ai Navagraha che,


nella sua forma circolare, rimanda ai templi delle yogini.
Qui, lungo il perimetro esterno sono raffigurati i dieci avatara di Visnu mentre
all’interno si trovano otto lingham-yoni disposti in cerchio a rappresentare i vari
pianeti intorno a un lingham-yoni centrale corrispondente al sole.
Secondo la tradizione jyotisa - la scienza astrologica che ha avuto particolare
rilevanza in Assam tanto da segnarne il nome come Pragjyotisa 32 -, Visnu rimanda
all’universo manifesto, all’equilibrio e armonia del cosmo. Tale punto di vista
giustifica perciò la presenza degli avatara sul muro esterno, in piena manifestazione.
Qui, nella relazione tra i nove pianeti (navagraha) e le dieci discese di Visnu
(dasavatara), Kalkin - il decimo avatara - allude al pianeta nascosto, non ancora
rivelato o, secondo una diversa visione, quello deflagrato all’inizio dei tempi,
riproponendo così il rapporto tra Kalkin e Hayagriva nella trasmissione della
conoscenza da un ciclo all’altro. Se infatti, come ipostasi trascendente del Kalkin,
Hayagriva è colui che salva il Veda dalla dissoluzione finale, all’inizio del ciclo

30
Il termine graha - oltre che ai pianeti - si riferisce anche a colui che stringe, colui che possiede,
attitudine strettamente correlata alle yogini.
31
Ketu viene raffigurato con busto umano e coda di serpente/dragone. Tale rappresentazione, come
visto, è equivalente a quella del rsi Patanjali e sottende a livello simbolico la Sarpa vidya, la scienza
del serpente, una conoscenza nascosta/dimenticata in quanto retaggio di un’epoca precedente.
32
Jyotis d’altra parte significa luce - o, per estensione, raggio luminoso - dunque conoscenza,
ribadendo anche qui la funzione dell’Assam quale centro di conoscenza sottile e, come vedremo più
avanti, punto di proiezione sulla terra dell’asse (raggio) cosmico.
116
6
successivo questa divinità si trasforma in asura (a conferma degli asura quali deva
dell’epoca precedente) da sacrificare affinché Visnu - ora Matsya - consegni il Veda
alla nuova umanità. Ciò corrisponde, in altri termini, all’identificazione simbolica del
maestro con un asura cui va carpita la conoscenza nascosta, un rovesciamento
necessario poiché ogni insegnamento iniziatico - e dunque segreto - implica
comunque un’infrazione del segreto stesso.33
Se i pianeti sono riferiti a Siva sottintendono invece la forza di trasformazione e
dissoluzione dell’universo, il divenire. Perciò i nove lingham-yoni stanno all’interno
del garbha grha, il luogo ove attraverso il rituale può avvenire la trasformazione. Il
pianeta nascosto in questo caso si colloca al termine del camino che risale lungo il
vimana (la torre che sovrasta il sacello centrale), apice dell’asse attorno cui tutto
ruota, vuoto cosmico del Visnu pada, punto centrale nell’orbita delle polari nella
precessione degli equinozi.

Passando dal simbolismo polare a quello solare, Surya, fulcro dello yantra dei
navagraha, ha sette raggi o fiamme, dette anche le sue sette lingue. Tali fiamme sono
le sue rosse sorelle (Kali, Karali, Manojava, Sulohita, Sadhumravarna, Sphullingini, e
Visvarupi) o le piccole madri, e dunque, di nuovo, le saptamatrika.

Sempre le matrika/yogini sono al centro del mito arcaico della nascita di Skanda,
figlio di Siva, che coinvolge le sette stelle Krttika - le Pleiadi 34 - e i sette fiumi
celesti, i sapta sindhu. Il mito narra infatti di come il seme emesso da Siva, distratto
da Parvati durante il proprio tapas, fosse così ardente da non poter essere trattenuto
né da Agni, né dalla Ganga dove era stato versato. I sei figli nati nella Ganga vennero
perciò trasportati in cielo dalle Krttika e Parvati stessa provvide a fonderli in un unico
fanciullo con sei teste (la settima stella).35
Nel calore del tapas, calore che poi si trasmuta nel seme rovente del Dio - non a caso
espressione del grande yogin -, troviamo l’allusione a una conoscenza così elevata da
incenerire. Tale lettura si riverbera nell’adozione di Skanda da parte delle Krttika,
costellazione correlata all’Orsa maggiore - i sapta rsa - a propria volta soggiorno di
immortalità, scrigno/arca ove si conserva la conoscenza del Veda da trasmettere da
un’epoca all’altra.

33
Gian Giuseppe Filippi, La dolcezza del sapere: Madhu Vidya, Leo Olschki Editore, Firenze,
1996.
Tale concetto si ripresenta anche nel mito di Dadhyanc che viene decapitato da Indra come
punizione per aver divulgato l’insegnamento iniziatico ai propri discepoli, gli Asvin.
34
Skanda - che funge anche da dio zodiacale come Mangala (il pianeta Marte) e da cui discende la
sua funzione di Dio della guerra - conferma nel suo stesso appellativo di Karttikeya la stretta
relazione con la costellazione delle Pleiadi (Krttika). Tra i suoi molti nomi è conosciuto nel sud
India come Murugan, nome che si rifà al dio tribale Murugu il cui culto - citato nella letteratura
Sangam - era celebrato nei boschi o tra i campi da sacerdoti non brahmani (velan). Tali rituali, oltre
a sacrifici cruenti, comprendevano anche la Veriyaattu, una forma di danza che induceva la trance e
che è ancora oggi praticata nelle cerimonie dedicate a Murugan.
35
Le Pleiadi sono poi legate all’erezione dell’altare vedico - costituito da sette file di mattoni -
ponendosi così all’origine stessa del rituale di sacrificio.
117
7
Secondo una variante dello stesso mito, Skanda fanciullo viene prima combattuto, poi
adottato dalle sette madri lokamata/balagrahha (letteralmente distruttrici di bambini)
alle quali egli demanda il potere di infliggere le malattie ai fanciulli sotto i sedici
anni, riproponendo ancora una volta il tema della signoria sulla vita e sulla morte
quale metafora di conoscenza.36
Attraverso il culto delle balagraha Skanda fanciullo è stato perciò associato alle
saptamatrika tanto che nelle loro raffigurazioni più antiche ne completava il gruppo
prima d’essere sostituito in epoca successiva da Ganesa o Siva stesso.
Nel Vamana Purana, Skanda propone un altro appiglio ‘celeste’ con le
matrika/yogini poiché si accompagna a matrika che assumono forma d’uccelli e
volano attraverso i cieli.
Sempre il volo - sebbene in termini più oscuri - ritorna con Sakuni, una delle
matrika/balagraha, descritta nella Susruta Samhita e nell’Harivamsa Purana come
uccello che vola in cielo ruggendo come una tigre o dal Mahabharata come paksini
(uccella) che si muove nella notte nera.

Anche Varahi, cui è dedicato il XXIII capitolo del Tantraraja Tantra, offre una
lettura dottrinale in chiave cosmologica.
I suoi quattro elementi alchemici (dhatu) sono conosciuti come i quattro fuochi,
simboleggiati nello SriYantra dai triangoli col vertice in alto. Sua controparte è
Kurukulla, i cui elementi alchemici sono le cinque sakti, raffigurate dai triangoli dal
vertice in basso.
Ma le quattro fiamme ‘maschili’ di Varahi si collegano alle dodici (4x3) kala solari o
dodici costellazioni siderali (rasi), mentre le cinque sakti ‘femminili’ di Kurukulla
sono assimilate alle quindici (5x3) kala lunari o quindici nitya, giorni di luna
crescente.
Proprio queste ultime costituiscono uno degli elementi essenziali del culto tantrico
della Dea e i loro significati vengono sviluppati in numerosi testi tra cui la Bhavana
Upanisad, la Daksinamurti Samitha, il Jnanarnava Tantra, il Kalpasutra, il
Vamakesvara Tantra e il Matrikacakra Viveka.
Secondo il Tantraraja, tra le varie nitya la decima - Nitya Nitya - regge dakini,
rakini, lakini, kakini, sakini, hakini e yakini cioè le sakti/yogini dei dhatu (i sette
elementi vitali che formano il corpo umano). L’undicesima - Nilapataka Nitya - regge
le yaksini e i sessantaquattro chetaka (servitori di Siva connessi agli elementi) e
garantisce le siddhi ai sadhaka.

36
Questo tema si trova trasposto nel mito di Markandeya, dal momento che sedici anni è proprio
l’età in cui Yama, la morte, avrebbe dovuto reclamare a sé il rsi fanciullo. Egli però si appella a
Siva e da questi viene strappato al suo destino divenendo così un immortale. Siva si pone dunque
come Signore della vita e della morte o, ancor più specificamente come Yamantaka, colui che
sconfigge la morte.
Il medesimo tema si declina in ambiente vajrayana nella tromba (kanlin) a supporto di alcuni rituali
tantrici, realizzata con il femore sinistro di una ragazza di sedici anni. Di fatto sedici anni è l’età del
pieno compimento dell’individuo e, proprio per questo, l’età in cui viene raffigurata la dea
Tripurasundari nella sua perfetta bellezza.
118
8
Le sedici nitya - unione dei quindici giorni di luna crescente e della devi Lalita
Tripurasundari, il sedicesimo giorno di luna piena - sono messe in relazione con le
sedici sillabe dello SriVidya mantra e quindi con il nome stesso della Dea.
Nelle sedici nitya sta infine l’essenza del kalacakra, uno dei principali insegnamenti
vajrayana di cui si trova traccia in un testo denominato anch’esso Tantraraja Tantra,
andando così a ribadire la coincidenza, in prospettiva tantrica, del punto di vista
buddhista e hindu.

Pur di rado presenti nei luoghi di culto, possiamo trovare una rara raffigurazione delle
nitya nel tempio di Tripurasundari a Paramahamsi (Madhya Pradesh) - recentemente
eretto nell’asram dello Sankaracarya di Josimath e Dwarka - che ripropone in
ambientazione vedantica il culto dei diversi aspetti della Dea. Qui, lungo le pareti
interne del mandir, sono allineate le sessantaquattro yogini. L’icona (murti) di
Tripurasundari, al centro di tale cerchio, si trova perciò in corrispondenza del seggio
occupato da Bhairava nei templi delle yogini, alludendo così all’unità Siva-Sakti che
si realizza nello sahasrara cakra, momento più alto nel percorso di liberazione del
praticante.
In un chiostro addossato alla parte posteriore della costruzione sono poste invece le
sedici nitya accompagnate da altre quattro figure di profonda valenza simbolica. Il
gruppo si apre con una scultura di Adi Sankara - il più autorevole interprete
dell’advaita vedanta - cui si affianca Ganesa, divinità che sottende conoscenza
intellettuale e iniziatica, prima di dare inizio a un emiciclo ove trovano posto le nitya.
L’accostamento di Ganesa ad Adi Sankara, oltre a confermare l’ambito di conoscenza
cui rimanda l’intera rappresentazione, richiama una delle versioni sulla nascita del
Soundarya Lahari, poema tantrico composto dal grande maestro che, secondo
tradizione, fu inciso sulla parete del monte Meru da Ganesa stesso e qui letto dal
saggio Gaudapada che poi ne trasmise il contenuto a Sankara. Il Soundarya Lahari,
pur celebrando nei suoi versi la grazia, la bellezza e la generosità di
Parvati/Daksayani, espone al contempo alcuni insegnamenti fondamentali del
tantrismo sakta quali la funzione di kundalini, quella di SriYantra e quella, appunto,
delle nitya.37
Il gruppo delle nitya di Paramahamsi si chiude sul lato opposto con le sculture di
Matangi, Dea della luna piena nata candala (intoccabile) - colei che tra le
dasamahavidya più d’ogni altra trae forza dalle pratiche sessuali, ma al contempo
quella attraverso il cui culto si può giungere direttamente a Tripurasundari - per
terminare infine con Varahi che sottende la trasposizione in termini sottili della
conoscenza incarnata dal grande Sankara il quale, con perfetta simmetria
architettonica, le sta esattamente di fronte.
Per quanto detto in precedenza, l’aver qui accostato Varahi a Matangi comporta una
sorta di sovrapposizione/equivalenza tra Matangi e Chamunda, andando ad anticipare

37
In particolare il riferimento a Sri kantha e Siva yuvati, i triangoli che formano lo SriCakra, sono
contenuti nell’undicesimo sloka della sezione nota come Ananda Lahari, quella direttamente
rivelata a Sankara per intervento divino.
119
9
una serie di riflessioni sulle relazioni tra gli aspetti pacificati della Dea (che, come
vedremo, si declinano nelle caratteristiche di Varahi/Sitala) e quelli irati (tipici invece
di Chamunda/Matangi/Manasa).
Si tratta dunque di una rappresentazione fortemente allusiva cui dovremo tornare più
avanti per tentare una lettura sull’apertura verso la tradizione SriVidya e i suoi
intrecci tribali che si sta operando nell’ambito più esclusivo ed elevato del pensiero
metafisico indiano dell’advaita vedanta in questo scorcio di ciclo.

Yogini come esseri intermedi

Al di sotto delle yogini che presidiano i supporti delle pratiche meditative, quali
yantra, cakra e nitya, si apre un mondo di esseri intermedi che frequentano foreste,
specchi d’acqua, grotte, montagne e di cui da sempre si trova traccia nei culti di
villaggio.
Anche le matrika - che abbiamo visto essere strettamente correlate alle yogini -
risiedono in simili luoghi andando a riannodarsi alle gramadevata/balagraha e, ancor
più indietro nel tempo, alle yaksini, divinità silvane della fertilità che affondano le
loro radici nell’India arcaica e che si annidano nel confine indistinto tra il caos
principiale della foresta e la prima radura ove erigere l’altare sacrificale vedico per
dar regola al mondo.
Il continuo travaso di tali elementi tra il mondo tantrico e quello tribale si conferma
nel quinto patala dello Yogini Tantra ove Siva stesso offre le indicazioni per una
grande sadhana che coinvolge le quindici Kali nitya da tenersi in un campo di
cremazione, in un crocicchio, in un deserto, su una montagna, sulla riva di un fiume o
ai piedi di un albero bilva. O ancora nel Kathasaritsagara ove vengono menzionati
riti da officiarsi nei cimiteri volti ad attirare proprio delle yaksini.
D’altra parte il crocicchio è assimilato al cimitero in quanto segnato dalla presenza di
un tumulo, antico luogo funerario ormai caduto nell’oblio.38 Esso costituisce punto
d’attrazione di spiriti inquieti, bhuta, pisaca e preta, infauste presenze da placare
attraverso l’oblazione cruenta. E proprio all’incrocio di due vie, a ridosso
dell’immancabile albero, spesso sorgono altari dedicati alle matrika su cui immolare
bali (animali sacrificali), secondo un’usanza che trova riscontro anche nel Daridra
Carudatta di Bhasa e nel Mrccakatika di Sudraka.
Se dunque - come suggerisce Coomaraswamy 39 - matrika, yogini e dakini altro non
erano in origine se non yaksini, in tale ascendenza va cercata la radice di sacrifici e
libagioni di carne e liquori - cibo favorito di yaksa e raksasa - confluiti
successivamente nei culti tribali da un lato o nei rituali sakta dall’altro.

38
Di fatto l’antenato, le cui ceneri sono sepolte nel tumulo, col tempo passa da nume tutelare della
famiglia a quello di clan e di villaggio, per poi ulteriormente spersonalizzarsi prendendo le funzioni
di ‘genius loci’.
39
A.K. Coomaraswamy, Yaksas, Munshiram Manoharlal Publishers, New Delhi, 1980.
220
0
Il riferimento diviene ancora più esplicito nel caso degli yaksagraha, attendenti di
Skanda, demoni portatori di malattie che tradiscono una evidente analogia di
funzione con le balagraha.

Le piante con le loro chiome frondose, le fessure dei tronchi e gli incavi nascosti tra
le radici sono dunque il luogo ove si annidano yaksini, yogini e matrika.
Per il Kularnava Tantra,40 le yaksini risiedono in alberi chiamati kulavrksa.41 Gli
stessi alberi offrono asilo alle kula-yogini motivo per cui lo Saktanandatarangini
afferma che nessuno deve dormire sotto queste piante o fare loro del male.42 Anche il
Kasyapiya Silpa sastra, nel descrivere le caratteristiche delle saptamatrika, le pone
ciascuna in relazione con uno specifico albero, albero che nella maggior parte dei casi
corrisponde a un kulavrksa. L'asvattha - di nuovo un kulavrksa - è la pianta presso
cui si compie il sacrificio di capri, montoni e bufali in onore di Vanadurga (Durga
della foresta, una delle ipostasi di Kali) e dei suoi dodici figli in ambito tribale nel
nord-est dell’India,43 nonché l’albero dove i Pandava nascosero le armi durante il
proprio esilio.44
Infine nel Kulachudamani,45 Devi stessa indica la necessità di acquisire la
purificazione della conoscenza (jnanasuddhi) attraverso precise pratiche a cominciare
proprio dall’invocazione (pranama) di fronte all’albero kula.
L’albero - e l’altare a esso addossato - diviene perciò il fondale, il palcoscenico ove
l’uomo da sempre inscena il rituale dell’oblazione nel tentativo di conquistare a sé
yaksini, yogini, matrika - ma anche naga, ahasta (privi di mani), apad (senza piedi) e

40
Il Kularnava Tantra (Oceano di Kula) è il testo di riferimento della scuola tantrica Kaula. Esso si
incentra su Urdvhamnaya, o Tradizione Superiore, uno dei cinque elementi della dottrina
considerata simbolicamente il volto superiore di Siva, ove gli altri quattro volti corrispondono alle
quattro direzioni.
41
Il Kamesvara Tantra elenca otto tipi di kulavriksa (alberi kula): slesmataka, karanja, nimba,
asvattha, kadamba, vilva, vata e asoka. Il Tantrasara ne indica invece dieci, dove ai prime sette
della precedente lista si aggiungono udumbara, dhatri e chinca.
42
Mircea Eliade, Le Yoga, immortalité et liberté, Payot, Paris, 1954.
43
Mircea Eliade, Le Yoga, immortalité et liberté, Payot, Paris, 1954.
Interessante sottolineare come asvattha sia anche il nome del palo sacrificale cui viene legato il
cavallo durante il rituale dell’asvamedha, esplicitando così la relazione tra i kulavrksa e l’asse
cosmico.
44
Durante il loro esilio nel paese dei Matsya, le armi furono nascoste dai Pandava dietro un
cadavere esposto tra i rami di un albero. Oltre all’immediato richiamo all’ambito tradizionale dei
seguaci di Matsyendranath e dunque al tantrismo dell’Assam, si presentano qui, in termini sintetici,
alcune delle allusioni simboliche che indicano la trasformazione e il reintegro nell’unità principiale
come l’arma nascosta, il tirtha/asse cosmico, la dissoluzione del cadavere nell’elemento aria e
l’esilio come periodo di cessazione, tutti elementi su cui avremo modo di tornare più avanti.
45
Il Kulachudamani Tantra è un nigama, un testo cioè ove non è Siva a rispondere ai quesiti della
Devi (agama), ma viceversa. Qui la Dea di riferimento è Mahisasuramardini che in sette brevi
capitoli espone l’essenza del suo culto fornendo dettagli sulle diverse siddhi da lei concesse,
compresa quella relativa al misterioso processo ove il sadhaka abbandona di notte il proprio corpo
per avere un incontro erotico con la Sakti.
221
1
altre categorie di esseri sottili 46- per farne le proprie guide verso i mondi che si
propagano oltre il confine indistinto del tangibile.
L’albero o lo yupa, il palo - suo sostituto sacrificale -, inanella tutti questi mondi e si
trasforma nella scala lungo cui si inerpica lo spirito dello sciamano o nell’asse
cosmico che lo yogin risale grazie alla siddhi del volo. Esso si lega così al crocicchio,
al tumulo e alla pozza nella geografia sacra del tirtha (guado), punto di passaggio
sottile tra realtà contingente e dimensioni ultramondane. Si tratta d’un luogo ove si
realizza la centralità simbolica tra l’esperienza del ritorno allo stato di Uomo vero,
vira, e la trasformazione in Uomo trascendente, divya, una centralità simbolica che si
ripresenta in termini macrocosmici nella relazione lago - montagna sacra (di nuovo
un simbolo assiale) trovando rispondenza in alcuni dei più venerati santuari naturali
delle tradizioni hindu, vajrayana e bon-po nei binomi Kailasa - Manasarovar e Amne
Machin - Kokonor.
D’altra parte il legame della Devi con il tirtha si conferma nel Brahmananda Purana
ove Tara-Kurukulla è Naukesvari, la Signora degli scafi, che porta in salvo i
naufraghi e metaforicamente aiuta il praticante ad attraversare l’oceano
dell’esistenza.47 Lo scafo è dunque l’arca costruita da Manu per traghettare l’umanità
da un ciclo all’altro e in questa chiave la Dea è colei che sovrintende a quel viaggio,
la guida cui affidarsi per spezzare il vincolo del contingente.

Per chiudere il cerchio appare infine importante sottolineare come la funzione del
tirtha ritorni in termini trasposti in un’altra caratteristica delle yaksini.
Queste, assieme agli yaksa, sono infatti entità poste sotto il dominio di Kubera, uno
dei quattro guardiani delle direzioni (lokapala) e precisamente quello deputato a
presidiare il nord, la direzione celeste. In tali vesti esse esercitano una funzione
benigna - o meglio propizia - poiché custodiscono i nove tesori (navanidhi) nascosti
nella terra,48 tema che rimanda a Padmasambhava e ai ter-ston (scopritori di tesori) di
tradizione vajrayana, nonché ai naga, da sempre in rapporto con le scienze segrete
nascoste nella profondità della terra.
Tutto ciò, in termini più generali, sottende al nascondimento di un bene/conoscenza
che va recuperato nel sottosuolo o sul fondo dell’oceano - una delle funzioni di
Varahi - per ripristinare la possibilità perduta di passaggio/uscita dalla presente
manifestazione.
In tale prospettiva yaksini e yogini detengono allora la chiave per ottenere il tesoro
della conoscenza nascosta, una conoscenza necessaria ad attraversare il tirtha
dell’esistenza individuale e giungere sulla sponda di moksa.

46
Gian Giuseppe Filippi, Conservazione delle ceneri umane nell’India Tradizionale – La dottrina
del Resto, ....
47
Arturo Schwarz, La donna e l’amore al tempo dei miti, Garzanti, Milano, 2009.
48
I nove tesori costituiscono una corrispondenza alchemica dei navagraha astrologici e in tale
prospettiva i primi due - padma e mahapadma - vengono posti in relazione con due laghi
dell’Himalaya sul cui fondo si trovano minerali preziosi e gioielli, riannodandosi così al tema
dell’arma nascosta nel lago che incontreremo nel mito di Dadhyanc e su cui avremo modo di
soffermarci più avanti.
222
2
Yogini umane

Sotto forma umana, le yogini presentano nuovamente l’evidenza di una doppia


natura.
Esse possono essere praticanti dello yoga o adepte della scuola tantrica del kaula
marga, ma anche assumere natura di streghe e fattucchiere.49 Entrambe queste
modalità sono però caratterizzate dall’acquisizione di poteri (siddhi), attraverso
l’apprendimento e lo sviluppo di determinate tecniche nel primo caso o con rituali
diabolici nell’altro.

Come praticanti dello yoga, le yogini frequentano foreste e luoghi selvaggi ove si
dedicano a lunghe sessioni di ascesi (tapas). Le fiere divengono così abituali
compagne da loro sottomesse in virtù delle siddhi acquisite. Tale sottomissione può
essere resa in termini iconografici con un leone o una tigre che rende loro omaggio.50
Più comunemente yogi e yogini - sia hindu sia buddhisti vajrayana - sono raffigurati
assisi su pelli di tigre o di leone alludendo al raggiungimento di un elevato livello
realizzativo che si accompagna all’insorgere di potenti siddhi dove il dominio sulle
fiere costituisce un’immediata metafora del controllo delle passioni, primo passo
sulla via yogica.
Lo stesso simbolismo si conferma nella pelle di tigre con cui Siva, in qualità di
Signore dello yoga, usa cingersi i fianchi. Particolarmente significativo è lo spaccato
del mito da cui trae origine tale motivo iconografico. Siva è chiamato a intervenire
nei confronti d’un gruppo di rsa riuniti nella foresta di Taragam che, in virtù del
lungo tapas, avevano accumulato enormi poteri, tanto da sconvolgere l’equilibrio
dell’intero universo. Sceso sulla terra per ristabilire l’ordine cosmico, il Dio viene
attaccato da una tigre che gli stessi rsa avevano generato dal fuoco sacrificale con le
loro siddhi. Ma Siva, con l’unghia del mignolo, uccide la fiera e la scuoia traendone
la pelle da avvolgersi ai fianchi.
Non è tuttavia l’epilogo di questa lotta ad attirare la nostra attenzione, quanto
piuttosto l’accenno ai poteri sviluppati nel profondo della foresta, il loro utilizzo
improprio (e in particolare il fatto che siano proprio dei rsa, i depositari della
conoscenza, a compiere tale inversione), ma soprattutto l’emergere della tigre dal
fuoco sacrificale quale primo effetto delle siddhi.51

49
Riferimenti a tale ambito spesso ricorrono nell’antica tradizione letteraria indiana e se ne ritrova
traccia nella Uttamacaritrakathanaka, Kathasaritasagara, Rajatarangini, Malatimadhava,
Vetalapancavimsati e Dasakumaracarita.
50
Si veda al proposito la miniatura conservata nel Salarjung Museum a Hyderabad. Vidya Dehejia,
Yogini Cult and Temples. A Tantric Tradition, National Museum New Delhi, 1986, ppgg. 11-12.
51
Gian Giuseppe Filippi, Tantrismo e Arte, Quaderni dell’Unicorno, Archè, Milano, 1978.
223
3
Se dunque Siva Nataraja è il signore della danza cosmica, la pelle di leopardo - o di
tigre - con cui si cinge i fianchi rappresenta il manto stellato del cielo, quel cielo che
Egli popola e svuota di mondi al ritmo del damaru.
Si intuisce allora che la tigre rinvia a qualcosa di più sottile, una funzione che si
collega da una parte all’insorgenza dei poteri (la conquista dei cieli) una volta
intrapresa la via iniziatica, dall’altra a una energia selvaggia che può essere domata
per farne strumento di sviluppo interiore.52 E d’altra parte la tigre o, in altri casi il
leone, è il vahana della Dea, il sostegno su cui Ella si appoggia nella battaglia per
sopprimere il demone-bufalo Mahisa, metafora della sua funzione di distruttrice
dell’oscurità - e dunque della morte - affinché amrita possa riemergere dal collo
reciso del bufalo rivelando la luce celata sotto le apparenze.53 La tigre è così il
supporto per recuperare la conoscenza nascosta e lo yogi che siede o si cinge i fianchi
con la sua pelle è colui in grado di utilizzare tale conoscenza.
Una simile interpretazione tradizionale rimanda ai kanphat yogi della scuola di
Gorakhnath - temuti per i loro poteri magici e in particolare per la capacità di
comandare alla pioggia, ai serpenti e alle belve feroci - che erano usi vivere tra le tigri
nel profondo foresta servendosene a volte come cavalcature. Si tratta di poteri
fortemente allusivi, come nel caso di Hari-Siddha, discepolo diretto di Gorakhnath, il
quale oltre che comandare alle fiere era noto per i prodigi evocati dalla forza del
mantra che pronunciava a cavallo di una scopa (con chiaro richiamo ai poteri occulti
delle streghe), per lo scambio di teste da lui effettuato tra le regine Aduna e Paduna
(tale potere, legato alla pravargya vidya, verrà analizzato più avanti nel mito di
Renuka) e per la sua discesa agli inferi per recuperare l’anima del giovane re
Gopicandra strappandola a Yama (ricalcando così la funzione di Yamantaka, il
vincitore della morte o in termini simbolici quella di Durga Mahisamardini su cui ci
siamo appena soffermati).54
Tale prospettiva si ripresenta anche in ambito sciamanico ove la tigre rappresenta il
Signore dell’iniziazione che trasporta in groppa il neofita attraverso la giungla,
trasposizione della guida nel viaggio di discesa agli inferi e dell’esperienza di morte
iniziatica.55

Venendo ora alle yogini adepte di vie tantriche, allo stesso modo delle sculture poste
circolarmente attorno alla murti di Bhairava nei templi medievali, esse usano riunirsi
in cerchi per celebrare rituali pancamakara che implicano l’immersione negli
elementi più grevi del corpo prima di giungere al loro superamento.

52
A ribadire la funzione sottile rappresentata da tali fiere, kundalini viene descritta come una
splendida fanciulla assisa su un leone.
53
Gian Giuseppe Filippi, On some sacrifical features of the Mahisamardini, Annali di Ca’ Foscari
XXXII, 3, Venezia, 1993.
54
Un’altra discepola di Gorakhnath, la regina Mayana-mati, è ricordata per i suoi straordinari
poteri, tra cui la capacità di attraversare un ponte fatto da un capello e di camminare sulla lama di
un rasoio. Come vedremo in seguito tale potere torna nella danza rituale degli sciamani deodha
durante il festival di Debaddhani a Kamakhya.
55
Mircea Eliade, Le Yoga, immortalité et liberté, Payot, Paris, 1954.
224
4
Il pancamakara (le cinque emme) - detto anche kulatattva o kuladravya - è un
intreccio di tecniche che prevede il consumo di matsya (pesce), mamsa (carne),
mudra (un particolare tipo di grano abbrustolito con effetti afrodisiaci) e madya
(vino) nonché l’accoppiamento sessuale, maithuna. Tali elementi in alcune scuole
vamacara possono essere sublimati a livello di fluidi e secrezioni corporee interiori
rinviando così a un tantrismo che vede il corpo del praticante come strumento
alchemico di trasformazione.56
Le seguaci metodo kaula (kaula marga) condividono con i kapalika - sadhu
frequentatori di cimiteri (aghori) che recano sempre con sé un teschio umano
(kapala) - una pratica dedicata a Bhairava da effettuarsi sopra i cadaveri (sava-
sadhana). Banchetti di carne umana, assunzione di liquori e pratiche sessuali
vengono eseguite nei cimiteri da coppie di sadhaka - tradizionalmente in numero di
otto - chiamati adhikari i maschi e bhairavi le femmine. Queste ultime appartengono
di norma a basse caste con evidente allusione a Matangi, la mahavidya nata candala
(intoccabile) che presenta un netto carattere di esclusione sociale e dunque di
impurità rituale, sottolineando con la loro presenza un rovesciamento della
prospettiva brahmanica tipico delle pratiche tantriche di scuola vamacara.57

Peraltro l’apparente assenza di riscontri sembrerebbe relegare tali rituali estremi a un


ambito cultuale in larga parte estinto. Tracce di sava-sadhana notturni nei campi di
cremazione con accoppiamenti sopra i cadaveri e banchetti di carne umana vengono
tuttavia documentate ancor oggi come accaduto nei dintorni di Kamakhya (Gauhati,
Assam) dove, secondo la testimonianza di un osservatore occasionale, al richiamo dei
sadhaka, sarebbero sopraggiunti una tigre e alcuni sciacalli.58
Ciò indica come il kaula marga mantenga una propria vitalità in alcune zone
dell’India - soprattutto nelle aree periferiche ove più forte è l’interazione con le
culture tribali o nei luoghi dove risulta più radicata la devozione per la Devi - e che la
scarsità di informazioni debba essere ascritta al carattere strettamente misterico e al
voto di silenzio cui sono tenuti gli iniziati, nonché a un’aura di terrore che permea
tutti i culti delle yogini, piuttosto che a un declino delle sue pratiche.

I cerchi (cakra o mandala) di dakini/yogini ritornano a un diverso livello nei sabba di


streghe e fattucchiere in cui si inscenano rituali cruenti per acquisire poteri diabolici
56
I praticanti di queste scuole si dividono, di conseguenza, in madya sadhaka, la cui pratica prevede
di suggere il liquido secreto dal Brahmarandhra, mamsa sadhaka, che utilizzano le secrezioni della
lingua, matsya sadhaka, che controllano il movimento dei due pesci nei canali interiori ida e
pingala (equiparate a Ganga e Yamuna), mudra sadhaka che utilizzano le secrezioni cerebrali, e
infine i maithuna sadhaka che perseguono il trattenimento del seme bianco (nel caso di praticanti
maschili) e del seme rosso (nel caso di praticanti femminili).
57
Claudia Ramasso, Il tempio di Kamakhya e il culto delle Dasa Mahavidya, ……
58
La testimonianza è stata resa da Sri Tirath Nath Sarma ed è citata in Vidya Dehejia, Yogini Cult
and Temples. A Tantric Tradition, National Museum New Delhi, 1986, ppgg. 223-224.
La capacità dei sadhaka di evocare tigri ribadisce quanto già espresso sulle siddhi riferite al
controllo delle fiere. Lo sciacallo, invece, offre un riferimento ancor più specifico in quanto, al pari
del cane, funge da veicolo di Bhairava.
225
5
come quello di trasformare gli uomini in animali, tenendoli poi asserviti con un
magico cappio o somministrando loro del cibo stregato.
In effetti, tra le otto mahasiddhi, alcune sembrano essere tipiche dell’ambito qui in
esame. In particolare anima, la siddhi del divenire piccoli per controllare
dall’interno,59 lagrima, la siddhi di poter lasciare il proprio corpo e viaggiare
psichicamente, e isitva, la siddhi di controllare mentalmente altre creature.60 A queste
va aggiunta khecara, la siddhi del volo compresa nell’elenco più esteso delle
sessantaquattro siddhi canoniche.
I ritrovi avvengono di norma in un cimitero o nel fitto della foresta ove all’interno
d’un cerchio di yogini, ebbre e nude, si compie il rito sacrificale che culmina con un
banchetto di carne e sangue umani grazie ai quali esse acquisiscono il potere di
trasformarsi in uccelli o, semplicemente, prendere il volo (similmente ai voli delle
streghe nei sabba di tradizione occidentale).
In Uddyana, mitica patria di Padmasambhava, le yogini - che qui incarnano una sorta
di via di mezzo tra esseri sottili e streghe - sono immaginate con sembianze di donne-
tigre che si nutrono di carne umana e detengono il potere di trasformarsi in uccelli
quando devono attraversare un fiume,61 riferimento in termini trasposti della
trasformazione/rinascita iniziatica in relazione al tirtha.

Presso i Santal del distretto di Mayurbhanj in Orissa, ove ancora oggi sopravvivono
simili pratiche, si narra di donne streghe che nel cuore della notte si riuniscono nella
foresta e qui, completamente nude, cantano e danzano accompagnate da spiriti
(bonga) e da leoni. Eliade riporta poi il grande timore che circonda i Bez, abitanti nel
villaggio di Mayang a poca distanza da Kamakhya, ritenuti in grado di trasformare gli
uomini in animali e tenerli asserviti. E sempre allo stesso ambito va ricondotta
l’affermazione di uno sciamano particolarmente temuto dell’area di Tezu (Arunacal

59
Interessante al proposito il parallelismo con il caso di Julung, un potente spirito richiamato da
Chapok Tsiring, sciamano di etnia But-mompa di Jerigaon, nell’area di Naphra, West Kameng
(Arunacal Pradesh), che si presentava come un nano dalla pelle nera di dimensione di un pollice.
Nelle parole di Chapok, Julung a volte veniva descritto a cavallo di una tigre, altre direttamente
come spirito-tigre. Gian Giuseppe Filippi, Oracles and Shamans in Arunachal Pradesh, da Central
Asiatic Journal 52 (2008) 1, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden, 2008.
Peraltro l’indicazione di un’entità guida della grandezza di un pollice e dalla pelle nera potrebbe
apparire come ‘rovesciamento’ a livello spiritistico, tipico dell’ambito sciamanico, di purusa - il
principio luminoso che vitalizza prakriti, la sostanza primordiale (e dunque la tigre) – che la Katha
Upanisad descrive proprio della grandezza di un pollice (angustha matra).
60
Il riferimento a queste siddhi richiama un passaggio del Taittirya Brahmana che indica i naga
quali maestri delle arti ipnotiche (che altro non sono se non il potere di controllare mentalmente e
dunque possedere un’altra persona), i raksasa capaci di assumere altre forme (l’arte della
trasformazione) e i pisaca capaci di ogni tipo di espedienti per sottomettere le proprie vittime.
61
A. Grunwedel, Der Weg nach Sambhala, Munchen, 1915.
Il tema delle yogini di Udyana/Odyana si ricollega poi alle odiyya, yogini con forti connotazioni
sciamaniche o potenti streghe che presiedevano i rituali segreti dedicati a Kali nel profondo delle
foreste e di cui rimane traccia fino agli ultimi decenni del secolo scorso nel sud India (zona del
Kerala). Amarananda Bhairavan, Kali’s Odiyya. A Shaman’s True Story of Initiation, Pilgrims
Publishing, Varanasi, 2000.
226
6
Pradesh) - raccolta durante la missione VAIS 2001 - secondo cui avrebbe visitato la
notte uno dei ricercatori del nostro gruppo sotto forma di leone.

Il possesso/trasformazione in un animale selvaggio - che è soggiogato riducendosi a


pasu (animale addomesticato) - sembra dunque caratterizzare trasversalmente le
yogini, siano esse di natura umana o divina, avvicinandole così alla funzione di Siva
Pasupata, Signore degli animali, il cui culto è particolarmente diffuso tra kapalika e
kalamukha, controparti rituali delle yogini stesse.

I diversi riferimenti alle yogini riconducibili ad ambiente sciamanico sono tutti


presenti in un racconto assai distante geograficamente tratto dal Liao Chai chih
pubblicato in Cina nella seconda metà del ‘600.62
Il racconto 207, ambientato nello Shantung, è dedicato a un esorcismo di spiriti
maligni e narra come le donne mancesi usassero interrogare gli spiriti con il supporto
di un indovino. Questi ricopre però un ruolo marginale, limitandosi a danzare e
battere ritmicamente un tamburo per indurre la trance nella padrona di casa che
rappresenta il vero fulcro dell’intero rituale.
Seguendo il ritmo e sorretta da alcune aiutanti, la donna prende a muoversi su una
sola gamba - abbozzando la danza detta ‘dell’uccello a una zampa’ - e a sussurrare
una nenia in un tono continuo e uniforme, tanto che nessuna delle presenti è in grado
di comprenderla. D’un tratto le candele vengono spente e la padrona di casa chiama
ad alta voce per nome gli antenati. Riaccese le candele, le offerte preparate in
precedenza - tagli di carne e giare di vino - risultano consumate, segno che lo spirito è
entrato prendendo possesso della donna la quale, a quel punto, è in grado di
oracolare.
Tuttavia, nel caso sorgessero dubbi di interpretazione sulle risposte ricevute, si passa
a una seconda fase del rito ove la padrona di casa, abbigliata pomposamente, si pone
a cavallo di una finta tigre e danza in mezzo alla stanza contornata dalle altre donne
impugnando una lancia. Queste, giovani e vecchie, stanno ritte in cerchio ‘non
pensando nè provando stanchezza’. La pratica è nota come ‘scacciare gli spiriti
maligni con la tigre’ e l’oracolo viene chiamata dalle altre con vari nomi di divinità
guerriere.
Il rituale narrato da P’u Sung-ling, oltre a contenere gli elementi tipici della trance
indotta dal battito del tamburo e dalla danza, nonché del volo sciamanico (il passo
della donna), della possessione (indicata dal proferire frasi in una lingua non
comprensibile con chiara allusione alla lingua degli uccelli), del viaggio ctonio nel
mondo dei morti e dell’offerta sacrificale di carne e vino, è particolarmente
interessante perché si svolge in un ambiente quasi esclusivamente femminile ove la
parte di ‘potenza’ avviene all’interno di un cerchio di donne in stato estatico (non
pensano, né provano stanchezza) in grado di evocare una divinità che si manifesta
sotto spoglie assai simili a quelle di Durga.

62
Il Liao Chai chih (letteralmente ‘Strane storie’) è una raccolta di 435 fiabe composta da P’u
Sung-ling (1640-1715). Ed. it. I racconti fantastici di Liao, Mondadori, Milano, 1997.
227
7
Ricorrono qui pratiche e richiami tradizionali trasversali a tutta l’Asia con precisi
riferimenti anche all’ambito culturale hindu, quali gli attributi di Skanda che, come
dio della guerra, è Signore della mortalità, simboleggiata dalla lancia (che non a caso
si dice sakti), e dell’immortalità, simboleggiata dall’uccello, - dunque ancora una
volta il potere sulla vita e sulla morte - o la possessione di una donna da parte di un
gandharva 63 che in stato di trance diviene capace di rispondere a domande sui destini
postumi dei morti o sul futuro delle generazioni a venire.

Yogini, malattia e possessione

Dalle rarefazioni delle nitya ai sabba delle yogini-streghe, tutti gli elementi fin qui
delineati sembrano dunque riannodarsi a matrika e yaksini fino a giungere alle
gramadevata, potenze della natura il cui culto si perde nell’abisso della storia
dell’India.
Le gramadevata, adorate in ascosi altari silvani o su piattaforme elevate intorno agli
alberi ai margini del villaggio, a seconda dei miti locali prendono forma di vasi,
figure in terracotta, pietre informi oppure del cranio di Brahma, di Renuka o di
Draupadi o, ancora, di bhuta o vere e proprie yogini.64
Queste entità/potenze del luogo infestano crocicchi, confini, foreste e se non
opportunamente placate provocano morti violente, carestie e altri disastri naturali. Ma
la loro funzione preminente è riferita alla diffusione delle malattie, specialmente
quelle di tipo epidemico, assimilandole così alle balagraha.
Tale aspetto appare alla base degli Yogini vrata, celebrazioni tribali in onore delle
yogini tenute ancor oggi in Maharastra, ispirate al mito di Videha.65 La storia narra di
una madre che in preda alla disperazione per la perdita dei suoi due figli si inoltrò nel
profondo della foresta a cercarli. Dopo un lungo vagare nell’assoluta oscurità di una
notte di luna nuova (come quella dei rituali di Dhumavati) si ritrovò tra le mura di un
tempio dedicato alle yogini. Qui, stremata e sconvolta, Videha si accasciò in

63
Proprio dei gandharva sono la causa dell’obnubilamento - e quindi, in un certo senso, della
possessione - di Renuka che, come vedremo più avanti, la condurrà a essere sacrificata dal figlio
Parasurama. D’altra parte il termine che indica la possessione da gandharva, e cioè
gandharvamadana, deriva da mada, pazzia, eccitazione (anche sessuale), perdita di controllo.
Brhadaranyaka Upanisad III.3.1; III.7.1.
64
L’assimilazione delle gramadevata al cranio di Renuka - e, per attinenza simbolica, anche alla
testa di Draupadi moglie dei Pandava - trova rispondenza nel culto di Ellamma e di Ekavira – che
tratteremo nel prosieguo -, mentre il cranio di Brahma richiama la decapitazione a opera di
Bhairava, divinità che, come visto, sta ritualmente al centro del cerchio delle yogini.
65
Il nome stesso della donna, Vidhea, è fortemente evocativo in quanto significa fuori dal corpo,
dopo la morte.
Videha è inoltre il regno del saggio Janaka (che ritroveremo più avani in relazione all’Assam e al
mito di Naraka) sede di una antica conoscenza tramandata dalla perduta civiltà della Saravati o, in
un’altra accezione, il nome di un Re che, dopo essere morto, fu in grado di generare dei figli grazie
a dei rituali magici effettuati sul suo cadavere.
228
8
preghiera finché non le apparve la Dea stessa che le concesse la restituzione -
equivalente alla guarigione - dei bimbi.66
Nelle vicinanze del monte Girnar (Gujarat) sono conosciute tre specie di yogini (le
Lal-yogini, le Kesur-yogini e le Pul-yogini) invocate in particolare quando si propaga
il colera.67
Apesvari, divinità minore dell’area assamese che deriva il proprio nome da apsara
(figura di ninfa celeste), usa fissare al terreno la propria ombra e se qualche bimbo la
calpesta per distrazione viene assalito da attacchi di epilessia o da paralisi (che
rappresentano i due poli dello scuotimento e dell’immobilità).
Sette sono, in area Tamil, le vergini di terracotta (sapta kannimar) adorate sulle rive
dei fiumi quando scoppia un’epidemia.
Sette sono di nuovo le divinità femminili che presiedono le diverse malattie. Tra esse
godono di particolare devozione Manasa, dea degli avvelenamenti, e Sitala, dea del
vaiolo.

Proprio Sitala è forse la più potente e diffusa tra le gramadevata tanto che se ne
incontra traccia in tutta l’India sotto un’ampia varietà di nomi come Mari, Mari-ayi,
Mariyamman, Muttu Mariyamman, Amman e altri ancora tra cui Selliyamman
(madre dei responsi), che la collega a una funzione oracolare, Padmabatima (madre
nata dal loto), appellativo tipico anche di Manasa, e Hariti - utilizzato in Assam e
nelle regioni sub-himalayane da cui è poi trafilato nella tradizione vajrayana - che
coincide con una yaksini divoratrice di bimbi.
A Sitala si accompagnano poi svariate divinità minori che trovano spazio in diversi
culti tribali, a cominciare da Jvarasura - il demone delle febbri -, le Causatti Rog (le
sessantaquattro epidemie) e le Sat Bhagni, sette sorelle che fungono da numi tutelari
di villaggio, in genere assimilate alle saptamatrika.68
Nonostante questa propensione a una devozione tribale, Sitala è recuperata ad
ambiente brahmanico attraverso la sua sovrapposizione a Nirrti, Jyestha e Dhumavati.
Ella viene raffigurata a volte come una vecchia scheletrica e nuda, altre come una
giovane donna. A non variare sono i suoi attributi distintivi e cioè il ventilabro per
copricapo, il vaso colmo d’acqua (o di lenticchie, allusione alle pustole), la scopa,
nonché l’asino che le funge da volante destriero. Quest’ultimo, già incontrato come
animale da sacrificare in onore di Nirrti - ulteriore aspetto di Sitala - è da sempre
indizio di forze oscure.69 Anche la scopa, in Oriente come in Occidente, richiama un

66
Vidya Dehejia, Yogini Cult and Temples. A Tantric Tradition, National Museum New Delhi,
1986.
67
Gustav Oppert, On the original inhabitants of Bharatavarsa or India, Constable, Westminster,
1893.
68
Fabrizio Ferrari, Sitala e le Madri ambigue del Bengala, da L’ira degli Dei, Indoasiatica 4/2006,
Cafoscarina, Venezia, 2006.
69
Gian Giuseppe Filippi, Il movimento della Devi: un’epidemia di possessione collettiva, Annali di
Ca’ Foscari, anno XLI, Venezia, 2002.
L’inclinazione diabolica di questo animale (spesso in contrapposizione alla nobiltà celeste del bue)
permea trasversalmente le tradizioni d’Oriente e Occidente e trova conferma nel Ramayana dove
229
9
genere tipico della stregoneria, tanto che nei villaggi tra le foreste dell’India le donne
dedite alla fabbricazione e al commercio di jharu (ramazze prive di manico formate
da un fascio di saggina) hanno fama di streghe capaci di cavalcarle in volo.70
Anche Dhumavati, al pari di Sitala, reca un ventilabro, suggerendo così trance e
scuotimento sciamanico e, per estensione, il tremore delle febbri durante la fase acuta
della malattia.
Jyestha, personificazione della vecchiaia, è una divinità il cui culto ha avuto
particolare sviluppo nel sud dell’India trasformandosi poi in Mariyamman-Durga o
Kali Mariyamman, ancora una volta nomi di Sitala. Secondo i Purana ella emerse dal
frullamento primordiale dell’oceano di latte prima e in antagonismo a Laksmi,71
mantenendo uno stretto rapporto con veleno, malattia e morte da cui i suoi nomi di
Alaksmi (la sfortuna), Akirti (l’infamia) e Atula (lo squilibrio). Ed è proprio Atula a
chiudere il cerchio evocando lo squilibrio mentale della follia sacra e dunque dei
fenomeni di possessione, nonché i semi di sesamo - atula appunto - utilizzati nei
rituali funerari.72

La figura di Manasa, Dea della malattia che colpisce chi viene morso da serpenti,
scolopendre, ragni, tarantole o scorpioni,73 pur mantenendo una caratterizzazione
ofidica, spesso si interseca e si sovrappone a quella di Sitala.
Il suo mito è legato all’eroe Cand Sadagar che, rifiutatosi di adorare la Dea, ne
suscitò l’ira. Ella condannò allora a morte i suoi sette figli - poi resuscitati da Siva -
facendoli mordere uno dopo l’altro da serpi velenose.
Manasa presenta ascendenze sia brahmaniche che tribali in quanto se da un lato è
considerata sorella del re dei naga Vasuki (lo stesso che legandosi al corno di
Matsya/Visnu trascina in salvo la barca di Manu nel diluvio primordiale), viene anche
riconosciuta come Mancamma, dea-serpente adorata nell’India del Sud, innestandosi
così nella tradizione dei culti ofidici che trova tutt’oggi ampia diffusione fino
all’estremo nord del sub-continente.74

Ravana, il rosso re dei raksasa, è caratterizzato da una testa d’asino e suo fratello Khara da un
aspetto interamente asinino.
70
Gian Giuseppe Filippi, The celestial ride, da Shamanic Cosmos. From India to the North Pole
Star, Venetian Academy of Indian Studies Series, n. 1, DK Printworld, New Delhi, 1980.
71
Sulla sequenza del Lingapurana riferita agli affioramenti dall’Oceano di latte e sul rapporto
veleno/amrta e Jyestha/Laksmi, vedasi Gian Giuseppe Filippi, Il movimento della Devi:
un’epidemia di possessione collettiva, Annali di Ca’ Foscari, anno XLI, Venezia, 2002.
72
Gian Giuseppe Filippi, Mrtyu. Concept of Death in Indian Traditions, DK Printworld, New
Delhi, 1999.
A proposito di Atula/Jyestha è interessante notare un parallelismo tra i semi di sesamo e le
lenticchie nere (chiamate nel mito i neri semi) di Sitala che rappresentano le pustole del vaiolo e
quindi, ancora una volta, un richiamo al potere su malattia e morte.
73
Gian Giuseppe Filippi, Il movimento della Devi: un’epidemia di possessione collettiva, Annali di
Ca’ Foscari, anno XLI, Venezia, 2002.
74
Il culto ofidico presenta nel nord-est dell’India un’estrema vitalità tanto che ancor oggi, presso la
tribù dei Khasi dell’area del Meghalaya, sembrano sopravvivere rituali con sacrifici umani per
placare il gigantesco dio-serpente U-Thien.
330
0
Una delle più importanti festività in onore della dea Manasa, Debaddhani, si celebra
infatti in Assam, nel santuario di Kamakhya, in momenti fissi del calendario (nei
mesi di jaistha, asadha, sravana e bhadra). In tali occasioni nel cortile del tempio
viene posto il calco in argilla d’un grande serpente dal cappuccio a otto teste
(astanaga). La festa viene però organizzata anche fuori dai periodi canonici in caso di
epidemie e pestilenze. Manasa è allora invocata come Marai - con evidente
accostamento di funzione e di nome a Mariyamman/Sitala - e a lei sono offerti
sacrifici in quantità.75 Al centro delle cerimonie sono i deodha, ventun sciamani che
vestono i panni di diversi dei e dee del pantheon hindu e che, nel corso delle danze
rituali, vengono da questi posseduti. Sei deodha appartengono tradizionalmente
all’area di Kamakhya mentre gli altri provengono da vari distretti dell’Assam.76 Così
Kamarupa diviene metafora dell’intero cosmo celeste che ruota attorno al suo centro,
Kamakhya, trasposizione di Brahmapura, la cittadella degli Dei posta alla sommità
del monte Meru.77 La festività di Debaddhani giunge al proprio culmine nella terza
giornata di celebrazioni quando i soli deodha posseduti dalla Sakti entrano in stato di
trance e danzano su una lunga lama affilata senza riportare alcuna ferita.78
Il mito sull’origine della Deodhani nac (danza Deodhani) narra di un re senza eredi
che si appellò alla dea Bhairavi per ottenere la grazia di un figlio, promettendo di
offrire in sacrificio la propria testa se fosse stato esaudito. Tempo dopo gli nacque un
bimbo, ma il re dimenticò il voto. Così una notte la Dea gli apparve in sogno per
reclamare la propria offerta. Il pio re, ridestatosi, si recò al tempio di Bhairavi e qui si
75
I sacrifici possono essere sostituiti nelle pratiche daksinacara da una puja sulla salagrama -
ammonite fossile proveniente tradizionalmente dal letto del fiume Kaligandaki in Nepal - che
rappresenta il cakra, attributo di Visnu, e che trova così un importante utilizzo rituale in ambiente
vaisnava. Tale sostituzione simbolica apre una serie di considerazioni che esulano dal presente
studio, ma è opportuno se non altro un accenno al collegamento esistente tra le salagrama - fossili
di ammoniti, e dunque rappresentazioni di antichi naga - e Muktinath (letteralmente Signore della
Liberazione), santuario meta di uno dei più importanti pellegrinaggi hindu, con evidenti
corrispondenze naga/conoscenza nascosta/sacrificio/liberazione.
76
Nihar Rajan-Mishra, Kamakhya. A Socio-Cultural Study, D.K. Printworld (P) Ltd., New Delhi,
2004.
77
Tale equivalenza si riflette nel toponimo Nilacala (montagna blu), che contraddistingue la collina
su cui sorge il tempio di Kamakhya, e nel colore azzurro del versante meridionale del monte Meru,
costituito di zaffiro, cui si affaccia il Jambu-dwipa, il continente corrispondente all’attuale
manvantara.
78
Come visto la danza sulla lama costituisce un ben preciso riferimento simbolico alle siddhi che
torna, tra gli altri, nei poteri ascritti a Mayana-mati, discepola di Gorakhnath.
Danze di possessione si svolgono anche in Kerala durante le festività in onore di
Muvalamkulicamundi, Devi che - come nel caso di Manasa - non è la divinità principale residente
del tempio. Durante il rito l’officiante esorcizza il devoto entro cui sente essere penetrata la Dea
cercando di catturarla attraverso la recitazione di particolari mantra. Una volta riuscito nel suo
intento, la rinchiude in una coppa di rame che si affretta a sotterrare in un buco. La Dea ovviamente
riesce a liberarsi e, piena di furore, si getta sulle tracce dell’officiante, nel frattempo rifugiatosi in
un tempio dedicato a Siva. Quando Muvalamkulicamundi riconosce il luogo ove è giunta decide di
intronarvisi per rimanere al fianco del Dio. Si compie così il passaggio tra la divinità tribale oggetto
di culti di possessione e la divinità brahmanica adorata nel tempio.
Gavin D. Flood, An introduction to Hinduism, Cambridge University Press, Cambridge, 1996.
331
1
decapitò. La danza si pone quindi come sostituto simbolico del sacrificio più elevato,
il sacrificio dedicato alla Dea, a sancire l’estrema possessione del devoto che si
consegna totalmente al suo tremendo abbraccio.
Come ben espresso da Zimmer,79 la danza costituisce un’antica forma di magia ove il
danzatore si tramuta in un essere dotato di poteri soprannaturali. Essa, al pari della
pratica yogica, porta all’esperienza del divino consentendo la realizzazione della
propria natura segreta e la sua fusione con l’Assoluto.
Il veleno di Manasa - e in questa prospettiva il sacrificio - indica dunque a livello
sottile la trasformazione, quella stessa trasformazione garantita dalle sostanze
medicinali, dalle bevande inebrianti (che derivano esse stesse dal processo di
metamorfosi frutto/succo/liquido fermentato) e, per estensione, da soma, bevanda di
trasformazione per eccellenza che garantisce l’immortalità o, in altri termini, la
conoscenza in grado di garantire il superamento della ciclicità.

Nei ripetuti intrecci tra poteri rituali e fenomeni di psichismo - che da Sitala,
Dhumavati, Jyestha e Nirrti giungono fino alle yogini - può allora essere ritrovato un
nesso con la teriantropia diffusa nelle culture di villaggio, soprattutto nelle regioni più
marginali dell’India, ove la trance auto-indotta dagli sciamani si collega alla danza o
al suo equivalente, il volo,80 al controllo della malattia e al possesso psichico di
animali - in genere fiere - da utilizzarsi nei loro viaggi notturni.
Mentre, però, una delle caratteristiche salienti del volo sciamanico si rifà al
simbolismo del cavallo come cavalcatura celeste - trasposizione del tamburo o alter
ego dello sciamano stesso 81 - qui la trance si lega più frequentemente a belve
fameliche e il volo alla forma di un rapace (dove il cavallo assumeva invece forma
d’un uccello meraviglioso o di un cigno).
Se perciò in ambito ‘classico’ - si passi una simile dicitura - ci si muove in un
contesto eroico, quasi cavalleresco, ove lo sciamano si inoltra da solo nelle regioni
dell’oltretomba per cercare l’anima del malato e strapparla in una lotta perigliosa alle
influenze malevole di demoni ed entità sottili, qui la connotazione si fa più notturna,
misterica, ed è lo stesso posseduto ad assumere inclinazioni inquietanti.
In questo slittamento verso forme tenebrose di possessione riscontriamo una
connotazione legata alla potenza generatrice/distruttrice della Dea (ma non per questo
relegata soltanto ad ambito femminile) che trova ritualizzazione in ambiente tantrico
e saktico e che ha influenzato - essendone a propria volta influenzata - le culture delle
aree affacciate territorialmente sui più importanti santuari della Devi.

79
Heinrich Zimmer, Myths and symbols in Indian art and civilization, Pantheon Books Inc., New
York, 1946
80
Giovanni Torcinovich, The horse and the journey to heaven of the shaman and the vedic
sacrificer, da Shamanic Cosmos. From India to the North Pole Star, Venetian Academy of Indian
Studies Series, n. 1, DK Printworld, New Delhi, 1980.
81
Gian Giuseppe Filippi, The celestial ride, da Shamanic Cosmos. From India to the North Pole
Star, Venetian Academy of Indian Studies Series, n. 1, DK Printworld, New Delhi, 1980.
332
2
Tale apparente inconciliabilità di prospettiva si risolve nella prerogativa di molte
divinità femminili del pantheon hindu di potersi manifestare in forma terrifica (calda)
oppure pacificata (fredda).
Alla murti dall’aspetto benevolo è in genere riservato un sacello all’interno del
tempio e a lei vengono offerte oblazioni vegetali che garantiscono la purezza del
rituale. Al contrario, la forma irata della divinità è spesso aniconica e il suo culto
trova luogo all’esterno del recinto consacrato. A questa sono graditi sacrifici cruenti e
si usa perciò propiziarla con offerte di bali (animali sacrificali).
A riprova di un simile sdoppiamento di personalità e di funzione, il Kalika Purana 82
indica come la Dea sia presente in Assam sotto due forme: una terrifica, chiamata
Tiksnakanta o Ugratara, e una benefica, chiamata Lalitakanta o Mangalacandika. La
puja a Tiksnakanta è simile a quella in onore di Kamakhya e comprende l’offerta di
liquori, carne, dolci, cocco e sacrifici umani oggi sostituiti dall’offerta di una zucca.
Allo stesso modo Sitala, invocata dai fedeli come ma, madre misericordiosa, è colei
che può guarire - e proprio per questo il suo nome deriva da sitham, freddo, dunque
‘colei che raffredda’ (dagli eccessi di febbre) -, ma al contempo rappresenta la
tremenda entità che a proprio piacere, e secondo una logica imperscrutabile per i suoi
‘figli’, provvede a diffondere il bruciore/febbre del contagio.83
Il calore bruciante della Devi - calore che peraltro assale lo yogin quale effetto del
tapas - ritorna nel mito di Mariyamman, versione meridionale di Sitala, ove si narra
di una ragazza di casta brahmanica indotta con l’inganno di un travestimento a
sposare un intoccabile. Compresa troppo tardi la verità ella si uccide per la vergogna
trasformandosi quindi in Mariyamman e sotto questa veste punisce l’uomo
incenerendolo. Vi è qui l’evidenza di una Dea che si pone come snodo nella
contrapposizione rituale tra brahmani e intoccabili, contrapposizione riverberata dalla
sua funzione di lenitrice delle febbri, e dunque ‘raffreddatrice’, in contrasto con la
punizione per incenerimento dispensata.

Anche Renuka, madre di Parasurama, manifesta questa doppia personalità.


Ella rappresenta una figura di estremo interesse in quanto riassume in sé tutta una
serie di caratteristiche che tratteggiano il delicato e complesso travaso delle pratiche e
delle credenze tribali in ambiente brahmanico. Processo ancor più significativo se si
considera che si attua non tanto in un contesto saiva, da sempre più vicino a simili
esperienze attraverso il tantrismo, quanto in una filiazione vaisnava e dunque di
ambito più ‘purista’.

82
Il Kalika Purana è uno dei diciotto Upapurana, o Purana minori. Esso fu composto in Kamarupa
intorno al X secolo e consta di 98 capitoli. Vi si descrivono i rituali dedicati al culto della Dea-
madre Kalika glorificata sotto diverse forme, in particolare come Kamakhya.
83
Identico significato si ritrova nel nome di Mariyamman, o Maariyamman, versione meridionale di
Sitala, poiché maari in lingua Tamil è il monsone che giunge per rinfrescare proprio all’apice della
stagione torrida, la stagione in cui abitualmente si propaga il contagio.
333
3
Il mito, pur sfaccettandosi in una miriade di versioni e rigagnoli allusivi differenti, si
dipana attorno un tema centrale ove Renuka, moglie del rsi Jamadagni 84 e a propria
volta una yogini, perde i poteri acquisiti col tapas in quanto eccitata dalla vista di un
gandharva e un’apsara in atteggiamenti amorosi mentre si bagnano in una pozza nel
profondo della foresta.85 Tornata alla capanna del marito, il turbamento di Renuka
viene tradito dal suo rossore o, in una differente versione, dall’afrore di pesce da lei
emanato 86 e induce Jamadagni a credere che ella sia venuta meno al proprio voto di
rinuncia. Il rsi, sdegnato, impone così ai figli di sacrificarla. Solo Parasurama accetta
però l’ingrato compito e, in cambio della dovuta ubbidienza, chiede allo stesso
Jamadagni l’esaudimento d’un desiderio, desiderio che sarà proprio quello di
riportare in vita la madre. Tale atto non esime tuttavia Parasurama dalla propria colpa
e per questo dovrà sottoporsi a una lunga e severa espiazione.
Si leggono qui, in modo neppur eccessivamente velato, richiami tipici dell’ambiente
tantrico che vanno dalla dottrina del sacrificio, alle pratiche sessuali, alla morte
iniziatica, alla funzione del tirtha (la pozza nel mezzo della foresta), ai poteri della
via yogica. In particolare la perdita dei poteri - e dunque un raffreddamento - è resa in
termini opposti in quanto Renuka arrossisce - e dunque si accalora - per la visione
impudica. Proprio questa inversione appare estremamente significativa a livello
simbolico poiché implica l’intervento di Kama, capace di suscitare l’energia sessuale
sopita o, in altri termini, il risveglio di kundalini, preparazione alla vera iniziazione
tantrica di Renuka, che avverrà attraverso il suo sacrificio.
D’altra parte anche Kama è vittima del calore da lui stesso provocato in quanto
‘incenerito’ da Siva per aver voluto instillare nel Dio il desiderio di unirsi a Sakti.
Accanto alla lettura classica di tale incenerimento come punizione - punizione subito
emendata con la resurrezione di Kama a opera di Siva stesso - ci troviamo al cospetto
del calore tremendo dell’energia manifestatrice, di cui le vampe del desiderio erotico
sono solo il riflesso, un calore che si conferma nell’impossibilità di sopportare il
seme rovente di Siva nel mito della nascita di Skanda. La stessa furia generatrice
trova contraltare nel furore acqueo della Dea quando Ganga deve essere frenata,
sempre da Siva, perché la sua veemenza avrebbe devastato la terra. Ricorrono qui
alcune delle corrispondenze simboliche più diffuse del principio ciclico della
manifestazione che si esplica attraverso i binomi purusa e prakriti, sole e luna, calore
e acque, luce di conoscenza e bevanda d’immortalità.
Non a caso Kama viene assimilato ad Agni, il fuoco, immagine per eccellenza di
calore e luminosità, ma soprattutto di trasmutazione nell’oblazione rituale, quella
trasmutazione invocata nel mantra funerario più sacro dell’India, Rama nama satya
hai (il nome del Fuoco è verità), dove il fuoco Rama rimanda al marito di Renuka il

84
Jamadagni, assieme a Kasyapa, Atri, Vasistha, Visvamitra, Gautama e Bharadwaja, è uno dei
sette saggi (sapta rsa) del presente manvantara.
85
Si ripropongono qui le considerazioni fatte sul racconto di P’u Sung-ling di cui alla nota 52.
86
L’afrore di pesce è un’allusione su cui si innestano svariate considerazioni di estremo interesse in
ordine alle relazioni tra l’elemento acquatico, la funzione ciclica del pesce/Matsya e i poteri legati al
risveglio di kundalini. Tra queste merita un accenno la pratica tantrica dei due pesci che vengono
controllati dal matsya sadhaka nel loro movimento lungo le nadi interne ida e pingala.
334
4
cui nome, Jamad-Agni è sinonimo del fuoco sacrificale e dunque, per estensione, di
kayavidra il fuoco divoratore delle carni sulla pira funebre. Jamadagni, al pari di
Kama, si pone così come agente del sacrificio, sacrificio di cui il figlio Parasurama
(Rama con il parasu, la scure) è lo strumento.
Ed è proprio Kama nella sua funzione di psicopompo, di colui che crea le condizioni
di passaggio a un altro stato - fungendo quindi da tirtha - a essere al centro di uno dei
passi più evocativi del Vamakesvarimatam (IV, 45-46):

Nel luogo di Kama,


che è al centro di Kama e nel mezzo di Kama,
si può aprire un foro.
Attraverso Kama si può portare a compimento Kama,
e si può far posto a Kama dentro Kama.
Essendosi fatti amanti di Kama,
nel luogo di Kama si può scuotere il mondo.

Vi è perciò un continuo rimbalzo di funzioni tra Rama/Parasurama, Agni/Jamadagni


e Kama/Renuka che vanno a definire a diversi livelli il ternario sacrificatore,
strumento di sacrificio e offerta sacrificale.
Su tali elementi portanti del mito si innestano tuttavia svariate digressioni narrative
che tendono a ricondurre la vicenda di Renuka a un’ambientazione
sciamanico/tribale.
Una delle molte versioni sulla decapitazione racconta infatti di come, nel tentativo di
sottrarsi alla scure del figlio, ella fugga nella foresta ove incontra una intoccabile.
Raggiunta da Parasurama, Renuka abbraccia la donna impura cosicché il colpo
mozza la testa di entrambe. Quando poi Parasurama ottiene da Jamadagni la
restituzione in vita della madre, avviene però un errore e la testa di Renuka è
ricollocata sul corpo dell’intoccabile - che sarà adorata come Mariyamman - mentre
la testa della donna impura è posta sul corpo di Renuka divenendo Ellamma (o
Yellamma) divinità particolarmente venerata nel Deccan e nel sud dell’India come
patrona di dalits tribali e intoccabili.87
La figura di Renuka viene dunque a scomporsi tra Mariyamman/Sitala, riconfluendo
così nelle considerazioni fatte poc’anzi sulla dea del vaiolo, ed Ellamma/Yellamma,
una delle matrika di derivazione tribale con forti connotazioni sessuali, che introduce
le caratteristiche tipiche di Matangi su cui avremo modo di soffermarci tra poco.

87
Tale sostituzione e riapposizione di teste in precedenza decapitate implica la scienza della
Pravargya vidya che, come vedremo più avanti, è strettamente collegata alla conoscenza più
elevata, Madhu vidya, la via che conduce alla liberazione. In alcuni casi la murti di Ellamma è però
rappresentata dalla sua sola testa confondendosi così con il mito del rotolamento della testa
decapitata di Renuka in una zona abitata da fuoricasta che incontreremo appena più avanti.
Vi è tutt’oggi nel mondo indiano una netta separazione nell’identificare le popolazioni tribali,
censite in un complesso sistema che comprende scheduled castes, scheduled tribes e other
backward castes (OBC).
335
5
E proprio in quest’ultima veste, nell’intreccio tra sacrificio e pratiche di tantrismo
sessuale, si può comprendere allora la funzione delle devadasi, cortigiane dedite alla
prostituzione rituale, presenti nei templi dedicati alla dea Yellamma.
Nel mortale abbraccio tra Renuka e la donna intoccabile e nell’orrore dello scambio
rigenerativo si riconoscono perciò convergenze e contrapposizioni tra culti
brahmanici e tribali o, secondo una equivalente lettura, tra la via tantrica della mano
destra (daksinacara), con le sue purezze rituali, e quella della mano sinistra
(vamacara), con gli insegnamenti del kaula marga e le pratiche più oscure del
pancamakara.

La stessa prospettiva si trova riassunta in Matangi, sicuramente una tra le ipostasi


della Devi dalle caratteristiche più singolari e di più oscura interpretazione. Pur
facendo parte delle dasamahavidya, e quindi del cerchio più qualificato ed elevato
della dottrina sakta, ella è nata candala (intoccabile), come si conferma nel suo nome
che allude sia all’esclusione dalla purezza castale, sia all’apparteneza al contesto
tribale quale selvaggia abitante dei monti e per questo associata a Siva. Matanga è
infatti l’aspetto con cui viene venerato il Dio dai Sabara - o Savara - popolazione
tribale dei monti Vindya, mentre una diversa tradizione lo associa ai Kirata, ceppo
tribale di origine himalayana stanziato in particolare nel nord-est dell’India.88 Come
approfondiremo più avanti, sia i Sabara che i Kirata sono poi legati al culto di
Kamakhya, il cui tempio costituisce il più importante santuario delle dasamahavidya
ponendo di fatto i rituali di derivazione adivasi al centro del culto della Dea.
Nel suo aspetto di Uccista-Candalini, Matangi amplifica tale inclinazione accostando
l’esclusione sociale (Candalini, colei che è nata candala) con un altro elemento di
impurità dal momento che uccista è la porzione del cibo che rimane dopo averlo
portato alla bocca, ma anche le ceneri (il resto) del sacrificio. Ella è dunque colei che
incarna i rituali più estremi del pancamakara legati all’assunzione di cibo e bevande
impure e all’accoppiamento sessuale, che divengono nella visione tantrica vamacara
oggetto di pratiche adatte all’eroe, vira, il solo in grado di affrontare il pericolo di una
sadhana dagli effetti potenzialmente devastanti.

La scuola SriVidya, massima espressione dottrinale dello saktismo, ripropone in


ambiente brahmanico la medesima dualità. Le pratiche del pancamakara volte al
risveglio di kundalini, risultano pertanto seguite in entrambe le vie. Mentre però
crudezze e impurità della via vamacara costringono gli iniziati - specialmente di alta
casta - alla segretezza e dunque a occultare in ambito sociale l’adesione a tali rituali,
per i seguaci daksinacara è prevista la sostituzione delle varie pratiche con
equivalenti simbolici (pratinidhi) quali latte in vece del vino, sesamo al posto di
carne e pesce e offerte di fiori in luogo dell’accoppiamento sessuale.89 In ogni caso il
88
Claudia Ramasso, Il tempio di Kamakhya e il culto delle Dasa Mahavidya, ……
89
Non è perciò casuale che Kama, per risvegliare l’eccitazione amorosa, scocchi dal proprio arco
delle frecce floreali.
A Kamakhya tale sostituzione prevede invece latte di cocco per madya, il vino, zenzero misto a sale
per mamsa, la carne, ceci tostati per mudra, foglie rosse bollite per matsya, il pesce, e pasta di
336
6
pancamakara rimane collegato a mrtyu (la morte) - ancora una volta una ‘emme’ -
quale elemento nascosto/ultimo del rituale sotto forma di morte sacrificale o morte
iniziatica come peraltro confermato dalla presenza del sesamo quale sostituto
simbolico della carne.

Tornando al mito di Renuka, un’altra versione narra come la sua testa mozzata rotoli
lontano dal corpo fino a un luogo abitato dagli adivasi e quindi - in quanto impuro -
irraggiungibile da Jamadagni che non potrà per questo tener fede alla promessa fatta a
Parasurama di riportare in vita la madre. A parziale ammenda il rsi farà però in modo
che la testa - maya rupa (forma di Maya) - divenga oggetto di culto come Ekavira
(eroe solitario) con chiara allusione all’inclinazione eroica che deve possedere chi
intraprende la via tantrica. Parallelamente si è però sviluppato anche un culto rivolto
al corpo senza testa di Renuka - matru rupa (forma materna) -, adorato sotto il nome
di Bhudevi o, in alcuni casi, Chinnamasta.90
Lo stesso Ekavira è noto in ambito tradizionale vajrayana come Vajrabhairava,
l’aspetto più terrifico di Yamantaka (l’uccisore della morte), il nero Yamantaka senza
consorte - configurandosi come una sorta di paredro di Dhumavati - che, secondo i
più classici canoni del tantrismo, indossa una collana di teste mozzate, si cinge di
ornamenti d’ossa e usa una calotta cranica (kapala) come coppa.
E, con un’ennesima convergenza simbolica, proprio a Ekavira è dedicato lo sakti
pitha di Jogulamba ad Alampur, sorto nello stesso luogo ove secondo tradizione si
trovava l’asram di Jamadagni. Il nome Jogulamba sarebbe così una corruzione di
Joginula Amma, o Yoginula Amma ‘madre delle yogini’.
La testa di Ekavira troneggia infine nei templi - come il Sankat Mocan a Varanasi –
ove si praticano rituali di esorcismo, confermando la vicinanza di questo ambito
cultuale ai fenomeni più gravi e tenebrosi di possessione.91

Ecco dunque che nella corrispondenza Renuka/Mariyamman/Sitala, malattia, devi,


trance e sacrificio tornano a intrecciarsi in un’inattesa prospettiva vaisnava.
Prospettiva invero non isolata dal momento che in Assam è ancor oggi presente la
setta tantrica vaisnava dei Barkheliya (o Purnadhariya), diffusa per lo più in
ambiente di intoccabili, i cui adepti fanno largo ricorso a pratiche pancamakara,
mentre in Orissa - sempre in area tribale - si riscontra una continua sovrapposizione
tra culti silvani e culti buddhisti, vaisnava e sakta nonché la permanenza d’una

sandalo rossa da cospargere sul corpo per maithuna, l’accoppiamento sessuale. Nihar Rajan-Mishra,
Kamakhya. A Socio-Cultural Study, D.K. Printworld (P) Ltd., New Delhi, 2004.
90
In questa particolare murti al posto della testa viene in genere raffigurato un fiore. Il culto della
Dea senza testa, spesso rappresentata a gambe aperte e con la vagina in evidenza, affonda le proprie
radici negli arcaici culti della fertilità dell’India antica.
Bhudevi, o Bhumidevi è la terra che deve essere ripescata sul fondo dell’oceano - e dunque
trasposizione della conoscenza nascosta - da Varaha. Chinnamasta allude parimenti a un livello
esoterico della conoscenza tantrica su cui avremo modo di tornare più avanti.
91
Non può sfuggire la similitudine tra Ekavira e Rahu (l’eclissi), entrambi rappresentati da una testa
senza corpo ed entrambi legati a fenomeni di possessione e follia.
337
7
devozione a Parasurama confusa con quella per Durga/Kali e pesantemente connotata
da rituali cruenti.92

L’inclinazione calda o fredda della Devi sta dunque a rappresentare l’alternanza tra i
due poli di uno stesso fenomeno, l’oscillazione spesso imperscrutabile tra malattia e
guarigione riallacciandosi in ciò alla funzione degli Asvin, i medici degli Dei - non a
caso ancora una coppia -, o a quella delle due ancelle/yogini di Chinnamasta su cui
torneremo appena più avanti.
Al binomio malattia/guarigione si affianca poi in termini psichici la possessione,
anch’essa leggibile secondo questo doppio registro come insorgenza d’una
alterazione del livello di coscienza, e dunque come possibilità di prendere contatto
con un mondo ctonio abitato dalle oscure presenze che governano tali fenomeni,
oppure come allusione al potere salvifico della Devi che entra nel corpo dell’adepto
facendone il proprio tempio in prospettiva di liberazione ultima.93

Yogini e sacrificio

Alla Dea o ai molti aspetti sotto cui si manifesta - come ben si evidenzia nei nomi di
alcune sue tremende emanazioni quale Garbhabhaksi ‘mangiatrice di feti’ o Sisughni
‘colei che uccide i bambini’ - vanno dunque offerti sacrifici in grado di placare o,
secondo una equivalente lettura, scambiare una vita (della vittima) per l’altra (il
malato, il villaggio in cui è scoppiata un’epidemia, la comunità investita da una
carestia).
Il sacrificio diviene perciò il mezzo per superare tale apparente ambiguità della Devi,
lo strumento a disposizione dell’uomo per colmare l’abisso tra un universo costruito
sull’illusoria continuità di tempo e spazio e il vuoto che si apre tra una morte e la
successiva rinascita.
Questa è la lunga fatica cui si è piegato il mondo vedico, erigendo con accuratezza e
puntigliosità il complesso castello del rituale. Ma nell’ultimo scorcio di questo ciclo,
nell’oscura fretta del Kali yuga, mancano all’uomo le qualità per inoltrarsi col giusto
passo lungo un simile sentiero. Ecco allora che tutto viene riscritto per superare con
un unico, incredibile balzo tale immane distanza. La materia, la struttura stessa del
cosmo si trasforma così, da grevità da dissipare tra le rarefazioni del rituale, nel

92
Stefano Beggiora, Spiriti delle acque e Dee della Mahanadi, da I fiumi sacri, Indoasiatica 6/2009,
Cafoscarina, Venezia, 2009.
Tale sovrapposizione si ripresenta in Orissa anche in chiave saiva quando, a partire dal X secolo,
con il declino del culto pasupata e l’affermarsi dello saktismo, le rappresentazioni di Ekapadamurti
- il primo degli ekadasa Rudra - presero a sviluppare caratteristiche ancor più terrifiche e vennero
associate alle yogini (Claudia Ramasso, Ekapadamurti: dall’uno ai molti, Rudra e i Rudra, da Arte
oltre le forme, Indoasiatica 1/2004, Cafoscarina, Venezia, 2004).
93
Proprio per questa ‘sacralizzazione’, in caso di morte di coloro che hanno contratto la malattia, il
corpo non viene cremato, ma inumato o abbandonato alle acque in quanto ricettacolo della Dea.
338
8
solido terreno su cui il praticante deve confrontarsi nel suo cammino verso moksa. Un
cammino che, nella prospettiva immancabilmente simbolica del tantra, tende a
manifestarsi per gradi quasi sempre declinati in serie numeriche di sette o otto
elementi.

Sette sono infatti le stelle dell’orsa (sapta rsa), sette le Pleiadi (saptarsabham o
saptarsapatni) e i fiumi del cielo (sapta sindhu). Sette i cavalli di Surya, sette i suoi
raggi, sette le sue rosse sorelle.
Sette i gusci dell’uovo cosmico, ognuno a rappresentare un periodo della
manifestazione del mondo. Sette i Manu fino al presente manvantara, prima che altri
sette ne vengano per completare lo sveta varaha kalpa. Sette le ruote con cui avanza
il tempo, sette i suoi mozzi.
O, ancora, sette sono i pezzi in cui viene tagliato il legno, corpo di Krisna, arenatosi
sulle coste di Puri.
Sette le malattie, sette le ninfe acquatiche - sat sahelian nelle valli del Gange e
dell’Indo, sapta kannigai nella regione Tamil, sat asara in Maharastra -, sette i figli
di Cand Sadagar avvelenati dalle serpi di Manasa.
E, in prospettiva tantrica, sette sono i principali sakti pitha, sette le yogini collegate ai
cakra e sette i dhatu, parti costituenti il corpo umano.

A volte, ma con uguale simbolismo, le serie sono ottuplici.


Esse rimandano allora al mondo di mezzo, un mondo di conoscenze sottili e arti
iniziatiche, un mondo governato da entità deputate a fungere da dispensatrici di
siddhi, guardiani della soglia, psicopompi.
Queste sembrano dunque le funzioni delle yogini, spesso in numero di otto come
adepte durante i rituali kaula marga, come esseri sottili sotto forma di yaksini, come
yogini/pianeti o come yogini collegate a Sri Cakra.
Ma otto sono anche i sentieri della Via suprema, otto i dharmapala guardiani della
buona legge, otto i raggi della ruota che sottende il dharma stesso.
Otto gli smasana intorno a Devikota, tanti quanti i mahasmasana di tradizione
vajrayana, otto i sacri pitha corrispondenti agli otto petali del loto.
Otto nel tantrismo alchemico sono i metalli, otto le mahasiddhi, i grandi poteri.
Sessantaquattro, espressione esponenziale dell’otto, sono le yogini emerse dal corpo
della Devi, sessantaquattro i petali dello yantra/cakra, sessantaquattro i tantra,
sessantaquattro le arti erotiche, sessantaquattro le siddhi e sessantaquattro i gradini
magici che, secondo l’Aitereya Brahmana, recano all’entrata del cielo.

Molte sono poi le scansioni e i travasi tra le due serie, come quella relativa al numero
delle matrika, saptamatrika o astamatrika a seconda dei miti di riferimento, o agli
immortali, i ciranjiva, sette nell’elecazione canonica (Vyasa, Bali, Vibisana,
Hanuman, Asvatthama, Parasurama e Kripacarya) e otto se a questi si aggiunge

339
9
Markandeya 94 o, ancora, alle yogini-graha in funzione del loro tener conto o meno di
Santaka (che rappresenta la parte sottile del binomio Rahu-Ketu).
Di fatto le serie settenarie sembrano riferirsi prevalentemente al tempo e al fluire
della ciclicità trovando espressione in Kali, la mahavidya che è appunto consorte di
Kala, il tempo. Le serie di otto assumono invece una connotazione spaziale,
proiezione intermedia tra il mondo umano e l’Assoluto, uno spazio su cui pone il
proprio sigillo un’altra mahavidya, Bubanesvari.
Si tratta dunque d’una visione tipicamente tantrica, l’appoggiarsi alla struttura della
manifestazione connotata da tempo e spazio che diviene così un supporto, una scala
su cui si inerpica il sadhaka per esaurirne le possibilità giungendo infine a
trascenderla.
Ma tale scalata per essere condotta a termine, per far sì che si compia lo stacco dal
suo ultimo gradino, necessita d’un estremo viatico, d’una trasposizione ancora una
volta abbigliata nei panni del sacrificio. Un sacrificio che, pur affondando le radici
nel rituale vedico, proietti l’efferatezza di quest’epoca oscura, un’oblazione cruenta
pregna di magia e di significati reconditi, un gesto aggrappato alla forza primordiale
della Dea madre nel suo furore di parto e dissoluzione.

Così la linea rossa del sacrificio, che attraversa e collega tutte le funzioni divine al
femminile - e sotto le cui spoglie abbiamo visto ritrovarsi sempre delle yogini -,
giunge inevitabilmente all’esoterismo delle mahavidya.
Tra loro Chinnamasta, essendosi mozzata il capo per sfamare le proprie ancelle, lo
evoca nei termini più espliciti tanto da essere raffigurata con in mano la propria testa
mentre dal collo reciso sprizzano tre fiotti di sangue.
Il nutrimento offerto da Chinnamasta, quegli zampilli da cui si abbeverano Jaya e
Vijaya (Vittoria e Punizione) - altrove chiamate in modo palese Dakini e Varnini 95 -,
trova un’immediata equivalenza simbolica nelle nadi ida e pingala mentre la nadi
centrale, susumna, corrisponde allo zampillo che rifluisce nella testa mozzata della
Dea stessa. Sotto un altro punto di vista i fiotti di sangue sono i tre guna (qualità
costitutive) ove Dakini è tamas, Varnini rajas e Chinnamasta sattva. O, ancora,
rimandano alla decapitazione delle tre teste del vedico Visvarupa (letteralmente
‘Forma cosmica’) - figlio dell’asura creatore Tvastr - attraverso cui egli si sfamava,
osservava il mondo e leggeva il Veda.96 Ognuna delle teste recise da Indra

94
E’ significativo notare come almeno due di questi immortali siano collegati tradizionalmente a
luoghi che rappresentano il Centro del mondo, l’incardinamento nell’asse: Asvatthama a Badrinath
e Parasurama a Parsuramkund. E si tratta dello stesso asse/lingham cui si aggrappa Markandeya per
sfuggire Yama, la morte divenendo così l’ottavo immortale.
95
Se Dakini trova diretto riferimento con le yogini, di grande interesse risulta anche il nome
dell’altra ancella di Chinnamasta, Varnini, ‘la colorata’, un epiteto che indica abitualmente
l’appartenenza alle tribù escluse dal sistema castale indiano andando così a ricollegarsi con la figura
di Matangi.
Claudia Ramasso, Il tempio di Kamakhya e il culto delle Dasa Mahavidya, ……
96
Tutte queste funzioni sono direttamente collegate a Chinnamasta che infatti sfama Jaya e Vijaya,
pone il suo occhio di conoscenza sul mondo ed è ricettacolo di conoscenza/soma.
440
0
rappresenta in termini trasposti un granthi, un nodo sciolto da Chinnamasta sulla
strada di perfezionamento del praticante attraverso la distruzione
dell’universo/Visvarupa, che altro non è se non illusione/Maya e dunque la Dea
stessa. Funzione che ritorna nella rimozione degli ostacoli operata tanto da Ganesa
come da Ketu, ancora una volta divinità generate attraverso una decapitazione.
Proprio per questo, in ambiente tantrico Chinnamasta viene assimilata a
Mariyamman/Renuka con cui, oltre alla decapitazione, condivide anche il potere di
risanare, riallaciandosi così agli Asvin.97
Ma la sua iconografia adombra un messaggio ancor più profondo nell’indicare, con il
taglio della testa, l’apertura dello sahasrara cakra da cui si rivela l’essenza luminosa
della Devi riportando così alla superficie amrita/soma, nettare di conoscenza e
d’immortalità celato dentro di Lei. In questo modo Chinnamasta rimuove la falsa
percezione di dualità liberando susumna bloccata a livello dell’ombelico dalla sua
stessa presenza.98
Ella è dunque Paradakini, la Dakini suprema, colei che dispensa le siddhi più elevate
e che incarna la potenza di Sakti.
La decapitazione diviene così l’atto rituale supremo, il sacrificio perfetto,
l’attingimento della conoscenza più elevata che permette il fluire di soma portando
alla piena realizzazione dell’adepto. Un simbolismo ripreso nel mito di Durga
Mahisasuramardini dove - nella versione riportata dall’Arunacala Mahatmya dello
Skanda Purana - dal corpo decapitato del demone-bufalo Mahisa emerge uno
jotirlingam. Il bufalo si pone perciò coma forma asurica di Siva che, grazie
all’intervento della Dea, può manifestare la propria essenza divina.99
Tutto ciò si riflette in termini tantrici nell’immagine del risveglio di kundalini e
proprio per questo Chinnamasta è resa iconograficamente assisa o stante sulla coppia
divina Kamadeva-Rati unita nell’amplesso ierogamico a indicare il superamento del
vincolo ciclico morte-rigenerazione.
In ambiente vajrayana Ella prende invece il nome di Chinnamunda, uno degli aspetti
della Devi suprema Vajrayogini, essendo in tal veste raffigurata sopra Kali a indicare
la sua vittoria sul tempo e sottendendo così lo scarto di prospettiva tra la visione
hindu, ove Ella incarna l’advaita, la non dualità, e quella buddhista ove invece allude
al vuoto trascendente.

Una equivalente decapitazione viene operata da Indra che, sempre col vajra, mozza la testa al rsi
Dadhyanc per aver svelato l’insegnamento della MadhuVidya (e dunque aver ‘sfamato’) agli Asvin,
coppia di gemelli solari che corrispondono, come vedremo più avanti, alle due ancelle di
Chinnamasta.
97
Uno dei casi più noti di tale sovrapposizione cultuale si rifà al discepolo di Ramana Maharsi,
Vasistha Ganapati Muni, grande devoto di Renuka e Chinnamasta.
98
Anche qui si riconosce la doppia funzione della Devi che da un lato blocca e dall’altro libera il
fluire della conoscenza salvifica. L’evidenza che ciò avvenga a livello dell’ombelico comporta delle
implicazioni simboliche che si riflettono nella geografia sacra dell’Assam e su cui avremo modo di
tornare più avanti.
99
Gian Giuseppe Filippi, On some sacrifical features of the Mahisamardini, Annali di Ca’ Foscari
XXXII, 3, Venezia, 1993.
441
1
Inebriarsi di sangue sacrificale sorseggiandolo da kapala, ingurgitandone zampilli da
teste mozzate o suggendolo dalle ferite di demoni quasi fosse ambrosia (amrta),
appare dunque un tratto esplicito condiviso dalle diverse manifestazioni della Dea -
siano esse yogini, matrika o mahavidya -, con chiara allusione alla bevanda
d’immortalità che, sotto ogni latitudine, costituisce metafora di conoscenza.
Tale simbolismo si approfondisce ulteriormente nella rispondenza sottile tra
dasamahavidya e dasavatara che, secondo il Mundamala Tantra,100 pone proprio
Chinnamasta in relazione a Parasurama, l’avatara in cui si incarna la forza
distruttrice del sacrificio, capace di uccidere tutti gli ksatrya, ma anche di sacrificare
la propria madre Renuka svellendole la testa con un colpo d’ascia.
Parasurama riveste tuttavia un altro ruolo fondamentale di cui lo stesso sacrificio
costituisce l’espressione esteriore. Egli è infatti maestro di SriVidya, il maestro che
nel Tripura Rahasya 101 raccoglie il sommo insegnamento direttamente da Dattatreya
per trasferirlo al discepolo Sumedha Haritayana e questi, a sua volta, al saggio
Narada affinché ne perpetui la dottrina segreta agli uomini. Nella trasmissione della
conoscenza si concretizza lo stretto legame tra Parasurama e il culto della Dea,
relazione trasposta in termini iniziatici nella decapitazione e nella successiva rinascita
di Renuka.
D’altra parte Bhairava, sacrificatore per eccellenza al pari di Parasurama e come
questi considerato una discesa (avatara) della divinità di riferimento - nella
fattispecie Siva -, è posto nel mezzo del cerchio delle yogini a ribadire la centralità
del sacrificio in tale ambito cultuale. Bhairava rappresenta dunque, a livello
simbolico, il centro dell’asse cosmico, centro terrestre nel caso di yogini umane,
centro celeste nel caso di yogini divinità. In questa prospettiva le yogini collegate ai
supporti meditativi come cakra e yantra scandiscono allora la possibilità del
praticante di elevarsi, passo dopo passo, da un centro all’altro andando perciò a
definire l’asse stesso.

Ma il sacrificio (yajna) della donna/dea si riverbera soprattutto nell’origine degli sakti


pitha tanto da farne yajnodaka desah, terre di sacrificio.
Qui è il corpo di Sati, tagliato in cinquantun pezzi, a precipitare sulla terra divenendo
principio di generazione. E che la distribuzione al mondo della Dea sia un principio
generativo si conferma nella visione secondo cui Brahma, attraverso le tre potenze di
Sakti - desiderio (icca), conoscenza (jnana) e azione (kriya) -, manifesta l’intero
universo collocandovi le cinquantun lettere dette matrika, le piccole madri, che
consentono di dar nome e dunque forma al mondo. Cinquantuno come i teschi della

100
Il Mundamala Tantra (letteralmente il ‘Tantra della collana di teste mozzate’) è un testo che
contiene, tra le altre, le descrizioni dei rituali e dei mantra riferiti alle dasamahavidya.
101
Il Tripura Rahasya (Il segreto della dea Tripura) è considerato uno dei massimi testi sia per la
scuola SriVidya sia per quella vedantica. Secondo la tradizione fu trascritto nella forma attuale da
Sri Haritayana che condensò il testo originale di Parasurama. Esso è suddiviso in tre sezioni: il
Mahatmya Khanda (sezione del rituale), il Jnana Khanda (sezione della gnosi) e il Carya Khanda
(sezione della condotta oggi perduta).
442
2
collana di Kali danzante sul cadavere di Siva, danza che ancora una volta è
movimento di dissoluzione e rigenerazione.
In questo rituale cosmogonico si intrecciano il sacrificio universale organizzato da
Daksa, il sacrificio/incenerimento di Kama e, soprattutto, il sacrificio di Sati dal cui
smembramento si originano gli sakti pitha, alfabeto del sacro sparso sulla terra per
schiudere all’uomo il segreto della Dea.
Kamakhya, che rappresenta la yoni della Devi - e quindi la parte per il tutto -, è il
sacerrimo di tali luoghi ove la Dea dispensa le siddhi più elevate attraverso rituali di
oblazione cruenta.
E al sacrificio, più d’ogni altro tempio dell’India, Kamakhya sembra essere
indissolubilmente legata.
Qui infatti, oltre a offerte minori di agnelli e pollame che si susseguono per tutta la
giornata nel recinto principale e negli altari delle altre mahavidya sparsi sulla collina,
all’apertura mattutina del tempio è immolata quotidianamente una capra col cui
sangue si provvede ad aspergere la yoni della Dea.
Durante Durga puja vi si celebra invece l’uccisione rituale del bufalo, animale che,
assieme al mithun, rappresenta il sostituto per eccellenza del purusamedha, il
sacrificio umano, largamente praticato a Kamakhya per secoli.102
Ma il sacrificio si lega a questo tempio anche in occasione di altre festività in cui
emergono culti più oscuri della Dea che sembrano spostarla da una chiave generativa
di matrice - simboleggiata dalla yoni - verso aspetti inclini alla dissoluzione.103 Essi
affondano le proprie radici nella funzione di Kamakhya quale Signora di spiriti e
fantasmi da adorarsi negli smasana a riprova della preesistenza nel territorio di
Kamarupa d’una devozione maggiormente incline allo psichismo e ai poteri della
mano sinistra.
Il carattere misterico di tali culti si riverbera nella rajarajesvari puja, rituale segreto
dedicato all’adorazione della Dea accessibile esclusivamente a praticanti vamacara
che si svolge nell’arco di quindici notti a partire dalla notte di amavasya del mese di
caitra (marzo-aprile) nel tempio di Kamesvara sulla collina di Kamakhya. Quello
stesso Kamesvara (il Signore di Kama) che giace e si accoppia sotto la Dea e da cui
questa trae la propria energia di trasformazione.104

102
In ambito tribale, nella parte meridionale dell’Assam, tale sostituzione si rende ancor più palese
con l’apposizione di corna bovine su teschi umani nei villaggi Naga, popolazione famosa fino ai
giorni nostri per i sacrifici umani e il cui nome coincide, in modo assai significativo, con quello dei
serpenti (naga).
Guido Zanderigo, Il bufalo nei riti funerari del sud-est asiatico, da Il sangue purificatore nel
sacrificio del bufalo nell’Asia meridionale, AVIS, Venezia, 2002.
103
L’ultimo sacrificio umano di cui vi è testimonianza avvenne a Kamakhya nel 1832. La sessione
sacrificale più impressionante risale invece al 1565, in occasione della ricostruzione del tempio,
quando vennero immolate centoquaranta vittime umane dovendosi pacificare non solo Kamakhya,
quale Devi della yoni di Sati, ma anche la Kamakhya Signora dei cimiteri, dei serpenti e degli spiriti
tribali. Edward Gait, A History of Assam, Calcutta, 1906.
104
Nihar Rajan-Mishra, Kamakhya. A Socio-Cultural Study, D.K. Printworld (P) Ltd., New Delhi,
2004. Non è secondario osservare come il richiamo a Kama sia trasversale a una serie di funzioni
divine (Kamakhya, Kamesvara, Kamesvari) e alla stessa terra dell’Assam (Kamarupa).
443
3
La propensione di Kamakhya verso ambienti magico-tribali trova ulteriore conferma
nel mito di Naraka (Inferno) ove si narra come la Dea venisse adorata nel paese dei
Kirata, popolo delle montagne dedito al consumo di carne e vino.105 Lo Yogini
Tantra riferisce invece di un kiratadharma, forma devozionale seguita dai Kirata
nello yogini pitha di Kamarupa (Kamakhya). Il Kalika Purana a propria volta riporta
una pratica savara - essendo i Sabara, o Savara, un’antica popolazione tribale delle
montagne - che prevede l’accoppiamento dei sadhaka con prostitute.
Ed è lo stesso svami Karapatri - il più autorevole interprete dell’ortodossia hindu del
secolo scorso - a prospettare infine che Kamakhya sia legata alla conoscenza del
mantra sabara, il mantra selvaggio, composto di suoni di potenza dai magici
poteri.106

Orissa, Assam, dee, cavalli e conoscenza nascosta

Una siffatta visione, largamente diffusa in epoca medievale attraverso il culto delle
yogini, apparirebbe aver perso popolarità sostituita nel tempo da pratiche devozionali
rivolte ad altre forme della Devi. Eppure parecchie sono le evidenze di una sua
sopravvivenza soprattutto nelle regioni più periferiche del Subcontinente. Le più
significative sono documentabili proprio nel tempio di Kamakhya, ove ancor oggi
vengono quotidianamente invocati i nomi delle sessantaquattro yogini.

Orissa e Assam - nonché alcune aree del Sud dell’India - mantengono peraltro una
continuità nelle pratiche e nei rituali qui in esame, tratteggiando un reciproco
collegamento di cui si trova traccia in numerose fonti letterarie medievali.107
Una matrice comune che si giustifica nella fioritura in queste regioni del pensiero
tantrico della cosiddetta tradizione orientale, declinatosi nei diversi ambiti dottrinali
tanto da influenzare e permeare i culti sakta, saiva e in parte anche vaisnava -
soprattutto quelli riferiti a Parasurama e Jagannath - per poi confluire nel jainismo e
nel buddhismo mahayana e vajrayana (pur se di quest’ultimo, in Orissa e nell’India
meridionale, se n’è oggi praticamente persa memoria).
Proprio il mito di Jagannath - accanto alla versione classica del sogno di
Indradyumna in cui gli apparve Krisna chiedendogli di realizzare una sua immagine

105
Claudia Ramasso, Il tempio di Kamakhya e il culto delle Dasa Mahavidya, ……
Secondo il Manavadharma Sastra, i Kirata erano in origine ksatrya relegati al ruolo di sudra per
aver mancato ai propri doveri di casta. Questa caratteristica richiama quanto riscontrato in Orissa
presso alcune comunità tribali stanziate nelle foreste lungo il corso della Mahanadi (per ulteriori
approfondimenti vedasi Stefano Beggiora, Spiriti delle acque e Dee della Mahanadi, da I fiumi
sacri, Indoasiatica 6/2009, Cafoscarina, Venezia, 2009).
106
Alain Danielou, Hindu Polytheism, Routledge & Kegan Paul, London, 1964.
107
Riferimenti alla relazione tra Orissa e Assam si incontrano in particolare nella biografia del santo
assamese Sankaradeva, nel Kalika Purana e nei Buranji, corpus di letteratura storica dell’Assam
medievale.
444
4
(murti) dal tronco che si sarebbe arenato l’indomani sulla spiaggia di Puri e che
perciò narra l’origine delle tre murti conservate nel tempio di Puri in Orissa - offre
una variante tratta dallo Yogini Tantra secondo cui Krisna avrebbe ordinato al re di
Kalinga di tagliare con l’ascia (ove l’utilizzo di un parasu ribadisce un gesto
sacrificale) non in tre, bensì in sette pezzi il legno giunto dal mare. Il Re avrebbe poi
inviato due di questi pezzi a Kamarupa per trarne le immagini di Hayagriva e
Madhava (o Matsya) da installare nel tempio di Hajo.108
Tale mito afferma dunque una ‘consustanzialità’ tra la murti venerata a Puri e quella
dell’Assam. Ma la relazione tra Jagannath e Kamarupa si riscontra ancor più nel
profondo radicamento del suo culto nell’area assamese, oltre che nella singolare
coincidenza del toponimo Nilacala (montagna blu) a designare il luogo ove sorge il
tempio di Jagannath a Puri e la collina di Kamakhya.109

Tuttavia, se Orissa e Assam assumono un ruolo di primo piano nella geografia sacra
dell’India per le diverse correnti del tantrismo, l’Assam (Kamarupa o Pragjyotisa) -
che comprendeva anche l’area dell’attuale Arunacal Pradesh, del Nagaland e del
Meghalaya - sembra presentare una valenza più sotterranea in cui prevalgono le
connotazioni misteriche di yogini e dasamahavidya piuttosto che le manifestazioni
esteriori care alla devozione popolare quali Kali, Durga e le saptamatrika.
Parecchi sono infatti i testi che confermano l’importanza del culto delle yogini in
questa regione. Il Kaulajnana Nirnaya, ad esempio, afferma che la dottrina yogini
kaula si spande per ogni casa di Kamarupa. E lo Yogini Tantra ci offre
un’indicazione ancor più precisa sottolineando come, se ciascun pitha risulta
particolarmente sacro in differenti epoche, Kamarupa lo sia nell’attuale Kali yuga.

Ma Kamarupa, oltre al significato letterale di ‘forma-desiderio’ (il mondo dove le


forme sono nate dal desiderio), nel linguaggio sandhya bhasa dei siddha coincide
simbolicamente con un triangolo dal vertice in basso cosicché, in questa prospettiva,
l’intero Assam si troverebbe a rappresentare la yoni della Dea, yoni che diviene
perciò centro dell’India, a sua volta - al pari di tutti i regni tradizionali - espressione
del mondo intero. E nel cuore di Kamarupa sorge Kamakhya, il principale dei
cinquantuno sakti pitha, ancor oggi riferimento per le vie daksinacara e vamacara
del culto della Devi. Infine, all’interno del tempio, sprofondata nel suo garbhagrha,
sotto forma di nuda roccia è presente la yoni stessa di Sati caduta sulla terra.
In questo concatenamento concentrico, che culmina nel luogo in cui si è verificata
una precipitazione - e dunque una discesa - dell’influsso divino, è riconoscibile la

108
Hajo, antica capitale del regno assamese di Ahom, ha svolto una funzione centrale nell’ambito
delle correnti tantriche del Nord-Est dell’India. Nelle sue vicinanze, oltre al tempio di Hayagriva, si
trovano infatti anche la collina di Kamakhya e Vasisthakund sulle cui sponde, secondo la
tradizione, sorgeva l’eremitaggio di Vasistha. E sempre ad Hajo il Mahabharata pone il ritiro dei
Pandava durante l’ultimo anno del loro esilio.
109
Per una singolare coincidenza un analogo destino ha accomunato questi due templi, entrambi
distrutti nella prima metà del XVI secolo dal sovrano iconoclasta Kalapahar convertitosi all’Islam.
445
5
descrizione tradizionale del Centro del mondo, emanazione o riflesso del Centro
spirituale supremo.
Una centralità riconosciuta anche in ambito vajrayana dal momento che, nel Hevajra
Tantra,110 Kamakhya viene indicata come uno dei quattro centri sacri del tantrismo
buddhista.

D’altra parte la tradizione vajrayana pone a poca distanza da Kamakhya, ai bordi


settentrionali dell’Assam, il Pemako (dispiegamento ko del loto pema),111 il più
importante di quei luoghi segreti (beyul) che secondo la dottrina tantrica buddhista
consentono l’attingimento di particolari vie di liberazione per coloro che ne abbiano
le qualifiche. Essi rappresentano dei punti di discontinuità nel fluire della
manifestazione illusoria, terre nascoste ove si può realizzare la simultaneità di più
livelli della condizione individuale risultando così sottratti ai vincoli della
contingenza.112
Oltre a tale possibilità di trasposizione, che fa del beyul un equivalente del tirtha, nel
caso del Pemako ci troviamo di fronte a una forma di geografia sacra in cui si proietta
il corpo della dea Vajravarahi (in tibetano Dorje Pagmo), regina di tutte le dakini e
visualizzazione della conoscenza in grado di spezzare la catena del divenire, che
costituisce una delle espressioni più esoteriche della Devi suprema e dunque
ripropone in prospettiva vajrayana molte delle peculiarità di Kamakhya. Qui però la
funzione della Dea si esplica in termini misterici in quanto, mentre i vari cakra di
Vajravarahi/Dorje Pagmo sono stati ritualmente aperti nel tempo grazie alla
rivelazione di specifici ter-ma (tesori rappresentati da testi o strumenti mantrici di
potenza), l’utero-yoni, chiamato chimé yang-sang-né - immortale luogo interiore
segreto - che costituisce dottrinalmente la regione paradisiaca nascosta nel punto più
interno del beyul Pemako, rimane ancora segreto proiettando il suo svelamento nella
prospettiva temporale del pralaya.113 Questa parte del corpo della Dea, che digrada
verso la piana dell’Assam, è detta la segreta foresta delle dakini e si dispiega tra
giungle e montagne ove si celano magiche piante medicinali. Qui la Devi prende il
nome di Dorje Pagmo Ludrolma, Vajravarahi nella sua forma di soggiogatrice di

110
Lo Hevajra Tantra è uno Yoginitantra composto nel Nord-Est dell’India (probabilmente in
Bengala) tra il IX e il X secolo. Esso è redatto in forma di dialogo tra Bhagavan Buddha e il proprio
discepolo Vajragarba includendo anche dialoghi tra il Dio e la sua consorte. Lo Hevajra Tantra fu
uno dei primi testi tantrici a essere diffuso in Tibet.
111
In ambito hindu e buddista, il loto è considerato una metafora del risveglio della mente. Per
questo le divinità - o in alcuni casi il basamento del tempio stesso che le ospita - poggiano su fioni
di loto a simboleggiare la loro essenza illuminata.
112
Questi stessi luoghi a volte divengono teatro di esperienze temporanee e inconsapevoli per chi
non abbia maturato un idoneo livello di coscienza. E’ il caso di coloro che, dopo aver casualmente
varcato un passaggio sottile, penetrano in ambienti ove il tempo scorre con una diversa velocità o di
chi scorge sul fondo d’un lago il riflesso di una città in cui si sta svolgendo una vita parallela. Si
tratta di accadimenti fantastici la cui struttura narrativa trova riscontro nelle saghe di molti Paesi
come, per esempio, nella leggenda dei Monti Pallidi delle Dolomiti.
113
Ian Baker, Dietro le cascate, ed. it. Corbaccio, Milano, 2006.
446
6
serpenti, offrendo così un’ulteriore conferma in chiave buddhista della stretta
relazione tra medicina, veleno, trasformazione e il risveglio di kundalini.
I neyig, testi che forniscono indicazioni sulle terre segrete, descrivono lo yang-sang-
né del Pemako contornato da otto cimiteri ponendolo, in modo sintetico, al centro
degli otto mahasmasana vajrayana a ribadire la funzione di questo beyul come
riflesso di Sambala, regno ultramondano equivalente a Brahmapura, il centro Celeste
di tradizione hindu. Per estensione, l’intero Pemako è così considerato il più grande
dei cimiteri, dimora prediletta delle dakini. E proprio in uno samsana si visualizzano
yogi e yogini, smembrati ritualmente da una emanazione di Dorje Pagmo.114
Anch’esso infine - come nel caso di Kamakhya e Parsuramkund - si trova alla porta
orientale del territorio tradizionale di riferimento, in questo caso il Tibet, alludendo
simbolicamente alla ritrazione verso lo stadio principiale della manifestazione che si
attua al termine del ciclo temporale cosmico, ed è collegato alla presenza acquea
dello Tsangpo-Brahmaputra che qui compie la sua grande curva a sud prima di
precipitare nella piana dell’Assam, ulteriore metafora dell’evento che ha dato il via
all’universo attraverso la liberazione delle acque.115

Sempre ad ambienti tantrici buddhisti è legato il tempio vaisnava di Hayagriva sulla


collina di Manikuta, nell’antico sito di Hajo. Ma oltre alla condivisione di tale
ipostasi divina che assume un ruolo rilevante per entrambe le tradizioni, è la collina
stessa, sotto il nome di Tsam-cho-dum (rTsa-mchg-gron), a essere considerata luogo
sacro in quanto stupa del samadhi di Buddha.
Il Kalika Purana riferisce come, proprio a Manikuta, Hayagriva avesse ucciso il
demone delle febbri Jvarasura, consorte di Sitala, inscenando la vittoria della luce
della conoscenza sull’oscurità della morte. Ma nello stesso testo, con un ennesimo
rovesciamento, Hayagriva è anche il demone che guarda la porta orientale del regno
di Pragjyotispur (Assam) del re Narakasura, a sua volta legato al mito della dea
Kamakhya.116
D’altra parte Hayagriva, assieme a Yamantaka - il distruttore della morte di cui
abbiamo visto la relazione con Ekavira/Renuka - è uno degli otto dharmapala,

114
La meditazione sullo smembramento e sulla scarnificazione del proprio corpo a opera della Dea
e la conseguente visualizzazione del proprio scheletro è una delle tecniche tantriche del chod
vajrayana. Tale tecnica trova eco in ambito tribale nel sogno estatico degli sciamani durante il quale
essi assistono alla decapitazione e allo smembramento del proprio corpo da parte di spiriti o
demoni.
115
Il mito cosmogonico della liberazione delle acque trattenute da Vrtra a opera di Indra contiene
numerosi accenni che si ricollegano al presente studio. Vrtra ha infatti la forma di un grande
serpente (richiamo ai titani, dei dell’epoca precedente e alla sarpa vidya) e l’arma con cui il re degli
Dei lo sconfigge è un vajra (che ha attinenze con la via di mezzo e dunque con SriVidya). La caduta
delle acque allude inoltre alla pioggia e dunque alla discesa della conoscenza.
D’altra parte non va dimenticato come, anche a livello microcosmico, la nascita dell’uomo avvenga
a seguito della ‘rottura delle acque’.
116
Il riferimento ad Hayagriva intronato nella porta orientale dell’Assam risulta particolarmente
significativo per quanto si dirà più avanti a proposito di Parsuramkund.
447
7
terrifici guardiani del dharma 117 che, come ricorda Guénon, sono equiparati agli otto
sentieri della Via suprema, agli otto petali del ‘loto della buona legge’ o agli otto
raggi della ruota che rappresenta il dharma stesso.118
Una tradizione di origine tibetana vuole che sulla rupe Neta Dhubunir Pat Sil, nei
pressi del Tsam-cho-dum (il tempio di Hayagriva), il Buddha abbia attinto al
parinirvana e ivi sia stato cremato. Tale luogo rappresenta il Sitavana smasana (Sil-
wa-tsal-gi-dur-khrod o ‘pira del fresco terreno’), il primo degli otto mahasmasana
(grandi cimiteri) della tradizione vajrayana, lo smasana dell’est, quello in cui lo
stesso Padmasabhava sperimentò la morte iniziatica essendo divorato da una dakini
per poi viaggiare attraverso i suoi cakra fino al loto più segreto, supremo luogo di
sepoltura. Le dakini/yogini sono allora il veicolo sottile che consente a chi ne
possegga le qualifiche - come nel caso di Padmasambhava - il raggiungimento dello
sahasrara, l’ultimo cakra del corpo umano, loto supremo posto alla sommità del
capo, attraverso cui si spezza ogni legame con la manifestazione pervenendo così allo
stato di jivanmukta. D’altra parte Padmasambhava, in quanto iniziatore della
tradizione vajrayana, rappresenta una funzione di discesa del principio divino e
dunque l’allusione che proprio qui Egli abbia attinto alla liberazione suprema,
divenendo così in grado di svolgere il proprio mandato, proietta simbolicamente
questo luogo come centro terrestre dell’asse cosmico.

Di nuovo nei pressi di Gauhati si trova il tempio di Ugra-Tara, una delle


dasamahavidya il cui culto è comune agli ambienti tantrici hindu e buddhisti, ma che
ha avuto proprio in ambito tibeto-mongolico vajrayana un particolare sviluppo
dottrinale e devozionale.
Il Nila Tantra 119 descrive la Dea all’interno di quattro pire funerarie fiammeggianti,
con al collo una mundamala, ai fianchi una pelle tigre e per vahana un cadavere. Ella
è la veemente vibrazione che rompe l’immobilità primordiale.
Devoto di Tara, nonché seguace del cinacara - via spirituale che gli autori tantrici
medievali indicano radicata nella regione a nord dell’Himalaya - fu il saggio Vasistha
al quale Visnu, sotto l’aspetto di Buddha, rivelò i segreti del pancamakara.120
Una delle versioni tradizionali sulla vita del grande rsi pone il suo eremitaggio sulla
riva di Vasisthakund, proprio nei pressi di Hajo, intrecciandone così il mito con

117
Ester Bianchi, Yamantaka: il vincitore della morte nel buddhismo tantrico cinese e tibetano, da
L’ira degli Dei, Indoasiatica 4/2006, Cafoscarina, Venezia, 2006.
118
René Guénon, La grande triade, ed. it. Adelphi, Milano, 1980.
Non può qui sfuggire il richiamo alle yogini che, come abbiamo visto, sono identificate con i
raggi/petali del mandala.
119
Il Nila Tantra o Brihad Nila Tantra è un testo di scuola kaula che tratta la Dea sotto uno dei tre
aspetti di Tara (Eka Jata, Ugra Tara e Nila Sarasvati) e precisamente come Nila Sarasvati, la
Sarasvati Blu zaffiro, sakti della divinità nel suo aspetto creativo legata alla conoscenza. Sotto
questo aspetto Ella è anche la Dea delle cinquantun lettere dell’alfabeto.
Nel XIII capitolo è descritta la vira sadhana di Mahhakali, il metodo dell’eroe, che prevede pratiche
sessuali, nonché i principi dello sveccacarya, il cammino della volontà individuale, che è una delle
pratiche centrali della scuola kaula.
120
Claudia Ramasso, Il tempio di Kamakhya e il culto delle Dasa Mahavidya, …..
448
8
quello di Kamakhya. Vasisthakund, sacro specchio d’acqua alimentato da tre
sorgenti, rappresenta dunque un potente tirtha in grado di garantire - secondo il
Kalika Purana - l’ottenimento del Cielo supremo per chi vi si bagni.

Tuttavia i due più importanti luoghi d’abluzione dell’Assam, Brahmakund e


Parsuramkund, si trovano ancora più a est, nell’estremo lembo di Bharat.
Brahmakund è la sacra sponda ove, dopo lunga penitenza, Parasurama terminò
d’espiare la colpa di matricidio e ottenne che l’ascia (parasu) gli si staccasse dalle
mani.121 Allora finalmente il Dio la scagliò distante da sé e questa andò a conficcarsi
in un’ansa del Brahmaputra proprio nel punto dove il fiume esce dal suo letto
montano per entrare nella piana dell’Assam, da allora conosciuto come
Parsuramkund.
A livello simbolico questi due tirtha appaiono particolarmente significativi poiché in
essi sono trasposte le due fasi del reintegro dell’individuo nell’Assoluto. In questa
prospettiva Brahmakund corrisponde infatti alla purificazione, al recupero dello stato
di Uomo vero, vira, o in termini iniziatici occidentali ai piccoli misteri, mentre
Parsuramkund, connotato dal parasu - che al pari del vajra è simbolo assiale e al
contempo strumento di sacrificio 122 - è il luogo attraverso cui si può trascendere il sé
giungendo allo stato di Uomo trascendente, divya, la via dei grandi misteri.
Tale visione trova conferma nelle indicazioni raccolte durante la missione VAIS 2008
dal brahmano deputato a presidiare ritualmente Parsuramkund.123 Secondo questa
autorevole fonte il tirtha rappresenterebbe non tanto una porta di passaggio oltre il
pralaya - funzione per tradizione svolta dal tempio di Jagannath a Puri - bensì un
punto che si pone oltre la manifestazione, in grado cioè di garantire a chi vi si
riconosce - e ne possegga le qualifiche - l’incardinamento all’asse che collega il polo
terrestre al polo celeste in una prospettiva di non ritorno e quindi di liberazione
ultima (moksa).124
121
Vi è un’evidente analogia con il kapala della quinta testa di Brahma che cadde dalla mano di
Bhairava una volta estinta la colpa di brahmanicidio. D’altra parte è superfluo soffermarsi sulla
relazione tra testa mozzata e parasu. Più significativo sottolineare come il completamento
dell’espiazione, e dunque il reintegro nello stato di perfezione, avvenga nel caso di Bhairava a
Benares in un sito noto come Kapalamocana (la liberazione dal teschio), un antico kund che viene
considerato il più importante smasana (campo di cremazione) di Varanasi in un’epoca precedente.
E’ evidente che ci troviamo ancora una volta di fronte a un tirtha, punto in grado di consentire il
passaggio oltre la ciclicità del tempo, funzione questa che, per estensione, viene tradizionalmente
riconosciuta all’intera città di Kasi.
122
Il parasu, come il vajra, trova rispondenza nell’ascia bipenne o più in generale nelle armi a
doppio taglio che rimandano ai due sepenti attorcigliati intorno al bastone o al caduceo come messo
in evidenza da René Guénon, Simboli della scienza sacra, ed. it. Adelphi, Milano, 1990.
123
Intervista raccolta nel corso della missione VAIS marzo-aprile 2008 in Arunacal Pradesh
coordinata dal prof. Gian Giuseppe Filippi.
124
Secondo la medesima fonte una uguale valenza è riconosciuta a Badrinath e Josimath, due
luoghi sacri al tantrismo saiva arroccati tra le montagne all’estremo nord dell’India.
Interessante osservare come Josimath rappresenti uno dei quattro math degli Sankaracarya, posti ai
quattro punti cardinali dell’India, e precisamente quello del nord. Il seggio dell’est si trova invece a
Puri in coincidenza con il tempio dedicato a Jagannath la cui murti, come visto in precedenza, è
449
9
Entrambi questi tirtha si trovano inoltre nei pressi della grotta ove si sarebbe
ritirato/nascosto lo stesso Parasurama che diviene così l’unico degli avatara a non
essersi riassorbiti nel Principio. Egli, incarnando il sacrificatore sommo tra le discese
di Visnu - tutte peraltro connotate da una evidente funzione sacrificale -, non ha
infatti esaurito il proprio mandato dovendo ancora trasmettere a Kalkin la conoscenza
dell’arte della distruzione affinché questi sia messo in grado di por termine al Kali
yuga.
Secondo la visione tantrica che indica una relazione sottile tra dasamahavidya e
dasavatara, Kalkin corrisponde a Tripurasundari la Dea immanente nei tre mondi,
pura conoscenza, SriVidya. La conoscenza diviene così sinonimo di liberazione,
liberazione dal ciclo universale in prospettiva macrocosmica, liberazione dal ciclo
delle rinascite in quella microcosmica.
Si ripresentano qui in chiave vaisnava - come a Kamakhya in funzione sakta - gli
elementi che adombrano il Centro supremo. La presenza di Parasurama in modo
‘inattivo’ in una grotta - luogo per eccellenza deputato a indicare ciò che è
ritratto/nascosto - in attesa che un’altra discesa, il Kalkin, si manifesti - e dunque
precipiti - nello stesso punto, conferma perciò la funzione di Parsuramkund quale
polo terrestre dell’asse cosmico.

Molteplici sono, come si vede, gli accenni a luoghi segreti/luoghi nascosti che a
diverso livello implicano la presenza in Assam di un centro tradizionale ritratto.
L’identificazione di Kamarupa come terra di ‘nascondimento’ ricorre anche nel
Mahabharata che pone nei dintorni di Hajo il ritiro dei Pandava durante l’ultimo
periodo del loro esilio nel regno dei Matsya.125
La storia dei Pandava si intreccia di nuovo con queste terre sulla riva nord del
Brahmaputra, nei pressi di Gauhati, dove si sarebbe bagnato il cavallo
dell’asvamedha di Arjuna durante il proprio viaggio rituale a ripercorrere l’orbita
solare.
Il tema del cavallo ricompare poco distante ad Asvakranta, sempre sulla riva nord del
Brahmaputra, considerato dallo Yogini Tantra il più grande dei tirtha, più potente di
Puskarana (Puskar, Rajasthan) e della stessa Ganga. Il mito vuole che Krisna abbia
qui riparato i cavalli delle sue armate prima di attraversare il fiume per uccidere il re

realizzata dallo stesso legno/Krisna/Visnu ‘inviato’ anche ad Hajo per realizzare l’immagine di
Hayagriva e Matsya le due funzioni ‘polari’ del ciclo. Tale traslazione, riflette in termini simbolici
lo spostamento del centro della tradizione tantrica vaisnava dall’Orissa all’Assam in preparazione
del pralaya.
Un simile prospettiva trova riscontro nel titolo Jagadguru ‘Maestro universale’ proprio degli
Sankaracarya, quando Jagannath – con titolo assimilabile - ne rappresenta la proiezione celeste in
qualità di ‘Signore dell’universo’.
125
Il simbolismo del nascondimento nella foresta si ripresenta anche in Orissa dove, nei pressi di
Bubanesvar, si trova un altro importante tirtha celato nella foresta dell’esilio di Rama. Non appare
casuale che questo nascondimento riferito all’Orissa avvenga in relazione a Rama, dunque in
un’epoca precedente a quella dei Pandava che sono invece legati alle vicenda di Krisna, il
successivo avatara di Visnu, andando così a confermare la traslazione del centro tradizionale
vaisnava dall’Orissa all’Assam.
550
0
Naraka - lo stesso la cui porta orientale del regno era guardata dal demone Hayagriva
- e porre suo figlio Bhagirath sul trono di Pragjyotisa.126
Il cavallo, creatura acquea, rimane dunque simbolicamente legato al tirtha e, al pari
della pioggia che sottende la discesa dell’influsso celeste - o in modo equivalente
della conoscenza -, funge anch’esso da agente di diffusione della conoscenza dal
cielo alla terra.
Tale funzione di collegamento del cavallo tra i due poli dell’asse cosmico si
ripresenta - come necessario - anche in senso opposto attraverso uno dei più
importanti rituali di sacrificio del mondo vedico, l’asvamedha, il sacrificio del
cavallo, che culmina con la risalita dello spirito dell’animale - sostituto del
cakravartin - lungo il palo sacrificale, l’asvattha, asse polare che consente la
fuoriuscita oltre il cielo delle stelle fisse identificando così il sovrano quale Uomo
trascendente.127 Il rituale contiene in nuce alcuni degli elementi tipici della tradizione
tantrica, elementi che risultano di tutta evidenza nell’accoppiamento sotto un drappo
della regina con il cadavere del cavallo - accoppiamento che deve avvenire proprio
nella notte di amavasya - ove ricorrono la funzione di psicopompo esercitata dalla
126
L’accenno al nome di Bhagirath rimanda al mito della Gangavatarana e costituisce in termini
simbolici un ulteriore richiamo al ripristino della conoscenza attraverso la discesa/liberazione delle
acque. Sulla funzione di Bhagirath nella primordiale discesa della Ganga, vedasi Guido Zanderigo,
La discesa del Gange semplice rappresentazione di un mito?, da I fiumi sacri, Indoasiatica 6/2009,
Cafoscarina, Venezia, 2009.
D’altra parte l’intero mito di Naraka (o Narakasura) - riportato in diverse versioni nel Kalika
Purana, nell’Harivamsa e nello Yogini Tantra - risulta estremamente allusivo fornendo ulteriori
riferimenti e conferme al particolare ruolo dell’Assam in ambito dottrinale tantrico. Naraka è infatti
figlio di Bhumi (la Dea-madre terra) e Visnu (sotto forma di Varaha) indicando già in questa
genealogia una duplice ascendenza tribale (si veda al proposito la nota n. 90 sulla sovrapposizione
di Bhumidevi con Matru-rupa/Yellamma e Renuka) e brahmanica in relazione alla conoscenza
nascosta. Appena nato, egli viene abbandonato in una posizione assai emblematica, e cioè con il
capo poggiato su un cranio, nel campo di cremazione del re Janaka e da questi raccolto e allevato.
Solo a a sedici anni Naraka scopre l’identità del proprio vero padre, Visnu, confermando i sedici
anni quale età in cui l’individuo (ri)nasce al vero sé. Assistito da Visnu egli strappa quindi il regno
ai Kirata del re Ghatakasurae e diviene sovrano di Pragjyotisa (che in questa accezione risulta
dunque la proiezione del regno celeste in terra) a patto di offrire la propria devozione a Kamakhya.
Naraka però si invaghisce della Dea e viene da questa respinto con l’inganno poiché, dopo aver
promesso di concedersi a lui se fosse stato in grado di erigere in una notte un tempio in suo onore, a
costruzione pressoché ultimata anticipa il canto del gallo in modo da interrompere la notte prima del
tempo. Il successivo venir meno della devozione del Re a Kamakhya, abbandonandosi alla mercè di
idee demoniache (asuram bhavamvadya) che si manifestano sotto forma di una sorta di
possessione, condurrà inevitabilmente Naraka alla rovina e alla morte per decapitazione a opera del
suo stesso padre (sotto le spoglie di Krisna). Si riconosce in questo racconto una conferma al forte
legame della tradizione vaisnava con Kamakhya nonché il continuo intreccio tra eros e thanatos nel
rapporto con la Dea, un intreccio che il praticante-vira deve saper mantenere nella corretta
prospettiva pena la propria completa rovina.
127
L’asvamedha presenta molti altri spunti significativi ai fini del presente studio. Ci limiteremo
qui a ricordare che esso si celebra dopo il riconoscimento di un cakravartin (il sovrano universale,
letteralmente ‘colui che fa girare la ruota’) e che questi durante il rito vajapeya sale in cima al palo,
ove è fissata una ruota - che rappresenta la cintura zodiacale - e si sporge al di sopra di essa essendo
ormai in grado di guardare oltre il cerchio delle stelle fisse.
551
1
donna/dea/prakriti, il tema dell’utero/caverna quale luogo di morte e rigenerazione,
della notte che come un drappo copre il cielo e scandisce i momenti di
cessazione/annullamento nel ciclo delle manifestazioni e quello del risveglio di
kundalini dal muladhara cakra per compiere la sua risalita lungo il Merudanda.
Tale visione è ripresa nel Satapatha Brahmana ove si afferma che l’asvamedha è la
luna stessa, metafora della Dea o della coppa del soma, bevanda di conoscenza e
immortalità. D’altra parte, a conferma della funzione del cavallo nella trasmissione
della conoscenza, basti ricordare come Kalkin - connotato dal suo bianco destriero - e
Hayagriva - divinità dalla testa di cavallo - siano legati alla ritrazione e restituzione
del Veda da un ciclo all’altro.
E il ternario cavallo/devi/conoscenza trova esplicito riscontro in ambito vajrayana
ove il verso che sgorga dalla gola di Dorje Pagmo è assimilato al nitrito di Hayagriva
che incarna la lingua della conoscenza di tutti i Buddha.

Ulteriore accenno a tale identità è contenuto nel mito vedico di Dadhyanc, il rsi cui
Indra rivelò due dottrine segrete con il divieto di divulgarle, pena il taglio della testa.
Dadhyanc, però, le trasmise agli Asvin - i gemelli solari - e da questi si tramandarono
agli uomini nel segreto degli insegnamenti maestro-discepolo. Tali dottrine
‘principiali’ sono la Pravargya vidya - e cioè la scienza di come si installa una nuova
testa al corpo decapitato dal sacrificio - e la Madhu vidya, la scienza del miele,
sublime forma di conoscenza che porta alla liberazione.128 Gli Asvin trovarono però il
modo di eludere il divieto di Indra ottenendo prima la Pravargya vidya, subito
utilizzata per decapitare il rsi e sostituire la sua testa con quella di un cavallo. Sotto
questa nuova forma equina Dadhyanc trasmise loro l’insegnamento più elevato - la
Madhu vidya - e quando Indra gli inflisse l’annunciata punizione, gli Asvin andarono
a recuperare la testa originale del guru e gliela riposero sul collo.
Oltre a riaffermare il cavallo come veicolo di trasmissione di conoscenza, il mito
rimanda dunque al tema del sacrificio per decapitazione e al ripristino/sostituzione
della testa similmente a quanto accaduto nel caso di Renuka.129
La storia propone però un seguito altrettanto centrale ai nostri fini. Una volta
terminata la propria vita mortale, Dadhyanc si ritirò in cielo e da quel momento le
forze asuriche presero a spadroneggiare sulla terra. Indra, preoccupato, cercò
inutilmente il rsi ed edotto sulla sua dipartita, decise di recuperare parte del suo corpo
per farne l’arma con cui sconfiggere gli antidei. Trovò così la testa di cavallo che
giaceva nascosta, in attesa della fine dei tempi, sul fondo del lago Saryanavat nella
piana di Kuru (il luogo ove sarebbe poi avvenuta la battaglia finale del Mahabharata)

128
Gian Giuseppe Filippi, La dolcezza del sapere: Madhu Vidya, Leo Olschki Editore, Firenze,
1996.
129
La sostituzione della testa torna anche in un altro mito fondamentale dell’induismo, quello
riferito all’installazione di una testa di elefante sul figlio di Siva, Ganesa, a sua volta legato alla
trasmissione della conoscenza iniziatica.

552
2
- o secondo un’altra versione in un lago sulla montagna Saryanavat 130 - e con l’osso
della mascella potè sterminare i novantanove Vrtra.131
Oltre al richiamo a Varaha, che si immerge nell’oceano primordiale per recuperare
Bhumidevi, la terra, metafora della conoscenza nascosta, il mito offre una serie di
richiami in cui si riassumono in modo sintetico tutti gli elementi caratterizzanti
Parasurama e Kalkin, i due avatara vaisnava che presiedono alla dissoluzione ultima

130
Wendy Doniger O’Flaherty, Dall’ordine il caos, ed. it. Guanda, Parma, 1989.
131
Il mito presenta notevoli parallelismi con quello di Sansone, dodicesimo Giudice d’Israele.
Questi è una figura assai singolare che sfugge i parametri classici di misericordia e giustizia degli
eroi biblici come ben testimoniato in un episodio ove Sansone, persa una scommessa, 'investito
dallo spirito del Signore discese ad Ascalon, vi uccise trenta uomini, tolse loro le vesti che avevano
e così potè dare le trenta vesti a coloro che avevano risolto l'enigma.' (Giudici 14, 19)
Egli sembra perciò incarnare il ruolo di sacrificatore, ove il sacrificio, lungi dal costituire oblazione
rituale, corrisponde piuttosto all'imperscrutabile furia del divino (... investito dallo spirito del
Signore ...) - furia di distruzione e rigenerazione - secondo una logica che non appartiene al mondo
ebraico. Si tratta qui del sacrificio gratuito, un sacrificio che, alla fine, giunge a sacrificare sé stesso.
La figura di Sansone nasconde pertanto un tratto arcaico, un rimando per quanto incompleto a un
diverso ordine tradizionale.
Venendo alle convergenze con il mito indiano, similmente a Indra, Sansone utilizza la mascella di
un animale - in questo caso un asino e non un cavallo (e non è questo il luogo per dilungarci sul
significato simbolico dei due animali) - quale arma per sterminare mille Filistei. Si tratta della più
cruenta tra le gesta dell’eroe biblico e i mille Filistei - al pari dei novantanove Vrtra massacrati da
Indra - rappresentano la moltitudine indeterminata, quasi l’indicazione d’una intera categoria come
nel caso dello sterminio degli ksatrya da parte di Parasurama. Gettata quindi la sua arma in un
luogo noto come Ramat-Lechi (colle della mascella), Sansone preso da gran sete (l’arsura del sole
veicolo di morte) invoca il Signore che lo esaudisce creando un foro in un avvallamento del colle da
cui prende a sgorgare dell’acqua. La pozza sul colle del Ramat Lechi ripresenta così il tema del lago
sulla montagna ove giace la mascella di Dadhyanc.
Se poi Indra è dio per eccellenza della dinastia solare, Sansone in ebraico, significa Sole mentre
Dalila, sua moglie, contiene la radice del termine ‘notte’. Ma come visto pocanzi, egli più che un
sole dispensatore di vita è piuttosto il solleone, il sole che arde e incenerisce, il sole del fuoco
sacrificale.
Al pari di Manu, che nasce da una ‘donna identica’, immagine della vera moglie di Vivasvat (il
Sole), anche Sansone ha genealogia miracolosa essendo concepito per intervento divino da una
donna sterile il cui marito si chiama Manoach, un nome in cui si può riconoscere una corruzione di
Manu. E l’annuncio delle sua nascita avviene attraverso un Messaggero divino che poi risale al
cielo nella fiamma del sacrificio offerto dallo stesso Manoach.
Ma forse lo spunto più significativo è costituito dal passo in cui egli sfida gli invitati della sua
futura sposa a risolvere l’enigma: ‘Da colui che mangia è venuto fuori cibo. Dal forte è uscito
qualcosa di dolce.’ (Giudici 14, 14) La risposta, che entro i sette giorni richiesti viene ottenuta con
l’inganno (come con l’inganno gli Asvin ottengono di eludere la punizione di Indra per ottenere la
conoscenza) suona così: ‘Che cosa è più dolce del miele? E che cosa più forte del leone?’ Si
intravede qui dunque un accenno, per quanto corrotto, alla fuoriuscita di amrita dal corpo decapitato
di Chinnamasta, nonché alla duplice conoscenza di Dadhyanc: la Madhu vidya, scienza del miele, e
la pravargya vidya, la scienza della sostituzione della testa nel sacrificio perfetto. E sarà proprio
quest’ultima a essere utilizzata da Sansone una volta rasato (decapitato) per far ricrescere i capelli (i
raggi solari) e riacquisire i poteri del sole-leone (cosa è più forte del leone?) per compiere la
distruzione finale.
553
3
e che stanno al centro del simbolismo assiale di Parsuramkund.132 E infatti i due
laghi/tirtha in cui si cela la testa del cavallo - uno nel Kuruksetra, luogo che
determina la fine del dvapara yuga e dunque l’inizio del successivo kali yuga, e uno
sulla cima della montagna (sostituto simbolico della caverna) - sono ancora una volta
il riflesso del Centro supremo dove si nasconde l’arma (o in modo equivalente il
maestro d’arme Parasurama) che porterà al pralaya.133 Questo inusuale strumento di
morte - sostituto del vajra, la folgore, arma abituale di Indra o che in altri termini
costituisce la materia da cui questa è stata forgiata - altro non è allora che la
conoscenza stessa in grado di superare la fine apparente dell’universo sconfiggendo
la morte. Né va trascurata la corrispondenza sottile tra l’insegnamento del sacrificio e
della successiva sostituzione della testa - che rende perfetto un rituale altrimenti
inefficace - con morte iniziatica e rinascita nella conoscenza.
Eppure tutto ciò risulta solo una preparazione, la porta stretta da attraversare per poter
giungere alla vera ambrosia offerta da Dadhyanc, Madhu vidya, l’insegamento ultimo
in grado di schiudere la via a moksa. Qui si svela allora il simbolismo tantrico della
coppa ricavata dalla calotta cranica, coppa che contiene la conoscenza stessa,
bevanda d’immortalità. Questo è il fine del rituale, questo è il significato recondito
dei kapala esibiti dalle yogini.

Una simile visione si riverbera nella funzione degli Asvin, medici degli Dei che
incarnano i poteri taumaturgici dell’Ayurveda - e dunque di nuovo il potere sulla vita
e sulla morte -, caratterizzati proprio dal miele e da una testa equina. Anche Soma
come divinità vedica, è considerato in grado di guarire e la Soma vidya, la scienza di
cui sono dotati gli Asvin, risulta così equivalente alla Madhu vidya.
Ancor più significativa è la relazione tra gli Asvin e le nadi ida e pingala,
corrispondenti ai due fiumi Ganga e Yamuna, mentre Sarasvati/susumna rappresenta i
gemelli nella loro sintesi o, in altri termini, lo stesso Dadhyanc che dopo essere stato
decapitato ‘sfama’ gli Asvin con il nettare/sapienza della Madhu vidya. Ritorna qui la
struttura simbolica incontrata nell’iconografia di Chinnamasta, la mahavidya
autosacrificatasi per sfamare le due ancelle/yogini Jaya e Vijaya. Anche in quel caso
la decapitazione garantiva il libero fluire delle tre nadi, equivalente all’emergere di
amrita/soma, cibo d’immortalità che schiude la rinascita nella conoscenza.
Se, sotto questo profilo, gli Asvin si rispecchiano in Chinnamasta, molte altre sono le
evidenze di una loro contiguità con la potenza della sakti di cui è possibile trovar
traccia già nel RgVeda.134 Tale contiguità diviene esplicita nell’invocazione contenuta
in RV VII.67.5: ‘Garantite a noi un forte spirito in battaglia e con la vostra Sakti, o
Signori della Sakti, proteggeteci’.

132
Il collegamento di Dadhyanc a Parasurama - e dunque a Renuka di cui evidentemente condivide
la stessa funzione - si conferma nella sua appartenenza alla stirpe dei Bhargava - i discendenti del
grande rsi Brighu - discendenza che egli ha in comune con Jamadagni e Parasurama.
133
Val la pena accennare come tale rappresentazione simbolica trovi una corrispondenza anche in
ambito tradizionale occidentale nella spada Excalibur - ancora una volta un’arma a doppio taglio -
nascosta nel lago (lago che funge da dimora della Signora del lago, e quindi una yaksini).
134
RgVeda I.34.8, II.39.5-6-7, VI.63.5, VII.67.5 e VII.68.3.
554
4
La funzione degli Asvin si sposta dunque su un terreno più sottile, un terreno ove il
potere esercitato su malattia/guarigione si sublima nella potenza che vivifica la
conoscenza alchemica dell’ayurveda e allude alla trasmutazione del corpo per farne
strumento di realizzazione. Per questo essi sono chiamati mayanas o Signori di maya
(l’illusione), uno degli epiteti della Dea, o coloro che raggiungono Sri - il benessere,
altro richiamo alla Devi e a soma - attraverso sachi, termine femminile chiaramente
asociato a sakti che nel RgVeda denota i poteri delle divinità.
Ed è proprio in questa loro signoria sui poteri dello yoga - signoria che si evidenzia in
manas, la mente, auriga del loro carro, metafora del corpo alchemico 135- che gli
Asvin tratteggiano fin dall’età vedica un riferimento a quel complesso tradizionale
che successivamente confluirà nei siddha e nelle scuole tantriche di epoca medievale.
La stessa valenza si ripropone nella loro essenza di gemelli, cifra del doppio che si
declina in complementarietà o sintesi, trovando riscontro in altre coppie che replicano
su diversi piani il medesimo simbolismo.
Gli Asvin sono così i due occhi la cui vista si trasfonde nel terzo occhio, occhio di
conoscenza, noto anche come bindu. Essi sono udana-vayu e apana-vayu, i soffi
ascendente e discendente che si fondono nel samana-vayu, lo stato di calma della
respirazione e della mente che è noto come samadhi yogica. Essi sono Yamuna e
Ganga che confluiscono nel fiume sottile Sarasvati. Essi sono Skanda e Ganesa il cui
principio è Siva stesso. Essi sono i rsa Agastya e Vasistha, le ancelle di Chinnamasta
Dakini e Varnini, i fratelli divini Balarama e Krisna. Essi sono il fuoco Agni e la luna
Soma o, ancora, Mitra il sole e Varuna le acque 136 che nell’unione Mitra-Varuna
rappresentano lo stato supremo dello yoga, altrimenti detto Soma-loka, Satya-loka,
sahasrara cakra o loto dai mille petali reame dell’immortalità.

Il mito di Dadhyanc trova infine un’interessante assonanza con quello degli asura
Madhu e Kaitabha che avevano rubato il Veda nascondendolo sul fondo dell’oceano.
Visnu, sotto forma di Hayagriva (sua ipostasi dalla testa equina), interviene
sconfiggendo i due demoni e recuperando il Veda. Oltre l’allusiva denominazione di
Madhu e Kaitabha - il cui significato è, rispettivamente, miele e larva d’api e che si
ricollega dunque alla Madhu vidya, come ben messo in evidenza da Gian Giuseppe
Filippi 137 - il mito appare significativo per quanto osservato a proposito
dell’occultamento del Veda sul fondo dell’oceano, chiaro riferimento al vajra/testa di

135
RgVeda VII.69.2.
136
Agni, Mitra, pingala, sole e fuoco sono associati al principio maschile e al manipura cakra posto
sopra l’ombelico; al contrario Soma, Varuna, ida, luna e acque sono associati al principio femminile
e al svadhisthana cakra posto nella regione dell’ombelico. Proprio quest’ultima posizione richiama
in termini microcosmici quella di Chinnamasta e si ricollega a quanto diremo appena più avanti
sulla corrispondenza degli sakti pitha con alcuni centri tradizionali dell’Assam.
137
Gian Giuseppe Filippi, La dolcezza del sapere: Madhu Vidya, Leo Olschki Editore, Firenze,
1996.
555
5
cavallo celato nel lago Saryanavat, che ripropone le equivalenze simboliche vajra-
conoscenza, rappresentata qui dal Veda, e quella soma-decapitazione sacrificale.138

Se dunque la conoscenza sottile/nascosta è in relazione con devi e yogini, a essa


sembra rifarsi il toponimo Devikota, Devikotta o Devikuta (il villaggio della Devi),
luogo mitico nascosto ai bordi dell’Assam.
Il Devirahasya 139 inserisce Devikuta tra gli otto luoghi sacri corrispondenti agli otto
petali (bhairava) del loto. Gli altri petali sono in questo caso Kamarupa, Malaya,
Kaulagiri (la collina dei Kaula), Cauhara, Kulantaka, Jalandhara e Oddyana.
Una simile prospettiva identifica i diversi pitha e le Devi che li presiedono, ove
Mahalkasmi - sinonimo di Tripurasundari - risulta attestata a Devikota.
Virupa, grande mahasiddha di scuola vajrayana del VI-VII secolo, noto come
‘maestro delle dakini’, compì alcuni dei suoi miracoli a Devikotta, un romitaggio
nascosto nel profondo delle foreste tra Bengala e Orissa.
Devikuta si ritrova poi nel Kalika Purana come uno dei sette pitha della Devi
assieme a Uddiyana - terra natale di Padmasambhava - che alcune fonti fanno
corrispondere all’Orissa, Jalandhara (il maha-moksa-dvaraand ‘la grande porta della
liberazione’ collocata nella gola della Dea) 140, Purnagiri, Kamagiri (Kamakhya) e
altri due pitha descritti come ‘ai confini’ di Kamarupa nei quali cadde la testa - forse
un riferimento alla testa di Renuka che rotolò lontano dal corpo finendo in una zona
di sabara intoccabili - e l’ombelico della Devi.
Qui i sette pitha rimandano ai sette cakra del corpo della Dea ed è interessante notare
come ben tre di essi si concentrino in Assam e probabilmente due in Orissa. Altrove
Uddiyana - o Oddiyana - più che a un toponimo geografico sembra alludere alla terra
delle odiyya, sciamane e yogini dotate di grandi poteri e oscure conoscenze ribadendo
così l’intercambiabilità in termini simbolici tra yogini e cakra.141
Infine, dei due pitha/cakra ‘ai confini di Kamarupa’ uno potrebbe collocarsi in area
tribale tra le colline pedemontane dell’Arunacal ove effettivamente si trova Akasi

138
Un’ulteriore equivalenza simbolica può essere tratteggiata con il mito della Gangavatarana, la
discesa del Gange sulla terra, che è introdotto da un episodio in cui il cavallo che doveva essere
sacrificato nel corso dell’asvamedha organizzato dal re Sagara (Oceano) venne rapito da Indra e
nascosto sul letto secco dell’oceano, in fondo al patala loka accanto al romitaggio di Kapila. Del
suo recupero venne in seguito incaricato il nipote di Sagara, Suman, che rappresenta la retta
considerazione. Per ulteriori dettagli vedasi Gian Giuseppe Filippi, L’incompiuto di Mamallapuram,
......
139
Il Devirahasya Tantra (tantra del segreto della Devi) - noto anche come Daksinamurti Samhita -
è un testo tecnico che tratta quasi esclusivamente di mantra, yantra, puja e sadhana dei differenti
aspetti della Dea.
140
Jalandhara, non a caso, è anche il nome d’un re asura nato dall’incontro del raggio emesso dal
terzo occhio di Siva con l’oceano. Egli utilizza proprio Rahu, l’eclissi, per mandare a Siva stesso la
richiesta di ottenere per sé la dea Parvati. E’ evidente anche in questo mito un intreccio di molte
delle allusioni allegoriche fin qui incontrate.
141
Oddiyana o Uddiyana, terra natale di Padmasambhava, secondo la tradizione vajrayana viene
identificata con la mitica Sambala, il regno della ‘Terra pura’ citato in numerosi testi tra cui il
Kalacakra Tantra.
556
6
Ganga, che la tradizione locale indica come la testa della Devi e che, in modo
allusivo, si trova proprio all’imbocco della valle che conduce al Pemako.142
Resterebbe da definire il sito dello sakti pitha corrispondente all’ombelico - che il
testo indica comunque nella parte est dell’Assam -, ma a fronte di quanto finora
esposto sulla funzione di Parasurama quale maestro della dottrina della Devi e
dunque principio, ombelico di conoscenza, nonché la sua analogia con
Chinnamasta/Renuka, posta a livello microcosmico proprio nell’ombelico, non
sembra azzardato metterlo in relazione con il tirtha di Parsuramkund all’estrema
propaggine orientale dell’Assam. Tali equivalenze si ripresentano, peraltro, anche in
senso opposto in quanto, secondo l’Abhidhanottara Tantra,143 la dea
Vajrayogini/Vajravarahi corrisponde all’ombelico, mentre Parasurama/Renuka
rimanda alla testa decapitata della Dea e dunque allo scoperchiamento dello
sahasrara cakra. Da ciò discende l’indifferenza delle due posizioni che pertanto
proiettano il medesimo significato simbolico a seconda che il punto di vista preso in
esame sia quello tantrico vajrayana o hindu. Rimane salvo l’orientamento della Devi
che presenta la propria yoni manifesta a Kamakhya, al margine occidentale
dell’Assam, allungandosi poi su tutta Kamarupa e distendendo la testa a est. Si torna
così, in termini di geografia sacra, a quanto già sottolineato sulla posizione delle
yogini all’interno dei mandala-cakra ove esse si dispongono come raggi andando a
poggiare i piedi sulla circonferenza - metafora del mondo del molteplice - e
protendono il capo verso un centro sottile - origine, motore immobile dell’universo -
che allude a una ritrazione, a un riassorbimento verso il centro principiale ai margini
orientali di Bharat.144

Questi temi tornano a riannodarsi in prospettiva vajrayana, nel cui ambito offrono - e
non potrebbe essere diversamente - equivalenti simboli e chiavi di lettura. In tal modo
Devikota, nella geografia sacra del Pemako, è il luogo dove si colloca la yoni di
Vajravarahi/Dorje Pagmo, lo yang-sang-né, il punto più segreto, l’ultimo cakra della
Dea non ancora rivelato. Quella Vajravarahi che incarna la forma esoterica della
Devi, trasposizione della conoscenza segreta che schiude la strada alla realizzazione,
quella Vajravarahi il cui consorte nell’unione mistica è Hayagriva, lo stesso che da
una parte dà voce alla lingua di conoscenza di tutti i Buddha e dall’altra funge da
demone a guardia della porta orientale del regno di Pragjyotispur/Assam.

142
Akasa, l’etere, il più elevato dei cinque elementi, è quello che sta all’interno del cuore, centro
dell’essere umano, ripresentando così un’indicazione di centralità nella geografia sacra dell’Assam.
143
L’Abhidhanottara Tantra è un testo tantrico di tradizione buddistha vajrayana. In esso sono
contenute due liste che riportano ciascuna una serie di sette yogini dedite dell’iniziazione (Yamini,
Trasini, An-eka-kama, Rupi-sancala, Bhasura, Dakini e Rupioka, Cumbika, Lama, Paravrtra,
Savalika, A-nivartika, Ehiki-devi).
144
D’altra parte riprendendo il mito di Renuka - che abbiamo visto essere in stretta relazione con
questi luoghi - troviamo un passo ove si precisa come ella, dopo essere stata ripudiata dal marito
Jamadagni, si sia recata in una foresta ‘a est’ per dedicarsi al tapas riproponendo così il tema di un
luogo selvaggio posto a Oriente ove è possibile il ripristino dello stato principiale.
557
7
Qui il nascondimento si rinnova nel nome Padmasambhava, il maestro che portò gli
insegnamenti del buddhismo in Tibet mettendo sotto controllo tutte le influenze
psichiche che infestavano quella terra. In Tibet il grande maestro si unì a tre donne:
Tashi Chidren una Monpa (popolo con funzione di guardiano della soglia), Dorje-tso
e Yeshe Tsogyal - nota anche come Dechen Gyalmo - principessa della casata del re
Karchen. Proprio Yeshe Tsogyal fu anche sua discepola e insieme provvidero
all’occultamento dei ter-ma rivelatori dei luoghi segreti (beyul) di cui il Pemako, a
detta dello stesso Padmasambhava, è il più pericoloso e il più straordinario di tutti,
‘un regno celeste sulla terra’.145
Nel ter-ma rivelato da Dudrul Dorje e intitolato Autoliberazione tramite l’ascolto
della grande, beata terra del Pemako, Padmasambhava spiega quali siano le
condizioni per dischiudere questa terra nascosta:

In un’epoca futura gli eserciti invaderanno il Tibet da est e da ovest.


Per beneficiare i sofferenti tibetani io, Padmasambhava,
ho preparato le terre nascoste.
Tra le molte valli nascoste la più straordinaria è la grande, beata terra del Buddha
del Pemako.
Il solo fatto di ricordarla per un attimo apre il cammino verso la Buddhità.
Non c’è bisogno di parlare del beneficio di andarvi realmente…
Molti tipi di samadhi sorgeranno spontaneamente dalla mente…
I canali della saggezza si apriranno…
Io, Padmasambhava, e un oceano di siddha e dakini, nonché divinità pacifiche e
irate, potremo essere visti direttamente…
Lì cresce una miracolosa ‘erba di potere’; chiunque trovi e mangi di questa pianta,
persino se è vecchio, diventerà come un sedicenne…
C’è un’erba chiamata tsakhakun; chiunque mangi di quell’erba può avere visioni di
vari regni celesti e inferi.146

Secondo Khamtrul Rimpoche, cinque sono le supreme erbe magiche presenti nel
beyul Pemako: una per accrescere la felicità, una che regala l’immortalità, una che
consente di volare attraverso il cielo come le dakini, una che concede tutte le siddhi
supreme e una che rivela l’intrinseca realizzazione.147 Ci troviamo ancora una volta di

145
Per la scuola nimapa, Yeshe Tsogyal è la più importante delle dakini, incarnazione della stessa
Tara. In questa veste ella è assimilata a Vajravarahi, madre dei Buddha e sorgente delle altre dakini
‘innumerevoli come i granelli che costituiscono il monte Meru’.
Nel rituale del Chod la principale divinità che funge da supporto meditativo è proprio Yeshe
Tsogyal, che qui prende il nome di Troma Nakmo, la Dakini nera, Nera Madre del vajra. Ella
rappresenta il metodo rivelato dal siddha e ter-ton Dudjom Lingpa Dudjom Lingpa, del lignaggio di
Khyeuchung Lotsawa, uno dei venticinque principali discepoli di guru Padmasambhava, che aveva
anche svelato il dharma agli uccelli (ulteriore richiamo alle yogini/dakini).
146
Traduzione da Ian Baker, Dietro le cascate, ed. it. Corbaccio, Milano, 2006.
147
Ian Baker, Dietro le cascate, ed. it. Corbaccio, Milano, 2006.
558
8
fronte a sostanze che evocano il potere di trasformazione, una trasformazione che si
accompagna all’esperienza del pellegrinaggio in questi luoghi straordinari.
E, tra tutti i pellegrinaggi possibili nei cakra di Vajravarahi/Dorje Pagmo, tre sono le
circoambulazioni (kora) che ne avvolgono lo yang-sang-né. Qui, alla sommità di
un’isola al centro del fiume Yang Sang, la geografia sacra della yoni della Dea prende
le forme di quattro grotte corrispondenti alle quattro direzioni. Nella grotta più alta
sgorgano due sacre sorgenti, una di acqua di vita (tshe-chu) e una di nettare di vita
(tshe-chang).148 Le quattro grotte sono contornate da otto cimiteri attorno cui
risiedono settecentoventicinque divinità. Infine, a coronamento di questo sacro
monte, accanto al piccolo gompa di Devikota, si trova il seggio di Padmasambhava,
ter-ma rivelato da Dudjom Lingpa, il luogo da cui, secondo lo stesso Guru Rimpoche,
sarà rigenerata la nuova umanità dopo il pralaya.

Se dunque in Orissa i riferimenti alla Dea, a Jagannath e quindi al grande tema del
rapporto dell’uomo con il trascendente si pongono in modo esplicito, gli stessi
riferimenti trovano riscontro in termini misterici nelle propaggini più orientali di
Kamarupa.
In Orissa vi sono le vestigia dei templi delle yogini, ma è a Kamakhya che esse sono
ancor oggi adorate.
Kamakhya è l’evidenza della Devi nel Kali yuga, la sua yoni bagnata di sangue, nera
notte di dissoluzione, rientro nel grande utero, bocca di morte e soglia di liberazione
attraverso le pratiche tantriche più segrete ed estreme.
Hajo è l’orma di Hayagriva, ipostasi del Kalkin, deva o asura a seconda della
prospettiva, intronato in un santuario hindu sacro anche al buddhismo vajrayana,
tratto dallo stesso tronco che ha dato sostanza a Jagannath. Ma quel tronco altro non è
se non lo scheletro di Krisna che torna dalle acque diluviali per reggere una nuova
manifestazione e dunque, se Jagannath è colui che traghetta l’umanità da un ciclo
all’altro, Hayagriva/Kalkin ne scandisce inizio e fine.
Se Puri rappresenta allora il seggio ‘esteriore’ di Jagannath, attraverso richiami più
velati Kamarupa ne custodisce la presenza ritirata in questo scampolo estremo di Kali
yuga.
A Devikota vi è il seggio nascosto di Padmasambhava che, come Jagannath, presiede
la porta di passaggio da un ciclo all’altro, da un’umanità alla successiva.
Là è il gran smasana del Pemako, la yoni non ancora rivelata di Dorje Pagmo,
proiezione di Sambala oltre questo tempo.
Là, all’estremità orientale dell’Assam, è il tirtha di Parsuramkund, taglio nella
montagna per consentire il fluire delle acque nel sacrificio cosmogonico
principiale.149

148
Sull’equivalenza simbolica delle due sorgenti con la fuoriuscita di acqua e sangue dal costato del
Cristo vedasi Gian Giuseppe Filippi, La cerca del San Graal e il suo significato, ……..
149
A capo Comorin, all’estremo sud dell’India, vi è un importante sakti pitha dedicato a Bhagavati
Kanyakumari. La tradizione vuole che la murti sia stata ivi posta da Parasurama che, con un colpo
d’ascia nel mare, reclamò la terra per il tempio. Qui, come a Parsuramkund, ci troviamo dunque di
fronte a colpi d’ascia nelle acque che aprono e chiudono la terra sacra dell’India.
559
9
Là la grotta ove Parasurama si è ritirato in attesa del pralaya.
Là il monte da cui scenderà il Kalkin per compiere l’estremo sacrificio.

Il ternario della conoscenza

Il continuo riannodarsi di tutti questi elementi ci fa intuire una complessa costruzione


simbolica che investe trasversalmente l’India fin dall’epoca arcaica, filtrando nei
rituali vedici come nei culti tribali di villaggio, fino a permeare di sé il mondo
tantrico medievale.
Tale costruzione simbolica nasconde le chiavi - tecniche e rituali - per consentire
all’uomo di superare l’eterna ansia di riunirsi al Principio dando senso e termine alla
propria esistenza.
Ma per completare il quadro e riportare tutto ciò al filo conduttore dello studio, per
poter afferrare la funzione delle yogini nel labirinto del tantra, è necessaria ancora
un’annotazione sulla struttura tripartita della conoscenza che trova nelle dottrine
esoteriche della Devi il proprio ricettacolo più espressivo.
L’invocazione dei mille nomi della Dea contiene tre affermazioni illuminanti al
riguardo: ‘Tu sei l’incarnazione della conoscenza. Tu sei la padrona dei Tantra. Tu
sei la luce nel triangolo’ essendo proprio quest’ultima a indicare nel triangolo la
trasposizione geometrica per eccellenza del simbolismo ternario.
Da triangoli è costituito infatti SriYantra, il supporto più elevato per definire tutti i
livelli che dal molteplice riconducono all’Uno. Diverse combinazioni di triangoli
formano gli yantra utilizzati dai sadhaka nelle loro pratiche di meditazione fino al più
essenziale intersecarsi di un triangolo dal vertice in alto con uno dal vertice in basso
completati da un punto nel mezzo a riassumere in termini sintetici l’intera
manifestazione e il suo Principio.
Due sono i triangoli - Traipura e Kamakala - che aprono e chiudono il merudanda,
l’asse sottile del corpo umano, proiezione in termini microcosmici dei due poli
dell’asse cosmico. Alla base della colonna vertebrale i tre lati di Traipura sono
presieduti dalla triade Jyestha, Vama e Raudri personificazioni di volontà,
conoscenza e azione. In esso risiede Tripurasundari nella forma del bija mantra
‘klim’, kundalini arrotolata su sé stessa prima del suo risveglio. Ed è proprio la forma
ofidica di kundalini - assieme alla presenza di Jyestha che suggerisce in modo
esplicito un collegamento con Sitala/Manasa - a indicare un richiamo alla Sarpa
vidya.
All’altro capo del merudanda sta Kamakala, triangolo supremo, dimora di Sakti
dispiegata nella sua potenza, colei cui si giunge attraverso Madhu vidya e che offre
accesso alla scienza suprema, SriVidya.

Altri ternari si declinano in volontà (icca), conoscenza (jnana) e azione (kriya) - le tre
potenze di Sakti - ovvero la triade epistemologica conoscitore (jnatr), conoscenza

660
0
(jnana) e conoscibile (jineya) o, ancora, le tre fasi del processo cosmogonico
creazione (srsti), preservazione (sthiti) e riassorbimento (samhara).
Devi è poi Saccidananda, riassumendo in sé essenza (sat), coscienza (cit) e
beatitudine (ananda).
La stessa dea Kamakhya, la cui murti aniconica è ospitata nel garbha grha
sotterraneo del tempio, è venerata sotto tre forme: Sodasi, Kamala e Matangi tre
mahavidya che si identificano con Durga, Laksmi e Sarasvati, devi-sakti di Siva,
Visnu e Brahma.150
Bindu, il punto centrale di SriYantra, è detto traya, triplice, e infatti simboleggia le
tre divinità Kamesvara, Kamesvari e Tripura, la cui espressione antropomorfa è
costituita dai due seni e dal viso della Dea 151 o - in termini cosmici - sole, luna e
fuoco di consapevolezza.152
Il nome stesso di Tripurasundari ripropone la medesima metafora e trova traduzione
come ‘Dea delle tre città’ a indicare le tre diverse vie di salvezza, Sarpa vidya,
Madhu vidya (o in altri termini Pravargya vidya) e Sri Vidya, il ternario della scienza
tantrica, i tre livelli su cui deve inerpicarsi il praticante per giungere alla liberazione
(moksa).
Con un’interpretazione ancor più significativa, Tripurasundari è tradotta come ‘Dea
anteriore ai tre’, quella cioè che viene per prima e dunque colei che trascende i tre,
dove i ternari di riferimento possono essere le tre ipostasi divine - ossia Brahma,
Visnu e Siva/Rudra -, i tre Veda, i tre fuochi sacrificali, i tre stati di coscenza - veglia
(jagarita-sthana), sonno (svapna-sthana), sonno profondo (susupta-sthana), - i tre
tempi - passato, presente, futuro -, le tre qualità costitutive (guna) - sattva, rajas,
tamas - o infine colei che risiede nei tre canali (nadi) dell’energia - ida, susumna e
pingala -.153

Tutti questi ternari si raccordano simbolicamente al tridente (trisula) di Siva, la cui


asta (danda) funge da asse, quarto elemento sottile che proietta un livello di
conoscenza al di là della consapevolezza ordinaria. Essi racchiudono perciò, in modo
sintetico, molti degli elementi posti alla base del pensiero indiano che, per
implicazioni simboliche e complessità dottrinale, meriterebbero da soli una specifica
trattazione. Vale però la pena soffermarci almeno sull’ultima triade, quella costituita
dalle tre nadi ida, susumna e pingala per sottolineare alcuni spunti decisivi ai nostri
fini.
Pingala è anche il nome di uno dei cinque serpenti (naga) cui viene dedicata la
celebrazione di Nag Pancam o, in modo ancor più allusivo - in un mito di cui si trova
traccia sia nella letteratura hindi sia in quella buddista - il nome di uno dei quattro
serpenti che custodiscono i quattro grandi tesori nascosti - Sankha a Benares, Paduma

150
Claudia Ramasso, Il tempio di Kamakhya e il culto delle Dasa Mahavidya, …..
151
Proprio questi elementi (il seno e il viso della dea) emergono nell’immagine svayambhu (nata da
sé) in una marmitta del fiume che bagna lo sakti pitha di Akasi Ganga in Arunacal Pradesh.
152
Arturo Schwarz, La donna e l’amore al tempo dei miti, Garzanti, Milano, 2009.
153
Alberto Pellissero (a cura di), Il segreto della Dea Tripura, Ananke, Torino, 1995.
661
1
a Mithila, Pingala nel Kalinga (l’Orissa) ed Elapatra a Taxila - posti in relazione con
le quattro direzioni di cui Pingala non a caso rappresenta il guardiano dell’est.
Ida a propria volta è l’offerta solenne, sraddha, la fede nell’effetto del sacrificio e per
questo sposa di Manu attraverso cui egli procrea la posterità.154
Altrettanto significativi sono alcuni dei sinonimi di susumna, in particolare
brahmanadi (la nadi di Brahma), mahapatha (la grande via), saktimarga (la via della
Dea), madhyamarga (la via di mezzo) e, per quanto detto finora, smasana (il campo
di cremazione).155
In prospettiva macrocosmica susumna corrisponde infatti al monte Meru, l’asse
polare, che congiunge il centro del mondo con il Centro celeste, per poi oltrepassarlo
superando il cielo delle stelle fisse - come richiamato nel rituale dell’asvamedha - o, a
livello microcosmico, fuoriuscendo dal brahmarandhra, oltre il quale si realizza
l’identificazione con il Principio e dunque l’attingimento alla liberazione ultima
(moksa).
D’altra parte se in termini cosmologici ida e pingala sono in relazione con Surya e
Candra - il sole e la luna -, susumna lo è con Rahu o il suo complementare Ketu -
l’eclissi e la cometa - ove l’eclissi, essendo la sovrapposizione della luna al sole,
rappresenta simbolicamente la massima luminosità talmente abbacinante da divenire
al contempo la parte più oscura, la nera notte delle yogini, quell’oscurità che si ricrea
all’interno del cuore o nella caverna della montagna. Tale simbologia viene ripresa in
ambito architettonico nel finale posto alla sommità degli stupa buddhisti ove, al
termine degli anelli che indicano i cieli superiori, si colloca una punta costituita dalla
falce della luna e dal disco del sole sormontati da una fiamma, fiamma che è luce di
Agni, ma anche oscurità dell’eclisse a indicare la via ultima, la porta di uscita dalla
manifestazione.

Yogini ombra della via di mezzo di Sri Vidya

A questo punto, con tutti gli elementi dispiegati davanti ai nostri occhi, lasciamo a
René Guénon l’incipit per compiere il passo decisivo.
In uno dei suoi ultimi lavori, La grande triade, egli sottolinea come le due vie
tantriche della mano destra (daksinacara) e della mano sinistra (vamacara) possano
essere poste in relazione con le due nadi più ‘esterne’ del corpo umano - ida e
pingala - assimilabili ai due serpenti attorcigliati intorno a un bastone centrale che
rappresentano simbolicamente il potere sulla vita e sulla morte o, in modo analogo, il
lato materno e quello distruttivo della Devi.
Pingala e ida implicano in tal modo un riferimento a Sarpa vidya e Madhu vidya,
mentre la nadi centrale, susumna, quella che attraversa i successivi cakra del nostro
corpo per poi uscire dal brahmarandhra posto alla sommità del capo, si identifica con

154
Sylvain Lévi, La dottrina del sacrificio nei Brahmana, ed. it. Adelphi, Milano, 2009.
155
Mircea Eliade, Le Yoga, immortalité et liberté, Payot, Paris, 1954.
662
2
SriVidya, la Via di mezzo, che nelle diverse tradizioni indica la Via più elevata, per
cui le altre due divengono specificazioni secondarie di tale Via.156
Sempre Guénon mette poi in relazione le due vie tantriche con il potere del vajra,
simbolo formato a propria volta da due doppie volute laterali attorno un asse
centrale.157 Il vajra (diamante o fulmine, ma anche sinonimo di purezza e
incorruttibilità) - in tibetano dorje - è lo strumento per eccellenza dei cerimoniali
vajrayana. Suo complemento rituale è la campanella (dilbhu), rappresentazione di un
cerchio/coppa, che adombra prajna paramita, la conoscenza trascendente, ritrovando
così in questi due elementi - cerchio/ciclicità e conoscenza trascendente - due
prerogative primarie delle yogini, le stesse messe in evidenza da Camunda e Varahi e
al cui proposito si era osservato il collegamento con i due petali dell’ajna cakra.
La centralità del vajra/dorje nella sfera buddhista tantrica offre un ulteriore spunto se
si considera come esso qualifichi la Devi - Dorje Pagmo, appunto - intronata nel
beyul Pemako, un luogo nascosto che rappresenta per la tradizione vajrayana il polo
terrestre dell’asse cosmico.
Tale visione si replica in ambito sakta, ove il polo terrestre corrisponde a Kamakhya,
e in ambiente tantrico vaisnava, ove l’asse si incardina a Parsuramkund.
Sembrerebbe qui assente la sola posizione saiva, ma nell’ottica della ciclicità del
tempo e dei mondi, Siva si pone in modo trasversale riassumendo in sé la funzione
ineluttabile di distruzione in chiave rigenerativa. Egli è infatti causa del sacrificio di
Sati e suo effetto - l’emergere degli sakti pitha -, Egli è Bhairava centro del cerchio
delle yogini, Egli è il Signore dello yoga e dei cimiteri e dunque del Pemako - il più
grande tra loro -, Egli è i dieci Rudra controparti delle dasamhavidya, Egli è Kala il
tempo, sposo di Kali la nera, Egli è il gran sacrificatore che condivide con
Parasurama la stessa arma (parasu), Egli è affine a Kalkin nel giorno finale del
pralaya.
Ci troviamo dunque di fronte a tre centri che, sotto diverse interpretazioni
tradizionali, implicano la medesima funzione. Essi fissano così nella geografia sacra
dell’India i tre vertici di Kamarupa/Traipura, quello stesso triangolo che, in
prospettiva microcosmica, accoglie nel muladhara cakra l’energia della Dea,
kundalini, nel suo stato di potenza. In tal modo l’Assam, posto non a caso all’estremo
est dell’India, funge da limite, porta d’accesso/uscita dalla manifestazione o -
secondo una equivalente simbologia temporale - da inizio e fine del ciclo,

156
Che si tratti di specificazioni secondarie - e dunque di piccoli misteri - è confermato
dall’evidenza che il vamacara marga è chiaramente orientato all’ottenimento di siddhi anche
svincolate dalla prospettiva ultima. E se il daksinacara marga si pone come via di destra – o
alternativa - rispetto al vamacara in quanto ritualmente puro, conferma di muoversi allo stesso
livello.
157
A un equivalente simbolismo relativo al potere su vita e morte, si riferisce anche il ‘potere delle
chiavi’, nonché quello delle armi a doppio taglio e la duplice rappresentazione a spirale dei serpenti
attorcigliati al caduceo.
René Guénon, La grande triade, ed. it. Adelphi, Milano, 1980.
663
3
giustificando così la ritrazione in questa terra ‘principiale’ del Centro supremo nella
fase finale del Kali yuga.158

Se ora riprendiamo l’osservazione di Guénon e cerchiamo di definire se il culto delle


yogini appartenga alla via tantrica della mano destra (daksinacara) o della mano
sinistra (vamacara), ci rendiamo subito conto di come esso sfugga da una siffatta
collocazione e, pur andando a utilizzare elementi di entrambe le vie, si proietti in un
ben diverso ordine intellettuale.
Questa polarizzazione sembra infatti appartenere maggiormente all’ambito - così
spesso emerso nel corso dello studio - della contrapposizione tra la manifestazione
fredda/pacificata della Dea, che trova espressione in Varahi, Sitala, Lalitakanta,
Mariyamman e Dakini, ancella di Chinnamasta, e la sua forma calda/irata di cui sono
invece interpreti Chamunda, Matangi, Ugratara, Manasa, Yellamma, Smasana
Kamakhya e l’ancella Varnini. Una polarizzazione che si riflette in prospettiva
vajrayana nelle forme di geografia sacra quali supporti di meditazione in cui colline
ondulate e prati in fiore favoriscono la visualizzazione di divinità pacifiche, mentre
aspri dirupi, rocce scure e picchi aguzzi sono inclini a evocare divinità irate.
Tuttavia, poiché lo saktismo si pone come sistema dottrinale completo, non può
mancare della prospettiva più elevata, quella che tradizionalmente corrisponde
all’identificazione con il Brahman supremo o, in altri termini, ai Grandi Misteri.
Le yogini che presidiano SriYantra e i differenti cakra del corpo umano, che
attraversano la morte, che dispensano siddhi e conoscenza, che costituiscono il
‘cuore’ di SriVidya, tratteggiano dunque in penombra tutti gli elementi di una Via di
mezzo patrimonio della tradizione sakta nella sua forma più elevata, una Via la cui
scarsa evidenza esteriore, lungi dal rappresentare un limite, suggerisce un parampara
estremamente ristretto e qualificato in grado di mantenere sotto controllo una
trasmissione che diversamente - per l’ambito tantrico su cui poggia - finirebbe per
privilegiare il mezzo al fine.
A questa Via di mezzo alludono allora altri aspetti della Devi quali Tripurasundari,
Kamakhya, Chinnamasta, Renuka e Vajrayogini/Vajravarahi, non a caso tutti
collegati ai tre centri tradizionali/tirtha dell’Assam, la cui corrispondenza in termini
di geografia sacra vajrayana si riflette nella cascata, capace di evocare transitorietà o,
a livello microcosmico, nella discesa di amrita/soma quale secrezione ghiandolare
che dalla volta cranica si diffonde in tutti i cakra.

Indizi di una Via in grado di trascendere la polarità del manifesto sono sparsi un po’
ovunque nella tradizione hindu. Secondo la Bhagavad Gita infatti ‘due sono i purusa,
uno distruttibile (jivatma), l’altro indistruttibile (atma): il primo è ripartito tra tutti
gli esseri, l’altro è immutabile. Ma vi è un altro Purusa, il più alto (uttama), che si
chiama Paramatma e che, Signore imperituro, penetra e sostiene i tre mondi. Poiché
158
Qui allora, nella riproposizione delle tre nadi come fiumi, accanto a Ganga e Yamuna messe in
relazione con ida e pingala, la nadi centrale, quella sottile - o nascosta - viene trasposta dal fiume
scomparso Sarasvati al sistema fluviale Tsangpo-Brahmaputra che emerge o scompare dal corpo di
Dorje Pagmo.
664
4
Io sono al di là del distruttibile e anche dell’indistruttibile (quale Principio Supremo
dell’uno e dell’altro), sono celebrato nel mondo e nel Veda con il nome di
Purusottama.’159 Ma Tripurasundari - chiamata anche SriVidya - è esattamente colei
che ‘penetra e sostiene i tre mondi’ e dunque le altre due nadi, gli altri due purusa,
già trovano nel testo diretta rispondenza con il tempo, la conoscenza immutabile,
rappresentata dal Veda, e con la conoscenza ripartita tra tutti gli esseri, dunque la
conoscenza a livello individuale rappresentata dall’insegnamento tantrico.
E’ questo livello sottile a identificare l’intera parabola delle yogini passando
attraverso la costante devi/conoscenza/tempo divoratore.
Per meglio comprendere tale prospettiva ci viene in aiuto di nuovo Guénon ribadendo
come in questo scorcio di manvantara, a causa di degenerazioni successive, il
tantrismo costituisca l’unico strumento efficace per ripristinare una via di accesso alla
conoscenza e quindi per la reintegrazione nel Principio.160 Molti sono infatti i
riferimenti fin qui trovati che ripropongono in metafora tale evidenza.
In primis il vino offerto assieme alla carne nelle libagioni rituali che sostituisce - a
livello praticamente universale - il sangue del sacrificio. Ma il vino è anche surrogato
di ordine inferiore rispetto a soma, elemento centrale del sacrificio vedico in una
diversa epoca, prima che se ne perdesse il segreto divenendo precluso a questa
umanità. Esso indica dunque la conoscenza ottenibile attraverso la via tantrica, unico
accesso alla ‘bevanda d’immortalità’ ancora possibile in questo scorcio decadente di
Kali yuga.
Il volo delle yogini/dakini riflesso nella loro contiguità con i rapaci, evoca poi
Garuda, re delle aquile, chiamato a svolgere la funzione di psicopompo
nell’accompagnare gli esseri verso la liberazione (moksa). Quello stesso volo che
simbolicamente sta a indicare la comprensione delle cose segrete e delle verità
metafisiche poiché, come sancisce il Pancavimsa Brahmana, ‘colui che comprende
possiede le ali’.161
O la signoria sui serpenti di Manasa e Sitala, il cui veleno è cifra di trasformazione.
Veleno e trasformazione che riverberano a livello sottile il potere del serpente, la
capacità di risvegliare kundalini-Sakti, l’energia sopita in ciascuno di noi, per farla
risalire lungo il Meru danda attraversando in successione i diversi cakra/yogini, fino
al riassorbimento della manifestazione individuale, alla reintegrazione dell’Uomo
perfetto.
O, ancora, l’attitudine al sacrificio, costantemente evocato dalle yogini, che si
riassume nella sostituzione della testa di Renuka - e dunque nella Pravargya vidya -
sinonimo di morte iniziatica, l’insegnamento che introduce a Madhu vidya, l’accesso
alla conoscenza suprema.

159
Bhagavad Gita, XV, 16-18, traduzione da René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il
Vedanta, ed. it. Adelphi, Milano, 1992.
160
René Guénon, Studi sull’Induismo, ed. it. Manilo Basaia Editore, Roma, 1983.
161
Mircea Eliade, Le Yoga, immortalité et liberté, Payot, Paris, 1954.
D’altra parte Gayatri - il mantra che viene dato durante il rito di passaggio di upanayana - è detta
l’aquila portatrice del soma o, in una versione del mito, si trasforma in falco per riportare soma dal
cielo.
665
5
E sempre a tale ambito vanno riferite le yogini che presidiano i vari punti dello
SriYantra garantendo al praticante le siddhi non tanto in termini di poteri grossolani,
quanto - ancora una volta - di conoscenza sottile, potenza cosmica delle mahavidya
capace di condurre all’uscita dal mondo illusorio di Maya.
La possessione, esporsi al bacio della Dea o al suo contagio, la danza voluttuosa degli
scheletri, eros e thanatos, esperire la morte iniziatica, altro non sono allora che il
potere del vajra, identificazione attraverso l’annullamento degli opposti, dissoluzione
e riassorbimento nel sacro monosillabo Om all’interno dell’ajna cakra, il cakra dei
due petali, occhio della conoscenza.
E finalmente si giunge a Kamakala, triangolo supremo e dimora di Sakti, radice di
tutti i mantra, che conclude idealmente il riassorbimento nel Sé iniziato col risveglio
di kundalini alla base del Meru danda, in quel triangolo Traipura il cui nome è
Kamarupa, lo stesso che sulla sacra terra di Bharat segna l’Assam.
Oltre vi è solo la porta dello sahasrara, il loto dai mille petali che, come la ruota
fissata sulla cima dello yupa, consente al cakravartin - all’Uomo perfetto - di uscire
dal cielo delle stelle fisse ed elevarsi nel Satya loka (il cielo della verità) presieduto
da Paramasiva.
Qui ogni successione è trasmutata in simultaneità e tutte le cose restano in un eterno
presente cosicché la morte apparente evocata dalle yogini risulta in realtà
trasformazione in Uomo trascendente, identificazione nel Sé supremo Paramatma da
cui risulta immediatamente moksa.

La porta sottile in quell’ultimo lembo di India, in quell’estremo approdo del Kali


yuga, riassume dunque il ciclo diluviale che dalla liberazione delle acque celesti
(Indra-Vrtra) attraverso il precipitare del Brahmaputra-Tsangpo sulla terra degli
uomini, conduce al diluvio di fuoco che vi porrà fine.
Ma soprattutto tale porta è la potenza cosmica della Devi, una potenza che incarna la
Conoscenza ultima ove le lettere Aim Klim Sauh indicano lo stato d’identità tra
conoscitore, conoscenza e conosciuto.
Qui SriVidya prende le forme di Kamala, antidoto alla nera notte di Dhumavati, la
mahavidya che si veste d’acque come un loto, colei che simile a Matsya sorge
all’inizio dei tempi dal frullamento dell’oceano di latte. O, sotto un equivalente punto
di vista, è Tripurasundari, la mahavidya che corrisponde a Kalkin, fine del ciclo, colei
che attraverso la conoscenza porta alla soglia del loto supremo.
L’oscurità di cui sono ammantate le yogini è allora amavasya, notte nera, notte
cosmica di dissoluzione e annullamento, la notte che pervade l’universo negli
interstizi della ciclicità del tempo. In questa notte ove tutto è perduto, in questo nulla
che separa i mondi come il vuoto della mala, la collana che scandisce gli universi, tra
un grano e l’altro, tra un respiro di Brahma e il sucessivo, le yogini allungano la loro
tremenda signoria brindando nei kapala e libando con il frutto del sacrificio.
Eppure questa è la stessa oscurità dell’eclissi, il buio splendente custodito nella
caverna del cuore.
Questo è il balzo che dobbiamo essere in grado di compiere, questa è la tigre da
cavalcare, questo è il mantra sabara, il mantra selvaggio cui allude Svami Karapatri.
666
6
Quello stesso Karapatri che nella prima metà del secolo scorso ha affiancato ai picchi
metafisici e alla purezza dell’Advaita vedanta il recupero degli insegnamenti di
SriVidya.

Così le yogini che oggi, a distanza di quasi cinque secoli dagli ultimi templi eretti in
loro onore, sono ricomparse sulle pareti del Tripurasundari mandir a Paramahamsi,
sembrano incarnare dei dvarapala, il corpo di guardia alla soglia della Devi oltre cui
si intravede l’orma d’una Via di mezzo, un sottile tracciato ove SriVidya si veste
dell’ebbrezza d’Assoluto, abbraccia inizio e fine, annullamento e liberazione,
indicando nell’estremo rigurgito del kali yuga il tirtha che conduce attraverso l’orrore
della morte fino al riconoscimento del jivatma nel Brahman supremo.

Di che natura sono dunque le yogini? Ne abbiamo forse strappato il velo?


Evidentemente no. E non potrebbe essere altrimenti pena il necessario emergere
d’altro in loro vece a presidiare quel chiaroscuro che si interpone tra forze e poteri
sopiti nella terra e la capacità di trarne il veicolo per trascenderli, a gettare un ponte
tra le grevità tribali, l’efferatezza del sacrificio, lo psichismo della possessione e il
segreto ultimo accessibile attraverso la via iniziatica e la lama della metafisica.
Le yogini evocano dunque potenze e insidie del tantra vestendosi d’una ambiguità
che è tutta umana, riverbero della nostra imperfetta comprensione caparbiamente
aggrappata al perenne sfolgorio di maya.
Eppure, nell’evanescenza della loro funzione, esse restano comunque dei segnali, una
precisa traccia a indicare la presenza d’un foro nascosto, di un’uscita sullo schermo
sempre cangiante del cosmo.

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